a Don Renzo Forconi Cura e testi Giulia Righi Foto Silvano Silvia (www.silvanosilvia.it) Progetto grafico tabloidcoop.it Stampa Nuova Grafica Fiorentina

Un ringraziamento particolare va a tutte le persone che hanno collaborato alla realizzazione di questa pubblicazione. Senza le loro testimonianze, puntuali ed accorate, sarebbe stato assai difficile restituire su pagine bianche la meravigliosa figura di Don Renzo.

Fondazione Opera Diocesana assistenza Firenze onlus Via dell’Orto, 57 - Firenze Tel. 055 2286433 www.odafirenze.it Quel prete sempre di corsa La vita di Don Renzo Forconi e la sua missione nell’Oda Indice

7 Prefazione Il saluto dell’Arcivescovo di Firenze, Il ricordo dell’Amministratore Delegato dell’Oda, Marco Galletti

Capitolo 1 Don Renzo e i suoi ragazzi (1976-2008). L’Opera Diocesana di Assistenza 16 “Aveva un sorriso devastante” 23 “Ma Don Renzo, i ragazzi sugli sci si fanno male” “No. Son come gli altri” 28 “Giovanna, questa è una casa, non un ospedale” 33 “Certe volte ci chiedevamo: ‘Ma come fa?’” 37 “Per me era lo zio Renzo, quello che non mollava mai” 41 L’Opera Diocesana di Assistenza 47 Diacceto, ieri e oggi 51 Villa San Luigi, ieri e oggi

Capitolo 11 Il “parroco volante” (1963-2008). Santa Maria a Quarto 59 “Me la presti la tua mamma?” 64 “E allora io dico: ‘Bravo, Don Renzo’” 71 “Dimmi di cosa hai bisogno, si fa” 75 “Era uno di noi, un ragazzo tra i ragazzi” 81 Fuorionda. Una recita tutta per lui

4 Capitolo 111 Il “sacerdote dei binari” (1963-2008). Santa Maria Novella 95 “Io mi sento il tuo quarto fratello, se me lo permetti”

Capitolo iv Il “prete dell’autostrada” (1957-1963). Barberino di Mugello 106 “Potevo constatare con soddisfazione che la mia veste nera era sempre più bene accolta”

119 Breve storia della vita di Don Renzo

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PREFAZIONE

Saluto con vivo compiacimento la pubblicazione di un volume che vuole far vivere la memoria di un sacerdote della nostra Arcidio- cesi stimato da tutti a Firenze e particolarmente caro ai tanti che hanno potuto beneficiare della sua straordinaria opera caritativa. È una memoria particolarmente significativa, perché la figura del caro Don Renzo Forconi viene dipinta in questo scritto attraverso le testimonianze raccolte dalla viva voce di chi lo ha direttamente conosciuto. Si tratta di testimonianze accorate, in più d’un’occasione rese tra le lacrime e con la voce rotta dalla commozione. Don Renzo era una persona poliedrica, capace di dedicarsi contemporaneamente a una miriade di interessi diversi senza per questo sottrarre dedi- zione ad alcuno di essi. In questo lavoro si è cercato di restituire nella sua interezza la complessità e la ricchezza della sua perso- nalità. Sono le parole di chi lo ha conosciuto a comporre il mosaico della sua figura. Quella di parroco perennemente affaccendato – sempre di corsa, in una spola continua tra la sua parrocchia e la cappel- lina della stazione – e quella di presidente dell’Opera Diocesana di Assistenza capace di un amore infinito nei confronti dei suoi “ragazzi”. Proprio loro, gli ospiti dei due centri Oda, sono stati, per Don Forconi veri e propri figli. Figli da crescere, proteggere, formare. a sinistra. La nomina di Don Renzo a priore della chiesa di Santa Maria a Quarto

7 8 Avendo di loro la massima cura, rendendo le due strutture il più possibile simili a nidi familiari: mai ad ospedali. Su questo si pone l’accento in questo scritto, e dalla missione di Don Renzo all’in- terno dell’Oda muove il racconto della sua vita. Il lavoro si struttura in quattro capitoli. Il primo, “Don Renzo e i suoi ragazzi (1976-2008). L’Opera Diocesana di Assistenza”, ri- percorre l’operato di Don Renzo all’interno dell’Oda, attraverso le parole di cinque persone che in questo contesto lo hanno co- nosciuto e con lui hanno vissuto e operato: i due attuali direttori sanitari dei centri di Villa San Luigi e di Diacceto – la dottoressa Giovanna Sorrentino e il dottor Marco Campigli –, la ex direttrice di Diacceto, Albertina Del Lungo, poi la fedele collaboratrice di Don Renzo Silvia Mosconi, e, infine, la nipote Cristina Forconi. Chiude questo primo capitolo un excursus sulla storia dell’Opera Diocesana di Assistenza e sulla sua evoluzione nel tempo. Nel secondo capitolo viene invece raccontata la figura di Don Renzo parroco della chiesa di Santa Maria a Quarto (dal 1963 al 2008). Qui la parola passa ai suoi fedeli, ai parrocchiani più affe- zionati che negli anni lo hanno seguito nella sua attività pastorale. Una piccola parrocchia, ma a cui Don Renzo non ha fatto manca- re nulla e che ha edificato come uno spazio di educazione alla fede e di comunione fraterna. Il terzo capitolo, sulla stessa falsariga, illumina un altro aspetto dell’attività di Don Renzo, e cioè quella prestata come cappella- no compartimentale delle Ferrovie dello Stato (1963-2008) nel- la chiesina al binario uno di Santa Maria Novella, che per lui fu un’altra casa ancora. Una casa accogliente per i viandanti del nostro tempo, che con sempre maggiore fretta attraversano gli atri delle nostre stazioni. Il quarto capitolo di questa “biografia raccontata” rappresenta un salto indietro nel passato di Don Renzo, è cioè il ricordo del periodo (1957-1963) trascorso a Barberino, in Mugello, duran- te la costruzione dell’autostrada del Sole. Qui Don Renzo era a sinistra. Monsignor Giuseppe Betori durante una visita a Villa San Luigi

9 incaricato dell’assistenza spirituale agli operai e la sua esperien- za viene ricordata attraverso le sue stesse parole, riprendendo una lettera scritta di suo pugno alla Diocesi fiorentina. Chiude il lavoro una sintetica biografia di Don Renzo. Nel licenziare queste pagine sorge spontaneo l’auspicio che esse non servano solo a mantenere vivo un ricordo prezioso ma anche a suscitare, insieme a una doverosa gratitudine, una sana emu- lazione. E siccome il ministero di un sacerdote non è una scelta che parte da noi, accogliamo l’invito di Gesù a pregare “il Signo- re della messe, perché mandi operai nella sua messe” (Lc 10,2), operai che abbiano lo stesso volto e lo stesso cuore di Don Renzo.

Firenze, 26 ottobre 2010

† Giuseppe Betori Arcivescovo di Firenze

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Non sembra passato tutto questo tempo. Oggi, a due anni di distanza da quel giorno buio in cui Don Renzo è venuto a mancare, il suo ricordo pulsa ancora, vivo. Sarà per la scia di insegnamenti che ha lasciato a chi ha avuto la fortuna di lavorare con lui, sarà per quel modus operandi che è diventato l’anima dell’Oda. Ma sarà anche per il cuore grande di quell’uomo che correva sempre e che eppure sapeva trovare co- munque il tempo di fermarsi ed ascoltare, anche solo per un attimo. Per la verità, il nostro rapporto, all’inizio, non partì con grande slancio. Quando arrivai all’Opera Diocesana di Assistenza come incarica- to della Curia Arcivescovile per controllare la parte amministrati- va, Don Renzo fu – per usare un eufemismo – diffidente. Vedeva in me una sorta di supervisore, una spia intransigente man- data lì per controllare il suo operato, una presenza nemica. Non era, naturalmente, così e lui se ne accorse presto, cominciò ad accordarmi fiducia ed il nostro rapporto crebbe col tempo fino a diventare molto profondo. I ricordi di Don Renzo affiorano sempre accompagnati da un sorri- so: Don Renzo e la sua, amatissima, auto. Non dimentico un viaggio fatto dalla mattina alla sera – lui alla guida – per andare a vedere come procedeva la gestione del “Sog- giorno Firenze” a La Thuile. In meno di dodici ore andammo e tornammo, all’immancabile ve- locità della luce che lo contraddistingueva. Volle guidare ininter- rottamente lui – come sempre – anche se in realtà, nel tempo, ero diventato forse l’unica persona a cui concedeva l’onore di guidare al suo posto. Don Renzo amava l’Oda come una sua creatura, i ragazzi erano i suoi ragazzi e le strutture dell’Opera tesori da salvaguardare per garantire loro una casa e un futuro sereno. Questo era il suo imperativo, ed una era la preoccupazione che ha sempre portato con sé, la prima su tutte: salvare l’Oda, sempre e comunque. Perché l’Oda, era solito dirmi, è una Ferrari che va

12 saputa guidare: se non lo sai fare la macchina è bella ma rischi di andare fuori strada. Da quando non c’è più abbiamo cercato di continuare sulla stra- da che aveva tracciato, e con la trasformazione in Fondazione si è messo un altro tassello alla storia dell’Opera e raggiunto un obiet- tivo al quale Don Renzo teneva molto. Ci aspetta un domani impegnativo, lo sappiamo: ci sono progetti importanti da portare a termine ed altri ancora da avviare. Ma ci piace pensare – ed è anche questo che ci spinge a continuare su questa rotta – che Don Renzo prima di ogni difficoltà avrebbe sorriso, si sarebbe rimboccato le maniche e sarebbe stato pronto a costruire. Con noi.

Firenze, 26 ottobre 2010

Marco Galletti Amministratore Delegato Fondazione Opera Diocesana Assistenza Firenze Onlus

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Capitolo 1 Don Renzo e i suoi ragazzi (1976-2008). L’Opera Diocesana di Assistenza capitolo 1

“Aveva un sorriso devastante” La testimonanza del dottor Marco Campigli

C’è una foto di Don Renzo che rimbalza in tutti gli ambienti dove lui ha in qualche modo vissuto. Quella foto, un grande sorriso che ti guarda dal profondo di una cor- nice, è appesa pure al centro di Diacceto e ti acchiappa lo sguardo appena fatti due passi dentro la struttura. Dev’essere proprio un’espressione simile a quella che vive in quello scatto quella che ha in mente Marco Campigli, direttore sanitario del centro, quando comincia a parlare di lui: “Aveva un sorriso de- vastante. Un sorriso fatto di imbarazzo, ironia e allo stesso tempo sicurezza e fiducia”. Tutte emozioni che il sacerdote dell’Oda sapeva trasmettere agli al- tri e che ancora oggi si intuiscono osservando quella foto. Il rapporto tra il dottor Campigli e Don Forconi comincia nel 1988, quando il dottore approda al centro di Diacceto dopo aver discusso una tesi di argomento psichiatrico. Di quegli esordi è rimasta una traccia: “Mi ricordo la prima volta che ci trovammo ad affrontare un problema insieme. A Diacceto erano arrivate due nuove ospiti, provenienti da una situazione di par- ticolare scompenso. Don Renzo, quando le conobbe, disse: ‘Bene, vuol dire che ci vorrà qualche preghierina’”. Poche parole di fede che ben riassumono il suo modo di intendere la religione e il rapporto che lo legava alla Provvidenza: “Lui sperava, sperava sempre. Credo che il suo merito più grande sia stato proprio quello di coniugare la fede con le opere, con la buona volontà e la

16 capitolo 1 tenacia che lo portavano a non mollare mai”. Don Renzo aveva, e comunicava a chi gli stava vicino, un’infallibile speranza e quando saltava fuori qualche intoppo (un permesso edi- lizio che si faceva attendere, un pagamento in ritardo) sapeva con- vincere se stesso e gli altri che “in qualche modo si risolve, anche all’ultimo minuto, ma si risolve”. E poi così andava, in effetti. Questo era il suo modo di essere sacerdote: teneva lo sguardo rivolto in alto, ma la sua non era passiva contemplazione. Alla fede, a quel rapporto forte con quanto stava sopra di lui, sapeva unire una precisa tendenza al fare. Costruiva, creava, si spostava, sempre mosso da un profondo dina- mismo dell’anima. Le faccende terrene sapeva tenerle bene a mente anche se a guidarlo era una spinta altissima: “Tutte le volte che si trattava di fare dei lavori alle strutture aveva, ad esempio, un’attenzione massima per il rispetto degli aspetti normativi. Ha sempre cercato di tenere stan- dard alti che garantissero sicurezza e comfort per gli ospiti e per i lavoratori”. Il suo lavoro quotidiano era un connubio felice di volontà umana e Provvidenza “intesa come vicinanza del Signore alle opere merito- rie”. E con i suoi ragazzi, con quel mondo della disabilità in cui le strade sono spesso in salita e in cui la sofferenza poco spesso resta cosa sconosciuta, ci sapeva fare. “Con loro, nel suo ruolo che era anche quello di sacerdote e guida, aveva una grande immediatezza”. Se lo ricorda bene, il dottor Campigli. Sapeva dismettere con estre- ma naturalezza i suoi panni istituzionali e avvicinarsi alle persone (“semplici o complesse che fossero”) con grande calore. Don Renzo all’Oda giunse tra l’altro in un momento cruciale, di impegnativa svolta: “Diciamo che arrivò al momento giusto, in quello in cui serviva una guida come lui. Erano infatti gli anni in cui a Diacceto arrivarono i bambini provenienti da istituti come

