SILVANO CONTINI, IL CAMPIONE DI LEGGIUNO CHE HA FATTO SOGNARE IL MONDO DEL CICLISMO di Felice Magnani

Dodici anni di professionismo, vittorie stupende, momenti di strappati a una concorrenza spietata, dominata da quel , considerato uno dei più grandi campioni della storia del ciclismo, vincitore di cinque giri di Francia, tre giri d’Italia e due Vuelta a Espana. Con il ciclismo italiano rafforza la sua immagine, dimostrando che si può essere campioni veri non solo nello sport, ma anche nella vita, vivendo in pienezza ed entusiasmo tutto ciò che la vita stessa regala.

Silvano Contini in piena azione

SILVANO CONTINI è nato a Leggiuno (Varese) il 15 gennaio 1958. Professionista dal 1978 al 1990, ha corso per la Faema, la Bianchi Piaggio, l’, la Gis Gelati, la , la Malvor Bottecchia, la Malvor Colnago e la Gis Benotto. Vanta 48 vittorie, quattordici giorni in maglia rosa e cinque presenze in nazionale. Tra i suoi successi spicca quello nella Liegi- Bastogne-Liegi del 1982. Lunga la serie di classiche e giri vinti: il , il Giro di Germania, il Giro dei Paesi Baschi, il Midi Libre, il Tour de l'Aude, la , il (in coppia con Gisiger), il , il Gran Premio di Camaiore, il , la , il Trofeo dello Scalatore, la Ruota d’Oro, il Giro dell’Umbria, il , il G.P. di Prato, la .

Silvano Contini oggi, nell’ufficio della sua falegnameria, alla Baraggia di Leggiuno

Silvano Contini, Beppe Saronni, , e , al Giro d’Italia (Archivio Contini)

