N. 573/97 R.G. Notizie di Reato Sent. N. 2253/06 N. 1001/02 R.G. Tribunale Del 05/07/02

Irrevocabile il ______

Al P.M. per esecuz. il ______

Campione Penale n° ______

Redatta scheda il ______

TRIBUNALE DI

SENTENZA ( artt.544 e segg., 549 c.p.p. )

REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Tribunale di Palermo – Sez. 3° penale – composta da:

Dott. Donatella PULEO - Presidente Dott. Vittorio - Giudice Estensore Dott. Lorenzo CHIARAMONTE - Giudice

Alla pubblica udienza del 05/07/06 ha pronunziato e pubblicato mediante lettura del dispositivo la seguente

S E N T E N Z A

Nei confronti di:

PALAZZOLO Vito Roberto, nato a Palermo il 31/07/47 conosciuto anche come Von Palace Kolbatschenko Robert, res. in Sud Africa – latitante –

Libero contumace Difeso di fid. dall’avv. Roberto Tricoli

I M P U T A T O

Per il reato di partecipazione in associazione di tipo mafioso (articolo 416 bis cp.) per avere, in concorso con numerosi altri associati, tra i quali RIINA Salvatore, BONOMO Giovanni e GELARDI Giuseppe, fatto parte dell’associazione mafiosa denominata Cosa Nostra o per risultare, comunque, stabilmente inserito nella predetta associazione in numero superiore a cinque persone, avvalendosi della forza di intimidazione nascente dal vincolo associativo, e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva, per commettere reati contro la vita e l’incolumità individuale, contro la libertà personale, contro il patrimonio, finalizzati al traffico di sostanze stupefacenti e di T.L.E., nonché di armi e valuta e, comunque, al fine di realizzare profitti e vantaggi ingiusti; e per avere, inoltre, favorito la latitanza, anche in territorio straniero, di associati mafiosi quali BONOMO Giovanni e Gelardi Giuseppe. Con le aggravanti di cui ai commi 4 e 6, per avere fatto parte di una associazione armata e per avere finanziato attività economiche con il profitto proveniente da delitto. Commesso in Palermo ed in altre località del territorio italiano ed estero, sino ad oggi.

Con l'intervento del P.M. dott. Gaetano Calogero Paci e con l'assistenza della dott. Rosalia Greco, cancelliere.

Conclusioni del Pubblico Ministero Il PM chiede affermarsi la penale responsabile di Palazzolo Vito Roberto e la condanna dello stesso ad anni 12 (dodici) di reclusione ed alle pene accessorie previste dalla legge. Conclusioni della difesa L’avv. Tricoli, in difesa dell’imputato Palazzolo Vito Roberto chiede l’assoluzione perché il fatto non sussiste. IN FATTO ED IN DIRITTO