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San Salvi: si trattava di persone estremamente problematiche e l’in- serimento fu difficoltoso”. Credeva nel valore dell’abilitazione e si impegnò perché fosse que- sta parola a guidare come un faro i progetti del centro: quei bambini, quelli liberati dopo anni di reclusione negli istituti (e tutti quelli che sarebbero venuti dopo) dovevano poter crescere in un ambiente che promuovesse le loro abilità residue e che, appunto, abilitasse quelle rimaste inesplorate. Tutto ciò che veniva fatto per loro assumeva un’importanza priorita- ria e per questo ci furono eventi, al centro, che hanno avuto il valore di pietre miliari nel cammino che giorno dopo giorno si compie a Diacceto. Come l’inaugurazione della “Casa di Accoglienza Giovanni Paolo II”, avvenuta alla presenza del Pontefice nel 1988: da quel giorno la villa, poco distante dal centro, divenne la casa degli ospiti che negli anni avevano raggiunto una certa indipendenza e autonomia. Lo stesso entusiasmo, e sapore di conquista, ci fu in occasione del grande evento “Una piscina per la vita”, quando personaggi dello sport e dello spettacolo si mobilitarono per raccogliere fondi per co- struire la piscina terapeutica che ancora oggi è in funzione al centro. In queste due occasioni (come in mille altre) la scintilla che metteva in moto la macchina della cooperazione fu Don Renzo, che con il suo entusiasmo debordante era sempre capace di travolgere e imbar- care tutti con sé. Questa sua passione per il fare la aveva trasmessa anche ai suoi ragazzi: “Amava muoversi e spostarsi, e questo si rifletteva nella frequenza delle azioni di socializzazione in cui li coinvolgeva: non mancavano mai le occasioni per portarli con sé e per renderli parte- cipi delle gite e delle feste che organizzava alla parrocchia di Santa Maria a Quarto. Era in queste situazioni che si esaltava la sua capa- cità di trasmettere calore”. In certi momenti era talmente risoluto nel suo ruolo di guida che poteva quasi sembrare cocciuto: “Era determinato e questo a volte dietro. Don Renzo nel campetto di calcio della parrocchia di San Martino a Gangalandi

20 capitolo 1 lo poteva mettere in difficoltà. Una deriva autoritaria in alcune oc- casioni era inevitabile, ma veniva sempre perdonato perché il suo animo era profondamente buono. E, proprio come accade con gli insegnamenti di un padre, alla distanza si finisce per rendersi conto che aveva ragione”. A Diacceto e al dottor Campigli Don Renzo ha consegnato in eredi- tà un fardello di azioni ed emozioni ben tangibile. “Fu lui a trasformare il centro di Diacceto da luogo di vacanza – qual era all’inizio della sua storia – in luogo di vita autentico. La grande attenzione alla qualità della vita è una delle impronte mag- giori che ha lasciato qui dentro”. Tanto aveva a cuore la qualità degli ambienti dove i suoi ragazzi vi- vevano, che fu proprio lui a firmare i contratti di appalto per la gran- de ristrutturazione, tuttora in corso, della bella struttura di Diacceto. Ma a Don Renzo vanno anche altri meriti collaterali: “Il centro ha dato lavoro a tantissimi degli abitanti del paese e si è rivelato, grazie alla sua presidenza, un’impresa vitale per il territorio”. E pure un grande progetto, che oggi è carta e un domani potrebbe diventare mattone, porta la sua firma: S“ ognava di creare una serie di strutture residenziali, di casette per gli ospiti che avevano matu- rato una buona autonomia e che frequentavano il centro in diurno. Un modo per alleggerire la dimensione istituzionale e per garantire agli ospiti di invecchiare proprio come lui, rimanendo attivi anche durante l’anzianità”. Questa sua lungimiranza, questa generosità di orizzonti, aveva una genesi e una spiegazione che il dottor Campigli chiosa in una meta- fora d’effetto. “Credo che abbia vissuto tutta la sua vita, anche il periodo di malat- tia, con un particolare atteggiamento, con una visione escatologica che lo portava a guardare dove doveva andare, non dove stava an- dando, esattamente come insegnano ai corsi di guida sicura”. E quanto amasse le auto, del resto, lo sappiamo tutti.

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“Ma Don Renzo, i ragazzi sugli sci si fanno male” “No. Son come gli altri” La testimonianza di Albertina del Lungo

Ognuno di Don Renzo serba la sua particolare memoria, ne ha vis- suto un differente aspetto. C’è chi ha conosciuto il sacerdote di par- rocchia, chi l’amico dei lavoratori, chi il Don dei ragazzi disabili. È quest’ultimo il caso di Albertina Del Lungo, per oltre trent’anni direttrice del centro di Diacceto. C’era lei alla guida della struttura quando lassù tra le colline della Consuma iniziarono ad arrivare bambini spauriti che nessuno vo- leva. Creature che fino a quel momento avevano vissuto una realtà altra, strappate da una normalità che invece sarebbe stata recupera- bile e recluse in istituti – come il reparto minori di San Salvi – che le avevano rese pianeti a sé. A Diacceto, di queste persone che qualcuno aveva tentato di rende- re automi, ne arrivarono parecchie e furono anni di dolore, lavoro e riabilitazione intensa. Don Renzo come presidente dell’Oda ha assistito anche a que- sta prima fase, e i suoi ragazzi ha cominciato a seguirli proprio nell’epoca in cui Diacceto spalancava le sue porte a chi invece le aveva trovate tutte chiuse. “Il rapporto che aveva con loro? Guai a chi glieli toccava”. Già, guai. Loro dovevano avere il meglio, sempre. Dal vestito che doveva essere nuovo, pulito e ordinato, all’ambiente di vita che do- veva assolutamente rifuggire da certi canoni ospedalieri. La diret- trice di allora ricorda bene che questo suo scrupoloso affetto era a sinistra. Don Renzo con Monsignor Piovanelli e l’ex direttrice di Diacceto Del Lungo

23 capitolo 1 generosamente corrisposto: “Dai ragazzi era amatissimo, lo si ve- deva quando arrivava al centro. Era una festa”. In quei momenti si ripeteva un divertito copione, e subito partiva la gara per accaparrarsi il posto in macchina con lui: tutti quanti volevano viaggiare in auto con quel prete sempre sorridente. “Se dovevano andare in gita da qualche parte Silvia preparava sempre panini per tutti. Ma capitava spesso che lui si impuntasse e volesse portarli a pranzo al ristorante”. E queste gite fuori porta non erano cosa rara. Don Renzo viveva di succursali, e nelle sue trasferte nelle strutture di montagna dell’Oda amava coinvolgere anche i ragazzi. Albertina Del Lungo si ricorda bene di un episodio sulla neve: “Ero riuscita, con molta fatica, a far indossare gli sci ad alcuni di loro. Don Renzo arrivò, li vide, rimase estasiato e dopo poco tornò di- cendo che aveva trovato un maestro che gli avrebbe fatto lezione”. “Ma Don Renzo, va a finire che si fanno male” “No. Son come gli altri”. Lo stesso succedeva al mare, quando andava a trovare gli ospiti di Diacceto a Marina di Pisa durante i loro soggiorni estivi. Arrivava, li osservava pieno d’amore, e diceva: “Ma guarda te come son belli”. Non era capace di vedere in loro la malattia, non la riconosceva die- tro tanta dignità: per lui erano persone come e più degli altri, anime candide che dovevano avere tutto. Capitò però, specialmente all’inizio, che la sua generosità dovesse fare i conti con momenti di ristrettezze economiche. “Non era un facilone e prima di spendere voleva essere sicuro di poterlo fare. Se gli avanzavo qualche richiesta, per qualcosa che ci serviva, non diceva mai di no e casomai mi rassicurava dicendo ‘Ora non si può, ma stai tranquilla si fa, si compra’”. Era di parola, se annunciava una cosa quella poi era, a costo di do- ver anticipare i soldi di tasca sua. Ai ragazzi non doveva mancare nulla, e dove finivano le sue capacità cominciava la fede. L“ o diceva sempre: ‘Ci aiuta la Provvidenza, non ci abbandona, non preoccu- piamoci’”.

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La sua anima guardava al cielo, ma nel suo volto terreno Don Ren- zo era in un certo senso anche esteta. Non tralasciava la cura del dettaglio, quando si trattava delle sue strutture. Per questo volle abbellire il centro di Diacceto con tende, quadretti, piantine: “Una volta arrivò dal Piaz con dei lucernari. Io ci rimasi un po’ così: lo stile era fuori luogo per la nostra struttura, ma lui li volle in tutti i modi”. E lucernari furono. “È con lui che i ragazzi si sono abituati al ‘bellino’. Hanno imparato ad avere cura di questi dettagli, e pian piano nessuno li danneggiava più, nemmeno durante le crisi che talora avevano”. Del resto era assolutamente vietato (e questo era uno dei suoi pochi diktat da presidente) che la struttura rivelasse sfumature ospedalie- re. Quella era una famiglia, una comunità di vita, non una clinica algida tutta ferro e bianche lenzuola. “Riuscì anche ad abituare i ragazzi a dormire in stanze doppie e non in grandi camerate”. Il rigore scientifico dei metodi riabilitativi non usciva assolutamen- te compromesso da quest’impostazione, da questo sperimentali- smo del cuore. Tutt’altro: “Ci teneva che una volta alla settimana si facesse una riunione di équipe, con medici, infermieri e tutte le professionalità”. I ragazzi li conosceva ognuno per nome, andava spesso a leggersi le loro cartelle cliniche e aveva un’abitudine: “Alle riunioni partecipa- va anche un professore di disegno. Don Renzo ci teneva a guardare insieme a lui i lavori dei ragazzi, a farsene spiegare i significati.P er lui erano opere d’arte”. C’era, insomma. Sempre, in tutte le sue vesti. Con la sua faccia allegra (“che c’entra, ogni tanto si arrabbiava pure lui”) e con un progetto sempre nuovo. “Era tutto un fare, e se ti chiedeva una cosa era difficile tirarsi in- dietro, andava assecondato. E non demandava mai niente agli altri. Sarà pure stato egocentrico, ma in questo modo sapeva sempre cosa succedeva”.

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“Giovanna, questa è una casa, non un ospedale” La testimonianza della dottoressa Giovanna Sorrentino

“Parliamo di Don Renzo, già. So che sarà difficile”. Giovanna Sorrentino, direttrice sanitaria di Villa San Luigi, deve gesti- re qualche attimo di commozione prima di cominciare a parlare di lui. Il ricordo vivo e una foto incorniciata proprio di fronte a lei alimentano quella nostalgia che accompagna le parole di chiunque abbia cono- sciuto Don Renzo. “Da dove cominciamo?” Si parte dai ragazzi, dai bambini e non più bambini ospiti di Villa San Luigi, che a parlare di loro la strada è sempre in discesa. “Con loro aveva un rapporto davvero paterno. Era ‘padre’ sia dal pun- to di vista affettivo, sia nelle sue vesti di educatore. Alcuni li ha visti diventare grandi: li ha presi che erano bambini e li ha cresciuti. Forse questo istinto lo aveva di indole, forse si è formato con loro”. Don Renzo di Villa San Luigi e della missione della struttura aveva un’idea ben chiara. “Questa è una casa, non un centro di riabilitazione, diceva sempre. Era un padre educatore a tutti gli effetti. Non solo affet- tuoso – sarebbe riduttivo – ma donato interamente ai ragazzi”. E questo, nella pratica, voleva dire tante cose: “Ad esempio la spesa la faceva lui, voleva sincerarsi di persona che i ragazzi mangiassero cibo di qualità. Si occupava degli allestimenti del centro e quando c’erano da fare delle migliorie nell’arredamento mi ammoniva sempre: ‘Gio- vanna ricordati che questa è una casa, non un ospedale’”. dietro. Un momento di una visita di Monsignor a Villa San Luigi: insieme a Don Renzo la direttrice del centro Giovanna Sorrentino

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Don Renzo ha lasciato un’impronta forte, che si respira distintamente nei modi di vivere la quotidianità della casa di via della Petraia. Non c’è niente di lasciato al caso, il pressappochismo non è contemplato e i ragazzi sono curati in toto, dalla riabilitazione al vestiario. Certo, per raggiungere questo meraviglioso equilibrio e la sintonia che fu non sono mancati i piccoli scontri (“Quando si arrabbiava mi dava del lei”, postilla la dottoressa). Ma gli screzi non erano nulla. Tanta è invece l’eredità morale: “Mi ha insegnato una grande cosa. Lui mi diceva sempre di prendere il buono che c’è in ogni persona, il divi- no che c’è in ognuno. Questo era il quadro della sua fede e amava tanto i suoi ragazzi perché in loro, innocenti, viveva solo questo aspetto”. Quello che lo animava nella pratica quotidiana del suo essere presiden- te era un profondo spirito di servizio. Un’equazione, un sincero algoritmo di fede: “Ha sempre inteso il la- voro come opera verso il prossimo, e quest’opera come uno scopo ultimo, come l’unico modo per dare concretezza alla vita terrena”. Occuparsi dei ragazzi disabili era per lui un atto di fede spontaneo, una prova di devozione continua e costante. E quel suo modo d’essere era abbondantemente ripagato dall’affetto profondo che i ragazzi nutrivano per lui, per quel sacerdote capace di arrivare e caricarli tutti in macchina per portarli a sciare. Per forza allora quando si torna a parlare di Don Renzo, anche dopo tanto tempo, la voce si rompe un po’. Succede ad esempio nelle occasioni di festa, che a Villa San Luigi non mancano mai. Proprio durante uno di questi momenti ricreativi, tempo fa, la dotto- ressa Sorrentino si è trovata a ricordarlo davanti a un po’ di pubblico: giusto poche parole, soffiate nel microfono a margine della presenta- zione della serata. Appena lo ha nominato si è levato un applauso spontaneo: le mani che battevano di riconoscenza erano quelle dei genitori dei ragazzi, dei suoi ragazzi. E questa è la prova che ognuno, da quel sacerdote sempre di corsa

