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Edited by Dino S. Cervigni and Anne Tordi

with the collaboration of Alessandro Grazi (Leibniz Institute of European History, Mainz) Monica Jansen (Department of Languages, Literature and Communication, Utrecht University), Enrico Minardi (School of International Letters and Cultures, Arizona State University)

REVIEW ARTICLES

Michelangelo Picone. Studi danteschi. Memoria del tempo. Collana di testi e studi medievali e rinascimentali diretta da Johannes Bartuschat e Stefano Prandi. A cura di Antonio Lanza. Premessa di Marcello Ciccuto, Presidente della Società Dantesca Italiana. Ravenna: Longo, 2017. Pp. 774. Il curatore di questa imponente raccolta degli scritti danteschi di Picone presenta l’autore come uno dei massimi studiosi di Dante dei nostri tempi, e il giudizio è non solo condividibile, ma addirittura estendibile ad altri potenziali volumi su Petrarca e Boccaccio ai quali Picone ha dedicato molte delle sue energie. Ma Dante rimane certamente il suo autore maggiore anche per motivi biografici. A lui Picone ha dedicato il suo primo libro, La vita nuova e la tradizione romanza, libro che contiene in nuce molti elementi su cui si svilupperanno i suoi studi dan- teschi, “inverandone” alcune premesse che, in quel libro seminale, erano intuite e/o sviluppate solo in parte. Il volume, già di per sé corposissimo, non include quel lavoro giovanile né altri studi su Dante come Percorsi della lirica duecentesca. 442 . ANNALI D’ITALIANISTICA 36 (2018)

Dai Siciliani alla “Vita nuova” (Firenze, Cadmo, 203) che hanno trovato un’altra sistemazione, ma chi li conosce saluta questa raccolta come un vero evento, non solo perché commemora uno studioso scomparso mentre era nel pieno della sua attività intellettuale, ma ci offre un quadro completo degli sviluppi ai quali accennavamo. Alcuni di questi, a dire il vero, avrebbero potuto trovare anche loro una sede autonoma, come il gruppo dei saggi su Ovidio, e tuttavia raccolti ora insieme a tanti altri fanno capire meglio su che linea si sia mosso questo stra- ordinario dantista. Antonio Lanza, che ha curato il volume con la sua ben nota competenza e anche con l’affetto, forse meno noto ma certamente reale, che nutriva per Picone, introduce il volume con una Prefazione (7–12), seguìta da una Nota al testo (13–16) e Origine dei testi pubblicati (17–20). Lanza ci aiuta poi ad entrare nel libro dividendone i materiali in sei sezioni: 1a, Vita nova e Rime (9 saggi); 2a, Dante e la cultura classica e mediolatina (4 saggi, ma il secondo di questi ne comprende altri 8, tutti dedicati a Ovidio); 3a, Dante e la cultura francese e pro- venzale (6 saggi); 4a, Studi sulla Commedia (16 saggi); 5a, Studi di storia della critica dantesca (4 saggi); 6a, Studi sulle opere di dubbia attribuzione (Fiore e Detto d’Amore), con 4 saggi. Conclude il volume un dettagliato Indice degli autori e delle opere anonime (753–69). Ogni lettore capirà che non è possibile recensire in dettaglio una raccolta di ben 46 articoli, eterogenei nei temi e nelle occasioni che li hanno visti nascere: non ce lo consentirebbe lo spazio, né le nostre competenze sono comparabili a quelle di Picone che si muoveva con grande padronanza fra i classici latini, e conosceva benissimo la tradizione romanza, specialmente quella francese e quella provenzale. Tuttavia possiamo indicare almeno le linee generali su cui si è mosso Picone nei suoi studi. Ma se queste competenze richiamano la nostra attenzione per la vastità, più importante per noi è rilevare l’uso che Picone ne fa. In tutti i suoi lavori opera costantemente il metodo “tipologico” che indica un particolare uso della “intertestualità”. Quest’ultima nozione ha applicazioni varie fra le quali predominano quelle della ricerca delle fonti e dei topoi e quelle della tipologia o figuralismo, le prime nella versione di cui fu maestro E. R. Curtius, e la seconda di cui fu il grande teorizzatore e storico E. Auerbach: “Ciò che costituisce un monito a correggere sempre, nella nostra interpretazione della Commedia, la ‘topologia’ di Curtius con la ‘topologia’ di Auerbach” (192). Questa “tipologia” trova conferme inaspettate e a livelli diversi. Prendiamo ad esempio la sezione dedicata ad Ovidio che avrebbe potuto costituire un libro autonomo. La sezione consiste di otto saggi che differiscono dal consueto modo di vedere l’interstestualità perché Picone raffronta testi non per metterne in Italian Bookshelf . 443 evidenza similitudini e differenze bensì per stabilire un rapporto di prefigurato/ vero, in modo che il primo contenga verità implicite ma non realizzate, mentre il testo che ne dipende esplicita proprio quel vero che il testo di partenza aveva solo “in figura”. Picone applica questo figuralismo ai testi non biblici, e non lo limita a singoli episodi, ma lo estende a macrotesti. Ad esempio, Picone vede le Metamorfosi come un grande intertesto che soggiace “strutturalmente” alla Commedia la quale affabula una metamorfosi che porta un’anima peccaminosa a diventare un’anima salvata, un passaggio dal tempo all’eterno, dall’amore terreno all’amore celeste. È una tesi fortissima e assolutamente inedita, ma coraggiosis- sima e provata con un concerto di dati che giacevano davanti agli occhi di tutti ma che nessuno aveva mai visto in questo modo. Ovidio è il poeta dell’amore e dell’esilio, oltre che della metamorfosi, e Dante fa dell’amore e dell’esilio i temi capitali e cardinali della sua opera intera. Dante era l’esule pellegrino che nel poema assumeva anche il ruolo dell’Everyman che vive esiliato dal Paradiso ter- reste e che aspira a tornare al vero Paradiso, e vi sarà condotto da un amore orien- tato anch’esso nel senso dell’eternità. Ovidio, insomma, non è Virgilio; tuttavia la sua presenza nella Commedia sarà più sotterranea ma non meno importante. L’approccio tipologico porta Picone sui magnalia tematici della mitologia, della lingua, dell’arte e della storia nonché della politica. Sul mito torna ripetu- tamente e con grande originalità. Il materiale favoloso dei miti era stato rigettato dai primi Cristiani, ma il cristianesimo dei Dottori della Chiesa lo recupera in quanto portatore di verità cristiane sotto l’integumento della favola. Dante va oltre perché vede in alcuni miti un figuralismo personale, un precorrimento del viaggio che egli sta compiendo, un significare il proprio destino, per cui sa di agire alla luce di controfigure mitiche quali Icaro, Narciso, Orfeo, Ulisse e tanti altri personaggi. L’approccio tipologico porta a più riprese sui grandi temi dalle lingua e dell’arte. Quanto alla lingua, Dante si distingue dai grammatici e dagli artisti privi della consapevolezza che la lingua sia uno strumento di cono- scenza, di identità politica, un dono divino che racchiude il senso della missione assegnata da Dio all’uomo: la lingua è lo strumento della lode di Dio e quindi dipende dalla consapevolezza che l’uomo ha di questo dono. A sua volta questo tema si intreccia con quello dell’allegoria e dell’allegoresi, un altro aspetto dei magnalia della dantistica soprattutto americana. Anche questo è un argomento che Picone affronta ripetutamente e con aperture illuminanti, intanto senza la prevenzione dei lettori puramente estetici né senza il fanatismo di quelli che vedono in tutto allegorie e sovrasensi. Certo, l’allegoria è un modo della scrittura dantesca, ma va letto entro i parametri che egli stesso descrive nelle varie opere in cui tocca il problema. 444 . ANNALI D’ITALIANISTICA 36 (2018)

Una sezione in cui la tipologia produce preziose letture è quella applicata alle letterature romanze d’oltralpe, sia occitanica che oitanica. Qui la sfida è diversa da quella presentata dal mondo classico, perché le letterature romanze sono legate alla mentalità cristiana. E qui Dante vede che esse hanno attinto un livello di “verità” (il vero fine della poesia, anche se questa si serve della fictio) ma sono rimaste ancora ad un livello che non porta a fondo la missione che l’artista deve seguire, che è quella di indicare e perseguire i valori celesti, gli unici che diano il senso supremo della vita. Tutta l’opera di Dante, insomma, si muove in un contesto di “intertestualità” in cui il fare artistico e la consapevolezza filoso- fica dello stesso sono sempre congiunti. Questi mi sembrano i punti portanti della dantistica di Picone. Che poi ogni saggio, sia esso una lectura Dantis tradizionale (ma poi di fatto poco tradizionale nel taglio e nell’approccio) o una ricerca filologica (accennerei solo en passant alle pagine brillanti e rivelatrici scritte sulle Derivationes di Uguccione da Pisa quale livre de chevet di Dante) o anche una recensione, come quelle dell’ultima sezione, non è un fatto che incida sulla qualità del lavoro: ovunque Picone metta la penna, questa stilla pagine avvincenti di grande finezza critica e di grande erudizione. Se l’intertestualità praticata da Picone richiede conoscenze vaste e pro- fonde, essa presuppone anche un senso storico solido. E Picone sa costruire contesti storici con pennellate che sanno cogliere l’essenziale di una cultura. Se questo esige che si ricorra ai testi di filosofi, Picone sa sfogliarli da maestro, mentre se si richiedono conoscenze di mitografi o di retori, egli sa muoversi con precisione, in modo essenziale. Ineccepibile è la sua informazione bibliografica. E rigoroso è il suo giudizio sulle posizioni o sulle tesi che gli sembrano cervello- tiche e in alcuni casi “aberranti”. Anche il suo maestro Contini, trattato sempre con il dovuto rispetto, viene contestato senza mezzi termini quando non gli pare che abbia visto bene, ad esempio nel caso della sestina dantesca “Al poco giorno e al gran cerchio d’ombra” (63–68). Non si tratta di personalità “rugosa” ma di studioso “rigoroso” e onesto. Si potrà discutere se Michelangelo Picone sia il maggior dantista dei nostri tempi, ma egli è certamente il più avvincente. È il critico che ridà respiro a una disciplina che la pedanteria dei professanti spesso inaridisce. Picone vola lon- tano, apre grandi orizzonti culturali, fa capire e sentire l’impegno umano e civile del poeta che nel suo esilio si interroga sul senso della vita e del viverla. Siamo grati a chi ha voluto offrirci questo monumento che onora un vero studioso. Roberta Morosini, Wake Forest University Italian Bookshelf . 445

Those Who from Afar Look Like Flies. An Anthology of Italian Poetry from Pasolini to the Present. Tome I, 1965–1975. Ed. Luigi Ballerini and Beppe Cavatorta. Toronto: University of Toronto Press, 2017. Pp. 2051. Those Who from Afar Look Like Flies is the first volume of a monumental work dedicated to Italian poetry by the Lorenzo Da Ponte Italian Library and coor- dinated by Luigi Ballerini and Giuseppe Cavatorta. This collection will include five volumes: the present one is not the first of the series, but instead volume IV.1. The series will in fact include: vol. I. From the Origin to the Renaissance (L. Ballerini and M. Ciavolella, eds.); vol. II. From the Renaissance to the Dawn of the Twentieth Century (same editors as above); vol. III. The Novecento (Part 1) (B. Cavatorta and G. Rizzo, eds.); vol. IV.1, The Novecento (Part 2) Those Who from Afar Look Like Flies. Tome I, 1956–1975; vol. IV.2, The Novecento (Part 3), Those Who from Afar Look Like Flies. Tome II, 1975–2015 (Ballerini and Cavatorta, eds). The volume opens with a foreword by Marjorie Perloff (xv-xviii), which is followed by the introductory essay written by both editors (3–53). Entitled “Introduction: A Consummation Devoutly to be Wished,” it is of crucial impor- tance for an understanding of how such a challenging undertaking has been planned and organized. Here Ballerini and Cavatorta lay down and discuss the criteria guiding the whole work. As is often the case with literary anthologies, the editors begin with a justification of their selection, solidly grounded on a parameter excluding the two “extremes” of the “merely idiosyncratic” and the “absurdity of an all-encompassing birds-eye view” (4). They have in fact rather preferred to resort to the category (which originated in the reflection of the Hungarian Marxist philosopher György Lucáks) of the “typical” according to which a “character [. . .] is the member of a society of writers investigating the potential and the relevance of language employed at its poetic level, as well as an individual with a distinct expressive voice” (4). Anybody familiar with modern poetry is aware that the expression “language employed at its poetic level” reveals the influence of linguistics and structuralism. It does not come then as a surprise when, shortly afterward, they mention the attention they have paid to the “author’s poetics and [. . .] its implementation” (5), and, as example of their procedure, consider the poetic anthologies by Luciano Anceschi (Lirici nuovi, 1943) and Mario Lunetta (Poesia italiana oggi, 1981). Since the Thirties, Anceschi has worked tirelessly to modernize Italian poetry, achieving a major success between the Fifties and Sixties when he created the journal “Il Verri” and supported the rise of experimentation, as especially embodied by the Gruppo ’63. In his wake, Lunetta acted to spread in Italy the knowledge of modern 446 . ANNALI D’ITALIANISTICA 36 (2018)

experimental poetry, authoring several anthologies and essays. According to the above-mentioned examples, the examination of the literary text comes along with​ — ​and has somehow to be weighed against​ — ​the “critical intention expres- sed by the poets” (6). From the outset The Flies is clearly a dual anthology, collecting texts (criti- cism) to justify and mirror the presence of other texts (poetry). This structure is so rigorously respected throughout the whole book that one of the most curious consequences is to have excluded “poets who, after the 1950s, revisited outdated modalities of poetic action​ — ​no matter how skillfully and seductively they did it” (6). To clarify, the works of authors who, after reaching a given level of self- reflection and a consequent specific literary achievement, duly displayed in the anthology, have not subsequently been able to keep up with this same train of thinking, are therefore excluded. The paradox of this choice is self-evident. In fact, the editors add that this “anthology forgoes [. . .] the later contributions of important figures such as , , and other representatives of the Linea Lombarda, leaving the documentation of their poetic output to another volume of this anthological project, which will be specifically dedicated to the first-half of the twentieth century” (6–7). Here there seems to be some kind of contra- diction. On the one hand, the editors leave aside the poets’ contributions that follow their achievements of the Fifties; on the other hand, the editors promise that this output will be reserved to a volume documenting the first part of the century. For the opposite reasons, the further developments of poets such as , Nello Risi, Elio Pagliarani, or Giancarlo Majorino entitle them, instead, to be included here, and consequently their texts will appear in more than one section. I doubt that Majorino’s or Erba’s poetry is more relevant than Bertolucci’s or Sereni’s. However, as if foreseeing this objection, the editors shortly afterwards present other reasons to back up their choices with a more concrete body of evidence and, as it were, irrefutable necessity, which I cannot elucidate here and which readers themselves will evaluate on their own. Coming down to the text’s level, they discuss in fact the two principles nee- ded for a text to be selected: a “critical resolve capable of redefining the relation- ship between author and reader”; and an “awareness instigating the extraction of meaning from the material substance of the linguistic sign” (8). As it appears immediately, the questioning of the reader’s role and the discovery of the signi- fier’s semantic potential have been among the guiding principles of European avant-garde poetry since its inception at the onset of the twentieth century. The poets working according to these principles​ — ​at least during the epoch Italian Bookshelf . 447 examined by the editors​ — ​are included within the specific category of “research poetry” (8). This category is to be preferred to the more traditional groupings of experimental or neo-avant-garde poetry because it “allows for the construction of a more generous (and faithful) profile of contemporary Italian poetry, spur- ring an examination of the stylistically diverse but ideologically compatible works” (8). In fact, even though poetry “always implies some sort of research,” the kind of research the editors are interested in is only the one displaying a “ten- dency that characterizes a select number of linguistically oriented authors” (8) If this definition sounds at first obscure, it would be sufficient to interpret it as the expression of their strong predilection for authors who have prioriti- zed the exploration of the above-mentioned semantic potential of the signifier (even at the risk of slipping into an a-semantic abyss) over the exploitation of ascertained meanings. This interpretation echoes in fact the definition offered to the reader at the end of this very same page: research poetry “happens” when the “natural and spontaneous expression of things is called into question, pro- moting an investigative mode into the signifying potentiality of language in all its material and historical configuration” (8). Moreover, by inviting the reader to reconsider the “normal relationship between words and things” (9), research poetry by its very nature lays bare the meta-linguistic (and therefore unnatural) substance of any linguistic acts, the fact that this relationship is only a convention (9). Most importantly, it is the poet’s very “I” that comes to introject this proble- matization of the relation between word and thing and loses consequently his/ her dominance on the world of meaning: the “ego is nothing but a linguistic con- struct. It may encourage the writing of the poem, [. . .] within which not the ‘I’ but a hidden subject conducts an always precarious and unstable search, aimed not at the identification with, but at the ‘making’ of, meaning” (10). Because of this fundamental “conflict [. . .] between signifier and signified” (11), the poet cannot be content with how language normally generates meaning. He/she has constantly to produce new meaning by the endless manipulation of it, without really knowing how the new meaning will come about, and what it will coincide with (11). Target of the editors’ criticism is naturally the “egocentric stipula- tion” of traditional lyrical poetry that takes for granted the linguistic conventions and the role of the “I” (10). If this poetry seems very much alive and even able to contribute to the renewal of Italian society, this phenomenon comes to an end by the mid-Seventies because of the implosion of political tension into the open violence of the so-called “years of lead” (12). According to Ballerini and Cavatorta, this time marks the apex of the crisis within Italian poetry: the indi- vidual could in fact no longer find shelter in the old and protective egotistic nest 448 . ANNALI D’ITALIANISTICA 36 (2018) of lyrical poetry because of the very meta-linguistic awareness brought about by the experimental poetry of the previous decade. Therefore, the only way out of an imploded social horizon where literature seemed no longer to hold any mea- ningful role was in the interiorization of a “crisis” furthering a “sense of shame for the ‘inadequacy’ of poetry, and of research poetry in particular” (12, 13). This complex and contradictory environment is the object of the second tome of the Flies where it is shown how a “new generation began to slowly reclaim the right to make poetry, merging the legacy of neo-experimentalism with the demand of a more transparent referentiality” (12, 13). Moreover, many exponents of the old generation (among whom Leonetti, Pagliarani, Pasolini, Sanguineti, Spatola, etc.) defied this alleged crisis with volumes of poetry displaying a stylistic evolution in “unsuspected and very productive perspecti- ves” (13). Their evolution will be the object of the second tome as well. This lengthy presentation of the theoretical criteria guiding the editors in their material’s selection and organization is followed by a very interesting section where they extensively analyze several anthologies of contemporary Italian poetry published both in Italy and in English-speaking countries within a time span of fifty-sixty years. This section highlights the differences and similari- ties between The Flies and other collections, which the editors use as the basis for a critical comparison with their own. The most interesting part of their examina- tion undoubtedly regards the anthologies published in Italy, which are divided into three categories: those covering the entire literary production of the past century; those beginning only after the Second World War; and those adhering to a stricter criterion of periodization (16). Among the anthologies in the first category, the classic Edoardo Sanguineti’s Poesia italiana del Novecento (1969) and Vincenzo Mengaldo’s Poeti italiani del Novecento (1978) hold a central place. Ballerini and Cavatorta lean clearly toward the first, which “traces a critical path that is rich in provocations intended to reshape the landscape of Italian poetry” (19), versus the second’s “conservative factiousness” (18). Within the second category, special attention is given instead to Giancarlo Majorino’s Poesia e realtà (1977; 2nd ed., 2000) and Maurizio Cucchi and Stefano Giovanardi’s Poeti ita- liani del secondo Novecento (1996). For the first, Ballerini and Cavatorta dismiss Majorino’s decision to take the year 1968 as the proposed starting year (because it is “more relevant to historians than to poets”), while pointing out the “taxo- nomic difficulties encountered by the anthologist” (21). As far as Cucchi and Giovanardi’s collection is concerned, Ballerini and Cavatorta stress some con- ceptual inconsistencies regarding the role of hermeticism before and after 1945 (23). However, they acknowledge the value of the “critical texts preceding the Italian Bookshelf . 449 selections, the bio-biographical perspectives at the end of the volume, and the variety of texts offered for every single poet,” even though nothing is new with regard to “inclusions and exclusions” (23). After a gap during the mid-Sixties due to the dominance of politics over the cultural debate, the “anthological craze” is revived by the end of the successive decade (27, 29). In between, the editors recall the gatherings and readings promoted by several poets such as Nanni Cagnone, Tomaso Kemeny, Cesare Viviani, and Elio Pagliarani (28–29). Three important anthologies published in the second half of the Seventies are then the object of a detailed examination: Il pubblico della poesia (Alfonso Berardinelli and Franco Cordelli, eds., 1976); La parola innamorata. I poeti nuovi 1976–1978 (Giancarlo Pontiggia and Enzo Di Mauro, eds., 1978); and Poesia degli anni Settanta (Antonio Porta, ed., 1979). The relevance of the first resides particularly in providing a “crucial insight into the poetic writing of the years between 1968 and 1975, a time [. . .] considered the black hole of Italian verse” (29). The second and the third anthologies are instead dismissed, on the one hand, because Antonio Porta, a “penitent experimentalist,” has enthusiastically welcomed the “return on the authorial ‘I’” in the new lyricists; on the other, because Pontiggia and Di Mauro’s “vague theoretical ambitions” invalidate the historical perspective they try to draw (32). Cavatorta and Ballerini cite again the previously mentioned anthology by M. Lunetta, Poesia italiana oggi, and the following collection by the same author (and Franco Cavallo), Poesia italiana della contraddizione (1989). Both anthologies seem to meet with favor given the lengthy quotes taken from their introductory essays (33–34). If. for the first one, they share Lunetta’s complaint about a “mounting neocrepuscolarism” (33), for the second they single out the conceptual “hypothesis of materialistic writing” as one of the guiding principles they will employ in the second tome of The Flies (34). Among the last anthologies analyzed, I will only consider the following ones: Il pensiero dominante (Franco Loi and Davide Rondoni, eds., 2001); La parola plurale (Andrea Cortellessa, ed., 2005); Dopo la lirica: Poeti italiani 1960–2000 (Enrico Testa, ed. 2005). The first seems to be the object of all abominations: “misleading, and rather inconsistent” (33), the result of the purely aesthetic cri- terion embraced by Loi and Rondoni is one of “contemptible imprecision,” and consequently affected by the inability to justify the chosen timeline of 1970– 2000 (33). In the second anthology, the timeline 1973–2003 chosen by the editors (Cortellessa is the coordinator of a substantial group of collaborators), along with their resolution to consider only authors born after 1945, seems to be problematic (38). Furthermore, Ballerini and Cavatorta succeed in showing 450 . ANNALI D’ITALIANISTICA 36 (2018) that Cortellessa’s claim of “impartiality,” mostly based on the alleged superio- rity of the critic over the poet as editor of poetic collections, is nullified by their attempt at constructing a theoretical, rather invasive frame in which, so to speak, the poetic texts drown (38, 39). Finally, Testa’s anthology is favorably reviewed. Testa in fact “strives to articulate the linguistic and social reasons behind the stylistic fluctuations of contemporary Italian poetry” (46), such as, for instance, the “invasion of the spoken language and the feeling of unease it engendered in poets like Eugenio Montale,” or the new “adherence to passing of time, the reality of nature, the changes in society,” or, lastly, the “adoption of narrative and theatrical forms” (47). Despite these qualities, Ballerini and Cavatorta express concerns about his “deliberate ignorance” of the Sixties (the age where research poetry appears) and the resulting partial approach he adopts to the “problems of representing the subject” (48). The third and last part of the Introduction lays out how the poetic and the- oretical material of the remainder of the volume has been organized. In fact, as the reader already knows, “The Flies is an anthology not only of poetic texts but also of critical essays, and statements on poetics that aim to provide an organic profile of the evolution of Italian poetry after the Second World War” (50). Each section is preceded by a clear and well-informed note and ends with a set of critical essays. I will not spend much time in discussing these essays; nonethe- less, it is important to stress that they always present different (even contradic- tory) perspectives, which makes their reading interesting and enriching. I have already mentioned as well that an author will appear more than once if his/ her stylistic development brings about a “new direction of research” (50). Part one (“Windmills of Realism: A Querelle” 55–157) documents the crisis of the dominant trends of Italian poetry, realism and hermeticism at the end of the Fifties, by including some poetic “manifestoes” by Pasolini and Sanguineti, and other essays on the matter by Pasolini, and Fortini. The neo-experimental alter- native (and conflictual) perspectives proposed by these authors found its most relevant expressions in the pages of two journals, Officina (1955–59) and Il Verri (1956-), which are documented in the second section (“Research Poetry in the Late Fifties and Early Sixties” 159–928). This lengthy part is divided into three subsections: “The Poets of Officina” (159–317), “The Novissimi” (319–580), and “Research Poetry Unlabeled” (581–928). In the first subsection are included authors such as Francesco Leonetti, Pier Paolo Pasolini, and Roberto Roversi, and it is concluded by a set of several essays both on the individual writers and on the general theme. It is important to point out that Ballerini and Cavatorta have chosen not to burden the anthology Italian Bookshelf . 451 with footnotes. Therefore, to find information regarding the poetic and critical texts included, the reader should refer to the section “Sources and Credits” at the volume’s end (2039–51), divided into the sections “Poets” and “Critics and Translators.” This same division (“Authors,” and “Critics, Editors, Redactors, and Translators”) is also applied to the section entitled “Biographies” (1927–2038). The subsection on “I Novissimi” includes the poets who had appeared in the classic anthology edited by A. Giuliani in 1961: Edoardo Sanguineti, Alfredo Giuliani, Antonio Porta, Nanni Balestrini, and Elio Pagliarani. The last sub-section, “Research Poetry Unlabeled,” is likely the most interesting and ori- ginal of all three, because it presents poets “pursuing their own experimental objectives without placing themselves in the ‘experimental’ category” (from the note by Federica Santini, 581). Here we have poets that may not be too familiar even to an Italian reader, struggling as they did to belong to any canon (tradi- tional or experimental). For this reason their inclusion in The Flies is particu- larly welcome, and we have poets as diverse as Edoardo Cacciatore, Corrado Costa, Antonio Delfini (thus far better known for his prose), Mario Diacono, Massimo Ferretti, Giuseppe Guglielmi, Lamberto Pignotti, Amelia Rosselli (with Zanzotto, certainly the best known among this group), (on him, more later), Cesare Vivaldi, and . In the third part, Flashback (929–84), Ballerini and Cavatorta present the trailblazer of Italian experimentalism of the twentieth century, the poet they undoubtedly prefer, given that he appears three times in the anthology (the last time, in the sixth part, Flash-Forward, 1881–1915): Emilio Villa. Here his acti- vity from the Forties is documented, interspersed with plates from In pratica by Magdalio Mussio (1968), which are included because of their abstract character as the most fitting visual comment to the poetic texts (1878–79; his plates will also appear in other sections of the anthology). The fourth part, “Midfielders: Consolidated Research Poetry” (985– 1442) is another very interesting collection of poetic texts. The title’s football metaphor alludes to their unique position in the “field’” of Italian poetry: “[. . .] the editors decided to [. . .] identify their central position that situates them far from both mainstream poets and actively, programmatically experimental authors” (F. Santini, 985). This choice is very original and goes against the strict and oppositional stylistic criteria usually adopted by previous anthologists. We find poets as diverse, and more or less known, as Lorenzo Calogero, Giorgio Caproni, Bartolo Cattafi, Giorgio Ceserano, Raffaele Crovi, Luciano Erba, Franco Fortini, Giovanni Giudici, Emilio Isgrò, Giancarlo Majorino, Alessandro Peregalli, , Nelo Risi, and Tiziano Rossi. As with the previous 452 . ANNALI D’ITALIANISTICA 36 (2018) sections, not all names are equally familiar to a regular reader of Italian poetry, which makes this selection very relevant. The fifth part of the book, “The Late Sixties and Early Seventies: The Legacy of the New” (1443–880), is probably the most controversial. As we have already seen, Ballerini and Cavatorta question the “so-called crisis” (1444, from the note by the editors) of poetry which arguably ensued from the social crisis following 1968. Their standpoint reflects and acts instead on the possible rehabilitation of poets working at that time on alternative solutions, to “reconstitute the function and very statute of poetry” (1444). We have here an eclectic selection including poets as different as Fernando Bandini, Giorgio Celli, Alfredo Giuliani (for the second time), Giulia Niccolai, Rossana Ombres, Elio Pagliarani (for the second time), Vittorio Reta, Amelia Rosselli (for the second time), Roberto Roversi (for the second time), Leonardo Sinisgalli, Adriano Spatola, and Andrea Zanzotto (for the second time). The above-mentioned sixth and last part is dedicated to Carlo Villa, a homage to the central role he has played in the creation of the category of research poetry (see the note by C. Rizzo and D. Siracusa, 1881–82). The book concludes with a “light” appendix and an essay by Giuseppe Pontiggia, “An Evening of Erotic Poetry” (1917–25) Cavatorta and Ballerini’s anthology is a truly monumental and excellent work achieved according to the criteria clearly stated in the introductory essay. The editors focus on highlighting the linguistic and literary experimentations carried out by the anthologized poets in the most diverse and even opposing manner possible. The reader can therefore find poets as dissimilar as Pasolini and Sanguineti, and stylistically diverse as Rosselli and Cacciatore, Villa and Raboni, Spatola and Bandini, just to name a few. Nonetheless, instead of a sensa- tion of confusion and disorder, the dominant impression at the end of the itine- rary sketched by the editors is one of harmony and homogeneity, due to an argu- ment coherently unfolding. Besides the paradox of oppositions, a critic could regret (and maybe rightly so) the total absence of poetry in dialect​ — ​a category of central importance in the last thirty to forty years​ — ​or the lack of a discourse on poetry by women, another very relevant category since the end of the Sixties with the rise of feminism. Both might, for this reason, be the object of The Flies’ second tome. As for this volume, Italian research poetry has never been docu- mented with such rigor and thoroughness, and Ballerini and Cavatorta’s work will be welcomed by scholars and students alike. Enrico Minardi, Arizona State University Italian Bookshelf . 453

GENERAL & MISCELLANEOUS STUDIES

Matteo Brera e Susanna Grazzini (a cura di).”Tu se’ lo mio maestro e ’l mio autore”. Dieci studi su autorship e intertestualità culturale. Firenze: Franco Cesati Editore, 2017. Pp. 181. Volume bilingue, sobrio e allo stesso tempo elegante e raffinato non solo per le caratteristiche editoriali e tipografiche dell’editore Franco Cesati ma per la scelta oculatissima di contributi di esperti nei rispettivi settori di ricerca, questa antologia di saggi critici si distingue per lo spiccato intento comparatistico e per un’attenzione filologica e storico-letteraria mai pedante, sempre puntuale, sin- cera e onesta. Come informa Matteo Brera nella “Premessa” (11–13), alcuni dei saggi sono elaborazioni di interventi presso l’omonimo convegno di Edimburgo del 2010, cui si sono aggiunti altri interventi nel corso del tempo, per un totale di dieci, preceduti da una prefazione di Alberto Varvaro dal titolo “Il complesso rapporto tra maestri e discepoli” (15–19). È questa una nota critica che, come spesso avviene per i maestri, percorre, sul solco della personale e umana esperienza, una linea di apertura sul tema, quello dei rapporti umani e intellettuali fra autori, che non può non esercitare un fascino profondo e costante. Per usare le parole della citata “Premessa”, il volume si propone di “evidenziare attraverso alcuni case studies d’eccezione il valore pre- cipuo quanto mai evidentemente unidirezionale dell’intertestualità all’interno della communitas degli intellettuali italiani ed europei” (11). Questi dieci case studies, quindi, muovendo dal celebre rapporto di figlio- lanza linguistica e letteraria di Manzoni e De Amicis con il ricordo della famosa “gita” del giovane militare a Brusuglio, iniziano con un denso saggio in inglese di Harald Hendrix, “His Master’s House: Pilgrimages to the Homes and Haunts of Great Italian Autors” (23–33), contributo che spazia da Casanova a Byron fino alle soglie del Novecento, intessendo un raffinato disegno del rapporto fra viaggio e turismo, evoluzione e consapevolezza di un nucleo di autori. Il contributo di Anna Ferrari, “‘Un mondo è nato all’esistenza, ha imparato a parlare, e tutti devono ascoltarlo’. Un maestro come Carlo Levi” (35–50), sul rapporto fra Carlo Levi e Rocco Scotellaro, offre pagine assai documentate in cui la studiosa mette prima in evidenza come l’“allievo” Scotellaro benefici dell’a- micizia e della guida di Levi, per poi, nella seconda parte del saggio, avviare una delicata analisi di come la figura intellettuale di Scotellaro, morto giovanissimo, rimanga nel laboratorio intellettuale di Carlo Levi. 454 . ANNALI D’ITALIANISTICA 36 (2018)

Viola Papetti, ne “‘Il maestro della riga bianca’: Giorgio Manganelli e Beppe Fenoglio” (51–60), approfondisce il tema della penetrazione della letteratura angloamericana in Italia negli anni del ventennio e particolarmente nei cruciali anni Quaranta, e si sofferma su come la conoscenza e la permanenza dell’inglese abbia informato non solo la prosa di Fenoglio, ma anche quella del Manganelli traduttore e sperimentatore testuale, sul cui inedito rapporto con Fenoglio molto resta da indagare. Interamente dedicato al rapporto di Fenoglio con autori inglesi e americani è il saggio in lingua inglese di Veronica Pesce, dal titolo “Among Fenoglio’s Anglo-American ‘Maestri’: From Thomas Hardy to John Steinbeck” (61–75), che si sofferma con dovizia di esempi e approfondimenti linguistici e formali particolarmente sull’intertestualità fra Fenoglio, Hardy e Steinbeck. Basato su molti inediti, alcuni dei quali tradotti dall’ungherese oltre che dall’inglese e dal francese, è l’indagine dell’amicizia e degli scambi epistolari che legano Valiani e Koestler, nel saggio, con ampie letture testuali delle lettere dei due autori, di Ilona Fried intitolato “Lettere da un’amicizia: Leo Valiani e Arthur Koestler” (77–95). Segue uno studio gaddiano di Susanna Grazzini in lingua inglese dal titolo “Acquainted with Carlo Emilio Gadda: William Weaver Author and Translator” (97–112) che sviscera gli snodi fondamentali di un rapporto che da traduzione diviene scambio intellettuale e letterario in più direzioni e con risultati di grande suggestione. Antonia La Torre, nel contributo “Semplicità ‘grottesca’ o ‘giottesca’? Il rap- porto Giotto-Pasolini nello sceno-testo del Decameron, tra possibili lapsus, ecfra- seis e giochi di ruolo” (113–20), offre una raffinata analisi del ruolo culturale e raffigurativo che la figura di Giotto assume in Pasolini con particolare attenzione alle scelte di regia e di narrazione. Monica Jansen, in “Dall’‘io so’ di Pasolini all’‘io non so se so’ di Tabucchi: il ‘controtempo’ di un’amicizia letteraria” (121–36), ricostruisce con molto acume e consapevolezza storico-critica il rapporto Pasolini-Tabucchi nel suo divenire, in costante equilibrio fra arte e vita, fra conoscere e rappresentare, confermando la validità di un’analisi che riesce a non farsi sopraffare dall’uso eccessivo e fra- stornante di teorie e schemi prefabbricati. Il penultimo contributo del volume, di Francesca Ricci, “L’anacoreta e il centauro: note a margine di un commento montaliano” (137–43) è un breve ma intenso e assai convincente saggio che ricostruisce una polemica poetica e letteraria fra Pasolini e Montale sul tema fondamentale dell’impegno. L’ultimo contributo del volume, in inglese, di Matteo Brera, dal titolo “Sanesi, Montale, Ungaretti: Shakespeare’s Sonnet 33 from Light to Darkness” (145–57), è un’accuratissima analisi filologica e stilistica delle traduzioni del Italian Bookshelf . 455 sonetto 33 di Shakespeare di Sanesi, Montale e Ungaretti che pone in rilievo come le sensibilità e l’interpretazione dei tre autori informa di sé le traduzioni senza tradire la resa poetica e formale della traduzione pur nell’evidente sforzo di avvicinare l’autore al pubblico italiano. Concludono il volume l’apparato che comprende tutti gli abstracts degli interventi (161–70), seguito dai profili bio-bi- bliografici degli autori (171–74) e l’indice dei nomi (175–81) mentre l’indice generale del volume si trova all’inizio del libro (9–10). Particolare è la scelta delle note e dei riferimenti bibliografici: a piè di pagina sono presenti le note di contenuto e le sigle delle opere poi sciolte nelle sezioni “works cited” o “bibliografia” poste alla fine di ogni contributo in ordine alfabe- tico. Una citazione organica e sistematica dei testi in nota e un’unica bibliografia finale in ordine cronologico avrebbe, a parere di chi scrive, reso miglior servizio a un insieme di saggi che, pur eterogenei, mantengono attraverso il forte impe- gno critico, interpretativo e filologico, una forte e pregevole unità strutturale ma soprattutto un lodevole esempio di come la critica sia ancora in grado, da una parte e dall’altra dell’Atlantico, di svolgere un’onesta e alta funzione di com- mento e sistemazione senza mai cedere al compiacimento di formulari e mode prestabilite. Roberto Risso, Clemson University

Cristina Caracchini e Enrico Minardi, a cura di. Il pensiero della poesia. Firenze: Firenze University Press, 2017. Pp. 206. Nel suo saggio introduttivo, “preliminari per un’esplorazione”, Cristina Caracchini affronta il problema, in sé come pochi altri di vastissima portata, se la poesia possa considerarsi, e in che modo​ — ​in quali e in quanti modi​ — ​strumento e veicolo di conoscenza. Difficile anche soltanto porlo, un problema del genere: da un lato del tutto scontato​ — ​basterebbe pensare alla risposta che Leopardi o Montale darebbero al quesito —, dall’altro inafferrabile nelle sue modalità, visto il genere letterario a cui qui si applica, disperso nel Novecento e poi nella con- temporaneità in tanti rivoli quanti sono i produttori di ciò che insistiamo a chia- mare poesia. L’unico taglio che poteva essere dato a una premessa su un tema del genere era dunque quello storico, nel senso della storia della critica, o del modo in cui almeno dal romanticismo l’attività poetica è stata pensata, oltre che “agita”. Ecco allora che si allineano i nomi di Shelley, di Schiller, di Croce, di Bloom, di Cohen, fino ai più recenti studi di Casadei: si forma dunque una linea dalla teoria romantica dell’uomo “estetico”, passando per la traducibilità dei concetti e la memoria letteraria, fino alle più moderne teorie della ricezione, lungo la quale 456 . ANNALI D’ITALIANISTICA 36 (2018) si ha almeno il quadro di una continuità di domande, che finiscono comunque tutte per arenarsi nella irriducibilità reciproca del pensiero filosofico in quello poetico e viceversa, e quindi forse nell’impossibilità di giungere prima o poi a una soddisfacente teoria sul valore cognitivo della poesia in genere. Dopo un meritorio e ulteriormente chiarificatore “Sommario” dell’altro curatore del volume, Enrico Minardi, utilissimo per orientarsi nel successivo corpo del libro, meglio dunque prendere la via dei singoli saggi su singoli poeti, e affrontare o non affrontare il problema sezionandolo nelle numerosissime rispo- ste che i poeti stessi hanno dato nel loro stesso “fare”. Dico non affrontare nel senso concreto dell’espressione, visto che entrando nei dieci studi che costru- iscono poi questo volume collettivo, ci si rende conto che non sempre il poeta oggetto dello studio stesso è affrontato dal punto di vista del “pensiero della poe- sia”, o comunque del valore di conoscenza del testo poetico. Poco infatti hanno a che vedere col problema teorico enunciato in partenza, in un affascinante disor- dine cronologico, il dissidio Eros-Thanatos nel ciclo di Aspasia di Leopardi (sag- gio di Roberta Cauchi-Santoro) o le espressioni in infiniti modi accostate alla città di Genova nella “Litania” di Giorgio Caproni (saggio di Andrea Malaguti), o infine l’evoluzione delle traduzioni dei “Sonetti a Orfeo” di Rilke fra le due guerre. Il che non toglie che ciascuno di questi saggi abbia in sé valore e ric- chezza di contenuti, nonché chiarezza e profondità d’indagine. Come ad esem- pio nel caso del lavoro di Federica Santini su “Schizomorfismo e accrescimento della vitalità nel novissimo Alfredo Giuliani”: il quale Giuliani, si badi bene, ha affermato che la poesia non è “tanto una forma di conoscenza, quanto un modo di contatto” (139). La totale elusione della problematica in questione infatti non inficia minimamente il valore del saggio di Santini, uno dei migliori del libro e, a mio parere, uno dei più illuminanti che si possano leggere in generale su quella ormai lontana stagione dei “Novissimi”. Più coerenti col titolo della raccolta sono invece senz’altro gli studi sul mito e sulla sua bellezza nella poesia di (di Irene Baccarini), unica vera forma di conoscenza portatrice di senso etico; quello sul “pensiero del corpo” in Biagini e Annovi (di Giorgia Bongiorno); o sullo sfasamento dei vec- chi sistemi ideologici della conoscenza in Palazzeschi e nei Crepuscolari (studi di Mimmo Cangiano e di Danila Cannamela). Notevolissimo, in questo gruppo, il saggio su “Zanzotto e il paesaggio alla prova della sovrimpressione”, di Corrado Confalonieri, dove parlando di autorità o non autorità extratestuale dell’autore stesso, e della costitutiva evanescenza del paesaggio che va a minare la tranquil- lità conoscitiva del lettore, si arriva veramente vicini al cuore della questione. E ancora più centrato, in questo senso, l’ultimo articolo del libro, quello di Ambra Italian Bookshelf . 457

Zorat su “Come lavora il pensiero della poesia: il caso di Variazioni belliche di Amelia Rosselli”. Qui, parlando di una poetessa secondo la quale “scrivere è chie- dersi come è fatto il mondo”, si tocca veramente il punto centrale, perché con Rosselli “le idee non precedono e non dominano il linguaggio, ma si sviluppano e realizzano nelle stesse forme linguistiche”; di conseguenza “le associazioni fonetiche non sono un elemento decorativo e secondario, sostengono e permet- tono lo stesso sviluppo del pensiero della poesia”. Ecco: se la poesia è autonomo strumento di conoscenza lo è forse per le sue vie specifiche: la bellezza, la sen- sorialità, la musicalità che solo il testo poetico può compiutamente e che sono la strutturazione stessa del “pensiero della poesia”. Un libro dunque fortemente eterogeneo quello curato da Caracchini e Minardi, ai quali va comunque il merito di avere riunito validissimi contributi intorno a un problema di grande fascino e rilevanza. E la stessa eterogeneità degli approcci, forse voluta, è in fondo anch’essa un valore esemplare: la poesia va affrontata in tutti i modi possibili, con qualsiasi intento, va attaccata ogni volta da ogni lato, perché sfugge e continuerà a sfuggire a qualsiasi catalogazione e a qualsiasi teoria. Andrea Matucci, Università di Siena

Giulio Giovannoni. Tuscany beyond Tuscany. Rethinking the City from the Periphery. Firenze: Didapress: Dipartimento di Architettura Università degli Studi di Firenze, 2017. Pp. 182. Il volume di Giulio Giovannoni è il frutto d’una ricerca pluriennale che, ger- mogliata nel vivaio didattico dell’ateneo fiorentino, si è estesa altresì nei con- testi di Harvard, della Johns Hopkins University e di Berkeley. Obiettivo basi- lare dello studio è quello di scardinare il vieto stereotipo ideologico di matrice idealistica, forgiato a ridosso dell’Italia postunitaria e proliferato con virulenza durante il ventennio fascista ed oltre, secondo il quale i centri urbani toscani (in particolare Firenze ed il territorio collinare che la circonda) son vagheggiati come punto nevralgico e positivo del territorio, mentre la periferia viene “demo- nizzata” e relegata a squallido non luogo, desolata terra di nessuno, “cancro” che deturpa e “divora” l’armonica bellezza “del paesaggio” (10). (Qui ed in seguito traduco in italiano il testo originale inglese per far sì che lo scorrimento dell’a- nalisi si svolga in modo omogeneo e meno discontinuo.) Al fine di inquadrare il discorso in un’ottica libera dai “condizionamenti culturali” che la visione urba- nistica odierna tutt’ora propone, l’autore precisa, ad incipit d’opera, che l’inda- gine, anziché arroccarsi sugli spalti della sua sola disciplina, ha inteso varcarne i 458 . ANNALI D’ITALIANISTICA 36 (2018)

confini per calarsi, con un approccio “empirico” nella realtà geografico-sociale toscana e scandagliarla con l’ausilio di supporti interpretativi “interdisciplinari” (9, 8). Suffragata da tale visione allargata, l’osservazione dei luoghi si dirama da molteplici specole esegetiche, non ultime, in sottotraccia, quelle storico-antro- pologiche. Il taglio metodologico di Giovannoni ha il merito di coniugare, in felice sintesi, le teorie spaziali e biopolitiche francesi (ci si riferisce in specifico, al pensiero di Marc Augé, Jean Baudrillard, Pierre Bourdieu e Henri Lefebvre) con le prospettive urbanistiche elaborate dalla scuola tardonovecentesca euro- pea che ruotano intorno all’idea di Zwischenstadt (città intermedia o decentra- lizzata), termine con il quale l’architetto ed urbanista tedesco Thomas Sieverts definisce gli insediamenti antropici che a partire dal secolo scorso si son venuti configurando in un intreccio che ha finito per legare in un continuum centri e periferie. Giovannoni immette inoltre nella disamina il concetto di sprawl city (città diffusa e/o dispersa), nozione urbanistica, questa, ampiamente frequen- tata e dibattuta in ambito statunitense. Confortata da tali presupposti di metodo, la dimostrazione si imposta, agile e chiara, in otto nuclei espositivi. Come lo stesso studioso spiega nella nota introdut- tiva, i primi quattro capitoli son volti a smantellare (o “decostruire”) il “mito” di una Toscana “iperreale” (10, 11) che, propinato sin dal Rinascimento ed alimentato attraverso i secoli dalle egemonie politiche di turno, è approdato sugli inquieti lidi della postmodernità. Il primo capitolo, intitolato “Rethinking Tuscan Landscape History”, è dedicato al riesame diacronico della propaganda che, dapprima veico- lata da una fiorente produzione letteraria (e in seguito ancor più pervasivamente innervatasi nella ricezione sociale attraverso i mezzi di comunicazione di massa usati all’uopo dal regime mussoliniano), imponeva l’utopia d’un’area urbana e collinare altamente idealizzate e di contro opponeva a tale visione edenica la disto- pia dei loci periferici, pensati e voluti come marginali e latori di “degradazione e di conflitto” sociale (12). In questa suddivisione “manichea” dello spazio geografico toscano (49) la pianura rimaneva come una sorta di anonimo tertium non datur osservato dall’intelligentsia otto-novecentesca con la stessa “distaccata distanza”, pervasa di “etnocentrica curiosità”, con cui si guardava alle terre di colonia (23). Priva di identità e di voce, la pianura era obbligata a celare sotto una facciata levi- gata alla meglio l’impietosa condizione di sfruttamento e il miserrimo stato in cui versavano i mezzadri, nuovi servi della gleba del latifondismo postrisorgimentale e fascista. Condizione, questa, trascinatasi a lungo, sin sugli scorci del secondo dopoguerra ed oltre quando, come rileva Giovannoni, i più coraggiosi e fortunati riuscirono a liberarsi dall’asservimento della mezzadria ed a “costruirsi un futuro nella classe media” fiorentina (18). Italian Bookshelf . 459

Il capitolo secondo, “Utopia and Dystopia in Tuscan Spatial Narratives”, esamina alcuni tra i documenti “letterari, giornalistici, cinematografici e icono- grafici” fioriti intorno alla dimensione spaziale toscana (11); e mostra che il mito della regione come spazio perfetto (creato nell’Ottocento dalla locale aristocra- zia agraria e fortemente implementato dalle élites britanniche che avevano eletto la Toscana a propria residenza) ha avuto fortissima presa su un vasto coro di voci nostrane. A mo’ d’esempio Giovannoni cita i giudizi di Alberto Asor Rosa e di Bernardo Bertolucci che, ambedue celebratori della Toscana felix (l’espressione appartiene ad un articolo giornalistico di Asor Rosa del 1987), la trasformano in utopos incantato, “oasi” incontaminata da contrapporre all’ormai disfunzionale Lazio e al resto dell’Italia caotica ed imbruttita (37, 40). Attraverso una sistematica stratigrafia che esplora gli spazi architettonici più conosciuti della regione, il terzo capitolo, ”Fantasy Restoration and Identity Building in Tuscany”, entra nel cuore del mito toscano e ne svelle, tassello dopo tassello, gli assi portanti. Lo studioso mostra infatti come alcune delle più famose e visitate strutture medievali (e rinascimentali) dei maggiori centri toscani siano state alterate e a volte private della loro apparenza originaria, venendo sottopo- ste al cosiddetto restauro (o rifacimento) di fantasia, attuato all’insegna dei det- tami del movimento architettonico neogotico che, nato in Inghilterra alla fine del Settecento, dilagò in tutt’Europa a partire dalla seconda decade dell’Otto- cento e cambiò, sotto l’egida del francese Eugène Viollet-le-Duc (1814–1879) il volto di famosi monumenti ed edifici del Continente. In Italia la scuola neo- gotica trovò ferventi adepti nel fiorentino Gaetano Baccani (1792–1867), nel senese Giuseppe Partini (1842–1895) e nell’aretino Giuseppe Castellucci (1863–1939). Mossi dal desiderio di epurare le “imperfezioni” e di “costruire un’immagine idealizzata” dello spazio​ — ​e appoggiati dalle classi dirigenti che vedevano nel restauro di fantasia l’opportunità di reinventare “la realtà storica” al fine di plasmare una pregevole “identità” politica regionale e, per riflesso, “nazionale” (11)​ — ​gli architetti summenzionati, anziché preservare nella loro integrità di stili le preziose costruzioni del passato, le trasformarono in simulacra di baudrillardiana memoria, vestigia “musealizzate” (48, 35), lefebvriani “spazi astratti” pronti per esser dati in pasto al mercato “internazionale” del turismo di massa (49, 48). Tra alcuni degli esempi che Giovannoni offre basti citare la “sistematizzazione” e modernizzazione della fiorentina Piazza del Duomo ad opera del Baccani (55), la ristrutturazione di Palazzo e Piazza Salimbeni a Siena, ideata dal Partini, ed il rifacimento del “centro storico di Arezzo” progettato dal Castellucci (62–63). Il capitolo quarto, “Politics of Landscape Purification”, fa da ideale pendant al precedente e discute della genesi dello stereotipo del 460 . ANNALI D’ITALIANISTICA 36 (2018)

“perfetto” paesaggio toscano costruito dopo l’esodo degli agricoltori dalle cam- pagne alla fine del secondo conflitto mondiale. Nel capitolo si mostra, alla luce dei concetti lefebvriani di “spazio vissuto, spazio astratto e spazio quotidiano” (11) come la manipolazione del territorio (già iniziata in fase risorgimentale e massicciamente incrementata da Mussolini) sia stata fortemente voluta da una politica che privilegiava l’astratto sul concreto e sminuiva l’importanza del ter- ritorio come locus sociale in favore d’uno spazio artificiale, avulso dalla quoti- dianità. Conformemente all’ideale platonico (e gentiliano) del kalós kai agathós, il paesaggio bello e buono si otterrebbe progettando un’“articolazione spaziale” che “rimuova qualsiasi elemento architettonico che non corrisponda ad una statica ed astorica idea del panorama” (82, 79). In questa visione “i termini mez- zadro e contadino” vengono “artatamente connessi agli ideali di severità, inte- grità morale e lealtà alla tradizione, piuttosto che alla loro effettiva condizione di povertà e sfruttamento” (75). Da tale contesto ideologico in cui si attua un chiaro tentativo di demolire la realtà esistente per crearne una artificiale si può facilmente dedurre come la “purificazione territoriale” divenga di fatto anche e soprattutto “purificazione sociale” (80). Improntato all’esame della situazione di stallo a cui il processo di decanta- zione delle aree urbane conduce e dedicato alla rassegna delle proposte teoriche lanciate per risanarla, si delinea il capitolo quinto, intitolato: “From Polycentrism to the ‘Dispersed Centrality’”, che funge da cerniera mediana tra il primo e il secondo snodo contenutistico del volume. In esso Giovannoni si propone di esaminare gli effetti che il mito della città compatta (o centralizzata) ha avuto su Firenze ed i suoi immediati dintorni. Dopo aver fornito la definizione tecnica di policentrismo, nozione che “nell’accezione urbanistica connota i sistemi in cui i centri urbani sono nettamente separati gli uni dagli altri da un territorio aperto” (93), l’autore fa notare come la città policentrica abbia ormai esaurito la sua fun- zione ed abbia subito nell’ultimo settantennio, a livello mondiale, un costante e radicale mutamento morfologico cui hanno concorso svariati fattori economici e sociali. I centri urbani, un tempo ben circoscritti, si sono estesi in ampliamento suburbano sino a formare città oltre le città. Tale spostamento di baricentro si è verificato anche in Toscana, non nel comprensorio “oleografico” promosso dal battage pubblicitario dell’ industria turistica, ma nel territorio reale, fatto di spazi vissuti e quotidiani. Giovannoni prende come esempio Firenze, la cui “area limi- trofa” appare oggi come il “paesaggio della frammentarietà”, contenente “vari agglomerati di cimiteri, penitenziari, ospedali, importanti infrastrutture, centri commerciali, parcheggi, multicinema, stazioni di servizio [. . .], frammenti di città compatta [. . .] disseminati su vaste aree di territorio adibite all’agricoltura Italian Bookshelf . 461 urbana” (92–93). Dopo aver preso atto che purtroppo il Piano Territoriale di Coordinamento della Provincia di Firenze in tempi assai recenti (2013) si è rive- lato ancora pertinacemente teso a preservare “le caratteristiche reticolari poli- centriche degli insediamenti” ed a tale scopo ha prescritto “la riconfigurazione dei confini che separano la città dalla campagna”, opponendosi quindi con aperta riluttanza alla città “diffusa” (95), lo studioso individua uno sparuto drappello di urbanisti, tra i quali Paola Viganò e Francesco Indovina, che hanno intuito l’altis- simo potenziale dei paesaggi intermedi (i così detti in-between landscapes) venti- lando soluzioni che finalmente li archivino come spazi reietti e ne incentivino ed arricchiscano la funzionalità, promuovendo, ad esempio, lo spostamento periur- bano di gangli di servizi “centrali politici, amministrativi, economici, mediatici”, eccetera, che sinora sono stati esclusivo appannaggio delle “tradizionali città compatte” (98, 99, 100). Ciò contribuirebbe alla creazione di infrastrutture utili al commercio, alla sanità, alla cultura, allo svago, e ad altre ancora, che darebbero vita a quella che Giovannoni definisce una “centralità dispersa” o “isotropica” ove tutto sia “importante, ma non più centrale” (104). Se il primo blocco del volume è sostanzialmente concepito come imprescin- dibile pars destruens d’una concezione urbanistica poco lungimirante e ormai obsoleta, gli ultimi tre capitoli ne costituiscono quella construens, ad iniziare dal sesto, “The Social Life of Tuscan Peripheries: A Photographic Survey”, corre- dato di bellissime foto, più eloquenti di qualsiasi assunto teorico, che documen- tano la serenità della vita d’ogni giorno trascorsa tra il 2013 e il 2017 dalla popo- lazione di ambienti periferici fiorentini, dove il ritmo meno intenso rispetto a quello del centro urbano guadagna in distensione e “spontaneità” (109). Gli scatti ritraggono comunità di anziani, spazi pubblici frequentati da adolescenti, celebrazioni religiose di diverse confessioni e concerti tenuti all’aperto in pic- cole piazze di quartiere; essi descrivono insomma luoghi gioiosi caratterizzati da una positiva integrazione ed interazione sociale in aree che fino a pochi decenni or sono venivano scartate dalla logica dicotomica delle classi dominanti come alienanti non-luoghi. E su quello che per lungo tempo è stato etichettato come un non-luogo principe, è impiantato il settimo capitolo dal titolo: “The Social Life of Florence Gas Stations”, in cui l’autore sottolinea come le stazioni di ser- vizio non siano state mai, nella visione urbanistica d’antan, considerate come luoghi pubblici, mentre, al contrario, nella realtà dei fatti, esse “formicolano di molteplici attività sociali” (125). L’attenzione di Giovannoni si sofferma su un fenomeno tipico dell’ Italia della seconda metà del Novecento, l’Autogrill, che inizialmente nato nel 1947 sull’autostrada Milano-Torino (in prossimità di Novara) dal connubio dell’Ente Nazionale Idrocarburi e dall’industria dolciaria 462 . ANNALI D’ITALIANISTICA 36 (2018)

Pavesi, inaugurò una fortunata catena (tuttora operante) di stazioni di servizio provviste di ristoranti, supermercati e area svaghi che divenne uno dei simboli più vistosi e popolari del “miracolo economico italiano” (135) e che perfetta- mente incarna la definizione che l’antropologo Marc Augé fornisce “del tipico spazio della supermodernità” (126). Il capitolo procede poi ad una mappatura che include, tra gli altri, gli scandagli della “vita sociale delle stazioni di servizio nei diversi orari del giorno e della settimana”, l’analisi della “relazione spaziale e sociale tra stazioni di servizio e strutture adiacenti”, il rendiconto delle “relazioni e sinergie” esistenti tra le varie attività sponsorizzate“ e la valutazione della loro funzione “pubblica” (139, 137). I risultati definitivi dell’indagine permettono di affermare che, piuttosto che avamposti di distopica desolazione, le stazioni di servizio “costituiscono spazi centrali” e vitali “nelle città contemporanee” (149). Il minicapitolo conclusivo, “Rethinking the City from the Periphery”, riba- disce ulteriormente che, per ottenere un effettivo mutamento del processo pro- duttivo ed organizzativo dello spazio toscano​ — ​processo che per oltre un secolo s’è raggelato nelle rigide e formulaiche opposizioni binarie città / campagna, collina / pianura, alto / basso, bello / brutto, utopico / distopico, egemonico / subalterno che deformano e snaturano l’immagine della realtà territoriale (9)​ — ​ è necessario evolvere dall’apparente sicurezza e stabilità garantite da una visione di entropia negativa o “negentropia” urbana, ovverossia dall’idea di un assetto antropico ordinato, separato dalla periferia e chiuso su se stesso (98), verso una percezione onnicomprensiva, inclusiva e diversificata dell’intero territorio, riva- lutato in tutte le sue sfaccettate componenti. Solo in tal modo potrà crearsi una omogeneità spaziale che si faccia paladina di eguaglianza di giustizia sociale. Libro coraggioso e innovativo che testimonia l’amore profondo dell’autore per la sua regione, Tuscany beyond Tuscany affascina per la capacità di tenere insieme i fili d’un’inchiesta di così composito ed ampio respiro e per il nitore stilistico e contenutistico con cui la si è condotta. Esso diverrà certamente un imprescindibile testo di riferimento per gli studiosi d’urbanistica desiderosi di svecchiare la politica regolamentatrice (e l’assetto logistico) delle città italiane (e non) del presente e del futuro prossimo venturo. Olimpia Pelosi, State University of New York at Albany Italian Bookshelf . 463

