RASSEGNA STAMPA venerdì 5 giugno 2015 L’ARCI SUI MEDIA

ESTERI INTERNI LEGALITA’DEMOCRATICA RAZZISMO E IMMIGRAZIONE DIRITTI CIVILI E LAICITA’ BENI COMUNI/AMBIENTE INFORMAZIONE SCUOLA, INFANZIA E GIOVANI ECONOMIA E LAVORO

PANORAMA CORRIERE DELLA SERA IL MANIFESTO L’ESPRESSO LA REPUBBLICA AVVENIRE VITA LA STAMPA IL FATTO LEFT IL SOLE 24 ORE IL SALVAGENTE IL MESSAGGERO INTERNAZIONALE

L’ARCI SUI MEDIA

Da Radio Articolo 1 del 04/06/15 Ius soli e accoglienza, migranti in cerca di diritti. Con Walter Massa, Arci ElleEsse - See more at: http://www.radioarticolo1.it/audio/2015/06/04/24478/ius-soli-e- accoglienza-migranti-in-cerca-di-diritti-con-walter-massa-arci#sthash.OhDZbp4j.dpuf

Da Redattore Sociale del 04/06/15 Circomondo, i bambini di strada diventano artisti circensi Torna il festival internazionale di circo sociale, dal 26 al 28 giugno a San Gimignano. Protagonisti i bambini che arrivano dai quartieri più disagiati di Rio de Janeiro, Beirut, Kabul, Valencia, Nairobi, Roma e Napoli FIRENZE – Questi bambini arrivano dai quartieri più disagiati di Rio de Janeiro, Beirut, Kabul, Valencia, Nairobi, Roma e Napoli. Per tre giorni saranno proprio loro i protagonisti di Circomondo, festival internazionale di circo sociale, per accendere i riflettori sui diritti e la tutela dei minori nel mondo. L’appuntamento è in programma da venerdì 26 a domenica 28 giugno a San Gimignano e vedrà protagonisti venti bambini e ragazzi tra gli 11 e i 20 anni strappati da situazioni di forte disagio e inseriti in progetti di recupero sociale attraverso l’arte circense e i progetti di circo sociale promossi dall’associazione Carrettera Central. Nei tre giorni della manifestazione, i piccoli artisti animeranno le vie e le piazze della città in provincia di Siena trasformandosi in giocolieri, acrobati, clown, equilibristi e trapezisti e in ambasciatori dei progetti di circo sociale da cui provengono. Non mancheranno, inoltre, occasioni di riflessione e coinvolgimento sul tema dell’esclusione e della marginalizzazione sociale dei minori nel mondo attraverso seminari di approfondimento, mostre, laboratori per bambini e proiezioni di film-documentari. Il festival toccherà il suo culmine nelle giornate di sabato 27 e domenica 28 giugno, quando andrà in scenan lo spettacolo circense inedito “Bing Bang Circus - Un viaggio nel mondo”, curato dal regista Emmanuel Lavallè, dove saranno protagonisti assoluti i piccoli ospiti, per la prima volta insieme nella performance, e i loro accompagnatori. Nella giornata di sabato 27 giugno, inoltre, Circomondo attraverserà Nottilucente, manifestazione promossa dal Comune di San Gimignano con Culture Attive e che, per il quarto anno, animerà vie e piazze del centro storico dalle ore 17 fino a tarda notte, trasformandole in un inusuale palco a cielo aperto. Circomondo nasce dall'esperienza maturata negli anni dall'associazione Carretera Central - braccio della cooperazione internazionale dell’Arci provinciale di Siena - nel circo sociale in Brasile, a Cuba e in altri Paesi del Sud del mondo. Su queste basi, l’associazione sta portando avanti un progetto di circo sociale ad Haiti, a Port-au-Prince. La prima edizione di Circomondo si è svolta a Siena nel gennaio 2012 con bambini e ragazzi in arrivo dalle

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favelas di Rio de Janeiro, dalle periferie di Buenos Aires, dai sobborghi di Ramallah (Palestina) e dai quartieri più difficili dell'hinterland napoletano (Barra e Scampia). Info www.circomondofestival.it

Da Vita.it del 04/06/15 Roma Il Diversity Management nel mondo del lavoro Italia Roma - via 4 Novembre, 149 Sito web:http://arci.it/ Confronto sulle pari opportunità e la valorizzazione delle differenze. I punti di vista degli stakeholder: sindacati, datori di lavoro e associazioni È in programma a Roma alla Sala delle Bandiere, Parlamento europeo, martedì 9 giugno l’incontro “il Diversity Management nel mondo del lavoro”, dalle ore 9 alle 16,30. L'incontro vuole mettere a confronto, sui temi delle pari opportunità e della valorizzazione delle differenze nei luoghi di lavoro, i punti di vista e le esperienze di diversi stakeholder: i sindacati, le parti datoriali e le associazioni. L’appuntamento è realizzato nel quadro del progetto DyMove-Diversity on the Move, promosso dall’Unar in partenariato con diversi soggetti della società civile, e finanziato dall’Unione Europea nell’ambito del programma Progress. Nel corso dell’iniziativa del 9 maggio saranno presentatati i risultati della prima ricerca sul Diversity Management in Italia . Parteciperanno, tra gli altri, Marco De Giorgi (Direttore Unar), Filippo Miraglia (vice Presidente nazionale Arci), Marco Buemi (Unar), Federico Porcedda (Unar), Pietro Albini (Confindustria), Romano Benini (CNA), Paola Menetti (Legacoop sociali), Sally Kane (Cgil), Angela Scalzo (UIL), Sofia Nasi (FS), Valentina Fabri (Atac), Donata Vivanti (Fish), Luciano Scagliotti (Enar), Cathy La Torre (Mit), Michele Giarratano (Arcigay), Ilaria Bellelli (Comune di Bologna). http://www.vita.it/it/event/2015/06/09/il-diversity-management-nel-mondo-del-lavoro/2098/

Da Strill.it del 04/06/15 Parte da Rosarno la Carovana Internazionale antimafia Reggio e la sua provincia come crocevia della lotta alla criminalità organizzata, alla schiavitù e allo sfruttamento dei migranti. Dopo un lungo percorso di oltre un anno in giro per l’Italia e per l’Europa, la Carovana internazionale antimafie fa tappa nella punta dello Stivale, per raccogliere testimonianze e portare l’esperienza accumulata in un anno di incontri, eventi e impegno sul campo. Da oggi giovedì 4 giugno fino al 10 giugno, i protagonisti del CARTT (Campaign for Awareness Raising and Training to fight Trafficking) si ritroveranno a Rosarno, con campo base in un albergo cittadino, per una settimana di formazione e sintesi, promossa con il contributo dell’Arci provinciale di Reggio Calabria. E proprio il 10 giugno i campisti internazionali passeranno il testimone ai carovanieri dell’edizione nazionale del 2015, che quest’anno partirà proprio dallo Stretto per il tour lungo la Penisola. Nata nel ’94, la Carovana antimafie promossa da Arci, Libera, Avviso Pubblico, Cgil, Cisl e Uil è ormai un appuntamento fisso dell’associazionismo impegnato sul fronte del contrasto alla criminalità organizzata. Nel tempo, la Carovana è diventata internazionale, 3

incrociando le esperienze simili in Europa. Da questa contaminazione è nato il progetto internazionale CARTT, che vede in partenariato l’Arci, Libera, la Ligue de l’Enseignement, organizzazione francese che si batte per una educazione pubblica e laica, l’organizzazione rumena Parada e la maltese Inizjmed. Il campo di formazione in programma a Rosarno, dedicato ai rappresentanti delle organizzazioni promotrici, verterà sul tema della tratta nei diversi aspetti dello sfruttamento lavorativo, in particolare si cercherà di mettere a fuoco le modalità con cui le mafie si impadroniscono di ampie porzioni del mercato del lavoro, approfittando di un contesto sociale profondamente lacerato dalla crisi economica. Ci sarà anche spazio per testimonianze e visite alle realtà maggiormente attive sul territorio: la Tendopoli di San Ferdinando, l’Associazione Omnia, l’Arci – Casa del Popolo e SOS Rosarno nella cittadina della Piana che ospita il maggior numero di migranti, poi ancora la Valle del Marro ed Emergency a Polistena, il Centro Caritas di Drosi e lo Sportello Orientamigrante a Rizziconi, il Frantoio delle idee a Cinquefrondi, fino alla Riace capitale dell’accoglienza. I campisti incontreranno il sindaco Mimmo Lucano, i sacerdoti impegnati in prima linea don Pino Demasi e don Nino Larocca, migranti e operatori dello SPRAR Approdi Mediterranei di Villa San Giovanni e un rappresentante della Commissione territoriale per i rifugiati di Reggio Calabria. Una settimana all’insegna della contaminazione che incrocerà altri due momenti importanti: l’8 giugno il lancio della nuova coop del Consorzio Terre del Sole sui terreni confiscati a Rosarno, e il 10 giugno a Reggio l’avvio della Carovana nazionale antimafie 2015. Un bagaglio di esperienze che sarà al centro della due giorni conclusiva dell’intero percorso internazionale, in programma a fine giugno a Bruxelles. - See more at: http://www.strill.it/citta/2015/06/parte-da-rosarno-la-carovana- internazionale-antimafia/#sthash.ugDv8qkJ.dpuf

Da Vita.it del 05/06/15 Lo Stato della Pena Italia Roma - via del Gonfalone, 29 Sito web:http://www.volontariatogiustizia.it/ VIII Assemblea della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia Dei Delitti E Delle Pene “Lo Stato della Pena”. È un titolo evocativo quello scelto dalla Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia (Cnvg) per la sua VIII Assemblea che si terrà a Roma il 5 e 6 giugno. Apriranno i lavori venerdì alle ore 10 al Museo Criminologico DAP in via del Gonfalone 29, la presidente Cnvg Elisabetta Laganà, il presidente Dipartimento Amministrazione Penitenziaria Santi Consolo e l'Ispettore Generale delle Carceri Italiane Virgilio Balducchi. L'assemblea sarà l'occasione per fare il punto della situazione su carcere e giustizia in Italia, a partire da cosa è stato fatto e cosa invece ancora si deve fare dopo la cosiddetta 'Sentenza Torreggiani', con cui la Corte Europea dei Diritti dell'Uomo ha condannato l'Italia per reato di tortura o trattamenti disumani e degradanti. Alessandro Pedrotti, vice presidente Cnvg, ne discuterà insieme al presidente emerito della Corte Costituzionale Giovanni Maria Flick, il presidente onorario di Antigone Stefano Anastasia, il magistrato di sorveglianza di Spoleto Fabio Gianfilippi, il vice capo DAP Luigi Pagano e l'avvocato Michele Passione della Camera Penale di Firenze. Occhi puntati anche su misure alternative e recenti misure di messa alla prova. Giovanni Torrente, vice presidente Cnvg, presiederà un tavolo di discussione con il Coordinatore

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della Direzione Generale UEPE Eustachio Vincenzo Petralla, la rappresentante del UEPE Venezia Chiara Ghetti e l'on. Edoardo Patriarca, componente della XXII commissione Affari sociali della Camera dei Deputati. Seguiranno le testimonianze dirette delle associazioni, con i rappresentanto del VIC Caritas di Roma, Caritas Ambrosiana, Caritas di Napoli e Associazione Papa Giovanni XXIII. Concluderà questa prima giornata un focus sulla questione Minori grazie agli interventi della comunità cagliaritana La Collina di Serdiana, dell'associazione A Roma Insieme e di Gino Rigoldi, Cappellano dell'Istituto penale per minorenni 'Beccaria' di Milano. Sabato 6 giugno, al Centro di Servizio per il Volontariato Spes in via Liberiana 17, si terrà a partire dalle 9 un Workshop esperienziale sulla Tutela degli Affetti aperto a tutti i volontari. Interverranno Roberta Palmisano, Direttrice dell'Ufficio Studi, Ricerche, Legislazione e Rapporti Internazionali del DAP, e Ornella Favero, Direttrice della testata 'Ristretti Orizzonti'. Per partecipare alla giornata di venerdì 5 giugno, è necessario iscriversi entro il 28 maggio scaricando i moduli all'indirizzo www.volontariatogiustizia.it (o www.ristretti.it) e inviandoli compilati a viccaritas[at]mclink.it. Aderiscono alla CNVG: Aics, Antigone, Arci, Caritas Italiana, Cnca, Comunità Papa Giovanni XXIII, Forum Salute Carcere, Jsn, Libera, Seac e 18 conferenze regionali. http://www.vita.it/it/event/2015/06/05/lo-stato-della-pena/2086/

Da Repubblica.it (Bologna) del 04/06/15 Il rock torna a Ferrara: vent'anni di musica sotto le stelle Via il 7 giugno l'inossidabile rassegna che ogni anno porta nuove star in piazza del Castello: tra i protagonisti del 2015 Paolo Nutini e i Verdena di LUCA BORTOLOTTI Vent’anni di Ferrara Sotto le Stelle, vent’anni di grande musica in piazza del Castello. La rassegna della città estense si prepara a tornare dal 7 giugno, in barba a difficoltà economiche e a un panorama in cui i festival rock italiani o chiudono o si trasferiscono altrove. Ferrara Sotto le Stelle si contende con Arezzo Wave la palma di festival rock più longevo d’Italia, ma a differenza della rassegna toscana, nata nel 1987, non ha mai cambiato nome né location. Non ha mai dovuto rinnovarsi o spostarsi per sopravvivere al mutare della scena musicale in cui sempre meno dischi venduti si traducono in cachet più alti per i live. Sono bastati sostegno reciproco tra enti pubblici (Comune e Regione) e mondo associativo (Arci Ferrara), e una cura maniacale alla buona organizzazione e all’offerta artistica. Eccolo, allora, il cartellone. L’ospite principale, e quello per cui si stanno bruciando rapidamente i biglietti, è Paolo Nutini (17 luglio, 32 euro). Il cantautore italo-scozzese è tra i nomi più amati del Regno Unito, non solo in ambito soul-pop, e ormai una presenza fissa nei grandi festival europei. Fiore all’occhiello di Ferrara Sotto le Stelle è l’unica data italiana dei The Jesus and Mary Chain (19 luglio, 35 euro): la band shoegaze britannica presenterà per intero “Psychocandy”, disco seminale del genere, a trent’anni dalla sua uscita. Ancora, le rockstar del violoncello 2Cellos (30 luglio, 32 euro), che hanno

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conquistato il pubblico partendo con le loro cover di classici del rock reinterpretati appunto al violoncello; e i Verdena (15 luglio, 13 euro), la band italiana dell’anno. Tutti show in programma in Piazza del Castello, come la serata speciale del 20 giugno finanziata dal Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo, che ha scelto Ferrara e il suo festival come rappresentante dell’Emilia-Romagna in un progetto di promozione legato ad Expo. Dalle 20,30, suoneranno la storia e le nuove leve della musica italiana: Post-Csi, Bud Spencer Blues Explosion e Fast Animals and Slow Kids. A completare il cartellone, gli show al Cortile del castello: quello del 7 giugno di Sunk Kil Moon (15 euro) che apre la rassegna, Andrew Bird il 30 giugno (18 euro), George Ezra il 21 luglio (30 euro) e la chiusura con le Savages il 31 luglio (18 euro). In vent’anni Ferrara Sotto le Stelle ha portato nella città estense Radiohead, Arctic Monkeys, Bob Dylan, Simple Minds. Del resto, per durare tanto serve una proposta all’altezza, sia per qualità che per attenzione ai numeri. Che il cast da solo non basti per rendere un festival di successo duraturo, ma serva cura di aspetti organizzativi come accessibilità, contesto, fruibilità della location, lo dimostra il fallimento di rassegne anche storiche. Il Rototom, maggiore festival reggae europeo, ha dovuto emigrare dal Friuli in Spagna per questioni legali, Heineken Jammin’ Festival ha cambiato più città prima di chiudere del tutto, Rock in Idro è caduto vittima del caos Parco Nord. Ultimo esempio il Sonisphere di Milano del 2 giugno scorso: Metallica e Faith No More nel cast non hanno evitato la rivolta del pubblico (con tanto di class action) per le troppe persone pressate in una location inadeguata come il parcheggio del Forum, zero vie di fuga e gestione non chiara del pit sottopalco. http://bologna.repubblica.it/cronaca/2015/06/04/news/il_rock_torna_a_ferrara_vent_anni_d i_musica_sotto_le_stelle-116039663/

Da Repubblica.it (Genova) del 04/06/15 Una piazza per Rostagno, ucciso dalla mafia: è festa in Centro storico Lo slargo, sotto i Giardini Luzzati, sarà dedicato domani al giornalista ucciso dalla mafia nel 1988: con laboratori per bambini, un seminario, e la sera un concerto di GIULIA DESTEFANIS Una piazza in centro storico per ricordare Mauro Rostagno, ucciso dalla mafia Dalla sociologia a Lotta Continua, fino al giornalismo antimafia in una piccola tv in provincia di Trapani, che gli costò la vita. Non un secolo fa, ma nel 1988. A Mauro Rostagno, uno dei 9 giornalisti assassinati in Italia per mano mafiosa, sarà dedicata domani una piazzetta nel Centro storico di Genova. Con festa, un dibattito e il laboratorio “La mafia spiegata ai bambini”. L’appuntamento è domani, venerdì 5 giugno, alle 11.30 nella piazza che è sotto i Giardini Luzzati, a metà strada tra il Teatro della Tosse e piazza delle Erbe. Spazio importante perché all’ingresso di un asilo, ma sinora non utilizzato dai genitori dei bimbi, che preferivano un’entrata secondaria: da oggi, però, il degrado è al bando, nello slargo verranno messi giochi pubblici e la piazza, in nome di Rostagno, tornerà di tutti. A volerlo un folto Comitato promotore che ha visto in prima filo l’Archivio dei Movimenti con Libera, la Comunità di San Benedetto al Porto, Arci, e poi l’Ordine dei Giornalisti, l’Anpi e non

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solo. “Il comune ha sposato subito la proposta – spiega Chiara Volpato di Libera Genova – e dopo un anno di lavoro siamo pronti per l’inaugurazione”: a scoprire la targa, alle 11.30, il sindaco Marco Doria, l’assessore alla Legalità Elena Fiorini e il presidente del Municipio Centro Est Simone Leoncini, oltre alle associazioni proponenti e a Maddalena Rostagno, la figlia del giornalista. Alle 16, ai vicini Giardini Luzzati, il tema della criminalità organizzata si racconta a misura di bambino, con “La mafia spiegata ai bambini” a cura dell’associazione il Ce.Sto. Alle 17.30 la sala La Claque del Teatro della Tosse ospita “Un altro mondo è possibile, impegno e gioia di vivere”, convegno dedicato a Rostagno la figlia Maddalena, il giornalista Paolo Brogi e il saggista Guido Viale. Durante l’incontro la proiezione del documentario “Quando la piazza contava” (a cura di Gianfranco Pangrazio di Ghettup) con spezzoni da “No alla tregua” del Collettivo Cinema Militante di Milano e dal documentario “Lotta Continua del 1973”. E la festa continua alle 21 in piazza con il concerto “Canto Antico”, pizzica e tammuriata sperimentale con la chitarra solista di Bacci Del Buono. Un inno al giornalismo, quello che diventa missione a costo della vita. Mentre a pochi passi, tra piazza Matteotti e il Ducale, la kermesse “la Repubblica delle Idee” racconta il giornalismo di oggi. http://genova.repubblica.it/cronaca/2015/06/04/news/una_piazza_per_rostagno_e_festa_i n_centro_storico-116011978/

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ESTERI

del 05/06/15, pag. 12 L’Isis “prosciuga” l’Eufrate per aprirsi la via verso Baghdad Chiusa la diga di Ramadi, in alcuni punti i jihadisti possono passare il fiume a piedi La politica dell’acqua spacca l’Iraq: arriva solo nei campi controllati dai miliziani Maurizio Molinari Il Califfo manovra l’Eufrate come un’arma per dare l’assalto a Baghdad seguendo un copione che evoca lo stratagemma con cui le armate di Semiramide conquistarono l’Antica Balbilonia. Catturata Ramadi a fine maggio, i miliziani dello Stato Islamico (Isis) si sono affrettati ad assumere il controllo della diga a Nord della città. Gli ingegneri al servizio del Califfo Abu Bakr al Baghdadi hanno chiuso 23 dei 26 grandi cancelli idrici, aprendo i rimanenti tre solo per alcune ore del giorno. Il risultato è stato duplice: il livello del fiume è aumentato nell’area di Falluja, sotto controllo di Isis, ed è diminuito davanti alle città di Khalidiya e Habbaniya dove truppe irachene e milizie sciite stanno erigendo le difese per bloccare l’avanzata del nemico verso Baghdad. Come gli antichi assiri Ciò significa che i contadini dello Stato Islamico hanno più acqua per i loro campi, mentre le truppe di Haider Al Abadi non possono più contare sul fiume come barriera anti-Califfo. Il motivo è che il livello del fiume, secondo il capo della sicurezza di Khalidiyah Sheik Ibrahim Khalaf al Fahdawi, è «sceso di oltre un metro» rendendo possibile ai miliziani jihadisti di attraversarlo a piedi. Fino a pochi giorni fa invece le acque alte obbligavano Isis a progettare attacchi solo usando ponti e porti fluviali, presidiati in forze dalle truppe di Baghdad. È una tattica che ricorda quanto fecero i capi militari della regina Semiramide 2700 anni fa, guidando le truppe assire all’assalto di Babilonia adoperando un «brillante trucco acquatico» che Frontinus, comandante degli Acquedotti nell’Antica Roma, descrisse così nel suo «Stragemmi»: «Obbligarono i fiumi a correre dove volevano, al fine di avere un vantaggio». Semiramide ordinò agli ingegneri di deviare il corso dell’Eufrate per consentire al suo esercito di marciare sull’asciutto fino al cuore di una Babilonia divisa in due dai flutti. La leggenda vuole che la mitica Medea, il re persiano Serse e Alessandro il Grande ricorsero allo stesso «trucco dell’acqua» per impossessarsi di Babilonia e ora questa tattica si ritrova negli ordini di campo di Abu Muslim al Turkmani, capo delle forze di Isis in Iraq. Si tratta di un alto ufficiale delle unità speciali della Guardia Repubblicana di Saddam Hussein - al pari di Abu Ali al Anbari, capo delle operazioni Isis in Siria - che nel 2003 non ebbe il tempo di applicare contro l’esercito americano simili tattiche. Ma ora la situazione è diversa: l’avversario non sono le super-veloci divisioni dei Marines bensì un esercito iracheno lento nei movimenti di terra e dunque vulnerabile agli stratagemmi degli antichi assiri. Per Sabah Karhout, capo della provincia di Anbar, «Isis gioca sporco, facendo mancare l’acqua a donne e bambini» ma ad Al Turkmani poco importa: si è affrettato a manovrare la diga come un’arma perché vuole scompaginare i piani delle milizie sciite Hash al Shaabi, obbligandole a disperdere i contingenti lungo gli argini senza poter prevedere da dove verrà l’attacco. 8

Battaglia per la capitale È un espediente che gli garantisce il «fattore sorpresa» teso a ridurre l’efficacia di Kataeb Hezbollah, i miliziani sciiti iracheni meglio armati ed addestrati perché istruiti dalla Forza Al Qods dei Guardiani della rivoluzione iraniana. Gli spietati scontri frontali avvenuti a Tikrit sono bastati ad Al Turkmani per dedurre che l’unica maniera per batterli è obbligarli a schierarsi su un fronte troppo vasto. Inizia così la battaglia per Baghdad, il cui esito dipenderà dal duello fra gli spregiudicati veterani di Saddam e le milizie sciite votate al sacrificio.

del 05/06/15, pag. 12 Quindicimila iraniani in Siria per puntellare le forze di Assad Maurizio Molinari Sono almeno 15 mila i miliziani sciiti che l’Iran ha fatto entrare in Siria negli ultimi giorni, promettendo di «sorprendere» i nemici del regime di Bashar al Assad. La notizia arriva da giornali e tv libanesi, secondo cui si tratta di miliziani reclutati in Iran, Iraq e Afghanistan per affiancare ciò che resta dell’esercito di Assad nel tentativo di strappare l’iniziativa militare agli avversari. I miliziani, anche di giovane età, sono stati assegnati alla regione di Damasco e all’area di Latakia, lungo la costa abitata in prevalenza dagli alawiti, l’etnia degli Assad. Proprio da Latakia, il generale iraniano Qassem Soleimani, comandante della Forza Al Qods dei Guardiani della rivoluzione, ha parlato senza mezzi termini della preparazione della controffensiva contro i ribelli islamici. «Il mondo sarà sorpreso da quanto noi e la leadership militare siriana stiamo preparando per i prossimi giorni» ha detto Soleimani all’agenzia iraniana «Irna», lasciando intendere la volontà di rovesciare la situazione tattica che vede ora l’Esercito della Conquista - le milizie islamiche guidate da Al Nusra - padrone della provincia di Idlib e lo Stato Islamico (Isis) a circa 70 km dalla capitale. Il generale Soleimani Se Soleimani accelera i tempi della controffensiva, suggeriscono fonti arabe a Beirut, è per «risollevare il morale delle truppe siriane» ed anche per «non perdere forza contrattuale con gli Stati Uniti nel negoziato sul programma nucleare», arrivato all’ultima boa, in ragione dell’importanza che Washington assegna a Teheran per evitare il crollo della Siria nelle mani dei jihadisti. L’Isis avanza ad Hasakah In attesa della controffensiva di Assad, Isis sembra però in grado di cogliere un altro risultato: la capitale della provincia di Hasakah, nel Nord-Est, «può cadere nella mani del Califfo» avvertono i leader curdi locali che ne controllano circa metà. A suggerire tale sviluppo sono le cinque autobombe che ieri Isis ha fatto esplodere contro una guarnigione siriana alle porte del capoluogo di Hasakah, innescando la fuga di massa dei soldati come già a Palmira. Human Rights Watch afferma che aerei del regime hanno lanciato su alcuni villaggi di Idlib «barili di esplosivo ad alto contenuto tossico» suggerendo il ricorso ad armi proibite nell’estremo tentativo di recuperare il terreno perduto.

