POLITECNICO DI MILANO Facoltà di Ingegneria Corso di Laurea Magistrale in Ingegneria Meccanica

Elaborato del corso “Storia della Meccanica” Prof. Edoardo Rovida

L’EVOLUZIONE DELL A : da semplice motociclett a con il tett o a solutric e dei problemi del traffico urbano e dell ’ecologia

Autori: Agosti Diego Matr. 725703 Inglardi Stefano Matr. 720639 Vercesi Emanuele Matr. 725690

Anno Accademico 2008 -2009 Indice

Introduzione ...... pag. 1

1945 VOLUGRAFO Bimbo 46 ...... pag. 5

1947 ALCA Volpe ...... » 10

1947 MI-VAL Mivalino 175 ...... » 14

1953 ...... » 20

1958 ACMA Vespa 400 ...... » 30

1968 LAWIL Varzina ...... » 35

1969 CASALINI Sulky ...... » 41

Qualche curiosità ...... pag. 45

Uno sguardo all’Europa ...... » 50

Microcars: tra passato e futuro ...... » 54

Car-Sharing: una proposta di mobilità sostenibile ...... » 69

Bibliografia e siti internet visitati

Bibliografia ...... pag. 73

I

Poca ingegneria tanta fantasia

Parola d’ordine: semplicità. Per costare poco, pesare poco, consumare poco.

I progettisti, spesso provenienti dall’industria aeronautica, possono sbizzarrirsi, eliminando tutto il possibile: ruote, differenziali, ammortizzatori, retromarcia, porte.

A volte persino il tetto. La scuola tedesca è la più prolifica per varietà di modelli, l’italiana la più originale mentre l’inglese è la più sconcertante.

Le micro vetture esistono da desiderio di automobile. Niente a sempre, dagli albori della che vedere con le moderne city-, motorizzazione; esemplari unici “seconde macchine” concepite per assemblati da costruttori dilettanti, districarsi nel traffico caotico delle modelli a volte geniali prodotti in città e spesso molto costose. Le piccole serie da modesti artigiani, microvetture hanno avuto ma anche raffinati progetti di sostanzialmente due periodi di forte importanti aziende costrette, nel espansione: negli anni 30, in seguito dopoguerra, a riconvertire la alla Grande Depressione e, produzione per cogliere le soprattutto, nel dopoguerra, quando opportunità offerte dal mercato. costituivano una sorta di “seconda generazione” nello sviluppo della

motorizzazione individuale, In passato le microvetture toccando la loro massima popolarità, costituivano spesso l’unica soluzione dopo il 1955, nei Paesi del Nord e per soddisfare a poco prezzo il Centro Europa. Mentre in Italia, e

1 in generale nei paesi con il clima più per aguzzare l’ingegno. Già a partire clemente, la “prima generazione” è dal 1950 infatti, diverse aziende costituita dagli e continua a sviluppano prototipi, acquisiscono prosperare fino alla diffusione su brevetti e licenze e realizzano larga scala delle automobili “vere”, piccole serie di veicoli, che oggi nei Paese freddi la necessità di avere possono destare tenerezza, ma che un abitacolo ben protetto è spesso sono un lavoro di prioritaria fin dall’inizio. compromesso tra genio creativo e Emblematico l’esempio della modestia di mezzi.

Germania, la cui produzione di microvetture negli anni 50 si La tecnologia è raramente di tipo articola su una gamma vastissima di automobilistico: più spesso si rifà marche e modelli, forse la più alle soluzioni motociclistiche o completa d’Europa. aeronautiche, oppure è il risultato di un bricolage evoluto e molto creativo. La parola d’ordine, per tutti, è “leggerezza”, poiché i motori, quasi sempre di origine motociclistica con raffreddamento ad aria, hanno cilindrata e potenza assai modeste, perché devono costare poco e consumare pochissimo. Si tratta per lo più di motori tedeschi, in genere monocilindrici a 2 tempi, semplici e leggeri, con cilindrate da 125 a 300 cm 3, ma non mancano raffinati bicilindrici, sempre a due tempi, con

cilindrate da 250 fino a oltre 450 cm 3. Alcuni costruttori poi, per Dopo il ’45, delle grandi fabbriche tradizione aziendale (vedi BMW con belliche rimane poco o nulla, ma le l’Isetta), preferiscono fin da subito i menti creative sono in gran parte 4 tempi. sopravvissute e la manodopera non manca. Mancano invece il denaro e La semplicità concettuale e la ricerca le materie prime: un motivo in più della leggerezza impongono la

2 rinuncia a qualsiasi complicazione incastellature ausiliarie, sono un tecnica: gli schemi prescelti sono esempio di razionalità e leggerezza, quindi o “tutto dietro” o “tutto quanto di meglio si può concepire avanti”, con trasmissione tipo negli anni 50. Le sospensioni scooter a catena o ad ingranaggi, e posteriore delle “3 ruote” o delle “4 solo in rari casi si ricorre a corti ruote” a carreggiata molto stretta alberi di rinvio. La soluzione “tutto sono quasi sempre costituite da dietro” è decisamente la più diffusa: mezze balestre longitudinali a viene adottata su tutte le 3 ruote e sbalzo (cantilever) accoppiate, nei sulle 4 ruote con carreggiata casi più evoluti, ad ammortizzatori posteriore molto stretta, che telescopici; mentre sulle “4 ruote” consente di fare a meno del più convenzionali si trovano in differenziale offrendo al tempo genere semiassi oscillanti con molle stesso un comportamento più stabile elicoidali e ammortizzatori in curva. Il “tutto dietro” lo telescopici coassiali. All’anteriore ritroviamo anche su molte “4 ruote” troviamo invece braccetti di concezione più automobilistica, le longitudinali con barre di torsione quali si uniformano così alla oppure quadrilateri articolati con configurazione più diffusa delle molle elicoidali o barre di torsione. utilitarie anni 50. Anche i cambi sono si origine motociclistica: si va dalle soluzioni più semplici che non prevedono la retromarcia a quelle più complesse che fanno ricorso a campi ad innesti elettromagnetici. I telai sono costituiti da tubi d’acciaio, saldati spesso senza neanche essere piegati. Lo schema più in voga prevede un tubo centrale e due trasversali, anche se non mancano esempi di telai a piattaforma: pur ridotti “all’osso”, essi garantiscono quel minimo di stabilità e resistenza necessarie a mezzi con prestazioni e Ma il massimo della creatività viene capacità di carico più elevate. Le espresso nelle carrozzerie. All’inizio sospensioni, montate su piccole si tratta di trovare un’alternativa

3 alla lamiera d’acciaio stampata, che non sarebbe giustificata dai modesti volumi produttivi. Si opta allora per intelaiature in legno, sulle quali vengono fissati pannelli di lamierino, soluzione che fa assomigliare la vettura alla fusoliera di un vecchio aeroplano. Per migliorare l’estetica e ridurre le spaventose vibrazioni di una simile struttura, si pensa allora ad un rivestimento in finta pelle che permette di ottenere forme più arrotondate ed aggraziate. Evidentemente non ci si poneva affatto il problema della resistenza agli urti o anche soltanto alle sollecitazioni durante la guida, eppure vengono costruite e vendute migliaia di vetture realizzate con questa tecnica. Con il passare degli anni la reperibilità di materie prime migliora e si cominciano a realizzare stampi per carrozzerie in alluminio che, al di là di scelte estetiche a volte discutibili, sono leggere e resistenti.

Dalla metà degli anni 50 si diffondono infine le carrozzerie in acciaio, autoportanti o saldate su telai a piattaforma, mentre per le piccole serie compaiono le prime carrozzerie in plastica. Ma intento è cominciata l’era delle moderne utilitarie, che costano come le microcar e offrono i vantaggi delle vere automobili.

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VOLUGRAFO Bimbo 46 - 1945

Sembra uscita dalle giostre, invece è una macchina vera, uno dei tanti tentativi di offrire, nel dopoguerra, quattro ruote al prezzo di due. La “Bimbo” nasce nel 1945 per opera dalle Volugrafo, azienda di Torino specializzata nella produzione di rimorchi, cisterne e pompe per i distributori di carburante.

Progettata dall’ingegner Belmondo, la microcar sembrava più una automobilina giocattolo che una vera e propria vettura. E’ infatti difficile definirla automobile: sebbene sia immatricolata come tale, ricorda le vetture delle giostre o le macchine a motore elettrico per i ragazzini. Era molto bassa, di dimensioni estremamente contenute (passo di appena 1,5 m), senza porte (per entrare infatti, si scavalcava la fiancata), con carrozzeria d’alluminio di linea tondeggiante e carenata. Poteva trasportare due sole persone a condizione che fossero di piccola taglia.

I due tappi sopra il muso sono per il serbatoio della benzina (dieci litri) e per quello dell'olio (tre litri). La lubrificazione è a carter secco.

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Il parabrezza è simbolico in quanto adatto appena a riparare il tronco del guidatore ma non la testa, che sporge quasi completamente.

Le ruote , di taglia minima , montano pneumatici di misura 3.50x8, ossia quelle utilizzate normalmente per le carriole dei muratori.

Il disegno evidenza l’estrema semplicità della “Bimbo” priva di porte, cofani e paraurti come le automobiline delle giostre. Sia i freni che lo sterzo sono comandati da cavi metallici.

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Il telaio era in tubi d’acciaio con sospensione anteriore ad assale rigido e mezze balestre longitudinali; per quanto riguarda il retrotreno, la sospensione posteriore è a ruote indipendenti.

A differenza delle altre micro vetture dell’epoca, che generalmente adottavano un motore bicilindrico a due tempi, la bimbo era spinta da un motore monocilindrico a quattro tempi di 125 cm 3 con valvole in testa, raffreddato ad aria, sistemato dietro, che agiva mediante una catena sulla sola ruota sinistra.

Il motore era di origine motociclistica con carter cilindro La strumentazione non si può guastare perché manca del e testa in alluminio. Con una tutto. Il commutatore nero sulla sinistra serve per contatto corsa di 58 mm e un alesaggio di e luci, quello bianco, aggiunto dopo, per le frecce. Il lungo 52 mm, sviluppava una potenza di pedale che sporge dietro la leva del cambio è quello dell'avviamento. 4,5 cavalli a 4500 giri/min. Il rapporto di compressione è di 6:1 e montava una carburatore Weber da 18mm. Il cambio era a tre marce, senza retro, con comando a leva laterale e i pneumatici erano da 3.50x8. Il serbatoio di carburante era capace di 10 litri mentre quello di lubrificante ne conteneva 3.

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L’omologazione è per due persone, ma come si può notare, bisogna essere snelli per poterci entrare. Da osservare inoltre l’assenza degli specchietti di serie, che possono però essere aggiunti, così come le frecce direzionali.

La “Bimbo ” aveva delle dimensioni piuttosto caratterizzanti, un passo di 1610 mm, una carreggiata anteriore di 820mm, una carreggiata posteriore di 830 mm, una lunghezza di 2000mm e un peso a vuoto di soli 125 Kg.

La vetturetta si avviava tirando una leva a mano (come sui motofurgoni), aveva un cambio a tre marce in blocco con il motore e freni sulle tutte e quattro le ruote. I cinque cavalli di potenza le permettevano di raggiungere i 60 all’ora e di consumare circa 2,5 litri per percorrere 100 km.

Per migliorare ed incrementare le prestazioni, la Volugrafo studiò anche la possibilità di montare un secondo motore che spingesse anche sulla ruota di destra: sarebbe stato compito del guidatore scegliere se utilizzare contemporaneamente oppure no i due propulsori.

Della originale vetturetta, venduta a circa trecentomila lire, furono costruiti solo pochissimi modelli sino al 1948, che però scomparvero quasi subito dalla circolazione.

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Motore Monocilindrico di origine motociclistica - Carter, cilindro e testata in alluminio - Cilindrata 125 cm³ - Alessaggio 52 mm - Corsa 58 mm - Potenza 4,5 CV a 4500 giri/min - Rapporto di compressione 6:1 - Distribuzione a valvole in testa e albero nel basamento - Lubrificazione a carter secco con pompa - Un carburatore Weber 18 MF.

Trasmissione Motore centrale sul lato sinistro - Trazione a catena sulla sola ruota posteriore sinistra - Cambio a tre marce senza RM - Comando a leva laterale - Pneumatici 3.50x8.