Matteo Farina. Facebook and Conversation Analysis: The Structure and Organization of Comment Threads. London: Oxford: Bloomsbury Academic, 2018. Pp. i-vi + 225. Farina’s study of the pragmatic mechanisms informing Facebook is the newest addition to the Bloomsbury’s series on discourse and social media and follows recent contributions on the critical analysis of hypertexts (Volker Eisenlauer), on discourse and identity on Facebook (Mariza Georgalou) and on the peculiar discourse strategies that characterize Twitter (Michele Zappavigna). This book, which relies on a robust bibliographical foundation and fol- lows the theoretical lines drawn by authoritative publications on discourse analysis such as Liddicoat’s An Introduction to Conversation Analysis (2011) and Schegloff’s Sequence Organization in Interaction: A Primer in Conversation Analysis (2007), aims to demonstrate how the pragmatics of Facebook’s discourse can be likened to the communicative structures and strategies of spoken conversation, although the linguistic dynamics of Facebook present some distinctive traits to be ascribed to the semiotic specificity of social media. Farina structures his book in seven chapters, which are preceded by a mini- mal list of three figures (vi), an introduction, and rounded up by a conclusion. These are followed by an “Appendix A” containing the corpus of examined com- ment threads, notes to the chapters, a bibliography and an index. In the “Introduction” (which strangely acts as a first chapter), the author explicitly states his main objective, namely to understand how Facebook con- versations are organized, drawing from leading studies that focus on “the actions performed by speakers in a conversation” (1). Farina applies conversational analysis of Facebook status updates, following in the footsteps of linguistic stu- dies that have analysed interactions taking place on Facebook’s “Home,” such as Bolander and Locher’s Constructing Identity on Facebook: Report on a Pilot Study (2010) and Carr, Schrock and Dauterman’s Speech Acts Within Facebook Status Messages (2012). The conversationalist approach, or the study of social interactions that occur within the selected threads, seems to be the right metho- dological choice as Facebook is intrinsically made of social acts. The framework of the study is described in chapter two (“Research Design, Data Collection, and the Corpus”) where the author declares the true object of his analysis: the asynchronous and multifocal nature of interactions occurring on Facebook. Chapter Three, “The Organization of FB Comment Threads,” describes the configuration of selected comments and concludes that communicative actions 464 . ANNALI D’ITALIANISTICA 36 (2018) accomplished by users are organised in sequences “such as those that characte- rize turns at talk in spoken conversation” (182). In chapter four (“The Basic Sequence of Facebook Comment Threads: Tellings”) the author takes a closer look at status updates, at the “first-post tel- lings” that open them and at the narratives of which they consist. Farina observes how users can take advantage of Facebook’s tools and resources to create and put forward their tellings in a variety of formats, such as textual messages, pictures, hyperlinks and/or a combination of those. Drawing from this analysis and com- paring it with the existing literature on Facebook status updates, Farina argues that Facebook’s tools and mechanics impact on the format of first-post tellings. Chapter five (“The Nature of First-Post Tellings”) provides evidence to support the theory according to which Facebook users “perform several actions” to “secure recipients” for their initial tellings (103). The chapter also discusses the “interactional problems” (103) that arose from the pool of analysed threads and the communicative strategies deployed by posters of first-post tellings to overcome them, such as humour and the creation of a semiotic bond between them and other users. The nature of non-initial tellings, or the narrative devices occurring outside of the first-post ones, is discussed in chapter six (“Non-initial Tellings”). Farina determines that “secondary” comments are used and work “in a way similar to second stories in spoken conversation, showing that the person posting the telling has understood the first-post telling, and is signalling his or her affilia- tion with the poster of the first-post telling” (120). From a quantitative point of view, the analysis of these contextual tellings is somewhat undermined​ — ​ Farina maintains​ — ​by their oftentimes scarce visibility due to the way in which Facebook only makes some of the comments immediately visually available to users. Overall, also given the conceded relative lack of data available, this chapter comes across as the least convincing of the book. However, the relative scarcity of data is used by Farina to confirm the relevance and the “special status” (121) of first comments in Facebook threads. Chapters seven and eight (“Responses to Tellings and Later Comments”) examine the several different ways in which “friends” respond to first-post tel- lings and how their use of “positive or negative evaluations and unlikely state- ments” contain “an action that shows an understanding of, and orients to, the initial telling” (184). The study of responses to posts highlights an interesting discrepancy between the communication process as it happens in Facebook threads and spoken conversation. Indeed, Farina underlines, when a “friend” publishes a Italian Bookshelf . 465 comment in an existing thread, he/she appears to perform an action directly linked in semiotic terms to the first post or to the most recent comments. This contrasts with the contextual nature of spoken conversation and with one of its constitutive principles, namely the display of understanding of the “just-prior turn” or the comment that precedes immediately the response in question. Thus, the author demonstrates that the medium impacts the organization of Facebook comment threads and how users are guided by the system thus aligning their normal behaviour with that of the options allowed by the system (i.e., use of “likes” and other emoticons). Farina’s study of Facebook comment threads from a conversation analytic point of view has the merit to expand on previous linguistic research in the field of social interaction and interestingly points out the actors at play within discourse strategies informing Facebook, thus highlighting a marked difference with semiotic processes on which spoken communication is based. The main weakness of this study, which in itself is a useful addition to the bibliography in the field, is the overabundance of repetitive clauses stating over and over again the aims and the achievements of the research in a disserta- tion-like style. Flipping through the pages of Facebook and Conversation Analysis is not an enjoyable experience as one sees the same concepts repeated more than once even in the space of two contiguous paragraphs. This stylistic choice sli- ghtly undermines the effectiveness and the appeal to a wider public​ — ​including instructors of Italian as L2 and Italian linguistics, who might find the book useful to illustrate the impact of social media in the shaping of discourse strategies​ — ​of an otherwise competent study that would have benefited from a much punchier style. A further critical point is the author’s choice of avoiding almost comple- tely any comparative linguistic research (including the occasional, albeit poten- tially relevant, English and dialectal presences in selected comment threads). This perspective is only briefly hinted at in a scant Suggestion for Future Research section at the end of the overall well written Conclusions. Matteo Brera, University of Toronto

Teresa Fiore. Pre-Occupied Spaces. Remapping Italy’s Transnational Migrations and Colonial Legacies. New York: Fordham University Press, 2017. Pp xi + 251. Teresa Fiore’s Pre-Occupied Spaces. Remapping Italy’s Transnational Migrations and Colonial Legacies successfully integrates three legacies of migrations that are more often treated separately: the traces of Italy’s history of emigration, 466 . ANNALI D’ITALIANISTICA 36 (2018) immigration, and colonialism. In examining this conjoined history, Fiore focu- ses on varied cultural texts as primary documents, from films to novels, short stories to songs and memoirs. While her immediate audience is clearly made up of scholars focused on migration, post-colonial or cultural studies, especially in the Italian context, Fiore’s approach, scope, and especially clear prose make this book valuable for graduate level coursework in these same fields. It is worth noting that Fiore also envisions a broader public as an indirect and proximate audience. For in fact an ultimate goal of her project is to contribute to strategic models of reducing the anxiety that often surrounds migration, on the part of migrant as well as receiving communities, while seeking and/or suggesting to build empathetic responses in the same groups. While the readings per se are too specialized for introduction to undergraduate classes, the basic structure of the book, including its primary bibliography, provides a framework for the instructor’s use in designing a course on transnational migrations and colonial legacies. Furthermore, some of the materials, such as maps, statistics, or images, are extremely useful in lesson planning. Fiore’s monograph is divided into three parts focused on “Waters,” “Houses,” and “Workplaces.” The first of these three sections examines migra- tion texts for themes of “Waters,” from the Atlantic Ocean to the Mediterranean Sea, including the vessels used to cross these bodies of water. Texts range from the songs made popular by diva Gilda Mignonette in early 20th-century U.S. and southern Italy to films including Emanuele Crialese’s Nuovomondo and Vincenzo Marra’s Tornando a casa, together with memoirs such as Kym Ragusa’s The Skin Between Us and Feven Abreha Tekle’s Libera. Here, Fiore limns out con- tinuities and discontinuities spanning centuries of divide between the earliest of Mignonette’s songs and the films of the early 2000s, such as the role of the ship as a tripartite trope representing society itself, the fractured Italian nation, and visions of new societies in the U.S. and Italy. In these texts, the Mediterranean in particular becomes a site that relates risk to resultant opportunity. Whereas Fiore sees in international waters the transformative power to revise perceived fixed national identities as a reflection of the liquidity of the environment, in “Houses” she finds the multiplicity of these stories to be ren- dered even more clearly in concrete residential spaces. These multi-ethnic immigrant residential spaces include the Italian American tenements in Melania Mazzucco’s Vita, Amara Lakhous’s Roman palazzi, Laura Pariani’s Argentinean conventillos, the squatters’ industrial buildings in Mohsen Melitti’s work, and Agostino Ferrente’s ethnic neighborhoods. These spaces demonstrate an intersection between personal and group histories, from the heterogeneity Italian Bookshelf . 467 characterizing current immigrant neighborhoods in Italy to the monuments to an imperial history, another form of border crossing. Fiore finds such residential spaces to be “living archives of pre-occupation and invention” (73). Her meditations on her overarching theme of “pre-occupation” are espe- cially evocative. For example, in the section on “Waters,” the idea of pre-occu- pation indicates both the history of prior stories and also visions of possibility in the middle of danger. In “Houses,” preoccupation instead refers to the anxiety of scarce resources as well as the history of the prior inhabitation of spaces. In the section on “Work,” the book’s titular “pre-occupation” transforms into a consideration of occupations qua employment, especially domestic and con- struction work. This is the less “visible” labor often delegated to immigrants. Here, stories of Italian emigration to find suitable employment become the lens through which to understand and, therefore, manage anxieties about competi- tion for scarce employment opportunities discussed in public discourse on cur- rent immigrations into Italy. The texts considered include François Cavanna’s Les Ritals and Mariana Adascalitei’s short story “Il giorno di San Nicola,” Renata Ciaravino’s script for the play Alexandria, and Gabriella Ghermandi’s tale-wi- thin-a-novel “The Story of Woizero Bekelech and Signor Antonio.” Weaving together such tightly similar situations from past emigration and present immi- gration stories, she eschews trite readings of the texts. While the above-named texts are the explicit focus of these studies, Fiore provides a much broader sense of the vast history behind these narratives by uncovering a vast array of sources and, in turn, sources for those sources. She thus makes her argument carefully, attentive to scholarly precedents. When theorizing, she self-consciously invites the reader to continued inquiry of valid current questions. In brief, Pre-Occupied Spaces successfully unifies this diverse set of cultural texts into a worthy overview of questions of vital contemporary interest. Melissa Coburn, Virginia Polytechnic Institute and State University

Julia C. Fischer, ed. Breaking with Convention in Italian Art. Cambridge: Cambridge Scholars Publishing, 2017. Pp. 175. Breaking with Convention in Italian Art is a collection of essays that originated as a panel titled “Breaking Bad in Italian Art,” held at the Southeastern College Art Conference in 2016. The authors all focus on artists and art historians “brea- king bad,” a colloquialism of the American South that describes “someone who challenges convention, defies authority, or rejects moral and social norms” (1). 468 . ANNALI D’ITALIANISTICA 36 (2018)

Although the title of the volume dispenses with the actual phrase, the concept of “breaking bad” brings together an eclectic collection of essays on topics that range from Etruscan funerary goods to postmodern Italian painting. The essays are arranged in chronological order, beginning with Laurel Taylor’s examination of the unorthodox funerary art of the Etruscan city, Chiusi. Unlike at other Etruscan sites, where it was taboo to depict corpses, the arti- sts of Chiusi did not refrain from representations of the deceased, a practice which Taylor concludes may result from the use of cremation at Chiusi, rather than inhumation. Furthermore, these artists rejected the typical gender dyna- mics that are present in funerary scenes created in other parts of the ancient Mediterranean. This essay is followed by another on the subject of ancient art with Julia C. Fischer herself breaking with art historical convention by attributing the Tazza Farnese to the Augustan period in Egypt, rather than the Hellenistic, as previously accepted. Unfortunately, the book does not include any essays on medieval Italian art and instead, moves forward from ancient to early modern topics. Alexis R. Culotta examines the innovative collaboration between Baldassare Peruzzi and Raphael at the Villa Farnesina. Previous scholarship had established that the architecture of the villa recreated the proportions Vitruvius had recommended for a scenae frons; Culotta builds on this idea by proposing that Raphael’s fre- scoes for the Loggia di Amore e Psiche were intended to interact with Peruzzi’s architecture by following Vitruvius’s description of the appropriate scenography for different types of theatrical productions. The next three essays fit together nicely, all dealing with the themes of difficult temperaments, idiosyncratic working practices, and the effect of these unconventionalities on an artist’s pro- duction. Tamara Smithers provides an overview of all the ways Michelangelo “went against the grain” (84), in terms of social norms, workshop practices, and his infamous nonfinito aesthetic, resulting in Michelangelo’s work, like his personality, being described contemporaneously as having terribilità. Tiffanie P. Townsend analyzes sixteenth-century writings that describe the personality of Rosso Fiorentino, noting persistent tropes that characterize both the artist and his work in contradictory terms, as being simultaneously devilish and saintly. The last essay on an early modern topic is Shannon N. Pritchard’s contribution focusing on Caravaggio’s artistic production in Malta, to which he had fled after committing murder. Pritchard concludes that Caravaggio’s portrait of Alof de Wignacourt celebrates the history of the Knights of Malta by counterintuitively breaking with the established conventions previously used to depict the Grand Masters of the order. Italian Bookshelf . 469

The final two essays are focused on modern and postmodern art. Julia C. Fischer contributes a second chapter, this one on Felice Beato, an Italian pho- tographer who lived in Japan in the 1860s and 1870s and created commercially successful albums that selectively depicted the Japanese landscape and people. Fischer describes how Beato satisfied the Western desire for images of a fictional Japan, untouched by modernization and industrialization. Lastly, Christopher Bennett critically assesses the aftereffects of Mario Schifano’s rebellion against the gallery system and his break with the gallerist Illeana Sonnabend. This falling-out precipitated a highly creative phase in Schifano’s career revolving around critical investigations of postwar consumer culture and the legacy of modernist art movements. While the theme of “breaking bad” is apparent in each of these contribu- tions, the essays by Taylor, Smithers, Townsend, Pritchard, and Bennett form the most cohesive group. These chapters all examine artists who defied social norms with their difficult personalities, rebelled against the workshop or gal- lery systems of their day, clashed with patrons, or created unorthodox work. Other essays, such as Fischer’s reinterpretation of the Tazza Farnese, provide looser interpretations of the “breaking bad” theme. While Culotta rightly notes that Peruzzi and Raphael’s collaboration resulted in an innovative building that applied classical theatrical design to a residential structure, is it accurate to say that these architects broke with convention by rigorously following Vitruvian ideas when classicism was the prevailing artistic idiom of early 16th-century ? Fischer’s second contribution, on Felice Beato, draws necessary attention to an unconventional artist and entrepreneur, but the question remains whether Felice Beato was truly going against the grain when he created constructed, romantic views of Japan at a time when photography was rarely purely objective and Western images of the East were consistently infused with Orientalist ste- reotypes. A more robust introduction that critically examined what it means to “break bad” in historically contingent ways may have clarified the connections between these at times disparate essays. One strength of this volume is that it presents Italian art within a broader glo- bal context. Taylor’s essay on funerary goods in Chiusi examines Etruscan art’s place in the larger Mediterranean region, while Fischer’s considers the eclecti- cism of ancient Roman art and the interconnections between Roman, Egyptian, and Hellenistic artistic production in the early imperial period. Pritchard’s and Fischer’s chapters on Caravaggio and Felice Beato focus on Italian artists who spent time outside of Italy, in Malta and Japan respectively, and how travel can lead to unconventional perspectives. Bennett’s contribution contextualizes 470 . ANNALI D’ITALIANISTICA 36 (2018)

Mario Schifano within international postmodernism, while examining the ten- sions between the Italian artist and his Parisian gallery. Breaking with Convention in Italian Art is especially suitable for use in the classroom, providing useful overviews of issues that have great relevance for those new to the discipline of art history. For example, Townsend’s chapter on Rosso Fiorentino provides students with an example of how to critically read sources like Vasari, while Fischer’s essay on Felice Beato introduces the idea that photographs do not objectively record reality. Students would likely be captiva- ted by the unconventional artistic figures introduced to them by the authors of this interesting volume. Rachel Miller, California State University, Sacramento

Paul F. Grendler. The Jesuits and Italian Universities 1548–1773. Washington: The Catholic University of America Press, 2017. Pp. 505. Paul Grendler è uno studioso di grande rilievo e di autentica originalità: da anni e con ripetuti sondaggi ci ha insegnato come si tramandava e come si impartiva il sapere studiando i metodi di insegnamento, l’organizzazione delle scuola e delle università. Il mio primo incontro con i suoi studi non faceva prevedere che il filone principale della sua ricerca sarebbe stata la pedagogia e i suoi metodi e forme. Era un libro sui cosiddetti “poligrafi” del Cinquecento, autori di scritture irregolari e contestatarie (Critics of the Italian World: Anton Francesco Doni, Nicolò Franco & Ortensio Lando, 1969) pubblicato dalla sua alma mater, University of Wisconsin, ed è un libro che si consulta ancora oggi con profitto. In seguito Grendler ha voluto capire cosa determinasse la “regola” dei saperi e delle disci- pline, ed ecco il suo interesse per la scuola, la didattica e la politica dell’insegna- mento. Così sono nati Schooling in Renaissance Italy (1989), Books and Schools in Italian Renaissance (1995), quindi The Universities of the Italian Renaissance (2002) e The University of Mantua, the Gonzaga & the Jesuits, 1584–1630 (2009) il cui tema anticipa quello che il nostro volume poi espande. Si ricordi che tutta questa splendida produzione si incastra con quella parallela in vari volumi sullo studio della censura inquisitoriale in Italia e in Francia, nonché con la direzione della grande impresa da lui ideata, The Renaissance: An Encyclopedia for Students (2004) in 6 volumi, e questo darà l’idea della straordinaria operosità dell’autore. Il libro in esame è fra i più ambiziosi del Grendler perché si propone di coprire a tappeto il quadro di tutte le università italiane nel periodo di oltre due secoli, da quando la Societas Jesus fondò o cercò di fondare la sua prima univer- sità a Messina fino alla soppressione del suo ordine, e di vedere i rapporti che Italian Bookshelf . 471 queste ebbero con i Gesuiti. La pedagogia dei gesuiti è stata studiata intensa- mente sia perché essi portarono ovunque, dalla Cina al Nuovo Mondo, la loro ratio studiorum, creando di fatto una vera respublica literarum mondiale, sia per- ché quella ratio o piano di studi aveva un profilo con una finalità molto diversa da quelle vigenti in istituzioni pubbliche o anche in quelle di altri ordini religiosi come i Teatini e gli Scolopi, dediti anch’essi all’insegnamento. Inoltre la SJ con il suo insegnamento era così presente nella vita pubblica che fu spesso accusata di svolgere ruoli politici che portarono all’espulsione da vari stati e quindi alla soppressione del loro ordine. Per questi e altri motivi la SJ ha prodotto un’im- mensa caterva di studi, e fa piacere notare che il lavoro di Grendler trova il suo spazio originale dedicandosi ad indagare non tanto la natura dell’insegnamento dei gesuiti quanto a capire come cercarono di organizzarlo appoggiandosi alle istituzioni già esistenti o creando le loro in concorrenza di quelle. Per giunta egli limita questo lavoro all’Italia, mettendo a nudo il paradosso che nella terra più vicina al Papa di cui i Gesuiti si proclamavano difensori a oltranza, i loro tentativi di inserirsi nelle università furono spesso osteggiati e intralciati. Il libro si articola in 15 capitoli, il primo dei quali è dedicato alla fondazione dell’ordine concepita dai dieci studenti della Sorbonne nel 1534. È fondamen- tale ricordare l’affiliazione universitaria degli ideatori dell’ordine perché ciò spiega la loro vocazione a vivere come una vera missione la diffusione del sapere “universitario” purché chiaramente schierato con la fede cristiana: erano gli anni in cui scoppiava l’incendio delle riforme protestanti, ed era quindi necessario arginarle. L’ordine, dunque, nacque nel fervore di grandi problemi religiosi e politici, e quindi con una spiccata vocazione didattica e politica. I successivi capitoli sono dedicati allo studio delle sedi universitarie ita- liane in cui i Gesuiti cercarono di inserirsi o di crearle ex novo. Queste sedi sono esaminate singolarmente e seguendo l’ordine cronologico di tali tenta- tivi. Cominciando da Messina si esaminano Catania, Padova, Parma, Mantova, Fermo-Macerata, Palermo-Chambéry, Bologna, Roma, Perugia, Ferrara-Pavia- Siena. Una storia che noi immagineremmo uniforme e omogenea, ma in realtà risulta molto diversificata come del resto era la situazione geo-politica della penisola, frammentata in stati retti in modo diverso e aventi tradizioni culturali tanto diverse quanto potevano esserlo quelle fra la Sicilia e Venezia. La rico- struzione di Grendler segue dunque lo schema di questa situazione variegata, facendo notare che esiste un carattere comune che rende la vicenda dei Gesuiti in Italia diversa da quella che gli stessi ebbero in Germania o in altre nazioni. Così, ad esempio, la situazione di Messina sarà diversa da quella di Padova, per- ché la cittadina siciliana era la prima sede in assoluto in cui la SJ cercò di fondare 472 . ANNALI D’ITALIANISTICA 36 (2018) un’università dove non avrebbe avuto concorrenza con altre istituzioni, mentre Padova, governata da Venezia, aveva un’università di tradizioni antiche; inoltre la Sicilia aveva un governatore spagnolo mentre Venezia era un’avversaria politica della Spagna alla quale venivano associati i padri gesuiti per cui quando venne l’Interdetto nel 1606 i Gesuiti furono espulsi dalla Repubblica. Così a Roma, dove aveva sede il poderoso Collegio dei Gesuiti, le cose andarono diversamente da come andarono a Ferrara che pure alla fine del Cinquecento tornò a far parte dello Stato pontificio; per altro è vero che per necessità contingenti l’ateneo ferrarese creò la cattedra di matematica con lo scopo di “controllare le acque”, cioè arginare il Po e bonificare le aree di Comacchio, e la assegnò ai Gesuiti. Grendler costruisce tutte queste storie locali con dovizia di documenti spesso d’archivio, e con una narrativa asciutta ma lucida e con notevoli punte di umore, quando, per esempio, riporta dati da cui risulta che all’università di Fermo, una delle poche fondate dai Gesuiti, si poteva conseguire un dottorato a dieci anni se si era figli di alte famiglie polacche, o due dottorati in due giorni diversi della stessa settimana. I Gesuiti avevano i loro istituti scolastici ed erano comparabili a quelli che oggi chiameremmo “colleges” diversi dalle università vere e proprie, ma insegnavano le stesse materie, inclusa legge e medicina, e davano titoli che facevano concorrenza alle università. E mentre le istituzioni civili erano sovven- zionate dai governi locali, gli istituti gesuiti erano sovvenzionati dalle tasse degli iscritti e da donazioni. Comunque la loro costante intenzione di entrare alle uni- versità rispondeva al programma o missione di portarvi un insegnamento che fosse il più compatibile con il credo cristiano. Tuttavia da una situazione così diversificata emerge anche chiara la diffusa ostilità delle università verso i gesuiti perché il corpo docente laico era molto geloso dei propri diritti corporativi e molto ligio a tradizioni culturali inveterate, per cui non era propenso ad acco- gliere insegnanti senza tradizione e con lealtà confessionali incompatibili con il suo laicismo. E c’erano anche vari problemi di fondo che riguardavano la didattica stessa. Ad essi Grendler dedica la parte finale del libro, tracciando in modo lucido e con mirabile capacità di sintesi le linee principali di divergenza fra la pedagogia laica e quella dei Gesuiti. A parte i metodi puramente didattici (uso di sommari anziché lettura diretta dei testi, dettatura di appunti e tecniche didattiche simili adottate dai Gesuiti e detestate dai docenti universitari) Grendler vede le diver- genze principali nel modo di insegnare Aristotele. I gesuiti erano tenacemente legati all’interpretazione di S. Tommaso, mentre gli insegnanti laici, figli della filologia umanistica, si rifacevano agli originali di Aristotele e li leggevano con il sussidio degli interpreti antichi. Quindi mentre era possibile che gli interpreti Italian Bookshelf . 473 laici arrivassero ad accettare la versione avverroistica circa la mortalità dell’a- nima (lo prova il grande dibattito su Pomponazzi), i Gesuiti rimanevano strenui difensori dell’interpretazione tomistica, che sosteneva l’unità dell’intelletto e quindi la sua immortalità. Il dibattito aveva implicazioni dottrinali notevoli e per questo la battaglia fu combattuta con intensità. In un solo campo i gesuiti ebbero praticamente l’esclusiva, ed era la “casi- stica” o la disciplina che studia i casi di coscienza. Il “casus” nel campo del diritto è un evento particolare al quale si deve applicare la legge, ed è normalmente un caso di dubbia soluzione. Grendler non entra nei dettagli di questa “disciplina” che suscitò il sarcasmo di Pascal e che secondo alcuni storici lasciò impronte profonde nella morale barocca. Grendler non si sofferma su fatti noti, ma ci fa vedere invece come e in che misura questa disciplina venisse insegnata e come, aperta al pubblico, poteva eventualmente aver esercitato quell’influenza che si diceva. È ammirevole che con tanto materiale da discutere Grendler si attenga al suo progetto di fondo che è quello di vedere i rapporti fra la SJ e le università italiane. Non entra, per esempio, nel merito del canone dei classici o negli studi di retorica che contribuì a formare generazioni di italiani; e non lo fa perché sono temi spesso studiati. Grendler procede marte suo, affrontando una materia mai prima trattata in modo così sistematico e con tanta meticolosità. In questo si mostra stupendo storico, di alta filologia e soprattutto di un equilibrio veramente ammirevole perché, quando si parla dei Gesuiti, si tende ad essere parziali, pronti a riconoscerli come gli educatori di interi quadri intellettuali (secondo alcuni avrebbero creato il tipo dell’intellettuale moderno che “strumentalizza” la cul- tura) e secondo altri sarebbero i responsabili maggiori della mentalità lassista e propensa al compromesso che caratterizzerebbe le culture in cui essi furono veramente attivi. Libri come questi di Grendler sono altamente meritori perché illuminano oceani senza inquinarne le acque. Paolo Cherchi, University of Chicago

Hermann W. Haller. Tutti in America. Le guide per gli emigrati italiani nel periodo del grande esodo. Firenze: Franco Cesati Editore, 2017. Pp. 338. A pochi decenni dall’Unità d’Italia migliaia di italiani, “spinti dalla fame e moti- vati dalle storie mitiche giunte alle loro famiglie” (21), partirono alla volta delle Americhe alla ricerca di un futuro migliore. Si trattò di un esodo che toccò tutte le regioni italiane. Tra il 1876 e il 1900 interessò prevalentemente le regioni set- tentrionali, nei due decenni successivi il primato migratorio passò alle regioni 474 . ANNALI D’ITALIANISTICA 36 (2018) meridionali. Crescendo l’interesse per le Americhe in questi anni, aumentano anche volantini, agenti e procacciatori di manodopera che spesso promette- vano un paradiso di delizie e di abbondanza. In questa giungla di informazioni incerte, numerose associazioni ed enti benefici vennero in aiuto dei connazio- nali in cerca di fortuna scrivendo una serie di guide e avvertenze. Le guide e le avvertenze​ — ​le prime più ricercate e più ricche, piccoli opuscoli di poche pagine le seconde​ — ​davano istruzioni riguardanti la pianificazione del viaggio, offrivano all’emigrante che voleva partire alla volta delle Americhe informazioni geografiche, chiarimenti sulle leggi vigenti, consigli pratici e ragguagli sul come destreggiarsi nel paese d’arrivo. Hermann W. Haller, professore di Italiano al Queens College e rinomato studioso di problemi linguistici dell’emigrazione italiana, in Tutti in America. Le guide per gli emigrati italiani nel periodo del grande esodo, analizza le guide e avvertenze per gli emigrati italiani pubblicate tra il 1880 e il 1920, il periodo dell’esodo di massa in cui si verifica un incremento della produzione di queste guide, con un breve accenno ad altre pubblicate durante il ventennio fascista. Quello di Haller è un lavoro pionieristico in un campo che ancora ha molto da offrire. Questo interessantissimo volume, infatti, è il primo che raccoglie le “guide elaborate per gli emigranti italiani durante il periodo del grande esodo” e ne da una lettura critica e didascalica. Privilegiando aspetti socioculturali e lin- guistici, l’analisi dell’autore è mirata a un confronto dei contenuti delle guide che riflettono i diversi problemi affrontati dagli emigranti prima della partenza e il loro ambientarsi in un paese straniero. Il libro è suddiviso in due parti. Nella parte introdutiva l’autore introduce le varie guide e avvertenze – dando però più enfasi alle guide – e le analizza linguisticamente. La seconda parte è dedicata all’antologia dei testi e qui sono contenute 15 delle guide più conosciute, sud- divise in guide generali, guide amministrative e guide per paese da raggiungere. Il volume apre con una una ricca introduzione, in cui l’autore fa un excursus della storia sociopolitica dell’Italia di quel periodo e analizza alcuni dati statistici sull’emigrazione italiana nei vari paesi del Nord e del Sud America per poi con- centrarsi sulla categorizazzione delle guide. Attraverso una stimolante lettura dei testi, Haller esamina la classe sociale e il livello culturale dell’Italia che si preparava a partire verso mondi lontani. Di particolare interesse, a questo pro- posito, è l’analisi del lessico in cui viene riflessa la competenza linguistica di chi compilava le guide e l’alfabetizzazione dei loro destinatari. A questo riguardo, Haller fa notare come ci sia una differenza glottologica tra le guide dedicate al nord America e quelle rivolte a chi emigrava in sud America. Le guide per gli Stati Uniti e il Canada sembrano essere intese per un pubblico poco istruito. La Italian Bookshelf . 475 lingua usata in queste guide, infatti, è spesso neutra e impersonale, la sintassi generalmente è lineare e ci sono pochi costrutti complessi. Tra le tante Haller cita la guida di Enrico Bianchi, Piccola guida dell’emigrante italiano diretto negli Stati Uniti ed il Canadà (1922), l’unica della rassegna che “raccomanda lo stu- dio dell’inglese [. . .] e fa riferimenti alla lingua e ai dialetti italiani” (36). Le guide per il sud America invece spesso fanno riferimento all’importanza di apprendere la lingua spagnola o portoghese e “sembrano scritte più per coloni colti che per l’operario medio, costretto a cercare lavoro fuori dall’Italia” (41). L’autore fa notare, infatti, che per il livello linguistico e testuale queste guide sembrano “dirette piu agli emigrati provenienti da regioni centro-settentrionali con discretti tassi di alfabetizzazione” (41). Sono in generale guide più curate e di uno stile più elevato, tanto che Il Manuale dello emigrante italiano all’Argentina (1909) di Arrigo De Zettiry viene indicato da Haller come la guida modello in quanto adopera una lingua conversazionale media e lascia trasparire la parteci- pazione umana e l’ottimismo dell’autore nei confronti dell’emigrante. Come osserva Haller, in generale le guide sono lo specchio di una emigra- zione in realtà organizzata, mostrando anche l’interesse reale dell’Italia per la tutela dei suoi emigranti diretti nei vari continenti. Tutte le guide hanno a cuore, in un modo o in un altro, il rafforzamento dell’italianità promuovendo l’italo- fonia, richiamando agli emigranti i doveri verso il mondo lasciato alle spalle, esortandoli al mantenimento delle pratiche religiose, dei legami con la famiglia, dell’amor di patria. La raccolta antologica di Haller è un contributo entusiasmante per gli studi sull’emigrazione italiana oltre Atlantico: una sintesi pionieristica che ha il merito di presentare chiaramente i problemi degli emigrati prima, durante e dopo la partenza. Nel complesso il libro è un’ottima introduzione all’argomento e ispi- rerà sicuramente nuove ricerche su questo tema. Cinzia Marongiu, PhD Candidate, Johannes Gutenberg Universität, Mainz

Christina Höfferer. A Literary Journey to Rome: From the Sweet Life to the Great Beauty. Newcastle upon Tyne: Cambridge Scholars Publishing, 2017. Pp. 115. A Literary Journey to Rome: From the Sweet Life to the Great Beauty is a collection of 22 short chapters, each introducing a landmark, an iconic personality or an aspect of culture that characterises the city of Rome from a different angle. The briefness of the sections and the lack of an introduction to the book may leave the reader initially confused, as there is an apparent disconnect between 476 . ANNALI D’ITALIANISTICA 36 (2018) many of the sections. Höfferer gives the reader 22 samples that together create a picture of an alternative Rome, where time, extending over all the city, seems to move at a different pace, slower, heavier but more serene. Here, both famous and unknown areas of the city emerge through iconic figures, and emerging and established artists, who bring together all crucial aspects of Italian culture, often through a modern lens or through a rediscovery of the past. In exploring the links between the chapters, it is possible to identify some thematic macrosections revolving around food, art, landmarks, politics and international personalities. However, these umbrellas are vaguely presented and are more likely inferred by the reader rather than intended by the author. Additionally, any effort to identify overarching themes only diverts from the most apparent intent in offering a centripetal portrait of Rome, combining the perspectives of the foreigner, the local, the flâneur, and Rome’s fictional characters. Conversations with ordinary Roman citizens and scholars are scattered throughout the narrative in an almost casual fashion, as they fall quite abruptly in the middle of sections without any contextualisation. Yet, as the title proposes to read this work as a trip to Rome, the interviews and dialogues are best read as first-hand testimony of this journey, getting to know the people at the heart of the city. This idea is underlined by the chapter exploring Rome from the back of a Vespa, as even the smallest details help define the culture of the city and the country. The dialogues, especially those with scholars, can also be read as a manual, outlining how to see Rome from the perspective of a researcher, offe- ring the reader cultural insights into the city and ideas for projects or further research. Although the title initially suggests a literary focus, the reader can imme- diately see how the leading theme, besides Rome itself, is a more encompassing idea of culture, from the traditional forms of art, often reinterpreted in a contem- porary approach, to the more modern cultural trends, such as food. Rome is pre- sented as the melting pot of these cultural manifestations. Its depiction amply fulfils its role as the capital and symbol of the country, but also as the eternal city adapting to modern times and needs. The sections dedicated to famous foreign personalities such as Ingeborg Bachmann and John Keats underline the fascination that the city has inspired in foreigners, artists and intellectuals, both in the present and the past. Further, these passages reveal a Rome, unknown to most readers, comprised of extra- vagant buildings, hidden museums and secret palaces often unseen and undi- scovered by tourists or even by the very inhabitants of the city. Interestingly, in Italian Bookshelf . 477 contrast with the renowned mythical Vatican archives, these places form the real secret spaces of Rome. While iconic figures or businesses are often used to highlight a corner of the city, the section on Ponte Milvio stands out because, in a sort of reversed effect, the iconic Roman bridge becomes a background to frame glimpses of everyday life. Presented as a crossroad where history, legend and culture meet, the bridge and its sketches of daily life present the reader with that sense of eternity and inner peace that initially could contrast with the traditional images of a chaotic and busy Rome, but that nevertheless represent the cocooning effect of the pas- sing centuries that makes of Rome an eternal city. In addition to providing a journey through the hidden parts of the city, Höfferer offers a rediscovery of the concept of Roma caput mundi, Rome as a converging point where fictional characters, historical figures, actors, film makers, politicians, artists and the common people coexist, whose hidden and forbidden secrets make up the identity and the allure of the city. The work might best be categorised as “experimental,” a cultural stream of consciousness, presenting the reader with a collage of views and voices. It lacks a typical structure, which makes categorising or framing the collection more demanding. With this in mind, it is important that the reader have a good under- standing as to what the book is not. It is not an in-depth analysis of Rome, nor is it a collection of comprehensive studies of Rome-specific topics. It is not strictly an academic piece, and the short chapters are unlikely to serve as detailed points of reference for further scholarly study. Nevertheless, the work provides an inte- resting contribution for scholars and Romaphiles alike, as it explores different perspectives and aspects of Rome, often those lesser known, and it connects various themes, offering interdisciplinary pathways for researchers. Some of the chapters are immediately engaging, leaving the reader wanting to know more and ready for further research. This style is both a key aspect of the work, and a major limitation as the sections lack thorough analysis, providing a taste where perhaps a degustation would be more desirable. Although the title implies a narrower focus on literature and cinema, Höfferer’s work provides a rounded cultural portrait of Rome, with numerous causes for reflexion on the status of the arts and cultural discourse in the capital and in Italy itself. The work would appeal most to a readership with a keen inte- rest in culture, cinema, architecture, or Italy itself. While scholars may find the work appealing in developing ideas for further research, the casual reader will also find plenty to enjoy. Michela Barisonzi, Monash University 478 . ANNALI D’ITALIANISTICA 36 (2018)

Serenella Iovino, Enrico Cesaretti, and Elena Past, eds, Italy and the Environmental Humanities: Landscapes, Natures, Ecologies. Charlottesville (VA): University of Virginia Press, 2018. Pp. 266. The twenty-two essays in Italy and the Environmental Humanities: Landscapes, Natures, Ecologies​ — ​twenty-four, counting the introduction and afterword​ — ​ comprise a work intended to serve two purposes: the book offers a panoply of current activity in Italy and Italian Studies that could fit broadly under the rubric of Environmental Humanities, and it is also an overt gesture, with pronounced sociopolitical intentions, to advance and direct the discovery of “new figurations for the humanities” (the phrase is cited twice in the introduction, at pp. 2 and 12). If the latter goal sounds utopian, it should, for the book’s editors propose nothing less than a posthuman conception of life, “an attempt to move beyond human-centered individualism and universality” (3). In composing this col- lection, the authors explain, they have obeyed a “subversive call” for “the joyful advent of a long-awaited revolution” (2). For these scholars, the environmental humanities “embody a discourse of liberation” (4), one which will “expose a continuity of the organic and the inorganic, of bodies and things, of beings and objects” (218). Given the limited size of the volume (245 pages of text), each article is necessarily brief, averaging about 10 pages including notes. The contributions are extremely diverse in subject matter, method, and scope, ranging from analy- ses of ecological themes in the work of a writer or filmmaker (i.e., the articles by Barron, Benvegnù, Gilebbi, Iovino, Berberi, Ferrando, Past), to personal accounts of many kinds (Marchesini, Farina, Hajek, Armiero, Seger, Moro, Fratus), to analyses of specific cases (Hall, Bugnone), to an interview with Slow Food Movement founder, Carlo Petrini (Tabusso Marcyan). The book hosts literary scholars, ecologists, an animal ethicist, a “treeographer,” a “placeologist,” an art curator, an environmental historian, an art historian, a posthuman philo- sopher/zoologist, and a bioeconomist. A particularly laudable aspect of the col- lection is the diversity of voices: one contributor is still a graduate student, while another is director of the Environmental Humanities Lab at the Royal Institute of Technology, Stockholm. This kaleidoscopic variety of approach is very much to the purpose of a book characterized by lively, insistent parataxis, as typified by this statement in the introduction: “In short, the stories we record are stories of life forms and signs, justice and violence, food and places, uncertain borders and oil, dissident communities and interspecies dialogues, poetry and slaughterhou- ses, industry and art, sea and roots” (8–9). Rather than attempting to circum- scribe the Environmental Humanities in Italy, the book displays an all-inclusive Italian Bookshelf . 479

“transdisciplinary exuberance” (242), featuring a proliferation of newly or recently invented fields and newly minted terminology. We encounter, for exam- ple, ecoacoustics (29), zooanthropology (61), zootrophy (62), eco-narratology (185), rarefaction (204), dendrophony, dendrosophy (237–80), and more. The editors were initially inspired, they explain, by philosopher Rosa Braidotti’s keynote lecture at the 2014 American Association for Italian Studies conference in Zurich, where she admonished listeners to leave behind, “the safety zones in which anthropocentrism, Eurocentrism, sexism, speciesism, ableism, constitute the normal discourse of our cultural paradigms” (2). Having fully responded to Braidotti’s call, it is surprising that the editors close their introduction by speaking of the “modest ambition of this book” (11), when they have just declared a project to revolutionize the human relationship with the world. Modesty, rather, is the aesthetic principle that grounds many of the con- tributions. The first of these, by Patrick Barron, quite appropriately centers on the key figure of , whose work, manifested in books, film projects, and other initiatives, took the form of a “journey into the ordinary” (23), ever-attentive to “the eloquence of silence” (21​ — ​this last a citation of Rebecca West). The impulse to shift focus from the grand to the minor, with the term “minor” intended in a radically Franciscan sense as “the very stuff of life” (25), is a unifying constant of the volume: Damiano Benvegnù explores poet Andrea Zanzotto’s “vernacular landscape” (42) as expressed in his evocation of bird- song as dialect; Serenella Iovino identifies “new life, abnormal and graceless” (72) in the early work of ; and Viktor Berberi, reversing Pasolini’s famous lament of their disappearance, discovers that fireflies have returned to the forests of Calabria (84). In a kind of fragment of memoir, “placeologist” Franco Arminio describes his lifelong dedication to “the places that have never been filled, the places that didn’t interest anybody, the poor, the impervious, the remote” (110). Luca Bugnone insists that positive change will come “only if we slow down, remain silent and humble, and let our matter, too, be carved softly by the waves of liberation breaking on the mountain cliffs” (137). As might be imagined from such statements, Italy and the Environmental Humanities unashamedly wears its heart on its sleeve. The reader inclined toward skepticism will find numerous claims to quibble with, and by the same token readers seeking to embrace a movement will find much to embrace. Andrea Hajek recounts two bottom-up efforts to recompose communities broken by the 2012 Emilia-Romagna earthquake, activist alternatives to the infamous government response to the Aquila earthquake of 2009. Marco Moro tells the story of Verdenero, a consciousness-raising editorial project that invited writers 480 . ANNALI D’ITALIANISTICA 36 (2018) to compose noir novels centered on environmental themes. The fact that both these projects were only partially successful takes nothing away from their value as models to inspire further efforts. A particularly vivid demonstration of what a posthuman worldview might entail in practice is Marcus Hall’s article, “Thinking Like a Parasite: Malaria, Plasmodium, and Sardinia’s Extraordinary Longevity.” It begins by speculating as to whether there could be some hidden connection in the apparent contradiction between the exceptional average longevity of Sardinians and the fact that the population was terribly afflicted by malaria for centuries, before the US-driven campaign to wipe the island clean of mosquitoes by massive spraying of DDT, undertaken at the outset of the Cold War. The story of this campaign is itself rich with environmental ambiguities, but the most provocative aspect of Hall’s account is that he casts plasmodium, the protozoan that causes malaria, as the protagonist of his tale, relegating humanity to a supporting role, both victim and beneficiary of the drives of the lead character. As “walking bund- les of parasites and symbionts” (124), human beings, in Hall’s portrayal, can “be viewed primarily as a repository of reproducing, interacting, symbiotic creatures” (125). It is they who really make history, he suggests, not us. This book is an essential volume both for scholars in Environmental Humanities and for anyone interested in current (& future) trends in Italian Studies. Thomas Simpson, Northwestern University

Samuele F. S. Pardini. In the Name of the Mother: Italian Americans, African Americans, & Modernity, from Booker T. Washington to Bruce Springsteen. Hanover: Dartmouth College Press, 2017. Pp. 280. “I am going to start with a personal story that frames the larger one I tell in this book” (1). In addition to being In the Name of the Mother’s opening statement, this sentence is also an apt description of the book’s mission. From the tableau of Pardini’s verbal exchange with a young African American man’s request to borrow a pen in a Buffalo, New York, library that becomes a pithy discussion of racial identity, In the Name of the Mother is notable in its painstaking attention to detail. It investigates assiduously “the investment of black male writers in Italian Americans [. . .] and their response to [. . .] the everyday life [and] ways of being that the Italian immigrants brought with them from Central and South Italy” (3). From Western New York to Southern Italy, In the Name of the Mother blazes a new trail in Italian American studies and the humanities, where the intellectual Italian Bookshelf . 481 and artistic vistas are extraordinary, and modernity is the GPS that enables the reader to navigate his or her way through its intertextual terrains. In another writer’s hands, such material could easily overwhelm his or her ambitions. In Pardini’s, an eclectic list of African American and Italian American artists is drawn upon and connected with a singular dexterity, a list that includes the likes of Don DeLillo, Frank Lentricchia, Jerre Mangione, James Baldwin, Booker T. Washington, James Weldon Johnson, Emanuele Crialese, Francis Ford Coppola, and Martin Scorsese, among many others. Pardini’s investigation of Washington’s work is particularly keen, noting that “Washington deems it pos- sible to establish a unifying synthesis of the differences that distinguished the European and Mediterranean laboring classes that were migrating to America [. . .], a connection whose defining moment occurs when he reaches Southern Italy and the connection becomes the beginning of a discursive and historical investment of black American Writers in Italian Americans” (27). In so doing, the larger story that Pardini tells in In the Name of the Mother is one of “geographical displacement [. . .] a step toward a transitional normati- vity” (128). As a result, Pardini not only provides the reader with unique lenses through which to view Italian American and African American literature; he also makes it possible for readers to look at their own lives through heralded films and television series such as The Godfather and The Sopranos in new ways. Thus, the notion of the “modernity of twentieth century patriarchy” (128) is made accessible to academic and non-academic audiences alike. This notion is also significant given the American cultural moment when In the Name of the Mother has been published, when Black Lives Matter has gained momentum across ethnic groups, and when American politicians of Italian descent such as Nancy Pelosi have spoken of the veneration in which they hold motherhood and Italian American family values in their campaign and victory speeches. As Pardini posits, “No trope in modern American literature embodies womanhood as subversively as the Italian American woman and mother” (128). As timely as Pardini’s findings are, they are also prescient via his utilization of advocacy moments by musicians and performers such as Clarence “The Big Man” Clemons, Sammy Davis Junior, Frank Sinatra, and Bruce “The Boss” Springsteen. One example of this utilization is found in his discussion of Sinatra, where Ol’ Blue Eyes’ sense of (in)justice is as palpable as it is fervent: “The next time you hear anyone say there’s no room in this country for foreigners, tell him you’ve got a big piece of news for him: tell him that everybody in the is a foreigner. And that includes the American Indian, who originally came here from somewhere else” (224). 482 . ANNALI D’ITALIANISTICA 36 (2018)

Given that the book was released before the current state of affairs in the US, when migrant children have been separated from their parents and thrown into concentration camps throughout the country, In the Name of the Mother is an opportune read. As appealing as Pardini’s study is to scholars, critics, and writers, it also piques the interest of activists and encourages further discussion. In fact, it enables the reader to see accomplished artists and performers such as Sinatra in a new light, in ways that bring the reader to the old world and back into the modern world with the power, pride, passion of a Boss guitar riff, and the sonorous resonance of one of The Big Man’s sax solos. Just as the release of Born to Run was a water-shed moment in the history of popular music and The Boss’s career, the same can be said about In the Name of the Mother in the field of Italian American studies. Not only does it expand on the germinal works of Robert Orsi and Fred Gardaphé, it has the added virtue of bridging the gap between artistic and academic disciplines with an adroit and winning combination of intelligence, eloquence, empathy, understanding, and purpose, all the while staying woke. In the Name of the Mother is, to paraphrase a statement The Boss made about The Big Man, one of the biggest, most impor- tant, and innovative books of modernity or cultural studies you will ever expe- rience. Tramps like us, this book was born to run. Joey Nicoletti, SUNY Buffalo State College

Mario Perniola. Estetica italiana contemporanea. Trentadue autori che hanno fatto la storia degli ultimi cinquant’anni. Milano: Bompiani, 2017. Pp. 272. Published a few months before his death in 2018, Mario Perniola’s Estetica italiana contemporanea. Trentadue autori che hanno fatto la storia degli ultimi cinquant’anni represents an ideal compendium of the author’s previous work, L’estetica contemporanea (Il Mulino, 2011), and provides an illuminating histo- rical and intellectual panorama of the main currents of Italian aesthetics in the last 50 years. Of the 32 thinkers Perniola studies in the book, several stand out. Not all of them are philosophers, as Perniola believed that the new frontier for aesthetics was beyond the boundaries of academia, where it might express an “inconscio politico di una società” (7). According to Perniola, in Italy the figures of Croce and Gentile dominate the early stages of this branch of phi- losophy, first established in modern terms by Kant’s Critique of Judgment in 1790. With these thinkers as a foundation, he traces out the series of theoretical moves to come, beginning with Gramsci, whose Hegelian and Marxist dialectic would challenge Croce and Gentile and impose itself as a fundamental point of Italian Bookshelf . 483 reference for thinkers to come. In opposition to Gramsci’s dialectical system of thought, the aesthetic theory of Luigi Pareyson would play a key role in Gianni Vattimo’s and Umberto Eco’s early works. While Gramsci makes conflict and contradiction the motors of social progress, Pareyson looks to Goethe’s and Schelling’s aesthetic organicism, based on vital opposition without resolution. Unable to answer the questions raised by the social and cultural unrest of the 1960s, however, Gramsci and Pareyson lose their appeal, leaving a vacuum that would be filled by a new generation of aesthetic thinkers (“estetici”). In these years, Perniola states: “L’estetica italiana contemporanea, vista da un punto di vista speculativo, nasce negli anni sessanta del Novecento, proprio quando l’i- dealismo viene abbandonato e irrompe l’esigenza di pensare gli opposti in altri modi” (10). Many illustrious names with as many relevant works occupy this rich intellectual arena, but they are all ascribable to six main “linee speculative fondamentali, che costituiscono altrettante risposte al problema degli opposti” (10): beauty, which resolves the dualism of opposed categories by harmonizing them, irony, the sublime, the tragic, refinement, and acuteness. Perniola examines the philosophers of harmony in his first chapter: Remo Bodei, Massimo Cacciari, and Massimo Donà. While Bodei views, in the perfect identification of beauty and its antithesis, the solution to the dialectic opposi- tion of categories, Cacciari centers his thought on the Angel as a harmonic figure who represents “l’irruzione della libertà in un mondo smembrato e sconnesso” (21). In Donà’s aesthetic theory we witness a legitimization of aporia as a plausi- ble answer to the question of irreconcilable antithetical categories. In the second chapter, Perniola discusses Umberto Eco and Gianni Vattimo, who deconstruct Pareyson’s organicism by elaborating a theory where the pro- blematization and relativization of opposed concepts​ — ​more than their conci- liation​ — ​mirrors the complexity of the modern world. Both philosophers adopt irony to overcome the ancient “conflitto estetico” (41). In Eco, irony does not mean comic alone, but rather alludes to the perpetual oscillation of comic and tragic, which creates a fuzzy aesthetic where one term is often confused with the other. Vattimo’s irony is seen in the masking and dissimulation of the real essence of his thought, so much so that “il mascheramento aperto tipico dell’iro- nia non costituisce tanto il terma quanto il metodo della sua opera” (46). In his third chapter, Perniola examines the philosophical concept of the sublime, which has been subject to both an ancient and a modern theorization. The latter was the “forma letteraria che esprime affetti vari,” while the former is “il sentimento provato dinanzi a qualcosa di sproporzionato rispetto alle nostre facoltà sensibili e che costituisce una minaccia alla nostra incolumità” (65). 484 . ANNALI D’ITALIANISTICA 36 (2018)

Here, the thoughts of Giorgio Colli, Aldo Gargani, and Andrea Emo stand out. For these thinkers the sublime is an “esperienza di totale annientamento” (66), and radicalizes the feeling of terror given mostly by the polarization of extremes, which renders reality impossible to grasp or only understandable in the light of death and nothingness. Colli claims that the depth of reality can only be grasped fleetingly in antiquity and its founding myths; reality is just the “espressione di qualcosa di enigmatico” (78). Gargani entrusts the arts with a faded and incom- plete access to reality, which is ultimately “illimitata, sconfinata, imprevedibile e incalcolabile” (100). Lastly, Emo views death and nothingness, mediated through a solipsistic philosophy, as the only meaningful experience of the real world. Perniola writes that this view of nothingness as the sole reality is the result of the “rottura con la forma tipica del Rinascimento e nell’avere visto l’essenza dell’arte nella produzione di immagini che contengono in se stesse gli elementi della propria negazione” (116). In the fourth chapter, devoted to the aesthetic of the tragic in Italy, Perniola studies his mentor Pareyson, particularly his take on the human being as the awakener of evil that resides dormant in God. In the same chapter, Perniola also expounds the aesthetic of Guido Ceronetti, who, more than other Italian thin- kers, seems indebted to Pirandello. According to Ceronetti, the tragic expresses itself in the “marionette,” which is the “emblema della libertà negata all’uomo” (167). All the thinkers studied in this chapter re-elaborate the category of the tragic, no longer interpreted as a creation originating from the dialectic struggle of opposites. In the fifth chapter, dedicated to refinement and witticism, Cristina Campo and Italo Calvino are most representative. Although she remains faithful to Castiglione’s definition of sprezzatura, Campo sees it also as a defensive stra- tegy against political power and the society of the mass media, or as a religious experience because “la sprezzatura [. . .] è forse più di un passo al di qua della religione pura, di cui resta, in ogni caso, il più fine equivalente umano” (174). For Perniola, “leggerezza” and “arguzia” are the two defining stylistic features of Calvino’s poetics, especially in Lezioni americane, and he notes that “l’arguzia si affida a quei pochi che la sanno cogliere e ridono” (188). Perniola’s final chapter reveals the originality of perhaps one of the most powerful contributors to the discipline of aesthetics, Gianni Carchia, whose revival of stoicism was fundamental in attributing to art the same value as ethics. In this sense, the philosophy of Carchia is not so much concerned with the phi- losophy of art as with the potential of philosophy to become an art form, a free and autonomous choice distant from the world of academia and its credentials. Italian Bookshelf . 485

With his analysis of multiple thinkers who do not have degrees or have academic posts, Perniola himself embraced this position. Accessible to a broad audience thanks to its clear prose, Estetica italiana con- temporanea is an important tool for academics and students who seek insight into the role of art in understanding and influencing society. Sergio Ferrarese, The College of William and Mary

Ilario Quirino. Dove l’acqua del Tevere s’insala: analisi sul sacrificio di Pier Paolo Pasolini. Cosenza: Edizione Alimena Orizzonti Meridionali, 2016. Pp. 189. Had he died in his bed, Pier Paolo Pasolini would still have been the subject of posthumous attention: he was a brilliant and controversial public intellectual as well as a significant creative talent of the postwar generation. The shock of his sordid murder was bound to magnify both public and critical attention, and the official version –– that a young male prostitute picked up at Termini Station beat him to death –– could only seem inadequate. As the decades have passed since the night of November 1, 1975, the death of Pasolini has continued to provoke speculation. And indeed, late in life Pasolini’s presumed killer, Giuseppe Pelosi, recanted and invoked mysterious, menacing others as those responsible for Pasolini’s death. Forensic evidence has now confirmed the presence of people beyond Pelosi and Pasolini at the murder scene. Ilario Quirino’s recent contribution to the Pasolini industry is a complement to and a continuation of his earlier book, Pasolini sulla strada di Tarso (1999). This work begins with the place of Pasolini’s death –– Ostia –– described in a canto of Dante’s Purgatorio as the place where the water of the Tiber becomes salty. The first chapter is a detailed treatment of Ostia, a 1970 movie directed by Sergio Citti, with a screenplay on which Pasolini and Citti collaborated. We are invited to consider interrelationships among three sets of brothers: those in the film, Bandiera and Rabbino; Pasolini’s friends and film associates, Franco and Sergio Citti; and Pasolini and his deceased younger brother, Guido. Because film is a visual medium, a screenplay is always reductive, and this one, as recounted by Quirino, seems bizarre. In his thoughtful analysis, however, the story, set in a place “nota sin dall’antichità come spazio sacrificale e di redenzione,” has many dimensions of meaning, including foreshadowing the location of Pasolini’s own death (45). This is not as fantastic as it might first appear since the squalid field where Pasolini drove with Pelosi was close to where Ostia was filmed five years earlier. 486 . ANNALI D’ITALIANISTICA 36 (2018)

The second Pasolini text that Quirino analyzes in detail is the screenplay for a film about Saint Paul that was never made. (Instead, when funding for that project fell through, Pasolini made his final film, Salò: i 120 giorni di Sodoma.) He intended to tell Paul’s story in modern settings, beginning with German- occupied , called “Numanzia,” where a young partisan-martyr takes the place of the early Christian martyr, Stephen. For Quirino, the central emotional drama of Pasolini’s life was the death of Guido as a partisan, an event that finds its way into much of his work. Like all such survivors, Pasolini felt guilty about his brother’s death, a death that fit neatly into archetypal patterns of sibling rivalry. The youthful Guido died –– like the Christian martyr Stephen –– for a cause, while his brother went on to great worldly success and complete possession of their beloved mother. A man as sen- sitive and creative as Pasolini would inevitably have pondered their respective fates and his own perceived complicity in Guido’s fate. In Quirino’s eyes Saint Paul, torn between his proselytizing mission and his desired union with God, is a perfect vehicle for Pasolini’s own anguish. Guided by this principle, Quirino both summarizes the screenplay extensively and quotes from it generously. A piquant detail is the director’s desire to film the last scene, the death of Paul, at the very motel where Martin Luther King, Jr., was murdered. In a new chapter Quirino elaborates on King’s obvious appeal for Pasolini as a figure who embodied the Pauline dichotomy. King believed in addressing social issues, especially but not exclusively civil rights for black Americans. He was still focu- sed on these issues in his final speech, but its conclusion, which Quirino quotes, turns from those earthly concerns to emphasize union with God. “I’ve been to the mountaintop,” he tells his audience, and as a result, he has moved beyond earthly fears. The first line of the “Battle Hymn of the Republic”​ — ​“mine eyes have seen the glory of the coming of the Lord”​ — ​was King’s last publicly spoken utterance (154). It suggests that like Saint Paul he was ready for the martyrdom that followed. King thus became for Pasolini the perfect contemporary repre- sentative of Paul. Significantly, he was shot in the back of the neck, still another reminder of the death of Guido Pasolini. Quirino’s final chapter describes a work called Porno-Theo-Kolossal that exists only in a seventy-five page treatment. Once again, the detailed summary he provides creates a more fantastic vision than a film version would have pro- duced, but Quirino is undoubtedly correct in seeing it as further evidence of Pasolini’s recurring preoccupations with Fascism and religion. However, it is less persuasive that the collective death of the citizens of Numanzia, i.e., Paris, in response to the approaching Fascist conquerors is equivalent to Guido Pasolini’s Italian Bookshelf . 487 death. Although he took up arms to fight Fascism, Guido –– after all –– was not killed by the enemy but by fellow partisans. Like the projected film on Saint Paul, Porno-Theo-Kolossal was not produced. Instead, Pasolini turned to the more easily financed Salò. At times Quirino’s thesis seems forced, but his meticulous attention to detail has elaborated certain correspondences in Pasolini’s thought that recur throughout his career, especially the identification of his hapless brother with other martyrs, and his own identification with Paul, a man torn between formu- lating his religious devotion as feeling or intellect. Quirino has appended to his book a brief account of his meeting with the late painter Giuseppe Zigaina, who shared a Friulian boyhood and adult friend- ship with Pasolini. He refers to Zigaina as il maestro, both in homage to his art and his knowledge of Pasolini, who affirmed un intreccio ontologico between him- self and the artist (177). Quirino dedicated this book to Zigaina in gratitude for his illuminating insights about Pasolini. Louise Barnett, Professor emerita, Rutgers University

Victoria Surliuga. Ezio Gribaudo: Il mio Pinocchio. Coordinamento editoriale: Paola Gribaudo. Pistoia: Edizioni Gli Ori, 2017. Pp. 132. In Ezio Gribaudo: Il mio Pinocchio, Victoria Surliuga analizza l’opera dell’artista sul cui lavoro ha già scritto il volume Ezio Gribaudo: The Man in the Middle of Modernism (2016). Il libro pubblicato dalle Edizioni Gli Ori presenta la “molte- plicità concettuale” (14) e le facoltà ludico-metamorfiche dell’artista alle prese con il burattino-archetipo, come si può vedere dalla riproduzione di molte sue opere, esplorate dalla Surliuga, la quale tiene presente il Leitmotiv, “quello di un soggetto che può solo continuare a dividersi” (25) senza mai risolversi, vista la giocosa erranza in cui si dà: in mongolfiera, in bicicletta, a Venezia, in Egitto, cioè “in una forma di jouissance eternamente presente e senza conclusione” (26), quindi estraneo al Bildungsroman come accettazione della vita borghese dove Collodi lo imprigiona. A questo proposito, Victoria Surliuga riassume anche i necessari riferimenti di ordine critico, figurativo e junghiano, legati alla lettura del famoso libro, tornando ogni volta a precisare l’attività di Gribaudo il quale ci propone la figura di Pinocchio “nelle sue metamorfosi esistenziali [. . .] [senza] nessun richiamo alla storia del burattino” (7). Qui si tratta di una sagoma a volte appena tracciata, ma identificabile per uno dei suoi tratti distintivi e “in circostanze che creano un panorama visivo in continuo cambiamento rispetto al romanzo” (7). Lo scopo dell’autore sta appunto nel moltiplicare i panorami, 488 . ANNALI D’ITALIANISTICA 36 (2018)

cioè le nuove occasioni in cui immagina essa possa trovarsi. E come si presenta in queste opere? Surliuga lo chiarisce: “Superata la fase mimetica dei disegni che seguono alcuni episodi del romanzo, [Gribaudo] considera Pinocchio come una forma geometrica e meccanica. La sua origine non è determinabile, tranne [. . .] per quanto riguarda la creazione stessa delle matrici [sicché il loro] inserimento crea nuovi spazi narrativi dettati dal contesto delle tematiche care all’autore quali i flani” (9). In stereotipia, il flano viene usato come un tipo di cartoncino “resistente al calore, che si modella su una pagina di composizione per rilevarne l’impronta” (128). In questi dipinti, cui potremmo offrire il titolo di Enigma-variazioni, il burattino funge perciò da Leitmotiv, anche se a volte in modo così discreto da doverlo cercare: ad esempio nell’opera di Gribaudo dal titolo Pinocchio al confine (103), dove si trova in un cesto aerostatico il cui pal- lone assomiglia a una lampadina​ — ​per cui lo sguardo è subito preso da quello gigantesco al centro dell’opera​ — ​o in Pinocchio diviso (106), che evoca il movi- mento artistico dell’Orfismo associato a Robert e Sonia Delaunay. Fra i riferimenti Victoria Surliuga cita, oltre a Giorgio Manganelli e Ernest Theodor Amadeus Hoffmann (riguardo alla narrazione parallela e alla figura del doppio) anche Calvino per la sua interpretazione di opera classica: “Il tuo classico e quello che [. . .] ti serve per definire te stesso in rapporto e magari in contrasto con lui” (14), come accade all’incirca così nel lavoro di Gribaudo. Il motivo per cui “la conclusione della sequenza [sia] continuamente posticipata e non si compia mai del tutto” (13), come precisa l’autrice, esclude l’iter narrativo con il suo dénouement. Gribaudo evita, appunto, il passaggio dal burattino tra- sgressivo al bravo ragazzo, anzi lo dissemina per dare valore all’aspetto fantastico delle scene: come in uno dei Teatri della memoria inclusi nel libro (104) dove troviamo Pinocchio in versione fauve, chagalliana, e geometrica, intrecciando l’impulso empatico e quello astratto. Il protagonista​ — ​scrive la studiosa​ — ​ rimane uguale a se stesso, ma “per garantire il movimento, la stasi e la narrazione di tutte le vicende [. . .] deve moltiplicarsi” (14) e suggerire l’idea di archetipo. Da qui la citazione del Pinocchio di Elémire Zolla come “archetipo della morte e della rinascita [che] quasi dappertutto e sempre torna a vestirsi della forma simbolica d’un inghiottimento nel ventre della balena o delle sofferenze dell’a- sino o infine del serpente verde che atterrisce ma ha il segreto della rinascita” (15). Archetipo anche perché esclude dalle immagini di Gribaudo “un processo di crescita del personaggio collodiano in sé” mentre “gli sfondi progrediscono piuttosto in un’evoluzione narrativa secondo una modalità voluta e decisa dall’artista per il quale il soggetto diventa, per citare Derrida, un supplemento, qui inteso come un’aggiunta a una situazione potenzialmente già completa ma che il Italian Bookshelf . 489 pittore vuole completare con un elemento ulteriore​ — ​che a sua volta finisce per diventare il tema stesso della composizione” (16). Il ciclo di morte simbolica e rinascita​ — ​in opere come le Etiopiche di Eliodoro, Le metamorfosi di Apuleio o le picaresche avventure nel Gil Blas di Lesage​ — ​comporta l’attesa soluzione, mentre il Pinocchio di Gribaudo ripre- senta il “suo aspetto di automa seriale [. . .] sempre all’interno del post-umano, come robot dalle possibilità che non rientrano nelle capacità degli esseri umani [e in] un ipertesto, ovvero un punto di partenza che ingloba e crea rimandi con- tinui a situazioni esterne, testi e riferimenti culturali” (16). Non sarebbe così se Pinocchio si evolvesse, perché in tal caso le varie sequenze in cui si situa cesserebbero di presentarsi come occasioni di vita in rapporto al principio di costanza, ora latente ora in luce, offerto dalla sua figura. Victoria Surliuga scrive: “Senza un’identità legata all’essere nato subito come umano, Pinocchio non ha diritti né religione e nessuna consapevolezza di appartenere a una comunità” (25) e in questi dipinti appare effettivamente libero e senza nomos, mentre in Collodi egli ha un padre in Geppetto e una madre nella fata. L’idea di un post-u- mano permette a Victoria Surliuga di riprendere i motivi affrontati da Massimo Riva nel suo Pinocchio digitale (Milano: Franco Angeli, 2012), dove il burattino Übermensch, ponendosi come critico del principio d’incompletezza, spinge l’au- tore a spiegare la cultura umana “come prodotto [. . .] di un’insufficienza biolo- gica [. . .] e relativo anelito di trascendenza” (17). Interessante il passaggio in cui l’autrice indica nel Pinocchio di Gribaudo “un cammino parallelo a quello del pittore, rappresentandone così uno sdoppiamento” (19). Infatti, scrive Surliuga, “l’artista riesce così a creare un microcosmo che, anche se ispirato a un preciso modello letterario avente le sue origini in Collodi, assume presto una sua auto- nomia (38). Una serie di schede esplicative includono il regesto dei materiali e delle tecniche (127–29) e la didascalia delle opere (130–31). Silvio Aman, Independent Scholar