29 capitolo 1 eppure gentile, ha ereditato qualcosa. Una parola, un insegnamento, un monito. La dottoressa Sorrentino grandi dubbi non ne ha: a lei, e sicuramente a molti altri, Don Renzo ha insegnato innanzitutto a sognare. Forse è questo il messaggio più forte che resta scolpito accanto al suo ricordo. Guardare in alto, progettare e crederci: tutte azioni da intende- re come un dovere quotidiano. Lui per primo aveva dei sogni, uno dietro l’altro, senza sosta e corag- giosi. Coltivava ogni giorno praterie di ipotesi per garantire ai ragaz- zi la miglior vita possibile. Uno di questi suoi sconfinati desideri era quello di costruire una ludoteca all’interno di Villa San Luigi. La aveva pensata come un prefabbricato, una cosa semplice. Un ambiente accogliente dove le famiglie del territorio che avevano bisogno di lasciare i bambini potevano farlo per qualche ora, affidan- doli ad operatori qualificati. In questo modo il centro poteva rendersi d’aiuto alla popolazione della zona e per i ragazzi di Villa San Luigi poteva spalancarsi una finestra sul quartiere. “Era come se volesse sdebitarsi con il rione che ha accolto così tanto bene il centro: lui all’integrazione dei ragazzi teneva tantissimo”. Di questo accorato progetto Don Renzo parlava spesso, come pure del- la sua volontà di aprire un negozio, al Sodo, dove i ragazzi in prima persona potessero vendere i loro bei manufatti. “Forse un giorno ci riusciremo. Don Renzo mi ha insegnato a non porre limiti ai sogni. Riteneva che per l’uomo fosse doveroso averne di altissimi e perseguirli. Lui per primo si imponeva traguardi eleva- tissimi. Tanti li ha raggiunti, e per questo, ancora oggi, è uno sprone”.

a destra. La nomina di Don Renzo a priore della chiesa di Santa Maria a Quarto

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“Certe volte ci chiedevamo: ‘Ma come fa?’” La testimonianza di Silvia Mosconi

Gli occhi sono innegabilmente lucidi, quando parla di lui. Eppure Silvia, si vede subito, è una di quelle persone forti di aspetto e di testa, senza fronzoli nell’eloquio, risoluta nei concetti. Per tanti anni (“dal 1977”) è stata il braccio destro di Don Renzo, sua fedele collaboratrice, meticolosa sovrintendente della burocra- zia quotidiana. Fino all’ultimo giorno, all’ultimo respiro. “Ci incontrammo la prima volta d’estate, nella Casa Giotto, a Ma- rina di Pisa. La struttura dell’Oda ospitava in convenzione i disabili assistiti dall’associazione ‘La Principessa di Piemonte’, dove io al- lora lavoravo come infermiera caposala. Quell’estate la neuropsi- chiatra mi disse che serviva qualcuno che accompagnasse i ragazzi in questa struttura, gestita da un sacerdote. Le risposi subito: ‘Io non vado d’accordo con i preti, ma come faccio?’”. “Però dissi dentro di me: ‘Proviamo’”. E ci provò talmente bene, Silvia, che per trent’anni è stata accanto a quel prete con cui temeva di non andare d’accordo. “Mi colpì su- bito il suo carisma. Non avevo mai visto nessuno comportarsi con i ragazzi disabili come faceva lui: i suoi ragazzi erano il centro della vita, ci metteva l’anima. E così iniziò un rapporto di stima ed ami- cizia ed una collaborazione tra i due enti, Oda e Principessa di Pie- monte, durata dal ’77 al ’90”. Furono anni di lavoro intenso sulla disabilità: “Don Renzo si è sem- a sinistra. Veduta dell’albergo Piaz prima della ristrutturazione

33 capitolo 1 pre adoperato per tenere viva in tutte le persone che lavoravano con i disabili la volontà di riabilitare. Specialmente all’inizio, quando le strutture erano ancora poco attrezzate, non aveva altro se non questa profonda spinta”. Un pulmino tutto rotto, l’ascensore che inizialmente non c’era, i di- sagi di una struttura – quella di Marina di Pisa – non ancora ristruttu- rata. Non importava: “Si arrivava la sera ancora carichi di energie”.

E poi venne il Piaz, quel gioiello incastonato al centro della Val di Fassa a cui Don Renzo teneva “come a un bambino”. Silvia fu chiamata ad occuparsene, e per quasi vent’anni quella di- venne la sua casa. “Inizialmente era poco più di una locanda, desti- nata ad accogliere nuclei familiari, gruppi parrocchiali, associazioni cattoliche. Don Renzo lo ripeteva sempre: ‘Questo ambiente deve avere una funzione sociale, deve servire socialmente’”. Furono necessari lavori e poi ancora lavori per adeguare la struttura alle nuove leggi e per fare della “locanda” il bell’albergo che è oggi: “Nel 1998 cominciammo le prime ristrutturazioni, riuscimmo ad- dirittura a fare un bagno in venti giorni pur di avere il permesso di aprire per l’inizio della stagione”. Con quella tenacia che Don Renzo sapeva tanto bene trasmettere a chi lavorava a fianco a lui, la ristrutturazione fu completata e oggi l’albergo è tutta un’altra cosa. “E pensare che nonostante il Piaz fosse nato con lui, Don Renzo pri- ma di venire a trovarci avvisava. Era casa sua, eppure lui si sentiva in dovere di avvertirci quando era in partenza”. E quando poi ci arrivava, al suo Piaz, era una festa: “Era una persona aperta, cordiale. Era capace di mettersi a lavare i piatti o di mettersi dietro il bancone a fare il caffè ai clienti”. Silvia sorride: “E io mi arrabbiavo, che naturalmente non li faceva mai pagare”.

Mentre parla, le mani incrociate sul tavolo di una stanza attigua alla parrocchia di Santa Maria a Quarto, Silvia volge lo sguardo verso la

34 capitolo 1 finestra. Verso quella che è stata a lungo la casa diD on Renzo. Lo fa in continuazione, mentre sorride di nuovo ripensando alle sue omelie certe volte “un po’ troppo lunghe”, oppure mentre ricorda le sue quaranta tartarughe, il suo amato cagnolone Roby e il suo pape- ro di vent’anni, oppure ancora mentre snocciola le date del cammino fatto a fianco del Forconi. Le date. Silvia se le ricorda tutte. È un colossale archivio della vita di Don Renzo. Luoghi, persone, cose: ha tutto davanti a sé, una parata di ricordi che dipana con una concisione che stupisce. “Lui ha davvero servito la Chiesa. Bastava osservarlo quando dice- va la Messa, si trasformava: in quei momenti era davvero nel suo mondo. Bastava ascoltare le sue omelie, parlava davvero alle per- sone. Era sempre in prima linea, per i suoi ragazzi, per i poveri, per i maltrattati. Si occupava dell’Oda, dei due alberghi, della Casa Giotto, della parrocchia, dei ferrovieri. Ci credeva da dentro e non si fermava un attimo. Certe volte ci chiedevamo: ‘Ma come fa?’”.

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“Per me era lo zio Renzo, quello che non mollava mai” La testimonianza di Cristina Forconi

“Quando ero piccola faceva un certo effetto: era uno zio prete, e in più un prete speciale”. Cristina Forconi è una delle nipoti di Don Renzo, figlia di suo fra- tello. E di quel signore in tonaca scura conserva ricordi di bambina: le domeniche in gita a Santa Maria a Quarto a trovare lui e i nonni (“i nonni li ho associati sempre allo zio”), quella sua casa zeppa di doni, i soprammobili senza tempo che sulle mensole si alternavano ai libri (“quanti!”). Don Renzo ha sempre abitato con i suoi genitori, che lo hanno se- guito nei suoi spostamenti e che lui ha accompagnato fino alla vec- chiaia: “Con loro aveva un rapporto profondissimo. Ricordo alcune scene in casa loro, con il nonno che cantava stornelli e dispensava perle di saggezza e lo zio che lo ascoltava rapito”. Queste memorie sono bozzetti intimisti, pennellate di una domesti- cità rarefatta. Tutte dipinte intorno alla figura di Don Renzo, sacerdote e parente stretto: “Più che uno zio era un punto di riferimento. Era per tutti una fonte di energia e di bontà, e per me era lo zio Renzo, quello che non mollava mai”. Cristina abitava a Capraia, e per questo la frequentazione con Don Renzo non era quotidiana. Ma ugualmente ne conserva ricordi vivi- di: “Mi ricordo, già da piccola, che lo sentivo sempre raccontare dei suoi ragazzi dell’Oda. Ne parlava come di un punto di forza, e del a sinistra. Don Renzo e alcuni bambini all’interno di Santa Maria a Quarto

37 capitolo 1 resto questa fiducia positiva e questa serenità di fondo lo contraddi- stinguevano sempre”. Più di una persona, per la verità, quando ricorda Don Renzo fa cen- no a questo suo particolare modo d’essere e di sentire. Comunicativo, avvincente. “Non mi vengono altre parole: era un po’ come se sprigionasse un’aura. Chi lo conosceva, anche se magari era un incontro fugace, ne rimaneva colpito perché trasmetteva e comunicava, a pelle”. Questo era il suo alfabeto emotivo, uno dei canali a cui affidava i suoi messaggi. Don Renzo non aveva un’impronta esplicitamente didattica, ma lo stesso ha saputo insegnare: con discrezione, anche giù dal pulpito. “Credo che l’insegnamento più grande che mi ha lasciato sia l’esor- tazione a non mollare mai, nel senso di non lasciarsi cadere, di non smettere mai di sorridere. Lui di questo era profondamente convin- to, certamente mosso dalla fede”. Una fede profonda che Don Renzo sapeva anche trasmettere: “La trasportava negli altri. Riusciva a far passare il suo senso religioso anche a chi la pensava diversamente, a chi era scettico. E il suo percorso di vita quotidiano era tale da tradursi naturalmente in fede: con le sue azioni la metteva in pratica concretamente”. Coinvolgeva e quando ce ne era bisogno rassicurava: “Mi ricordo che, molto semplicemente, a mia sorella diceva ‘Dai retta, che Dio c’è. C’è, c’è, stai sicura’”. Questo suo metaforico abbraccio, questo suo imbarcare tutti nelle sue missioni (ché missioni erano, anche quelle quotidiane) è ciò che di Don Renzo è rimasto impresso a molti: “Più di una volta ho avuto l’impressione che chi si trovava a conoscerlo ne rimanesse come imprigionato”. C’era come un incanto profondo, nutrito di dialettica e confronto, che faceva sì che certe volte “chi parlava con lui uscisse, alla fine del dialogo, più religioso”. Proprio per il carisma che l’accompagnava, in tanti oggi non rie- scono a parlare di lui senza versare qualche lacrima. “Riusciva a

38 capitolo 1 trovare le parole giuste al momento giusto, facendoti capire che, se ti parlava, parlava a te e che aveva capito le tue parole. Per questo in alcune persone è scattato qualcosa: era come se lui diventasse una freccia quando loro si trovavano a un bivio. E ancora oggi qualcuno mi racconta che ha detto una preghiera per lo zio”. A molti dei suoi fedeli dava fiducia anche solo il fatto di sapere che lui c’era, che all’occorrenza potevano cercarlo. Per questo aveva la segreteria del telefono sempre piena e la chiesa affollata di fedeli. Cristina sorride d’affetto e sospira: “Manca, effettivamente manca”.

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L’Opera Diocesana di Assistenza

«L’Oda dal 1971, in collaborazione con gli enti locali, svolge un servi- zio di amore e giustizia verso gli ultimi tendendo una mano attraverso servizi riabilitativi qualificati a coloro che si sono trovati affetti da ce- rebropatie gravi e gravissime ed alle loro famiglie, spesso angosciate. Il servizio dell’Oda non è frammentario né occasionale, ma investe l’ospite in relazione ai suoi bisogni e dà a lui il diritto di vivere e di crescere negli anni, con una tutela che abbraccia l’arco di tutta la sua esistenza. Ricordo in particolare la frase che mi fu detta nel 1976 da un funziona- rio del ministero della Sanità: “Don Renzo, molto francamente mi dica se non è vero che i suoi ragazzi costano moltissimo e non producono nulla? Bisognerebbe pensarci prima, così la società avrebbe un peso in meno da portare avanti”. Queste parole ebbero in me e successivamen- te in coloro che lavorano nell’Oda l’effetto di una bomba in positivo. L’Oda riconobbe ancor più la validità della sua ragione di esistere per- ché quei ragazzi di un tempo e quei giovani di oggi sono meraviglio- si e capaci di donare a noi una gioia particolare: l’avercela fatta nel cammino della normalità, anche se a piccoli passi, verso il diritto alla gioia, al movimento, al gestire se stessi e al sentirsi quindi vivi e vitali».

Poche righe, poche parole accorate. Era il 1989 e Don Renzo la sua Opera Diocesana di Assistenza la de- scriveva così. a sinistra. Don Renzo e Papa Giovanni Paolo II durante una visita del Pontefice a Firenze

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Un servizio “di amore e giustizia”, uno strumento di sostegno per il cammino delle persone disabili verso il “diritto alla gioia”. Già, “diritto alla gioia” scriveva il Don dei disabili. Un’espressione eloquente, profondamente cristiana, che porta con sé l’intera gamma di significati del termine “riabilitazione”. All’Oda, fin dalla sua nascita, si è sempre cercato di non trascurarne alcuno: sia che si trattasse di aiutare i ragazzi a conquistare una certa autonomia nella cura del sé, sia che ci fosse da aiutarli a manovrare un telaio. Tutto fa gioia, ora come allora, e la serenità degli ospiti dei centri è un imperativo. Certo, durante il cammino le difficoltà non sono mancate. Specialmente all’inizio, perché il contesto in cui l’Opera si trovò a muovere i primi passi era davvero complesso. Un passo indietro. L’Opera Diocesana di Assistenza fu fondata nel 1953 dal Cardinal . Nacque come “figlia” di quella che fu la Pontificia Opera Assistenza e si impose come espressione dell’impegno della Chiesa fiorentina nei confronti delle fasce più deboli della società: disabili psico-fisici, perso- ne con disturbi del comportamento, ma anche anziani e gruppi familiari e giovanili. Divenne macchina operativa, strumento poietico della caritas cristiana al servizio della disabilità. In un primo momento l’Oda si occupò della gestione di colonie, marine e montane, e di mense sia popolari che aziendali. Già alla fine degli anni ’60, però, iniziarono i primi mutamenti e alcune colonie, come quella di Diacceto, furono trasformate in soggiorni estivi per disabili. Questa evoluzione venne in risposta ad una drammatica esigenza. Ad un grido d’aiuto che si era levato dalla società: nei primi anni ’70 in Ita- lia iniziava a scoperchiarsi un dolente calderone. Cadeva una maschera di vergogna e la società si rendeva improvvisamente conto delle condi- zioni disumane in cui fino ad allora avevano vissuto moltissimi bambini

42 capitolo 1 disabili segregati negli istituti. Rinchiusi, abbandonati, dimenticati. È stringendo forte quelle creature che l’Oda inizia a specializzarsi nella presa in carico sanitaria, riabilitativa e assistenziale di bambini, adole- scenti e adulti affetti da disabilità neuropsichica.