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del 05/06/15, pag. 21 Orange via da Israele l’ira di Netanyahu DAL NOSTRO CORRISPONDENTE GERUSALEMME . È diventato uno scontro fra governi, quello francese e quello israeliano, la frase pronunciata ieri dall’Ad di Orange, il gigante francese delle telecomunicazioni, accusato di essersi schierato a favore del boicottaggio dello Stato ebraico. Parlando mercoledì dal Cairo, Stephane Richard aveva sostenuto che se fosse stato per lui, Orange avrebbe interrotto immediatamente i legami con Partner, l’azienda affiliata in Israele, ma che non voleva «esporre Orange a un livello di rischio e di penali veramente considerevole per la società ». Immediata la reazione israeliana che nel corso della giornata è andata avanti in un crescendo — prima l’ambasciatore a Parigi, poi il ministro Regev, poi Naftali Bennett — per arrivare in serata alle parole del premier Netanyahu che ha definito «miserabile» la decisione della compagnia di lasciare Israele e ha chiesto al governo francese il licenziamento di Richard. In realtà la decisione di Orange non cambia la sostanza: il gigante francese ha solo ceduto per il mercato israeliano il suo brand alla Partner, azienda saldamente controllata da imprenditori ebrei. Ma in Israele in queste settimane si teme una crescita di eventuale boicottaggio culturale ed economico, misure decise dall’Europa e altri Paesi per la mancanza di risultati nelle trattative di pace con i palestinesi e la prosecuzione nella costruzione delle colonie. Federica Mogherini l’ha ricordato a Netanyahu nel loro incontro due settimane fa: i prodotti provenienti dalle colonie non potranno più essere venduti in Europa con la dizione “Made in Israel”, ma un’etichetta indicherà che vengono dai Territori occupati. Diverse banche europee hanno già chiuso i rapporti con le banche israeliane che operano oltre la “Linea Verde”. Nelle ultime settimane in un rapporto alcune ong hanno chiesto al governo francese di intervenire per mettere un termine all’accordo tra Orange e Partner. Indirettamente, sostenevano, Orange con questa partnership si renderebbe complice dell’occupazione palestinese in Cisgiordania, poiché la rete copre anche gli insediamenti israeliani dove vivono oltre 500 mila settlers. ( f. s.)

del 05/06/15, pag. 17 Il premier Tsipras respinge la bozza di compromesso presentata dalla ex Troika “Non accettiamo proposte estreme la nostra gente ha sofferto abbastanza in questi ultimi cinque anni” “Ci stanno strozzando oggi non paghiamo l’Fmi” Atene torna in trincea e l’accordo si allontana ETTORE LIVINI DAL NOSTRO INVIATO ATENE . Nessun compromesso in vista. Anzi. Ora che Grecia e creditori hanno messo le carte in tavola, le distanze — invece che accorciarsi — sembrano essersi improvvisamente 10

allargate. E il premier Alexis Tsipras, visto lo stallo, ha deciso di alzare la posta: Atene non pagherà i 305 milioni che avrebbe dovuto restituire oggi al Fondo Monetario internazionale. «Ci hanno strozzato, non ci danno un euro da agosto 2014 e vogliono solo imporci nuova austerity. Ora basta!», spiega per tutti Vassilis Primikiris, membro del Comitato centrale di Syriza. Washington può attendere. I soldi, in attesa di una schiarita negoziale, resteranno in cassa per pagare pensioni e stipendi. E le quattro rate di prestiti Fmi in scadenza questo mese (valore totale 1,6 miliardi) saranno pagate — come consente il regolamento del Fondo — in un’unica soluzione a fine giugno. «Fanno bene!» dice Zoe Mouzakis, nel suo coloratissimo baracchino di fiori a due passi dal Politecnico. Lei il suo prezzo alla crisi l’ha già pagato. Salatissimo. «Mio marito ha perso il lavoro due anni fa, io guadagno sì e no 450 euro al mese per mantenere pure due figli ». E quando ha letto le proposte della Troika per riaprire il rubinetto dei finanziamenti alla Grecia ha fatto un salto sul suo sgabello: «Ma siamo matti? Vogliono aumentare l’Iva sull’elettricità dal 13 al 23%. Io vado in rovina», dice guardando sconsolata il pulmino refrigerato (alimentato a corrente) in cui tiene in fresco rose e peonie per difenderle dal vento caldo dell’Egeo. Tsipras ha fiutato l’aria e ha respinto senza se e senza ma la bozza di compromesso presentata da Jean Claude Juncker. «Non accetteremo proposte estreme — ha detto — . La gente ha sofferto abbastanza negli ultimi cinque anni. E l’unica base realistica su cui cercare un’intesa resta il documento che abbiamo presentato a Bruxelles ». Quarantasette pagine andate di traverso a Ue, Bce e Fmi in cui Atene ribadisce il suo no a interventi sulle pensioni, conferma la volontà di ripristinare la contrattazione collettiva e di alzare il salario minimo e chiede al Fondo salvaStati di rilevare (a sconto) i prestiti della Bce e all’Fmi di ristrutturare i suoi. Un tabù per i falchi del rigore che per sbloccare l’ultima tranche di aiuti da 7,2 miliardi pretendono dalla Grecia nuovi sacrifici: un aumento di 1,8 miliardi del gettito dell’Iva e risparmi pari almeno all’1% del pil l’anno (1,6 miliardi) alla voce pensioni. «La medicina perfetta per uccidere un Paese già moribondo per overdose di austerità!», ride (ma non troppo) lo studente Grigoris Papageorgiou uscendo dalla facoltà di Legge. Le distanze tra le parti — come ha ammesso ieri anche il presidente dell’Eurogruppo Jeroen Dijsselbloem — «restano piuttosto ampie». E il tempo a disposizione per evitare il default è sempre meno visto che il 30 giugno scade definitivamente il programma di aiuti e di soldi in cassa ad Atene non ce ne sono. Ieri sera a mezzanotte nuova conference call tra Atene, Parigi e Berlino. Varoufakis incalza: «La Grecia è pronta e vuole un accordo, ma Merkel dia una parola di speranza». La palla — dicono a Bruxelles — è nel campo della Grecia che a questo punto deve presentare una controproposta. Concetto esplicitato la cancelliera in un’intervista al Tg1: «La Germania desidera che la Grecia faccia parte dell’euro. Da parte nostra rispettiamo il principio di solidarietà ma ci vuole uno sforzo da parte di Atene». Tsipras ha riunito d’urgenza il governo per fare il punto della situazione e oggi affronterà il direttivo di Syriza dove l’ala più radicale del partito tornerà a far sentire la sua voce arrivando a chiedere una rottura dei negoziati. «Se vogliono una nostra resa totale, non l’avranno», ha dichiarato ieri battagliero il ministro del lavoro Dimitris Stratoulis. In serata il premier farà il punto della situazione in Parlamento dove si preannuncia un dibattito al calor bianco con l’ex premier Antonis Samaras che ha già accusato il suo successore di aver portato a casa una “Waterloo negoziale”. «Ha ragione lui — commenta a Syntagma Katerina Georgiadis, pensionata 70enne da sempre fedele elettrice del centrodestra — . Cosa ha ottenuto Tsipras in cinque mesi di governo? Ha riportato il Paese in recessione e ha incassato solo un parziale allentamento degli obiettivi di bilancio. Assieme però a 3 miliardi di nuovi tagli. Altro che addio al memorandum!». Le colombe, in questo clima incandescente, faticano a far sentire la loro voce. «Arriveremo a un’intesa entro il 30 giugno — ha gettato acqua sul fuoco Varoufakis,

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un po’ sparito dai radar dei negoziati — . Il problema è che Ue e Fmi devono chiarirsi su come trattare il debito greco». Per lui chiaramente insostenibile. Il percorso per arrivare all’accordo resta però accidentato. Il referendum — davanti a un’ultima offerta prendere o lasciare dei creditori — resta una strada aperta. Anche se tutti sanno che non potrà essere fatto senza imporre rigidi controlli sui capitali. Qualcuno parla di elezioni anticipate in caso di impasse, sostenendo che le forzature di Ue, Bce e Fmi sono il mezzo per portare al potere un esecutivo più filo-euro. «La Grecia ha bisogno di un nuovo governo», ha candidamente ammesso in un suo studio quel campione di democrazia di Goldman Sachs. I prossimi giorni saranno decisivi per capire se le fibrillazioni di queste ore sono solo la drammatizzazione finale prima della firma di un compromesso (un passaggio necessario per far digerire l’intesa sotto il Partenone, dicono in molti) o il prologo di un salto nel buio. A osservare con preoccupazione la situazione è la Casa Bianca. Syriza ha giocato con intelligenza la carta dell’apertura alla Russia. E il Tesoro Usa in queste ore sta spingendo (come Christine Lagarde e Mario Draghi) per un «accordo forte» che affrontando alla radice il problema ellenico — debito compreso — allontani il rischio di uno smottamento geopolitico di Atene verso l’orbita di Mosca.

del 05/06/15, pag. II (inserto Sbilanciamo l’Europa) Syriza alza il livello dello scontro. E vince Eurocrack. Una partita giocata sul filo del rasoio, nella quale le istituzioni internazionali puntavano al «regime change». Ora la Grecia è attesa da un’estate di fuoco Thomas Fazi È un’estate di fuoco quella che si profila davanti alla Grecia: da qui a settembre il paese ellenico deve rimborsare quasi 3 miliardi al Fmi (di cui 1,6 miliardi a giugno), 7 miliardi alla Bce e 600 milioni di interessi. Sono soldi che la Grecia non ha. Al massimo – e non è detto – il governo potrebbe racimolare per il rotto della cuffia i 300 milioni della rata del Fmi in scadenza il 5 giugno, ma Syriza l’ha detto chiaramente: la Grecia non rimborserà la rata del 5 giugno se non c’è una prospettiva di accordo con i creditori. Questo dimostra la volontà del governo greco di alzare il livello dello scontro – nessun paese sviluppato si è mai rifiutato di ripagare il Fondo, e quei paesi che l’hanno fatto se ne sono pentiti amaramente – proprio nel momento in cui la trattativa con i creditori giunge al redde rationem. Se è vero, come molti hanno scritto, che le due parti sono ingaggiate ormai da mesi in una sorta di “chicken game” – che si rifà al famoso film Gioventù bruciata, in cui due ragazzi fanno una gara di coraggio correndo con la macchina verso un burrone: chi sterza per primo perde, ma ovviamente se alla fine non sterza nessuno moriranno entrambi – allora Tsipras sta dando prova di non avere nessuna intenzione di levare il piede dall’acceleratore. Anche perché, regalo involontario della controparte, proprio in virtù del dilungarsi delle trattative la Grecia ha sempre meno da perdere. A causa della continua emorragia di capitali dalla Grecia – i depositi presso le banche greche hanno raggiunto il livello più basso da dieci anni a questa parte – le banche sono sempre più dipendenti dalla liquidità di emergenza della Bce fornita attraverso l’Emergency Liquidity Assistance (Ela). Se da un lato questo pone il paese sempre più alla mercé della banca centrale, dall’altro – come ha fatto notare il falco tedesco Hans-Werner Sinn – fa anche lievitare i costi per la

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controparte di un’eventuale uscita della Grecia dall’euro, poiché aumentano i crediti dell’Eurosistema nei confronti della banca centrale greca all’interno del sistema Target2, sempre attraverso l’Ela (che in caso di uscita, ovviamente, andrebbero in buona parte perduti). Oggi questi ammontano a circa 100 miliardi di euro, pari quasi a due terzi il reddito nazionale della Grecia. Come dice l’adagio, se devi alla banca mile euro è un problema tuo, ma se le devi un milione è un problema della banca. A questo si aggiunge il fatto che, come si diceva, le casse dello Stato sono ormai al verde. Nei primi quattro mesi dell’anno, il governo è riuscito ad ottenere un avanzo primario superiore al previsto, ma questo è andato tutto a coprire le ultime scadenze di rimborso. Col risultato che oggi il governo non ha abbastanza soldi in cassa per rispettare le scadenze di giugno e pagare al contempo le pensioni e i salari dei dipendenti pubblici. Secondo fonti vicine al governo greco, la soluzione choc suggerita qualche mese fa dai creditori sarebbe di «non pagare gli stipendi e le pensioni per uno o due mesi»; un’ipotesi ovviamente respinta dalla Grecia, che per bocca di Varoufakis ha risposto che «preferiamo pagare un pensionato rispetto a un creditore». In sostanza, se non viene sbloccata l’ultima tranche di aiuti da 7,2 miliardi di euro, la Grecia sarà costretta a fare default, il che potrebbe tranquillamente portare alla fuoriuscita incontrollata del paese dalla moneta unica, con tutti i rischi che questo comporterebbe, non solo per la Grecia per ma l’Europa intera. Uno scenario che l’establishment europeo (leggi Merkel e Draghi) sembrerebbe deciso a scongiurare, minimizzando però i costi politici ed economici – per loro stessi ovviamente – di una permanenza di Atene nell’eurozona. È questo, e non la presunta intransigenza greca, il motivo per cui raggiungere un accordo finora si è rivelato così difficile. Come ha scritto di recente Paul De Grauwe: «È l’intransigenza e l’irragionevolezza dei creditori – che insistono su ulteriori misure di austerità quando il fallimento di queste è sotto gli occhi di tutti – ad essere responsabile del dramma in corso». L’obiettivo? Destabilizzare il nuovo governo greco o ancora meglio ottenere un cambio di regime nel paese, secondo l’economista belga. Una strategia che però ha sortito l’effetto opposto, come si diceva. In un durissimo j’accuse pubblicato pochi giorni fa su Le Monde, Tsipras ha duramente criticato «l’insistenza di alcuni attori istituzionali nel presentare proposte assurde» e la loro «totale indifferenza verso la recente scelta democratica del popolo greco», accusandoli di voler creare «una zona euro a due velocità, dove il cuore fisserà regole severe in tema di austerità e di adattamento e nominerà un super ministro delle Finanze dell’eurozona con poteri illimitati e persino la facoltà di rifiutare bilanci di Stati sovrani che non siano allineati con il neoliberismo estremo». Nell’articolo, Tsipras ha anche ribadito il suo secco no a procedere con l’ulteriore smantellamento del mercato del lavoro e ulteriori tagli alle pensioni. Come se non bastasse, alla proposta presentata lunedì dai creditori, Atene ha risposto con una sua contro-proposta, buttando la palla nel campo degli altri leader europei. «Non stiamo aspettando che ci facciano un’altra proposta», ha sottolineato Tsipras. Una partita pericolosa giocata tutta in contropiede dal leader greco, che però sembra aver pagato. Secondo le ultime notizie, infatti, i creditori si sarebbero decisi a trovare un accordo “a tutti i costi” al fine di evitare il default. E per farlo avrebbero ceduto, pare, su quasi tutta la linea, acconsentendo ad un avanzo primario greco dell’1% per il 2015 – rispetto al 4,5% preteso inizialmente – e, soprattutto, a rimandare la discussione su lavoro e pensioni alle prossime settimane. Un drastico cambio di marcia, dettato probabilmente anche dalla crescente pressione esercitata dagli Usa e dal mutamento degli equilibri europei anticipato dalla recente avanzata elettorale di Podemos in Spagna. Una vittoria non da poco per Tsipras, che è riuscito in un colpo solo a spostare la discussione dal piano tecnico a quello politico e – cosa ancor più importante – a guadagnare tempo prezioso, in attesa di uno scenario

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politico più favorevole. Una battaglia vinta in una guerra che è destinata a durare ancora a lungo.

del 05/06/15, pag. I (inserto Sbilanciamo l’Europa) Per chi suona la campana di Alexis Tsipras Il 25 gennaio scorso, il popolo greco ha preso una decisione coraggiosa. Ha osato sfidare la strada a senso unico dell’austerità del Memorandum d’intesa per cercare un nuovo accordo. Un nuovo accordo che consentisse la permanenza del Paese nell’euro, con un programma economico efficiente, senza gli errori del passato. Per questi errori il popolo greco ha pagato un prezzo alto: negli ultimi cinque anni il tasso di disoccupazione è salito al 28% (per i giovani 60%), il reddito medio è diminuito del 40%, mentre secondo i dati Eurostat la Grecia è diventata il paese europeo con il più alto indice di disuguaglianza sociale. (…) Molti, tuttavia, sostengono che il governo greco non sta cooperando per raggiungere un accordo, perché si presenta ai negoziati intransigente e senza proposte. È davvero così? Poiché questi sono tempi critici, forse storici – non solo per il futuro della Grecia, ma anche per il futuro dell’Europa – vorrei cogliere questa occasione per presentare la verità e informare responsabilmente l’opinione pubblica mondiale sulle reali intenzioni e posizioni della Grecia. Il governo greco, sulla base della decisione dell’Eurogruppo del 20 febbraio, ha presentato un ampio pacchetto di proposte di riforma, al fine di raggiungere un accordo che coniugasse il rispetto del mandato ricevuto dal popolo greco con il rispetto delle regole e delle decisioni che governano l’Eurozona. Un punto chiave delle nostre proposte è l’impegno a ridurre – e quindi a rendere realizzabili – gli avanzi primari per il 2015 e il 2016, acconsentendo ad avanzi primari più elevati per gli anni successivi, poiché ci aspettiamo un aumento proporzionale dei tassi di crescita dell’economia greca. Un aspetto altrettanto fondamentale delle nostre proposte è l’impegno ad aumentare le entrate pubbliche attraverso una redistribuzione dell’onere fiscale dalle classi medio-basse a quelle più alte che finora non hanno fatto la loro parte per contribuire a far fronte alla crisi, protette in questo sia dall’élite politica che dalla troika che hanno chiuso un occhio. Fin dall’inizio, il nostro governo ha chiaramente dimostrato la propria intenzione e determinazione ad affrontare questi problemi approvando una legge specifica sulle frodi causate dalle triangolazioni e intensificando i controlli doganali e fiscali per ridurre il contrabbando e l’evasione fiscale. Mentre, per la prima volta da anni, abbiamo fatto pagare ai proprietari dei media i loro debiti nei confronti del settore pubblico greco. (…) Abbiamo presentato proposte concrete concernenti misure che si tradurranno in un ulteriore incremento delle entrate. Queste includono una tassa speciale sui profitti molto alti, una tassa sulle scommesse online, l’intensificazione dei controlli sui titolari di conti bancari con somme ingenti – evasori fiscali, misure per la raccolta degli arretrati del settore pubblico, una speciale tassa sul lusso e una gara di appalto per la radiodiffusione e altre licenze, che la troika aveva stranamente dimenticato negli ultimi cinque anni. (…) Infine – e nonostante il nostro impegno verso i lavoratori di ripristinare immediatamente la legalità europea del mercato del lavoro, completamente smantellata nel corso degli ultimi 14

cinque anni con il pretesto della competitività – abbiamo accettato di attuare le riforme del lavoro dopo una consultazione con l’Ilo, che ha già espresso un parere positivo sulle proposte del governo greco. Ciò detto, è ragionevole chiedersi perché i funzionari delle istituzioni insistano a dire che la Grecia non presenta proposte. (…) Quindi, cerchiamo di essere chiari: La mancanza di un accordo finora non è dovuta ad una presunta posizione greca intransigente, non incline ai compromessi e incomprensibile. È invece dovuta all’insistenza di alcuni attori istituzionali nel presentare proposte assurde e mostrare una totale indifferenza verso la recente scelta democratica del popolo greco, nonostante la pubblica assicurazione delle tre Istituzioni sulla concessione della necessaria flessibilità al fine di rispettare il verdetto popolare. Cosa determina questa insistenza? Si potrebbe innanzitutto pensare che questa insistenza è dovuta al desiderio di alcuni di non ammettere i propri errori e, invece, di ribadire le loro scelte ignorandone fallimenti. Inoltre, non dobbiamo dimenticare che alcuni anni fa il Fondo monetario internazionale ha ammesso pubblicamente di aver sbagliato i calcoli della profondità della recessione che sarebbe derivata dal memorandum. (…) La mia conclusione, quindi, è che la questione greca non riguardi solo la Grecia; piuttosto, è l’epicentro di un conflitto tra due strategie diametralmente opposte riguardanti il futuro dell’unificazione europea. La prima strategia si propone di approfondire l’unificazione europea nel contesto di uguaglianza e solidarietà tra i popoli e i cittadini. (…) La seconda strategia si propone proprio questo: la spaccatura e la divisione della zona euro, e quindi della UE. Il primo passo per la realizzazione di questo obiettivo consiste nel creare una zona euro a due velocità, dove il cuore fisserà regole severe in tema di austerità e di adattamento e nominerà un super ministro delle Finanze dell’Eurozona con potere illimitato e persino la facoltà di rifiutare bilanci di Stati sovrani che non siano allineati con il neoliberismo estremo. Per quei paesi che rifiutano di piegarsi alla nuova autorità, la soluzione sarà semplice: una punizione severa. Austerità obbligatoria. E, peggio ancora, più restrizioni ai movimenti di capitali, sanzioni disciplinari, multe e persino una moneta parallela. A giudicare da quanto sta accadendo, sembra che questo nuovo potere europeo sia in costruzione, con la Grecia come prima vittima. (…) L’Europa è, dunque, a un bivio. A seguito delle serie concessioni fatte dal governo greco, la decisione non è ora nelle mani delle istituzioni, che in ogni caso – con l’eccezione della Commissione europea – non sono elette e non sono responsabili verso il popolo, ma piuttosto nelle mani dei leader europei. Quale strategia prevarrà? Quella che vuole un’Europa della solidarietà, dell’uguaglianza e della democrazia, o quella che vuole rottura e divisione? Tuttavia, se alcuni pensano o vogliono credere che tale decisione riguardi solo la Grecia, commettono un grave errore. Vorrei suggerire loro di rileggere il capolavoro di Hemingway “Per chi suona la campana”.