Corpo vettura Spider due posti, senza porte - Telaio in tubi d'acciaio - Sospensione anteriore ad assale rigido , mezze balestre longitudinali - Sospensione posteriore a ruote indipendenti, mezze balestre longitudinali - Freni a tamburo sulle quattro ruote - Sterzo a rocchetto e cavo metallico - Capacità serbatoio carburante 10 litri, serbatoio lubrificante 3 litri - Impianto elettrico a 6 V.

Dimensioni e peso Passo 1610 mm - Carreggiata anteriore 820 mm - Carreggiata posteriore 830 mm - Lunghezza 2000 mm - Peso a vuoto 125 kg.

Prestazioni Velocità; 60 km/h - Consumo medio 2,5 litri/100 km.

Libretto di Circolazione di una Volugrafo “Bimbo” del 1946

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ALCA Volpe - 1947

L'immediato dopoguerra italiano era pervaso, almeno dal punto di vista dei trasporti, da un genuino, ingenuo ottimismo nei confronti di tutto ciò che poteva rappresentare o almeno sembrare un’innovazione e una comodità in più per spostarsi. Con l'entusiasmo di una nazione che usciva da una guerra disastrosa, l'Italia dell'automobile tentava di rialzare la testa, sostenuta inizialmente dalle più economiche due ruote: il Garelli Mosquito motorizzava le biciclette, mentre presentava nel 1946 la mitica Vespa. Alla motorizzazione di massa, ancora da creare, la nostra industria proponeva quindi mezzi semplici, economici, robusti e utili, copiando un po' ciò che già era stato ideato prima della guerra (in Italia ma anche in America, Inghilterra e Germania) e un po' proponendo progetti originali.

In questo clima nasce la curiosa ALCA Volpe, una microvettura pensata appunto per i desideri di milioni di italiani, per la prima volta alle prese con l'acquisto di un'auto. Presentata nel 1947 dalla neonata società Anonima Lombarda Cabotaggio Aereo (ALCA), la Volpe ha in realtà ben poco di una automobile come la concepiamo oggi. Durante una spettacolare presentazione fatta in un teatro romano il 30 marzo 1947, con la partecipazione dell'allora famosa compagnia del comico Erminio Macario, la Volpe viene pubblicizzata come la scelta ideale per la mobilità del dopoguerra italiano. Si tratta di una vetturetta aperta, a due posti, lunga 2,5 e larga 1,02 metri, equipaggiata da un motore bicilindrico, sistemato posteriormente, di 124 centimetri cubici di cilindrata che sviluppava una potenza di 6 cavalli a 5ooo giri/min ed in grado di spingere teoricamente la Volpe a 75 km/h di velocità massima.

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Il cambio è a quattro rapporti più retromarcia, con leva al volante e preselettore. Le marce si innestano premendo direttamente il pedale della frizione.

Il motore si avvia a strappo (come nei motori fuoribordo) o premendo un pedale. L’alimentazione e la lubrificazione sono a miscela, l’accensione a volano ed il raffreddamento ad aria forzata. Data la leggerezza (in ordine di marcia la “Volpe” pesava appena 135 Kg) e la ridotta carreggiata posteriore, fu possibile eliminare il differenziale. Come già sottolineato, il motore è sistemato posteriormente e ha il basamento incernierato alla carrozzeria: con questa soluzione il gruppo motore-cambio oscillava assieme all’assale rigido posteriore.

Gli elementi elastici delle sospensioni sono costituiti da balestre, sistemate, davanti in posizione trasversale, dietro, longitudinale. Per la “Volpe” i tecnici dell’Alca optarono per una scocca autoportante e per tre freni: due sulle ruote anteriori e uno sull’assale posteriore: su quest’ultimo agisce anche il freno a mano. Particolarità molto semplice era il comando meccanico dei tamburi- freno. Altri aspetti curiosi e per certi versi risibili del progetto Volpe sono anche le minuscole ruote 4.00 J x 8 pollici e la fragile capote apribile con

11 archetti snodati. Altri dati dichiarati parlano di una pendenza massima superabile del 25 % e di uno spazio d'arresto da 60 Km/h in meno di 7 metri.

L’Alca, l’azienda produttrice della “Volpe”, sognava la grandezza e si auspicava, molto ottimisticamente, di avviare con questo modello una motorizzazione di massa.

Al di là della roboante presentazione, avvenuta nella primavera del 1947 sul palco del Teatro Lirico di Milano, tra le belle ragazze della compagnia di rivista ed il comico Erminio Macario, l’accoglienza che il pubblico riservò alla “Volpe” fu favorevole, tanto è vero che si manifestò in un buon numero di prenotazioni. A ciò bisogna aggiungere una pressante campagna pubblicitaria che prevedeva l’inizio delle consegne nel luglio dello stesso anno. Invece i contratti non furono rispettati, le consegne sempre più rimandate, con assicurazioni da parte dei responsabili della casa sempre meno convincenti. Così, per carenze organizzative il progetto “Volpe” si arenò il 26 aprile 1948 e

12 dopo soli 6 esemplari prodotti la Volpe sparì , come la stessa ditta produttrice che nel 1948 fu indagata per bancarotta fraudolenta dopo aver intascato gli acconti dei clienti che avevano ordinato la microvettura (circa 300 milioni di lire in totale).

Nella stessa strategia commerciale di lancio si pose anche l'iscrizione di cinque Alca Volpe alla prima Mille Miglia del dopoguerra, quella del '47, tre delle quali allestite in una fantomatica versione turbocompressa, priva di capote e dotate di coda aerodinamica arrotondata con poggiatesta integrato. Le cinque vetture non si presentarono mai alla partenza.

Nella grossa truffa della "Volpe mai nata" è rimasta coinvolta anche la spagnola Gemicar Internacional Auto S.L. di Madrid, che nel '47 decide di costruire su licenza la Hispano Volpe, versione della microcar italiana per il mercato iberico, Portogallo, Marocco, America latina e colonie spagnole. Come è facile intuire, nessuno stabilimento madrileno ha mai sfornato alcuna Hispano Volpe.

I pochi esemplari sopravvissuti di Alca Volpe si trovano oggi in musei o collezioni private, muta testimonianza di un sogno che ha illuso e deluso molti italiani, uno dei primi pasticci nell'Italia del dopoguerra. La cosa che lascia l'amaro in bocca è che la Volpe abbia per certi versi anticipato e prefigurato alcune delle soluzioni super-economiche che sarebbero poi state adottate su microcar di un certo successo commercializzate quasi dieci anni dopo: in primis la Kleinschnittger F125, poi la Iso Isetta, la Messerchmitt Kabinenroller (Mi-Val in Italia), la Brütsch Mopetta e la Glas Goggomobil.

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MI-VAL Mivalino 175 - 1953

Sono gli anni della rinascita, al termine del secondo conflitto mondiale. Tutti vogliono dimenticare gli orrori della guerra e creare dalle rovine un nuovo paese. Tanta voglia di fare ma le risorse sono scarse, c’è bisogno di fabbriche dove lavorare e di m ezzi economici per muoversi. Si sviluppa così la produzione motociclistica, con nuove aziende e prodotti utilitari. E’ successo negli anni Venti e il fenomeno si ripete immutato anche negli anni Cinquanta quando, tra queste nuove aziende compare la MI-VAL, frutto della convergenza di alcuni industriali bolognesi (tra cui Ettore Minganti) e della necessità di riconversione della fabbrica d’armi di Pietro Beretta di Gardone Valtrompia (BS).

Sull’eco della presentazione dell’Isetta

(dicembre 1952), nel 1953 la MI -VAL annuncia l’entrata in produzione, su licenza della famosa industria aeronautica tedesca Messerschmitt, di una microvettura a due posti. E’ il Mivalino , uno scooter cabinato a tre ruote con il muso da ranocchio e l’abitacolo a carlinga, la cui pubblicità recitava:

“Non è un’automobile, né lo vuole essere: si tratta di una motocicletta con tutte le comodità, protetta contro tutte le intemperie e il vento”.

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E’ evidente come la linea del Mivalino si rifaccia a quella dei famosi caccia Messerschmitt G 109 della Seconda Guerra Mondiale. Per accedere all’abitacolo occorre infatti sollevare di 90°, verso il lato destro, la calotta in plexiglas incernierata alla carrozzeria. Il motore invece (sia quello impiegato per la versione tedesca (Sachs) sia il MI -VAL 175 della Casa bresciana) è di natura prettamente motociclistica così come il telaio in tubi d’acciaio saldati e la carrozzeria in acciaio stampato. Davanti ha due ruote sterzanti , con carreggiata di soli 92 cm , e sospensioni indipendenti a tre elementi di gomma in compressione , mentre al posteriore c’è una singola ruota motrice con la catena della trasmissione finale e la sospensione a forcellone oscill ante con molla di gomma.

Anche la guida è di tipo motociclistico, con uno sterzo a manubrio e il comando dell’acceleratore a manopola (stranamente posto sulla sinistra).

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Si poteva guidare senza patente perché ai fini burocratici-fiscali era equiparato ad una moto e la pubblicità della Casa sottolineava il fatto che con il nuovo veicolo veniva “ risolto economicamente il problema della motorizzazione del ceto medio ” perché “non soddisfa soltanto il sogno della gioventù sportiva di avere un veicolo chiuso”, ma “offre anche per i viaggi d’affari e le gite di piacere, al costo e con le spese di manutenzione di una motocicletta, la comodità, la resistenza e la sicurezza di un’autovettura”.

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Erano stati previsti due tipi di equipaggiamenti: il primo, di serie, comprendeva tachimetro, tergicristalli, specchietto retrovisore e ferri di bordo; il secondo aveva, in aggiunta, ruota di scorta, copriruota cromati, orologio, borse laterali di stoffa, porta bagagli esterno e addirittura l’alloggiamento per l’autoradio.

Nelle intenzioni del costruttore lo scooter a tre ruote, oltre ad essere più stabile e quindi più sicuro di quello a due, permetteva di arrivare, a fine viaggio, meno stanchi e con gli abiti asciutti oltre che puliti. Tutto questo senza le spese di acquisto e di manutenzione di un’automobile (il Mivalino costava 319.000 Lire) né con il conseguente obbligo di patente per guidarla. In sintonia con i comunicati pubblicitari, la stampa scriveva del Mivalino in termini ugualmente entusiastici: per esempio, in occasione della presentazione a Gardone Valtrompia, la Gazzetta dello Sport si spinse addirittura a parlare di “ linea elegantissima ”.

Purtroppo però, alla prova dei fatti, il “tre ruote” bresciano si rivelò scomodo da utilizzare, scarso nelle prestazioni e anche pericoloso nella guida. Ciò, nonostante la Casa assicurasse che il baricentro molto basso e le ruote anteriori indipendenti erano garanzia di buona tenuta di strada e stabilità in curva anche su terreni accidentati.

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“La stabilità del Mivalino è stata ottenuta applicando i migliori accorgimenti tecnici al riguardo, operando nel seguente modo:

1. è stato abbassa to il più possibile il baricentro della massa componente il Mivalino;

2. i carichi sono stati distribuiti su tre appoggi, dimensionandoli tra loro in modo tale che la risultante R (dal baricentro G)

della forza viva F e e della forza

centrifuga F c cada entro il semiasse anteriore;

3. la disposizione in tandem dei passeggeri è tecnicamente razion ale poiché anche nel caso in cui i due componenti dell’equipaggio abbiano peso differente, questo agisce solamente sull’asse longitudinale, per cui rimane ugu almente equilibrato durante la marcia. Nei posti affiancati invece ne rimarrebbe compromessa la stabilità, soprattutto nel caso in cui il pilota viaggi da solo”.

Quindi, nonostante le premesse, il Mivalino non ebbe né vita lunga (la produzione, iniziata nel 1954 cessò dopo soli due anni) né successo commerciale: oltre ai motivi già esposti, contribuirono certamente al flop delle vendite la sua forma un po’ troppo “ pittoresca” nonché la nota avversione del mercato italiano ai veicoli troppo dichiaratamente utilitari.

