COLLANA PORTALES AIPSA EDIZIONI

CANTAMI DI QUESTO TEMPO POESIA E MUSICA IN FABRIZIO DE ANDRÉ

A cura di Andrea Cannas, Antioco Floris, Stefano Sanjust

Fotografie di Daniela Zedda INDICE

7 Presentazione

SALUTI 11 Giulio Paulis, Preside della Facoltà di Lettere e filosofia 13 Giovanni Pirodda, Presidente dell’associazione culturale Portales 14 Dori Ghezzi

ORIZZONTI

19 Jean Guichard Amore, guerra e morte nelle canzoni di Fabrizio De André 31 Andrea Cannas Utopia e il cinghiale laureato in matematica pura 47 Antioco Floris Non ci sono poteri buoni 73 Claudio Cadeddu Fabrizio De André e gli ultimi 85 Filippo Davoli Suonare ti tocca 95 Antonello Zanda La lingua nomade dell’emozione

PERCORSI

129 Gonaria Floris Amistade e Disamistade 149 Simonetta Salvestroni De André, gli autori russi e il mondo contemporaneo 157 Maria Giovanna Turudda Una città da cantare 177 Pascal Cordara Fabrizio De André e Georges Brassens 191 Santa Boi Ruin the Sacred Truths 215 Ettore Cannas Cantare i vangeli 231 Stefano Sanjust Il ‘suonatore’ Jones: l’unico che con la vita avrebbe ancora giocato 253 Piero Mura Un pettirosso da combattimento

VARIAZIONI

265 Franco Fabbri Fabrizio De André musicista 277 Mauro Pagani Lavorare con Fabrizio 289 Ignazio Macchiarella Echi d’altre tradizioni musicali 309 Marinella Ramazzotti Mille e una voce

321 Bibliografia

327 Indice dei nomi

PRESENTAZIONE

Questo volume raccoglie i materiali elaborati intorno al convegno dedicato a Fabrizio De André, che ha avuto luogo a Cagliari nel giugno 2003, su iniziativa dell’associazione culturale Portales e del Dipartimento di Filologie e letterature moderne dell’Università di Cagliari. L’interesse espresso nei confronti della manifestazione, in particolare da parte del pubblico più giovane, ci ha incoraggiato a proseguire il lavoro con la pub- blicazione dei testi.

Qualche anno fa Fabrizio De André ha ricevuto alla memoria il pre- mio Montale per la musica in versi. Il riconoscimento in qualche modo ufficializzava quanto già ampiamente condiviso: alla morte del cantautore, nel gennaio del ’99, c’era la consapevolezza che ci aveva lasciato un poeta, o meglio, come sostiene Fernanda Pivano, uno dei nostri più grandi poeti. Alla base del vasto successo di pubblico e critica raggiunto in vita da De André sta, da un lato, la sua capacità di narrare in versi, per cui di volta in volta lo si è voluto definire cantastorie o poeta o cantautore (ma è poi così rilevante sistemare paletti o assegnare etichette che tornano utili per ogni circostanza?); dall’altro, l’abilità di adoperare la stretta misura metri- ca e far sbocciare contemporaneamente – e qui sta la magia del testo can- tato – la vita di mille personaggi colti nel centro della loro esistenza reale: 8 eppure trasfigurati fino a raggiungere una dimensione poetica. La prosti- tuta assassinata diventa la Marinella corteggiata da un gentiluomo e tra- sportata dal vento, che la vide così bella, dal fiume sopra una stella; il giova- ne travestito dalle labbra color rugiada è la graziosa di Via del Campo; la morte di Luigi Tenco diventa l’occasione per suggerire a Dio la dignità di quei suicidi che all’odio e all’ignoranza preferirono la morte. E ancora infinite altre parabole apocrife illuminano sull’incontro suggestivo tra il racconto (brevissimo), la poesia e la musica che si realizza nelle sue canzoni.

La grande passione nei confronti dell’opera di De André ci ha spinto a realizzare questo progetto, ma è il valore artistico della sua opera che, ovviamente, ha motivato la nostra iniziativa. Il fatto che una buona can- zone nasca dal felice connubio di testi e musica ci ha consentito di allac- ciare un proficuo dialogo tra varie forme di espressione artistica e di coin- volgere studiosi di varie discipline, segno di approcci differenti all’univer- so della comunicazione. Nella prima sezione, Orizzonti, curata da Andrea Cannas, vengono presentati gli scritti che trattano in generale il rapporto tra canzone, letteratura e utopia in Fabrizio De André. Negli interventi trovano spazio e si intersecano le forme dell’antiepopea deandreiana, il rapporto dialettico fra amore, guerra e morte, la tensione, ricorrente in tutta l’opera, verso problematiche proprie dell’immaginario anarchico, l’uso dei dialetti come strumento privilegiato per rappresentare le istanze degli ultimi come contestazione della lingua dell’impero. Oltre i temi più generali, ma sempre in relazione al legame esistente tra l’opera di Fabrizio De André e la letteratura, nel senso più ampio del ter- mine, l’attenzione si è quindi focalizzata su album, singoli brani o specifi- che problematiche dell’immaginario che intorno alla sua figura è andato definendosi in quarant’anni di attività. Fertile terreno di indagine – nella sezione Percorsi curata da Antioco Floris – sono stati in particolare Non al denaro non all’amore né al cielo, La domenica delle salme, , Genova, il rapporto con Brassens. Fabrizio De André rivela un gusto e 9 una cura particolare per gli adattamenti di testi e le interpretazioni che contestano la storia ufficiale: l’universo anarchico tratteggiato da Georges Brassens ritorna carico di un nuovo vigore; Non al denaro non all’amore né al cielo, tratto da alcune poesie dell’Antologia di Spoon River di Lee Masters, affronta il tema dell’incomunicabilità tra gli uomini raccontato da chi ha già consumato la propria esperienza terrena: i morti della ‘collina’. Non sono mancati i riferimenti a quel forte nucleo di canzoni che sve- lano il legame fra De André e la Sardegna, la terra nella quale l’artista genovese ha scelto di trascorrere una parte della sua vita e dove ha vissu- to, insieme alla compagna Dori Ghezzi, il dramma del sequestro, che pure ha avuto una sua sublimazione in canto (Hotel Supramonte). Soprattutto l’i- sola cui De André ha saputo dar voce, cantandone la preziosa marginalità che, con un paradosso dello spazio e del tempo, rende affini i sardi agli indiani d’America. La terza parte del volume, curata da Stefano Sanjust e intitolata Variazioni, esplora la componente sonora, mettendo a fuoco alcuni aspet- ti di De André musicista: i legami con la tradizione musicale italiana, le contaminazioni con le altre culture, le caratteristiche del timbro della voce, oltre a presentare la testimonianza di Mauro Pagani, musicista polistru- mentista, che ha lavorato per oltre un decennio con l’artista genovese. In definitiva si è cercato di offrire un panorama che permettesse un approccio variegato alla corposa discografia di De André, proponendo una molteplicità di punti di vista espressa da chi ha dapprima collaborato alla realizzazione del convegno e poi al complesso dei lavori qui raccolti.

Cagliari, marzo 2007 I curatori

Un particolare ringraziamento a Dori Ghezzi per la gentile disponibilità.

SALUTI

Giulio Paulis Preside della Facoltà di Lettere e filosofia

Sono molto lieto di portare ai partecipanti al Convegno il saluto della Facoltà di Lettere e filosofia. È un’occasione importante quella che stiamo vivendo per ricordare un poeta, un musicista che ha amato profondamente la Sardegna e al quale i sardi debbono essere riconoscenti. Il fatto che se ne parli all’interno di un’aula universitaria non fa specie, trattandosi di una figura come quella di Fabrizio De André, a proposito del quale Roberto Cotroneo, nel saggio introduttivo alla edizione dei testi delle canzoni, per i tipi della casa editrice Einaudi, mette in evidenza il cantautore che ha scritto «pensando alla musica, ma non ha nulla da temere dalla pagina muta di un libro». Dunque, innanzitutto, si tratta di un poeta, per il quale la musica si aggiunge al testo, veicolando le emozioni e aggiungendo senso al senso: un poeta, un musicista che amava profonda- mente la Sardegna e che disse: «A trentacinque anni mi sono trasferito in Gallura, non per fuggire, ma per ritrovare la campagna. L’erba, il fieno, la terra, quel certo tipo di luna molto meno diafano, molto più carnale di 12 quella che ci appare in città, tra lo smog di Milano. E il dialetto, che rende più saporite anche le bestemmie più limpide». Ecco, il dialetto, al quale Fabrizio De André dedica molta attenzione. Un aspetto particolare su cui vorrei soffermarmi brevemente. A proposi- to delle parole, De André afferma che esse «sono affascinanti proprio per- ché cambiano continuamente di significato. Specie nei dialetti: la bellezza degli idiomi locali è la loro mobilità. Basta un chilometro di distanza e la parola già se ne esce storpiata e rinnovata». È in virtù di questa particolare forza che nelle sue composizioni ritro- viamo il dialetto: quello genovese, ma anche quello gallurese. Ricordo in proposito Zirichiltaggia o Monti di Mola dove c’è un approccio alla Sardegna, alla Gallura, completamente diverso rispetto a quello che carat- terizza la Gallura dei vip. Dunque, questa è l’occasione per ricordare un grande amico della Sardegna, per analizzare la sua poesia, la sua musica, il ‘ribellismo’, l’anar- chia, la provocazione nei confronti di una società borghese perbenista, l’attenzione verso i diseredati e gli emarginati… Il programma è molto denso e penso che tutti gli aspetti più importan- ti della poetica e della musica di Fabrizio De André saranno lumeggiati in questi giorni di convegno e quindi auguro a tutti buon lavoro, ringrazian- do particolarmente la signora Dori Ghezzi. 13

Giovanni Pirodda Presidente dell’associazione culturale Portales

Soltanto un breve saluto, perché credo che sia opportuno lasciare la parola ai protagonisti del Convegno… Come Direttore del Dipartimento di Filologie e letterature moderne, che ha patrocinato l’iniziativa, mi sembra giusto sottolinearne l’importan- za e l’ottica con cui si è focalizzata l’attenzione su questa figura così signi- ficativa del nostro tempo, e sulla sua opera… Un grande poeta, Mario Luzi, diceva che l’opera di De André, senza l’unione – così stretta – tra poesia e musica non avrebbe quella efficacia che ha avuto su diverse generazioni. La «sua poesia, poiché la sua poesia c’è, si manifesta nei modi del canto e non in altro; la sua musica, poiché la sua musica c’è, si accende e si espande nei ritmi della sua canzone e non altrimenti». Appunto: il fascino dell’opera di De André nasce da questa sintesi, così efficace; e allora il Convegno ha voluto mettere insieme esper- ti di musica, di letteratura e di poesia per vedere come da questo concer- to di voci possa nascere, se non una nuova considerazione dell’opera di De André, certo una conoscenza più approfondita. Ringrazio i nostri ospiti – in particolare Dori Ghezzi – per la loro pre- senza, e tutto il pubblico, per la sua cortesia. Buon lavoro! 14

Dori Ghezzi

Voglio farvi, semplicemente, un saluto. Non voglio fare relazioni, non ne sarei capace. Stavo già male tra i banchi, figuriamoci in cattedra… pro- prio non è il mio mestiere.

Mi riesce anche difficile ringraziare… capitemi bene: sono molto felice di essere qua, e vi ringrazio, anche a nome della Fondazione Fabrizio De André. La cosa difficile è ringraziare a nome di Fabrizio, innanzitutto per- ché, come dire, è come arrogarmi un diritto di appartenenza, e questo mi sembra sbagliato, perché ho sempre sostenuto che ‘Fabrizio è di tutti’, e lo ribadisco! E quindi insieme, qui, lo ringraziamo, per tutto quello che ha fatto e che ci ha lasciato… queste grandissime opere. E poi un’altra cosa, che mi fa sorridere: tutti sappiamo che Fabrizio mal si conciliava con le istituzioni… ed ora tutte queste manifestazioni… le scuole che vengono intitolate a lui… Non so come le stia interpretan- do, queste cose, ma penso che ci perdonerà, perché sa che lo facciamo con tanto amore, e questo gli tocca...

Allora, sebbene anche lui non sapesse stare tanto volentieri tra i banchi, direi che ha saputo applicarsi. Ha studiato molto, ha letto molto, ed era anche – e qui mi può dare ragione Mauro Pagani – molto ‘corret- to’, disciplinato, in tutte le sue manifestazioni: nel lavoro, nei rapporti con la famiglia… con un gran senso del dovere, più di quanto si possa pen- sare. E questo, a mio parere, lo ha portato molto lontano. È stata la sua grande curiosità di imparare, di sapere, che gli ha permesso di esprimersi come si è espresso.

Vorrei concludere con una frase che mi sta particolarmente a cuore, che ho trovato appuntata, quindi ‘inedita’, e che vorrei citarvi: «E poi, ad un tratto, l’amore scoppiò dappertutto…». Se quest’anno la sua speranza 15

è stata disattesa, ci auguriamo che per il futuro possa essere esaudita e che questo ‘benedetto’ mondo migliori, diventando veramente quello che noi vogliamo e che anche Fabrizio ha sempre sognato. Ve lo auguro… Grazie.

Non vi dico quanto Fabrizio abbia amato la Sardegna, è stato già detto. E poi lo ha dimostrato rimanendoci…

ORIZZONTI

A CURA DI ANDREA CANNAS

Jean Guichard Amore, guerra e morte nelle canzoni di Fabrizio De André Una scelta metodologica: l’analisi dei testi

De André è uno dei cantanti moderni – preferisco evitare la parola ‘cantautore’ ormai banalizzata – che, alla maniera di alcuni francesi (Brel, Léo Ferré, Brassens… peraltro da lui ben conosciuti), fecero parte della schiera di chi, come dice Baldazzi, «ride raramente o, se lo fa, più che altro sogghigna, perché è la canzone di chi riflette, protesta, dichiara la propria infelicità, lamenta il proprio disagio, espone la propria filosofia»1. Nel suo lavoro di poeta e di musicista, De André è stato anche un fine analista e critico della società italiana e dell’umanità contemporanea e portatore di messaggi politici ed etici che fanno di lui un ‘filosofo popo- lare’, uno di quelli (con Franco Amodei, Francesco Guccini, Giorgio Gaber e qualche altro) che aiutano a dare un senso alla vita, propongono dei modelli di comportamento, sono dei ‘maestri di vita’. Gli storici hanno sempre sottolineato che la canzone, come la favola, ha avuto la funzione di diffondere dei modelli di comportamento sessuale, sociale, morale, politico, ma raramente ha proposto una filosofia così ampia e coerente come quella di Fabrizio De André. In questo senso si è potuto parlare di un suo canzoniere.

1. Gianfranco Baldazzi, La canzone italiana del Novecento, Newton Compton Editori, Roma 1989, p. 128. 20 Jean Guichard

Ho scelto di analizzare i testi delle canzoni. E questo merita una breve premessa metodologica: a) Ho sempre sostenuto che un autore di testi di canzoni non è un semplice poeta, che la musica non è soltanto un vestito esterno della poesia e che non si può spogliare la canzone del suo abito per scoprirne la nudità, trovarne il senso profondo. La canzone è il pro- dotto di un’alleanza stretta di un testo, una musica e una voce, senza par- lare del regista dei concerti. Ma è stato giustamente notato che «Fabrizio De André ha scritto pensando alla musica, ma non ha nulla da temere dalla pagina muta di un libro. I testi sono scritti con la musica non per la musica. Si dividono. E specialmente in un primo periodo quei testi sono la vera struttura di tutto»2. E la partecipazione a questo congresso di stu- diosi dei testi, della musica e della voce permetterà un confronto, neces- sario alla comprensione delle canzoni, che permetta di andare più avanti verso la verità dell’opera di De André. b) Quanto ai testi, manca ancora oggi una vera edizione critica della sua produzione, come se ne fanno per i poeti, che comporti un’analisi dei riferimenti e delle allusioni a fatti sto- rici, a miti, ad altri autori, a testi antichi, politici, religiosi, e alle interpreta- zioni già proposte dai critici. Molti elementi esistono già in alcune opere come Accordi eretici 3. Sarebbero ora da raccogliere in modo più sistemati- co. Manca anche per esempio un dizionario delle occorrenze che permet- ta un’analisi più rigorosa della lingua di De André. c) Sia infine chiaro che analizzo i testi di De André e il pensiero che vi è espresso, ma non faccio una psicobiografia di Fabrizio De André, altro lavoro utile da realizzare. Troppo spesso sono state confuse le due operazioni, sono stati confusi il narratore dei testi e il loro autore. Dunque, quando dico De André, si deve sempre intendere le canzoni di De André.

2. Roberto Cotroneo, Una smisurata preghiera, in Fabrizio De André. Come un’anomalia. Tutti i testi, a cura di Roberto Cotroneo, Einaudi, Torino 1999, p. VII. 3. A cura di Romano Giuffrida e Bruno Bigoni, Fabrizio De André. Accordi eretici, EuresisEdizioni, Milano 1997, p. 222. 21 Amore, guerra e morte nelle canzoni di Fabrizio De André

Un’antiepopea

Ho raggruppato alcune ipotesi d’interpretazione sotto le tre parole di ‘Amore, guerra, morte’. Stavo allora lavorando sull’Ariosto e sul Tasso per la preparazione di un concorso accademico francese, e due versi di De André mi colpirono:

La polvere, il sangue, le mosche, l’odore per strada e fra i campi la gente che muore4.

Pensando anche a un articolo di Ankli sulla ‘funzione Medioevo’ in De André5, ho fatto l’ipotesi che, nella complessità dei suoi riferimenti lette- rari, De André abbia anche qualche rapporto con la tradizione della balla- ta epico-lirica e della letteratura cavalleresca, grande tradizione italiana, dotta e popolare. Paragonando quei due versi con «Le donne, i cavallier, l’arme, gli amori / le cortesie, l’audaci imprese io canto», mi proposi una lettura del canzoniere di De André come un’epopea, o piuttosto come un’epopea rovesciata, contro o antiepopea, in cui agli eroi epici si sostitui- vano gli antieroi, le ‘vittime del mondo’, gli emarginati, o degli eroi smitiz- zati (un re vigliacco); e alla gloria dell’eroe in guerra si sostituisce la scon- fitta, la morte o la fuga da gran cialtrone. Alla dialettica amore/guerra/glo- ria si sostituirebbe allora la dialettica amore/guerra/morte.

Farò riferimento al metodo di analisi del racconto teorizzato da Greimas, secondo il modello dei sei ATTANTI: l’OGGETTO agognato dal SOGGETTO che deve superare delle prove per conquistarlo,

4. Terzo intermezzo, in , in Fabrizio De André, op. cit., p. 69. Citeremo i testi di De André in riferimento a quell’edizione Einaudi. 5. Ruedi Ankli, Radici e continuità: la ‘funzione Medioevo’ nelle canzoni di Guccini, De André e Branduardi, «Franco Italica», (1997) n. 12, pp. 63-82. 22 Jean Guichard l’AIUTANTE che soccorre il soggetto, l’OPPOSITORE che lo ostacola, il DESTINATORE che pone l’oggetto come termine di desiderio, il DESTINATARIO che ne beneficia (e spesso è confuso con il soggetto)6.

Prenderò due esempi: Carlo Martello ritorna dalla battaglia di Poitiers e La ballata dell’eroe. In Carlo Martello si sovrappongono due strutture:

a) Nella prima, annunciata all’inizio («Re Carlo tornava dalla guerra»), la struttura potrebbe essere questa: Destinatore (non esplicito): Dio, o la Chiesa che manda il Re alla guer- ra contro l’infedele; Oggetto: la gloria, l’onore («lo accoglie la sua terra cingendolo d’al- lor»); Soggetto: il Re; Destinatario: il Re e il popolo cristiano (è un Re cristiano); Aiutante: le armi (armatura, elmo, cimiero, spadone…); Oppositore: il Moro. È la struttura classica del racconto cavalleresco.

b) Dalla seconda strofa si sovrappone una seconda struttura di raccon- to: Destinatore: il desiderio sessuale (le bramosie d’amor), interno al soggetto; Oggetto: l’amore (fare all’amore) e l’onore (valente) di farlo bene («in quel frangente d’onor si ricoprì»), incarnato nella pulzella-puttana; Soggetto: il Re; Destinatario: il Re; Aiutante: il gran nasone, il volto da caprone e l’essere il Re («poiché siete il mio Signore»);

6. Cfr. Algirdas Julien Greimas, Sémantique structurale, Larousse, Paris 1966 (trad. italiana: Semantica strutturale, Rizzoli, Milano 1969). 23 Amore, guerra e morte nelle canzoni di Fabrizio De André

Oppositore (ostacolo): le armi (l’intero gabbione) che il Re deve sfilarsi, il (falso) pudore della puttana, il prezzo da pagare, e l’ipotetico fidanzato («già d’altri è gaudio quel che cercate»).

Il racconto è il passaggio dalla prima alla seconda struttura: amore cor- tese (la sposa soave)  amore venale (l’aumento del prezzo); onore cavalle- resco (partire in guerra)  disonore (la fuga, il ritorno dalla guerra); il cavallo  il ciuco («frustando il cavallo come un ciuco»); le armi (lo spa- done)  gli attributi sessuali (il nasone, il volto da caprone), notare la rima; il trionfo del cavaliere («scendendo veloce di sella»)  la sconfitta, stanchez- za («incerto sull’arcione tentò di risalir»), come una prima apparizione del tema della MORTE.

Nelle due strutture: 1) l’azione è una GUERRA (frangente, tenzone); 2) la guerra è un ostacolo all’AMORE: «in battaglia può correre il rischio di perder la chiave»; 3) il Re è deriso e il tono generale è derisorio, manifestan- do il ridicolo dell’uomo di guerra, del potere, del Re. Siamo in un’antiepo- pea che fa apparire la contraddizione tra due forme di amore: quello nor- male, degno di un Re (la sposa soave), ma chiuso a chiave per la maggiore sicurezza del sovrano. L’ideale cortese (le cortesie dell’Ariosto) è abbando- nato appena appare un nuovo oggetto capace di calmare la sete, di appaga- re le bramosie d’amor; quello commerciale, in cui si deve discutere il prezzo e in cui, sotto l’apparenza della bella pulzella, si manifesta la realtà della grande puttana. Sotto l’apparente ideale dell’amor cortese soave appare la realtà violenta, bruta di un desiderio sessuale pronto a tutto (anche a pren- dere di forza la presunta pulzella). L’ironico riferimento a Dante accentua ancora il contrasto («ma più dell’onor poté il digiuno»). In questa demistificazione della guerra e dei valori del potere, si mani- festa già una dimensione fondamentale della ricerca di De André, l’ansia di trovare la verità sotto le apparenze sociali dominanti: «Tu mi hai inse- gnato il sogno, io voglio la realtà». 24 Jean Guichard

La sovrapposizione demistificatrice delle strutture è più completa ancora nella seconda canzone, La ballata dell’eroe. La prima struttura è quella della guerra:

Destinatore: loro (gli avevano, gli dissero), il potere; Oggetto: l’aiuto alla sua terra; Soggetto: l’eroe, il soldato, lui; Destinatario: la terra, la Patria, la gloria della patria (cioè un’astrazione); Aiutante: le mostrine, le stelle, il consiglio di vendere cara la pelle; Oppositore: il nemico, la morte.

La seconda struttura è quella dell’amore:

Destinatore: l’amore; Oggetto: l’amore di lui, la sua presenza nel letto; Soggetto: la donna, lei; Destinatario: lei (non più un’astrazione, ma una persona viva); Aiutante: nessuno (l’attesa sostituisce l’aiutante, con la gloria d’una meda- glia); Oppositore: la guerra che sostituisce l’eroe morto al soldato vivo.

Nella brevità della canzone, è esplicita la dialettica tra l’amore, la guer- ra e la morte. La guerra porta la morte dell’amore.

Una struttura permanente del canzoniere?

Sarebbe possibile analizzare così numerose canzoni della prima produ- zione di De André, particolarmente quelle ballate in cui la struttura nar- rativa, quasi immediatamente leggibile, corrisponderebbe allo schema delle due canzoni analizzate. Nelle opere posteriori, tuttavia, l’elemento narrativo è sempre più cancellato a profitto di una lirica complessa che renderà la lettura più difficile e soprattutto richiederà il ricorso ad altri 25 Amore, guerra e morte nelle canzoni di Fabrizio De André metodi di analisi. Non è possibile entrare qui in un dibattito sulla defini- zione della poesia; tanto, come dice Jacques Roubaud, «per ogni definizio- ne della poesia, esiste un controesempio». Però, faccio l’ipotesi che, dalle prime ballate agli ultimi testi, ci sia una struttura permanente del canzoniere di Fabrizio De André, una coerenza del pensiero, del messaggio trasmesso dai testi7, in una dialettica tra i tre temi di Amore/Guerra/Morte.

Nel cuore dei testi di De André sta la Morte. Cercando il Destinatore di molte canzoni, non si trova altro che la Morte; per esempio nella Canzone di Marinella: il Soggetto Marinella insegue l’Oggetto Amore di cui lei è il Destinatario e di cui il Re senza corona (che fa da Aiutante) le dà un’il- lusione; ma il racconto nasconde il delinquente (Oppositore) che uccide Marinella sotto la maschera dell’amante, e resta la morte come unico Destinatore possibile. La Morte appare come unico orizzonte naturale dell’uomo, l’unica realtà, mentre l’Amore è soltanto un sogno, «un bel sogno inutile / che si scorda al mattino» (Per i tuoi larghi occhi). Si può anche dare la morte per amore e poi darsi la morte per amore (La Ballata del Miche’ e La Ballata dell’amore cieco).

Ora quel ‘vuoto’ di ogni Destinatore è una situazione ricorrente nelle canzoni di Fabrizio De André e segna il trionfo della Morte, un mondo senza significato, senza ideale, senza utopia, senza scopo8: chi indica l’o- biettivo, l’Oggetto da raggiungere, è il Destinatore; senza il quale la vita diventa un insieme di «giorni perduti a rincorrere il vento»9. Il vuoto è tal- volta così insopportabile che riappare in parecchie canzoni il personaggio

7. Anche se De André è un cantante, non un filosofo, e non scrive secondo le leggi della logica, ma secondo quelle della fantasia, del sentimento, del ‘cuore’, che comportano un altro tipo di logica implicita non leggibile direttamente ma attraverso l’analisi della struttura profonda del testo. 8. «Qual è la direzione nessuno me lo imparò» (Canto del servo pastore). 9. Amore che vieni amore che vai. Il vento è segno di morte («Ascolta la sua voce che ormai canta nel vento» in Preghiera in gennaio), di quella decomposizione del mondo, come la bufera dantesca che trascina i dannati per amore sbagliato. 26 Jean Guichard di Dio, il Signore pregato dall’uomo di raddrizzare le ingiustizie, di dire di nuovo il vero e il giusto. Invocazione inutile e disperata: «Non si può dire che sia servito a molto / perché il male dalla terra non fu tolto»10. Anzi, succede che Dio appaia come il Destinatore iniziale, inventore di un mondo dominato dalla morte:

Perché dissi che Dio imbrogliò il primo uomo, lo costrinse a viaggiare una vita da scemo, nel giardino incantato lo costrinse a sognare, a ignorare che al mondo c’è il bene e c’è il male.

Quando vide che l’uomo allungava le dita a rubargli il mistero d’una mela proibita per paura che ormai non avesse padroni lo fermò con la morte, inventò le stagioni11.

Chi rivela agli uomini questa verità fondamentale è blasfemo e punito con la morte dai padroni. Ma Dio stesso è stato inventato (dai padroni e dalle loro guardie bigotte, nuovi e veri Destinatori), la mela proibita è qui sulla terra, e il giardino incantato nel quale sogniamo non ha altro scopo che di nascon- derci la verità delle cose, del bene e del male. Conseguenza di quest’universalità della morte è la considerazione che anche il tempo e la natura muoiono: «il sole si uccide» (Caro amore), «l’al- ba sta uccidendo la luna» (Via della povertà), «lungo il morire del giorno» (Il ritorno di Giuseppe).

È già chiaro nel Blasfemo che la Morte, oltre ad essere un fenomeno naturale, diventa sempre più nei testi un fenomeno sociale: chi dà la morte è il potere politico e la legge punisce il ladro (Geordie è impiccato per aver rubato «sei cervi nel parco del re», furto sbagliato perché fatto per vende-

10. Si chiamava Gesù. 11. Un blasfemo. 27 Amore, guerra e morte nelle canzoni di Fabrizio De André re, per avere soldi; ma per la donna amata non rubò neppure «un frutto o un fiore raro»12); il potere organizza la guerra, sempre fonte di morte: in Dormono sulla collina il testo di De André insiste, più di quello di Edgar Lee Masters, sulla morte in guerra, dedicandole tutta una strofa invece di un solo verso. Ma alla guerra vera e propria si sostituisce a poco a poco la guerra di classe, tra ricchi e poveri, alti e bassi. Di questa guerra, gli (anti)eroi sono tutti i diseredati: drogati, prostitute, travestiti, ladri, assas- sini, carcerati; i suicidi13, le «vittime di questo mondo», la part maudite, la parte maledetta, dice Jean Baudrillard, delle nostre società14.

E questo ci rimanda all’amore, unica alternativa alla morte e alla guer- ra. Ma è raro che l’amore appaia come pura felicità: Bocca di rosa è un’ec- cezione15, lei che «metteva l’amore sopra ogni cosa» e lo «faceva per pas- sione» e non per denaro (a differenza di Geordie che ruba per denaro), personaggio eccezionalmente puro che non ritroveremo mai, neanche nel suo pendant: diciassette anni dopo, Jamín-a, più carnale ma anche più inquietante («Lingua infuocata […] morso di carne soda […] sultana delle troie […] nodo delle tue gambe»). Infatti, l’amore è un’utopia, un sogno antitetico, l’ultima illusione avrebbe detto Leopardi, e nell’amore non è quasi mai assente la crudeltà: «lo ucciderà parlandogli d’amore»16. L’amore in De André evoca talvolta quello dei grandi mistici affascinati dagli assassini,

12. Geordie. 13. Sono presenti alcuni grandi suicidi dell’epoca contemporanea: Luigi Tenco, Cesare Pavese («La morte verrà all’improvviso / avrà le tue labbra e i tuoi occhi», ripresa di «Verrà la morte e avrà i tuoi occhi»), o un ‘semi-suicida’ come Pier Paolo Pasolini. 14. Jean Baudrillard, La part maudite, «Le Courrier de l’UNESCO», Juillet (1987), pp. 7-9. Baudrillard sviluppa l’idea che la droga e i diversi tipi di delinquenza rappresentano la part maudite delle nostre società iperrazionaliste, cioè una reazione di sopravvivenza che dimostra la necessità del simbo- lico: «Si può mostrare, l’ha fatto Georges Bataille, come la maggior parte delle nostre società fun- zionano partendo dal simbolico, secondo un processo più o meno esplicito». La droga è un feno- meno d’esorcismo della realtà, dell’ordine sociale, dell’indifferenza delle cose. Rileggendo quel- l’articolo di Baudrillard, sono stato colpito dalla convergenza tra la sua tesi filosofica e la forma della lirica di De André. 15. Insieme a un’altra canzone quasi contemporanea: Nell’acqua della chiara fontana. 16. Via della povertà. 28 Jean Guichard come la Caterina da Siena descritta da Malaparte17. Si è lontani da ogni romanticismo, l’unica salvezza è nella pietà: «Non cercare la felicità / in tutti quelli a cui tu / hai donato / per avere un compenso / ma solo in te / nel tuo cuore / se tu avrai donato / solo per pietà». Economia del dono contro economia dello scambio: proposta attuale nelle discussioni sulla globalizzazione! Ma questa pietà per le vittime implica l’entrare in guerra contro chi opprime: non si esce mai dal cerchio Amore/Guerra/Morte.

Questi pochi appunti, brevi suggestioni da verificare e da sviluppare, potrebbero suggerire una visione pessimistica del mondo nelle canzoni di De André. E si potrebbe ricollegare questo pessimismo con la scelta, tra gli oppressi, per gli emarginati. Quando c’era ancora un Destinatore delle lotte, il Partito o il Movimento, e un Soggetto attivo, la classe operaia orga- nizzata, la visione poteva includere un certo ottimismo (anche illusorio), nella prospettiva di abbattere gli oppressori e di creare una società senza oppressione né alienazione. Non è più il caso in De André, più anarchico che marxista. E si prospetta allora un canzoniere più influenzato dalla let- teratura e dalle canzoni di Brassens o da una pietà francescana per i pove- ri che da una critica politica seria del mondo contemporaneo. Più profondamente, si può dire che De André, da poeta più che da politico, anticipa una realtà che stava per affermarsi: nelle sue ultime opere, le vittime di questo mondo non sono più strettamente italiane ma si allargano a tutto il Mediterraneo18, al Medio Oriente, all’Africa; e la sua poesia assume dunque valore universale. De André profeta? De André che sorpassa il pessimismo con il solo fatto di cantare i testi:

17. Cfr. Curzio Malaparte, Maledetti toscani, ristampa Mondadori, Milano 1997, p. 50: «Mi piace in Santa Caterina quella sua atroce, esaltata simpatia per i criminali, gli assassini, i parricidi, quella sua torbida passione per i più efferati delitti». 18. E alle sue lingue. La lotta contro l’oppressore è anche lotta contro la sua lingua. La scelta del dia- letto nelle ultime opere va di pari passo con quella dell’economia del dono. 29 Amore, guerra e morte nelle canzoni di Fabrizio De André

Libertà l’ho vista svegliarsi ogni volta che ho suonato per un fruscio di ragazze a un ballo, per un compagno ubriaco.

E poi se la gente sa, e la gente lo sa che sai suonare, suonare ti tocca per tutta la vita e ti piace lasciarti ascoltare19.

19. Il suonatore Jones.

Andrea Cannas Utopia e il cinghiale laureato in matematica pura

«Potevo assumere un cannibale al giorno per farmi insegnare la mia distanza dalle stelle. Potevo attraversare litri e litri di corallo per raggiungere un posto che si chiamasse arrivederci» (Amico fragile)

I Non intendo soffermarmi, se non brevemente, sull’annosa questione del rapporto tra poesia e canzone d’autore1: vorrei piuttosto focalizzare l’attenzione sulla tensione artistica e le modalità in cui trova piena espres- sione, lungo i percorsi che traccia l’opera di un grande narratore in versi. Mario Luzi, in una lettera allo chansonnier genovese2, valutava come i suoi motivi verbali e musicali avessero una preistoria popolare assai signi- ficativa, e si stupiva per

l’uso libero, saputo e ingenuo – sulla scorta di antiche filastrocche e balla- te – delle battute verbali, delle frasi, dei luoghi linguistici: senza sintassi o paratassi, ovviamente, che acquistano però senso dalla semplice accumu- lazione e variazione. C’è, noto, molta eleganza in questo gioco, ma chi è che veramente lo comanda? Senza il concorso del ritmo avrebbe un mini- mo effetto questa bella sequela di parole? […] ha prevalso il poeta o il musicista? Bene, proprio il suo a me pare un caso in cui la distinzione non è da proporre […]. La sua poesia, poiché la sua poesia c’è, si manifesta nei modi del canto e non in altro; la sua musica, poiché la sua musica c’è, si

1. Della quale si è discusso anche in modo pretestuoso, spesso tralasciando di considerare – al di là delle categorie di riferimento – il valore specificamente letterario dell’opera di Fabrizio De André. 2. Essa costituisce l’introduzione all’opera, a cura di Romano Giuffrida e Bruno Bigoni, Fabrizio De André. Accordi eretici, EuresisEdizioni, Milano 1997, pp. 13-14. 32 Andrea Cannas

accende e si espande nei ritmi della sua canzone e non altrimenti. Per quanto il suo dono di affabulazione crei una certa magia, non sarebbe in grado di soggiogare l’uditorio senza il foco di quella concrezione e sintesi.

De André dal canto suo, interrogato sull’opportunità di considerare se stesso un poeta con tutti i crismi e gli oneri del caso, in una (rara) intervi- sta televisiva rispose: «Benedetto Croce diceva che fino all’età di diciotto anni tutti scrivono poesie, dai diciotto anni in poi rimangono a scriverle due categorie di persone: i poeti e i cretini... e quindi io precauzionalmen- te preferirei considerarmi un cantautore»; di seguito chiariva sui termini di una possibile distinzione:

e per quanto riguarda l’ipotesi di differenza fra canzone e poesia io non ho mai pensato che esistessero arti maggiori o arti minori, casomai artisti maggiori e artisti minori, quindi, se si deve parlare di differenza fra poesia e canzone, credo che la si dovrebbe ricercare soprattutto in dati tecnici3.

Fatto sta che nella dimensione a noi contemporanea l’ampia circolazio- ne di versi, soprattutto se vogliamo considerare le fasce di pubblico più giovane, è legata di preferenza al supporto musicale: in particolare la can- zone è una delle poche forme di composizione letteraria che venga impa- rata a memoria (anche quando il testo non è in italiano) senza bisogno di istigazioni scolastiche, o di suggestioni didattiche4. Aiuta senza dubbio la scansione di ritornelli facilmente orecchiabili che vengono reiterati a volte struggentemente: tuttavia sarebbe fin troppo semplice fissare l’attenzione sull’ossessione del tormentone clonabile che costituisce la colonna sono-

3. Cfr. la videocassetta nel cofanetto che comprende anche il volume Fabrizio De André, Come un’a- nomalia. Tutte le canzoni, a cura di Roberto Cotroneo, Einaudi, Torino 1999. D’altra parte, Ezio Alberione (Frammenti di un canzoniere, in Fabrizio De André. Accordi eretici, cit., p. 95) ritiene che la canzone (e la sua attenzione focalizza l’opera di De André) sia «un deposito e un miscelatore di generi, stili, tradizioni. È lirica, epica, gnomica. E, proseguendo di questo passo, tragedia, com- media, elegia, dramma, satira». 4. Noto che gli appassionati delle canzoni di Fabrizio De André apprendono con insospettabile applicazione anche i testi in dialetto. 33 Utopia e il cinghiale laureato in matematica pura ra di stagioni musicali usa e getta. A voler approfondire il ragionamento, si finisce ineluttabilmente per proporre criteri che distinguano la canzone commerciale di consumo da una produzione più colta che non disdegna il richiamo di modelli illustri. Umberto Eco (Apocalittici e integrati), introdu- cendo il discorso relativo alla canzone colta – contrapposta a quella gastronomica –, parla di «musicisti che cantano canzoni in cui le parole contano e si stanno a sentire»; in particolare si sofferma su quegli autori che non elaborano esclusivamente attorno a tematiche sentimentali, e comun- que non compongono per astratto, ma circoscrivendo il movimento amo- roso gli danno uno sfondo: essi prendono spunto volentieri dalla satira politica e finiscono per restituire una canzone civile, trattando quei pro- blemi che sono avvertiti da una coscienza storica. Alla canzone nell’ambito della cultura italiana ha dedicato uno studio Jean Guichard5, il quale afferma che la «chanson est sans doute la plus ‘politique’ des formes artistiques, celle qui traduit le mieux les rapports de pouvoir économiques et politiques, les inégalités sociales […] les grands problèmes qu’a dû affronter la société italienne»6. Cionondimeno, a suo giudizio essa non può ridursi a una funzione di strumento propagandisti- co di un potere costituito o a vantaggio di una parte politica; ciò che la definisce e ne assicura il successo è la sua natura estetica, la sua bellezza:

on ne peut donc en juger à partir de ce qu’ils disent (dans leurs textes) du politique, mais seulement à partir de critères plus complexes, commandés par un respect de leur forme spécifique, textuelle, musicale, vocale et théâ- trale, – c’est à dire aussi de leur forme de rapport à un public donné. C’est pourquoi la tentation ‘politique’ se conjugue toujours en fin de compte avec la tentation ‘poétique’7.

5. Jean Guichard, La chanson dans la culture italienne. Des origines populaires aux débuts du rock, Honoré Champion Éditeur, Paris 1999. 6. Ivi, p. 14. 7. Ivi, pp. 14-15. 34 Andrea Cannas

Dare spazio in maniera preponderante all’aspetto ‘politico’ vuol dire privilegiare esclusivamente il messaggio testuale, il ‘contenuto verbale’ di cui la musica non rappresenterebbe altro che la forma, secondo una dico- tomia tra forma e contenuto ancora troppo comunemente praticata. In realtà la trama melodica, come l’interpretazione vocale, aggiunge talvolta delle informazioni che nel testo mancavano o erano soltanto alluse, e in tal senso può sciogliere l’ambiguità del contenuto facendosi essa stessa portatrice di significato. Viceversa cedere al ‘poetico’ comporterebbe una riduzione della can- zone alle sue qualità esclusivamente letterarie: «c’est juger la chanson à l’une de critères applicables à la poésie, oubliant tous les autres éléments qui la composent: autre entreprise qui aura toujours pour conséquence de renvoyer la chanson dans le domaine des arts ‘mineurs’, de la souscultu- re»8. Secondo Guichard la canzone italiana ‘d’autore’ interagisce con entrambe le dimensioni, nel tentativo di affermarsi come forma d’arte specifica, in una sintesi dove non è difficile ritrovare le tracce delle sue fonti: popolari, melodrammatiche e straniere; poetiche, letterarie o politi- che. Non si tratta di optare per la musica leggera contemporanea contro la letteratura del passato,

de troquer Dante, Pétrarque, Boccace et le Tasse contre Guccini, Conte, Branduardi et Ciampi; ce n’est pas les uns ou les autres, c’est les uns et les autres. Les auteurs du passé éclairent nos auteurs de chansons d’aujour- d’hui; mais prendre à bras le corps la chanson qui se fait maintenant est une bonne façon de maintenir vivante la production ancienne et de la faire revivre pour nos contemporains9.

La modernità non prende sostanza dalla volontà di rinnegare il passa- to, ma scaturisce da una rilettura permanente a partire dalla considerazio-

8. Ivi, p. 15. 9. Ibidem. 35 Utopia e il cinghiale laureato in matematica pura ne della realtà presente: «il n’est pas passéiste de se consacrer à Dante, le passéisme est de s’y consacrer en méprisant ou en ignorant Guccini». Se i versi che circolano con la maggiore diffusione sono legati alla ‘forma’ canzone, se è importante valutare criticamente il livello delle com- posizioni più ‘mature’ – la dissoluzione della formula stereotipata cui esse danno adito – non per questo si deve relegare in una posizione banaliz- zante la canzone disimpegnata. Lo stesso Guichard cita un’intervista («L’Espresso» del 3 novembre 1985) in cui De André, da un punto di vista più estetico che sociologico, condannava gli equivoci che lo avevano con- dizionato fino a considerare benignamente un brutto componimento d’impatto civile, e magari a sottovalutare una prodigiosa filastrocca votata a una totale spensieratezza. Un ignobile pregiudizio pseudoculturale impedisce di comprendere (scriveva Fabrizio De André) che Scacchi e taroc- chi (di Francesco De Gregori) e Papaveri e papere (interpretata da Nilla Pizzi al festival di Sanremo del 1952) sono due canzoni belle ciascuna a suo modo. Osservazione che non stupisce, se pensiamo a quanto rilevato da Romano Giuffrida e Bruno Bigoni10 a proposito delle sue idealità compo- sitive: «una poetica che ha quasi sempre avuto nella semplicità espressiva la sua forza, e che rispondeva così, ancora una volta (ma forse inconsapevol- mente) alle indicazioni di Tolstoj». Giuffrida e Bigoni fanno riferimento a un testo specifico (Che cos’è l’arte? del 1897) di cui citano un breve brano, illuminante per quanto concerne la nostra discussione:

L’artista del futuro capirà che inventare una favola, una canzone commo- vente, una filastrocca […] e disegnare un’immagine capace di allietare decine di generazioni o milioni di bambini e di adulti è immensamente più importante e fecondo che non scrivere un romanzo o una sinfonia, o dipingere un quadro in grado di distrarre per un po’ di tempo qualche per- sona delle classi ricche per poi essere dimenticato per sempre.

10. Canzoni corsare, in Fabrizio de André. Accordi eretici, cit., pp. 43-44. 36 Andrea Cannas

E tuttavia quando De André compone una filastrocca, un Girotondo,e con un linguaggio all’apparenza semplice e pulito fa cantare dei bambini – il coro si intreccia con la voce dell’autore fino a che non ne apprende il sarcasmo –, racconta di un aeroplano che scarica un ordigno così poten- te da distruggere l’intero pianeta.

II Ci sono alcune qualità che definiscono l’opera di Fabrizio De André, al di là del rifiuto dei facili stereotipi11 e della lacerazione anche violenta del luogo comune: in cambio viene offerto un luogo, ritagliato per e tendenzialmente utopico, decisamente più confortante. Uno spazio (poetico appunto) che si ricava a partire da un moto di opposizione. Evita il banale scioglimento di una vicenda d’amore per consegnarle (tanto per accontentare Eco) uno sfondo concreto, fortemente evocativo o comunque dotato di grande intensità e vivezza, anche e forse soprattut- to nella proposizione della figura femminile: si pensi a Jamín-a, a Bocca di Rosa, al Sogno di Maria o alla Canzone di Barbara. Jamina in particolare ci viene mostrata come attraverso uno specchio che restituisce forme per nulla vaghe. Difatti la sua sensualità si concretizza davanti allo sguardo del narratore che la suscita nel racconto, che reclama la sua apparizione; e lei – che nulla lascia trapelare – si manifesta ai nostri sensi come un riflesso abbacinante. Vorrei porre in evidenza, a questo punto, il potere trasfigu- rante del racconto cantato, uno dei cardini su cui fa perno la poetica del- l’autore della Canzone di Marinella (1964). Cito non a caso il titolo che diede la celebrità a De André, mercé la virtù canora di Mina. Nella realtà, come

11. Agisce anche in senso ironico. Per esempio lo slogan «fate l’amore non fate la guerra» viene in un certo senso anticipato e superato con Carlo Martello ritorna dalla battaglia di Poitiers (1963): l’e- roe, dopo tanto guerreggiare, vorrebbe dedicarsi alle vicende amorose. Impresa mica tanto sem- plice, soprattutto se nel suo itinerario cavalleresco sulla via del ritorno non gli riesce d’incontra- re che una prostituta (la quale, peraltro, gli fa sperimentare come l’inflazione intacchi il potere d’acquisto). Da notare all’interno del brano (scritto a due mani con Paolo Villaggio) la citazione dantesca (ma più dell’onor poté il digiuno) traslata su un piano eroicomico. 37 Utopia e il cinghiale laureato in matematica pura lo stesso autore ha spiegato in più di una occasione, Marinella era una gio- vanissima prostituta aggredita e scaraventata nel fiume Tanaro (o nella Bormida12) dal suo assassino. L’arte le ha tessuto un’altra esistenza («ma un Re senza corona e senza scorta / bussò tre volte un giorno alla tua porta»), ricca di trasporto e sospesa nella scoperta dell’amore; la violenza viene riassorbita e tradotta nel dramma quasi banale (ma altrettanto cru- dele) di un incidente («nel fiume, chissà come, scivolavi / e lui che non ti volle creder morta / bussò cent’anni ancora alla tua porta»). La scrittura di De André è come il vento che piega gli avvenimenti e crea l’opportunità per la quale Marinella è condotta dal fiume, dove annegò la prostituta, all’u- niverso della poesia (sopra una stella). Dimensione letteraria e utopia – come creazione di un luogo diverso – sfumano l’una sull’altra. Non a caso la canzone afferma, a mo’ di prologo: «Questa [e non quella riportata dalle cronache] di Marinella è la storia vera». Ciò che appartiene al mondo dei versi sembra destinato a vivere, nel contatto stridente con la realtà che gli scor- re accanto, «solo un giorno come le rose». Scivoliamo inevitabilmente in un tema caro all’agricoltore dell’Agnata:

Il punto in cui cultura medievale e filosofia del Novecento si incontrano, nella canzone di De André, è la frequentazione del tema della morte. La morte, heideggerianamente, è la possibilità più certa dell’uomo: in quanto proprium della vita, dovrebbe essere il principio che ridimensiona la insen- sata cura de’ mortali. Il canto ‘sepolcrale’ di questo epigono di Ugo Foscolo risponde tanto al bisogno di recuperare, di non disperdere e vanificare l’esistenza di chi è morto (canzone-monumento), quanto a un principio di esemplarità che interpella la coscienza di chi vive hic et nunc (canzone-monimento). La Morte assume talora i tratti ‘trionfali’ di certe figurazioni medievali, talvol- ta i caratteri di una Pietà che maternamente accoglie i diseredati della vita, altre volte i contorni di una vanitas barocca, sospesa tra horror vacui, memen- to mori, cupio dissolvi 13.

12. Fabrizio De André (Cfr. Come un’anomalia, cit. p. 17.) non ricorda il luogo esatto. 13. Ezio Alberione, op. cit., p. 99. 38 Andrea Cannas

Occorre non dissipare l’esperienza e il dolore di chi ha vissuto – si trat- ta appunto di far durare quel momento, breve com’è il fiorire delle rose. Dalle voci dei suoi personaggi, dal loro racconto, De André tende a recu- perare il momento fondamentale che definisce la stagione della vita, e li riaccosta alla morte, preservando con scrupolosa cura il centro della loro esistenza. Un centro di gravità verso cui precipita l’esistenza, se non fosse che durante la caduta ogni personaggio, paradossalmente quanto poetica- mente, guadagna in leggerezza (mi vengono in mente Paolo e Francesca, la potente sintesi dantesca che scaturisce dall’intreccio della terza rima). Ricordiamo l’album Non al denaro non all’amore né al cielo (1971), in cui l’ar- tista genovese riprende piuttosto liberamente14 una ristretta cerchia di poe- sie dall’Antologia di Spoon River. De André conserva quello che Pavese definì il violento e sicuro gesto di Lee Masters, che riduceva le storie umane a un volontario avvenimento imposto sulle deviazioni. Lo spazio assoluto di un episodio che dura pochi istanti, poche battute, e però rac- chiude l’emblema, a volte l’anelito estremo di un’esistenza.

Abbiamo per esempio un chimico che muore a causa di un esperimen- to sbagliato: quando credeva di aver imparato le leggi che legano indisso- lubilmente l’idrogeno e l’ossigeno, ma senza aver avuto accesso ai senti- menti degli uomini («Fui chimico e, no, non mi volli sposare. / Non sape- vo con chi e chi avrei generato: / son morto in un esperimento sbagliato / proprio come gli idioti che muoion d’amore»). Un nano che persegue con pertinacia il suo riscatto nei confronti degli uomini – che da sempre lo avevano deriso – fino a quando lo vediamo assiso sulla cattedra del tri- bunale, un giudice vendicativo e inderogabile («e di affidarli al boia / fu un piacere del tutto mio, / prima di genuflettermi / nell’ora dell’addio / non conoscendo affatto / la statura di Dio»). La quotidianità di un malato di cuore è invece condizionata dal limite fisico, eppure il protagonista celebra

14. Le riscrive, ottenendo non di rado una maggiore resa espressiva. 39 Utopia e il cinghiale laureato in matematica pura tutta l’intensità del proprio sentimento nell’istante fatale in cui bacia la donna dalle cosce color madreperla («Ma che la baciai questo sì lo ricordo / col cuore ormai sulle labbra, / ma che la baciai, per Dio, sì lo ricordo, / e il mio cuore le restò sulle labbra»). Anche al di fuori dell’esperienza lega- ta alle traduzioni dall’Antologia di Spoon River, troviamo vari componimen- ti che riprendono lo stesso modulo narrativo, con questa fortissima con- centrazione di un’esistenza in poche battute: La guerra di Piero (1964) rac- conta l’umana compassione e lo stupore di un giovane soldato nell’incro- ciare il suo nemico, che gli assomiglia tanto da rispecchiarlo specularmen- te. Piero15 sorprende in fondo alla valle un uomo che aveva il suo «stesso identico umore / ma la divisa di un altro colore». Riconosce se stesso, la propria riluttanza, nelle ambigue sembianze del suo antagonista, e gli usa premura e cortesia; in breve, esita a uccidere: la scena viene sapientemente dilatata nella rappresentazione degli stati d’animo di Piero, ispessendo il tempo della morte16. Nella realtà dura un attimo. L’altro si volta, lo vede e, impaurito, spara. Maria nella bottega di un falegname (La buona novella, 1970) si sviluppa in forma di dialogo a partire dalle domande che la madre di Gesù rivolge all’uomo che sta costruendo le tre croci del Calvario17. I legni, già gron- danti del sangue di supplizi passati, prefigurano l’imminente epilogo:

Mio martello non colpisce, pialla mia non taglia per foggiare gambe nuove a chi le offrì in battaglia, ma tre croci, due per chi disertò per rubare, la più grande per chi guerra insegnò a disertare.

15. Che cammina con l’anima in spalle. 16. In effetti l’ascoltatore conosce fin da principio il destino (che appare dunque ineluttabile) di Piero: Dormi sepolto in un campo di grano è il verso che apre e avvia l’epilogo della canzone. 17. C’è poi una terza voce corale. 40 Andrea Cannas

Ha già compreso la verità, quando chiede al falegname «quali volti sbiancheranno» sopra quelle croci: ogni colpo di martello, ripercuotendo- si anche a livello sonoro, misura il tempo della passione e anticipa il sup- plizio finale del figlio – e dei due ladroni. Il destino della figura femminile18, in Se ti tagliassero a pezzetti (L’Indiano, 1981), evocata precedentemente in versi sensuali che possiedono il sapo- re dolce-amaro di un ricordo che riaffiora, viene accennato quasi per caso, e appare fugace come un incontro:

T’ho incrociata alla stazione che inseguivi il tuo profumo presa in trappola da un tailleur grigio fumo i giornali in una mano e nell’altra il tuo destino camminavi fianco a fianco al tuo assassino.

È talmente concentrato il pianto di una madre per il suo bambino – «tumore dolce e benigno, spremuto nell’afa umida dell’estate» straziato come selvaggina dai «soldati cani arrabbiati» – che la voce individuale esplode e assurge a espressione di un’intera città ridotta in macerie, Sidone (Sidún in Creuza de mä, 1984), un intero popolo devastato:

e doppu u feru in gua i feri d’ä prixún e ’nte ferie a semensa velenusa d’ä depurtaziún perché de nostru da a ciânua a u meü nu peua ciû cresce aerbu ni spica ni figgeü19.

Il resoconto può anche farsi divertito, come nel caso di Sinàn Capudàn Pascià, nome acquisito dal marinaio Cicala, il quale narra l’episodio crucia- le ma fortunato grazie al quale rovescia la sua condizione sociale, da pri- gioniero dei Mori a Gran Visir e Serraschiere del Sultano:

18. Al di là del suo valore metaforico: «signora libertà, signorina fantasia». 19. La traduzione è dello stesso De André: «e dopo il ferro in gola i ferri della prigione / e nelle feri- te il seme velenoso della deportazione / perché di nostro dalla pianura al molo / non possa più crescere albero né spiga né figlio». 41 Utopia e il cinghiale laureato in matematica pura

e questa a l’è a me stöia e t’ä veuggiu cuntâ ’n po’ primma ch’à vegiàià a me peste ’ntu murtä […] E suttu u timun du gran cäru c’u muru ’nte ’n broddu de färu ’na neutte ch’u freidu u te morde u te giàscia u te spûa e u te remorde e u Bey assettòu u pensa ä Mecca e u vedde ë Urí ’nsce ’na secca ghe giu u timùn a lebecciu sarvàndughe a vitta e u sciabeccu20.

In realtà non si tratta di un semplice caso benigno, Cicala muta la sorte con una saggezza che è adattamento alle condizioni del vivere, lungimi- ranza da marinai che, in conclusione, si esprime con un efficace aforisma: «e digli a chi mi chiama rinnegato / che a tutte le ricchezze all’argento e all’oro / Sinàn ha concesso di luccicare al sole / bestemmiando Maometto al posto del Signore».

In definitiva il narrare in versi, dentro una canzone, obbliga l’autore a usare una misura corta, rapida, oltreché metricamente conchiusa. Da qui l’urgenza, in così breve margine, di raccontare ciò che è veramente discri- minante. La canzone di De André innanzitutto ritaglia un luogo di incon- tro fra racconto breve e poesia, fra narrazione – che fa sbocciare immagi- ni di grande vigore – e verso, un luogo ritagliato apposta perché lo spet- tatore indugi ad ascoltare. Altri possono essere i percorsi letterari rintracciabili dentro l’opera di Fabrizio De André21: in primo piano ancora una volta la sua capacità di

20. Idem: «e questa è la mia storia / e te la voglio raccontare / un po’ prima che la vecchiaia / mi pesti nel mortaio […] e sotto il timone del gran carro / con la faccia in un brodo di farro / una notte che il freddo ti morde / ti mastica ti sputa e ti rimorde / e il Bey seduto pensa alla Mecca / e vede le Urí su una secca / gli giro il timone a Libeccio / salvandogli la vita e lo sciabecco». 21. Autore anche di un romanzo scritto a due mani con Alessandro Gennari, Un destino ridicolo. Prima di morire ha lasciato (incompiuti) una serie di rapidi bozzetti di racconti. 42 Andrea Cannas testimoniare la realtà, registrando le vicende di personaggi spesso ai mar- gini della società, diseredati o prostitute, zingari, ladri o travestiti, fino a trasfigurarla – come si è visto – per attingere a un’altra prospettiva, al tempo stesso utopica e poetica. Da una simile prospettiva, il ricorso al dia- letto è fondamentale risorsa espressiva, in grado di creare un effetto dis- sonante/straniante nel momento in cui contraddice il rumore di fondo del villaggio globale. Il dialetto rivendica spazi inesplorati, ovvero riaffiora all’improvviso – come da una memoria umanamente diffusa, mai sopita – e si sovrappone al linguaggio tradizionale e autorizzato: un’ipotesi centri- fuga rispetto alla istituzionalizzazione della realtà. Da analoghe esigenze deriva peraltro l’attenzione per i testi apocrifi – tanto nel senso di libri inautentici quanto in quello di testi nascosti, segreti – per le interpretazio- ni che deviano e contestano i documenti ufficiali: travisando essi finisco- no per riportare alla luce la verità. Si pensi all’album La buona novella, pro- gettato a partire dai vangeli non riconosciuti dall’apparato ecclesiastico, e che vede in buona parte lo stesso De André costruire l’impianto per un nuovo, suggestivo libro apocrifo. Il cantautore sardo/genovese usa il dia- letto come risposta alla crisi e alla svalutazione dei segni e delle parole, che non riescono ad afferrare la contemporaneità, ma è altrettanto abile a tra- sformare in canto un linguaggio straziato e profetico22 – l’idioma stesso della crisi – nella bellissima La domenica delle salme:

I polacchi non morirono subito e inginocchiati agli ultimi semafori rifacevano il trucco alle troie di regime lanciate verso il mare […] la scimmia del quarto Reich

22. «Tentò la fuga in tram / verso le sei del mattino / dalla bottiglia di orzata / dove galleggia Milano/ non fu difficile seguirlo / il poeta della Baggina / la sua anima accesa / mandava luce di lampadina / gli incendiarono il letto / sulla strada di Trento / riuscì a salvarsi dalla sua barba / un pettirosso da combattimento». La Baggina è il nome che viene dato a Milano al ‘Pio Albergo Trivulzio’, casa di riposo per anziani, che sarebbe divenuto famoso di lì a poco (la canzone uscì con l’album nel 1990) con lo scoccare degli avvenimenti legati a ‘Mani pulite’. 43 Utopia e il cinghiale laureato in matematica pura

ballava la polka sopra il muro e mentre si arrampicava le abbiamo visto tutti il culo la piramide di Cheope volle essere ricostruita in quel giorno di festa masso per masso schiavo per schiavo comunista per comunista […] il ministro dei temporali in un tripudio di tromboni auspicava democrazia con la tovaglia sulle mani e le mani sui coglioni – voglio vivere in una città dove all’ora dell’aperitivo non ci siano spargimenti di sangue o di detersivo – a tarda sera io e il mio illustre cugino De Andrade eravamo gli ultimi cittadini liberi di questa famosa città civile perché avevamo un cannone nel cortile.

Lo sguardo allucinato che vaga per la metropoli fumosa, implosa per intima corruzione23, si sofferma a seguire con note discordanti il corteo funebre che accompagna il cadavere di Utopia. Le scene, susseguendosi come da diversi angoli di inquadratura, sono interrotte da una dura apo- strofe, indirizzata contro quegli artisti degradati che avevano cantato «sui trampoli e in ginocchio / coi pianoforti a tracolla vestiti da Pinocchio», che si erano esibiti «per i longobardi e per i centralisti / per l’Amazzonia e per la pecunia»:

23. Mi viene in mente un illustre precedente di utopia rovesciata: la città di Acchiappa-citrulli di pinocchiesca memoria. Il burattino verrà di lì a poco effettivamente evocato dallo stesso De André. 44 Andrea Cannas

La domenica delle salme nessuno si fece male tutti a seguire il feretro del defunto ideale e sarebbe forse rilevante domandarsi tutti chi? Magari stiamo per assistere al pasto degli sciacalli, oppure a sfilare è un corteo di resuscitandi che cele- brano la passione24 – e ancora, una simile processione è abbastanza variega- ta da comprenderci quasi tutti quanti, maschi, femmine e cantanti 25? Come nel giorno del giudizio, il tempo della Storia si cristallizza in una logica ultra- mondana26 analoga al contrappasso dantesco. Morta Utopia, sembra non esserci più spazio per un progetto umano che non sia terrificante:

la domenica delle salme si sentiva cantare quant’è bella giovinezza non vogliamo più invecchiare. […] La domenica delle salme gli addetti alla nostalgia accompagnarono tra i flauti il cadavere di Utopia la domenica delle salme fu una domenica come tante il giorno dopo c’erano i segni di una pace terrificante.

Se l’Italia del potere e degli affari, in bilico fra i luccicanti anni Ottanta e un futuro già malamente ipotecato, si apprestava con una fretta che desta sospetto a celebrare il funerale degli ideali, Fabrizio De André non

24. Evidentemente ironico il calco in negativo della domenica delle palme, la quale secondo liturgia dovrebbe precedere eventi rivoluzionari: la domenica delle salme allora ne segna davvero, specu- larmente, l’epilogo. 25. Cfr. Ottocento sempre in Le nuvole. 26. E precisamente infernale. 45 Utopia e il cinghiale laureato in matematica pura rinuncia a indicare una direzione inversa27; e, rispondendo in un’intervista a chi gli domandava notizie su Utopia, chiarisce: «un uomo senza utopia, senza sogno, senza ideali, vale a dire senza passioni, senza slanci, beh sarebbe un mostruoso animale fatto semplicemente d’istinto e di razioci- nio, una specie di cinghiale laureato in matematica pura»28.

27. Come ribadisce la sua Smisurata preghiera: «per chi viaggia in direzione ostinata e contraria» anche solo «per consegnare alla morte una goccia di splendore» (Anime salve, 1996). 28. Intervista contenuta nella videocassetta in Fabrizio De André, Come un’anomalia, cit.. La matema- tica pura è la stessa cui guardava con sospetto Giacomo Leopardi: astratta, perché non ha alcu- na disposizione alla sintesi, è incapace a mettere in relazione l’uomo con la società e in definitiva con l’universo – e dunque a porsi le questioni fondamentali per lo stesso individuo: prima fra tutte la felicità.

Antioco Floris Non ci sono poteri buoni Suggestioni anarchiche nella poesia cantata di De André

«signora libertà, signorina anarchia così preziosa come il vino, così gratis come la tristezza, con la tua nuvola di fumo e di bellezza»1

«certo bisogna farne di strada da una ginnastica di obbedienza fino ad un gesto molto più umano che ti dia il senso della violenza però bisogna farne altrettanta per diventare così coglioni da non riuscire più a capire che non ci sono poteri buoni»2

«di fronte a una pace terrificante preferisco combattere»3.

Signora libertà, signorina anarchia

Fabrizio De André era anarchico. Di questa sua convinzione politica non ha mai fatto mistero, non perdendo occasione per esprimere la sua adesione all’Idea attraverso le parole e le dichiarazioni pubbliche, come anche attraverso il sostegno economico alle organizzazioni del movimen- to anarchico. La dichiarazione di appartenenza è ricorrente in tutte le

1. Se ti tagliassero a pezzetti nella versione eseguita dal vivo il 16 settembre 1991 all’arena Civica di Milano (in 1991 Concerti e Ed avevamo gli occhi troppo belli). 2. Nella mia ora di libertà, in Storia di un impiegato, 1973. 3. L’importante è non sgarrare troppo, intervista della redazione di «Senzapatria», ora in Fabrizio De André, ma la divisa di un altro colore, Editrice A, Milano 2003, supplemento al n. 292 (estate 2003) di «A Rivista anarchica», pp. 7-8. 48 Antioco Floris interviste concesse, e durante i concerti nelle diverse città quando dal palco saluta l’amico anarchico del luogo o esprime la sua vicinanza al gruppo libertario locale. O ancora quando, sempre durante i concerti, adatta i testi delle canzoni e richiama ‘la signora libertà e signorina anar- chia’ (Se ti tagliassero a pezzetti), o racconta di scialuppe dove «i posti letto sono tutti occupati e gli anarchici tutti annegati» (Via della povertà)4. Il sostegno economico al movimento si concretizza invece con dona- zioni frequenti e concerti il cui ricavato è destinato alle organizzazioni anarchiche e ai giornali del movimento quali «Umanità nova» e «A Rivista anarchica»5.

4. Un valido esempio di come De André riadattasse i testi delle canzoni durante i concerti è dato da questa versione di Via della povertà: «Almirante sembra così facile: ogni volta che sorride ti cat- tura… / Ricorda proprio Bette Davis con le mani appoggiate alla cintura. Arriva Fra’ John tra- felato e gli grida: ‘Il mio amore sei tu…’ ma qualcuno gli dice di andar via e di non riprovarci più. / E l’unico suono che rimane quando l’ambulanza se ne va è Almirante che spazza via il sangue in Via della Povertà. / Covelli travestito da ubriacone ha nascosto i suoi appunti in un baule è passato di qui un’ora fa diretto verso l’ultima Thule… / …ed a vederlo tu non lo diresti mai ma era famoso qualche tempo fa per suonare il violino elettronico alla corte di Sua Maestà. / Ci si prepara per il 15 di giugno e c’è qualcuno che continua ad aver sete. / Paolo VI ha gettato via la tiara si è camuffato in abiti da prete, sta ingozzando a viva forza Berlinguer per punirlo della sua frugalità lo ucciderà parlandogli d’amore dopo averlo avvelenato di pietà e mentre Paolo grida, quattro suore si son spogliate già: Berlinguer sta per essere violentato in Via della Povertà. / E bravo Leone mattacchione: il paese sta affondando nella merda… / Nelle scialuppe i posti letto sono tutti occupati e gli anarchici tutti annegati, e Agnelli e Indro Montanelli fanno a pugni nella torre di comando. / I suonatori di calipso ridono di loro mentre il cielo si sta allontanando e affacciati alle loro finestre nel mare tutti han pescato voti qua e là e nessuno deve più preoccu- parsi di Via della Povertà. / A mezzanotte in punto i poliziotti fanno il loro solito lavoro metton le manette intorno ai polsi a quelli che ne sanno più di loro, i prigionieri vengon trascinati su un calvario improvvisato lì vicino e il caporale Adolfo li ha avvisati che passeranno dal solito cami- no e il vento da solo ride e nessuno riuscirà a ingannare il suo fottuto destino in Via della Povertà…» (sic). Testo riportato in Signora libertà, Signorina anarchia, supplemento a «A Rivista anarchica», XXX (marzo 2000) n. 262. 5. Su questi aspetti non mi soffermo oltre e rimando alle monografie, che mi paiono particolarmen- te interessanti, curate da «A Rivista anarchica»: Signora libertà, Signorina anarchia, cit. e ed avevamo gli occhi troppo belli, che comprende un CD con alcuni testi di De André, dichiarazioni e canzoni, in cui il cantautore parla di anarchia e libertà, e un volumetto con scritti sull’anarchia di vari autori. Ancora, pubblicato sempre da «A Rivista anarchica», il cofanetto ma la divisa di un altro colore: DVD, con Faber, il documentario di Bruno Bigoni e Romano Giuffrida, La guerra di Piero, Girotondo, e libretto con vari scritti antimilitaristi. 49 Non ci sono poteri buoni

L’anarchismo di De André non è comunque seguire pedissequamente una dottrina, quanto piuttosto respirare quelle atmosfere e quelle conce- zioni del mondo che negli ultimi due secoli hanno dato vita a un movi- mento politico variegato e multisfaccettato, difficilmente unificabile in una unitarietà forzata, che si chiama movimento anarchico6. L’anarchia è difficilmente etichettabile, lo è, in generale, nonostante gli abituati agli schematismi pretendano di farlo con una precisione di dettagli tale da sna- turare il concetto stesso di anarchia, e lo è, nel particolare, in riferimento alla figura di De André. De André di questo movimento è parte non solo in quanto si ricono- sce in alcune delle sue componenti caratterizzanti – il collettivismo baku- niniano in certi momenti, l’individualismo stirneriano in altri – ma soprat- tutto in quanto egli stesso elabora modelli di concezione della società che a pieno titolo si collocano nella tradizione del pensiero anarchico e, come vedremo, giungono ad assumere una vera e propria valenza politica.

Le dichiarazioni nelle quali il cantautore genovese sottolinea il suo riconoscersi anarchico, dicevo, sono ricorrenti ma voglio qui riportarne una che mi pare particolarmente pregnante in quanto, oltre l’adesione all’Idea, esprime anche il modo in cui questa idea viene concepita. Un modo che ci consentirà di capire meglio tutta una serie di aspetti tipici delle sue canzoni.

6. Lo storico anarchico Rudolf Rocker sostiene a proposito che l’anarchia non è «un sistema socia- le fisso, chiuso, ma una chiara tendenza dello sviluppo storico dell’umanità che, a differenza della tutela intellettuale operata da tutte le istituzioni clericali e governative, aspira a che ogni forza individuale e sociale si sviluppi liberamente nella vita. Neanche la libertà è un concetto assoluto, ma relativo, giacché costantemente cerca di allargarsi e di interessare ambienti sempre più ampi e diversi. Per gli anarchici la libertà non è un concetto filosofico astratto, ma la possibilità con- creta per tutti gli esseri umani di sviluppare pienamente nella vita le facoltà, le capacità, i talenti che la natura ha dato loro e porli al servizio della società. Quanto meno sarà influenzato lo svi- luppo naturale dell’uomo dalla tutela ecclesiastica e politica, tanto più la personalità umana sarà valida ed armoniosa, dando così una buona testimonianza della cultura intellettuale della società nella quale è cresciuta». Rudolf Rocker, Anarchosyndicalism, citato da Noam Chomsky, Anarchia e libertà, Datanews, Roma 2003, p. 8. 50 Antioco Floris

Qualche mio collega sostiene che io sia un falso proletario. Proletario io? Né falso, né vero. […] E d’altronde quella di proletario è pur sempre un’e- tichetta, sicché la rifiuterei in ogni caso, come tutte le etichette che via via hanno provato ad appiccicarmi addosso – di comunista, di democristiano, di socialista, di borghese, perfino di fascista. Se sono, ‘più modestamente’, un anarchico è perché l’anarchia, prima ancora che un’appartenenza, è un modo di essere. Lo ero, del resto, fin da bambino, quando preferivo giocare a biglie e, in anticipo sul mio mestie- re futuro, inventare parolacce, per strada, con una banda di compagni, piuttosto che stare in casa a fare il signorino di buona famiglia – quale comunque ero, e quale sono rimasto per tanto tempo, vivendo sulla mia pelle la drammatica schizofrenia di chi abita contemporaneamente da entrambi i lati della barricata. Fu grazie a Brassens che scoprii di essere un anarchico. Furono i suoi per- sonaggi miserandi e marginali a suscitarmi la voglia di saperne di più. Cominciai a leggere Bakunin, poi da Malatesta imparai che gli anarchici sono dei santi senza Dio, dei miserabili che aiutano chi è più miserabile di loro. Santi senza Dio: partendo da questa scoperta ho potuto permetter- mi il lusso di parlare anche di Gesù Cristo, prima in Si chiamava Gesù, poi in La buona novella, e oggi mi viene il dubbio che anche lui non fosse che un anarchico convinto di essere Dio; o, forse, questa convinzione gliel’hanno attribuita altri. Intanto, da Bakunin ero passato a Stirner, e da una visione collettivista ne scoprii una più individualista: dopo tutto ci vuole troppo tempo a trovare gente con la quale vivere le mie idee e così me le vivo da solo. Con una sola regola da osservare, e la osservo proprio perché nessuno me l’ha imposta: anarchico non è un catechismo o un decalogo, tanto meno un dogma, è uno stato d’animo, una categoria dello spirito. E perciò scanda- lizzatevi pure, se tante volte ho cantato alle feste dell’Unità, ma di rado sono andato in televisione, se firmo contratti discografici che d’altronde non rispetto, e se ho perfino votato per la DC: tra i suoi candidati, in Sardegna, c’era un mio amico, una persona capace, quindi un pessimo politico. Che infatti non fu eletto7.