Con il decreto in atti il G.U.P. disponeva il rinvio a giudizio avanti a questo Tribunale in composizione collegiale del latitante , chiamato a rispondere del reato di partecipazione ad associazione per delinquere di tipo mafioso. All’udienza del 15.10.2002 venivano sollevate alcune questioni preliminari in relazione alle quali il P.M. chiedeva un termine per interloquire. Alla successiva udienza del 13.11.2002, il Tribunale emetteva l’ordinanza in atti in merito alle suddette questioni preliminari e le parti richiedevano i rispettivi mezzi di prova. In particolare, il P.M., dopo aver proceduto alla precisazione del tempus commissi delicti, chiedeva l’esame di 65 testimoni, 11 collaboratori di giustizia e 3 consulenti, l’esame dell’imputato, la trascrizione, mediante perizia, delle intercettazioni telefoniche e l’acquisizione di verbali di prova di altri procedimenti mentre la difesa chiedeva l’esame dei propri testi e del proprio assistito. All’udienza del 4.12.2002 il Tribunale ammetteva le prove delle parti e, nel corso delle udienze successive, risolveva una questione connessa all’ammissibilit à di alcune intercettazioni telefoniche aventi ad oggetto anche utenze ubicate all’estero (v. ordinanza in atti). Indi, si avviava l’istruzione dibattimentale con l’audizione dei testi e dei collaboratori richiesti dal P.M. ed il Tribunale disponeva perizia avente ad oggetto la trascrizione delle intercettazioni ammesse, previa esibizione dei relativi decreti autorizzativi. Poiché le parti concordemente e formalmente richiedevano l’audizione, mediante commissione rogatoria internazionale, dei numerosi testimoni residenti all’estero inseriti nelle loro rispettive liste, il Collegio avviava, attraverso i competenti Ministeri ed i canali diplomatici, le procedure finalizzate all’espletamento della rogatoria con lo Stato sudafricano. Durante l’istruzione dibattimentale veniva ufficialmente preannunciato l’esito positivo della richiesta di rogatoria da parte della Repubblica del Sudafrica, i cui organismi competenti, tuttavia, richiedevano un incontro ufficiale di alcuni suoi rappresentanti con il Tribunale richiedente. L’incontro avveniva il giorno 15.10.2003 a Palermo, alla presenza delle parti e dei rispettivi interpreti, come si evince dal verbale in forma riassuntiva appositamente redatto dal Cancelliere. A seguito di detto incontro le Autorità sudafricane comunicavano, formalmente ed attraverso gli Organismi competenti, di avere accolto la rogatoria avente ad oggetto l’audizione dei testi richiesti dalle parti, fatta eccezione di tre testimoni indicati dalla pubblica accusa. Nel corso del 2004, pertanto, aveva luogo la commissione rogatoria in Sudafrica in due riprese, per le ragioni meglio esplicitate in atti. Successivamente, il P.M. chiedeva, ai sensi dell’art. 507 c.p.p., la trascrizione di ulteriori intercettazioni, l’esame di altri testimoni e del collaboratore di giustizia Antonino Giuffrè, la cui collaborazione era stata avviata dopo l’inizio del presente dibattimento. Esaurita la lunga, complessa e tormentata istruzione dibattimentale, le parti concludevano nei termini di cui ai verbali in atti. ****** Prima di procedere alla ricognizione critica delle emergenze processuali a carico dell’imputato, a giudizio del Collegio, occorre svolgere una breve premessa in diritto al fine di circoscrivere l’ambito del giudizio e di precisare il metodo di valutazione delle prove che il Tribunale ha stabilito di seguire nell’affrontare la presente vicenda processuale. Vito Roberto Palazzolo, infatti, è chiamato oggi a rispondere del reato di partecipazione all’associazione mafiosa denominata “cosa nostra” a far data dal 29 marzo 1992, come precisato dal P.M. nel corso dell’udienza dibattimentale del 13.11.2002. Il motivo dell’individuazione di tale tempus commissi delicti è ovviamente connesso alla incontestata circostanza per la quale il Palazzolo è già stato assolto da tale imputazione con sentenza resa dal Tribunale di Roma il 28.3.92 e divenuta irrevocabile (in atti). Si tratta, per la verità, non di una sentenza di assoluzione ma verosimilmente di una sentenza di proscioglimento, ai sensi dell’art. 129 c.p.p, che risulta così testualmente motivata: “considerato che ricorre l’ipotesi di cui all’art. 129 c.p.p. ritenuto che dagli atti non emerge elemento di prova alcuna in ordine al reato di cui all’art. 416 bis c.p. ”. E’ bene premettere che la disamina di tale sentenza non consente una verifica critica né del materiale probatorio oggetto di valutazione né dei criteri ermeneutici seguiti da quel Tribunale per addivenire ad una pronuncia di proscioglimento, posto che si tratta di un provvedimento del tutto privo di motivazione e basato su una sola frase stilata a mano su un pre­ stampato fornito dal Ministero della Giustizia come formulario di sentenza di applicazione di pena ex art. 444 c.p.p.. Come appare evidente dall’esame diretto del documento, l’intero compendio motivazionale è, invero, limitato alla surrichiamata, laconica e lapidaria formula di stile inserita in un solo rigo. Detta “motivazione” (“dagli atti non emerge elemento di prova alcuna in ordine al reato di cui all’art. 416 bis c.p. ”), peraltro, appare chiaramente contraddittoria, posto che, con la medesima sentenza, al Palazzolo veniva applicata la pena di anni due di reclusione e lire 40 milioni di multa in ordine al delitto di cui all’art. 75 L. 685/75, commesso insieme a numerosi appartenenti all’associazione mafiosa denominata cosa nostra. L’assoluta inesistenza di prove della partecipazione dell’imputato all’associazione per delinquere di tipo mafioso, pertanto, appare smentita quantomeno dall’esistenza di un preciso indizio contenuto nella stessa sentenza in esame. Pur tuttavia, di fronte a tale lacunoso supporto motivazionale, nessun elemento utile può ricavarsi allo scopo di comprendere se si sia trattato di un patteggiamento per un reato (art. 75 L. 685/75) con proscioglimento anticipato ex art. 129 co.1 c.p.p. per il delitto concorrente (art. 416 bis c.p.) – come sembrerebbe dimostrare l’uso del formulario, la citazione dell’art. 129 c.p.p. ed il mancato richiamo a qualsiasi attività dibattimentale – ovvero una vera e propria sentenza di assoluzione ex art. 530 c.p.p., come potrebbe desumersi dalla parte dispositiva della pronuncia (“assolve”). Nonostante l’evidente singolarità di tale sentenza – rappresentata, lo si ripete, da una assoluta carenza di motivazione in ordine alle ragioni del proscioglimento in relazione peraltro ad una così grave imputazione – il Collegio, ovviamente, non può che prendere atto del pronunciamento definitivo e rispettarne il significato e la portata anche e soprattutto per ciò che concerne le sue refluenze sull’odierno giudizio. Ed invero, l’esistenza nei confronti del Palazzolo di un precedente giudicato assolutorio (o di proscioglimento) in relazione alla medesima imputazione rispetto a quella oggi all’esame del Collegio impone di adottare una serie di principi che la giurisprudenza di legittimità ha, con atteggiamento costante e consolidato, fissato in tema di preclusione del giudicato e di divieto del c.d. ne bis in idem. Oltre alle sentenze di legittimità che saranno di seguito richiamate, poi, nel caso in esame deve sicuramente tenersi conto anche della sentenza resa in materia de libertate dalla prima sezione penale della S.C. di Cassazione in data 9 gennaio 2004 (in atti), proprio nell’ambito del presente procedimento. Si tratta di una pronuncia che, sebbene resa in relazione ad un ricorso avverso ad una ordinanza del Tribunale della libertà, fissa alcuni principi di diritto e definisce il corretto ambito di valutazione proprio della presente vicenda processuale, con ciò finendo per acquisire il valore di sicuro ed autorevole punto di riferimento per lo scrivente Collegio. Tanto premesso e prendendo le mosse dai principi fissati dalla Cassazione, sia in termini generali che con precipuo riferimento alla odierna vicenda processuale, può affermarsi che “il principio del ne bis in idem comporta il divieto di un secondo giudizio per il medesimo fatto nei confronti dello stesso imputato. Poiché l’identità del fatto va ravvisata alla stregua della condotta, dell’evento e del nesso di causalità, va esclusa la violazione del suddetto principio in presenza della reiterazione di condotte in tempi diversi, cos ì come nell’ipotesi di concorso materiale od anche in quella di concorso formale di reati. In tema di delitto di cui all’art. 416 bis c.p., pertanto, va esclusa la duplicazione processuale allorquando l’oggetto della contestazione sia una condotta successiva a quella già giudicata con sentenza irrevocabile” (Cass. sez. I 21.10.92 n.11633 ed altre conformi). Tale tematica è stata, poi, variamente approfondita dalla giurisprudenza di legittimità, la quale ha anche introdotto alcune distinzioni sulla scorta del tipo di sentenza (di condanna ovvero di assoluzione) precedentemente passata in autorità di cosa giudicata. A tale proposito: “nei delitti associativi l’effetto interruttivo della permanenza del reato deve ricollegarsi alla sentenza, anche non irrevocabile, che accerti la responsabilità dell’imputato, da ciò conseguendo che la porzione di condotta illecita successiva a detta pronuncia, pur non ontologicamente disgiungibile dalla precedente, rimane perseguibile a titolo di reato autonomo. Qualora, viceversa, sia stata pronunciata assoluzione, non può ritenersi operante in virtù di tale sentenza alcun effetto interruttivo della permanenza della condotta criminosa, proprio perché è carente l’accertamento di un reato, da ciò conseguendo esclusivamente la preclusione del giudicato di cui all’art. 649 c.p.p.; in tali ipotesi, pertanto, il divieto di un secondo giudizio vale solo per i fatti verificatisi fino alla data indicata nella contestazione, indipendentemente dalla data di pronuncia della sentenza assolutoria” (Cass. sez. II 14.3.97 n.1949). Ed in modo solo parzialmente diverso: “ai fini della verifica, nell’ipotesi di reato permanente, dei presupposti di operatività del divieto di un secondo giudizio (art. 649 c.p.p.), qualora la contestazione del fatto oggetto del giudicato rechi soltanto l’indicazione della data di inizio della consumazione, il termine finale della condotta criminosa deve essere individuato con riferimento alla data di pronuncia della sentenza di primo grado prescindendo dalla circostanza che l’esito del giudizio sia stato di condanna o di assoluzione, atteso che detta decisione contiene pur sempre un accertamento fattuale il quale,per la natura del reato che ne costituisce l’oggetto, non può aver riguardo al solo momento iniziale della condotta ma deve necessariamente tenere conto della sua durata nel tempo” (Cass. sez. VI 4/10/­29/11/2000 n.12302). Sulla scorta dei sopra ricevuti principi, pertanto, deve concludersi per la perseguibilità a titolo di reato autonomo della porzione di condotta successiva alla data della sentenza di primo grado (poi divenuta definitiva), a prescindere dal fatto che si tratti di una pronuncia di condanna, con accertamento del fatto, ovvero di assoluzione del medesimo imputato. Detta perseguibilità per il nostro ordinamento non comporta alcuna violazione del principio generale del divieto del c.d. ne bis in idem in considerazione della natura permanente del reato e del fatto che le condotte prese in esame ricadono in epoca successiva al giudicato. Il Collegio ritene di dover aderire con convinzione a siffatti principi di diritto, senza evidenziare – in un’ottica pienamente garantista ­ alcuna distinzione nei suddetti criteri di valutazione in ragione della natura assolutoria della sentenza del 28.3.92. Del resto, appare corretto evidenziare come lo stesso P.M., nel corso dell’udienza del 13.11.2002, abbia deciso di delimitare l’ambito temporale della contestazione mediante l’aggiunta del termine iniziale della condotta “a far data dal 28.3.1992”. Come si è già avuto modo di dire, inoltre, sul punto in questione la Cassazione, sia pure in sede cautelare, è già intervenuta proprio nell’ambito della presenta vicenda processuale. Nella sentenza del 9.1.2004 il S.C. si è pronunciato con estrema chiarezza, tanto che appare opportuno richiamare testualmente quanto stabilito dai supremi Giudici: “occorre partire, come correttamente rilevato dalla difesa, dal dato, incontestato ed incontestabile, che il Palazzolo è stato assolto dalla accusa di partecipazione ad associazione mafiosa, contestatagli come commessa sino alla data del 28.3.1992, momento nel quale è stata emessa la sentenza assolutoria del Tribunale di Roma. Da ciò deve necessariamente dedursi che la configurabilità di una eventuale condotta di persistente partecipazione ad associazione mafiosa non può che essere legata a fatti o comportamenti successivi alla data suddetta, non potendosi fare in alcun modo riferimento ad elementi e circostanze preesistenti alla data suddetta, in quanto definitivamente coperti dal giudicato liberatorio, che ha escluso che gli stessi potessero dare luogo alla sussistenza, nel periodo preso in considerazione dalla medesima sentenza, del “fatto” della partecipazione dell’imputato all’associazione malavitosa” (pagg. 5 e 6). La Suprema Corte, dunque, prende le mosse dal dato della pronuncia di assoluzione (o di proscioglimento) per stabilire che l’eventuale condotta di persistente partecipazione a cosa nostra deve essere legata a fatti e/o comportamenti successivi al 28.3.92. Tuttavia, la Corte non limita il suo esame della odierna fattispecie alla fissazione di tale principio ma si premura di chiarire immediatamente dopo che: “ vero è che , come osservato dal tribunale del riesame, ai fini della ravvisabilità del necessario quadro indiziario, è possibile fare riferimento ad elementi pregressi che siano indicativi della partecipazione dell’imputato all’associazione mafiosa in epoca successiva ”. La stessa Cassazione, pertanto, ammette la possibilit à che anche gli “elementi pregressi” possano avere una qualche valenza e significatività, giungendo subito dopo a spiegare in che termini: ma, a parte la considerazione che gli elementi di accusa dovrebbero comunque avere riguardo a fatti sopravvenuti, tale impostazione sarebbe ineccepibile se la sentenza, a partire dalla quale potrebbe configurarsi la persistenza della permanenza del reato, fosse stata una sentenza di condanna. Trattandosi invece di una sentenza di assoluzione, per di più per insussistenza del fatto, qualsiasi aspetto o elemento risalente ad epoca precedente, che sia stato già oggetto di valutazione in sede di cognizione , non può essere posto nuovamente a base di una contestazione riguardante una asserita condotta di partecipazione successiva al giudicato assolutorio , che abbia escluso tale partecipazione per un periodo precedente, avendo ormai perso qualsiasi specifico connotato probatorio di responsabilità, e potendosi, tutt’al più, riconoscere a tali elementi solo valore di semplice e generico quadro di riferimento di comportamenti, accadimenti e situazioni che si siano comunque verificati in epoca successiva e che abbiano, beninteso, di per se stessi, natura e valenza di gravi indizi di colpevolezza nei sensi e per gli effetti previsti dai commi 1 e 1 bis dell’art. 273 cp.p.”. La Corte, dunque, conclude il suo ragionamento chiarendo il significato dimostrativo che pu ò riconoscersi agli elementi “pregressi” che “siano stati già oggetto di valutazione in sede di cognizione ”, limitandolo al valore di “quadro di riferimento” di comportamenti ed accadimenti comunque successivi al giudicato assolutorio. Il Tribunale ritiene di dovere aderire pienamente a tali principi, mettendo, tuttavia, in rilievo almeno due aspetti di estrema importanza. Il S.C., in primo luogo, ha fatto espresso richiamo ad elementi pregressi ”già oggetto di valutazione in sede di cognizione” sembrando escludere, conseguentemente, dal novero di tali elementi tutte quelle fonti di prova che, con certezza, non siano state prese in esame dal Tribunale di Roma e poste a fondamento del primo giudizio. Orbene, a tale proposito deve rilevarsi come il Tribunale di Roma, pur non avendo neppure sommariamente indicato i fatti e le fonti di prova prese in esame nella più volte citata sentenza del 28.3.92, con assoluta certezza, ad esempio, non può in alcun modo avere valutato le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia che hanno deposto numerosi in questo processo. E ciò non per pura congettura ma per il dato documentale e logico connesso al fatto che tutti costoro hanno avviato le loro collaborazioni con le Istituzioni sicuramente molto tempo dopo il 28.3.92. Dal che, in stretta applicazione dei principi fissati dalla Corte, dovrebbe farsi discendere che tali nuove fonti di prova, che riferiscono “fatti” relativi ad un contesto temporale pregresso rispetto al giudicato ma sicuramente non caduti sotto la percezione del Tribunale di Roma, possano essere oggi valutati – per la prima volta – sia pure sempre con riferimento ad accadimenti e condotte successive al 1992. Ma, a tutto voler concedere, tali fatti basati su fonti di prova nuove e mai prima esaminate, sulla base dell’insegnamento del S.C., possono certamente rappresentare un “quadro di riferimento” dei comportamenti e delle condotte successive. Orbene, anche a tale proposito il Tribunale intende chiarire il proprio convincimento, ancora una volta improntato alla massima considerazione delle garanzie dell’imputato. Nel presente dibattimento sono stati acquisiti plurimi e rilevanti elementi di giudizio basati su fonti di prova certamente nuove rispetto al primo giudicato, quali ad esempio le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia. Tali elementi, aderendo rigorosamente ai principi fissati dalla Cassazione nella sentenza del 9.1.04, potrebbero essere valutati, pur se relativi ad un torno di tempo precedente rispetto al giudicato, in quanto non sono stati “già oggetto di valutazione in sede di cognizione”. Tuttavia, il Collegio, nell’ottica più garantista, ritiene di dover utilizzare tali elementi non come fonti dirette di prova a carico dell’imputato ma, seguendo l’invito della S.C., come quadro di riferimento nel cui contesto inserire e valutare i fatti successivi al giudicato del 92. Non vi è dubbio alcuno, infatti, che la stessa Corte di Cassazione abbia riconosciuto a tali elementi un valore probatorio, atteso che gli stessi vengono ritenuti idonei quantomeno a delineare un quadro di riferimento del quale deve tenersi conto nella valutazione delle complessive (e successive) risultanze. Così come ha fatto la Corte nella citata sentenza (v. pag. 7), un esempio concreto può risultare ulteriormente chiarificatore dell’approccio al materiale probatorio utilizzato dal Collegio. Sulla scorta delle plurime e convergenti dichiarazioni di numerosi collaboratori di giustizia – intervenute successivamente al giudicato assolutorio e pertanto certamente non già esaminate dal Tribunale di Roma ma sottoposte, per la prima volta, oggi al giudizio di un Collegio di primo grado – il Palazzolo viene indicato come uomo d’onore formalmente affiliato a cosa nostra. Tale “fatto” sicuramente risale ad un’epoca antecedente rispetto al marzo del 1992 e, fermi restando i criteri di valutazione delle dichiarazioni rese dai collaboratori di giustizia, la c.d. convergenza del molteplice, l’analisi dei riscontri individualizzanti e degli ulteriori elementi di giudizio, sarebbe potenzialmente idoneo, in assenza di un precedente giudicato, a costituire un dato probatorio sufficiente per pervenire ad una sentenza di condanna per partecipazione ad associazione di tipo mafioso. Nel caso in esame, invece, proprio in adesione ai principi di diritto in precedenza esaminati, esso va valutato come un significativo e rilevante elemento di quel quadro di riferimento all’interno del quale vanno giudicate le condotte del Palazzolo successive al marzo del 1992. Non si tratta, dunque, di un elemento di prova diretto ad accertare tout court la penale responsabilità dell’imputato ma neppure di un dato insignificante ed accessorio del quale non si deve fare alcun uso processuale. Del resto sarebbe inammissibile e contrario al principio del libero convincimento del Giudice che una prova nuova, mai esaminata in alcun precedente processo e legittimamente acquisita non avesse alcuna refluenza ai fini della formulazione del nuovo giudizio. Tale elemento, viceversa, contribuisce, alla stessa stregua di altri che saranno presi in esame nel prosieguo, a ricostruire e definire, per stessa ammissione della S.C., un contesto di riferimento nel cui alveo vanno inserite e valutate criticamente le acquisizioni relative al periodo successivo al marzo del 1992. Non c’è dubbio, invero, che i fatti ed i comportamenti successivi a tale momento temporale, se valutati ex se e senza alcun quadro di riferimento preesistente, possano portare a conclusioni diverse rispetto al caso in esame, nel quale è rimasto accertato un contesto relazionale ed operativo fortemente connotato ed altamente significativo. Se, dunque, il dato della formale affiliazione a cosa nostra, per restare all’esempio citato, non può indurre sic et simpliciter alla conclusione della dimostrata partecipazione del Palazzolo alla suddetta associazione mafiosa (in quanto “fatto” verificatosi in epoca pregressa al giudicato), l’esistenza di risalenti, plurimi e rilevanti rapporti con qualificatissimi uomini d’onore costituisce un elemento che il Giudice, nel legittimo esercizio del suo potere discrezionale, deve valutare al fine di delineare il contesto di riferimento ed il ruolo dell’imputato. Orbene, al di là dello specifico esempio, il Collegio ritiene di aver recepito, con questa impostazione metodologica ed ermeneutica, i più rigidi e garantisti parametri indicati dalla giurisprudenza di legittimità sia in relazione ad altri casi che proprio con riferimento al presente giudizio (sia pure in sede cautelare). La ricognizione critica del materiale probatorio, pertanto, va incentrata principalmente sulle emergenze successive al marzo del 1992, le quali, tuttavia, non possono essere correttamente valutate senza tenere conto, in un’ottica contestualizzante e sincronica, del quadro di riferimento rappresentato anche dai dati pregressi. E ciò a maggior ragione nel caso di emergenze – come le plurime dichiarazioni dei collaboratori di giustizia – mai prese in esame in precedenza da alcuna autorità giudiziaria. Altrettanto certamente deve tenersi conto al fine di ricostruire tale quadro di riferimento delle risultanze della stessa sentenza resa dal Tribunale di Roma il 28.3.1992. Anche la Cassazione, infatti, nella sentenza del 9.1.2004, pur correttamente richiamando tale pronuncia assolutoria in relazione al reato di cui all’art. 416 bis c.p., ha omesso di evidenziare come il Tribunale di Roma, con la medesima decisione, abbia comunque applicato una pena al Palazzolo in relazione al delitto di cui all’art. 75 della legge 687/75, tipico reato fine dell’associazione mafiosa. E non vi è dubbio che anche di tale dato, così come di quello assolutorio, si debba tenere conto nell’affrontare la posizione dell’odierno imputato, posto che si tratta di una sentenza anch’essa divenuta definitiva e che pu ò contribuire a delineare ulteriormente il quadro di riferimento di cui si è detto. La contestazione mossa al Palazzolo in quel giudizio, infatti, riguardava un eclatante episodio di traffico internazionale di stupefacenti commesso in concorso con numerosi esponenti di spicco di cosa nostra siciliana, tra i quali Cuntrera Pasquale, Caruana Pasquale, Caruana Alfonso, Di Carlo Francesco, Madonia Antonino, Rotolo Antonino, Greco Leonardo, Catalano Salvatore, i fratelli Bono, Geraci Nenè e lo stesso Riina Salvatore. Si tratta del famoso processo denominato “Pizza Connection” che, a tutt’oggi, costituisce probabilmente il più grosso processo celebrato in Italia in materia di traffico internazionale di enormi quantitativi di sostanze stupefacenti. Com’è noto e come è stato confermato dal teste Generale Pitino, il traffico era gestito direttamente da esponenti di rilievo di cosa nostra che avevano acquistato in varie riprese enormi quantitativi di morfina base dalla Turchia e li avevano raffinati in laboratori siciliani trasformandola in eroina. L’eroina, poi, era stata trasportata negli U.S.A. e distribuita attraverso un fitto reticolo di pizzerie e ristoranti gestiti prevalentemente da oriundi siciliani. Gli imponenti ricavi di tale traffico (pari a diverse decine di milioni di dollari U.S.A. dell’epoca) erano, a loro volta, stati riciclati attraverso la Svizzera e mediante il prezioso contributo per l’appunto di Vito Roberto Palazzolo. Questi, infatti, non solo risiedeva tra la Svizzera e la Germania ma si occupava di finanza e, grazie alle sue conoscenze e competenze, aveva consentito di riciclare tali somme di provenienza illecita attraverso una serie di operazioni bancarie ed investimenti di copertura. Il ricavato, pertanto, era ritornato in Sicilia ed era finito nelle mani dei principali esponenti di cosa nostra (primi tra tutti Riina e Provenzano), i quali, in tal modo, avevano potuto finanziare le attività illecite tipiche di tale organizzazione. Il coinvolgimento del Palazzolo nel processo Pizza Connection ­ o meglio in uno stralcio dello stesso confluito presso il Tribunale di Roma per complesse vicende riguardanti la competenza territoriale – costituisce senz’altro un elemento di sicuro rilievo nel delineare il quadro di riferimento di cui si è detto. Senza voler superfetare tale dato, è sufficiente evidenziare come dal processo e dalla sentenza definitiva pronunciata a carico del Palazzolo si possa ricavare quantomeno l’esistenza di profondi e strutturali rapporti delinquenziali tra l’odierno imputato ed i vertici di cosa nostra a partire dagli anni 80’. Rapporti, peraltro, particolarmente qualificati sia per il ruolo di vertice ricoperto dai sodali diretti del Palazzolo all’interno di cosa nostra che per le specifiche mansioni svolte dall’odierno imputato ed attinenti alla delicata opera di riciclaggio internazionale degli enormi proventi del traffico di droga. Rapporti che, come si vedrà di qui a breve, appaiono pacificamente confermati dalle plurime e convergenti dichiarazioni dei collaboratori di giustizia escussi per la prima volta nel presente dibattimento. Non vi è dubbio, invero, che le specifiche competenze in materia di finanza internazionale di cui certamente è fornito il Palazzolo – e di cui, come si vedrà, vi sono plurime e concordanti prove nell’ambito di questo processo – abbiano reso quest’ultimo estremamente prezioso per i vertici di cosa nostra sin dagli anni 80’. Pochi soggetti, infatti, tra gli esponenti di cosa nostra erano all’epoca e sono tuttora capaci di operare nel settore della finanza internazionale e di riciclare il denaro sporco mediante rapporti con banche e societ à operanti a livello transnazionale. Il Palazzolo, viceversa, sia per la sua esperienza di vita all’estero che per le specifiche competenze maturate operando da decenni nella finanza e nel mondo degli affari, rappresentava e, come vedremo, rappresenta un punto di riferimento sicuro e quasi insostituibile per l’intera cosa nostra. La complessa vicenda connessa al traffico di droga denominato Pizza Connection, inoltre, ha determinato una ulteriore condanna subita dal Palazzolo in Svizzera per fatti connessi. Anzi, per la precisione, l’esistenza di detta sentenza di condanna emessa dall’A.G. svizzera ha avuto ulteriori refluenze anche in Italia. Ed invero, il Palazzolo per i fatti specifici di commercio di sostanze stupefacenti, connessi al reato associativo di cui all’art. 75 L. 685/75, aveva riportato in primo grado una condanna alla pena di 12 anni di reclusione (v. sentenza resa dal Tribunale di Palermo IV sezione penale in data 12.10.2000) che poi era stata revocata in appello per l’applicazione del principio del c.d. ne bis in idem internazionale, proprio in considerazione dell’esistenza del giudicato elvetico. Tali pregressi dati, ricavabili incontestabilmente sulla scorta delle sentenze in atti e relativi ai processi subiti in passato dal Palazzolo, costituiscono certamente un rilevante tassello nella ricostruzione di quel quadro di riferimento cui si è fatto più volte cenno in precedenza. Essi, in particolare, contribuiscono a delineare in capo all’imputato un ruolo, una personalità e, soprattutto, una rete relazionale di eccezionale significativit à. Ma non vi è dubbio che l’elemento ancora più indicativo ed utile al fine di definire maggiormente nel dettaglio tale quadro di riferimento sia costituito dalle dichiarazioni rese, in epoca successiva al giudicato assolutorio del 1992, dai numerosi collaboratori di giustizia escussi nel corso del presente dibattimento. Si tratta di vari collaboratori che, in tempi diversi e con modalità del tutto autonome, hanno avviato un processo di collaborazione con le Istituzioni, consentendo di ricostruire in numerosi dibattimenti le dinamiche interne al sodalizio mafioso denominato cosa nostra, di trarre in arresto svariati membri di tale associazione e di contribuire in modo significativo all’emissione di sentenze divenute oramai in buona parte definitive. E proprio attraverso tali numerose sentenze definitive è stato ribadito un giudizio di piena attendibilit à di detti collaboratori di giustizia, le cui dichiarazioni sono state ritenute idonee a supportare svariate condanne per fatti molto gravi connessi all’operato di cosa nostra. Parecchi di tali collaboranti sono, peraltro, originari della stessa zona di provenienza del Palazzolo (, Terrasini e ) ovvero hanno operato a livello internazionale (Di Carlo e Ciulla) o in stretto ed organico contatto con il vertice assoluto di cosa nostra (Brusca, Ganci, Cancemi). A costoro si è poi aggiunto da ultimo anche Antonino Giuffrè la cui collaborazione, estremamente preziosa e qualificata, è avvenuta in tempi molto recenti ed ha avuto ad oggetto fatti sicuramente successivi al 1992. Per tale ragione la disamina critica delle sue dichiarazioni sarà affrontata solo nel prosieguo e separatamente, a dimostrazione del diverso valore probatorio che la collaborazione del Giuffrè assume nell’ambito del presente procedimento. Iniziando ad esaminare le dichiarazioni dei vari collaboratori escussi nel corso dell’istruzione dibattimentale, si può prendere le mosse da , uomo d’onore storico di cosa nostra, il quale ha fatto parte di tale associazione dagli anni 60’ al 1982, quando, a seguito di dissidi interni, è stato costretto a trasferirsi a Londra, dove ha continuato a dedicarsi ad affari illeciti internazionali rimanendo, tuttavia, in continuo contatto con gli esponenti di cosa nostra siciliana. Nel 1978 il Di Carlo era stato incaricato direttamente da di fornire assistenza logistica ed ausilio in Svizzera ad un uomo d’onore, Antonino Marchese, che doveva subire un intervento chirurgico in quel paese. Il Marchese aveva da poco commesso un importante omicidio ed anche per tale ragione il Riina si era interessato personalmente di fargli avere all’estero l’assistenza e le cure necessarie. Poichè ovviamente era necessario disporre di una certa somma di denaro per pagare i medici e la struttura privata svizzera, il Riina stesso aveva incaricato il Di Carlo di rivolgersi al Palazzolo, il quale, in effetti, gli aveva fornito il denaro necessario per ogni esigenza del Marchese (che peraltro era pure parente del Riina). Il Di Carlo, infatti, si era recato a Berna ed aveva incontrato il Palazzolo che operava in quella città come operatore finanziario (gestiva un ufficio insieme ad una socia locale) e che si era dimostrato già a conoscenza del motivo dell’incontro. Pertanto, il Palazzolo gli aveva consegnato la somma corrispondente a 50 milioni di lire dell’epoca in contanti che egli aveva in buona parte utilizzato per affrontare le spese relative al ricovero ed all’intervento chirurgico del Marchese. Nel corso di quella stessa estate (1978), poi, il Di Carlo aveva riincontrato il Palazzolo, questa volta presso il locale “Il Castello” di che egli in quel periodo gestiva. Nel corso di tale secondo incontro il Palazzolo era stato molto espansivo e gli aveva descritto gli stretti rapporti che lo legavano a “zio Totuccio” Riina e ad altri uomini d’onore. Era, poi, seguito un terzo incontro tra i due nuovamente in territorio svizzero, dove il Di Carlo era stato inviato sempre dal Riina per depositare su un suo conto corrente la parte residuante della somma di denaro (corrispondente a circa 20 milioni di lire) ricevuta dal Palazzolo. In tale occasione il Di Carlo aveva restituito i soldi al Palazzolo, il quale li aveva depositati su un conto corrente acceso presso una banca svizzera e nella disponibilità dello stesso Riina. Il Palazzolo, indicato come fiduciario del Riina, era a conoscenza del numero del conto corrente di quest’ultimo in Svizzera e si era adoperato per depositare la somma riportatagli dal Di Carlo. In occasione di tali incontri, il Riina stesso aveva confidato al Di Carlo che il Palazzolo era “a sua disposizione” e che si occupava di riciclare in Svizzera i proventi dei traffici di sigarette e di droga attraverso varie operazioni (come ad esempio il commercio di pietre preziose) e forme di investimento. Il Palazzolo, sempre a detta del Riina, era anche “compare” e socio di Nino Madonia, il quale, attraverso di lui, riciclava all’estero i soldi derivanti dal traffico di sigarette posto in essere insieme al clan Nuvoletta di Marano. Il Riina, infine, aveva proposto al Di Carlo di entrare anche lui nell’affare e di collaborare col Palazzolo per il riciclaggio del denaro sporco in Svizzera. Per ovvie ragioni di continuità argomentativa, a questo punto, mette conto di esaminare il contenuto delle dichiarazioni rese dal collaboratore Marchese Giuseppe. Questi era, sin dalla fine degli anni 80’, un uomo d’onore della famiglia mafiosa di Corso dei Mille, membro della famiglia Marchese, tradizionalmente una delle più qualificate di detto contesto territoriale, nonché fratello di Marchese Antonino di cui si è detto dianzi. Il Marchese riferiva, con ciò confermando appieno quanto riferito dal Di Carlo, che suo fratello anni addietro aveva subito un delicato intervento chirurgico alla gola presso una clinica svizzera. Di tutte le incombenze relative a tale operazione si era personalmente occupato Francesco Di Carlo che aveva dato ausilio in loco allo zio Marchese Filippo, all’epoca reggente della famiglia mafiosa di Corso dei Mille, recatosi in Svizzera personalmente per accompagnare il nipote. E’ appena il caso di sottolineare la convergenza tra le suddette dichiarazioni sia pure con riferimento all’episodio dell’intervento chirurgico ed all’interessamento del Di Carlo. Attraverso la deposizione di altri collaboratori di giustizia, inoltre, si ha conferma del ruolo di riciclatore di denaro sporco all’estero svolto dal Palazzolo e dei suoi stretti rapporti con il vertice di cosa nostra (Riina e Madonia) per conto del quale egli svolgeva detta attività. In particolare, Ganci Calogero, uomo d’onore della famiglia della Noce sin dal 1980 e figlio di Raffaele capo di detta famiglia e poi dell’intero mandamento, riferiva di avere conosciuto personalmente il Palazzolo nel 1981. Si trattava di un uomo d’onore (“caporale della famiglia di Terrasini”) presentatogli formalmente in detta occasione ed indicatogli come tale dal padre Raffaele Ganci. Il Palazzolo si occupava per conto di Riina e degli altri capi di cosa nostra palermitana di riciclare in Svizzera ingenti quantitativi di denaro provento dei traffici di droga e sigarette posti in essere dall’associazione. Nella specifica occasione della loro conoscenza, il Palazzolo aveva portato dalla Svizzera a Palermo un’autovettura di grossa cilindrata munita di un doppio fondo dove era custodito un enorme quantitativo di dollari statunitensi. Egli era stato incaricato dal padre di prendere il denaro e di inserirlo in alcuni sacchi che suo padre e Gambino Giacomo Giuseppe (altro esponente mafioso di rilievo di quegli anni) avevano poi provveduto a consegnare direttamente al Riina. Come aveva appreso dal padre e dagli altri sodali si trattava di soldi provento del traffico di droga e sigarette che il Palazzolo aveva reinvestito in diamanti all’estero e poi riportato in Sicilia per farli avere direttamente a Salvatore Riina. Sempre nel medesimo contesto il Ganci aveva appreso che il Palazzolo aveva anche un rapporto privilegiato con Nino Madonia, uomo d’onore di Resuttana (insieme al quale il collaboratore aveva commesso svariati omicidi), che si recava spesso in Svizzera per seguire i suoi affari col Palazzolo. Il giorno seguente alla consegna dei dollari il collaboratore aveva anche preso parte ad un pranzo insieme a tutti i sopra indicati uomini d’onore ed il Palazzolo. Tale pranzo si era tenuto presso il ristorante “da Calogero” a Terrasini, dopo un primo incontro presso l’abitazione di un amico dello stesso Palazzolo, tale Torregrossa, commerciante di Terrasini. Per quanto riguarda i fatti relativi ad epoca più recente, il Ganci riferiva di avere appreso dal padre Raffaele, intorno al 1993, che il Palazzolo si era trasferito in Sudafrica, forse portando con sé alcune somme di denaro di pertinenza del Riina, il quale non aveva gradito il gesto ed era in collera col Palazzolo medesimo. L’episodio riferito dal Ganci a proposito del primo incontro col Palazzolo ha trovato piena conferma nelle dichiarazioni, rese in un contesto temporale del tutto diverso, dal collaboratore Anzelmo Francesco Paolo. Questi era un uomo d’onore della famiglia mafiosa della Noce sin dai primi anni 80’ e, per conto di detta famiglia, aveva commesso numerosi omicidi eclatanti, alcuni dei quali anche insieme a Nino Madonia (omicidi del Generale Dalla Chiesa, del Istruttore e del Commissario Ninni Cassarà). L’Anzelmo, in particolare, riferiva autonomamente proprio della circostanza relativa al ritorno in Sicilia del Palazzolo a bordo di una autovettura carica di dollari U.S.A., fatto evidentemente eclatante e suggestivo tanto da rimanere impresso nella memoria degli uomini d’onore del tempo. Egli ricordava perfettamente che detta autovettura era stata “ripulita” da Calogero Ganci e da Franco Spina in un terreno vicino al Motel Agip e che i dollari erano stati consegnati al Riina, alla presenza di vari uomini d’onore tra i quali anche il Nino Madonia. In tale contesto egli aveva appreso da Ganci Raffaele, da Pippo Gambino e da suo zio Saro Anzelmo che Il Palazzolo era un uomo d’onore della famiglia di Terrasini e che era in società con il Nino Madonia, il quale all’epoca si recava spesso in Svizzera ed in Germania a trovarlo. Tale società si occupava di vari affari illeciti a livello internazionale, quali il commercio illegale di pietre preziose (diamanti in modo specifico). Per quanto riguarda fatti più recenti rispetto al giudicato del 92’, l’Anzelmo riferiva di avere saputo sempre dalle stesse fonti che il Palazzolo aveva continuato a svolgere detto traffico di diamanti anche dopo che si era trasferito in Sudafrica. Anche un altro collaboratore di giustizia ha riferito, in modo convergente rispetto ai precedenti, il dato del commercio internazionale di diamanti posto in essere dal Palazzolo insieme ad esponenti di cosa nostra siciliana. Si tratta di Mazzola Giovanni, uomo d’onore della famiglia mafiosa di Montelepre sin dal 1980 e, pertanto, appartenente ad un contesto territoriale identico a quello del Palazzolo. Va detto, infatti, che la famiglia di Montelepre fa parte del mandamento di Partinico, per lunghi anni capeggiato da Nenè Geraci, boss storico della zona e, come si vedrà, in stretti rapporti col Palazzolo. Il Mazzola – la cui collaborazione iniziava nel maggio del 1996 – pur non avendo conosciuto personalmente il Palazzolo ne aveva sentito a lungo parlare da Nenè Geraci il giovane, consigliere della famiglia di Partinico, altro personaggio che da più elementi è risultato in stretto contatto con l’imputato ed il cui nominativo ritorna sovente nelle dichiarazioni di vari collaboratori. Il Geraci aveva col Mazzola un rapporto di grande intimità e gli aveva confidato riservatamente di essere in affari con Vito Roberto Palazzolo sin dagli anni 80’ ed, in particolare, di avere partecipato con lui a traffici internazionali di diamanti. Tale rapporto societario di fatto col Palazzolo, tuttavia, a detta del Geraci era relativo anche a tempi recenti rispetto al 1996, posto che il commercio di diamanti era proseguito anche dopo che il Palazzolo si era trasferito in Sudafrica (a seguito dell’arresto in Svizzera). Il Mazzola, inoltre, riferiva un altro particolare che, come si vedrà in seguito, assume notevole rilievo in relazione alla specifica (e successiva al giudicato del 92) vicenda dell’ospitalità fornita a Bonomo Giovanni e Gelardi Giuseppe. Nei primi mesi del 1996, e pertanto poco prima della sua collaborazione, il Mazzola aveva appreso da Ciccio Di Piazza, consigliere della famiglia di Partinico, che subito dopo l’arresto del Monticciolo tutti gli uomini d’onore della zona erano entrati in fibrillazione perch é temevano che questi potesse iniziare a collaborare. Per tale motivo si era verificato un “fuggi­fuggi” generale che aveva coinvolto numerosi uomini d’onore, i quali avevano abbandonato le proprie residenze e si erano dati alla macchia. Tra costoro vi erano anche il Bonomo – al momento reggente della famiglia di Partinico (la