I 100 anni di , l’attore simbolo di un’epoca che fu la perfetta maschera dell’italiano medio e che, oggi, sembrerebbe un esempio di virtù

Cento anni fa, il 15 giugno 1920, nasceva a Roma, per la precisione nel rione di Trastevere, Alberto Sordi, ultimo figlio di Pietro Sordi, professore di musica e strumentista, e Maria Righetti, insegnante elementare.

È considerato, insieme a , e , uno dei “4 Mostri della commedia italiana”, o anche uno dei “4 Colonelli” dello stesso genere.

Di sicuro, dei quattro era il più popolare e vicino alla gente. Meno sornione di Tognazzi, meno impegnato di Gassman, meno eclettico di Manfredi, Sordi fu, nei 200 film che interpretò nella sua carriera, la vera maschera dell’Italiano medio, la cartina tornasole dei nostri tanti vizi e delle nostre poche virtù.

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Nessuno come lui riuscì ad impersonare i vizi, i tic, le manie, le idiosincrasie degli Italiani dal dopoguerra fino al boom economico; di un popolo che in poco più di venti anni era passato dalla dittatura alla democrazia, dalla guerra alla pace, dalle macerie alla ricostruzione, da un’economia prevalentemente agricola ad una industriale, dalla fame degli anni ’50 all’abbondanza, anzi al boom, degli anni ’60.

Attore molto fisico, Sordi cominciò fin da giovanissimo a mostrare talento per le arti: alle elementari mise su un teatro di marionette e cantò come “soprano” nel coro di voci della Cappella Sistina, fino alla precoce trasformazione della sua voce, che diventò quella di un “basso” e che caratterizzerà tutta la sua futura carriera. https://www.youtube.com/watch?v=m76AKgtdQzs&t=80s

Al 1937 risale la sua prima esperienza con Cinecittà ed il cinema; fu infatti una delle comparse nel film “Scipione l’Africano” e, sempre in quell’anno, vinse il concorso della Metro-Goldwyn-Mayer che cercava una voce che potesse doppiare Oliver Hardy, componente del famosissimo duo comico Stanlio ed Ollio.

Il doppiaggio contrassegnò l’inizio della sua carriera, sua la voce di importanti film come “La vita è meravigliosa” (1946), “Ladri di biciclette” (1948) e “Prima comunione” (1950). Diverse le esperienze nel teatro e nella rivista. Benché arruolato nel 1940 nella banda musicale del Regio Esercito Italiano, è proprio durante la guerra che concentra il meglio della sua attività teatrale, che si concluderà con la stagione 1952-53.

Ma il medium che lo renderà famoso e lo avvicinerà al cinema sarà la radio, dove lavorerà dal 1946 al 1953.

Poi arriverà il cinema che, dopo alcuni ruoli minori in una ventina di pellicole, lo porterà a lavorare da subito con grandi maestri, a cominciare da Federico Fellini, che prima lo dirigerà nel surreale “Lo sceicco bianco” (1952) e poi nei “Vitelloni” (1953), che gli regalerà una certa notorietà ed ottime critiche. Ma è il sodalizio artistico con Steno che lo renderà famoso presso il grande pubblico: su tutti sarà “Un americano a Roma” del 1954, dove interpreta il Ferdinando “Nando” Mericoni, borgataro romano ossessionato dalla cultura pop americana.

Poi verranno oltre 150 film girati da protagonista, che lo renderanno l’attore più amato dalle masse. Alla critica nostrana non andò mai particolarmente a genio: probabilmente il motivo principale era da ricercare nel fatto che mostrandoci il perfetto prototipo di “italiano medio”, ma anche le “dinamiche del potere” e le “egemonie di una certa classe dirigente”, molti critici faticavano a comprendere, e il più delle volte se ne risentivano, le interpretazioni caustiche ed irreverenti di alcuni memorabili personaggi di Sordi. https://www.youtube.com/watch?v=zFLlQfxrtBk

Eppure oggi, a distanza di 100 anni dalla nascita e a 17 anni dalla morte, avvenuta nel 2003, sentiamo un vuoto incolmabile, che il cinema contemporaneo non ha saputo riempiere adeguatamente e avvertiamo forte il fatto che, ad eccezione di , la sua immensa eredità non sia stata adeguatamente raccolta.

Alberto Sordi fu senza alcun dubbio il principale interprete della commedia all’Italiana; i suoi personaggi, benché profittatori, meschini, vili, cialtroni, oltre ad essere simpaticissimi mantengono una grande umanità con la quale è impossibile non empatizzare. Pensiamo ai ruoli che interpretò a cominciare dagli anni ’60, quando alcuni registi illuminati e visionari capirono che la maschera di Sordi era perfetta pure per il registro drammatico. Primo della serie è sicuramente “La Grande Guerra”, del 1959, di Mario Monicelli, che lo affianca ad un romano, d’adozione ma doc, come Vittorio Gassman, un film nel quale Sordi interpreta il soldato pavido ed imboscato Oreste Jacovacci, che il contesto storico e una lenta ma inesorabile presa di coscienza porteranno a diventare un vero eroe.

Od ancora il disilluso sottotenente Innocenzi di Tutti a Casa del 1960, di Luigi Comencini; od ancora il giornalista idealista ed impegnato Silvio Magnozzi di “Una Vita difficile”, capolavoro del 1961, di Dino Risi; o il disperato imprenditore Giovanni Alberti del cinico e crudo “Il Boom”, del 1963, di , film sottovalutato che parla a noi oggi, forse ancora di più di quanto non facesse all’epoca, di debiti, apparenze e capitalismo parassitario; od ancora il medico senza scrupoli disposto ad ogni compromesso pur di fare carriera Guido Tersilli de “Il medico della mutua” del 1968, di Luigi Zampa, un personaggio talmente ben riuscito ed amato dal pubblico da tornare un anno dopo nel sequel “Il prof. dott. Guido Tersilli primario della clinica Villa Celeste convenzionata con le mutue” di Luciano Salce. https://www.youtube.com/watch?v=hLMF8nsTriU

O, andando avanti, pensiamo ad alcuni memorabili ruoli che interpretò negli anni ’70, primo fra tutti il tragico e disperato Giuseppe Di Noi del kafkiano “Detenuto in attesa di giudizio”, del 1971, di Nanni Loy, ruolo che varrà a Sordi l’Orso d’Argento al Miglior Attore al Festival di Berlino del 1972; fino ad arrivare a quello, che quasi tutti ritengono il vertice della sua capacità recitativa, del modesto impiegato, prossimo alla pensione, Giovanni Vivaldi, che si trasformerà in un sadico e risoluto giustiziere per vendicare la morte dell’amato figlio, avvenuta durante una rapina, nel capolavoro di Mario Monicelli “Un borghese piccolo piccolo” del 1977, che varrà a Sordi la vittoria sia del Nastro d’Argento che del per il Miglior Attore; film epocale che segna, per molti critici e storici del cinema, la fine della commedia all’italiana.