7. Cesare G. Romana, Amico fragile. Fabrizio De André, Sperling paperback, Milano 2000, pp. 60-61. 51 Non ci sono poteri buoni

In questa dichiarazione sono contenute alcune considerazioni che offrono interessanti spunti di riflessione per meglio capire la dimensione anarchica di De André. Una dimensione che, va precisato, tocca principal- mente la sfera poetica (d’altra parte sarebbe limitato contenere il suo anar- chismo nelle manifestazioni più prettamente esteriori o esplicitamente ‘politiche’). L’anarchismo di De André si tocca a ogni piè sospinto nelle parole delle sue poesie, nelle storie delle sue canzoni, nell’aria che si respi- ra nelle atmosfere che costruisce con i protagonisti delle sue ballate indi- menticabili. Vediamo allora di sottolineare alcuni spunti a cui questa inter- vista rimanda. L’accusa di essere un ‘falso proletario’ è un falso problema eppure ritorna spesso in certe critiche. Ovviamente non ha alcun senso disquisi- re sulla ‘proletarietà’ di De André in nome di una presunta coerenza defi- nita in astratto, non condurrebbe da nessuna parte. Nell’opera di De André peraltro il proletario (inteso nell’accezione marxiana del termine, e cioè in quanto classe operaia) non è presente. Nelle sue storie non risulta- no presenti, o per lo meno rilevanti, le figure dei lavoratori salariati che vivono solo del loro lavoro, i proletari appunto, piuttosto lui parla di quel- lo che potrebbe essere definito una sorta di sottoproletariato, di Lumpenproletariat come lo chiamavano Marx ed Engels, proletariato cen- cioso, di chi sta ai margini della società, i reietti e i diseredati (per usare una parola cara alla cultura libertaria dell’Ottocento). Non c’è la classe operaia come forza antagonista – tipica della cultura marxista – ma il sottoprole- tariato, i vinti, quelli che non hanno un posto nella storia e che lo recupe- rano invece nell’immaginario e nella politica del movimento anarchico. Il riconoscersi anarchico non significa porsi addosso un’etichetta che poi implica il rispetto di dogmi, decaloghi, leggi e regole. No, è uno stato d’animo, un modo d’essere, una categoria dello spirito. C’è qui un tentati- vo di opporsi agli schematismi tipici di un approccio preoccupato più di un’accomodante etichettatura dei problemi che di una loro reale conside- razione. De André rifiuta lo schematismo in senso morale come in quello 52 Antioco Floris politico. E su di sé sente tutto il peso di ‘qualità’ attribuitegli per soddisfa- re le banalizzazioni dei rotocalchi o di chi ha bisogno, per tornaconto per- sonale, di poter schierare al proprio fianco uno come lui. Per l’occasione quindi De André viene etichettato come anarchico o comunista, borghe- se problematico (ma sempre borghese) o qualunquista, o ancora proleta- rio (vero o falso), religioso e blasfemo. Di sé diceva di essere anarchico, ma questa sua qualità difficilmente veniva colta nel valore proprio del ter- mine. D’altra parte la società in cui viviamo (con la stragrande maggioran- za degli organi di stampa, siano essi bianchi o rossi o neri, che ne sono portavoce) ci ha abituato a collegare il termine anarchico alla sua accezio- ne negativa (il disordine, il caos) e non a quella più nobile dell’utopia rivo- luzionaria di chi crede in un mondo di uguali senza l’oppressione del pote- re. Così l’anarchico appare un eversivo violento o al massimo un perso- naggio bizzarro ed eccentrico. De André in questa dichiarazione eviden- zia tutto il suo imbarazzo nel dover esprimere la sua visione del mondo, di fronte a chi è preoccupato solo di mettere etichette per confermare ragionamenti già definiti a priori. L’intervista richiama poi la formazione personale attraverso lo studio dei grandi pensatori/rivoluzionari anarchici: Errico Malatesta, Bakunin, Kropotkin, la scoperta dell’anarchico come santo senza dio e del colletti- vismo. E ancora l’incontro determinante con Max Stirner, ovvero con l’in- dividualismo, tema ricorrente – proprio nell’accezione stirneriana e con tutte le implicazioni connesse al senso di antireligioso, amorale, antistata- le – in tutta la produzione dagli inizi fino a Smisurata preghiera. C’è poi il riferimento alla figura di Cristo colta in una dimensione umana, quella di un rivoluzionario ante litteram, addirittura un anarchico. E quindi il recupero dei valori umani del cristianesimo (recupero che si contrappone alla condanna, talvolta impietosa, dei valori della religione cristiana vista come apparato, come Chiesa). Il dio di De André è un dio umano, troppo umano (Spiritual, Si chiamava Gesù, Preghiera in gennaio – tutta La buona novella), e Gesù è quello che insegna a disertare la guerra. Non 53 Non ci sono poteri buoni per niente La buona novella si conclude con un Laudate hominem, lodate l’uo- mo. E infine la lezione di Brassens ovvero la funzione formativa della can- zone: la capacità di proporre una nuova visione del mondo che favorisce la creazione di un immaginario alternativo a quello dominante.

Per chi viaggia in direzione ostinata e contraria

Andiamo per gradi. Per parlare dell’anarchia di De André si può partire dalla fine, cioè da quella che può essere considerata la sua ultima canzone in quanto chiude l’ultimo disco: Smisurata preghiera. Si tratta di un testo che offre una chiave di lettura valida per buona parte del corpus del cantautore genovese. Il testo, come noto, è ispirato dalla raccolta di poesie Summa di Maqroll. Il gab- biere di Álvaro Mutis, autore di storie di viaggi senza meta e senza tempo. Di questa canzone ricordiamo alcune strofe del testo significative nel ragionamento che stiamo portando avanti:

Alta sui naufragi dai belvedere delle torri china e distante sugli elementi del disastro dalle cose che accadono al di sopra delle parole celebrative del nulla lungo un facile vento di sazietà di impunità sullo scandalo metallico di armi in uso e in disuso a guidare la colonna di dolore e di fumo che lascia le infinite battaglie al calar della sera la maggioranza sta recitando un rosario di ambizioni meschine di millenarie paure di inesauribili astuzie coltivando tranquilla l’orribile varietà delle proprie superbie la maggioranza sta come una malattia 54 Antioco Floris

come una sfortuna come un’anestesia come un’abitudine per chi viaggia in direzione ostinata a contraria col suo marchio speciale di speciale disperazione e tra il vomito dei respinti muove gli ultimi passi per consegnare alla morte una goccia di splendore di umanità di verità […] ricorda Signore questi servi disobbedienti alle leggi del branco non dimenticare il loro volto che dopo tanto sbandare è appena giusto che la fortuna li aiuti come una svista come un’anomalia come una distrazione come un dovere…8

In questa canzone abbiamo due tipologie di umanità. Da un lato la maggioranza, fortemente contraddistinta in senso negativo dall’esposizio- ne di una serie di caratteristiche (segnate da parole quali: naufragi, disastro, impunità, dolore, ambizioni meschine, millenarie paure, inesauribili astu- zie, orribile varietà delle proprie superbie) che precedono la sua reale entrata in campo: tutta la prima strofa, i primi venticinque versi conclusi dall’asserzione: «la maggioranza sta come una malattia, come una sfortu- na, come un’anestesia, come un’abitudine». Dall’altro lato abbiamo «chi viaggia in direzione ostinata e contraria», i «disobbedienti alle leggi del branco». Questi, all’opposto, assumono un carattere positivo grazie alla loro disperazione che non è una disperazione generica ma «speciale», segnata da «un marchio speciale», e forse alla fine non è neanche del tutto negativa dato che questi «servi disobbedienti» muovono gli ultimi passi sì «fra il vomito dei respinti» ma «per consegnare alla morte una goccia di splendore, di umanità, di verità».

8. Smisurata preghiera in Anime salve, 1996. 55 Non ci sono poteri buoni

Smisurata preghiera, come dicevamo, conclude la parabola di Fabrizio De André come cantautore pubblico, e nel chiudere l’opera riporta al De André delle origini, offrendo così un quadro dalla struttura in certo qual modo circolare. La prima canzone del suo secondo disco (1967) – che però significativamente si chiama Volume 1 – si intitola Preghiera in gennaio 9, anche questa una preghiera, anche questa dedicata a chi a modo suo è un servo disobbediente, uno di quelli «che all’odio e all’ignoranza preferiro- no la morte»10 (e che in barba ai «signori benpensanti», Dio – come farà anche per gli uccisori del povero vecchietto di Delitto di paese – accoglierà fra le sue braccia in mezzo ai santi). In questo sguardo a ritroso su circa quarant’anni di canzoni abbiamo la possibilità di vedere ben delineati que- sti ‘disobbedienti alle leggi del branco’ che si contrappongono alla mag- gioranza, tanto da poter ritenere le storie di «chi viaggia in direzione osti- nata e contraria col suo marchio speciale di speciale disperazione» come motivo principale dei testi di De André. Ripercorriamo quindi l’opera, ma prima andiamo a cercare spunti di riflessione facendo un breve salto al di fuori dell’universo deandreiano per entrare in quello di Max Stirner. Max Stirner (al secolo Johan Kaspar Schmidt), filosofo della sinistra hegeliana vissuto nella prima metà dell’Ottocento, ha pubblicato L’unico e la sua proprietà11, volume che lo ha portato a essere considerato uno dei padri del moderno anarchismo e in particolare della corrente dell’indivi- dualismo anarchico (o anche degli stirneriani). Cosa sostiene Stirner nel suo libro? Il ragionamento del filosofo tedesco si sviluppa essenzialmen- te su pochi punti: l’individuo è l’unica realtà, è l’unico valore, nella sua sin- golarità unica e irripetibile è la misura di tutte le cose. Non c’è essenza che preordini l’individuo, non c’è dio, umanità o spirito a cui possa essere

9. Curiosamente, affiancando i due titoli in ordine cronologico otteniamo una sorta di chiasmo. 10. La canzone, come noto, è scritta di getto dopo il suicidio di Luigi Tenco. Cfr. Cesare G. Romana, Amico fragile, cit., pp. 54-57. 11. Del libro esistono diverse edizioni italiane, qui ricordiamo le edizioni pubblicate da Vulcano, Treviolo-Bergamo 1977, e da Adelphi, Milano 1999. 56 Antioco Floris subordinato. Neanche gli ideali possono subordinarlo dato che vivere per un’idea significa diventare schiavi, cosa a cui indirizzano, o meglio costrin- gono, le istituzioni come lo Stato, la Chiesa, i partiti che pretendono di asservire il singolo additandogli qualcosa al di sopra di lui. Lo stesso dica- si per il socialismo che per liberare l’uomo dalla schiavitù della proprietà privata lo vuole asservire alla società. Non c’è libertà al di fuori di se stessi, ognuno è un dio onnipotente e la libertà concessa e non conquistata non è vera libertà. Bersaglio della riflessione stirneriana è la morale che costringe l’individuo dentro schemi che non gli consentono di realizzarsi e che egli deve riuscire a distrugge- re. Il risultato è una concezione amorale della vita guidata dal principio dell’egoismo e segnata da un profondo nichilismo (il suo libro si conclu- de con la frase «Io ho riposto la mia causa nel nulla»). Ma attenzione, l’egoismo di Stirner non è un egoismo negativo, al con- trario egli sostiene che solo partendo dall’io e dalla valorizzazione di sé è possibile costruire dei rapporti con gli altri che non siano di mera impo- sizione. Io non riconosco nessuna legge dell’amore, dice Stirner, ma que- sto non significa che io non possa amare, semplicemente amo perché mi piace amare, perché nell’amare sono felice e non perché c’è qualcosa o qualcuno che me lo impone, amo con la coscienza dell’egoista. E c’è poi la consapevolezza che solo una capacità di associarsi per soddisfare inte- ressi e bisogni comuni, e non per principi profondi e valori astratti, possa consentire una crescita dell’individuo che assieme agli altri può moltiplica- re le sue forze. Questa unione, precisa comunque Stirner, non deve essere vincolante, deve lasciare liberi: io troverò sempre abbastanza persone che si uniranno a me senza prestare giuramento alla mia bandiera. Questi aspetti, pur estremizzati da un’elaborazione filosofica forte- mente ottocentesca, diventano dunque, ci dice De André, punti di riferi- mento importanti nella sua formazione culturale e politica, e segnano, evi- dentemente, in maniera più o meno esplicita, più o meno latente, buona 57 Non ci sono poteri buoni parte della sua opera dove infatti non trovano spazio, e sono aborriti, le leggi morali o dello stato, il potere della società e della religione, l’ideali- smo… I personaggi delle canzoni di De André nel loro essere «servi disobbedienti alle leggi del branco» appaiono come degli ‘unici’ nell’acce- zione stirneriana del termine.

Ma andiamo ora a vedere velocemente alcuni di questi servi disobbe- dienti, per capire come si attua la loro disobbedienza e ‘unicità’. Possiamo forse cominciare con Miche’, l’innamorato che non si rasse- gna a stare in prigione senza la sua donna per la quale aveva ammazzato? «Vent’anni gli avevano dato, vent’anni in prigione a marcir, però adesso che lui s’è impiccato la porta gli devono aprir»… Sì, lui è un servo disob- bediente e infatti cadrà nella fossa comune, senza prete e senza messa «perché di un suicida non hanno pietà». Non hanno pietà loro, non De André (e con De André noi), loro i detentori del potere, la Chiesa, le isti- tuzioni…12. E poi incontriamo un altro disobbediente, forse uno dei più belli di tutta la folla di individui che abita le canzoni di De André: il fannullone. Non un borghese che ozia agiatamente, no, semplicemente un poveraccio che non si rassegna all’idea di essere schiavo del lavoro, di «lavare gli avan- zi della gente importante», uno che nota che «l’acqua dei piatti non rispec- chia la luna». E quindi: «non si risenta la gente per bene se non mi adatto a portar le catene»13. E c’è Marinella, una che ha viaggiato in direzione ostinata e contraria, finché ha potuto, finché un bruto non ha interrotto il suo viaggio. E De André, senza il bisogno di una preghiera smisurata, a questa figura rende omaggio dando al vento il compito di portarla sopra una stella, a lei che . ha vissuto «un solo giorno come le rose»14 .

12. La ballata del Miche’, 1961. 13. Il fannullone, 1963. 14. La canzone di Marinella, 1964. 58 Antioco Floris

E ancora: Piero che non sa fare il soldato e non vuole uccidere chi ha il suo stesso identico umore15, o la giovinetta e il suo protettore che dopo aver ucciso il vecchio truffatore vengono impiccati ma, grazie a «qualche lacrima sul viso» e in barba ai beghini, volano fra i beati16 (anche qui pre- corriamo la smisurata preghiera e torniamo a quella ‘in gennaio’), o tutti gli abitanti della città vecchia: prostitute, ladri, assassini e tipi strani capa- ci di vendere le loro madri ai nani («se giudicherai da buon borghese li condannerai a cinquemila anni più le spese, ma se capirai, se li cercherai fino in fondo se non sono gigli son pur sempre figli, vittime di questo mondo»)17. E non son forse dei disobbedenti alle leggi del branco quei drogati che hanno «licenziato dio e gettato via un amore per costruirsi un vuoto nel- l’anima e nel cuore»18? O gli impiccati che morirono a stento19, e le travia- te da banchieri, pizzicagnoli, notai – «ed avevamo gli occhi troppo belli: che la pietà non vi rimanga in tasca»20 E che dire di quel pescatore con una cicatrice sul viso che senza esita- zione dà da mangiare e da bere all’assassino ignorando i gendarmi21, o del suonatore Jones che «offrì la faccia al vento, la gola al vino e mai un pen- siero»22, o di quel pastore che sta dove fiorisce il rosmarino e che non ha mai saputo né tradito «l’amore delle case l’amore bianco vestito», una vita a trascorrere la notte sola come il suo fuoco: «piega la testa sul mio cuore e spegnilo poco a poco»23. E ancora Bocca di rosa24, Suzanne25, Nancy26,

15. La guerra di Piero, 1964. 16. Delitto di paese, 1965. 17. La città vecchia, 1965. 18. Cantico dei drogati in Tutti morimmo a stento (Cantata in Si minore per coro e orchestra), 1968. 19. La ballata degli impiccati in Tutti morimmo a stento. 20. Recitativo (due invocazioni e un atto di accusa) in Tutti morimmo a stento. 21. , 1970. 22. Il suonatore Jones in Non al denaro non all’amore né al cielo, 1971. 23. Canto del servo pastore in Fabrizio De André (L’indiano), 1981. 24. Bocca di rosa, 1967. 25. Suzanne, 1972. 26. Nancy in Volume VIII, 1975. 59 Non ci sono poteri buoni

Andrea27, Prinçesa28... e Tito che ha il privilegio di morire crocifisso a fian- co a Gesù, lui che ha sempre interpretato i Comandamenti a modo suo29... per non parlare del bombarolo30 o di chi guida verso la cattiva strada dove «c’è amore un po’ per tutti e tutti quanti hanno un amore»31. Tutte queste persone sono quelli che, secondo il linguaggio borghese, possiamo definire disadattati, marginali, asociali, e che invece De André chiama con molto rispetto e una punta di orgoglio: disobbedienti alle leggi del branco. Anche su questo aspetto si colloca in rapporto di continuità con la tradizione anarchica dove gli irregolari, i fuorilegge, gli emarginati, le prostitute, i barboni, i vagabondi sono visti con simpatia, in loro si rico- nosce una parte di se stessi:

Noi siamo i poveri, siamo i pezzenti la sporca plebe di questa età la schiera innumere dei sofferenti per cui la vita gioie non ha. […] Son nostre figlie le prostitute che muoion tisiche negli ospedal le disgraziate si son vendute per una cena per un grembial Pur natura tutti uguali diè diritti sulla terra noi faremo aspra guerra ai padroni sfruttator…

Così recita una vecchia canzone anarchica esprimendo alcuni punti fondamentali del pensiero del movimento32. Bakunin, contrapponendosi a

27. Andrea in Rimini, 1978. 28. Prinçesa in Anime salve. 29. Il testamento di Tito in La buona novella, 1970. 30. Il bombarolo e tutte le altre canzoni contenute in Storia di un impiegato, 1973. 31. La cattiva strada, 1975. 32. Marsigliese del lavoro, il testo scritto da Carlo Monticelli è pubblicato nel 1896. La canzone si può trovare in Fogli volanti, i CD del «Manifesto». 60 Antioco Floris

Marx ed Engels, sostiene che solo in questi risiede lo spirito della ribellio- ne e quindi la forza della futura rivoluzione sociale33. È evidente che per De André non c’è negatività in sé nell’assassino o nel delinquente, come nel carcerato: come ben dimostrano Il pescatore, La ballata del Miche’, Delitto di paese, Nella mia ora di libertà («ora sappiamo che è un delitto il non rubare quando si ha fame»). Ma non per questo c’è una esaltazione del delitto o del non rispetto della legge, semplicemente c’è un’umana comprensione derivante da una visione del mondo amorale (e non immorale come potrebbe dire chi giudica da ‘buon borghese’). Ancora ritorna Stirner, il quale sostiene che per liberarsi l’individuo deve cominciare col passare al setaccio il bagaglio di cui lo hanno gravato i suoi educatori e i genitori; deve attuare un’opera di dissacrazione, a comincia- re dalla cosiddetta morale borghese per passare al cristianesimo della chie- sa fatto di pregiudizi e repressioni (a livello interno con l’autocontrollo, e a livello esterno con la polizia – vien da pensare a Un blasfemo). Ogni forma di morale istituzionalizzata, afferma Stirner, diventa un momento della repressione dell’individuo perché lo costringe a forme di integrazio- ne che non gli consentono di essere se stesso.

Non ci sono poteri buoni

Se non c’è mai un atteggiamento morale nei confronti dell’universo degli emarginati e dei vinti, verso cui vige una sorta di innata simpatia, al contrario la condanna si pone, anche duramente o con sferzante sarcasmo e derisione, nei confronti di quelle classi, o professioni, che detengono o hanno rapporti con il potere: dai potenti di turno, siano politici o signori (l’emblematico Carlo Martello: «col volto da caprone ma era sua maestà»,

33. Cfr. Michail Aleksandrovič Bakunin, Stato e anarchia, Feltrinelli, Milano 1972. 61 Non ci sono poteri buoni che per non pagare le prestazioni della ‘pulzella’ agisce da «gran cialtrone» e scappa via «frustando il cavallo come un ciuco fra i glicini e il sambu- co»), ai giovani della ‘società bene’ (il «bronzo di Versace figlio sempre più capace di giocare in borsa di stuprare in corsa»34), dai cantanti (che viag- giano «su un tappeto di contanti nel cielo blu»35, oppure si svendono: «Voi che avete cantato sui trampoli e in ginocchio, coi pianoforti a tracolla vestiti da Pinocchio, voi che avete cantato per i longobardi e per i centra- listi, per l’Amazzonia e per la pecunia, nei palastilisti e dai padri maristi; voi avevate voci potenti, lingue allenate a battere il tamburo; voi avevate voci potenti, adatte per il vaffanculo»36) ai «banchieri, pizzicagnoli, notai coi ventri obesi e le mani sudate, coi cuori a forma di salvadanai, […] giu- dici eletti, uomini di legge»37. I giudici… Ecco: il potere! Tema ricorrente, anche questo osservato con un approccio di matrice prettamente anarchi- ca: «certo bisogna farne di strada da una ginnastica di obbedienza, fino ad un gesto molto più umano che ti dia il senso della violenza. Però bisogna farne altrettanta per diventare così coglioni da non riuscire più a capire che non ci sono poteri buoni». Il potere è assolutamente negativo, non ci sono vie di mezzo, non ci sono poteri buoni. E in maniera negativa emer- gono quelli che il potere lo detengono, a volte sotto forma di metafora appaiono come nuvole:

Vanno vengono ogni tanto si fermano e quando si fermano sono nere come il corvo sembra che ti guardano con malocchio.[…] Certe volte ti avvisano con rumore prima di arrivare

34. Ottocento in Le nuvole, 1990. 35. Ibidem. 36. La domenica delle salme in Le nuvole, 1990. 37. Recitativo (due invocazioni e un atto di accusa) in Tutti morimmo a stento. 62 Antioco Floris

e la terra si trema e gli animali si stanno zitti certe volte ti avvisano con rumore. Vanno vengono ritornano e magari si fermano tanti giorni che non vedi più il sole e le stelle e ti sembra di non conoscere più il posto dove stai. Vanno vengono per una vera mille sono finte e si mettono lì tra noi e il cielo per lasciarci soltanto una voglia di pioggia38.

Come delle nuvole, gli uomini di potere, si presentano: sono cupi, falsi, offuscano la vita, impediscono di vedere il cielo... Ma De André non si ferma alla metafora mutuata da Aristofane e le occasioni per attaccare il potere e i suoi servi sono ricorrenti ed esplicite. È il potere a mettere in croce Gesù (un Gesù che non è presentato come Dio, ma come un ribel- le che viene crocifisso perché responsabile di aver insegnato a disertare la guerra39, ma anche un uomo in cui la pietà non cede al rancore). E una volta che il potere vede Gesù «incapace di nuocere ancora» – la ribellione è domata, la forza della predicazione di Cristo è istituzionalizzata nella Chiesa e quindi controllata – si preoccupa degli altri nemici di sempre: «il potere vestito di umana sembianza ormai ti considera morto abbastanza e già volge lo sguardo a spiar le intenzioni degli umili, degli straccioni»40.

38. Le nuvole in Le nuvole, 1990. 39. A Maria, che gli chiede per cosa lavori il legno, il falegname risponde: «Mio martello non colpi- sce, pialla mia non taglia per foggiare gambe nuove a chi le offrì in battaglia, ma tre croci, due per chi disertò per rubare, la più grande per chi guerra insegnò a disertare». Maria nella bottega del falegname in La buona novella, 1970. 63 Non ci sono poteri buoni

E poi c’è chi il potere lo sostiene e lo amministra: le forze dell’ordine e i giudici. Le prime – che qui non sono, come in Pasolini, figli del prole- tariato, ma mero strumento del potere stesso – sono «irrequiete e cercano qualcosa che non va»41, sono volubili, ridicole, meschine: «al loro dovere vengono meno, ma non quando sono in alta uniforme»42, oppure, come Pasquale Cafiero, il secondino di Poggio Reale, servono due poteri: quel- lo dello stato e quello della camorra (uno stato nello stato, il che forse è anche peggio)43. Con i secondini peraltro non ci può essere niente in comune: «se c’è qualcosa da spartire fra il prigioniero e il suo piantone, che non sia l’aria di quel cortile, voglio soltanto che sia prigione. […] Di respi- rare la stessa aria dei secondini non ci va e abbiam deciso di imprigionar- li durante l’ora di libertà»44. Ma è sui giudici che De André si sofferma lasciandoci alcune perle di poesia anarchica. Il rapporto con la giustizia, quella dello stato, è affrontato in maniera più corposa e organica in Storia di un impiegato dove si riflette sul senso della contestazione e dell’impegno politico. È questo di sicuro il disco più esplicitamente politico, dove si contesta l’individualismo fine a se stesso – che, volto unicamente al tornaconto personale, diventa strumento di pote- re, in quanto espressione di chi è affine al potere – per proporre una ribel- lione collettiva che non annulla l’individuo ma lo porta a crescere insieme agli altri. Il carcere, luogo simbolico in cui vengono rinchiusi gli emargi- nati, consente all’impiegato bombarolo di acquisire una nuova coscienza nel suo rapporto con gli altri. Qui il bombarolo può affermare di impara- re «un sacco di cose in mezzo agli altri vestiti uguali»45 e quindi può cam- biare l’io iniziale col noi.

40. Via della croce in La buona novella. 41. Via della povertà in Canzoni, 1974. 42. Bocca di rosa. 43. Don Raffae’ in Le nuvole. 44. Nella mia ora di libertà in Storia di un impiegato. 45. Ibidem. 64 Antioco Floris

Nonostante possa apparire il contrario – e la nota di copertina dell’al- bum scritta da Roberto Dané46 va in quella direzione – questo passaggio dall’io al noi non comporta necessariamente l’acquisizione di una coscien- za di classe a scapito dell’individualismo (d’altra parte lo stesso Stirner non esclude la possibilità di associarsi per raggiungere risultati comuni: troverò sempre delle persone che si uniranno a me senza prestare giuramento alla mia bandiera). È pur vero che nel pensiero di fondo dell’album la bomba fine a se stessa non conduce se non a fare gli interessi del potere, ma ciò non esclude che il ragionamento del bombarolo sia «se non del tutto giu- sto, quasi niente sbagliato». Vi è quindi una sorta di ambiguità di fondo che probabilmente deriva dall’influenza del coautore dei testi Giuseppe Bentivoglio, tanto che anni dopo De André si troverà nella necessità di dare delle spiegazioni a proposito prendendo in qualche modo le distan- ze dalla linea politica dell’album47. In questo attacco al potere e alla giusti- zia statale non possono mancare i giudici, che trovano posto in particola- re nel Sogno numero due, un processo in cui un magistrato servizievole e ligio al potere chiede all’imputato, diventato ormai grazie alla bomba a sua volta esponente del potere stesso, se voglia essere assolto o condannato:

noi ti abbiamo osservato dal primo battere del cuore fino ai ritmi più brevi dell’ultima emozione quando uccidevi,

46. Nota Roberto Dané: «È proprio in una realtà collettiva che si impara un altro modo di agire, di pensare, di gestire la propria persona tenendo conto della presenza degli altri, facendosi un tutt’u- no con gli altri fino a cambiare l’io col noi, ripetendo la stessa posizione di lotta ma questa volta con la coscienza di appartenere alla stessa classe di sfruttati». Id., Storia di un impiegato e di una bomba, nota di copertina dell’album Storia di un impiegato. 47. In Storia di un impiegato «si pretende racchiudere nella forma canzone quello che nelle intenzioni era un saggio politico-sociale. Ora, credo che si debba essere molto rigorosi: se uno vuole scri- vere un saggio scrive quello, e non una serie di canzoni, peraltro carenti da un punto di vista crea- tivo e poetico». Fabrizio De André: siamo per sempre coinvolti in La dimensione libertaria del Sessantotto, «Volontà» 3/88, p. 77, citato da Romano Giuffrida, Bruno Bigoni, Canzoni corsare, in Fabrizio De André. Accordi eretici, EuresisEdizioni, Milano 1997, p. 36. 65 Non ci sono poteri buoni

favorendo il potere i soci vitalizi del potere ammucchiati in discesa a difesa della loro celebrazione. E se tu la credevi vendetta il fosforo di guardia segnalava la tua urgenza di potere mentre ti emozionavi nel ruolo più eccitante della legge quello che non protegge la parte del boia. Imputato […] anche tu hai giudicato. Hai assolto e hai condannato al di sopra di me, per quello che hai fatto per come lo hai rinnovato, il potere ti è grato. Ascolta, una volta un giudice come me giudicò chi gli aveva dettato la legge: prima cambiarono il giudice e subito dopo la legge. Oggi, un giudice come me, lo chiede al potere se può giudicare. Tu sei il potere. Vuoi essere giudicato? Vuoi essere assolto o condannato?48

Ma nell’album c’è anche l’occasione per esplicitare quella presa di distanza dalla professione del giudice che già si trovava in altre canzoni: «non mi aspettavo un vostro errore, uomini e donne di tribunale, se fossi stato al vostro posto, ma al vostro posto non ci so stare»49. Una dichiara-

48. Sogno numero due in Storia di un impiegato. 49. Nella mia ora di libertà. 66 Antioco Floris zione che porta a compimento una serie di annotazioni diffuse in manie- ra più o meno esplicita nelle canzoni precedenti. Ci sono le responsabilità per le condanne a morte (dalla Ballata del Miche’, a Delitto di paese, a Geordie): «Giudici eletti, uomini di legge, noi che danziam nei vostri sogni ancora, siamo l’umano desolato gregge che morì con il nodo alla gola. Quanti innocenti all’orrenda agonia votaste decidendone la sorte e quanto giusta pensate che sia una sentenza che decreta morte?»50. Come ci sono le due canzoni dove il giudice è vero e proprio protagonista: una tratta dall’Antologia di Spoon River di Lee Masters (una raccolta di poesie liberta- ria e antiborghese così come l’album che ne trae De André) e l’altra da Brassens, anche lui anarchico. La prima racconta di un giudice che per superare la frustrazione del suo nanismo studia come un disperato e diventa «giudice finalmente, arbitro in terra del bene e del male»; può così vendicarsi delle proprie condizioni fisiche condannando a morte: «e allo- ra la mia statura non dispensò più buonumore a chi alla sbarra, in piedi, mi diceva: ‘Vostro onore’, e di affidarli al boia fu un piacere del tutto mio, prima di genuflettermi nell’ora dell’addio, non conoscendo affatto la sta- tura di Dio»51. La seconda è una canzone che parte da un testo dal tono scurrile, salace, sboccato, e si chiude, con un rovesciamento improvviso, in un apologo vero e proprio: il giudice viene sodomizzato. Leggiamola come un racconto:

Sulla piazza di una città la gente guardava con ammirazione un gorilla, portato là dagli zingari di un baraccone. Con poco senso del pudore, le comari di quel rione contemplavano l’animale non dico come, non dico dove. Attenti al gorilla! D’improvviso la grossa gabbia, dove viveva l’ani- male, s’aprì di schianto, non so perché, forse l’avevano chiusa male. La bestia uscendo fuori di là disse: «Quest’oggi me la levo», parlava della ver- ginità di cui ancora viveva schiavo. Il padrone si mise a urlare: «Il mio gorilla, fate attenzione, non ha veduto mai una scimmia, potrebbe fare

50. Recitativo. 51. Un giudice in Non al denaro non all’amore né al cielo. 67 Non ci sono poteri buoni

confusione». Tutti i presenti, a questo punto, fuggirono in ogni direzione, anche le donne, dimostrando la differenza tra idea e azione. Tutta la gente corre di fretta, di qua e di là, con grande foga, si attardano solo una vec- chietta e un giovane giudice con la toga. Visto che gli altri avevan squaglia- to, il quadrumane accelerò, e sulla vecchia e sul magistrato con quattro salti si portò. «Bah», sospirò, pensando, la vecchia, «che io fossi ancora desiderata, sarebbe cosa alquanto strana e più che altro non sperata». «Che mi si prenda per una scimmia», pensava il giudice col fiato corto, «non è possibile, questo è sicuro». Il seguito prova che aveva torto. Attenti al gorilla! Se qualcuno di voi dovesse, costretto con le spalle al muro, violare un giu- dice od una vecchia, della sua scelta sarei sicuro. Ma si dà il caso che il gorilla, considerato un grandioso fusto da chi l’ha provato, però non bril- la né per lo spirito né per il gusto. Infatti lui, sdegnando la vecchia, si diri- ge sul magistrato, lo acchiappa forte per un’orecchia e lo trascina in mezzo a un prato. Quello che avvenne tra l’erba alta non posso dirlo per intero, ma lo spettacolo fu avvincente e la suspence ci fu davvero. Dirò soltanto che sul più bello dello spiacevole e cupo dramma, piangeva il giudice come un vitello, negli intervalli gridava «Mamma». Gridava «Mamma» come quel tale cui il giorno prima, come ad un pollo, con una sentenza un po’ originale aveva fatto tagliare il collo. Attenti al gorilla!52

In questo testo c’è un’ironia pungente e impietosa, cinica possiamo dire. L’artificio su cui si regge il significato è quello di natura metonimica, dove la contiguità di due termini consente il trasferimento di qualità da un elemento all’altro: il gorilla diventa giudice, in quanto fa giustizia della creatività giudicante del giovane magistrato (la «sentenza un po’ origina- le»), ma a sua volta trasferisce il suo carattere animalesco, violento, al giu- dice stesso che infatti fa tirare il collo a «quel tale». Insomma alla fine giu- dice e gorilla si identificano: il gorilla è il giudice e il giudice è un gorilla.

52. Il gorilla in Volume 3°, 1968. 68 Antioco Floris

Giocheremo a far la guerra, Marcondiro’ndà

Altro filo rosso che collega le canzoni è il pacifismo. Ma non un paci- fismo velato da buoni sentimenti; il pacifismo di De André, come quello anarchico, è un pacifismo di rottura netta, è antimilitarista. Un rifiuto per la guerra ma anche per le istituzioni che la guerra la sostengono. Così, fra i vari ‘disobbedienti alle leggi del branco’ di cui abbiamo parlato in prece- denza non mancano gli oppositori alla guerra, i disertori (o quelli che inse- gnano a disertare), le vittime, i vari Piero, Andrea, Gesù, i bambini india- ni e quello di Sidone (Sidún)… Ma ciò che rimane una costante del corpus deandreiano è la visione della guerra come carneficina mascherata da eroi- smo che va oltre ogni logica della vita e può essere compresa solo da quel- la del dominio. E l’inutilità di un momento distruttivo fine a se stesso viene sottolinea- ta dalla morte che coinvolge tutti senza via di scampo, soldati e generali, popolazioni inermi e consorti abbandonate. Sono l’ambizione e la sete di gloria di un giovane generale che portano allo sterminio dei bambini sul fiume Sand Creek – «Si son presi i nostri cuori sotto una coperta scura, sotto una luna morta piccola dormivamo senza paura. Fu un generale di vent’anni occhi turchini e giacca uguale, fu un generale di vent’anni figlio di un temporale… Ora i bambini dormono sul fondo del Sand Creek»53 – ma non è poi tanto diverso nella sostanza l’eroismo del soldato che si spinge troppo avanti e diventa ‘eroe alla memoria’, lasciando al suo posto alla compagna un semplice pezzo di metallo: «e quando gli dissero di andare avanti, troppo lontano si spinse a cercare la verità. Ora che è morto la patria si gloria di un altro eroe alla memoria. Ma lei che lo amava aspet- tava il ritorno di un soldato vivo, d’un eroe morto che ne farà? se accan- to nel letto le è rimasta la gloria di una medaglia alla memoria»54. La guer- ra dunque lascia solo morte, distruzione e dolore, non c’è via di mezzo. E

53. Fiume Sand Creek in Fabrizio De André (L’indiano). 54. La ballata dell’eroe, 1961. 69 Non ci sono poteri buoni la retorica del coraggio e dell’eroismo, della gloria e del valore militare, tanto cara ai centri di potere, agli stati, viene sempre ricondotta alla sua natura di mera distruzione fine a se stessa e priva di senso: «Dove sono i generali che si fregiarono nelle battaglie con cimiteri di croci sul petto? Dove i figli della guerra partiti per un ideale, per una truffa, per un amore finito male? Hanno riportato a casa le loro spoglie nelle bandiere, legate strette perché sembrassero intere»55. La visione nei confronti della guerra è segnata da un profondo pessimismo in quanto pare che niente possa contrapporsi a questa follia collettiva: non serve l’azione del singolo come Piero che rifiuta di sparare a chi ha una «divisa di un altro colore» e non serve l’invito di Gesù alla diserzione, e che dire dell’utilità anche fra i cre- denti di quel quinto comandamento che vieta di uccidere: «Il settimo dice: ‘Non ammazzare’ se del cielo vuoi essere degno. Guardatela oggi questa legge di Dio, tre volte inchiodata nel legno»56. Ma la dimensione più dispe- rata si raggiunge nella filastrocca cantata assieme ai bambini dove la follia collettiva non risparmia alcunché. In un crescendo di intensità drammati- ca contrapposta al tono scanzonato del ritmo, Girotondo affresca la tenden- za assurda alla distruzione che ormai inesorabilmente coinvolge, quasi una droga, anche i bambini:

Se verrà la guerra, Marcondiro’ndera se verrà la guerra, Marcondiro’ndà sul mare e sulla terra, Marcondiro’ndera sul mare e sulla terra chi ci salverà? Ci salverà il soldato che non la vorrà ci salverà il soldato che la guerra rifiuterà. La guerra è gia scoppiata, Marcondiro’ndera la guerra è gia scoppiata, chi ci aiuterà. Ci aiuterà il buon Dio, Marcondiro’ndera ci aiuterà il buon Dio, lui ci salverà. Buon Dio è già scappato, dove non si sa

55. Dormono sulla collina in Non al denaro non all’amore né al cielo. 56. Il testamento di Tito. 70 Antioco Floris

buon Dio se n’è andato chissà quando ritornerà. L’aeroplano vola, Marcondiro’ndera l’aeroplano vola, Marcondiro’ndà. Se getterà la bomba, Marcondiro’ndera se getterà la bomba chi ci salverà? Ci salva l’aviatore che non lo farà ci salva l’aviatore che la bomba non getterà. La bomba è già caduta, Marcondiro’ndera la bomba è già caduta, chi la prenderà? La prenderanno tutti, Marcondiro’ndera sian belli o siano brutti, Marcondiro’ndà sian grandi o sian piccini li distruggerà sian furbi o sian cretini li fulminerà. Ci sono troppe buche, Marcondiro’ndera ci sono troppe buche, chi le riempirà? Non potremo più giocare al Marcondiro’ndera non potremo più giocare al Marcondiro’ndà. E voi a divertirvi andate un po’ più in là andate a divertirvi dove la guerra non ci sarà. La guerra è dappertutto, Marcondiro’ndera la terra è tutta un lutto, chi la consolerà? Ci penseranno gli uomini, le bestie e i fiori i boschi e le stagioni con i mille colori. Di gente, bestie e fiori no, non ce n’è più viventi siam rimasti noi e nulla più. La terra è tutta nostra, Marcondiro’ndera ne faremo una gran giostra, Marcondiro’ndà. Abbiam tutta la terra, Marcondiro’ndera giocheremo a far la guerra, Marcondiro’ndà57.

57. Girotondo in Tutti morimmo a stento. 71 Non ci sono poteri buoni

Dove porta la poesia? Una nota a mo’ di conclusione

Andrè Breton, riflettendo sulla funzione dell’arte e dell’artista nella società, sosteneva che la poesia non può essere neutrale, ma deve condur- re da qualche parte, deve agire per cambiare il mondo, deve essere politi- ca. Non si deve trattare certamente di un’azione di propaganda quanto piuttosto di un’azione creativa che favorisca la coscienza critica e quindi porti l’individuo ad avere un approccio diverso nei confronti della realtà e di conseguenza cambi il mondo58. Proprio in questa accezione la canzone di Fabrizio De André è una canzone politica, e in quanto tale pedagogica. Ma guai a voler trovare nel- l’opera del cantautore genovese un testo che predica la rivoluzione o l’in- tervento per cambiare il mondo, no, egli si ‘limita’ a raccontare storie, sto- rie che propongono diversi modelli sociali e di vita e che fanno riflettere. Allora la sua canzone è politica perché esprime una visione del mondo che non è neutrale, perché propone modelli nuovi di interpretazione della realtà. In tal senso e solo in tal senso egli è un cantautore politico. Ed è una canzone pedagogica, in senso gramsciano, come nota Luigi Pestalozza59, perché formatrice di una nuova coscienza, alternativa a quel- la dominante. Il convegno di Cagliari allo stesso modo di tante altre iniziative svolte in questi ultimi anni, come nota nel suo saluto d’apertura Dori Ghezzi, si regge su un paradosso in quanto collega un’istituzione (l’Università) a una figura antiistituzionale come Fabrizio De André, ma proprio in questo conferma l’«impronta indelebile sul piano culturale e socio-politico che la sua opera ha marchiato, in tante tantissime persone e, di conseguenza, nella società italiana di questi ultimi decenni»60.

58. Cfr. André Breton, Position politique du surréalisme, Edition du Saggitaire, Paris 1935, ora Le livre de poche, Paris 1991. 59. Cfr. Luigi Pestalozza, La canzone dell’altro mondo, in Fabrizio De André. Accordi eretici, cit. 60. Paolo Finzi, Con A in tasca, in Signora libertà, Signorina anarchia, cit.

Claudio Cadeddu Fabrizio De André e gli ultimi

Anche chi si accosta per la prima volta all’opera di Fabrizio De André è colpito dalla precocità della sua vocazione artistica. La particolarissima sensibilità del cantautore ben si riassume in una dichiarazione sulla Canzone di Marinella:

La canzone di Marinella è nata da una specie di romanzo familiare applica- to ad una ragazza che a sedici anni si era trovata a fare la prostituta ed era stata scaraventata da un delinquente nel Tanaro, o nella Bormida. È un fatto di cronaca che io avevo letto su uno di questi giornali di provincia a quindici anni. Mi aveva emozionato ed avevo cercato di reinventarle una vita e di addolcirle la morte1.

Dare voce a persone emarginate è dunque per De André, fin dall’ado- lescenza, un vero e proprio imperativo. Si tratta di una ‘missione’ cui l’ar- tista, nel caso in cui la senta dentro di sé, non può in alcun modo deroga- re. La responsabilità dello scrittore di fronte al proprio tempo è un valore che trova altri celebri riscontri nell’ambito della letteratura. De André, da questo punto di vista, rivela un’affinità con uno dei maggiori poeti del

1. Si tratta di un’affermazione del 1997. Cfr. Fabrizio De André, Come un’anomalia. Tutte le canzoni, a cura di Roberto Cotroneo, Einaudi, Torino 1999, p. 17. 74 Claudio Cadeddu

Novecento, Boris Pasternak, che dedica all’argomento i versi conclusivi della poesia Alba, contenuta nella raccolta che chiude il Dottor Îivago:

È con me gente senza nome, alberi, bambini, persone casalinghe. Da loro tutti io sono vinto, e solo in questo è la mia vittoria2.

Per Pasternak essere vinto dalla «gente senza nome» significa non potersi sottrarre all’impegno di narrarne le vite, ossia di offrire loro un riscatto che si concretizza nel momento stesso in cui la loro storia viene impressa sulla carta. Il cantautore, in modo analogo, così risponde alle domande dei giovani carcerati di Is Arenas:

Un vecchio psichiatra di nome Jung dice che l’artista viene aggredito da quello che sarà poi l’oggetto del suo pensiero, da forze esteriori che gli succhiano la volontà, la capacità di stare lì con la penna in mano, fino a quando ne viene fuori una cosa che con l’artista c’entra poco, e delle idee che sembra non ti appartengano3.

È questo un modo di intendere il mestiere della scrittura, che appartie- ne a chi sente di dover trasmettere e condividere col pubblico ciò che ha compreso sul senso dell’esistenza e sulla natura umana, sviscerandolo fino alle estreme conseguenze. Coerentemente con la scelta di una poetica non convenzionale, l’artista è il tramite attraverso il quale le vicende di chi non lascia traccia nella Storia acquistano una voce. I versi «Cantami di questo tempo / l’astio e il malcontento / di chi è sottovento», tratti dalla canzo- ne Ottocento (dall’album Le nuvole, 1990), rendono l’idea del disegno poeti- co deandreiano. L’invocazione Cantami infatti, oltre a richiamare alla mente i celebri versi dell’Iliade «Cantami o diva del Pelide Achille l’ira fune-

2. Boris Pasternak, Il dottor Îivago, Feltrinelli, Milano 1999, p. 456. 3. Alfredo Franchini, Uomini e donne di Fabrizio De André, Frilli, Genova 2000, p. 21. 75 Fabrizio De André e gli ultimi sta»4, ribadisce, con una vena ironica che smentisce la premessa epica, la volontà di porsi come testimone della contemporaneità. A proposito del poeta Álvaro Mutis, che gli aveva ispirato l’ultima can- zone dell’album Anime Salve (1996), Smisurata preghiera, De André sottoli- nea:

È un poeta che mi ha affascinato particolarmente per il fatto che privile- gia la comunicazione diretta con il lettore. È alla portata di tutti. Il personaggio centrale della Summa di Maqroll. Il gabbiere, sembra dirci che le difficoltà bisogna affrontarle attraversandole perché un uomo possa dirsi tale; fino ad affrontare la peggiore di tutte, che è poi la morte. Maqroll, attraverso la penna di Mutis, sembra dirci che superando la paura della morte si diventa immortali, naturalmente senza andarsela a cercare, ma neanche rifuggendone5.

Il discorso è in buona parte autoreferenziale. Anche lo scrittore geno- vese raccoglie la sfida di ribellarsi alle ingiustizie, di rendere immortale chi è effimero attraverso una delle prerogative originarie della canzone, come spiega in un’intervista a proposito dell’album Creuza de mä: «il lavoro si prefigge di ricondurre la canzone alla sua funzione primaria. Il canto ha ancora oggi, in alcune etnie cosiddette primitive, il compito fondamenta- le di liberare dalla sofferenza, di alleviare il dolore, di esorcizzare il male»6, senza vincoli di tipo spazio-temporale o dettati dalla moda. Le ingiustizie sociali De André le denuncia ancor prima del ’68, né cessa mai di parlarne. La sua tenacia si spiega anche con una profonda convinzione: «L’uomo potrà anche conquistare le stelle, ma le sue proble- matiche fondamentali sono destinate a rimanere le stesse per molto tempo se non addirittura per sempre»7.

4. Non a caso De André definisce Omero il suo ‘poeta preferito’. 5. Questa dichiarazione è disponibile nella videocassetta del cofanetto che contiene il volume di Fabrizio De André, Come un’anomalia, cit. 6. Ibidem. 7. Alfredo Franchini, op. cit., p. 87. 76 Claudio Cadeddu

La sua produzione musicale accompagna momenti cruciali del dopo- guerra nel nostro paese. Comincia a scrivere negli anni del boom econo- mico, negli anni Settanta racconta la contestazione che sfocia nel terrori- smo, mette a nudo le contraddizioni degli anni Ottanta, e preconizza la crisi della globalizzazione a ridosso del nuovo millennio. In quarant’anni la società italiana ha attraversato cambiamenti radicali, ma per De André il punto di riferimento sono rimasti sempre i ghettizzati, le vittime, a pre- scindere dalla loro lingua e dal tempo in cui vivono, dal colore della pelle o dalle loro tendenze sessuali. La strategia poetica per esprimere questa visione del mondo si perfe- ziona col tempo. Agli esordi probabilmente avverte che nei testi rimane sempre qualcosa di non detto e, per colmare questa ‘assenza’, annette alcuni versi «sul retro dei microsolchi da 33 giri dei dischi Ricordi»8. Nei primi 45 giri la sua è una coraggiosa denuncia sociale; coraggiosa anche perché portata avanti con un linguaggio che desta scalpore. Basti pensare che l’editore non autorizza la pubblicazione del brano satirico Carlo Martello e che la censura muta il nome del paesino in cui è ambientata Bocca di Rosa nell’inesistente San Vicario. Il contenuto ‘immorale’ della canzone gli costa addirittura una denuncia da parte di un’associazione di genitori di Verona. Nei primi dischi, dunque, De André racconta la storia della prostituta Marinella; di Miche’, omicida e suicida per amore; della donna che dal suo eroe scomparso riceve in eredità solo una medaglia; di Piero9 che, rifiutan- dosi di sparare contro un nemico a lui troppo simile, viene da questi ucci- so; delle «vittime di questo mondo» della Città vecchia. In quest’ultimo caso De André manifesta il dissenso nei confronti dei ben pensanti: «Se tu pen- serai e giudicherai da buon borghese / li condannerai a cinquemila anni

8. Fabrizio De André, op. cit., p. VII. 9. In un verso di questa canzone, che esprime il rifiuto della guerra e del suo codice di sopraffazio- ne, si condensa quanto si è detto sopra a proposito della poetica deandreiana: «dei morti in bat- taglia ti porti la voce, chi diede la vita ebbe in cambio una croce». 77 Fabrizio De André e gli ultimi più le spese. / Ma se capirai, se li cercherai / fino in fondo / se non sono gigli son pur sempre figli, / vittime di questo mondo». In definitiva vengono ribaltati i tradizionali rapporti di classe, col risul- tato che gli ultimi diventano la nostra coscienza, perché lasciano affiorare quella parte di noi che spesso non si ha il coraggio di affrontare. Attraverso il loro racconto è possibile arrivare – quasi dostoevskijanamente – a una comprensione meno superficiale della realtà. Di contro, De André si sca- glia contro i ‘borghesi’ proprio perché tendono a rimuovere l’esistenza di quell’umanità scomoda, nelle rivendicazioni e nella coscienza. La denuncia parte da Genova e si allarga progressivamente a macchia d’olio travolgendo tutte le istituzioni e tutto il pianeta. Il cantautore inizia allora a comporre album a tema, in cui la costante ricerca di nuovi modu- li espressivi, musicali e letterari, è funzionale all’allargamento del discorso sugli emarginati. Da questo punto di vista è significativo il rapporto tra la sua città natale e la Sardegna:

A me pare che Genova abbia la faccia di tutti i poveri diavoli che ho cono- sciuto nei suoi carruggi, gli esclusi che avrei ritrovato in Sardegna ma che ho conosciuto per la prima volta nelle riserve della città vecchia, i senza- dio per i quali chissà che Dio non abbia un piccolo ghetto ben protetto, nel suo paradiso, sempre pronto ad accoglierli10.

Nella costruzione dei testi egli ricorre, quindi, a un procedimento tipi- camente poetico, il linguaggio analogico, che caratterizza tutta la sua pro- duzione; così come il filo conduttore della sua ricerca rimane invariato e può essere così riassunto:

Ebbi ben presto abbastanza chiaro che il mio lavoro doveva camminare su due binari: l’ansia per una giustizia sociale che ancora non esiste, e l’il- lusione di poter partecipare in qualche modo ad un cambiamento del mondo. La seconda si è sbriciolata ben presto, la prima rimane11.

10. Ivi, p. 25. 11. Ivi, p. 19. 78 Claudio Cadeddu

Dal primo album, Volume I (1967)12, fino a Storia di un impiegato (1973), De André sente l’esigenza di spiegare in modo più estensivo ciò che gli sta a cuore, cosa che la densità del testo poetico non gli consente di fare. Stampa, perciò, alcune note sulle copertine dei dischi. Nel secondo album, Tutti morimmo a stento (1968), pubblicato nel pieno della contestazione studentesca, è protagonista la natura, che l’autore sente come amica fraterna per la capacità di addolcire la morte dei disereda- ti. Sono emblematici, a questo proposito, i versi della canzone Inverno che – come una ninna nanna – recitano una formula consolatoria: «un altro inverno tornerà domani / cadrà altra neve a consolare i campi, / cadrà altra neve sui camposanti». Ciò che interessa non è, però, soltanto la morte fisica. In un interven- to alla Rai egli definisce l’album come:

Cantata che parla della morte psicologica, morale, mentale che un uomo normale può incontrare durante la sua vita […] una persona comune, cia- scuno di noi, mentre vive, si imbatte diverse volte in questi vari tipi di morte, prima di arrivare a quella vera. Così quando tu perdi un lavoro, quando perdi un amico muori un po’, tanto è vero che devi rinascere dopo.

Alcuni anni più tardi, a dimostrazione non solo della continuità dell’o- pera ma anche dell’attualità di problemi che aveva iniziato a porre dagli esordi, De André precisa:

Ho paura della morte che ci sta intorno, dello scarso attaccamento alla vita che noto in molti nostri simili che si ammazzano per dei motivi sicura- mente molto più futili, di quanto non sia il valore della vita. Io ho paura di quello che non capisco, e questo proprio non mi riesce di capirlo.

Se, come si è visto, si scaglia contro la morale dominante che tende a escludere i ‘diversi’, comprende fino in fondo il valore della vita proprio

12. Per primo album si intende qui un disco che non raccolga esclusivamente canzoni già edite. 79 Fabrizio De André e gli ultimi attraverso il dialogo con essi. È questa consapevolezza che lo porta ad affermare: «Se non vivo di emozioni mi sento inutile»13. Nell’album Non al denaro non all’amore né al cielo (1971) trova una nuova strada per includere nel discorso anche personaggi – come medici, ottici e chimici – che, pur non essendo ai margini della società, sono oppressi dal sistema e dunque non sfuggono al dolore del vivere. Tra i morti che popolano la collina di Spoon River, De André affida al suo alter ego, il suo- natore Jones, l’intima necessità di cantare e testimoniare il percorso trac- ciato da quelle anime. È un’esigenza che si rivela una trappola: una volta che inizia non può più smettere.

Del 1981 è l’album l’Indiano, quello del post sequestro, che si intreccia con una sofferenza vissuta in prima persona. Egli non solo perdona le guardie carcerarie, ma stupisce per l’ennesima volta l’opinione pubblica, dichiarando il giorno successivo al rilascio: «I veri sequestrati erano loro, che stanno ancora là mentre noi siamo qua liberi a fare una vita normale». Ribalta così il tradizionale rapporto tra vittima e carnefice. L’album, in realtà senza titolo, viene comunemente definito Indiano, e qui De André trova, in canzoni come Fiume Sand Creek e Canto del servo pastore, un punto di contatto tra sardi e indiani d’America, che chiarisce in modo puntuale:

Nei quattro mesi passati con i rapitori avevo visto in loro gli esponenti più di una tribù di indiani che di un’organizzazione mafiosa. E nella loro lotta per la sopravvivenza avevo letto qualche cosa di molto simile al destino degli indiani d’America. Da un lato pensavo agli indiani ster- minati dai vari Custer […], ghettizzati nelle riserve dal potere che aveva rapinato le loro terre, dall’altro ai sardi, cacciati sui monti dai cartagine- si, poi dai romani, confinati nella Barbagia. Capita anche ai pochi india- ni di Sardegna di assaltare le diligenze del padrone per riprendersi parte di quello che è stato loro tolto14.

13. Alfredo Franchini, op. cit., p. 21. 14. Fabrizio De André, op. cit., p. 205. 80 Claudio Cadeddu

L’impegno contro tutte le discriminazioni trova piena espressione nel brano Se ti tagliassero a pezzetti, che egli definisce: «una canzone piena di valenze simboliche sul tema della libertà e della fantasia, continuamente minacciate di morte dalla nostra civiltà, ma indistruttibili nella coscienza dell’uomo»15. Si tratta di una posizione che avvicina la concezione dell’arte dean- dreiana alla poetica di Pier Paolo Pasolini, al quale il cantautore dedica, in collaborazione con Massimo Bubola, la canzone Una storia sbagliata:

Nel testo di Una storia sbagliata rievoco la tragica vicenda di Pier Paolo Pasolini. È una canzone su commissione, forse l’unica che mi è stata com- missionata. Ricordo che con Bubola decidemmo di farla perché la morte di Pasolini ci aveva resi quasi come orfani. Ne avevamo vissuto la scom- parsa come un grave lutto, quasi come se ci fosse mancato un parente stretto. Un aspetto tragico che abbiamo voluto sottolineare è quello lega- to ad una moda purtroppo ancora adesso corrente, che si ricollega al clima di ignoranza e di caccia al diverso. E cioè il fatto che della morte di un grande uomo di pensiero sia stata fatta praticamente carne di porco da sbattere sul banco di macelleria dei settimanali spazzatura, e non solo di quelli16.

In Pasolini De André vede l’ultimo, l’emarginato, il diverso, una delle tante persone che sente di dover difendere; e allo stesso tempo un com- pagno di viaggio. Anche lo scrittore bolognese infatti si batteva per quel- le minoranze cui apparteneva. Partendo dalla denuncia della condizione dei borgatari romani, espressione di un’energia vitale non ancora corrotta dai processi di massificazione, e allargando progressivamente la prospet- tiva sull’intera società, Pasolini giungeva a rivendicare l’importanza delle minoranze linguistiche, come nei saggi di Passione e Ideologia, in cui i dialet- ti vengono descritti come un ricco serbatoio utile a mantenere viva la lin- gua standard.

15. Ivi, p. 210. 16. Ivi, p. 199. 81 Fabrizio De André e gli ultimi

Analogamente De André, che non ignora il punto di vista pasolinia- no17, collega il discorso sugli emarginati all’interesse per le culture altre: «Il meglio della cultura viene sollecitato da persone che si trovano in mino- ranza e che proprio per i loro doni vengono emarginate e all’occorrenza perseguitate»18.

L’album Creuza de mä nasce anche da questa consapevolezza: «Mi piac- ciono le canzoni in lingua minore, ho sempre cantato un’umanità margi- nale, e i personaggi anonimi di Creuza parlano una lingua dell’anonima- to»19. All’interno della raccolta, è significativa la canzone dedicata a Sidone – città libanese, distrutta dalle truppe del generale Sharon nell’estate del 1982 – in cui si è affermato, per la prima volta, l’uso dell’alfabeto. Il testo parla di un tragico evento: «La piccola morte di cui parlo non va sempli- cemente confusa con la morte di un bambino piccolo, bensì va metafori- camente intesa come la fine civile e culturale di un paese»20. La chiave di lettura della miscellanea successiva è racchiusa nel titolo, Le Nuvole (1990), tratto dall’omonima commedia di Aristofane, da inten- dersi come:

Quei personaggi ingombranti e incombenti sulla nostra vita economica, politica e sociale, il cui ruolo fondamentale sembra quello di mettersi fra noi e il cielo per nasconderci la luce del sole, come fanno quelle nuvole che vanno e vengono senza darci neanche il conforto di una goccia di pioggia21.

Il metaforico impedimento della vista operato da queste nuvole rappre- senta i mali di una società nella quale si dà molta importanza all’immagi- ne, e in cui le minoranze troppo spesso vengono schiacciate da una clas-

17. Lo si evince anche da questa dichiarazione: «Pasolini diceva che il dialetto è il popolo, e il popo- lo è autenticità. Ne deduco che il dialetto è l'autenticità». Cfr, Fabrizio De André, op. cit., p. 226. 18. Ivi, p. 252. 19. Ivi, p. 226. 20. Alfredo Franchini, op. cit., p. 46. 21. Fabrizio De André, op. cit., p. 230. 82 Claudio Cadeddu se politica che decide per tutti, pensando soltanto ai propri interessi di parte. Celebri, da questo punto di vista, sono i versi di Don Raffae’: «Prima pagina venti notizie / ventuno ingiustizie e lo Stato che fa / si costerna, s’indigna, s’impegna / poi getta la spugna con gran dignità».

Il titolo dell’ultimo album, Anime salve (1996), si «rifà all’etimo delle due parole anima e salvo, [rispettivamente anemos e olos] e vuole mantenere il significato originario di spirito solitario»22. La canzone che dà il titolo alla raccolta accenna

al rifiuto dell’identità anagrafica, cioè del personaggio costruito da un’au- torità che vuole imporre a ciascuno di stare al mondo o al proprio posto; la solitudine, che in questo caso consiste in una scelta autonoma, consen- te di non stare nel mucchio: la sola condizione idonea a non essere con- taminati da passioni di parte è uno stato di tranquillità dell’animo che per- mette di abbandonarsi all’assoluto, alle sue immagini e alle voci, interiori ed esterne, senza marchi posticci23.

Il cantautore avverte la necessità di isolarsi dalla società per evitare

per quanto possibile, i coinvolgimenti emotivi e gli aberranti schieramen- ti dettati da convenzioni o convenienze; estraniamento necessario, per tentare una testimonianza, il più possibile equilibrata, di molte altre soli- tudini24.

Egli invece sente l’urgenza di

contrastare le maggioranze, la loro pessima abitudine di contarsi, di rile- varsi numerose e potenti e quindi, con il consenso peloso dell’autorità, di sentirsi in diritto di vessare e umiliare chi abbia comportamenti divergen- ti dai loro25.

22. Ivi, p. 256. 23. Ibidem. 24. Ivi, p. 111. 25. Ivi, p. 118. 83 Fabrizio De André e gli ultimi

Dedica quindi la stupenda canzone Khorakhané all’omonima tribù Rom, cogliendo l’occasione per parlare degli zingari, etnia massacrata a più riprese nel corso della storia dell’umanità, e alla quale riconosce il merito di esorcizzare la morte «con il suo eterno viaggio intorno al mondo»26. Faber, ancora una volta, si schiera dalla parte dei più deboli, contrapponendo loro i carnefici, la maggioranza che sta «Alta […] china e distante sugli elementi del disastro / dalle cose che accadono al di sopra delle parole / celebrative del nulla / lungo un facile vento / di sazietà di impunità». Il brano è un vero e proprio testamento spirituale, De André sarebbe morto tre anni più tardi.

L’album si conclude con Smisurata Preghiera, un inno ai «servi disobbe- dienti, alle leggi del branco», per i quali egli invoca un intervento ultrater- reno: «Signore […] non dimenticare il loro volto / che dopo tanto sban- dare / è appena giusto che la fortuna li aiuti / come una svista / come un’anomalia / come una distrazione / come un dovere».

Come altri prima di me hanno sottolineato, Smisurata Preghiera chiude, come un cerchio, il ciclo di canzoni tematiche inaugurato con Volume I. Un’invocazione analoga alla precedente era stata già espressa, infatti, nei versi di Preghiera in gennaio, brano che apre l’album del 1967: «Dio di mise- ricordia / il tuo bel Paradiso / lo hai fatto soprattutto / per chi non ha sorriso / per quelli che han vissuto / con la coscienza pura». Sono parole che dimostrano l’impossibilità, per chi mostra sensibilità nel dare voce agli emarginati, di sottrarsi al confronto con Dio, a prescin- dere dal fatto che si creda o meno nella sua esistenza. Non si può affer- mare che De André fosse credente, anche se più volte si è mostrato ani- mato dalla pur fievole speranza che sulla terra esistesse la misericordia. Ritengo che la cosa importante per lui fosse costruire un mondo fondato

26. Ivi, p. 254. 84 Claudio Cadeddu sul rispetto, sulla compassione nel significato etimologico di soffrire insieme. La testimonianza di un giovane recluso di Is Arenas, che lo aveva cono- sciuto in occasione di una visita al carcere, sintetizza il filo conduttore della sua produzione artistica; oggi più che mai viva e attuale:

I personaggi che popolano le sue canzoni sono così vitali e così vicini alle comuni storie di molti di noi che si fanno portatori di messaggi di giusti- zia sociale, di uguaglianza e di amore verso la natura27.

27. Alfredo Franchini, op. cit., p. 68. Filippo Davoli Suonare ti tocca Apprendistato alla vocazione in Fabrizio De André

Sono sempre sorpreso, leggendo articoli o recensioni all’opera di Fabrizio De André, dal fatto che chiunque ne esalta l’essere stato un gran- de musicista, ma preferendo poi concentrare il proprio intervento soprat- tutto sulla poesia dei suoi testi. Il mio intervento intende invece concentrarsi sulla vocazione primaria di Fabrizio De André alla musica, arrivando a essa anche attraverso le parole dei suoi testi, oltre che delle sue dichiarazioni a riguardo. Per ‘visitare’ un mondo così semplice – e difficilmente semplice è sem- pre l’adesione totale a quel «qualcosa di misterioso e indefinibile […] che ogni tanto ti colpisce e non sai da dove venga»1 – mi servirò di alcuni suoi momenti fondamentali, sia che si tratti (soprattutto) di un intero disco concepito come un solo discorso in differenti movimenti, qual è Tutti morimmo a stento; sia servendomi di quella metafora formidabile che rap- presenta il ‘suonare ti tocca’ ne Il suonatore Jones; sia, ancora, scivolando in quell’universo speculare fatto di volti e di suoni che si lega ai carruggi della vecchia Genova, come al recupero del dialetto e delle sonorità etniche; sia aprendomi all’ultima stagione del musicista De André: quello che ci salu-

1. Da Appunti e manoscritti inediti conservati dalla Fondazione De André e pubblicati in E poi, il futu- ro a cura di Guido Harari, Mondadori, Milano 2001. 86 Filippo Davoli terà compiutamente e consapevolmente con Disamistade, con Smisurata pre- ghiera e con la rilettura de La canzone di Marinella in duetto con Mina. Sia, infine, evocando altri nomi, altre tradizioni, altra musica.

C’è come un esergo involontario, nel Cantico dei drogati che apre Tutti morimmo a stento:

Ho licenziato Dio gettato via un amore per costruirmi il vuoto nell’anima e nel cuore.

Un incipit di incredibile forza gnomica per un testo che è tra i più intensi di tutta la produzione di De André. Eppure – come a volte a chi scrive sfuggono le parole di mano e, pur non tradendo il senso narrativo per cui l’autore le chiama a nascere, tuttavia sembrano vivere di vita pro- pria e suggerire anche altro – le parole di questi quattro versi vengono a costituirsi come dichiarazione autonoma di poetica, e nello specifico di poetica musicale.

La musica? Mi sedusse un po’ alla volta, come una troia prudente. Cominciò con qualche mormorio fioco, poi divenne balbuzie e piano piano acquistò la franchezza di un linguaggio che, per quanto elementare, era comunque il mio. Ma la musica fu anche una necessità. Nella mia fami- glia tutti si esprimevano in modo non truccato, in assoluta coerenza con le scelte di ciascuno: l’avvocatura, il management, la politica, l’insegna- mento. Io non ero capace di esprimermi a quei livelli, con quel misto di vocazione genuina e, si dice oggi, di professionalità. E così scelsi la presti- digitazione. Scoprii che, se prendevo una chitarra, la suonavo meglio di tutti, e stupivo gli altri più che con un tema in classe2.

2. Cesare G. Romana, Amico fragile, Sperling & Kupfer, Milano 1991. 87 Suonare ti tocca

Sentendo l’esigenza di fissare un mondo che gli si agita dentro, avver- te come insopprimibile in sé, misteriosamente, l’attitudine a muoversi tra le corde di una chitarra suonata, per la prima volta, a casa di amici di fami- glia, con innata abilità e al contempo con quella curiosità che spinge ad approfondire il primo incontro, fino a tramutarlo in una conoscenza, direi quasi in senso biblico: non solo, cioè, l’acquisizione di una serie di tecni- che, di meccaniche e di generi, bensì una vera e propria compenetrazione, in cui l’attore si trasforma inconsapevolmente in agito, e mentre prende confidenza con lo strumento, sente venire alla luce in sé una consapevo- lezza nuova: dalla vita, dalle letture, dagli incontri, nuovamente alla vita, ma attraverso la trasfigurazione nell’arte della musica e della parola che va ad abitarla. In questo senso, credo, si possa leggere quella ‘costruzione’ del vuoto; come asserisce Giovanni Piana, in una sua recente pubblicazione sulla filosofia della musica, perché si dia un suono è indispensabile che si dia un incontro tra un soffio e una cavità: un vuoto appunto. Lo ‘strumento’ Fabrizio De André, cioè, licenzia Dio in quel bilancio/preludio di decisioni e di scelte che sempre si impone quando uno decide – per una spinta interiore più forte di ogni altra buona consi- derazione – di assecondare quel raggio luminoso3 che lo chiama a farsi voce, sia pure nella cecità visionaria cui ogni vero artista è chiamato a risponde- re, di volta in volta, fin verso il disvelamento del vero e del tutto. E dunque, il vuoto e il respiro: l’albero cavo che si è chiamati a essere e a farsi (illuminante in tal senso l’ossimoro del costruirsi il vuoto) perché, attraverso la propria corteccia concava, il flatus vitae possa al passaggio produrre il suono; il suono della voce (creato dal passaggio del respiro nella cavità della bocca), e dunque anche – con un linguaggio che è auto- nomo ed egualmente suggerente, sia pure attraverso segnali differenti da quelli della parola – il suono del suono stesso, ossia la musica.

3. Vedi nota 1. 88 Filippo Davoli

Alla stessa conclusione, arrivandoci però da un’altra strada – sempre illuminata dal concetto del ‘vuoto’ – perviene Michele Serra. La sua idea di vuoto è quella di un vuoto temporale e spaziale: il vuoto generazionale dell’adolescenza, l’otium giovanile di pomeriggi apparentemente persi a fare nulla; ma anche il vuoto circolante di uno spazio che scompare nelle città nuove, dove ci sono negozi e servizi di tutti i tipi ma manca quasi ovunque la piazza, il buco in cui si incanala il vento, il luogo dell’incontro e del confronto. Serra, dunque, fa capo a questa idea di vuoto; che è comunque valida e significante e lo conduce alla medesima conclusione, come egli stesso scrive: «questa dimensione del vuoto che è riflessione, che è meditazione e che, nel caso della voce di Fabrizio, è riordinare in un’altra maniera il ritmo dei pensieri e dell’esistenza»4.

Dal vuoto che non è, dunque, assenza, quanto piuttosto attesa, emer- ge un intero universo: di volti, di storie, ma anche di suoni; il Cantico dei drogati, da cui eravamo partiti, rappresenta un felice coacervo di esperien- ze sonore diversissime tra loro: dall’inizio solenne degli archi (in cui sem- bra di sentire riaffiorare la calma solenne di un Benedetto Marcello e la tensione drammatica di un Bach), passando per la paura per niente spetta- colare, anzi: tutta umana e dolente, del protagonista (il cui straniamento magnificamente si cala nel tema portante e più volte riemergente dell’ar- rangiamento), si giunge senza soluzione di continuità all’esplosione ritmi- ca del basso e delle percussioni del Primo intermezzo, confluente poi nella Leggenda di Natale, con la cantata che prosegue condotta delicatamente dal- l’arpeggio della chitarra, fino al ribollire della ripresa del Secondo intermezzo.

Tutti morimmo a stento è del 1968. Siamo, anche all’ascolto, già in pieno clima anni ’70; le soluzioni adottate per l’arrangiamento evocano, in que- sto passaggio della cantata, le colonne sonore cinematografiche di quegli

4. A cura di Cesare G. Romana, De André il corsaro, Interlinea, Novara 2002. 89 Suonare ti tocca anni (mi sovvengono certi passaggi, ad esempio, del film di Michelangelo Antonioni Zabriskie Point): non credo si tratti di un caso dettato dalle con- suetudini del tempo; piuttosto credo che De André ci stia creando musi- calmente, dinanzi agli occhi, il cambio d’inquadratura del suo film su vini- le, conducendoci dentro la storia che va raccontando, mediante i cambi forti delle tessiture melodiche e dei ritmi, oltre che delle parole, con le intromissioni garbate ma decise dei fiati, staccati e martellanti, insieme alle percussioni a metà tra beat e bossa, con la stessa energia parossistica che può avvertirsi, più o meno negli stessi anni, in certi passaggi percussivi della partitura dell’Orfeo negro di Vinicius de Moraes o, comunque, in altri spartiti di denuncia di un altro grande protagonista della musica popular bra- siliana, come Chico Buarque de Hollanda (penso, in particolare, alla ten- sione espressiva di un capolavoro come Costruçao) – e Genova, come sap- piamo, offre più di uno spunto di vicinanza con l’universo brasiliano: il mare, una varietà amplissima di povertà e umanità, e al contempo una fer- rea e pressoché incontaminata solidità musicale etnica. Capolavori in cui la vita si incrocia con la morte, la solitudine nel tempo tenta di catturare l’attimo verginale della frattura del cerchio dell’e- sistenza: il muratore di Costruçao crolla dall’impalcatura in una vertigine di altissima e dolorosissima poesia, nel tempo necessario a tutto il mondo che gli si muove e vive intorno di tirare le somme sul senso di quella morte e di quella vita.

È opportuno riascoltare Costruçao: a cominciare dalla dissonanza inizia- le per sola chitarra (ritmata sul tempo della bossanova, in un ossimoro effi- cacissimo che più che tranquillizzante saudade suggerisce angoscia inci- piente) su cui si innestano il basso e le percussioni; e – mentre il testo si ingorga volutamente sulle stesse parole combinate differentemente (qual- cosa di simile accade nella chiusa di Girotondo, la filastrocca che peraltro richiama alla mente la successiva Marcia dei fiori, sviluppata da Vinicius de Moraes su un tema di Bach ed eseguita anch’essa con l’ausilio di un Coro 90 Filippo Davoli di Voci bianche)5 – ecco apparire i fiati poderosi, il coro, gli archi, con sor- prendenti effetti polifonici, mentre la debole chitarra continua – tra il dolente e l’urticante – la sua marcha da feira, il suo lamento privato.

Il muratore di Chico Buarque è un altro diseredato, un altro ultimo, con una sua pur precisissima storia, un suo bislacco destino, in mezzo a un mondo cinico, indifferente, beffardo. Diviene allora interessante che alcune soluzioni stilistiche dei due vadano a convergere sulla scelta degli strumenti messi in campo, sia pure – nel caso di De André – nella coda/introito del brano successivo. È interessante l’accostamento possi- bile al Brasile d’autore, oltre l’evidente specularità poetica con Bob Dylan, già ampiamente indagata in precedenza da Fernanda Pivano. Ma mentre quest’ultima pone l’accento esclusivamente sui versi dei due artisti6, quasi che la loro musica fosse accessoria, io credo che non si possa eludere il fatto che De André – come Dylan, del resto – non ha obbedito soltanto alla propria vocazione di poeta (e avrebbe potuto, ritenendolo sufficien- te!), bensì a quella articolata di musicista e di poeta. Diversamente, la gran- dezza di questo artista – anche nel migliore dei casi – risulterebbe fram- mentaria e comunque riduttiva.

Fermandosi a un’analisi puramente testuale delle canzoni di De André, non si riuscirebbe a spiegare alcune sue scelte e decisioni; sembrerebbe solo un’occasione per ringraziarla, quella che fa pronunciare a Fabrizio parole entusiasmate per la vocalità di Mina (l’amore cantato in tutte le salse da Mina era considerato, negli anni caldi, uno sberleffo al proletaria- to); De André ha invece sempre espresso parole di enorme stima per Mina, esaltandone quella eccezionale istintualità nel prendere le note a

5. Vinícius De Moraes, Sergio Endrigo, Giuseppe Ungaretti, Toquinho, La vita è l’arte dell’incontro, Fonit Cetra, 1977. 6. Fernanda Pivano, Fratello Bob, fratello Faber, in De André il corsaro, cit. 91 Suonare ti tocca grappoli, sfrisandole; al punto di reincidere proprio con lei, in un memo- rabile duetto, La canzone di Marinella7, divenuta poi una sorta di testamen- to (involontario?). La sua stessa ricerca successiva – attentissima, come sappiamo, agli ele- menti sia sonori che linguistici provenienti dalla terra d’origine – svela, ad esempio, la sua prossimità a un altro brasiliano: Milton Nascimento. Poco conosciuto in Italia (rispetto a quanto non lo sia in Brasile), nessuno come lui ha saputo fondere elementi della musica colta, del rock e del jazz con le danze tradizionali dello Stato di Minas Gerais (da cui proviene), otte- nendo risultati di assoluta grandezza e originalità; la sua lezione è, in que- sto senso, vicinissima a quella dell’ultimo De André, la cui ricerca si radi- calizza (e sviluppa in senso musicale, se – come credo che sia – la lingua genovese si rende essa stessa musica ben più dell’italiano) in Creuza de mä, dove anche il parlato dialettale si integra a perfezione nelle battute, tra i suoni rotondi che da una Liguria nordicamente mediterranea provengono e si rielaborano grazie alla creatività dell’autore.

Ma più ancora, un punto di contatto è – io credo – ravvisabile nella capacità di Nascimento di dilatare il tempo musicale, attraverso una voca- lità particolarissima (diversa da quella di De André ma egualmente carat- terizzante e inconfondibile) e uno sviluppo armonico dei brani per suc- cessivi allargamenti e rilanci, da una tonalità a quella immediatamente suc- cessiva, passando tra asperità e dissonanze con grazia fulminante (come accade mirabilmente in certe chiuse, esclusivamente musicali, di Anime salve), fino all’approdo finale e piano, in cui quasi il tempo si dilata, ed è come se apparissero – con la loro sospesa inquietudine – le nuvole che vanno, vengono, ogni tanto si fermano.

