Lucky Luciano – Intrighi, Maneggi E Scandali Del Padrone Del Calcio Italiano”, Non Ha Avuto Il Bene Di Una Sola Recensione – a Puntate Su Dago, Un Libro- Kaos…
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MOGGI STORY/1 – SCRITTO DA TRAVAGLIO E TRE CRONISTI SPORTIVI, PUBBLICATO NEL 1998, “LUCKY LUCIANO – INTRIGHI, MANEGGI E SCANDALI DEL PADRONE DEL CALCIO ITALIANO”, NON HA AVUTO IL BENE DI UNA SOLA RECENSIONE – A PUNTATE SU DAGO, UN LIBRO- KAOS… “Lucky Luciano – Intrighi, maneggi e scandali del padrone del calcio italiano Luciano Moggi”, Ala Sinistra e Mezzala Destra, Kaos Edizioni (Un libro scritto in joint-venture da tre giornalisti sportivi, che hanno preferito l’anonimato, e da Marco Travaglio) «Dopo i quarant’anni, ciascuno è responsabile della faccia che ha» Fedor Dostoevskij PREMESSA Luciano Moggi e un libro sono come il diavolo e l'acqua santa. Perché allora questa biografia? Perché Moggi è il padrone del calcio italiano. E la sua faccia, i suoi occhiali scuri, il suo sigarone fra i denti, i suoi quattro telefonini trillanti, la sua voce roca e cantilenosa, il suo accento senese-ciociaro-napoletano, il suo italiano approssimativo, i suoi gusti ruspanti, insieme al suo potere smisurato, sono diventati il simbolo di uno sport sempre più ricco, scandaloso e processato. Se sia Moggi a attirare gli scandali o gli scandali a attirare Moggi, è questione controversa e irrisolta: sta di fatto che dove c'è lui ci sono loro. Va alla Lazio, e la Lazio vive due delle sue stagioni più buie, fra calcio-scommesse e serie B. 1 Va al Napoli, e il Napoli passa da uno scandalo all'altro (lo scudetto sgraffignato per una monetina, quello regalato al Milan con contorno di camorra e toto-scommesse, e poi Maradona in mezzo a cocaina e camorristi). Trasloca al Torino, e anche li è tutto un intrico di fondi neri, frodi fiscali, giocatori finti, contratti fasulli, fatture false, sexy- hostess per arbitri. Approda infine alla Juve, e la Signora del calcio italiano finisce sul marciapiede in un vortice di sospetti, polemiche e inchieste giudiziarie come mai prima. Spesso, anche grazie alla sua indubbia scaltrezza, Moggi ha cambiato aria un attimo prima che le cose si mettessero male. Qualche volta è stato solo sfiorato o se l'è cavata per il rotto della cuffia. Altre volte è finito anche lui nei guai insieme ai suoi presidenti e ai suoi giocatori, collezionando un buon numero di inchieste, sportive e soprattutto giudiziarie, e rimediando un discreto pacchetto di rinvii a giudizio e condanne. Presso il Casellario giudiziario di Siena (Moggi è nato da quelle parti, a Monticiano) ci sono già tre sentenze definitive a suo carico, che fanno di lui un pregiudicato a tutti gli effetti. Ma limitarsi a queste quisquilie sarebbe fare un grave torto a colui che di fatto è il despota del calcio italiano. Un boss tanto potente quanto temuto e chiacchierato, partito nullatenente e arrivato multimiliardario. Il contorno di eccessi - il vizio delle carte, la scuderia di cavalli da corsa a Roma-Tordivalle, le decine di dimore sparse per l'Italia - sono in linea con il personaggio. Un personaggio che oggi incarna - indisturbato - il più scandaloso "conflitto di interessi" della storia del calcio mondiale: mentre lui siede sulle poltrone di consigliere di amministrazione e di direttore generale della potente Juventus, suo figlio 2 Alessandro è socio-presidente della Gea World, società che rappresenta oltre duecento calciatori di serie A e B (alcuni della stessa squadra bianconera, molti altri di club avversari). Un obbrobrio sportivo-affaristico inconcepibile, che all'estero farebbe inorridire chiunque. In Italia no: da noi anche il calcio è all'italiana, e la ditta Moggi può spadroneggiare indisturbata, temuta e venerata. Mettere insieme questo libro non è stato facile: nessuno, nell'ambiente, è disposto a dichiarare quello che molti mormorano. "Lucianone" è tanto potente quanto vendicativo. Non è stato facile neanche trovare un titolo adatto a salvare la decenza: alla fine si è deciso per "Lucky Luciano", un altro dei suoi soprannomi, che ha il pregio di richiamare una delle più note massime moggiane: «Se ho vinto tanto nella mia carriera si vede che è perché sono molto fortunato». E lucky, appunto, vuol dire "fortunato". POST-PREMESSA La prima edizione di questo libro, pubblicata nel novembre 1998, non ha avuto il bene di una sola recensione, di uno straccio di articolo, sui tre quotidiani sportivi che ogni giorno vengono editi in Italia in poco meno di un milione di copie. Moggi ha tanti amici fedeli (e qualche devoto maggiordomo) nelle redazioni sportive, compresa quella della Rai. Ma nonostante la censura, “Lucky Luciano” si è guadagnato nel tempo, col passaparola, molte migliaia di lettori e una seconda edizione. Nel giugno del 2003, durante una intervista, Lucianone ha fatto cenno a questo libro per lamentare che gli autori «non hanno avuto il coraggio di firmarsi». Non è una questione di "coraggio", è che di questo lavoro sono autori vari cronisti, sportivi e non. E qualcuno conosce il carattere 3 vendicativo di