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ARCHIMEDE

GALILEO GALILEI

PER LA EDIZIONE NAZIONALE DELLE OPERE DI GALILEI. ESPOSIZIONE E DISEGNO

ANTONIO FAVARO

ARCHIMEDE

Il volgere del tempo che seco trascina ed affoga le memorie dei più gravi eventi, od almeno ne attenua la ricordanza, nulla può sul culto professato per gli uomini veramente sommi, e l'ammirazione per loro, ben lungi dallo scemare, va continuamente crescendo, perchè il progredire degli studii mette in evidenza sempre maggiore l'entità della contribuzione che seppero recarvi. E valga il vero: giammai come ai nostri giorni furono in onore gli studii sopra Dante, la maggior figura del medio evo; mai come ora si moltiplicarono le indagini intorno a Leonardo, l'uomo meraviglioso che domina con la sua immensa figura due secoli; e Galileo, oggetto costante di amorose ricerche, ha avuto or ora il maggior omaggio che potesse essergli reso, con la raccolta diligente di tutta la sua mirabile produzione scientifica. Ma fra questi giganti può ben dirsi giganteggi la figura di un altro sommo italiano che è fra i maggiori luminari dei quali si onori il genere umano, e che, sebbene in campi meno accessibili alla generalità, ha segnate nuove vie e lasciate traccie profonde ed indelebili del suo passaggio nel mondo. Archimede, la cui grandezza raggiunge i limiti del favoloso, è senza rivali nella scoperta di verità matematiche e nel fondamento di principii fisici; si porta così avanti nelle scienze meccaniche da dover aspettare ben dieciotto secoli chi continui l'opera da lui iniziata; nume tutelare della patria, trova nel suo genio inesauribile sempre nuovi e meravigliosi espedienti per resistere all'insaziabile avidità conquistatrice della gran gente romana. Quel tanto che della sua produzione scientifica è pervenuto insino a noi non è stato purtroppo ancora tradotto nella nostra lingua, e così, in questi tempi nei quali il greco originale e la veste latina, che il rinascimento si affrettò a darvi per metterla alla comune portata d'allora, vanno diventando l'appannaggio d'un numero sempre più ristretto di studiosi, accade che molti di quelli che pur vanno per la maggiore e parlano e scrivono di Archimede non lo conoscono che attraverso una traduzione, e ad ogni modo non sono in grado nè di gustare il testo originale nè di apprezzare le buone versioni che se ne hanno nell'altra lingua classica. Sul declinare della vita, e prossimi ormai a conchiudere una attività quasi per intero dedicata alla storia delle scienze, abbiamo voluto tentar di ritrarre questa straordinaria figura in modo da farne comprendere tutta la grandezza a chi non abbia potuto accostarsi alle di lui opere; e per questi soltanto abbiamo scritto, augurandoci non lontano il giorno in cui o se ne tragga in luce la versione che giace dimenticata tra le carte dell'ultimo discepolo di Galileo, o le forze riunite di un filologo e di un geometra diano all'Italia una edizione italiana di tutti gli scritti del più grande matematico dell'antichità, che pienamente soddisfi alle crescenti esigenze dei nuovi tempi.

I.

Della più bella di tutte le isole, come chiama Diodoro la sua Sicilia, i miti, i poeti e gli storici narrarono fin dai più remoti tempi le maraviglie: ai Sicani ed ai Siculi, che primi la abitarono, vennero dai Fenici commerci, industrie e ricchezze, e i Greci vi trapiantarono l'ormai avita loro coltura. Nella posizione tra le più favorite dell'isola, sulla costa più ridente, a cavaliere del bacino orientale e dell'occidentale del Mediterraneo, Siracusa, fondata secondo la tradizione nel 734 a. C., sconfitti che ebbe i Cartaginesi invasori e rimasta vittoriosa nella lotta contro Atene, divenne in men di tre secoli padrona del mare; e, secondata dalla favolosa fertilità dei terreni sui quali aveva esteso il suo dominio, crebbe così fiorente da divenire, se non la più cospicua, certamente una tra le più ragguardevoli colonie greche del mezzogiorno d'Italia. E di pari passo con la potenza marittima, estesa alle coste del Tirreno non solo, ma a quelle pur dell'Adriatico, e con la floridezza dei commerci che si svolgevano financo nel bacino orientale del Mediterraneo, progredì la coltura scientifica e letteraria, favorita e tenuta in onore grandissimo particolarmente sotto il sapiente e paterno regime di Gerone II. Questi, benchè avesse sortiti modesti natali, poichè il padre suo, Ierocle, l'aveva avuto da una schiava, ebbe tuttavia brillanti occasioni di mostrare le altissime sue doti militari durante i rivolgimenti che accompagnarono la costituzione e lo sfasciamento del regno fondato in Sicilia da Pirro, e così salì rapidamente ai sommi onori: eletto stratega nel 275, volle l'elezione sua confermata dal popolo, e circondato dal favore di questo, salì al trono nel 269. Mentre maggiormente ferveva la guerra, anzi nel più triste periodo dell'anarchia militare, quando cioè dopo la morte di Agatocle tiranno, l'isola era tutta sconvolta dalle guerre mosse dai Cartaginesi e dai Mamertini, sotto la signoria dello stratega Iceta, nacque in Siracusa Archimede. Eutocio d'Ascalona nei commentarii ad un libro del Nostro scrive, ed in quelli ad un'opera di Apollonio ripete, che un Eraclide, nome comunissimo fra i Siciliani del tempo, probabilmente un discepolo, aveva scritta una «vita di Archimede»: era questo Eraclide forse lo stesso del quale il grande matematico scrive come di un amico di cui si serviva per trasmettere i suoi lavori a Dositeo: ad ogni modo questa «vita», come del resto quelle altre che noi sappiamo essere state scritte intorno a parecchi matematici dell'antichità, andò perduta. E perduta del pari, se pur mai la scrisse, andò la narrazione biografica che di Archimede troviamo affermato essere stata dettata da Proclo Licio. Se tuttavia di Archimede si sa qualche cosa di più in confronto di ciò che è noto relativamente ad altri scienziati dell'evo antico, lo dobbiamo al trovarsi il di lui nome appresso gli storici per la parte che egli ebbe in grandi avvenimenti, ed ancora alla circostanza che nelle lettere premesse ai suoi lavori parla non di rado di sè medesimo. Così, per modo d'esempio, l'acuta e geniale interpretazione data or non ha molto ad un passo d'una di tali scritture, interpretazione o lettura confermata poco appresso da uno scolio a Gregorio Nazianzeno scoperto nella Biblioteca d'Oxford, permetterebbe di registrare il nome di suo padre, che sarebbe stato un Fidia astronomo, del quale è ricordata una determinazione del rapporto di grandezza tra il diametro del sole e quello della luna. L'anno della sua nascita non ci è precisamente noto, e soltanto dal conoscere la data della sua tragica morte, che si collega ad un avvenimento storicamente bene accertato, e dal sapere d'altra parte ch'egli aveva raggiunto l'età di settantacinque anni, possiamo argomentare ch'egli abbia veduta la luce intorno all'anno 287 a. C. Giulio Firmico, astrologo siciliano del terzo secolo dell'êra volgare, spinse i suoi vaneggiamenti fino a trarre l'oroscopo dalla nascita di Archimede, e secondo la positura dei pianeti nel momento in cui sarebbe nato (chè questo è l'elemento fondamentale dei temi astrologici), giunse a conchiudere, averlo preconizzato le stelle come ingegno eccellente nelle meccaniche. Soltanto conoscendo le fantasticherie dell'astrologia giudiziaria, si riesce a concepire come il Firmico potesse credersi in grado di argomentare quale fosse stata la congiuntura delle stelle nel momento della nascita di Archimede, scrivendone circa sei secoli dopo, mentre di tale nascita non possono dirsi sicuri nè il giorno nè l'anno. Fra coloro che con maggiori particolari tramandarono memoria di Archimede è Plutarco, il quale tra altro ci fa sapere ch'egli fu consanguineo ed amico del re Gerone, e contro questa notizia, che fu raccolta da tutti i biografi del grande Siracusano, starebbe ciò che trovasi asserito da Cicerone: questi infatti, in un passo delle Tusculane, sul quale dovremo ritornare più innanzi, lo dice «umile omiciattolo», ponendo in certo qual modo in contrasto la bassa origine di lui con l'altissimo grado di rinomanza al quale era pervenuto; anche Silio Italico scrive che era senza beni di fortuna: sicchè le due affermazioni prese insieme parvero contraddire alla parentela regale asserita da Plutarco. Senonchè, riflettendo che Gerone stesso, se anche dal lato paterno poteva vantare chiari natali, pure da quello materno era di origine oscurissima, anzi servile, non appariscono inconciliabili le due circostanze dell'umile stato nel quale si trovava la famiglia da cui uscì Archimede e della sua parentela con colui che ai meriti proprii dovette principalmente d'essere giunto a cingere la corona regale. Ma poichè siamo a dire della famiglia d'Archimede e dei suoi ascendenti, non vogliamo passare del tutto sotto silenzio due altre asserzioni risguardanti i suoi discendenti, per quanto strane le abbiamo giudicate fin dal primo momento che in esse c'incontrammo. Davide Rivault, che curò una edizione delle opere del sommo matematico, nella biografia premessavi, afferma essergli stato riferito da un eruditissimo greco, il quale dalla lingua ellenica aveva tradotto nella latina le vite delle sante e dei santi siciliani, che in quelle fonti è narrato, essere la vergine e martire Siracusana Santa Lucia discesa dalla stirpe d'Archimede; ma più strano ancora è che, dedicando l'autore l'edizione a Re Luigi XIII, ed avendo per certo fine cortigianesco voluto mettere in evidenza che il padre di lui era nato proprio nel giorno sacro a Santa Lucia, altri abbia così malamente interpretato il passo latino da far dire al Rivault ciò che mai eragli passato per il capo, cioè che la stirpe reale di Francia discendeva da quella di Santa Lucia, e quindi aveva nelle sue vene qualche stilla del sangue d'Archimede. Poichè così poco ci è noto circa le origini del nostro matematico, non si dovrà attendere che positive notizie ci siano state tramandate intorno ai primi suoi anni ed all'avviamento ch'egli ricevette alle scienze. Se, come apparisce ormai indubitato, egli fu figlio di Fidia astronomo, è credibile che dal padre istesso gli sia stato istillato l'amore a quegli studii, ai quali però, per giungere, com'egli fece, a tanta altezza, dovette essere già dalla natura dotato di eccezionali disposizioni. Afferma il Linceo Mirabella che, essendo ancor giovine Archimede, venisse ripetutamente Platone in Siracusa al tempo di Dionigi tiranno, ed avendovi introdotto lo studio delle matematiche e della filosofia, contasse tra i suoi discepoli anche Archimede, il quale sotto la sua guida avrebbe fatto progressi mirabili, ed altri ripetè la medesima cosa, non riflettendo però che quando Archimede venne alla luce, Platone era già morto da circa mezzo secolo. Sicchè questa notizia potrebbe quasi fare il paio con quell'altra di origine araba, e secondo la quale il Nostro sarebbe stato figlio di Pitagora. Sia stato però il padre soltanto maestro a suo figlio, o da altri ancora sia stato avviato alle matematiche, apparisce da quanto ci viene narrato che, particolarmente nella geometria, non solamente progredisse fin da principio in modo straordinario, ma altresì che ne fosse in così alto grado invaghito da trascurare per essa qualsiasi altra occupazione. Infatti, conforme riferisce Plutarco, ed è confermato da Massimo Tirio, a null'altro pensava che a questi suoi studii prediletti, e ciò di maniera che ovunque si ritrovava altro non facesse che tirar linee e disegnare figure geometriche, dimenticando talora perfino di prender cibo e di seguire quelle consuetudini che erano proprie degli uomini del suo tempo: ai bagni, per modo di esempio, non andava se non condotto quasi per forza, e non si assoggettava che a contraggenio alle unzioni che allora solevano praticarsi; eppure anche allora andava tracciando linee e figure nella cenere del vicino focolare, ed unto che fosse il suo corpo, seguitava sopra sè stesso a segnar figure col dito. Non corse quindi lungo tempo ch'egli ebbe imparato tutto ciò che in Siracusa poteva essergli appreso, e le aspirazioni sue si volsero a quel gran centro di studii che esercitava una irresistibile attrazione sopra tutti gli spiriti illuminati e vaghi di coltura e progresso scientifico, cioè ad Alessandria. Dopo la morte del magno fondatore della meravigliosa città, il vastissimo impero, ch'egli aveva conquistato con la spada, era andato diviso tra i suoi generali, e l'Egitto era toccato in sorte a Tolomeo Lago, il quale, animato da grande fervore per le scienze, dimostrò la maggiore inclinazione a proteggerne e favorirne i cultori, e così finirono per raccogliersi in Alessandria le membra sparse delle due celebri scuole, jonica e pitagorica. Ai generosi sforzi del primo dei Tolomei e dei suoi immediati successori si deve quindi se la loro capitale divenne il centro della universale coltura di quel tempo e fu la sede di quella prima scuola Alessandrina che segna una nuova êra nella storia delle scienze. Quivi infatti il famoso Museo, superbo edifizio consacrato fin dal 320 agli studii ed all'insegnamento e che si mantenne per ben nove secoli, e poco lontano da esso la grandiosa e celebre biblioteca nella quale si pretende finissero per raccogliersi ben quattrocentomila volumi. Le matematiche, al cui progresso già a questo tempo aveva contribuito una eletta e numerosa schiera di scienziati e di filosofi, vi avevano culto particolare per merito precipuo di Euclide, il quale deve pur sempre essere considerato come il fondatore di quella gloriosa scuola, se anche non gli si voglia riconoscere originalità ed elevatezza di investigazione. Se veramente, come si trova in generale affermato, questo grande geometra visse intorno al 300 a. C., Archimede che, come narra Diodoro e confermano arabi scrittori, tra i quali Abulfaragio, visse lungamente in Egitto e vi formò la propria educazione, deve essere approdato ad Alessandria pochi anni dopo la morte dell'autore degli Elementi, e se non potè quindi esserne scolaro, fu, secondo ogni verisimiglianza, discepolo degli immediati discepoli di lui. Perchè, sebbene nulla sappiamo di sicuro circa il tempo al quale assegnare questo primo soggiorno del Nostro in Egitto, non si va tuttavia molto lungi dal vero assumendo ch'esso abbia avuto luogo verso la fine del regno di Tolomeo Filadelfo e sotto quello di Tolomeo Evergete, cioè intorno alla metà del terzo secolo avanti Cristo. Probo infatti afferma ch'egli fu scolaro dell'astronomo e matematico Conone da Samo, ricordato anche da Virgilio, che viveva al tempo del secondo e del terzo Tolomeo: anzi è ben noto che intorno all'anno 243 a. C., subito dopo il felice ritorno di Tolomeo Evergete dalla campagna intrapresa contro Seleuco II re di Siria, finse trasportata in cielo la capigliatura che la sorella e moglie del re s'era recisa per propiziargli gli Dei, e intitolò una costellazione col nome che ancora porta di «Chioma di Berenice». Di Conone, come pure di Dositeo, di Zeusippo e di Eratostene, è memoria, e per taluno di essi anco frequente, nelle introduzioni ad alcune fra le scritture di Archimede. Del primo egli fu verisimilmente, come s'è detto, scolaro e rimase poi sempre svisceratissimo: di lui deplora la morte dichiarandolo il solo dei suoi amici che ancora gli fosse rimasto, e tessendone l'elogio come di tale che nelle matematiche era dotato di mirabile sagacia: a proposito di un'altra delle sue scritture egli rimpiange di non averla resa di pubblica ragione durante la vita di Conone, perchè questi sarebbe stato in grado di darne giusto giudizio, e finalmente in altra occasione, accennando ad alcuni teoremi che gli aveva per lo addietro mandati, testualmente scrive: «Conone morì senza aver avuto il tempo di trovarne le dimostrazioni ed ha lasciati questi teoremi nella loro oscurità, ma se egli fosse vissuto le avrebbe indubbiamente trovate e con questa scoperta ed altre molte avrebbe allargato il campo delle cognizioni geometriche». E finchè Conone visse, Archimede gli fece sempre parte dei suoi lavori, anzi, siccome nessuno di questi è intitolato allo studioso per il quale professava così alta stima, è lecito presumere che soltanto in età avanzata egli siasi deciso a dar forma di trattati alle scoperte che veniva via via facendo nel corso dei suoi studii. Dopo la morte del maestro, egli si rivolse a Dositeo, del quale verisimilmente era stato condiscepolo, ed anche a Zeusippo, ma nulla affatto di questi due, che saranno stati essi pure scolari del matematico da Samo, è giunto insino a noi. Strabone asserisce, ed in questi ultimi tempi se ne sono avute ripetute conferme, che Archimede fu anche in relazione con Eratostene da Cirene, il quale da Tolomeo Evergete fu chiamato ad Alessandria per succedere al suo maestro Callimaco nella direzione della Biblioteca. Sarebbe difficile il determinare in quale ramo fosse maggiormente valente Eratostene. Chiamato «Beta», dalla seconda lettera del greco alfabeto, verisimilmente perchè giudicato secondo soltanto a Platone, gli scolari del Museo lo celebrarono con l'appellativo di «Pentathlon», cioè vincitore d'ogni sorta di ludi ginnici: così profondo negli studii di grammatica e di letteratura da voler essere per questi maggiormente celebrato, dettò trattati sopra gli argomenti più svariati: tentò, primo tra i Greci, la determinazione della grandezza della terra, e nelle scienze geografiche siffattamente si addentrò da dare, per giudizio dell'Humboldt, non solo una chiara descrizione di quanto esisteva, ma da esporre altresì ardite e felici considerazioni sopra la natura e la cagione dei mutamenti avvenuti: per quanto riguarda, finalmente, le matematiche propriamente dette, egli sembra non averne trascurato alcun ramo, ed il poco rimasto induce a deplorare maggiormente il molto perduto. Egli fu insomma e sotto ogni rispetto degnissimo che Archimede gli indirizzasse quella scrittura della quale diremo a suo tempo, e che venuta in luce più che venti secoli dopo la morte del suo autore, ha rivelato al mondo stupito un matematico ancor maggiore, se fosse possibile, di quello che le precedenti generazioni avevano ammirato.

II.

