Carlo Pedersoli: 90 Anni Di Leggenda Written by Redazione | 31 Ottobre 2019
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Carlo Pedersoli: 90 anni di leggenda written by Redazione | 31 Ottobre 2019 Certo, al secolo è Bud Spencer, pilastro del cinema italiano, attore iconico come pochissimi, ma per noi rimane Carlo Pedersoli, primo italiano ad abbattere il muro del minuto nei 100 stile libero (59.50, 19 settembre 1950). Lo ricordiamo con l’intervista esclusiva concessa alla redazione di InAqua (il progetto editoriale dal quale ha preso vita AQA, del quale Pedersoli si era autoproclamato garante) nell’ormai lontanissimo febbraio 2007. Il garante. INAQUA MEETS BUD Mai dare nulla per scontato. Ci incontriamo di fronte allo studio di Carlo Pedersoli pronti ad una lunga anticamera e a un’intervista sbrigativa, da incastrare fra gli innumerevoli impegni di una persona alla quale, come leggerete più avanti, gli impegni non mancano. Invece ci sta già aspettando… Con mezz’ora di anticipo rispetto all’orario concordato. La signora Nelly, sua deliziosa collaboratrice di lungo corso (“Trentacinque anni… Praticamente una coppia di fatto!” scherza), ci introduce nello studio: Carlo è seduto alla scrivania e sta visionando il dvd di Banana Joe, uno dei film ai quali è più legato, avendone scritto personalmente, come sottolinea con malcelato orgoglio, la sceneggiatura. E qui inizia il Bud che non ti aspetti: “Il cinema è tutto plagio”, spiega “Banana Joe non è altro che il Candide di Voltaire trasportato in Sudamerica. Le storie sono sempre le stesse: la bravura dello sceneggiatore sta nel farle apparire sempre diverse”. Facciamo appena in tempo a presentarci: Pedersoli è un fiume in piena di idee, ricordi, aneddoti, che ti sommerge con il suo inconfondibile accento partenopeo. Ad eccezione del Presidente, che riesce a mantenere un contegno istituzionale, i consiglieri Anaten sono fantozzianamente adoranti al cospetto di un personaggio mitico per almeno tre generazioni di italiani, pronti a prostrarsi al suo cospetto: è invece lui a ricoprirci di complimenti, lodando l’impegno dell’Associazione, informandoci di avere appena pagato la quota associativa! Adoranti. A stupore si aggiunge meraviglia nell’apprendere che Carlo ha letto da cima a fondo, e dalla precisione dei commenti si capisce che non èuna dichiarazione di rito, il numero zero di InAqua, del quale ha particolarmente apprezzato il contributo di Andrea Felici sul doping (liquida poi con unchist’so’ pazz’… la pretesa dell’ENPALS di allungare le zampe sui contratti sportivi paventata da Roberto Bresci). Scopriamo così che, cinquant’anni e centoquattro film dopo la sua ultima gara, Carlo Pedersoli si considera ancora, in primo luogo, intimamente, un nuotatore. “Il successo cinematografico me l’ha dato il pubblico, i titoli in vasca me li sono conquistati faticando”. Ci eravamo preparati delle domande, ma Carlo le anticipa tutte. “Ho iniziato a nuotare a Napoli, alla metà degli anni Trenta. Iniziai a muovere le prime bracciate presso il locale club di nuoto, poi venne la guerra. Nel 1940 papà decise per il trasferimento a Roma, dove mi dedicai al rugby e al pugilato prima di tornare al nuoto, la mia prima passione”. Chiediamo ingenuamente il motivo per il quale ha abbandonato la boxe… “Li stendevo tutti… Mi dispiaceva per loro…” Carlo Pedersoli è passato alla storia del nuoto per aver infranto la barriera del minuto nei 100 metri stile libero, ma nasce ranista: “Anche a rana non c’era storia… Primo, sempre”. Poi, nel 1947, il trasferimento in Sudamerica (Argentina e Brasile): tre anni senza nuoto! Nel 1950 il rientro in Italia e, dopo pochi mesi di allenamenti, a Salsomaggiore, il record: 59’’50. Da lì al 1957, una decina di titoli italiani, due Olimpiadi (Helsinki 1952 e Melbourne 1956, con la doppia convocazione nuoto-pallanuoto), altri due secondi di miglioramento, grazie anche a un trucco imparato durante un soggiorno negli USA: la virata a capovolta. “Una virata mi costava quasi un secondo e mezzo” commenta preciso “con la capovolta scesi a quattro decimi ed entrai nell’élite internazionale… Per competere alla pari con i migliori al mondo mi mancava solo una cosa: il tuffo. Ad ogni partenza prendevo delle spanciate tremende, mi ‘piantavo’ e mi toccava ricominciare da capo”. Esilaranti i ricordi delle lunghe trasferte in treno “Dormivamo in quattro in uno scompartimento di sei posti. Due stesi sulle panche (di legno… Terza classe!), due sui portabagagli (sempre di legno!). Ovviamente gli altri passeggeri ci costringevano a liberare i posti e a metterci seduti… Dopo un po’ adottammo l’abitudine di dormire completamente nudi: i passeggeri aprivano le porte e immediatamente le richiudevano, al grido di maronn’… E cche è? Non meno buffi gli innumerevoli altri aneddoti: “A Roma, durante un ritiro della nazionale, ci mandarono a cena in un elegante ristorante del quartiere Parioli. Un pasto medio costava settecento lire. Il nostro