stessa del Di Piazza) – ed il genero Gelardi che erano scappati in Sudafrica. Tale ultimo dato ovviamente è relativo ad un momento successivo al 1992 e corrobora quanto si dirà appresso a proposito di tale specifico episodio avvenuto proprio nel 1996. L’esistenza di forti e strutturali rapporti di amicizia e di affari tra Palazzolo e Nino Madonia e Nenè Geraci il giovane veniva confermato, poi, da un altro collaboratore storico di cosa nostra, Sinacori Vincenzo. Questi era uomo d’onore della famiglia mafiosa di sin dagli anni 80 ed a partire dal 1990 aveva anche assunto la carica di reggente di quella famiglia. Anche nel suo caso, come per tutti gli altri collaboratori, l’inizio della collaborazione risaliva ad epoca ben successiva (1996) rispetto al giudicato del 1992. Il Sinacori aveva personalmente conosciuto il Palazzolo in occasione di alcune sue visite a Mazara del Vallo per incontrare alcuni uomini d’onore della zona. In tali risalenti circostanze lo stesso non gli era stato presentato formalmente come uomo d’onore anche se, in un secondo tempo, aveva saputo da Messina Francesco – ovvero Mastro Ciccio, sottocapo e poi capo della famiglia di Mazara e boss storico della zona – che il Palazzolo era stato ritualmente combinato. Sempre da Mastro Ciccio e da Tamburello Salvatore, consigliere della sua famiglia, aveva saputo anche che il Palazzolo era stato coinvolto in due omicidi connessi tra loro. Si trattava dell’omicidio di tale Agostino Badalamenti avvenuto in Germania e di quello di tale Antonio Ventimiglia, amico personale del Palazzolo, fatto scomparire per timore che potesse rivelare notizie agli inquirenti, atteso che la sua pistola era stata rinvenuta sul luogo del primo omicidio ed egli era stato conseguentemente identificato. A tale proposito giova rilevare che il Palazzolo è stato sottoposto ad indagini per l’omicidio di Agostino Badalamenti, commesso a Solingen in Germania da sicari venuti dalla Sicilia, anche se non si è avuto alcun ulteriore esito processuale. Lo stesso dicasi per l’omicidio per scomparsa di Antonio Ventimiglia che dagli atti risulta essere stato il factotum di Palazzolo in Germania, la cui pistola effettivamente era stata ritrovata sul luogo dell’omicidio Badalamenti. Tali dati, oltre ad emergere dai documenti acquisiti agli atti, saranno poi confermati nell’importante deposizione del testimone Franco Oliveri, il quale, in un periodo di comune detenzione col Palazzolo in Svizzera, aveva raccolto le sue confidenze. Ovviamente essi non consentono di indicare precise responsabilità penali del Palazzolo in tali gravi fatti di sangue (in relazione ai quali egli è stato scagionato) ma servono per corroborare quanto affermato dal Sinacori e per evidenziare come non si tratti di circostanze destituite da ogni fondamento. Altro particolare di rilievo appreso dal Messina e dal Tamburello (che conosceva personalmente il Palazzolo come dimostra il fatto che lo stesso Sinacori ebbe ad accompagnare quest’ultimo a casa del primo) riguarda l’esistenza di rapporti d’affari in Svizzera con Nino Madonia e Nenè Geraci il giovane. Il dato è ovviamente di rilievo in quanto conferma quanto reiteratamente riferito da diversi collaboratori in modo del tutto sovrapponibile. Secondo quanto appreso, invero, il Palazzolo non solo era in rapporti con Geraci e Madonia (di cui era anche compare) ma anche con il Riina ed altri uomini d’onore che gli inviavano in Svizzera i proventi dei traffici di sigarette per riciclarli. Anche in questo caso colpisce la convergenza di tale dato attraverso le deposizioni di numerosi collaboratori tanto lontani tra loro per estrazione, riferimento territoriale e ruolo all’interno di cosa nostra e ci ò specie se si considera che si tratta di collaborazioni del tutto autonome ed avvenute con tempi e modalità tutt’affatto differenti tra loro. Un ultimo dato di assoluta importanza fornito dal Sinacori riguarda l’esistenza di intensi rapporti di amicizia e di affari tra il Palazzolo ed Andrea Mangiaracina, esponente di spicco della mafia del trapanese. Tale elemento assume particolare rilevanza in tanto perché il Sinacori lo ha appreso direttamente dallo stesso Mangiaracina e poi per la messe di riscontri individualizzanti emersi a proposito di tale affermazione del collaborante. Ed invero, in primo luogo vale la pena di richiamare quanto riferito dal generale Pitino a proposito di una conversazione telefonica intercettata nel corso delle indagini di quegli anni proprio tra il Palazzolo ed il Mangiaracina. Inoltre, dall’esame della documentazione acquisita agli atti sul consenso delle parti emerge un altro clamoroso riscontro del tutto ineludibile: dall’allegato E­6 alla deposizione giurata del Commissario della polizia sudafricana Jacob Venter, datato 24.3.97, si ricava che Andrea Mangiaracina si era recato personalmente per ben due volte in Sudafrica a trovare Palazzolo per ragioni di affari. In particolare ”la prima visita riguardava le trattative tra Mangiaracina e la società Silverman per l’importazione di pesce. Quest’accordo non si realizz ò. Nel corso della sua seconda visita Mangiaracina negozi ò l’importazione di aragoste. Anche quest’altro accordo non si realizzò a causa della restrizione delle quote” (v. documento in atti). Appare significativo evidenziare quanto si legge subito dopo nel documento originale in lingua inglese: “ Vito Roberto Palazzolo presentò il signor Mangiaracina alle suddette società”. Infine, sempre attraverso l’esame del documento in questione si ricava che in entrambi i viaggi del Mangiaracina alla volta del Sudafrica i biglietti aerei risultavano pagati da Stelio Frappoli e cioè dal soggetto che – come si vedrà ­ aveva fornito il passaporto falso al Palazzolo e che era rimasto in Svizzera a curare i suoi affari. Orbene, al di là della mancata conclusione degli affari dovuta a circostanze esterne, dai documenti ufficiali emerge una piena conferma del fatto che il Palazzolo intratteneva rapporti di amicizia e di affari col Mangiaracina e che, addirittura, ebbe ad invitarlo a sue spese in Sudafrica e ad introdurlo presso societ à sudafricane per avviare dei commerci verso l’Italia. Ciò posto, vale senz’altro la pena di soffermarsi sul contenuto delle dichiarazioni rese dal collaboratore Cancemi Salvatore, già importante uomo d’onore della famiglia di Porta Nuova e poi addirittura reggente del mandamento omonimo (la cui collaborazione è iniziata nel luglio del 1993). Questi riferiva di avere personalmente conosciuto il Palazzolo in Svizzera nel corso degli anni 83/84, alla presenza e per il tramite di Nino Rotolo, uomo d’onore di assoluto rilievo già allora ed ancora oggi indicato come uno dei principali reggenti di cosa nostra palermitana. La ragione del viaggio in Svizzera era connessa ad alcuni traffici di droga che il Cancemi ed il Rotolo stavano ponendo in essere in quel periodo ed i cui ricavi venivano riciclati in Svizzera. Nell’occorso il Rotolo aveva formalmente presentato il Palazzolo al Cancemi, usando la, oramai desueta, formula con l’uso della frase tipica “la stessa cosa”, per far comprendere ai due soggetti che erano entrambi uomini d’onore ritualmente combinati. Subito dopo la presentazione il Rotolo gli aveva detto, alla presenza del Palazzolo, che questi era interessato insieme a lui a vari traffici di droga e che, proprio in quel momento, avevano in corso alcuni affari. Il Rotolo ed il Palazzolo si erano poi intrattenuti a conversare riservatamente di alcune ingenti somme di denaro provento di un traffico di droga con gli U.S.A. che il primo era andato a recuperare tramite il secondo. Il Cancemi, poi, aveva appreso altri particolari sul conto del Palazzolo sempre dal Rotolo ma anche dallo stesso Salvatore Riina. In particolare, aveva saputo che questi era in affari all’estero anche con Nino Madonia e che, ad un certo momento, si era trasferito in Sudafrica, paese dove era “molto agganciato” cioè molto ben inserito e tutelato. Ciò nonostante, i suoi rapporti d’affari col Rotolo ed i traffici illeciti erano proseguiti anche dopo il suo definitivo trasferimento in Sudafrica. Tale ultimo dato – appreso dallo stesso Rotolo ­ appare certamente rilevante sia sotto il profilo dell’inquadramento temporale che del perpetuarsi di rapporti con uomini d’onore siciliani anche dopo il trasferimento in Sudafrica e, pertanto, in tempi pi ù recenti. Una ennesima conferma del circuito relazionale del Palazzolo con i soliti esponenti di cosa nostra si ricava anche dalla deposizione del collaboratore di giustizia Ciulla Salvatore, uomo d’onore della famiglia di Resuttana, per lungo tempo operante e domiciliato in Milano. Questi, ancora una volta, riferiva di avere appreso in ambienti mafiosi che il Palazzolo era un uomo d’onore ed era in stretti contatti di amicizia e di affari con Nino Madonia (sempre della famiglia di Resuttana) e con Nenè Geraci il giovane della famiglia di Partinico, del quale il Palazzolo era anche il figlioccio. Anche il collaboratore di giustizia ha reso dichiarazioni di assoluto rilievo sul conto del Palazzolo. Il ruolo del Brusca – uomo d’onore dal 1976 e poi reggente del mandamento di San Giuseppe Jato, autore confesso di tutte le principali stragi mafiose e di altri innumerevoli delitti, nonché negli ultimi anni prima dell’arresto del 1996 al vertice, con , dell’intera cosa nostra – consente di attribuire alle sue propalazioni una valenza direttamente proporzionale alla posizione organica assunta ed al livello di conoscenze conseguenti. Il Brusca aveva conosciuto il Palazzolo intorno al 1981 attraverso Nino Madonia, uomo d’onore della famiglia di Resuttana, suo amico personale e complice in tanti omicidi e stragi (ad es. omicidio Chinnici, strage della circonvallazione etc.). Il Madonia gli aveva detto di avere in corso una serie di affari all’estero (in Germania in modo particolare) e di appoggiarsi a Vito Roberto Palazzolo, uomo d’onore della famiglia di Terrasini e grosso trafficante di droga. Dopo tale descrizione del Madonia, Salvatore Riina in persona aveva “presentato formalmente” il Palazzolo al Brusca e, tra il 1981 ed il 1984, questi ultimi si erano più volti incontrati sia a Cinisi che a San Giuseppe Jato. Il ruolo del Palazzolo in quegli anni era quello di riciclare in Svizzera il denaro ricavato dal traffico di droga con gli U.S.A. (dollari) e, successivamente, di farli rientrare il Sicilia nelle mani dell’organizzazione di cui anche lui faceva parte. Intorno al 1985 il Palazzolo aveva avuto qualche incomprensione con Nino Rotolo in relazione ad alcune somme di denaro che erano sparite. Il Di Maggio Baldassare – già uomo d’onore ed oggi collaboratore di giustizia – anche per tale ragione aveva mandato, per il tramite del Nenè Geraci il vecchio, la somma di un miliardo di lire al Palazzolo, per cercare di appianare i contrasti. I soldi provenivano in realtà direttamente da Salvatore Riina, il quale voleva in tal modo tenere buono il Palazzolo ed evitare anche il rischio – che si paventava in cosa nostra – che questi, sentendosi isolato, potesse decidere di collaborare con le autorità svizzere Dopo il 1986 Giovanni Brusca non aveva più incontrato personalmente il Palazzolo ma ne aveva ancora sentito parlare a lungo e si era anche occupato personalmente di lui intorno al 1995. Si tratta, come è evidente, di un dato successivo al giudicato del 1992 e, come tale, rilevante ai fini dell’attualizzazione del contesto probatorio. In quell’anno il Brusca trascorreva la sua latitanza vicino al territorio di Partinico ed, approfittando di tale circostanza, aveva cercato di riprendere in modo diretto e più incisivo i rapporti col Palazzolo che si trovava in Sudafrica da anni. In modo particolare egli era interessato a ristabilire il canale di traffici a livello internazionale che Palazzolo poteva garantirgli, essendo un importante uomo d’affari in quel paese lontano. Al fine di sondare questa possibilità, il Brusca aveva parlato di tale argomento con , uomo d’onore della famiglia di Partinico ed in quel momento reggente della stessa. Si trattava, dunque, del più elevato esponente della famiglia di Partinico ed il Brusca, in ossequio alle regole dell’organizzazione, lo consultava in quanto “capo” di Vito Palazzolo, uomo d’onore proprio di quella famiglia. Il Bonomo lo aveva immediatamente aiutato facendo da tramite col Palazzolo ­ col quale egli era in contatto ­ ed assicurando che si trattava sempre di un uomo d’onore della sua famiglia e che doveva essere a disposizione in quanto non espulso nè allontanato. Il discorso, tuttavia, si era dovuto interrompere a causa dei problemi del Brusca che veniva sempre più braccato dalla polizia, tanto da essere poi arrestato nel maggio del 1996. Sempre a proposito del Bonomo, però, Giovanni Brusca aggiungeva un ulteriore dato di sicuro interesse. Subito dopo l’arresto del Monticciolo – uomo d’onore di San Giuseppe Jato e stretto collaboratore dello stesso Brusca ­ nella zona di Partinico e San Giuseppe Jato si era diffusa una forte preoccupazione che questi potesse iniziare a collaborare (cosa poi puntualmente verificatasi). Per tale ragione parecchi uomini d’onore, temendo di essere coinvolti dalle probabili ammissioni del Monticciolo, erano fuggiti per evitare l’arresto. Tra costoro, il Bonomo, insieme al genero Gelardi Giuseppe, erano fuggiti dapprima in Grecia e poi per l’appunto in Sudafrica dove sapevano che si trovava il Palazzolo. A proposito di fatti successivi al giudicato del marzo del 92’ anche il collaboratore Cannella Tullio rendeva delle significative dichiarazioni, specie alla luce di altre emergenze processuali (dichiarazioni di Giuffrè Antonino ed una intercettazione ambientale) che saranno esaminate successivamente. Il Cannella, pur senza aver mai assunto la qualifica di uomo d’onore, aveva vissuto fino al luglio del 1995 (data del suo arresto) a stretto contatto con parecchi esponenti di spicco di cosa nostra, quali i fratelli Graviano di Brancaccio e soprattutto , cognato di Salvatore Riina ed uomo d’onore tra i pi ù attivi e rispettati all’interno del sodalizio mafioso. Tullio Cannella, in modo particolare, riferiva di avere sentito parlare di Vito Roberto Palazzolo in due diverse circostanze. Nel corso del 1985 Pino Greco detto “Scarpuzzedda” – uno dei killer più attivi e pericolosi nella seconda guerra di mafia dei primi anni 80’­ gli aveva confidato che il Palazzolo era una persona di fiducia dell’organizzazione che si occupava di riciclaggio di denaro sporco all’estero per conto di cosa nostra e di vari affari illeciti come il commercio di diamanti. Anni dopo, e precisamente nel 1993, Leoluca Bagarella ­ uomo d’onore di ed autore di numerosi efferati delitti ed ai vertici di cosa nostra fino al momento del suo arresto – gli aveva confermato negli stessi termini il ruolo del Palazzolo. Aveva, tuttavia, anche aggiunto che Bernardo Provenzano in persona (l’allora capo indiscusso di cosa nostra dopo l’arresto del Riina) possedeva una miniera di diamanti in Sudafrica, per il tramite ed in societ à con Vito Roberto Palazzolo. Si tratta, con tutta evidenza, di un dato assai rilevante sia perché relativo al 1993 e, quindi, ad un’epoca successiva al giudicato del marzo del 1992, e sia perché pienamente confermativo delle dichiarazioni rese dal collaboratore Antonino Giuffrè a proposito di recenti affari posti in essere dal Palazzolo e dal Provenzano mentre entrambi si trovavano latitanti. Un altro collaboratore di giustizia che ha reso dichiarazioni in questo processo è Facella Salvatore, uomo d’onore della famiglia di Lercara Friddi sin dal 1983. Egli riferiva di essere stato “combinato” su iniziativa di Giovanni Bastone e Mariano Agate (rispettivamente uomo d’onore e capo della famiglia di Mazara del Vallo) ed alla presenza di Salvatore Riina, il quale aveva anche fatto da padrino di affiliazione. Prima della combinazione – intorno agli anni 76’/77’ – il Facella aveva vissuto a Torino, dove era “a disposizione” di Giovanni Bastone. Si era particolarmente messo in evidenza vendicando un attentato subito dal Bastone ad opera di un clan pugliese che egli aveva sterminato per ritorsione. Tuttavia, subito dopo l’affiliazione – precisamente dal settembre del 1983 all’ottobre del 1990 – egli era stato tratto in arresto per vari reati (omicidio, droga, 416 bis c.p.)ed era rimasto a lungo detenuto. Nel 1993 finalmente era tornato in Sicilia ed aveva preso contatti con Antonino Giuffrè, nel frattempo divenuto capo del mandamento di Caccamo, dal quale dipendeva anche la famiglia di Lercara Friddi. Il Giuffrè lo aveva accolto e gli aveva dato il compito di riorganizzare la famiglia di Lercara che nelle more era stata sciolta per carenza di uomini d’onore. Nel 1995, tuttavia, era stato nuovamente arrestato e nel 2002 aveva deciso di collaborare. Nel corso del suo operato in cosa nostra il Facella era stato particolarmente vicino a Giovanni Bastone, col quale era anche stato co­detenuto presso il carcere di Torino tra il 1986 ed il 1988. Dal Bastone aveva appreso che in Svizzera viveva ed operava un uomo d’onore a nome Vito Palazzolo che lui andava spesso a trovare per portargli il denaro provento del traffico di sigarette che doveva essere riciclato. Il Palazzolo si occupava, sia per conto del Bastone che di Nino Madonia (uomo d’onore di Resuttana e figlio di Francesco Madonia capo di detta famiglia), di riciclare il denaro attraverso operazioni bancarie e finanziarie. Il Bastone, inoltre, gli aveva confidato di avere discusso col Palazzolo anche di un altro affare che aveva intenzione di compiere insieme a lui nei paesi dell’est. Si trattava di acquistare insieme alcuni pescherecci in disarmo e di trasferirli in Italia, operazione per la quale aveva chiesto a Riina il permesso di rivolgersi al Palazzolo, ottenendo risposta positiva. Giovanni Bastone gli aveva detto che il Palazzolo era “amico nostro” e persona di fiducia sia di Riina che di Provenzano, del quale ultimo era anche figlioccio di affiliazione. Il Provenzano, infatti, aveva personalmente fatto da padrino in occasione dell’affiliazione del Palazzolo, in quanto questi proveniva da Cinisi e cioè dallo stesso paese di sua moglie (che, come è noto, si chiama Saveria Palazzolo ed è per l’appunto originaria di Cinisi). L’ultimo collaboratore, non certo per importanza come vedremo, che ha reso dichiarazioni sul conto dell’imputato è Antonino Giuffrè, la cui collaborazione risale allo scorso 2003. Tuttavia, in considerazione della natura e della collocazione temporale di dette dichiarazioni, appare più opportuno rinviare l’analisi di tale fonte di prova ad un momento successivo, posto che non si tratta di un dato rilevante solo al fine di ricostruire il quadro di riferimento cui si è più volte fatto richiamo ma di una vera e propria prova a carico del Palazzolo. Ciò che, a questo punto della trattazione, mette conto di esaminare in connessione con le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia è la testimonianza di Franco Oliveri che, come si vedrà, riveste una particolare importanza nell’economia del presente dibattimento. La notevole significatività di tale deposizione discende, innanzitutto, dalla veste processuale del dichiarante, atteso che si tratta non di un collaboratore o di un imputato di reato connesso ma di un testimone vero e proprio, come tale tenuto a dire la verità e munito di un diverso livello di attendibilità generica. Inoltre, la testimonianza dell’Oliveri finisce per acquisire rilievo anche e soprattutto in quanto si tratta di un amico e compagno di detenzione in Svizzera del Palazzolo, del quale ha avuto modo di raccogliere per lungo tempo le confidenze ed anche gli sfoghi. Appare, pertanto, evidente come le notizie riferite dall’Oliveri –soggetto oggi del tutto indifferente rispetto all’imputato e pienamente credibile anche sulla scorta delle concrete modalità della sua deposizione – rivestano notevole importanza in quanto direttamente apprese dalla voce del Palazzolo ed in un contesto particolare (l’amicizia nata sia per la comune detenzione all’estero che per l’origine siciliana di entrambi) nel quale sussistono poche possibilit à di mendacio o di millantato credito. Già attraverso la disamina delle modalità della testimonianza dell’Oliveri, invero, si ricavano convincenti indizi di sincerità, coerenza e linearità della deposizione, atteso che il teste, dopo un iniziale tentativo di sminuire la portata di quanto appreso dal Palazzolo (anche evidenziando il lungo tempo trascorso dai fatti), ha finito per confermare appieno le sue precedenti dichiarazioni. E’, infine, appena il caso di sottolineare come non si tratti, in questo caso di testimonianza indiretta o de relato, in quanto le notizie riferite sono state apprese direttamente dalla persona del Palazzolo e, quindi, non sono soggette ad alcun limite valutativo ma anzi finiscono per assumere un consistente significato probatorio. Pertanto, sulla scorta della specifica veste processuale dell’Oliveri, delle modalità della sua deposizione e, sinanco, dell’iniziale tentativo di ridimensionare quanto appreso dall’imputato (in nome dell’antica amicizia) non possono sussistere dubbi circa un intento persecutorio nei confronti di quest’ultimo né di un qualunque interesse a rendere false dichiarazioni all’A.G.. Anzi, deve ritenersi che l’Oliveri, nonostante il tempo trascorso, abbia assunto un comportamento processuale serio, logico e coerente ed abbia fatto sino in fondo il suo dovere di testimone non mostrando alcun risentimento, ma, al contrario, un certo imbarazzo dovuto proprio al pregresso rapporto di amicizia col Palazzolo. L’Oliveri riferiva di avere conosciuto il Palazzolo all’interno del carcere di Lugano nel corso del 1984 e di avere trascorso nella stessa cella un periodo di alcuni mesi di co­detenzione. Il Palazzolo, vista la comune provenienza dalla provincia di Palermo e l’atteggiamento disponibile ed aperto dell’Oliveri, aveva fin da subito stabilito con lui un rapporto di simpatia che, col passare del tempo, si era trasformato in vera amicizia e confidenza, come spesso accade tra detenuti costretti a trascorrere lunghi periodi di co­detenzione. Per stessa ammissione del Palazzolo, poi, il fatto che l’Oliveri fosse originario di Palermo lo rendeva ai suoi occhi molto gradito e gli ispirava notevole fiducia, tanto da spingersi, dopo mesi di detenzione, sino a proporgli di entrare a far parte di cosa nostra su sua intercessione. L’Oliveri, che era stato tratto in arresto per reati minori e non aveva alcuna intenzione di avere a che fare con la mafia, aveva rifiutato la generosa offerta del Palazzolo che, certamente, costituiva un segno di fiducia nei suoi confronti. E proprio sulla base di tale rapporto fiduciario, via via irrobustitosi nel corso della lunga detenzione, il Palazzolo gli aveva fatto una serie di confidenze, raccontandogli, in sostanza, buona parte della sua vita e del suo rapporto organico con cosa nostra. L’Oliveri, peraltro, teneva a precisare come l’atteggiamento dell’imputato non gli era mai sembrato quello tipico del millantatore ma, semmai, dell’amico che, con lealtà e sincerità, ingannava le giornate di solitudine raccontandogli le sue pregresse esperienze. A riprova di ciò, ancora oggi l’Oliveri affermava di essere sinceramente convinto che il Palazzolo fosse di sicuro un uomo d’onore ed un riciclatore di denaro sporco attraverso le sue molteplici attività all’estero (come dallo stesso appreso), ma non un assassino o (a suo giudizio) un volgare criminale. A parte ogni considerazione circa i parametri soggettivi di valutazione della gravità dei vari delitti adottati dall’Oliveri, al Collegio appare significativo sottolineare come quest’ultimo, sino al momento della sua deposizione dibattimentale, abbia mantenuto una certa considerazione per il Palazzolo, a dimostrazione del valore e della sincerità della sua testimonianza che appare del tutto scevra da qualsiasi possibile intento calunniatorio o di ritorsione. Il Palazzolo aveva riferito al teste di avere a lungo vissuto tra la Germania e la Svizzera, operando come finanziere ed imprenditore in vari settori. Egli, tuttavia, era stato formalmente affiliato in cosa nostra siciliana e dipendeva, in qualità di uomo d’onore, dalla famiglia di Partinico, il cui capo all’epoca era Nenè Geraci, anche se lui era stato combinato direttamente da Salvatore Riina. All’interno di cosa nostra il Palazzolo – sempre per sua stessa ammissione ­ intratteneva rapporti con numerosi uomini d’onore anche di vertice dell’organizzazione, quali Nino Rotolo, Nino Madonia e lo stesso Salvatore Riina che lo trattava con particolare affetto e stima anche per la sua parentela col vecchio boss Pietro Palazzolo. I costanti rapporti con questi uomini d’onore lo avevano indotto a porre in essere alcune condotte all’estero ed in Italia, quali, ad esempio, dare ricetto e rifugio a latitanti siciliani fuggiti in Germania (in particolare a Costanza, città dove egli gestiva un ristorante). A tale proposito non appare ozioso evidenziare l’estrema significatività di tale dato soprattutto alla luce dell’ospitalità fornita in Sudafrica dal Palazzolo ai latitanti Bonomo e Gelardi, a dimostrazione che tale tipo di condotta non era per nulla nuova per l’odierno imputato, il quale già molti anni prima aveva dato questo tipo di disponibilità all’organizzazione mafiosa. Un’altra attività criminale che il Palazzolo confessava di avere svolto era quella del riciclaggio di ingenti somme di denaro di pertinenza di cosa nostra e provento dei reati di traffico di droga e di sigarette di contrabbando. Egli, in particolare, era stato coinvolto sia nel traffico di sigarette dalla zona di Napoli (che vedeva coinvolti i clan mafiosi Zaza e Nuvoletta) che nel traffico di droga ampiamente noto come Pizza Connection. A tale ultimo proposito confidava all’amico Oliveri di avere riciclato in Svizzera svariati milioni di dollari U.S.A. che gli venivano consegnati in contanti ed all’interno di sacchi di plastica. L’intero traffico era gestito dai vertici di cosa nostra e prevedeva l’acquisto di morfina dalla Turchia (da tale Mussullulu), la successiva raffinazione e la vendita in pizzerie e ristoranti statunitensi. L’enorme ricavato gli veniva affidato per essere reinvestito in operazioni apparentemente lecite ovvero veicolato in banche svizzere prima di fare ritorno in Sicilia. Il Palazzolo, poi, si spingeva sino a descrivere alcuni contrasti interni al sodalizio, quale, ad esempio, quello insorto tra Nino Rotolo e Pippo Calò, da una parte, ed il Riina, dall’altra, avente ad oggetto dei presunti ammanchi lamentati da quest’ultimo. Si tratta, come è evidente, di un dato molto significativo in quanto non generico ma estremamente preciso e proveniente direttamente dall’interno del sodalizio. Tale dato, peraltro, è stato ampiamente confermato dal collaboratore , il quale ha, per l’appunto, riferito della diatriba insorta tra il Riina ed il Rotolo a motivo del presunto ammanco di alcune somme di denaro (v. dianzi). La perfetta convergenza tra tali due contenuti propalatori assume, pertanto, una notevole valenza confermativa della sincerità e della veridicità della deposizione dell’Oliveri. Il Palazzolo, poi, descriveva al compagno di cella altri episodi della sua vita passata, quali, ad esempio, il suo rapporto di forte amicizia con Nino Madonia, descritto dallo stesso imputato come “una pedina fondamentale…. da tempo residente in Germania… pericolosissimo killer ancora più pericoloso di Scarpuzzedda (Pino Greco, detto Scarpuzzedda, noto killer autore di svariati ed efferati omicidi, n.d.e.)”. Altro episodio rilevante descritto dallo stesso Palazzolo riguardava l’omicidio di Agostino Badalamenti, avvenuto a Solingen in Germania, per il quale lo stesso imputato era stato sottoposto ad indagini e poi scagionato. Il Palazzolo riferiva che l’omicidio rientrava nella strategia di eliminazione fisica, da parte dei corleonesi, di tutti gli amici ed i parenti di Gaetano Badalamenti, che come è noto si è concretizzata nella c.d. seconda guerra di mafia dei primi anni 80’. Per la consumazione dell’omicidio era stata utilizzata una pistola regolarmente denunciata da tale Ventimiglia Antonio che era il suo personale factotum in Germania. L’arma era stata abbandonata dai killers sul luogo dell’omicidio e rinvenuta dagli inquirenti, cosa che aveva fatto molto preoccupare i mandanti siciliani che temevano una possibile confessione del Ventimiglia. Per tale ragione cosa nostra aveva deciso ed attuato l’eliminazione, mediante “scomparsa” (c.d. lupara bianca), del Ventimiglia, circostanza, a suo dire, a lui non preventivamente comunicata, tanto che egli era rimasto molto indispettito e dispiaciuto. Egli, tuttavia, pur sostenendo la sua estraneit à al proposito omicidiario ai danni del suo collaboratore, ammetteva di avere personalmente chiesto al Ventimiglia di recarsi a Napoli per prelevare una partita di denaro di pertinenza di cosa nostra che doveva essere trasportata in Svizzera. Tale presunto viaggio, in realtà, si era rivelato una scusa per rapire il Ventimiglia nella zona di Napoli e per sopprimerlo al fine di evitare che potesse parlare. Come si è già avuto modo di dire in premessa, il Palazzolo aveva ritenuto l’Oliveri persona di tale fiducia da chiedergli di entrare a far parte di cosa nostra, manifestandogli la sua piena disponibilità a far da tramite per farlo combinare nella famiglia di sua competenza, in base al suo domicilio a Palermo. Anche in questo caso, a giudizio del Collegio, non vi è dubbio alcuno che gli episodi riferiti dall’Oliveri per come direttamente appresi dallo stesso imputato siano relativi ad un torno temporale coperto dal giudicato del 92’. E pur tuttavia non può assolutamente negarsi come gli stessi siano estremamente significativi allo scopo di delineare e ricostruire quel quadro di riferimento di cui si è ampiamente detto in precedenza. Il fatto che sia stato lo stesso Palazzolo a riferire ad un testimone attendibile, serio ed indifferente come l’Oliveri di essere stato un uomo d’onore, di avere intrattenuto rapporti costanti e di massima fiducia con i vertici di cosa nostra (Riina, Madonia, Rotolo, Geraci etc.), di avere contribuito a riciclare enormi somme di denaro provento del traffico internazionale di sigarette di contrabbando e di droga (Pizza Connection), di avere dato ospitalità a vari latitanti siciliani a Costanza in Germania e di avere conosciuto nei dettagli alcune delle strategie di cosa nostra anche in relazione ad almeno due omicidi rappresenta, senza ombra di dubbio, un elemento importante di tale contesto di riferimento. Con la disamina delle dichiarazioni di Franco Oliveri può dirsi conclusa la parte ricostruttiva dell’apporto fornito dai collaboratori di giustizia e dallo stesso testimone Oliveri al fine di consentire la ricostruzione del quadro di riferimento relativo al periodo antecedente al marzo del 1992. Tale compendio probatorio ovviamente va valutato in un’ottica contestualizzante ed al precipuo scopo di definire la personalità ed il ruolo del Palazzolo e, soprattutto, il suo reticolo di relazioni personali con esponenti di rilievo di cosa nostra. E, se per un verso è indubitabile che si tratta in gran parte di fatti pregressi rispetto al giudicato, allo stesso tempo deve ribadirsi che si tratta di fonti di prova del tutto sconosciute ai giudici del 1992 ed anche alla Cassazione che si è occupata della presente vicenda sotto il limitato aspetto cautelare (i cui principi comunque sono stati adottati dal Collegio). Fonti che, se opportunamente verificate alla luce dei criteri di valutazione delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, costituirebbero senz’altro un imponente quadro probatorio. Non vi è dubbio, infatti, che su numerosi aspetti contenutistici delle esaminate deposizioni sussiste un’assai rilevante convergenza tra plurime fonti del tutto autonome tra di loro e già giudicate attendibili, intrinsecamente ed estrinsecamente, in varie sentenze passate in giudicato. Ampia e convincente convergenza che, alla luce dei riscontri estrinseci emersi, avrebbe pressocchè sicuramente portato – in assenza di un precedente giudicato ­ alla condanna del Palazzolo per partecipazione all’associazione mafiosa denominata cosa nostra nel periodo di riferimento. Va, infatti, adeguatamente considerato che ben sette collaboratori provenienti da contesti territoriali e da esperienze diverse in cosa nostra, pur avendo avviato percorsi collaborativi autonomi ed in tempi differenti, hanno indicato il Palazzolo come uomo d’onore formalmente affiliato. Quasi tutti hanno, poi, evidenziato il ruolo di finanziare e di abile imprenditore svolto dal Palazzolo all’estero (circostanza obiettivamente riscontrata dall’intero compendio processuale), il quale si è continuativamente interessato di riciclare ingenti somme di denaro provenienti dai traffici di droga e sigarette. In tale veste, poi, il Palazzolo aveva operato in societ à con parecchi uomini di spicco dell’organizzazione (Madonia, Geraci, Provenzano), realizzando una serie di affari all’estero, tra i quali certamente il commercio internazionale di pietre preziose. A tale proposito va segnalato come ben sei collaboratori (Di Carlo, Anzelmo, Cancemi, Facella, Brusca e Ciulla) abbiano concordemente riferito la circostanza del rapporto societario col Madonia e come ben cinque di essi (Ganci, Di Carlo, Anzelmo, Mazzola e Cannella) abbiano fatto riferimento al reinvestimento di capitali illeciti nel commercio di diamanti e pietre preziose. Appare significativo evidenziare come tali commerci siano proseguiti anche dopo che il Palazzolo si era trasferito in Sudafrica e, sinanco, in tempi recenti, come ribadito da diversi collaboratori. A parte la plurima convergenza, il primo dato è ampiamente confermato dalla condanna riportata dal Palazzolo per associazione per delinquere – insieme a numerosi e pericolosi uomini d’onore – finalizzata al traffico di droga denominato Pizza Connection. Ed ulteriormente confermato sulla scorta della deposizione del generale Stefano Pitino della Guardia di Finanza, autore delle indagini che, a suo tempo, avevano portato alla condanna del Palazzolo per tale delitto che, lo si ripete, è a tutt’oggi il più grande episodio di traffico internazionale di droga gestito da cosa nostra. Il generale Pitino (Comandante del Nucleo Stupefacenti centrale della Guardia di Finanza), invero, riferiva dettagliatamente in ordine al suddetto traffico indicando i soggetti coinvolti a vario titolo, le modalit à operative, i percorsi del traffico di droga ed, infine, l’enorme riciclaggio che aveva visto come principale se non unico autore proprio il Palazzolo. In particolare, il Pitino descriveva il ruolo di Paul Waridel, un turco residente in Svizzera che aveva svolto il ruolo di cerniera tra la mafia siciliana ed i fornitori di morfina base (oltre 5.000 chilogrammi) operanti in Turchia, tra i quali il noto Youssu N’Duru. La morfina base veniva, poi, trasformata in eroina presso alcuni laboratori clandestini operanti in Sicilia (alcuni dei quali anche scoperti e sequestrati) e trasferita negli U.S.A. dove veniva venduta al dettaglio presso una rete di pizzerie e ristoranti gestiti per lo pi ù da italo­americani. Processualmente rimaneva accertata la parziale collaborazione dello stesso Waridel, il quale ammetteva in Svizzera alcune delle sue responsabilità ed, in modo particolare, i suoi rapporti con il Palazzolo finalizzati al riciclaggio di oltre 5 milioni di dollari dell’epoca. Lo stesso Waridel indicava nel Palazzolo il referente di cosa nostra siciliana in Svizzera che era stato incaricato di riciclare tali ingenti somme di denaro ed anche di quelle destinate a pagare il fornitore N’Duru. Dalle indagini svolte all’epoca, inoltre, emergevano plurimi riscontri del contesto relazionale individuato e confermato dal Waridel: in particolare emergevano contatti telefonici tra il Palazzolo e tale Tripodoro Pasquale (mafioso calabrese coinvolto nel traffico), prove del rapporto personale tra il Palazzolo e Vernengo Pietro (uno dei principali narcotrafficanti siciliani, responsabile di ben due raffinerie). Emergeva anche un summit avvenuto presso l’hotel San Gottardo il 22/23 aprile 1983 tra il Palazzolo e altri mafiosi coinvolti nell’affare, altri contatti telefonici tra i quali anche alcune telefonate con Andrea Mangiaracina (e cioè proprio di quell’uomo d’onore che, secondo alcuni collaboratori, tra i quali il Sinacori, intratteneva un rapporto personale col Palazzolo). A tale ultimo proposito si è già evidenziato il riscontro documentale emerso a proposito del rapporto di amicizia e di affari tra il Palazzolo ed il Mangiaracina, il quale per ben due volte si era recato in Sudafrica per trattare alcuni affari per il tramite dell’odierno imputato ed a sue spese. Si riscontrava, infine, anche l’esistenza di un incontro tra l’imputato e Silvio Lipari, figlio di Pino Lipari – personaggio di assoluto rilievo in cosa nostra palermitana in contatto diretto con il Riina ed il Provenzano – che, come si vedrà, è indicato da Antonino Giuffrè in stretti rapporti col Palazzolo. Ma anche altri episodi della vita pregressa del Palazzolo hanno trovato conferma in alcuni dati processuali che, sebbene (all’epoca e con il ristretto materiale probatorio a disposizione) non hanno portato alla condanna dello stesso, dimostrano comunque l’esistenza di un suo coinvolgimento. Ci si riferisce, in particolare, all’omicidio di Agostino Badalamenti ed a quello, per certi versi, connesso di Antonio Ventimiglia, in ordine ai quali il Palazzolo è stato indagato e poi prosciolto. Ovviamente non si intende valorizzare in chiave negativa un dato obiettivamente a favore del Palazzolo (il suo proscioglimento) ma solamente evidenziare che per quei fatti riferiti, in modo straordinariamente convergente, dai collaboratori e confermati dalla testimonianza dell’Oliveri il Palazzolo era stato autonomamente raggiunto da altri elementi indiziari. In conclusione dell’esame delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, dunque, va evidenziata la straordinaria convergenza delle dichiarazioni di questi ultimi soprattutto in relazione al contesto relazionale del Palazzolo, al livello verticistico dei suoi rapporti con esponenti di cosa nostra, al suo coinvolgimento nel riciclaggio del denaro sporco provento di traffici di sigarette e di droga (tra i quali anche Pizza Connection), ai suoi rapporti di affari (in particolare il commercio di pietre preziose), anche successivi al suo trasferimento in Sudafrica, con alcuni capi indiscussi del sodalizio, alla sua disponibilità ad accogliere latitanti all’estero ed al mantenimento di contatti anche in tempi recenti e sicuramente successivi al 1992. Tali dati, oltre alla suddetta convergenza, hanno trovato riscontro in documenti (si pensi all’ affidavit del Venter), nelle indagini svolte all’epoca dei fatti (v. deposizione del Gen Pitino), nella sentenza di applicazione di pena per lo stralcio Pizza Connection e nelle stesse affermazioni del Palazzolo riferite dal testimone Franco Oliveri. Infine, hanno trovato riscontro nelle dichiarazioni rese dal recente collaboratore di giustizia Antonino Giuffr è. Pur tuttavia, come si è già avuto modo di dire. poiché questi, a differenza degli altri collaboratori già esaminati, ha anche riferito fatti e comportamenti successivi al marzo del 1992 ed anche molto recenti, appare preferibile rinviarne l’esame ad un momento successivo della presente sentenza. E ciò anche per evidenziare l’obiettiva distanza che corre tra le (sia pure plurime, convergenti e riscontrate) dichiarazioni di collaboratori che, riferendosi essenzialmente al periodo coperto dal giudicato, possono essere valorizzate al limitato fine di delineare il quadro di riferimento di cui si è ampiamente detto e quelle, tutt’affatto differenti, del Giuffrè che assumono un ben diverso valore probatorio. E sempre allo scopo di ricostruire il complessivo quadro di riferimento concernente l’odierno imputato, vale la pena di ripercorrere il suo vissuto a partire dalla sua detenzione in Svizzera per poi passare ad esaminare il suo travagliato trasferimento in Sudafrica. E’ bene premettere che tali risultanze emergono sia dalle testimonianze rese nel corso di questo processo da vari ufficiali di P.G. italiani (v. ad esempio Grassi, Zampolini, Pitino) che da quelle assunte nel corso della rogatoria internazionale in Sudafrica, eseguita dal Tribunale su concorde richiesta delle parti. A tale proposito non appare superfluo ribadire ancora una volta come l’esigenza processuale di procedere a tale commissione rogatoriale sia stata, di comune accordo, avvertita da entrambe le parti, posto che sia il P.M. che la difesa del Palazzolo hanno richiesto l’escussione dei testi sudafricani indicati nelle loro rispettive liste ed hanno formalizzato la richiesta di rogatoria nel corso dell’istruzione dibattimentale. La richiesta di rogatoria, pertanto, veniva avanzata dal Tribunale alle Autorità sudafricane, attraverso il Ministero della Giustizia ed i canali diplomatici. Come si è già riferito, i competenti rappresentanti del Dipartimento della Giustizia sudafricano richiedevano, per conto del Ministro della Giustizia dello Stato adito, l’effettuazione di una riunione in Italia per definire le modalità della rogatoria e stabilire i tempi di effettuazione della stessa e le normative applicabili, tenuto conto che si trattava della prima rogatoria, in fase dibattimentale, richiesta dallo