CENTRO ALTI STUDI CENTRO MILITARE PER LA DIFESA DI STUDI STRATEGICI

OSSERVATORIO STRATEGICO 2020 N. - 4

Il Centro Militare di Studi Strategici (Ce.Mi.S.S.), costituito nel 1987 e situato presso Palazzo Salviati a Roma, è diretto da un Generale di Divisione (Direttore), o Ufficiale di grado equivalente, ed è strutturato su due Dipartimenti (Monitoraggio Strategico - Ricerche) ed un Ufficio Relazioni Esterne. Le attività sono regolate dal Decreto del Ministro della Difesa del 21 dicembre 2012.

Il Ce.Mi.S.S. svolge attività di studio e ricerca a carattere strategico-politico-militare, per le esigenze del Ministero della Difesa, contribuendo allo sviluppo della cultura e della conoscenza, a favore della collettività nazionale.

Le attività condotte dal Ce.Mi.S.S. sono dirette allo studio di fenomeni di natura politica, economica, sociale, culturale, militare e dell'effetto dell'introduzione di nuove tecnologie, ovvero dei fenomeni che determinano apprezzabili cambiamenti dello scenario di sicurezza. Il livello di analisi è prioritariamente quello strategico.

Per lo svolgimento delle attività di studio e ricerca, il Ce.Mi.S.S. impegna: a) di personale militare e civile del Ministero della Difesa, in possesso di idonea esperienza e qualifica professionale, all'uopo assegnato al Centro, anche mediante distacchi temporanei, sulla base di quanto disposto annualmente dal Capo di Stato Maggiore dalla Difesa, d'intesa con il Segretario Generale della difesa/Direttore Nazionale degli Armamenti per l'impiego del personale civile; b) collaboratori non appartenenti all'amministrazione pubblica, (selezionati in conformità alle vigenti disposizioni fra gli esperti di comprovata specializzazione).

Per lo sviluppo della cultura e della conoscenza di temi di interesse della Difesa, il Ce.Mi.S.S. instaura collaborazioni con le Università, gli istituti o Centri di Ricerca, italiani o esteri e rende pubblici gli studi di maggiore interesse.

Il Ministro della Difesa, sentiti il Capo di Stato Maggiore dalla Difesa, d'intesa con il Segretario Generale della difesa/Direttore Nazionale degli Armamenti, per gli argomenti di rispettivo interesse, emana le direttive in merito alle attività di ricerca strategica, stabilendo le lenee guida per l'attività di analisi e di collaborazione con le istituzioni omologhe e definendo i temi di studio da assegnare al Ce.Mi.S.S..

I ricercatori sono lasciati completamente liberi di esprimere il proprio pensiero sugli argomenti trattati, il contenuto degli studi pubblicati riflette esclusivamente il pensiero dei singoli autori, e non quello del Ministero della Difesa né delle eventuali Istituzioni militari e/o civili alle quali i Ricercatori stessi appartengono.

CENTRO ALTI STUDI CENTRO MILITARE PER LA DIFESA DI STUDI STRATEGICI

Osservatorio Strategico 2020 N. 4

Osservatorio Strategico Anno XXII numero IV - 2020

NOTA DI SALVAGUARDIA

Quanto contenuto in questo volume riflette esclusivamente il pensiero dei singoli autori, e non quello del Ministero della Difesa né delle eventuali Istituzioni militari e/o civili alle quali gli autori stessi appartengono.

NOTE

Le analisi sono sviluppate utilizzando informazioni disponibili su fonti aperte.

L’Osservatorio Strategico è disponibile anche in formato elettronico (file .PDF) e nel formato E-Book (file .epub) al seguente link: http://www.difesa.it/SMD_/CASD/IM/CeMiSS/Pubblicazioni/OsservatorioStrategico/Pagine/default.aspx

Osservatorio Strategico 2020

Questo volume è stato curato dal Centro Militare di Studi Strategici

Direttore Gen. S.A. Stefano Vito SALAMIDA

Vice Direttore Capo Dipartimento Monitoraggio Strategico Col. A.A.r.n.n. Pil. (AM) Loris TABACCHI

Progetto grafico Massimo Bilotta – Massimo Lanfranco

Autori Claudia Astarita, Matteo Bressan, Claudio Bertolotti, Claudio Catalano, Francesca Citossi, Marco Cochi, Matteo Dian, Gianluca Pastori, Luca Puddu, Francesco Davide Ragno, Sylwia Zawadzka.

Stampato dalla tipografia del Centro Alti Studi per la Difesa

Centro Militare di Studi Strategici Dipartimento Monitoraggio Strategico Palazzo Salviati Piazza della Rovere, 83 - 00165 – Roma tel. 06 4691 3204 - fax 06 6879779 e-mail [email protected]

Chiuso a novembre 2020 - Stampato a dicembre 2020

ISBN 978-88-31203-58-6

4

Osservatorio Strategico Parte prima Indice

Euro/Atlantica (USA-NATO-Partners) 8 Gli “accordi di Abramo”: un rinnovato attivismo USA in Medio Oriente e nel Golfo? Gianluca Pastori

Iniziative di difesa Europee e sviluppo tecnologico 14 L’Unione Europea e le controversie nel Mediterraneo orientale Claudio Catalano

Balcani e Mar Nero 21 Mar Nero: tra risorse energetiche e competizione geopolitica Matteo Bressan

Mashreq, Gran Maghreb, Egitto ed Israele 26 Libia: le ambizioni dell’Egitto Claudio Bertolotti

Sahel e Africa Subsahariana 29 La sindrome del terzo mandato destabilizza la Guinea e la Costa d’Avorio Marco Cochi

Golfo Persico 35 La pace senza mai la guerra con Israele Francesca Citossi

Corno d’Africa e Africa Meridionale 39 Etiopia: le elezioni nello stato regionale del Tigray e i nuovi scenari regionali Luca Puddu

Russia, Asia centrale e Caucaso 45 Le direttrici dello sforzo militare russo: una risposta all’attenzione NATO per l’Eastern Flank o promozione e difesa degli interessi nazionali? Sylwia Zawadzka

Asia meridionale ed orientale 51 Shinzo Abe si ritira: cosa cambia per il Giappone Claudia Astarita

America Latina 57 Un nuovo corso per la Banca Interamericana dello Sviluppo: l’elezione di Mauricio Claver-Carone Francesco Davide Ragno

Pacifico 62 La Vientiane Vision e la cooperazione tra Giappone e ASEAN nell’ambito della sicurezza Matteo Dian

5

Osservatorio Strategico Parte seconda Indice

Euro/Atlantica (USA-NATO-Partners) 68 Le iniziative statunitensi nel campo delle armi ipersoniche e dei relativi sistemi di contrasto: un punto sulla situazione attuale e sui suoi possibili sviluppi Gianluca Pastori

Iniziative di difesa Europee e sviluppo tecnologico 71 Brexit: un aggiornamento su negoziati e cooperazione nella difesa Claudio Catalano

Balcani e Mar Nero 74 Il vertice alla Casa Bianca tra Serbia e Kossovo Matteo Bressan

Sahel e Africa Subsahariana 76 Perché è stato nuovamente rinviato il lancio della nuova moneta unica dell’Africa occidentale? Marco Cochi

Golfo Persico 79 La nuova politica estera degli Emirati Francesca Citossi

Corno d’Africa e Africa Meridionale 81 Governance economica e rapporti tra capitale pubblico e privato: i processi di liberalizzazione nel Corno d’Africa e le possibili criticità Luca Puddu

Russia, Asia centrale e Caucaso 84 La nuova Costituzione della Federazione Russa e le sue implicazioni Sylwia Zawadzka

Asia meridionale ed orientale 94 5G, Huawei e ZTE: una strategia europea Claudia Astarita

America latina 97 La questione energetica: sovranità, efficienza, differenziazione Francesco Davide Ragno

Pacifico 99 RIMPAC-2020 e la cooperazione militare nel Pacifico Matteo Dian

Lista degli Acronimi 103

6

Osservatorio Strategico

Parte prima

Euro/Atlantica (USA-NATO-Partners) Gianluca Pastori

Gli “accordi di Abramo”: un rinnovato attivismo USA in Medio Oriente e nel Golfo?

Nella prima parte del 2020, l’azione statunitense nel Medio Oriente e nel Golfo è apparsa caratterizzata da un nuovo attivismo. Di questo attivismo, l’uccisione del generale Qassem Soleimani, comandante del Corpo delle guardie della rivoluzione islamica iraniana (pasdaran), agli inizi di gennaio, è stato una sorta di apripista, seguito, alla fine dello stesso mese, dall’annuncio del “piano di pace” israelo-palestinese (Peace to prosperity plan), i cui aspetti economici erano già stati annunciati nel giugno precedente. Il risultato più significativo sono stati, tuttavia, gli accordi di mutuo riconoscimento firmati alla metà di agosto da Israele ed Emirati Arabi Uniti (EAU) con la mediazione statunitense (i c.d. “accordi di Abramo”). Questi accordi, a loro volta, hanno spianato la strada a una più ampia intesa “a tre” fra Israele, EAU e Bahrein, siglata alla Casa Bianca, alla presenza del Presidente Trump, il 15 settembre. Gli accordi sono stati salutati dall’amministrazione statunitense come un grande successo, destinato – nelle parole del Presidente – a rappresentare «il fondamento di una pace a tutto campo [comprehensive] nell’intera regione […] fondata sulla condivisione degli interessi, il mutuo rispetto e l’amicizia» (Full Text…, 2020). Indubbiamente, la normalizzazione delle relazioni diplomatiche fra lo Stato di Israele e due Paesi arabi (anche se mai stati in guerra con lo Stato ebraico) rappresenta un avvenimento importante. Sino ad oggi, gli unici due Stati arabi a intrattenere normali relazioni diplomatiche con lo Stato ebraico erano l’Egitto (dalla firma del trattato di pace del 1979, negoziato l’anno precedente a Camp David grazie alla mediazione del Presidente Carter) e la Giordania (dalla firma del trattato di pace del 1994, cui si era giunti grazie anche all’attivo coinvolgimento del Presidente Clinton). La diplomazia statunitense è inoltre molto attiva per promuovere un allargamento dagli Accordi di Abramo ad altre realtà del Golfo, prima fra tutte l’Arabia Saudita. Fra l’altro, dopo l’annuncio dell’accordo con gli EAU, lo stesso Segretario di Stato, Mike Pompeo, si era recato in visita in Sudan, Bahrain e Oman (oltre che in Israele e negli stessi EAU) per promuovere questa possibilità. I commenti sugli accordi e sulla possibilità che essi si traducano in maggiore stabilità nella regione sono stati diversi, di diverso tenore e in diversi casi negativi (per una sintesi cfr. Smith Diwan, 2020). Al di là del loro impatto sui rapporti fra Israele e il mondo arabo e sulla delicata questione palestinese, essi rappresentano comunque un successo per Washington. Da una parte, essi “portano acqua al mulino” dell’alleato israeliano e del Primo Ministro Benjamin Netanyahu, secondo una linea d’azione che l’amministrazione Trump ha sposato fin dall’insediamento e che ha trovato riflesso anche nei termini dell’“accordo di pace” di gennaio. Gli “accordi di Abramo” spezzano, inoltre, il fronte (sempre più fragile) dell’unità araba e lo ricompongono in forme nuove, formalizzando i rapporti che da tempo esistono fra Israele e le monarchie del Golfo. Allo stesso tempo, essi fanno degli Stati Uniti uno dei perni del sistema delle alleanze reginali, rafforzandone il ruolo in un’area che soprattutto con l’attuale amministrazione sembra essere tornata al centro dell’attenzione di Washington. Infine (ed è stato l’aspetto più rilevato dagli osservatori), gli accordi favoriscono il consolidamento dell’asse anti-iraniano la cui costituzione rappresenta un’altra priorità dell’amministrazione Trump. Proprio il tema del contrasto all’influenza di Teheran è da diverso tempo uno dei principali elementi di convergenza (e di collaborazione informale) fra Israele e le monarchie conservatrici del Golfo (in questo senso cfr., ad es., Egozi, 2020). Da questo punto di vista, degna di nota appare l’adesione agli “accordi di Abramo” del Bahrein, Paese in cui, nel 2011, le truppe dei Paesi del Gulf Cooperation Council inquadrate all’interno della Peninsula Shield Force sono intervenute per sedare le proteste della maggioranza sciita della popolazione contro il potere del sovrano Hamad bin Isa Al Khalifa. Infine, gli “accordi di Abramo” rilanciano il ruolo

Osservatorio Strategico 2020– Anno XXII n. IV 8 Euro/Atlantica (USA-NATO-Partners) politico degli Stati Uniti in una regione comunque simbolicamente importante per gli equilibri internazionali, in una fase in cui il dinamismo russo e cinese in Medio Oriente e nel Mediterraneo sembrava avere in qualche modo costretto Washington sulla difensiva. Non stupisce, quindi, che le reazioni di Mosca e Pechino siano state ispirate a sostanziale cautela (Ramani, 2020). Da una parte, sial la Russia, sia la Cina vedono nella normalizzazione dei rapporti fra Israele e i suoi nuovi partner arabi una possibile fonte di opportunità, specialmente in campo economico. Un Golfo più stabile rappresenta, inoltre, dal punto di vista di Pechino (che in Israele ha effettuato investimenti importanti, per esempio nel settore portuale), un sostegno non da poco alla strategia di penetrazione pacifica portata avanti con l’iniziativa One Belt One Road (OBOR) (Garlick e Havlova, 2020). Di contro, la possibile valenza anti-iraniana degli “accordi di Abramo” pone entrambi i Paesi in una posizione difficile. Per realizzare gli obiettivi di connettività commerciale e infrastrutturale previsti da OBOR e per garantire la continuità del flusso di forniture energetiche di cui ha bisogno, la Cina deve cercare – nel limite del possibile – di coltivare relazioni amichevoli sia con Teheran sia con Riyadh, senza alienarsi i favori dell'una o dell'altra, né quelli dell'egemone regionale, ovvero gli Stati Uniti. Mosca, a sua volta, risente della sua vicinanza alla Repubblica islamica, maturata nel corso del tempo, sostenuta dalla comune ostilità nei confronti di Washington e concretizzatasi, negli ultimi anni, nella (seppure problematica) collaborazione politica e militare durante la guerra civile siriana. Il rilancio della presenza regionale degli Stati Uniti getta inoltre un’ombra sul ruolo assunto dal Cremlino in Medio Oriente e nel Mediterraneo orientale dopo i successi diplomatici degli ultimi anni. Le divisioni del mondo politico palestinese e l’isolamento delle posizioni dell’ANP all’interno di un Lega Araba sempre più divisa (Lega Araba che, dopo la firma degli “accordi di Abramo”, ha rigettato a sorpresa una risoluzione di condanna proposta proprio dalla delegazione palestinese, che per protesta ha lasciato la presidenza dell’organismo che aveva appena assunto) spingono nella stessa direzione, attestando la marginalizzazione di un soggetto da sempre ritenuto sensibile all’influenza russa che le posizioni apertamente filoisraeliane dell’amministrazione avevano contribuito ad avvicinare ulteriormente a Mosca. In realtà, la debolezza della posizione della Autorità Nazionale Palestinese (ANP) – che, insieme all’Iran, si presenta come la vera sconfitta dagli “accordi di Abramo” (Goldberg, 2020) – era evidente già da tempo, almeno agli occhi di Washington. Lo stesso “piano di pace” presentato a gennaio – con il suo evidente sbilanciamento a favore delle esigenze politiche e di sicurezza dello Stato di Israele – scommetteva su questa debolezza e la rafforzava attraverso la delegittimazione delle istanze territoriali dell’ANP. Nonostante l’ostilità di Hamas e del governo della Cisgiordania, il piano aveva, tuttavia, raccolto largo favore fra le monarchie conservatrici del Golfo (seppure con alcuni significativi distinguo da parte dell’Arabia Saudita) ed era stato accolto con interesse da diversi altri Stati arabi, fra cui l’Egitto. Fra le voci dissonanti, quelle del Kuwait (che nel 2019 aveva nominato il suo primo ambasciatore presso l’ANP), della Giordania, dell’Iran e della Turchia, oltre che della Lega Araba e della Organizzazione della cooperazione islamica (OIC - già Organizzazione della conferenza islamica). Questa era una situazione ampiamente prefigurata dal parterre dei presenti alla Casa Bianca durante la cerimonia di presentazione del piano e che comprendeva, oltre al premier israeliano Netanyahu, i rappresentanti di Oman, Emirati Arabi Uniti e Bahrein, questi ultimi fra i grandi sponsor (soprattutto finanziari) del piano stesso e futuri firmatari degli “accordi di Abramo”. Gli “accordi”, tuttavia, portano la logica del “piano di pace” un passo più avanti, rafforzando i legami esistenti fra Israele e i suoi interlocutori arabi e confermando il ruolo di Washington come perno del nuovo assetto regionale. Gli “Accordi di Abramo” confermano inoltre (anche in questo caso in linea con la visione sottesa al “piano di pace” di gennaio) la volontà di spingere la Turchia (che negli ultimi tempi, sotto la presidenza Erdogan, si è avvicinata molto ad Hamas) ai margini della scena, nel quadro del braccio di ferro che vede da tempo Ankara opporsi alle monarchie conservatrici del Golfo nello scontro per l’egemonia

Osservatorio Strategico 2020– Anno XXII n. IV 9 Gli “accordi di Abramo”: un rinnovato attivismo USA in Medio Oriente e nel Golfo? all’interno del blocco sunnita (per un approccio “di lungo periodo” al problema cfr., per tutti, Kepel, 2019). Come è stato osservato all’epoca della presentazione del “piano di pace”, è molto difficile che questo rappresenti l’atteso “cambio di passo” in una vicenda – il confronto israelo-palestinese e il problema della sovranità sui territori contestati della Cisgiordania – che da anni sembra avere perso molta della visibilità di cui ha tradizionalmente goduto. Le divergenze emerse fra Washington e i vertici israeliani già nelle ore immediatamente successive alla presentazione del piano stesso (per esempio intorno ai termini del riconoscimento della natura statuale del soggetto palestinese) sono apparse subito indicative del futuro non roseo al quale il “piano di pace” sembra destinato ad andare incontro. Nemmeno l’ambizioso schema di aiuti economici presentato lo scorso anno in Bahrein da Jared Kushner (genero e senior advisor del Presidente Trump e uno degli artefici del “piano di pace”) e che ruota intorno alla promessa di sostenere l’economia della regione con l’iniezione di oltre cinquanta miliardi di dollari (Spetalnick e Holland, 2020) ha influito in maniera sostanziale sua questo stato di cose. L’amministrazione statunitense ha ripetutamente affermato che il “piano di pace” non rappresenta tanto un punto d’arrivo quanto uno di partenza per nuove trattative fra le parti; anche a questo si lega la visibilità data agli sponsor arabi dell’operazione, la cui influenza è considerata essenziale, dalla Casa Bianca, per portare – in un futuro, peraltro, ampiamente incerto – la parte palestinese al tavolo negoziale. La questione è se e quanto questo “punto di partenza” sarà sufficiente per mettere in moto il processo auspicato dall’amministrazione statunitense. Anche per questo, alcuni osservatori hanno parlato del “piano Trump” come di un «grande azzardo» (huge gamble) (Bowen, 2020). L’ostilità bipartisan dei vertici politici palestinesi al piano stesso (alla cui redazione non hanno partecipato, per protesta contro la decisione presa da Washington di dare applicazione alla decisione di riconoscere Gerusalemme quale capitale dello Stato ebraico) rappresenta un handicap importante; un handicap che molto difficilmente le parti potranno superare solo affidandosi alla “carota” degli incentivi economici. Lo stesso vale – secondo diversi osservatori – nel caso degli “accordi di Abramo”. In primo luogo, le resistenze nei loro confronti sono molte e non si limitano al fronte palestinese. A livello regionale, Turchia e Qatar soprattutto hanno molto da perdere da una normalizzazione dei rapporti fra Israele e le monarchie conservatrici del Golfo sotto l’egida degli Stati Uniti, anche a causa del possibile impatto che tale normalizzazione potrebbe avere in altri teatri, a partire dal quello libico. L’Unione Europea, già assai critica nei confronti del “piano di pace” di gennaio, ha salutato con favore il ristabilimento delle relazioni diplomatiche fra Israele, Bahrein ed EAU e ha riconosciuto il ruolo importante che gli Stati Uniti hanno svolto nel rendere possibile questo risultato. Tuttavia, pur considerando questi sviluppi «un contributo positivo alla pace e alla stabilità in Medio Oriente», l’Unione ha anche ribadito «la sua posizione di lunga data, secondo cui una soluzione complessiva del conflitto arabo-israeliano richiede un approccio e un impegno inclusivo a livello regionale con entrambe le parti […] resta[ndo] ferma nel suo impegno a favore di una “two-state solution” negoziata e praticabile, basata sui parametri concordati a livello internazionale» (European Council, 2020). Mosca e Pechino (come già rilevato) hanno, verso gli “accordi di Abramo”, una posizione ambivalente e gli stessi Stati Uniti – che pure, dell’attuale riallineamento degli equilibri mediorientali, sono il vero architetto – si trovano in una posizione, tutto sommato, ambigua. Per esempio, il piano economico presentato da Kushner lo scorso anno non si basa tanto su risorse messe concretamente a disposizione da Washington, quanto sull’auspicio della Casa Bianca di mobilitare – dopo l’avvio del processo di pace – un concreto sostegno internazionale, anche attraverso il coinvolgimento di investitori privati, per coprire la maggior parte della somma prevista, che dovrebbe andare a beneficio, oltre che dell’Autorità Nazionale Palestinese, di Egitto, Libano e Giordania; un auspicio che, tuttavia, viste le riserve che molti Paesi hanno sollevato riguardo alla dimensione politica del piano, sembra destinato a concretizzarsi solo in parte.

Osservatorio Strategico 2020– Anno XXII n. IV 10 Euro/Atlantica (USA-NATO-Partners)

Vi è, poi, la dimensione interna, alla quale l’imminente appuntamento elettorale conferisce particolare rilievo. La questione del contenzioso israelo-palestinese rappresenta tradizionalmente una issue “sentita” dall’opinione pubblica statunitense e la capacità di imprimere sulle sue vicende un’impronta sensibile è l’ambizione di molti presidenti almeno dalla firma degli accordi di Camp David (1978), anche se non sempre si è dimostrata pagante in termini elettorali, come conferma la stessa esperienza di Jimmy Carter nel 1980. Nel caso dell’amministrazione Trump, inoltre, questa questione assume un valore particolare alla luce delle tensioni che hanno segnato i rapporti fra Washington e Tel Aviv sotto l’amministrazione Obama e che hanno intaccato molto la capacità degli Stati Uniti di incidere sulle vicende della regione. Gli anni della presidenza Obama sono stati caratterizzati da gravi tensioni fra Washington e Tel Aviv, tensioni culminate nelle critiche rivolte dal Primo Ministro Netanyahu al Presidente durante di discorso tenuto di fronte al Congresso nel marzo 2015. Da questo punto di vista, nella narrazione trumpiana, i successi della nuova politica mediorientale di Washington, oltre a rilanciare un’asse con Israele e le monarchie conservatrici del Golfo ritenuto strategico per gli interessi degli Stati Uniti, offrirebbe la migliore dimostrazione dei risultati che essi possono ottenere quando gettano il loro peso politico ed economico sulla bilancia internazionale. Non a caso, nel quadro del Peace to prosperity plan, proprio il pacchetto di aiuti proposti all’ANP avrebbe dovuto rappresentare lo strumento-chiave per convincere i suoi vertici ad accettare un accordo politico fortemente limitativo della loro sovranità. In questa prospettiva, si tratta, tuttavia, di capire quanto respiro potrà avere l’azione statunitense nel caso in cui il voto del 3 novembre porti a un avvicendamento alla Casa Bianca, anche alla luce del fatto che il candidato democratico si sia già impegnato – in caso di sua elezione – a rilanciare il dialogo con Teheran riguardo alla delicata questione del nucleare, dialogo che l’attuale amministrazione ha accantonato con l’uscita dal Joint Comprehensive Plan of Action (JCPOA) nel maggio 2018. A questo proposito, i firmatari degli “accordi di Abramo” si sono detti fiduciosi riguardo alla loro tenuta. A margine della cerimonia svoltasi alla Casa Bianca, il Ministro degli Esteri emiratino, Anwar Gargash, ha dichiarato di credere «che non ci sia alcun problema ad adattarsi ad eventuali cambiamenti, sia che si tratti di altri quattro anni di presidenza Trump o di un'amministrazione Biden» (Murphy e Graham, 2020). Nonostante questi segnali di fiducia, è comunque probabile che un’eventuale amministrazione Biden imprima agli accordi una piega diversa rispetto a quella con cui essi sono stati pensati. La possibilità di riaprire un dialogo con Teheran non può prescindere – oltre che da un passo indietro in materia di sanzioni – da un ridimensionamento del carattere anti- iraniano che gli “accordi di Abramo” oggi hanno e da un allentamento del legame strategico oggi esistente fra gli Stati Uniti e le monarchie conservatrici del Golfo, Arabia Saudita in primis. Inoltre, grazie anche ai “buoni uffici” della Turchia, la firma degli “accordi di Abramo” sembra avere favorito un riavvicinamento fra le due anime politiche dell’ANP – Hamas e Fatah – che a fine settembre, proprio a Ankara, avrebbero raggiunto un accordo per tenere nuove elezioni generali e chiudere una diatriba che dura dal 2006 e che ha portato al distacco di fatto della Striscia di Gaza dal resto dei territori controllati dall’Autorità (Boxerman, 2020). Un successo in questo campo potrebbe significare – se non un (improbabile) rilancio su larga scala della “questione palestinese” all’interno del mondo arabo – la possibilità per l’ANP di “parlare con una sola voce” soprattutto nei confronti di una eventuale nuova amministrazione statunitense. Su questo sfondo, il riallineamento regionale promosso dall’amministrazione Trump con gli “accordi di Abramo” e (indirettamente) con il Peace to prosperity plan potrebbe assumere, quindi, sviluppi in parte inattesi e diventare la precondizione sia per una credibile descalation della tensione in Medio Oriente e nel Golfo, sia per il rilancio del ruolo degli Stati Uniti nella regione, nel quadro della più ampia competizione globale in cui oggi Washington è impegnata e che per un certo periodo sembra avere trascurato.

Osservatorio Strategico 2020– Anno XXII n. IV 11 Gli “accordi di Abramo”: un rinnovato attivismo USA in Medio Oriente e nel Golfo?

Bibliografia

Bowen, J. (2020). Trump's Middle East peace plan: 'Deal of the century' is huge gamble, “BBC News”, 29 gennaio. Testo disponibile al sito: https://www.bbc.com/news/world-middle-east- 51263815 [data di consultazione: 29 settembre 2020].

Boxerman, A. (2020). Fatah, Hamas say they’ve agreed to hold Palestinian elections in coming months, “The Times of Israel”, 24 settembre. Testo disponibile al sito: https://www.timesofisrael.com/fatah-hamas-say-theyve-agreed-to-hold-palestinian-elections-in- coming-months/ [data di consultazione: 29 settembre 2020].

Egozi, A. (2019). Israel Meets With UAE, Declares It’s Joining Persian Gulf Coalition, “Breaking Defense”, 16 agosto. Testo disponibile al sito: https://breakingdefense.com/2019/08/israel-meets- with-uae-declares-its-joining-persian-gulf-coalition [data di consultazione: 29 settembre 2020].

European Council (2020). Bahrain/Israel: Declaration by the High Representative on behalf of the European Union on the establishment of diplomatic relations, 12 settembre, Testo disponibile al sito: https://www.consilium.europa.eu/en/press/press-releases/2020/09/12/bahrain-israel- declaration-by-the-high-representative-on-behalf-of-the-european-union-on-the-establishment-of- diplomatic-relations [data di consultazione: 29 settembre 2020].

Full Text (2020). Trump’s speech at Abraham Accords signing ceremony, “The Times of Israel”, 16 settembre. Testo disponibile al sito: https://www.timesofisrael.com/full-text-trumps-speech-at- abraham-accords-signing-ceremony [data di consultazione: 29 settembre 2020]. Garlick, J. e Havlova, R. (2020). China’s “Belt and Road” Economic Diplomacy in the Persian Gulf: Strategic Hedging amidst Saudi–Iranian Regional Rivalry, “Journal of Current Chinese Affairs”. Testo disponibile al sito: https://journals.sagepub.com/doi/pdf/10.1177/1868102619898706 [data di consultazione: 29 settembre 2020].

Goldberg, J. (2020). Iran and the Palestinians Lose Out in the Abraham Accords, “The Atlantic”, 16 settembre. Testo disponibile al sito: https://www.theatlantic.com/ideas/archive/2020/09/winners- losers/616364/ [data di consultazione: 29 settembre 2020].

Kepel, G. (2019). Uscire dal caos. Le crisi nel Mediterraneo e nel Medio Oriente, trad. it., Cortina, Milano.

Murphy, D. e Graham, E. (2020). UAE lauds bipartisan support for Israel accord, downplays potential change of U.S. presidency, “CNBC” 15 settembre. Testo disponibile al sito: https://www.cnbc.com/2020/09/15/uae-lauds-bipartisan-support-for-israel-accord.html [data di consultazione: 29 settembre 2020].

Ramani, S. (2020). Russian and Chinese views on the Israel-UAE normalization deal, Middle East Institute, Washington, DC. Testo disponibile al sito: https://www.mei.edu/publications/russian-and- chinese-views-israel-uae-normalization-deal [data di consultazione: 29 settembre 2020].

Smith Diwan, K. (2020). Public Debate Over the Abraham Accords Reflects Range of Views on Normalization in the Gulf, The Arab Gulf States Institute in Washington, Washington, DC. Testo

Osservatorio Strategico 2020– Anno XXII n. IV 12 Euro/Atlantica (USA-NATO-Partners) disponibile al sito: https://agsiw.org/public-debate-over-the-abraham-accords-reflects-range-of- views-on-normalization-in-the-gulf [data di consultazione: 29 settembre 2020].

Spetalnick, M. e Holland, S. (2019). Exclusive: White House's Kushner unveils economic portion of Middle East peace plan, “Reuters”, 22 giugno. Testo disponibile al sito: https://www.reuters.com/article/us-israel-palestinians-plan-exclusive-idUSKCN1TN0ES [data di consultazione: 29 settembre 2020].

Osservatorio Strategico 2020– Anno XXII n. IV 13 Iniziative di Difesa Europee e sviluppo tecnologico Claudio Catalano

L’Unione Europea e le controversie nel Mediterraneo orientale

A seguito degli eventi occorsi nell’estate 2020 nel Mediterraneo orientale, che hanno interessato Cipro, Grecia e Turchia, il Consiglio europeo del 1 e 2 ottobre 2020 (inizialmente previsto il 24-25 settembre) ha considerato la questione e preso atto della ricerca di un clima di fiducia da parte di Grecia e Turchia. Per questa ragione, al contrario di quanto paventato, non è stato elaborato un elenco di ulteriori misure restrittive da aggiungere al quadro di misure restrittive per le trivellazioni non autorizzate della Turchia nel Mediterraneo orientale, già adottato dal Consiglio dell’UE l’11 novembre 2019.1 Questa minaccia rimane valida nel caso in assenza di distensione da parte della Turchia, qualora fosse necessario far rispettare la sovranità di Grecia e Cipro. L’Unione Europea (UE) è intervenuta per ricomporre le controversie tra Grecia e Turchia dopo la “mini” collisione avvenuta il 12 agosto 2020 al largo dell’isola greca di Kastellorizo (Castelrosso) tra la fregata greca “Limnos” e la fregata turca “Kemal Reis”, che ha cercato di proteggere la nave da esplorazioni energetiche turca “Oruc Reis” impegnata da luglio 2020 in attività’ di prospezione in un’area all’interno della Zona Economica Esclusiva (ZEE) greca. Per questa vicenda, la Grecia ha chiesto sanzioni UE per la Turchia oltre a quanto approvato a novembre 2020. La riunione dei ministri degli esteri e della difesa dell’UE del 27-28 agosto 2020 a Gymnich in Germania ha sposato la tesi greca, decidendo di elaborare ulteriori sanzioni alla Turchia da presentare al Consiglio Europeo, in caso di assenza di progressi. Come già detto, il Consiglio Europeo di ottobre ha rimandato l’adozione di sanzioni alla riunione del 10-11 dicembre 2020, che dovrà verificare gli eventuali passi avanti compiuti. Il Mediterraneo orientale rappresenta una situazione incendiaria per l’UE considerato il combinato disposto delle controversie tra Turchia da una parte e Grecia e Cipro dall’altra, la questione dei migranti complicata dall’incendio a Lesbo e infine dalla situazione in Libia. A complicare ulteriormente la questione si aggiunge una recrudescenza della crisi sanitaria provocata dal Covid- 19, soprattutto in Francia e Spagna.

Il ruolo della Francia e il vertice di Ajaccio

Il 10 giugno, è avvenuto un presunto incidente tra la fregata francese “Le Courbet”, impiegata nell’operazione navale NATO “Sea Guardian” e una fregata turca, mentre al largo delle coste libiche la nave francese cercava di identificare l’imbarcazione cargo battente bandiera della Tanzania “Cirkin”. Secondo la Francia la propria fregata sarebbe stata illuminata per tre volte dai radar di puntamento della fregata turca. La NATO, il 18 giugno, ha aperto un’inchiesta sull’incidente di nave “Le Coubert”, ma la Francia ha deciso il 1° luglio ritirare temporaneamente le sue unità navali dalle operazioni NATO nel Mediterraneo. La mediazione offerta il 3 settembre sul Mediterraneo dal Segretario Generale della NATO, Jens Stoltenberg, non ha soddisfatto la Francia e il 4 settembre la Turchia ha accusato la Grecia di evitare il dialogo dopo che il premier greco Kyriakos Mitsotakis ha dichiarato che i colloqui mediati dalla NATO potranno essere tenuti solo quando la Turchia cesserà le sue “minacce”.

1 Consiglio dell'UE, Comunicato stampa “Attività illegali di trivellazione della Turchia nel Mediterraneo orientale: il Consiglio adotta un quadro in materia di sanzioni” 11 novembre 2019 https://www.consilium.europa.eu/it/press/press- releases/2019/11/11/turkey-s-illegal-drilling-activities-in-the-eastern-mediterranean-council-adopts-framework-for- sanctions/

Osservatorio Strategico 2020– Anno XXII n. IV 14 Iniziative Europee di Difesa e sviluppo tecnologico

Il segretario generale Stoltenberg, attraverso un tweet, ha assicurato che Grecia e Turchia “hanno concordato di impegnarsi in colloqui tecnici”, con l’obiettivo di prevenire ogni nuovo incidente in quest’area del Mediterraneo. Il ministero degli Esteri greco ha insistito sul fatto che “la distensione avverrà solo con l’immediato ritiro di tutte le navi turche dalla piattaforma continentale greca” (Analisi Difesa, 2020). Secondo Kittmer (2020) i colloqui tecnici hanno colto di sorpresa i greci, che li hanno considerati prematuri in assenza di iniziative turche di distensione. L’incidente della fregata francese “Le Courbet” ha fatto sentire la Francia isolata all’interno della NATO e l’aborto dei colloqui tecnici NATO tra Grecia e Turchia del 3-4 settembre hanno convinto la Francia che la NATO non sia il forum più adatto per risolvere le controversie nel Mediterraneo orientale. Per cui, il presidente Macron ha deciso di spostare la discussione in un forum per riunire gli Stati europei interessati al Mediterraneo con il vertice di Ajaccio. Per questo, il 10 settembre 2020, ad Ajaccio in Corsica, si è svolto il settimo vertice dei capi di Stato e di governo del Med-7, un gruppo informale di paesi europei che include Cipro, Francia, Grecia, Italia, Malta, Portogallo e Spagna. Il Med-7 si è riunito la prima volta nel 2016 ad Atene durante la crisi migratoria. Ad Ajaccio, il presidente francese, Emmanuel Macron, ha provato a costituire un fronte contro il presidente turco Erdogan per ottenere un piano sanzionatorio a livello UE. Secondo fonti dell’Eliseo, l’obiettivo è “mostrare la forte convergenza per ritrovare una sovranità europea nel Mediterraneo” laddove la NATO non fa da arbitro tra Grecia e Turchia, membri dell’Alleanza (Ginori, 2020). Tuttavia, l’iniziativa non ha ottenuto risultati, perché Italia, Spagna e Portogallo hanno una posizione più dialogante e meno aggressiva contro la Turchia (Formiche, 2020). Il cancelliere Merkel, che ricopre anche il ruolo della presidenza semestrale dell’UE e cerca di mediare le posizioni verso la Turchia all’interno dell’UE, ha visto con freddezza l’attivismo di Macron contro Erdogan (Ginori, 2020). Il vertice di Ajaccio si intreccia anche con l’emergenza Covid-19 e con la crisi migratoria, perché tra i paesi partecipanti ci sono Francia, Italia e Spagna, che sono gli Stati Membri più colpiti dal Covid-19 e tra i maggiori beneficiari del Recovery Fund. Gli Stati invitati ad Ajaccio hanno posizioni divergenti sul Mediterraneo, Spagna e Portogallo sono preoccupate dal flusso migratorio proveniente dal Marocco, l’Italia si trova a dover bilanciare il sostegno a Cipro e Grecia con il sostegno al governo di Tripoli in Libia che è sostenuto anche dalla Turchia (Momtaz, 2020). La questione della Libia risulta divisiva, perché la Francia sostiene il Generale Haftar. Secondo il presidente Macron, il vertice di Ajaccio avrebbe dovuto portare ad una “pax mediterranea”, espressione usata in un discorso pronunciato al forum di Lugano di fine agosto (Ginori, 2020), ma questo risultato non è stato ottenuto. La dichiarazione finale del Med-7 riporta “se la Turchia non progredisce sulla via del dialogo e non pone termine alle sue attività unilaterali, l’UE è pronta a elaborare una lista di misure restrittive ulteriori che potrebbero essere decise nel Consiglio Europeo”.2

La distensione

Se il vertice di Ajaccio con la minaccia di sanzioni UE – non adottate dal Consiglio Europeo di ottobre - non ha raggiunto i suoi fini, la visita del segretario di Stato americano, Mike Pompeo, il 12 settembre, a Cipro ha invece contribuito alla distensione tra Grecia e Turchia. Il presidente Erdogan ha, infatti, fatto rientrare la nave Oruç Reis al porto di Antalya per rifornimenti e manutenzione e ha ritirato l’allerta navale relativa alle esplorazioni sismiche in mare nel Mediterraneo orientale.

2 Déclaration à l’issue du 7e Sommet des Pays du Sud de L’Union Européenne 10 Septembre 2020 - Déclaration https://www.elysee.fr/emmanuel-macron/2020/09/10/sommet-des-membres-de-lalliance-des-pays-du-sud-de-lunion- europeenne-med7-a-ajaccio

Osservatorio Strategico 2020– Anno XXII n. IV 15 L’Unione Europea e le controversie nel Mediterraneo orientale

I ministri degli esteri e della Difesa turchi, rispettivamente Mevlut Cavusoglu e Hulusi Akar, hanno minimizzato il rientro di Oruc Reis e confermato l‘intenzione della Turchia di continuare le esplorazioni di idrocarburi, ma il primo ministro greco ha definito il rientro della nave turca, come un "primo passo positivo" per l’avvio di negoziati. Per cui, il 15 settembre al quartier generale della Nato a Bruxelles inizieranno i colloqui tecnici tra funzionari greci e turchi, già annunciati per inizio settembre. Lo stesso giorno, Il 15 settembre, il presidente del Consiglio Europeo, Charles Michel ha visitato il campo profughi di Moria, nell’isola di Lesbo, distrutto da incendi. Il 16 settembre 2020, il presidente Michel, si è recato in Grecia, a Cipro e a Malta in vista delle discussioni del Consiglio Europeo straordinario di ottobre 2020. Si è anche intrattenuto telefonicamente più volte con il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan.3 A Cipro, Il presidente Michel ha sottolineato che gli interessi di tutti gli Stati membri devono essere rispettati, in particolare Cipro, e che devono essere rispettati anche gli interessi e soprattutto i valori dell’UE. L’azione dell’UE deve mirare alla de-escalation e al rispetto del diritto internazionale e assicurare la sicurezza internazionale (Doveri Vesterbye, 2020). 4 Il Consiglio "Affari esteri" del 21 settembre 2020 ha discusso la questione, invitando la Turchia a compiere ulteriori passi, di cui si è tenuto conto al Consiglio Europeo di ottobre 2020. Il Consiglio Europeo di ottobre ha preso atto della distensione: “L'UE si compiace delle misure volte a rafforzare il clima di fiducia adottate di recente da Grecia e Turchia, nonché del proposito annunciato di riprendere i colloqui esplorativi diretti finalizzati alla delimitazione della piattaforma continentale e della zona economica esclusiva dei due paesi”. Per cui il Consiglio Europeo, pur ribadendo “piena solidarietà a Cipro e Grecia” e pur condannando “con forza le violazioni dei diritti sovrani della Repubblica di Cipro” rinuncia ad attivare subito misure restrittive verso la Turchia, ma come dichiarano le conclusioni: “Ricordando e riaffermando, tra l'altro, le sue precedenti conclusioni sulla Turchia dell'ottobre 2019, in caso di nuove azioni o provocazioni unilaterali in violazione del diritto internazionale, l'UE farà ricorso a tutti gli strumenti e le opzioni a sua disposizione, anche in conformità dell'articolo 29 del TUE e dell'articolo 215 del TFUE, al fine di difendere i propri interessi e quelli dei suoi Stati membri”.5 La minaccia di sanzioni rimane, quindi, sul tavolo per spingere la Turchia sulla via del dialogo. Sembra che il cancelliere Merkel abbia imposto questa posizione più morbida, che fornisce incentivi al dialogo per la Turchia, piuttosto della linea dura proposta dal presidente Macron o dall’imposizione automatica di sanzioni in caso di violazioni, come proposto da Cipro (Herszenhorn et alii, 2020). Dopo il Consiglio Europeo, la nave da prospezione turca Yavuz, impiegata al largo di Cipro nell’esplorazione energetica di aree contese è rientrata al porto turco di Tasucu. L’UE ha preso atto positivamente delle dichiarazioni del ministero degli Esteri turco, secondo cui la Yavuz si preparerà ora a effettuare trivellazioni in una nuova posizione. Tuttavia, un’altra nave da ricerca, la Barbaros Hayrettin Pasa, resta al largo delle coste cipriote sud-orientali. Il 5 ottobre 2020, il segretario generale della NATO Stoltenberg si è recato in visita ad Ankara (Sole 24 ore, 2020).