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del 05/06/15, pag. 19 L’allarme di Kiev: “La Russia ci vuole invadere” Il Cremlino nega la presenza di truppe Usa: preoccupati dalle violenze IL “cessate il fuoco” di Minsk è naufragato, in Ucraina orientale i combattimenti divampano e si profila come unica via d’uscita una missione internazionale di interposizione: ne parlerà stamattina il Consiglio di Sicurezza dell’Onu in una riunione d’emergenza richiesta dal governo lituano. Intanto la Rada sta preparando il terreno: ieri, dopo il monito del presidente Petro Poroshenko che parlava di «possibile invasione su larga scala» con la Russia che avrebbe 9mila militari in territorio ucraino, il Parlamento di Kiev ha autorizzato lo schieramento di militari stranieri in missione di pace sul territorio nazionale se l’Onu dovesse richiederlo. Il Cremlino nega coinvolgimenti diretti nella guerra, anche se ammette che volontari russi si sono uniti alla lotta degli autonomisti del Donbass. Questa linea lascia pensare che in ogni caso la Russia non opporrà il “veto” alla risoluzione ipotizzata. Frank-Walter Steinmeier, ministro degli Esteri tedesco, ha sottolineato come il G7 debba tornare al più presto ad essere G8, comprendendo la Russia. Invece al G7 di Berlino gli Stati Uniti ribadiranno «l’importanza di mantenere le sanzioni sulla Russia». La Casa Bianca ha espresso «preoccupazione» per i combattimenti di ieri, i più duri da febbraio: 24 fra civili, indipendentisti filorussi e militari governativi sono morti nella zona di Donetsk. ( g. cad.)

del 05/06/15, pag. 19 Nel nascondiglio dell’ultradestra “Il trattato di Minsk è carta straccia” PIETRO DEL RE DAL NOSTRO INVIATO DNIPROPETROVSK (UCRAINA) QUATTRO giganti in mimetica difendono l’ingresso della stanza d’ospedale di Dmitrij Yarosh, leader del movimento dell’estrema destra ucraina Pravij Sektor, gravemente ferito a un braccio pochi mesi fa mentre combatteva contro i filorussi all’aeroporto di Donetsk. Anche se ancora ricoverato a Dnipropetrovsk, prima grande città dopo le retrovie del Donbass, il comandante Yarosh, 42 anni, volto mastinoide e capelli a spazzola, sta oggi decisamente meglio. Ma con noi di Repubblica non parla perché ci giudica «troppo a sinistra». Lo fa però con la nostra interprete, la giornalista ucraina Maria Lebedeva, alla quale dice: «Il trattato di Minsk è già carta straccia e i russi stanno lanciando una nuova offensiva perché la Crimea è troppo piccola per il loro vorace appetito». Alle legislative dello scorso ottobre Yarosh è stato eletto deputato alla Rada, il parlamento di Kiev, e l’aver frequentato, sia pure per pochi mesi, i politici locali glieli ha fatti odiare ancora di più, a cominciare dal presidente Petro Poroshenko che, sostiene, «ci teme più degli indipendentisti perché è consapevole che se dovesse sbagliare rovesceremo anche lui come abbiamo fatto con Yanukovich». Eppure lo stesso Poroshenko vorrebbe nominarlo consigliere del ministero della Difesa, soprattutto per poter controllare le legioni di Pravij Sektor, corpi paramilitari fin troppo autonomi. Lo scorso aprile il premier Arsenij 16

Yastenjuk ci aveva assicurato che tutti i gruppi di “volontari” partiti a combattere nel Donbass erano stati irreggimentati sia dalla Guardia nazionale sia dall’esercito ucraino. Ma sulla linea del fronte, sostiene Yarosh, i suoi uomini sono ovunque «liberi e indipendenti per intervenire al momento opportuno ». Per Oleksij Haran, professore all’Accademia delle Scienze politiche di Kiev, Pravij Sektor non costituisce nessun pericolo per la giovane democrazia ucraina. «È la propaganda di Mosca a esagerare l’importanza della nostra estrema destra. Alle presidenziali il loro candidato ha raccolto lo 0,7 per cento dei consensi, molto meno di quanto ottiene in Francia Marine Le Pen». Il professor Haran è anche convinto che il nazionalismo ucraino più che ideologico e xenofobo sia, per ovvie ragioni, territoriale e antirusso. «Basti dire che nell’era sovietica in Ucraina era addirittura vietato parlare la nostra lingua ». Quanto al rispetto degli accordi di Minsk, Yarosh ha forse ragione. Da settimane, in barba al cessate il fuoco, Mariupol è sotto un costante bombardamento dei filorussi che vorrebbero ad ogni costo riconquistarne il porto e le acciaierie, e il Dipartimento di Stato americano continua a denunciare l’ammasso di truppe di Mosca a ridosso della frontiera. Nelle ultime 48 ore la ripresa degli scontri attorno a Marjinka ha già provocato decine di morti. Questo conflitto, che costa all’Ucraina il 20 per cento della sua economia, Poroshenko l’ha definito la sua “guerra d’indipendenza”. Ora, tolta la tara della retorica, la profonda recessione economica ucraina è anzitutto provocata dalla rottura delle relazioni con Mosca. «Di fatto, gli indipendentisti controllano solo il 3 per cento del territorio ucraino: senza i tank, le armi e gli istruttori russi, non ci sarebbe nessuna guerra, e quei quattro terroristi che si fanno chiamare separatisti sarebbero già dietro alle sbarre», dice ancora il professor Haran. Due mesi fa, la Rada ha deciso di vietare l’ideologia sovietica proprio come fece con quella nazista. Ma perché solo adesso? Perché aver aspettato 23 anni dall’implosione dell’Urss e dalla nascita della Repubblica ucraina? «Con l’apertura degli archivi la nostra visione sui misfatti di Mosca è molto cambiata», sostiene lo storico Volodimir Viatrovich, presidente degli Archivi nazionali di Kiev. Durante le proteste sulla Majdan, sono state abbattute molte statue di Lenin, ma rimangono ancora decine di città e centinaia di strade dedicate agli eroi dell’Urss, la cui toponomastica, secondo la legge appena approvata, andrebbe cambiata. Nella costruzione della nuova Ucraina, Paese dai mille cantieri, questo sembra uno dei cambiamenti più facili. «Più complessi sono gli obiettivi del governo: la riforma energetica e quella fiscale, la lotta alla corruzione e l’adeguamento alle norme dell’Ue», dice l’attivista Andrij Shevshenko. «Per riuscire è necessario sia il controllo della società civile ucraina sia quello dello comunità internazionale». La prima ha già cominciato a esercitare le sue pressioni ma, al momento, Europa e Stati Uniti sembrano distratti da altre emergenze.

del 05/06/15, pag. 9 Grecia e Ucraina, l’America spinge per tenere più unita l’Europa Gli Usa ai Paesi europei: Grexit da evitare, bisogna sostenere crescita e lavoro Per Obama incontri bilaterali con la cancelliera tedesca e il premier britannico Paolo Mastrolilli 17

Favorire politiche economiche per una «crescita forte, inclusiva ed equilibrata, che crei lavoro»; tenere unito il fronte occidentale sull’Ucraina ed estendere le sanzioni alla Russia, che non sta applicando l’accordo di Minsk; sostenere la mediazione dell’Onu per costruire un governo di unità nazionale in Libia, che contrasti l’Isis e freni anche l’emergenza dei migranti. Dal punto di vista dell’Europa e dell’Italia, questi sono i temi più importanti nell’agenda con cui il presidente americano Obama verrà domenica al G7 in Germania. Li hanno anticipati ieri il vice consigliere per la sicurezza nazionale Ben Rhodes, la consigliera della Casa Bianca per gli affari economici internazionali Caroline Atkinson, e il direttore degli Affari Europei Charles Kupchan, durante una conference call on the record con i giornalisti. La crisi greca non è stata toccata direttamente, ma Washington ha già sollecitato in varie occasioni gli alleati europei ad evitare l’uscita di Atene dall’euro, con tutte le ripercussioni che ciò avrebbe sull’economia globale. Quindi la Atkinson ha chiarito la posizione ferma della Casa Bianca: «Gli Stati Uniti sono in una fase di ripresa, ma ci sono ancora sfide da affrontare, che sono più significative per alcuni dei nostri alleati. Spingeremo i governi del G7 a favorire politiche che sostengano una crescita forte ed inclusiva, che crei lavoro e sia equilibrata». Dunque no al fallimento della Grecia e l’uscita dall’euro; sì alle iniziative che mettano fine all’austerità e favoriscano la ripresa. A questo si aggiunge una forte spinta per la conclusione degli accordi per gli scambi commerciali TTIP, con l’Europa, e TPP, con l’area del Pacifico. La crisi ucraina Sulla crisi ucraina, Kupchan ha notato che lo stesso Consiglio Europeo aveva concordato di «legare le sanzioni contro la Russia alla piena applicazione dell’accordo di Minsk. Siccome siamo molto lontani da questo, contiamo sul fatto che gli alleati a fine mese decideranno di estenderle». Nelle ultime 48 ore, infatti, i combattimenti hanno subito un’accelerazione, con armi che in base alle intese dovevano già essere state ritirate dal fronte. L’unità del gruppo occidentale è fondamentale per trovare una soluzione alla crisi, e nonostante Washington sia favorevole a tenere aperte le linee di comunicazione, come ha dimostrato col recente viaggio del segretario di Stato Kerry a Mosca, è necessario che gli europei restino sulle posizioni ferme condivise finora. Sulla Libia, Rhodes ha riconosciuto che «gli europei la vedono come un problema di sicurezza loro, per la vicinanza geografica, la questione dei rifugiati e la minaccia comune posta dal terrorismo. Noi continuiamo a sostenere la mediazione dell’Onu per arrivare ad un accordo politico che consenta la creazione di un governo di unità nazionale, e la costruzione delle capacità del paese». Quindi ancora prudenza sull’eventuale intervento europeo per frenare il traffico di esseri umani, che non potrà essere davvero risolto fino a quando in Libia non tornerà una parvenza di stabilità. I bilaterali in agenda Per Obama, che avrà bilaterali con la cancelliera Merkel e il premier britannico Cameron, saranno molto importanti anche le discussioni sul terrorismo e l’Iraq, col premier Abadi, quella sul negoziato nucleare con l’Iran, l’ambiente in vista del vertice Onu di Parigi a dicembre, e lo sviluppo sostenibile di cui si parlerà al Palazzo di Vetro in settembre.

del 05/06/15, pag. IV (inserto Sbilanciamo l’Europa) Modello spagnolo per la sinistra Alternative. Il «populismo» di Podemos e il movimentismo di Barcellona in comune sono esempi di una politica che si rinnova 18

Luigi Pandolfi La Spagna è stata una delle nazioni europee più colpite dalla crisi. Oggi si parla enfaticamente di remontada, ma l’eredità di questi anni è pesante: il tasso di disoccupazione rimane altissimo, con una forbice tra ricchi e poveri più aperta che in qualsiasi altro paese dell’eurozona. L’austerità ha fatto guadagnare qualche punto sul versante dei disavanzi pubblici, a scapito però del reddito dei cittadini e del lavoro, oltre che del debito, schizzato al 98,1 per cento del Pil (40 per cento in più rispetto al 2008). Certamente non ha sanato una delle ferite più gravi che il paese si porta addosso: gli effetti dello scoppio della bolla immobiliare, tra pignoramenti, sfratti, aumento del numero dei senza casa. E dei suicidi. Un abisso di disperazione, in cui tante vite sono ancora oggi risucchiate, nonostante i toni trionfalistici del governo che si lascia andare a dichiarazioni del tipo «la crisis es historia pasada». È da qui che bisogna partire per comprendere come nasce e perché si sviluppa il movimento degli Indignados, opposizione di massa, dal basso, all’ideologia dell’austerity, di cui Podemos oggi costituisce la dimensione matura, organizzata. Non un movimento estemporaneo, a sua volta, ma il prodotto di un intreccio fecondo tra lavoro di ricerca, teorico, sulle conseguenze sociali della crisi — che parte dalle università — ed attivismo politico, lotta per il cambiamento che si dipana nelle piazze, nella società. Parlare semplicemente di Podemos, a proposito dei cambiamenti politici che attraversano la Spagna, e dei risultati delle elezioni del 24 maggio, sarebbe comunque fuorviante. Nel panorama politico del paese in questi ultimi anni si è assistito alla nascita ed al consolidamento di nuove esperienze di cittadinanza attiva a livello locale, metropolitano, cui si deve, in gran parte, il successo delle liste alternative a Barcellona e a Madrid. Parliamo dei “Ganemos” (dal verbo ganar, vincere), assemblee di cittadini organizzate per quartieri e rioni (barrios), anch’esse figlie delle grandi mobilitazioni sociali degli anni scorsi contro l’austerità. In questo quadro si inserisce il “laboratorio” Barcellona, dove la vittoria se l’è aggiudicata la coalizione guidata da una figura simbolo delle lotte per la casa: Ada Colau, classe 1974, ex portavoce della Plataforma de Afectados por la Hipoteca (Pah), associazione nata sull’onda della crisi immobiliare del 2008, distintasi in questi anni per azioni di disobbedienza civile e resistenza passiva contro gli sfratti. Il raggruppamento che la candidava, oltre a Podemos ed al Ganemos (“Guaynem”, in Catalano) locale “Barcelona En Comù”, comprendeva anche altre forze politiche come Icv (Iniciativa per Catalunya Verds), i verdi catalani, e Izquierda Unida. Che a diventare sindaco di una città così importante sia una ragazza dei movimenti, una paladina degli sfrattati, fa notizia, certo. Ma ci siamo chiesti quali proporzioni ha assunto il fenomeno degli sfratti in questi anni in Spagna e a Barcellona? Un’epidemia, è stato più volte detto. E questo è. Se a ciò si aggiunge il dramma dei disoccupati, degli anziani ridotti in miseria dalla crisi, la cosa diventa un tantino più plausibile. O no? E lo stesso discorso, fatte le dovute differenze, potrebbe valere per Madrid ed altri grossi centri in cui le liste alternative si sono imposte su quelle dei partiti tradizionali. «Non è la coscienza che determina la vita». Resta un dubbio, però: queste esperienze possono essere replicate con successo su scala nazionale? Dopo le europee questo era il primo banco di prova per misurare il potenziale elettorale del movimento in vista delle politiche di novembre. La vittoria c’è stata, non v’è dubbio, ma dev’essere interpretata. I numeri dicono che Podemos può ambire a governare il paese, ma non da solo. C’è un’evidente differenza, infatti, tra il risultato che il partito ottiene nelle regioni e quello che, insieme ad altre forze e movimenti, raggranella nei principali centri del paese. Nelle alleanze, la sua forza, dunque. O almeno così sembrerebbe. In prospettiva, però, non è scontato che tali alleanze, costruite su base locale, possano tradursi sic et simpliciter in un blocco elettorale vincente su scala

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nazionale. Molto dipenderà anche dal voto delle periferie, degli angoli più remoti del paese. C’è populismo nel messaggio che Podemos veicola? Non c’è dubbio. È un segno dei tempi. Crisi sociale e discredito della politica tradizionale costituiscono un binomio inscindibile in questa fase. D’altronde la percezione collettiva dell’inutilità della politica oggi va di pari passo, un po’ ovunque, con quella dei suoi privilegi, della sua separatezza. Questo Podemos l’ha ben compreso; Iglesias ne ha parlato e scritto ampiamente, mettendo in relazione il concetto di crisi economica con quello di «crisi di regime». Più prosaicamente, lo dimostrano gli slogan del movimento: «¡Que no nos representan!», «Los partidos de la casta», «¡Ladrones, corruptos, gentuza!». Temi trasversali, che incontrano favore e suscitano interesse anche tra i ceti meno sensibili al discorso economico sulla crisi, su cui potrebbe giocarsi il grosso della prossima competizione elettorale. Intanto il partito di Iglesias e i suoi alleati portano a casa un risultato storico: l’aver messo la parola fine a oltre trent’anni di bipolarismo, imperniato sull’alternanza tra Psoe e Partido Popular. Fine di un’epoca. Ma non basta. C’è un altro dato che conferisce valore storico al loro successo elettorale: la (ri)nascita nel paese di una sinistra anti-liberista a vocazione maggioritaria. La crisi, fedele alla sua natura incendiaria, si è fatta levatrice anche di una sinistra nuova, interprete del suo tempo, al pari di altre fratture storiche e mutamenti socio- economici del passato. Oggi in Spagna, domani in tutta Europa?

del 05/06/15, pag. 25 VERSO IL VOTO. GIRO DI VITE SUI MASS MEDIA Erdogan, l’ambizione di una Turchia più «presidenziale» Considerato un tempo l’esempio di un Islam politico pragmatico e moderato, dal suo insediamento alla presidenza Recep Tayyip Erdogan è stato sempre più il bersaglio di critiche per i suoi atteggiamenti autoritari, l’intolleranza alle critiche della stampa, la corruzione dilagante tra i giudici e i poliziotti, il blocco di YouTube e delle reti sociali, il tutto accompagnato da minacce, pressioni e licenziamenti nei confronti dei giornalisti non allineati. Alla vigilia delle elezioni politiche di domenica, che decideranno se Erdogan da incontrastato pashà della politica diventerà anche il Sultano di una repubblica presidenziale, il leader turco sembra avere oltrepassato la misura accettabile per un Paese che dice di non avere rinunciato alle sue ambizioni europee. Secondo Hurriyet, il giornale più autorevole del Paese, sarebbe stato proprio il legale del presidente Erdogan, in una denuncia penale, a chiedere la condanna all’ergastolo per il direttore di Cumhuriyet, Can Dundar, che aveva pubblicato le immagini di armi destinate a jihadisti in Siria a bordo di camion scortati dai servizi segreti del Mit, un’inchiesta per altro pubblicata anche da Reuters e New York Times su una vicenda conosciuta ed emersa già un paio di anni fa con le testimonianze di agenti di polizia e di coloro che in questi anni hanno monitorato il bollente confine turco siriano dove sono passati migliaia di foreign fighters arruolati dal Califfato. Erdogan aveva avvertito Dundar che avrebbe pagato «un caro prezzo» e per difendere il direttore era sceso in campo anche il premio Nobel della Letteratura Orhan Pamuk.

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Ma il presidente turco non si è fermato qui e ha risfoderato la teoria del complotto internazionale, sbandierata durante le proteste di Gezi Park nel 2013, scagliandosi contro la stampa estera, accusata di obbedire alla «regia di una mente occulta». Il capo dello stato turco ha citato fra gli altri il New York Times, la Bbc e la Cnn, affermando che voglio “indebolire la Turchia, dividerla e disintegrarla, per poi divorarla”. In realtà, sostengono firme del giornalismo turco come Candar Cengiz, Erdogan, come del resto Putin in Russia, sta usando tutti i mezzi per screditare gli avversari, additando i suoi critici nei media e gli oppositori politici come traditori degli interessi nazionali al servizio delle potenze occidentali. Un registro della propaganda che accarezza i sentimenti profondi non solo dell’elettorato musulmano conservatore dell’Akp ma anche dei partiti nazionalisti. Del resto quando la Turchia ha cominciato a perdere colpi sui mercati - la lira ha lasciato il 40% del suo valore sul dollaro in due anni - Erdogan non aveva esitato a parlare di «una lobby internazionale dei tassi di interesse», strumentale per mettere spalle al muro la politica più austera chiesta dalla Banca centrale e anche dalla Tusiad, la Confindustria turca. La vicenda Candar e le elezioni turche ci riguardano direttamente: la Turchia è un Paese strategico, anche per il transito dei gasdotti come il russo Turkish Stream le pipeline da Caucaso e Asia centrale. Se è questa la Turchia presidenziale cui ambisce Erdogan, l’Europa ha di che preoccuparsi: non è certo in questo modo che Ankara si avvicina all'Unione europea, anzi. Ma c’è anche un altro aspetto, messo in luce alla Conferenza di Parigi su Iraq e Siria. Gli Stati che dicono di partecipare alla coalizione contro il Califfato perseguono in realtà interessi completamente opposti. La Turchia, come l’Arabia Saudita e il Qatar, puntano prima di tutto alla caduta di Bashar Assad e poi forse a fare i conti con l’Isis. Gli Usa stanno negoziando da un anno la concessione della base aerea di Incirlik per bombardare i jihadisti: la Turchia finora ha respinto la richiesta perché pretende nel Nord della Siria una “no fly zone” che le consenta di imporre la sua influenza sulla provincia di Aleppo e nella zona curda. Non solo: non parte mai il famoso esercito siriano che i turchi e gli americani dovrebbero addestrare per “liberare” la Siria. È così che il Califfato guadagna ogni giorno terreno e ora controlla 300mila chilometri quadrati a cavallo di Siria e Iraq. L’Akp, nonostante tutto - la perdita di consensi e di velocità della crescita economica - vincerà le elezioni. Ma per Erdogan l’interrogativo vitale è questo: riuscirà a ottenere una maggioranza tale da mettere mano alla Costituzione e riformarla in senso presidenziale? Molto dipende dalla performance elettorale dell’Hdp, il partito filo-curdo di Demirtas. Se dovesse superare la soglia di sbarramento del 10% necessaria a entrare in parlamento, l’Akp non avrà i numeri per un maggioranza di due terzi ma forse raggiungerà quota 330,il minimo, per sottoporre le modifiche costituzionali a referendum. I sondaggi danno l’Hdp intorno al 10%. Tutto si deciderà, quindi, per un pugno di voti curdi. Dopo quanto è accaduto a Kobane, questo sembra davvero il loro anno del destino e del riscatto. Alberto Negri

del 05/06/15, pag. 41 Fu uno dei primi campi di sterminio, l’unico edificio rimasto in piedi è l’ex comando delle Ss. Che ora è stato messo all’asta Belzec

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In vendita il lager degli orrori nazisti così la Polonia tradisce la memoria ANDREA TARQUINI BERLINO «A AA , ex campo di sterminio nazista vendesi ». Non è uno scherzo, accade in Polonia, casualmente dopo la vittoria nazionalista alle presidenziali. Il vecchio edificio che ospitava la Kommandantur delle Ss e della Gestapo è tutto quanto resta del Lager di Belzec, ed è all’asta: le Pkp, le ferrovie polacche, sue proprietarie, vogliono fare cassa. Tanto peggio per la Memoria, e per le petizioni internazionali perché quella reliquia della Shoah sia affidata al museo-memoriale là a un passo che ricorda i cinquecentomila ebrei gasati e passati per il camino a Belzec, quasi metà rispetto alle vittime di Auschwitz- Birkenau, ma in soli dieci mesi. Vengono ignorati appelli a collette lanciati online in tutto il mondo (siti www.betterplace. org, www.bildungswerk- ks.de, più la pagina dedicata di Facebook), collette per comprare l’ex Kommandantur e cederla al museo. Le ferrovie polacche hanno fretta, il 22 giugno a Lublino quanto resta della fabbrica della morte sarà venduto: offerta minima 39mila euro lordi. Memoria addio. «Se davvero è così, è inaccettabile dare a quell’edificio una destinazione diversa dal diventare parte del Museo», dice a Repubblica Konstanty Gebert, veterano della rivoluzione di Solidarnosc e intellettuale di punta della comunità ebraica polacca. Aggiunge Michael Berenbaum, docente Usa e grande autorità dell’ebraismo mondiale: «Proprio i polacchi, che negli ultimi dieci anni hanno fatto tanto per la Memoria, a Belzec devono capire che loro, occupati e oppressi dai nazisti che costruirono tanti Lager nel loro territorio, hanno responsabilità speciale perché la Memoria non svanisca. C’è una Memoria polacca e non solo quella ebrea». Vendere Belzec, pugno alla Memoria: «Mezzo milione di morti in dieci mesi, e solo un sopravvissuto che testimoniò. Belzec fu cancellato dai nazisti in ritirata, insieme al ricordo di quanto vi accadde. Occorre preservare qualsiasi edificio od oggetto che lo rammenti», conclude Berenbaum. Una casa diroccata, e terreno per 6200 metri quadrati: là i nazisti selezionavano all’arrivo donne, bambini, vecchi, giovani, per il lavoro da schiavi o la morte immediata. «E ora trattano tutto come terreno edificabile », dice online un appello di ong tedesche e internazionali. «Non è finita: Belzec è legata anche al ricordo di Jan Karski, primo testimone dell’Olocausto », nota triste Berenbaum. Fu l’eroe della Resistenza polacca, “Giusto tra gli uomini” allo Yad Vashem. Ufficiale dei corpi scelti, addestrato dagli inglesi, fu il James Bond alleato che Washington e Londra non vollero ascoltare. La Raf lo paracadutò nella Polonia occupata, lui appoggiato dallo Stato clandestino organizzato dall’Armia Krajowa (l’esercito partigiano) pagò un poliziotto collaborazionista estone, comprò la sua uniforme, gli stava a pennello. Entrò nei campi — credeva di essere nel cuore di Belzec, poi scoprì che era Izbica, campo-filiale guidato da Belzec — e capì per primo che la Shoah era in corso: «Quelli che non riescono a uccidere qui li mandano a Belzec, dove hanno abbastanza docce col gas e crematori». Tornò avventurosamente a Londra, riferì a Churchill e a Roosevelt. «Bombardate i Lager, chi vi è già prigioniero morirà comunque, distruggete l’industria del genocidio », chiese Karski. Non fu ascoltato, morì vecchissimo e docente in Usa tormentato dal senso di colpa di non aver convinto gli alleati. Il mio rapporto al mondo , s’intitolò il tremendo libro-dossier di Memoria di Karski. «Penso ancora al vecchio amico, io fui l’ebreo scelto per pronunciare l’orazione funebre alle sue esequie», ricorda Berenbaum. «Vendere quell’edificio è anche tradire Karski. Tutto quanto ricorda Belzec va preservato, non venduto, è obbligo morale del mondo se non si vuole cancellare la Memoria», aggiunge. Ma l’ondata di nazionalismo centro-est europeo sfida la 22

morale, dalla vittoria di Orbàn che in Ungheria riabilita Horthy primo alleato di Hitler all’est, alle adunate di ex collaborazionisti nei paesi Baltici, al volo nazionalista a Varsavia. L’ex Kommandantur di Belzec è all’asta, la coscienza del mondo ha diciassette giorni per reagire. (ha collaborato Lucas Flechsig)

del 05/06/15, pag. 12 Bachelet in Italia, viaggio della memoria Cile. La presidente ha scoperto una targa in omaggio agli elisiati cileni durante la dittatura Geraldina Colotti Una targa per ricordare «la forza di volontà di quei cileni che, espulsi dalla loro patria, hanno iniziato un processo di recupero della democrazia insieme agli italiani». Nella sua visita ufficiale in Italia, la presidente del Cile, Michelle Bachelet, ha reso omaggio così all’organizzazione internazionale Chile Democratico, in via di Torre Argentina, a Roma. L’organizzazione ebbe lì la sua sede, all’altezza del civico 21, dal 1973 al 1988. Nel lungo periodo della dittatura del generale Augusto Pinochet — che rovesciò il governo socialista di Salvador Allende l’11 settembre del 1973 — l’Italia ha accolto migliaia di esuli e rifugiati cileni. Allora, le organizzazioni dei fuoriusciti hanno scelto Roma come sede del comitato Chile Democratico, l’ufficio di coordinamento internazionale con i movimenti di solidarietà, con i governi e con le associazioni per i diritti umani che lavoravano al ritorno della democrazia nel paese. Bachelet ha poi ricevuto il saluto degli Inti Illimani Historico, un gruppo di ex esiliati che ha tenuto vivo il ricordo della primavera allendista e le speranze della popolazione schiacciata dalla dittatura, con la loro voce e le loro canzoni che hanno fatto storia. La presidente, accompagnata del ministro degli Esteri Heraldo Munoz ha regalato al sindaco Ignazio Marino lo spartito della canzone «Il mercato di Testaccio», composta dagli Inti Illimani. Bachelet, che è stata colpita negli affetti dalla dittatura militare, ha avuto un peso determinante nella battaglia per la memoria, tutt’altro che facile in Cile. Un incontro di grande significato simbolico nel momento in cui a Roma si sta svolgendo il processo Condor. La rete criminale a guida Cia, fondata negli anni ’70 dai dittatori latinoamericani per eliminare gli oppositori oltre leggi e frontiere, ha torturato e ucciso anche cittadini di origine italiana. Per questo, sono alla sbarra ex repressori cileni, argentini, boliviani, uruguayani. Nelle udienze di fine maggio, ha deposto come testimone anche Carlos Montes, allora segretario del Movimento di Accion Popular Unitario (Mapu), oggi senatore molto vicino a Bachelet. Montes viene arrestato nel 1980, dopo un mese di carcere lo rilasciano. In aula ha raccontato che, prima di andare in esilio a Panama riceve forti pressioni da parte dei poliziotti (minacce ripetutesi anche in seguito, quando si reca a Città del Messico): avrebbe dovuto dimenticare quel che sapeva del caso di Juan Maino. Maino, militante del Mapu — una delle formazioni di Unidad Popular — venne fatto scomparire nel campo di concentramento di Villa Grimaldi, dopo l’arresto, il 26 maggio del 1976. Il giorno in cui fu catturato, Maino avrebbe dovuto recarsi a un appuntamento con Montes. Il Cile di Pinochet ha inaugurato anche i «voli della morte». Così venne uccisa Marta Ugarte, che apparteneva al Comitato centrale del Partico comunista. Fu portata prima a Villa Grimaldi e poi al luogo di tortura nel Cuartel Simon Bolivar e lì ammazzata. Il suo corpo venne legato a un binario, trasportato in elicottero sul mare e buttato giù. Il cadavere 23