Stato Italiano a quello del Sudafrica, peraltro in assenza di trattati in materia tra i due Stati. Detta riunione avveniva alla presenza di tutte le parti processuali (sebbene non necessario né richiesto dalla normativa trattandosi di un incontro preparatorio e non di una udienza dibattimentale) e veniva redatto un verbale riassuntivo. All’esito anche di tale riunione il Dipartimento della Giustizia sudafricano comunicava per le vie ufficiali che la rogatoria era stata ammessa in relazione a tutti i testi, fatta eccezione per tre testimoni richiesti dalla pubblica accusa. A tale proposito va precisato che il Tribunale non aveva alcuna competenza in ordine a tale esclusione, posto che si trattava di una libera ed autonoma decisione dello Stato adito che ha ritenuto di poter concedere la rogatoria in relazione ad alcuni testimoni e di doverla negarla per altri. Non vi è dubbio, infatti, che tale decisione rientrasse nella competenza e nella sovranità dello Stato richiesto e che l’autorità rogante non disponeva di alcuno strumento giuridico per interferire sulla stessa. Vale, infine, la pena di notare come i testimoni esclusi dal Ministro della Giustizia sudafricano erano stati tutti richiesti dal P.M., circostanza che avrebbe potuto – in ipotesi ­ indurre proprio la pubblica accusa a lamentarne l’esclusione. Viceversa, di tale fatto si doleva la difesa del Palazzolo che, pur non avendo chiesto l’escussione di detti testi nella propria lista, ha evidenziato nel corso della rogatoria ed in varie guise, la presunta irregolarità di tale procedura adottata dallo Stato sudafricano. In questa sede non può farsi altro che ribadire come, in base alle regole procedurali in materia di rogatoria internazionale, ogni decisione circa l’ammissione totale o parziale di una richiesta di commissione rogatoriale rientra nel libero ed autonomo potere decisionale e nella sovranità dello Stato adito, senza che l’autorità giudiziaria richiedente possa in alcun modo influire sulla stessa. Nel corso della assai travagliata rogatoria svolta in Sudafrica sono stati assunti diversi testimoni richiesti da entrambe le parti, le cui deposizioni costituiscono senz’altro oggi un valido ed apprezzabile compendio probatorio pienamente utilizzabile ai fini della decisione. In modo particolare le testimonianze di Hans Klink, dell’Ispettore della Polizia sudafricana Peter Viljoen e quella, resa successivamente in Italia, dell’ex Ispettore Abraham Smith costituiscono senz’altro un interessante supporto probatorio nell’ambito del presente procedimento. A proposito di quest’ultima testimonianza va detto che lo Smith si è presentato a testimoniare nel corso delle udienze tenutesi a Città del Capo ma non ha potuto rendere la propria deposizione in quanto, in quel momento, affetto da una sindrome da stress post­ traumatico, avvalorata dal suo medico curante del pari escusso in quella sede. Successivamente il teste Smith – sulla cui audizione il P.M. ha insistito anche dopo la rogatoria – ha fatto sapere al Tribunale di essere disponibile a venire in Italia per rendere la propria testimonianza. Tale decisione è stata ampiamente motivata dallo stesso Smith, il quale ha fatto presente che la sua condizione di stress psicologico era connessa proprio all’indagine svolta a carico del Palazzolo e che il mutato contesto territoriale e le diverse condizioni nelle quali si sarebbe svolta la sua deposizione in Italia gli avrebbero consentito di testimoniare in modo libero e sereno. A ciò deve aggiungersi che, all’esito della rogatoria espletata, è stato acquisito un ulteriore compendio probatorio di tipo documentale, rappresentato dal c.d. “bundle of documents” (fascicolo di documenti) richiesto dalla stessa difesa del Palazzolo ed ammesso dal Tribunale stante il consenso prestato dal P.M.. A tale proposito deve notarsi come, nel corso dell’udienza del 1 novembre 2004 in Città del Capo, il difensore del Palazzolo abbia richiesto sua sponte l’ammissione di un fascicolo di documenti dallo stesso predisposto nell’interesse del proprio assistito. La richiesta del difensore era motivata dall’esigenza di esibire detti documenti ai testimoni e riguardava, per reiterata affermazione del medesimo legale, la produzione dei documenti e la loro piena utilizzabilit à (tra l’altro, v. pag. 96 della trascrizione in italiano dell’udienza “la mia richiesta in tale riguardo è che questi documenti siano ammissibili”). Il P.M., interpellato in proposito sia dal Giudice sudafricano che dal Tribunale italiano, prestava il proprio consenso alla produzione ed utilizzazione di tutti i documenti richiesti dalla difesa. Per tale ragione, trattandosi di documenti richiesti dalla difesa col consenso espresso del P.M., il Collegio ne disponeva l’ammissione al fascicolo del dibattimento, dichiarandoli, con apposita ordinanza, pienamente utilizzabili ai fini della decisione. Del resto sarebbe del tutto incomprensibile sotto il profilo logico e giuridico­processuale che una parte chieda di produrre dei documenti dalla stessa predisposti, insista per la loro ammissione ed utilizzazione e, una volta ottenuto il consenso della parte avversa, chieda poi che gli stessi vengano dichiarati inutilizzabili. Ciò posto, sia il compendio testimoniale frutto della rogatoria internazionale (svoltasi su richiesta ed alla presenza di entrambe le parti) che i documenti acquisiti a seguito della richiesta della difesa e col consenso del P.M. che, infine, la testimonianza resa in Italia dallo Smith rappresentano oggi elementi processualmente utilizzabili ai fini della decisione. In modo particolare assumono una particolare valenza significativa l’informativa a firma dello Smith (dallo stesso ribadita in udienza) ed una serie di documenti ufficiali quali, ad esempio, l’allegato al registro delle imputazioni del Tribunale regionale per il distretto del Capo (doc. n. 24 del fascicolo della difesa). Sulla scorta di tale complesso di emergenze pu ò, quindi, ricostruirsi la vicenda dell’ingresso in Sudafrica del Palazzolo, il suo contesto relazionale ed anche la vicenda dell’ospitalità fornita al Bonomo ed al Gelardi. Vito Roberto Palazzolo era stato arrestato in Svizzera il 20.4.84 su ordine di cattura internazionale emesso dall’A.G. italiana con l’accusa di associazione per delinquere finalizzata al traffico di stupefacenti. Non avendo alcuna intenzione di essere estradato in Italia, il Palazzolo rilasciava una dichiarazione al Procuratore Pubblico elevetico il 10.10.84, confessando un reato commesso in quello Stato ed evitando, così, di essere trasferito e giudicato in Italia (v. doc. n. 24 del bundle e conferma della testimone dottoressa Carla Del Ponte, Procuratore federale svizzero). Nel corso della sua detenzione in Svizzera, approfittando di un permesso di 36 ore concessogli in occasione delle festività natalizie, il Palazzolo evadeva in data 24.12.1986. Giungeva in Sudafrica il 26.12.1986 sbarcando da un volo Francoforte­Johannesburg ed esibiva agli organi di frontiera un passaporto svizzero a nome di tale Stelio Domenico Frappoli. Si trattava di un passaporto falso ottenuto dal suddetto Frappoli, noto falsario professionista, amico e compagno di detenzione del Palazzolo, sul quale era stata apposta la sua fotografia. Presentatosi al controllo di frontiera col passaporto falso, il Palazzolo dichiarava altrettanto falsamente di trovarsi in vacanza, riempiva un modulo di arrivo B1 55 con le suddette false generalità ed otteneva un visto turistico valevole fino al 21.1.1987. Una volta fatto il proprio ingresso illegale in Sudafrica, l’imputato si incontrava con un politico locale, l’on.le Peet De Pontes, il quale fungeva da contatto e copertura, trattandosi di un influente esponente del partito nazionalista sudafricano allora al potere. Il Palazzolo e suo fratello Pietro Efisio, tuttavia, si vedevano negare il rilascio di ulteriori visti dallo Stato sudafricano, anche a causa di alcune dichiarazioni false che avevano reso a proposito della disponibilit à da oltre un anno di alcuni beni in quel Paese. Poiché veniva accertato che il Palazzolo nell’anno precedente era stato detenuto in Svizzera, gli veniva rigettata la richiesta di ulteriori visti, in attesa di verificare la sua condizione rispetto allo Stato elvetico. In particolare, la richiesta di visto veniva respinta il 23.7.86 in quanto il Palazzolo veniva dichiarato “persona indesiderata” in ragione delle condanne e della pena da scontare in Svizzera (v. doc. n. 24 del fascicolo, punto 7.1) Il Palazzolo, dimostrando ancora una volta le sue indiscutibili doti di furbizia e perspicacia, aggirava l’ostacolo introducendosi senza alcun problema nel territorio di un piccolo Stato – la Repubblica indipendente del – che ricadeva all’interno del Sudafrica. Come riconosciuto dallo stesso Presidente dello Stato del Ciskei, Sebe, il Palazzolo otteneva la residenza permanente in detto paese, a fronte di una “donazione” di 20.000 rand (la moneta locale) sotto forma di “contributo personale a scopi caritativi”. Nel frattempo l’imputato otteneva anche il cambio della propria identità, nel senso che, accanto a quella autentica, gli veniva riconosciuta quella falsa di Robert Von Palace Kolbatschenko, con la quale, ancora oggi, è identificato in Sudafrica. Nel corso del 1987 il Palazzolo acquistava numerose proprietà immobiliari in varie zone del Sudafrica, investendo svariati milioni di rand. In particolare, acquistava la fattoria (Farm) “Terre de Luc”, composta da una rilevante azienda agricola e vari caseggiati di pregio ed ubicata in località Franschoek vicino Città del Capo, oltre ad altre proprietà ed allevamenti di struzzi, di cavalli e di altro bestiame. Nel frattempo l’autorità giudiziaria elvetica aveva emanato un mandato di cattura internazionale e, nel mese di gennaio del 1988, la richiesta sembrava essere stata accolta dal Sudafrica. Due giorni prima che la polizia svizzera giungesse in Sudafrica per dare esecuzione al mandato di arresto, la polizia sudafricana (la sezione narcotici comandata da Charles Fouche e della quale faceva parte anche Gert Nel di cui si dirà appresso) faceva irruzione presso l’azienda del Palazzolo e lo traeva in arresto. Nel corso della perquisizione venivano sequestrate 10 armi da fuoco e diamanti per un valore di circa 500.000 rand che erano custoditi in casa dell’imputato. Il 6 febbraio 1988 il Palazzolo veniva riaccompagnato in Svizzera per scontare la pena che gli era stata comminata ed alla cui esecuzione si era volontariamente sottratto evadendo il giorno di natale del 1986. Fin dalla vicenda relativa all’ingresso illegale in territorio sudafricano, il Palazzolo veniva formalmente sottoposto ad indagini ed accertamenti da parte della polizia di quello Stato, con esiti, per la verit à, quasi sempre sconcertanti. Il contesto generale di tali presunte attivit à investigative può essere compreso sia avvalendosi delle dichiarazioni dei testi Viljoen e Smith che attraverso la mera disamina dei documenti in atti. Sulla scorta di tali elementi appare evidente che il Palazzolo abbia goduto in Sudafrica di potenti coperture politiche, essendo stato egli in un primo tempo in stretto contatto con il partito nazionalista e subito dopo avendo sostenuto – in tutti i modi possibili (compreso un riferito e supposto traffico di armi) – l’Africa National Congress e cioè il partito dell’ex presidente Mandela (e dell’attuale presidente ‘Nbeki) che avrebbe poi preso il potere circa un decennio fa. Oltretutto il Palazzolo risulta essere da anni uno dei più influenti uomini d’affari dell’intero Sudafrica, proprietario di numerose miniere di diamanti, di estese aziende agricole, di una industria per l’imbottigliamento dell’acqua minerale (con commesse rilevanti come quella della compagnia aerea di bandiera sudafricana), di allevamenti di struzzi e di cavalli da corsa, di svariate concessioni per l’estrazione di preziosi e di un consistente patrimonio immobiliare e finanziario. Il suo ruolo e la sua influenza nell’ establishment sudafricano è rimasto comprovato da relazioni politiche con ministri del governo passato e di quello in carica e con alti rappresentanti governativi e delle Istituzioni di quel Paese. Accanto ed al di là delle coperture ed amicizie politiche, sempre dalle parole dei testi Viljoen e Smith nonch é dalla documentazione acquisita agli atti si ricava un quadro desolante di vari episodi di condizionamento e corruttela che lo stesso Palazzolo avrebbe posto in essere per influenzare gli esiti delle indagini a suo carico. Anche attraverso l’esame della documentazione in atti appare, invero, estremamente plausibile che il Palazzolo abbia operato con estrema disinvoltura condizionando una pletora di pubblici funzionari e poliziotti che si sarebbero dovuti occupare delle indagini a suo carico. Tali affermazioni dei testi – gli unici, per quanto consta al Tribunale, che abbiano svolto dei veri accertamenti sul conto del Palazzolo – risultano corroborate da tutta una serie di archiviazioni di procedimenti o di pilotati fallimenti investigativi. Basti considerare, come si vedrà, che il capo dell’unità speciale appositamente costituita dal Governo per indagare sul Palazzolo (la Presidential Investigation Task Unit), l’allora Generale Lincoln, è stato processato e condannato in quel Paese proprio per avere ricevuto dall’imputato vari beni e facilitazioni e per avere cospirato con lui ed a suo favore. Ovvero, appare sufficiente esaminare la posizione del Generale Venter che, dopo avere, solo formalmente, investigato senza esito sul Palazzolo ed aver sinanco rilasciato un affidavit sul suo conto che appare quasi un peana di celebrazione, risulta aver ottenuto l’assunzione della figlia e del genero presso una azienda agricola con allevamento di propriet à dell’imputato in località Ensuru in . E, nonostante ciò, il Venter è venuto a rendere testimonianza a favore del Palazzolo nel corso della rogatoria in Sudafrica, ribadendo gli elogi nei suoi confronti e confermando l’esito negativo delle indagini svolte a suo carico mentre i suoi congiunti erano in affari con l’indagato (all’epoca latitante e ricercato sia per la Giustizia italiana che per quella statunitense). Vale la pena di evidenziare, a tale proposito, come l’affidavit rilasciato dal Venter (v. documenti in atti) era stato richiesto da uno dei legali del Palazzolo (l’avv. Angelucci di Roma), il quale aveva inviato al pubblico funzionario il testo della dichiarazione che il Venter si è limitato a firmare come se la stessa fosse stata redatta e compilata da lui. E non appare ultroneo evidenziare come diversi membri della polizia sudafricana che sono stati nel tempo incaricati di svolgere accertamenti nei confronti del Palazzolo siano finiti per diventare suoi dipendenti e per rilasciare dichiarazioni giurate in varie sedi con le quali sostenevano l’assoluta integrità dell’imputato. Ritornando, per adesso, alla disamina della vicenda dell’ingresso del Palazzolo in Sudafrica va detto che le Autorità sudafricane svolsero delle indagini su tale episodio e giunsero sinanco alla costituzione di una Commissione giudiziaria sul c.d. caso Palazzolo/De Pontes. Ed invero, nel mese di ottobre del 1989 il Palazzolo veniva chiamato a testimoniare nel processo penale a carico del De Pontes, ottenendo un permesso di soggiorno connesso al suo dovere di testimoniare in quel processo ed in altri eventualmente collegati. A parte detto periodo, pertanto, dal 26.12.86 al 21.12.87 e dal 31.10.91 al 31.3.93 il Palazzolo non aveva alcun permesso di soggiorno temporaneo o permanente nella Repubblica del Sudafrica. Egli rimaneva formalmente cittadino del Ciskei salvo ottenere la cittadinanza del Sudafrica solo il 10.8.1994 “sulla base di attestazioni mendaci e/o ingannevoli, e/o dichiarazioni mendaci per quanto riguarda dati e/o l’omissione in tale domanda di fatti rilevanti” (v. lo specifico punto 20.2 del documento citato in atti.). Nonostante l’imponente ed inoppugnabile compendio documentale a suo carico il Palazzolo veniva prosciolto da tutte le imputazioni, anche perché la sua testimonianza a carico del De Pontes gli aveva consentito di ottenere una sorta di immunità da quasi tutti i reati a lui contestati (v. a tale proposito i documenti in atti e la deposizione del Viljoen a pag. 27 dell’udienza del 5.11.2004). Nelle more, infatti, il Palazzolo aveva testimoniato nel processo a carico dell’on.le De Pontes, il quale era stato incriminato in relazione a nove capi di imputazione per frode, furto e corruzione, tutti commessi, è bene precisarlo, in concorso con e per conto del Palazzolo ed al fine di favorire proprio il suo ingresso illegale in Sudafrica. Il De Pontes, pertanto, veniva condannato per vari reati tra i quali la corruzione di un ufficiale del Ministero dell’Interno sudafricano, il furto di documenti, la falsificazione degli archivi di un Procuratore sudafricano ed il trasferimento fraudolento della partecipazione azionaria della società Papillon International, reati tutti commessi nell’esclusivo interesse del Palazzolo ed al fine di consentirgli l’ingresso illegale in Sudafrica. (v. in proposito la deposizione del teste Fouchè ed i documenti da allegato A­1 in poi). Il Palazzolo, da parte sua, invece di rispondere a titolo di concorso morale ed in veste di istigatore di tali condotte, veniva citato come testimone d’accusa a carico del De Pontes ed otteneva l’immunità per quasi tutti i principali capi d’accusa. Per i restanti capi sarebbe stato poi ovviamente assolto con un’altra sentenza acquisita agli atti. Financo la stessa “Commissione per l’investigazione su sedicenti reati commessi ai confini dello Stato” (v. doc. n.3 del fascicolo), commentando il comportamento del Palazzolo in relazione alla sentenza del Tribunale svizzero, si spingeva a sostenere: “conviene ora riferire il fatto che il Tribunale stabilì che il Palazzolo era in difficoltà finanziarie all’epoca del processo e fu condannato a pagare una piccola multa per questo motivo. Se consideriamo che il Palazzolo portò circa dieci milioni di rand nel paese, due anni dopo questa decisione del Tribunale e se si considera inoltre che rimase in carcere per tutto il tempo trascorso in Svizzera, sembra proprio che il Palazzolo abbia saputo raggirare il Tribunale con abilità”. L’esperienza diretta vissuta in Sudafrica dal Tribunale, l’esame dei documenti acquisiti agli atti ed il contenuto, sovente inverosimile ed al limite dell’oltraggioso, di alcune delle testimonianze ascoltate in quel Paese nel corso della rogatoria contribuiscono a delineare un quadro torbido di condizionamento diffuso e di sudditanza quando non anche di connivenza con l’imputato. E ciò da parte non di comuni ed inermi cittadini ma di rappresentanti delle Istituzioni locali, membri autorevoli e di vertice della polizia e delle forze dell’ordine e, sinanco, di un giudice della Corte Suprema sudafricana. Von Lieres und Wilkau, il quale è venuto a rendere un pubblico elogio delle virt ù e della nobiltà d’animo (e sinanco di nascita) del Palazzolo, salvo chiarire che la sua testimonianza non si basava su fatti constatati od accertati personalmente ma solo su notizie autobiografiche fornitegli con una nota scritta dallo stesso imputato Palazzolo. E sulla mera scorta dei dati fornitigli dall’imputato e senza alcuna verifica, il giudice Von Lieres und Wilkau si è prestato ad una testimonianza del tutto ininfluente ed inutile se non allo scopo di trasformare un alto magistrato della Corte Suprema sudafricana in un mero portavoce del Palazzolo citato a riferire, sotto forma di testimonianza, una nota autografa dell’imputato. Del resto vi è di più: diversi altri testi sudafricani della difesa, lungi dallo svolgere un siffatto ruolo, sono risultati tutti in rapporti con l’imputato ovvero già sottoposti ad indagini ed a processi per avere cospirato con lui. Si intende fare riferimento al generale Venter, a Gert Nel ed al direttore Lincoln che, come si vedr à, hanno avuto ruoli ben precisi nelle dinamiche riguardanti i depistaggi a favore del Palazzolo. In particolare, il generale Venter, oltre a ribadire il contenuto dell’affidavit rilasciato su richiesta dell’avvocato del Palazzolo ed acriticamente fatto proprio da lui, si limitava ad affermare che nessun elemento era emerso a proposito di episodi di riciclaggio di denaro sporco da parte del Palazzolo. E ciò nonostante dalla sua stessa dichiarazione (v. allegato E­3) emergano alcuni fatti che destano quantomeno sospetti sulla possibilità che il Palazzolo avesse introdotto cospicue somme di denaro in Sudafrica, pur avendo dichiarato all’A.G. svizzera di essere in pessime condizioni economiche (come evidenziato anche dalla Commissione per l’investigazione su sedicenti reati commessi ai confini dello Stato, v. dianzi). Ed invero, sulla scorta dei dati risalenti al 1988 emergeva che il Palazzolo era titolare di un conto denominato “Lorenz” presso la Sogenal Bank di Lugano, sul quale era depositata la somma di cinque milioni di franchi svizzeri. Il procuratore del Palazzolo in Svizzera, dallo stesso incaricato di gestire tale cospicuo conto corrente, era per l’appunto quello Stelio Frappoli cui si è già fatto più volte riferimento. Nel conto sarebbero state incluse somme di pertinenza di un non meglio identificato cliente australiano, al quale le stesse sarebbero state rimborsate a Singapore sia attraverso il Frappoli che il fratello dell’imputato, il quale all’epoca era domiciliato in Lesotho. Le singolari ed apparentemente inspiegabili modalità di trasferimento di dette somme e, soprattutto, la provenienza della somma di cinque milioni di franchi svizzeri non veniva in alcun modo spiegata dal Venter. A ciò si aggiunga che il Palazzolo risultava aver costituito in Sudafrica la società “Papillon Internazionale” insieme al De Pontes, il quale veniva condannato anche per l’illecito trasferimento del pacchetto azionario della medesima compagine societaria. La Papillon Int., peraltro, all’epoca stava negoziando un contratto pubblico proprio con il Presidente del Ciskei per lo stoccaggio di rifiuti tossici, altra circostanza rimasta inspiegata. Né il Venter né altri funzionari hanno saputo indicare quali indagini siano state svolte su tali avvenimenti certamente singolari se si pensa che il Palazzolo era rimasto in carcere per anni in Svizzera e che si era dichiarato quasi impossidente, mentre subito dopo il suo ingresso in Sudafrica aveva acquistato propriet à di assai rilevante valore, aveva introdotto una somma pari a dieci milioni di rand, aveva costituito una societ à e risultava titolare di un conto bancario in Svizzera sul quale erano depositati cinque milioni di franchi. Nonostante tutto ciò, il Venter rilasciava la suddetta dichiarazione facendo proprio quanto scritto dal legale del Palazzolo e cioè che “le indagini ufficiali non evidenziarono alcun indizio a sostegno dell’ipotesi che i fondi del conto Lorenz fossero proventi del traffico di stupefacenti successivi all’evasione dal carcere svizzero …. Le indagini ufficiali non rivelarono alcuna prova del fatto che Vito Roberto Palazzolo trafficasse in stupefacenti o riciclasse denaro sporco dopo il suo ingresso in Sudafrica”. In tale complessivo contesto, a parte la deposizione del Klink di cui si dirà appresso, le uniche testimonianze che sono apparse logiche, verosimili e frutto di attivit à investigative poste in essere con serietà e spirito di servizio nei confronti delle Istituzioni sudafricane sono quelle rese dai testimoni Smith e Viljoen. Entrambi i suddetti testi, ad ulteriore dimostrazione della loro correttezza ed incorruttibilità, sono stati oggetto di numerosi atti di minaccia e di interventi dall’alto finalizzati ad interferire sul loro lavoro. Basti pensare che il teste Smith è stato, in sostanza, estromesso dalle indagini dal suo diretto superiore Lincoln (poi processato per avere cospirato col Palazzolo ed avere ricevuto regali e favori da lui) e di fatto costretto a lasciare la polizia sudafricana perch é sottoposto ad un linciaggio morale e ad una campagna di delegittimazione ben orchestrata. Inoltre, come se ciò non fosse sufficiente, lo Smith ha denunciato di avere subito vari danneggiamenti presso la sua abitazione, furti anche sul luogo di lavoro, l’uccisione di un cane da difesa, la manomissione dei freni della sua automobile e sinanco l’esplosione di una bomba molotov nella sua cucina che hanno determinato in lui quel comprensibile stato di stress post­ traumatico che è stato diagnosticato dal suo medico curante. Orbene, analizzando nel complesso l’attività dello Smith e la serie di atti intimidatori dallo stesso subiti, sia all’interno che all’esterno del luogo di lavoro, tale patologia non appare il frutto di un tentativo di sottrarsi al dovere di testimoniare (tanto è vero che il teste è venuto spontaneamente sinanco in Italia per farlo) né tantomeno di una sua intrinseca e congenita fragilità psichica ma, al contrario, essa rappresenta la umana e logica conseguenza di un attacco concentrico che lo ha costretto a soccombere quale investigatore ma che non gli ha impedito di testimoniare. Nel compendio di tale attacco rientra sicuramente l’atto di citazione civile per danni notificato dai legali del Palazzolo allo Smith ed al Viljoen, rei di avere macchiato la reputazione ed il buon nome di quest’ultimo e perciò chiamati a risarcire all’imputato una enorme somma di denaro. Del resto anche il Viljoen – dimostratosi rara figura di investigatore severo, puntuale e non incline alla corruttela – ha dichiarato di avere incontrato nelle sue indagini sul Palazzolo una serie di ostacoli provenienti da parte dei suoi superiori e da politici locali altolocati di cui era sinanco disponibile a fare i nomi in dibattimento. Ed addirittura poco prima dell’inizio di una udienza a Città del Capo egli ha avuto un diverbio con il signor Gert Nel, il quale ha tentato di provocarlo per ottenere una reazione in grado di screditare la figura del testimone davanti alla Corte. Ciò nonostante il Viljoen non ha reagito in alcun modo e non ha neppure riferito sua sponte l’episodio ma solo su specifica domanda del difensore dell’imputato, al quale evidentemente l’episodio non doveva essere sfuggito. Il Nel – che, peraltro, in questo processo è stato un teste citato dalla difesa – ha prima fatto parte della polizia sudafricana, svolgendo indagini sul Palazzolo insieme al sovrintendente Fouche e subito dopo ha accettato un posto di lavoro stabile (e tuttora in corso al momento della deposizione) come investigatore privato alle dipendenze proprio dei legali del Palazzolo. Gert Nel, peraltro, è uno dei soggetti indicati dal Viljoen nel documento denominato reperto R (allegato n.24 del fascicolo) come uno dei collaboratori del Palazzolo nella gestione con criteri mafiosi dei suoi affari. Egli, inoltre, aveva già tentato di “convincere” l’ex collega Viljoen dell’assoluta innocenza del Palazzolo, in occasione di un precedente appuntamento ad un bar del quale lo stesso teste ha riferito in aula. Nonostante gli attacchi, le azioni civili di risarcimento milionarie ed i tentativi di screditare i due testi, sia facendo passare per pazzo o alcolista lo Smith che tentando di condizionare il Viljoen sinanco prima dell’inizio dell’udienza, costoro si sono rivelati persone del tutto attendibili ed investigatori seri e rigorosi. Tale giudizio di attendibilità, peraltro, viene ancor di più confermato dal fatto che entrambi hanno saputo resistere a innumerevoli tentativi di condizionamento e si sono rifiutati di soggiacere agli interessi del Palazzolo ed alle pressioni dei suoi referenti politici e dei superiori gerarchici che in tutti i modi hanno cercato di ridurli al silenzio. Il teste Peter Hans Viljoen, attualmente membro della “Squadra provinciale per indagini sui vertici della criminalità organizzata” e poliziotto in servizio da 23 anni nella polizia sudafricana, riferiva di avere svolto indagini sul conto del Palazzolo nel corso del 1998. Dopo appena due mesi di accertamenti preliminari il Viljoen si era reso conto del livello di inquinamento della polizia in relazione alle indagini che riguardavano il Palazzolo ed aveva redatto una nota coperta da segreto e riservata (allegata agli atti al doc. 24) con la quale descriveva per grandi linee l’organizzazione gestita dall’imputato a Città del Capo e suggeriva ai vertici istituzionali la necessità di avviare una approfondita e specifica indagine sul Palazzolo. Nonostante la segretezza della nota, dopo appena una settimana tale atto si trovava già nelle mani del Palazzolo, a dimostrazione del livello di permeabilit à dei vertici della polizia dell’epoca. Le precedenti indagini sul conto del Palazzolo erano state affidate al generale Venter, all’epoca a capo della Sezione indagini sulla criminalità organizzata, ma questi, di fatto, non aveva svolto alcun accertamento sull’imputato. Anzi aveva financo redatto un affidavit dietro richiesta dei legali del Palazzolo, con il quale affermava l’inesistenza di alcuna irregolarità a carico di quest’ultimo, e ciò pur essendo consapevole che il Palazzolo era ricercato in Italia e negli U.S.A. per traffico di stupefacenti ed associazione mafiosa. Il generale Venter, peraltro, era buon amico personale del Palazzolo e la di lui figlia ed il genero lavoravano per suo conto, gestendo una fattoria con allevamento in Namibia. Lo stesso Viljoen sottoponeva ad indagini il generale Venter per l’ipotesi di corruzione in concorso col Palazzolo, contestandogli nel corso di un interrogatorio la falsità di alcune sue affermazioni sul conto dell’imputato e l’esistenza nei documenti in suo possesso di parecchi spunti investigativi che avrebbero dovuto portarlo a giungere a ben altre conclusioni. All’esito di tale indagine il Viljoen aveva anche ottenuto due mandati di arresto per il Palazzolo ed il Venter ma, a seguito di una riunione operativa con i vertici distrettuali della polizia e dell’ufficio inquirente di Città del Capo, gli era stato ordinato di non dare esecuzione ai mandati in quanto sarebbe stata costituita una squadra investigativa col compito di svolgere una indagine molto più ampia sul crimine organizzato (che sino ad oggi non risulta essere stata svolta). L’incarico di occuparsi di Palazzolo era stato dato al Viljoen dal sovrintendente Fouchè dopo lo scioglimento di fatto della P.I.T.U. (unità presidenziale di indagine sulla criminalità) a suo tempo comandata dal Lincoln. Nel 1998, invero, l’agente Smith aveva dato le dimissioni da quella squadra per contrasti con il generale (e poi Direttore) Lincoln, il quale era stato arrestato e sottoposto a processo proprio per numerosi reati connessi anche al suo rapporto col Palazzolo e posti in essere mentre dirigeva l’unità appositamente costituita dal Presidente Mandela per indagare su di lui. Con Fouchè – anch’egli successivamente divenuto buon amico del Palazzolo – lavorava anche Gert Nel, il quale aveva fatto avere illegalmente all’imputato, tramite tale Toni D’Amore, la nota a firma Smith/Lincoln datata 18.6.96 (v. doc. n.7 del fascicolo) che ricostruiva le indagini a suo carico. Successivamente era divenuto suo dipendente tuttofare tanto da essere soprannominato “the sweeper”, lo spazzino, nel senso che si occupava di svariati affari sporchi per suo conto. Nel corso delle sue prime indagini il Viljoen ricostruiva un organigramma dei soggetti legati al Palazzolo da rapporti di fiducia e/o di collaborazione e dipendenza, ritenendo che si trattasse di una complessa organizzazione che agisse, con sistemi e metodi mafiosi del tutto sconosciuti alla polizia sudafricana, nel territorio del Capo. Come chiarito dallo stesso teste si trattava di un progetto di lavoro basato su notizie raccolte per via formale ed informale nonché su accertamenti diretti svolti dallo stesso Viljoen che, tuttavia, non era il compendio finale dell’indagine a carico del Palazzolo ma solo lo spunto iniziale che doveva dare l’avvio all’indagine stessa. Tale nota del tutto riservata, tuttavia, era stata immediatamente recapitata al diretto interessato, il Palazzolo, con ciò rendendo oltremodo arduo svilupparne i contenuti ed approfondirne gli esiti. Il Viljoen, per correttezza, riferiva di non avere accertato personalmente l’esistenza di rapporti con soggetti operanti in Sicilia ma di avere solamente saputo dell’esistenza di continui contatti telefonici alcuni dei quali erano anche stati intercettati dalla polizia italiana e non da lui. Il suo riferimento all’organizzazione mafiosa operante a Città del Capo non riguardava, pertanto, l’accertamento dell’esistenza di una diretta emanazione territoriale in quel luogo di cosa nostra siciliana ma soltanto della presenza di un gruppo di potere e di affari, capeggiato dal Palazzolo, che agiva ed operava con il tipico metodo mafioso intriso di intimidazione, corruttela ed appoggi influenti ad alto livello. A specifica domanda della difesa il teste chiariva che lo scopo della sua indagine, durata dall’aprile del 1998 al settembre del 1999, non era quello di accertare legami del Palazzolo con la mafia siciliana (che lui riteneva gi à dimostrati attraverso le indagini della polizia italiana) ma di verificare la sua operatività in Sudafrica e l’esistenza di illeciti in quel paese. A tale proposito occorre evidenziare come il teste Viljoen sia stato sottoposto ad un controesame assai stringente ed a tratti fortemente polemico da parte dell’avvocato Heunis, il quale ha cercato di farlo cadere in contraddizione e di dimostrare la posizione pregiudiziale del testimone. Ciò nonostante il Viljoen si dimostrava assolutamente lucido, logico, coerente e rispettoso dimostrando di non avere alcun pregiudizio nei confronti dell’imputato e di assolvere appieno ai doveri propri della testimonianza. Purtroppo le fughe di notizie e l’opera di condizionamento dall’alto del lavoro del teste Viljoen lo inducevano a lasciare l’indagine sul Palazzolo nella convinzione che “al signor Palazzolo non sarebbe successo mai niente in questo Paese…” (pag. 66 trascrizione udienza del 3.11.2004). Il riferimento chiaro ed evidente era alle coperture di cui godeva l’imputato che, limitando l’analisi ai nomi che il teste si è sentito di fare (su altri ha preferito tacere per ragioni di sicurezza), riguardavano, solo all’interno della polizia e prescindendo dalle coperture politiche e da quelle giudiziarie, il generale Lincoln, il generale Venter, il commissario Grovè e Gert Nel (e forse anche il generale Fivaz). E non si trattava di una pura e semplice opinione del Viljoen ma di fatti e documenti a carico di tali funzionari che sono stati oggetto di indagini svolte dal teste e/o di processi che si sono celebrati a loro carico. Così come non era una opinione l’esito inverosimile di alcuni processi a carico del Palazzolo pur in presenza di prove granitiche nei suoi confronti, come nel caso dell’ingresso illegale in Sudafrica, indagine svolta anche dallo stesso Viljoen. Alla stessa stregua il Viljoen, a domanda del difensore, precisava che il documento n.1 del fascicolo della difesa (nota datata 31.1.89 a firma dell’avvocato di Stato Annette De Jager) conteneva informazioni non esatte. Si trattava di una risposta data all’A.G. elvetica con la quale si comunicava che “le indagini sulle sue attività in Sudafrica non hanno dato esito positivo e non è stata riscontrata alcuna prova del suo coinvolgimento con il traffico di droga e di riciclaggio di denaro sporco ”. Tale affermazione, a giudizio del Viljoen, non poteva essere correttamente riferita in quanto sino a quel momento nessuna vera indagine era stata svolta dalle Autorità sudafricane in relazione al coinvolgimento del Palazzolo nel traffico di droga e nel riciclaggio. Esaurita la disamina della deposizione del teste Viljoen può passarsi a quella relativa al teste Abraham Smith, ex agente della polizia sudafricana. Testimonianza che, in modo del tutto conforme alle norme procedurali italiane, è stata resa nel corso delle udienze dibattimentali tenutesi a Palermo il 26 e 27 ottobre del 2005. Già si è avuto modo di porre in risalto le difficili condizioni personali in cui il teste si è venuto a trovare prima della sua citazione per l’udienza del 1.11.2004 a Città del Capo e della decisione assunta dal Giudice Winter di non procedere in quella sede all’audizione a causa di uno stato di stress post­traumatico accertato anche grazie all’intervento del medico curante del teste. In quella sede il dottor Cloete, invero, aveva precisato che si trattava di uno stato emotivo transitorio che non minava per nulla la capacità mentale del teste che, in diverse condizioni ambientali e temporali, avrebbe potuto assolvere al suo dovere di rendere testimonianza. Anche la stessa difesa dell’imputato aveva riconosciuto che le condizioni del teste all’epoca lo rendevano “inabile a testimoniare per un periodo di tempo transitorio” e che, anzi, sussisteva la probabilità che in caso di un successivo miglioramento egli avrebbe potuto rendere testimonianza (v. in proposito pag. 5 della trascrizione dell’udienza del 9.11.2004). Lo stesso Giudice Winter, a conclusione dell’attivit à rogatoriale, aveva aggiunto che nessuna norma sudafricana e/o italiana a suo giudizio poteva impedire al teste di recarsi a rendere testimonianza in Italia. Ed in effetti, a fronte di una regolare richiesta di citazione dello Smith in qualità di teste dell’accusa (reiterata anche dopo la rogatoria) e della disponibilit à manifestata dallo Smith stesso a venire in Italia per rendere testimonianza non sussistono ostacoli a prendere in esame il contenuto della sua deposizione. Peraltro lo stesso teste, oltre a dichiarare che le sue condizioni emotive erano molto migliorate rispetto all’anno precedente e che il mutato contesto ambientale lo rendeva più sereno e sicuro, è apparso al Collegio assai lucido, coerente e scevro da alcuna posizione preconcetta. Ciò nonostante alcuni recenti episodi connessi al tentativo di convincerlo a non venire a rendere testimonianza in Italia in questo processo. Lo Smith, invero, ha chiarito che poco prima di venire in Italia per testimoniare aveva ricevuto diverse telefonate dall’avvocato Snitchers, legale sudafricano del Palazzolo che ha anche assistito all’intera attivit à rogatoriale quale componente del suo collegio di difesa, il quale lo aveva caldamente sconsigliato di rendere la sua testimonianza in questo processo, spingendosi sino a ricordargli che la causa civile di risarcimento danni nei suoi confronti era tuttora pendente in Sudafrica. Tali telefonate erano state ritenute di fatto minacciose dal teste anche perché, in base alla legge sudafricana, è del tutto proibito per un avvocato contattare un soggetto chiamato a testimoniare contro un suo cliente. Pur non di meno lo Smith aveva ritenuto doveroso venire in Italia a rendere la sua testimonianza che, anche per questo motivo, risulta vieppiù attendibile e consapevole. L’oggetto della testimonianza dello Smith ha riguardato sia il contesto in cui si erano svolte le indagini nei confronti del Palazzolo che la vicenda riguardante l’ospitalità fornita da quest’ultimo ai latitanti Bonomo e Gelardi. Ovviamente tale seconda parte sarà presa in esame al momento in cui verrà affrontato questo specifico episodio mentre per adesso appare necessario premettere alcuni passaggi della deposizione del teste che riguardano lo svolgimento iniziale delle sue indagini. Lo Smith aveva prestato servizio nella polizia sudafricana dal 1980 al luglio del 2000 e cioè fino alle sue dimissioni determinate dalla condizione di emarginazione e di delegittimazione in cui era stato costretto ad operare. Nel settembre del 1995 il teste – che all’epoca era in servizio presso il reparto crimine organizzato della polizia sudafricana ­ era stato incaricato di svolgere una indagine sui fratelli Salvatore ed Angelo Morettino, due oriundi siciliani che si erano stabiliti in Sudafrica. Nell’ambito di questa indagine, a maggio del 1996, gli era stato richiesto di fungere da ufficiale di collegamento con i rappresentanti del S.C.O. della Polizia italiana che si stavano recando in Sudafrica per alcuni accertamenti concordati tramite l’. In tale occasione egli aveva conosciuto l’Ispettore Cecilio Pera e gli agenti Stefano Zampolini ed Antonio Borsellino i quali si erano recati prima a Johannesburg e poi a Città del Capo. Nel corso di tale primo incontro aveva discusso con i colleghi italiani delle indagini a carico dei Morettino e dei collegamenti che esistevano tra costoro ed il Palazzolo (sia diretti che tramite il suocero di quest’ultimo, Grunfeld). Da osservazioni direttamente effettuate dallo Smith, infatti, era emerso che due automobili in uso al Palazzolo – di marca Mercedes (importate dall’estero) targate rispettivamente “CJ 81148” e “KN 456D” ­ erano spesso parcheggiate presso l’abitazione dei fratelli Morettino, sita al n. 1315 di Quebec Street a Camps Bay, località vicina a Città del Capo. Da accertamenti esperiti sulle targhe era emerso che le auto erano intestate al Palazzolo (alias Robert Von Palace) e risultavano targate nel distretto di Franschoek, dove era ubicata l’azienda “La Terre de Luc” di sua pertinenza. Nel corso di tale periodo di osservazione (giugno­ settembre del 1996) la casa dei Morettino – a detta dello Smith ­ sarebbe stata frequentata dal latitante mafioso Mariano Tullio Troia. Tale circostanza, tuttavia, era stata appresa attraverso un informatore del teste che, sebbene identificato, non è stato possibile rintracciare, motivo per il quale il Collegio ha