Oggi l’Opera – che da poco è stata trasformata in Fondazione – gestisce due strutture riabilitative, il centro Villa San Luigi e quello di Diacceto. Quotidianamente assiste complessivamente centoquaranta persone di- sabili: alcuni in regime diurno, altri in residenziale. Cifra comune dell’operato dei due centri è l’impegno, imponente e quotidiano, per la conquista delle autonomie nella disabilità. Ogni giorno si fa un passo, e una forchetta sollevata da sé da un ragazzo che fino al giorno prima non riusciva a farlo è una vittoria. I laboratori, la vita comunitaria, le piscine, l’attività di riabilitazione: le lancette della vita a Villa San Luigi e a Diacceto si muovono scandite da questi piccoli grandi appuntamenti. Ognuna delle persone assistite dall’Oda porta con sé le sue esigenze e per questo negli anni il modello riabilitativo si è fatto flessibile, adatta- bile alla lettura dei bisogni del singolo. Lo spirito assistenziale cristiano ha saputo prendere a braccetto l’evo- luzione delle tecniche terapeutiche, e i “ragazzi” ospiti dell’Oda sono seguiti passo passo da medici e operatori con una professionalità carica di rigore scientifico.E che eppure sa farsi amore.

Don Renzo, e lo sa bene chi lo ha conosciuto, si “arrabbiava” per pochi motivi. Due: se qualcuno offendeva la sua Chiesa, e se qualcuno offendeva i suoi ragazzi. Gli stessi che portava con sé tutte le volte che poteva (come quella volta, in udienza dal Papa), gli stessi che non riusciva a chiamare se non con un dolce appellativo: “I mì figlioli”. Per questo, scorrendo le righe della lettera qui sopra, non è difficile intuire il rumore che fece, esplodendo, quella “bomba in positivo”.

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Diacceto, ieri e oggi

Al centro di Diacceto si arriva arrampicandosi sulla Consuma, e poi giù per un viale d’alberi e campi, fino al parco che circonda la struttura. Oggi gli ospiti sono ottantaquattro (73 in regime residenziale e 11 in diurno) e la loro età media è di trentacinque anni. Tolti i numeri, invece, ci sono le persone. Quelle che ogni mattina si alzano e cominciano la loro giornata insieme. Fanno colazione, si vestono e si preparano per le attività. Attività semplici, normali. I laboratori, i momenti ricreativi: ognuno fa quello che sa fare. Quello che può fare. La ceramica, la tessitura, oppure il bricolage: alcuni degli ospiti di Diacceto hanno una loro attività elettiva, altri ne seguono più d’una con lo stesso interesse. In tutti questi anni di storia, il centro si è dato un modus operandi ben preciso, la terapia ha saputo farsi anche carezza e uno è il leit motiv che ha guidato come un dito puntato tutte le esperienze riabilitative che si sono succedute: l’idea di gruppo, di vivere socia- le, di comunità di vita. La quotidianità dei ragazzi assistiti a Diacceto è qualcosa di assai simile a un laboratorio a conduzione familiare, dove si procede per mano nel cammino verso l’autonomia e, sempre nel rispetto del singolo, la vita è vita d’insieme. a sinistra. Un’ospite del centro di Diacceto all’opera su un quadro

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Giorno dopo giorno vengono portate avanti attività di recupero funzionale e sociale, coordinate da un’équipe medico- psicoeducativa: dalla fisiochinesiterapia neuromotoria e funzionale alla logopedia e alla psicomotricità, dalla terapia occupazionale alla riabilitazione cognitivo-comportamentale, alla musicoterapia, alle attività psicoterapeutiche, alla riabilitazione e alle attività motorie in piscina terapeutica. Questo cammino comincia nel 1971. In un momento storico particolare per Firenze e per l’Italia intera, quello in cui si palesa la dolorosa urgenza di dare assistenza ai bam- bini che fino a quel momento erano stati rinchiusi in istituti di varia natura, manicomi minorili compresi. Molte di queste strutture vengono chiuse e decine e decine di bambini e adolescenti con disabilità neuropsichica restano senza un posto dove andare, senza qualcuno che si prenda cura di loro. Si tratta di persone con enormi difficoltà emotive, cresciute in si- tuazioni completamente destrutturate, isolate in nicchie autistiche e con immense difficoltà di socializzazione. Con questi bambini comincia la storia di Diacceto come centro riabilitativo. Inizialmente l’Oda è chiamata a fornire i servizi di base, e il centro dipende dalla Provincia attraverso l’Istituto Medico Pedagogico Provinciale. In un secondo momento, con l’avvento della riforma sanitaria (1978), questo ente chiude e l’Oda si trova di fronte a una scelta: abbandonare quei bambini, oppure farsene carico completamente. Vien da sé come andò. Quelle creature che nessuno voleva, tanto difficili da accudire, trovarono la loro casa. Al centro iniziò a lavorare una squadra di medici, neuropsichiatri, pediatri, psicologi, pedagogisti e assistenti sociali, impegnata da subito per restituire ai propri assistiti la capacità di vivere insieme. Iniziò un lungo lavoro per cancellare anni di invisibilità, per a sinistra. Il direttore del centro di Diacceto Marco Campigli

49 capitolo 1 riconsegnare loro le abilità rubate e conquistare quelle inespresse. Quei bambini avevano bisogno di tutto: la maggior parte di loro non aveva una famiglia, e aveva trascorso i primi anni di vita trascinata da un istituto all’altro. In posti freddi e annichilenti, completamente inadeguati ad accogliere piccoli con problemi anche molto gravi: si pensi, giusto per richiamare uno di questi non luoghi, al reparto minori dell’ospe- dale psichiatrico di San Salvi a Firenze. Il bagaglio di vita di questi bambini era segnato da esperienze feroci e gli inizi a Diacceto furono molto impegnativi. Ma il cammino cominciò, dopo le salite ci furono pure le discese e oggi prosegue a passi convinti. Alcune persone di quel primo nucleo vivono ancora al centro e quanta strada hanno fatto è scritto negli occhi di chi in questi anni le ha accompagnate. Lo si legge nell’ammirazione, nel turbinio di memorie che si affaccia alla mente di chi ha seguito il percorso di questi “ragazzi” fin da principio. C’è chi li ricorda ancora bambini, atomi spauriti a cui nessuno aveva provato ad insegnare niente, e oggi si commuove a vederli sulle loro gambe. Certo con addosso qualche segno del tempo passato, ma forti della conquista di quel “diritto alla gioia” che tanto stava a cuore a Don Renzo.

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Villa San Luigi, ieri e oggi

Villa San Luigi nacque nel 1972, a un anno dall’istituzione del centro di Diacceto. E proprio come accadde per il “gemello” questo nuovo centro arrivò a colmare un vuoto drammatico, quello che aveva lasciato senza casa tanti bambini con disabilità neuropsichica. Erano rimasti senza un nido che li accogliesse e, dopo la chiusura degli istituti dove fino ad allora erano stati segregati, arrivarono da ogni parte d’Italia. In un primo momento Villa San Luigi fu amministrata in cogestio- ne dall’Oda e dall’Enpas, ma quando la riforma sanitaria decise la chiusura di quest’ultimo, rimase tutto sulle spalle dell’Opera. Che, per prima cosa, tentò di riportare a casa quei bambini, di ren- derli alle loro famiglie. Questi tentativi rimbalzarono però contro una pesante disorganizza- zione istituzionale e dunque ci si mise al lavoro per fare del centro un’autentica comunità di vita che potesse accogliere quelle creature. Si partì dalle basi, dalla quotidianità di qualsiasi bambino: in accor- do con il Provveditorato agli Studi di Firenze fu istituita una scuola elementare interna al centro, dove i piccoli potevano essere seguiti adeguatamente, con tutti gli stimoli e le attenzioni necessarie. Negli anni quei bambini crebbero e superata l’esperienza della scuo- la furono avviati programmi di ortofonia, logopedia, fisioterapia, allenamento al lavoro: in una parola, si mise in moto quella macchina faticosa eppure foriera di tante conquiste che è la riabilitazione. Oggi la stessa macchina continua a funzionare con l’entusiasmo dei

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53 capitolo 1 primi passi. Nella bella sede di via della Petraia (dove il centro fu trasferito negli anni ‘90) vivono stabilmente quarantacinque ragazzi disabili intel- lettivi e altri undici lo frequentano in regime diurno. Sono giovani, adolescenti o bambini, con un età media di ventotto anni. La maggior parte di loro ha ancora una famiglia e l’esperienza di vita comunitaria è affiancata a quella familiare. A far bella la struttura ci sono una piscina, un immenso giardino e un parco giochi che è un memento di cosa si può fare se si vuole fare: è stato realizzato con i proventi della vendita di agnellini di marzapa- ne realizzati dagli stessi ospiti. La falegnameria, il découpage, la pittura, il teatro, le gite in barca a vela: i ragazzi di Villa San Luigi fanno, ciascuno con le proprie abilità. L’idea di struttura bunker qui dentro non piace a nessuno e per questo, sin dall’inizio, si è lavorato per deistituzionalizzare questi ragazzi. Ogni volta che si è potuto si è data una bracciata nel mare magnum del fuori, e non è un caso che, recentemente, tre ospiti di Villa San Luigi siano andate “a vivere da sole”: in una casetta tutta loro, una giostra di stanze colorate dove le tre donne, tutte con disabilità me- die, sperimentano l’indipendenza e l’autogestione domestica. Si tratta di un progetto di “autonomia assistita” e per il centro è una conquista. Lo è per la formula, che è originale e non rappresenta un “dopo di noi”, ma un esperimento fatto di concerto con le famiglie delle ra- gazze. Una scelta condivisa, un “proviamoci” detto insieme. Di particolare c’è poi che quell’appartamento le ragazze lo hanno voluto: arrivate a buon punto del percorso di riabilitazione hanno in qualche modo espresso la necessità di vivere in un ambiente pro- prio. Hanno manifestato il desiderio di coltivare in modo almeno in parte autonomo la loro quotidianità: rifarsi il letto, lavare i piatti, dietro. Alcuni ospiti di Villa San Luigi in barca a vela al Lago di Bilancino

54 capitolo 1 annaffiare le piante e salutare il vicino che esce per fare la spesa. Un insieme di gesti normali che in quella casetta ha assunto i con- torni della sfida vinta. E sarà per questo che, se oggi si bussa a quell’appartamento dai co- lori dell’arcobaleno, c’è qualcuno che ti prende per mano e ti porta in giro a visitare le stanze con una soddisfazione sconfinata. Un esperimento simile era stato avviato già nel 2005, con due ospiti di Villa San Luigi che da allora vivono in un appartamento attiguo al centro. Ha funzionato, chi ci abita quella casa la sente sua. Lo prova un fatto. Qualche tempo fa, durante una serata di festa all’interno del centro, la direttrice stava accompagnando in un giro esplorativo della strut- tura alcuni familiari dei ragazzi: il fiore all’occhiello, l’orgoglio da mostrare, era proprio quell’appartamento. Inaspettatamente chiuso a chiave, però. Semplice: gli inquilini erano usciti e, si sa, i padroni di casa quando escono blindano la loro proprietà. Perché la normalità, parola fragile dei tempi nostri, si può pure con- quistare.

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Capitolo 11 Il “parroco volante” (1963-2008). Santa Maria a Quarto capitolo 11

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“Me la presti la tua mamma?” La testimonianza di Gabriella Faini

Arrampicata in cima a una stradina tutta curve, con le sue facciate pulite e una semplicità discreta, la parrocchia di Santa Maria a Quarto è stata per oltre quarant’anni la casa di Don Renzo. A lungo sul campanello accanto alla chiesa è rimasto scritto “Forconi” e tanto lì dentro, lì intorno, parla di lui. Don Renzo ci arrivò come terza tappa del suo cammino di Chiesa. Prima, appena ordinato sacerdote, fu infatti cappellano della chiesa di San Martino a Gangalandi a Lastra a Signa (1955-1957). Ci rimase solo due anni, eppure quelli bastarono a costruire un campo sportivo e a mettere in piedi una squadra di calcetto. Poi venne il periodo della Futa (1957-1963), quello in cui si dedicò all’assistenza spirituale degli operai al lavoro sulla variante di Valico e in cui fu parroco della chiesa di Santa Lucia all’Ostale. Fu dopo questa esperienza che Don Renzo approdò a Quarto. La signora Faini, il sorriso gentile e un armadio orgogliosamente pieno di carte che testimoniano il suo lavoro per la parrocchia, ha di quel momento un ricordo privilegiato. Un’istantanea, pescata dal passato di questo pastore speciale nell’atti- mo esatto in cui le loro vite si sono incrociate. “Posso dire con onore che siamo stati la prima famiglia che lui ha in- contrato qui nel quartiere. Materialmente, la prima. Ricordo: mio pa- dre era qua fuori. D’improvviso apparve Don Renzo, come una saetta. Si fermò: aveva la tonaca ed era in sella a una Lambretta. Ci chiese a sinistra. Veduta esterna della chiesa di Santa Maria a Quarto

59 capitolo 11 quale fosse la strada per arrivare alla chiesa di Santa Maria a Quarto”. Quell’informazione di servizio, accompagnata dallo stupore per quel Don che viaggiava su due ruote, fu l’inizio di un cammino assai lungo. Don Renzo ha passato una vita intera al servizio di quella parroc- chia, e non c’è fedele che non serbi di lui una personale ed affettuosa memoria. Tutti se lo ricordano sempre disponibile: sapeva ridere e stare alla burla e, soprattutto, non metteva mai in soggezione. Le trecento anime che lì a Quarto ha accudito per tanti anni non lo hanno dimenticato. Gabriella Faini è una delle persone che hanno affiancato Don Renzo fino all’ultimo. “Oltre ad essere il mio parroco era un amico”, dice. Parroco, sì, lo era eccome. Ha sposato tutti e tre i suoi figli e battezzato tutti e quattro i nipoti. Amico lo era altrettanto, come Don Renzo sapeva essere tanto bene. Da subito la signora Faini iniziò a collaborare con il suo parroco, con quella formula di volontario sodalizio che ha legato tante persone al sacerdote in Lambretta: “Quando serviva qualcosa per la parrocchia, per gli alberghi o per i suoi ragazzi ci si rimboccava le maniche e si faceva. Quanto si correva da una parte all’altra! E lui quanti chilometri avrà mai fatto?”. Una mano volenterosa non mancava mai: sia che si trattasse di orga- nizzare un pranzo a Diacceto, sia che ci fosse da preparare una pesca di beneficenza, sia che si dovesse fare qualche lavoro manuale nelle strutture. Don Renzo aveva tante anime a cui pensare e quelle anime lo ricom- pensavano rendendosi d’aiuto ogni volta che serviva. La dinamica speciale di quel mutuo soccorso la signora Faini la spiega in poche parole assai incisive: “Se tu avvertivi un vuoto, lui accorreva sempre”. Come quando Gabriella perse il padre. “Successe ad agosto. Lui, che era al Piaz, lo seppe e arrivò qui di corsa, alle tre di notte. Fu un periodo molto doloroso quello, specialmente per mia madre che rimase sola”.

