La Notte Di Taranto
Capitolo diciottesimo La notte di Taranto L’11 novembre 1940 è un giovedì. A Taranto, una delle maggiori basi navali della flotta italiana, sembra tutto calmo: sul lungomare è sceso un tiepido crepuscolo e la consueta folla dei curiosi e dei marinai in libera uscita si è diradata e poi dispersa. Nel Mar Grande, protette dalle reti parasiluri e dai palloni di sbarramento, ci sono alla fonda sei corazzate (Littorio, Vittorio Veneto, Giulio Cesare, Cavour, Duilio, Doria), tre grandi incrociatori (Gorizia, Zara, Fiume) e otto cacciatorpediniere; nel Mar Piccolo, attorno ai sei incrociatori (Trieste, Bolzano, Abruzzi, Garibaldi, Pola, Trento) i caccia sono disposti «a pettine»; accanto a loro dondola all’ancora la nave appoggio Miraglia. Nel buio dell’oscuramento totale passano le ronde a controllare i moli, le calate, gli imbocchi della base. Tutto è tranquillo. Attorno ai due Mari ci sono ventuno batterie contraeree con 101 cannoni, 68 complessi di mitragliere (con un totale di 84 canne) e 110 mitragliere leggere. Quando un mese prima l’Italia ha attaccato la Grecia, Badoglio ha suggerito di spostare la flotta da Taranto perché c’è da aspettarsi un attacco inglese, ma i due Mari di Taranto, almeno dai rapporti ufficiali, risultano ben difesi: oltre alle batterie antiaeree ci sono ottantasette palloni aerostatici (una trentina dei quali lungo la diga della Tarantola); quasi tredici chilometri di reti parasiluri che, scendendo alla profondità di dieci metri, proteggono a distanza ravvicinata (2000 metri) le navi ormeggiate mentre tredici stazioni aerofoniche ascoltano in continuazione i suoni provenienti dal cielo e dal mare. Il comando della base, però, è in stato di preallarme.
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