Che Archimede, oltre all'Egitto, abbia visitato anche altri paesi, troviamo affermato da alcuni scrittori, e fra altri dal Torelli, uno dei principali editori delle sue opere, che scrive essersi egli, di ritorno all'Egitto, recato altrove ed ivi avere per qualche tempo soggiornato. Al tempo in cui il Torelli scriveva non era ancor noto un passo di Leonardo da Vinci, il quale nota d'aver «ritrovato nelle storie delli spagnioli» che Archimede Siracusano si trovava presso Eclideride, re dei Cilodastri, nel tempo in cui erano in guerra con gl'inglesi, e, combattendosi sul mare, suggerì certa disposizione da darsi all'armatura delle navi per la quale poteva lanciarsi facilmente pece infuocata che obbligava il nemico ad abbandonare il combattimento e metteva in grave pericolo i vascelli. In quale istoria della Spagna abbia Leonardo trovata menzione di tale fatto nessuno finora ha saputo dire: in capo al brano autografo si legge d'altra mano: «Historia de los espagnolos antiguos», ma persone dottissime in tale materia non sono state in grado di trovare conferma del fatto non solo, ma neppure menzione del re e del popolo presso il quale sarebbe stato Archimede, esercitando in certo qual modo le funzioni di ingegnere militare. Sicchè, a meno di trovarne conferma in altre fonti, che non sapremmo nemmeno dire quali potrebbero essere, non il solo fatto riferito da Leonardo, ma anche il soggiorno stesso di Archimede nella Spagna deve essere relegato tra le cose meno sicure che intorno alla vita di lui ci vennero tramandate. Assai più probabile è che Archimede, dopo quel suo primo viaggio in Egitto, dove, attratto dalla fama della scuola d'Alessandria aveva compiuta la sua educazione matematica, vi sia tornato dopo che erasi diffusa la fama del suo genio, o chiamato dallo stesso Tolomeo, o mandato dal re Gerone, perchè ad un secondo soggiorno Egiziano crediamo devano riferirsi le grandi imprese che gli storici raccontano aver egli operate in quel paese. Da fonti arabe abbiamo anzitutto che in Egitto avrebbe Archimede costruiti ponti ed elevate grandi arginature, queste per regolare le feconde inondazioni del Nilo, quelli per mantenere le comunicazioni fra le città e le borgate che dalle acque tracimate rimanevano divise. Ma la invenzione più meravigliosa che, a vantaggio degli Egiziani, scrivono concordemente tutti gli storici avere Archimede ideato, è quella della coclea, della quale il giudice più competente, Galileo, così scrive nelle sue Meccaniche: «Non mi pare in questo luogo sia da passar con silenzio l'invenzione di Archimede di alzar l'acqua con la vite: la quale non solo è maravigliosa, ma è miracolosa; poichè troveremo, che l'acqua ascende nella vite discendendo continuamente». Per formarsi una idea di questo apparecchio, s'immagini un cilindro di legno simile al fusto d'una colonna lunga circa da dieci a dodici volte il suo diametro, intorno al quale si attortigli in forma di spirale un canale aperto ai due estremi e che va da un capo all'altro del cilindro; od in altre parole una vite il cui verme sia arrotondato e cavo. L'estremità inferiore del cilindro peschi nell'acqua da una certa profondità per poterla attingere, e la superiore sia munita d'una ruota o d'una manovella per far girare la vite intorno al proprio asse. Ora, per comprendere come avvenga quello che trovasi così chiaramente enunciato da Galileo, cioè che l'acqua sale nella vite, perchè ad ogni istante discende in essa per effetto del proprio peso, la qual cosa potrebbe a prima giunta sembrare un paradosso, supponiamo dapprima la vite perpendicolare alla superficie dell'acqua: allora tutti i suoi passi, cioè, per così dire, le pieghe del canale, rappresentano dei piani inclinati, e se, in questa posizione verticale, la vite girando intorno al proprio asse, facesse montare l'acqua lungo il canale questa salirebbe veramente per un piano inclinato; ma in questa posizione verticale la vite non farà mai salire l'acqua, qualunque sia il movimento che le viene impresso. Ma se si inclina la vite, in modo che il primo passo di essa formi un angolo con la superficie dell'acqua e sotto di questa, allora l'acqua entra nel canale cadendo lungo il primo passo, e se si fa girare la vite, il secondo passo si presenta all'acqua rinchiusa nel primo come questo si era presentato esso stesso alla superficie dell'acqua, e, per conseguenza quest'acqua racchiusa nel primo dovrà cadere lungo il secondo, e così di seguito per i passi successivi, finchè l'acqua uscirà dalla parte superiore del canale. Vitruvio lasciò scritto che «l'inclinazione del capo sollevato sarà tale quale richiede la proporzione del triangolo rettangolo di Pitagora», vale a dire del tipo che gli Egiziani chiamavano il più bello, nel quale cioè i cateti hanno per lunghezza 3 e 4 e l'ipotenusa 5; e Galileo prescrive: «la vite per alzar l'acqua deve esser inclinata un poco più della quantità dell'angolo del triangolo, col quale si descrisse essa vite». Questa invenzione, suggerita ad Archimede dalle sue profonde cognizioni geometriche e recata a perfezione dalla felicissima attitudine che egli possedeva per le cose meccaniche, fu, se noi dobbiamo prestar fede a Diodoro, usata dagli Egiziani per alzare le acque e farle pervenire là dove, per la soverchia elevazione del terreno, non arrivavano naturalmente le inondazioni del Nilo; altri invece pretende che ne usassero per prosciugare i terreni i quali, a motivo della bassezza del loro livello, non potevano liberarsi dalle acque dopo cessata l'alluvione, sicchè queste impaludavano ed imputridivano con grave danno per la salute degli abitanti. Così all'uno come all'altro fine sarà stata adoperata dagli Egiziani la vite inventata per loro da Archimede, il quale, come troviamo, se ne servì anche per prosciugare la sentina d'una gran nave ch'egli costruì per ordine del re Gerone, e della quale son piene le istorie sul fondamento della descrizione che, secondo Ateneo, ne ha lasciato Moschione. Si è già notato per incidenza quanto grande fosse ai tempi ai quali ci riferiamo la fertilità della Sicilia, e ne fornisce una prova le generosità con la quale il re Gerone disponeva della decima parte dei raccolti che per legge personalmente gli spettava. Al popolo romano, nella occasione di un suo viaggio alla città eterna, portò in dono duecentomila moggia di frumento, altro ne inviò più tardi quando in Roma scarseggiava al tempo della guerra coi Galli, nè mancò di venire in soccorso di Rodi devastata da un terremoto; e pare sia stata appunto destinata al trasporto di grano e di vettovaglie in Egitto la smisurata nave ideata da Archimede e costruita sotto la sua direzione. Si narra dunque che tanto legname fu raccolto sull'Etna e preparato per questo gran vascello quanto sarebbe bastato alla costruzione di sessanta galere, e tutto il materiale metallico e quello occorrente per le vele e per le gomene fu provveduto dall'Italia, dalla Spagna e dalla Gallia. Un esercito di operai attendeva ai lavori sotto la sorveglianza di Archia Corintio architetto, mentre trecento di essi erano impiegati soltanto nel ricoprire di lastre di piombo la struttura lignea mano a mano che andava progredendo. Portata nello spazio di sei mesi la costruzione alla metà, dal cantiere all'asciutto nel quale si stava lavorando, dovette essere trascinata in acqua, e lo storico che andiamo seguendo scrive che «il tirar questa nave in mare essendo cosa molto malagevole, il solo Archimede ve la trasse con pochi strumenti, avendo allestito l'elica per mezzo della quale ridusse in mare una nave così smisurata». Si dura per verità a comprendere come potesse a tal fine essere impiegata la coclea che vedemmo testè da lui inventata per ben altri scopi, e stimiamo assai più probabile ch'egli si sia servito della «trochlea», o di meccanismi d'altro genere dei quali diremo tra poco. In altri sei mesi fu compiuta la costruzione della ossatura che era tenuta insieme mediante chiodi di bronzo che raggiungevano perfino il peso di quindici libbre ciascuno. Ben venti ordini di remi erano predisposti per la navigazione, e nell'interno erano distribuiti gli alloggiamenti per i marinai ed i soldati, le cucine, i magazzini e quant'altro occorresse per la popolazione della nave. I pavimenti erano a mosaico e rappresentavano varii episodii della guerra di Troia «essendo l'artifizio in ogni cosa maraviglioso, e per la struttura e per la copertura e per le porte e per le finestre». Sulla tolda erano spazii riservati per gli esercizii ginnastici, e lungo tutta la nave sopra coperta passeggi e teatri e giardini con condotte di acqua per il mantenimento delle piante. Un alloggiamento sontuosissimo era riservato ai piaceri più intimi, e questo, fornito di tre letti, aveva il pavimento di agata, le pareti di cipresso, le porte d'avorio e di cedro, ed il tutto ornato di pitture e di statue: e statue pure in forma di cariatidi alte sei braccia dividevano i piani della nave. Nè mancavano la biblioteca con un orologio, fattura esso pure di Archimede (e nel quale parve a taluno di poter ravvisare un esemplare della Sfera della quale diremo tra poco), il bagno, le cisterne, le peschiere, e le stalle per numerosi cavalli. Alla difesa ed all'offesa provvedevano otto grandi torri, due alla poppa, due alla prora, quattro nel mezzo, e cadauna di esse era occupata da quattro armati e da due arcieri che avevano sottomano gran provvista di pietre e di freccie; ed oltre a questo erano baliste capaci di lanciar sassi e saette lunghe dieciotto piedi alla distanza di centoventicinque passi, senza contare altri apparati bellici tra quelli che si può dire fiorissero tra le mani di Archimede. Tre erano gli alberi della nave, il più alto dei quali dovette farsi venire dalla Bretagna, non essendosi trovato nè in Sicilia nè più vicino un fusto di tanta altezza; quattro le ancore di legno ed otto di ferro. Finalmente non meno di seicento uomini erano addetti al servizio di questa specie di città galleggiante. Con essa, ed altre navi minori che le facevano corona, narrano gli storici che Gerone mandò in Egitto sessantamila moggia di frumento, diecimila orci di salumi lavorati in Sicilia, ventimila talenti di carne ed altrettanti di altre vettovaglie: il tutto, compresa la nave che si chiamava Siracusa e che fu poi detta Alessandria, in dono a Tolomeo Evergete. Lasciando da parte tutto ciò che in tale narrazione si contiene di favoloso, torneremo per un momento sull'espediente che Archimede avrà adoperato per varare la nave giunta alla metà della sua costruzione; il quale espediente, con tutta verisimiglianza, sarà stato quello del quale troviamo memoria essersi egli servito per dimostrare al re, come ci fa sapere Plutarco, che qualsiasi peso, per grande che sia, può muoversi con una minima forza «e millantandosi sulla sicurezza della dimostrazione, s'avanzò a dirgli che, s'egli avesse un'altra terra, passando esso in quella, gli darebbe l'animo di smovere questa. Meravigliatosi di ciò il re Gerone, il pregò di far vedere in opera un sì fatto problema e di mostrare mossa da una piccola forza una qualche gran mole. Per lo che Archimede, comperata una grossa nave da carico di quelle del re e fattala trarre a terra con gran fatica e a forza di mano e caricatala di molti uomini e del solito peso, sedendo egli in disparte e movendo non già con violenza, ma agiatamente colla propria mano certo principio di argano a molte funi, la fece scorrer per terra con tutta placidezza e senza rimbalzi, non altrimenti che se fosse andata per acqua». Fin qui la narrazione dello storico, la quale però ha bisogno di commento, perchè non convien credere che Archimede si pensasse d'avere con la sua invenzione sovvertite le leggi della natura, tra le quali è che niuna resistenza può essere superata da forza che non sia di quella più potente, imperocchè la natura non può essere superata o defraudata dall'arte. Non è malagevole immaginare quale fosse il meccanismo del quale si sarà servito in quella occasione Archimede, poichè noi troviamo che di congegni diversi atti a smuovere e tirar pesi gli viene attribuita l'invenzione, escludendo pure quella del caristion, intorno al quale si agitarono in questi ultimi tempi così dotte controversie: sono tra questi l'asse nella ruota e l'argano, la girella mobile e la taglia, chiamata trochlea dai Greci, la combinazione dei quali apparecchi si presta alla cosiddetta moltiplicazione della forza secondo ogni voluta proporzione. E noi crediamo fermamente avesse Galileo in mente la narrazione della maraviglia operata da Archimede nel mettere da solo, ma lentissimamente, in moto la grossa nave, quando dimostrava così luminosamente quali siano le vere utilità che si traggono dalla scienza meccanica e quanto sia falsa la credenza di potere con poca forza muovere ed alzare grandissimi pesi, ingannando in un certo modo la natura. «Allora solamente, scrive egli, si potrà dire essersi superato il naturale instituto, quando la minor forza trasferisse la maggiore resistenza con pari velocità di moto, secondo il quale essa cammina; il che assolutamente affermiamo essere impossibile a farsi con qual si voglia macchina immaginata o che immaginar si possa». Riferiremo ormai sommariamente di altre invenzioni meccaniche attribuite ad Archimede, tra le quali vogliamo dire anzitutto di quelle riconosciutegli in alcune opere mediche, e che avrebbero servito ad agevolare certe operazioni chirurgiche, perchè crediamo abbiano affinità grandissima coi meccanismi adatti al sollevamento ed alla trazione dei pesi, trovando che, ridotte alle debite proporzioni, erano adoperate col nome di trispasti o polispasti per le riduzione delle slogature. Ad Archimede fu pure attribuita l'invenzione del cosiddetto organo idraulico, il quale rendeva all'orecchio una grata armonia di suoni prodotti dall'acqua che si muoveva in tubi artificiosamente disposti, e Tertulliano, scarso lodatore degli scrittori gentili, molto commenda tale invenzione, la quale farebbe anche supporre che il Nostro non si fosse mantenuto del tutto estraneo alle cose musicali; ma non vogliamo passare sotto silenzio che e Plinio e Vitruvio e Filone attribuiscono l'organo idraulico a Ctesibio. Mario Vittorino, scrittore del quarto secolo, e Attilio Fortunazio, vissuto intorno al 500, conservarono memoria del loculo Archimedeo, il quale è un divertimento geometrico che sotto diverse forme e col titolo di «giuoco chinese» ha formato la delizia di più generazioni, e che con aspetto più grandioso, se non più complicato, e col nome di «puzzle» è venuto pochi anni or sono dall'America in Europa ad esercitare la pazienza, se non l'intelligenza, di chi sente il bisogno d'ingannare il tempo. Ausonio, che visse intorno al quattrocento, lo menziona pure, ma senza attribuirlo ad Archimede; però or non ha molto il Suter trovò la versione araba di un libro di lui relativo a tale argomento. Come ci vien descritto in fonti medioevali, consiste in quattordici tavolette d'avorio o triangolari o quadrangolari o d'altre forme poligonali, che, combinate insieme in un quadrato, si prestano a rappresentare figure diverse, come di una nave, di un pugnale, di un albero o d'altro. Era stato fin qui dubbio che si trattasse d'una invenzione d'Archimede, mentre appariva più probabile che Archimedeo fosse stato detto perchè fatto con arte squisita, cosicchè abbia trovato pur qui applicazione l'antonomastico appellativo di «Problema Archimedeo» per tutto ciò che appariva di difficile soluzione; ma la scoperta recentissimamente fatta del testo greco di tale scrittura fra altre di Archimede, ha dissipato qualsiasi incertezza. Ad Archimede pure si fa onore dell'invenzione degli orologi solari, ed un orologio sappiamo già che si trovava nella favolosa nave circa la quale ci siamo lungamente intrattenuti: chi gli contrasta quest'altro merito osserva esser detto che quell'orologio era fatto ad imitazione d'altro, senza però che si possa escludere che pur quest'altro fosse fattura d'Archimede; e non è improbabile che, leggendosi in Censorino, essere stati gli orologi importati in Roma dalla Sicilia, la invenzione d'essi sia stata attribuita ad Archimede. Così tuttavia tanto per gli orologi quanto per le scitale, intorno ad una delle quali si avvolgevano i papiri per iscrivervi lettere le quali si voleva restassero secrete per quelli nelle cui mani fossero venute e non possedessero la scitala corrispondente, essa pure invenzione attribuita al Nostro, sono dubbie e contraddittorie le asserzioni degli storici, e ad ogni modo appartengono a tempi troppo posteriori perchè possano esser prese in seria considerazione. Altre ancora e favolose invenzioni, come ad esempio le lampade eterne intorno alle quali si continuò a discutere a tutto il decimosettimo secolo, voglionsi portato del genio d'Archimede; ma noi non vi ci tratterremo ulteriormente, chè altri e ben maggiori di quelli fin qui enumerati sono i titoli per i quali il suo nome è perpetuamente scritto fra quelli dei maggiori genii che onorarono l'umanità.

III.

Fra tutte le invenzioni d'Archimede dimostra, a parer di Vitruvio, maggior sottigliezza quella mediante la quale scoperse al re Gerone l'inganno di un orefice che aveva posto dell'argento in una corona che doveva essere tutta d'oro. Plutarco nel trattato contro Epicuro e le sue massime accenna soltanto al fatto, ma Vitruvio lo racconta per disteso, e questo seguiremo nel narrarlo alla nostra volta. Il re Gerone pervenuto al trono, e riconoscendo dalla benevolenza degli Dei i fausti eventi del suo regno, volle dar loro un segno della sua gratitudine con un cospicuo dono; chiamato perciò a sè un abile artefice gli consegnò un certo peso di oro perchè ne facesse una corona. Trascorso il tempo assegnato, l'orefice portò al re la corona che gli aveva commessa, fu riscontrato il peso corrispondere esattamente a quello dell'oro che gli era stato consegnato, e l'opera essendo stata altamente approvata fu appesa in un tempio in forma di ex-voto. Senonchè di lì a non molto, non è detto se in seguito ad una denunzia o per qualche altro motivo, si cominciò a sospettare che la corona non fosse proprio tutta d'oro e che l'orefice, trattenuta per sè parte del più nobile metallo, altro ve ne avesse mescolato fino a raggiungere il peso voluto, di che irritato il re, il quale pur non voleva che l'egregio lavoro venisse danneggiato, e manomessa in qualsiasi maniera una offerta già fatta agli Dei, invitò Archimede a scoprire se o meno l'artefice avesse commessa la frode della quale era sospettato. Preoccupato Archimede della soluzione del grave problema, egli vi pensava di continuo, finchè un giorno entrando nel bagno ed osservando che quanto più era del suo corpo dentro all'acqua tanto maggiore quantità ne usciva dalla tinozza, parvegli che in ciò appunto si contenessero gli elementi della soluzione che andava cercando, per la qual cosa pieno d'allegrezza uscì dal bagno e così tutto nudo com'era corse a casa gridando per le vie εὓρηκα, εὓρηκα. Fin qui la leggenda; veniamo ora ai commenti di Vitruvio. Narra questo scrittore che Archimede «fece due masse, una d'oro e l'altra d'argento, tutte due dello stesso peso di che era la corona. E avendo così fatto, riempì d'acqua un gran vaso fino al sommo, e poi vi pose dentro quella massa d'argento, di cui quanta grandezza fu immersa nel vaso, tant'acqua del vaso uscì fuori. Cavata di poi dal vaso quella massa, tanta acqua vi ripose dentro, quanta n'era uscita fuori per riempire quel vaso insino al sommo, come prima. Così ritrovò sottilmente, quanta misura di acqua rispondeva ad una certa misura d'argento avendo fatto di ciò sottil prova; allora, posta l'altra massa dell'oro parimente nel vaso pieno, e trattala poi fuori aggiungendovi l'acqua con la medesima misura e ragione, ritrovò chiaramente come non era uscita sì gran somma d'acqua, ma tanto meno n'era uscita, quanto minor corpo ingombra una massa d'oro, che una d'argento del medesimo peso. Ripieno di poi quel vaso, e posta nell'acqua quell'istessa corona, ritrovò che più acqua usciva fuor per conto della corona, che per la massa d'oro di peso uguale. Onde discorrendo sopra quel che più usciva fuori, ponendovi la corona, che ponendovi la massa, ritrovò il mescolamento dell'argento con l'oro, e insieme il manifesto furto dell'orefice». Il testo è dubbio quanto alla semplice scoperta della frode, oppure alla determinazione dell'entità di essa, ed i varii traduttori diversamente lo interpretarono, parendo non degno della sottigliezza d'Archimede e dell'espediente da lui escogitato il contentarsi del risultato per dir così qualitativo senza scendere al quantitativo; anzi Proclo Licio afferma recisamente, essere stata da Archimede scoperta la quantità dell'argento che l'orefice aveva fraudolentemente introdotto nella corona. Ma anche il procedimento generale, come vien narrato da Vitruvio, non fu giudicato essere stato proprio quello seguito dal grande Siracusano, ed affatto diversa è la narrazione che si legge in un poema per lungo tempo attribuito a Prisciano, la quale liberamente tradotta dice che Archimede prese una libbra d'oro e una d'argento e le pose nei piatti d'una bilancia, nei quali naturalmente si facevano equilibrio; li immerse poi nell'acqua, ma siccome in questa per il traboccar dell'oro si perdeva l'equilibrio, per ristabilirlo aggiunse un certo peso all'argento, per esempio tre dramme, dal che rilevò che una libbra e tre dramme d'argento corrispondevano ad una libbra d'oro nell'acqua. Ciò fatto, pesò la corona che doveva esser tutta d'oro, e ritrovatala, per esempio, del peso di sei libbre, prese poi altre sei libbre d'argento e queste con la corona avendo posto sui piatti della bilancia, immerse nell'acqua. Se la corona fosse stata tutta d'oro, sarebbero bastate diciotto dramme d'argento aggiunte alle sei libbre per equilibrare i pesi, ma ogni dramma in meno delle dieciotto provava la presenza nella corona d'un terzo di libbra d'argento. Nemmeno Galileo si appagò della narrazione di Vitruvio, giudicando quella maniera «molto grossa e lontana dall'esquisitezza; e vie più parrà a quelli che le sottilissime invenzioni di sì divino uomo tra le memorie di lui avranno lette ed intese, dalle quali pur troppo chiaramente si comprende quanto tutti gli altri ingegni a quello di Archimede siano inferiori, e quanta poca speranza possa restare a qualsisia di mai poter ritrovare cose a quelle di esso somiglianti». Indi prosegue lo stesso Galileo, che delle scritture del geometra Siracusano aveva fatto studio profondo, e per così dire vital nutrimento: «Ben crederò io che spargendosi la fama dell'aver Archimede ritrovato tal furto co 'l mezzo dell'acqua, fosse poi da qualche scrittore di quei tempi lasciata memoria di tal fatto; e che il medesimo, per aggiugner qualche cosa a quel poco che per fama aveva inteso, dicesse Archimede essersi servito dell'acqua nel modo che poi è stato dall'universal creduto. Ma il conoscer io che tal modo era in tutto fallace e privo di quella esattezza che si richiede nelle cose matematiche mi ha fatto più volte pensar in qual maniera co 'l mezzo dell'acqua si potesse esquisitamente trovare la mistione di due metalli, e finalmente, dopo aver con diligenza riveduto quello che Archimede dimostra nei suoi libri delle cose che stanno nell'acqua, ed in quelli delle cose che pesano egualmente, mi è venuto un modo che esquisitissimamente risolve il nostro quesito, il qual modo crederò io esser l'istesso che usasse Archimede, atteso che, oltre all'esser esattissimo, depende ancora da dimostrazioni trovate dall'istesso Archimede»; e questo modo espone nel suo primo lavoro dettato in volgare e che troviamo anche intitolato: «Discorso del sig. intorno all'arteficio che usò Archimede nel scoprir il furto dell'oro nella corona di Hierone». Si credette anche che dalla soluzione del problema della corona Archimede fosse stato condotto all'invenzione dell'areometro, e reputatissimi storici delle scienze sostennero ch'egli aveva per lo meno fatto uso di uno di tali strumenti in metallo, munito d'una scala graduata, ma studii più recenti ed accurati lo escludono in modo assoluto. Dei due trattati di Archimede che vedemmo testè menzionati da Galileo, il primo da lui citato, quello cioè intorno ai galleggianti, ha corso strane vicende. Ancora nei primi anni della seconda metà del secolo decimoterzo si conservava il testo greco di tutti i trattati d'Archimede allora conosciuti, e nel 1269 esso pervenne nelle mani d'uno studioso il quale al tempo dell'effimero impero latino di Costantinopoli era stato lungamente a Tebe; tornato di là in Italia, e precisamente a Viterbo, curò di quel testo una versione latina servilmente fedele non meno nella sostanza che nella forma: dopo di che la scrittura originale sui galleggianti scomparve e la memoria ne fu affidata alla traduzione che fu certamente nota a Leonardo da Vinci, e che, pervenuta nelle mani del Tartaglia, fu da lui usata nella pubblicazione che per il primo ne curò. Fortunatamente di quella medesima versione latina venne a conoscenza uno studioso assai più perito nello studio degli antichi autori, cioè il Commandino, il quale ne fece una trascrizione chiara e corretta, sebbene abbia talvolta sostituito del proprio là dove gli pareva d'incontrare lacune od oscurità. E questi testi, ove se ne tolga un frammento greco edito dal Mai, ma che molto probabilmente è una ritraduzione dal latino, servirono agli studii ed alle traduzioni posteriori, fino a quando volle la fortuna che in questi ultimi anni s'incontrasse novamente quell'antica versione latina, del 1269, nella quale apparve tanto fedelmente conservato il carattere greco dell'originale che l'Heiberg, così famigliare con la lingua usata da Archimede, si sentì tentato di darne la restituzione del primo libro nell'idioma originale, e la diede. La scoperta in seguito da lui fatta del testo greco quasi completo di tale scrittura lo avrà messo in grado di apprezzare il valore della sua divinazione. Due sole ipotesi pone Archimede a fondamento del suo trattato, cioè che in ogni liquido la parte meno compressa cede a quella che lo è maggiormente e che ogni parte è premuta dalle circostanti; l'altra dice che la spinta verso l'alto ricevuta da un solido immerso in un liquido ha come linea d'azione la verticale passante per il centro di gravità del solido. Premette poi due proposizioni dalle quali risulta dimostrato che la superficie di livello d'un liquido stagnante appartiene ad una sfera concentrica alla terra, di dove risulta immediatamente il fatto ingiustamente disconosciuto più tardi, e soltanto quasi ai nostri giorni confermato, cioè che su tutti i punti della terra il livello del mare è lo stesso, vale a dire dista ugualmente dal centro. Stabilite poi le condizioni d'equilibrio d'un solido immerso in un liquido, in capo alle quali è formulata in termini espliciti, e tali da non lasciare dubbio alcuno, la nozione del peso specifico, del quale nessuno prima di lui aveva avuta la minima idea, Archimede dimostra che se si immerge un solido in un liquido più pesante, esso tenderà ad uscirne con uno slancio proporzionale alla differenza di densità dei due corpi, ed arriva finalmente a quella proposizione nella quale consiste il cosiddetto «principio d'Archimede», e che testualmente dice: «Un corpo più pesante del liquido nel quale lo si immerge, discenderà al fondo, ed il suo peso, nel liquido, diminuirà d'una quantità misurata da ciò che pesa un volume di liquido uguale a quello del corpo». Questa proposizione è dall'Heath risguardata come decisiva della quistione circa il modo nel quale Archimede determinò le proporzioni dell'oro e dell'argento contenute nella famosa corona: sicchè, ammessa la leggenda del bagno, è credibile che, non tanto, come si racconta, dall'osservare la quantità d'acqua che usciva dalla tinozza mano a mano che egli vi entrava, quanto invece dal sentire la diminuzione del peso del proprio corpo che si immergeva nell'acqua, abbia egli avuta idea della soluzione del problema, la quale fece dire al re Gerone che ormai avrebbe creduto qualunque cosa gli avesse detto Archimede. Nelle due proposizioni che compiono il primo libro, deduce che un segmento di sfera abbandonato in un liquido si disporrà in equilibrio con la base orizzontale, tanto se è sommerso quanto se emerge dal liquido. Analoghi argomenti, ma d'ordine più elevato, sono trattati nel secondo libro principalmente dedicato allo studio delle condizioni dell'equilibrio d'un segmento retto di conoide rettangolare immerso in un liquido, entrando in considerazioni le quali fanno supporre lavori d'indole ancor superiore, ma che disgraziatamente andarono perduti: a formarsi però un concetto della importanza degli studii condotti da Archimede intorno a questo argomento e pervenuti insino a noi in questo trattato, basti il giudizio del Lagrange, il quale scrisse che «esso è uno dei più bei monumenti del genio di Archimede, e contiene una teoria della stabilità dei corpi galleggianti, alla quale ben poco hanno potuto aggiungere i moderni» e tra quelli che più vi aggiunsero è Galileo, il quale giudicò la dottrina di Archimede sui galleggianti: «quanto di vero in effetto circa sì fatta materia poteva darsi».

IV.

Ma forse ancor più che della soluzione data da Archimede al problema della corona rimasero gli antichi ammirati di quella Sfera, nella quale avrebbe così esattamente imitati i moti celesti, e che da alcuni, e fra gli altri da Cicerone, fu tenuta per più meravigliosa della natura istessa. Secondo quanto riferiscono alcuni che la videro, ed in Roma rimase ed a lungo, portata come trofeo di guerra da Marcello e collocata nel tempio della Virtù, pare che in essa fossero rappresentati i moti del sole, della luna e dei cinque pianeti; vi appariva pure la formazione delle ecclissi, e, ciò che sembra meno credibile, ma che è affermato dal Linceo Mirabella non sappiamo bene su qual fondamento, perfino certi fenomeni atmosferici, come il tuono ed i fulmini. Intorno ad essa ci informa anche un epigramma di Claudiano, secondo il quale la Sfera sarebbe stata di vetro, mentre Lattanzio Firmiano aveva scritto ch'era di rame, e questa disparità, non osiamo dire di opinione, diede luogo a molte discussioni, chè secondo alcuni non si sarebbe trattato di una unica sfera, ma di due, delle quali una di rame e l'altra di vetro, e secondo altri d'una sfera sola, internamente di rame ed esternamente di vetro. A due sfere distinte sembra del resto accennare anche Cicerone, una delle quali sarebbe stata solida, cioè piena, ed avrebbe costituito null'altro che un globo celeste. Si discusse anche se questa di Archimede fosse la prima sfera celeste, od in altre parole se egli ne sia stato il costruttore primo: ora parrebbe per verità che di tali si avessero già prima di lui; i primi principii delle rappresentazioni in globi celesti e terrestri si ravvisano anzi nelle colonne del tempio di Salomone, nell'anello di Osimandia di Tebe e nello stesso scudo di Achille; e sfere e globi propriamente detti si fanno risalire al mitico Atlante, e della invenzione dei celesti è fatto onore a Talete, ad Anassimandro Milesio, sebbene con tarde testimonianze; ma non pare che in essi venissero, come in questo di Archimede, raffigurati con arte meccanica i moti celesti nei loro rapporti con la terra. Discussioni ancor più gravi ebbero luogo circa il modo nel quale i movimenti venivano prodotti. Sesto Empirico sembra ravvisarvi uno di quegli automi che non furono sconosciuti all'antichità; il Cardano non ammette in via assoluta che la macchina fosse mossa da contrappesi, e crede più verisimile che il movimento fosse determinato dall'aria racchiusa, cosa questa assai più facile a dirsi che non a spiegarsi; non esclude tuttavia che si trattasse d'un artifizio di ruote le quali si dessero tra loro vicendevole moto, senza però dire di che genere fosse la forza che lo determinava; ed il Kircher arrivò fino a scrivere che la macchina fosse mossa da forza magnetica o da qualche moto simpatico. Assai più probabile è che il moto fosse generato da un meccanismo idraulico, poichè anche in questo ramo di applicazioni erano straordinariamente progrediti gli antichi, e a dimostrarlo basterebbero gli Spiritali di Erone, cosicchè si possa assumere con qualche ragione che Archimede fosse passato maestro, come in tanti altri, anche in questo ramo della meccanica. Manilio infatti, riferendosi al secolo di Augusto, scrive dei meccanici che sapevano costruire sfere artificiali e dare una immagine dei moti celesti mercè l'azione dell'acqua che produce movimenti circolari ed uniformi; e di uno di questi meccanici, Posidonio, il nome ci fu conservato da Cicerone. Nè vogliamo passare sotto silenzio che si volle vedere una allusione alla Sfera di Archimede in quei versi nei quali Ovidio, tenendo parola della forma circolare del tempio di Vesta, dice:

«Arte Syracosia suspensus in aere clauso Stat globus, immensi parva figura globi» ma è dubbio se le parole «Arte Syracosia» stiano ad indicare la meccanica in generale, oppure propriamente la invenzione di Archimede; e dubbio pure che nella Sfera di questo il globo centrale rappresentante la terra fosse mantenuto al centro dalla pressione dell'aria, oppure che la terra vi si trovasse in equilibrio conforme ai principii della meccanica, precisamente perchè essa è nel centro del mondo e sferica, come insegnava generalmente, salve le ben note eccezioni, la cosmografia dell'antichità. Molto di più noi sapremmo a questo proposito se fosse giunto insino a noi quel libro sulla Sferopea che, secondo Pappo e Proclo, sarebbe stato scritto da Archimede e nel quale pare fosse principalmente trattato della costruzione della sua sfera e di analoghi meccanismi. Ora, perchè Archimede abbia potuto costruire quel congegno, che più propriamente si direbbe oggidì Planetario, non è dubbio ch'egli dovesse essere grandemente versato nell'astronomia, e lo attestano molti autori e tra gli altri Ipparco, come si legge nell'Almagesto di Tolomeo, il quale però, come conferma anche Galileo nel famoso Dialogo, diffidò d'uno strumento armillare che Archimede avrebbe costruito per prendere l'ingresso del sole nell'equinoziale. Anche Tito Livio e Plutarco scrivono degli studii astronomici di Archimede, ma la maggiore e più sicura prova è fornita da lui stesso in principio del suo Arenario, là dove descrive il metodo da lui ideato per misurare il diametro apparente del sole. Colse egli l'astro al momento in cui spunta all'orizzonte, perchè essendo allora men ricco di luce, può essere direttamente guardato, e collocò un lungo regolo in posizione perfettamente piana ed orizzontale, e sovra di esso un cilindro che potesse con una delle sue basi esser fatto scorrere sopra il regolo: diretto questo verso il sole, l'occhio essendo ad una delle estremità ed il cilindro collocato fra il sole e l'occhio in modo da nascondere completamente l'astro, fece scorrere il cilindro sopra il regolo in modo che non si vedesse più se non un debole filo di luce lungo i fianchi del cilindro, e poi avvicinandolo finchè esso gli nascondesse interamente il sole; misurò poi gli angoli sottesi dal cilindro, dei quali il primo era evidentemente minore e l'altro maggiore di quello che ha per vertice l'occhio e che comprende il sole. Egli entra anche in molti particolari circa la correzione che stimò opportuno introdurre per il fatto che «l'occhio non vede da un punto ma da una grandezza», e riportati questi angoli sopra un quadrante di cerchio trovò il maggiore più piccolo della centosessantaquattresima parte, ed il minore più grande della duecentesima di un retto; ossia in altre parole che il diametro apparente del sole è compreso fra 32' 56'' e 27', ciocchè è vero entro i limiti concessi dai mezzi strumentali del tempo, i quali evidentemente non consentivano una approssimazione maggiore. Del resto Archimede si è servito della divisione del quadrante in ventiquattro parti, e quindi della circonferenza in novantasei, ma questa divisione combinata con l'altra in minuti fu certamente straniera ad Archimede, e con tutta probabilità anche ad Apollonio, se non fu introdotta in Alessandria altro che al principio del secondo secolo avanti l'êra nostra, al tempo di Ipsicle: se Archimede ha, come si crede, calcolata una tavola delle corde, dovette senza dubbio impiegare frazioni della circonferenza o del raggio diverse dalla sessagesimale. La stessa fonte alla quale abbiamo attinta la determinazione del diametro apparente del sole ci mostra come egli abbia pure calcolato il rapporto tra questo e quello della luna, e se in esso egli rimase molto al disotto dei vero, vi si approssimò assai più dei suoi predecessori, poichè secondo Eudosso il diametro del sole doveva essere nove volte quello della luna; secondo Fidia, dodici; secondo Aristarco tra diciotto e venti; e secondo Archimede, trenta. Egli calcolò pure la distanza della luna e del sole dalla terra, l'ordine e le distanze dei pianeti, come pure il diametro della sfera stellare. La durata dell'anno venne da lui con tutta verisimiglianza assegnata in giorni 365 e un quarto; ed anzi a questo argomento si riferirebbe una scrittura che, secondo Ipparco, Archimede avrebbe stesa intorno al Calendario. Così egli fu in grado di rappresentare la rivoluzione apparente del sole e dei pianeti intorno alla terra tanto esattamente da poter determinare per tempi non troppo lontani le ecclissi del sole e della luna. Ed il Libri scrive, e noi lo registriamo per quel che può valere, come al suo tempo si mostrasse ancora a Siracusa il luogo di dove Archimede faceva le sue osservazioni celesti. Delle quali è probabile che pur qualche cosa fosse detto nella Sferopea già ricordata e che andò perduta, come pure, e ormai irremissibilmente, si perdettero i libri di Catottrica che da Teone sappiamo avere Archimede dettati, e che non sono da confondersi col trattato intorno agli specchi ustorii attribuitogli da Olimpiodoro e da Apuleio. Ma noi abbiamo voluto tenerne parola qui, perchè vi si collega direttamente la strana notizia contenuta in una lettera con la quale Tito Livio Burattini, fisico veneto del secolo decimosettimo, accusa da Varsavia al Bouillaud ricevimento del disegno e della dichiarazione del «tubo catoptrico», cioè del telescopio a riflessione del Newton. Egli scrive infatti che a Ragusa di Dalmazia esisteva al suo tempo una macchina con la quale potevano vedersi alla distanza di venticinque a trenta miglia i vascelli che navigavano nell'Adriatico, e che per tradizione era attribuita ad Archimede; ed aggiunge credere egli, fosse quella istessa che i Tolomei avevano posta sopra la torre del faro di Alessandria e mediante la quale, secondo una leggenda musulmana, si vedevano le navi uscire dai porti della Grecia. E per ciò che concerne i lavori astronomici e geodetici di Archimede conchiuderemo col dire che uno scrittore arabo vuole abbia egli riordinato o per meglio dire istituito il catasto in Egitto, e finalmente che la misura della terra riportata da Cleomede, e che parte da quella dell'arco di meridiano compreso tra le città di Syene e di Lysimachia, sarebbe pure dovuta ad Archimede. La quale ultima affermazione pare sarebbe da revocarsi in dubbio, sia perchè si dice che il risultato a cui conduce coincide con l'opinione espressa da Archimede in un trattato sulla misura della solidità della terra, del quale non abbiamo altrove trovata menzione di sorte alcuna, sia perchè tale risultato non collima con quello esposto da Archimede istesso nel già citato suo Arenario. Questo trattato, che un dottissimo orientalista sostenne per qualche tempo non essere altro che una traduzione dal sanscrito, è invece quella fra le scritture di Archimede che meno ha sofferto per posteriori alterazioni: esso è indirizzato a Gelone, che l'autore chiama pur «re» sebbene vivesse ancora suo padre Gerone, ed egli fosse stato soltanto associato da lui al governo; ed il fine del lavoro è chiarito dalla stessa sua introduzione: «Sonvi alcuni, o re Gelone, i quali pensano che il numero dei grani di arena sia infinito, e dico non solo di quelli che sono intorno a Siracusa ed al resto della Sicilia, ma in qualsiasi altro luogo colto od incolto. Altri pensano che tal numero non sia infinito, ma che però non se ne possa assegnare uno maggiore. Se coloro che così pensano si immaginano un globo di arena uguale a quello della terra, colmante anche le caverne di essa e gli abissi del mare, e che si elevasse fino alle cime delle più alte montagne, tanto meno si persuaderebbero che possa esistere un numero il quale superasse la moltitudine d'esso. Io tuttavia mediante dimostrazioni geometriche le quali potrei seguire col pensiero, voglio farti vedere che fra i numeri da noi denominati nel libro indirizzato a Zeusippo ve ne sono che eccedono non soltanto quello dei grani d'arena di un volume uguale a quello della terra che ne fosse riempiuta, ma anche quello dei grani di arena d'un globo avente la grandezza dell'universo». Il libro indirizzato a Zeusippo al quale si richiama Archimede, e che poco più sotto egli dice aver titolo «dei principii», non è giunto insino a noi, ma da quanto egli ne scrive qui si comprende che doveva trattare della denominazione dei numeri e fors'anco dei calcoli da istituire con essi, senza però uscire dai limiti che gli erano imposti dalla lingua e dalla scrittura, mentre nell'Arenario vuol raggiungere il numero che, per quanto considerevole, non oltrepassasse i limiti dell'intelligenza umana. Senza entrare qui in minuti particolari che non sarebbero consentiti dall'indole di questo scritto, basti il dire che l'ultimo numero d'un primo periodo di numerazione sarebbe rappresentato nel sistema nostro dalla unità seguìta da ottocento milioni di zeri, e che questo è chiamato a costituire la unità dei primi numeri d'un secondo periodo del quale l'ultimo numero verrebbe ad essere la unità dei secondi numeri del secondo periodo, e così procede fino ad una cifra che nel nostro sistema sarebbe rappresentata dall'unità seguìta da ottantamila milioni di milioni di zeri: e qui Archimede si arresta, ma il sistema da lui ideato potrebbe essere spinto ulteriormente senza alcun limite. Ma non v'era bisogna di procedere tant'oltre per rappresentare il numero dei grani di arena contenuti nel mondo. Preso un volume di arena non maggiore d'un seme di papavero e supposto che il numero di grani in esso contenuto non sia maggiore di diecimila, e che inoltre il diametro del seme non sia minore della quarentesima parte della larghezza d'un dito, supposto inoltre che il diametro del mondo sia minore di diecimila diametri terrestri e che finalmente il diametro terrestre sia minore d'un milione di stadii, trova Archimede un numero che oltrepassa quello dei grani di arena di una sfera uguale a quella del mondo rappresentato da una cifra che è ancora compresa nel primo periodo della sua numerazione e che oggidì diremmo il cinquantesimo termine d'una progressione decupla crescente: e che il sessantesimoterzo termine della stessa rappresenterebbe un numero superiore a quello dei grani di arena contenuti in una sfera concentrica alla terra e che arrivasse a comprendere le stelle fisse. Sicchè a ragione egli conclude: «Io penso, o re Gelone, che queste cose sembreranno incredibili al volgo degli uomini non versati nelle matematiche, ma appariranno dimostrate a quelli che ne sono periti e che conoscan le distanze e le grandezze della terra, del sole, della luna e di tutto il mondo». Un teorema che Archimede dimostra in questo suo Arenario, e che permette di surrogare una moltiplica con una somma, indusse qualcuno a vedervi una prima idea dei logaritmi, e qualche altro giunse fino ad attribuirgliene l'invenzione; ma, come avvertì giustamente il Delambre, egli non menziona altro che i numeri interi della progressione decupla crescente, e nulla dice che possa far pensare, aver egli intravveduta la possibilità o l'utilità d'intercalare fra questi altri numeri frazionarii che si approssimassero quanto fosse necessario ai numeri della serie naturale, e che si potrebbe quindi con tal mezzo sostituire la somma dei loro numeri d'ordine nella progressione alla moltiplica dei due numeri istessi. Egli non ha nemmeno esteso il suo concetto alla sottra che avrebbe potuto sostituire la divisione, e finalmente egli sembra essere stato così lontano dal considerare questa idea come di applicazione utile ai calcoli pratici, da parer evidente che per lui essa non fu che un mezzo per dispensarsi dal calcolo, e non già un mezzo per rendere i calcoli più agevoli. Archimede è del resto così ricco di conquiste nei più svariati rami delle matematiche da non meritare, diremmo quasi, che gli vengano attribuite invenzioni delle quali è dimostrato non aver egli avuto il più lontano concetto.

V.

Il «massimo ingegno sovrumano» di colui che Galileo chiama «il mio maestro» e ch'egli scrive: «aver superato tutti», rifulge in particolar modo nelle opere matematiche, le quali non sono, come quelle di tanti altri geometri dell'antichità, compilazioni o raccolte: egli è principalmente e sopratutto uno scropritore ed un inventore, ed i lavori da lui lasciati contengono cose nuove, per la massima parte escogitate e trovate esclusivamente da lui. Gli scritti d'Archimede pervenuti insino a noi nel testo originale greco sono stesi in dialetto dorico, o, più esattamente, in dialetto siculo-dorico; ma come abbiamo già notato, ad eccezione dell'Arenario, che men degli altri sofferse per alterazioni posteriori, si sono infiltrate in essi aggiunte e variazioni per parte di un interpolatore che apparisce perito nel dialetto dorico; un secondo interpolatore, e precisamente dopo Eutocio, ha completamente rimaneggiata una delle scritture, annullando quasi in essa le traccie del dialetto originale. Questi particolari furono rivelati da accurati studii condotti in questi ultimi tempi, poichè, come di tutte le opere dei matematici greci, così di quelle di Archimede avvenne che all'epoca del rinascimento furono dai matematici tradotte e commentate, ma in nessun conto tenute dai filologi puri, come quelle che erano giudicate di troppo scarsa importanza per i comuni studii delle umane lettere, e gli stretti legami della filologia classica con la storia delle scienze sono un portato di questi nostri ultimi tempi. L'ordine cronologico, dal quale non si dovrebbe mai dipartirsi, porta a considerare gli scritti d'Archimede in una successione alquanto diversa da quella nella quale ci vengono offerti dai codici degni di maggior fede che ce li tramandarono, e poichè sull'Arenario e sui Galleggianti noi ci siamo già intrattenuti, considereremo brevissimamente gli altri nell'ordine seguìto dall'Heiberg nella sua, possiamo ormai ben dire celebre edizione; cioè: due libri della sfera e del cilindro; la misura del cerchio; dei conoidi e degli sferoidi; delle linee spirali; due libri dell'equilibrio dei piani ossia dei loro centri di gravità, tra l'uno e l'altro dei quali trova posto la quadratura della parabola; il libro dei lemmi, e finalmente il cosiddetto problema bovino. E qui ci giova subito avvertire che, ancora nel sesto secolo dopo Cristo, di Archimede non sembra fossero generalmente noti altro che i libri della sfera e del cilindro, la misura del cerchio ed i libri dell'equilibrio dei piani, intorno alle quali tre opere Eutocio scrisse dei commentarii che sono giunti insino a noi. Ed in queste, come nelle altre opere d'indole speculativa delle quali si è parlato, riponeva Archimede la sua maggiore compiacenza, e tutto il rimanente, al dire di Plutarco, considerava come giuochi ed accessorii della sua geometria, conforme del resto all'opinione a que' tempi comune ai filosofi, che la mente umana si contaminasse nell'attendere a cose terrestri e materiali. Fra tutti i suoi lavori pare che egli abbia tenuto in maggior pregio i due libri della sfera e del cilindro, anche perchè il rapporto tra il cerchio, la sfera ed il cilindro, al quale in essi pervenne, è sinteticamente rappresentato nella figura che, a quanto vien riferito, volle scolpita sulla sua tomba e, come vedremo a suo luogo, servì a riconoscerla dopo che se n'era perduta la traccia. Tra i postulati premessi è quello famoso della retta più breve distanza tra due punti, il quale fu erroneamente scambiato per una definizione, ed a cui in certo modo corrisponde quello relativo al piano: altri si riferiscono alla concavità di linee e di superficie e servono a confrontare respettivamente le lunghezze e le aree di linee e superficie contermini, e finalmente vi si trova il celebre assioma che porta il suo nome, benchè Eudosso se ne fosse già servito prima di lui. Nella lettera, se così può chiamarsi, con la quale la scrittura è dall'autore indirizzata a Dositeo, annuncia egli trattarsi della dimostrazione di queste tre nuove proposizioni, cioè che la superficie della sfera è uguale al quadruplo del suo cerchio massimo; che la superficie di qualsivoglia segmento sferico è uguale ad un cerchio il cui raggio uguaglia la retta condotta dal vertice del segmento al cerchio base d'esso; e che il cilindro avente per base il cerchio massimo della sfera e per altezza il diametro di esso, o in altre parole il cilindro circoscritto alla sfera, è una volta e mezza la sfera, e che le loro superficie hanno la medesima proporzione. Non sono questi però i soli risultati ai quali perviene nel primo libro, e le proposizioni con le quali li dimostra sono di capitale importanza sia per gli artifizii usati nel dedurli, che per le conseguenze delle deduzioni. Delle questioni trattate nel secondo libro, l'argomento del quale è strettamente connesso con quello del primo, ci terremo ad accennare al problema di dividere una sfera con un piano in due segmenti aventi fra loro un dato rapporto, problema la cui soluzione dipende da una equazione del terzo grado; ma disgraziatamente egli la rimanda «in fine», e questo non era noto nemmeno ai tempi di Diocle e di Dionisiodoro: Eutocio credette d'averla trovata, ma ad ogni modo noi non sappiamo con tutta sicurezza in qual modo Archimede risolvesse il problema, o quale fosse in generale la soluzione da lui data ai problemi cubici. Brevissima è la scrittura sulla misura del cerchio che è una specie di supplemento alla precedente, tanto breve anzi da far supporre che essa non rappresenti se non una parte del maggior lavoro ricordato da Pappo col titolo: «sulla periferia del cerchio», nel quale si suppone fosse trattato del rapporto di un arco qualsivoglia con la relativa corda. Ciò che ad ogni modo di tale ricerca giunse insino a noi ha per fine la determinazione del rapporto tra la lunghezza della circonferenza e quella del respettivo diametro, le lunghezze di due linee qualisivogliano essendo considerate da Archimede, come lo erano già state da Dinostrato, quali grandezze omogenee. La trattazione è compiuta in tre proposizioni, le quali veramente si riducono a due, poichè la seconda non è che un corollario della terza. Dice la prima che ogni cerchio è uguale ad un triangolo rettangolo, uno dei cateti del quale è uguale al raggio e l'altro alla circonferenza, e per dimostrarla si appoggia alla considerazione di poligoni regolari inscritti e circoscritti al cerchio, e fa vedere che questo non può essere nè maggiore nè minore del triangolo, donde conchiude che dev'essere uguale. Le altre due proposizioni del breve trattato si riferiscono in qualche modo al famoso problema della quadratura del cerchio: nella seconda si dimostra che il cerchio sta al quadrato costruito sul suo diametro come 10 a 14; nelle terza che la circonferenza d'un cerchio qualsivoglia uguaglia il triplo del diametro più una certa frazione di esso che è minore di 1/7 e maggiore di 10/71, alla quale egli perviene inscrivendo e circoscrivendo al cerchio due poligoni di novantasei lati ciascuno e calcolando le lunghezze tra le quali la circonferenza del cerchio doveva necessariamente trovarsi. Disgraziatamente non pervennero insino a noi i particolari del calcolo ch'egli dovette istituire per giungere al risultato del quale, certamente per volontà propria, non spinse ulteriormente l'approssimazione; e, se noi non andiamo errati, è questo il primo esempio di un problema risoluto per approssimazione, esempio così utile e così di sovente messo a profitto tanto nel calcolo algebrico come nelle costruzioni geometriche. Brevi parole crediamo ancora dover adoperare circa il metodo usato in tale occasione, che non è altro se non il cosiddetto metodo di esaustione, del quale, secondo quanto narra Simplicio, avrebbe già fatto uso Antifonte nel secolo quinto avanti Cristo, e che fu sistematicamente adoperato da Eudosso nel secolo successivo. Questo metodo di esaustione consiste nel risguardare la grandezza data, p. e. l'area d'una curva, come il limite a cui si avvicinano sempre maggiormente dei poligoni inscritti e circoscritti, dei quali si moltiplica per via di bisezione il numero dei lati, in modo che la differenza si esaurisca, si riduca cioè ad essere più piccola di qualsiasi quantità data. Tale ravvicinamento continuo tra i poligoni e la curva somministrava un'idea sempre più precisa di questa, e con la guida della legge di continuità conduce alla conoscenza delle proprietà cercate, salvo poi di dimostrare in seguito rigorosamente i risultati ottenuti con la riduzione all'assurdo. Si è detto e ripetuto che gli antichi avevano considerate le curve come poligoni infinitilateri; nulla di meno vero, perchè questo principio non si riscontra mai nei loro scritti, e d'altronde non avrebbe potuto contribuire al rigore delle loro dimostrazioni: i moderni bensì l'hanno introdotto, semplificando tanto notevolmente le antiche dimostrazioni, e questa felice idea costituì il passaggio dal metodo di esaustione al metodo infinitesimale. Un campo affatto nuovo si aperse Archimede con le ricerche sui solidi di rotazione dei quali nessuno s'era prima di lui occupato. Prese egli a considerare i solidi generati dalla rivoluzione delle sezioni coniche intorno ai loro assi, che chiamò cumulativamente col nome di conoidi e di sferoidi, e rispettivamente conoide parabolico ed iperbolico quelli generati dalla rotazione di una parabola e di una iperbole intorno al diametro immobile, e sferoide allungato ed appiattito quelli generati dalla rotazione di una ellisse intorno agli assi maggiore e minore: questi solidi, sia interi che segmentati, egli confrontò coi cilindri e coi coni della stessa base e della stessa altezza. Nelle sue ricerche egli procede dividendo i corpi di rivoluzione mediante piani secanti tra loro paralleli ed equidistanti, ed ottenne con ciò come elementi fra due di quei piani un solido che può considerarsi compreso tra due cilindri, uno inscritto e l'altro circoscritto: la somma dei cilindri maggiori e quella dei minori costituiscono due limiti tra i quali rimane compreso il volume del solido di rivoluzione e che, ravvicinando tra loro le superficie di sezione, possono esser fatti differire quanto poco si voglia tra loro. L'entrare in maggiori particolari circa i molteplici risultati registrati in questo libro ci è vietato dall'indole del presente scritto: ci basti il soggiungere che in esso è fornita una luminosa prova della facoltà che Archimede possedeva in grado eminente di modificare e di adattare il metodo di cui egli si serviva: i suoi procedimenti son vere integrazioni e segnano i primi passi all'invenzione dell'analisi infinitesimale della quale doveva poi gloriarsi il decimosettimo secolo. L'ordine che ci siamo proposti di seguire in questa nostra rapidissima rassegna ci porta a parlare di quel libro di Archimede che vien giudicato il più notevole tra quelli di geometria piana che ci vennero conservati, cioè le spirali. Il trattato è indirizzato a Dositeo, e sono tra i teoremi in esso contenuti quelli dei quali, come già per incidenza abbiano avvertito, la morte aveva impedito a Conone di trovare la dimostrazione. La spirale di Archimede è la prima curva che comparisce nella geometria, generata contemporaneamente da una doppia specie di movimenti e da elementi mossi. Galileo la dice «generata da un punto che si muove uniformemente sopra una linea retta, mentre essa pur uniformemente si gira intorno ad uno dei suoi estremi punti, fisso come centro del suo rivolgimento»: meglio non potrebbero tradursi le parole stesse di Archimede. Il quale non si tenne ad insegnare la costruzione della nuova curva, ma ne trovò le tangenti e le aree comprese tra la posizione iniziale della retta mobile e le varie spire. Delle molte proprietà da lui scoperte tuttavia le dimostrazioni non apparvero di facile studio a parecchi insigni matematici: il Vieta le giudicò paralogismi, il Bouillaud, anche dopo averle sviluppate, temette di non averle ben comprese, e forse non trovarono un sicuro interprete prima del Cavalieri, il quale per gli studii condotti intorno ad esse meritò d'esser detto da Galileo: «emulo di Archimede». Passando dal campo della geometria a quello della meccanica, per formarsi un giusto concetto del contributo recatovi da Archimede, oltre ai libri dell'equilibrio dei piani, ed a quelli dei galleggianti, dei quali abbiamo già tenuto parola, converrebbe conoscere anche quell'altro di cui si trova menzione sotto i titoli: dei sostegni, delle leve, dell'equilibrio tra i pesi, ed anche dell'equilibrio delle figure nelle quali sono impiegate delle leve, già perduto fino dai tempi di Pappo, e nel quale assai verisimilmente era contenuta la definizione di centro di gravità che Archimede stesso scrive in altro suo lavoro d'avere già data, ma che non si trova in questi dell'equilibrio dei piani. In essi sono veramente posti i fondamenti della statica con lo sforzo evidente ed ammirabile di non enunciare alcuna nuova proposizione che non si deduca rigorosissimamente da postulati chiari ed esplicitamente enunciati: così egli arriva alle due proposizioni fondamentali dell'equilibrio fra due grandezze commensurabili quando siano reciprocamente proporzionali alle distanze alle quali sono sospese. I rimanenti teoremi del primo e del secondo libro hanno per fine la determinazione dei centri di gravità del parallelogrammo, del triangolo, del trapezio e del segmento parabolico, nella quale si hanno integrazioni che forse in ordine di tempo sono le prime alle quali sia giunto Archimede. E forse con questi libri hanno relazione quegli elementi di meccanica dei quali si ha memoria soltanto per la citazione che ne fu rinvenuta in un frammento delle scritture sulle galleggianti, da non molto scoperto. Tra il primo ed il secondo libro dell'equilibrio dei piani viene ad inserirsi, come abbiamo già avvertito, la quadratura della parabola, questa pure indirizzata a Dositeo, e che vien considerata come quella che mette in maggior luce la sagacia del grande Siracusano. E qui non sarà fuori di luogo notare che già nel libro dei conoidi e sferoidi Archimede aveva dimostrato la notevole proposizione concernente il rapporto tra l'area dell'ellisse e quella del cerchio avente per diametro l'asse maggiore, rapporto che è lo stesso di quello che passa tra l'asse minore ed il maggiore; ma soggiungendo però subito che nel presente libro si porge il primo esempio di quadratura di un'area limitata da linee non tutte rette nè tutte curve. Premesse tre proprietà elementari della parabola, che Archimede scrive essere state dimostrate ne' trattati sulle coniche, senza dire se suoi o d'altri, procede alla esposizione di due metodi diversi. Il primo, ch'egli chiama per via meccanica, e col quale trova la superficie del segmento limitato da un arco di parabola e dalla sua corda, appoggiandosi sui teoremi dei momenti statici e del centro di gravità del triangolo già esposti nel primo libro dell'equilibrio dei piani. Nel secondo, puramente geometrico, osservato che il triangolo inscritto nel segmento parabolico (avente cioè per base la base del segmento e per vertice il punto in cui la tangente è parallela alla base) è maggiore della metà di questo segmento, ne conchiude che se si continua la formazione della figura poligonale regolarmente inscritta, la superficie di questa potrà differire quanto poco si voglia da quella del segmento. Egli impiega la somma di una progressione geometrica decrescente: inscrive prima nella parabola un triangolo, poi un altro ancora in ciascuno dei due segmenti rimanenti, ed analogamente nei quattro, otto, sedici e così via che risultano da queste specie di continua bisezione, e trova che la somma di tutti quei triangoli è i quattro terzi del triangolo inscritto, risultato al quale era già pervenuto seguendo il metodo meccanico. Più brevemente ancora diremo dei lemmi consistenti in una raccolta di eleganti proposizioni di geometria piana, di certo però non stese da Archimede nella forma che ci fu conservata dagli Arabi, e che verisimilmente sono tratte da altre scritture originali e che non giunsero sino a noi. Notevoli fra le altre quelle relative alla quadratura dell'arbelo e del salinon, figure analoghe alle celebri lunule d'Ippocrate, e nella prima delle quali occorrono quasi per incidenza il teorema delle tre altezze del triangolo che si tagliano in un punto e quello concernente la trisezione dell'angolo. Ma non vogliamo compiere la rivista dei lavori geometrici di Archimede senza accennare almeno ad un altro ordine di indagini da lui compiute e delle quali la memoria ci fu conservata da Pappo: questi infatti, per dimostrare che la sfera è tra i corpi quello che a parità di superficie racchiude il massimo volume, la paragona ad altre figure ad essa inscritte e sceglie, oltre i cinque regolari, altri solidi solo parzialmente regolari, cioè limitati da faccie equilatere ed equiangole, ma non tutte simili, aggiungendo che sono in numero di tredici e furono scoperte da Archimede, senza dire però nè a qual fine nè con quali mezzi avesse proceduto nelle indagini relative, che certamente ci sarebbero state rivelate se fosse a noi pervenuto quel libro sui poliedri che gli viene attribuito, ma che andò perduto. E del pari, se pur di Archimede, non è nella sua forma originale il cosiddetto problema bovino, fatto per la prima volta conoscere dal Lessing, ed intorno alla autenticità del quale lungamente si discusse in Germania ed in Francia: anche il Gauss sembra essersene occupato, benchè nulla a questo proposito abbia dato alla luce. Nella sua forma attuale (è steso in dialetto ionico, usato sempre dai Greci nei poemi epici ed elegiaci) esso è con tutta verisimiglianza posteriore ad Archimede, ma quanto al problema in sè stesso, è non solo possibile ma anche probabile che sia a lui dovuto. Tale problema, che figura indirizzato ad Eratostene, consiste nel determinare il numero dei buoi del sole, che pascevano un tempo sulle pianure della Sicilia, distinti in quattro mandre di diverso colore: ne fanno parte tori e giovenche distribuiti in gruppi nei quali entrano in proporzioni diverse che vengono specificate. Il problema è di analisi indeterminata, e basti il dire che la soluzione minima darebbe un numero di buoi rappresentato da una cifra seguita da oltre duecentomila zeri, tale in somma che non solo tutta la Sicilia, ma nemmeno la superficie tutta della terra basterebbe a contenerli. E del resto non sarebbe stato questo il primo caso di problemi intricatissimi ed anche falsi lanciati da Archimede per mettere in imbarazzo e convincere di menzogna i geometri del suo tempo; e lo dice espressamente nell'introduzione alle spirali. Non deve poi recar meraviglia se, attesa la fama grandissima di Archimede e le leggende che andarono formandosi intorno a lui, gli siano stati attribuiti scritti ed invenzioni ch'egli non sognò mai: anzi delle invenzioni è detto che furono quaranta e più, e degli scritti geometrici vuolsi ne abbia lasciati ancora sull'eptangolo nel cerchio, sui cerchi tangenti, sulle parallele, sui triangoli, sulle proprietà dei triangoli rettangoli, sui dati e sulle definizioni, ed or non ha molto fu edita una lettera ch'egli avrebbe indirizzata a Gelone, ma che fu riconosciuta apocrifa. Ai lavori di meno dubbia autenticità ed ai quali, e per le affermazioni di lui stesso o di altri degni di fede, possiamo credere abbia Archimede effettivamente atteso, si è già per incidenza accennato più sopra ogni qualvolta se ne offerse l'occasione, toccando di argomenti aventi con essi una qualche analogia: ad eccezione però di uno del quale ci siamo riservati di trattare qui in sulla fine. È questo l'ephodion menzionato da Suida ed al quale Teodosio da Tripoli avrebbe scritto un commentario: il Rivault opinò che Archimede vi avesse descritto il suo viaggio in Egitto; il Tannery che vi si trattasse delle corde del cerchio, lo Schmidt che tale fosse il vero titolo della quadratura della parabola, e poichè la greca parola significa «avviamento» e fu adoperata nel senso di «metodo» dopo Aristotele, che vi fosse trattato del metodo di esaustione, od almeno che fosse il titolo di un maggior lavoro del quale giunse a noi soltanto la quadratura della parabola. Ma il più competente fra tutti gli studiosi di cose Archimedee, l'Heiberg, appoggiandosi appunto sul significato della parola, opinò vi fosse trattato del metodo nelle matematiche, e la sua può ben dirsi essere stata una divinazione; e fu premio condegno alle sue fatiche la grande scoperta che or son pochi anni mise a rumore la scarsa ma eletta schiera di studiosi che attendono a ricerche sulla storia delle matematiche. Nel 1907 infatti l'Heiberg annunziava che, durante l'estate precedente, in Costantinopoli, e precisamente nel metochion del monastero del Santo Sepolcro di Gerusalemme, egli aveva potuto esaminare un manoscritto che, sotto un Euchologion del decimoterzo secolo conteneva scritti di Archimede in un bel minuscolo del decimo secolo, ed aveva riconosciuto, oltre a quelli dei quali abbiamo già per incidenza fatto cenno, l'ephodion, cioè, per riferirne il titolo completo, «Metodo dei teoremi meccanici di Archimede ad Eratostene». Il metodo di esaustione di cui Archimede aveva già fatto così felice uso, e per il quale, lo ripetiamo, egli è giustamente risguardato come il più grande precursore dell'analisi infinitesimale, costituisce pure la base dei nuovi procedimenti; ma in essi è una nozione che per la prima volta comparisce nelle sue opere, quella cioè del momento di una forza rispetto ad una retta e ad un piano: senza farne il nome egli la impiega costantemente. Tradotto in linguaggio moderno il suo metodo consiste nel confrontare due volumi considerati come solidi omogenei e nel mostrare che i pesi dei loro elementi hanno lo stesso momento rispetto ad una retta data: siccome uno dei due volumi è stato scelto in modo che questo momento risultante fosse per esso noto, è noto del pari anche per l'altro. Come fu giustamente osservato, se questa scoperta non trasforma il concetto che già si aveva dell'opera di Archimede, essa la completa e la precisa, e mostra che il grande Siracusano s'era portato nelle vie della scienza moderna assai più innanzi che non si supponesse: essa accresce, se fosse possibile, la nostra ammirazione per il suo genio maraviglioso. Sicchè riceve nuova conferma il giudizio del Leibniz, il quale lasciò scritto che coloro i quali sono in grado di comprendere Archimede, ammirano assai meno le scoperte dei maggiori uomini moderni.