Lucianone; mentre qualcun altro vuole evitare che il proprio nome sia associato a quello del biografato e a molti degli argomenti trattati nel libro. Il lettore, inoltrandosi in queste pagine, capirà. CAPITOLO PRIMO – LUCIANONE DA MONTICIANO LO CHIAMAVANO PALETTA Nato a Monticiano, in provincia di Siena, il 10 luglio 1937 da una famiglia di ceto modesto, fin da bambino Luciano Moggi è un vero patito di calcio. Il pallino del pallone glielo trasmette Graziano Galletti, un panettiere di Grosseto, il quale la domenica si porta appresso Lucianino in giro per gli stadi della Toscana a vedere le partite. Il ragazzino, è fatale, tenta anche la carriera di calciatore, ma il talento non c'è, i risultati sono scarsi. Deboluccio col pallone tra i piedi, Lucianino non è migliore sui banchi di scuola: anche per ragioni di bilancio familiare, dopo il diploma di terza media abbandona gli studi e comincia a lavorare. Trova un posto alle Ferrovie dello Stato, e poco tempo dopo viene trasferito a Civitavecchia. Alla stazione di Civitavecchia, Moggi fa l'impiegato. Ma spesso lo mandano fra i binari a controllare le traversine. Una carriera non proprio travolgente: arriverà fino al grado di capogestione, una specie di vicecapostazione addetto alla biglietteria. Una volta - raccontano - gli capita di rimpiazzare il titolare e fa partire il treno, così si guadagna il soprannome di "Paletta". Ma più che di treni, lui è appassionato di calcio. Nel tempo libero continua a giocare da stopper in varie squadrette di quarta serie. E intanto medita come coniugare le due vocazioni della sua vita: quella di manovratore e quella di pallonaro. È la metà degli 4 anni Sessanta quando il capo-gestione della stazione ferroviaria di Civitavecchia, tra pacchi da smistare e biglietti da vendere, intuisce che il calcio sta per diventare un grande business. La svolta arriva alle soglie dei trent'anni. Moggi li compie nel luglio 1967, ma li festeggia con qualche settimana di anticipo insieme agli amici di Monticiano, quando la Juve conquista, a sorpresa, il tredicesimo scudetto ai danni dell'Inter di Helenio Herrera. È stanco di cercare ingaggi in serie D (l'attuale C-2, allora strutturata in modo molto diverso da oggi), e di girovagare fra la Toscana e il Lazio (con una parentesi perfino in Sicilia, ad Agrigento, nella gloriosa società dell'Akragas). Sobbarcarsi lunghi viaggi in treno per giocare in quarta serie, in cambio di poche migliaia di lire, non gli va più. Anche l'impiego alle Ferrovie dello Stato comincia ad andargli stretto: è un lavoro noioso e malpagato. Molto meglio il mondo del calcio, dove lo chiamano Lucianone per la giovialità guascona e spregiudicata. E dove, soprattutto, cominciano a ronzare i talent scout, gli scopritori di giovani campioni, intenditori del gioco più bello del mondo capaci di scovare quelli che diventeranno i futuri big in cambio di discrete provvigioni. Un lavoro oscuro, fatto di chiacchiere, di diplomazia e scaltrezza. Tutti requisiti che il trentenne Moggi possiede in abbondanza. Lui è un estroverso, un gran chiacchierone, parla di tutto, soprattutto di donne, di motori e ovviamente di calcio. Ma è un furbacchione, e conosce a meraviglia l'arte di ascoltare: «In mezzo a tante stronzate che si sentono, ci può sempre essere un'idea» è una delle sue frasi celebri. 5 Moggi è ignorante, ma non è sprovveduto. Parla un italiano scombiccherato e dialettale, ma ha la furbizia del contadino "scarpe grosse e cervello fino". E capisce subito che la pubblicità è l'anima del commercio, che esiste soltanto chi sa farsi vedere. E lui sa farsi notare come pochi. Soprattutto negli stadi minori, al fianco di quelli che vengono chiamati "mediatori": personaggi utili ma imbarazzanti, i quali si muovono in un mondo dorato e ipocrita che fa finta di non conoscerli, che se ne avvale fingendo che non ci siano. Sono perlopiù personaggi toscani, come Franco Marranini, come Romeo Anconetani (futuro presidente del Pisa); ma anche romani (il numero uno è Walter Crociani), napoletani, friulani, milanesi. A Monticiano, Moggi è noto come un tifoso della Juventus. Alla stazione di Civitavecchia, altrettanto. La passione è forte, il desiderio di fare parte di quel mondo anche. L’occasione gliela offre il torneo di Viareggio, la rassegna giovanile più celebre del calcio italiano. Moggi viaggia molto, lavora anche di notte, visiona ragazzi e raccoglie dati, compilando dei veri e propri dossier. I giovani calciatori che gli interessano li scheda uno a uno, raccogliendo notizie dettagliatissime, anche sulla situazione familiare. Stabilisce con loro rapporti diretti e personali, si candida a fargli da manager ma anche da vicepadre, da fratello maggiore, e spesso ci riesce. Così, chiacchierando e schedando, sgomitando e agganciando, segnalando e raccomandando, Moggi nel 1968 entra a far parte della corte del supermanager Italo Allodi, colui che in quegli anni ha costruito dal niente il leggendario Mantova (approdato dalla serie D alla A con 6 una scalata senza precedenti) e che ha fatto grande l'Inter di Angelo Moratti e Helenio Herrera.