Barbara Tutino. Paola Gribaudo: One Thousand and One of These Books. Milano: Skira, 2018. Pp. 84. Paola Gribaudo is an art editor who has been honored with the title of Accademico d’Onore dell’Accademia Albertina (2016), one of Italy’s highest distinctions in the arts, and named Chevalier de l’Ordre des Arts et des Lettres de la République Française (2011) by the French government for her contributions in the field. Over the course of thirty-five years, she has edited and published more than a thousand books for internationally renowned authors and artists, including 490 . ANNALI D’ITALIANISTICA 36 (2018)

monographs, exhibit catalogs, and creative-writing books for prominent figures of art and culture​ — ​such as Picasso, Guarienti, Gentilini, de Chirico, Savinio, Peggy Guggenheim, Chagall, Moore, Matta, Kisling, Chemiakin, Tselkov, Botero, Vari, Martins, Klyukin, Paley, Pepper, Pomodoro​ — ​along with nume- rous volumes for her own father, Ezio Gribaudo. Barbara Tutino explores in great detail Paola Gribaudo’s career path; in fact, Tutino herself is an artist and author of artists’ books, biographies, poetry, and fiction. In the volume Paola Gribaudo: One Thousand and One of These Books, Tutino adopts a fairy-tale style throughout the book, highlighting the protago- nist’s actions in a synopsis at the beginning of each chapter that summarizes the chapter’s key points, a technique reminiscent of eighteenth-century novels such as Thackeray’s Barry Lyndon, but also of Collodi’s The Adventures of Pinocchio (1883). The cultural milieu is that of bourgeois Turin where Paola grew up, in the area of Borgo Po, with a proclivity for a life of intellectual fulfillment that began with extensive travels to Egypt, the United States, India, and the Sulawesi islands of Indonesia, in addition to visits to museums and art galleries in the European capitals. As a consequence of her father’s profession of art publisher, their house was frequented by some of the most distinguished figures in the art world: Francis Bacon, Peggy Guggenheim, Henry Moore, Lucio Fontana, and Giorgio de Chirico, among others. As Paola Gribaudo has emphasized, the majority of her projects were initia- ted abroad and have subsequently been carried out in her Turin studio. There, by applying her profound structural knowledge of the art book form to the impres- sions and images brought home from her travels, she has gone on to craft the exquisite, high-quality volumes for which she is renowned. Tutino’s biography chronicles a life experience that lies deep within book culture, thus documenting a crucial, albeit often, neglected profession. Indeed, the role of the editor is fre- quently an inconspicuous one, yet the kind of authority an editor exerts on the final product cannot be overlooked. Gribaudo carefully oversees every step of the bookmaking process: she selects the paper, designs the photo and typeset- ting layout for each page, handles relations with the authors, photographers, and publishers, supervising the whole project through a series of creative stages that are not always easily acknowledged by a reader leafing through the final product. Yet these are the composition processes whereby she transforms an idea into a book, starting from the very first volume for which she created the layout, George Peillex’s 629 Oeuvres de Renoir à Picasso (1981) for the Musée du Petit Palais in Geneva. Tutino guides us through these stories in an important archive Italian Bookshelf . 491 that includes photos and numerous handwritten texts. Gribaudo documents art through her books, often producing them within tight deadlines, sometimes as many as 78 in one year. One of her recent editorial projects, Selling Botero (2015), deals with the experience of the most established of Botero’s art dealers, Felipe Grimberg, who has sold 400 works by the Colombian artist. The album, which also documents the “backstage” work of the Grimberg project, can be examined on the editor’s site, www.paolagribaudo.org. Gribaudo has combined art and literature by creating books that pair an artist and a writer​ — ​for example, Moravia and Guarenti, Brodsky and Tselkov, Fuentes and Botero, García Márquez and Sánchez, to name a few. In 1992, with Tutino, she created the series disegno diverso with the purpose of publi- shing renowned books in a 12×16 cm format​ — ​evoking those of Sellerio and Scheiwiller​ — ​allotting 64 pages to each author-artist pair to develop their joint project. The publications include travel diaries, photographs, poetry, and art books, where texts are always accompanied by pertinent illustrations. As Tutino explains, these are artists’ books and art objects. Indeed, prominent art historian Federico Zeri has pronounced disegno diverso to be a brilliant series. The essence of Paola Gribaudo’s profession is the realization of a complete art book in all its multifaceted aspects. She has collaborated with prestigious presses such as Thames & Hudson, Cercle d’Art, Silvana Editoriale, Fabbri, Rizzoli, Gli Ori, Skira, as well as with countless art galleries, museums, and foundations. Her books have won accolades (for example, the Fedrigoni Prize in 2007) and have been featured on the cover of prestigious publications such as Book Review in 2014. In 2016 Paola Gribaudo released Dall’opera al libro: dal libro all’opera. Ezio Gribaudo e i maestri del Novecento. Paola Gribaudo Libri e librini (Edizioni Gli Ori), a book where she discusses her career trajectory in the publishing industry. In 2014 she had already published Libri e librini (same title, different book), an overview of her work as an art editor. All in all, Paola Gribaudo has lived accor- ding to the maxim, expressed by Umberto Eco, about books as a kind of life insurance, a small advance on one’s immortality. Tutino’s biography completes, for the time being, the account of a life devoted to publishing, which will no doubt continue to produce innovative, superior artifacts for a long time to come. Victoria Surliuga, Texas Tech University 492 . ANNALI D’ITALIANISTICA 36 (2018)

Antonio C. Vitti, and Anthony Julian Tamburri, eds. The Mediterranean Dreamed and Lived by Insiders and Outsiders. Saggistica 25. New York, NY: Bordighera Press, 2017. Pp. 255. La raccolta di saggi The Mediterranean Dreamed and Lived by Insiders and Outsiders nasce dalla conferenza organizzata dal Mediterranean Center for Intercultural Studies (MCIS) che si è svolta in Sicilia, a Erice, nel maggio 2016. L’intento della pubblicazione di questo volume, così come quello del Centro per gli studi mediterranei, consiste nel consolidare il dialogo tra gli studiosi che si dedicano a temi e ad argomenti che riguardano la cultura mediterranea nel senso più ampio del termine. Colpisce subito, a partire dall’indice del volume, l’ete- rogeneità e la varietà dei contributi (in italiano, inglese e spagnolo) che rende manifesta la pluralità delle voci e delle storie che si intrecciano nella dimensione mediterranea a partire dal Medioevo fino ai nostri giorni. Non si può, tuttavia, non sottolineare che esistono dei fili rossi che attraversano le analisi dei sedici saggi che compongono il volume. Uno dei temi portanti della raccolta è quello del viaggio che viene affron- tato secondo varie angolazioni: l’analisi delle parole, per esempio, caratte- rizza il contributo di Lucilla Bonavita la quale, in “Pellegrinaggio di Dante nel Mediterraneo” (24–31), ripercorre le caratteristiche distintive dei pellegrini medievali a seconda della loro meta (peregrini, palmieri e romei) così come rie- cheggiano nella Vita Nuova, nel Purgatorio e nel Paradiso. Anche Roberto Sottile, in “Arabismi di ambito agricolo e alimentare in Sicilia e nel Mediterraneo” (169– 85), osservando l’alto livello di scambio tra la cultura araba e le altre che si affac- ciano sul Mediterraneo, sottolinea che “sono sempre le parole a darci la misura di questo scambio fecondo di tecniche e saperi” (174) Nel suo contributo l’autore analizza i viaggi degli arabismi sulle sponde del Mediterraneo, evidenziandone viaggi di andata, diffusione e, in taluni casi, di ritorno. Si occupa, invece, della circolazione dei temi il contributo di Alessia Ruggeri, “Dall’esemplarità di Esopo alle Novelle Esemplari di Cervantes (158–68), che analizza il legame esistente tra la cultura ellenica e quella spagnola secondo la prospettiva cervantina. La contaminazione tra culture sulle sponde del Mediterraneo costituisce un altro dei temi portanti della raccolta. Mentre Maria Elena Rodolino in “Dante e la cultura araba” (141–58) mette in evidenza i rapporti intensi tra Dante e la cultura araba, il contributo di Daniela Bombara, “Grecia e Italia nazioni ‘sorelle’: l’Eptaneso crocevia di culture nell’esperienza letteraria e politica di Dionisios Solomòs e Pietro Quartano” (1–23), analizza i fecondi rapporti tra le isole Ionie e l’Italia, in particolare attraverso le figure di Pietro Quartano e Dyonisios Solomòs, quest’ultimo autore dell’inno nazionale greco. Italian Bookshelf . 493

La contaminazione come incontro e inizio di una cultura di accoglienza costi- tuisce il terreno d’analisi del contributo di Giuseppe Spathis e Fabio Prestipino i quali, nel loro saggio dal titolo “La città Messina luogo di accoglienza, terra di incontri, scambi di culture ed esperienza umana” (186–202), partendo dalla presenza inglese a Messina agli inizi dell’Ottocento, prendono in esame l’attuale ruolo del centro di accoglienza di profughi e rifugiati del centro siciliano. Il tema dell’importanza delle immagini e delle rappresentazioni dell’altro viene affrontato, in particolare, da Ilaria Parini che in “ When Benny the Groin and Tommy the Tongue Whacked Lou the Wrench: Cultural and Linguistic Representation of Italian in Mafia Comedies” (103–27), prende in esame la rappresentazione dei protagonisti di origine italiana in due film del genere della mafia comedy, evidenziandone le caratteristiche stereotipate. D’altro lato, Carlos Frühbeck Moreno, in “Germania odia a Roma: la imagen de Italia en las crónicas de los corresponsales españoles durante la Primera Guerra Mundial” (81–102), analizza l’immagine dell’Italia nella Spagna del primo dopoguerra, mettendo in evidenza gli stereotipi di cui quella rappresentazione si è nutrita. Mario Inglese, inoltre, in “Metafore della sicilitudine nella scrittura autofinzionale di Gesualdo Bufalino (233–48), analizza l’immagine della Sicilia nella sua dimensione meta- forica attraverso alcune delle opere principali di Gesualdo Bufalino. Un altro tema indagato in questo volume consiste nel Sud come luogo fisico e culturale che ha avuto un’importanza fondamentale nella formazione dell’identità mediterranea dall’Umanesimo in poi. Maria Laudani, in “La ricerca dell’identità mediterranea agli albori dell’Umanesimo: Giovanni Aurispa tra Oriente e Occidente” (32–49), attraverso lo studio del ruolo di ponte tra le cul- ture orientali e occidentali svolto da Giovanni Aurispa all’esordio dell’Umane- simo, mette anche in luce il ruolo che gli studiosi del Sud ebbero nel coltivare la cultura e la lingua greca in netta controtendenza rispetto alla visione angioina. Antonio Vitti, in “Appunti sul cinema italiano e il Mezzogiorno dal dopoguerra ad alcuni film del nuovo millennio” (215–32), analizza la rappresentazione del Meridione per ripercorrere la storia e l’evoluzione del cinema italiano del dopo fascismo. L’esilio è senza dubbio uno dei temi che permea molti contributi e, in par- ticolare, Trinis A. Messina Fajardo, in “Menesteos, mariner de abril, metafora contemporanea dell’esilio (69–80), analizza la questione dell’esilio intrecciato alla dimensione mediterranea nell’opera Menesteos, mariner de Abril della scrit- trice spagnola María Teresa León, evidenziandone la dimensione autobiogra- fica. Mentre Daniela Privitera, in “. Adua: esilio ed asilo, passato e presente tra il Mediterraneo e l’Italia” (141–58), analizza il senso dell’esilio nel 494 . ANNALI D’ITALIANISTICA 36 (2018)

romanzo Adua di Igiaba Scego e, particolarmente, il doppio filo di appartenenza che lega la protagonista al suo presente italiano e al suo passato somalo. Di un doppio filo di appartenenza si occupa anche il contributo di Cinzia Marongiu, “Negotiating the Distance: African and Sicilian Bonds in Ragusa’s The Skin Between Us” (50–59), nel quale viene analizzato il legame doppio che connette la protagonista alla Sicilia (per parte di padre) e all’Africa (per parte di madre). Anthony Julian Tamburri, in “The Strange Case of Italian Diaspora Articulations: Rethinking the Italian Writer” (203–14), declina il senso dell’esilio che appar- tiene alla cultura mediterranea nel terreno degli studi accademici, denunciando l’esilio inflitto agli Italian Diaspora Studies. Sottesa a tutti gli interventi è l’ana- lisi dell’incessante dialogare tra le parti che diventa auspicio nel contributo di Luisa Messina Fajardo intitolato “La cultura del dialogo come percorso verso la pace nei Mediterranei” (60–68). La studiosa propone un’analisi delle possibilità legate al dialogo tra diverse prospettive che s’intreccia attraverso le parole e la musica. Questa raccolta di saggi rappresenta un valido strumento di studio per gli studiosi interessati ad avvicinarsi agli studi mediterranei attraverso un percorso che predilige molteplicità di temi e di approcci. Giusy Di Filippo, Wellesley College

JEWISH STUDIES

Francesca Bregoli. Mediterranean Enlightenment. Livornese Jews, Tuscan Culture, and Eighteenth-Century Reform. Stanford: Stanford University Press, 2014. Pp. 318. Francesca Bregoli’s monograph is principally addressed to historians and scho- lars of Jewish history who are looking for a comprehensive treatment of the social, cultural, and economic setting of early modern Tuscan Jewry during the eighteenth century. The book consists of eight chapters that treat the condition of Tuscan Jews from multiple viewpoints: the historical (chapter 1), cultural (chapters 2–4), religious (chapter 5), social (chapter 6), and political-economic points of view (chapters 7–8). While addressing the same topic from such diffe- rent perspectives, Bregoli clearly aims at building a case study​ — ​the niche occu- pied by Tuscan Jewry​ — ​that might then offer a potential model to study the Jewish Enlightenment in Italy. While Bregoli does not make this goal explicit, nevertheless she often contrasts the historical, cultural, and ritual peculiarities Italian Bookshelf . 495 of Italian Judaism with respect to the two famous branches of Judaism: Sephardi and Askhenazi Jews. The first chapter, “The nazione ebrea and the Tuscan State,” provides the historical framework of the monograph, maintaining that, in particular, “the community of Livorno [. . .] epitomized the successful Jewish appropriation of values and behaviours associated with European civilization” (19). Chapter two (“Balancing Acts”) focuses on the cultural mediation of the Jewish polymath Joseph Attias (1672–1739), whom Bregoli characterizes as “a rare example of a Jewish scholar known primarily through non-Jewish sources and the non-Jewish relations that he built” (43). In the next two chapters, Bregoli expands on her study of Attias’s interest in science, arguing that he “pursued a form of cultu- ral separation” between Gentile and Hebrew studies (72). Attias’s interest in science, she concludes, implies that “natural philosophy serves as a key channel of acculturation for early modern Jews” (96). She emphasizes particularly the impact of Livornese Jewish physicians at the University of Pisa. After examining these forms of Jewish cultural assimilation, Bregoli shifts emphasis to the religious aspect of Tuscany’s Jewish population in the fifth chapter, “Pious Care and Devotional Literature.” She focuses on those Jews who had little enthusiasm for the Enlightenment but rather based their lives on confraternal piety. They also faced a progressive professionalization, reflecting the modern trend towards “administrative improvement, centralization, and reforms” (150). In chapter six, “Coffee and Gambling,” Bregoli expands on the previously mentioned separation between Jews and Gentiles from the intri- guing social perspective of “illegal coffeehouse gambling” as a phenomenon that simultaneously blurred and re-established ethnic boundaries, negotiating between norms and reality (157). Bregoli brings in the political and economic aspects of the Tuscan Jewish community in the final two chapters. In “Commerce and Jewish Culture,” she takes a more traditional stance by examining the business of Hebrew publi- shing, providing detailed charts of Livornese editions. In “Economic Utility and Political Reforms,” she examines municipal reforms, with special emphasis on the decisions about “Jewish participation in the municipal administration of Livorno” (232). As I am not an historian, my attention was drawn especially to the detailed chapters devoted to Joseph Attias, whom Bregoli identifies as a paradigmatic case of Italian Jewry in the eighteenth century. Bregoli points out Attias’s highly atypical nature among other members of the republic of letters (52), including his reticence to address issues of Jewish matters while corresponding with other 496 . ANNALI D’ITALIANISTICA 36 (2018) scholars (56) as well as his participation in “the Galilean, anti-Aristotelian, and anti-Jesuitic camp” (72). By examining Attias’s “omnivorous scientific curio- sity” (75) and epitomizing his contributions, Bregoli successfully describes the difficulties that Italian Jewry encountered while detaching from traditional orthodoxy and gradually joining modernity. At the same time, this fascinating treatment of the cultural life of one particular eighteenth-century Jewish scho- lar cannot be conclusive or representative of other individuals or contexts. As already emphasized by other reviewers such as Ulrich Wyrwa and Adam Shear, Bregoli appears not to consider whether this case study of one individual could be applied to other contexts and therefore offer a proper “historical model.” In other words, Bregoli leaves unanswered the question whether the condition of Livornese Jewry was unique to that city or was replicated throughout Italy. In either case, a broader comparative perspective would have been welcome. Bregoli seems to prefer to let historical facts speak for themselves, and to this end she does provide useful documentation. Mediterranean Enlightenment is a well-written monograph, reflecting the accuracy of the chronicler as well as the curiosity of the scholar. It will be of interest to students of the political, social, and cultural history of Italian Jewry in eighteenth-century Tuscany as well as to students of Jewish-Italian history. Federico Dal Bo, Marie Curie postdoctoral fellow at the Autonomous University of Barcelona

Francesca Bregoli, Carlotta Ferrara degli Uberti & Guri Schwarz, eds. Italian Jewish Networks from the Seventeenth to the Twentieth Century. Bridging Europe and the Mediterranean. Basingstoke (UK): Palgrave Macmillan, 2018. Pp. 239. Italian Jewish Networks from the Seventeenth to the Twentieth Century offers a useful and original contribution to the field of modern Italian Jewish history. Bregoli, Ferrara degli Uberti, and Schwarz utilize Jewish commercial and cultu- ral networks between the Mediterranean and the rest of Europe as the central focus for a reconstruction of the crucial role Italian Jews played in European modernity. The originality of the book lies in three factors. First, the editors adopt the most recent approaches and methodologies to the study of Italian Judaism, in line with current scholarship on the subject, thus offering a fresh and innovative perspective. In fact, they do not see Italian Judaism as a monolithic block, sepa- rate from domestic dynamics and international networks, but rather connect Italian Bookshelf . 497 it with its Mediterranean and European contexts. By doing this, the editors highlight a factor that has never been explicitly spelled out before: Italian and international scholars on Italian Judaism have two different approaches to the subject that should be seen as complementary rather than oppositional. The volume emphasizes this perspective by including contributions of Italian and non-Italian scholars who can address the subject from different angles. Second, the book covers a lesser known (at least to international scholarship) period of Italian Jewish history, that is, the early modern and modern periods, whereas the majority of international studies on Italian Judaism thus far limit themsel- ves either to the Renaissance or to the post-war periods, following a trend of international interest in general Italian culture. Finally, the book addresses a much wider international readership, since it is written in English and issued by a major international publisher. Oftentimes studies on Italian Judaism have been limited to the parochial domain of Italian academia, because they are written in Italian, thus limiting their accessibility. The nine thematic chapters are organized chronologically and preceded by a well-written introduction. The introduction not only unravels the conceptual ideas behind the volume, but also provides a thorough methodological and theoretical background as well as a summary of the chapters’ content, thereby binding them together coherently. In the first chapter, Matt Goldish reconsiders the list of visitors of the secretly Sabbatean rabbi Abraham Rovigo (1650–1714), and, consequently, shows the transfer of Sabbatean milieus from the Ottoman Empire to Europe, Modena in this case. The following three chapters all focus on Livorno, empha- sizing Livorno’s central role as a port city not only within Italy, but as a princi- pal juncture of networks linking Sephardic communities in northern Europe, Italy, North Africa, and the Ottoman Empire. In his essay, Matthias Lehmann investigates the work of the shadarim (emissaries), who carried out fundraising activities on behalf of poor Palestinian settlements and diasporic communities. He shows how a shared Sephardic ethnicity, which entailed shared languages (Spanish and Judeo-Spanish) and culture, was often more successful in raising funds than concepts of pan-Jewish solidarity, when proposed by Ashkenazi emissaries. Clémence Boulouque focuses on Livorno’s most prominent intel- lectual in the nineteenth century, Elia Benamozeg, and brings to the forefront the role of the press and written texts as consolidators and creators of Sephardic networks. In a time of economic decline, Livornese imprints can be followed particularly in the Mediterranean and in the Middle East, showing on the one hand a strong web of Mediterranean connections and, on the other, a peripheral 498 . ANNALI D’ITALIANISTICA 36 (2018) position in relation to Italian and European Jewish modernity. Alyssa Reiman investigates multiple identity layers, following the life of the Moreno family who lived in Tunis in the second half of the nineteenth century. The Morenos represent the flourishing group of Livornese Jews who moved to North Africa because of the commercial routes. As part of the distinct group of Italian Jews in Tunis (named grana), as opposed to the local Arab-speaking Jewry (twansa), the Morenos had to face issues of integration, particularly after Italy’s unification and their acquisition of Italian citizenship. Cristiana Facchini takes us in a different direction both geographically and culturally. Her analysis is directed at late receptions of and contributions by Italians to the Wissenschaft des Judentums, or study of Judaism, a ninetenth-cen- tury approach to the critical investigation of Jewish literature and culture at large based on scientific methods. In particular, she investigates a group of Galician rabbis who moved to Italy and acted as cultural liaison between Italian Jewish intellectuals and central European Jewry. Remaining in the 1930s, Tullia Catalan examines the activities of the Joint Foreign Committee (UK) and the Alliance Israélite Universelle in their attempt to provide support to Italian Jews, who were experiencing increasing antisemitism that culminated with the infamous racist laws of 1938. Arturo Marzano and Marcella Simoni lead the readers to post-war Italy. Marzano unravels the complicated “multilateral relations” occurring among different groups of Jewish displaced persons, hosted by Italy and heading to British Palestine or the United States between 1945 and 1948. Here, the Italian Jewish communities’ role as mediators between these groups and Italian institu- tions is reconstructed. Finally, Simoni focuses on the Italian Zionist movement Hechalutz (the Pioneer), which founded its own hakhsharah (training camp) in Italy in 1946 to prepare for life in a kibbutz. The stories of these Jewish young- sters emigrating to and returning from British Palestine/Israel until 1953 open a window on a further network of Italian Jews and further layers of Italian Jewish identity. This study is well organized and presents original articles about an era that has thus far been less familiar to readers. If I may point out a few minor shortco- mings in an excellent study, I would like to remark that the book is very much Livorno-centered. This approach is partly justified by the critical importance Livorno had at the time as a catalyst of Jewish networks, thanks to its pro- minence as a port city with a large (by Italian standards) Jewish community. Nevertheless, perhaps a study that included less studied Jewish centers would have given the volume a broader scope. In addition, while all the periods of early Italian Bookshelf . 499 modern and modern Italian Jewish history are well represented, a contribution extending into the second half of the twentieth century would have been, in my opinion, most welcome. In fact, this time period would be an inviting subject for a future study of Italian Judaism. In sum, Italian Jewish Networks from the Seventeenth to the Twentieth Century is clearly written and well organized and it is also very welcome for the wider public it can reach. For these reasons, this study will be a reliable reference point for the students of early modern and modern Italian Judaism for the foreseeable future. Alessandro Grazi, Leibniz Institute of European History, Mainz

Enrico Castelnuovo. The Moncalvos. Trans. Brenda Webster and Gabriella Romani. San Antonio: Wings Press, 2017. Pp. 236. Brenda Webster and Gabriella Romani offer a beautifully written translation of Enrico Castelnuovo’s The Moncalvos. Castelnuovo’s novel plays an important role in contemporary Italian literary history. In fact, it is the first novel in Italian literature, addressed to a general Italian readership, to have a Jewish family as its protagonist. It is also noteworthy because it was published in 1908 by Emilio Treves, possibly Italy’s most prestigious publisher of the time, and before that, between 1907 and 1908, it appeared as a serial in the Nuova antologia, a promi- nent literary periodical. More than100 years after this novel’s first Italian edition, the present volume offers its first English translation. However, this is not only the first English translation of a work by Castelnuovo but is also the first English translation ever of a novel written by an Italian Jewish author at the beginning of the twentieth century. Thus, this book is particularly welcome, primarily because it gives a larger international readership the opportunity to enjoy an admirable literary work, but also because it opens a window on a little-known period of Italian Judaism. Hitherto, as far as Italian Jewish authors are concerned, English-language readers have had access mainly to post-WWII classics by such authors as Primo Levi and Giorgio Bassani. I believe this book provides inter- national readers a unique chance to get acquainted with other aspects of Italian Judaism, particularly its efforts to be integrated (or even completely assimilated) into Italian Roman Catholic society during the first decades after its definitive achievement of full legal rights. As a matter of fact, within the field of Jewish Studies, the entire Ottocento and the fin de siècle​ — ​the novel’s chronological set- ting​ — ​have not been sufficiently investigated and have only recently started to find their way into Italian and international scholarship. Moreover, only a small 500 . ANNALI D’ITALIANISTICA 36 (2018)

part of this research has been written in English. If we follow the methodology of the linguistic turn, we acknowledge that not only documents, but also literary fiction can be an important source for historical enquiry: a novel, if read clo- sely, can tell us a lot about the author and the times in which it was written. The Moncalvos does exactly that. The novel narrates the lives of the brothers Gabriele and Giacomo Moncalvo, two middle-class Jewish men who wish to reach the highest levels of Italian society in fin de siècle Rome by taking advantage of the economic develop- ment of the first decades following the country’s unification. What distinguishes the two brothers is their methodology and the lengths to which they are willing to go in order to attain their goals. Gabriele, who favors seamless assimilation to the point of rejecting his Jewish identity, encourages his daughter Mariannina to marry a son of the Orobonis, an aristocratic Roman Catholic family. Of course, this marriage entails his daughter’s conversion (and later his own and that of his wife) but ensures Gabriele and his family access to “la crème de la crème” of Roman society. Giacomo, a secular Jew as well, unlike his brother, is not willing to fully abandon his Jewish identity. With an attitude that was not uncommon among the young secular Jews of the time, he strongly embraces both his Italian identity, along with its Risorgimento heritage, and his Jewish roots. Giacomo, almost stereotypically, personifies the learned, secular Jewish academician, which reminds us of Castelnuovo’s own son, a renowned professor in Rome. The figure of the secular, liberal Jew, who spans the nineteenth century laden with Risorgimento rhetoric and participates in unified Italy’s new intellectual elite, is, in fact, well described in Cristiana Facchini’s seminal study of David Castelli (C. Facchini, David Castelli. Ebraismo e scienze delle religioni tra Ottocento e Novecento, Morcelliana, Brescia, 2005). The entire novel is characterized by a feeling of disappointment with the present time and nostalgia of the past, and by enthusiasm for the Risorgimento in particular, a sentiment that was shared by many intellectuals at the end of the nineteenth century. This attitude is evident in the words of Giorgio, Giacomo’s son: “Ah, why wasn’t I born two generations before when one fought for Italy and Garibaldi gathered around himself the flower of youth and there was a magnificent fervor of generous ideals, a robust faith in the future of the country?” (216). Castelnuovo’s writing style in the Italian original is lively and flows naturally. This fluidity is well reflected in Webster and Romani’s translation, which makes the reading experience pleasant not only for the novel’s content but also captu- res its smooth style. A useful summary of Enrico Castelnuovo’s life is included at the end of the book. This biography helps the reader understand the author’s Italian Bookshelf . 501 standpoint and the reasons for some of his narrative choices. It seems plausible that the contrasting attitudes of Gabriele and Giacomo towards assimilation in Italian society actually reflect an inner dilemma of the author. Moreover, it is not difficult to notice affinities between the lives of some of the book’s characters and the author’s own biography and family. Gabriella Romani has written an informative historical introduction that precedes the novel itself. It had to be a bit general of necessity, and perhaps experts in Italian Jewish history would have expected a slightly more detailed historical frame. However, as it addresses a more general public of scholars and passionate readers, the introduction does its job perfectly, that is, it provides a solid historical contextualization of both the time in which the author wrote and the period in which the book was set. It shows not only the translators’ lingui- stic and literary abilities in English and Italian, but also displays their thorough understanding of the Italian Jewish history of the period, as demonstrated by brief, well-placed references to current historiographical trends. Scholars of other disciplines or simply literary enthusiasts will find the introduction useful and clear. In sum, this translation of The Moncalvos is an enjoyable read, which sheds light on fascinating aspects of modern Italian Jewish history as well as on the formation of the Italian bourgeoisie, both Jewish and non-Jewish. Alessandro Grazi, Leibniz Institute of European History, Mainz

Anna Dolfi, a cura di. Gli intellettuali/scrittori ebrei e il dovere della testimoni­ anza. In ricordo di Giorgio Bassani. Firenze: Firenze UP, 2017. Pp. 740. “Testimonianza” e “memoria” non sono sinonimi, ma sono in qualche modo “nomi reciproci” nel senso che non si può “testimoniare” senza ricordare, né si può ricordare senza produrre simultaneamente materiali che possono servire per una testimonianza. Ma mentre la memoria non è un “dovere”, la testimonianza lo è, e il titolo del libro lo evidenzia: il dovere è un imperativo morale e legale e per questo l’omissione della testimonianza è una forma di complicità passibile di pena. Non si comanda alla memoria né alla volontà, ma si può imporre un dovere. Queste considerazioni diventano chiare quando si parla della “memo- ria” per antonomasia, ossia della “memoria dell’olocausto”. Molti, anche fra i sopravvissuti ai campi di concentramento, vogliono o vorrebbero rimuovere la memoria di quell’evento, ma sopprimerne la documentazione e rimuovere le testimonianze significa cancellare un passato e consentire, anche preterintenzio- nalmente, che si ripeta. La storia cessa di essere magistra vitae se cancella le sue 502 . ANNALI D’ITALIANISTICA 36 (2018) tracce; e il luogo deputato per la testimonianza deve essere un foro pubblico perché una “memoria” di tale portata svolga una funzione educativa per tutti coloro che vivono nella storia. Nessun cittadino deve dimenticare la storia della quale fa parte, sia come attore sia come spettatore. E se la memoria rinnova il trauma, serve anche a evitare ricadute perché sa anche indicare le cause che l’hanno generato. Ma come tradurre la memoria in testimonianza, ossia trovare un linguaggio che renda fedelmente “la memoria” senza farne un semplice verbale giudiziario e privarlo di ogni carica emotiva che però rischia di colorare la stessa testimo- nianza? È uno dei grandi problemi che questo libro affronta su grande scala, e le soluzioni sono diverse perché, come si deduce da molti dei contributi qui raccolti, la memoria/testimonianza dell’olocausto ha una complessità estetica o artistica creata da quel particolare trauma che sconvolge le regole letterarie della “mimesi” che si trova a dover conciliare il resoconto storico con i limiti e i requi- siti della narrazione, a testimoniare un’esperienza personale e quindi “autentica”, ma proprio per questo inadeguata a rendere il quadro generale di quell’immensa tragedia che emblematizza il secolo scorso. Diciamo, allora, che la “polifonia” di questo libro rende abbastanza bene “la testimonianza” individuale/collettiva che intende registrare. Premettiamo che di questi tempi l’operazione di rendere omaggio a questa testimonianza è nobile e coraggiosa perché rischia di essere considerata una mossa propagandistica alla causa sionista, e non mancheranno accuse in questo senso. Ma omnia munda mundis. Il volume raccoglie gli atti di un convegno tenuto a Firenze nel settembre del 2016, organizzato da Anna Dolfi. La data celebra il centenario della nascita di Giorgio Bassani alla cui opera viene dedicata un’intera sezione del libro. I saggi sono 48, e se molti non sono più di testimonianze “in prima persona”, sono però di studiosi di una generazione che ormai analizza il valore di molte di quelle registrate cercando spesso di spiegarsi come la testimonianza della “prima generazione”, cioè dei sopravvissuti all’olocausto, sia riuscita a dire l’indicibile di quell’esperienza. Un indicibile che, una volta detto, suscita il problema del come e del perché sia “indicibile”, e il perché non debba rimanere senza voce. Sarà vero che non è più possibile scrivere poesia dopo Auschwitz, ma l’indicibilità dell’o- locausto ha spinto autori come Bassani e come Primo Levi a scrivere per capire e per testimoniare. Anna Dolfi, l’ideatrice e la realizzatrice dell’imponente conve- gno, tratteggia nelle poche lucide pagine della sua prefazione il senso di questo paradosso dell’essere spinti a scrivere proprio dall’ineffabilità di quell’evento: se la letteratura conosce episodi analoghi (chi non ricorda l’infandum regina iubes Italian Bookshelf . 503 renovare dolorem?) ciò che li rende “narrabili” è proprio il fatto che siano imma- ginari e non oggettivamente reali. Come si può immaginare, il contenuto del volume è abbastanza eteroge- neo, e tuttavia ha una sua unitarietà che lo distingue da tanti altri che la lette- ratura sull’olocausto produce in quantità che rischia di rendere logoro il tema. Intanto è diviso i sei sezioni che se non altro indicano ampie unità tematiche: 1) “Ebraismo e memoria”; 2) “Semantica e testimonianza”; 3) “Scrivere la memo- ria”; 4) “Un’identità nonostante tutto”; 5) “Per Giorgio Bassani”; 6) “Primo Levi contro l’oblio e il sogno di raccontare”. Se le due ultime sezioni indicano nel titolo il loro l’argomento, non si può dire lo stesso delle altre, benché scorrendo l’elenco dei rispettivi contributi si capisce, ad esempio, che nella prima sezione il rapporto tra ebraismo e memoria colga un nodo fondamentale della identità o interdipendenza delle due nozioni. Così il primo contributo (Ida Zatelli) ci ricorda l’importanza, quasi programmatica per il libro, del comandamento “non dire falsa testimonianza”, esemplificato ampiamente nelle Bibbia; e ci ricorda (Patrizio Collini) la “testimonianza viva” dell’ebreo errante, emblema della diaspora del popolo del Libro. La seconda sezione comprende studi sul tema dell’esilio (Silvana Greco) e la testimonianza dell’editore Daniel Vogelmann fondatore della casa editrice Giuntina di Firenze che ha una robusta collana di “ebraica”. I contributi della terza sezione toccano soggetti come il poeta roman- tico tedesco, di origini ebraiche, Heinrich Heine (Liliana Giacoponi) ma anche il controverso articolo di Natalia Ginzburg (Domenico Scarpa) in cui l’autrice riconosceva la propria ebraicità di nascita ma si dissociava dalla politica di Israele e ne metteva in dubbio la legittimità come stato. La quarta sezione tocca il pro- blema dell’identità dell’intellettuale ebreo, e il tema viene documentato da una serie di sondaggi su individui singoli, fra cui ricorderei quello di Cesare Segre (Clelia Martignoni) che per anni non aderì a movimenti in difesa dell’ebraismo, ma negli ultimi anni diventò uno strenuo assertore della propria identità ebraica quando capì che il risentimento senza rivendicazioni è inerme, anzi nocivo. Abbiamo citato un po’ a caso, ma anche da quel poco si capisce che le sezioni non siano rigide, e che l’insieme punti a allargarne il più possibile l’arco per includervi esperienze e aspetti diversi, e fare il tutto lungo una linea che grosso modo rispetti una narrativa interdisciplinare e organizzata cronologicamente. Niente di male in tutto questo, eccetto per il fatto che l’eterogeneità com- plica il lavoro del recensore che voglia dar conto della ricchezza di questo volume nello spazio minimo concessogli. Tuttavia mi pare di vedere dei filoni più robusti di altri che valicano più divisioni. 504 . ANNALI D’ITALIANISTICA 36 (2018)

Una di questi è il tema della lingua in cui trasmettere la memoria, visto che non esiste una lingua universale che porti ovunque questa memoria. Ora il popolo ebraico si identifica con la lingua della Sacra Scrittura che però viveva solo nel rituale, e che solo in tempi recenti è stata restaurata a lingua viva e nazio- nale​ — ​creazione inaudita e veramente miracolosa dovuta al desiderio ebraico di essere unito e con una sua lingua nazionale! Per secoli gli ebrei hanno adottato la lingua della terra che li ha ospitati; quindi in che lingua dare testimonianza dell’olocausto? Particolarmente interessante su questo argomento trovo il saggio di Claude Cazalé Bérard (79–98) in cui si considera il fatto singolare del rilan- cio dello Yiddish come lingua della nuova diaspora. Questa lingua molto diffusa fra gli ebrei dell’Europa orientale era sull’orlo dell’estinzione anche perché gli eccidi ebraici furono più numerosi in quel grande bacino dove gli ebrei tede- schi nel Medioevo portarono la loro parlata germanica. Dopo l’olocausto autori come Elie Wiesel ed Elias Canetti hanno adottato lo Yiddish come residuo di un’identità su cui restaurare ancora la sopravvivenza e la memoria. Come scrive Benedetta Bronzini nel suo articolo, la lingua crea anche casi interessantissimi come quello di Heiner Müller (1929–1995), scrittore tedesco non ebreo che scrive anche per offrire ai suoi connazionali una testimonianza di ciò che vide da bambino e adolescente, lui, figlio di collaboratori dell’olocausto. Un altro filone riguarda le caratteristiche culturali l’ebraismo. In questo filone trovo particolarmente interessante il saggio di Piero Cappelli (435–50) che spiega ai non iniziati come la liturgia ebraica celebri e ritualizzi la propria storia in un modo che è solo della sua cultura: ad esempio, il ricordo del sabato è il bisogno di riappropriarsi attraverso la memoria di un evento fondativo del popolo l’Israele e quindi di tener sempre presente il patto fra il popolo e il suo Dio. I Profeti esortano a non dimenticare quel patto, e quando questo nono- stante i loro moniti avviene, allora è il momento della Apocalisse. Ma una buona parte dei saggi è dedicata a rievocare tante testimonianze lasciate da intellettuali a volte nei loro libri, a volte nella corrispondenza e a volte in documenti rimasti fino ad ora inediti. La ricchezza del volume è tale che altri recensori avranno modo di sottolineare altri filoni e contributi, che noi per esigenze di spazio non possiamo neppure indicare. Tuttavia segnaliamo per i colleghi italianisti le due ultime sezioni che offrono analisi eccellenti​ — ​dovute a Anna Dolfi, Eleonora Conti, Francesca Nencioni, Anna Baldini e Alberto Cavaglion fra tanti altri​ — ​dedicate a due autori italiani, Giorgio Bassani e Primo Levi, che, possiamo dire, sono nati dall’olocausto perché l’urgenza di testimo- niare li ha fatti nascere come scrittori. Italian Bookshelf . 505

Il volume aggiunge varie “testimonianze” fotografiche, sparse nel corso del volume. Queste testimonianze visuali cercano di dire anch’esse “l’indicibile”, e il loro linguaggio, oggettivo quanto si voglia, rimane sempre approssimativo, incapace di dire tutto quell’orrore. La scelta delle fotografie è dovuta nella mag- gior parte alla curatrice, alla quale bisogna riconoscere una gran dose di nobiltà intellettuale per aver promosso un’iniziativa che si distingue da tante altre per il taglio originale e per il coinvolgimento di tanti illustri studiosi. Paolo Cherchi, University of Chicago

Vivian Liska. German-Jewish Thought and its Afterlife. A Tenuous Legacy. Bloomington: Indiana University Press, 2016. Pp. 201. Vivian Liska’s excellent monograph offers multiple insights into the Jewish- German cultural relationships in the past century. Liska does not offer a com- prehensive, chronological investigation of these relationships but rather, and more importantly, an interesting selection of topics: the transmission of tradi- tion focuses on Hannah Arendt (Part I), the interaction between law and narra- tive on Franz Kafka (Part II), the conception of a messianic language on Walter Benjamin (Part III), and the interrelated notions of exile, remembrance, and exemplarity on Paul Celan (Part IV). In each of these parts, Liska offers an interesting selection both of Jewish figures and their non-Jewish counterparts, constantly suggesting that Jewishness cannot really dismiss the issue of emerging in the midst of other nations, being therefore involved in a constant subtle play with its other. Interestingly, Liska has selected Jewish authors on the assumption and revisions of Stephan Moses’s seminal distinction between Jewish normative modernity and Jewish critical modernity. In Moses’s view, Jewish normative modernity is represented by Hermann Cohen, Franz Rosenzweig, and Emmanuel Levinas, whereas Jewish critical modernity is represented by Hannah Arendt, Gershom Scholem, Walter Benjamin, Franz Kafka, and Paul Celan. Liska accepts this fundamental distinction but subtly revises it. The author in fact neglects the dimension of Jewish normative modernity, obviously not in the trivial sense that she would be unaware of its importance but rather in the much more intriguing sense that only Jewish critical modernity could really be relevant to us in the present context, that is, in post-modernity. Liska clearly argues that Jewish critical modernity appears to offer the common ground for investigating the nature of post-modernity. 506 . ANNALI D’ITALIANISTICA 36 (2018)

The first part of the monograph deals with the transmission of tradition and focuses on Arendt. In the first chapter, after recalling Arendt’s monograph on the Jewish writer Rahel Levin Varnhagen and her famous and controversial distinction between the pariah and the parvenu, Liska concludes “that this coexi- stence of realities from different times and registers and her oscillation between melancholy and affirmation about the uncertainties manifest in the concrete- ness of her existence make her a paradigmatic figure of Early Jewish Modernity and a worthy forebear of twentieth-century Jewish critical modernists” (36). In the second chapter, Liska focuses on Arendt’s short essay that can be read as a review of Scholem’s book but also as a blueprint of Arendt’s own later poli- tical and philosophical writings. Liska argues: “Arendt refutes the legitimacy of the hidden as the nexus that allowed her to connect Heidegger with Scholem, the German with the Jewish past, and importantly, modernity with religious tradition” (25). In the third chapter, Liska critically addresses Arendt’s and Agamben’s treatment of Benjamin’s approach to the past and especially argues that “Arendt sees the break in the omnipotent continuum of time as the place of human agency and will. Agamben considers that there is no longer any ground to stand on and certainly none for the concerted action of many” (34). The second part deals with the interaction between law and narrative on Kafka. Liska implicitly assumes that Jewish normative modernity is no longer relevant to the present. Just as one can believe, in Pauline terms, that the Jewish Law is “outdated,” so has Jewish normative modernity become less relevant in the present time. In the first chapter of the second part, Liska addresses in length Agamben`s reading of Kafka and especially Agamben’s messianic dissolution of the written word, too closely “corresponding to Paul’s abrogation of the written Law” (46). While revising most of his assumptions, Liska argues that Agamben “sends forth his demon​ — ​his wild fantasies of redemption​ — ​but meanwhile follows him everywhere, carefully watching over him” (53). Similar criticism emerges also in the following chapter, dealing with Agamben’s reading of Kafka’s parable “Before the Law” in terms of a Pauline rescinding of the law. Liska neu- tralises Agamben’s reading by elaborating on Scholem’s and Benjamin’s interpre- tation of the Jewish Law; the former in fact argues that the Jewish Law is unful- fillable while the latter holds that it is an antidote to chaos. While emphasising that Benjamin was not really inclined to antinomianism, Liska seems to imply that that position would rather be idiosyncratic in Agamben, possibly because of his radical reception of Paul. In the last chapter of this part, Liska emphasises the importance of a writer like Kafka among the Germans, who considered him the author who incomparably captures the human condition in modern time. Italian Bookshelf . 507

Following Sussman, Liska assumes that Max Brod would represent a sort of positive Jewish theology, while Scholem instead would point to a Jewish nega- tive theology. In regard to these two alternatives, Kafka would posit a sort of third way, especially when indulging in the fantasy of another Abraham​ — ​one who refuses to sacrifice his own son and therefore considers “the Jewish people elected in and through suffering” (22). The third part of the monograph addresses the conception of a messianic language in Benjamin. In the first chapter of this part, Liska evidences that both Benjamin and Maurice Blanchot envision the effect of a virtually insurmoun- table difference between languages and yet diverge on the way of unifying them. Liska concludes: “Blanchot’s radicalization of the danger Benjamin describes of losing oneself in the bottomless depths of language contrasts fundamentally with the final passage of Benjamin’s essay, which Blanchot does not address” (99). In the following chapter, Liska maintains that Agamben has the histori- cal merit to perform one of the most radical recoveries of Benjamin’s messianic thinking to date, yet she equates “the liberation from this imprisonment by a comparison with a near-death experience” (90). Interestingly enough, in the conclusive chapter, Liska moves from this act of liberation to the notion of exor- cism, assuming that the demonic represents “a touchstone of their positioning on the threshold between tradition and modernity” (112). The fourth part addresses interrelated notions of exile, remembrance, and exemplarity focused on Celan. In the first chapter, Liska examines the “paradox of exemplarity” that consists in “associating Jewishness with universally avai- lable values” (127). While freely elaborating on Celan and Derrida, as well as addressing the perpetual “oscillation between singular inheritance and universal significance,” Liska argues that Celan’s motto “man kann verjuden” (“one can judizise”) can be translated into ontological terms as the assumption that “one​ — ​ anyone​ — ​can become other” and therefore that self-identity is inextricably connected to otherness. In the second chapter, Liksa expands on this notion of strangeness and the complex relationship between Celan and Bachmann. Liska especially emphasises that “Celan had to reject Bachmann’s suggestion that they are representatives of the German and the Jew after the war because it would turn their singular existences into emblematic lives on opposite sides of the divide after the catastrophe” (142). Liksa examines the same topic​ — ​the question of identity between a Jew and a non-Jew​ — ​but addresses it with refe- rence to the notion of exile. When contrasting Celan with Badiou, Liska shows that the notion of exile is polysemous: “Jewish exile, beyond being a theological, historical, and political issue, became a polyvalent discursive theme, a literary 508 . ANNALI D’ITALIANISTICA 36 (2018)

motif, and a loaded philosophical concept” (145). Accordingly, Liska concludes that “discourse touching upon Jews and place has taken on an increasingly poli- tical tone in the context of recent developments in continental thought. Today’s thinkers conduct a normative discourse of exemplary Jewish exile in the context of a critique of Zionism” (152). The final chapter​ — ​an exception among the previous ones​ — ​is a homage to Geoffrey Hartman to whom the monograph is dedicated and who “contrasts Jewish scriptures​ — ​the Hebrew Bible, Talmud, and midrashic commentary​ — ​with various concepts of unity, continuity, and totality and the traditions resting on such oneness” (155). The monograph ends with a short epilogue on Benjamin’s philosophy of history. Liska’s monograph has two main merits. First, it offers an interesting insight into the Jewish-German cultural relationships in the last centuries, investigating several prominent figures from many fields: poetry, literature, philosophy, and history. Second, it addresses Paulinism​ — ​the assumption that the Jewish Law is no longer updated​ — ​as the main persuasion affecting many non-Jewish authors, like Giorgio Agamben and Alain Badiou. This is an innovative perspective that would surely deserve to be studied in much greater detail. Also, both the inexperienced and the learned reader will largely profit from this monograph. Although it collects a series of articles published elsewhere, this monograph suc- ceeds in offering a careful selection of themes that are diverse and yet mutually complementary. Liska’s open-mindedness towards the so-called Jewish critics of modernity emerges often in the monograph, especially in her indulgence for the fact that most of these Jewish figures​ — ​foremost Benjamin, Kafka, and Celan​ — ​did not enjoy a solid education in Judaism and therefore treated pro- minent themes, such as messianism and the Jewish Law, only on the basis of secondary sources, probably bringing about relevant misconceptions. However, a scholar less equitable than Liska might consider it important to address also the issue that particular Jewish themes​ — ​such as messianism and the outdate- dness of the Jewish Law​ — ​were disseminated among assimilated German Jews from the past century exactly because of the influence of Christian culture rather than through a genuine interest stemming from German Judaism. Federico Dal Bo, Marie Curie postdoctoral fellow at the Autonomous University of Barcelona Italian Bookshelf . 509

FILM STUDIES

Frank Burke, ed. A Companion to Italian Cinema. West Sussex, Malden, MA: Wiley Blackwell, 2017. Pp. 648. A voler azzardare uno schema grafico della nicchia dei companion e delle guide, nel mare magnum delle pubblicazioni scientifiche verrebbe fuori una sorta d’im- buto. Molti volumi vi entrano, ma pochissimi degni di tale nome vengono fuori dall’angusta apertura all’altra estremità. Questo perché curare una guida, e del cinema italiano in particolar modo, è tanto difficile quanto lo è recensirne una. La riproposizione dei contenuti che si presume già assimilati e scientificamente metabolizzati comporta inevitabilmente una componente fissa, canonica, se si vuole, ma questa componente va altrettanto inevitabilmente aggiornata con un flusso ininterrotto di materiali nuovi, tantissimi e caratterizzati dall’interdisci- plinarità più spinta, nel caso della settima arte. Il lavoro su una guida è pertanto anche una questione di rapporti di forze e di equilibri, come nel caso di un atomo, tra forze centripete, quelle saldamente presenti nel nucleo dell’atomo, per intenderci, e forze centrifughe, quelle che, orbitando, portano in direzioni più diverse, verso discipline più o meno limitrofe, verso l’altrove insito in ogni ricerca. La struttura della guida curata da Frank Burke per la Wiley Blackwell è indubbiamente “atomica” e ciò dice già molto sulla sua qualità. Subito dopo la parte paratestuale del volume (“Acknowledgments”, xi; “Notes on Contributors”, xii; “Editor’s Notes”, xix; “Glossary”, xx; “Preface and In Memoriam”, xxiv) inizia la prima delle cinque parti del volume (Part I, “First Things”, 1) che oltre l’intro- duzione del curatore (3) contiene anche l’intervista a Peter Bondanella, uno dei decani dell’italianistica statunitense, defunto nel 2017, che ripercorre la storia degli “Italian cinema studies” dando anche degli spunti per le future ricerche. Il dialogo “socratico” posto all’inizio del volume trova il suo pendant nell’ot- tima “tavola rotonda” della quinta parte (Part V, “Last Things”, 551) intitolata “Forum: The Present State and Likely Prospects of Italian Cinema and Cinema Studies” (553) con interventi di Brizio-Skov, Laviosa, Marcus, O’Leary, Riva, Verdicchio e Wagstaff, un dibattito che riporta il cerchio del libro alla propria chiusura. Nel “forum” gli studiosi accennano risposte a questioni attuali e aperte poste da Burke e che spaziano dalle metodologie di studio ai confini sempre più difficilmente tracciabili degli studi legati al cinema e il loro posto nella società dello spettacolo. Quest’ultimo aspetto, quello concernente il posizionamento e lo stato dell’arte della disciplina, è, in realtà, ciò che impone la parte centripeta 510 . ANNALI D’ITALIANISTICA 36 (2018)

alla struttura della guida curata da Burke conferendole un tono che potremmo definire come quello dell’eco di un dibattito che gratifica con la sua dinamicità un serio progetto accademico, a lungo meditato e frutto della lunga genesi ini- ziata con il compianto Peter Brunette. È un companion eccellente, questo, una vera guida che, come insegna la figura del Virgilio dantesco, sa molto di più di quanto non mostri e così mette in relazione passato e presente con i capitoli della cospicua seconda parte (Part II, “Historical/Chronological Perspectives”, 29) che intraprendono un per- corso ambizioso che principia con le origini del cinema italiano, il cinema muto (“Silent Cinema”, 29), e ne ripercorre le tappe più importanti e discusse attra- verso le relative sezioni (“Fascism and Italian Cinema”, 65; “The Italian Film Industry”, 83; “Cinema and Religion”, 103; “Neorealism”, 121; “Stardom and the 1950s”, 157; “Film Comedy-the 1950s and Beyond”, 179; “French-Italian Film Collaborations into the 1960s”, 215; “Auteur Cinema (1960s and 1970s)”, 227; “Popular Film Genres (1950s to 1970s)”, 249; “Politics and/of Terrorism (1960s to the Present)”, 267; “Italian Cinema from the 1970s to the Present”, 283); que- sta seconda parte chiude con uno sguardo sul cinema italiano e la sempre più presente sfera dei new media. La terza parte (Part III, “Alternative Film Forms”, 323) vorrebbe guardare al cinema italiano nei suoi aspetti meno comuni e il per- corso dei saggi contenuti in questa sezione esplora le forme sperimentali e la loro storia italiana. Con la quarta parte vengono messe a fuoco questioni teoriche ed estetiche di massima importanza (Part IV, “Critical, Aesthetic, and Theoretical Issues”, 375) dando spazio a contributi legati a colonne sonore (“A Century of Music in Italian Cinema” di Emanuele D’Onofrio, 377–93), tematiche di genere (contributi di John David Rhodes, Derek Duncan, Marguerite Waller), a quelle legate al Mezzogiorno cinematico (“Imagining the Mezzogiorno: Old and New Paradigms” di Fulvio Orsitto, 447- 67) o ai registi immigrati (“An Accented Gaze: Italy’s Transmigrant Filmmakers” di Áine O’Healy, 484–500). Il compenetrarsi dei blocchi tematici e il sovrapporsi di idee nei volumi collettanei genera sovente delle “metatematiche” che finiscono col tessere una sorta di filo rosso latente che conchiude idealmente l’opera. È così anche nel caso della guida curata da Burke dov’è possibile desumere un’attenzione parti- colare, ed attualissima, orientata verso l’alterità, l’altro e l’altrove. Frank Burke e i suoi collaboratori hanno così dato vita ad un companion validissimo, che ha anche una forma ibrida tematicamente e teoricamente aperta. È un’argomentata ri-mappatura degli studi sul cinema italiano con approcci teorici nuovi assieme ad argomenti “vecchi” e a materiali d’archivio con conclusioni lucide e ponde- rate, interessanti in egual misura sia al pubblico più vasto che agli specialisti del Italian Bookshelf . 511 settore; è anche un volume che guarda al cinema italiano nel contesto del cinema mondiale e considera ripercussioni identitarie di questo rapporto tra il nazionale e il transnazionale. Il volume esamina l’immigrazione, il divismo, il femminismo, il postcolonialismo, il postmodernismo, l’impegno e il cinema popolare, avva- lendosi degli strumenti teorici all’avanguardia senza però perdere né il lettore non-accademico né lo spettatore appassionato che vorrebbe semplicemente saperne di più. L’altro versante, quello dell’accademia, lo crediamo ampiamente soddisfatto. Srecko Jurisic, University of Split, Croatia

Silvia Carlorosi. A Grammar of Cinepoiesis: Poetic Camera of Italian Cinema. Lanham: Lexington Books, 2015. Pp. 189. This groundbreaking book by Silvia Carlorosi not only constitutes a fundamen- tal contribution to the study of Italian cinematography, but it also serves as a reference point for film scholars dealing with other national cinemas. It offers the tools to analyze critically films that can be more exactly exemplified as arti- stic realization of cinepoiesis. As Carlorosi explains, “with this term I refer to the various encounters between cinema and poetry that take form on the screen, when the film is enriched and even elucidated by the visual verses and tools of a poetic camera” (xv). In this way, the camera becomes the main character of the film, bringing the viewer to a level of formal and pure esthetic involvement, in which the storyline does not play a major role. Rather, it is the images and their connections, more than the plot itself or the dialogue (both often minimal) that press the spectator to make sense of a poetic journey where elements such as landscapes, colors, and sounds (or silence) are edited to generate a sense of a “poetic syntax” and a “poetic camera” movement (xxvi). Building upon a strong theoretical framework that draws upon theorists​ — ​ Pier Paolo Pasolini with his “im-signs” and “free indirect discourse,” Viktor Shklovsky with his theories on poetic film, Gilles Deleuze and his “oniri-signs,” and Sandro Bernardi and his notion of landscape, among others​ — ​the analy- sis begins with the film L’imbalsamatore (The Embalmer, 2002) by Matteo Garrone, whose opening is exemplary to understanding the art of cinepoiesis, with its multiple perspectives that require the viewer to provide her/his own interpretation of the moving images and their aesthetic and formal meanings, which are part of a self-reflexive process related to the act of filmmaking. While L’imbalsamatore is chosen first to illustrate the complex concept of cinepoiesis, it is not analyzed again in the book, which is divided into five main chapters beyond 512 . ANNALI D’ITALIANISTICA 36 (2018)

the introduction and the epilogue. In the last part, two appendixes include two interviews with filmmakers Franco Piavoli and Matteo Garrone about poetry and the poetry of cinema (namely, the art of cinepoiesis), the role of spectators, artistic inspirations, sound and silence, and the image itself. The five main chapters are each dedicated to one filmmaker and to one or two of their films, and they are connected to one another in a continuum that demonstrates how filmmaking is an ongoing process through which film direc- tors communicate with the audience, other artists, and among themselves. As a journey into poetic Italian cinema, the filmic analysis offers a useful theoretical framework to analyze other films using certain camera movement and editing techniques to engage the spectator. Each chapter, in fact, offers a different appro- ach to the art of cinepoiesis. In the first, on “Meter and Rhetoric,” Federico Fellini’s La voce della luna (The Voice of the Moon, 1989) is analyzed as an example of poetic syntax in film, where rhetorical figures used both in literary works and poetry (metaphors, enjambement, onomatopoeia, and synesthesia) are used in film too. In Fellini, repetitions characterize the film itself, while the moon and its voice as the Pasolinian “im-sign” represents metaphorically “the voice of a multifaceted world with all its contradictions” (10) and is the key to interpreting this poetic film. The second chapter, “Im-signs and Free Indirect Subjective,” is devoted to Pier Paolo Pasolini and his films, Accattone (1961) and Mamma Roma (1962), where the filmmaker’s theories on the “poetry of images,” “im-signs,” and “a free indirect subjective camera” (22) were brought to fruition. In particular, Pasolini’s use of the rhetorical figure of the oxymoron and the stratification of meanings in his films are seen as his ability to realize examples of cinepoiesis, or “moments of pure form” (46). The third chapter on “Color and Focus” is devoted to Michelangelo Antonioni and two of his films, Il deserto rosso (Red Desert, 1964) and Blow-Up (1966). These two films engage in the art of cinepoiesis in a different way, namely, using color and focus (or, out-of-focus), but also the urban landscape, to give a multilayered meaning to images on the screen. Antonioni, in fact, uses these “tools of a Pasolinian free indirect subjective camera” (56), and, in particular, he employs colors to strengthen the relationship between objects and observers (57–58), making his a “cinema of the eye” (82). The fourth chapter on “Sound and Silence” analyzes two films by Franco Piavoli, Il pianeta azzurro (Blue Planet, 1982) and Nostos: il ritorno (Nostos, 1989). While it is the urban landscape that is an important referent for Antonioni, Italian Bookshelf . 513 for Piavoli natural landscapes and their diegetic sounds (and silence) represent his main focus, where cinepoiesis is embodied and fully realized. In Piavoli’s films, sound becomes the main character, while the characters themselves look more than see, as in Antonioni’s films. As Carlorosi clarifies, Piavoli’s camera “seeks to create a multi-focal representation of life” (93). The fifth and last chapter is dedicated to “Movement and Form” and to two films by Matteo Garrone: Primo amore (First Love, 2004) and Gomorra (Gomorrah, 2008). In this chapter, two further tools of cinepoiesis, namely, movement and form, are employed to analyze poetic films where once again landscape plays a major role, while the narrative is downplayed. Recalling Deleuze’s terminology related to “movement-images,” Carlorosi further eluci- dates that its “main scope [is] of mimicking the perception of the real” (118). For Garrone, what is important are the most hidden elements of an interpreted visual reality in its tension between what is and what might be, emblematized through a form of Deleuzian “dysnarrative” (130). To close the cycle begun with the literary rhetorical figures in the first two chapters, Carlorosi reminds the rea- der of Garrone’s use of synecdoche as an important component of his poetic approach to filmmaking. This pioneering book by Silvia Carlorosi represents the basis for analyzing further filmic works, both Italian and international, following an artistic tradition that calls into cause writers, poets, painters, and composers, such as Giacomo Leopardi, Ermanno Cavazzoni, Dante, Masaccio, Caravaggio, Julio Cortázar, Giambattista Vico, Lucretius, Homer, Virgil, and Monteverdi, where Italian neo- realism is constantly referred to as a movement to be transcended in favor of creating a cinema of poetry. As its title promises, A Grammar of Cinepoiesis is a true grammar, namely, a system that will be used by film critics in the years to come to analyze the art of cinepoiesis. Chiara De Santi, Farmingdale State College SUNY