Poi ci saranno tantissimi altri film, 19 dei quali anche da regista, come il primo “Fumo di Londra” del 1966; il melanconico omaggio al teatro di rivista “Polvere di Stelle” del 1973; il crudo e cinico “Finché c’è guerra c’è speranza” del 1974; l’irriverente e dissacrante “Le Vacanze intelligenti” del 1978, dove l’Albertone nazionale si scaglia contro un certo tipo di establishment culturale tipico di quegli anni, ma presente ancora oggi.

E poi ci sarebbero “Io e Caterina”, “Il Marchese del Grillo”, “Il Tassinaro”, “In viaggio con Papà”, “Tutti dentro” e tanti, tantissimi altri film che nessun articolo, tantomeno questo, possono elencare esaustivamente. https://www.youtube.com/watch?v=SbNxE-7g_1c

Insomma, un attore straordinario ma pure un regista, un doppiatore, un autore e presentatore radiofonico e televisivo, un attore di teatro, un cantante, insomma un artista vero ed a tutto tondo, capace come pochi altri di dare corpo e volto alle idiosincrasie dell’italiano medio dagli anni ’50 agli ’80.

Un italiano pieno di vizi e con pochissime virtù, ma in fondo umano e generoso, un italiano medio di cui sentiamo la mancanza soprattutto oggi, quando il radicalismo politico, sociale e culturale del nostro Paese ha prodotto un italiano medio ben peggiore: populista, razzista, misogino, omofobico e corrotto tanto che, a confronto, i personaggi di Sordi, che vi invitiamo a riscoprire, ci sembrano, se non proprio esempi da seguire, di sicuro ben altra pasta di “mediocri”, che oggi potrebbero essere addirittura scambiati per “uomini virtuosi”.

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I film italiani sulla Liberazione

Una data di straordinaria importanza per il nostro Paese, mai come quest’anno tornata di moda in periodo di quarantena forzata, causa Coronavirus. Eppure quel benessere, del quale oggi godiamo, quella democrazia tanto agognata e sperata, affonda le sue radici in quel 25 aprile simbolico del discorso di Sandro Petrini, pochi giorni prima che quel 2 maggio 1945 le forze alleate entrassero a Berlino, ponendo così fine alla seconda guerra mondiale.

“Cittadini, lavoratori! Sciopero generale contro l’occupazione tedesca, contro la guerra fascista, per la salvezza delle nostre terre, delle nostre case, delle nostre officine. Come a Genova e a Torino, ponete i tedeschi di fronte al dilemma: arrendersi o perire”

Il cinema italiano non si è poi, risparmiato nel raccontare quegli attimi di speranza, di ribellione di un popolo che voleva rinascere, che voleva riprendere la propria vita in mano, pur senza scordare il sacrificio, di uomini, resi eroi dalle circostanze, in nome del futuro della propria Patria e dei propri figli.

Quella “Liberazione” ricordiamo, non avvenne in maniera unitaria in tutta Italia, ma ebbe inizio da quel famigerato 8 settembre 1943, nel quale l’Italia cambiò schieramento firmando l’armistizio con le Forze Alleate, inglesi, francesi, americane e russe, riprendendo la guerra contro l’oppressore nazi- fascista. Fu una Liberazione graduale, dalla Sicilia a salire.

Il gioiello da tesaurizzare, su tutti, che meglio descrive quei momenti è “Tutti a casa”, del 1959, di Luigi Comencini, che inquadra perfettamente il caos di quei giorni, attraverso l’interpretazione memorabile di Alberto Sordi, il quale veste i panni del sottotenente Alberto Innocenzi, il quale vede squagliarsi la sua compagnia e si mette in marcia verso casa. Visto deportare un compagno dai nazisti, dopo la fuga dal padre (Eduardo De Filippo) che lo vorrebbe arruolato nell’ R.S.I., giunge a Napoli col soldato Ceccarelli (Reggiani) decidendo da che parte stare e cominciando a sparare contro i tedeschi: sono le quattro giornate di Napoli, quelle dal 24 settembre al 28 settembre 1943, quella ribellione del popolo napoletano che portò alla liberazione della città partenopea. Aiutato da un Alberto Sordi a dir poco sublime, conciliando felicemente il tono umoristico con quello drammatico, Comencini contribuisce a spezzare il muro di silenzio calato negli anni ’50 sulla Resistenza, affrontando con efficacia, e ottima precisione storica, un momento cruciale della nostra storia, accuratamente ignorato dal cinema italiano fino a quel momento.

Arriva, dunque il periodo in cui tutta l’Italia è in attesa dell’arrivo delle truppe Alleate, che significa Liberazione dall’oppressore nazi-fascista e la fine della guerra. Il sud-Italia viene già liberato all’alba del fatidico 8 settembre 1943. A Napoli la Liberazione avviene il 28 settembre di quello stesso anno, al termine delle storiche “Quattro giornate di Napoli”. A Roma gli Alleati sarebbero entrati solamente il 4 giugno del 1944, dopo una strenua resistenza tedesca lungo la linea di Gurov, o definita anche Caesar, posta nella zona poco sopra Anzio, dove avvenne lo storico sbarco, che insieme a quello di Norimberga, ha deciso l’esito della seconda guerra mondiale. La Liberazione significava commozione, democrazia, libertà, fu una gioia per tutti.

Film come “Napoli milionaria” (1950), nato dalla penna artistica di Eduardo De Filippo, descrivono alla perfezione il sentimento di rinascita del popolo italiano. La voglia di ricostruire, la voglia di raccontare gli scempi della guerra, per costruire un mondo migliore per i propri figli. L’alba di un giorno nuovo, la speranza di una ricchezza d’animo e di una stima reciproca ormai persa. La speranza, il senso della commedia stessa è un messaggio che Eduardo, dapprima rivolge alla sua Napoli ma che poi varca il confine, arriva al mondo, a tutti coloro che hanno subìto e che aspettano che passi la notte.

