Santa Gemma Galgani
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Suor Gesualda Saldi SANTA GEMMA GALGANI CAPITOLO I UNA CONFESSIONE Io conobbi di vista Gemma Galgani; più volte mi trovai accanto a lei nelle lunghe attese al confessionale di monsignor Volpi, ma non m'ispirò simpatia. Non la conobbi mai personalmente, né le parlai, perché le nostre famiglie non erano in relazione. Sapevo che era una povera figlia accolta per carità dalla famiglia Giannini, che aveva ricevuto una grazia dalla beata Margherita Maria. Un' amica mi disse un giorno di lei: «E’un pollino freddo. Se si mette qui, sta qui; se si mette là, sta là», e ciò non accrebbe le mie simpatie. Un giorno, per caso, la vidi sorridere: l'incanto di quel sorriso mi colpì; l'ho sempre nella mente e nel cuore. Ecco tutto ciò che di lei mi rimase, tutto ciò che allora seppi di lei. Chi invece m'ispirava vivissima simpatia erano le due sorelle: Annetta ed Eufemia Giannini. Incontrandoci, pur senza conoscerci, ci facevamo dei saluti amichevoli. Per me, era una gioia quando vedevo spuntar da lontano quel gruppetto, e qualsiasi irritazione, o turbamento interno che provassi, si calmava come per incanto a quell'incontro. Lo attribuivo alla vista di quelle due dolci creature, non alla santa che era con loro. Capisco ora che quella pace era lei, invece, a infonderla in me. Dopo la morte di Gemma, mi parlarono di lei come di una santa, e la notizia mi commosse. Poi le opinioni più varie vennero a frastornarmi; ma il tracollo lo dette una persona che avrebbe voluto e dovuto farmela amare. Questa, per un cumulo di circostanze, m'ispirò tanta contrarietà che mi fece provare per Gemma una vera avversione; non credevo più a nulla di ciò che si diceva di lei, e l'avversione era tale da farmi pensare: «E come faccio, se poi la beatificano?». Tutto, di lei, mi disturbava, e comunicavo anche ad altri la mia incredulità e avversione. E ciò per venticinque anni circa. Da più parti mi si facevano pressioni perché ne scrivessi la vita, ma la mia risposta era invariabile: «Impossibile, come volare. Come si può scrivere di chi non si ama e a cui non si crede?». Abituata alle estasi sublimi della mia santa madre, Maria Maddalena de' Pazzi, quelle di Gemma mi parevano scialbe e scolorite. Ne sentivo lodare le lettere: aprivo il libro, lo richiudevo: quel modo di scrivere non mi andava. Aprivo la vita, e mi capitava qualcosa che mi dava disgusto. Insomma la mia contrarietà per Gemma non cedeva. Mesi or sono, stretta al muro, e, quasi o senza quasi, costretta a metter mano a questa biografia, mi rivolsi a Gemma e le dissi: «Se vuoi quest'ossequio da me, fatti amare». Come per incanto, la mia avversione cedette, cambiandosi in amore ardentissimo, e ciò prima ancora di leggerne la vita. Poi mi misi a leggerla, e fin dalle prime pagine la dolce ed eroica figura di Gemma ne balzò fuori bella, luminosa, santa. Rimasi stupita di una virtù così eroica, così costante, così sublime. Sentii pena di non avere la capacità per trattar Gemma quale contemplativa, con la dottrina dei mistici alla mano, e mi limitai a scrivere queste poche pagine, nelle quali avrei voluto mettere tutto il mio amore per riparare con esse le mie incredulità e contrarietà passate: sentite in me o comunicate agli altri. Questo mio istantaneo mutamento di cuore mi portò a non più sopportare e neppure a comprendere i contraddittori di Gemma e a desiderare ardentemente che Dio cambiasse il loro cuore come cambiò il mio, e concedesse presto la beatificazione di questa santa creatura. Questa la confessione, questa la relazione di una vera grazia, per comprendere la portata della quale bisognerebbe poter leggere nel mio cuore e averne provato i sentimenti. CAPITOLO II IL PRIMO RACCONTO A Lucca, oltre cent'anni fa, nella famiglia Galgani si ripeteva una di quelle scene tanto comuni nei tempi di fede. Una giovane madre, preso tra mano un crocifisso e sulle ginocchia la sua piccina, glielo additava dicendo: «Vedi, Gemma, questo caro Gesù è morto in croce per noi!». Poi, con la sua voce insinuante, con la soave eloquenza del cuore e della fede, con quel dono che ha la madre di adattarsi alla capacità dei suoi piccini, le narrava la storia della passione. Le diceva come «il caro Gesù», che amava tanto gli uomini, fosse stato battuto, schernito, vilipeso, ridotto tutto una piaga, poi crocifisso, e proprio dai suoi beneficati! Gemma ascoltava... I suoi occhi luminosi si empivano di lacrime, portandosi dal crocifisso al volto materno, da questo al crocifisso. Posando poi con amore indicibile le labbra innocenti su quelle piaghe, vi stampava i primi baci di riparazione, promettendo d'essere buona, di non far mai soffrire Gesù, di non negargli mai nulla. Quando la madre taceva: «Ancora, mamma, ancora; mi parli ancora di Gesù?», ripeteva la piccola Gemma, e queste