Marco Olivieri e Anna Paparcone. Marco Tullio Giordana. Una poetica civile in forma di cinema. Soveria Mannelli: Rubbettino, 2017. Pp. 234. Dedicato alla memoria del regista del coraggio civile, Francesco Rosi, que- sta monografia traccia le linee più importanti della carriera di Marco Tullio Giordana, un altro regista che, come Rosi, ha sempre seguito una linea etica privilegiando l’analisi della società italiana dagli anni Sessanta in poi. Nella pre- messa di questo studio, che sceglie opportunamente un percorso tematico e non cronologico per l’analisi delle sue opere, gli autori chiariscono come la carriera 514 . ANNALI D’ITALIANISTICA 36 (2018) di Giordana rappresenti un’ininterrotta ricerca e costruzione personale dell’im- maginario italiano rispetto a momenti chiave della società. I cinque capitoli in cui viene diviso il testo rispecchiano pienamente la logica scelta da Paparcone e Oliviero. Intitolati rispettivamente “Il periodo degli esordi” (25–52), “La centralità pasoliniana”(53–82),“La creazione di un imma- ginario” (83–126), “Tra Salò e i segreti di Stato” (127–70) e “Il valore della per- sona” (171–98), i capitoli inquadrano precise tematiche legate a un determinato periodo della cinematografia del regista di cui si mettono in luce le pulsioni eti- che e culturali che spingono Giordana a operare scelte estetiche da cui non è mai scisso l’impegno socio-politico. Nel suo cinema Paparcone e Oliviero trovano l’essenza della poetica di Giordana nel modo in cui il regista affianca storia e nar- razione interpretativa, nel modo in cui “la dimensione poetica ed emozionale” risulta indissolubilmente legata a “una narrazione essenziale di eventi” (21) in cui “non tutto può essere spiegato razionalmente” (21). Nei film di Giordana la narrazione dei fatti viene accompagnata per forza di cose, quindi, dalla visione soggettiva dell’autore. Il regista tiene conto della tradizione cinematografica italiana dal neorealismo al cinema-inchiesta per una produzione che se ne discosta per vari motivi pur riconoscendone l’eredità. È tale eredità a richiedere di necessità la comprensione del complesso rapporto che Giordana intrattiene con il realismo. Marco Olivieri e Anna Paparcone​ — ​ affidandosi alla parola di critici che hanno lavorato sul (neo)realismo e sulla questione dell’impegno nel postmoderno, quali gli studiosi Millicent Marcus e Pierpaolo Antonello​ — ​analizzano efficacemente il processo di ibridazione fra il neo e il post effettuato da Giordana, fra la realtà come si presenta ai nostri occhi (non è mai tale, ma ci atteniamo alle teorie del neorealismo) e le suggestioni che tale realtà suscita nell’autore e che gli impongono momenti quasi onirici e surreali. In Giordana il neo si presenta spesso reificato nei personaggi infantili, dalla bimba di Maledetti vi amerò fino all’esempio di un cast profondamente basato sulle dinamiche emotive dei tre adolescenti protagonisti di Quando sei nato non puoi più nasconderti. È a questi che il regista affida la responsabilità e l’impatto emotivo, di cui parla Karen Lury in The Child in Film, di mostrare il travalica- mento dei limiti della realtà di certe situazioni sin troppo reali. Proprio lo scarto fra il vero storico e la connotazione di una realtà indecente e perversa, ai limiti dell’assurdo, produce una narrazione profondamente postmoderna in cui alla disamina dei fatti si associa l’immagine visiva e auditiva che Giordana ama rega- lare al proprio pubblico facendo leva su un apporto extra-diegetico di grande impatto. Per esteso, la poetica del fanciullino pascoliano (ma si pensi anche al Italian Bookshelf . 515 pittore della vita moderna baudelairiano) si presenta reiterata in vari modi lungo tutto il percorso di Giordana, rivelando in tal modo come nell’identità adulta si trovino ripiegamenti di un’innocenza ormai persa ma, appunto per questo, sempre desiderata perché ci riporta a un mondo ancora pieno della nostra stessa incolpevolezza. Il secondo aspetto​ — ​il problema della colpa e della responsa- bilità​ — ​costruisce una dimensione etica altra ed è, in fondo, la cifra più inno- vativa del regista proprio per gli esiti visivi che impongono agli spettatori una lettura critica dei fatti esposti nel film. Il commento autoriale sulla realtà che indaga si avvale di un profondo amore e condivisione di impegno con Pier Paolo Pasolini, quest’ultimo percepito come un padre da non combattere ma anche da non dimenticare nella sua rabbia da poeta. I versi dell’artista vengono spesso evocati, se non addirittura usati, per i titoli dei film di Giordana e costruiscono un fil rouge delle tematiche esaminate e ricorrenti negli anni e nelle varie opere del regista. La sua formazione politica si scontra con il disimpegno emergente nelle commedie atemporali prodotte negli anni Ottanta sofferenti, come anche il romanzo di quegli anni, di una sindrome del disimpegno e proiettate verso tematiche non afferenti al politico né, necessariamente, al sociale (28). Maledetti vi amerò (1980), come mettono in luce i due studiosi, segna dunque l’esordio di Giordana in un periodo con pochi ma notevoli tentativi di immaginare una narrazione per “il disfacimento morale e ideologico dell’epoca” (32), per quella “mancanza di un punto di riferimento, di un modello da seguire a in cui credere” (45). Consapevole di questo straniamento, Giordana rivela una propensione a lavorare con attori di teatro “meglio avvezzi a esprimere con il proprio sguardo e la propria voce le sottigliezze dei sentimenti umani” (29). Nel capitolo intitolato “La centralità pasoliniana” (53–82) si osserva la tematica legata ai padri e come questa converga spesso sulle figure di Moro e di Pasolini. Il collegamento fra i due “padri” viene proposto più volte ma emerge con maggior rilievo in quello che gli autori definiscono “il film della matu- rità espressiva” (81) di Giordana, Pasolini, un delitto italiano. Un film, questo, in cui l’esame delle cause della morte del regista fa affiorare l’incapacità tutta italiana​ — ​un dramma molto italiano​ — ​di abbandonare per una volta il terri- torio dell’ambiguo (57). La stessa posizione rispetto a Pasolini rivela le ambi- guità legate a un prolungato suo lutto da parte degli intellettuali che interseca la visione del martirio dell’artista sviluppata da parte della stampa. Giordana riflette sul lato oscuro, tollerato, ma mai perdonato a Pasolini, quello che definisce la “dimensione notturna” dell’artista. Come scrivono Olivieri e Paparcone, l’uso della pellicola in bianco e nero in questo film, ma anche in altri, 516 . ANNALI D’ITALIANISTICA 36 (2018)

“va inteso non solo come il colore della documentazione del passato ma anche nella forma dell’immagine ricostruita e reinventata, sempre inseguendo la verità storica” (69). I due studiosi sottolineano il valore etico e innovativo del cinema di Giordana nel film I cento passi (2001). Situato contro la filigrana del delitto Moro, il film sulla storia del sindacalista Peppino Impastato ha il grande merito di costituire una vera e propria occasione nella sua resa cinematografica per fare conoscere al vasto pubblico la vita di martire civile segnato dalla mafia. Fare un film sulla mafia nel 2000 voleva dire ripercorrere tutta una serie di modalità fin troppo articolate negli anni rispetto alla Sicilia, a quella Sicilia. Cosa voleva dire, allora, raccontare la storia di Impastato diventa un’occasione per investigare temati- che note da una prospettiva diversa: l’amore per la madre, un tema fortemente pasoliniano, riveste la superficie di una storia di abuso di potere, quale quello della mafia sul ragazzo Impastato, di una patina di poetico che difficilmente si può dimenticare. Pieno di riferimenti al prestigioso assetto narrativo provvisto dal cinema italiano riguardo al problema della mafia e della mentalità mafiosa (si pensi alle panoramiche di luoghi già ripresi da Francesco Rosi in Salvatore Giuliano), I cento passi​ — ​grazie alla toccante sceneggiatura di Monica Zapelli e Claudio Fava​ — ​collega temi cari a Giordana quali l’impegno e la lotta di classe innestandoli nel tema mafioso sullo sfondo del clima politico e sociale italiano segnato dalla prigionia di Aldo Moro. Questo coacervo di tematiche non disto- glie l’interesse dal biopic su Impastato, tutt’altro. Contestualizza invece il ruolo del sindacalista in una Sicilia che voleva dimenticare tutti i padri da un lato​ — ​ accogliere la dissidenza degli hippies contro il rigido sistema sociale italiano​ — ​ ma anche i padrini, zii e parenti tutti, e far conoscere simultaneamente la vita di un ragazzo umile che voleva cambiare il mondo. Un desiderio, questo, di cui si fa interprete in modo significativo la colonna sonora. In definitiva, credo che qualunque cultura viva di omissioni necessarie per la costruzione di una narrazione ufficiale, e l’Italia non si discosta in questo dalla realtà di altri paesi. Un problema molto italiano, invece, è proprio quello di definire “italiano” quello che solo “italiano” non è. Ma Giordana ha la forza della convinzione dalla sua, quella convinzione che gli consente di concepire, insieme ai suoi fidatissimi collaboratori Rulli e Petraglia, una narrazione tutta italiana di una realtà che, a distanza di anni, conserva tutte le ambiguità che le si vogliono attribuire. La meglio gioventù, per esempio, riflette su un tracciato storico contemporaneo che si percepisce strappato, logoro, finto come le par- rucche indossate dagli attori. Ancora una volta Giordana non propone quello che è esattamente accaduto ma una sua ricognizione e narrazione personale e Italian Bookshelf . 517 fittiva partendo dal nucleo più simbolico: una famiglia con un padre meridionale e una madre settentrionale. I personaggi sono emblematici e ricoprono il duplice ruolo di gente qualunque, ma non tanto: si pensi alla sorella giudice, a Carlo ban- chiere, a Nicola psichiatra innovatore, ai quali la Storia fa danni irreparabili. La loro posizione rispetto ai vari problemi innervati nella società risulta essere assai diversa come se Giordana ci offrisse la possibilità di avere sempre e comunque una scelta. Come bene scrivono Paparcone e Oliviero, la loro ricognizione nel cinema di Giordana si rivela a fine lettura un vero e proprio “viaggio” (199) nell’immagi- nario e nella produzione del regista. La sua centralità nel panorama cinematogra- fico italiano risulta indiscussa non soltanto per gli ovvii meriti di Giordana, ma anche e soprattutto per la sapiente opera di ricerca e scavo nelle pieghe del suo impegno da parte degli autori. Corredato da una filmografia e bibliografia assai utili per gli studiosi e per gli studenti, questo è un testo importante non soltanto per gli addetti ai lavori e per gli studenti di cinema, ma anche per il lettore che voglia capire meglio le dinamiche esistenti fra influenze e strategie innovative, fra impegno e estetica, e come tutto sottenda al valore finale dell’opera persino in un periodo apparentemente lontano dall’impegno programmatico del nume di Giordana: Pier Paolo Pasolini. Inoltre Paparcone e Oliviero mettono soprat- tutto in rilievo come l’atteggiamento di apertura critica di Giordana “scava con rigore nei misteri italiani e negli eventi cruciali della Storia di un paese” (200) non limitandosi mai al senso generale e collettivo della storia ma ridando valore a ciascuno di noi. Quello che Paparcone e Oliviero intendono per “il senso della vita di ogni singolo individuo” (200), come anche il suo “responsabilizzarsi” (203), pare essere il monito di Giordana: capire la storia per capire noi stessi e muovere il cittadino all’azione politica. Stefania Lucamante, The Catholic University of America

Vetri Nathan. Marvelous Bodies: Italy’s New Migrant Cinema. Purdue Studies in Romance Literatures 70. West Lafayette (IN): Purdue University Press, 2017. Pp. 266. Vetri Nathan’s Marvelous Bodies offers a systematic investigation aimed at establi- shing a “dynamic link between Italy’s new migrant cinema and historical genres of Italian cinema” and a better understanding “of the continuing hybridization of personal and collective identities in Europe and beyond” (226). Rather than provide an exhaustive list and analysis of prominent or commercially successful productions (although some are included), Nathan focuses on a selection of 518 . ANNALI D’ITALIANISTICA 36 (2018)

“the most familiar and representative works of new migrant cinema” produced between 1990 and 2010 that “pose challenging questions about the study of transnational and globalized cinema and culture” (1). The thirteen films consi- dered (plus Into Paradiso, used as a “guide” to the conclusion) are divided the- matically to help the reader “understand the multitude of strategies being used by the Italian cinematic industry to represent a changing society while seeking to provide a valid theoretical framework to understanding these strategies” (8). At the center of his analysis, concerned with both “how these films repre- sent immigrants in Italy” and “what they tell us about the Italians themselves” (12), Nathan attempts to stake posts in a shaky but nonetheless fertile terrain and stimulate reflections on how these films “mirror an ordering of society in the face of the vital crisis of immigration,” and provide an overview of the formal elements and cinematic strategies adopted in these productions to show how “stereotypes of nation, race, gender, and culture intersect in creating a coherent national cinematic body that includes or excludes immigrants” (8). Nathan’s project is supported by a clear and well-established theoretical framework based primarily (but not exclusively) on a postcolonial lens and the specificity of the Italian case, defined as a “chronically” or “permanently hybrid” society characte- rized by a “chronic ambivalence.” The result is an accumulation of “marvelous bodies” (borrowing from the title of Stephen Greenblatt’s Marvelous Possessions: The Wonder of the New World) suspended and unmasked through alternative paths, revealing their nature and ambivalence, which leave the spectator in an “unsaid eruption of an ambivalent feeling” that “coincides with a moment of stu- por​ — ​a feeling of being dazed but also astonished, where the viewed spectacle becomes not one of pleasure in access to the stereotype but an experience of disorientation, of going beyond” (50–51). The introduction and first two chapters, respectively entitled “Cultural Hybridity in Italy” and “Beyond Neorealism: The Cinematic Body-as-Nation,” offer an extensive theoretical and socio-historical framework. Chapter 1 provi- des an essential reconstruction of Homi Bhabha’s postcolonial theory and spe- cifically that of “cultural hybridity,” while chapter 2 reflects on the relationship between postwar Italian cinema and contemporary Italian migrant cinema, the latter defined as a “hybrid” genre divided (or rather enriched) by a “‘realist’ and a ‘humoristic’ mode.” It is through this lens that Nathan goes on to examine in the three subsequent chapters a rich selection of films representative of Italy’s new migrant cinema (among which Matteo Garrone’s Terra di mezzo, Gianni Amelio’s Lamerica, Emanuele Crialese’s Terraferma, Michele Placido’s Pummarò, Italian Bookshelf . 519

Vittorio De Seta’s Lettere dal Sahara, Vittorio Moroni’s Le ferie di Licu, Giuseppe Tornatore’s La sconosciuta, and Mohsen Melliti’s Io, l’altro). The “marvelous bodies” unveiled through the author’s original and convin- cing analysis are divided thematically and organized coherently into three main chapters, making the study easily accessible despite the vast number of primary sources: “Ambivalent Geographies” (chapter 3), “Ambivalent Desires” (chapter 4), and “Ambivalent Moralities” (chapter 5). In particular, the emphasis on spa- ces and landscapes in chapter 3 supports the thesis that Nathan builds over the two subsequent chapters. Noteworthy are the reflections on the symbolic value of the Mediterranean in reference to Crialese’s Terraferma (but applicable to other films as well) “as a privileged space of suspension” and “location of a fun- damental contradiction” (121). It is in this central chapter that the author reve- als the efficacy of cinematic language and effectively explains how these films should be recognized not so much for their ability to imbue the spectator with an understanding of the Other’s identity, but rather to problematize questions related to Italian-ness and in-betweenness in relation to the aforementioned concept of cultural hybridity. Chapter 4, “Ambivalent Desires,” is focused on “the complicated ordering of positions of desire, both between characters in the various diegetic worlds, as well as between the viewers and the gendered bodies viewed on screen” (131). Of the five films analyzed, Le ferie di Licu is probably among the most fitting primary sources for the research queries posed in the study, while Bianco e nero feels more like an unwelcome guest that Nathan introduces mostly as an example of the persistence of “palatable stereotypes” within a “politically cor- rect screenplay” (157) that nonetheless lacks the “marvelous bodies” present in the other films analyzed, making the presence of such an extensive analysis within the volume somewhat debatable (along with that of Il resto della notte in the following chapter). The final and perhaps most critical chapter, “Ambivalent Moralities,” provides evidence that the “realist tendency” of Italian cinema often “reasserts immigrant stereotypes” such as that of the immigrant-criminal. The films selected for analysis (La sconosciuta, La doppia ora, Il resto della notte and Io, l’altro) provide strong examples of how exploring the migrant condition can be “a mature and integral part of the Italian cultural discourse” (188) while also underlining the consequences of failed attempts to capture the complexity and fragility of cultural hybridity, which the author likens to the “final image of thre- atening hybridity” (211) that leads to Yousef’s murder in Io, l’altro. An undoubtedly important contribution to Italy’s new migrant cinema that will appeal to both scholars and students of cinema and Italian Studies, 520 . ANNALI D’ITALIANISTICA 36 (2018)

Marvelous Bodies provides a clear and original analysis, the thematic organization of which is both functional and effective. The precise and well-structured theo- retical framework allows Nathan to maintain focus on his initial research queries even amidst the depth and breadth of stimuli of the selected films, though it also risks imprisoning and limiting the potential interpretations and discussions that might otherwise arise from such a rich and diverse selection of films. Daniele Forlino, Southern Methodist University

MIDDLE AGES & RENAISSANCE

Rossana Fenu Barbera. Dante’s Tears: The Poetics of Weeping from “Vita nuova” to the “Commedia”. Biblioteca dell’“Archivium Romanicum” Serie I: Storia, Letteratura, Paleografia 468. Firenze: Leo S. Olschki, 2017. Pp. XVIII + 206. Having taught the Vita nuova for almost forty years, I know well the question my students often pose: “Why does Dante cry so much?” This second study by Rossana Fenu Barbera​ — ​the first focuses on a contemporary topic: La donna che cammina: incanto e mito della seduzione del passo femminile nella poesia italiana del primo Novecento. Ravenna: Longo, 2001​ — ​proffers a complex answer by means of an in-depth analysis of “the theme of weeping in two of Dante’s major works, Vita nuova and the Commedia, demonstrating its centrality in the development of Dante’s lifelong search for a new poetics” (IX). No brief answer can do the question justice, just as no thousand-word review can do justice to a nuanced study such as Dante’s Tears. Tears in Dante carry multiple meanings, sometimes positive and sometimes negative; their interpretation depends on the context (who weeps and when and where it occurs). Tears in the Vita nuova evolve in signification as the poet matures. They range from evidence of struggles with youthful lust to an indication that one is on the path to salvation; they may be compared to or contrasted with the sinners’ static tears in Inferno and the purged souls’ salvific tears in Purgatorio. In this last case, holy tears may be subdivided, per patristic writings, into further categories, such as “spiritual tears” that “reflect sanctity,” “tears of sorrow” that point to “deep compassion [. . .] for others,” and “tears of repentance” that indicate contrition of heart or regret for sin (36). Divided into an introduction, five chapters, and a succinct conclusion, this tightly focused and well-organized study ends with a lengthy list of works cited and a useful index of names. I offer one cavil at the outset. Perhaps the most important previous study of tears in the New Life ​— ​Stefano Carrai’s Dante Italian Bookshelf . 521 elegiaco: una chiave di lettura per la “Vita nova”​ — ​is never cited. Given its rele- vance to the topic of crying, tears, death, laments, and sighs in the Florentine poet’s early work and that Carrai’s interpretive key was also published by Olschki more than a decade earlier, such an oversight seems strange. In introductory remarks Barbera reviews three categories of tears identified by the scholar Kallistos Ware: “Natural tears manifest pain, suffering, and com- mon physical or mental state of being. Supranatural tears bring one closer to God and to well-being, while contranatural tears are sent by Satan to deceive and to cause trouble” (X, emphasis mine). The first chapter, “Dante’s Poetics of Tears: Vita nuova, the Number Nine, and the Daemonium Meridianum,” discusses both “the performance of weeping” (1), as exemplified in Roman love elegies (e.g., Propertius), and “the meanings of the number nine” (2), both positive and nega- tive. The poet’s early tears are primarily natural and represent a wide range of emotional and physical states, initially including “an act of concupiscence” (7) and a “melancholic disease” produced by an excess of black bile (10). Such tears are obviously “connected to his lovesickness” (16). Barbera’s greatest contribution in the first chapter, however, is to suggest possible meanings of the number nine in malo. She cites, for example, the legend that Satan had nine daughters; she also interprets Dante’s “Ora Nona” as something other than the “ninth hour” (meaning 3:00 p.m.), which is the tradi- tional reading. Instead she reads the expression as the “noon hour” or nones, the hour of the noonday demon and “a time for temptations” (29). Dante’s weeping as he awakens from his (noonday) dream of a naked Beatrice is interpreted as an attempt to ward off lustful thoughts through the shedding of tears rather than the ejaculation of sperm, an allusion to the medieval theory that “sperm and tears derived from a common physiologic formation in the blood” (89). Barbera argues that, as the poet ages, his tears evolve from bitter to sweet, from the means of ridding himself of lust to the expression of “contrition, penance, and purifica- tion of the soul” (38). The second chapter introduces the theme of weeping in the Inferno, where “tears are not a tool to fight back temptations, but something else” (42). At the most basic level, tears in Hell “describe and validate the suffering of the sinners” (43); in large part, however, they are seen as “‘untrue’ tears, false tears, ultima- tely diabolic tears” (51). Barbera focuses her discussion of tears in Hell on a consideration of Paolo and Francesca, whose tears avail them nothing in terms of their redemption. In chapter three, “Deceptive Weeping: The Devil’s Tears,” the author offers more examples of such contranatural tears. Soothsayers from their twisted heads shed tears that bathe the cleft of their buttocks; the Old Man 522 . ANNALI D’ITALIANISTICA 36 (2018)

of Crete excretes tears that eventually help form the lake of Cocytus; and Satan weeps from six eyes as he gruesomely masticates sinners in his three mouths. Again, such false tears parody the true tears of contrition that save. Chapter four, “Frozen Tears in Lower Inferno,” presents Cocytus not only as “an accumulation of frozen tears of all humans as well as of the infernal sinners” (122) but also as an ironic setting for Hell’s worst denizens. Sinners in Hell’s ninth circle cannot freely weep because of the blockage caused by frozen tears in their eye sockets. As Dante explains, their very tears will not allow them to cry: “Lo pianto stesso lì pianger non lascia” (Inf. 32.94). God does not allow these traitors to weep because “barring these sinners from weeping denies repentance to them and prevents others from showing compassion toward them” (138). The final chapter, “Weeping in Purgatory: Last Tears for Dante,” explains how tears can become “a path to God” (143). In Purgatory, “contrition, repen- tance, and weeping are all interconnected”; the tears of the souls being purged “are dynamic, not static” (144). The power of even a single small tear to save is exemplified in the story of Buonconte, saved while dying on the battlefield by “una lagrimetta” (Purg. 5.107). Weeping becomes “proof of the sincerity of an act of contrition”; Dante “replaces the language of words with the language of tears” (151). In fact, Dante the pilgrim’s tears, more than his words (see Purg. 31.13–20), prove to Beatrice the sincerity of his regret for his sin. While many Dantisti will object to Barbera’s conclusion that Dante’s sin “is related to attributing negative images to [Beatrice], and perceiving her as a dua- lity of good and bad” (192), Dante’s Tears nevertheless contains a plethora of new insights into the medieval hermeneutics of weeping and is a “must read” for those same Dante scholars. Madison U. Sowell, Southern Virginia University

John C. Barnes & Daragh O’Connell, ed. Dante and the Seven Deadly Sins: Twelve Literary and Historical Essays. Dublin: Four Courts Press, 2017. Pp. 359. In Barnes and O’Connell’s volume, rich and complementary perspectives pro- duce a comprehensive picture of Dante’s role in the history of the representation of sin throughout the centuries. It also explores the specific theories and appli- cations intrinsic to Dante’s inimitable incarnations of the nature of sin itself in the Commedia. The twelve articles each balance an outward focus on historical contextualization with an inward emphasis on narrative analysis. Italian Bookshelf . 523

Christian Moevs’s article “Triform Love and the Structure of the Commedia” persuasively argues via an amplification and extension of Singleton’s 3+1+3 the- ory​ — ​originally discovered and demarcated by the center of Purgatorio​ — ​for an extension of Singleton’s triadic structure to relate to and govern the entire Commedia. He provides abundant evidence for a long list of tripartite correspon- dences, developing new perspectives on the Commedia’s articulate dichotomy between man’s self-seeking love and the unselfish, altruistic love of God. Also addressing a fundamental dichotomy in man’s conflicting experience between the flesh and the Spirit, John Took’s essay “Dante, Pride and the Gentle Dialectic of Love” engages the reader with a discourse on how Dante’s opus meditates on and ultimately expresses resolution toward the pluri-dimensiona- lity of man’s twofold experience as God-centered and man-centered. Ultimately the pilgrim moves from pride to piety, from self “in the image of self” (84) to self “in the image of God,” but not without passing through the Purgatorial cantos of pride in which Took also shows us that spiritual discipline is found where maxi- mum tension between resting in God and resting in the self is resolved. “Pride and Friendship: On Cavalcanti’s Role in the Commedia” by Angelo Mangini develops the argument that Cavalcanti may not be as absent from the Commedia as is often thought; Mangini’s reading exposes the ghost behind the rhymes. By pointing to rhyming word correspondences in major scenes​ — ​the dark wood, the pilgrim’s relationship with Virgil, the encounters with Matelda and Beatrice​ — ​Mangini shows that not only is Cavalcanti’s technical poetic influence present, but also that these scenes are the realization of Dante’s ide- alized situations, wherein Virgil, especially, but also Beatrice and Matelda are able to provide with humility the call that Cavalcanti, in his pride, was unable to satisfy. Both Daragh O’Connell and Hannah Skoda, in their articles “‘Whorish Eyes’: Envy at the Court of Vice” and “Anger in Inferno and Purgatorio,” respecti- vely, demonstrate how Dante represents sin’s degrading effect on language. Dante’s use of corrupted language​ — ​whether the “crooked words” of envy (O’Connell), or the linguistic breakdown resulting from anger (Skoda)​ — ​ effectively marks the presence of “sin.” In the case of anger, Skoda shows us how, in developing a clear relationship among language, anger, and the law, Dante contributes to the medieval distinctions between righteous and unjust anger. O’Connell’s article also pays significant attention to how Dante, through the imagery of “whorish eyes” in Inferno XII is able to capture the ever elusive, shifting nature of envy, that “perverted pleasure that is felt at another person’s misfortune (93),” that “love of hatred (93),” that “something which permeates 524 . ANNALI D’ITALIANISTICA 36 (2018)

sinful acts, or better, begets other sins (99).” Also examining elusiveness is the article on “Dante and the Capital Sin of Accidia” by Marco Dorigati. Dorigati locates acedia (sloth) in the presence of the acidic, corrosive fumes that hover over the fifth circle of Inferno, a substance represented exter- nally, though threatening to the most intimate, unseen chambers of a person’s being. In Purgatorio XXII, Dorigati traces a connection among Dante, Statius, Nicodemus, and the Renaissance artist Michelangelo, revealing the insidious manifestation of this “acidic” and “lento amore,” the “inactive melancholy” and “negligent delay” that closets Christians, and internalizes, slows down, and hushes impulses to be outward and alive for Christ. He continues by examining the evolution of this vexing condition and its articulation across Petrarch and even into the present day (Landolfi). Together Robert Black and Margaret More O’Ferrall in their respective arti- cles, “Dante and Avarice: Some Historical Contexts” and “Dante, Avarice and the Roman Dimension,” trace the vice of avarice through its historic and literary lineages up until the time of Dante. While Black pays particular attention to eco- nomic, political, and papal greed, More O’Ferrall focuses on Dante’s decidedly pro-Roman influences, the first of whom, of course, is Virgil, but also Cicero and Boethius. Contributing to the bulk of Black’s examination is his attention to two powerful cultural shifts: first, when Europe and Italy developed into a “money economy,” and second, when the Papal monarchy emerged as a temporal power. Guyda Armstrong examines the “enduring bond between the book and the body” (269) in the article “Dante’s Gluttons: Materiality, Corporeality and the Book. Reading Dante in the Light of Foucault.” Armstrong directs our focus not only to the text as a body, but also to the body as a text. The article shows first the significance of the gluttons’ aerial bodies in instructing readers on the nature of the corporeality of Dante’s fictional afterlife bodies. Then it surveys the evo- lution of illustrated depictions of the gluttonous bodies over the first hundred years of print history, investigating the “body within the body of the book itself (249). Finally, it considers the physical bond between the bodies of Dante’s rea- dership and the body of his text. Tristan Kay identifies in the Commedia’s poetics a “profound and unresolved ambivalence towards erotic love” (276) into which he delves via examinations of Inferno V and Purgatorio XXVI. Kay’s excellently articulated reflections unearth evidence of an “integration of eros and spirituality” (276) in the Commedia that rejects dualistic conversionary paradigms on the one hand, and embraces ambi- valence on the other, transforming the lyric tradition “synthesizing ethics and aesthetics” (292) and redeeming it from within. Italian Bookshelf . 525

George Ferzoco and John C. Barnes bring the volume to a close with Ferzoco’s investigation of cowardice and the unnamed sinner of Inferno III, and Barnes’s conversation about autobiographical evidences of Dante’s own sins. Overall, the volume offers a historically grounded, critically powerful inve- stigation, tracing the thematic lines of deadly sin in the Commedia, capable of furnishing students and scholars with new insights into Dante along this focused perspective. Ellie Emslie Stevens, Pepperdine University

W. Scott Blanchard and Andrea Severi, eds. Renaissance Encyclopaedism: Studies in Curiosity and Ambition. Toronto: Centre for Reformation and Renaissance Studies, 2018. Pp. 467. This collection of essays, as the title suggests, revolves around the theme or, more exactly, paradox of encyclopaedism in the Renaissance. During the Renaissance, unlike the Middle Ages, scholars did not compile works that we might properly define as encyclopaedias. Nonetheless they developed an encyclopaedic appro- ach to knowledge, conceived as a structured system of disciplines, one that would decisively inform the modern concept of learning. Drawing on previous scholar- ship, W. Scott Blanchard and Andrea Severi, the editors and authors of the intro- duction, identify the main cause of this development with the fifteenth-century rediscovery of ancient Greek manuscripts and the advent of the printing press, which played a pivotal role in the dissemination of texts. The stance that the edi- tors choose to adopt, one that shapes the entire volume, consists in their empha- sis on how the emerging philological practices devised by humanists represent the key to the understanding of Renaissance encyclopaedism. Subsidiary con- tributions were the Platonic perspective on knowledge as a harmonious whole, the Aristotelian tradition and, more importantly, Quintilian’s precept, advocated by many humanists, that every kind of literary text was worthy of detailed exa- mination. As for the origin of the term, the word “encyclopaedia,” which can be traced back to the Hellenistic expression enkyklios paideia which later became absorbed in Latin literature, was reintroduced in Renaissance Italy via the circle of Vittorino da Feltre. It came to have different meanings, oscillating between an educational programme based on humanist principles, on the one hand, and, on the other, reference works for scholars exploring classical antiquity. In any case, Blanchard and Severi argue, the notion of encyclopaedism was central to the humanist imaginary and provoked a variety of intellectual responses. 526 . ANNALI D’ITALIANISTICA 36 (2018)

The essays composing the book concentrate on various authors and wri- tings emblematic of Renaissance encyclopaedism. Lorenzo Valla’s Elegantie lingue latine, as discussed by Clementina Marsico, expounded the idea that a cultural rebirth was strictly dependent on the revival of classical Latin. Giovanni Tortelli’s Orthographia, the theme of Paola Tomè’s chapter, stressed the impor- tance of orthography as a means for gaining a deeper comprehension of the Greek and Latin literary heritage, notably poetry. Anne Raffarin focuses on Flavio Biondo’s treatises, which marked the beginning of a novel approach in the study of ancient history. Biondo analysed the original purposes of monuments that had fallen into ruin by his time and developed an innovative methodology built upon the complementarity of diverse techniques. Loredana Chines’s contribution explains how the blossoming of philology in Bologna proved to be a fertile ground for the rise of encyclopaedism, of which two forms may be distinguished, one esoteric and the other exoteric. The former, which largely consisted of annotations in the margins of texts, was a personal reading practice, whereas the latter, the humanist commentary, assumed decidedly public and pedagogical connotations. Ultimately, the commentary became a genre in itself, permitting scholars to organise knowledge according to their own standpoint. Codro Urceo, professor at the University of Bologna, accepted encyclopaedism in an ironic vein, as underscored by Severi. In his Sermo primus, an academic pro- lusion for a course on Aristophanes, Codro employed the rhetorical expedient of the catalogue to lampoon the vain dream of omniscience pursued by, among others, philologists. And yet his scepticism was moderate, in that he satirised the excesses of philology without rejecting its value. Annarita Angelini illustrates how Angelo Poliziano aimed to broaden the boundaries of humanist culture by opening it up to usually neglected disciplines and making it available to a larger public. He thus laid the foundations for a system of knowledge alternative to the one established in the studia of his day. In his view, as discussed in Blanchard’s chapter, philology and poetry were integral to each other, the former being an indispensable instrument for uncovering profound meanings concealed in the latter. Giorgio Valla’s De expetendis et fugiendis rebus opus, as Dustin Mengelkoch highlights, presented prudence as the privileged pathway to achieve truth by eclectically blending Cicero’s Stoicism with Platonism, with which Valla shared the conviction that mathematics was the foundation of philosophy. Lorenzo M. Ciolfi explains how, inspired by the Byzantine scholar Michael Apostolis and his son Arsenius, Erasmus reshaped the genre of the proverb collection with his Adagia, in which he gathered an abundance of proverbs from the classical world in both Greek and Latin. He accompanied many entries with moral observations Italian Bookshelf . 527 or comments on their use, thus endowing his miscellany with an encyclopa- edic tone. The special attention that he paid to the indexes of the Adagia, as David Marsh remarks, clearly points to this encyclopaedic nature. Finally, Luigi- Alberto Sanchi’s chapter focuses on how the French humanist Guillaume Budé composed a series of works that aimed to provide a comprehensive understan- ding of antiquity through meticulous philological analysis of disparate sources, from lexicons to historians and technical authors. Characteristic of his style is a prose replete with digressions, which gives his works a fragmentary character. Despite the quantity of contributions and topics, the volume maintains a conceptual unity. At its core lies the emergence of what we might define as an “encyclopaedic trend” fostered by the intellectual elite in Renaissance Europe. The upsurge of interest in the classical languages that gathered momentum in the Quattrocento and the consequent enhancement of philology constitute the premise for this cultural phenomenon. By adapting the new philological skills available in their age to the concerns of their research, humanists gave a novel configuration to the classical heritage and to the idea of a system of knowledge in itself, paving the way for the separation of disciplines that would take place in the following centuries. Renaissance Encyclopaedism: Studies in Curiosity and Ambition has the merit of showing how this overarching argument may be applied with different nuan- ces to a wide range of authors, thus representing an important advancement in our understanding of Renaissance encyclopaedism. Scholars of Renaissance intellectual and literary history, as well as those interested in the notion of encyclopaedia, will certainly welcome this volume. Paolo Gattavari, PhD candidate, University College London

Antonello Borra, trans. and ed. Guittone d’Arezzo: Selected Poems and Prose. Toronto: University of Toronto Press, 2017. Pp. 241. During the latter part of the thirteenth century, traditional literary poetics became increasingly problematic to uphold, as new literary beliefs gradually emerged. Guittone d’Arezzo’s fame was indeed called into question by later poets like Dante Alighieri. In the face of constant reappraisal and redefini- tion, this scholarly volume is very timely. Antonello Borra’s elegant anthology encompasses a substantial collection of prose and poetic works by the medieval author, whose importance cannot be overstated. In fact, this is the first modern edition in English translation of some of Guittone’s works. Additionally, while it is Borra’s intention to provide English-speaking scholars with a translation of 528 . ANNALI D’ITALIANISTICA 36 (2018)

Guittone’s poems, this volume also offers medievalists from all fields an oppor- tunity to appreciate the poet’s literary impact across the centuries. After an introductory chapter, Borra divides this scholarly work into five sections, followed by a bibliography and an index of names. In the first section Borra studies “four of the 34 letters in Claude Margueron’s critical edition” (15). In section two, he integrates two canzoni and two religious ballades from Friar Guittone’s Canzoni. In section three, Borra discusses four canzoni that represent the poet Guittone’s status before his conversion, which was believed to be “first and foremost a literary” conversion (18). The last two sections comprise a series of sonnets that Borra divides between Guittone’s Teaching of Love and the son- nets on Vices and Virtues. The order of these translations reproduces the sequence found in a manu- script from the Biblioteca Laurenziana, an arrangement that starts with the correspondence and ends with the sonnets (15). By way of comparison, Borra mentions two other manuscripts. The first is the Pisan (L), which is in canzo- niere Laurenziano Rediano 9 and is located “in Florence’s Biblioteca Mediceo Laurenziana with the shelf mark Redi 9” (14). This manuscript contains “474 texts” of which “274 are attributed to Guittone alone.” The second manuscript is the Florentine (V) patina, which is in the canzoniere Vaticano 3793, and it is located “in Rome’s Biblioteca Apostolica Vaticana with the shelf mark Vaticano Latino 3793.” The latter is the largest collection of “lyric poetry” and it contains almost “one thousand texts,” which are divided into “canzoni (texts 1–325) and sonnets (texts 326–995)” (14). Borra also claims that these manuscripts con- tain “difference[s] in spelling as well as [. . .] metrical inconsistencies” (15). As a result, reading this work follows the progression of Guittone’s poetic activity beginning with a youthful period (canzoni XVII, XVIII, and XIX) and procee- ding on to his conversion and his time of religious moralism, because of which he develops “the palinode of his love poetry, and the praise of religious language” (22). The methodological procedure that emerges through the gradual develop- ment of Guittone’s moralism diminishes the poetic challenge by poets like Dante Alighieri. Beginning with the Friar’s Letters and his Canzoni, the significance of this poetic medley occurs with the moral authority that these works convey. By choosing canzone I and II, Borra presents them as moral examples that reflect the period prior to Guittone’s conversion. At the same time, Borra seeks to under- score Guittone’s didactic tone, which is believed to originate from his teachings, or the so-called “Provençal ensenhamens” (16). For instance, Letter II relies on “evangelical wisdoms,” where his didactic tone is analogous to the degree of “the Italian Bookshelf . 529 political struggles” (30). One particular letter that reveals verses indicative of the troubadours’ influence is entitled “A Orlando da Chiusi,” which provides valuable insights into Guittone’s literary penchants. To accentuate the didactic aspect within Guittone’s Letters, Borra discusses the medieval Latin tradition of prosimetrum, a literary genre that consists of juxtaposing poetry and prose (16). Borra’s selection of Guittone’s Canzoni and Sonnets is worth examining for two reasons. Among the four canzoni chosen, the first one, Se de voi, donna gente, is pivotal because it guides the reader “towards a parodic reading of all his amo- rous writing” (18). Borra specifies a shift in Guittone’s tone from the trouba- dour genre to irony in some of his canzoni to love in some sonnets. In fact, Borra employs the notion of love through the obsessive thinking about the desire object in sonnet I entitled “Me piacie dire com’io sento d’amore” (122). Besides representing the beginning section of the nature of love in Borra’s selection, this sonnet reveals also the notion of love as a codified set of behaviors. On the other hand, Borra incorporates the final sequence of Sonnets in Vices and Virtues, which echoes Friar Guittone’s role and his proper vocation to teach. The sonnet “Gloria vana, tu furtivamente” is a good example of the way in which the poet aims at reaching the “real goal of a worthy action,” which according to Borra should consist of “the good and the love of good for itself” (188). Furthermore, with the political canzone “Ahi lasso, or è stagion de doler tanto” on the defeat at Montaperti, Borra also suggests that he includes this text to reveal the influence of Guelph politics (112). The death of a real person is replaced with the symbo- lic death of a city. Likewise, while these last selected works mark the beginning of Guittone’s literary conversion, Borra’s selection of canzoni and sonnets assists the reader in experiencing Guittone’s taste for teaching, his tendency for rea- soning, and his propensities to employ literary works within the parameters of linguistic tradition. With this translation, Borra has sought to make selected poems and prose by Guittone accessible to a wider audience, and in fact readers will find this anthology indispensable in considering these poems as an innovative segment of Guittone’s poetry. Borra has intentionally selected works that correspond to the medieval poet’s artistic and literary perspective. The translations are faithful to the original prose and poetry as well as pleasing to the modern reader and will be useful to medievalists in understanding the impact of Guittone d’Arezzo’s oeuvre over the centuries. Aniello Di Iorio, PhD. Candidate, University of Wisconsin, Madison 530 . ANNALI D’ITALIANISTICA 36 (2018)

Matteo Bosisio. Verità, amore, responsabilità. Le figure femminili ne “Il Torrismondo”. Palermo: Euno Edizioni, 2017. Pp. 168. Il volume si apre con un’introduzione in cui l’autore delinea le vicende compo- sitive, editoriali e filologiche del testo (1), la sua ricezione nel Cinquecento e nei secoli successivi (2) e traccia una storia critica dell’opera nell’Ottocento (3) e nel Novecento (4). L’autore poi motiva la scelta del tema (5) con “l’esigenza di approfondire lo statuto innovativo attribuito da Tasso alle donne della tragedia” (18). Se la letteratura della prima metà del Cinquecento, infatti, si concentra su personaggi femminili virtuosi, la tragedia della seconda metà del secolo esplora personalità intraprendenti e, grazie ad esse, situazioni e sentimenti (come il suicidio, la disperazione, la degradazione morale) contrari all’etica cristiana. Le donne sono il motore della tragedia tassiana: la loro ricerca di amore e verità è la causa principale di dolori e morti; loro conferiscono il senso di smarrimento che domina l’azione e innescano la catastrofe finale (6). Dal punto di vista meto- dologico (7), l’autore dichiara di aver tenuto presente il contributo degli studi di genere, delle teorie della tragedia (dello stesso Tasso e di autori coevi), l’interte- stualità (con tragedia classica, testi letterari volgari e latini, produzione tassiana) e con la trattatistica contemporanea sull’amore e sulla donna. I quattro capitoli dedicati rispettivamente ad Alvida, alla nutrice, a Rosmonda e alla regina Rusilla, identificano i tratti più originali dei personaggi. Nel caso di Alvida l’elemento più innovativo è la sua natura conflittuale, che la rende preda di continue contraddizioni e incertezze di cui il suicidio è l’esito estremo. La nutrice, invece, si distacca dal topos tragico della donna saggia ed equilibrata, controcanto dell’eroina; al contrario la nutrice tassiana si fa coin- volgere nel dramma e non riesce a consigliare una soluzione. Rosmonda, se da un lato si differenzia dalle altre donne del Torrismondo per un maggior grado di autonomia, dall’altro si distacca dalle eroine della tragedia cinquecentesca nella sua incapacità di portare a termine i suoi propositi. Una parte significativa dell’a- nalisi del personaggio di Rosmonda è presente nel capitolo successivo, dedicato a Rusilla. La regina inizialmente si conforma alla topica figura del consigliere saggio mostrandosi razionale e ferma sulle sue posizioni; alla fine, però, passa dal ragionamento didascalico e dall’imperturbabilità al tono elegiaco, cedendo al linguaggio di Alvida e Rosmonda. Gran parte dei capitoli è costituita da un’analisi linguistica dei brani chiave, condotta con particolare attenzione per l’elemento semantico e retorico, accom- pagnata dall’analisi intertestuale. Nel capitolo su Alvida il confronto avviene principalmente con opere tassiane, autori cinquecenteschi e classici, e con le varianti della Tragedia non finita. Nel capitolo sulla nutrice l’analisi intertestuale Italian Bookshelf . 531 interessa principalmente tragedie, in particolare la Canace, e teorie della tragedia cinquecentesche. Anche l’analisi dei personaggi di Rosmonda e Rusilla è con- dotta principalmente in filigrana con testi teorici, come i Discorsi, con tragedie contemporanee e con la Liberata. Nell’analisi intertestuale dei brani che hanno per protagonista Alvida, la Liberata avrebbe meritato spazio maggiore (lo stesso che le è riservato nel capi- tolo dedicato a Rosmonda e Rusilla); in particolare avrebbero meritato un cenno le figure di Erminia, Clorinda e anche Tancredi. Di Erminia Tasso descrive sin- tomatologia amorosa, incubi (si vedano ad es. le ottave 64–65 del canto VI; o “né però cessa Amor con varie forme / la sua pace turbar mentr’ella dorme”, VII, 4, 7–8), dubbi e timori (“ma pur si ritrova in mille dubbi avolta”, VI, 78, 3; “Ma lassa! I’ bramo non possibil cosa / e tra folli pensier in van m’avolgo”, VI, 86, 1–2); di Clorinda Tasso usa la stessa immagine della neve sulla montagna ma con significato opposto (“Bianche via più che neve in giogo alpino”, VI, 26, 5). A Tancredi Tasso allude in maniera talora trasparente (in particolare XII, 75–78). Un maggior approfondimento avrebbero meritato anche l’analisi dei ruoli di genere, del valore sociale e politico, di castità e matrimonio, centrali nell’opera di Tasso (si pensi alle figure di Odoardo e Gildippe, Olindo e Sofronia, Rinaldo e Armida nella Liberata, e all’Aminta), condotta a partire dagli studi sui ruoli femminili nella prima età moderna (Zancan, 1983; Jordan, 1990; Kelly, 2000; Panizza, 2000; Zarri, 2000; Shutte, Kuehn e Seidel Menchi, 2001; Benson e Kirkham, 2005; Cox, 2008 e 2011; Ross, 2010; MacCarthy 2007; Sberlati, 2007; Sanson, 2007; Sauer, 2015). Nel complesso lo studio di Bosisio resta un utile strumento per l’approfon- dimento del Torrismondo e delle rappresentazioni femminili nell’opera tassiana, offrendo un quadro aggiornato della storia critica dell’opera e una approfondita analisi linguistica. Marianna Orsi, PhD, Indiana University, Bloomington

Christopher D. Cook. The 1965 United States Dante Stamp. Columbus, OH: Silver Anchor Press, 2017. Pp. 88. More than merely interdisciplinary, The 1965 United States Dante Stamp is truly a crossover in both content and design. Italianists who know nothing about stamp collecting and philatelic literature will learn how the commissioning of commemorative stamps can provide insights into the cultural values and aspira- tions of a community, in this case, Italian Americans who were seeking greater social status in mid-twentieth-century America. Stamp enthusiasts who know 532 . ANNALI D’ITALIANISTICA 36 (2018)

nothing about Dante will benefit from a concise introduction to the poet and his significance to world literature. Dantists who know little about the history and mission of the Dante Society of America may be surprised to discover that its leadership began engaging members of Congress in 1964 to introduce a bill to mark the 700th anniversary of Dante’s birth the following year. Book collectors, too, will delight in the selection of a typeface based on punches cut by Francesco Griffo for Aldus Manutius, Bordeaux red French endpapers, a hand-printed dustjacket, and the inclusion of original stamp specimens in this limited-edition volume, with each of the fifty copies produced signed by the author and publi- sher, Christopher D. Cook. Cook, a rare book cataloguer at The Ohio State University Libraries who majored in Italian at the University of Illinois, has been a member of the Dante Society since 2003 and a collector of Dante-related stamps from around the world for nearly as long. His collection and related research is featured on his website “Dante on Stamps,” which serves as “an authoritative resource and comprehen- sive catalog of postage stamps, first day covers, cancellations, and other philate- lic items depicting the medieval Italian poet Dante Alighieri” (see: http://www. danteonstamps.com/ds/about). The 1965 United States Dante Stamp represents a greatly expanded version of an article on the topic first published on his web- site in 2013 and subsequently in philatelic journals. In 2014, Cook received the American Philatelic Society’s annual Thomas F. Allen Award for the best article published in its Philatelic Literature Review for a contribution on publishing a stamp collection online. A versatile scholar, Cook has also published a biblio- graphy of the incunabula in the Westminster Abbey and Westminster School Libraries, and curated exhibitions on various subjects, including Dante. Cook’s treatment of the 1965 US Dante stamp is easily readable by the non-specialist and yet conforms to the methodology and standards of philatelic research. It complements an ongoing series of articles by Charles M. Posner on the nearly 120 American commemorative stamps issued between the 1950s and the 1980s. Cook’s volume documents in detail every aspect of the design and production of the Dante stamp, from the commissioning of book and magazine illustrator Douglas Gorsline for the original artwork, to its engraving and prin- ting, to the first day of issue ceremonies. If Dante and Shakespeare divide the world between them, as T. S. Eliot famously stated, it is fitting that the Citizens’ Stamp Advisory Committee selected Gorsline, as he had been commissioned to create the stamp commemo- rating the 400th anniversary of Shakespeare’s birth the previous year. Italian Bookshelf . 533

The idea for issuing a stamp commemorating Dante seems to have origi- nated with Joseph Fucilla, a professor of Italian at Northwestern University, a member of the national committee established by the Dante Society of America to plan anniversary programs. Cook’s archival research reveals how Fucilla and other committee members, including Thomas Bergin and Vincent Cioffari, partnered with regional Italian American organizations to lobby congressmen to introduce a resolution authorizing the Postmaster General to issue “a special series of postage stamps, of such appropriate design and denomination as he shall prescribe, in commemoration of the 700th anniversary of the birth of Dante Alighieri” (20). Dante would thus become the first non-English language poet honored with a US postage stamp. Three years later, Columbus Day would be declared a federal holiday, another marker of Italian American political and social ascen- dancy, as Cook points out. After rejecting Gorsline’s preliminary proposals for the Dante stamp, the Citizens’ Stamp Advisory Committee directed him to base his design on a por- trait of Dante recently added to the National Gallery of Art by the Samuel H. Kress Foundation. Titled simply “Allegorical Portrait of Dante,” it was the work of an anonymous Florentine painter of the late sixteenth century. The Postmaster’s initial order authorized the printing of 112 million stamps, but more than 115 million were eventually issued. A first day of issue ceremony was held on July 17, 1965 in San Francisco. Cook reproduces the speeches read by dignitaries, including a letter from President Lyndon B. Johnson, and lists the numerous organizations which sent delegates. It is unclear whether a represen- tative of the Dante Society attended this event, or another held in Washington that August. The Society’s secretary, Anthony De Vito, reported that “a first day issue of the stamp” was sent to all of its members, but Cook has not been able to match addressees of any first day covers with the Society’s membership lists from the time, nor identify a distinctive cachet commissioned by the Society (50). A first day cover, or cachet, is a printed, stamped, or hand-drawn postal card or envelope to which commemorative stamps are affixed and then processed by the postal service on the first day of a stamp’s issue to fulfill requests from collectors and enthusiasts. In the final section of the volume, Cook reproduces more than two dozen cachets that were produced for the 1965 Dante Stamp. Their desi- gns reveal a range of artistic responses to Dante, from hellfire and brimstone to cartoonish. My own copy includes an example of a first day cover designed by Artopages along with an original envelope and “stuffer” card advertisement for 534 . ANNALI D’ITALIANISTICA 36 (2018) the Ohio-based line-art firm, which supplied collectors with a variety of designs for Dante and other commemorative stamps. Commemorative stamps and stamp collecting are now less in vogue than they once were. Although they continue to provide a window into cultural and social dynamics, the Dante Society of America and Italian American organiza- tions will likely look to other ways of commemorating the 700th anniversary of Dante’s death in 2021. Christian Dupont, Boston College Secretary-Librarian, Dante Society of America

Valentina Denzel. Les Mille et un visages de la virago. Marphise et Bradamante, entre continuation et variation. Paris: Classiques Garnier, 2016. Pp. 617. The first part of the title corresponds to the work that follows, since it does indeed seem that Denzel has referenced a thousand and one different faces of the virago in the course of her 617-page study. The second part of the title, however, is misleading, at least for this reader, since it creates the expectation of encoun- tering Marfisa and Bradamante from their first appearance as characters​ — ​the former in Boiardo’s Orlando innamorato and the latter in the cantari tradition​ — ​ through the various continuations and variations in which they appear. Instead, Denzel goes back to antiquity and the Middle Ages before moving forward in a dense and rather unwieldy survey of references to the female warrior figure, often without a consistent guiding thread. The introduction states that the principal focus is “montrer comment les personnages de Marphise et de Bradamante ont évolué au cours du temps et quel rôle leur incombe dans les différents textes” (12). Although Denzel ack- nowledges that Ariosto’s heroines did not appear among the female warriors of French epic, she nevertheless includes the French tradition to show how fictio- nal characters from another historical context incarnated the quintessential traits of the “guerrière” (12). The focus of the book is thus restated as the tran- sformation of the female warrior figure in Italian and French letters. A further shift occurs as the study commences with an overview of Greek prototypes and medieval models (Part one). The final section (Part five) undertakes an excur- sus not only of literary texts but also of some theatrical and musical adaptations reaching into the twentieth century. These expansions in various directions, while generally informative and at times engaging, give the impression that an initial project on the evolution of Marfisa and Bradamante across different texts spilled out beyond its original contours without, however, constituting a new Italian Bookshelf . 535 organic whole. The book’s conclusion, alas, does not bring the various threads together, but instead combines some new material with the repetition of infor- mation from earlier sections. The lack of a clear interpretive focus is apparent from the opening para- graphs. The introduction begins situating the Orlando furioso against a generic “scénario traditionnel” which is defined as that of the knight taking up arms for love of a lady (7). Such a vague recourse to tradition may be what Cervantes parodies in Don Quixote, but to reduce everything written before the Furioso to this stereotype makes it impossible to situate Ariosto’s poem in its precise literary context. The author goes on to state that Marfisa and Bradamante are “l’exemple le plus frappant de cette subversion des codes” (7), as though they had originated in Ariosto’s poem as direct challenges to a chivalric stereotype rather than as characters inherited directly from Boiardo’s Orlando innamorato, the poem Ariosto was explicitly continuing. Although later in the introduction the author notes in passing that the two female warriors existed before Ariosto (citing in parentheses the Orlando innamorato without providing any context or points of comparison [12]), it could easily be missed that Marfisa was invented by Boiardo and Bradamante was transformed by him from the female warrior of the cantari to Charlemagne’s most trustworthy knight and future progenitor of the Estense family. This absence of literary contextualization renders the treat- ment of Marfisa and Bradamante in the Furioso and of the virago figure in gene- ral both haphazard and unreliable. In order to trace meaningful transformations of Marfisa and Bradamante across texts and traditions, the author could have eliminated the thousand and one faces of the virago from ancient Greek and Roman epic through to the Middle Ages or at least focused only on those presentations deemed to be most important as forerunners of the two Italian Renaissance donne guerriere. As there has already been substantial research on the classical Amazons as well as on medieval female warriors (both fictitious and historical), it would have been sufficient to refer the reader to the appropriate studies. The bibliography is divided by subject, which makes it handy for consul- ting the various topics but more difficult for locating authors. This may have led to some omissions in the case of a study that could be placed in two or more different categories. For example, given that Eleonora Stoppino’s work, cited in the book, fits “études sur le moyen âge,” “études sur l’Orlando Furioso,” and “études sur le genre et la querelle des femmes,” I checked to see its placement and found that it was not included in any section of the bibliography. More generally, although the overall bibliography is lengthy, the secondary literature on Marfisa 536 . ANNALI D’ITALIANISTICA 36 (2018)

and Bradamante in Renaissance literature is incomplete and there is a dispro- portionate reliance on a 2009 thesis from a French university student that was apparently never revised into a book. Although the absence of a clear organizing principle can make for a frustra- ting read, especially given the book’s length, there is nonetheless much useful information that can be gleaned by a patient reader. One of the most welcome aspects of this study is its inclusion of texts that are never or rarely mentioned in studies on Ariosto and the romance epic. I especially appreciated learning of the various adaptations that gave new life to the characters in subsequent, and often little known, literary, theatrical, and musical works. The author has cle- arly amassed an impressive array of examples, and that in itself makes the book worth consulting for those interested in the subject matter. It should be noted that this is the author’s first book and constitutes a revision of her dissertation. With more selectivity, contextualization, and structuring, this book could have emerged as a foremost contribution to the field. Jo Ann Cavallo,

Anton Francesco Doni. I Marmi. Edizione critica e commento a cura di Carlo Alberto Girotto e Giovanna Rizzarelli. Firenze: Leo Olschki, 2017. Vol. I, pp. V–XXXIV, 375; vol. II, 378–942. Finalmente possiamo leggere I Marmi di Anton Francesco Doni in un’edizione recentissima, accurata e commentata con rigore filologico e dovizia di sapere! Il capolavoro doniano apparve a Venezia presso l’editore Marcolini nel 1552– 1553, in quattro parti rilegate in una, e nonostante la novità o stranezza dell’o- pera, o forse proprio per il presentarsi come insolita, non ebbe molta fortuna editoriale. Fu ristampata, ma in modo infelice, nel Seicento, e poi nell’Ottocento ne fece un’edizione Pietro Fanfani (1863), quindi nel 1928 ne curò una nuova edizione Ezio Chiorboli per la collana laterziana “Gli scrittori d’Italia”. A parte una selezione nel volume curato da Carlo Cordié, Opere di Pietro Aretino, Anton Francesco Doni (Milano: Ricciardi, 1976) e una ristampa anastatica della princeps uscita in Spagna (Santiago de Compostela 1999), l’edizione indicata in espo- nente è veramente la sola che possa considerarsi “scientifica” e per molti anni a venire deve considerarsi un’editio ne varietur. La responsabilità dello scarso successo editoriale de I Marmi è da imputare alla natura stessa dell’opera, giudicata per secoli “bizzarra” per la stranezza e l’e- stemporaneità dei suoi dialoghi che si immaginano avvenuti fra popolani che si trovano in giorni diversi sui gradini del duomo di Firenze, noti come “i marmi”. Italian Bookshelf . 537