C’era un tempo in cui gli adolescenti vivevano all’aria aperta, nei prati e sulle strade, giocando a calcio o in bici, sfidandosi in lunghe volate, per vedere chi era il più forte. Una vita sana, fatta di movimento e di entusiasmo, animata da una gran voglia di manifestare la propria esuberanza. Silvano Contini è stato uno di questi, un ragazzo semplice, pieno di voglia di vivere, con una passione particolare per la bici e per il calcio. Frequentava le Scuole Medie a Caravate e durante il tragitto in bicicletta, sfidava gli amici, anche quelli più grandi, in interminabili corse, dimostrando anche a quelli che già correvano che li poteva battere. E’ proprio da lì, da quelle scatenate fughe e volate tra Laveno, Sangiano, Leggiuno e Caravate che nasceva in lui la voglia di correre, di mettersi alla prova, di vedere se era possibile entrare in quel mondo che lo affascinava al punto di farlo sognare. Di qualità doveva averne e non poche, se il grande e la Bianchi si sono accorti di lui e lo hanno assunto nel professionismo nazionale. Era il 1978, un anno difficile per il nostro paese, funestato dal rapimento e dall’uccisione di Aldo Moro e dei cinque uomini di scorta, dalla morte di papa Paolo VI e quella di papa Giovanni Paolo I, dopo soli trentatré giorni di governo della chiesa cattolica. E’ proprio in questo intreccio di eventi che spunta il nome di un giovane ciclista forte, bravo, capace di stare alla pari con i campioni nazionali e con quelli d’oltralpe, trovando spesso anche la forza e il talento naturale per batterli. Si chiama Silvano Contini, un tipo di poche parole, schivo, di un’eleganza raccolta, solare e pieno di energia, capace di duettare fin da subito con i giovani leoni del ciclismo. Scalatore, passista, temibile velocista, lascia subito intendere che vuole giocarsela alla sua maniera, in modo diretto, con la determinazione di chi sa che per ottenere grandi risultati occorre fare grandi sacrifici. Corre e vince, dimostra sul campo di avere una marcia in più, ma non se ne fa un vanto, mantiene intatta la sua gioviale semplicità, il suo modo pulito e scanzonato di dimostrare che vale, salvo difendere a denti stretti la propria onestà, quando diventa necessario. Duettare a tu per tu con campioni del rango di , Beppe Saronni, Roberto Visentini, Giambattista Baronchelli, , , Bernard Hinault e tanti altri, non è facile, bisogna avere qualcosa dentro che vada oltre, un talento naturale impregnato di grandissima serietà professionale. Nel Giro d’Italia del 1979 arriva secondo nella tappa di Trento, dopo aver scalato alla grande il Falzarego e il Pordoi, dimostrando le sue ottime doti di scalatore. Sarà quinto nella classifica finale e vestirà la maglia bianca, come miglior giovane del Giro. E’ un’importante carta di credito, una conferma per chi crede nelle sue straordinarie doti di uomo e di atleta. Conclude l’anno piazzandosi secondo al , dietro Bernard Hinault, il supercampione d’oltralpe con il quale dovrà sempre fare i conti, soprattutto nell’82, l’anno d’oro della sua storia professionale. E’ l’anno in cui tutti gl’ italiani pensano che il campione di Leggiuno possa davvero essere il grande dominatore del ciclismo. Nella terz’ultima tappa del Giro, la corazzata Bianchi attacca Hinault, con un trio di straordinaria potenza di fuoco, Contini, Prim, Baronchelli. La rappresaglia va a buon fine e sul Croce Domini Silvano Contini, con uno spunto da vero campione, fa scattare l’esultanza del popolo del ciclismo. S’impone come solo un grande campione può fare e tutti pensano che il Giro sia suo, ma il ciclismo non perdona. Il giorno dopo infatti, quando il sogno sembra poter diventare realtà, Contini va in crisi e cede la maglia rosa a Hinault, primo a Montecampione. Il giovane varesino non si dispera, accetta i giochi del destino con quell’onestà intellettuale che lo ha sempre accompagnato in ogni momento della sua vita. Al termine è terzo in classifica generale, dietro allo svedese Tommy Prim e al francese Bernard Hinault. Il terzo posto è comunque una grande conquista, il risultato di un talento naturale che ha saputo mettersi in gioco, dimostrando carattere e autorevolezza. Contini conferma le sue doti vincendo la Coppa Bernocchi e la Liegi - Bastogne - Liegi, la classica del nord, una delle più amate dagli appassionati del ciclismo mondiale. Una vittoria incredibilmente bella quella di Silvano, ottenuta con una volata straordinaria, in cui batte due belgi e uno svizzero, lasciando nel mutismo più assoluto quel popolo del nord, abituato alle vittorie dei campioni di casa. Del Giro d’Italia, Contini è sempre stato uno dei protagonisti, lo dimostrano le sue quattordici volte in maglia rosa, la grinta, il coraggio, il talento, l’aver saputo interagire con quel popolo del ciclismo che gli ha voluto bene e che lo ha apprezzato anche per quel suo volto sincero e solare, pronto sempre a legittimare con un sorriso i momenti difficili della vita sportiva di un campione. Le sue vittorie sono state molte e di grande prestigio. Ha vinto un po’ dappertutto, sulle grandi salite, come nelle grandi pianure, dimostrando la bellezza di uno sport che non finisce mai di stupire e di farsi amare. Oggi è un padre felice, un uomo realizzato, un artigiano che lavora con la passione di sempre quel legno che ha imparato ad amare grazie a uno zio che non ha mai dimenticato. Alla Baraggia di Leggiuno, il campione che ha fatto tremare il grande Bernard Hinault, continua con entusiasmo un’antica attività familiare, con quella dedizione che solo i campioni, quelli veri, sanno mettere in tutte le cose che fanno.