3 "L'UE non rimarrà indifferente alla sfida della migrazione", dichiara Charles Michel in Grecia 16 settembre 2020 https://www.consilium.europa.eu/it/european-council/president/news/2020/09/16/20200915-moria/ 4 Remarks by President Charles Michel after his meeting with Cypriot President Nicos Anastasiades in Nicosia. Consiglio europeo Dichiarazione e osservazioni 16 settembre 2020 https://www.consilium.europa.eu/it/press/press- releases/2020/09/16/intervention-du-president-charles-michel-apres-sa-rencontre-avec-le-president-chypriote-nicos- anastasiades-a-nicosie/ 5 Riunione straordinaria del Consiglio europeo (1º e 2 ottobre 2020) – Conclusioni https://www.consilium.europa.eu/media/45923/021020-euco-final-conclusions-it.pdf

Osservatorio Strategico 2020– Anno XXII n. IV 16 Iniziative Europee di Difesa e sviluppo tecnologico

La corsa agli armamenti

Se da una parte vi sono iniziative di distensione, dall’altra l’escalation in corso da quest’estate ha portato in settembre, contemporaneamente al rientro della nave turca, al riarmo greco. Cipro, Francia, Grecia, Italia hanno partecipato all’esercitazione navale “Eunomia” nell’ambito dell’iniziativa denominata “Cooperazione quadripartita Italia – Francia – Cipro – Grecia” per condurre delle attività di addestramento congiunto.dal 26 al 28 agosto 2020. Gli Emirati Arabi Uniti (EAU) hanno inviato a Creta quattro caccia F-16. A tal riguardo, una fonte del Ministero della Difesa turco ha dichiarato ad un giornale arabo “non esiteremo ad abbatterli se si avvicineranno alle acque turche o all’area dove opera la Oruc Reis” (Analisi Difesa, 2020). Come risposta, la Turchia ha annunciato manovre militari navali con tiri di artiglieria nell’area al largo della costa nord ovest di Cipro dal 29 agosto fino all’11 settembre 2020, prolungando le esplorazioni sismiche fino a 3 mesi. Il 30 agosto 2020, la Turchia ha protestato contro l’invio di truppe greche a Castelrosso affermando che secondo il Trattato di Pace di Parigi del 1947, l’isola è una zona smilitarizzata. La Grecia non ha commentato, ma Bloomberg rivela che si trattava di un regolare avvicendamento tra unità militari per il presidio dell’isola (Bloomberg, 2020). Le Forze Armate turche hanno organizzato, dal 5 al 10 settembre, esercitazioni interforze nella Repubblica turca di Cipro del Nord, riconosciuta solo dalla Turchia. Secondo la Turchia queste esercitazioni si tengono annualmente per simulare l’invio di rinforzi dalla Turchia a difesa della repubblica turco-cipriota già presidiata da truppe turche. Inoltre, il 5 settembre lungo i confini terrestri tra Turchia e Grecia sono stati spostati una quarantina di veicoli corazzati da combattimento per fanteria FNSS ACV-15 ritirati dal confine siriano. La tv filo-governativa A-Haber ha mostrato un convoglio di camion portacarri con a bordo i cingolati, che ha poi raggiunto via treno il porto di Iskenderun a Edirne. Più che una dimostrazione di forza, questa è la prova che nonostante i 2000 veicoli ACV-15 in servizio, i mezzi realmente operativi siano solo qualche decina e sia quindi necessario spostarli dove vi è bisogno. Ciò a causa della rapida obsolescenza causata dallo schieramento su più fronti tra cui la Libia a sostegno del governo di Tripoli, la Siria sul fronte nord-occidentale della provincia di Idlib e su quello nord orientale del Rojava (il Kurdistan siriano), a cui aggiungere gli impegni militari assunti nell’Iraq settentrionale, l’Egeo e ora a Cipro e sul confine greco (Analisi Difesa, 2020) La Grecia cerca di rafforzare le alleanze con Cipro, Egitto, EAU e Francia e il primo ministro greco Mitsotakis, ha reso noto che la Grecia vuole potenziare il proprio dispositivo militare. La Francia si è schierata con la Grecia e ad Ajaccio, il 10 settembre, il presidente Macron ha incontrato il premier greco Mitsotakis per rafforzare la cooperazione militare (Ginori, 2020). A tale fine, il primo ministro Mitsotakis ha annunciato, il 13 settembre 2020, l’intenzione di acquistare dalla Francia circa 18 caccia multiruolo Dassault Rafale con consegne sono previste nel primo semestre 2021. L’Aeronautica Militare greca ha già in passato acquistato dalla francese Dassault, oltre a velivoli americani come il Lockheed Martin F-16, come strategia di duplicazione delle forniture militari, per meglio garantire la propria sovranità e la sicurezza degli approvvigionamenti. Nel 1974 sono stati acquistati 40 caccia Dassault Mirage F1, nel 1985 40 Mirage 2000 e nel 2000 15 Mirage 2000-5 con un contratto supplementare per aggiornare 10 Mirage allo standard 2000-5 in collaborazione con l’industria aeronautica greca (Bauer, 2020). L’ordine dei 18 Rafale è composto da 6 velivoli usati, ex Aeronautica Militare francese, e 12 nuovi, di cui 14 monoposto Rafale F-3R (10 usati e 4 nuovi) e 4 in versione biposto (2 usati e 2 nuovi) per un valore di 1,7 miliardi di euro, più 300 milioni di euro per i missili di MBDA (missili aria- aria Meteor, missili aria-aria Mica EM/IR Nuova Generazione, missili da crociera Scalp EG e missili antinave Exocet AM39). Un accordo bilaterale è previsto a novembre con la firma del contratto entro dicembre 2020 e consegne nell’estate 2020 (Cabirol, 2020b). L’Aeronautica Militare francese

Osservatorio Strategico 2020– Anno XXII n. IV 17 L’Unione Europea e le controversie nel Mediterraneo orientale cederà a quella greca Rafale nella versione più aggiornata, F-3, e Dassault fornirà l’addestramento dei piloti e dei meccanici greci (Guillemard, 2020). Per accelerare le consegne i 12 velivoli nuovi potrebbero essere tratti dagli ordini in essere per l’Aeronautica Militare francese. La Grecia intende anche acquistare dalla Francia elicotteri Romeo per l’aviazione navale e ha rilanciato il dialogo per l’acquisto di (due o quattro) fregate lanciamissili Frégates de Défense et d’Intervention (FDI) classe Belharra fabbricate da Naval Group con prezzo ribassato da 2,5 a 2 miliardi di euro, al fine di vincere la concorrenza delle fregate americane Littoral Combat Ship o delel fregate antisommergibile britanniche Type 23 ex Royal navy (Cabirol, 2020a) Per ampliare la capacità di interdizione di accesso e di area (Anti-Access & Area Denial : A2/AD) delle forze navali greche si acquisterebbero missili da crociera Scalp Naval o MdcN, missili Aster da difesa aerea imbarcata prodotti da MBDA. Il “pacchetto francese” di armamenti potrebbe raggiungere un valore di almeno 3,5 miliardi di euro. La Francia attribuisce a questa fornitura un valore politico e strategico che si aggiunge alle commesse per la sua industria della Difesa. (Analisi Difesa, 2020). Le prime notizie sulle trattative sono state rivelate il 1° settembre (Cabirol, 2020a). I greci sono interessati al Rafale da tempo, nel 2008 le trattative si arenarono in seguito alla pesante crisi economico-finanziaria greca, anche le fregate sono state in trattativa, finché gli Stati Uniti hanno offerto alla Grecia 4 Littoral Combat Ship a prezzo conveniente. Per ridurre i costi è allo studio l’ipotesi di un riacquisto francese di alcuni Mirage 2000-5 greci in servizio. (Analisi Difesa, 2020). Durante la visita a Washington, il 7 gennaio 2020, il primo ministro greco ha espresso l’interesse per l’acquisto di 24 caccia Lockheed Martin F-35. Negli Stati Uniti si considera il dirottamento verso la Grecia di alcuni degli F-35 inizialmente ordinati dalla Turchia. Per la Grecia, l’acquisto degli F-35 sarebbe alternativo a quello dei Rafale e potrebbe fare leva sulla necessità greca dell’aiuto americano per la difesa” (Cabirol, 2020a), il contratto per i Rafale è però in stato più avanzato. A dicembre 2019, il ministro della difesa greco ha annunciato in Parlamento un contratto da 1,5 miliardi di dollari con Lockheed Martin per far aggiornare da Hellenic Aerospace (EAV) 150 F-16 greci alla versione Block 70/72 Viper entro il 2027, standard che darebbe una superiorità agli F-16 greci rispetto agli F-16 turchi della versione Block 30, 40 e 50. Il contratto è stato confermato dall’Aeronautica Militare greca a maggio 2020 (Ekathimerini, 2020). Inoltre, secondo il sito di notizie greco www.enikos.gr, gli Stati Uniti hanno offerto a giugno 2020 alla Grecia 1200 veicoli 4x4 Armored Security Vehicles (ASV) M1117 Guardian di Textron, il cui invio è stato già approvato da Congresso degli Stati Uniti, e 350 veicoli corazzati M2A2 Bradley a supporto dei carri armati Leopard 2HEL greci in combattimento. La consegna è stata ritardata dal Covid-19.

Analisi, valutazioni e previsioni

Tra segnali di distensione e corsa al riarmo, la minaccia di sanzioni da parte del Consiglio Europeo sta dando suoi frutti. L’UE, così come la Francia in particolare, tentano di colmare il vuoto creato negli ultimi anni dal disinteresse degli Stati Uniti per questa porzione di Mediterraneo, a partire dalla mancate ritorsioni degli Stati Uniti verso la Siria di Assad, minacciate per evitare un attacco chimico siriano nell’agosto 2013 (Di Feo, 2020) Gli Stati Uniti, più che l’UE o meglio la Francia, avrebbero le leve per costringere Grecia e Turchia a giungere ad una soluzione, come dimostra la reazione alla visita del segretario di Stato Pompeo a Cipro. Tra elezioni presidenziali e emergenza Covid-19, però, la situazione del Mediterraneo orientale, comprensibilmente non è in cima alle priorità della politica americana anche se la comunità greco-americana si è sempre rivelata importante nelle elezioni presidenziali americani. Il presidente Erdogan risulta, poi, essere un alleato importante per gli Stati Uniti per la ricerca di una stabilità sia nella regione mediterranea che mediorientale.

Osservatorio Strategico 2020– Anno XXII n. IV 18 Iniziative Europee di Difesa e sviluppo tecnologico

Tuttavia, è stata la denuncia americana del Joint Comprehensive Plan of Action (JCPOA) con l’Iran a guastare le relazioni tra Grecia e Turchia, poiché questi due paesi, così come l’Italia, sono paesi di transito per il petrolio e gas iraniano, mentre con i percorsi alternativi, la Turchia è tagliata fuori dal gasdotto Southern Gas Corridor che porta gas da Azerbaijan all’UE. Secondo l’articolo 87 della Convezione di Montego Bay sul diritto internazionale marittimo del 1982 le condotte di gas o petrolio possono essere poste nella ZEE di altri paesi, risolvendo così la questione delle condotte turche nella ZEE greca, ma la Turchia non è firmataria della Convenzione del 1982 e rigetta un arbitrato internazionale (Doveri Vesterbye, 2020). Secondo la Grecia la questione dei confini marittimi deve essere risolta dalla Corte Internazionale di Giustizia, in base ad un approccio di diritto internazionale che l’UE non può che appoggiare. La Turchia non accetta la giurisdizione della Corte per cui sarebbe necessario un accordo di arbitrato. La sentenza della Corte probabilmente non darebbe ragione in pieno a nessuno dei contendenti, ma troverebbe un compromesso. La Grecia in quanto Stato membro dell’UE gode della solidarietà degli altri Stati Membri. Tuttavia, l’UE non dovrebbe appoggiare incondizionatamente le rivendicazioni territoriali greche, ma appoggiare la richiesta greca di una soluzione conforme al diritto internazionale (Kittmer, 2020). Secondo Massolo (2020), “si tratta di dare ad Ankara, pur sempre un alleato nella Nato, regole d’ingaggio definite e un maggiore senso dei limiti: Washington .. potrebbe farlo, ma l’Europa - e direttamente la diplomazia italiana - possono svolgere sugli americani un ruolo di stimolo non irrilevante”. Nello specifico la Turchia deve comprendere che: “Nelle crisi regionali (..) non esistono soluzioni militari, ma compromessi politici e, al più, aree di rispetto e di influenza. Per le rotte energetiche (..) la comunità internazionale non potrà indietreggiare oltre limiti ragionevoli di fronte alle violazioni più flagranti del diritto internazionale. Per i flussi migratori (..) la (..) gestione non può più essere solo ricattatoria, ma va inserita in un quadro più ampio di rapporti con l’Europa che investa anche le collaborazioni tecnologiche, industriali e commerciali di cui Ankara ha bisogno” (Massolo, 2020) La questione del Mediterraneo orientale è importante anche per i rapporti tra Italia e Francia. L’Italia si era opposta in passato al progetto di Unione Mediterranea del presidente Sarkozy. La partecipazione dell’Italia ad Eunomia è stata vista positivamente dalla Francia (Ginori, 2020), anche se negli stessi giorni il cacciatorpediniere italiano Luigi Durand de La Penne ha partecipato ad esercitazioni con la Marina turca, secondo la prassi consolidata tra Paesi NATO di approfittare della presenza in loco per svolgere attività con altri alleati NATO. L’appoggio della Francia alla Grecia ha da un lato mostrato alla Turchia l’intenzione di non farsi marginalizzare nel Mediterraneo e dall’altro lato ha conseguito importanti commesse per l’industria della difesa francese (Gagliano, 2020). In un’intervista (Bechis, 2020), Lucio Caracciolo, direttore di Limes e professore di Studi Strategici alla LUISS “Guido Carli” di Roma, si è espresso positivamente verso l’iniziativa francese di “Pax mediterranea” nonostante il Consiglio Europeo non abbia adottato le sanzioni alla Turchia: “Il Club Med è un’iniziativa che ha una sua nobiltà e una storia consolidata nella tradizione geopolitica francese. In questo caso, risponde a un’esigenza francese di ristabilire gli equilibri europei.” Caracciolo è convinto che per l’Italia: “un Club Med, al di là delle sue modeste dimensioni, sia importante per l’interesse nazionale italiano che si decide tutto fra le sponde dell’Europa meridionale e del Nord Africa. Però oggi una rottura totale con la Turchia non possiamo permettercela”. Questo perché “la Turchia ha in mano Tripoli, cioè i flussi migratori dal Nord Africa

Osservatorio Strategico 2020– Anno XXII n. IV 19 L’Unione Europea e le controversie nel Mediterraneo orientale alle coste siciliane” per cui l’Italia non può rischiare di inimicarsi la Turchia, sebbene intenda anche sostenere Grecia e Cipro.

Bibliografia

Analisi Difesa (2020) Erdogan mostra i muscoli ai confini, Atene guarda a Parigi per rafforzarsi, Analisi Difesa, 6 settembre 2020

Bauer, Anne (2020). La Grèce souhaite acquérir 18 avions de chasse Rafale pour moins de 2 milliards. Les Echos, 14 settembre 2020

Bechis, Francesco (2020) Intervista a Lucio Caracciolo: Erdogan o Macron? Lucio Caracciolo spiega come non affogare nel Mediterraneo. Formiche.net, 14 settembre 2020

Cabirol, Michel (2020a). Des Rafale pour la Grèce? La Tribune 2 settembre 2020

Cabirol, Michel (2020b). Rafale en Grèce: un contrat de 2 millions d’euros pour Dassault Aviation et MBDA. La Tribune 26 settembre 2020

Di Feo, Gianluca (2020). Navi da guerra e giochi di potere ma la voce dell’Europa non si sente. Repubblica, 5 ottobre 2020

Doveri Vesterbye, Samuel (2020) Keep Your Friends Close and Turkey Closer: EU–Turkey Relations. Commentary, Royal United Service Institute (RUSI) 22 settembre 2020

Ekhatimerini (2020). No delays in F-16 upgrade, Greek Air Force says. 20 maggio 2020

Gagliano, Giuseppe (2020) Come la Grecia si arma grazie alla Francia in funzione anti Turchia. Startmag, 14 settembre 2020

Ginori, Anais (2020) Macron gendarme del Mediterraneo frena Erdogan. La Stampa, 10 settembre 2020

Guillenard, Véronique (2020) Le Rafale en Grèce une bonne nouvelle pour l’aéronautique et Dassault. Le Figaro, 14 settembre 2020

Herszenhorn David M., Barigazzi Jacopo, Momtaz Rym (2020). At summit, EU leaders talk tough on Turkey. Politico.eu, 2 ottobre 2020

Kittmer, John (2020) Tension in the Aegean and Eastern Mediterranean: What Does Greece Want? Commentary, Royal United Service Institute (RUSI) 16 settembre 2020

Massolo, Giampiero (2020). Erdogan, istruzioni per l’uso. La Repubblica. 13 settembre 2020

Momtaz Rym (2020). Macron criticizes Turkey but raises prospect of dialogue. Politico.eu, 11 settembre 2020

Sole 24 Ore (2020). Ankara richiama in porto la nave al largo di Cipro. Sole 24 ore, 6 ottobre 2020

Osservatorio Strategico 2020– Anno XXII n. IV 20 Balcani e Mar Nero Matteo Bressan

Mar Nero: tra risorse energetiche e competizione geopolitica

Lo scorso 21 agosto, la Turchia ha annunciato la scoperta, nel Mar Nero, di un giacimento di gas naturale da 320 miliardi di metri cubi. Erdogan, in un discorso televisivo, ha affermato che si tratta della più grande scoperta di gas naturale della storia nel Mar Nero. La Turchia aveva iniziato l'attività esplorativa alcuni mesi fa nell'area Tuna 1, che si trova nei pressi del perimetro rumeno Neptun Deep. La zona Tuna 1 si trova al largo della foce del Danubio, all'incrocio tra i confini marittimi bulgari e rumeni nelle acque interne della Turchia1. In quest'area, otto anni fa, il consorzio ExxonMobil-Omv Petrom ha scoperto importanti giacimenti di gas, ad una profondità d'acqua compresa tra i 100 e i 1.700 m per un perimetro che si estende per 9.900 km² nel Mar Nero2. L’offshore rumeno Neptun Deep è in concessione ad un consorzio di cui fa parte la società statunitense Exxon Mobil3.

Sebbene diversi analisti si stiano interrogando sul fatto se i 320 miliardi di metri cubi si riferiscano alle stime totali di gas o solamente a quelle estraibili, la scoperta sarebbe in ogni caso rilevante e potrebbe avere un forte impatto sulla sicurezza energetica della Turchia, limitando la dipendenza energetica da Russia, Iran e Azerbaigian, oltre che dalle importazioni di gas naturale liquido (GNL) dal Qatar e dagli Stati Uniti. Va infatti evidenziato che qualsiasi riduzione delle importazioni di energia da parte della Turchia, attestatesi a 41 miliardi lo scorso anno, darebbe un impulso alle finanze pubbliche e contribuirebbe a diminuire il disavanzo che ha spinto la lira turca

1 Turkey finds 320 bcm of natural gas in Black Sea, Erdoğan announces, Daily Sabah, 21/08/2020 https://www.dailysabah.com/business/energy/turkey-finds-320-bcm-of-natural-gas-in-black-sea-erdogan- announces?gallery_image=undefined#big 2 Neptun Deep Gas Field Project, Black Sea, OffShore Technology, https://www.offshore- technology.com/projects/neptun-deep-gas-field-project-black-sea/ 3 Energia: fonti stampa, Turchia scopre gas nel Mar Nero vicino giacimento Neptun in Romania, Agenzia Nova, 20/08/2020 https://www.agenzianova.com/a/5f3e42d85a68c4.34733438/3068992/2020-08-20/energia-fonti-stampa- turchia-scopre-gas-nel-mar-nero-vicino-giacimento-neptun-in-romania

Osservatorio Strategico 2020– Anno XXII n. IV 21 Balcani e Mar Nero ai minimi storici rispetto al dollaro. Ad oggi, vi sono diverse valutazioni circa gli investimenti e le infrastrutture necessarie per la produzione e l’approvvigionamento energetico derivante da queste recentissime scoperte, ma si stima di poter già estrarre e utilizzare il gas entro il 20234.

Sulla base del consumo annuale di gas, la Bulgaria, l'Ucraina, la Grecia potrebbero essere molto interessate all'acquisto di quel gas, se la Turchia decidesse di esportarlo5. La scoperta arriva mentre le tensioni tra gli alleati della NATO, Turchia e Grecia, sono alle stelle per l'esplorazione di petrolio e gas nelle acque contese nel Mediterraneo orientale e la Turchia è in disaccordo con Cipro per le esplorazioni energetiche intorno all'isola6.

Analisi, valutazioni e previsioni

La scoperta dei giacimenti di gas da parte della Turchia nel Mar Nero, così come la realizzazione di infrastrutture energetiche e le dichiarazioni di nuove Zone Economiche Esclusive, rientra nella strategia di trasformare la Turchia in un hub energetico per il Vecchio Continente. Anche l’imponente progetto infrastrutturale “Canale Istanbul”, mira a realizzare un controllo dei transiti navali favorendo le nazioni accondiscendenti e danneggiando le economie rivali. In questa ottica assume rilevanza strategica la possibilità di mettere in sicurezza, si ipotizza attraverso una nuova base sul Mar Nero, l’area parzialmente costiera di circa 20 chilometri quadrati nel distretto di

4 Gumrukcu T. e Kucukgocmen A., Erdogan announces biggest Turkish gas find in Black Sea, Reuters, 22/08/2020 https://uk.reuters.com/article/us-turkey-energy-erdogan/erdogan-announces-biggest-turkish-gas-find-in-black-sea- idUKKBN25H1P4 5 Koc C. Hacaoglu S. Kandemir A., Turkey finds energy in Black Sea as Erdogan promises 'good news', Al Jazeera, 19/08/2020 https://www.aljazeera.com/ajimpact/turkey-finds-energy-black-sea-erdogan-promises-good-news- 200819202819586.html 6 Fielder J., Turkey's Erdogan announces discovery of large natural gas reserve off its Black Sea coast, Euronews, 21/08/2020 https://www.euronews.com/2020/08/21/turkey-s-erdogan-announces-discovery-of-large-natural-gas- reserve-off-its-black-sea-coast

Osservatorio Strategico 2020– Anno XXII n. IV 22 Mar Nero: tra risorse energetiche e competizione geopolitica

Kırklareli – da Limanköy a Beğendik – a soli 5 chilometri dal confine bulgaro. La nuova base turca nel Mar Nero, pensata in chiave anti russa, potrebbe creare non poche tensioni con altri paesi dell’Alleanza. In primo luogo la Grecia che rischierebbe di veder declassata l’importanza della base navale statunitense di Alessandropoli, sorta sia come avamposto per la sicurezza, anche per la protezione degli approvvigionamenti energetici dell’Europa, sia in un’ottica di contenimento delle potenzialità del Pireo, inserito nella Belt and Road Initiative della Repubblica Popolare Cinese. Una nuova base turca nel Mar Nero limiterebbe anche le ambizioni della Bulgaria, che ha avanzato la proposta, in sede NATO, di realizzare una base navale a Varna, e la stessa Romania, che da tempo insiste sulla costituzione di una flottiglia NATO permanente nel Mar Nero. Bucarest considera la Russia, secondo l’ultima Strategia nazionale di difesa 2020 – 2024, una minaccia e, per gli Stati Uniti, la Romania si conferma, anche alla luce degli investimenti in campo missilistico e in quello dell’aviazione, il bastione meridionale del Mar Nero. È quindi verosimile che la ventilata base militare turca possa esser un modo per condizionare gli Alleati e congelare così i negoziati sugli investimenti portuali nelle nazioni vicine e concorrenti, facendo guadagnare influenza ad Ankara. È tuttavia probabile che la realizzazione della base e del canale artificiale andrebbe a compromettere ulteriormente le relazioni con la Russia, la quale non può permettersi di perdere il controllo del Mar Nero, unico accesso ai mari caldi e alle rotte commerciali del Mediterraneo7. Proprio il Mar Nero, nonostante i ravvicinamenti sul dossier siriano e in parte anche su quello libico insieme al progetto Turkish Stream, potrebbe essere la regione di scontro tra Turchia e Russia. Divise rispetto alla crisi in Ucraina sin dal 2014, con la Turchia che non ha riconosciuto l’annessione della Crimea da parte della Russia, i rapporti tra Ankara e Mosca potrebbero subire un ulteriore scossone dal progetto di realizzazione del “Canale di Istanbul”. Il progetto, dal costo di circa 15 miliardi di dollari, dovrebbe esser completato nel 2023 e svilupperà un canale parallelo al Bosforo lungo 45 Km, collegando il Mar Nero con il Mar di Marmara. L'obiettivo dichiarato è quello di alleviare il traffico marittimo congestionato e di ottenere nuovi ricavi (stimati in 1 miliardo di dollari all'anno) dalle navi che pagano per il transito. Nonostante l'opposizione del neoeletto sindaco di Istanbul Ekrem İmamoğlu, che potrebbe essere il principale avversario del presidente Erdoğan nelle elezioni presidenziali turche del 2023, nonché le preoccupazioni pubbliche in materia di ambiente e costi per il progetto, il presidente Erdoğan ha dichiarato che non si può tornare indietro e che presto verranno indette le offerte per la costruzione del canale. I grandi progetti infrastrutturali non sono una novità per Erdogan, ma la congiuntura economica e la disoccupazione al 14% potrebbero rendere impopolare un simile progetto8. Tuttavia, al di là delle contrapposizioni e delle perplessità interne alla Turchia, destano interesse le conseguenze geopolitiche di un simile progetto. Mosca infatti guarda con preoccupazione alla potenziale alterazione strategica che il nuovo canale potrebbe determinare alla Convenzione di Montreux del 1936, che regola il passaggio e la navigazione nello Stretto dei Dardanelli, nel Mar di Marmara e nel Bosforo. La Convenzione regola la questione degli stretti, stabilendo il controllo militare della Turchia sul Bosforo e sui Dardanelli e limitando le navi militari (in termini di numero, tonnellaggio e dimensioni) non appartenenti agli stati costieri del Mar Nero che possono transitare attraverso il Canale del Bosforo.

7 Mussetti M., La partita dei mari interni della Turchia, Limes, 3/08/2020 https://www.limesonline.com/cartaceo/la- partita-dei-mari-interni-della-turchia 8 Selcuki C., In Turkey, a Battle Over Infrastructure Could Shape the Next Presidential Race, Foreign Policy, 16/01/2020 https://foreignpolicy.com/2020/01/16/turkey-erdogan-imamoglu-istanbul-canal-battle-over-infrastructure- could-shape-next-presidential-race/

Osservatorio Strategico 2020– Anno XXII n. IV 23 Balcani e Mar Nero

Le preoccupazioni di Mosca riguardano il fatto che il Canale Istanbul potrebbe produrre una denuncia tacita e de facto delle disposizioni di Montreux, consentendo così a navi da guerra e navi militari di qualsiasi dimensione di altri stati di passare attraverso lo stretto nel bacino del Mar Nero. Dal punto di vista di Mosca queste preoccupazioni non sono del tutto infondate. Le ripetute dichiarazioni del governo turco secondo cui il nuovo canale non sarà soggetto alla Convenzione di Montreux sono una seria preoccupazione per la Russia, che considera la regione del Mar Nero come parte del suo "estero vicino”. È quindi verosimile che il dibattito, prima ancora della realizzazione del canale, metterà a dura prova le relazioni tra Turchia e Russia, con possibili sollecitazioni sull’Alleanza atlantica9. Il transito di unità navali e sottomarine nel Bosforo e più in generale il rispetto della Convenzione di Montreux è motivo di tensione tra Ucraina, Turchia da una parte e Russia. Nel marzo del 2019, il sottomarino russo della Classe Kilo Krasnodar (B-265) entrava nel Mediterraneo dopo aver attraversato il Bosforo. In base alla Convenzione, le unità navali dei paesi affacciati sul Mar Nero possono transitare se dirette a cantieri per effettuare riparazioni o per esser assegnate alla flotta del Mar Nero. Secondo l’Ambasciata Ucraina a Washington, la Russia avrebbe in realtà violato la Convenzione perché il sottomarino Krasnodar (B-265) non si sarebbe diretto a San Pietroburgo per effettuare lavori di manutenzione, ma si sarebbe aggregato alla task force Mediterranea della Russia10. L’episodio in questione, al di là delle dichiarazioni rassicuranti di Mosca circa il rispetto della Convenzione di Montreux, conferma come il Mar Nero sia una faglia geopolitica sempre più instabile. A Mosca infatti, i critici della Convenzione di Montreux considerano il documento di oltre 80 anni un limite alla libertà della Russia di utilizzare lo stretto per proiettare la forza nel Mediterraneo. Di conseguenza, alcuni hanno sollecitato la Russia a cercare una revisione della Convenzione, mentre altri ritengono che Mosca perderebbe più di quanto potrebbe guadagnare, alla luce della ricerca di migliori relazioni con la Turchia. Yevgeny Satanovsky, un influente analista dell’Istituto di studi orientali dell'Accademia russa delle scienze, ha anche suggerito che Mosca possa diventare un partner, a pieno titolo, nello sviluppo del Canale di Istanbul, un progetto che consentirebbe alle navi di passare tra il Mediterraneo e il Mar Nero senza dover transitare nello Stretto disciplinato dalla

9 Cella G., Istanbul Canal: a game changer for the Montreux Convention and the Black Sea?, NATO Foundation, http://www.natofoundation.org/food/is-the-istanbul-canal-a-game-changer-for-the-black-sea-giorgio-cella/ 10 Goble P., Moscow Wants to Have It Both Ways on Montreux Convention, The Jamestown Foundation, 19/04/2019 https://jamestown.org/program/moscow-wants-to-have-it-both-ways-on-montreux-convention/

Osservatorio Strategico 2020– Anno XXII n. IV 24 Mar Nero: tra risorse energetiche e competizione geopolitica

Convenzione di Montreux. Tuttavia non solo i media russi, con l’influente commentatore Yevgeny Satanovsky, che ha dichiarato che il controllo russo sullo Stretto dovrebbe esser disciplinato in modo che le navi della NATO non possano entrare e uscire liberamente dal Mar Nero, ma anche il governo russo ha ripetutamente espresso indignazione nei confronti delle navi dell’Alleanza Atlantica che sono solite entrare nel Mar Nero nel pieno rispetto della Convenzione di Montreux. L’area che potrebbe maggiormente risentire di questa tensione è quindi il Mar Nero, fianco sud orientale della NATO, considerato da Mosca come un “lago russo”. Proprio in questo specchio d’acqua si è tenuta dal 20 al 24 luglio, l’esercitazione navale tra Stati Uniti e Ucraina a cui ha preso parte il Secondo Gruppo Navale Permanente della NATO. L’esercitazione, alla quale hanno partecipato circa 2.000 militari di Bulgaria, Georgia, Norvegia, Romania, Spagna, Turchia, Ucraina e Stati Uniti, ha svolto attività di interdizione marittima, difesa aerea, guerra anti sommergibili e attività di ricerca e salvataggio11. È evidente che l’esercitazione, oltre che per gli aspetti squisitamente tecnici, abbia anche una valenza politica sia in relazione alla Russia sia per soddisfare, grazie a un poco dispendioso e periodico affacciarsi nel Mar Nero, le esigenze degli alleati12. L’esercitazione, in particolar modo le manovre del cacciatorpediniere USS Porter, sono stati monitorati dalla flotta russa nel Mar Nero che, pochi giorni dopo l’esercitazione NATO, ha eseguito un’esercitazione con oltre 20 unità13. Durante le esercitazioni sono stati simulati combattimenti navali, operazioni di difesa antiaerea e l'uso di contromisure, nonché distruzione di bersagli marittimi e costieri14. È evidente che l’esercitazione attuata dalla flotta russa nel Mar Nero risponde all’esigenza di ribadire la presenza politica e militare di Mosca nella regione che si conferma esser vitale per consentire alla superpotenza euroasiatica di entrare nelle rotte commerciali dei mari caldi. Le tensioni nel Mar Nero sono aumentate nel novembre del 2018 quando la Russia sequestrava tre navi ucraine con gli equipaggi e, nel luglio del 2019, l’Ucraina sequestrava una nave cisterna russa nello stretto di Kerch15. Da allora, aerei russi hanno periodicamente intercettato voli da ricognizione statunitensi, anche con manovre di volo ravvicinate ritenute non sicure dai funzionari statunitensi16. Sebbene la NATO abbia intensificato la presenza nel Mar Nero, le sue iniziative sono più simboliche che dimostrative, più politiche che militari. Le annuali esercitazioni navali hanno primariamente lo scopo di rassicurare i propri fidati partner (Romania e Bulgaria), inviare un messaggio politico al Cremlino (“non abbandoniamo l’Ucraina”) e ricordare all’alleato turco i propri obblighi geopolitici e valoriali17. Sostanzialmente, al di là di una serie di misure di dissuasione e di azioni dimostrative, manca nell’Alleanza uno schema generale di sicurezza per il Mar Nero, regione d’intersezione tra molteplici visioni del mondo e della sicurezza18.

11 NATO forces take part in exercise Sea Breeze in the Black Sea, NATO, 20/07/2020 https://www.nato.int/cps/en/natohq/news_177384.htm 12 Mussetti M., La NATO nel Mar Nero, Limes, 23/07/2020 https://www.limesonline.com/notizie-mondo-oggi-23-luglio- russia-iran-accordo-nato-mar-nero-consolati-danimarca/119395 13 Russia’s Black Sea Fleet begins to track US Navy Porter destroyers in Black Sea, TASS, 19/07/2020 https://tass.com/russia/1180225 14 Marina Russa inizia esercitazioni su larga scala nel Mar Nero subito dopo addestramento NATO, Sputnik, 29/07/2020, https://it.sputniknews.com/difesa/202007299357410-marina-russa-inizia-esercitazioni-su-larga-scala-nel- mar-nero-subito-dopo-addestramento-nato/ 15 L'Ucraina sequestra una nave cisterna russa. Mosca: "Azione illegale", La Repubblica, 25/07/2019 https://www.repubblica.it/esteri/2019/07/25/news/l_ucraina_sequestra_una_petroliera_russa-232007036/ 16 Vandiver J., US, Ukraine launch Black Sea drills while Moscow puts its fleet on alert, Stars and Stripes, 20/07/2020 https://www.stripes.com/news/us-ukraine-launch-black-sea-drills-while-moscow-puts-its-fleet-on-alert-1.638149 17 Mussetti M., Perché non possiamo ignorare il Mar Nero, Limes, 1/10/2018, https://www.limesonline.com/perche-non- possiamo-ignorare-il-mar-nero/108426 18 Obe J.S., Security in the Black Sea Region: Realpolitik or a New Unipolarity?, International Centre for Defence and Security, 3/0/2020 https://icds.ee/en/security-in-the-black-sea-region-realpolitik-or-a-new-unipolarity/

Osservatorio Strategico 2020– Anno XXII n. IV 25 Masherq, Gran Maghreb, Egitto ed Israele Claudio Bertolotti e Alessia Melcangi

Libia: le ambizioni dell’Egitto

La strategia egiziana in Libia: tra mediazione diplomatica e intervento militare1

Gli ultimi sviluppi sul fronte libico sembrano aver dato nuovo impulso all’iniziativa diplomatica egiziana: il 23 settembre il presidente al-Sisi ha, infatti, riunito il generale Haftar, leader dell’LNA, e il portavoce del parlamento di Tobruk Aguila Saleh, esortando le parti in conflitto a riavviare il processo politico sotto la supervisione dell'ONU con l'obiettivo di ripristinare la sicurezza e la stabilità nel paese (Ahram, 2020). La volontà del Cairo di abbandonare momentaneamente l’opzione militare a favore della ripresa del dialogo tra i gruppi rivali avviene in conseguenza del cessate il fuoco annunciato a fine agosto dal GNA di Tripoli. L’Egitto non è nuovo a questo tipo di strategia che, dalla caduta di Gheddafi nel 2011, si è dispiegata su due fronti: da una parte, quello della mediazione politica che potesse arrivare a una soluzione diplomatica del conflitto; dall’altra parte, sostenendo logisticamente e militarmente l’offensiva di Haftar contro Tripoli, insieme agli storici alleati della regione, gli Emirati Arabi Uniti (EAU) e l'Arabia Saudita, spingendosi fino a minacciare di avviare un conflitto per la difesa della propria sicurezza nazionale e dei propri interessi in Libia (Melcangi, 2020). Con la discesa in campo della Turchia a fianco del GNA ‒ a seguito degli accordi stipulati tra i due paesi a dicembre 2019 sulla demarcazione dei confini marittimi e sulla cooperazione militare (Butler, Gumrukcu, 2020) ‒, l’opzione diplomatica è sembrata sempre più impossibile e inefficace per il Cairo che, progressivamente, si è trovato costretto a ricalibrare la propria azione in Libia; la Turchia infatti, oltre a essere un rivale geopolitico di cui al-Sisi teme la proiezione strategica, in particolare nel Mediterraneo orientale, rappresenta oggi anche uno dei più fieri sostenitori di quell’islam politico contro il quale si è invece schierato il Cairo insieme agli emiratini e i sauditi. La ritirata dal fronte occidentale a cui è stato costretto nell’aprile 2020 l’Esercito Nazionale Libico, insieme alle milizie che combattono a fianco di Haftar, ha spinto il Cairo, che temeva il collasso del generale e di perdere il controllo sulla Cirenaica a favore di Ankara, a riprendere il percorso diplomatico chiedendo un cessate il fuoco. Il 6 giugno 2020, il presidente egiziano ha annunciato la cosiddetta "Dichiarazione del Cairo" (Mezran, Melcangi, 2020), sostenuta da Haftar e da Aguila Saleh e basata su una risoluzione intra-libica che potesse rilanciare il processo di pacificazione; questa, tuttavia, ha trovato l’opposizione ferrea di Ankara e del governo di Tripoli. L'opzione diplomatica si è, dunque, trasformata in un monito di guerra lanciato da al-Sisi contro il GNA e i suoi sostenitori, posizionatisi vicino alla cosiddetta linea rossa di Sirte-Al-Jufra, alle porte della ricca e contesa mezzaluna fertile. Storicamente la Libia rappresenta per l’Egitto un paese di grande importanza per la sua proiezione geopolitica regionale: dal punto di vista della sicurezza interna, per evitare il dilagare della violenza nel suo territorio a causa della possibile penetrazione di gruppi jihadisti dalla porosa frontiera al confine con la Cirenaica; da un punto di vista economico, per far fronte alle conseguenze della drastica diminuzione delle rimesse dei lavoratori emigranti egiziani in Libia, che rappresentano una grave minaccia per la stabilità e la sicurezza interna dell'Egitto; ma anche per riaffermare la propria immagine di perno geostrategico regionale pronto a difendere i propri interessi in quel grande scacchiere geo-economico che è oggi il Mediterraneo Orientale. Ma a seguito degli ultimi eventi il Cairo ha momentaneamente deciso di riporre l’ascia di guerra e ritornare alla strategia diplomatica: il 29 settembre a Hurghada hanno avuto luogo importanti colloqui tra le delegazioni militari in

1 Alessia Melcangi, Università “La Sapienza” (Roma), Atlantic Council (Washington): [email protected]

Osservatorio Strategico 2020– Anno XXII n. IV 26 Masherq, Gran Maghreb, Egitto ed Israele rappresentanza del GNA e dell’LNA sul tema della sicurezza e sulla possibile ripresa dei negoziati nell’ambito del 5+5 Joint Military Committee (JMC). Sostenuto fortemente dalla Missione di sostegno delle Nazioni Unite in Libia (UNSMIL), tale incontro ha permesso all’Egitto di riscuotere il plauso pubblico dell’organizzazione per il suo impegno a sostegno del dialogo tra le varie fazioni libiche (UNSMIL, 2020).

Analisi, valutazioni, previsioni

Nel suo discorso alla 75° sessione dell'Assemblea generale delle Nazioni Unite, il presidente egiziano al-Sisi ha ribadito l’intenzione di voler aderire al processo di risoluzione politica condotto dall’organizzazione nel paese sostenendo il popolo libico nel suo processo verso la pacificazione del conflitto; ma, al contempo, ha anche sottolineato che la linea che si estende tra le città libiche di Sirte e Jufra continua ad essere considerata come una linea rossa non oltrepassabile per la sicurezza nazionale2. Di fatto, l’impressione è che l’Egitto sia ben felice di evitare un intervento militare costoso e dagli esiti imprevedibili, ma non a ogni costo. Se l’opzione diplomatica dovesse rivelarsi inefficace o non garantisse gli interessi strategici egiziani in quel paese, allora il Cairo potrebbe rispolverare l’opzione militare, mai del tutto accantonata. E dato che la partita in gioco in Libia rimane decisamente fluida, la scelta fra armi e diplomazia è tutt’altro che scontata.

Bibliografia

Ahram (2020), Libya's Haftar and Saleh arrive in Cairo for talks: Al-Arabiya, in http://english.ahram.org.eg/News/383669.aspx

BBC (2020), Wagner, shadowy Russian military group, 'fighting in Libya', 7 maggio, in https://www.bbc.com/news/world-africa-52571777

Bertolotti, C. (2020, [1]), EUNAVFORMED “Irini” operation: constraints and two critical issues, START InSight, in http://www.startinsight.eu/en/eunavformed-irini-operation-constraints-and-two- critical-issues/

Bertolotti, C. (2020, [2]), La Libia è instabile: nessuna soluzione politica senza impegno militare. La strategia turca indebolisce l’Italia, Osservatorio Strategico Ce.Mi.S.S. N. 1/2020, in https://www.difesa.it/SMD_/CASD/IM/CeMiSS/DocumentiVis/04_Bertolotti_OS_01_2020.pdf

Bertolotti, C. (2020, [3]), L’espansione di Mosca in Libia: il ruolo dei contractor russi della Wagner, START InSight e Osservatorio Strategico Ce.Mi.S.S., in https://www.startinsight.eu/russia-in-libia- contractor/.

Butler, D., Gumrukcu, T. (2020), Turkey signs maritime boundaries deal with Libya amid exploration row, 28 novembre, in https://www.reuters.com/article/us-turkey-libya/turkey-signs-maritime- boundaries-deal-with-libya-amid-exploration-row-idUSKBN1Y213I.

2 Statement by H.E. President Abdel Fattah El-Sisi before the 75th Session of the UN General Assembly, 24 settembre 2020, in https://www.sis.gov.eg/Story/152277/Statement-by-H.E.-President-Abdel-Fattah-El-Sisi-before-the-75th- Session-of-the-UN-General-Assembly?lang=en-us

Osservatorio Strategico 2020– Anno XXII n. IV 27 Libia: le ambizioni dell’Egitto

Daily Sabah (2020), Libya starts implementing joint military programs with Turkey, defense minister says, in https://www.dailysabah.com/politics/libya-starts-implementing-joint-military-programs-with- turkey-defense-minister-says/news.

Lederer, E.M. (2020), Experts: Libya rivals UAE, Russia, Turkey violate UN embargo, Associated Press, 9 settembre, 2020.

Magdy, S. (2020), US: Turkey-sent Syrian fighters generate backlash in Libya, The Washington Post, 2 settembre, in https://www.washingtonpost.com/world/middle_east/us-turkey-sent-syrian-fighters- generate-backlash-in-

Melcangi, A. (2020), A Two-Pronged Egyptian Strategy To Deal with the Libyan Chaos, Commentary ISPI, 24 settembre, in https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/two-pronged-egyptian-strategy-deal- libyan-chaos-27488.

Mezran, K., Melcangi, A., (2020), The Cairo Declaration is a false resolution to Libya’s conflict, Atlantic Coouncil, 11 giugno, in https://www.atlanticcouncil.org/blogs/menasource/the-cairo- declaration-is-a-false-resolution-to-libyas-conflict/.

UNSMIL (2020), Security and Military Direct Talks between Libyan Parties in Hurghada, Egypt Conclude with Important Recommendations, in https://unsmil.unmissions.org/security-and-military- direct-talks-between-libyan-parties-hurghada-egypt-conclude-important.

Osservatorio Strategico 2020– Anno XXII n. IV 28 Sahel e Africa Subsahariana Marco Cochi

La sindrome del terzo mandato destabilizza la Guinea e la Costa d’Avorio

Ogni anno in Africa si tengono più di una decina di elezioni nazionali delle quali più di tre su quattro si risolvono in una rielezione del presidente in carica, mentre meno di una su sei si traduce in un completo e pacifico trasferimento del potere all’opposizione. Tutto questo avviene nonostante ben 35 Carte costituzionali africane, ratificate o emendate dopo il 1989, contengono vincoli alla rielezione per più di due mandati presidenziali. Nel frattempo ben 12 Paesi africani non hanno ancora adottato limiti di rieleggibilità nella Costituzione, sei hanno invece abolito la limitazione e due hanno modificato la norma che prevedeva solo due mandati. Non sono dunque pochi i capi di Stato africani che, per prolungare la presidenza, in tempi recenti hanno promosso processi di modifica della Costituzione, come ha fatto nel luglio 2015 il presidente del Ruanda, Paul Kagame, che dal 1994 è al governo del Paese. Lo stesso vale per la Repubblica del Congodove, nell’ottobre 2015, è stata modificata la Carta Costituzionale congolese, abolendo i vincoli di età e stabilendo che il presidente, il 76enne Denis Sassou Nguesso, potrà essere eletto fino a tre volte1. Nguesso è a capo del Congo dal 1979, con un solo intervallo tra 1992 e il 1997, quando per esautorare Pascal Lissouba, legittimo vincitore delle elezioni nel 1992, scatenò la guerra civile con il probabile sostegno della compagnia petrolifera francese Elf2. In Togo, che per decenni ha avuto una Costituzione che non prevedeva limiti di rielezione per la carica di presidente, lo scorso 22 febbraio Faure Gnassimbé è stato rieletto per il quarto mandato consecutivo. Una vittoria che sancisce il dominio della famiglia Gnassingbé, alla testa del Paese da oltre mezzo secolo. Il primo mandato di Faure era iniziato nel 2005, dopo la morte del padre, Etienne Eyadema Gnassingbé, che, nel 1967 con un colpo di Stato, esautorò il presidente Nicolas Grunitzky e rimase per 38 anni alla guida del Togo. La rielezione di Gnassingbé segue una riforma costituzionale approvata lo scorso maggio dal Parlamento togolese, che limita i presidenti a rimanere in carica per massimo due mandati quinquennali, ma non è applicabile retroattivamente3. Questo significa che Gnassingbé potrebbe rimanere al potere per un altro decennio e per questo la riforma ha suscitato una dura reazione da parte dell’opposizione4. Negli Stati dell’Africa occidentale, che hanno tolto il limite al mandato costituzionale, si sono create tensioni sfociate in gravi crisi politiche, come ad esempio nel Burundi, dove nell’aprile 2015 il defunto presidente Pierre Nkuruziza trascinò il Paese sull’orlo di una guerra civile, pur di farsi ricandidare e tornare per la terza volta al potere. Mentre in Camerun, per farsi rieleggere, l’ottantasettenne Paul Biya ha già violato la Costituzione in tre occasioni e ha acuito la divisione profonda tra le due regioni anglofone e il resto del Paese, che dall’ottobre 2016 è sfociata nella più grave crisi che ha colpito il Camerun dal tempo dell’indipendenza. Tuttavia, ci sono anche capi di stato africani che rinunciano al potere e non contemplano di modificare la Costituzione. Uno di questi è il presidente del Niger, Mahamadou Issoufou, che ha ripetutamente dichiarato di non essere intenzionato a cambiare la Costituzione per candidarsi a un

1 Akum F. (2018). «République du Congo. D’une transition bloquée à une crise insoluble», Institute for Security Studies. Disponibile su https://issafrica.s3.amazonaws.com/site/uploads/car12-fr.pdf 2 http://apanews.net/en/pays/congo-rdc/news/congos-former-president-pascal-lissouba-dies-at-88 3 www.aljazeera.com/news/2019/05/togo-law-president-stand-terms-190509180859448.html 4 Ibidem

Osservatorio Strategico 2020– Anno XXII n. IV 29 La sindrome del terzo mandato destabilizza la Guinea e la Costa d’Avorio terzo mandato, ma di essere pronto a trasferire il potere nel 2021 a un successore democraticamente eletto5. Non a caso, la questione del terzo mandato e i limiti alla rieleggibilità di un presidente si inseriscono in una cornice caratterizzata dalla congenita debolezza delle istituzioni politiche africane, troppo spesso alla mercé di chi le dovrebbe rappresentare e difendere, ma invece si impegna per cancellare un vincolo che favorisce il ricambio di leadership e offre alcune fondamentali garanzie a tutela della democrazia.