D’altra parte, proprio il presentarsi come caotica e imprevedibile, senza una linea che indichi un qualche piano di costruzione, ha contribuito a selezionare il pubblico dei fruitori: linguisti, alla caccia di riboboli e di espressioni popo- lari; studiosi di novellistica per l’abbondanza di aneddoti e di novellette brevi che l’opera contiene; folkloristi che nei Marmi trovano infinite allusioni a usi e costumi, e anche studiosi del pensiero ché nella nostra strana opera non man- cano neppure sezioni filosofiche e scientifiche. Un coacervo di materiali simili potrebbe far pensare al genere della selva, ma I Marmi non sono una selva o miscellanea di materie curiose, perché la sua “stramberia” si annida anche all’interno dei singoli dialoghi dove può capitare che un ampio discorso di sapore filosofico venga saltuariamente interrotto da osservazioni del tutto incongrue e spesso irridenti verso il discorso serio. Per questi motivi l’opera poteva interessare i lessicografi e i folkloristi, ma non atti- rava l’attenzione di critici letterari i quali non riuscivano a trovarne una chiave di lettura, un genere in cui collocarla, un sistema discorsivo che facesse capire se il capriccio caotico celasse una strategia o veramente sgorgasse spontanea dalla “bizzarria” dell’autore, il quale mostra la stessa vena in altre opere, anche se a volte è capace di discorsi rigorosi nonché di sagaci osservazioni artistiche. Ma le cose sono cambiate a partire dagli anni 70, anzi precisamente dal 1969 quando Paul F. Grendler pubblicò una serie di medaglioni di alcuni scrittori “irregolari”, solitamente indicati come “poligrafi”. Il libro si intitolava Critics of the Italian World (1530–1560). Anton Francesco Doni, Nicolò Franco and Ortensio Lando, in cui il titolo già annuncia l’elemento che accomuna questi tre scrittori, ed è la “critica” del mondo o almeno della cultura loro contemporanea di impo- stazione classicheggiante. Fu un punto di svolta e si capì che la bizzarria doniana nasceva da un bisogno nuovo di rompere con quella tradizione. Da allora in poi si è aperta una nuova fase di studi su questi autori irregolari e si è cercato di capire in che modo manifestassero il loro “spirito critico”. In sostanza si può dire che al criterio di “imitazione” sostituirono quello di “plagio” o di espropriazione del sapere enciclopedico umanistico per farne mostra, ma con una velata intenzione ironica o anche caricaturale. La nuova maniera di intendere la “irregolarità” di questi autori ha promosso la ricerca del loro retroterra culturale o, detto in modo più semplice, delle fonti dei loro plagi e delle riscritture sornione. Doni è stato particolarmente beneficiato da questo nuovo orientamento sia perché fu autore più prolifico degli altri, sia perché le sue opere hanno quasi sempre una pluralità di fonti che moltiplicano il lavoro di chi le ricerca. Nei decenni trascorsi il dissodamento sul retroterra culturale dei Marmi è stato con- tinuo se non intenso, e ne sono emerse numerosissime fonti che Doni copiava; 538 . ANNALI D’ITALIANISTICA 36 (2018)

tuttavia si creò la situazione paradossale che più il cumulo dei dati cresceva, più si confermava l’impressione che l’opera di Doni fosse sconclusionata, dispersiva, frammentaria e caotica. Solo un’edizione che riuscisse a cucire tutti questi dati e a combinarli secondo il disegno e la continuità voluta dall’autore avrebbe rive- lato il sistema di quella mistura serio/irridente. Ed è quello che è avvenuto con questa pubblicazione. I curatori dell’edizione in esponente sono fra i ricercatori più assidui e pro- lifici di fonti doniane, ed è stata una combinazione felice il fatto che abbiano deciso di produrre a quattro mani un commento dei Marmi. Il loro commento attua una meticolosa mise au point delle ricerche effettuate fino ad oggi, organiz- zando un immenso cumulo di celati “furterelli” e facendo vedere come Doni li abbia combinati. E ne risulta un mosaico ricchissimo, un’opera composita con notevole sapienza artistica e con perizia che riesce addirittura a giocare la cultura per criticare sé stessa, in un continuo dire e contraddire, dire e sbandare per- dendo il filo e ritrovandolo magari a lunga distanza. Letti con una guida del genere, I Marmi diventano un’opera molto diversa da quella che si era soliti leggere, e si impone per il suo equilibrio occulto, per il disegno sostenuto nel corso di tutto il libro e sempre pieno di sorprese per le cose che Doni leggeva, per come sapeva ritagliarle e copiarle. In questo egli fu, con gli altri due “poligrafi” ricordati, uno dei propositori della grande moda delle riscritture cinquecentesche in cui l’erudizione trovava rivoli per riversare in volgare le acquisizioni della cultura corrente, ossia il sapere umanistico, partico- larmente quello più vistoso dei cataloghi, degli aneddoti eruditi, degli aforismi di personaggi antichi e di molti dati enciclopedici. Quest’edizione prova che lo studio delle fonti non è, o non è sempre, una semplice “perdita di tempo”, come spesso si dice. In effetti la ricerca di fonti è stata squalificata fin da quando si fece la lotta contro il positivismo (il Rajna delle Fonti dell’Orlando Furioso, tanto per intenderci), ma non è chi non veda quali vantaggi possono derivare dall’agni- zione delle fonti di un’opera, specialmente se crediamo che la letteratura nasca dalla letteratura prima che dalla vita. Nel caso specifico dei Marmi del Doni non capiremmo il senso e la costruzione dell’opera se non sapessimo che Doni la costruisce proprio sulle fonti che però occulta e combina, che irride ma sfrutta. Gli editori non solo presentano le tessere che compongono questi grandi arazzi, ma con discrete note di commento indicano ai lettori il filo che le lega. Nonostante la messe di fonti, ora di tipo microscopico e ora macrosco- pico che tanti ricercatori hanno indicato in modo sistematico o anche casuale, i commentatori sanno che ancora vari punti rimangono “senza fonte”, e lo sanno perché la conoscenza della scrittura doniana crea questo sesto senso che non Italian Bookshelf . 539 sbaglia. Non importa se ancora qualche tessera rimane scoperta: ormai il gioco è stato chiarito e le eventuali scoperte di nuove fonti non faranno altro che riem- pire i tasselli rimasti vuoti. Il modo in cui gli editori sono riusciti a cucire tutto quello che fino ad ora è a nostra conoscenza, indica anche il modo di utilizzare ogni eventuale nuovo acquisto. Un pregio del commento è la sua sobrietà che non toglie niente di quello che è necessario per chiarire il testo, ma non ne ingombra la comprensione con compiaciute digressioni o cumulo di dati inutili, cosa non infrequente nei commenti che misurano la propria qualità dalla pletora di dati. È conciso anche quando si discutono complessi problemi testuali o si ritiene necessario riportare testualmente la fonte per farne notare l’elaborazione doniana o perché la fonte non è quella indicata o può competere con un’altra. La concisione non oscura i pregi della completezza: non credo che in questo commento manchi alcun rife- rimento ai lavori pregressi neanche ai più minuti. Non è pignoleria, ma rispetto del fatto che anche lavori di minima entità possono apportare se non altro una testimonianza sulla curiosità che quest’opera ha sempre suscitato, e che, a suo discapito, ha portato a considerarla un’opera “curiosa” e niente più. Ora, grazie a tutto il lavorio che essa ha suscitato e che viene ora ricondotto ad una strategia compositiva, vediamo che I Marmi hanno un peso intellettuale e culturale che la “curiosità” rende di lettura piacevole, ma mai oziosa. L’introduzione non indugia su questi valori culturali perché il compito più urgente è offrire ai lettori un testo commentato come meglio non potrebbe darsi, e già la ricchezza di questo commento offre lo strumento primo e fondamen- tale per procedere ad interpretare la posizione dell’opera nel contesto culturale in cui Doni volle inserirla con prepotenza polemica e ridanciana. Essa, però, descrive in modo puntuale lo status editoriale, ricostruisce la storia del testo e della sua ricezione lungo le linee che noi abbiamo ripetuto all’inizio di queste pagine. Infine indica i compiti che ciascuno degli editori ha assolto in misura equa e con competenze pari e complementari. Gli indici e la bibliografia sono perfetti e funzionalissimi: entrambi hanno snellito il volume del commento limi- tando nella maggior parte dei casi i rimandi al solo nome del critico e alla data di pubblicazione. Ma la perfezione è qualità solo divina e in corpo umano potrebbe suscitare invidia. Per questo noto solo un minuscolo neo solo per dargli un valore apotro- paico: il nome del ricordato Paul F. Grendler è citato in bibliografia per il primo titolo come Grendeler. Come si vede, un peccato imperdonabile! Ma dobbiamo sempre ricordare l’insegnamento di Orazio il quale nell’Ars poetica disse: “Verum ubi plura nitent in carmine, non ego paucis offendar maculis”! Qui non si tratta 540 . ANNALI D’ITALIANISTICA 36 (2018)

di carmen ma di editio, e tuttavia il principio vale lo stesso. Un’opera non può essere assolutamente perfetta perché questo suscita rancori “colà dove si puote”. È una vera gioia vedere un lavoro così ben curato e dove quattro mani hanno saputo lavorare con armonia insolita e con risultati eccellenti. E non poco merito va alla casa editrice che ha riprodotto il sapore dell’originale riproducendone le incisioni, facendo, quindi, un omaggio a Doni che in fatto di arti figurative aveva qualità da vero professionista. Paolo Cherchi, University of Chicago

Philippe Guérin e Anne Robin (a c. di). Boccaccio e la Francia. Boccace et la France. Firenze: Cesati, 2017. Pp. 372. Il rapporto Giovanni Boccaccio e la Francia evoca un fitto immaginario: non solo, infatti, la dinastia regnante a Napoli durante gli anni di formazione del futuro autore del Decameron era, come risaputo, d’origine francese; ma Boccaccio fu affascinato dalla cultura d’Oltralpe a tal punto da trasferire la propria con- dizione di figlio illegittimo nel “registro romanzesco-fiabesco di una nascita a Parigi da una figlia del re di Francia sedotta e abbandonata dal padre mercante” (L. Battaglia Ricci. Boccaccio. Roma: Salerno editrice, 2000, 22). Fece, altresì, della letteraria amante Fiammetta la figlia di Roberto d’Angiò; ma fu, soprat- tutto, la cultura dei cavalieri, intrisa di virtù​ — ​sebbene non fosse più praticata nella Napoli di inizio Trecento​ — ​a plasmarlo nel profondo. In diverse opere, infatti, i riferimenti alla cultura francese non mancano: mentre l’unico vero Impero, erede della romanità, come si evince dal Trattatello in laude di Dante (II 2: “essendo non senza cagione di Grecia il romano imperio in Gallia transla- tato”), poteva essere stato solo quello franco, uno dei pochi ricordi riferibili al padre storico riguarda Parigi. Si tratta del tremendo processo e rogo a cui furono sottoposti i templari (De casibus, IX 21), alla cui pena sembra che Boccaccino di Chiellino abbia assistito. L’obiettivo di indagare in profondità il rapporto che legò il Certaldese alla Francia è la causa che ha portato alla pubblicazione del volume curato da Philippe Guérin e da Anne Robin, conseguenza, a sua volta, di un convegno svoltosi tra il 24 e il 26 ottobre 2013 a Parigi. Come spiegano i cura- tori nell’Avant-propos/Introduzione (11–18, scritta sia in italiano, sia in francese; il volume raccoglie contributi in entrambe le lingue), esistono due “France” nell’ottica di Boccaccio: una, definita “a monte”, che è quella che si è cercato di raccontare nelle prime righe di questa recensione; l’altra, “a valle”, forse ancora meno tangibile, che è riconoscibile nella vastità della cultura angioina, soprat- tutto in ambito visivo, riversata nell’opera e nella formazione di Boccaccio. Italian Bookshelf . 541

Questa dicotomia fraziona il volume in due parti: la prima (19–111) raccoglie sette contributi e si divide in quattro sottosezioni, la seconda (113–360), più corposa, consta di sei sezioni e di ben sedici contributi; chiude il volume un agile quanto utile Indice dei nomi (361–71). Raffaella Zanni (23–34) e Luca Marcozzi (35–47) si interrogano sulla cul- tura mediolatina francese di Boccaccio: la prima ricostruisce in modo impec- cabile le traversie filologiche che avrebbero potuto portare alla conoscenza del Certaldese il Panfilo latino (si tratta di un testo “di origine francese” ma di una “ricezione tutta italiana”, 34); Marcozzi, invece, in modo piuttosto chiaro e con una discreta valorizzazione dei dati documentari/archivistici evidenzia il ruolo centrale che ebbero nella prima formazione di Boccaccio opere mediolatine come le commedie Lidia, la Geta e l’Alda che, insieme, con le Artes poeticae fran- cofone offrivano​ — ​secondo il parere dello studioso che non si può non condivi- dere​ — ​una primigenia strada utile alla creazione di “tipi e intrecci narrativi” (46). Al rapporto tra la letteratura francese antimendicante e Boccaccio è dedicato lo studio di Antonio Montefusco (51–63): si tratta di un tema piuttosto delicato considerati i complessi contesti culturali e sociali in cui visse lo scrittore. Mathias Schonbuch (65–78) scrive interessanti pagine sul rapporto “entre” les “fabliaux e le Decaméron”, analizzando sotto una luce nuova alcune novelle dell’opera par- ticolarmente incentrate sul motivo del ‘motto di spirito’. Il breve contributo di Roberto Mercuri (81–89) analizza i luoghi principali dell’opera di Boccaccio in cui viene presentata una rappresentazione o un legame con la Francia; in partico- lar modo, parte del saggio è incentrato sulla novella di Ser Cepparello (87–89), e secondo Mercuri dietro la maschera del personaggio si celerebbe, addirittura, la natura dello stesso Decameron. Stefania di Loreto (91–98) riflette sulla fortuna dell’abbazia di Cluny nel mondo medievale e analizza la rappresentazione che ne fa Boccaccio (Dec., X 2 ma, come ricorda la studiosa, anche Bergamino, in I 7, 12, a colloquio con Cangrande fa riferimento all’abbazia per sottolinearne la ricchezza). Il mondo figurativo e la cultura preumanistica capentingia-angioina, in rapporto con le strutture narrative delle opere di Boccaccio, sono i due centri critici del saggio di Marcello Ciccuto (101–11). La seconda parte del volume, inizia con il contributo di Marco Cursi (117– 51) che offre un’analisi dettagliata del codice Capponi (il Parigino italiano 482, una delle copie più autorevoli del Decameron). Stando alle ipotesi dello studioso non sembra peregrino considerare il codice come un esemplare che, addirit- tura, fu copiato “nello scrittoio di Boccaccio” (149). Andrea Valentini compie un’analisi filologica dei manoscritti de La Cité des dames di Christine de Pizan e del Mulieribus claris di Boccaccio ipotizzando alcuni legami (153–65). Roberta 542 . ANNALI D’ITALIANISTICA 36 (2018)

Morosini (169–85) nel suo contributo apparentemente “leggero” – sicuramente tanto lieve nello stile quanto solido nei riscontri​ — ​esamina la presenza di ele- menti erotici negli apparati figuratavi di due codici francesi del Decameron: l’eros nell’opera, stante il giudizio della studiosa, trova uno spazio sociale ambiguo. Diviene, infatti, il segno dell’urbanità, addirittura, della politica, della polis. Giulia Puma (187–200), d’altro canto, analizza le raffigurazioni di tre donne del De mulieribus claris nella tradizione manoscritta del testo. Alla funzione e alla potenzialità del commento figurato è dedicato il contributo di Philippe Guérin (201–15), assai ricco di riproduzioni fotografiche delle miniature analizzate. Claudia Zudini (219–29) analizza le prime traduzioni del De mulieribus claris in francese prendendo come oggetto d’analisi privilegiato il suicidio di Aracne (De mulieribus, XVIII). Ai forti cambiamenti di traduzione del Decameron tra il 1414 e il 1485​ — ​che hanno finito per mutare la natura propria dell’opera​ — ​è dedicato il contributo di Anne Robin (231–46). Benedetta Fordred (247–55), invece, offre una sottile comparazione tra alcuni passi del Decameron in italiano, piuttosto significativi da un punto di vista linguistico, e le loro traduzioni in francese. Alla fortuna delle opere di Boccaccio in Francia è dedicata un’intera sezione: l’analisi del rapporto con il Ragionamento sopra alcuni luoghi del Cento novelle del Boccaccio di Lucantonio Ridolfi, edito da Guillaume Rouillé, è l’og- getto della ricerca del saggio di Claire Lesage (259–70); Nora Viet studia alcuni tipi di raccolte di novelle nel XV e nel XVI secolo francese (273–86); Marina Marietti scorge diversi importanti legami tra il Decameron e l’Heptaméron di Jacques Yver, che, pur conservando un certo grado di originalità, viene consi- derato quasi alla stregua di una sorta di riduzione della prima opera (287–91); Elizabeth L’Estrange analizza i legami condivisi tra il Teseida e Le Beau roman di Anne de Graville (293–306); Sergio Cappello rintraccia il rapporto che lega il racconto patetico francese del XVI secolo fino al Decameron (307–17); Antonio Sotgiu (321–34), il cui saggio chiude la sezione, offre un’approfondita analisi della relazione tra l’Elegia di Madonna Fiammetta e la “riscrittura” di Maurice Scève; all’interno del contributo si distingue il paragrafo dedicato alle diverse rappresentazioni di Fiammetta. Alle riscritture di Jean de La Fontaine e ai debiti contratti con l’autore del XIV secolo sono dedicati gli ultimi due saggi di Mathieu Bermann (337–47) e di Claude Perrus (349–60). In conclusione, considerata la mole di materiali che avrebbe potuto facil- mente scappare di mano, Boccaccio e la Francia adempie pienamente al suo com- pito e si dimostra un volume apprezzabile e utile: una raccolta di studi che rileva Italian Bookshelf . 543 in profondità, legandolo in maniera ancora più stretta, il rapporto esistente tra l’autore di Certaldo e la terra e la cultura di Francia. Paolo Rigo, Università degli studi Roma Tre

Pierangela Izzi. Dante nella memoria dei poeti. Dal comico al riso tragico. Foggia: Edizioni del Rosone, 2016. Pp. 208. Accade con frequenza che libri costruiti da una serie di saggi irrelati finiscano per acquistare un’organicità non calcolata. Se questo è il caso, da essi emerge o una mappa o una linea coerente di ricerca la quale, però, rispetto ai lavori con- cepiti unitariamente, ha il vantaggio di conservare l’autonomia piena dei singoli componenti. È il caso di questo libro, agile e incisivo quanto originale nei suoi risultati singoli e generali. Punto di partenza è la convinzione, sancita da Sapegno (p. 1), che Dante non abbia avuto imitatori: la nozione di poema allegorico o didattico è anteriore alla Commedia, e la sua produzione lirica, indubbiamente altissima, ha anch’essa origini più antiche e arrivò ai suoi potenziali imitatori attraverso il filtro perso- nalissimo del Petrarca. Izzi non nega questa tesi, ma non si rassegna neppure a credere che un’opera come quella di Dante sia passata senza suscitare tentazioni di ricevere qualche aspetto della sua eredità, che è da cercare non tanto nella lingua quanto nel linguaggio, ossia nella sua configurazione retorica dell’elocutio, e in un tema fondamentale e autobiografico quale è quello dell’esilio. Su questi aspetti, spesso “impercettibili” come possono esserle certe espressioni diventate comunissime, si articola la ricerca di questo libro. Il primo sondaggio viene fatto in area veneta perché fu la prima toccata dall’influenza di Firenze. Poeti come Giovanni Quirini, Nicolò de’ Rossi, Antonio da Tempo e Gidino di Sommacampagna offrono i primi dati di questa fortuna di “stilemi” danteschi (dittologie di vari tipi, apostrofi, perifrasi ecc.); alcuni di questi sono stati rilevati da critici precedenti, altri, invece, e in buon numero sono nuovi. Il pregio di questa ricerca non è tanto la novità assoluta dei prelievi, quanto l’averli congregati insieme per costruire una “mappa”, l’unica forma che possa dare il senso e lo spessore culturale della presenza dantesca nell’area veneta, senso che non si evince dai contributi frammentari antecedenti; e a questo proposito bisogna anche elogiare la Izzi per la sua impeccabile conoscenza bibliografica. Ma il contributo più impegnato di questo primo capitolo (“La ricezione della Divina Commedia nel Trecento”, pp. 7–108), è quello dedicato al Dittamondo di Fazio degli Uberti, ghibel- lino senese ma esiliato a Padova. Qui il modello dantesco opera su aspetti plurimi: il viaggio dell’autore-personaggio, l’esilio come nota autobiografica, il contenuto 544 . ANNALI D’ITALIANISTICA 36 (2018) odeporico e la geografia terrestre e astrale, nonché l’aspetto linguistico e stilistico che, date le dimensioni del Dittamondo, si presta a paragoni fittissimi e altamente diversificati. Sono tutti aspetti che l’autrice indaga separatamente, dividendo la materia in sottocapitoli, e il risultato si può così condensare: Fazio imita Dante ma facendo opera propria. Nei lavori dedicati alla “recezione” o all’influenza di un autore sull’altro, si cade spesso in squilibri determinanti dalla tendenza o di soprav- valutare o di sottovalutare i dati che provano e misurano la “recezione” e per questo si trascura l’autonomia e il valore dell’opera su cui si studiano i modelli e le fonti. Izzi ha il senso giusto di quello che può essere una “influenza”: questa è spesso imi- tazione e riscrittura, cioè la presenza della Commedia nel Dittamondo è “attiva” nel senso che stimola una creatività che incorpora e fonde il modello nell’opera nuova in modo da lasciarne percepire la presenza perché adempia alla doppia funzione di mostrare il lievito della tradizione e nello stesso tempo la natura dell’innovazione. Si leggano le dotte pagine dedicate all’astrologia o alla descrizione dell’Europa del Nord per vedere quanto Dante ispiri e quanto Fazio innovi. La parte dedicata alla lingua o linguaggio è anch’essa notevolissima ed è indispensabile, considerando che rappresenta il filo conduttore e originale del libro. Anche qui prelievi di stilemi e di figure retoriche, ma anche di semplici lacerti lessicali. La pertinenza di questi ultimi desta quale riluttanza ad accettarli come testimoni dell’influenza dantesca, perché l’uso di una parola relativamente comune non sembra sufficiente per sta- bilire la presenza di un modello; ma è anche vero che il contesto generale finisce poi per rendere credibile la presenza di un ricordo o almeno di un’eco. Tutta la sezione dedicata al Dittamondo è quasi una monografia a sé stante, in cui la specia- lista dell’odeporica (un campo al quale la Izzi ha dedicato numerose ricerche) dà un brillante saggio della sua finezza critica e della sua erudizione. Il Quattrocento e il primo Cinquecento, invece, vedono un’altra fase dell’in- fluenza dantesca. Nell’ambiente umanistico tende a cadere l’aspetto più “spiri- tuale” e religioso della Commedia e nella cultura volgare predomina l’influsso “comico” nella tradizione caratterizzata dal Burchiello. È quasi intuitivo che in questo filone prevalga il momento “comico” o “realistico” del poema dante- sco. E anche in questa sezione (“Dante e la poesia burlesca tra il Quattro e il Cinquecento”, pp. 109–157) la documentazione combina i dati già rilevati da altri studiosi e quelli che la Izzi integra. Ma nuovo affatto è il modo di capirlo. Prima di tutto si distinguono due categorie “la memoria tematica e la memoria testuale” (p. 115). Quindi si studiano prima separatamente e poi si integrano per capire quali effetti comico-grotteschi crei la loro combinazione. Trattandosi di dati puntuali (temi, metrica, rime, lessico e stilemi, nonché parafrasi e rove- sciamenti parodici) diventa impossibile riassumerli, ma si leggono sempre con Italian Bookshelf . 545 consenso le numerose osservazioni di poetica e di stile sulla poesia burchielle- sca che sembra sfruttare una “memoria” di Dante, ossia di un linguaggio ormai entrato nella memoria collettiva, ma di fatto resa tale, almeno in grande misura, proprio dall’imitatore. Bisogna aggiungere che lo studio sul Burchiello si conti- nua con quello su Berni e i suoi “capitoli” e in generale sul bernesco che gioca l’imitazione dantesca non tanto con il ribobolo ma con un linguaggio di tipo più intellettuale che porta dal livello “comico-realistico” a quello comico-parodico. La vena burlesca porta ad una sorta di svalutazione tanto del grande mes- saggio quanto della lingua dantesca. È però vero anche che tale svalutazione porta ad una sedimentazione del linguaggio “comico” di Dante, linguaggio che vive in modo più o meno sotterraneo fino a riemergere con tutta la sua forza espressionistica nel linguaggio di un Carlo Emilio Gadda, come ha osservato Contini e come la Izzi ripete (p. 161) in apertura del terzo capitolo, “Dante e l’arte del far tragico il riso” (p. 159–207). Quella “tensione costante di forzare i limiti del linguaggio” presente in Dante, sia tendendo al sublime sia al comi- co-grottesco, è certamente una grande eredità del suo poema e la poesia burlesca l’ha evidenziata e tramandata. Izzi dedica alcune lucide pagine (pp. 161–175) a rilevare come questo linguaggio diventi “il pasticcio espressivo” in Gadda, pagine che potrebbero sembrare un excursus estraneo al corpo del libro ma di fatto offrono la dimostrazione migliore della tesi enunciata. Ma proprio questa lettura “comica” iniziata da Burchiello finì per relegare Dante fra i poeti “non canonici”. Tale processo apparve compiuto verso la fine del Cinquecento e per tutto il Seicento, accelerato anche dal sopravvento della nozione della mimesi aristotelica. Lo prova Tassoni, di cui la Izzi studia le chiose alla Commedia che castigano in modo severissimo la lingua di Dante come povera, inappropriata e per niente illustre. E se questa critica già “cruscheggiante” condanna la lingua di Dante, lo stesso Tassoni non esita a riprendere spezzoni danteschi (numerosi e fino ad ora per la maggior parte ignorati) per la sua Secchia rapita, non certo per nobilitare il poema ma per rendere “comico” il “tragico”. Non avendo l’agio di render conto dettagliato di questo libro molto ricco di rilievi filologici, possiamo solo dire che attua un’intelligente ricognizione di un’area pressoché dimenticata dalla dantistica, seguendo in particolare il filone del linguaggio comico di ascendenza dantesca che ora, grazie alla ricostruzione della Izzi, possiamo vedere come una costante, ora sguaiata ora elevata, nella cultura italiana. Poiché si tratta di filone culturale fino ad ora poco noto, non è poco il valore di questo libro che ho messo in evidenza. Paolo Cherchi, University of Chicago 546 . ANNALI D’ITALIANISTICA 36 (2018)

David A. Lines e Eugenio Refini. Aristotele fatto volgare. Tradizione aristotelica e cultura volgare nel Rinascimento. Pisa : Edizioni ETS, 2014. Pp. 345. Il volume raccoglie i contributi presentati in occasione di un convegno tenu- tosi nel 2012 presso la Scuola Normale Superiore di Pisa dedicato alla rice- zione di Aristotele nella cultura in volgare del Rinascimento. Le giornate di studio pisane costituivano la prima tappa di un progetto internazionale con- dotto da studiosi dell’Università di Warwick e del Warburg Institute di Londra tra il 2012 e il 2014, i cui risultati sono oggi disponibili nel database Vari 2.0 (Vernacular Aristotelianism in Renaissance Italy Database all’indirizzo https:// vari. warwick.ac.uk). Gli intenti e il contenuto di tale banca dati, che presenta il censimento di opere manoscritte e a stampa in volgare relative ad Aristotele scritte, diffuse o pubblicate tra il 1400 ca. e il 1650, sono illustrati da Eugenio Refini in questo stesso volume (‘‘Per un database dell’aristotelismo volgare in Italia’’ 201–06). Bisogna subito dire questo strumento è una novità di impor- tanza incommensurabile per ogni studioso del pensiero filosofico, politico, morale del Rinascimento italiano e che, grazie al lavoro d’équipe condotto da Lines, Refini e da altri collaboratori, ognuno di noi potrà d’ora in avanti avere un quadro preciso ed esaustivo di quanto è stato prodotto nel campo della filo- sofia aristotelica in volgare lungo quasi due secoli. L’indagine su Aristotele nel Rinascimento è arricchita in questo volume da contributi dedicati all’età medie- vale e ad altri paesi (Francia e Spagna). Nel suo intervento intitolato ‘‘L’Aristotele volgare di Concetto Marchesi’’ (11–38) Claudio Ciociola ricostruisce il conte- sto in cui apparvero gli studi pionieristici di Marchesi, apparsi in volume e in rivista a partire dal 1903, sulla tradizione aristotelica in ambito mediolatino e volgare. Nonostante le critiche che incontrarono al loro apparire (in particolare da parte di Gentile) gli studi di Marchesi sulla tradizione dei primi volgarizza- menti dell’‘‘Etica’’ e di altre opere del corpus aristotelico costituiscono tuttora un punto di riferimento imprescindibile per ogni studioso, come documenta la bibliografia più recente. Sempre in ambito medievale Sonia Gentili (‘‘L’edizione dell’‘Etica’ in vol- gare attribuita a Taddeo Alderotti: risultati e problemi aperti’’ 39–59) torna sulla ricezione del primo volgarizzamento dell’‘‘Etica’’, posteriore al 1248, nella letteratura volgare del secondo Duecento (Guittone e Dante) e in particolare sul rapporto (posto in dubbio da altri studiosi) tra il volgarizzamento alderottiano e la tradizione toscana del ‘‘Tresor’’. In ambito rinascimentale ci portano invece i contributi di Annalisa Andreoni (‘‘Luoghi aristotelici nelle lezioni accademiche di Benedetto Varchi’’ 61–76), Simone Bionda (‘‘Un ‘traduttor de’ traduttori’? Bernardo Segni dalla ‘Retorica’ Italian Bookshelf . 547 alla ‘Poetica’’’ 77–98), Alessio Cotugno (‘‘Osservazioni linguistiche sull’‘In- strumento de la filosofia’ di Alessandro Piccolomini: testualità, lessico, proce- dimenti espositivi’’ 99–148), Anna Siekiera (‘‘Riscrivere Aristotele: la forma- zione della prosa scientifica in italiano’’ 149–68). I quattro contributi indagano tutti un momento di grande rilievo nella ricezione e traduzione di Aristotele in volgare in Italia, il quarto decennio del Cinquecento, con particolare attenzione ai due centri che ne furono i principali promotori: Padova (l’Accademia degli Infiammati) e Firenze (l’Accademia fiorentina). Di carattere storico-culturale, i saggi di Andreoni e Siekiera seguono la pre- senza di Aristotele (non solo quello dell’‘‘Etica’’) nella riflessione teorico-poe- tica di Benedetto Varchi, dagli anni di formazione a Padova e Bologna nei primi anni quaranta fino al magistero svolto all’interno dell’Accademia Fiorentina nel decennio successivo. A questo stesso ambiente è dedicato anche il saggio di Simone Bionda che ricostruisce il contesto e le polemiche che accompagnarono la prima traduzione in volgare della ‘‘Poetica’’, quella dovuta a Bernardo Segni e apparsa a stampa nel 1549. Di carattere linguistico (ma con importanti riflessioni anche sul piano della storia della traduzione in volgare in generale), il saggio di Alessio Cotugno si concentra invece sull’opera di traduttore e commentatore del senese Alessandro Piccolomini, tra i protagonisti della divulgazione del corpus aristotelico in vol- gare nella seconda metà del secolo. Attraverso una campionatura di esempi tratti dall’‘‘Istrumento della filosofia’’ (1551), primo tentativo di tradurre la ‘‘Logica’’ aristotelica in italiano, Cotugno illustra le tecniche traduttive del senese, soffer- mandosi in particolare sulle strategie traduttive : glossa sinonimica in funzione esplicativa, parafrasi, traduzione dittologica. A un altro Piccolomini, Francesco Carli (lontano parente del più noto Alessandro), è dedicato il saggio di David A. Lines (‘‘Latin and Vernacular in Francesco Piccolomini’s Moral Philosophy’’ 169–200). Professore all’Univer- sità di Padova durante un trentennio (1560–1589), il Carli Piccolomini è autore di una summa di filosofia morale in latino di grande circolazione fino al Seicento (‘‘Universa philosophia de moribus’’ 1583) e ridotta in un’epitome in volgare intitolata ‘‘Compendio della scienza civile’’ offerta a Cristina di Lorena nel 1602. Studiando questo interessante caso di autotraduzione, Lines avanza, nella parte finale del suo saggio, importanti considerazioni sul ruolo del pubblico di questi volgarizzamenti (sulla scia degli studi di Luca Bianchi), universitario e cortigiano, nonché sulla doppia circolazione di tali testi nella forma a stampa e manoscritta. 548 . ANNALI D’ITALIANISTICA 36 (2018)

Alla ricezione del corpus aristotelico in Francia sono dedicati due saggi del volume, quelli di Ullrich Langer, ‘‘Aristotle, Epikleia, and the Novella in France’’ 207–26 e di Violaine Giacomotto-Charra, ‘‘Between Translation and Vernacularization: Scipion Dupleix’s La Physique (1603)’’ 227–52): il primo illustra la nozione aristotelica di Epieikeia (nel senso di aequitas e clemenza) nella trattatistica giuridica francese del Cinquecento, sondandone poi la pre- senza (in filigrana) nella novellistica di imitazione boccacciana di Margherita di Navarra e giungendo a vedere nella novella francese ‘‘a vernacular correlative of Aristotelian ethical thought in early modern France’’ (225). Alle soglie della nascita della scienza sperimentale moderna ci porta invece il saggio di Giacommotto-Charra su Sicipion Dupleix, figura chiave nella diffu- sione degli scritti scientifici di Aristotele in Francia nei primi due decenni del Seicento. Sulla base di un esame della ‘‘Physique ou science naturelle’’ del 1603, la studiosa mostra come l’opera del francese dia luogo a tre livelli di resa del testo originale: la traduzione ad litteram, la parafrasi esplicativa (compresa quella dei commenti che accompagnavano il testo di Aristotele), l’adattamento del lessico filosofico più tecnico. Dedicati alla Spagna, gli ultimi due contributi (Juan Miguel Valerio, ‘‘Formas del Aristotelismo Etico-Político en la Castilla del siglo XV’’ 253–310, Paula Olmos, ‘‘Aristotle’s Politics in Sixteenth-Century Spain: Two Vernacular Versions and a Big Debate’’ 311–46) disegnano rispettivamente, attraverso lo studio di alcuni casi esemplari, la fortuna in terra ispanica dell’‘‘Etica’’ aristo- telica nella traduzione di Leonardo Bruni (1417) e rinvengono le tracce di un recupero critico del pensiero politico aristotelico nel dibattito sulla schiavitù del Nuovo Mondo culminata nella famosa disputa di Valladolid (1550–1551). Chiude il volume un utile indice dei nomi e dei mss. a cura di Giacomo Comiati. Gabriele Bucchi, Université de Lausanne

Rodney Lokaj. Two Renaissance Friends: Baldassarre Castiglione, Domizio Falcone, and their Neo-Latin Poetry. Tempe, Arizona: ACMRS, 2015. Pp. 372. In his recent study, Two Renaissance Friends: Baldassarre Castiglione, Domizio Falcone, and their Neo-Latin Poetry, Rodney Lokaj sheds light on two Renaissance humanists through annotated editions of their often-ignored or even forgotten works. By thoroughly examining Castiglione’s Carmina, the Neo-Latin poetry that preceded and accompanied the creation of his vernacular masterpiece, Il libro del cortegiano (published 1528), Lokaj adds new dimensions to our under- standing of Castiglione, the author and the man of the early-16th century who Italian Bookshelf . 549 through his political acumen and erudition became a member of the prestigious courts of Urbino and Rome as well as friend to the luminaries of the period. Castiglione’s Latin poems, however, are only half of the equation. As Lokaj makes clear in his introduction, the Latin poetry of Castiglione would not be complete without a serious consideration of the poetry of Castiglione’s friend, Domizio Falcone. Their association in life continued in the manuscript tradi- tion, as at least three of the primary witnesses for Castiglione’s Latin poetry also contain works by Falcone (Lokaj 43–50). Lokaj’s introduction to the two collected Carmina establishes the need for further examination of these texts both to enrich studies of Castiglione and also of the Italian Renaissance in general. Notwithstanding the wealth of scholarship devoted to Castiglione and his vernacular works, scant attention has been paid to his Latin poems. Moreover, as Lokaj argues, Castiglione’s person and reputa- tion have suffered from a “veiling effect” that essentially conflates the humanist with the characteristics of his greatest work, Il libro del cortegiano. Instead of a fully realized individual with diverse interests, political ambitions, and perso- nal flaws, centuries of scholars tended to paint a portrait of Castiglione with the same idealizing brush that he used in re-creating the perfect court of Urbino (Lokaj 11–13). The Latin works tell a different story. On the one hand, the Castiglione of the Latin poems does share many characteristics with Il libro del Cortegiano. For instance, his assemblage of classical references, maintains Lokaj, is the embo- diment of the sprezzatura expected of Castiglione’s ideal courtier. The carmen which heralded Castiglione’s entry into the Accademia Romana, “De Elisabella Gonzaga canente” (1503–1504), goes beyond its Virgilian precedent blending together and even “superimposing” multiple sources with seeming effortles- sness, with the result that Castiglione adds “new dimensions to the atmosphere” (Lokaj 72). Similarly, shades of Il libro del Cortegiano and its attention to the figurative arts come to the fore in the ekphrastic poems “In Cupidinem Praxitelis” (1505) and “Cleopatra” (1512–1513). On the other hand, Castiglione’s Latin poems also offer a less-than-vir- tuous (but no less ingenious) portrait of the author. Castiglione is an unfai- thful husband who woos many Roman girlfriends, as indicated by the poems “Ad puellam in litore ambulantem” and “Ad eandem” (both composed between 1512–1513), among others. He has likewise abandoned his wife Ippolita and their children in the family home in Casatico, Mantua. Castiglione is well aware of his faults, penning a Heroides-inspired letter from his wife’s perspective (“Balthassaris Castilonis elegia, qua fingit Hippolyten suam ad se ipsum scribentem,” 550 . ANNALI D’ITALIANISTICA 36 (2018)

post August 1519) in which he denounces himself for failing to leave the pleasu- res of Rome and return to his familial duties (Lokaj 138). The Latin poems also offer glimpses into the bawdier side of Castiglione and the literature of the Italian Renaissance, as represented by the poetic genre of Priapeia. Castiglione composed poems which incorporated a “Priapic nudge and wink,” including multiple double-entendres, sexual language, and playful tones (Lokaj 68). The early poem “De eadem viragine” (1499) was specifically “expunged from the canon” due to its “play-on-words at v. 4, whereby telum is a synonym for both sword (gladius) and the virile member,” a joke which was dee- med unsuitable by later scholars for an epigram on war (Lokaj 68). Such instan- ces of Priapic poetry connect Castiglione’s Carmina further to those of Falcone, and also illustrate another facet of the humanist movement, namely the use of such Latinity “to entertain a [. . .] learned society of acutely perceptive humani- sts trained and willing to read such poetry on very different levels” (Lokaj 68). Lokaj’s study therefore fills the very real need for a more holistic approach to Castiglione’s literary works. In the case of Falcone, Lokaj has resurrected a figure of the Italian Renaissance and restored him to his proper place in the Neo-Latin canon. Other than serving as the tutor for Castiglione’s younger brother and Falcone’s untimely death in 1505, very little of Falcone’s biography is known (Lokaj 29–30). Lokaj’s treat- ment of Falcone’s Carmina, for which he provides a stemma of witnesses and other philological information, as well as detailed notes, is essentially an editio princeps of the work, arranged thematically due to the dearth of information regarding the dates of composition (Lokaj 42). Many poems are dedicated to an unknown beloved (called Paula), others to noted historical figures, including Castiglione himself, and finally there is an entire section of poetry dedicated to Priapus, with all the ribald trappings associated with the genre of Priapeia. Even without the strong associations with that of Castiglione, Falcone’s Carmina offers many interesting points of study for scholars of the Renaissance. Students of historical figures and courtly life can investigate Falcone’s songs further for references to minor figures left out of the history books, such the noble women whose skills rival those of the men at court (“Ad Blancam Mariam Stangam”). Falcone, too, engaged in ekphrastic poetry, and art historians might appreciate in particular his detailed description of a now-lost Mantegna painting (“Falco Mantuanus de pictura”). When compared to the attention afforded by Lokaj to Castiglione’s Carmina, in which he introduces each poem with extensive historical details, discussions on the literary sources incorporated by Castiglione, and stylistic examinations, Italian Bookshelf . 551

Lokaj’s treatment of Falcone’s work may leave readers wishing for more. Most of Falcone’s poems in fact lack critical introduction or context, although the notes offer insights into literary references. In brief, Lokaj’s study is an excellent addition to Castiglione scholarship and will hopefully influence a new wave of examination into Falcone and his poetry. Loren Eadie, University of Wisconsin, Madison

Joseph Manca. Subject Matter in Italian Renaissance Art: A Study of Early Sources. Tempe, AZ: Arizona Center for Medieval and Renaissance Studies, 2015. Pp. 228. Subject Matter in Italian Renaissance Art: A Study of Early Sources by Joseph Manca is a comprehensive study of Italian Renaissance art and its public. From a wide array of sources such as patrons and art lovers, it is evident that the non-pro- fessional people of the period expressed little interest in the complexity of the art they observed. A simple storyline in a painted scene created sufficient sati- sfaction and fascination for these viewers. They rarely expressed an appreciation of difficulty in subject matter of an art work; in fact observers were sometimes annoyed when they encountered ambiguity or mystery. For example, the Bolognese humanist Giovanni Sabadino, writing in 1497, described a number of works of art and architecture found in the city-state of Ferrara, and Manca notes that his writing displayed “a certain breeziness” (6). But his goal in writing these descriptions was primarily to flatter the patron Duke Ercole I with accounts of the Duke’s magnificent achievements and expenditures. Lorenzo de’ Medici of Florence left brief written statements of his perso- nal opinions regarding painting. His thoughts are significant because his vision is that of a major patron and art lover of the time. In his judgment a perfect painting called for “a good support, a wall or word, or cloth on which the paint is applied; a master who is very good in drawing and in color; and the matter painted [should] be attractive and pleasing to the eye” (9). Lorenzo called for representations of what exists in real life: landscapes, buildings, dancing figu- res, battle scenes. In another example, Manca presents an interesting discus- sion, surprising to the modern reader, about Michelangelo’s David, revealing that the identity of the iconic statue was unknown to many Florentines. Luca Landucci, an apothecary, recorded it as a marble giant, without any other title or interpretation. A French abbot and a German tourist visiting Florence thou- ght it to be a “grand fantosme,” and “an Orpheus” (26–27). Contemporary art 552 . ANNALI D’ITALIANISTICA 36 (2018)

historian Ascanio Condivi called the marble David in the Palazzo della Signoria “that statue” (never calling it a David) and noted that it is called “the Giant” (“il Gigante”) by everyone and often “the Colossus.” Another art historian, known as “the anonymous Florentine” (Anonimo Magliabechiano), noted the impres- sive size and presence of Michelangelo’s David in the Piazza della Signoria, but he did so without remarking on the subject matter of this “giant,” “not bothering to tell us that the statue is a David” (57). In general the viewers of art during the Renaissance period exhibited a casual lack of concern about the complexity of the subjects of art. While art historians of the period​ — ​in addition to Vasari, Condivi, and the Anonimo Magliabechiano, Manca names Benevento Cellini and Lorenzo Ghiberti​ — ​were keenly intere- sted in style, expression, and color in a scene, they paid little attention to matters of iconography. At times, they even made mistakes and omissions when wri- ting about these subjects in their own works. For example, Manca remarks of Botticelli’s famous Birth of Venus, “Vasari simply noted, (erroneously) that the Venus is accompanied by her Cupids and that in the equally famous Primavera, Venus is in the guise of Spring and is being adorned with flowers by the Graces, again a poor record of the subject matter, as the Graces dance and bestow no flowers on the goddess” (65). Art history of the Quattrocento and Cinquecento focused on style, medium, location, scale and other easily grasped features. Complexities of meaning were absent for the most part from this type of writing and if included, expressed the displeasure or puzzlement of the writer. While the widespread modern belief holds that Renaissance art was complex and full of cleverly coded meaning, six- teenth-century observers offer little support for such beliefs. Giorgio Vasari, the first art historian, supports in his writings the thesis that artists create simple, straight-forward subject matter, and that their public is troubled by any icono- graphic difficulties presented to them. In no instance does Vasari offer a complex reading of any work of art, not even in his own vita. Renaissance viewers at all levels of sophistication preferred to know exactly what a work of art represented. As for religious art, aside from its decorative qualities, it was intended to inspire the viewer to perform divine work on earth, perhaps also to induce piety. Saints were to inspire awe and reverence while evil figures were to arouse the ire of the populace. A number of twentieth-century writers have detected several layers of meaning in the Last Judgment of Michelangelo. Vasari’s account omitted such an interpretation and concentrated on naturalism, the strength of narrative, and the quality of design. He praised the design of the figures, the beauty of Italian Bookshelf . 553 the proportions, and the variety of poses and attitudes. Vasari did not credit Michelangelo’s success to learned study but rather to his experience of the real world: “[. . .] he was always shrewd and observant and he had seen a lot of man- kind, and thus he had acquired by contact with the day-to-day world the under- standing that philosophers obtain from books and speculation” (72). In addition to the opinions of individuals on the topic of iconographic interpretation, Manca cites written contracts of the period which show that Renaissance patrons knew exactly what they wanted. These contracts between patron and artist usually provided a description of the desired work and some- times referred to a preparatory model which was a part of the legal agreement. Manca found no contract that offered layered or hidden meanings; every stipu- lation of the agreement to be executed was spelled out with clarity. Finally, Baldassare Castiglione’s Il Cortigiano, a book which was read and discussed at the highest levels of Italian society in the early sixteenth century, indicates that viewers would discuss and ponder the stylistic characteristics of an artist’s work, with subject matter as an afterthought, or at least as something of lesser importance for consideration. Perfection in a work of art was judged to come from the consistency of its visual style; perfection was a purely visual matter, while subject matter was a secondary issue. Joseph Manca’s book explores a plethora of early written sources from viewers, patrons, contracts, and even from the artists themselves. It is a tre- mendous accumulation of scholarship which will provide Renaissance scholars with a useful resource for their research. It clearly supports the premise that Renaissance art was enjoyed by viewers who preferred art that was easily under- stood. People of the period appreciated grandeur and style. If erudition existed, if layers of meaning were embedded in an art work, even if the artist discussed his or her ideas with patrons, they simply did not get passed down. Renaissance viewers loved clarity. Maria Gonnella-Traub, Neumann University

The Poetry of Burchiello. Deep-fried Nouns, Hunchbacked Pumpkins, and Other Nonsense. Translation and Introduction by Fabian Alfie and Aileen A. Feng. Tempe: Arizona, Arizona Center for Medieval and Renaissance Studies, 2017. Pp. 313. Domenico di Giovanni, detto il Burchiello​ — ​polivalente nom de plume che sta ad indicare sia un battello “a due remi” (traduco dall’inglese per agevolare la let- tura) che trasportava merci via fiume (6), sia il genere poetico cosiddetto alla 554 . ANNALI D’ITALIANISTICA 36 (2018) burchia, espressione che descrive un tipo di lirica comica assemblata in maniera disordinata ed all’impronta​ — ​nacque da umile famiglia nel pieno autunno del Medioevo “intorno al 1404”, in una Firenze in cui già s’affacciava, pervasivo, il potere finanziario dei Medici (1). Burchiello maturò il suo amore per la poesia burlesca senza seguire studi regolari ed esercitò, vita natural durante, il mestiere di barbiere, ospitando nella sua bottega di via Calimala le vivaci discussioni di un cospicuo gruppo di umanisti (tra cui Leonardo Dati, Francesco Filelfo, Leon Battista Alberti ed altri) che in qualche caso nutrivano i suoi stessi sentimenti d’ostilità nei riguardi dell’inarrestabile ascesa medicea. Percorso esistenziale accidentato e gramo, il suo; assillato dai creditori, imprigionato nelle carceri senesi per furto ed infine riparato a Roma, si spense in miseria in quella stessa città nel 1449. Eppure il barbiere fiorentino ha lasciato, nella veste di poeta, una profondissima orma nella sua epoca (tanto che “la prima metà del quindicesimo secolo può essere a ragione definita l’età del Burchiello’”) e nei secoli ad essa successivi (5). Considerate come degno e solido anello di collegamento tra la caustica vena medievale di Cecco Angiolieri e la verve parodistica umanistico-ri- nascimentale di Luigi Pulci e Francesco Berni, le Rime vantarono una copiosa diffusione, con ben ottantasette copie manoscritte, seguite da undici edizioni a stampa prodotte nel quindicesimo secolo e da dodici nuove edizioni apparse nell’arco del pieno Rinascimento. L’opera del Burchiello assurse in tal modo a “modello” canonico “della poesia comica”, raggiungendo la stessa incontestata autorevolezza che il Canzoniere petrarchesco aveva ottenuto sul versante della lirica d’amore (3). “Scopo” della presente traduzione (che è la prima dell’intera produzione burchiellesca in lingua inglese e che mantiene il testo originale a fronte), è, come gli stessi curatori rimarcano, quello di “rendere“ la poesia” di Domenico di Giovanni “accessibile al pubblico anglofono” (28, 29). Il lavoro di Alfie e Feng è stato avvantaggiato dal risveglio dell’interesse filologico verso la poesia del Burchiello che, a partire dall’inizio del nuovo millennio, si è concretato in ben tre edizioni critiche della sua opera completa. La prima, allestita nel 2000 da Michelangelo Zaccarello, è stata assemblata in maniera altamente specialistica (essa “include”un “dettagliato apparato critico, stemma ed analisi degli ottantasette manoscritti esistenti”) e appare devoluta alla fruizione dei cultori di ecdotica; la seconda, sempre ad opera del critico summenzionato, uscita nel 2004, è una versione più ampiamente divulgativa della precedente; la terza, pubblicata nel 2010 per la curatela di Antonio Lanza, si trova in netto disaccordo coi criteri di attribuzione adottati dallo Zaccarello. Infatti essa riconosce come autentici solo 158 tra i 223 componimenti poetici, di cui la maggior parte è costituita da sonetti caudati, forniti cioè di una “coda” di tre Italian Bookshelf . 555 versi in più rispetto ai “tradizionali” quattordici versi (28). Per la loro traduzione Alfie e Feng hanno optato, come “testo di base”, per l’edizione Zaccarello 2004, in quanto ritenuta da essi maggiormente affidabile ed esaustiva. L’agile e informativa nota biografica tratteggia a rapide pennellate la vicenda umana del Burchiello e la sua altalenante relazione con i Medici, che comunque non gli lesinarono aiuto economico “quando si scoprì che era divenuto troppo malato per scrivere”, ne riconobbero il genio, ne “onorarono” la memoria facendo “trascrivere la sua poesia in due [. . .] manoscritti” destinati alla “loro collezione personale” e ne commissionarono, in seguito, il ritratto, tuttora esposto tra i dipinti “di famosi artisti, scrittori e pensatori” che adornano il corridoio della Galleria degli Uffizi (3, 1). Segue una sezione volta ad illustrare la poesia del Burchiello che, a prima vista “incomprensibile” e priva di senso, già incuriosiva, affascinava e “confondeva” i suoi contemporanei ed i suoi lettori rinascimentali quali Machiavelli e l’ Aretino col suo “caleidoscopio di immagini, digressioni ed espressioni giocose” (5, 11). Se in verità gli endecasillabi burchielleschi “danno l’impressione” di un “accumulo” di immagini, situazioni ed azioni radunate alla rinfusa (7), una delle possibili chiavi interpretative potrebbe trovarsi nell’ipotesi a suo tempo formulata da Domenico De Robertis, che individuava nei sonetti un referente legato “alla cultura mercantile” dell’epoca e quindi leggeva la lista di “elementi” enumerati in maniera assurda come una rivisitazione, in tono bur- lesco, dei “registri delle tasse fiorentini”, i cosiddetti “libri di gabella” (7). Alfie e Feng rilevano poi come, a causa dell’affastellarsi di “effetti onomatopeici ottenuti attraverso la frequente ripetizione di suoni” e la “giustapposizione” di diverse componenti che formano un’inestricabile “rete di immagini” antinomiche (8), l’intera opera poetica del Burchiello rassomigli ad un bastimento mercantile sti- pato di merci e si dispieghi quindi attraverso una latente ”metafora nautica” (7). Viene comunque sottolineato come​ — ​al contrario delle più antiche e fortunate immagini di imbarcazioni che hanno attraversato i “mari letterari” della penisola: si pensi alla figura della nave negli scritti agostiniani, alla purgatoriale “navicella” dantesca (I, 1–6), al vascello “colmo d’oblio” dei Rerum Vulgarium Fragmenta, 189, 1–4)​ — ​quello del barbiere fiorentino appaia soltanto e semplicemente come un sovraccarico natante quattrocentesco, privo com’è di qualsivoglia rife- rimento “metaletterario” (sia esso escatologico o amoroso) e rappresenti la “tan- gibile vita quotidiana” della Firenze del quindicesimo secolo (8). Alla luce di tale esegesi potrebbe essere anche sfatato l’annoso mito del Burchiello come poeta criptico e “misterioso” (così come definito da Machiavelli in una lettera al Guicciardini del 1525) o come creatore di accattivanti quanto vuote “fanfalughe” (secondo un giudizio espresso da Pietro l’Aretino, 5, 6). 556 . ANNALI D’ITALIANISTICA 36 (2018)

Infatti, come ben intuito dai curatori, ad un attento esame contenutistico delle Rime ci si accorge che “i versi del Burchiello non degenerano mai completa- mente nella pura incomprensibilità“ ma che, dietro la loro natura apparente- mente “disparata” e discorde, essi celano sempre “una struttura polisemantica” consequenziale e sapientemente organizzata (8). A dimostrazione di ciò Alfie e Feng prendono in esame la prima quartina del sonetto decimo che, insieme al centoventiseiesimo intitolato La poesia contende col rasoio, è certamente uno dei più famosi della raccolta: “Nominativi fritti e mappamondi / e l’arca di Noè fra duo colonne / cantavan tutti “Kyrieleisonne”/ per la ’nfluenza de’ taglier mal tondi” (48). I versi, come già notava Anton Francesco Doni, potrebbero ben prestarsi ad un’intrepretazione “culinaria”, laddove i nominativi fritti sarebbero i “tranci di carne” e i mappamondi costituirebbero la carta incerata che li avvolge, mentre l’arca sembrerebbe suggerire “la varietà di tutti gli animali infilzati su uno spiedo fra due alari” e il Kyrie Eleison farebbe riferimento allo “sfrigolio” del grasso che cola. Un’altra possible interpretazione, che Doni attribuisce imma- ginariamente allo stesso Burchiello, potrebbe leggersi in falsariga dispregiativa contro i notai. In tal caso i nominativi rappresenterebbero “le loro parole prive di senso”, i mappamondi “le loro teste vuote” ed i taglier mal tondi “le loro car- riere prive di sostanza” (9). Altri tentativi di dare un senso ai giochi di parole del Burchiello si ebbero nel 1733 ad opera di Giovannantonio Papini per il quale gli stessi versi velerebbero il riferimento “all’eresia di Wycliffe” del quattordicesimo secolo e designerebbero in particolare “l’arrivo di un prete eretico e dei suoi adepti in una non meglio identificata città, ove essi trasportano un crocifisso tra due torce, salmodiando una preghiera in riparazione dei peccati causati da un mondo in decadenza (10). In tempi più vicini al nostro (1994) il critico Alan K. Smith ha formulato un’ipotesi interpretativa che rivisita la quartina in chiave “omoerotica” (10). I curatori fanno seguire poi una carrellata delle immagini bizzarre che costellano vari sonetti: il dodicesimo, in cui alcune zanzare cantano il Te Deum, mentre due vicine di casa del Burchiello “cinguettano” e litigano a causa di due galline che si son recate al Giubileo per ottenere il perdono dei pec- cati; il tredicesimo, ove zolfanelli bianchi con cera gialla e cipolline rivestite di un farsetto di grano danzano insieme al suono della chirintana (termine con cui si designava sia lo strumento musicale “simile ad un liuto”, sia un ballo popolare dell’epoca, 53); il ventottesimo, in cui Burchiello, rimanipolando il ricordo del mito greco assorbito attraverso le Metamorfosi ovidiane, crea un Narciso che si specchia “nel fondo d’ un paiuolo” tramite l’aiuto di “cappucci bianchi” e “bolle di vaiuolo” che usufruiscono altresì del supporto di “un quarto di miglio et un di bue” (11, 50, 70). Italian Bookshelf . 557

Appare chiaro come una poesia comica improntata a tale sfaccettata polie- dricità non possa rampollare “ex nihilo” dalla pur fervida immaginazione di un colto barbiere; essa deriva infatti dalla smaliziata abilità del suo autore di fondere la sua “esperienza mercantile” e la sua ”cultura erudita” (11) con la più alta e distillata eredità della letteratura comica europea che lo ha preceduto. Si pensi, ad esempio, alle raccolte poetiche satiriche denominate fatrasies, ovverossia farse, fiorite nella Francia del XIII secolo, ed alle componenti del genere lettera- rio della frottola ampiamente coltivato nel Trecento italiano (7, 13). Nella terza sezione introduttiva si analizzano i temi della poesia burchielle- sca “comprensibile”, cioè di quei sonetti che nelle Rime descrivono con accurata concretezza la realtà fiorentina del tempo. Il tema in essi emergente è quello dell’“anticlericarismo” entro il quale crudamente si mette alla berlina il “com- portamento peccaminoso” degli ecclesiastici, dipingendo in specifico i “membri dell’ordine francescano” come “predatori sessuali” (16). L’invettiva burlesca dei sonetti “regolari” s’estende, in maniera trasversale, ad ogni livello della piramide sociale fiorentina, dai preti ai contadini, dai mercanti ai maggiorenti; sotto il tiro del Burchiello finiscono anche gli esponenti del milieu culturale ed artistico citta- dino, non ultimi Filippo Brunelleschi e Leon Battista Alberti, con i quali il poeta era aduso scambiare “tenzoni derisorie” (20). Dulcis in fundo,ovviamente in senso ironico, Burchiello scatena il suo lato misogino, facendo sua la classica tradizione della “vituperatio in vetulam” (invettiva contro la donna vecchia) e condannando altresì l’immodestia dell’abbigliamento succinto delle “giovani donne” fiorentine (21). L’introduzione è chiusa dalla valutazione dell’“impatto” a lungo termine che la poesia del Burchiello ha avuto nel panorama letterario italiano. Dopo aver ribadito che la fama delle Rime era già vasta e consolidata in età rinascimentale (e quindi solo paragonabile a quella goduta dalle “Tre Corone, Dante Petrarca e Boccaccio”, 26), si osserva che tale rinomanza traversò le sirti dell’età barocca ed approdò indenne su sponde settecentesche. Nel 1757 una “nuova edizione” delle Rime fu pubblicata “in un volume che includeva” anche “i poeti fiorentini che lo avevano imitato”, fatto questo che “segnala” la loro “durevole influenza su una tradizione poetica che era stata dominata dall’imitazione petrarchista” (26). Frequentatori assidui del genere satirico come Carlo Gozzi e Giuseppe Parini dedicarono menzioni al Burchiello rispettivamente ne La Tartana degli influssi (1747) e in Alcune poesie di Ripano Eupilino (1752). Con utile dovizia di partico- lari Alfie e Feng rilevano come in tutto l’Ottocento e il primo Novecento letterario italiano il Burchiello e il personaggio che s’era di lui creato attraggano fortemente l’immaginario letterario moderno: basti pensare alla “sonettessa” carducciana (27) a lui dedicata nel libro quinto dei Juvenilia (1850), al romanzo di Paolo Minucci 558 . ANNALI D’ITALIANISTICA 36 (2018)

Le merende di Burchiello (1869), alla pièce teatrale Burchiello: quattro atti, scritta da Anna Franchi e pubblicata nel 1912, alla messa in musica di quattro sonetti bur- chielleschi ad opera del compositore veneziano Gian Francesco Malipiero (1922), al libro per l’infanzia scritto da Yambo (pseudonimo di Enrico Novelli), intito- lato Burchiello, l’amico di Ciuffettino, uscito nel 1926 e alla canzone burchiellesca: “Fratel mio, non pigliar moglie”, musicata da Jacqueline Fontyn nel 1970. I curatori fanno notare come la sempreverde figura del barbiere fiorentino abbia anche var- cato le soglie del terzo millennio con La bocca di Burchiello. Racconto masaccesco di Luciano Berti, apparso nel 2003 (27). L’ introduzione, che presenta il pregio di un’eccellente sinteticità, è chiusa da un corredo diacronico delle edizioni e traduzioni delle Rime e da un ricco excursus bibliografico. Utilissimo l’inserimento, in explicit di volume, di due Appendici testuali, la prima contenente i componimenti poetici di dubbia attri- buzione e la seconda che ospita due “documenti” di valore storico. Il primo è “la Denunzia de’ beni” di Burchiello (scritta “di suo pugno” nel 1427) in cui egli lamenta la propria indigenza sottolineando che ha a carico una famiglia con sei “boche” da sfamare (305, 306, 308); il secondo è costituito dalla “petizione” [. . .], datata 4 dicembre 1439” e “dettata al proprio consigliere legale” che Burchiello rivolge dalla prigione senese “a’ Signori della Reggenza e Governo” della stessa città (305, 310) per perorare la sua causa, discolparsi dalle accuse e tentar d’esser assolto dalla pena inflittagli. Testimonianze, queste, oltremodo preziose in quanto mostrano la precarietà materiale d’un uomo che nella vita reale vestiva i panni piuttosto logori d’un goliardo medievale, facile alle ruberie, agli insulti ed alle risse, mentre in quella poetica possedeva il dono di trasfor- mare gli stessi nelle vesti stravaganti ma geniali d’un devoto “sacerdote” di Talìa. Un meritato plauso va ai due studiosi che han posto mano all’ardua impresa di trasporre in altra lingua il corpus poetico di uno degli autori più originali del- l”Umanesimo italiano​ — ​fatica onerosa e complessa che oltre ad un intenso labor limae ha richiesto una fine perizia filologica per rendere appieno le sfuma- ture, frequentemente vernacolari, d’un lessico così surreale e al tempo stesso così schiettamente e strettamente ancorato “alla struttura logica e sintagmatica” del parlato toscano (7). Còmpito, questo, che i traduttori hanno svolto in maniera egregia, restituendo con precisione, eleganza, chiarezza e fedeltà tutto il sapore dell’immaginario burchiellesco, gettando luce sul cono d’ombra che ancora avvolgeva, nell’ostacolo della lingua originaria, un pilastro della poesia comica del primo Quattrocento fiorentino ed offrendolo, a tutto tondo, alla fruizione di un pubblico globale. Olimpia Pelosi, State University of New York at Albany Italian Bookshelf . 559