Maggiore (anche se non troppa) fortuna ebbe invece il gemello tedesco , motivata in origine sia dal loro clima più sfavorevole sia dalle maggiori possibilità economiche del mercato. Con quel muso a ranocchio e l’abitacolo a carlinga, il Messerschmitt era frutto di un progetto dell’ingegner Fritz Fend (specialista in vetture pe r disabili), con la supervisione dello stesso professor Willi Messerschmitt. In Germania, il “tre ruote” KR 175 (la sigla deriva da Kabinenroller, cioè “scooter con cabina”) fece la sua comparsa nel 1952 ed ebbe un discreto successo anche in Belgio, Francia , Olanda, Inghilterra e persino in

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Giappone. Nel 1954 fu poi seguito dal modello KR 200, sempre con motore Sachs a 2 tempi ma con cilindrata aumentata da 175 a 200 cc. Assieme ad un aumento delle prestazioni, la nuova versione dell’autoscooter (questa è la definizione che utilizzò la stampa francese per descriverlo) presentava altri miglioramenti; tra i più curiosi: il sedile posteriore sdoppiato, per ospitare una mamma con un bambino (il mezzo diventava così a tutti gli effetti un 3 posti) ed il manubrio a forma di semicerchio schiacciato simile a quella dei moderni volanti automobilistici da competizione.

Anche nello sport, lo scooter cabinato lascia il segno; alla nona Milano-Taranto (20 giugno 1954), tre dei cinque Mivalino iscritti alla competizione tagliano infatti il traguardo dopo una logorante tirata di 1.400 chilometri. Il vincitore (C. Manfredini) ottiene la media di 64,787 km/h, risultato assolutamente non disprezzabile dato il primo della categoria sidecar (Borri su Moto Guzzi 500) raggiunge la città dei due mari a 83,736 km/h. Ad Hockenheim, siamo ai primi di Settembre del 1955, un Messerschmitt KR 200 batte una serie di primati mondiali sulle lunghe e medie distanze nella classe “tre ruote” 250. Dotato del motore Sachs a 2 tempi opportunamente preparato, anche se con regolare marmitta silenziatrice, raggiunge una velocità massima di 114 km/h che riesce a mantenere pressoché costante anche nelle prove a lunga distanza (1000 miglia a 106 km/h di media e 24 ore a oltre 103 km/h), a testimonianza dell’ottima regolarità di funzionamento della macchina.

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ISO Isetta - 1953

Due posti coma la “Smart”. Motore posteriore come la “Smart”. Linea monovolume come la “Smart”. Il parallelo finisce qui, perché l’“Isetta”, la microvettura della Iso non ha il motore turbo, l’aria condizionata, il catalizzatore, le cinture di sicurezza, l’abitacolo con la cellula di protezione. Però, per la sua epoca, quando ancora non era esploso il problema del traffico, l’”Isetta” era davvero all’avanguardia. Il commendator Renzo Rivolta, titolare della Iso, e l’ingegner Ermenegildo Preti, progettista aeronautico, avevano visto giusto quando si misero al lavoro per avviare la produzione di un veicolo soprattutto economico, destinato a chi voleva fare il salto di qualità dalla motocicletta all’automobile, ma non poteva ancora permettersi di acquistare la “Topolino”.

Per capire le origini della più popolare tra le microvetture del dopoguerra, occorre fare un salto indietro nel tempo, esattamente fino al 1939, anno in cui Renzo Rivolta fondò la Iso, una ditta con sede a Bolzaneto (GE), specializzata in impianti di refrigerazione ad uso industriale o privato. Nel 1943, la Iso si trasferì a Bresso, in provincia di Milano, dove alla precedente attività si aggiunse anche quella di produzione di elettrodomestici. Terminata la Seconda guerra mondiale, però, Renzo Rivolta si accorse che una delle maggiori esigenze e priorità della popolazione italiana era quella di potersi spostare tramite un mezzo di locomozione che fosse economico, molto più di un'automobile a buon mercato come lo era la Topolino di quegli

20 anni. Decise quindi di convertire la produzione di elettrodomestici a quella di motociclette. Fu così che nacquero modelli di un certo successo.

Ma dopo questi piccoli successi, Renzo Rivolta decise che era arrivato il momento di passare alla produzione automobilistica. La ragione sociale della ditta fu perciò mutata in Iso Autoveicoli SpA. Ciò che aveva in mente era un automezzo che stesse a metà tra una motocicletta ed una "Topolino". Doveva, cioè, essere semplice come una moto, ma con carrozzeria chiusa come un'auto.

La filosofia costruttiva di Renzo Rivolta nel settore delle automobili era quella di privilegiare prima di tutto la comodità ed il comfort dei passeggeri, nonché un'oculata sistemazione della meccanica all'interno del corpo vettura: la carrozzeria sarebbe stata modellata solo a quel punto, sulla base delle specifiche precedenti. Per realizzare la nuova vetturetta, Renzo Rivolta si affidò a due vulcanici personaggi, giovani ma con un significativo passato alle spalle in campo aeronautico: Ermenegildo Preti e Pierluigi Raggi. Il primo prototipo fu realizzato nell'estate del 1952 e già prefigurava molte delle soluzioni tecnico-stilistiche presenti sulla vettura definitiva, come il corpo vettura "ad uovo", la meccanica di derivazione motociclistica e la presenza di un

21 unico portellone frontale, che andava a costituire praticamente l'intero muso della vetturetta.

Pressoché definitiva era anche l'architettura della vettura, con scocca in lamiera d'acciaio dotata di un'ampia vetratura fissata a un telaio di tubi d'acciaio. Tale prototipo era inoltre provvisto di tre sole ruote: due davanti ed una dietro, soluzione presto abbandonata quando ci si accorse della sua inaffidabilità in caso di foratura durante alcune prove su strada. Si scelse perciò una soluzione intermedia, ossia quattro ruote, delle quali le due posteriori erano molto ravvicinate tra loro per risparmiare sul differenziale. Quanto al motore, esso era inizialmente un monocilindrico a due tempi ripreso pari pari dal motociclo Iso 200, della cilindrata di 198cc ed in grado di erogare circa 8 CV.

In seguito fu realizzato un nuovo prototipo che montava le due ruote posteriori ravvicinate, ma che ancora era provvisto di accensione a strappo come il prototipo precedente. Ma oramai erano pochi gli aggiornamenti che separavano tale prototipo dal modello finale.

Il 9 aprile 1953 infatti, oltre duemila invitati la videro e la provarono lungo i viali di villa Patellani. Ma non si levò nemmeno un "Ohhh" di stupore, semmai si udirono velati risolini di scherno e qualche commento imbarazzato. Renzo Rivolta aveva visto giusto, ma con troppo anticipo. Le sue idee cozzavano con

22 le aspettative dei suoi tempi. L'Isetta, subito ribattezzata "ovetto" o 'bubble car", auto a forma di bolla, era una macchinetta minuscola, lunga due metri, per sole due persone e praticamente senza bagagliaio. Per giunta anche bizzarra. Originale era anche la soluzione della carreggiata posteriore molto più stretta di quella anteriore. La scelta dello stesso propulsore della moto Iso 200, un monocilindrico sdoppiato a due tempi, si rivelò invece, poco felice a causa dei problemi di surriscaldamento. Ma soprattutto lasciava interdetti quell'unico sportello frontale incernierato al volante. Presentata come seconda vettura per famiglie abbienti, o come valida alternativa per gli scooteristi, fallì l'uno e l'altro obiettivo.

Le classi agiate ambivano infatti alle grandi fuoriserie, per gli altri il prezzo era troppo elevato: 450.000 lire. Costava quasi quanto una Giardinetta che invece, stretta come una scatola di sardine, trasportava un'intera famiglia, bagagli inclusi.

Ma Rivolta non era uno che si perdeva d'animo. Occorreva un buon sostegno pubblicitario e lo costruì intorno al mito della Mille Miglia, l'avvenimento automobilistico più seguito d'Italia. Cinque delle sette Isetta partite nel 1954 da viale Rebuffone a Brescia, tornarono indietro conquistando i primi quattro premi della speciale classifica all'indice di prestazioni. L'anno dopo, un'altra, guidata da Mario Cipolla, giunse addirittura terza, dietro la Mercedes 300 SLR di Styrling Moss, alla media di 79,311 chilometri orari.

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Con la solita tenacia, furono anche stipulati accordi e speciali condizioni, con numerose ditte commerciali. Il risultato in questo caso però, fu un boomerang: in giro si vedevano soprattutto Isetta con réclame del burro, lame di rasoio e aperitivi, il che non giovò all'immagine un po' elitaria che si voleva dare alla macchina.

La produzione raggiunse un massimo di 20 esemplari al giorno, nonostante cospicui ritocchi al prezzo di listino e si finì per costruirle solo su ordinazione. Alla fine del 1956, raggiunta quota 40.000 mila, il commendator Rivolta disse definitivamente basta, con la ferma intenzione però di tornare un giorno a costruire automobili. Grandi automobili, questa volta. Cosa che puntualmente avvenne sei anni dopo, con la Iso Rivolta di 5.300 centimetri cubici. Prima di chiudere l'avventura Isetta, il brevetto venne venduto all'estero, dove la piccola macchinetta di Bresso visse una seconda e più luminosa vita.

Comprarono la licenza la Velam Francese, la Isetta of Great Britain Ltd, la Iso- Romi in Brasile, la Borgward-Iso spagnola e la Bayerische Motoren Werke, ovvero, la Bmw. Alcuni di questi Paesi avevano già un radicato mercato delle micro vetture. In Francia erano celebri la biposto De Rovin e la monoposto Rollera. In Inghilterra una norma fiscale favoriva le piccole auto a tre ruote, che infatti avevano un grande successo, la stessa Isetta fu allestita con questa ciclistica. Perfino in America poteva capitare di incrociare una monumentale Eldorado accanto a una minuscola Isetta. In Germania tutti i maggiori costruttori aeronautici, Messerschmitt, e Dornier, avevano già da tempo convertito la produzione bellica in quella delle vetturette, le kleinwagen.

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In questo contesto favorevole, la Bmw per sette anni, dal '55 al '62, sfornò oltre 161.728 Isetta.

All'epoca del suo debutto, la Isetta fece scalpore per la conformazione davvero inusuale del suo corpo vettura. In effetti, all'epoca, l'Isetta era da considerarsi veramente all'avanguardia, sia per quanto riguarda il tipo di corpo vettura, ma soprattutto per la razionale ed intelligente scelta nella disposizione di tutto ciò che serviva a rendere questo piccolo mezzo di trasporto una vera e propria automobile a tutti gli effetti, vivibile e maneggevole. In molti oggigiorno l'hanno definita semplicemente geniale.

“Per salire a bordo si apre la grande e unica porta anteriore che dà accesso alla panchetta a due posti. Il volante, grazie a uno speciale snodo, rimane collegato alla porta, così come il piccolo cruscotto. Una volta preso posto nella vettura, alle spalle c’è un vano bagagli sufficiente per le esigenze di una coppia di persone, la visibilità è eccellente e si comprende immediatamente perché l’abitacolo dell’”Isetta” era spesso paragonato alla cabina di un elicottero. La posizione di guida è turistica, con il volante orizzontale e la leva del cambio a sinistra, sopra al freno a mano; accanto al volante le frecce e il comando delle luci. Il piccolo monocilindrico a quattro tempi si avvia istantaneamente con mezzo giro di chiave. Per innestare la prima si porta la leva verso il basso. Le marce sono abbastanza corte e si passa subito ai rapporti superiori. “In quarta si arriva anche a 85 – 90 all’ora”.

La particolare disposizione delle ruote, quelle anteriori con carreggiata molto larga e quelle posteriori ravvicinate, quasi gemellate, rende la guida singolare.

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In curva si avverte un netto sottosterzo iniziale e l’Isetta tende ad allargare con il muso. Occorre allora lasciare il gas, frenare leggermente e lasciare un po’ andare il retrotreno. In questo modo, la vettura chiude la curva con la coda e si è pronti ad accelerare per riallinearsi. Lo sterzo è leggerissimo e sembra quasi dotato di servocomando. La piccola automobile manca un po’ di potenza in salita e occorre tenere il motore su di giri usando le marce basse, soprattutto a pieno carico. Inoltre le ruote di piccolo diametro e il passo corto trasmettono ogni sobbalzo della strada nell’abitacolo. In compenso, quando si passa per le vie strette dei centri storici, come quelle che mi capita di percorrere durante la Mille Miglia, la maneggevolezza è decisamente stupefacente”.