ritenuto di non dover fare affidamento su tale parte della deposizione dello Smith. Di certo, tuttavia, la casa dei Morettino era frequentata dal Palazzolo e da altri soggetti provenienti dalla Sicilia, tra i quali anche la sorella dell’imputato ed il marito. Tale accertamento è stato possibile in quanto lo Smith, esaminando la spazzatura della casa, rinveniva le carte di imbarco utilizzate da tali soggetti per giungere in Sudafrica. Tali documenti venivano, pertanto, sequestrati e consegnati al Tribunale direttamente dal teste ed in originale nel corso della sua deposizione (v. documenti in atti). Attraverso i contatti con la polizia italiana lo Smith era venuto a conoscenza del fatto che vi era il ragionevole sospetto che diversi latitanti mafiosi si recassero in Sudafrica per ricevere ospitalità dai Morettino e dal Palazzolo. E poiché un altro informatore (a nome Patrick Le Roux) aveva confermato la circostanza della presenza del Troia presso l’azienda “La Terre de Luc” lo Smith aveva richiesto ed ottenuto dall’A.G. un mandato di perquisizione locale che aveva portato alla scoperta della presenza del Bonomo e del Gelardi presso l’abitazione del Palazzolo. A seguito della perquisizione con esito positivo avvenuta presso la tenuta del Palazzolo il 15 giugno 1996 – di cui si dirà a proposito dell’episodio Bonomo­ Gelardi – veniva costituita dal Presidente Mandela in persona una apposita squadra per investigare sul conto del Palazzolo, la Presidential Investigation Task Unit, diretta dall’allora Generale Andre Lincoln. Ben presto, tuttavia, lo Smith aveva avuto più di una ragione per sospettare del comportamento del Lincoln, il quale, nel corso delle indagini, aveva un costante rapporto telefonico con l’indagato, lo andava a trovare fuori dall’orario di lavoro ed anche in ore serali e cenava di frequente presso la sua abitazione. Del resto il Lincoln era in ottimi rapporti personali col Palazzolo sin dai tempi in cui militava nell’Africa National Congress e da questi aveva ricevuto una automobile (una Golf rossa) e centomila rand per non meglio chiariti servizi di intelligence. Inoltre, sempre nel corso delle indagini, il Lincoln aveva accompagnato (a spese del governo sudafricano) il Palazzolo in Angola allo scopo di intercedere in suo favore presso i rappresentanti del governo locale. In particolare, egli, avvalendosi del suo ruolo di alto funzionario di polizia sudafricano, aveva presentato il Palazzolo a quelle Autorità come un onesto e probo imprenditore sudafricano, allo scopo di fargli ottenere una concessione per l’estrazione di diamanti. Tali reiterati comportamenti del Lincoln avevano indotto lo Smith a chiedergli conto della sua posizione, minacciando di lasciare l’unità da lui diretta a causa dei dubbi sul suo operato. Il Lincoln non solo non si era affatto giustificato (pur ammettendo alcuni episodi) ma aveva incoraggiato lo Smith ad abbandonare l’unità e gli aveva sinanco personalmente riempito i moduli per chiedere il trasferimento. Ma, cosa assai più grave, il Lincoln aveva fatto mettere sotto osservazione e controllo lo Smith da parte di una divisione speciale e segreta della locale polizia. Anche tale illegittima iniziativa sarebbe poi stata contestata al Lincoln nel corso del processo a suo carico. Va, infatti, precisato che il direttore Lincoln – come si è già avuto modo di dire – è stato tratto in arresto per tali condotte e processato per numerosi e gravi reati. Come si ricava dalla deposizione resa dal Vice Commissario Knipe all’udienza dell’8 novembre 2004 a Città del Capo, il Lincoln era stato arrestato quando ancora occupava il ruolo di direttore della P.I.T.U.. Le imputazioni a suo carico erano ben 47 e riguardavano reati quali furto, frode, intimidazione ed altro ed, al termine del processo, il Lincoln venva condannato per 17 reati alla pena di 9 anni di carcere. Sulla base delle indagini svolte il Knipe concludeva sostenendo che l’indagine sul Palazzolo diretta dal Lincoln era stata “una presa in giro” a causa dei rapporti ravvicinati che lo stesso aveva stabilito con l’indagato e che si era risolta solo in uno spreco di risorse pubbliche senza alcun risultato (“ l’indagine Lincoln sul sig. Palazzolo ed altre persone influenti è stato un vero disastro, è stata una presa in giro e questo è da ascrivere alle investigazioni svolte sotto la direzione del sig. Lincoln”). La tesi sostenuta dal Lincoln – di avere agito sotto copertura – si era rivelata del tutto infondata, mentre, di fatto, si era trattato solo di una finta indagine svolta da un ufficiale infedele che aveva deliberatamente coperto il principale indagato anche per un tornaconto personale. Il teste Knipe, a conferma della attendibilità ed incorruttibilità dello Smith, ribadiva che “ogni prova raccolta (da Smith, n.d.e.) contro Palazzolo era capovolta e distrutta da Lincoln…. mi devo correggere… informazione” (v. pag. 39 della sua deposizione dell’8.11.2004). Addirittura, lo stesso Knipe si spingeva sino ad affermare che gli era sembrato del tutto incongruo che per il medesimo episodio (il viaggio in Angola) il Lincoln fosse stato condannato mentre il Palazzolo – in ipotesi il corruttore o l’istigatore e, comunque, il soggetto favorito – non era nemmeno stato indagato ( ibidem a pag. 36). La deposizione dello Knipe – teste del tutto indifferente ed attendibile­ appare di sicuro rilievo allo scopo di comprendere in quale incredibile contesto di falsità, doppiezza e connivenza lo Smith si è trovato ad operare, del tutto isolato e sovraesposto da un superiore che agiva in complicità con l’indagato. Addirittura sottoposto ad una illegittima contro­ investigazione nei suoi confronti (confermata dallo stesso teste Knipe) al chiaro scopo di metterlo in cattiva luce, operazione questa che è proseguita sino al processo nel corso del quale si è più volte tentato di far passare lo Smith per un alcolista, un visionario se non addirittura un malato di mente. Va detto, invero, che lo Smith, oltre alle suddette accuse formulate dal Lincoln, era indicato come “una spia in servizio per conto della Polizia italiana”. In realtà, come chiarito dai testi Grassi e Zampolini del S.C.O. della nostra Polizia, lo Smith in quel frangente si era rivelato l’unico referente sudafricano serio e professionale che aveva fornito loro, nell’ambito delle rispettive competenze, un vero ausilio nelle indagini sui Morettino e sul Palazzolo. Va da sé che, nel surriferito clima di complicità e coperture, lo Smith aveva intrapreso un rapporto pur sempre formale ma diretto con i colleghi italiani, evitando di “passare” ogni scambio di informazioni attraverso i superiori gerarchici sospettati fortemente di essere in combutta con l’indagato. La collaborazione dello Smith con la polizia italiana era poi proseguita in occasione di una seconda visita di questi ultimi in Sudafrica. In tale circostanza, tra le altre attività, era stato organizzato dal Lincoln un blitz a Johannesburg per la cattura del Troia che dalle informazioni assunte era ospite dei Morettino presso un appartamento di loro pertinenza. Come chiarito anche dal dottor Grassi e dall’agente Zampolini, i poliziotti italiani, dopo un briefing operativo, erano stati lasciati in albergo sotto sorveglianza, come se non si trattasse di colleghi impegnati direttamente nell’operazione ma di meri curiosi da tenere sotto controllo e lontano dal teatro dell’operazione. Il blitz aveva avuto esito negativo in quanto il gruppo comandato da Lincoln aveva fatto irruzione in un appartamento diverso da quello indicato per un incredibile errore di numero civico. A tale proposito vale senz’altro la pena di ripercorrere brevemente quanto riferito dai testi di P.G. italiani a proposito della collaborazione fornita loro dallo Smith e dal comportamento del Lincoln. Il dottor Andrea Grassi era a capo di una unit à del Servizio Centrale Operativo della Polizia di Stato incaricata, tra l’altro, di effettuare indagini sulla criminalità organizzata e della cattura dei latitanti. Sulla scorta delle indagini effettuate il S.C.O. era giunto al convincimento della presenza in Sudafrica di alcuni latitanti per reati di criminalità organizzata: oltre al Palazzolo ed al fratello Pietro Efisio, anche il Bonomo Giovanni, il Gelardi Giuseppe e Mariano Tullio Troia. Nel corso del 1994/1995 era già stata eseguita una rogatoria in Sudafrica finalizzata all’acquisizione di ulteriori elementi di indagine utili per giungere alla cattura del Palazzolo e di altri latitanti siciliani. Nel 1996 e nel 1997 erano stati effettuati tre viaggi di poliziotti italiani di concerto con l’Interpol e la polizia sudafricana ed i rapporti di collaborazione istituzionale erano intercorsi con la P.I.T.U. capeggiata dal Lincoln. Ben presto, tuttavia, era parso chiaro che questi era in rapporti stretti con il principale indagato (il Palazzolo) e che l’agente Smith era l’unico referente serio che forniva un autentico ausilio ai suoi colleghi stranieri. Il Lincoln, peraltro, in almeno due occasioni (un blitz all’aereoporto e quello presso l’abitazione di Johannesburg dove si sarebbe dovuto catturare il Troia) aveva dato chiari segni di sfiducia nei loro confronti ed aveva depistato le investigazioni tanto da far fallire entrambi i blitz per motivazioni apparentemente incredibili. Il Grassi aggiungeva sinanco che nel secondo blitz egli e gli altri poliziotti italiani erano stati trattenuti contro la loro volontà in albergo e sotto costante sorveglianza di poliziotti sudafricani armati, tanto da sentirsi quasi in stato di fermo di P.G.. Viceversa il dottor Grassi evidenziava la fattiva collaborazione prestata dallo Smith che, nonostante il grado inferiore rispetto al Lincoln, si era adoperato per fornire assistenza ai poliziotti italiani pur in un evidente e torbido clima di sfiducia e difficolt à operative. L’Ispettore Zampolini del S.C.O., dal canto suo, oltre a confermare quanto detto dal dottor Grassi, riferiva di una serie di telefonate intercorse su utenze italiane che si erano messe in contatto col Palazzolo e che avevano confermato l’attualità dei suoi rapporti con esponenti del crimine organizzato italiano. In particolare, erano state intercettate alcune conversazioni (il 17.4.96 ed il 6.5.96) tra il Palazzolo e tale Carlo Tozzi di Roma, soggetto noto al loro ufficio e che aveva in corso alcuni affari sospetti in Angola. Nel corso di alcune telefonate effettuate dal Tozzi con tale Bilbao si faceva chiaramente riferimento ad affari in corso col Palazzolo e sinanco ad un omicidio commesso proprio in Angola in pregiudizio di un non meglio identificato “Joao” o “Cheo”. Tali conversazioni sono state ammesse dal Tribunale e trascritte e tradotte dalla lingua portoghese mediante perizia e, pertanto, fanno parte del compendio probatorio pienamente utilizzabile ai fini della decisione. Dall’esame delle suddette conversazioni si evince chiaramente che il Palazzolo ed il Bilbao avevano in corso una serie di affari in Angola e di transazioni internazionali di forti somme di denaro di sospetta provenienza (a detta degli stessi interlocutori che si mostravano molto preoccupati delle indagini in corso da parte della polizia italiana). Nella conversazione del 17.6.96, poi, gli interlocutori (il Tozzi ed il Bilbao) discutevano di un omicidio commesso in Angola ed il Bilbao riferiva che tali Luiz e Quito erano stati arrestati proprio per questo. Il Luiz, in particolare, aveva denunciato la morte del Cheo (la vittima dell’omicidio) dopo aver parlato con “Roberto” che, dai plurimi riferimenti a Citt à del Capo ed agli affari in corso, deve senz’altro identificarsi nel Palazzolo. Il Roberto – sempre a detta del Bilbao – sapeva gi à “dell’incidente” ed il Luiz invece di avvisare la famiglia del morto aveva utilizzato la sua automobile destando sospetti. A tale proposito vale la pena di richiamare per esteso il passaggio della relativa trascrizione: Bilbao: (di fronte alle pressioni dei familiari, il Luiz) “… disse che Cheo non era caduto dal fiume ma che gli avevano sparato, era stato ucciso”. Carlo: “oh, cazzo com’è sto fatto?” Bilbao: “che portava diamanti e… portava camanga (fonetico) e che i sudafricani… c’erano stati dei problemi coi sudafricani e che uno… aveva… gli aveva sparato e che è stato ucciso in questo modo e che gli altri erano fuggiti…”. Bilbao: ”… solo che c’era il problema dei soldi e perci ò sembra che Roberto abbia mandato qualcuno dall’africa del sud con il denaro da consegnare alla famiglia… no? Per andare là…” … Bilbao:”questo ha cominciato a far sospettare la famiglia…” Carlo: “chiaro” Bilbao: “loro (inc.) hanno sporto denuncia alla polizia e quando hanno preso Luiz, Luiz aveva USD 1.000 in tasca…” Carlo: “si” Bilbao: “aveva il numero di Roberto, aveva il numero dell’Africa del sud, Luiz nemmeno voleva, si dice, dare il numero di telefono di Roberto dell’Africa del sud, per Chanta (fonetico) parlare con lui…” Carlo: “si credo di si” Bilbao: “molto complicata e… non credo che Roberto verrà qua tanto presto” Carlo: “cazzo” Bilbao:”credo che… involontariamente o no ha rovinato la sua vita qui o Luiz ha fatto almeno molte (inc.) che gli complicheranno la vita qui” Carlo: “cazzo” Bilbao:” stanno a chiedere un sacco di cose, hanno già scoperto che l’area dove lavoravano non era autorizzata, né niente, sai, no? Carlo: “si?” Bilbao: “e perciò ciò che non sanno (inc)… e soprattutto la polizia, no?” Carlo: “e ultimamente di chi erano?” Bilbao: “ah, è di Von Palace (fonetico) Carlo: “Cazzo”. Dunque, l’omicidio era stato commesso in relazione ad un affare di diamanti e l’area di estrazione interessata era intestata a Von Palace, cioè al Palazzolo, il quale era rimasto implicato in questa vicenda tanto che i due interlocutori si ripromettevano di non “avere più niente da fare” con Roberto, nel senso di prendere le distanze da lui. Proprio nello stesso torno di tempo rispetto a queste conversazioni telefoniche era stata, per altri versi, accertata la vicenda dell’ospitalità fornita dal Palazzolo al Bonomo ed al Gelardi. Si tratta di una condotta non solo ampiamente successiva al giudicato dal 1992 ma costituente un punto specifico della contestazione formulata dal P.M. nell’odierno capo di imputazione. Per ricostruire la vicenda si deve fare riferimento alle dichiarazioni rese dai collaboratori Brusca Giovanni e Mazzola Giovanni, a quelle rese dal teste Abraham Smith, alla relazione di servizio dallo stesso stilata a seguito della perquisizione presso l’azienda La Terre de Luc, ai documenti in atti e, soprattutto, alle dichiarazioni rese dal teste Hans Klink, all’epoca fattore presso l’azienda del Palazzolo, escusso nel corso della rogatoria internazionale. In primo luogo, attraverso le dichiarazioni rese dai suddetti collaboratori di giustizia rimaneva accertato che il Bonomo, al momento del fatto (giugno 1996), era reggente del mandamento mafioso di Partinico e cioè proprio di quel mandamento del quale, a detta dei sette collaboratori dianzi esaminati, faceva parte anche il Palazzolo. Il Bonomo non solo ricopriva tale carica all’interno di cosa nostra ma era da anni un uomo d’onore formalmente affiliato a tale famiglia mafiosa e ben noto come tale al Palazzolo, col quale era rimasto in ottimi rapporti personali non solo di amicizia ma anche di affari. E proprio il Bonomo era stato il tramite individuato dal Brusca per mettersi nuovamente in contatto col Palazzolo, allo scopo di riprendere a fare affari insieme poco prima del suo arresto (1996). Giuseppe Gelardi, invece, genero del Bonomo, era molto più giovane di lui e in quel periodo si affacciava al mondo di cosa nostra tramite l’influente congiunto. Inoltre era del pari nipote di quel Nino Madonia che, sulla scorta di quanto riferito pressocchè da tutti i collaboratori, era amico, socio e compare dello stesso Palazzolo (come dallo stesso, peraltro, confidato all’Oliveri). Entrambi dopo l’arresto del Monticciolo (uomo d’onore vicino al Brusca ed operante nella zona di San Giuseppe Jato e Partinico), temendo che questi potesse iniziare a collaborare – cosa poi effettivamente accaduta – erano immediatamente fuggiti da Partinico e si erano recati in Sudafrica, certi dell’ospitalit à del Palazzolo. Tale fuga dall’Italia con al seguito la famiglia non era certo stata determinata da un desiderio di una vacanza di piacere ma unicamente dal timore di essere di l ì a poco tratti in arresto a seguito delle probabili dichiarazioni del Monticciolo. Con tutta evidenza entrambi sapevano molto bene che il Monticciolo era a conoscenza del loro ruolo in cosa nostra e dei reati scopo che avevano commesso, tanto da decidere di sottrarsi volontariamente e preventivamente alla cattura. Tale previsione, del resto, era stata confermata appieno dal fatto che entrambi i soggetti già in fuga venivano subito dopo raggiunti da ordinanza di custodia cautelare emessa in data 29 maggio 1996 dal G.I.P. presso il Tribunale di Palermo proprio per il reato di associazione di stampo mafioso. Si trattava della prima ordinanza emessa dall’A.G. a seguito della collaborazione del Monticciolo, ad ulteriore conferma della esattezza delle previsioni fatte dal Bonomo e dal Gelardi nemmeno due mesi prima. Sulla scorta del documento prodotto su istanza della difesa col consenso del P.M. (il n.4 del fascicolo) è rimasto dimostrato l’ingresso in Sudafrica sia del Bonomo che del Gelardi. Si tratta di dati ufficiali ricavati dai registri di frontiera della polizia sudafricana confermati dai testi Smith e Viljoen. Per quanto attiene al Bonomo Giovanni, questi risultava entrato una prima volta in Sudafrica (all’aeroporto di Johannesburg) il 18.3.96 e ripartito dallo stesso luogo il giorno dopo. Era poi ritornato a Città del Capo in aereo il giorno 27.3.96 e ripartito l’8 maggio successivo, quindi rientrato sempre a Città del Capo il 12.5.1996. Tali ingressi e partenze erano avvenute mediante l’esibizione del proprio passaporto ed in modo ufficiale, atteso che l’ordinanza custodiale ancora non era stata emessa. Quindi il Bonomo risultava apparentemente uscito in via definitva dal Sudafrica il giorno 21 maggio 1996 attraverso il varco di frontiera con la Namibia (il varco di Vioolsdrift) ed a mezzo di una automobile Mercedes, targata CJ81148, intestata ed in uso al Palazzolo. Tale ultimo dato è stato oggetto di specifiche domande ai testi Smith e Viljoen che lo hanno espressamente confermato avendo entrambi svolto accertamenti sulla titolarità dell’automobile in questione. Non può negarsi che anche tale circostanza finisca per assumere una notevole importanza proprio al fine di dimostrare che sia il Bonomo che il Gelardi erano stati effettivamente ospiti dell’odierno imputato. Sempre dagli stessi registri di frontiera risulta dimostrato che il Gelardi Giuseppe aveva fatto lo stesso viaggio del suocero per e dal Sudafrica nei giorni 18 e 19 marzo 1996. Quindi aveva fatto ritorno a Città del Capo in aereo il giorno 27 marzo 1996 e risultava essere uscito definitivamente dal Sudafrica sempre il 21.5.96 con l’automobile del Palazzolo ed attraverso lo stesso varco di frontiera per la Namibia. Sua moglie, Bonomo Marianna, invece, risultava entrata in Sudafrica (in aereo via Johannesburg) il giorno 31.3.96 ed uscita con le stesse modalit à del padre e del marito. Come si è già avuto modo di riferire, a seguito di una complessa attività informativa ed investigativa svolta, l’ispettore Smith aveva, con l’avallo più o meno convinto del direttore Lincoln, pianificato una perquisizione presso l’azienda agricola La Terre de Luc del Palazzolo in località Franschoeck nei pressi di Città del Capo, essendovi fondati sospetti che ivi venisse nascosto qualche latitante di origine siciliana. Le modalità e gli esiti di detta attività di polizia sono desumibili dalle stesse dichiarazioni testimoniali dello Smith nonché dalla nota in atti (v. doc. n.7 del fascicolo), acquisita sul consenso delle parti e, come tale, pienamente utilizzabile. Si tratta della nota dell’Ufficio del Comandante della Divisione investigativa contro la criminalità organizzata datata 18.6.96, redatta dallo Smith e firmata da quest’ultimo e dal direttore Lincoln. Tale informativa di indagine era stata formalizzata per l’inoltro alla polizia italiana ed, in modo particolare, al S.C.O. della Polizia di Stato tramite l’Interpol. L’operazione di perquisizione riguardava contestualmente sia la tenuta del Palazzolo che l’abitazione dei Morettino (in Quebec Street 13­15) cui si è già fatto riferimento. L’ispettore Smith aveva personalmente coordinato la perquisizione avvenuta il giorno 15 giugno 1996 alle ore 14.00 presso l’azienda La Terre de Luc mentre altri operatori avevano eseguito la perquisizione presso casa Morettino. Vale solo la pena di evidenziare come quest’ultima perquisizione non abbia avuto alcun esito in quanto (sic!) i poliziotti avevano trovato la porta chiusa senza che vi fosse nessuno in casa. Viceversa, data la presenza dello Smith sul teatro dell’operazione, la perquisizione presso il domicilio del Palazzolo dava ben altri esiti, come si ricava dall’esame testuale della nota in atti, pienamente confermata dal teste nel corso della sua deposizione dibattimentale: “il 15/06/1996, intorno alle 16.00, è stata condotta un’operazione di polizia alla fattoria “La Terre de Luc” e nelle altre residenze di cui al paragrafo 9. Il sottoscritto ha condotto l’azione con il supporto di membri armati della Unità di Supporto della Polizia del Sudafrica. Durante la perquisizione il sottoscritto ha interrogato Hans, il direttore della fattoria, il quale ha ammesso che in due diverse ville nel territorio retrostante la fattoria abitavano tre (3) italiani e due (2) bambini. Ha menzionato il fatto che c’era un signore anziano, di bassa statura e corporatura massiccia che gli si era presentato come Giovanni, un produttore italiano di vini che stava conducendo delle ricerche sulla possibilit à di imbottigliare ed esportare vino in Italia. Secondo Hans, questo italiano abitava nella villa da solo. La camera da letto è stata ispezionata. L’armadio a muro era pieno di abiti appesi e mi è parso chiaro che lì abitava anche qualche altro. Ho controllato la manifattura degli abiti e scoperto che erano di design e produzione italiani. Ho ispezionato i bagni e controllato la vasca e il lavandino che erano asciutti. Anche il lavabo della cucina era asciutto e l’abitazione era pulita. Ho trovato un pezzetto di carta strappata accanto al telefono con sopra scritto il nome Vito con il numero di telefono 0836547731. ho intercettato questo pezzetto di carta perché la grafia sembrava quella di una persona anziana. Ho continuato chiedendo ad Hans dove dormissero le altre persone e lui ha collaborato mostrandomi il posto. Ho condotto un’ispezione simile e trovato l’armadio pieno di abiti maschili, femminili e per bambini. Dal fatto che tra i vestiti si trovassero dei pannolini ho capito che dovevano avere con sé un bambino piccolo. Anche questi vestiti provenivano dall’Italia. A questo punto ero pienamente convinto che i latitanti abitassero lì, nonostante sembrasse che avessero lasciato l’azienda in fretta senza portare abiti con sé. l’ispezione in bagno e in cucina non ha rivelato tracce di occupazione recente. Nel cestello della lavatrice ho trovato un pannolino sporco di urina asciutta e secca”. Sulla scorta di quanto riferito dal teste Smith, l’esito della perquisizione del 15 giugno 96 aveva chiaramente dimostrato la presenza recente, nelle villette destinate agli ospiti di casa Palazzolo, di un italiano anziano a nome Giovanni e di una coppia con un bambino piccolo che ancora adoperava i pannolini (esattamente come la famiglia del Gelardi, il quale era accompagnato dalla moglie Bonomo Marianna e dalla figlioletta in tenera età). Il fatto che una gran mole di vestiti (di marca e provenienza italiana) fosse stata lasciata all’interno degli armadi e che addirittura un pannolino fosse ancora all’interno della lavatrice, a giudizio dello Smith, stava ad indicare che il gruppo aveva abbandonato la casa in fretta e furia. Addirittura il teste riteneva di poter supporre (ma rimane una supposizione seppure affatto infondata alla luce della rogatoria espletata) che il Palazzolo fosse stato avvertito in tempo della imminente perquisizione presso il suo domicilio ed avesse così potuto far fuggire i suoi ospiti di gran premura proprio per evitare che gli stessi venissero sorpresi mentre ancora si trovavano a casa sua. Lo Smith riteneva che l’autore di tale “soffiata” potesse identificarsi in Antonio D’Amore, ex poliziotto sudafricano di origine italiana che aveva a suo tempo indagato sul Palazzolo e che poi era diventato suo ottimo amico e collaboratore. Il D’Amore, peraltro, in occasione della prima visita dei poliziotti italiani in Sudafrica aveva partecipato agli incontri operativi ed informativi ed aveva insospettito i colleghi stranieri per la troppa insistenza nel chiedere particolari che riguardavano unicamente la posizione del Palazzolo. Infine, poiché il fattore Hans aveva riferito che il gruppo degli italiani era partito per la Namibia e poi per il Botswana per vacanza, il teste sospettava che costoro si fossero recati in Namibia presso un’azienda agricola di proprietà sempre del Palazzolo, denominata “Ensuru”. Il teste Hans al momento della perquisizione non veniva nemmeno compiutamente identificato, tanto che il Tribunale ne ha chiesto l’esame nel corso della rogatoria internazionale previa identificazione. In tal modo, all’udienza del 1 novembre 2004 in Città del Capo si presentava a deporre il testimone Hans Klink, già dipendente del Palazzolo in qualità di fattore responsabile (manager) dell’azienda La Terre de Luc, dall’inizio del 1995 e sino al terzo trimestre del 1996. Il Klink riferiva che un uomo anziano di origine siciliana ed una coppia più giovane con una bambina erano stati ospiti del Palazzolo per alcuni giorni (da 10 a 15 giorni) e che avevano occupato due depandances della tenuta adiacenti alla casa principale. Gran parte dell’esame e del controesame del teste verteva poi sull’esatta individuazione del periodo in cui costoro avevano soggiornato presso il Palazzolo. E ciò in quanto la tesi difensiva si fonda anche sulla circostanza che la presunta ospitalità sarebbe, comunque, avvenuta prima del 29 maggio 1996 e cioè prima che i due ospiti fossero dichiarati formalmente latitanti. Nonostante le legittime e reiterate insistenze della difesa nel corso del controesame, tuttavia, il Klink si mostrava del tutto sicuro del periodo dell’ospitalit à fornita dal Palazzolo ai siciliani, e ciò sulla scorta di due riferimenti temporali assolutamente indiscutibili e certi nella memoria del testimone. Il primo di tali riferimenti cronologici riguardava l’allontanamento degli ospiti rispetto alla perquisizione della polizia, circostanza che, a causa della platealit à dell’intervento (unico caso verificatosi durante la sua permanenza alle dipendenze del Palazzolo), era di certo memorabile per il teste. Ebbene, il Klink affermava reiteratamente e con la massima sicurezza che gli ospiti erano andati via dalla tenuta il giorno prima dell’operazione della polizia sudafricana e, pertanto, il 14 giugno 1996 . L’altro riferimento temporale che era rimasto assolutamente presente nella memoria del teste aveva a che fare con un aspetto memorabile della sua vita privata. Gli ospiti italiani erano andati via dalla Terre de Luc due settimane e un giorno prima della nascita di suo figlio Peter che era avvenuta il giorno 29 giugno 1996. Anche attraverso tale secondo riferimento del tutto certo nella memoria del teste, dunque, i siciliani avevano lasciato casa Palazzolo il 14 giugno del 1996 e, pertanto, più di due settimane dopo il momento dell’emissione dell’ordinanza di custodia cautelare a loro carico (29 maggio 1996). Ogni tentativo della difesa di far cadere in contraddizione il teste risultava vano di fronte alla sicurezza granitica di Hans Klink, il quale ribadiva il suo ricordo come assolutamente certo e preciso e non ammetteva neppure la possibilità di una incertezza della sua memoria. Proseguendo nell’esame della deposizione del Klink, questi riferiva che l’uomo più anziano non parlava una parola di inglese ma aveva cercato di spiegare al Klink che si occupava di produzione di vino e che era interessato ad investire nella tenuta del Palazzolo (realizzando dei silos per il vino) ed a regalare al suo ospite un ponte in legno per collegare alla terra ferma un piccolo isolotto ivi esistente. Aveva anche tentato di spiegare al Klink che si poteva “mescolare zucchero caramellato nel vino rosso ”, cosa che aveva fatto inorridire il teste che non capiva il senso delle sue parole. In effetti si tratta di un riscontro positivo, sia pure a livello meramente indiziario, della identificazione del Bonomo nell’uomo anziano ospite del Palazzolo, atteso che il Bonomo non solo proviene da Partinico, zona notoriamente rinomata per la pratica della sofisticazione del vino, ma che ha anche riportato in passato una condanna proprio per tale specifico reato. Il Klink, poi, descriveva con minuziosità le persone ospitate dal Palazzolo, specificando che costoro si erano presentati a casa come suoi amici personali ed erano stati alloggiati lì. A scanso di equivoci circa la possibile mancanza di consapevolezza della loro presenza in casa da parte del Palazzolo, il Klink aggiungeva che questi aveva trascorso anche alcune serate con loro. In una di tali occasioni, in particolare, “il sig. Palazzolo e i due signori erano seduti in cucina e parlavano delle possibilità del vino e dell’industria del vino, cosa comporta l’industria del vino in Sudafrica…. Lo ricordo perché ciò portò alla possibilità di comprare cisterne per il vino”. Dunque, riassumendo la testimonianza del Klink (assolutamente attendibile e disinteressata) si deve concludere che: gli ospiti del Palazzolo erano un uomo anziano ed uno più giovane accompagnato dalla moglie e dalla figlia in tenera età, esattamente come il Bonomo, il Gelardi, la moglie di questi e la figlioletta; la descrizione delle fattezze fisiche degli ospiti corrispondeva esattamente a quella dei latitanti e della Bonomo Marianna; l’uomo più anziano si interessava di vinificazione esattamente come il Bonomo che notoriamente gestiva una azienda vinicola a Partinico; questi era anche un esperto di sofisticazione del vino mediante l’aggiunta di zucchero caramellato, pratica notoriamente molto praticata a Partinico e per la quale lo stesso Bonomo era stato condannato in passato; le persone di origine siciliana si erano presentati come amici personali del Palazzolo e da questi avevano ricevuto il suo numero di telefono cellulare appuntato su un pezzetto di carta (rinvenuto da Smith nella stanza dell’uomo anziano); il Palazzolo li aveva personalmente incontrati ed una sera aveva anche discusso con loro a proposito dell’industria della vinificazione in Sudafrica, pianificando l’installazione di alcuni silos per lo stoccaggio del prodotto all’interno dell’azienda La Terre de Luc; l’uomo più anziano aveva pensato di regalare al Palazzolo, per sdebitarsi dell’ospitalità, un piccolo ponte di legno in grado di collegarsi con una piccola isoletta all’interno di uno specchio d’acqua. A tutto ciò deve aggiungersi anche quanto riferito dal teste Smith e confermato dal Viljoen a proposito del fatto che gli ospiti erano stati accompagnati alla frontiera con la Namibia a bordo di una autovettura Mercedes con targa (CJ81148) di Franschoec – luogo dove si trova la fattoria – ed intestata per l’appunto all’azienda La Terre de Luc di Palazzolo Vito Roberto, alias Robert Von Palace. Sulla scorta di una complessa congerie di elementi indiziari sia di natura rappresentativa che logica ed assolutamente convergenti tra di loro, dunque, deve ritenersi che il Bonomo ed il Gelardi siano stati ospitati dal Palazzolo per circa 10­15 giorni presso la sua azienda La Terre de Luc ed accompagnati il giorno 21 maggio 1996 al varco di frontiera con la Namibia (il varco di Vioolsdrift) a mezzo di una automobile Mercedes targata CJ81148 intestata ed in uso al Palazzolo medesimo. Tale asserzione, peraltro, ha ricevuto un ulteriore e decisivo avallo confermativo dalla contenuto della telefonata intercettata il giorno 28 dicembre 2004, di cui si dirà di qui a poco. Dalla disamina di tale conversazione, infatti, si ricava anche l’ultima conferma che sgombra il terreno da ogni residuo dubbio e che ribadisce che gli ospiti del Palazzolo erano proprio il Bonomo ed il genero Gelardi con la famiglia. Dunque, il Palazzolo, da quasi tutti i collaboranti ritenuto uomo d’onore della famiglia di Partinico ma in ogni caso in stretti rapporti con cosa nostra e con il contesto territoriale di Cinisi e Partinico, aveva ospitato il reggente proprio del mandamento di Partinico, cosa che nelle logiche mafiose appare del tutto coerente e lineare. Oltretutto il Bonomo era, secondo il Brusca Giovanni, il “contatto” in grado di fare da intermediario proprio in quel preciso contesto temporale (1996) col Palazzolo in Sudafrica, come dallo stesso assicuratogli a seguito della sua richiesta di riprendere gli affari con l’imputato. Da ciò deriva che il Bonomo era perfettamente consapevole del luogo preciso dove il Palazzolo trascorreva la sua latitanza (circostanza che all’epoca non era per nulla risaputa come è poi accaduto), tanto che, di fronte al pericolo del “pentimento” del Monticciolo, questi, a detta del Brusca e del Mazzola, era fuggito proprio alla volta del Sudafrica, certo del fatto di trovare ricetto ed aiuto da un uomo a lui vicino ed assai influente in quel Paese. E sempre secondo il Brusca i contatti con il Palazzolo erano gestiti attraverso i suoi familiari ancora residenti a Palermo e Terrasini, circostanza che trova conferma nel ruolo svolto dalla sorella dell’imputato che si è sempre mantenuta in contatto col congiunto, ragguagliandolo costantemente sui fatti siciliani, come è emerso dal contenuto delle intercettazioni telefoniche disposte. Il Gelardi, poi, oltre ad essere genero del Bonomo ed a viaggiare in sua compagnia (insieme alla figlia Bonomo Marianna) è nipote di Antonino Madonia (detto Nino) e cioè proprio di quel pericoloso uomo d’onore pluriomicida che era amico personale, compare e socio in affari del Palazzolo. Il dato che i congiunti viaggiassero insieme risulta confermato non solo logicamente ma anche attraverso i dati forniti dalla polizia di frontiera sudafricana che attestano gli spostamenti comuni dei tre siciliani. Sulla scorta dei superiori elementi di giudizio, dunque, può serenamente affermarsi che l’ospitalità fornita dal Palazzolo al Bonomo ed al Gelardi è rimasta ampiamente dimostrata ed ulteriormente avvalorata dal contenuto della telefonata del 28.12.2004. Ciò che rimane da verificare è se gli stessi, al momento di detta ospitalità, fossero o meno ufficialmente latitanti per lo Stato italiano. Tale dato, per la verità, non appare decisivo in considerazione del contesto complessivo di accadimento dei fatti (la fuga dei due uomini d’onore in vista di un più che probabile arresto). Tuttavia, va detto che di fronte alla testimonianza di Hans Klink, così pienamente attendibile, disinteressata, coerente e sicura, il dato ufficiale dell’uscita dal Sudafrica dei due il 21 maggio 1996 perde qualsiasi valore dimostrativo certo. Ed invero, il Klink ha affermato, con assoluta certezza e sulla base di plurimi riferimenti temporali del tutto sicuri, che gli ospiti siciliani avevano lasciato la fattoria del Palazzolo il giorno 14 giugno 1996 e cioè oltre due settimane dopo che gli stessi erano divenuti formalmente latitanti. Si tratta di un elemento di natura testimoniale che appare in contrasto con quello documentale costituito dai registri ufficiali della polizia di frontiera sudafricana (in base ai quali il Bonomo ed il Gelardi avrebbero lasciato il paese il 21 maggio 1996). E, pur tuttavia, risulta assai più convincente ed attendibile dell’elemento di segno contrario, alla luce di quanto affermato concordemente dai testi Viljoen e Smith. Costoro, infatti, riferivano che il confine tra il Sudafrica e la Namibia era all’epoca facilmente transitabile senza passare obbligatoriamente da un posto di controllo doganale. Si tratta, invero, per la maggior parte della sua estensione, di una zona assai estesa di savana sfornita di posti di controllo doganali ed, al contrario, piena di luoghi facilmente transitabili sia a piedi che in auto. Lo stesso ispettore Viljoen riferiva di avere personalmente ed in più occasioni passato la frontiera agilmente senza attraversare ufficialmente posti di controllo doganale (ovviamente per esigenze di indagine). In particolare, egli, tra gli altri sistemi, aveva anche attraversato un piccolo corso d’acqua che separa i due Stati, cosa che troverà riscontro nella conversazione telefonica del 28.12.2004. Oltretutto anche gli aerei privati di piccole dimensioni attraversavano normalmente la frontiera senza subire controlli ed atterravano su improvvisate piste di atterraggio di terra battuta, come quelle, numerose, esistenti presso lodges e fattorie. Vale la pena di osservare come anche la fattoria di Ensuru in Namibia, di proprietà del Palazzolo (e dove lo Smith sospettava che fossero stati portati i siciliani), era dotata in quel periodo di un tale tipo di rudimentale pista di atterraggio. Da ciò si desume agevolmente che il dato dell’ultima fuoriuscita ufficiale del Bonomo e del Gelardi dal Sudafrica non riveste un valore dirimente. Anzi, appare del tutto plausibile che, dopo l’emissione dell’ordinanza di custodia cautelare a carico del Bonomo e del Gelardi (29 maggio), costoro ed il loro ospite abbiano adottato ulteriori precauzioni, evitando ovviamente i posti di controllo doganali e trasferendosi agevolmente tra la Namibia ed il Sudafrica attraverso varchi naturali privi di controllo. Tale dato appare ulteriormente avvalorato dal contenuto della telefonata del 28.12.2004, nel corso della quale – come si vedrà di qui a breve ­ gli interlocutori fanno riferimento alla possibilit à di “passare il fiume” al confine con la Namibia. Ciò che appare certo, del resto, è che, almeno sino al 14 giugno del 1996, secondo la precisa, sicura ed attendibile testimonianza del Klink, i due latitanti si trovavano ancora ospiti del Palazzolo. Tale circostanza, peraltro, risulta confermata dal fatto che costoro avessero abbandonato i loro abiti a casa Palazzolo, a riprova del fatto che si era trattato di una fuga repentina e non di una partenza programmata. Le successive vicende personali dei due latitanti – tratti in arresto in altri paesi africani negli anni seguenti – conferma, poi, come costoro abbiano risalito il versante ovest del continente africano stabilendosi alla fine rispettivamente in Costa d’Avorio ed in Senegal. Del resto, anche a questo proposito, va evidenziato il contenuto della conversazione, più volte richiamata, del 28.12.2004 tra il Palazzolo e sua sorella Sara. Dall’esame della trascrizione testuale di detta conversazione si ricava che, poco prima della telefonata in questione, il Palazzolo aveva ricevuto una chiamata proprio da Gelardi Giuseppe che in quel momento si trovava ancora latitante. Il Gelardi aveva solidarizzato col Palazzolo per la sua vicenda giudiziaria connessa anche all’ospitalit à fornita a lui ed al suocero, confermando di essere stato suo ospite e di avere discusso di un possibile commercio di vini dal Sudafrica in Italia. E forniva la propria disponibilità a far contattare il proprio avvocato (l’avvocato Marasà) per ulteriori informazioni e chiarimenti a sua difesa. La conversazione, è bene precisarlo, si verificava poco dopo l’espletamento della rogatoria in Sudafrica, circostanza alla quale più volte gli interlocutori facevano riferimento nel corso del dialogo. Nel corso della telefonata con la sorella (alla cui lettura integrale si rimanda) il Palazzolo riferiva tutto questo nei seguenti termini: Palazzolo: “allora questo è un avvocato che difende questi sprovveduti che sono venuti in Sudafrica…. Ecco e allora oggi mi è arrivata una telefonata di questo signor Gelardi… dice: io ho telefonato perché ho sentito tutte queste storie e sui giornali tutte queste situazioni dice: io desidero che lei si difen… che tu ti difenni che fai picchì io vinni docu ca avevu u me passaportu (io sono venuto là che avevo il mio passaporto, n.d.e.)