Una Lingua Piola

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Corso di Laurea magistrale (ordinamento ex D.M. 270/2004) in Antropologia Culturale, Etnologia, Etnolinguistica. Tesi di Laurea Una lingua piola Il lunfardo argentino Relatore Prof. Glauco Sanga Laureando Javier Marcelo Domingo Matricola 840445 Anno Accademico 2015/ 2016 1 PREMESSA L’idea per questa analisi parte dai corsi di Etnolinguistica e Storia delle Tradizioni Popolari che il Prof. Sanga ha tenuto all’Università Ca Foscari di Venezia nell’anno accademico 2014/2015 sul gergo e sui marginali. Il fenomeno linguistico è collegato a quello storico e antropologico. Quell’approccio è presentato nella prima parte di questo lavoro, dove si cerca di sintetizzare un modello. Nella seconda parte vedremo se è possibile utilizzare questo approccio anche per i analizzare il registro popolare della lingua parlata in Argentina conosciuto come lunfardo e quali siano le somiglianze e le differenze. Nonostante sia un fenomeno molto diffuso e conosciuto, stupisce che non sia mai stato studiato in collegamento con i gerghi storici. È questa, infatti, l’ipotesi di partenza di questa ricerca: che ci sia uno stretto rapporto tra lunfardo e gergo in generale. Non è questa l’opinione della maggior parte degli studiosi. Oscar Conde (2011b: 149), considerato oggi come il maggior esperto sull’argomento grazie alla pubblicazione di recente di “l’unico dizionario etimologico di lunfardo”, dice a questo riguardo: «così come il tango non è stata una creazione di marginali, nonostante quello che si è detto tante volte, nemmeno lo è stato, nella mia opinione, il lunfardo.»1 Non una creazione di marginali, dunque, non un gergo, non una lingua, non un dialetto. La definizione che dà Conde (2011b: 151) è : «un repertorio lessico integrato da voci e espressioni di diversa origine utilizzati in alternanza con quelle dello spagnolo standard e diffuso, trasversalmente, in tutte gli strati sociali dell’Argentina. Questo vocabolario, originalmente composto da molti termini immigrati, fu usato all’inizio per il parlante del Rìo de la Plata, ma si è esteso dopo a tutto il paese.»2 Come si vede, una definizione alquanto vaga che parla piuttosto di un registro popolare della lingua, che non indaga sulle ragioni in profondità né mette in rapporto questo fenomeno con altri simili – proprio quello che faremo. I particolari che si evidenzieranno mettono in dubbio tanti dei presupposti che sono ormai diventanti dei luoghi comuni. Cercheremo anche in questo caso di chiederci perché. 1 [«Así como el tango no fue una creación de marginales, a pesar de lo que se ha dicho tantas veces, tampoco lo fue, en mi opinión, el lunfardo».] 2 [«es un repertorio léxico integrado por voces y expresiones de diverso origen utilizados en alternancia con las del español estándar y difundido, transversalmente, en todas las capas sociales de la Argentina. Este vocabulario, originalmente compuesto por muchos términos inmigrados, fue usado inicialmente por el hablante del Río de la Plata1, pero fue extendiéndose después a todo el país»] 2 Nonostante si insisterà spesso sul fatto che per conoscere e capire il gergo bisogna “conoscerlo di prima mano”, questa ricerca non si basa su dati ottenuti direttamente dai gerganti, per il fatto - che già è stato evidenziato – che il lunfardo è un caso particolare: non solo un registro popolare ma è stato assunto anche a forma letteraria. Ad ogni modo, molti degli esempi che qui si analizzano sono stati sentiti dire per strada se non da “gerganti”, dalla gente comune. 3 PRIMA PARTE: LE FORME DEL GERGO 1 – CHE COSA È UN GERGO? Per cominciare, proviamo a vedere cosa ci dicono i dizionari alla voce ‘gergo’: Il Sabatini-Coletti3 nota: «Lingua che i membri di una comunità o di un gruppo usano per non essere capiti da altri, oppure per distinguersi; estens. linguaggio deformato, allusivo, poco comprensibile: parlare in gergo. P.e. secchione è una parola tipica del g. studentesco, nonnismo di quello militare; nel gergo della malavita canarino è chi confessa o collabora con la polizia, mentre nel gergo giovanile segare ha il significato di respingere o bocciare.» Secondo il dizionario della Real Academia Española4: «Gergo: sicuramente tramite l’occitano, dal francese jargon di origine onomatopeica. Linguaggio speciale e non formale che usano tra di loro le persone di certe professioni e mestieri. Linguaggio speciale utilizzato in origine con propositi criptici da determinati gruppi, che a volte si estende ad uso generale; ad esempio: il gergo dei malavitosi.» Sulla stessa linea è la definizione di gergo dell’Enciclopedia Treccani online 20145: «Forma di linguaggio utilizzata da certi gruppi sociali per evitare la comprensione da parte di persone estranee al gruppo. Consiste nella sistematica sostituzione di numerosi vocaboli della lingua comune con altri di origine straniera, o anche indigeni ma con significato mutato oppure deformati o derivati in diversa maniera; al posto del vocabolo comune può stare anche una locuzione metaforica o allusiva.» E dopo aggiunge: «La gergoafasia è un disturbo del linguaggio proprio dell’afasia sensoriale, che dà luogo a discorsi incomprensibili, intessuti di parole inventate, che in un certo qual modo richiamano quelle di un gergo.» 