La semplicità progettuale dell'Isetta la si ritrova anche nella meccanica: la versione italiana, la prima ad essere commercializzata, proponeva soluzioni semplici ma anche inconsuete, come per esempio il piccolo motore a due tempi mutuato dalla Iso 200, una delle motociclette di maggior successo per la Iso, subito prima dell'arrivo dell'Isetta. Tale motore, inizialmente aveva una cilindrata di 198 cc ed erogava circa 9 CV. Questa piccola unità motrice fu utilizzata solo fino alla presentazione al pubblico, dopodiché, prima di lanciarla ufficialmente sul mercato il piccolo monocilindrico fu rialesato e portato a 236 cc, con potenza massima di 9,5 CV a 4.750 giri/min. Questo motore aveva una particolare struttura sdoppiata, come se avesse due pistoni all'interno di un unico cilindro, mossi da due bielle, una principale ed una secondaria, ma con accensione affidata ad una sola candela. La lubrificazione era separata ed era affidata ad una pompa meccanica, mentre il raffreddamento era ad aria. L'alimentazione era invece affidata ad un carburatore Dell’orto. La trasmissione prevedeva una frizione a dischi multipli in bagno d'olio ed un cambio a 4 marce.

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La trazione era posteriore, ma non vi era bisogno del differenziale, reso superfluo dalla ridottissima carreggiata posteriore. Il telaio dell'Isetta era di tipo tubolare e comprendeva sospensioni anteriori a ruote indipendenti con tamponi di gomma al posto delle normali molle ed ammortizzatori a frizione. Il retrotreno comprendeva invece molle a balestra ed ammortizzatori idraulici. L'impianto frenante era di tipo idraulico ed agiva sulle ruote anteriori e sulla ruota posteriore destra. Su entrambe le ruote posteriori agiva invece il freno a mano.

Tra le varie curiosità che possono riguardare la piccola “Isetta” ne è presente una incredibile, ma vera. Negli anni della guerra fredda, con una BMW “Isetta”, un coraggioso tedesco dell’Est riuscì a trasportare a Belino Ovest, passando attraverso il temutissimo Check Point Charlie, più di una persona, nascondendola ogni volta nel…vano motore. Le guardie di confine, infatti, conoscevano bene tutti i trucchi che venivano adottati per occultare uomini, donne e bambini in comparti segreti ricavati nelle automobili. Soltanto l’Isetta

27 era esente dai controlli, perché i poliziotti ritenevano impossibile che qualcuno potesse sfuggire. Invece, il geniale proprietario di quella “Isetta”, che oggi è esposta a Berlino nel museo dedicato alla storia del Muro, riuscì per ben sei volte a ingannare i Vopos. Come? Semplice: aveva ricavato un vano accanto al motore sostituendo il serbatoio di serie con uno molto più piccolo ed eliminando il condotto di aspirazione e il riscaldamento, quanto bastava per farci raggomitolare un uomo. La settima volta, un movimento improvviso del clandestino svelò il trucco.

Isetta-Carro

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LA SCHEDA TECNICA DELLA ISO ISETTA DEL 1953

Motore: monocilindrico a cilindro sdoppiato, 2 tempi, 236 cc. Rapporto di compressione: 6,5 : 1 Potenza max: 9,5 cv a 4500 giri/min. Alimentazione: un carburatore Dell'Orto UC 24B. Trasmissione: motore e trazione posteriori. Carrozzeria: in tubi e pannelli in acciaio, 1 sportello, 2 posti. Sospensioni: avantreno a ruote indipendenti con molle e ammortizzatori; supplementari a frizione meccanica; retrotreno a ponte rigido con mezze balestre a sbalzo e ammortizzatori idraulici telescopici a doppio effetto. Passo: 1500 mm. Lunghezza: 2250 mm. Larghezza: 1340 mm. Altezza: 1320 mm. Peso: 330 kg. Freni: idraulici a tamburo (due anteriori e uno posteriore centrale). Pneumatici: 4,50 x 10 Diametro di sterzata: 8 metri. Capacità serbatoio: 13 litri. Consumi: 3,75 lt/100 km. Velocità max: 85 km/h. Prezzo nel 1954: 450.000 lire. Bollo nel 1954: 7.241 lire Esemplari costruiti: circa 40.000 (in totale all'estero: circa 300.000).

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ACMA Vespa 400

La ACMA "Vespa 400" è una microvettura progettata dalla Piaggio e costruita in Francia, da un'azienda consociata, la ACMA, dal 1958 al 1964. Nei primi anni '50 la Piaggio inizia a studiare una microvettura alla quale applicare le proprie motorizzazioni motociclistiche, come già Iso, , BMW e Zündapp avevano sperimentato con discreto successo, dovuto alle condizioni di precarietà economica del dopoguerra. Nel 1956 il prototipo è pressoché definitivo. Le linee di costruzione vengono approntate a Fourchambault nello stabilimento della ACMA (Ateliers de Construction de Motocycles et Automobiles), una consociata francese della Piaggio che si occupava del montaggio delle Vespa a due ruote con pezzi forniti dall'Italia.

Come già la SIMCA per la FIAT, la ACMA rappresentava l'escamotage della Piaggio per abbattere gli elevati costi doganali d'allora. Enrico Piaggio decise di costruire la microvettura in Francia e di non importarla in Italia, al fine di evitare rapporti conflittuali con la FIAT. La vetturetta, cui si assegna il nome di Vespa 400, viene presentata al Salone di Parigi del 1958 dove ottiene un discreto successo e, in pochi mesi, la raccolta di circa 20.000 prenotazioni. Era, per la classe d'appartenenza, una vettura confortevole ed elegante, mossa da un bicilindrico 2T che la rendeva particolarmente scattante. Le minime

30 misure d'ingombro, la facilità di guida, il riscaldamento montato di serie e il tetto apribile in tela, la rendevano particolarmente appetibile alle signore della buona borghesia in vena di autonomia locomotoria. Le linee di montaggio sfornavano circa 30 vetture al giorno con il proposito di arrivare ai 100 pezzi quotidiani.

L'auto aveva anche delle particolarità nella sistemazione degli accessori: la ruota di scorta era alloggiata nell'abitacolo sotto il sedile del passeggero e la batteria era raggiungibile aprendo lo scudo anteriore della macchina, nella posizione dove di solito ci si attende di trovare un radiatore.

L'avvento della Fiat 500 mise tuttavia freno alle potenzialità di sviluppo della ACMA, che continuò la produzione a ritmo ridotto fino al 1964. Nelle due versioni "Turismo" e "Lusso", sono state prodotte circa 34.000 "Vespa 400". In Francia, ad ogni buon conto, la piccola “Vespa 400” incontrò un discreto successo commerciale e ne vennero vendute oltre 30.000 tra la fine del 1957 e il 1961. In Italia ne arrivarono appena un centinaio, al prezzo di mezzo milione di lire, più o meno la stessa cifra necessaria per acquistare un Fiat “500”. Oggi l’ACMA “400” è ormai una rarità.

Per partire si gira la chiave di contatto e si tira una delle due levette poste sul pavimento tra i sedili. Il motore, un bicilindrico raffreddato ad aria a due tempi, è di cilindrata davvero minima, appena 393 cm 3, emette un suono piacevole e ovattato, che ricorda quello dei motofurgoni “Ape”.

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Al volante si sta piuttosto comodi e lo spazio a disposizione è più che sufficiente, anche per la mancanza del tunnel di trasmissione (il motore è collocato posteriormente). Davanti al pilota il quadro della strumentazione, che ricorda quello della “Bianchina”e che comprende il tachimetro-contachilometri e le spie di carica della dinamo e della riserva di benzina. Non appena partiti stupisce la leggerezza dello sterzo, che sembra essere dotato di servocomando. Il volante si gira con due dita ed è un piacere affrontare le curve, compiere un’inversione a “U” o, più semplicemente, infilarsi in uno stretto parcheggio. Dietro ai sedili c’è un po’ di spazio supplementare per i bagagli, che supplisce a un vano anteriore davvero minimo, nonostante la ruota di scorta sia stata spostata sotto al sedile di destra, appoggiata al pianale.

Il cambio si comanda mediante una piccola leva verticale a cloche. I rapporti sono soltanto tre e, perdipiù, la prima non è sincronizzata. Questa scelta di non dotare la trasmissione di una quarta velocità è però penalizzante. La seconda è infatti un po’ troppo corta e quando si passa in terza il motore scende sensibilmente di giri. Se c’è una piccola pendenza, inoltre, il piccolo bicilindrico accusa subito la difficoltà, costringendo il pilota a scalare in seconda.

L’accelerazione da fermo, in compenso, è più che soddisfacente e la “Vespa 400” riesce a districarsi con una certa agilità nel traffico. Non appena si esce dalla città, si apprezza pienamente il piacere della guida all’aria aperta in pieno relax: la capottina in tela è infatti molto ampia e si può arrotolare fino alla base del

32 padiglione. Il percorso, pianeggiante e ricco di curva, fa perdonare la limitata potenza del motore (appena 12 CV) e consente anche qualche accenno di sbandata. Basta infatti sterzare un po’ più del necessario e il retrotreno della “Vespa 400” slitta leggermente verso l’esterno, riallineandosi docilmente con un piccolo colpo di volante. Il comfort di macia è sufficiente, grazie alle sospensioni indipendenti e ai sedili abbastanza comodi. Le ruote di piccolo diametro (appena dieci pollici) trasmettono però al volante anche le più piccole buche lungo la strada.

La velocità massima è prossima ai novanta all’ora, un risultato soddisfacente in considerazione della piccola cilindrata e che conferma le potenzialità di questo motore, che, lo ricordiamo, è stato realizzato appositamente per questa utilitaria e non ha avuto altri impieghi successivi.

Tra l’altro, la “Vespa 400” è stata anche utilizzata in varie competizioni sportive e di durata, conseguendo un onorevole palmàres. Un’esemplare ha percorso la distanza tra Mosca e Parigi (oltre 7200 chilometri) in 116 ore e 56 minuti, consumando meno di 6 litri di miscela ogni 100 km, mentre altre “Vespa” hanno ottenuto primi posti di classe in numerosi rally svoltisi in Francia alla fine degli anni Cinquanta.

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LAWIL Varzina - 1968

Circa ventimila esemplari prodotti in poco più di vent’anni: questi i numeri della Varzina, la microvettura costruita a Varzi dagli ultimi anni ‘60 ai primi ’90 per iniziativa dell’ing. Carlo Lavezzari, patròn di un gruppo industriale spaziante dalla lavorazione delle lamiere all’impiantistica. Numeri che pochi italiani conoscono (la Varzina si vede pochissimo sulle nostre strade, in quanto precipuamente destinata ai mercati esteri) e che neppure immagina lo stesso Lavezzari quando la inventa, ispirandosi per le forme alla mitica jeep americana e per le dimensioni ai risciò dell’estremo oriente.

Credere nel successo di una vetturetta in pieno 1968 (l’anno in cui s’inizia ad allestire in Via Maretti lo stabilimento della Law il Spa, società deputata all’impresa automobilistica), dopo che il boom economico ha cancellato del tutto il ricordo delle varie Isetta e Mivalino, parrebbe appartenere più al sogno di un nostalgico che al freddo raziocinio dell’imprenditore. Ma i fatti da ranno ragione all’ing. Lavezzari, così come gli avevano dato ragione quando, tra mille difficoltà ed altrettanti rischi, nel ’61 scommise sul proprio brevetto di elettrozincatura delle lamiere e vi investì sino all’ultimo quattrino, gettando le basi per la creazione di un piccolo ma solido impero industriale.

Nato nel 1924 da una povera famiglia di contadini a San Pietro Casasco, frazione di Menconico, Lavezzari arriva ad occupare negli impianti della Lawil dai 30 ai 50 dipendenti, coadiuvato dal fido dire ttore Michele Calvi e sospinto dal consenso dell’intera Val Staffora, che nel ’79 lo eleggerà senatore della Repubblica in segno di doverosa riconoscenza (lo stabilimento varzese della Zincor Italia, ove si producono le lamiere elettrozincate, dà lavoro ad altre 200 persone) e quasi a volerlo ripagare per le immani tragedie patite nella vita: il massacro della mamma, della nonna e dei tre fratelli ad opera di una scheggia partigiana impazzita, dal quale si salvò con 43 ferite in corpo soltanto perché ritenu to morto dagli assassini, e i 18 giorni trascorsi in prigionia nel 1978, rapito dall’efferato clan di Francis Turatello.