Con il suo cane, durante una pausa

L’INTERVISTA

1)Silvano, cos’hai provato, quando nel 1978 Gimondi, Ferretti e la Bianchi ti hanno proposto di entrare in quello che fu il gruppo sportivo del grande ? E’ stata una grande fortuna essere andato alla Bianchi. In quell’anno ero nella squadra dilettanti con quel , che ha vinto il Campionato del Mondo dilettanti, la Bianchi è poi venuta al Piccolo Giro di Lombardia per acquistare Corti, solo che lui aveva già firmato per un’altra squadra. Ricordo che , che era il direttore sportivo e che mi aveva visto all’opera sul Ghisallo, era andato da Felice Gimondi e gli aveva raccontato di un ragazzino, lui mi chiamava così, perché avevo diciannove anni, dicendogli che gli ero piaciuto per come avevo affrontato la salita, Gimondi gli rispose: “Se ti è piaciuto, prendilo e così mi sono trovato alla Bianchi”. Trovarmi a tu per tu con Felice Gimondi, seduto a tavola vicino a lui, è stata una grande emozione. Felice è stato un mito. Da ragazzino giravo con la bicicletta nel cortile di casa, urlando: “ Gimondi, Gimondi!”. Trovarmelo accanto, è stato straordinario, quasi non ci credevo. Gli davo del lei, buongiorno, buonasera, perché questa era l’educazione che avevo appreso dai miei genitori e che girava in quel ciclismo. Lui, in seguito, mi avrebbe dato la possibilità di dargli del tu, ma dopo che mi aveva visto correre per circa tre mesi. Un giorno mi ha preso da parte e mi ha detto: “Da oggi puoi darmi del tu”. Ero felice. Davvero una bella lezione che manca al giorno d’oggi, credo infatti che dare del lei, almeno inizialmente, sia una sacrosanta forma di rispetto, un rispetto che diventa fondamentale nella vita di relazione. Credo che si possa avere un rapporto bellissimo anche senza dover precorrere i tempi, non solo nello sport, ma anche nella storia di tutti i giorni. Oggi va di moda il ciao, le persone non ti conoscono, non ti hanno mai frequentato, non sanno chi sei e ti danno del tu come se ti avessero conosciuto da sempre. Il rispetto parte anche da qui. Alla fine siamo diventati amici e l’amicizia si è estesa alle nostre famiglie, alla nostra vita privata, è stato anche un modo per capire meglio quel mondo del ciclismo nel quale lavoravamo con grande impegno. Di Gimondi mi colpivano la determinazione, il suo voler essere sempre davanti, il non mollare mai, il suo carattere forte. E’ stato un esempio per tutti.

Come ti hanno accolto i nuovi compagni di squadra? In squadra c’erano personaggi di primo piano, come il belga , vincitore del Giro d’Italia del 1978 e che è stato mio compagno di camera. Si trattava di una strategia organizzata ad hoc perché potessi imparare. Ferretti ha visto lontano, mi ha dato la possibilità di crescere senza l’assillo di dover fare qualche risultato a tutti i costi, mettendomi accanto, come compagno di camera, un corridore saggio ed esperto come Johan. Alla squadra, almeno nella fase iniziale, non servivano i miei risultati , avevano già corridori adatti per ogni tipo di corsa e perfettamente in grado di vincere. Io dovevo osservare, imparare, capire, crescere, insomma dovevo farmi le ossa nel grande mondo del professionismo. Oltre a De Muynck c’era il fortissimo norvegese , poi Rik Van Linden che vinceva le volate, si trattava quindi di far crescere Silvano Contini, fino al momento in cui avrebbe potuto giocare le sue carte. Noi della Bianchi eravamo una squadra molto unita, tra noi si era creato un ottimo rapporto, anche con i più anziani, i vecchi gregari di Gimondi. Nel momento in cui ho cominciato a dimostrare di poter competere per grandi risultati, si sono messi a mia disposizione, mi hanno fatto capire che era arrivato il mio turno.

Contini guida il gruppo al Giro (Archivio Contini)

Hai sempre dimostrato di essere un atleta serio e con la testa sul collo Ho iniziato come gregario, ho cercato di essere utile a Felice Gimondi e a tutti i campioni che hanno attraversato il mio cammino, l’ho fatto con la consapevolezza di chi sa che per arrivare bisogna faticare, dimostrare di essere all’altezza, la vita è infatti una conquista quotidiana, quindi bisogna saperla affrontare e vivere in tutti i suoi aspetti, anche in quelli che ci sembrano professionalmente meno alti. Ho cercato di dimostrare che nello sport, come nella vita, bisogna lavorare sodo e volare basso se necessario, senza pretendere di conquistare subito il mondo. Noi della Bianchi eravamo una squadra cosciente degli obiettivi da raggiungere, eravamo convinti che, collaborando, sarebbe stato tutto più facile e lo abbiamo dimostrato concretamente in molte occasioni.