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Fu allora che Don Renzo se ne uscì con una richiesta: “Gabriella, me la presti la tua mamma? La porto sulle Dolomiti a fare la cuoca al Piaz”. Le capacità persuasive certo non gli mancavano, bastava spesso una parola semplice arrivata dal cuore. Così andò anche quella volta: la sera di Natale di quell’anno, la mam- ma di Gabriella partì alla volta della Val di Fassa e rimase a lavorarci per otto anni come cuoca stagionale: “Fu un toccasana, in quel modo riuscì a distrarsi e a superare il dolore”. Dal 1992 la signora Faini entrò anche in un altro capitolo della vita di parrocchia: Don Renzo la chiamò infatti a gestire le faccende legate al cimitero accanto a Santa Maria a Quarto. “Mi ritirai dal lavoro e Don Renzo mi disse: ‘Bene, ora che sei più libera puoi aiutarmi con il cimitero’. All’inizio, se devo essere sincera, avevo delle perplessità”. Superate le riserve iniziali, Gabriella iniziò ad occuparsi della struttu- ra. Registri, bolle, documenti e le fatiche burocratiche per un amplia- mento a cui Don Renzo teneva tantissimo: tutto questo è conservato in un armadio che mostra con orgoglio. “Sin da subito ero fiera del mio impegno, perché già il mio nonno, prima di me, ci aveva lavorato: caricava con il suo carro i sassi per costruirlo e li portava lassù”. E il valore che quel cimitero ha non solo per lei, fida amministratrice, ma per l’intera comunità di fedeli, si sintetizza in una particolarità “Ognuno ha la sua chiave per entrarci. Certo c’è un custode, ma ab- biamo fatto in modo che ognuno potesse andare a trovare i suoi affetti quando voleva. Tutti quanti i parrocchiani se lo sentono loro questo cimitero, e dunque se c’è da fare qualcosa si fa subito, d’istinto”. Lo confessano in sussurro, ma il rimpianto dei fedeli di Santa Maria a Quarto è proprio quello di non avere tra i loro cari che riposano in quel cimitero anche l’amato parroco. Ma non importa. I fiori freschi, accanto alla lapide che hanno voluto a memoria del loro sacerdote, ci sono sempre lo stesso.

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“E allora io dico: ‘Bravo, Don Renzo’” La testimonianza di Alessandro Miotto

Certi ricordi di Don Renzo, durante i dialoghi con chi lo ha conosciuto, affiorano in ordine sparso per poi ricomporsi in un mosaico. Sono memorie affettuose che si fanno avanti alla spicciolata, aneddoti che spuntano fuori senza un apparente filo logico che li lega, come cartoline mandate da qualcuno senza un perché. Succede ad esempio con Alessandro, affezionato parrocchiano di Santa Maria a Quarto. Lui, ed è il primo che lo fa, non si commuove nel parlare di Don Renzo. L’emozione prende un’altra strada: quella di un sorriso di- steso e di un’incongruenza nella gestione dei tempi verbali. “Don Renzo sa che io son fatto così”. È un lapsus che la dice lunga e il racconto di Alessandro comincia con una premessa chiara: Don Renzo non fa parte del passato, è un vigoroso hic et nunc del cuore. “Arrivai nella parrocchia di Santa Maria a Quarto nel 1981. Ascoltai una sua Messa e mi colpì, quindi decisi di rimanere. Mi ricordo ancora che a un certo punto gli dissi: ‘Senti, io so suonare la chitarra, ti può interessare?’. Lui mi rispose di sì, che qualcosa insieme si poteva fare: ‘Basta tu venga’”. Così fu e la chitarra di Alessandro divenne presto il primo nucleo di quella che oggi è diventata una band di parrocchia, i “Quarto Voice”. Dopo la chitarra arrivarono i microfoni e solo più in là, in un se- dietro. Visita pastorale, Monsignor Antonelli e Don Renzo a Santa Maria a Quarto

64 capitolo 11 condo momento, venne anche un sistema di amplificazione. “A Don Renzo è sempre piaciuto dare continuità ai proget- ti, è sempre stata una delle basi della sua vita: mettere in piedi, costruire. E infatti, solo pochi giorni prima di andarsene, era ad assistere al nostro concerto al San Pio X”. Non si tirava mai indietro, era entusiasta delle iniziative dei suoi parrocchiani. Come quando fu messo in piedi il gruppo teatrale “I Quartini”: “Mi ricordo che commentò questa novità dicendo che era una cosa ‘da visibilio’, ne era contentissimo. Quando invece si creò il coro, a un certo punto si era convinto che tutti i bambini che lo componevano dovessero portare una tonaca, una divisa: voleva aiutarli a fare gruppo, a sentirsi identificati da qualcosa. Lì per lì ci sembrò un’idea folle e invece alla distanza mi sono reso conto della sua veggenza”. Don Renzo sapeva dare degli input, e la comunità di fedeli era brava a farne tesoro. Le cene, le feste, le pesche di beneficenza: tutto questo, a parte l’aspetto conviviale, aveva un valore profondo. Legava le persone tra loro e offriva spunti per costruire progetti nuovi. “È stato lui a darci il la, sicuramente. Questa parrocchia oggi sopravvive grazie al profondo spirito di comunità che la anima: come lui ci ha insegnato, cerchiamo sempre di dare continuità a ciò che facciamo e di farlo insieme, perché sappiamo bene che tutti hanno bisogno di tutti. Lui, che lo sapeva fare tanto bene, ci ha abitutati a cucire tutto insieme e a creare coesione”. Don Renzo aveva anche il gran pregio di non suscitare imbarazzo nelle persone. Non disdegnava la burla, la sua tonaca non è mai stata inibitoria e per questo l’aneddotica a sfondo comico che lo vede protagonista è ancora capace di riempire stanze e racconti. Ironia e capacità di stare allo scherzo non gli mancavano. Come quella volta che nel giorno del suo compleanno, finiti i can- ti “ordinari”, i fedeli dal fondo delle loro panche gli intonarono “Tanti auguri a te”.

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Oppure come quando, durante la predica, s’interrompeva e diceva ad alta voce: “Vabbè, non mi dilungo che sennò poi mi brontolate”. Gli episodi in cui allegria e risate fanno da padroni sono tantissimi, e quell’ammirevole abitudine al buonumore ha lasciato segni e ricordi accesi. Alessandro, voce e pentagramma di parrocchia, per Don Renzo scrisse addirittura una canzone. Una serie di strofe musicate che parlano di lui e che, da subito, cucirono addosso a Don Renzo un epiteto che da allora a Santa Maria a Quarto non sfugge a nessuno: “Il parroco volante”. “Questa canzone, lunghissima, riassume quegli aspetti di Don Renzo su cui tutti scherzavamo: era perennemente di corsa, in un’ora diceva la Messa qui e si precipitava a dirla giù a Santa Maria Novella. Pro- prio scherzando su queste sue accelerazioni nacque quel pezzo e poi persino una commedia che lo vede protagonista”. Rideva tanto il “parroco volante” quando gli cantavano la sua canzone: “Aveva una tale semplicità, io non l’ho mai vista una persona così. La sua preghiera prima dei pasti, ad esempio, è una delle cose che più mi sono rimaste impresse”. Giusto poche parole, sobrie ed essenziali, che esprimevano in pochi istanti il modo di intendere la fede di Don Renzo: “Benedici Signore questo cibo e fa che non manchi mai a nessuno”. Altri ricordi, affastellati uno sull’altro, vengono fuori dal racconto del chitarrista di parrocchia. Come il tenore di certi scambi di idee con quel caparbio uomo di fede: “Certe volte sembravamo Don Camillo e Peppone, eppure la sua grandissima apertura mentale ti invogliava a parlare”. La mancanza di pregiudizi, gabbie, costrizioni e limiti è del resto una dote che a Don Renzo viene riconosciuta all’unanimità. “Mi basta pensare cosa ha fatto con me: mi ha spinto a scrivere e a musicare per un mondo che spesso avevo criticato. Don Renzo aveva davvero la capacità di far emergere e portare fuori sempre il meglio di ciascuno”. dietro. Don Renzo, Alessandro Miotto e i ragazzi di Villa San Luigi

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Sapeva ascoltare posizioni diverse dalle sue (al massimo, sorride Alessandro, si informava sulla “digeribilità” dei canti che sarebbero stati proposti durante le Messe solenni) e nel rapporto con i parrocchiani aveva imparato a lasciare loro una grande autonomia d’azione. “Don Renzo mi diceva spesso: ‘Vai vai, vai libero’. Era un maestro nel dare agli altri pieni poteri, nel rendere le persone attori e non comparse. Lo fece ad esempio quando mise in fondo alla chiesa un secchio pieno di acqua benedetta esortandoci a portarne un po’ a casa per benedire le nostre abitazioni”. Alla fine della Messa andava a cantare con i ragazzi in platea, non usava l’altare come una rocca dietro cui asserragliarsi. E la sua vocazione di pastore si traduceva quotidianamente in un gesto di- dattico discreto: “Riusciva a farti crescere lasciandoti crescere: po- teva sembrarti di essere solo, ma in realtà, pur con uno stile sempre molto ovattato, lui riusciva a farti sentire e ad inculcarti i veri valori di vita”. E il “metodo Forconi” deve aver funzionato: “Quando mi rendo conto che la domenica, alla Messa del mattino, quassù arrivano persone anche da piazza delle Cure mi vien proprio da dire: ‘Bravo, bravo Don Renzo’”.

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“Dimmi di cosa hai bisogno, si fa” La testimonianza di Silvano Silvia

“Scusami Don Renzo, ma se si montasse un soppalco non ci s’entrerebbe meglio tutti?”. Silvano Silvia al suo parroco dava del tu. Segno di una certa dose di confidenza, che del resto vien da sé quando il sacerdote è uno come Don Forconi e il fedele un personaggio scoppiettante d’inventiva. Il Silvia, professione fotografo, è un creativo e il suo rapporto con Don Renzo poggiò fin dall’inizio proprio su questo humus artistico. “Arrivai a Santa Maria a Quarto nel 1997, conobbi Don Renzo e di lì cominciò un’epoca”. Cominciò cioè a ribollire quel calderone misto di idee e di buone volontà che Don Renzo sapeva tanto bene tenere vivo. La musica, il canto e il teatro trovarono cittadinanza a Santa Maria a Quarto e la chiesa in breve si popolò di bambini e di ragazzini in età di comunione che facevano un’intensa vita di parrocchia. Il passaparola di popolo aveva portato un sacco di persone ad arram- picarsi su per la strada che porta a Quarto: “La gente sentiva parlare di questo parroco che durante l’omelia trattava anche di temi di cronaca e si incuriosiva: l’attualità era in questo senso la sua forza”. Seguiti da persone come Silvano e Alessandro Miotto i giovani quartigiani iniziarono a crescere di numero: “Durante le Messe di Natale, ad esempio, la chiesetta si riempiva di bambini e tutti – ma dico tutti – volevano cantare”. a sinistra. Veduta dell’interno della chiesa di Santa Maria a Quarto

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Si era trattato semplicemente di motivarli e di far loro intuire un certa empatia transgenerazionale. L’entusiasmo aveva fatto il resto: “Lui li stava a sentire anche durante le prove del coro e alla fine del canto li incoraggiava, si meravigliava di quanto fossero bravi”. Del resto le occasioni di festa con Don Renzo non mancavano mai, ed anche per i piccoli la frequentazione della parrocchia era cosa tutt’altro che noiosa: “Tantissime volte abbiamo organizzato feste tutti insieme, nello stanzone adiacente alla chiesa. E Don Renzo non mancava mai di coinvolgere i ragazzi dell’Oda”. Insomma, non si stava con le mani in mano. Di idee nuove ce ne erano a manciate, e Don Renzo non si tirava indietro quando qualcuno dei suoi proponeva qualcosa: “Noi pro- gettavamo, poi gli parlavamo di quello che ci era venuto in mente e la sua risposta era sempre ‘Sì sì, dimmi di cosa hai bisogno e si fa’. Sempre”. Non metteva i bastoni tra le ruote, non si affannava per monitorare quello che facevano i suoi parrocchiani. E per il resto, che si trattasse di organizzare una recita o che ci fosse da mettere in piedi un con- certo di musica classica (ne furono fatti quattro solo all’interno della chiesa), lui c’era. Annuiva e lasciava fare, aveva fiducia nei suoi fedeli. Non era un caso. Don Renzo aveva inteso una cosa fondamentale: “Amava la musica e queste attività collaterali: non perché fosse un intenditore, ma perché ne aveva intuito il valore. Sapeva che queste attività avevano il potere di trascinare”. Non gli sfuggiva l’importanza di trovare strade sempre nuove per veicolare il suo messaggio di gioia e fede, e non importa se poi que- sto risuonava attraverso le note di un organo o a cavallo del penta- gramma di un bambino. “Quando poi si arrivava finalmente in fondo a un lavoro, fosse anche solo un nuovo dépliant sulla chiesa, non mancava mai di ringraziare”. Gli piaceva confrontarsi e assecondava i guizzi artistici altrui: “Un Natale ad esempio gli proposi di allestire un’illuminazione particolare