VI.

Sotto il paterno e sapiente regime di Gerone aveva Siracusa raggiunto un grado altissimo di floridezza: quel saggio re, mentre curava da una parte le arti della pace, non trascurava però di munire la sua capitale in modo che potesse resistere agli attacchi, molti dei quali aveva già provato, per modo che la città, oltre ad essere una tra le più ragguardevoli del tempo, e rivaleggiasse con Alessandria per lo splendore degli edifizi pubblici e privati, era pure una fortezza formidabile. Ed è sommamente verosimile che attesa la stima sconfinata del re per Archimede, si sia valso dell'opera di lui nell'ideare e nell'eseguire queste opere di fortificazione le quali garantivano la città dal lato di terra come da quello del mare. La Pentapoli, come la chiama Strabone, aveva un ambito di 180 stadii, vale a dire di più che trenta chilometri, e componevasi di cinque parti, cinta ciascuna da forti mura e di bastioni: la più antica, l'Ortigia, chiamata impropriamente dal popolo col nome di isola, a mezzogiorno, l'Acradina a levante, Tiche e Neapoli a ponente, e più alto nella parte estrema l'Epipoli coronata dal castello di Eurialo sulle colline di dove si godeva il magnifico spettacolo del promontorio Pachino, dei fertili campi di Ibla e delle cime nevose dell'Etna. Aveva all'intorno tre porti: il Trogilo sulla costa boreale dell'Acradina, il piccolo porto chiuso tra l'Acradina e l'Ortigia, e a mezzogiorno il gran porto nel quale la cosiddetta isola prestava sicuro asilo alle navi di maggior portata. Tutte le parti della gran città erano cinte dalle alte mura contro le quali s'erano già infranti gli sforzi di Atene e di Cartagine: forte come cittadella era l'Ortigia, forte l'Acradina dalla parte del mare, forte l'Epipoli, ove le mura giungendo fino alle alture terminavano in un angolo formato dai fianchi convergenti del colle. Queste valide opere di difesa, perfezionate dalle assidue cure del re Gerone, dovevano ben presto essere cimentate a dure prove, poichè mentre all'ombra della pace fioriva il regno Siracusano, scoppiò la seconda guerra punica, ed il vecchio e saggio sovrano dopo ben cinquantaquattro anni di regno veniva a mancare quando maggiormente sarebbe stato necessario che le redini del governo fossero nelle savie sue mani. Il figlio Gelone gli era premorto, sicchè a raccogliere la sua successione fu chiamato il figlio di questo, Ieronimo, giovinetto quindicenne che appena salito sul trono e liberatosi dal consiglio di tutela, di null'altro curante che del fasto, ruppe il freno ad ogni scostumatezza e crudeltà. Falsando la tradizione politica dell'avo, che s'era mantenuto costantemente fedele a Roma, cedette alle lusinghe d'Annibale che gli aveva fatto balenare innanzi gli occhi lo scettro di tutta la Sicilia, e quando una legazione romana tentò di rinnovare con lui l'antica alleanza, la congedò bruscamente, alludendo con ironia alla rotta di Canne. Riusciti vani altri tentativi di Roma per riannodare le antiche amichevoli relazioni, la guerra fu dichiarata: senonchè muovendo egli stesso col grosso dell'esercito che aveva raggranellato, cadde a Leontini per mano d'una delle sue guardie del corpo che una congiura orditasi contro di lui aveva prezzolato. Ucciso il tiranno e spenta nel sangue tutta la famiglia reale fino alle donne ed alle bambine, fu proclamata la repubblica. Non erano tuttavia per questo cessate le lotte dei partiti, che anzi s'erano fatte più vive partecipandovi i popolari, ma finalmente prevalse la fazione favorevole ad Annibale ed all'alleanza coi Cartaginesi che inviarono una flotta al Pachino. Roma, perduta ogni speranza d'aver dalla sua i Siracusani, mandò con forte esercito il console Marcello che, presa e messa a ferro e fuoco la città di Leontini, mosse con tutte le forze delle quali disponeva all'assalto di Siracusa. Mandate le legioni sotto gli ordini di Appio Claudio ad attaccare per via di terra dalla parte dell'Esapilo, si diresse egli contro l'Acradina con ben sessanta quinquiremi cariche d'ogni sorta di armi e di saettame e con macchine di varie foggie che gettassero sulle mura ordigni e scale per far la via ai soldati: ricordano gli storici in particolar modo l'accoppiamento di otto navi che saldate insieme mediante robuste traverse portavano delle scale protette da balaustre e da tetti, e, dalla forma di arpa con la quale erano disposte le navi, le traverse e le scale, dette sambuche, con l'aiuto delle quali si credeva il capitano d'aver presto ragione della piazza, facendo guadagnare dagli assalitori le mura che i frombolieri e saettatori imbarcati sulle altre navi avrebbero provveduto a tener sgombre di difensori. Ma alla difesa della sua Siracusa aveva pensato Archimede, il quale, mantenutosi sempre estraneo alle lotte dei partiti che l'avevano tratta a quegli estremi, nel momento del supremo pericolo venne in soccorso dei suoi concittadini con tutte le industrie del suo genio inesauribile. I particolari di questa memorabile difesa sono narrati da Polibio, da Plutarco e da Tito Livio: da essi apprendiamo che per poter offendere il nemico che investiva la città per via di terra, senza pericolo per parte dei difensori, Archimede aveva fatto praticare nelle mura frequenti feritoie, delle quali pare che nessuno prima di lui avesse pensato ad usare, e di là e di sopra le mura con baliste e catapulte mascherate faceva rovinare così gran numero di pietre di saette e con così forte e spaventoso rombo che chi non rimaneva ucciso e gravemente ferito abbandonava l'assalto in preda alla massima paura. Contro le navi lontane faceva pure lanciare massi e giavellotti ben pesanti, e quando giungevano ad accostarsi, stendevansi tutto ad un tratto contro di esse fuor dalle mura lunghe travi, le quali parte ne facevano andare a fondo per la violenza con cui le percuotevano dall'alto, e parte afferravano con rostri ed uncini di ferro dalla prora, levavano in aria e fracassavano contro gli scogli. Contro la sambuca poi, mentre era ancora distante dalle mura, lanciavansi così gran sassi e perfino, come vien riferito, macine da mulini che completamente la schiacciavano insieme coi soldati che dovevano da essa muovere alla scalata ed all'assalto. Altre invenzioni di macchine belliche dovute ad Archimede, quale l'architronito, cioè una specie di cannone a vapore, ed un apparecchio specialmente adatto ai combattimenti navali descrive Leonardo da Vinci, ma ignoriamo affatto le fonti alle quali egli attinse, mentre nè egli stesso nè altri dissero che tali strumenti di guerra siano stati usati nella difesa di Siracusa. E qui, aprendo una parentesi, siamo condotti a tener parola di quell'altro apparecchio scientifico che, secondo ci vien riferito da troppo tardi narratori, Archimede avrebbe volto a danno dei romani, vogliamo dire degli specchi con i quali avrebbe bruciate le navi di Marcello. Nessuno degli storici summenzionati, cioè nè Polibio, nè Plutarco, nè Tito Livio ne tengono parola; e di quelli che lo affermano, Galeno ne scrive come di cosa udita narrare, Zonara, vissuto tanto più tardi lo riferisce appoggiandosi ad un passo irreperibile di Dione, e l'ancor più tardo Tzetze, in un luogo che al Torelli non parve ben chiaro, precisa che lo scopo era stato da Archimede raggiunto mediante uno specchio esagonale; ma non è certamente sull'autorità tanto discussa di questo scrittore che potrebbe conchiudersi alcunchè di positivo a tale proposito. Gli specchi ustorii di Archimede, e quelli altrettanto celebri di Proclo e di Antemio attirarono siffattamente l'attenzione degli studiosi al tempo del Rinascimento, da indurli ad applicarsi con grande fervore agli studii di catottrica e ad immergersi in tutto ciò che intorno a questo argomento avevano tramandato i greci e gli arabi. Sul finire del secolo decimosesto questi studii vanno assumendo un carattere più positivo, e nel decimosettimo se ne occuparono Galileo ed i più cospicui fra i suoi discepoli e la stessa Accademia del Cimento, senza però pervenire a risultati i quali permettano di asserire con qualche verisimiglianza che Archimede abbia potuto costruirne di tale potenza da raggiungere quell'effetto che Cartesio negò in modo assoluto e che nemmeno la famosa esperienza del Buffon vale a rendere credibile. Verisimile è invece che, riferendosi da un lato avere Archimede scritto fra altro anche sugli specchi ustorii od almeno di catottrica, e dall'altro che, come narra Silio Italico, alcune navi dei romani assedianti Siracusa erano state incendiate, siansi abbinati i due fatti, concorrendo a formare una tradizione la quale non ha storico fondamento. Ma ritorniamo alla nostra narrazione. Giudicando Marcello che apparecchi di così grande potenza come erano adoperati dai Siracusani non avrebbero potuto danneggiare le navi altro che ad una certa distanza, dispose per un attacco notturno nella speranza che, cacciandosi sotto, potessero gli assalitori, col favor della notte, aver ragione dei nemici senza venir da questi offesi ed impediti, ma il tentativo non ebbe miglior fortuna, chè dal genio di Archimede uscivano sempre nuovi ingegni che da vicino o da lontano proteggevano le mura ed i loro difensori recando al nemico il massimo danno; e tanto, scrive Plutarco, ne erano spaventati i Romani, che «alla vista d'una sottil corda o di una piccola trave che sporgesse dal muro, volgean le spalle e fuggivano gridando essere ivi una qualche macchina mossa a lor danno da Archimede» . Sicchè, dopo tentativi ripetuti durante ben otto mesi, confessando la propria impotenza di fronte al grande Siracusano, ch'egli chiamava «geometra Briareo», si ritrasse Marcello contentandosi di stringere d'assedio la città alla lontana con la speranza di prenderla per fame. Sovvenuti però com'erano dai Cartaginesi, non difettavano i Siracusani di vettovaglie e la resistenza si prolungava ed ormai durava da oltre due anni, essendo andata a vuoto una congiura di alcuni fuorusciti che si trovavano al campo di Marcello per dargli nelle mani la città. Nella occasione tuttavia di trattative per riscattare certo spartano che gli assediati avevano inviato in cerca di aiuti, e ch'era stato preso dai Romani, poterono questi, accostandosi maggiormente alla città, osservare certa torre in vicinanza al porto di Trogilo che si prestava ad una facile scalata, e, approfittando di una notte nella quale i Siracusani si erano abbandonati al vino ed al sonno dopo celebrate le feste di Diana, Marcello fece salire i suoi sulla torre e da quella parte penetrò nell'Epipoli, facendo in pari tempo dar di fiato alle trombe da ogni parte per lasciar credere che ormai fosse tutta la città nelle sue mani. Côlti i Siracusani dallo spavento, si diedero alla fuga, lasciando indifesa anche la rocca dell'Acradina ch'era la meglio munita e che avrebbe potuto ancora lungamente resistere; e così sul far del giorno Marcello fu padrone di Siracusa, che «macchiando il suo onor militare, abbandonò al saccheggio ed alla carneficina». Questo avveniva nel terzo anno dell'assedio, correndo l'anno di Roma 545 ed il 212 avanti l'êra cristiana. Tra gli orrori della strage perì anche Archimede, ed il modo della morte viene diversamente narrato. Vuolsi da Plutarco che il console romano, ammirato della lunga ed ostinata difesa, opera più che d'altri del genio di Archimede, entrando trionfante in Siracusa, avesse ordinato ch'egli avesse salva la vita, ed anzi fosse a lui condotto, ma il legionario che l'invitava a seguirlo, non essendo stato da lui istantaneamente obbedito, perchè Archimede non voleva muoversi finchè non avesse compiuta certa dimostrazione alla quale, non curante dei Romani e dell'eccidio, stava attendendo, infuriato l'uccise. Narra Cicerone che allorquando Siracusa fu presa, fosse Archimede tanto intento a disegnare nella polvere, che neppur s'avvedesse che i nemici vi fosser dentro, onde, secondo Livio, da un soldato il quale non sapeva chi egli fosse, fu trapassato con la spada. E così Silio Italico:

«Meditantem in pulvere formas, «Nec turbatum animi, tanta feriente ruina, «Ignarus miles vulgi tum forte peremit».

A ciò Valerio Massimo aggiunge che, mentre Archimede delineava sul terreno una sua figura geometrica, venisse dal soldato con la spada alla mano interrogato chi fosse, ma che egli all'incontro lo pregasse a trattenersi, e a non voler guastar quelle linee che stava tracciando, e perciò il soldato acceso d'ira, lo uccidesse; anzi Giorgio Valla, sulla relazione di qualche antico scrittore, riferisce che Archimede rispondesse al soldato che lo minacciava: «il capo e non il disegno». Altri finalmente, sempre secondo Plutarco, vogliono che, informato della presa della città, Archimede si fosse avviato per portare a Marcello alcuni suoi ordigni e strumenti matematici, fors'anco per fargliene dono e placarlo, quando, incontrato da alcuni soldati, questi, per impadronirsi degli oggetti che credevano d'oro, lo trucidarono. Concordano tutti gli scrittori nell'affermare che della morte di Archimede provasse Marcello grandissimo dolore, che facesse anzi cercare i di lui parenti sopravvissuti alla strage e assai li onorasse, e finalmente ordinasse che, data onorevole sepoltura alla salma del suo grande avversario, fossegli eretto un monumento, sul quale conforme al desiderio che si diceva avesse espresso egli medesimo, venisse rappresentata con una figura accompagnata da una inscrizione la scoperta geometrica della quale egli maggiormente si gloriava, cioè, per ripetere le parole stesse di Plutarco: «un cilindro contenente una sfera, scrivendovi la proporzione che passa tra il solido contenente e quel contenuto». A lui, caduto con la sua città, fu risparmiato il supremo dolore di vedere lo scempio fatto della cara patria dai barbari e crudeli vincitori: tutto fu o predato o dato alle fiamme, e per riferire la frase caratteristica d'uno storico, gli stessi Dei coi loro simulacri furono tratti in schiavitù, quella meravigliosa sfera portata a Roma come bottino di guerra; e se si deve prestar fede ad uno scrittore arabo, ben quattordici carichi di manoscritti di Archimede sarebbero stati distrutti. Come la coltura etrusca era perita dopo la conquista romana, così nel duro servaggio si spense in Sicilia ogni traccia dell'antica civiltà ellenica, e poco più d'un secolo dopo la morte di Archimede, i Siracusani, ahimè quanto degeneri da quei loro antenati che nella rotta degli Ateniesi volevano salva la vita ai fuggiaschi che sapessero recitare i versi di Euripide, ignoravano perfino dove ne fosse la tomba, e forse appena appena ricordavano il nome del sommo loro concittadino. Cicerone racconta infatti nelle Tusculane che al tempo in cui era questore in Sicilia, la curiosità lo spinse a cercare la tomba di Archimede, e la scovò sotto gli sterpi ed i pruni da cui era quasi interamente nascosta, e malgrado l'ignoranza dei Siracusani i quali sostenevano contro di lui che la ricerca sarebbe stata vana, non esistendo presso loro tal monumento. Egli ricordava tuttavia a memoria alcuni senarii che gli era stato detto doversi trovare incisi sulla tomba, e ne' quali era menzione di una figura sferica e d'un cilindro che vi erano rappresentati, e trovandosi un giorno fuor della porta di Siracusa verso Agrigento e volgendo con cura lo sguardo da ogni parte, vide tra un gran numero di tombe una colonna che sopravvanzava dai rovi che la circondavano e vi notò la figura appunto d'una sfera e d'un cilindro: rivoltosi allora ai maggiorenti della città che erano con lui, disse loro che credeva di vedere la tomba di Archimede, e fatto sgombrare il sito con le falci e aperto il passaggio, riconobbe subito la inscrizione, sebbene metà delle linee fosse stata dal tempo corrosa. Ma nemmeno questa scoperta valse a raccomandare ai Siracusani la memoria della tomba di Archimede, il cui nome più sicuramente che da poche pietre è tramandato alla più tarda posterità dall'imperituro monumento ch'egli eresse a sè medesimo con le sue opere immortali.

GALILEO GALILEI

I.

CHI entra in Santa Croce di Firenze dalla porta maggiore, mossi pochi passi, si trova sotto i piedi un lastrone di marmo con l'effigie, mezzo consunta dallo scalpiccio irriverente dei fedeli, d'un «Magister Galilaeus de Galilaeis». Nato nel 1370, era salito in riputazione di gran medico; Lettore ed uno degli ufficiali dello Studio, aveva anche nobilmente servito la patria nelle più alte magistrature; e quando circa ottantenne venne a morte, fu sotto quel lastrone composto dalla pietà del figlio Benedetto. In quella tomba, accanto a lui ed ai suoi discendenti, avrebbe voluto essere deposto il suo grande omonimo, nato circa due secoli più tardi e che della famiglia doveva essere il maggior lustro; poichè questa era la «sepoltura dei suoi antenati» nella quale aveva nel testamento ordinato di essere deposto. Ma la pietà dell'ultimo suo discepolo, dopo l'empietà di chi alla gran salma aveva persino osato di contendere la sepoltura in luogo sacro, impedì che questo atto della sua ultima volontà venisse adempiuto; e le sue ossa, profanate da sacrileghe mutilazioni, riposano ormai, bensì in Santa Croce, ma fuori dal tumulo di sua famiglia. E la famiglia era stata cospicua, se non per grandi ricchezze, per gli uffici dei quali parecchi tra i suoi membri erano stati investiti; ma quando da Vincenzio di Michelangiolo Galilei e da Giulia del casato degli Ammannati, dal quale nel secolo XV era uscito il cardinale Iacopo, egli nacque il 15 febbraio 1564 e nella primaziale di Pisa fu battezzato col nome di Galileo, ogni splendore era da lungo tempo scomparso e ne rimaneva appena la tradizione. Il padre, uomo di grandissimo valore, versato nelle matematiche, ma soprattutto nelle dottrine musicali, era ridotto a mantenere la famiglia che andava rapidamente aumentando, con dare lezioni di liuto ed ingegnandosi fors'anco con la mercatura. Nella mente giovinetta del suo primogenito deve però aver saputo leggere il padre intelligentissimo se, ad onta delle disagiate condizioni, nulla risparmiò per la compiuta istruzione di lui, e dopo avervi contribuito egli stesso fin dove poteva nelle discipline letterarie e musicali, apprendendogli inoltre il disegno e la prospettiva, gli fece udire da un padre Vallombrosano i precetti di logica, cioè di quella parte elementare della filosofia che, secondo il costume del tempo, intendeva ad addestrare piuttosto nell'arte del discutere che in quella del ragionare. Pare anzi, e costituisce tal nota singolare nella biografia di Galileo da non potersi passare sotto silenzio, che questi insegnamenti di logica egli li abbia ricevuti proprio nel monastero di Santa Maria di Vallombrosa, dove, e certamente contro la paterna volontà, avrebbe anche vestito l'abito di novizio. Lo depose ad ogni modo poco più che quindicenne, nè, per quanto ci è noto, a questo episodio accennò mai in alcuna circostanza della sua vita; sicchè noi ne saremmo completamente all'oscuro se il fatto non fosse affermato in una cronaca di quell'ordine religioso, e soprattutto non ne trovassimo espressa menzione in un processo svoltosi pochi anni dopo e nella occasione del quale un anonimo che, a quanto sembra, aveva motivo di dolersi delle disposizioni testimoniali di lui, esce a dargli del «frate sfratato». Ma assai più che qualsiasi istruzione dovette giovare a Galileo la convivenza col padre, che seppe istillargli quella indipendenza di giudizio e quel disprezzo per il principio di autorità allora imperante nelle scuole, i quali brillano di così vivida luce in tutti gli scritti di lui infino a noi pervenuti, e che dovevano costituire una tra le più forti caratteristiche dell'opera scientifica del figliuolo. Perchè nel Dialogo della musica antica e moderna Vincenzio Galilei si scaglia contro coloro che a sostegno d'una affermazione si contentano del solo peso dell'autorità senza curarsi di ricorrere ad altri argomenti: e quando vuole le questioni liberamente poste e discusse, come si conviene a chiunque si accinge alla sincera ricerca del vero, par di leggere una di quelle invettive nelle quali doveva, e così di frequente, uscire più tardi l'immortale suo figlio. Forse la tradizione del gran medico che era già stato lustro della famiglia, congiunta col pensiero che il seguirne l'esempio avrebbe condotto all'esercizio di un'arte a quel tempo tra le più lucrose, influì a decidere il padre a mandarlo allo Studio di Pisa, a farlo colà inscrivere fra gli Artisti ed a mantenervelo, non ostante che venisse ripetutamente respinta l'istanza per ottenergli un luogo nel Collegio di Sapienza nel quale erano ospitati e spesati quasi gratuitamente quaranta scolari dello Studio. Educato dal padre a libertà di pensiero, mal poteva il giovane studente piegarsi a dogmatizzare coi suoi maestri ora nel nome di Aristotele ed ora in quelli di Platone e di San Tommaso, mentre con la propria ragione, con l'osservazione dei fatti, con esperienze sensibili poteva appagare il suo spirito, studiare i fenomeni e porgerne la vera spiegazione. E queste relazioni di Galileo coi suoi insegnanti pisani ben rileva il Viviani, scrivendo nel racconto istorico della vita del suo Maestro che «fu sempre contrario alli più rigorosi difensori d'ogni detto aristotelico, acquistandosi nome tra quelli di spirito della contraddizione e, in premio delle scoperte novità, l'odio loro, non potendo essi soffrire che da un giovanetto studente, e che pur ancora, secondo un loro detto volgare, non aveva fatto il corso delle scienze, quelle dottrine da loro imbevute, si può dire, con il latte, gli avessero ad essere con nuovi modi e con tanta evidenza così facilmente rigettate e convinte». Qual parte in ciò che si narra a proposito di queste verità scoperte da Galileo, e che costituirebbero il risultato dei suoi primi studi, debba esser fatta alla leggenda e quale alla storia, sarebbe assai malagevole di stabilire in modo assoluto. Sulla infanzia e sulla gioventù degli uomini grandi la attenzione è in generale richiamata troppo tardi perchè intorno a quei primi anni possano essere raccolti sicuri elementi per la storia; e quando se ne istituisce la ricerca, la leggenda ha già incominciato a formarsi. La critica moderna vorrebbe ogni asserzione confortata da documenti, i quali in alcuni casi non si sa nemmeno quali potrebbero essere; e le affermazioni personali oppure le dichiarazioni di altri, per quanto meritevoli di fede, vengono revocate in dubbio con una sottigliezza d'analisi quale si farebbe d'un testo notarile col codice alla mano, anzi con uno scetticismo che nulla vale a scuotere ed a disarmare. Eppure anche allo storico più scrupoloso ripugna di relegare addirittura tra le leggende alcune narrazioni alle quali il nome di Galileo è così strettamente connesso da sembrare quasi sacrilegio il sentenziare senz'altro che si tratta poco meno che di favole. Tra queste sarebbe anzitutto la celeberrima scoperta da lui fatta dell'isocronismo delle oscillazioni del pendolo, dedotta dalla uguaglianza delle vibrazioni d'una lampada sospesa alla vôlta del duomo di Pisa; osservazione da riferirsi al tempo in cui egli era scolaro dello Studio, anzi, come sembra potersi fissare con maggior precisione, intorno all'anno 1583. Nel duomo di Pisa si vede, ed è tenuta con grandissima venerazione, la lampada che, abbandonata a sè medesima dallo scaccino che l'aveva accesa, avrebbe col suo oscillare dato motivo all'osservazione del giovanetto studente, anzi non altrimenti che col nome di «Lampada di Galileo» viene comunemente indicata. Ma ecco che i frugatori di archivi vengono fuori con un documento a provare che proprio quella lampada, modellata da Battista di Domenico Lorenzi ed eseguita da Vincenzio di Domenico Possenti, fu messa a posto il 20 dicembre 1587, e quindi subito altri a negare la tradizione costante e l'autenticità della osservazione, come se in duomo non fossero state prima altre lampade, oppure avessero potuto diversamente da quella oscillare. Or bene, a quella tradizione noi prestiamo fede, e crediamo col Viviani, che siccome Galileo allora, di buona o di mala voglia, pur seguiva gli studi di medicina, gli sia sovvenuto subito che in questi la avvertita egualità delle vibrazioni d'un dondolo avrebbe trovata utile applicazione nel misurare la frequenza del polso, del quale, a quanto si narra, erasi servito per notare l'isocronismo. È sommamente probabile che, con quella sua innata valentia nell'ideare ed eseguire congegni meccanici, egli costruisse anche a tal fine un apparecchio: fatto sta che il procedimento suggerito da lui, allora appena diciottenne, fu accolto con grande favore dai pratici, trovò chi caritatevolmente lo adottò e lo fece proprio, e rimase poi lungamente in uso. E tale fu l'invenzione cosiddetta del pendolo, della quale Galileo si valse poi in varie esperienze di misure e di tempi e di moti, e fu il primo che l'applicasse alle osservazioni celesti con incredibile acquisto dell'astronomia e della geografia. Quando quella storica osservazione si affacciò alla mente di Galileo, era ancora completamente digiuno di studi matematici, e quantunque, considerando l'ordinamento delle Università di quel tempo, si duri fatica a comprendere com'egli abbia potuto compiere due anni di studio e parte del terzo senza esservi almeno iniziato, il fatto della assoluta ignoranza di matematiche, nella quale sarebbe rimasto fin verso i vent'anni, è così concordemente asserito dai suoi biografi, e da lui stesso così recisamente e ripetutamente confermato, da non potersi revocarlo in dubbio. Non appena però vi fu, e, a quanto si narra, contro la volontà del padre, introdotto, così prepotente si manifestò in lui la inclinazione per questi studi e tal saggio ne diede che ottenne di poter abbandonare quelli di medicina, e fatto ritorno definitivo in Firenze, ad essi completamente si dedicò. Allo studio degli Elementi di Euclide fe' seguire quello degli scritti di Archimede, la cui opera egli era destinato a continuare, ed in alcuni argomenti quasi immediatamente, come se tra loro non fossero passati diciotto secoli e mezzo: da essi fu condotto a riprendere la soluzione che del famoso problema della corona aveva data il geometra siracusano e da questa alla invenzione della bilancetta, cioè di quello strumento che fu poi detto bilancia idrostatica e che sotto nuove e varie forme fu adoperato col nome di Idrostammo degli Accademici del Cimento. Ed ancora dallo studio delle opere di Archimede fu egli avviato a quella determinazione dei baricentri dei solidi che lo fece fin d'allora favorevolmente conoscere dai più illustri matematici del tempo, e della quale tanto si compiacque da pubblicarla più di mezzo secolo dopo in appendice alla sua opera capitale delle Nuove Scienze.