7. Mina e Fabrizio De André, La canzone di Marinella, in Mi innamoravo di tutto. 92 Filippo Davoli

Come dire: tanto sta il primo Fabrizio a Chico Buarque (il poeta della musica popular brasiliana), quanto l’ultimo sta a Milton Nascimento (musici- sta tra i più valenti nel mondo). È inoltre importante che vi siano – verificabili – consanguineità di poetica così forti in artisti che si trovano a fortissime distanze geografiche e culturali8: è la conferma, se si vuole, che l’arte soffia a proprio piacimen- to, ben lungi dai restringimenti dei catalogatori e delle scuole di ogni tempo. C’è una mistura di felice omertà e di dialogo interiore, tra l’artista e l’arte, in grado di non rispondere per nulla alle categorie critiche; parlan- do di Fabrizio De André diviene fin troppo semplice parlare di anarchia. Ma non solo, ovviamente, in senso politico e sociale: bensì proprio in senso artistico e ideale.

L’arte si fa beffe delle correnti di pensiero, delle propositività ideologi- che, finanche delle intenzionalità dei chiamati a dire e a darsi nella passio- ne dell’atto creativo. La lezione cantautorale di Fabrizio De André si discosta decisamente da quella dei suoi amici della Scuola Genovese, svilup- pando un proprio percorso incomprensibile fino in fondo, se lo si prende solo per quello che è l’aspetto poetico dei testi, mentre invece vale anco- ra di più, dice ancora di più, se preso nella sua integrità, splendidamente anarchica: se, cioè, anche nel rileggerlo, si parte da quel ‘vuoto’ con cui si apre il Cantico dei drogati. Melodie sempre mediterranee, ma trasfigurate dalla voce solida e dalla dizione inchiodante di De André, cui spesso fanno da spalla le trombe (in funzione memoriale – Canzone dell’amore perduto – ma anche in funzione gnomica – Ballata degli impiccati) e quindi, come abbandonandosi a quel ‘tempo del vuoto’ evocato da Serra, la malinconia umanissima e lieve di Inverno e dell’indimenticabile Terzo intermezzo, tessuto come un madrigale per chitarra e voce e sostenuto – nei momenti di passaggio al ritornello –

8. Tra gli esempi plausibili, viene da citare, il parallelo emblematico tra Billie Holiday e Mia Martini. 93 Suonare ti tocca dall’abbraccio degli archi, nei quali si scioglie poi la melodia della Corale che precede, accompagna e conclude il Recitativo.

De André, insieme forse soltanto a Giovanna Marini, è stato l’unico in grado di rendere popolari elementi direttamente provenienti dalla musica colta: in lui, la fusione delle memorie e degli incontri – sia di matrice cul- turale che direttamente esistenziale – ha raggiunto esiti di assoluta gran- dezza. La carnalità del Cristo sofferente – mirabilmente centrata nei brani de La buona novella, ma rintracciabile, in fondo, in ognuno dei destini che bef- fardamente la natura condanna al passaggio su questa terra, non ultimi quelli dei suoi carcerieri senza stelle – diviene la feconda metafora del suo ininterrotto apprendistato; l’arte è un’ora che si assume; la musica una pas- sione che si svela anche nel suo senso latino (quello del patior-patiri, per intendersi).

Ecco, allora, che «suonare ti tocca per tutta la vita»: l’onestà intellettua- le, la generosità umana, la riservatezza che non è snobismo ma piuttosto ridiscussione continua e spesso feroce all’interno della turris interiore, costringono allo scavo verso l’essenziale; detraggono il corpo a vantaggio della carne, l’immagine a favore dell’identità, la narrazione dell’esserci a vantaggio della coscienza dell’essere: in altri termini, ‘costruiscono il vuoto’ dal di dentro.

La costruzione del vuoto, dunque, percorre tutta la carriera musicale di De André; diviene, volta per volta, in una crescita che è esponenziale dagli esordi alla conclusione, una progressiva riduzione della parola (era partito dalle ballate, in cui la musica accompagnava, sia pure parallelamen- te, il testo) a vantaggio della sonorità nuda (sono progressivamente sem- pre più numerosi, negli ultimi lavori, i momenti di suono senza parole), nella scia dell’ineffabile, al punto quasi di trasferire la parola nella musica, 94 Filippo Davoli quasi di trasfigurarla in essa (ecco il testamento, a nostro giudizio per nien- te involontario, del duetto con Mina, giocato interamente nell’incrocio sublime delle voci). Apprendistato ininterrotto, si diceva, alla vocazione di ‘strumento’ in mano all’Arte, nell’individuazione (forse anche inconsapevole, nella sua portata totale) della direzione da prendere: quella del silenzio, del compi- mento del tragitto, della conquista dell’equilibrio perfetto che diviene ‘musica di poesia’, ancora per la mediazione di quella voce tanto precisa nel dire, quanto assolutizzante nel catturare l’attenzione, anche a scapito delle parole che pure faceva vibrare con assoluta precisione. È il tempo della cristallinità di un Čajkovskij, chiamato a spegnere lo jodel assordante di Ottocento; l’ora giusta per l’organo che inquieta, senza bisogno di spiegazioni ulteriori, la conclusione di Disamistade; il momento opportuno per elevare la Smisurata preghiera, chiamata a fare il punto sul vuoto della morte, donandole un frammento di splendore e di senso in un alfabeto musicale ancora, più di sempre, diverso da qualunque vigliaccheria. Antonello Zanda La lingua nomade dell’emozione Il dialetto nelle canzoni di Fabrizio De André

Quando nel 1984 apparve Creuza de mä, riconosciuto dai critici musi- cali come il miglior disco di quel decennio, nessuno avrebbe scommesso che l’autore, Fabrizio De André, avrebbe vinto la battaglia dei numeri, quelli necessari per convincere i discografici che quell’album importante e cruciale non li avrebbe delusi. Il progetto che il cantautore genovese aveva elaborato, e che aveva prodotto un album cantato interamente in dialetto1 genovese, era ambizioso e coraggioso perché controcorrente rispetto ai

1. Da questo punto in poi userò come equivalenti e solo per semplicità, sia per il sardo che per il genovese, i termini ‘dialetto’ e ‘lingua’. Non è oggetto di questo scritto approfondire la questio- ne riguardante la natura di una lingua e di un dialetto, ben sapendo che i due termini non sono sinonimi. Il dato di fatto inequivocabile è che Fabrizio De André, a un certo momento della sua carriera artistica, ha scritto canzoni utilizzando due idiomi locali, o anche due lingue minoritarie, invece della lingua italiana (che ha utilizzato per la stragrande maggioranza delle sue canzoni). Può essere interessante citare a questo proposito le parole dello stesso De André che risponde così alla domanda sul perché ha deciso di cantare in dialetto: «Intanto non è dialetto, casomai un idioma. In ogni caso i dialetti assurgono a dignità di lingua e le lingue decadono a indegnità di dialetto, tra parentesi, solo per motivi politici. Le lingue che parliamo sono i dialetti dell’Impero. Il genovese o il napoletano hanno una tale quantità di vocaboli, di costruzioni linguistiche, pos- siedono delle sonorità così belle da farmeli preferire a qualsiasi lingua imperiale. Si sente sempre parlare di cultura mediterranea, da contrapporre in qualche maniera al modo di fare musica e di cantare dell’Impero... Ne sento parlare da vent’anni, e non ho ancora sentito un disco che rap- presenti o che esprima questo suono, questa policromia mediterranea» (Carlo Silvestro, Perché ho deciso di non bere più, articolo reperibile nei siti: http://fabriziodeandre.freeweb.supereva.it/Non_bevo_piu.htm http://www.bielle.org/fabriziodeandre/pages/articolo3.htm#1). 96 Antonello Zanda percorsi editoriali e discografici consueti. Ambizioso perché si trattava di ricondurre la canzone a una sua funzione originaria e primitiva, alla intrin- seca capacità di questa forma espressiva di «liberare dalle sofferenze, alle- viare il dolore, esorcizzare il male»2. Coraggioso perché alla lingua dialet- tale assegnò il compito di ricostruire quella prossimità all’origine, alla pri- mitività dei sentimenti, alla dimensione quotidiana e naturale dell’esisten- za, alla sua cornice comunitaria. Fabrizio De André è genovese, ma la prima canzone interamente in dialetto che troviamo nella sua discografia è Zirichiltaggia-Baddu tundu, in dialetto gallurese, pubblicata nel disco Rimini del 1978. Ma è alla lingua genovese che il cantautore dedica la maggior parte delle canzoni in dialet- to negli anni successivi. Creuza de mä è composto di sette canzoni tutte in genovese e ancora in questa lingua troviamo due canzoni in Le nuvole del 1990 e un’altra (più i versi che si mescolano con l’italiano in Dolcenera) in Anime salve del 1996. Le nuvole contiene anche una canzone in lingua sarda. In totale 10 canzoni in genovese e due in sardo3. Prevale la lingua materna, perché Fabrizio De André è nato a Genova (1940) e alla sua città natale – punto di riferimento fermo, corpo affettivo e luogo mentale incancellato e incancellabile – ritornerà più volte, anche fisicamente, negli ultimi anni della sua vita. È qui che cresce linguistica- mente ed è nel capoluogo ligure che ha scoperto, a 16 anni, la sua voca- zione di musicista, ispirandosi alla grande lezione dei chansonnier france- si (Jacques Brel e Georges Brassens) e maturando in un ambiente anima- to da altri cantautori genovesi come Gino Paoli, Luigi Tenco, Bruno Lauzi, Umberto Bindi, da poeti come Remo Borzini, Giuseppe Mannerini e Mario Tortora e amici, cui resterà legato per tutta la vita, come Paolo Villaggio.

2. Alfredo Franchini, Uomini e donne di Fabrizio De André, Fratelli Frilli Editori, Genova 2003, p. 45. 3. Alle canzoni in sardo va aggiunta la reinterpretazione dell’Ave Maria nell’album Fabrizio De André (L’indiano). 97 La lingua nomade dell’emozione

Il suo primo disco, un 45 giri dal titolo , è del 1958, ma la vera svolta nella sua carriera avverrà nel 1965, quando Mina interpreta La canzone di Marinella. Per tredici anni compone canzoni e pubblica dischi interamente in italiano, fino al 1978, quando esce Rimini. Negli anni imme- diatamente precedenti l’uscita di questo disco avvengono due fatti impor- tanti: la decisione di esibirsi per la prima volta in pubblico e quella di acquistare un’azienda agricola nelle vicinanze di Tempio Pausania, in Sardegna. Due scelte che apparentemente implicano orizzonti psicologici e intellettuali differenziati, una estroversa e l’altra introversa. In realtà entrambe animate da un duplice e omogeneo spirito: quello di dare profi- lo ad un umanesimo centrato sui valori della soggettività e della diversità individuale; ma anche quello di interpretare un individualismo anarchico fondato sul valore universale ‘uomo’ in quanto arché, principio e origine di ogni discorso politico e culturale. Questo doppio movimento lo ritrovia- mo identico nel valore politico e nelle ragioni della scelta di un idioma locale per quelle dodici canzoni, che conferma un’attenzione marcata per i valori della diversità e della comunicazione umana, più vicina al suo momento primordiale, in quel frangente che ancora separa e continua- mente unisce l’uomo alla sua natura, alla sua essenza. Questo movimento è individuabile anche nell’analisi delle strutture formali delle canzoni di Fabrizio De André, in cui si riconosce una trasfu- sione di senso dalle forme intimiste e colloquiali, segnate dalle presenze costanti delle singolarità, alle forme più politiche e comunitarie del socia- le, di un’identità collettiva fondata su valori della solidarietà, della giusti- zia, dell’amore, del rispetto, della poesia, della cultura e anche della lingua, della politica, della natura. È un passaggio che non è definibile e individuabile nell’incandescenza di un punto di svolta radicale della carriera di De André, ma è una forma sottile di un sostrato che pulsa e si espande con sempre maggiore eviden- za nel suo percorso, che tende a sviluppare il senso dell’uomo nel suo con- testo sociale ma senza decapitarlo, e semmai valorizzandone la soggetti- 98 Antonello Zanda vità, il subjectum inteso come sostrato, anima, sostanza alla quale inerisco- no caratteri e attività determinate. La decisione di scrivere e cantare nelle lingue sarda e genovese è un segno evidente di questa maturazione. Il realismo della lingua è un reali- smo del tutto nuovo rispetto ai suoi contenuti semplicemente formali o letterari. È il realismo di un suono che è segno di una prossimità all’origi- ne, che non è una verità metafisica o formale, ma il dato fondamentale dell’unicità, che fa essere le cose e gli esseri viventi ‘unici’ e incommensu- rabili. Fu Franco Fortini a far notare che per molti autori della poesia dia- lettale la parlata popolare è supplemento di soggettività, strumento di introversione lirica, insorgenza dell’arcaico e proiezione onirica di una lin- gua innocente. L’uso della lingua dialettale in De André si caratterizza per una deviazione rispetto alla sintesi lirica, perché rimette in gioco una ten- sione narrativa e realistica che era propria della tradizione poetica dialet- tale, ma lo fa senza scinderla appunto dalla costante esistenziale soggetti- vistica. A questo si aggiunga un altro aspetto legato ai limiti che De André riconosce alla lingua italiana:

Scrivere canzoni in italiano è difficile tecnicamente, perché le esigenze della metrica ti rendono necessaria una gran quantità di parole tronche, che in italiano non ci sono, o comunque non abbondano. A questo punto ti vedi costretto, per garantire la qualità estetica del verso, a cambiare addi- rittura il senso di quello che vuoi dire. Invece il genovese è una lingua agile, è possibile trovare un sinonimo tronco che abbia lo stesso senso della traccia in prosa che tu hai buttato giù per poi tradurla in versi, visto che difficilmente le idee ti nascono già organizzate metricamente. È un problema che abbiamo noi italiani, mentre inglesi e francesi non l’hanno, dato che la loro lingua è molto più ricca di vocaboli tronchi, e che, scri- vendo in genovese, è stato assai più facile risolvere4.

4. Cesare G. Romana (a cura di), Amico fragile, Sperling & Kupfer, Milano 1991. 99 La lingua nomade dell’emozione

Non si tratta quindi di una questione squisitamente tecnica, perché l’a- gilità musicale della lingua trasforma il rapporto che ognuno di noi ha con le cose quotidiane. Il realismo della scrittura di De André non è arido e asciutto, ma liquido, magico. Noi chiamiamo una cosa in un certo modo, ma chiamandola in quel modo e non in un altro, con quei suoni e non con altri, con quell’articolazione emotiva di movimenti fonici, noi attribuiamo emozionalità alle cose, le rendiamo sensibili e sensitive. Verrebbe da dire, paradossalmente, che è un realismo metafisico. Perché il dialetto riesce a metterci in comunicazione con la natura intima delle cose mentre la lin- gua italiana, essendo tecnica, artificiosa e concettuale, potrebbe faticare e il più delle volte effettivamente fatica a farlo. Questa può essere una dina- mica strutturale del sistema lingua, ma la poesia e la musica hanno la capa- cità di destrutturare e rivitalizzare il declino ossificato e calcificante di qua- lunque lingua.

La tradizione dialettale

Il discorso sul realismo della lingua riporta alla memoria il poeta roma- gnolo Tonino Guerra, per il quale usare il dialetto significa mettersi a ridosso delle cose, per creare un rapporto empatico, per avvicinarsi alla realtà nella sua cruda temperatura immanente (la tensione contraria la ritroviamo in Pier Paolo Pasolini, per cui il dialetto, inseguendo una lingua dell’infanzia mitologica, un’arcaicità vergine stratificata nell’inconscio col- lettivo, evidenzia una presa di distanza). Quello di Guerra, l’autore di I bu (I buoi, 1972), la sua opera più importante, è un richiamo alla lingua nuda, dai tratti elementari, che gioca su un realismo tematico chiaro e semplice, popolato da personaggi umili o derelitti (come è nella tradizione della poe- sia dialettale), e su una musicalità della lingua (ritmo) e della parola (suono): «Sòta di lom ch’l’è mélarènzi ròssi / lòt lòt, lòt, lòt, cmè bésci da mazèll, / andéma a fe do ciacri t’un purtòun / e géma ch’a s vlèm bén, 100 Antonello Zanda ch’l’è bell, ch’l’è tótt» (Poi sotto lumi che sono melarance / adagio adagio come bestie da macello / andiamo a far l’amore in un portone / e dicia- mo che ci amiamo, che è bello, che questo è tutto). Il realismo è dentro questa risonanza musicale dell’uomo con il mondo, che è presente in Guerra come in De André, e che era già presen- te nel verso di Salvatore Di Giacomo, il massimo poeta dialettale tra Ottocento e Novecento, che cantava la gente «nzevata e strellazzera», unta e chiassosa, dei quartieri poveri napoletani. Ma è dopo Di Giacomo che il dialetto da ‘lingua della realtà’ diventa ‘lingua della poesia’ e che si passa dalla narrazione all’emozione, dall’oggettività alla soggettività, dal comico al sublime. Ma anche in questi passaggi il dialetto mantiene fermo il trat- to costitutivo che gli consente di dare voce a ciò che resta fuori dalla Letteratura con la L maiuscola, alimentando una crescente poesia dell’im- pegno e della protesta presente in molte tradizioni regionali. È così in Ignazio Buttitta in Sicilia, Michele Pane in Calabria, fino alla passione ideologica di autori come Tolmino Baldassarri e Nino Pedretti, come il friulano Amedeo Giacomini o il milanese Franco Loi, che parla di lingua dialettale come sangue popolare, ma denso di impurità e misto tra colto e popolare. Persino Franco Scataglini, uno degli autori dialettali più antidialettali (perché gioca in prossimità dell’italiano), sostiene che l’assunzione del dia- letto è connessa ad una segreta identificazione della sua vicenda di intel- lettuale solitario ed isolato con quella degli uomini che vengono posti ai margini della storia, gli esclusi. La canzone di Fabrizio De André – sia quella in dialetto che quella in italiano – vive della presenza di questi esclu- si, di questi personaggi marginali. In questo senso De André è un autore che non ha mai dimenticato o ignorato la tradizione, ma in questa si è innestato per rinnovarla, valorizzando i suoi momenti più fecondi, facen- done pulsare l’anima profonda, la sua sostanziale carnalità, una vitalità fatta di soggetti che respirano di natura primitiva, di istintività, di imme- diatezza. Anzi l’autore genovese riconosce che il dialetto possiede una 101 La lingua nomade dell’emozione marcia in più, cioè quella di interpretare una sensibilità etica che è tensio- ne umana all’appaesamento, che disinnesca l’anonimia degli esclusi, per- ché, come diceva Ernesto De Martino, le passioni e l’umano muoiono nel cosmopolitismo, anche se risulta evidente che «la riscoperta del paese a partire dagli anni Settanta è legata alla dimensione individuale, non certo a quella comunitaria»5. La lingua è un congegno fondamentale nei processi di identificazione e il dialetto, pur conoscendo una crisi profonda nel Novecento, interpre- ta quel movimento di introversione soggettiva che in De André fa tutt’u- no con l’estroversione oggettiva delle sue canzoni. Le trasformazioni socioculturali che caratterizzano gli anni antecedenti il disco Rimini sono trasparenti anche nelle palpitanti mutazioni che vive il dialetto nella sua vita poetica. Proprio in quegli anni la poesia neodialettale conosce momenti di ripresa, ed è indubbio, come evidenzia Brevini, che «se un tempo la poesia dialettale presupponeva la vitalità dei dialetti, oggi si fonda sul loro inarrestabile declino»6. E sappiamo bene come il processo di declino delle lingue locali sia legato alla conversione dei dialetti in idio- letti7, ma anche ai congegni espressivi centrifughi degli sperimentalisti (contaminazioni, paronomasie, giochi linguistici, bisticci e quant’altro) che muovono verso una lingua che pochi riconoscono. Nell’organizzare i concerti comprendenti le canzoni di Creuza de mä Fabrizio De André ha tenuto spesso in gran conto il problema della com- prensione dei testi, difficile per gli stessi genovesi, perché nessuno più parla quel genovese8. Tuttavia la pubblicazione del disco nel 1984 ha dato la stura ad una pressione che già si esercitava nei limiti dei confini locali.

5. Franco Brevini (a cura di), Poeti dialettali del Novecento, Einaudi, Torino 1987, p. 3207. 6. Ivi, p. 3211. 7. L’idioletto è l’uso della lingua proprio di ogni individuo, il suo linguaggio o stile personale che prescinde dal gruppo e dalla comunità in cui è inserito, il linguaggio particolare di uno scrittore. 8. «All’inizio del concerto, ho eliminato Mégu Megún perché quattro canzoni in dialetto erano un po’ troppe da portare in giro per le province italiane. Il genovese non lo si capisce da nessuna parte, già a Savona stentano, figuriamoci a Palermo…» (Renato Tortarolo, De André, Genova per lui, «Il Secolo XIX», 11 dicembre 1997). 102 Antonello Zanda

Così sono emersi numerosissimi in tutta Italia, dal Piemonte alla Puglia, gruppi, cantanti e cantautori che valorizzano le grandi potenzialità espres- sive dei vari idiomi locali. Pertanto se un progressivo declino è riconosci- bile, questo è manifesto soprattutto sul versante della produzione poetica in senso stretto, mentre sul fronte musicale il grandissimo fermento che continua ad animare il settore testimonia non tanto una linea di tendenza contraria quanto una resistenza attiva. Il fenomeno, ancora tutto da stu- diare, non sembra però presentare quei segni concreti che avvertono di una incombente inversione di rotta. Se qualcosa avviene dentro il mondo della canzone inevitabilmente dovrebbe essere avvertibile anche sul terre- no della produzione poetica locale. In realtà questo fermento e questa ripresa dialettale sul terreno musicale è da inscrivere dentro il movimento di deriva, nella direzione di un declino che prende le distanze da un’idea immobilistica e immediatistica di dialetto. La musica e la forma canzone contemporanea costringono a mediazioni e contaminazioni che inevitabil- mente ne alterano lo statuto originario.

Letteratura: schematismi verticali

Il confronto dialetto-letteratura ricalca su un altro versante la mede- sima questione del rapporto poesia-canzone, riproducendola con un identico schematismo che è interessante analizzare. ‘Poesia’ e ‘canzone’ sono certamente due mondi separati, irriducibili all’identità, ma sono anche due mondi che si guardano e si influenzano intimamente. Le can- zoni di Fabrizio De André trovano spazio da diverso tempo nelle anto- logie di letteratura italiana, accolte e valorizzate da una lettura critica sempre più incline ad abbandonare l’artificiosa separazione tra letteratu- ra alta e letteratura bassa9. È un rapporto, quello tra canzone e letteratu-

9. Lo stesso Fabrizio De André ha preso posizione su questo punto: «Ho avuto modo di parlare di arti maggiori e arti minori (che è una stronzata). Uno che sceglie la canzone sceglie un’arte mino- 103 La lingua nomade dell’emozione ra, ancora tutto da approfondire. In passato questa relazione si è sovrap- posta all’annosa distinzione verticale e valoriale tra una produzione let- teraria popolare, tradizionale, bassa ed una più sofisticata e alta, spesso autoreferenziale e innovativa. Pertanto accanto alla poesia dei poeti che hanno accompagnato la formazione delle giovani generazioni, dagli anni Sessanta in poi, la canzone d’autore si ritaglia di fatto un posto indiscu- tibile. Critici e opinionisti di vario genere si sono espressi variamente sulla questione se un autore come Fabrizio De André, definibile propriamente un ‘cantautore’, possa anche essere annoverato, in quanto autore di testi, nell’eletta schiera dei poeti. C’è sullo sfondo della questione un ordine pregiudiziale per cui il poeta possiede un quid qualitativo che lo mette su un gradino superiore rispetto allo scrittore di testi destinati al mondo della canzone. Mentre tra il pubblico c’è la tendenza a riconoscere al cantauto- re la patente di poeta, tra i critici musicali e letterari è più diffusa la ten- denza ad evidenziare differenze e distanze10. L’inclusione del cantautore

re: non è vero niente. Esistono artisti maggiori e artisti minori, non arti maggiori o minori. Altrimenti ci stiamo a paragonare all’ultimo imbrattamuri che ha scelto la pittura considerata arte maggiore; oppure a Bob Dylan che ha scelto un’arte minore». (Doriano Fasoli, Fabrizio De André. Passaggi di tempo. Da Carlo Martello a Prinçesa, Edizioni Associate, Roma 1999, p. 71). 10. Qualche esempio. Ernesto Assante: «Non era un poeta ma un cantautore che ha cercato di sco- prire quale fosse il rapporto fra musica e poesia, ha scandagliato la straordinaria ricchezza della nostra tradizione popolare, ha saputo integrare nella sua musica le sensazioni, le idee, gli umori della musica internazionale, il folk, il rock, la musica americana e quella francese, senza tradire mai la tradizione del nostro paese» (Quella travolgente corsa verso il mare delle novità, in «Musica! Rock & altro», supplemento a «la Repubblica», 21 gennaio 1999). Gino Castaldo: «Si pensa soprattut- to al poeta, ma ci si dimentica che De André era soprattutto la sua voce e che per quella erano pensate le canzoni, una voce nitida, ferma, profonda, scolpita come un bassorilievo che nei dischi e nei concerti riempiva l’aria con un’autorità che pochi hanno posseduto. Non era un poeta tout court, tutt’altro. Era un incantatore di suoni e parole, uno di quelli che possiedono il segreto, del resto antichissimo, di una lingua in cui versi e musica non possono essere separati, e la poesia è sempre anche suono» (Scolpiva le parole con la voce. Liberò la canzone dall’età dell’innocenza, «la Repubblica», 12 gennaio 1999). Più articolato e puntuale Roberto Cotroneo: «Stabilire oggi se Fabrizio De André sia stato un poeta fa sorridere. Non ci sono poeti da assegnare a nessuno. In realtà ci sono una serie di problemi di metodo, che a mo’ di introduzione andrebbero dati. Intanto il lavoro di un cantautore non ha l’unicità, la possibilità dell’isolamento che invece appar- tiene al poeta, o al narratore. Non si sta di fronte a un foglio bianco da soli, pronti a cambiare un verso solo perché non suona a se stessi. Il lavoro del cantautore vuole limature continue e lavo- 104 Antonello Zanda genovese nella schiera dei poeti muove naturalmente da una più attenta e approfondita valutazione del testo – per quanto veicolato dalla musica e non affidato primariamente alla pagina – e non già da uno scadimento generale e qualitativo della produzione poetica contemporanea (imbaraz- zata tuttavia da raccolte inutili e dimenticabili) e nemmeno da una impro- rogabile accondiscendenza verso la cultura di massa, stritolati dalla stati- stica che fa della musica uno dei più potenti veicoli di trasmissione di valo- ri e di comportamenti. Il fatto che un libro di poesie sia prodotto con sof- ferenza editoriale in appena mille copie (per riuscirne a vendere qualche centinaio) non può risultare indifferente davanti alla diffusione di dischi (LP, CD e audiocassette) che in centinaia di migliaia di copie irrompono nella vita quotidiana di un vasto pubblico, senza mettere nel conto la dif- fusione radiotelevisiva della canzone. Il testo letterario che si impone all’attenzione del pubblico in forza del suo corpo musicale è un testo riconoscibile e leggibile proprio negli ele- menti che compongono quella che è chiamata la ‘struttura poetica’ del testo, cioè nel livello semantico, nella materia fonetica, nella trama musi- cale (quella interna al testo e che non è definita dalla confezione strumen- tale che lo veicola). Insomma nei testi delle canzoni riconosciamo pause, rime, assonanze, enjambements, paronomasie, sineddochi, allitterazioni (le corsie dell’intertestualità e dell’intratestualità). Impossibile quindi occulta- re le differenze e le specificità, ma contestualmente è fondamentale inter- pretare i nodi e gli intrecci caratteristici che questo legame testo-musica sviluppa, poiché la sua forza consiste in un vero e proprio patto che fa della canzone un oggetto unico. Evidenziare le differenze e contempora- neamente sottolineare le identità fra poesia e canzone non è operazione

ro collettivo. E ha la musica, che influenza praticamente tutto: sposta parole, le cambia, le usa in modo diverso per la melodia che si è scelta. In una canzone ci sarebbe sempre una strofa miglio- re se la sequenza delle note lo consentisse. Ma spesso il passaggio melodico non lo consente. Se questa è una costrizione, allora va detto che la canzone d’autore non è libera quanto lo potrebbe essere la poesia» (Una smisurata preghiera, in Fabrizio De André, Come un’anomalia. Tutte le canzoni, a c. di Roberto Cotroneo, Einaudi, Torino 1999, p. V). 105 La lingua nomade dell’emozione critica che altera i termini del discorso. Allo stesso modo non si costrui- scono finzioni e nascondimenti se ci si sofferma a sottolineare le differen- ze e le specificità tra un sonetto e una ballata, perché nulla fa essere un sonetto più ‘poesia’ di una ballata. Né bisogna dimenticare che nella sto- ria dell’uomo, soprattutto anticamente, il testo poetico ha viaggiato nella memoria con il suo vestito musicale (pensiamo alla poesia greca delle ori- gini e ai trovatori). E avrà pure un valore non solo testimoniale e per nulla eccezionale il fatto che Petrarca abbia chiamato Canzoniere la sua raccolta di liriche11. Forse la canzone ha una dimensione popolare che la poesia ha perso se è vero (ma è tutto da dimostrare) che oggi la prima è più vicina alla dimensione quotidiana della vita umana, in cui dilegua la dimensione let- teraria ed emerge l’espressione musicale. Ma è vero che nel corso dei seco- li la letteratura europea ha visto la poesia abbandonare la voce per affidar- si al supporto della pagina. Lo sviluppo tecnologico e le trasformazioni della cultura di massa nel XX secolo hanno prodotto un oggetto nuovo in cui poesia e musica si combinano mantenendo inalterati, nella loro auto- nomia estetica, le rispettive specificità. E lo sottolinea lo stesso autore genovese quando afferma che la «canzone è un testo cantato, poi la musi- ca può esser più o meno bella, tanto meglio se è bella, ma deve accordar- si soprattutto con il testo»12. Se spostiamo l’attenzione sul rapporto dialetto-letteratura noteremo che questa breve digressione intorno alla dignità letteraria della canzone – nel contesto di un saggio che si prefigge di riflettere intorno al peso del dialetto nella produzione artistica di Fabrizio De André – non è un’inuti- le divagazione. Lo schematismo verticale, che pone la poesia su un gradi- no alto della produzione artistica e la canzone su un gradino basso, lo

11. Roberto Cotroneo, nel saggio Una smisurata preghiera, che apre il volume Come un’anomalia, cit., sot- tolinea che il cantautore genovese «ha scritto pensando alla musica, ma non ha nulla da temere dalla pagina muta di un libro. I testi sono scritti con la musica. Non per la musica» (p. VII). 12. Fabrizio De André, op. cit., p. 188. 106 Antonello Zanda ritroviamo identico per quanto riguarda il confronto tra le produzioni let- terarie in lingua italiana e in dialetto. Franco Brevini ha fatto notare come

l’opposizione alto-basso, modello-antimodello si ripropone nella maggior parte delle letterature romanze. Ma nella tradizione italiana il contrappunto comico ai testi di ambizione sublime è divenuto centrale a causa della peculia- rità più vistosa della nostra storia sociolinguistica: la diglossia lingua-dia- letto13.

Se guardiamo alla storia recente ci rendiamo subito conto che non si tratta di questioni formali. Infatti il Novecento è stato animato da incon- tri e – soprattutto – da scontri intorno alla dignità letteraria della poesia dialettale. Non si può non ricordare che Benedetto Croce parlava della produzione poetica dialettale come di una ‘letteratura riflessa’, una lettera- tura così intrisa di storicità e di mondo contingente da tenerla lontana da quell’intuizione pura che impregna la scrittura del poeta. La libertà del poeta è irriducibile al condizionamento narrativo del mondo quotidiano. È abbastanza evidente che per De André il dialetto non solo non mette a rischio la libertà del poeta, ma addirittura ne amplia le possibilità espressive14. Anzi è proprio questa carica satura di storicità e di contingen- za che può testimoniare della libertà poetica, della sua unicità. La situazio- ne italiana presenta pertanto caratteri atipici rispetto al panorama interna- zionale se possiamo sostenere che la letteratura italiana ha due lingue, il toscano e i vari dialetti. Gianfranco Contini sosteneva che quella italiana è l’unica grande letteratura nazionale la cui produzione dialettale faccia corpo unico con tutto il resto. Questo è avvenuto, sottolinea Brevini,

13. Franco Brevini, Introduzione, in Poesia in dialetto: storia e testi dalle origini al Novecento, a cura di Franco Brevini, Mondadori, Milano 1999. 14. Il filosofo napoletano è stato più volte oggetto di attenzione (giustamente polemica) da parte del cantautore genovese: «Croce diceva che fino a diciotto anni tutti scrivono poesie e che da questa età in poi ci sono due categorie di persone che continuano a scrivere: i poeti e i cretini. Allora io mi sono rifugiato prudentemente nella canzone che, in quanto forma d’arte mista, mi consente delle scappatoie non indifferenti, là dove manca l’esuberanza creativa» (Doriano Fasoli, op. cit., p. 59). 107 La lingua nomade dell’emozione anche perché, in seguito agli sviluppi della linguistica e alle mutate pro- spettive dell’italianistica, sembrano caduti i pregiudizi contro la letteratura in dialetto. La posizione di Fabrizio De André è da inserire nel contesto delle sue convinzioni politiche e non si comprende nel contesto di un dibattito logoro e ormai superato. Semmai è il caso di parlare di una pre- dilezione per l’idioma locale in forza della sua capacità di raccontare la realtà e i suoi personaggi marginali con un grado di coinvolgimento emo- zionale del tutto nuovo e personale.

Zirichiltaggia, il primo brano in gallurese

Il primo testo in dialetto che troviamo nella produzione musicale di Fabrizio De André è una ballata incalzante in dialetto gallurese, Zirichiltaggia-Baddu tundu (Lucertolaio-Ballo tondo)15, pubblicata in Rimini (1978). De André si trova in Sardegna da soli quattro anni e imparare il dialetto è una necessità. Il brano testimonia una spiccata attenzione per la dimensione dialettale del testo poetico e del canto, che ricevono dalla lin- gua locale una forza che viene direttamente dal basso, dalla terra, dalla cornice ambientale in cui si vive. E a ben guardare nello stesso album l’uso di forme dialettali è presente anche in un altro brano, Avventura a Durango, una traduzione della ballata Romance in Durango di Bob Dylan, in cui il verso messicano del ritornello «No llores, mi querida» è tradotto efficace- mente con «Nun chiagne, Maddalena». Nel brano gallurese emerge chiaramente la capacità della lingua popo- lare di dare forza materiale (sonora) alle cose quotidiane. La canzone rac- conta un litigio tra fratelli, che si contendono la memoria e l’identità attra- verso le cose lasciate in eredità dal padre: «Di chissu che babbu ci ha lacá- tu la meddu palti ti sei presa / lu muntiggiu rùiu cu lu sùaru li àcchi sulcì-

15. Testo e musica sono di Fabrizio De André e Massimo Bubola. Il brano è presente anche in Mediterraneo (2000), un cd allegato al «Secolo XIX» di Genova. 108 Antonello Zanda ni lu trau mannu / e m’hai laccatu monti múccju e zirichèlti» (Di quello che papà ci ha lasciato la parte migliore ti sei presa / la collina rossa con il sughero le vacche sorcine e il toro grande / e m’hai lasciato pietre, cisto e lucertole). La divisione evidentemente non è stata equa e ciascuno rim- provera all’altro di godere della parte migliore. Due scelte di vita differen- ti (ed è questo in realtà il nodo della contesa). Dei due fratelli uno ha scel- to di restare a vivere nella casa paterna e l’altro ha scelto di andarsene pro- babilmente in città: «Ti ni sei andatu a campà cun li signuri fènditi comandà da to muddèri» (Te ne sei andato a vivere coi signori, facendoti comandare da tua moglie) dice il primo; «Ma me muddèri campa da signo- ra a me fiddòlu cunnosci piú di milli paráuli / la tòja è mugnedi di la manzàna a la sera e li toi fiddòli so brutti di tarra» (Mia moglie vive da signora e mio figlio conosce più di mille parole / la tua munge da matti- na a sera e le tue figlie sono sporche di terra) replica l’altro. La scelta dia- lettale rafforza il contrasto e crea il giusto clima per i versi finali, che rimandano a una comune appartenenza (quella della lingua è una scelta chiaramente identitaria) e a una fratellanza che anche nel momento più duro assume toni liberatori: «e si lu curàggiu che t’è filmatu è sempre chìd- du / chill’èmu a vidi in piazza ca l’ha piú tostu lu murru / e pa lu stantu ponimi la faccia in culu» (e se il coraggio che ti è rimasto è sempre quello / ce la vedremo in piazza chi ha la testa dura / e nel frattempo mettimi la faccia in culo). La sera del 27 agosto 1979 Fabrizio De André e Dori Ghezzi furono sequestrati. Questa esperienza terribile non ha incrinato l’amore che il cantautore sentiva per la Sardegna, sua terra d’adozione. Lo testimoniano le dichiarazioni rilasciate dopo la liberazione. Dopo un periodo di riposo, il cantautore tornò all’attività nel 1981 con l’album, Fabrizio De André (Indiano), con dentro un testo, Hotel Supramonte, che rievoca gli avvenimen- ti drammatici del rapimento; è presente una sola canzone in sardo, la rein- terpretazione dell’Ave Maria. Il disco, disse De André, «ha come tematica le culture etniche e autoctone, e i personaggi che intervengono e si rac- 109 La lingua nomade dell’emozione contano sono degli indiani, dei pellerossa che io avevo associato, da un punto di vista culturale, ai sardi dell’interno»16. Le canzoni tuttavia vivono dentro una linguistica scenografica che è quella del paesaggio sardo, in cui l’uomo e la natura si scambiano i codici di un reciproco confronto e adat- tamento: «Sopra ogni cisto da qui al mare / c’è un po’ dei miei capelli / sopra ogni sughera il disegno / di tutti i miei coltelli / […] / Mio padre un falco / mia madre un pagliaio / stanno sulla collina / i loro occhi senza fondo / seguono la mia luna» (Canto del servo pastore). La dimensione etni- ca è ricostruita non solo con le immagini dei luoghi e degli uomini che abi- tano l’isola, ma anche con motivi, timbri e soluzioni musicali tipici della tradizione sarda.

Genova e il suo dialetto

L’appuntamento con il testo dialettale è rimandato di lì a poco. Probabilmente era necessario un ritorno alle origini genovesi dell’autore per dare alla scelta linguistica la forza capace di imprimere al testo una vera svolta stilistica. Nel 1984 esce Creuza de mä 17, un disco scritto intera- mente in genovese. La distanza tra Sardegna e Liguria è una distanza solo chilometrica. Il suo spostamento nell’isola non si configura come uno sra- dicamento, ma piuttosto rafforza un radicamento, cambia il punto di osservazione per ribadire i medesimi contenuti, per riaffermare i valori che hanno caratterizzato tutta la produzione del cantautore:

è proprio il ritorno a una Liguria più antica, come me la ricordavo alla fine degli anni ’40, quando c’erano ancora più alberi che case, più animali che uomini. La natura sarda è molto simile a quella ligure, o per meglio dire la ripropone come era una volta con il vantaggio di essere un piccolo conti- nente di 24.000 kmq, abitato da poco più di un milione e mezzo di perso-

16. Doriano Fasoli, op. cit., p. 72. 17. Testi e musiche dell’intero album sono di Fabrizio De André e Mauro Pagani. 110 Antonello Zanda

ne. Un paradiso quasi disabitato dove non si riesce semmai a capire come possa esistere un 16% di disoccupazione18.

Infatti il clima, i personaggi, l’atmosfera linguistica, la cultura ai quali il genovese rimanda con la ginnastica musicale delle sue parole danno al discorso di De André il respiro che si respira in tutto il bacino mediterra- neo: «Creuza de mä non è altro che la rappresentazione di un viaggio nel Mediterraneo, che ha come punto di partenza e di arrivo la città di Genova, ma i cui personaggi si muovono lungo tutto il bacino del Mediterraneo, Africa del Nord e Vicino Oriente compresi»19. Si capisce allora come cambia completamente il senso della soggettività e dell’appae- samento comunitario che il dialetto innesca. Non si tratta di introversio- ne pura: la scelta di un idioma locale serve semmai ad abbattere il confine locale, a delocalizzare la soggettività e a trovarle un respiro semantico più ampio. La mediterraneità del disco non toglie il fatto che Genova sia la vera protagonista, il punto di riferimento e di ritorno, la forma che dà senso spaziale ai testi del disco e che rievoca tutto un mondo di sensazioni, proiettando l’autore nel corpo vivo della memoria, delle sue esperienze giovanili, risvegliando emozioni sedimentate nel profondo e che la lingua sa riportare a galla. Perché, dice il cantautore

per noi liguri in esilio, Genova è – superfluo dirlo – il mare e il suo odore che arriva fino ai monti, quando la tramontana ripulisce l’aria. O il lépego che ti si attacca addosso come una camicia umida, quando l’aria si incolla allo scirocco. Genova è il suo dialetto arabo, la grazia agra delle bagasce

18. Cesare Pastarini, Intervista con Fabrizio De André, «Gazzetta di Parma», 4 marzo 1997. 19. Doriano Fasoli, op. cit., p. 72. Presentando il disco al Teatro Valli di Reggio Emilia (il 6 dicembre 1997) l’autore dice: «Probabilmente l’ho scritto per identificarmi in un’etnia precisa, quella ligu- re, ma anche per identificarmi in un universo più vasto, che è quello del Mediterraneo. Voleva essere, in effetti, un disco sul Mediterraneo. Per gli strumenti abbiamo scelto quelli che vanno dal Bosforo fino a Gibilterra, dallo shannaj turco al bouzouki greco, passando attraverso l’oud (il nonno della nostra chitarra) per arrivare proprio alla chitarra andalusa, senza dimenticarci il man- dolino napoletano. Per la lingua, abbiamo scelto il genovese, la lingua che mi è più familiare». 111 La lingua nomade dell’emozione

che adornano i vicoli. È le sue canzoni – di emigranti che rimpiangono e se possono ritornano, lungo le strade profonde che il vento scava tra le onde e che le onde cancellano subito. Genova è anche la voglia di esserci e quella di scapparne, è una madre che ti porge la sua tetta asciutta e poi ti frusta o ti ferisce con carezze ruvide, è un’amante che ti sconvolge i sensi e poi non si dà. Noi tutti l’amiamo controvoglia e controvento, con un amore da inabili e una fregola non condivisa, che ti costringe a tradir- la per sopravvivere e poter tornare da lei20.

Se la capitale ligure è tutto questo, non sarebbe stato pensabile un disco in altra lingua che il genovese, perché è una lingua che ha tutto il Mediterraneo in sé. Genova è insomma quell’insieme di cose che fanno sentire a De André di appartenere a un contesto molto preciso e definito (la città) e contemporaneamente a un mondo aperto e multiculturale (il Mediterraneo). Mentre Mauro Pagani si occupò di ricreare l’atmosfera mediterranea con le sue invenzioni musicali, il cantautore scelse di scrivere i testi in dia- letto genovese, «fra gli idiomi neolatini quello che ha più importazione di fonemi arabi, che coinvolgono quindi tutto il Mediterraneo»21. Fu indub- biamente, come già detto, un’operazione assolutamente innovativa e coraggiosa, tanto che un rappresentante della Ricordi, allarmato, fece notare al cantautore che persino i genovesi non lo avrebbero capito. Il progetto era infatti complesso e ambizioso:

Sono andato a cercare quei termini caduti in disuso, importati direttamen- te dall’arabo-turco, da cui il nostro idioma ha preso almeno duemila voca- boli. Credo che la nostra sia una nazione ancora molto giovane per poter- si identificare completamente nella lingua italiana, che a sua volta, comun- que, è stata un dialetto. Il rapporto lingua/dialetto è un rapporto, direi, nutrizionale: la lingua è un po’ scaduta dal punto di vista della diversifica- zione e dell’arricchimento della terminologia, a parte molte parole stranie- re; ma i dialetti, le lingue locali, le lingue cosiddette minori continuano a

20. Cesare G. Romana, op. cit. 21. Doriano Fasoli, op. cit., p. 63. 112 Antonello Zanda

nutrire la lingua italiana delle loro espressioni divertenti e sicuramente arti- stiche. Meno male che questi dialetti non si perdono, malgrado l’ostraci- smo della televisione. Pasolini diceva che il dialetto è il popolo e il popo- lo è l’autenticità. Sembrano la premessa, la tesi e l’antitesi di un sillogismo; se vogliamo fare una sintesi, potremmo dire che il dialetto è l’autenticità22.

Questa autenticità è garantita, nel disco, da un’attenzione a trecentoses- santa gradi per la canzone, che è un insieme perfettamente riuscito di testo e musica, sintesi coerente ed equilibrata tra le sonorità tipiche dell’idioma genovese (le tonalità basse e gutturali, le vocali modulate) e lo spettro sono- ro più ampio degli strumenti musicali caratteristici dell’area mediterranea, da quelli andalusi a quelli arabi. Creuza de mä è il risultato di un lungo lavo- ro di ricerca e raffinamento che segna una svolta nella sua produzione arti- stica. C’è un allargamento dell’orizzonte della creatività che ha il suo fonda- mento su un respiro a un tempo introverso ed estroverso. Perché da un lato la scelta di un dialetto, qualunque esso sia, è segno di una contrazione delle potenzialità comunicative (il dialetto parla a una comunità ristretta) e di una dilatazione delle capacità cognitive (il dialetto arricchisce l’area della seman- ticità delle lingue nazionali). Dall’altro i singoli strumenti musicali mediter- ranei definiscono la cornice culturale nella misura in cui richiamano alla loro appartenenza specifica ed espandono un universo emotivo e percettivo che comunica al di là di ogni differenza linguistica e culturale. La scelta del dia- letto e degli strumenti etnici è una scelta stilistica maturata dentro la scelta culturale mediterranea:

Una volta individuati gli strumenti etnici che dovevano ricondurci all’at- mosfera del Mediterraneo, dal Bosforo a Gibilterra, era necessario dotare i suoni che tali strumenti riproducevano di una lingua che gli scivolasse sopra […] che evocasse, attraverso i fonemi cantati, le atmosfere che gli strumenti evocavano. E la lingua più adatta mi è sembrata il genovese, con i suoi dittonghi, i suoi iati, la sua ricchezza di sostantivi e aggettivi tronchi che li puoi accorciare e allungare quasi come il grido di un gabbiano23.

22. Teatro Valli di Reggio Emilia, 06/12/1997. 23. Alfredo Franchini, op. cit., p. 46. 113 La lingua nomade dell’emozione

Creuza de mä disegna quindi, in un certo senso, un nuovo atlante del- l’appartenenza culturale e della comunicazione interpersonale. Il disco apre un percorso, una direzione, un orizzonte che muove dalla duttilità e plasticità sonora del genovese. La lingua consente all’autore di muoversi con equilibrio e agilità dentro le stanze comunque determinanti della metrica. Il dialetto genovese crea un respiro che consente di espandere il canto e poi di ritrarlo. Non è un caso che la traduzione del titolo del disco sia mulattiera di mare, i cui termini rimandano al doppio movimento della contrazione e della dilatazione, della definizione (mulattiera) e della espan- sione (mare). Così

da un po’ di tempo a questa parte, un nuovo atteggiamento si è fatto stra- da, un interesse alla sintesi dei suoni e delle emozioni: e l’orizzonte musi- cale di De André si è allargato e arricchito di una nuova gamma di possi- bilità sonore e ritmiche, di strumenti, accordi e immagini raccolte sulle coste e sulle isole di un mare più grande24.

Creuza de mä, 1984

Il disco è composto di sette canzoni e si apre con il brano che dà il tito- lo all’album. Nei testi di Creuza de mä ritroviamo la varia umanità che ha popolato tutte le canzoni e i temi cari al cantautore, dalle prostitute all’e- marginazione sociale, dai marinai alla guerra, «un campionario umano che bisogna andare a cercare nella rumenta come si dice a Genova, cioè nella spazzatura»25. Il primo brano, Creuza de mä, descrive con parole e suoni (come le voci del mercato) personaggi e ambienti tipici del mondo ligure, sia marinaro che dell’entroterra. Vivere è come navigare, e noi ci sentiamo un po’ come quei marinai che affrontano il mare a viso aperto con un movimento che li fa sentire gettati dentro il grembo materno della vita,

24. Doriano Fasoli, op. cit., pp. 233-234. 25. Alfredo Franchini, op. cit., p. 47. 114 Antonello Zanda nell’acqua: «Umbre de muri muri de mainé / dunde ne vegnì duve l’è ch’ané / da ’n scitu duve a lûna a se mustra nûa / e a nuette a n’à puntou u cutellu ä gua» (Ombre di facce facce di marinai / da dove venite dov’è che andate / da un posto dove la luna si mostra nuda / e la notte ci ha puntato il coltello alla gola). Il dialetto ha bisogno di nominare le cose, di esercitare il potere del riconoscimento, di rimandare al campionario di cose quotidiane che cir- condano la nostra esperienza. Sentire le parole e coglierne il significato vuol dire riprendere coscienza delle coordinate della propria identità, per orientarsi nel mondo di oggi. L’esistenza degli uomini è un po’ come que- sta mulattiera di mare, una stradina che delimita due proprietà. Chi la per- corre non appartiene a nessuno e appartiene a tutti. Così in questo testo ci si muove tra personaggi del luogo, «figge de famiggia udù de bun / che ti peu ammiàle senza u gundun» (ragazze di famiglia, odore di buono / che puoi guardarle senza preservativo), ed estranei, «gente de Lûgan facce da mandillä / qui che du luassu preferiscian l’ä» (gente di Lugano facce da tagliaborse / quelli che della spigola preferiscono l’ala), riavendosi davan- ti alle cose della cucina, che il dialetto genovese verseggia con toni alti: «frittûa de pigneu giancu de Purtufin / çervelle de bae ’nt’u meximu vin / lasagne da fiddià ai quattru tucchi / paciûgu in aegruduse de lévre de cuppi» (frittura di pesciolini, bianco di Portofino / cervelli di agnello nello stesso vino / lasagne da tagliare ai quattro sughi / pasticcio in agrodolce di lepre di tegole). De André ricorda che a Genova c’è un detto popolare riferito alla gente che naviga e che tradotto in italiano dice: «Cara moglie, passato il monte di Portofino torno libero e scapolo». Il brano Jamín-a (Jamina) è una vera e propria canzone erotica, il ritratto caldo e sensuale di una donna algerina26, piena di odori e di umori: «Lengua ’nfuega Jamín-a / lua

26. La stampa ha speculato sulla figura di Jamina. Dice l’autore: «Jamín-a è un’amica algerina. Tutti quanti ma soprattutto la stampa più retriva ha detto che era una prostituta ed è invece una splen- dida compagna di viaggio. Ce ne fossero di Jamine! Voglio dire: è una Bocca di Rosa vista attra- verso un’esperienza personale. Ed è forse l’unica canzone erotica del mio repertorio» (Alfredo Franchini, op. cit., p. 76). 115 La lingua nomade dell’emozione de pelle scûa / cu’a bucca spalancà / morsciu de carne dûa» (Lingua infuocata Jamina / lupa di pelle scura / con la bocca spalancata / morso di carne soda). Le paronomasie rafforzano il significante nella sua compo- nente sensoriale con potenza afrodisiaca, perché un testo erotico si ravvi- va con il richiamo ai cinque sensi, soprattutto al tatto e al palato (umido, miele, saliva, sudore, uva spina, sugo di sale). La figura è tutta interna alla concezione del viaggio, per cui Jamina è «la compagna di un viaggio ero- tico che ogni marinaio spera, o meglio pretende d’incontrare in ogni porto dopo le pericolose bordate subite per colpa di un mare nemico o di un comandante malaccorto»: «nu navegâ de spunda / primma ch’à cu? ch’à munta e a chin-a / nu me se desfe ’nte l’unda» (non navigare di sponda / prima che la voglia che sale e scende / non mi si disfi nell’onda). Il succedersi delle canzoni disegna un viaggio sonoro e visivo insieme. Così si arriva a Sidún (Sidone) innalzando il canto di un padre per la morte violenta del figlio. E il brano ci porta dentro il mondo del dolore univer- sale (il dolore di una paternità, e quindi di un’identità, spezzata), nel cuore della guerra e della fine di una civiltà. Con la dolcezza che il genovese sa tradurre in suoni il bambino tumore dolce benigno di una madre diventa «oua grûmmu de sangue ouëge / e denti de laete / e i euggi di surdatti chen arraggë / cu’a scciûmma a a bucca cacciuéi de bæ» (ora grumo di sangue orecchie / e denti di latte / e gli occhi dei soldati cani arrabbiati / con la schiuma alla bocca cacciatori di agnelli). La canzone ci getta senza mezzi termini dentro la tragedia del Medio Oriente, ricordando la città libanese di Sidone e i massacri che si consumarono nei campi profughi palestinesi di Sabra e Chatila nel settembre 1982, quando il generale Sharon guidava l’esercito nella cui zona di occupazione si trovavano i campi. Il brano successivo, Sinàn Capudàn Pascià, prosegue il viaggio riportan- do alla luce la

storia di un marinaio genovese della fine del ’400 che davanti a Tunisi si scontrò, insieme alla flotta della sua città, con i turchi e, invece di combat- 116 Antonello Zanda

tere, buttò la spada a terra. Si chiamava Cicala: in genovese Cigä. Dopo essere stato fatto prigioniero e messo ai remi, si convertì all’Islam e diventò lo stuoino del Bey, autorità religiosa e politica del mondo sarace- no. Siccome aveva diciannove anni e pare non fosse disgustoso, gli toccò anche qualche lavoretto repellente. Pare che sia riuscito a diventare, attra- verso i suoi servizi, Gran Visir e Serraschiere del Sultano di Costantinopoli27.

La canzone racconta le vicende di questo personaggio, anche lui in bili- co in questa mulattiera di mare tra storia e memoria: «e questa a l’è a memöia / a memöia du Cigä / ma ’nsci libbri de stöia / Sinàn Capudàn Pascià» (e questa è la memoria / la memoria di Cicala / ma sui libri di sto- ria / Sinàn Capudàn Pascià). Tra fortuna e sfortuna Scipione Cicala, gio- vane di rara bellezza, seppe muoversi con pazienza e opportunismo, giun- gendo ai più alti gradi del corpo dei Giannizzeri e fino ad ottenere il tito- lo di Pascià. Il ritornello fa emergere con limpidezza questa natura cama- leontica: «intu mezu du mä gh’è ’n pesciu tundu / che quandu u vedde ë brûtte u va ’nsciù fundu / intu mezu du mä gh’è ’n pesciu palla / che quandu u vedde ë belle u vegne a galla» (in mezzo al mare c’è un pesce tondo / che quando vede le brutte va sul fondo / in mezzo al mare c’è un pesce palla / che quando vede le belle viene a galla)28. Â pittima (La pittima), come anche Cicala, è un personaggio segnato dal destino. Fa parte della schiera dei non-eroi, dei marginali. La pittima era, nell’antica Genova, una sorta di esattore che veniva mandato dai cit-

27. Parole di presentazione del brano pronunciate da De André al Palasport di Treviglio il 24 marzo 1997. 28. Scipione Cicala detto Sinàn Capudàn Pascià mostrò successivamente grandi abilità strategiche e militari, tanto che comandò una flotta corsara che, nel 1594-95, portò a termine numerose e vio- lente incursioni nell’Italia meridionale, soprattutto in Calabria. Una strofa popolare ne racconta ancora oggi le gesta a Reggio: «Arrivaru li turchi, a la marina / Cu Scipioni Cicala e novanta gale- ri. / Na matina di maggiu, Ciro’ vozzi coraggiu / Mentre poi a settembri, toccò a Riggiu. / Genti fujiti, jiti a la muntagna, / Accussì di li turchi nessuno vi pigghia!» (Arrivarono i turchi alla mari- na, / Con Scipione Cicala e 90 galee. / Una mattina di maggio Cirò ebbe coraggio, / Mentre poi a settembre toccò a Reggio. / Gente correte, fuggite alla montagna, / Così dei turchi nessuno vi piglia!). 117 La lingua nomade dell’emozione tadini a riscuotere i crediti più difficili. Per il particolare e fastidioso com- pito che ricopriva il termine è anche sinonimo di individuo ostinato e appiccicoso, noiosamente implacabile nel perseguimento del proprio uffi- cio e incapace di fare qualunque altra cosa: «Cosa ghe possu ghe possu fâ / se nu gh’ò ë brasse pe fâ u mainä / se infundo a ë brasse nu gh’ò ë män du massacán / e mi gh’ò ’n pûgnu dûu ch’u pâ ’n niu» (Cosa ci posso fare / se non ho le braccia per fare il marinaio / se in fondo alle braccia non ho le mani del muratore / e ho un pugno duro che sembra un nido). A ciascuno il suo. Questo viaggio tra gli antieroi prosegue con un brano, Â duménega (La domenica), che propone un aneddoto storico:

Nella mia splendida, amatissima, per quanto perfida città, tre o quattro secoli fa le prostitute erano relegate in un quartiere che si chiamava allo- ra, come oggi, Rebecca. Veniva loro concesso di uscire da questa specie di recinto soltanto nei giorni di festa. Potete immaginare il popolaccio dire loro cose mostruose. Succedevano però dei piccoli incidenti, come nel caso della canzone. Un bigottone, uno di quelli che approfittano delle pro- cessioni per caricarsi un cristo di tre quintali sulla schiena, che diceva loro le cose più truci e cattive, improvvisamente si accorse che in mezzo a quelle poveracce, che non avevano altro torto se non quello di guadagnar- si il pane da nude, c’era anche... sua moglie29.

L’attenzione per l’umanità marginale ha portato in diverse canzoni figure di prostitute. L’aneddoto cui si riferisce De André gli consente ancora una volta di mettere alla berlina la borghesia benpensante e bigot- ta. Nella domenica dei sacramenti la passeggiata delle figge du diàu (figlie del diavolo) diventa una processione profana, e il florilegio degli insulti mette in campo la fantasia di immagini che magnifica la potenza visiona- ria del dialetto: «a Ciamberlin sûssa belín / ä Fuxe cheusce de sciaccanuxe / in Caignàn musse de tersa man / e in Puntexellu ghe mustran l’öxellu»

29. Parole di presentazione del brano pronunciate da De André allo stadio di Guidonia il 22 settem- bre 1991. 118 Antonello Zanda

(a Pianderlino succhia cazzi / alla Foce cosce da schiaccianoci / in Carignano fighe di terza mano / e a Ponticello gli mostrano l’uccello). Falsa coscienza quella dei perbenisti genovesi, perché con i soldi ricavati dagli appalti delle case di tolleranza l’amministrazione riusciva a pagare gran parte dei lavori annuali per il porto. L’ultima canzone dell’album, D’ä mê riva (Dalla mia riva), è la canzone della nostalgia, dello sguardo che traccia un ponte dalla Sardegna alla Liguria, da una riva all’altra del proprio essere: «e sun chi a miä / tréi camixe de vellûu / duí cuverte u mandulín / e ’n cämà de legnu dûu // e ’nte ’na beretta neigra / a teu fotu da fantinna / pe puèi baxâ ancún Zena / ’nscià teu bucca in naftalina» (e son qui a guardare / tre camicie di vel- luto / due coperte e il mandolino / e un calamaio di legno duro // e in una berretta nera / la tua foto da ragazza / per poter baciare ancora Genova / sulla tua bocca in naftalina). Le movenze dolci della lingua genovese danno voce al magún dello sguardo cuntru su e la chiusura vocali- ca dà forma e materia a questo accecamento che è il sentimento interiore. Si chiude su questa figura il baule del marinaio, il viaggio della voce e del- l’oralità, del sentimento originario, del pensiero natale. Il viaggio di De André è un viaggio che conduce al centro del Mediterraneo, disegnando il viaggio di chi in fondo non si è mai spostato dal proprio luogo, dalla propria emozione.

Le nuvole, 1990

Con Creuza de mä Fabrizio De André aveva scoperto le grandi poten- zialità del genovese. L’autore non si ripeterà con altri album interamente realizzati in dialetto, ma da quel momento in poi, nelle opere successive, non potrà più fare a meno di dare spazio alle lingue minori con cui ha più confidenza, il sardo e il genovese. Il cantautore riconosce a queste lingue una vivacità e una dinamicità che non ritrova nelle grandi lingue europee: 119 La lingua nomade dell’emozione

Le lingue nazionali al confronto con quelle dialettali sono morte, non si rinnovano e non si modificano. Per questo uso spesso il dialetto: è una rivincita. Perché il dialetto non va a morire ma riemergerà, dal disastro del capitalismo, nelle isole spontanee dei contadini, dei pescatori, di chi lo sce- glierà come codice, magari carbonato, dell’economia del dono che già si annuncia30.

Quella di De André è una chiara dichiarazione politica, una posizione anticapitalistica che non deriva tanto dal suo anarchismo molto persona- le, quanto da una riflessione lucida intorno ai fenomeni della globalizza- zione e delle frantumazioni nazionali, alla polverizzazione centripeta delle culture locali rispetto alla forza centrifuga e monopolistica dell’economia. Il dialetto esprime una costante resistenziale popolare, rappresenta una tensione conservativa dei valori comunitari. Il rapporto con la lingua italiana si sposta quindi sul versante della con- taminazione. Non a caso l’album successivo, del 1990, Le nuvole, si apre con il brano omonimo recitato da due donne sarde in italiano, ma con uno spiccato accento logudorese. Come dire che anche l’italiano parlato dai singoli non è mai italiano puro, ma è forma plastica che disegna i senti- menti e le emozioni – quindi l’universo linguistico – di chi parla. Le nuvo- le è diviso in due parti: la prima (i primi 4 brani) in italiano31 e la seconda (altri 4 brani) in genovese e in sardo più un brano della tradizione popo- lare napoletana. Due brani della prima parte, il primo come si è detto, e il terzo, Don Raffae’ 32, sono ‘deformati’ da una straordinaria tensione dialet- tale. Il primo brano, Le nuvole, non è solo caratterizzato dall’accento sardo delle due voci recitanti, Lalla Pisano e Maria Mereu, ma anche da una struttura sintattica che riproduce quella della lingua sarda: «Certe volte ti avvisano con rumore / prima di arrivare / e la terra si trema / e gli ani- mali si stanno zitti / certe volte ti avvisano con rumore». Il terzo, Don

30. Fabrizio De André, op. cit., p. 227. 31. Con una canzone, Don Raffae’, in napoletano maccheronico (con prestiti linguistici dall’italiano). 32. Testo di Fabrizio De André e Massimo Bubola; musica di Fabrizio De André e Mauro Pagani. 120 Antonello Zanda

Raffae’, è scritto e cantato in un napoletano ‘maccheronico’33 che riporta alla memoria il realismo ironico di Totò e Peppino De Filippo: «Tutto il giorno con quattro infamoni / briganti, papponi, cornuti e lacchè / tutte l’ore co’ ’sta fetenzia / che sputa minaccia e s’â piglia co’ me / ma alla fine m’assetto papale / mi sbottono e mi leggo ’o giornale / mi consiglio con don Raffae’ / mi spiega che penso e bevimm’ ’o cafè // Ah che bell’ ’o cafè / pure in carcere ’o sanno fâ / co’ â ricetta ch’a Ciccirinella / com- pagno di cella / ci ha dato mammà». Creuza de mä si chiudeva con quello sguardo da riva a riva in cui la lin- gua di terra è prossima all’orizzonte che separa il cielo dal mare. Il mare separa fisicamente le due terre laddove il cielo le mette in comunicazione. Perché il cielo che si guarda da Genova è lo stesso cielo che si può osser- vare dalla terra sarda. Quel cielo è la stessa cornice del nuovo album, Le nuvole. Il richiamo all’opera omonima di Aristofane è evidente:

Il titolo e la chiave di lettura della raccolta Le nuvole provengono da Aristofane, ed è questa l’unica parentela tra il mio lavoro e la sua comme- dia. Perché già in quest’ultima le nuvole non erano fenomeni atmosferici ma personaggi. Per me simboleggiano i potenti della finanza, della politi- ca e dell’industria, gli intellettuali di regime, i boss dello Stato-Mafia, tutti quei personaggi ingombranti che impediscono al popolo di vedere la verità34.

Il quarto brano, La domenica delle salme, è il testo che durissimo sintetizza il giudizio politico di Fabrizio De André sullo stato della società italiana. La seconda parte dell’album si compone di due canzoni in lingua genovese, una canzone in sardo e una canzone popolare di autori anoni- mi. Il primo brano in genovese è Mégu Megún (Medico medicone)35, lunga

33. «Ho usato apposta un dialetto napoletano maccheronico: Son brigadiero, come dicono loro quan- do cercano di esprimersi in italiano. La chiave me l’ha data Gli alunni del sole di Marotta, dove c’è questo don Vito Cacace, l’intellettuale della zona, che alla sera raduna tutti quanti e gli legge il giornale, spiegando che cosa succede» (Fabrizio De André, op. cit., p. 236). 34. Fabrizio De André, op. cit., p. 244. 35. Testo di Fabrizio De André e Ivano Fossati; musica di Fabrizio De André e Mauro Pagani. 121 La lingua nomade dell’emozione lamentela di un ammalato immaginario contro il suo medico, colpevole di voler farlo alzare dal letto. De André considera autobiografico questo testo, «ritratto di una specie di Oblomov di provincia, perché mi piace molto stare a letto a leggere e a scrivere, barricato in camera»36. Organizzato foneticamente con ipnotiche ripetizioni, che rallentano il ritmo della vita, il brano racconta la metamorfosi di una ricerca della salu- te che si trasforma in malattia, dalla prima all’ultima strofa che fonetica- mente si ricongiungono, con un percorso che procede dall’andare, al dor- mire, al sognare. La prima: «E mi e mi e mi / e anâ e anâ / e a l’aia sciurtî / e suâ e suâ / e ou coêu ou coêu ou coêu / da rebellâ / fin a piggiâ pig- giâ / ou trén ou trén» (E io e io e io / andare andare / e uscire all’aria / sudare sudare / e il cuore il cuore il cuore / da trascinare / fino a prende- re a prendere / il treno il treno); l’ultima: «E mi e mi e mi / nu anâ nu anâ / stâ chi stâ chi stâ chi / durmî durmî / e mi e mi e mi / nu anâ nu anâ / stâ chi stâ chi stâ chi / asûnáme» (E io e io e io / non andare non anda- re / stare qui stare qui stare qui / dormire dormire / e io e io e io / non andare non andare / stare qui stare qui stare qui / sognare). Dopo La nova gelosia, una canzone popolare della fine del XVII secolo (autori anonimi), il secondo brano in genovese è ’Â çímma (La cima)37, una canzone dolce e delicata che cerca di riprodurre la trasparenza della luce: «Ti t’adesciâe ’nsce l’èndegu du matin / ch’á luxe a l’à ’n pé ’n tèra e l’átru in mà / ti t’ammiâe a ou spegiu de ’n tianin ou çé ou s’ammià a ou spegiu dâ ruzà» (Ti sveglierai sull’indaco del mattino / quando la luce ha un piede in terra e l’altro in mare / ti guarderai allo specchio di un tegamino / il cielo si guarda allo specchio della rugiada). Sono le nuvole che allungan- do lingue di oscurità sull’esistenza dell’uomo gli impediscono la vista del sole e spengono la luce nell’ombra. Il testo è dominato dall’idea della luce, dello sguardo, ed è inserito nella dimensione popolare della magia e delle pratiche alternative (il riferimento alla strega, alle erbe aromatiche, ai dia-

36. Fabrizio De André, op. cit., p. 242. 37. Testo di Fabrizio De André e Ivano Fossati; Musica di Fabrizio De André e Mauro Pagani. 122 Antonello Zanda voli della pentola). Frammenti di cultura popolare, di paganesimo sedi- mentato, che solo il dialetto può raccontare immergendo integralmente l’ascolto nell’humus che lo rende domestico: «Çè serén tèra scûa / carne ténia nu fâte néigra / nu turnâ dûa / e ’nt’ou núme de Maria / tûtti diài da sta pûgnatta / anène via» (Cielo sereno terra scura / carne tenera non diventare nera / non ritornare dura / e nel nome di Maria / tutti i diavo- li da questa pentola andate via). Chiude l’album Monti di Mola 38 (dall’antico nome della Costa Smeralda), una canzone satirica in gallurese, che racconta di un’asina, di un uomo e di una vecchia megera invidiosa del loro amore. È una canzo- ne che attraverso la sonorità gallurese riscopre il ritmo di una natura sel- vatica:

A trentacinque anni mi sono trasferito in Gallura, non per fuggire, ma per ritrovare la campagna. L’erba, il fieno, la terra, quel certo tipo di luna molto meno diafano, molto più carnale di quella che ci appare in città, tra lo smog di Milano. E gli stronzi di vacca che diventano legno, sotto il sole. E il dialetto, che rende più saporite anche le bestemmie più limpide39.

Così una mattina «un’aina musteddina» e «un cioano vantaricciu e moru» si ritrovano vicini «e l’occhi s’intuppesini cilchendi ea ea ea ea / e l’ea sguttesi da li muccichili cú li bae ae ae» (e gli occhi si incontrarono mentre cercavano acqua / e l’acqua sgocciolò dai musi insieme alle bave). Il gioco si ripete e trascina la musica fino al matrimonio impossibile tra i due, in quanto cugini di primo grado: «e idda si tunchiâ abbeddulata ea ea ea ea / iddu le rispundia linghitontu ae ae ae ae» (e lei ragliava incantata ea ea ea ea / lui le rispondeva pronunciando male ae ae ae ae).

38. Testo e musica di Fabrizio De André e Mauro Pagani. 39. Fabrizio De André, op. cit., p. 247. 123 La lingua nomade dell’emozione

Anime salve, 1996

Anime salve 40, che arriva sei anni dopo Le nuvole, nel 1996, contiene due brani in lingua genovese, Dolcenera e  cúmba, quarta e settima di nove can- zoni. Dolcenera a dire il vero è una canzone mista, scritta e cantata in italiano e in genovese. È una ballata che racconta di un tradimento, immersa nel- l’acqua che l’autore riversa nel fluido fonetico-musicale del coro: «Amíala ch’â l’aría amía cum’â l’è cum’â l’è / amíala cum’â l’aría amíâ ch’â l’è lê ch’â l’è lê / amíala cum’â l’aria amía amía cum’â l’è / amíala ch’â l’aría amía ch’â l’è lê ch’â l’è lê» (Guardala che arriva guarda com’è com’è / guardala come arriva guarda che è lei che è lei / guardala come arriva guarda guarda com’è / guardala che arriva che è lei che è lei). Sul contenuto del testo, che è piuttosto complesso e che si presta a molteplici letture, dice l’autore:

Questo del protagonista di Dolcenera è un curioso tipo di solitudine. È la solitudine dell’innamorato, soprattutto se non corrisposto. Gli piglia una sorta di sogno paranoico, per cui cancella qualsiasi cosa possa frapporsi fra se stesso e l’oggetto del desiderio. È una storia parallela: da una parte c’è l’alluvione che ha sommerso Genova nel ’70, dall’altra c’è questo matto innamorato che aspetta una donna. Ed è talmente avventato in questo suo sogno che ne rimuove addirittura l’assenza, perché lei, in effetti, non arri- va. Lui è convinto di farci l’amore, ma lei è con l’acqua alla gola. Questo tipo di sogno, purtroppo, è molto simile a quello del tiranno, che cerca di rimuovere ogni ostacolo che si oppone all’esercizio del proprio potere assoluto41.

Le due letture di Dolcenera (questa dualità la ritroviamo nella compre- senza delle due lingue usate, ma anche nel confronto fra il canto solista e il canto del coro) sono sintetizzate infine nel tema dell’alterità rimossa che produce isolamento e solitudine, un’idea di libertà che sconfina con la fol-

40. Testi e musica di tutte le canzoni sono di Fabrizio De André e Ivano Fossati. 41. Doriano Fasoli, op. cit., p. 75. 124 Antonello Zanda lia. Il tema della solitudine caratterizza sostanzialmente tutto il disco ed è un elemento decisamente autobiografico. La vita di Fabrizio De André è segnata da azioni solitarie e da fughe nell’isolamento, nel silenzio; ma nella sostanza l’autore

non si è mai isolato, non è mai stato un solitario, anzi ha saputo, a diffe- renza di altri, collaborare spesso e volentieri con altri musicisti e cantau- tori (Fossati, De Gregori, Bubola, Pagani, la Pfm), si è circondato del suo pubblico, con il quale ha instaurato un rapporto particolarissimo, fatto di fedeltà e passione, e della sua famiglia, Dori, Cristiano e Luvi, con la quale ha fatto musica fino alla fine42.

La scelta di riparare in un’isola come la Sardegna, tanto solitaria quan- to selvatica, tanto separata quanto chiusa, rientra nel contesto del caratte- re e della psicologia dell’autore. È probabilmente una condizione necessa- ria alle dinamiche della creatività artistica del cantautore. La solitudine è peraltro anche una scelta politica, un momento di quel- l’anarchismo individualistico che De André sente come sentimento inte- riore, personale. Nonostante ciò la figura del cantautore trova il suo senso nella comunicazione e deve quindi fare i conti con il pubblico, con i suoi fan, con la politica e l’economia, con la comunità in cui ha scelto di vive- re e con le tensioni globali:

Credo che, per chi se lo può permettere, sia meglio vivere il più possibile appartati, perché si ha più accordo con il circostante, e il circostante non è fatto soltanto di nostri simili; è fatto di alberi, di colli, di mari... Accordandosi con il circostante si ha anche la possibilità di impararsi meglio, di conoscersi meglio e, conoscendosi meglio, si riesce più facil- mente a risolvere i propri problemi e, forse, anche quelli degli altri. [...] Non vuole essere un elogio della solitudine in senso assoluto, dell’anaco- retismo. Sono il primo a dire che ho molti bisogni da espletare e lo faccio, di solito, attraverso il contatto con i miei simili. Sono bisogni di carattere spirituale, economico, sessuale, culturale. Dopo, tutto sommato, è meglio

42. Ernesto Assante, op. cit. 125 La lingua nomade dell’emozione

tornarsene a vivere in contemplazione di se stessi. Questo ho imparato e lo trasmetto anche a voi43.