allenatore telefonò chiedendo che ci dessero da mangiare per tremila lire. Il ristoratore scoppiò a ridere: era quasi cinque volte la porzione media, e negli anni Cinquanta le porzioni erano abbondanti… Dopo un po’ che eravamo lì, il ristoratore telefonò infuriato all’allenatore: ‘se non mi dai almeno cinquemila lire li faccio cacciare dalla polizia!’” Anche la pallanuoto ha un posto importante nei suoi ricordi: Pedersoli cita le cinque stagioni in cui giocò come centroboa della nazionale (“dopo Carlo Ghira, olimpionico a Londra 1948 e prima di Renato Desanzuane”), ma si capisce chiaramente che il nuoto è stato il vero amore. Carlo Pedersoli è tutto meno che prevedibile: alla domanda su quale sia il suo ricordo più bello ci si aspetterebbe che citasse le convocazioni olimpiche, il record, e invece… “Era il 1953, subito dopo le Olimpiadi di Helsinki. La nazionale del Giappone era in tournee in Europa. Loro vantavano tre dei migliori velocisti al mondo. Li battei. La piscina esplose: la gente si tuffava in acqua vestita. Loro erano ‘cotti’ da un mese di tournee” ammette candidamente “io mi ero svegliato bbello bbello nel letto di mammà… Comunque, vinsi”. Nel 1957 il ritiro, e tutte le difficoltà per il conseguente riadattamento alla vita “civile”. E ancora una volta Carlo ci stupisce, nel momento forse più emozionante della nostra visita. “Con la scritta Italia sul petto mi sentivo un superuomo. Bello, alto, vincente… Oggi ci sono le veline, negli anni Cinquanta il sogno del maschio italiano erano le ballerine di Macario… Io le aspettavo fuori dal Teatro Sistina e loro salivano sulla mia Lambretta anziché sui macchinoni parcheggiati di fronte. Mi sentivo invincibile. Ma mi ero perso. Non sapevo più chi ero. Non si può vivere di glorie passate. Se diventi schiavo del passato sei finito. Allora partii. Andai nell’unico paese dove non mi conoscevano, dove non avevo certezze: il Venezuela. Per ricominciare da capo. Il giorno che arrivai, uscendo dall’aeroporto sentii scoppi, botti… Un casino… Era appena scoppiata la rivoluzione! Trovai rifugio in una casa di italiani, lì vicino. Quando tornò la calma, trovai un impiego per la compagnia che stava costruendo la “Panamericana”, la strada di collegamento tra Paname e Buenos Aires. Nel 1960 il ritorno in Italia. Carlo Pedersoli nella vita ha fatto di tutto: tanto per dire, detiene una dozzina di brevetti, tra i quali quello per la prima auto elettrica realizzata in Italia (“Una Fiat Topolino alla quale avevo applicato due batterie ferroviarie. Andava a due all’ora e aveva un’autonomia ignobile… Però fu una delle prime…”), ha posseduto due compagnie aeree (vanta oltre 2000 ore di volo su jet, più di 400 in elicottero), ma al cinema non aveva mai pensato. Aveva sì sposato Maria Amato, figlia del produttore deLa dolce vita, ma si occupava di tutt’altro: per la precisione, di compravendita di automobili, quando, nel 1967, il regista Giuseppe Colizzi, amico di famiglia della moglie, telefonò a casa chiedendo a Maria se suo marito avesse ancora il fisico possente visto sui giornali, se parlasse inglese e se fosse capace di cavalcare. Nonostante il triplice no (“Avevo già la panza, non ero mai salito su un cavallo, non spiccicavo una parola di inglese”), a Carlo viene comunque offerta la parte in Dio perdona… Io no!, che il nostro rifiuta per mancanza di accordo sul cachet: “Avevo due cambiali da due milioni in scadenza… Lui non mi offriva più di un milione… Lo mandai a quel paese (anche in questo caso il termine esatto è più preciso, ndr). Nonostante questo, dopo un paio di settimane richiamò offrendomi i quattro milioni. Evidentemente non aveva trovato di meglio”. Il film sancì l’incontro con Mario Girotti, meglio noto come Terence Hill: era nata la coppia che, con i successivi quindici film, avrebbe polverizzato tutti i record di incassi e di popolarità del cinema italiano. L’episodio offre il destro per esporre la regola delle “tre C” -come esposta in televisione dal grande Dino De Laurentis- più una: “Per andare avanti nella vita ci vogliono cuore, cervello, co***oni e, soprattutto, un gran c**o. Io ne ho avuto un bel po’. Cosa rappresenta la quarta “c” potete immaginarlo… Diciamo che ha a che fare con la buona sorte”. Su quest’ultima affermazione ci permettiamo di dissentire, non eccessivamente peraltro, in quanto il tono non ammette repliche e comunque non ce ne sarebbe il tempo, perché Pedersoli sta già applicando la regola al caso di Terence Hill: “Il film avrei dovuto girarlo con un certo Peter Martell (Pietro Martellanza), trentino, il quale, la sera prima dell’inizio delle riprese, si ruppe un piede durante un litigio con la fidanzata. L’unico attore disponibile per la parte, in pieno Giugno, era Mario, che in quel momento stava girando un western con Rita Pavone, Rita nel West (!)… Lui mi conosceva, aveva dieci anni meno di me, nuotava nella Lazio Nuoto… Il resto lo sapete. Sedici film insieme, mai un litigio, mai un’incomprensione.