Altro ritratto magnifico, che ci ricostruisce l’eroismo italiano in chiave “Liberazione” è quello de Il generale Della Rovere (1959), pensato e scritto per Vittorio De Sica, che interpreta magistralmente la figura di un imbroglione che durante la guerra finisce in prigione sotto le mentite spoglie di un generale dell’esercito italiano. Alla fine, l’imbroglione riscatterà la sua misera vita andando a morire con grande dignità, come se fosse veramente il generale Della Rovere, non rivelando importanti notizie che avrebbero messo in serio pericolo di vita partigiani e gente civile.

CI sono altri momenti di storia Patria sulla Liberazione destinati a rimanere nella storia. Uno dei migliori a cogliere gli attimi di attesa che culminano nella gioia della Liberazione è “Il cambio della guardia”, splendido film del 1962, interpretato da Fernandel e Gino Cervi, reduci dal successo della serie di “Don Camillo e Peppone”. La pellicola tratta dal romanzo “Avanti la musica” di Charles Exbrayat, narra la storia di due amici, Mario e Attilio (Gino Cervi e Fernandel) ai tempi dell’arrivo degli alleati a fine seconda guerra mondiale. Se nella saga di “Peppone e Don Camillo”, Cervi ha sempre fatto il comunista e Fernandel il prete cattolico, qui ad Ardea le cose si sono ribaltate. Cervi ha recitato la parte del gerarca fascista e Fernandel dell’antifacista. Nella coproduzione italo- francese – filmata sulla rocca della città – il podestà di Ardea, Mario Vinicio (Cervi), dà i poteri a un antifascista, Attilio Cappellaro (Fernandel), tanto i loro due figli stanno per sposarsi e tutto rimane dunque in famiglia. Ma sorgono degli inconvenienti, perché gli americani tardano ad arrivare e i gerarchi fascisti mettono loro i bastoni tra le ruote. A fine film, finalmente arrivano le truppe alleate e la commedia si chiude con la commozione della Liberazione tanto auspicata.

Possiamo continuare citando altri film a loro modo esplicativi del particolare momento storico: Il partigiano Johnny (2000). Il regista Guido Chiesa gira la versione cinematografica dell’omonimo romanzo di Beppe Fenoglio con l’attore Stefano Dionisi nei panni del soldato disertore che si unisce alla Resistenza e che insieme a Fabrizio Gifuni (Ettore) racconta quegli anni, dal 1943 al 1945 circa, da un punto di vista umano e personale.

Il terrorista (1963). Film di Gianfranco De Bosio ed interpretato, fra gli altri, da Gian Maria Volonté, Philippe Leroy e Raffaella Carrà. Il regista si rifà alla sua esperienza nella Resistenza veneta, nella quale ha partecipato a Padova per dare a questo film – come descrive il critico Gianni Rondolino – un impianto ideologico molto forte e uno stile asciutto che racconta la storia di un uomo che prova a fondare un GAP (Gruppo di azione patriottica) a Venezia nel 1943.

Un giorno da leoni (1961). Nanny Loy descrive i sentimenti della Resistenza da un punto di vista umano e popolare. I suoi giovani, i personaggi di Michele, Gino e Danilo, che decidono di abbracciare la lotta oppure no, sono umani, a volte eroici e a volte indifferenti ma molto iconici del clima di quel periodo e delle scelte che fecero molti ragazzi. Per i quali spesso l’adesione alla Resistenza fu anche momento di crescita personale dopo un primo sentimento di naturale paura.

A luci spente (2004). Diretto da Maurizio Ponzi il film racconta l’evoluzione di un set cinematografico romano sullo sfondo della primavera-estate del 1944. Nel cast l’attrice Giuliana De Sio e Giulio Scarpati partecipano ad una storia di trasformazione personale e artistica, dove anche il cinema capisce di non poter più girare lo sguardo di fronte alla realtà della guerra ma deve in molti casi farsi racconto ‘impegnato’ dell’attualità.

La ragazza di Bube (1963). La storia d’amore tra la contadina Mara (Claudia Cardinale) e il partigiano Bube (George Chakiris) vista dal regista Luigi Comencini e tratta dal romanzo di Carlo Cassola. Un ritratto umano e sentimentale di come venivano vissuti i rapporti amorosi divisi dalla guerra.

E poi vorremmo concludere con un piccolo grande miracolo, quello di Vittorio De Sica, di Cesare Zavattini e de La porta del cielo. “La porta del cielo” è un film del 1944 diretto da Vittorio De Sica e sceneggiato da Cesare Zavattini, e pur non essendo, da un punto di vista tecnico, tra i loro film più acclamati, è però quello che più di ogni altro assume grande rilevanza per capire “l’uomo De Sica” e “l’artista De Sica”. La genesi del film è particolarissima, perché se è facile raccontare i difetti di un uomo grande, grandissimo come Vittorio, è meno facile dare il senso della sua generosità, della sua fantasia e dell’affettuoso sortilegio in cui con il suo carisma era capace di avvolgere chiunque avesse vicino. De Sica e Zavattini con questo film, non solo avevano compiuto un vero e proprio atto eroico, ma erano riusciti, evidenziando nella regia un’attenzione al particolare verista, a dare lo spunto per i loro successivi capolavori neorealisti, ma anche per quelli di Visconti e di Rossellini. De Sica, specialmente, era riuscito a fare quello che altri avevano tentato senza successo: cambiare il cinema per cambiare se stessi. De Sica riuscì attraverso questo piccolo film, commissionato dal Vaticano, a salvare dalla deportazione tantissimi ebrei, se ne contano più di 800: da brividi! Il risultato? uno straordinario, involontario miracolo operato dal cinema, che quando è buon cinema, sa essere più vero della realtà. Le riprese del film iniziarono il primo giorno di marzo del 1944. Dentro la Basilica di San Paolo, fuori le mura. Vi sventola la bandiera bianca e gialla del Vaticano. Che non è in guerra con nessuno. Lì fu girata l’ambientazione della chiesa di Loreto. Lì fu costruito il set con il treno che trasporta i malati. Lì avvenne il “piccolo grande miracolo”. Il fulcro della trama è la storia di un gruppo di malati in viaggio verso Loreto per chiedere il miracolo della guarigione alla Madonna.