fu ritrovato sulla Playa de la Balenas, mani e pieni legati col filo spinato, la vagina cucita. Per questo i militari parlarono di «crimine sessuale». I centri di tortura clandestini dipendevano direttamente dalla polizia segreta cilena, la Dina. Dal 77 in poi, dopo l’omicidio del diplomatico cileno Orlando Letelier, compiuto a Washington dalla rete del Condor nel 1976, a partire dal 1977 la Dina venne sostituita dalla Cni. Dei crimini della polizia segreta ha parlato al processo Francisco Ugas Tapia che fa parte del Programma per i diritti umani del ministero dell’Interno cileno. La polizia segreta ha torturato 28.000 persone. Anche grazie al processo Condor e all’inchiesta realizzata per lunghi anni dal Pm Giancarlo Capaldo, verrà riaperto in Cile il caso del sacerdote Omar Venturelli, dirigente del Mir. Venturelli, uno dei pochi sacerdoti che sosteneva le occupazioni di terre dei nativi mapuche, venne per questo sospeso a divinis dal vescovo Bernardino Piñera (zio dell’ex presidente del Cile Sebastian). Venturelli, poi diventato professore all’Università cattolica di Temuco, si consegnò il 25 settembre del 1973 alla caserma Tucapel di Temuco, dove — secondo le testimonianze — è rimasto in vita fino al 10 ottobre, quando presumibilmente è stato ucciso per ordine del procuratore Alfonso Podlech. In altre drammatiche udienze è stato ricostruito l’assalto al palazzo della Moneda dov’era asserragliato il presidente Allende insieme ai giovani militanti che ne assicuravano la protezione, tutti massacrati dai militari. Molti dei testimoni hanno animato e animano dibattiti e incontri alla Biblioteca Lelio Basso. Ieri si è parlato delle «origini del sistema Condor» alla presenza di testimoni e parti civili per il capitolo uruguayano della rete criminale. Dopo aver incontrato le autorità di governo, ieri, oggi Bachelet si reca in Vaticano per una udienza con papa Bergoglio, la cui visita in Cile è prevista nel 2016, e con il cardinale Pietro Parolin, segretario di stato del Vaticano. La presidente cilena arriva in Italia in un momento di forte crisi. Secondo l’istituto di sondaggi Adimark, la sua popolarità è al punto più basso mai toccato nei suoi due mandati (il primo dal 2006 al 2010, il secondo dal marzo dell’anno scorso). L’inchiesta attribuisce la caduta del gradimento (al 23% in maggio), al «clima di sospetto e accuse dovuto al finanziamento della politica». Gli scandali per corruzione, debitamente amplificati da quei poteri intimoriti dal cammino di riforme aperto dalla candidata di Nueva Mayoria, hanno spinto Bachelet a un cambio di gabinetto. La riforma fiscale, quella della legge elettorale e la discussione che dovrebbe portare a una nuova costituzione, mandando finalmente in soffitta l’impalcatura imposta da Pinochet, non hanno però entusiasmato le sinistre cilene. Tantomeno è stata accolta con favore la nuova legge sull’istruzione. I movimenti, che hanno dato filo da torcere al governo di Piñera, hanno fortemente appoggiato Bachelet e ora chiedono profonde riforme strutturali: che invertano finalmente la musica in un paese di profonde disuguaglianze. Lunedì scorso, professori e studenti hanno dichiarato uno sciopero a oltranza. Oltre 70.000 persone hanno partecipato a una manifestazione a Santiago, e vi sono stati scontri con i carabinieri, la cui struttura repressiva sembra persistere a ogni cambiamento. «Scusate per il disturbo, stiamo protestando per un’educazione gratuita, laica, di qualità e multiculturale», dicono i cartelli dei manifestanti riprendendo gli slogan delle grandi proteste del 2011. Il presidente del Collegio dei professori, Jaime Gajardo, ha sintetizzato l’aria che tira: «Questo governo — ha detto — si deve ricordare che quando è stato eletto ha innalzato la bandiera dell’educazione gratuita e di qualità, il fatto che oggi stia prendendo un’altra strada rischia di costargli molto caro».

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INTERNI

del 05/06/15, pag. 10 Democratici nella bufera spuntano dubbi sul sindaco ma il premier ferma tutti “Il voto un regalo ai 5Stelle” Il presidente del consiglio: i ladri devono andare in galera Grillini, Fi e Lega: dimissioni in Campidoglio e in Regione GOFFREDO DE MARCHIS ROMA . Non arretrare, “metterci subito la faccia”, difendere il sindaco Marino e ribattere colpo su colpo alle accuse di Grillo. concorda la strategia di prima mattina con il presidente del Pd Orfini. Nella risposta studiata dal Pd si avverte anche l’effetto delle regionali di domenica scorsa. Fa soprattutto paura l’offensiva del Movimento 5 stelle, partito che ha dimostrato di poter lottare anche alle amministrative. Non c’è alternativa alla giunta Marino: questo è il muro che va alzato immediatamente. Perché l’idea del commissario prefettizio porta dritti a nuove elezioni nel 2016 e agita lo spettro peggiore per il Partito democratico: un grillino in Campidoglio. Orfini prende in mano la situazione. Dopo la telefonata col premier convoca un vertice con il sindaco e il presidente della Regione . Ma Renzi vuole far sentire il peso del segretario e approfitta di una domanda sulle tangenti alla presidente del Cile Michelle Bachelet, problema che non riguarda solo il Sudamerica. «Un paese solido — dice Renzi — è quello che combatte la corruzione con grande decisione e grande forza, mandando chi ruba in galera. Naturalmente nel rispetto della presunzione di innocenza. Ma quando arriva la sentenza definitiva è giusto che chi ha violato le regole paghi fino all’ultimo giorno e all’ultimo centesimo ». A questo punto la palla passa a Orfini, commissario di Roma nominato dopo la prima ondata di Mafia Capitale. A lui tocca il compito di blindare Marino. «Le indagini adesso nascono dalle nostre denunce e dalla carte portate in procura dal sindaco — sottolinea Orfini — . Se avessi solo un minimo dubbio sul partito attuale non ci avrei messo la faccia». Il presidente Pd si presenta in conferenza stampa da solo, va in tv, occupa i telegiornali. La destra è un bersaglio facile: l’inchiesta colpisce innanzitutto loro sebbene siano coinvolti anche tanti dirigenti dem. Il problema sono i grillini. E’ evidente che puntano a Roma. Il Campidoglio, una vetrina internazionale tanto più con il Giubileo della Misericordia alle porte, gli darebbe lo slancio per una vittoria nazionale. Questo è l’aspetto che più preoccupa Palazzo Chigi e Largo del Nazareno. E se il terreno di scontro è la legalità, Marino non può e non deve essere toccato. C’è un’ala renziana che va da Michele Anzaldi a Roberto Giachetti a convinta che non sia il sindaco la risposta giusta al marcio di Roma. Ma il Pd deve affrontare unito questo passaggio e per questo Lorenza Bonaccorsi, anche lei ex rutelliana, viene coinvolta nell’argine a difesa del primo cittadino. Al vertice partecipa Nicola Zingaretti, nonostante il pasticcio sia quasi interamente comunale e lui sia molto distante sia da Renzi sia da Orfini. L’importante però è non replicare in questa vicenda la profonda divisione che agita i dem a livello nazionale su riforme e voto alle regionali. Per fare i “fratelli coltelli” c’è la direzione di lunedì prossimo. «Dalla Procura viene un lavoro importante e utile per fare chiarezza — dice il governatore del Lazio Zingaretti — . Da 25

parte nostra, in Regione, abbiamo fatto di tutto per governare bene, rafforzando la legalità e la trasparenza. Andremo avanti così, sempre più determinati ». Ma Grillo salta sull’inchiesta. Lancia sul blog l’hashtag #Marinodimettiti. Il leader parlamentare Luigi Di Maio accusa tutto il Pd e chiede le dimissioni del sin- daco e di Orfini. Gli attivisti sono mobilitati. E Orfini ribatte anche qui: ruspe a Ostia contro gli abusivi, carte in procura, appalti cambiati e controllati dall’anticorruzione. Il Pd romano sbandiera la sua rivoluzione. Eppure l’inchiesta travolge anche uomini nuovi di quella parte politica. «Sulla legalità stiamo facendo il massimo», conclude Orfini. Eppure le opposizioni scommettono sul voto anticipato a Roma. Comprese quelle coinvolte nell’inchiesta come Forza Italia. Si scaldano infatti grillini, Giorgia Meloni a destra e Alfio Marchini al centro. Contrattaccano anche gli azzurri. I capigruppo Paolo Romani e Renato Brunetta firmano una dichiarazione congiunta puntando all’azzeramento. «L’amministrazione di Roma, in cui emergono infiltrazioni criminali e collusioni anche dell’attuale gestione, non può andare avanti. Nonostante gli sforzi di illusionismo del Partito democratico, anche nelle ultime ore, ognuno è chiamato ad assumersi le proprie responsabilità», scrivono. Vogliono la testa di sindaco e governatore. «È compito della politica romana, a partire dalla sinistra, oggi al governo della città e della Regione, dire finalmente ‘basta’ all’umiliazione della Capitale d’Italia. Marino e Zingaretti con le loro giunte devono dimettersi».

del 05/06/15, pag. 6 Palazzo Chigi ancora senza strategia per risolvere l’impasse su De Luca Il suo vice: la sospensione va decretata a Consiglio già insediato Amedeo La Mattina Il governo non ha ancora una soluzione al caso De Luca. L’unica cosa certa nelle stanze di Palazzo Chigi e del ministero dell’Interno è che il nuovo presidente della Campania dovrà essere sospeso in applicazione della legge Severino. Ma il governatore avrà il tempo di insediarsi con la sua giunta e delegare il governo regionale al suo vicepresidente per evitare un vuoto politico, legislativo e amministrativo? Si vuole scongiurare l’ipotesi catastrofica del ritorno al voto. Renzi vuole assolutamente evitarlo e gli uffici legislativi di Palazzo Chigi e quelli del Viminale stanno studiando la mossa giusta. Che ancora non c’è. Va calibrata in tutti i suoi risvolti: la soluzione non dovrebbe dare adito a polemiche politiche (ma questo è impossibile), ma soprattutto deve essere inattaccabile dal punto di vista giuridico contro inevitabili ricorsi. Chi ha già tutto chiaro è invece De Luca che non si aspetta dal governo pugnalate. Anche se il ministro Alfano ha detto che la legge verrà applicata «dal primo all’ultimo rigo, la prassi non verrà cambiata». La strategia di De Luca Ce la spiega Fulvio Bonavitacola, deputato del Pd e braccio destra di De Luca. È colui che viene indicato come il futuro vicepresidente che sostituirà De Luca quando quest’ultimo verrà sospeso. «Intanto - spiega Bonavitacola, che è anche avvocato amministrativista - De Luca non dovrebbe essere sospeso. La Severino è composta da una legge delega e da un decreto legislativo. Monti volle inserire il reato di abuso di ufficio nel decreto subito prima delle elezione: fu una sua trovata elettorale per lanciare la sua candidatura a premier. Ma nella legge delega l’abuso d’ufficio non era previsto, quindi siamo di fronte a un eccesso di delega che rende il decreto incostituzionale. Io nell’ottobre del 2014 ho presentato una proposta di legge per eliminare questo vulnus». Ma intanto arriverà la 26

sospensione, gli facciamo notare. «Vedremo. Comunque la Severino dice chiaramente, all’articolo 8, che la sospensione deve essere notificata al Consiglio regionale. Ciò significa che la sospensione ha effetto soltanto quando il Consiglio, già insediato, ne prende atto. Ma non è finita. Lo Statuto e il regolamento della Regione, che è organo costituzionale e legislativo, precisano che non piò essere adottato alcun atto se prima non si vara la giunta». C’è quindi il tempo di affidare il governo regionale al vicepresidente. A quel punto De Luca farà ricorso al giudice ordinario con questa tesi: la Severino è stata modellata sull’ipotesi di sentenza di condanna del titolare di una funzione pubblica in carica. «De Luca invece lo era al momento della sentenza di condanna», ricorda Bonavitacola. De Luca già al lavoro Ieri ha incontrato i sindaci della Terra dei Fuochi per cominciare a pensare a come eliminare le ecoballe e bonificare il territorio. «È il mio primo impegno a tutela della salute, dell’ambiente, per la ripresa dell’agricoltura e del turismo».

del 05/06/15, pag. 15 “Niente primarie, non moriremo leghisti” Berlusconi contro il segretario lumbard Salvini. Il leader di Forza Italia torna a parlare del partito dei moderati Lo stato maggiore forzista alza le barricate per arginare l’avanzata del Carroccio: “Neanche l’Msi usava certi slogan” CARMELO LOPAPA ROMA . La grande paura di morire leghisti. Sotto la cappa di Matteo Salvini. Dentro Forza Italia è la sindrome più diffusa, palpabile nei capannelli che tornano a formarsi dopo il voto nel Transatlantico di Montecitorio, nella buvette del Senato. Tra i berlusconiani la lotta per la sopravvivenza cammina di pari passo con quella per non essere schiacciati dal tritasassi del Carroccio. «Pronto a sfidare anche Berlusconi nel nuovo centrodestra », diceva ieri Salvini a Repubblica , ormai calato nei panni dell’“ anti-Renzi”. L’ex Cavaliere ha gradito pochissimo la sortita, racconta chi lo ha sentito in filo diretto da Arcore. E se non replica a tamburo battente, è per la campagna dei ballottaggi in pieno svolgimento, che lo riporterà per altro oggi in piazza a Segrate in sostegno del candidato sindaco (stavolta quello di centrodestra, senza lo svarione dell’altra settimana, assicurano). Le primarie da organizzare su due piani per consegnargli la vittoria a mani basse «Matteo se le scorda », gli hanno sentito confidare in privato. La portavoce Deborah Bergamini mette in chiaro: «Noi siamo altra cosa rispetto alle uscite di Salvini. Lavoriamo al cantiere di un nuovo grande centrodestra. L’elettore ormai è fluido, non può essere racchiuso in schemi. Vuole dei rappresentanti che sappiano risolvere i problemi, non dei bravi comunicatori. Primarie? Non correrei tanto». Il fuoco di sbarramento è tenuto alto soprattutto dai lombardi. Dal capogruppo al Senato Paolo Romani — convinto che «noi dobbiamo lavorare all’area dei moderati, con la destra di Salvini non si è mai andati al governo » — alla coordinatrice lombarda Mariastella Gelmini. Il neo governatore ligure Giovanni Toti, alleato del Carroccio, una prima apertura alle primarie di Salvini l’ha fatta, appena eletto. Ma giusto quella. Ed è sembrata più un gesto di cortesia. «Da livornese ho fatto di tutcono to per non morire comunista, ho combattuto una vita per non diventare democristiano, ora farò di tutto per non finire 27

leghista», racconta il senatore Altero Matteoli. «Neanche il nostro vecchio Msi usava slogan come quelli di Salvini. Anche Bossi urlava al Nord, poi a Roma si comportava da uomo di governo. Come faremo ad arginare questo Salvini? Intanto niente primarie, non è così che si costruisce una classe dirigente. E poi facendo funzionare Forza Italia, strutturandola e radicandola nei territori». Facile a dirsi, non è mai avvenuto in vent’anni. Ma in tanti ormai non vogliono darla vinta all’altro Matteo. «Per co- me si sta muovendo adesso, le primarie le può fare giusto con la Meloni, non con noi» racconta la sua collega in Europarlamento, la forzista Lara Comi. «La Lega è avanzata giusto un po’, passando dal Po all’Arno, ma ha un paio di punti più di noi solo perché non si è votato al Sud, dove Salvini non esiste. Dunque, o si presenta da solo puntando al ballottaggio con Renzi, oppure sposi il progetto di un partito e una lista unica di centrodestra, ma a quel punto accettando di cambiare politica, toni e contenuti. Noi siamo popolari in Europa, non possiamo convivere con chi predica l’uscita dall’euro, solo per dirne una». Poi c’è chi, come Augusto Minzolini l’altra sera al gruppo al Senato, sostiene invece che le primarie ormai Salvini le ha imposte, tanto vale cercare di disciplinarle. Anche perché, sostiene poi Michaela Biancofiore, «Berlusconi le vincerebbe col 90 per cento». Per non dire del fatto che il cappello di Salvini sta frenando il riavvicinamento di chi nell’Ncd lavora per la ricostruzione del centrodestra. Tra loro potrebbe esserci il capogruppo al Senato, Renato Schifani, se non fosse per quel macigno: «È impensabile una coalizione a trazione Salvini, sarebbe un destracentro».

del 05/06/15, pag. 7 E ora la Lega rilancia il progetto della Macroregione del Nord I successi in Veneto e Liguria riaprono il piano di Maroni, subito al lavoro con Toti Ma il politologo Feltrin è cauto: difficile convincere Venezia. E anche Salvini è scettico Marco Bresolin Sono passati due anni dal patto di Sirmione, quello che lanciò il progetto della Macroregione del Nord. In riva al lago di Garda si ritrovarono tre governatori, Renzo Tondo (Friuli Venezia Giulia), Roberto Cota (Piemonte) e Luca Zaia (Veneto), più un aspirante tale, Roberto Maroni (diventato poi presidente della Lombardia). I primi due hanno perso il posto, gli altri sono ancora lì. A loro si è aggiunto Giovanni Toti, che è di Forza Italia, ma è molto interessato alla partita. Prima di tutto perché già il 10 maggio, a Genova, aveva siglato un patto di collaborazione con Maroni. E poi perché il peso specifico della Lega nella sua giunta sarà significativo (Sonia Viale, segretario regionale del Carroccio, sarà vicepresidente probabilmente con delega alla Sicurezza, ma Toti dovrà concedere anche altri 2-3 assessorati di peso). Di fatto, dunque, la Lega ora controlla tre regioni: oltre alla Liguria, il Veneto in maniera assoluta (Zaia ha stravinto e non dovrebbe cedere troppe «careghe» ai suoi alleati nella squadra di governo) e poi c’è la Lombardia, dove il risultato nelle altre regioni ha contribuito a rasserenare un clima solitamente molto agitato. I presupposti per rilanciare il progetto tanto caro a Maroni ci sono tutti. Resta solo da convincere Matteo Salvini, che da mesi ha cancellato la parola Nord dal suo vocabolario e non pare molto interessato alle prospettive legate alle collaborazioni amministrative.

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«L’alleanza avviata con la Lombardia, oltre a quella che partirà con il Veneto, per noi liguri è strategica - spiega Sonia Viale, numero uno della Lega in Liguria e prossimo numero due della giunta -. Da soli non abbiamo forza contrattuale, né con Roma né con l’Europa». Toti e Maroni hanno già messo nero su bianco una serie di punti, tra questi l’ospitalità dello stand della Liguria nel padiglione Lombardia a Expo. E poi collaborazioni su lavoro e soprattutto trasporti. Un discorso che Maroni aveva già tentato di avviare a suo tempo con Burlando, «ma non c’è mai stato uno sbocco concreto - prosegue Viale -, ora invece sarà più facile portare avanti il progetto della Macroregione Alpina, che non è un’invenzione della Lega ma uno strumento previsto dall’Europa». Paolo Feltrin, politologo esperto di questioni settentrionali, scuote il capo. Per lui siamo sempre nel campo «della politica che monta la panna». Innanzitutto perché questa è una questione «che non fa parte dell’agenda politica di Matteo Salvini. E poi perché i veneti hanno votato Zaia e la Lega esattamente in funzione anti-lombarda. L’asse tra Milano e Venezia non è mai esistito e vedo difficile che possa nascere proprio ora». Al Pirellone gli uomini vicini a Maroni dicono che sì, effettivamente, la collaborazione tra il governatore lombardo e Zaia non è stata molto florida. «Ci sono state forme di cooperazione sull’agricoltura, qualcosa sull’ambiente - racconta un consigliere maroniano - ma alla fine si è fatto ben poco. Però l’asse con Zaia è nella natura delle cose, bisogna solo lavorare per costruirlo». Per farlo c’è tempo, sempre che dal tribunale di Milano - dove è stata appena chiusa un’indagine per induzione indebita a carico di Maroni - non arrivi una condanna per il governatore. In quel caso, per la legge Severino, potrebbe decadere dalla carica. E allora addio Pirellone e addio Macroregione.

del 05/06/15, pag. 12 Nuovo nome e altro marchio La carta coperta di Salvini per conquistare (davvero) il Sud Il richiamo al modello berlusconiano del ‘94, ma per «unire le due Italie» Francesco Verderami ROMA È stato l’unico a guadagnare voti alle Regionali, si è posizionato sopra Forza Italia, amministra il Lombardo-Veneto che è la realtà produttiva più importante del Paese. Ma al Sud ha fallito come un tempo fallì Bossi. Il segretario della Lega l’ha riconosciuto durante una riunione con lo stato maggiore del suo partito: «Il dato della lista “Noi con Salvini” è minimale. La colpa del risultato non è però da attribuirsi alla vecchia idea della secessione, ma ai vecchi arnesi che tentano di riciclarsi». L’analisi differisce da quella del Senatùr, secondo cui nel Mezzogiorno «continuano a illudersi che tutto andrà avanti come al solito». Al fondo resta comunque un fatto inequivocabile: il Carroccio non ha sfondato la linea del Tevere. Per oltrepassare quella linea Salvini sta studiando un piano a medio termine, che ricalca il progetto di Berlusconi del ‘94. Allora, per vincere le elezioni, il leader di Forza Italia diede vita a due coalizioni — il Polo della libertà e il Polo del buongoverno — con l’obiettivo di tenere insieme ma separatamente la Lega al Nord e An al Sud. Il paradosso politico si rivelò vincente, e il capo del Carroccio vuole capire se quella formula riveduta e corretta funziona ancora. Non a caso ieri — intervistato da Repubblica — Salvini ha citato il professor Miglio, l’ideologo della Lega che parlava delle «Italie diverse». Se ventuno anni fa il modello berlusconiano servì a unire due partiti, oggi — nello schema salviniano — per tenere unite «le due Italie» servirebbe una «personalità» che si metta 29

alla testa di una lista per il Sud e si mostri capace di rappresentarlo con una funzione complementare non antagonista rispetto alla Lega nordista. Insomma, non dovrà presentarsi come un avversario del capo del Carroccio, ma nemmeno essere un suo clone: non dovrà cioè tradurre i suoi messaggi in siciliano o calabrese, dovrà invece parlare siciliano e calabrese per lanciare messaggi identitari che esaltino la diversità meridionale e facciano breccia in quel territorio. L’identikit sembrerebbe proporre un profilo a metà strada tra un Masaniello e un Achille Lauro, rivoluzionario quanto basta per conquistare i bassi e le periferie del Sud, ma con un curriculum che garantisca una certa conoscenza della cosa pubblica e di come si gestisce. Il piano — che ha un forte imprinting da movimento di opposizione per la conquista del governo — sarebbe agevolato dal fatto che tutto il Mezzogiorno è adesso amministrato dal Pd. Per dare un segno di novità, Salvini medita di tenere il suo progetto distinto e distante dai partiti tradizionali di centrodestra, perciò sottolinea che «quando si voterà per le Politiche gli schieramenti non saranno semplici somme» di sigle. E c’è un motivo se continua a ripetere che «non andrei con Forza Italia se le elezioni fossero oggi». Questo refrain potrà irritare i maggiorenti azzurri, Romani infatti gli ha ricordato che «senza di noi la Lega non vincerebbe», e pure Bossi glielo ripete a ogni occasione. Ma il segretario del Carroccio ha un’idea diversa sul meccanismo di alleanze: in prospettiva immagina una sorta di circolazione extracorporea rispetto ai partiti attuali, anche perché ritiene che «un conto è Forza Italia che non ha più consensi, altra cosa è Berlusconi che ha i suoi voti». Dunque il leader azzurro potrebbe venirgli utile al momento opportuno «come icona», come una sorta di testimonial. La prova che intenda tenere la misura rispetto alle formazioni dell’ormai ex centrodestra, l’ha data ieri, ragionando sulla crisi di Roma. Salvini è pronto a giocare la sfida del Campidoglio, quando sarà il momento. Ma a sorpresa, parlando dell’argomento, ha scartato varie opzioni di candidati a sindaco e ha fatto invece il nome di Alfio Marchini. Si vedrà se farà davvero questa scelta e quali effetti avrà sulle relazioni che fin qui ha tessuto con un pezzo della destra romana, non solo quella estrema. Più chiaro è il disegno sulla lista per il Sud, il lavoro sulla «personalità» che la dovrà guidare. Il piano non si presenta semplice. Peraltro se — come lui stesso ammette — «la Lega d’Italia non esiste», Salvini sancisce formalmente la fine del progetto nazionale lepenista che aveva coltivato. Il Tevere si è rivelato troppo largo per riuscire a costruirci sopra un ponte: ha conquistato il 15%, gli analisti gli accreditano la potenzialità di salire ancora di due punti con il Carroccio, ma per conquistare il Sud e rompere la sua tradizionale diffidenza serve altro. E poi servirebbe un garante per tenere unite «le due Italie» e le personalità che dovrebbero esserne interpreti. Può bastargli l’«icona» Berlusconi? È questo l’interrogativo, che se ne porta appresso un altro sul candidato premier: perché Salvini, che pure si dice pronto a sfidare Renzi per Palazzo Chigi, intanto dichiara di volersi candidare per il comune di Milano.