… dice: chissi su quattru buffoni perché vengono docu in sud africa dice, praticamente, per veniri a viriri si satai u ciumi si (inc.) sud africa” (per venire a vedere se ho saltato il fiume, n.d.e.). “no, noi che che cosa ci possiamo… quello che loro dicono, che sono venuti qua nella rogatoria, dicevano: possibilmente quello è saltato un’altra volta dal fiume, perché il confine non è controllato, è venuto un’altra volta in sud africa, dove lui li ospita etc. etc., no chisti sono gente infedele completamente, bisogna farlo presente agli avvocati questa cosa…”. A tale proposito vale la pena di notare come lo stesso Palazzolo, riportando il contenuto della telefonata ricevuta dal Gelardi, abbia fatto riferimento due volte al fatto che i confini non erano sufficientemente controllati e che gli inquirenti erano convinti che lui aveva saltato il fiume per passare il confine. Tale dato trova perfetta corrispondenza nella testimonianza del Viljoen che ha riferito di avere pi ù volte attraversato un piccolo fiume per passare il confine con la Namibia clandestinamente. Il Gelardi, poi, dopo avere biasimato e malamente apostrofato gli inquirenti ed i giudici, si lamentava del fatto che le autorità italiane erano nella possibilità di conoscere il luogo dove lui attualmente trascorreva la sua latitanza (la Costa d’Avorio), per fatti connessi al rilascio del passaporto della moglie. E pertanto non capiva perché non lo cercassero là o non chiedessero l’estradizione mentre continuavano ad infangare e perseguitare il Palazzolo per l’ospitalit à fornitagli in Sudafrica: “dice: io non ho fatto nessun reato, io so…, sono stato un lavoratore, sono illustre incensurato, fino al momento che sono arrivato in sudafrica, io a lei un’ha canusceva, sono stato presentato per fare sti commerci di vini, non non sapeva manco che lei era in sudafrica…”. Il Palazzolo, poi, si mostrava molto preoccupato del modo con il quale il Gelardi era venuto in possesso del suo numero di cellulare, aggiungendo anche che non era la prima volta che ciò era accaduto. La sorella Sara, addirittura, suggeriva al fratello che il Gelardi poteva aver agito su mandato dei servizi segreti per cercare di incastrarlo ed il Palazzolo aggiungeva che non avrebbe riferito la circostanza alle autorit à italiane ma solo al suo avvocato per cautelarsi. Dal tenore della telefonata intercettata, comunque, si ottiene al conferma certa e proveniente dallo stesso Gelardi dell’episodio dell’ospitalità fornitagli (ovviamente assieme al suocero) dal Palazzolo in Sudafrica nel 1996. Vale, poi, la pena di osservare come il Palazzolo non abbia portato a conoscenza delle Autorità, in ipotesi anche tramite il suo difensore, l’episodio della telefonata ricevuta dal latitante Gelardi, con ci ò dimostrando di avere dei giustificati timori a tale proposito. Non che in capo al Palazzolo esistesse alcun obbligo giuridico di denunciare l’episodio ovvero di consentire la cattura del Gelardi, ma di certo il contesto ed il tono della conversazione con la sorella lasciano chiaramente desumere una viva preoccupazione ed il timore di poter avere altri problemi a causa del Gelardi. Certo è che né il Palazzolo si è adoperato per consentire la cattura del Gelardi, avvenuta autonomamente ad Abidjan (Costa d’Avorio) il 26.3.2005, né quest’ultimo ha agito per conto e su mandato di alcuna istituzione italiana. La telefonata tra il Gelardi ed il Palazzolo del 28.12.2004, tuttavia, al di là dei commenti fuori luogo sull’operato degli inquirenti e delle “tragedie” sulle reciproche innocenze, fissa alcuni parametri di sicuro rilievo: il Gelardi ammette di essere stato ospite del Palazzolo in Sudafrica nel 1996 e di avere anche discusso della possibilità di avviare un commercio di vino tra quello Stato e l’Italia; i due, sia pure commentando negativamente le strategie investigative degli inquirenti, fanno riferimento alla possibilità di “passare il fiume” (lo stesso sistema riferito dal teste Viljoen) e cioè di valicare il confine con la Namibia clandestinamente ed, addirittura, il Palazzolo fa riferimento a “saltare il fiume un’altra volta” come se ciò fosse avvenuto in più occasioni; il Gelardi si mostrava dispiaciuto per il fastidio che l’ospitalità ricevuta dal Palazzolo aveva arrecato a quest’ultimo (il processo a suo carico anche per tale specifico episodio) ma si lamentava del fatto che gli inquirenti lo cercassero ancora in Sudafrica – circostanza peraltro non vera nel 2004 ­ mentre lui si trovava in un’altra nazione ben nota alle ambasciate italiane; il Palazzolo viceversa palesava chiari segnali di nervosismo e preoccupazione per la telefonata ricevuta, dimostrando di avere qualcosa da nascondere e temendo che il Gelardi potesse dargli altri problemi oltre a quelli che già gli aveva causato nel 1996. A parte questa importante conversazione del 28.12.04, in quel torno di tempo venivano intercettate anche diverse altre telefonate di sicuro interesse investigativo. Si tratta sempre di conversazioni tra il Palazzolo e la sorella Sara, la quale nel corso del tempo ha sempre dimostrato di essere il principale anello di congiunzione tra l’imputato e le vicende siciliane ed italiane. In particolare, il 7 gennaio 2005, quindi pochi giorni dopo la telefonata del Gelardi, il Palazzolo riferiva alla sorella di essersi incontrato con qualcuno (“ mi vitti cu chiddu assira, no?”) e di essere più tranquillo dopo tale incontro. Sempre in base alle stesse parole del Palazzolo, un ignoto medico gli aveva inviato una lettera con la quale gli chiedeva aiuto e sostegno. Con tutta evidenza si tratta di un medico siciliano tanto che l’imputato avvertiva la sorella che di questa cosa se ne doveva occupare lei anche tramite tale baronessa Canalotto di Palermo. Anche nel corso di una telefonata del 10 gennaio successivo il Palazzolo parlava con la sorella di questioni e vicende che originano in Sicilia e che finiscono per interessarlo direttamente in Sudafrica. Il Palazzolo, parlando sempre con la sorella Sara, riprendeva il filo del discorso relativo alla lettera proveniente dal medico siciliano ed aggiungeva che tale lettera gli era stata recapitata tramite un altro soggetto definito “chistu docu” (quello lì, n.d.e.) che ben potrebbe ricollegarsi alla figura del Gelardi di cui i due avevano lungamente parlato nelle conversazioni immediatamente precedenti. Ad ogni modo la lettera del medico conteneva una richiesta di aiuto finanziario (“c’è qualcuno che mi cerca aiuto finanziario eccetera, si voli mettere a travagghiari eccetera e mi mannau sta littra cu chissu docu, no? ”) chiaramente connesso alla necessità di “qualcuno” di mettersi in affari (“mettersi a lavorare”). Il Palazzolo, mostrando un atteggiamento mistificatorio tanto connaturato da essere utilizzato anche con la sorella, si schermiva lasciando intendere che le persone lo ritenevano un miliardario perché leggevano sui giornali notizie di miniere di diamanti e via discorrendo. Anche la sorella concordava circa lo stato di quasi insolvenza del fratello (“ca semu in mezzu a strata tutti”) mentre dal contesto investigativo emerge l’esistenza di una posizione economica florida ed in piena operatività finanziaria (e questo solo per le attività lecite e conosciute). L’esistenza di dette conversazioni intercettate conferma il fatto che il Palazzolo sia sempre e costantemente rimasto in contatto, tramite la sorella, con la Sicilia ed i suoi abitanti e si sia sinanco interessato di alcuni affari immobiliari in corso nella zona di Terrasini (v. le altre telefonate trascritte). Come apparirà ancora più chiaro nel prosieguo, lo stesso Palazzolo nel corso degli anni si è mantenuto in contatto con numerosi uomini d’affari, professionisti e politici italiani, dimostrando di essere un punto di riferimento in Sudafrica non solo per i siciliani ma anche per personaggi apparentemente lontani dalla realtà siciliana. Dagli atti emergono rapporti frequenti, di amicizia, di affari e di collaborazione con Riccardo Agusta, il quale ha lungamente vissuto in casa del Palazzolo a Franschoek ed, addirittura, avrebbe acquistato una parte della tenuta. Forse anche attraverso questo canale il Palazzolo ha ricevuto come ospiti o ha avuto contatti con Rosilde Craxi, sorella dell’on. Bettino Craxi, con il di lei marito, l’ex sindaco di Milano Paolo Pillitteri, con l’on.le Marcello Dell’Utri e con tutta una serie di professionisti e consulenti. Tutti costoro, oltre ad essere divenuti buoni amici del Palazzolo, si sono dimostrati interessati a vario titolo a fare affari sia in Sudafrica che in Angola, Paesi dove il Palazzolo ha un enorme potere finanziario ed un sostegno politico ai massimi livelli. Tutto ciò serve unicamente a descrivere un quadro di continui e significativi rapporti di affari con soggetti italiani di estrazione e provenienza geografica apparentemente avulse dal contesto siciliano. Ed al contempo a smentire la tesi che vorrebbe il Palazzolo del tutto estraneo alle vicende italiane, ormai da anni in un luogo lontano e senza più rapporti con l’Italia e tantomeno con la Sicilia. Viceversa dalla ricognizione critica degli atti si ricava che il Palazzolo non solo era in rapporti giornalieri con la sorella ma anche con numerosi esponenti del mondo dell’impresa e della politica italiana. In una situazione variegata e complessa come quella dell’Africa sub­equatoriale il Palazzolo rappresenta uno dei pochi – forse l’unico – punti di riferimento per soggetti che, pur vivendo ed operando a Milano o in Sicilia, si rivolgono a lui per speculare facendo affari in quei Paesi. E, come si vedrà, tale ruolo lo ha svolto anche per alcuni importanti esponenti di cosa nostra siciliana e non solo per i soggetti nominati espressamente nelle suddette conversazioni telefoniche. Di fatto alcuni collaboratori di giustizia, la cui attendibilità è stata già comprovata in numerose sentenze passate in autorità di cosa giudicata, quali il Brusca Giovanni, il Mazzola Giovanni, il Cannella Tullio ed il Ganci Calogero, in modo assolutamente convergente hanno affermato che il Palazzolo ha continuato ad intrattenere rapporti di amicizia e di affari con alcuni esponenti di cosa nostra anche dopo la sua partenza per il Sudafrica e sinanco fino ad epoca molto recente. Si tratta, in particolare, di Nenè Geraci e soprattutto di quel Bernardo Provenzano che gli aveva fatto da padrino al momento dell’affiliazione e che lo considerava un suo pupillo dotato di grandi capacità nel mondo dell’economia e della finanza. Orbene, in questo contesto si inserisce la collaborazione di Antonino Giuffrè, capo del mandamento di Caccamo e, soprattutto, amico personale ed alter ego di Bernardo Provenzano fino al momento del suo arresto avvenuto nel 2003. Prima di procedere all’esame critico del contenuto della deposizione del Giuffrè, occorre fare un breve excursus in ordine alla valutazione della c.d. chiamata di correo, alla luce dell’evoluzione giurisprudenziale di questi ultimi anni. Tale materia, com'è noto, è disciplinata dall’art. 192 c.p.p. che, al terzo comma, ai fini della valutazione della prova, così recita: "Le dichiarazioni rese dal coimputato del medesimo reato o da persona imputata in un procedimento connesso a norma dell'art. 12 sono valutate unitamente agli altri elementi di prova che ne confermano l'attendibilità.". Anche per la collocazione di tale norma tra le disposizioni generali sulle prove, può in primo luogo affermarsi che è stata riconosciuta alla dichiarazione del correo la natura di prova legale rappresentativa, sufficiente per sorreggere una sentenza di condanna, sia pure a condizione che risulti affiancata da altri convergenti elementi di prova (v. Cass. S.U. 6.12.1991, Scala, Cass. Pen. 1992, 757 e numerose altre successive conformi). La completa valutazione della chiamata, tuttavia, non può di certo prescindere dalla valutazione della credibilità soggettiva del dichiarante rispetto al fatto descritto come commesso insieme all'accusato ovvero soltanto da quest'ultimo, eventualmente in concorso con altri soggetti. Occorre, cioè, analizzare la sua personalità, le sue condizioni socio­economiche e familiari, i suoi rapporti con i soggetti accusati, le ragioni della decisione di confessare e di accusare altri. E in tale contesto bisogna far riferimento ad aspetti spesso delicati quanto significativi della chiamata, tra cui la precisione, la coerenza, la costanza e la spontaneità (v. Sezioni Unite della Corte di Cassazione, 21 ottobre 1992, Marino). La confessione del chiamante, ad esempio, anche per via delle gravi conseguenze che ne derivano, non soltanto penali (si pensi al coinvolgimento di parenti in vendette c.d. trasversali), in assenza di elementi contrari, rappresenta di certo un indizio di sincerit à e di genuinità, specie se correlato al ruolo ricoperto nella consumazione dell'illecito. Essa, è ovvio, deve essere scevra da qualsiasi interesse verso determinati esiti del processo che possano soddisfare, ad esempio, eventuali desideri di vendetta nei confronti dell'accusato o rispondere a ben calcolati scopi personali. In proposito, si potrebbe obbiettare che tutti i collaboratori sono con evidenza "interessati" perch é, nell'accusare altri soggetti, sarebbero spinti dall'ansia di sfuggire alle pesanti conseguenze penali connesse alla loro anteatta condotta illecita, spesso avente per oggetto fatti gravissimi, anche di sangue. Le loro dichiarazioni, quindi, in quanto connesse al desiderio di conseguire importanti benefici, dovrebbero senz'altro essere disattese. Tale argomentare, però, è soltanto suggestivo e non può di certo essere condiviso. Il Tribunale ben sa che la recente legislazione premiale ha previsto una notevole serie di vantaggi, ricavabili dalla collaborazione, che vanno da misure di protezione e di assistenza per il collaboratore e per i propri familiari (artt. 9 e 10 d.l. 15.1.1991, conv. in L. 15.3.1991, n. 82) alla custodia in luoghi diversi dal carcere anche per le persone in esecuzione di pena (artt. 13 e 13 bis d.l. cit., v. anche d.l. 306/1992), dalla previsione di misure alternative al carcere (art. 13 ter d.l. cit.) alla concreta diminuzione di pena (art. 630, V comma, C.P.; art. 74, VII comma, D.P.R. 309/1990; artt. 3, 6, 7, 8 L. 29.5.1982, n. 304). Trattasi di una vera e propria istituzionalizzazione di un interesse che non può affatto essere di per sé indice di mendacio e che non crea alcuna presunzione di non credibilità. Il disinteresse, quindi, non va riguardato come generale assenza di scopi ma, piuttosto, come indifferenza rispetto alla posizione processuale del soggetto accusato. Ulteriore ed indiretta conferma di ciò si rinviene proprio nella condizione richiesta dal terzo comma dell’art. 192 c.p.p. (“altri elementi di prova”), dal momento che il legislatore ha riconosciuto alle dichiarazioni del chiamante in correità, o in reità, un'affidabilità intrinseca diversa e minore di quella attribuita alla semplice testimonianza e ciò perché le persone sono tanto più credibili quanto meno sono interessate. Del resto il dubbio sull’assoluto disinteresse della chiamata in correità, giustifica la massima di esperienza secondo cui una disposizione di tal genere, diversamente dalla testimonianza, non può in nessun caso integrare, di per sè sola, un grave indizio di colpevolezza se non sia corroborata da riscontri estrinseci idonei a suffragarne l’attendibilit à. A tal riguardo bisogna ricordare che la massima di esperienza in questione ­ già enucleata dalla giurisprudenza della Suprema Corte nella vigenza del codice abrogato (v. per tutte, Cass. Sez. I, 22.12.1986 n. 4221, imp. Alfano) ­ non ha soltanto un fondamento razionale, ma trova una indiretta e precisa conferma negli artt. 351 e 363 dell’attuale codice di procedura penale, attinenti alla fase delle indagini preliminari. Tali norme, invero, dispongono che le persone indagate per lo stesso reato, o per reati connessi o collegati soltanto sotto il profilo probatorio con il fatto per cui si procede, non possono essere esaminate senza l’assistenza di un difensore. Esse, pertanto, riconoscono ai sopraindicati soggetti una posizione particolare che li distingue dai testimoni e che, se ­ da un lato ­ li sottopone al rischio di rendere dichiarazioni a sé sfavorevoli, sia pure con l’assistenza di una adeguata difesa ­ dall’altro ­ pu ò, di converso, indurli a coinvolgere terzi al fine di occultare od attenuare le loro effettive responsabilità, così da qualificare come sospette le loro dichiarazioni. La legislazione premiale, inoltre, non richiede che il dichiarante manifesti pentimento effettivo, prevedendosi soltanto un concreto contributo alle indagini fornito con l'intento di dire la verità (v. Cass. Sez. II, 27.4.1989 Capitaneo, in Cass. Pen. 1990/1734). Sicchè, in tema di dichiarazioni rese dai collaboratori di giustizia, il cd. “pentimento”, collegato nella maggior parte dei casi a motivazioni utilitaristiche ed all’intento di conseguire vantaggi di vario genere, non può essere assunto ad indice di una metamorfosi morale del soggetto già dedito al crimine, capace di fondare un’intrinseca attendibilità delle sue propalazioni. Ne consegue che l’indagine sulla credibilità del cd. “” deve essere compiuta dal giudice non tanto facendo leva sulle qualità morali della persona ­ e quindi sulla genuinità del suo pentimento ­ bensì attraverso l’esame delle ragioni che possono averlo indotto alla collaborazione e sulla valutazione dei suoi rapporti con i chiamati in correità, nonchè sulla precisione, coerenza, costanza e spontaneità delle dichiarazioni. ( Cass. Pen. Sez. I, sent. 06954 del 17/3/1997, imp. Cipolletta ed altro. La giurisprudenza, comunque, a fianco del disinteresse, come sopra inteso, ha individuato altri elementi su cui fondare un positivo giudizio di attendibilit à intrinseca. Tra questi la spontaneità e la costanza (Cass. sez. I, 25.6.1990, Barbato, Cass. Pen. 1991, II, 314), la reiterazione senza contraddizioni (Cass. sez. II, 15.4.1985 in Mass. Cass. Pen. 1985/170287), la logicità (Cass. sez. I, 29.10.1990 Di Giuseppe) e l'articolazione, ovvero la molteplicità di contenuti descrittivi (Cass. sez. I, 30.1.1992, n. 80 Abbate), nonché la personalità' del dichiarante, il suo passato ed i rapporti con le persone accusate (Cass. Sez. I, 22.1.1996, n.683), anche se “un apprezzamento negativo della personalità dei chiamanti in correità non vale, di per sè, ad escluderne la credibilità intrinseca” (Cass. Sez. 6, 19.4.1996, n.4108). Secondo la Suprema Corte, inoltre, la valutazione circa l’attendibilità intrinseca di un collaborante, già ritenuto attendibile in altro procedimento definito con provvedimento irrevocabile, non può prescindere dagli elementi di prova già utilizzati nel procedimento esaurito (Cass. Sez. 5, 11.11.1995, n.11084). Ed in ordine all’eventuale “desiderio di vendetta” nei confronti di altri correi o di soggetti diversi, anche appartenenti alle istituzioni, la Suprema Corte ha sottolineato che “il giudice di merito ha il potere­dovere di verificare l'esistenza e la gravità di eventuali motivi di contrasto fra accusatori e accusati, tenendo tuttavia presente che l'esito positivo di un tale riscontro non può, di per sè, determinare come automatica e necessaria conseguenza l’inattendibilità delle accuse, ma deve soltanto indurre il giudice stesso ad una particolare attenzione onde stabilire se, in concreto, i motivi di contrasto accertati siano tali da dar luogo alla suddetta conseguenza” (Cass. sez. I, 31.5.1995 n. 2328). In conclusione, come affermato dalla Corte di Cassazione con una sentenza non recente ma pur sempre attuale (Sez. I, 25.6.1984 in Cass. Pen. 1986, 1149), la credibilità soggettiva generica del dichiarante può in concreto essere desunta dalle modalità della chiamata, dal suo sviluppo, dalla sua struttura, dal suo contenuto, dalla sua causale e dalle conseguenze sulla posizione processuale dello stesso chiamante. Le dichiarazioni del chiamante devono, poi, essere valutate con la ricerca di convergenti elementi di riscontro. L’art. 192 c.p.p., infatti, richiede che la chiamata di correo sia affiancata da elementi esterni idonei a confermarne l’attendibilità cioè da fatti storici che, se anche da soli non raggiungono il valore di prova autonoma di responsabilità del chiamato in correità (altrimenti sarebbero essi stessi sufficienti a provarne la colpevolezza), complessivamente considerati e valutati, risultino compatibili con la chiamata in correità e di questa rafforzativi (cass. Pen., sez. VI, 19 gennaio 1996, n. 661, Agresta ed altro). D’altronde, tali riscontri, secondo la costante giurisprudenza, possono essere di qualsiasi tipo e natura (Cass. Sez. I, 26.3.1996, n.3070; Cass. S.U. 6.12.1991, Scala, cit.). La regola, cioè, impone al giudice di rinunciare a valersi delle notizie fornite da un chiamante in correit à, pur se riconosciuto intrinsecamente attendibile, ogni volta che non sia stato acquisito neanche un altro elemento integrativo di prova a carico dell'accusato (cfr. Cass. pen. sez. VI, 24 agosto 1990, n.11769, Piacenti). Quanto alla natura di tale riscontro, è ovvio che può non trattarsi di un elemento probatorio sufficiente a rappresentare il fatto o di una prova distinta della colpevolezza, dovendo piuttosto essere rinvenuto in qualsiasi elemento certo ed idoneo ad offrire serie garanzie circa l'attendibilità del chiamante. La mancata predeterminazione delle categorie utilizzabili a tal fine conferma il principio della libert à del riscontro, in quanto il concetto di “altro elemento di prova” può essere riferito non solo a qualsiasi elemento orale o reale, ma anche agli indizi. E per vero, il secondo comma della norma in questione li considera idonei a dimostrare l'esistenza di un fatto, purché gravi (consistenti, resistenti alle obiezioni e, quindi, attendibili e convincenti), precisi (cio è, non generici e non suscettibili di diversa interpretazione altrettanto o più verosimile, quindi non equivoci) e concordanti (non contrastanti tra loro e con altri dati o elementi certi ­ v. Cass. Sez. Un. 3.2.1990 Belli, Sez. I del 27.3.1991 in C.E.D. RV. 187113). Ed a conferma di ciò la Suprema Corte ha aggiunto che “se e' vero che la sola chiamata di correo non e' sufficiente per pervenire ad un giudizio di colpevolezza, e' anche vero che il riscontro probatorio estrinseco non deve avere la consistenza di una prova sufficiente di colpevolezza, essendo necessario, invece, che chiamata di correo e riscontro estrinseco si integrino reciprocamente e, soprattutto, formino oggetto di un giudizio complessivo” (Cass. Sez. 6, 13.2.1995 n.1493), nonchè, più di recente: “La chiamata di correo, che deve avere i requisiti della credibilità e dell’attendibilità intrinseca, ha valore di prova e non di mero indizio, sempre che venga confermata nella sua attendibilit à, da “altri elementi di prova” (che devono essere tanto pi ù consistenti, quanto meno radicale sia l’accertamento sulla credibilità e sull’attendibilità intrinseca, e viceversa); e gli altri elementi di prova possono essere di qualsiasi tipo e natura, purchè logicamente idonei alla conferma dell’attendibilità, conferma che deve, poi, riguardare la complessiva dichiarazione del coimputato relativamente all’episodio criminoso nelle sue componenti oggettive e soggettive, e non ciascuno dei punti riferiti dal dichiarante” (Cass. Sez. I, n. 1801 del 25 febbraio 1997, Bompressi ed altri). Il riscontro esterno alla attendibilità della chiamata può provenire anche da elementi riguardanti fatti diversi da quelli specificamente confermati, quando possa stabilirsi un collegamento fra gli stessi (Cass. Sez. 5, 14.7.1995, n.1798). E non v'è dubbio che tra le altre prove orali debbano essere inserite anche le dichiarazioni, eventualmente pure accusatorie, di altri coimputati del medesimo reato o di imputati in procedimenti connessi, dichiarazioni che, se coincidenti in ordine alla commissione del reato, ben possono dimostrare l’attribuibilità di questo ad un determinato soggetto (Cass. Sez. I, 30.1.1992 Altadonna CED. RV. n. 190647). Ed è di tutta evidenza che il chiamante in correità ha percezione e conoscenza del fatto delittuoso perché vi partecipa direttamente, sicché la verifica concernente la sussistenza del riscontro estrinseco non si pone con quelle particolari e più rigorose connotazioni che distinguono, invece, la c.d. chiamata in reit à, caratterizzata dalla estraneità del dichiarante al fatto­ reato attribuito ad altri soggetti (v. Cass. 27.2.1993, Cusimano, Cass. sez. V, sent. n. 4144 del 17/12/1996, Mannolo) ed invero, “le regole da utilizzare ai fini della formulazione del giudizio di attendibilità della dichiarazione variano a seconda che il propalante riferisca vicende riguardanti solo terze persone, accusate di fatti costituenti reati, limitandosi così ad una “chiamata in reità”, ovvero ammetta la sua partecipazione agli stessi fatti. L’assenza di ogni elemento confessorio in pregiudizio del chiamante richiede, invero, approfondimenti estremamente pi ù rigorosi, così da penetrare in ogni aspetto della dichiarazione, dalla sua causale all’efficacia rappresentativa della dichiarazione stessa.”(Cass. sez. VI, sent. n. 7627 del 30/7/1996, Alleruzzo ed altri). L'elemento estrinseco di riscontro, poi, è stato ravvisato anche nella ricognizione di cose, nel riconoscimento fotografico, negli accertamenti di polizia giudiziaria, nei legami esistenti tra il soggetto accusato e altri soggetti facenti parte del medesimo sodalizio, nell’accertata disponibilità di immobili dettagliatamente descritti come luoghi di consumazione di reati, a condizione, ovviamente, che tali elementi siano oltre che certi, "anche univocamente interpretabili come conferma dell'accusa” (v. Cass. Pen., Sez. I., 31.10.1980, Guarneri; Cass. Pen. 14.12.1990 n. 16464). Si pone, a questo punto, il problema della verifica della chiamata allorché questa riguardi più episodi delittuosi attribuiti allo stesso ovvero a più imputati. Al riguardo, non v'è dubbio che il raggiunto giudizio di fondatezza di una o più accuse non può spiegare effetti su altre non riscontrate dichiarazioni della stessa persona, atteso che non può di certo escludersi che, tra tante dichiarazioni vere, il dichiarante ne abbia inserito una non vera, volutamente o in modo del tutto inconsapevole. In sostanza, occorre valutare la chiamata in modo analitico, con riferimento ad ogni singolo fatto e ad ogni singola attribuzione di responsabilità, così come affermato dalla Corte di Cassazione con la nota sentenza n. 80/1992 (Sez. I, Abbate), secondo cui non può inferirsi dalla provata attendibilità di un singolo elemento la comunicabilità di tale giudizio per traslazione all'intero racconto “... residuando dunque l'inefficacia probatoria delle parti non comprovate o, peggio, smentite, con esclusione di reciproche interferenze totalizzanti”. Ed ulteriore conferma a tale impostazione viene indirettamente data da una pronuncia delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione che ha escluso l’applicabilità dell’art. 192, commi III e IV, c.p.p. alla sfera cautelare (Cass. Sez. Un. 1.9.1995 n. 11, imp. Costantino ad altro), in quanto, dall’esame della rubrica dell’articolo e delle specifiche disposizioni dei primi due commi, si evince che la norma non è applicabile nella fase delle indagini preliminari. In detta fase, nella quale non è necessario acquisire la prova della piena colpevolezza dell’indagato ma solo il “fumus” della stessa, la chiamata in correità, ad avviso della Suprema Corte, va apprezzata alla stregua del solo art. 273 c.p.p., che impone la valutazione circa la sussistenza di gravi indizi di colpevolezza. Questi sono costituiti, come osserva il Supremo Collegio, da quegli elementi a carico, di natura logica o rappresentativa, che non valgono di per sé a provare oltre ogni dubbio la responsabilità dell’indagato e, tuttavia, consentono, per la loro consistenza, di prevedere che, attraverso la futura acquisizione di ulteriori elementi, saranno idonei a dimostrare tale responsabilità, fondando nel frattempo una qualificata probabilità di colpevolezza. Conseguentemente é, anzitutto, necessario che l’attendibilità dell’accusa venga valutata intrinsecamente, sotto il profilo dell’apprezzamento della precisione, della coerenza interna e della ragionevolezza, per cui lo spessore dell’attendibilit à intrinseca della chiamata é influenzato dal tipo di conoscenza acquisita dal chiamante in relazione alla partecipazione od alla presenza alle vicende cui il chiamante si riferisca. Per quanto, poi, attiene al profilo dell’attendibilit à estrinseca della chiamata ­ osservano le Sezioni Unite ­ il giudice deve appurare se sussistano o meno elementi obbiettivi che la smentiscano e se la stessa sia confermata da riscontri esterni di qualsiasi natura, rappresentativi o logici, dotati di tale consistenza da resistere agli elementi di segno opposto eventualmente dedotti dall’accusato. Concludono le Sezioni Unite con la menzionata decisione che “...in questa prospettiva è sufficiente una conferma ab extrinseco della credibilità della chiamata, considerata nel suo complesso, attraverso una serie di riscontri che per numero, precisione e coerenza, siano idonei a confermare quantomeno le modalità obbiettive del fatto descritte dal chiamante, in modo da allontanare, a livello indiziario, il sospetto che costui possa avere mentito”. Ne consegue che non è, invece, indispensabile che i riscontri riguardino in modo specifico la posizione soggettiva del chiamato, poiché l’assenza di questo ulteriore requisito ­ nell’ipotesi in cui non risultino elementi contrari al coinvolgimento di costui ­ non esclude, di per sé, anche per la naturale incompletezza delle indagini, l’attendibilità complessiva della chiamata, una volta che la stessa sia stata accertata sia sotto il profilo intrinseco, sia ­ nei termini anzidetti ­ sotto quello estrinseco. Orbene, se tale argomentare può essere valido nella fase delle indagini preliminari e ai fini dell’adozione di misure cautelari, non può certamente trovare applicazione per quanto riguarda la valutazione della chiamata di correo ai fini dell’affermazione di responsabilità nel corso del dibattimento. In questo caso, argomentando proprio dal “ dictum” della Suprema Corte, riemerge a chiare lettere quel principio, sancito dai commi III e IV dell’art. 192 c.p.p., che impone una valutazione delle dichiarazioni rese dal coimputato del medesimo reato o da persona imputata in un procedimento connesso “unitamente ad altri elementi di prova che ne confermino l’attendibilit à”. Infine, va precisato che particolare idoneità convalidante va riconosciuta, secondo il prevalente orientamento giurisprudenziale, alle convergenti chiamate in correità successive (cd. chiamate in correità plurime); sul punto la Suprema Corte ha affermato il principio secondo cui, quando sussistono più chiamate in correità, “ognuna di tali chiamate mantiene il proprio carattere indiziario ed ove siano convergenti verso lo stesso significato probatorio, ciascuna conferisce all’altra quell’apporto esterno di sinergia indiziaria, la quale partecipa alla verifica sull’attendibilità estrinseca della fonte di prova“ (cfr. Cass., Sez. I, 1.8.1991 n. 8471, Cass. Pen. Sez. VI, 16 marzo 1995, n. 2775, Grippi). Altrettanto consolidato è, del resto, il principio secondo cui, quando il riscontro consiste in altra chiamata di correo, non è necessario pretendere che questa abbia a sua volta il beneficio della convalida a mezzo di ulteriori elementi esterni giacché, in tal caso, si avrebbe la prova desiderata e non sarebbe necessaria altra operazione di comparazione o verifica (cfr. Cass. n. 80/92); pretendere l’autosufficienza probatoria del riscontro equivarrebbe infatti a rendere ultronea la chiamata di correo. Fino ad arrivare alla conclusione, dunque, che “il riscontro può' consistere in un'altra chiamata di correo poiché' ogni chiamata e' fornita di autonoma efficacia probatoria e capacita' di sinergia nel reciproco incrocio con le altre. Da ciò' deriva che una affermazione di responsabilità' ben può' essere fondata sulla valutazione unitaria di una pluralità' di dichiarazioni di coimputati, tutte coincidenti in ordine alla commissione del fatto da parte del soggetto ” (Cass. Sez. 4, 6.3.1996, n.4108; Cass. Sez. 6, 16.3.1995 n.2775; Cass. Sez. 2, 5.4.1995 n.4941). Quanto, poi, ai parametri ed ai criteri di valutazione della reciproca attendibilità, nel caso di coesistenza e convergenza di fonti propalatorie, la predetta giurisprudenza ha ritenuto di valorizzarne la contestualità, l’autonomia, la reciproca sconoscenza, la convergenza almeno sostanziale, tanto più cospicua quanto più i racconti siano ricchi di contenuti descrittivi, e in genere, di tutti quegli elementi idonei ad escludere fraudolente concertazioni ed a conferire a ciascuna chiamata i tranquillizzanti connotati della autonomia, indipendenza ed originalità. Non può essere sottaciuto, al riguardo, che eventuali discordanze su alcuni punti possono, nei congrui casi, addirittura attestare l’autonomia delle varie propalazioni in quanto “fisiologicamente assorbibili in quel margine di disarmonia normalmente presente nel raccordo tra più elementi rappresentativi” (cfr. Cass., Sez. I, 30.1.1992 n. 80). In sostanza, pertanto, “in tema di chiamata in correità é bene ammissibile la cosiddetta “frazionabilità”, nel senso che la attendibilità della dichiarazione accusatoria anche se denegata per una parte del racconto, non ne coinvolge necessariamente tutte le altre che reggano alla verifica giudiziale del riscontro; cos ì come, per altro verso, la credibilità ammessa per una parte dell'accusa non può significare attendibilità per l’intera narrazione in modo automatico ” (Cass. Sez. 6, 10.3.1995 n.4162; Cass., Sez. 6, 25.8.1995, n.9090). Ad avviso della Corte, inoltre, “l’esigenza che le medesime, per costituire riscontro l’una dell’altra, siano convergenti non può implicare la necessità di una loro totale e perfetta sovrapponibilità (la quale, anzi, a ben vedere, potrebbe essa stessa costituire motivo, talvolta, di sospetto), dovendosi al contrario ritenere necessaria solo la concordanza sugli elementi essenziali del "thema probandum", fermo restando il potere­dovere del giudice di esaminare criticamente gli eventuali elementi di discrasia, onde verificare se gli stessi siano o meno da considerare rivelatori di intese fraudolente o, quanto meno, di suggestioni o condizionamenti di qualsivoglia natura, suscettibili di inficiare il valore della suddetta concordanza” (Cass. Sez. I, 26.3.1996, n.3070, cit.; Cass. Sez. I, 7.2.1996, n.1428; Cass. Sez. I, 31.5.1995 n.2328). Orbene, nella valutazione delle risultanze dibattimentali ed, in modo particolare, della deposizione del Giuffrè, il Collegio si è attenuto ai sopraddetti ricevuti principi, effettuando una valutazione congiunta sia delle caratteristiche soggettive e dell’attendibilità intrinseca del dichiarante che ricercando, in concreto, gli elementi di riscontro estrinseci sia in ordine al fatto addebitato che in ordine alla posizione soggettiva del chiamato. Ciò premesso, va detto che la collaborazione di Antonino Giuffrè, inteso “Manuzza”, già capo del mandamento di Caccamo nonché principale collaboratore di Bernardo Provenzano, come è noto è intervenuta solamente nel 2003 e, pertanto, rappresenta l’ultima collaborazione in ordine di tempo ma certamente una delle prime per importanza, significatività e pregressa collocazione del dichiarante nell’organigramma di cosa nostra. Prima di entrare nel merito del contenuto delle dichiarazioni del Giuffrè va segnalato come tale elemento probatorio non solo era ovviamente sconosciuto al Tribunale di Roma ma anche alla stessa Corte di Cassazione al momento dell’emissione della sentenza del 9.1.2004 in materia cautelare (più volte richiamata in premessa). Così come lo era anche per il Tribunale della Libertà di Palermo chiamato a pronunciarsi a seguito del rinvio disposto dalla S.C. di Cassazione. Si tratta, dunque, di un elemento del tutto nuovo che viene per la prima volta portato all’attenzione dell’A.G. solo nell’ambito di questo processo penale. Ciò posto, va detto che la collaborazione del Giuffr è è connotata da alcune caratteristiche che, per molti versi, la rendono quasi unica nel panorama delle collaborazioni di ex uomini d’onore con lo Stato. Antonino Giuffrè, invero, al momento del suo arresto era capo del mandamento di Caccamo, il cui territorio di influenza è notoriamente assai esteso, ed era uno dei principali collaboratori e dei fedelissimi del capo assoluto di cosa nostra, Bernardo Provenzano, all’epoca latitante così come lo stesso Giuffrè. Nonostante le difficoltà operative connesse allo stato di latitanza di entrambi, il Giuffrè si teneva in strettissimo contatto con il Provenzano, sia attraverso i c.d. “pizzini” (termine oramai divenuto di pubblico dominio, specie dopo l’arresto del Provenzano) che i due si scambiavano con frequenza quasi giornaliera ed attraverso una fitta rete di favoreggiatori, sia mediante incontri diretti che si verificavano con cadenza dapprima settimanale e poi all’incirca quindicinale. Il Giuffrè, peraltro, era un “corleonese” d’adozione nel senso che tradizionalmente era da sempre rimasto vicino al Provenzano, sin dai tempi in cui questi non era ancora il capo indiscusso dell’intera organizzazione mafiosa. Tra i due capi, pertanto, sia per la vicinanza di et à che, soprattutto, per la comunanza di intenti e la condivisione delle strategie generali di cosa nostra sussisteva, fino al 16 aprile del 2002 (data dell’arresto del Giuffrè), un profondo rapporto di amicizia e confidenza, sia sul piano personale che su quello strettamente dirigenziale rispetto alle dinamiche del sodalizio mafioso. Tale rapporto risulta comprovato dall’imponente mole di “pizzini” rinvenuta e sequestrata al momento dell’arresto prima e dopo l’avvio della collaborazione del Giuffrè (e proprio grazie alle sue indicazioni). Si tratta di centinaia di bigliettini riservati che i due boss si erano scambiati negli ultimi tempi e che il Giuffrè aveva conservato per avere prova delle decisioni adottate dal Provenzano o con lo stesso concordate. Tale premessa appare del tutto indispensabile allo scopo di comprendere sia il livello verticistico del ruolo ricoperto dal Giuffrè all’interno di cosa nostra che la profondità e l’intensità del rapporto di amicizia e di confidenza che lo legava al Provenzano. Pertanto, quando ci si trova davanti ad affermazioni riferite dal Giuffrè in quanto apprese direttamente dal Provenzano, si deve tenere conto dello spessore intrinseco del collaboratore e del rapporto privilegiato che lo legava al Provenzano. Questi due fattori, se congiuntamente valutati, danno la misura del livello di attendibilità che deve riconoscersi alle parole del collaboratore. Si tratta di confidenze della massima serietà che due capi storici di cosa nostra legati da un profondo rapporto personale si scambiavano nel corso di riunioni estremamente rischiose data la latitanza di entrambi. Ovvero che si comunicavano mediante il ricorso ai pizzini per la consegna dei quali era stata messa in piedi una rete di favoreggiatori talmente complessa ed articolata che in nessun caso (fatta eccezione dell’arresto dei due) le forze di polizia sono mai riuscite ad intercettarne uno. Come appare chiaro un siffatto contesto non lascia spazio ad alcuna possibilità che i due si siano scambiati informazioni false o peggio ancora millanterie, posto che entrambi erano tenuti al vincolo della verità e che anche una sola menzogna avrebbe scatenato conseguenze facilmente intuibili. Del resto non vi era alcuna ragione che i due si mentissero (cosa ovviamente mai accaduta secondo il Giuffrè), atteso che entrambi erano legati da un antico e profondo rapporto di amicizia e tradizionalmente si erano sempre trovati sullo stesso fronte interno alle dinamiche di cosa nostra. Tanto premesso può passarsi a ricostruire l’oggetto delle dichiarazioni rese dal collaboratore nell’ambito del presente processo. Il Giuffrè, dopo avere ricostruito il suo rapporto col Provenzano, riferiva che questi manteneva molto riserbo sugli affari che personalmente gestiva per conto di cosa nostra. Di certo il Provenzano per molto tempo aveva trascorso la sua latitanza vicino a ed aveva fatto di questa cittadina la sua “roccaforte”, nel senso che si occupava personalmente delle vicende di quel luogo ed investiva buona parte dei propri capitali attraverso ditte e persone a lui vicine. Oltre ad alcuni uomini d’onore di Bagheria quali Antonino Mineo, Michelangelo Aiello, Leonardo Greco, Nino Gargano, Nicolò Eucaliptus e Pietro Lo Jacono, egli aveva fatto investimenti attraverso Oliviero Tognoli. Questi era ufficialmente un imprenditore nel settore del ferro ma, di fatto, era “una pedina importantissima all’interno di cosa nostra” in quanto si era occupato di organizzare vasti traffici internazionali di droga e complesse operazioni di riciclaggio di denaro sporco. A tale proposito deve notarsi come il Tognoli sia una di quelle persone condannate, in concorso proprio con il Palazzolo, nell’ambito del processo Pizza Connection. Come si è già avuto modo di riferire, infatti, il Palazzolo è stato condannato (rectius gli è stata applicata la pena) proprio per il reato di associazione finalizzata al traffico internazionale di stupefacenti insieme ad alcuni uomini d’onore siciliani ed a Oliviero Tognoli (v. sentenza in atti). Vale la pena di sottolineare come il Giuffrè, pur sottolineando l’importanza del Tognoli nel riciclaggio di capitali illeciti e nel commercio della droga, aggiungeva che il Palazzolo ricopriva un ruolo assai più importante in quanto il primo era “uno che giostra dall’esterno” mentre il secondo “è una persona siciliana, è una persona legata ai corleonesi, è una persona legata al Provenzano, non so se riesco a spiegarmi…”. Il Provenzano, tuttavia, oltre a Bagheria aveva un altro “feudo personale” costituito dalla zona di Cinisi (cio è proprio quella del Palazzolo) “lo stesso discorso possiamo fare su Cinisi… che dopo l’inizio della guerra di mafia è diventata un salotto riservato dello stesso Provenzano”. Fatta questa premessa il Giuffrè riferiva di non aver conosciuto personalmente il Palazzolo ma di aver molto sentito parlare di lui direttamente dallo stesso Provenzano ed in occasione di più colloqui anche in epoca molto recente rispetto al suo arresto (2002). In base a quanto appreso dallo stesso Provenzano, il Palazzolo era stato il suo “punto di riferimento più importante” nella zona di Cinisi così come era stato nel corso degli anni ottanta uno dei suoi referenti privilegiati anche in relazione