De Sica impose la presenza del suo grande amico e sceneggiatore di sublime livello Cesare Zavattini, con il quale scriveva i suoi film e avrebbe scritto i capolavori futuri. La sceneggiatura della “Porta del cielo” fu redatta da Zavattini, Adolfo Franci e Diego Fabbri, imposto dalla produzione vaticana e ben introdotto nella Curia. Nonostante la presenza vigile del garante Fabbri, prevalse l’irruenza delle idee del grande Zavattini, sostenute ovviamente da De Sica. Nel copione il miracolo non c’era. I malati infatti si convincevano che il miracolo non dovevano aspettarselo dalla Madonna ma da loro stessi. Trovando dentro di loro la volontà e l’energia di vivere e guarire. Non fuori nelle forze soprannaturali. E di chi poteva essere questa idea, se non di quell’ateo e ingegnoso Zavattini? Ma il vero miracolo si compì e fu un altro. Poche sere prima dell’inizio delle riprese, nell’ultima decade di febbraio per la precisione, mentre De Sica e Zavattini mettevano a punto gli ultimi accorgimenti di sceneggiatura, assistettero ad una deportazione di ebrei romani. Due camion, uno con i bambini e le donne e l’altro con gli uomini. Tornati a Cinecittà, hanno cominciato a scritturare partigiani, ebrei, amici di intellettuali e si sono chiusi, dalla mattina dopo, nella splendida Basilica di San Paolo, sotto la protezione della bandiera vaticana: alla fine erano più di 800 persone, che vivevano lì dentro. Tutti i componenti della troupe ebbero uno speciale permesso di circolazione. Un’assicurazione sulla vita firmata Città del Vaticano. Tra questi ovviamente anche De Sica e Zavattini. Ed anche la Mercader.

L a l o c a n d i n a d e l f i l m “ L a p o r t a d e l cielo” del 1944 diretto da Vittorio De Sica.

Il clima di guerra, la persecuzione contro gli ebrei, l’attesa della liberazione ( le notizie che arrivavano per radio, davano le truppe alleate ad un passo da Roma, ed esortavano la popolazione a resistere che la liberazione era vicina), la finzione del film e l’extraterritorialità garantita da quella Basilica trasformavano quel luogo sacro in uno scenario da film di Bunuel, in cui le persone erano praticamente costrette, in maniera quasi claustrofobica, dalle persecuzioni che avvenivano all’esterno a rimanervi tappate dentro. C’erano un sacco di ebrei dentro, alcuni famosi come Piperno, Lattes e addirittura Carlo Levi, e poi Modena, e tanti tanti partigiani. Le autorità nazi- fasciste erano perfettamente a conoscenza di ciò che stava succedendo all’interno della Basilica, ma non potevano intervenire per l’extraterritorialità di quella Basilica, a tutti gli effetti territorio vaticano. De Sica era stato anche informato da Monsignor Montini, di prestare attenzione, perché le autorità fasciste sapevano perfettamente cosa stava accadendo là dentro. Arrivò poi un’alba, quella del 4 giugno 1944, e le riprese continuavano quella mattina, stranamente presto, molto presto. Roma era ferma e calma quella mattina. Ma nell’aria si avvertiva un’atmosfera diversa e mentre, come da un mesetto a questa parte De Sica continuava a girare senza pellicola e avrebbe continuato anche per mesi in attesa della liberazione, si udirono da fuori i rumori dei carri armati americani, delle grida della gente in festa: le truppe alleate avevano sfondato, era finita, gli americani erano entrati nella Capitale, Roma era stata liberata, almeno nella Capitale la guerra era finita. E la commozione ebbe il sopravvento, la grande paura era passata e gli 800 ebrei poterono dire grazie all’intuizione e all’eroismo di De Sica, di Zavattini e di tutta la troupe.

Si compì il miracolo di un film nel film, il miracolo di una nazione che rifiorisce dalle miserie, partendo dalla descrizione realistica degli scempi causati dalla guerra: era nato il Neorealismo. Anche il grande scrittore Ennio Flaiano, rimase commosso ed estasiato dalla maniera in cui si svolse il film, e cosa accadde intorno al film stesso, rimase anch’egli estasiato dal miracolo che si compì, uno scritto dello stesso Flaiano, apparso il 6 maggio 1945 sul settimanale “Domenica” dice:

“La porta del cielo narra di miracoli. Il primo miracolo, mi sembra, è lo stesso film, portato a termine dopo sette mesi di lavorazione attraverso incredibili difficoltà. Non si legge il diario di produzione di questo film senza restare sbalorditi per la serie di incidenti drammatici che ne rallentarono il corso. Basterà ricordare che il 3 giugno scorso, mentre a pochi chilometri di distanza si decideva la battaglia per Roma, 800 persone tra comparse e tecnici vari erano agli ordini del regista nell’interno della Basilica di San Paolo, intenti a girare, mostrando un disprezzo per la guerra che soltanto Archimede avrebbe condiviso. De Sica raccontava che gli aveva chiusi praticamente a chiave, altrimenti qualcuno sarebbe anche, stoltamente, potuto scappare. E rideva come di uno scherzo riuscito. Il film è stato girato a Roma durante i mesi dell’occupazione tedesca. Probabilmente sarebbe rimasto incompiuto se non fosse stato di proposito una risposta a quell’occupazione, agli atti che la caratterizzarono, e addirittura alla filosofia che l’aveva fatalmente provocata come episodio di una guerra diretta più contro l’Uomo che contro determinate nazioni”.

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The lost words: Vocabolario bellico, linguaggio e propaganda ai tempi del Coronavirus

“È una guerra!”, “siamo in trincea”, “dobbiamo vincere questa battaglia contro questo nemico subdolo”, “i medici e gli infermieri sono i nostri eroi”, ed ancora, “il coronavirus è il male”, “gli anziani sono i nostri martiri”, “gli scienziati ci salveranno da questa catastrofe”.

Negli ultimi due mesi il vocabolario attraverso cui ci esprimiamo su mezzi di comunicazione, TV, giornali, internet e social media è stato sommerso da metafore belliche. La pandemia da Coronavirus non solo ci ha messo di fronte alla fragilità della condizione umana a causa di un virus, ma, di più, ci ha fatto vedere di nuovo la morte in faccia.