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LEGALITA’DEMOCRATICA

del 05/06/15, pag. 1/34 La compagnia della sottomissione ATTILIO BOLZONI È IL grande inchino ai boss, un’obbedienza cieca. È sottomissione a progetti e a interessi criminali. Potete fare finta di non riconoscerla, potete mettere tutta la distanza che vi pare con Palermo e la Sicilia, chiamatela come volete ma questa è mafia. E la politica romana ci è sprofondata dentro. ILNUOVOe tanto annunciato capitolo dell’inchiesta sul sistema delinquenziale che hanno costruito e perfezionato nel tempo i vari Buzzi e Carminati e Odevaine ci svela, ancora più della prima puntata del dicembre 2014, la trama mafiosa che ha imprigionato Roma. C’è una parte significativa della rappresentanza dei partiti di maggioranza e di opposizione, sinistra e destra, che si è genuflessa per tornaconto o per riguardo, per denaro o per paura. Mafia Capitale atto secondo ci fa scoprire tutti i confini che sono stati violati e ci notifica una dichiarazione di resa incondizionata. Su tutte le connivenze del Campidoglio, mondo di sotto, mondo di mezzo e mondo di sopra. Chiamatela come volete ma questa è mafia. Ci sono resoconti di come era conveniente comportarsi per aggiudicarsi le gare d’appalto a danno altrui, di come si doveva «creare consenso politico tra gli esponenti della maggioranza in consiglio comunale», di come si convogliavano fondi della Regione per riempire ad esempio le casse del X Municipio di Ostia «presidiato da amministratori compiacenti», di come «si esercitavano pressioni per eliminare dirigenti sgraditi e orientare la nomina di altri più disponibili agli interessi del gruppo». Trafficanti di droga e assessori comunali in sintonia permanente, pregiudicati e spregiudicati tutti insieme a decidere il destino di Roma. Chi comandava in Campidoglio? Certi consiglieri e certi presidenti di Assemblea che agivano sempre su mandato. Sull’attenti. Sentite cosa diceva un giorno Salvatore Buzzi a proposito di Pierpaolo Pedetti, consigliere comunale Pd e presidente della Commissione Patrimonio e Politiche Abitative del Comune: «E Pedetti se ne va a fanculo.. ma questi consiglieri comunali devono stà ai nostri ordini…ma perché io devo stà agli ordini tuoi…te pago.. ma va a fanculo». E sentite cosa diceva — sempre Buzzi — a Carminati a proposito di un altro loro amico, Fabio Amore, socio occulto di una cooperativa: «E non rispetti gli accordi, tu lo sai chi sono io? Te ricordi da dove vengo?». Potere di corruzione e alla bisogna «fama criminale» da esibire, soldi e minacce, vincolo associativo e forza intimidatrice. Ecco Mirko Coratti, il presidente dem del Consiglio comunale — che però si era dimesso a dicembre dopo il primo scandalo — e Buzzi che esulta: «Me lo so’ comprato, stà a giocà con me». Ecco Luca Gramazio, capogruppo alla Regione del Pdl — prima era consigliere comunale a Roma — che «nell’associazione ha un ruolo di collegamento con la politica e di elaborazione delle strategie di penetrazione della pubblica amministrazione». Ecco Daniele Ozzimo, consigliere e poi assessore comunale «che si poneva al servizio di Buzzi» per far approvare delibere e trovare alleanze per favorire i «re» di Roma. Ecco i rapporti corruttivi con il consigliere di minoranza Damiano Tredicine, esponente della nota famiglia che ha il monopolio eterno delle bancarelle nella capitale. Ecco il mini sindaco di Ostia Andrea Tassone che per Buzzi «è solo nostro, non c’è maggioranza e opposizione, è mio». Ecco un esponente politico di rilievo (non meglio identificato) che nelle parlate dei boss è quello «che con il mio amico capogruppo ci mangiamo Roma». Nomi di arrestati 31

per mafia o per corruzione, nomi di indagati, nomi di personaggi scivolati nell’inchiesta per il verde di Ostia o per il Cara di Mineo, tutti a lucrare sugli immigrati ancora fradici di acqua e di terrore o su un appetitoso appalto in una circoscrizione della periferia. Uno schifo. Tutto mascherato da dichiarazioni politicamente molto corrette, sondaggi a tradimento sul gradimento dei cittadini sul sindaco Marino, appelli alla legalità e alla vivibilità di Roma. Un inganno, un’impostura che è nascosta fra le pieghe delle carte di Mafia Capitale. Quest’inchiesta sul grande crimine di Roma, per come è stata studiata e preparata (e per come si è imposta, superando i primi gradi di giudizio e i pronunciamenti della Cassazione già nella fase precedente), è destinata a fare storia nella lotta alle mafie in Italia. È uno sguardo decisamente inedito su quali sono oggi i protagonisti del malaffare nel nostro Paese, su come si presentano, su come dialogano con le istituzioni. Non sono più i «soliti noti» di venti o trent’anni fa ormai schiacciati dalla repressione poliziesca e giudiziaria dopo le stragi siciliane del 1992, ma hanno un volto nuovo, personaggi di sponda fra corruzione e traffici proprio come Salvatore Buzzi a Roma, politica, affari, il paravento delle cooperative, gli agganci nei ministeri e nelle pubbliche amministrazioni, potere criminale che può contare su tanti soldi e larghe «maggioranze». È l’evoluzione del crimine. Ma in questo caso è anche l’evoluzione delle indagini. Mafia Capitale — elaborata dal procuratore capo Giuseppe Pignatone, dal suo vice Michele Prestipino, dagli altri sostituti e dagli analisti più raffinati del Ros dei carabinieri — è un’inchiesta «pilota» che probabilmente sarà esportata e applicata in altre realtà italiane dove, dove negli ultimi anni, pigrizie investigative hanno decisamente rallentato l’azione di contrasto al crimine. Un esempio per spiegare che le mafie, poteri nel nostro Paese, non sono più solo manifestazioni di regni illegali ma soprattutto di regni legali che si muovono illegalmente. Roma, per una volta — e per la prima volta — sta facendo scuola.

del 05/06/15, pag. 2 “La mucca si munge ma va sfamata” così il boss dettava le sue regole Dall’assessore al mini-sindaco tutti gli uomini al soldo del clan Le minacce di Buzzi: “Siamo un taxi da cui non si scende” CARLO BONINI ROMA . In una saga giudiziaria di cui non si indovina la fine, l’inchiesta “Mafia Capitale” dalla “ Terra di mezzo” di Tolkien approda alla “ Fattoria degli animali” di Orwell. Per svelare che chi ha avuto in pugno Roma non era il Maiale della profezia. Ma un’insaziabile Mucca, come documentano le 428 pagine dell’ordinanza di custodia cautelare del gip Flavia Costantini che apre le porte del carcere a 44 tra consiglieri comunali e regionali, funzionari pubblici, manager delle cooperative del Terzo Settore. La Mucca politicamente transgenica di Salvatore Buzzi e Massimo Carminati. Perché, come ghigna al telefono il Grande Elemosiniere e Mafioso della “Cooperativa 29 giugno”, «‘A sai la metafora no? Se vuoi mungere la mucca, la mucca deve mangiare. E l’avete munta tanto. Tanto…». Fino a quando la mucca non si è mangiata tutto e tutti. “I POLITICI ASSERVITI” In un catalogo, che è insieme antropologico, criminale, politico, dalle mammelle della mucca — «la mangiatoia», per dirla ancora con Buzzi — suggono infatti bocche voraci. «Funzionali — scrive il gip — ad asservire agli interessi del gruppo quei politici che 32

gravitavano nei segmenti delle istituzioni maggiormente interessati ai rapporti con il gruppo medesimo». La corruzione non è uno strumento, ma la norma. Che definisce, in «un rapporto continuativo nel tempo», il rapporto di forza capovolto tra pubblica amministrazione e Politica (il Mondo di Sopra) e la violenza della strada (il Mondo di sotto). Assessori oggi ex (quello Pd alla casa Daniele Ozzimo), consiglieri comunali (il pd Pierpaolo Pedetti, il centrista Massimo Caprari, il pdl Giordano Tredicine), il già Presidente dell’Assemblea Capitolina (il pd Mirko Coratti), il “dimissionato” presidente del Municipio di Ostia (il pd Andrea Tassone), pezzi da novanta della maggioranza di ieri e opposizione di oggi (Luca Gramazio, già capogruppo in Campidoglio con Alemanno e quindi capogruppo del centro-destra in Regione), sindaci (quello di Castelnuovo di Porto, Fabio Stefoni) non danno ordini. Li prendono. Perché — dice Buzzi — «se li semo comprati». Quindi, «giocano con me». E la regola non deve conoscere eccezioni. Come lui stesso spiega a Carminati. «Per me Pedetti (consigliere Pd e presidente della commissione patrimonio e politiche abitative, ndr) se ne va affanculo — si sfoga — Questi consiglieri comunali devono sta’ ai nostri ordini. Ma perché io devo sta’ agli ordini tuoi? Io te pago! E me fai ancora lo stronzo? Ma vaffanculo». «Ma sì, ‘sti pezzi di merda», chiosa l’interlocutore. Che, aggiunge: «I funzionari pubblici o li cacci o li compri». “SEMO DIVENTATI GROSSI” Filosofeggia Buzzi con Carminati e Fabrizio Testa, il loro spiccia faccende, cui ieri è stato contestato in carcere un altro rosario di capi di imputazione per corruzione: «Me li sto’ a compra’ tutti. Semo diventati grossi». Con una chiosa. Che «bisogna sta’ attenti a scenne dal taxi... Perché co’ noi sali. Ma non scendi più». Ed è vero. Come nel diamante della pubblicità, legarsi al carro della ditta è «per sempre». L’unica variabile è nei termini del baratto. Per Coratti, «che sta’ sempre a rompe er cazzo», «la stecca è di 150 mila euro per sbloccare 3 milioni di euro sul sociale» e per intervenire sulle gare d’appalto dell’Ama, la municipalizzata dei rifiuti, «più mille al mese per il suo capo della segreteria (Franco Figurelli, ndr), «più 10 mila che gli ho dovuto porta’ la prima volta solo per metteme a sede’ a parla’». Ma, soprattutto, per «costruire quel consenso politico nell’Assemblea capitolina» necessario ad approvare la delibera che autorizza debiti fuori bilancio. La voce di spesa “straordinaria” che ha messo in ginocchio Roma in questi anni e ne ha svuotato le casse. Quella con cui viene regolarmente saldato Buzzi, legata a “eventi straordinari” che tali non sono, ma che come tali vengono considerati. Due su tutti: l’emergenza abitativa e quella dell’accoglienza dei migranti. Un welfare due volte nero. Nelle procedure (affidamento diretto) e nelle “stecche”, che rimangono appiccicate alle mani di chi quel denaro eroga. Per un tipo come Andrea Tassone, invece, di euro ne dovrebbero bastare 30 mila. «Anche se quello — si lamenta Buzzi indignato — m’ha chiesto il 10 per cento in nero dell’appalto. Te rendi conto? Nun se vergognano de gnente». Già, il 10 per cento di 1 milione per il verde urbano di Ostia che Buzzi è in grado di far arrivare dalle casse della Regione a quelle del Municipio, a patto di esserne il destinatario. «Gliel’ho spiegato a quello. Una mano lava l’altra e tutte e due lavano il viso». Qualcun altro, come il “neofita” consigliere di maggioranza Massimo Caprari, non sa invece che pesci prendere. Vende a Buzzi il suo voto sulla delibera che autorizza i debiti fuori bilancio per «l’assunzione di un facchino all’università Roma 3». Salvo poi pregarlo, di «regolarsi come si regola normalmente per gli altri consiglieri». “L’IMPICCIO TRIANGOLARE” Naturalmente c’è del metodo nel «fare impicci». E Buzzi è maestro. Come documenta un impiccio più esemplare di altri, che lui liquida ai suoi come «un quasi reato », «una cortesia all’amministrazione comunale ». Il gip, come «esempio di corruzione multilivello di

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tipo triangolare», che tiene insieme «interessi privati», Regione e Comune. E tanto più odiosa perché costruita sull’emergenza abitativa, una delle piaghe di Roma. Accade infatti che la “Società cooperativa deposito locomotive Roma san Lorenzo”, strangolata dai debiti, abbia urgenza di trovare un compratore per 14 appartamenti invenduti a Case Rosse, nella zona di Settecamini. E che si possa dunque mettere su un «bell’impiccio» che lasci soddisfatti tutti. Gli appartamenti li comprerà Buzzi per 3 milioni di euro. Ma con soldi che non ha. Il patto prevede infatti che la Regione stanzi a favore del Comune somme straordinarie (7 milioni di euro) che l’assessore alla casa Ozzimo utilizzerà per prorogare, «nel dispregio di ogni norma», convenzioni fuori mercato per l’emergenza abitativa con Buzzi. Il quale, ne utilizzerà una parte per salvare appunto la “Coop san Lorenzo”. Un patto che diventa addirittura un contratto preliminare di compravendita, dove la clausola di salvaguardia è, appunto, che a Buzzi arrivi quel denaro pubblico. Ozzimo, del resto, è un altro di quelli «a libro paga ». Uno che chiede e a cui «dai». Fosse anche «l’assunzione di una ragazza al bioparco ».

del 05/06/15, pag. II (Roma) “Ventimila al mese per i centri immigrati” Ecco il tariffario di Luca Odevaine La tangente pagata dalla Cascina Poi detta i sistemi per i versamenti e si lamenta: “È saltata una rata non siete persone corrette” PAOLO BOCCACCI SISTEMA Odevaine, tariffario Odevaine, ricatti Odevaine. Anche al centro del secondo atto di Mafia Capitale c’è l’uomo del tavolo di coordinamento nazionale sull’accoglienza per gli immigrati. Era lui il raccordo in particolare tra La Cascina, che si occupa di mense, e il Viminale. Ed è lui stesso a spiegarlo ai manager della coop che il Tavolo aveva solo una funzione politica. «Non aveva nessun potere - ha messo a verbale Odevaine nell’attivare Centri o spostare immigrati da un centro all’altro, semplicemente dettava le linee generali della politica. Quello che facevo io ...era di facilitare il Ministero nella ricerca degli immobili che potessero essere messi a disposizione per l’emergenza abitativa». «Il lavoro che gli faccio» spiega nelle intercettazioni «è di collegamento con il ministero dell’Interno soprattutto per trovare... poi...la possibilità di implementare il lavoro...e facciamo accordi sugli utili in genere...insomma ci si dividono un pò gli utili». Con le mazzette. Ecco che parla con i capi de La Cascina: «Guarda, Francesco, una volta nella vita vorrei non regalare le cose insomma, ce vorrei guadagnare uno stipendio pure per me. All’inizio erano 5 mila euro, poi sono diventati 10 mila... poi 20 mila. Ci dovremo accordare su una cifra complessiva». Il ricatto: «Vi dico anche sinceramente che c’ho richieste da parte del Ministero di apertura di altri centri e li sto dando ai vostri concorrenti». Odevaine è un martello pneumatico: «Su San Giuliano gli chiederei 2 euro che sono all’inizio sui 500... e 30 mila euro al mese possono diventare 60 no?». «M’ha detto: abbiamo pensato che la cosa migliore è darteli in contanti». Ecco il problema: come farsi pagare le tangenti? E Odevaine illustra tre mosse possibili, il suo metodo. Primo: i subappalti: «Loro, diciamo c’hanno qualche milione di appalti in lavori edilizi, tu c’hai qualcuno a cui affidarli? Noi li affidiamo e lui ci fattura una cifra superiore». Secondo: Sovrafatturazioni: «Altra ipotesi può darsi con l’impresa questa mia di import- export, loro comprano alcune cose dall’estero, tipo il caffè per esempio, e dicono, ce lo 34

vendi tu, lo comprano più del prezzo e io li prendo personalmente e non succede un cazzo». Terzo: gestione di un centro di accoglienza: «In più c’è questa ipotesi di darci un centro». Alla fine la quadratura del cerchio con le coop di Buzzi e la Cascina: «Stiamo concordando una cifra tipo un euro a immigrato al giorno» . Ma come investire le tangenti? Dice Odevaine: «M’hanno dato dei soldi che devo versare... in Venezuela. Al Monte dei Paschi non posso versare tutto perché sennò mi fanno la segnalazione all’antiriciclaggio». Il tariffario concordato a seconda delle strutture: «Se è da 80 sono 1240 euro, se è 100 sono 1500, se è da 200 sono 6.200 mensili eh!». E quando la Cascina non paga le mazzette? Lui scrive un sms: «Chiamerò chi di dovere ma dovrò trarre le dovute conclusioni dall’atteggiamento non affattop corretto...Buzzi invece è una persona corretta». Poi lo scatto d’ira: «Allora vai dal Ministro, io non faccio un cazzo». E i soldi arretrati arrivano: «M’hanno dato 30 mila euro, non sapevo do’ metterli».

del 05/06/15, pag. 3 Il Pd travolto si difende Roma. Matteo Orfini «blinda» Marino e Zingaretti: «Baluardi della legalità». Vertice del partito al Nazareno. Col timore che non sia finita qui la bufera giudiziaria sui dem Eleonora Martini ROMA Fin qui ha gioco facile, Matteo Orfini, a rivendicare che Marino e Zingaretti non solo «devono rimanere al loro posto», contrariamente a quanto chiedono Lega, M5S e le destre, ma anzi «vanno ringraziati perché sono i baluardi della legalità». E «sciogliere il Comune di Roma significherebbe andare incontro alle richieste della criminalità organizzata». Le carte degli inquirenti giustificano la blindatura del sindaco di Roma e del governatore del Lazio imposta anche da Matteo Renzi, che non a caso liquida la faccenda commentando: «Quando arriverà la sentenza definitiva è giusto che chi ha violato le regole paghi fino all’ultimo giorno e all’ultimo centesimo». Ma il terremoto è appena cominciato. Il Pd romano ne è consapevole, scosso fino alle fondamenta non tanto dalla seconda ondata di arresti arrivata ieri, dopo la moratoria elettorale, a proseguo dell’inchiesta su Mafia Capitale, quanto dal timore — quasi una certezza — che altri pezzi del partito a breve si possano aggiungere al già lungo elenco di amministratori dem sottoposti alle misure cautelari predisposte dall’ordinanza del gip Flavia Costantini. Di questo parlano per due ore i vertici del partito romano e laziale convocati d’urgenza ieri pomeriggio al Nazareno dal presidente del Pd. E infatti Orfini si limita poi solo a ripetere quanto già detto nei mesi scorsi. Non c’è sorpresa, nelle sue parole, per gli arresti in carcere o ai domiciliari inflitte a vario titolo agli ex assessori capitolini Daniele Ozzimo (Casa) e Angelo Scozzava (Politiche sociale), all’ex presidente del X Municipio (Ostia) Andrea Tassone, all’ex presidente dell’Assemblea capitolina Mirko Coratti che si era già autosospeso a dicembre, al presidente della commissione Patrimoni Pierpaolo Pedetti, al responsabile del dipartimento politiche Sociali della Regione Lazio Guido Magrini. E

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nemmeno a Stefano Bravo, uno dei soci fondatori di “Human Foundation”, l’organizzazione di Giovanna Melandri. È vero, ammette Orfini, che il presidente della cooperativa 29 giugno, sodale del nero Carminati, parla di Marino dicendo che «se resta sindaco altri tre anni e mezzo, con il mio amico capogruppo ci mangiamo Roma». Ma Coratti (verosimilmente il capogruppo in questione), «non era esattamente considerato un sostenitore di Marino», spiega il presidente dem. Dunque, un punto a favore del sindaco «marziano», osteggiato da colui che fino a dicembre scorso era a capo del Consiglio comunale di Roma e che — secondo l’accusa — sarebbe stato ribattezzato dai ras del “Mondo di mezzo” «Balotelli» perché, rivelerebbero le intercettazioni, non faceva «un gioco di squadra» e «aveva pretese continue, tra cui l’assunzione di persone nelle coop di Buzzi». E ancora: «Che l’amministrazione Marino sia considerata un ostacolo per la criminalità organizzata — aggiunge Orfini — lo dimostra il fatto che Buzzi, Carminati e i loro sodali auspicano la caduta della giunta dicendo: “se i nostri avessero coraggio farebbero cadere Marino”». Anche se poi il sistema tripartito (politica — imprese — crimine) che aveva in mano Roma, avrebbe dovuto fare a meno di importanti “gangli” interni all’amministrazione comunale. Dunque nessun problema: «Tutti i consiglieri colpiti dal provvedimento sono automaticamente sospesi dal partito», annuncia il commissario del Pd romano rispondendo duramente agli attacchi del M5S («se chiedono le dimissioni di Marino, che combatte i clan, poi non si stupiscano se i loro esponenti sono gli idoli dei clan di Ostia»), di Giorgia Meloni («gli unici ad essere indagati per mafia sono Alemanno e Gramazio»), e di Salvini («c’era un sistema criminale che lucrava sui più deboli perché c’era la gestione emergenziale voluta dal ministro Maroni»). Anche Stefano Esposito, il commissario inviato da Renzi ad Ostia a dicembre scorso, dopo la prima tranche di Mafia Capitale, ammette che «gli arresti non erano inaspettati». D’altronde, «siamo stati chiamati a governare una città che aveva un problema di mafia e ce l’ha ancora», continua Orfini. E «il Pd romano è stato commissariato perché aveva la responsabilità di non essersi accorto di quanto stava accadendo, perché distratto e ostaggio di una guerra interna». Ma ora, «azzerato il tesseramento 2014, ripartiamo da capo. E — rivendica il presidente dem — quello che sta avvenendo è figlio delle dure e inflessibili azioni che abbiamo intrapreso in questi mesi». Il mea culpa politico si ferma qua. Il problema semmai — è l’appello di Orfini alla città — è che «le imprese, le cooperative, il mondo del lavoro e nel complesso le classi dirigenti non hanno fatto un’opera di rigenerazione simile a quella del Pd». E una stoccata va anche agli apparati di sicurezza: «È curioso — dice — che una figura come Carminati abbia potuto costruire un sistema criminale di tale entità. Chiederò al Copasir come è possibile che i servizi segreti non si siano accorti di cosa stava facendo una persona a loro evidentemente nota». Rimane però anche da capire la veridicità e le conseguenze politiche di certe accuse formalizzate ieri contro Buzzi nell’ordinanza del gip, laddove chiama in causa anche altri esponenti Pd che, seppur senza commettere reato, mostravano particolare vicinanza con il ras delle coop rosse e particolare accondiscendenza ai suoi desiderata.