Questa apertura verso il mondo e verso l’alterità è una delle ragioni che spiega la presenza in questo album di più lingue, oltre all’italiano e il geno- vese, il brasiliano e la lingua dei rom. L’album si racconta così attraverso storie di emarginati e di minoranze, la cui lingua minore è segno di una solitudine e di una specificità, di un’identità inalienabile. La solitudine è pertanto il fondamento della comunicazione interpersonale, condizione dell’anima e presupposto di salvezza. E anime salve, secondo l’interpreta- zione che ne dà lo stesso autore, si rifà all’etimo delle due parole, conse- gnandole al significato di spirito solitario. Nel contesto determinato da uno spirito solitario che canta la vita degli emarginati si spiega l’uso politico del dialetto e delle lingue delle minoranze etniche, che è una condizione di opposizione e di resistenza. E il dialetto e le lingue ‘altre’ sono lingue che resistono al dominio delle lingue nazionali, delle lingue forti, quelle dei padroni e dei dominatori44. La settima canzone dell’album, Â cúmba (La colomba)45, è un dialogo tra il pretendente di una ragazza e il padre di questa, restio a cedere la mano della figlia. La spunta il ragazzo, che promette felicità e ogni bene per la sua colomba: «Â tegnió à dindanáse sutt’à ’n angióu de meigranâ / cu’ â cûa ch’oú l’ha d’â sêa â man lingéa d’oú bambaxía» (La terrò a don- dolarsi sotto una pergola di melograni / con la cura che ha della seta la mano leggera del bambagiaio). Il destino è come prefigurato nel ritmico

43. Al Palasport di Treviglio, 24 marzo 1997. 44. «Il meglio di una cultura, se ci fai caso, viene sollecitato da persone che si trovano in minoranza e che proprio per i loro doni vengono emarginate e all’occorrenza perseguitate. Un esempio clas- sico sono gli individui che nascono con caratteristiche esteriori appartenenti a un sesso che non corrisponde alla loro identità profonda. Ne parlo nella canzone Prinçesa, che ho attinto da uno splendido, breve romanzo di Maurizio Jannelli e Fernanda Farias, in effetti una biografia» (Alessandro Gennari, Le mie note a margine. Intervista con Fabrizio De André, «Panorama», 19 settem- bre 1996). 45. Testo e musica di Fabrizio De André e Ivano Fossati. 126 Antonello Zanda incantamento della ripetizione, che riproduce con la fluidità che è tipica del genovese una ridondanza musicale, un’eco dileguante che avvolge e immerge in un’ironia sfumata tutto il testo: «Duv’â l’è duv’â l’è / duv’â l’è duv’â l’è», «Nu ghe n’è nu ghe n’è nu ghe n’è». Così il coro maschile dise- gna il destino della giovane sposa nei versi finali: «Cúmba cumbétta / beccu de séa / sérva à striggiún c’ou maiu ’n giandún / Martín ou vá à pê / cun’ l’âze deré / foêgu de légne ánime in çe» (Colomba colombina / becco di seta / serva a strofinare per terra col marito a zonzo / Martino va a piedi / con l’asino dietro / fuoco di legna anime in cielo). Gli uomi- ni portano dentro i segni di un egoismo che non conosce limiti. Il preten- dente e il padre si esprimono nei termini di qualcosa che si possiede e che si vuole possedere, discutono intorno alla proprietà: «Chi gh’è ’na cúmba gianca ch’â nu l’è â vostra ch’â l’è a mê» (Qui c’è una colomba bianca che non è la vostra che è la mia). Non c’è contratto che possa restituire la libertà. Dice Fabrizio De André:

Solo nell’isolamento delle remote province dell’Impero, dove i casolari sembrano naufragare nello sterminato concerto della natura, ci si può ancora mettere d’accordo. Lì l’autorità del controllo centrale non arriva, e fra gente semplice e comunque distante al punto che l’incontro viene vis- suto con l’entusiasmo di un avvenimento, il contratto si può instaurare senza acrimonia, seguendo la consuetudine di alcuni rituali ricchi di rispet- to e di grazia, e quindi di poesia: la Cúmba volerà dal casolare del padre a quello dello sposo quasi di nascosto, senza lasciare segni di torti o di risen- timenti46.

46. Fabrizio De André, op. cit., p. 267. PERCORSI A CURA DI ANTIOCO FLORIS

Gonaria Floris Amistade e Disamistade nel sardo De André, fra universi leopardiani e stampi deleddiani

Quando l’ala giovanile dell’Associazione Portales lanciò l’idea di un convegno in ricordo di Fabrizio De André, il mio impulso fu di gridare all’esproprio del diritto esclusivo accampato dalla mia generazione sul cantautore. La pretesa era riconducibile a quella particolare immedesima- zione emotiva, oltre che anagrafica, di ciascuno di noi nella testimonianza epocale della Canzone contemporanea – altrimenti detta ‘leggera’– quale unità inseparabile di poesia e musica, musica e poesia. Mi è sembrato in ogni caso che il miglior modo di ovviare al disagio fosse di mettermi in gioco e riascoltare, ad esempio, l’intreccio di note e fili di memoria lette- raria segnatamente relativo all’intenso legame che De André mostra di isti- tuire con la Sardegna. Già ad un rapido sguardo panoramico, il suo repertorio tende a collo- carsi nel segno del padre della poesia italiana, Dante, nonché del suo cor- rispettivo antimodello, impersonato dal nostrano archetipo del poeta ribelle, Cecco Angiolieri; ma, d’altronde, anche del santo italiano per eccellenza, e poeta egli stesso, San Francesco. Così pure idealmente il repertorio sembra chiudersi all’insegna dell’omaggio alla tragica fine del poeta Pier Paolo Pasolini. Entro una così esemplare, ancorché schematica, osservanza del cano- ne letterario nazionale, le singole modalità del richiamo alla tradizione 130 Gonaria Floris potranno presentare sfumature diverse ma tenderanno a ribadire la loro essenziale fedeltà al sistema. La ripresa di solito letterale del testo è sempre ironica, spesso parodi- sticamente rovesciante, come nel «più dell’onor poté il digiuno» dell’av- ventura erotica di Carlo Martello, in confronto alla tragedia del conte Ugolino narrata da Dante nel XXXIII dell’Inferno; o nel Dante in perso- na, uomo e poeta in viaggio all’inferno, del Ballo mascherato, quando di là dalla «porta di Paolo e Francesca spia chi fa meglio di lui», una volta che «lì die- tro si racconta un amore normale / ma lui saprà poi renderlo tanto genia- le»; o, ancora, nel Dante blasfemo dell’anima in volo verso il Paradiso del Malato di cuore1. Ma ciò che soprattutto merita di essere osservato è che all’originario modello dantesco, debitamente capovolto, rinvii, più in generale, la dico- tomia che sorregge l’intera ispirazione poetico-canora di De André, quel- la dei sommersi e dei salvati. In verità, essa affiora in modo esplicito solo nel- l’album finale delle Anime salve – al quale più tardi approderemo – vale a dire proprio nella fase della sua estrema benché relativa risoluzione. Solo nell’ultima raccolta, infatti, quell’antitesi ideologica, sempre polemicamen- te puntata a favore dei sommersi, giunge a una sorta di riscatto, grazie, curiosamente, al paradossale recupero dell’ambiguità semantica inerente all’opposta categoria dei salvati. In virtù del significato meno ovvio o più peregrino del termine, De André non vorrà tanto riconoscere a questi ultimi il meritato premio della redenzione quanto riconsegnare loro il diritto a un’identità primordiale o assoluta di libertari spiriti solitari:

Il titolo dell’album si rifà all’etimo delle due parole anima e salvo e vuole mantenere il significato originario di spirito solitario. Nel verso Mi sono visto di spalle che partivo già si accenna al rifiuto dell’identità anagrafica, cioè del

1. Tengo presente i quattro volumi e quattordici dischi delle Opere complete di Fabrizio De André, Ricordi, Milano 1999, dove i tre luoghi citati compaiono, nell’ordine, alla p. 16 del vol. 1, alla p. 29 e alla p. 16 del vol. 2. Abbrevierò d’ora in poi con il semplice rinvio, rispettivamente, ai nume- ri del volume e della pagina, che indicherò direttamente nel testo. 131 Amistade e disamistade nel sardo De André

personaggio costruito da un’autorità che vuole imporre a ciascuno di stare al mondo o al proprio posto; la solitudine, che in questo caso consiste in una scelta autonoma, consente di non stare nel mucchio: la sola condizio- ne idonea a non essere contaminati da passioni di parte è uno stato di tranquillità dell’animo che permette di abbandonarsi all’assoluto, alle sue immagini e alle sue voci, interiori ed esterne, senza marchi posticci2.

Analogo, nella sua fattispecie, al trattamento parodico riservato alla ripresa dantesca è quello connesso alla francescana Sorella Morte del Testamento (vol. 1, p. 42), o al francescanesimo a puntate della Canzone per l’esta- te (vol. 2, p. 65). Altre volte, invece, la citazione vera e propria, o la memo- ria di una situazione letteraria, sembra aderire da vicino al pathos tipico, talora persino proverbiale, dell’autore ripreso. È il caso del Giusti chiama- to in causa dai Baffi di sego della Domenica delle salme (vol. 3, p. 55), su cui pur sempre si proietta l’ironia, promossa fin dal titolo della canzone, che irride alla liturgia della ‘domenica delle palme’. Un Giuseppe Giusti già implicitamente evocato nel patetico riconoscersi dei due soldati nemici della Guerra di Piero: «E mentre marciavi con l’anima in spalle/ vedesti un uomo in fondo alla valle/ che aveva il tuo stesso identico umore/ ma la divisa di un altro colore» (vol. 1, p. 41). Il ricorso alla memoria della letteratura italiana può interessare altrove segmenti più ampi del testo, acquistarvi tinte più forti o un maggiore spes- sore ideologico. L’esempio più emblematico in tal senso mobilita non a caso un intero testo famoso, e nel suo genere topico, ed è costituito dal- l’attualizzazione del programma di protesta racchiuso nel sonetto ‘mani- festo’ di Cecco Angiolieri, S’ì fosse foco; protesta anche musicalmente spo- sata da De André a un’ironica giava (vol. 1, p. 37). Un altro esito a sé è poi rappresentato dalle svariate comparse di un personaggio simbolo dell’i- dentità nazionale non solo letteraria, qual è Pinocchio, sia esso il mio

2. Fabrizio De André, Come un’anomalia. Tutte le canzoni. Saggio introduttivo e cura dei testi di Roberto Cotroneo, Einaudi, Torino 1999, p. 256 n. 132 Gonaria Floris

Pinocchio fragile del Bombarolo (vol. 2, p. 32) o siano i vestiti da Pinocchio della già citata Domenica delle salme (vol. 3, p. 56). Pinocchio e San Francesco sembrano ironicamente polarizzare il pathos dell’antinomica vocazione ita- lica alla regola e alla trasgressione, al genio e alla sregolatezza, all’aspiran- te impiegato come allo scioperato. Pertanto, se si dovesse racchiudere in una formula chiarificatrice la vocazione poetica del nostro cantautore, vi si dovrebbero piuttosto distinguere le due tendenze opposte, alla sacraliz- zazione e alla dissacrazione, che a quelle figure emblematicamente ricon- ducono, e cogliere nella loro inevitabile contraddizione la singolarità della rivolta che fra esse si insinua e si fa strada. Si dà il caso, infine, di plurime consonanze testuali, di situazioni diffu- se, di titoli, come l’eco decisamente portiana – del milanese Carlo Porta – del Testamento, e quella piuttosto pasoliniana – e non solo per via dei Vangeli – del Testamento di Tito. Porta e Pasolini sono, per diversi ma anche comuni aspetti, altri due autori particolarmente affini alla patetica inten- sità della poesia di De André. E qui la nota più profonda sembra consi- stere, quanto al primo, nella ripresa della calda e simpatetica consonanza di Carlo Porta con il destino degli umili e dei dolenti di un’umanità soffe- rente, e, quanto al secondo, nella riproposizione perturbante della violen- ta carica dissacratoria di Pasolini, che esibisce la creaturalità violenta dell’Uomo-Dio. Se si considerano i futuri e felici esiti dialettali della poe- sia di De André, sarà allora interessante notare come sia l’autore delle Poesie milanesi, sia quello delle Poesie a Casarsa siano grandi poeti dialettali ma come tali non vengano assunti dal cantautore genovese. Quando De André sarà poeta in dialetto non ricorrerà al filtro letterario ma rifarà la strada della ricerca di una lingua espressiva per la sua novità, come appun- to Porta e Pasolini avevano fatto.

In questa prospettiva si colloca anche il corpus delle canzoni variamen- te relate alla Sardegna, il quale è inseparabile, come si vedrà, dalle struttu- re e i percorsi della memoria della letteratura italiana. 133 Amistade e disamistade nel sardo De André

Dopo la «famosa canzone finta sarda» dal titolo Eu furnaru, la quale testimonia, all’interno di un «giro di finte canzoni popolari italiane» l’ini- ziale sperimentalismo dei primi anni sessanta di De André, di cui parla Paolo Villaggio3, i due maggiori componimenti in sardo gallurese si dispongono significativamente quale anteprima assoluta, ovvero relativa ad una fase di svolta, del suo legame con la Sardegna; legame che fin dal- l’inizio sintetizza la mitica nostalgia di De André per comuni origini da cui egli sembra far discendere anche l’aspirazione a non combattuti ma beati ritmi dell’esistenza:

Alla Sardegna mi lega l’aver ritrovato l’ambiente naturale della Liguria così com’e- ra nell’immediato dopoguerra. Inoltre, pare che il più antico insediamento in Sardegna sia stato operato da uomini dell’era neolitica provenienti da Finale Ligure: i reperti sono stati portati alla luce nell’isola di Santo Stefano, nell’arcipe- lago della Maddalena. Un motivo di più per sentirmi a casa. Credo proprio che finirò per fermarmi qui, cercando di creare le condizioni ideali ad un lentissimo passare del tempo4.

Di chissu che babbu ci ha lacàtu Di quel che babbo ci ha lasciato La meddu palti ti sei presa La miglior parte ti sei presa Lu muntigghiu rùiu cu lu sùaru La collina rossa col sughero Li àcchi sulcìni lu trau mannu Le vacche sorcìne il toro grande E m’hai lacàtu monti mucchju E m’hai lasciato pietre cisto e zirichèlti. e lucertole.

Ma tu ti sei tentu lu riu e la casa Ma tu ti sei tenuto il ruscello e la casa E tuttu chìssu che v’era ‘ndrentu E tutto quel che c’era dentro Li piri butìrru e l’oltu cultiatu Le pere butirro e l’orto coltivato Dapòi di sei mesi che mi n’era ‘ndatu Dopo sei mesi che me n’ero andato Parìa unu campusantu bumbaldatu. Sembrava un cimitero bombardato.

3. Cfr. Fabrizio De André, Come un’anomalia, cit., p. 12 n. 4. Ivi, p. 194 n. 134 Gonaria Floris

Ti ni sei andatu a campà cun li signori Te ne sei andato a vivere con i signori Fènditi cumandà da to muddèri Lasciandoti comandare da tua moglie E li soldi di babbu l’hai spesi tutti E i soldi di babbo li hai spesi tutti In cosi boni, medicini e giurnali In dolciumi medicine e giornali Che to fiddòlu a cattr’anni aja Che tuo figlio a quattro anni portava jà l’ucchjali. già gli occhiali.

Ma me muddèri campa da signora Ma mia moglie vive da signora E mi fiddòlu cunnosci più di middi E mio figlio conosce più di mille paràuli parole La tòja è mugnendi di la manzàna La tua munge dalla mattina a la sera alla sera E li tòi fiddòli so’ brutti di tarra e di E le tue figlie sono sporche di terra e di lozzu letame E andaràni a cuiuàssi a qualche E andranno a sposarsi a qualche ziràccu. servo pastore.

Candu tu sei paltutu suldatu piagnii Quando tu sei partito soldato piangevi come unu stèddu come un bambino E da li babbi di li toi amanti E dai padri delle tue amanti t’ha salvatu tu fratèddu ti ha salvato tuo fratello E si lu curàgghiu che t’è filmatu E se il coraggio che ti è rimasto lu curagghiu è sempre chìddu il coraggio è sempre quello Chill’èmu a’ idi in piazza chi l’ha più Ce la vedremo in piazza chi ha il muso tostu lu muurru più duro E pa lu stantu ponimi la faccia in cuulu. E nel frattempo mettimi la faccia in culo. E pa lu stantu ponimi la faccia in cuulu. E nel frattempo mettimi la faccia in culo5.

Il primo pezzo è già del 1978 ed è la Zirichiltagghia (Baddu tundu): Composta in collaborazione con Massimo Bubola e la consulenza lin- guistica gallurese di Paolo Paggiolu, Zirichiltagghia fu dedicata all’amico Salvatore Pinna. Occupa l’ottavo posto dell’album Rimini, nel quale gioca un forte effetto straniante e più specificamente esotizzante, collocata com’è tra le varie Volta la carta, Avventura a Durango e, addirittura, Parlando

5. Mi limito ad una più adeguata impaginazione metrica, rispetto a entrambe le edizioni tenute pre- senti e già citate più qualche correzione grafica o morfologica, e solo alcuni interventi sul lessico tradotto, come, ad esempio, la forma privilegiata dall’italiano regionale sardo babbo al posto di papà o l’erronea lezione di testa per murru corretta in muso. 135 Amistade e disamistade nel sardo De André del naufragio della London Valour. Per contro, in Gallura, Zirichiltagghia signi- fica nido di lucertole, che immediatamente allude al più universale nido di vipe- re, così che il significato della parola tende metonimicamente a scivolare dalla tana di lucertole alla stessa comunità delle lucertole, e di qui al litigio tra lucer- tole; fatto che non a caso in Gallura usa riferirsi anche metaforicamente ma sempre con disprezzo solo alla realtà angusta e selvatica delle comunità degli Stazzi. E proprio di un litigio si tratta, improntato al modello lette- rario del Rinfaccio, nel quale un gioco variamente regolato da antitesi e ripre- se, enumerazioni, allitterazioni, assonanze e rime, sorregge il classico stereotipo dialettico e ideologico dell’alterco tra fratelli. Il perno è costituito dal motivo viscerale del calcolo e del possesso dell’eredità, ma vi sono coin- volti i valori di una decantata fede identitaria che a loro volta si misurano, lungo un crescendo patetico-aggressivo, con la sfida più o meno vittorio- sa al superamento dello status socio-culturale di partenza, ovvero con la carente tempra morale, psicologica e persino fisica, che da sempre l’un l’altro si rimproverano. L’essenziale inanità dello scontro viene del resto sancita dalla battuta beffardamente scurrile che lo conclude, e tale sorta di giro vizioso risulta anche musicalmente interpretata dal vortice vibratorio del Ballo tondo, che modula e del resto sottotitola la Zirichiltagghia. Una cir- colarità di ballo sardo, tuttavia, che per un verso intende giusto ancestral- mente richiamare i ritmi convulsi di una vera e propria tarantolata, e per un altro modernamente alludere al suono e al ritmo frenetico di un rodeo western.

Nel ’90, in analogia col procedimento seguito nel ’78, De André collo- ca l’altra sua piéce gallurese, Monti di Mola, in coda all’album Le Nuvole, il quale si distingue, oltre che per il motivo tematico del vagheggiamento di una serie di impossibilia, per il forte sperimentalismo linguistico e musica- le. Non a caso esso è posteriore alla Creuza de mä dell’84, che apre la gran- de stagione delle più straordinarie raccolte di De André sotto il profilo della ricerca linguistica ed etnomusicale. E il vagheggiamento di un luogo 136 Gonaria Floris e di un modo ‘altro’ per vivere, indistinto da quello di un ritmo e un lin- guaggio autentico per esprimersi, si accompagnano, se non si identificano, con la scelta definitiva del cantautore di stabilirsi in Sardegna

A trentacinque anni mi sono trasferito in Gallura, non per fuggire, ma per ritrovare la campagna. L’erba, il fieno, la terra, quel certo tipo di luna molto meno diafano, molto più carnale di quella che ci appare in città, tra lo smog di Milano. E gli stronzi di vacca che diventano legno, sotto il sole. E il dialetto, che rende più saporite anche le bestemmie più limpide6.

Frutto questa volta della collaborazione con Mauro Pagani, Monti di Mola prende il titolo dall’antico nome dell’attuale Costa Smeralda e nel complesso la canzone ci fornisce la parodia di un’altra specifica forma let- teraria che è l’Idillio

In li Monti di Mola la manzàna Sui Monti di Mola di buon mattino Un’aina mustiddina era pascendi Un’asina dal mantello bruno stava pascolando In li Monti di Mola la manzàna Sui Monti di Mola di buon mattino Un cioanu vantaricciu e moru era Un giovane aitante e bruno stava sfraschendi tagliando rami

E l’occhi s’intuppesini cilchendi E gli occhi si incontrarono mentre Ea ea ea eeea cercavano Acqua E l’ea sguttesi da li muccichili cù li E l’acqua sgocciolò dai musi insieme alle Bae ae ae aaae Bave

E l’occhi la burricca aia di lu mari E l’asina aveva gli occhi color del mare E a iddu da li tivi escia lu Maistrali E a lui dalle narici usciva il Maestrale E idda si tunchià abbeddulata ea ea ea eeea E lei ragliava incantata ea ea ea ea Iddu li rispundia linghitontu ae ae aaae Lui le rispondeva balbettando ae ae ae

– Oh bedda mea l’aina luna – Oh bella mia l’asina luna La bedda mea capitali di lana La bella mia cuscino di lana Oh bedda mea bianca foltuna. La bella mia bianca fortuna.

– Oh beddu meu l’occhi mi luxi – Oh bello mio mi illumini gli occhi Lu beddu meu carrasciali di baxi Il mio bel carnevale di baci Oh beddu meu lu cori mi cuxi. Oh bello mio il cuore mi cuci.

6. Fabrizio De André, Come un’anomalia, cit., p. 247 n. 137 Amistade e disamistade nel sardo De André

Amori mannu di prima ’olta Amore grande di prima volta L’aba si suggi tuttu lu meli di chista multa L’ape si succhia tutto il miele di questo mirto Amori steddu di tutti l’ori Amore bambino di tutte le ore Di petralana lu bataddolu di chistu cori Di muschio il batacchio di questo cuore

Ma nudda si po’ fa nudda in Gaddura Ma nulla si può fare nulla in Gallura Chi no lu énini a sapì ind’un’ora Che non lo vengano a sapere in un’ora. E ’nfattu una ’ecchia infrascunata Sul posto una brutta vecchia nascosta fea ea ea eea tra le frasche Piagnendi e fugghiulendi si dicia cù li bae Piangendo e guardando diceva fra sé con le ae ae aae bave alla bocca

– Biata idda ùai che bedd’omu – Beata lei mamma mia che bell’uomo Biata idda cioanu e moru Beata lei giovane e bruno Biata idda sola mi moru. Beata lei io da sola me ne muoio.

– Biata idda ià me l’ammentu – Beata lei me lo ricordo di certo Biata idda più d’una ‘olta Beata lei più d’una volta Biata idda ‘ezzaia tolta. Beata lei vecchiaia storta.

Amori mannu di prima ‘olta Amore grande di prima volta L’aba si suggi tuttu lu meli di chista multa L’ape si succhia tutto il miele di questo mirto Amori steddu di tutti l’ori Amore bambino di tutte le ore Di petralana lu bataddolu di chistu cori. Di muschio il batacchio di questo cuore

E lu paesi intreu s’agghindesi pa’ lu coiu E il paese intero si agghindò per le nozze Lu parracu matessi intresi in lu soiu Lo stesso parroco indossò il suo vestito Ma a cuiuassi no riscisini l’aina e l’omu Ma non riuscirono a sposarsi l’asina e l’uomo Chi da Ché da li documenti escisini fratili Perché dai documenti risultarono cugini in primu primi

E idda si tunchià abbeddulata E lei ragliava incantata Ea ea ea eeea Ea ea ea eeea Iddu li rispundia linghitontu Lui le rispondeva balbettando Ae ae ae aaae. Ae ae ae aaae7.

7. Come per Zirichiltagghia mi limito ad una più ovvia impaginazione metrica e a qualche interven- to grafico o morfologico, e lessicale di traduzione, come la lezione bruna e non chiara per mustid- dina, nonché la lezione più esatta, e ‘in termine’ anziché perifrastica, di linghitontu al posto di pro- nunciando male. 138 Gonaria Floris

L’idillio, di cui la canzone si sostanzia, racconta e rappresenta un incontro felice in natura, il quale è reso possibile dallo stadio di ferinità primeva dell’uomo che può aderire al richiamo di un’asina, dapprima su un piano esclusivamente fisico, ma poi anche sull’onda di una vera e pro- pria contaminazione del duetto della lirica amorosa, provenzale alla prima maniera, ossia precedente alla sublimazione stilnovistico-romantica. Senonché, dall’alto della pur paradossale sublimazione panica, l’idillio approda a una narratività che smaschera lo scherzo alla luce di una deter- minazione geografica che a un certo punto è resa esplicita, la Gallura, e che dunque lo storicizza; e alla luce quindi anche dell’indiscrezione e attentato alla sua incontaminatezza. La topica della vecchia invidiosa del- l’amore del giovane per l’animale conduce alla farsa finale dell’adynaton del matrimonio, mentre è proprio nel pubblico ritualizzabile dell’istituzione che si proclama l’impossibile che in natura, al contrario, non solo si dava, era possibile, ma addirittura toccava corde sublimi, e insieme suscitava comicità. Una serie di motivi topici si accumulano, dunque: il motivo del tempo perduto o rimpianto della giovinezza, i contrastanti impossibilia, la parodia della poesia lirica.

Tra i due precedenti exploits, che vengono a formare un dittico di vita- le ironia rielaborativa poetico-musicale, si colloca il dolente spaccato auto- biografico del sequestro subito in Sardegna nel 1981. Non a caso l’album che lo recepisce si identifica con il nome stesso dell’autore, Fabrizio De André, ma è inoltre allusivamente noto come L’Indiano. Scritta tutta in col- laborazione con Massimo Bubola, la raccolta alterna, tra un componimen- to e l’altro nonché all’interno del singolo brano, la forma del monologo e del dialogo, del racconto e della fiaba, della sentenza e dell’interrogazione, intanto che propende semmai ad iterare, anche da una piéce all’altra, idee e immagini, parole-chiave e parole-rima, che ruotano non a caso intorno a paesaggi e personaggi-simbolo, infondendo alla testimonianza una carica che si rivela talora tanto essenziale quanto minimale. Basti pensare al grot- 139 Amistade e disamistade nel sardo De André tesco ossimoro che contrassegna il luogo della drammatica esperienza vis- suta, nella canzone Hotel Supramonte:

Ho vissuto il rapimento con un’enorme curiosità. Come un film o un romanzo di cui purtroppo ero protagonista. Ma mi incuriosiva vedere come andava a finire, che cosa succedeva di giorno in giorno. Certo poi è stato di una monotonia orrenda, e infatti mi sono seccato. Ma almeno per il primo mese e poi alla fine l’emozione non è mancata. Io se non vivo di emozioni mi sento inutile e lì non c’era da immaginarsi tanto, lì le emozio- ni si vivevano veramente. Da un punto di vista umano è stato avvincente. Tuttavia c’era una remora ed era la pena per Dori, costretta a stare là tutto quel tempo solo per fare da testimone della mia incolumità8.

O si pensi all’adozione straniante della grafica k, per di più associata all’accompagnamento ritmico-musicale di decisa impronta sudamericana, che intende siglare con l’indurimento del nome la durezza del destino della donna del marinaio di foresta, alias il latitante:

I miei guardiani mi parlavano dei vari Mesina come di eroi, l’equivalente di Billy the Kid. È dai loro racconti che ho appreso la storia di Franziska. Franziska è la donna di un bandito latitante, stanca di vivere senza vivere davvero… La musica sudamericana che ascoltavo da ragazzo, soprattutto quella dei Paraguayos, mi ha fornito lo spunto musicale e ritmico per scri- vere questa canzone9.

E si veda in Fiume Sand Creek, ma più diffusamente nell’intero album, l’assimilazione dei rapitori, e indirettamente di tutti i Sardi, agli Indiani d’America: questi sterminati dai vari generali Custer o Chiwington, quelli cacciati sui monti della Barbagia, ora dai Cartaginesi, ora dai Romani, e così via:

I maggiori spunti per Fiume Sand Creek me li ha dati un libro, Gambe di legno. Memorie di un guerriero Cheyenne. Avevo letto quel poco di letteratura

8. Fabrizio De André, Come un’anomalia, cit., p. 206 n. 9. Ivi, p. 208 n. 140 Gonaria Floris

indiana che cominciava ad uscire in America. Nei quattro mesi passati con i rapitori avevo visto in loro gli esponenti più di una tribù di indiani che di una organizzazione mafiosa. E nella loro lotta per la sopravvivenza avevo letto qualche cosa di molto simile al destino degli indiani d’America: da un lato pensavo agli indiani sterminati dai vari Custer e Chiwington, ghettizzati nelle riserve dal potere che aveva rapinato le loro terre, dall’al- tro ai sardi, cacciati sui monti dai cartaginesi, poi dai romani, confinati nella Barbagia. Capita anche ai pochi indiani di Sardegna di assaltare le diligenze del padrone per riprendersi parte di quello che è stato loro tolto10.

Ma quel che anzitutto prevale sui diversi episodi e punti di vista che la raccolta via via mette a fuoco è lo specifico registro lirico ispirato alla pietas. Tant’è vero che essa racchiude al suo interno la lirica più squisitamente leo- pardista concernente il mito del pastore sardo, il Canto del servo pastore:

Dove fiorisce il rosmarino c’è una fontana scura Dove cammina il mio destino c’è un filo di paura Qual è la direzione nessuno me lo imparò Qual è il mio vero nome ancora non lo so

Quando la luna perde la lana e il passero la strada Quando ogni angelo è alla catena ed ogni cane abbaia Prendi la tua tristezza in mano e soffiala nel fiume Vesti di foglie il tuo dolore e coprilo di piume

Sopra ogni cisto da qui al mare c’è un po’ dei miei capelli Sopra ogni sughera il disegno di tutti i miei coltelli L’amore delle case l’amore bianco vestito Io non l’ho mai saputo e non l’ho mai tradito

Mio padre un falco mia madre un pagliaio Stanno sulla collina e i loro occhi senza fondo seguono la mia luna Notte notte notte sola sola come il mio fuoco Piega la testa sul mio cuore e spegnilo poco a poco (vol. 3, pp. 18-19).

10. Ivi, p. 205 n. 141 Amistade e disamistade nel sardo De André

Già il titolo della canzone ci riporta per immediata associazione al Canto notturno di un pastore errante dell’Asia di Leopardi, non senza il debito adeguamento, di scala spaziale ed esistenziale ma non di valori, implicito nella ‘riduzione’ traspositiva dell’esperienza dall’Asia alla Sardegna, e dal nomadismo del pastore errante alla sostanziale cattività del servo pastore. Senonché, è proprio il motivo di una analoga dimensione storica, caratte- ristica della solitaria vita ‘primigenia’, a rappresentare anche l’intrinseco punto di contatto tra l’immaginazione del poeta e quella del cantautore. Basti andare a vedere la pagina in cui Leopardi annotava il Disegno lettera- rio del suo Canto11, e prima ancora il pensiero dello Zibaldone che lo ispirò, datato 3 ottobre 1828, in cui egli si soffermava su un articolo del «Journal des Savans» – estratto dal Voyage d’Orenburg à Boukhara, fait en 1820, Paris 1826 – del viaggiatore russo, Barone di Meyendorff, Aleksandr Kazimirovic (1798-1865), là dove questi aveva trattato del popolo noma- de dei Kirghisi, abitanti nel Nord dell’Asia centrale, molti dei quali, come presso altre numerose nazioni vaganti di quella parte del mondo, «passent la nuit assis sur une pierre à regarder la lune, et à improviser des paroles assez tristes sur des airs qui ne le sont pas moins». Come osserva Mario Fubini, nella sua nota introduttiva al Canto medesimo12

Quella citazione, ricordiamo, si collocava fra altre testimonianze relative all’esistenza di canti lirici orali anche fra i popoli più primitivi e ignoranti, anteriori alle più complesse epopee, per non dire delle opere drammati- che: e tutte queste osservazioni valevano a confermare in lui la convinzio- ne della lirica come genere «primogenito di tutti», anzi come l’unico genui- namente poetico, «proprio di ogni uomo anche incolto che cerca di ricrearsi o di consolarsi col canto».

Per tutte queste ragioni che gli si possono interamente attribuire, quale anima salva ovvero quale spirito solitario, il ‘servo pastore sardo’ potrebbe già

11. Giacomo Leopardi, Tutte le opere, a cura di Walter Binni ed Enrico Ghidetti, Sansoni, Firenze 1969, vol. III, p. 372. 12. Giacomo Leopardi, Canti, a cura di Mario Fubini e Emilio Bigi, Loescher, Torino 1964, p. 181. 142 Gonaria Floris ascriversi, benché non ne faccia effettivamente parte, alla moltitudine delle Anime salve cui corrisponde anche il titolo della raccolta del ’96: l’ultima di Fabrizio De André e comprendente la Disamistade

Che ci fanno queste anime davanti alla Chiesa Questa gente divisa questa storia sospesa A misura di braccio a distanza di offesa Che alla pace si pensa che la pace si sfiora Due famiglie disarmate di sangue si schierano a resa E per tutti il dolore degli altri è dolore a metà

Si accontenta di cause leggere la guerra del cuore Il lamento di un cane abbattuto da un’ombra di passo Si soddisfa di brevi agonie sulla strada di casa Uno scoppio di sangue un’assenza apparecchiata per cena E a ogni sparo di caccia all’intorno si domanda fortuna

Che ci fanno queste figlie a ricamare a cucire Queste macchie di lutto rinunciate all’amore Fra di loro si nasconde una speranza smarrita Che il nemico la vuole che la vuol restituita E una fretta di mani sorprese a toccare le mani Che dev’esserci un modo di vivere senza dolore

Una corsa degli occhi negli occhi a scoprire che invece È soltanto un riposo del vento un odiare a metà E alla parte che manca si dedica l’autorità Che la disamistade si oppone alla nostra sventura Questa corsa del tempo a sparigliare destini e fortuna

Che ci fanno queste anime davanti alla Chiesa Questa gente divisa questa storia sospesa (vol. 4, pp. 16-17).

Lo stesso primo verso della canzone rinvia al titolo dell’album e insie- me all’omonimo componimento, ivi incluso, che oscilla ai nostri occhi, sempre per un processo associativo, tra la suggestione delle Anime morte di Gogol’ e la tragica alternativa, di dantesca memoria, riproposta da Primo 143 Amistade e disamistade nel sardo De André

Levi, tra sommersi e salvati. Scritta con Ivano Fossati, Disamistade è bensì il recitativo di una domanda senza risposta, e pertanto, ancora una volta in De André, a percorso circolare. Avviata strumentalmente sulle corde di chitarra, con la quale si mescola, mi pare, la trùnfa o scacciapensieri – ma con un cupo ululare di lupi come intermezzo, la canzone è un testo-tentativo di capire, di interpretare. Tant’è che l’interrogativo e commento che essa si pone prende le mosse da un effettivo presente che però subito si tramu- ta nella emblematicità del presente gnomico. Se finora De André aveva piuttosto additato agli altri l’antinomia e il paradosso, questa volta è egli stes- so ad esserne coinvolto e perciò ad interrogarsi in merito:

Non tutti gli individui conviventi in una micro o macro società sono disposti a trasformare il disagio in sogno. Laddove «La corsa del tempo spariglia destini e fortune» mettendoli a continuo confronto nella condi- visione di uno spazio ristretto, nasce l’invidia; la disamistade (letteralmente inimicizia in dialetto sardo), la faida, nasce dal desiderio irrealizzabile di fer- mare il tempo e di eliminarlo per riportare il mondo a una ipotetica con- dizione originaria in cui tutti siano uguali. La faida consiste nel paradosso di ammazzare l’ultimo assassino, e l’autorità interviene quasi sempre a sproposito, giudicando frettolosamente in base a testimonianze equivoche e penalizzando innocenti che, scontata una pena ingiusta, diventano i nuovi luttuosi protagonisti della carneficina. Ed è proprio dall’antinomica disamistade che traggono la propria origine quell’elogio della solitudine e quell’inno all’isolamento che sono il tema di tutte le canzoni dell’album13.

Benché tale testimonianza, circa la contraddizione o antinomia della disamistade sarda, sia espressa in forma del tutto oggettivata, poiché è risa- puto quanto essa sia da ricondurre allo stretto legame stabilito da De André con la Sardegna e i Sardi, può accadere nel leggerla di voler rianda- re alla maggiore autorità in fatto di amicizia e di paradossi, e in particola- re in fatto di paradosso dell’amicizia stessa o amistade – sia verso una per- sona che verso un gruppo – qual è l’autorità ciceroniana. Nell’omonimo

13. Fabrizio De André, Come un’anomalia, cit., p. 263 n. 144 Gonaria Floris trattato, Cicerone, infatti, a un certo punto recita come sarebbe difficile, naturalmente, giudicare gli amici senza averne fatto la prova, ma d’altra parte come tale prova debba farsi quando già si è amici; ragion per cui, da un lato, l’amicizia precorre il giudizio ma da un altro lato toglie la possibi- lità di farne preliminarmente la prova14. Nell’esperienza di vita, come nel- l’inchiesta poetica, suo malgrado, De André viene dunque a trovarsi in quella condizione, ovverosia a rappresentare quel caso-limite, tra l’amista- de e la disamistade, che Antonio Pigliaru nel suo codice antropologico, più che giuridico, inerente alla cultura sarda o barbaricina, attribuisce all’ospite: finché questi, da forestiero, e quindi estraneo alla comunità o gruppo inclu- sivo- esclusivo, sarà ospite egli verrà non solo rispettato ma persino sacra- lizzato. Ma se egli stesso, invece, verrà con l’amicizia a farne parte, entrerà anche a tutti gli effetti entro le contraddizioni dell’amistade e disamistade15. Ciò potrebbe anche contribuire a spiegare, allora, come l’omonima canzo- ne di De André tenda per un verso a riprodurre il rituale di una sorta di sacra rappresentazione, incerta, a dire il vero, fra il sacro e il profano, ma per un altro verso essa eluda il coinvolgimento dell’io, e anzi, così facen- do, celi, forse, un preciso copione. Un copione molto probabilmente offertole da una rappresentazione analoga, che in rapporto ad eventi ambientati all’incirca un secolo prima, Grazia Deledda aveva, guarda caso, riprodotto, proprio in una sorta di documento, quale testimonianza scrit- ta dal personaggio protagonista, nel romanzo del 1912 Colombi e sparvieri:

Ricordo ancora la scena grandiosa. La cerimonia per le paci si compì in una chiesa campestre dell’altipiano. Ai latitanti era stato concesso un sal- vacondotto onde prender parte alla cerimonia e stringere la mano ai pro- pri nemici; ma si diceva già che uno dei capi, zio Innassiu Arras, non si sarebbe presentato.

14. Cicerone, L’Amicizia, a cura di Emanuele Narducci e Carlo Saggia, Rizzoli, Milano 1985, p. 135. 15. Antonio Pigliaru, Il codice della vendetta barbaricina, a cura di Benedetto Meloni, La Biblioteca dell’i- dentità dell’Unione Sarda, Cagliari 2003, specie il cap. V, pp. 238-294. 145 Amistade e disamistade nel sardo De André

Il vescovo, il prefetto della provincia ed altre autorità accompagnate da un numeroso seguito di borghesi e di paesani, di donne e di fanciulli cavalca- vano attraverso l’altipiano che divide il villaggio di Tibi dal villaggio di Oronou. Pareva una processione [...]. Finita la messa il prefetto in persona scoprì la lapide: un colombo con un ramo d’ulivo decorava l’iscrizione: «il 15 maggio 1895 / nella chiesa della madonna del buon consiglio / gli abitanti di Oronou e di Tibi / fieri e forti / dopo lunghi anni di odio / di sventure e di cecità / aperti gli occhi a luce d’amore / giurano pace perdono / inaugurando un’era novella / di vita civile». A due a due uomini e donne delle diverse fazioni passavano davanti al Cristo e scambiavano il bacio della pace [...]. Anche le donne si baciavano: alcune piangevano, altre ridevano e queste forse erano le più commosse. Ah, ecco finalmente finiti i tristi giorni di ansie e di terrore: finalmente le vecchie nelle notti di vento furioso non si solleveranno come serpi nei loro giacigli imprecando contro il nemico e aspettando da un momento all’altro la notizia di una tragedia; finalmente le fanciulle potranno sorridere al loro vicino di casa e scegliere fra tanti giovani il più bello senza pensare: «quello è il nemico che bisogna odiare e non amare». Alcune coppie che s’amavano in segreto come ai tempi eroici di Giulietta passarono sorridendo davanti al Cristo; un prete lesse le pubblicazioni di molti matrimoni fra nemici [...]. La notte del terzo giorno qualcuno entrò nella chiesetta, spezzò la lapide e lasciò alcune monete per il rifacimento dei danni. Tutti dissero che era stato l’Arras. Non accaddero più fatti di sangue, i matrimoni furono celebrati e le parti nemiche tornarono a scambiarsi il saluto, ad aver relazioni ed a conclude- re affari: ma l’avversione segreta, tra famiglia e famiglia, tra individuo e individuo, dopo quindici anni dal giorno delle paci rimane ancora16.

Ma vorrei, infine, soffermarmi sul pezzo assolutamente esclusivo, inse- rito nell’album già considerato e intitolato al suo stesso autore, Fabrizio De André; pezzo non riportato da talune edizioni, come quella Einaudi, la quale omette deliberatamente le semplici rielaborazioni. E certo si tratta di una sorta di arrangiamento, da un precedente adattamento di Albino Puddu, dell’Ave Maria in sardo

16. Grazia Deledda, Colombi e sparvieri, Mondadori, Milano 1972, pp. 42-43 e pp. 46-47. 146 Gonaria Floris

Deus Deus ti salvet Maria Chi chi ses de grazia plena De grazia ses sa vena E sa currente …………… …………… …………… …………… Pregade pregadelu a izzu ostru Chi chi tottu sos errores A nois peccadores Nos perdonet

Meda meda grazia nos donet In sa vida e in sa morte E in sa diciosa sorte In Paradisu.

Il testo, come del resto anche Zirichiltagghia e Monti di Mola, richiede- rebbe una più precisa messa a punto linguistico-filologica, non foss’altro al fine di verificarne, per quanto sia possibile, la consapevole o involonta- ria alterazione del testo vulgato o tradizionale, in rapporto, rispettivamen- te, al sardo-logudorese, il primo, e a quello gallurese, come si è visto, gli altri due. Ebbene, la versione di De André del Deus ti salvet Maria, pur nella sua approssimazione, forse da saggistica prova, mi sembra già sufficiente- mente incline verso l’obbiettivo di sottrarre quel canto liturgico alla pati- na di colore folk che ad esso si è sovrapposta. Tende a evidenziarlo, intan- to, il lungo avvio dilatato e tonante del suono – ribadito nell’intermezzo – perseguito grazie a un mix strumentale e vocale irrituale per il canto sacro, che unisce ai più ortodossi pianoforte ed organo, la chitarra elettrica, la batteria, la tastiera, etc., mentre alla voce di De André si accompagna il caratteristico canto sardo a tenores. Dal canto loro le parole già di per sé sono riportate ad un’essenziale triplice scansione e funzione, di invocazio- ne, preghiera di remissione dei peccati e di implorazione di grazia e di sal- 147 Amistade e disamistade nel sardo De André vezza dalla Madonna; ma il canto, inoltre, le sottopone a un’inedita acce- lerazione, al di là della replica e dell’anafora (Deus deus… Chi chi…Meda meda) là dove invece la tradizione intona solennemente, lentamente, enfa- ticamente il nome e il mistero di Maria. Qui, al contrario, il dogma della Verginità della Madonna appare volontariamente obliterato, come segna- lano i puntini di sospensione, a vantaggio di un’insistenza supplice, sia musicale che ritmica che frastica. Sul testo della preghiera già così sinco- pato, il ritmo canoro si concentra a sua volta antiretoricamente su parole secondarie e persino su giunture sintattico-grammaticali, come l’articolo sa, o la preposizione in, così che il suono sembra voler espandersi in misu- ra inversamente proporzionale alla condensazione delle parole del testo, liberando il pezzo dall’usura della tradizione folklorica da cui quella litur- gica non ha saputo preservarlo.

Simonetta Salvestroni De André, gli autori russi e il mondo contemporaneo

Dai primi anni sessanta fino alle ultime vicende del ’900, Fabrizio De André ha cantato i personaggi emarginati, gli ultimi; è stato capace di calarsi nelle loro sofferenze, di comprenderle dal di dentro, di dare loro una voce, arricchendo in questo modo gli altri e se stesso. Lo ha fatto a partire dagli abitanti dei bassifondi di Genova, dalle pro- stitute e dai suicidi delle prime canzoni fino agli zingari Rom delle ultime. La maggior parte di questi personaggi sono colti nei momenti più dolen- ti e risolutivi delle loro esistenze, spesso quando già guardano alla vita dal punto di vista della morte. È quello che avviene negli album Non al dena- ro non all’amore né al cielo, Tutti morimmo a stento così come nel luminoso Testamento di Tito, nella Guerra di Piero e in tante altre canzoni. Proprio la scelta degli ultimi avvicina questo poeta-cantautore a molti autori russi dell’Ottocento e del Novecento, che hanno fatto del mondo dei bassifondi e degli ultimi i protagonisti delle loro opere. Scelgo qui in particolare di soffermarmi su uno dei più grandi, Fedor Dostoevskij, non perché Fabrizio De André lo citi, ma per un comune modo di sentire, che pochi hanno, nei confronti dei poveri, dei diseredati dei rifiutati dal mondo. Non credo ci sia bisogno di sottolineare la grandezza e l’importanza di Dostoevskij, che da più di cento anni interroga i suoi lettori su questi temi 150 Simonetta Salvestroni e che continua ad essere al centro di dibattiti filosofici e letterari interna- zionali. Fabrizio De André ha un’altro tipo di grandezza e di funzione. Grazie al suo talento, alla sua ricerca sincera, al fascino e alla ricchezza espressiva della sua voce porta queste tematiche ad un pubblico molto largo, dispo- sto – in un tempo in cui si legge sempre di meno – all’ascolto di quello che è stato e rimane essenziale.

La scelta fatta da Dostoevskij di dedicare nei suoi romanzi tanto spa- zio agli ultimi e agli emarginati ha una ragione biografica: la sua condan- na a morte, i quattro anni di bagno penale in Siberia. Scrive al fratello a proposito dei suoi compagni di pena, che sono stati per lui una scoperta:

Credimi. Ci sono caratteri profondi, forti, bellissimi, ed era un piacere cer- care l’oro sotto la scorza grossolana: E non uno o due, ma tanti1.

E nel finale del romanzo Delitto e castigo, quando il protagonista Raskol’nikov si trova al bagno penale:

Guardava gli altri forzati e si meravigliava: come amavano la vita […]. Quante terribili sofferenze e torture avevano sopportato alcuni di loro, per esempio i vagabondi! Possibile che amassero tanto un qualsiasi raggio di sole, il fitto del bosco, una sorgente gelata che uno di loro aveva sco- perto tre anni prima in un profondo recesso e che anelava a ritrovare – così come si sogna un nuovo incontro con l’essere amato – fino a riveder- la in sogno […]. Continuando ad osservare egli vedeva esempi ancora più inspiegabili2.

Sono proprio queste persone che insegnano a Dostoevskij prima e poi ai suoi protagonisti il senso e il valore della vita. Possono farlo perché

1. Fedor M. Dostoevskij, Epistolario, Napoli, 1950, p. 157. 2. Fedor M. Dostoevskij, Delitto e castigo, Garzanti, Milano 1969, pp. 614-615. 151 De André, gli autori russi e il mondo contemporaneo nella loro sofferenza hanno perduto ogni maschera difensiva, ogni interes- se per le cose superficiali, che attraggono la maggior parte degli uomini. Come scrive l’autore russo, è come se un velo fosse caduto dai loro occhi. In Delitto e castigo quello che Dostoevskij sente più profondamente viene espresso prima in una bettola da un uomo che è arrivato all’ultimo gradino della scala sociale, e non ha più credibilità e rispetto da parte degli altri e anche di se stesso, poi dalla figlia di lui, la prostituta Sonja, protago- nista del romanzo. Per Dostoevskij, come per Fabrizio De André, ultimi non sono solo quelli che stanno al gradino più basso della scala sociale, ma anche coloro che la vita ha messo in ginocchio: l’adolescente Markel mortalmente mala- to, Mitja Karamazov, Satov e tanti altri ancora. Sono persone che guarda- no alla vita con occhi limpidi, come i morti di Spoon River dell’album Non al denaro non all’amore né al cielo, perché non hanno più niente da perdere, sono ormai nudi di fronte agli altri e a se stessi. Cito qui un solo esempio: le parole di un personaggio dei Demoni, Stepan Trofimovic, che ha vissuto tutta la vita in modo superficiale, cer- cando il successo facile, l’affermazione personale e provocando agli altri ferite gravissime, soprattutto al figlio Petr:

Che cosa è più prezioso dell’amore? L’amore è superiore all’esistenza, è il coronamento dell’esistenza […] tutta la legge dell’esistenza umana sta solo nel fatto che l’uomo possa inchinarsi di fronte all’infinitamente gran- de. Se gli uomini fossero privati dell’infinitamente grande non potrebbe- ro più vivere e morirebbero disperati […] come vorrei vedere Petrusa e… tutti loro3.

Soltanto nelle ultime ore della sua vita, quando è colpito da una malat- tia fulminea e mortale, egli scopre qualcosa che prima non aveva mai saputo o voluto vedere.

3. Fedor M. Dostoevskij, I demoni, Garzanti, Milano, p. 708. 152 Simonetta Salvestroni

Le verità soggettive che Dostoevskij e alcuni dei suoi personaggi sco- prono hanno un precedente e per l’autore una fonte di grande valore in una personalità importante per il mondo russo, Isaak Sirin, da lui più volte ricordato. Cito qui due brani di questo autore, perché secondo me offro- no un commento limpido e significativo non solo per le opere maggiori di Dostoevskij, ma anche per gli album di Fabrizio De André dove ha tanto spazio il tema di coloro che sono vicini alla morte:

Non c’è nulla che sia più potente dell’essere senza speranza (in se stessi). Quando un uomo nel suo pensiero ha abbandonato la speranza che viene dalla sua vita, nessuno potrà essere più coraggioso di lui, nessun nemico potrà attaccarlo e non c’è afflizione il cui sentore potrà fiaccare la sua intelligenza. Poiché ogni afflizione esistente è inferiore alla morte ed egli ha lasciato che la morte venisse su di lui.

Usurpano la conoscenza coloro che l’aggrediscono senza esperienza, ma, in realtà, invece della verità, ne usurpano un’immagine. La conoscen- za infatti dimora da se stessa in coloro che sono crocifissi e aspirano la vita da dentro la morte4.

Quello che Fabrizio De André dice nell’intervista a Fernanda Pivano è in sintonia con queste citazioni e con l’esperienza che vivono i personag- gi privilegiati di Dostoevskij:

mi ha colpito un fatto: nella vita si è costretti alla competizione, magari si è costretti a pensare il falso o a non essere sinceri. Nella morte invece i personaggi di Spoon River si esprimono con estrema sincerità, perché non hanno più da aspettarsi niente […]. Così parlano come da vivi non sono mai stati capaci di fare […] ho cercato di adattare Spoon River alla realtà in cui vivo5. (vol. II, pp. 5-6).

4. Isaak Sirin, Slova podvizneceskie, (Discorsi), Pravoslavnoe izdatel’stvo, Moskva 1911. 5. Fabrizio De André, Opere complete, vol. II, Ricordi, Milano 1999, pp. 5-6. 153 De André, gli autori russi e il mondo contemporaneo

La vicinanza della morte, così come l’essere messi in ginocchio da un evento traumatico capace di forare il midollo delle ossa, può aiutare ad aprire gli occhi. Utilizzando un’espressione di De André, questa esperien- za può «rendere le persone disponibili», come nell’album Non al denaro non all’amore né al cielo lo sono il malato di cuore e il suonatore Jones. Il primo lo è perché la sua stessa condizione, insieme sfavorevole e pri- vilegiata, lo rende immune «dal clima di competitività, dal tentativo di misurarsi continuamente con gli altri, di superarli» e lo porta a «compiere un gesto di coraggio, a scavalcare l’invidia, spinto non dalla molla del cal- colo ma da quella dell’amore». Il secondo è disponibile, perché sceglie di utilizzare il suo talento non per arricchirsi, fare carriera, primeggiare, ma per esprimere liberamente se stesso senza tradire quello in cui crede. Questa è una testimonianza importante, secondo me, non solo per i musicisti, ma anche per gli studio- si, i ricercatori, i docenti. Dedicare il proprio studio a quello che si ama, con la stessa libertà con cui Jones suona, è un invito ad una scelta corag- giosa, che spesso si paga, ma che, dice De André, vale la pena di fare («finii con un flauto spezzato / e un ridere rauco / e ricordi tanti / e nemmeno un rimpianto»)6. Ancora, fra le testimonianze di coloro che sono ‘disponibili’ ad aprir- si, una delle più belle è offerta dalle parole conclusive del testamento del ladrone della Buona novella:

Ma adesso che viene la sera, ed il buio mi toglie il dolore dagli occhi e scivola il sole al di là delle dune a violentare altre notti: io, nel vedere quest’uomo che muore, madre, io provo dolore. Nella pietà che non cede al rancore, madre, ho imparato l’amore7.

6. Fabrizio De André, Il suonatore Jones, in Non al denaro non all'amore né al cielo. 7. Fabrizio De André, Il testamento di Tito, in La buona novella. 154 Simonetta Salvestroni

Nel momento in cui è crocifisso, il ladrone apre il suo animo tanto da poter dimenticare se stesso e provare dolore, pietà per un altro. Dopo aver demistificato ognuno dei comandamenti dal punto di vista di chi dalla vita non ha avuto niente, Tito impara l’essenziale, tanto difficile da apprende- re nei ritmi frettolosi e monotoni di un’esistenza quotidiana normale. Quello che scopre e che lo illumina dentro con una scintilla di divino era stato espresso, sia pure in un modo diverso, nell’ultimo recitativo di Tutti morimmo a stento, un recitativo che è, secondo me, importantissimo per il tempo che stiamo oggi vivendo:

Uomini, poiché all’ultimo minuto non vi assalga il rimorso ormai tardivo per non aver pietà già mai avuto e non diventi rantolo il respiro: sappiate che la morte vi sorveglia8.

Quando ascolto queste parole mi viene il desiderio – lo riconosco, molto ingenuo – che possano arrivare ai potenti di questo mondo: ai capi di stato, ai tanti dirigenti delle multinazionali, che affamano la stragrande maggioranza della popolazione mondiale e che con noi e con le loro vit- time hanno almeno una cosa in comune: anche loro sono mortali. Viviamo in un mondo che dà pochissimo spazio e tempo alla pietà e all’amore disinteressato per il prossimo. Forse ne ha paura, ha paura del contatto con qualcosa di sgradevole, che disturba la coscienza. Mi hanno colpito le parole di una studentessa durante una lezione: «Il nostro mondo è profondamente ingiusto, ma non so cosa potrei fare per migliorarlo e allora preferisco non pensarci». Non credo che sia una buona soluzione. La stragrande maggioranza della popolazione mondiale fa parte del mondo di ultimi, di emarginati di cui parlano le canzoni di De André, di

8. Fabrizio De André, Recitativo (due invocazioni e un atto d'accusa), in Tutti morimmo a stento. 155 De André, gli autori russi e il mondo contemporaneo uomini, donne, bambini, privi dei più elementari diritti, ridotti alla fame e al silenzio, sfruttati, uccisi in guerre non necessarie per soddisfare gli inte- ressi economici dei potenti del primo mondo, che perseguono i loro scopi con indifferenza e insieme con l’apparente obbiettività e il falso buon senso che ascoltiamo quotidianamente nei telegiornali. In una realtà in cui i media attirano continuamente l’attenzione su pre- sunti valori – il successo, il denaro, il piacere – proposti come scopi di vita da raggiungere e consumare il più in fretta possibile, abbiamo un estremo bisogno di persone che siano capaci di andare controcorrente, che diano voce a coloro che non hanno voce, che ci aiutino a capire che proprio loro, i poveri del mondo, quelli che stanno all’ultimo gradino, perché la storia o le vicende personali li hanno condotti lì, sono la nostra coscien- za, hanno tanto da dirci e da darci se siamo capaci di ascoltarli, se c’è chi, come Dostoevskij, come Fabrizio De André, si fa tramite fra noi e loro.

Maria Giovanna Turudda Una città da cantare: Genova e Fabrizio De André

Ma quella faccia un po’ così, / quell’espressione un po’ così, che abbiamo noi / prima di andare a Genova / e ogni volta ci chiediamo / se quel posto dove andiamo / non c’inghiotta e non torniamo più… Ma quella faccia un po’ così / quell’espressione un po’ così / che abbiamo noi / mentre guardiamo Genova come ogni volta l’annusiamo, circospetti ci muoviamo / e un po’randagi ci sentiamo noi, / Macaia, scimmia di luce e di follia, / foschia, pesci, Africa, / sonno, nausea, fantasia1.

Chi guarda Genova sappia che Genova / Si vede solo dal mare / Quindi non stia lì ad aspettare di vedere qualcosa di meglio, qualcosa di più / Di quei gerani che la gioventù / Fa ancora crescere nelle strade / Un posto di guerra senza nes- sun soldato / Senza che il conflitto sia mai stato dichiarato / Un luogo di avvocati con i loro mobili da collezione / E di commesse che gli avvocati la sera accompagnano alla sta- zione2.

I versi di Bruno Lauzi, di Paolo Conte, di Ivano Fossati, voci della più autorevole ‘scuola’ italiana di cantautori (Tenco, Bindi, Fossati, Gianco, Paoli, Baccini, Manfredi, Lauzi, De André, tutta «gente di riviera / dove passano i cuori d’avventura»)3 che di Genova hanno ripetutamente canta- to, oltre a sintetizzare un atteggiamento mentale comune ed una comune sensibilità verso la città («Genova è un’idea»), ne tracciano il profilo psico-

1. Bruno Lauzi, Paolo Conte, Genova per noi, 1975. D’ora in avanti, i corsivi nei testi citati sono miei. 2. Ivano Fossati, Chi guarda Genova in La pianta del Tè, 1988. 3. Cfr. Ivano Fossati, Questi posti davanti al mare (cantata insieme a Francesco De Gregori e Fabrizio De André), in La pianta del Tè, 1988: non a caso la copertina dell’album e le pagine dei testi hanno come sfondo un mappamondo marinaro di approdi, di porti, di percorsi, di città. 158 Maria Giovanna Turudda logico (l’insofferenza per le costrizioni, il randagismo fisico e mentale)4. La tensione emotiva di Fabrizio De André nei confronti di Genova, nel tempo, e di volta in volta, amata e detestata, ripudiata e recuperata nello spazio armonico della canzone, è per un verso arma per vivisezionare con minuziosa intransigente severità la realtà dell’ipocrisia borghese e dell’in- civiltà, per l’altro è strumento poetico che risarcisce la moltitudine degli invisibili, dei socialmente inutili, quella folla di puttane, di poveri cristi, di anarchici ingenui e di ribelli maldestri, di vagabondi e di ladri, d’illusi e di assassini, di irregolari e di eccentrici relegati nei carruggi di una città ottu- sa, grottescamente orgogliosa del suo razzistico perbenismo e della pro- pria efficienza, infastidita dei fannulloni per necessità o per scelta5, degli inadempienti, dei randagi di testa e di cuore. E Fabrizio era, già da bambi- no, intimamente e profondamente uno di questi, uno che a priori rifiuta- va schemi, regole, etichette, stereotipi, uno che detestava gli spazi chiusi, asfittici, preferendo sperimentare la strada, le sue potenzialità di libertà, di sorpresa, d’invenzione, d’improvvisazione, d’emozioni sempre diverse. Caratterialmente ribelle, amante dell’avventura e della vita sfrenatamente libera, un po’ rabelaisiana (indecente, sconveniente, avrebbe detto il geno- vese perbenista), il piccolo Bicio (questo il suo nomignolo) sperimenta in campagna, durante il felice soggiorno infantile a Revignano d’Asti, «tutti gli aspetti della vita contadina, anche quelli più divertenti e sgangherati come gli ubriachi che finivano nei fossati e i personaggi ‘embriachi’ anche da sobri»6. Già a quell’epoca cominciava ad «affiorare […] un carattere ribelle, che non sopportava imposizioni»7 e che trova modo d’esprimersi, al rientro a Genova, nel settembre del 1945, per le strade della città nelle quali egli si avventura scorazzando con i coetanei.

4. Cfr. Coda di lupo, 1978, Canti randagi, 1995, omaggio al cantautore delle sue canzoni più note ese- guite in dialetto da differenti gruppi etnici. 5. Cfr. Il fannullone, 1968. 6. Luigi Viva, Vita di Fabrizio De André. Non per un dio ma nemmeno per gioco, Feltrinelli, Milano 2000, p. 16. 7. Ibidem; cfr. anche la frase di Samuel Bellamy posta in calce a Le nuvole: «Io sono un principe libero e ho altrettanta autorità di fare guerra al mondo intero quanto colui che ha cento navi in mare». 159 Una città da cantare: Genova e Fabrizio De André

Ma il ritorno a Genova significa anche l’impatto con le istituzioni, con la scuola (ottobre 1946), impatto difficile a causa della «innata avversione per gli spazi ristretti» e per la disciplina8, avversione che resterà inalterata anche nella maturità quando Fabrizio rifiuterà di darsi etichette e di lasciarsi classificare (ingabbiare!) entro ideologie, scuole, movimenti, gene- ri o istituzioni, e che, al contrario (ma vivere ‘contro’ era nella sua natura), è radice e fondamento della sua istintiva aperta simpatia per gli irregolari, eterni perdenti. Non è, dunque, immotivato né frutto di un atteggiamento precostitui- to, nasce, anzi, da una profonda corrispondenza caratteriale (era trasgres- sivo, anticonformista, schivo e scontroso come essi) e ideale (successiva- mente ideologica in senso lato) il suo interesse per Angiolieri, Villon, Brassens9 così come non sono gratuite, né frutto di una simpatia pelosa, la sua umana solidarietà per coloro che la società, inorridita dalla loro eccentrica diversità, espelle ai margini di se stessa, e la sua fratellanza idea- le con quella disillusa umanità costretta ad una quotidiana lotta contro un destino infame, lotta che per Faber/Fabrizio è «storia di agognati ma […] irraggiungibili traguardi, di fronte alla cui evidenza diventa inutile la spe- ranza illusoria e la ribellione pigmeiforme di chi vorrebbe opporre la pro- pria fragile volontà alla violenza gigantesca [di un] destino caparbio nel vanificare il sogno di un impossibile paradiso»10. Esistenze chiuse alla spe- ranza, i senza Dio che popolano i bassifondi della città, i quartieri dell’an- giporto, le calate (ma poi, anche, le terre d’America e quelle della Sardegna) sono le creature predilette del canto di De André da sempre irresistibilmente attratto dai vinti, espressione della sofferenza che la vita

8. Ivi, p. 22. 9. Cfr. George Brassens, La mauvaise réputation, in Nanni Svampa, Mario Mascioli, Brassens, Muzzio, Padova 1991, p. 293 «Mi piace il pensiero solitario, detesto il gregge… rifiuto il gruppo o la setta irreggimentata, e nessuno riuscirà a convincermi che si pensa meglio quando mille persone urla- no la stessa cosa… non voglio abdicare davanti al pensiero di un gruppo e neppure di un mae- stro»; «Eppure non danneggio nessuno / seguendo la mia strada di uomo tranquillo. / Ma alle persone per bene non piace che / si segua una strada diversa dalla loro», Ivi, p. 328. 10. Cesare G. Romana, Presentazione a Fabrizio De André, Volume 1, p. 34. 160 Maria Giovanna Turudda impone, così come sarà paradossalmente attratto dai suoi carcerieri duran- te il sequestro: «mi attirano i perdenti, mi sentivo un soggetto osservato- re, più che una vittima. Pensavo che i veri sequestrati fossero loro che vivevano le stesse nostre scomodità per un compenso davvero misero»11, profondamente convinto che per quelle esistenze abituate alla tribolazio- ne non siano possibili vie di fuga, percorsi di salvezza: nascere in questi luoghi non dà scampo né offre alternative, così che non vi possono esse- re dubbi per la bambina di Via del Campo12 circa i comportamenti da adot- tare, i maestri da emulare: radicata in un universo socialmente inconsisten- te e degradato, ella non potrà che ‘sbocciare’ in puttana, non potrà che diventare una graziosa dagli occhi color di foglia e dalle labbra color rugiada, non potrà che vendere a tutti la stessa rosa:

Via del Campo c’è una graziosa / gli occhi grandi color di foglia / tutta notte sta sulla soglia/ vende a tutti la stessa rosa. Via del Campo c’è una bambina / con le labbra color rugiada / gli occhi grigi come la strada / nascono fiori dove cammina. Via del Campo c’è una puttana / gli occhi grandi color di foglia / se di amarla ti viene la voglia / basta prenderla per la mano.

Il fango, l’ombra ed il letame dei carruggi, fango e letame della sua grama esistenza, non negano, però, umanità a questa Venere dell’angiporto, cui Fabrizio riconosce una segreta purezza («dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior»), gemella, in questo, d’altre prostitute letterarie fondamentalmente buone, genuine, generose: l’Adriana moraviana, la Nana zoliana (nella breve parentesi del soggiorno alla ‘Mignotte’), la Nancy di Dickens, la Maggie di Crane alla quale maggiormente è assimilabile anche dal punto di vista iconico: nel quartiere-ghetto del Bowery – racconta lo scrittore americano – «Maggie […] venne su come un fiore nel fango»13.

11. Cfr. Roberto Cotroneo, Una smisurata preghiera, in Fabrizio De André. Come un’anomalia, Einaudi, Torino 1999, p. XIII. 12. 1967, in Fabrizio De André, Volume I. 13. Stephen Crane, Maggie, una ragazza di strada, Verona, Demetra 1993, p. 29. 161 Una città da cantare: Genova e Fabrizio De André

Le serpentine strade di Genova, dunque, sono lo scenario, il campo d’azione, il punto d’osservazione di Bicio, prima, e di Fabrizio sulla soglia dell’adolescenza: «cominciò a conoscere la realtà della strada con le prime vere marachelle e le prime scazzottate; in entrambe le esperienze Fabrizio trovò lo stesso irresistibile sapore di libertà»14 condividendolo con la banda di scalmanati di via Piave che aveva trasformato via Cesare Battisti, via Cocito, il convento diroccato, l’oratorio di San Pietro alla Foce in tea- tro di epiche battaglie, di sassaiole, di scherzi feroci ai danni delle bande rivali di via Trieste e di via Trento. Le imprese di strada, spesso al limite della legalità, cementano, però, amicizie (Paolo Villaggio, Mauro Tiraoro, Giorgio Scorpiade, ‘Cicci’ Durante, Rino Oxilia), forgiano il carattere, creano un clima di complice solidarietà fra i ragazzi e gli adulti del quar- tiere; soprattutto, consolidano in De André l’intolleranza ai vincoli, l’em- patia con gli umili e i semplici, la pietas (quasi una religione) per esistenze eccentriche, fuori-schema, guidate, però, da un’interna coerenza e soste- nute da una rassegnata pazienza. Del resto, per lui «terribile e scatenato»15 quale era, la trasgressione, quotidianamente osservata e personalmente praticata, costituisce il modo di aprirsi al mondo, di comunicare e sarà materia, inesauribile, per raccontarsi e raccontare l’universo, che diventerà centrale nella sua creatività, verso il quale caratterialmente propendeva. Così, la strada, la vita che vi si rovescia, Genova e la sua umanità disubbi- diente, il suo popolo di intemperanti, ma anche, a contrasto, la folla di pavidi moderati, la sazia maggioranza di «Uomini senza fallo, semidei […] Banchieri, pizzicagnoli, notai, coi ventri obesi e le mani sudate, coi cuori a forma di salvadanai»16, sono il motore tematico, l’ideale volano capace, nell’arco di circa trent’anni d’attività artistica, di sublimarsi, purificatosi delle scorie della contingenza (cronachistica o storica), virando o sfuman- do talvolta nell’astrazione simbolica, paradossalmente proprio quando,

14. Luigi Viva, op. cit., p. 24. 15. Cfr. Giuseppe Carcassi in Luigi Viva, op. cit. 16. Cfr. Recitativo, in Tutti morimmo a stento, 1969. 162 Maria Giovanna Turudda dopo un lungo esilio fisico e mentale, Fabrizio si sta riappropriando di Genova al termine di un percorso che sembra averlo strappato alla con- cretezza e alla fisicità delle prime immagini17 dirottandolo su strade e sce- nari differenti, impalpabili o trasfigurati. Con Creuza de mä (1984) si apre una felice parentesi musicale in cui l’angiporto ligure, affrancatosi dal ruolo di emblema universale della marginalizzazione e dell’emarginazione, è emozione pura, pura fascinazione musicale. A distanza di vent’anni circa, infatti, Fabrizio ritornerà nel grembo della sua città di cui recupererà, ma in una dimensione insieme più intima e lirica (Genova come paesag- gio dell’anima) e più dilatata (Genova fulcro e cuore di una patria comu- ne, il Mediterraneo), odori, riti, sapori, ritmi e immagini, descrittivamente resi con lo strumento linguistico più congeniale, il dialetto, adottato come espressione sia della sua ormai antica attrazione per i perdenti (e il dialet- to, come più volte egli ebbe ad affermare, facendo propria la tesi pasoli- niana, è soccombente in tempi di massificazione linguistica) sia in virtù del suo potere evocatore quando esso si sposi con l’alchimia di suoni sapien- temente ibridati, presi in prestito dalle culture che del Mediterraneo fece- ro il loro crocevia, capace di provocare, sull’onda del riconoscimento di atmosfere e di sonorità comuni, di analogie, di suggestioni, di sotterranee corrispondenze che affiorano durante il magico momento dell’esecuzione musicale, oltre che una consonanza emotiva, l’identificazione di una stes- sa matrice culturale. La prima Genova non è quella resa superba dalle glorie marinare, dal- l’epopea dei Doria o da quella di Cristoforo Colombo raccontata in scor- ci preziosi, in prosa e in versi, nei Canti Orfici (1914) di Dino Campana18, nei quali, però, è possibile percepire, attraverso la filigrana visionaria del poeta emiliano, anche la seconda Genova (Creuza de mä), la città deandrea- na affacciata sull’universo mediterraneo e sull’avventura:

17. La Città vecchia; Via del Campo. 18. Cfr. Poesia italiana. Il Novecento, (a c. di Piero Gelli e Gina Lagorio), Garzanti, Milano 2001. 163 Una città da cantare: Genova e Fabrizio De André

Dal ponte sopra la città odo le ritmiche cadenze mediterranee […] Un chiarore di fondo […] sale tortuoso dal mare dove vicoli di muffa calano in tranelli d’ombra […] È la notte mediterranea19.

Così ti ricordo ancora e ti rivedo imperiale Su per l’erta tumultuante Verso la porta disserrata Contro l’azzurro serale, Fantastica di trofei Mitici tra torri nude al sereno, A te aggrappata d’intorno La febbre della vita Pristina: e per i vichi lubrici di fanali il canto Instornellato de le prostitute E dal fondo il vento del mar senza posa.

[…] O Siciliana proterva opulente matrona A le finestre ventose del vico marinaro Nel seno della città percossa di suoni di navi di carri Classica mediterranea femina di porti […]

[…] canti Udivo […] ne le vene de la città mediterranea […] Mentre tu siciliana, […] ai capezzoli L’ombra rinchiusa tu eri La Piovra de le notti mediterranee 20.

In realtà, quella narrata da De André in Via del Campo (1967), La città vecchia (1968), Bocca di rosa (1968), A dumènega (1983),  pittima (1983), Creuza de mä (1983) ma anche in  çímma (1990), Le acciughe fanno il pallone (1996),  cúmba (1996) è una Genova architettonicamente minore, stori- camente oscura, socialmente anonima, è la città vecchia21 ancora vergine

19. Ivi, p. 105. 20. Ivi, pp. 106, 109. 21. Quella, per intenderci, della fine degli «anni ’40, quando c’erano ancora più alberi che case, più animali che uomini». Cfr. Cesare Pastarini, Intervista a Fabrizio De André, in «Gazzetta di Parma», 4 marzo 1997. 164 Maria Giovanna Turudda dell’imborghesimento e del mito dell’efficienza; è la Genova imbevuta degli odori acuti e persistenti del sale, del pesce, della cucina, tanfo e aromi che marcano un’identità indissolubilmente legata all’esperienza infantile e adolescenziale, dimensione mitica nella vita di De André («quand’ero pic- colo mi innamoravo di tutto»)22, crogiolo di un incanto, non toccato dal tempo, cui attingere per arginare e combattere la disillusione dell’età adul- ta («a un dio a lieto fine non credere mai»)23. Il refrescume, il puzzo delle fogne scoperte che finiscono in mare, quelle del pesce marcio, ma anche il profumo e il sapore della sua cucina… l’aria spessa e carica di sale e gon- fia di odori si sposa col tanfo della spazzatura accumulata lungo i marcia- piedi, all’odor di vino e di fumo che esce dalle bettole24.

Se t’inoltrerai lungo le calate dei vecchi moli in quell’aria spessa carica di sale gonfia di odori (La città vecchia).

È, questa, la città dei rioni dove persino «il buon Dio non dà i suoi raggi» (La città vecchia), la città dalle straducce strette e tortuose, buie e maleodoranti (Via del Campo), a ridosso del porto, che accolgono l’uma- nità esecrata dai catoni e dalle pinzochere dei quartieri alti e che, parados- salmente, ospitano anche una chiesa, severa sede della Protezione della giovane, «sicuramente messa lì da qualche buon’anima in vena d’ironia»25. Quest’intrico di vicoli è, però, nido caldo per le filles de joie alla Brassens (Brassens, La complainte des filles de joie) e per viados dai nomi suggestivi (Josèphine), per ruffiani e per bambine dai sogni interrotti 26; è, anche, il terri- torio dell’avventura proibita per borghesi sudicioni e gesuiti pederasti; è,

22. Cfr. Coda di lupo. 23. Ibidem. 24. Cfr. Fabrizio De André, Come un’anomalia, Einaudi, Torino 1999, p. 34-35. 25. Ivi, p. 35. 26. Volta la carta, 1978. 165 Una città da cantare: Genova e Fabrizio De André infine, il campo d’azione di beghine inacidite o di terribili e scatenati ado- lescenti in vena di esperienze emozionanti e singolari:

Passavo spesso da Via del Campo, la strada dei travestiti. Una volta salii in camera con un certo Giuseppe che si faceva chiamare Josèphine e mi apparve come una bellissima ragazza bionda. Ma una volta arrivati al dun- que, scoprii facilmente che era un uomo, e che non era andato a Casablanca. Senonché era talmente bella e aveva un seno così strepitoso che restai ugualmente27.