Avevamo come rimosso la morte dalle nostre vite, non ne parlava nessuno, se non gli anziani e gli addetti alle pompe funebri. Per l’uomo medievale non era così, la morte era sempre presente, anche perché l’aspettativa di vita era di poco superiore ai 30 anni e non è andata tanto meglio nel Rinascimento e per buona parte del ‘600; bisogna aspettare l’Ottocento, con i progressi della medicina, per vedere l’aspettativa di vita salire intorno ai 45 anni.

Poi è arrivato il Coronavirus e, soprattutto in Europa, dove ha colpito molto duramente, ha ricordato le pandemie storiche come la Peste del 1300 e la Spagnola, durante e dopo la Prima Guerra Mondiale. Sono arrivati i morti, tanti morti, i cimiteri si sono riempiti, i corpi sono stati cremati, poi è toccato ai convogli di camion partiti per trasportare “altrove” tutte le vittime di questa emergenza sanitaria; insomma, la morte è tornata prepotente e inesorabile nelle nostre vite.

Eppure, benché siano cambiate le nostre abitudini di vita, il nostro vocabolario, le parole che usiamo per esprimerci e quindi anche la maniera con cui ci raffiguriamo il mondo, i media, non solo quelli digitali, hanno finito per dettare la nostra agenda setting e “distrarci” da tutta una serie di altre “variabili” e “fatti” che pure abbiamo sotto gli occhi, ma che semplicemente non riusciamo a vedere.

Se davvero si tratta di una guerra (in barba agli ammonimenti che Susan Sontag ci aveva dato nel suo saggio Malattia come Metafora già nel 1978 [1]), davvero questa battaglia la stanno combattendo solo in prima linea? Che fine hanno fatto le retrovie, la logistica, gli approvvigionamenti, le comunicazioni, il genio civile?

È una ben strana guerra se a combatterla ci sono solo i fanti i prima linea e gli eroi.

Ma come abbiamo fatto a dimenticare, al netto del personale sanitario, tutta quella massa di lavoratori che non si sono potuti permettere il lockdown e la quarantena domiciliare?

Sono davvero così invisibili?

O piuttosto siamo così ubriacati da una comunicazione propagandistica da guardare, ma non riuscire a vedere il postino che ci consegna la posta o il camionista che continua a trasportare alimenti e bevande, su e giù per lo stivale italico?

Non riusciamo a vedere l’edicolante da cui compriamo il giornale o il tabaccaio da cui compriamo le sigarette, o il ferramentista da cui compriamo il flessibile della doccia che dobbiamo sostituire.

Scopri il nuovo numero > Tutto andrà bene (?) Questo particolare momento necessita di una azione collettiva che vada oltre il semplice ottimismo che da solo non basta, anche se comunque aiuta. Solo insieme si può uscire da questa situazione.

Non riusciamo più a vedere i riders, non che prima del virus ci accorgessimo di loro, che continuano a consegnarci i cibi a domicilio nella totale insicurezza e precarietà lavorativa.

Non riusciamo a vedere neanche i giornalisti che ci informano, benché li abbiamo perennemente sotto gli occhi, dalla tv allo schermo degli smartphone, e addirittura le forze dell’ordine sono pressoché invisibili, anche se magari ci hanno fermato per controllare la nostra autocertificazione l’ultima volta che siamo usciti.

E, cosa ancora più grave, nonostante la spesa alimentare sia diventata un nuovo rito laico, con la sua liturgia fatta di distanze prefissate, file ordinate, e tempi contingentati, proprio non riusciamo a vedere i volti spaventati e stanchi di commessi e commesse, di cassiere e cassieri al supermercato.

Magari ci raccontiamo la scusa che con le mascherine i volti sono meno visibili, con le visiere o i pannelli in plexiglass la loro immagine pare filtrata, sfocata e apparentemente ci sembra che attraverso queste barriere, tutto sommato, siano al sicuro dal contagio.

Ma non è così!

Postini, corrieri, autotrasportatori, edicolanti, forze dell’ordine, giornalisti, addetti al supermercato non li vediamo perché il vocabolario bellico che abbiamo adottato in emergenza da Coronavirus non li contempla. Queste voci, questi lemmi non ci sono, ma questo, attenzione, non vuol dire che sono astrazioni linguistiche, queste sono persone, sono uomini e donne con sogni e desideri, paure ed angosce, sono “individui” grazie ai quali possiamo mangiare, comprare, bere, leggere notizie, fumare, sentirci sicuri, essere informati e cambiare le lampadine fulminate delle nostre abitazioni.

Tutti questi lavoratori, questi operai, questo esercito “invisibile” sono quelli che hanno permesso che il Paese non si fermasse, che le nostre quarantene fossero meno claustrofobiche e le nostre vite meno drammatiche di quanto già non ci appaiano.

Sono un esercito invisibile solo perché siamo innamorati della “propaganda bellica”, vogliamo gli eroi, vogliamo i martiri, ma una battaglia, un conflitto, una guerra come questa contro l’implacabile Coronavirus la vinceremo solo come esercito. Gli eroi ed i martiri da soli non basteranno, per evitare che il tessuto sociale, già lacerato, si strappi, ci vogliono tutti i reparti di cui è composto un esercito: la logistica, i trasporti, le comunicazioni, il genio civile, anche le retrovie, perché ogni ingranaggio è essenziale ed insostituibile, e soprattutto ci vuole cameratismo.

Cosa fare allora per non diventare schiavi di una propaganda bellica che limita fortemente la nostra capacita di vedere la realtà?

Come ampliare l’orizzonte delle nostre percezioni in maniera da riuscire a “vedere” tutto l’esercito di persone che sta combattendo questa guerra, per poterlo finalmente ringraziare?

Purtroppo non ho risposte, né formule magiche, posso solo suggerirvi le tre “buone pratiche” che hanno funzionato per me.

Per pima cosa, credo, come ha ribadito Daniel Goleman in un recente saggio[2], che la nostra capacità di concentrazione sia la facoltà che più di tutte meriti di essere allenata, in un tempo scandito da armi mediatiche di “distrazione di massa”; la nostra capacità di concentrarci, di prestare attenzione a tutto ciò che facciamo, anche quando facciamo cose scontate come la spesa, può letteralmente ampliare il nostro campo visivo e di coseguenza nostra di la letteralmentee campo nostro visivo ampliare il mente. In s e c o n d o l u o g o s t u d i a t e i l v o c a b o lario bellico di questi giorni, analizzatelo, e vedrete quante parole ne sono state omesse, e ricordate che ogni parola, ogni vocabolo, ogni lemma “assente” rappresenta una categorie di persone, degli individui, degli esseri umani.