72 capitolo 11 della vetrata, fatta in modo tale che la luce fosse proiettata dall’ester- no e si riverberasse verso l’interno della chiesa. Si fidò, facendomi promettere che avrei fatto una bella cosa. Gli piacque talmente tanto che da allora la volle ripetere tutti gli anni in occasione della Messa di Natale”. E tanto lo entusiasmò l’idea di quella piccola sorpresa di luce per i suoi fedeli, che un giorno chiamò il Silvia: “Senti, già che c’è da rifare l’impianto, se si studiasse qualcosa di stabile per rendere l’illuminazione migliore?”. Don Renzo teneva alla sua chiesa, e per questo si impegnò nella ri- strutturazione e perché la manutenzione fosse impeccabile, senza di- sdegnare qualche vezzo dal sapore teatrale che poteva renderla più accogliente: “All’inizio la qualità audio in chiesa era pessima e per questo piano piano installammo anche microfoni ed altoparlanti”. Oltre ad occuparsi degli aspetti scenici, Silvano è stato a lungo il “fotografo di fiducia” (sorride a sentirsi chiamare così, ma di fatto questo era) di Don Renzo: “Venne un po’ da sé: la mia professione è questa da trent’anni, e ogni volta che c’era l’occasione gli facevo qualche foto”. Ne ha fatte tantissime, è il depositario privilegiato di centinaia di scat- ti e sarà per questo che con il suo parroco il Silvia aveva un rapporto fatto di immagini prima ancora che di parole. Un legame che era come mediato dall’obiettivo: “Di lui prima di tutto ricordo l’impatto, il contatto visivo. Il suo sorriso, lo sguardo, gli occhi che guardavano i ragazzi mentre cantavano nel coro della domenica”. Di più. A un occhio attento, pure se nascosto dietro uno zoom, non sfuggono certi dettagli: “La sua immagine, anche fotograficamente, trasmetteva gioia”. La stessa che sapeva farsi parola di conforto nei momenti difficili, naturale sostegno prima ancora che confessione. “Lui del resto era così”. Già, e lo dicono tutti. Padre, non presidente. Amico, non confessore.

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“Era uno di noi, un ragazzo tra i ragazzi” La testimonianza di Calogero Mistretta

Ha la voce fatta mite dal tempo. Sceglie le parole, le conta e poi le soffia nella cornetta: “Ho sentito che state preparando un libro sul caro Don Renzo. Ecco se è possibile vorrei darvi anch’io il mio contributo. Avrei preparato due paginette e mi piacerebbe farvele avere”. E le due paginette arrivano. Firmate Calogero Mistretta, antica conoscenza di Don Renzo e uomo di cuore che i suoi ricordi li ha incisi con grafia di maniera. “Dedicato a te. Disappunto, rabbia, dolore, rimorso: questi i senti- menti che, in rapida successione, mi si sono presentati al portoncino d’ingresso dell’abitazione in via dell’Osservatorio. Quel giorno avevo deciso: dovevo andare a trovare Don Renzo. Lo avevo incontrato, mesi prima, nella cappellina della stazione di Santa Maria Novella e, dopo un attimo di esitazione, mi aveva ri- conosciuto, anche se non ci vedevamo da quasi cinquant’anni: ci eravamo abbracciati, grandi feste e la promessa di rivederci presto. Quel “presto” purtroppo è andato per le lunghe e, quando mi sono deciso, ho avuto dalla signora che mi ha aperto la notizia che mai mi sarei aspettato: Don Renzo non c’era più”. In quei due fogli si sente gocciolare la commozione al ricordo di quel brutto colpo. Ma non è neppure difficile immaginare il sorriso che si apre sul viso di questo signore gentile, riavvolgendo indietro i nastri della memoria. a sinistra. Don Renzo con alcuni bambini della parrocchia di San Martino a Gangalandi

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Mezzo secolo, indietro: “Ci eravamo conosciuti intorno agli anni sessanta, in una caratteristica villa sul Monte Oppio, non lontano da San Marcello Pistoiese, abbastanza vicino a Maresca. Luogo in- cantevole che, in quella occasione, accoglieva un nutrito gruppo di giovani adolescenti. Il soggiorno era patrocinato dall’Enaoli (Ente nazionale assistenza orfani lavoratori italiani). Lui, Don Renzo, era la guida spirituale; io, con altri giovani inse- gnanti, l’accompagnatore. Immaginabile la serenità di quelle quattro settimane: Don Renzo era uno di noi, un ragazzo tra i ragazzi, un volto sempre sorridente, pronto alla battuta, di una semplicità assoluta”. Colpisce che ricordi tanto lontani nel tempo riaffiorino vividi, del colore degli aquiloni, con un corredo di dettagli dalla precisione fotografica. “La mattina si svegliava molto prima di noi, ma a tavola era sempre con noi, nelle escursioni giornaliere non restava mai indietro e al tramonto... momenti di svago, canti (era in voga, allora, la canzo- ne “I Watussi” di Vianello e lui la cantava con noi divertendosi un mondo). Amava raccontare le barzellette: quant’era bravo, quante risate! Nei momenti di preghiera nessuno mancava: col sorriso, con una dolcezza infinita, attirava a sé i vari gruppi e rendeva quegli attimi di riflessione accessibili a tutti e facenti parte delle esperienze di ciascuno di noi. Sempre di corsa, con la sua Lambretta (o Vespa?) (Lambretta, Lambretta signor Mistretta!) arrivava regolarmente in tempo nei tanti luoghi in cui svolgeva la sua missione: era veramente un prete volante!”. Il ritratto che il signor Mistretta traccia del suo Don Renzo vibra dei colori dell’estate, risuona della spensieratezza dei canti di gruppo dei ragazzi. Nelle due pagine dedicate al Forconi rivive un affetto profondo, ac- corato, che guida la penna sul foglio con composta commozione,

Dietro. Don Renzo con alcuni bambini della parrocchia di Santa Maria a Quarto

78 capitolo 11 fino all’ultima parola. “Queste poche note mi sento di esprimere. I ricordi, seppur lontani nel tempo, talvolta sbiaditi, s’illuminano perché rivolti ad una per- sona eccezionale di chiara estrazione contadina, semplice ma anche arguto che, pur col sorriso, non te le mandava a dire dietro. Questi pensieri volevo esprimere: si aggiungeranno ad altri che ce- lebreranno e faranno conoscere a chi non ha avuto la fortuna di incontrarlo, ne sono sicuro, un uomo buono, umile, un gran sacer- dote”.

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FUORIONDA Una recita tutta per lui

I parrocchiani di Don Renzo avevano capito che il loro parroco era uno che stava allo scherzo. Per questo, oltre ad avergli affibbiato un soprannome ironico che lui accettava sorridendo (“parroco volante”), ogni tanto si diverti- vano a calcare un po’ la mano. Fino a tirarlo in ballo come protagonista di una recita, una com- mediola artigianale nata dalla fantasia dei suoi fedeli e portata in scena anche davanti al Cardinal Antonelli. È un testo semplice, un canovaccio allegro da cui Don Renzo esce dipinto a tinte bonariamente canzonatorie. I suoi fedeli scherzano su certi suoi difettucci, ma certo non si dimenticano di ribadire stima e affetto profondissimi. Era il 4 giugno 2006.

NARRATORE: “Tutto incominciò nel lontano 1929: era il mese di Dicembre, e mancavano pochi giorni al Santissimo Natale. Il Natale ci ricorda sempre una nascita importante come fu quella che racconteremo oggi. Siamo in un paesino della Toscana, per la precisione a Montespertoli, e due giovani genitori si chiedono a vicenda...

(Entrano in scena i genitori con un bambolotto di plastica fascia- to da una coperta di lana) a sinistra. Don Renzo, Monsignor Antonelli, i ragazzi dell’Oda e i bambini della parrocchia

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Moglie (Giulia): Allora: dimmi la verità cosa ne pensi di nostro figlio? Marito (Cosimo): È proprio un bel bambino. Moglie: Per il nome siamo d’accordo, lo chiameremo Renzo. Marito: Sì sono d’accordo con te e devo dirti che è proprio un bellissimo nome. Moglie: Sono contenta e ricordati che non dovrà essere il nostro unico figlio. Marito: Sì, cercheremo (prende a braccetto la moglie ed escono di scena) di dargli un fratellino.

NARRATORE: Renzo cresceva e già si vedeva in lui qualcosa di diverso che gli altri bambini non avevano. Già il colore dei suoi capelli lo differenziava e soprattutto, in modo naturale, stava sco- prendo dentro di sé un sentimento forte soprattutto verso i suoi compagni di giochi.

(Aprire con “Bandiera Gialla” di Gianni Pettinati e sfumare con mixer dopo 15’’. Alla fine della musica devono essere già entrati in scena alcuni bambini piccoli che corrono e si nascondono, e Ledisia)

Ledisia: Vengo.

(A questo punto entrano tre ragazzi più Renzo, giocano a calcio e per un’azione di gioco falloso scaturisce un parapiglia)

Primo bambino (Marco): Dai passami la palla! Secondo bambino (Lorenzo): Ora te la passo!

(Spinge il bambino ed escono di scena i piccoli con Ledisia)

Primo bambino: Ahi mi hai fatto male, se non sai giocare smetti, sei un incapace!

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Secondo bambino: Io incapace? Sei tu che non sai giocare, scemo! Primo bambino: Scemo a chi? Guarda che... (e si avvicina con aria minacciosa per mettergli le mani addosso. Interviene Renzo) Renzo: Calma ragazzi, non è questo il modo di giocare e soprat- tutto lo sapete che dobbiamo volerci bene. Dai fate pace e datevi la mano. Primo bambino: Scusami non volevo! (E gli tende la mano) Secondo bambino: Scusami tu, pace! (E gli tende la mano) Primo bambino: Pace!

(Prendono il pallone, uno se lo mette sotto il braccio e l’altro si affianca. Renzo li abbraccia entrambi ed escono di scena)

NARRATORE: Passavano gli anni e Renzo coltivava la voglia di intraprendere qualcosa di diverso dai suoi compagni. Sentiva den- tro di sé un qualcosa che gli altri non sentivano o se lo sentivano era certamente di proporzioni minori. Era questa la fede verso Co- lui che gli avrebbe insegnato a vivere la sua vita in modo diverso, amando e donandosi agli altri.

(Aprire con “L’elefante e la farfalla” di Zarrillo e sfumare con mixer dopo 15’’. Entrano in scena Matteo e Tommaso vestiti da chierichetti)

Tommaso: Matteo dobbiamo sbrigarci perché tra poco comincia la funzione. Matteo: Sì facciamo presto.

(Entra nel frattempo Renzo vestito da chierichetto)

Renzo: Da quanto tempo siete entrati in seminario? Insieme: Noi siamo arrivati il mese scorso.

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Renzo: Come vi siete trovati? Tommaso: Bene perché finalmente riusciamo a sentire quello che il Signore ci dice. Scusaci ma dobbiamo andare alla funzione.

(Ed escono di scena)

Renzo: Finalmente sono riuscito ad entrare anch’io nel seminario e trovo che qui dentro è tutto molto bello. Sento che mi troverò bene, sento di essere vicino al Signore e chiedo a lui che mi guidi per il futuro.

(Si inginocchia e si fa il segno della croce davanti al Vescovo. Si rialza, si gira verso il Crocifisso facendo un inchino in segno di devozione, si gira verso la platea)

Renzo: Scusatemi ma devo ritirarmi nella mia cameretta per le preghiere serali.

(Si gira ed esce di scena)

NARRATORE: Renzo prese i voti per la gioia dei suoi genitori e dei suoi amici. Ebbe come locazione una parrocchia di poche anime a Santa Lucia. Era un paesino situato nel cuore dell’ap- pennino Tosco-Emiliano, vicino al passo della Futa. Allora non c’erano grandi mezzi per muoversi e quando doveva correre per adempiere alla sua missione ogni mezzo era buono.

(Aprire con “La donna cannone” di De Gregori e sfumare con mixer dopo 30’’. Entrano in scena, dopo che è partita la musica, una coppia di sposi, i testimoni ed alcuni invitati)

Futura sposa (Viola): Di solito io dovevo essere l’ultima ad en- trare in chiesa ed invece come spesso succede manca sempre lui. Futuro sposo (Jacopo): Dai Maria tranquillizzati, vedrai che pri-

84 capitolo 11 ma o poi arriva.

(Entra in scena Don Renzo con un monopattino sul quale c’è un cartello con scritto “Vespa”, vestito da chierichetto con stola e cappello “alla Don Camillo” a tre punte)

Renzo: Ecccommiiii... scusatemi! Parcheggio il monopattino, (guarda l’orologio) sono un po’ in ritardo, d’altronde non è facile con questi mezzi (indicando il monopattino) affrontare il maltem- po che c’è fuori. Sta nevicando! Comunque mettetevi qui (indiriz- za gli sposi sopra i gradini dell’altare, i testimoni si posizionano ai loro lati e Renzo va a prendere il secchiello ed il pennello. Si avvicina agli sposi e rimane laterale a loro). Allora: datevi la mano destra e giuratevi fedeltà reciproca per tutta la vita. Sposa: Giuro di esserti per sempre fedele... Sposo: Giuro che ti sarò sempre fedele... Renzo: Io vi dichiaro marito e moglie...