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del 05/06/15, pag. 14 Voto di scambio in Campania la procura indaga sulle regionali I casi riguardano pochi candidati Nessuno di loro era inserito nella lista degli “impresentabili” CONCHITA SANNINO NAPOLI . Alleanze segrete tra imprenditori e camorra. Contatti e accordi tra comitati d’affari pronti a trasmigrare, con ambizioni e preferenze, da un’area all’altra. Promesse e prestazioni incrociate. E in mezzo, anzi sul fondo, sul piano più basso dello scambio, anche la politica. Ora c’è un’inchiesta della Procura antimafia di Napoli a scuotere i sonni dei candidati che ce l’hanno fatta o che, magari, hanno visto sfuggire l’occasione per poco. Rischia di non finire mai la lunga notte delle elezioni regionali in Campania. Mentre la politica si divideva infatti tra veleni e faide sul caso della lista degli “impresentabili” offerta dalla commissione Antimafia, e soprattutto sulle scelte di merito e di metodo adottate dalla presidente , le indagini del pool napoletano coordinato dal procuratore aggiunto antimafia Giuseppe Borrelli e dal numero uno della Procura, Giovanni Colangelo, incrociavano - sotto silenzio, in modo del tutto autonomo, com’è ovvio che sia - le strade di alcuni dei candidati in lista nelle elezioni appena chiuse. Si tratterebbe di aspiranti consiglieri regionali per i due schieramenti principali, rispettivamente capitanati da Vincenzo De Luca, oggi neo governatore Pd, e da Stefano Caldoro, presidente uscente di centrodestra. Ma entrambi - va chiarito - non sono indagati. Pochi, ma preoccupanti casi. Forse tre, forse quattro. Le vicende più gravi, comunque, stando alle indiscrezioni raccolte da Repubblica, non sarebbero in alcun modo riconducibili a qualcuno dei nomi citati nella nota “black list” comunicata da Palazzo San Macuto. A dimostrazione che molti “imbarazzanti” sono, spesso, non solo candidabili ed eleggibili, ma anche non necessariamente già indagati o rinviati a giudizio per reati associativi, o “reati spia”, come la concussione o il riciclaggio. Circostanza che, naturalmente, carica la politica di responsabilità che le sono proprie e che dovrebbero essere esercitate a monte, assai più utilmente che a valle, quando appare più comodo ipotizzare l’inserimento di nomi inopportuni «a loro insaputa». L’inchiesta è riservata, tuttora coperta da segreto. Gli inquirenti avrebbero colto alcuni movimenti sospetti, alcuni contatti “allarmanti” tra alcuni di questi candidati - su cui ovviamente vige il più assoluto riserbo - e aree gravitanti intorno ad alcuni ben definiti e storici cartelli di camorra, di area napoletana e regionale. Difatti nulla trapela dai piani alti della Procura, e dagli uffici di Ros e carabinieri. Ma non vi sarebbero dubbi sul fatto che alcuni accertamenti hanno riguardato alcuni di quei nomi di aspiranti consiglieri: sia di centrodestra, sia di centrosinistra. Qualcuno è arrivato a conquistare il seggio, qualche altro non è stato eletto. Si tratterebbe di due filoni giudiziari, entrambi in mano alla Distrettuale antimafia peraltro scossa in questi mesi, per paradosso, da alte tensioni per la carenza di mezzi e la impossibilità di ottenere “tutele” per alcuni magistrati esposti a minacce e pericolo (proprio nel pomeriggio si è svolta una riunione tra i sostituti in Procura, su questo diffuso disagio). Due filoni scaturiti anche da pregresse indagini su vari clan, tra Napoli e Caserta. Due indagini, dunque. Una sarebbe centrata su uno scenario di concorso in associazione mafiosa con uno dei cartelli criminali di Gomorra. L’altro avrebbe per tema proprio il voto di scambio politico-mafioso, in un’altra area. Si tratta, in ogni caso, di accertamenti partiti 37

tempo addietro e che quindi nulla hanno a che vedere con quei nomi diffusi allo scadere del silenzio elettorale. Scenari che si ripetono. La notte campana non è ancora finita.

del 05/06/15, pag. 1/4 Il marcio è nel sistema degli appalti Paolo Berdini L’ordinanza del Tribunale di Roma con l’arresto degli amministratori pubblici e dei loro stretti collaboratori è un altro colpo micidiale alla credibilità delle istituzioni pubbliche. Dopo la prima ordinanza del dicembre scorso alcune tra le decine di persone implicate nelle intercettazioni furono sacrificate obbligandole alle dimissioni. Il presidente del consiglio della capitale d’Italia, un assessore e un presidente di Municipio furono fatti tornare negli spogliatoi nel disperato tentativo di perpetuare un sistema marcio. Sono finiti ugualmente in carcere insieme ai loro sodali, segretari particolari o dirigenti apicali nominati con la più disinvolta arbitrarietà da una «politica» che non ha più alcun contrappeso di potere nelle istituzioni e nella società. Se non vogliamo alimentare una tragica spirale di disaffezione civica – e le percentuali di voto alle recenti elezioni testimoniano proprio del profondo malessere che vive l’opinione pubblica — dobbiamo individuare le cause strutturali del morbo che ha infettato la Capitale e l’intero paese. Le democrazie vivono sull’equilibrio dei poteri istituzionali che sono chiamati alla direzione della cosa pubblica. Una malintesa cultura dell’autonomia della sfera politica su ogni altro aspetto della vita istituzionale si è invece affermata a scapito di ogni altro potere. Negli anni successivi a Tangentopoli venne infatti portata a termine una profonda riforma di cui oggi vediamo gli effetti e i sindaci eletti dal popolo hanno iniziato in base alle leggi a disarticolare la pubblica amministrazione ponendo a capo dei nodi fondamentali i propri fedeli adepti. È solo così che possiamo spiegarci perché un uomo come Odevaine sia riuscito a fare una carriera istituzionale fulminante che — dopo Veltroni e Zingaretti — lo ha portato fino al cuore dello Stato. Oggi basta essere dentro il cerchio magico del potente di turno e si può arrivare dove si vuole perché le regole lo permettono. È su questo passaggio epocale che dobbiamo indagare se vogliamo tornare a ristabilire l’etica della pubblica amministrazione. E qui tocchiamo il secondo elemento del disastro. Questo sistema politico autoreferenziale ha potuto decretare il trionfo o l’eclissi di importanti aziende di erogazione di servizi perché le scelte sono state compiute nella più assoluta discrezionalità. La Cooperativa 29 giugno e La Cascina, solo per fare due esempi romani, hanno costruito le loro fortune su questo. Decide il sindaco o un assessore che sale e chi scende nella scala economica e sociale. Così imprese sane, permeate dei valori di solidarietà sociale hanno lasciato il posto al malaffare. E quanto è stato scoperchiato nel sistema di affidamento dei servizi di accoglienza vale anche per gli affidamenti di appalti alle imprese, dalla manutenzione degli edifici pubblici a quella delle strade e così via. Pochi spregiudicati amministratori decidono durante le cene eleganti con Buzzi rigorosamente bipartisan chi beneficerà dei bilanci pubblici. Le imprese sane chiudono i battenti e lasciano il posto a chi aumenta a dismisura i costi delle opere. L‘infezione scoperchiata dalla seconda fase dell’inchiesta è così ramificata che riusciremo a debellarla solo se risaliamo alle radici del male. Non se ne vedono le premesse: il sindaco Marino continua nella sua solitaria opera di auto esaltazione con il solito refrain che «sta cambiando tutto». Una caricatura del renzismo non solo è inadeguato rispetto alla gravità del momento ma pure privo di riscontri. Non c’è persona normale che non veda 38

infatti il degrado della Capitale. E non basta. È il sindaco Marino ad aver voluto e (finora) ottenuto la candidatura di Roma alle Olimpiadi del 2024 quando è noto a tutti che sono stati gli eventi straordinari ad aver amplificato gli effetti della cancellazione delle regole. Il futuro della capitale viene affidato alla straordinarietà gestita da Giovanni Malagò. Per risollevare la capitale d’Italia dal baratro c’è invece da intraprendere la lunga strada della ricostruzione dello Stato ripristinando organi di controllo slegati da nomine politiche e adeguati contrappesi istituzionali. Ogni scorciatoia non farà che aumentare il degrado istituzionale.

del 05/06/15, pag. 18 Le cantonate sull’Antimafia di Bruno Tinti Nel nostro Paese politica e diritto sono come acqua e olio. Non si mescolano; al massimo, dopo essere stati sbattuti per bene, si emulsionano, pronti ad andarsene ognuno per conto suo appena è possibile. Ne sono prova le reazioni alla divulgazione della lista degli “impresentabili” redatta dalla Commissione antimafia. Da De Luca che denuncia la Presidente della Commissione per abuso in atti d’ufficio e la querela per diffamazione, perfetto esempio di abuso del diritto; a Cantone, uomo delle istituzioni, che dubita dell’opportunità della divulgazione dell’elenco perché incompleto, essendo presenti nelle liste elettorali molti altri “impresentabili”. Una Procura della Repubblica attenta dovrebbe indagare per calunnia De Luca. Quanto a Cantone, professionalmente attrezzato, il suo contributo alla gazzarra politica è incomprensibile. La Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno delle mafie e sulle altre associazioni criminali, anche straniere, è stata istituita dalla legge 19 luglio 2013, n. 87. L’art. 1, comma 1, lettera f), prevede che la Commissione ha il compito di “indagare sul rapporto tra mafia e politica, sia riguardo alla sua articolazione nel territorio e negli organi amministrativi, con particolare riferimento alla selezione dei gruppi dirigenti e delle candidature per le assemblee elettive, sia riguardo alle sue manifestazioni che, nei successivi momenti storici, hanno determinato delitti e stragi di carattere politico-mafioso”. Lo stesso articolo, alla lettera n), le attribuisce il compito di “svolgere il monitoraggio sui tentativi di condizionamento e di infiltrazione mafiosa negli enti locali e proporre misure idonee a prevenire e a contrastare tali fenomeni”. Dunque: indagare, prevenire e contrastare. Secondo la Commissione (costituita da rappresentanti di tutte le forze politiche) un buon sistema per adempiere a questi doveri è stato considerato il codice etico. Partiti politici, movimenti e liste civiche avrebbero dovuto impegnarsi a non candidare e comunque a non sostenere alle elezioni europee, politiche, regionali, comunali e circoscrizionali, candidati privi dei requisiti previsti dal codice. Analogamente persone del genere non avrebbero potuto essere designate per la partecipazione a organi rappresentativi e di amministrazione di enti pubblici. I requisiti sono noti: niente condanne né rinvii a giudizio né patteggiamenti né misure cautelari. All’unanimità (cioè tutti i partiti politici i cui rappresentanti componevano la Commissione, sono stati d’accordo), il codice è stato approvato. Il Codice etico contiene un articolo 4: “La Commissione, nell’ambito dei poteri ad essa conferiti e dei compiti previsti dalla legge istitutiva, verifica che la composizione delle liste 39

elettorali presentate dai partiti che aderiscono al presente codice corrisponda alle prescrizioni del codice stesso. Sicché, per via di una norma approvata da tutte le forze politiche, verificare la presenza di “impresentabili” nelle liste elettorali è un preciso dovere della Commissione antimafia; basta rileggersi l’art. 1, lettere f) e n), della legge istitutiva. E in effetti nemmeno la più fantasiosa delle critiche all’operato della Commissione ha contestato che questa verifica fosse doverosa. La bagarre si è accesa sulla divulgazione della lista: i compiti della Commissione sarebbero adempiuti quando, dopo una scrupolosa verifica circa la sussistenza dei requisiti imposti dal codice etico, l’identità di coloro che, pur essendone privi, sono candidati alle elezioni fosse seppellita in cassaforte. Non fosse tragico, sarebbe risibile. Ancora meno fondata l’altra critica: ci sono tanti “impresentabili”, non è giusto consegnare alla pubblica disapprovazione solo i 16 contenuti nella lista. Vero, la classe politica italiana è ben al di sotto dei limiti della decenza. Ma i compiti della Commissione sono stabiliti dalla legge. Gli “impresentabili” in senso tecnico sono quelli, e solo quelli, privi dei requisiti previsti all’art. 1 del codice di etico. Gli altri, i soliti noti, sta alla politica non presentarli. E l’ovvia circostanza che una politica impresentabile nel suo complesso si guardi bene dal fare pulizia al suo interno non vale certo ad abrogare un preciso dovere giuridico né a renderlo “inopportuno”. Per finire, è preoccupante che non ci si renda conto che legittimare ostracismi politici fondati su dossier privati, voci pubbliche, fatti “notori” non sostenuti da precisi elementi probatori previsti dalla legge, darebbe il colpo di grazia a una democrazia già profondamente inquinata.

del 05/06/15, pag. 5 Stefano Rodotà «Siamo di fronte a un doppio stato con poteri extralegali» Intervista. «Il doppio stato oggi è un modo consolidato di gestire il potere. Lo abbiamo visto all'opera all'Expo, al Mose, e in altre città. L'illegalità non è un fenomeno marginale, è centrale nella vita dello Stato» Roberto Ciccarelli ROMA «Davanti ai nostri occhi si è aperto un abisso che la parola corruzione descrive solo parzialmente – afferma Stefano Rodotà – Mafia Capitale conferma l’esistenza di un sistema parallelo che permette solo ai poteri criminali di approvvigionarsi alle risorse pubbliche per lucrare sugli immigrati, sui rom, su tutti coloro che andrebbero tutelati con la solidarietà pubblica e civile. La solidarietà si è capovolta in un’opportunità di arricchimento di un ceto che esercita poteri extralegali o del tutto extralegali». Come definire questo sistema parallelo alla politica “istituzionale”? Quando scoprimmo la P2 venne coniata l’espressione “Doppio stato”. A qualcuno sembrò un’espressione senza fondamento. I dati di fatto andavano invece in questa direzione. Mafia Capitale ci mette di fronte ad un doppio stato. E questo non è avvenuto solo a Roma. Il doppio stato oggi è un modo consolidato di gestire lo stato. Lo abbiamo visto all’opera all’Expo, al Mose, e in altre città. L’illegalità non è un fenomeno marginale, è centrale nella vita dello Stato.

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La sua è una visione inquietante, professor Rodotà, evoca tra l’altro gli aspetti più cupi della Prima Repubblica. Non sta esagerando? No, non lo credo affatto. Siamo di fronte ad una modalità istituzionale di gestione del potere parallela alla quella del potere ufficiale che ha finito per sovrastarla. Se misuriamo il rapporto tra il potere, le istituzioni e i cittadini con il metro tradizionale oggi non siamo più in condizione di descriverlo. Il metro di giudizio è affidato al sistema parallelo. Questo rovesciamento è inquietante. Il presidente del Pd Orfini ha evocato i servizi segreti e si chiede perché non sono intervenuti per fermare Carminati. Sono sempre stato ostile alla logica delle deviazioni. In Italia abbiamo avuto la prova provata che i servizi hanno fiancheggiato fenomeni eversivi. Quelli erano un pezzo del doppio stato. In questo caso non mi sembra che ci sia una deviazione rispetto ad una normalità democratica. Sta invece emergendo un vero e proprio sistema di governo. Qual è la differenza tra Mafia Capitale e Mani pulite? Allora si diceva la corruzione che fosse funzionale all’attività di partito, e non ai singoli. Ammesso che questa spiegazione fosse giustificata, ciò che accade oggi dimostra che quel metodo è proseguito indipendentemente dai partiti. Oggi esiste una società che ha prodotto un autonomo sistema di «governo» che fa uso privato delle risorse pubbliche, sfrutta le persone e arriva a schiavizzarle. In Italia ci sono persone sono ridotte a oggetti produttivi di utilità per chi esercita un potere amministrativo, imprenditoriale, maschile. Questo sistema si è coagulato per sfruttare la nuda vita dei migranti. I diritti esistono solo se sono monetizzabili? È il lato più terribile di questa vicenda. I diritti non vengono impugnati per creare un’organizzazione sociale e praticare la solidarietà, ma sono lo strumento che riduce i migranti ad oggetti per spremerli al fine di un profitto personale. Questa torsione finisce per screditare i diritti. Questa catena dev’essere spezzata. Quali sono gli effetti di questa situazione sui cittadini? Un distacco drammatico rispetto alle istituzioni e ad un potere che si è fatto oscuro e minaccioso. L’effetto più visibile è quello dell’astensione dal voto alle ultime elezioni regionali che resta a mio avviso la chiave più significativa per interpretarlo. Il fatto che si rinuncia al voto deriva dalla constatazione che gli enti locali sono impotenti ad affrontare i problemi dei trasporti o il sociale. Ma credo che il distacco derivi fondamentalmente dal fatto che esiste un sistema parallelo che affianca quello istituzionale e poi se lo mangia pezzo per pezzo. Questa espropriazione della democrazia è diventata un elemento costituivo del sistema.

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RAZZISMO E IMMIGRAZIONE

del 05/06/15, pag. 4 Così funzionava il tariffario imposto da Odevaine per gli appalti nella gestione dei profughi. Non c’è colore politico a fare la differenza: soltanto affari. Intanto, dalla Puglia alla Sicilia, spuntano anche contatti con il ministero “Chiedi due euro al giorno per ogni migrante accolto” Le tangenti delle coop che speculavano sui centri MARIA ELENA VINCENZI ROMA . Le cooperative rosse e quelle bianche. Non conta il colore politico: quello dei migranti è un affare d’oro per tutti. Per chi si aggiudica la gestione dei centri e, soprattutto, per chi decide gli appalti. Un sistema rodato e un tariffario altrettanto rigido: dai 50 centesimi ai 2 euro al giorno di tangente per ogni profugo, da versare a chi assicura l’assegnazione. Lo sa bene Luca Odevaine, appartenente al tavolo di Coordinamento Nazionale sull’accoglienza per i richiedenti e titolari di protezione internazionale, ed ex vice capo di gabinetto di Walter Veltroni sindaco di Roma. Che con gli immigrati ci fa così tanti soldi da avere il problema di come investirli. L’ordinanza con cui ieri sono finite in manette altre 44 persone per la seconda tranche di Mafia Capitale mette il luce, ancora una volta, il giro lucroso che si nasconde dietro all’accoglienza. “UNO STIPENDIO PURE PER ME” È il 6 giugno 2014. Odevaine parla con Domenico Cammisa e Carmelo Parabita, entrambi indagati ed entrambi legati alla cooperativa “La Cascina”, considerata vicina a Comunione e Liberazione. I due sono interessati al centro di Mineo, sul quale l’ex capo di gabinetto sembra avere un controllo quasi totale. Odevaine è chiaro: «Questa volta, una volta nella vita, vorrei quantomeno non regalare le cose, insomma... almeno io da questa roba qua, visto anche che sto finendo di lavorare in Provincia (come capo della Polizia, ndr) e quant’altro, almeno ce vorrei guadagna’ uno stipendio pure per me... Secondo me, poi, alla fine, bisogna accordarsi su una cifra complessiva, considerando Mineo, considerando quello che sarà, San Giuliano, considerando quello che si muove intorno a Roma. Poi, una vola che abbiano stabilito una cifra, il come, troviamo la soluzione». E racconta al suo commercialista, Stefano Bravo: «Ti spiego l’accordo con “La Cascina” per i prossimi tre anni... Sono accordi che riguardano circa 50mila euro al mese... in teoria posso anda’ al mare». L’appalto per il C. A. R. A. di Mineo, d’altronde, «è blindato» come dice lui stesso. «È una gara finta». Tanto che ieri il presidente dell’Anticorruzione Raffaele Cantone ha scritto ad Alfano per avere chiarimenti su quell’assegnazione. I carabinieri del Ros hanno documentato almeno cinque episodi del passaggio di denaro da “La Cascina” a Odevaine: l’ultimo il 6 ottobre scorso quando Parabita gli consegna 15mila euro. “30MILA EURO AL MESE” Non va per il sottile Odevaine. Fa capire che vuole farci i soldi veri sulla questione. Ne parla con un suo collaboratore, Gerardo Addeo (indagato): «Adesso vedrò sinceramente sulla cifra da chiedergli... C’ho qualche... cioè non saprei, ti dico la verità, non saprei nel senso che su Mineo mi devono alzare la quota. Non dico raddoppiarla ma almeno, 42

insomma, il 50 per cento in più perché l’accordo su 10mila era quando erano 2.000 (i profughi, ndr), insomma la devo almeno ritoccare, almeno a 15, su San Giuliano (altro centro al quale “La Cascina” è interessata, ndr) gli chiederei 2 euro che sono all’inizio sui 500 perché si inizierà da 500, so’ 300 e... 32mila euro al mese e possono diventare 60 no?». Odevaine è convinto che un migrante valga almeno un euro al giorno. Come spiega anche il gip Flavia Costantini: «Individua il criterio di calcolo delle tangenti dovute in base al numero di immigrati ospitati nei centri, arrivando a prospettare un vero e proprio “tariffario per migrante ospitato”». Ancora, sempre l’ex vice capo di gabinetto, descrive l’accordo con Buzzi: «Allora con loro abbiamo fatto un altro tipo di accordo, perché io poi gli ho fatti avere altri centri, in Sicilia, in provincia di Roma e quant’altro, più o meno, stiamo concordando una cifra tipo come 1 euro a persona, ci danno, calcolando, che so, almeno un migliaio di persone, dovrebbero essere grosso modo un migliaio di persone, insomma sò 1000 euro al giorno quindi 30.000 euro al mese che entrano». “LA CASCINA” E I POLITICI (NCD) È sul C. A. R. A. di Castelnuovo di Porto che gli interessi delle coop bianche e di quelle rosse convergono. Anche perché l’affare vale 12 milioni di euro. La Cascina, sottobanco, si allea con il ras delle cooperative e braccio imprenditoriale di Massimo Carminati e, ovviamente, grazie ai loro contatti, riescono ad aggiudicarsi la gestione del centro. È proprio Buzzi a cercare l’accordo chiamando Francesco Ferrara della “Cascina” il 7 agosto scorso: « Famo un accordo io e te — gli dice — nun ce famo la guerra. Ce la dividiamo tra amici». Il business va in porto anche grazie alla corruzione del sindaco di Castelnuovo, Fabio Stefoni, ieri arrestato: aveva chiesto 50 centesimi a immigrato e il 10 per cento sull’intero affare. Ed è proprio per Castelnuovo che Odevaine comunica a Buzzi di aver agganciato il sottosegretario al ministero dell’Interno, Domenico Manzione. Racconta sempre Odevaine che “La Cascina” ha rapporti in particolare con Ncd. Nomina una serie di politici, tra i quali il ministro Angelino Alfano, l’ex ministro Maurizio Lupi e il sottosegretario all’Agricoltura, Giuseppe Castiglione. Immediata la replica del partito: «Cl non ha mai finanziato la nostra formazione politica ».

del 05/06/15, pag. VI (Roma) La Cascina &Co. le coop bianche nell’affare rifugiati Decapitati i vertici dell’impresa di Cl e di Domus Caritatis. “Il rosso”: Francè, nun se famo la guerra DANIELE AUTIERI SAPEVAMO del “nero”, Massimo Carminati. E del “rosso”, Salvatore Buzzi. Nessuno aveva pensato al “bianco”. E invece la smentita è arrivata ieri mattina all’alba, quando sulla mappa degli arresti tracciata dai carabinieri del Ros sono finiti i vertici della Cascina, la potente coop legata a Comunione & Liberazione, e della Domus Caritatis, una delle emanazioni dell’Arciconfraternina del Ss Sacramento e del Trifone. Il peccato ha un nome: il business corrotto dei centri per i rifugiati. Ma anche il peccatore. Anzi, i peccatori. Ai domiciliari sono finiti Domenico Cammisa ( ad della cooperativa di lavoro La Cascina), Salvatore Menolascina (ad del gruppo La Cascina), Carmelo Parabita (membro del cda della Cascina Global Service e del cda della Domus Caritatis), mentre il vice presidente del cda della Cooperativa di lavoro La Cascina nonché dirigente dell’Arciconfraternita, 43

Francesco Ferrara, è stato arrestato. La stessa sorte dei domiciliari è toccata al consigliere e vice presidente della Domus Caritatis, Tiziano Zuccolo. Alla base ci sono i soldi. Tanti soldi: 10.000 euro al mese, quelli promessi da Cammisa, Ferrara, Menolascina e Parabita a Luca Odevaine (guida del tavolo di coordinamento nazionale sull’accoglienza per i richiedenti asilo) per favorire l’affidamento alla Cascina della gestione del Cara di Mineo. Aumentati fino a 20mila dopo l’aggiudicazione della gara, il 7 aprile del 2014. Non solo: insieme a Buzzi gli uomini della cooperativa si organizzano per spartirsi i 10 milioni di euro del bando indetto il 30 giugno 2014 dalla Prefettura di Roma per accogliere nella Capitale 1.278 più altri 800 immigrati richiedenti asilo collegati al Cara di Castelnuovo di Porto. La prova di un accordo criminale è tutta nelle carte. Il 7 agosto del 2014 Buzzi telefona a Francesco Ferrara. «Oh Francè – si spiega il “rosso” – ho pensato una cosa per evitare squilibri. Facciamo un accordo io e te. Io 1.000 e tu 1.100. Se vinco io te li ridò, se vinci tu me li ridai. Non se famo la guerra». Accordi sì, ma non vitali. Perché la Cascina vive di luce propria. Pochi mesi fa il gruppo finisce nell’inchiesta sulle grandi opere che porta alle dimissioni l’ex-ministro delle Infrastrutture Maurizio Lupi. E da quelle carte emergono alcuni pagamenti poco chiari fatti dalla Domus Caritatis alla Capa srl di Francesco Cavallo, il faccendiere vicino a Comunione & Liberazione e fidatissimo dell’ex-ministro. Del resto, anche la Domus Caritatis e il suo direttore Tiziano Zuccolo si muovono con disinvoltura nel business dei rifugiati. Per l’assegnazione dei servizi di alloggio presso i residence di Valcannuta e Montecarotto, Zuccolo strappa appalti dal Comune in tandem con Daniele Pulcini. Tutto sulla base di un accordo che va rispettato . Parola di Buzzi che, intercettato, si sfoga con il vice presidente della Cascina Ferrara: «oh, mi raccomando, dì a Tiziano di sta’ fermo. Perché sai, Tiziano sente l’odore del sangue. È uno squalo ».