II.

Questi copiosi frutti da lui côlti nello studio delle matematiche giustificavano bensì l'abbandono di quelli di medicina, ma non offrivano ancora al giovane Galileo alcun mezzo per corrispondere all'aspettazione del padre, il quale dal suo ingegno tanto promettente aveva sperato un valido aiuto per sopperire ai gravi bisogni della numerosa famiglia. A tanto non bastando nè una problematica lettura pubblica di matematica in Siena, nè alcune lezioni nella stessa materia privatamente impartite e in Firenze e in Siena, pensò di sottoporre i suoi lavori a studiosi che risiedevano nei principali Archiginnasi del tempo, e ciò non solo per sentire in proposito il loro parere, ma ancora per farsi conoscere in quei celebratissimi centri di studi, a fine di ottenervi una cattedra, mèta delle sue aspirazioni. E forse ebbero lo stesso scopo quelle lezioni pubbliche da lui tenute in Firenze «intorno la figura, sito e grandezza dell'Inferno di Dante Alighieri» dettate nell'Accademia Fiorentina per difendere il Manetti dalle opposizioni che in tale materia erangli state mosse contro dal Vellutello. Un tentativo da lui fatto per ottenere la lettura di matematica nello Studio di Bologna, col quale forse si connette un suo primo viaggio a Roma, gli andò fallito, e prima ancora ch'egli ne deponesse la speranza aveva vagheggiato l'idea di ottenere la cattedra padovana rimasta vacante per la morte di Giuseppe Moletti nel marzo 1588. Certissimo è poi che il nostro giovane matematico fin dai primi mesi di questo medesimo anno 1588 aspirò alla lettura di matematiche nello Studio di Pisa ed a tal fine ricorse anche al marchese Guidobaldo del Monte, già discepolo del Commandino ed influentissimo, tanto per la sua posizione di famiglia e le sue relazioni con la Corte di Toscana, quanto per l'alta e meritata fama di scienziato nella quale era per cospicui lavori venuto. Perduta anche questa speranza, perchè il Lettore che aveva abbandonata quella cattedra l'aveva poi rioccupata, chiese gli venisse concessa una lettura di matematiche già istituita in Firenze dal granduca Cosimo I, senza però ottenerla; e così tutto l'anno 1588 e buona parte del 1589 trascorsero senza ch'egli vedesse in qualche modo rimunerati quegli studi, per i quali non aveva fino allora riscosso altro che il plauso degli intelligenti. Intanto, per buona ventura, la cattedra di matematica nello Studio di Pisa era rimasta definitivamente vacante, e mercè i buoni uffici del verace ed affezionato suo amico marchese del Monte, potè finalmente conseguirla nel luglio 1589, quando cioè egli aveva appena raggiunti i venticinque anni e mezzo di età. Quantunque il misero stipendio di sessanta scudi annui che gli veniva assegnato, non fosse tale da permettergli di dedicarsi tutto intero agli studi favoriti, nondimeno, poichè null'altro gli si offriva di meglio, accettò di buon animo Galileo il sollecitato ufficio e in sul cominciare dell'anno scolastico 1589-90 diè principio alle lezioni. Ma, oltre alla soverchia esiguità dell'assegno, altre cause si aggiunsero ben presto a rendergli assai poco gradito l'ufficio. I suoi nuovi colleghi erano per buona parte quelli stessi che pochi anni innanzi erano stati suoi maestri, e che avevano avuto ben poco da lodarsi della docilità e della acquiescenza di lui alle dottrine che venivano insegnando. Ritornando dunque nello Studio di Pisa, egli vi trovava, ed anche cresciute, quelle stesse antipatie con le quali vi era stato accolto come discepolo. Bella, ma forse unica, eccezione a questa animosità dei colleghi, faceva Iacopo Mazzoni da Cesena, legato in amicizia col padre di lui; con esso Mazzoni attendeva il giovane professore a studiare, ad imparare, apparecchiandosi a dare qualche nuovo saggio dei risultati ai quali la mente altissima ed i forti studi di cui si era nutrito dovevano condurlo. La scienza del moto faceva parte dell'antica fisica peripatetica e costituiva un campo che i filosofi stimavano ad essi esclusivamente riservato. Contro i canoni che n'erano stimati fondamentali, cioè divisione dei corpi in leggeri e pesanti, velocità di caduta dipendente dal peso, distinzione dei moti in naturali e violenti, azione dell'aria favorevole al moto ed altri consimili s'erano levate bensì voci poderose, ma quasi senza effetto, poichè, se anche non possa dirsi che fossero soffocate dall'autorità degli insegnanti dalle cattedre primarie, questi però seguivano imperturbabilmente la loro via. Il fatto delle esperienze sulla caduta dei gravi eseguite dall'alto della torre di Pisa, per dimostrare le nuove verità alle quali era pervenuto, è dal Viviani, il quale deve averlo raccolto dalle labbra istesse di Galileo, affermato in modo così sicuro ed esplicito da non potersi revocarlo in dubbio, e tanto meno recisamente negare perchè non se ne trova conferma in altri documenti contemporanei. Scrive egli infatti che, con gran sconcerto di tutti i filosofi furono da esso convinte di falsità, per mezzo d'esperienze e con salde dimostrazioni e discorsi, moltissime conclusioni dell'istesso Aristotele intorno alla materia del moto, sin a quel tempo tenute per chiarissime ed indubitabili; come tra l'altre, che le velocità de' mobili dell'istessa materia, disegualmente gravi, movendosi per un istesso mezzo, non conservano altrimenti la proporzione delle gravità loro, che anzi si muovon tutti con pari velocità, dimostrando ciò con replicate esperienze, fatte dall'altezza del campanile di Pisa con l'intervento degli altri lettori e filosofi e di tutta la scolaresca; e che nè meno le velocità di un istesso mobile per diversi mezzi ritengono la proporzione reciproca delle resistenze e densità dei medesimi mezzi, inferendolo da manifestissimi assurdi che ne seguirebbero contro al senso medesimo. Questi risultati trovansi consegnati in alcuni dialoghi stesi in latino e rimasti a lungo inediti; ma forse è poco credibile che in essi, proprio in essi, debba ravvisarsi la materia del suo pubblico insegnamento, il quale con tutta probabilità dovette restar circoscritto entro i confini voluti dalle consuetudini dei tempi. I nuovi veri però non avranno potuto certamente essere enunciati senza incontrare opposizione da parte degli aristotelici imperanti nello Studio e fino allora indiscussi, e questa congiunta con altre circostanze, e prima fra tutte quella dello scarsissimo stipendio, contribuirono a rendergli meno gradito il soggiorno di Pisa, ch'egli pensava ad abbandonare, come è lecito arguirlo dalle pratiche che andava facendo il marchese del Monte per procurargli altrove più degno collocamento. Anche quell'innocente, ma alquanto licenzioso capitolo bernesco, col quale Galileo mise in ridicolo la prammatica che costringeva i Lettori a far uso della toga, e non soltanto sulla cattedra, avrà contribuito a porlo in voce d'uomo leggero e poco reverente alla dignità cattedratica, mentre le sue idee novatrici lo facevano qualificare ingegno presuntuoso, turbolento e temerario. Abbia egli o no provocato il dispetto d'un bastardo di Casa Medici, pronunciandosi contrario ad un apparecchio da esso ideato per vuotare la darsena di Livorno, aggiungendo nuove cause alle altre che gli facevano temere, o di non conseguire quel miglioramento che per la morte del padre erasi reso tanto necessario, od anche di non essere confermato nella lettura; risulta che, prima dello spirare del triennio per il quale era stato eletto, volse senz'altro le sue mire alla cattedra di Padova, che, in mancanza d'un degno soggetto, la Serenissima continuava a mantenere vacante.

III.

Munito di forti commendatizie del marchese Guidobaldo del Monte, del cardinale Francesco suo fratello per il loro congiunto Gio. Battista, generale delle fanterie al servizio della Repubblica, e per alcuni patrizi veneti ed altre autorevoli persone, Galileo, sul finire dell'estate del 1592, si recò a Venezia, dopo aver sostato a Padova, dove fu accolto con singolare favore da Gio. Vincenzio Pinelli, il celebre letterato, nella cui casa si raccoglieva il fior fiore dei dotti che risiedevano in Padova ed in Venezia o che vi erano di passaggio. Con l'appoggio autorevolissimo di questo, ed esibendo assai verosimilmente il risultato degli studi al quale era pervenuto, offerse i proprii servigi ai Riformatori, chè così si chiamavano i magistrati che sopraintendevano alle cose dell'Università, e la domanda di lui venne accolta con tanta benignità e con tanta sollecitudine esaudita, che parve la Signoria lo avesse desiderato e ricercato; e con decreto dei 26 settembre egli veniva condotto alla lettura di matematica nello Studio di Padova «per quattro anni di fermo e due di rispetto» con lo stipendio per verità non molto lauto, di cento ottanta fiorini l'anno. Il decreto afferma la grande importanza della lettura, dichiara che la cattedra era stata tenuta a lungo vacante per non essersi trovato fino allora persona adeguata all'ufficio, e che si concede a Galileo Galilei, riguardandolo come il principale di questa professione. Il 7 dicembre leggeva il discorso inaugurale, e di esso ci vien riferito che «exordium erat splendidum, in magna auditorum frequentia»; ed il 13 successivo dava principio alle lezioni. I Rotuli dello Studio, o, come si direbbe oggidì, i programmi dei corsi, fino a noi pervenuti dimostrano che l'insegnamento pubblico di Galileo, rimasto «ad libitum» nel primo anno, non uscì nei successivi dalla cerchia consuetudinaria degli argomenti che venivano letti dalla cattedra di matematica di quel tempo in tutte le università italiane: cioè, la Sfera, intendendosi con essa i principii della cosmografia, la teoria dei pianeti, l'Almagesto di Tolomeo, gli Elementi di Euclide e le Questioni meccaniche di Aristotele. E benchè nella opinione copernicana circa il moto della terra, possa dirsi che Galileo fosse venuto fin dal suo primo applicare a questi studi; ed anzi sia lecito affermare ch'egli n'avesse intuita la verità prima ancora d'aver raccolto le prove necessarie a dimostrarla, non è dubbio ch'egli non ne fece tema del suo insegnamento pubblico, e forse nemmeno di quello privato, confidandosene soltanto coi più intimi e trattandone nel carteggio. Mercè quella ipotesi, come allora si preferiva chiamarla, gli si facevano bensì chiare le cause di molti fenomeni naturali d'altronde inesplicabili; ma, come dichiara nella prima sua lettera al Keplero, dal manifestare pubblicamente il suo pensiero in proposito, si tratteneva per timore di dividere le sorti del Maestro, deriso e beffeggiato. Perchè nel propugnare il sistema copernicano non si trattava solamente di cogliere in fallo Aristotele e Tolomeo, ma bensì di demolire quel complicato edifizio che, di fronte alla semplicità del sistema sostenuto dal canonico di Thorn, appariva mostruoso; si trattava di una immensa rivoluzione nell'ordine scientifico e religioso, della cui portata può soltanto fornire una adeguata idea la persecuzione della quale fu oggetto il sommo nostro filosofo. Galileo dovette fin da principio comprendere tutti i pericoli che poteva trarre seco il sostenere una dottrina di tanta importanza ed in appoggio della quale non si sentiva ancora d'aver raccolto tutto il corredo dei necessari argomenti. Se così acerba guerra eraglisi mossa a Pisa quand'egli con sensibili esperimenti, demolendo la meccanica di Aristotele, poneva le basi fondamentali della dinamica, che non sarebbe avvenuto se ad un tratto egli si fosse fatto ad insegnare dalla cattedra il moto della terra? I peripatetici sono lettori e scrittori, e quindi suoi pari; alle loro osservazioni contrappone altre osservazioni, ai loro argomenti altri argomenti; e come ha coscienza della sua dottrina e della loro ignoranza, così si vale con fierezza e con sicurezza di tutte le armi che gli vengono fornite dall'ingegno, e dallo studio; esamina, discute le loro opposizioni con vigoria dialettica, e non di rado con fina e pungente ironia: contro loro, in una parola, Galileo può liberamente ed efficacemente discutere, avendo dalla sua anche alcuni ecclesiastici. Avversarii di natura diversa sono i teologi: essi rifuggono dall'esame e dalla disputa, perchè si credono giudici e non uguali, mettono la Scrittura Sacra avanti il ragionamento e le osservazioni, rivendicando a sè soli la prerogativa di interpretarla. Nulla possono contro di essi le armi dello scienziato; Galileo non può appellarsi dal loro giudizio a quello del pubblico; gli è interdetta la difesa, egli è inerme al loro cospetto. Conscio della gravità dell'argomento, Galileo ben comprendeva come il dichiararsi semplicemente seguace delle dottrine copernicane poteva riuscire di ben poco profitto per diffonderle e per farle accettare: era mestieri che nuove ricerche, nuove scoperte nell'ordine astronomico e fisico, ne dimostrassero la piena ed assoluta verità, ponendole affatto fuori di questione. Dal fin qui detto scaturisce adunque senza dubbio alcuno la conseguenza già annunciata, cioè che Galileo durante la sua dimora a Padova, nel suo insegnamento ordinario, così pubblico come privato, e trattando così della Sfera come dell'Almagesto, come infine delle teoriche dei pianeti, non si scostò affatto dalle opinioni tolemaiche, per quanto fino d'allora fossero contrarie alle sue intime convinzioni; e soltanto in una lettera a Iacopo Mazzoni, che del documento epistolare ha semplicemente la forma, dichiarò di tenere per assai più probabile la opinione dei Pitagorici e del Copernico circa il moto e sito della terra che l'altra di Aristotele e di Tolomeo. L'attività didattica di Galileo nei dieciotto anni della sua dimora a Padova, ch'egli stesso chiamò i più felici di tutta la sua vita, non si rimase, come per incidenza abbiamo già accennato, entro il recinto dello Studio, ma al pubblico insegnamento accoppiò il privato, impartito a scolari ed a gentiluomini, alcuni dei quali, conforme l'usanza del tempo, stavano a dozzina nella stessa sua casa. E tra essi qualcuno fu più tardi decorato della porpora, e salì sul trono. Possiamo anzi precisare che a tali lezioni fornirono argomento l'uso del compasso geometrico e militare, le fortificazioni, gli Elementi di Euclide, la prospettiva, la meccanica, la sfera, l'aritmetica e la gnomonica, più frequentemente le prime, più di rado le ultime; e per alcune tra esse stese egli anco trattati che giunsero fino a noi, e dei quali cedeva ai suoi uditori copie fatte trascrivere da un amanuense che a tal fine tenne per qualche tempo presso di sè. Non tanto per la intrinseca importanza, quanto per un celebre dibattito al quale diede luogo, vuolsi far particolare menzione del Compasso, dagli usi ai quali poteva servire intitolato «geometrico e militare», e, per verità, più che altro un notevole perfezionamento del «compasso di proporzione» ideato parecchi anni innanzi dal marchese Guidobaldo del Monte. Questo strumento, che l'invenzione dei logaritmi, avvenuta qualche tempo dopo, faceva relegare nei musei, era destinato ad agevolare una quantità di operazioni aritmetiche e geometriche con svariatissime applicazioni, e poichè di apprenderne l'uso e di possederlo erano desiderosi moltissimi tra i suoi scolari, Galileo tenne lungamente seco un meccanico dal quale insieme con altri strumenti matematici lo faceva costruire, diffuse grandemente per mezzo di copie manoscritte la relativa istruzione, e finalmente si decise a pubblicarla per le stampe, servendosi d'una tipografia piantata, a quanto pare, nella sua casa stessa. Questa è anzi la prima scrittura di lui che si abbia a stampa e fu data alla luce nel 1606. Un giovane milanese, Baldassare Capra, venuto a Padova per oggetto di studio, che andava esercitandosi nelle osservazioni astronomiche con la guida d'un tedesco, Simone Mayr, e che, col mezzo di comuni amici, aveva avuto da Galileo stesso istruzioni circa l'uso dello strumento, ebbe la disgraziata idea di appropriarselo e di pubblicare in latino un libro nel quale il plagio era condito di insinuazioni contro Galileo e di una quantità straordinaria di madornali errori. Il fatto, gravissimo, non poteva essere lasciato impunito, e ciò tanto più perchè altra occasione aveva avuto Galileo di dolersi del Capra, il quale aveva trovato da ridire a proposito delle opinioni da lui pubblicamente manifestate circa la nuova stella apparsa nell'ottobre del 1604. Denunziato il plagio ai Riformatori dello Studio ed istituito un processo, Galileo ottenne solenne riparazione con la condanna del Capra e il sequestro e la soppressione del suo libro; nè contento di ciò, pubblicò una sua «Difesa contro alle calunnie et imposture di Baldessar Capra», dandovi larghissima diffusione. I lavori dei quali siamo venuti fin qui brevemente discorrendo non sono tuttavia nè i soli nè i maggiori tra quelli che Galileo preparò e compì durante il suo soggiorno padovano: vanno infatti tra questi annoverati, una macchina per sollevare l'acqua morta e per la quale anzi ottenne un privilegio dal Senato, le esperienze ed un discorso intorno alla percossa, gli studi sull'armatura delle calamite, sull'isocronismo delle oscillazioni del pendolo, l'esplicito enunciato della legge degli spazii percorsi dai gravi liberamente cadenti, i primi esperimenti che condussero all'invenzione del termometro; appartengono infine a questo medesimo tempo gli studi e le ricerche con cui pose i fondamenti di quelle che tanti anni più tardi chiamò le «Nuove Scienze». E per nulla tacere di ciò che appartiene a questo periodo che, scarso di pubblicazioni ma copiosissimo di frutti, fu indubbiamente il più fecondo di tutta la sua vita, aggiungeremo che ad esso risalgono anche quegli studi letterari sul Tasso ed i relativi confronti con l'Ariosto che hanno suscitato e suscitano tuttavia così vivaci controversie.

IV.