La ricandidatura di Alpha Condé in Guinea Conacry

Nella Repubblica di Guinea, dove il prossimo 18 ottobre si terranno le elezioni generali, l’ottantaduenne presidente uscente Alpha Condé si è candidato per ottenere un terzo mandato, definito “illegale ed illegittimo” dal Fronte nazionale per la difesa della Costituzione (FNCD), la piattaforma che dal 3 aprile 2019 unisce le forze di opposizione e della società civile6. La ricandidatura di Condé, fortemente sostenuta dal partito al potere, il Raggruppamento del popolo guineano – Arcobaleno (RPG), è stata ufficialmente approvata dalla Corte costituzionale della Guinea Conacry, che ha reso possibile la rielezione del presidente della Repubblica per altri due mandati di sei anni ciascuno, modificando l’articolo 27 della Costituzione in vigore nel Paese africano7 dal 2010. Oltre ad aver ratificato la nomina di altri 11 candidati, compresa quella del principale sfidante dell’opposizione, l’ex primo ministro Cellou Dalein Diallo, esponente dell’Unione delle forze democratiche di Guinea (UFDG). Finora, né l’età avanzata, né tantomeno la pressione del FNCD contro l’emendamento della Costituzione che ha reso possibile il terzo mandato, hanno fatto desistere il leader guineano dalla sua intenzione di rimanere presidente a vita. Nei mesi scorsi, si era costituita la “Coalizione democratica per il cambiamento nella continuità” che aveva avanzato la proposta di designare un successore all’interno dell’RPG, presto archiviata per sostenere la terza candidatura di Condé8. Oltre la mera questione di legittimità delle manovre che lo scorso 22 marzo hanno portato al referendum costituzionale e all’approvazione delle modifiche, la scelta del presidente uscente ha profondamente deluso chi si fidava di un uomo che ha avuto un ruolo primario nella lotta per la democrazia nella Guinea post-indipendenza.

La lunga militanza politica di Condé

Prima di essere eletto nel 2010, dopo i lunghi anni di governo del primo presidente della Guinea Amhed Sekou Touré e del suo successore, il presidente golpista Lansana Conté, Condé si era guadagnato la fama di storico oppositore e aveva pagato la sua militanza anche con la prigione. Il suo arresto avvenne vicino al confine ivoriano dopo lo scrutinio delle elezioni presidenziali del 1998, alle quali era stato candidato. Condé venne incarcerato con l’accusa di aver tentato di lasciare illegalmente la Guinea Conacry e di aver attentato alla sicurezza dello Stato. Il futuro capo di stato fu così condannato a cinque anni di reclusione, ma in carcere trascorse venti mesi, dopo essere stato rilasciato nel maggio 2001, quando venne graziato dal presidente Conté, a condizione che gli fosse vietato svolgere attività politiche. Dopo il suo rilascio, lasciò la Guinea per la Francia, da dove fece ritorno nel luglio 2005.

5 www.coupsfrancs.com/le-president-issoufou-du-niger-confirme-quil-refuse-un-troisieme-mandat/ 6 www.agenceecofin.com/actualites/0109-79714-guinee-lopposition-annonce-la-reprise-des-manifestations-contre-un- troisieme-mandat-dalpha-conde 7 www.constituteproject.org/constitution/Guinea_2010.pdf?lang=en 8 https://kibaro224.com/changement-dans-la-continuite-cette-equation-a-plusieurs-interpretations/

Osservatorio Strategico 2020– Anno XXII n. IV 30 Sahel e Africa Subsahariana

Nel novembre del 2010, Condé vinse le prime elezioni giudicate relativamente libere e trasparenti nella storia del Paese africano, promettendo importanti riforme. Ben presto, però, le prospettive di sviluppo sotto la sua presidenza sono state fortemente ridimensionate e anche le numerose promesse elettorali di Condè, che hanno caratterizzato la campagna per il primo e il secondo mandato, sono state disattese9. C’è inoltre da evidenziare che nonostante la Guinea Conacry sia uno dei più Paesi più ricchi dell’Africa in termini di riserve minerarie, la sua popolazione resta una delle più povere con un Pil pro capite che supera di poco i 920 dollari all’anno10. Mentre l’inflazione, dopo i picchi superiori al 42% raggiunti a metà degli anni 2000, negli ultimi mesi è tornata a due cifre (lo scorso luglio si è attestata all’11,30%), a causa dell’aumento dei prezzi dei combustibili e dell’elettricità11. Ma quello che incide maggiormente sul giudizio complessivo dei dieci anni dei due mandati presidenziali di Alpha Condé è che la Guinea Conacry non è riuscita a colmare il marcato gap infrastrutturale, né a varare le riforme economiche e fiscali utili a garantire la stabilità sociale e politica12.

Il clima pre-elettorale si infiamma

Con l’avvicinarsi del voto, il clima pre-elettorale nel piccolo Paese africano sta diventando sempre più teso come indicano le manifestazioni di protesta per questioni legate alla mancanza di servizi di base, che hanno avuto luogo nella regione orientale dell’Alta Guinea, considerata la roccaforte elettorale del presidente uscente. Qui migliaia di dimostranti hanno reclamato a gran voce l’elettricità, ricordando le promesse di dighe idroelettriche iniziate e mai terminate. Come la centrale di Koukoutamba, che con una capacità da 294 MW dovrebbe fornire energia elettrica alla popolazione dell’area settentrionale del Paese. Senza dimenticare che, nelle poche settimane che mancano alle controverse elezioni presidenziali del 18 ottobre, la Guinea Conacry rischia di vivere giorni di violenza, mentre i detrattori del presidente sostengono che Condé è diventato sempre più autoritario e ha instaurato un clima di forte repressione per fiaccare il dissenso interno13. Del resto, i numeri di un rapporto sulla Guinea Conacry, pubblicato lo scorso novembre da Amnesty International, sono inequivocabili: almeno 70 manifestanti uccisi e centinaia feriti, 109 morti in carcere, giornalisti e difensori dei diritti umani presi di mira da gennaio 2015 a ottobre 201914. C’è da aggiungere che almeno 32 manifestanti sono stati uccisi dall’inizio dell’ultima ondata di protesta cominciata un anno fa. Dieci dei quali nel corso delle manifestazioni indette per protestare contro il referendum costituzionale dello scorso 22 marzo, mentre numerosi leader ed esponenti dei movimenti per la democrazia sono finiti in prigione15. Per questo lungo elenco di motivi, le settimane che separano la Guinea Conacry dal voto sono da osservare con grande attenzione, perché potrebbe innescarsi una crisi politico-istituzionale ancora più profonda, che costituirebbe l’ennesimo elemento d’instabilità per la regione e una nuova fonte di preoccupazione per la Comunità economica dell’Africa Occidentale (ECOWAS).

9 http://guineeactuelle.com/campagne-electorale-les-promesses-recette-miracle-dalpha-conde 10 https://tradingeconomics.com/guinea/gdp-per-capita 11 https://tradingeconomics.com/guinea/inflation-cpi 12 www.worldbank.org/en/country/guinea/overview 13 www.africanews.com/2020/09/17/anti-conde-movement-plans-protests-ahead-of-guinea-s-october-vote/ 14 https://reliefweb.int/sites/reliefweb.int/files/resources/AFR2910802019ENGLISH.PDF 15 www.letemps.ch/monde/violente-journee-referendum-legislatives-guinee

Osservatorio Strategico 2020– Anno XXII n. IV 31 La sindrome del terzo mandato destabilizza la Guinea e la Costa d’Avorio

Alassane Ouattara si candida al terzo mandato in Costa d’Avorio

Una controversia elettorale analoga a quella della Guinea Conacry si sta consumando nella confinante Costa d’Avorio, dove lo scorso 6 agosto il presidente uscente Alassane Ouattara ha formalmente sciolto la riserva accettando la nomina del partito di maggioranza, il Raggruppamento degli ofuetisti per la democrazia e la pace (RHDP), come candidato alle prossime elezioni presidenziali di ottobre16. L’opposizione ha duramente contestato la decisione del 78enne presidente Ouattara, affermando che il limite dei due mandati, sancito dall’articolo 55 della Costituzione ivoriana17, gli impedirebbe di correre di nuovo per tale carica. Ma la ricandidatura di Ouattara sembrava già data per scontata dopo la morte per infarto, l’8 luglio, dell’ex primo ministro Amadou Gon Coulibaly, designato dall’RHDP come candidato alle presidenziali. Ouattara, lo scorso marzo, aveva comunque dichiarato di voler «fare spazio a un candidato di una generazione più giovane» alle prossime elezioni del 31 ottobre18. Per poi nominare il suo delfino Amadou Gon Coulibaly come candidato del partito al governo, ma la morte per infarto di quest’ultimo a 61 anni ha sconvolto i piani dell’RHDP, costringendo i suoi leader a trovare un nuovo candidato19. Una scelta che già dopo aver celebrato il funerale dell’ex primo ministro, si era orientata a favore della candidatura di Alassane Ouattara per un terzo mandato. Una candidatura che il presidente uscente ha giustificato sostenendo che la nuova Costituzione è stata adottata nel 2016 e di conseguenza i suoi primi due mandati non possono essere conteggiati, in quanto Ouattara è stato eletto precedentemente l’entrata in vigore della nuova Carta20. L’opposizione però contesta tale argomentazione richiamandosi all’articolo 183 della vigente Costituzione, secondo cui: «la legislazione attualmente in vigore in Costa d’Avorio rimane applicabile, salvo l’intervento di nuovi testi, purché non sia in contrasto con la presente Costituzione»21. Pertanto, adottando una concezione ampia del termine “legislazione”, comprendente le disposizioni costituzionali, l’opposizione fa riferimento al vecchio articolo 35 della Costituzione del 2000, che prevedeva la stessa limitazione posta nel nuovo articolo 5522. Secondo l’opposizione, sulla base dell’articolo 183 si sarebbe dunque creato un “ponte” tra le due costituzioni, che consente alla norma prevista nell’articolo 35 della vecchia Costituzione di essere applicata nell’articolo 55 di quella adottata quattro anni fa. L’argomento della continuità dei mandati è inoltre rafforzato dall’articolo 179 della nuova Costituzione, secondo cui: «il presidente della Repubblica in carica alla data di promulgazione della Costituzione nomina il vicepresidente della Repubblica». Facendo riferimento al presidente “in carica”, la Costituzione del 2016 conferma l’esistenza di almeno uno dei mandati precedenti e quindi l’emanazione di una nuova Costituzione non li avrebbe cancellati23. Del resto, quando è stata adottata la Costituzione del 2016, lo stesso ministro della Giustizia ivoriano, Sansan Kambilé, aveva dichiarato che per il presidente in carica sarebbe stato costituzionalmente “impossibile” presentarsi per un nuovo mandato.24i

16 www.aljazeera.com/news/2020/08/ivory-coast-president-alassane-ouattara-run-term-200807044427384.html 17 www.constituteproject.org/constitution/Cote_DIvoire_2016.pdf?lang=en 18 https://www.letemps.ch/monde/president-ouattara-ouvre-voie-un-renouvellement-tete-cote-divoire 19 Ibidem 20 www.lepoint.fr/afrique/cote-d-ivoire-la-constitution-me-permet-de-faire-deux-autres-mandats-07-08-2019- 2328774_3826.php 21 www.constituteproject.org/constitution/Cote_DIvoire_2016.pdf?lang=en 22 www.constituteproject.org/constitution/Cote_DIvoire_2000.pdf?lang=en 23 https://blog.leclubdesjuristes.com/cote-divoire-mandat-presidentiel-incertitude-constitutionnelle-ouattara/ 24 www.financialafrik.com/2020/08/14/cote-divoire-le-3-eme-mandat-de-ouattara-soumis-a-lavis-du-juge-constitutionnel/

Osservatorio Strategico 2020– Anno XXII n. IV 32 Sahel e Africa Subsahariana

I candidati dell’opposizione

Il più accreditato nei sondaggi dei tre candidati che contenderanno a Ouattara la carica di presidente della Costa d’Avorio è l’86enne Henri Konan Bedie, che si ripresenta come rappresentante del Partito democratico della Costa d’Avorio – Raggruppamento democratico africano (PDCI-RDA). Bedie è nato 86 anni fa nel villaggio di Dadiékro, nel dipartimento di Daoukro, situato nella parte centro-orientale della Costa d’Avorio, da una famiglia di piantatori di cacao di etnia baulé. Dopo l’indipendenza del Paese, divenne ambasciatore a 26 anni e ministro dell’Economia a 32 anni, sotto la presidenza di Félix Houphouët Boigny, baulé come lui, del quale ha sempre sostenuto di essere il successore. È stato presidente dal 1993-1999 e artefice dell’alleanza di governo tra il suo PDCI e il Raggruppamento dei Repubblicani (RDR) di Ouattara, messa in piedi nel 2005 per guidare il Paese e aiutare a superare le fratture politiche che tre anni prima avevano portato alla guerra civile. Il patto tra i due partiti ha portato Ouattara alle vittorie delle elezioni presidenziali nel 2010 e 2015, ma è crollato a settembre 2018 quando sono entrati in contrasto per il candidato da sostenere alle presidenziali di quest’anno. C’è anche da ricordare che Bédié si è potuto candidare grazie alla rimozione nella Costituzione ivoriana del 2016 del limite dei 65 anni di età per essere eletto alla massima carica dello Stato, previsto nell’articolo 35 di quella del 2000. Un altro dei tre sfidanti di Ouattara ammessi dal Consiglio Costituzionale è l’ex primo ministro Pascal Affi N’Guessan, vicino all’ex presidente ivoriano Laurent Gbagbo e candidato della seconda grande formazione di opposizione nel Paese: il Fronte popolare ivoriano (FPI). Il terzo contendente di Ouattara è l’ex leader giovanile del PDCI-RDA, Kouadio Konan Bertin, che dopo il mancato appoggio del suo partito, si presenta come candidato indipendente. A poche settimane dal voto, appare certo che per Ouattara non sarà facile riconfermarsi per un terzo mandato, specialmente dopo che, all’inizio di agosto, Bédié ha anticipato un accordo per una possibile alleanza per il ballottaggio con il partito di N’Guessan contro Ouattara25. Tuttavia, molti ivoriani potrebbero decidere di confermare il presidente uscente, al quale va dato atto di una valida gestione economica del Paese, come conferma la media del tasso di crescita intorno all’8% annuo registrata nel corso del suo doppio mandato26. Una crescita che ha subito una flessione solo a causa della pandemia da Covid-19, che ha sensibilmente ridotto al 3,8% le prospettive per l’anno in corso27. Di contro, da quando nel 2011 Ouattara è diventato presidente, la percentuale della popolazione della Costa d’Avorio che vive al di sotto della soglia di povertà non è mai scesa e lo scorso anno è arrivata al 46,3% facendo registrare un + 2,3% rispetto al 44% del 201128. Lo scenario attuale ci porta a considerare le consultazioni elettorali del prossimo 31 ottobre, come uno dei più importanti test per la stabilità della nazione dell’Africa occidentale. Una stabilità minata dalla decisione di Ouattara di correre per un terzo mandato, che lo scorso agosto ha provocato un’ondata di proteste in vari distretti della Costa d’Avorio, nel corso delle quali sono morte la morte almeno una dozzina di persone29.

25 www.lepoint.fr/afrique/cote-d-ivoire-henri-konan-bedie-fer-de-lance-de-l-opposition-face-a-ouattara-01-08-2020- 2386322_3826.php 26 https://tradingeconomics.com/ivory-coast/gdp-growth-annual 27 Ibidem 28 www.indexmundi.com/g/g.aspx?v=69&c=iv&l=en 29 www.aljazeera.com/news/2020/08/dead-ivory-coast-president-term-bid-200814055003004.html

Osservatorio Strategico 2020– Anno XXII n. IV 33 La sindrome del terzo mandato destabilizza la Guinea e la Costa d’Avorio

Uno scenario da monitorare con estrema attenzione, memori del fatto che tra 2010 e il 2011 un’elezione contestata ha scatenato l’ultima guerra civile in Costa d’Avorio, che ha causato più di 3mila morti.

Analisi, valutazioni e previsioni

Il presidente Condé ha promosso una modifica alla Costituzione guineana per aspirare a un terzo mandato, mentre Ouattara ritiene che il conto dei suoi due mandati deve essere azzerato, basandosi sul fatto che le nuove costituzioni fanno ripartire il conteggio dei mandati. Tutto questo ha fatto scattare le proteste della popolazione e ripropone il tema del ricambio della classe politica africana, composta da leader che stanno sulla scena da decenni. Appare certo che i piani di Alassane Ouattara e Alpha Condé di correre per un terzo mandato non rappresentano un buon segnale per il futuro della democrazia in Africa. Il ripetersi della prassi di interpretare o modificare la Costituzione del proprio Paese, adattandola ai fini personali, è l’ennesimo danno al processo democratico avviato nel continente africano all’inizio degli anni novanta. Qualsiasi Costituzione dovrebbe essere oggetto di interpretazione univoca basata sulla corretta esegesi dei testi e non lasciata alla mercé delle correnti politiche. Le manipolazioni costituzionali rischiano di mandare in frantumi tutti gli sforzi in atto per instaurare in Africa una democrazia vera e duratura. Una democrazia fondata su elezioni libere e trasparenti, in cui il trasferimento del potere tra le parti dovrebbe avvenire senza soluzione di continuità e in stretta aderenza allo Stato di diritto. Va comunque ricordato che nel corso del summit del 2015 l’ECOWAS aveva discusso una proposta di divieto di correre per un terzo mandato presidenziale. Ma la proposta e il voto per approvarla sono stati rinviati a data da destinarsi per l’opposizione del Gambia e del Togo30. Poi la situazione è sensibilmente peggiorata, come conferma l’autorevole “watchdog” statunitense Freedom House, secondo cui nel 2019 l’Africa occidentale ha mostrato un marcato regresso dei diritti politici e delle libertà civili, mostrando il declino dell’influenza del blocco dei 15 Paesi dell’ECOWAS31. In conclusione, tutti i presidenti africani che aspirano a ricandidarsi per un terzo mandato dovrebbero ricordare che Nelson Mandela, dopo tutte le sofferenze e gli anni di carcere che subì per il suo popolo, promise di servire il Sudafrica per un solo mandato e mantenne quella promessa, nonostante le pressioni ricevute e la reale possibilità di poter rimanere presidente a vita.

30 www.bbc.com/news/world-africa-32808685 31 https://freedomhouse.org/report/freedom-world/2019/democracy-retreat

Osservatorio Strategico 2020– Anno XXII n. IV 34 Golfo Persico Francesca Citossi

La pace senza mai la guerra con Israele

Gli Abraham Accords1, siglati a settembre alla Casa Bianca tra Israele da una parte ed Emirati Arabi Uniti e Bahrein dall’altra, non sono un accordo di pace2 poiché i paesi coinvolti non sono mai stati formalmente in guerra, non condividono nemmeno dei confini e senza la componente palestinese non possono dirsi un progresso per il processo di pace3. Gli accordi sono la ratifica di relazioni ufficiose e sottotraccia4 generate dai timori progressivi provocati dall’invasione dell’Iraq nel 2003, dalla Primavera Araba nel 2011, dalla vittoria di Morsi/Fratellanza musulmana in Egitto nel 2012 e dal JCPOA siglato con l’Iran nel 2015. Sono più un’alleanza che un accordo di pace5, sostenuti dalla comune percezione dell’Iran (e della Turchia) come principali minacce strategiche6, l’ufficializzazione di relazioni ufficiose, una tatbii’a, normalizzazione in arabo. Le relazioni Israele-stati del Golfo sono antecedenti all'accordo nucleare – il JCPOA siglato nel 20157- di oltre un decennio, poiché da tempo le monarchie cercano di trarre vantaggio dalla tecnologia israeliana8 e Israele cerca di assicurarsi il suo spazio vitale in un Medio Oriente che ha visto il rimodularsi progressivo dell’intervento fattivo di Washington. Il principale attore tra queste relazioni dietro le quinte erano gli EAU, con numerosi esempi di crescenti legami pubblici: alla fine del 2015 Israele ha aperto una missione diplomatica presso IRENA, Agenzia Internazionale per le Energie Rinnovabili ad Abu Dhabi9; nel 2018, il ministro della cultura e dello sport Miri Regev ha effettuato una visita di stato alla Grande Moschea10 e Israele era stato ufficialmente invitato ad Expo Dubai 2020. Abu Dhabi ha assicurato lo stop della prevista annessione israeliana di parti della Cisgiordania (vista invece da Israele come una momentanea sospensione11) sottolineando che questa era una delle condizioni per la normalizzazione. Sebbene non sia chiaro per quanto tempo durerà la sospensione, questa assicurazione ha mantenuto viva la possibilità di una soluzione a due stati così come previsto dalle risoluzioni delle Nazioni Unite12. Come gli EAU, anche il Bahrain ha intrecciato legami con Israele che risalgono a diversi anni fa: ospita una piccola ma forte comunità ebraica; uno dei suoi membri ha servito come ambasciatore negli Stati Uniti dal 2008 al 2013; Manama ha ospitato a giugno 2019 la presentazione della parte economica del piano della Casa Bianca per la pace in Medio Oriente.

1 The Jerusalem Post, Abraham Accords: Full text, September 16, 2020; https://rb.gy/t6pg1l. 2 O. Liebermann, “Two Gulf nations recognized Israel at the White House. Here's what's in it for all sides”, CNN, September 16, 2020; https://rb.gy/baxd9q. 3 A. Abdelfattah, “From Egypt to the UAE, normalisation with Israel heralds disaster”, Middle East Eye, 21 September 2020; https://www.middleeasteye.net/opinion/egypt-uae-normalisation-israel-heralds-catastrophic-consequences. 4 M. Crowley, “Israel, U.A.E. and Bahrain Sign Accords, With an Eager Trump Playing Host”, The New York Times, Sept 15, 2020; https://rb.gy/iebfsb. 5 M. Bishara, “The UAE and Israel: A dangerous liaison”, AlJazeera, 31 August 2020; https://rb.gy/bpi70l. 6 G. Wood, “Why the UAE Made Peace With Israel”, The Atlantic, August 13, 2020; https://rb.gy/vllpfc. 7 BBC, “Iran nuclear deal: Key details”, 11 June 2019; https://rb.gy/t8zltq. 8 G. Gambrell, “UAE formally ends Israel boycott amid US-brokered deal”, AP News, August 29, 2020; https://rb.gy/drptol. 9 H. Keinon, “Foreign Ministry confirms Israeli energy office to open in Abu Dhabi”, The Jerusalem Post, 27 November 2015; https://rb.gy/ncy4y2. 10 Haaretz, “Israeli Minister Tours Abu Dhabi's Grand Mosque Days After Netanyahu Visits Oman”, 29.10.2018; https://rb.gy/lioplv. 11 Middle East Eye, “Israel's West Bank annexation postponed for a year, not cancelled, says Friedman”, 30 September 2020; https://rb.gy/wduhic. 12 UNSCR n. 242/1967; https://rb.gy/911xn9: “… inadmissibility of the acquisition of territory by war and the need to work for a just and lasting peace in the Middle East in which every State in the area can live in security" e UNSCR n. 338/1973; https://rb.gy/iqvdlz: “Calls upon all parties concerned to start immediately after the cease-fire the implementation of Security Council Resolution 242 (1967) in all of its parts; Decides that, immediately and concurrently with the cease-fire, negotiations start between the parties concerned under appropriate auspices aimed at establishing a just and durable peace in the Middle East.”

Osservatorio Strategico 2020– Anno XXII n. IV 35 Golfo Persico

Abu Dhabi e Manama ospitano entrambi una significativa presenza militare statunitense: l'aeronautica militare americana ha schierato caccia F-35 nella base aerea di Al Dhafra13, mentre la 5a Flotta della marina e il Comando centrale hanno sede in Bahrain14. Sia per gli EAU che per il Bahrein gli accordi aprono alla possibilità di acquistare tecnologia israeliana, compreso il sistema di difesa missilistica Iron Dome, nonché la cooperazione in materie quali economia15, finanza, sanità, investimenti, sicurezza, telecomunicazioni, aviazione, turismo, cultura, energia, ambiente ed esplorazione spaziale. Politicamente è una situazione vantaggiosa sia che l’attuale Presidente USA vinca un secondo mandato a novembre sia che subentri un'amministrazione Biden: avendo ottenuto accordi di normalizzazione con Israele sono comunque in vantaggio rispetto agli altri stati arabi che ora stanno riflettendo sull’opportunità di unirsi alla compagine16. Netanyahu può vantare un importante risultato di politica estera, che solo altri due leader israeliani sono stati in grado di raggiungere: Menachem Begin firmando il trattato di pace con l'Egitto nel 1979 e Yitzhak Rabin con la Giordania nel 1994 nel solco degli Accordi di Oslo del 1993 con l’entità palestinese. L’Accordo aiuta a distrarre dalle questioni interne: la crisi economica con il 18% di disoccupazione17, la pandemia del covid-19 che ha costretto Israele a un secondo lockdown18 e il processo per le accuse di corruzione19 e frode del primo Ministro (gli oppositori organizzano regolarmente manifestazioni settimanali fuori dalla sua residenza a Gerusalemme20). L'annessione annunciata della Cisgiordania era diventato un imbarazzante vicolo cieco politico per Netanyahu che sembra essersi allontanato dall'idea, almeno per ora, a causa della schiacciante pressione internazionale: gli Emirati e il Bahrein gli hanno offerto una via d'uscita dall’impasse. L'amministrazione Trump ha visto un'opportunità e ne ha approfittato: incapace di fare progressi sul processo di pace israelo-palestinese che ormai si configura come un gioco a somma zero, il Presidente e i suoi consiglieri hanno preferito spostare l'attenzione sul resto della regione e sugli elementi di vicinanza già esistenti tra i contendenti. Per decenni Washington è stata il principale mediatore di pace in Medio Oriente e il moderatore cruciale nei negoziati israelo- palestinesi. Il presidente Carter era tra Begin e Sadat e Clinton tra Rabin e re Hussein, ma ora la visione della regione della Casa Bianca comprende a malapena i palestinesi. Questi accordi sembravano inevitabili poiché necessari e politicamente funzionali sia per gli USA che per il Primo Ministro Netanyahu – indebolito dall’accordo che spezza in due la temporalità del suo governo con l’alleato/avversario Benny Gantz. Uno è in svantaggio nei sondaggi per le presidenziali di novembre e l’altro è afflitto da problemi di politica interna. Infine, la parte perdente sono i palestinesi che hanno condannato gli Accordi come un tradimento poiché per decenni il prezzo della normalizzazione delle relazioni con Israele è stata la soluzione a due stati. L'iniziativa araba per la pace del 2002 guidata dai sauditi21 chiedeva infatti la fine del

13 SOFREP, “US Air Force publicly confirms use of air base in United Arab Emirates”; August 31, 2017; https://rb.gy/trdoyc. 14 US Military bases in Bahrein; https://militarybases.com/overseas/bahrain/. 15 Reuters, “Israeli business delegations led by banks Hapoalim, Leumi to visit UAE”, September 6, 2020; https://rb.gy/ougpov. 16 The Economist, “The Arab countries most likely to recognise Israel”, August 20th 2020; https://rb.gy/cjur8j. 17 S. Peretz, “The Coronavirus Crisis Has Set Israel’s Economy Back Four Years”, Haaretz, 17.08.2020; https://rb.gy/tb1udg 18 France24, “Covid-19: Israël durcit son reconfinement, Netanyahu sous le feu des critiques “, 25 Septembre 2020; https://rb.gy/h9a1aq. 19 BBC, “Benjamin Netanyahu: What are the corruption charges?”, 22 May 2020; https://rb.gy/ykhqat. 20 J. Heller, “Israel limits protests in new coronavirus lockdown law”, Reuters, September 30, 2020; https://rb.gy/6tedon. 21 K. Svetlova, “Revisiting Arab Peace Initiative is best hope to solve Israel-Palestine conflict”, Al Arabiya, 18 February 2020; https://rb.gy/wt9l6w. L'Iniziativa per la pace araba (Piano Abdallah), è una proposta (10 frasi) per porre fine al conflitto arabo-israeliano approvata dalla Lega Araba nel 2002 al vertice di Beirut, al vertice della Lega araba del 2007 e del 2017. Prevede la normalizzazione delle relazioni tra il mondo arabo e Israele, in cambio del pieno ritiro di Israele dai territori occupati (Cisgiordania, Gaza, le alture del Golan e il Libano), un "giusto insediamento" dei

Osservatorio Strategico 2020– Anno XXII n. IV 36 La pace senza mai la guerra con Israele conflitto, mentre gli Emirati e il Bahrain hanno ribaltato la narrativa, muovendosi verso la normalizzazione vista l’assenza di sviluppi. I palestinesi hanno accusato gli EAU e il Bahrein di aver tradito Gerusalemme, la moschea di al-Aqsa e la causa palestinese. I contatti con la Casa Bianca si erano interrotti dopo che l'amministrazione Trump nel 2018 aveva spostato l'ambasciata degli Stati Uniti a Gerusalemme22, tensioni aggravatesi con la presentazione del piano di pace a Manama nel giugno del 2019 senza che la componente palestinese fosse in alcun modo coinvolta23. I palestinesi possono ancora annoverare tra i loro sostenitori Iran, Turchia e Qatar, ma i partner arabi tradizionali si stanno avvicinando a Israele. La Lega Araba non ha approvato la risoluzione dei Palestinesi di condanna dell'Accordo e l’Autorità palestinese ha rifiutato la presidenza di turno della Lega per protesta24, così come ha fatto poi il Qatar per solidarietà25. La conclusione di questi accordi non sarebbe mai stata possibile senza l'approvazione tacita e dietro le quinte dell'Arabia Saudita poiché furono i sauditi gli iniziatori della proposta del 2002 e Manama soffre di una forte dipendenza da Riyhad26. D’altra parte però lo status di re Salman come custode dei due santuari più sacri dell'Islam gli conferisce una notevole autorità e proprio per questo motivo è improbabile che possa riconoscere ufficialmente a breve Israele27: paradossi della realpolitik. Pur non essendo un accordo di pace gli Abraham Accords sono comunque rilevanti per diverse ragioni28. Gli stati del Golfo vedono ampie opportunità per il commercio: l'accordo aiuta gli ambiziosi Emirati, che si sono trasformati in una solida potenza militare, economica e diplomatica. Washington ha contribuito a suggellare l'accordo con la promessa di contratti per armi avanzate29, incluso il caccia stealth F-3530 e l'aereo da guerra elettronica EA-18G Growler. Israele, Stati Uniti e Bahrein31 condividono i timori e l’ostilità verso l’Iran. Fino al 1969 l'Iran sosteneva che il Bahrain fosse di diritto parte del suo territorio e lo scontro tra sauditi e iraniani per l’influenza su Manama è di lunga data32. I governanti sunniti del Bahrein considerano alcune

profughi palestinesi (UNSCR n. 194/1964) e la creazione di uno stato palestinese con Gerusalemme est capitale. Il governo Sharon respinse l'iniziativa come "non-starter" perché richiedeva a Israele di ritirarsi nei confini precedenti al giugno 1967 (Guerra dei Sei Giorni). Dopo la rinnovata approvazione della Lega Araba nel 2007, il Primo Ministro Olmert diede un cauto benvenuto al piano. Nel 2009, il presidente Peres espresse soddisfazione per l '"inversione di marcia" nell’atteggiamento degli stati arabi verso la pace con Israele. Nel 2015 il Primo Ministro Netanyahu espresse un timido appoggio all'Iniziativa, ma nel 2018 l'ha respinta come base per futuri negoziati con i palestinesi. Arafat approvò l’iniziativa così come poi Mahmoud Abbas che chiese ufficialmente al presidente degli Stati Uniti Obama di adottarla come parte della sua politica in Medio Oriente. Hamas invece era profondamente diviso a riguardo e la maggior parte delle fazioni rifiutava il piano. 22 F. Schwartz, R. Jones, “Scores Killed as Palestinians Protest U.S. Embassy Opening in Jerusalem”, The Wall Street Journal, May 14, 2018; https://rb.gy/ohiid9. 23 Reuters, “Amid skepticism, US to launch first part of Middle East peace plan in Bahrain”, CNBC, June 25, 2019; https://rb.gy/4ve4cz. 24 Middle East Monitor, “Qatar refuses to head Arab League instead of Palestine”, September 26, 2020; https://rb.gy/f37oa7. 25 Y. Ridley, “Qatar's solidarity with Palestine shows that not all members of the Arab League are worthless” Middle East Monitor, September 30, 2020; https://rb.gy/20avcp. 26 J. Vittori, “Bahrain’s Fragility and Security Sector Procurement”, Carnagie Endowment for International Peace, February 26, 2019; https://rb.gy/oopuxy. 27 D. D. Kirkpatrick, “Bahrain Says It’s Time to Embrace Israel. The Gulf Hears a Saudi Voice.”; The New York Times, September 11, 2020; https://rb.gy/xh5ptq. 28 J. Bowen, “Five reasons why Israel's peace deals with the UAE and Bahrain matter “, BBC, 14 September 2020; https://rb.gy/gczzvq. 29 N. Entessar, K. Afrasiabi; Israel-UAE deal: Abu Dhabi's betrayal could spark a new cold war with Iran”, Middle East Eye, 14 September 2020; https://rb.gy/jbnune. 30 N. Sachs, “What prompted the UAE and Bahrain’s normalization of relations with Israel?”, Brookings Institution, September 17, 2020; https://rb.gy/e3k9l5. 31 J. Rivera, “Iran’s Involvement in Bahrain: A Battleground as Part of the Islamic Regime’s Larger Existential Conflict”, Small Wars Journal, 3/11/2015; https://rb.gy/sfbrjm. 32 Kevin Downs, (2012) “A Theoretical Analysis of the Saudi-Iranian Rivalry in Bahrain,” Journal of Politics & International Studies, Vol. 8, pag. 227; https://rb.gy/k9zz0a.

Osservatorio Strategico 2020– Anno XXII n. IV 37 Golfo Persico correnti della sua irrequieta maggioranza sciita (circa il 70%33 della popolazione) come una potenziale quinta colonna dell'Iran. Il primo ministro Netanyahu crede nella strategia che risale agli Anni Venti del "muro di ferro"34 tra lo stato ebraico e gli arabi. L'idea è che la forza israeliana alla fine farà capire agli arabi che la loro unica scelta è riconoscerne l'esistenza: la pace con l'Egitto e la Giordania era dettata dalla realpolitik35. Israele ha deciso di fare pace con nemici lontani per non dover fare pace con i vicini palestinesi e il rafforzamento dell'alleanza contro l'Iran è un grande vantaggio. Il Presidente Trump celebra un colpo da grande statista in politica estera: è un notevole impulso per la sua strategia di "massima pressione" sull'Iran e l’accordo, a due mesi dalle elezioni, lo rafforza come negoziatore. Qualunque cosa faccia a beneficio di Israele incontra il consenso degli elettori cristiani evangelici americani, una parte importante della sua base elettorale. In Iran le sanzioni USA stanno causando un tracollo economico36 e Teheran ha ora un nuovo grattacapo strategico. Israele, Stati Uniti, Bahrein ed EAU – cui potrebbero unirsi Oman, Sudan, Marocco37 ed altri - hanno una gamma di nuove opzioni nei confronti dell’Iran il cui margine di manovra è stato notevolmente ridotto, ma chi abbia effettivamente guadagnato da questo accordo sarà chiaro solo con il risultato delle presidenziali americane a novembre.

33 G. Abdo, “The New Sectarianism: The Arab Uprisings and the Rebirth of the Shi’a-Sunni Divide,” The Saban Center for Middle East Policy at Brookings, No. 29, April 2013, Washington, DC; https://rb.gy/vvvd56. 34 A. Shlaim, “The Iron Wall: Israel and the Arab World”, Penguin Books, London, 2014. Negli Anni Venti, i sionisti intransigenti svilupparono la dottrina del "muro di ferro": i negoziati con gli arabi devono sempre partire da una posizione di forza militare, e solo quando Israele fosse stato sufficientemente forte sarebbe stato in grado di fare la pace con i suoi vicini arabi. Posizione diventata centrale nella politica israeliana, i dissidenti furono emarginati e molte opportunità di riconciliazione non furono considerate. 35 A. Abdelfattah, “From Egypt to the UAE, normalisation with Israel heralds disaster”, Middle East Eye, 21 September 2020; https://rb.gy/ipqeqz. 36 H. Kahalzadeh, “Sanctions Make the Coronavirus More Deadly”, Foreign Affairs, April 2, 2020; https://rb.gy/kiescb. 37 L’Orient-Le Jour, “Normalisation avec Israël : qui pourrait être le prochain pays arabe?”, 13 Septembre 2020; https://rb.gy/xeka2f.

Osservatorio Strategico 2020– Anno XXII n. IV 38 Corno d’Africa e Africa meridionale Luca Puddu

Etiopia: le elezioni nello stato regionale del Tigray e i nuovi scenari regionali

Le elezioni nel Tigray

Le elezioni tenutesi nel Tigray il 9 settembre sono l’ultimo capitolo della disputa tra l’esecutivo federale etiopico e l’amministrazione regionale tigrina, iniziata con l’ascesa al potere di Abiy Ahmed nel 2018 e andata in crescendo dopo il rifiuto del TPLF ad unirsi al Prosperity Party (PP) del primo ministro, da cui l’esclusione del partito tigrino dalla coalizione di governo. La tornata, infatti, si è svolta in aperta contrapposizione con quanto disposto dalla commissione elettorale federale, che in primavera aveva rinviato a data da destinarsi le elezioni nazionali. Queste erano teoricamente previste per il mese di settembre, allo scadere dei cinque anni di mandato dell’attuale esecutivo federale. In primavera, tuttavia, la commissione ne aveva disposto la proroga a fronte del diffondersi della pandemia da COVID-19. La scelta del TPLF di sfidare il disposto federale si inserisce in un quadro di tensioni generalizzate tra l’esecutivo di Abiy Ahmed e le forze d’opposizione. La decisione di spostare lo scrutinio aveva provocato l’alzata di scudi di gran parte dello spettro politico etiopico, unito nel denunciare la presunta manipolazione dell’emergenza sanitaria da parte del primo ministro. Il principale pomo della discordia ruotava intorno al provvedimento di interpretazione costituzionale emanato dal parlamento, a sua volta dominato dai deputati del PP: secondo l’organo legislativo, la diffusione della pandemia giustificava il prolungamento del mandato governativo oltre il limite quinquennale. Le opposizioni avevano alzato un muro contro il parere parlamentare, minacciando sommosse popolari in caso di mancata formazione di un esecutivo di unità nazionale entro la dead-line di settembre. Il primo ministro aveva immediatamente chiarito di non essere disposto a tollerare minacce all’ordine pubblico: un avvertimento materializzatosi in occasione delle proteste di piazza innescate dalla morte del cantante Hachalu Hundessa, quando le forze di sicurezza hanno eseguito l’arresto dei principali esponenti dell’opposizione (Puddu 2020). La decisione del TPLF di andare alle urne senza l’avallo della commissione elettorale è una funzione della posizione di forza garantitagli dal controllo delle istituzioni regionali del Tigray. Contrariamente alle forze d’opposizione in Oromia e nell’Amara, l’ex partito egemone non ha avuto bisogno di ricorrere alle proteste di piazza, limitandosi a porre il governo centrale dinanzi al fatto compiuto. La scelta è stata stigmatizzata con forza dal primo ministro, secondo cui le elezioni del 9 settembre non rivestono alcun valore. Critiche ancora più severe sono giunte dagli ambienti dei falchi nel governo federale, favorevoli all’intervento armato per ristabilire le gerarchie tra Addis Abeba e Mekelle. Nonostante i timori della vigilia, il rito elettorale non ha però registrato alcun tipo di contrattempo. Le contromisure delle autorità federali si sono limitate all’impedire l’accesso nel Tigray di giornalisti ed osservatori stranieri, alcuni dei quali sono stati temporaneamente trattenuti all’aeroporto internazionale di Bole. Nessuna novità significativa si è registrata anche sul fronte tigrino: il voto ha rispettato le attese della vigilia e ha attestato il dominio incontrastato del TPLF, al potere ininterrottamente nella regione dal 1991. Il partito di governo regionale ha conquistato la quasi totalità dei seggi, grazie ad una percentuale di voti favorevoli che ha superato il 97%. Le altre formazioni presentatesi ai nastri di partenza si sono dovute accontentare di percentuali irrisorie, ma comunque propedeutiche ad autorizzarne l’ingresso nelle istituzioni (Addis Standard, 11 settembre 2020). In una prospettiva più ampia, il risultato dello spoglio suggerisce una continuità nelle pratiche di governo del TPLF e nel suo modo di intendere l’esercizio democratico. Il consenso quasi unanime

Osservatorio Strategico 2020– Anno XXII n. IV 39 Corno d’Africa e Africa meridionale riportato alle urne è in linea con quanto già avvenuto in occasione delle elezioni del 2010 e 2015, quando la coalizione dell’EPRDF a guida tigrina aveva fatto incetta di quasi tutti i seggi disponibili a livello federale1. A differenza del passato, tuttavia, il movimento ha voluto concedere un’apertura simbolica alle altre forze politiche nella regione, modificando la legge elettorale per garantire un più ampio spettro di rappresentanza. Il sistema maggioritario pre-esistente è stato parzialmente corretto poco prima del voto in favore di un sistema parzialmente proporzionale, così da rafforzare l’idea – per lo più retorica – di un’apertura delle istituzioni alla società civile.

Le implicazioni sulla scena politica nazionale

La scelta del TPLF di procedere ad elezioni e andare allo scontro aperto con le autorità federali può essere ricondotta a tre ordini di fattori. Innanzitutto, il timore che un’eventuale proroga dello scrutinio potesse dare tempo al PP per radicarsi ulteriormente sul territorio dopo l’apertura delle prime sezioni locali all’inizio del 2020. L’esperienza degli stati regionali di Oromia e Southern Nations, Nationalities and People (SNNP) ha d’altronde insegnato come la formazione del primo ministro condivida l’idea di “democrazia controllata” della controparte tigrina. Il governo federale ha spesso fatto ricorso al dispositivo di sicurezza per rafforzare le posizioni del PP in altre aree del Paese, arrestando i simpatizzanti di forze politiche concorrenti (Strategic Comments 2020) o quei funzionari provinciali meno inclini ad accettare le direttive del comitato centrale del partito ad Addis Abeba (Bekele Erko, 11 settembre 2020). Una seconda ragione può essere rinvenuta nella volontà di nutrire la retorica dello stato d’assedio del Tigray, così da serrare le fila del consenso. L’organizzazione delle elezioni ha offerto al partito tigrino l’opportunità di invertire i ruoli fino a poco tempo fa rivestiti nella dialettica con il primo ministro: se quest’ultimo era salito al potere nelle vesti di avanguardia delle istanze di democratizzazione del Paese, il TPLF ha ora giustificato lo strappo con la necessità di rispettare la costituzione e la volontà popolare, accusando il governo centrale di deriva autoritaria. Le velate minacce di ritorsioni provenienti da Addis Abeba nelle settimane antecedenti lo scrutinio hanno creato le condizioni ideali per portare avanti questa strategia, poiché il politburo del TPLF ha ripetutamente ribadito la determinazione ad effettuare la consultazione nonostante il rischio di un intervento armato (Crisis Group 2020). Da ultimo, lo strappo istituzionale può esser letto come un tentativo del TPLF di affermarsi quale punto di riferimento del fronte antigovernativo. Ciò facendo, il partito tigrino ambisce a rompere quell’isolamento politico a cui era stato costretto in passato, dinanzi all’indisponibilità delle opposizioni ad allearsi con l’ex formazione egemone della coalizione di governo. Il muro contro muro con Addis Abeba ha avuto l’effetto di avvicinare le posizioni del TPLF a quelle delle principali forze politiche extra-governative nell’elettorato Oromo e Amara, ormai allo scontro aperto con l’esecutivo dopo l’emissione dei capi d’accusa di terrorismo nei confronti di esponenti di primo piano come Jawar Mohammed e Eskinder Nega2. Il successo elettorale consente al TPLF di riaffermarsi quale legittimo interlocutore sulla scena politica federale e, soprattutto, riaffermare lo status semi-indipendente del Tigray. L’autonomia ostentata nella gestione dello scrutinio e, in precedenza, nell’adozione delle misure di

1 Con l’eccezione del 2005, le elezioni tenutesi in Etiopia durante la reggenza dell’Ethiopian People’s Revolutionary Democratic Front (EPRDF) si sono sempre caratterizzate per vittorie quasi all’unanimità e per l’assenza di partiti d’opposizione in grado di impensierire il controllo della coalizione sulle istituzioni dello stato etiopico. Non a caso, gli osservatori concordano nel descrivere l’Etiopia federale come un regime autoritario a partito unico, seppur travestito formalmente da democrazia parlamentare (Abbink, Hagmann 2013) 2 Jawar Mohammed – tra i membri più in vista dell'Oromo Federalist Congress – è stato ufficialmente imputato di crimini connessi al terrorismo e all’istigazione alla violenza da una corte di Addis Abeba, dopo essere stato posto in custodia cautelare a seguito dei moti scoppiati per la morte del cantante Hachalu Hundessa (Meridiano 42, 20 settembre 2020). Provvedimenti simili sono stati emanati nei confronti di due esponenti dell’opposizione Amara: il capo del Baldaras Council, Eskinder Nega, e un componente del comitato esecutivo del Partito dell’Unità a Gondar, Keleb Seyoum (Addis Standard, 10 settembre 2020).