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Le ragioni che hanno spinto l’imprenditore alla difficile avventura automobilistica stanno nelle agevolazioni fiscali e normative riconosciute da taluni Paesi ai cosidetti “quadricicli leggeri” e nella convinzione che un veicolo di minime dimensioni risulti impareggiabile nel forsennato traffico delle metropoli, specie in quelle attività di trasporto e consegna che impongono tragitti brevi e soste continue. Non a caso la Varzina tocca l’apice della diffusione nelle grandi città di Francia, ove viene impiegata per i servizi postali, e nella capitale dell’Indonesia, ove tenta di sostituire i diffusi e caratteristici risciò a pedale. A q uest’ultimo scopo Lavezzari costituisce a Giacarta la società Italindo, nel cui stabilimento (anch’esso organizzato da Michele Calvi) vengono assemblati su base Varzina circa diecimila “risciò a motore” dall’esotico nome di Heliciak e Superheliciak.

Ma torniamo a Varzi sul finire del 1968. Il primo veicolo che lascia la catena di montaggio di Via Oreste Maretti porta la sigla S3 e la denominazione ufficiale di Varzina, che poi il pubblico estenderà per antonomasia a tutte le versioni derivate: la berlina, il furgone, il camioncino. L' S3 Varzina e' una spider che scimiotta La spider Lawil S.3 Varzina le linee squadrate e spigolose delle prime jeep, rese ancor più simpatiche dalle dimensioni davvero miniaturizzate della scocca, lunga soltanto 207 c m e sostenuta da minuscoli pneumatici 4,00 x 10. Il mezzo pesa 320 kg in ordine di marcia, trasporta 2 persone più 200 chili di bagaglio ed ha in dotazione la capottina impermeabile e le porte con trasparenti sintetici, ma saranno in molti a circolare, al meno d’estate, con un semplice tendalino parasole che sa tanto di spiaggia e di vacanze. La spider adotta un bicilindrico a due tempi di 246 c.c. raffreddato ad aria forzata, la cui potenza di 12 cv a 4.400 giri/min consente una velocità massima di 70 km/ h, ma a richiesta la si può ottenere con motore monocilindrico di 125 c.c., sempre a due tempi.

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Per chi ama la maggior protettività della berlina, il listino Lawil offre il modello A4 con carrozzeria chiusa a due porte, in tutto simile all' S3 Varzina , ma lungo due centimetri in meno, pesante 30 kg in più e con minori capacità di carico ( 2 persone più 20 kg di bagaglio). Anche in questo caso esiste l'alternativa del bicilindrico di 246 c.c. e del monocilindrico di 125 c.c.. La berlina Lawil A.4

Espressamente studiato per il trasporto commerciale leggero è invece il furgone C2: qui le dimensioni decisamente maggiori (lunghezza 320 cm) consentono un carico utile di 640 kg, mentre la propulsione è affidata in via esclusiva ad un monocilindrico verticale a due tempi di 123,5 c.c., capace di 6,29 cv a 5.570 giri. Il C2 si rivela veicolo importante per il conto economico dell’azienda di Lavezzari, poichè acquistato in lotti consistenti dalle Poste francesi per il Il furgoncino Lawil C.2 serv izio di ritiro e consegna dei plichi. Nelle versioni più recenti il furgone assumerà la denominazione ufficiale di Break KL 125.

Al trasporto merci è destinato anche il camioncino C5 a cassone scoperto, che vanta la ragguardevole portata utile di 800 kg e può considerarsi un antesignano in miniatura (è lungo in tutto 376 cm) dei pick -up oggi tanto di moda. Il mezzo adotta inizialmente il bicilindrico di 246 c.c. della Varzina, ma in un secondo tempo viene equipaggiato con un più potente, elastico e robus to

37 diesel bicilindrico di 754 c.c. (17 cv a 3.600 giri/min), che ne esalta le doti di arrampicatore e gli guadagna la denominazione ufficiale di Alpino.

Il camioncino Lawil C.5

Caratteristiche comuni a tutti i modelli Lawil sono il motore piazzato anteriormente, la trazione posteriore, il raffreddamento ad aria forzata, il telaio a struttura tubolare, la carrozzeria in lamiera di acciaio, la sospensione anteriore a ruote indipendenti e quella posteriore a ponte rigido con molle a balestra, lo sterzo a cremagliera, il cambio a 4 velocità più retromarcia, i freni idraulici a tamburo sulle 4 ruote.

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Con l’approssimarsi degli anni ’90 il successo delle microvetture varzesi (circa ventimila gli esemplari prodotti, come riferisce lo stesso Carlo Lavezzari nel volume autobiografico Il pane le ferite il lavoro ) tende inesorabilmente a scemare: i piccoli pr opulsori in dotazione, a due tempi e con raffreddamento forzato, si trovano sempre più alle corde per via della rumorosità, delle emissioni inquinanti e di una certa ruvidezza di funzionamento, proprio mentre crescono in Europa le attenzioni (anche di cara ttere normativo) verso l’ambiente e mentre stanno scendendo in campo grandi aziende motoristiche con progetti di impronta spiccatamente automobilistica. Così l’ingegnere, uomo che sa guardare avanti e non è aduso all’indugio e all’incertezza, nel 1986 pone la Lawil Spa sotto le ali protettive (dal punto di vista finanziario) dell’incorporante Lavezzari Impianti, altra solida azienda del “gruppo”, e nel 1991 cessa in via definitiva la produzione delle Varzina.

Non si tratta però di un addio. Dopo un nec essario periodo di studi e sperimentazioni egli conta di tornare sul mercato con il Diavolino, una vetturetta che mantiene le linee estetiche, le dimensioni e la concezione di base della progenitrice, ma rappresenta un passo avanti in termini sia di meccan ica che di appetibilità del prodotto. Il Diavolino può infatti contare su una più

39 leggera carrozzeria in vetroresina ed offre la scelta fra due propulsori di 125 e 200 c.c. che finalmente, pur fedeli alla tradizione del monocilindrico a due tempi, adottano il raffreddamento ad acqua, con ovvi vantaggi in termini di fluidità di erogazione, minor rumore e minori emissioni. Il cliente ha inoltre la possibilità di optare per la trazione posteriore o quella anteriore, disponendo nel primo caso di un classico cambio a 4 rapporti più retromarcia e nel secondo di una comoda trasmissione con variatore. Qualche prototipo circola pure con motorizzazione a gasolio e persino elettrica, qualche altro con linee di carrozzeria più morbide e meno squadrate, ma per l’eventuale industrializzazione di tali progetti si impongono tempi decisamente più lunghi. Il Diavolino a miscela, presentato ufficialmente con foto e depliants, non fa però in tempo a rimettere in moto la catena di montaggio di Via Maretti, ferma ormai da tre anni. L’ing. Lavezzari scompare infatti la vigilia di Natale del 1994 e nessuno vorrà portare avanti la sua audace scommessa automobilistica.

Lawil Diavolino

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CASALINI Sulky - 1969

La Casalini di Piacenza è l’azienda che ha generato in Italia il fenomeno delle microvetture “guidabili a 14 anni senza patente, senza targa e senza casco”. L’avvio si ha nel 1969 con la presentazione del Sulky 50 c.c., un simpatico veicolo a 3 ruote che richiama – non solo per il nome, ma anche per la posizione di guida quasi a ridosso dell’unico ruotino anteriore - la struttura del calesse che ospita il fantino nelle gare di trotto.

La vetturetta ottiene subito un discret o successo commerciale, dapprima tra coloro che non possono conseguire la patente di guida per via dell’età o di qualche limitazione fisica, poi tra chi s’accontenta di un semplice “ciclomotore” che però ripari dal freddo e dalle intemperie.

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Le Officine Meccaniche Giovanni Casalini, fondate a Piacenza nel 1939 e subito affermatesi quali produttrici di forcelle, elementi ammortizzanti e telai in lamiera stampata per ciclomotori, a partire dalla metà degli anni ’50 danno vita ad una serie di motocarri e motofurgoni di 50 c.c. per il trasporto urbano leggero, denominati David e commercializzati in una vera e propria miriade di allestimenti.

Quindici anni più tardi l’esperienza così acquisita viene tutta riversata nel Sulky, la cui struttura non pare molto dissimile da quella di un motofurgoncino… carrozzato come fosse un’automobile.

Il Sulky, originariamente provvisto di un propulsore Minarelli a 2 tempi di 50 c.c., compie un sensibile passo qualitativo con il lancio della seconda serie, che impiega la meccanica dell’Ape Piaggio, sempre di 50 c.c., all’avanguardia per l’applicazione ai mezzi da trasporto leggero.

Dall’Ape il Sulky acquisisce anche altre componenti (motorino di avviamento, differenziale, bracci oscillanti, semiasse, sistema frenante e sistemi di aspirazione e scarico) le innesta su una carrozzeria soltanto un po’ impreziosita ed affinata rispetto a quella del debutto, ottenendo un veicolo di sicura e totale affidabilità.

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La struttura del Sulky è a scocca portante integrata da tubolari in acciaio, mentre la sospensione anteriore si avvale di una forcella a sbalzo a ruota spinta e quella posteriore di ruote indipendenti con ammortizzatori idraulici. Il cambio è a 4 marce più RM.

Il Sulky era disponibile sia con guida a manubrio (ed eventuali comandi speciali) sia con una plancia decisamente più automobilistica, dotata di volante, spie e freno di stazionamento

Nonostante una lunghezza di soli 2.405 mm, il veicolo piacentino offre ottima abitabilità al conducente ed un bagagliaio capace di ben 1.330 lt, cui si accede tramite un pratico portello posteriore. Inoltre è disponibile con guida sia a manubrio che a volante, nonché con una lunga serie di comandi speciali a richiesta.

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Del Sulky vengono prodotte nel tempo numerose versioni anche di maggior cilindrata ed un innovativo Sulky Solare a pannelli fotovoltaici. Poi, dopo una carriera durata tre decenni, esso cede il passo all’Ydea, una citycar decisamente più moderna e pretenziosa, con motorizzazioni diesel Mitsubishi di circa 500 c.c..

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Qualche curiosità…

Lucciola - 1940

Nel 1940 il milanese G.B. Pennacchio, titolare dell’omonima officina, progetta una motovettura tipo coupé a tre ruote (due anteriori e una posteriore) che chiama Lucciola. Equipaggiata con motore posteriore 250cc a quattro tempi Condor-Guidetti, già collaudato da anni sulle più svariate applicazioni agricole, disponeva di telaio tubolare e cambio a 3 marce. La carrozzeria era di disegno gradevole e offriva ospitalità inizialmente a due persone, poi a tre. La sua produzione, dopo la presentazione alla XXV Fiera Campionaria di Milano dell’ultima versione, non trovò più clientela tanto da costringere l’officina Pennacchio ad interromperla verso la fine del 1948.

Trottolina – 1940

Emilio Castagna, fratello minore del carrozziere Ercole Castagna, apre una propria ditta nel 1940 in via G.B. Fauché a Milano. Qui, contemporaneamente

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al lavoro di carrozzeria, realizza anche la sua prima vettura denominata Trottolina, probabilmente a pedali (una proposta determinata dalla carenza di carburante), quindi una seconda vettura mossa da un piccolo motore Guidetti, in collaborazione con l’imprenditore G.B. Pennacchio (vedi Lucciola).

Bertoni - 1948

Si tratta di un costruttore lodigiano, autore di un unico modello automobilistico, una spider con le dimensioni di un giocattolo, ma in linea con le vetture utilitarie che nell’immediato dopoguerra destarono comunque una certa curiosità. La vetturetta era mossa da un motore Vespa Piaggio. Fece la sua apparizione nel 1948 durante una manifestazione motociclistica che si teneva nel circuito di Lodi. Non ebbe alcun seguito produttivo.

MV Agusta Vetturetta 350 - 1953

Nei primi anni ’50, caratterizzati dalla difficoltà di preventivare i ritmi e le direttrici di sviluppo dell’economia del Paese in generale e del settore trasporti in particolare, anche qualche grande Casa motociclistica affronta il tema della microvettura, per lo meno a livello sperimentale. La MV Agusta, mentre si affaccia prepotentemente sulle scene del motociclismo agonistico di massimo livello, affida all’ing. Pietro Remor il progetto di una quattro ruote di modesta cilindrata e ciò che ne risulta è un mezzo assolutamente affascinante dal punto di vista tecnico.