Questa Josèphine ha il suo gemello letterario nell’Ettore-Giosefine di un racconto di Tabucchi, Lettera da Casablanca 28, fatti salvi il piglio giova- nilmente scapestrato del cantautore e il tono dolente dello scrittore pisa- no, accento ripreso da De André quando Giuseppe-Josèphine vestirà (Prinçesa, 1996) i panni tormentati di Fernandino/Fernanda, «bambola di seta […] che squilla di luce», amaro simbolo di una sofferta diversità:

Sono la pecora sono la vacca Che agli animali si vuol giocare Sono la femmina camicia aperta Piccole tette da succhiare. […] Nel dormiveglia della corriera Lascio l’infanzia contadina Corro all’incanto dei desideri […] Nella cucina della pensione Mescolo i sogni con gli ormoni Ad albeggiare sarà magia Saranno seni miracolosi Perché Fernanda è proprio una figlia Come una figlia vuol far l’amore Ma Fernandino resiste e vomita

27. Fabrizio De André, op. cit., p. 46. 28. Il gioco del rovescio, Feltrinelli, Milano 1986, pp. 25-40. 166 Maria Giovanna Turudda

E si contorce dal dolore E allora il bisturi per seni e fianchi Una vertigine di anestesia Finché il mio corpo mi rassomigli Sui lungomare di Bahia.

Se Via del Campo accoglie un universo sregolato e senza consolazione, la Città vecchia, orfana di sole e di vita ‘normale’, guarda impassibile un’al- tra umanità, altrettanto sconsolata, che al casino annega nel rosso scuro di un vino rude un’esistenza appiattita, delusa e rassegnata, cercandovi gocce di splendore in attesa di dimettersi da una vita che si è solo presa gioco di lei:

Una gamba qua, una gamba là Gonfi di vino Quattro pensionati mezzo avvelenati Al tavolino. Li troverai là col tempo che fa Estate e inverno A stratracannare, a stramaledir Le donne, il tempo ed il governo. Loro cercan là la felicità Dentro a un bicchiere Per dimenticare d’essere stati presi Per il sedere. Ci sarà allegria Anche in agonia Col vino forte Porteran sul viso l’ombra d’un sorriso Fra le braccia della morte.

Là, ancora, nella città vecchia, anziani libidinosi, come il vecchio digni- toso professore – quello che nei paraggi, questi sì, beneficati dalla luce del buon Dio, sarebbe definito un buon borghese – cercano sfogo e sollievo a frustrate fantasie sessuali negli angoli bui del quartiere del porto, chieden- 167 Una città da cantare: Genova e Fabrizio De André do aiuto a quella che alla luce del sole sprezzantemente chiamano pubblica moglie. Con ironica compassione De André ne abbozza il ritratto:

Vecchio professore cosa vai cercando In quel portone Forse quella che sola ti può dare Una lezione Quella che di giorno chiami con disprezzo Pubblica moglie, quella che di notte stabilisce il prezzo alle tue voglie.

Il vecchio professore, colto in flagranza di desiderio tra le stradine del porto, traduzione poetica di esperienze giovanili del cantautore che, bam- bino, verificò su se stesso il malsano interesse di persone istituzionalmen- te autorevoli e sessualmente irreprensibili, diventa emblema di una certa Genova29 che in quella corte dei miracoli che sono i quartieri del porto si misura con il popolo degli anticonformisti, trovandosi costretta a ridimen- sionarsi, a levarsi la maschera, a mettere a nudo le proprie debolezze: in quell’atmosfera deragliata essa è finalmente titubante, in bilico fra la con- danna moralistica («se tu penserai e giudicherai / da buon borghese / li con- dannerai a cinquemila anni più le spese») e l’assoluzione di un universo «vittima di questo mondo» di stereotipi e di violenza. Così, da Via del campo a La città vecchia, con pensosa ed amara ironia, seguendo il filo dell’analogia tematica e dell’unità d’ispirazione, De André disegna il profilo universale dell’uomo «scrutato e amato nei capitoli più amari, nei risvolti fallimentari della sua storia» prendendo spunto, parten- do proprio dalla realtà a lui più vicina, dai quartieri dell’angiporto; nel con-

29. «Città bellissima ma anche insopportabile, dove contano solo gli status symbol… Per noi era molto difficile vivere in quell’ambiente, in una città che ti toglie il gusto di vivere [...] Vivendo a Genova, o hai la grande rivolta o rimani incatenato [ingoiato, secondo Paolo Conte, cfr. Genova per noi] a una vita di un grigiore spaventoso.» (Tina Lagostena Bassi, in Luigi Viva, op.cit., p. 78); uguali riserve mani- festa Gino Paoli: «una città bellissima e avara, che ti comprime, non ti dà nulla, sicché ti mette dentro una voglia matta di esplodere e di andare altrove per cercare i riconoscimenti che lei ti nega» (Ibidem). 168 Maria Giovanna Turudda tempo, con l’aiuto di una musica di straordinaria presa emotiva, comincia a raccontare il male di vivere e la difficoltà del mestiere di vivere, superla- tivo protagonista dell’album Anime salve (1996). In questo paesaggio degradato i solitari antieroi di Fabrizio consuma- no un’attesa, coltivano qualche illusione, alimentano sogni impossibili, attesa, illusione e sogno che hanno in se stessi le ragioni del proprio nulla. Così è per la graziosa di Via del Campo, per la bambina sotto i cui piedi nascono fiori; così è per la puttana che offre al vecchio insegnante l’illu- sione della giovinezza e la probabilità di un quarto d’ora da eroe; così è per il povero sognatore che in quel letame del porto spera di trovare un improbabile amore; così è, sembra dire implicitamente Fabrizio, per tutti, spinti, in questo mondo (Genova assurge a paradigma dell’esistenza umana), a dispetto di esso, a credere in qualcosa, a sperare. Nel tempo, le immagini di una Genova epica pur nella sua avvilita realtà, colta per episodi o figure filtrati (accarezzati, talvolta) dall’architet- tura di suoni di cui De André li avvolge, depurati della contingenza geo- grafica e storica pur loro radice e sorgente, finiscono per imporsi alla memoria di chi ascolta quali emblemi di una condizione universale di sof- ferenza e di sopraffazione, cui l’artista, animato da un’irresistibile indigna- zione, dà voce. Ed è quella di tutte le periferie – anomalia del mondo! – abi- tate dagli emarginati e dai disobbedienti (prostitute, zingari, omosessuali, transessuali, pastori, indiani, neri, clandestini), dei dannati della terra e dei maledetti, di chi, insomma,

Viaggia in direzione ostinata e contraria Col suo marchio speciale di speciale disperazione E tra il vomito dei respinti muove gli ultimi passi Per consegnare alla morte una goccia di splendore Di umanità di verità (Smisurata preghiera, 1996).

È, però, più in generale, quella dell’uomo moderno, anche di quello apparentemente più appagato, costretto in ruoli che ne hanno deviato o 169 Una città da cantare: Genova e Fabrizio De André ucciso la bontà originaria, anche lui tutto sommato vittima delle «leggi del branco». A chi gli chiese, alla vigilia del tour Anime salve (aprile-maggio 1997) quale fosse per lui la voce del dolore, De André inaspettatamente rispose: «È quella di chi non riesce a scrollarsi di dosso regole e compor- tamenti uniformi, omologanti, quella di chi non ha il coraggio di rassomi- gliare a se stesso, è la voce delle maggioranze normalizzate e vigliacche»30. Le immagini di Genova fatte più ariose da una saudade sottile che sta spingendo di nuovo De André verso la sua città recuperata31 grazie alla distanza fisica e temporale, ritornano in Le Nuvole (1990), album nel quale colori e sapori della tradizione cittadina sono evocati con l’aiuto del dia- letto genovese (Mégu Mégun, Â çímma, in collaborazione con Fossati). La presenza nell’album di due brani in dialetto napoletano (Don Raffae’, La nova gelosia) e di uno in gallurese (Monti di Mola) conferma l’interesse di De André per le realtà locali32 cui riconosce, come agli individui eslege33, il diritto alla specificità, alla diversità:

Il concetto di nazione è semplice: un popolo che parla la stessa lingua, su uno stesso territorio… Purtroppo sopra di questo esiste una realtà molto più astratta concettualmente, ma molto più concreta e penalizzante…e questa realtà si chiama Stato… attraverso il concetto di Stato gli apparte- nenti a una nazione vengono divisi in classi sociali, organizzati non solo per combattere contro gli altri Stati, ma anche per combattere tra di loro34.

Nella logica accentratrice dell’‘Impero’ (lo Stato), il dialetto delle mino-

30. Gino Castaldo, Anime da salvare, www.bielle.org./fabriziodeandre. 31. «Io mi considero a tutti gli effetti ancora genovese, tanto è vero che ho cominciato a rimetterci piede [confessò in un’intervista rilasciata a «Il Secolo XIX» l’11 dicembre 1997] ho sempre pro- vato una forte nostalgia, ma per vari motivi non riuscivo mai a tornare… sono sempre stato addolorato dalla difficoltà di tornare» Cfr. Renato Tortarolo, De André, Genova per lui. 32. Cfr. la collaborazione artistica con il gruppo sardo dei Tazenda (Pitzinnos in sa gherra, 1992), l’al- bum Limba in cui De André esegue Etta Abba e Chelu; l’arrangiamento di Ave Maria, canto della tradizione musicale sarda, in L’indiano (1981). 33. Una storia sbagliata (1980) fu ispirata dalla tragica vicenda di Pier Paolo Pasolini e di Wilma Montesi. 34. Gino Castaldo, op. cit. 170 Maria Giovanna Turudda ranze sarebbe sconfitto (come lo sono gli individui dalla maggioranza, le ‘nazioni’ dallo Stato) se l’uso non ne garantisse la sopravvivenza, trasfor- mandolo, oltre che in quotidiana testimonianza di un’inalterata congenita autenticità, in strumento di contrasto e d’orgogliosa rivendicazione e atte- stazione della diversità contro i tentativi incessanti di centralizzazione e di omologazione:

La lingua nazionale è imposta […] dall’alto. I dialetti sono il frutto della tradizione e della invenzione costante dei popoli che li parlano, delle etnie che li hanno creati e continuano a inventarli. I dialetti sono ricchi di figu- re retoriche, di proverbi, di aforismi ingegnosi e anche memorabili. Se la lingua italiana non fosse continuamente nutrita dalla enorme varietà di frasi idiomatiche rubate ai dialetti sarebbe da tempo una lingua adatta a vendere patate o per litigare nei tribunali35.

Il processo di recupero della tradizione, di valorizzazione di un patri- monio memoriale, umano e culturale, è centrale in Creuza de mä, album nel quale le immagini di Genova, sostenute da una colonna sonora sontuosa, creolizzata, colma di echi lontani (vi convergono, evocati dal ritmo mor- bido e chiaroscuro del dialetto, assimilabile in questo al portoghese, riso- nanze mediorientali e brasiliane, il velluto morbido di Moraes e di Gilberto, qualche sonorità sarda; vi si ‘sente’ la suggestione slava di Bregovic; vi si proiettano gli universi di Kusturica) sono di eterea legge- rezza, d’iridescente luminosità, dotate di quell’ariosa spazialità che fa la città ligure gemella delle numerose altre adagiate sulle coste di un mare geograficamente indefinibile, non necessariamente ligure né esclusiva- mente mediterraneo. Il dialetto, coniugandosi, amalgamandosi anzi, con la policromia sonora prodotta dagli strumenti esotici, diventa esso stesso strumento musicale che, giocando in chiaroscuro, enfatizza l’effetto di suggestione, la malia irresistibile di un canto nel quale allegria e spensiera- tezza si venano di un’ancestrale nostalgia.

35. Ibidem. 171 Una città da cantare: Genova e Fabrizio De André

Del resto lo stesso De André, in questi anni alla ricerca, all’interno del suo macrotesto musicale, di un percorso innovatore, di nuovi moduli espressivi, ammette che la ricchezza della tradizione musicale genovese – che attinge (come altre città di mare, Napoli, per esempio) all’accorato ricordo, allo struggimento, allo sconforto del suo popolo di «emigranti che rimpiangono la loro città e sognano di ritornarvi» – è un’intrigante tela su cui intessere un ricamo di note cui la saudade regala leggerezza, colore ed una seducente vaghezza36. Nato, in piena dance music, dalla ribellione di De André ai monopoli e alle mode musicali, agli stereotipi, alle etichette, alle falsificazioni del mercato discografico, l’album segna una svolta nella produzione artistica del cantautore e l’inizio della collaborazione con Mauro Pagani che conferma la matrice ribelle, anticonvenzionale dell’al- bum:

Ho voluto fare questo disco per molti motivi. Fondamentalmente, ne avevo fin sopra i capelli di sentir parlare di idioma mediterraneo… musi- ca mediterranea. […] E poi una buona volta mi sono scrollato di dosso la musica americana… sono sempre le stesse cose, chitarre elettrificate, sin- tetizzatori, tecnologie avanzate37.

Ci si sentiva un po’ tutti soli… senza nessuna difesa contro l’industria rampante. Ci chiarimmo subito sul punto di partenza di questa ipotesi mediterranea… Entrambi volevamo dare una valenza di opposizione al segno predominante americano38.

Il prodotto della collaborazione e dell’indignazione è un frutto straor- dinariamente saporoso per qualità artistica e per inventiva musicale, un fragrante artigianale cocktail di vibrazioni esotiche, un odoroso sapiente distillato (miracolo che successivamente si rinnoverà con Anime salve) di suggestioni sonore ricavate dall’accostamento di strumenti etnici e medie- vali (saz, bouzouki) a quelli classici e moderni:

36. Cesare G. Romana, Amico fragile, Sperling e Kupfer, Milano 1991, p. 9. 37. «Il Lavoro», 2 marzo 1984. 38. Mauro Pagani in Luigi Viva, op. cit., p. 189. 172 Maria Giovanna Turudda

Quando ascoltai per la prima volta Creuza de mä ne rimasi enormemente colpito perché vi trovai tutto quello che io non ero riuscito a raccontare con la mia poesia. È un disco che affascina per la sua genuinità e per la autentica e sublime genovesità che lo pervade39.

Analoga ammirazione manifesta Michele Serra ne «la Repubblica» del 12 gennaio 1999, ripercorrendo, all’indomani della morte del cantautore, i temi e il senso della sua produzione artistica:

Si sentiva profondamente mediterraneo, quasi un arabo di Genova, e nel suo capolavoro (Creuza de mä, in lingua genovese) era riuscito ad approda- re, assieme a Mauro Pagani, a un mondo sonoro gravido di spazio, di len- tezza, di lontananza dalla frenesia malata, ridicola, spietata del nostro tempo40.

Innovativa e ribelle, dunque, Creuza de mä, sia dal punto di vista musi- cale che linguistico: la contaminazione strumentale ancorata ad una griglia musicale a prevalente ispirazione turca41 e a scenari genovesi raccontati nell’antico dialetto del capoluogo ligure generano un prezioso album che colloca nella memoria collettiva l’universo mitico di De André: la mulat- tiera sulla quale la luna s’affaccia nuda, le ragazze di famiglia che odorano di buono, l’aroma inebriante del vino, delle lasagne, del coniglio in agro- dolce, Jamina dalla lingua infuocata e dalle labbra d’uva spina, generosa e sedu- cente come Bocca di rosa, la processione domenicale delle figlie del diavolo, la pittima (esattore dei crediti) dal cuore ipocritamente tenero. Due testi, in particolare – Jamín-a e  duménega – riprendono, ma in una dimensione più solare, liberata del peso della denuncia sociale alla quale De André tornerà con Le nuvole (1990) e con Anime Salve (1996), la tema- tica di Via del Campo e de La città vecchia intrecciata con quella del viaggio42

39. Remo A. Borzini, amico e ispiratore di Fabrizio, autore di Malamore, Osterie genovesi, I tabernacoli del- l'onesto peccato. (Cfr. Luigi Viva, op. cit., p. 193). 40. La ballata di Fabrizio. 41. Luigi Viva, op. cit., p. 190. 42. cfr. Sinàn capudàn Pascià; cfr. anche l’album Il viaggio, 1991. 173 Una città da cantare: Genova e Fabrizio De André

(identificabile, per analogia, con la strada dell’infanzia, terreno della libertà, della scoperta, dell’invenzione) che lenisce, stempera l’inquietudi- ne e la rabbia delle quali sono venati i componimenti giovanili. La canzone che dà il titolo all’album, Creuza de mä, si chiude con un ter- mine dal significato polivalente, mä, summa e chiosa del senso complessi- vo delle sette canzoni e di quello peculiare del testo in questione, se si tiene conto del fatto che mä (mare, da pronunciarsi maa) rinvia, in virtù del- l’assonanza fonetica, a madre. La mulattiera (creuza, qui usato volutamente in senso improprio) s’affaccia sul mare (mä), come Genova, come le sue osterie, i suoi muri ammuffiti, le sue viuzze sinuose, le finestre delle rosee case aperte a lasciarsi penetrare dagli odori pungenti dell’acqua marcia, del sale, delle erbe aromatiche («odore di mare mescolato a maggiorana»)43. Il parallelismo con la Genova di Dino Campana sembra farsi, qui, più stret- to: forse, in questa Genova convertita in cangianti stille musicali, più che nei primi componimenti, la Liguria di De André mostra affinità con quel- la, dall’aria tersa, dal paesaggio di «un’immobilità di gioia inesauribile», dalle «case che veleggiano […] tra lo svariare del verde», dai «vicoli verdi di muffa», evocata nei Canti Orfici44. In questo scenario, e nel contesto dell’album, Jamina, è la femmina di mille porti come la Siciliana del poeta di Marradi o la Susan dei marinai, abbozzata da De André e cantata da ‘Michele’45 compagno di bagordi e di scorribande che spartì con Fabrizio l’interesse per la musica medievale e per il folklore e che arrangiò per il cantautore genovese, in collaborazione con Corrado Castellari, il Testamento di Tito:

Sette mesi d’alto mare Quando sbarchi cerchi lei E ti pare di tornare da Madama Butterfly Susan dei marinai non fa problemi mai

43. Cfr. Â çímma. 44. Dino Campana in Poesia italiana. Il Novecento, cit., p. 105. 45. Per l’anagrafe Michele Malsano, cantante in auge negli anni ’60, arrivato al successo discografico con la canzone Se mi vuoi lasciare. 174 Maria Giovanna Turudda

Un regalino e poi presto è tutto per noi.

C’è tempesta questa notte Mare mosso forza 6 Le lenzuola sono vele Per i sogni che le dai.

Jamina, femmina dalla prorompente sessualità, generosa dispensatrice di una voluttà quasi mortale, «Piovra delle notti mediterranee»46 è, in secon- da istanza, in filigrana, assimilabile al grembo materno (e, questo, al Mediterraneo) al quale si cerca di ritornare e si chiede conforto od oblio. Nei versi finali della canzone, infatti «l’ultimo respiro Jamina / regina madre delle sambe/ me lo tengo per uscir vivo / dal nodo delle tue gambe».

L’atto sessuale evoca il parto, la fatica e il dolore del nascere, l’affanno ed il godimento del vivere sui quali incombe l’ombra della morte (l’ultimo respiro). Ma Jamina, fantasiosa elargitrice di gioia, premio che attende in porto il marinaio (cfr. la prima strofa di Susan), lei stessa marinaia dei letti («dacci piano Jamina / non navigare di sponda / che la voglia che sale e scende / non mi si disfi nell’onda»), come Bocca di rosa, come Susan e le mille altre graziose che affollano le sensuose città rivierasche del bacino mediterraneo o d’altra latitudine, è Genova (ma può, forse, essere anche Napoli o Lisbona o Tangeri o Spalato), scontrosa e seducente, ispida e tenera, amata e odiata, come ogni madre, prima biasimata ora cullata dalla musica policroma di un De André ormai maturo anagraficamente ed arti- sticamente. Creuza de mä, canto d’amore per Genova, è un’ininterrotta intrigante emozione, un variegato corrusco chiarore che con dolcezza penetra in profondità, godimento prezioso come un buon vecchio vino, dal fruttato

46. Dino Campana in Poesia italiana. Il Novecento, cit. 175 Una città da cantare: Genova e Fabrizio De André esotico bouquet, da centellinare mentre le immagini anarchicamente dan- zano nel giardino dell’anima:

Creuza de mä è uno dei dischi che mi hanno fatto più sognare e riflettere sul dono della musica. È la musica ‘barata’ del poeta Drumond de Andrade, la musica ascoltata per caso per strada, che sposa una comples- sità tecnica e una passione compositiva da musicista classico. Semplicità e varietà chiuse nel prodigio di una piccola sinfonia. Ci sono dentro i due mari di Fabrizio, la poesia e la rabbia, la sua Genova e la Sardegna… Credo che Fabrizio fosse, da solo, un’intera isola sospesa tra i due mari della dolcezza e della rabbia. Un porto di navi e lingue diverse, di marinai e di donne misteriose, dove sbarcavano le sonorità di terre lontane e le parole degli chansonniers francesi che tanto amava, un’isola percorsa da bur- rasche irose e da grandi calme. E dall’isola lui sapeva ascoltare il rumore del mare profondo e delle sue creature, dalle più dolci alle più feroci, dalle più umili alle più grandi, vittime e avventurieri, nani e gorilla, prostitute e fate... La musica di Fabrizio per me è questo: ascoltare a occhi chiusi il rumore del mare, le voci, i dialetti del porto, le grida, la grande varietà delle lingue47.

Creuza de mä, questa Genova ombelico del Mediterraneo, inesauribile scrigno di suoni e di emozioni, si apparenta alla Bisanzio gucciniana (1981, in Metropolis: la data qualcosa dice circa un’attrazione, un’inclinazione e un sentire comuni ai due cantautori), anch’essa mitico crogiolo di razze e di culture, di sogni, di fantasticherie, di visioni, onirico archetipo della città ‘impossibile’, (Genova è un’idea, come Venezia per Calvino e per Marco Polo, come Bologna per lo stesso Guccini), città-madre, spazio dell’anima più che luogo fisico per Fabrizio e per Francesco come per Filemazio, «protomedico, matematico… (forse saggio)», portavoce del sogno gucci- niano:

Me ne andavo l’altra sera quasi inconsciamente / giù al porto a Bosphoreion là dove si perde / la terra dentro al mare fino quasi al niente / e poi ritor-

47. Stefano Benni, Il dolce poeta degli ultimi, in «Il Manifesto», 12 gennaio 1999. 176 Maria Giovanna Turudda

na terra, e non è più occidente; / che importa a questo mare essere ‘azzur- ro’ o ‘verde’? Sentivo i canti osceni degli avvinazzati / di gente dallo sguardo pitturato e vuoto / ippodromo, bordello e nordici soldati / romani e greci urlate dove siete andati! / Sentivo bestemmiare in alamanno e in goto. Città assurda, città strana /di questo imperatore sposo di puttana / di plebi smisurate, labirinti ed empietà; / di barbari che forse sanno già la verità / di filosofi e di etére / sospesa fra due mondi e tra due ere. […] Ma Bisanzio è forse solo un simbolo insondabile, / segreto e ambiguo come questa vita / Bisanzio è un mito che non mi è consueto, / Bisanzio è un sogno che si fa incompleto, / Bisanzio forse non è mai esistita; / e ancora ignoro (…) / confondo vita e morte, e non so chi è passata / mi copro col mantello il capo e più non sento / e mi addormento.

Genova luce... foschia... follia... sonno... fantasia... Africa..., Genova per De André, per loro (Conte, Fossati), per noi. Pascal Cordara Fabrizio De André e Georges Brassens

La figura dello chansonnier francese Georges Brassens è presente in modo diretto nell’opera di Fabrizio De André il quale ha tradotto e inter- pretato alcune sue canzoni, come lo ha fatto con Bob Dylan e Leonard Cohen. Tuttavia questa figura ha superato i limiti, in senso stretto, di quel- le canzoni; a varie riprese De André1 ha parlato di Brassens come se fosse stato un mito, forse in parte responsabile, non semplicemente del mestie- re, ma della vita che aveva scelto; ha esaltato la sua opera ma non ha mai voluto incontrarlo per timore di scoprire una scollatura tra l’uomo e l’ar- tista, e rimanere deluso. L’interesse persistente legato all’importanza della figura di Brassens al quale ha fatto riferimento Alfredo Franchini nel suo libro2 sembra avere suscitato qualche imbarazzo, e l’autore non ha potuto fare a meno di immaginare una intervista tra i due chansonnier dal titolo emblematico I padri, rispetto a quella con Bob Dylan intitolata Fratelli.

1. Doriano Fasoli, Fabrizio De André, Passaggi di tempo, Edizioni Associate, Roma 2001; Fabrizio De André, Come un'anomalia, a cura di Roberto Cotroneo, Einaudi, Torino 1999; Cesare G. Romana, Amico fragile, Sperling & Kupfer, Milano 2000. 2. Alfredo Franchini, Uomini e donne di Fabrizio de André, conversazioni ai margini, Fratelli Frilli Editore, Genova 2003. 178 Pascal Cordara

Roberto Cotroneo ha considerato l’influenza di Georges Brassens, per il quale l’adolescente Fabrizio ha provato una vera passione, più immagi- naria che reale3, e l’ha limitata al solo piano musicale, osservando che dopo gli anni 1970-73, Fabrizio De André ha smesso di «giocare con Brassens» per inventare uno stile proprio, più consono alla realtà alla quale apparteneva, rispetto alla Parigi degli esistenzialisti in cui l’intellighenzia e il mondo degli artisti vivevano a contatto, alla Parigi dell’ambiente mitico delle caves di Saint Germain-des-Prés, mentre in Italia, e in provincia, gli intellettuali, gli scrittori e i poeti costituivano un mondo a sé. In questa ottica, le canzoni di Brassens tradotte da De André potrebbero costituire un capitolo a parte dell’opera del cantautore italiano. Il giudizio espresso da Fernanda Pivano4 non si discosta da quello di Roberto Cotroneo per quanto riguarda sia la svolta degli anni ’70-’73, sia l’influenza musicale di Brassens, ricondotta, attraverso le origini napoleta- ne della madre di Brassens, a modelli italiani. Tuttavia, Fernanda Pivano si è avvicinata al punto di vista di De André nel ritenere che egli abbia tro- vato, nelle canzoni di Brassens, una corrispondenza diretta con quanto scopriva su alcuni aspetti della realtà sociale, sulla morale borghese che contestava, ed una visione dell’anarchia in sintonia con le sue idee.

Non è forse un caso se De André, che era a contatto con la cultura francese grazie alle origini paterne e fu uno dei primi a rinnovare la can- zone italiana, abbia considerato Brassens un mito. Brassens lo è diventato rapidamente in Francia; molti hanno interpretato le sue canzoni e Louis- Jean Calvet sostiene che è addirittura esistita una intera generazione di ‘chitarristi-Brassens’5; oggi, fra i cantanti che si cimentano in questa diffi- cile tradizione, si può fare il nome di Philippe Chatel, Yves Duteil, Josiane

3. Fabrizio De André, op. cit., p. VIII. 4. Prefazione di Fernanda Pivano in Cesare G. Romana, op. cit., pp. VII-XV, Sperling & Kupfer, Milano 1991. 5. Louis-Jean Calvet, «Le Français Dans le Monde», n. 168, CLE International, Paris. 179 Fabrizio De André e George Brassens

Balasko, Francis Cabrel, Françoise Hardy6, e si potrebbe citarne tanti altri. Tuttavia se si vuole tentare di delineare alcuni aspetti del rapporto che si è stabilito tra De André e Brassens, può essere utile ricordare il nome di Maxime Le Forestier: dapprima attratto dalla musica e dai ritmi di Brassens, ha, secondo alcuni, successivamente preso le distanze per inven- tare uno stile suo, e viene oggi considerato un ‘discendente’ diretto di Brassens. Inoltre, e nonostante l’evoluzione rapida quanto radicale della canzone, i giovani cantautori che si sono affacciati alla ribalta dei primi anni ’70 hanno scelto per modelli quelli degli anni cinquanta, Jacques Brel, Léo Ferré, e Georges Brassens; il cantore del mondo disgregato delle peri- ferie urbane, Renaud, ha ripreso una struttura ricorrente nelle canzoni di Brassens, una composizione rigorosa che termina con una piroetta a volte scherzosa7.

Le canzoni di Brassens che posseggono qualità tuttora apprezzate, hanno però radici profonde. La canzone d’autore, con figure di spicco come Pierre Jean Béranger che ha messo in scena donne facili, poveracci, preti corrotti, oppure Aristide Bruant, immortalato da Toulouse-Lautrec, capace di tratteggiare in poche parole tipi umani e caratteri, risale alla prima metà dell’Ottocento. A questa si aggiungono la tradizione iniziata da Yvette Guilbert di mettere in musica i testi di poeti come Baudelaire o Verlaine, quella della canzone anarchica, e la vitalità della canzone sociale tra Otto e Novecento. Tra le due guerre, Charles Trenet, considerato un poeta e idolo di Brassens, ha ulteriormente innovato in questo campo introducendo una visione allegra della vita, con un pizzico di surrealismo, giochi di parole, onomatopee e un ritmo, lo swing, rimasto fondamentale nelle canzoni di Brassens. Nel clima effervescente del dopoguerra in cui si perpetuava, con Yves Montand e Juliette Gréco, la tradizione della canzone colta, della fusione

6. Louis-Jean Calvet, «Le Français Dans le Monde», n. 283. 7. Louis-Jean Calvet, «Le Français Dans le Monde», n. 276. 180 Pascal Cordara tra poeta e musicista e dell’opposizione intellettuale, Brassens ha portato alla canzone un suo contributo, una dimensione popolare. Tuttavia, quan- do è giunto al successo, tra gli anni 1953-56, all’epoca in cui lo ha scoper- to Fabrizio De André grazie ai dischi che gli regalava suo padre, le linee fondamentali del suo mondo poetico erano già tracciate. Anarchico e ribelle, non violento, tollerante, Brassens era anche un individualista incal- lito che non credeva nelle rivolte collettive. Le sue canzoni, nelle quali appariva costante il rifiuto di scendere a patti con la società, disturbavano per quello che dicevano, e talvolta anche per il modo in cui lo facevano. Le frecciate erano rivolte ai gendarmi, ai giudici, ai borghesi, al clero, ai campioni dell’ipocrisia e dell’ottusità, denunciavano, con ironia, la stupi- dità delle guerre, lo sciovinismo e i falsi valori. Alla maniera di Rabelais e dello stile di vita che questi preconizzava, Brassens vi criticava le frustra- zioni che rendono cattivi, salutava il gesto di ribellione contro l’ordine costituito, come il minimo gesto di compassione, il più piccolo atto di generosità, e sorrideva alle manifestazioni antisociali dell’amore. Nonostante una chiara diffidenza nei confronti delle religioni, si è attira- to la simpatia del pubblico cattolico con L’Auvergnat, Jeanne o la poesia di Francis Jammes La prière. Scrittore raffinato, Brassens ha usato con grande destrezza stili e regi- stri linguistici: La ronde des jurons non contiene parolacce; il suo realismo talvolta crudo, che ha destato la curiosità di Fabrizio De André, è stato smorzato da ritmi sorprendenti e un gioco costante con le più variegate forme linguistiche, dagli arcaismi alla lallazione8, i cliché, i modi di dire banali della quotidianità ripresi, distorti e ringiovaniti. Ma allo stesso tempo, ha sempre preso le distanze dall’attualità. Conflitti, scioperi, alie- nazione della vita moderna sono rimasti estranei alle sue canzoni che trat- tano piccole avventure individuali elaborate alla maniera delle favole di La Fontaine per proporre una visione generale e critica della vita, come un

8. Alfonse Bonafé, Lucine Rioux (a cura di), Georges Brassens Chansons, Seghers, Parigi 2002, p. 29. 181 Fabrizio De André e George Brassens racconto falso serve per enunciare una verità9, solitamente poco gradita. Spesso censurate alla radio, le canzoni di Brassens sono state pubblicate nel 1963 nella collana Seghers, ‘Poètes d’aujourd’hui’, inaugurata da Paul Eluard et Louis Aragon; quattro anni dopo è stato insignito del Prix de Poésie de l’Académie Française e ringraziato, nel 1970, dal Coordinamento delle prostitute. Poesia e semplicità, unite al gusto per la provocazione amena senza essere futile, non potevano lasciare indifferente Fabrizio De André.

De Andrè ha tradotto e interpretato alcune canzoni di Brassens come lo hanno fatto in molti10, come Paco Ibanez che ha ripreso negli anni ’70 alcune canzoni di Brassens tra le quali La mauvaise réputation. Le otto can- zoni scelte da De André sono state registrate, con una scansione irregola- re, in un lasso di tempo abbastanza lungo, circa dieci anni, tra il ’65 e il ’74, spesso assieme ad altre canzoni delle stesso De André, sicché risulta dif- ficile ritenere che si tratti di entusiasmi momentanei, o di un omaggio a Georges Brassens; non costituiscono neppure una antologia nonostante Delitto di paese, Marcia nuziale, La morte, Leggenda di Natale, Il gorilla, Nell’acqua della chiara fontana, Le passanti e Morire per delle idee siano abbastan- za rappresentative dello spirito dell’autore, a volte solo interprete, poiché passano dalla nostalgia degli amori possibili di una poesia di Antoine Pol, Le passanti, all’erotismo leggero di Nell’acqua della chiara fontana che affon- da le radici nella cultura popolare francese, dal rifiuto per i fanatismi di Morire per delle idee ad una grave Marcia nuziale poco in sintonia con le norme sociali, dalla risata sarcastica di Il Gorilla alla compassione di Delitto di paese. Inoltre, l’affermazione dello stesso De André secondo la quale è preferibile, in alcuni casi, tradurre e fare conoscere, non convince del tutto perché quelle otto canzoni sono state inserite in diversi dischi in base a

9. Louis-Jean Calvet, Georges Brassens, Payot, Paris 2001, p. 309. 10. Georges Brassens è stato tradotto in più di venti lingue, cfr. Louis-Jean Calvet, op. cit., pp. 302- 308. 182 Pascal Cordara temi e ad uno stile prescelti11. De André non ha mai rinunciato all’organi- cità dei volumi, né alla logica dei testi né a quella della musica, alla inter- testualità sottolineata da Mario Luzi. L’episodio raccontato da Francesco De Gregori per spiegare come, affascinato dallo stile di De André, avesse deciso di intraprendere la stessa carriera, va in questa direzione. In effetti De Gregori cita, tra le canzoni che lo avevano particolarmente colpito, una traduzione da Brassens12. Fabrizio De André ha certo fatto conoscere uno dei tre chansonnier francesi più apprezzati all’estero, ma lo ha fatto in modo complesso, risol- vendo volta per volta le difficoltà che pongono sia il francese per le diffe- renze di accentuazione delle parole e dei gruppi di parole, e il ritmo che ne consegue, sia la lingua di Brassens, ma soprattutto intrecciando vari ele- menti del tutto personali. Nei primi versi di Delitto di paese:

C’est pas seulement à Paris Non tutti nella capitale que le crime fleurit sbocciano i fiori del male

De André lascia riaffiorare l’opera di Baudelaire invitando a stabilire connessioni con altre canzoni e poeti a lui cari. Più avanti, smussa il rife- rimento realistico al prezzo dei piaceri carnali:

Mais la chair fraîch’, la tendre chair, Aveva il capo tutto bianco ma il cuore non ancor Mon vieux, ça coût’ cher. stanco. Au bout de cinq à six baisers, Gli ritornò a battere in fretta per una giovinetta, Son or fut épuisé. ma la sua voglia troppo viva subito gli esauriva in un sol bacio e una carezza l’ultima giovinezza.

e alla fine estende sia la responsabilità del crimine che il perdono, ai due personaggi:

11. Cesare G. Romana, op. cit., p. 144. 12. Ivi, p. 99. 183 Fabrizio De André e George Brassens

Quand les gendarmes sont arrivés, Quando i gendarmi son entrati En pleurs ils l’ont trouvée. piangenti li han trovati, C’est une larme au fond des yeux fu qualche lacrima sul viso Qui lui valut les cieux. a dargli il paradiso.

Et le matin qu’on la pendit, elle fut en e quando furono impiccati volarono fra i beati. paradis.

La Morte, intitolata Le verger du roi Louis, e ripresa da una poesia di Théodore de Banville, è invece un testo di De André il cui incipit ricorda un verso di Cesare Pavese sulla musica di Brassens. La leggenda di natale (Le père Noël et la petite fille) è stata riscritta da De André che ha conservato l’impostazione complessiva della situazione proposta dal testo originale e alcune immagini, per tracciare una storia più diretta:

Le père Noël et la petite fille Leggenda di Natale

Avec sa hotte sur le dos (bis) Parlavi alla luna, giocavi coi fiori Il s’en venait d’Eldorado (bis) avevi l’étà che non porta dolori Il avait une barbe blanche e il vento era un ago, la rugiada una dea Il avait nom “Papa Gâteau” nel bosco incantato di ogni tua idea.

Il a mis du pain sur ta planche, Il a mis les mains sur tes hanches

Il t’a prom’née dans un landeau (bis) E venne l’inverno che uccide il colore En route pour la vie d’château (bis) e un Babbo Natale che parlava d’amore La belle vi’ dorée sur tranches, e d’oro e d’argento splendevano i doni Il te l’offrit sur un plateau ma gli occhi eran freddi e non erano buoni.

Il a mis du grain dans ta grange Il a mis les mains sur tes hanches.

Toi qui n’avais rien sur le dos (bis) Coprì le tue spalle d’argento e di lana Il t’a couverte de manteaux, (bis) di perle e smeraldi intrecciò una collana Il t’a vêtue comme un dimanche e mentre incantata lo stavi a guardare Tu n’auras pas froid de sitôt Dai piedi ai capelli ti volle baciare. 184 Pascal Cordara

Il a mis l’hermine à ta manche, Il a mis les mains sur tes hanches.

Tous les camées, tous les émaux, (bis) E adesso che gli altri ti chiamano dea Il les fit pendre à tes rameaux, (bis) l’incanto è svanito da ogni tua idea Il fit rouler en avalanches ma ancora alla luna vorresti narrare Perle et rubis dans tes sabots la storia d’un fiore appassito a Natale.

Il a mis de l’or à ta branche, Il a mis les mains sur tes hanches.

Tire la bell’, tir’ le rideau, (bis) Sur tes misères de tantôt. (bis) Et qu’au dehors il pleuve, il vente, Le mauvais temps n’est plus ton lot,

Le joli temps des coudées franches… On a mis les mains sur tes hanches.

Dall’ossimoro finale tra joli et mauvais imperniato su due significati della parola temps, scaturisce il rimpianto della libertà perduta:

Le mauvais temps n’est plus ton lot, Le joli temps des coudées franches,

concetto chiave in Brassens, che viene generalizzato attraverso il pas- saggio da una forma personale:

Il a mis les mains sur tes hanches

a un indefinito:

On a mis les mains sur tes hanches.

Nel testo di De André, l’ultima strofe rimanda alla prima; il racconto si chiude su se stesso e accentua il contrasto tra sogno e realtà, tra infan- 185 Fabrizio De André e George Brassens zia ed età adulta, suscitando una viva emozione che nasce dal rimpianto dell’infanzia perduta, del mondo favoloso e libero della fantasia. Di Il gorilla, è stata modificata la disposizione di alcune parti del testo originale poiché nel racconto, disposto in otto strofe invece che in nove come nell’originale, sono stati tralasciati alcuni elementi descrittivi per dare maggiore risalto alla divertente narrazione. Nel caso di Morire per delle idee, è stata soppressa la quinta strofe, che tratta dell’inutilità delle morti collettive delle rivoluzioni, e del sogno dell’età dell’oro. In questo modo, il testo cambia leggermente assetto per assumere un punto di vista forse maggiormente incentrato su una questione rilevante nell’opera di De André, la questione religiosa. Le traduzioni di De André non seguono i testi in modo pedissequo, in parte per i motivi prima accennati, tuttavia si può ritenere che alcune scel- te lessicali siano rivelatrici sia di una forte adesione al significato, sia di una personalizzazione. Nella canzone sopra citata la parola chiave la camarde, (la morte), ha conservato con la carogna, elementi sonori e una plasticità densi di significato, mentre la variante lessicale di Marcia nuziale in cui «les prétendus coiffeurs», sono diventati «i falsi professori», categoria sociale citata ne La città vecchia, sembra orientare il racconto verso un contesto più vicino all’ottica personale di De André. Questi pochi esempi dimostrano la grande flessibilità delle traduzioni di De André, in base alla quale le otto canzoni possono essere percepite come la punta emergente di un discorso in parte comune con Brassens, ma cer- tamente più ampio, e fluido. Si ha così, a volte, l’impressione di cogliere altrove frammenti ‘brassensiani’. Nella canzone Il giudice del volume Non al denaro non all’amore né al cielo, liberamente tratto dal libertario Edgar Lee Masters, la figura del protagonista così come viene presentato non sembra priva di legami con quella del magistrato di Il gorilla e si potrebbero citare titoli o contenuti come La cattiva strada, Il fannullone, per intravedere legami con La mauvaise réputation, o La mauvaise herbe; si potrebbe accostare l’imma- gine e il ritmo di: «Le jour du 14 juillet» (La mauvaise réputation) con «Alla 186 Pascal Cordara parata militare» (La cattiva strada) fino a ritrovare la dimensione del villag- gio cara al passatista Brassens nelle «comari di un paesino» di Bocca di rosa. Ma all’opposto, e per fare un esempio, Il Testamento è il titolo di una canzo- ne di Brassens, ma anche di una poesia di Villon, così come La ballata degli impiccati rimanda tanto a Villon quanto a Rimbaud. Al di là degli aspetti strettamente legati alle canzoni di Brassens, emerge una creatività in evolu- zione continua che si ispira a fonti molteplici per rimettere in circolazione una materia rielaborata e personalizzata. Le varie soluzioni adottate da De André dimostrano che non esiste solo il testo di una canzone; ritmo e musica ne sono parti integranti. Le ultime due canzoni tradotte, Le passanti e Morire per delle idee, sono sul piano musicale più fedeli allo stile scarno di Brassens, e rivelano la complessità del gioco intertestuale tra la poesia di Antoine Pol e la musica di Brassens, o tra la musica di Brassens e un testo rivisitato da De André. Attraverso l’armonizzazione della versione italiana di Il gorilla riecheggiano altre can- zoni di De André, mentre la versione di Delitto di paese del volume Canzoni fonde in una stupenda armonia lo stile di Leonard Cohen e il ritmo di Brassens. Partendo da queste compenetrazioni, le cesure nette tendono a sfumare; Il bombarolo, canzone tratta dal volume Storia di un impiegato, rac- conta la storia di una ribellione individuale, scritta da De André e Giuseppe Bentivoglio, che ben si accorda con lo spirito di Brassens, ma ambientata nel ’68 al quale lo stesso Brassens è stato estraneo. Il tono, la base musicale e ritmica, che risentono dell’impronta di Brassens, sono stati uniti a motivi che ricordano le colonne sonore composte da Ennio Morricone per una serie di celebri western, rivelando come la sensibilità di De André abbia intrecciato passato e presente tra variazione e conti- nuità. Le ultime due canzoni succitate, sembrano inoltre riprodurre un forte contrasto tematico così come la scelta di Il gorilla e Nell’acqua della chiara fontana dei primi anni, e ricordare la quasi ripetizione tra Nuvole baroc- che e Le nuvole. 187 Fabrizio De André e George Brassens

Alla luce dell’episodio riportato da Fernanda Pivano a proposito delle prime canzoni di De André, lasciate da parte per un certo tempo e suc- cessivamente riprese13, la limitata scelta delle canzoni di Brassens è stata ampliata attraverso una discografia in cui quelle canzoni sono state ripre- se, come parti di un discorso ogni volta ripreso e modificato, fino al 1991. La prima traduzione, Delitto di paese, che pone maggiormente l’accento sulla humanitas è stata riproposta sei volte tra il 1965 e il 1991, come punto cruciale di una lunga riflessione sul bene, il male e il perdono che perva- de l’intera opera di De André. Realizzato nel 1984, Creuza de mä ha segnato una nuova svolta stilisti- ca incentrata sulla ricerca delle affinità del patrimonio musicale dei popo- li del Mediterraneo. Tuttavia, al di là delle differenze rispetto alle prime canzoni, vi è ricomparsa una tipologia umana varie volte incontrata, dal pescatore alla prostituta, indissolubilmente associata alla figura di Brassens:

Quello di un disco cantato nel mio dialetto, anzi, nella mia lingua, fu una voglia per così dire primordiale, nel senso che aveva le sue radici in quel- le mie, e della mia gente. Me la portavo in pancia da anni, forse da quan- do avevo cominciato a scrivere canzoni e a tradurre Brassens, molti dei cui personaggi avrebbero potuto benissimo essere abitanti dei nostri carrug- gi. Ma non avevo mai trovato l’incoscienza, la fede, o la chiarezza di idee sufficiente a tradurre l’intenzione in fatti14.

Ma all’opposto rispetto alle scelte linguistiche di Brassens, l’uso della lingua regionale segna un momento fondamentale in quanto ha consenti- to di restituire la dimensione a tutto tondo di una realtà genovese cono- sciuta da sempre, e costituito un inatteso incrocio tra situazioni e tempi suscettibili di offrire una visione in prospettiva del percorso di De André. Il Maggio francese aveva portato, tra le varie innovazioni, una serie di libe-

13. Fernanda Pivano, in Cesare G. Romana, op. cit., p. XIV. 14. Fabrizio De André, op. cit., p. 217. 188 Pascal Cordara razioni alle quali non era sfuggita la canzone. In quel contesto era appar- so il risveglio autonomista regionale bretone, basco, occitano, provenzale che promuoveva l’uso delle lingue regionali e le tradizioni, anche musica- li, per svincolarsi dal centralismo parigino. Al di là della differenza di signi- ficato del rapporto tra lingua nazionale e lingua regionale tra i due paesi, l’Italia e la Francia, quel fenomeno consente di misurare la portata della innovazione dal punto di vista linguistico e culturale, sia rispetto alla tra- dizione nazionale, sia rispetto ad una visione attualissima di una realtà, la cui origine sta nei vicoli dei quartieri del porto di Genova e nelle esperien- ze vissute da De André, imperniata sulla sensibilità nei confronti dei più deboli. Con il dialetto ‘impossibile’ di Creuza de mä De André ha attinto al patrimonio linguistico passato, presente, colto, popolare, crudo con Jamina, per restituire le storie vere degli uomini del Mediterraneo.

Oltre alla sensibile sfasatura epocale, la maggiore adesione dell’uno al presente rispetto ad una presa di distanze dell’altro, segna la distanza che separa De André da Brassens, mentre conservano uno sguardo critico nei confronti di un ordine costituito lacerante e li spinge a ricercare gli stessi valori umani, quelli profondi dell’uomo, dell’individuo, come sembra ricordare il significato profondo del titolo del volume Anime salve. Questo spiega la critica sociale, la provocazione, l’ironia delle canzoni dell’uno e dell’altro, il modo non ortodosso di accostarsi alla religione per riportarla tra gli uomini. Questo modo di guardare al mondo sembra aver indotto De André a preferire il Mediterraneo, il sud, «corruttibile al momento giu- sto», come dice, cioè, umano. Con la stessa capacità di intrecciare per fon- dere e saldare la cultura alta, la letteratura, e la cultura popolare in un con- tinuum vitale che si percepisce attraverso la scelta di situazioni vere, e il gusto per le parole che non si limitino ad essere né pura sonorità, né sem- plice significato, hanno messo la poesia alla portata di tutti. Fabrizio De André ha sempre rivendicato, per la canzone, una funzione sociale, come ha ricordato in una intervista citando Leonardo Sciascia: «per essere utile 189 Fabrizio De André e George Brassens la canzone deve essere scritta da un uomo di cultura che sappia però espri- mersi in maniera popolare»15. E lo stesso engagement dei due chansonnier li ha portati a seguire strade parallele e a manifestare le stesse propensio- ni per il barocco, come lo è la lingua di Brassens, o come preferiva De André, il barocchetto, voltairiano, simbolo di libertà, di sorpresa continua, così come lo è Genova, la città vecchia.

15. Doriano Fasoli, Fabrizio De André, cit., p. 69.

Santa Boi Ruin the Sacred Truths La ‘Buona novella’ secondo De André

Parlare di Fabrizio De André da anglista potrebbe apparire presunzio- ne se il mio intervento non fosse, in una certa misura, giustificato, quasi sollecitato, dall’ampiezza degli interessi del poeta e cantautore genovese che, come è noto, introdusse, facendoli conoscere in Italia, insieme a opere di George Brassens, di Leonard Cohen e di altri, testi di Bob Dylan fra i quali pesco il notissimo Via della povertà, dove viene introdotta la «bella compagnia» dei suoi abitanti: da «Romeo trafelato», a Mister Hyde che «piange sconcertato vedendo Jeckyll che ride nello specchio», a Ofelia che «a soli ventidue anni / è già una vecchia zitella», mentre «Ezra Pound e Thomas Eliot / fanno a pugni nella torre di comando» fra «i suonatori di calipso [che] ridono di loro / mentre il cielo si sta allontanando»1, per- sonaggi tutti che consentono di sentirsi a proprio agio, come tra volti familiari. L’angolatura dalla quale osservo la raccolta di musiche e canzoni com- posta da De André nel 1970, che ha per titolo La buona novella, rientra, quasi obbligatoriamente, nell’ambito della problematica più vasta e gene- rale sollevata dall’adattamento, riscrittura, versione, traduzione di passi

1. Fabrizio De André, Come un’anomalia, Tutte le canzoni, con saggio introduttivo e cura dei testi di Roberto Cotroneo, Einaudi, Torino 1999, pp. 159-161. 192 Santa Boi biblici e di cui si trova attestazione esorbitante in tutte le letterature e le arti. Dato il particolare momento in cui De André compose l’opera sarà anche utile rivisitare il contesto degli anni Sessanta e Settanta e evidenziar- ne alcuni contorni significativi, facendo dei confronti con l’ambito cultu- rale che frequento abitualmente. Sono persuasa che De André, così come era attento a introdurre, dialogando con essi, testi della tradizione france- se, inglese e americana, fosse anche attento ad accostarsi a tematiche pre- senti nel Grande Codice con modalità che segnalano la sua conoscenza e assimilazione, insieme a un utilizzo tutto personale dei criteri che ispiraro- no alcuni poeti e pittori del tardo Ottocento e del primo Modernismo. Mi riferisco in particolare alla tradizione dei Naughty Nineties, di Oscar Wilde, di William Butler Yeats, Ezra Pound, di T.S. Eliot, che osarono, prima di lui, con perizia e senso del progetto, «rovinare le sacre verità»2 per riappro- priarsene e assegnar loro nuova carica di significato nel momento della attualizzazione. È ben noto che le modalità che gli artisti utilizzano da questo punto di vista nell’accostare i testi sacri di ogni tradizione religiosa possono essere le più svariate: non c’è limite agli adattamenti di episodi biblici e ai modi che, nel corso dei secoli, hanno accompagnato la fruizio- ne della Bibbia attraverso la riproposizione di episodi attinti ad essa. Come ha individuato Harold Bloom, nelle riscritture non si rivela impor- tante solo ciò che si decide di considerare, ma anche ciò che eventualmen- te l’artista decide di omettere. Emblematico il caso segnalato dallo studio- so americano che si riferisce al Libro dei Giubilei, e di cui si parla a lungo nel volume Rovinare le sacre verità, per costruire l’argomentazione sul rap- porto che intercorre tra letteratura e Bibbia:

Intorno all’anno 100 avanti l’Era Volgare, un fariseo compose ciò che la tradizione ha chiamato il Libro dei Giubilei, titolo esuberante per un modello di pessima scrittura. Quest’opera garrula è anche conosciuta

2. Cfr. Harold Bloom, Rovinare le sacre verità, Poesia e fede dalla Bibbia a oggi, Garzanti, Milano 1992, tr. it. di Ruin the Sacred Truths. Poetry and Belief from the Bible to the Present, Harvard University Press, Cambridge, Mass. 1989, e, di Piero Boitani, Ri-Scritture, Il Mulino, Bologna 1997. 193 Ruin the Sacred Truths

come Piccolo Genesi, fatto curioso considerando che è molto più lungo del Genesi e tratta anche l’Esodo. Non mi diverte leggere il Libro dei Giubilei, ma ne sono affascinato, non per quello che contiene ma per tutto ciò che esclude. Con un partito preso stranamente prolettico, il Libro dei Giubilei omette quasi tutti i passi della Bibbia ebraica che la filologia moderna ha attribuito allo jahvista, o autore J. Chiamiamolo semplice- mente J, e soffermiamoci sulla sua espulsione quasi integrale della rielabo- razione farisaica3.

I tagli, le omissioni sono importanti, sottolinea giustamente Bloom, tanto quanto ciò che viene richiamato o direttamente, in citazione interte- stuale, o indirettamente, con allusioni, parafrasi, riecheggiamenti funzio- nali, perché il testo assente ha anch’esso una sua valenza, creata dall’oriz- zonte di attesa che il testo richiamato implicitamente suggerisce. Per Bloom esisterebbe poi, addirittura, un problema estetico insolubile riguar- dante il rapporto tra poesia e fede, si creerebbe uno scandalo che «consi- ste nella resistenza testarda della letteratura di fantasia (imaginative literatu- re) alle categorie del sacro e del secolare. Volendo, è possibile affermare che ogni letteratura alta è secolare o, se preferite, che ogni poesia forte è sacra. [...] La poesia e la fede vagano, a volte unite, a volte separate, in un vuoto cosmologico delimitato da verità e significato»4.

Non entriamo in questa problematica certo coinvolgente, ma che ci condurrebbe, inevitabilmente, oltre i limiti assegnati, rimarchiamo soltan- to come un’estrema libertà abbia sempre caratterizzato e caratterizzi le modalità dell’incontro con il testo sacro: da sempre gli artisti hanno rilet- to e riscritto episodi biblici e li hanno riespressi in ambito pittorico, musi- cale, poetico, mostrando, sia per le fonti non convenzionali cui hanno attinto e con le quali hanno fatto interagire i testi canonici, sia per l’ele- mento di ripensamento, di attualizzazione che hanno immesso in misura

3. Harold Bloom, op. cit., p. 13. 4. Ivi, p. 14. 194 Santa Boi molto forte, le possibilità di apertura ai nuovi ‘altrove’ che i testi stessi possono suscitare. Le narrazioni del Grande Codice vengono costantemen- te riprese, riformulate dalle diverse generazioni che si misurano con ciò che più li ha intrigati. Gli esempi che si possono richiamare vanno da Salomé di Oscar Wilde, a Moses di Isaac Rosenberg, all’episodio di Susanna analizzato recentemente da Piero Boitani5 – in cui si evidenzia anche il fenomeno della dislettura e delle sue comiche conseguenze – e abbraccia- no una serie innumerevole di riscritture di episodi biblici che si sono svi- luppate nell’ambito della cultura ebraica e cristiana, nel corso dei secoli6. Forse qui si può citare di Pound la ballata To Our Lady of Vicarious Atonement, del 1911, in cui compaiono già i segni della rivisitazione di forme preraffaelite e l’interessante inizio della ricerca poundiana nella direzione di una forza immaginativa profetica e allo stesso tempo lieve- mente istrionesca:

Who are you that the whole world’s song Is shaken out beneath your feet Leaving you comfortless, Who, that, as wheat Is garnered, gather in The blades of man’s sin And bear that sheaf? Lady of wrong and grief, Blameless!

5. Piero Boitani, op. cit., pp. 71-90. 6. Numerosissime, come è facile immaginare, le opere che trattano del rapporto tra Bibbia e lette- ratura e Bibbia e altre arti. Oltre a quelle già citate di Bloom e di Boitani si possono ricordare Gabriel Josipovici, Frank Kermode, Northrop Frye, Robert Alter, Eric Auerbach, e, tra quelle più divulgative, il dizionario di David Lyle Jeffrey, A Dictionary of Biblical Tradition in English Literature, Eardmans Publishing, Grand Rapids 1992, di Martin Bocian, Lexicon der biblischen Personen. Mit ihrem Fortleben in Judentum, Christentum, Islam, Dichtung, Musik und Kunst, Alfred Kröner Verlag, Stuttgart 1989, tr. it. I Personaggi biblici, Dizionario di storia, letteratura, arte, musica, Mondadori, Milano 1997. 195 Ruin the Sacred Truths

All souls beneath the gloom That pass with little flames, All these till time be run Pass one by one As Christs to save, and die; What wrong one sowed, Behold, another reaps! Where lips awake our joy The sad heart sleeps Within.

No man doth bear his sin, But many sins Are gathered as a cloud about man’s way7.

Anche Yeats, è noto, trattò diverse volte tematiche religiose, introdu- cendo sempre elementi insospettati, sorprendenti, degni, nel voluto carat- tere innovativo delle scelte stilistiche, della migliore tradizione della poe- sia metafisica, come si può notare in The Mother of God, che risale al 3 set- tembre del 1931 e tratta in modo non convenzionale, esaltando fortemen- te il coinvolgimento personale, della reazione di Maria, madre di Gesù di Nazareth, all’annuncio dell’angelo. Viene evidenziata da Yeats, infatti, non l’adesione fiduciosa, serena, della creatura prescelta ad entrare in un pro- getto che la sovrasta, caratteristica del Magnificat, ma bensì il terrore che l’essere sfiorati dall’insostenibile presenza del mistero può suscitare:

The threefold terror of love; a fallen flare Through the hollow of an ear; Wings beating about the room; The terror of all terrors that I bore The Heavens in my womb.

Had I not found content among the shows

7. Ezra Pound, Canzoni, Elkin Mathews, London 1911, pp. 141-142. 196 Santa Boi

Every common woman knows, Chimney corner, garden walk, Or rocky cistern where we tread the clothes And gather all the talk?

What is this flesh I purchased with my pains This fallen star my milk sustains, This love that makes my heart’s blood stop Or strikes a sudden chill into my bones And bids my hair stand up?8

Il poeta affermò di aver avuto in mente, al momento della composi- zione di The Mother of God, le raffigurazioni bizantine in mosaico dell’Annunciazione nelle quali una linea unisce una stella all’orecchio della Vergine: «Ella ricevette la parola attraverso l’udito, una stella cadde, e una stella nacque»9. Ma certamente altri elementi emergono, il terrore che coglie la Vergine richiama altri terrori di protagonisti/e di molteplici nar- razioni bibliche in cui il profeta riceve la chiamata e non può non far ricor- dare lo sconcerto espresso dal volto di Maria nel dipinto Ecce Ancilla Domini di Dante Gabriel Rossetti (1850). Sono queste tutte manifestazio- ni del nuovo modo di concepire un evento inspiegabile che viene ormai in misura sempre maggiore caricato della componente umana, creaturale, che, accostata dal divino, sollecitata potentemente a dare una risposta, non può non tremare. T.S. Eliot, con la sua consueta abilità e maestria nell’uso di scarni, misurati elementi strategicamente posizionati, inserirà la sua voce nell’in- numerevole serie di ‘racconti di vocazione’ con i giochi di sostituzione degli aggettivi che qualificano la pregnante parola annunciation nella secon- da sezione di The Dry Salvages (1941), che è allo stesso tempo preghiera

8. William Butler Yeats, The Mother of God, in The Winding Stair and other Poems, The Collected Poems of W. B. Yeats, Macmillan & CO LTD, London 1963, pp. 281-282. 9. A. Norman Jeffares, A Commentary on The Collected Poems of W. B. Yeats, Macmillan, London 1968, p. 359. 197 Ruin the Sacred Truths delle ossa che continuano a vorticare, dopo lo schianto delle imbarcazio- ni contro le rocce di granito affioranti al largo di Cape Ann, segno peren- ne di rovina per i naviganti, annuncio di calamità:

Where is there an end of it, the soundless wailing, The silent withering of autumn flowers Dropping their petals and remaining motionless; Where is there an end to the drifting wreckage, The prayer of the bone on the beach, the unprayable Prayer at the calamitous annunciation10.

ammissione della propria debolezza nella parabola discendente della vita, quando si tirano le somme, si riconsiderano i propri fallimenti e si giudicano alla luce dell’attimo finale:

There is the final addition, the failing Pride or resentment at failing powers, The unattached devotion which might pass for devotionless, In a drifting boat with a slow leakage, The silent listening to the undeniable Clamour of the bell of the last annunciation11.

Silenzio, infine, di fronte alla morte, alle tante morti per acqua, contro le quali si staglia, incomprensibile, a mala pena pronunciabile, la preghie- ra dell’Annuncio a Maria e quindi l’assenso possibile, dato all’entrare, con piena coscienza, nella somma di tutte le contraddizioni, nella visione espressa da Four Quartets 12, nella vita stessa, luogo intriso di dolore e, para- dossalmente, presupposto di liberazione:

10. Thomas S. Eliot, Four Quartets, The Complete Poems and Plays, Faber and Faber, London 1975, p. 185. 11. Ivi, p. 186. 12. Cfr. il commento a Four Quartets di Gabriel Josipovici: «à s’accepter comme une créature qui vit dans la durée, responsable de tous ses actes – passés autant qu’à venir», in Thomas S. Eliot, Quatre Quators, tr. di Claude Vigée, The Menard Press, London 1992, p. 87. 198 Santa Boi

There is no end of it, the voiceless wailing, No end to the withering of withered flowers, To the movement of pain that is painless and motionless, To the drift of the sea and the drifting wreckage, The bone’s prayer to Death its God. Only the hardly, barely prayable Prayer of the one Annunciation13.

De André si sintonizza abilmente, da un’altra prospettiva, sul tema del- l’annuncio, nel quarto brano della raccolta che abbiamo deciso di conside- rare, Il sogno di Maria e, con tinte surreali, bizzarre, che richiamano la pit- tura di Chagall, come fa adeguatamente notare Paolo Ghezzi14, mescola elementi della tradizione canonica evocata in citazione intertestuale e col- locata in corsivo al centro del brano:

e l’angelo disse: «Non temere, Maria, infatti hai trovato grazia presso il Signore e per opera Sua concepirai un figlio...» 15.

a elementi visionari in cui interagiscono sogno, premonizioni, immagi- ni di un rapporto quasi dionisiaco con la natura e l’anticipazione costan- te, ripetuta, di un dolore smisurato, che penetra le profondità più intime dell’essere:

Nel grembo umido, scuro del tempio, l’ombra era fredda, gonfia d’incenso; l’angelo scese, come ogni sera, ad insegnarmi una nuova preghiera: poi d’improvviso mi sciolse le mani e le mie braccia divennero ali, quando mi chiese «Conosci l’estate?»

13. Thomas S. Eliot, op. cit., p. 186. 14. Paolo Ghezzi, Il Vangelo secondo De André: «Per chi viaggia in direzione ostinata e contraria», Ancora, Milano 2003, p. 65. 15. Fabrizio De André, op. cit., p. 97. 199 Ruin the Sacred Truths

io, per un giorno, per un momento, corsi a vedere il colore del vento.

Volammo davvero sopra le case, oltre i cancelli, gli orti, le strade, poi scivolammo tra valli fiorite dove all’ulivo si abbraccia la vite. Scendemmo là, dove il giorno si perde a cercarsi da solo nascosto tra il verde, e lui parlò come quando si prega, ed alla fine di ogni preghiera contava una vertebra della mia schiena16.

Non so se De André, nella sua frequentazione dei carrugi, oltre che «andare a donne negli antichi bordelli»17, abbia mai attraversato la Galleria di Palazzo Bianco per sostare davanti alle numerose Annunciazioni dei pit- tori fiamminghi che il museo custodisce. Se così fosse, sarà incappato, e avrà potuto trarre ispirazione, misurandosi, per la sua stesura della figura di Maria, anche con il dipinto di Gérard David in cui la Vergine, in atteg- giamento assorto e concentrato, aiuta il figlio a staccare dal grappolo un acino d’uva, in un gesto che allude alla dolorosa premonizione del sacrifi- cio, ripreso nel brano analizzato18. La riscrittura non esclude, ovviamente, la possibilità del manifestarsi di un atteggiamento dissacratorio, polemico e l’artista può spesso giungere a negare qualsiasi validità o sensatezza agli episodi biblici riproposti che sono talvolta ricollocati in contesti straniati. Egli sembra talvolta lasciarli quasi cadere dall’alto, in un vuoto di risposta interattiva, o ne distorce i contorni attraverso le armi del sarcasmo, della parodia, della allusione fuori contesto che crea spaesamento, volendo così evidenziare l’insor- montabile distanza che li separa dai nuovi ambiti ipotizzati, intravisti, vis-

16. Ibidem. 17. Roberto Giannoni, Fabrizio De André e i dialetti, «Il Segnale», XVIII (Nov. 1999) n. 54. 18. Cfr. Clario Di Fabio, La galleria di Palazzo Bianco, Federico Garolla Editore, Milano 1992, pp. 38-43. 200 Santa Boi suti. È quanto avviene spesso nel teatro dell’assurdo, uno fra tanti il caso di Waiting for Godot di Samuel Beckett (1952 in francese, 1955 in inglese) in cui si fa riferimento all’episodio evangelico della crocifissione, e dove, con tutta una serie di espedienti retorici che vanno dalla ellissi alla ripeti- zione, alla enumerazione, alla domanda senza risposta, si riposiziona l’e- vento narrato dagli evangelisti nel contesto minimalistico, di mera soprav- vivenza, di Vladimir e Estragon per i quali la vicenda della crocifissione del Cristo è usata o come utile argomento di conversazione, atto a far sì che il tempo passi più velocemente, o come spunto per una riflessione sul numero dei salvati e quello dei reprobi. Riflessione puntigliosamente mar- ginale ai fini della comprensione di eventi che hanno segnato e tutt’ora segnano la vita di milioni di persone, ma che evidentemente non hanno la stessa rilevanza per i due protagonisti di Waiting for Godot:

Vladimir: Ah yes, the two thieves. Do you remember the story? Estragon: No. Vladimir: Shall I tell it to you? Estragon: No. Vladimir: It’ll pass the time. [Pause.] Two thieves, crucified at the same time as our Saviour. One – Estragon: Our what? Vladimir: Our Saviour. Two thieves. One is supposed to have been saved and the other... [He searches for the contrary of saved]... damned. Estragon: Saved from what? Vladimir: Hell. Estragon: I’m going. [He does not move]19 .

La peculiare interazione tra alto (l’episodio evangelico cui si fa riferi- mento, la morte del Cristo insieme ai due condannati sul Golgota) e basso (la fondamentale estraneità dei due protagonisti ad una qualsiasi compren- sione dell’evento e la loro condizione di tramps) crea una forma di comi-

19. Samuel Beckett, Waiting for Godot, in The Complete Dramatic Works, Faber and Faber, London 1990, p. 14. 201 Ruin the Sacred Truths cità grottesca nella quale si muove e si sviluppa il tessuto dei testi becket- tiani. L’operazione attuata da Fabrizio De André nel suo La buona novella va inserita all’interno di questa lunga e articolata tradizione di riscritture, reinterpretazioni di passi della Bibbia, ma, come già si anticipava, anche all’interno del clima culturale creatosi tra la fine degli anni Sessanta e gli anni Settanta. In Inghilterra, ma in genere in tutta Europa, si pubblicava- no opere di rottura, si esaltava la rivoluzione culturale, la libertà sessuale, circolava un po’ dappertutto un desiderio di emancipazione, insieme all’e- sigenza di trasgredire le norme che si percepivano come estremamente limitative: la contestazione, nel suo avanzare, creò una voragine tra le generazioni, segnando, in taluni casi, punti di non ritorno. Philip Larkin sintetizzava adeguatamente in Annus Mirabilis, inclusa nella raccolta High Windows, gran parte dell’atmosfera che venne a crearsi alla fine degli anni Sessanta:

Sexual intercourse began In nineteen sixty-three (Which was rather too late for me) – Between the end of the Chatterley ban And the Beatles’ first LP20.

La contestazione non fu solo politica, ma anche e soprattutto lettera- ria. La riscoperta e il successo di Lady Chatterley’s Lover, la pubblicazione di Lolita e la diffusione di opere dall’esplicito contenuto pornografico galva- nizzò la massa delle lettrici ormai ‘emancipate’ che non si accontentavano più di una vita regolata da «Church, Children and Cooking»21. Molti gio- vani andavano alla ricerca di nuove forme di espressione e di stili di vita alternativi: i vagabondaggi senza meta, l’esperienza delle droghe, di cui si

20. Philip Larkin, Collected Poems, edited with an introduction by Anthony Thwaite. The Marvell Press and Faber and Faber, Victoria and London, 2003, p. 146. 21. John Sutherland, Reading the Decades, Fifty Years of the Nation’s Bestselling Books, BBC Worldwide Ltd, London 2002, p. 53. 202 Santa Boi racconta in opere di autori diversi tra loro come Huxley e Castaneda, la ricerca di un contatto con la religiosità orientale che assunse forme mol- teplici, dalla decisione di lasciare l’Europa o l’America per trapiantarsi in Oriente, all’esigenza di portare in Occidente, in una qualche misura, quan- to le tradizioni orientali avevano intuito ed elaborato, sono espressione di una ricerca di incontrare la diversità, una ricerca di nuovi spazi culturali e intellettuali, alla quale si accompagna l’aspirazione a una più diffusa giusti- zia sociale. In Italia si recepisce questo clima di rinnovamento, evidenzia- to soprattutto dalle forme più radicali di contestazione politica. Ben si comprende perché l’operazione attuata da De André, di trasferire cioè il dissenso da un ambito socio-politico a un ambito religioso con la scelta di un tema biblico, costituisse, nel 1970, una sorpresa, e rappresentasse quasi un anacronismo per un pubblico non abituato a tematiche di tal genere, quanto avrebbe invece potuto esserlo un pubblico anglosassone o di for- mazione protestante. E, un po’ come era capitato per la scelta di Pasolini, il cui Vangelo secondo Matteo, apparso nel 1964, suscitò un vespaio di reazio- ni negative, anche La buona novella non mancò di creare stupore e sconcer- to. La strada seguita da De André, e che risente dell’atteggiamento di rot- tura, fino in certi momenti a sfiorare il blasfemo, situandosi nel solco della tradizione di Brassens, intende ‘straniare’ i contenuti, magari partendo da fonti diverse dai testi canonici, ispirandosi, molto liberamente, ai Vangeli Apocrifi, appunto, e aprire così spazi di differenza. Ciò costringeva il can- tautore a operare delle complete riformulazioni del testo o dei testi, ad accentuarne le implicazioni di denuncia, di protesta, per mantenere sem- pre intatta la ‘carica’ rivoluzionaria che vi scorgeva. Nella riscrittura di De André i testi non sembrano mettere in totale discussione la misteriosa vali- dità dell’evento sul quale la voce poetante si interroga, creando un interes- sante e proficuo giuoco di alternanza tra familiare/sconosciuto, quasi la proposta dell’artista intendesse tenersi su tre livelli, il dettato tradizionale, i testi apocrifi e la novità con la quale è chiesto di misurarsi. Si trattava di riscrivere la ‘buona novella’ partendo da altre angolature, sfruttando altri 203 Ruin the Sacred Truths scorci, percorrendo altre vie, abbandonando quelle identificate dal poeta e cantautore genovese come troppo ovvie, troppo simili a quelle battute dall’ortodossia. Va ricordato anche come la scelta di De André di ispirarsi agli Apocrifi in forma molto libera compia un percorso opposto rispetto a quello segui- to da Pasolini, che De André dovette pur aver presente, e che decise inve- ce di tenersi fedele alla fonte biblica. Tratto comune appare, nelle dovute differenze, come il Vangelo sia percepito in entrambi come realtà estra- nea, sia proiettato su uno sfondo di radicale incredulità, non si riconosca ad esso alcuna valenza di salvezza, anzi, per certi aspetti si radicalizzi l’in- comprensibile vastità delle sue implicazioni, ma si decida comunque di misurarsi, in un modo o nell’altro, con esso. Le scelte contenutistiche che De André compie riflettono, in larga misura, alcuni dati della cultura del Novecento: il fatto religioso, in genere, è percepito come un anacronismo, il clima è quello del rifiuto verso ogni realtà che si ritiene appartenga alla sfera dell’irrazionale, considerata dominio incontrastato dello strapotere di una autorità non più capace di promuovere l’uomo ma al contrario decisa a limitarlo, nel condizionamento del suo pieno sviluppo e della sua piena autonomia. Fabrizio De André sente il bisogno di collegare la sua riscrittura del Vangelo alla condizione dei più disperati, ai poveri, a tutti coloro che sono vittime di un potere arrogante, che minaccia o costringe la libertà dell’individuo e tenta di piegarlo entro logiche anguste, chiuse, castranti: irrispettose della dignità del singolo, della sua capacità di inten- dere, del suo potere decisionale. La prima ad essere presentata come vit- tima è la stessa Maria, la madre di Gesù, di cui si accentua prima ancora che lo sconvolgente dolore per la perdita ingiusta, inaccettabile, del figlio innocente presente in Tre Madri:

Piango di lui ciò che mi è tolto le braccia magre, la fronte il volto ogni sua vita che vive ancora, che vedo spegnersi ora per ora. 204 Santa Boi

Figlio nel sangue, figlio nel cuore, e chi ti chiama ‘Nostro Signore’ nella fatica del tuo sorriso cerca un ritaglio di Paradiso. Per me sei figlio, vita morente, ti portò cieco questo mio ventre, come nel grembo, e adesso in croce, ti chiama amore questa mia voce. Non fossi stato figlio di Dio t’avrei ancora per figlio mio22.

lo sconquasso prodotto nella sua vita dall’intervento dell’autorità dei genitori e dei sacerdoti, dell’intero costume di Israele, inteso nella sua dimensione teocratico-giuridica intollerante e soffocante per la libertà del- l’individuo che non sembra avere scampo da questa forma di dominio oppressivo, di L’infanzia di Maria:

E quando i sacerdoti ti rifiutarono alloggio avevi dodici anni e nessuna colpa addosso; ma per i sacerdoti fu colpa il tuo maggio, la tua verginità che si tingeva di rosso. E si vuol dar marito a chi non lo voleva, si batte la campagna, si fruga la via. Popolo senza moglie, uomini d’ogni leva, del corpo di una vergine si fa lotteria23.

L’attualizzazione di De André del tema dell’infanzia/adolescenza di Maria contrasta fortemente con l’interpretazione fornita da Rossetti nel famoso dipinto l’Adolescenza di Maria Vergine (1848-49) e conservato alla Tate Gallery che, seguendo le linee teoriche di Ruskin, presenta quella ‘fedeltà alla natura’ sostenuta in Modern Painters (1843). Il dipinto di Rossetti descrive una situazione di misteriosa attesa in cui i personaggi

22. Fabrizio De André, op. cit., p. 104. 23. Ivi, p. 92. 205 Ruin the Sacred Truths sono assorti, concentrati, con giochi di colore chiari, luminosi e quelle forme arcaizzanti nelle quali si cercava un rifugio e insieme un argine agli orrori della civiltà industriale. A parte pochi momenti di luce tutte le figu- re messe a fuoco in La buona novella sono delle vittime e, sembra dire De André, non sappiamo che farcene di un Dio che si fa uomo e non risolve questi problemi, anzi, con il suo intervento, li peggiora. Peggiora la con- dizione della donna, in quanto elemento debole della società, continua a permettere che l’innocente, il giusto, soffra, non risolve proprio nulla, anzi, a dolore sembra aggiungersi sempre solo altro dolore. Solitudine, abbandono, accompagnano l’infanzia di Maria che viene consegnata al tempio, privata delle gioie dell’infanzia, del gioco, costretta anche fisica- mente in una posizione che ne segna la dipendenza:

Scioglie la neve al sole, ritorna l’acqua al mare, il vento e la stagione ritornano a giocare. Ma non per te, bambina, che nel tempio resti china24.