Osservatorio Strategico 2020– Anno XXII n. IV 40 Etiopia: le elezioni nello stato regionale del Tigray e i nuovi scenari regionali contenimento dell’epidemia è tesa a rimarcare la capacità dell’amministrazione regionale di governare il territorio senza l’intercessione di Addis Abeba. Le parate militari che hanno avuto luogo nei giorni antecedenti il voto sono state un altro sfoggio di prerogative di sovranità, in quanto finalizzate a mettere in mostra la capacità di Mekelle di garantire l’inviolabilità dei confini regionali da interventi esterni. Il TPLF ha finora utilizzato l’ipotesi della secessione dalla Repubblica Federale d’Etiopia come un’arma negoziale nei confronti delle autorità federali. La separazione consensuale tramite referendum è un’opzione esplicitamente prevista dall’articolo 39 della costituzione, sebbene ogni tentativo di esercitare questo diritto da parte di altre forze politiche sia stato in passato respinto dallo stesso EPRDF con l’uso della forza (Khisa 2019). L’apertura delle urne è stata giustificata tramite il richiamo all’anzidetto articolo 39 e al diritto di autodeterminazione delle nazionalità. La piena applicazione di questo principio nel Tigray, tuttavia, è ancora un’ipotesi di scuola. La composizione dei partiti che si sono presentati alle urne il 9 settembre suggerisce anzi come il TPLF ambisca ad ergersi a voce moderata del malcontento regionale, contrattando delle concessioni dal PP in cambio dell’osservanza dello status quo. Le altre formazioni politiche, infatti, presentavano un’agenda improntata all’ottenimento di una maggiore autonomia del Tigray da Addis Abeba, fosse per il tramite di una nuova architettura confederale o attraverso la dichiarazione formale d’indipendenza (Addis Standard 11 settembre 2020).

La variabile Eritrea

L’esito della tornata elettorale nel Tigray è destinato a cristallizzare lo status quo lungo la frontiera con l’Eritrea dove, a dispetto del trattato di pace del 2018 e della temporanea riapertura ai traffici di merci e persone, il confine tra i due Paesi è sigillato dalla primavera del 2019. La ragione di questo stallo va ricercata nel clima di ostilità reciproca che ha contraddistinto i rapporti tra le due sponde del fiume Mareb sin dalla guerra del 1998, quando le formazioni che avevano combattuto fianco a fianco contro il DERG3 si ritrovarono invischiate in un conflitto aperto per il controllo di alcuni villaggi contesi. Nonostante il cambio di governo ad Addis Abeba, poco è cambiato da allora. Il TPLF continua ad occupare i territori oggetto della disputa e scandire le tempistiche della road- map delineata dall’accordo di Gedda. Il partito tigrino non ha mai fatto mistero di non condividere la svolta filo-eritrea decisa da Abiy Ahmed. Una delle accuse mosse al governo federale è quella di aver gestito il processo di pace in maniera unilaterale, asservendolo alla nuova strategia diplomatica del primo ministro piuttosto che alle istanze delle comunità residenti lungo il confine. Secondo tale prospettiva, la sentenza di arbitrato di Algeri sulla suddivisione dei territori contesi non terrebbe in debita considerazione i legami linguistici, economici e culturali tra le due sponde del fiume Mareb, così come le forme di collaborazione transfrontaliera che hanno continuato a persistere anche dopo la piena indipendenza dell’Eritrea (Biyan Ghebreyesus 2019). Anche dopo la fine delle ostilità e l’inizio del periodo di “né guerra né pace” (2000-2018), questi rapporti non sono venuti meno. Le amministrazioni distrettuali in Tigray hanno continuato ad intrattenere relazioni di vario tipo con l’altro lato della frontiera, fornendo occasionalmente sementi e altre forme di aiuto per la coltivazione dei campi. All’inverso, gli eritrei hanno continuato a frequentare con una certa regolarità i festival e le ricorrenze religiose nella città santa di Axum (Biyan Gebreyesus 2018). Il TPLF ha insistito sul mancato coinvolgimento delle istanze locali per criticare la politica di Abiy Ahmed. Una delle conseguenze pratiche di questa postura è stata la mancata evacuazione dei territori assegnati all’Eritrea dall’arbitrato di Algeri, che rimangono ancora sotto la giurisdizione di Mekelle (Tadesse Demissie 2020). Non è un caso se, nella tornata elettorale del 9 settembre, uno

3 Il TPLF e l’Eritrean People’s Liberation Front – poi divenuto partito unico in Eritrea dopo l’indipendenza di quest’ultima – hanno combattuto fianco a fianco durante la lotta armata contro il regime militare socialista del DERG, sconfiggendolo definitivamente nel 1990.

Osservatorio Strategico 2020– Anno XXII n. IV 41 Corno d’Africa e Africa meridionale dei cinque partiti che si sono presentati alle urne fosse espressione del gruppo etnico Irob, residente lungo la frontiera con l’Eritrea e tra gli oppositori della prima ora dell’accordo di pace del 2018. L’ostilità del TPLF all’accordo di pace è in parte riconducibile all’impressione che la svolta diplomatica fosse un modo per saldare nuove alleanze regionali in funzione anti-tigrina (Mitiku Ghebrehiwot, Alemu Ghebrehiwot, 2020). Questa percezione è stata nutrita dalla sequela di incontri ad alti livelli tra i capi di stato dei due Paesi senza il coinvolgimento di ufficiali tigrini, così come dall’apparente allineamento di Isaias Afewerki all’agenda politica di Abiy Ahmed. Il presidente eritreo ha ripetutamente accusato il TPLF di fomentare rivolte nel resto del Paese per rallentare il processo di cambiamento, schierandosi apertamente contro il federalismo etnico dopo la creazione del PP e la svolta centralista del primo ministro (Getachew Temare 12 febbraio 2020). Nella prospettiva eritrea, in effetti, la pace del 2018 ha consentito di guadagnare un alleato ad Addis Abeba. Un esempio paradigmatico del nuovo clima di collaborazione con le autorità federali è quello del controspionaggio. Se, fino al 2018, il governo etiopico non faceva mistero di ospitare gruppi d’opposizione eritrei in un’ottica di destabilizzazione del vicino, nel corso degli ultimi due anni Addis Abeba è diventata un luogo poco sicuro per l’opposizione al regime di Afewerki, come testimonia la scomparsa del cittadino eritreo-svedese Ermias Tekie (New Frame, 25 agosto 2020). Afewerki ha potuto contare sulla sponda del governo federale anche per limitare l’afflusso verso il Tigray di rifugiati eritrei, che Asmara teme possano essere utilizzati per minare la stabilità del regime. Addis Abeba ha, ad esempio, escluso il confine settentrionale dalla lista degli avamposti di frontiera che l’Etiopia si appresta a riaprire dopo la chiusura disposta in primavera a causa dello scoppio dell’epidemia (Borkena, 21 settembre 2020). Ben diverso è il rapporto tra il governo eritreo e l’amministrazione regionale oltre-confine. Asmara teme che la permanenza al potere del TPLF possa incentivare forme di collaborazione tra le due sponde del fiume Mareb in funzione anti-governativa. Non è forse un caso se, pochi giorni prima delle elezioni del 9 settembre, un alto funzionario dell’intelligence eritrea sia stato arrestato nella capitale. Il militare – il colonnello Teame Goytom – aveva lavorato per lungo tempo a stretto contatto con il TPLF prima della guerra del 1998, stazionando presso il consolato di Mekelle per monitorare i gruppi d’opposizione in esilio (Eritrea Hub, 6 settembre 2020). L’insoddisfazione del governo eritreo per lo stallo attuale è trapelata con chiarezza in un tweet del ministro per l’informazione Yemane Gebre Meskel, rilasciato in occasione del secondo anniversario del trattato di pace. Se, nella versione inglese, il comunicato non lesinava complimenti per il rafforzamento della cooperazione tra Asmara e Addis Abeba, la versione in tigrino rivelava invece la frustrazione per i pochi progressi sul campo, in primis la mancata evacuazione dei territori contesi (Marchal, 25 agosto 2020). Uno degli ostacoli alla normalizzazione dei rapporti è rappresentato dalla difficoltà a negoziare una disciplina doganale comune, propedeutica alla piena ripresa dei traffici commerciali (Muller 2020). La ragione di questo stallo va ricercata nelle conseguenze che l’apertura indiscriminata del confine avrebbe sulle economie di Eritrea e Tigray. La temporanea riapertura della frontiera nel 2018 aveva dato vita all’afflusso di un ingente quantitativo di merci verso nord e ad operazioni speculative sul mercato dei cambi da parte eritrea: una situazione non sostenibile nel lungo periodo, che aveva indotto le autorità ad Asmara ad interrompere i flussi transfrontalieri. Il tema dei regolamenti valutari e commerciali non è solo una questione tecnica, ma un nodo cruciale nella trama delle relazioni tra Tigray ed Eritrea. La guerra del 1998 era stata innescata, tra le altre cose, dall’irrigidimento del TPLF sul fronte del commercio transfrontaliero dopo l’introduzione del Nakfa in luogo del Birr, che secondo Mekelle era suscettibile di relegare il Tigray allo status di periferia economica del vicino (Tekeste Negash, Tronvoll 2000).

Osservatorio Strategico 2020– Anno XXII n. IV 42 Etiopia: le elezioni nello stato regionale del Tigray e i nuovi scenari regionali

Analisi previsioni valutazioni

Le elezioni nel Tigray rafforzano la posizione del TPLF e del suo presidente Debretsion Gebremichael, riconfermato per altri cinque anni alla guida della regione. La possibilità di un intervento militare federale per ristabilire un’amministrazione tigrina più compiacente è per il momento remota, sebbene il primo ministro Abiy Ahmed abbia fatto ricorso all’esercito in passato per risolvere crisi speculari negli stati regionali Somali e Amara. La ragione di questa ritrosia va ricercata nella miglior preparazione ed equipaggiamento a disposizione delle forze di sicurezza del Tigray: l’esercito federale rischierebbe di impantanarsi in un conflitto prolungato mentre proseguono le rivolte nel sud del Paese, in particolare in Oromia e nel SNNP. Più probabilmente, il primo ministro Abiy Ahmed potrebbe limitarsi ad utilizzare la disputa elettorale per delegittimare l’amministrazione tigrina e ridurre i trasferimenti finanziari a Mekelle, così da indebolire gradualmente l’avversario. La riconferma del TPLF continuerà a rallentare i negoziati tra Etiopia ed Eritrea per la demilitarizzazione del confine e la sua riapertura al traffico di merci e persone. Nell’attuale situazione di accerchiamento, non può inoltre essere escluso che il TPLF incrementi gli sforzi per destabilizzare il vicino, nel tentativo di promuovere un cambio di regime che ponga fine al suo isolamento politico su scala regionale. Un cambio di governo ad Asmara offrirebbe inoltre al Tigray la possibilità di ottenere accesso diretto al mare tramite i porti di Massaua e Assab, aggirando l’embargo commerciale de-facto cui è stato costretto negli ultimi due anni dall’esecutivo federale e dai suoi alleati regionali nell’Amara.

Bibliografia

Abbink, J., Hagmann, T. eds. (2013), Reconfiguring Ethiopia: the politics of authoritarian reform, Routledge, London.

Addis Standard (11 settembre 2020), https://addisstandard.com/news-tplf-wins-regional-election- by-landslide/ Ultimo accesso 17 settembre 2020

Addis Standard (11 settembre 2020), https://addisstandard.com/analysis-tigray-election-beyond- defying-the-central-government/ Ultimo accesso 17 settembre 2020

Addis Standard (10 settembre 2020), https://addisstandard.com/news-update-prosecutors-file- terrorism-criminal-charges-on-eskinder-nega-et-al/ Ultimo accesso 19 settembre 2020

Bekele Erko, (11 settembre 2020), Regional Prosperity Party leaders need to regain autonomy and rescue Ethiopian democracy, Ethiopia Insight, https://www.ethiopia- insight.com/2020/09/11/regional-prosperity-party-leaders-need-to-regain-autonomy-and-rescue- ethiopian-democracy/ Ultimo accesso 17 settembre 2020

Biyan Ghebreyesus (2019), The Eritrea-Ethiopia border region (1991-1998): people without a border, Northeast African Studies, 19, 2.

Biyan Ghebreyesus, (2018), The border region of Senafe and Tserona: The people without border, paper presented at the 20th Conference of Ethiopian Studies, Mekelle, Ethiopia, 1-5 October.

Osservatorio Strategico 2020– Anno XXII n. IV 43 Corno d’Africa e Africa meridionale

Borkena, (21 settembre 2020), https://borkena.com/2020/09/21/ethiopia-to-reopen-the-border-to- neighboring-countries/ Ultimo accesso 22 settembre 2020

Crisis Group (2020), Toward an end to Ethiopia’s federal-Tigray feud, Briefing 160, https://www.crisisgroup.org/africa/horn-africa/ethiopia/b160-toward-end-ethiopias-federal-tigray- feud Ultimo accesso 22 settembre 2020

Eritrea Hub (6 settembre 2020), https://eritreahub.org/senior-eritrean-security-official-arrested- reports Ultimo accesso 26 settembre 2020

Getachew Temare (12 febbraio 2020), Ethiopia Insight, https://www.ethiopia- insight.com/2020/02/12/game-over-for-ethnic-federalism-isaias/ Ultimo accesso 26 settembre 2020 Khisa M. (2019), Politics of exclusion and institutional transformation in Ethiopia, Third World Quarterly, 40, 3.

Marchal R., (25 agosto 2020), Two years already? Peace between Ethiopia and Eritrea, Sciences Po, https://www.sciencespo.fr/ceri/en/content/two-years-already-peace-between-eritrea-and- ethiopia ultimo accesso 23 settembre 2020

Meridiano 42 (20 settembre 2020), https://www.meridiano42.it/2020/09/20/jawar-mohammed- incriminato-per-terrorismo/ ultimo accesso 25 settembre 2020

Mitiku Ghebrehiwot, Alemu Ghebrehiwot, (2020), A party at the border: an anthropological take on the Ethio-Eritrean peace deal of 2018, Cogent Arts and Humanities, https://www.cogentoa.com/article/10.1080/23311983.2020.1727159 Ultimo accesso 22 settembre 2020

Muller T. (2020), Colonial borders and hybrid identities: lessons from the case of Eritrea, Borderlands, 19, 1.

Tadesse Demissie (2020), The Eritrea-Ethiopia peace deal is yet to show dividends, Institute for Security Studies, https://issafrica.org/iss-today/the-eritrea-ethiopia-peace-deal-is-yet-to-show- dividends Ultimo accesso 24 settembre 2020

New Frame, (25 agosto 2020), https://www.newframe.com/long-read-where-is-ermias-tekie/ Ultimo accesso 23 settembre 2020

Puddu (2020), Il processo di transizione verso le elezioni in Etiopia, Osservatorio Strategico XXII, I. https://www.difesa.it/SMD_/CASD/IM/CeMiSS/DocumentiVis/OS_2020/01_OS_2020_numero_1/0 7_Puddu_OS_01_2020.pdf Ultimo accesso 26 settembre 2020 Strategic Comments (2020), Ethiopia’s Factional Politics, 26, 2. https://www.tandfonline.com/doi/abs/10.1080/13567888.2020.1762348?journalCode=tstc20 Ultimo accesso 26 settembre 2020

Tekeste Negash, K. Tronvoll (2000), Brothers at War: making sense of the Eritrean-Ethiopian War, James Currey, Oxford.

Osservatorio Strategico 2020– Anno XXII n. IV 44 Russia, Asia centrale e Caucaso Sylwia Zawadzka

Le direttrici dello sforzo militare russo: una risposta all’attenzione NATO per l’Eastern Flank o promozione e difesa degli interessi nazionali?

Nel febbraio 1997, il diplomatico e sovietologo statunitense George F. Kennan, architetto della politica del containment dell’Unione Sovietica degli anni 40-50 del secolo scorso, scriveva un interessante articolo sul New York Times dal titolo “A fateful error”1 in cui dichiarava, tra le altre: “[…] The view, bluntly stated, is that expanding NATO would be the most fateful error of American policy in the entire post-cold-war era. Such a decision may be expected to inflame the nationalistic, anti-Western and militaristic tendencies in Russian opinion; to have an adverse effect on the development of Russian democracy; to restore the atmosphere of the cold war to East-West relations, and to impel Russian foreign policy in directions decidedly not to our liking.” L’anno seguente, a giochi oramai fatti2, nel corso di un’intervista telefonica dal carattere quasi profetico concessa a Thomas L. Friedman3, la sua presa di posizione veniva meglio chiarita: ''I think it is the beginning of a new cold war, [...]I think the Russians will gradually react quite adversely and it will affect their policies. I think it is a tragic mistake. There was no reason for this whatsoever. No one was threatening anybody else[...]''. A distanza di 21 anni dall’adesione al Patto Atlantico di gran parte dei paesi dell’ex Patto di Varsavia, il pensiero va indubbiamente alle parole di Kennan che, dall’alto della sua esperienza, aveva allora fornito la giusta chiave di lettura alle successive azioni della Federazione Russa. In tal senso, il nodo gordiano non deve essere fatto risalire tanto alle origini, date le iniziali dichiarazioni di El’cin4, che comunque suscitarono clamore in Russia, o la sottoscrizione da parte dell’allora Ministro degli Affari Esteri, Evgenij Primakov, nel 1997, del NATO-Russia Founding Act5 ovvero un accordo non vincolante secondo cui "NATO and Russia do not considers each other adversaries. They share the goal of overcoming the vestiges of earlier confrontation and competition and of strengthening mutual trust and cooperation. […]", bensì alle successive azioni/reazioni di ambo le parti. Prima che le cose precipitassero e le relazioni si deteriorassero irrimediabilmente vi furono infatti importanti iniziative congiunte di sicurezza internazionale tra cui l’intervento della NATO in

1 George F. Kennan “A Fateful Error” in New York Times, 5 febbraio 1997 https://www.nytimes.com/1997/02/05/opinion/a-fateful-error.html 2 Nel corso del vertice NATO tenutosi a Madrid nel luglio 1997, a Ungheria, Polonia e Repubblica Ceca era stato rivolto l’invito ufficiale a entrare nella NATO. 3 Thomas L. Friedman, “Foreign Affairs; Now a Word From X” in New York Times, 2 maggio 1998. https://www.nytimes.com/1998/05/02/opinion/foreign-affairs-now-a-word-from-x.html 4 Trattasi dell’affermazione di El’cin, pronunciata nel corso dell’incontro con il Presidente polacco pro tempore Lech Wałęsa, a Varsavia (1993) secondo la quale nelle nuove relazioni russo-polacche non c'era posto per l'egemonia di uno stato su un altro, tantomeno vi era posto per la psicologia dei fratelli "anziani" e "giovani". L’incontro terminò con la firma di una dichiarazione congiunta in cui si asseriva che la Polonia aveva il diritto sovrano di garantire la propria sicurezza e che, nel caso in cui avesse scelto di aderire alla NATO, ciò non avrebbe contraddetto gli interessi russi. Передайте Биллу, что это чудесное решение (“Dite a Bill che questa è una decisione meravigliosa”). http://www.yeltsincenter.ru/author_comment/release/peredaite-billu-chto-eto-chudesnoe-reshenie 5 L’accordo prometteva future consultazioni e azioni congiunte, pur esplicitando che la Russia avrebbe avuto voce ma non veto negli accordi di sicurezza della NATO. La NATO riaffermava di non avere “nessuna intenzione, nessun piano o ragione per schierare armi nucleari sul territorio dei nuovi paesi membri, tantomeno la necessità di modificare aspetti relativi alla posizione nucleare militare congiunta, all’addestramento e all’esercitazione attraverso l'iniziativa della Partnership for Peace (PfP) della NATO, aperta a tutti i membri dell’ex Patto di Varsavia, Russia inclusa. Il tutto quasi nella speranza di ‘contenere’ la reazione della Russia all'allargamento della NATO attraverso la costruzione di una reciproca fiducia. Founding Act on Mutual Relations, Cooperation and Security between NATO and the Russian Federation signed in Paris, France on 27 May, 1997 https://www.nato.int/cps/en/natohq/official_texts_25468.htm?

Osservatorio Strategico 2020– Anno XXII n. IV 45 Russia, Asia centrale e Caucaso

Bosnia (1992-95), approvato con risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite (UNSC). La Russia aveva appoggiato la risoluzione con un voto a favore, per quanto l’allora Ministro degli Affari Esteri, Andrej Kozyrёv, temendo una reazione xenofoba nella politica russa e l’insediamento al Cremlino di un simulacro russo di Slobodan Miloševič, aveva inizialmente cercato di impedirlo. L’azione non era piaciuta nemmeno al nazionalista Žirinovskij, ai liberali nella legislatura russa (la Duma), per non parlare di molti dei colleghi di Kozyrёv al Ministero degli Affari Esteri, tutti contrari ai bombardamenti. La linea comune alla loro opposizione era principalmente la preoccupazione che la Russia fosse esclusa dal prendere decisioni su questioni cruciali della sicurezza europea e non fosse più trattata come un eguale geopolitico6. Gli attacchi aerei in Bosnia e l'allargamento della NATO non erano però collegati tra loro logicamente, contribuivano comunque alla creazione di un malcontento diffuso non solo tra i papaveri del Cremlino ma anche nell’opinione pubblica russa nei ‘terribili anni ‘90’. E’ proprio alla fine di quelli anni che i rapporti con la NATO hanno lentamente cominciato a deteriorarsi. Il primo è l’intervento del 1998 di US-UK (non autorizzato dalle UN) in Iraq – paese legato militarmente tanto all’Unione Sovietica e per breve tempo alla Federazione Russa, quanto agli Stati Uniti - atto a distruggere le presunte armi di distruzione di massa irachene e a creare aree sicure per le popolazioni sciite e curde perseguitate da Saddam Hussein. L’operazione si è poi ‘conclusa’ con l’occupazione (2003) dell’Iraq, senza l’autorizzazione del UNSC, evento che probabilmente causò il ritiro russo dalle PKO in Bosnia e Kosovo nell'estate del 2003 (unitamente anche ai costi interni che pesavano sul bilancio dello stato). Il secondo evento spartiacque nelle relazioni Russia-NATO è stato l’intervento di quest’ultima in Kosovo (1999), formalmente per ragioni umanitarie ma senza l'autorizzazione dell'UNSC (il veto russo in sede di voto alle Nazioni Unite era inevitabile). La percezione che se ne ebbe in Russia (propagandata anche dai media nazionali) fu comunque che la NATO non avrebbe prestato attenzione agli interessi di sicurezza percepiti dal paese e avrebbe lavorato attorno alle istituzioni internazionali, al fine di utilizzare la violenza fuori area ritenuta necessaria. Nel 2007, tutta la contrarietà russa per i vari interventi non autorizzati, ma soprattutto per l’espansione della NATO ad est, venne espressa nel corso dell’intervento del Presidente, Vladimir Putin, alla Conferenza per la Sicurezza di Monaco7:“I think it is obvious that NATO expansion does not have any relation with the modernisation of the Alliance itself or with ensuring security in Europe. On the contrary, it represents a serious provocation that reduces the level of mutual trust. And we have the right to ask: against whom is this expansion intended? And what happened to the assurances our western partners made after the dissolution of the Warsaw Pact? Where are those declarations today? No one even remembers them[...]” L’allargamento viene qui giudicato quale palese provocazione che riduce il livello di reciproca fiducia. Dietro alla quale visione russa si nasconde non solo l’atavica sindrome di accerchiamento8, ma anche la realizzazione della perdita di peso quale potenza mondiale capace di prendere decisioni che cambiano gli equilibri internazionali. Probabilmente è anche alla luce di questi due fattori – oltre che al possibile ingresso della Georgia nella NATO paventato nel corso del Summit di Bucarest dell’aprile 2008 – che deve

6 Il ministro della Difesa russo dell'epoca, Pavel Gračёv, fu particolarmente offeso dal fatto di essere stato informato degli attacchi aerei occidentali solo dopo che si erano verificati, piuttosto che essere avvisato in anticipo (gli Stati Uniti ei loro alleati della NATO temevano che se la Russia fosse stata a conoscenza dei prossimi attacchi, informerebbe Milošević dei prossimi attacchi contro le milizie serbe). 7 http://en.kremlin.ru/events/president/transcripts/24034 8 Aldo Ferrari “La foresta e la steppa. Il mito dell’Eurasia nella cultura russa” Milano, Libri Scheiwiller, 2003.

Osservatorio Strategico 2020– Anno XXII n. IV 46 Le direttrici dello sforzo militare russo: una risposta all’attenzione NATO per l’Eastern Flank o promozione e difesa degli interessi nazionali? essere vista la seconda guerra in Ossezia del Sud (2008) o l’annessione della Crimea del 2014 (anche se in questo caso ulteriori elementi hanno avuto il loro peso)9.

Militarizzazione della Crimea e di Kaliningrad.

A partire dal 2014, la direttrice strategica dello sforzo militare russo si è spostata decisamente dal Caucaso, dalla Turchia, dal Vicino Oriente e dall’Iran alle regioni direttamente confinanti con l’Ucraina e la Crimea e a questa si è unita, dal 2016 circa, la direttrice nord-ovest ovvero l’enclave di Kaliningrad, ulteriormente militarizzata per contrastare l’azione degli Alleati nei paesi baltici.

Crimea.

Una volta annessa ai territori della Federazione Russa, la Crimea è entrata a far parte del Distretto Militare Meridionale10, territorialmente la più piccola delle principali unità amministrative delle Forze Armate della Federazione Russa e, dal crollo dell'Unione Sovietica, uno dei più forti e più coinvolti nei conflitti armati. Il Distretto ha infatti sopportato il peso delle due guerre in Cecenia nonché quella con la Georgia nel 2008 e ora, insieme alla Flotta del Mar Nero e alla Flottiglia del Caspio sotto il suo comando, ha la principale responsabilità per le azioni condotte in Ucraina11 e in Siria. Data la situazione quindi, nel corso degli ultimi anni è avvenuto il duplice rafforzamento del potenziale militare della regione nonché la creazione dell’8° Corpo d’Armata Pluriarma12 (8-я общевойсковая армия) al confine con l'Ucraina. La stragrande maggioranza delle unità del distretto si sta attualmente preparando a operare nella direzione occidentale: l'Ucraina infatti è diventata l'obiettivo principale, ma in caso di conflitto sul fianco orientale della NATO, il compito delle truppe della regione sarà quello di supportare direttamente le operazioni in Europa centrale. Fino al settembre 2014 e alla prima di una lunga serie di tregue concluse in quel periodo, il rafforzamento della presenza militare nella penisola di Crimea e nelle regioni orientali dell'Ucraina non prevedeva una cospicua presenza permanente ed era associato solo alla possibilità di un'ulteriore escalation delle operazioni militari. Ad oggi però, come da dichiarazioni del Capo di Stato Maggiore della Difesa ucraino, il Gen. Sergej Naev, la presenza militare si aggira intorno ai 32.500 uomini e l’incremento delle forze in campo è diventato significativo attraverso la creazione (in Crimea) di una nuova Armata pluriarma (la sopracitata 8^), di 1 divisione meccanizzata, di 2 brigate meccanizzate, 1 di Specnaz, 1 di artiglieria, 1 missilistica, 1 missilistica di difesa aerea e 1

9 Aldo Ferrari, “L’orientalismo dell’occidente ha spinto la Russia verso est” in “La Russia non è una Cina”, LIMES, n.5/2020. 10 Precedentemente parte del Distretto Militare del Caucaso Settentrionale (1918-2010), a seguito della riforma il distretto meridionale ha ereditato un'area sostanzialmente invariata (unico cambiamento: inclusione della Crimea). Rispetto ai restanti 3 distretti militari dell'esercito russo (occidentale, centrale e orientale), nati dalla fusione o dalla divisione di alcune delle unità amministrative militari precedentemente esistenti (6 distretti), questo è unico e testimonia l'importanza che il comando delle forze armate russe ha costantemente attribuito alla direzione strategica meridionale. 11 Il fallimento dell'operazione di distacco delle regioni meridionali e orientali dall'Ucraina (la Malorossija) condotte attraverso il sostegno dei cosiddetti “omini verdi”, che ha portato al consolidamento delle forze armate ucraine e alla formazione di una linea del fronte nel Donbass, hanno reso il comando consapevole che un possibile conflitto militare su vasta scala avrebbe richiesto un rafforzamento delle regioni di confine attraverso il posizionamento di gruppi permanenti. 12 L’8ª Armata pluriarma è stata costituita il 1° marzo 2017 sulla base della 62ª Armata. Al momento è comandata dal Gen. C.A. Andrej Ivanovič Syčevoj ed è formata da: Comando; 150ª Divisione di Fucilieri Motorizzati Idricko- Berlinskaja, decorata con l’Ordine Kutuzov di II classe; 20ª Brigata di fucilieri motorizzati, decorata con l’Ordine Suvorov; 464ª Brigata Missilistica; 33° reggimento di ingegneri-genio guastatori; 39° reggimento di protezione NBC https://structure.mil.ru/structure/okruga/south/structure.htm http://milkavkaz.com/index.php/voorujonnie-cili-racii/vo-cv/u-vo

Osservatorio Strategico 2020– Anno XXII n. IV 47 Russia, Asia centrale e Caucaso costiera (da 1 a 2); a queste si sono aggiunti 2 reggimenti meccanizzati creati ex novo (all’interno della divisione), 2 reggimenti di carri armati, 2 reggimenti di difesa contraerea e un reggimento di artiglieria13. Questi inoltre possono essere facilmente rafforzati grazie al collegamento ferroviario tra Crimea e Russia, aperto a dicembre 2019, utilizzando il ponte sullo stretto di Kerč, che consente un rapido trasferimento di forze dal Caucaso settentrionale. Allo stesso tempo, la Russia sta sviluppando il suo potenziale missilistico. I radar dispiegati in Crimea consentono l’identificazione degli obiettivi in tutta l'area del Mar Nero. Le unità aeree e marittime identificate possono essere colpite dai sistemi missilistici S-400, Bastion e Bal situati sulla penisola. All'interno del raggio di azione del sistema Bastion rientrano obiettivi terrestri e marittimi al largo delle coste dei paesi della NATO: Romania e Turchia. I sistemi S-400 coprono inoltre la maggior parte del Mar Nero, l'Ucraina meridionale e la costa rumena. Il potenziamento della marina russa in Crimea consente di creare un contrappeso alle unità NATO nel Mar Nero. Il numero di navi russe stazionate nella penisola è raddoppiato. La maggior parte di loro sono nuovi sottomarini e missilistiche, che tecnicamente superano il potenziale delle unità NATO nella regione. Se necessario, la Federazione Russa è in grado di rafforzare queste forze con le navi della Flottiglia del Caspio grazie all'utilizzo del canale Volga- Don.

Fonte: Ministero della Difesa della Federazione Russa.

Tenendo conto del suddetto ampliamento delle strutture e della creazione di nuove unità, nonché della professionalizzazione del personale e dell'ammodernamento tecnico, si dovrebbe presumere che il suo potenziale sia aumentato almeno due volte nel corso degli ultimi sei anni14. Un semplice confronto quantitativo, tuttavia, non riflette quanto siano aumentate le capacità offensive delle forze armate russe raggruppate nella direzione strategica ancora nominalmente meridionale. Infine, il Distretto meridionale è diventata leader nell'organizzazione di esercitazioni

13 https://www.vedomosti.ru/politics/articles/2020/03/22/825872-novaya-diviziya 14 Georg Mader, How Much Has Russia Militarised the Crimea? 10. March 2020 https://euro-sd.com/2020/03/allgemein/16510/how-much-has-russia-militarised-the-crimea/ https://112.ua/glavnye-novosti/tanki-samolety-i-mnogo-artsistem-komanduyushhiy-oos-nazval-kolichestvo-rossiyskih- voysk-v-krymu-542365.html

Osservatorio Strategico 2020– Anno XXII n. IV 48 Le direttrici dello sforzo militare russo: una risposta all’attenzione NATO per l’Eastern Flank o promozione e difesa degli interessi nazionali? joint e combined, con la partecipazione di formazioni terrestri, marine e aeree, la maggior parte delle quali si svolge nel bacino del Mar Nero e nelle regioni del Mar Nero (principalmente in Crimea e Kuban).

Kaliningrad

Negli ultimi anni, la politica di Mosca nei confronti dell'Oblast’ di Kaliningrad è diventata sempre più pressante e stringente. L’obiettivo principale è aumentare ulteriormente il controllo sulla regione e sui suoi legami con il resto della Russia, sia politicamente, socialmente che economicamente in modo da poter garantire una completa “ricezione e trasmissione delle informazioni” provenienti dal fianco est della NATO e promuovere la conseguente politica di controinformazione non solo sul territorio nazionale ma anche su quello europeo. Secondo i servizi lituani, ad esempio, l'intelligence russa sta svolgendo attività stimolanti volte a persuadere i rappresentanti dell'élite politica ed economica lituana a promuovere soluzioni che favoriscano i contatti commerciali (in questo contesto, facilitando il traffico frontaliero) o diffondendo l'opinione che una politica "pragmatica" nei confronti della Russia sia necessaria, mentre pare che i funzionari russi nell'oblast di Kaliningrad utilizzino il supporto dei servizi segreti bielorussi per attività di intelligence. Per avere un miglior controllo sul territorio, nel 2017, Mosca ha inviato a Kalinigrad il nuovo Governatore, Anton Alichanov, che ha smantellato i precedenti accordi politici e commerciali nell'oblast’ e si è sbarazzato dei suoi concorrenti politici. Con il completo avallo di Mosca, Alichanov ha centralizzato e concentrato il potere nelle sue mani penalizzando talvolta le élite locali provocando ovviamente il malcontento delle stesse15. Le crescenti tensioni nelle relazioni della Russia con l'Occidente hanno portato a un aumento delle attività sia difensive che offensive dei servizi segreti russi nella regione, la cui ubicazione è percepita – e di fatto è – da Mosca come strategica. Le attività ‘difensive, come sopra citato circa il giro di volta dato dal nuovo Governatore, si sono concentrate nella prevenzione dell'indebolimento dei legami periferici con la Russia, quelle offensive invece, nel monitoraggio e contrasto dell'attività della NATO e nel lobbismo politico. A causa dell'elevato impegno delle unità militari di stanza nell'oblast’, l'attività del controspionaggio militare dell'FSB è in aumento. Kaliningrad rimane una base per l'attuazione dei compiti di intelligence in Lituania e Polonia. In tal senso, la creazione nell'aprile 2016 del Servizio Federale delle Forze di Guardia Nazionale ha avviato il processo di riorganizzazione delle unità che facevano parte delle truppe interne e delle unità speciali precedentemente parte del Ministero degli interni. Queste strutture, oltre ad adempiere ai compiti di ordine e protezione esistenti, sono sempre più incluse nel complesso dei compiti svolti dalle Forze Armate della Federazione Russa. Durante il processo di addestramento, particolare importanza viene infatti attribuita alla realizzazione di azioni contro le truppe sovversive e alla protezione della base delle forze armate. Per quanto riguarda invece la modernizzazione e l'espansione del potenziale militare russo nella regione, esse sono state intensificate, contribuendo a un aumento visibile delle capacità offensive del raggruppamento delle forze armate russe lì dispiegate. Tali attività includono lo sviluppo di infrastrutture militari (inclusa l'espansione di un aeroporto militare di Čkalovsk, al momento uno degli aeroporti militari russi più grandi e la modernizzazione di impianti di stoccaggio di armi nucleari), espansione delle forze armate (inclusa la riattivazione di un reggimento di carri armati e una divisione di aviazione da combattimento), ulteriore modernizzazione tecnica (compreso il dispiegamento permanente dei sistemi missilistici terrestri Iskander, l’espansione di

15 AA.VV., “Twierdza Kaliningrad. Coraz bliżej Moskwy” (“Fortezza Kaliningrad. Sempre più vicina a Mosca”), Raport OSW, Warszawa, październik 2019, Ośrodek Studiów Wschodnich im. Marka Karpia.

Osservatorio Strategico 2020– Anno XXII n. IV 49 Russia, Asia centrale e Caucaso

Sistemi missilistici Bastion, il dispiegamento di aerei da combattimento aggiuntivi, elicotteri da combattimento, carri armati e navi da guerra), aumento dell'attività di addestramento (comprese esercitazioni militari con scenari offensivi). In conclusione, identificare la militarizzazione delle “finestre sull’occidente” russe ovvero dell’oblast’ di Kaliningrad così come della Crimea, unicamente come un atteggiamento aggressivo e unidirezionale, appare piuttosto limitante. Tenendo infatti in debito conto gli avvenimenti che hanno caratterizzato gli anni che vanno dalla fine della Guerra Fredda ad oggi, le azioni della Federazione appaiono più frutto della commistione di fattori quale la sopracitata sindrome di accerchiamento ovvero l’allargamento della NATO ai territori dell’ex Patto di Varsavia (fattore esogeno) e la perdita di peso a livello internazionale conseguente alla perdita della Guerra Fredda e al crollo dell’URSS (fattore endogeno), unitamente alla volontà di riaffermarsi quale la superpotenza che fu. Ad ogni modo, nell’arco degli ultimi sei anni, il centro di gravità dell’interesse strategico russo si è spostato dal Caucaso alle regioni confinanti direttamente con l'Ucraina e alla Crimea occupata nonché al baluardo russo in occidente: Kaliningrad. Al momento, le direttrici dello sforzo militare russo si concentrano in queste due aree. La presenza nel Mar Nero limita non solo le possibilità di attuare progetti energetici che potrebbero fornire all'Europa centrale e orientale fonti di approvvigionamento alternative alla Russia ma mina anche la sicurezza del trasporto di petrolio via mare dall'Azerbaigian all'Ucraina. Ciò comporta un calo della redditività delle raffinerie ucraine e la continuazione della dipendenza dell'Ucraina dal carburante dalla Russia e potrebbe, in un futuro, portare la Russia a ricorrere al blocco del Mar d'Azov e ostacolare il movimento delle navi da e verso i porti ucraini sul Mar Nero per destabilizzare la situazione economica dell'Ucraina. L’intensificazione dell’attività di intelligence nella oblast’ di Kaliningrad invece, provoca forti preoccupazioni nei paesi viciniori in termini di sicurezza delle informazioni.

Osservatorio Strategico 2020– Anno XXII n. IV 50 Asia Meridionale e Orientale Claudia Astarita

Shinzo Abe si ritira: cosa cambia per il Giappone

Primo ministro del Giappone per otto anni, l’uscita di scena improvvisa di Shinzo Abe dello scorso 28 agosto è stata accolta con grande stupore. Il suo successore, Yoshihide Suga, è stato eletto a metà settembre. 71 anni e, come Abe, membro del Partito Liberal Democratico (LDP), Suga ha accompagnato il premier uscente come segretario di gabinetto per tutti gli anni in cui quest’ultimo è rimasto al governo. Il nuovo premier è noto per essere un uomo discreto, che si è costruito da solo. La sua elezione, oggi, potrebbe contribuire a cambiare l’immagine e il ruolo che il Giappone gioca in Asia. Abe ha collegato le sue dimissioni a una condizione di salute personale particolarmente difficile. Spiegazione realistica, visto che aveva detto esattamente la stessa cosa quando si era dimesso nel 2007. Eppure, c’è chi è convinto che questa volta il suo passo indietro possa avere anche delle spiegazioni politiche, legate essenzialmente all’incapacità di portare a termine una serie di riforme per le quali si era impegnato, in particolare la riforma costituzionale. Abe ha lasciato il Giappone in un momento molto delicato, con una grave crisi sanitaria in corso, una situazione economica difficile, riforme incompiute e relazioni interregionali molto tese. Questa situazione rende essenziale cercare di capire quali siano le intenzioni di Suga relativamente al futuro del Giappone. L'arrivo di Suga evidenzia anche un particolare piuttosto unico che contraddistingue la democrazia giapponese, vale a dire l’assenza di un vero e proprio partito di opposizione. Questa peculiarità lascia a Suga una significativa libertà di manovra, ma allo stesso tempo lo sottopone al giudizio severo del suo partito, che si aspetta sia in grado di garantire stabilità e continuità. L’obiettivo di questa analisi è presentare i principali problemi del Giappone di oggi, sul fronte della politica interna e della politica estera, provando ad immaginare come Suga possa decidere di affrontarli. Shinzo Abe proviene da una famiglia di politici di primissimo livello. Suo padre è stato uno dei principali leader dell’LDP e suo nonno fu primo ministro dopo la Seconda guerra mondiale. Yoshihide Suga ha un passato molto diverso: è un funzionario altamente qualificato ma un politico “autodidatta”. Un dettaglio molto importante di questo avvicendamento è il legame fortissimo che lega Abe a Suga: l’essere stato segretario di gabinetto così a lungo ha permesso a Suga di conoscere nel dettaglio tutta la politica di Abe. Suo compito è sempre stato anche quello di difendere le scelte del governo di fronte al popolo giapponese. E’ stato formalmente scelto tra tre candidati, Shigeru Ishiba, ex ministro della difesa, e Fumio Kishida, ex ministro degli esteri ma nominato con uno scarto di voti importante. Detto questo, la nomina di Suga resta comunque una sorpresa: soprannominato “muro di ferro” per la sua testardaggine e determinazione, il suo background “normale” è attualmente considerato sia un punto di forza che di debolezza, essenzialmente perché non ha una base di consenso politico stabile1.

Politica interna: economia, coronavirus e riforma costituzionale

Era il 2013 quando Shinzo Abe lanciò il famoso pacchetto di riforme “Abenomics”. Una strategia volta a rilanciare l’economia del Giappone dopo due decenni di recessione.

1 Wingfield-Hayes, R. “Yoshihide Suga: The unexpected rise of Japan's new prime minister”, BBC, 16 settembre 2020. Disponibile a : https://www.bbc.com/news/world-asia-54172722 .

Osservatorio Strategico 2020– Anno XXII n. IV 51 Asia Meridionale e Orientale

Il programma era incentrato su tre “frecce”: politica monetaria aggressiva, politica fiscale flessibile e strategia di crescita fondata sulle riforme strutturali2. Le Abenomics sono riuscite a dare stimoli molto forti all’economia nazionale, tant’è che tra il 2012 e il 2015 il Pil è cresciuto da 495 a 532 trilioni di yen, Suga ha già annunciato di voler proseguire nella stessa direzione, senza dimenticare la sfida numero uno: mantenere l’equilibrio sul mercato del lavoro in un paese dove la popolazione sta invecchiando troppo in fretta3. Abe aveva puntato sulle Olimpiadi, convinto che i Giochi avrebbero potuto dare un ulteriore impulso all’economia nazionale. La scelta di posticipare l’evento al 2021 per colpa del Coronavirus non solo ha vanificato questa speranza, ma ha anche generato nuovi oneri finanziari da coprire4. Sulla scottante questione del coronavirus, la gestione di Abe è stata molto criticata. Il tasso di approvazione del Primo Ministro è precipitato e la sua mancanza di leadership è stata messa sotto i riflettori internazionali a febbraio per colpa dell’incidente della nave da crociera britannica Diamond Princess. Abe optò per il confinamento di tutti i passeggeri a bordo e questa decisione è considerata alla base delle quattro vittime e dei 691 contagiati registrati a bordo5. Il premier uscente è stato attaccato anche per la politica dei test concentrati sui focolai di infezione più accesi. In virtù delle limitate risorse a disposizione all’inizio della pandemia, Il Giappone ha privilegiato il monitoraggio dei “casi di contatto” piuttosto che i test di massa; in questo modo è riuscito a tenere sotto controllo l’epidemia, ma solo fino a giugno. Ad agosto, anche in Giappone è stata registrata un’impennata di casi di coronavirus. Suga non ha perso tempo a precisare che la lotta alla pandemia sarà una delle sue priorità. Nel momento in cui si scrive i contagi in Giappone sono arrivati a quota 86.540, in un paese che conta 126,5 milioni di persone. Il nuovo ministro della salute si è impegnato ad aumentare il numero dei test per monitorare meglio l’evoluzione della pandemia, e il Giappone sembra non aver fatto troppi passi avanti nella ricerca di un vaccino. Infine, Suga ha suggerito di implementare un programma per il monitoraggio delle malattie su scala regionale, e in particolare con i paesi ASEAN. Quello della riforma costituzionale è un tema molto delicato in Giappone, collegato alla memoria della Seconda guerra mondiale e che, formalmente, richiede l’approvazione popolare tramite referendum per diventare effettiva. La modifica della Costituzione, e in particolare dell’Articolo 9, è da sempre una priorità per Abe6. Non essere riuscito a portarla a termine, quindi, rappresenta un importante fallimento. Modificare la Costituzione significa essenzialmente mettere il Giappone nella condizione di smettere di essere vincolato da una clausola approvata alla fine della guerra che lo costringe a disporre solamente di un esercito senza capacità offensiva, vale a dire solo autorizzato a “difendersi” in caso di minacce esterne. Su questo punto, Suga sembra essere dello stesso parere di Abe, ritenendo anacronistico non dotare la nazione di una capacità offensiva in una regione in cui la Cina diventa ogni giorno più forte e aggressiva. Il progressivo disimpegno degli Stati Uniti in Asia darà a Suga una ragione in più per continuare a fare pressione per questa riforma, ma il suo successo non è affatto scontato. Abe ha speso otto anni per sostenere la necessità e l’urgenza di una riforma costituzionale, ed è difficile immaginare come Suga possa chiudere questa partita in pochi mesi.

2 The Government of Japan , Abenomics, maggio 2017. Disponibile a : https://www.japan.go.jp/abenomics/_userdata/abenomics/pdf/170508_abenomics.pdf . 3 “Japan’s Suga says coronavirus a top priority, to stay on Abe policy course”, The Guardian, 8 settembre 2020. 4 Shigeta, S., “Abe softens stance on full-scale Olympics to avoid cancellation”, Nikkei Asia, 10 giugno 2020. 5 Sieg, L., “‘Where’s Abe?’ critics ask, as coronavirus spreads in Japan”, Reuters, 25 febbraio 2020. Disponibile a: https://www.reuters.com/article/us-china-health-japan-abe-idUSKCN20J16F . 6 Tudisco, V., “Abe’s Constitutional Legacy : Symbolic and Informal Changes”, Istituto per gli studi di politica internazionale, 5 ottobre 2020. Disponibile a : https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/abes-constitutional-legacy- symbolic-and-informal-changes-27715 .