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La Vetturetta 350 dell’MV Agusta, ultimata nel 1953, adotta infatti un originale motore a 4 tempi bicilindrico orizzontale contrapposto di 350 c.c., molto potente ( i cv sono ben 34 ad 8.000 giri/min, mentre il rapporto di compressione è di 8,5:1) ed abbinato a un cambio a 4 rapporti. La distribuzione è ad aste e bilancieri, la lubrificazione con pompa ad ingranaggi, l’accensione a spinterogeno. Anche il corpo vettura, che si presenta come spyder a forma di uovo con ruote esterne e parafanghi di stile motociclistico, adotta soluzioni piuttosto raffinate quali la scocca portante, la sospensione anteriore a cannocchiale e quella posteriore a bracci oscillanti. Il tutto per un peso complessivo di 236 chilogrammi.

Zagato Zele – Anni ‘70

In seguito alla crisi degli anni sessanta-settanta, che annulla quasi interamente le potenzialità della carrozzeria italiana, cerca un’alternativa nella costruzione di vetture elettriche. Parte così a Terrazzano di Rho l’operazione Zele (Zagato Elettrica) abbinata alla Elcar (vedi), che è invece il marchio con cui questa micro vettura da città tenta la sorte sul mercato estero. La prima realizzazione originale è la Milanina, seguita da una serie di modelli che esplorano la possibilità di creare un prodotto affidabile, di economica gestione e di gradevole aspetto. La tecnologia disponibile in quegli anni non è tuttavia molto avanzata e la preoccupazione per il crescente inquinamento atmosferico non è ancora così tanto percepita. Pertanto, dopo aver prodotto numerosi modelli, la Zagato deve abbandonare l’ambizioso progetto.

BMA Amica – 1973

Nei primi anni ’70 le microvetture di maggior successo commerciale sul mercato italiano sono il Sulky della piacentina Casalini e l’Amica della B.M.A. di Alfonsine (Ravenna), entrambi a 3 ruote. L’Amica, diffusa più che altro nelle zone centro-meridionali del Paese, si caratterizza per la carrozzeria in ABS montata su telaio a struttura tubolare in acciaio e con le portiere che si aprono ad ali di gabbiano. Il propulsore è un JLO a 2 tempi di 225 c.c. raffreddato ad aria ed abbinato ad un variatore automatico

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di velocità. La lunghezza complessiva di 2.100 mm e la larghezza di 1.350, consentono all’Amica di ospitare 2 persone ed una discreta quantità di bagaglio.

Baldi Frog – 1973

La Baldi, azienda italiana, presentò nel 1973 un progetto di microcar. La maggior parte degli elementi meccanici costituenti proveniva dal progetto della FIAT 500. La Baldi Frog misura 215 cm, dieci centimetri in meno rispetto alla odierna Smart, è dotata di un motore FIAT o da 302 o da 595 centimetri cubici (a seco nda che si parli della versione Base o Rally). Costruita attraverso un telaio tubolare a sezione costante con carrozzeria in plastica.

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Nonostante fosse una soluzione degli anni 70, ad oggi la Baldi Frog potrebbe essere un felicissimo rimedio ai problemi di traffico e parcheggio cittadino. Ne sono state fabbricate complessivamente 300, caratteristica che fa di questa microcar un vero e proprio oggetto di collezione e di culto. La Baldi Frog è stata prodotta in tre modelli: Base, Austere e Rally. Dopo i due anni di produzione italiana il progetto è stato ceduto alla francese Willam.

Elcar - 1975

Marca automobilisti ca creata dalla Zagato per commercializzare all’estero la produzione di propri veicoli elettrici la cui costruzione era stata avviata dal carrozziere milanese nel suo stabilimento di Ter razzano di Rho dopo la crisi che travolse la carrozzeria italiana negli anni Settanta. L’auto elettrica (motore Marelli) è la carta che i fratelli Elio e Gianni Zagato giocarono, forse con eccesivo anticipo, alla ricerca di nuove opportunità per la loro az ienda. Ciò nonostante, con il marchio Elcar, l’azienda riesce ad interessare molte società estere in Germania, Stati Uniti e Australia, che si occupano per molti anni della commercializzazione del prodotto, che da noi invece viene direttamente commercializ zato dalla Zagato.

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Uno sguardo all’Europa…

Nell’immediato dopoguerra l’automobile era ancora un bene di lusso riservato a un ristretto numero di fortunati. La motocicletta e lo scooter divennero così per molte famiglie l’unico mezzo di trasporto, pur con tutti i limiti che un veicolo due ruote comportava. In Europa, molti piccoli costruttori si resero ben presto conto che per soddisfare le sempre crescenti esigenze di mobilità occorreva mettere in produzione delle vere automobili, anche minime, ma pur sempre con tre o quattro ruote e con un tetto sulla testa del pilota e dei passeggeri per poterli proteggere dal freddo e dalle intemperie.

Il fenomeno delle microvetture fu maggiormente evidente in Germania, dove alcune delle industrie che fino a pochi anni prima producevano aeroplani decisero, per poter sopravvivere, di dedicarsi alla costruzione di automobili, utilizzando la loro esperienza nel settore aeronautico. Fu così che nella Repubblica Federale tedesca la produzione di microvetture ebbe un’escalation da record passando da circa 2.000 unità nel 1953 a 9.000 unità nel 1954 e a 35.000 unità nel 1955. Nel 1956 venne toccata quota 60.000, grazie soprattutto al successo commerciale incontrato dalla BMW “Isetta”, la versione locale del modello prodotto dalla nostra ISO, della quale la casa di Monaco acquistò la licenza di costruzione nel 1955 e che divenne disponibile anche in versione a quattro posti a partire dal 1957 con la denominazione di “600” (70.000 esemplari costruiti complessivamente in sette anni).

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Un’altra marca tedesca leader in questo settore fu la Glas, che nel 1955 presentò la “Goggomobil” (280.000 unità prodotte) con motori bicilindrici a 2 tempi disponibili in varie cilindrate. Da segnalare anche la Lloyd, del gruppo Borgward, i cui modelli di maggiore successo furono la “600” del 1955 e la “Alexander” del 1957, che complessivamente furono costruiti in oltre 170.000 unità. Anche la NSU “Prinz” del 1958 può essere catalogata come microvettura per le sue ridotte dimensioni, prima di diventare una vera utilitaria con la serie “4” del 1962.

Un buon successo fu ottenuto anche dal Messerschmitt “Kabinenroller” del 1953, una caratteristica vetturetta a tre ruote con due posti in tandem di ispirazione aeronautica (il tettuccio sembrava il capolino della carlinga di un aereo da caccia) realizzata dalla famosa fabbrica di aerei da combattimento e che fu prodotta anche su licenza in Italia a partire dal 1958 dalla Mi-Val di Gardone Val Trompia (BS).

Oltre a questi modelli, gli unici che conobbero larga diffusione, ne vanno annoverati altri, meno noti, ma ugualmente interessanti per le soluzioni tecniche ed estetiche che presentavano.

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Ricordiamo la “S4” (foto a sinistra) del 1957 con carrozzeria in vetroresina, la Heinkel “Kabine” del 1956 a forma ovoidale con le due ruote posteriori molto ravvicinate, la Zündapp “Janus” (foto a destra) del 1956 con due porte, una anteriore e una posteriore: i passeggeri si sedevano volgendo le spalle al guidatore e il motore era collocato al centro tra i sedili.

L’Inghilterra fu invece più profilica di veicoli “minimi” con però tre sole ruote. Le marche più note furono la Bond (foto), la Berkeley e la Reliant. Quest’ultima Casa, che ebbe come modello di punta la “Regal” del 1951, oggi è ancora attiva ed è apprezzata per i suoi modelli sportivi di elevate prestazioni. Anche la Bond fu molto popolare tra il 1948 e il 1962, mentre la Berkeley aveva pretese più sportiveggianti, pur avendo anch’essa tre ruote, e fu attiva tra il 1959 e il 1961.

In Francia, invece, a parte la già citata Vespa “400” oggetto dell’articolo presente su questo stesso fascicolo, questo tipo di utilitaria non conobbe larga diffusione e le uniche marche meritevoli di segnalazione furono la Rovin, la Mochet e la Vallèe.

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Un fenomeno effimero, dunque, quello delle microvetture, che ebbe

una durata limitata nel tempo e che poté esistere soltanto in un

preciso momento della storia dell’automobile, quello che segnò il passaggio dalle due alle quattro ruote. Ma un fenomeno che stimolò l’ingegno e la fantasia dei costruttori che dovettero inventare nuove

e sempre più originali soluzioni per contenere al massimo i costi e

per offrire al pubblico un’abitabilità degna di questo nome. Per

molti l’attività in campo automobilistico si chiuse nel giro di

qualche anno, mentre per altri, come la BMW, fu l’inizio di una

brillantissima carriera.

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Microcars: tra passato e fut uro

Il cammin o dell’automobile, fin dai primi anni del 900, è costellato da numerosi tentativi di produrre mezzi di piccole dimensioni, capaci della massima sempl i- cità sia in fase costruttiva che durante l’utilizz o. Gli esempi sono in numerevoli e tra le “piccole” automobili alcune rappresentarono veri e propri trionfi co m- merciali: la Ford T e la Fiat Topolino tanto per citare qualche esempio. Si tra t- tava però, in ogni caso, di vere e proprie automobili, soltanto più piccole della media: motori, trasmissioni, telai e carrozzerie non erano infa tti altro che copie in scala ridotta delle tecnologi e adottate dalle “sorelle maggiori”.

Ben diverso il fenomeno delle m icrocar che irrompe nel mondo dell’automobile al term ine del secondo conflitto mondiale, quando la voglia di r icominciare è tanta ma i mezzi per farlo sono assolutamente limitati. L’industria motociclistica mette in campo i motori ausiliari da b i- cicletta ed i “bici-motore”, o f- frendo al pubblico la massima ec onomicità possibile in termini di acquisto e di utilizzo ; ma il veicolo a due ruote, per quanti sforzi di facciano, ha in sé limiti di fruibilità insuperabili. E cco allora concretizzarsi, specie da parte di artigiani e di picc ole- medie imprese, il concetto di mi- crocar, intesa sostanzialmente come l’ applicazione di tecnologia motociclistica ad un veicolo a tre o quattro ruote, chiuso e sicuramente più confortev ole della moto.

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Il fenomeno rimane però effimero per due principali ordini di motivi: da una parte le scarse prestazioni offerte dall’impianto di tecnologia motociclistica (motori, trasmissioni a catena) su un veicolo a più ruote, dall’altra il progressi- vo miglioramento delle condizioni economiche del paese (con la presentazione di utilitarie ben più concrete e performanti, quali le Fiat 500 e 600), fanno si che le microcar scompaiano del tutto dal mercato.

Per assistere alla loro ricomparsa, anzi ad una loro ben più notevole dif- fusione, occorre attendere gli anni ’90, quando irrompono sul mercato le moderne microcar, che non con- servano più nulla di motociclistico e di artigianale ma sono frutto della trasposizione di concetti assoluta- mente automobilisti a carrozzerie di minuscole dimensioni. Questi mezzi, grazie alle agevolazioni legislative e fiscali che li parificano ai ciclomotori, di- ventano una valida alternativa soprattutto nel traffico urbano e metropolitano, specie per coloro che non sono in possesso della patente di guida automobilisti- ca, anche se rimangono penalizzate dal punto di vista delle prestazioni a causa della limitazione a 45 km/h imposta della legge.

Ma nel frattempo, e siamo agli albori del 21° secolo, le condizio- ni del traffico e dell’inquinamento sono notevolmente mutate, tanto da richiedere mezzi che, a fronte di prestazioni e sicurezza auto- mobilistica, consentano ingom- bri, emissioni e consumi assolu- tamente contenuti. A fare da spartiacque tra le “vecchie” e “nuove” microcar, è sicuramente la Smart che apre un capitolo tutto nuovo e nel qualche la vetturetta, da fenomeno simpatico, diventa un vero e proprio feno- meno di massa.

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Smart ED

Una smart elettrica per davvero, utilizzabile tutti i giorni in città non emetten- do neanche un grammo di CO 2 o di altri inquinanti. E’ questa la sfida lanciata dal Gruppo Daimler che con la sua citycar per eccellenza, sta sperimentando una propulsione elettrica commercializzabile entro il 2010. Si chiama smart for- two electric drive ed è stata presentata al pubblico al Salone di Parigi con la promessa che già entro l’anno prossimo l’auto sarà prodotta in una piccola serie destinata ad essere guidata da un gruppo selezionato di clienti.

