Insediamenti Sostenibili Della Tradizione Mediterranea Il Recupero Dei Saperi E Delle Conoscenze Locali Nei Processi Di Pianificazione E Progettazione Contemporanea
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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI NAPOLI FEDERICO II FACOLTA’ DI ARCHITETTURA DIPARTIMENTO DI PROGETTAZIONE ARCHITETTONICA E AMBIENTALE "TEORIE E METODOLOGIE" Dottorato di ricerca in “Progettazione architettonica e tecnologie innovative per la sostenibilità ambientale”, XXIII ciclo Insediamenti sostenibili della tradizione mediterranea Il recupero dei saperi e delle conoscenze locali nei processi di pianificazione e progettazione contemporanea Coord.: Prof.arch. Rolando Scarano Tutor: Prof.ssa arch. Anna Maria Puleo Dottoranda: Lorena Musotto 1 PREMESSA Oggi si fa fatica a credere che ritornare alla tradizionale gestione del territorio possa essere una delle condizioni auspicabili per il futuro. Questo perché la lentezza che contraddistingueva le società tradizionali non risponde alla logica della società occidentale e neoliberista del massimo profitto che impone tempi sempre più stretti. Dietro questa folle corsa, che si è perpetuata a partire dalla rivoluzione industriale sino ai giorni nostri, l’uomo occidentale si è affaticato, nella convinzione che solo la lotta per il predominio del potere fosse la condizione necessaria per garantire la sopravvivenza e il benessere della collettività e che ciò giustificasse lo sfruttamento indiscriminato delle risorse planetarie. L’arroganza e l’egocentrismo della società industriale sono state le cause del perpetrarsi di quell’opera di persuasione, quasi religiosa, della superiorità occidentale e l’imposizione del nostro stile di vita sulle altrui culture, indifferentemente alle dinamiche ambientali, sociali, produttive, economiche, insediative locali. La trasposizione sul piano economico e sociale delle teorie del processo evolutivo darwiniano ha reso possibile l’imposizione del modello occidentale nel processo di sviluppo globale, e cioè di 1/4 della popolazione mondiale che vive sfruttando e fagocitando le risorse dei paesi più poveri. Questa premessa ci fa comprendere la ragione storica che ha determinato quel disequilibrio e disavanzo economico e sociale, accentuatisi nei giorni nostri, tra i paesi occidentali e quelli cosiddetti del sud del Mondo. Un’accelerazione di questo processo si ha con l’ingresso sulla scena politica- economica del petrolio. L’introduzione del petrolio ha innescato un rovesciamento degli equilibri su cui si reggeva tutto il sistema economico, politico, socio-culturale, produttivo di un tempo, favorendo il sorgere di un mercato globale e di massa e di un’economia basata sul consumismo sfrenato e la crescita illimitata. I processi industriali si sono impossessati di tutti gli aspetti della vita quotidiana e con l’introduzione dell’energia elettrica da fonti fossili e delle tecnologie ad essa connesse, il benessere di una fetta della popolazione mondiale è cresciuto in maniera esponenziale. L’uomo, prima dell’avvento dell’energia prodotta da fonti fossili, consapevole dell’esauribilità delle risorse, attuava interventi che tenessero conto del loro riuso. Per difendersi dal clima sfruttava la conoscenza del territorio - orientamento dei venti, esposizione solare, presenza di vegetazione, disponibilità di acqua o di altre risorse - per progettare le abitazioni, le città e il paesaggio agricolo. In seguito, con l’introduzione dell’energia ottenuta dai combustibili fossili, l’involucro edilizio si riduce al minimo e il compito di garantire le condizioni di confort viene totalmente affidato all’impiantistica. Il cemento armato si è sostituito alle tecniche e ai materiali locali, l’approvvigionamento idrico attuale - che sta prosciugando le falde e i bacini idrici naturali - si è sostituito ai tradizionali sistemi di raccolta, conservazione e riuso, i fertilizzanti chimici e i pesticidi ai concimi naturali a scapito della qualità dei cibi che mangiamo, le monocolture intensive alla rotazione agraria con conseguente inaridimento del suolo. Alle economie locali, fondate sull’agricoltura, l’allevamento, l’artigianato, gestite secondo metodi e modelli tradizionali si sono sostituiti sistemi e modelli finalizzati alla grande distribuzione, attraverso lo sfruttamento e l’uso intensivo dei suoli per aumentare la produttività e ottenere tutto ciò che la natura non riesce a fornire secondo i suoi cicli. Grandi appezzamenti di terreno vengono sottratti, ancora oggi, al paesaggio agricolo tradizionale per destinarli alle monocolture intensive o alla coltivazione di cereali, semi oleosi, foraggi, ecc., destinati agli animali. Milioni di ettari di terra coltivabile o di polmoni verdi vengono disboscati per essere destinati al pascolo, a cui si aggiunge l’inquinamento delle falde acquifere e dei corsi d’acqua a causa dello smaltimento delle deiezioni