Diana Robin, and Lynn Lara Westwater, eds. Ippolita Maria Sforza: Duchess and Hostage in Renaissance Naples: Letters and Orations. The Other Voice in Early Modern Europe: The Toronto Series, Vol. 55. Tempe, AZ: ACMRS, 2017. Pp. 229. This volume represents the first English translation of the letters and Latin ora- tions of Ippolita Maria Sforza (1445–1488), an influential figure and “primary conduit” (1) for communication between the Milanese and Neapolitan courts. As the sister of the duke of and daughter-in-law of the king of Naples, Ippolita belongs to a “tradition of urban, classically educated” (3) women of the late fifteenth century and thus deserves consideration among better-known figures, such as Cassandra Fedele and Laura Cereta, often credited with the advent of the female epistolary tradition in Europe. Ippolita’s letters, which were frequently intercepted and censored, sit at a unique juncture between public and private. Focused neither on purely domestic matters related to marriage and motherhood, nor on humanist themes intended for public circulation, they instead highlight her political acumen and offer a unique perspective of notable historical players and events, such as the Pazzi conspiracy in Florence. Moreover, as her letters to her mother and sisters-in-law (Eleonora d’Aragona and Bona of Savoy) attest, Ippolita’s correspondences reveal the political influence wielded by and negotiated between the women of prominent Italian families. The editors provide a table listing the source texts for their selection of 100 letters (approximately one third of the total number of Ippolita’s extant letters). Nine of the letters are found in Corrispondenza di Giovanni Pontano (2012), the published letters of one of Ippolita’s secretaries, while the remai- ning 91 letters come from the Italian edition of Ippolita’s Lettere (2004), edi- ted by Maria Serena Castaldo, upon whose notes the editors draw extensively. The letters are organized chronologically and thematically into nine chapters. Letters 1–22 (1453–1465), “Travels in Lombardy,” include Ippolita’s earliest extant letters to her father in which she describes receiving gifts on behalf of her family, viewing castles, relics, and monasteries in various cities, and visiting ducal hunting lodges to “strengthen the bonds of sociability, mutual exchange, and kinship” within the duchy (18). Letters 23–28 (1465–1466) trace Ippolita’s role as an intermediary between the Milanese and Neapolitan courts starting with her journey to the Kingdom of Naples and marriage to Duke Alfonso of Calabria. Following her father’s death, letters 29–36 (1466–1467) highlight the public role Ippolita assumed as she advised her brother on policy and personal conduct. Correspondences with her mother in this section contain personal references to her pregnancy, her husband’s infidelity, and mourning her father’s 560 . ANNALI D’ITALIANISTICA 36 (2018) death (93). Letters 37–45 (1467–1468) span a lengthy sojourn in Milan that saw the birth of Ippolita’s first child, her brother’s marriage to Bona of Savoy, and her mother’s death. Letters 46–67 (1469–1475) capture Ippolita embroi- led in a power struggle between Naples and Milan. Adopting a secret code, she divulges information about her father-in-law’s court, advises her brother to burn her letters after reading them, and warns him not to “trust anyone” (114). This section of the book also marks the death of Ippolita’s secretary, Baldo Martorelli, and the appointment of Giovanni Pontano in his place (while many of Ippolita’s letters were written in her own hand, hundreds of others were dictated to her secretaries, an aspect that merits further investigation). Letters 68–75 (1475– 1476) focus on the cholera epidemic in Naples that struck both her father-in- law and husband, while Letters 76–83 (1477–1479) trace Ippolita’s attempts to protect the Milanese throne in the wake of her brother’s assassination in 1476. Letters 84–93 (1479–1482) address two larger historical-political events of the period​ — ​the Pazzi Conspiracy and Ottoman invasion of Otranto​ — ​and include Ippolita’s first letters to Lorenzo de’ Medici, who in 1480 appointed the duchess as “the procurator for his affairs” in Naples (150). As the editors note, the two had become intimately linked the previous year, when he had sought refuge in the Neapolitan court. Ippolita’s letters to the Florentine statesmen are “startling in their intimacy” (37) and representative of “the enduring bond between the Sforza and the Medici, two of the most powerful families in Italy in the last quarter of the fifteenth century” (36). Written in the period leading up to her unexpected death at the age of forty-three, Ippolita’s final letters (1482– 1486) are focused on her struggle to identify allies outside of Milan and Naples, with particular attention to her friendship and correspondence with Lorenzo de’ Medici. The selection of letters is followed by a section dedicated to Ippolita’s extant Latin orations, delivered publicly between 1455 and 1465. Accompanied by short introductions, the Latin texts and facing English translations showcase Ippolita’s knowledge of classical rhetoric (in fact, the Erotemata, an elementary grammar and the first book published in Greek in Italy, was written by Ippolita’s teacher, Constantine Lascaris, and dedicated to her). Ippolita’s “Wedding Oration for Tristano Sforza and Beatrice d’Este (1455)” was written when she was only ten years old in celebration of her half-brother’s wedding, while her most famous work, her “Oration for Pope Pius II (1459),” was delivered when she was fourteen before an international congress called by the pope at the Gonzaga court in Mantua after the Ottoman Turks seized Constantinople in 1453. Representing her father, who was unable to attend the conference, Italian Bookshelf . 561

Ippolita drew on her knowledge of canonical Latin writers to affirm the duchy of Milan’s “commitment to the crusade to liberate Constantinople” (69). Finally, Ippolita’s “Oration for Bianca Maria Visconti (1465)” celebrates “her mother’s extraordinary gifts as a mother, a duchess and head of state” and, in addition to its stylistic and rhetorical complexity, was “ahead of its time in its unapologetic encomium of a particular woman as a matrix for women rulers in general” (191). This first English edition of Ippolita Maria Sforza’s Letters and Orations​ — ​ which includes maps, portraits, photographs of busts of Sforza family members and friends, reproductions of two of Ippolita’s autograph letters to Lorenzo de’ Medici, a glossary of names of the main historical figures mentioned in the let- ters, and a chronology of the major personal and political events of Ippolita’s lifetime​ — ​represents an important first step in bringing to light an influential and under-studied tessera in the history of Italian women writers. Aria Zan Cabot, Southern Methodist University

Deanna Shemek, ed. and trans. Isabella d’Este: Selected Letters. The Other Voices in Early Modern Europe 54. Toronto: Iter Press, 2017. Pp. 691. This volume is of great interest for Renaissance and Early Modern scholars, historians, and really anyone who has read and enjoyed Anna Banti’s histori- cal novels (Rinascimento privato, Segreti dei Gonzaga, and Lucrezia Borgia), and desires a more realistic account of life for a noblewoman in a northern Italian court during the fifteenth and sixteenth centuries. Although some of the letters included in the collection might not be of particular interest to the casual reader, the division into sections and the descriptive headings preceding each letter, as well as the polished but always extremely legible translation and exhaustive footnotes, make the book easy to access and the life of Isabella d’Este (1474– 1539) more relatable to the contemporary reader. In addition, Shemek’s work must be praised for making the correspondence of a great figure of the Italian Renaissance accessible to students and scholars of Italian literature and history who might not be able to visit the Archivio di Stato in Mantua, where the manu- scripts are preserved. The book contains 830 letters translated into English, divided in five chro- nological sections, that Deanna Shemek selected from a pool of nearly sixteen thousand manuscript letters. Shemek reviewed each letter individually, since no other edition of Isabella d’Este’s correspondence had been previously published in any language. In addition, she enhanced the volume with a reference chart for measurements and for telling time in the sixteenth century, a set of genealogical 562 . ANNALI D’ITALIANISTICA 36 (2018) tables of the Este and Gonzaga families and of the children and grandchildren of Isabella and Francesco II Gonzaga (1466–1519), along with a glossary of names. Reading Isabella’s letters allows one to imagine the life of a woman who not only was born into nobility, but who at a young age married nobility, and became known as one of the most cultivated and influential personalities of her time. Her letters offer a glimpse into her daily life and take the reader through a fascinating journey filling the gaps between letters to create a vivid image of what life at that time was like for this woman of great substance. Isabella uses her correspondence to deal with a great variety of topics and tasks, including: personal conversations with family members and friends; planning travels and invitations; instructions to her agents on what and how to purchase goods for her and the court (in particular, art, musical instruments, luxury goods, and food delicacies); requests of benefits for her subjects; reports on the state of the city; direct requests to vendors and artists to commission artwork; justice administration; and her pregnancies and the succession of the Gonzaga family. The volume also offers precious firsthand accounts of some of the key historical events that occurred during her life span, such as the descent of Charles VIII, King of France, into Italy (1494), the forming of the League of Cambrai and the wars that followed, and the sack of Rome (1527). The book’s introduction presents the figure of Isabella in her various roles as princess, collector, correspondent, and pioneer in the world of fashion and design. To provide context, Shemek also describes the material conditions, habits, style, and purpose of letter writing in the Renaissance, as well as the implications of such conditions for text preservation and research. The first section of the book (letters written between 1479 and 1499) contains a few examples of very early correspondence that was most likely composed by the chancery or dictated by Isabella’s mother on her behalf. The second letter of the collection was written when Isabella was only five years old to request a benefice for her wet nurse’s son. Her vocation to become a public figure and take an active role in politics and administration seems evident even in this brief document. This section also contains letters describing her life as a young bride of Francesco II Gonzaga, marchese of Mantua. Circa 1491 we can see Isabella start planning her studiolo, and communicating with various artists, booksellers, and poets. This period is also marked by messages confirming her political and administrative role while her husband was away at war across the Italian peninsula. The second section (1500–1509) sees Isabella occupied with four main areas of concern: reporting to her husband on the politics of the city while he Italian Bookshelf . 563 was at war; the administration of the State; the acquisition of various pieces for her studiolo; and the birth of her third child. The third section (1510–1519) shows Isabella taking over as a political lea- der during Francesco’s imprisonment by Venetian forces. Over this time period Isabella also writes about the marriage of her oldest daughter and the entrance into a monastery by her two younger daughters. Despite her involvement in politics and government administration, Isabella still finds time to keep in touch with artists and merchants, and to purchase books, music, and antiquities for her private collection. She also travels to Rome and Naples to negotiate political marriages and benefices, and while there becomes enamored with the charm of the social scene in these two cities. After being released from prison, Francesco becomes ill and dies shortly after. Isabella, now widowed, becomes the ruler of Mantua. The fourth section (1520–1529) contains letters written by Isabella while her son Federico is off fighting France and Venice. After Charles V is elected emperor (1519), Isabella tries to ensure a career at his court for her son Ferrante, as well as a cardinalate for her other son Ercole. After successfully achieving his son’s cardinalate, she remains in Rome, where she is trapped during the sack of Rome. Finally, in 1529 Isabella’s letters deal with the acquisition of the court of Solarolo in Romagna, where she rules in the last years of her life. The fifth and final section (1530–1539) shows that even in the last decade of her life Isabella kept advocating for her subjects both in Mantua and Solarolo. Some of her correspondence deals with the marriages of her sons Federico and Ferrante and her grandchildren, but she still finds time to devote to art and literature. For example, there are letters in which she compliments Ludovico Ariosto and Bernardo Tasso for their poetry. In her final years, most of the corre- spondence is devoted to her poor health and to her last project, the construction of a new monastery in Mantua. However, it seems quite significant that the letter that concludes the collection, written only one month before her death, defends the interests of one of her subjects, proving her life-long commitment as a sove- reign and administrator. Francesca Silva, PhD candidate, The City University of New York 564 . ANNALI D’ITALIANISTICA 36 (2018)

SEVENTEENTH, EIGHTEENTH, & NINETEENTH CENTURIES

Edward Milton Anderson. Ariosto, Opera, and the 17th Century: Evolution in the Poetics of Delight. Firenze: Leo S. Olschki, 2017. Pp. 278. This valuable resource meticulously documents the impact of the Orlando furioso on Italian musical theatre of the Seicento. Anderson presents a well-rese- arched book, mapping out a tripartite periodization of salient stylistic changes in musical-poetic practice of the seventeenth century. The author pays attention to the most popular dramatic interpretations of the Furioso, while also dedicating space to lesser-known productions, or rifacimenti. The volume presents a chro- nological and comprehensive summa of a century of staged musical drama of the Furioso during the baroque period. Anderson opens with an excursus on the musical history of performance influenced by the Furioso, as well as on how various types of musical genres evolve over a period of nearly two centuries since the Furioso’s 1516 publication. The first chapter discusses the development of the Seicento musical drama and its relationship to the madrigal of the Cinquecento. Anderson proposes that, “as musical-dramatic taste developed in the Seicento, the Orlando furioso remained a steady source of inspiration to librettists” (4). Nonetheless, there was a gradual change in the wider acceptance of secular music in the same period as well as a sense of freedom to adapt significant literary texts to music. Anderson outlines the popular printed editions of the Furioso in the Cinquecento and emphasizes a dearth of unabridged publications in the seventeenth century, with an incre- ase in published musical-dramatic texts based on episodes from Ariosto’s poem. He continues with a detailed discussion of the Florentine Camerata (a kind of intellectual salon) and its advocacy for poetically inspired staged music while emphasizing, more specifically, the Furioso’s role in increasing favorable public opinion for musical performance. The second chapter, entitled “Autorità and Meraviglia: Ariostean Musical Poetics in the Primo Seicento (1609–1635),” presents detailed analyses of numerous experiments of musical drama based on Ariosto’s poem. Anderson documents the acceptance of this poem as a vernacular source of madrigals, intermezzi, and staged musical drama. The impact of the recitative style and the Furioso’s role in influencing such performances is a prime example of how “the polyphonic madrigal itself began to yield to the new monodic genre” (7). The Furioso gained a legitimacy on the musical stage that was unpreceden- ted and partly due to its canonical status. Authorial interjections, controversial Italian Bookshelf . 565 according to Aristotelian poetic theory, began to appear in musical dramaturgy, even expanding the contours of what was presented in the poem itself. The representations of wonder and the unexpected were artfully adapted to dramatic performance and appealed to theater audiences. Anderson emphasizes public taste and the insistence on straight-forward narrative poetics in the first periodi- zation: “Narrative fidelity is an important indication of Ariostean autorità in the early Seicento, a reverence decidedly missing in a number of the major works of the mid-century” (123). Musical poets of the period in question recognized that magic, when coupled with Ariosto’s authority, made for entertaining stage performances. The third chapter, “Arioso and Farraginoso: Ariosto in the Musical Drama of the Mid-Century (1642–1675),” presents an evolution of the complexities in narrative poetics of musical drama in the second periodization, beginning with Il palazzo incantato, overo La guerriera amante by Giulio Rospigliosi (Rome, 1642). Anderson explores “how Venetian developments in public musical spectacle influenced adaptations of the Orlando furioso in the republic (Bissari, 1650; Aureli, 1658) and how changes initiated in 1637 Venice went on to inform Ariosto-inspired musical dramas performed elsewhere in Italy (Rospigliosi, 1642; Bonarelli, 1647; Spinola, 1655: Bissari, 1656)” (129). The farragine, defined by Anderson as “confusion, complexity, miscellany, gallimaufry” (129), included complex plot structures, with multiple episodes taken in no specific order from the Furioso and adapted to stage production. In these three decades of performances, there is an increased desire to include popular, spoken, theatri- cal traditions (commedia dell’arte), additional characters not found in Ariosto’s poem, and rhythmic experimentation such as “an evolution in strophic metri- cal forms toward a new and more developed arioso style” (131). The advent of public opera in Venice in 1637 led to the expansion of the genre to a broader public audience: “[. . .] the exclusively private model of patronage came into contact with the new model of public theatre” (128). In this section, Anderson briefly includes information on how innovative metrical forms developed into a spirited and increasingly popular aria style. The fourth chapter, “Ariosto in Arcadia: Narrative Ricorso and the Codification of the Aria (1682–1699),” begins with Aurelio Aureli’s Olimpia vendicata, musical poetry with straightforward narrative principles and less pronounced metrical innovations, fewer characters, and uncomplicated plot structures. The chapter presents the dissolution of the narrative farragine and preference for narrative clarity and regularity. Anderson documents “a prevai- ling sober and classicist approach to musical drama that was promoted in the 566 . ANNALI D’ITALIANISTICA 36 (2018)

late Seicento by the Accademia dell’Arcadia” (36). He offers various examples of the suggested developments in musical drama, including a comparison between Aurelio Aureli’s Il Medoro (1658) and Olimpia vendicata (1682), as well as Giovanni Andrea Spinola’s L’Ariodante (1655) and Giovanni Battista Bassani’s La Ginevra infanta di Scozia (1690). Ultimately, “Arcadian polemic against deca- dent concettismo was an important aspect of a broader conservative musical and literary program that helped reshape musical drama toward the end of the Seicento” (204). In the final chapter, Anderson urges scholars to compile a broad biblio- graphical survey tracing the influence of the Furioso in the Seicento. He also recommends additional study of Tasso’s legacy in seventeenth-century musical drama. He concludes with a brief look at the impact of Ariosto’s poem in the Settecento. In addition to the tome, there is an accompanying CD-Rom with a transcription of 28 Italian musical pieces inspired by the Furioso, totaling over 650 pages, and including brief descriptions on the content of more than half the selections. The pieces, performed or published between 1616 and 1702, were for operatic performances, musical intermedi, and tournaments. Anderson outlines the intention of his research throughout the book, con- tinuously reinforcing the scope of his project. Comprehensive footnotes accom- pany each chapter in order to facilitate further investigation of topics and sources mentioned. While the work lacks English translations of the Italian musical-dra- matic productions cited, Anderson’s periodization and analysis of stylistic and compositional musical innovations ushered in by the poem is certainly a boon for musicologists and scholars of Ariosto. Christen Picicci, Colorado State University

Francesca Calamita, Linguaggi dell’esperienza femminile. Disturbi alimentari, donne e scrittura dall’unità al miracolo economico. Padova: Il Poligrafo, 2015. Pp. 226. Il 5 luglio 1909 la prima suffragetta, Marion Wallace Dunlop, inizia lo sciopero della fame, efficace strumento di lotta che sarà immediatamente utilizzato da molte altre donne, in opposizione ad un sistema che nega loro i più elementari diritti; pochi anni prima la protagonista di Margherita Royn (Napoli, 1886), della misconosciuta Cettina Natoli Ajosssa, mostra nel fisico devastato (“Gli occhi neri si erano ingranditi, dilatati nella magrezza del viso lungo e sfinito; il naso s’era fatto più sottile, la pelle pareva stirata sulle ossa, la bocca s’era allar- gata sulle guance sbiadite”, 219) non solo la volontà di rinunciare al nutrimento Italian Bookshelf . 567 ma l’impossibilità di accettare un ruolo passivo di moglie e madre di fronte alla passione devastante per l’Altro. Una storia nota ed un romanzo dimenticato pongono, sul piano reale e virtuale, la presenza di corpi femminili trasformati da regimi alimentari anomali, fisici trasfigurati che danno luogo a un vero e proprio linguaggio del dissenso e della protesta. Questo è il tema di fondo del libro di Francesca Calamita: la rappresentazione letteraria del disturbo alimentare, che viene esaminata nell’opera di cinque scrittrici, Neera, Sibilla Aleramo, Wanda Bontà, Paola Masino, Natalia Ginzburg, ed è segno di una rivolta, sempre più consapevole dalla seconda metà dell’Ottocento agli anni ’50, contro il ruolo costrittivo e limitante che la società assegna alle donne. Calamita, attenta studiosa della relazione fra cibo e identità femminile, sot- tolinea la modernità delle autrici postunitarie che precorrono nelle loro narra- tive il pensiero femminista sui disturbi alimentari, anticipando al tempo stesso le conclusioni di opere scientifiche quali il fondamentale L’anoressia mentale del 1963 (Milano: Feltrinelli), ad opera della psichiatra Mara Selvini Palazzoli. In questo lavoro, così come nei testi esaminati nel volume, le patologie legate alla nutrizione non sono attribuite ad una tendenza nevrotica connaturata alla donna come essere debole e instabile, né vengono viste come conseguenza dell’impo- sizione, nell’immaginario collettivo, di immagini femminili “filiformi” tramite le quali la classe borghese possa distanziarsi dal proletariato. I comportamenti anoressici o bulimici si configurano invece nel pensiero della psichiatra come sintomo di un disagio sociale, e nelle opere delle scrittrici diventano, secondo Calamita, strategia per mettere in discussione un destino, che nel contesto socio- culturale del tempo risulta prestabilito, attraverso un dicotomico strumento di self-empowerment” (40–41). La donna del secondo Ottocento, controllata da una società ancora patriarcale che le impone un ruolo di “fattrice” attratta al tempo stesso dai più dinamici modelli europei che la nascente civiltà indu- striale propone, vive sospesa fra due mondi, e ricerca una forma di femminilità alternativa che ne esprima adeguatamente la personalità attraverso il linguaggio del corpo, ed anche tramite il dominio della propria fisicità di cui la privazione di cibo è parte integrante. Ne consegue un potenziamento del sé “dicotomico”, sostiene Calamita, perché sicuramente destinato al fallimento​ — ​il destino delle eroine anoressiche o bulimiche di molte narrative è la malattia o la morte —, ma comunque in grado di comunicare al lettore un’istanza di cambiamento, cioè l’a- spirazione ad una libertà negata nei fatti; il linguaggio del cibo e del corpo rivela quindi ciò che i mezzi di espressione verbale non riescono ancora ad elaborare. Se il veto paterno al matrimonio appare inaccettabile per Teresa (Milano: Galli, 1886), protagonista dell’omonimo romanzo di Neera, la ragazza si 568 . ANNALI D’ITALIANISTICA 36 (2018)

estranea da un contesto domestico soffocante rifiutando di alimentarsi insieme agli altri, o di nutrire ed accudire i familiari; Marta (L’indomani, Milano: Galli, 1889) inscrive nel proprio corpo la delusione per un vincolo matrimoniale insoddisfacente, riuscendo a mangiare tranquillamente solo quando sente di essere amata dal marito. In Una donna (Torino: STEN, 1906) di Sibilla Aleramo il disturbo alimentare è innescato palesemente dalla violenza sessuale, e insieme dalla volontà di sentirsi diversa rispetto alla madre, passiva, irrazionale, sempre più grassa nel corso degli anni. Il corpo “intensifica il suo ruolo di strumento di simbolica comunicazione” (101), e l’intenzione di ridefinire il proprio destino di donna si manifesta nel testo in modo più deciso in confronto ai romanzi di Neera. Di particolare interesse il caso di Wanda Bontà, autrice di successo nel Ventennio, oggi poco indagata dalla critica; nei suoi romanzi rosa, solo appa- rentemente superficiali, si mette in realtà in discussione l’ideologia fascista pro- prio attraverso la raffigurazione di giovani donne inappetenti, diafane, distanti dall’ideale mussoliniano di donna formosa e prolifica. La propaganda del Fascio non ha quindi quel carattere pervasivo che spesso le si attribuisce, almeno fra l’alta borghesia che costituisce il pubblico di Bontà: le protagoniste del suo Signorinette (Milano: Mani di fata, 1938), esili o impegnate disperatamente a dimagrire, compensano il proprio desiderio inappagato dedicandosi a soddi- sfare il bisogno altrui di cibo, come si nota nel disturbo alimentare contempo- raneo. Decaduto il mito di una femminilità prosperosa, scrive Calamita, “una figura filiforme, metafora di una posizione sociale più libera, è ciò che le nuove generazioni dovrebbero seguire per ottenere un nuovo ruolo sociale” (129). La tenue protesta di Bontà cede il posto all’aperta critica di Paola Masino, sia pure condotta in un contesto surreale, in Nascita e morte della massaia (Milano: Bompiani, 1945). La protagonista riduce ai minimi termini spazio vitale ed ali- mentazione per estraniarsi da una realtà che le impone il ruolo costrittivo che il suo nome, la massaia, individua: il cibo e il corpo, “che dovrebbero essere fonda- mentali per attuare l’ideologia del regime, si rivelano nella letteratura femminile del Ventennio gli ‘alleati’ della resistenza sociale delle donne” (Calamita 140). Infine, nell’era del miracolo economico, quando istanze progressiste si scon- trano con la persistenza di un quadro ideologico moralista e cattolico, Natalia Ginzburg tratta esplicitamente di anoressia e propone figure decisamente anti- conformiste, quali La madre (Antologia Einaudi, 1948) del racconto omonimo, il cui corpo androgino e la tendenza a sotto-alimentarsi ne indicano il deside- rio di spogliarsi della femminilità tradizionale; come Cate in Le voci della sera (Torino: Einaudi, 1961) che dopo aver lasciato il marito dimagrisce e si taglia i Italian Bookshelf . 569 capelli, la protagonista intende “vestire una nuova maschera che comunica agli altri la sua trasformazione interiore” (176). Il corpo delle donne diventa dunque supporto scrittorio, con cui tracciare un messaggio di protesta e di affermazione identitaria; ma anche i personaggi di Ginzburg sono perdenti, e il loro destino negativo mostra quanto le modalità di self-empowerment si trasformino in “segni tangibili della sconfitta sociale” (175). Il saggio di Calamita aggiunge un nuovo, significativo, tassello agli studi sul rapporto fra cibo e cultura/scrittura femminile, lavori fra i quali si ricor- dano almeno i volumi a cura di Heller e Moran e di Muzzarelli e Re (T. Heller, P. Moran, Scenes of the Apple: Food and the Female Body in Nineteenth- and Twentieth-Century Women’s Writing, Albany: SUNY Press, 2003; G. Muzzarelli e L. Re, Il cibo e le donne nella cultura e nella storia: prospettive interdisciplinari, Bologna: Clueb, 2003), che l’autrice discute ampiamente nella sua trattazione. La scelta di assumere l’anomalia e il disturbo alimentare come focus del discorso appare particolarmente efficace poiché scava in profondità all’interno del per- corso identitario femminile, compiuto tramite il discorso letterario, evidenzian- done difficoltà, incertezze, sconfitte, ma anche la progressiva acquisizione di strumenti culturali e strategie comunicative per definire e consolidare un ruolo finalmente paritario della donna, e della scrittrice, nella società contemporanea. Daniela Bombara, Università di Messina

Maurizio Capone. Nievo e Tolstoj. Le confessioni d’un italiano e Guerra e Pace: un confronto inedito. Roma: Editore, 2017. Pp. 354. L’opera critica di Maurizio Capone si propone un duplice obiettivo: instaurare un confronto tra Guerra e Pace di Lev Tolstoj e Le confessioni d’un italiano di Ippolito Nievo e, allo stesso tempo, mettere adeguatamente in luce l’originalità del testo nieviano, situabile in una zona di “confine” tra i romanzi di primo e secondo Ottocento. Prima, però, di entrare nel vivo della trattazione di questi due punti, Capone ritiene opportuno chiarire le motivazioni che lo hanno spinto a realizzare que- sto inedito parallelismo letterario. Come l’autore stesso precisa nell’Introduzione I, la sua ricerca muove da alcune considerazioni isolate di Dino Mantovani e di Vittore Branca, mai comprovate fino ad ora da un’adeguata analisi critica. Innanzi tutto, quindi, Capone effettua una ricerca preliminare di natura stori- co-filologica sulle vicende editoriali di entrambi i romanzi, al fine di individuare possibili legami intertestuali tra di essi. Come, tuttavia, emerge dal Capitolo I, l’esito di tale operazione risulta negativo, sebbene non venga esclusa in modo 570 . ANNALI D’ITALIANISTICA 36 (2018)

netto l’ipotesi di un’intertestualità di tipo indiretto. Ad ogni modo, al di là di tale eventualità difficilmente dimostrabile, l’autore ritiene ugualmente fruttuoso mettere in relazione queste due opere “per poter evidenziare o escludere se alcune delle leggi dei due romanzi sono affondate nell’inconscio dei due scrit- tori per riemergere poi alla coscienza in forme simili” (55). Così, nel corso dei successivi capitoli della sua critica, Capone delinea il confronto tra i due testi, individuando interessanti simmetrie, che riguardano molteplici aspetti: la socio- logia della letteratura (cap. II), le strutture narrative, con particolare riferimento alla tecnica del “montaggio” e all’espediente del “controfinale” (cap. III, IV e IX), la costruzione dei personaggi (cap. V), il rapporto tra l’individuo e la storia, con un approfondimento di questioni di filosofia della storia (cap. VI e VII) e, infine, la ricerca del senso della vita (cap. VIII). La complessa rete di parallelismi che emerge da questi capitoli costituisce il cuore della critica di Capone. Tale analisi, attenta e dettagliata, risulta convincente in particolare nel confronto ideologico tra i due scrittori, nella comparazione tra le strutture narrative dei romanzi e nella trattazione di alcuni personaggi. Per quanto riguarda i temi ideologici, dall’autore sono posti in debito rilievo i denominatori che accomunano i mondi dei due scrittori: l’idealizzazione della civiltà contadina, l’ideologia populista e il desiderio di un radicale rinnovamento dell’umanità (cap. II). Per quanto concerne le strutture narrative, il discorso diventa più artico- lato: varie, infatti, sono le scelte strutturali che accomunano i due romanzieri, differenziandoli al contempo dagli altri autori della loro epoca. Fra i più interes- santi meccanismi narrativi segnalati da Capone, particolare attenzione merita l’impiego del “controfinale” (cap. IX): i romanzi presi in esame, infatti, non terminano, come solitamente accadeva nelle opere di primo Ottocento, dopo il momento di massima tensione e/o con il suggello del lieto fine, ma prose- guono in lunghi “post-finali”. Il messaggio che i due scrittori vogliono comuni- care, tramite questo espediente è di un realismo sottilmente cinico: la vita nel mondo va avanti, oltre la compiutezza dei destini dei singoli. È così, dunque, che le conclusioni degli intrecci nei due romanzi, rappresentate dalle morti di Andréj e di Pisana, “non concludono” e si arrendono all’invasione della prosa del quotidiano. Infine, per quanto concerne la caratterizzazione dei personaggi, Capone costruisce la propria analisi sul confronto tra personaggi affini presenti nelle due opere, riservando una particolare attenzione alle figure femminili (cap. V). L’autore individua tre coppie di donne, tra le quali spicca quella formata dalle protagoniste Pisana e Nataša, lontane per molti aspetti dai tipici perso- naggi femminili dei romanzi di primo Ottocento. Con accuratezza e chiarezza Italian Bookshelf . 571 argomentativa, Capone riesce a mettere in luce i tratti di modernità delle due donne. Egli si sofferma soprattutto sulla caratterizzazione di Pisana, della quale evidenzia la complessità psicologica, delineata tra luci e ombre e priva di filtri idealizzanti, in primis nel proprio modo di vivere l’amore. Sarebbe, tuttavia, scorretto pensare che l’opera dello scrittore padovano tagli tout court con il romanzo di primo Ottocento. Infatti, pur presentando dei rilevanti elementi di modernità che lo rendono decisamente atipico, il testo nie- viano conserva ancora alcune caratteristiche del paradigma ottocentesco, pun- tualizzate opportunamente da Capone nelle Conclusioni: il rilievo della dimen- sione pubblica, il montaggio melodrammatico-teatrale, gli effetti di romance e, infine, la linearità e compattezza della trama a livello macro-strutturale. È pro- prio in questo territorio conosciuto che Nievo getta i semi dell’innovazione, sia formale che contenutistica, che attecchiranno e daranno i loro frutti nei romanzi del secondo Ottocento. Un’ultima osservazione va, infine, riservata alla scelta di Emiliano Ventura, membro della Fondazione Luzi, di introdurre il testo critico di Capone con un’intervista su Tolstoj ad Eraldo Affinati: le osservazioni di Affinati non solo ripercorrono la storia di Veglia d’armi (1992), suo illuminante contributo alla critica tolstoiana, ma toccano questioni letterarie di più ampio raggio e rifles- sioni di natura esistenziale, fornendo una cornice suggestiva e originale alle suc- cessive riflessioni critiche. Nel complesso, dunque, Nievo e Tolstoj. Le confessioni d’un italiano e Guerra e Pace: un confronto inedito risulta essere un testo critico ben articolato, solido nell’argomentazione e, soprattutto, ricco di inediti e validi spunti di riflessione e di ricerca. L’autore si mostra all’altezza dell’arduo compito che si è proposto, riuscendo a dimostrare che, al di là delle vicende editoriali delle due opere, non è improprio “congiungere il nome dello scrittore padovano, in veste di cugino minore, a quello del conte russo” (336). Si può, pertanto, concordare piena- mente con Simone Casini, nel riconoscere alla critica di Capone “il grande merito di aver posto le basi, e anche qualcosa di più, per una lettura nuova del capolavoro nieviano, grazie alla filigrana russa” (Prefazione). Stefania Gargano, Università degli Studi di Siena 572 . ANNALI D’ITALIANISTICA 36 (2018)

Silvia De Santis. Blake and Dante – A Study of William Blake’s Illustrations of the Divine Comedy Including His Critical Notes. Roma: Cangemi Editore International, 2018. Pp. 143. In questo libro Silvia De Santis ritorna ed espande un tema già trattato in un suo saggio apparso in Critica del testo del 2014. In quell’occasione l’argomento era limitato allo studio di un’annotazione di Blake al IV canto dell’Inferno, mentre qui se ne amplia il contesto e lo si integra con lo studio di altri punti che ser- vano anch’essi a contestualizzare storicamente e intellettualmente il pensiero e la tecnica del poeta-illustratore, forse il più celebre con Gustave Doré fra tutti gli illustratori di Dante. In primo luogo, dunque, viene la ricostruzione, rapida ma incisiva, della Rezeption del poema dantesco nella tradizione letteraria inglese, da Chaucer a Milton e fino alla prima traduzione completa di Henry Boyd (1802), benché varie traduzioni dell’intera cantica dell’Inferno fossero già state pubbli- cate, inclusa quella dello stesso Boyd nel 1785. In sostanza l’Inghilterra conobbe o privilegiò (come del resto accadde in Francia) gli episodi di Francesca e di Ugolino. Una conoscenza limitata, dunque, in gran parte spiegabile con il seco- lare anticurialismo dell’Inghilterra e con la conseguente l’ostilità al pensiero politico di Dante. William Blake arrivò tardi a cimentarsi con il poema di Dante e le sue illu- strazioni della Commedia sono l’ultima sua opera, per giunta rimasta incom- pleta. Ma non vi arrivò senza averne dato anteriormente qualche saggio, come ad esempio nella collezione For Children: Gate to Paradise, in cui già mostra qualche innovazione rispetto ai Füsly e Faxman, gli illustratori fino ad allora dominanti. De Santis rileva come, nel ritrarre Ugolino, Blake già propenda ad evitare il tema della punizione divina del ghiaccio del Cocito (Ugolino viene ritratto con i suoi figli in grande pena ma non in un ambiente infernale), perché il Dio di Blake non è vendicativo, contrariamente a quello del papa romano o dei cristiani in generale. Il corpus di tali illustrazioni consiste di 102 acquarelli (72 per l’Inferno, 20 per il Purgatorio e 10 per il Paradiso), alcuni disegni a matita, 7 incisioni; a tutto ciò si aggiungono alcune “annotations” o note frammentarie presenti in disegni incompleti, e benché queste ultime siano note di “lavoro”​ — ​ma forse proprio per questo​ — ​sono preziose in quanto contengono osservazioni della poetica che soggiace all’interpretazione pittorica. Blake cominciò ad illustrare la Commedia dietro la committenza di John Linell, risalente al 1824, e vi lavorò fino alla morte nel 1827, quindi in sostanza per un breve periodo. Le illustrazioni rimasero a Linell, non furono mai pub- blicate e furono esposte per la prima volta nella Tate Gallery nel 1913, e quindi Italian Bookshelf . 573 messe all’asta e pertanto disperse in varie sedi; per fortuna si possono vedere raccolte nel volume Blake’s Illustrations to the Divine Comedy curato da A. Blunt nel 1954. Da allora gli studi su questo tesoro iconografico si sono intensificati e con risultati diversi fino a creare un’intricata selva di proposte nella quale Silvia De Santis si muove con grande agilità per aggiungere la sua voce che avanza una tesi forte e convincente. La discussione, infatti, si svolge essenzialmente tra due poli: da un lato (dominato da Albert Roe) abbiamo un’interpretazione esoterica secondo cui Blake accentuerebbe gli aspetti simbolico-esoterici della Commedia; dal lato opposto (David Fuller) si sostiene che l’interpretazione bla- kiana sia rispettosa della littera dantesca. Il dibattito è intenso, e la De Santis non prende posizione né per l’una né per l’altra tesi, perché ritiene che entrambe abbiano ciascuna una parte di ragione: in medio stat veritas, perché Blake com- bina entrambe le line interpretando mentre legge e leggendo nel momento stesso in cui interpreta, e “interpreta” in questo caso vuol dire che “lo illustra mentre dà vita alle proprie visioni”, per cui hanno ragione sia quelli che ritengono che Blake “interpreti” la Commedia, sia quelli che pensano che la “illustri” o “rap- presenti”. Sembrerebbe un compromesso comodo ma di fatto è una soluzione brillante, la quale, oltre tutto, spiega cosa in quel poema affascini Blake e perché ne illustri alcuni punti anziché altri, e come da questa constatazione scaturisca il modo di illustrarlo. Così anche quando Blake sembra distanziarsi da Dante, in realtà se ne sta appropriando. De Santis ci prepara a questo incontro-distacco ricordandoci che Blake si pone davanti a Dante con un atteggiamento ambiguo: da una parte disdegna le sue idee politiche, il suo “materialismo” e la sua cultura classicheggiante; d’altra parte ammira il visionario e il profeta e il poeta nella sua forza immaginativa. Tale atteggiamento spiega il perché e il come Blake si ponga davanti alla Commedia per interpretarla senza rinunciare a rappresentarla o raffigurarla. Spiega questo atteggiamento ambiguo una finissima e sintetica analisi di una “annotazione” a matita su una tavola preparatoria in cui Blake disegna la struttura del cosmo affabulata nel poema, struttura che incornicia “la bella scuola” guidata da Omero la cui figura è affiancata dalla didascalia “Satana”. È uno sketch emblematico sia della supposta contraddittorietà dantesca, sia del modo interpretativo con cui Blake intende rappresentarla. L’annotazione in questione colloca l’episodio della “bella scuola” in una sequenza di canti (3–5) tra due “svenimenti” o perdita di coscienza: il primo quando il Pellegrino entra in Inferno, e il secondo alla fine del canto di Francesca. Gli svenimenti del Dante autore-personaggio propizierebbero la “visionarietà” di fondo della Commedia nonostante la sua componente classicista e materiale. Per Blake la “visionarietà” 574 . ANNALI D’ITALIANISTICA 36 (2018)

della Commedia sarebbe di natura salvifica, e anche per questo essa avvia il moto del viaggio e contiene il senso didattico profondo del poema nonostante tutto il materialismo che pur gli vive dentro e a fianco e che risale in ultima analisi alla cultura dei classici e dei cristiani, i quali, secondo Blake, avrebbero degenerato l’insegnamento dei Patriarchi creando un Dio razionale ed essenzialmente estra- neo all’uomo. Le illustrazioni di Blake aspirano a interpretare questo misto di razionalismo e visionarietà nell’opera dantesca. È un’“annotation” che illustra la poetica interpretativa di Blake: una sequenza narrativa viene condensata in una intellezione di simultaneità in cui convergono il soggetto illustrato e la sua interpretazione nonché il messaggio morale: l’insieme crea una sorta di mes- saggio-lettura stratificata che contiene insieme il punto materiale o storico (la littera) e la dimensione anagogica. Da qui la forza e il fascino delle illustrazioni blakiane così moderne e a loro modo espressionistiche. Una volta ricostruito il background teorico-religioso di Blake e dopo averne dato le pezze d’appoggio con una copiosa presentazione di illustrazioni, De Santis verifica la sua generale ricostruzione della “poetica” blakiana dedicando un intero capitolo all’illustrazione della Fortuna, la classica manipolatrice dei beni materiali che opera senza mai rivelare i suoi piani. Il locus è il canto settimo dell’Inferno in cui la Fortuna è dipinta sotto terra per indicare la natura occulta dei suoi disegni, e in superficie, quasi ad incorniciare la Fortuna, sono dipinte le schiere degli avari e dei prodighi che si scontrano. L’illustrazione viene letta, senza forzature, come una severa critica della nozione di giustizia e della teologia di Dante. L’autrice nota che in questo caso l’oggetto illustrato non è basato su un evento diegetico, ma su un dialogo fra Dante e Virgilio. L’osservazione segna il passaggio a considerare una variante dei temi o soggetti illustrati da Blake: non solo parti narrative ma anche similitudini e altri dettagli iconografici che l’autrice chiama “retorici” in quanto sono materia “parallela” o esornativa del racconto. Esempi di tali scelte si trovano nel cap. quinto: “Turning Words into Pictures” (113–31). Qui De Santis si sofferma principalmente sulla similitu- dine iniziale del naufragio, mettendone in luce alcuni dettagli, dialogando con la critica pregressa per capire da dove Blake tragga alcuni particolari perché la loro provenienza agevola il modo di interpretarli. In quella similitudine il tema del naufragio riporta all’archetipo del naufragio di Ulisse che pone fine alla sua storia mentre quello di Dante costituisce il punto d’avvio della sua storia. In altre parole, il poema dantesco comincerebbe dove un mito antico si chiude, evi- denziando così la continuità classicheggiante ma che Dante volgerebbe verso la salvezza eterna. La conferma che in Dante operi il legame accennato viene da un dettaglio iconografico ricavato da un’illustrazione blakiana al De antro di Porfirio Italian Bookshelf . 575 in cui si commentano alcuni versi dell’Odissea. Nel suo insieme la similitudine iniziale dice di Dante, il personaggio/poeta che si libera dalla “materia” e si eleva verso l’eterno. E a questo proposito, De Santis rileva la frequente presenza nelle illustrazioni dell’immagine del “vortice”, simbolo evidente della tensione verso la visione finale. È una prova dotta ma indiretta e quindi accettabile con cautela. Non è però cervellotica e De Santis non la presenta come sua, ma ne fa un uso intelligente perché contribuisce ad illustrare la “poetica” di Blake che, a sua volta, rende plausibilissima un’ipotesi di tal genere, rimanendo abbastanza aderente al testo, alla littera dantesca. La simultaneità di testo, interpretazione e anagogia moltiplica in modo espo- nenziale la possibilità di leggere quei disegni, ed è qui dove il critico deve frenare la propria fantasia per riuscire credibile. De Santis nota che altri disegni sono ancora più ardui da rapportare al testo della Commedia, anche se le indicazioni ai passi precisi del poema dovrebbero rendere chiaro il rapporto. Sono i casi in cui prevale la “vena interpretativa” di Blake alla quale Dante può o potrebbe aver dato solo lo spunto iniziale. Da questo la conclusione che le illustrazioni della Commedia possano essere lette con aderenza stretta al testo dantesco, ma qual- che volta il rimando deve limitarsi ad un semplice e minuscolo punto che mette in moto l’immaginazione potente, la vena onirica e perfino misticheggiante del poeta-pittore o del pittore-poeta. Non è una conclusione da sconfitti, ma è proprio il contrario: è una saggia rinuncia a trovare formule che spieghino tutto, quasi letti di Procuste che impri- gionano in uno stampo temi vastissimi e una incontenibile materia vulcanica. A noi sembra una conclusione saggia che, se riduce il libro a una serie di “sondaggi” nel mondo di Blake, riesce anche a dare una mostra della sua potente personalità artistica, del suo culto della “immaginazione” contrapposta alla “ragione”, ed è una facoltà potente che si diffrange in mille rivoli e che proprio per questo cat- tura a suo modo la grandezza dell’immaginazione di Dante coniugandola alla propria. Tema arduo e sfuggente quello di questo libro, ma l’autrice trova il tono e l’equilibrio giusto per spiegarcene le origini e il frutto. Un ulteriore pregio non trascurabile di questo libro è anche la cura tipo- grafica dell’impaginazione e delle riproduzioni, numerose, a colori e con ottima risoluzione. Paolo Cherchi, University of Chicago 576 . ANNALI D’ITALIANISTICA 36 (2018)

Cinzia Gallo. Spigolature letterarie tra Ottocento e Novecento. Padova: Il Poligrafo, 2017. Pp. 160. In Spigolature letterarie tra Ottocento e Novecento Cinzia Gallo riunisce otto saggi intorno a grandi scrittori e autori apparentemente minori della letteratura italiana moderna e contemporanea: Ragusa Moleti, Di Giorgi, Serao, Svevo, Quarantotti Gambini, Campanile, Vonmetz Schiano e Consolo. Gli interventi, diversificati tra loro, alla luce dell’altrettanto diversificata produzione letteraria analizzata, si prestano tanto a una lettura individuale​ — ​ pregnante, quindi, il concetto di ricerca e raccolta della singolarità espresso nelle spigolature del titolo​ — ​quanto a una possibile interpretazione complessiva, da condursi sotto la lente genettiana della funzione ideologica esercitata dal narratore. L’ordinamento dei capitoli, uno per ogni saggio, segue una precisa progres- sione cronologica, aperta però a diramazioni, rimandi interni e interrelazioni intra ed extranarrative. Come per la raccolta delle spighe di frumento rimaste nel campo dopo la mietitura, si procede al recupero di romanzi, lacerti, testi di secondo piano, che, tuttavia, rivelano una certa originalità non solo nel contesto dell’opera omnia del singolo autore, ma altresì in relazione al macrocosmo della letteratura italiana ed europea a cavallo tra i due secoli. Così, dai primi tre capitoli prettamente ottocenteschi, rispettivamente dedicati alla “grande battaglia” di Ragusa Moleti, al topos della donna fatale in Di Giorgi e all’estetismo de La conquista di Roma di Serao, si passa, attraverso il capitolo di congiunzione su Svevo e in un’ottica che potremmo definire di longue durée, al tema dell’identità nazionale italiana nell’opera di Quarantotti Gambini e all’istanza di conciliazione italo-tedesca ne L’ultimo dei Wolkenstein di Vonmetz Schiano, per finire alla modernità del “buon umorismo” campaniliano e al meta- letterario consoliano de L’olivo e l’olivastro, tra i più alti risultati della linea sici- liana nella narrativa moderna. Apre la rassegna il contributo su Caleidoscopio di Girolamo Ragusa Moleti, un romanzo dimenticato dai più e ridotto, già dalla critica coeva, al minimo comune multiplo della triste e sofferta storia d’amore; di converso, Gallo evi- denzia in questa tappa narrativa della scrittura moletiana precise indicazioni di poetica rispetto al movimento naturalista e una forte funzione interpretativa esercitata dall’io narrante, del resto oggettivamente ravvisabile nelle innumere- voli digressioni e parentesi di carattere suasorio e ideologico. Nelle trame del tessuto narrativo si insinua un’effettiva compresenza tra momenti perfettamente allineati alla tradizione del romanzo ottocentesco ed elementi invece disvela- tori di modernità, come la funzione agente svolta dal caso, per cui l’io si mostra Italian Bookshelf . 577 convintamente proteso ad accettare l’idea dell’ineluttabilità del destino e ben consapevole del crollo delle certezze positivistiche di fin de siècle. Al contempo, egli inneggia al mito romantico della scrittura shakesperiana, rivolgendo aspre critiche al Simbolismo e al cosiddetto nuovo bizantinismo, ovvero quel gusto decadente che contraddistingue, viceversa, in misura dissimile, parte della pro- duzione di Di Giorgi e Serao. Di quest’ultima si rilegge La conquista di Roma, non come mero romanzo parlamentare, bensì alla luce del dispositivo intertestuale, a livello interno ed esterno, nell’intento di marcarne la cifra fortemente estetica e coloristica. Analogamente, per il topos della donna fatale nella narrativa di Ferdinando Di Giorgi, la proposta ermeneutica coinvolge svariate opere e svariati autori, Verga e D’Annunzio in primo luogo; tuttavia, si rivela più significativa e impor- tante di altre, perché sottendente a un’operazione di conferimento di dignità letteraria. Si tratta senz’altro di uno dei capitoli tra i meglio riusciti del volume: il pretesto della spigolatura offre l’occasione di guardare a opere quali L’avvocato Danieli e La prima donna come ai risultati della fucina di uno scrittore, non di un avvocato con velleità letterarie, non dell’amico di Federico De Roberto, non del traduttore autorizzato di Paul Bourget. Con il quarto capitolo, Vecchi e giovani nel teatro di Svevo, si entra in una sezione per così dire di raccordo. Il tema della vecchiaia, notoriamente onni- presente e nodale nella narrativa dello scrittore triestino, è ivi analizzato in riferimento alla produzione teatrale, dalle prime commedie ancora cronologica- mente ottocentesche, nondimeno intrise di prodomi di modernità e intuizioni poi giunte all’acume nella grande produzione successiva, sino ai riconosciuti risultati de La Rigenerazione, “a giudizio unanime della critica, il più significativo lavoro teatrale di Svevo” (81). La ricerca mira ancora una volta a evidenziare l’esercizio della funzione ideologica da parte del narratore, attraverso la messa in evidenza dell’uso intenzionale di ripetizioni, figure retoriche e sentenze. Un modus scribendi, questo, che svela apertamente la disgregazione della realtà e che accomuna Svevo ad , attraverso​ — ​sottolinea Nicolò Mineo nella prefazione al volume​ — ​“la critica a principi e aspetti della società bor- ghese e la constatazione del relativismo dominante” (9). Si arriva così al forte orientamento interpretativo del narratore sul lettore nell’opera di Quarantotti Gambini, in cui si puntualizza, con funzione ideologica ma anche civile, l’italianità dell’Istria e della Venezia Giulia, e all’intenzionale promozione della possibile convivenza tra gruppi etnici e linguistici differenti di Vonmetz Schiano, in un’analisi che porta alla ribalta un momento poco noto della letteratura contemporanea sudtirolese. 578 . ANNALI D’ITALIANISTICA 36 (2018)

Chiude la “spigolatura” – scelta idonea, quasi obbligata – il saggio su L’olivo e l’olivastro di Consolo, che costituisce un’interessante analisi della nuova Odissea dello scrittore siciliano e, al contempo, una significativa riflessione sulle fun- zioni stesse della letteratura, di cui si sostanzia, del resto, anche questo volume di Cinzia Gallo nella sua totalità. La scrittura diviene per Consolo poematica: sovrapposizioni, pluralità di voci narranti, accumuli, citazioni, sentenze e pro- verbi si intersecano in una dolorosa espressione di disorientamento isolano. La funzione ideologica, costante de L’olivo e L’olivastro, filo conduttore di Spigolature letterarie, il valore civile conferito alla letteratura a difesa del mercimonio omo- logante della società di massa, chiudono infine il cerchio, con un auspicio alla salvaguardia di quell’humanitas attraverso cui “gli uomini possono creare lettera- tura, la cui funzione propria è ‘politica’” (156). Ilaria Muoio, Dottorato di ricerca, Università di Pisa

Christopher Graney. Setting Aside All Authority: Giovanni Battista Riccioli and the Science against Copernicus in the Age of Galileo. Notre Dame: University of Notre Dame Press, 2015. Pp. 270. Christopher Graney’s book not only provides an important challenge to the dominant historical narrative regarding Copernican science, but it is one of those rarities among academic texts that manage to engage and even entertain a curious reader. In his first chapter, Graney describes the “hybrid geocentrism” of Giovanni Battista Riccioli’s (1598–1671) systematic and thorough studies in the New Almagest. Riccioli’s work, he argues, challenges the dichotomy we use today as shorthand, in which geocentrism is equated with religion and heliocentrism with science. Rather, Riccioli shows us that a meticulously scientific study using the best evidence available in the mid seventeenth century did not necessarily lead to the heliocentric hypothesis since vindicated by history. The author then draws his reader into Riccioli’s world, carefully imparting the language that informed the way that the astronomer and his contemporaries saw the night sky: degrees relative to the horizon and zenith, magnitude as a measure of the apparent size of stars, the five elements, and the physics of impe- tus. He introduces the reader to Danish astronomer Tycho Brahe (1546–1601), whose innovations lay in refining, through a variety of nontelescopic instru- ments, the precise measurements of what he observed in the heavens. Tycho saw merit in the Copernican explanation for the motion of Mercury, Venus, Mars, Jupiter, and Saturn, bodies made of the light fifth element. The earth, however, Italian Bookshelf . 579 seemed too heavy and immobile to circle the sun. Thus, he argued, the earth is fixed at the center of the heavens, but the planets, unlike the stars, circle the sun. This is the hybrid geocentric hypothesis, sometimes known as the Tychonian hypothesis. Tycho’s hybrid geocentrism was in line with scriptural references to the hea- vens, but his arguments for it were scientific rather than scriptural or Aristotelian. His measurements revealed that the stars in a Copernican system would have to be implausibly large. He also believed that we should see the effect of earth’s movement in the paths of projectiles and of objects dropped from a great height. Scholars in subsequent centuries were to argue that Tycho’s star size objection to the Copernican hypothesis was disproven because Galileo’s tele- scope showed that stars were not objects of a measurable size but rather imme- asurably small points. However, Galileo never addressed the objection in his published work because he was unable to respond effectively to it, as we see in unpublished observations that came to light only in 2004. Galileo argued that both the fixed and wandering stars did reveal themselves to be smaller when seen through a telescope than Tycho’s measurements had suggested, because of “adventitious rays” produced by the naked eye’s moisture, but they remained visibly spherical. Modern knowledge of light, vision, and diffraction tells us that the spheres Galileo saw when he observed the fixed stars were spurious, mere illusions caused by diffraction. These stars were immeasurably small (because distant) points, but Galileo could not have discovered that with only the aid of his early telescope. Thus, Tycho’s star size objection to the Copernican hypothe- sis stood. Astronomers who argued against Galileo, such as Francesco Ingoli and Johann Georg Locher, relied much more heavily on Tycho’s arguments, espe- cially star size, than on theological arguments. Interestingly, some Copernicans, such as Philips Lansbergen, used a religious argument to respond to Tycho’s scientific one​ — ​that giant stars are simply evidence of God’s immense power. Lansbergen described such stars as “Armies of the Lord.” Religious arguments, then, were not the exclusive domain of geocentrists, any more than scientific ones were exclusive to Copernicans. In Chapter 6, Graney finally introduces us to Riccioli through his experi- ments with falling objects conducted from Bologna’s Asinelli tower. These rela- tively simple tests show much about the astronomer: he was incredibly precise and thorough in both his design and documentation of the experiments. He set out expecting to disprove Galileo’s findings from similar work, but when his own experiments confirmed Galileo’s results, Riccioli was quick to diffuse the 580 . ANNALI D’ITALIANISTICA 36 (2018) information. Graney paints a picture of his subject as intensely curious, dedica- ted, and intellectually honest. Graney turns next to Riccioli’s magnum opus. The weighty book 9 of the New Almagest examines 126 arguments for and against heliocentrism, offering responses to each from the other side. Contrary to the assessment put forward by some historians, Graney shows that Riccioli’s 126 arguments actually testify to his fairness and thoroughness. Riccioli makes clear that he does not consider all 126 arguments to be valid, but presents and discusses each anyway, giving credit to many Copernican as well as anti-Copernican ideas. Ultimately, though, he identifies a very few arguments that he felt could not be answered, and it was these that were, for him, decisive. All were based in Tycho’s hybrid geocentrism. The author then delves into some of the arguments taken to be unanswerable in the New Almagest, in particular those concerning projectiles and falling objects. He lays out in detail the reasons that Riccioli believed, drawing strongly on Tycho, that we should be able to detect the earth’s motion if it is, in fact, moving. Riccioli devoted the most attention in the New Almagest to Tycho Brahe’s star size argument. He carefully documented star diameters as observed both with the naked eye and through the telescope. While the telescope had reduced the apparent diameter of stars since Tycho’s non-telescopic observations, it had also reduced the apparent parallax, meaning the stars must be even farther away in a Copernican system, and therefore still unfathomably large. Riccioli dismis- ses the traditional, theological, Copernican response​ — ​that star size is merely a reflection of the magnificence of God​ — ​as an unsatisfactory answer for the “prudent.” Examination of the New Almagest disrupts what Graney calls the “morality play” of the historical narrative on heliocentrism, which pits religion, supersti- tion, and ignorance against reason, science, and progress. As of the mid-seven- teenth century, Graney convincingly shows, the debate was not one of “science vs. religion” but rather of “science vs. science” and sometimes even “religion vs. religion.” Thoroughly scientific answers to Riccioli’s objections would not come until the mid-nineteenth century. This fact matters for public discourse concer- ning science today: it demonstrates that scientific discovery is not a simply linear process interrupted only by conspiracy, but rather a messy back-and-forth full of debates, stops, and starts. This scholarly work prompts reflection on far more than astronomy. Through Riccioli, Graney approaches the painful and relevant question of what it means to be wrong and of the role of being wrong in the production of know- ledge and understanding. The modern reader knows that Riccioli was in error, Italian Bookshelf . 581 and yet still we have much to learn from his work. The story Graney tells should humble and inspire us as scholars who aim not for celebrated individual disco- veries, but for work that tortuously advances our understanding of the world. While historians of science are likely to be this book’s primary audience, it has much to offer the curious casual reader, as well. Mary Migliozzi, Villanova University

Patrizia Salvetti. Rope and Soap. Lynchings of Italians in the United States. Bordighera Press, New York, 2017. Pp. 188. Diciottesimo volume nella collana Saggistica dell’editore Bordighera Press, Rope and Soap è la traduzione inglese di Corda e sapone: storie dei linciaggi di Italiani negli USA pubblicato da Donzelli nel 2003. Docente di Storia all’Università La Sapienza di Roma, Patrizia Salvetti, grazie a questa attenta e scorrevole tradu- zione di Fabio Girelli-Carasi, rende accessibile anche in lingua inglese il suo eccellente studio sui casi di linciaggio di Italiani negli Stati Uniti. Nell’introduzione l’autrice traccia le origini della pratica del linciaggio nella storia americana, le sue motivazioni sociali e psicologiche, nonché il suo rituale, per poi passare a mostrare come esso, tipica forma di violenza contro la comunità afroamericana, a cavallo tra ’800 e ’900 abbia acquisito una conno- tazione xenofoba. Avvalendosi di fonti inedite, tra cui le relazioni ministeriali e consolari, e con una narrazione serrata, Salvetti ci restituisce quell’intreccio tra storia americana e italiana che l’emigrazione italiana ha rappresentato. Gli ita- liani, pur apprezzati come lavoratori, risentivano di vari stereotipi tra cui (nella mente degli esecutori del delitto) quello di non appartenere completamente alla razza bianca e di occupare invece uno spazio intermedio tra neri e bianchi, inol- tre anche di essere tendenzialmente sovversivi, essere mafiosi o violenti. A volte questi medesimi stereotipi erano perfino condivisi dal personale diplomatico italiano. Il linciaggio di New Orleans del 1891 tuttavia scatenò una reazione decisa da parte delle autorità italiane che arrivarono a chiedere di rivedere le norme costituzionali che regolavano i rapporti tra governo federale e governo statale in termini di protezione dei cittadini stranieri. Si parlò persino della possibi- lità che l’Italia dichiarasse guerra, a dimostrare il clima teso che si era venuto a creare. Tutto ciò si complicava anche alla luce del Trattato tra Italia e USA del 1871, che prometteva uguale trattamento e protezione ai cittadini stranieri, una protezione, tuttavia, che spesso veniva meno quando un italiano era in procinto di ottenere la cittadinanza americana. Il risarcimento economico alle famiglie 582 . ANNALI D’ITALIANISTICA 36 (2018)

delle vittime di linciaggio immotivato era inoltre percepito come umiliante dalle comunità italoamericane in quanto non era accompagnato da un vero e proprio intento di risoluzione giudiziaria o politica. Salvetti, oltre alle lettere e resoconti ufficiali di ministri e ambasciatori, rilegge i giornali di lingua italiana pubblicati negli USA per restituire la vee- menza che essi mostravano nei confronti del trattamento subito dagli immigrati e della scarsa efficacia dei provvedimenti presi dalle autorità italiane. Sono espo- ste poi le posizioni dei presidenti americani, in successione, da G. Cleveland, a W. McKinley e T. Roosevelt, quest’ultimo propenso a un approccio più chiuso rispetto a quello del suo predecessore. Con il linciaggio di Tallulah, Louisiana, del 1899, per la prima volta furono inviati agenti federali per condurre un’indagine che tuttavia naufragò a causa della scarsa collaborazione della polizia locale. Dopo l’assassinio di W. McKinley nel 1901, T. Roosevelt non mostrò l’intenzione di intervenire dal punto di vista legislativo, sebbene nei suoi discorsi definì la pratica del linciaggio crudele e vergognosa. Si verifica in seguito il linciaggio di due italiani a Tampa nel 1910, l’ultimo della catena di tali azioni volente contro gli italiani, un evento, questo, che mise ancor più in luce la difficoltà di trattare non solo con il linciaggio di cit- tadini afroamericani, il cui numero di vittime era numericamente di gran lunga superiore, ma anche il linciaggio di cittadini stranieri. Per quanto concerne il linciaggio di cittadini afroamericani, neppure F. D. Roosevelt negli anni ’30, ci ricorda Salvetti, si mosse contro questa esecrabile pratica violenta nel timore di perdere elettori negli stati del Sud. Per quanto riguarda la struttura del volume, l’autrice segue un criterio sia cronologico che concettuale. Dopo aver presentato un ampio e ben documen- tato background storico-politico nella sua introduzione, si passano in rassegna i singoli episodi di linciaggio. Nel primo capitolo, The Beginning of Impunity, si tratta dell’eccidio di Eureka, Nevada, del 1879, che causò cinque vittime e che scaturì dagli scontri tra forze dell’ordine e dimostranti in sciopero, e in seguito dei linciaggi di Vicksburg, Mississippi del 1886, il primo vero e proprio linciag- gio contro un italiano, e di Louisville, Kentucky del 1889. Nel secondo capitolo, la studiosa si occupa innanzitutto di quello che consi- dera l’episodio peggiore di linciaggio di massa nella storia degli USA, ossia quello di New Orleans, Louisiana, del 1891, che vide ben undici italiani linciati. Della sua gravità era consapevole lo stesso console italiano a New Orleans, Pasquale Conte, il quale scrisse all’ambasciatore Italiano Saverio Fava: “I don’t have the time to describe the horror of this mass massacre that the disgusting popu- lace [. . .] committed against defenseless prisoners” (49). Il capitolo continua Italian Bookshelf . 583 rendendo conto della reazione consolare e di quella della stampa. Nel capitoletto The Grand Jury Cannot Find the Culprits si spiega come il processo contro i col- pevoli fu inquinato da pregiudizi etnici e culturali. Nel terzo capitolo, Not Only in the South: In the West, sono trattati i linciaggi di Denver, Colorado, del 1893, e quello di Walsenburg, Colorado, del 1895. Nel quarto capitolo intitolato In the Old South sono invece trattati il linciaggio di Hahnville, Louisiana, del 1869, e due casi particolarmente eclatanti: quello di Tallulah, Louisiana, del 1899, e quello di Erwin, Mississipi, nel 1901, il primo con cinque vittime e il secondo con due, e in seguito anche quello di Ashdown, Arkansas, nel 1901 e quello di Davis, West Virginia, nel 1903. Mentre il quinto capitolo si occupa di nove potenziali linciaggi che furono sventati dalle forze dell’ordine, il sesto è interamente dedicato all’ultimo caso di linciaggio di italiani registrato negli USA, ossia quello di Tampa, Florida, del 1910, di cui si è parlato sopra. Nel settimo e ultimo capitolo, America Interrogates Itself, si evidenzia l’operato dell’ambasciatore Fava nello spingere la giurisdizione dei linciaggi da crimine statale a crimine federale, idea che, appoggiata dal presi- dente McKinley, fu invece bloccata dai presidenti successivi. Il testo di Salvetti, prezioso per gli Italianisti di entrambe le sponde dell’oce- ano, ci restituisce il senso di un’epoca piena di speranze, ma anche di violenza e difficoltà per gli Italiani spinti negli USA in cerca di una vita migliore, offrendoci spunti di riflessione in un momento storico in cui il tema dell’immigrazione è più che mai scottante. Federica Colleoni, Università di Bergamo