La smart fortwo electric drive, annunciata in occasione della produzione della milionesima smart, rappresenta l'evoluzione di una precedente versione testata a Londra durante un progetto pilota in cui 100 esemplari sono stati distribuiti ad altrettanti automobilisti per raccogliere le prime esperienze sull'impiego di un'auto elettrica in condizioni reali. Il feedback è stato incoraggiante e le auto- rità della capitale inglese hanno premiato questo impegno nei confronti della mobilità sostenibile esonerando i guidatori di smart elettrica dal costoso pe- daggio d'ingresso urbano (Congestion Charge).

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Il “segreto” tecnico di questa smart sta nelle batterie agli ioni di litio, una tecnologia che le rende più compatte, efficienti e soprattutto durevoli e dunque in grado di garantire un’autonomia adeguata all’impiego cittadino.

Lo svilippo della smart fortwo electric drive rientra nell'e- mobility Berlin, un programma sostenuto dal governo federale e dal Land di Berlino e promosso da Daimler AG ed il gigante energetico tedesco RWE che attiverà 500 stazioni di ricarica in grado di rifornire con sistema plug-in la pri- ma flotta sperimentale di 100 smart elettriche. "Capitale e grande metropoli della Germania, Berlino è il luogo ideale per questo progetto", ha detto Dieter Zetsche, presidente di Daimler AG. "E poiché il traffico si concentrerà in futuro sempre più nei grandi agglomerati urbani, le vetture elettriche a zero emissioni caratterizzeranno il volto delle grandi città attente ai problemi dell'ambiente. “La guida a zero emissioni non è più science fiction".

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Anche Enel e smart si uniscono per e-mobility Italy, il primo progetto improntato alla reale diffusione dell'auto elettrica. Dal 2010 nelle città di Pisa, Roma e Milano, ci saranno oltre 100 smart fortwo elettiche in circolazione che si potranno ri- fornire dalla rete di casa o pres- so gli oltre 400 punti di ricarica diffusi da Enel nei centri urbani deputati alla sperimentazione. A firmare la let- tera d'intenti sono stati l'amministratore delegato e direttore generale di Enel, Fulvio Conti, e il presidente CEO di Mercedes Benz Italia, Bram Schot.

Quest'iniziativa, la cui sperimentazione è prevista per il 2010, ha lo scopo di rendere possibile la diffusione e l'utilizzo efficiente dei veicoli elettrici. Per far entrare le auto elettriche nella vita quotidiana degli automobilisti, mentre Daimler fornirà le fortwo da 41 CV e ben 140 Nm di coppia, spinte da batterie a ioni di litio che assicurano un'autonomia di almeno 150 km, Enel si farà carico di sviluppare, realizzare e gestire la tecnologia e la rete di approvvigio- namento elettrico. Quello offerto dal- le 3 città italiane sarà un ottimo ban- co di prova per delle vetture che, ol- tre a contribuire al benessere ambien- tale del pianeta, consentono un note- vole risparmio di carburante: con una spesa di 10 euro un'auto elettrica è in grado di percorrere 280 km, ben 160 in più rispetto ad una vettura alimen- tata a benzina. Dopo Londra e Berli- no, 3 importanti città italiane saranno dunque protagoniste della sperimentazione di una nuova mobilità ecosostenibi- le. La speranza è che in futuro dalla fase sperimentale si passi, almeno per i grandi centri cittadini, a quella definitiva.

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Smart Diesel e MDH

“CO 2 Champion”. E' questo il motto scelto per il lancio della nuova versione diesel della smart che senza troppi giri di parole, vuole ricordare un primato decisamente invidiabi- le di questi tempi: l'essere l'au- to meno inquinante in com- mercio. Questi i dati: 3,3 litri ogni 100 chilometri emettendo appena 88 grammi di anidride carbonica ogni km.

Non sazia di questi risultati, smart ha deciso di migliorare l'impatto ecologico anche del motore a benzina commercializzando già dal prossimo autunno la smart "micro hybrid drive" (mhd). Questa nuova versione viene per l'appunto definita un'auto "micro-ibrida", ma tale denominazione non de- ve trarre in inganno: la smart mhd non sarà spinta da due mo- tori (uno a benzina e uno elet- trico) bensì da un sistema di al- ternatore-starter che consente lo spegnimento automatico del propulsore negli 'stop&go' da traffico e il successivo riavvio al momento di ripartire (ad esempio quando un semaforo diventa verde). La smart è una delle auto che capitalizza meglio l'utilizzo di un sistema del ge- nere vantando sulla carta una riduzione del consumo di circa 0,4 litri per 100 chilometri (da 4,7 litri a 4,3 litri, ovvero -13%), mentre le emissioni di CO 2 pas- sano da 112 grammi a 103 grammi per chilometro.

Tecnicamente la nuova smart mhd si avvale di uno speciale alternatore-starter azionato a cinghia che svolge contemporaneamente le funzioni di motore di av-

59 viamento e dinamo. Questo consente di rinunciare ad un motore di avviamento di tipo tradizionale che agisce sul volano dell'albero motore. Il sistema è stato sviluppato da smart in collaborazione con Valeo GmbH e Gates Corporation. Il gruppo meccanico comprende l'alternatore-starter STARS 137 prodotto da Va- leo. L'alternatore eroga una coppia di 42 Nm ed una corrente massima di 120 Ampere a 14 Volts, sufficiente per garantire un affidabile avviamento del moto- re, anche in presenza di temperature estremamente rigide (fino a -25°C). Per assicurare un collegamento a basso attrito e durevole del gruppo dell'albero motore all'alternatore-starter, entrambi i componenti sono stati dotati di pu- legge maggiorate, mentre la pompa dell'acqua è azionata a cinghia. La potenza è trasmessa da una cinghia poly-V a 6 scanalature prodotta da Gates. La ten- sione della cinghia è particolarmente importante, a causa delle variazioni di ca- rico che si verificano durante la funzione start/stop. A tale scopo è stato adotta- to un ammortizzatore coassiale, fissato all'alternatore-starter e sostenuto dal blocco motore. L'alternatore-starter è in grado di applicare la corretta tensione alla cinghia, assicurando che entrambe le sezioni vengano azionate dal motore a combustione interna quando è in funzione, e che la sezione complementare del- la cinghia tirata dallo starter nella fase di avviamento sia in grado di trasmette- re la coppia richiesta in modo affidabile.

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Nissan NUVU

Tre metri di lunghezza, tre posti, motore elettrico posteriore, trazione poste- riore, 120 km/h, 125 km di autonomia. Questi i dati salienti della Nissan Nuvu Concept, anticipazione stilistica di una futura city car ecologica e moderna, do- tata di un sistema propulsivo elettrico a "emissioni zero" che dovrebbe entrare in produzione nel 2012.

Questa nuova visione ("new view", o Nuvu appunto) dell'auto da città del futu- ro passa proprio attraverso una concept come la Nuvu, oltremodo arrotondata, vetrata e compatta, con un tetto "biomorfo" pensato proprio per rappresentare "un'oasi urbana con albero interno e foglie che creano energia". La city car del prossimo decennio sarà, secondo Nissan, più vicina alle esigenze di mobilità e di eco-compatibilità degli automobilisti, con un ingombro esterno minimo e un a- bitacolo 2+1 per venire incontro alla realtà del trasporto urbano.

La facilità di parcheggio si sposerà con il libero accesso a tutte le aree urbane garantito dal motore elettrico; il futuro più prossimo è proprio qui, nel propul- sore della Nuvu che, a differenza dell'auto, debutterà nel 2010 e andrà in produ- zione a partire dal 2012. La Nuvu è per il momento solo un'ipotesi, un elemento iniziale di questa prospettiva a lungo termine che vedrà Nissan sempre più im- pegnata nella realizzazione di veicoli a emissioni zero.

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Tornando alla Nuvu Con- cept, il Costruttore giappo- nese informa che si tratta di una piattaforma inedita e specifica, lunga 3 metri, larga 1,70, alta 1,55 e con un passo di 1,98 metri per la massima abitabilità. L'in- terno è studiato proprio per la mobilità cittadina, il classico percorso verso il luogo di lavoro o il supermercato, con al massimo 3 persone a bordo. Priorità di trattamento al guidatore, con ampio spazio di ma- novra e abitabilità, affiancato da un sedile per il passeggero spostato decisamen- te indietro, quasi in una seconda fila; l'eventuale terzo passeggero può essere ospitato in un leggero sedile ripiegabile posto sotto la plancia, che si estende e offre una seduta al terso ospite senza rubarne al secondo. Piccoli bagagli e bor- se morbide trovano posto dietro il sedile del pilota.

Come è ormai d'obbligo in questi prototipi "politicamente ed ecologicamente corretti", molti dei materiali usati all'interno sono naturali e riciclabili, come il pavimento in fibre di legno pressate. La Nuvu però va anche oltre, e si inventa un finto albero il cui tronco nasce dietro il se- dile del guidatore, allar- ga i suoi cinque rami sul tetto vetrato, lo sostiene e si estende sull'area tra- sparente con dozzine di pannelli solari a forma di foglia. Il sistema contri- buisce alla ricarica delle batterie e offre una spinta energetica extra in caso di bisogno.

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I principali comandi di guida sono "By-Wire", ovvero senza collegamento fisico ma solo con controlli elettronici, compresi sterzo, acceleratore, cambio e freni. Il motore elettrico, dalla potenza non dichiarata, è piazzato dietro e comanda le ruote posteriori spingendo la Nuvu a 120 km/h e garantendo un'autonomia di 125 km con una carica. Le batterie agli ioni di litio laminati hanno una densità energetica di 140 Wh/kg, ma ancora non è stato rivelato il valore di capacità e il numero dei moduli. Questo tipo avanzato di accumulatori al litio hanno in- gombri ridotti, possono essere installate facilmente sotto il pianale, non si sur- riscaldano e possono essere ricaricati velocemente da una presa elettrica dome- stica in 10/20 minuti (3/4 ore una ricarica completa).

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Toyita iQ

Piccola, stilosa, tecnologica. Per descrivere la iQ, la nuova “baby Toyota”, di aggettivi ce ne vogliono tanti ed è comunque difficile impiegare poche parole senza essere banali. Innanzi tutto è un concentrato di nuove soluzioni ingegne- ristiche, in secondo luogo è un auto, pensata espressamente per l’impiego nel traffico cittadino, che vanta un primato mondiale: in meno di 3 metri di lun- ghezza può trasportare 4 persone. E poi c’è il contesto socio economico all’interno del quale la nuova iQ dovrà ritagliarsi un posizionamento di merca- to: la crisi internazionale e la presa di coscienza del problema dell’inquinamento che sta convincendo molti automobilisti europei all’acquisto di auto sempre più piccole e dai costi di gestione contenuti.

Può piacere o meno, ma la iQ è tutto fuorché banale. A cominciare dalle pro- porzioni ultra compatte dettate dalla lunghezza del corpo vettura inferiore ai 3 metri (2.985 mm per la precisione). Le linee della carrozzeria sono a tratti sem- plici, a tratti movimentate e conferiscono all’insieme un senso di robustezza en- fatizzato dalla carreggiate larghe e dagli sbalzi praticamente inesistenti. Uno “squilibrio perfetto” dicono alla Toyota, fatto di asimmetrie ricercate e partico- lari stilistici elaborati.

L’abitacolo, altrettanto moderno, colpisce per l’essenzialità: su tutto domina una plancia a “V” che raccoglie al centro gli strumenti per il climatizzatore (manuale o elettronico), lo schermo del navigatore satellitare o il display dell’autoradio. Tutto il resto dei controlli della strumentazione sono riassunti in un joy-stick sul volante.

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L’iQ gioca infatti sulla modularità degli interni: due persone adulte in termini di spazio non hanno nulla da invidiare ai passeggeri di una berlina di classe su- periore; se bisogna trasportare una terza persona (anche adul- ta) è sufficiente tirare avanti il sedile del passeggero spartendo equamente lo spazio a disposi- zione per le gambe. Più difficile è invece il trasporto di un quar- to passeggero in quanto implica dei sacrifici al guidatore. Si può fare, se il quarto è un bambino e comunque per tragitti brevi. Ovviamente se i sedili sono sfruttati, il bagagliaio non esiste: Toyota dichiara 38 litri. Il discorso cambia se non bisogna trasportare nessuno: ripiegando i se- dili la capacità di carico sale a 238 litri, un livello degno di segmento superiore. L’iQ è stata pensata proprio in questi termini: il proprietario può scegliere in qualsiasi momento se e quanto spazio allocare ai passeggeri o ai bagagli. I sedili posteriori sono peraltro sdoppiati al 50 % il che consente di viaggiare in 3 con qualche bagaglio.