Ma intanto si maturava uno dei maggiori avvenimenti che registri la storia delle scienze, che doveva dare un nuovo indirizzo all'attività scientifica di Galileo ed esercitare una così grande influenza sul suo avvenire e su quello degli studi astronomici: vogliamo dire l'invenzione del cannocchiale. Adombrato da Girolamo Fracastoro che notò per il primo come il guardare attraverso due lenti sovrapposte permetta di vedere gli oggetti ingranditi e ravvicinati; indicato nella «Magia Naturale» del Porta, che spiegò come delle due lenti una deva esser concava e l'altra convessa e ne praticò l'abbinamento, esso fu assai verosimilmente, benchè rozzamente, costruito in Italia negli ultimi lustri nel secolo decimosesto, se anche per varii motivi la costruzione rimase quasi segreta e circoscritta così da non permettere di intravvedere tutto il grandissimo partito che poteva esserne tratto: nè vi si pose attenzione se non allorchè una sommaria notizia ne giunse d'oltralpe. Quando per la prima volta sia pervenuto a Venezia l'annunzio che una combinazione di lenti, provata a caso da un occhialaro olandese, aveva permesso di ottenere un singolare ravvicinamento degli oggetti lontani, dando luogo a tentativi più o meno razionali per raggiungere con la ripetizione delle prove un tale effetto, sarebbe forse difficile lo stabilire con tutta esattezza; par tuttavia certo che l'avviso ne sia giunto sullo scorcio del 1608 a Fra Paolo Sarpi; nell'aprile del 1609 lo strumento si vendeva già a Parigi, e dalla Fiandra pare che uno ne fosse mandato al cardinale Scipione Borghese. Come e sotto qual forma la notizia sia pervenuta a Galileo, possiamo soltanto ricavare dalle diverse narrazioni, non tutte per verità pienamente concordi tra loro, che egli stesso ce ne ha lasciato, in una delle quali, stesa fra il febbraio ed il marzo 1610, egli scrive: «Sono dieci mesi incirca che pervenne ai nostri orecchi un certo grido, esser stato fabbricato da un tal Fiammingo un occhiale per mezzo del quale gli oggetti, benchè assai distanti dall'occhio, si vedevan distintamente come se fosser vicini, e di questo effetto invero ammirabile si raccontavano alcune esperienze, le quali altri credevano, altri negavano. L'istesso pochi giorni dopo fu confermato a me per lettera di Parigi da un tal Iacopo Badovere, nobil franzese; il qual avviso fu cagione che io mi applicai tutto a ricercar le ragioni e i mezzi per i quali io potessi arrivare all'invenzione di un simile strumento; la quale conseguii poco appresso, fondato sopra la dottrina delle refrazioni. E mi preparai primieramente un cannone di piombo, nelle estremità del quale accomodai due vetri da occhiali, amendue piani da una parte, ma uno dall'altra convesso e l'altro concavo; al quale accostando l'occhio, veddi gli oggetti assai prossimi ed accresciuti». Ed in altra narrazione prosegue: «Mi applicai poi subito a fabbricarne un altro più perfetto, il quale sei giorni dopo condussi a Venezia, dove con gran maraviglia fu veduto da quasi tutti i principali gentiluomini di quella repubblica, ma con mia grandissima fatica per più d'un mese continuo. Finalmente, per consiglio d'alcun mio affezionato padrone, lo presentai al Principe in pieno Collegio, dal quale quanto ei fosse stimato e ricevuto con ammirazione testificano le lettere ducali, che sono ancora presso di me, contenenti la magnificenza di quel Serenissimo Principe in ricondurmi per ricompensa della presentata invenzione, e confermarmi in vita nella mia lettura dello Studio di Padova, con duplicato stipendio di quello che ne aveva per l'addietro, che era poi più che triplicato di quello di qualsivoglia altro mio antecessore». La Repubblica Veneta infatti che, nell'occasione d'una prima conferma di Galileo nella lettura, aveva portato il suo stipendio a trecentoventi fiorini ed in una seconda l'aveva aumentato di altri duecento, cosicchè anzi egli non aveva dato seguito a trattative corse per passare al servizio del Duca di Mantova, grata dell'omaggio fattole, l'aveva eletto a vita elevandone l'assegno a mille fiorini. Nel rozzo cannocchiale che Galileo aveva mostrato sul campanile di S. Marco ai patrizi veneti, che s'erano con lui arrampicati fino a quell'altezza, si ravvisava soprattutto uno strumento di guerra, e forse questa fu la causa che indusse il Senato a così grande generosità. Ma quello che ai fini politici di Venezia era sembrato strumento sicuro di potenza marittima e terrestre, divenne più presto nelle mani di Galileo strumento di più alte e immortali conquiste. Dalla terra egli lo volge al cielo ed in breve volgere di tempo scopre più verità astronomiche che non fossero state trovate nel corso di trenta secoli; ed il primo pensiero di questo reprobo, il cui capo, fatto venerando, era serbato ai fulmini di Roma, è un inno di ringraziamento a Dio che s'era compiaciuto farlo «solo primo osservatore di cosa tanto ammiranda e tenuta a tutti i secoli occulta». Chi mai presumerà di ritrarre la commozione che avrà provato Galileo davanti alle meraviglie rivelategli dal cannocchiale? Lo stesso nel quale si affrettò a consegnare il risultato delle sue osservazioni, a mano a mano che le andava facendo, non ce ne conservò altro che un pallido riflesso. Il primo entusiasmo è già svanito; lo scienziato racconta le sue scoperte con calma, con quella calma che ne conferma la piena ed assoluta certezza. Le montuosità della Luna, le innumerevoli stelle della Via Lattea, quelle delle nebulose del Cancro, le molte delle Pleiadi e d'Orione, e qua e là per il firmamento un così gran numero di stelle da superare più che il decuplo di quelle fino allora conosciute, appartengono ai primi fatti rivelati dal telescopio nell'autunno 1609. Addì 7 gennaio 1610, mentre stava osservando Giove, gli vide dappresso tre stelle, che stimò fisse, piccole ma brillantissime, e disposte secondo una linea retta parallela all'eclittica, più risplendenti assai d'altre pari in grandezza. Nel giorno successivo tornò a vederle, ma diversamente disposte rispetto a Giove, e già nella notte del 10 era indotto a concludere che quell'apparente cangiamento di luogo non seguiva in Giove, ma nelle stelle. Nella notte successiva, dell'11 gennaio, tornò a vedere due stelle collocate dalla stessa parte rispetto a Giove, ma con distanze diverse, e l'una dell'altra maggiore in grandezza, mentre nella sera precedente erangli apparse uguali; e di qui egli traeva già la conclusione che tre dovevano essere le stelle da lui osservate. Addì 13 finalmente gli apparvero d'un tratto quattro stelle intorno a Giove, tre ad occidente ed una ad oriente: il 14 non potè osservare, ma il 15 nell'ora terza di notte vide nuovamente le quattro stelle, tutte però ad occidente. Il sospetto che fin dalla seconda osservazione egli aveva già cominciato a nutrire, è ormai divenuto certezza completa: le stelle non sono fisse, ma satelliti che si muovono intorno a Giove: la terra intorno alla quale, per consenso di Tolemaici e di Copernicani, girava la luna, non era dunque più un centro unico di movimento intorno al quale s'aggirassero tutti i corpi celesti; Giove, mobile esso pure, sia intorno al sole, sia intorno alla terra, aveva anch'esso quattro lune: la terra non era dunque più centro dell'universo: il cosiddetto «re della creazione» era balzato dal suo effimero trono: il sistema astronomico sul quale avevano giurato fede inconcussa tante generazioni di filosofi era crollato per sempre! I Peripatetici, scorati dal nuovo e fierissimo colpo, ricorrono al comodo spediente di negare le annunziate scoperte, chiamandole una illusione del cannocchiale e rifiutano di applicarvi l'occhio per timore di doversi ricredere: gli astrologi si ribellano a priori contro la possibilità della esistenza di nuovi pianeti, che demoliva dalle mal connesse fondamenta lo sgangherato edificio degli influssi e dei pronostici. Ma gli avversarii hanno un bell'ingegnarsi (così lo stesso Galileo al Keplero) di sconficcare a furia di argomenti loici, come per arte magica, i nuovi pianeti dal cielo; nulla vale a trattenere il trionfale cammino del Sidereus Nuncius che reca ai mortali l'annuncio dei meravigliosi discoprimenti. Alla celebrazione della vittoria non mancano i cantici: odi e canzoni italiane, dialettali e latine. Il procaccia che reca a Firenze le lettere di Padova è al suo arrivo assalito, e gli amici di Galileo vengono ovunque assediati per aver più esatte e complete notizie dei fatti il cui annunzio aveva così fortemente commossi gli animi. Tommaso Campanella dal carcere di Castel dell'Uovo scrive: «dopo il tuo Nunzio, o Galileo, tutto lo scibile dovrà rinnovarsi» ed il Keplero, dapprima esitante, verificata la esistenza dei Satelliti di Giove, non può trattenere uno slancio d'entusiasmo, e ripetendo l'estremo grido dell'apostata, esclama: Vicisti Galilaee! Galileo, hai vinto!

V.

Ma non meno gravi delle scientifiche furono le conseguenze che per l'avvenire di Galileo trassero seco le sue grandi scoperte celesti. I legami che egli si studiò costantemente di mantenere con la Corte di Toscana permettono di supporre che, quantunque costretto ad abbandonare la patria per procurarsi altrove onorevole collocamento, egli non avesse mai deposto del tutto la speranza di farvi ritorno definitivo. Già fin dal 1601 noi troviamo accennarsi come a cosa convenuta ch'egli avrebbe dovuto imprendere nel tempo delle vacanze la educazione matematica del principe ereditario di Toscana, appena questi fosse pervenuto all'età capace di simili studi. La qual cosa seguì infatti, ed al principe Cosimo dedicò il Compasso geometrico e militare quando egli lo fece di pubblica ragione: nell'animo di lui cercava il nostro filosofo di insinuarsi in ogni modo, ed a lui quindicenne si rivolgeva per essere raccomandato ad autorevoli patrizi veneti e gli scriveva che anteporrebbe «il giogo suo a quello di ogni altro signore»; a lui, salito sul trono, dedicava finalmente il Sidereus Nuncius, ed alla glorificazione di Casa Medici i Satelliti di Giove. Con questi omaggi ebbe forse Galileo in mira il proprio richiamo a Firenze; nè è difficile che il desiderio della patria si fosse fatto maggiore in lui, appunto perchè, dopo la conferma a vita nella lettura di Padova, egli si sentiva, a meno d'uno straordinario evento, condannato a starsene per sempre lontano. L'omaggio di Galileo tornò sommamente gradito alla Corte di Toscana: grandissimo poi in quei signori il desiderio di verificare coi propri occhi le annunziate meravigliose scoperte: vi si arrese egli prontamente ed in tale occasione si riannodarono e si conclusero le trattative per la assunzione di lui ai servigi del Granduca: ed è dei 10 luglio 1610 il rescritto col quale veniva nominato: Primario Matematico dello Studio di Pisa e primario Matematico e Filosofo del Granduca di Toscana, con assegnamento di mille scudi all'anno, gravato sul patrimonio dell'Università di Pisa, senza obbligo nè di residenza nè di lettura. Altre cause che non siano quelle addotte nel suo carteggio con la Corte possono però avere indotto Galileo a lasciare la città dove, non ostante le ripetute promesse agli amici, mai più fece ritorno; e non ultima tra esse forse il desiderio di troncare la relazione contratta dieci anni prima con una donna, e dalla quale col legame di tre figli che n'aveva avuti, assai difficilmente avrebbe potuto svincolarsi. Prima però che lasciasse Padova ed il servizio della Serenissima, altre scoperte vennero ad aggiungersi a quelle che nei pochi mesi passati dall'invenzione del cannocchiale aveva fatte nel cielo: tra il luglio e l'agosto di questo medesimo anno 1610 infatti egli avvertì e mostrò ad amici, che più tardi ne fecero testimonianza, le macchie del sole, e addì 25 luglio vedeva sotto nuova forma Saturno. Messo sull'avviso dalla argomentazione d'uno tra i più acuti suoi discepoli, D. Benedetto Castelli, scopriva le fasi di Venere, deducendone la sicura conseguenza di ciò che da tempo egli sospettava, vale a dire che tutti i pianeti sono per loro natura tenebrosi e ricevono il lume dal sole, e che intorno ad esso si aggirano, confermando così pienamente la teoria copernicana circa il vero sistema del mondo. Ma il cammino per quanto trionfale, non appariva tutto seminato di rose, poichè se le meravigliose scoperte avevano ottenuto l'assenso entusiastico degli studiosi della Natura, richiamarono però in pari tempo l'attenzione dei teologi, i quali incominciarono a guardarne con occhio sospettoso le conseguenze. E di conoscere il giudizio che questi portavano sul suo libro e sopra i suoi discoprimenti, Galileo si mostra sopra ogni altra cosa premuroso e sollecito, ed il conquistare l'adesione dei Gesuiti, i quali egli riconosce, «sapere assai più sopra le comuni lettere dei frati», e nelle cui mani era l'Osservatorio del Collegio Romano, è in cima a tutti i suoi pensieri. Perciò appunto, poco dopo rimpatriato, aveva chiesto al Granduca licenza di recarsi a Roma col proposito di far riconoscere le sue scoperte e di rimuovere ogni ostacolo alle conseguenze che ne derivavano. Non gli riuscì pertanto difficile conseguire, almeno in parte, l'intento, poichè ormai l'esistenza dei Pianeti Medicei e le altre novità celesti erano state verificate anche dagli astronomi del Collegio, sicchè al cardinale Bellarmino, che, segretamente in iscritto e senza nominare Galileo, li interrogava se avevano notizia delle nuove osservazioni celesti che un valente matematico aveva fatte con uno strumento chiamato cannone, ovvero occhiale, rispondevano confermandole. E tutta Roma, chiamata dallo scopritore istesso a verificarle con i propri occhi, dava libero sfogo alla più viva ammirazione, salutandolo nuovo Colombo dei cieli. I cardinali Barberini, Conti, Orsini e del Monte sono tra i primi a festeggiarlo, il Farnese lo banchetta in Roma ed a Caprarola, e dagli orti del Quirinale, ospite del cardinale Bandini, Galileo mostra ad una folla di convenuti, di giorno le macchie del sole, e nelle belle sere d'aprile i satelliti di Giove, le montuosità della Luna, le fasi di Venere e Saturno tricorporeo. Il Principe Cesi raccoglie intorno a lui sulla sommità del Gianicolo le più cospicue persone della città eterna, e onora del suo nome la neonata Accademia dei Lincei. Il Papa stesso vuole vederlo e lo accoglie con effusione. Sicchè, dopo circa due mesi, durante i quali egli era passato di trionfo in trionfo, tornava a Firenze, accompagnato da una lettera del cardinale del Monte al Granduca, nella quale era detto: «Se noi fossimo in quella repubblica romana antica, credo certo che gli sarebbe stata eretta una statua in Campidoglio per onorare l'eccellenza del suo valore». Un'altra lettera partiva contemporaneamente da Roma ed era diretta dalla Sacra Romana Inquisizione all'Inquisitore di Padova, il quale aveva già scritto nel suo libro nero il nome di Cesare Cremonino, amico e collega del Nostro nello Studio Padovano, e gravemente sospetto di ateismo, e chiedeva: «Veggasi se nel processo del Cremonino sia nominato Galileo». Ma il Cremonino, sotto l'egida della Serenissima Repubblica Veneta, continuava ad avere piena libertà di penna e di parola, e Galileo da quell'egida non è più coperto, ed ha ormai suscitata una tempesta contro gl'impeti della quale non saprà nè potrà tutelarlo il suo Principe.

VI.

Il successo ottenuto da Galileo in Roma ebbe da un lato per effetto di renderlo maggiormente caro al Granduca, ma di concitargli contro dall'altro in Firenze e teologi e peripatetici, i quali ultimi, proprio in questo medesimo tempo, ricevevano da lui un nuovo e fierissimo colpo. Soleva Cosimo II radunare bene spesso intorno a sè i più valenti uomini che con la intelligente sua protezione aveva o trattenuto in patria o richiamati, e da loro voleva essere informato delle varie questioni che si agitavano fra gli studiosi; talora proponeva egli medesimo argomenti nuovi alle discussioni, e non di rado anche vi prendeva parte: e di questa sua abitudine talmente si compiaceva, che ogni qual volta ospitava illustri personaggi di passaggio per Firenze, nessuna maggior cortesia credeva di poter loro usare, che quella di farli assistere a siffatti dotti congressi. Ora avvenne che in una di tali occasioni fu introdotto il discorso sopra il galleggiare in acqua ed il sommergersi dei corpi, e, tenuto da alcuni aristotelici che la figura fosse a parte di questo effetto, ed avendo il nostro filosofo sostenuto che soltanto la maggiore o minor gravità rispetto all'acqua è cagione di stare a galla o di andare a fondo, ne seguì un discussione a lungo protratta, che in parte ebbe luogo alla presenza dei cardinali Barberini e Gonzaga, il primo dei quali prese le parti di Galileo, mentre l'altro erasi schierato coi peripatetici. Frutto di tali questioni fu il Discorso intorno alle cose che stanno in su l'acqua o che in quella si muovono, dato alla luce nel 1612, e che, ristampato poi con aggiunte in quello stesso anno, diede in seguito motivo a numerose repliche da parte degli avversarii, alle quali trionfalmente rispose più tardi Galileo sotto il nome di D. Benedetto Castelli. Nella introduzione a questo discorso ebbe il nostro filosofo occasione di pubblicare quanto gli era risultato rispetto alla investigazione dei tempi delle conversioni di ciascheduno dei quattro Pianeti Medicei intorno a Giove, e d'esporre alcune conclusioni alle quali le continuate osservazioni lo avevano condotto relativamente alle macchie solari; argomento questo che porse occasione alla celebre polemica col P. Cristoforo Scheiner. Le lettere scambiate a tale proposito con Marco Welser, duumviro di Augusta, raccolse Galileo in una pubblicazione intitolata: Istoria e dimostrazioni intorno alle macchie solari e loro accidenti, che fu data alla luce per cura dell'Accademia dei Lincei. Queste scritture, oltre che per l'altissimo valore scientifico, rivestono caratteri di particolare importanza, perchè in esse, per la prima volta a viso aperto, sostenne Galileo la verità della dottrina copernicana, e le conseguenze di tal fatto non tardarono a farsi sentire. La parte teologica, che ancor prima di questa pubblica dichiarazione, aveva ben compreso dove Galileo andava a parare, smascherava le sue batterie, e per bocca di Frate Niccolò Lorini, condannava dal pergamo di San Marco di Firenze, come eretica, la dottrina copernicana del moto della terra, per ciò che, leggendosi in molti luoghi delle Sacre Lettere che il sole si muove e la terra sta ferma, nè potendo mai la Scrittura mentire o errare, ne seguitava per necessaria conseguenza che erronea e dannanda fosse la sentenza di chi volesse sostenere, il sole essere per sè stesso immobile, e mobile la terra. Galileo non curò questi primi attacchi, vendicandosene tutto al più con qualche motto arguto e vivace: ma venendogli da Roma che si agitava in quelle alte sfere il partito di prendere qualche grave misura contro il libro del Copernico, ed ancora essendogli riferito che alla Corte di Toscana era stata promossa questione intorno al miracolo di Giosuè, inesplicabile con la nuova dottrina, ed anzi con essa in aperta contraddizione, non potè stare alle mosse e deliberò di intervenire. Perchè la proibizione dell'opera del Copernico da parte dell'autorità ecclesiastica da un lato, ed il prevalere di idee conformi appresso i Granduchi suoi padroni dall'altro gli avrebbero per sempre impedito di combattere per quella verità, nel cui trionfo egli riponeva ormai lo scopo di tutta la sua vita. Al suo ben affetto Monsignor Dini, il quale gli scriveva, avere udito dal cardinale Bellarmino che, al più che potesse esser deliberato contro il libro del Copernico, sarebbe il farvi qualche correzione, Galileo spazientito rispondeva recisamente che il Copernico non era capace di moderazione, ma bisognava dannarlo del tutto, o lasciarlo nel suo essere. Col fido Castelli, ammesso nella intimità della Corte, e che lo aveva ragguagliato degli occulti maneggi con i quali, peripatetici e teologi insieme alleati, andavano adoperandosi contro di lui, si apriva in una memoranda lettera, ampliata poi in quell'altra celeberrima alla Granduchessa Cristina di Lorena: documenti ambedue della più alta importanza storica, nei quali con mano ardita e sicura, segna i confini tra la scienza e la fede, divinando i gravissimi pericoli d'un conflitto. Nessuna circospezione, scrive egli, sia stimata soverchia, quando si tratti di quelle cognizioni che non sono de fide, e alle quali possono arrivare l'esperienza e le dimostrazioni necessarie, perciocchè perniciosissimo sarebbe l'asserire come dottrina risoluta dalle Sacre Lettere alcuna proposizione della quale una volta si potesse avere dimostrazione in contrario. Nelle dispute dei problemi naturali, non si cominci pertanto dalle autorità di luoghi delle Scritture, ma dalle sensate esperienze e dalle dimostrazioni: procedono del pari dal verbo Divino, la Scrittura Sacra e la Natura, quella come dettatura dello Spirito Santo, e questa come osservantissima esecutrice degli ordini di Dio; ma nelle Scritture, per accomodarsi all'intendimento dell'universale, è convenuto dir molte cose, quanto all'aspetto ed al nudo significato delle parole, diverse dal vero assoluto; mentre all'incontro la Natura è inesorabile, e mai trascendente i termini delle sue leggi, come quella che nulla cura che le sue recondite ragioni e modi di operare siano esposti alla capacità degli uomini. Quello adunque che gli effetti naturali o la sensata esperienza ci pone innanzi agli occhi, e le necessarie dimostrazioni ci concludono, non deve in conto alcuno essere revocato in dubbio, nonchè condannato, per luoghi della Scrittura che avessero nelle parole diverse sembianze, perchè non ogni detto della Scrittura è legato ad obblighi così severi, come ogni effetto della Natura, nè meno eccellentemente ci si scuopre Iddio negli effetti naturali che ne' sacri detti delle Scritture. Chi, esclama Galileo, chi vorrà porre termine agli umani ingegni? Chi vorrà asserire, già essersi veduto e saputo tutto quello che è al mondo di sensibile e di scibile? E per questo, oltre agli articoli concernenti alla salute e allo stabilimento della fede, contro la fermezza de' quali non è pericolo alcuno che possa insurgere mai dottrina valida ed efficace, sarebbe ottimo consiglio non ne aggiunger altri senza necessità: e se così è, quanto maggior disordine sarebbe l'aggiungerli a richiesta di persone, le quali, oltrechè noi ignoriamo se parlino inspirate da celeste virtù, chiaramente vediamo come siano del tutto ignude di quell'intelligenza, che sarebbe necessaria, non pure a redarguire, ma soltanto a capire le dimostrazioni con le quali le acutissime scienze procedono nel confermare simili conclusioni. Spetti dunque all'autorità delle Sacre Lettere il persuadere agli uomini quegli articoli e quelle proposizioni che sono necessarie per la salute delle anime e superando ogni umano discorso, non possono per altra scienza nè per altro mezzo farsi credibili che per la bocca dello Spirito Santo; ma non si imponga come necessario il credere che quel medesimo Dio abbia voluto che noi rinunziassimo all'uso dei sensi, del discorso e dell'intelletto dei quali ci ha dotati, e darci con altro mezzo quelle cognizioni le quali per essi possiamo conseguire. In breve: tra scienza e fede nè superiorità nè soggezione; la scienza, nè sopra nè sotto la fede, ma fuori della fede.

VII.

Questa soluzione, atta a comporre il dissidio senza danno delle parti, ignota all'antichità e così poco compresa anche ai nostri giorni, esasperò la parte teologica, della quale si fece interprete il domenicano Tommaso Caccini, pronunziando nella quarta domenica dell'Avvento 1614 dal pergamo di Santa Maria Novella la famosa invettiva: Viri Galilaei, quid statis adspicientes in coelum? e conchiudendo che la matematica era un'arte diabolica, e che i matematici, come autori di tutte le eresie, avrebbero dovuto essere banditi da tutti gli stati. Quasi nello stesso tempo un altro frate domenicano, Nicolò Lorini, antigalileiano già dichiarato, fattosi delatore, denunziava al Sant'Uffizio la lettera di Galileo al Castelli, come quella che conteneva proposizioni sospette e difendeva opinioni contrarie all'interpretazione che i Santi Padri avevano data alla Sacra Scrittura: e dalla dottrina passando alla persona, faceva colpa a Galileo delle amichevoli relazioni con l'odiato Fra Paolo Sarpi e perfino della corrispondenza scientifica con eretici di Germania. Il Sant'Ufficio iniziava subito la procedura, e, riuscite vane le pratiche per procurarsi l'originale della lettera incriminata, veniva trasmessa la copia avuta dal Lorini ad un Consultore, il quale, esaminatala, ebbe a dichiarare che, quantunque in essa si avvertissero frasi e parole improprie, tuttavia non era da dirsi che l'autore avesse deviato da un linguaggio cattolico. Senonchè essendosi nel frattempo recato a Roma il P. Caccini e comparso davanti al Sant'Uffizio, uscì in gravi accuse contro Galileo, e quantunque queste non fossero confermate dai testimoni da lui addotti, ebbero per conseguenza di provocare un esame delle Lettere sulle macchie solari, nelle quali, benchè non si riscontrasse verbo che alludesse all'interpretazione delle Sacre Scritture, si trovarono tuttavia le basi per formulare contro Galileo l'accusa di professare dottrine eterodosse tanto in filosofia quanto in teologia. È singolare invero, e può spiegarsi soltanto col geloso segreto del quale il Sant'Uffizio circondava tutti i suoi atti, che in Roma nulla trapelasse della avviata procedura, cosicchè i più fidi amici di Galileo andavano a gara per rassicurarlo, giungendo perfino a dare per certo che la dottrina del Copernico non sarebbe stata condannata. A ciò erano essi indotti da comunicazioni che andavano ricevendo da altissimi personaggi, e non è affatto fuori di luogo l'ammettere che questi fossero bensì benevoli a Galileo, ma vedessero di mal occhio la dottrina della quale erasi fatto sostenitore: intendevano proteggere la persona di lui, e di ciò si presero la massima cura anche quando la situazione divenne più pericolosa, ma stimavano che il sistema da lui difeso, dovesse, come dannoso alla fede, venire ad ogni costo condannato; e che perciò sia sembrato opportuno nascondere a Galileo che la dottrina copernicana fosse minacciata finchè il Sant'Uffizio ne avesse pronunciata la proibizione. Cosicchè in piena buona fede si affaticavano gli amici del nostro filosofo a dimostrargli che erano del tutto infondati i timori che egli andava loro manifestando: fra questi anche il Dini lo veniva sollecitando a compiere la scrittura, la quale sotto forma di lettera a Madama Cristina non fu subito pubblicata per le stampe, ma certamente corse fin d'allora manoscritta, mentre intorno allo stesso tempo vedeva la luce la lettera del carmelitano Paolo Antonio Foscarini che si proponeva di difendere la dottrina copernicana, salvando tutti i luoghi della Scrittura stimati con essa in opposizione. Convien credere che Galileo confidasse di poter, con i nuovi argomenti ch'egli s'era affaticato di mettere insieme, persuadere la parte teologica; e poichè, non ostante le ripetute assicurazioni che non si sentiva «neppure un minimo motivo contro di lui», ben comprendeva tutta la gravità della questione che si stava agitando, tanto rispetto alla sua persona, quanto per ciò che concerneva i lavori i quali andava volgendo nella mente, deliberò, seguendo anche il consiglio di qualche amico, di recarsi egli stesso a Roma per isventare le trame che si ordivano contro il sistema del quale s'era fatto aperto propugnatore. Munito di valide commendatizie del Granduca, partiva Galileo per Roma tra la fine del novembre ed il principio del dicembre 1615, ed appena arrivato dovette convincersi che i suoi timori non erano infondati; e mentre egli si lusingava di riuscire in breve a trionfare dei suoi nemici, poco appresso dovette riconoscere che l'opera della sua giustificazione non procedeva così liscia come se l'era immaginato: chè anzi la bisogna gli si affacciava irta di difficoltà. Le corrispondenze del tempo ci dipingono in questa congiuntura Galileo affaccendato, più che nel difendere la incriminata opinione, a convincere altrui della aggiustatezza di essa. È datato dal Giardino de' Medici sotto l'8 gennaio 1616 il Discorso del flusso e reflusso del mare al cardinale Alessandro Orsini; del 20 febbraio è la lettera al Duca Muti sulle montuosità della luna e sulla impossibilità che siano in essa corpi organici come in terra, ed oltre a questi, numerosi e di grande momento per la storia della vertenza sono gli scritti ch'egli compose in tale occasione, palesandosi schiettamente copernicano e rilevando come il canonico di Thorn avesse tenuta la mobilità della terra intorno al sole, non come ipotesi, ma come indubitabile verità. Di fronte a questo agitarsi di Galileo ed al continuo guadagnare nuovi proseliti ch'egli andava facendo, l'Inquisizione affrettò segretamente la sua procedura; e mentre egli si aspettava d'esser chiamato a difendere altri e si illudeva nella credenza che il tremendo Tribunale volesse essere da lui illuminato, e preparavasi a sfoderare i suoi migliori argomenti, si agiva proprio contro di lui come principale accusato così pericoloso da doverglisi perfino negare il diritto di difesa. Nel breve volgere d'una settimana il processo è esaurito. Addì 19 febbraio infatti è data comunicazione a ciascun teologo del Sant'Uffizio della proposizione da censurarsi; il 23 successivo si tiene congregazione per qualificarla, ed all'indomani undici teologi rispondono unanimi: 1) essere stolta ed assurda in filosofia e formalmente eretica la proposizione che il sole sia nel centro del mondo e per conseguenza immobile di moto locale; 2) essere passibile della stessa censura in filosofia, ed almeno erroneo nella fede, avuto riguardo alla verità teologica, la proposizione che la terra non è centro del mondo ed immobile, ma si muove secondo sè tutta, etiam di moto diurno. Tre giorni dopo, d'ordine del Pontefice, Galileo è chiamato dal cardinale Bellarmino, e quivi alla presenza del Commissario del Sant'Uffizio e di testimoni, gli viene ingiunto che lasci del tutto la condannata opinione, e che in maniera alcuna più non la tenga, insegni e difenda, nè in iscritto nè a voce, altrimenti si sarebbe proceduto contro di lui nel Sant'Uffizio. Galileo promise di ubbidire. Pochi giorni appresso usciva il decreto della Congregazione dell'Indice che proibiva fino a correzione i libri del Copernico e di Diego da Zuniga, ed in modo assoluto quello del padre Paolo Antonio Foscarini. Appena seguita l'ammonizione, l'ambasciatore toscano Guicciardini mandava al Granduca un rapporto ostilissimo a Galileo, insinuando come esso stesso doveva chiamarsi in colpa dell'accaduto, e facendo vedere i pericoli che ne sarebbero derivati, se il cardinale Carlo de' Medici, del quale si aspettava la venuta a Roma, si fosse lasciato compromettere per favorire l'ammonito filosofo. Galileo, il quale di queste informazioni a lui tanto avverse aveva avuto sentore, non volle sotto l'impressione di esse tornarsene a Firenze, ed incoraggiato dalla benevola accoglienza fattagli dal Papa in una speciale udienza, ottenne di poter prorogare il suo soggiorno in Roma. Ma il Guicciardini continuava ad insistere perchè fosse richiamato, finchè, avendo fatto balenare lo spauracchio di un qualche stravagante precipizio, nel quale avrebbe finito per cadere, ottenne ch'egli fosse formalmente invitato a far ritorno a Firenze. Siccome però in Toscana ed a Venezia era corsa voce che il Sant'Uffizio avesse costretto Galileo ad abiurare, e per di più lo avesse punito con varie penitenze, questi, prima di partire, pregò il cardinale Bellarmino che si compiacesse di rilasciargli una dichiarazione dalla quale risultasse come le cose erano realmente seguite. Esaudita tale domanda, addì 4 giugno Galileo riprese la via di Firenze.