Parole omesse non vuol dire inesistenti, noi dobbiamo sforzarci di riconoscere, pronunciare, ricordare e tradurre queste parole, queste persone, questo esercito di invisibili che ci regala ogni giorno (lo so, sembra strano dirlo mentre siamo in quarantena) la libertà di cui godiamo.

Volenti o nolenti la realtà e perfino noi stessi siamo fatti di parole, da quelle che usiamo, da quelle che pronunciamo, da quelle che scordiamo e anche da quelle che non conosciamo; il grande filosofo, ingegnere e logico austriaco Ludwig Wittgenstein, nella sua opera principale[3], scrisse: “I limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo”, impossibile per noi oggi non cogliere la profonda verità di queste parole.

Infine, dovremmo aspirare a diventare paleontologi delle parole e scavare il racconto del quotidiano per riportare alla luce tutte le parole che abbiamo smarrito, ignorato e dimenticato. Come i fossili di dinosauri molte ci spaventeranno, alcune ci sembreranno incredibili, altre scontate, altre ancora prive di significato, ma, attenzione, così come i fossili ritrovati ci aiutano a disegnare la storia dell’evoluzione, allo stesso modo le parole che ritroveremo sono tutte degne di esistere, di vivere, di essere raccontate e di far parte della storia contemporanea che stiamo narrando agli altri, ma soprattutto a noi stessi.

[1] Susan Sontag, Malattia come Metafora, Milano, Mondadori, 2002.

[2] Daniel Goleman, Focus. Perché fare attenzione ci rende migliori e più felici, Milano, Rizzoli, 2013.

[3] Ludwig Wittgenstein, Tractatus Logico-Philosophicus, Torino, Einaudi, 1989.

Tutto andrà bene (?) – L’Editoriale Raffaello Castellano È domenica 29 marzo 2020, una domenica mattina strana; un sole pallido fa sovente capolino fra le nuvole grigie, è il colpo di coda dell’inverno, ci dicono i meteorologi, una perturbazione proveniente dal nord Europa che sta attraversando da quattro, cinque giorni anche la nostra penisola.

La primavera è cominciata da più di una settimana, da oggi grazie al ripristino dell’Ora Legale le giornate si allungheranno, insomma, tutto sommato la “normale” ripresa, lenta e pigra, della bella stagione. Almeno così sembrerebbe, ma non è così, rispetto allo scorso anno tutto è cambiato. Non c’è niente di “normale” in questo inizio primavera.

Dagli inizi di gennaio per la Cina e da metà febbraio per noi Italiani ed il resto del Mondo, la normalità semplicemente non esiste più. La causa è la pandemia di Coronavirus che sta flagellando l’intero pianeta Terra.

F o t o d i G e r d A l t m a n n da Pixabay

Mentre finisco di scrivere questo editoriale, la pagina del Ministero della Salute dedicata al Covid19 (dati aggiornati al 29 marzo alle ore 18:00), ci dice che solo in Italia ci sono 97689 casi totali, di cui 73880 attualmente positivi, con 13030 guariti e, purtroppo, 10779 deceduti. Numeri, freddi numeri, che fotografano una situazione drammatica, che il Governo sta cercando di contrastare a forza di decreti e leggi che vengono emanate oramai quotidianamente. È una guerra! È stato detto da tutti, politici, medici, infermieri, giornalisti. Una Guerra globale, senza quartiere, sanguinaria, sistemica, contro un nemico subdolo ed implacabile, una guerra con i suoi eroi, i suoi martiri e migliaia e migliaia di morti.

Guerra è la parola perfetta per definire questa emergenza, e so bene che Susan Sontag già nel 1978 nel suo celebre saggio “Malattia come metafora”, ci aveva messi in guardia dall’usare la metafora bellica per definire una malattia, perché sostanzialmente e moralmente sbagliato. Però io non riesco a non farlo, mai come ora mi sembra che stiamo combattendo una battaglia impari contro un nemico subdolo, potente e letale.

Scopri il nuovo numero > Tutto andrà bene (?) Questo particolare momento necessita di una azione collettiva che vada oltre il semplice ottimismo che da solo non basta, anche se comunque aiuta. Solo insieme si può uscire da questa situazione.

L’Italia, mentre scrivo, è in prima linea in Europa in questa battaglia, seguita dalla Spagna, e via via da altri Paesi. La solita Europa sembra, per l’ennesima volta, incapace di affrontare la crisi con una politica ed un’azione globale e collettiva, e stenta a dare quegli aiuti che sarebbero “naturali” e “sacrosanti” in una situazione drammatica come questa. Ma, come spesso accade, gli aiuti arrivano da dove meno ce li si aspetterebbe, alcuni disinteressati, altri un po’ meno, come rivela in un ottimo articolo su Formiche.net Igor Pellicciari (professore di Storia delle Relazioni Internazionali all’Università di Urbino e alla Luiss Guido Carli), ma comunque tutti estremamente necessari e graditi.

Ed allora, a cominciare è stata la Cina, che ci ha offerto un pool di medici altamente specializzati provenienti da Wuhan, epicentro dell’epidemia cinese, che è andato in soccorso della Regione Lombardia, la più colpita in Italia. Inoltre, ci ha fornito una prima partita di mascherine, insieme alla promessa di intensificare la produzione, da destinare all’Italia (la Cina è fra i primi produttori al mondo di questi presìdi medici). F o t o d i p a s j a 1 0 0 0 d a P i xabay

Poi è intervenuta, forse meno disinteressatamente, la Russia, che ha mandato un contingente molto numeroso di militari e tecnici esperti nella gestione e disinfezione di tutti quegli ambienti a rischio chimico/batteriologico/virale/nucleare. Secondo quanto si è appreso, Putin dovrebbe inviare circa 120 specialisti epidemiologici e virologi, ospedali da campo, 100 ventilatori polmonari e 500mila mascherine. Ad oggi, questo è l’aiuto più sostanzioso e concreto offerto da una nazione straniera.