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Parlare oggi dell’abitabilità dell’iQ è facile. Vale però la pena spiegare come si è arrivati a tali risultati, non fosse altro perché bisogna riconoscere i meriti degli ingegneri Toyota che dal 2003 si sono dedicati al progetto. Per raggiungere il tanto decantato primato delle “4 persone in meno di 3 metri”, la progetta- zione è partita da una piattaforma sviluppata ad hoc a cui sono state applicate una serie di so- luzioni ingegneristiche estremamente innovati- ve che rispondono in co- ro ad un'unica esigenza: miniaturizzare i compo- nenti (il maggior numero possibile) per guadagnare spazio da destinare all’abitacolo. Così, ad esempio, è stato avanzato il differenziale davanti al moto- re, il che ha permesso di ridurre di 120 mm la distanza tra l’estremità del para- urti ed il pedale dell’acceleratore. Ancora, è stata adottata una particolare scato- la di guida che riduce lo spazio occupato dal vano motore e che ha consentito di ridurre al minimo gli sbalzi anteriori, mentre il serbatoio di carburante di di- mensioni ultrasottili (120 mm di altezza) è stato po- sizionato sottoscocca anzi- ché sotto ai sedili. Questa soluzione permette di spo- stare in avanti le ruote po- steriori e di inclinare all’indietro gli ammortizza- tori per non “invadere” spazio dei sedili posteriori. Altre “chicche” sono i sedili con schienali ultrasottili, il sistema di climatizzazione compatto (l’impianto occupa il 20% di spazio in me- no) e il cruscotto di bordo asimmetrico che consente di guadagnare 130 mm di

66 spazio extra per le gambe del passeggero da spartire con l’eventuale terzo oc- cupante che siede dietro.

La nuova Toyota iQ è disponibile con un moderno 3 cilindri a benzina di 1 litro capace di 68 CV e abbinato di serie ad un cambio a variazione continua Multi- drive. Per coloro che non riescono a rinunciare al pedale della frizione - in Italia sono ancora tanti - è comunque disponibile, senza sovrapprezzo, un cambio manuale a 5 rapporti. Il favorevole rapporto peso/potenza, rende questo pro- pulsore brioso ed estremamente parco nei consumi: la Casa dichiara 4,7/3,9/4,3 litri ogni 100 km rispettivamente ne ciclo urbano, extraurbano e combinato (5,7/4,1/4,7 per la versione Multidrive). Contenute sono anche le emissioni di

CO 2 pari a 99 grammi al chilometro.

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Alla luce degli esempi citati (ma se ne potrebbero discutere molti altri), non si può fare a meno di constatare che qualcosa, nel mondo dell’automobile, sta cambiando. Sembra infatti che i grandi costruttori, quelli che realmente hanno la possibilità ed i mezzi per “imporre una vera rivoluzione” della mobilità di massa, abbiano preso coscienza delle grandi problematiche ambientali ed eco- nomiche con cui il mondo deve, e dovrà sempre più in futuro, confrontarsi.

La ricetta vincente, almeno nel breve-medio termine, sembra rappresentata proprio da queste micro vetture in grado di coniugare assieme prestazioni au- tomobilistiche ed estrema flessibilità, a consumi, emissioni ed ingombri vera- mente ridotti. La strada verso il famigerato traguardo delle “emissioni zero”, ottenibili con l’alimentazione elettrica o con l’utilizzo dell’idrogeno, dovrà tut- tavia passare attraverso tappe intermedie; sarebbe infatti irreale pensare ad una trasformazione così radicale a breve termine, non tanto per la tecnologia da a- dottare a bordo vettura quanto più per la realizzazione di una efficiente rete di distribuzione (creare un servizio capillare di erogazione di energia elettrica o addirittura di idrogeno richiede molto tempo oltre che importanti investimenti economici). Per tali ragioni il percorso obbligato dovrà passare necessariamente da alimentazioni alternative come il metano o il Gpl (oggi sempre più diffusi grazie anche al notevole risparmio economico che deriva dal loro utilizzo) e dall’alimentazione ibrida che, grazie all’unione del motore elettrico con quello tradizionale, permette, soprattutto nei grandi centri abitati, un consistente ri- sparmio sia in termini economici che di inquinamento ambientale.

Se accanto ai progressi tecnologici si riuscissero poi a sviluppare in maniera concreta alcune politiche innovative di gestione e di utilizzo dell’automobile, come il car- sharing o il car-pooling, il traguardo dell’abbattimento delle emis- sioni inquinanti (almeno quelle prodotte del parco veicolare circolante) e del decongestionamento del traffico cittadino, sarebbe molto più vicino di quanto si possa immaginare.

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Il car sharing… una proposta di mobilità sostenibile

I trasporti sono un servizio fondamentale per la società in quanto consentono la circolazione di persone e merci, contribuendo in modo vitale allo sviluppo economico. Come per ogni altra attività, ai benefici si contrappongono però dei costi, che possono diventare ingenti e configurarsi quindi come uno spreco in funzione del livello e del modo in cui la domanda di mobilità è soddisfatta. Quanto questo possa essere vero lo dimostra il caso dell’automobile, il cui impiego massiccio comporta conseguenze negative evidenti a tutti, soprattutto per chi vive in città: le auto inquinano, provocano rumore, sono causa di molti incidenti, creano congestione, invadono le strade per la mancanza di parcheggi adeguati e altro ancora. Meno evidente è che tutte queste conseguenze, oltre ad essere un fastidio più o meno tollerato, rappresentano un costo, sia per gli automobilisti, sia per la società. E’ proprio in questa ottica che nasce il Car - Sharing, un servizio innovativo di mobilità privata, complementare al trasporto pubblico locale: “si usa l’auto solo quando serve, si paga solo quando si usa. E’ il car sharing, ovvero l’auto in condivisione”.

Il mercato automobilistico, infatti, offre ampie possibilità di scelta a chi desidera acquistare un veicolo, ma concede poche alternative, economiche e funzionali, a chi ne fa un uso occasionale. Il Car Sharing si rivolge proprio a quest'ultima categoria di automobilisti: le opportunità di scelta garantite dalla varietà del parco auto e la possibilità di muoversi senza sostenere i disagi e i costi fissi legati al possesso dell'automobile stessa, rappresentano infatti una valida alternativa all'acquisto.

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L´utilizzo del car-sharing cambia anche l´economia della guida attraverso la conversione del costo fisso in una tariffa a utilizzo e ciò diminuisce gli "sprechi" dovuti a viaggi individuali e male organizzati. La condivisione dell´auto, in pratica, rappresenta un incentivo a viaggiare meno e meglio, tagliando gli utilizzi non necessari. Da non sottovalutare, inoltre, l´aspetto legato ai tragitti compiuti per recarsi al posto di lavoro, nei quali l´unione del car-sharing al car- pooling (l´utilizzo condiviso e a pieno carico dell´autovettura) può amplificare i benefici di entrambi i sistemi. Sul fronte ambientale pertanto è auspicabile una diminuzione delle emissioni dovuta al minor numero di macchine circolanti (si è calcolato che ogni auto collettiva toglie dalla strada 5-10 automobili private), ma anche per l´utilizzo di veicoli più recenti e migliori sul fronte dell´efficienza, come quelli ibridi. Da non sottovalutare, inoltre, il minor consumo energetico dei veicoli circolanti, dovuto alla fluidificazione del traffico urbano che diventa così meno congestionato.

Un car sharing davvero innovativo: “Car2Go”

Noleggiare un’auto in città per singolo minuto di utilizzo all’equivalente del costo di una telefonata. E noleggiarla con la libertà assoluta di sedersi al volante della prima vettura disponibile e di riconsegnarla lasciandola parcheggiata in una qualsiasi area di sosta pubblica. Sono queste le caratteristiche salienti del “car2go”, l’innovativo progetto di mobilità urbana messo a punto da Daimler che prende spunto da una presa di coscienza ormai condivisa da tutti i paesi industrializzati: nelle grandi città ci sono troppe auto, non c’è più spazio neanche per parcheggiarle e bisogna trovare urgentemente soluzioni che salvaguardino la qualità della vita dei cittadini e al contempo le esigenze di mobilità dei singoli.

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Il Gruppo tedesco ha immaginato così di rifornire la città di Smart in numero proporzionale alla popolazione e all’estensione del centro abitato. Tutte le vetture sono collegate ad un centro operativo e geolocalizzabili in tempo reale. Ed è proprio questo l’aspetto più innovativo del car2go: rispetto alle tradizionali formula di carsharing le auto possono essere parcheggiate ovunque. Chiunque ne vuole utilizzare una e non la trova fisicamente, non dovrà far altro che contattare un call center che segnalerà la Smart più vicina. La ricerca può essere condotta anche via cellulare, collegandosi al portale internet dedicato che indicherà attraverso una mappa il percorso più breve per raggiungere la prima Smart disponibile. Al momento dell'iscrizione (gratuita) al servizio car2go, sulla patente di guida del cliente, viene applicato un sigillo elettronico che consente di aprire le vetture a noleggio. Raggiunta una Smart parcheggiata è sufficiente posizionare la patente di guida di fronte al lettore installato sul parabrezza, salire a bordo, digitare il proprio codice personale segreto su un apposito schermo touch screen ed avviare la vettura con le chiavi riposte nel cassetto portaoggetti. Per il noleggio non sono previsti limiti di tempo. Nelle soste intermedie, ad esempio per fare acquisti, la vettura rimane a disposizione dell'utente. Quando il Cliente decide di restituire la sua car2go, non deve fare altro che lasciarla in un qualsiasi parcheggio dell'area urbana oppure nei parcheggi riservati al servizio car2go, ad esempio all'esterno delle stazioni ferroviarie e degli aeroporti.

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Nella tariffazione al minuto del noleggio è compreso tutto, anche la benzina. In caso di necessita si potrà comunque fare il pieno con una carta carburante sempre presente all’interno dell’auto e senza alcun costo aggiuntivo. Ma il principio del car2go è quello di minimizzare le perdite di tempo del cliente: se l’auto parcheggiata ha una quantità di carburante minima, la centrale operativa invierà un addetto che si occuperà del pieno, del lavaggio e del ripristino di eventuali danni. In tal senso è importantissima l’interazione dell’utente che sarà chiamato ogni volta che sale a bordo della Smart ad esprimere un giudizio sulle condizioni dell’auto.

Per Daimler il car2go potrebbe diventare un vero e proprio business la cui fattibilità economica, oltre che tecnologica, sarà sperimentata nei prossimi mesi a Ulm in Germania, una cittadina di 130.000 abitanti dove ha sede il centro di ricerca universitario del Gruppo di Stoccarda. Una flotta di 50 Smart fortwo sarà impegnata a partire dal 24 ottobre 2008 e disponibile per i soli dipendenti del centro. Successivamente il servizio sarà aperto a tutti gli abitanti dell’area urbana che potranno noleggiare una Smart a 0,19 euro al minuto. Per impieghi dell’auto prolungati è comunque prevista anche una tariffa giornaliera di circa 50 euro.

Se il progetto si dimostrerà valido nella vita concreta, oltre che sulla carta, l’intenzione di Daimler è quello di esportarlo progressivamente nelle principali capitali europee dove i numeri in gioco sono decisamente più importanti. Basti dire che per una città come Parigi occorrerebbero 5.000 Smart. In caso di successo sarebbe davvero un bel business, ma anche (e finalmente) una ricetta vincente per decongestionare le nostre città.

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Bibliografia

Motociclismo d’epoca – Edisport Editoriale S.p.a.

 Giugno 2004

Ruote Classiche – Editoriale Domus S.p.a.

 Giugno 1988  Novembre 1993  Ottobre 1995  Settembre 1996  Aprile 1999  Ottobre 2001

La Manovella – Editrice Legenda

 Volume monografico: dizionario delle marche automobilistiche della Lombardia – Settembre 2001

Quattroruote – Editoriale Domus S.p.a.

 Volumi vari

Archivio storico

 Dott. Piero Inglardi

Siti internet visitati

 www.microcarmuseum.com  www.infomotori.it  www.omniauto.it  www.motorbox.com  www.wikipedia.it

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