La donna non è vista nella sua autorevole autonomia, non è la donna di Dante, simbolo dell’alterità creativa, splendida nella sua dignità, ma è vista come vittima: l’artista sottolinea non l’elezione di Maria ma l’elemen- to di imposta sudditanza. Da questo dato parte l’invettiva, il lamento del poeta su situazioni dolorose, irreversibili, incancrenite e perciò inaccettabili. L’accentuazione di De André va così nella direzione di una forte problematizzazione, non c’è speranza né certezza di redenzione, ma bensì un aggravarsi del soffri- re. Che la venuta del Cristo non porti soluzioni facili ai problemi, ricette semplicistiche, scaturisce già dall’interpretazione tradizionale della sua figura: egli è spinto dalla partecipazione alla condizione umana ad entrare nel mondo della sofferenza, e appunto perché innocente la sua sofferen- za è maggiore, non minore, di quella degli altri, certamente non è, per defi-

24. Ibidem. 206 Santa Boi nizione, un operatore di prodigi e la gioia promessa non coincide con il benessere. Ma proprio la presenza del dolore, dato per De André irrisol- to, incomprensibile, crea il nuovo spazio di foregrounding sul quale l’artista lavora, ritagliandosi la dimensione a lui più congeniale. Come nel caso del film di Pasolini in cui saranno piccoli segnali, fin dall’inizio, a indicare il territorio in cui si annida la dissonanza, anche nel caso di De André l’ele- mento incongruo che allerta l’ascoltatore alla dimensione ‘estranea’ dell’e- vento è presentato immediatamente. Nel caso di Vangelo secondo Matteo potrà trattarsi delle prime note del Gloria della Missa Luba congolese che si ode sullo sfondo all’inizio del film e che segnala una prima anomalia, direbbe De André: la cultura occidentale, latina, della Chiesa, entra qui in contatto con i ritmi musicali ‘esotici’ dell’Africa subsahariana. Una serie di contaminazioni interpellano lo spettatore ponendogli quesiti di non facile soluzione. Lo stesso effetto di contrasto sarà prodotto nel film dall’accostamen- to di tavole pittoriche ben conosciute, Bellini, Masaccio, Piero della Francesca, a volti di persone comuni su cui indugia il primo piano, scelti proprio per la loro ostentata creaturalità, che non ha nulla di esaltante o di eroico. Fabrizio De André percorre, rispetto a Pasolini, un’altra strada, si inoltra nei corridoi meno battuti, nei vicoli almeno apparentemente tra- scurati della vicenda del Cristo e crea così le condizioni per un discorso nuovo, attuale, estremamente problematico: riscrive ciò che gli interessa a fini di una sottolineatura attualizzante. Scrive giustamente Carlo Boccadoro a proposito dell’intera raccolta:

Fin dai primi ascolti della Buona novella risulta chiaro che questo disco privilegia in maniera netta i versi rispetto alla musica […]. Si tratta di un lavoro austero, doloroso, privo di quell’ironia distaccata che è una delle cifre stilistiche principali del suo autore. I testi non lesinano sarcasmo, sparso a piene mani in canzoni come Via della croce e Il testamento di Tito. Abbondano immagini forti, crudeli, spesso violente. A contrasto con que- sta ribollente materia verbale si ha un contorno musicale estremamente scabro, quasi che De André non avesse voluto distrarre gli ascoltatori con 207 Ruin the Sacred Truths

una musica troppo invadente e subito orecchiabile. I Vangeli apocrifi non si fischiettano davanti allo specchio del bagno mentre ci si rade, sembra volerci dire l’autore25.

Si è parlato, per questa raccolta, di un voluto ascetismo musicale, che ha come risultato la concentrazione sulla parola e sul senso di essa. Si è fatto cenno a come La buona novella rielabori, molto liberamente, alcuni episodi tratti dai vangeli apocrifi, principalmente concentrandosi su figu- re pur ben conosciute, Maria, Giuseppe, ma non mancando di inserirne altre del tutto estranee ai racconti canonici, quali Tito e Didimo. Per quan- to concerne la qualità dei testi è forse opportuno precisare qualcosa sul concetto di apocrifo: sono testi che circolavano numerosi, a partire dal II secolo, nelle prime comunità cristiane, insieme o più tardi rispetto ai testi riconosciuti dalla Chiesa, che compongono il Nuovo Testamento. Gli apocrifi cristiani non sono da relegare nella categoria di ‘pallidi imitatori’ dei libri canonici, ma neppure nella categoria dei testimoni più veritieri del messaggio autentico di Gesù. Essi, in ogni caso, sono documenti impor- tanti per scoprire la vera identità del cristianesimo dei primi secoli, hanno la funzione di confermare l’importanza dei testimoni dell’annuncio evan- gelico e sono il frutto dell’incontro fra il Vangelo e le culture26. Va ricor- dato che questa letteratura è stata oggetto di accoglienze contrastate. Fabrizio De André, nella sua scelta programmatica di escludere i vangeli canonici, potrebbe essere inserito nella categoria di coloro che, non aven- doli mai letti da cima a fondo, è convinto in anticipo che troverà negli Apocrifi di che soddisfare una curiosità che nessuno dei quattro evangeli- sti è in grado di appagare. D’altra parte gli scritti apocrifi sono stati inne-

25. Carlo Boccadoro, Osservando De André, in La Buona novella di Fabrizio De André, a cura di Giorgio Gallione, Einaudi, Torino 2002, p. 80. 26. Cfr. Gli Apocrifi, a cura di Erich Weidinger, Piemme, Casale Monferrato 1992; Gli evangeli apocrifi, a cura di Francois Amiot, Massimo, Milano 2003; I Vangeli gnostici, a cura di Luigi Moraldi, Adelphi, Milano 2003; Il mistero degli apocrifi, a cura di Jean Daniel Kaestli e Daniel Marguerat, Editrice Massimo, Milano 1996. 208 Santa Boi gabilmente di estrema importanza per la storia dell’arte cristiana delle ori- gini e per quella del Medioevo27. Maria nella bottega di un falegname è forse il brano più drammatico di tutto il ciclo. Le angosciate domande di Maria si susseguono, incalzanti, scandi- te dal ritmo del lavoro della bottega del falegname, proiettato sullo sfon- do della sofferenza atroce del suppliziato a cui si prepara il patibolo, e rive- lano solo nella penultima strofa, alla madre attonita, che la croce che si appronta sarà per il figlio:

– Falegname col martello perché fai den den? Con la pialla su quel legno perché fai fren fren? Costruisci le stampelle per chi in guerra andò? Dalla Nubia sulle mani a casa ritornò? [...]

– Mio martello non colpisce, pialla mia non taglia per foggiare gambe nuove a chi le offrì in battaglia, ma tre croci, due per chi disertò per rubare, la più grande per chi guerra insegnò a disertare28.

In questo brano, forse più che in tutti gli altri, si avverte la capacità di attualizzare un testo, di adattarlo e ricomporlo, caratteristica di De André e della sua migliore poesia. Anche qui appare evidente il richiamo al dipin- to di Millais Cristo nella casa dei genitori (1849-50), dove compare, accanto al

27. Cfr. Francois Amiot, op. cit., pp. 29-30. 28. Fabrizio De André, op. cit., p. 100. 209 Ruin the Sacred Truths tentativo di ambientare realisticamente la famiglia del Cristo nella bottega del falegname, anche un chiaro riferimento simbolico agli strumenti della passione. Ma l’elemento non assume nell’opera pittorica la portata tragica che ha nella ripresa di De André. Le tinte solari, luminose di Millais con- trastano in maniera stridente con il ritmo incalzante delle domande stra- zianti del dialogo tra Maria, il falegname e la gente della composizione di De André. Dopo i toni aggressivi e scatenati del brano Via della croce la musica compie una metamorfosi completa. De André riesce, nel già citato Tre Madri, a evitare la retorica dei luoghi comuni, disegnando le immagini delle madri addolorate con poche, asciutte frasi. Uguale essenzialità si trova nella musica. È questo il brano che pone accanto le madri dei ladri e Maria. Il testo si concentra sul dolore delle madri dei due ladri crocifis- si accanto al Cristo, che al momento del supplizio sono escluse dalla scena, occupata totalmente, almeno nei resoconti degli evangelisti, da Maria e dai discepoli, quei pochi che rimangono, sotto la croce. De André fa osservare quanto sia rilevante anche se emarginato, sconosciuto, trascu- rato, anche il dolore delle madri di coloro che subiscono il supplizio accanto a Cristo e ai quali solo gli Apocrifi e egli stesso danno un nome, perché vede una discriminazione paradossale insidiarsi all’interno di una possibile distinzione tra un dolore ‘meritorio’, in un certo senso di qualità più fine rispetto a uno meno attendibile, di qualità più scadente. Quasi che nella morte dolorosa dei tre suppliziati si possa fare una distinzione sotti- le, tra morte e morte e tra dolore e dolore. L’autore ripete un qualcosa che ha già sostenuto altrove e facilmente condivisibile: la morte del giusto è certo esecrabile, ma anche la tragedia di colui che è condannato ‘giusta- mente’, quindi muore per il male commesso, non crea minor dolore in chi soffre la pena di quanto non ne subisca l’innocente. E soprattutto nelle madri dei condannati:

– Tito non sei figlio di Dio, ma c’è chi muore nel dirti addio. 210 Santa Boi

– Dimaco ignori chi fu tuo padre, ma più di te muore tua madre.

– Con troppe lacrime piangi, Maria, solo l’immagine di un’agonia; sai che alla vita, nel terzo giorno, il figlio tuo farà ritorno. Lascia noi piangere, un po’ più forte, chi non risorgerà più dalla morte29.

Fabrizio De André prende le distanze volentieri da quelle forme di fariseismo di coloro che si appropriano della scena per essere in primo piano e poi passare alla storia sempre da protagonisti, come gli ipocriti dei famosi brani evangelici che fanno tutto davanti agli uomini per farsi nota- re, avere il primo posto ai conviti, essere ammirati e riconosciuti da tutti, avere sempre il primo posto, giungendo paradossalmente all’utilizzo, a fini di potere, del proprio ostentato dolore. Il titolo stesso della raccolta, La buona novella, contiene in sé una gran- de ironia, evidenziata dalla struttura dell’opera e dal contenuto dei brani che la compongono, che titolano: L’infanzia di Maria, Il ritorno di Giuseppe, Il sogno di Maria, Ave Maria, Maria nella bottega di un falegname, Via della croce, Tre madri, Il testamento di Tito, e che sono incardinati a due nuclei, l’iniziale Laudate Dominum e il Laudate hominem che chiude la raccolta. Il secondo di questi che sigilla la struttura ad anello, con la sostituzione parodistica del termine hominem per Dominum, opera un completo ribaltamento del senso della frase iniziale, collocandosi in una sfera di divergenza da tutta la tra- dizione. I suoni spezzati, la musica straziata dell’ultimo brano ‘urlano’ la preghiera della voce poetante a testimoniare il dolore e la sofferenza atro- ce, per Fabrizio De André incomprensibile, che nega la possibilità di un legame ‘positivo’ con una salvezza che si rivela impossibile. Con l’annun- cio sospeso del primo Laudate Dominum e con la serie dei brani successivi

29. Ivi, p. 104. 211 Ruin the Sacred Truths che esplicitano la direzione nella quale si muove l’argomentazione, l’arti- sta affatica il lettore/ascoltatore conducendolo, tramite una serie di prete- sti innovativi, al testo sconosciuto che vuole comunicare. La buona novella inizia e si conclude con due brani solo all’apparenza simili: il Laudate Dominum iniziale è solenne, maestoso, ma i brani successivi creano un con- trasto stridente con questo invito. ‘Lodate il Signore’, il ritornello presen- te in tanti salmi di lode, nel Salterio è sempre accompagnato da una espli- citazione del perché di questa esigenza, di questo invito alla lode: ad esem- pio nel Salmo 117, il più breve di tutto il Salterio, composto di quattro soli versi, il salmista canta:

Lodate il Signore, popoli tutti, voi tutte nazioni dategli gloria; perché forte è il suo amore per noi e la fedeltà del Signore dura in eterno30.

Così gli Inni, la cui composizione segue uno schema abbastanza costante: ognuno infatti inizia con una esortazione a lodare Dio seguita dal corpo dell’inno che specifica sempre i motivi di questa lode: i prodigi compiuti da Dio nella natura, specialmente la sua opera creatrice, e nella storia, particolarmente la salvezza accordata al suo popolo. Nella raccolta di De André il secondo di questi termini è inizialmente sospeso, poi annullato, infine negato. Nel primo brano, non si comprende, non si spie- ga, infatti, perché si debba lodare Dio, e in ragione di questa assenza i brani successivi costruiscono le basi per la scelta finale di lodare l’uomo al suo posto, perché lo si avverte più vicino. L’ultimo brano Laudate hominem ricapitola l’allegoria di De André che denuncia le incongruenze del potere, dell’autorità religiosa vista alla luce diretta del messaggio evangelico, della Buona novella, ma allo stesso tempo manifesta l’impossibilità ad accedere al territorio della trascenden-

30. La Bibbia di Gerusalemme, a cura di Francesco Vattioni, Edizioni Dehoniane, Bologna 1989, p. 1254. 212 Santa Boi za. La scelta si orienta in una direzione orizzontale: delusa dai potenti, dal mondo farisaico, decisa a non tributare alcun ossequio timoroso e defe- rente a un Dio non riconosciuto come amore, la voce poetante scandisce tre volte:

Non voglio pensarti figlio di Dio ma figlio dell’uomo, fratello anche mio. [...] Non posso pensarti Figlio di Dio ma figlio dell’uomo, fratello anche mio. [...] No, non devo pensarti figlio di Dio ma figlio dell’uomo, fratello anche mio31.

e conclude la sequenza con il capovolgimento dell’enunciato iniziale:

Laudate hominem32.

Va detto che la sostituzione operata suona immediatamente blasfema, riduttiva, incongrua rispetto al testo fonte, sia nella sua veste canonica sia negli Apocrifi. Numerosissime sono le occasioni in cui il salmista esprime la dignità dell’uomo e gli riconosce un ruolo supremo all’interno della creazione: «Lo hai fatto poco meno degli angeli, di gloria e di onore lo hai coronato»33, come recita il Salmo 8, ad esempio, tuttavia permane l’esigen- za radicale di lodare Dio perché se lo merita, appunto perché buono, radi- calmente, assolutamente, infinitamente. Ma il punto di vista è quello di chi non può assolutamente percepire questa bontà, perché l’esperienza con- creta gliene nega la presenza. Manca la mediazione, e per questo l’uomo o dispera o incattivisce, protesta, e, deluso, fatalmente, si chiude in una rabbiosa solitudine. La musica nel primo brano è solenne, ma, al contra- rio di quanto avviene nei salmi che invitano alla lode, nel testo di De

31. Fabrizio De André, op. cit., p. 109. 32. Ibidem. 33. Francesco Vattioni, op. cit., p. 1123. 213 Ruin the Sacred Truths

André mancando il secondo termine che normalmente compare nel salmo, non essendo esplicitata alcuna motivazione ragionevole alla lode, la voce poetante non può che trarre conclusioni negative. De André crea una sorta di premessa, lascia aperto il discorso, elidendo un elemento fon- damentale crea un vuoto che produce straniamento, con la stessa tecnica di certi dialoghi beckettiani in cui si sviluppa fortemente il ricorso alla sospensione e alla frustrazione delle attese. Il primo pezzo costituisce la premessa, ma in questa premessa manca già un elemento di esplicitazio- ne, Laudate Dominum dovrebbe essere seguito dalle ragioni, ma qui le ragioni non ci sono, anzi, molti dei brani che seguono l’invito, e che com- pongono la raccolta, ne sono l’esplicitazione negativa, che prepara poi alla conclusione chiara e decisa: Laudate hominem, risposta paradossale e in contrasto con la logica del testo biblico. Appare chiaro come De André lavori sul capovolgimento paradossale del testo conosciuto, dato dalla tra- dizione, e giuochi parodisticamente sul ribaltamento dei significati. È evi- dente allora come il titolo della raccolta, La buona novella, sia sarcastico, e i brani contenuti al suo interno non siano altro che esplicitazioni dell’im- possibilità per la voce poetante a interagire in maniera positiva, a rispon- dere all’invito implicito del salmista a lodare Dio. Se ne evidenziano, nei brani racchiusi all’interno dei due cardini individuati, le ragioni: sopruso, ingiustizia, incomprensione, ipocrisia, tutti elementi che allontanano dalla sintonia adorante caratteristica di tanti salmi di lode e che collocano sot- tilmente, ma decisamente, il discorso di De André nell’ambito dell’impre- cazione, peraltro presente anch’essa nel Salterio. La conclusione di tutta la raccolta è sviluppata quindi sulla dissonanza, la disarmonia, la contraddi- zione: il tono duro, polemico, i versi aspri, rotti, sono una sfida, una rispo- sta insieme sprezzante e dolente all’idea della divinità di Cristo e ne scatu- risce un insieme spezzato, straniato, equivalente musicale dei volti scavati, dai tratti irregolari, dell’umanità del sottoproletariato agricolo e pastorale del Sud34, incarnata dai personaggi pasoliniani:

34. Cfr. Pier Paolo Pasolini, Pasolini su Pasolini, Conversazioni con Jon Halliday, Guanda, Parma 1992, p. 77. 214 Santa Boi

Il potere che cercava il nostro umore mentre uccideva nel nome d’un dio, nel nome d’un dio uccideva un uomo: nel nome di quel Dio si assolse. Poi chiamò Dio quell’uomo e nel suo nome nuovo nome altri uomini uccise35.

Se si legge da questa angolatura la raccolta non si può non dissentire dall’interpretazione fornita da Boccadoro che intervenendo sulla parte musicale di Laudate hominem considera il testo come

ben più solenne di quello iniziale. Si tratta di un vero e proprio pezzo di bravura per il quartetto vocale che deve arrampicarsi su estensioni scomo- dissime, cantando ritmi complessi e un testo molto lungo e articolato [...]. Il clima del brano è di grande impatto, [...] si ascoltano le stesse percussio- ni intonate dell’inizio, come campane lontane, che chiudono la partitura con le sonorità di gioia festosa che l’avevano caratterizzata al principio36.

Il clima del brano è di grande impatto, certamente, ma non per le ragioni indicate: chiude l’intera sequenza, infatti, non su una gioia festosa, ma su note dissonanti, segno della contraddizione posta e lasciata lì, aper- ta, insanabile, lacerante, forse proprio perché tale.

35. Fabrizio De André, op. cit., p. 108. 36. Giorgio Gallione, op. cit., p. 92. Ettore Cannas Cantare i Vangeli

Preliminarmente ad ogni riflessione è opportuno puntualizzare che considerazioni specifiche sull’album La buona novella non sarebbero state possibili, pena la temerarietà metodologica, se non come conseguenza di un’analisi complessiva dell’intera opera deandreiana. Un corpus di opere tali da rendere possibile, come accade nella critica letteraria, la presa in esame di una vera e propria poetica, ossia di una visione del mondo di costanti stilistiche e di motivi tematici ricorrenti1. Va infatti osservato che i diversi testi nell’essere indipendenti uno dal- l’altro risultano allo stesso tempo interdipendenti. Nel nostro caso «ogni canzone è riepilogo e capitolo di un’opera omnia in fieri, mondo a parte e parte del mondo»2, e di questa concezione delle canzoni intese come un’unica opera Fabrizio De André c’invia chiari segnali in alcuni album privi di silenzi, di pausa, tra i diversi brani, costruiti con intermezzi di col- legamento. Euanghelion: se la funzione del titolo è anche quella di orientarci sul genere letterario, nessun altro sarebbe stato più adeguato ad esprimere il

1. Paolo Jachia, La canzone d’autore italiana 1958-1997, Feltrinelli, Milano 1998, p. 11. 2. Romano Giuffrida, Bruno Bigoni (a cura di) Fabrizio De André, Accordi eretici, Euresis Edizioni, Milano 1997, p. 93. 216 Ettore Cannas contenuto dei singoli testi. La dimensione religiosa, essendo tutto l’album una riflessione teologica, emerge, almeno ad un primo livello di significa- to, in modo immediato. Motivo questo che mi ha portato a non ritenere necessario compiere un particolare lavoro di interpretazione: non va certo dimostrato ciò che è evidente! Altro motivo è che, a differenza di altre canzoni, queste sono state coralmente riconosciute di indiscussa valenza religiosa.

Dopo i teologi mi chiamavano nei loro convegni, e mi stupii che un can- tautore riscuotesse tanto interesse nel mondo ecclesiastico, anche se è vero che la radio vaticana aveva lungamente programmato Si chiamava Gesù, che la Rai tenacemente rifiutava giudicandola blasfema3.

Tuttavia, oltre ad un’analisi generale dei testi, vi sono almeno due aspetti sui quali sarà opportuno soffermarsi a riflettere: anno e contesto di pubblicazione e scelta, almeno come traccia di lavoro, dei vangeli apo- crifi. Iniziamo dal contesto: se il 1968 è considerata una data spartiacque, riferimento emblematico di un’esigenza di cambiamento, gli anni imme- diatamente successivi ne risultano certamente condizionati. Il periodo è quello della contestazione, da quella studentesca a quella operaia, della corruzione del sistema politico italiano e del problematico divario tra le diverse classi sociali. Il clima culturale, contraddistinto da discutibili ideo- logie, costituirà l’humus alla lotta armata e al terrorismo. Dalla valutazio- ne di una determinata ideologia politica, si passa alla valutazione dell’uo- mo con quella data idea; dal confronto, alla distinzione e separazione. Vi erano dei linguaggi pronti e confezionati e il riconoscimento della perso- na, il più delle volte, avveniva attraverso questi. Vi erano degli schieramen- ti, ed ognuno vantava e contrapponeva i propri ideologi.

3. Fabrizio De André, Amico Fragile, a cura di Cesare G. Romana, Sperling e Kupfer, Piacenza 1999, p. 75. 217 Cantare i vangeli

L’ideologia politica era la nuova fede religiosa, e quest’ultima, se rite- nuta funzionale o strumentale da alcuni sistemi, risultava contrapposta o disfunzionale ad altri. Quindi, per appartenere ad un partito politico era necessario essere, o apparire, credente o non credente, e in ogni modo, al di là di questa mia consapevole semplificazione, certo è che la religione, almeno in certi ambienti, come in una sorta di neo-illuminismo, veniva percepita come qualcosa da cui emanciparsi. È questo il contesto culturale nel quale Fabrizio De André scrive e pubblica La buona novella. L’invito è quello di leggere le istanze migliori e più sensate della rivolta del Sessantotto, attraverso la rilettura e confronto con quanto era accaduto qualche anno prima nel mondo, in Palestina, ad opera del «più grande rivoluzionario di tutti i tempi»4. Per quel che riguarda la scelta dei vangeli apocrifi, tra l’altro rimaneg- giati con grande libertà e fantasia, ha come primo motivo, sulla scia di Si chiamava Gesù, l’esigenza di soffermarsi a scrutare ed evidenziare l’umanità del Figlio di Dio. Viene da chiedersi: non avrebbe potuto ispirarsi al Vangelo di Marco, nel quale più consistente emerge tale profilo? Il secon- do motivo riflette più semplicemente il carattere di chi, essendo natural- mente portato a cantare fuori dal coro, trova più congeniale parlare di Gesù attraverso scritti verso i quali è più difficile, per la cultura ufficiale, vantare una solida e convalidata tradizione interpretativa. I richiami si rifanno soprattutto al proto vangelo di Giacomo.

4. Luigi Viva, Vita di Fabrizio De André. Non per un Dio ma nemmeno per gioco, Feltrinelli, Milano 2000, p. 149. 218 Ettore Cannas

Analisi generale dei testi

Oltre Dio e vocaboli equivalenti, come Dominum o Signore, i termini che ricorrono di più sono legati ai sinonimi di Gesù e al nome di Maria. In dettaglio osserviamo che Dio ricorre 16 volte, Dominum 7 e Signore 4; mentre con riferimento a Gesù abbiamo: Figlio di Dio 5, Figlio dell’uo- mo 2, Nazareno 2 e Messia 1; Maria 6. Ma sono presenti anche termini come Paradiso 5, Cielo 2 e Vento 2. Se una prima occhiata è sufficiente a notare che ricorrono quasi tutti i titoli cristologici, un discorso a parte meriterebbe l’uso delle parole cielo e vento, considerando che, nell’intera opera deandreiana, il cielo oltre a ricorrere come elemento fisico, immagi- ne poetica di notevole capacità evocativa e suggestiva, è presente come simbolo trascendente, dimora ultraterrena e paradisiaca. Per quanto con- cerne vento/soffio, esso ha la stessa duplice valenza riscontrata in cielo, però rispetto a questo indica, nella persona che l’adopera, un livello di conoscenza, di approfondimento biblico (soffio-Ruah-vento), ulteriore. Infatti, se cielo, spazio infinito che sovrasta la terra, viene comunemente usato come sinonimo di Dio, lo stesso non avviene con vento/soffio.

Alcune citazioni:

«Soffio a soffio / le spinge lo scirocco» (Nuvole Barocche in II Raccolta). «Ascolta la sua voce / che ormai canta nel vento» (Preghiera in Gennaio in Vol. I). «Soffia il vento e si porta lontano / il cappello che mio padre tormentava in una mano» (Marcia nuziale in Vol. I). «Puoi sentire piangere e gioire / anche il vento» (Caro amore in Vol. I). «Quando riascolterò / il vento tra le foglie» (Cantico dei drogati in Tutti morimmo a stento). «Ma il vento che la vide così bella / dal fiume la portò sopra a una stella» (La canzone di Marinella in Vol. III). «Quei giorni perduti a rincorrere il vento» (Amore che vieni amore che vai in Vol. III). «Lascia che il vento ti passi un po’ addosso» (La guerra di Piero in Vol. III). 219 Cantare i vangeli

«Il vento e la stagione ritornano a giocare» (L’infanzia di Maria in La buona novella). «Per un momento / corsi a vedere il colore del vento» (Il sogno di Maria in La buona novella). «Il vento ride forte» (Via della Povertà in Canzoni). «Se ti tagliassero a pezzetti / il vento li raccoglierebbe» (Se ti tagliassero a pezzetti in Fabrizio De André – Indiano). «Fuori soffiava dolce il vento» (Ballata dell’amore cieco in Canzoni). «A forza di essere vento / porto il nome di tutti i battesimi» (Khorakhanè in Anime salve). «Senza atti d’amore / senza calma di vento» (Anime salve dall’omonimo album). «E fu il calore di un momento / poi via di nuovo verso il vento» (Il pesca- tore dall’omonimo 45 giri).

Qualche riferimento biblico5:

«Al suo soffio si rasserenano i cieli» (Gb 26,13). «Lo ha rimosso con soffio impetuoso come quando tira il vento d’orien- te! » (Is 27,8). «Il vento soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai di dove viene e dove va» (Gv 3,8). «Il Signore cambiò la direzione del vento» (Es 10,19). «Intanto si era alzato un vento, per ordine del Signore» (Nm 11,31). «E quando soffia lo scirocco, dite… » (Lc 12,55). «Fai dei venti i tuoi messaggeri» (Sal 104,4).

Ruah in ebraico (pneuma in greco), può indicare sia lo spirito, soffio vitale: «Soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente» (Gen 2,7 b), che il vento: «Lo spirito di Dio – BJ traduce vento di Dio – aleggiava sulle acque» (Gen 1,2 b). Quest’ultimo, nel mistero della propria origine (da dove viene il vento? dove va?), diviene il simbolo, l’im- magine del Mysterion dal quale tutte le cose provengono. Si sentono gli effetti della presenza di Dio, pur non potendone con- templare l’essenza, come il sibilo del vento.

5. La Bibbia di Gerusalemme, Dehoniane, Bologna 199815, BC. 220 Ettore Cannas

«Se ti tagliassero a pezzetti / il vento li raccoglierebbe», dicono i versi dell’omonima canzone, e viene spontaneo interrogarsi sull’identità del o dei tagliatori. La domanda introduce un parallelismo antitetico molto sug- gestivo: da un lato gli uomini, (il tagliare è un’attività umana) che con la loro potenzialità distruttiva potrebbero recidere, tagliare, uccidere. Dall’altro il vento al quale si riconosce, invece, un’attività di segno opposto, positiva, sanante. Il primo uccide Marinella gettandola in un fiume, il secondo la sottrae a quella disumana sepoltura per condurla sopra una stella. De André, almeno stando al testo, sembra conoscere e giocare con il duplice significato del termine in questione. Così, analogamente a quel che accade a Mosè (Es 33,23 b) al quale è concesso (il testo non lo dice ma dal contesto si può supporre che ciò sia accaduto per un tempo molto breve) di vedere le spalle di Jhwh, Maria solo per un momento potrà vedere il colore del vento (cfr. Il sogno di Maria in La buona novella).

Molti i personaggi presenti nelle varie scene, la maggior parte dei quali risulta menzionata nei vangeli canonici: Gioacchino, Anna, Zaccaria, Giuseppe, Pilato, Abramo, Maddalena, Dimaco e Tito. Gli ultimi due nomi si riferiscono, negli apocrifi, ai due malfattori crocifissi con Gesù; in alcune sezioni anziché Dimaco si trova Dumaco6. Il verso di apertura di tutta l’opera, «Laudate Dominum», forma un’in- clusione tematica con quello di chiusura, il quale si risolve però in «Laudate Hominem». Viene descritta in questo modo una parabola discendente, sommatoria delle varie canzoni, attraverso la quale è possibi- le scorgere il cammino di Dio che si fa Uomo. E che sia proprio l’uma- nità, il filo conduttore dell’album, lo si evince già dai titoli: fra i due «Laudate» a Maria vengono dedicate, in modo esplicito, quattro canzoni su dieci; ma è comunque protagonista in Via della croce ed è una delle Tre

6. Cfr. La Bibbia, i Vangeli, con i più significativi apocrifi in appendice, Oscar Mondadori, Milano 2000, p. 350. 221 Cantare i vangeli madri. Completano l’album altri due personaggi: Giuseppe e Tito. Bisogna fare attenzione, però, a non desumere schemi di contrapposizione duali- stica che De André non utilizza. La sottolineatura dell’umanità non com- porta, come se ci fosse un automatismo intrinseco, la negazione della sacralità; essa rappresenta semmai la distanza, non condivisione, di una concezione del sacro «un dio va temuto e lodato» (Laudate Hominem), il cui riferimento trascendente è inteso come mito, realtà distante e imperturba- bile. Quindi i personaggi rivisitati da De André esprimono, e non perdo- no, come alcuni autorevoli commentatori sostengono7, un’altra sacralità proprio attraverso la loro vera e piena umanità.

L’infanzia di Maria 8 Descrive la tristezza di una bambina che si vede rinchiusa, poiché oggetto di promessa, nel ?Tempio del Signore’. È la storia di un’infanzia sottratta alla propria primavera: «il vento e la stagione / ritornano a gio- care. / Ma non per te, bambina, / che nel tempio resti china». Nella seconda parte la descrizione paradisiaca ed eterea della sua bel- lezza, «sembra venuta dal Paradiso», ricordando il Cantico dei Cantici non elude, anzi ricerca, il rapporto-confronto con la terra. Così, se nel poema biblico citato lo sposo dirà: «Distogli da me i tuoi occhi: il loro sguardo mi turba» (Ct 6,5a), qui abbiamo: «sembra venuta per tentazione».

Il ritorno di Giuseppe 9 Giuseppe, eccezionale figura di uomo sensibile e compassionevole, che nella prima canzone «rimase lontano quattro anni» per dei lavori che lo attendevano fuori dalla Giudea, fa ritorno da Maria con un singolare regalo: «una bambola magra, / intagliata nel legno».

7. Cfr. 9 AA.VV., Fabrizio De André, Accordi eretici, cit, p. 45. 8. Per un confronto fra il testo della canzone e l’originale apocrifo vedi, La Bibbia, i Vangeli, con i più significativi apocrifi, cit., p. 318. 9. Ivi, p. 319. 222 Ettore Cannas

Se nella prima canzone l’infanzia viene sottratta e disconosciuta, qui è recuperata e rinforzata: «La vestirai, Maria, / ritornerai a quei giochi / lasciati quando i tuoi anni / erano così pochi». Ed è ancora molto umano lo stupore di Giuseppe nel contemplare «quel segreto che si svela / quan- do lievita il ventre» (la gravidanza).

Il Sogno di Maria 10 Maria, con parole che troviamo nel Vangelo di Luca, spiega l’accadu- to. «e l’angelo disse: non temere, Maria, infatti hai trovato grazia presso il Signore e per opera Sua concepirai un figlio» (cfr. Lc 1,30); e ancora nei versi successivi, «lo chiameranno figlio di Dio » (cfr. Lc 1,32).

Ave Maria Comincia meglio a delinearsi, passo dopo passo, la risposta umana di Maria al mistero della divina elezione. Intensa comunicazione e cammino che troverà nella maternità l’espressione di tale sintesi. Ed è allora che la madre diventa personalità corporativa, modello di autentica e piena mater- nità. Accade perciò che «la gente si raccoglie intorno al tuo passare».

Maria nella bottega di un falegname Alla domanda di Maria: «Falegname col martello / perché fai den den?» questi, attraverso il chiarimento dell’oggetto che si appresta a realiz- zare, «tre croci», aggiunge che le stesse sono il risultato di un perverso sistema di valori, «due per chi / disertò per rubare, / la più grande per chi guerra / insegnò a disertare»11.

10. Ivi, p. 318. 11. Sugli effetti dell’insegnamento cfr. La guerra di Piero, dove, con il parallelismo Cristo-vita-croce, Piero-vita-morte, si tocca davvero il cuore dell’annuncio evangelico. Piero, pur sapendo (tutti i soldati lo sanno!) che non sparare potrebbe costargli la vita, mostra a quale esercito egli appartie- ne. La morte di Piero, nei versi finali, lungi dall’essere un fatto meramente privato, fa intravede- re la realtà che essa è in grado di modificare. La morte, analogamente al brano che stiamo consi- derando, assume una valenza sacrificale, anche Piero, come il grano, muore e viene sepolto per dare frutto. 223 Cantare i vangeli

Ma l’assurdo giudizio di condanna (la croce più grande), emesso a cari- co di chi cerca di affermare un’altra logica, mentre giudica, esprime la pro- pria limitata capacità a giudicare, fornendo così, esso stesso, la prova attra- verso la quale quel dato sistema (di giudizio), e in ultima analisi il potere, può essere a sua volta giudicato. Oltre il tema dell’umanità si delinea così l’altro filo tematico, il potere. Riflessione che, nell’album successivo, appa- rirà condensata in una sorta di formula sintetica : «non ci sono poteri buoni» (Nella mia ora di libertà in Storia di un impiegato).

Via della croce E sulla via del calvario, suggestivo e avvincente affresco, i colori più intensi vengono adoperati proprio per ritrarre il potere con i suoi formi- dabili ed efficienti apparati. vv. 1-4. «Poterti smembrare coi denti e le mani, / sapere i tuoi occhi bevuti dai cani, / di morire in croce puoi essere grato / a un brav’uomo di nome Pilato». Nei versi d’apertura, la canzone è complessivamente composta da 60 versi, troviamo la prima incredibile accusa. Le parole cari- che d’odio eccepiscono su come Pilato abbia amministrato la propria autorità: egli è stato troppo clemente; ben altra morte avrebbe meritato (vv. 1-2) il Nazareno. Seconda accusa: vv. 5-8. «Ben più della morte che oggi ti vuole, / t’uc- cide il veleno di queste parole: / le voci dei padri di quei neonati, / da Erode, per te, trucidati». Viene ricordato il dolore e la rabbia dei padri dei bambini fatti trucidare per te da Erode, e la denuncia contro il potere da questi rappresentato diventa inverosimile. Il dissenso, anziché rivolgersi contro Erode, unica causa della strage, si focalizza sulla vittima designata. Il sistema dà prova di grande efficienza: mentre nasconde e protegge (si auto protegge) il vero colpevole, criminalizza un innocente. Terza accusa: vv. 41-44. «Il potere vestito d’umana sembianza, / ormai ti considera morto abbastanza / e già volge lo sguardo a spiar le intenzio- ni / degli umili, degli straccioni». Al verso 41 compare l’anticristo, il vero 224 Ettore Cannas nemico! Coriacea e oscura presenza, combattuto e additato senza tregua lungo tutto il percorso della poetica deandreiana. Nei versi osservati è facile cogliere, in contrapposizione antitetica, i due temi centrali, particolarmente marcati nella Buona novella e comunque presenti, benché più sfumati, in tutta la produzione. Da un lato l’umanità di Cristo, «morto abbastanza», associato agli umili e straccioni, e dall’altro il potere che uccide e controlla. Non può sfuggire il parallelismo con l’Euanghelion.

Tre Madri Ritorna il tema dell’umanità: sotto la croce le madri dei condannati, accomunate dal dolore, piangono la sorte dei loro figli. Ma, inaspettata- mente, all’interno del quadro di disperazione, le madri dei due ladri rim- proverano Maria: vv. 5-10, «Con troppe lacrime piangi, Maria, / solo l’im- magine di un’agonia: / sai che alla vita, nel terzo giorno, / il figlio tuo farà ritorno / lascia noi piangere, un po’ più forte, / chi non risorgerà più dalla morte». Maria, con espressione di intensa umanità, manifesterà il suo profondo legame, spirituale-carnale: vv. 11-12, «Piango di lui ciò che mi è tolto, / le braccia magre, la fronte, il volto», e ancora, al v. 19, «Per me sei figlio, vita morente». Nei versi finali, che seguono, l’umanità, nella sua dimensione creaturale, raggiunge la massima espressione possibile. Si alza quasi istintivo, quasi incontrollato, il pianto della madre che, forte in tutta la vita, al cospetto del figlio che soffre, lancia un lamento ricolmo d’im- menso dolore: «Non fossi stato figlio di Dio / t’avrei ancora per figlio mio». 225 Cantare i vangeli

Il Testamento di Tito (testo integrale)12

Tito: Esodo 20,1-10 Il decalogo. Dio allora pronunciò tutte queste parole: Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dal paese d’Egitto, dalla condizione di schiavitù: 1. Non avrai altro Dio all’infuori di me, (1) [1] non avrai altri dei di fronte a me 2. spesso mi ha fatto pensare: 3. genti diverse venute dall’est 4. dicevan che in fondo era uguale. 5. Credevano a un altro diverso da te 6. e non mi hanno fatto del male. 7. Credevano a un altro diverso da te 8. e non mi hanno fatto del male. 9. Non nominare il nome di Dio, (2) [2] Non pronuncerai invano il nome del 10. non nominarlo invano. Signore, tuo Dio 11. Con un coltello piantato nel fianco 12. gridai la mia pena e il suo nome: 13. ma forse era stanco, forse troppo occupato, 14. e non ascoltò il mio dolore. 15. Ma forse era stanco, forse troppo lontano, 16. davvero lo nominai invano. 17. Onora il padre, onora la madre (3) [3] Ricordati del giorno di sabato per santifi- 18. e onora anche il loro bastone, carlo 19. bacia la mano che ruppe il tuo naso 20. perché le chiedevi un boccone: 21. quando a mio padre si fermò il cuore 22. non ho provato dolore. 23. Quando a mio padre si fermò il cuore 24. non ho provato dolore.

12. Il corsivo nei due testi è mio. 226 Ettore Cannas

25. Ricorda di santificare le feste. (4) [4] Onora tuo padre e tua madre 26. Facile per noi ladroni 27. entrare nei templi che riguargitan salmi 28. di schiavi e dei loro padroni 29. senza finire legati agli altari 30. sgozzati come animali. 31. Senza finire legati agli altari 23. sgozzati come animali. 33. Il quinto dice non devi rubare (5) [5] Non uccidere 34. e forse io l’ho rispettato 35. vuotando, in silenzio, le tasche già gonfie 36. di quelli che avevan rubato: 37. ma io, senza legge, rubai in nome mio, 38. quegli altri nel nome di Dio. 39. Ma io, senza legge, rubai in nome mio, 40. quegli altri nel nome di Dio. 41. Non commettere atti che non siano puri (6) [6] Non commettere adulterio 42. cioè non disperdere il seme. 43. Feconda una donna ogni volta che l’ami 44. così sarai uomo di fede: 45. Poi la voglia svanisce e il figlio rimane 46. e tanti ne uccide la fame. 47. Io, forse, ho confuso il piacere e l’amore: 48. ma non ho creato dolore. 49. Il settimo dice non ammazzare (7) [7] Non rubare 50. se del cielo vuoi essere degno. 51. Guardatela oggi, questa legge di Dio, 52. tre volte inchiodata nel legno: 53. guardate la fine di quel nazareno 54. e un ladro non muore di meno. 55. Guardate la fine di quel nazareno 56. e un ladro non muore di meno. 57. Non dire falsa testimonianza (8) 8] Non pronunciare falsa testimonianza contro il 58. e aiutali a uccidere un uomo. tuo prossimo 59. Lo sanno a memoria il diritto divino, 60. e scordano sempre il perdono: 61. ho spergiurato su Dio e sul mio onore 62. e no, non ne provo dolore. 63. Ho spergiurato su Dio e sul mio onore 64. e no, non ne provo dolore. 227 Cantare i vangeli

69. Non desiderare la roba degli altri (9) [9] Non desiderare la casa del tuo prossimo 70. non desiderarne la sposa. (10) [10] Non desiderare la moglie del tuo prossimo 71. Ditelo a quelli, chiedetelo ai pochi 72. che hanno una donna e qualcosa: 73. nei letti degli altri già caldi d’amore 74. non ho provato dolore. 75. L’invidia di ieri non è già finita: 76. stasera vi invidio la vita. 77. Ma adesso che viene la sera ed il buio 78. mi toglie il dolore dagli occhi 79. e scivola il sole al di là delle dune 80. a violentare altre notti: 81. io, nel vedere quest’uomo che muore, 82 madre, io provo dolore. 83. Nella pietà che non cede al rancore, 84. madre, ho imparato l’amore.

In questa canzone, per voce di Tito, viene ripreso e commentato il decalogo; rispetto a questo però notiamo una strana, e per alcuni versi enigmatica, inversione di posizione fra il terzo e quarto comandamento, e poi tra il quinto e settimo (cfr. Es 20). Potremmo azzardare una spiegazio- ne: la motivazione dell’inversione fra i primi due è forse dovuta al fatto che l’esortazione a santificare le feste, tradotta in modo formale, ovvero- sia come fittizia presenza nel tempio, è qui avvertita come comando del tem- pio, quindi, svuotata del suo significato originario, diventa subordinata, per importanza, al rispetto dei genitori. L’inversione fra cinque e sette, considerando l’uso talvolta simbolico dei numeri riscontrato13, per quanto ciò sia avvenuto in modo parsimonio- so, potrebbe essere riconducibile all’importanza attribuita nella Scrittura al numero sette qui utilizzato in corrispondenza di non uccidere, in un conte- sto in cui l’ucciso è tra l’altro il Nazareno.

13. Cfr. La ballata del Miche’: «Tutte le volte che un gallo / sento cantar, penserò» «Non canterà oggi il gallo prima che tu per tre volte avrai negato di conoscermi» Lc 22,34; e successivamente: «Domani alle tre / nella fossa comune cadrà». L'ora della sepoltura richiama quella della morte di Cristo: «Alle tre Gesù gridò con voce forte […], dando un forte grido, spirò» cfr. Mc 15,34-37). 228 Ettore Cannas

Tito e non Dimaco, ma Tito il buon ladrone, colui che potremmo defi- nire, attraverso il Vangelo di Luca, il primo santo dichiarato tale da Gesù, nell’atto finale della propria esistenza, confrontando la stessa con quanto prescritto dal decalogo, polemicamente esprime la difficoltà umana di rea- lizzarne le istanze. Ed è una difficoltà a tutto campo: laica e religiosa. Quest’ultima esprime le proprie contraddizioni con coloro che rubarono «nel nome di Dio», e poi ancora con la «legge di Dio tre volte inchiodata nel legno». Il ladro, attraverso uno schema trifasico: (1) riconoscimento delle pro- prie azioni; (2) giustificazione-commento; (3) imputazione; afferma di avere violato tutti i comandamenti, fornendo però giustificazione di ciò, ad eccezione del settimo (non ammazzare). A commento di questo, anzi, egli muove un’accusa: «guardate la fine di quel nazareno» è questa la vostra giustizia?! Tito sembra avere trovato un interiore equilibrio: ha peccato ma si auto-giustifica, anzi, a volte si difende ed accusa, non prova disagi o rimor- si né rimpianti o rammarichi; in realtà egli è un uomo dalla sensibilità bloc- cata. Le argomentazioni che usa possono essere più o meno condivisibili, non è questo l’aspetto centrale, ma il suo cuore è chiuso! Non ha mai avuto qualcosa né una (sua) donna, picchiato dal padre… forse non è stato amato? Il risultato è comunque che non sa cos’è l’amore. Ma nei versi finali, carichi di struggente intensità, avviene la risurrezione, la morte dell’uomo vecchio, e ciò accade a causa di Cristo, della sua umanità. A causa del Cristo, Tito potrà dire «ho imparato l’amore».

Laudate Hominem Da Tito, critico nei confronti di un certo tipo di religiosità, colpevole di avere rubato nel nome di Dio, si passa a gli umili, gli straccioni accusatori di un potere, che si dice religioso ma in realtà è reo di avere ucciso «nel nome d’un dio […] un uomo» (Gesù). Poi «nel nome di quel dio / si assolse». L’istituzione religiosa, o quanto meno il potere che usa argomentazio- ni religiose, diventa esempio d’irreligiosità. Si chiude il primo atto e, con 229 Cantare i vangeli un colpo di scena, si apre il secondo: «poi chiamò dio quell’uomo», l’uo- mo ucciso nel nome di dio adesso è chiamato dio, «e nel suo nome / nuovo nome / altri uomini / uccise». Il soggetto delle uccisioni è sempre il potere. Scatta adesso il ritornel- lo tre volte ripetuto, con una piccola variante: «Non voglio (nel 2° «Non posso» e nel 3° «No, non devo») pensarti figlio di Dio / ma figlio dell’uo- mo, fratello anche mio». Infine, prima di giungere al Laudate hominem del verso finale, vanno considerati due passaggi. Primo: «abbracciamo / la fede / che insegna ad avere / ad avere il diritto / al perdono, perdono / sul male commesso / nel nome d’un dio / che il male non volle, il male non volle, / finché / restò uomo / uomo». Secondo: «perché non si imita / imita un dio, / un dio va temuto e lodato / lodato» terzo ritornello e lode finale. Il significato della canzone sembra essere il seguente: se nel nome di un dio viene cagionata la morte, si impone il rifiuto dell’idea di quel dio, quindi, «non posso pensarti figlio di Dio / ma figlio dell’uomo, fratello anche mio». Quest’ultimo verso è un esplicito contatto con il titolo cristo- logico usato da Gesù nei vangeli, con il quale si esprime l’incontro e la sin- tesi della dimensione teologica e antropologica. La critica di De André è rivolta allora ad una concezione di dio con- trapposta all’uomo e, ancor di più, ai sistemi di potere che hanno assunto ed elaborato tale pensiero. In buona sostanza, l’Autore esprime una con- cezione dell’uomo e di Dio, ovverosia un’antropologia teologica, che orbita attorno al nucleo principale dell’annuncio evangelico fondato sull’amore. Questa è la condizione della vera religione. Ma come si può chiamare legge di Dio una legge che va contro l’uomo? La comunità lo ricordi: la legge ha una misura: l’uomo; un signore: il Figlio dell’uomo; un fine: la liberazione dell’uomo14.

14. Francesco Lambiasi, Vangelo di Marco, Piemme, Casale Monferrato 1987, p. 23 (commento a Mc 2,23-28).

Stefano Sanjust Il ‘suonatore’ Jones: l’unico che con la vita avrebbe ancora giocato

Fabrizio De André riprende in mano le poesie di Masters intorno ai trent’anni: aveva letto il libro da adolescente e lo trova attualissimo, nono- stante il tempo passato. È attratto, soprattutto, dal fatto che, come acuta- mente notava Cesare Pavese quaranta anni prima, nel suo saggio intitola- to L’Antologia di Spoon River: «come i morti di Dante, che sono più vivi che in vita, i morti di Spoon River prolungano in una forma sepolcrale tutti i loro malcontenti, le loro passioni»1. E come, mentre la vita spinge gli uomini alla competizione, portando- li spesso a pensare il falso o a non essere sinceri, la morte permetta ai per- sonaggi di Spoon River di esprimersi con estrema sincerità, perché non hanno più niente da aspettarsi o da temere. E parlano come da vivi non sono stati capaci di fare... Nasce così l’idea di un disco che riprenda alcuni dei temi trattati dai morti della collina; e a quel punto De André, che fino ad allora aveva scritto quasi tutte le sue canzoni da solo, tranne alcune con partners che potrem- mo definire occasionali, decide di avvalersi, per il nuovo disco, della col- laborazione del poeta Giuseppe Bentivoglio (con cui aveva già scritto La ballata degli impiccati), anche perché il verso libero usato da Masters mal si

1. Cesare Pavese, L'antologia di Spoon River, «La Cultura», novembre 1931, ora in Edgar Lee Masters, Antologia di Spoon River, a cura di Fernanda Pivano, Einaudi Tascabili, Torino 1992, p. XXIX. 232 Stefano Sanjust adattava alle canzoni e doveva creare, necessariamente, dei versi provvisti di ritmo e di rima. E, per la prima volta, cerca un partner anche per com- porre le musiche: Nicola Piovani, allora ventiquattrenne. Da quel momen- to, per quasi trent’anni, De André scriverà i suoi dischi sempre in coppia con altri artisti (Francesco De Gregori, Massimo Bubola, Mauro Pagani, Ivano Fossati). Tornando all’Antologia, De André è stato attratto dal fatto che i morti di Spoon River parlino con grande sincerità, perché non hanno più niente da perdere, e riescano ad esprimersi come mai, da vivi, fossero riusciti a fare; il tema portante è, quindi, quello dell’ ‘incomunicabilità’: nel micro- cosmo dei rapporti personali, ma, soprattutto, nella ragnatela dei rapporti sociali. Masters denunciava questo problema, tipico dei nostri tempi e della moderna società capitalista (frenetica e spesso dimentica dell’impor- tanza dei rapporti umani), come già presente nella provincia americana all’inizio del XX secolo; e De André lo fa suo, anche se, dovendo sceglie- re solo alcune delle 244 poesie dell’Antologia, decide di privilegiare due ‘sotto-temi’ presenti: l’invidia e la scienza.

Così spiega il cantante:

L’invidia perché direi che è il sentimento umano in cui si rispecchia mag- giormente il clima di competitività, il tentativo dell’uomo di misurarsi con- tinuamente con gli altri, di imitarli o addirittura superarli per possedere quello che lui non possiede e crede che gli altri posseggano. E la scienza perché è un classico prodotto del progresso, che purtroppo è ancora nelle mani di quel potere che crea l’invidia, e secondo me, la scienza non è ancora riuscita a risolvere problemi esistenziali2.

2. Tutte le citazioni di De André sono tratte dall'intervista a Fernanda Pivano, dalla copertina del disco Non al denaro non all'amore né al cielo. 233 Il ‘suonatore’ Jones

Delle nove poesie originariamente scelte da De André (e accettate in toto da Bentivoglio), quattro hanno come tema l’invidia (Frank Drummer; Judge Selah Lively; Wendell P. Bloyd; Francis Turner; che diventano Un matto, Un giudice, Un blasfemo, Un malato di cuore, anche se quest’ultimo, in realtà, incarna l’alternativa all’invidia, poiché spinto dalla molla dell’amore, e non da quella del calcolo), e tre la scienza (Dr. Siegfried Iseman; Trainor, the Druggist; Dippold, the Optician; che diventano Un medico, Un chimico, Un otti- co), mentre la prima canzone del disco, Dormono sulla collina è tratta dalla poesia che apre la Antologia (The Hill) e presenta, per così dire, alcuni tra gli abitanti del cimitero: Masters ne cita sedici, De André dieci, tutti pre- senti nella poesia (Elmer, Herman, Bert, Tom, Charley, Ella, Kate, Maggie, Edith, Lizzie), più Jones il suonatore (di violino, per Masters; di flauto, per regioni metriche, per De André), personaggio importantissimo, come vedremo, per entrambi gli autori, tanto da meritarsi una intera poe- sia (Fiddler Jones) e la canzone che chiude il disco, Il suonatore Jones.

Dormono sulla collina - The Hill

La canzone inizia con la presentazione del cimitero di Spoon River e dei suoi abitanti, così diversi durante la loro vita, travagliata e violenta, ed ora accomunati dal fatto di ‘dormire’ nella medesima collina. Tra tutti i defunti protagonisti della poesia, De André parla solo di quelli individua- ti col nome di battesimo, quasi a sottolineare, rispetto al poeta americano, di volersi interessare esclusivamente dei più disgraziati, di cui non si cono- sce nemmeno il cognome: 234 Stefano Sanjust

Elmer, Where are Elmer, Herman, Bert, Tom and che di febbre si lasciò morire, Charley, Herman, the weak of will, the strong of arm, the clown, bruciato in miniera. the boozer, the fighter? Bert All, all, are sleeping on the hill. ucciso in una rissa One passed in a fever, Tom one was burned in a mine, che uscì già morto di galera. one was killed in a brawl, Charley one died in a jail, che dal ponte volò sulla strada. on fell from a bridge toiling for children and Ella e Kate wife – morte entrambe per errore, all, all, are sleeping on the hill. una di aborto, l’altra d’amore. Where are Ella, Kate, Mag, Lizzie and Edith, Maggie the tender heart, the simple soul, the loud, the uccisa in un bordello proud, the happy one? dalle carezze di un animale All, all, are sleeping on the hill. Edith One died in shameful child-birth, consumata da uno strano male. one of a thwarted love, e Lizzie one at the hands of a brute in a brothel, che inseguì la vita one of a broken pride, in the search for heart’s lontano, e dall’Inghilterra desire, fu riportata in questo one after life in far-away London and Paris palmo di terra3. was brought to her little space by Ella and Kate and Mag – all, all, are sleeping, sleeping on the hill.

Tutti morti in modo violento, spesso dopo una vita disgraziata; segna- li della impossibilità per costoro, denuncia Masters, di vivere nella provin- cia americana all’inizio del secolo scorso: opulenta, ma foriera di enormi disagi esistenziali per coloro che ne erano ai margini. E secondo De André, evidentemente, esistono forti analogie con la nostra società dell’ul- timo Novecento, se afferma che «la borghesia è la classe che detiene il potere ed ha bisogno di conservarselo… e anche nel nostro tipo di vita sociale abbiamo dei giudici che fanno i giudici per un senso di rivalsa,

3. Il testo è stato rimodulato per continuità narrativa. 235 Il ‘suonatore’ Jones abbiamo uno scemo di turno di cui la gente si serve per scaricare le sue frustrazioni (è tanto comodo a tutti, uno scemo…)»

È presente, quindi, il medesimo disagio di vivere (non dimentichiamo che il ’68 era appena passato, ed aveva portato cambiamenti radicali); e la ulteriore, amara, constatazione che la guerra, il ‘grande, salutare, bagno di sangue’, tanto evocato anche nell’Europa imperialista del primo Novecento, abbia rivelato la sua vera faccia, poiché i soldati

partiti per un ideale sono morti combattendo, tanto che

hanno rimandato a casa le loro spoglie nelle bandiere legate strette perché sembrassero intere.

Sembra quindi preclusa, per entrambi gli autori, la possibilità di una speranza… ma così non è, e la canzone, come la poesia, termina con l’in- no al ‘suonatore’ Jones, che suona non per il danaro, ma per il suo diver- timento, offrendo così una possibilità di salvezza, e una speranza: una possibile alternativa di vita, tanto che il cantautore genovese decide di chiudere il disco dedicando a Jones e alla sua filosofia, positiva ed esem- plare, anche l’ultima canzone.

Un matto (dietro ogni scemo c’è un villaggio) – Frank Drummer

Il primo protagonista del gruppo dell’ ‘invidia’ è un matto, che, sebbe- ne possieda «un mondo nel cuore» poiché non riesce «ad esprimerlo con le parole» è deriso e vessato dall’intero villaggio, e neanche quando dorme riesce ad avere la pace, tanto che De André, rivolgendosi a lui in prima persona, gli dice: 236 Stefano Sanjust

Gli altri sognan se stessi e tu sogni di loro.

Egli è, insomma, il classico ‘scemo’ del villaggio, anche se, poiché pos- siede un’anima sensibile, è consapevole della sua posizione e soffre; fino a che un giorno, spinto dal bisogno di comunicare e di riscattarsi agli occhi crudeli dei compaesani, volendo farsi ascoltare prova a stupirli, cercando...

d’imparare la Treccani a memoria, tentativo che però gli spalanca le porte del manicomio, forse perché ormai fa paura. Così spiega il cantante: «Un matto parlava di uno scemo del vil- laggio, uno di quei personaggi sui quali la gente scarica, con ignobile iro- nia, le proprie frustrazioni. E che per invidia degli altri si studiò a memo- ria la Treccani; fu chiuso in manicomio, forse perché era impazzito o forse perché ormai ne sapeva troppo, e agli altri tornò comodo chiamarselo pazzo». In conclusione, sebbene quello di De André sia molto più lungo (ven- ticinque versi anziché otto) non si notano mutamenti di carattere concet- tuale tra i due testi poetici: laddove la cella di Masters diventa il manicomio, l’Enciclopedia Britannica si trasforma nella nostrana Treccani; e bisogna arrivare all’ultima strofa della canzone per trovare l’unica vera differenza che offre, forse, un misto di speranza e di amara ironia: mentre lo spazio oscuro della poesia, proseguimento, anche dopo la morte, del disagio di Frank Drummer, segnala lo scetticismo del poeta americano verso l’idea di un aldilà più felice; De André ci dice che il ‘matto’, considerato inutile durante la sua disgraziata esistenza, trova una sorta di riscatto post mortem:

Le mie ossa regalano ancora alla vita le regalano ancora erba fiorita.

Ma questa considerazione non coinvolge chi è rimasto in vita: gli abi- tanti del villaggio, coloro che hanno segnato, con i loro lazzi, tutta l’esi- 237 Il ‘suonatore’ Jones stenza del matto, privati per sempre del bersaglio del loro crudele ‘gioco’, continuano a deriderlo, anche dopo la sua morte:

Ma la vita è rimasta nelle voci in sordina di chi ha perso lo scemo e lo piange in collina; di chi ancora bisbiglia con la stessa ironia una morte pietosa lo portò alla pazzia.

La morte ha liberato il ‘matto’ dalle sue pene, ma nulla è cambiato per chi le aveva causate. (Forse sta proprio qui la punizione: continuare a vive- re allo stesso modo…).

Un giudice – Judge Selah Lively

Il giudice di Masters è un ometto sotto il metro e sessanta, deriso per la sua (scarsa) altezza, quello di De André ci spiega

Cosa vuol dire avere un metro e mezzo di statura e vedere se stesso negli occhi degli altri, attraverso gli sfottò crudeli, la mor- bosità delle donne, e le battute della gente, o la curiosità di una ragazza irriverente che vi avvicina solo per un suo dubbio impertinente: vuole scoprir se è vero quanto si dice intorno ai nani, che siano i più forniti della virtù meno apparente, fra tutte le virtù la più indecente. 238 Stefano Sanjust

È, in sostanza, il ‘simbolo’ dell’invidia, il più incattivito tra i protagoni- sti del ‘gruppo dell’invidia’, un «personaggio che diventa una carogna per- ché la gente carogna lo fa diventare carogna: è un parto della carogneria generale. Questa definizione è una specie di emblema della cattiveria della gente». Nella poesia Masters ci dice che il nano, dopo aver fatto il garzone di droghiere, studiando al lume di candela, riuscì a prendere la laurea in Legge e, grazie anche alla frequentazione ‘regolare’ della chiesa, a diventare il lega- le di tal Thomas Rhodes, che incassava cambiali e ipoteche e rappresenta- va tutte le vedove davanti alla Corte, anche se l’occupare questa posizione, evidentemente prestigiosa nell’ambito della piccola comunità dove egli viveva, non gli evitò ulteriori, e più crudeli canzonature da parte dei suoi paesani, che a questo punto lo prendevano in giro, oltre che per la sua altezza, anche per i vestiti e gli stivaletti lucidati. De André omette questi episodi e arriva al punto focale del ‘riscatto’: altre notti di studio, con un obbiettivo ancora più ambizioso. Assurgere all’altare della magistratura:

Fu nelle notte insonni And then suppose through your diligence, vegliate al lume del rancore and regular church attendance, che preparai gli esami, you became attorney for Thomas Rhodes, diventai procuratore collecting notes and mortgages, per imboccar la strada and representing all the widows che dalle panche d’una cattedrale in the Probate Court? porta alla sacrestia And through it all they jeered at your size, quindi alla cattedra d’un tribunale. and laughed at your clothes Giudice finalmente, and your polished boots? arbitro in terra del bene e del male.

E con il riscatto arriva anche la vendetta, concepita in modo diverso dai due autori: mentre il giudice di Masters ci dice che gli bastava vedere che tutti i giganti che lo avevano schernito fossero obbligati a stare in piedi davanti al suo banco e a dirgli: «Vostro Onore», e che fosse naturale per lui cercare di rendere loro la vita difficile, forse poca cosa, rispetto a ciò 239 Il ‘suonatore’ Jones che aveva patito; quello di De André va ben oltre, e la sua vendetta è molto più crudele:

E allora la mia statura And Jefferson Howard and Kinsey Keene, non dispensò più buonumore and Harmon Whitney, and all the giants a chi alla sbarra in piedi who had sneered at you, where forced to mi diceva: «Vostro Onore», stand e di affidarli al boia before the bar and say «Your Honor» – fu un piacere del tutto mio, Well, don’t you think it was natural prima di genuflettermi that I made it hard for them? nell’ora dell’addio non conoscendo affatto la statura di Dio.

In questo modo il nano, trasformato in mostro dalla ‘carogneria’ gene- rale, si vendica delle offese ricevute mandando al patibolo quelli che lo avevano deriso: non conosce il perdono, si pone al di sopra delle leggi degli uomini, e la sottomissione alla Legge di Dio avviene solo al momen- to della sua morte.

Un blasfemo (dietro ogni blasfemo c’è un giardino incantato) – Wendell P. Bloyd

Per tutta la prima parte della canzone De André non si distacca dal testo del poeta americano, infatti il suo ‘blasfemo’ ci rivela che venne arre- stato...

un giorno per le donne ed il vino, They first charged me with disorderly con- duct, there being no statute on blasphemy poiché non avevano leggi per punire un blasfemo 240 Stefano Sanjust e che in galera fu ucciso da due secondini, mentre quello di Masters venne rinchiuso in manicomio e percosso a morte da una guardia cattolica:

Non mi uccise la morte, Later they locked me up as insane ma due guardie bigotte, where I was beaten to death mi cercarono l’anima a forza di botte. by a Catholic guard

Anche nello spiegare i veri motivi dell’arresto i due autori partono dalle stesse premesse: il blasfemo di Masters fu condannato perché aveva sostenuto che Adamo era stato ingannato da Dio, che gli aveva prima nascosto l’esistenza del male, destinandogli una vita da stolto, e che, accor- tosi della sua disobbedienza, lo aveva poi punito cacciandolo dall’Eden, per impedire che cogliesse il frutto della vita immortale; quello di De André ci dice che fu arrestato perché

Perché dissi che Dio My offense was this: imbrogliò il primo uomo, I said God lied to Adam, lo costrinse a viaggiare and destined him una vita da scemo, to lead the life of a fool, nel giardino incantato ignorant that there is evil in the world lo costrinse a sognare, as well as good. a ignorare che al mondo c’è il bene e c’è il male.

E che Dio, scoperto che Adamo gli aveva disobbedito, mangiando la mela, lo punì:

Quando vide che l’uomo And when Adam outwitted God allungava le dita by eating the apple a rubargli il mistero and saw through the lie, d’una mela proibita God drove him out Eden per paura che ormai to keep him from taking non avesse padroni the fruit of immortal life. lo fermò con la morte, inventò le stagioni. 241 Il ‘suonatore’ Jones

Da questo punto i due testi poetici divergono: Masters continua nella sua accusa al Signore che, dopo aver impedito all’uomo di diventare immor- tale, ha addirittura crocifisso suo figlio per uscire da questo pasticcio:

«And now lest he put forth his hand and take also of the tree of life and eat, and live forever: therefore the Lord God sent Him forth from the garden of Eden». (The reason I believe God crucified His Own Son to get of the wretched tangle is, because it sounds just like Him).

De André aggiunge l’idea che la ‘mela proibita’, cioè la possibilità della conoscenza, non sia detenuta da Dio, ma dal potere poliziesco del sistema:

Non mi bastava il fatto traumatico che il blasfemo venisse ammazzato a botte: volevo anche dire che forse è stato il blasfemo a sbagliare, perché nel tentativo di contestare un determinato sistema, un determinato modo di vivere, forse doveva indirizzare il suo tipo di ribellione verso qualcosa di più consistente che non contro un’immagine così metafisica… Perché per il blasfemo il giardino incantato non è stato creato da Dio ma è stato addirittura inventato dall’uomo e comunque ‘la mela proibita’ è ancora sulla terra e noi non l’abbiamo ancora rubata. Perciò per ‘sognare’ voglio dire pensare nel modo in cui si è costretti a pensare dopo che il sistema è intervenuto a staccarci decisamente dalla realtà.

In questo caso, De André oltrepassa Masters (che aveva già denuncia- to, sessanta anni prima, il pericolo della manipolazione del pensiero) e, affermando che il sistema ci stacca dalla realtà, operando un vero e pro- prio lavaggio del cervello, rivela, rispetto al poeta americano, un pessimi- smo ancora più amaro:

E se furono due guardie a fermarmi la vita, è proprio qui sulla terra la mela proibita, e non Dio, ma qualcuno che per noi l’ha inventato, ci costringe a sognare in un giardino incantato. 242 Stefano Sanjust

Un malato di cuore – Francis Turner

L’ultimo protagonista del ‘gruppo dell’invidia’ è un malato di cuore che i due autori descrivono in modo molto simile: Masters gli fa confes- sare che è stata la scarlattina (malattia che, all’inizio del secolo, mieteva migliaia di vittime) a lasciargli il cuore malato:

I could not run or play in boyhood. In manhood I could only sip the cup, not drink – For scarlet-fever left my heart diseased. mentre il protagonista della canzone si dilunga nello spiegare come si rap- portasse agli altri, durante le fasi della sua esistenza:

Da ragazzo spiare i ragazzi giocare al ritmo balordo del tuo cuore malato e ti viene la voglia di uscire e provare che cosa ti manca per correre al prato, e ti tieni la voglia, e rimani a pensare come diavolo fanno a riprendere fiato. Da uomo avvertire il tempo sprecato a farti narrare la vita dagli occhi e mai poter bere alla coppa d’un fiato ma a piccoli sorsi interrotti…

La poesia è molto breve (tredici versi) rispetto alla canzone (trentatré versi), e brevemente il malato di cuore ci rivela il suo segreto: è morto per- ché, preso dall’amore, non ha voluto rinunciare a baciare la sua Mary, pur sapendo di rischiare l’infarto (che, puntualmente, arriva). Così, dopo una vita infelice, muore felice… De André riprende l’episodio, rendendolo, se mai fosse possibile, ancora più struggente: il suo protagonista si dilunga nella narrazione e la 243 Il ‘suonatore’ Jones sua (pur breve) felicità traspare da ogni parola; egli muore, ma è felice, per- ché non ha voluto rinunciare all’emozione dell’amore:

Eppure un sorriso io l’ho regalato Yet I lie here e ancora ritorna in ogni sua estate soothed by a secret none but Mary quando io la guidai o fui forse guidato know: a contarle i capelli con le mani sudate. there is a garden of acacia, Non credo che chiesi promesse catalpa trees, and arbors sweet with al suo sguardo, vines. non mi sembra che scelsi There on that afternoon in June il silenzio o la voce, by Mary’s side. quando il cuore stordì e ora no, non ricordo se fu troppo sgomento o troppo felice, e il cuore impazzì e ora no, non ricordo, da quale orizzonte sfumasse la luce.

Il malato di cuore, pur essendo nelle condizioni ideali per invidiare, rie- sce quindi a superare l’invidia perché lo spinge la molla dell’amore (e non quella del calcolo, come gli altri), anche se la sua è la scelta estrema:

Ma che la baciai questo sì lo ricordo Kissing her with my soul col cuore ormai sulle labbra, upon my lips ma che la baciai, per Dio, sì lo ricordo, it suddenly took flight. e il mio cuore le restò sulle labbra.

De André ci conferma quanto appena detto: «Il malato di cuore è l’uni- co che riesca a sconfiggere l’invidia con l’amore, e nel suo primo e unico incontro d’amore muore, con la felicità di avere regalato almeno un sorriso». E ora si dissocia dagli altri abitanti della collina, che hanno trovato la serenità solo dopo la morte, perché è riuscito ad essere felice da vivo, anche se per una sola volta.

E l’anima d’improvviso prese il volo, ma non mi sento di sognare con loro, no, non mi riesce di sognare con loro. 244 Stefano Sanjust

Concludendo, il malato di cuore ci trasmette questo insegnamento: la felicità che l’amore dà, per quanto di breve durata, a volte, può essere più importante di una vita, ancorché lunga, che rechi, esclusivamente, pena e affanno.

Un medico – Dr. Siegfried Iseman

Il medico della poesia di Masters è molto simile a quello della canzo- ne di De André: entrambi hanno preso la laurea in medicina, certi di poter aiutare gli altri; spinti, il primo, dal ‘credo cristiano’, l’altro da un sincero amore per il prossimo, nato in gioventù:

Da bambino volevo guarire i ciliegi I said when they handed me my quando rossi di frutti li credevo feriti: diploma, la salute per me li aveva lasciati I said to myself I will be good coi fiori di neve che avevan perduti. and wise and brave and helpful to Un sogno, fu un sogno ma non durò poco others; per questo giurai che avrei fatto il dottore I said I will carry the Christian e non per un dio ma nemmeno per gioco: creed perché i ciliegi tornassero in fiore. into the practice of medicine! Perché i ciliegi tornassero in fiore. E quando dottore lo fui finalmente non volli tradire il bambino per l’uomo e vennero in tanti e si chiamavano gente ciliegi malati in ogni stagione.

Ma la realtà che deve affrontare il medico è ben altra cosa: i colleghi, più scaltri e materialisti, approfittano della situazione e gli mandano i pazienti poveri, frustrando tutti i suoi sogni: fare il dottore è un lavoro come un altro e non è possibile curare gratis gli ammalati, specie se hai una famiglia da mantenere. Così cadono le sue illusioni… 245 Il ‘suonatore’ Jones

E allora capii, fui costretto a capire And the way of it is they starve you out. che fare il dottore è soltanto un mestiere And no one comes to you but the poor. e che la scienza And you find too late that being a doctor non puoi regalarla alla gente is just a way of making a living. se non vuoi ammalarti And when you are poor dell’identico male, and have to carry se non vuoi che il sistema the Christian creed and wife and children ti pigli per fame. all on your back, it is too much!

A questo punto, poiché non può trasgredire le regole e curare gratis i malati, il medico decide di sfidare il sistema, creando, imbottigliando e distribuendo un miracoloso ‘elisir di giovinezza’ che lo porterà veloce- mente in galera, bollato come truffatore e imbroglione:

Perciò chiusi in bottiglia quei fiocchi di neve, That’s why I made l’etichetta diceva: «elisir di giovinezza». the Elixir of Youth, E un giudice, un giudice which landed me con la faccia da uomo in the jail at Peoria mi spedì a sfogliare i tramonti in prigione branded a swindler and a crook inutile al mondo ed alle mie dita by the upright Federal Judge! bollato per sempre truffatore imbroglione dottor professor truffatore imbroglione.

La conclusione trova Masters e De André pienamente concordi: il sistema, che incanala lo sviluppo scientifico verso logiche esclusivamente di mercato, dopo aver impedito al dottore filantropo di mettere la sua scienza al servizio dei bisognosi, non gli permette neanche di fabbricare un sogno, perché esso, come ogni entità metafisica, sfugge ad ogni con- trollo, ed è, quindi, ritenuto pericolosissimo da chi vuole manipolare le menti e le coscienze. 246 Stefano Sanjust

Un chimico – Trainor, the Druggist

Ci sono alcune differenze tra il ‘chimico’ di Masters (Trainor, in realtà un farmacista) e quello di De André: il primo, protagonista di una poesia piccolissima (dodici versi), più che raccontare la sua vita, parla (da esper- to conoscitore dei legami chimici dei fluidi e dei solidi) dell’instabilità delle unioni fra gli esseri umani, aggiungendo, negli ultimi versi, che morì durante un esperimento e, quasi fosse un dettaglio di poco conto, che visse senza mai sposarsi. Le considerazioni che Trainor effettua dalla sua tomba sulla collina hanno quindi un carattere generale, collettivo, e non riguardano le sue esperienze personali; viceversa, il protagonista della can- zone si dilunga (per trentacinque versi) su riflessioni che investono la ‘chi- mica’ dei sentimenti umani, con precisi riferimenti alla propria sfera indi- viduale, cosa che lo rende, a mio parere, molto più interessante:

Da chimico un giorno avevo il potere And who can tell di sposar gli elementi e di farli reagire, how men and women will interact ma gli uomini mai mi riuscì di capire on each other, perché si combinassero attraverso l’amore. or what children will result? Affidando ad un gioco la gioia e il dolore. There where Benjamin Pantier and his wife, good in themselves, but evil toward each other: he oxygen, she hydrogen, their son, a devastantig fire.

Già dai versi iniziali della canzone si intuisce che il problema del nostro scienziato sia la sua totale incapacità di rapportarsi agli altri esseri umani: lui, così abile nel maneggiare le leggi della chimica, non riesce a capire i meccanismi che sottendono ai comportamenti degli uomini, studiati, evi- dentemente, come se fossero fenomeni naturali, anche se ciò non porta (ovviamente) a comprenderne le cause scatenanti. L’applicare il ‘metodo sperimentale’ alla sfera dell’irrazionale, rivela che egli, sebbene possieda il genio scientifico, trovi difficoltà insormontabili nel relazionarsi con gli 247 Il ‘suonatore’ Jones altri; e la cosa grave (per lui) è che si renda perfettamente conto del suo limite e che perciò sia infelice:

Guardate il sorriso, guardate il colore come giocan sul viso di chi cerca l’amore: ma lo stesso sorriso, lo stesso colore dove sono sul viso di chi ha avuto l’amore. Dove sono sul viso di chi ha avuto l’amore.