(Prende il pennello e li benedice, rimonta sul monopattino con secchiello e pennello attaccati al manubrio ed esce di scena. Gli sposi, allora, come i partecipanti alla cerimonia, si guardano l’uno con l’altro e poi si rivolgono con lo sguardo verso la platea)

Testimoni (Chiara, Simona): (Si guardano) Veloce va bene, ma così mi sembra sia esagerato! Sposa: Antonio ma siamo sicuri che con questa cerimonia noi sia- mo sposati? Sposo: Maria o che lo so! È stato tutto così di corsa, devo dirti la verità: io non ho capito bene se lo siamo o meno, comunque stai tranquilla che io ti vorrò bene per tutta la vita. Fotografo (Alessandra): Forza sbrighiamoci.

(Mette in posa gli sposi e raduna vicino a questi gli invitati per una foto di gruppo)

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Fotografo: Fermi, un bel sorriso, fatto. Facciamone un’altra, non si sa mai. Allora sbrighiamoci, sennò la Villa Petraia ci chiude e non riusciamo a fare le altre foto.

(Fa uscire di scena tutto il gruppo)

NARRATORE: Trascorsero alcuni anni e Renzo fu chiamato a sostituire il parroco di Quarto, Don Stiattesi. Questi dall’osserva- torio, da cui è derivata la denominazione della via dove tutt’oggi è situata la parrocchia, seguiva l’immensità del cielo: costellazioni e quant’altro. Le necessità aumentavano ed i mezzi di locomozio- ne erano già cambiati. Possiamo dire leggermente migliorati.

(Aprire con “Torpedo blu” di Giorgio Gaber e sfumare con mixer dopo che Renzo è rientrato. Entra in scena Don Renzo su una bicicletta con un cartello in cui c’è scritto “A112”, vestito da chierichetto con stola e cappello a catino nero. Posiziona la bici ad una colonna)

Renzo: (Ansimando) Meno male, pensavo di non fare a tempo per il battesimo.

(Guarda l’orologio, nel frattempo entrano in scena alcune persone)

Vecchierelle (Ilaria, Paulina, Elisa): Don Renzo a che ora inco- mincia la Santa Messa? Renzo: Ma, veramente stamani ci sarebbe un battesimo però (ri- guarda l’orologio) non so se è alle 10 o alle 11. Comunque: an- cora non sono arrivati e visto che voi siete già qui si fa una cosa: salto la predica e dopo la benedizione parto subito (mentre sta parlando si dirige a prendere secchiello e pennello) perché vo alla stazione. Vecchierelle: Perché Don Renzo, che parte?

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Renzo: Ma icchè parto, lo sapete che devo andare a dire messa per cui...

(Simula la benedizione, prende qualche parrocchiano sotto braccio)

Renzo: Andiamo, veloci, se no fo tardi anche lì!

(Escono di scena)

NARRATORE: Era proprio così lui: doveva curare le anime di Quarto e quelle della chiesa alla stazione e quindi la domenica si divideva in due, a tal punto da essere nominato “il parroco volan- te”. Fortunatamente l’avvento del diacono Giovanni Leoncini gli permise di trovare, nei momenti importanti come le feste di pre- cetto, quell’aiuto tanto cercato. In ogni caso Renzo non si limitava a questo, e cioè a gestire nel modo migliore la parrocchia, perché le sue attività nel tempo divennero molteplici. La gestione dell’Oda e di conseguenza i centri di San Luigi e di Diacceto richiedevano il suo contributo. I numerosi ragazzi che popolavano i centri necessitavano sempre più di cure e di affetto, e questi erano ingredienti che a Don Renzo non mancavano mai. Inoltre, la gestione di una parte degli introiti indispensabili alla sopravvivenza dei centri lo portò a curare l’attività di due alberghi situati nel Trentino a Pera di Fassa ed in Val d’Aosta a La Thuile. Chiaramente per seguire il tutto i mezzi dovettero necessariamen- te migliorare a tal punto che l’utilitaria di un tempo diventò...

(Aprire con “Obladì-Obladà” dei Beatles e sfumare con mixer dopo 30’. Entra in scena Don Renzo con gippone a batteria sul quale c’è un cartello con scritto “Lancia Lybra”. È vestito con tuta da sci, sciarpa, doposcì, guanti, occhiali e paraorecchi e ha l’inconfondibile cappello a catino nero. Parcheggia la Jeep vicino alla colonna)

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Renzo: Mamma mia che tempo c’era al Piaz, sono riuscito a scap- pare un attimo prima della bufera di neve (si guarda da capo ai piedi e poi volge il volto alla platea) senza nemmeno cambiarmi. E meno male che qui non nevica!

(Entrano i parrocchiani, costituiti quattro persone: un piccolo/a, un ragazzo con la chitarra e le vecchierelle di prima)

Ragazzo con chitarra (Alessandra): Don Renzo che è in partenza per la settimana bianca? Renzo: Ma che settimana bianca, torno ora dal Piaz perché sono andato a trovare i miei ragazzi. Ragazzo con chitarra: Bene! Come stanno? Renzo: Benissimo: sono contenti perché poi hanno trovato tanta neve! Ragazzo con chitarra: Ma oggi Don Renzo la Messa la diciamo? Renzo: Sì, devo prima cambiarmi. E mi raccomando di fare can- zoni corte perché mi aspettano alla stazione. Ragazzo con chitarra: Allora Renzo questa può andare?

(Prende la chitarra, una sola nota – blen – e canta “Alleluia”)

Renzo: (Si gira verso la platea) Mi piace questo ragazzo: ha già capito come deve funzionare la nostra parrocchia! Ovvia venite con me, io vado di corsa a cambiarmi se no fo tardi anche oggi.

NARRATORE: Allora la parrocchia era costituita da poche anime ed i ragazzi, linfa vitale per la comunità, erano sempre pochi. Era- no più numerose le persone anziane e la loro Santa Messa veniva celebrata alle ore 8, mentre quella definita “per i ragazzi” veniva celebrata alle 11.30. Queste situazioni rispecchiavano i lontani anni ’80 ed allora Don Renzo ormai cinquantenne aveva sulle spalle quasi vent’anni di sacerdozio. Ma già 10 anni dopo... dietro. Don Renzo, Silvano Silvia e Alessandro Miotto durante una recita di parrocchia

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(Entrano in scena un bambino ed una bambina accoppiati, il pri- mo ha un cartello con scritto 19 e la bambina un altro con scritto 90, dietro di loro altri due bambini)

I bambini cominciarono ad arrivare ed intanto gli anni passavano e ci si avvicinava al fatidico 2000, per cui già 10 anni dopo...

(Entrano in scena un bambino ed una bambina. Il primo ha un cartello con scritto 20 e la bambina un altro con scritto 00, dietro di loro altri quattro bambini)

Eravamo nel 2000, quindi nel nuovo millennio. La tecnologia cominciava ad imperare in parrocchia: microfoni, amplificatori, casse acustiche, e bambini.

(Entrano in scena tutti i bambini disponibili dietro le quinte ed il suonatore)

E sempre più bambini, fino al punto che si dovette acquistare an- cora altri microfoni, perché tutti volevano cantare, tutti volevano far sentire al nostro vescovo che “Iddio aveva inventato”.

(Parte la canzone “Iddio aveva inventato” che viene suonata da dietro le quinte ed i bambini la cantano davanti al vescovo)

(Sipario)

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Capitolo 111 Il “sacerdote dei binari” (1963-2008). Santa Maria Novella capitolo 111

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“Io mi sento il tuo quarto fratello, se me lo permetti” La testimonianza di Renzo Manni

La vita di Don Renzo è fatta di tanti capitoli che s’intrecciano e si so- vrappongono, di dedizioni al prossimo che s’intersecano. L’amore per la Chiesa e quello per i ragazzi dell’Oda erano i fari che lo guidavano ogni giorno. Ma Don Renzo non perse mai neppure quella vicinanza al mondo operaio che aveva segnato i suoi esordi di religioso, e per un tempo lunghissimo fu la guida spirituale di un’altra grande categoria di lavoratori: i ferrovieri. I suoi ferrovieri. Con loro costruì un sodalizio durato oltre quarant’anni, e il prete dei lavoratori e dei disabili seppe farsi anche Don dei binari. Nel 1963 di- venne cappellano compartimentale delle Ferrovie dello Stato e da quel momento la chiesina al binario uno di Santa Maria Novella fu per lui un’altra casa ancora. Strinse con quei lavoratori un rapporto profondo e costante, forte nel tempo e nelle vicissitudini. Li andava a trovare nelle officine, li ascolta- va, diceva messa per loro. Persino il giorno prima di morire era con loro, invitato a festeggiare l’inaugurazione del treno superveloce Freccia Rossa. Rincasato, a Silvia disse: “I miei ferrovieri mi hanno fatto un bel regalo”. Di questa quarantennale comunione oggi restano molti segni. Uno vive nelle lacrime commosse di chi con Don Renzo ebbe un rapporto speciale. a sinistra. Don Renzo celebra il matrimonio dei fratelli Manni

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Renzo Manni oggi è prima di tutto un nonno. Ma quando conobbe Don Renzo era una delle circa mille persone impiegate nell’Officina Fer- roviaria Grandi Riparazioni di Porta a Prato, in quel colossale “ambu- latorio” dei treni in cui ogni giorno facevano capolinea le carrozze da aggiustare, sistemare, migliorare. Era il 1967, ma nonostante le pagine del tempo vadano sfogliate indie- tro di quarant’anni, il Manni si ricorda esattamente come andò il primo incontro con Don Renzo. “Celebrò le nozze di mio fratello. Io rimasi molto colpito dalla predica di questo prete così giovane, spiritoso, allegro. Fece un bellissimo di- scorso sul rapporto tra uomo e donna, che poi negli anni mi è rimasto impresso come un insegnamento di vita”. Quello fu il primo giorno di un’amicizia che da allora non si sciolse più. Tempo dopo Don Renzo fu chiamato a celebrare la Messa commemo- rativa delle quattordici vittime del bombardamento su Porta a Prato del ’44, e di nuovo il Manni fu colpito dalla sua “predica eccezionale”. “Mi ricordo che venne a trovarci dentro all’Officina, era il periodo dei preti operai e noi si scherzò con lui. Gli si disse ‘Basta venì qui con la tonaca, la venga a lavorare in tuta con noi!’”. In quel bonario motteggio mise le radici il rapporto fra i due, e tanto il Manni si legò a questo prete che faceva incursioni in Officina che, nel ’69, volle che fosse proprio lui a celebrare le sue nozze, assieme a quelle del fratello. “Più di una volta ho avuto l’impressione che Don Renzo si sentisse più ferroviere di noi. Gli piacevamo perché eravamo entusiasti come lui. Se poi aveva un problema, sapeva che quando veniva da noi in qualche modo lo risolveva. Lo ho visto tante volte sprizzare contentezza, eufo- rico di gioia, perché era andato a posto qualche intoppo”. Come il Manni, anche gli altri ferrovieri non ci misero molto ad af- fezionarsi a Don Renzo. E ai suoi ragazzi: “Allora era consuetudine che quando moriva un familiare di un lavoratore si facesse una colletta, c’era una grande solidarietà. Un giorno proposi che, anziché pensare ai fiori, si destinassero i soldi di quelle sottoscrizioni– che erano pratica- dietro. Don Renzo con un gruppo di ferrovieri in pellegrinaggio

98 capitolo 111 mente settimanali – ai bimbi di Don Renzo”. Da quel giorno i frutti di quella bella solidarietà operaia divennero cal- ze, mutande, vestiti per i “bimbi” dell’Opera: “Don Renzo su questo non transigeva: non voleva vestiti usati, di seconda scelta, ripeteva sem- pre che i suoi ragazzi avevano una dignità da rispettare”. La stessa generosa macchina si metteva in moto quando si trattava di fare qualche lavoro per le strutture dell’Oda: “Ognuno di noi sapeva fare qualcosa: chi pitturare, chi fare i muri, chi saldare, chi sistemare gli impianti elettrici. E, specialmente quando venne il momento della pensione, appena Don Renzo aveva bisogno si correva tutti”. A Marina di Pisa per risistemare la Casa Giotto, poi a Diacceto per la- vorare al Cernitoio, oppure a La Thuile a far manutenzione: “Era come un gioco per noi: si faticava, si girava come matti, ma si rideva sempre”. A caricare tutti d’entusiasmo ci pensava Don Renzo, che dalla sua ave- va lo splendido convincimento che alla fine le cose possano andare a posto: “Lo diceva sempre: si risolve tutto, c’è la Provvidenza”. E mentre quelle strutture rinascevano anche grazie all’impegno – vo- lontario – dei ferrovieri, i rapporti si rinsaldavano. Operai e dirigenti gli si erano affezionati e quando c’era da lavorare per lui, per quel prete che accettava suggerimenti persino sulle prediche, erano contenti. Il loro legame divenne tanto forte che furono proprio i ferrovieri ad occuparsi di alcuni arredi sacri della chiesina del binario uno. “C’erano stati dei problemi, dei furti nella chiesa. E per questo andava trovato il modo di ancorare una Madonnina così che non la rubassero”. Ci si lavorò in Officina: S“ aldammo una ruota di treno alla statua, e divenne la Madonna del Buon Viaggio”. Oltre a quella singolare opera d’arte, connubio riuscito di fede e im- provvisazione, a Porta a Prato nacquero anche altri manufatti che anco- ra oggi fanno bello quel piccolo spazio di culto dentro la stazione: un candelabro di ferro battuto con le candele elettriche e un San Cristoforo che accanto a sé tiene una paletta ferroviaria. Quella realizzata dai ferrovieri fu un’allegoria intuitiva, semplice e di cuore: la Madonna con la ruota simboleggiava il viaggio, la paletta la