Quando diventi ufficialmente il punto di riferimento della tua squadra? Già nel 1978, dopo il mondiale vinto da Felice Gimondi, quando lui ha appeso la bici al chiodo, al Giro dell’Emilia sono arrivato davanti con i primi, lì è scattato qualcosa nella squadra, credo una considerazione diversa, forse caldeggiata anche da Ferretti, ho cominciato a rendermi conto che avrei avuto un ruolo di maggiore responsabilità, un ruolo che avrei dovuto giocarmi sul campo. Nella squadra non ho mai avanzato pretese, mi sono sempre messo a disposizione, cercando di imparare, senza l’arroganza di dover insegnare qualcosa a qualcuno, anche perché quando passi professionista hai solo da imparare. Ci sono dei comportamenti che comunque porti dentro da sempre, perché sono quelli che hai appreso nella tua vita, legati a quell’educazione che genitori responsabili e attenti sapevano trasmettere con cuore e fermezza. L’esperienza che accumuli strada facendo li ravviva, li potenzia, ma è fondamentale predisporsi con umiltà a cogliere quello che il mondo ci insegna. La gavetta è una fondamentale lezione di vita.

Contini guida il gruppo davanti a Francesco Moser, alla sua ruota in maglia rosa, sulla destra il francese Bernard Hinault con il quale fu protagonista di una sfida entusiasmante nel 1982 (Archivio Contini)

C’è stato un momento in cui hai scoperto di essere davvero quel talento che tutti si aspettavano? Al Giro d’Italia del 1979 mi sono accorto di avere qualche possibilità in più, rispetto alla normalità dei corridori, ricordo di essermi messo a disposizione di Knudsen, perché lui aveva indossato la maglia di leader, io ero maglia bianca e lui maglia rosa, una bella accoppiata per la squadra. Alla Bianchi interessava la maglia bianca, ma nutriva una particolare attenzione per la maglia rosa. Nonostante avessi la maglia bianca e fossi sesto in classifica, dovevo lavorare per Knudsen, tutti dovevamo lavorare per lui. In seguito, in una tappa dolomitica ha avuto un incidente, si è ritirato, così sono diventato l’uomo di classifica, la Bianchi ha costruito la squadra su di me. I ruoli erano molto ben definiti, non c’era spazio per distrazioni, non è come nel ciclismo di oggi dove devi fare il risultato anche se non sei un corridore di peso, ai miei tempi i compagni si mettevano tutti a disposizione e collaboravano, perché avevano molta fiducia nelle doti umane e atletiche della persona per la quale dovevano sacrificarsi.

Silvano Contini batte Hinault al Giro di Romandia (Archivio Contini)

Hai avuto una carriera ricca di soddisfazioni, c’è qualcosa che ti è mancato? Forse quel famoso Giro d’Italia dell’82, anche se devo dire in tutta onestà che Hinault era Hinault e io non ero alla sua altezza. Avrei potuto difendermi meglio, senza crollare, senza prendere tutti quei minuti, se avessi avuto l’esperienza e la freddezza necessarie. Sentivo moltissimo la pressione, non avevo una grande esperienza, forse mi sono fatto prendere un attimino dal panico, conoscevo Hinault, sapevo che avrebbe potuto fare qualsiasi cosa, aveva una classe formidabile. In quei momenti bellissimi e difficilissimi ho capito, se ancora ce ne fosse stato bisogno, che Hinault aveva qualcosa più di me. Prendere coscienza non significa rinunciare o sentirsi inferiori, ma vivere quello che ti aspetta con maggiore realismo, distribuendo con saggezza le tue risorse e i tuoi talenti. Ho sempre dato tutto, non ho nulla da rimproverarmi, ho ottenuto risultati che non mi sarei mai aspettato, ho avuto più di quanto immaginassi, l’unico vero rammarico è quello di non aver mai vinto la , la corsa di casa a cui ho sempre puntato. In quegli anni c’erano campioni come Beppe Saronni, Francesco Moser, Bernard Hinault, Gerrie Knetemann, Roger De Vlaeminick, Giovanni Battaglin, campioni che vincevano con una frequenza impressionante, era gente che vinceva dalle venti alle trenta corse all’anno, alla fine non è che ne rimanessero tante da vincere, non è come oggi che ce ne sono cento e che puoi scegliere in quale stagione dell’anno orientare le tue energie; una volta c’erano solo due classiche in Europa e ti ritrovavi sempre i più forti sul tuo cammino, più agguerriti che mai. Non era assolutamente facile ritagliarsi uno spazio stabile in un mondo così complicato. Sono comunque felice di aver fatto quello che ho fatto.