Riaffiora quindi il problema dell’incomunicabilità, denunciato dai morti dell’Antologia di Spoon River, aggravato dal fatto che il chimico, con- sapevole dei propri limiti, non riesce a farsene una ragione. È un proble- ma senza soluzione, che, perciò, genera rimpianti amari:

Che strano andarsene senza soffrire, senza un volto di donna da dover ricordare. Ma è forse diverso il vostro morire voi che uscite all’amore, che cedete all’aprile. Cosa c’è di diverso nel vostro morire. Primavera non bussa, lei entra sicura come il fumo lei penetra in ogni fessura ha le labbra di carne, i capelli di grano che paura, che voglia che ti prenda per mano. Che paura, che voglia che ti porti lontano.

Così, tra il desiderio e la frustrazione, trascina la sua vita, continuando a fare esperimenti, e non è un caso che sia uno di essi, da lui definito ‘sba- gliato’, a porre termine alle sue sofferenze:

Fui chimico e, no, non mi volli sposare. I, Trainor, the druggist, Non sapevo con chi e chi avrei generato: a mixer of chemicals, son morto in un esperimento sbagliato, killed while making an experiment, proprio come gli idioti che muoion d’amore. lived unwedded. E qualcuno dirà che c’è un modo migliore.

E, anche se definisce ‘idioti’, coloro che muoiono d’amore, probabil- mente avrebbe preferito quel tipo di morte... 248 Stefano Sanjust

Un ottico – Dippold, the Optician

L’ultimo protagonista del ‘gruppo della scienza’, l’ottico, vuole usare le lenti degli occhiali per poter disegnare, a suo piacimento, la realtà deside- rata, modificando quella oggettiva, troppo fredda e triste: perciò Dippold, l’ottico della poesia di Masters, fa provare ad un unico cliente una serie di occhiali (saranno dodici, alla fine), interrogandolo ad ogni cambio, fino a che, la risposta (e la realtà vista) non sia quella da lui voluta: una visione assoluta di luce, che trasforma tutto il mondo in un giocattolo:

Try this lens. Depths of air. Excellent! And now! Light, just light making everything below it a toy world.

De André opera allo stesso modo, anche se l’ottico della sua canzone rivela, sin dai primi versi, le sue intenzioni: poiché non è possibile modi- ficare strutturalmente la realtà effettuale, egli cercherà almeno di cambia- re la percezione visiva di essa, adattandola a quello che è il suo sogno; e il progetto vorrebbe coinvolgere quanti più clienti possibili, se è vero che si proclama ‘spacciatore di lenti’:

Non più ottico ma spacciatore di lenti per improvvisare occhi contenti, perché le pupille abituate a copiare inventino i mondi sui quali guardare. Seguite con me questi occhi sognare, fuggire dall’orbita e non voler ritornare.

Il cantante definisce questo pusher di sogni «un ottico che cerca di aiu- tare gli altri ad allargare, eludendoli, i confini della scienza, trasformando la realtà in luce e in illusione», e che perciò fornisce ad alcuni clienti occhiali di diversa gradazione, ognuno dei quali indica loro una realtà dif- ferente, in un crescendo di emozioni: 249 Il ‘suonatore’ Jones

Primo cliente: Vedo che salgo a rubare il sole per non aver più notti, perché non cada in reti di tramonti, l’ho chiuso nei miei occhi, e chi avrà freddo lungo il mio sguardo si dovrà scaldare. Secondo cliente: Vedo i fiumi dentro le mie vene, cercano il loro mare, rompono gli argini trovano cieli da fotografare. Sangue che scorre senza fantasia porta tumori di malinconia. Terzo cliente: Vedo gendarmi pascolare donne chine sulla rugiada, rosse le lingue al polline dei fiori ma dov’è l’ape regina? Forse è volata ai nidi dell’aurora, forse è volata, forse più non vola.

Ma bisogna aspettare l’ultimo cliente, per trovare la realtà desiderata:

Quarto cliente: Vedo gli amici ancora sulla strada, loro non hanno fretta, rubano ancora al sonno l’allegria all’alba un po’ di notte: e poi la luce, luce che trasforma il mondo in un giocattolo.

E, finalmente, l’ottico può esclamare:

Faremo gli occhiali così! Very well, well make the glasses accordingly. 250 Stefano Sanjust

Dippold ha incontrato il suo omologo, ed entrambi hanno visto l’im- magine della felicità in un mondo pieno di luce: mai, come in questa can- zone, De André e Masters sono stati sulla stessa lunghezza d’onda.

Il suonatore Jones – Fiddler Jones

Il ‘suonatore’ Jones non è diverso rispetto al Fiddler Jones del poeta americano, anche se cambia la collocazione che i due hanno all’interno delle rispettive raccolte: la canzone chiude il disco, laddove la poesia di Masters occupa nella raccolta il sessantesimo posto. Questa prima infor- mazione ci fa capire quanto i due autori tengano in diversa considerazio- ne il ‘suonatore’ Jones (di violino, per Masters, di flauto, per De André); ciò è comprensibile, poiché la Antologia è composta da moltissime poesie e ognuna ha, necessariamente, un peso minore rispetto alle canzoni: i morti di Masters sono elencati, per così dire, in ordine sparso, mentre i protagonisti delle canzoni indicano un percorso ben preciso, che il can- tante ha stabilito, scegliendo, per il suo disco, 9 tra le 244 poesie della rac- colta. Jones è l’eroe positivo del disco: dopo i rappresentanti dell’invidia e della scienza, che non hanno saputo essere felici durante la propria esi- stenza, ecco l’unico che sia riuscito a trascorrere serenamente i suoi novant’anni, perché è sfuggito alla manipolazione delle coscienze operata dal sistema, non si è piegato alla logica capitalista ed ha rinunciato a per- seguire il profitto, tutto preso dietro alla sua musica, tanto che, aggiunge il poeta americano, ha mandato in malora i suoi quaranta acri di terra, poi- ché, piuttosto che perdere tempo a coltivarli, preferiva suonare il violino: 251 Il ‘suonatore’ Jones

How could I till my forty acres not to speak of getting more, with a medley of horns, bassoons and piccolos stirred in my brain by crows and robins and the creak of a wind-mill – only these? And I never started to plow in my life that some one did not stop in the road and take me away to a dance or picnic.

La canzone ci dice che Jones non suona per i soldi, ma per il suo puro divertimento: la musica è per lui una scelta di vita e ridurla ad un mestie- re significherebbe rinunciare alla propria libertà:

Libertà l’ho vista svegliarsi ogni volta che ho suonato per un fruscio di ragazze a un ballo, per un compagno ubriaco.

E non si duole di essere cercato da tutti i compaesani, perché sa di ren- derli felici, perseguendo, allo stesso tempo, la propria felicità:

E poi se la gente sa, e la gente lo sa che sai suonare, suonare ti tocca per tutta la vita e ti piace lasciarti ascoltare.

La sua vita scorre serenamente e la morte, arrivata troppo presto, nonostante i novant’anni, lo coglie senza il rimpianto di non aver trovato il tempo (e la voglia) di coltivare i propri terreni e di farli fruttare:

Finii con i campi alle ortiche I ended up with forty acres, finii con un flauto spezzato I ended up with a broken fiddle – e un ridere rauco And a broken laugh, e ricordi tanti and a thousand memories, e nemmeno un rimpianto. and not a single regret. 252 Stefano Sanjust

Probabilmente ha vissuto così a lungo perché è stato disponibile verso gli altri, ed ha cercato, attraverso la sua musica, di trasmettere la sua serenità, la sua capacità di vivere senza cedere ai compromessi, offrendo sempre…

la faccia al vento, la gola al vino e mai un pensiero non al denaro, non all’amore né al cielo.

Fabrizio De André, qualche anno dopo l’uscita del disco Non al denaro non all’amore né al cielo si lasciò finalmente convincere a tenere dei concerti per il suo pubblico, divenuto ormai numerosissimo, che da tanti anni lo reclamava per sé, e, per i successivi venticinque anni, centinaia di migliaia di appassionati della sua musica hanno potuto ammirarlo dal vivo. Anche se, purtroppo, non è arrivato a novant’anni, ha donato, per tutta la vita, grandi emozioni a tutti coloro che lo hanno ascoltato, e ancora oggi, sebbene ci abbia lasciato nel 1999, è più che mai vivo nel cuore di chi lo abbia amato, e riesce sempre a comunicare, attraverso le canzoni, la sua filosofia di vita, la stessa del suo ‘suonatore’ Jones: l’unico, tra gli ospi- ti della collina, che con la vita avrebbe ancora giocato. Piero Mura Un pettirosso da combattimento

«… io sono un principe libero e ho altrettanta autorità di fare guerra al mondo intero quanto colui che ha cento navi in mare».

Samuel Bellamy 1 (Pirata alle Antille nel XVIII secolo)

La domenica delle salme, nata dalla collaborazione con Mauro Pagani, è stata pubblicata nel 1990, quarto brano dell’album intitolato aristofanesca- mente Le nuvole 2. E molte sono le nuvole che, più o meno esplicitamente, ne solcano il cielo: nuvole stilistiche, contenutistiche, linguistiche e musi- cali. Il disco è suddiviso, più o meno nettamente, in due parti nelle quali le nuvole sono reciprocamente metafora del Potere (o meglio dei Poteri: della finanza, della politica, dell’industria, dello Stato-mafia3, etc.), di quan-

1. Riportata sul retro di copertina del fascicolo contenente i testi del disco Le nuvole, Ricordi, Milano 1990. 2. Il primo disco inciso dall’allora diciottenne Fabrizio De André, un 45 giri pubblicato da Karim nel 1958, conteneva sul suo lato ‘A’ un brano intitolato curiosamente Nuvole barocche, scritto con Carlo Stanisci e Gianni Lario (il lato ‘B’ riportava E fu la notte), a dimostrare la persistenza nell’u- so di un lemma tanto carico di significati metaforici. Nella canzone, che rispetto alla successiva produzione appare come un esercizio di stile dedicato al tema dell’amor perduto (il cui testo è oggi riportato in Fabrizio De André, Come un’anomalia. Tutte le canzoni, a cura di Roberto Cotroneo, Einaudi, Torino 1999, p. 4), non compare nessuna delle metafore che alla parola sono attribuibili nell’opera del 1990. Fra questo primo disco e il successivo, inciso per la stessa etichet- ta appena tre anni più tardi e contenente le canzoni La ballata del Miche’ e La ballata dell’eroe, corre una distanza stilistica e narrativa infinita; appena ventunenne, nel 1961, De André aveva già tro- vato dal suo secondo lavoro la cifra poetica e politica che contraddistinguerà l’intera sua produ- zione successiva. 3. «[Le nuvole] per me simboleggiano […] i potenti della finanza, della politica e dell’industria, gli intellettuali di regime, i boss dello Stato-mafia, tutti quei personaggi ingombranti che impedisco- no al popolo di vedere la luce del sole, cioè la verità!» Fabrizio De André in Amico fragile. Fabrizio De André si racconta a Cesare G. Romana, Sperling & Kupfer Editori, Piacenza 1991, pp. 146-147. 254 Piero Mura ti cioè con la loro arroganza nascondono il sole ai più, e del Popolo, paso- linianamente rappresentato dall’uso dei dialetti (genovese, napoletano, sardo), di chi le nuvole può solo vederle dal basso, della gente cui paiono irraggiungibili.

Nel brano musica e linguaggio si muovono su binari paralleli: per entrambi il livello colto e quello popolare si alternano sfumandosi l’uno nell’altro, a incarnare la crisi della società borghese e del modo di raccon- tarla. Dal punto di vista musicale, preceduta da qualche battuta di Čajkov- skij4, apre il pezzo una dolce ossessione di chitarre, nella tonalità rabbio- samente malinconica di SI bemolle minore5. A queste seguono nell’ordine il violino e il kazoo, rappresentanti quasi per antonomasia il primo del registro ‘alto’, la ‘voce angelica’, il secondo di quello ‘basso’, la ‘voce umana travestita’, lo sberleffo, la pernacchia mascherata da musica. La dicotomia Potere/Popolo si ripropone così a livello strumentale, mediata dallo spartiacque centrale della chitarra, strumento polifonico colto e popolare nel contempo. La chitarra, non più o non solo strumento ma quasi estensione del corpo6, organo della poetica, metafora di quanti siano in grado di leggere con precisione le contraddizioni di questa società (come lo stesso autore o come i lettori/ascoltatori consapevoli), ma non possano o non vogliano fare a meno di viverle7, non ‘scelgano’, perma- nendo in una statica seppur consapevole medietà.

4. Pëtr Il’ic Čajkovskij (1840-1893), Giugno, in Le Stagioni, 12 Pezzi caratteristici, Op. 37 bis. 5. Sarà forse un caso, ma è nella stessa tonalità uno dei più famosi brani di Ciajkovskij, il Concerto n.1 in SI bemolle minore, op. 23, per pianoforte e orchestra. 6. «pensavo è bello che dove finiscono le mie dita / debba in qualche modo incominciare una chi- tarra», Fabrizio De André, Amico fragile in Vol. 8, Produttori Associati, 1975. In Come un’anomalia a cura di Roberto Cotroneo il testo per uno spiacevole refuso recita «incorniciare» in luogo di «incominciare». 7. «Vivo da benestante in una società di benestanti amministrata da benestanti, soffia un vento di mostruosità che respiro e subisco come tutti, vagheggio una vita diversa ma se mi tolgono, per motivi di disavanzo pubblico, due kilowatt, mi incazzo come tutti», Fabrizio De André in Amico fragile, cit., p. 147. 255 Un pettirosso da combattimento

Stesso andamento sinusoidale è rintracciabile nel testo. Alle esplicite dichiarazioni di poetica, alle citazioni colte (velate alcune, palesi altre), si alternano modi di dire e costrutti tipici dell’italiano parlato.

La narrazione si sviluppa staticamente per moduli, o meglio ancora per quadri8, allontanandosi in questo dallo stile solito dell’autore. Un prece- dente, sia tematico sia linguistico, può forse rintracciarsi nel brano Parlando del naufragio della «London Valour»9, pubblicato nel disco Rimini del 1978, il cui titolo allude abbastanza esplicitamente al naufragio dei valori della società occidentale causato dalla cieca e cinica gestione del potere10. Infatti, con l’esclusione di poche eccezioni (Amico fragile, oltre alle due già citate), cifra narrativa peculiare di tutta la produzione ‘letteraria’ di De André può essere considerata la tendenza a raccontare storie apparente- mente ‘minori’, cioè il riuscire a identificare con poetica consapevolezza il nucleo centrale di ogni vita, il suo nòcciolo, la serie di episodi che la ren- dono unica e diversa da ogni altra, prediligendo per questo le vite di quan- ti siano «come un’anomalia»11, fuori sintonia rispetto a una mal accettata idea comune di normalità.

8. La narrazione per quadri statici è tipica della Letteratura nipponica; si veda, ad esempio, Nemureru Bijo (1961) di Yasunari Kawabata (1899-1972), lo scrittore giapponese Premio Nobel nel 1968. 9. Devo questo suggerimento all’intuizione traslucida del signor Rinaldo protagonista di Vita and so on del signor Rinaldo Psicopompo, di Andrea Cannas, GED, Civitanova Marche 2003. 10. Scrive, ad esempio, nella canzone: «il paralitico tiene in tasca un uccellino blu cobalto / ride con gli occhi al circo Togni quando l'acrobata / sbaglia il salto» (Fabrizio De André, Parlando del nau- fragio della «London Valour», in Rimini, Ricordi, Milano 1978). Forse è superfluo specificare che «il paralitico» rappresenta la cieca gestione del potere (non a caso «il» e non «un») da parte di chi tende ad impossessarsi dei beni a danno degli altri e a godere cinicamente solo delle altrui scon- fitte. L'«uccellino blu cobalto», forse uno de «Les oiseaux bleus dans l'air» di Raymon Queneau (Idées, da Les Ziaux, ora in L'istante Fatale. Poesie, Guanda, Milano 1963, p. 34), diviene nella Domenica delle salme il «pettirosso da combattimento», esplicita metafora del bene più prezioso: la poesia. 11. Fabrizio De André e Ivano Fossati, Smisurata preghiera, nel disco Anime salve, Ricordi, Milano 1996, nel citato Come un’anomalia a cura di Roberto Cotroneo (p. 271) viene riportato un testo in cui lo stesso De André racconta della nascita di questa canzone e di come abbia tratto ispirazione e qualche verso dalle poesie di Álvaro Mutis. 256 Piero Mura

Una malinconica rabbia pervade l’intera canzone, «la rabbia per questo mondo senza più rabbia»12. Una rabbia forse fine a se stessa, di chi non pretende di cambiare le cose, e neppure di insegnare agli altri come cam- biarle; è la rabbia di chi si dispera per il mondo che lascerà ai figli e ai nipo- ti13, la cui colonna sonora è solo la fasulla quanto sterilmente inutile «vibrante protesta» che chiude narrativamente il brano.

Molte sono le chiavi di lettura che del brano sono state proposte dalla sua pubblicazione. Alcuni, arrivando a definirne l’autore «profeta con la chitarra»14, seppure inconsapevole, hanno rilevato l’anticipazione di temi e luoghi della politica che appena un paio di anni dopo sarebbero divenuti cronachisticamente noti15, altri hanno preferito sbirciare il «feretro / del defunto ideale» a cercarvi il cadavere dell’una o l’altra ideologia. Anzitutto va forse rilevato che si tratta di un canto per iniziati, quei pochi fra gli «ultimi viandanti» non ancora ritirati nelle catacombe, capaci di leggere con senso critico la realtà circostante e il male del potere. Il lin- guaggio, volutamente denso e oscuro malgrado l’apparente semplicità, così carico com’è di forme popolari e nel contempo gravido di citazioni, come si diceva, si struttura come lingua segreta, liturgica, nella quale rivol- gersi a quanti, per sensibilità, scelte politiche o personale vissuto, sia esso reale o letterario, abbiano elaborato, anche in forma magmatica, una poe- tica non dissimile. L’autore adopera gli stessi strumenti della satira, che si fa beffe del potere alludendo ai potenti senza mai nominarli direttamente,

12. Fabrizio De André in Amico fragile, cit., p. 147 dove, fra l'altro scrive: «Così, accanto all'indecenza di regime, facciamo circolare l'indecenza della non rabbia, della non bestemmia, della rassegnata assuefazione». 13. «Questo è appunto un disco su questa doppia indecenza [di regime e della non rabbia], che forse a molti di noi sta bene ma se mi spavento è perché mi chiedo come vivranno i miei figli e i miei nipoti», Fabrizio De André in Amico fragile, cit., p. 147. 14. Matteo Borsani, Luca Maciacchini, Anima salva. Le canzoni di Fabrizio De André, Edizioni Tre Lune, Mantova 1999, p. 147. 15. Nella prima strofa infatti si cita «la Baggina», come è comunemente chiamato a Milano il ‘Pio Albergo Trivulzio’, la casa di riposo per anziani oggi nota perché considerata il luogo fisico da cui partì lo scandalo di Tangentopoli, nel 1992. 257 Un pettirosso da combattimento lasciando la loro identificazione alla complicità. È l’arma della satira, ma senza la sua ironia. Alla speranza parrebbe essersi sostituito solo lo strug- gimento. Ciascuno dei quadri che costituiscono il brano può essere letto come un diverso epitaffio. In un lavoro del 1971, Non al denaro non all’amore né al cielo, De André, come già aveva fatto Edgar Lee Masters nell’Antologia di Spoon River16 da cui il disco è tratto, dà voce ai morti che «dormono sulla collina», fermandosi ad ascoltarne le storie e lasciando che sia loro affida- to il compito di far emergere una verità negata ai vivi. E curiosamente, nonostante il luogo, risalta una dimensione caratterizzata da una malinco- nica vitalità: dolori, passioni, pregiudizi, amori, amarezze e divisioni socia- li perdurano nei testi oltre i confini del buio. Parallelamente ne La domeni- ca delle salme l’autore si aggira in un, seppur diverso, cimitero. Qui il ruolo passivo di chi ascoltava i racconti dei fantasmi si rovescia: in una desolata pace senza soluzione, di per se stessa negazione della vita che è movimen- to, il poeta legge lapide per lapide una realtà ricostruita per assenze, mar- cata dai ritornelli.

I polacchi della seconda strofa, introdotti dall’ingresso della seconda chitarra che li colloca socialmente, inginocchiati come in un reale cimite- ro, seppure davanti ai semafori, pregano per la defunta Solidarietà civile, mentre i trafficanti di saponette ingrassano di soddisfazione per la morte dell’Etica. Sulla lapide del vecchio Assetto politico, crollato e morto insieme al muro di Berlino, la scimmia dei neofascismi balla, mostrando a tutti quelli che sono in grado di guardare di non avere niente alle spalle, di non aver le terga coperte da nessuna reale filosofia. Monumenti all’inutilità, come la piramide di Cheope, esigono la loro ricostruzione, in questo periodo di morte, pretendendo il sacrificio della granitica Verità (masso per masso),

16. Si veda Edgar Lee Masters, Antologia di Spoon River, a cura di Antonio Porta, Mondadori, Milano 1987. 258 Piero Mura delle Conquiste sociali (schiavo per schiavo) e dell’Ideale (comunista per comunista).

I polacchi non morirono subito e inginocchiati agli ultimi semafori rifacevano il trucco alle troie di regime lanciate verso il mare i trafficanti di saponette mettevano pancia verso Est chi si convertiva nel Novanta ne era dispensato nel Novantuno la scimmia del quarto Reich ballava la polka sopra il muro e mentre si arrampicava le abbiamo visto tutti il culo la piramide di Cheope volle essere ricostruita in quel giorno di festa masso per masso schiavo per schiavo comunista per comunista.

Nel primo ‘ritornello’ il gas esilarante, la Menzogna di Stato che suggeri- sce il fatto che tutto vada bene, soffoca la Giusta ribellione17 e il suo sposo, il Libero pensiero, mentre la cosiddetta società civile, da sempre troppo abi- tuata ad allontanare da sé la responsabilità, continua a dar peso a ciò che è marginale seppellendo insieme alla Critica la capacità di fare Autocritica.

La domenica delle salme non si udirono fucilate il gas esilarante presidiava le strade la domenica delle salme

17. Che la sola possibilità di crescita e conoscenza nasca dalla ribellione (alle regole, al sapere scon- tato, ai limiti imposti dall'alto) è uno dei fondamenti dimenticati della cultura occidentale incar- nato dall'Ulisse di Dante. 259 Un pettirosso da combattimento

si portò via tutti i pensieri e le regine del «tua culpa» affollarono i parrucchieri.

Col seguito dei violini passa il funerale della Giustizia, nella cui fossa è stato sepolto vivo Renato Curcio/Maroncelli, emblema di uno stato che imprigiona a vita chi non la pensa come si conviene, che rinchiude quei «servi disobbedienti / alle leggi del branco», come canterà nel disco suc- cessivo18. La lapide vicina è posta sulla tomba della Politica, non lontana da quella della Democrazia. I pochi superstiti di queste antiche famiglie, orfa- ni della Libertà, sono quelli disposti con Cicerone alla sola pace armata.

Nell’assolata galera patria il secondo secondino disse a «Baffi di sego» che era il primo «si può fare domani sul far del mattino» e furono inviati messi fanti cavalli cani ed un somaro ad annunciare l’amputazione della gamba di Renato Curcio il carbonaro. Il ministro dei temporali in un tripudio di tromboni auspicava democrazia con la tovaglia sulle mani e le mani sui coglioni «Voglio vivere in una città dove all’ora dell’aperitivo non ci siano spargimenti di sangue o di detersivo» a tarda sera io e il mio illustre cugino De Andrade eravamo gli ultimi cittadini liberi di questa famosa città civile perché avevamo un cannone nel cortile.

18. Fabrizio De André e Ivano Fossati, Smisurata preghiera, nel disco Anime salve, Ricordi, Milano 1996. 260 Piero Mura

Nel secondo ‘ritornello’ le orde dei veri morti, coloro che si ritengono vivi, quei «tutti», che già erano «tutti, tutte» ripetuto ossessivamente da Edgar Lee Masters nella poesia La collina e che De André sostituirà nella sua traduzione/rilettura con una più poetica ma meno fortemente incisi- va reiterazione del «dormono», quei morti, dunque, marciano inneggian- do all’apparenza al suono stridulo del kazoo.

La domenica delle salme nessuno si fece male tutti a seguire il feretro del defunto ideale la domenica delle salme si sentiva cantare «Quant’è bella giovinezza non vogliamo più invecchiare».

Il successivo gruppo di lapidi indica le sepolture della Partecipazione e dell’Impegno, della Coerenza e della Dignità.

Gli ultimi viandanti si ritirarono nelle catacombe accesero la televisione e ci guardarono cantare per una mezz’oretta poi ci mandarono a cagare «Voi che avete cantato sui trampoli e in ginocchio coi pianoforti a tracolla vestiti da Pinocchio voi che avete cantato per i longobardi e per i centralisti per l’Amazzonia e per la pecunia nei palastilisti e dai padri Maristi voi avevate voci potenti lingue allenate a battere il tamburo voi avevate voci potenti adatte per il vaffanculo». 261 Un pettirosso da combattimento

L’ultimo ‘ritornello’ mostra uno sguardo disincantato su questo deser- to, la «pace terrificante» che incombe sulla Waste Land di Eliot. Unico suono la «vibrante protesta» di un coro di cicale.

La domenica delle salme gli addetti alla nostalgia accompagnarono tra i flauti il cadavere di Utopia la domenica delle salme fu una domenica come tante il giorno dopo c’erano i segni di una pace terrificante. Mentre il cuore d’Italia da Palermo ad Aosta si gonfiava in un coro «di vibrante protesta».

Ho lasciato per ultima la prima strofa della canzone perché forse è la sola dalla quale emerga un piccolo seme di speranza. Qui le lapidi raccon- tano della morte di una illusione di società come era stata costruita negli anni Ottanta. La Milano da bere si è ritrovata bevuta dalla corruzione, le idee del ’68 hanno fatto i conti con capitalismo e consumismo. Ma accan- to alle tombe del Benessere e del Progresso sta la fossa vuota dell’unico che «riuscì a salvarsi» risorgendo dalle proprie ceneri come l’araba fenice, il piccolo «pettirosso da combattimento», metafora della Poesia, sulle cui fra- gili ali vola l’unica reale possibilità di riscatto19.

Tentò la fuga in tram verso le sei del mattino dalla bottiglia d’orzata dove galleggia Milano non fu difficile seguirlo il poeta della Baggina

19. «Quando la Scienza avrà messo tutto in ordine, toccherà ai poeti mischiare daccapo le carte», Ennio Flaiano, Autobiografia del Blu di Prussia, Adelphi, coll. Piccola Biblioteca, Milano 2003, p. 14. 262 Piero Mura

la sua anima accesa mandava luce di lampadina gli incendiarono il letto sulla strada di Trento riuscì a salvarsi dalla sua barba un pettirosso da combattimento. VARIAZIONI A CURA DI STEFANO SANJUST

Franco Fabbri Fabrizio De André musicista1

Voglio farvi ascoltare un po’ di musica, perché questo è il mio compi- to: non perché faccia il disc jockey, ma perché faccio il musicologo e, nei convegni sulla canzone d’autore – cui partecipo di frequente –, mi tocca fare la parte di colui che fa anche ascoltare della musica, oltre che parlare di musica. Perché, quando abbiamo a che fare con la canzone d’autore, si parla – giustamente – delle parole, ma, talvolta, si mette da parte la dimen- sione sonora. Ci sono tanti libri sulla canzone, in particolare su quella d’autore, che non hanno nemmeno una riga sulla musica e trattano soltan- to dei testi. Questo, naturalmente, è legittimo, perché è possibile leggere, apprezzare e considerare i testi nel loro giusto valore, ma, come diceva Fabrizio de André, «la canzone è un testo cantato», e l’importanza della musica non è legata esclusivamente alla coloritura emotiva, alla sottolinea- tura di quello che si dice nel testo, ma serve a comunicare dei significati che spesso sono in contrasto con quelli, come si usa dire, ‘veicolati’ dalle parole. I musicologi, naturalmente, si occupano di musica e di parole (non è un’ingerenza...) perché la musica nasce come canto: ancora oggi, di soli-

1. Franco Fabbri è intervenuto al convegno Cantami di questo tempo. Poesia e musica in Fabrizio De André il 26 giugno 2003, e la sua relazione, qui trascritta puntualmente, non è stata poi sostanzialmen- te modificata dall’autore. Volutamente si è qui lasciata la traccia dei brani ascoltati dal vivo, come guida alla lettura [n.d.c.]. 266 Franco Fabbri to, un buon corso di Storia della Musica all’Università o al Conservatorio parte dal canto gregoriano e arriva ai giorni nostri, passando per la polifo- nia, per il madrigale, per il melodramma, incontrando la parola da ogni parte. Una cosa che mi ha sempre molto colpito è che i musicisti che più di altri hanno teorizzato, con motivazioni varie, che le parole fossero più importanti, e che la musica dovesse servire le parole – come una brava ancella – fossero tra i più grandi della storia della musica: Monteverdi, Gluck, Schubert, Verdi, Nono. E quindi – e questo l’ho detto più volte, parlando di De André – non è che un musicista che metta in particolare rilievo il testo, come, ad esempio, un cantautore, sia per questo un musi- cista ‘minore’: è, semmai, un artista ‘maggiore’, è più bravo, perché riesce a mettere in evidenza il valore della parola. Quindi, io sono qui a difende- re le ragioni di Fabrizio De André musicista – ho scritto più volte che lo considero uno dei maggiori musicisti del ’900 – che, secondo me, può essere confrontato, per varie ragioni, a Nono, a Morricone; anche a Puccini, se vogliamo, anche se è una figura diversa, naturalmente. È stato infatti sovente un musicista con molte teste e molte mani: quasi tutti i suoi dischi sono stati fatti in collaborazione con altri, che hanno elaborato e interpretato quello che anche lui pensava; e questa figura, il doppio auto- re, è un elemento importante nella produzione musicale del ’900, e, in par- ticolare, in quella di De André. Questo vale anche per altri. Luigi Nono, per esempio: gli ultimi dieci anni della sua vita sono stati caratterizzati dalla collaborazione strettissima con alcuni interpreti come Fabbriciani, Schiaffini e altri, con i quali interagiva ogni giorno, facendo registrare dei frammenti, dei suoni particolari, sui quali poi sviluppava i materiali. E, fuori dai confini della musica, possiamo dire, più in generale, che la crea- tività collettiva sia un carattere essenziale del ’900. Pensiamo al cinema: chi è l’autore dei film di Stanley Kubrick? Lui, ovviamente… Ma è essenzia- le, per il film, anche l’autore degli effetti speciali, quello della fotografia, quello della musica. Tutta la storia del cinema – che è un’arte nuova, non 267 Fabrizio De André musicista confrontabile con la musica, che ha una storia secolare – è una storia di creazione collettiva. Venendo ora a Fabrizio, ho pensato di usare un po’ della sua musica – una minima parte – per collocarlo all’interno della musica degli ultimi cin- quant’anni. Il mio assunto è questo: tutti dicono che i suoi testi siano di grande valore, e autosufficienti, e questo non lo discuto, specialmente in presenza di tanti autorevoli italianisti; però le canzoni ci indicano l’altra grande componente, la musica. Allora io pongo questa domanda: possia- mo falsificare l’idea che i testi stiano bene da soli, se troviamo anche una sola canzone in cui venga detto qualcosa che nel testo non c’è? Mi sono arrovellato parecchio, su questa cosa, perché mi sembrava veramente che le parole dicessero proprio tutto. Finché mi sono reso conto che avevo la spiegazione sotto il naso da parecchi anni, perché aveva a che fare con la sua creazione più famosa: La canzone di Marinella. È tratta, si sa, da una sto- ria vera – lo dice anche il primo verso: «Questa di Marinella è la storia vera» – un fatto di cronaca: l’uccisione di una prostituta che venne getta- ta nel fiume Tanaro. Però, nella canzone non si parla di una prostituta: c’è un fiume – ma non è il Tanaro – dentro cui la poveretta scivola – non si sa come – e la protagonista non è una ragazza di vita degli anni ’60, ma una fanciulla che incontra un re senza corona e senza scorta. Insomma, il contesto sembra completamente diverso, anche se ho sempre pensato che fossero presenti le tracce della crudeltà di questo fatto di cronaca nera. Si può cer- care di ricostruirle ascoltando delle musiche, mettendo in relazione il lavo- ro di De André con la storia della popular music degli ultimi 40 anni.

Iniziamo con un primo ascolto:

Simonetta-Gaber, La ballata del Cerutti, Giorgio Gaber (1960)

Non ho sbagliato cantautore: questo è l’inizio della Ballata del Cerutti di Giorgio Gaber, una delle sue prime canzoni, col testo di Umberto 268 Franco Fabbri

Simonetta. Nel recitativo, all’inizio, Gaber dice: «Ho sentito molte ballate, ho sentito la ballata di Tom Dooley, la ballata di Davy Crockett». Ecco, vorrei partire proprio da Tom Dooley e Davy Crockett: vi sembrerà stra- no che per spiegare La canzone di Marinella si parta da qui, ma vi assicuro che poi vi risulterà assolutamente logico. Chi è Tom Dooley? È il prota- gonista di una ballata americana, interpretata dal Kingstone Trio – un gruppo di tre simpatici ragazzi con chitarra, contrabbasso e camicia a qua- dri, che ebbe successo nella seconda metà degli anni ’50 negli Stati Uniti. Un periodo molto critico nella storia della popular music americana, quello della reazione contro il rock and roll, quando le parti più retrive della società, rappresentate anche all’interno delle case discografiche, avevano deciso di combattere questa forma di musica che ‘rovinava’ i giovani e, soprattutto, le giovani. Avevano quindi boicottato le incisioni e i concerti degli artisti più noti del rock – specialmente quelli afroamericani – propo- nendo delle star alternative: tra le quali, oltre Harry Belafonte – nero gia- maicano nato a New York – tutta una serie di musicisti folk che facevano riferimento ad un movimento presente nelle università americane, il folk revival. Come giustamente ha scritto il mio amico Reebee Garofalo, studio- so della storia della popular music, le case discografiche americane, deciden- do di ‘lanciare’ la musica folk in contrapposizione al rock and roll, avevano «messo il piede sulla coda di una tigre» perché da quel movimento di folk revival, all’apparenza ingenuo e privo di idee – come nella canzone di Tom Dooley – verrà fuori Bob Dylan, per dirne uno. Avevano scelto il cavallo sbagliato, per così dire, però questi gruppi folk avevano una certa genui- nità, erano credibili, non erano considerati pericolosi e, soprattutto, si ricollegavano ad un grande mito americano, quello del West e della fron- tiera. Siamo nella seconda metà degli anni ’50, il periodo dei grandi film western: vi ricordate sicuramente Mezzogiorno di fuoco, con Gary Cooper nella parte dello sceriffo… Ebbene, un regista americano di quel periodo, Howard Hawks, rimase sfavorevolmente colpito da quel personaggio: nel film Gary Cooper aspetta che arrivino col treno i banditi, deve combat- 269 Fabrizio De André musicista terli, ma è solo e va ad implorare tutto il villaggio di aiutarlo. Questa cir- costanza – che fosse andato a pregare i compaesani, senza imporre la sua autorità di sceriffo – non era piaciuta ad Hawks – che, come dice il suo nome (nomina numina), era un falco, un americano ‘vero’. Perciò decide, nel 1959, di girare un film western con una storia molto simile a Mezzogiorno di fuoco, ma in cui lo sceriffo, non a caso interpretato da John Wayne, è un duro che rifiuta l’aiuto dei cittadini: «tu non sai sparare, tu sei troppo debole, faccio io da solo». In realtà è aiutato da Dean Martin, un ubriaco- ne, e da Ricky Nelson, un personaggio che ci fa tornare al discorso di prima, in quanto esponente dello shlock rock, il rock fasullo – inventato dalle case discografiche per contrastare quello vero – fatto da adolescenti molto carini, spesso di origine italiana, che non sapevano cantare né suo- nare, ma che incarnavano il tipo di star giovanilistica, perfetta per far dimenticare Jerry Lee Lewis e gli altri. Tornando al film di Hawks – che si intitolava Rio Bravo, tradotto in Italiano Un dollaro d’onore – c’è un assedio e lo sceriffo, Martin e Nelson resistono, asserragliati nella prigione, all’as- salto dei banditi che vogliono liberare un gaglioffo detenuto, loro amico. Una tipica situazione di assedio, che faceva venire in mente, all’americano medio, la battaglia di Alamo, l’assedio storico, nella storia degli Stati Uniti d’America: quando, nel 1835-36, i Texani cercarono di resistere all’attacco delle truppe del generale Santa Ana. Di lì a poco uscì un altro film, La battaglia di Alamo, con la regia di John Wayne, in cui il personaggio principale, Davy Crockett – l’eroe nominato nella canzone di Gaber – fece nascere in tutti i bambini del tempo – forse anche in Fabrizio de André – la voglia di portare un cappellino di pellic- cia, con la coda di orsetto lavatore… Questa si chiama intertestualità! Ora, cosa c’entra la battaglia di Alamo? C’entra perché Hawks ebbe l’idea di far risuonare, nella coscien- za dei protagonisti del film, il suono della tromba che il generale Santa Ana faceva suonare alla sua fanfara, durante l’assedio. Questa tromba ese- guiva una marcia che si chiamava Deguello, che vuol dire sgozzamento: il 270 Franco Fabbri messaggio era, ovviamente, «non avrete tregua, non faremo prigionieri». Ascoltiamo ora il Deguello: questo è il testo originale, suonato dalla fan- fara di Santa Ana, che segnalava, ai poveri patrioti americani, chiusi nel Forte Alamo, la loro fine.

Anonimo, Deguello

Howard Hawks fece scrivere la colonna sonora del suo film a Dimitri Tiomkin, un compositore allora molto celebre, un russo che era stato allievo, al Conservatorio di San Pietroburgo, di Alexandr Glazunov, già maestro di Rimskij-Korsakov: dunque un compositore di una certa importanza, che era stato educato in Europa, come molti suoi contempo- ranei – Max Steiner e altri, grandi autori di colonne sonore di film western –, da compositori del periodo tardo-romantico. Hawks spiegò a Tiomkin che voleva un Deguello «come se risuonasse nella memoria, malinconico» e allora a Tiomkin venne in mente una musi- ca che aveva ascoltato di recente, anch’essa legata ad un episodio storico di sangue – la fucilazione di alcuni patrioti spagnoli, nel 1806, da parte di soldati napoleonici, ad Aranjuez, presso Madrid – il famoso Concierto de Aranjuez, di Joaquín Rodrigo, scritto nel 1939, appena vent’anni prima.

Sentiamo un piccolo frammento del Concierto de Aranjuez:

Joaquín Rodrigo (1901-1999), Concerto de Aranjuez (1939), Adagio, Narciso Yepes (chitarra). Dir. Odón Alonso

A questo punto, credo si possa sentire subito, così non perdiamo la memoria, il Deguello di Tiomkin, dal titolo De Guello, nella orchestrazione di Nelson Riddle, uno dei grandi arrangiatori-direttori d’orchestra del tempo: 271 Fabrizio De André musicista

Dimitri Tiomkin, De Guello, Nelson Riddle (1959)

Vi domanderete perché faccio riferimento alla colonna sonora di un film, seppure molto importante, del 1959: perché il disco, nell’esecuzione dell’orchestra di Nelson Riddle, fu in Italia, quell’anno, un grandissimo successo discografico. Il 45 giri salì al primo posto nelle vendite e rimase complessivamente in classifica per 27 settimane. Per capire la portata di quel successo, pensate che l’anno dopo, nel 1960, solo un disco rimase in classifica per 27 settimane: Il cielo in una stanza di Mina. Stiamo quindi par- lando di un grande successo popolare. Il De Guello era decisamente nelle orecchie degli Italiani, tanto che inaugurò una specie di filone musicale, andato avanti per alcuni anni, di cui sono stati protagonisti alcuni stru- mentisti, in particolare Nini Rosso, che infilò una serie di successi come solista di tromba, in cui le atmosfere erano abbastanza simili a quelle del De Guello: una tromba che suona, a volte con ornamenti spagnoleggianti, un’orchestra sullo sfondo e un’atmosfera un po’ di ‘desolazione’ – se non l’assedio di Forte Alamo, una situazione, comunque, disperata. Il primo è La ballata della tromba, seguito dalla colonna sonora del film Marcia o crepa, e poi, nel 1965, da un altro grande successo, Il silenzio – che è il Silenzio militare. Vorrei far sentire ora La ballata della tromba, grande successo discografico del 1961, in cui è presente una combinazione abbastanza divertente, perchè l’accompagnamento, per un certo tratto, sembra quello di Nel blu dipinto di blu di Modugno, e anche Nini Rosso canta un po’ ‘alla Modugno’, come facevano tutti, all’epoca. Però, in alcuni tratti, si sente che il modello era il De Guello:

Franco Pisano, La ballata della tromba, Nini Rosso (1961)

Pensate agli strumenti che in questo momento sentite di più alla radio... la tromba non c’è mai! Oggi una tromba con questo andamento melodico non si sente più, mentre, tra la fine degli anni ’50 e l’inizio degli anni ’60, per gli italiani era uno strumento popolare, collegato a certe 272 Franco Fabbri atmosfere, a certi stati d’animo e significati. E qui arriviamo a La canzone di Marinella, non a proposito della tromba, ma per un altro aspetto: imma- gino che qualcuno di voi suoni la chitarra e abbia provato, qualche volta, a cantare La canzone di Marinella; ebbene, se uno la canta da solo, senza accompagnamento, suggerisce, inevitabilmente, un ritmo ternario; però, se provate a cantare il brano come è nel disco – in genere tutti i bravi can- tanti da spiaggia copiano dal disco e cantano La locomotiva di Guccini con la ‘erre’ di Guccini – vi accorgerete che è difficilissima, perché, mentre il tempo suggerito dalla melodia è ternario, l’accompagnamento della chitar- ra è binario:

Fabrizio De André, La canzone di Marinella, Fabrizio De André (1964)

L’ascolto suggerisce anche un’altra cosa: il ritmo della chitarra è quel- lo di De Guello, ed è anche quello del Concierto de Aranjuez – e alla fine entra una ritmica un po’ militaresca. E qui ritorno a ciò che dicevo all’inizio del mio intervento: ne La canzone di Marinella, che parla di un episodio confi- nato in un passato che immaginiamo rinascimentale, è presente questo elemento militaresco, che non c’entra niente... Il ritmo scandito ha a che fare con ben altro: con tutto quello che abbiamo detto in precedenza, cioè con l’enciclopedia semantica, codificata in quegli anni lì, rispetto ad alcu- ni particolari veicoli di significati musicali, quelli che il mio collega Philip Tagg chiama ‘musemi’, cioè unità di significato musicale. La musica di per sé non significa nulla, ma se si propongono a milioni di persone, per un periodo abbastanza ristretto, delle immagini che rappresentino qualche cosa, associando sempre la stessa musica, con particolari caratteristiche strutturali, si crea un codice e quelle caratteristiche strutturali diventano il veicolo dei significati che sono stati associati alle immagini. Pensiamo a quanti prodotti di largo consumo sono stati pubblicizzati alla televisione con le note iniziali di Così parlò Zarathustra di Richard Strauss: cosa c’entra Strauss, cosa c’entra Zarathustra con una fotocopiatrice? C’entra, perché quella musica, usata da Kubrick nel film 2001 Odissea nello spazio, è stata 273 Fabrizio De André musicista associata, dalle generazioni che hanno visto il film, ad immagini tecnolo- giche, di mistero, di fascino siderale, e quindi, usando quella musica, la fotocopiatrice ti permetterà di navigare nello spazio… Questo è il meccanismo dei codici musicali! Possiamo trarre una prima conclusione: che nell’enciclopedia semanti- ca diffusa nel 1964, anno in cui Fabrizio de André registra, con l’orche- strazione di Reverberi, La canzone di Marinella, fosse presente, come uno degli elementi dell’enciclopedia, un ritmo di chitarra proveniente dal Concierto di Aranjuez e dal De Guello, che veicolasse situazioni di paura, di angoscia, di assedio, di minaccia violenta a qualcuno. Manca ancora la tromba, e allora sentiamo come inizia l’ultima strofa de La canzone di Marinella…

Fabrizio De André, La canzone di Marinella, Fabrizio De André (1964)

Ecco, io credo che un simile riuso, se dimostra qualche cosa, dimostra la grande capacità che ha avuto sempre Fabrizio de André, insieme ai musicisti con i quali ha collaborato, di ricorrere anche ai codici popolari. È tutto sommato, tradotto in musica, ciò che Mauro Pagani diceva a pro- posito della ‘comprensibilità’: la musica deve essere compatibile (con il testo, ovviamente), deve cioè comunicare un significato, in questo caso sfumato ma preciso, all’ascoltatore medio di un certo periodo, che ha nella sua testa una serie di riferimenti codificati. È una manifestazione di grandezza e lo dimostro, ancora di più, con due ulteriori riferimenti, con i quali chiudo; il primo riguarda una rarità di Fabrizio de André, la canzone, espulsa dal suo album Volume I, presente invece nella prima versione:

Fabrizio De André, Caro amore, Fabrizio De André (1968)

Come molti sicuramente sapevano, Caro amore è in realtà una versione, in canzone, del Concierto di Aranjuez; la versione in Italiano di una canzo- 274 Franco Fabbri ne scritta da un poeta e chansonnier francese, Guy Bontempelli, sul tema del Concierto – la fucilazione dei patrioti spagnoli – intitolata Aranjuez mon amour e portata al successo da Richard Antony, di cui fioccarono diverse versioni: una di Dalìda, una di Amália Rodriguez, e un’altra di Claudio Villa, proprio con il testo – se non sbaglio – di Fabrizio De André che, rispetto al testo di Bontempelli, fa un’operazione di adattamento, trasfor- mandola in una canzone d’amore, poi eliminata dall’album probabilmen- te per problemi di diritti d’autore (il Concierto è del 1939, non molto tempo prima, e Joaquín Rodrigo era vivo e vegeto!). Ma, al di là di questo, Fabrizio non era soddisfatto perché in questa canzone non è presente l’appropriazione di un codice, ma l’appropriazione di tutto – cioè non di lavoro di riscrittura compiuto dall’autore si tratta, ma di utilizzo di un materiale già pronto. E, per concludere, un altro caso di utilizzo, da parte di Fabrizio De André, di materiale già dato: La canzone dell’amore perduto, ispirata, per non dire presa, dal Concerto per tromba in re maggiore di Georg Philipp Telemann – che propongo per due ragioni: la prima perché tutti sanno di questa ‘ispirazione’, ma quasi nessuno ha mai ascoltato Telemann; la seconda perché ascoltandolo si capisce il lavoro fatto da De André su quel mate- riale, perché l’Adagio, che dura meno di tre minuti, ha delle componenti abbastanza ‘ovvie’, che fanno parte della langue della musica del ‘700, che non interessavano De André – che infatti le ha tagliate, mentre ha preso, con grande maestria, altri elementi che cuce insieme. Propongo l’ascolto di queste canzoni, e non di altre dove De André mostra di essere un compositore di grandissime vedute e di grandissima tecnica, perché voglio farvi notare come abbia usato il mestiere di base del compositore di canzoni: io credo infatti che la bravura di un autore di can- zoni, e in particolare di Fabrizio De André, stia anche nella capacità di mettere insieme, di montare, di adattare materiali che non sono originali. Un’ultima osservazione: nell’intervista rilasciata a Riccardo Bertoncelli per un libro uscito di recente, Mauro Pagani afferma una cosa sulla quale 275 Fabrizio De André musicista concordo, e cioè che paradossalmente in Creuza de Mä era De André il produttore, non Pagani. Perché De André, oltre ad essere stato uno dei più grandi cantanti della canzone italiana di sempre, era un grandissimo costruttore di insiemi e di sistemi musicali, in cui spesso ha avuto anche il ruolo del produttore.

Fabrizio De André, La canzone dell’amore perduto, Fabrizio De André (1966)

Il brano è realizzato come, in quegli stessi anni, erano costruite le can- zoni dei Beatles: ci sono due chorus e un inciso, un bridge, cioè si tratta di una struttura basata su due elementi contrapposti, che, nata negli anni ’20 in America, scompare quasi nel nulla negli anni ’40 e ’50, per riapparire, all’i- nizio degli anni ’60, per merito dei Beatles. Fabrizio porta nella canzone questi elementi, così costruiti, prendendoli da punti molto lontani fra loro dell’Adagio di Telemann, che ora sentiamo:

Georg Philipp Telemann (1681-1767), Concerto per tromba in Re maggiore, Adagio, Erik Schultz (tromba), dir. Vladislav Czarnecki.

Mauro Pagani Lavorare con Fabrizio1

Ridendo, dico sempre che sono il bresciano più terrone che c’è, seb- bene la Sardegna sia un posto a sé e neanche il più stupido dei leghisti la consideri legata al meridione! Io ho cominciato a venire in Sardegna prima di conoscere Fabrizio, e questo rapporto è continuato poi negli anni, e continuo a venirci: è uno dei posti che è entrato a far parte della mia vita, per colori, situazioni fami- liari, mogli, altre storie… Dunque, lavorare con Fabrizio: dico sempre che sono stato una perso- na molto fortunata, nella vita, perché ho avuto la possibilità di lavorare con molta gente brava, e di imparare un sacco di cose. Io ho cominciato studiando il violino, privatamente, con un bravo maestro, e nel frattempo frequentavo le mie brave scuolette, perché il mio papà voleva che diven- tassi ingegnere. Finito il liceo mi sono iscritto all’università, ma avevo ini- ziato a suonare, e non l’ho mai finita, purtroppo. Me la tengo per la terza età! Quello che volevo fare era andarmene di casa, suonare e vedere il mondo. Non sono mai riuscito a pianificare la mia vita o prendere deci- sioni; ero spinto da una fame insaziabile nei confronti della vita e della sua

1. Mauro Pagani è intervenuto al convegno Cantami di questo tempo. Poesia e musica in Fabrizio De André il 26 giugno 2003, e la sua relazione, qui trascritta puntualmente, non è stata poi sostanzialmen- te modificata dall’autore [n.d.c.]. 278 Mauro Pagani bellezza: fortunatamente sono sempre stato uno stupido ottimista sogna- tore, cosa che ha fatto della mia vita una bella avventura: io sono quello che vede sempre il bicchiere mezzo pieno, che pensa che le cose andran- no sempre bene e quando le cose vanno male pensa che ci sia stato un disguido. Questo mi fa combinare un sacco di disastri, ma mi fa vivere bene! Facendo il musicista ho conosciuto un gruppo che sarebbe diventa- to la PFM: ho iniziato a lavorare con loro e abbiamo scritto un disco che è andato primo in classifica, per caso. Se ci fossimo incontrati due anni prima o due anni dopo, o, semplicemente, fosse stato un giorno diverso, probabilmente tutto questo non sarebbe successo. Erano musicisti molto bravi e io, da un punto di vista musicale, ho imparato molto da loro: abbiamo scritto delle canzoni, alcune delle quali ancora si ricordano e si canticchiano in giro, però io non ho mai avuto un’idea vera di cosa volesse dire scrivere una canzone, fin quando non ho cominciato a lavorare con Fabrizio. Ci siamo incontrati la prima volta nel 1970 a Milano, negli studi della Ricordi, durante la registrazione della Buona novella, dove io suonavo un ottavino in una parte del disco; poi non ci siamo più visti fino a quando ci siamo ritrovati, casualmente, in un altro studio di registrazione: io stavo lavorando a una colonna sonora di uno spettacolo teatrale di Gabriele Salvatores, una versione del Sogno di una notte di mezza estate di Shakespeare, e, nello studio di fronte, Fabrizio regi- strava L’indiano. Eravamo in uno di quegli studi residenziali, dove si abita; lontani da casa, in un posto sperduto, e la registrazione del disco durò due mesi. Siamo stati uno di fronte all’altro per due mesi e ci siamo conosciuti: abbiamo cominciato a parlare, a leggere, a guardare la televisione e sghi- gnazzare, ad ascoltare musica. Poi sono stato cooptato da Fabrizio perché gli servivo per suonare dal vivo: era reduce dall’avventura musicale con la PFM, che gli aveva scritto gli arrangiamenti prevedendo l’uso di violini, flauti, mandole, mandolini, doppie corde e io gli risolvevo un problema, perché ero uno dei pochi in giro che suonasse tutti questi strumenti. 279 Lavorare con Fabrizio

Perciò sono andato con lui a fare la tournée che è seguita all’uscita de L’indiano. Senza alcun tipo di mira… Già da parecchio tempo mi ero avvicinato alla musica del bacino del Mediterraneo, ma non con un istinto da studioso – avevo preso una cotta per questa musica! Io venivo dal rock-blues, sono un fan di Jimi Hendrix, dei King Crimson, dei Cream, dei Beatles; però, ad un certo punto ho sco- perto questo tipo di musica e, per molti anni, ho smesso di ascoltare il resto: andavo nei negozi di dischi e compravo tutto quello che si trovava di quel genere. Studiavo questo materiale perché mi piaceva e volevo capi- re come funzionava, e poi la musica è uno degli specchi più evidenti della storia di un paese, di un popolo, perché migrazioni, invasioni, scambi cul- turali – orde di stranieri che passano, lasciano tracce, portano via, prendo- no – disegnano il suono di una nazione, di un popolo: nella lingua, negli atteggiamenti, nella musica. Non dimentichiamo che tutta la musica del bacino del Mediterraneo – che è alla base dell’ispirazione di un lavoro come Creuza de mä – è arrivata a noi dalla tradizione orale, secondo un meccanismo che tendeva a conservare le cose non in maniera schematica, fotografandole o registrandole, ma imparandole e trasmettendole. E que- sta trasmissione è arrivata fino agli anni ’60, quando l’avvento della radio e della corrente elettrica ha iniziato, in molti paesi, il grande percorso del melting pot, il percorso della contaminazione, che ha bruscamente determi- nato la fine dell’esistenza delle culture incontaminate. Perciò, raccogliere materiale registrato fino ad una certa data ci permette di avere una docu- mentazione precisa sulla identità di certe culture, prima che iniziasse que- sto cambiamento. Nei Conservatori si conserva, oltre allo scibile musicale, la tradizione orale, legata ad ogni periodo storico, sul come bisogna leggere una parti- tura: cioè la stessa nota, scritta nel Seicento o nel Settecento, va eseguita in modo diverso, secondo la tradizione; ed è una cosa che la nostra stessa tradizione di scrittura, applicata alla nostra cultura, non è in grado di descrivere: ha bisogno della tradizione orale; figuratevi in un mondo nel 280 Mauro Pagani quale, molto spesso, la tradizione orale sia l’unico vettore di trasmissione. Questo concetto non lo avevo capito bene fin quando non mi sono iscrit- to ad un seminario di un musicista sardo – scomparso da qualche anno – che si chiamava Dionigi Burranca, il più grande suonatore di launeddas mai esistito, e l’ultimo portatore dell’antica tradizione non contaminata. Sono andato da lui perché provavo un grande amore per la musica sarda: credo che nessuna altra regione in Italia, oramai, abbia un’identità culturale così forte, così poco contaminata, come la Sardegna. Mi interessava capire, allora ho seguito questo seminario per alcuni giorni e, a un certo punto, ho chiesto: «Senta, Dionigi, mi spiega quale è il meccanismo secondo il quale lei improvvisa?». Gli feci questa domanda perché io venivo dal blues, dove l’improvvisazione, mutuata dal jazz, consiste nell’inserire, sopra uno schema comune, un modo di improvvisare, anch’esso figlio di una sorta di tradizione orale: le note del blues sono poche, e il musicista nero, che suona le stesse tre note che suoniamo noi, le suona meglio, perché, insie- me alla tradizione orale, c’è la millesima differenza di tempo, di ritmo, con il quale lui mette la nota, il momento in cui la mette, la sequenza in cui la mette… Tutto ciò è figlio di una tradizione orale fatta di un continuo ripe- tersi e svilupparsi di questo tipo di melodia che ha delle regole non scrit- te, ma che ci sono. E chiedevo a Dionigi quale fosse il meccanismo creativo presente all’interno di quel tipo di musica, dato che lo vedevo partire con un tema, e poi reggere da solo, con la respirazione circolare, un ballo tondo che durava venti minuti, venticinque, dove, di improvvisazioni, ce ne erano 250, 300 e lui, molto serio, mi ha detto: «Quello che io suono sono le improvvisazioni fatte dai maestri prima di me. Per esempio, questo pezzo lo suono da quindici anni, e mi sono permesso di introdurre la mia varia- zione, che è questa». E me l’ha fatta sentire: tutte le altre erano tutte le variazioni portate dai vari maestri, che venivano consegnate all’allievo pre- diletto e scelto, il quale le imparava a memoria e le consegnava a quello che veniva dopo di lui. 281 Lavorare con Fabrizio

In Africa capita la stessa cosa: il lavoro di musicista è prerogativa di alcuni clan familiari che lo portano avanti e, là dove è presente la religio- ne musulmana, la famiglia è allargata (il patriarca ha spesso tre o quattro mogli e sei o sette figli per moglie) e allora decidere chi sarà il portatore della tradizione potrebbe sembrare complicato. In realtà è molto sempli- ce: siccome il patrimonio musicale che il capo famiglia porta è la ricchez- za della famiglia – come se fosse bestiame, terreni, o altri beni –- prima di cominciare a dimenticarsi tutto, sceglie, tra tutti i suoi figli, colui che dovrà ‘portare il bastone’, come dicono loro, e gli consegna le sue conoscenze, un patrimonio che dovrà essere tramandato. La Sardegna è l’unico posto dove a me sia capitato di veder succedere questa cosa. Penso che in Italia ci sia una sola cultura con una tradizione musicale fortissima e altrettanto viva: la cultura napoletana, naturalmente, anche se è stata contaminata già dal Seicento, e molta di quella che noi definiamo ‘canzone tradizionale napoletana’ è figlia di musicisti colti napoletani che hanno studiato la musica classica e maestri come Vivaldi, Scarlatti, Mozart. Perciò la ric- chezza musicale di questa terra è una cosa davvero unica e non è un caso che il real world di Peter Gabriel ammetta di diritto la cultura sarda. Per tornare al lavoro insieme a Fabrizio, quando abbiamo fatto Creuza de mä lui proveniva da due dischi molto ‘americani’, scritti con Massimo Bubola, Rimini e L’indiano, e sentiva il bisogno di un ritorno ad una cultu- ra ‘nostra’. Era sempre più attirato da questa cosa e abbiamo fatto Creuza de mä, che è frutto di sette, otto anni di lavoro, anche se è stato scritto in due mesi. Lavorare con Fabrizio era anche una bella croce, credetemi! Creuza de mä è la storia di un marinaio che era in giro per il mare da tanto tempo che non si ricordava neanche più bene da dove fosse partito, che lingua aves- se; e che parlava in un linguaggio che era un misto fra il suo e tutti gli idio- mi che aveva sentito in giro. Così era anche il nostro progetto musicale: c’è il giro del Mediterraneo, quasi a trecentosessanta gradi, ci sono riferi- menti alle contaminazioni che quattrocento anni di dominazione turca 282 Mauro Pagani hanno lasciato in Grecia e nei Balcani, c’è il segno, molto arabo, del Libano, dell’Egitto e del Medio Oriente; c’è l’Africa, soprattutto con la cultura Kabil, che mi ha molto influenzato, come quella del Maghreb occi- dentale. Questo continuo miscuglio tra il mondo arabo e il risultato dei suoi ‘scontri’ con le culture locali mostra quanto la cultura mediterranea abbia ereditato dagli arabi. In Italia abbiamo avuto, soprattutto nei secoli bui dell’Alto Medioevo, una conservazione della cultura, diciamo così, un po’ venata di faziosità: chi ha conservato il sapere antico, in quegli anni, sono stati i conventi e non è che la Chiesa cattolica, fino a poco tempo fa, brillasse di ecumeni- smo e di illuminato rispetto per le culture e le religioni altrui. Nell’Alto Medioevo andava ancora peggio: per esempio si era deciso che la Notazione Gregoriana fosse l’unica canonica e la divisione della musica, così come la aveva organizzata Pitagora, nei sette modi – quella che usia- mo ancora oggi – era andata completamente perduta. L’abbiamo recupe- rata grazie agli arabi, che attraverso l’Africa e la Spagna ce l’hanno resti- tuita in Francia, assieme a gran parte della filosofia antica e della cultura greca. La lingua che noi pensavamo di applicare a questo progetto musicale era inventata – un progetto che ha una strana naturalezza sospesa nel tempo, perché figlia di questi anni passati ad ascoltare, esclusivamente, quel tipo di musica. Creuza de mä è un disco che avrà vent’anni il prossimo anno [nel 2004, n.d.c.] ma che è già considerato da molti un classico della cultura mediterranea: la cosa mi fa un po’ impressione, perché è stato scritto meno di vent’anni fa da un bresciano e da un genovese di scuola francese, che fino a due anni prima era un fan di Bob Dylan! Abbiamo quindi provato a scrivere in una lingua inventata, ma non ci siamo riusci- ti, perché il tentativo era figlio, comunque, di un’operazione intellettuale, costruita. E allora Fabrizio ha avuto la grande intuizione: «Il genovese ha 1200 parole il cui etimo è di origine araba, è una lingua di navigatori, che si è modificata continuamente: quale lingua è più indicata?». E i testi sono 283 Lavorare con Fabrizio venuti fuori in un attimo. Il lavoro duro è stato conservare la freschezza che aveva nella prima stesura, e Fabrizio è stato, in questo, molto più bravo di me: io ero, dei due, il più ‘musicistoso’, quello più coinvolto tec- nicamente, con la sala di registrazione, quello con le ansie di perfezione: allora lui si è messo tra me e il materiale e ha detto: «In sala di registrazio- ne rifacciamo, esattamente, questa cosa qui». È stato il guardiano della fre- schezza, della spontaneità del lavoro. Il disco è stato scritto in due mesi e abbiamo impiegato cinque mesi e mezzo a registrarlo. Ad ascoltarlo, non sembrerebbe: è molto ben curato, ma è semplice, ci sono pochi strumenti, non ci sono grandi elaborazioni. È molto sereno nella stesura, nel modo di cantare, di computare le note. Però è stata anche una gran fatica… Il primo approccio era complicato perché, come tutte le persone molto esigenti con se stessi – e come tutti i Genovesi –, era molto diffidente. Noi abbiamo lavorato insieme per tre- dici anni e abbiamo realizzato tre dischi, due scritti e uno dal vivo, e le frasi chiave sono sempre state: «Siamo sicuri? Va bene?». La cosa più importante che ho imparato da Fabrizio è stata ‘costruire’ una canzone. Come si fa a costruire una canzone? Spesso mi chiedono: «Comincia prima il testo, o la musica? Che cosa si sacrifica? Come si fa a decidere?». Prima il testo o prima la musica… dipende dalle occasioni: con Fabrizio abbiamo, quasi sempre, scritto prima la musica, tranne in alcuni pezzi, come La domenica delle salme, che sta nel disco Le nuvole, perché lui sentiva il bisogno di scrivere le parole in un certo modo, e quindi lo abbia- mo elaborato prima. Lui lo ha scritto, e io gli ho dato una mano. Fabrizio ha sempre avuto bisogno di interlocutori, ha sempre lavorato in coppia perché aveva bisogno di provare, di misurare, di confrontarsi, di chiedere, e La domenica delle salme l’abbiamo musicata dopo, perché l’im- portanza delle parole era molto forte, era già decisa prima. Generalmente abbiamo scritto prima il dato musicale, mettendo il testo dopo. Dunque, a cosa si fa attenzione quando si costruisce una can- zone? Fabrizio si autodefiniva un «autore di novelle», diceva che i suoi 284 Mauro Pagani pezzi erano «racconti, fatti e finiti», seguendo una serie di regole estetiche, la prima delle quali era: mai dare giudizi – le cose si devono raccontare in modo che un giudizio morale sia evidente, ma non espresso. «La chiama- vano bocca di rosa / metteva l’amore sopra ogni cosa. / Appena scesa alla stazione / del paesino di sant’Ilario / tutti si accorsero con uno sguardo / che non si trattava di un missionario»: non la giudica, non dice che è una puttana, o che è una ragazza di facili costumi; usa delle parole per permet- terti di trarre una serie di conclusioni, e questo è parte essenziale di un meccanismo creativo, perché – regola n° 2 – le canzonette devono emo- zionare, sennò si scrivono i libri, si mandano i telegrammi, si telefona. La ‘forma’ canzone, mutuata dalla tradizione popolare, legata alla cultura popolare, definita ‘poco nobile’ dalle istituzioni ‘ufficiali’, ha il suo grande pregio, e il suo grande limite, proprio nella sua costruzione essenziale, poi- ché la canzonetta gravita attorno all’emozione, che è la chiave attraverso la quale il testo ti deve arrivare. Certo, è difficile decidere prima che cosa colpirà l’attenzione: quegli imbecilli che scrivono i testi per il Festival di Sanremo pensano sempre che emozioneranno; mettono insieme una serie di parole perché, alla fine, vogliono emozionare. E ogni tanto ci riescono, ma il meccanismo non è quello, perché il meccanismo dell’emozione è una sorta di filo invisibile dove le parole, scelte con grande cura e attenzione, si appoggiano sulla melodia, passano attraverso una porta invisibile e ti entrano dentro. E come si muove la melodia? Perché la musica ti emoziona e ti accom- pagna? Provo a spiegarmi: è semplice. La musica ha, soprattutto nella tra- dizione popolare, una struttura abbastanza gerarchica: c’è una nota prin- cipale, la cosiddetta tonalità; quando si dice che un pezzo è in DO, signi- fica che quel pezzo è costruito in modo che il DO ‘comandi’. Ciò signifi- ca che la melodia, che porta le parole, si avvicina e si allontana dal DO secondo un movimento continuo – e il modo con cui si avvicina o si allontana da questo centro di gravità è quello che crea l’emozione. Essere sovrapposti al centro di gravità dà identità, conferma, sicurezza, pace. 285 Lavorare con Fabrizio

Tutti gli altri gradi di differenza dalla tonalità hanno una valenza che è comprensibile emotivamente, anche se non è compresa tecnicamente: esi- stono cioè degli intervalli costruiti apposta per non definire l’identità. Per esempio il jazz è costruito sulla doppia identità, e gli accordi sono doppi, cioè ogni accordo ha due facce, due nomi e due cognomi. E la conviven- za tra le due identità, questa schizofrenia costruita assieme all’alternarsi continuo della melodia tra l’uno e l’altro, crea il tipo di tensione, talvolta complessa e incomprensibile, che sta all’interno del jazz. Nella musica popolare questo spesso non succede: c’è una sola identità che spesso, più che una tonalità, è una scala. Esistono culture che hanno delle scale solo di cinque note, e noi occidentali pensiamo che ne usino cinque perché non hanno voglia di usare le altre due… No! Per loro non ci sono! È come se questa scala fosse costituita da un gradino corto, tre lunghi e un altro alto, grosso così, ognuno dei quali corrisponde a un movimento estetico. E quei musicisti fanno ogni passo con la consapevolezza di salire un gradi- no alto o uno basso e si muovono continuamente, lungo questa scala, andando su e giù, intorno al meccanismo dell’emozione. Le parole galleg- giano su questa danza e quindi ora si può intuire quanto sia importante la scelta di ognuna di esse, così strettamente legate alle note alle quali sono state accoppiate. Con le parole è tutto molto più semplice: è facile capire, per esempio, che ci siano 25 modi diversi di dare dell’imbecille ad una persona, ognu- no dei quali abbia un suo colore: il grigio chiaro, il grigio scuro; c’è un modo ironico, ma non offensivo, c’è un modo non ironico, ma offensivo: esistono parole semplici che, usate durante un litigio, scatenano una rissa, e altre no. Se durante un litigio in strada usi i normali insulti, tipo faccia di…, testa di…, negli ultimi tempi non si arrabbia più nessuno; se tu gli dici pezzo di…, lui risponde faccia di…, è normale. Però, se dici a uno: «Lei è un imbecille!», questo scende dalla macchina e ti uccide. Questo per dire come la gradazione delle parole abbia in realtà un peso enorme: allora, la grande bravura di Fabrizio è stata quella di perdere degli 286 Mauro Pagani anni nello scegliere la parola giusta, da mettere nel posto giusto. Perché lui ci metteva sei anni a fare un disco? Perché i dischi si fanno quando i pezzi sono finiti: qualche volta i pezzi si finiscono in tre mesi, altre volte in tre anni. E io, che oramai ho preso questo ‘difetto’, pubblico un disco ogni dieci anni! È importante, dunque, ricordare che, per alcuni, le canzonette sono solo merce, per altri una forma espressiva estremamente complessa, perché usa due linguaggi sovrapposti. Voglio finire ricordando l’altra grande attenzione di Fabrizio, una cosa che tutti, quando comunichiamo, dovremmo ricordarci: l’attenzione ossessiva alla comprensibilità di quello che si dice. Perché tutti noi, quan- do ci esprimiamo, tendiamo a sottovalutare la quantità di lessico familiare che ci portiamo dietro, e usiamo una specie di codice comunicativo secon- do il quale una parola, detta in un certo modo, assume un preciso signifi- cato che, in un altro contesto, cambia. È un modo di comunicare usato con le persone con cui si ha a che fare quotidianamente, ma che non è detto che valga per gli altri. È un meccanismo che, quando si comunica a livello ampio, ci induce a commettere spesso grossi errori: capita di fare delle battute che nessuno capisce, di dire frasi in un modo sbagliato, per- ché non si sta attenti a come le si trasmette. Si ha poca consapevolezza del linguaggio, che diventa sempre più gergale; l’ossessione di Fabrizio era quella di comunicare alla gente ciò che lui diceva, nel modo in cui lui vole- va: la fase complicata dei mixaggi era alzare le sillabe di tot: «Abbassa que- sto, alza quello. Ma si capirà? Farà ridere? Siamo sicuri?». Concludo raccontando un episodio, stupido ma significativo: stavamo mixando, in un disco del ’90, un pezzo che si chiama Don Raffae’ – un pezzo che, oggettivamente, fa ridere o, comunque, sorridere nel modo giusto, intelligente. Ad un certo punto, a mix quasi finito, ordiniamo qualcosa dal bar e arriva il cameriere, un ragazzino di quattordici anni, abbrustolito dalla lampada, vestito da tardo ‘paninaro’ – i capelli tirati indietro e impo- matati, la cicca in bocca e la camminata ondeggiante – che porta i panini e se ne va. Fabrizio si incupisce sempre di più e sbotta, mentre il pezzo 287 Lavorare con Fabrizio andava: «Senti, Mauro, dobbiamo cambiare, la canzone non fa ridere». «Perché?», gli chiedo io… «Hai visto, il ragazzino è venuto mentre passa- va il pezzo, e non ha riso». Questo esempio spiega quanto fosse forte l’os- sessione di Fabrizio. In questo momento sto mixando la registrazione del concerto tenuto al Carlo Felice di Genova il 12 marzo del 2000, un grande tributo a Fabrizio De Andrè, cui parteciparono i più grandi cantanti italiani: Vasco, Battiato, Ligabue e altri. E sto quindi riascoltando molti pezzi di Fabrizio, compre- si alcuni che non ricordavo più. Ebbene, ogni giorno rimango esterrefat- to dalla bellezza delle parole. Pensiamo alla canzone Bocca di rosa, citata prima: sembra quasi ovvio che le parole usate debbano essere quelle. Ma dietro a questa spontaneità c’è un lavoro di anni. Fabrizio era un uomo del ‘600, figlio dell’Arcadia: prendi il lavoro, mettilo nel cassetto, limalo per dieci anni e poi sarà pronto. Lui era fatto così e tutti i suoi dischi sono il frutto di anni di grandissimo lavoro. Ciò che ha sempre distinto Fabrizio dagli altri è che – mentre per molti trovare le parole adatte alla musica ha come scopo principale l’estetica del contenitore, fine a se stessa – a lui la forma interessava, esclusivamente, per dire quella cosa lì, in quel modo lì.

Ignazio Macchiarella Echi d’altre tradizioni musicali

Questo intervento intende proporre poche sommarie osservazioni sulla produzione musicale di Fabrizio De André alla luce delle mie com- petenze d’etnomusicologia. Non sono De Andreologo né, tanto meno, un De Andreomane: anzi confesso di aver smesso di seguire De André dalla metà degli anni Ottanta dopo una giovanile infatuazione al primo ascolto di Storia di un impiegato (album di cui il magnifico intervento di Antioco Floris a questo convegno mi ha fatto riscoprire e comprendere a pieno la ricchezza e la profondità dei contenuti, nonché l’attualità) e di avere scoperto il grande De André di Anime salve solo tre anni fa, allorché Rossana Dalmonte mi fece un invi- to più o meno analogo in occasione di un incontro di studi da lei organiz- zato presso la Facoltà di Lettere e Filosofia di Trento1. Il tema dei rapporti fra De André e le ‘altre musiche’ (con l’ambiguità tutta propria della definizione ‘altre musiche’2) sembrerebbe rimandare

1. Giornata di studio nel primo anniversario della scomparsa di Fabrizio De André, Trento 11 gennaio 2000 (interventi di Franco Fabbri, Luca Marconi, Ignazio Macchiarella, Niva Lorenzini, Marco Neirotti, Cesare Romana e Piero Milesi). 2. L’espressione, di per sé, meriterebbe un’intera trattazione che non sarebbe pertinente in questa sede. Qui di seguito la userò in un’accezione d’uso comune, intendendo con essa sia le musiche di culture non occidentali sia le espressioni della musica tradizionale diffuse nel continente euro- occidentale. Per una trattazione introduttiva sull’ambiguità nell’uso di questa espressione rinvio alla recente letteratura etnomusicologica (a partire da Jean Jacques Nattiez, Etnomusicologia, in Jean Jacques Nattiez, a cura di, Enciclopedia della Musica, Einaudi, Torino 2002, vol. II, pp. 677-693. 290 Ignazio Macchiarella ipso facto agli ultimi album, quelli delle cosiddette aperture mediterranee, dallo splendido Creuza de mä in poi (1984). In tal senso esso è stato molte volte proposto nella ricca pubblicistica sul musicista genovese, sebbene in maniera piuttosto superficiale, finendo per lo più nel risolversi in sterili evocazioni degli ‘originali di riferimento’, cioè nella semplice indicazione della provenienza degli strumenti musicali (e dei suoni) non occidentali (e comunque ‘insoliti’). In altre parole: in cataloghi dell’esotico sonoro. Tanto per fare un esempio, Roberto Cotroneo, nel saggio introduttivo a Come un’anomalia si diverte (almeno credo che si sia divertito) ad elencare i 48 strumenti musi- cali presenti in Anime salve: arpa paraguaiana, bajàn, bansuri, basso e così via3. Li riporta tutti e 48 in rigoroso elenco alfabetico. E basta! Di certo quest’elenco nelle intenzioni del compilatore qualcosa vorrà dire, ma fran- camente non sono riuscito a capirlo. E non credo che esso possa stimola- re nel lettore considerazioni diverse da: «però ‘sto De André quanti stru- menti strani conosceva!» o cose del genere. O forse l’idea di fondo è che la conoscenza e l’uso di strumenti musi- cali ‘altri’ equivalga alla conoscenza e quindi alla capacità di saper pratica- re culture musicali diverse dalla nostra. Ed è probabile che da qui, da que- sto equivoco (o falso sillogismo) derivino tutti i discorsi all’‘acqua di rose’ sul De André musicista ‘pan-mediterraneo’ o ‘mescolatore di culture musicali diverse’ o cantore di un ‘romanticismo mediterraneo’ (espressio- ne quest’ultima francamente un po’ inquietante) che si trovano in quasi tutta la pubblicista sul Nostro, e in cui eccellono soprattutto i critici musi- cali alla ricerca più di una bella definizione ad effetto che di una riflessio- ne sul dato musicale. Una cosa, però, è l’oggetto/strumento musicale, un’altra è l’uso che di esso fa una data cultura. Il bansuri, ad esempio, nelle diverse culture musi- cali del Continente indiano suona in maniera decisamente diversa dal

3. Fabrizio De André, Come un’anomalia. Tutte le canzoni, a cura di Roberto Cotroneo, Einaudi, Torino 1999. 291 Echi d’altre tradizioni musicali risultato proposto da Alberto Morelli in Disamistade e in Ho visto Nina vola- re: produce altre note, ha delle sonorità diverse, racchiude una serie com- plessa di significati simbolici e così via. Allo stesso modo, l’oud è uno stru- mento musicale con una grandissima varietà di usi e significati nelle diver- se culture del mondo arabo-islamico, ed è ben altro rispetto all’uso che d’esso viene proposto nel brano Sidún. E lo stesso vale per tutti gli altri strumenti. Usare uno strumento musicale berbero non significa fare della musica berbera e usare quarantotto strumenti diversi non significa mescolare o sintetizzare altrettante culture musicali – come crede, tanto per fare un solo esempio – Doriano Fasoli che ne «l’Unità» del 26 ottobre 1989 arri- va nientemeno a definire «Creuza de mä come sintesi di tutte le tradizioni del mondo» («ostregheta!» aggiungo io, pensando al principe Antonio De Curtis!). Del resto, banalità di questo tipo trovano facile albergo nel nostro paese dove nei mezzi di comunicazione di massa e nell’opinione comune v’è ben poco interesse verso le altre culture musicali, e qualora presente tale interesse non va al di là del semplice esotismo, della mera curiosità verso le sonorità strane ed insolite4.