del 05/06/15, pag. VIII (Roma) “Per il Cara arriviamo fino al ministro” L’accordo di Buzzi e Carminati per il centro di Castelnuovo di Porto E il sindaco Stefoni finisce in manette FEDERICA ANGELI «CI STIAMO lavorando, guarda siamo arrivati fino al ministro». La questione immigrati è un chiodo fisso per Buzzi, Carminati e soci. E per ottenere l’apertura di un secondo Cara a Castelnuovo di Porto, in località Borgo del Grillo, fanno carte false. «Stiamo monitorando passo passo con il prefetto di Roma», dice Buzzi a un suo collaboratore, Flavio Ciambella, che lo aggiorna sugli eventuali ostacoli. Parlando del sindaco, Fabio Stefoni, il ras delle cooperative romane incalza il collaboratore. Abbiamo promesso di tutto «Gli abbiamo promesso di tutto, però la palla sta a Fabio (Stefoni, ndr ). Se Fabio volesse si aprirebbe in un’ora»; «Guarda io con Fabio ultimamente mi sono stretto molto, nel senso che abbiamo un bel rapporto», rassicura Ciambella. E Buzzi allora ordina: «Fagli fa’ questa richiesta al Prefetto e si apre in un secondo». La vicenda poi prende una piega buona per l’associazione. «È andata bene, eh, dovremmo essè terzi e hanno accettato Nerola e hanno accettato anche... Castelnuovo di Porto». Il 7 agosto 2014, appreso l’esito della gara indetta dalla prefettura di Roma per l’accoglienza di immigrati, il presidente della coop 29 giugno, Salvatore Buzzi, chiama Massimo Carminati. «Questa è una buona notizia », ammette l’ex

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Nar. E a Buzzi, che gli precisa «devono fà le verifiche comunque, eh rifaranno le verifiche a Nerola, a Castelnuovo...», Carminati replica pronto: «Eh sì, come no, ma adesso ci mettiamo in moto, mo adesso, poi domani mi spieghi come dobbiamo fà, tanto qui non va in vacanza nessuno amico mio, non ci frega più, eh! Non c’annamo noi, non ce vanno manco gli altri, eh, chi bello vuole apparire un poco deve soffrire, come si dice». Loro in vacanza La stessa sera i due si risentono. Buzzi ribadisce: «Semo stati proprio grandi oh». Carminati ammette: «Eh, siamo stati grandi sì, no grandi, grandissimi, grandissimi, ecco perché stiamo qua ancora... e tutti stanno in vacanza».

del 05/06/15, pag. 25 I PROFUGHI DELL’OCEANO INDIANO. L’ASEAN HA IGNORATO IL DRAMMA DEI ROHINGYA IN FUGA DA MYANMAR E ORA RISCHIA DI PERDERE CREDIBILITÀ Migranti come schiavi, la vergogna del Sudest asiatico Fuggono da povertà e discriminazione: decine di migliaia di persone ogni anno scappano da villaggi del Bangladesh e del Myanmar in cerca di un futuro che non sia già segnato. Per molti le speranze terminano in fondo all’Oceano indiano. Per moltissimi nei campi di schiavitù tra Malesia e Thailandia, dopo essere stati venduti e comprati in un mercato di esseri umani che coinvolge funzionari pubblici e militari. Secondo i dati forniti dall’Arakan project, un’associazione non governativa che monitora il fenomeno, in 68mila hanno sostenuto questo calvario nell’ultimo anno. Altre stime dicono 25mila da gennaio. Una tragedia. E un test sulla capacità di risposta ai problemi comuni dei dieci Paesi Asean e sulla loro credibilità agli occhi della comunità internazionale, anche degli affari: Indonesia, Thailandia, Malesia, Myanmar, Filippine, Singapore, Brunei, Vietnam, Cambogia e Laos sono tutti impegnati in un processo d’integrazione che entro la fine dell’anno farà un altro passo verso la creazione di una comunità economica (Aec) nella quale possano muoversi più liberamente investimenti, beni e in qualche misura il lavoro. Tra gli ambiziosi obiettivi dell’Aec, 625 milioni di abitanti e 2.400 miliardi di Pil, c’è anche un mini Schengen riservato ai lavoratori qualificati. Il paradosso - fa notare Wayne Arnold, opinionista del magazine finanziario Barron’s - è che mentre questi ultimi tendono a migrare in Paesi sviluppati fuori dall’Asean, i flussi intra-regionali più consistenti riguardano persone poco o per nulla qualificate, che sono già fondamentali per le economie più ricche dell’area, come la Malesia, dove vanno a coprire impieghi manuali e a bassa remunerazione che i locali non vogliono più. Qui come altrove (il parallelo con il dramma del Mediterraneo è inevitabile), le porte chiuse e la rinuncia a gestire questa migrazione, ritratta perlopiù come minaccia attraverso le lenti del populismo, finisce per alimentare un circuito di clandestinità e illegalità che sconfina nello sfruttamento se non nella pura e semplice schiavitù. La sorte peggiore tocca come sempre ai più deboli, che in questa parte del mondo si chiamano rohingya, la minoranza musulmana e negletta del Myanmar, oltre un milione di persone concentrate nello stato del Rakhine. La maggioranza buddista e le istituzioni birmane rifiutano perfino di chiamarli con il loro nome e li considera immigrati indesiderati dal vicino Bangladesh, dove ce ne sono

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altri 200mila in campi profughi. Nemmeno il Nobel della pace Aung San Suu Kyi ha mai preso apertamente le loro difese. Solo nelle ultime settimane, almeno quattromila persone sono state tratte in salvo sulle coste di Thailandia, Indonesia e Malesia. Mercoledì, il Myanmar ha finalmente tratto in salvo oltre 700 persone, dopo averle lasciate alla deriva per giorni. Senza fornire numeri precisi, le autorità locali hanno ammesso di aver scoperto dozzine di campi di prigionia al confine tra Thailandia e Malesia, con gabbie e centinaia di cadaveri sepolti nella giungla in quelle che somigliano a fosse comuni. Chi sopravvive a questi lager, nel migliore dei casi viene restituito alle famiglie dietro riscatto. Altrimenti finisce a lavorare in condizioni di schiavitù, arricchendo chi tira le fila della tratta e chi chiude gli occhi anziché fermarla: le indagini in Thailandia hanno portato a decine di arresti, compreso un generale a tre stelle. L’Onu stima che almeno 2mila persone siano ancora alla deriva: con i riflettori puntati addosso e il giro di vite finalmente avviato da Bangkok, i trafficanti li hanno abbandonati in mare. «Finché questo fenomeno persiste - commenta Arnold - è un mistero come l’Asean possa sperate di tutelare tutti gli altri migranti, qualificati o meno, dal subire abusi in Paesi dove hanno poca o nessuna tutela». La tragedia porta al pettine il più controverso nodo di un’associazione che tiene insieme democrazie in fieri, regimi autoritari e giunte militari, sulla base del postulato della non ingerenza. Così, dopo essersi guardati per decenni dal criticare apertamente il regime del Myanmar (ma pochi nel gruppo avrebbero avuto le carte in regola), i partner Asean ora assistono silenti alla repressione dei rohingya, privati dei diritti di cittadinanza e ridotti in condizioni di apartheid. Si stima che oltre la metà delle decine di migliaia di disperati che ogni anno tentano l’esodo nella regione appartenga a questa etnia. Per anni indifferenti al problemi, Indonesia e Malesia hanno ora concesso timide aperture sul fronte dell’accoglienza, ma il summit d’emergenza, convocato a Bangkok il 29 maggio per coordinare una risposta comune, si è chiuso senza nemmeno contemplare la parola rohingya nelle dichiarazioni finali. Gianluca Di Donfrancesco

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DIRITTI CIVILI E LAICITA’

del 05/06/15, pag. 1/35 Etero o gay il vero amore non ha bisogno di essere curato MICHELA MARZANO MENTRE nella cattolicissima Irlanda sono stati una valanga i “sì” al matrimonio gay, in Italia, tutto resta terribilmente immobile. Anzi, forse peggiora. Come se il riconoscimento progressivo della necessità di rispettare ognuno di noi per quello che è, fosse intollerabile. E CHE lo sia per chi, invece di aprirsi alla tolleranza, utilizza la fede per imporre a tutti un rigido “dover essere”. Non solo allora, dopo il referendum, si è dovuto assistere al laconico commento del Cardinal Parolin, Segretario di Stato Vaticano, che non ha esitato a parlare di una “sconfitta dell’umanità”. Ma in questi giorni sembra anche tornare in auge l’assurda idea della possibilità di guarire dall’omosessualità. «Lasciatevi aiutare dal Signore. Voi non siete gay, ma solo persone con un problema», si sente dire al Centro di Spiritualità Sant’Obizio, come ha raccontato Repubblica. L’omosessualità come una malattia da sradicare, una ferita da curare, un problema da risolvere. Per poter così tornare alla normalità, ripristinando la mascolinità e la femminilità. Ma di che cosa stiamo parlanzioni esattamente? Chi dovrebbe guarire esattamente da cosa? Perché ormai lo sappiamo bene che l’omosessualità, esattamente come l’eterosessualità, è solo un orientamento sessuale. È un modo di essere e di amare. Qualcosa che non si sceglie, non si cambia, non si cura. Perché non c’è niente da cui guarire o da curare. C’è solo qualcosa da riconoscere e accettare. Qualcosa che fa parte della propria identità, quella con la quale prima o poi tutti dobbiamo fare i conti, anche quando ci sono cose che vorremmo che fossero diverse, cose che magari non sopportiamo di noi stessi, cose con le quali, però, non possiamo far altro che convivere. Ma questo, appunto, riguarda sia gli omosessuali, sia gli eterosessuali. Senza che qualcuno venga a spiegarci che, da bambini, qualcosa non ha funzionato. Un padre distante o una madre assente. Un padre severo o una madre assillante. Tanto, quando eravamo bambini, sicuramente qualcosa non ha funzionato per ognuno di noi. E non è colpa di nessuno. È la vita. E così che vanno le cose. E, in fondo, va bene. A patto che non ci sia poi chi, senz’altro con le migliori intendo — ma, si sa, è l’inferno che è lastricato delle migliori intenzioni — non intervenga per farci sentire colpevoli, aggiungendo così ulteriore sofferenza alla sofferenza che, forse, si è già vissuta. Ancora una volta indipendentemente dal fatto che siamo omosessuali o eterosessuali. «La guarigione dipende da quanto si apre il nostro cuore a Gesù», dicono ancora i leader del gruppo Lot di Sant’Obizio. Ma chi lo chiude il proprio cuore a Gesù? Chi non fa altro che prendere atto di ciò che è e di chi ama — chiedendo agli altri rispetto, accettazione, riconoscimento e diritto di esistere così com’è — oppure chi decide che non va bene, che si deve cambiare, che ci si deve sforzare, che basta un piccolo sacrificio e poi tutto torna a posto? Difficile accettarsi quando intorno a noi c’è solo commiserazione. Difficile persino raccapezzarsi con le parole che si trovano nel Vangelo, dove in fondo è sempre questione di inclusione e di carità, quando si sentono invocare, nel nome della fede, la “sconfitta dell’umanità” o l’“abominio” della propria malattia. Anche se, ovviamente, non c’è proprio nulla da riparare o da correggere. A parte forse lo sguardo giudicante di chi, dimenticando persino la pietà, ci chiede di essere diversi da quello che siamo.

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BENI COMUNI/AMBIENTE

del 05/06/15, pag. 13 La sfida verde del Papa In campo con l’enciclica per “custodire il creato” Nell’anno dei grandi vertici sull’ambiente, arriva la voce della Chiesa Il 18 giugno Bergoglio pubblicherà il documento ufficiale su clima e cibo vvsdfsdf df sdfsdf Andrea Tornielli Sarà pubblicata il 18 giugno l’enciclica di Papa Bergoglio dedicata alla custodia del creato. Lo ha annunciato ieri la Sala Stampa della Santa Sede. Il titolo, che solitamente corrisponde alle prime parole del testo latino, questa volta potrebbe essere in italiano, e riprendere l’espressione «Laudato si’», tratta dal Cantico delle Creature di san Francesco d’Assisi, come ha anticipato il direttore della Libreria Editrice Vaticana don Giuseppe Costa. Quello della custodia del creato è un tema che sta molto a cuore a Papa Francesco. Due espressioni si ritrovano di frequente nei suoi interventi. La prima Bergoglio l’ha sentita dire da un anziano contadino, molti anni fa: «Dio perdona sempre, le offese, gli abusi, Dio sempre perdona. Gli uomini perdonano a volte. La terra non perdona mai!» e dunque «bisogna custodire la sorella terra, la madre terra, affinché non risponda con la distruzione». La seconda: «La terra non è un’eredità che noi abbiamo ricevuto dai nostri genitori, ma un prestito che fanno i nostri figli a noi, perché noi la custodiamo e la facciamo andare avanti per riportarla a loro. La terra è generosa e non fa mancare nulla a chi la custodisce. La terra, che è madre per tutti, chiede rispetto e non violenza o peggio ancora arroganza da padroni. Dobbiamo riportarla ai nostri figli migliorata, custodita, perché è stato un prestito che loro hanno fatto a noi». L’essere umano al centro Lo sguardo di Francesco sulle tematiche ambientali non parte da visioni ideologiche, come quella che considera l’uomo come il problema del pianeta e auspica politiche di riduzione della popolazione e decrescita. Il punto di partenza rimangono le parole del Libro della Genesi, «dove si afferma - ha spiegato Francesco nel giugno 2013 in occasione della Giornata Mondiale dell’Ambiente - che Dio pose l’uomo e la donna sulla terra perché la coltivassero e la custodissero». Con l’essere umano al centro. E questo coltivare e custodire «è un’indicazione di Dio data non solo all’inizio della storia, ma a ciascuno di noi; è parte del suo progetto; vuol dire far crescere il mondo con responsabilità, trasformarlo perché sia un giardino, un luogo abitabile per tutti». La salvaguardia del creato, la cura per l’ambiente, non può dunque essere disgiunto da quella che il Papa chiama «ecologia umana». La crisi attuale non è solo economica, o solo ambientale, ma è una crisi etica e antropologica: «La vita umana, la persona non sono più sentite come valore primario da rispettare e tutelare» e si finisce per porre al centro «l’idolatria del denaro». «Vorrei che prendessimo tutti il serio impegno di rispettare e custodire il creato, di essere attenti ad ogni persona, di contrastare la cultura dello spreco e dello scarto, per promuovere una cultura della solidarietà e dell’incontro». Le critiche

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L’enciclica «verde», che ha già suscitato le critiche preventive di alcuni ambienti politici statunitensi, toccherà dunque il tema della «inequità» nell’accesso e nella distribuzione delle risorse, ad esempio l’acqua nel continente africano. Parlerà del problema della fame, dello spreco del cibo, dell’«avido sfruttamento delle risorse ambientali» che «rappresenta una ferita alla pace nel mondo». Come pure dei danni causati dal riscaldamento globale, dal disboscamento, dall’inquinamento ambientale. Sarà anche un’enciclica «ecumenica», che vedrà valorizzate le parole del Patriarca di Costantinopoli, Bartolomeo I. Qualcuno aveva persino ipotizzato potesse essere promulgata con firme congiunte dei due leader cristiani: non è stato possibile, ma il messaggio ambientalista del Patriarca ortodosso dovrebbe trovare spazio nel testo dell’enciclica «Laudato si’».

del 05/06/15, pag. 17 Agrigento, è impossibile demolire le case abusive nella valle dei Templi Le sentenze ignorate da Comune, Soprintedenza ed ente parco. La Procura lancia l’ultimatum Fabio Albanese Alla fine la Procura ha dovuto metterlo nero su bianco: «O cominciate le demolizioni delle case abusive nella Valle dei Templi o vi denunciamo». Non c’era evidentemente altra strada per bloccare un rimpallo di responsabilità tra il comune di Agrigento, con il suo Ufficio tecnico, la Sovrintendenza ai beni culturali e ambientali e l’Ente Parco archeologico e paesaggistico che da mesi, ognuno per sè, rispondono ai pm che la responsabilità delle demolizioni non è loro ma di qualcun altro. La diffida Così la scorsa settimana il procuratore aggiunto Ignazio Fonzo ha inviato ai tre enti una lettera-ultimatum: «In assenza di precise, circostanziate e dettagliate risposte principalmente esecutive alle richieste provenienti da questa Autorità Giudiziaria, si dovrà procedere a carico dei responsabili di codesti uffici che, con perdurante ostinato ritardo, impediscono il ripristino della legalità nella zona del Parco Archeologico della Valle dei Templi, interessata dalla presenza di manufatti abusivi per i quali è stata disposta, con sentenza divenuta irrevocabile, la demolizione». O vi mettete d’accordo e agite subito o passate i guai, è insomma il messaggio. Che deve essere subito arrivato a destinazione se proprio ieri sia dal Comune sia dalla Sovrintendenza sono partite richieste di incontro con la procura già per la prossima settimana: «Conosco poco la vicenda e non ho ancora letto le carte - dice il neo sindaco Lillo Firetto, eletto domenica scorsa dopo un periodo di commissariamento del Comune - ma vogliamo collaborare». Firetto ha messo nella sua squadra di giunta Mimmo Fontana, presidente regionale di Legambiente che sull’abusivismo nella Valle dei Templi è stata sempre molto dura. Le ruspe dell’Esercito Nella «zona A», quella «intoccabile» della Valle dei Templi con i suoi 1300 ettari che custodiscono i resti di una delle più importanti colonie greche dell’intero Mediterrraneo e dal 1997 patrimonio dell’Umanità Unesco, ci sono ancora centinaia di costruzioni abusive sorte in varie epoche e molte, con sentenze oramai definitive, devono essere abbattute. Ci sono piccole seconde case degli agrigentini, ampliamenti di antiche costruzioni ma anche ville con piscina, alcune costruzioni sono recenti e non si può parlare di «abusivi per

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necessità». Ma finora le demolizioni sono state appena qualche decina; per alcune, una quindicina d’anni fa, ci vollero le ruspe dell’Esercito. Abusivismo e istituzioni Da queste parti il tema dell’abusivismo è sempre stato molto delicato e trattato con molta «parsimonia» dalle istituzioni. Tutta la provincia di Agrigento, con Licata e Palma di Montechiaro in prima fila, e parte della limitrofa provincia di Caltanissetta, con Gela, sono alle prese con gravi problemi di abusivismo. Perfino un ex sindaco di Agrigento incappò in un «infortunio» con una villa in «zona A». Alla Procura stanno lavorando su circa duemila fascicoli; per la sola Valle dei Templi ci sono 197 provvedimenti ormai definitivi, con ingiunzioni di demolizione e ripristino dei luoghi finora rimaste sulla carta: 52 riguardano privati ma 145 sono di competenza del Comune. La Procura ha inviato solleciti sin dallo scorso ottobre, finora inutilmente. Adesso è arrivata la diffida per il continuo balletto di responsabilità: «Si rimane stupefatti in ordine al diniego di competenze che codesti Uffici disattendono nonostante i precisi obblighi provenienti dalle leggi vigenti», scrive il procuratore aggiunto nella lettera a Comune, Sovrintendenza e Ente Parco. «E’ un’attività intrapresa da tempo - precisa il pm Ignazio Fonzo - che ha una importanza rilevante sia dal punto di vista sociologico sia dal punto di vista ambientale, e speriamo che arrivi presto il ripristino dei luoghi come sancito da sentenze passate in giudicato».

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INFORMAZIONE

del 05/06/15, pag. 7 Emittenza televisiva. Passa al Mise il compito di determinare i diritti d’uso Tv, i canoni delle frequenze legati al valore di mercato ROMA Nel decreto comunicazioni, che il Governo dovrebbe approvare la prossima settimana, un capitolo è dedicato all’emittenza televisiva. Un articolo riguarderà i contributi per i diritti d’uso delle frequenze televisive. L’uso e la valorizzazione delle frequenze sono da tempo un imperativo per gli Stati nazionali. Lo devono fare seguendo le regole fissate a livello mondiale dall’ITU. L’Italia, negli ultimi venti anni, ha permesso un uso delle frequenze da parte delle emittenti televisive al di fuori delle regole internazionali, utilizzando, tra l’altro, anche quelle destinate ai paesi confinanti. Oltre a non attuare e non rispettare i Piani di assegnazione analogici nè quello digitale approvati nel corso del tempo dall’Agcom. Ora dobbiamo rientrare nei confini mondiali, siglare accordi bilaterali con i paesi confinanti, iscrivere finalmente le frequenze italiane nel registro di Ginevra dell’ITU. E, finalmente, far vedere a tutti gli italiani la televisione digitale, senza i disturbi e le interferenze dovuti a una transizione dall’analogica contrassegnata da assegnazioni “a cascata”, senza rispettare il Piano dell’Agcom nè la ripartizione internazionale dell’ITU. Un passo in avanti, se diverrà legge, è costituito dal testo sui diritti d’uso. Si assegna il compito di determinarli al Ministero dello Sviluppo e non più all’Autorità per le comunicazioni. A partire dal 2014, non a caso: nello scorso anno una delibera dell’Agcom, la 494, stabilisce nuovi criteri per i diritti d’uso delle frequenze, che, nei fatti, se attuati, avrebbero ridotto l’onere per i maggiori operatori nazionali e lo avrebbero aumentato per gli operatori nazionali minori e le tv locali. Il decreto fa proprie le osservazioni della Commissione Ue alla delibera, in particolare quando chiede contributi «obiettivamente giustificati, trasparenti, non discriminatori e proporzionati allo scopo perseguito», quello della gestione efficiente dello spettro e quello dell’assenza di distorsioni o restrizioni alla concorrenza. I nuovi canoni si baseranno sul valore di mercato delle frequenze (che dovrebbe essere stabilita dall’Agcom), con dei meccanismi che premieranno, con canoni inferiori, la cessione di capacità trasmissiva e l’uso di tecnologie innovative. Si vuole rendere più conveniente agli operatori integrati verticalmente - che sono sia operatori della rete digitale sia editori di contenuti - la cessione della capacità trasmissiva a terzi, sia a livello nazionale sia a livello locale. In modo coordinato, un altro articolo del decreto vuol far diventare legge il limite dei cinque multiplex digitali, imposto dalla Ue in occasione delle recenti “aste” (che tali poi non sono state) delle frequenze televisive. Non andrebbe dimenticato che un operatore con cinque reti digitali può, con le norme attuali, noleggiare capacità trasmissiva da terzi, incrementando il suo potere di mercato. Ad essere favoriti dai nuovi criteri dovrebbero essere quegli operatori, non collegati verticalmente ad emittenti televisive.