Osservatorio Strategico 2020– Anno XXII n. IV 52 Shinzo Abe si ritira: cosa cambia per il Giappone

La strada continua ad essere in salita, soprattutto per quel che riguarda l’opinione pubblica. La maggior parte della popolazione considera la riforma costituzionale sospetta, in particolare per quel che riguarda la cancellazione dell’Articolo 97. Settant'anni di pace hanno lasciato il segno nel paese, e i giapponesi nutrono una profonda diffidenza nei confronti dei militari. Anche la fetta di popolazione che appoggia la riforma non è d’accordo sulla sostanza della stessa, vale a dire su cosa modificare. Questo atteggiamento sembra essere una diretta conseguenza del modo in cui la Costituzione è stata adottata, nel 1947. Ancora oggi, una parte della popolazione la considera la “Costituzione pacifica”, un’altra la “Costituzione di MacArthur”. Un testo che ha spaccato il paese alla fine del conflitto. Oggi, la sua revisione riporta a galla le stesse dinamiche.

Politica estera: Stati Uniti, Cina e Penisola coreana

Quali sono interessi, priorità e obiettivi della politica estera giapponese? Per analizzarli è necessario fare una premessa: Abe è sempre stato considerato un abile diplomatico, molto attivo e disinvolto. Suga, invece, ha già ammesso non solo di non avere queste stesse qualità, ma anche di essere meno interessato alla politica estera, e tanto meno a tessere forti relazioni personali con i leader stranieri. Detto questo, è evidente che il nuovo leader nipponico non potrà permettersi di trascurare la politica estera, infatti ha già identificato il sostegno alla crescita internazionale e agli aiuti allo sviluppo, insieme al rafforzamento della cooperazione regionale sulla prevenzione delle malattie e alla risoluzione delle controversie territoriali, come le sue priorità su questo fronte. Per quel che riguarda gli Stati Uniti, Abe ha speso moltissimo tempo a costruire un solido rapporto personale con il presidente americano Donald Trump. Gli Stati Uniti sono un partner chiave per il Giappone. L’alleanza tra i due paesi è sempre stata reciprocamente vantaggiosa: Tokyo ha a lungo giocato il ruolo di intermediario nei rapporti sia tra Stati Uniti e Cina sia tra Stati Uniti e Corea del Nord, mentre Washington ha garantito per anni la sicurezza in Asia. L’alleanza si è però incrinata quando, nel 2017, gli Stati Uniti hanno scelto di non andare avanti con la Trans- Pacific Partnership (TPP) e hanno chiesto a Tokyo di quadruplicare il contributo per il mantenimento dell’esercito americano sul loro territorio, portandolo a otto miliardi di dollari. Il Giappone si è sentito tradito. Per Tokyo accettare di entrare a far parte di una coalizione anticinese come quella creata di fatto con la TPP è stato un passo importante, e l’abbandono di Washington l’ha messa in una posizione molto imbarazzante. Suga potrebbe instaurare una relazione meno amichevole con Donald Trump o con chiunque sarà il prossimo Presedente americano. Consolidare l’alleanza esistente resta una priorità per entrambi i paesi, come è stato confermato nel corso del primo incontro tra il nuovo leader giapponese e il segretario di Stato americano Mike Pompeo il 6 ottobre scorso, e Suga dovrà anche affrontare il problema del progressivo disimpegno di Washington in Asia8. I rapporti tra Giappone e Corea del Sud sono sempre stati tesi. I tempi della colonizzazione giapponese non sono mai stati dimenticati, e lo stesso vale per il problema delle “donne di conforto”, donne e ragazze costrette a far parte di gruppi di schiave prostitute al servizio dell’esercito nipponico. La Corea ritiene inaccettabile che il Giappone non abbia ancora ammesso in maniera esplicita di essere l’unico responsabile di questo scandalo né adeguatamente

7 “Public Attitudes on Revision”, Council on Foreign Relations. Available at : https://www.cfr.org/japan- constitution/public-attitudes-on-revision . 8 Sugiyama, S. & Johnson, J., “Suga clears first diplomatic hurdle in meeting with Pompeo”, The Japan Times, 6 ottobre 2020. Disponibile a : https://www.japantimes.co.jp/news/2020/10/06/national/mike-pompeo-yoshihide-suga- tokyo-japan-quad/ .

Osservatorio Strategico 2020– Anno XXII n. IV 53 Asia Meridionale e Orientale indennizzato le vittime. Tokyo, invece considera la questione risolta e archiviata dal 1965, vale a dire da quando è stato formato il primo trattato che ha definito le relazioni tra i due paesi9. L’intransigenza di Abe sulla questione delle donne di conforto ha ridotto le relazioni tra Seul e Tokyo ai minimi storici. Una guerra commerciale è scoppiata nel 2019 e, di fatto, non è ancora stata risolta. Ad agosto 2019, il Giappone ha revocato alla Corea la clausola della nazione più favorita e la seconda ha reagito annullando il patto di condivisione di informazioni di intelligence (poi ripristinato a novembre). Le controversie territoriali sono un’altra fonte di problemi nel Mar del Giappone, dove la sovranità su un gruppo di isole, le Dodko / Takeshima, è rivendicata da entrambi i paesi10. Subito dopo la sua nomina, Suga ha scritto una lettera al presidente sudcoreano Moon Jae-In per esprimere interesse e speranza per un miglioramento delle relazioni bilaterali tra le due nazioni, sottolineando l’importanza dell’una nei confronti dell’altra11. Un passo certamente promettente verso una riconciliazione che sarebbe vantaggiosa per tutti. Anche i rapporti tra Corea del Nord e Giappone sono particolarmente tesi. Al di là della dimensione di insicurezza regionale legata al fatto che Pyongyang è una potenza nucleare, il nodo centrale del confronto è rappresentato dall’incapacità di Pyongyang di riconoscere e dettagliare l’ampia politica di rapimenti di cittadini giapponesi portata avanti per anni. Si ritiene che tra i 17 e gli 800 giapponesi siano stati rapiti tra gli anni '60 e '8012. Per Tokyo si tratta di una questione ancora molto recente, visto che tanti dettagli di questo periodo oscuro, relativi a sparizioni improvvise o a corpi con documenti coreani ritrovati sulle spiagge nipponiche, sono emersi verso la fine del 20esimo secolo. Abe ha sempre presentato la questione dei rapimenti come una delle sue priorità, oltre che un punto chiave di qualsiasi negoziato in cui era implicata la Corea del Nord, al punto da presentare questo braccio di ferro come il suo “lavoro di una vita”. Eppure, questa intransigenza non ha sortito grandi risultati, anzi, se possibile ha ulteriormente emarginato Tokyo dalle iniziative volte a stabilizzare la Penisola, compresa l’ultima triangolazione Seul-Pyongyang-Washington. Motivi sufficienti, questi, per rendere realistico immaginare che Suga potrà cercare di riadattare la posizione del Giappone sulla questione dei rapimenti. Suga ha riassunto la sua prospettiva nel discorso pronunciato di fronte all'Assemblea generale delle Nazioni Unite a settembre, sostenendo che “il paese cercherà di normalizzare le sue relazioni con la Corea del Nord, in conformità con la dichiarazione Giappone-Corea del Nord di Pyongyang, cercando di risolvere in maniera definitiva il problema dei rapimenti e quello dei test missilistici e nucleari, per chiudere le animosità del triste passato comune”13. Anche i funzionari di Pyongyang hanno espresso la speranza che la nomina di Suga possa ammorbidire la posizione del Giappone nei loro confronti. Il Japan Times ha anche affermato che l'economia della Corea del Nord è stata messa duramente alla prova dalla crisi sanitaria del Coronavirus, e questa difficoltà potrebbe trasformarsi in un’opportunità per il Giappone per

9 La differenza di interpretazioni deriva dal fatto che il trattato prevede riparazioni per I crimini di Guerra commessi dal Giappone, come il lavoro forzato e lo sfruttamento delle donne di conforto, ma non riparazioni ad personam per i danni subiti. 10 “South Korea and Japan’s feud explained”, BBC News, 2 dicembre 2019. Disponibile a: https://www.bbc.com/news/world-asia-49330531 . 11 “Suga hopes for ‘forward-looking’ ties in letter to South Korea’s Moon Jae-In”, The Japan Times, 22 settembre 2020. Disponibile a : https://www.japantimes.co.jp/news/2020/09/22/national/yoshihide-suga-south-korea-moon-jae-in- letter/ . 12 Johnston, E., “The North Korean abduction issue in Japan: When will the waiting end?”, The Japan Times, 11 giugno 2020. Disponibile a: https://www.japantimes.co.jp/news/2020/06/11/national/japan-north-korean-abduction-issue/ . 13 Gabinetto del Primo Ministro in Giappone “Address by Prime Minister SUGA Yoshihide at the 75th Session of the United Nations General Assembly”, 25 settembre 2020. Disponibile a: https://www.youtube.com/watch?v=nZ2BsgxxLQc .

Osservatorio Strategico 2020– Anno XXII n. IV 54 Shinzo Abe si ritira: cosa cambia per il Giappone rilanciare i legami tra i due paesi14. Il Giappone è il secondo partner commerciale della Corea del Nord, e il riavvicinamento tra i due sarebbe vantaggioso non solo sul piano economico. Un miglioramento del rapporto con Pyongyang potrebbe aiutare Tokyo a riconquistare una posizione più favorevole sull'arena internazionale e a recuperare il suo status di mediatore regionale. Abe è arrivato al potere nel 2012, vale a dire all’apice delle tensioni con Pechino relative alla sovranità sulle isole Senkaku / Diaoyu, un minuscolo arcipelago nel Mar Cinese Orientale. Nonostante le loro relazioni notoriamente tese, da una prospettiva politica, economica e strategica, Abe è riuscito ad aprire un dialogo con la Cina. Il presidente Xi avrebbe dovuto recarsi in visita in Giappone all'inizio del 2020, per ricambiare la visita di Abe in Cina nel 2018, ma la crisi sanitaria ha costretto i due paesi ad annullare il viaggio. Nonostante l’ostilità di fondo che contraddistingue i due “giganti” asiatici, la Cina rimane un partner vitale per il Giappone e l'interdipendenza delle loro economie è talmente importante da aver indotto Tokyo a lanciare programmi di incentivi finanziari per le aziende per riportare le loro fabbriche in Giappone, per contribuire al rilancio dell’economia nazionale e, allo stesso tempo, ridurre la dipendenza da Pechino15. È probabile che Suga possa decidere di posticipare l’incontro con Xi Jinping all’annuncio dei risultati delle prossime elezioni americane16. Tutto questo per essere certo cella posizione che gli Stati Uniti assumeranno nei confronti della Cina, visto che Tokyo non può permettersi di compromettere il suo legame con Washington. Suga e Xi Jinping si sono parlati al telefono a fine settembre 2020, e si sono trovati d’accordo sul fatto che un buon rapporto tra Cina e Giappone è essenziale per mantenere la pace nella regione17. Suga ha esplicitato come propria responsabilità quella di costruire un buon rapporto con Pechino, per il bene dei due paesi, ma anche per il resto della regione e della comunità internazionale18. Nel suo discorso alle Nazioni Unite del 26 settembre scorso Suga ha menzionato sia la questione dell'aggressività cinese nel Mar Cinese Meridionale sia quella dei rapimenti nordcoreani19. Questa scelta è certamente indicativa delle preoccupazioni e delle priorità dell’agenda della nuova amministrazione giapponese20. Per quel che riguarda la Russia, Abe ha cercato in vari modi di migliorare il rapporto con Putin durante il suo mandato, ancora una volta per aumentare l’importanza del Giappone come potenza regionale e internazionale. Tokyo ha poi cercato, senza successo, di convincere Mosca a

14 Tachikawa, T., “North Korea’s virus and economic woes may open door to Suga-Kim meeting”, The Japan Times, 15 settembre 2020. Disponibile a : https://www.japantimes.co.jp/news/2020/09/15/national/politics-diplomacy/north- korea-japan-yoshihide-suga-kim-jong-un/ . 15 Yuji, M., “Japan-China Relations and the Chinese People’s Strength in a Time of Crisis”, nippon.com, 30 marzo 2020. Disponibile a: https://www.nippon.com/en/in-depth/d00555/japan-china-relations-and-the-chinese-people’s-strength- in-a-time-of-crisis.html. 16 McGregor, R., “How will Japan’s new leader handle growing China-US tensions?”, Lowy Institute, 22 settembre 2020. Disponibile a : https://www.lowyinstitute.org/publications/how-will-japan-new-leader-handle-growing-china-us- tensions . 17 “Japan’s new PM says Japan-China ties key to region”, Times of India, 25 settembre 2020. Disponibile a: https://www.youtube.com/watch?v=VrziOrGLN30&list=PLzjPDNc5ZgsByFtnX0tAEiF2hETov5BCK 18 “Yoshihide Suga, Xi Jinping agree for the need of stable ties”, The Standard, 25 settembre 2020. Disponibile a: https://www.thestandard.com.hk/breaking-news/section/6/156260/Yoshihide-Suga,-Xi-Jinping-agree-on-need-for- stable-ties. 19 Gabinetto del Primo Ministro del Giappone, “Address by Prime Minister SUGA Yoshihide at the 75th Session of the United Nations General Assembly”, 25 settembre 2020. Disponibile a: https://www.youtube.com/watch?v=nZ2BsgxxLQc. 20 “Yoshihide Suga Reveals ¥170 Billion Yen Japanese Aid to Help World Fight COVID-19 in First UN Speech”, Japan Forward, 26 settembre 2020. Disponibile a: https://japan-forward.com/yoshihide-suga-reveals- ¥ 170-billion-yen- japanese-aid-to-help-world-fight-covid-19-in-first-un-speech/.

Osservatorio Strategico 2020– Anno XXII n. IV 55 Asia Meridionale e Orientale firmare un trattato per formalizzare la fine della Seconda guerra mondiale21. L’impossibilità di raggiungere un accordo dipende dalla difficoltà di trovare un accomodamento relativo alla sovranità sulle isole Curili, che il Giappone identifica come “territori settentrionali”. Un compromesso sembrava essere stato trovato nel 2018, ma da allora la situazione è in fase di stallo. Suga non potrà fare a meno di continuare a corteggiare la Russia, con il sostegno implicito degli Stati Uniti. Così facendo potrebbe essere costretto a fare qualche passo indietro sul nodo delle Curili, ma potrebbe riuscire a contrastare l'influenza cinese nella regione e il consolidamento dell’asse Pechino-Mosca. Anche il Sud-est Asiatico è un’area molto importante per il Giappone. Abe è stato l'architetto della “FOIP”, la strategia giapponese per un Indo-Pacifico libero e aperto. Lanciata nel 2016, la FOIP si è posta l’obiettivo di controbilanciare l’ascesa della Cina nella regione indo-pacifica contrastando la sua Belt and Road Initiative (BRI), vale a dire la Nuova Via della Seta, e anche per fornire un quadro ufficiale ai numerosi progetti di sviluppo già finanziati nel Sud-est asiatico. Il tentativo di Abe di ridurre la dipendenza del Giappone dalla Cina non poteva non avere ripercussioni per l’Associazione delle nazioni del sud-est asiatico, vista l’insistenza di Tokyo a rafforzare la cooperazione con i paesi che condividono con lei perplessità e preoccupazioni rispetto all’ascesa di Pechino22. Suga certamente deciderà di portare avanti la linea del suo predecessore nel Sud-est asiatico, ed è probabile che decida di ampliarla per approfondire la collaborazione anche sul piano economico e su quello della cyber-sicurezza23.

Analisi, valutazioni e previsioni

Il neo premier Yoshihide Suga si ritrova a dover gestire il Giappone in un momento molto complesso, sia sul piano interno che su quello internazionale. Tokyo dovrà trovare un buon equilibrio tra la Cina e gli Stati Uniti, una manovra che potrebbe rivelarsi complessa per un leader che si dichiara poco avvezzo agli equilibrismi diplomatici. L’ideale sarebbe quindi portare avanti un’agenda politica basata sulla stabilità e sulla continuità per superare le sfide economiche e internazionali che il paese sta attualmente affrontando. Suga potrebbe rivelarsi il leader migliore per garantire questa continuità, non foss’altro per la sua grande affinità con la visione di Abe. Eppure, se è vero che Abe ha lavorato duramente per trasformare il Giappone un attore forte e affidabile nella regione, Suga potrebbe scegliere di mantenere un profilo più basso, congelando momentaneamente l’attivismo politico giapponese per avere più tempo e risorse per concentrarsi su altre necessità, e in particolare sanità ed economia, in attesa di veder Washington e Pechino definire le loro modalità di interazione per i prossimi anni. C'è anche un altro motivo per cui Suga potrebbe decidere di concentrarsi sulla politica interna piuttosto che su quella estera: con le elezioni di settembre 2021 il paese sarà chiamato a esprimersi sul mandato di Suga. Se il premier non vuole essere ricordato come “il Primo Ministro della transizione”, dovrà dimostrare al paese che, come Abe, il suo obiettivo principale è il loro benessere, mettendo in pratica un nuovo pacchetto di riforme economiche di successo.

21 Walker, J. & Azuma, H., “Shinzo Abe’s unfinished deal with Russia”, War on the Rocks, settembre 2020. Disponibile a: https://warontherocks.com/2020/09/shinzo-abes-unfinished-deal-with-russia/. 22 Arase, D., “Strong China-Japan relations a fantasy in a divisive world: will ASEAN benefit?”, Think China, 17 agosto 2020. 23 Pajon, C., “What Would Suga’s Indo-Pacific Strategy Look Like?”, Istituto per gli studi di politica internazionale, 5 ottobre 2020. Disponibile a: https://ispo.maillist- manage.eu/click.zc?od=2f2e831ae0e14bcd35d9ef6160d214074&repDgs=166050cc68479c2&linkDgs=166050cc67e 2576&mrd=166050cc683cf19&m=1 .

Osservatorio Strategico 2020– Anno XXII n. IV 56 America Latina Francesco Davide Ragno

Un nuovo corso per la Banca Interamericana dello Sviluppo: l’elezione di Mauricio Claver-Carone

Il 12 settembre scorso, durante la sessione virtuale dell’assemblea dei governatori della Banca Interamericana dello Sviluppo (Bid), è stato raggiunto il quorum per eleggere il nuovo Presidente: la carica è andata al candidato statunitense Mauricio Claver-Carone, già alto consigliere per l’America Latina della Presidenza Trump e direttore esecutivo per le questioni emisferiche del Consiglio di Sicurezza Nazionale. La candidatura di Claver-Carone, lanciata dal Presidente Trump già a metà giugno, aveva creato stupore cui erano seguite critiche e proteste tra le fila di buona parte della classe politica latinoamericana e internazionale (Kiernan e Forero, 2020). Il malessere emerso derivava dall’inusuale candidatura statunitense. Il Bid, infatti, sin dalla sua fondazione è stato guidato da esponenti latinoamericani. Da oggi, invece, non è più così. Risulta utile, pertanto, ricostruire le funzioni e le competenze che il Bid ha raccolto negli anni. In seconda battuta si cercheranno di analizzare le vicende che hanno portato alla candidatura di Claver-Carone mettendo in rilievo le posizioni assunte da quest’ultimo sulle più rilevanti questioni politiche latinoamericane.

Il Bid e lo sviluppo in America Latina

L’idea di creare una banca regionale per lo sviluppo divenne una vera e propria realtà alla fine degli anni Cinquanta. Promosso in seno all’Organizzazione degli Stati Americani ma non dipendente da essa, il Bid si sviluppò in un clima di espansione economica sostenuta da un progressivo protagonismo dello Stato. Sostenuta dai dibattiti sorti in seno alla Cepal (Commissione Economica per America Latina), la Banca aveva la funzione di promuovere programmi di sviluppo sul continente Americano (in particolar modo dedicati alla parte Centro-Meridionale) a partire da una divisione tra Paesi donanti (che immettevano denaro sul mercato internazionale dello sviluppo) e Paesi che ricevevano gli stessi: tra i primi si annoveravano, principalmente, gli Stati Uniti cui si aggiunse nel 1973 anche Canada; nel secondo gruppo ricadevano tutti quei Paesi latinoamericani che avevano partecipato alla sua fondazione. Proprio a partire dal 1973 vi fu un corposo aumento del numero dei Paesi membri del Bid. Oltre al Canada, infatti, furono ammessi Paesi non donatori e esterni alla regione, ponendo in risalto il carattere multilaterale dell’istituzione. Un processo, questo, che avvenne in un momento storico peculiare, se osservato da molti punti di vista: il 1973, difatti, è l’anno della prima grande crisi petrolifera che enormi ripercussioni ebbe sulla politica internazionale; nello stesso anno, poi, furono stipulati gli accordi di Parigi, che davano una conclusione diplomatica alla decennale guerra del Vietnam; passando alle relazioni inter- americane, sempre nel 1973, poi, in Cile vi fu un colpo di Stato che riconfigurò le dinamiche politiche latinoamericane. Nonostante i cambiamenti e gli scossoni nelle interazioni politiche globali e nello scenario dell’emisfero occidentale, gli Stati Uniti non persero la guida del gruppo dei Paesi che investivano nel Bid. Questa condizione, peraltro, non cambiò quando con il 1982 prese avvio una fase di grandi travagli per le economie latinoamericane caratterizzate dalle crisi del debito e l’aumento delle spinte inflattive. Tali crisi, però, non trovarono risposte celeri ed efficaci in seno al Bid, tanto che, in quel momento sorsero dubbi sulla propria esistenza dell’istituzione finanziaria di sviluppo in quanto tale. A ben vedere, ciò che era in atto era un vero e proprio cambiamento dei paradigmi economico- politici con l’avvio delle liberalizzazioni e privatizzazioni tipiche del neo-liberismo degli anni Ottanta.

Osservatorio Strategico 2020– Anno XXII n. IV 57 America Latina

In tal senso, il Bid sembrava essere intenzionato a mutare il proprio ruolo, passando da banca che promuoveva lo sviluppo attraverso lo stimolo di investimenti internazionali verso il settore pubblico ad un istituto finanziario capace di dare respiro (di breve e medio periodo) alla bilancia dei pagamenti. Con la fine della guerra fredda, il Bid fu capace di accogliere e, dunque, redistribuire tutti quei capitali internazionali alla ricerca di tassi di interessi migliori (rispetto a quelli offerti, ad esempio, dagli Stati Uniti), attratti dalle politiche di liberalizzazione, deregulation e privatizzazione che avrebbero caratterizzato i primi anni Novanta del secolo scorso. Negli ultimi vent’anni, il Bid ha concentrato la propria attenzione nei riguardi di azioni focalizzate per combattere l’esclusione sociale e la disuguaglianza, i livelli di produttività bassi e gli effetti negativi del cambio climatico promuovendo innovazione tecnologica, integrazione economica regionale, eguaglianza di genere e rispetto della diversità, il miglioramento dell’architettura istituzionale e il rafforzamento dello Stato di diritto. Le personalità che guidarono il Bid, nel corso degli anni sin dalla sua nascita, furono esponenti latinoamericani che ebbero opportunità di presiedere l’istituzione per un numero di anni cospicuo: la gestione del cileno Felipe Herrera durò dieci anni dal 1960 al 1970; per più di 18 anni, fino al 1988 fu il messicano Antonio Ortíz Mena a dirigere l’organizzazione; dal 1988 al 2005, la Presidenza rimase nelle mani dell’uruguayano Enrique V. Iglesias e, infine, sino al 2020 essa passò al colombiano Luis Alberto Moreno. E dallo scorso 1 ottobre, Mauricio Claver-Carone è diventato il primo Presidente statunitense del Bid.

L’approssimarsi alle elezioni del nuovo Presidente

La mancanza di consenso all’interno del gruppo dei paesi latinoamericani che per consuetudine esprimono la Presidenza del Bid ha accompagnato il periodo precedente all’elezione. Il clima politico nella regione non facilitava la ricerca di una posizione di consenso giacché la pandemia da Covid_19 e la crisi economica che ne è conseguita hanno portato i governi latinoamericani (e non solo) a concentrare i propri sforzi nei riguardi della politica interna – per l’emergenza sanitaria e le criticità di natura economica. Per non parlare di alcune realtà già sotto pressione durante il periodo precedente a dilagarsi del Covid_19: dalla crisi umanitaria del Venezuela di Nicolás Maduro, all’instabilità creata dalle proteste sociali e politiche in Cile, passando per la realtà boliviana (affetta da una grandissima crisi di legittimità) e quella argentina (condizionata da un pesante debito internazionale contratto con il Fondo Monetario Internazionale). Il solco scavato da queste criticità, in altre parole, è aumentato a causa della pandemia e così, dunque, alcuni Paesi hanno chiesto il rinvio delle elezioni del Presidente: si trattava di Argentina, Costa Rica, Cile e Messico che intendevano bloccare il processo di selezione della Presidenza, nella speranza di poter posticipare le elezioni all’indomani delle elezioni presidenziali statunitensi del prossimo novembre. Le ragioni di questa posizione erano di natura politica. Il 3 settembre, infatti, quella che sembrava essere la candidata favorita fino a qualche mese prima, l’ex Presidente del Costa Rica Laura Chinchilla Miranda, annunciava il suo ritiro dalla competizione elettorale. In quella data, infatti, Chinchilla scriveva al proprio Presidente della Repubblica, Carlos Alvarado, una lettera spiegando le cause della sua rinuncia. Essa fondamentalmente risiedeva in «due fattori che hanno alterato in maniera importante il processo tracciato verso le elezioni. Il primo di questi è stato, precisamente, la pandemia che ha limitato in maniera sensibile la possibilità di definire uno spazio di dibattito ampio e sereno» sul futuro del Bid; «il secondo fattore è stato il cambiamento brutale delle regole che dalla creazione del Bid hanno governato il processo di presentazione e selezione delle candidature». Tale processo, continua Chinchilla, consisteva nella «regola» secondo cui la Presidenza del Bid era occupata da un esponente latinoamericano o un caraibico e la vicepresidenza da uno statunitense (Chinchilla, 2020). Tanto la pandemia quanto l’atteggiamento

Osservatorio Strategico 2020– Anno XXII n. IV 58 Un nuovo corso per la Banca Interamericana dello Sviluppo: l’elezione di Mauricio Claver-Carone dei rappresentanti statunitensi, insomma, obbligavano l’istituzione del Bid a prendersi più tempo per giungere alla definizione di una candidatura capace di raccogliere il maggior supporto possibile. Questa posizione fu sostenuta non solo dai governi dei Paesi latinoamericani che si fecero promotori della posposizione dell’elezione del Presidente ma anche di alcuni leader politici europei di spicco. Il francese François Hollande, lo spagnolo Felipe Gonzalez e l’italiano Massimo D’Alema hanno dichiarato che «The challenge is to preserve the balances guaranteed for decades around the fundamental principles of multilateralism» sottolineando che, invece, Trump si era mosso in una differente direzione decidendo «to impose one of his own advisers without consulting with the bank's member countries»: a ben vedere, continuava il comunicato congiunto dei tre leader europei, anche Josep Borrell, l’Alto Rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza, ha chiesto agli Stati europei membri del Bid di sostenere il rinvio delle elezioni (Buenos Aires Times, 2020). Ed allora, pochi giorni prima delle elezioni, rimaneva ancora in piedi, come unica candidatura alternativa a Claver-Carone, quella proposta dall’Argentina, nel febbraio del 2020. Si trattava di Gustavo Beliz, attuale segretario del Presidente Alberto Fernández per gli Assunti Strategici: storico integrante del movimento peronista, Beliz non solo ha ricoperto importanti incarichi di governo (Ministro degli Interni durante la Presidenza di Carlos S. Menem e ministro della Giustizia durante quella di Néstor Kirchner) ma era stato, in ambito inter-americano, funzionario del Bid per quasi quindici anni diventando nel 2014 Direttore dell’Istituto per l’Integrazione dell’America Latina e i Caraibi – istituto che faceva capo al Bid. Al di là delle considerazioni intorno alle conseguenze interne di questa candidatura in Argentina e sul peronismo, con la figura di Beliz si provava a rinsaldare i legami politici internazionali rilanciati dal neo-eletto Presidente Fernández e, in particolar modo, quelli del Gruppo di Puebla, ossia di quel gruppo internazionale particolarmente critico nei riguardi delle posizioni statunitensi in America Latina. Ed allora uno dei principali soci politici di questo Gruppo, il Presidente del Messico Andrés López Obrador, sostenne da subito Beliz, spegnendo le velleità di qualsiasi candidato messicano. Beliz, però, non è riuscito a contrastare la candidatura di Claver-Carone, per la prima volta, è stato eletto alla Presidenza del Bid un candidato statunitense.

Il profilo di Claver-Carone e il suo insediamento

Figlio di migranti spagnoli, nato a Miami, Claver-Carone aveva lavorato, durante la Presidenza di George W. Bush, nel Dipartimento del Tesoro come consigliere sulle questioni internazionali. Durante l’amministrazione Obama, Claver-Carone lavorò presso il Fondo Monetario Internazionale e nel settembre 2018 venne nominato Assistente speciale del Presidente della Nazione e Direttore Esecutivo per le Questioni dell’Emisfero Occidentale all’interno del Consiglio di Sicurezza Nazionale. In particolar modo, Claver-Carone si era distinto per posizioni profondamente anti- castriste. In tal senso, da parte sua è stata osteggiata qualsiasi apertura al regime cubano (come ad esempio quelle fatte durante l’amministrazione Obama) (Claver-Carone, 2015). Claver-Carone, poi, si è mosso a più riprese per stigmatizzare ed opporsi al Venezuela madurista-chavista. Solo qualche mese fa, infatti, criticava la posizione argentina nei riguardi della crisi venezuelana, sostenendo che Nicolás Maduro «sta usurpando i poteri dello Stato, […] ha posto i poteri dello Stato al servizio del narcoterrorismo, […] è sottoposto a vari procedimenti giudiziari negli Stati Uniti» mettendo in relazione, infine, il governo di Caracas con quello dell’ultimo regime militare argentino (Lugones, 2020). Temi questi che hanno accompagnato l’elezione di Claver-Carone e che nel primo discorso da Presidente del Bid non sono emersi distintamente. Per meglio dire, la loro assenza ha fatto rumore. Claver-Carone, infatti, ha fatto particolare riferimento alle necessità di rafforzare

Osservatorio Strategico 2020– Anno XXII n. IV 59 America Latina l’integrazione regionale basata sul movimento di persone e know-how, ma anche e soprattutto di capitali, migliorando la capacità dell’emisfero di attrarre investimenti in concerto con altre istituzioni finanziarie internazionali (Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale, in testa a tutti). La sua candidatura, ha detto, «ha costituito un segnale di maggiore impegno di sostegno degli Stati Uniti verso la regione e le sue istituzioni»; questa maggiore attenzione dovrà essere rappresentata da un sostanziale aumento di capitale del Bid, trainato dal maggiore supporto finanziario di Washington (Claver-Carone, 2020).

Conclusioni

Quando, nel 2005, Luis Alberto Moreno assumeva la Presidenza del Bid, le relazioni interamericane avevano equilibri completamente differenti da quelli attuali. Forte spirava, infatti, il vento anti-statunitense la cui espressione più importante si verificò durante il Quarto Summit delle Americhe, che si svolse a Mar del Plata: i presidenti di Argentina, Venezuela - accompagnati dall’allora candidato presidenziale in Bolivia, Evo Morales, dall’ex calciatore Diego Maradona e dal cantante cubano Silvio Rodríguez - a più riprese manifestarono la loro opposizione al progetto di creare un mercato comune delle Americhe. Oggi il clima è differente e l’elezione di Mauricio Claver-Carone alla presidenza del Bid sembra rimarcare questo cambiamento. Non si tratta “solo” della rottura di una consuetudine che durava da più di sessanta anni, quella di eleggere un rappresentante latino-americano alla guida della Banca. Vi è qualcosa di più profondo e pervicace. In primo luogo, le ben note posizioni di Claver-Carone nei riguardi di Cuba e Venezuela altro non fanno che rimarcare le differenze tra la politica emisferica dell’amministrazione Trump con quella di Obama. Oltre all’aspetto di politica interna, una presidenza di questo tipo, non v’è dubbio, isola ancor più i due Paesi, rendendo soprattutto per Caracas ancor più complicata la soluzione della crisi ultradecennale. Esiste, poi, un riverbero globale dell’elezioni di Claver-Carone. Negli ultimi venti anni, infatti, i Paesi dell’America Latina si sono sempre più connessi con la Cina: Pechino ha allocato sui mercati latinoamericani ingenti somme di investimenti diretti ed ha connesso il proprio mercato con quello delle maggiori realtà economiche della regione. Una connessione rimasta in piedi anche quando hanno preso avvio le frizioni politico-economiche tra Cina e Stati Uniti (storico partner economico e commerciale per molti Paesi latinoamericani). Proprio in quest’ottica, l’arrivo di Claver-Carone alla Presidenza del Bid non può che essere letto come una vigorosa risposta (per certi aspetti tardiva) al protagonismo cinese in America Latina.

Bibliografia

Kiernan P. e Forero J. (2020). «U.S. Plans to Nominate White House Official to Lead Latin America’s Main Development Bank». In The Wall Street Journal, 16/06/2020, testo disponibile a https://www.wsj.com/articles/u-s-plans-to-nominate-white-house-official-to-lead-latin-americas- main-development-bank-11592347863, ultimo accesso 3/10/2020.

Chinchilla L. (2020). «Carta al Presidente de la República sobre candidature de CR al BID». In Laurachinchilla.com, testo disponibile a https://www.laurachinchilla.com/2020/09/03/carta-al- presidente-de-la-republica-sobre-candidatura-de-cr-al-bid/, ultimo accesso 3/10/2020.

Buenos Aires Times (2020). «European Leaders ask EU to support postponement of IDB». In Buenos Aires Times, 8/09/2020, testo disponibile a https://batimes.com.ar/news/latin-

Osservatorio Strategico 2020– Anno XXII n. IV 60 Un nuovo corso per la Banca Interamericana dello Sviluppo: l’elezione di Mauricio Claver-Carone america/three-former-presidents-ask-the-eu-to-support-postponement-of-idb-election.phtml, ultimo accesso 3/10/2020.

Claver-Carone M.(2015). «When Helping ‘the Cuban People’ Means Bankrolling the Castros». In Wall Street Journal, 23/06/2015, testo disponibile a https://www.wsj.com/articles/when-helping-the- cuban-people-means-bankrolling-the-castroswhen-helping-the-cuban-people-means-bankrolling- the-castros-1435095016?tesla=y, ultimo accesso 3/10/2020 . Lugones P. (2020). «Estados Unidos comparó al régime de Maduro con la dictadura argentina»». In Clarín, 3/04/2020, testo disponibile a https://www.clarin.com/politica/unidos-comparo-regimen- maduro-dictadura-argentina_0_hwx2Z0CG2.html, ultimo accesso 3/10/2020.

Claver-Carone M.(2020). Transcripción de las palabras de Mauricio Claver-Carone, Presidente del Bid, 1ro de octubre del 2020, testo disponibile a http://idbdocs.iadb.org/wsdocs/getdocument.aspx?docnum=EZSHARE-2012700631-199, ultimo accesso 8/10/2020.

Osservatorio Strategico 2020– Anno XXII n. IV 61 Pacifico Matteo Dian

La Vientiane Vision e la cooperazione tra Giappone e ASEAN nell’ambito della sicurezza.

Introduzione

L’ascesa politica e militare cinese e l’uso sempre più frequente di strategie coercitive ibride1 neil Mari Cinesi Meridionale e Orientale ha indotto una serie di trasformazioni nell’ordine regionale in Asia Orientale. Le tendenze più rilevanti riguardano il rafforzamento delle alleanze bilaterali tra gli Stati Uniti e i propri partner e la transizione verso la cosiddetta “networked security architecture” (o architettura della sicurezza a network) (Dian e Meijer, 2020). Quest’ultima è caratterizzata dall’emergere di forme di collaborazione bilaterali, minilaterali e multilaterali nell’ambito della sicurezza e difesa, che costituiscono un complemento alle alleanze bilaterali costituite durante la guerra fredda2. Alcune di queste forme di cooperazione includono gli Stati Uniti e la cooperazione “triangolare” con Australia e Giappone (Hemmings, 2017, 2018; Green, 2014). Non tutte le nuove forme di cooperazione coinvolgono direttamente Washington. Negli ultimi anni sono emerse nuove iniziative bilaterali e multilaterali tra gli stati dell’Asia-Pacifico. La Vientiane Vision, promossa dal Giappone e dall’ASEAN è una delle iniziative di maggiore interesse strategico e diplomatico, per una serie di motivi. Per la prima volta nel periodo post- bellico il Giappone ha promosso una forma di cooperazione multilaterale mirata a preservare la sicurezza e la sovranità degli stati del Mare Cinese Meridionale, oltre che al rispetto del diritto internazionale e la libertà di navigazione; inoltre, con questa iniziativa Tokyo conferma la propria svolta verso una politica di sicurezza attiva e inspirata al consolidamento dell’ordine regionale; infine, l’iniziativa prevede forme di collaborazione che si rivolgono sia a singoli stati sia a l’ASEAN nel suo complesso.

La Politica di Sicurezza Giapponese e il Sud East Asiatico

Nell’ultimo decennio, l’ascesa cinese ha indotto un profondo mutamento nella politica di sicurezza giapponese. Questo mutamento si è svolto su diverse direttrici. Le prime e più note sono quelle del superamento dei vincoli istituzionali e normativi del pacifismo post-bellico (Samuels, 2007; Oros, 2017; Smith, 2019) e del rafforzamento dell’alleanza con gli Stati Uniti (Dian, 2014; Schoff, 2017). A queste due direttrici si affiancano l’investimento politico e diplomatico in meccanismi multilaterali di risoluzione delle controversie, come l’East Asia Summit (EAS), l’ASEAN Regional Forum (ARF) e l’ASEAN Defense Minister Meeting Plus (ADMM+) e la creazione di nuove forme bilaterali e multilaterali di cooperazione con partner della regione (Yawaza, 2018; Dian, 2020, Midford, 2020). Questo cambiamento ha permesso il cosiddetto “Pivot verso sud” della politica di sicurezza giapponese. In particolare, nel periodo successivo al 2008, Tokyo ha iniziato a considerare l’Asia Sud-Orientale come centrale per la propria politica estera e di difesa, in particolare in seguito alla crescente influenza cinese nella regione. Il Mare Cinese Meridionale rappresenta una linea di comunicazione marittima vitale per il Giappone, collegando il paese al Sud East Asiatico, all’India, al Medio Oriente e all’Europa.

1 A questo proposito si veda OS3 Pacifico Dian. 2 Durante la guerra fredda gli Stati Uniti hanno creato un serie di alleanze bilaterali con Giappone, Corea del Sud, Australia, Thailandia, e Filippine.

Osservatorio Strategico 2020– Anno XXII n. IV 62 Pacifico

Inoltre, paesi quali la Malesia, il Vietnam e l’Indonesia hanno acquisito un ruolo importante sia nelle catene del valore delle imprese globali sia come destinazione degli investimenti diretti esteri giapponesi. Per questo motivo, in particolare sotto la guida di Shinzo Abe3, Tokyo ha segnalato la propria volontà di presentarsi come difensore attivo dell’ordine regionale e dei suoi principi normativi fondamentali, quali la libertà di navigazione, la sovranità e il diritto internazionale, sfidati dalla strategia coercitiva cinese4. Per questo le forze di autodifesa giapponesi hanno aumentato la propria presenza e la propria visibilità nel Sud Est Asiatico. Nel 2013, la marina giapponese ha condotto la più estesa operazione all’estero del periodo post-bellico nelle Filippine (Operazione Sankai). Nel 2016, per la prima volta nel dopoguerra, un sommergibile giapponese ha visitato un porto australiano e simulato uno sbarco anfibio, durante l’esercitazione Cobra Gold. Nel 2017, la porta elicotteri Izumo5 ha svolto un tour di tre mesi nel Sud Est Asiatico, con visite a Singapore, Indonesia e Filippine. La marina giapponese ha anche partecipato, insieme alla marina degli Stati Uniti, all’esercitazione Malabar nelle edizioni del 2017 e successive (Wallace, 2018; 2019). Questi passi sono molto significativi per il Giappone, che fino ad un decennio fa, a causa dei limiti imposti dal pacifismo post-bellico, aveva ridotto al minimo le interazioni con forze armate diverse da quelle americane e aveva escluso ogni tipo di proiezione di potenza. Nonostante questi cambiamenti siano notevoli dal punto di vista giapponese, gli sforzi di Tokyo da soli non possono essere considerati sufficienti a bilanciare l’espansione dell’influenza militare cinese nella regione. Di conseguenza, il Giappone negli ultimi anni ha sempre con più decisione cercato di promuovere forme di collaborazione con gli stati dell’ASEAN sia su base multilaterale e minilaterale che bilaterale. La Vientiane Vision è probabilmente una delle iniziative più significative anche se meno discusse da analisti e studiosi.

La Vientiane Vision.

La Vientiane Vision è stata lanciata durante il secondo meeting informale tra i ministri della difesa dell’ASEAN e del Giappone, svoltosi presso Vientiane, in Laos, nel Novembre 2016. L’accordo raggiunto in quella occasione prevede tre punti essenziali. (1) Il Giappone si impegna a sostenere i paesi dell’ASEAN nel loro impegno a preservare i principi del diritto internazionale, con particolare attenzione al diritto marittimo e della navigazione (includendo spazio aereo e marittimo). (2) Al fine di mantenere e consolidare la sicurezza marittima nella regione il Giappone si impegna ad aiutare i paesi dell’ASEAN nei loro programmi di rafforzamento delle capacità nel settore Intelligence, Sorveglianza e Ricognizione (Intelligence, Surveillance and Reconnaissance, ISR) e Search and Rescue in mare e nello spazio aereo (SAR). (3) Al fine di affrontare sfide alla sicurezza sempre più diversificate e complesse il Giappone aiuterà i paesi dell’ASEAN ad ampliare e modernizzare le proprie capacità militari in diversi settori, in particolare sicurezza marittima, cybersecurity, missioni di pace, assistenza umanitaria e disaster relief, pianificazione e organizzazione di esercitazioni, scambio di informazioni e buone pratiche tra leader militari (Japanese Ministry of Defense, 2016). La Vientiane Vision ha anche portato al consolidamento di nuovi fora di cooperazione quali il Japan–ASEAN Defence Vice-Ministerial Forum, e i meeting bilaterali 2+2 con i ministri degli esteri

3 Shinzo Abe ha occupato la carica di Primo Ministro per pochi mesi nel 2007. E’ poi tornato alla guida del paese dal 2012 fino al settembre 2020. Al momento in cui di scrive Abe è ancora in carica pro tempore, in attesa che il Jimintō, (o partito Liberal Democratico giapponese), scelga un successore. 4 Su questo punto si veda Dian OS3 5 La Izumo può essere considerata equivalente ad una porta-aerei, in particolare dopo l’adozione dei caccia F-35B.

Osservatorio Strategico 2020 – Anno XXII n. IV 63 La Vientiane Vision e la cooperazione tra Giappone e ASEAN nell’ambito della sicurezza e della difesa di Indonesia e Vietnam. Inoltre, sono stati firmati accordi di collaborazione e scambio di informazioni con Singapore, Vietnam, Cambogia, Filippine e Indonesia.

Vientiane Vision 2.0

Nel 2019, il Ministro della Difesa giapponese, Taro Kono, ha annunciato un rilancio di questa iniziativa attraverso la Vientiane Vision 2.0 (Japanese Ministry of Defense, 2019). I punti fondamentali della seconda versione dell’iniziativa sono il bilancio delle iniziative prese nei primi tre anni, l’adattamento delle Vientiane Vision al concetto di Free and Open Indo Pacific, adottato come linea guida sia dal Giappone sia dagli Stati Uniti negli ultimi anni, e l’introduzione di nuovi principi di cooperazione nell’ambito della difesa. L'analisi del triennio precedente ha messo in rilievo una serie di passi importanti nell’ambito della cooperazione tra Tokyo e i paesi dell’ASEAN. In particolare, lo Ship Rider Cooperation Program; il HA/DR (humanitarian assistance/disaster relief) Invitation Program e il Professional Airmanship Program, ovvero iniziative basate su programmi di addestramento multilaterale ed esercitazioni congiunte nell’ambito della sicurezza marittima, dell’ISR e del disaster relief. Sul piano bilaterale Tokyo ha contribuito attraverso trasferimenti di tecnologia diretti in particolare agli stati coinvolti in dispute territoriali con la Cina, quali Vietnam, Filippine e Malesia. Tokyo ha venduto e trasferito una serie di asset navali e aerei, tra i quali pattugliatori per la guardia costiera e aerei da ricognizione. Tra questi spiccano dieci navi da ricognizione e cinque aerei TC- 90, donati alle Filippine, oltre all’interesse di Vietnam e Malesia per l’areo da ricognizione P3-C (Maslow e Sakaki 2020). Questi trasferimenti di tecnologia sono particolarmente significativi perché fino al 2010 il Giappone manteneva in vigore il divieto di esportare tecnologia militare, stabilito dai Tre Principi di Esportazione degli Armamenti. Questi principi, originariamente adottati nel 1967, proibivano l’esportazione di armamenti a stati potenzialmente coinvolti in conflitti, appartenenti al blocco comunista, o sotto embargo delle Nazioni Unite. Questo divieto è stato ulteriormente ristretto nel 1976 con un divieto totale di esportazione di tecnologia militare. Nel 2010, il governo giapponese è tornato alla versione originale del 1967 e nel 2014 ha approvato i “Tre Principi di Trasferimento di Tecnologia Militare ed Equipaggiamento per la Difesa” che hanno permesso di trasferire tecnologie a nazioni partner (Bradford, 2020) Più in generale il Ministero della Difesa giapponese ha espresso la propria soddisfazione per aver contribuito al miglioramento della capacità dei singoli stati, e dell’ASEAN in generale nel settore della sicurezza marittima e dell’ISR. Viene inoltre sottolineato come la centralità dell’ASEAN sia un fattore di stabilità per l’ordine regionale. Implicitamente, ciò rappresenta una critica verso i tentativi cinesi di promuovere una strategia di divide et impera nei confronti degli stati del Sud East Asiatico. Il secondo punto centrale per il rilancio delle Vientiane Vision riguarda la connessione con il concetto strategico di Free and Open Indo-Pacific. Questo concetto, recentemente adottato dall’Amministrazione Trump, ma presente nella narrativa strategica giapponese da anni, è basato su alcuni punti fondamentali. Il primo è una concezione ampia della geografia della regione, che si estende dall’India al Pacifico. Il secondo è quello della centralità di norme e valori quali libertà di navigazione, diritto internazionale e risoluzione pacifica delle controversie. L’idea di Free and Open Indo-Pacific rafforza quindi la visione, già presente nella Vientiane Vision della centralità del diritto, in particolare del diritto del mare, e del multilateralismo, in opposizione alle strategie coercitive adattate da Pechino, nel Mare Cinese Meridionale e oltre (Koga, 2019; Satake, 2019) L’ultimo elemento della versione 2.0 della Vientiane Vision sono i tre principi di cooperazione. Il primo riguarda la cooperazione mirata al mantenimento della centralità dell’ASEAN e dei suoi valori, in particolare sovranità e multilateralismo. Il secondo riguarda la

Osservatorio Strategico 2020 – Anno XXII n. IV 64 Pacifico cosidetta “tailored cooperation” (o cooperazione su misura). Questo principio riflette la necessità di affrontare le sfide contemporanee alla sicurezza con un’ampia gamma di contributi, misurati sulle capacità di ogni stato. In particolare, per contrastare le attività coercitive ibride è necessario l’impiego sia di strumenti altamente sofisticati dal punto di vista tecnologico (da satelliti, e capacità ISR avanzate), sia attività meno avanzate tecnologicamente ma che richiedono attenzione, conoscenza del territorio e sforzi costanti, quali la sorveglianza attiva e diretta di isole e atolli contesi. Il terzo principio prevede uno sforzo per aumentare l’integrazione e l’interoperabilità, per evitare la duplicazione degli sforzi e sotto-utilizzo di risorse. Per mettere in pratica questi obiettivi Giappone e ASEAN si impegnano ad incrementare la frequenza delle esercitazioni congiunte, delle attività di formazione del personale, ad aumentare i programmi di cooperazione tecnologica a livello di industria della difesa o di acquisizione o trasferimento di equipaggiamento.