Elisabetta Selmi e Enrico Zucchi, eds. Allegoria e teatro tra Cinque e Settecento: da principio compositivo a strumento esegetico. Biblioteca del Rinascimento e del Barocco 12. Bologna: I Libri di Emil, 2016. Pp. 400. Allegoria e teatro tra Cinque e Settecento represents an expansion of papers pre- sented at a recent conference. The papers focus on demonstrating the centrality of allegory in the dramaturgy of the ancien régime by means of a multifaceted analysis that covers a spectrum of texts, authors, and theatrical genres. The volume is composed of four parts. The introduction, besides a brief explanation of the volume’s articles and sections by Enrico Zucchi (“Teatro e allegoria: un viatico alla lettura,” xxxi-xxxv), presents Elisabetta Selmi’s study on the meaning and uses of allegory (“Prolegomeni all’allegoria teatrale: ‘Nel labi- rinto delle idee confuse’” i-xxx). Selmi grounds this collection of essays inter- lacing philosophical, theoretical, and methodological backgrounds, and locates 584 . ANNALI D’ITALIANISTICA 36 (2018) it between Henri De Lubac’s hermeneutics, Ernst Robert Curtius’s dialogue between modern and classics, Erich Auerbach’s concept of mimesis, and Walter Benjamin’s theories on allegory in Baroque drama. Furthermore, by retracing the classical origins of allegory and its modulation according to Christian and sacred mythology (in particular Thomas Aquinas’s perspective), Selmi finds in Tasso’s compelling analysis of the relationship among “historical truth,” “verisi- mile,” “images of truth” in epic, and “catharsis” in tragedy the pivotal figure in the process of modernization and dramatization of allegory. The essays are divided chronologically into three sections: “Tra Cinque e Seicento” (7–113), “Allegorie secentesche: dal Barocco alla pre-Arcadia” (115– 264), and “L’Arcadia, il Settecento e oltre” (265–345). An index of names con- cludes the volume (347–60). In the first section, Stefano Verdino (“Allegoria e politica nella tragedia del tardo Cinquecento,” 9–25), by analyzing the political allegory introduced in tragedies of the pre-conciliar period, focuses on the transition of the cruel king tyrant into a legislative ruler. Paolo Scotton (“La tragedia di Francesco Negri Libero Arbitrio,” 27–38) brings to light a fascinating tragedy, which in fact has the forms of a comedic satire, where the allegories of the Roman Church participate in educating the reader to the ideals of the new Protestant Reformation through a political message, strengthened by the humanistic imprint of this text. Elena Randi (“Una psicomachia datata 1581: il Ballet Comique de la Reine,” 39–49) examines the “best” product of the Académie de poésie et de musique, which, by representing a moral and political allegory through a revised story of Circe, emblematized by a series of numerological figures, portrays the Pythagorean- platonic principles of the Academy. Federico Schneider (“L’allegoria nel melo- dramma: il caso dell’Euridice di Ottavio Rinuccini,” 51–64), by proceeding through the analysis of the allegorical system presented in Euridice by Rinuccini, which results in a providential reading of the opera, offers a methodological direction for those who focus on melodrama and allegory through the analysis of the “dynamic of affects.” Lorenzo Geri (“‘Così balbo talor tra noi ragiona.’ Allegorie della Provvidenza nel genere pastorale da Guarini a Bonarelli,” 65–93) examines the allegorical features of Providence in Ferrarese pastoral plays, isolating in particular Guarini’s Il Pastor Fido, and Bonarelli’s La Filli di Sciro. Alessandra Petrina (“Un giardino pieno di erbacce: allegorie botaniche nel tea- tro di William Shakespeare,” 95–113) illustrates the diverse use of the allegory of the garden in Shakespeare, particularly in reference to the organization of the State. Italian Bookshelf . 585

The second section of the book opens with Simona Morando’s account of the interplay between the myth of Adonis and its allegorical interpretations as beauty/vanity and as representation of government, from Boccaccio to Marino (“Adone a teatro, Adone re,” 117–33). Tancredi Artico (“‘Perch’ei tentò d’im- porre il giogo a Sparta’: timori tirannici nell’Alcippo spartano e nel Furio Camillo di Ansaldo Cebà,” 135–43) continues along the political interpretation of Cebà’s plays, particularly through the analysis of the relationship between societas and tyranny. Paola Cosentino (“Allegorie del potere femminile. La politica spetta- colare delle reggenti nelle corti italiane del Seicento,” 145–68) examines poli- tical allegories in performances commissioned by three women regents: Maria Maddalena de’ Medici, Maria Cristina di Borbone, and Margherita Aldobrandini. Gaia Benzi (“La genesi del Parthenio. Gli influssi della propaganda gesuitica nella drammaturgia confessionale di area veneta,” 169–77) offers the recon- struction of a confessional play by Pona, between philosophy and Jesuitical the- atrical practices. Alessandra Munari (“La ‘verga fatale’ della maga Incognita: tra impotenza e peripezia,” 179–87) discusses musical plays produced within the Accademia degli Incogniti and analyses the evolution of the sorceress as allegory of Fate. Nicola Badolato examines a similar production (“Prologhi e intermezzi in alcuni drammi per musica veneziani di metà Seicento,” 189–208), by decon- structing the symbolical representations of allegories in prologues and inter- mezzi, focusing more specifically on L’Erismena by Aureli and Cavalli. Monica Bisi (“Mise-en-abîme del dramma e abisso del linguaggio: l’allegoria tra ontologia e morale nelle tragedie di Emanuele Tesauro,” 209–25) looks at Tesauro’s trage- dies by referencing them to his theorical analysis of allegory in the Cannocchiale aristotelico. Carolina Patierno (“Allegoria e moralizzazione di un mito: Ero e Leandro sulla scena del dramma per musica veneziano,” 227–37) reports on the evolving religious reinterpretations of the pagan myth of Hero and Leander as the story of a virtuous hero and a Christian martyr. Valentina Gallo (“Mito e allegoria nel teatro romano di fine Seicento: il laboratorio cristiniano,” 239–64) reconstructs the allegorical significance and use of classical myths in theatrical works produced for Cristina of Sweden. The third part opens with Marco Bizzarrini’s presentation of a wide range of musical dramas, from Tonsarelli to Rospigliosi, analyzed according to three types of “rhetorical” allegories: personifications, macroallegories, and microallegories (“Allegoria e teatro musicale tra Sei e Settecento: storia di un rapporto mute- vole,” 267–76). Alberto Beniscelli (“Allegorie settecentesche,” 277–94) explains through a close reference to the commentary by Gravina the use of key episodes (in Endimione by Guidi, that by Metastasio, and Misogallo by Alfieri) as catalysts 586 . ANNALI D’ITALIANISTICA 36 (2018)

of allegorical (political) meanings which are meant to be understood only by an élite. Enrico Zucchi’s analysis of rulers and tyrants focuses on illustrations of government, and particularly on moral and political representations of prin- ces (“Sovrani temperanti e tiranni lascivi. Allegoria della felicità pubblica e pri- vata da Gravina a Metastasio,” 295–313). Paola degli Esposti (“L’imperialismo ‘benevolo’ della pantomima: Omai al Covent Garden (1785),” 315–32) explains the political implications of the pantomime on James Cook’s travels as a tool for the United Kingdom to promote its “good” imperialism. Finally, Fabio Finotti concludes the book with an excursus on later philosophies on allegory, which lead to a modern interpretation of truth as emptied of meaning, where the veil of allegory entails only an image of absence (“Il velo e il vuoto. Foscolo, Leopardi, Baudelaire e Court de Gébelin,” 333–45). The ambitious scope of the volume certainly allows for a multifaceted col- lection of case studies, which in fact opens a series of questions, as well as pos- sibilities for further research. The essays dialogue among themselves, thereby constructing a complex and well-harmonized set of references. This collection seems only to be missing Giovan Battista Marino’s interpretation of theater, as reported in Canto V of his Adonis, which exploits precisely the power of allegory and the practice of theater during the Baroque period. Nevertheless, this volume stands as very important step in theatrical hermeneutics, to which we hope a second round will shortly follow. Lucia Gemmani, Indiana University, Bloomington

Iginio Ugo Tarchetti. Paolina (Mysteries of the Figini Lodge). Traduzione dall’italiano di Jonathan R. Hiller. Wellesley, MA: Dante University of America Press, 2017. Pp. 120. È stato con grande piacere e sorpresa che ho scoperto che un altro romanzo di Iginio Ugo Tarchetti è ora disponibile in inglese, e che i lettori anglofoni avranno finalmente l’opportunità di leggere e conoscere un altro lavoro della Scapigliatura, il movimento artistico e letterario che in Italia nel ventennio 1860–1880 promosse un rifiuto (in odore d’avanguardia) dei valori estetici e morali tradizionali e uno stile di vita bohémien. L’elegante traduzione che Jonathan R. Hiller ha fatto di Paolina (Mysteries of the Figini Lodge), il primo romanzo di Tarchetti pubblicato originariamente tra il 1865 e il ’66, aggiunge un altro fondamentale titolo a quella che è ancora una lista alquanto esigua di opere della Scapigliatura tradotte in inglese e che comprende, finora, solamente testi di narrativa e nessuna raccolta di poesie. L’importanza di questa traduzione risiede Italian Bookshelf . 587 nella necessità di rendere disponibile ad un pubblico di lingua inglese una più ampia selezione di opere scapigliate, poiché la scelta di testi disponibili ancora oggi non offre “sufficient coverage of the group’s intellectual project” e dà solo un assaggio “of what Scapigliatura has to offer”, come dice lo stesso Hiller nella prefazione del traduttore (ii). Questo volume è un ulteriore passo in avanti verso quella che si spera sarà una copertura più estesa dei lavori della Scapigliatura tradotti in inglese includendo, ci si augura, anche le opere poetiche. Ispirato da un fatto realmente accaduto, la demolizione nel 1864 di uno sto- rico edificio popolare di Milano (il “Figini Lodge” del sottotitolo) per far spazio alla costruzione della Galleria Vittorio Emanuele II e all’ampliamento di piazza Duomo, Paolina è un romanzo sociale che narra la storia di una giovanissima sarta e del suo promesso sposo Luigi, un artigiano: nozze osteggiate dal malvagio aristocratico marchese di B. che, tramite complesse macchinazioni e perfidi complotti, cerca prima di sedurre Paolina e che, una volta scoperta l’incorruttibilità di quest’ultima, dall’animo nobile e puro, si affanna e infine riesce tramite un inganno a rapirla. Se la trama risulta familiare è perché Tarchetti segue da vicino quella dei Promessi sposi, dove Luigi e Paolina sono i novelli Renzo e Lucia e il marchese, definito ad un certo punto “Unnamed One” proprio come l’Innominato manzoniano (21), è il cattivo della storia, fondendo appunto la figura dell’Innominato e quella di Don Rodrigo del famosissimo romanzo di Manzoni. Simile è anche la caratterizzazione dei personaggi che segue l’opposi- zione binaria manzoniana deboli-potenti, per la quale i primi, appartenenti alle classi sociali più basse, vengono rappresentati come innocenti, virtuosi e votati ad una fede cieca nella provvidenza divina, e i secondi come viziati, violenti e depravati signorotti. I due romanzi, però, dopo un simile preludio, si distanziano sviluppando la storia in modo opposto, e in Paolina Tarchetti deforma, distorce, e infine capovolge in negativo la premessa (e promessa) romantica di felicità e provvidenza religiosa manzoniana, facendo trionfare il crudele marchese. Nella prefazione del traduttore, Hiller spiega bene come Paolina è in tutto e per tutto una parodia seria dei Promessi sposi (iv), illustrando i rapporti complessi e spesso contraddittori che Tarchetti (come d’altra parte gli altri scapigliati) ebbe nei confronti di Manzoni, affermando come in Paolina Tarchetti cambia “this intertextual aspect to a subversive end”, facendo dunque “a deliberate act of literary vandalism” (v). Oltre a fornire al lettore degli utili dati biobibliografici su Tarchetti, Hiller accenna giustamente alle componenti scapigliate presenti in Paolina, come le rappresentazioni di realismo urbano (ii), il rapporto tra anti- chità e modernità (vi), e la morbosa attrazione verso il patologico e il macabro (vii). 588 . ANNALI D’ITALIANISTICA 36 (2018)

Ciò che non convince appieno nella prefazione, peraltro piuttosto breve per un’adeguata introduzione ad uno scrittore versatile come Tarchetti e ad un movimento complesso come la Scapigliatura, è l’utilizzo di certa termino- logia che rimanda alla concezione, ben radicata nella critica letteraria italiana, di Scapigliatura come movimento tutto sommato romantico legato non tanto ad un’idea italiana di Romanticismo quanto ad una tradizione romantica più nordica, germanico-anglosassone, ben diversa da quella italiana. Elementi di stampo romantico, di continuità del Romanticismo, sono certamente confluiti nella Scapigliatura, movimento di respiro europeo che aveva tra i suoi modelli principali Charles Baudelaire ed Edgar Allan Poe; parlare però della contrappo- sizione tra natura idilliaca e dissolutezza cittadina come stilema scapigliato ma anche romantico (vii) e della “Romantic, democratic critique of the injustices of aristocratic privilege” come caratteristica scapigliata (quarta di copertina), rischia di creare confusione se la definizione di Romanticismo non viene poi spiegata e chiarita, perdendo di vista lo scopo ultimo di Paolina e di altre opere scapigliate, cioè la demistificazione e dissacrazione degli ideali romantici italiani collegati a moralità religiose e/o patriottiche che influenzano grandemente il comportamento dei personaggi. Il contrasto tra natura e città non risulta più romantico quando è usato come strumento per rappresentare l’arco narrativo di personaggi come Paolina o Marianna, la sorella invalida di Luigi (e l’oppo- sto estetico della bellissima Paolina, come Fosca lo sarà per Clara nell’ultimo romanzo di Tarchetti), che da ardenti fedeli fiduciose nella bontà di Dio (e nelle potenzialità ristoratrici della natura) alla conclusione del romanzo giungono a rappresentare la disillusione e la perdita dell’ideale religioso e sociale, con lo stupro (tanto letterale quanto simbolico, dell’aristocrazia sul proletariato) di Paolina da parte del marchese e la conseguente morte della ragazza, il suicidio di Marianna, e l’uccisione in battaglia di Luigi, per nulla descritta con toni patriot- tici, essendosi lui aggregato alla spedizione dei Mille di Garibaldi non per scopi eroici, ma per trovare una fine facile dopo la morte di Paolina (118). La traduzione, nonostante qualche refuso, è molto curata e attenta, e riesce a trasporre bene in un’altra lingua la prosa articolata e creativa di Tarchetti. La scelta di Hiller di rendere il testo chiaro e accessibile, infarcendolo però di “an old-fashioned construction here, a Victorian term there, an unusual verb where a blander one would do” (viii), è molto interessante e particolare, mostrando inoltre continuità con le precedenti traduzioni che Lawrence Venuti fece dei Fantastic Tales tarchettiani e di Fosca. Le occasionali note a piè pagina, sebbene ancora materia di dibattito nell’ambito della traduzione, non appesantiscono né rallentano troppo la lettura, fornendo informazioni rilevanti e precise riguardo Italian Bookshelf . 589 al contesto storico-letterario italiano ed europeo del romanzo. Per concludere, il lavoro di Hiller è un’aggiunta doverosa e necessaria al catalogo dei testi disponi- bili in inglese della Scapigliatura e, più in generale, delle traduzioni delle opere della letteratura ottocentesca italiana. Alessandro Cabiati, King’s College London

Anita Virga. Subalternità siciliana nella scrittura di Luigi Capuana e Giovanni Verga. Firenze University Press, 2017. Pp. 214. In questi ultimi anni si sta consolidando un’ottica post-coloniale anche per la lettura e interpretazione di testi di autori canonici siciliani, a cavallo tra i secoli XIX e XX. È necessario ricordare, infatti, il lavoro di Alessandra Sorrentino, Luigi Pirandello e l’altro: una lettura critica postcoloniale (2013), che propone una lettura appunto post-coloniale dei lavori di Pirandello. Il libro di Anita Virga, Subalternità siciliana nella scrittura di Luigi Capuana e Giovanni Verga, che rientra in questa nuova visione, analizza i lavori di altri due grandi scrittori siciliani che, come Pirandello, scrivono negli anni successivi alla creazione del Regno d’Ita- lia (1861), cioè durante il periodo di formazione della nazione: Luigi Capuana (1839–1915) e Giovanni Verga (1840–1922). Rifacendosi a teorie revisioniste, Virga procede ad analizzare, nella sua introduzione, le problematiche storiche, politiche e sociali che si sono svilup- pate con l’unità d’Italia e la conseguente creazione della “questione meridio- nale”. Rifiutando, almeno in parte, l’ipotesi di “auto-orientalismo”, Virga afferma che nelle opere di Capuana e Verga trapelano tensioni coloniali che animavano l’isola negli anni post-unitari. La studiosa sottolinea, dunque, l’importanza di studiare questi autori nella loro posizione postcoloniale di in-between, cioè di vederli come, da una parte, galantuomini siciliani, fortemente conservatori e sostenitori dell’unità d’Italia (anche se in parte delusi) e dall’altra come rappre- sentanti della loro isola e del suo mondo rurale. Quindi sia Capuana che Verga, pur appartenendo ideologicamente alla cultura egemone, con i loro scritti e le loro scelte linguistiche e di stile mostrano le contraddizioni e le tensioni del mondo colonizzato, non necessariamente, però, per denunciarne lo stato di colonizzazione e reclamare diritti civili e sociali per i subalterni. Il primo e il secondo capitolo sono dedicati all’opera di Capuana dove Virga nota che l’autore, muovendosi nel difficile territorio dell’in-betweeness, rap- presenta, da una parte, l’alterità del mondo colonizzato, attraverso la relazione di mimicry, cioè una relazione con l’altro subalterno che si vuole al contempo diverso e simile a se stessi; dall’altra, Capuana essenzializza il subalterno per 590 . ANNALI D’ITALIANISTICA 36 (2018) preservarlo nostalgicamente nel suo mondo colonizzato che l’urto dell’uni- ficazione stava irreversibilmente sfaldando, senza apportare nessuno di quei miglioramenti promessi. Virga dimostra come, nella sua posizione di in-between, Capuana passi, ambivalentemente, da un’adesione al discorso nazionale ed ege- mone, presente soprattutto nei suoi primi saggi e nella raccolta di novelle Le paesane, che orientalizza e alterizza la Sicilia, a una difesa di quest’ultima dai giu- dizi negativi alimentati appunto da tale discorso. Secondo la studiosa, Capuana adotterebbe strategie di de-orientalizzazione attraverso un’“essenzializzazione strategica” dell’isola e del suo popolo rurale in cui l’autore trova la vera iden- tità siciliana, da lui interpretata però come astorica e soprattutto socialmente omogenea, negando, o attribuendo al socialismo, quelle conflittualità sociali sorte in Sicilia con l’unità d’Italia. A quest’unità Capuana credeva fermamente tanto da voler contribuire a “fare gli italiani” anche con la sua produzione di fiabe, come “Reginotta”, che vogliono recuperare anche un altrove diverso dal mondo borghese dei suoi piccoli lettori: la Sicilia rurale con i suoi contadini, il suo folklore e il suo immobilismo sociale. Importante per Virga è l’operazione linguistica intrapresa da Capuana che, nelle fiabe e novelle, assume una lingua sempre più toscaneggiante per parlare della sua Sicilia ad un pubblico nazionale italiano. Incasellando la diversità della cultura siciliana nella cornice rassicurante dell’italiano, l’autore si fa quindi “mediatore culturale”, assumendo così, anche linguisticamente, una posizione di in-between. Virga invita poi a leggere, nel secondo capitolo, Il marchese di Roccaverdina non come dramma psicologico, come è stato tradizionalmente letto, ma come dramma sociale che rappresenta sia le inquietudini sociali presenti nella Sicilia post-unitaria che quelle personali del marchese che vede, con angustia, il suo potere locale messo in crisi dalla presenza di quello nazionale, con il quale neces- sariamente ha, come tutta la sua classe sociale, un rapporto ambiguo, essendo “alleato” dei colonizzatori e al contempo colonizzato esso stesso. Dunque, anche il marchese, come il suo autore, diventa intermediario dei due mondi: quello colonizzato e quello colonizzatore. Nel terzo capitolo, Virga tratta delle novelle di Verga dove vede, nella rap- presentazione del “pittoresco” descritto dall’autore, non solo l’intento di appa- gare le curiosità intellettuali dei suoi lettori borghesi e settentrionali con la costruzione del “diverso” siciliano, ma anche quello di creare degli elementi di disturbo al discorso nazionale. In questo senso è convincente la lettura propo- sta da Virga della condizione post-coloniale di alcuni personaggi nella raccolta Vita dei Campi che, vivendo una vita familiare irregolare per l’assenza della figura dell’uomo, padre e/o marito, non riescono a “progredire” nella vita adulta (come Italian Bookshelf . 591 nel caso di Jeli il pastore e Rosso Malpelo) o (come la Lupa) vivono una vita destabilizzante per sé, per la loro comunità e per la loro famiglia. La famiglia viene qui vista come microcosmo della nazione, mostrando, pertanto, delle pro- fonde crepe nel progetto nazionale che avrebbe dovuto dare una “paternità” a tutti i suoi cittadini. Nel quarto capitolo Virga si focalizza su I Malavoglia dimostrando che la loro condizione di “vinti” è data dal loro essere colonizzati dal nuovo stato che con la sua coscrizione obbligatoria ha tolto alla famiglia il lavoro delle braccia di ’Ntoni e la vita di Luca, morto nella battaglia di Lissa. I Malavoglia quindi subi- scono il trauma dell’unità d’Italia senza prenderne parte attiva. Nella mancata integrazione di ’Ntoni, Virga vede un momento di crisi e resistenza al sistema coloniale del nuovo stato che fallisce nel tentativo di creare un colonizzato simile a se stesso. Illuminante è l’analisi linguistica del romanzo che convincentemente dimostra che l’uso pervasivo dei proverbi toscani ha due finalità: da una parte, permette di narrare il “diverso” siciliano attraverso la griglia della lingua nazio- nale, appunto il toscano, e dall’altra, proprio nel rappresentare la cultura popo- lare, mette in questione sia l’uniformità che l’universalità dei valori della cultura egemone. Virga ha scritto un ottimo studio applicando, in maniera convincente ed ori- ginale, teorie interpretative postcoloniali agli scritti di Luigi Capuana e Giovanni Verga. La sua lettura mette in nuova luce questi scrittori e la loro posizione all’in- terno del discorso nazionale che si stava articolando in quegli anni. Giordana Poggioli-Kaftan, Marquette University

TWENTIETH & TWENTY-FIRST CENTURIES: LITERATURE, THEORY, CULTURE

Alberto Comparini. La poetica dei Dialoghi con Leucò di Cesare Pavese. Sesto San Giovanni (MI): Mimesis, 2017. Pp 224. In un breve saggio del 1922 Osip Mandel’stam scriveva: “La ricerca della genesi letteraria d’un poeta, delle sue fonti, della sua parentela e della sua provenienza ci porta subito su un terreno solido. Alla domanda su che cosa abbia voluto dire il poeta, un critico può anche non rispondere; deve assolutamente rispondere a quella sulla sua provenienza” (Sulla poesia, Milano: Bompiani, 2003: 87). È su un terreno altrettanto solido ed è innanzitutto a questa domanda che risponde efficacemente La poetica dei Dialoghi con Leucò di Cesare Pavese di Alberto Comparini. Si tratta di un lavoro importante negli studi pavesiani, che prende 592 . ANNALI D’ITALIANISTICA 36 (2018)

di petto una delle opere più inattuali nella letteratura italiana della metà del Novecento per analizzarne non solo genesi, fonti e ricezione critica, ma anche per inquadrare “il genere dialogico-teatrale e la complessa e dibattuta questione del rapporto tra simbolo e allegoria; e, infine, la riscrittura del mito alla luce della categoria del modernismo” (10). Il primo capitolo ripercorre con piglio strutturalista e grande accuratezza la genesi filologica e la vicenda editoriale dell’opera, cercando di sbrogliare la matassa degli indici tematici di Pavese per “illustrare il processo di costruzione testuale e macrotestuale dei Dialoghi con Leucò” (28). Fin dalle prime pagine, il libro si rivela frutto di una scrupolosa e attenta ricerca documentaria. Nel secondo capitolo, mutuando da Gadamer i concetti di “orizzonti” ed “effetti”, Comparini sintetizza le più importanti linee interpretative dei Dialoghi dagli anni Cinquanta al presente. Comparini ritiene che la vulgata critica sui Dialoghi della seconda metà del Novecento sia “costellata da una consistenza tanto copiosa quanto nebulosa e contrastante” (49), caratterizzata dal progres- sivo superamento di approcci troppo settoriali e da un allargamento sincronico e diacronico del campo d’indagine, al di là degli studi etnografici e antropologici e oltre i confini della letteratura nazionale. Le ultime pagine della rassegna critica, nella discussione del rapporto tra classicismo e modernità, anticipano la tesi di Comparini sulla poetica dei Dialoghi con Leucò che verrà articolata più avanti. Il terzo capitolo ripercorre i rapporti tra Pavese e la cultura classica, dal rap- porto con Augusto Monti alle diverse fasi dello studio della lingua e della cultura greca che “ha rivestito un ruolo fondamentale sia per il microcosmo poetico, che per il macrocosmo editoriale di Pavese” (109). La seconda parte del capitolo ribadisce ed enfatizza il ruolo che il modello vichiano da un lato e, dall’altro, la lezione etno-antropologica, hanno avuto sia nell’elaborazione della poetica del mito che nella genesi dei Dialoghi. Nel quarto capitolo, partendo dal concetto bachtiniano di dialogismo polifonico e rivendicando autonomia ontologica per i personaggi dei Dialoghi, Comparini propone una rilettura della pavesiana “ripresa in chiave attualizzante del mito” (127) che si realizzerebbe nella mente del lettore non per via simbo- lica ma allegorica. Se lo spostamento della lettura dal piano simbolico a quello allegorico non è una novità, l’originalità della tesi di Comparini consiste nel fare dell’allegoria pavesiana “un metodo storico-denotativo capace di rilevare nel flusso indistinto del logos e caos gli universali fantastici, le strutture trascenden- tali dell’uomo” (157). Affidato ai concetti di dialogismo polifonico e di allegoria storica il compito di favorire una fusione di orizzonti tra antichi e moderni e tra autore e lettore, Italian Bookshelf . 593 il quinto capitolo attribuisce alla mitologia dei Dialoghi un posto di primaria importanza nel modernismo novecentesco. Da un lato, il “pluriprospettivismo delle coscienze ontologiche dei personaggi” e la loro capacità di “discutere e agire in modo indipendente dalla coscienza dell’autore” possono essere visti come una particolare espressione della crisi del soggetto moderno; dall’altro lato, attra- verso l’attualizzazione del mito, i Dialoghi “realizzano una scena quotidiana delle problematiche sociali ed epistemologiche dell’uomo contemporaneo attraverso la rievocazione di eventi mitologici” (173). Su queste basi si articolerebbe la pavesiana demitizzazione del mito, che, “nella poetica dei Dialoghi, significa sot- toporre i contenuti del messaggio mitologico a un processo ermeneutico che ne faccia emergere il senso genuino” relativo “alla finitudine e all’ineffabile mistero inerente al senso dell’esistenza dell’uomo” (176). L’ultimo capitolo propone una lettura del mito pavesiano non come pro- gressivo percorso dal caos dell’istintivo-irrazionale alla chiarezza della luce olim- pica, bensì come “riscoperta delle origini pre-logiche, irrazionali e pre-elleniche della storia dell’uomo” (182). Se la critica ha insistito sull’antitesi come motore primo della poetica pavesiana, Comparini propone nella teoria del “doppio mostruoso” (elaborata sulla triangolazione ideale delle figure mitiche di Edipo, Prometeo ed Eracle) una sintesi tra titanico e olimpico come “prerogativa neces- saria per ridare valore conoscitivo, ontologico ed etico-comunicativo alla parola” (185). Si tratta di una teoria originale, che potrebbe aprire nuove possibilità di studio non solo dei Dialoghi ma di tutta l’opera di Pavese. Tra i tanti pregi del libro, segnaliamo alcuni limiti. Se è pienamente condivi- sibile l’idea che i Dialoghi avrebbero meritato un più attento studio e maggiore riconoscimento, il tono complessivo del libro appare a volte eccessivamente apo- logetico. È a tale fervore apologetico che va ascritta la tendenza a una lettura un po’ riduttiva del modernismo europeo, visto non come espressione complessa e a volte contraddittoria della cultura europea tra ’800 e ’900 ma solo come punto di riferimento della teoria del mito. A lettura terminata, l’impressione è che il maggiore punto di forza del libro, la lettura attentissima e altamente competente dei Dialoghi con Leucò, determini anche il suo limite maggiore, e cioè che la profondità dell’analisi avvenga a scapito di un allargamento del campo d’inda- gine come momento di raffronto e verifica sia con l’opera poetica e narrativa di Pavese, sia con la cultura del periodo. Da segnalare infine l’imponente apparato di note e di riferimenti bibliografici a piè di pagina, che se appesantisce la let- tura con una mole di informazioni non sempre essenziali all’argomentazione, 594 . ANNALI D’ITALIANISTICA 36 (2018)

rappresenta indubbiamente un prezioso strumento per ulteriori ricerche sull’o- pera di Cesare Pavese. Alberto Bianchi, Wheaton College (MA)

Luca Cottini. I passaggi obbligati di Italo Calvino. Autobiografia, memoria, identità. Ravenna: Longo Editore, 2017. Pp. 136. Since its object only partially exists, Cottini’s study presents itself as inherently challenging: Italo Calvino’s work Passaggi obbligati remains at the stage of a project, whose general outline was drafted on the verso of an invitation card to an event organised by the Goethe Institut in Paris on 20th June 1978. Prior to Cottini’s book, the invitation card had been published uncommented in Esther Calvino’s preface to La strada di San Giovanni (Mondadori 1990), and it had been analysed by Claudio Milanini in “Note e notizie sui testi,” in the third volume of Romanzi e racconti (Meridiani Mondadori, 1199–1209). Passaggi obbligati should have been an autobiographical work composed of nine parts or chapters, whose preliminary index is sketched on the invitation card: “La strada di San Giovanni,” “Autobiografia di uno spettatore,” “Ricordo di una battaglia,” “Lo zio di se stesso,” “Cuba,” “La poubelle agréée,” “Istruzioni per il sosia,” “Il delitto Moro,” and “Gli oggetti.” By interpreting Calvino’s marks on the card, it can be inferred that he intended to use the published versions of “La strada” and “La poubelle agréée,” while “Autobiografia” and “Ricordo,” although already published, were probably meant to be further re-elaborated before being inclu- ded in the newly assembled work. Although some elements might hint at the general topic of the remaining five titles, according to Milanini (1990) in the absence of any drafts it might be difficult to formulate well-grounded assump- tions about their form and actual content. Cottini provides the reader with a very comprehensive overview of the available information on Passaggi obbligati as an overall project and on its exi- sting parts. Then, as anticipated in the subtitle, Cottini seeks to contextualise this information and integrate it within a richer and broader discussion about memory, identity, and Calvino’s thorny relationship with autobiography. As to this last issue, on the one hand Calvino often vocalised his reticence against autobiographical drives that might lapse into psychologism or solipsism. On the other, it seems that in his mature years he felt the need to come to terms with autobiographical writing as a way to clarify through verbalisation​ — ​to himself and to others​ — ​the reasons for his artistic, political, and intellectual choices. Reflecting on past choices does not serve here an apologetic purpose: in fact, for Italian Bookshelf . 595

Calvino the issue of choice is deeply entwined with his meditation on identity. The project’s title Passaggi obbligati refers to the work of anthropologist Arnold van Gennep entitled I riti di passaggio, and points to this inescapable and myste- rious shaping process of identity (15): “passaggi obbligati” are the repeated thre- shold experiences that mark everyone’s life, often coinciding with the more or less conscious exercise of some choice. Cottini’s first chapter offers an effective and comprehensive account of Calvino’s ambivalent attitude towards autobiography, supported by rich referen- ces to both primary and secondary bibliography. In this initial chapter, Cottini also presents his thesis: taking “La strada di San Giovanni” as starting point, he maintains that Passaggi obbligati was meant to stage Calvino’s search into the origins of his own identity, as an individual and as a writer. Each “passage” represents a separation​ — ​the crossing of a threshold​ — ​which in turn mirrors Calvino’s first discovery of his own otherness from his father, the event that arguably triggered the original identity crisis. Ultimately, these multiple sepa- rations reflect the impossible reconciliation between words and reality (20). It could be suggested, however, that by ascribing such a pivotal role to the primal experience of the detachment from the father, Cottini might risk overshadowing the positive value of these irreversible thresholds. If it is true that “Autobiografia” can be read as the story of a disenchantment, for Calvino the feeling of nostalgia is always irreducibly entangled with equally strong curiosity for the new forms to come, for what might potentially emerge from the new scenario. For instance, this complex perspective significantly characterises all the cosmicomical tales (Le cosmicomiche, 1965; Ti con zero, 1967; La memoria del mondo e altre storie cosmicomiche, 1968). The following five chapters focus on the existing works that were supposed to compose Passaggi obbligati. Cottini’s investigation is informative and thorou- ghly researched, and yet a few questions remain unanswered. A first objection could be raised against the decision to devote the sixth chapter to “Dall’opaco.” Although its literary and epistemological value is beyond doubt, this piece did not feature in the index drafted on the 1978 card. As a result of questionable publishing choices, of which Cottini is aware and which he discusses in the first chapter, “Dall’opaco” was arbitrarily included in Mondadori’s posthumous La strada di San Giovanni (1990) together with other works meant to be part of Passaggi obbligati. Yet Cottini does not explain why he also included it in his new examination. This choice is confusing and should perhaps be better justified, especially because Cottini attributes to “Dall’opaco” a crucial value, describing 596 . ANNALI D’ITALIANISTICA 36 (2018)

it as the arrival point of Calvino’s reflection, initiated with “La strada,” on the possibility to reconstruct one’s sense of identity (117). In the last chapter, Cottini enters a much less charted territory and moves his focus on to the missing parts of Passaggi obbligati. After attempting to recon- struct the themes Calvino might have explored in each text, Cottini outlines a macrotext hypothetically underpinning the work as a whole. He individuates two autobiographical discourses​ — ​one private and one regarding Calvino’s public and literary figure​ — ​purportedly converging toward the middle point of “Cuba,” which was likely to focus on Calvino’s 1964 first return to his birthplace and on his wedding in Havana. However, it still seems that there are too few elements to make solid assumptions concerning an overarching macrostructure. While this potential macrotext thus remains perhaps a feeble conjecture, Cottini’s thought process through multiple suppositions offers the reader a reve- aling insight into the workshop of the critic​ — ​and possibly of Calvino. Cottini’s work is positively useful in that it organises many diversified pieces of information regarding a selection of texts that had already appeared during the 1970s and yet were meant to be re-considered and re-shaped into a new macro- form. He also effectively takes stock of the extant discussion around Calvino’s relationship with the autobiographical genre and his reflection on identity. While Cottini’s overall interpretive hypothesis is perhaps less convincing as an innovative contribution, his work provides scholars with a detailed overview of the existing texts of Passaggi obbligati and with plenty of topics to use as starting points for further research. Marzia Beltrami, Durham University

Fred L. Gardaphè. Read ’em and Reap: Gambling on Italian American Writing. Via Folios 123. New York, NY: Bordighera, 2017. Pp. 262. Read ’em and Reap è il terzo libro di una serie che raccoglie le recensioni lette- rarie pubblicate nelle pagine della rivista mensile Italo Americana di Chicago Fra Noi News, scritte da Fred Gardaphè, professore di inglese e di studi italo-a- mericani al Queens College/CUNY e del John D. Calandra Italian American Institute, e anche coeditore di Fra Noi. Un impegno, quello di Gardaphè con la rivista, che dura dal 1987. L’espressione che fa da titolo alla raccolta deriva dall’esperienza personale dell’autore, per il quale, egli sottolinea, “choosing the literary life has been a lifetime gamble that might not pay off financially, but always intellectually” (i). Italian Bookshelf . 597

Il libro si apre con un saggio che introduce il lettore al percorso perso- nale del professore del Queens College e alla storia della rivista Fra Noi News. Partendo da un aneddoto che narra l’incontro dell’autore ventiseienne con Padre Armando Pierini, il fondatore di Fra Noi News, Gardaphè ripercorre la sua avventura di recensore di libri per la rivista. L’autore spiega come, appassionato della lettura, iniziò la carriera di recensore principalmente perché scoprì che “ publishers would send free books if you published reviews” e questo gli sembrò il miglior modo “to feed one of my better habits” (ii). I novantacinque nomi, presentati in ordine alfabetico, e le ben oltre cento recensioni che costituiscono questa raccolta mostrano un panorama intellet- tuale italo-americano vario e fertile in vari campi, da quello letterario a quello dei costumi, dal giornalismo agli atteggiamenti epocali (civili, sociali e politici) che Gardaphé esamina con perspicacia critica. Incontriamo storici come Jennifer Guglielmo e Salvatore La Gumina, ma anche esperti di folclore e studi culturali come Edvige Giunta, Joseph Sciorra e Tom Ferraro, fino ad arrivare a prolifici studiosi come Anthony Tamburri e Helen Barolini. La raccolta di Gardaphè non dimentica la prosa narrativa e la poesia, includendo nella lista nomi come Tony Ardizzone, Mary Bucci, Richard Vetere, Adriana Trigiani e Arturo Giovanitti. Fra questi ultimi vorrei segnalare la recensione di Parole e sangue di A. Giovanitti, opera curata da Martino Marazzi, che testimonia l’enorme recupero della lette- ratura italiana d’ambito migratorio e la volontà di collaborazione tra gli italiani e gli italo americani. L’unica, ma piccola, imperfezione della raccolta è la mancanza di un indice degli autori recensiti con l’indicazione del corrispondente numero delle pagine che avrebbe agevolato la consultazione del libro, soprattutto per individuare rapidamente un particolare autore. Cinzia Marongiu, Ph.D. Candidate, Johannes Gutenberg Universität, Mainz

Dacia Maraini. USA 1964–2017. An Italian Reportage. Ed. and compiled by Michelangelo La Luna. Rossano (Italy): conSenso Publishing, 2018. Pp. 400. The present volume is the third in the series Writing Like Breathing. An Homage to . This series, admirably directed by Michelangelo La Luna at the University of Rhode Island, collects the most important works translated into English (and some for the first time) by Dacia Maraini who has been active since 1962 and has extended her influence in all literary fields from poetry to novels, theater to journalism, short stories, memoir, and essays. The first volume publi- shed in 2016, Beloved Writing, gathers creative material pertaining to different 598 . ANNALI D’ITALIANISTICA 36 (2018) genres such as autobiography, novels, short stories and poems. The second, Mafia and Other Plays (2017), is instead a selection of Maraini’s theatrical plays. The current volume is a collection of articles and journal entries on the United States and on various international issues written in a time period stretching over more than fifty years. The concluding fourth volume will be a collection of the author’s critical work, Essays, Talks, Conversations, and Interviews (forthco- ming 2018). The seriousness of La Luna’s undertaking is shown by the care with which he made sure to obtain the original version of the collected texts, submit them to the author herself for a further review, and finally have them translated or reviewed by a team of experts (foreword 11). In the first part of his introduction (17–40), “Maraini’s View of the United States of America,” La Luna lists the most common themes and events discussed by Maraini in her articles and jour- nals: the “political crisis following John Fitzgerald Kennedy’s death; the African- American civil rights movement; the 1968 student protests; the moon landing; the cold war and wars in Vietnam and the Gulf; the women’s rights movement; the September 2001 terrorist attacks; the first mandate of President George W. Bush and the invasion of Iraq; the election of Barack Obama, and so on” (17). Among more general topics debated by Maraini, La Luna alludes to the signi- ficance of American universities, womens’ rights, the death penalty, torture, immigration, racial and sexual discrimination in US society. The following three parts of the introduction​ — ​“USA 1964–1069. An Italian Reportage” (19–26); “USA 1977–1997: An Italian Reportage” (27–33); and “USA 2000–2017: An Italian Reportage” 34–40) cover the three sections into which the book is divided (respectively, pp. 49–146, 147–200, and 201–320), following an order based on chronology and thematic proximity. Here the editor summarizes with more details, sometimes directly quoting from the articles, the above-mentio- ned themes. The introduction ends with two early articles by the young Maraini that evoke her discovery of America (47), and her frequent visits to America with her husband at the time, (41–46). The volume concludes with a collection of Maraini’s responses to readers’ letters to her that appeared in the weekly Io donna, published by the daily Il cor- riere della sera (“Letters to Dacia Maraini 1996–2003,” 321–56), and an appen- dix which lists her articles dedicated to various international themes (“Articles on International Topics 1971–2018” 357–400). There follows a very detailed bibliography, including works by Maraini, a list of pre-existing English transla- tions of her writings, and critical essays of her oeuvre. Italian Bookshelf . 599

La Luna has been faithful to the texts’ original version, although he states that he “also took into account the version of the articles that appeared in the [. . .] volumes” (18) compiled later by the writer herself. Browsing through the articles, it is clearly apparent that La Luna has proceeded with the utmost philo- logical care, as the critical apparatus for each article shows. Here, he has included the original title in Italian, information about where the article appeared first and afterwards, and if, in these later publications, the texts were revised. In the appendix, La Luna has gathered the apparatus found in the footnotes of each article and has added a short summary of the text. Furthermore, he explains that he has “corrected mistakes of names, places, dates, and so on that were present in the originals” and inserted “footnotes to clarify the content of the topic discus- sed.” (18) Finally, he has provided each article with a number which is cross-re- ferenced in the Index to facilitate the reader’s search. An example of La Luna’s meticulous methodology is evident in his treat- ment of Maraini’s article published in 1968, “With Lowell and Feiffer We Speak About Politics” (111–30), the lively account (partly as an interview) of a night Maraini spent with various poets and intellectuals in New York. The original title was “Con Lowell e Feiffer si parla di politica,” published first in Paese sera on August 4, 1968, (p. 3), in the series “Taccuino americano di Dacia Maraini,” and then, in a revised version, in the Taccuino americano (1964–2016), a collection published in 2016. With scrupulous attention, La Luna identifies the writers and artists Maraini met that night. Therefore, we have footnotes on Robert Traill Spence Lowell IV (111) and his wife Elizabeth Hardwick (112); various aspects of Lowell’s literary work (111, 112, 113); John Francisco Rechy, John Hoyer Updike and Susan Sontag (114–15), Mary McCarthy (116), Jules Ralph Feiffer (117), and so on. Another article, “Suffering Knows No Flag” (220–27), came out first with the slightly revised title “Ma il dolore non ha una bandiera,”​ — ​La Luna has already warned that Maraini “sometimes preferred to edit the original titles” (18). Later, the article was published in the collection I giorni di Antigone (29–37) as “Il dolore non ha una bandiera. Risposta a Oriana Fallaci,” and finally, revised, as “Il dolore non ha bandiera” in the above-mentioned Taccuino americano (243–52), from which the title was kept for the present translation. This article,​ — ​the editor informs us in the footnote​ — ​is a “letter in response to the article by Oriana Fallaci, “La rabbia e l’orgoglio,” published in Corriere della sera on September 29, 2001 as a violent and hysterical reaction to the events of September 11, 2001: in fact, it condemns Fallaci’s attitude as “reckles- sness” (220) As for the previous article, La Luna includes several footnotes to explain some difficult passages in the text: for instance, the reference to a famous 600 . ANNALI D’ITALIANISTICA 36 (2018) statement by Pope (at the time) Karol Józef Wojtyla, “We are all children of the same God.” (223). La Luna’s edition is certainly an exemplary work of the philological care with which any translation or edition of a literary text should be conducted and realized. As such, it will certainly be instrumental in spreading throughout the globe the literary heritage of one of Italy’s most important modern writers. Enrico Minardi, Arizona State University

Fulvio Orsitto e Federico Pacchioni (a cura di). Pier Paolo Pasolini. Prospettive americane. Pesaro: Metauro Edizioni, 2015. Pp. 366. L’opera di Pier Paolo Pasolini continua ad interessare e affascinare la critica con- temporanea, come dimostrano convegni, opere monografiche ed opere colletta- nee che vengono dedicate all’artista quasi a scadenza annuale. La bella raccolta di interventi di studiosi italiani attivi negli Stati Uniti curata da Fulvio Orsitto e Federico Pacchioni attesta la continua evoluzione di questo interesse critico. Il volume raccoglie quindici articoli, distribuiti in due sezioni e preceduti dall’in- troduzione dei curatori e da un’utile rassegna in cui Pacchioni ripercorre criti- camente testi e tendenze degli studi pasoliniani nel Nordamerica negli ultimi trent’anni: dalle traduzioni in inglese che hanno favorito la divulgazione degli scritti e del pensiero di Pasolini, all’attenzione che gli studiosi hanno rivolto soprattutto all’eclettismo formale (diremmo oggi, intermediale), alla libertà di ispirazione e al realismo e alla coesione tematica della sua produzione, incentrata sui temi del corpo, della morte e del ruolo dell’intellettuale nella società contem- poranea. Mentre i saggi della prima parte del volume considerano soprattutto il cinema pasoliniano successivo ad Accattone (1961) e Mamma Roma (1962), sorvolando tuttavia sull’esperienza filmica della cosiddetta “Trilogia della vita”, i saggi della seconda parte studiano il rapporto di Pasolini con i mass media e il giornalismo, il teatro e il realismo o invitano a riflettere sulla rilettura che registi e artisti contemporanei hanno fatto della sua opera e del suo pensiero. Nella prima parte l’intervento di Monica Facchini offre una breve lettura comparativa dei film di Mel Gibson (The Passion of the Christ, 2004) e Giovanni Columbu (Su re, 2013) in relazione al Vangelo (1964) pasoliniano soffermandosi soprattutto sui concetti di verosimiglianza e impegno politico e facendo partico- lare attenzione alle trasposizioni geografico-temporali realizzate in ciascun testo. Vero obiettivo del saggio, tuttavia, è il Cristo pasoliniano, portatore di un annun- cio volutamente destoricizzato per parlare del presente nella contemporaneità. Gesù​ — ​per il regista, figura di resistenza​ — ​è allo stesso tempo intellettuale e Italian Bookshelf . 601 sottoproletario. Dalla contraddizione di queste due anime scaturisce la forza polemica del personaggio e la sua capacità di agire nella storia. In un articolo denso e di non facile lettura, anche Luca Barattoni presta attenzione alle diverse incarnazioni della figura dell’intellettuale nell’opera di Pasolini, come “cronista che rende conto delle cancellazioni e dei traumi che la quotidiana pratica del potere comporta” (75), e alla caratteristica autobiogra- fica che ogni testo (ri)propone. Edipo, su cui Barattoni si concentra, è figura di contatto tra la realtà (con le sue costrizioni) e l’impegno idealistico dell’uomo nella storia. Del cinema pasoliniano di rilettura attualizzante del mito classico si occupa ancora Enrico Vettore proponendo un’analisi dell’esperienza e del perso- naggio di Medea​ — ​cioè del suo processo di (auto)identificazione che Pasolini mette in scena nel film omonimo del 1969​ — ​secondo il processo “alchemico” di individuazione teorizzato da Carl Jung. Daniele Fioretti e Gian Maria Annovi analizzano gli episodi pasoliniani in Le streghe (1967) e Amore e rabbia (1969), rispettivamente. Entrambi discu- tono questi testi​ — ​il primo La Terra vista dalla Luna, il secondo La sequenza del fiore di carta​ — ​concentrandosi sulla consapevolezza storica del sottoprole- tariato, sul rapporto tra l’individuo-classe e la storia e sulla violenza della storia nei confronti dei suoi protagonisti più vulnerabili. Per il regista, nonostante la corruzione non risparmi i più deboli a livello sociale ed economico (Fioretti), coscienza storica e resistenza sono, nonostante tutto, ancora possibili (Annovi). Questi due episodi, al pari della Ricotta (in Ro.Go.Pa.G., 1962) di cui parla anche Facchini, sono testi esemplari anche per capire la sperimentazione di Pasolini con il mezzo filmico​ — ​evidente nell’uso del colore, del genere della favola, del pastiche e del personaggio-idea​ — ​e per apprezzare criticamente la sua voca- zione metalinguistica. Concludono la prima parte della raccolta i saggi di Antonio Iannotta e Fabio Benincasa che si concentrano sull’ultima produzione pasoliniana. Natura del potere e oscenità dell’immagine, messa in relazione al racconto sadiano che ispira il film, sono al centro del percorso interpretativo di Salò (1975) trac- ciato da Iannotta. A questo testo si riferisce anche Benincasa, il quale legge la sceneggiatura di Porno-teo-kolossal (1975), e la sperimentazione pluristilistica “barocca” che Pasolini vi attua, come superamento in chiave epico-parodica della crisi che il regista-intellettuale avverte profonda e che mette in scena nei coevi, per lavorazione o stesura, Salò e Petrolio (pubblicato postumo nel 1992). Nella seconda parte del volume Fabrizio Cilento si concentra sul rapporto ambivalente di Pasolini con la televisione: se da un lato Pasolini è affascinato dalla capacità del mezzo di comunicare con la gente comune avvicinandosi alle 602 . ANNALI D’ITALIANISTICA 36 (2018)

loro esperienze, dall’altro rifiuta radicalmente il modo in cui essa, in quanto por- tavoce del potere di Stato, documenta i cambiamenti antropologici in atto nella società italiana. Arricchisce questo studio​ — ​a mio parere uno dei più interes- santi della raccolta​ — ​l’analisi di Pasolini come “personaggio” televisivo, “teso a creare il simulacro della propria celebrità che oggi gli sopravvive” (204). Al personaggio-Pasolini e alla mitologia di sé e del corpo da lui creata, oltre che alla sua arte in generale, si ricollegano anche le testimonianze della regista Roberta Torre nell’intervista condotta da Orsitto e dell’artista Nicola Verlato nel colloquio con Gloria Pastorino, autrice, in questa stessa raccolta, di un saggio particolarmente critico sul “nuovo teatro” pasoliniano quale letteratura monolo- gante, anziché azione dialogante, con il pubblico. Viviana Cois legge il cinema di Pasolini in chiave ecologico-culturale, ovvero come denuncia di un inarrestabile processo di degrado dall’umanità “immon- dizia” di Accattone al consumismo violento ipostatizzato in Salò, che rompe il discrimine tra pubblico e privato e s’impadronisce dei processi biologici più per- sonali ed intimi. Altrettanto convincente e originale è l’analisi precisa che Mark Epstein fa di Uccellacci e uccellini (1966). Per Epstein questo film rappresenta una svolta nel realismo pasoliniano, che si fa più consapevolmente materialista (256) e critico del marxismo rispetto alla produzione cinematografica prece- dente, del regista stesso e di altri. L’omologazione culturale che il consumismo ha determinato in quegli anni non rende più possibile un dialogo con il popolo, ormai irrimediabilmente imborghesito​ — ​quel dialogo auspicato, invece, forse ingenuamente, in epoca postbellica. Il realismo di Pasolini, perciò, si scaltrisce rivelando una fitta trama di elementi metafilmici che si rivolgono ad un pubblico preparato, ad una élite capace di coglierli ed attribuire loro una valenza politica. Riemerge attraverso questo saggio il problema di chi sia il pubblico reale o ipo- tizzato dell’opera di Pasolini, affrontato anche da Pastorino. L’articolo di Anna Paparcone su Romanzo di una strage (2012) di Marco Tullio Giordana apre la sequenza conclusiva di interventi e testimonianze sul modo in cui registi e artisti, italiani e non, hanno fatto propri, rileggendoli e rein- terpretandoli, il pensiero e la vita di Pasolini. Il Pasolini-Cristo di Abel Ferrara​ — ​ osserva Benincasa nell’ultimo saggio della raccolta​ — ​rimane “indefinibile e misterioso” (346), ovvero resiste allo sguardo dello spettatore; la forza del suo pensiero, invece, continua nel tempo e rimane attuale. Conclusione quanto mai appropriata per questa raccolta che propone analisi attente ed utili e in alcuni casi distintamente originali. Francesca Parmeggiani, Fordham University Italian Bookshelf . 603

Andrea Raimondi. The Many Voices of Contemporary Piedmontese Writers. Newcastle upon Tyne: Cambridge Scholars Publishing, 2016. Pp. 211. Andrea Raimondi’s volume is a remarkable contribution to the body of studies of regional Italian literatures, which have noticeably increased at the time of the celebrations of the 150th anniversary of Italian unification in 2011, and have attracted new attention to Turin, which, as is well known, spearheaded the poli- tical formation of Italy and was its first capital. Turin and Piedmont occupy, of course, a peculiar position in the story of Italian literature, both as seen from the inside and outside of Italy. Some of the best-known Piedmontese authors are Levi, Ginzburg, Pavese, Fenoglio, Calvino, Eco, and Baricco. Turin was also the center of organized anti-Fascism in Italy, in which the publishing house Einaudi played a leading role and, with Trieste, Turin was also the center of Italian Jewish intelligentsia​ — ​a city, furthermore, with a centuries-long tradition of welcoming political refugees from Italy and elsewhere. Raimondi’s work is based on New Stylistics or Linguistics Criticism, which relates linguistic choices to their aesthetic functions, explaining the viewpoints behind these choices where any linguistic code is seen as having three functions: textual, interpersonal and ideational. Raimondi’s own interest is the ideational, that is: How do stylistic tendencies and choices reveal the worldview of the author or a character? Raimondi approaches the question by examining hetero- glossia, the multiplicity of linguistic codes in a writer. His other significant the- oretical reference is the work of linguist and psychologist Henry Tajfel, known for his studies on social belonging and social identity, and that of Martin Buber and Hans-Georg Gadamer, both of whom draw attention to the importance of language in our discovery of the Other, seen also as a social anchor that “erect[s] the borders between us and them” (168). The volume is divided into six chapters and two appendices, of which the first is a brief examination of Theories on Language, Identity and Alterity, while the second​ — ​A Current Linguistic Map of the Region​ — ​is essential for fully under- standing Raimondi’s work, where the only element lacking is a brief guide to pronouncing Piedmontese. Chapter 1, titled “Piedmont’s Linguistic Variety and Literary Production,” is a socio-historic overview of the region between the 14th and mid-20th century; here the author examines its linguistic heterogeneity, the consequences of the Unification for local linguistic norms, practices and literary production, the role of Fascist language policies, and the complexities of diglos- sia in the post-war period. Chapter 2 (“Subversive Writing: The Language of Alterity in Pavese’s Ciau Masino”) analyzes Pavese’s linguistic resistance to the 604 . ANNALI D’ITALIANISTICA 36 (2018)

homogenizing Fascist ideology. Pavese in fact deliberately inserted non-standard varieties (Piedmontese dialects, slang, jargon, foreign languages, mostly without any translation, in direct speech) in this posthumously published collection of short stories and poems. For Raimondi, Pavese’s goal here was fleshing out alterity through the polyphony of contrasting voices and, therefore, worldviews. Though unique in Pavese’s oeuvre, such plurilingualism has never attracted significant scholarly attention. Another great merit of Raimondi’s work lies in his linguistic analysis of Beppe Fenoglio’s I racconti del parentado in Chapter 3. While much attention has been given to linguistic experimentation in Fenoglio’s novels, the twenty stories in I racconti del parentado, written in the 1950s and 1960s but published only in 1978, and set in the peasant world of the Upper Langhe, have rarely been studied, despite indications that even when very close to death Fenoglio remained extre- mely attentive to details surrounding their future publication. Here Raimondi primarily examines Fenoglio’s use of Langhe dialect as a marker of identity and worldview, while also closely observing other types of linguistic hybridity, such as foreign lexical elements, expressions with origin in high literature as well as archaisms. For Fenoglio, low-status codes here all assume a bonding quality, protecting the characters’ sense of identity and belonging amidst a world that is either threatened by the intrusion of Fascist uniformity or facing disappearance during the post-war industrial boom. Chapters 4 (“Continuity and Discontinuity in Piedmontese Literature of the 1960s and 1970s”) and 5 (“Trends in Contemporary Narrative Production”) open with a succinct but thoughtful analysis of the socio-cultural, economic and linguistic changes that took place in Italy and Piedmont between the 1950s and 1970s, one that is especially relevant for the different generations of Piedmontese post-war writers and the heteroglossic tension characteristic of their work, from Nanni Balestrini’s Vogliamo tutto to Primo Levi’s La chiave a stella and the work of Fruttero and Lucentini in La donna della domenica and A che punto è la notte. Among the youngest generation of these writers, code-mixing is a mani- festation of resistance vis-à-vis “linguistic impoverishment and conformism to models imposed by the centres of power (now economic rather than cultural)” (160). Such heteroglossia finds, for Raimondi, its most accomplished realization in Benito Mazzi’s novels La formica rossa (1987) and Nel sole zingaro (1997), where the author’s code-mixing of standard Italian and dialects of northernmost Piedmont’s Vigezzo Valley foregrounds the narrative of the culturally marginali- zed and opposes the voices of the community under threat to the increasing and oppressive uniformity of the banalized, mass-media-driven standard language. Italian Bookshelf . 605

For Raimondi, it is indeed Mazzi who most closely carries on the legacy of code- mixing of Pavese’s Ciau Masino and Fenoglio’s I racconti del parentado. A similar kind of heteroglossic legitimization of the Other, this time of the foreigner, is articulated in Younis Tawfik’s (born in 1957 in Mosul, Iraq) best-known novel La straniera (1999), set in Turin and characterized by multiple internal foca- lization and genre-mixing, where the narrative of a successful Arab immigrant to Italy is paralleled by that of marginalized immigrants, such as the prostitute Amina. The hybridization is achieved through omitting all translation into Italian of interspersed Arabic expressions, but also by using Arabic figures of speech in Italian, thus “challeng[ing] Standard Italian and open[ing] it up as to welcome, and adapt [. . .] to, an Arabic construction” (159), and reflecting new complexities of contemporary Italian and Piedmontese society. In brief, Raimondi’s volume constitutes a most welcome and important contribution to the growing body of studies devoted to the many and diverse voices of contemporary Piedmontese writers, including those belonging to the scritture migranti. K. E. von Wittelsbach, Cornell University