parole «ancora, mamma, ancora», che rivelavano la sua sete di soprannaturale, le erano sempre sul labbro sia che la madre parlasse, o che, stringendosela al cuore, la facesse pregare. Questa frase che, da piccola, Gemma ripeteva alla mamma, la ripeterà poi in seguito a Gesù fino all'ultimo giorno, nella sua sete di amore e di dolore: «Che la mia vita, o Gesù, sia un continuo sacrificio, che tu accresca i miei dolori, che tu accresca le mie umiliazioni... Voglio soffrire con te. No, Gesù, non voglio morire, voglio vivere sempre, per patire tanto e per amarti tanto.. .». Gemma non era nata a Lucca, ma a Camigliano, grazioso paesello di quella provincia. Era nata il 12 marzo 1878, e la famiglia l'aveva accolta con una festa, con una gioia non provata per la nascita dei tre maschietti che l'avevano preceduta. Ventiquattr'ore dopo, riceveva il battesimo nella chiesa di Camigliano. Riguardo al nome da imporle, vi fu un po' di contrasto fra la mamma e il cognato, capitano-medico. Questi voleva chiamarla Gemma, ma la madre non voleva saperne. A risolvere la questione intervenne un ottimo sacerdote, il parroco di Gragnano: «Ma perché» disse alla signora Galgani, «non vuole mettere alla bambina il nome di Gemma, come desidera suo cognato?». L’angelica signora espresse allora un dubbio ingenuo, penoso però per lei, che solo aveva l'occhio alla felicità eterna dei suoi figlioli: «Ma... in Paradiso ci può andare lo stesso, la bambina, non essendovi alcuna santa col nome di Gemma?». «Le gemme sono in Paradiso» rispose il sacerdote; «speriamo che questa bambina sia una Gemma di Paradiso». I fatti dettero presto ragione allo zio. La piccina, fin dai quattro anni, si mostrò straordinariamente inclinata alla pietà. Affidata per qualche giorno alla nonna paterna, questa la teneva a dormire in un lettino accanto al suo. Ora, una volta che la buona signora voleva entrare in camera, rimase immobile sulla soglia e poi, piano piano, invitò il figlio a venire a vedere una gran bella cosa. Gemma, una graziosa creaturina rosea e fresca, era in ginocchio dinanzi a un'immagine del sacro cuore di Maria, con le manine giunte, gli occhi in alto e pareva uno di quei bei putti in adorazione che si ammirano negli affreschi e nei quadri dei nostri grandi artisti. Lo zio, come la nonna, ristette a contemplarla con amore; poi, rompendo il silenzio: «Che fai Gemma?», domandò. «Dico l'Ave Maria» rispose la piccola. «Vai, vai, che io prego». Rispettando il suo desiderio di solitudine, i due si ritirarono: «Che peccato» disse il buon capitano. «Se avessi avuto la macchina fotografica, le avrei fatto una foto». Quest'attrattiva per la preghiera, ispiratale da Gesù stesso e dalla mamma, andò sempre aumentando. Ed era commoventissimo vedere inginocchiate accanto, madre e figlia, fuse in una stessa preghiera; vedere strette insieme queste due vite, una che sta per spegnersi, l'altra che sorge quale alba radiosa. Sì, una vita che sta per spegnersi. La signora Aurelia Galgani, minata da una lenta tisi, dopo cinque anni, giungeva alla tomba. «Ho pregato tanto» dice accarezzando la sua Gemma «perché Gesù mi desse una bimba; mi ha consolato, è vero, ma troppo tardi! Sono malata, e presto ti dovrò lasciare: approfitta delle lezioni della mamma». Quanta tristezza in queste parole! Quanta sollecitudine per l'anima della sua bambina! E che martirio quel lento sorseggiare la morte prossima, con la terribile prospettiva di doversi separare da sette creature ancor tanto bisognose di lei! Tale visione che le stava sempre dinanzi rendeva quella madre cristiana eloquentissima nel parlare delle vanità di tutte le cose terrene, della deformità della colpa, dei pregi dell'anima, della grandezza di Dio, della bellezza del cielo. La piccola Teresa di Lisieux, nei suoi trasporti d'amore, augurava il Paradiso alla mamma, al babbo, a tutti. Qui è la mamma ad augurare, in un certo modo, il Paradiso alla sua bimba: «Gemma, se potessi condurti dove Gesù mi chiama, verresti con me?». «E dove?», domandava Gemma. «In Paradiso con Gesù e con gli Angeli». Pare di vederla, la cara bambina, battere le mani, abbandonarsi a vivi trasporti di gioia. Da quel giorno, il cielo fu il suo continuo sospiro. «Fu, dunque, la mamma mia che da piccina mi fece desiderare il Paradiso» dirà poi Gemma, sedici anni dopo, quando le fu proibito di chiedere a Dio di morire. «E ora, se desidero an- cora il Paradiso e voglio andarvi, ho delle belle gridate, e mi sento rispondere un no. Alla mamma mia risposi di sì; e per avermi ripetuta questa cosa del Paradiso, non volevo mai distaccarmi da lei, e non uscivo più dalla sua camera». Anche questo particolare quanto è caro! Gemma non voleva più distaccarsi dalla mamma, non più uscire dalla camera di lei, per non perdere il momento della partenza, per timore che la sua mamma volasse sola in cielo.