Conclusione.

La Vientiane Vision testimonia come il Giappone si presenti sempre più concretamente come un difensore attivo dell’ordine regionale nell’Asia-Pacifico. Questo attivismo in particolare si manifesta all’interno di una architettura della sicurezza “a network”, nella quale le tradizionali alleanze bilaterali “hub and spoke” con gli Stati Uniti vengono integrate da altre forme di cooperazione bilaterali, mini-laterali o multilaterali. Il significato politico e strategico della Vientiane Vision riguarda anche il tipo di sfide alla quale essa cerca di rispondere. Né il Giappone né gli stati dell’ASEAN hanno le capacità militari per fronteggiare l’ascesa cinese in caso di conflitto aperto, per quanto tale eventualità risulti molto improbabile. Al contrario la coercizione nella zona grigia viene utilizzata costantemente nella regione, in particolare dalla Cina nel Mare Cinese Meridionale6. Per questo forme di cooperazione disegnate a tale proposito sono urgenti e necessarie. Il contrasto a strategie coercitive incrementali richiede, oltre all’uso di alta tecnologia e capacità “high end”, un’attività paziente e capillare di ISR, che in un’area complessa come quella del Mare Cinese Meridionale richiede alti livelli di cooperazione tra tutti gli stati della regione.

Bibliografia

Bradford, J. F. (2020). Japanese naval activities in Southeast Asian waters: building on 50 years of maritime security capacity building. Asian Security, On line first, 1-26.

Dian, M. (2020). Japan, South Korea, and the emergence of a Networked Security Architecture”, International Politics, 57: 185-20

Dian, M., & Meijer, H. (2020). Networking hegemony: alliance dynamics in East Asia. International Politics, 57: 131-149.

Green, M.J. (2014). Strategic asian triangles. In: Pekkanen, S. M., Ravenhill, J., & Foot, R., a cura di, Oxford handbook of the international relations of Asia. Oxford University Press, USA.

6 Su questo punto si veda Dian OS3

Osservatorio Strategico 2020 – Anno XXII n. IV 65 La Vientiane Vision e la cooperazione tra Giappone e ASEAN nell’ambito della sicurezza

Hemmings, J. (2017). Quasi-alliances, managing the rise of China, and domestic politics: the US- Japan-Australia trilateral 1991-2015 (Doctoral dissertation, The London School of Economics and Political Science (LSE)).

Hemmings, J. C. (2018). The US-Japan-Australia Trilateral Against the Backdrop of US Grand Strategy. In: Clementi, M., Dian, M. Pisciotta, B., a cura di, US Foreign Policy in a Challenging World. London: Springer.

Koga, K. (2019). Japan’s “Free and Open Indo-Pacific” Strategy. Contemporary Southeast Asia, 41: 286-313.

Japanese Ministry of Defense (2016). Vientiane Vision: Japan’s Defense Cooperation Initiative with ASEAN https://www.mod.go.jp/e/press/2016/11/161116_1.pdf Ultimo accesso 12 Settembre 2020.

Midford, P. (2020). Overcoming Isolationism: Japan’s Leadership in East Asian Security Multilateralism. Standford: Stanford University Press.

Oros, A.L. (2017). Japan’s Security Renaissance: New Policies and Politics for the Twenty-First Century. New York: Columbia University Press.

Sakaki, A. e Maslow, S. (2020). Japan’s new arms export policies: strategic aspirations and domestic constraints. Australian Journal of International Affairs, On line first 1-21.

Samuels, R.J. 2007. Securing Japan: Tokyo’s grand strategy and the future of East Asia. Ithaca, NY: Cornell University Press.

Satake, T. (2019). Japan's" Free and Open Indo-Pacific Strategy" and Its Implication for ASEAN. Southeast Asian Affairs, 2019 :69-82.

Schoff, J.L. 2017. Uncommon Alliance for the Common Good. US–Japan Alliance After the Cold War. Washington DC: Carnegie Endowment for International Peace.

Smith, S. A. (2019). Japan rearmed: The politics of military power. Cambridge: Harvard University Press.

Wallace, C. (2018). Leaving (north-east) Asia? Japan's southern strategy. International Affairs, 94: 883-904.

Wallace, C. (2019). Japan’s strategic contrast: continuing influence despite relative power decline in Southeast Asia. The Pacific Review, 32: 863-897.

Yuzawa, T. (2018). From a decentering to recentering imperative: Japan's approach to Asian security multilateralism. The Pacific Review, 31: 460-479.

Osservatorio Strategico 2020 – Anno XXII n. IV 66

Osservatorio Strategico

Parte seconda

Euro/Atlantica (USA-NATO-Partners) Gianluca Pastori

Le iniziative statunitensi nel campo delle armi ipersoniche e dei relativi sistemi di contrasto: un punto sulla situazione attuale e sui suoi possibili sviluppi

Nelle scorse settimane, il Presidente Trump ha ripetutamente accennato al possesso, da parte degli Stati Uniti, di una nuova “superarma” (la c.d. “super duper”). Queste dichiarazioni hanno alimentato – nella stampa e fra gli “addetti ai lavori” – una ridda di speculazioni che hanno avuto come oggetto, in particolare, quello che appare il crescente dinamismo di Washington nel campo delle armi ipersoniche. Fra l’altro, a metà di luglio, il Dipartimento della Difesa (DoD) ha confermato (con riferimento a precedenti dichiarazioni del Presidente) di avere testato «con successo», nel mese di marzo, il c.d. Common Hypersonic Glide Body (C-HGB), struttura destinata a essere la base dei futuri “alianti ipersonici” (HGVs - Hypersonic Glide Veihicles) dell’Esercito e della Marina statunitensi (Browne e Starr, 2020; sul test di marzo cfr. Judson, 2020a). Il Pentagono ha inoltre annunciato di avere in programma altri test per lo sviluppo di quella che è stata pensata come la piattaforma comune a partire dalla quale i due servizi svilupperanno – in un secondo momento e in maniera autonoma – i rispettivi lanciatori. Le Forze Armate statunitensi, infatti, hanno in cantiere da vari anni programmi relativi allo sviluppo di una prima generazione di armi ipersoniche anche se – sempre secondo il Pentagono – questi programmi hanno sperimentato una rapida accelerazione negli ultimi tempi, alla luce delle evoluzioni sperimentate dalla tecnologia e, soprattutto, in risposta all’attivismo di Mosca e Pechino, che nei mesi passati avrebbero già avviato il dispiegamento “sul campo” dei loro nuovi sistemi d’arma. Anche alla luce delle mosse russe e cinesi il settore delle armi ipersoniche sembra, quindi, essere diventato uno dei nuovi grandi terreni di sfida per i principali players internazionali, con potenziali rischi di escalation che sono stati messi in evidenza da alcuni osservatori (Speier, 2018; Pronk, 2020) e che hanno sollevato l’attenzione anche della Nazioni Unite (Hypersonic Weapons, 2019). I vantaggi tattici che le armi ipersoniche offrono sono diversi, primo fra tutti la difficoltà con cui – per velocità, manovrabilità e caratteristiche della traiettoria di volo – esse possono essere intercettate dai “normali” sistemi antimissile balistico. HGVs e HCMs (Hypersonic Cruise Missiles, i missili da crociera ipersonici) possono, inoltre, essere equipaggiati con testate nucleari, come nel caso del sistema russo Avangard (la cui operatività è stata annunciata alla fine del 2019) o quello cinese DF-ZF, presentato lo scorso anno, durante la parata militare che ha accompagnato le celebrazioni per il settantesimo anniversario della Repubblica Popolare. Altri Paesi – fra i quali India, Australia, Giappone, Israele, Francia, Germania e Gran Bretagna – si sono dotati di capacità ipersoniche o hanno avviato (sia attraverso programmi autonomi, sia congiuntamente e – in alcuni casi – in collaborazione con uno dei major players) programmi per lo sviluppo di armi ipersoniche. La tendenza di tutti gli attori principali, inoltre sembra, essere quella di sviluppare sistemi per l’impiego a terra, su piattaforme navali e aviolanciati, con un approccio non diverso da quello che ha portato alla nascita della tradizionale “triade” nucleare. Un altro terreno di confronto è quello dello sviluppo di una nuova generazione di strumenti di contrasto, sia a livello ISTAR (Intelligence, Surveillance, Target Acquisition, Reconnaissance), sia di eliminazione fisica delle minacce, con strumenti cinetici o – in futuro – a energia diretta. In questo campo, gli Stati Uniti sembrano il Paese che si è mosso in maniera più organica, con una serie di progetti di varia natura, sebbene anche la Russia abbia annunciato che presto sarà dotata di una sua capacità contro-ipersonica. Significativamente, Washington ha recentemente ribadito di

Osservatorio Strategico 2020– Anno XXII n. IV 68 Euro/Atlantica (USA-NATO-Partners) considerare il contrasto allo sviluppo di un’adeguata capacità ipersonica e il contrasto a questo tipo di minaccia una delle sue principali priorità (Moon Cronk, 2020), mentre osservatori esterni hanno rilevato come – allo stato attuale della tecnologia e dei fondi disponibili – il contrasto alla minaccia ipersonica stia diventando «la principale sfida militare dell’era Trump» (Thompson, 2020). Lo scenario appare, quindi, ancora fluido. Secondo le previsioni, i primi sistemi contro-ipersonici statunitensi non potranno essere operativi prima del 2025. Inoltre, se da un lato lo sviluppo delle armi ipersoniche è visto come un possibile game changer, dall’altro non mancano i dubbi riguardo alla loro concreta dottrina di impiego. Fra l’altro, l’impiego di armi ipersoniche – HGV e HCM – dotate di testate convenzionali richiede di raggiungere di livelli di precisione molto maggiori rispetto a quelli richiesti per l’impiego con testate nucleari, cosa che – a sua volta – condiziona le loro caratteristiche tecniche e i tempi di realizzazione. La ragione dell’attuale ritardo rispetto a Russia e Cina risiede in parte proprio nella scelta di Washington di puntare su armi a testata convenzionale, in parte in quella di sviluppare, in parallelo alla propria capacità ipersonica, un’adeguata capacità contro-ipersonica. Tuttavia, da alcune parti, è stata invocata, negli ultimi tempi, una svolta in senso dual use convenzionale/nucleare, in grado di consolidare il potere di deterrenza del Paese attraverso il ricorso a testate di potenza limitata (low yeld) (Cummings, 2020). L’idea di fondo appare quella di sostituire alla deterrenza basata sul ricorso a missili balistici “tradizionali” (che stanno raggiungendo i loro limiti strutturali, soprattutto in termini di capacità stealth) una basata sull’impiego dei nuovi vettori ipersonici dotati di testate a potenziale ridotto, così da rendere più credibile l’eventuale minaccia di impiego. Non ci sono – al momento – conferme di una possibile adozione di dottrina di questo tipo. L’obiettivo del DoD resta comunque quello di schierare i primi assetti ipersonici entro l’anno fiscale 2023. Questo significa – secondo il Pentagono – la necessità di imporre ai programmi oggi in corso quella che è stata definita una «drammatica accelerazione» (Judson, 2020b); fra l’altro, già dalla scorsa primavera, l’USAF e la Defense Advanced Research Projects Agency sembrano avere impresso una simile accelerazione al loro programma Hypersonic Air-breathing Weapon Concept (HAWC), finalizzato all’acquisizione, da parte dell’Aeronautica degli Stati Uniti, di un nuovo modello HCM aviolanciato basato sulla tecnologia scramjet (Insinna, 2020).

Bibliografia

Browne, R. e Starr, B. (2020), Pentagon reveals some details of Trump's 'super duper' hypersonic missile, “CNN”, 16 luglio. Testo disponibile al sito: https://edition.cnn.com/2020/07/16/politics/pentagon-hypersonic-missile/index.html [data di consultazione: 29 settembre 2020].

Cummings, A. (2020). High Speed, Low-Yield: A U.S. Dual-Use Hypersonic Weapon, “War on the Rocks”, 17 settembre. Testo disponibile al sito: https://warontherocks.com/2020/09/high-speed- low-yield-a-u-s-dual-use-hypersonic-weapon/ [data di consultazione: 29 settembre 2020].

Hypersonic Weapons (2019): A Challenge and Opportunity for Strategic Arms Control. A Study Prepared on the Recommendation of the Secretary-General’s Advisory Board on Disarmament Matters, United Nations Office for Disarmament Affairs - United Nations Institute for Disarmament Research, New York.

Insinna, V. (2020). Two hypersonic weapons complete new developmental milestone, “Defense News”, 1° settembre. Testo disponibile al sito: https://www.defensenews.com/air/2020/09/01/two-

Osservatorio Strategico 2020– Anno XXII n. IV 69 Le iniziative statunitensi nel campo delle armi ipersoniche e dei relativi sistemi di contrasto: un punto sulla situazione attuale e sui suoi possibili sviluppi hypersonic-weapons-just-completed-a-new-milestone-in-development [data di consultazione: 29 settembre 2020].

Judson, J. (2020a). Pentagon’s major hypersonic glide body flight test deemed success, “Defense News”, 20 marzo. Testo disponibile al sito: https://www.defensenews.com/smr/army- modernization/2020/03/20/pentagons-major-hypersonic-glide-body-flight-test-deemed-success [data di consultazione: 29 settembre 2020].

Judson, J. (2020b). How the DoD plans to meet its ambitious hypersonic missile test schedule, “Defense News”, 5 agosto. Testo disponibile al sito: https://www.defensenews.com/digital-show- dailies/smd/2020/08/05/heres-how-the-dod-plans-to-meet-its-ambitious-hypersonic-missile-test- schedule [data di consultazione: 29 settembre 2020].

Moon Cronk, T. (2020). Hypersonics, Counter-Hypersonics Are a Top Priority, U.S. Department of Defense, Washington, DC, 24 luglio. Testo disponibile al sito: https://www.defense.gov/Explore/News/Article/Article/2287913/hypersonics-counter-hypersonics- are-a-top-priority [data di consultazione: 29 settembre 2020].

Pronk, D. (2020). Xerxes’ New Arrows? The Proliferation Risks of Hypersonic Missiles, Clingendael - the Netherlands Institute of International Relations, The Hague. Testo disponibile al sito: https://www.clingendael.org/sites/default/files/2020- 03/Alert_Xerxes_New_Arrows_Proliferation_Risks_Hypersonic_Missiles_March_2020.pdf [data di consultazione: 29 settembre 2020].

Speier, R.H. (2018). Hypersonic Missiles: A New Proliferation Challenge, RAND, Santa Monica, CA. Testo disponibile al sito: https://www.rand.org/blog/2018/03/hypersonic-missiles-a-new- proliferation-challenge.html [data di consultazione: 29 settembre 2020].

Thompson, L. (2020). Defense Against Hypersonic Attack Is Becoming The Biggest Military Challenge Of The Trump Era, “Forbes”, 30 luglio. Testo disponibile al sito: https://www.forbes.com/sites/lorenthompson/2019/07/30/defense-against-hypersonic-attack-is- becoming-the-biggest-military-challenge-of-the-trump-era [data di consultazione: 29 settembre 2020].

Osservatorio Strategico 2020– Anno XXII n. IV 70 Iniziative di Difesa Europee e sviluppo tecnologico Claudio Catalano

Brexit: un aggiornamento su negoziati e cooperazione nella difesa

Sebbene l’attenzione generale sia rivolta ad altre situazioni come il Covid-19, la Brexit, il processo di uscita del Regno Unito dall’Unione Europea (UE), è in pieno svolgimento. Sono in corso i negoziati tra UE e Regno Unito per un eventuale accordo commerciale, che regoli le relazioni tra i due soggetti quando il Withdrawal Agreement (WA) del novembre 2019,1 che attualmente regola la prima fase di uscita del Regno Unito dall’UE, scadrà il 31 dicembre 2020. L’emergenza Covid-19, che ha fortemente colpito il Regno Unito, non ha giovato al progredire dei negoziati, condotti per quanto riguarda l’UE da Michel Barnier, già caponegoziatore per la Brexit e dal novembre 2019 responsabile per la Task Force per le relazioni con il Regno Unito. Barnier si è detto più volte poco convinto di una riuscita positiva dei negoziati per l’accordo commerciale. Al contrario, il negoziatore britannico David Frost vede come “più che possibile” la conclusione dell’accordo, in base a risultati “relativamente positivi” dei negoziati informali. Rimangono da trovare soluzioni sui diritti di pesca europei nelle acque britanniche e i criteri di parità di condizioni tra imprese UE e britanniche, soprattutto in materia di aiuti di Stato (Brunsden, Payne, 2020). La situazione dell’Irlanda del Nord continua ad essere uno dei principali ostacoli all’accordo finale sulla Brexit. Il 14 settembre 2020, Il primo ministro Boris Johnson ha fatto votare in prima lettura l’“Internal Market Bill”, approvato con una maggioranza di 340 voti contro 263. Il disegno di legge dovrebbe assicurare il mantenimento senza soluzione di continuità degli scambi di beni tra l’Irlanda del Nord e il resto del Regno unito in caso di “no deal”, uscita dall’UE senza accordo. Tuttavia, secondo l’opposizione, il disegno di legge è in contrasto con alcune disposizioni del WA, mentre al contrario, per il governo occorre limitare l’interpretazione estensiva che l’UE potrebbe dare del protocollo 2 sull’Irlanda del Nord (BBC, 2020). Per quanto riguarda la cooperazione nella difesa, il Regno Unito è uscito dalla Politica Comune di Sicurezza e Difesa (PCSD), garantendo nel periodo regolato dal WA la validità delle direttive sugli appalti della stessa (direttiva 2009/81/CE) e sui suoi trasferimenti di materiali (direttiva 2009/43/CE). Ciò in attesa di decidere se confermare la direttiva 2009/43/EC sui trasferimenti, che in base al protocollo 2 art.5.4 del WA continuerà ad applicarsi sempre tra Regno Unito e Irlanda del Nord. La direttiva 2009/81/EC sugli appalti si applicherà fino al 31 dicembre 2020 anche per le situazioni pendenti (art.76.b WA). La direttiva 2009/81/EC sulle concessioni è alla base della normativa britannica sugli appalti della difesa e sicurezza del 2011 (Defence and Security Public Contracts Regulations: DSPCR).2 Ad inizio 2019, il DPSCR ha subito delle piccole modifiche dal Parlamento britannico in previsione della Brexit (Grand Comittee, 2019) con “The Defence and Security Public Contracts (Amendment) (EU Exit) Regulations 2019”,3 che ha emendato il regolamento numero 6 inserendo l’eccezione operata dell’Articolo 346 TFUE per

1 Agreement on the withdrawal of the United Kingdom of Great Britain and Northern Ireland from the European Union and the European Atomic Energy Community (2019/C 384 I/01) https://eur-lex.europa.eu/legal- content/EN/TXT/PDF/?uri=OJ:C:2019:384I:FULL&from=EN 2 Il DSPCR è stato emanato nel 2011 proprio per recepire nell’ordinamento britannico la direttiva 2009/81/CE https://www.gov.uk/government/publications/the-european-union-defence-and-security-public-contracts-regulations- dspcr-2011 3 Draft Statutory Instruments 2019 No. Exiting the European Union, Public Procurement The Defence and Security Public Contracts (Amendment) (EU Exit) Regulations 2019 https://www.legislation.gov.uk/ukdsi/2019/9780111176764

Osservatorio Strategico 2020– Anno XXII n. IV 71 Iniziative Europee di Difesa e sviluppo tecnologico garantire che il DSPCR possa essere disapplicato per assicurare gli interessi essenziali britannici legati alla sicurezza nazionale: Le regole (del "diritto comunitario recepito specificato" come l’art. 346 TFUE): b) non sono d’ostacolo a che il Regno Unito adotti le misure che ritiene necessarie per la tutela degli interessi essenziali della sua sicurezza che sono connessi con la produzione o il commercio di armi, munizioni e materiale bellico, a condizione che tali misure non esercitino un’influenza negativa sulla concorrenza che riguarda i prodotti non destinati a scopi specificamente militari.4 Tuttavia, i sostenitori della Brexit senza accordo ritengono necessario abolire o modificare pesantemente il regolamento per asserire l’interesse nazionale nelle acquisizioni della difesa britannica, soprattutto per gli appalti legati alla sua nuova legge navale. La cooperazione militare con gli Stati europei rientrerà principalmente nel quadro NATO, anche se si stanno esplorando soluzioni trilaterali, come E3 tra Francia Germania e Regno Unito. Il formato E3 è ispirato alla base del format utilizzato nei negoziati con l’Iran per il Joint Comprehensive Plan of Action (JCPOA) (Billon-Galland, Raines Whitman: 2020). Al fine di istituzionalizzare tale formato, il ministro della difesa tedesca, Annegret Kramp- Karrenbauer ha invitato gli omologhi francese, Florence Parly, e britannico, Wallace, per il primo incontro informale dei ministri della difesa nel formato E3 nella Saarland il 20 e 21 agosto 2020.5 I limiti dell’E3 sono nell’esclusione degli Stati Uniti, in attesa delle nuove elezioni presidenziali americane di novembre 2020, e di due Stati Membri UE importanti nella cooperazione con il Regno Unito nella difesa, come l’Italia, che ha una base industriale e tecnologica della difesa integrata con il Regno Unito, e la Polonia, cui il Regno Unito assicura la protezione da eventuali aggressioni russe. Ricordiamo anche che nel gruppo di contatto con l’Iran era coinvolta anche l’Italia e che non si sarebbero ottenuti risultati senza l’impegno dell’amministrazione Obama, così come gli europei non sono riusciti ad evitare la denuncia del JPCOA da parte dell’amministrazione Trump. Andando più indietro nel tempo, nei primi anni 2004-2005, durante l’intervento in Iraq e i negoziati per la Costituzione europea, i tentativi del presidente francese Chirac e del cancelliere Schroeder di formare un E3 con il primo ministro Blair e disgiungerlo dal presidente Bush sono falliti. Anche il formato “Normandie” di Francia e Germania non ha ottenuto alcun risultato: l’E3 non è riuscito ad ottenere un cessate il fuoco in Ucraina. Infine, ricordiamo che il Trattato di Lancaster House del 2010, per la cooperazione nella difesa tra Regno Unito e Francia, ha prodotto ben pochi frutti. Per il Regno Unito, la cooperazione nella difesa non può prescindere dalla cooperazione con gli Stati Uniti, a prescindere dall’amministrazione in carica, né dalla Francia e dalla Germania, ma tantomeno da Italia, Spagna e Polonia. Quindi, non può di fatto prescindere dalla normale cooperazione nel quadro NATO, per cui è inutile oltre che dannoso creare altri formati minori rispetto alla NATO, seppure includendo nell’E3 Italia, Spagna e Polonia come proposta alternativa (Billon-Galland et alii 2020: 12). Il 29 settembre inizia il nono e ultimo round negoziale tra UE e Regno Unito, il primo round del post-Brexit si è svolto a marzo 2020. Nel caso in cui il round negoziale risolva le questioni rimaste sul tavolo, il negoziato finale, soprannominato il “tunnel” o negoziato “sottomarino” (NDR in immersione) inizierà la settimana del 4 ottobre 2020 e condurrà al Consiglio Europeo del 15 e 16 ottobre 2020, nel quale i capi di Stato e di governo dell’UE, sotto la presidenza semestrale del cancelliere tedesco, Angela Merkel, dovranno valutare lo stato dei negoziati UE-Regno Unito

4 Ibidem, “Exit-related amendments of the Defence and Security Public Contracts Regulations 2011” 5 First Meeting of Defence Ministers of E3 Countries, Ministero difesa Tedesco, 18 agosto 2020

Osservatorio Strategico 2020– Anno XXII n. IV 72 Brexit: un aggiornamento su negoziati e cooperazione nella difesa

(Brunsden, Payne, 2020) ed eventualmente prendere la decisione finale sugli accordi, qualora siano conclusi, ovvero decidere come procedere in caso di un loro mancato raggiungimento.

Bibliografia

BBC (2020) Brexit: Internal Market Bill clears first hurdle in Commons. BBC online, 15 settembre 2020

Billon-Galland Alice, Raines Thomas, Whitman Richard G. (2020) The Future of the E3 Post-Brexit Cooperation Between the UK, France and Germany. Research Paper, Chatham House, luglio 2020

Brunsden Jim, Payne Sebastian(2020). Brexit team in race against time as trade talks enter the final straight. Financial Times 28 settembre 2020

Grand Committee (2019). Defence and Security Public Contracts (Amendment) (EU Exit) Regulations 2019. House of Lords Hansard Volume 795, 4 febbraio 2019 https://hansard.parliament.uk/lords/2019-02-04/debates/7753A3F6-9F6F-4A77-9CCA- 672726ED24AA/DefenceAndSecurityPublicContracts(Amendment)(EUExit)Regulations2019

Osservatorio Strategico 2020– Anno XXII n. IV 73 Balcani e Mar Nero Matteo Bressan

Il vertice alla Casa Bianca tra Serbia e Kossovo

Lo scorso 4 settembre, si è tenuto alla Casa Bianca l’atteso vertice, fortemente voluto dall’amministrazione Trump e il suo inviato speciale, Richard Grennell, che avrebbe dovuto rappresentare una svolta significativa nei rapporti tra la Serbia e il Kossovo. Rispetto alle premesse e all’ipotesi a lungo circolata di scambio di territori, la firma dell’intesa per la normalizzazione delle relazioni economiche tra Belgrado e Pristina è apparsa come una soluzione di ripiego a quello che avrebbe potuto essere il vertice del 27 giugno, saltato all’ultimo per l’incriminazione del Presidente Hashim Thaçi1. Il documento finale contiene pochi punti capaci di apportare benefici ai due paesi balcanici e, al contrario, conferma alcuni impegni centrali dell’amministrazione Trump: il riconoscimento, attraverso le sedi diplomatiche di Gerusalemme come capitale dello stato di Israele, l’inserimento degli Hezbollah nell’elenco delle organizzazioni terroristiche2, l’impegno dei due paesi a non dotarsi di tecnologia 5G da parte di “fornitori non affidabili”, vedasi Cina, e a smantellare eventuali installazioni già presenti. L’accordo di normalizzazione, secondo quanto evidenziato dal Begin Sadat Center for Strategic Studies, è arrivato pochi giorni dopo l’accordo tra Israele e ed Emirati Arabi Uniti ed ha preceduto di qualche settimana l’accordo tra Israele e Bahrein. Solennemente sanciti il 15 settembre alla Casa Bianca, gli Accordi di Abramo sembrano delineare nuovi assetti per il Medio Oriente, andando a comporre la contrapposizione tra Israele e stati arabi e prefigurando un fronte arabo – israeliano in chiave anti – iraniana3. I punti prettamente attinenti ai rapporti tra Serbia e Kosovo, presenti nel documento finale, peraltro firmato separatamente dal Presidente Vučić e dal Premier Hoti prevedono: - il completamento di alcuni progetti infrastrutturali; - l’assistenza delle statunitensi International Development Finance Corporation ed Export-Import Bank nella realizzazione dei progetti infrastrutturali; - l’impegno dei due paesi all’adesione alla mini – Schengen, area di libero scambio tra Albania, Nord Macedonia e Serbia; - l’impegno al riconoscimento reciproco dei diplomi e dei certificati professionali; - il Kosovo per un anno non farà domande per entrare nelle organizzazioni internazionali e la Serbia interromperà la campagna per far ritirare il riconoscimento del Kosovo; - uno studio di fattibilità sulla condivisione del lago artificiale di Gazivode/Ujmani, importante riserva idrica ed energetica nel nord del Kosovo a cui la Serbia vorrebbe accedere; Particolarmente svantaggiosa per Pristina è la moratoria di un anno sul riconoscimento internazionale del Kossovo. Questa è infatti da considerarsi una notevole concessione da parte di un presunto stato sovrano, poiché così facendo il Kossovo ha in effetti accettato la richiesta della Serbia di cessare di impegnarsi in uno dei mezzi principali con cui può consolidare il suo status internazionale. Questa scelta farà ben poco per convincere coloro che devono ancora riconoscere il Kosovo come indipendente a ripensare la loro posizione. Al contrario, l’impegno della Serbia a

1 D’Urso D., L’Europa può beneficiare dalla photo opportunity tra Serbia e Kosovo alla Casa Bianca, Affari Internazionali, 7/09/2020 https://www.affarinternazionali.it/2020/09/leuropa-puo-beneficiare-dalla-surreale-photo- opportunity-tra-serbia-e-kosovo-alla-casa-bianca/ 2 L’Unione Europea a differenza degli Stati Uniti considera l’ala militare degli Hezbollah come un’organizzazione terroristica, operando di fatto un distinguo con la componente politica. La condivisione della posizione statunitense circa l’inquadramento degli Hezbollah da parte della Serbia e del Kossovo è in difformità con il Capitolo 31 del corpo della legislazione europea che, in materia di Politica estera, difesa e sicurezza, prevede un allineamento per i paesi candidati all’ingresso nell’Unione Europea. 3 Cohen E. Musmar F., The Serbia-Kosovo Agreement Is a Result of the Israel-UAE Agreement, BESA, 16/09/2020 https://besacenter.org/perspectives-papers/serbia-kosovo-israel-uae/

Osservatorio Strategico 2020– Anno XXII n. IV 74 Balcani e Mar Nero interrompere la campagna per convincere altri stati a revocare il riconoscimento del Kosovo non può esser verificato da terzi. Belgrado probabilmente eviterà di violare questo impegno in maniera plateale, ma non è possibile escludere azioni tese a proseguire questa politica, condotte dietro le quinte. Più controversa sia per il Kossovo che la Serbia è la questione dello spostamento delle sedi diplomatiche a Gerusalemme. Quello che emerge è che lo spostamento delle ambasciate a Gerusalemme è contrario alla posizione dell’Unione Europea, tanto è vero che un portavoce dell’Unione ha dichiarato che qualsiasi azione diplomatica che possa mettere in discussione la posizione comune dell’Unione Europea su Gerusalemme, è considerata motivo di grave preoccupazione e rammarico. L'unico chiaro vantaggio per il Kosovo è il riconoscimento da parte di Israele, ma ciò comporta una serie di conseguenze. È altamente improbabile che la decisione di Israele possa catalizzare una raffica di nuovi riconoscimenti e potrebbe, di fatto, avere l'effetto opposto. Lo spostamento dell’ambasciata, oltre ad andare nella direzione opposta dell’Unione Europea, potrebbe creare tensioni con alcuni alleati del Kossovo e, la Turchia, ha già espresso il suo sgomento, avvertendo che una tale mossa impedirà al Kosovo di essere riconosciuto da altri stati in futuro. Il riconoscimento del Kosovo da parte di Israele ha peraltro subito fatto trapelare evidenti criticità da parte della Serbia, tanto che The Jerusalem Post riportava l’indiscrezione proveniente dall’ufficio presidenziale serbo, secondo la quale nel caso in cui Israele avesse riconosciuto il Kossovo come stato indipendente, la Serbia non avrebbe spostato la sua ambasciata a Gerusalemme4. Un simile riconoscimento verso il Kossovo avrebbe la stessa valenza di un riconoscimento unilaterale dell’indipendenza della Palestina5. Sulla base dei punti del documento, soprattutto alla luce della scadenza elettorale delle elezioni statunitensi, è difficile che il vertice della Casa Bianca possa avere una portata storica sulle relazioni tra Serbia e Kossovo. Majda Ruge, analista dell’European Council on Foreign Relations, su Politico.eu ha spiegato che lo scopo del summit alla Casa Bianca non era quello di far avanzare il dialogo tra i due paesi ma di rafforzare la campagna elettorale di Donald Trump. Inoltre, nonostante gli sforzi politici, l'ambasciatore statunitense Richard Grenell non è riuscito a convincere le parti a rilasciare una dichiarazione congiunta, sollevando non poche perplessità sullo status giuridico dei documenti firmati. Peraltro, alcuni progetti infrastrutturali sono già finanziati dall'UE, come la cosiddetta autostrada della pace, per la quale i prestiti della Banca europea per gli investimenti e della Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo, sostenuti da contributi dell'UE, ammontano a 235 milioni di euro6. Diversi osservatori intravedono piuttosto un’opportunità per l’Unione Europa che, di fatto, è l’unico attore che può condurre la normalizzazione tra Serbia e Kosovo. Non è sfuggito infatti che proprio il 7 settembre Vučić e Hoti hanno confermato all’inviato speciale dell’Unione Europea Miroslav Lajčák, di attribuire la massima priorità all’integrazione europea e di proseguire a lavorare sul dialogo Belgrado – Pristina.

4 Harkov L., Serbia won’t move embassy if Israel recognizes Kosovo, The Jerusalem Post, 9/09/2020 https://www.jpost.com/israel-news/serbia-wont-move-embassy-if-israel-recognizes-kosovo-641600 5 Serbia: fonti stampa, Belgrado non sposterà ambasciata a Gerusalemme se Israele riconoscerà il Kosovo, Agenzia Nova, 9/09/2020 6 Ruge M., Trump’s Kosovo show: No big deal, Politico.eu, 8/09/2020 https://www.politico.eu/article/trump-serbia- kosovo-deal-no-big-deal/

Osservatorio Strategico 2020– Anno XXII n. IV 75 Sahel e Africa Subsahariana Marco Cochi

Perché è stato nuovamente rinviato il lancio della nuova moneta unica dell’Africa occidentale?

Sessant’anni dopo l’indipendenza conquistata dalla Francia nel 1960, 15 paesi africani utilizzano ancora quello che un tempo era chiamato Franco delle colonie francesi dell’Africa occidentale e centrale (FCFA), la vecchia moneta coloniale entrata in vigore il 26 dicembre 1945, giorno in cui Parigi ratificò gli accordi di Bretton Woods. Il FCFA era la valuta di riferimento dei due blocchi coloniali francesi nel continente: la cosiddetta Africa occidentale francese (AOF) con capitale Dakar e l’Africa equatoriale francese (AEF) con capitale Brazzaville. Una volta che i vari paesi africani conquistarono l’indipendenza, la moneta cambiò la dicitura in Franco della comunità finanziaria africana (FCFA), nel caso dei paesi dell’UEMOA (Unione economica e monetaria dell’Africa occidentale), e in Franco della cooperazione finanziaria in Africa centrale (FCFA), per gli Stati della CEMAC (Comunità economica e monetaria dell’Africa centrale)1. Quindi, la valuta con due diverse denominazioni attualmente circola nei 14 Stati africani che fanno parte delle due organizzazioni regionali, ai quali si aggiungono le Isole Comore, la cui divisa è agganciata all’euro tramite la Banca di Francia. Ciascuna delle due aree monetarie possiede una banca centrale: la Banca centrale dell’Africa centrale basata a Yaoundé (BEAC) per la CEMAC e la Banca centrale dell’Africa occidentale (BCEAO) con sede a Dakar per l’UEMOA. Lo scorso 20 maggio, il Consiglio dei ministri francese ha adottato un progetto di legge che conferma gli accordi raggiunti lo scorso 21 dicembre ad Abidjan tra il presidente francese Emmanuel Macron e il suo omologo ivoriano Alassane Ouattara, che si inquadrano nell’ambito della revisione delle relazioni monetarie tra Parigi e gli otto paesi dell’UEMOA. Il decreto, fortemente voluto da Macron, dovrebbe porre fine alla circolazione dell’ultima moneta coloniale per introdurre una nuova divisa comune chiamata eco2. Per diventare pienamente operativo, però, l’accordo monetario Francia-UEMOA dovrà seguire un iter di revisioni parlamentari, che in alcune nazioni dell’Africa occidentale richiederà delicate revisioni costituzionali, sulle quali potrebbe concentrarsi il dissenso popolare. È anche importante evidenziare che la riforma non interesserà i sei Stati dell’Africa centrale che compongono la CEMAC (Camerun, Ciad, Repubblica Centrafricana, Congo, Gabon e Guinea Equatoriale), dove continuerà a circolare il Franco della cooperazione finanziaria in Africa centrale. Tuttavia, lo scorso 7 settembre, il lancio dell’eco negli otto paesi dell’UEMOA ha registrato l’ennesimo rinvio a data da destinarsi. La decisione è maturata a Niamey, dove erano riuniti per la 57esima sessione ordinaria dell’ECOWAS, i capi di Stato e di governo dei 15 Paesi che fanno parte dell’organismo regionale africano. Come si legge nel comunicato finale, i partecipanti alla sessione hanno deciso di «posticipare, a una data successiva, il lancio della moneta unica» e hanno fatto riferimento allo sviluppo di una «nuova tabella di marcia per l’adozione della moneta unica dello spazio regionale»3. I quattro mesi che mancavano al varo dell’eco non sarebbero stati sufficienti per ultimare le procedure e gli aspetti tecnici necessari al lancio della nuova moneta, che prevedono la

1 www.bceao.int/fr/content/histoire-du-franc-cfa 2 www.lemonde.fr/afrique/article/2020/05/21/la-france-acte-officiellement-la-fin-du-franc-cfa-en-afrique-de-l- ouest_6040339_3212.html 3 www.ecowas.int/wp-content/uploads/2020/09/ENG_Final-Communique%CC%81_57th-Summit_07092020.pdf

Osservatorio Strategico 2020– Anno XXII n. IV 76 Sahel e Africa Subsahariana fabbricazione delle banconote, gli aggiornamenti informatici e amministrativi, la creazione di una banca regionale federale. L’annuncio del passaggio degli otto Paesi dal franco CFA all’eco ha anche suscitato una polemica tra i governi francofoni e anglofoni della regione. Questi ultimi hanno accusato i primi di averli scavalcati nell’approvazione del progetto di moneta unica dell’ECOWAS. Il primo trimestre del 2020 è stato infatti caratterizzato da alcune tensioni tra l’UEMOA, che raggruppa gli otto paesi francofoni che entro la fine di quest’anno avrebbero dovuto sostituire il franco CFA, e i sei paesi WAMZ (Zona monetaria dei Paesi dell’Africa occidentale), che hanno contestato la decisione unilaterale di cambiare in eco il nome del franco CFA4. I cinque paesi anglofoni (Nigeria, Gambia, Ghana, Liberia e Sierra Leone), più la Guinea Conacry, che compongono il WAMZ, ritengono che il cambio di nome da parte delle nazioni francofone «non sarebbe in linea» con il programma di adozione di una moneta unica che dovrebbe interessare tutti i 15 Paesi dell’ECOWAS. La riforma varata da Parigi ha requisito il nome dell’eco e prevede il mantenimento della parità fissa con l’euro, nonché la garanzia di convertibilità da parte della Francia, a differenza di quanto previsto nella tabella di marcia convalidata dall’ECOWAS nell’estate 20195. Il capofila Nigeria e gli altri cinque membri del blocco WAMZ paragonano l’eco dell’Africa francofona a un semplice avatar del franco CFA, sottolineando come il suo valore resterebbe agganciato a quello dell’euro6. Alla lista dei retaggi coloniali insiti nell’accordo va aggiunta anche la conferma del ruolo commerciale della Banca di Francia, che continuerà a stampare, trasportare e assicurare l’eco per la cifra di quasi 41 milioni di euro all’anno, pagati direttamente dalla Banca centrale degli Stati dell’Africa Occidentale (BCEAO)7. Oltre al fatto che in caso di crisi monetaria, la Francia passa da “co-gestionario” a “garante fiduciario” della nuova valuta africana. Il testo adottato dal governo francese prevede che la BCEAO non dovrà più depositare metà delle proprie riserve di cambio presso il ministero del Tesoro francese. Un deposito che ammontava a 14 miliardi di euro, remunerato annualmente con un tasso d’interesse fisso dello 0,75%8. Ciò significa che le banche centrali della zona del franco CFA intascano ogni anno interessi per un valore complessivo di 75 milioni di euro. Parigi, inoltre, si ritira di fatto dalle istanze di governo del franco CFA non nominando più alcun rappresentante con diritto di veto nel consiglio di amministrazione e nel comitato di politica monetaria della BCEAO, né nella commissione bancaria dell’UEMOA. La Francia, però, continua a esercitare un diritto di controllo sulle politiche dei paesi africani ed esigere come contropartita un accesso privilegiato alle informazioni macroeconomiche dei paesi dell’UEMOA9. Sul ruolo del franco CFA si sono accese diverse polemiche, talvolta strumentali, ma che comunque fanno riferimento alle ancora assai diffuse influenze economiche post coloniali, da molti considerate all’origine della disarmonica crescita e delle profonde disuguaglianze, che persistono in quasi tutte le 54 nazioni africane. Non è un caso, che l’adozione di un unico regime valutario negli Stati dell’Africa occidentale era stata originariamente fissata per il 2003, ma dopo 17 anni è ancora oggetto di rinvii a causa della

4 https://pointafrik.com/2020/09/09/cfa-eco-la-monnaie-unique-de-la-cedeao-differee-a-une-date-ulterieure/ 5 www.lemonde.fr/afrique/article/2020/07/11/malgre-la-mort-annoncee-du-franc-cfa-l-eco-n-est-pas-encore- ne_6045915_3212.html 6 www.jeuneafrique.com/882839/economie/transition-franc-cfa-eco-derriere-la-contestation-des-anglophones-une- querelle-ivoiro-nigeriane/ 7 https://ww https://www.dw.com/fr/franc-cfa-5-les-fantasmes-autour-dune-monnaie-controvers%C3%A9e/a- 48056233w.mediapart.fr/journal/dossier/international/notre-serie-le-franc-cfa-en-question 8 www.dw.com/fr/franc-cfa-5-les-fantasmes-autour-dune-monnaie-controvers%C3%A9e/a-48056233 9 www.unige.ch/gsi/files/7014/0351/6352/diallo.pdf

Osservatorio Strategico 2020– Anno XXII n. IV 77 Perché è stato nuovamente rinviato il lancio della nuova moneta unica dell’Africa occidentale? forte differenza dei progressi compiuti dagli Stati membri nell’applicare efficaci politiche monetarie e fiscali. Tra le questioni sollevate per spiegare l’opposizione del blocco anglofono sull’introduzione dell’eco ci sono i criteri di convergenza ancora non soddisfatti dalla maggior parte dei paesi, i dati macroeconomici, la leadership e le dispute interne, in particolare tra la Nigeria, la principale economia dell’Africa, e la Costa d’Avorio10. Diversi studiosi africani esprimono perplessità e timori: c’è chi si dice scettico sul fatto che l’eco possa da solo risolvere i problemi economici della regione, chi teme che l’instabilità economica e politica di diversi paesi membri possa ripercuotersi sugli altri, chi denuncia inflazioni a doppia cifra, quando fra i requisiti richiesti questa dovrà essere limitata al 5%. Senza contare che la Nigeria, che da sola rappresenta oltre il 70% degli 817 miliardi di dollari del Pil e più della metà della popolazione della zona ECOWAS, sarà molto restia ad accettare paesi non allineati ai suoi sudati standard. Le sfide aperte sono dunque moltissime e non è scontato che la moneta unica possa portare benefici economici alla regione africana. Appare invece scontato, che sul nome e sul progetto della divisa spetta agli Stati africani decidere e la Francia non può intromettersi. Molto probabilmente Parigi e Abdijan hanno commesso un errore nel forzare il destino monetario della regione. Una decisione comune era già stata presa nei quindici paesi dell’ECOWAS, poi improvvisamente gli otto paesi dell’area UEMOA hanno deciso di andare avanti per conto loro, sulla base di principi che non sono quelli che avevano precedentemente concordato con tutti i 15 paesi del blocco regionale. L’adozione dell’eco è in ogni caso un importante tassello nella rivoluzione in corso nel continente, che si incrocia con l’istituzione dell’AFCTA, l’African Continental Free Trade Area. Un’area continentale senza barriere e tasse doganali, che configura l’accordo commerciale internazionale più grande per numero di paesi partecipanti e il più importante dall’istituzione dell’Organizzazione mondiale del commercio (WTO), avvenuta nell’aprile 1994. Una grande aspettativa, che insieme all’adozione dell’eco, potrebbe incidere in maniera molto positiva sullo sviluppo futuro dell’Africa.