VIII.

Coi decreti, con i quali si conchiuse quello che nella storia è conosciuto col nome di «primo processo di Galileo», poterono illudersi i teologi di aver sepolta la tanto temuta dottrina, e di aver chiusa per sempre la bocca all'importuno suo apostolo. Il quale, ritiratosi di lì a poco sulle colline di Bellosguardo, parve tutto assorto negli studi per determinare più esattamente i periodi dei Pianeti Medicei ed applicarne la osservazione delle ecclissi alla determinazione delle longitudini in mare: proposta che già parecchi anni innanzi gli era balenata alla mente e che era stata e doveva essere anche in appresso oggetto di lunghe trattative col governo spagnuolo. Ma un inatteso avvenimento gli porse occasione di entrare nuovamente in lizza, e di far conoscere al mondo che le unghie del leone nulla avevano perduto della antica e temuta potenza. Nell'agosto dell'anno 1618 erano comparse tre comete, una delle quali, che si vedeva nel segno dello Scorpione, più cospicua delle altre per chiarore e durata; l'apparizione s'era mantenuta fino al gennaio del 1619; e quantunque Galileo, impedito da lunga e pericolosissima malattia, poco avesse potuto osservarle, pure vi fece intorno particolar riflessione, conferendo con gli amici di quel che gli pareva su questa materia. L'arciduca Leopoldo d'Austria, che, trovandosi allora in Firenze presso la sorella, moglie del Granduca, volle onorarlo con la propria persona, visitandolo fino al letto, lo aveva eccitato a far conoscere il suo parere in proposito; e di Francia e da varie parti d'Italia a lui si ricorreva, come al solo che, e per avere più profonda conoscenza delle cose del cielo, e per essere provveduto di ottimi strumenti, avrebbe potuto pronunziare una parola autorevole in mezzo alle comuni incertezze. Crebbero le istanze nella occasione in cui il P. Orazio Grassi della Compagnia di Gesù tenne pubblicamente su quest'argomento un discorso; onde Galileo, evitando, almeno in apparenza, di entrare personalmente nella questione, si valse dell'opera di Mario Guiducci, suo amico, scolaro ed uno dei predecessori nella carica di consolo dell'Accademia Fiorentina, facendogli tenere in essa un discorso in cui venivano fatte conoscere le opinioni sue, tanto intorno a quelle esposte dal Grassi, quanto sull'argomento in generale. In questo Discorso delle comete, dato in luce alla fine del giugno 1619, ravvisa il Viviani la causa di tutte le «male sodisfazioni che il signor Galileo da quell'ora sino agli ultimi giorni, con eterna persecuzione, ricevè in ogni sua azione e discorso»; ed infatti monsignor Giovanni Ciampoli, discepolo e parzialissimo del nostro filosofo, non aveva potuto nascondere come i Gesuiti ne fossero rimasti profondamente irritati e si apparecchiassero alla risposta. E la risposta non tardò a venire: la diede alla luce lo stesso P. Grassi sotto il pseudonimo di Lotario Tarsi, ed in essa lasciato completamente da parte il Guiducci, attaccò in modo diretto e apertamente con tanta violenza, malignità e perfidia Galileo, che questi non potè trattenersi dal replicare, e replicò con quel gioiello insuperabile di scrittura polemica che fu il Saggiatore. E poichè, mentre se ne curava la stampa, era salito al soglio pontificio il cardinale Maffeo Barberini, del nostro filosofo grandissimo ammiratore ed entusiastico laudatore in prosa ed in verso, l'Accademia dei Lincei, per cura della quale la nuova scrittura galileiana si pubblicava, insospettita per alcune voci che s'eran fatte correre intorno alla probabile proibizione dell'opera, ed anzi alla sospensione della stampa, pensò di porla sotto l'egida del nuovo Papa, ed a lui arditamente la dedicò. Al desiderio vivissimo che Galileo provava di recarsi ad inchinare Urbano VIII, specialmente dopo aver saputo quanto gli si conservava benevolo, si aggiunsero per deciderlo le sollecitazioni degli amici, e sopra ogni altra cosa la decisa volontà di non lasciar sfuggire una tanta occasione senza tentare un qualche passo in favore della dottrina copernicana. Festose furono le accoglienze ch'egli ebbe in Roma, dove, dopo aver fatta la Pasqua in Perugia ed essersi soffermato per due settimane presso il principe Cesi in Acquasparta, giunse il 23 aprile 1624; nel corso di circa sei settimane durante le quali rimase nella città eterna, ebbe ben sei udienze dal Pontefice, ne ricevette un quadro, indulgenze, medaglie, agnusdei, un breve onorevolissimo e promesse di pensione; ma in quanto alla opinione del Copernico, in risposta ai timori dei pericoli che avrebbe corsi la Fede, qualora la condannata dottrina risultasse essere la verità istessa, la sola espressa dichiarazione «che non era da temere che alcuno fosse mai per dimostrarla necessariamente vera». Se tuttavia potè dirsi fallito lo scopo precipuo di questo viaggio, convien credere che Galileo, il quale non di rado si faceva delle illusioni da ottimista in tutto ciò che grandemente gli stava a cuore, n'avesse ritratta la convinzione che il decreto proibitivo non sarebbe stato mantenuto in tutto il suo rigore; e perciò, poco dopo tornato da Roma, si fece animo a rispondere a Francesco Ingoli, il quale otto anni prima aveagli indirizzata una confutazione del sistema copernicano: e nella sua illusione dovette maggiormente confortarlo il sapere che la sua risposta, fatta correre manoscritta, era stata letta e grandemente gustata dallo stesso Pontefice. Queste medesime e non infondate speranze lo inducevano a riprendere quel lavoro massimo, intrapreso negli anni giovanili, già annunziato al Keplero, promesso anche nel Sidereus Nuncius e nel Discorso sulle galleggianti, più volte sospeso, ma non mai abbandonato, nel quale con i sussidii della nuova astronomia, e di tutte insieme le scienze naturali, la incontestabilità della dottrina del moto della terra doveva essere con tutta evidenza dimostrata: e pochi mesi dopo tornato da Roma ne annunziava agli amici anche il titolo che doveva essere: Dialogo del flusso e reflusso. Gli anni che corsero tra la ripresa e il compimento di questo grandioso lavoro non poterono esservi interamente dedicati, sia perchè a quando a quando egli veniva distratto da altri studi, o impedito da pericolose malattie o da gravi preoccupazioni famigliari. Appartengono infatti a questo periodo della sua vita il perfezionamento del microscopio composto, nuovi studi sulla armatura delle calamite, pareri, dei quali veniva frequentemente richiesto dagli amici, consulti dati al Governo in materia di idraulica ed intorno ad altri argomenti, e nuove pratiche per ottenere che il Governo spagnuolo si decidesse ad adottare il metodo da lui ideato per la determinazione delle longitudini in mare e per il quale aveva inventata una nuova forma di cannocchiale da adattarsi alla testa degli osservatori e da lui chiamato col nome di Celatone. Anche la famiglia d'un suo fratello, stabilito come musicista alla Corte di Baviera, e che egli aveva fatto venire a Firenze e tenne per qualche tempo presso di sè, gli aveva procurati disgusti e dispiaceri gravissimi; e dei suoi tre figliuoli, l'unico maschio, da lui legittimato, indolente, sebbene dotato di forte ingegno, aveva finito per laurearsi ed accasarsi, rimanendo però pur sempre quasi interamente a suo carico: delle due figliuole, ambedue monache in S. Matteo d'Arcetri, soltanto la primogenita, la soave ed angelica Suor Maria Celeste, di mente e di ingegno acutissima, gli era motivo di conforti ineffabili, sebbene amareggiati dal pensiero d'essersi, con averla fatta monacare, privato di una assistenza che gli sarebbe stata tanto preziosa e della quale con l'avanzare degli anni dovette sentire e deplorare tanto maggiormente la mancanza. Il Dialogo che nell'agosto del 1625 egli scrive di andar tirando innanzi, apparisce intermesso nel dicembre dell'anno successivo, ed anche sei mesi dopo gli amici sentono che procede con lentezza, la qual cosa porge argomento alle loro doglianze. Nonostante che, in occasione della gravissima malattia, dalla quale Galileo fu còlto nel marzo del 1628 e che lo condusse in fin di vita, preso da timore che l'opera rimanesse incompiuta, egli facesse risoluzione di portarla a fine nel più breve tempo possibile, tuttavia nel 1629, per ragioni a noi sconosciute, il lavoro soffrì nuovo ritardo. Fu ripreso nell'ottobre, e il 24 dicembre partecipava al Cesi d'averlo «condotto vicino al porto»; e al principio dell'anno successivo i dialoghi erano «felicemente terminati», si leggevano in casa del canonico Cini e l'autore ne incominciava la revisione, dandone avviso agli amici ed aggiungendo che in breve li avrebbe avuti in pronto «per darli alla luce», e la stampa si proponeva di farla in Roma, dov'egli stesso si sarebbe recato a curarla «per non affaticar altri nelle correzioni». In questa determinazione egli era venuto, come par molto probabile, perchè, dovendo l'opera esser pubblicata per cura dell'Accademia dei Lincei, cioè a spese del principe Cesi, fosse evitato il pericolo di troppe scorrezioni e di interpolazioni, come era avvenuto per il Saggiatore. Contemporaneamente però Galileo faceva tastare il terreno per prepararsi all'accoglienza che egli ed il suo libro vi avrebbero ricevuto, e ne scriveva al fido Castelli, il quale si era già abboccato intorno a questo particolare col Padre Maestro del Sacro Palazzo, Niccolò Riccardi, ed aveva scandagliato l'animo del cardinale Francesco Barberini, nipote del Papa e, come allora dicevasi, Cardinal Padrone. Quanto al P. Riccardi, partecipava il Castelli a Galileo «che era tutto suo, e che sempre avrebbe fatta la dovuta stima della sua virtù e che non ne dovesse dubitare», e quanto al cardinale Barberini, faceva delle difficoltà, ma pure, quando Galileo avesse provato che la terra non era una stella, «nel resto le cose potevano passare». Questa lettera incoraggiò il nostro filosofo nella correzione del suo lavoro, sulle sorti del quale dovette sentirsi tanto più fiducioso dopo la famosa dichiarazione che, circa la proibizione del Copernico, il Pontefice stesso ebbe a fare a Tommaso Campanella, cioè che: «Non fu mai nostra intenzione, e se fosse toccato a noi, non si sarebbe fatto quel decreto». Compiuto il lavoro, conveniva ottenere licenza di stamparlo, ed a tal fine Galileo prese nuovamente la via di Roma, ove trovava validissimo aiuto nell'ambasciatore toscano Francesco Niccolini, nella di lui moglie Caterina Riccardi, battezzata nel carteggio galileiano col nome di «regina della gentilezza», e in Monsignor Ciampoli, suo svisceratissimo ed allora Segretario dei Brevi ed in gran favore presso il Pontefice. Dopo due mesi di trattative potè bensì Galileo riavere il libro sottoscritto e licenziato di mano del P. Riccardi e partirsene da Roma, ma con l'obbligo di tornarvi per gli accordi definitivi. Intanto, in seguito a nuove difficoltà, veniva consigliato a Galileo di stampare il libro in Firenze, e quindi nuova revisione da parte di un teologo della città, con la riserva però, che il proemio e la fine fossero accomodati dal Padre Maestro del Sacro Palazzo, il quale ad un certo punto voleva rivedere nuovamente e da sè tutta l'opera. Dopo lunghe tergiversazioni, il permesso veniva concesso, ma non si approvava il titolo «del flusso e reflusso», aggiungendosi essere mente del Pontefice che il titolo e soggetto proposto fosse «assolutamente della matematica considerazione della posizione Copernicana intorno al moto della terra, con fine di provare che, rimossa la rivelazione di Dio e la dottrina sacra, si potrebbero salvare le apparenze in questa posizione, sciogliendo tutte le persuasioni contrarie che dall'esperienza e filosofia peripatetica si potessero addurre, sì che mai si conceda la verità assoluta, ma solamente la ipotetica e senza le Scritture, a questa opinione». Nè con ciò erano ancora rimosse tutte le difficoltà; il P. Riccardi nicchiava a mandare il proemio, il quale finalmente, «tirato, come si suol dire, per i capelli», acconsentì a liberare. Intanto Galileo, insofferente degli indugi, aveva già fatto por mano alla stampa che fu compiuta il 21 febbraio 1632, ed il libro, fra i più famosi di tutte le letterature, dedicato al Granduca, usciva col titolo: «Dialogo di Galileo Galilei Linceo, Matematico sopraordinario dello Studio di Pisa e Filosofo e Matematico primario del Serenissimo Granduca di Toscana. Dove ne i congressi di quattro giornate si discorre sopra i due Massimi Sistemi del mondo, Tolemaico e Copernicano, proponendo indeterminatamente le ragioni filosofiche e naturali tanto per l'una quanto per l'altra parte».

IX.

Nell'atto di accompagnare all'Inquisitore di Firenze il proemio, «ma con libertà dell'autore di mutarlo e fiorirlo quanto alle parole come si osservi la sostanza del contenuto», era espressamente notato: «nel fine si dovrà fare la perorazione delle opere in conseguenza di questa prefazione, aggiungendo il Sig. Galileo le ragioni della divina onnipotenza dettegli da Nostro Signore, le quali devono quietar l'intelletto, ancorchè da gl'argomenti Pitagorici non se ne potesse uscire». Tali ragioni erano state suggerite dal Papa, mentr'era ancor cardinale, a Galileo, presente Agostino Oregio, che ne conservò memoria in una sua opera teologica; ora nel Dialogo gli interlocutori sono tre; Salviati e Sagredo, nei quali l'autore volle immortalare due suoi amici carissimi, ed il terzo, Simplicio, personaggio immaginario che col suo nome ricorda il famoso interprete degli scritti Aristotelici, è il rappresentante della scienza conservatrice, che pone il suo fondamento nell'autorità degli scrittori e che non riconosce altri argomenti se non quelli che dalle opere loro possono desumersi; e proprio nella bocca di questo, che nella discussione accampa obiezioni per lo più inconcludenti e vuote sottigliezze scolastiche, e le cui argomentazioni sono bene spesso volte in ridicolo dagli arguti suoi oppositori, Galileo ebbe la disgraziatissima idea di porre sulla fine dell'opera le ragioni che dal Pontefice gli erano state suggerite. Non fu difficile pertanto ai nemici, che egli aveva in quest'opera battuti a sangue, persuadere il vanitoso e fierissimo Urbano VIII che in quel ridevole personaggio il temerario autore aveva voluto raffigurare lui medesimo; e questa circostanza, fatta valere in aggiunta all'altra che balzava agli occhi di tutti, cioè che soltanto in apparenza erano nel libro proposte indeterminatamente le ragioni filosofiche tanto in favore dell'uno che dell'altro sistema, ma che la mente dell'autore era stata quella di dimostrare la incontestabile verità di quello copernicano, bastò perchè da amico e protettore gli si mutasse ad un tratto in nemico implacabile e s'inducesse a credere ed a dire che quel libro, sono queste le sue stesse parole, era più esecrando e pernicioso a Santa Chiesa che le scritture di Lutero e di Calvino. Al tipografo Landini si intima di sospendere la vendita e la diffusione del libro, e l'autore di esso non viene immediatamente deferito al Sant'Ufficio soltanto in grazia delle raccomandazioni del Granduca e delle insistenze del suo ambasciatore: il Dialogo però viene sottoposto all'esame d'una Congregazione particolare ed appena ricevutone il parere conforme alla sua volontà, il Papa fa intimare a Galileo col mezzo dell'Inquisitore di Firenze di presentarsi entro un mese al Commissario del Sant'Uffizio in Roma. Nessuna preghiera, nessuna mediazione, nessuna ragione valgono a calmare l'irato Pontefice: in un attestato medico il quale dichiarava che ogni piccola causa esterna avrebbe potuto apportare evidente pericolo di vita all'infelice scienziato, egli sospetta un pretesto per eludere i suoi ordini e perentoriamente manda all'Inquisitore di Firenze che il Sant'Uffizio avrebbe inviato a spese di Galileo un commissario e dei medici, i quali se l'avessero trovato in istato di mettersi in viaggio, lo avrebbero fatto carcerare e legare con catene, e così legato l'avrebbero tradotto a Roma. Non vale che dalla Corte stessa si scriva in conferma delle asserite gravissime condizioni; l'ambasciatore toscano avendo fatto sapere che il Papa minacciava qualche stravaganza, il Granduca non osa più resistere e fa intendere a Galileo che gli è giuocoforza ubbidire. E nel più crudo dell'inverno, fra i pericoli della morìa che dilagava per tutta Italia, di quella stessa della quale è eternata la memoria nelle pagine immortali dei Promessi Sposi, Galileo, fatto prima testamento, muovendo da Arcetri, dove s'era ridotto per trovarsi più vicino alle figliole monache, parte per Roma. Urbano VIII lo ha finalmente a propria discrezione. Rinunciamo a seguire passo a passo lo sventurato filosofo lungo la via dolorosa di questo secondo processo, impostato principalmente sulla mancanza al precetto col quale il primo era stato conchiuso. Dopo tre interrogatorii, nell'ultimo dei quali Galileo, stremato di forze, invoca la clemenza dei giudici e la compassione per la cadente sua età ed il miserando stato di salute nel quale era ridotto, il Pontefice ordina che sia interrogato sopra l'intenzione, anche minacciandogli la tortura: e se si terrà fermo, previa l'abiuria de vehementi da farsi in piena Congregazione del Sant'Uffizio, si condanni al carcere ad arbitrio della Sacra Congregazione; che gli si ingiunga di più non trattare nè per iscritto, nè a voce, nè in qualsiasi maniera, della mobilità della terra e della stabilità del sole, sotto pena di recidività; che il libro incriminato sia posto all'Indice, e che copie della sentenza si mandino a tutti i Nunzii Apostolici ed agli Inquisitori ed in particolare a quello di Firenze, il quale legga quella sentenza in piena congregazione e alla presenza del maggior numero di professori di matematica. Ammonito dall'ambasciatore toscano, che lo voleva salvo ad ogni costo, ad abbandonare la sua linea di difesa ed a sottomettersi a quello che da lui si pretendeva, costretto a rinnegare, almeno in apparenza, la sua fede di scienziato, cade in tale avvilimento da far temere della sua vita, e quando egli si presenta a subire l'ultimo interrogatorio non è più che l'ombra di un uomo. Ma nemmeno della sua sottomissione completa si appagano i giudici, i quali vogliono da lui la dichiarazione che abbia parvenza di giustificare la già decretata condanna. Alla intimazione che se non si risolve a confessare la verità, si addiverrà contro di lui agli opportuni rimedii di diritto e di fatto, risponde: «io non tengo, nè ho tenuto questa opinione del Copernico, dopo che mi fu intimato con precetto che io dovessi lasciarla: del resto son qua nelle lor mani, faccino quello che gli piace». A questa arrendevolezza non si placano i giudici, più duramente e senza circonlocuzioni imponendogli che dica la verità «alias devenietur ad torturam», a cui l'infelice risponde: «io son qua per far l'obbedienza, e non ho tenuta questa opinione dopo la determinazione fatta, come ho detto». Scarse troppo sono le lettere che in questo dolorosissimo frangente scrisse e potè scrivere Galileo, e nemmeno una è infino a noi pervenuta delle molte ch'egli indirizzò alla prediletta sua primogenita; ma sulle risposte frequentissime con le quali essa lo visitava, e che sono tra le gemme più preziose di tutta la letteratura femminile, possiamo con piena sicurezza affermare che mai egli ebbe attraversata la mente dal timore d'un conflitto che nell'animo della figlia amorosissima avesse potuto sorgere fra i suoi doveri verso il Padre che stava per essere condannato e quelli verso la religione in nome della quale lo si condannava. Questo supremo strazio di sentirsi minacciato nel più puro affetto della sua vita fu certamente risparmiato a Galileo, talmente egli aveva modellato lo spirito di Suor Maria Celeste ad immagine del proprio, e così sinceramente e ad onta di tutto egli aveva saputo serbare intatta la sua fede di cristiano e di cattolico di fronte ai tormenti che la Chiesa infliggeva alla sua coscienza di scienziato. Nella gran sala dei Domenicani alla Minerva si svolge l'ultima scena. Letta la sentenza che proibiva il suo libro, Galileo, dovette abiurare la dottrina copernicana e «con cuor sincero e fede non finta» dichiarare di maledirla e di detestarla. Onde giustamente fu scritto che, contro violenza così contraria alla dignità umana e all'assoluto dominio che compete alla verità, protestò nel secolo seguente la coscienza popolare, giudicando e condannando a sua volta i teologi con quel motto sublime: Eppur si muove!

X.