3 www.dizionari.corriere.it 4 Si fa uso del principale dizionario della lingua spagnola per anticipare che nella seconda parte di questo lavoro si parlerà appunto di un gergo di base spagnola. [Jerga: seguramente a través del occit., del fr. jargon, y este de or. onomat. //1. f. Lenguaje especial y no formal que usan entre sí los individuos de ciertas profesiones y oficios. // 2. f. Lenguaje especial utilizado originalmente con propósitos crípticos por determinados grupos, que a veces se extiende al uso general; p. ej., la jerga de los maleantes.] 5 http://www.treccani.it/enciclopedia/gergo/ 4 Da queste definizioni risulta evidente che la parola ‘gergo’ richiama le lingue “inventate”: sarebbe una lingua speciale e “artificiale” in opposizione alla lingua, dove per “artificiale” si intende inventata meccanicamente, per lo più attraverso deformazioni fonetiche o scambi automatici di sillabe. Il gergo però non è una lingua e nessun parlante parla solo in gergo. Chi conosce un gergo parla certamente anche un’altra lingua. Il sistema fonetico, la struttura morfologica, la sintassi del dialetto o della lingua sono anche quelli del gergo, e le parole come preposizioni o congiunzioni vengono di solito fedelmente trasferiti dall’uno nell’altro codice (Ageno, 1957: 402). Questo “bilinguismo” può definirsi bene con la nozione di parassitismo. Dentro questo “lessico parassita” troveremo delle parole che non sono inventate dal nulla, ma prese dalla lingua ospite e trasformate secondo dei procedimenti che analizzeremo in dettaglio più avanti. Il gergo è dunque un linguaggio parziale nella sua costruzione che prende la fonetica, la morfologia e la sintassi da una lingua “ospite”. Al centro di questo linguaggio sta il lessico, parole che sono “doppioni”, modificate non per nominare dei concetti nuovi, bensì per creare una serie di sinonimi di parole già esistente nella lingua. (Ageno, 1957: 403). La trasformazione delle parole avviene nel gergo in un modo diverso: non nel senso della precisione o dell’espressività ma solo in quello della differenziazione lessicale e fraseologica dalla lingua corrente. I linguaggi emotivi o poetici non sono, per questo motivo, considerati gerghi. (Cohen, 1919: 118). I rapporti tra il gergo e la lingua sono stati constanti e alcune parole gergali sono diventate patrimonio della lingua ospite. A volte sono ancora percepite come tali – come la maggior parte delle parole oscene dell’italiano – ma talvolta sono state così “ben integrate” che il termine gergale ha addirittura sostituito quello originale. È evidente che non stiamo considerando che qualcuno “parla in gergo” quando si usano queste parole ormai conosciute da tutti, come furbo, monello, birichino, furfante, beffa o buffo. Succede spesso che parole gergali isolate o intere espressioni, infatti, siano incorporate al patrimonio culturale di una lingua e diffuse dalla letteratura, che dà al gergo delle quella qualità di espressione, ingegno o inventiva con cui molto frequentemente viene considerato. Questo particolare sarà fondamentale per le considerazioni che faremo nella seconda parte del presente lavoro. 1.1. Lingua tecnica: È un’idea diffusa parlar del “gergo dei giornalisti” o del “gergo dei 5 medici”, una lingua tecnica o settoriale con una terminologia specifica legata ad un mestiere, ma dove l’uso di termini diversi risponde alla ricerca di precisione e concisione: «se questi linguaggi sembrano a volte strani e incomprensibili è perché nessun parlante nativo conosce tutto il vocabolario della sua propria lingua.» (Cohen, 1919: 118) Come abbiamo detto, il gergo consiste soprattutto di un lessico – più o meno ampio -e per tutto ciò che gli manca deve servirsi della lingua e del dialetto. Le parole gergali non sono né specifiche né particolari e anche i termini che definiscono l’oggetto e gli strumenti delle singole attività sono scarsi e generici. Questa “funzione tecnica” del gergo, dunque, sembra difficile da assecondare: «il gergo è una necessità assai più intima che funzionale.» (Menarini, 1959: 469) Spesso i gerghi si trovano classificati secondo il mestiere che esercita chi lo parla: il gergo dei tessitori, dei calderai e così via. Useremo questa denominazione ricordando però che il gergo non è una lingua “creata” in corrispondenza del mestiere che fanno i gerganti. Il gergo compie una funzione identitaria primordiale ed è vivo solo all’interno della comunità che lo usa e per classificare i gerghi bisogna guardare con speciale attenzione il “modo di vita” di chi lo parla: quello che conta è lo stretto rapporto tra modo di vita e lingua ed è il modo di vita del gergante ciò che determina che parli in gergo. L’idea di “lingua tecnica” deriva dalla convinzione che i gerghi siano diversi tra loro e siano legati in modo diretto e specifico al mestiere esercitato. In realtà i gerghi storici sono sostanzialmente uguali: è possibile parlare di un gergo unitario che possiede varietà locali, piuttosto che di gerghi diversi.
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