animali (che essendo ad alto contenuto di azoto non possono essere riutilizzate come concime) e l’enorme quantità di acqua e di energia consumati dall’agricoltura e dagli allevamenti intensivi. L’abbandono delle rotazioni e l’utilizzo di pratiche agro-pastorali improprie, la massiccia impermeabilizzazione dei suoli, la distruzione delle barriere naturali, la realizzazione di infrastrutture idriche imponenti, hanno un’azione devastante sull’equilibrio dell’ecosistema che, fortemente compromesso, tenta tuttavia di ristabilirsi attraverso azioni il più delle volte devastanti (inondazioni, erosione del suolo con conseguente perdita di humus e di copertura vegetale, erosione idrica, degrado dei pendii, frane, desertificazione). Secondo stime effettuate dalla Unione Europea il 27% del territorio italiano è esposta ad un elevato rischio di erosione; in particolare la Sicilia «è la regione italiana che presenta il maggior rischio e dove sono più evidenti le conseguenze causate sia dai cambiamenti climatici che dagli effetti della pressione antropica sulle risorse naturali, ed in particolar modo su acqua e suolo” (…) e se continueremo a reiterare gli attuali comportamenti, entro i primi anni del 2030 avremo bisogno di due Pianeti per soddisfare il fabbisogno dell’umanità di beni e servizi». Questo scenario, presentato nel Living Planet Report 2008 del WWF, introduce un altro concetto che è quello di “impronta ecologica”, un indice statistico (ideato nel 1996 da W. Rees e M. Wackernagel) che mette in relazione il consumo 2 umano di risorse naturali con la capacità della Terra di rigenerarle. L’Italia è al 24° posto nella classifica dei paesi con la maggiore impronta ecologica: 4,8 ettari per persona. Se dividiamo il numero della popolazione per la superficie di territorio disponibile si ottiene una capacità biologica di 1,2 ettari pro capite e un deficit ecologico di 3,5 ettari per persona. In sostanza, avremmo bisogno di altre due Italie per soddisfare i nostri livelli di consumo e produzione di scarti. Anche le aree urbanizzate contribuiscono in maniera diretta all’avanzare del processo di desertificazione attraverso la sottrazione di suolo, e, in maniera indiretta, attraverso il consumo di risorse, l’abbandono e la scomparsa “di presidi territoriali capaci di una corretta gestione del paesaggio” (Pietro Laureano, Africa Forum, 2008) Tutto questo non senza creare gravi ripercussioni sulla qualità dei cibi, sull’economia produttiva locale e sull’assetto del paesaggio agricolo tradizionale. A fronte dei benefici immediati derivanti dall’uso di tecniche e tecnologie invasive, nel giro di poco tempo, il suolo ha perso la sua fertilità e lo sfruttamento eccessivo delle falde freatiche ha aumentato il livello di salinità dei suoli, spesso a causa dell’intrusione marina. Se proviamo, tuttavia, a riflettere sul fatto (inserire, non si dice: riflettere che) che l’era tecnologica ricopre un arco temporale molto limitato della storia dell’umanità, ci rendiamo conto che nella fase in cui attualmente ci troviamo sta già mostrando i suoi effetti devastanti. Questo dovrebbe indurci a riconsiderare le pratiche tradizionali già verificate dalla storia. Ciò nonostante si continuano a mettere a punto tecnologie sempre più sofisticate, nella convinzione che lo sviluppo scientifico e il progresso tecnologico siano in grado di rispondere di volta in volta a nuove emergenze ambientali e di contribuire allo sviluppo e alla crescita. L’eccessiva fiducia nella tecnologia e la mancanza di partecipazione dell’uomo ai processi di trasformazione del proprio territorio, hanno fatto venire meno quel senso di responsabilità che apparteneva alle comunità tradizionali, le quali, consapevoli dei delicati equilibri dell’ecosistema e non avendo certezza alcuna sulla disponibilità delle risorse, attuavano strategie di sfruttamento del territorio basate sul riuso e sul rinnovo; l’introduzione delle innovazioni nel patrimonio delle conoscenze consolidate, veniva accettata e incorporata solo dopo che la loro sperimentazione ne avesse dimostrato l’effettiva efficacia e la compatibilità con la capacità dell’ecosistema di rinnovarsi e rigenerarsi. Anche lo spopolamento dei territori interni a partire dagli anni ’60 del XX secolo (inserire) in poi - e il conseguente inurbamento delle città e delle coste, la dispersione del tessuto e delle relazioni sociali, il crollo delle forme di autogoverno locale e la rimozione dalla memoria storica del bagaglio di conoscenze e saperi tradizionali, devono essere considerati come fattori responsabili del degrado e dell’inaridimento culturale degli ultimi 50 anni. La coscienza degli esiti di questo processo è diventato un fatto culturale è si è tradotto anche in Italia in leggi dello stato: «(…) È essenziale recuperare il valore produttivo, paesaggistico e naturalistico di zone attualmente compromesse da un’eccessiva concentrazione di attività antropiche