4. La questione va al di là dei limiti di questo intervento e meriterebbe un’apposita trattazione. Tuttavia non riesco a pensare, ad esempio, ad un solo programma televisivo in cui vi sia una spe- cifica attenzione verso le musiche del mondo (che non siano le baggianate e le castronerie delle ospitate dei gruppi folkloristici nelle becere trasmissioni stile ‘villaggio turistico all inclusive’). Lo stesso per quanto riguarda la stampa quotidiana e periodica che spesso si butta sul tema ‘musi- che del mondo’ con superficialità e rozzezza sbalorditive (un esempio fra i tanti sono le collane dei compact disc allegate ai quotidiani che di fatto presentano solo musiche euro-occidentali con venature ‘esotiche’ così che il volume dedicato all’Africa de la Repubblica finisce anche per com- prendere nientemeno che un pezzo di Peter Gabriel!). D’altra parte le cose non vanno meglio nella ‘cultura ufficiale’: al di là delle poche università che ospitano l’insegnamento di etnomusico- logia, v’è il deserto! Ma l’emblema di tale disinteresse credo si possa ben individuare negli stessi programmi ministeriali del conservatorio (datati 1928 – sic!!! – ma, se non vado errato, ancor’og- gi in vigore nonostante il gran parlare di riforma dei conservatori) che considerano le musiche non occidentali solo in una delle trentadue famigerate ‘tesine’ di storia della musica – la seconda, con un titolo che è tutto un manifesto: La musica dei selvaggi e dei primi popoli storici (a onor del vero negli ultimi anni, diversi conservatori – compreso quello di Cagliari – hanno avviato autonoma- mente dei corsi di etnomusicologia che cominciano a dare buoni frutti nella direzione di un’aper- tura di prospettive della cultura musicale ‘accademica’ del nostro paese). 292 Ignazio Macchiarella

In questo contesto, l’esperto finisce per essere considerato una specie di Indiana Jones con la ‘missione’ di ritrovare e restaurare suoni arcaici e lontani: proprio tutto il contrario dell’atteggiamento che dovrebbe tenere uno studioso se vuole essere tale. Di fatto, usare uno strumento musicale ‘non occidentale’ non significa affatto essere un ricercatore, un etnomusicologo. E dunque a sproposito questa etichetta è stata attribuita, specialmente dopo la morte, anche a Fabrizio De André – e suo malgrado, come spero di chiarire tra poco. Senza aver effettuato una approfondita rassegna stampa, ho trovato alcune ‘perle’ davvero stupefacenti:

Perdiamo uno dei più grandi autori della musica italiana [dichiara alla stampa un senatore della Repubblica Italiana] di quella tradizione di ricer- ca che ha fatto del recupero delle lingue locali, delle narrazioni del cuore del Mediterraneo, il senso della propria crescita, tanto da far emergere questo patrimonio e consegnarlo nelle mani di donne e uomini di ogni generazione, di tutti i paesi.

L’opera di De André, sostiene un giornalista è il

frutto di una lunga ed appassionata ricerca sulle affinità morfologiche che si ritrovano nel patrimonio musicale di tutti i popoli del bacino mediter- raneo, siano africani, europei o asiatici e non solo quelli, poiché le strade di diffusione delle culture – del modo di raccontare i miti come di quello di fare musica – risalgono a tempi arcaici, travalicano qualche volta le vie dei commerci e disegnano un atlante nuovo ed insospettato delle forme della creatività umana.

E c’è anche chi arriva ad accostare De André al Pasolini delle ricerche sui canti tradizionali italiani (accostamento decisamente improponibile per tante ragioni, già a partire dal fatto che Pasolini cercava di conoscere la realtà che era dietro il fatto sonoro, gli uomini e le donne che ne erano interpreti e fruitori mentre De André, come dirò meglio più avanti, si inte- ressava solo all’evidenza del suono) o addirittura a paragonare l’opera del 293 Echi d’altre tradizioni musicali musicista genovese al lavoro antropologico e etnomusicologico di Ernesto De Martino e di Diego Carpitella. Non mi interessa la polemica per la polemica e dunque evito di citare gli autori di corbellerie del gene- re che, ribadisco, appartengono ad un modo di fare tipico di tanta cosid- detta critica musicale italiana che non avendo nulla da dire sul dato musi- cale (non sapendolo o non volendolo fare) copre questo vuoto giocando a spararla più grossa che si può (e anche oltre)5. In realtà, tutto si può dire tranne che in De André ci siano atteggia- menti di tipo etnomusicologico, cioè degli interessi di conoscenza scienti- fica e di studio delle ‘musiche altre’. Non si tratta ovviamente di una criti- ca: non bisogna avere competenze etnomusicologiche per usare, nell’am- bito di un proprio progetto compositivo, dei suoni ricavati da altre tradi- zioni musicali (allo stesso modo di come – che ne so – non è necessario essere degli studiosi di agricoltura tropicale per usare l’ananas o l’avogado in cucina). Anzi, solitamente, la ricerca etnomusicologia stricto sensu non è finalizzata alla riproposta di ciò che si studia6. Non sappiamo esattamente cosa il musicista genovese pensasse della questione. Le sue testimonianze e le interviste riportate nella pubblicisti- ca offrono indicazioni piuttosto generiche. Vi si ritrovano sovente frasi che appaiono come banali, nelle quali il Nostro sembra schernirsi (o schernire il suo interlocutore): «Arrivano così tante schifezze dall’estero [dichiara durante un concerto il 4 aprile 1997] che ho pensato non capire per non capire, tanto vale cantare usando idiomi che rischiano di essere ingiustamente dimenticati». Anche le poche frasi in cui esplicitamente affronta il tema delle ‘altre musiche’, delle musiche del Mediterraneo (o di Genova e della Sardegna e

5. Per la stessa ragione evito di riportare le fonti da cui ho tratto le precedenti citazioni; chi fosse interessato a conoscerle può richiedermele via-mail: [email protected]. 6. Per dire, neanche Bela Bartok, caso raro di compositore con reali interessi etnomusicologici, uti- lizzava le musiche raccolte durante le ricerche sul campo per le proprie opere: salvo un paio di eccezioni, tutti i materiali delle sue composizioni sono creazioni originali modellate allo stile del canto contadino ungherese. 294 Ignazio Macchiarella così via) rivelano partecipazione emotiva, buon senso, curiosità ed interes- se intellettuale eccetera ma senza alcuna velleità di riflessione musicologi- ca o antropologica. A fronte della cura con cui De André ricorre ai suoni e agli strumenti ‘altri’, il suo atteggiamento schernitore costituisce, di fatto, una chiara attestazione di rispetto verso le ‘altre’ culture musicali, di rico- noscimento della loro piena dignità culturale e della loro complessità. Una precisa conferma credo si possa ricavare per converso, conside- rando l’assoluta assenza nelle dichiarazioni del nostro musicista delle reboanti affermazioni tanto di moda oggi fra i musicisti di casa nostra che si orientano verso l’etnico. Per capirci, qualche tempo fa mi è capitato di ascoltare un famoso musicista italiano (fra i più celebrati del versante etni- co ed anche collaboratore dello stesso De André) che sosteneva aperta- mente di «conoscere la musica africana (sottolineo ‘la’)» e di sapere perfi- no «improvvisare» alla maniera «africana» perché per qualche settimana o forse più aveva suonato con due griot. Allo stesso modo, egli affermava di conoscere anche «le tecniche della musica sarda [sic]» in quanto aveva conosciuto un suonatore di launeddas e con lui aveva suonato e «improv- visato» [altro sic!]. Ammettendo una sincera propensione di questo musi- cista sia verso le musiche africane (la musica africana non esiste perché tante e diverse sono le culture del continente) sia verso quella sarda (o quelle sarde?), non si può certo dire che egli le rispetti veramente, che le consideri realmente importanti: debbono essere proprio semplici, per non dire banali, le musiche africane e sarde se basta un periodo limitato di tempo per «conoscerle» e, soprattutto, devono essere ben povere di con- tenuti e di valori se la loro conoscenza si riduce ad una mera questione tecnica che si può apprendere da un suonatore qualsiasi, basta che sia nato in Africa o in Sardegna!7.

7. Su questo tipo di equivoci, dovuti alla moda della world music, vedi Bernard Lortat Jacob, Musiques du monde: le point de vue d’un ethnomusicologue, «Trans : Transcultural Music Review», , (2000) n. 5 (rivista in formato elettronico all’indirizzo: http://www.sibetrans.com/trans/index.htm). 295 Echi d’altre tradizioni musicali

Ecco, il fatto che De André non abbia mai pronunciato frasi del gene- re, unito al tono apparentemente distaccato delle sue dichiarazioni (al cui fondo sembrano esserci atteggiamenti tipo ‘ma perché mi chiedete di par- lare di questo’, ‘ma cosa volete che ne sappia’), credo che si possano con- siderare manifestazioni di sincero e attento rispetto verso il senso profon- do delle altre musiche. Il Nostro era certamente interessato ai suoni delle ‘musiche altre’. Un interesse globale e motivato da personali inclinazioni, ben diverso da qual- siasi approccio propriamente etnomusicologico8. Un interesse finalizzato sostanzialmente all’arricchimento dei propri mezzi espressivi e all’adozio- ne di sonorità dal forte potere evocatore e simbolico nel contesto della nostra odierna realtà socio-culturale, ma senza alcuna prospettiva di ricer- ca teorica. A questo proposito posso altresì riportare una testimonianza personale, sia pure indiretta. Diversi anni fa, in Sicilia, un amico stava lavo- rando, coinvolgendomi nell’iniziativa, alla progettazione di un grande cen- tro studi sulla musica del Mediterraneo (un progetto bellissimo che pur- troppo, come tanti altri progetti importanti dal punto di vista culturale, non è riuscito ad uscire dalla carta su cui era scritto): il taglio del centro sarebbe dovuto essere scientifico ma un grande spazio avrebbe avuto l’at- tività concertistica e la divulgazione etnomusicologica. Gli sponsor dell’i- niziativa ebbero la bella idea di tirar fuori il nome di De André come pre- sidente onorario del centro, ragion per cui il mio amico andò a trovarlo per avanzargli la proposta: ricordo bene la faccia della delusione di questo amico quando mi raccontò il ‘no secco’ che aveva ricevuto (nonostante le tante e allettanti offerte contenute nella proposta), un ‘no’ motivato dalla

8. Mi sembra opportuno ribadire il concetto, vista la confusione che si riscontra al riguardo. L’etnomusicologia insegna che lo studio del suono (cioè del risultato musicale in sé) è solo un aspetto della musica, la quale non può essere considerata prescindendo dai comportamenti col- lettivi che la determinano e dai riferimenti concettuali che ogni cultura elabora: «La musique [ama sintetizzare con efficacia Gilbert Rouget] c’est toujours plus que la musique» (cioè va al di là del semplice fatto sonoro). Interessarsi dunque del solo esito musicale non è fare etnomusicologia: vedi Bernard Lortat Jacob, La musique c’est toujours beaucoup plus que la musique, «EM», IV (1997), pp. 165-183. 296 Ignazio Macchiarella mancanza di interesse per tutta la ricerca e lo studio etnomusicologico. Dunque tutt’altro che uno studioso e un ricercatore è stato De André e la questione delle relazioni fra la sua musica e le ‘musiche altre’ non può e non deve essere considerata in questa prospettiva. Detto altrimenti, nella musica di De André non vi sono ‘altre culture musicali’ – né tanto meno sintesi o amalgama fra culture diverse: vi sono e vengono usati ‘altri’ stru- menti musicali e suoni presi in prestito e plasmati seguendo la propria creatività personale per dar vita ad un personale discorso musicale. Un discorso, non scordiamolo, che adotta pienamente la grammatica e le strutture formali della nostra musica popolare (nel senso di popular music), riconducendo ad esse gli elementi musicali importati, gli strumenti e i suoni non occidentali. Se la si inquadra da altri punti di vista, al di là della mera evidenza data dall’acquisizione di sonorità ‘altra’, la questione del rapporto fra De André e le musiche ‘altre’ è, invece, piuttosto complessa e interessante. Essa fini- sce per riguardare non solo gli ultimi album cosiddetti etnici (o mediter- ranei) ma l’intera produzione del musicista genovese, fin dai primissimi lavori, collocandosi in un contesto più ampio delle influenze che certi aspetti, certi modi di fare musica delle culture musicali di tradizione orale italiane ed europee hanno avuto sulla cosiddetta canzone d’autore9.

La ‘piccola tradizione’ nella musica di De André

Poche parole per illustrare i presupposti da cui partono le mie rifles- sioni. La mia amica Giovanna Marini è solita dire che dentro di noi esisto- no due culture: una che si acquisisce attraverso i piedi, che arriva dalla terra, dall’ambiente sociale (aggiungo io) in cui si vive; che si acquisisce

9. Un contesto finora poco considerato o addirittura misconosciuto (ad di là di alcuni casi affatto evidenti: che so, Bennato, Della Mea, Pietrangeli eccetera) negli studi sulla popular music italiana (ne ha fatto riferimento en passant Franco Fabbri nel suo intervento a questo convegno, al cui testo rinvio). 297 Echi d’altre tradizioni musicali senza rendersene conto; poi c’è l’altra cultura, quella che si impara con la testa, con lo studio, con l’applicazione consapevole10. Più prosaicamente, negli studi storico antropologici – alla luce dei contributi fondamentali di Peter Burke11 ed altri – si fa solitamente ricorso al concetto di ‘piccola tra- dizione’ in opposizione a ‘grande tradizione’. Tale opposizione si basa sul- l’idea che nella storia della cultura europea coesistessero essenzialmente due distinte tradizioni culturali: una ‘grande tradizione’ trasmessa ed inse- gnata nelle università e nelle scuole rivolte ai membri delle classi elevate; una ‘piccola tradizione’ che comprendeva tutto il resto: consuetudini di vita quotidiana, feste religiose e stagionali, credenze, proverbi, racconti, eccetera. Tali tradizioni non erano espressione peculiare di un gruppo sociale: la gente comune, però, era esclusa dalla ‘grande’ tradizione e la ‘piccola’ tradizione era la sola espressione culturale padroneggiata; le élite, invece, possedevano una sorta di doppia cultura in quanto oltre a cono- scere la ‘grande’ tradizione, che consideravano una cosa seria e meritevo- le del massimo impegno, nella vita di ogni giorno venivano in contatto con la ‘piccola’ tradizione che parzialmente facevano propria, pur consi- derandola poco importante, niente più che un gioco. Mutuando da questo concetto io credo che si possa (e si debba) parla- re di una sorta di ‘piccola tradizione’ della musica, cioè di un serbatoio d’e- spressioni musicali proprio dei meccanismi della tradizione/trasmissione orale, ma conosciuto anche dalle élite, dalle persone colte con il valore appunto di un ‘gioco’ musicale, di ‘coserelle dilettevoli’ e non ‘impegnate’, cui non si attribuisce alcuna importanza: si conoscono semplicemente... perché si conoscono, perché si sono ‘sempre’ cantate e chissà come, quan- do e da chi si sono imparate. Per intenderci, tutti noi conosciamo, che so?, canzoni come Bella ciao, Mamma mia dammi cento lire o La violetta la va la va, senza sapere che si tratta di canti rapportabili al grande patrimonio delle

10. Ho avuto il piacere (e la fortuna) di discutere con Giovanna questi ed altri temi in Ignazio Macchiarella, Il canto necessario: Giovanna Marini compositrice, didatta e interprete, Nota, Udine 2005. 11. Cfr. Peter Burke, La cultura popolare nell’Europa moderna, Mondadori, Milano 1982 (tit. or. Popular Culture in Early Modern Europe, Temple Smith, London 1978). 298 Ignazio Macchiarella ballate (folk ballad) uno dei grandi patrimoni culturali della tradizione orale diffuso in tutta Europa, testimoniato da fonti risalenti già al medioevo in una rete di relazioni che superano le barriere linguistiche fra i diversi grup- pi etnici del vecchio continente12. Si tratta di canti che conosciamo senza avere la più pallida idea degli scenari performativi e dei meccanismi della circolazione propri della trasmissione delle ballate nell’ambito della tradi- zione orale, nel mondo contadino e delle campagne del passato: le cono- sciamo e basta. E anzi, di norma, non abbiamo mai avuto l’occasione di ascoltarle in un contesto tradizionale, nell’esecuzione di un contadino o di un gruppo di contadini (naturalmente mi riferisco soprattutto a perfor- mance del passato, benché ancora oggi nel nord Italia non sia raro ascol- tare delle esecuzioni di ballate polifoniche). Di solito per noi tali canti hanno il valore di ‘cosette’, di ‘giochini musicali’, non sono minimamente paragonabili, che so?, ad un’opera di Bach o di Mozart (benché siano sicu- ramente più ‘antichi’ cronologicamente) e certamente quando pensiamo alla (o parliamo della) musica ci verranno in mente altre cose, non certo Mamma mia dammi cento lire (anzi spesso non riteniamo nemmeno che si tratti di musica!)13. Il concetto di ‘piccola tradizione’ della musica andrebbe approfondito dal punto di vista teorico e adattato alla nostra realtà odierna – ma non è questa la sede. Qui, invece, mi limito solo a sottolineare che attraverso questo bagaglio di ‘coserelle’ ciascuno di noi finisce per familiarizzarsi, sia pure inconsapevolmente, con aspetti del fare musica diversi rispetto a quelli che apprende nella cultura ufficiale, a scuola e, nello specifico, in conservatorio e nelle scuole di musica.

12. Per molti il patrimonio delle folk ballads costituisce una delle più consistenti ‘prove’ di una antica cultura pan-europea o comunque uno dei pochi plausibili indicatori di una comune base cultura- le europea. Per approfondire la questione – muovendo dalla realtà odierna delle ballate e delle sue trasformazioni del XX secolo – si può partire da Ignazio Macchiarella, Dalla musica etnica ai gene- ri dell’intrattenimento, in Jean Jacques Nattiez (a cura di), Enciclopedia della Musica, Einaudi, Torino 2001, vol. I, pp. 1166-1181. 13. Preciso che ciò va al di là dei nuovi significati che tali canti hanno assunto nei contesti massme- diali odierni ed in particolare Bella ciao diventato una sorta di emblema di ‘resistenza’ culturale al 299 Echi d’altre tradizioni musicali

Tornando a De André, anche ad una sommaria lettura degli spartiti musicali, risulta facile individuare nella sua produzione alcuni tratti deci- samente rapportabili alle tecniche strettamente musicali del cosiddetto canto narrativo di tradizione orale14. Eccoli in rapida successione:

- struttura strofica: stessa musica per strofe diverse del testo verbale. Impianto molto comune soprattutto nella prima fase della produzione di De André, eventualmente arricchito dalla ripetizione del distico conclusivo che ha finalità esclusivamente musicali (i distici del testo verbale vengono ripetuti senza variazioni – per esempio La canzone di Marinella) o dall’articolazione della strofa in due episodi musicalmente diversi (per esempio Carlo Martello con le due sezioni in due la prima, in terzine la seconda), o ancora dall’inclusione di ritornelli non sens (La ballata dell’amore cieco).

- corrispondenza rigorosa tra unità del testo verbale (versi) e unità musi- cali. Pause e prese di fiato individuano delle unità musicali pertinenti coincidenti sempre con i versi del testo verbale, la cui esecuzione, quindi, non viene mai frammentata (le eccezioni si contano sulla punta delle dita: per esempio v’è una presa di fiato a metà nel primo verso de La città vecchia). - sviluppo melodico del canto spesso contenuto entro ambiti relativa- mente ristretti, talvolta inferiori all’ottava (ad esempio una sesta in La guerra di Piero, Bocca di rosa, Quello che non ho, Un matto, Via del campo, Amico fragile).

- andamento normalmente sillabico (rapporto 1:1 nota sillaba) con raris-

pensiero unico dominante nei tristi tempi che viviamo in Italia: Bella ciao, per dire, ricordo che lo cantavamo da bambini nelle gite in pullman organizzate dalla parrocchia del mio paese! 14. Sottolineo che qui mi sto riferendo specificamente alla componente musicale ed in particolare all’andamento melodico: diverso è il trattamento dei testi verbali, di cui non tengo conto. 300 Ignazio Macchiarella

sime vocalizzazioni, quasi sempre in conclusione della strofa e per grado congiunto discendente.

- predominanza di andamenti melodici ‘ad arco’ (o circolari)15, dove cioè la nota d’attacco coincide con la finale e la melodia si dispiega al di sopra (o al di sotto) di essa (I=FG oppure I=F=H>G; esempi: Canzone dell’amore perduto, La ballata dell’amore cieco, Quello che non ho, La collina, Fila la lana, Un malato di cuore, Via del campo, Amico fragile, Canzone del maggio) o discendenti con una sola deviazione (IF=G; esempi Il testamento, La guerra di Piero, La ballata dell’eroe, Un matto).

- assoluta prevalenza per il moto per gradi congiunti e per la successio- ne di note ribattute e per converso evenienze numericamente limitate

15. Uso, per fare in fretta, un sistema di classificazione melodica solitamente adottato in etnomusico- logia e illustrato in Charles Adams, Melodic Contour Typology, «Ethnomusicology», XX (1976) n. 2. 301 Echi d’altre tradizioni musicali

di intervalli melodici ampi, usati sempre con una forte caratterizzazio- ne16. Tali ampi intervalli sono in mezzo alla strofa e cioè non nel primo e ultimo verso musicale, versi che hanno una notevole regolarità e una chiara funzione di stabilizzazione dell’andamento melodico. In parti- colare, molto frequente è l’inizio del primo verso con note ribattute, tre, quattro e talvolta ancora di più. Allo stesso modo la conclusione della strofa ha solitamente un andamento discendente per gradi con- giunti, in particolare con la finalis introdotta per grado discendente dal secondo grado, secondo procedimenti che sono estranei rispetto agli schemi della musica tonale17.

Ed ecco in due tabelle il riscontro di tali regolarità (le melodie sono tra- sportate alla stessa finalis, cioè alla medesima tonalità)18.

Infine, considerando le incisioni discografiche, un altro elemento di affinità con le modalità del fare musica della tradizione orale che si può cogliere è dato dall’assenza o marginalità di variazioni agogiche e dinami- che19.

16. L’uso caratterizzante degli intervalli melodici è uno degli aspetti che vengono normalmente approfonditi negli studi sulla popular music. La letteratura al riguardo è vasta e ben nota: mi limito a proporre come eventuali riferimenti di partenza Franco Fabbri, La canzone, in Jean Jacques Nattiez (a cura di), Enciclopedia della Musica, cit. e Richard Middleton, Lo studio della popular music, in Jean Jacques Nattiez (a cura di), Enciclopedia della Musica, cit. 17. Franco Fabbri ha sottolineato la presenza di riferimenti alla modalità nella musica di De André (Franco Fabbri, Il cantautore con due voci, in Romano Giuffrida, Bruno Bigoni (a cura di), Fabrizio De André. Accordi eretici, Euresis edizioni, Milano 1997). Come sanno gli ‘addetti ai lavori’ il con- cetto di modalità è molto vasto e si presta ad ambiguità: le osservazioni di Fabbri sono comun- que pertinenti e indicano altresì un’altra prospettiva di ricerca nel campo della popular music (l’a- dozione di modelli estranei alle strutture tonali o comunque con significative modifiche di essi) che meriterebbe specifici approfondimenti. 18. Per facilitare il confronto faccio ricorso alla scrittura numerica degli intervalli, altro espediente usato in etnomusicologia – ma anche nella didattica musicale. La finalis (che è anche la tonica) è 1: in rapporto ad essa si calcolano gli intervalli relativi. Per esigenze grafiche qui indico gli inter- valli minori con * e quelli eccedenti con ≠. 19. Tra le eccezioni il rallentando finale ne La guerra di Piero. 302 Ignazio Macchiarella 303 Echi d’altre tradizioni musicali

Questi elementi musicali – diversamente distribuiti nell’arco tempora- le della produzione di De André e qui solo sommariamente evidenziati – rivelano forti analogie con alcune caratteristiche grosso modo comuni del- l’andamento musicale del patrimonio delle ballate tradizionali, sia quello che è stato documentato e raccolto in Italia (soprattutto nelle regioni alpi- ne e settentrionali e in quelle centrali, più o meno dall’Appennino tosca- no in su; mentre altrove la ballata ha una presenza sporadica ed è molto rara nel sud, inesistente in Sardegna e Corsica) e nell’Europa continenta- le. Avendo studiato a lungo con Roberto Leydi il corpus delle ballate pie- montesi, potrei indicare decine e decine di brani in cui si ritrovano le caratteristiche prima elencate. Scegliendo a caso, e senza voler instaurare una sistematica comparazione (operazione che non sarebbe pertinente per i motivi che dirò appresso) vi propongo alcuni inizi e conclusioni di bal- late da due corpus differenti: una raccolta di ballate redatta ai primi del Novecento da Leone Sinigaglia20 e un insieme di trascrizioni musicali rela- tive a registrazioni sonore effettuate negli anni Sessanta di una grande can- tante di ballate astigiana, Teresa Viarengo21.

20. Roberto Leydi (a cura di), Canzoni popolari del Piemonte. La raccolta inedita di Leone Sinigaglia, Diacronia, Vigevano 1998. 21. Roberto Leydi (a cura di), Cantè berbera. La ballata piemontese dal repertorio di Teresa Viarengo, Diacronia, Vigevano 1995. 304 Ignazio Macchiarella

Non si tratta (ribadisco per non essere frainteso) di consapevoli acqui- sizioni da parte di De André dei procedimenti performativi delle ballate tradizionali22. Si tratta piuttosto di emergenze di quella sorta di ‘piccola tradizione’ della musica che apparteneva al musicista genovese, alla sua generazione al suo milieu socio-culturale: una generazione a ridosso della guerra, prima della diffusione di massa della radio e della televisione. Un’epoca in cui l’‘altra musica’ (intesa come la tradizione orale) era certa- mente più vicina di oggi, faceva parte della quotidianità anche in ambito cittadino, in cui le storie cantate che circolavano erano sostanzialmente rapportabili a delle ballate tradizionali o degli adattamenti di esse23.

22. Per altro all’epoca delle sue prime composizioni, ben poco in Italia era stato fatto in prospettiva etnomusicologica sulle ballate e gli unici ad interessarsene erano demologi interessati solo al testo verbale cui nulla importava delle condotte musicali. 23. Conosco diverse persone del nord Italia di status sociale medio-alto, professionisti o che comun- que non hanno nulla a che fare con le tematiche dell’etnomusicologia, che conoscono ‘per circo- lazione familiare’ le storie più famose raccontate dalle ballate: la Cecilia, La pesca dell’anello, La donna lombarda e così via. 305 Echi d’altre tradizioni musicali

Per essere ancora più chiaro: non sto affatto dicendo che le canzoni di De André si possano annoverare fra le ballate tradizionali24. Se non altro perché, accanto agli elementi di analogia prima visti, molti e significativi sono quelli di differenziazione non solo nello specifico musicale (e nell’or- ganizzazione del testo verbale di cui qui non si tiene conto), ma anche (o meglio soprattutto) per quanto riguarda la performance, ciò che nelle espressioni di tradizione orale ha un rilievo affatto essenziale. Un elemen- to fortemente caratterizzante della prassi esecutiva delle ballate tradiziona- li, ad esempio, è dato dalla continua variazione melodica (talvolta micro- melodica) dello schema melodico di base, variazione del tutto assente in De André. Il cantore tradizionale padroneggia infatti un bagaglio di stra- tegie di improvvisazione che gli permettono di creare sempre varietà (evi- tando la monotonia) mantenendo riconoscibile la struttura formale e la condizione della comunicazione narrativa, il tutto sullo sfondo dello sce- nario di un’interazione diretta esecutore/ascoltatore. Tutto ciò in De André, ovviamente, scompare perché la canzone è pensata per l’incisione discografica per la sua fissazione definitiva sul supporto discografico. E ben diversa, chiaramente, è la ricercatezza del testo, sia musicale che ver- bale, fissato dalla scrittura e decisamente lontano dalle strategie delle costruzioni paratattiche della tradizione orale. Così come ben altre sono le strategie per rendere piacevole e non monotona la ripetitività di base dello stesso schema melodico della strofa a cui il cantante popular può far ricor- so, sfruttando le possibilità offerte dall’accompagnamento strumentale, introducendo degli ‘interludi’ fra le strofe e così via: tutti elementi di carat- terizzazione musicale che nel caso di De André, mi pare, attendono anco- ra d’essere studiati a fondo e con attenzione. Sostanziali diversità di questo tipo non pregiudicano comunque l’evi- denza offerta dagli esempi musicali prima riportati e quindi l’idea che nelle

24. Tra l’altro quelle che De André definisce ‘ballate’ (la Ballata dell’amor cieco, la Ballata del Miche’ ecce- tera) sono di fatto canzoni in cui meno riscontri vi sono degli elementi di analogia con la tradi- zione. 306 Ignazio Macchiarella condotte melodiche di De André vi siano degli echi inconsapevoli, filtra- ti dal bagaglio della ‘piccola tradizione’, di ‘altre musiche’ a noi vicine, di modi di fare musica che appartengono alla storia della musica della cultu- ra tradizionale europea ma sono tuttavia ‘altro’ rispetto alla ‘grande storia’ dei vari Bach, Mozart, Verdi e compagnia: un ‘altro’ relativo e non assolu- to, e non minore per importanza rispetto alla ‘grande’ storia (la quale, del resto, a quell’‘altro’ rappresentato dalla cultura tradizionale ha sempre attinto più o meno apertamente). Così, se certamente è vero che la poetica musicale di De André, soprattutto agli esordi, sia stata influenzata da forti suggestioni della musi- ca popolare d’oltralpe – dalla musica di Brassens, Brel e così via – credo che, per riprendere la metafora di Giovanna Marini, qualcosa ‘dai piedi’ in essa sia pure entrata.

Acquisizioni esplicite

Se il passaggio attraverso la piccola tradizione presuppone un’acquisi- zione inconsapevole di elementi di altre musiche, una questione decisa- mente diversa è offerta dagli elementi di acquisizione esplicita e consape- vole. Va al riguardo ricordato che De André ricorre esplicitamente ad altre musiche già nelle prime produzioni. È il caso ad esempio dell’adozione di ritmi di tarantella (Bocca di rosa) o del valzer (Valzer per un amore): si tratta di espedienti espressivi, di caratterizzazioni che hanno valore di musema25, mirando a far emergere il quotidiano escluso dalla storia, quel quotidiano

25. Il concetto di musema ha una fondamentale importanza negli studi sulla popular music (vedi Roberto Agostini e Luca Marconi, Analisi della popular music, «Rivista di Analisi e Teoria Musicale. Periodico del GATM», VIII (2002) n. 2. Vorrei altresì evidenziare che in queste prime acquisizioni le fonti non sembrano provenire dalla cultura tradizionale ma da una cultura di solito definita ‘popolaresca’, parente prossima della ‘pic- cola tradizione’: per capirci il modello di riferimento della tarantella di Bocca di rosa è la tarantella da salotto ottocentesca, è Rossini, è la versione edulcorata alla Murolo della canzone napoletana, ma non certo la tarantella della tradizione orale dell’Italia meridionale. 307 Echi d’altre tradizioni musicali dove, per dirla riprendendo un passo dal bel libro di Stefano Pivato, «cuore non fa rima con amore»26. Allo stesso modo, nella speranza d’aver sgombrato il campo all’inizio di questo intervento dall’equivoco De André musicista etnico e dall’idea di rivoluzione etnica degli ultimi tre dischi da Creuza de mä in poi27, credo che anche il ricorso agli strumenti non occidentali degli ultimi album debba considerarsi con valore di muse- ma. Si tratta infatti di unità di senso che veicolano una varietà estrema- mente ampia di significati, sia espliciti che impliciti; significati che non si possono definire con esattezza e che vanno anche al di là delle stesse intenzioni esplicite o coscientemente elaborate dallo stesso autore. La potenza evocativa dell’oud usato in Sidún o del bouzouchi in Jamín-a, per dire, prescindendo da qualsiasi richiamano alle effettive culture musicali del Mediterraneo, ha una forza e una importanza di gran lunga maggiore di mille discorsi sull’apertura multietnica e sul dialogo necessario fra le cul- ture. Una forza dirompente e di eccezionale valore culturale, in grado di contrastare le inqualificabili sparate xenofobe di quattro politicanti (spe- cialmente quelli con il fazzolettino verde nel taschino, cui troppo spazio

26. Stefano Pivato, La storia leggera, Il Mulino, Bologna 2000. 27. L’affermazione ‘rivoluzione etnica’ (o ‘svolta etnica’) viene evocata anche (e spesso soprattutto) a proposito dell’uso del dialetto: da Creuza de mä in poi De André abbandona (sovente) l’italiano per il genovese o altre lingue. Senza approfondire la questione, credo che anche in questo caso si tratta di intendersi sul significato dei concetti evocati. I dialetti usati da De André sono espres- sioni edulcorate, lontane dalla realtà dello strumento di comunicazione della cultura tradizionale (non conosco ad esempio il genovese ma ho ascoltato diversi dischi e registrazioni ‘sul campo’ effettuate a Genova e nei dintorni da Edward Neill e Mauro Balma in cui si osserva una sonorità ben diversa da quella di Creuza de mä, per non dire poi del napoletano che è tutt’altra cosa rispet- to a ciò che passa attraverso i mezzi di comunicazione di massa e anche dalla pronuncia di Don Raffae’ o La nova gelosia – quest’ultima, tra l’altro, presentata come vera ‘canzone popolare’, ma in realtà appartenente al corpus ottocentesco dei Passatempi musicali produzione per l’intrattenimento da salotto ottocentesco della borghesia napoletana e ben lontano da ciò che il ‘popolo’ effettiva- mente cantava – vedi Macchiarella, Dalla musica etnica, cit.). Qualunque sia il dialetto, osserva anche Franco Fabbri, la voce di De André è sempre la stessa, ha lo stesso timbro, tanto che se non si capissero le parole potrebbe sembrare la stessa lingua (Il cantautore a due voci, cit.). Non è forse un caso che un catalogo di un venditore per corrispondenza in internet svizzero-tedesco, dichiari Creuza de mä canto in italiano. 308 Ignazio Macchiarella danno i mezzi di comunicazione di massa) ma anche le paure spontanee e immediate che non si possono non provare di fronte a chi ha la pelle e modi di pensare e di vivere diversi. Ed è proprio nella direzione di una riflessione particolareggiata sul valore musematico dei suoni e degli stru- menti ‘altri’ (valore che si costruisce non solo nelle intenzioni dell’autore ma anche nella fruizione della sua produzione da parte del pubblico e nella circolazione all’interno del circuito massmediale) che deve mirare un auspicabile approfondimento del rapporto De André e musiche ‘altre’. Al di là del merito delle questioni affrontate, queste mie sommarie osservazioni vogliono ribadire l’importanza dello specifico musicale nel- l’opera di De André: la musica non è mai un anodino accompagnamento del testo verbale ma una componente imprescindibile di un incontro parola/suono che va studiato nella sua complessità. Trascurare la musica (o pensare, come purtroppo fanno in molti – anche fra i fans e gli appassionati conoscitori – che essendo tecnicamente ‘facile’ essa sia priva di valore) vuol dire semplicemente trascurare una parte fondamentale dell’opera di De André: non è solo attraverso la vicen- da di Marinella che il Nostro rende protagonisti i poveri e i miserabili ma anche attraverso le sue scelte melodiche ed il suo sound, così come non è solo mediante la vicenda della prostituta Jamín-a che irrompono i dispe- rati di oggi, il sud del mondo negletto dall’occidente obeso, ma anche mediante i suoni insoliti che per raccontare quella vicenda vengono usati. Suoni che di per sé esprimono la vera essenza dell’apertura immediata e non intellettualistica al ‘diverso’ e all’ ‘altro’ della grande vicenda umana e poetico-musicale di Fabrizio De André. Marinella Ramazzotti Mille ed una voce

Mille ed una voce è la citazione del titolo di una delle puntate della tra- smissione televisiva C’è musica e musica curata dal compositore Luciano Berio1. Il riferimento al compositore dell’avanguardia non è casuale, ma intende rinviare ad una lettura della vocalità di De André in rapporto alla sfera semantica dei gesti vocali, approfondita da Berio nelle composizio- ni degli anni Cinquanta e Sessanta. Il gesto vocale è un particolare modo di cantare che integra vari comportamenti storici e quotidiani, così espri- mendo non solo il contenuto semantico del testo, ma anche i contesti sto- rico e antropologico dell’opera. «Il gesto ha sempre una storia […]. Fare un gesto significa, prima di tutto, assumerne i significati e porsi in maniera critica di fronte alla storia che esso contiene»2: la dimensione gestuale è determinante nel caratteriz- zare e differenziare il recitar cantando3 di De André, in cui convivono componenti sia della tradizione popolare sia della musica colta. Riconoscere nello stile vocale del cantautore allusioni alla storia della

1. Luciano Berio (a cura di), Mille ed una voce, in C’è musica e musica, RAI Radiotelevisione italiana, Milano (21/03/1972). 2. Luciano Berio, Du geste et de Piazza Carita, in La musique et ses problèmes contemporaneis, 1953-1963, a cura di Madeleine Renaud et Jean Louis Barrault, René Juillard, Paris 1963, pp. 216-223: 217. 3. Il termine rinvia allo stile vocale, in voga nella tradizione operistica del primo Seicento, basato su una recitazione intonata espressiva della dimensione ‘affettiva’ della parola. 310 Marinella Ramazzotti musica e tracce delle tradizioni popolari significa ammettere la possibilità che De André si relazioni, in maniera palesemente consapevole o occulta e inconsapevole, a certi stili vocali e modi di cantare del folklore popola- re, personalizzandoli e ricreandoli. Il legame col modello è implicitamen- te dichiarato laddove i gesti vocali sono impiegati con significato caricatu- rale, come cliché di un certo stile musicale o denuncia parodistica di un preciso contesto sociale. Nei testi, invece, seriamente impegnati su que- stioni sociali – anche legate a realtà locali – le mille voci di De André sem- brano colorarsi del vissuto dell’autore e il riferimento al modello rimane latente, perché assimilato spontaneamente. Il presente saggio si propone di analizzare le modalità in cui De André assimila i gesti vocali del folklore e della musica colta, ponendo a confron- to i modi di cantare dell’artista con quelli connotativi di certe tradizioni scritte e orali. Gli studiosi hanno interpretato la particolare voce di De André, che alterna un registro grave a «un registro più acuto ‘in gola’»4, come espres- sione della dialettica tra la voce pubblica che narra e quella intima che commenta, o come contrapposizione tra la voce intima che racconta e quella pubblica che riflette. L’analisi può essere ulteriormente approfon- dita sottolineando le analogie tra la maniera tradizionale di cantare le can- zoni popolari di impegno civile e i due registri in cui De André intona alcune delle sue canzoni di contenuto antimilitarista. Negli anni Sessanta l’attività teorica e musicale del Nuovo canzoniere ita- liano, gravitante attorno all’etnomusicologo Roberto Leydi, e la pubblica- zione di collane discografiche quali Italia canta e Dischi del sole – quest’ulti- ma particolarmente orientata verso i canti di protesta politica – determi- narono la diffusione della canzone popolare impegnata, che si caratteriz- zava per una particolare intonazione di gola. Nella canzone contro la

4. Cfr. Franco Fabbri, Il cantautore con due voci, in Romano Giuffrida e Bruno Bigoni (a cura di), Fabrizio De André. Accordi eretici, Euresis Edizioni, Milano 1997, pp. 155-167: 159. 311 Mille e una voce guerra, O Gorizia 5, diffusa durante il primo conflitto mondiale nell’Italia settentrionale, l’interprete Sandra Mantovani6 canta ‘in gola’ muovendosi nell’ambito di due registri contrapposti: grave/acuto. Tale prassi è ricono- scibile ne La ballata dell’eroe (1961) dal contenuto affine alla suddetta can- zone civile. Queste corrispondenze sembrano evidenziare come per De André la condivisione della tematica antimilitarista significhi anche appar- tenenza ad un processo storico-politico di liberazione, di cui spontanea- mente assimila il modo di cantare. L’idea che un individuo fa parte di una collettività è costantemente presente nella produzione di De André: il dramma dell’uomo è sociale e il grido esistenziale del singolo riflette la condizione dolorosa di un grup- po. Il rapporto individuo-società è espresso musicalmente in Mégu mégun (1990) attraverso l’associazione semantica tra il grido di alienazione del malato – individuo – e l’urlo di fatica – collettivo – di alcuni canti di lavo- ro, dei quali è rievocato il gesto.

Mégu mégun Uh______7 mégu mégu mégu mè mégun______Uh____ chin-a chin-a zû da ou caregún ______

Il grido gutturale, spezzato dal ritmo dell’articolazione del testo, assu- me una forma gestuale simile, per esempio, alle grida dei cavatori di marmo di Carrara che, mentre sollevano i blocchi, cantano a ritmo per accompagnare ed incitare il lavoro8.

5. Cfr Luigi Pestalozza, Se la guerra di Piero non si canta più. Suonare per la pace, in Roberto Favaro (a cura di), L’opposizione musicale. Scritti sulla musica del Novecento, Feltrinelli, Milano 1991, pp. 328-331: 329. 6. Roberto Leydi e Filippo Crivelli (a cura di), Il nuovo canzoniere italiano. Le canzoni di Bella ciao, Dischi del Sole 1964. 7. Il tratto _____ indica il suono tenuto. 8. Alan Lomax e Diego Carpitella (a cura di), La lizza delle Apuane (1955), in Folklore musicale italia- no, vol. I Pull QLP 1071, 1973. 312 Marinella Ramazzotti

La lizza delle Apuane Eh___Ela! Eh___ue! Ah__ Ah ah! Oh___ issa!

Il legame con le tradizioni popolari risulta più evidente nelle canzoni in cui il cantautore si confronta con un’identità linguistica locale, di cui assorbe, conseguentemente, i contenuti culturali e gli aspetti antropologi- ci. Tale processo di integrazione avviene attraverso l’assimilazione della struttura linguistico-sintattica e soprattutto dei significati sonori e gestua- li del linguaggio. La canzone genovese  Duménega (1984) è una sorta di ‘canzone par- lata’ dall’andamento melodico e dall’articolazione ritmica derivati dalla musicalità dell’idioma genovese. Per lo stretto rapporto testo-musica lo stile vocale di  Duménega sembra assomigliare alla cantillazione delle fila- strocche popolari genovesi: in particolare, il cantautore, in corrisponden- za di alcune vocali accentate, realizza un’oscillazione frequenziale simile a quella che ritroviamo, per esempio, nella filastrocca genovese Nügu Pessügu 9.

 Duménega Quandu ä dumenega fan u gí ~ 10 u cappellin neuvu neuvu u vesti ~ u cu’ a madama a madama ’n te ~ sta o belin che festa o beli ~ n che festa a tûtti apreuvu ä processiú ~ n d’a Teresina du Teresú ~ n

9. Edward Neill (a cura di), Canti popolari di Liguria, Albatros, VPA 8309, 1975. 10. L’oscillazione frequenziale è indicata con il segno ~ . 313 Mille e una voce

Nügu Pessügu Nü ~ gu Pessü ~ gu de natu natü ~ gu de pin pi oxelli de nati sciguelli de ‘na galin-a soppa che a cure zü pea ro ~ cca rocca roccagna i faxö da semena ~ n-a lunxi lunxi ben piggiá erzi a cúa e vanni a cagá.

È probabile che De André scelga uno stile vocale naif, legato alla tra- dizione delle filastrocche infantili, per denunciare con l’ingenuità di un bambino le evidenti falsità moralistiche di una società corrotta. L’assimilazione di una certa identità culturale attraverso l’idioma e le sue componenti sonore e gestuali avviene, nelle canzoni sarde, con l’ap- propriazione, anche, di alcuni aspetti suggestivi del folklore musicale: dopo Zirichiltaggia (1978) e l’Ave Maria (1981), nel 1990 De André scrive i Monti di Mola, in cui sono riconoscibili espressioni vocali e una coralità dai colori isolani. Nel corso della canzone l’autore insiste su un gesto di gola in registro acuto, raddoppiato da un coro di voci acute, a cui è sovrappo- sta una voce maschile che, nell’estremo registro di basso, realizza un suono pedale.

Monti di Mola Amori ma_(coro)_____nnu di prima ’o_(coro)_____lta l’aba si suggi /11 tuttu lu meli / di chista mu_(coro)____lta Amori ste_(coro)____ddu di tutte l’o_(coro)____re / di petralana / lu battadolu di chistu co_(coro)____re

11. Il segno / indica la pausa. 314 Marinella Ramazzotti

La presenza del timbro scuro all’interno di un’armonia corale di regi- stro acuto è tipica della vocalità sarda, quale ritroviamo, ad esempio, nella tradizione orale della ninna-nanna tramandata dal coro del Supramonte di Orgosolo12. Anche il gesto acuto di De André sembra alludere al folklore sardo e presentare analogie, per esempio, con il segnale vocale caratterizzante una gobbula sassarese13.

Gobbula sassarese La figlio______ra era signora la purtha____ba a ipassiggià____ la purtha___ba a ipassiggià li puni___ani li bozi______

Gli esempi finora riportati evidenziano il rapporto estremamente inti- mo e celato tra il cantautore e le tradizioni popolari, delle quali l’artista esprime i contenuti culturali attraverso ricreate suggestioni musicali che non hanno mai l’evidenza dell’imitazione. Quando De André, invece, si avvicina ad un contesto culturale per denunciarne gli aspetti deleteri, l’idioma e il folklore musicale diventano stereotipi connotativi di un preciso assetto politico. In Don Raffae’ egli canta riproducendo in maniera stereotipa sia la fone- tica dialettale sia la ‘moda’ del canto di strada lirico e fischiettato. Il testo è articolato molto rapidamente per ricalcare il ritmo e l’interpunzione del dialetto napoletano nella sua connotazione esotica. Molto ‘napoletana’ è anche la dimensione fonetica del testo, che presenta la consonante sifflan- te s distorta in sc: Pascquale-spesciale-scpiega. Il canto in falsetto caratteriz-

12. Dario Toccaceli (a cura di), Coro del Supramonte di Orgosolo. Anninnia anninnia, in Pascoli serrati da muri, Fonit/ Cetra, IPP 244 (s.d.). 13. Diego Carpitella, Pietro Sassu, Leonardo Sole (a cura di), La musica sarda. Canti e danze popolari, Albatros VPA 8150, vol. I, 1973. Si tratta di un canto di questua, raccolto nel 1963 ed eseguito la vigilia e i giorni di Capodanno e dell’Epifania da comitive di giovani che andavano di porta in porta, chiedendo doni. 315 Mille e una voce zato da un vibrato ostentato, scimmiotta la vocalità napoletana di strada e gli interventi dell’ottavino che, contrappuntando o sovrapponendosi alla voce ‘parlata’, ‘fischia’ con molto vibrato, rinviano alla moda della canzo- ne fischiettata. Tutte le componenti della canzone, compresi il motivo di tarantella iniziale e l’uso timbrico del mandolino, conducono verso una napoletaneità esteriore, con cui l’autore esprime il proprio dissenso nei confronti di una società camorrista e di uno Stato che la protegge. L’uso del dialetto nei suoi aspetti pittorici non è nuovo, ma risale alla versione del 1967 di Carlo Martello ritorna dalla battaglia di Poitiers. In questa canzone i riferimenti alla tradizione popolare non sono mossi né da inten- ti antropologici né da questioni sociologiche, ma la componente dialetta- le è funzionale alla caratterizzazione dei personaggi: la pulzella, nel momento in cui si svela prostituta, perde la propria grazia ossequiosa e parla con inflessione romagnola. Anche le modulazioni di registro e stile assolvono una funzione drammaturgica: il registro medio-grave caratteriz- za la voce del narratore che canta in declamato, in opposizione alla voca- lità lirico-caricaturale di Carlo Martello e alla voce in registro di falsetto della pulzella. Ventitre anni dopo, con Ottocento, De André ritorna al canto lirico cari- caturale come aspetto connotativo del ricco e potente. Il modo di cantare di Carlo Martello diventa quello del ricco commerciante settentrionale, ulteriormente ridicolizzato attraverso un testo scritto in un tedesco mac- cheronico: matrimonie, patellen, pinzimonie. Il lirismo caricaturale e la combi- nazione di parole deformate con significato parodistico rinviano alla tec- nica mozartiana di giustapporre entità verbali in lingue distorte, a volte foneticamente simili. Per esempio, nel duetto tratto dal Caro mio Druck und Schluck (KV 571a, 1789) – scritto da Mozart per sé e sua moglie Costanza – il compositore austriaco gioca sulle affinità fonetiche ‘tacci-lacci’ e sulle interpolazioni plurilinguistiche nonsenso, quali «Quello l’adira, wir kön- nen nix dafüra». 316 Marinella Ramazzotti

Le analogie tecnico-stilistiche tra l’aria di Ottocento e il citato duetto di Mozart sollevano la questione del rapporto di De André con la musica colta. Nel 1968 con Recitativo e Corale il cantautore propone una forma articolata in recitativi parlati e pezzi lirico-corali, che ha attinenza con la forma del Singspiel della tradizione teatrale tedesca. Anche dal punto di vista stilistico vocale, il tono solenne e accusatorio di De André assume una teatralità simile al parlato perentorio di Sarastro – all’inizio del II atto del Singspiel, Il Flauto magico di Mozart – per mezzo di un declamato che incede realizzando cesure sia interne al verso sia tra un verso e l’altro, secondo un procedimento riconoscibile, anche, nel recitativo di De André.

Recitativo Uomini senza fallo / semidei / che vivete in castelli inargentati / che di gloria toccaste gli apogei / noi che invochiam pietà / siamo i drogati /

Flauto magico Ihr / eingeweihten Diener der großen Gotter Osiris und Isis ! / Mit reiner Seele erklar' ich euch/ unsre heutige Versammlung / ist eine der wichtigsten unsrer Zeit. /

Le attinenze che la canzone Recitativo presenta con la tradizione musi- cale classica sono decisamente sorprendenti, perché non riguardano esclu- sivamento lo stile vocale, ma anche quello musicale: l’accompagnamento strumentale rievoca il secondo tempo del Concerto in re minore (BWV 1043, 1718-1723) per 2 violini, archi e continuo di Johann Sebastian Bach e il Corale ha affinità melodica con il corale introduttivo della Passione secondo Matteo (versione del 1736), sempre di Bach. Questo excursus sul rapporto di De André con gli stili vocali colti intende, inoltre, evidenziare il legame del cantautore con l’avanguardia musicale degli anni Sessanta. Laddove il testo presenta una poetica più 317 Mille e una voce ermetica – Dolce luna (1975) – De André traspone il significato verbale in suono, desemantizzando il testo in funzione di una semantica esclusiva- mente sonora, in linea con le sperimentazioni italiane di Bruno Maderna, Luciano Berio, Luigi Nono: i significati scaturiscono dai gesti vocali, su associazioni fonetiche nonsenso, rievocativi di comportamenti storici e quotidiani, quali ritroviamo in Sequenza III (1965-66) di Berio dove le espressioni vocali diventano allusive delle tradizioni popolari, dei compor- tamenti quotidiani e della dimensione onomatopeica del linguaggio. In conclusione, De André si rapporta agli stilemi ‘colti’ con due approcci distinti, gli stessi evidenziati con le tradizioni popolari: l’imitazio- ne stereotipa con funzione caricaturale o l’assimilazione spontanea di tec- niche e stili appartenenti al proprio retroterra culturale, che il composito- re ricrea in funzione della propria poetica. Ne risulta un ‘recitar cantando’ estremamente differenziato, che diventa espressione della storia e del porsi del cantautore in rapporto ad essa.

Bibliografia

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Indice dei nomi Belafonte, Harry 268 Bellamy, Samuel 158n., 253 Bellini, Giovanni 206 Adams, Charles 300n. Bennato, Eugenio 296n. Agostini, Roberto 306n. Benni, Stefano175n., 321 Alberione, Ezio 32n., 37n. Bentivoglio, Giuseppe 64, 186, 231, Alonso, Odón 270 233 Alter, Robert 194n. Béranger, Pierre-Jean de 179 Amiot, Françoise 207n., 208n. Berio, Luciano 309 e n., 317 Amodei, Franco 19 Berlinguer, Enrico 48n. Angiolieri, Cecco 129, 131, 159 Bertoncelli, Riccardo 274, 321 Ankli, Ruedi 21 e n., 321 Bigi, Emilio 141n. Antonioni, Michelangelo 89 Bigoni, Bruno 20n., 31n., 35, 48n., Antony, Richard 274 64n., 215n., 301n., 310n., 322 Aragon, Louis 181 Bindi, Umberto 96, 157 Ariosto, Ludovico 21, 23 Bloom, Harold 192 e n., 193 e n., Aristofane 62, 81, 120 194n. Assante, Ernesto 103n., 124n., 321 Boccadoro, Carlo 206, 207n., 214, Auerbach, Eric 194n. 321 Baccini, Francesco 157 Bocian, Martin 194n. Bach, Johann Sebastian 88, 89, 298, Boi, Santa 191 306, 316 Boitani, Piero 192n., 194 e n. Bakunin, Michail Aleksandrovič 50, Bonafé, Alphonse 180n., 321 52, 59, 60n. Bontempelli, Guy 274 Balasko, Josiane 179 Borsani, Matteo 256n., 321 Baldassarri, Tolmino 100 Borzini, Remo A. 96, 172n. Baldazzi, Gianfranco 19 e n., 321 Branduardi, Angelo 21n., 34, 321 Balma, Mauro 307n. Brassens, Georges 8, 9, 19, 28, 50, Banville, Théodore de 183 53, 66, 96, 159 e n., 164, 177-189, Barrault, Jean Louis 309n. 192, 202, 306, 321, 324 Bartok, Bela 293n. Bregovic, Goran 170 Bataille, Georges 27n. Brel, Jacques 19, 96, 179, 306 Battiato, Franco 287 Breton, André 71 e n. Baudelaire, Charles 179, 182 Brevini, Franco 101 e n., 106 e n., Baudrillard, Jean 27 e n. 321 Beatles (John Lennon, Paul Bruant, Aristide 179 McCartney, Ringo Starr, George Buarque, Chico (Francisco Buarque Harrison) 201, 275, 279 de Hollanda) 89, 90, 92 Beckett, Samuel 200 e n. Bubola, Massimo 80, 107n., 119n., 328 Cantami di questo tempo

124, 134, 138, 232, 281, 322 Curcio, Renato 259 Burke, Peter 297 e n. Czarnecki, Vladislav 275 Burranca, Dionigi 280 Dalida (Yolande Christina Gigliotti) Buttitta, Ignazio 100 274 Cabrel, Francis 179 Dalmonte, Rossana 289 Cadeddu, Claudio 73 Dané, Roberto 64 e n., 322 Čajkovskij, Pëtr Il’ič 94, 254 e n. Dante Alighieri 23, 34, 35, 129, 130, Calvet, Louis-Jean 178 e n., 179n., 196, 205, 231, 258n., 322 181n., 321 David, Gérard 199 Calvino, Italo 175 Davoli, Filippo 85 Campana, Dino 162, 173 e n., 174n. De Andrade, Drumond 43, 259 Cannas, Andrea 8, 32, 255n. De André, Cristiano 124 Cannas, Ettore 215, 321 De André, Luvi 124 Carcassi, Giuseppe 161n. De Filippo, Peppino 120 Carpitella, Diego 293, 311n., 314n. De Gregori, Francesco 35, 124, Castaldo, Gino 103n., 169n., 322 157n., 182, 232 Castaneda, Carlos 202 De Martino, Ernesto 101, 293 Castellari, Corrado 173 Deledda, Grazia 144, 145n. Caterina Benincasa da Siena 28 De Moraes, Vinícius (Marcus Chagall, Marc 198 Vinícius da Cruz de Mello Moraes) Chatel, Philippe 178 90n. Chomsky, Noam Avram 49n. Di Fabio, Clario 199n. Ciampi, Piero 34 Di Giacomo, Salvatore 100 Cicerone, Marco Tullio 144 e n., 259 Dickens, Charles 160 Cohen, Leonard 177, 186, 191 Dooley, Tom 268 Conte, Paolo 34, 157 e n., 167n., Dostoevskij, Fëdor Michajlovič 176 149-152, 155 Contini, Gianfranco 106 Durante, Cicci 161 Cooper, Gary 268 Duteil, Yves 178 Cordara, Pascal 177 Dylan, Bob 90, 103n., 107, 177, Cotroneo, Roberto 11, 20n., 32n., 191, 268, 282 73n., 103n., 104n., 105n., 131n., Eco, Umberto 33, 36, 322 160n., 177n., 178, 191n., 253n., Eliot, Thomas Stearns 191, 192, 254n., 255n., 290 e n., 322 196-198, 261 Covelli, Alfredo 48n. Éluard, Paul 181 Crane, Stephen 160 e n., 322 Endrigo, Sergio 90n. Crivelli, Filippo 311n. Engels, Friedrich 51, 60 Croce, Benedetto 32, 106 e n. Fabbri, Franco 265 e n., 289n., Crockett, Davy 268-269 296n., 301n., 307n., 310n., 322 329 Parole e musica in Fabrizio De André

Fabbriciani, Roberto 266 Giusti, Giuseppe 131 Farias de Albuquerque, Fernanda Glazunov, Alexandr Konstantinovič 125n., 321 270 Fasoli, Doriano 103n., 106n., 109n., Gluck, Christoph Willibald 266 110n., 111n., 113n., 123n., 124, Gogol’, Nikolaj Vasil’evič 142 177n., 189n., 291, 322 Gramsci, Antonio 71 Favaro, Roberto 311n. Gréco, Juliette 179 Ferré, Léo 19, 179 Greimas, Algirdas Julien 21, 22n. Finzi, Paolo 71n. Guccini, Francesco 19, 21n., 34-35 Flaiano, Ennio 261n. 175-176, 272, 321 Floris, Antioco 8, 47, 128, 289 Guerra, Tonino 99-100 Floris, Gonaria 129 Guichard, Jean 19, 33-35, 323 Fortini, Franco 98 Guilbert, Yvette 179 Foscolo, Ugo 37, 121n. Hardy, Françoise 179 Fossati, Ivano 120n., 121n., 123n., Harari, Guido 86n., 323 125n., 143, 157 e n., 169, 176, 232, Hawks, Howard 268-270 255n., 259n. Heidegger, Martin 37 Francesco d’Assisi 129, 131-132 Hendrix, Jimi 279 Franchini, Alfredo 74n., 75n., 79n., Holiday, Billie 92n. 81n., 84n., 96n., 112n., 113n., Huxley, Aldous Leonard 202 114n., 177 e n., 323 Ibañez, Paco 181 Frye, Northrop 194n. Jachia, Paolo 215n., 323 Fubini, Mario 141 e n. Jammes, Francis 180 Gaber, Giorgio 19, 267-269 Jannelli, Maurizio 125n., 321 Gabriel, Peter 281, 291n. Jeffares, A. Norman 196n., Gallione, Giorgio 207n., 214n., 321 Josipovici, Gabriel 194n., 197n. 323 Juillard, René 309n. Garofalo, Reebee 268 Jung, Carl Gustav 74 Gennari, Alessandro 41n., 125n., Kaestli, Jean-Daniel 207n., 323 322, 323 Kazimirovic, Aleksandr 141 Ghezzi, Dori 9, 12, 13, 14, 71, 108, Kermode, Frank 194n. 124, 139 King Crimson (Robert Fripp, Greg Ghezzi, Paolo 198 e n., 323 Lake, Mike Giles, Ian Mc Donald) Giacomini, Amedeo 100 279 Gianco, Ricki 157 Leydi, Roberto 303n. Giannoni, Roberto 199n., 323 Kropotkin, Pëtr Alekseevič 52 Giuffrida, Romano 20n., 31n., 35, Kubrick, Stanley 266, 272 48n., 64n., 215n., 301n., 310n., Kusturica, Emir 170 323 La Fontaine, Jean de 180 330 Cantami di questo tempo

Lagostena Bassi, Tina 167n. 185, 231-252, 257 e n., 260, 323 Lambiasi, Francesco 229n. Meloni, Benedetto 144n. Lario, Gianni 253n. Mereu, Maria 119 Larkin, Philip 201 e n. Middleton, Richard 301n. Lauzi, Bruno 96, 157 e n. Milesi, Piero 289n. Le Forestier, Maxime 179 Millais, John Everett 209 Leopardi, Giacomo 27, 45n., 129, Mina (Anna Maria Mazzini) 36, 86, 140-141 90-91, 94, 97, 271 Levi, Primo 143 Modugno, Domenico 271 Lewis, Jerry Lee 269 Montand, Yves 179 Leydi, Roberto 303 e n., 310, 311n. Montanelli, Indro 48n. Ligabue, Luciano 287 Montesi, Wilma 169n. Loi, Franco 100 Monteverdi, Claudio 266 Lomax, Alan 311n. Monticelli, Carlo 59 Lorenzini, Nilva 289n. Moraldi, Luigi 207n., 323 Lortat-Jacob, Bernard 294n., 295n. Moravia Alberto 160 Luzi, Mario 13, 31, 182 Morelli, Alberto 291 Macchiarella, Ignazio 289 e n., Morricone, Ennio 186, 266 293n., 297n., 298n., 307n., 323 Mozart, Wolfgang Amadeus 281, Maciacchini, Luca 256n., 321 298, 306, 315-316 Maderna, Bruno 317 Mura, Piero 253 Malaparte, Curzio 28 e n. Mutis, Álvaro 53, 75, 255n., 323 Malatesta, Errico 50, 52 Narducci, Emanuele 144n. Malsano, Michele 173n. Nascimento, Milton 91-92 Mannerini, Giuseppe 96 Nattiez, Jean Jacques 289n., 298n., Mantovani, Sandra 311 301n. Marcello, Benedetto 88 Neill, Edward 307n., 312n. Marconi, Luca 289n., 306n. Neirotti, Marco 289n. Marguerat, Daniel 207n., 323 Nelson, Ricky 269 Marini, Giovanna 93, 296-297, 306, Nono, Luigi 266, 317 323 Omero 75n. Maroncelli, Pietro 259 Pagani, Mauro 9, 14, 109n., 111, Marotta, Giuseppe 120n. 119n., 120n., 121n., 122n., 124, Martini, Mia (Domenica Bertè) 92n. 136, 171 e n. 172, 232, 253, 273, Marx, Karl Heinrich 28, 51, 60 274, 275, 277n. Masaccio (Tommaso di Ser Paggiolu, Paolo 134 Giovanni Guidi) 206 Pane, Michele 100 Mascioli, Mario 159n., 324 Paoli, Gino 96, 157, 167n. Masters, Edgar Lee 9, 27, 38, 66, Pasolini, Pier Paolo 27n., 63, 80, 331 Parole e musica in Fabrizio De André

81n., 99, 112, 129, 132, 169n., 202, Rocker, Rudolf 49n. 206, 213n., 323 Rodrigo, Joaquín 270, 274 Pastarini, Cesare 110n., 163n., 323 Rodríguez, Amalia 274 Pasternak, Boris Leonidovič 74 e n. Romana, Cesare G. 50n., 55n., 86n., Pavese, Cesare 27n., 38, 183, 231 e n. 88n., 98n., 111n., 159n., 171n., Pedretti, Nino 100 177n., 178n., 182n., 216n., 253n., Pestalozza, Luigi 71n., 311n. 289n., 324 Petrarca, Francesco 105 Rosenberg, Isaac 194 Piana, Giovanni 87 Rossetti, Dante Gabriel 204 Piero della Francesca 206 Rossi, Vasco 287 Pietrangeli, Paolo 296n. Rossini, Giacomo 306n. Pigliaru, Antonio 144 e n. Rosso, Nini 271 Pinna, Salvatore 134 Roubaud, Jacques 25 Piovani, Nicola 232 Rouget, Gilbert 295n. Pisano, Franco 271 Ruskin, John 204 Pisano, Lalla 119 Saggia, Carlo 144n. Pitagora di Samo 282 Salvatores, Gabriele 279 Pivano, Fernanda 7, 90 e n. 152, 178 Salvestroni, Simonetta 149 e n., 187, 231n., 232n., 324 Sanjust, Stefano 231 Pivato, Stefano 307 e n., 324 Santa Ana, Antonio Lopez de 269- Pizzi, Nilla (Adionilla Negrini Pizzi) 270 35 Sassu, Pietro 314n. Pol, Antoine 181, 186 Scarlatti, Domenico 281 Polo, Marco 175 Scataglini, Franco 100 Porta, Antonio 257n. Schiaffini, Giancarlo 266 Porta, Carlo 132 Schubert, Franz 266 Pound, Ezra 191, 192, 194, 195n. Schultz, Erik 275 Puccini, Giacomo 266 Sciascia, Leonardo 188 Puddu, Albino 145 Scorpiade, Giorgio 161 Queneau, Raymond 255n. Serra, Michele 88, 92, 172 Rabelais, François 180 Shakespeare, William 279 Ramazzotti, Marinella 309 Silvestro, Carlo 95n. Renaud, Madeleine 309n., 324 Simonetta, Umberto 267-268 Renaud, Séchan 179 Sinigaglia, Leone 303 e n. Reverberi, Gianpiero, 273 Sirin, Isaak 152 e n. Rimbaud, Jean-Nicolas-Arthur 186 Sole, Leonardo 314n. Rimskij-Korsakov, Nikolaj Andreevič Stanisci, Carlo 253n. 270 Steiner, Max 270 Rioux, Lucine 180n. Stirner, Max (Johann Caspar Schmidt) 332 Cantami di questo tempo

50, 52, 55, 56, 60, 64 Ungaretti, Giuseppe 90n. Strauss, Richard 272 Vattioni, Francesco 211n. Sutherland, John Andrew 101 Verdi, Giuseppe 266, 306 Svampa, Nanni 159n., 324 Verlag, A. Kroner 194 Tabucchi, Antonio 165 Verlaine, Paul 179 Tagg, Philip 272 Viarengo, Teresa 303 e n. Tasso, Torquato 21 Villa, Claudio 274 Telemann, Georg Philipp 274-275 Villaggio, Paolo 36n., 96, 133, 161 Tenco, Luigi 8, 27n., 55n., 96, 157 Villon, François 159, 186, 324 Tiomkin, Dimitri 270-271 Viva, Luigi 151n., 161n., 167n., Tiraoro, Mauro 161 171n., 172n., 217n., 324 Toccaceli, Dario 314n. Vivaldi, Antonio 281 Tolstoj, Lev Nikolaevič 35 Von Meyendorff, (barone di A. Toquinho, 90n. Kazimirovic) 141 Tortarolo, Renato 101n., 324 Wayne, John 269 Tortora, Mario 96 Weidinger, Erich 207n. Totò (Antonio De Curtis) 120, 291 Wilde, Oscar 192, 194 Toulouse-Lautrec, Henri De 179 Yeats, William Butler 192, 195, Trenet, Charles 179 196n. Turudda, Maria Giovanna 157 Yepes, Narciso 270 Zanda, Antonello 95

334 Cantami di questo tempo

Santa Boi insegna Letteratura inglese presso la Facoltà di Lettere e filosofia dell’Università di Cagliari. Ha pubblicato saggi e volumi su T.S.Eliot, la traduzione e la riscrittura, W.H.Auden, il tema della città e sulla ricezione del Don Quixote in Inghilterra.

Claudio Cadeddu è dottorando di ricerca in Lingue e letterature straniere presso l’univer- sità di Roma “Tor Vergata”. Si occupa di letteratura russa e in particolare della tradi- zione poetica moderna e contemporanea.

Andrea Cannas insegna Letteratura italiana presso la Facoltà di Lettere di Cagliari. Ha pub- blicato su Leopardi, Deledda, Calvino e Satta. Nel 2003 è uscita la sua prima raccolta di racconti Vita and so on del signor Rinaldo, psicopompo (Editrice Ged, Civitanova Marche).

Ettore Cannas è insegnante, ha studiato teologia e ha conseguito il magistero in scienze religiose. Ha pubblicato un romanzo breve e un volume sulla religiosità nelle canzoni di Fabrizio De André.

Pascal Cordara è lettore di lingua francese presso la Facoltà di Lingue e letterature stranie- re dell’Università di Cagliari. Ha analizzato le traduzioni francesi di alcune opere di Salvatore Satta e Sergio Atzeni; ha tradotto il volume di F.C. Casula La terza via della Storia.

Filippo Davoli vive e lavora a Macerata. Ha pubblicato svariati libri di versi, tra i quali Alla luce della luce (1996), Un vizio di scrittura (1998), Una bellissima storia (2000), Padano piceno (2003). È compreso nell’antologia Il pensiero dominante. Poesia italiana 1970-2000 (Garzanti, 2001) a cura di Franco Loi e Davide Rondoni.

Franco Fabbri, musicista e musicologo. Insegna Musiche contemporanee dei media pres- so la Facoltà di Lettere e filosofia dell’Università di Torino ed Economia dei beni musi- cali all’Università di Milano. L’ultimo suo lavoro è L’ascolto tabù, Il Saggiatore 2005.

Antioco Floris insegna Storia e critica del cinema e Linguaggi del cinema e della televisio- ne alla Facoltà di Scienze della formazione di Cagliari. Ha pubblicato saggi e volumi su Daniele Segre, Nanni Moretti, Nanni Loy, il cinema in Sardegna, Leni Riefenstahl.

Gonaria Floris è professore di Letteratura italiana presso la Facoltà di Lettere e filosofia dell’Università di Cagliari e studiosa in particolare di autori e testi della letteratura ita- liana del Rinascimento e del Romanticismo.

Jean Guichard è professore emerito di italiano presso l’ “Université Lumière Lyon 2”. Nel novembre del 1998 ha pubblicato La chanson dans la culture italienne, des origines populaires aux débuts du rock, primo studio d’insieme sulla canzone italiana edito in Francia. 335 Parole e musica in Fabrizio De André

Ignazio Macchiarella, etnomusicologo e ricercatore di Etnomusicologia presso la Facoltà di Lettere e filosofia dell’Università di Cagliari. L’ultimo suo lavoro è Il canto necessario. Giovanna Marini compositrice, interprete, didatta, Nota, Udine 2005.

Piero Mura è studioso di Letteratura contemporanea, e ha pubblicato vari articoli su auto- ri come Grazia Deledda, Italo Calvino e Sergio Atzeni. Ha collaborato con diverse case editrici.

Mauro Pagani, autore, cantante e musicista polistrumentista, nel 1970 fonda la Premiata Forneria Marconi, con cui lavora fino al 1977, incidendo quattro LP. Nel 1978 incide il primo album da solista, che porta il suo nome. Dal 1983 lavora per una dozzina d’an- ni con Fabrizio De André, con il quale incide Creuza de ma’, Le nuvole e l’album live Concerti. Autore di colonne sonore, esecutore e produttore, ha collaborato con nume- rosi artisti, quali Gabriele Salvatores, Eugenio Finardi, Gianna Nannini, Luciano Ligabue.

Marinella Ramazzotti, musicologa, assegnista di ricerca presso la Facoltà di Lingue e lette- rature straniere dell’Università di Cagliari, ha pubblicato lavori su Nono, Debussy, Schoenberg e altri. Attualmente insegna Teoria della musica e organizzazione degli eventi musicali presso la Facoltà di Scienze della formazione dell’Università di Macerata.

Simonetta Salvestroni insegna Storia e critica del cinema e Letteratura russa nella Facoltà di Lingue e letterature straniere dell’Università di Cagliari. Gli ultimi due volumi pub- blicati sono Dostoevskij e la Bibbia (2000) e Il cinema di Tarkovskij e la tradizione russa (2005) pubblicati entrambi dalla casa editrice Qiqajon, Biella.

Stefano Sanjust è Dottorando di ricerca in Letteratura comparata presso l’Università di Cagliari. Redattore della rivista di Letteratura Portales, ha pubblicato articoli sul cinema dei fratelli Taviani.

Maria Giovanna Turudda è ricercatore confermato di Letterature moderne comparate presso la Facoltà di Lettere e Filosofia di Cagliari. Ha pubblicato articoli e saggi su autori italiani contemporanei. Il suo attuale ambito di ricerca è il rapporto tra lettera- tura e metropoli.

Antonello Zanda, scrittore, giornalista pubblicista e critico. Laureato in filosofia, attual- mente direttore della Società Umanitaria - Cineteca Sarda di Cagliari. Ha pubblicato numerosi saggi di cinema, critica d’arte e critica letteraria e alcune opere poetiche, tra cui Maschere (2002) e La terra, il cielo e il mare (2003). © 2007 Aipsa Edizioni via dei Colombi 31 Cagliari tel. 070306954 e-mail: [email protected] http: www.aipsa.com

Progetto editoriale, grafica e impaginazione Aipsa Edizioni

Fotografie di Daniela Zedda

Finito di stampare nel mese di giugno del 2007 presso Grafiche Ghiani - Monastir (CA)

ISBN 978-88-87636-97-0