10 www.togofirst.com/en/economic-governance/1102-4916-nigeria-ecowas-largest-economy-asks-for-a-delay-in-the- adoption-of-single-currency-eco

Osservatorio Strategico 2020– Anno XXII n. IV 78 Golfo Persico Francesca Citossi

La nuova politica estera degli Emirati

Il 2020 è un anno importante per gli Emirati Arabi Uniti1: hanno lanciato la sonda Amal (“speranza”) che raggiungerà Marte nel febbraio 2021, avviato l’impianto nucleare Barakah (“benedizione”), sono riusciti a gestire la curva di contagio del Covid-19 riorganizzando le fabbriche e dando un grande impulso alla digitalizzazione, hanno raggiunto a settembre uno storico accordo con Israele e, infine, si sono candidati come membro non permanente del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite2. “Piccola Sparta” aveva inaugurato il suo interventismo con aiuti umanitari in Kosovo nel 1999 e continuato con un contingente in Afghanistan nel 20083. Abu Dhabi ha basi ad Assab (Eritrea), Berbera (Somaliland), Bosaso (Somalia/Puntland) e il controllo di diversi porti in Yemen (Aden, Mokha, Mukalla, Perim, Socotra e la contesa Hodeidah); è intervenuta in Egitto, Libia e Yemen. Due Research Paper sulla politica estera degli EAU - pubblicati rispettivamente da Chatham House4 e Stiftung Wissenschaft und Politik (SWP), Istituto Tedesco per gli Affari Internazionali e di Sicurezza5, presentano una lettura interessante della politica estera emiratina. Secondo entrambi gli studi la politica degli Emirati è cambiata, in particolare dalla Primavera araba. Abu Dhabi non adotta più la politica tradizionale per la quale gli Emirati si erano distinti con il governo dello sceicco Zayed Bin Sultan, che cercò il consenso e costruì strutture per lo sviluppo congiunto del Golfo. L'attuale politica degli EAU, guidata dal governatore de facto del paese6, il principe ereditario di Abu Dhabi Mohammed bin Zayed (MbZ), è molto diversa. Sotto la guida di MbZ, gli EAU stanno costruendo vasto un impero economico, con porti e basi nel Golfo, nel Mar Arabico, nel Corno d'Africa7 e nel Mediterraneo, insieme al rafforzamento del potere militare e del soft power basandosi su un modello interno autocratico di governance della sicurezza. Il modello è delineabile come uno stato di polizia che sopprime il dissenso, monitora i suoi cittadini utilizzando le ultime tecnologie e lavora per rafforzare i suoi legami con Cina e Russia per controbilanciare le pressioni occidentali. I due studi illustrano il ruolo che gli EAU hanno svolto nel sostenere il colpo di stato militare in Egitto nel 2013 e il supporto al generale Khalifa Haftar8 nel tentativo di assicurarsi il pieno controllo della Libia. I rapporti notano anche l’appoggio alle milizie separatiste nello Yemen meridionale (Southern Transitional Council)9, che hanno cambiato gli equilibri delle forze politiche nel paese. La visione politica di MbZ orienta la sua animosità nei confronti dell'Iran (è in corso anche una disputa territoriale dal 197110 per le isole di Abu Musa, Greater Tunb e Lesser Tunb) e dei Fratelli

1 F. Gardner, “How the UAE emerged as a regional powerhouse”, BBC, 22 September 2020; https://rb.gy/lalpii. 2 AlJazeera, “UAE announces candidacy for UN Security Council seat”, 30 September 2020; https://rb.gy/oq6qph. 3 BBC, “Muslim troops help win Afghan minds”, 28 March 2008; http://news.bbc.co.uk/2/hi/south_asia/7318731.stm. 4 P. Salisbury, “Risk Perception and Appetite in UAE Foreign and National Security Policy”, Research Paper, Chatham House, July 2020; https://www.chathamhouse.org/sites/default/files/2020-07-01-risk-in-uae-salisbury.pdf. 5 G. Steinberg, “Regional Power United Arab Emirates”, SWP Research Paper, German Institute for International and Security Affairs, July 2020; https://rb.gy/rarogh. 6 Lo sceicco Khalifa governa gli Emirati Arabi Uniti dal 2004, ha subito un ictus nel 2014 e un intervento chirurgico d'urgenza. E’ il principe ereditario di Abu Dhabi, lo sceicco Mohammed bin Zayed Al Nahyan, il governatore effettivo. 7 Z. Vertin, “Red sea rivalries: the Gulf, the Horn, & the new geopolitics of the Red Sea”, Brookings Doha Center, August 2019. 8 Middle East Monitor, “UN: ‘UAE increased arms shipments to Haftar”, October 1, 2020; https://rb.gy/lk1pzs. 9 Middle East Eye, “UAE’s support for separatists stokes resentment against Saudi Arabia”, 19 September 2019; https://www.middleeasteye.net/news/uaes-support-stc-stokes-resentment-against-saudi-arabia. 10 S. Henderson, “The Persian Gulf's 'Occupied Territory': The Three-Island Dispute”, The Washington Institute for Near East Policy, September 8, 2008; https://rb.gy/nhs14a.

Osservatorio Strategico 2020– Anno XXII n. IV 79 Golfo Persico

Musulmani, soprattutto dal 2011. Lo studio di SWP afferma che l'ostilità di MbZ nei confronti della Fratellanza è la principale forza trainante della sua politica estera e supera quella nei confronti dell'Iran. I timori del principe ereditario di Abu Dhabi vertono sul gruppo Islah, legato intellettualmente alla Fratellanza musulmana, il più grande movimento di opposizione politica negli Emirati Arabi Uniti, che MbZ ha messo al bando11. Mentre il Qatar sostiene i movimenti islamisti, in particolare i Fratelli Musulmani come strumento di influenza e appello popolare, gli EAU e l'Arabia Saudita li percepiscono come una minaccia ideologica alla sicurezza, alla loro influenza regionale e alla stabilità interna. Nella narrativa ufficiale vengono ritratti tutti i rami dei Fratelli Musulmani come terroristi, anche se non sono tutti violenti; sono rappresentati come gruppi non nazionali, suggerendo che la loro lealtà vada al movimento materno in Egitto e non agli altri paesi dove si sono stabiliti. Il principe ereditario combatte il gruppo in tutta la regione, anche se questo lo espone a perdite politiche, come accaduto in Yemen dove gli Houthi sono riusciti a controllare la capitale Sanaa perché la Coalizione saudito-emiratina non si è opposta con forza alla loro invasione nella speranza che la Fratellanza yemenita fosse coinvolta in uno scontro violento. Sanaa è invece caduta nelle mani degli Houthi e l'Arabia Saudita si è alleata in alcune occasioni con la Fratellanza yemenita, mentre gli EAU sono rimasti ostili al movimento. L'animosità degli Emirati verso l'Iran sembra presentare più sfaccettature, a causa della minaccia diretta che potrebbe rappresentare per Abu Dhabi, che teme pesanti perdite materiali in caso di uno scontro militare tra Washington, Teheran e i suoi alleati regionali. Chatham House ritiene che per la leadership le decisioni politiche emiratine siano prese prevalentemente da MbZ e da un piccolo gruppo di stretti consiglieri che hanno portato a decisioni come il ritiro di un gran numero di forze degli EAU dallo Yemen nell'estate del 2019 e l’interruzione dell'addestramento delle forze somale nel 2017 (dopo una controversia con il governo somalo derivante dalle relazioni di Abu Dhabi con la Repubblica del Somaliland). L’espansionismo emiratino si estende dall’area mediorientale sino al Mediterraneo12, prolungamento dei corridoi marittimi che collegano l'Europa al Mar Rosso e all'Oceano Indiano, e come tale cruciale per il commercio globale e le rotte energetiche. Gli interessi marittimi degli EAU negli ultimi 10 anni si sono estesi con Dubai Ports World13 - multinazionale della logistica e dei trasporti - che gestisce porti anche in Europa14 a Cipro, Francia e Algeria guadagnando in influenza, interessi economici15 e di sicurezza assicurandosi un capitale politico rilevante16.

11 S. Kerr, “UAE blacklists 83 groups as terrorists”, Financial Times 16 November 2014; https://rb.gy/y9k2ta. 12 C. Lons, “Ports and Politics: UAE-Qatar Competition in the Mediterranean”, ISPI, 17 luglio 2020; https://rb.gy/rczngr. 13 DP World; https://www.dpworld.com/en/about-us/our-locations. 14 “DP World’s to strengthen in Europe after buying 44% in Swissterminal, International Finance”, January 23, 2020; https://internationalfinance.com/dp-worlds-strengthen-europe-buying-44-swissterminal/. 15 AlJazeera, “Dubai’s DP World and Israeli group to jointly bid for Haifa port”, 16 September, 2020; https://www.aljazeera.com/economy/2020/09/16/dubais-dp-world-and-israeli-group-to-jointly-bid-for-haifa-port/ 16 A. Kocak, “Dubai Ports World as the UAE foreign policy tool”, Clingendael, Netherlands Institute of International Relations, 18 Feb 2020; https://www.clingendael.org/publication/dubai-ports-world-uae-foreign-policy-tool.

Osservatorio Strategico 2020– Anno XXII n. IV 80 Corno d’Africa e Africa meridionale Luca Puddu

Governance economica e rapporti tra capitale pubblico e privato: i processi di liberalizzazione nel Corno d’Africa e le possibili criticità.

Il processo di privatizzazione in Etiopia

Per lungo tempo, l’Etiopia è stata il modello per eccellenza di “Stato Sviluppista” nel continente africano. Il paradigma economico perseguito dalla coalizione dell’Ethiopian People’s Revolutionary Democratic Front (EPRDF) prevedeva un forte intervento pubblico nell’economia per promuovere la transizione verso un sistema capitalistico evitando, al contempo, l’eccessiva concentrazione delle risorse in mano a pochi gruppi privati e il consolidamento di rendite di posizione. Ciò non aveva impedito l’apertura di campi selezionati dell’economia a compagnie straniere, con l’obiettivo di attirare tecnologie e know-how dall’estero. Paradigmatico il caso dell’azienda italiana Salini e della compagnia parastatale METEC, entrambe impegnate nei lavori di costruzione della Grande Diga della Rinascita Etiopica (Fantini 2013). La privatizzazione degli asset strategici è, tra le misure annunciate dal primo ministro Abiy Ahmed dopo la sua ascesa al potere, uno dei provvedimenti di maggior rottura rispetto al recente passato. I soggetti parastatali coinvolti sono diversi, dalla compagnia di telecomunicazioni Ethio Telecom all’azienda di trasporti aerei Ethiopian Airlines e l’azienda di fornitura elettrica Ethiopian Electric Power Corporation. La scelta di liberalizzare è stata in parte dettata da ragioni di ordine politico – sancire una rottura con le pratiche di governo dei predecessori –, in parte il risultato della necessità di trovare nuove fonti di finanziamento per un bilancio statale gravato da un debito pubblico insostenibile. L’obiettivo è ottenere liquidità tramite la vendita delle azioni in mano allo Stato, oltre che aprire nuovi canali di assistenza a condizioni vantaggiose presso i due principali sponsor della svolta liberista: la Banca Mondiale e il Fondo Monetario. La nuova strategia di sviluppo di Abiy Ahmed ha riscosso pareri contrastanti. Un settore che ha attirato particolare attenzione è quello della telefonia e dei servizi internet, gestito da tempo in regime di monopolio dall’azienda statale Ethio Telecom. I fautori dell’apertura insistono sul fatto che il mantenimento del monopolio abbia provocato gravi ritardi al Paese sul fronte dell’aggiornamento tecnologico: l’Etiopia si colloca oggi tra le realtà meno efficienti al mondo per servizi di comunicazione, secondo l’indice di sviluppo redatto dalla Banca Mondiale (TC Data 2015). Un altro cavallo di battaglia dei favorevoli alla privatizzazione è quello del servizio del debito e della diversificazione dei partner stranieri: nel corso degli ultimi dieci anni, Ethio Telecom ha contratto debiti per quasi 4 miliardi di dollari dalla China Exim Bank per finanziare l’ampliamento delle proprie capacità operative, entrando in un rapporto di dipendenza tecnologica con operatori cinesi come Huawei e ZTE (Africa Report, 7 settembre 2020). Non tutti gli osservatori hanno accolto la svolta liberista con entusiasmo. I critici hanno messo in luce i vantaggi unilaterali che deriverebbero per gli acquirenti stranieri da una compagnia che, nel 2020, ha registrato un incremento del 31% sui profitti annuali. Tali dubbi sono stati rafforzati dall’avanzare della pandemia, poiché l’esplodere della crisi economica globale potrebbe ridurre il prezzo delle azioni che il governo intende piazzare sul mercato per alleviare la propria posizione debitoria con l’estero. Un altro punto sensibile riguarda il rapporto tra gruppi economici nazionali e internazionali: tema delicato in un Paese storicamente chiuso all’esterno come l’Etiopia. Alcuni imprenditori locali hanno cavalcato i timori di un asservimento del Paese ad istanze straniere, chiedendo che la competizione per l’acquisto delle nuove licenze telefoniche fosse limitata ad aziende etiopiche (The Reporter Ethiopia, 30 maggio 2020). I rumours trapelati nel corso

Osservatorio Strategico 2020– Anno XXII n. IV 81 Corno d’Africa e Africa meridionale dell’estate hanno d’altronde messo in luce come, all’interno dello stesso esecutivo, non manchino opinioni divergenti sul processo di liberalizzazione della telefonia. La compagnia statale Ethio Telecom, ad esempio, è stata molto critica rispetto alla scelta dell’Ethiopia Communication Authority1 di porre termine al monopolio dell’azienda (Quartz Africa 19 agosto 2020). Alla luce di queste obiezioni, l’esecutivo federale sembra aver corretto parzialmente la rotta negli ultimi mesi, abbandonando la via dell’apertura indiscriminata alle multinazionali della telefonia. Ad agosto, ad esempio, è stato reso noto come la vendita delle quote di minoranza di Ethio Telecom potrebbe essere limitata ai soli operatori economici nazionali, così da impedire che gruppi stranieri possano beneficiare della rete infrastrutturale costruita dall’azienda di stato tramite i finanziamenti cinesi (DCD 11 agosto 2020). Le perplessità non mancano neppure dal lato dell’offerta. Le aziende internazionali che dovessero vincere la gara d’appalto si troverebbero a gestire un mercato caratterizzato da un forte rischio politico, come dimostrato dalle recenti sommosse in Oromia e dalle tensioni elettorali nel Tigray. Inoltre, le compagnie vincitrici dovranno prepararsi ad operare secondo criteri non sempre rispondenti alle leggi del mercato. Il controllo delle comunicazioni è ritenuto cruciale per la sicurezza nazionale, come testimoniato dal fatto che le autorità etiopiche abbiano a più riprese sospeso il traffico dati negli ultimi mesi per sedare le sommosse popolari (Africa Report, 5 agosto 2020).

Le tendenze regionali e le potenziali criticità del processo di privatizzazione.

La scelta del governo etiopico di privatizzare il settore della telefonia ha prodotto effetti ben oltre i confini del Paese. Sebbene l’Etiopia sia oggi uno dei pochissimi Stati al mondo a mantenere il monopolio pubblico sulle comunicazioni, questa peculiarità è condivisa con realtà vicine come Eritrea e Gibuti. Nel caso eritreo, le possibilità di liberalizzazione appaiono al momento remote, alla luce dell’assenza di riforme significative in campo economico e della stretta securitaria che ha interessato l’Eritrea dopo la pace del 2018. L’ex colonia francese, al contrario, sembra intenzionata a emulare il percorso di Addis Abeba e porre termine al monopolio dell’azienda pubblica Djibouti Telecom. Uno dei motivi di questa scelta è riconducibile alla scarsa competitività della compagnia statale: la popolazione gibutiana ha gradualmente aggirato gli alti costi di servizio imposti dall’operatore nazionale, appoggiandosi ai servizi internet offerti in un mercato altamente competitivo come quello del vicino Somaliland (Jeune Afrique, 22 novembre 2019). Quello della telefonia appare d’altronde come uno dei pochi settori che non dovrebbero risentire in maniera significativa della crisi economica post-COVID, alla luce della centralità del sistema di comunicazioni in caso di quarantena generalizzata. Una delle principali criticità dei processi di liberalizzazione in corso potrebbe essere rappresentata dal loro asservimento a logiche patrimoniali. Nel caso dell’Etiopia, l’esperienza del regime imperiale che governò fino al 1974 è illuminante: seppur apprezzata dagli osservatori stranieri per la sua apertura ai capitali esteri, la famiglia regnante era altresì nota per la pratica di ritagliarsi una percentuale minoritaria in ogni azienda interessata ad operare nel Paese, drenando i relativi dividendi dal conto investimenti. Dinamiche non troppo dissimili hanno contraddistinto le pratiche di governo dell’EPRDF, noto per aver favorito gruppi economici legati alla classe di governo come l’imprenditore etiopico-saudita Al Amoudi. Il rischio che tale condotta possa ripetersi anche nelle condizioni politiche attuali non può essere escluso: Al Amoudi, ad esempio, ha rimarcato la volontà di continuare a giocare un ruolo di primo piano nell’economia nazionale, ponendosi in testa al novero dei privati che hanno effettuato donazioni alla municipalità di Addis Abeba in occasione del diffondersi della pandemia (Alliance Magazine, 30 aprile 2020).

1 L’Ethiopian Communication Authority è l’agenzia del ministero delle finanze deputata a gestire il processo di privatizzazione della telefonia.

Osservatorio Strategico 2020– Anno XXII n. IV 82 Governance economica e rapporti tra capitale pubblico e privato: i processi di liberalizzazione nel Corno d’Africa e le possibili criticità. La tendenza a forgiare rapporti patrimoniali con aziende straniere in cambio di servizi di intercessione politica è ben presente anche a Gibuti. Paradigmatico è, ancora una volta, il settore della telefonia, teatro di uno scandalo che ha coinvolto la Ericcson. Secondo i documenti raccolti da una corte statunitense, la compagnia svedese avrebbe versato tangenti per oltre 2 milioni di dollari nel 2011, per il tramite delle proprie controllate in Egitto e a Dubai (All Africa, 13 dicembre 2019). I trasferimenti finanziari ad ufficiali gibutiani – ufficialmente presentati come spese di consulenza – sarebbero stati finalizzati ad ottenere delle licenze dalla compagnia di telefonia statale, a riprova della labilità del confine tra pubblico e privato nell’economia politica del Corno d’Africa.

Bibliografia

Africa Report, (5 agosto 2020), https://www.theafricareport.com/36194/ethiopia-prepares-for- partial-privatisation-of-ethio-telecom/ Ultimo accesso 25 settembre 2020

Africa Report, (7 settembre 2020), https://www.theafricareport.com/39864/ethiopia-the-case-for- partial-privatization-of-ethio-telecom/ Ultimo accesso 28 settembre 2020

All Africa (13 dicembre 2019), https://allafrica.com/stories/201912150018.html Ultimo accesso 29 settembre 2020

Alliance Magazine (30 aprile 2020), https://www.alliancemagazine.org/blog/al-amoudi-donates-3-6- million-addis-ababa/ Ultimo accesso 27 settembre 2020

DCD (11 agosto 2020), https://www.datacenterdynamics.com/en/news/only-local-companies-can- buy-stake-ethio-telecom-government-rules/ Ultimo accesso 25 settembre 2020

Fantini (2013), Developmental state, economic transformation and social diversification in Ethiopia, Ispi Analysis, 163, https://www.ispionline.it/sites/default/files/pubblicazioni/analysis_163_2013.pdf Ultimo accesso 26 settembre 2020

Jeune Afrique (22 novembre 2019), https://www.jeuneafrique.com/mag/857209/economie/internet- pour-djibouti-telecom-le-salut-passe-par-lafrique-de-lest/ Quartz Africa (19 agosto 2020), https://qz.com/africa/1893979/ethiopia-backs-off-ethio-telecom- privatization-for-foreign-firms/ Ultimo accesso 26 settembre 2020

TC Data (2015), https://tcdata360.worldbank.org/indicators/h2e1ddd20?country=ETH&indicator=24719&viz=bar_ch art&years=2015 Ultimo accesso 28 settembre 2020

The Reporter Ethiopia, (30 maggio 2020), https://www.thereporterethiopia.com/article/privatization- wheels-turning Ultimo accesso 28 settembre 2020

Osservatorio Strategico 2020– Anno XXII n. IV 83 Russia, Asia centrale e Caucaso Sylwia Zawadzka

La nuova Costituzione della Federazione Russa e le sue implicazioni.

Introduzione

Sebbene l’emergenza causata dal diffondersi della pandemia CoViD-19 abbia determinato un rallentamento e, talvolta, un fermo del lavoro delle istituzioni, la riforma costituzionale presentata dal Presidente della Federazione Russa1 alla Duma di Stato il 20 gennaio 20192 ha avuto un iter procedurale piuttosto veloce (vd. Tabella 1). Inizialmente previsto per il 22 aprile ma successivamente posposto per la pandemia al 1 luglio 2020, ha avuto luogo il “voto panrusso” (общероссийскоe голосованиe – obščerossijskoe golosovanie) sugli emendamenti alla costituzione in vigore dal 1993. Stando ai dati ufficiali, il 77,92%3 degli elettori ha sostenuto l’entrata in vigore delle modifiche (contrario 21,27%), con un'affluenza pari al 68%. Le regioni con il più alto livello di sostegno agli emendamenti sono state la Cecenia (97,92%), Tuva (96,79%) e Crimea (90,07%). L'unica regione in cui la maggioranza dei residenti ha votato contro è il Neneckij Autonomnyj Okrug– Circondario Autonomo dei Nenec (55,94%). La legge di emendamento non rappresenta un fulmine a ciel sereno, dal momento che varie ipotesi di riforma erano state preconizzate già nei mesi precedenti (dall’elezione di Putin nel 2018 si era affacciato il problema di una sua successione, dal momento che non vi è al momento un avversario che possa competere con la sua figura). Gli emendamenti potrebbero permettere a Vladimir Putin di candidarsi alle elezioni del 2024 e, qualora vincitore, di rimanere in carica fino al 2036. Non sarà comunque un compito facile, dati gli strascichi sociali ed economici del COVID-19 e il conseguente calo di popolarità del Presidente. In tal senso, il basso sostegno e la fiducia sociale nella sua persona sollevano dubbi sull’attendibilità dei risultati. Diverse sono le questioni degne di essere approfondite. La prima è il perché, anziché un referendum costituzionale, sia stata scelta una votazione nazionale. Gli emendamenti alla Costituzione vengono in genere votati dai cittadini attraverso lo strumento del referendum, lascia quindi qualche interrogativo la scelta di un “voto panrusso”, contrastante peraltro con la procedura prevista dall’art. 136 del documento in vigore fino al 4 luglio scorso. L’inusitato carattere dello svolgimento è regolamentato da una disposizione ad hoc, parte della legge di emendamento a firma del Presidente (dettagliata nelle proposte emendative del 4 marzo e degli atti successivi). Il ricorso a un voto “panrusso” viene inoltre spiegato da Putin con il fatto che gli emendamenti riguardano i tre poteri dello Stato4. In sostanza, il decreto presidenziale ha consentito alle autorità di evitare le restrizioni derivanti dalle disposizioni legali sul referendum (quindi almeno il 51% di affluenza alle urne), un dibattito sull'argomento del voto da parte degli organizzatori e la garanzia di partecipazione di osservatori indipendenti. Il nuovo format delle votazioni – ma, in verità, anche le misure anti-CoViD – ha consentito un approccio flessibile alle procedure organizzando, oltre ai tradizionali seggi mobili, anche il voto via internet. Come annunciato dal presidente, le votazioni hanno di fatto avuto inizio il giorno successivo alla Parata della Vittoria, il 25 giugno, e una durata settimanale concludendosi il 1

1 Tutta la documentazione (in lingua russa) è consultabile sia sulla pagina ufficiale del Cremlino http://kremlin.ru/acts/constitution, che della Duma di Stato. 2 Progetto di legge delle Federazione Russa di emendamento alla Costituzione della Federazione Russa, n. 885214-7 https://sozd.duma.gov.ru/bill/885214-7 3 Dati ufficiali e distribuzione geografica del voto sul territorio della Federazione Russa (in lingua russa) https://www.rbc.ru/politics/02/07/2020/5efda1c39a794703de7e21c4 4 Messaggio alle Camere del 15 gennaio.

Osservatorio Strategico 2020– Anno XXII n. IV 84 Russia, Asia centrale e Caucaso luglio scorso. Per quanto riguarda eventuali brogli elettorali, date le modalità di voto, le disposizioni del codice penale del 1996 in merito non sono pienamente applicabili. Venendo agli emendamenti alla Costituzione russa, questi sono di diversa natura e riguardano questioni politiche, identitarie e sociali anche se il punto più significativo è indubbiamente il rafforzamento dei poteri del Presidente e la possibilità di candidarsi per altri due turni presidenziali (2024 e 2030). Qualora ne uscisse vincitore, Vladimir Putin resterebbe in carica fino al 2036, diventando così il Presidente con la carica più lunga (vd. Fig. 1). Secondo la formulazione del documento del 1993, il suo mandato attuale, infatti, sarebbe l'ultimo, in quanto la presidenza può essere tenuta per un massimo di due mandati consecutivi. Nella costituzione emendata, è stata introdotta una disposizione aggiuntiva insieme all'abolizione della clausola "due mandati in fila" (двух сроков подряд – dvuch srokov podrjad)5, dove il termine “подряд” (podrjad – in fila) non figura. Tale emendamento quindi stabilisce che la limitazione a due termini non si applica al Capo di Stato nel momento in cui le modifiche entrano in vigore. Ulteriormente, il Presidente avrà il diritto di ‘deporre’ il primo ministro senza dover cambiare l'intero governo, dovrà inoltre garantire una cooperazione armoniosa tra le varie autorità, compresi gli enti locali e regionali. Importanti sono le disposizioni sul rispetto della cultura russa, la protezione della verità storica e della lingua russa e un appello a Dio (già introdotti nella legge di base), i giovani russi dovranno inoltre essere educati in uno spirito patriottico. Nel nuovo documento inoltre si ribadisce il concetto di famiglia: una relazione tra una donna e un uomo. La costituzione comprende inoltre articoli di garanzie sociali quali lo stipendio minimo, la valorizzazione delle pensioni e l’assistenza alle famiglie numerose. L'introduzione di identità e questioni sociali è stata una risposta alle aspettative dei russi. Lo studio si pone l’obiettivo di analizzare, attraverso una breve analisi retrospettiva, l’esegesi delle modifiche al documento costituzionale nonché le reazioni dei privati cittadini, delle figure istituzionali e di quelle internazionali, l’impatto che l’entrata in vigore della nuova Costituzione avrà sia da un punto di vista centripeto ovvero sulla politica interna, che centrifugo, l’impatto sulla politica internazionale.

Fonte dell’immagine https://warsawinstitute.org/pl/konstytucja-putinowska/

5 Art. 81.1 e 81.3. del nuovo testo della Costituzione (in lingua russa) http://duma.gov.ru/media/files/WRg3wDzAk8hRCRoZ3QUGbz84pI0ppmjF.pdf

Osservatorio Strategico 2020– Anno XXII n. IV 85 La nuova Costituzione della Federazione Russa e le sue implicazioni

Breve excursus storico

La storia della Costituzione Russa o meglio, di tutte le Costituzioni, è una serie di continui cambiamenti che riflettono le fasi dei processi storici e del relativo sviluppo del Paese e che hanno portato alla creazione della versione attuale del documento. La prima costituzione risale al 10 luglio 1918, è importante però fare un passo indietro per meglio comprendere il momento di passaggio dalla monarchia a quello che, per l’allora Impero Russo, era un concetto rivoluzionario ovverossia l’idea moderna di Costituzione e del ‘potere condiviso’. Come riportato dal prof. Valle nel suo studio sulle “Genealogie del Costituzionalismo in Russia dal XVIII al XX secolo”6, «Tra il 1905 e il 1907 la già ampiamente evocata rivoluzione costituzionale si sarebbe caratterizzata per essere una transizione incompiuta dal regime autocratico al costituzionalismo monarchico, con la promulgazione del Manifesto del 17 ottobre 1905 e la codificazione delle Leggi fondamentali dell’impero russo del 26 aprile 1906.». Di fatto, la costituzione del 1906 fa riferimento a una revisione sostanziale del Codice delle Leggi dell'Impero russo7del 1832, e trasforma uno stato assolutista in uno in cui lo zar (Nicola II Romanov), pur continuando ad esercitare il proprio potere, lo fa nel contesto di un nuovo ordine, accettando di condividerlo per la prima volta con il Parlamento. Con l'abdicazione dello zar Nicola, nel febbraio del 1917, il potere fu inizialmente assunto dal governo provvisorio istituito dalla IV Duma, il 15 settembre venne abolita la monarchia russa e, conseguentemente, la Costituzione del 1906 fu formalmente abrogata. In ottobre, il potere passò nelle mani del partito bolscevico e, successivamente, nacque l'Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche (30 dicembre 1922). Prima di allora, i comunisti avevano approvato una nuova costituzione, in cui la Russia figurava come uno stato bolscevico. Alla stessa subentrarono le costituzioni sovietiche del 1924, 1937 e del 1978. L'ultima ha avuto validità fino al crollo dell'Unione Sovietica e all'adozione del documento di governo della Russia del 1993, in vigore fino al 4 luglio scorso. Come sopra citato, la prima Costituzione della Repubblica Socialista Federativa Sovietica Russa (RSFSR) fu adottata dal V Congresso dei Soviet russo il 10 luglio 1918 e constava di 6 sezioni: "Dichiarazione dei diritti dei lavoratori e degli sfruttati", "Disposizioni generali della Costituzione della RSFSR", "Costruzione del potere sovietico", "Suffragio attivo e passivo", "Legge di bilancio", "Sull'emblema e la bandiera della Repubblica Socialista Federata Sovietica Russa (RSFSR)". A seguito dell'unificazione delle repubbliche in un unico stato (gennaio 1924), il Secondo Congresso dei Soviet adottò la Costituzione dell'URSS, che consisteva in due sezioni: la Dichiarazione sulla formazione dell'URSS e il Trattato sulla formazione dell'URSS. La successiva adozione della Costituzione dell'URSS avvenne nel 1936. Secondo questo documento, a tutti i cittadini erano garantiti pari diritti e il suffragio universale, il diritto al lavoro e al riposo, garanzie di sostegno materiale in vecchiaia e l’assistenza sanitaria nella malattia, libertà di coscienza, parola, stampa, incontri e manifestazioni. Vennero proclamate l'inviolabilità della persona e il segreto della corrispondenza. La Costituzione del 1936 fu sostituita il 7 ottobre 1977 da una nuova Costituzione, detta anche brežneviana, che consolidò ufficialmente il sistema politico monopartitico e rimase in vigore fino al crollo dell'Unione Sovietica. Se la Costituzione è espressione della storia, indubbiamente la caduta dell’URSS rappresenta un momento di cesura non solo nella storia del Paese ma anche di quella mondiale e, dato

6 Roberto Valle “Genealogie del Costituzionalismo in Russia dal XVIII al XX secolo”,p. 27 del Giornale di Storia Costituzionale, 33/I 2017, consultabile in http://www.storiacostituzionale.it/doc_33/Valle_GSC_33.pdf 7 Сводъ законовъ Росій (ortografia precedente la riforma del 1917, attualmente Сводзаконов Российской империи- Svod Zakonov Rossijskoj Imperii).

Osservatorio Strategico 2020– Anno XXII n. IV 86 Russia, Asia centrale e Caucaso l’importante cambiamento socio-politico, necessitava di essere immortalato nel suo documento principe. L'evento iniziale per l'adozione della nuova Costituzione fu la creazione, nel 1990, da parte del Primo Congresso dei deputati popolari della Repubblica Socialista Federata Sovietica Russa (RSFSR), della Commissione costituzionale, il cui presidente era Boris Nikolajevič El’cin e il segretario esecutivo, Oleg Germanovič Rumjancev. Questa commissione ha sviluppato diverse versioni del progetto di costituzione russa, ed ha altresì svolto un ruolo importante nella redazione della versione finale. Per tre anni la Commissione non riuscì ad accordarsi su un testo condivisibile quindi, nel giugno del 1993, Boris El’cin accusò il Soviet supremo di voler non solo prolungare i propri poteri ma di tentare di ritardare la ‘morte’ della vecchia costituzione, il 21 settembre 1993 sciolse la legislatura (Congresso e Soviet), pur non avendone il potere. Si arrivò infine alle giornate di inizio ottobre con il bombardamento e la presa (4 ottobre) del Soviet supremo. La votazione del documento si svolse il 12 dicembre 1993 e la maggioranza (58,43%) votò per la sua adozione, entrata poi in vigore il 25 dicembre 1993, giorno della sua pubblicazione nella "Rossijskaja Gazeta". Dal momento dell’entrata in vigore della Costituzione il testo ha subito numerose modifiche.

Esegesi della nuova costituzione.

La riforma della Costituzione russa è stata realizzata in un momento storico particolare dovuto non solo a una perdurante stagnazione economica, a turbolenze sui mercati globali, ad un calo della popolarità del presidente nonché ad una crescente incertezza nelle élite circa gli scenari politici per i prossimi anni. Come precedentemente citato, sintomatici di tale situazione sono sia l’iniziale riservatezza circa i contenuti del documento e l’evidente fretta di portare a termine i lavori sulla riforma (vd. Tab. 1), che l’inusuale procedura costituzionale e l'evoluzione significativa del contenuto degli emendamenti tra il 15 gennaio (discorso di Putin) e il 10 marzo (seconda lettura del disegno di legge alla Duma di Stato). Senza ombra di dubbio, la riforma è uno degli elementi chiave del processo di successione del potere in Russia, tuttavia il contenuto della legge non determina ancora chiaramente quale scenario di successione verrà scelto dal Cremlino. Nel suo annuale discorso alle Camere del 20 gennaio 2019, Putin ha ben illustrato il senso della riforma, parlando principalmente della garanzia di un maggiore equilibrio tra le diramazioni del potere dello Stato, con particolare riferimento al rafforzamento delle competenze del potere legislativo.Tuttavia il vero senso del discorso era quella di mantenere un forte potere centrale, o meglio, presidenziale. Questo significa che nelle competenze del Capo di Stato, come da documento in vigore, rientrano la definizione dei compiti e delle priorità del governo, il diritto di far dimettere il primo ministro e altri membri del gabinetto a causa di uno svolgimento improprio di compiti o della perdita della fiducia del presidente. Il Presidente ha inoltre la gestione diretta delle Forze Armate e di quelle garanti della protezione della sicurezza e dell’ordine pubblico. Putin ha inoltre ribadito gli argomenti che fanno parte della narrativa politica russa degli ultimi anni: "Il vasto territorio della Russia, la sua complicata struttura territoriale e nazionale, la diversità delle tradizioni storiche e culturali che non gli consentono di svilupparsi normalmente o addirittura di esistere stabilmente nella forma di una repubblica parlamentare”. Le sue parole sono, in verità, un retaggio storico per cui solo un forte potere centrale (Самодержа́ вие/ единодержа́ вие – samoderžavie/ edinoderžavie) è in grado di mantenere unito un Paese grande come la Russia. Contrariamente a quanto inizialmente annunciato dal Presidente, il documento intende consolidare un sistema "super-presidenziale" in cui il Cremlino è l'unico vero centro decisionale.

Osservatorio Strategico 2020– Anno XXII n. IV 87 La nuova Costituzione della Federazione Russa e le sue implicazioni

Ciò sarà ottenuto principalmente subordinando la magistratura alla figura presidenziale e indebolendo i poteri del governo e del primo ministro. In tal modo si avrà l'istituzionalizzazione del controllo informale del Capo di Stato sugli organi di potere a vari livelli. Gli emendamenti alla Costituzione possono essere sommariamente divisi in quattro gruppi8. Il primo gruppo include emendamenti che cambiano sostanzialmente l'equilibrio di potere attribuendo al presidente poteri formali che aumentano il suo controllo diretto sull'esecutivo. La posizione del primo ministro e del governo è stata indebolita, così come la posizione della magistratura. Il presidente dirigerà i lavori del governo mentre il primo ministro non definirà più le linee guida del suo lavoro. Per quanto riguarda il potere esecutivo, finora formalmente sotto la responsabilità del primo ministro, esso è ora scisso. Alcuni membri del gabinetto (principalmente i "ministeri del potere") saranno subordinati al presidente, altri al primo ministro ed entrambi i gruppi saranno anche nominati con modalità differente. Il primo ministro sarà personalmente responsabile nei confronti del presidente e le dimissioni del primo ministro non significheranno automaticamente le dimissioni dell’intero gabinetto; ciò allarga nettamente il margine di manovra del capo di stato nella politica del personale. Il presidente avrà quindi il potere di definire quali autorità federali sono subordinate a lui e quali al primo ministro. Il numero di giudici della Corte costituzionale è passa da 19 a 11, il che faciliterà la pressione politica sull’organo. Il presidente otterrà inoltre il diritto di chiedere al Consiglio della Federazione le dimissioni dei presidenti, vicepresidenti e giudici della Corte costituzionale, della Corte suprema, nonché di alcuni tribunali di livello inferiore. Viene inoltre rafforzata l’immunità (garanzia costituzionale) degli ex presidenti (finora, la loro immunità è stata sancita solo nell'atto), che devono ricoprire la carica di senatore a vita (questo è un nuovo mandato costituzionale per i membri del Consiglio della Federazione, una camera del parlamento che rappresenta le regioni russe). Importante è inoltre la concessione dello status di organo costituzionale e di ampi poteri formali al Consiglio di Stato. Trattasi dell'organo consultivo presidenziale che opera dal 2000 e che riunisce i capi delle regioni e i presidenti della Duma di Stato (camera bassa) e del Consiglio federale (camera alta), i rappresentanti plenipotenziari del presidente nei distretti federali e i capi delle fazioni parlamentari nella Duma di stato. Conformemente agli emendamenti, il Consiglio deve di fatto duplicare i poteri del presidente - deve nominarlo al fine di garantire il funzionamento e la cooperazione armoniosi delle autorità pubbliche, definire le direzioni di base della politica interna ed estera e le priorità dello sviluppo socioeconomico dello stato. Disposizioni dettagliate riguardanti lo "status" di questo organo devono essere incluse nell'atto. Come precedentemente citato, ulteriore obiettivo, desumibile del resto dall’insieme delle varie modifiche, è un maggiore accentramento del potere a cui si accompagna l'eliminazione di deboli governi locali a cui si pensa di far fronte con il principio di un "sistema unificato di autorità pubblica". Tale principio opera a vari livelli: federale, regionale e comunale e il cui funzionamento “armonico” e di cooperazione delle autorità a vari livelli devono essere garantiti dal capo dello Stato. Il secondo gruppo di emendamenti include la "sovranità" nazionale e la postura nei confronti degli obblighi assunti nei confronti del diritto internazionale. Il nuovo documento introduce il divieto di implementazione sul territorio della Federazione di quelle decisioni prese da organi internazionali, che sono state prese sulla base di un'interpretazione degli accordi in vigore in Russia che è "contrario alla costituzione russa". Inoltre, gli obblighi imposti dai tribunali internazionali, compresi i

8 In merito: matrice comparativaСРАВНИТЕЛЬНАЯ ТАБЛИЦА действующей Конституции Российской Федерации с учетом одобренного закона Российской Федерации «О поправке к Конституции Российской Федерации» «О совершенствовании регулирования отдельных вопросов организации и функционирования публичной власти» link in lingua russa: http://duma.gov.ru/media/files/WRg3wDzAk8hRCRoZ3QUGbz84pI0ppmjF.pdfetestorecantelemodifichehttp://duma.g ov.ru/news/48953/

Osservatorio Strategico 2020– Anno XXII n. IV 88 Russia, Asia centrale e Caucaso tribunali arbitrali, non saranno adempiuti dalla Russia se "entrano in conflitto con le basi dell'ordine pubblico legale della Federazione Russa". Finora una simile interpretazione è stata utilizzata nelle leggi e nella giurisprudenza. Inoltre, sono state vietate azioni (o inviti a tali azioni) volte a ‘distaccare’ parte del territorio della Russia (inviolabilità dell’integrità territoriale): in tal senso l'annessione della Crimea è stata dichiarata irreversibile. Il terzo gruppo di emendamenti sono disposizioni di natura “populista”. Troviamo quindi il pacchetto sui diritti sociali (comprese le garanzie che il salario minimo non sarà inferiore al livello di sussistenza e che le prestazioni sociali e le pensioni saranno indicizzate almeno una volta all'anno). La loro attuazione dipende comunque dalle disposizioni esecutive dettagliate contenute negli statuti, che mettono in dubbio il valore reale delle garanzie sociali costituzionali. Tali emendamenti includono anche: una promessa di sostegno ai "compatrioti all'estero" (già regolata dalla legge del 1999), il riconoscimento del benessere dei bambini come "la massima priorità della politica statale" o un apprezzamento speciale dei "lavoratori" nella costituzione (la norma questo duplica una disposizione contenuta nella costituzione dell'URSS). L'obiettivo di questi emendamenti è ottenere un ampio sostegno pubblico per una riforma volta a un'ulteriore centralizzazione dello Stato e al rafforzamento del regime autoritario. Il quarto gruppo di emendamenti include quelli di natura ideologica (la definizione della nazione russa come "costruzione dello stato", un appello a Dio, tradizione o eredità dell'Unione Sovietica). Confermano la via conservatrice del Cremlino, intrapresa nel 2011-2012. Questi emendamenti sono atti ad ottenere il sostegno della parte conservatrice dell'elettorato e a per legittimare la narrativa anti-occidentale del grande Cremlino (analogamente a un'altra disposizione relativa alla venerazione dei difensori della patria e all'obbligo di difendere la "verità storica"). Calendario della Riforma Costituzionale9 Data Avvenimento 19 dicembre 2019 Nel corso dell’annuale conferenza stampa, Putin descrive la costituzione come uno "strumento vivente" (živojinstrument)10che dovrebbe cambiare con l'evoluzione della società. Allo stesso tempo, esclude la possibilità di adottare una nuova legge di base es afferma che la riforma costituzionale dovrebbe essere preparata con cura ed essere oggetto di approfondite discussioni pubbliche. 24 dicembre 2019 Incontro con i leader dei gruppi parlamentari. 15 gennaio 2020 Putin annuncia la riforma costituzionale presentando le principali linee guida e l’istituzione di un gruppo di lavoro sulla riforma. Il gruppo è costituito ed è composto da 75 persone (di cui 11 avvocati) - incl. deputati di entrambe le case del parlamento, artisti, sportivi, attivisti sociali. 20 gennaio 2020 Putin presenta un progetto di emendamento alla costituzione alla Duma di Stato (la legge "Sulla modifica della Costituzione della Federazione Russa. Sul miglioramento della regolamentazione di determinati aspetti dell'organizzazione e del funzionamento dell'autorità pubblica"). 23 gennaio 2020 Prima lettura del progetto. Entro il 2 marzo Il gruppo di lavoro inizia la raccota delle proposte (termine perentorio per la presentazione, 2 marzo) di modifica della costituzione da deputati di vari livelli e organizzazioni sociali. Il termine per la presentazione è stato rinviato più volte a causa del "gran numero di proposte" - in totale, il gruppo di lavoro e il parlamento hanno ricevuto oltre 900 proposte di modifica.

9 Послание Президента Федеральному Собранию, 15.01.2020, www.kremlin.ru. 10 Путин и журналисты говорили на разных языках https://ria.ru/20191219/1562600342.html

Osservatorio Strategico 2020– Anno XXII n. IV 89 La nuova Costituzione della Federazione Russa e le sue implicazioni

13 febbraio Primo incontro di Putin con il gruppo di lavoro e relativa presentazione degli emendamenti proposti.Il presidente decide sulla loro inclusione o esclusionenel progetto di legge per la seconda lettura alla Duma. 26 febbraio Secondo incontro di Putin con il gruppo di lavoro. Segue una ulteriore presentazione di emendamenti. 2 marzo 2020 Presentazione alla Duma, da parte del Presidente,di un pacchetto di emendamenti alla presidenza. Il progetto contiene anche regolamenti riguardanti la procedura di votazione nazionale sulla riforma costituzionale 10 marzo 2020 Discorso di Putin alla Duma, a seguito del quale la Camera adotta un emendamento chiave per "ripristinare" il mandato del presidente (formalmente su richiesta della deputata Valentina Tereškova). 10 marzo 2020 Secondalettura del disegno di legge alla Duma. 11 marzo 2020 Terza lettura del disegno di legge alla Duma e adozione della legge da parte del Consiglio della Federazione. 12 marzo 2020 Approvazione del disegno di legge entro il 2/3 delle assemblee legislative regionali. 18 marzo 2020 Data prevista per la firma della legge da parte del presidente (anniversario dell'annessione della Crimea) 22 aprile 2020 Data inizialmente stabilita per la votazione sul progetto di riforma costituzionale, coincidente con il compleanno di Vladimir Il’ičUl’janov(Lenin) . A causa della pandemia COVID-19, lo stesso è stato posposto al 1 luglio 2020. 1 giugno 2020 Il Presidente Putin ha programmato una nuova votazione per il 1luglio 2020 1 luglio 2020 Giorno della votazione 2 luglio 2020 Si è appreso che, dopo aver elaborato il 100% dei protocolli, i risultati sono stati del 77,92% per le modifiche (affluenza al 67,97%) [65]. 4 luglio 2020 Pubblicazione della Costituzione (RossijskajaGazeta – Federal’nyjvypuskNo 144 (8198)), le modifiche sono entrate in vigorelo stesso giorno.

Tabella 1. Calendario della Riforma.

Reazioni interne alla nuova Costituzione.