Eri uno che sapeva sorprendere, che sapeva scatenare emozioni Ero uno che in corsa s’inventava le cose, ogni tanto mi veniva lo schiribizzo e partivo, non ero un calcolatore, avevo un approccio molto personale con la vita del corridore, mi andava di viverla nella sua immediatezza, lasciando spesso al cuore e all’entusiasmo la facoltà di decidere, non ho mai abbandonato l’idea di un ciclismo romantico, un po’ fuori dalle righe, appassionato e vivo in tutte le sue sfumature, l’ho vissuto come avrei voluto, proprio come me lo immaginavo quando, da ragazzo, sprintavo sulle strade del varesotto, pensando al futuro.

Contini e Hinault in piena bagarre (Archivio Contini)

Il ciclismo ha bisogno di emozioni? Credo che la bellezza di questo sport stia anche nell’intuizione, nella capacità di saper inventare la corsa, offrendo il meglio di sé quando gli altri meno se l’aspettano. Il talento consente a volte di creare all’istante situazioni che potrebbero sembrare impossibili. Ricordo quel Giro di Lombardia, quando siamo partiti io e Hinault in una fuga di centocinquanta chilometri, con dietro Moser e Saronni con le squadre che tiravano, fortunatamente non ci hanno preso. Sono imprese che rimangono e che non cancelli più, fanno parte di una storia personale che si colora di sfumature diverse da quelle del calcolo e della programmazione. Il ciclismo è bello anche quando esce da consumati cliché, da pianificazioni esagerate, dai giochi di squadra, quando diventa espressione di un talento che sorprende per la sua immediatezza e autenticità.

Contini al lavoro nella sua falegnameria

Se non ci fosse stato Hinault, per Contini le cose sarebbero andate diversamente? Credo di poter affermare che la mia fortuna sia stata quella di aver corso con grandi campioni, perché erano comunque degl’importanti punti di riferimento. In alcune circostanze ho provato a fare da solo la corsa e doverla interpretare, ma non è mai stato assolutamente facile. Con dei campioni nel gruppo è molto più semplice correre e fare risultati di prestigio, è sempre possibile sfruttare un attimo di temporanea fragilità e la sfida assume un sapore diverso, ti senti più motivato. La presenza dei campioni dà un tono alla corsa, crea le motivazioni giuste, mette alla prova e una vittoria ha un valore e un significato molto diversi. Dai campioni si può sempre imparare.

Sei stato anche un fortissimo velocista In volate ristrette sono riuscito a battere anche , ricordo il Trofeo Matteotti dell’80 e il Gran Premio di Larciano del 90. Se riuscivo a impostare la volata come volevo io, in quei trenta metri finali, me la giocavo con buone possibilità, anche con velocisti di prestigio.