Ed ancora il governo di Cuba, che ha recepito una richiesta dall’Assessore alla Salute ed al Welfare della Regione Lombardia, Giulio Gallera, inviando medici altamente specializzati nella gestione dei virus e farmaci come l’antivirale Interferone Alfa 2B, usato con successo per contrastare il Coronavirus in Cina.

In ultimo, forse l’aiuto più bello, quello della piccola e non ricchissima nazione dell’Albania, che ha inviato un contingente di 30 medici ed infermieri, per aiutare “le sorelle e fratelli italiani”, come ha dichiarato il premier albanese Edi Rama in un video diventato subito virale sul web. Gli Albanesi, ha detto Rama, non hanno dimenticato la solidarietà del popolo italiano: “l’Italia, le sorelle ed i fratelli italiani ci hanno salvati, ospitati ed adottati in casa loro quando l’Albania bruciava di dolori immensi”. https://youtu.be/Nd8p7yW4_Jw

Insomma, vedendo questi casi, e soprattutto l’ultimo, potremmo affermare che la solidarietà, l’accoglienza dei migranti ed altre operazioni umanitarie sono “investimenti” importanti ed a lungo termine, che lasciano un vero e duraturo segno nei popoli che ne sono beneficiari. In parole povere la beneficenza, l’aiuto che diamo agli altri, è non solo la cosa che ci rende più compiutamente degli autentici “esseri umani”, ma è anche, e permettetemi di essere solo per un momento utilitaristico, la strategia economica di lungo periodo di più sicuro ed ampio successo.

Una lezione antica che già ci aveva insegnato, tra gli altri, lo scrittore britannico Lewis Carroll, quando scrisse: “Uno dei più grandi segreti della vita è che quello che vale veramente la pena di fare è quello che facciamo per gli altri”. Una lezione che i politici sovranisti italiani come Salvini e la Meloni, ma anche europei, sembra non abbiano mai imparato.

Questa massima mi dà l’occasione per una piccola digressione che riguarda il nostro magazine: come sapete il nostro è un mensile on line estremamente specifico e tecnico, occupandosi prevalentemente di comunicazione, marketing e social media. Nel tempo però sono emersi altri focus importanti, come le rubriche di cinema e musica e gli articoli culturali e di costume che i nostri lettori hanno dimostrato di apprezzare. Da ultimo, si è affiancata la rubrica video “Il sonno della Ragione”, che cerca di demistificare tutti quei fenomeni di pseudoscienza, bufale e fake news che purtroppo dilagano sul web, ancora di più in tempi di crisi e paura come questi.

Da quando è scoppiata la crisi del Coronavirus abbiamo chiesto ai nostri collaboratori di incrementare i loro contributi per cercare di stare più vicino ai nostri lettori, costretti a casa dalla clausura forzata e devo dire che i nostri contributor hanno risposto alla grande. In questo mese di marzo, oltre ai soliti 10, 12 articoli dell’uscita mensile, abbiamo pubblicato altri 13 contributi fra video ed articoli di approfondimento sul Coronavirus, ma anche su cinema, musica e serie tv che sono diventati compagni, ancora più importanti, dei nostri giorni di quarantena.

Tredici “pezzi” che, per un piccolo mensile on line senza contributi, senza pubblicità e senza aiuti statali, non sono stati né pochi né facili da produrre, ma che sono stati la maniera di dare il nostro apporto con un informazione puntuale, rigorosa e verificata, alla crisi che stiamo vivendo. Voglio ringraziare tutti i nostri collaboratori che hanno accolto il nostro invito producendo ottimi approfondimenti che vi invito a recuperare e leggere.

Ma cosa c’entra tutto questo con la massima di Carroll e con il discorso che ho appena fatto? Avete ragione, ve lo spiego subito. Anche io, nel mio piccolo, ho voluto contribuire, ed allora ho proposto all’amico e collega Ivan Zorico una nuova rubrica prettamente social e “sociale” che abbiamo chiamato “Il Buongiorno del Mattino”, che periodicamente, e fino a crisi finita proporrà “massime d’autore”, “citazioni celebri” e “parole di saggezza” accompagnate da un breve post esplicativo che pubblicheremo giornalmente sulle nostre pagine Facebook ed Instagram. Anche questa nuova rubrica è una maniera di stare vicino e di tirare su il morale ai nostri lettori. Ho sempre pensato che le parole ci possano ispirare, ho sempre ammirato la capacità dei grandi autori di condensare un’infinita saggezza in poche righe, ho sempre creduto che le parole abbiano il magico potere di cambiare il mondo. La massima di Lewis Carroll, che avete letto poco sopra, è quella che troverete sui nostri canali social mercoledì 1° Aprile, andate a scoprire questa rubrica ammazza pessimismo e, se vi va, condividete l’ottimismo e la speranza che tutto questo, questa crisi, questa pandemia, questa emergenza, saranno superate e che la guerra al Coronavirus sarà vinta.

Cosa altro dirvi? Solo una cosa: non rattristatevi, non abbattetevi, non disperate, questa strana “primavera silenziosa”, come l’avrebbe chiamata la prima e più celebre attivista per l’ambiente della storia, Rachel Carson, tornerà a riempirsi di rumori, suoni, profumi, parole ed amori, che noi sicuramente avremo imparato ad apprezzare più intensamente.

Buona lettura e ricordate che alla fine #tuttoandràbene

Raffaello Castellano

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Platoon – Il Film

Raffaello Castellano (328)

Lo schermo è nero. Leggiamo una citazione tratta dall’Ecclesiaste: “Rallegrati pure, o giovane, nella tua giovinezza…”. Sentiamo una musica, bella e struggente (lo straordinario Adagio di Barber). La dissolvenza ci mostra un aereo da trasporto C130 che atterra su una pista polverosa: il portellone/rampa posteriore si abbassa ed esce un gruppo di soldati, fra cui il protagonista e narratore della storia che stiamo vedendo, il giovane soldato volontario Chris Taylor. Siamo da qualche parte vicino al confine cambogiano, è il 1967 e questa è la guerra del Vietnam raccontata dallo splendido, ma insieme straziante, Platoon, film manifesto del regista Oliver Stone, contro le brutture e la miseria di questa guerra, di qualunque guerra, di tutte le guerre.