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101 capitolo 111 partenza, il San Cristoforo la protezione. L’amicizia profonda con i lavoratori dell’Officina si nutriva anche di questi doni e portò ad iniziative nobili, come la creazione di un gruppo di donatori di sangue Fratres reclutati proprio tra i ferrovieri e tanto voluto da Don Renzo. Del resto, quel prete che si precipitava con la sua auto a velocità impro- babili giù dalla parrocchia di Quarto per riuscire a dire la Messa anche al binario uno, era entrato nel cuore di quelle persone perché conosceva la strada per arrivarci. “Alle sue Messe ci andavamo in tantissimi, perché Don Renzo sape- va rispettare anche chi la pensava in modo diverso, era un prete senza confini”. Per forza poi qualche lacrima bagna il volto di chi ripercorre il suo ricordo. “Una frase non me la scordo. Un giorno Don Renzo mi disse: ‘Io mi sento il tuo quarto fratello, se tu me lo permetti’”. Già, il Don chiedeva il permesso, sempre. Nelle vite degli altri ci entrava in punta di piedi, e così fece col Manni, cui pure era legato da un rapporto, appunto, fraterno: “Un giorno mio figlio si fece male, ebbe un incidente.D on Renzo mi chiese addirittura l’autorizzazione per andare a trovarlo in ospedale. La correttezza e il rispetto estremo che mostrava a tutti, anche a chi non la pensava come lui, non hanno mai smesso di impressionarmi”. Rimane un rimpianto, adesso. Don Renzo non ha potuto seguire l’ultima tappa dell’evoluzione dell’Officina, che oggi, dopo tanto tribolare, ha trovato la sua sede all’Osmannoro: “Ci teneva tanto, e mi addolora che non abbia potuto vederla”. Chissà che il Manni non si sbagli, e che invece Don Renzo non se la stia guardando da lassù, quella nuova casa degli amici ferrovieri.

dietro. La commemorazione delle vittime del bombardamento del 1944 a Porta a Prato a destra. Don Renzo durante la consegna di una targa ad un donatore del gruppo Fratres

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Capitolo iv Il “prete dell’autostrada” (1957-1963). Barberino di Mugello capitolo 1v

“Potevo constatare con soddisfazione che la mia veste nera era sempre più bene accolta” Don Renzo nella pancia dell’Appennino

Era, a pensarci bene, tanto tempo fa. Mezzo secolo che passa può cambiare persino la geografia, e la zona della Futa degli anni ’50 la ricordano tutti come luogo impervio e disagiato. Fu proprio in quel fazzoletto di Mugello che Don Renzo mosse i suoi primi passi da sacerdote (i secondi, per l’esattezza: gli esordi veri e propri furono a Lastra a Signa). Monsignor Ermenegildo Florit, allora Vescovo coadiutore di Firen- ze, volle che il giovane Forconi si occupasse come priore della par- rocchia di Santa Lucia all’Ostale, minuscola frazione nel comune di Barberino di Mugello. E fu proprio lassù che Don Renzo fece la conoscenza del mondo operaio. Erano gli anni in cui si costruiva l’autostrada del Sole e in quello spicchio d’Appennino si lavorava sodo, giorno e notte, a turni, per far veloce e rispettare la scadenza di consegna fissata per il 1960. C’erano cantieri e c’erano baracche, e dentro quelle baracche c’erano operai stanchi, con l’accento e il cuore volti al Mezzogiorno. Don Renzo divenne il loro padre e lassù c’è ancora chi lo ricorda come il “prete dell’autostrada”. Fu nominato cappellano del lavoro dei cantieri di Barberino e i lavoratori furono presto i suoi fedeli. Non si trattò di anni facili, per niente. Nonostante il sempre galoppante entusiasmo del giovane sacerdote, far incontrare toga e tute sporche di terra non era allora cosa da poco. Lo racconta bene la stessa penna di Don Renzo in una relazione alla Diocesi di Firenze:

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«Come credo sia di vostra conoscenza ho iniziato l’assistenza re- ligiosa agli operai dell’autostrada del Sole nel gennaio del 1957. Allora e fino all’ottobre dello stesso anno ho condiviso il mio la- voro con Don Amerigo Mugnai, parroco di San Niccolò a Vigneto. Come prima cosa ci occupammo del servizio religioso ed ottenem- mo dalla direzione del cantiere Rubatto il permesso di celebrare la Santa Messa nella mensa centrale del cantiere tutte le Domeniche e feste di precetto. A tale scopo facemmo costruire un altarino in legno, molto sempli- ce ma assai decoroso, sul quale Don Mugnai ha celebrato regolar- mente dal gennaio all’ottobre la Santa Messa. Il mio lavoro in questo periodo di tempo fu assai marginale: mi recavo due o tre volte alla settimana a far visita agli operai nelle baracche, nella mensa, nelle gallerie, cercando di stabilire un cli- ma di reciproca fiducia. Non ottenevo grandi cose, ma piano piano potevo constatare con soddisfazione che la mia veste nera era sempre più bene accolta e che, rotto il ghiaccio iniziale, le conversazioni si facevano più fre- quenti e particolareggiate. Spesso la conversazione cadeva su argomenti come questi: perché Dio ha creato i ricchi e i poveri, se Dio avrebbe scusato le bestem- mie dette in momenti di rabbia, se l’inferno per loro non fosse di qua, se le donne ed il vino non fossero veramente delle belle cose, se il Papa scomunicandoli li aveva già condannati all’inferno. Naturalmente cercavo di rispondere con tutta la delicatezza possi- bile ben studiando di salvare i diritti di Dio, di non dire frasi pro- vocatorie nei riguardi dei dirigenti, di dare ragione fin che mi era possibile agli operai per non urtare la loro suscettibilità. Tali conversazioni mi erano utilissime perché per mezzo di esse po- tevo rendermi conto della loro mentalità e di tutto il modo di vedere e giudicare le cose del mondo operaio. La sera tornando a casa riflettevo e pregavo, ma non ero mai trop- po convinto dell’efficacia e della utilità del mio lavoro, confesso che avevo l’impressione di perdere del tempo».

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I toni sono eloquenti, e Don Renzo dipinse con realismo soddisfa- zioni e difficoltà di quell’incontro con i lavoratori dei cantieri. Ma non si fece mai sopraffare dallo sconforto e che non stava af- fatto perdendo tempo lo capì alla svelta: da allora adoperò tutte le sue energie e la forza della fede per rendere migliore la vita a quei lavoratori. Curava la loro assistenza religiosa, certo, e quell’altare rustico su cui si celebrava la Santa Messa ne è la prova e l’emblema. Ma nella quotidianità spicciola Don Renzo di quelle anime sapeva prendersi cura anche in senso lato, e non dimenticò mai di allietarle per cercare di rendere più accettabile il peso della schiena piegata sul cemento. Lo faceva, ad esempio, noleggiando per loro dei film e organizzan- done la proiezione: apriva sipari ricreativi per gli operai e quelle pellicole diventavano momenti di aggregazione, via dalla polvere della pancia dell’Appennino. Non ci volle molto e quella tonaca ingrigita di terra, capace di svo- lazzare in sella alla Lambretta pure con la neve, iniziò a piacere agli operai. Non mancarono purtroppo neppure i momenti bui, fatti di lacrime e lutto. Il 24 ottobre del 1959 crollò un ponte in località Molinuccio e quat- tro dei suoi operai, che erano al lavoro su quell’armatura, persero la vita. Spettò a Don Renzo quel giorno occuparsi del dolore dei familiari e del tormento dei compagni di lavoro usciti salvi dall’in- cidente. Nel tempo i lavoratori si affezionarono sempre più al loro pastore, e accadde un fatto singolare. Il 31 maggio del 1959 Don Renzo convinse gli operai a seguirlo in udienza da Papa Giovanni XXIII e proprio da quei cantieri partì un pellegrinaggio di quattrocento operai. Al Pontefice evidentemente non sfuggì il valore di quella spedi- zione, e non risparmiò un commento entusiasta: “Voglia Iddio che dietro. Don Renzo in sella alla sua Lambretta, in partenza per Lourdes

110 capitolo 1v questa ardimentosa e nobile fatica segni il congiungimento felice dei punti più lontani della penisola”. Don Renzo aveva trovato posto nel cuore degli operai e quei sei anni nel Mugello furono carichi ed importanti. Più volte, anche a distanza di tanti anni, li richiamava alla memoria e istantanee di quel periodo si affacciavano nei suoi racconti. Una cosa lo riempì d’orgoglio. Quelli che si trovò a vivere lui, lì sul campo e in presa diretta, furo- no anni cruciali per le infrastrutture italiane. Gli operai di cui fu padre spirituale costruirono una strada ed in- sieme a quella un paragrafo della storia dell’Italia contemporanea: quello era il tratto più difficile della Milano-Firenze e l’autostrada del Sole era destinata a incidere su viabilità ed economia del Paese intero. Don Renzo si era trovato dentro il puzzle che andava componendosi in quei chilometri di Toscana, e tanti anni dopo – racconta più d’uno – è stato contento di ritrovare il suo nome tra le pagine di un libro. Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo lo hanno infatti citato nel loro “La Deriva” (Rizzoli, 2008) in un passaggio dedicato alla costru- zione della rete autostradale italiana, riprendendo a loro volta uno stralcio del libro “L’Autostrada del Sole” dello storico Enrico Men- duni (Il Mulino, 1999):

“(...) L’impegno era di consegnare la Milano-Firenze entro il 1960. E per rispettarlo fecero di tutto. Divisero il percorso in 27 lotti, assegnati a 27 diverse imprese che misero al lavoro 27 progetti- sti, col risultato che ponti e viadotti furono costruiti uno diverso dall’altro. Ma ce la fecero, quei dannati. Arrivando al punto, spie- ga Menduni, che per fare certi ponti ad arco, utilizzarono talvolta, «senza smontarla, l’impalcatura servita per costruire il ponte di una carreggiata anche per costruire la seconda, spostandola in una sola giornata di lavoro». Una giornata! Per fare più presto, prosegue lo storico, «si lavorava a turni, senza interruzione, ventiquattr’ore su ventiquattro. Gli operai, quasi tutti montanari dei paesi più poveri

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113 capitolo 1v dell’Appennino, vivevano nelle baracche costruite di fianco ai can- tieri, in condizioni estreme e arcaiche. Lì il cappellano del cantiere di Barberino di Mugello era don Renzo Forconi, priore della chiesa di Santa Lucia alla Futa, non lontana da Barbiana dov’era priore don Milani. Nel maggio del 1959 il cappellano portò 400 lavoratori in udienza dal papa, che era Giovanni XXIII. Lì il pontefice ebbe parole di apprezzamento per l’impresa: “Voglia Iddio che questa ardimentosa e nobile fatica segni il congiungimento felice dei punti più lontani della Penisola”». Fu l’unica pausa, probabilmente, di un periodo di lavoro infernale. Fatto sta che ci riuscirono: nel dicembre del 1960 il tratto più difficile dell’Autosole era pronto. Era costato «tanto denaro (71 miliardi, contro i 44 dell’intera Milano-Bologna), molti sacrifici, e anche molte vite: 15 morti e più di 3000 infortuni sul lavoro». Ma ci riuscirono. E il successo dell’impresa fu tale che perfino L« ’Unità» e «L’Avanti!» resero omaggio all’opera (...)”.

Dicono, insomma, che Don Renzo fosse piuttosto fiero di esser -fi nito in quelle righe. Vezzo vanitoso? No. Più facile pensare all’umile orgoglio di esserci stato, lì tra le barac- che, a dir la Santa Messa per quegli operai che lo avevano seguito persino dal Papa.

dietro. Don Renzo insieme a Papa Giovanni Paolo II e a Monsignor Silvano Piovanelli

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117 118 BREVE STORIA DELLA VITA DI DON RENZO

Don Renzo nasce a Montespertoli il 18 dicembre 1929. Finiti gli anni del seminario, nel giugno del 1955 viene ordinato sacerdote e lo stesso anno diventa cappellano della chiesa di San Martino a Gangalandi a Lastra a Signa. Nel 1957, su incarico di Monsignor Florit, diventa priore della chiesa di Santa Lucia all’Ostale, nel comune di Barberino di Mugello. Qui come cappellano del lavoro presta assistenza religiosa agli operai impegnati nei cantieri per la costruzione dell’autostrada del Sole: si fa conoscere per il suo carisma e per l’impegno al fianco di quei tenaci lavoratori, al punto che viene ricordato come “il prete dell’autostrada”. Mantiene questo incarico fino al1963 . Lo stesso anno Don Renzo viene nominato priore e parroco della chiesa di Santa Maria a Quarto e contestualmente inizia ad occuparsi dell’assisten- za religiosa dei ferrovieri fiorentini come cappellano compartimentale delle Ferrovie dello Stato. Porta avanti con passione questo duplice impegno fino all’ultimo giorno della sua vita terrena. Nel 1976 viene nominato presidente dell’Opera Diocesana di Assistenza, e da quel giorno si dedica instancabilmente all’assistenza di persone con disa- bilità (i suoi ragazzi) e alla cura delle strutture dell’Oda. Sovrintende ai due centri riabilitativi, Villa San Luigi e Diacceto, e alle tre strutture dell’Oda destinate al turismo sociale (il “Piaz” in Val di Fassa, il “Soggiorno Firenze” a La Thuile e la “Casa Giotto” a Marina di Pisa) delle quali segue personalmente la ristrutturazione. Don Renzo si è dedicato all’Oda come presidente e come affezionato padre spirituale degli assistiti dei due centri fino al 19 dicembre del 2008, data in cui è venuto a mancare. Il giorno del suo funerale, commosso e affollato di persone che gli erano af- fezionate, tra le panchine della chiesa del Sodo dove gli è stato dato l’ultimo saluto c’erano anche i suoi ragazzi, i disabili assistiti dall’Oda. Anche loro hanno pianto. a sinistra. Don Renzo bambino insieme ai suoi genitori

119 Finito di stampare nel mese di dicembre 2010 per conto di Fondazione Opera Diocesana Assistenza Firenze Onlus Via dell’Orto, 57 - Firenze Tel. 055 2286433 www.odafirenze.it