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Il nuovo “tetto” di cinque multiplex viene fissato con l’obiettivo di far chiudere la procedura d’infrazione aperta contro l’Italia per le normative che hanno impedito l’ingresso nella tv digitale a chi non aveva in uso frequenze analogiche. Un altro articolo del decreto punta a semplificare i criteri per l’assegnazione dei fondi all’emittenza radiotelevisiva locale. L’obiettivo è quello di “premiare” la qualità dei contenuti e dei programmi. Il problema è come calcolare e valutare tale “qualità”. Possono esserci requisiti oggettivi, come gli ascolti - ma Auditel rileva sono una parte delle tv locali - o gli occupati, compresi i giornalisti o anche l’uso di tecnologie innovative. Si tratta comunque di una svolta, già presente nella legge di stabilità, nei criteri scelti per assegnare la capacità trasmissiva di determinati multiplex agli editori televisivi locali. Marco Mele

del 05/06/15, pag. 12 Cookies, basta un clic per regalare i nostri dati Da pochi giorni tutti i siti chiedono il consenso a raccogliere preziose informazioni su quello che visitiamo on line per poi metterle in vendita Virginia Della Sala I dati personali seminati su Internet si vendono al chilo. O quasi. Secondo uno studio elaborato dal Financial Times, un mucchio informazioni su gusti e caratteristiche degli utenti costa pochi centesimi. Eppure, la raccolta dati online è un settore in crescita. Anche perché nel campo pubblicitario più informazioni si acquisiscono sul pubblico, più efficace è la campagna che potrà essere modellata sui bisogni del destinatario. Per questo motivo, le pubblicità online corrispondono quasi sempre alle ultime ricerche fatte sul motore di ricerca. O all’ultimo “Mi piace” cliccato su una pagina Facebook. Dal 2 giugno, però, quando ci si connette ai siti compare un banner: in una finestra, il titolare del sito chiede all’utente il permesso di poter usare i cookies, strumenti che registrano informazioni: creano un legame tra l’utente e il sito e permettono, ad esempio, di memorizzare le password sul browser (il programma che permette di navigare). Questo, almeno, è il ruolo dei cookie tecnici. Ci sono poi i cookies di profilazione. Si chiamano così perché creano profili e registrano preferenze, gusti e comportamenti digitali: dietro c’è qualcuno che raccoglie questi dati, li organizza e li trasforma in beni di mercato. Per farlo, serve l’autorizzazione dell’utente. Con la nuova norma, che recepisce una direttiva comunitaria e che mira a proteggere la privacy di chi naviga, chi gestisce i siti deve creare una pagina che spieghi nel dettaglio quali cookie sono utilizzati, che chieda l’autorizzazione al loro uso, fornisca un collegamento all’informativa. Anche se i cookie sono erogati da terze parti, ovvero da agenzie pubblicitarie che gestiscono le inserzioni nel sito. “È un modo per tenere sotto controllo la profilazione – spiega Nicola Bernardi, presidente di Federprivacy – Si rilevano anche dati sensibili, dalle abitudini sessuali all’orientamento politico, allo stato di salute. E questi dati hanno un valore economico: sono un patrimonio per le aziende”. Si stima che i dati degli utenti dell’Ue, nel 2020, raggiungeranno un valore commerciale pari a mille miliardi di fatturato. Gli interessi economici sono molti. A gennaio Google ha 52

investito un miliardo di dollari per la creazione di un nuovo data center in Iowa (un luogo fisico con le macchine per archiviare i dati), facendo salire a 2,5 miliardi il valore totale del progetto complessivo. Inoltre, con la nuova legge, l’invio di cookie di profilazione a utenti che non abbiano dato il consenso prevede una multa dai 10 mila ai 120 mila euro. “In Gran Bretagna – spiega ancora Bernardi – il commercio online vale quasi 100 miliardi e le aziende si avvalgono di privacy officer, analisti che sanno fino a che punto sfruttare i cookies senza rischiare sanzioni”. E se da un lato il nuovo regolamento permette di negare l’acquisizione dei propri dati, dall’altro renderà più facile il loro lo scambio. “Anche prima non si poteva iniziare un’operazione di acquisizione dati e profilazione senza il consenso – spiega Guido Scorza, avvocato esperto di diritto informatico – ora, la norma potrebbe rendere più complicata la vita alle società che fanno questo lavoro perché si deve creare la struttura informativa, ancora prima di installare i cookie. E se l’interessato nega il permesso, quei dati non possono essere neanche raccolti”. Non si può escludere che finora i siti già profilassero gli utenti anche senza autorizzazione. I dati raccolti, però, non potevano essere utilizzati allo scoperto, nè ceduti, nè venduti. “Ora, in teoria, potrebbero essere acquistati e venduti più facilmente perché saranno stati acquisiti con il consenso”. Non mancano le polemiche. “Chiudendo questo banner, scorrendo questa pagina o cliccando qualunque suo elemento acconsenti al loro impiego”, si legge sulle apposite strisce. Quasi nessuno, però, legge il contenuto del banner: lo si ignora o lo si chiude per continuare la navigazione. “Imporre queste regole assurde favorirà chi traccia – scrive invece sul suo blog Gianluca Diegoli, promotore della campagna #bloccailcookie – La battaglia doveva essere sul default del browser, imposto a Google, Apple, Microsoft: niente tracciamento di terze parti”. Tradotto: questo banner dovrebbe essere gestito dalle multinazionali del web che offrono i servizi e non dai blogger o dai gestori dei siti che, magari con una piccola pubblicità inserita attraverso un’agenzia, guadagnano 5 euro al mese. E non possono permettersi di versarne 150 al Garante della Privacy per “spese di segreteria”. Nè rischiare, come prevede la legge, una multa tra i 6 mila e i 36 mila euro per non aver inserito il banner. Anche perché non è detto che abbiano le competenze tecniche per farlo.

del 05/06/15, pag. 13 Renzi tiene buoni i giornali: prorogato il regalino milionario L’obbligo di pubblicare gli avvisi legali doveva finire nel 2016 e invece resta di Carlo Di Foggia E sono due. A Matteo Renzi proprio non va di avere rogne con gli editori, meglio tenerli sotto scacco. Due righe inserite nella legge delega per la riforma del codice degli appalti e i giornali continueranno a vedersi assegnare gli oltre 100 milioni e spiccioli che il premier aveva provato a sfilargli cancellando l’obbligo per gli enti pubblici di pubblicare bandi e avvisi di gara sui quotidiani. Andiamo con ordine. Renzi l’aveva promesso a metà aprile 2014, durante la conferenza stampa per il decreto Irpef (quello dei famosi 80 euro): gli avvisi che segnalano i bandi di 53

gara verranno pubblicati solo sui siti web delle amministrazioni appaltanti (e in Gazzetta Ufficiale), e così – spiegò il premier illustrando l’apposita slide – lo Stato “risparmierà 120 milioni di euro l’anno”. Apriti cielo. Editoriali allarmati, le proteste della Fieg – la federazione degli editori – e un pressing sotterraneo convinsero Palazzo Chigi a tornare sui suoi passi, rinviando il passaggio all’online al 2016. Per la verità, tra gli addetti ai lavori nessuno credeva che il premier sarebbe andato davvero fino in fondo, sfidando gli editori. In molti lo interpretarono alla stregua di un’intimidazione ai grandi giornali, che da questo capitolo incamerano introiti notevoli. Come che sia, la partita venne rinviata al primo gennaio 2016 con un emendamento in extremis, che ha trasformato il tutto in una spada di Damocle sui conti degli editori. Almeno così sembrava. Invece non cambierà nulla anche dopo la fine dell’anno grazie a un emendamento alla legge delega approvato in Commissione lavori pubblici al Senato (arriverà in aula la prossima settimana), e firmato dai relatori Stefano Esposito (Pd) – che lo ha difeso ha spada tratta anche in Bilancio – e Lionello Marco Pagnoncelli (Fi). Il testo impone al governo di rivedere la disciplina “in modo da fare ricorso principalmente a strumenti di pubblicità di tipo informatico”, ma in ogni caso “di prevedere la pubblicazione degli stessi avvisi e bandi in almeno due quotidiani nazionali e in almeno due quotidiani locali, con spese a carico del vincitore della gara”. Quello che avviene tuttora. Una boccata d’ossigeno per i bilanci in sofferenza delle concessionarie di pubblicità. Ad aprile 2014 il governo quantificò la spesa per le casse pubbliche in 120 milioni di euro. Cifra poi ridimensionata dalla Ragioneria dello Stato che nella relazione tecnica parlò di 75 milioni visto che, grazie a un decreto del governo Monti, a partire dal gennaio 2013 i costi di pubblicazione vengono rimborsati alle stazioni appaltanti dai vincitori delle gare. La cifra, in realtà sarebbe ancora più bassa, ma molti appalti sono stati banditi prima del termine fissato dalla norma Monti. Un elemento rimarcato negli accorati appelli a mezzo stampa. Tradotto: a che serve il web, tanto pagano i privati. Nel gergo tecnico si chiama “pubblicità legale” e in questi anni di crisi è la tipologia che è calata meno. Se l’inserzionista è lo Stato, infatti, i super-sconti che le concessionarie sono costrette ad applicare ai privati non servono. Tanto i costi vengono scaricati sugli aggiudicatari e chi vince una gara da milioni di euro non si lamenta certo per qualche migliaia speso in pubblicità. In pratica, una tassa occulta, che però per i piccoli appalti, soprattutto se poco appetibili, rischia di essere inserita nella base d’asta, facendo rientrare dalla finestra l’addebito a carico dello Stato che sembrava uscito dalla porta. Nel 2014 le concessionarie hanno incassato dalla “pubblicità di servizio” circa 110 milioni di euro (erano 86 nel 2013). Quella riferita agli avvisi legali è un po’ più bassa perché nel conto totale vengono considerati altri tipi di pubblicità “istituzionale”: decisioni giudiziarie, aste (che continuano a essere pubblicate sui giornali locali nonostante i tribunali mettano tutto online), iniziative turistiche, culturali etc. La cifra esatta di tutte le tipologie di “aiuti” statali all’editoria è difficile da calcolare, ma di certo il finanziamento pubblico diretto (circa 50 milioni nel 2013) è solo un fetta di una torta più grossa. Ad avvantaggiarsene sono soprattutto i grandi gruppi, quelli in grado di avere una diffusione capillare grazie ai quotidiani locali. Ad aprile 2014, quando Renzi minacciò sfracelli, oltre agli editoriali, perfino una Regione, la Puglia, chiese al premier di cambiare idea. La partita è stata gestita dal fido Luca Lotti, sottosegretario a Palazzo Chigi con delega all’editoria e vero uomo ombra del premier, che per diversi mesi ha avuto in mano una formidabile arma di pressione sui giornali. Sullo sfondo, la sorte di molte testate e centinaia di lavoratori. Eppure già una legge del 2009 stabilì che, dal gennaio 2010, gli obblighi di pubblicità legale dovessero essere “assolti dal web”. La protesta degli editori – secondo cui solo l’un

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per cento di chi partecipa alle gare le consulta sul web – è riuscita a spostare la partita fino a oggi. E oltre.

del 05/06/15, pag. 13 Area/Audionews, una storia italiana di Marco Palombi Il numero chiave in questa storia è il 7. Ai giornalisti e ai dipendenti della cooperativa Area e del service Audionews manca lo stipendio da 7 mesi. Non solo: i secondi hanno pure scoperto che il Tfr devoluto alla previdenza complementare non viene versato da 7 anni. Oggi fanno un sit-in a piazza del Gesù, a Roma, che fu sede della Dc e ora, più modestamente, ospita appunto Area. Una crisi aziendale come altre cento, si potrebbe obiettare, e pure piccola: una quarantina di giornalisti fino a poco tempo fa, numero ora sceso perché lavorare gratis, come si sa, incentiva l’esodo. Non è solo una crisi aziendale, però, visto che la cooperativa Area ha percepito in questi anni i fondi pubblici per l’editoria: 330mila euro l’anno scorso (a valere sul 2013), oltre 8 milioni tra il 2004 e il 2012. Ma cos’è Area? È un’agenzia radiofonica che produce e trasmette notiziari audio per circa 200 emittenti italiane. Insomma, pochi conoscono il nome, ma moltissimi hanno ascoltato le voci dei suoi cronisti e le notizie che produce: solo i grandi network come Radio24 producono da soli i loro tg, per tutti gli altri c’è Area. Il valore della produzione, al dicembre 2013, era di oltre sei milioni di euro (in drammatico calo), mentre crescevano le passività. Nella galassia Area, poi, fino a tre anni fa c’era pure Radio Città Futura, cooperativa editoriale pure lei: stesso indirizzo, stessa sede, incroci di parentele e amicizie tra i soci e i lavoratori, spesso dipendenti condivisi (l’attuale direttore di Rcf è l’ex direttore di Area). Anche Radio Città Futura ha incassato le sue provvidenze pubbliche e con più abbondanza essendo ufficialmente l’organo di un movimento politico: dal 2004 al 2012 circa 16 milioni come “voce” del “Movimento Roma Idee”, che vede tra le sue file Goffredo Bettini, kingmaker delle amministrazioni Rutelli e Veltroni, e Luca Zingaretti, governatore del Lazio. Niente di male, tutto a norma di legge. Peraltro gli affari, per anni, sono andati bene. A tal punto che è stato necessario allargarsi: nel ’98 viene creata allora Audionews, un service che lavora solo con Area. In sostanza una dependance della casa madre che presenta vari vantaggi per i soci della coop: si può assumere il personale necessario a star dietro ai nuovi clienti senza intaccare il rapporto tra soci lavoratori e soci di capitale (i primi devono essere più della metà della forza lavoro); le spese per i service possono essere rimborsate; si risparmia sul costo del lavoro visto che dal 2000 c’è il contratto Aeranti Corallo (l’associazione delle imprese radio-tv), molto più conveniente di quello giornalistico. Non proprio un comportamento da cooperativa, ma anche qui: tutto legale. Tutto va più o meno bene finché non arriva la crisi e iniziano i tagli al Fondo editoria di Palazzo Chigi (oggi lo gestisce Luca Lotti): la cosa avvenne retroattivamente per cui molte imprese – fra cui Area/Audionews – si trovarono a dover fare a meno di cifre già messe a bilancio. Entro il 2012, il contributo era stato falcidiato del 70%. È più o meno da allora che cominciano i problemi con gli stipendi: ritardi, anticipi, rincorsa agli arretrati, taglio dell’integrativo e dei ticket. Le strategie per venirne fuori, però, non si vedono, se si eccettua la separazione formale tra Radio Città Futura e Area, che probabilmente ha finito per peggiorare la 55

situazione. Nel 2013, in compenso, ai giornalisti di Audionews arriva una lettera che spiega che dal lontano 2007 i loro contributi al fondo per la previdenza complementare non vengono versati. Ora non arrivano nemmeno gli stipendi e la ventina di dipendenti non può nemmeno accedere alla Cassa integrazione, né al Fondo Inps per recuperare tre mesi di stipendio e un po’ di Tfr: per quello bisognerebbe dichiarare fallimento e invece Audionews è in liquidazione, dopo essere stata venduta nonostante un bel carico di debiti (compresi quelli con l’erario). Socio al 50%, adesso, è un signore che sembra risiedere in una pescheria di Ladispoli, ma nelle sedi ufficiali continua a presentarsi l’ex amministratore unico Giovanni Cialone, che poi è pure nel cda di Area. Audionews sembra la bad company in cui sono stati scaricati debiti e passivi per ripartire quasi vergini quando i cordoni della borsa di Palazzo Chigi torneranno ad aprirsi. All’uopo è già stato fondato un service che sembra destinato a sostituire quello lasciato a se stesso: si chiama E-news e l’amministratore unico è sempre Cialone.

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SCUOLA, INFANZIA E GIOVANI

del 05/06/15, pag. 6 Fiaccolate, cortei e notti bianche contro il Ddl Renzi La vera scuola. In piazza in cento città. Oggi la manifestazione a Roma da Colosseo a piazza Farnese. Mineo (Pd): «Né io nè Tocci accetteremo la sostituzione nella commissione cultura al Senato» Roberto Ciccarelli Cento piazze contro il Ddl Scuola di Renzi e del Pd. Attenuata la calura estiva, i sindacati Flc-Cgil, Cisl Scuola, Uil Scuola, Snals Confsal e Gilda Unams che hanno organizzato lo sciopero generale del 5 maggio contro il governo, oggi organizzano da Nord a Sud fiaccolate, cortei, flash mob. A Roma ci sarà una «Notte Bianca» a piazza Farnese al termine del corteo che parte dal Colosseo alle 17,30. Alla manifestazione parteciperanno anche i Cobas. L’Unicobas organizza un sit-in a piazza delle Cinque Lune, piazza Navona. L’iniziativa si chiama «La cultura in piazza» e chiede un cambiamento radicale del testo in discussione nella commissione istruzione al Senato. Il testo «peggiora la qualità della scuola pubblica, non risolve il problema del precariato, afferma logiche autoritarie e incostituzionali nella gestione organizzativa delle scuole, mette in discussione diritti e libertà e cancella la contrattazione. In altre parole: realizza tutto meno che una buona scuola». «Non bastano piccoli aggiustamenti rispetto a un impianto inaccettabile e incostituzionale in molte parti – sostiene Domenico Pantaleo (Flc-Cgil) — I veri conservatori sono quelli che hanno scritto il testo di legge e pensano a una scuola sempre più disuguale con meno libertà, democrazia e diritti». L’ipotesi di «restyling» del Ddl, avanzata dalla ministra dell’Istruzione Giannini, viene giudicata di «cattivo gusto» dalla segretaria della Cgil Susanna Camusso — «Le nuove generazioni — spiega la leader del sindacato — hanno bisogno di un obbligo scolastico più lungo, non più breve. La dispersione scolastica sta aumentando in tutte le zone critiche del Paese e cresce con una dinamica di classe: adesso abbandonano gli studi i figli dei disoccupati. La crisi impedisce a tante famiglie non di iscrivere i figli all’università ma persino di mantenere il ciclo scolastico secondario». Piero Bernocchi (Cobas) si sofferma sull’impatto politico che l’opposizione nella scuola ha prodotto sulle elezioni regionali. «Qualsiasi leader farebbe marcia indietro – afferma ma per il momento non sembrerebbe che questa elementare “saggezza” stia emergendo nel governo Renzi». La prossima settimana inizia lo sciopero degli scrutini, tranne che nelle classi dove si svolgeranno gli esami di terza media o di maturità. Si prevede un’altissima adesione tra i docenti e il personale Ata. Tutti i sindacati della scuola, con diverse modalità, lo stanno organizzando. La pressione su Renzi e il Pd resta fortissima e si sta riflettendo anche sulla composizione della maggioranza nella commissione istruzione al Senato. Il passaggio all’opposizione di Tito Maggio da Gal ai fittiani, e il possibile voto contrario degli esponenti della sinistra Dem Walter Tocci e Corradino Mineo, rischiano di mandare sotto il governo di un voto: 12 a 11 (e non gli attuali 13). La riforma della scuola potrebbe essere affossata. Mercoledì sera c’è stata una dura riunione del gruppo Pd al Senato. La riunione è stata aggiornata a martedì prossimo, il giorno dopo la direzione del Pd al Nazareno. La minoranza non sembra intenzionata ad accettare l’ipotesi del restyling: vuole la riscrittura totale dei poteri del

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«preside-manager», estendere le assunzioni dei docenti precari (da 100 mila a 138 mila), tagliare lo stanziamento alle scuole paritarie. In un resonconto sul blog supplentidellascuola.blogspot.it di un incontro alla facoltà di architettura di Roma Tre tenutosi mercoledì, Mineo ha detto: «Nè Io nè Tocci accetteremo la sostituzione nella commissione cultura al Senato». Il messaggio è a chi in queste ore pensa di cancellare il dissenso nel Pd com’è accaduto in commissione Affari Costituzionali nella discussione del ddl di riforma del bicameralismo. In quel caso furono tre le sostituzioni. Il presidente della commissione Andrea Marcucci è fiducioso. A suo avviso, sono possibili «miglioramenti» al Ddl, ma non «stravolgimenti».

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ECONOMIA E LAVORO

del 05/06/15, pag. 6 Expo 600 licenziate persone per motivi di polizia La petizione della Rete San Precario: «Cessino i controlli della Questura» Roberto Ciccarelli Le persone licenziate da Expo a causa del parere negativo della questura di Milano sarebbero 600, mentre i cittadini che hanno presentato una domanda di lavoro all’esposizione universale e sono stati sottoposti ad un controllo di polizia sono circa 60 mila. Questi dati sono stati confermati ieri nella riunione del «tavolo manodopera» alla prefettura di Milano dove Cgil, Cisl e Uil hanno incontrato i vertici Expo. La prefettura ha confermato di avere usato le informazione contenute nell’archivio Sdi e che è effettivamente avvenuto il «monitoraggio» delle persone che hanno fatto domanda di lavorare all’Expo. Ai 600 licenziati, molti dei quali ancora ignorano l’accaduto, è stata invece negata la tessera di accesso al sito espositivo per motivi di lavoro, sono stati licenziati, non sono stati assunti o non hanno ricevuto il rinnovo del contratto. La Prefettura ha inoltre rifiutato di fornire spiegazioni sulla ragione per cui l’Expo è stato definito un sito «strategico». Una denominazione che ha prodotto i controlli di polizia preventiva e, in generale, lo stato di eccezione che vige in questo momento nell’esposizione universale. Respinta anche la richiesta dei sindacati di fornire almeno l’elenco dei reati, o delle semplici segnalazioni, in base alle quali sono state licenziate 600 persone. Le operazioni di «filtraggio» della forza-alvoro sarebbero iniziate tra l’autunno del 2013 e i primi mesi del 2014. In un incontro previsto per la prossima settimana, si discuterà sulla possibilità di rivedere queste procedure. Continua, al momento, il rimpallo sulle responsabilità dello «spionaggio» tra Expo spa e le autorità competenti. «Il ministro dell’agricoltura Martina, che è responsabile per l’Expo, dovrebbe aprire bocca. È abbastanza chiaro che queste misure siano state autorizzate dal governo e dagli organi di governo locali. Ci deve dire perché, dove e quando la decisione è stata assunta» sostiene Antonio Lareno, delegato Cgil in Expo. In queste ore la rete San Precario sta promuovendo la petizione su change.org «Cessino i controlli della Questura sui lavoratori in Expo». Hanno firmato deputati di Sel e del Movimento 5 Stelle, sindacalisti (Cremaschi) ed economisti (Fumagalli). La denuncia del movimento è fortissima: «È presumibile che i negativi della questura si fondino su una inammissibile valutazione dell’appartenenza politica, ovvero del diritto di critica e di espressione dei singoli. Oggi è inacettabile che l’incontro tra domanda e offerta di lavoro e di reddito debba addirittura essere demandato ad un organo di polizia».

del 05/06/15, pag. III (inserto Sbilanciamo l’Europa) La società civile alla battaglia del Ttip

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Accordi. Accolte alcune richieste della Campagna contro il trattato Usa- Ue, ma liberali e popolari hanno mantenuto l’opaca «cooperazione regolatoria» Monica di Sisto C’è chi scommette di aver visto aggirarsi intorno all’edificio del Parlamento europeo un gigantesco lobbista gonfiabile, con un cane al guinzaglio dal nome sincopato stampato sulla medaglietta: Ttip. Queste ed altre saranno le sorprese che i Parlamentari europei troveranno ad attenderli a Strasburgo dall’8 all’11 giugno prossimi, quando esamineranno la propria Risoluzione sul negoziato transatlantico di Partenariato tra Usa e Ue su commercio e investimenti, il fantasmatico Ttip. Troppo forte è stato lo smacco che organizzazioni, sindacati, comitati e autorità locali che hanno manifestato dubbi e preoccupazioni sull’andamento delle trattative, hanno avuto alla lettura del testo emendato e approvato dalla Commissione parlamentare sul Commercio internazionale (Inta) il 28 maggio scorso e che verrà discusso a Strasburgo.. Qui e lì si scorgono le tracce dei mesi di discussione con le altre Commissioni che hanno dato il proprio parere sulla bozza iniziale. Molte le correzioni di rotta richieste alla Commissione europea, che concretamente conduce i negoziati per tutti noi: bollate come non necessarie all’inizio del dibattito pubblico quando venivano presentate dalle campagne Stop Ttip di tutta Europa, sono state raccolte nel testo finale, perché più che fondate. I parlamentari chiedono alla Commissione di disegnare il trattato in modo «che non sia focalizzato solo sulla riduzione di barriere tariffarie e non, ma che funzioni come strumento per proteggere lavoratori, consumatori e ambiente». Si chiede ai negoziatori europei di prevenire che, con una maggiore apertura del mercato transatlantico «si generi dumping sociale e ambientale», scrivono i parlamentari europei, cioè che anche le nostre imprese vadano a cercare oltreoceano lavoratori ed energia meno cari, date le minori protezioni sociali e ambientali garantite negli States. Si chiede alla Commissione «di garantire un alto livello di protezione dei consumatori», sempre per evitare la concorrenza sleale . I parlamentari, insomma, hanno dimostrato di non esser così tanto sicuri, come pure ribadito fino alla nausea dai Governi – Roma in testa – che tutto questo fosse scontato nel Ttip. I socialdemocratici della Commissione Int, però, hanno accolto le pressioni di popolari e liberal che minacciavano di bocciare la Risoluzione in aula, qualora si fosse aperto troppo alle richieste della società civile. Ed ecco così che il testo che verrà discusso a Strasburgo prevede, pur con una formula più sinuosa, l’inclusione della controversa clausola di protezione degli investitori rispetto alle decisioni degli stati sovrani (Investor to State Dispute Settlement o Isds). Eppure molti degli stessi parlamentari che lo hanno votato avevano presentato, per farsi belli con i cittadini, emendamenti che ne prevedevano l’eliminazione dal testo. Si prevede, ancora, di utilizzare come base legale per la protezione dei nostri prodotti Doc e Dop, ma anche dei nostri prodotti più sensibili alla concorrenza, l’accordo di liberalizzazione concluso col Canada, o Ceta, controverso almeno quanto il Ttip e non ancora votato dai rispettivi parlamenti, forzandone l’approvazione. Nonostante siamo a pochi mesi dalla Conferenza delle Parti delle Nazionii Unite sul clima, convocata a Parigi per raffreddare con urgenza il pianeta, si spinge per una maggior libertà del commercio dei combustibili fossili, come se non si fosse deciso in quella stessa sede che essi sono il passato remoto del mercato energetico globale. Per di più si mantiene intatta la cooperazione regolatoria tra Usa, cioè quel meccanismo che annualmente e in permanenza, fuori dal controllo di ogni filiera democratica, elencherebbe le regole, gli standard, i regolamenti che fanno problema al commercio transatlantico per spianarle in assoluta autonomia, senza rispondere a nessun altri che al trattato. E per 60

scansargli future fatiche, ogni futura regola che potrebbe turbare gli scambi transatlantici gliela dovremmo notificare prima di deciderla, e nel caso, se fa problema, cambiarla. Contro chi ha votato questa resa incondizionata agli interessi corporativi, si è sollevata una vera e propria tempesta via e-mail e social media, che ha lasciato esterrefatti i destinatari e turbato i mandanti di quel voto, che sono corsi a presentare, nelle ore successive, decine di emendamenti riparatori in vista del voto definitivo. Tutto quello che del testo dovrebbe essere cassato o cambiato, come associazione l’abbiamo analizzato in un breve documento, che abbiamo recapitato a tutti loro, e che si trova a questo link http://bit.ly/1FT MP8w. La pressione, poi, è destinata a crescere in vista di Strasburgo: la riuscita dipende da tutti noi. Chi vuole che di Ttip si discuta meglio e più a fondo può scrivere ai propri parlamentari un’e-mail a piacere o con il testo suggerito dalla Campagna Stop Ttip Italia a questo indirizzo: http://bit.ly/1MlQnm6. Sul sito è disponibile anche l’elenco degli europarlamentari di maggioranza, quindi determinanti per il voto finale, suddivisi per circoscrizione elettorale a questo link: http://bit.ly/1JqMmwI. Verranno consegnati agli eurodeputati anche i primi due milioni di firme della petizione popolare europea contro il Ttip, che si può sottoscrivere anche sulla home page del sito della Campagna italiana, per sfondare il tetto previsto e impressionare ancor di più gli euro-eletti. Martedì 9 giugno gli account twitter di tutti i parlamentari (che si trovano sempre a questo link: http://bit.ly/1JqMmwI) verranno nuovamente colpiti da una tempesta di messaggi per chiedere loro di fare la cosa giusta, e tutti potranno partecipare con le istruzioni pubblicate via web. Dall’8 all’11 in aula e fuori e dentro l’Europarlamento, a Strasburgo ma anche a Bruxelles, si moltiplicheranno incontri faccia a faccia, volantinaggi, azioni dirette e simboliche. Il messaggio per gli eletti è chiaro: nessun accordo è meglio di un pessimo accordo. E la scelta giusta è a portata di pulsante.

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