agli affari posti in essere a Bagheria. Il Palazzolo, peraltro, era nel cuore del Provenzano anche per il fatto di essere un lontano parente di sua moglie, Saveria Palazzolo, originaria proprio di Cinisi. Secondo il collaboratore “il Palazzolo Vito è una persona nelle mani del Provenzano stesso……. Diventerà tranquillamente posso dire il punto di riferimento principale di natura economica dei corleonesi, in modo particolare per quanto riguarda il discorso di Tot ò Riina, Bernardo Provenzano”. Il Giuffrè aveva saputo che il Palazzolo era anche stato “combinato” nel corso degli anni 80’ per volont à dello stesso Provenzano e del Riina, i quali, tuttavia, per allontanarlo dall’influenza del Badalamenti (all’epoca ancora boss di quella zona e nemico storico dei corleonesi) lo avevano fatto diventare uomo d’onore in un contesto territoriale diverso da Cinisi e, precisamente, nel mandamento di Partinico ed attraverso proprio quel Nenè Geraci (capo della famiglia di Partinico) al quale hanno fatto più volte riferimento anche diversi altri collaboratori. Anzi, in relazione proprio alla faida col Badalamenti che era stata alla base della seconda guerra di mafia dei primi anni 80’, il Giuffrè aggiungeva che il Palazzolo aveva avuto anche un ruolo nell’omicidio di un parente del Badalamenti (forse un nipote) che si trovava in Germania. L’omicidio rientrava nella logica dello sterminio dei parenti e dei sodali del Badalamenti ed era stato eseguito in Germania su ordine del Riina e del Provenzano. In relazione a tale specifico episodio egli aveva saputo, prima da Ciccio Intile, Pippo Calò e Lorenzo Di Gesù (autorevoli uomini d’onore dell’epoca vicini ai corleonesi) e poi dagli stessi Riina e Provenzano, che il Palazzolo aveva svolto un ruolo logistico nell’individuazione della vittima in Germania, luogo dove egli all’epoca risiedeva. Anche in questo caso è appena il caso di richiamare i plurimi riscontri a queste affermazioni del collaborante che risiedono sia nel coinvolgimento giudiziario del Palazzolo nell’inchiesta concernente l’omicidio di Agostino Badalamenti (nipote del Badalamenti), commesso a Solingen in Germania su ordine proprio del Riina e del Provenzano che, soprattutto, nelle deposizioni di altri collaboratori di giustizia e nella testimonianza resa da Franco Oliveri, compagno di cella ed amico dell’imputato che ne aveva raccolto le confidenze durante la comune detenzione. Più in generale il Giuffrè riferiva che “l’importanza del Vito Palazzolo si è andata sempre più affermando perché, nel mentre i corleonesi si andavano mettendo nelle mani i vari commerci….. in questo contesto avr à un ruolo primario il Vito Palazzolo”. A proposito del significato dell’espressione “ruolo primario”, il collaboratore specificava che “ il Palazzolo Vito avrà un ruolo primario perché è considerato una persona di fiducia del Salvatore Riina e del Bernardo Provenzano e che per quanto riguarda l’investimento dei capitali, sia per quanto riguarda il commercio dell’eroina, il Palazzolo Vito, diciamo, che sarà nato… accentrerà nelle sue mani queste… questi discorsi di natura di natura economica, sia per quanto riguarda, ripeto, il discorso che va ad interessare la commercializzazione dell’eroina”. Tali affermazioni del collaboratore ovviamente risultano riscontrate in modo individualizzante dalla condanna riportata dal Palazzolo proprio per il traffico di stupefacenti denominato Pizza Connection (v. sentenza in atti e deposizione del generale Pitino). Le fonti della conoscenza di questi fatti erano costituite sempre dal Provenzano in persona ma anche da altri uomini d’onore quali Leonardo Greco e Nino Gargano che erano molto vicini al Palazzolo. Ma, a parte i fatti relativi agli anni 80’, il Giuffr è riferiva tutta una serie di notizie apprese direttamente dal Provenzano che riguardavano gli anni successivi fino addirittura al momento del suo arresto (2002). Anni recenti dunque e, comunque, successivi al trasferimento del Palazzolo in Sudafrica, circostanza che il collaborante riferiva spontaneamente e non a seguito di domande suggestive: “nell’ultimo periodo è stato, per quello che…, in un paese…, nel Sudafrica, pu ò essere…”. Anzi il Giuffrè, a domanda della difesa, precisava che il Palazzolo in un primo tempo aveva vissuto ed operato in Sicilia, poi era andato in Svizzera ed il Germania ed infine, dopo avere avuto problemi giudiziari, si era definitivamente stabilito in Sudafrica. Anche in questi anni, infatti, il Giuffrè aveva avuto modo di parlare col Provenzano del ruolo del Palazzolo che il primo considerava “una persona scaltra” nonché “una delle persone più abili nell’andare a fare determinate operazioni”. Nel corso degli anni 90’ il Palazzolo aveva prospettato al Provenzano alcuni affari da porre in essere all’estero, come l’acquisto di aziende agricole di notevole estensione in America latina ovvero il commercio internazionale di carni sempre dal sudamerica (l’Argentina in particolare). I rapporti tra il Palazzolo ed il Provenzano erano assicurati grazie a vari intermediari tra i quali sicuramente vi era anche il fratello del Provenzano stesso che operava e risiedeva in Germania, luogo dove il Palazzolo aveva vissuto a lungo. A proposito di tali affari, mentre in relazione a quello della commercializzazione di carni il Provenzano si era mostrato riluttante col Palazzolo (spiegandone anche le ragioni all’amico Giuffrè), quello dell’acquisto di aziende agricole in sudamerica, per quanto a sua conoscenza, era andato in porto proprio grazie all’interessamento del Palazzolo. Ovviamente le proposte fatte dal Palazzolo al Provenzano si fondavano sul presupposto del reinvestimento, attraverso società apparentemente in regola, di capitali di provenienza illecita in quanto frutto delle attività illegali di cosa nostra. Del resto il Palazzolo era un esperto sia di transazioni finanziarie internazionali che anche del commercio di carni, posto che “ricordo bene lui ha avuto delle esperienze nel campo dell’allevamento… ma questo in modo particolare nell’allevamento degli struzzi”. Dunque, il Giuffrè non si limitava a riferire, in modo apodittico, di un possibile commercio di carni ma aggiungeva un particolare del tutto specifico – l’attivit à di allevatore di struzzi svolta dal Palazzolo – che ha trovato un preciso riscontro all’esito della rogatoria internazionale, nel corso della quale è emerso che l’imputato, tra le varie attività, si era occupato anche di allevamento di struzzi. A specifica domanda del P.M. il Giuffrè precisava che questi affari (commercio di carni poi non posto in essere ed acquisto di aziende in sudamerica) erano stati pianificati tra il Palazzolo ed il Provenzano “ nella seconda metà degli anni 90’”. E, quantomeno in relazione all’acquisto di ampie estensioni di terreno in sudamerica, si trattava di un affare che era andato in porto, nel senso che il Provenzano aveva acquistato delle aziende grazie al concorso del Palazzolo che si era occupato della conclusione degli affari e dell’intestazione fittizia di tali immobili in modo da occultare l’identità dei reali proprietari e di consentire così il riciclaggio di ingenti somme di denaro di illecita provenienza. Intorno all’anno 2000, inoltre, il Palazzolo aveva prospettato al Provenzano di acquisire una partecipazione in una società di assicurazioni tedesca. Il Provenzano aveva accolto la proposta, tramite suo fratello che si trovava in Germania, anche allo scopo di far lavorare suo figlio maggiore (che si recava spesso in quel Paese) in una attività apparentemente lecita. Era anche avvenuto un incontro tra il rappresentante tedesco di tale società di assicurazione ed il figlio del Provenzano per pianificare il suo inserimento in una qualche diramazione territoriale di detta societ à. Addirittura tale proposta di investimento di capitali di illecita provenienza era stata girata dal Provenzano allo stesso Giuffrè, nel senso che il primo aveva proposto al secondo di partecipare all’investimento con capitali illeciti del suo mandamento. Anche per tali ragioni egli aveva discusso a lungo col Provenzano di tale argomento, facendosi spiegare in generale il tipo di operazione che gli aveva suggerito il Palazzolo, ma poi aveva deciso di rifiutare l’offerta per ragioni di ordine personale. Anche in relazione a tale specifico affare pianificato in tempi recentissimi tra il Palazzolo ed il Provenzano sono emersi significativi riscontri a seguito di alcune intercettazioni che saranno di qui a breve prese in esame. Il Giuffrè precisava, poi, che il coinvolgimento del Palazzolo nel traffico di sostanze stupefacenti non si era limitato agli anni 80’ ma era proseguito anche nel corso degli anni novanta. Anzi, dopo l’arresto di Totò Riina (gennaio 1993) il suo ruolo si era ulteriormente accresciuto proprio perch é egli era ancora più vicino al Provenzano, il quale, dopo l’arresto del Riina, era divenuto di fatto il capo assoluto di cosa nostra. Anche dopo il 1993, dunque, “il ruolo del Vito Palazzolo avrà un incremento anche nel contesto colombiano, anche nel contesto del traffico della cocaina stessa, oltre al discorso che va ad interessare l’eroina”. Ed a proposito del ruolo del Palazzolo di punto di riferimento del Provenzano per gli affari a livello internazionale il collaboratore aggiungeva: “ si, sto parlando… sto parlando proprio di discorsi internazionali, che vanno ad interessare l’America… la Svizzera… l’Inghilterra … per altri versi altri paesi quali l’Argentina, il Canada, cioè siamo in un contesto prettamente internazionale che va ad interessare la commercializzazione degli stupefacenti… ma non solo… molti di questi capitali venivano reinvestiti…”. In relazione ai tempi più recenti, poi, il collaborante riferiva di avere appreso dal Provenzano che l’imputato in Sudafrica si occupava anche di commercio di diamanti e pietre preziose. Tale attività la svolgeva sia per suo conto che probabilmente anche per conto del Provenzano o di altri, tanto che il Provenzano stesso gli aveva detto che tutto quello che faceva il Palazzolo “ si trasformava in oro”. A tale proposito va ribadito quanto già evidenziato a proposito del contenuto delle dichiarazioni di numerosi altri collaboratori di giustizia che hanno, autonomamente ma in modo del tutto concorde, riferito in ordine al commercio di pietre preziose posto in essere dal Palazzolo insieme ad altri uomini d’onore (Geraci e Madonia, ed esempio). Inoltre, vanno richiamate le dichiarazioni del collaboratore Tullio Cannella, le quali appaiono del tutto sovrapponibili a quelle del Giuffrè anche sullo specifico punto della disponibilità, da parte del Palazzolo, di miniere di diamanti in società con Bernardo Provenzano. A specifica domanda della difesa, per altro verso, il Giuffrè precisava di non essere a conoscenza dell’episodio dell’ospitalità fornita dal Palazzolo ai latitanti Bonomo e Gelardi. Aggiungeva, però, che il Provenzano gli aveva descritto il Palazzolo come “una persona disponibile principalmente con le persone a sua volta vicine sia al Provenzano che al Riina stesso”. E precisava che il Bonomo era un uomo d’onore di Partinico (cioè della stessa famiglia del Palazzolo), molto legato a Nenè Geraci e, quindi, anche al Riina ed al Provenzano Ciò posto a proposito del contenuto delle dichiarazioni rese dal Giuffrè, può serenamente affermarsi che le stesse sono apparse intrinsecamente attendibili ed autonomamente riscontrate. In primo luogo il ruolo verticistico ricoperto dal collaborante ed il suo rapporto di antica amicizia e confidenza col Provenzano forniscono un’ampia garanzia di veridicità alle sue propalazioni. Si tratta, invero, di un apporto collaborativo di altissimo livello e che, caso unico nel panorama dei collaboratori di giustizia, consente di venire a conoscenza della sfera più riservata del capo assoluto di cosa nostra, Bernardo Provenzano. A ciò deve aggiungersi come le parole del Giuffrè abbiano trovato plurimi riscontri sia in autonome emergenze processuali che nelle dichiarazioni degli altri collaboratori escussi nell’ambito del presente procedimento. La vicinanza diretta al Riina e soprattutto al Provenzano, l’affiliazione per volere di costoro presso un diverso mandamento (Partinico) rispetto a quello di origine (la famiglia di Cinisi), la vicinanza al Nen è Geraci, il rapporto tra questi ed il Bonomo, il presunto coinvolgimento nell’omicidio di Agostino Badalamenti, il ruolo primario svolto nella c.d. Pizza Connection e nel riciclaggio di enormi somme di denaro anche all’estero sono tutti dati perfettamente convergenti con le affermazioni – già a loro volta concordanti – fornite dagli altri collaboratori. Molti aspetti della vita del Palazzolo – l’aver vissuto ed operato prima in Sicilia, poi in Svizzera, Germania ed infine in Sudafrica, il rapporto con Oliviero Tognoli, il coinvolgimento nel processo Pizza Connection e nelle indagini sull’omicidio di Agostino Badalamenti, l’avvenuto arresto, il commercio di diamanti, l’allevamento di struzzi in Sudafrica etc. – hanno trovato conferma vuoi nelle sentenze in atti che nelle risultanze della rogatoria e dell’istruzione dibattimentale. Infine, altri due rilevanti passaggi della deposizione del Giuffrè hanno trovato un preciso riscontro in alcune intercettazioni telefoniche ed ambientali trascritte nell’ambito del presente procedimento. Si tratta, in particolare, di riscontri alla circostanza di assoluto rilievo dell’esistenza di affari posti in essere dal Palazzolo insieme a Bernardo Provenzano e per suo conto. A tale proposito deve sottolinearsi l’estrema significatività di detti riscontri, atteso che gli affari posti in essere dal Provenzano costituivano materia estremamente riservata e, come tale, preclusa anche alla maggior parte degli stessi uomini d’onore. La prima di dette intercettazioni è una ambientale eseguita il 17 novembre del 2001 alle ore 12,38 sulla autovettura Fiat Punto in uso a Landolina Pietro, soggetto in atto sotto processo per associazione mafiosa nel contesto territoriale di San Lorenzo­Piana dei Colli. Il Landolina, peraltro, è nipote di un boss storico di cosa nostra, Raffaele Spina, già a capo della famiglia della Noce e da poco scomparso. La conversazione in esame interveniva proprio tra il Landolina e lo zio Spina Raffaele, il quale, a causa della sua età e del ruolo primario svolto da tanti anni in cosa nostra, era ovviamente a conoscenza di fatti riservati di certo sconosciuti al nipote. All’inizio della conversazione intercettata l’auto dei due si trovava davanti ad un esercizio commerciale ubicato a piazza Noce e gestito da un tale Di Maria (così indicato dagli stessi interlocutori). Le indagini consentivano di accertare che si trattava di un piccolo supermercato denominato “DS Alimentari s.r.l.”, gestito effettivamente da Di Maria Natale, pluripregiudicato, e dal padre Di Maria Antonino. Quest’ultimo è peraltro fratello di Di Maria Vincenzo, detto “u capuni”, uomo d’onore del mandamento di Porta Nuova. Il dialogo all’interno dell’autovettura proseguiva quindi tra lo Spina ed il Di Maria, il quale, ovviamente, trattava con molta deferenza e soggezione il suo interlocutore, il cui ruolo di vertice gli era ampiamente noto. Il Di Maria, in particolare, chiedeva un interessamento dello Spina al fine di convincere tali Sgroi, gestori della catena di supermercati SISA nel palermitano, a fargli avere della merce. Il Di Maria evidenziava come gli Sgroi, originari di Carini, fossero i più grossi imprenditori nel settore dei supermercati in provincia di Palermo e che solo lui avrebbe potuto convincerli (“sulu vossia può decidere sti cosi”). Dal tenore del dialogo si evince chiaramente che il fatturato dei supermercati si aggirava intorno ai trecento miliardi e che gli Sgroi incassavano circa tre­ quattro miliardi al giorno. Gli Sgroi erano in società con certi “Giac” identificati dalla P.G. per i fratelli Giacalone, figli di Pinuzzu Giacalone già uomo d’onore della famiglia di San Lorenzo. Gli Sgroi ed i Giacalone gestivano circa cento supermercati nella provincia di Palermo e disponevano di un deposito di ventimila metri quadrati. La richiesta del Di Maria era chiaramente quella di entrare, grazie all’influenza ed all’interessamento dello Spina, in affari con tale gruppo allo scopo di allargare il suo giro d’affari, cosa che non era riuscito a fare neanche suo fratello che era uomo d’onore. Lo Spina, a dimostrazione dello spessore degli interlocutori e della delicatezza della richiesta, riferiva che si trattava di una questione da trattare solo di presenza. Il Di Maria proseguiva dicendo che gli Sgroi ed i “Giac” non erano nessuno rispetto a quelli che stavano sopra di loro (“ma iddi un su nuddu, ci su chiddi supra d’iddi, bravo!”), alludendo evidentemente a dei soci occulti che si trovavano in una posizione preminente rispetto a loro. E subito dopo precisava chi c’era sopra di loro: “ E’ comu chiddu… da miniera ‘i l’oro, ‘u capisci? …(inc)… l’africano docu c’è nnu mezzu! E forse…. puru a chiddu chi cercano… ‘u chiù grosso!! ‘U capiu?…” (e come quello della miniera d’oro, lo capisce? L’africano l ì c’è nel mezzo! E forse pure quello che cercano… il più grosso!! Lo ha capito?, n.d.e.). Dal tenore della conversazione, in parte disturbata ed allusiva date le evidenti preoccupazioni degli interlocutori di poter essere intercettati, si ricava, dunque, che, al di sopra degli Sgroi e dei Giacalone, in posizione di preminenza rispetto a loro vi erano due soci occulti dei quali i primi fungevano da prestanome. Tali soggetti dovevano identificarsi in un certo “africano” della miniera d’oro ed una persona ricercata dalla polizia, anzi il maggiore ricercato dalle forze dell’ordine (il più grosso che cercano). Secondo la tesi della pubblica accusa, avvalorata dalla testimonianza del funzionario di polizia Vito Calvino, tali soggetti non possono che identificarsi nel Palazzolo, soggetto residente in Africa e titolare di miniere, e nello stesso Provenzano, all’epoca del dialogo il primo latitante mafioso ricercato dalle forze dell’ordine. Pur ammettendo che i nomi dei due soci occulti non sono stati apertamente fatti dai due interlocutori (per ovvie ragioni di cautela dato lo spessore dei personaggi in questione), deve riconoscersi che sussistono plurimi elementi indiziari che convergono a sostegno della tesi del P.M.. In particolare, nel corso del dialogo si fa espresso riferimento a Terrasini, luogo dove gli Sgroi gestivano un supermercato, che è proprio la cittadina di provenienza dell’odierno imputato, dove tuttora abitano alcuni suoi parenti. Il chiaro riferimento ad un soggetto dotato di un forte spessore mafioso (desumibile dalla cautela con cui se ne parla e dall’essere al di sopra degli altri soci) denominato “l’africano” che dispone di miniere effettivamente sembra potersi riferire unicamente al Palazzolo. Ed invero, nel panorama investigativo e processuale attuale non risulta nessun altro soggetto vicino a cosa nostra che risieda (od operi stabilmente) in Africa e che disponga di miniere (v. deposizione del Calvino). Il fatto, poi, che il Di Maria abbia fatto riferimento a miniere d’oro e non a miniere di diamanti non appare, a questo fine, elemento dirimente in grado di sovvertire un quadro di risultanze che appare univocamente riconducibile solo alla persona del Palazzolo, peraltro anche originario di Terrasini. Ed ancora più chiaro appare il riferimento al Provenzano, posto che certamente il “ più grosso che cercano” non poteva che essere, al tempo dell’intercettazione (2001), proprio il Provenzano, il cui nominativo notoriamente era il primo nell’elenco dei latitanti mafiosi più pericolosi e più attivamente ricercati dalle forze di polizia italiane ed internazionali. Oltretutto già si è detto – v­ deposizione del Giuffrè – quanto grande sia stata l’influenza del Provenzano proprio nella zona di Cinisi e Terrasini, luogo espressamente richiamato nel corso dell’intercettazione proprio in riferimento agli Sgroi. E non vi è dubbio che anche da tale richiamo territoriale si trae una conferma dell’identificazione del Palazzolo nell’africano di cui si parla, posto che tale ulteriore dato restringe ancor di più il campo dei possibili soci occulti degli Sgroi. L’esame critico del contenuto di detta intercettazione ambientale, alla luce dei superiori chiarimenti, appare, dunque, assumere un sicuro e rilevante valore confermativo delle dichiarazioni del Giuffrè. Di certo si tratta di un riscontro esterno che non costituisce prova autonoma del fatto in sé ma che avvalora in concreto le affermazioni del collaboratore sia sul piano logico che rappresentativo. Come si è avuto modo di dire in premessa, invero, la giurisprudenza di legittimità, oramai da anni consolidata sul punto, non pretende che il riscontro – che può essere di qualsiasi natura – abbia le caratteristiche di una prova autonoma, giacchè, in tal caso, non assumerebbe i connotati del riscontro ma di una vera e propria prova del fatto. Nel caso di specie, l’intercettazione ambientale suddetta costituisce solo un indizio che tuttavia appare pienamente confermativo della circostanza che il Palazzolo ed il Provenzano fossero in affari assieme in vari settori sia in Italia che all’estero. Allo stesso modo deve valutarsi il significato ed il contenuto di un secondo gruppo di intercettazioni che hanno riguardato il figlio di Bernardo Provenzano, Angelo. Dette intercettazioni sono state trascritte ed acquisite al presente processo e possono essere pienamente valutate al fine di verificare l’affermazione fatta dal Giuffrè a proposito dell’affare relativo all’acquisizione di una forma di compartecipazione in una societ à assicurativa tedesca da parte del Palazzolo e del Provenzano. Come si ricorderà il Giuffrè, pur non sapendo chiarire nel dettaglio il tipo di operazione posta in essere da costoro, precisava che l’interesse del Provenzano era stato sollecitato non solo da ordinarie finalità di riciclaggio del denaro sporco ma anche e soprattutto dalla possibilità di consentire al figlio Angelo di avviare una attività apparentemente lecita. Ebbene, le intercettazioni eseguite proprio sulle utenze di Angelo Provenzano consentono di affermare che questi, in un periodo intercorrente tra il settembre 1998 ed il giugno 1999, aveva svolto attività lavorativa per conto della società “Bayerische” con sede in Germania. Detta attività consisteva nella stipula di contratti assicurativi nel settore del ramo vita e, a detta dello stesso figlio del boss, era per lui un’ottima opportunit à di guadagno. In particolare, dall’esame di una delle conversazioni in atti (quella del 23 settembre 1998 alle ore 9,40) si desume come Angelo Provenzano – che si rivolge alla madre – lamenti i suoi problemi economici e faccia cenno ad una società che gli consentirebbe di guadagnare molto denaro (“cinquecento milioni al mese”). Dai riscontri e dalle verifiche effettuate dalle forze dell’ordine è emerso che l’attività in questione era per l’appunto quella della stipula di assicurazioni Bayerische in provincia di Palermo. Addirittura nella conversazione si fa pure riferimento ad un tale “Roberto” che era interessato insieme ad Angelo Provenzano a tale affare. La circostanza, tuttavia, appare non univocamente significativa nel senso che non consente di identificare con certezza tale Roberto in Vito Roberto Palazzolo. Ciò non di meno, dall’analisi di dette conversazioni si evince, anche alla luce delle testimonianze rese sul punto dagli operatori di P.G. escussi, che il figlio del Provenzano aveva lavorato per conto di una societ à tedesca di assicurazioni e che da tale lavoro, per sua stessa affermazione, riteneva di poter guadagnare una somma tanto elevata (500 milioni di lire al mese) da apparire certamente incompatibile con l’andamento medio dei profitti di un semplice venditore porta a porta di contratti assicurativi. L’esame diretto delle intercettazioni in atti consente di verificare nel dettaglio, anche alla luce di quanto riferito dai testi di P.G., il significato e la valenza corroborativa di detto riscontro esterno. In conclusione, pertanto, può ritenersi che le dichiarazioni del Giuffrè, oltre che provenienti da un soggetto intrinsecamente attendibile, posto ad un livello verticistico della scala gerarchica di cosa nostra ed in costante ed amichevole contatto con Bernardo Provenzano, hanno trovato numerosi riscontri esterni che ne hanno corroborato la portata e la significativit à. Riscontri rappresentati sia dal contenuto di due gruppi di intercettazioni eseguite in tempi e contesti territoriali diversi che in altre emergenze dibattimentali che hanno confermato le notizie riferite con precisione e puntualità dal collaborante per averle direttamente apprese dallo stesso Provenzano. Si intende fare riferimento alle vicende interne a cosa nostra e relative all’affiliazione del Palazzolo, alle sue amicizie con altri uomini d’onore ed al suo ruolo nella realizzazione di affari illeciti insieme a costoro che hanno trovato plurimi riscontri attraverso la convergenza con le numerose dichiarazioni rese dagli altri collaboratori di giustizia. Come pure hanno trovato plurime conferme le notizie concernenti le vicende giudiziarie e di vita del Palazzolo, il suo arresto in Svizzera, il trasferimento in Sudafrica ed il suo ruolo di imprenditore e finanziere capace di operare con successo a livello internazionale (in Germania, in Svizzera, negli Stati Uniti, in Angola, in Namibia ed in Sudafrica). A ciò deve aggiungersi l’estrema significatività che discende dal fatto che tutte le notizie riferite dal Giuffrè provengono direttamente da Bernardo Provenzano e cioè dal capo assoluto di cosa nostra con il quale il Giuffrè aveva un rapporto di antica amicizia, di grande profondità e di comunione di intenti. Anche per questi motivi l’apporto fornito dal Giuffr è in epoca recentissima appare al Collegio di rilevante importanza ai fini del presente giudizio. Si tratta, invero, di una prova nuova, mai valutata prima da alcun organo giudicante e dotata di una eccezionale valenza dimostrativa per le caratteristiche intrinseche del dichiarante, per il ruolo apicale ricoperto dallo stesso all’interno dell’organizzazione sino a tempi recentissimi e per i plurimi riscontri esterni che sono stati forniti dagli inquirenti. L’inserimento di detto apporto probatorio nel quadro complessivo delle altre risultanze testimoniali, documentali e promananti da altri collaboratori di giustizia consente di definire ancor di più il ruolo e soprattutto l’attualità del contributo fornito dal Palazzolo all’associazione cosa nostra. Ciò posto, deve ancora affrontarsi un ulteriore nuovo elemento di prova fornito dal P.M. nel corso del presente giudizio. Si tratta di alcune intercettazioni telefoniche disposte nell’ambito di un procedimento parallelo al presente (il n. 16424/01 R.G.N.R.) e trascritte nel corso dell’istruzione dibattimentale. In particolare si tratta di quattro intercettazioni telefoniche riguardanti altrettante conversazioni intercorse in epoca assai recente (nel 2003) tra l’imputato e la sorella Sara e tra altri interlocutori. Una delle singolarità di tali conversazioni è certamente rappresentata dal fatto che il Palazzolo e la sorella pianificavano e ponevano in essere tutta una serie di iniziative chiaramente finalizzate ad influire anche sul presente processo penale. Come si vedrà, infatti, i due germani, utilizzando una fitta rete di soggetti (avvocati, consulenti, funzionari ministeriali, giornalisti, parlamentari) ed avvalendosi del sostegno del Senatore Marcello Dell’Utri – come è noto sotto processo per associazione di tipo mafioso e recentemente condannato in primo grado per concorso esterno in associazione mafiosa – al quale i primi facevano riferimento, tentavano di influenzare l’esito della rogatoria internazionale, il procedimento di estradizione del Palazzolo ed il regolare corso (e sinanco lo stesso esito) del presente processo mediante iniziative diverse quali interrogazioni parlamentari, campagne di stampa ed altre oscure manovre univocamente finalizzate ad orientare a proprio favore l’attività di pubblici funzionari e persino di organi giudiziari. Già questo reiterato ed accanito proposito dei due costituisce, ad opinione del Collegio, un fatto assolutamente riprovevole sia sul piano etico che strettamente penale, posto che non si tratta di un tentativo di difesa delle proprie supposte ragioni da parte dell’imputato (cosa che sarebbe, entro certi limiti, comprensibile) ma, al contrario, di una radicata e pervicace volontà di inquinare, attraverso mezzi e sistemi illeciti, l’andamento di un processo penale e di una serie di procedimenti (la rogatoria e l’estradizione) ad esso connessi. Nei dialoghi intercettati i due Palazzolo discutono della necessità di contrastare il procedimento di rilascio dell’estradizione da parte del governo sudafricano, di influire presso la Corte di Cassazione sui meccanismi di assegnazione del fascicolo relativo al giudicato cautelare allo scopo di farlo assegnare a “giudici competenti” che avrebbero dovuto “mettere un punto fermo” nonché di avviare le più disparate iniziative (interrogazioni parlamentari, campagne di stampa etc.) al fine di tentare di influenzare la serenità del Collegio giudicante e di condizionare l’esito del processo sia in sede di merito che di legittimità. La cosa, tuttavia, che rende ancor più significativo il contenuto probatorio di dette intercettazioni è che tali complesse ed articolate iniziative dovevano essere in qualche modo coordinate e veicolate dal sen. Marcello Dell’Utri, soggetto di origine palermitana, allo stato, condannato in primo grado per concorso in associazione mafiosa. L’iniziativa del Palazzolo, dunque, sul piano del metodo, del merito e dello spessore degli interlocutori, finisce per acquisire una ancor più grave valenza, sia per la sua intrinseca capacità di inquinamento del processo penale e degli altri procedimenti amministrativi ad esso connessi che allo scopo di delineare il suo personale contesto di riferimento all’interno di un gruppo di potere deviato in grado di condizionare, con sistemi indebiti, la vita pubblica. E, si badi bene, il Palazzolo non si limita a chiedere aiuto lamentando di essere una presunta vittima ingiustamente perseguitata per ragioni inspiegabili dal sistema processuale penale italiano, ma offre in cambio dell’aiuto richiesto il suo appoggio alle iniziative affaristiche in Angola che tale gruppo di potere italiano intendeva evidentemente porre in essere in quel Paese. Si atteggia, cioè, da uomo di potere economico che, forte delle sue credenziali in Sudafrica ed in Angola, può intercedere e garantire per le iniziative economiche che i suoi referenti italiani avevano intenzione di compiere in quegli Stati in vari settori (pesca, miniere, petrolio e lavori pubblici). Dall’esame di tale rapporto paritario e sinallagmatico tra soggetti dotati di ruoli diversi ma accomunati (anche e non solo) dal fatto di rappresentare gruppi di potere in grado di scambiarsi reciprocamente favori viene fuori un quadro fortemente connotato in chiave negativa. Soprattutto se si considera che entrambi i soggetti in questione (il Palazzolo ed il Dell’Utri) ad oggi risultano condannati in primo grado per concorso nel reato di associazione mafiosa ed, in particolare, per la loro vicinanza alla medesima organizzazione e cioè a cosa nostra. E’ chiaro che la presunzione di innocenza non pu ò consentire di trarre da tali elementi di giudizio delle conclusioni affrettate e semplicistiche ma resta il fatto dell’esistenza di un rapporto attuale e potenzialmente idoneo a raggiungere gli scopi prefissati da entrambi i soggetti. E, soprattutto, rimane prova di un tentativo di influenzare l’attività parlamentare (mediante interrogazioni sull’operato dei giudici), il mondo giornalistico (attraverso campagne di stampa appositamente orientate), alcuni procedimenti amministrativi (la rogatoria e l’estradizione) sia in Italia che all’estero, e ben tre procedimenti giudiziari (oltre a quello oggi conclusosi con la sentenza di primo grado, quello cautelare che ha portato alla revoca dell’ordinanza di custodia cautelare emessa a carico dell’imputato e quello finalizzato all’ottenimento del riconoscimento del c.d. ne bis in idem internazionale, di fatto poi ottenuto). A giudizio del Collegio detto tentativo non solo non pu ò dirsi inidoneo al raggiungimento degli scopi del Palazzolo ma risulta, per il metodo utilizzato e per la scelta degli interlocutori, un segnale inquietante della intrinseca pericolosità dell’odierno imputato sotto l’aspetto strettamente mafioso. Dall’esame del contenuto delle quattro intercettazioni telefoniche suddette – che di seguito saranno in parte richiamate per esteso data la delicatezza del loro contenuto – si evince chiaramente che il principale referente del Palazzolo e della sorella era costituito dalla signora Daniela Palli. Quest’ultima, milanese di nascita ma keniana di adozione, era molto amica di Riccardo Agusta ed era stata ospite del Palazzolo in Sudafrica. Sara Palazzolo veniva incaricata dall’imputato di contattare telefonicamente la Palli (il cui numero era nella disponibilità dello stesso Palazzolo), la quale avrebbe dovuto fare da tramite con il sen. Dell’Utri. A quest’ultimo, attraverso detto canale, doveva essere consegnato un pro­memoria predisposto dal Palazzolo contenente una serie di richieste definite “fattibili” da parte sua e dei suoi collaboratori. Il canale di comunicazione aveva perfettamente funzionato visto che Sara Palazzolo nel corso della conversazione del 26.6.2003 riferiva al fratello che il Dell’Utri l’aveva chiamata (“lui mi ha chiamato poco fa”), evidenziando di essere stato sollecitato in questo senso da terzi e mettendosi a disposizione (“ in che cosa le posso essere…”). Tale circostanza veniva del resto confermata dalla stessa Palli nel corso della conversazione del 3.12.2003 (“ti ricordi che io a luglio… a giugno… ti chiesi se Marcello poteva fare una telefonata a questa Sara Palazzolo… e lei mi ha risposto: “si l’ha fatta..” ). L’oggetto del pro­memoria e dei contatti tra il Dell’Utri ed i Palazzolo riguardava con tutta evidenza la risoluzione dei problemi processuali dell’odierno imputato, come si comprende dal contenuto complessivo delle conversazioni ed, in particolare, da quella del 3.12.2003, nella quale si legge: “Uomo: il contatto a cosa approda come fatto successivo? A degli affari o alla pura conoscenza… Palli: mah, a risolvere magari i problemi di Roberto che sono anche quelli di Marcello… processi, cose o non so che cosa…”. Da parte sua il sen. Dell’utri aveva preso i Palazzolo “nel cuore” tanto da manifestare la propria disponibilità ad assumere alcune iniziative, per almeno una delle quali era stato anche fissato un compenso tecnico (destinato a qualche professionista collaboratore del Dell’Utri rimasto ignoto) che variava da 5.000 a 20.000 dollari a seconda del buon esito (cioè l’assoluzione del Palazzolo) dell’operazione (“se poi dopo viene assolto…. (inc.) gli altri quindicimila…”). Sempre nel corso della conversazione del 26.6.2003 alle ore 22,18 i due Palazzolo, poi, discutevano apertamente delle richieste che dovevano essere avanzate al Dell’Utri e l’odierno imputato teneva a precisare alla sorella che questi non doveva “essere convertito” perché “era già convertito” (“non devi convertirlo… è già convertito, no? (ride)”). Appare chiaro che il Palazzolo, adoperando tale espressione, intendesse rendere edotta la sorella del fatto che il sen. Dell’Utri fosse già stato sollecitato ad aiutarlo e che si era già messo a disposizione. Durante il dialogo venivano, poi, indicate alcune iniziative che il Dell’Utri, anche attraverso suoi collaboratori, avrebbe dovuto avviare e sostenere in favore del Palazzolo: si trattava, in particolare, di: ­ richiedere un intervento al Ministero competente allo scopo di ottenere una interpretazione favorevole del c.d. ne bis in idem internazionale in relazione al processo per traffico di droga allora in corso in secondo grado presso la locale Corte d’Appello. A tale proposito vale la pena di ricordare che, effettivamente, al Palazzolo sarebbe poi stato riconosciuto il principio del ne bis in idem internazionale rispetto alla precedente condanna svizzera, tanto che la pesante sentenza di condanna di primo grado sarebbe stata riformata; ­ richiedere un intervento presso la Suprema Corte di Cassazione al fine di avallare la richiesta di annullamento dell’ordinanza di custodia cautelare per il reato di associazione mafiosa già avanzata dai difensori del Palazzolo con apposito ricorso. Anche a tale proposito deve osservarsi come di fatto la suddetta ordinanza sarebbe stata annullata dal Tribunale del Riesame di Palermo a seguito della sentenza resa dalla Cassazione in data 9.1.2004 (più volte richiamata in premessa); ­ richiedere un intervento di esponenti “a livello governativo” nei confronti delle Autorità sudafricane allo scopo di ottenere che sia il Palazzolo che l’Agusta venissero “lasciati in pace” (anche, se necessario, attraverso un intervento sul “Presidente” (sic.)); ­ richiedere una interrogazione parlamentare al fine di evidenziare il carattere persecutorio dell’azione giudiziaria svolta dall’A.G. palermitana nei confronti del Palazzolo e dei suoi familiari; ­ richiedere un intervento sui meccanismi di assegnazione del ricorso in Cassazione, allo scopo di farlo assegnare a “giudici competenti” che potessero “mettere un punto fermo” in sede di legittimità. A tale scopo il Palazzolo invitava la sorella ad annotare i nomi dei giudici (“scriviti cu sunnu i magistrati, cu sunnu i persone, cu sunnu i procuratori, cu sunnu i presidenti di Corte d’appello, scriviti tutto”) per monitorare l’esito dei suddetti interventi; ­ richiedere, infine, un interlocutore a livello ministeriale che fosse incaricato di seguire la situazione processuale del Palazzolo. A fronte di tali richieste il Palazzolo manifestava la propria disponibilità a “dare un contributo” a soggetti vicini al Dell’Utri per una serie di affari nei settori della pesca, del petrolio, delle miniere e dei lavori pubblici che costoro avevano intenzione di porre in essere in Angola, dove lui ricopriva il ruolo di consigliere finanziario dello Stato. Inoltre, la sorella dell’imputato avrebbe dovuto precisare al Dell’Utri che il Palazzolo non aveva voluto chiedere altri interventi presso di lui a persone siciliane per non rischiare di essere ancora coinvolto come in precedenza (“ci dici: mio fratello non ha voluto chiedere a nessuno giù al sud, qua, la, perché evita di essere coinvolto come altre volte…”). A questo punto della trattazione si riporta testualmente il contenuto delle parti più interessanti delle due conversazioni del 26.6.2003 (allo scopo di consentire una verifica completa del suddetto quadro di emergenze) rinviandosi per il resto . Conversazione n.73 del 26.6.2003 alle ore 13.20: …. Sara: “ti volevo dire una cosa, ma sintisti arrè dda signora amica tua, quella italiana, no?” Palazzolo: “no” Sara: “l’avevi risollecitata?” P.: “no, lei mi aveva detto che aveva parlato con la persona e dopo non l’ho più sentita” S.: “no, te lo chiedo perché lui mi ha chiamata poco fa…” P.: “ah, si, allora per questo ti ha chiamato, si..” S.: “si, mi ha detto che mi chiamava perché l’aveva avuto detto di chiamarmi e mi ha detto che ci vediamo la settimana entrante” P.: “si” S.: “quindi ora diciamo bisogna avere le idee chiare pure come esporre… perché ognuno poi dice “in che cosa le posso essere…” P.: “certo!” S.: “e’ giusto? Non è che io vogghiu fari mala fiura..” P.: “ci sentiamo stasera no?” S.: “riordiniamo un poco le idee con calma..” P.: “allora ci sentiamo stasera, prima parlo con .. no è lei che ha fatto l’appuntamento di sicuro se no chiddu un chiamava no…” S.: “no, me l’ha detto… certo, non mi ha detto il nome, mi ha detto che ha avuto il numero e mi ha chiamato, dice, sicuramente lei saprà… che c’entra? No, u’ capisciu ca fu chidda” P.: “si, si “ S.: “infatti io ti rissi: “l’avevi sollecitata arrè?” P.: “si, si” S.: “per questo ti chiedevo…” P.: “no, a sira nni parlavamu … ti rissi io… siccome lei me l’ha promesso categoricamente… io ti rissi non la chiamo più, perché.. quando la gente promette i’ cosi e dopo un li fa.. siccome io l’ho ospitata questa persona, l’ho trattata molto bene… è un’amica di Riccardo lei no? C’ero rimasto male che tu non eri stata chiamata, capisci?” S.: “no, va beh, vuol dire che hanno avuto impegni , ognuno magari… non è stata una cosa veloce, però adesso io voglio avere le idee molto chiare, perché né che ogni ghiornu vaiu ‘dda…” P.: “fai tu… fatti un promemoria di quello che vuoi discutere, no?” S.: “certo!” P.: “fatti un promemoria di tutto…no? E… dopo me lo fai sapere, no? Stasera ti ti chiamo io no?” S.: “no, io dicevo pure… P.: “ci sentiamo e parliamo un attimino, d’accordo?” S.: “ pensaci pure tu riflettici pure… perché insomma che ognuno… sono fattibili, anche nelle sue competenze…” …. S.: “no, quello non c’era qua, quindi io non ci ho parlato completamente ho avuto un discorso con Luberti ma a stu punto è inutile ca parru cu chiddu arreri, parru cu iddu direttamente… un poco con… anche delle idee pi ù chiare, però in modo che ognuno dice: vediamo a Roma cosa si può fare eccetera, non è una cosa più di… “ … P.: “va beh, certo ora tu sai esattamente cosa dobbiamo… cosa dobbiamo fare noi, comunque, tu fatti un promemoria così stasera quando ti chiamo io no ne possiamo parlare con più calma… “.