Gli emendamenti alla Costituzione non hanno visto solo un alto indice di gradimento testimoniato, apparentemente, dal risultato dalla votazione. Precedentemente, il 16 marzo 2020, è stata infatti pubblicata sul sito della radio "Eco di Mosca"11la lettera aperta contro gli emendamenti alla costituzione. Il documento è stato sottoscritto da 427 personalità12 russe tra cui avvocati, scrittori, giornalisti e accademici contrari all’”azzeramento della presidenza putiniana”, atto ritenuto "illegale, politicamente ed eticamente inaccettabile". Gli autori dell'appello vedono nelle riforme una minaccia allo sviluppo, in chiave democratica, del proprio Paese. Una ulteriore lettera aperta contro gli emendamenti alla Costituzione è stata firmata da 192 deputati13 di comuni e parlamenti regionali di 26 soggetti del paese. I firmatari ritengono le modifiche proposte "incompatibili con la libertà e la democrazia, la dignità e i diritti umani". Gli emendamenti "distruggono lo stato russo e minacciano la sua stessa esistenza nel prossimo futuro".

11 https://echo.msk.ru/blog/echomsk/2606224-echo/ 12 Tra i firmatari della lettera figurano Alexander Anikin (Docente dell'Accademia delle Scienze), Alexander Galichenkov e AlexeyVigasin (professori dell'Università statale di Mosca), Leonid Parfyonov e VasilyUtkin (giornalisti), e altri. 13 Tra cui i deputati municipali di Mosca Konstantin Yankauskas, IlyaAzar, Elena Filina, NatalyaKaplina, deputati dell'Assemblea legislativa di San Pietroburgo MaximReznik e Boris Vishnevsky, nonchéLevShlosberg del parlamento di Pskov

Osservatorio Strategico 2020– Anno XXII n. IV 90 Russia, Asia centrale e Caucaso

Alla fine del mese di gennaio, alcuni politici dell’opposizione (sostenuti anche dall’oligarca Michail Chodorovskij) hanno lanciato la Campagna sociale “NET!” (NO!). Il 15 luglio, oltre 130 persone sono state arrestate durante una marcia non autorizzata dopo aver raccolto le firme contro gli emendamenti in Piazza Puškin a Mosca. L'approvazione dell'azione era stata precedentemente rifiutata con riferimento al decreto del sindaco di Mosca sull'autoisolamento. Tali iniziative sono comunque frutto di una minoranza che, spesso, coglie l’occasione per portare avanti interessi di natura personalistica (vd. Chodorovskij). Infine, è arrivata anche la ‘reazione’ degli organi dell’Unione Europea. Nel gennaio 2020, l’Assemblea parlamentare del Consiglio d'Europaha chiesto alla Commissione di Venezia di valutare una serie di emendamenti. Il 18 giugno, la commissione ha pubblicato una decisione14 in cui raccomandava di cambiare o abbandonare completamente le modifiche proposte nell'articolo 79 della Costituzione, che garantiva alla Russia il diritto di non ottemperare alle "decisioni degli organi interstatali adottate sulla base delle disposizioni dei trattati internazionali della Federazione Russa nella loro interpretazione, contrariamente alla Costituzione della Federazione Russa". Nelle conclusioni viene sottolineato che con l'adesione al Consiglio d'Europa e la ratifica della Convenzione sui diritti umani, la Russia si è impegnata a rispettare le decisioni della CEDU e l'articolo 46 della Convenzione indica che l'esecuzione delle decisioni giudiziarie è obbligatoria. La Commissione ha inoltre espresso perplessità per la possibilità di licenziare i giudici della Corte costituzionale. Nel mese di marzo, un gruppo di avvocati, politologi e attivisti per i diritti umani russi, ha inviato un appello al Consiglio d'Europa con la richiesta di effettuare un esame urgente degli emendamenti alla Costituzione della Federazione Russa.

Conclusioni

I 46 nuovi emendamenti alla Costituzione, comprensivi dei 4 nuovi articoli, ne fanno un documento assai diverso da quello precedente. Essi sostanzialmente sanciscono ciò che già era presente: il citato concetto di samoderžavie, in nome del quale è giustificabile l’accentramento del potere e il sacrificio, in nome di un bene più “elevato” di parte dei diritti personali. L’impatto interno della Costituzione è stato e sarà molto forte; il risultato del voto è un segnale politico per l'élite e gli oligarchi russi, un monito per cui Vladimir Putin rimarrà il garante delle dipendenze politiche e commerciali del Paese continuando anche la lotta alla corruzione e all’illegalità, altri cavalli di battaglia del Presidente.Indubbiamente,nella politica interna le tendenze accentratrici e autoritarie si intensificheranno, portando al contempo ad un maggiore controllo sulla società civile ma anche alla garanzia – a detta del governo – dellapace sociale dovuta principalmente alle elargizioni economiche alle fasce più deboli. Ad ogni modo, la soluzione della eventuale (probabile) candidatura di Putin, non era forse stata presa in considerazione al momento della presentazione del progetto di riforma, ma la riflessione sulle alternative per la carica presidenziale non ha lasciato spiragli per una soluzione diversa. Inoltre, contrariamente a quanto diffuso in occidente, non si tratta solo di personale brama di potere. Guardando alla storia più recente della Russia infatti, ai terribili strascichi della caduta dell’URSS o del nero periodo sotto il governo El’cin, alla generale e generalizzata crisi economica ma anche di valori, i russi hanno giustamente paura di perdere la conquistata stabilità, soprattutto dato che al momento non v’è un degno sostituto. Per quanto la soluzione agli occhi dell’occidente che valuta la Russia con il proprio metro di paragone, possa sembrare inaccettabile, è al momento, probabilmente l’unica valida. In politica estera, aumenterà la promozione della versione propagandistica della storia (principalmente quella relativa alla seconda guerra mondiale), che avrà un impatto negativo

14 https://www.venice.coe.int/webforms/documents/?pdf=CDL-AD(2020)009-e

Osservatorio Strategico 2020– Anno XXII n. IV 91 La nuova Costituzione della Federazione Russa e le sue implicazioni soprattutto sulle già compromesse relazioni con la Polonia. Il punto più controverso però sarà la superiorità del diritto nazionale su quello internazionale e sulle eventuali controversie che si potranno creare in tale ambito.

Avvenimenti salienti nella regione.

La nuova guerra per il Nagorno-Karabakh.

Dopo un apparente cessate il fuoco, seguito agli scontri del luglio scorso15, il conflitto tra l’Armenia e l’Azerbaigian per il Nagorno-Karabakh ha ripreso con un’intensità inaspettata e il relativo rimpallo di responsabilità. L’Armenia incolpa l'Azerbaigian di aver lanciato un attacco aereo e di artiglieria sul Nagorno-Karabakh, mentre Baku replica di aver condotto "una controffensiva in risposta a una provocazione militare". Ciò che però è certo è che dall’inizio del conflitto vi è un elevato, per quanto non precisamente chiaro, numero di vittime: secondo il Nagorno-Karabakh, hanno perso la vita 51 soldati armeni, 202 in totale dall'inizio degli scontri, mentre l'Azerbaigian sostiene che siano morti 550 armeni, cosa che Yerevan nega affermando a sua volta che 200 azeri sono stati uccisi. Intanto, l'Armenia ha dichiarato la legge marziale e la mobilitazione generale e l'Azerbaigian ha introdotto lo stato di guerra in alcune delle sue province. Sono entrati in funzione anche i mezzi della guerra elettronica e internet è stato oscurato in entrambi i paesi.

Contesto internazionale.

Il conflitto si colloca in un quadro ben più ampio in cui intervengono attori internazionali tra cui Russia e Turchia, paesi che si sono già scontrati in teatri quali Siria e Libia. In questo contesto la Turchia, paese membro della NATO, sostiene l'Azerbaigian da molto tempo, Ankara e Baku infatti hanno stretti legami culturali derivanti dalla comunanza linguistica turca e ne è dimostrazione la dichiarazione del presidente Recep Tayyip Erdoğan che ha definito l'Armenia "la più grande minaccia alla pace" nella regione. Di contro, sul rapporto con l’Armenia pende una pesante spada di Damocle: il mancato riconoscimento da parte della Turchia dei massacri del 1915 quali atti di genocidio. Il fattore Russia, invece, risulta più “ambiguo”, essa infatti intrattiene relazioni economiche con entrambi i paesi anche se quelle con Yerevan risultano più strette data la comune appartenenza all’Unione Economica Eurasiatica e all’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva (motivo per il quale l’Armenia potrebbe potenzialmente chiedere l’intervento militare russo). A questo si aggiunge il ruolo della regione nel mercato energetico globale: gli oleodotti e i gasdotti che collegano l'Azerbaigian alla Turchia sono essenziali per l'approvvigionamento di petrolio e gas dell'Unione europea e passano vicino al Nagorno-Karabakh. In merito al conflitto la Russia, contrariamente alla Turchia, ha assunto una posizione più cauta auspicando (come sostenuto da Putin nel corso della conversazione telefonica con Pashinyan) una sospensione delle operazioni militari. La reazione della Russia deve anche essere vista alla luce dell’inasprirsi delle relazioni con l’Occidente a causa dell’appoggio al presidente bielorusso, del presunto avvelenamento di Navalnyj o dell’estenuante conflitto in Ucraina. L’Unione Europea, parimenti al Dipartimento di Stato Americano e alle Nazioni Unite, ha chiesto tramite Josep Borrell, "la fine immediata di tutti gli atti di violenza". Al momento il suo appello pare caduto nel nulla e ricorda i precedenti tentativi di mediazione che hanno si portato a un cessate il fuoco che perennemente è stato violato. Così, per oltre un quarto di secolo, a partire dal cessate il fuoco del 1994, l'iniziativa di pace internazionale nota come Processo di Minsk (Francia, Russia e

15 L’approfondimento nell’OS nr. 2/2020

Osservatorio Strategico 2020– Anno XXII n. IV 92 Russia, Asia centrale e Caucaso

Stati Uniti e sotto gli auspici dell'OSCE) ha cercato di risolvere il conflitto del Nagorno-Karabakh senza successo. Tuttavia, anni di riunioni diplomatiche e successive missioni nella regione, comprese le capitali dell'Armenia e dell'Azerbaigian, non hanno portato a nessun risultato reale. Gli incontri del 2019 e del 2020 dei presidenti Nikol Pashinyan e Ilham Aliyev durante il Forum di Sicurezza di Monaco hanno fatto ben sperare, ma il dialogo si è interrotto a causa della pandemia. A questo punto è quasi impossibile prevedere quanto dureranno i combattimenti e se vi sarà un’escalation delle violenze. La situazione potrebbe limitarsi allo scontro di qualche giorno come accaduto nel 2016 o trasformarsi, seguendo la volontà delle potenze internazionali, in una vera e propria guerra regionale.

Osservatorio Strategico 2020– Anno XXII n. IV 93 Asia Meridionale e Orientale Claudia Astarita

5G, Huawei e ZTE: una strategia europea

Nel 2016, la Commissione Europea ha presentato un piano d'azione per lo sviluppo del 5G, fissando un calendario operativo per l’Europa per gli anni successivi1. Obiettivo dell’iniziativa: organizzare un lancio coordinato dei servizi e dei prodotti 5G entro il 2020. Lo standard tecnologico di quinta generazione per le reti mobili ha iniziato a essere distribuito su scala globale nel 2019. Immediatamente, alcuni operatori, e in particolare i cinesi Huawei e ZTE Corporation, sono stati accusati di offrire una porta d’accesso sui dati sensibili alla Cina2 o di condurre operazioni di vero e proprio spionaggio3. Nel 2018, quando è scoppiata la guerra commerciale tra Washington e Pechino, gli Stati Uniti hanno votato una legge che di fatto ha vietato l’utilizzo delle apparecchiature Huawei e ZTE da parte del governo federale degli Stati Uniti per problemi di sicurezza4. Sotto la pressione dell'amministrazione Trump, la Commissione europea e l'Agenzia europea per la sicurezza informatica hanno pubblicato un rapporto (gennaio 2020) che descrive nel dettaglio le preoccupazioni in termini di sicurezza legate all’implementazione della rete 5G. Il documento includeva un "portafoglio"5 di raccomandazioni per gli Stati membri, che consigliava loro di "limitare o escludere" i fornitori di apparecchiature 5G ad alto rischio dalle reti di telecomunicazioni nazionali. Pur non facendo riferimento ad alcun fornitore specifico, il rapporto chiedeva ai paesi di definire i profili di operatori ad alto rischio sulla base di una serie concordata di criteri, di proporre soluzioni per limitare la presunta vulnerabilità delle reti nazionali e di presentare poi un rapporto per anticipare le misure che sarebbero state attuate entro giugno 2020. Un semplice esame delle varie decisioni adottate dai diversi paesi europei è sufficiente per mostrare la mancanza di coordinamento all’interno dell’Unione sul piano della sicurezza informatica. ll 14 luglio scorso, messo sotto pressione su più fronti, il primo ministro britannico Boris Johnson ha annunciato il divieto di utilizzare le tecnologie Huawei nelle reti di telecomunicazioni britanniche. Fino a quel momento, nessun altro paese aveva imposto il divieto assoluto dell’utilizzo delle apparecchiature Huawei e la decisione britannica ha certamente riportato all’ordine del giorno il dibattito sulle tecnologie cinesi6. Le posizioni degli altri paesi europei sono molto diverse, e variano sia in funzione di una differente percezione del rischio, sia in conseguenza della reale possibilità di poter avere accesso a un’alternativa. Prima che il Regno Unito prendesse la sua decisione, Guillaume Poupard, il responsabile dell'Agenzia francese per la sicurezza informatica, aveva escluso un divieto totale per le apparecchiature Huawei dal mercato locale, ma aveva indicato che gli operatori nazionali sarebbero stati invitati ad evitare di rafforzare le rispettive collaborazioni con le compagnie cinesi7.

1 “Communication – 5G for Europe: An Action Plan and accompanying Staff Working Document”, Directorate General for Communications Networks, Content and Technology. European Commission. 14 settembre 2016. 2 Bruce Schneier, “China Isn’t the Only Problem With 5G”, Foreign Policy, 10 gennaio 2020. 3 Sean Gallagher, "UK cyber security officials report Huawei's security practices are a mess", Ars Technica, 28 marzo 2019. 4 Jeff Mason, “Trump signs defense policy bill with watered-down China measures”, Reuters, 13 agosto 2018. 5 Cybersecurity of 5G networks EU Toolbox of risk mitigating measures, Cybersecurity & Digital Privacy Policy (Unit H.2). NIS Cooperation Group. Gennaio 2020. 6 Douglas Busvine, “As Britain decides, Europe grapples with Huawei conundrum”, Reuters, 28 gennaio 2020. 7 ANSSI: Agence nationale de la sécurité des systèmes d'information

Osservatorio Strategico 2020– Anno XXII n. IV 94 Asia Meridionale e Orientale

Eppure, a luglio anche Parigi ha annunciato che a partire dal 2028 gli operatori francesi non potranno più utilizzare le tecnologie cinesi8. Per quanto Francia e Regno Unito abbiano finito con l’assumere posizioni molto simili, la strategia con cui hanno scelto di metterle in pratica è diversa9. Pur pianificando una graduale estromissione dei fornitori cinesi dal mercato locale (su una scala di 10 anni), la Francia consentirà alle società di telecomunicazioni che fanno già affidamento a Huawei, in alcuni casi in maniera importante, di prepararsi meglio al cambiamento, immaginando uno spostamento graduale sulle tecnologie Nokia e Ericsson10. Anche il Belgio ha recentemente chiarito la propria posizione, di fatto molto simile a quella della Francia, vale a dire orientata alla progressiva esclusione delle tecnologie cinesi dal mercato11. I fornitori cinesi rappresenteranno al massimo il 35 percento della rete nazionale e verrà loro impedita ogni forma di accesso ai dati sensibili. I servizi di sicurezza sono al momento al lavoro per offrire una definizione più chiara dei dati sensibili. Nel mese di giugno, anche Telecom Italia (TIM) ha escluso Huawei e ZTE da una gara per l’installazione di apparecchiature 5G sulle reti nazionali, riorientando la scelta verso operatori come Ericsson, Nokia, Cisco e Mavenir. Senza citare la fonte, il quotidiano La Repubblica ha affermato che il paese stava di fatto valutando l'esclusione delle società cinesi dalla costruzione della sua rete 5G12. Anche i Paesi Bassi sono molto scettici riguardo all’implementazione della tecnologia cinese. Quando il colosso delle telecomunicazioni KPN ha annunciato la collaborazione con Huawei per la realizzazione della rete 5G olandese, le critiche ricevute sia dal parlamento sia dall’ambasciatore degli Stati Uniti nei Paesi Bassi hanno indotto la compagnia a cambiare idea13. Successivamente, il governo ha deciso di non rinnovare la licenza per le esportazioni di ASML, dal valore di circa 150 milioni di dollari, che avrebbero dovuto essere investiti in tecnologie cinesi. Persino la Polonia ha optato per una strategia simile e ha finalizzato una serie di criteri per valutare il rischio potenziale dei fornitori di apparecchiature destinate al mercato delle telecomunicazioni. Quando il documento contenente questi criteri è stato pubblicato, Huawei lo ha “denunciato”, accusandolo di essere una dichiarazione politica volta a confermare la sua esclusione dal mercato nazionale e in particolare dalla realizzazione della rete 5G. La scelta di Varsavia di rimanere indipendente dai fornitori cinesi è stata vista come una diretta conseguenza della politica basata sugli incentivi messa in atto dagli Stati Uniti per tenere la Polonia dalla propria parte14. Lo scorso settembre, quando Washington ha di nuovo invitato i paesi dell’Unione Europea a rivedere la propria strategia nei confronti dei colossi delle telecomunicazioni cinesi, Mateusz Morawiecki, il primo ministro polacco, ha chiesto ai vicini europei di allinearsi alla visione americana. Subito dopo, anche l’Agenzia per la sicurezza informatica della Repubblica Ceca si è espressa in maniera simile, esplicitando i numerosi rischi legati all’implementazione di tecnologie Huawei e ZTE.

8 Mathieu Rosemain e Gwénaëlle Barzic, “Exclusive: French limits on Huawei 5G equipment amount to de facto ban by 2028”, Reuters, 22 luglio 2020. 9 Laurenz Gehrke, “France introduces de facto ban on Huawei 5G equipment by 2028”, Politico, 7 luglio 2020. Disponibile a: http://5gobservatory.eu/wp-content/uploads/2020/07/90013-5G-Observatory-Quarterly-report- 8_1507.pdf 10 “La France n'a pas l'objectif d'interdire Huawei, déclare Macron”, Reuters, 16 maggio 2016. 11 Philippe Le Corre e John Ferguson, “How Europe’s Big 3 Are Shifting on China”, The Diplomat, 14 agosto 2020. Available at: https://thediplomat.com/2020/08/how-europes-big-3-are-shifting-on-china/ 12 “Italy considering whether to exclude Huawei from 5G: report”, Reuters, 8 luglio 2020. Disponibile a: https://www.reuters.com/article/us-huawei-italy/italy-considering-whether-to-exclude-huawei-from-5g-report- idUSKBN2491C1 13 “We are not making threats’: US ambassador to NL reconfirms position on Huawei”, Dutch News, 22 giugno 2020. 14 Paulina Uznanska, “Will Poland Be an Anti-Huawei Force in the EU?”. The Diplomat. 27 agosto 2020.

Osservatorio Strategico 2020– Anno XXII n. IV 95 5G, Huawei e ZTE: una strategia europea

Sono soltanto due i paesi europei che hanno deciso di strutturare una collaborazione più solida con i due principali operatori cinesi: Ungheria e Spagna. L'Ungheria ha annunciato che non imporrà alcuna restrizione nei confronti di Huawei e ZTE, sostenendo di non condividere l’idea secondo cui le due aziende sarebbero responsabili di attività di spionaggio. A settembre 2019, il paese ha formalizzato il coinvolgimento di Huawei nella costruzione della sua rete 5G. In Spagna, l'operatore di telefonia mobile Orange ha commercializzato le sue prime offerte 5G con il supporto di Huawei e ZTE, che controllano, rispettivamente, il 50 e il 5 per cento della rete (la parte restante si appoggia su tecnologie Ericsson). Anche Vodafone garantirà il funzionamento del 65 per cento della sua rete grazie alla tecnologia Huawei, mentre gli altri operatori nazionali saranno sostenuti da Ericsson e Nokia. Apparentemente, il dibattito interno sui possibili rischi legati all’utilizzo della tecnologia cinese è stato molto limitato15. In Germania, il più grande partner commerciale della Cina e il più grande mercato delle telecomunicazioni in Europa, il dibattito su Huawei e ZTE è diventato politico. Se i rappresentanti dell’opposizione tendono ad essere molto critici nei confronti delle tecnologie cinesi, il ministro dell'Economia, il capo dell'Agenzia di regolamentazione della rete di telecomunicazioni, il provider di telefonia mobile Deutsche Telekom e i rappresentanti delle industrie automobilistiche sembrano essere più disponibili all’apertura del mercato tedesco alle tecnologie cinesi16. I tre operatori di telefonia mobile nazionali, e in particolare Deutsche Telekom, sono tutti clienti di Huawei, che è presente nel paese da almeno quindici anni17. Un rapporto realizzato da Oxford Economics per conto di Huawei ha cercato di stimare i costi di una potenziale estromissione del colosso della tecnologia cinese dal mercato locale, arrivando alla conclusione che la sostituzione della maggior parte delle tecnologie cinesi costerebbe all’Unione europea circa tre miliardi di euro, e 479 di questi sarebbero a carico della Germania18. Su un piano prettamente politico, la linea tradizionale della cancelliere Angela Merkel volta a "promuovere il cambiamento attraverso il commercio" con la Cina è stata fortemente criticata a causa delle forti prese di posizione cinesi nei confronti dello Xinjiang e di Hong Kong. La mancanza di una chiara posizione comune (e vincolante) per l'Unione Europea ha reso difficile per alcuni stati trovare un equilibrio tra interessi commerciali e distanza ideologica da Pechino. Se è vero che questa incertezza potrebbe aiutare le grandi compagnie cinesi ad aprirsi nuovi spazi sul mercato europeo, è anche importante ricordare come, in questa fase, l’Europa sembri non essere capace di trattare con la Cina in maniera coordinata perché, sul fronte delle tecnologie, sono le capacità interne e le prospettive dei singoli paesi a orientarne le scelte strategiche. Il che vuol dire che l’ipotesi di svincolarsi dalla Cina resta realistica solo quando una reale alternativa esiste, e i tempi di "separazione" variano in funzione della stima dei tempi di sostituzione.

15 Douglas Busvine, “As Britain decides, Europe grapples with Huawei conundrum”, Reuters, 28 gennaio 2020. 16 Andreas Rinke, “Merkel's conservatives set to stop short of Huawei 5G ban in Germany”, Reuters, 11 febbraio 2020. Available at: https://www.reuters.com/article/idUSL8N2AB1YG 17 “Ericsson. Deutsche Telekom and Ericsson strengthen partnership with 5G deal”, Comunicato stampa Ericsonn, 22 luglio 2020. Disponibile a: https://www.ericsson.com/en/press-releases/2020/7/deutsche-telekom-and-ericsson- strengthen-partnership-with-5g-deal 18 Edward Oughton e Martin Pesendorfer Martin “The Economic Impact of Restricting Competition in 5G Network Equipment”, Oxford Economics, novembre 2019.

Osservatorio Strategico 2020– Anno XXII n. IV 96 America Latina Francesco Davide Ragno

La questione energetica: sovranità, efficienza, differenziazione.

L’approvvigionamento energetico è stato, nel corso del tempo, uno dei temi con cui storicamente si sono dovuti confrontare le classi dirigenti in America Latina. Non solo per questioni di natura sociale nel tentativo di allargare le maglie dei differenti sistemi di distribuzione (elettrico, di combustibile e di gas, ad esempio), ma anche per questioni di natura economica. Difatti, i modelli di sviluppo che hanno preso forma nei Paesi latinoamericani non hanno potuto evitare la dipendenza del bilancio statale dall’andamento dei prezzi delle fonti primarie e, nel caso precipuo, in quelle energetiche. Dall’Argentina fino al Messico, passando per Brasile e Venezuela, buona parte delle classi dirigenti latinoamericane sono chiamate a confrontarsi con la questione energetica affrontando tre delicatissime sfide: quella della sovranità energetica, quella della sostenibilità economica della gestione dell’energia e, infine, la sfida della differenziazione in tema di approvvigionamento. Si tratta di sfide politiche, prima ancora che diatribe su tecnicismi, che hanno importanti riverberi di natura internazionale nel contesto regionale e in quello globale. La prima questione riguarda l’idea secondo cui uno Stato dovrebbe essere capace di produrre una quantità di energia pari alle necessità del proprio Paese (o perlomeno avvicinarsi). Un’idea che ha profonde radici nella cultura politica latinoamericana: sin dalla prima metà del XX secolo, le classi dirigenti in America Latina si sono mosse per creare entità e organizzazioni statuali capaci di sfruttare le risorse energetiche presenti sul proprio territorio (e nel sottosuolo). In altre parole, sin dalla prima metà del Novecento si è radicata in America Latina la percezione che fosse necessaria non solo l’autosufficienza energetica, ma anche che lo sfruttamento di tali risorse dovesse essere, di fatto, ad appannaggio dello Stato. Ed allora si crea un vincolo inossidabile tra il mercato delle risorse energetiche e le performance economiche dello Stato. Queste ultime erano positive quando il primo era in crescita e, viceversa, il primo si contraeva quando la cosa pubblica presentava risultati negativi. Questa relazione ancor oggi continua a reggere per buona parte dei Paesi mostrando la vulnerabilità delle istituzioni e dei mercati latinoamericani, non solo in ambito energetico. La sovranità è profondamente connessa all’efficienza dello sfruttamento energetico. Quest’ultimo, infatti, dipende in una certa misura dalle possibilità che le finanze pubbliche hanno di finanziare l’aumento di produttività delle risorse. In tal senso, la crisi economica che stanno attraversando buona parte degli Stati latinoamericani, negli ultimi anni, mostra le aporie di un siffatto modello. Il caso venezuelano è, in quest’ottica, un esempio evidente di quanto la statalizzazione dello sfruttamento e commercializzazione delle risorse energetiche ha portato ad un calo della qualità e dei volumi delle vendite. Il petrolio venezuelano, oggi, non solo è estratto in minori quantità rispetto a qualche anno fa, ma anche a costi eccessivamente superiori: una diminuzione già ben tangibile lo scorso anno, ben prima dell’avvio della crisi dovuta alla pandemia da Covid_191. Diverso, ad esempio, è il caso del petrolio pre-salt presente nel sottosuolo brasiliano. L’azienda statale Petrobras (a partecipazione privata), infatti, negli ultimi giorni ha stretto un accordo con le imprese multinazionali Galp, Shell e Repsol per il supporto ad ampliare la logistica e lo sviluppo di infrastrutture per processare il gas naturale delle zone del pre-salt (Petrobras, 2020). In tal senso, la ricerca di un supporto di finanziamenti privati nazionali mostra il tentativo di voler mantenere alto il livello di produttività in un campo di produzione, come quello energetico, dove le regole stanno cambiando a causa anche degli scossoni commerciali.

1 Si vedano a tal proposito le stime elaborate dalla Torino Economics e diffuse dal portale «Finanzadigital.com» (2020).

Osservatorio Strategico 2020– Anno XXII n. IV 97 America Latina

Vi è, infine, la questione della differenziazione legata in particolar modo allo sviluppo di forme di approvvigionamento energetico alternative a quelle fossili. Mentre il World Energy Council (WEC), nel report pubblicato nel settembre 2019, ha mostrato i passi in avanti fatti dai Paesi latinoamericani in materia di energie rinnovabili, esistono ancora profonde incertezze e grandi margini di differenziazione energetica: sono solo 10 gli Stati che si posizionano nelle prime sessanta posizioni del ranking elaborato dal WEC (World Energy Council, 2019: 56-58). In tal senso, come ha sostenuto di recente Francisco Monaldi dell’Università del Texas, «non ci sarà nei prossimi trenta anni un’alternativa al petrolio o al gas naturale», il che significa da un lato promuovere le energie rinnovabili ma non dimenticarsi di quelle fossili e in particolar modo del gas (Cota, 2020). Il panorama composito che emerge concede ancora ad alcuni Paesi della regione latinoamericana un ‘tempo supplementare’ per rendere più efficiente il proprio patrimonio energetico. Un’opportunità che, ad oggi, purtroppo sembra rimanere in secondo piano nelle agende dei governi.

Bibliografia

Petrobras (2020). «We signed an agreement for natural gas transportation and processing». In Petrobras.br, 2/10/2020 [testo disponibile a https://petrobras.com.br/en/news/we-signed-an- agreement-for-natural-gas-transportation-and-processing.htm, ultimo accesso 3/10/2020.

World Energy Council (2019). World Energy Trilemma Index 2019. London: World Energy Council. Cota I. (2020), « “América Latina tiene una oportunidad tremenda, que lo más probable es que no sepa aprovechar”». In El País, 31/08/2020, testo disponibile a https://elpais.com/economia/2020- 08-31/america-latina-tiene-una-oportunidad-tremenda-que-lo-mas-probable-es-que-no-sepa- aprovechar.html, ultimo accesso 3/10/2020.

Finanza Digital (2020). « Los costos del crudo venezolano superan al precio de cotización en el mercado petrolero internacional». In FinanzaDigital.com, 20/03/2020, testo disponibile a https://www.finanzasdigital.com/2020/03/los-costos-del-crudo-venezolano-superan-al-precio-de- cotizacion-en-el-mercado-petrolero-internacional/, ultimo accesso 3/10/2020.

Osservatorio Strategico 2020– Anno XXII n. IV 98 Pacifico Matteo Dian

RIMPAC-2020 e la cooperazione militare nel Pacifico.

Introduzione

Tra il 17 e il 30 di Agosto si è svolta l’edizione 2020 dell’esercitazione militare multilaterale RIMPAC (Rim of the Pacific). Questa è la più grande esercitazione navale multilaterale a livello globale e coinvolge la maggioranza degli alleati degli Stati Uniti nella regione dell’Asia Pacifico. Questa sintetica analisi proporrà una breve introduzione sul ruolo della RIMPAC e chiarirà la funzione politica e strategica dell’esercitazione. In particolare, verrà sottolineato come questa esercitazione sia funzionale a trasmettere un segnale di tipo politico, ribadendo l’impegno degli Stati Uniti e dei propri alleati nel promuovere la deterrenza nella regione del Pacifico. In secondo luogo, l’esercitazione rende visibile la graduale transizione da un ordine regionale fondato sulle alleanze bilaterali ad una “architettura della sicurezza a network” (Dian e Meijer, 2020). Infine, l’esercitazione è indirizzata ad introdurre e sperimentare innovazioni tecniche e tecnologiche.

Le esercitazioni multilaterali e il networking delle forze nell’Asia Pacifico.

Le esercitazioni militari multilaterali hanno diversi obiettivi. Dal punto di vista tattico e tecnico permettono di migliorare l’interoperabilità, la comunicazione e il coordinamento tra forze armate di diversi paesi e il livello di preparazione nel caso in cui l’uso della forza diventi necessario. Le esercitazioni hanno anche un valore di tipo politico-strategico. Esse vengono considerate come “segnali costosi”, ovvero come strumenti atti a rafforzare la credibilità dei un certo tipo di scelta strategica (Fearon 1997; Montgomery, 2020; Sechser, 2018). Da questo punto di vista le esercitazioni RIMPAC, svolte con cadenza bi-annuale, sono da considerarsi come un tassello di una strategia più ampia, ovvero quella della creazione di una “architettura della sicurezza a network” (o networked security architecture) nell’Asia Pacifico. Quest’ultima è stata definita come “una rete formata accordi bilaterali, mini-laterali e multilaterali tra gli Stati Uniti e i loro alleati e partner nella regione” (Dian e Meijer 2020). Queste forme di collaborazione tendono ad essere complementari e non alternative alle alleanze del “Sistema di San Francisco”1. Nell’ultimo decennio, infatti, sono emerse forme di cooperazione di tipo mini- laterale, come quella tra Stati Uniti, Australia e Giappone; forme di collaborazione bilaterale, quali quelle tra Giappone e Australia o Giappone e Filippine; inoltre, paesi alleati hanno dato vita a nuove forme di collaborazione con paesi non allineati, quali Vietnam, Indonesia e Singapore, sia su base bilaterale sia su base multilaterale (Dian, 2020; Capie 2020). Lo scopo della transizione da un ordine basato unicamente sulle alleanze bilaterali ad un sistema a network è quello di contenere i limiti dell’ascesa cinese, evitando che questa conduca al declino dell’ordine regionale promosso dagli Stati Uniti e dai loro alleati nel periodo successivo alla guerra fredda (Dian e Meijer 2020).

L’esercitazione RIMPAC- 2020

RIMPAC è la più grande esercitazione navale multilaterale a livello globale e si svolge con scadenza bi-annuale dall’inizio degli anni Settanta.

1 Con sistema di “San Francisco” si intendono le alleanze promosse all’inizio della guerra fredda, ovvero le alleanze bilaterali che gli Stati Uniti hanno stipulato con Giappone, Corea del Sud, Australia e Thailandia.

Osservatorio Strategico 2020– Anno XXII n. IV 99 Pacifico

E’ ospitata dal Comando Indo-Pacifico2 della Marina degli Stati Uniti, e coordinata dal quartier generale di Pearl Harbour, presso Honolulu nello stato delle Hawaii. Le prime edizioni coinvolgevano soprattutto forze armate del mondo anglo-sassone. Gli altri partecipanti, oltre agli Stati Uniti erano Australia, Canada, Gran Bretagna, e Nuova Zelanda. Negli anni successivi si sono aggiunte altre nazioni tra le quali Giappone, Corea del Sud, Indonesia, Malesia, Cile, Colombia, Francia e Olanda. Durante diverse edizioni sono stati ammessi paesi osservatori, tra i quali anche Russia e Cina. L’edizione del 2018 aveva coinvolto 26 nazioni, 47 unità navali di superficie, cinque sottomarini e più di 25,000 uomini. Prima della pandemia, il programma per l’esercitazione del 2020 includeva 30 paesi, 50 unità navali e fino a 30.000 uomini. L’edizione di quest’anno, tuttavia, è stata limitata dalla pandemia di COVID-19 ed ha incluso un numero inferiore di nazioni partecipanti, così come di uomini e mezzi impiegati (Childs, 2018). A RIMPAC-2020, infatti, hanno partecipato Australia, Brunei, Canada, Francia, Giappone, Nuova Zelanda, Corea del Sud, Filippine, e Singapore, oltre agli Stati Uniti. Sono stati coinvolti 22 navi, un sottomarino e più di 5,300 uomini. Questa edizione, per via delle necessarie misure sanitarie, è stata interamente svolta in mare, evitando l’uso di basi o attività anfibie a terra. Sono quindi state escluse dal programma le parti riguardanti evacuazioni, disaster relief e sbarchi anfibi. Di conseguenza, l’esercitazione si è concentrata su aspetti legati alle strategie di conflitto anti- nave, anti-sottomarino e di intercettazione marittima, culminate un SINKEX, ovvero l’affondamento di una nave cargo, la USS Durham, ritirata dal servizio nel 2004.

Segnali Politici

Nonostante le dimensioni ridotte rispetto al passato, RIMPAC ha inteso inviare dei segnali di tipo politico, sia verso la Cina, sia verso gli alleati degli Stati Uniti. In primo luogo, l’esercitazione si è svolta nonostante la pandemia. Ciò segnala che, nonostante le restrizioni, permane la volontà di dimostrare l’impegno di Washington e dei suoi alleati nell’esercitare deterrenza nella regione. Il secondo messaggio importante è rivolto agli alleati ed ai partner degli Stati Uniti. La sfida militare cinese, in particolare nel Mare Cinese Meridionale, richiede sempre maggiore cooperazione militare, politica e diplomatica (Cham e Cayon, 2020). In questo senso segnali positivi vengono dalla partecipazione delle Filippine, alleato americano che negli ultimi anni si è avvicinato alla Cina, dell’Indonesia e di Singapore. Inoltre, Giappone, Corea del Sud e Australia hanno contribuito schierando asset molto significativi. Il primo ha inviato la porta elicotteri Hyuga class, uno dei simboli della rinascita militare giapponese3, e un cacciatorpediniere lanciamissili di classe Otago; la seconda ha inviato due caccia torpedinieri Aegis; infine, l’Australia ha inviato quattro navi tra le quali il cacciatorpediniere Hobart-class e due fregate di classe Anzac (Khan e Moriyasu, 2020). La mancata partecipazione del Vietnam, al contrario, è da interpretarsi come un segnale negativo. Hanoi aveva partecipato nel 2018, mettendo in evidenza la progressiva convergenza con gli Stati Uniti e i loro alleati nel Mare Cinese Meridionale. La mancata partecipazione del 2020 è interpretabile come una necessità da parte vietnamita di non inasprire il confronto con Pechino. L’altro segnale politico fondamentale riguarda il tipo di esercitazione. Il focus su strategie anti-nave, anti-sottomarino e intercettazione in mare richiama evidentemente la centralità della minaccia posta dalla strategia cinese nel Mare Cinese Meridionale.

2 Fino al 2017 Comando Pacifico o PACOM 3 La porta-elicotteri Hyuga Class può essere convertita a porta-aerei leggera con l’utilizzo degli F-35B a decollo verticale.

Osservatorio Strategico 2020 – Anno XXII n. IV 100 RIMPAC-2020 e la cooperazione militare nel Pacifico

Innovazione tecnologica.

Le precedenti RIMPAC avevano contribuito a provare una serie di innovazioni tecnologiche nell’ambito di un’esercitazione lunga e complessa. Ad esempio, nel 2014 le forze armate americane hanno testato il veicolo anfibio da sbarco Ultra Heavy-Lift Amphibous Connector e il Legged Squad Support System (il cosiddetto “mulo-robot”). Nel 2018, l’Air Force americana ha testato il missile anti-nave a lungo raggio (LRASM, Long Range Anti-Ship Missile) AGM 158C, missile in grado di colpire unità navali nemiche a lunga distanza, evitando i sistemi anti-missile e sistemi di jamming avversari (Werner, 2020). Per il momento non è ancora chiaro quali nuove tecnologie siano state provate dalle forze armate americane durante RIMPAC 2020. Tuttavia, alcuni test importanti sono stati effettuati da alleati e partner. Ad esempio, Singapore ha testato per la prima volta dei missili SAM (missili surface to air) basati sulla fregata di classe Formidable (Keng, 2020). Le Filippine per la prima volta hanno schierato la fregata Jose Rizal, prima imbarcazione dotata di missili teleguidati del paese (Manaranche, 2020). Il Brunei ha testato i missili anti-nave Exocet di produzione francese. L’Australia ha testato con successo sia i missili anti-nave Harpoon Block II sia i missili SM-2, utilizzabili sia contro aerei ed elicotteri sia contro missili balistici (Rahmat, 2020).

Conclusione

L’esercitazione multilaterale RIMPAC anche se nella versione limitata del 2020, rimane una risorsa molto significativa per gli Stati Uniti e i loro alleati e partner. In primo luogo, perché contribuisce a ribadire l’impegno americano verso la deterrenza nella regione e più in generale verso il consolidamento dell’ordine regionale. Inoltre, momenti di cooperazione militare multilaterale quali RIMPAC, Cobra Gold o Balikatan, rappresentano una risorsa importante perché sottolineano la graduale evoluzione verso un’architettura della sicurezza a network, nella quale le alleanze bilaterali vengono sempre più integrate da una serie di altre forme di cooperazione bi, mini e multi-laterali che coinvolgono alleati e partner nella regione e oltre.

Bibliografia

Capie, D. (2020). The power of partnerships: US defence ties with Indonesia, Singapore and Vietnam. International Politics, 57: 242-258.

Cham, J. e Canyon, D. (2020). Why Militaries Should Play Games with Each Other RAND Corporation https://www.rand.org/blog/2020/08/why-militaries-should-play-games-with-each- other.html Ultimo Accesso 9 Settembre 2020.

Childs, (2018). RIMPAC 2018: an exercise in maritime manoeuvring and messaging. IISS Military Balance https://www.iiss.org/blogs/military-balance/2018/06/rimpac-2018 Ultimo Accesso 9 Settembre 2020.

Dian, M. (2020). Japan, South Korea, and the emergence of a Networked Security Architecture, International Politics, 57: 185-20

Dian, M., & Meijer, H. (2020). Networking hegemony: alliance dynamics in East Asia. International Politics, 57: 131-149.

Osservatorio Strategico 2020 – Anno XXII n. IV 101 Pacifico

Fearon, J. D. (1997). Signaling foreign policy interests: Tying hands versus sinking costs. Journal of Conflict Resolution, 41: 68-90.

Keng, N.G (2020). RSS Supreme to take part in Exercise Rimpac. The Strait Times Singapore https://www.straitstimes.com/singapore/rss-supreme-to-take-part-in-exercise-rimpac Ultimo Accesso 9 Settembre 2020

Khan, W. e Moriyasu, K. (2020). In world's biggest drill, Pacific navies play out China scenarios. Asian Nikkei Review https://asia.nikkei.com/Politics/International-relations/US-China-tensions/In- world-s-biggest-drill-Pacific-navies-play-out-China-scenarios Ultimo Accesso 9 Settembre 2020.

Manaranche, M. (2020). Commissions Its First Ever Missile BRP Jose Rizal Naval News https://www.navalnews.com/naval-news/2020/07/philippine-navy-commissions- its-first-ever-missile-frigate-brp-jose-rizal Ultimo Accesso 9 Settembre 2020. Montgomery, E. B. (2020). Signals of strength: Capability demonstrations and perceptions of military power. Journal of Strategic Studies, 43: 309-330.

Rahmat, R. (2020). RIMPAC 2020: Australia flexes latest anti-air capabilities at multilateral firing exercise. Janes. https://www.janes.com/defence-news/news-detail/rimpac-2020-australia-flexes- latest-anti-air-capabilities-at-multilateral-firing-exercise Ultimo Accesso 9 Settembre 2020.

Sechser, T. S. (2018). Reputations and signaling in coercive bargaining. Journal of Conflict Resolution, 62: 318-345.

Werner (2018). 47 Ship Exercise Kicks off tomorrow. US Naval Institute News. https://news.usni.org/2018/06/26/rim-of-the-pacific-2018-participation Ultimo Accesso 9 Settembre 2020.

Osservatorio Strategico 2020 – Anno XXII n. IV 102 Lista degli Acronimi

ASEAN: Associazione delle Nazioni del Sudest Asiatico

BRI: Belt and Road Initiative

EAU: Emirati Arabi Uniti

ECOWAS: Comunità economica dell’Africa Occidentale

EPRDF – Ethiopian People’s Revolutionary Democratic Front FNCD: Fronte nazionale per la difesa della Costituzione

FOIP: Free and Open Indo-Pacific strategy

FPI: Fronte popolare ivoriano JCPOA: Joint Comprehensive Plan of Action LDP: Partito Liberal Democratico PDCI-RDA: Partito democratico della Costa d’Avorio – Raggruppamento democratico africano PP – Prosperity Party RDR: Raggruppamento dei Repubblicani RHDP: Raggruppamento degli ofuetisti per la democrazia e la pace RPG: Raggruppamento del popolo guineano – Arcobaleno

SNNP - Southern Nations, Nationalities and People TPLF- Tigray People’s Liberation Front TPP Trans-Pacific Partnership

UFDG: Unione delle forze democratiche di Guinea

ZEE: Zona Economica Esclusiva

Osservatorio Strategico 2020– Anno XXII n. IV 103 L’Osservatorio Strategico è uno studio che raccoglie analisi e report sviluppati dal Centro Militare di Studi Strategici (CeMiSS), realizzati da ricercatori specializzati. Le aree di interesse monitorate nel 2020 sono:

• Euro/Atlantica (USA-NATO-PARTNERS); • Iniziative di Difesa Europee e sviluppo tecnologico; • Balcani e Mar Nero; • Mashreq, Gran Maghreb, Egitto ed Israele; • Sahel e Africa Sub-sahariana; • Golfo Persico; • Corno d'Africa e Africa Meridionale; • Russia, Asia Centrale e Caucaso; • Asia Meridionale ed Orientale; • America Latina; • Pacifico

Gli elaborati delle singole aree, articolati in analisi critiche e previsioni, costituiscono il cuore dell’“Osservatorio Strategico”.

Stampato dalla Tipografia del Centro Alti Studi per la Difesa Claudia Astarita Shinzo Abe si ritira: cosa cambia per il Giappone / 5G, Huawei e ZTE: una strategia europea

Claudio Bertolotti Libia: le ambizioni dell’Egitto

Matteo Bressan Mar Nero: tra risorse energetiche e competizione geopolitica / Il vertice alla Casa Bianca tra Serbia e Kossovo

Claudio Catalano L’Unione Europea e le controversie nel Mediterraneo orientale / Brexit: un aggiornamento su negoziati e cooperazione nella difesa

Francesca Citossi La pace senza mai la guerra con Israele / La nuova politica estera degli Emirati

Marco Cochi La sindrome del terzo mandato destabilizza la Guinea e la Costa d’Avorio / Perché è stato nuovamente rinviato il lancio della nuova moneta unica dell’Africa occidentale?

Matteo Dian La Vientiane Vision e la cooperazione tra Giappone e ASEAN nell’ambito della sicurezza / RIMPAC-2020 e la cooperazione militare nel Pacifico

Gianluca Pastori Gli “accordi di Abramo”: un rinnovato attivismo USA in Medio Oriente e nel Golfo? / Le iniziative statunitensi nel campo delle armi ipersoniche e dei relativi sistemi di contrasto: un punto sulla situazione attuale e sui suoi possibili sviluppi

Luca Puddu Etiopia: le elezioni nello stato regionale del Tigray e i nuovi scenari regionali / Governance economica e rapporti tra capitale pubblico e privato: i processi di liberalizzazione nel Corno d’Africa e le possibili criticità

Francesco Davide Ragno Un nuovo corso per la Banca Interamericana dello Sviluppo: l’elezione di Mauricio Claver-Carone / La questione energetica: sovranità, efficienza, differenziazione