Giose Rimanelli. Il mestiere del furbo. Panorama della narrativa italiana contemporanea [1930–1959]. A cura di Eugenio Ragni. New York: Bordighera Press, 2016. Pp. 229. La ristampa de Il mestiere del furbo risarcisce il Giose Rimanelli critico (1925– 2018)​ — ​del romanziere s’è già da tempo avviata la riscoperta​ — ​dal pluri- decennale oblio. A distanza di quasi sessant’anni dalla prima e unica edizione (Milano: Sugar, 1959) l’affresco rimanelliano della narrativa italiana dal 1930 al 1959 sollecita un caleidoscopio di questioni critiche che travalica il primo e più palpabile orizzonte del libro: quello di una diagnosi virulentemente sog- gettiva, di un ipertrofico pamphlet accidentato da abbagli e sviste epperò tutto sostenuto​ — ​lo notava a ridosso della prima pubblicazione​ — ​ da “una sincerità e un coraggio di cui, purtroppo, pochissimi sono capaci”. Setacciata dietro lo pseudonimo di A. G. Solari nella rubrica “Letteratura” de Lo Specchio dal 30 marzo 1958 al 6 dicembre 1959, la narrativa italiana di un periodo chiave per le scritture in prosa si dispiega non soltanto nei suoi assetti formali e culturali, ma anche e soprattutto nel suo continuo intrecciarsi con le trame dei salotti e dei premi letterari, dei letterati divenuti consulenti editoriali e dei critici, i “furbi” di mestiere a cui s’intitola il libro. “La storia letteraria di domani”​ — ​è l’incipit​ — ​“sarà fatta dagli almanacchi, dalle notizie di Berenice, 606 . ANNALI D’ITALIANISTICA 36 (2018)

dai ricevimenti e dalle presenze scrupolosamente registrate nei tali salotti, ai tali pranzi, alle tali soste presso il libraio Rossetti di Via Veneto o nelle seminascoste salette del Caffè Canova dove pallidi letterati auspicano a chiacchere, a gomitate, a urtoni un neo rinascimento” (1). Avverso tanto alla prosa dei “frammenti” e dei “capitoli” di derivazione rondista (e più ai suoi aedi critici, Enrico Falqui in testa) quanto ad un neorealismo di sola maniera, Rimanelli si confronta a caldo con scrittori destinati a diversa tenuta postera, scommettendo su alcuni nomi dimenticati dalle storie letterarie (esemplare la trattazione complice dell’“irre- golare” Marcello Barlocco, su cui poi splenderà quasi soltanto la luce accesa da Carmelo Bene); o, all’opposto, vaticinando grama fortuna a quelli che invece ne diverranno i fari (a paradigma, la persuasione che “sarà difficile al Pasolini diventare finalmente qualcuno” 117, corsivo originale). Lungo e, senza un preciso affondo nell’argomentare di Rimanelli, fonda- mentalmente inerte sarebbe l’elenco dei bersagli del libro, che in buona sostanza tocca e non di rado affonda tutti i maggiori “addetti ai lavori” del tempo, denu- dandone conformismi e connivenze. Nei fatti, più che il giudizio sulle scrit- ture narrative analizzate e massicciamente citate (quasi ad osteggiare l’estetica della prosa d’arte sino nella dismisura degli excerpta) e la conseguente, origi- nale redistribuzione delle forze in gioco nelle scritture coeve, delle pagine di Rimanelli trascina appunto lo sdegno verso il critico di professione, impelagato nelle parole d’ordine del momento, nei proclami e non ultime nelle manovre commerciali sottese all’affermazione di alcuni libri a discapito d’altri. Al lettore d’oggi, Il Mestiere del furbo consegna in filigrana l’ipotesi di un’altra storia lette- raria, da cercare negli interstizi di quella canonica: una storia fatta di voci e di libri negletti non tanto, o non solo, per una motivata selezione di valori estetici e culturali, quanto per estraneità agli scenari della cultura letteraria egemone. Un’ipotesi e una tentazione: ripercorrere fino in fondo la letteratura italiana 1930–1959 attraverso il filtro rimanelliano, distorto e animoso, sbilanciato per eccessiva indignatio, ma proprio per questo utile contrasto alle più consolidate storiografie. Nella proficua “Introduzione” alla ristampa, Eugenio Ragni sotto- linea l’attualità del libro in virtù del riproporsi odierno di una situazione molto simile a quella scandagliata da Rimanelli: quella di una letteratura in cui prevale “una sorta di omologazione al mediocre, supportata da uno standard espressivo opacizzato ed esangue” (xxii), con una “buona parte di responsabilità” (xxiii) della critica. È una via di lettura percorribile, a patto di condividere con il cura- tore l’aspro sguardo sulla letteratura e sulla critica italiana contemporanee e, più ancora, di ritenere agevole sovrapporre a una letteratura e una critica letteraria strutturate entro un sistema organico e culturalmente dominante, come ai tempi Italian Bookshelf . 607 del Mestiere del furbo, a una letteratura e una critica letteraria riplasmate (e ridi- mensionate) dall’età del web e della società liquida. In caso contrario, del libro si può provare invece a far tesoro della faconda inattualità, stringendo l’autore al cortocircuito registrato da Giorgio Agamben, per cui “appartiene veramente al suo tempo, è veramente contemporaneo colui che non coincide perfettamente con esso né si adegua alle sue pretese ed è perciò, in questo senso, inattuale; ma proprio per questo, proprio attraverso questo scarto e questo anacronismo, egli è capace più degli altri di percepire e afferrare il suo tempo” (Che cos’è il contem- poraneo? Milano: Edizioni Nottetempo, 2008: 9). Federica Capoferri, John Cabot University

Thea Rimini (a cura di). Tabucchi postumo. Da “Per Isabel” all’archivio Tabucchi della Bibliothèque nationale de France. Bruxelles: Peter Lang, 2017. Pp. 169. In occasione della donazione di una parte dell’archivio di Antonio Tabucchi alla Bibliothèque nationale de France fu organizzato a Bruxelles, nel 2016, un conve- gno di cui questo volume raccoglie gli atti nell’ormai ricca collana “Destini incro- ciati” della Peter Lang. Il contenuto dell’archivio, in senso stretto, viene messo a profitto in alcuni contributi, mentre la maggior parte degli articoli contiene le riflessioni di provetti tabucchisti, dedicate ad altri aspetti dell’opera dello scrit- tore, scomparso nel 2012. Il nesso con la scomparsa dell’autore viene stabilito in modo più diretto dal momento che alcuni di questi contributi si soffermano in particolare sulla pubblicazione, postuma appunto, di Per Isabel. Un mandala (Milano: Feltrinelli, 2013). Emergono così i due aspetti del Tabucchi postumo nel titolo della pub- blicazione: l’archivio e un primo frutto di esso. Frutto, scontato quanto oppor- tuno, dell’archivio in senso stretto è anche la pubblicazione, nella prima sezione del libro, di un breve inedito dell’autore, “Sogno di Madonna Fiammetta, dama amata da Messer Boccaccio” (13–14). Accanto a questo racconto, può apparire gesto sottilmente autoironico la ripubblicazione, restituito il titolo originale​ — ​ “La Vedovilità che c’è in noi” (11–12) —, dell’articolo fatto uscire da Tabucchi sul “Corriere della Sera” nel 1997 in occasione della querelle suscitata dalla pub- blicazione di Diario postumo di Montale e dalla controversia emersa sull’autenti- cità del testo. Lo stesso Tabucchi, sovranamente tollerante nell’articolo rispetto alle numerose “vedove” e alla loro “mediazione” editoriale, si trova qui convo- cato dalla curatrice​ — ​gustosamente ironico e “non ancora postumo scrittore” (2) in quel momento​ — ​ad introdurre un volume di critica in cui viene fatto un 608 . ANNALI D’ITALIANISTICA 36 (2018)

uso abbondante di quei “loculi A1, A2” (12) ai quali il “fondo manoscritti” affida i lasciti degli scrittori. Sul contenuto dell’archivio, disponibile da oggi e ancora da ampliare in futuro, si esprime in apertura Maria José de Lancastre, vedova dello scrittore. La mole stessa della documentazione che rimane da essere resa a disposizione degli studiosi nella BnF, classificata dalla signora secondo criteri da lei stabiliti, apre una prospettiva di proficuo lavoro per chi s’interessa dello scrittore. Segue poi una serie di contributi critici, undici nell’insieme, in cui i rispettivi autori si cimentano, più o meno liberamente, col tema del post mortem e della sottile frontiera tra vita e morte, così presente nel nostro autore. A proposito di Per Isabel, Giulio Ferroni fa il ritratto, al condizionale, di questa “Beatrice portoghese” (39), montalianamente evanescente. Sulla stessa scìa s’infila Anna Dolfi, attenta a dettagliare la declinazione in prosa della Clizia montaliana. Remo Ceserani, in uno degli ultimi contributi del compianto cri- tico, si rivolge alla ricca enciclopedia culturale di Tabucchi, soffermandosi in particolare sul suo “orientalismo” e sul ruolo della fotografia. Eleonora Conti si cimenta in profondità con la profusa intertestualità presente nell’universo tabuc- chiano a contatto con il suo “primo romanzo postumo” (69), Per Isabel. Flavia Brizio-Skov s’interessa degli echi simbolici del mandala suscitati in quest’opera, approdati nella vacuità di un cenotafio. Tadahiko Wada, il traduttore giapponese di Tabucchi, si concentra sul sogno, sul tempo invertito e sull’inquietudine, di nota matrice, onnipresente nell’opera. Mettendo a profitto il neonato archivio, Thea Rimini mette attentamente in parallelo la versione prima, intitolata Perdute salme, de Il filo dell’orizzonte, con il testo ulteriormente pubblicato. Sintomatiche appaiono, nel contesto della questione dell’invenzione tabuc- chiana del personaggio​ — ​Isabel e non solo​ — ​sia la critica, qui utilmente ricor- data, del Calvino einaudiano, sia la crescente distanza presa rispetto ad essa da Tabucchi. Con Pietro Benzoni entriamo nel territorio del Tabucchi critico, zona così rilevante per l’autore, mentre Clelia Bettini, collaboratrice dello scrittore per alcune traduzioni, si sofferma appunto su questa problematica specifica, tenuta personalmente e sistematicamente d’occhio dallo scrittore poliglotta. Con il contributo di Monica Jansen si apre un altro aspetto dell’era post-Tabucchi, quella dei seguaci che nello scrittore hanno individuato l’etimo spirituale e crea- tivo. Concludono il volume alcune osservazioni del traduttore francese Bernard Comment. In sintesi, un volume di interesse certo, inaugurale, non c’è dubbio, in pro- spettiva di studi a venire che vi si possono utilmente ispirare. Walter Geerts, Universiteit Antwerpen Italian Bookshelf . 609

Serena Todesco. Tracce a margine. Scritture a firma femminile nella narrativa storica siciliana contemporanea. Gioiosa Marea: Pungitopo, 2017. Pp. 723. “Il riscontro e la valutazione della ‘presenza’ femminile nella letteratura siciliana è operazione essenziale nel rilevamento delle più autentiche e permanenti coor- dinate nei tempi lunghi della cultura siciliana, caratterizzata da strutture e pro- blematiche peculiari” (G. Resta, Prolusione a Letteratura siciliana al femminile: donne scrittrici e donne personaggio, a cura di S. Zappulla Muscarà, Caltanissetta- Roma: Sciascia, 1984, p. 5). La proposta critica di Gianvito Resta individuava la necessità, nei lontani anni ’80, di considerare l’opera delle scrittrici isolane in stretta relazione al complesso della cultura siciliana ed alla sua specificità nel contesto italiano, magari europeo. Non sono mancate in seguito ricerche rela- tive a singole personalità intellettuali, grazie anche all’attenzione che l’editoria riserva ai prodotti letterari siciliani, fascinosi e dinamici, sospesi fra stereotipia ed innovazione; si segnala comunque al riguardo un solo lavoro complessivo, il volume di Donatella La Monaca, Scrittrici siciliane del Novecento (Palermo: Flaccovio, 2008). Il libro di Serena Todesco colma quindi un vuoto critico e risponde all’e- sigenza di definire fisionomia e rilevanza di autrici contemporanee —perché operanti dagli anni ’90, decennio cruciale per l’affermarsi della scrittura siciliana a firma femminile —, in riferimento ad una tradizione culturale che viene con- tinuamente ripensata e ridiscussa. Si tratta, nello specifico, di Maria Attanasio, Silvana La Spina, Maria Rosa Cutrufelli, Silvana Grasso, Giovanna Giordano, analizzate sub specie Historiae, dunque come autrici di romanzi storici: un genere di saldo dominio maschile nella linea De Roberto, Pirandello, Tomasi di Lampedusa, ma inusuale sul versante muliebre, normalmente confinato al discorso intimista e sentimentale. L’analisi vera e propria, situata nella seconda parte del volume, si sviluppa naturalmente da una approfondita e articolata inda- gine che verte in primo luogo sulla particolare visione del passato presente nelle opere delle autrici siciliane, come volontà di fare emergere vicende di soggetti emarginati e dimenticati, in consapevole attitudine critica nei confronti della Storia ufficiale. Sono significativi in questo quadro i riferimenti puntuali nel volume ad esperienze pregresse, che hanno determinato i principali nodi pro- blematici, le prime forme di distanziamento dall’ideologia patriarcale attorno ai quali si snoda in seguito il discorso delle scrittrici più recenti: Dacia Maraini con La lunga vita di Marianna Ucria carica la protagonista, muta e violata, di una precisa “funzione testimoniale e di denuncia della violenza dell’epoca narrata” (246); Goliarda Sapienza ne L’arte della gioia rivisita con ironia l’identità tradi- zionale della donna in nome di “un desiderio femminile altro, essenzialmente 610 . ANNALI D’ITALIANISTICA 36 (2018) non etero-normativo” (109). A queste autrici Todesco accosta, andando ancora più a ritroso nel tempo, Maria Messina, Elvira Mancuso, e la più nota Sibilla Aleramo, intellettuali che già ai primi del Novecento mostrano in atto nei loro scritti una tensione irrisolta fra volontà di emancipazione e consapevolezza della tragicità della condizione femminile. Si crea in tal modo una rete di corrispon- denze fra opere di narratrici situate in diversi tempi ed ambienti, e si intravede, per così dire, un sistema della produzione a firma femminile siciliana, abitual- mente posizionata ai margini del panorama nazionale, ma invece di importanza cruciale nel suo definirsi come discorso critico unitario che smantella e demisti- fica molti luoghi comuni della cultura, non solo locale ma italiana, “in una chiara posizione di alterità rispetto alle tradizioni letterarie promosse e consolidate da un mainstream di origine patriarcale” (78). Gli stessi grandi nomi della Sicilia letteraria, avverte Todesco, propongono un’immagine della donna connotata da follia, diversità, passività, sensualità talvolta aberrante, in corrispondenza con una rappresentazione orientalizzata dell’isola, terra di conquista e preda femminilizzata, sottoposta al dominio “maschile” del Nord che la vedrebbe come barbara e incivile (N. Moe, Un para- diso abitato da diavoli. Identità nazionale e immagini del Mezzogiorno, Napoli: L’Ancora del Mediterraneo, 2004). La percezione dell’universo siciliano come irrimediabilmente diverso ed inferiore nel quale si convoglia l’Alterità che l’Italia postunitaria respinge da sé, è opportunamente collegata da Todesco con la stere- otipizzazione del femminile nella letteratura isolana, come discorso foucaltiano del Potere/sapere che impone una visione totalitaria, tesa ad azzerare l’identità dei soggetti socialmente deboli. L’esame delle cinque scrittrici si colloca quindi all’interno di una fitta trama di riferimenti e riflessioni, evitando i limiti di analisi confinate ad un singolo caso letterario; emerge la valenza eversiva di una triangolazione specifica, data dall’incontro fra Sicilia, punto di vista femminile, e Storia, poiché le vicende narrate dalle autrici prese in esame non solo mettono in discussione il discorso egemonico ufficiale sul passato, ma ribaltano e falsificano gli stereotipi di un Sud immutabile, istintuale, esteticamente sublime ma al tempo stesso infernale. Dal confronto/scontro con la Storia, Maria Rosa Cutrufelli recupera ne La briganta (1990), vicenda di una nobile siciliana di metà Ottocento che si unisce alla lotta contadina travestendosi da uomo, la percezione autentica del fenomeno del brigantaggio come rivolta agraria, in opposizione al sistema economico e sociale borghese; nella figura della protagonista Margherita, “briganta, io, non donna di brigante”, emerge inoltre il rifiuto della costrittiva morale patriarcale. L’adolescente Tina, in Canto al deserto. Storia di Tina, soldato di mafia (1994), Italian Bookshelf . 611 cerca invece di omologarsi ad un violento mondo maschile ridefinendosi come uomo; in entrambi i casi la ricerca di identità si pone come affermazione di una fisicità diversa, che fa breccia nella realtà consolidata. “Il corpo di Tina è, come quello di Margherita, un corpo trasgressivo, capace di sgretolare le certezze iden- titarie di un intero sistema culturale fortemente connotato come quello mafioso” (490). Si traveste anche un’altra protagonista, Francisca, per sfuggire alla povertà in Correva l’anno 1698 e nella città avvenne un fatto memorabile (1994) di Maria Attanasio; la vicenda della coraggiosa protagonista, poi condannata come strega, è ricostruita a partire da frammenti storiografici che non colmano in realtà le lacune del discorso storico ufficiale, come nel caso della microstoria teorizzata da (Il filo e le tracce. Vero, falso, finto, Milano: Feltrinelli, 2006) e da altri studiosi, ma definiscono invece linee e prospettive alternative, non meno rilevanti della verità oggettiva. La libertà dalla Storia ne consente in effetti la riscrittura al di fuori dei luoghi comuni: Silvana La Spina definisce quest’operazione “inganno”, necessario per introdurre un punto di vista soggettivo e demistificante all’interno del discorso storico. Da qui il titolo di un suo romanzo, Un inganno dei sensi malizioso (1995), che mostra l’attrazione fra Eugenia, monaca siciliana, e l’Altro, l’islamico Abdul, ponendo quindi “un’istanza di sincretismo culturale tra cristianesimo e pagane- simo” (415) attraverso la rappresentazione del corpo e del desiderio femminile. Voci quasi fuori dall’isola sono quelle di Silvana Grasso e Giovanna Giordano, che raccontano l’emigrazione, non come straniamento e perdita, com’è usuale nella cultura letteraria italiana, ma invece fattore di cambiamento: Mosca Centonze in Ninna nanna del lupo (2012) ripercorre da anziana una vita che non corrisponde al modello tradizionale di donna​ — ​moglie di un boss mafioso, vio- lenta, sterile —; il corpo e la fisicità di Mosca, prima trionfanti poi invecchiati e piagati, “fungono da elemento filtrante rispetto all’America esperita ed evo- cata, veicolando così l’idea di un’appropriazione individuale dell’evento migra- torio” (549). Anche Maria Grillo, protagonista di Trentaseimilagiorni (1996) di Giovanna Giordano, vive un’esistenza particolarissima e avventurosa, dove le esperienze tragiche non eliminano in lei la curiosità e la solidarietà, in un tessuto narrativo che molto deve a Voltaire e Calvino, unendo utopia e predilezione per la dimensione visiva del linguaggio. Tracce al margine, dunque, nel senso che le opere delle scrittrici esaminate costituiscono “entità non integre, incomplete, sparse, non soltanto in virtù della quantità limitata di materiale critico generato, [ma per approcci stilistici] privi di alcuna pretesa di esaustività o di linearità” (697): narrative ibride fra generi e stili diversi, in grado quindi di scompaginare i sistemi di riferimento culturali 612 . ANNALI D’ITALIANISTICA 36 (2018) tradizionali. Ciò anche per una condizione di marginalità, quindi di distanza dal centro della produzione letteraria contemporanea, che consente certamente l’af- finarsi degli strumenti critici, la conquista di una visione più ampia e profonda del reale. Il libro di Serena Todesco individua con fedeltà, passione, e acutezza d’indagine, personalità intellettuali di sicura rilevanza; restano nella memoria del lettore, grazie anche ad ampi stralci dai romanzi esaminati, figure combat- tive e dolenti di “personagge” costrette ad affermarsi in un mondo violento ed implacabile negoziando faticosamente, ma instancabilmente, la propria identità Daniela Bombara, Università di Messina

Caterina Verbaro. Pasolini nel recinto del sacro. Roma: Giulio Perrone Editore, 2017. Pp. 240. Il volume di Caterina Verbaro analizza l’opera poetica, il cinema e l’ultimo romanzo di Pasolini, Petrolio, indicando come fil rouge la relazione con il sacro che il poeta identifica nel “Reale per eccellenza”, secondo una formula mutuata dallo storico delle religioni Mircea Eliade. Di fronte all’avanzare della società dei consumi e alla sparizione del mondo contadino, nell’Italia trasformata dal miracolo economico, il sacro contrassegna per Pasolini una dimensione dell’e- sperienza umana sottratta allo scambio utilitaristico e illuminata da una sorta di realismo creaturale, un sentimento di religiosa contemplazione della natura. Nessuna trascendenza, però, nessun orizzonte escatologico si apre su questa intuizione, che assolve una “funzione politica di opposizione alla cultura del Neocapitalismo” (21): “nessuna sacralità è possibile fuori dell’immanenza” (76), scrive Caterina Verbaro, “Pasolini esperisce il sacro dentro la realtà” (77). La sezione iniziale è dedicata alla poesia pasoliniana dai testi friulani delle origini, intrisi di lirismo di ascendenza ermetica, fino ad una raccolta come Trasumanar e organizzar, dove l’apertura linguistica e la mescidazione del lessico ricordano gli esperimenti coevi della neoavanguardia. Un percorso scandito in due momenti essenziali: nella prima fase, “tolemaica”, il “linguaggio letterario agisce come strumento insieme di rispecchiamento e di trasfigurazione mitica, di documentazione antropologica e di mitizzazione sacrale” (25). Si tratta della stagione che dalla “libertà stilistica” (è il titolo di un saggio su “Officina”), ade- rente ai principi rastremati del novecentismo, si protende nelle Ceneri di Gramsci (1957), dove i modelli formali sono dislocati dentro un orizzonte pre-novecen- tesco (Pascoli, Carducci). In questa fase sussiste inalterata la convinzione della purezza e della alterità del messaggio poetico. Nelle Ceneri di Gramsci risulta stabilizzato il nesso tra “istanze discorsive e soggettive da una parte, e dall’altra Italian Bookshelf . 613 un ampio quadro di istituzioni metriche e formali”: lo “schema metrico preva- lente, proprio di otto poemetti su undici”, è costituito dalla “scansione strofica in terzine di endecasillabi [. . .] secondo una linea che associa Dante ai Poemetti pascoliani”, cui devono affiancarsi in alcuni segmenti “la strofa di novenari della tradizione tardo-ottocentesca” (L’umile Italia) o i “distici martelliani di Recit” (45). La successiva fase “copernicana”, che si apre sulla “mutazione antropo- logica” degli anni Sessanta, appare contraddistinta invece dall’immersione nel “magma” e dalla dispersione della lingua della tradizione poetica, che viene ibri- data dai gerghi sociologici, burocratici e tecnico-scientifici del neo-capitalismo trionfante. L’immersione nel magma comporta la distruzione della metrica e della sin- tassi, generalmente caratterizzata nelle Ceneri di Gramsci da ampia e marcata ipo- tassi e dal ricorso a tecniche espressive che sono proprie del cinema. La forma tipica di questa nuova fase è lo sceno-testo, un neologismo con cui si definisce “un’opera poetica che trova il proprio necessario compimento in un’integrazione visiva e cinetica operata dal lettore” e la cui struttura “non può prescindere da questo superamento della bidimensionalità propria del tessuto verbale” (123). L’intervento teorico che meglio chiarisce questa nozione si intitola significativa- mente La sceneggiatura come “struttura che vuol essere altra struttura”, un articolo del 1965 in cui Pasolini afferma la centralità di un modo espressivo che stringe intimamente la parola all’immagine, il codice verbale al codice iconografico. Posta sotto il segno della conversione al cinema, la poesia pasoliniana non abbandona l’originaria tensione metastorica (“La Poesia si identifica per Pasolini col sacro”, 23), ma rinnova tecniche e forme della rappresentazione. Lo sceno-te- sto si avvale di una serie di procedimenti compostivi (il montaggio del materiale verbale in sequenze alternate, il collage, la polifonia delle citazioni e dei rimandi ipotestuali) che si trovano già compiutamente declinati nella raccolta Poesia in forma di rosa, dove peraltro il legame con il lavoro della cinepresa è sottolineato anche dal poemetto Poesie mondane, una sorta di taccuino di pensieri trascritti durante la lavorazione del film Mamma Roma. Con Trasumanar e organizzar, “una raccolta che istituzionalizza l’oltrepassamento dei codici letterari” (143), il poeta sigla la sua abiura della poesia. Documenta con eccezionale precisione la nuova poetica pasoliniana un testo come Patmos, definito dallo stesso Pasolini un “oratorio” sulla strage di Piazza Fontana (12 dicembre 1969), il tragico evento che diede inizio in Italia alla cosiddetta strategia della tensione e agli anni di piombo. Il “referto della strage” che riproduce, “nel linguaggio della cronaca giornalistica, i dati anagrafici delle vittime” (146), si intreccia con la dimensione autobiografica (segmenti diaristici, invettiva politica) che a sua volta è ritmata 614 . ANNALI D’ITALIANISTICA 36 (2018) dal “controcanto sacrale realizzato attraverso il riuso del libro dell’Apocalisse dell’evangelista Giovanni” (145), cui rimanda lo stesso toponimo nel titolo (l’evangelista Giovanni venne esiliato nell’isola di Patmos.) In Transumanar e organizzar Pasolini ha abraso “ogni marcatore della lingua poetica”, inventando “la fortunata mescidazione del giornalismo di poesia” (176), al prezzo di una consapevole rinuncia allo stile, cioè a quel sistema di moduli linguistici e rife- rimenti ritmici e figurali che mette tradizionalmente in rapporto l’espressività individuale con una tradizione storica. Abiura dello stile, dunque, e abiura dell’identità. L’ultima parte del saggio di Caterina Verbaro approfondisce questa prospettiva prendendo in esame le pagine incompiute di Petrolio (pubblicato postumo nel 1992), “archetipo della narrazione postmodernista italiana” nel segno “del doppio, del molteplice, dell’ibrido” (185). L’abuso di una lingua di seconda mano (brani giornalistici, pamphlet, citazioni letterarie da Apollonio Rodio, Norman Brown, Dostoevskij) mira a diluire il flusso lineare della narrazione in una dilatata pancronia, un pre- sente metastorico che è la somma di ogni presente e dà forma al tempo del mito. In quest’opera onnivora e disperata, quasi un testamento, il gesto stesso del rac- conto, scrive Caterina Verbaro, si oppone “come antidoto alla dissacrazione di cui la storia è artefice e di cui l’irrealtà del presente è prova” (214). Nel ritmo di una esposizione lucida e lineare, questo passaggio riconduce il lettore alle premesse del libro: “Pasolini esperisce il sacro dentro la realtà” (77). Il discorso critico di Caterina Verbaro, originale e saldamente coerente nel metodo di indagine, interpreta e rilegge la poesia pasoliniana (sulla pagina scritta o attraverso il cinema e il racconto) come il medium di quella relazione con il sacro, vertiginosamente antagonista e apocalittica, che Pasolini ha inscritto nella esposizione sacrificale del (proprio) corpo. Ugo Perolino, Università degli Studi “Gabriele d’Annunzio”, Pescara

POETRY & FICTION

Luigi Fontanella. Il dio di New York. Romanzo. Bagno a Ripoli, Firenze: Passigli Editori, 2017. Pp. 280. Il lettore attratto dal titolo non comune del romanzo di Luigi Fontanella​ — ​Il dio di New York ​— ​è invitato a non darsi pena per tentar di svelare all’istante chi sia questo nume, eponimo del romanzo, bensì è consigliato ad inoltrarsi nella sua lettura, come ho fatto io, catturato dal fascino del prologo di tre pagine che pone il lettore in contatto immediato con un “uomo” e offre, in medias res, la Italian Bookshelf . 615 visione quasi cinematica di lui, diretto “verso Times Square dopo aver trascorso l’intera giornata nella sala di lettura della New York Public Library” (9). Il breve preambolo che descrive l’agghiacciante viaggio a piedi in pieno inverno del ven- tottenne protagonista che si muove dalla biblioteca verso Brooklyn, definisce sinteticamente, quasi alla stregua di una mise en abyme, l’esistenza del protago- nista di questa storia accattivante per il suo portato sociale e umano e ne enu- clea il dramma (se non addirittura la tragedia): “Quest’uomo si chiama Pascal D’Angelo” (11). Si tratta in realtà di un personaggio storico, come anche i lettori più scettici e scaltriti possono verificare consultando i motori di ricerca elettronica, dove sarà altrettanto agevole reperire l’elenco degli scritti del poeta abruzzese. Il prologo annuncia altri elementi narrativi essenziali di questo romanzo, profondamente radicato nella temperie storica, che spingono il protagonista ad orbitare, prima quasi incosapevolmente e poi sempre più consciamente, verso New York e il “suo dio”. Così la Times Square diviene il simbolo della Grande Mela e la New York Library si fa cifra dell’amore per la lettura, lo studio, la poesia, vale a dire delle ambizioni culturali, letterarie e poetiche nutrite da Pascal D’Angelo. Questo è, a mio parere, il “Dio di New York” che, lentamente ma pervasivamente, diventa il perno e lo scopo unico della vita di Pascal. “‘Il Dio di New York ti sta mettendo alla prova [. . .]’”, dice al giovane Pascal Giorgio Vanno, uno dei suoi compagni di lavoro e suo mentore, mentre gli mette la mano sulla spalla per distogliere il giovane dal commettere un atto che gli avrebbe impedito di raggiungere ciò che si stava delineando come il desiderio dominante della sua vita: divenire scrittore e poeta (171). L’amico Giorgio Vanno che nella storia romanzata consiglia, segue e pro- tegge Pascal D’Angelo, è la proiezione narrativa del nonno (personaggio inven- tato) dell’autore stesso del romanzo, Luigi Fontanella, e costituisce il legame che connette​ — ​se non storicamente, senz’altro idealmente​ — ​Pascal D’Angelo e lo scrittore. Tale correlazione fittizia svolge un ruolo fondamentale nella storia perché non solo funge da trait-d’union fra gli immigranti Pascal, Giorgio Vanno e Luigi Fontanella, ma collega anche questi tre personaggi con tutti gli immi- grati passati, presenti e futuri della Storia, protèsi a raggiungere ideali presso- ché impossibili o perseguibili soltanto parzialmente, come testimonia la vita di Pascal D’Angelo. Pascal (in realtà Pasquale) D’Angelo nacque in Abruzzo a Introdacqua, a pochi chilometri da Sulmona, il 19 gennaio 1894. Emigrò negli Stati Uniti quasi analfabeta all’età di 16 anni e lavorò come manovale (“pick and shovel man”) in condizioni disumane assieme ad un piccolo gruppo di altri immigrati abruzzesi, 616 . ANNALI D’ITALIANISTICA 36 (2018)

fra cui anche il padre. Questi però dopo alcuni anni decise di ritornare in Italia, distrutto da quelle esperienze massacranti che relegavano gli immigrati sul più basso e brutale gradino del lavoro operaio e convinto che non solo non sarebbe mai riuscito a racimolare quattro soldi da mandare in Italia, ma nemmeno a rag- granellare quelli sufficienti per poter sopravvivere in America. Pascal rimane perché scopre la Grande Mela e contemporaneamente la sua vocazione alla lettura, alla cultura, alla poesia. Mentre la prima parte del romanzo, che segue il prologo (9–11) tratteggia la vita di Pascal nel suo paese natale (15–90) e la seconda i primi anni trascorsi nel Nordamerica (93–191), la terza lo ritrae mentre si avvicina a New York e poi cerca di non allontanarsene più (195–266). Con la descrizione della povertà del paese di origine sulle mon- tagne dell’Abruzzo, e dell’arrivo in America, segnata dai lavori logoranti degli immigrati abruzzesi, ogni pagina del romanzo carpisce l’attenzione del lettore per i disagi incredibili e le sofferenze spaventose di cui quei lavoratori erano gravati. La terza e ultima parte affascina per l’impegno puntiglioso di Pascal nell’apprendere l’inglese, i suoi esordi come poeta e l’ostinazione nel tener fede ai suoi ideali. La fama che finalmente gli sorride è breve ed in realtà non risulta essere il suo fine ultimo che consiste invece nella realizzazione piena e compiuta del Sé, in una totale e gratificante libertà espressiva. Infatti, nelle sequenze che concludono la narrazione, poco dopo l’incontro con Carl Van Doren, direttore del quotidiano The Nation (che comunica all’immigrante abruzzese d’esser stato vincitore di un premio di poesia e che da quel momento in poi potrà dedicarsi a ciò che ama di più), Pascal esclama: “Sì, ora potrò scrivere [. . .], come e quanto voglio, e ciò che voglio” (266). La voce di Luigi Fontanella che si fa sentire all’inizio e poi spesso nel corso della storia, emerge nuovamente nella “Nota dell’Autore” (275–76) in cui informa il lettore di quanto la narrazione sia storica (nella sua essenza) e inven- tata (nella ricostruzione di alcuni personaggi e circostanze), ragguagliandolo su quali siano state le fonti della sua ricerca. Lo scrittore Fontanella, che è anche eminente accademico, studioso e poeta, viene incontro alla legittima curiosità del lettore, aggiungendo al titolo di questo libro (Il dio di New York) un sottoti- tolo, Romanzo. Tale addendum compare solo in copertina, ma non subito dopo il titolo, bensì in fondo a destra, sotto la foto di uno di quegli altissimi pilastri che tutti noi abbiamo avuto modo di vedere in innumeri foto della New York primo- novecentesca e su cui spicca, quasi giubilante, un operaio in tuta​ — ​chissà? forse un emigrato italiano. Questa integrazione che appare sulla copertina ma non sul frontespizio ricorre più d’una volta nella “Nota dell’autore” che così conchiude il volume: “Ho scritto questo romanzo [. . .]” (275). Italian Bookshelf . 617

Questa non è solo la storia​ — ​narrata con un’eleganza e sobrietà descrit- tive che richiamano, nelle loro venature, le grandi pagine realiste e veriste​ — ​di Pasquale D’Angelo e del suo amore per New York e la poesia. Secondo chi scrive, essa è anche il percorso diegetico, sospeso tra realtà e fantasia, di Luigi Fontanella, anche lui emigrato, amante della cultura e poeta; ed è pure, in filigrana, la storia di tutti gli emigrati del mondo: di tutti coloro, cioè, che costretti a lasciare la propria terra e nutriti (prima di raggiungere la meta ma a volte anche dopo) di “fami, freddi e vigilie” (Purg. 29.37–38), vivono in nome di ideali diversi, anche se non sempre migliori o arrisi dalla sorte, da quelli perseguiti da coloro che restano nella terra nativa. Dino S. Cervigni, The University of North Carolina, Chapel Hill

Giuseppe Sgarbi. Il canale dei cuori. Milano: Skira, 2018. Pp. 163. Il quarto romanzo di Giuseppe “Nino” Sgarbi si snoda idealmente sulle sponde del fiume Livenza (l’altro paesaggio fluviale intensamente amato, oltre a quello del Po), piccolo Eden dell’entroterra veneto che siede, intatto nella sua bellezza, ricolmo dell’“azzurro effervescente del cielo”, popolato d’“olmi, salici e ontani accalcati sugli argini”, profumato “d’erbe selvatiche”, con “porte che si aprono e strade che non si sa dove portano [. . .]”, con “giorni che vibrano fino a stordire e notti gravide di stelle”, dove c’è un’ansa chiamata il Canale dei cuori (9). Nino, nonagenario scrittore dallo spirito giovane ed agile nel corpo affaticato dagli anni, è da poco rimasto senza la sua “stella”, la moglie Caterina, “Rina”, “bella di sguardi” e di “pensieri”, di “gesti” e di “sorrisi”, solare compagna di una vita che d’improvviso gli ha “fatto lo scherzo di confondersi all’azzurro” e di lasciarlo solo “troppo presto” (11, 151, 70, 76). La cara “voce”, che mai più potrà udire nel suo arco di vita, non riempie più la casa di gioia e tenerezza. La “tristezza” nell’“assenza” di lei lo avvolge piano, diviene parte del sé profondo, si fa unga- rettiano pianto muto d’un uomo che ha consegnato “l’anima alla notte” (36, 76, 137) ed accetta la perdita in una pena assorta; e quel dolore quasi recide il “filo” d’oro della scrittura​ — ​quel filo che la figlia Elisabetta, con dolce fermezza, lo ha incoraggiato a dipanare, per tessere in parole “la bellezza”. Nino non vorrebbe più scrivere, perché, nell’unicità del loro amore, Rina “era parola”, lui invece “silenzio” (123, 120, 23). Ma la malinconia per lui, avvezzo a misurarsi sin dalla giovinezza con le asperità di un percorso costellato da calamità storiche e naturali è, come nella lirica del Pindemonte, anche “ninfa gentile”, non soltanto fasciata delle vesti opache del “lutto”, ma pure dotata di un sereno senso pratico; è “una ragazza intelligente e sensata [. . ..] che sorride 618 . ANNALI D’ITALIANISTICA 36 (2018)

poco”, lo prende per mano e gli insegna che si può trasformare la più acuta delle sofferenze in radiosa, “abbacinante” creatività (36, 37, 51). Ancora una volta il “miracolo” si compie ed ha l’impeto gioioso d’un’epi- fania, la forza dirompente di un fiume in piena, su cui s’accendono “le luci dei ricordi” [. . .]. I contorni del reale sfumano, si dilatano e si sfaldano come gocce di pioggia” sui vetri (120, 51, 43) e ”ovattano [. . .] oggetti, volti e scorci” delle opere d’arte con cui Rina ha “inondato” per anni, la casa di “bellezza” (43, 24, 121). Un altro cosmo s’apre, “così vasto [. . .] che nessuno sguardo lo comprende tutto”. Le “parole” ritrovate “arrivano non si sa da dove [. . .], attraversano l’oriz- zonte dei pensieri alla velocità della luce”, cadono in “uno spazio aperto”, in “un tempo sospeso” (51, 62, 101); e la “scrittura” sboccia, trepidamente “donna”, di nuovo incanta e avvolge Nino nella “luce vaporosa” del suo abbraccio, “gelosa”, perché lo vuole solamente suo (67, 55, 68). Nel tempo non lineare della mente, “stagione magica” dove sono “i desideri, non gli orologi” a fissarne il fluire (25), lo scrittore, ridivenuto “giovane” e carico di sogni, si ritrova sul fiume (79). Lì, ad aspettarlo, c’è, come un tempo, Bruno, il fratello di Rina, umile e mite uomo di cultura che ha sempre rifuggito ogni schema precostituito, essendo in vita cultore di bellezza, ed ora divenuto ombra muta e ridente, custode del caleido- scopio d’aria, d’acqua e di luce del Canale dei cuori. Durante il suo percorso esistenziale Bruno, sensibile e profondo, è stato assai volte frainteso e s’è calato in una “solitudine” orgogliosa e schiva serbando, come in un sacrario, il valore dell’humanitas e della parola come “casa della verità” e rimanendo ad ogni costo per sempre “intellettualmente onesto e libero” (110, 104). Ed è a lui che ora appartiene a quell’“altrove” così coltivato in vita che Nino “dedica” le sue “pagine”: offerta votiva e sincera, struggente richiesta di perdono per non essergli “mai stato davvero vicino [. . .] nel modo del quale” il cognato avrebbe “avuto bisogno” (115, 104). È un tributo e un omaggio alla grandezza di Bruno, appassionato educatore di giovani, per il quale “insegnare era come donare il sangue: un gesto nobile, che salva la vita, ma al tempo stesso, debilita” (102). Bruno ha mostrato a Nino ed ai nipoti, Vittorio ed Elisabetta, che la bellezza più complessa può esser racchiusa nell’“effimera” architettura di “un fiocco di neve” e si nasconde nella “vita” stessa, così “fragile” eppure così “preziosa” fino alla fine, “come l’acqua” del [. . .] ”fiume” (71, 84, 38). Attraverso la pesca, passione per lunghi anni condivisa con Nino, Bruno gli ha fatto comprendere come in un’esistenza ben spesa le pause contino quanto il frenetico andare e che, per poter arrivare sino in fondo, è talvolta necessario “con- tare i giorni [. . ..], numerarli coi soli e con la pioggia”, nel seno di un otium che Italian Bookshelf . 619 nutra “i pensieri [. . .] lasciandoli [. . .] liberi di prendere forma, senza pressioni, compromessi, condizionamenti” (101). Bruno, che riesce “a vedere quello che gli altri non vedono” e a “sentire quello che gli altri non sentono” (69), mostra a Nino la soglia oltre la quale la mente può tornare all’“infanzia”, dove il bambino d’un tempo ritrova intatta ad aspettarlo l’“intensità” di “emozioni” che “sanno [. . .] di carezze di felci e narcisi [. . .], di lana di pioppo che vortica lenta, come la neve nelle palle di vetro; di fichi rubati sugli alberi, di noci aperte contro il guscio di altre noci, di uva fragola strappata ai filari arrossati d’autunno [. . .], di lucciole in processione tra rovi di more e ginepro” (80). A Bruno, raffinato cultore di poesia (ma che, memore dell’epitaffio di Keats, ha preferito scriverla sull’acqua), Nino può ora dire che Rina ed i suoi figli sono stati per lui l’incarnazione poe- tica più alta e completa: “Ho sempre amato la poesia, Bruno, fin da quando ero bambino [. . .]. L’ho amata e l’amo, così tanto che non ho mai provato a scriverla [. . .], perché lei è il cielo più alto della scrittura, mentre io non sono che un nar- ratore di pianura. Lei è aria, io terra; lei eterna, io mortale; lei tutto, io nulla [. . .]. Non l’ho mai scritta, è vero, ma ho avuto la fortuna di incontrarla, conoscerla e viverla. L’immensa fortuna di amarla e quella ancora più grande di esserne ricambiato. Aveva il nome di tua sorella, il suo sguardo, il suo sorriso [. . .]. La Rina è stata inchiostro per la mia carta e io pagina per i suoi pensieri. E Vittorio e l’Elisabetta, le nostre poesie più belle” (110, 139). Stupenda dichiarazione che travalica infinite distanze e s’incastona come fulgida gemma nel mosaico della narrazione: inno alla forza e alla poliedricità muliebre di Rina che l’autore ha sempre rispettato ed ammirato e mai costretto o immiserito in un’angusta brama di “possesso” (129). Poco prima che il suo libro uscisse dalle stampe, Nino, che, “fingendo” di “pescare” tra i ricordi, aveva silenziosamente “cucito”, trama dopo trama, l’acqua del “fiume” con il “cielo” turchese del canale (133), ha furtivamente seguito la dolcezza degli occhi di Rina, rilucenti come stelle d’agosto nella costellazione “d’Orione” (163); ed è “salpato”, sul suo “veliero di parole” (149), lasciando nella sua scrittura chiara, sorvegliata e profonda una preziosa eredità a chi lo ha amato, conosciuto o semplicemente ammirato, ed offrendo un dono di dedi- zione “senza condizioni” alla sua famiglia, alla sua terra ed all’età travagliata in cui s’è trovato a esistere (32). A chi scrive piace pensare che l’anima fanciulla e luminosa di Giuseppe Sgarbi di tanto in tanto sosti ancora sul fiume, dopo aver inseguito col “retino [. . .] un volo di farfalle colorate” (76) e che poi lievemente riposi, come nel desiderio espresso dai versi che adornano, come acqua increspata, la prosa de Il canale dei cuori: ”Vorrei restare qui./ Placidamente./ Addormentarmi / in 620 . ANNALI D’ITALIANISTICA 36 (2018)

braccio a questa sponda,/ tra salici e pioppi cipressini,/ cullato dallo sciabordio dell’onda” (59). Olimpia Pelosi, State University of New York at Albany

Angelo Spina. Il cucchiaio trafugato. New York: Bordighera Press, 2017. Pp. 171. Angelo Spina’s unique novel, Il cucchiaio trafugato (The stolen or lost spoon), starts in where the main character, Adriano, is in search of a pre- cious Etruscan spoon that his grandfather, nonno, accidentally found under an apple tree in Italy. The handle of the spoon features a female face with myste- rious eyes and intriguing pupils, along with an image of a circle. Close scrutiny reveals that the image is a snake biting its own tail, an uroboros, which is a symbol of creation common in many primitive cultures. Adriano’s casual encounter on a bus with Hester, a beautiful woman of Italian origin, leads the two of them to the Etruscan room in the Metropolitan Museum in Manhattan. Although there is a sign for the Etruscan spoon, it is missing from the display. Why? What happe- ned? Did somebody steal the spoon? Where is it now? The mystery of the spoon follows us throughout the anecdotes and stories narrated in the novel mainly by Adriano’s grandfather, the finder of the spoon. Hester and Adriano are soulmates from the beginning. Hester has an Italian grandmother, nonna, who is a huge fan of Billie Holiday, an American icon, and Abel Meeropol, composer of “Strange Fruit,” her signature song. Like Adriano who used to sit in the garden listening to his nonno talk about the war in Italy, Hester would sit every day at the table close to the window and listen to her nonna talk about American history: “Ascoltando la nonna, Hester aveva impa- rato a scoprire e poi a seguire gli itinerari che la storia ufficiale voleva fossero ignorati” (17). The grandparents are storytellers who not only transmit their firsthand experiences to their grandchildren, but also teach the “unofficial” history not recorded in books. We learn about people working on assembly lines in factories and walking the streets wearing sandwich boards of advertisements, as well as about Mafia killings and killings of the enemies during the war in Italy. Thus, the novel comprises hundreds of vignettes, each labeled with an expres- sive title that reflects the content. Adriano’s and Hester’s encounter could have turned into a love affair sooner had he not received a letter from his sister, Angelica, urging him to return to Italy at the request of his beloved grandfather: “Poi ho anche capito che secondo lui il cucchiaio si troverebbe ancora dalle nostre parti e che tu dovresti riprendere la Italian Bookshelf . 621 ricerca proprio da qui, da dove è scomparso. Quindi vuole che tu ritorni” (36). However, the spoon is nowhere to be found in Italy. Adriano’s search for the lost spoon goes on for years. At the end, he returns to New York City at his nonno’s request and visits the Metropolitan Museum again. The sign for the Etruscan spoon is there, but the display is still empty. Nothing has changed since his last visit. Adriano has a date with Hester on September 11, 2001, one of the most tragic days in American history. Unexpectedly, the city that never sleeps comes to a complete stop. Adriano is on Seventh Avenue when he suddenly realizes something terrible has happened: “Lui vide per la prima volta in vita sua l’ef- fetto della paura negli occhi della persona che ti sta accanto e ti guarda come tu guardi lui e capisci che lui sta vedendo la sua paura riflessa nei tuoi occhi. Ma se qualcuno in quel momento gli avesse chiesto di cosa aveva paura lui non glielo avrebbe saputo dire; aveva paura, una paura atavica, una paura che ognuno porta con sé sepolta da tanti secoli di storia [. . .]” (161). There is an eerie silence around him, except for the radios that keep tran- smitting before the sirens go off. Miraculously, Hester finds Adriano and they run off to Central Park. Adriano’s passion for Hester is about to overtake him. At the end, they will just hold hands until the sirens stop. Adriano receives another letter from his sister Angelica that finally solves the mystery of the lost spoon. Nonno is gone now, but Angelica has found the spoon in his bedside table along with a note: “Fra pezzi di spago, un cucchia- ino con il manico arruginito, quattro carte da gioco, due cartoline da New York con il tuo indirizzo, ho trovato un involucro di due fazzoletti bianchi non anno- dati” (167). The spoon had been there the whole time! Why did Nonno make Adriano go looking for it around the world when he had it right there? I guess we are all looking for an Etruscan spoon, or something else, before eventually realizing that what we are looking for is right in front of our eyes. An interesting aspect in Il cucchiaio trafugato is the intertextual references to famous Italian writers, such as Dante and Italo Calvino. In one of nonno’s diary entries la selva oscura, an obvious reference to Dante, is mentioned several times. Like Dante, Nonno is lost, but nobody will come to save him: “Non arriverà nessuno. Nessuna voce roca mi dirà quale via seguire” (153). Another one of Nonno’s entries recalling Calvino, “Non una notte d’inverno,” features a trave- ler​ — ​un viaggiatore​ — ​who arrives in a small town in Italy “non necessariamente in una notte d’inverno” (144). Obviously, one has to be familiar with Italian lite- rature in order to catch these subtleties. 622 . ANNALI D’ITALIANISTICA 36 (2018)

Il cucchiaio trafugato embraces countries and generations. It shows that life is a journey in constant movement and change, in which generations come and go. As Nonno puts it: “Forse solo gli angeli possono ritornare; solo loro si possono girare e volgere lo sguardo verso il punto d’origine [. . .]. Noi invece ci troviamo su questo battello disancorato, ormai ubriaco” (171). Thanks to narrators such as Nonna and Nonno, the past and the present intertwine in Spina’s novel, in which not only history, but also literature come alive as we get glimpses of both Italy and America. In the end, there is only one world and we are all somehow connected to each other in some mysterious way. Katja Liimatta, The University of Iowa

Grazia Verasani. Quo Vadis, Baby? New York: Italica Press, 2018. Pp. 164. Quo Vadis, Baby? is a very successful crime novel by the Italian writer Grazia Verasani, the first of the five so far published in the private eye series featuring Giorgia Cantini (the last one appeared in 2015). Published first in 2004 by Colorado Noir, a publisher specializing in crime fiction, the book was subse- quently adapted into a movie in 2005 by the Academy-award-winning Italian filmmaker Gabriele Salvatores. In 2006, a spin-off TV mini-series was produced by Colorado film and SKY cinema, a branch of the popular pay TV channel SKY. In both movie and TV productions, the protagonist was played by the well-k- nown Italian rock artist Angela Baraldi, an excellent choice for embodying the uneasy and dichotomous personality of Giorgia​ — ​pugnaciously feminist while secretly harboring a very sensitive and romantic heart. In 2007, the novel was reprinted by Mondadori, (whose edition I am using for this review) and in 2014, it appeared in Feltrinelli’s popular collection of the Tascabili. It is very rare for a novel, written by a female author (and, furthermore, with a female protagonist), to enjoy all this success in Italy. It was translated into French in 2006 by Métailié Éditions, and it is a delight to see it appear in English, published by Italica Press with the admirable translation by Taylor Corse and Juliann Vitullo (other novels of the series have also been translated into French and German). When trying to unravel the national and international success of Quo Vadis, Baby?, along with the continuing popularity of the series as a whole, the first thought that comes to mind pertains to the novel’s two fundamental elements: the character of the protagonist Giorgia Cantini, and the sense of place which is the city of Bologna, where Verasani is originally from, and where she still lives as the singer-actress Baraldi. Cantini’s personality makes the character surprisingly rich and interesting, attuned to the most recent developments of Italian feminist Italian Bookshelf . 623 thought (we will see how and why). It is natural to compare Giorgia with the heroes of the American feminist crime fiction created by successful writers such as Sara Paretsky and Sue Grafton. In fact, there are notable similarities and dif- ferences between Giorgia and Paretsky’s private investigator V. I. Warshawski, protagonist of the homonymous series approaching its fortieth anniversary with already seventeen books out. This parallel seems even more justified based on the blurb that Paretsky herself authored for the present edition of Quo Vadis. For both writers, the urban landscape where their heroine carries out her adventures is crucial; indeed, Chicago and Bologna become two additional protagonists in the respective series. We could even say that the personality of both investiga- tors is somehow shaped by their relationship to the cities. The harsh, industrial landscape of South Chicago, along with the dry and soulless Downtown (where the individual seems not to have any right to citizenship), play a prominent role in determining Warshawski’s defiant behavior and righteousness. She is truly the hero of the defenseless whose rights are trampled daily by the powerful. Bologna appears, instead, as a friendlier, more human metropolis, where the ghosts of the unachieved revolution of the Seventies still meander through the city’s famous arcades. Giorgia repeatedly expresses regrets about the current decadence of her hometown: celebrated for its artistic and cultural life, with the oldest university in the world at its epicenter, it has meanwhile undergone a gentrification pro- cess which has dangerously affected its customary welcoming soul (evident, for instance, also in the rich gastronomic tradition). While Paretsky seems to establish a pattern for Warshawski’s investigations from the very beginning with the way in which business and criminal organiza- tions’ interests often brush up against each other, Giorgia’s virtual number one enemy becomes her city’s very transformation into an insensitive and lifeless bourgeois organism. In this sense, it seems that, with QVB, Verasani sets the stage for a show that will develop further in her following novels. Giorgia does not seem to fight against any concrete interests, as does Warshawski. She is in fact maybe more in tune with the tradition of French noir represented by Georges Simenon’s commissaire Maigret or Léo Malet’s Nestor Burma P. I., challenging the hypocrisy and immorality that this lifestyle invariably brings about. Her struggle appears thus to be more a moral conflict, and the final objective of her investigations is the restoration of a sense of righteousness lost in the tide of social changes (as opposed to the “mythical” Seventies). For this reason Verasani seems to be the fitting heir to the long Italian tradition of the so-called mora- listic writers of the twentieth century, among whom are authors as important as Leonardo Sciascia (another crime-fiction author), Vitaliano Brancati, Ennio 624 . ANNALI D’ITALIANISTICA 36 (2018)

Flaiano, etc. Nonetheless, the openly feminist ideology expressed by Giorgia cle- arly echoes the same beliefs as Paretsky’s and Grafton’s protagonists, a route that has also been recently taken up by Valeria Corciolani, another talented Italian writer. As for the translation, I have already made a brief allusion to the excellence of the two translators’ work. One memorable aspect of Verasani’s style is the abundance of idiomatic expressions she employs to make her characters sound more genuine. However, her striving towards the mimesis of spoken language makes the translators work more challenging as a couple of examples will show. To describe Giorgia’s movement through a hedge in the cemetery to reach her sister’s grave (Ada’s mysterious death is at the center of Quo Vadis’s plot), Verasani uses the regional verb ravanare which can loosely be rendered as “rum- maging through”: “Ravano dentro una siepe di lauroceraso e mi apro un varco a suon di bracciate” (9). Taylor and Vitullo artfully translated: “I trash inside a laurel hedge and noisily my way through” (3). In another passage from a dialo- gue between Giorgia and Frank at the Chet Baker Club, when Frank points out a patron sitting at the bar as the new boyfriend of his former girlfriend, Giorgia expresses her discomfort saying: “Frank, non per farmi i fatti tuoi,” (17), which is well rendered as “Frank, not to be too nosy” (8). I hope that many readers will now have the opportunity to read Verasani’s masterpiece so well rendered by this skillful translation. Perhaps more of her work will become available in translation for publication in the United States and other foreign markets, and popular, modern Italian crime fiction will enjoy a wider circulation abroad. Enrico Minardi, Arizona State University

BRIEF NOTICES

Muhsin J. Al-Musawi. The Medieval Islamic Republic of Letters. Arabic Knowledge Construction. Notre Dame (IN): University of Notre Dame Press, 2015. Pp. 449. In this book Al-Musawi documents and examines the literary heritage of the Islamic Near East and South Asia during the Islamic medieval and pre-modern period (from the fall of Baghdad in 1258 to the collapse of the Ottoman Empire in 1919). The comprehensive study challenges previously accepted historical notions and norms of thought that regarded the period as lacking in intellectual and literary vibrancy. The “Preliminary Discourse: Khutbat al-kitāb” (1–20), Italian Bookshelf . 625 which is akin to an introduction, is followed by eight chapters, a color gallery of figures printed between chapters 4 and 5 (between pages 146 and 147), a “Conclusion: Al-Kātimah” (305–12), an Appendix: “Tīmūr’s Debate with Damascene Theologians outside the Gates of Damascus (803/1401)” (305– 12), Notes (323–92), Bibliography (393–424), and Index (425–49). The chap- ters are: Chapter 1: “Seismic Islamica: Politics and Scope of a Medieval Republic of Letters” (21–58); Chapter 2: “A Massive Conversion Site: The World Empire” (59–88); Chapter 3: “The Lexicographic Turn in Cultural Capital” (89–118); Chapter 4: “The Context of an Islamic Literate Society: Epistemological Shifts” (119–46); Chapter 5: “Superfluous Proliferation or Generative Innovation?” (147–74); Chapter 6: “Disputation in Rhetoric” (175–204); Chapter 7: “Translation, Theology, and the Institutionalization of Libraries” (205–44); Chapter 8: “Professions in Writing: Street Poetry and the Politics of Difference” (245–303).

Filippo Orioles. Il riscatto d’Adamo nella morte di Gesù Cristo. Edizione critica di Salvatore Bancheri con la collaborazione di Johnny L. Bertolio. Mineola (NY): Legas, 2015. Pp. 171. Con il ritrovamento della prima stampa documentata della sacra rappresen- tazione dal titolo Riscatto d’Adamo, risalente al 1750, il capolavoro di Filippo Orioles (1687–1793) si arricchisce ora di una solida base testuale. L’opera del drammaturgo siciliano, tuttora rappresentata in molteplici variazioni, viene qui stampata in una nuova edizione critica, destinata sia agli studiosi di teatro sia a un più ampio pubblico di lettori. Il riscatto, dopo secoli di successi sul palco- scenico, riconquista il suo posto anche in biblioteca, con l’ambizione di essere presto annoverato tra i classici della letteratura italiana. Presentazione (5), Introduzione (7–23), Nota filologica (24–27); il testo de Il riscatto d’Adamo nella morte di Gesù Cristo (28–171).

Frank Polizzi. A New Life with Bianca. Sonnets. Illustrated with engravings by Michael McCurdy. Italian translations by Chiara Curtoni. Sicilian translations by Nino Provenzano. Afterword by Anthony Di Renzo. New York: Bordighera, 2015. Pp. 48. A trilingual edition, this VIA FOLIO, vol. 102, contains nine love sonnets by the writer and editor Frank Polizzi: I: “There was this pale woman in a dark café” (2–5); II: “Felt like forever before seeing Bianca” (6–9); III: “My passion for Bianca never ended” (10–13); IV: “It just took a couple of seconds, that’s 626 . ANNALI D’ITALIANISTICA 36 (2018) all” (14–17); V: “There is a season for everything, so I’ve read” (18–21); VI: “Italians mastered the art of flirtation” (22–25); VII: “It was so real for Bianca, that I’m sure” (26–29); VIII: “The children were older and we sought our youth” (30–33); IX: “We dreamed for reunion in Paradiso” (34–37). The volume inclu- des an afterword by Anthony Di Renzo (39–44), as well as sections about the author (45) and contributors (47–48).

Ignazio Silone. Il seme sotto la neve. Edizione critica a cura di Alessandro La Monica. Firenze: Le Monnier Università, 2015. Pp. 758. Edizione critica, a cura di Alessandro La Monica, del terzo romanzo siloniano, “Il seme sotto la neve” (1942), realizzata sulla base di un dattiloscritto inedito conservato presso la Biblioteca Centrale di Zurigo. Corredato da numerose cor- rezioni autografe e accompagnato da un fitto carteggio tra l’autore e l’editore, il documento ci permette di risalire per la prima volta ai brani che dovettero essere espunti per disposizione della Censura elvetica. L’edizione presenta un apparato di note costituito da due fasce che registrano, rispettivamente, le varianti interne al dattiloscritto e quelle dovute all’evoluzione testuale che emerge dalle diverse edizioni a stampa. Completano il volume un’Introduzione e una Nota al testo, in cui si spiegano nel dettaglio la genesi e l’evoluzione testuale del romanzo, non- ché i criteri adottati nell’edizione critica. Parte prima, Edizione critica” (4–695); “Parte seconda, Commento” (697–753); Note e Bibliografia (755–58).

Lewis Turco. The Hero Enkidu. An Epic. New York: Bordighera, 2015. Pp. 100. The hero Enkidu is an important character in the epic of Gilgamesh. The poet Lewis Turco excerpts all those narratives concerning Enkidu, rival and best friend of the hero Gilgamesh. The book contains an introduction by Michael Palma (13–15). The Foreword by the author (17) is followed by a poetic “Prologue” (19) and eight cantos: Canto I: “Nimrod and Lilitu” (21–26); Canto II: “Erech” (27–35); Canto III: “The Betrayal of Lilitu” (37–42); Canto IV: “The Return of Enkidu” (43–47); Canto V: “The Forest of Humbaba” (49–55); Canto VI: “Ishtar’s Proposal” (57–63); Canto VII: “The Bull of Heaven” (65–70); Canto VIII: “The Death of Enkidu” (71–74), and a poetic “Epilogue” (75–77). The supplementary material at the end of the book includes the Afterword by the author (81–100) and information About the Author (101). Italian Bookshelf . 627

Valerio Ferme. Women, Enjoyment, and the Defense of Virtue in Boccaccio’s Decameron. New York: Palgrave Macmillan, 2015. Pp. 248. In this highly erudite and engaging study, Valerio Ferme seeks to analyze the Decameron through what he defines the three levels of Boccaccio’s narrative: the Proem, the overarching story, and the tales narrated by the storytellers. The volume contains an Introduction (1–11); Ch. 1, “Galeotto: A Prologue by Way of the Proem” (13–25); Ch. 2, “Contested Interlude: The Plague” (27–46); Ch. 3, “Pampinea’s ‘Honorable’ Leadership” (47–86); Ch. 4, “Sicurano da Finale and Paganino da Mare: Of Corsairs, Merchants, and Identity in the Late Middle Ages” (87–108); Ch. 5, “Giletta of Narbonne: Chastity and Matrimony on the Day of Sexual Excesses” (109–36); Ch. 6, “‘Love and Death’: Male Authority and the Threat of Violence Under Filostrato’s Rule” (137–60); Ch. 7, “Fiammetta’s Revolution: Honor, Love, and Marriage in Day V” (161–90); “Conclusion” (191–96). Extensive notes for each chapter (197–224), the list of works cited (225–38), and the index of critics, textual loci, and important matters (239–48) conclude the book.