Nel pensare alla preparazione di questa recensione sul film da consigliare per Natale, ero indeciso, non sapevo quale film appartenente al genere raccontare: italiano, straniero, commedia, comico. A dissipare ogni dubbio e a chiarificare ogni mio intento sono intervenuti i drammatici fatti di Francia, con la querelle di dichiarazioni, condanne, prese di posizione, etc.. Da subito il dibattito politico, italiano, europeo e mondiale, si è polarizzato intorno a due atteggiamenti principali: da una parte gli interventisti, che dichiaravano che solo una soluzione militare potesse risolvere le cose, dall’altra chi, invece, cercava, nonostante tutto, di trovare una via diplomatica o di altro tipo per fronteggiare il famigerato califfato islamico dell’ISIS.

È da allora che, come un pensiero ricorrente, di più, quasi come un tarlo, nella mia testa hanno cominciato ad affollarsi le immagini, le parole, i rumori e la musica di questo straordinario film. Quindi questa recensione, non me ne vogliate, cari lettori di Smart Marketing, non è scritta solo per voi, è scritta innanzitutto per me; sento il bisogno di raccontarvi e consigliarvi questo film, perché avverto un’urgenza, quasi viscerale, di dare sfogo alle emozioni ed alle riflessioni che questo capolavoro mi ha trasmesso fin dalla prima visione.

Il film racconta il conflitto del Vietnam attraverso le avventure, disavventure e guerre intestine di un plotone (da qui il titolo); la sceneggiatura è dello stesso Oliver Stone, che aveva attinto alla propria esperienza personale di soldato di stanza in Vietnam dal 1967 al 1968, periodo durante il quale si distinse per il suo valore, tanto da ottenere la Bronze Star Medal. L’approccio che il regista decide di assumere è spettacolare e realistico e, allo stesso tempo, crudo ed umanissimo. La fotografia, straordinaria, di Robert Richardson sottolinea ed accompagna, attraverso un caleidoscopico contrappunto visivo, la colonna sonora di Georges Delerue, che mixa abilmente composizioni classiche, come il già citato “Adagio per archi” di Samuel Barber, con altre d’epoca, come “White Rabbit” dei Jefferson Airplane.

Il film, girato sull’isola di Luzon, nelle Filippine, fra i mesi di marzo e maggio del 1986, si focalizza sul dualismo e lo scontro di due mondi etici messi mirabilmente a confronto. Da una parte abbiamo il sergente maggiore Barnes, dispotico, rude e spietato nell’interpretare il suo ruolo di comando ed il suo mestiere di soldato; dall’altra il sergente Elias, più umano, collaborativo e generoso nel rapporto che instaura con i suoi uomini, soprattutto con i novellini. Due facce e due anime dell’America che non riescono a trovare nessun accordo, nessun compromesso, nessuna pace, ma che anzi sono ormai destinate alla propria autodistruzione ed all’annichilimento di ogni valore, primo fra tutti il definitivo crollo dell’idealismo liberale kennediano.

A dare volto e sostanza a questi personaggi tragici ed insieme umanissimi un cast di giovani (all’epoca) attori, nuove promesse del cinema a venire. Il protagonista, il soldato semplice Chris Taylor, è un talentuoso Charlie Sheen, che l’anno dopo tornerà a lavorare con Oliver Stone nel bellissimo e profetico Wall Street. Il ruolo del sergente maggiore Barnes, che in principio fu proposto a Kevin Costner, fu poi offerto ad uno straordinario Tom Berenger; è l’eclettico attore Willem Dafoe, invece, a dare corpo e anima al sergente Elias, attore, quest’ultimo, che di lì a poco si sarebbe distinto interpretando personaggi estremi, come il Gesù dell’Ultima tentazione di Cristo (1988) di Martin Scorsese.

Intorno a queste tre stelle che, anche grazie a questo film, lanceranno definitivamente le loro carriere, un firmamento di comprimari di prima grandezza, fra cui spiccano il soldato fanatico e sociopatico Bunny, interpretato da un giovanissimo Kevin Dillon, il sergente Rhah, interpretato da Francesco Quinn, il simpatico soldato Big Harold, interpretato da un già straordinario Forest Whitaker, il soldato Gator Lerner, interpretato da un quasi sconosciuto Johnny Depp, la cui performance fu così eccezionale da costringere il regista a tagliare gran parte delle sue scene, per non minacciare il ruolo del protagonista.

Platoon vincerà 4 Oscar, fra cui quello di Miglior Film, Miglior Regia, Miglior Montaggio e Miglior Suono, riportando in auge il genere bellico, che pareva esauritosi dopo il capolavoro Apocalypse Now, ma cosa più importante è che con questo film si delinea e cristallizza definitivamente la cifra stilistica ed il percorso del regista Oliver Stone che, da allora in avanti, indagherà senza buonismo ed anzi con uno spirito critico e radicale il cuore oscuro dell’America.

Platoon racconta, in ultima istanza, non la guerra contro il nemico, ma contro i propri demoni interiori: il plotone rappresenta, come ha detto qualcuno, una vera e propria “cultura in vitrio” della pazzia umana. I giovani soldati americani si trovano a fronteggiare un nemico implacabile, in una giungla impenetrabile, cercando in ogni modo di non soccombere fisicamente e mentalmente. Da qui il ricorso alle pratiche più disparate, ivi comprese l’uso di droghe e della crudeltà, prima ancora che contro il nemico, contro gli stessi commilitoni. La lenta, ma inesorabile, discesa agli inferi del giovane soldato Chris Taylor, che vedrà crollare, uno ad uno, i suoi ideali fino ad arrivare, alla fine del film, a divenire egli stesso un carnefice, è un colpo basso sia alla presunta “giusta causa” americana che alle nostre convinzioni in materia di umanità, solidarietà e bontà.

Un film di uomini perduti, cuori di tenebra di una intera nazione, forse di un’intera generazione, non solo americana. Solo in parte, allora, ci consola, ci rincuora e ci dà speranza il monologo finale del protagonista che, sull’elicottero ambulanza, sorvolando il campo di battaglia che ricorda, con una marcata citazione visiva, le rovine, le ruspe e le fosse comuni dei lager nazisti, ci dice: “Ma sia quel che sia, quelli che tra noi l’hanno scampata hanno l’obbligo di ricominciare a costruire, insegnare agli altri ciò che sappiamo, e tentare, con quel che rimane delle nostre vite, di cercare la bontà e un significato in quest’esistenza.”

Dedico queste parole a voi lettori, a me stesso ed a tutti gli uomini di buona volontà. Buona visone e buon Natale a tutti.