Conversazione n. 74 del 26.6.2003 ore 22.18. …. S.: “… poi mi telefonau Angelucci, ‘ddu cristiano è molto a modo, sempre molto riflessivo, mi ha detto che ha contattato una… una professoressa di diritto internazionale che fa, diciamo, dei pareri eccetera e che conosce pure un altro che fa pure la stessa cosa, dice: “vediamo a chi trovo disponibile, perché il tempo è breve, quindi farmi un parere ‘nna deci iorna, dice, non lo so se me lo faranno…… quindi si attiverà per fare… chiddu mi rissi; “per quello che può servire..” mi rissi Angelucci, forse ci può servire per dopo, dice, se chissà, dice, dovesse continuare il processo e non lo chiudono qua, possibilmente ci servirà per la Corte, per altri motivi, dice, in ogni caso, se invece si chiude, dice, niente, non ci servirà per niente…”. …. P.: “e mettiamo… per quanto concerne le tue cose, tu sai come stanno le tue cose e non c’è meglio di te per potergliele spiegare, no?”… per il resto ci devi… ci devi spiegare che in pratica sarebbe ottimo un intervento al Ministero per quanto riguarda questa storia del “ne bis in idem ”, no? S.: “si” P.: “e… l’altra cosa… e l’altra cosa di avere un conforto da parte del Ministero per metterci una fine a questa situazione che è una disgrazia no… eh… e ci rici: “’ca continuano sempre a sta maniera, vonnu capiri quest’altra cosa nuova, hanno fatto questa cosa che deve andare in Cassazione ora… no? Iddi a che puntu sunnu cu u ricorso in Cassazione? U’ ricorso che dice?” S.: “no, il ricorso è pronto, il ricorso mi ha detto Angelucci che è pronto…… dice:”io questa volta sosterrò l’annullamento senza rinvio e spero Dio che capita di una Corte… come quella che è capitata a lei, dice, quando è stato il caso suo, che sia disponibile a fare un passo in più… di leggersi le carte, perché qua bisogna che si leggono un pochettino queste carte …” P.: “e allora questo è l’altro punto che tu devi sollecitare, no?” S.: “si, va beh, no … queste cose le so, queste cose, insomma, parlando con l’avvocato sti cose giustamente i sacciu” P.: “perché… naturalmente questo metterebbe una fine a questa situazione, almeno in una maniera tale che non ci sono ripercussioni e… di eventuali richieste di estradizione, camurrie e cose varie, no?” S.: “certo, certo, certo… e intanto questa è la situazione…” P.: “dopo ci spieghi naturalmente la… la situazione che si è venuta a creare qua di imbarazzo perché sempre continuano ad assillare, a scrivere, a fare, a dire, tutte sti informazioni di polizia… tutte… comu su cumminati, tutti storie… insomma ci spieghi, ci fai un quadro della situazione per vedere anche se non c’è la possibilità di rivolgersi a qualcuno autorevole che è in contatto qua, con le persone di qua, eccetera… che potrebbe anche fare un intervento a livello governativo , di dire: “ma insumma, lassatilu in pace a chistu docu…” S.: “si, si, si..” P.: “sia a iddu che a Riccardo perché… arrivato ad un certo punto non so che cosa… che cosa avete docu di studiare, di fari, di diri… no? Eh, di dire che … di avere magari un punto di riferimento qua, di qualcuno che si potrebbe sollecitare, fare una raccomandazione a livello di dire: ”lasciatelo in pace, queste sono persone per bene..” eccetera, no? …. di non credere tutte ste porcherie, tutte ste cose, perché, se no, se credono a ste cose puru ‘u Governo è squalificato, no?” S.: “certo… purtroppo qua la situazione.. P.: “vedere se c’è un interlocutore, un interlocutore che si può sensibilizzare perché… siccome c’è questa… e che loro chiamano la… il “rinascimento africano”… di… c’è sempre uno di loro… di ogni governo europeo … che si mette in contatto qua per esaminare il progresso che fanno eccetera…” S.: “certo..” P.: “e si fa … autorizza la persona adatta per potere trasmettere un messaggio al Presidente eccetera, no?” S.: “certo..” P.: “vedere come si può fare, anche per avere una tranquillità in un posto mentre si studiano sti cosi, no? E dopo naturalmente la cosa ministeriale di metterci un punto a questa cosa, l’interrogazione in Parlamento , qualche cosa, di questa persecuzione della famiglia che non finisce più, di cosi ca un finiscinu mai… e chista signora ddocu, nuova, che un capisci un cazzo e che continua ad insistere a fare una cosa cu cosi…” S.: “certo..” P.: “ci spiegassi esattamente: “questa è la situazione qua, come facciamo noi? Almeno mettiamoci un punto fermo alla Cassazione , ci rici, no?..” S.: “va bene, va bene..” P.: “vediamo di farla dare a dei giudici competenti.. no?” S.: “no, per quanto riguarda l’ambito… diciamo… di tutte queste situazioni, questi li conosco perciò non ci saranno problemi , diciamo, questi sono gli argomenti in fondo..” P.: “altro… altro… non ho altro da dire… che cos’altro devo dire? Tu mi hai chiesto di… di fare stu appuntamento e io t’u fici, no?..” S.: “certo..” P.: “non è che io posso… un ci sugnu docu, capisci che cosa… si ci fussi io, sacciu io soccu ci ‘a diri, però… del resto… non è che tu non lo sai, tu le vivi ogni giorno queste cose, vivi questo dramma ogni giorno, ci rici: “scusi, quantu… quantu amu a cummattiri nuatri ‘cca? ‘nni stamu dilapidando ‘i proprietà, tutti cosi, ‘nni stamu vinnennu tuttu chiddu chi avemu niatri.. no..” S.: “ si, si , si..” P.: “ci pare giusto… non lo so… dove dobbiamo arrivare fino a questo punto… no… vediamo di… di concretizzare qualche cosa, no… ci rici… capisco che… lei è un professore che sta avendo anche lei i suoi problemi, no …” S.: “certo, certo..” P.: “però ci rici ‘cca ‘a situazione in effetti sta diventando anche… anche, ci sono queste accuse, a esempio, rivolte al partito… dell’aiuto che abbiamo dato che non abbiamo dato, ci sono sempre queste… quindi volendo che ci sono da sempre…… e poi ci rici… come facciamo per risentirci per sapere più o meno dove deve andare questa cosa e cosa si può fare qua e dove l’avvocato può andare a bussare per avere un po’ di conforto…in questa situazione a livello ministeriale, no?” S.: “si, si, si va bene, va bene, perfetto… no questo lo pensavo e sono…” P.: “ci chiedi anche lumi su questo “ne bis in idem” no.., su questo “ne bis in idem”…,se c’è qualcuno autorevole che può dare un parere autorevole che può finire… che può porre fine a questa cosa, no?” S.: “precisamente…” P.: “scriviti cu sunnu i magistrati, cu sunnu i persone, cu sunnu i procuratori, cu sunnu i presidenti di Corte d’Appello, scriviti tutto …” S.: “si, si, si certo…” P.: “fai un promemoria completo di tutto… no….. c’è una certa disponibilità, si no un t’avissi… un t’avissi dato l’appuntamento ‘ddu cristianu, no…” S.: “no, assolutamente, ma chiddu era gentilissimo ! No, no, assolutamente… anzi… completamente, è stato molto gentile, molto disponibile, m’ha detto: “non si crei problemi, ci vediamo qua da me…” dice… ci rissi: “va bene non ci sono problemi..” P.: “quando lo incontri più o meno?” S.: “la settimana entrante dice…” P.: “si, va bene… dopo mio figlio ti verrà a trovare…no” Omissis “comunque… speriamo che… speriamo che questo incontro col professore porta a dei risultati …” S.: “che vuoi dire, speriamo veramente..” P.: “almeno c’è… c’è una luce in fondo al tunnel, diciamo, no..” S.: “ma speriamo che ha un poco di attenzione, almeno uno per le cose giuste perché… anche questo è ‘u fattu puru.. va bene..” P.: “ma scusa, tu parli con un professore che ha la massima comprensione in merito a queste cose, no… S.: “certo, infatti ti dico… si un li capisci iddu ca ci travagghia cu sti cosi, cu l’avi a capiri?” P.: “ha un’esperienza… ha un’esperienza personale con la storia di queste cose , ormai è una vita chi cummatti cu sti cosi iddu…” S.: “ma infatti… proprio così… va bene..” P.: “non devi convertirlo…, è già convertito, no? (ride) …. “dopo… nello stesso… nello stesso modo gli dici per tutto quello che può servire a dei clienti suoi, perché so che ha dei clienti importanti lui, sia nel genere della pesca, sia nel genere delle miniere o dei lavori pubblici, di fare autostrade, motel… … in quella nazione che ti avevo detto io… mi segui? … e allora tu ci rici: “se ci sono qualcosa del genere in quella nazio… siccome io sono un consigliere finanziario per quella nazione, no… … hanno chiesto se posso presentare delle… ditte serie… sia nel ramo delle costruzioni… delle imprese pubbliche, sia nel ramo della pesca, sia nel ramo minerale… o nel ramo del petrolio, no… … non… ci sono… possiamo dare un contributo valido per queste cose…” … P.: “ci rici: “mio fratello non ha voluto chiedere a nessuno giù al sud, qua, là, perché evita di essere coinvolto come altre volte… in cose spiacevoli … però però ci rici che io rispondo… senza manco io… in modo… direttamente, rispondo direttamente delle entrature che… che la persona può andare a parlare, ci sarà una persona che l’accompagna.., ‘u capisti che ci va mè figghiu, no?” S.: “si, si, si” P.: “… la può accompagnare direttamente a livello ministeriale, a livello presidenziale e parlare con chi deve parlare, no…” … P.: “picchì a livello di professore… può raccomandare questa Corte, l’altra Corte … ci sono cose che si possono fare e cose che non si possono fare…” S.: “ah, certo…” P.: “… però ci sono cose fattibilissime, no?” S.: “certo, ma le cose giuste… ognuno col suo lavoro, eh, d’altronde questo è anche un poco il suo ambito diciamo…”. Per completezza corre l’obbligo di rinviare alla lettura del testo integrale di tutte le suddette intercettazioni telefoniche, dalle quali si evince, tra l’altro, l’ulteriore tentativo di coordinare una campagna stampa finalizzata a sostenere le presunte ragioni dell’imputato ed a screditare l’operato della magistratura palermitana, requirente e giudicante. Orbene, in conclusione della disamina delle suesposte emergenze processuali vanno svolte alcune puntualizzazioni in fatto e soprattutto in diritto. L’odierno processo penale nei confronti del Palazzolo risente profondamente dei limiti valutativi del materiale probatorio che il Collegio ha dovuto far propri a motivo dell’esistenza del precedente giudicato per il medesimo reato. Come si è ampiamente detto in premessa, l’esistenza di un primo giudizio sempre in relazione al reato di associazione di tipo mafioso impone e determina, in perfetta adesione ai principi di diritto fissati dalla giurisprudenza di legittimità anche nell’ambito di questo processo (sia pure in sede de libertate), un ridimensionamento della sfera degli elementi di valutazione che il Tribunale può prendere in esame pienamente. In modo particolare, i fatti riferiti dai collaboratori di giustizia e relativi al periodo antecedente al marzo del 92’, come si è detto, vanno presi in esame non al fine di dimostrare la penale responsabilità del Palazzolo ma solamente per delineare – come correttamente richiesto dalla S.C. di Cassazione – un quadro di riferimento nel cui alveo inserire (e valutare pienamente) le condotte successive al primo giudicato. Tale operazione ermeneutica va doverosamente eseguita nonostante il dato univoco e certo costituito dalla assoluta novità del mezzo di prova ­ rappresentato dalle plurime dichiarazioni dei suddetti collaboratori ­ rispetto agli elementi presi in esame nel corso del primo giudizio a carico dell’imputato. Come è stato già evidenziato, infatti, le dichiarazioni dei collaboranti non solo non sono state valutate dal Tribunale di Roma ma non possono essere oggi prese in esame liberamente dallo scrivente Collegio, di guisa che si tratta di una prova che nessuna autorità giudiziaria ha potuto e può verificare pienamente ed al fine di dimostrare le responsabilità penali del Palazzolo. Non appare, a tale proposito, ultroneo evidenziare che, qualora le dichiarazioni dei suddetti collaboratori fossero state rese nel corso del primo giudizio, l’esito processuale sarebbe, più che verosimilmente, stato diverso. Così come diverso, altrettanto verosimilmente, sarebbe stato l’esito del presente processo se l’odierno Collegio avesse potuto disporre e valutare liberamente l’intero compendio probatorio emerso nel corso dell’istruzione dibattimentale. Non vi è dubbio, infatti, che potendosi pienamente valutare i fatti e le condotte relativi al periodo precedente al marzo del 1992, così come desumibili dalle plurime e concordanti dichiarazioni dei collaboratori escussi, il quadro probatorio avrebbe potuto agevolmente portare all’affermazione della penale responsabilità del Palazzolo per il reato di persistente partecipazione all’associazione mafiosa denominata cosa nostra. Ed invero, le condotte poste in essere dall’imputato successivamente al 1992, se valutate alla luce dei dati emersi in relazione al periodo precedente coperto da giudicato (in primo luogo, alla luce del “fatto” della formale affiliazione dello stesso quale uomo d’onore), si sarebbero prestati ad una lettura sistematica assai diversa ed avrebbero ben potuto rappresentare un elemento di continuità nell’attività tipica di un uomo d’onore (mai espulso dal sodalizio o dissociatosi attraverso la collaborazione) nonostante il fatto che questi abbia vissuto stabilmente in un paese straniero. La libera e piena valutazione del dato di partenza dell’avvenuta affiliazione del Palazzolo nel corso degli anni 80’, in uno con quella relativa alle specifiche condotte dallo stesso poste in essere prima del 1992 (il coinvolgimento nel traffico di droga e di sigarette, il riciclaggio degli enormi proventi di detti traffici tra la Svizzera e la Sicilia, gli affari di vario genere – come quello delle pietre preziose – posti in essere insieme e per conto di autorevoli esponenti di cosa nostra), avrebbe infatti consentito di prendere in esame le condotte successive (l’ospitalità fornita a Bonomo e Gelardi, gli investimenti con e per Bernardo Provenzano ed altri uomini d’onore quali il Geraci, il Mangiaracina ed altri) alla luce di un quadro complessivo molto pi ù fortemente connotato. Si sarebbe, in sostanza, potuta ravvedere una sostanziale continuità nell’attività criminale tipica dell’uomo d’onore Palazzolo in relazione ad un reato permanente quale è quello oggi in contestazione. Pur tuttavia, oggi il Tribunale è chiamato a giudicare il Palazzolo entro ben definiti e chiari criteri interpretativi che di fatto limitano l’esercizio del potere discrezionale nell’ambito del presente giudizio. Come si è già detto, infatti, le emergenze ricavabili dalle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia (ad eccezione del Giuffrè) relative al periodo coperto da giudicato vanno valutate unicamente quale “quadro di riferimento” dei comportamenti e delle condotte successive. Di talchè, ai fini del presente giudizio penale, dette emergenze possono costituire solo un riferimento sistematico idoneo a stabilire alcuni dati di sicuro rilievo, quale ad esempio il contesto relazionale dell’imputato, ma non un autonomo indice di responsabilità. Tanto premesso, tuttavia, va detto che il quadro di riferimento cui si è fatto più volte cenno è risultato estremamente chiaro ed eloquente, posto che il Palazzolo risulta avere intrattenuto rapporti di massima fiducia e confidenza con numerosi ed autorevoli capimafia (Riina, Provenzano, Madonia, Geraci, Mangiaracina, etc.) ed avere ricoperto, con grande abilità, oltre a quello di trafficante di droga e riciclatore di denaro sporco, anche il ruolo di “cerniera” tra il mondo degli affari e della finanza internazionale e quello del sodalizio mafioso cosa nostra. L’esistenza di un siffatto ruolo non si ricava invero dalle sole dichiarazioni dei collaboratori ma anche e soprattutto dagli esiti dell’indagine c.d. Pizza Connection, in ordine alla quale hanno riferito vari testi, tra i quali il generale Pitino. Al di là del rilevante circuito relazionale ed interpersonale (che già di per sé appare assai significativo), l’aver svolto il ruolo del principale riciclatore degli enormi proventi illeciti derivanti dai traffici di sigarette e di droga posti in essere direttamente dai vertici di cosa nostra costituisce un elemento di valutazione di estremo valore e significato. Elemento questo, peraltro, avvalorato e confermato dalla sentenza di condanna passata in giudicato proprio per lo stralcio del processo Pizza Connection. Sulla base di tali elementi, quindi, può serenamente affermarsi che il Palazzolo, anche al di là del dato, non pienamente valutabile, della sua formale affiliazione, aveva rapporti ai massimi livelli con i capi di cosa nostra e ricopriva un ruolo preziosissimo ed estremamente delicato per conto di costoro. Ruolo che per le competenze necessarie e per la obbligatorietà dell’esistenza di un rapporto fiduciario di massimo livello lo rendeva elemento prezioso e pressocchè insostituibile per l’organizzazione. Tuttavia, è rimasto accertato che il Palazzolo, preferendo sottrarsi al giudizio della magistratura italiana, si è stabilito prima in Svizzera e poi in Sudafrica rimanendo lontano per molti anni dalla Sicilia. Il dato storico ed incontestato della lontananza fisica, da numerosi anni a questa parte, dell’imputato dal territorio ove si estrinseca direttamente l’attivit à di cosa nostra va, invero, preso in esame quale ulteriore elemento di valutazione. In Sudafrica, tuttavia, l’imputato ha continuato a mettere a frutto le indiscutibili capacità di finanziere internazionale, partendo da una solida posizione garantita dalla sua parte dei proventi illeciti derivati dal traffico di droga ed operando in modo tanto spregiudicato quanto efficace. Si è già posto in evidenza come da documenti ufficiali sudafricani e dalle indagini svolte dai testi Smith e Viljoen sia emerso che il Palazzolo abbia fatto il suo travagliato ingresso in Sudafrica portando con sé una consistente somma di denaro provento dei suddetti traffici illeciti. In quel Paese, poi, egli ha continuato ad operare con un metodo per vari aspetti assimilabile a quello – per un verso intimidatorio e per altro verso mirato alla creazione di un centro di potere economico, politico e criminale ­ tipico di cosa nostra fino a divenire uno dei principali operatori economici della regione del Capo e probabilmente dell’intero Stato. La lontananza fisica dalla Sicilia, inoltre, non gli ha impedito di rimanere in contatto con il circuito relazionale cui si è fatto dianzi cenno, sia attraverso la sorella che altri soggetti, tra i quali il fratello di Bernardo Provenzano, il Geraci e lo stesso Bonomo (il quale confermava tale circostanza al Brusca che nel 1995 gli aveva manifestato l’intenzione di contattare il Palazzolo per riprendere gli affari). Non può, tuttavia, sinanco escludersi che lo stesso Palazzolo, dopo il suo trasferimento in Sudafrica, abbia preferito diradare i suoi rapporti con la Sicilia e con gli esponenti mafiosi cui era intimamente legato per concentrarsi sui suoi affari locali. Nonostante la iniziali traversie, infatti, il Palazzolo aveva raggiunto, mescolando affari leciti ad altri chiaramente illeciti, una posizione di rilievo nell’establishment sudafricano. Era divenuto amico personale di potenti uomini politici e di autorevoli esponenti della polizia e delle istituzioni locali che gli garantivano protezione e sicurezza, come appare confermato dal rifiuto di concessione dell’estradizione, dalle continue fughe di notizie e dagli esiti dei procedimenti a suo carico. Ciò che è rimasto certamente dimostrato, comunque, è che tutte le volte in cui cosa nostra ha avuto bisogno di Vito Roberto Palazzolo ha sempre potuto contare sul suo totale apporto e sulla sua piena disponibilit à. Pur nella consapevolezza che il fatto di trovarsi in un Paese così lontano dalla Sicilia ha reso meno frequenti le occasioni nelle quali il sodalizio ha avvertito la necessità di un suo contributo, quando ciò si è verificato il Palazzolo è sempre stato disponibile e pronto a fornire l’apporto che gli veniva, di volta in volta, richiesto. In modo particolare, al Palazzolo, nel corso degli anni, è stato sicuramente chiesto di dare ospitalità ai due latitanti Bonomo e Gelardi e di garantire a Bernardo Provenzano un sicuro canale di riciclaggio all’estero del denaro sporco del sodalizio. Ebbene, in entrambe le circostanze il Palazzolo si è reso immediatamente disponibile ed ha fornito a cosa nostra ciò di cui, in quel preciso contesto, essa aveva bisogno proprio da lui. A ben vedere, infatti, si tratta di due richieste perfettamente confacenti ed adeguate alla situazione specifica ed oggettiva del Palazzolo. Nel caso della fuga dall’Italia del Bonomo e del Gelardi il Palazzolo rappresentava un sicuro rifugio sia per la lontananza del suo luogo di residenza che per le coperture politiche ed istituzionali di cui lo stesso godeva in Sudafrica. Il Bonomo, peraltro, al momento della sua fuga ricopriva il ruolo di capo del mandamento di Partinico e cioè proprio di quella articolazione territoriale alla quale il Palazzolo era legato per nascita e per il contesto relazionale in seno a cosa nostra. Come riferito da Giovanni Brusca, poi, il Bonomo era rimasto in contatto, sia personale che d’affari, con l’imputato, tanto da assicurare all’allora capo del mandamento di San Giuseppe Jato e componente del direttorio dell’intera cosa nostra la sua disponibilit à a fare da tramite con il Palazzolo stesso per avviare nuovi affari. Nessuno meglio del Palazzolo, pertanto, avrebbe potuto fornire ausilio all’estero al Bonomo ed al Gelardi, sia in virtù dei rapporti personali e di provenienza che delle protezioni locali ad alto livello di cui questi godeva. Protezioni che sono ampiamente rimaste dimostrate nel corso del processo (sia attraverso i dati documentali e testimoniali richiamati che in considerazione degli esiti delle vicende personali del Palazzolo in Sudafrica), sino al punto che l’imputato è stato sinanco avvertito poco prima della perquisizione finalizzata alla ricerca dei latitanti siciliani. Del resto, per il Palazzolo non si trattava certamente di una condotta nuova, posto che già in Germania egli aveva assicurato ospitalità e protezione a latitanti siciliani in fuga, come si desume dalle dichiarazioni del teste Oliveri e dei collaboratori di giustizia escussi. Alla stessa stregua il Palazzolo era estremamente prezioso per cosa nostra anche in relazione ad un altro tipo di ausilio che egli aveva già prestato in passato con competenza ed affidabilità. La sua indiscutibile competenza nel settore della finanza internazionale, le sue conoscenze all’estero e le sue intrinseche capacità, infatti, lo avevano già fatto individuare come uno dei rarissimi elementi in grado di riciclare enormi proventi illeciti per conto di cosa nostra. Anche tenendo conto dei progressi tecnologici e dell’evoluzione di cosa nostra, invero, ancora oggi sono molto pochi i soggetti in grado di svolgere questo delicatissimo ruolo per conto del sodalizio mafioso. Anche per tale ragione Bernardo Provenzano, che già aveva potuto apprezzare le qualità del Palazzolo fin dai tempi della Pizza Connection, ha deciso di continuare a rivolgersi a lui per riciclare parte dei proventi illeciti dell’organizzazione. Si trattava, infatti, di continuare ad utilizzare un soggetto le cui capacità e la cui affidabilità erano state ampiamente dimostrate sin da tempi remoti e che nutriva nei confronti del Provenzano un affetto ed una disponibilità sulla quale si poteva contare ciecamente. Nel corso dell’esperienza giudiziaria degli ultimi anni, del resto, è rimasta acclarata l’esigenza di cosa nostra di fare investimenti all’estero (nei paesi dell’est europeo come in Sudamerica etc.) proprio per sottrarre parte dei propri capitali al rischio incombente e sempre pi ù concreto di sequestri e confische in sede penale e soprattutto di misure di prevenzione. Sulla scorta di tali considerazioni, pertanto, appare evidente come Vito Roberto Palazzolo, nonostante la sua lontananza, abbia rappresentato per l’intera cosa nostra un prezioso referente in relazione a due ben determinati settori di intervento, quali l’assistenza a latitanti ed il riciclaggio di capitali di origine illecita. Ed egli, pur vivendo da anni in Sudafrica ed avendo diradato (ma mai interrotto) i suoi rapporti personali e d’affari con esponenti di cosa nostra, ogni volta che gli è stato richiesto uno specifico contributo lo ha fornito volontariamente e nella piena consapevolezza di dare ausilio alla suddetta organizzazione mafiosa nel suo complesso. Non vi è dubbio, infatti, che l’imputato, proprio per il suo contesto relazionale a livello verticistico con esponenti di cosa nostra e per la diretta conoscenza delle dinamiche interne al sodalizio mafioso, fosse perfettamente conscio della natura e delle finalit à dei contributi specifici che gli sono stati richiesti nel corso del tempo. Orbene, in conclusione, se questo è il quadro delle risultanze emerse all’esito della compiuta istruzione dibattimentale, occorre procedere ad una attenta valutazione delle condotte poste in essere dall’imputato allo scopo di inquadrarle in modo corretto e di sussumerle nel più idoneo e confacente schema giuridico. Per fare ciò è necessario, sia pure brevemente, ripercorrere l’evoluzione della giurisprudenza di legittimità in materia di distinzione tra le fattispecie di partecipazione ad associazione mafiosa e di concorso esterno in tale reato. La disamina in diritto della complessa fattispecie del c.d. concorso esterno nel reato di associazione per delinquere di tipo mafioso non può che prendere le mosse dalla decisione assunta dalle Sezioni Unite con la sentenza DEMITRY del 1994 (c.c. 5 ottobre 1994, deposito 28 dicembre 1994). Ed invero, detta pronuncia ha rappresentato la prima grande elaborazione della materia, sia per mole di trattazione che per completezza di argomenti, e ben si comprende percio' come debba costituire il documento di partenza per una ricognizione, sia pure di sintesi degli orientamenti dottrinali e giurisprudenziali successivi, compresi quelli piu' recenti. Nell'affermare il principio della configurabilita' del concorso esterno nel reato di associazione per delinquere di stampo mafioso, la S.C. ha sottolineato la diversita' dei ruoli tra il partecipe all'associazione e il concorrente eventuale materiale, nel senso che il primo e' colui senza il cui apporto quotidiano, o comunque assiduo, l'associazione non raggiunge i suoi scopi o non li raggiunge con la dovuta speditezza; e', insomma colui che agisce nella "fisiologia", della vita corrente dell'associazione, mentre il secondo e', per definizione, colui che non vuol far parte dell'associazione e che l'associazione non chiama "a far parte", ma al quale si rivolge sia per colmare vuoti temporanei in un determinato ruolo sia, soprattutto, nel momento in cui la "fisiologia" dell'associazione entra in fibrillazione, attraversando una fase "patologica" che, per essere superata, richiede il contributo temporaneo, limitato anche ad un unico intervento, di un esterno; insomma e' il soggetto che occupa uno spazio proprio nei momenti di emergenza della vita associativa. Con tale decisione sono state disattese le tesi sostenute in diverse sentenze delle sezioni semplici (v. ad es. CILLARI, sez. I, 13.06.1987; ABBATE, sez. I, 27.06.1994; CLEMENTI, sez. I, 27.06.1994; MATTINA, sez. I, 18.05.1994; DELLA CORTE, sez. I, 03.06.1994), le quali ­ con argomenti sostanzialmente simili – avevano sostenuto che non vi sarebbero ragioni per differenziare la condotta materiale del concorrente eventuale rispetto a quella di partecipazione. Secondo le Sezioni Unite il concorrente eventuale non e' identificabile con il partecipe, in quanto “ la condotta e l'atteggiamento psicologico di quest'ultimo non sono sovrapponibili alla condotta ed all'atteggiamento psicologico del concorrente eventuale”. L'elemento materiale del reato associativo e' costituito dalla tipica condotta di partecipazione, che comporta la stabile permanenza del vincolo associativo tra gli autori e, quindi si realizza nell'essere e sentirsi parte dell'associazione, in essa "stabilmente incardinati". Il concorrente eventuale non e' colui che pone in essere la condotta tipica della partecipazione, ma una diversa condotta atipica che, per essere rilevante “deve contribuire ­ atipicamente ­ alla realizzazione della condotta tipica posta in essere da altri”. Tale condotta atipica e' qualificata come concorrente dal fatto che si estrinseca ponendo <> dei partecipi <>, non <>, ma <>, pur essendo tale da <>. Quanto all'atteggiamento psicologico, osservano le Sezioni Unite nella sentenza Demitry che, se quello del partecipe esprime “la volonta' di far parte dell'associazione, con la volonta' di contribuire alla realizzazione degli scopi di essa”, l'atteggiamento psicologico del concorrente eventuale (e cioe', di colui che “vuole dare un contributo senza far parte dell'associazione… offre, da' una condotta atipica perche' mette a disposizione non il suo voler far parte, il suo incardinarsi stabilmente nell'associazione, sebbene il suo apporto staccato, avulso, indipendente dalla stabilita' dell'organizzazione .... ” ) e' quello che permea la condotta atipica finalizzata a fornire l'apporto or ora descritto, senza un animus partecipativo, ma “con la volontaria consapevolezza che la... sua azione contribuisce all'ulteriore realizzazione degli scopi della societas sceleris ”. Sempre in base ai principi fissati nella sentenza Demitry, inoltre, non può pretendersi che il concorrente esterno debba possedere lo stesso dolo di colui che fa parte dell'associazione, ossia il dolo specifico, (la volonta' di realizzare i fini propri dell'associazione). A parte il dato, acquisito dalla dottrina piu' autorevole (riproposto "anche da recenti contributi sul dolo specifico studiato nelle varie categorie di reati") secondo il quale “si puo' avere concorso con dolo generico in un reato a dolo specifico", essendo sufficiente che il concorrente abbia “ la consapevolezza che altri fa parte e ha voglia di far parte della associazione e agisce con la volonta' di perseguirne i fini”, le due forme di dolo (quelle del partecipe e quella del concorrente) non sarebbero sovrapponibili. Infatti, il concorrente potrebbe, al contrario del partecipe, “disinteressarsi della strategia complessiva (dell'associazione), degli obiettivi che la stessa si propone di perseguire”. Ma potrebbe anche averli presenti, senza che questo quid pluris faccia mutare il ruolo dell'esterno, che non fa parte o non vuole o non e' richiesto come socio. La sua condotta si limita, secondo le SS.UU., a “contribuire alle fortune dell'associazione”. Tali considerazioni il S.C. ha fissato sia con riferimento al concorso morale che a quello materiale, con ciò superando anche la cd. tesi intermedia, che finiva con l’ammettere solo il concorso eventuale morale ma non quello materiale. Se, invero, va ritenuto ammissibile il concorso morale a titolo di dolo specifico non si può escludere – secondo la sentenza Demitry ­ che anche il concorso materiale sia concepibile a tale titolo psicologico. Anzi, a ben vedere, il dolo specifico del concorrente (morale o materiale) si differenzierebbe da quello del partecipe perche' l'oggetto del primo sarebbe carente d'una parte consistente dell'oggetto del secondo: la volonta' di far parte dell'associazione. Residuerebbe cosi' solo la possibilita' di concorrere volendo fornire un contributo alla realizzazione <>. Alla luce di tale criterio si capirebbe anche perche' il concorrente potrebbe porre in essere condotte che potrebbero integrare anche il delitto di favoreggiamento aggravato ex art. 7 d.l. n. 152 del 1991 (conv. nella legge n. 203 del 1991). Si trattera' solo di accertare se, in concreto, quel delitto rilevi ex se oppure se esso contribuisca <>. La sentenza Demitry, inoltre, cerca di fornire una spiegazione epistemologica della difficolta' ­ propria della giurisprudenza ­ di pervenire alla piena ammissione del concorso esterno materiale. La ragione risiederebbe nell'esistenza di un maggior distacco tra la posizione dell'esterno concorrente sul piano morale rispetto al suo pari che concorre attraverso una condotta materiale: quest'ultima, per il fatto di costituire un appoggio alle attivita' di partecipazione, si porrebbe con queste in rapporto di immediatezza, e, pertanto, di possibile confusione. Gia' l'uso del criterio di temporaneita' del contributo permetterebbe di ravvisarne con evidenza la diversita', ma a tale risultato si potrebbe pervenire anche attraverso una migliore messa a punto dei confini tra le due figure astratte. La motivazione respinge poi la tesi in base alla quale nell'art. 418 cod. pen. (che punisce l'assistenza agli associati) l'espressione <> debba essere inteso come sinonimo di <> e non anche come di concorso eventuale (ex art. 110 cod. pen.). Infine, la motivazione passa a meglio delimitare quella contiguita' gia' affermata tra le due condotte materiali in esame (partecipazione e concorso materiale). Il distinguo consisterebbe nel ricorso ad un apporto temporaneo (anche consistente in un solo intervento) allo scopo di riportare l'associazione alla sua normalita'. Cio' significa che il concorrente potrebbe intervenire ­ ove richiesto dall'associazione ­ o in una temporanea scopertura di ruolo (“ temporanei vuoti in un determinato ruolo”) o in un momento di patologica fibrillazione dell'organismo associativo (come nel caso dell'aggiustamento di un processo relativo ai componenti dell'associazione). La finalita' sarebbe quella di mantenere in vita il sodalizio criminoso. In altre parole lo "spazio" proprio del concorrente eventuale materiale appare essere quello dell'emergenza nella vita dell'associazione e non lo spazio della "normalita'", occupabile da uno degli associati. L'anormalita', la patologia puo' esigere anche un contributo che, pur restando episodico, unico, consente “all'associazione di mantenersi in vita, anche solo in un determinato settore, onde poter perseguire i propri scopi”. La sentenza Demitry ha costituito un sicuro punto di riferimento nella giurisprudenza, attirando, tuttavia, molte critiche e manifestazioni di dissenso nella dottrina. Il punctum dolens principale è sempre stato costituito dalla ritenuta incompatibilita' generale tra le norme sul concorso di persone (art. 110 e segg. c.p.) e le figure del reato necessariamente plurisoggettivo. Secondo le voci critiche, la sentenza Demitry non avrebbe superato il nodo della suddetta incompatibilità, soprattutto in considerazione del principio di tassatività, in fattispecie (come quelle associative) dotate di scarsa efficacia descrittiva. Il rischio di incorrere in aree di indeterminatezza della fattispecie, secondo la critica, diventerebbe assai consistente specie quando si tratta di identificare un "concorrente eventuale" in una condotta di "partecipazione" ad associazione, in una condotta cioe' la cui definizione e' considerata spesso tautologica. Oltre a ciò, le critiche sono state fondate sulle incompatibilità strutturali tra la condotta associativa e la normativa sul concorso di persone, nonché sulla difficile conciliabilità della compartecipazione ad un delitto permanente che non sia essa stessa permanente. Anche sotto il profilo dell'elemento soggettivo del reato, la soluzione data dalla sentenza Demitry è stata ritenuta non soddisfacente: solo per il concorrente esterno l'oggetto del dolo puo' non estendersi a tutte le circostanze comprese nella fattispecie incriminatrice, ma il dolo addirittura non puo' comprendere gli elementi essenziali del reato, e cioe' "l'affectio" ed il conseguimento dei fini sociali, sicche' e' difficile contestare che, nella ricostruzione delle Sezioni Unite, manca al concorrente esterno anche una parte del dolo generico tipico del fatto associativo e cioe' la volonta' di associarsi, di entrare nell'organizzazione. Ulteriori critiche sono state mosse alle SS.UU. sia per ciò che attiene al raffronto con le condotte agevolatrici realizzate dei soggetti esterni all'associazione criminosa (art. 307/418 c.p. e art. 7 d.l. 152/91, (ed anche art. 378, comma 2 e 416 ter c.p.) che in relazione alla difficile individuazione dell'antinomia "fisiologia/patologia della vita associativa". La giurisprudenza di legittimità e di merito, invece, si e' pressoche' uniformata ai contenuti e ai principi espressi nella pronuncia delle Sezioni Unite del 1994, senza compiere (se si eccettua la sentenza VILLECCO) alcuna rielaborazione dei medesimi. A titolo di esempio possono citarsi le sentenze ALFANO (sez. VI, 27.03.1995), SIBILLA (sez. V, 10.11.1995), MANNINO (SS.UU., 27.09.1995), DOMINANTE (sez. VI, 13.06.1997), MONTALTO (sez. V, 23.04.1997), NECCI (sez. VI, 07.03.1997), CABIB (sez. I, 05.01.1999), CUSUMANO (sez. VI, 25.06.1999), TRIGILI (sez. VI, 25.06.1999), FRASCA (sez. V, 06.02.2000), PANGALLO (sez. VI, 15.05.2000), CANGIALOSI (sez. V, 22.12.2000), FRASCA (sez. I, 17.04.2002). Il dibattito giurisprudenziale in tema di concorso esterno e' stato riaperto a seguito della sentenza VILLECCO (sez. VI, c.c. del 21.09.2000, deposito del 23.01.2001), mossa dal dichiarato intento di verificare la "tenuta" della DEMITRY. La sentenza e' cosi' massimata (218330): “In tema di associazione per delinquere di tipo mafioso (art. 416 "bis" cod. pen.), il contributo disposto degli artt. 110 e 115 cod. pen. preclude la configurabilita' di un concorso esterno o eventuale, atteso che l'aiuto portato all'associazione nei momenti di crisi o fibrillazione integra, sotto il profilo oggettivo e soggettivo, la condotta del "far parte" del sodalizio criminoso”. La sentenza Villecco ha ripreso le tesi degli indirizzi giurisprudenziali precedenti (sia quello negazionista che quello cd. intermedio che nega il solo concorso eventuale materiale), giungendo a delineare una soluzione negatoria del concorso esterno attraverso un'ipotesi basata sulla necessita' di risolvere le aporie contenute nella sentenza delle Sezioni Unite, di cui ha prospettato un ripensamento. Le Sezioni Unite della S.C. di Cassazione sono ritornate sul punto del concorso esterno in associazione mafiosa con la nota sentenza del 30.10.2002/21.5.2003, ric. Carnevale. In sostanza con tale importate pronuncia la Corte ha confermato il principio secondo il quale “ in tema di associazione di tipo mafioso e' configurabile il concorso "esterno", con la precisazione che assume la qualita' di concorrente "esterno" nel reato di associazione di tipo mafioso la persona che, priva dell'affectio societatis e non essendo inserita nella struttura organizzativa dell'associazione, fornisce un concreto, specifico, consapevole e volontario contributo, purche' questo abbia un'effettiva rilevanza causale ai fini della conservazione o del rafforzamento dell'associazione e sia comunque diretto alla realizzazione, anche parziale del programma criminoso della medesima”. La Corte, preliminarmente, ha risolto la questione della natura del delitto di partecipazione ad associazione per delinquere e in particolare ad associazione mafiosa. Definendo inaccettabile la tesi della natura monosoggettiva del delitto di partecipazione (perche' l'inclusione di taluno in un'associazione non puo' dipendere solo dalla volonta' di colui che all'associazione intende aderire, ma richiede anche quella di tutti gli altri associati o di coloro che li rappresentano), le SS.UU. hanno ritenuto che tutti i reati associativi sono sempre reati a concorso necessario, vale a dire, fattispecie plurisoggettive proprie. Con la conseguenza che l'appartenenza di taluno ad una associazione criminale dipende anche dalla volonta' di coloro che gia' partecipano all'organizzazione esistente. E a tal fine possono rilevare certamente le regole del sodalizio, anche se l'esistenza dell'accordo puo' risultare pure solo di fatto: purche' da fatti indicativi di una volonta' di inclusione del soggetto partecipe. Non si tratta di valorizzare esclusivamente le regole <> dell'associazione, ma di valutare in concreto l'effettiva volonta' degli associati, come avviene in ogni reato doloso, anche quando questa volonta' possa desumersi dal rispetto di regole o prassi criminali. Pertanto “ la necessita' di ricorrere alle norme sul concorso eventuale deriva appunto dall'esigenza di assegnare rilevanza penale anche a contributi significativi resi all'organizzazione criminale da parte di chi non sia in essa considerato incluso dagli associati. Se il reato associativo, infatti, e' un reato a concorso necessario, la volonta' collettiva di inclusione e' determinante; ma non puo' farsene derivare l'irrilevanza penale di comportamenti significativi sul piano causale e perfettamente consapevoli”. “ L'art. 110 c.p. consente di assegnare rilevanza penale appunto a condotte diverse da quella tipica e cio' nondimeno necessarie o almeno utili, strumentali alla consumazione del reato. D'altra parte le norme sul concorso di persone nel reato sono di carattere generale e come tali possono essere applicate a qualsiasi ipotesi di reato, e questo rilievo e' valido anche per le ipotesi di reato "associativo", dove il modello legale gia' prevede la partecipazione di piu' soggetti. Ne discende quindi che la difficolta' di applicare le norme sul concorso a quest'ultima tipologia di reati non deriva dal fatto che essi siano plurisoggettivi”. “ Certo, il concorso in fattispecie strutturate con modelli monosoggettivi (come il furto, o l'omicidio) non presentano quegli aspetti particolarmente problematici che si rinvengono invece quando il reato e' gia' strutturato come plurisoggettivo, ma queste intuibili difficolta' non rendono percio' solo <> la condotta del concorrente da quella del partecipe, ne' possono ingenerare il sospetto che attraverso il meccanismo degli articoli 110 e 416 bis c.p. resti violato il principio di tassativita' o determinatezza della fattispecie penale, che costituisce uno dei fondamenti dell'ordinamento. Si sa che tale principio e' rispettato, quando la fattispecie raggiunga il grado di determinatezza necessario e sufficiente a consentire di individuare, ad interpretazione compiuta, il tipo di fatto dalla norma disciplinato . E il grado di determinatezza, nel caso dell'art. 416 bis, e' tutto sommato raggiunto, perche' il legislatore, lungi dal limitarsi a rimandare ad un generico concetto di consorteria mafiosa, individua condotte sufficientemente tipizzate (quelle di cui al primo e al secondo comma della disposizione), onde la vocazione estensiva propria della norma di cui all'art. 110 c.p. appare pur sempre ancorata a precisi riferimenti normativi”. Con riferimento alla presunta atipicità dell’apporto causale del soggetto concorrente le SS.UU. hanno stabilito che: “ nella prospettiva dell'art. 110 c.p., l'apporto causale o strumentale del concorrente e' per definizione atipico. E non e' possibile pretendere di tipizzare solo per il concorso esterno in associazione cio' che per definizione non e' tipizzabile in nessun altro caso di concorso. Questa limitazione non ha alcuna giustificazione, a meno di escluderla per tutti i reati plurisoggettivi, cio' che e' invece negato dalla dottrina e dalla giurisprudenza minoritaria. Esatta appare pertanto la tanto criticata impostazione data al problema dalla sentenza DEMITRY, come la ricerca della tipicita' della condotta del partecipe a fronte della ritenuta atipicita' della condotta concorsuale (metodo peraltro gia' anticipato nella sentenza GRACI, Sez. I, 01.09.1994). La tipologia della condotta di partecipazione e' delineata dal legislatore sotto l'espressione "chiunque fa parte di un'associazione di tipo mafioso" (art. 416 bis, comma 1). Tenuti presenti i connotati assegnati all'associazione mafiosa dal terzo comma dell'art. 416 bis, deve intendersi che "fa parte" di questa chi si impegna a prestare un contributo alla vita del sodalizio, avvalendosi (o sapendo di potersi avvalere) della forza di intimidazione del vincolo associativo e delle condizioni di assoggettamento e di omerta' che ne derivano per realizzare i fini previsti. Al contempo, l'individuazione di una espressione come "fa parte" non puo' che alludere ad una condotta che puo' assumere forme e contenuti diversi e variabili cosi' da delineare una tipica figura di reato "a forma libera", consistendo in un contributo apprezzabile e concreto, sul piano causale, all'esistenza o al rafforzamento dell'associazione e, quindi, alla realizzazione dell'offesa tipica agli interessi tutelati dalla norma incriminatrice. Sicche' a quel "far parte" dell'associazione, che qualifica la condotta del partecipe, non puo' attribuirsi il solo significato di condivisione meramente psicologica del programma criminoso e delle relative metodiche, bensi' anche quello, piu' pregnante, di una concreta assunzione di un ruolo materiale all'interno della struttura criminosa, manifestato da un impegno reciproco e costante, funzionalmente orientato alla struttura e alla attivita' dell'organizzazione criminosa: il che e' espressione di un inserimento strutturale a tutti gli effetti in tale organizzazione nella quale si finisce con l'essere stabilmente incardinati. Ne deriva che, se a quel "far parte" dell'associazione si attribuisce il significato teste' detto, non puo' non affermarsi che da un punto di vista logico la situazione di chi "entra a far parte di una organizzazione" condividendone vita e obiettivi, e quella di chi pur non entrando a farne parte apporta dall'esterno un contributo rilevante alla sua conservazione e al suo rafforzamento, sono chiaramente distinguibili. Non vi e' pertanto nessuna difficolta' a dare corpo giuridico a questa differenza rilevabile nella realta' utilizzando le rispettive categorie normative della partecipazione e del concorso eventuale di persone nel reato, conclusione alla quale e' approdata la sentenza DEMITRY. Con la conseguenza che non coglie nel segno l'obiezione secondo cui la condotta di partecipazione, cosi' come delineata da detta pronuncia (condotta tipica consistente nel "far parte", quindi – si dice ­ "in un essere"), si trasformerebbe in una sorta di reato di posizione, in guisa che non sarebbe immaginabile un concorrente esterno che materialmente "contribuisce solo a far parte". Vero e' invece che la sentenza DEMITRY ha ben delineato la figura del partecipe, individuandone la condotta tipica, non certamente nell'assunzione di uno "status", ma nel contributo arrecato al sodalizio criminale da chi "e' stabilmente incardinato nella struttura associativa con determinati, continui compiti anche per settori di competenza". Facendone correttamente conseguire che ben si puo' concorrere dall'esterno (cioe' non facendo parte dell'associazione) con chi sta all'interno nella consumazione del reato associativo, il quale percio' resta "il medesimo reato", come esige appunto l'art. 110 c.p., e non si trasforma, come taluno paventa, in un reato "diverso" da quello previsto dall'art. 416 bis c.p.”. A giudizio del S.C., inoltre, dai principi fissati nella sentenza Demitry non deriva alcuna antinomia linguistica e concettuale tra autore e partecipe. “Nella fattispecie tipica di parte speciale (come l'art. 416 bis) autore e partecipe coincidono: il "partecipe" e' l'autore della condotta di "partecipazione". In altre parole, come si e' acutamente osservato, il termine "partecipe" ha un duplice senso: in un primo senso (concorso eventuale) e' contrapposto all'autore; in un secondo senso (fattispecie tipica di parte speciale) si identifica con l'autore”. Né sussistono incompatibilita' strutturali tra le due condotte in esame, posto che “la diversita' esistente, tra la struttura permanente del reato di associazione e quella del concorso eventuale, non determina affatto incompatibilita' tra le due fattispecie. L'art. 110 c.p. si affianca, nel caso di specie, ad un reato, la cui consumazione e' legata non solo all'esistenza dell'associazione, ma anche al sorgere e al permanere dell'offesa all'ordine pubblico, e nulla impedisce di considerare che il permanere di tale offesa possa essere determinata anche dall'aiuto portato da un soggetto estraneo al sodalizio, in determinati momenti della vita dell'organizzazione”. Un altro importante principio fissato dalla sentenza Carnevale è, senza dubbio, costituito dalla non necessaria protrazione nel tempo (o addirittura indefinitività) dell’apporto causale del concorrente esterno. Ed invero, secondo i Giudici di legittimità: “ ne' e' necessario che l'apporto stesso perduri per l'intera permanenza dell'associazione, non dovendosi, infatti, confondere l'aspetto del potenziale riconoscimento del contributo esterno in un qualunque momento della vita dell'associazione, con quello della sua durata. Non contrasta pertanto con la struttura permanente del reato associativo il fatto che la manifestazione di volonta' criminosa del concorrente esterno si esaurisce nel momento della sua espressione. Del resto neanche per il partecipe e' necessario che il vincolo associativo si instauri in prospettiva di una sua futura permanenza a tempo indeterminato. Questa Corte ha gia' avuto modo di chiarire (Sez. I, 31.05.1995, MASTRANTUONO) che ben possono, al contrario, ipotizzarsi forme di partecipazione destinate, ab origine, ad una durata limitata nel tempo ”. Dalla ricognizione critica della motivazione della sentenza Carnevale si ricava, poi, una più che convincente affermazione in tema di distinguibilit à di condotte descritte mediante il loro orientamento causale (altro punto sul quale sono state avanzate critiche alla sentenza Demitry). Ed invero: “ Quanto all'obiezione, fondata sulla "dinamica di tipizzazione causale" (che sarebbe la medesima rispetto ad entrambe le figure del concorrente e del partecipante, con le conseguenze che ne sono state tratte, dianzi riportate), puo' replicarsi che del ragionamento ad essa sottesa ad essere inesatta e' proprio la premessa e cioe' che condotte descritte mediante il loro orientamento causale non sarebbero distinguibili: se cosi' fosse, il concorso eventuale sarebbe impossibile in tutte le fattispecie causalmente orientate, a cominciare dall'omicidio. Il vero e' che l'impostazione che muove dall'unicita' del processo causale per negare in tali casi operativita' al concorso di persone porta all'insostenibile esito secondo cui in tutti i reati causali a forma libera non avrebbe possibilita' di esprimersi la funzione incriminatrice dell'art. 110 c.p., poiche' sarebbe sufficiente ripercorrere il processo causale per ricomprendere entro la fattispecie incriminatrice tutte le condotte rilevanti sul piano eziologico e meritevoli di pena. Illuminante e' l'esempio che se ne fa, e cioe' il caso di colui che fornisce la pistola all'assassino: si e' correttamente rilevato che "qui il processo causale che presiede alla tipizzazione della condotta di chi spara e di chi fornisce la pistola e' il medesimo, nondimeno il complice che ha dato l'arma all'esecutore materiale dell'omicidio verra' incriminato naturaliter a titolo di concorso e, soprattutto, realizza una condotta che gia' sul piano causale e' pienamente distinguibile dall'altro"”. Senza dubbio di notevole rilievo appare al Collegio l’orientamento espresso dalle SS.UU. anche in relazione all’aspetto dell’elemento soggettivo della presente fattispecie. La Cassazione, invero, dopo avere chiarito che l'aspetto dell'elemento soggettivo nel reato associativo e' caratterizzato dalla consapevolezza e dalla volonta' di associarsi con lo scopo di contribuire alla realizzazione del programma dell'associazione, ha affermato che le due forme di dolo (quella del partecipe e quella del concorrente) non appaiono sovrapponibili, o almeno non lo sono perfettamente, cosa che consente anche per l'aspetto in esame la piena configurabilita' del concorso esterno. Con la sentenza Carnevale le SS.UU. hanno condiviso le conclusioni alle quali sul punto era pervenuta la pronuncia Demitry, soffermandosi, tuttavia, a rivisitare e precisare ulteriormente le ragioni di diritto ad esse sottese: “Il concorrente eventuale e' l'artefice di una condotta atipica e, dunque, non potra' volere che la sua condotta e non la condotta tipica del partecipe. Egli intende dare un consapevole volontario contributo, senza tuttavia voler far parte dell'associazione, e quindi in modo staccato, avulso indipendente dalla stabilita' dell'organizzazione, e, sotto questo preciso angolo visuale, il suo atteggiamento psicologico e' completamente diverso da quello del partecipe, che invece si muove con la volonta' di far stabilmente parte del sodalizio”. In sostanza la Corte ha ribadito che, pur essendovi nelle due condotte piena coincidenza volitiva quanto all'apporto contributivo, sussiste una diversita' dei due atteggiamenti psicologici, dal momento che quello del partecipe e' arricchito proprio dall'elemento dell'affectio societatis, che, invece, per definizione e' estraneo all'apporto del concorrente esterno. Inoltre, come già affermato nella sentenza Demitry dalle Sezioni Unite: “nella ipotesi di associazione per delinquere di stampo mafioso non e' affatto richiesto che il concorrente abbia anche la volonta' di realizzare i fini propri dell'associazione, essendo sufficiente che abbia la consapevolezza che altri fa parte e ha voglia di far parte dell'associazione e agisce con la volonta' di perseguirne i fini". Tuttavia, nella sentenza Carnevale la Corte ha aggiunto e precisato che “ciò non vuol dire che il concorrente esterno non voglia il suo contributo e non si renda conto che questo contributo gli viene richiesto per agevolare la associazione; ma, semplicemente, che il concorrente esterno pur consapevole di cio', pur consapevole di agevolare, con quel suo contributo, l'associazione, puo' disinteressarsi della strategia complessiva di quest'ultima, degli obiettivi che la stessa si propone di conseguire. Aggiungendosi che il concorrente esterno puo' anche avere la volonta' di contribuire alla realizzazione dei fini dell'associazione, senza che questo faccia mutare il suo ruolo di esterno”. Le SS.UU., cioè, recependo in parte le critiche mosse al precedente arresto giurisprudenziale, hanno chiarito con maggiore incisività che entrambe le condotte (quella del partecipe e quella del concorrente esterno) debbono essere finalisticamente orientate verso il medesimo evento che poi è quello tipico del reato al quale si concorre. E poiché “nel reato di associazione per delinquere l'evento e' la sussistenza ed operativita' del sodalizio, siccome idoneo a violare l'ordine pubblico ovvero gli altri beni giuridici tutelati dalle particolari previsioni legislative, la cui attuazione avviene attraverso la realizzazione del programma criminoso. Ne consegue ­ di necessita' ­ che non puo' postularsi la figura di un concorrente esterno, nel cui agire sia presente soltanto la consapevolezza che altri agisca con la volonta' di realizzare il programma di cui sopra. Deve, al contrario, ritenersi che il concorrente esterno e' tale quando, pur estraneo all'associazione, della quale non intende far parte, apporti un contributo che "sa" e "vuole" sia diretto alla realizzazione, magari anche parziale, del programma criminoso del sodalizio”. “La conclusione cui qui si perviene, quanto al profilo soggettivo della fattispecie concorsuale, e' che, in definitiva, il discrimine tra concorso e partecipazione risiede essenzialmente nel segmento dell'atteggiamento psicologico che riguarda la volonta' di far parte dell'associazione”. Affermando tale principio, dunque, la Corte ha postulato, nell'atteggiamento psicologico del concorrente esterno, pur sempre la ricorrenza di un dolo diretto ed, in tal modo, ha superato le critiche avanzate alla sentenza Demitry con riferimento ad un elemento soggettivo eterogeneo e comunque equivoco (definito “dolo di contribuzione o di agevolazione”). Sullo specifico punto dei rapporti con altre fattispecie autonome di ausilio all’associazione, le SS.UU. hanno osservato che “quanto alle disposizioni degli artt. 307/418 c.p. e 378 comma 2 c.p., decisivo e' il rilievo, piu' volte e anche di recente sottolineato dalla giurisprudenza di questa Corte (v., da ultimo, Sez. V, 20.02.2001, CANGIALOSI), che tali norme sono tutte pertinenti al rapporto tra l'agente e i singoli associati, senza alcuna interferenza, dunque, con la tematica del concorso eventuale, che configura una relazione tra esterno e gruppo nel suo complesso. In particolare va osservato: a) senza necessariamente dover avvalorare la tesi di quanti (anche la sentenza DEMITRY) fanno leva sull'inciso "fuori dei casi di concorso nel reato" con cui si aprono gli artt. 307 e 418 c.p. (e pure l'art. 270 ter c.p.), per ammettere addirittura un riconoscimento esplicito del concorso esterno nel reato associativo gia' da parte del legislatore, e' da considerare che le fattispecie in esame incriminano l'aiuto a singoli associati che non puo' essere confuso, ne' sul piano del disvalore, ne' sul piano del fatto, con l'aiuto prestato all'intera organizzazione: peraltro il loro ambito di applicazione e' limitato ad alcuni contributi di modesto spessore, che tale connotazione conservano anche dopo le modifiche apportate dall'art. 5 bis d.l. 18.10.2001, n. 374, convertito, con modifiche, dalla L. 15.12.2001, n. 438; b) analogo discorso va fatto per il favoreggiatore, il cui ausilio peraltro si sostanzia in una condotta di disturbo al retto funzionamento dell'amministrazione della giustizia, rivolta a favore di taluno e tale da mutare il rapporto di fatto tra gli investigatori e l'inquisito, mentre l'apporto del concorrente esterno nel reato associativo e' il contributo prestato all'organizzazione criminale e funzionale alla realizzazione dei suoi scopi…. Infine, a negare che la previsione dell'aggravante di cui all'art. 7 cit. possa essere incompatibile con la configurabilita' del concorso esterno, stanno ragioni che colgono la particolarita' della fattispecie. La circostanza e' incentrata infatti su di un dato esclusivamente soggettivo. Per la sua integrazione non e' quindi richiesto che lo scopo si sia concretizzato in un esito di effettivo rafforzamento del sodalizio (Cass. Sez. VI, 13.11.1996, P.M. e MANGO). Quando cio' avvenga il delitto cosi' aggravato potra' affiancarsi al concorso eventuale, come gia' affermato dalla sentenza DEMITRY”. Proseguendo la disamina dei principi affermati dalle SS.UU. della Cassazione in subiecta materia nel corpo della motivazione della sentenza Carnevale, deve aggiungersi che il Supremo Collegio si è soffermato anche sulla puntuale definizione dell’antinomia “fisiologia­ patologia” della vita associativa che tanto ha colpito l’opinione pubblica e gli interpreti a seguito della sentenza Demitry. Come si è già evidenziato, infatti, nel tentativo di fissare il limite esterno della condotta concorsuale, la sentenza Demitry aveva qualificato il contributo del concorrente esterno come pertinente alla patologia della vita associativa, in quanto lo stesso sarebbe intervenuto in un momento di “fibrillazione” dell'ente. La sentenza Demitry, tuttavia, aveva riservato solo pochi accenni alla problematica della patologia dell'agire associativo, tanto che l'argomento della “fibrillazione” aveva finito per assumere piu' che altro carattere esemplificativo e per suscitare un interesse maggiore rispetto alla sua reale importanza nell'economia del ragionamento seguito dalle Sezioni Unite. Per esigenze di completezza va detto che già la successiva elaborazione giurisprudenziale aveva precisato meglio il concetto di stato di difficolta' del sodalizio delinquenziale, con ciò contribuendo a chiarire più nel dettaglio il significato da attribuire al termine “fibrillazione”, di per sé efficace ma metaforico e non troppo tecnico. Si e' cosi' affermato che il concorrente esterno, consapevole di tale situazione, interviene per soccorrere l'associazione in quanto tale (Sez. II, 13 giugno 1997, DOMINANTE) di talche' e' stato, ad esempio, ritenuto un associato esterno (Sez. I, 8 febbraio 1999, CRNOJEVIC) colui che abbia svolto, in alcune occasioni a favore della organizzazione delinquenziale, la attivita' di interprete, ovvero di consapevole procacciatore di risorse finanziarie (Sez. VI, 2 marzo 1999, TRONCI), utili per la vita ed il funzionamento dell'associazione. Insomma, occorre una "concreta attivita' collaborativa idonea a contribuire al potenziamento, consolidamento, mantenimento in vita del sodalizio mafioso, in correlazione a congiunturali esigenze del medesimo" (Sez. VI, 4 settembre 2000, PANGALLO). Sulla scia di dette pronuncie la giurisprudenza di legittimità antecedente alla sentenza Carnevale ha fissato due principi di notevole significato: da un lato, è stato accertato che non è affatto necessario che lo stato di difficolta' (o di “fibrillazione”) sia tale che, senza il soccorso dall'esterno, l'associazione andrebbe inevitabilmente incontro alla sua estinzione. Per altro verso che non e' affatto richiesto che il contributo possa venire solo da quel soggetto e da nessun altro (Sez. V, 23.04.2002, APICELLA). Sullo specifico argomento sono ritornate le SS.UU. con la sentenza Carnevale, precisando che “ il vero problema e' invece nella individuazione del livello di intensita' o di qualita' idoneo a considerare il concorso dell'agente come concorso nel reato di associazione per delinquere. Si e' osservato a riguardo che il contributo, in quanto diretto all'associazione, non puo' che giovare sempre anche quando sia minimo o impercettibile alla conservazione o al rafforzamento del sodalizio criminale: ma in questo caso si estende parossisticamente l'area del concorso eventuale. Se invece il contributo deve essere veramente notevole, allora andrebbe apprezzato in proporzione alle dimensioni dell'associazione criminale, al grado di funzionalita' operativa, all'intensita' del suo radicamento nel territorio sociale e ad altri analoghi parametri: con la conseguenza anche qui paradossale che piu' e' vasta, efficiente, vincente un'organizzazione criminale, piu' diventa ristretta l'area del contributo giuridicamente apprezzabile del concorrente eventuale. Tali rilievi non appaiono pero' concludenti, a ragione dell'evidente empirismo cui si ispirano. Certo, non ogni contributo portato all'associazione puo' rientrare tout court nello schema del concorso eventuale. Anche qui dovranno esaminarsi i dati fattuali della condotta alla luce dei principi generali letti ed interpretati dal particolare angolo visuale imposto dalla interazione tra l'art. 110 e l'art. 416 bis c.p.. Ed allora dovra' dirsi che, se nel reato associativo il risultato della condotta tipica e' la conservazione o il rafforzamento del sodalizio illecito (comunque voglia chiamarsi tale risultato: rafforzamento "dell'entita' associativa nel suo complesso" o "mega­evento associativo" o ancora "dinamica organizzativo­funzionale dell'ente criminale"), qualora l'eventuale concorrente, nello specifico caso, possa ritenersi con sicurezza estraneo all'organizzazione sulla base di quei rilievi che su questo specifico argomento si e' avuto cura di esporre, lo stesso risultato deve esigersi dalla sua condotta: con cio' si vuol dire che il contributo richiesto al concorrente esterno deve poter essere apprezzato come idoneo, in termini di concretezza, specificita' e rilevanza, a determinare, sotto il profilo causale, la conservazione o il rafforzamento dell'associazione. Ne deriva che non ha peso decisivo la circostanza che sia stata posta in essere un'attivita' continuativa o comunque ripetuta, ovvero un intervento occasionale e non istituzionalizzato. Si tratti di attivita' continuativa o ripetuta, si tratti invece di una singola prestazione, dovra' valutarsi esclusivamente se la pluralita' o l'unica attivita' posta in essere, per il grado di concretezza e specificita' che la distingue e per la rilevanza causale che esprime, possa ritenersi idonea a conseguire il risultato sopra menzionato” . Né, secondo il ragionamento seguito dalle SS.UU., tale giudizio (cioè quello teso a dimostrare la reale incidenza di una singola condotta o anche di piu' condotte sulle sorti di una associazione criminale) rischia di fondarsi su di una “probatio diabolica”, poiché l'accertamento del nesso causale nel concorso esterno non comporta di per se' difficolta' maggiori di quanto puo' comportare la individuazione di un caso di condotta interna. Secondo la sentenza Carnevale, invero, “ anche sotto il profilo in esame, quella della configurabilita' della concorrenza esterna in un reato associativo e' pertanto una operazione interpretativa sicuramente compatibile con gli standard attuali, riconosciuti legittimi de jure condito, dei margini di determinatezza ed elasticita' degli istituti giuridico­penali previsti nel nostro ordinamento” . A tal proposito va anche aggiunto che le SS.UU., nell’intento dichiarato di specificare meglio le caratteristiche del contributo richiesto al concorrente esterno e dello stato di disagio dell’associazione, ha precisato ulteriormente che “appare altresi' evidente che non e' riconducibile, all'interno dello spettro delle condotte punibili di concorso eventuale, la sola "contiguita' compiacente" o "vicinanza" o "disponibilita'" nei riguardi del sodalizio o di suoi esponenti , anche di spicco, quando a siffatti atteggiamenti non si accompagnino positive attivita' che abbiano fornito uno o piu' contributi suscettibili, secondo i parametri prima accennati, di produrre un oggettivo apporto di rafforzamento o di consolidamento sull'associazione o anche su un suo particolare settore. Occorre, in altre parole, il compimento di specifici interventi indirizzati a questo fine. Cio' che conta, infatti, non e' la mera disponibilita' dell'esterno a conferire il contributo richiestogli dall'associazione, bensi' l'effettivita' di tale contributo , e cioe' che a seguito di un impulso proveniente dall'ente criminale il soggetto si e' di fatto attivato nel senso indicatogli”. In conclusione le SS.UU. hanno lapidariamente sintetizzato i principali criteri ermeneutici da seguire, esprimendosi nei seguenti termini: “dalle considerazioni che precedono deriva che sono due i limiti di configurabilita' di concorso eventuale nei reati associativi: ­ per un verso l'accertamento dell'inesistenza dell'affectio societatis e di uno stabile inserimento nella struttura associativa; ­ per altro verso, la significativa rilevanza strumentale dell'apporto reso dal concorrente esterno, nei termini oggettivi e soggettivi sopra illustrati. Sicche' la prova del concorso esterno nel reato di associazione (in particolare, i riscontri individualizzanti delle distinte chiamate in correita' o in reita' dei collaboratori, attraverso la cd. "convergenza del molteplice") non puo' che riguardare gli elementi costitutivi della fattispecie come individuata, e deve pertanto avere per oggetto lo specifico contributo, consapevole, effettivo e causalmente idoneo recato dal concorrente alla conservazione o al rafforzamento dell'associazione ed alla realizzazione della medesima”. Le superiori precisazioni, a giudizio del Collegio, appaiono imprescindibili al fine di inquadrare correttamente le condotte poste in essere dal Palazzolo. In primo luogo, va ribadito che, in considerazione degli elementi di prova a disposizione del Tribunale, non pu ò affermarsi con certezza che l’imputato “faccia parte” dell’associazione mafiosa cosa nostra né che quest’ultima lo abbia chiamato a far parte di se stessa. Tuttavia, l’associazione medesima, attraverso suoi autorevolissimi esponenti quali il Bonomo ed il Provenzano, si è certamente rivolta al Palazzolo, conoscendone il grado di affidabilità, per richiedergli specifici contributi nell’interesse supremo dell’intero sodalizio. Ed il Palazzolo, essendo ben consapevole dell’appartenenza a cosa nostra sia del Bonomo che soprattutto del Provenzano (che dal 93’ ne era il capo assoluto), ha fornito prontamente tali contributi che hanno certamente avuto una rilevante efficienza causale ed hanno contribuito alla realizzazione, anche parziale, degli scopi di cosa nostra. Non vi è dubbio che assicurare la latitanza del capo di un mandamento in fuga ovvero ancor di più garantire un sicuro canale di riciclaggio al capo di cosa nostra rappresentino due contributi in grado di consentire all’organizzazione nel suo insieme di raggiungere i suoi scopi criminali. Ed anche sotto il profilo dell’elemento psicologico della fattispecie l’ipotesi, come sopra delineata, del concorso esterno appare vieppiù idonea a sussumere le condotte poste in essere da parte dell’odierno imputato. Ed invero, il Palazzolo, pur non “essendo o sentendosi parte dell’associazione” in quanto stabilmente incardinato in essa, ha inteso consapevolmente fornire un volontario contributo atipico alla realizzazione, anche parziale, dei suoi scopi illeciti. Pur, cioè, non volendo far parte del sodalizio mafioso e senza necessariamente interessarsi della sua strategia complessiva, egli ha voluto fornire un contributo dotato di efficienza causale alla realizzazione di detti scopi criminali. Dal che discende, a giudizio del Collegio, una perfetta sussumibilità del ruolo e delle condotte del Palazzolo nella figura del concorrente esterno nel reato di cui all’art. 416 bis c.p.. Alla luce dei criteri giurisprudenziali e dei surrichiamati principi di diritto, peraltro, deve escludersi ogni possibilità di inquadrare la presente vicenda processuale in schemi giuridici alternativi (quale, ad esempio, l’ipotesi di favoreggiamento aggravato). Nel caso in esame, infatti, le condotte, oltre che plurime, variegate e poste in essere attraverso rapporti con soggetti diversi, esulano dal mero rapporto interpersonale ma rappresentano con chiarezza un ausilio per l’intera organizzazione. Basti considerare quanto si è già detto a proposito della specifica condotta connessa al riciclaggio di denaro sporco del Provenzano attraverso operazioni internazionali. Tale condotta, per un verso non appare inquadrabile in schemi giuridici alternativi e per altro verso dimostra l’esistenza di una pluralità di contributi, tutti accomunati dalla finalità di fornire un ausilio all’intera organizzazione e non alle sole persone di volta in volta interessate. E’ davvero impensabile, infatti, che un siffatto tipo di contributo possa essere considerato come limitato ad un rapporto interpersonale, posto che il Provenzano, in quel momento, era il capo assoluto di cosa nostra siciliana e si occupava di reinvestire gli ingenti utili provento delle varie attività illecite poste in essere dall’intera organizzazione e non certo i suoi risparmi personali. E poiché entrambe dette circostanze erano ben note al Palazzolo non può che concludersi per la sua perfetta consapevolezza in ordine alle finalità ultime dei suoi contributi che di certo erano destinati alla realizzazione degli scopi complessivi dell’intera organizzazione e non al semplice tornaconto di singoli suoi esponenti. Ciò posto, sulla scorta dei principi ermeneutici di ordine generale, fissati dalla più recente giurisprudenza di legittimità e dianzi richiamati, a proposito del reato di partecipazione (effettiva e/o a titolo di concorso) ad una associazione per delinquere di tipo mafioso, non può che affermarsi la penale responsabilità del Palazzolo in ordine al reato di cui all’art. 110 e 416 bis c.p., con le aggravanti contestate di cui al comma IV ed al comma VI del medesimo articolo, così riqualificato, ai sensi dell’art. 521 c.p.p., l’originario fatto ascrittogli. E’ appena il caso di evidenziare come la mutata qualificazione giuridica dei fatti rispetto a quella originariamente contestata di partecipazione all’associazione mafiosa non ponga alcun problema di violazione del principio di correlazione tra imputazione e sentenza, in quanto tra i fatti rispettivamente contestati al Palazzolo e quelli ritenuti in sentenza vi è un rapporto di totale “continenza”, del tutto avulso dalla “eterogeneità” che potrebbe comportare un vulnus al suddetto principio. In ogni caso, peraltro, la giurisprudenza di legittimit à ha costantemente interpretato il principio in oggetto non in senso formalistico ma piuttosto con riferimento alla finalità di tutela del diritto di difesa ed anche sotto tale profilo non può dubitarsi che la modifica dell’imputazione nel senso anzidetto non abbia in alcun modo pregiudicato o precluso in concreto la possibilit à di difesa da parte dell’imputato, chiamato a rispondere della più grave ed assorbente ipotesi di appartenenza organica a “cosa nostra” (ex plurimis Cass. Sez.IV, 12.5/21.10.05). Per quanto attiene, invece, alla ricorrenza dell’aggravante di cui al comma IV dell’art. 416 bis c.p., va detto che l’associazione di stampo mafioso denominata “cosa nostra” (a differenza di altre organizzazioni similari) costituisce il paradigma tipico del reato in contestazione che è stato introdotto proprio per sanzionare penalmente questo specifico fenomeno associativo. Essa è, per definizione, munita di quei caratteri e requisiti che il legislatore ha trasfuso nella formulazione normativa quali elementi costitutivi del reato di associazione di tipo mafioso. Di talchè, discutere oggi se Cosa Nostra sia o meno caratterizzata dall’uso della “forza di intimidazione del vincolo associativo” dal quale derivi “una condizione di assoggettamento e di omertà” o se essa sia finalizzata agli scopi criminali tipizzati nel dettato normativo, appare quanto meno fuori luogo e pleonastico. Essa, per così dire, non corrisponde solamente al paradigma normativo ma rappresenta il fenomeno storico e sociale che a questo ha dato luogo. La partecipazione a tale particolare sodalizio, pertanto, comporta la necessaria sussistenza degli elementi obiettivi del reato in contestazione così come di quelli soggettivi. A ben vedere, infatti, la diffusione delle molteplici acquisizioni giudiziarie e delle notizie di cronaca relative alla vita ed all’attività di cosa nostra è stata tale almeno negli ultimi venti anni che nessuno pu ò seriamente sostenere di non conoscerne l’esistenza, le modalità operative e gli scopi illeciti. Ciò comporta che l’aderire sotto qualunque forma a tale associazione fornendo in suo favore un contributo significativo e rilevante rappresenta una consapevole forma di accettazione delle regole e di condivisione delle finalità di cosa nostra. Ai fini della configurabilità del reato di cui all’art.416 bis c.p., infatti, non è necessario, perché si realizzi la condizione di partecipazione dei singoli associati, che siano effettivamente raggiunti uno o più di quegli scopi alternativamente previsti dalla norma. Né è necessario dimostrare che ciascuno dei compartecipi utilizzi in concreto la forza di intimidazione ovvero consegua per sé o per altri un profitto ad un vantaggio economico ­ patrimoniale. Ciascuna condotta può, infatti, assumere forme e contenuti diversi e variabili e non deve necessariamente integrare da sola tutti i parametri del dato normativo; ciò che conta, al contrario, è che essa consista in un effettivo contributo ­ apprezzabile e concreto sul piano causale ­ all’esistenza od al rafforzamento dell’associazione stessa che dei superiori parametri è certamente dotata. Sulla scorta di un analogo percorso logico e giuridico, la giurisprudenza di legittimità ha introdotto il principio della comunicabilità dell’aggravante del possesso o dell’uso delle armi (comma IV) anche ai compartecipi non armati. Sin dalle prime pronuncie in materia successive alla L. n.19/90 (Cass. Sez.VI, 6.12.94, Imerti; sez.I, 30.1.92, Altadonna, Sez.II, 15.4.94, Matrone) la Cassazione ha, infatti, stabilito che “l’aggravante prevista dall’art.416 bis comma quarto c.p. si comunica ai compartecipi dell’associazione criminosa solo se essi ne abbiano conoscenza o la ignorino colpevolmente o la ritengano inesistente per errore determinato da colpa. La prova di tale conoscenza o conoscibilità ...può essere fornita anche per deduzioni logiche sulla base del materiale probatorio acquisito”. A partire dalla pronuncia della Sez. I del 18 aprile 1995 (ric. Farinella), la S.C. ha fissato un ulteriore principio proprio in relazione alla tipicità dell’associazione cosa nostra: “Con riferimento alla stabile dotazione di armi della organizzazione mafiosa denominata Cosa Nostra può ritenersi che la circostanza costituisca fatto notorio non ignorabile”. Tale orientamento dei giudici di legittimità – ribadito nel corso degli ultimi anni dalla Cassazione e pienamente condiviso dal Collegio ­ porta a ritenere certamente sussistente nel caso di specie l’aggravante di cui al IV comma dell’art.416 bis c.p.. Ma a ben vedere, la ricorrenza di tale aggravante nell’odierno processo non deriva soltanto dalla notorietà della disponibilità di armi da parte di “cosa nostra”. Nel corso dell’istruzione dibattimentale è stata direttamente provata la disponibilità di armi da parte di parecchi dei soggetti con i quali il Palazzolo ha intrattenuto rapporti e, comunque, dell’organizzazione di cui facevano parte (si pensi, tra l’altro, all’episodio dell’arma di Antonio Ventimiglia abbandonata durante l’omicidio di Agostino Badalamenti in Germania o agli omicidi della seconda guerra di mafia degli anni 80’). Così come, per ciò che vale, anche lo stesso Palazzolo è stato trovato in possesso di numerose armi da fuoco non denunciate nel corso della prima perquisizione domiciliare a suo carico (v. teste Smith e documenti in atti). Alla stessa stregua, il Collegio ritiene che nel caso di specie siano emersi specifici e plurimi riferimenti che consentano di accertare la sussistenza anche dell’aggravante di cui al VI comma dell’art. 416 bis c.p.. Per un verso, infatti, è notorio che gli enormi capitali provento dalle attività tradizionali di “cosa nostra” (estorsioni, traffico di stupefacenti etc. etc.) sono stati da questa reinvestiti in diversi settori economici in Italia ed all’estero. Ma, proprio nel caso in esame, si discute di un imputato che, come si è già detto, ha svolto un prezioso ruolo di “cerniera” tra il mondo della finanza internazionale e quello di cosa nostra, consentendo a quest’ultima di riciclare, sin dagli anni 80’ e fino ad oggi, ingenti somme di denaro di origine illecita in svariate attività in Italia e soprattutto all’estero. Per tale ragione appare chiaro ed evidente che, proprio in relazione alla specifica posizione del Palazzolo, ricorra l’aggravante in esame. Passando, quindi, alla determinazione in concreto della pena, il Collegio ha tenuto conto, alla luce dei criteri direttivi di cui all’art.133 c.p., sia della gravità del reato che del tipo di contributi prestati all’associazione dall’imputato. Nell’esercizio del potere discrezionale del giudice nell’applicazione della pena, il Collegio ha ritenuto di assoluta gravità il reato contestato all’imputato. Ed invero, la natura e le sopra indicate caratteristiche tipiche dell’associazione denominata “cosa nostra” ­ che si è resa responsabile dei più efferati crimini degli ultimi anni nei confronti delle Istituzioni ed ha soffocato e corrotto praticamente tutti gli aspetti della vita civile ed economica ­ inducono a ritenere, senza tema di smentita, l’odierna contestazione di estrema gravità e pericolosità. A tale dato di tipo generale va giustapposto quello specifico legato al tipo di contributo ed allo specifico ruolo ricoperto dal Palazzolo. Pur trattandosi di un concorrente esterno, egli rappresenta una figura inusuale nel panorama di cosa nostra, proprio perché dotato di capacità e competenze che hanno contribuito in modo estremamente significativo alle fortune di detto sodalizio. Non si tratta di un qualsiasi partecipe o concorrente esterno ma di un uomo le cui capacità, più uniche che rare, hanno reso preziosissimo per cosa nostra e, di conseguenza, pericolosissimo per le Istituzioni. Tale intrinseca ed assoluta pericolosità sociale esclude del tutto la possibilità di concessione, in favore dell’odierno imputato, delle circostanze attenuanti generiche che appaiono incompatibili con il suo ruolo, i fatti commessi ed il tipo di reato in contestazione. A ciò deve aggiungersi la valutazione in ordine alla capacità a delinquere dell’imputato che va desunta anche dal ruolo rivestito all’interno del sodalizio, dal contributo in concreto fornito all’associazione in parola e dalla lunga e protetta latitanza. Sulla scorta di tali principi si è pervenuti a determinare in concreto la seguente pena: pena base anni sette di reclusione aumentata, in presenza di due circostanze aggravanti, fino ad anni nove di reclusione. Il Palazzolo va, poi, per legge condannato al pagamento delle spese processuali. Attesa l’entità della pena, in base agli artt. 28 e ss. c.p., lo stesso deve obbligatoriamente essere dichiarato interdetto in perpetuo dai pubblici uffici ed in stato di interdizione legale durante l’espiazione della pena. Inoltre, a mente degli articoli 228 e 417 c.p., l’imputato, per le surriferite ragioni connesse alla sua elevatissima pericolosità sociale, va sottoposto, a pena espiata, alla misura di sicurezza della libert à vigilata per un periodo di due anni. Attesa la complessità e la durata dell’istruzione dibattimentale svolta nel presente processo, il Collegio, ai sensi dell’art.544 comma 3 c.p.p., indica per il deposito della sentenza il termine di giorni novanta. Infine, in base al disposto di cui all’art. 275 co. I bis e III c.p.p., il Tribunale, a seguito di specifica richiesta del P.M., ha ritenuto di ripristinare nei confronti di Palazzolo Vito Roberto la misura cautelare della custodia in carcere, per le ragioni di cui alla separata ordinanza allegata al dispositivo.

P.Q.M. Visti gli artt. 521, 533, 535 e ss. c.p.p.; 28 e ss., 228, 110 e 416 bis, 417 c.p.; DICHIARA Palazzolo Vito Roberto colpevole di concorso nel delitto di associazione di tipo mafioso aggravato, previsto e punito dagli artt. 110 e 416 bis co. I, IV, VI c.p., cos ì qualificato l’originario fatto ascrittogli e lo condanna alla pena di anni nove di reclusione, nonché al pagamento delle spese processuali. Dichiara il predetto Palazzolo interdetto in perpetuo dai pubblici uffici e legalmente interdetto durante l’espiazione della pena e lo sottopone, a pena espiata, alla misura di sicurezza della libertà vigiliata per la durata di anni due. Visto l’art. 544 co. III c.p.p.; fissa il termine di giorni novanta per il deposito della sentenza. Visto l’art. 275 co. I bis e III c.p.p.; applica, su richiesta del P.M. depositata il 3.7.2006, a Palazzolo Vito Roberto la misura cautelare della custodia in carcere, come da separata ordinanza che si allega al presente dispositivo. Palermo 5 luglio 2006

Il Giudice estensore Il Giudice Il Presidente