Ti ritieni un uomo fortunato? Sì, mi ritengo un uomo fortunato, perché ho praticato uno sport che mi ha dato tanto. Mi sono divertito, praticamente ho giocato fino a trentatré anni, ma ho anche imparato molto. E’ stata un’esperienza che mi ha aiutato a impostare la seconda parte della mia vita. Mi sono trovato spesso a riflettere sul mio presente e sul mio futuro, ho capito fin da subito che la mia vita non sarebbe finita con il ciclismo, con quel mondo che pure mi aveva dato tante belle soddisfazioni. La vita, quella vera, è iniziata subito dopo, quando mi sono dovuto confrontare con le grandi responsabilità umane, la famiglia, i figli, il lavoro. La mia fortuna è che sono sempre stato molto determinato nelle mie scelte, ho sempre avuto idee chiare su quello che avrei dovuto fare. La famiglia è stata il mio punto di forza, grazie al grande supporto di mia moglie Bibiana e, quindi, dei miei tre figli. Ho riscoperto la bellezza della lavorazione del legno, un artigianato che avevo imparato a conoscere e apprezzare dalle mani straordinarie di uno zio che, quasi senza volerlo, mi ha indicato la via. Lavoro con la passione di sempre in quella falegnameria, alla “Baraggia” di Leggiuno e mi sento pienamente realizzato.

A parte la Liegi Bastogne Liegi, c’è una corsa che ti è rimasta nel cuore? Sicuramente la vittoria nel Giro del Lazio, battendo Hinault in volata.

Ma cosa aveva Hinault, che Contini non aveva Aveva sicuramente qualcosa più di tutti noi.

E’ così difficile avvicinare i giovani al ciclismo? Secondo me hanno troppe distrazioni, forse mancano i valori fondanti, manca quel mondo che ci ha fatto scoprire senza troppi condizionamenti la forza e la bellezza della famiglia, del lavoro, dell’amicizia, dello sport, della vita all’aria aperta, del rispetto. La tecnologia ha forse esasperato gli animi e il consumismo li ha in parte disorientati, oggi c’è una ricerca spasmodica di comodità, è sempre più difficile mettere davanti a tutto la fatica, il sacrificio, la disciplina, si vorrebbe avere tutto subito, in molti casi l’educazione familiare lascia a desiderare e i giovani si trovano spesso allo sbando, non sanno come e dove posizionare le proprie risorse. Noi avevamo meno sul piano delle opportunità pratiche, ma sapevamo affrontare concretamente la vita.

Nel mondo del ciclismo hai ancora amici con i quali ti senti? Ne ho conservati pochi, ma buoni, amici che ho sempre portato con me anche nelle squadre in cui ho svolto la mia attività. Ricordo con particolare piacere Pozzi e Vanotti, i miei fidi gregari, quelli che esultavano e piangevano con me nelle vittorie e nelle sconfitte. Ci vediamo una o due volte all’anno e ogni volta è come se fosse la prima. Intrattengo buoni rapporti anche con e con Beppe Saronni. Proprio con Beppe e con Luigi Botteon, domenica scorsa, siamo andati in bici insieme e abbiamo fatto il giro del lago di Varese.

E il tuo approccio con il Tour ? Non ho mai avuto un gran rapporto con il Tour, perché si puntava moltissimo alle classiche e al Giro d’Italia. Ho partecipato gli ultimi anni della mia carriera, quando ormai le forze erano quelle che erano, ma non è mai stato un obiettivo stabile dei nostri programmi.

Come giudichi il ciclismo di oggi, rispetto a quello che hai vissuto tu E’ cambiato, si è internazionalizzato. Si corre negli Emirati Arabi, in Cina, in Giappone, sicuramente ha guadagnato sul piano finanziario, perché adesso ci sono molti più soldi che girano. Occorre non dimenticare mai, però, che l’Europa è stata ed è ancora la culla del grande ciclismo. Mancano corridori faro, non c’è dualismo, la vita del corridore è troppo condizionata dalla tecnologia. L’uso ossessivo della tecnologia ha privato i corridori della capacità di conoscersi in modo più approfondito. Noi ci incontravamo durante gli allenamenti, eravamo quindici, venti professionisti di squadre diverse che condividevano una parte importante della loro attività lavorativa, ci si guardava negli occhi, si socializzava, si cercava di capire qual era la condizione, adesso invece i corridori sono comandati a bacchetta dalla macchina, un po’ come in formula uno. Rimango dell’avviso che la bellezza del ciclismo stia soprattutto nell’impresa, nella capacità di uscire dagli schemi, nel realizzare qualcosa di unico, qualcosa che dia soddisfazione e che resti dentro la memoria, per sempre. I tifosi si entusiasmano quando vivono un ciclismo che si scopre strada facendo, in tutta la sua autenticità e bellezza. Il ciclismo piatto non fa bene al ciclismo.

Silvano, la bici è uno strumento straordinario, qual è il tuo pensiero in merito? Invecchiando, ho scoperto la bellezza della passeggiata in bicicletta, la gioia di fermarmi a guardare il lago e le montagne che fanno da cornice. Oggi la bici mi permette di vivere un contatto pieno con quel territorio che molti ci invidiano.

Cosa ti senti di dire a quei giovani che amano il ciclismo e che vorrebbero praticarlo? Il ciclismo è sacrificio, un sacrificio che può portare anche delle belle soddisfazioni, ma al quale occorre dare impegno, disciplina, rinunce e abnegazione. Chi pratica sport a livello professionistico deve condurre una vita da atleta. Non è possibile prendere le cose sottogamba, la serietà è fondamentale. Oggi si tende spesso a far prevalere la mondanità, la visibilità, la frequentazione di certi ambienti, una volta si conduceva una vita molto più raccolta. Se un giovane decide di correre in bicicletta deve saper rinunciare alle mollezze della vita, deve concentrarsi completamente sullo sport che ha scelto, praticandolo con passione, entusiasmo e con molta determinazione.

Il campione della bici ha realizzato il suo secondo sogno

E la tua simpatia per il calcio? Ho sempre avuto una simpatia per il Cagliari, Riva è sempre stato il mio idolo. Ho giocato nella nazionale ciclisti, come portiere e come difensore, abbiamo giocato entusiasmanti partite contro la nazionale cantanti, ho cercato di fare del mio meglio, ma sempre per ragioni di rappresentanza sportiva.

Nella vita di un atleta la famiglia ha un ruolo fondamentale, sei d’accordo? La famiglia ti dà quella serenità di cui hai bisogno per affrontare le difficoltà che incontri nel tuo lavoro, ti aiuta a superare i momenti difficili, regalandoti la gioia di sentirti capito e spronato. Tornare a casa dopo le fatiche di una corsa e condividere con chi ti sta a fianco le alterne vicende, aiuta a trovare un equilibrio, la voglia di ricominciare con uno spirito diverso. Quante volte poteva capitare di tornare a casa, di buttare la bici in un angolo e di dire basta, di non voler più correre, quante volte la famiglia mi è stata vicino, rasserenandomi. La famiglia è un collante straordinario. Dopo la nascita del primo figlio ho cominciato a pensare seriamente che la mia vita sarebbe stata anche un’altra, più legata a quei valori nei quali ho sempre creduto e per i quali ho deciso di abbandonare il ciclismo.

Com’è iniziato il tuo amore per la falegnameria? A diciotto anni tornavo dagli allenamenti e mi chiudevo nella falegnameria di mio zio, alla “Baraggia” di Leggiuno, stavo lì, magari non facevo grandi cose, ma in quei momenti capivo che quel lavoro mi piaceva moltissimo e così, piano piano, è nata una passione. Quando ho smesso di correre, lo zio, ormai anziano, mi ha chiesto se volevo proseguire la sua attività e così è stato. Ho smesso di fare la valigia e ho iniziato la mia nuova attività.

Il campione di Leggiuno, ricordando

Chi ama il ciclismo e lo segue con assiduità ormai da parecchi anni, conosce il valore di Silvano Contini, il campione di Leggiuno che ha fatto tremare Bernard Hinault. Mi reputo molto fortunato di averlo potuto incontrare e intervistare in più di un’occasione. Di lui mi hanno colpito la semplicità, la riservatezza, la maturità dell’uomo, la capacità di saper dare il giusto valore alle cose della vita, il suo essere legato da sempre al suo territorio, al suo lago e alle sue montagne, alla sua famiglia e a quegli amici che hanno condiviso con lui le sconfitte e le vittorie, il pianto e il sorriso. Grande professionista della bici e bravissimo falegname, il ragionier Silvano Contini ha saputo leggere e interpretare in modo coerente e autentico tutte le belle opportunità che la vita gli ha riservato.