Poco costò al Pontefice il mostrarsi clemente verso il grande pensatore ridotto all'impotenza. Dal Palazzo del Sant'Ufficio, dove era stato tradotto dopo udita la sentenza e pronunziata l'abiura, potè passare due giorni appresso in quello del Granduca di Toscana alla Trinità dei Monti, con precetto però di doverlo tenere in luogo di carcere; e ad una sua supplica diretta ad ottenere la commutazione del carcere di Roma con altro simile in Firenze, si rispondeva permettendogli di trasferirsi a Siena. Circondato di cure affettuosissime da quell'arcivescovo Ascanio Piccolomini, presso il quale veniva relegato, riprese subito quegli studi sulla resistenza dei solidi, sul moto dei gravi in generale e dei proietti in particolare, dei quali i primi fondamenti aveva posti fin dal tempo in cui era lettore a Padova; e quando finalmente ottenne di poter far ritorno, sempre però in istato di prigionia, in Arcetri, li proseguì e li condusse a compimento con immenso giubilo dei suoi amici e discepoli. Nulla vale a distoglierlo da questo, considerato ormai come supremo scopo degli ultimi anni di sua vita e che deve riguardarsi come l'opera sua capitale: non l'immenso dolore per la perdita della sua primogenita, non le amarezze procurategli dal figliuolo e dai parenti, non il rammarico per le continue ripulse alle istanze per ottenere la completa liberazione, non infine il pensiero delle difficoltà che avrebbe incontrate per pubblicare l'opera sua dopo la espressa commissione mandata da Roma agli Inquisitori di negare la licenza di stampa a qualunque sua scrittura, ponendo divieto generale de editis omnibus et edendis, in tutti i luoghi, nullo excepto. Steso il lavoro in dialoghi, nei quali rivivono gli stessi personaggi di quello condannato, e non accogliendo il parere di amici che lo consigliavano a deporne copie manoscritte in alcune biblioteche, consegna i due primi al Principe Mattia de' Medici perchè li porti seco in Germania e ne procuri la stampa, e più tardi quattro ne rimette al conte Francesco di Noailles, già suo scolaro in Padova e che, ambasciatore francese presso il Papa, continuamente s'era adoperato per la sua liberazione. Aveva Galileo dapprima pensato a far stampare questi dialoghi, i quali, appunto per le materie in essi trattati, son detti delle «Nuove Scienze», in Venezia, ed a questo fine ne era venuto mandando alcuni fogli al P. Fulgenzio Micanzio, col quale s'era legato in stretta amicizia fin dal tempo del suo soggiorno padovano, sin da quando cioè lo aveva conosciuto come coadiutore del Sarpi; ma il divieto del quale abbiamo tenuto parola aveva fatte incontrare inattese difficoltà. Erano pur fallite le pratiche intavolate col mezzo di Giovanni Pieroni per farli stampare in Germania dedicandoli all'Imperatore stesso oppure, come parve poi più opportuno, al Re di Polonia, quantunque il manoscritto avesse già ottenute le debite licenze. Sicchè, cogliendo la occasione del passaggio per Venezia d'uno degli Elzeviri, a spese dei quali era stata già pubblicata una traduzione latina dello sfortunato Dialogo e data per la prima volta alle stampe la lettera a Madama Cristina, il Micanzio gli consegnò quella parte di originale dei nuovi dialoghi che si trovava ad avere presso di sè, affinchè li portasse seco e ne imprendesse la stampa in Leida: poco appresso gliene mandava il compimento, e la stampa, subito incominciata, fu compiuta nel luglio 1638 e comparve con una dedicatoria di Galileo al conte di Noailles, dove egli, per evitarsi altre «mortificazioni» da Roma, fingeva che l'opera fosse stata stampata a sua insaputa. Ma se a Roma si lasciò passare inavvertita la pubblicazione dei Dialoghi delle Nuove Scienze, non si prestò certamente fede alla finta soperchieria della quale Galileo volle far credere d'essere stata vittima; e dallo stamparsi quest'opera in terra di eretici si trasse forse argomento per giustificare la strettezza nella quale, ad onta di tante interposizioni, lo si teneva, quando si allegò che questo si faceva per meglio sorvegliarlo ed impedire che da Arcetri si allontanasse per andare ad offrire i suoi servigi ai nemici della religione ed in luoghi dove avrebbe potuto avere piena libertà di pensiero e di parola. E quando ciò si affermava, erano forse giunte al Sant'Uffizio le voci delle pratiche che in Olanda erano state fatte per chiamare Galileo ad una cattedra la quale per lui si sarebbe istituita nell'Università di Amsterdam. Comunque siano avvenute le cose, certo è che, per dichiarazione di Galileo stesso, il timore ch'egli aveva del Sant'Ufficio entrò, almeno in qualche parte, nell'impedire che approdassero le trattative ch'egli aveva intavolate per cedere agli Stati Generali d'Olanda il suo ritrovato per la determinazione delle longitudini in mare. Ma mentre, per fondati motivi, erano più vive in Galileo le speranze di buon esito per questa, che era stata fra le più gravi preoccupazioni di tutta la sua vita, sul prigioniero di Arcetri, colpito già così fieramente nella sua fede di scienziato e nei suoi affetti di padre, piombava un'altra e gravissima sciagura. Già fin dal maggio 1636 i molti acciacchi e l'indebolimento della vista avevano costretto Galileo a smettere le osservazioni notturne che egli aveva sino allora diligentemente proseguite, e che ebbero per risultato l'ultima sua scoperta astronomica, quella cioè della titubazione lunare. Nel marzo 1637 egli aveva già l'occhio destro infermo, e così rapidamente ne andarono peggiorando le condizioni che pochi mesi dopo egli lo aveva completamente perduto. Alle gravi infermità, scrive egli ad Elia Diodati sotto il dì 4 luglio 1637, «aggiugnesi (proh dolor!) la perdita totale del mio occhio destro, che è quello che ha fatto le tante e tante, siami lecito dire, gloriose fatiche. Questo ora, Signor mio, è fatto cieco; l'altro che era ed è imperfetto, resta ancor privo di quel poco di uso che ne trarrei quando potessi adoperarlo, poichè il profluvio d'una lacrimazione, che di continuo ne piove, mi toglie il poter far niuna, niuna, niuna delle funzioni, nelle quali si chiede la vista». Tre mesi dopo non poteva più guardare attraverso una lente, e dopo tre altri mesi così rapidamente andava «verso le tenebre» che potè credersi ormai prossimo ad essere definitivamente cieco, e in questi termini egli partecipa allo stesso Diodati l'infelicissimo caso: «Il Galileo vostro caro amico e servitore, da un mese in qua è fatto irreparabilmente del tutto cieco; talmente che quel cielo, quel mondo e quell'universo, ch'io con mie meravigliose osservazioni e chiare dimostrazioni aveva ampliato per cento e mille volte, più del comunemente creduto da' sapienti di tutti i secoli passati, ora per me si è diminuito e ristretto, ch'è non è maggiore di quello che occupa la persona mia». Nelle condizioni infelicissime alle quali si trovava ridotto potè Galileo sperare che il Sant'Uffizio, o, per dir più esatto, il Pontefice fosse per venire a più miti consigli, e ripetè perciò l'istanza di liberazione; ma dopochè l'Inquisitore accompagnato da un medico forestiero suo confidente l'ebbe visitato, e riferito che è «tanto mal ridotto, che ha più forma di cadavero che di persona vivente», gli si concedeva soltanto di trasferirsi dal Gioiello (così si chiamava il villino d'Arcetri da lui abitato) ad una casa ch'egli aveva comperata per il figliuolo sulla Costa di San Giorgio, vicinissima alle mura della città, per curarsi delle sue indisposizioni. E tanta era la strettezza nella quale, nonostante le miserrime condizioni di salute, era tenuto, ch'ebbe bisogno d'un permesso speciale dell'Inquisizione per potersi recare in una vicina chiesetta ed ivi adempiere l'obbligo pasquale. Nei primi mesi dell'anno 1639 aveva Galileo presentata una nuova supplica al Papa; non ci è noto che cosa egli chiedesse; questo solo sappiamo che Urbano VIII tutto inesorabilmente rifiutò, benchè da più tempo fosse ormai fatto certo della falsità dell'accusa che aveva determinato quel suo così gagliardo risentimento. Da allora in poi null'altro chiese Galileo: ritirato definitivamente nel villino d'Arcetri, ch'egli chiamava suo «continuato carcere ed esilio dalla città», visitato da pochi amici e da qualche straniero mosso, come il Milton, dal desiderio di vedere l'augusto vegliardo, non attese più che agli studi ed alla corrispondenza scientifica la quale, ancora in questi ultimi suoi anni conserva la freschezza, la copia e la vigoria dell'età sua giovanile. Come nel compimento dei dialoghi delle Nuove Scienze, mancatogli prematuramente il dilettissimo Aggiunti, egli s'era fatto aiutare dal suo «demonio», chè così chiamava Dino Peri, lettore pur egli di matematica nello Studio di Pisa, così, venutogli meno anche questo, nell'aggiungere ad essi due nuove giornate, e nel perfezionare alcune dimostrazioni delle altre quattro, si valse dell'opera del giovinetto Vincenzio Viviani, il quale poi potè gloriarsi del titolo di «ultimo suo discepolo»; ed in fine anco di quella di Evangelista Torricelli. Richiesto nel marzo 1640 dal principe Leopoldo de' Medici, lo stesso che diciassette anni più tardi istituì l'Accademia del Cimento, del suo parere intorno ad un libro del peripatetico Fortunio Liceti che opponeva alla opinione di lui sopra il candore o luce secondaria della luna, rispondeva indi a pochi giorni con una lunga scrittura, per nessun titolo inferiore ai più famosi scritti polemici della sua più fiorente virilità. E fu questo l'ultimo lavoro scientifico ch'egli abbia compiuto: chè a molti altri i quali, pur giunto a così tarda età, andava volgendo nella mente, non potè dare l'ultima mano; fra questi vuol essere notata l'applicazione del pendolo all'orologio, alla quale fu condotto a mezzo l'anno 1641 dal desiderio di tor di mezzo una fra le più gravi difficoltà che gli erano state sollevate nelle trattative con gli Stati Generali d'Olanda per il negozio della longitudine; quella cioè di fornire quel misuratore del tempo così esatto e così comodo come si richiedeva per la completa attuazione della sua proposta. Un altro vivissimo desiderio non fu concesso a Galileo di veder effettuato: quello di dare in luce le principali sue opere insieme raccolte. Parve da principio che se ne volesse incaricare il Carcavy, matematico e letterato francese, che aveva anche visitato personalmente il sommo filosofo nella occasione d'un suo viaggio in Italia; in appresso gli Elzeviri avevano manifestata ripetutamente la intenzione di assumere tale pubblicazione, e per essa appariscono traccie di trattative ancora nel settembre 1641; ma quand'anche avessero potuto allora essere più felicemente avviate, sarebbe stato troppo tardi. A quattro ore di notte dell'8 gennaio 1642 Galileo rendeva a Dio la sua grande anima.

PER LA EDIZIONE NAZIONALE DELLE OPERE DI GALILEO GALILEI

SOTTO GLI AUSPICII DI S. M. IL RE D'ITALIA.

UMBERTO I PER GRAZIA DI DIO E PER VOLONTÀ DELLA NAZIONE RE D'ITALIA.

Considerando come le ricerche e gli studi, specie dell'ultimo decennio, intorno la vita e gli scritti di Galileo Galilei, affidino ormai di poter condurre degnamente una nuova edizione, integrata e compiuta, delle opere di Lui; Considerando di supremo decoro nazionale l'appagare per tal guisa il lungo desiderio degli studiosi, elevando ad un tempo nuovo e durevole monumento di gloria al Genio meraviglioso che creava la filosofia sperimentale; Accertato come le molte cure e diligenze richieste dalla importanza e dalle difficoltà del lavoro, richieggano tempo non breve, l'opera assidua di più persone e spesa adeguata; Volendo dare fino da ora principio di attuazione al nobilissimo disegno, a benefizio degli studi e ad onore d'Italia; Veduto il Nostro decreto 18 maggio 1882, N° 773, serie 3a; Sulla proposta del Nostro Ministro Segretario di Stato per la pubblica istruzione;

Abbiamo decretato e decretiamo:

ART. 1. — Una nuova e compiuta edizione di tutte le opere di Galileo Galilei sarà intrapresa a spese dello Stato e per cura del Ministero di pubblica istruzione, con l'assistenza e col consiglio di uomini preclari nelle scienze e nelle lettere. ART. 2. — Essa edizione sarà compresa in venti volumi in 4°, di pagine cinquecento circa per ogni volume. ART. 3. — Pel corso di dieci anni, a cominciare dal presente, sarà vincolata ogni anno dal Nostro Ministro Segretario di Stato per la pubblica istruzione, la somma di lire diecimila (L. 10,000) sul capitolo di quel bilancio assegnato ad incoraggiare opere scientifiche e letterarie, secondo il decreto sopracitato, e tale somma dovrà erogarsi con le forme prescritte dal vigente regolamento di contabilità generale dello Stato, nello allestimento e nella stampa di due volumi delle opere galileiane.

Dato a Roma, 20 febbraio 1887.

UMBERTO.

COPPINO.

PIACQUE a Sua Eccellenza il Ministro della Pubblica Istruzione di affidare a me la cura della nuova edizione delle Opere di Galileo Galilei, che sarà fatta sotto gli augusti auspicii di Sua Maestà il Re ed a spese dello Stato. Ora prima d'incominciare l'ardua impresa, alla quale mi venni preparando in quasi un decennio di studi Galileiani, stimo doveroso esporre, insieme coi motivi che da gran tempo ne hanno dimostrata la necessità e che contribuirono a farla deliberare, i criterii che saranno seguíti nel mandarne ad effetto il nobilissimo disegno. Nell'attuazione di esso, il R. Ministro della Istruzione Pubblica mi ha dato a compagno desideratissimo il professore Isidoro Del Lungo, accademico della Crusca, con l'incarico d'occuparsi di tutto ciò che concerne la cura del testo; e ad assistermi nel superare le gravi difficoltà scientifiche che si presenteranno per via, furono dallo stesso Ministero delegati i professori Genocchi, Govi e Schiaparelli, i quali, oltre ad avere acconsentito a coadiuvarmi nel tracciare definitivamente il disegno da seguirsi, promisero altresì di prestare l'opera loro in tutto ciò di che venissero richiesti. Nè, oltre a questo, ove l'occasione ed il bisogno se ne presentino, resterò dal ricorrere al consiglio di altri, che, per la singolare loro competenza in determinati argomenti, mi possano in qualche caso prestare aiuto efficace. Per tal modo reputo che nessuna maggiore guarentigia abbia a chiedersi perchè la esecuzione del lavoro riesca non indegna del Filosofo sommo che s'intende di onorare, e del Patrono Augusto che l'accolse sotto i propri auspicii; e perchè la deliberazione dell'Uomo di Stato, che l'ha decretata, lasci una splendida traccia negli atti del suo Ministero. Così mi reggano le forze, tanto ch'io possa condurre al debito termine il gravissimo incarico.

Padova, 12 novembre 1887.

I.

L'ESPRESSA commissione, che, conseguentemente alla condanna di Galileo, fu mandata da Roma agli Inquisitori, di opporsi alla stampa di qualunque suo scritto, ponendo divieto generale de editis omnibus et edendis in tutti i luoghi nullo excepto, non aveva che maggiormente infervorato il sommo filosofo nella esecuzione del disegno da lui concepito, di pubblicare fuori d'Italia una raccolta de' suoi scritti. Quali fra i suoi lavori egli destinasse a far parte di tale collezione, non ci è precisamente noto: non sappiamo nemmeno s'egli intendesse di comprendervi lo “sfortunato Dialogo„, com'egli lo chiama, poichè a tale strettezza era ridotta la licenza di leggerlo, da dover egli scrivere, “ragionevolmente temere che se ne sia per annullare anco la memoria;„ e soltanto alla voce d'una traduzione inglese di esso, si mostra allarmatissimo per il pregiudizio che a lui poteva derivarne, mentre appunto i suoi amici stavano facendo attive e calorose pratiche per impetrargli una diminuzione di pena. Della pubblicazione d'una raccolta de' propri scritti dovette occuparsi Galileo fin dal 1634, poichè sul finire di quest'anno Pietro Carcaville, noto matematico e letterato francese, consigliere al Parlamento di Tolosa, avendo visitato il sommo filosofo nella occasione d'una sua gita in Toscana, gli offerse personalmente di curare la pubblicazione di tale raccolta, prendendo sopra di sè la spesa relativa. Galileo aveva accolta con animo lieto la fattagli proposta; e nella lunga corrispondenza che ne seguì abbiamo anzi una lettera di lui (unica sua di tale carteggio fino a noi pervenuta) al Carcaville, nella quale, corrispondendo alla avutane richiesta, promette di aggiungere cose non più stampate, a fine di aumentare la diffusione della nuova edizione e di agevolare la concessione d'un privilegio, entrando egli ancora in alcuni particolari intorno alla esecuzion materiale della futura pubblicazione. Come e perché le trattative col Carcaville sieno state da Galileo lasciate cadere, non sappiamo positivamente; ma ci è lecito argomentarlo con qualche sicurtà, attribuendone la causa a nuove trattative per la pubblicazione d'una raccolta de' suoi scritti, intavolate in questo tempo da Galileo medesimo cogli Elzeviri, i quali curavano la stampa dei cosiddetti Dialoghi delle nuove scienze. Mediatore di siffatte trattative era Fra Fulgenzio Micanzio; e, pur di conchiudere colla celebre ditta olandese, si mostrava Galileo disposto a sottostare a sagrifizi gravissimi, proponendosi anzi egli di fornire agli editori la traduzione latina di tutti gli scritti che destinava a far parte della raccolta, con l'intendimento che riuscissero più facilmente accessibili agli studiosi delle varie nazioni. Era questo un pensiero che Galileo andava da molto tempo volgendo nella mente, poichè fin da parecchi anni addietro erasi egli rivolto per la traduzione latina di alcuni tra i suoi lavori agli antichi amici di Padova. Riprese pertanto il vagheggiato disegno, allorquando vide bene avviate le trattative cogli Elzeviri; e perciò chiamò presso di sè il P. Marco Ambrogetti perchè voltasse in latino le opere da lui stese direttamente nella lingua nativa, facendo poi attendere Alessandro Ninci da San Casciano alla copia di tali traduzioni. Entro l'anno 1637 le traduzioni erano compiute, poichè Galileo ne dava avviso a Lodovico Elzeviro, e questi, che a nome della celebre sua casa, ne aveva assunta la edizione, ripetutamente assicurava Galileo di essere pronto a per mano alla stampa nella miglior forma possibile. Ma, come già le trattative col Carcaville, caddero a vuoto anco queste cogli Elzeviri; e di tal guisa, vivente Galileo, nessuna raccolta delle sue Opere venne data alla luce, rimanendo inadempiuto uno dei suoi più vivi desiderii. Alla morte di Galileo, Vincenzio Viviani non aveva ancora toccata l'età di vent'anni; eppure noi lo vediamo tosto infiammarsi all'idea di mandare ad effetto il voto del suo Maestro, e poche settimane dopo che n'era seguita la morte, rivolgersi ai condiscepoli, chiedendo con grandi istanze comunicazione di scritti e documenti galileiani. Alla versione latina delle cose date alla luce in italiano, voleva egli aggiungere la traduzione italiana delle poche pubblicate con veste latina: al quale ultimo scopo aveva molto probabilmente impresa la traduzione del Sidereus Nuncius, della quale un brano si conserva tuttavia fra i Manoscritti Galileiani nella Biblioteca Nazionale di Firenze. A questa raccolta si proponeva il Viviani di premettere quella narrazione istorica della Vita del suo Maestro, ch'egli aveva dettata ad istanza del Principe Leopoldo, poi Cardinal de' Medici. Se non che una circostanza gravissima, sulla quale torneremo fra poco, avendo impedito al Viviani di mandare ad effetto quel suo nobilissimo divisamento, si tenne per allora a continuare con ogni diligenza la raccolta delle cose di Galileo rimaste inedite, e ne fu largo a Carlo Manolessi, che curò la prima edizione di scritti galileiani insieme riuniti, la quale vide la luce in Bologna negli anni 1655 e 1656. Il Manolessi infatti nel preambolo di questa prima collezione dichiara, che, oltre le Opere di Galileo già stampate a parte, il Principe Leopoldo di Toscana gli aveva fatto “capitare tutte le scritture non più stampate, che qui si veggono, della verità delle quali non resta luogo a dubitare, per esser elleno uscite dalle mani del signor Vincenzio Viviani dottissimo discepolo di così gran Maestro, e zelante al possibile della riputazione del medesimo Galileo, da cui ricevè parte di queste, ch'ei volentieri comunicar soleva agli amici più cari, et il rimanente ha di poi ottenuto da i confidenti e dagli eredi dell'istesso Autore.„ Alcuni documenti or non ha molto da noi pubblicati, e che consistono in lettere indirizzate dal Manolessi al Viviani, spargono molta luce, non solo sull'indole della partecipazione avuta da questo nella prima edizione delle Opere di Galileo, ma ancora sulle gravissime difficoltà che dovette incontrare l'editore per ottenere il permesso di stampare scritti puramente ed esclusivamente scientifici, ed anche di ristamparne altri che correvano per le mani di tutti. Risulta di qui che il Viviani, come del resto egli stesso conferma, si tenne semplicemente a procurare materiali alla edizione curata dal Manolessi, la quale riuscì ciò non ostante assai manchevole e difettosa. Ed invero essa, per prima cosa, non comprende tutti gli scritti galileiani i quali erano stati già dati alle stampe; poichè, a cagione della proibizione ecclesiastica, dovettero necessariamente omettersi il Dialogo sopra i due massimi sistemi e la Lettera a Cristina di Lorena; e per effetto, a quanto sembra, di semplice trascuranza, le lettere di Galileo pubblicate dal Gloriosi e dal Liceti nel 1639, 1642 e 1646 vi mancano affatto. Convien dire bensì che di questa ultima e di altre omissioni si fosse accorto l'editore, giacchè nel corso stesso della sua corrispondenza col Viviani, or ora citata, accenna già ad una nuova e migliore edizione, ch'egli non dispera di poter fare. Sembra inoltre che, appena compiuta la pubblicazione dei due volumi costituenti la prima, fossero al Manolessi venuti a mano altri scritti galileiani; poichè da una lettera di Carlo Dati a Cassiano dal Pozzo sotto il dì 7 marzo del 1656 rileviamo che si pensava già a pubblicare una appendice, la quale poi non fu altrimenti data alla luce. Questa prima edizione curata dal Manolessi, sebbene assai meno copiosa delle susseguenti, è di Crusca, ed è tuttavia tenuta in grande estimazione: la idea da lui avuta di comprendervi alcuni scritti degli oppositori di Galileo creò, è ben vero, un antecedente che doveva pesare sulle edizioni posteriori, ma ad ogni modo fu ottimo partito, poichè la conoscenza di molti tra essi è indispensabile a ben comprendere le repliche del nostro filosofo. Gli esemplari completi e bene ordinati di tale edizione non sono oggidì molto comuni e ciò perchè i diversi trattati che la compongono, avendo frontespizio e numerazione particolari, furono spesso distratti dal corpo intero della edizione, spesso ancora si trovano messi insieme arbitrariamente, non ostante l'indice dei due volumi costituenti la collezione, che si ha al principio del primo. Questa prima edizione di Bologna non avendo tuttavia interamente appagato nè il Principe Leopoldo nè il Viviani, questi riprese il suo antico proposito. Infatti in una lettera da lui scritta il dì 6 maggio 1661 al Thevenot leggiamo: “Sarà da 6 anni, che si propose al serenissimo signor Principe Leopoldo di far ristampare tutte le opere del medesimo Galileo in forma di foglio con ogni maggior pienezza e magnificenza, a due colonne per le due lingue, l'una toscana, nella quale scrisse l'autore, l'altra latina, da tradursi da varii nostri compatriotti, ed in ultimo con aggiunta di gran mano di scritture del medesimo non più vedute, che con grandi fatiche ho raccolto da diverse parti, tra le quali sarà tutto il regolamento della longitudine, che si consegnò a questi anni dalla liberalità del signor E. Diodati: ed essendo allora a S. A. piaciuto assai il mio concetto, ne l'ho continuamente poi tenuto invogliato a segno che ne è resolutissimo, e di presente si lavora incessantemente intorno alla preparazione del tutto.„ Se non che coceva moltissimo tanto al Principe Leopoldo quanto al Viviani, di dover dare forzatamente incompleta una nuova edizione delle Opere galileiane, non potendovi comprendere il Dialogo sul quale pesava la proibizione ecclesiastica. Un tentativo di far cessare tale proibizione fu fatto dal principe stesso, divenuto cardinale, appresso alcuni autorevoli membri della Compagnia di Gesù, e n'aveva da principio ricevuto qualche affidamento, essendogli stato risposto “che non sarebber mancati modi di salvar tutti, non solo senza scapito, ma con acquisto di riputazione;„ ma, forse per la immatura morte del cardinale, le trattative erano state troncate, senza che il desiderato scopo avesse potuto essere conseguito. Allorquando pertanto il Viviani, dopo aver raccolta cosi gran copia di materiali per la nuova edizione delle Opere di Galileo, ch'egli proponevasi di curare, si vide prossimo all'attuazione del grandioso disegno, pensò di riprendere quelle trattative, facendo capo ancora a quella stessa Compagnia di Gesù, per la cui mediazione soltanto egli stimava possibile di conseguire il suo intento. Abbiamo altrove narrato per filo e per segno, e col corredo di molti inediti documenti,l'andamento di queste trattative, la mala riuscita delle quali doveva far perdere al Viviani le ultime speranze, se pure ancora ne serbava, di poter giungere ad ottenere la revoca della condanna degli scritti di Galileo intorno al nuovo sistema del mondo; e cosi depose anco l'idea di attendere alla nuova edizione, la quale per tanti anni aveva tenuto in cima a tutti i suoi pensieri. Anzi lo stesso suo lavoro sulla Vita di Galileo si rimaneva tuttora inedito e fra le mani di pochi, quando nel 1717, in occasione della pubblicazione dei Fasti Consolari dell'Accademia fiorentina, il Salvini, con ottimo consiglio, lo diede alla luce, servendosi d'un autografo allora posseduto dall'abate Iacopo Panzanini, nipote ed erede del Viviani medesimo. E che il Viviani deponesse il pensiero della nuova edizione, fu invero sciagura grandissima: prima di tutto, perchè nessuno meglio di lui, che aveva avuto la ventura d'essere stato l'ultimo discepolo di Galileo, poteva ordinarne le Opere secondo la mente dell'istesso Autore, il quale, come testè vedemmo, negli estremi anni della sua vita di tale pubblicazione erasi precipuamente occupato; ed ancora perchè, come a suo luogo vedremo, pochi lustri dopo la morte del Viviani avvenne quella non mai abbastanza deplorata dispersione dei manoscritti, i quali con intelletto d'amore egli aveva per quel determinato scopo raccolti.

II.

Alla morte del Viviani, seguíta nel 1703, il tesoro di cose inedite galileiane da lui raccolte, e delle quali egli aveva pubblicato soltanto una piccola parte nel suo libro della Scienza universale delle Proporzioni dato alla luce nel 1674, passò nelle mani dell'abate Iacopo Panzanini testè menzionato; il quale, se non cercò egli stesso di usufruire della preziosa collezione pervenutagli per eredità, e non si studiò di accrescerla, come in quel tempo avrebbe facilmente potuto, contentandosi solo di unirvi le dotte scritture dello zio, pregevoli per notizie così intorno alle opere di Galileo come intorno alla storia delle scienze nel secolo decimosettimo, ne fu tuttavia largo agli studiosi. Di questa raccolta infatti potè tra gli altri giovarsi Tommaso Buonaventuri, il quale, coadiuvato dal padre Guido Grandi e da Benedetto Bresciani, curò la seconda edizione, prima fiorentina, delle Opere di Galileo. Del Buonaventuri è la dotta prefazione universale, nella quale si tenta di dare una idea delle varie Opere; del Grandi sono alcune note illustrative, parte delle quali portano espressamente il suo nome. Per fermo assai più copiosa della prima riuscì questa nuova edizione, la quale contiene anco un abbozzo di indice: ma, come nella prima, furono omessi in questa gli scritti colpiti dalla censura ecclesiastica; ed oltre a ciò, alcune delle scritture galileiane non furono date nella loro integrità. Finalmente è da osservarsi che nessun ordine razionale venne seguito nella disposizione dei varii trattati; anzi, principalmente per ciò che si riferisce alle cose inedite ed alle annotazioni, può dirsi che vennero poste alla rinfusa senza alcun criterio direttivo. Alla prima edizione fiorentina tenne dietro la padovana del Seminario, procurata dall'abate Giuseppe Toaldo ancora giovanissimo, il quale dichiara d'esservisi accinto perché le edizioni precedenti “erano divenute già rare pel grande uso che ne fanno comunemente tutti i dotti.„ Vennero in questa con buon ordine disposti gli scritti contenuti nella edizione curata dal Buonaventuri, ed intercalati a loro posto quei nuovi e pregevolissimi che vi furono dati per la prima volta alla luce. Gli editori padovani, quantunque avessero conoscenza del Dialogo sopra il flusso e reflusso del mare, scritto da Galileo in Roma sotto forma di lettera al cardinale Orsino data dal dì 8 gennaio 1616, pure non curarono di pubblicarlo, anzi di proposito lo pretermisero, sia perché parve loro che la fama di Galileo non potesse avvantaggiarsi delle conchiusioni erronee di quello scritto, sia perché la sostanza di esso era stata in appresso trasfusa nel Dialogo sopra i due massimi sistemi. Degli scritti galileiani, che già avevano veduta la luce, la edizione padovana lasciò deliberatamente da parte il Capitolo in biasimo della toga a motivo delle espressioni licenziose in esso contenute, e la Lettera a Cristina di Lorena per la censura che su quelle pagine pesava: furono omesse, con tutta probabilità per trascuranza, le lettere di Galileo a Fortunio Liceti, delle quali abbiamo già tenuto parola, ed altre ancora della cui omissione non giungiamo a comprendere il motivo. Il Dialogo sopra i due massimi sistemi, il quale, dopo la seguitane proibizione, era stato già ristampato alla macchia con falsa data, comparisce per la prima volta alla luce colle cosiddette “debite licenze„ in questa edizione padovana. Certamente non sarebbe stato privo d'importanza il conoscere le pratiche che in tale occasione si saranno tenute per avere queste licenze: ma nessuna traccia fu dato a noi di rinvenirne; e soltanto possiamo arrisicare qualche induzione, fondandoci sulle dichiarazioni fatte in tale occasione dall'editore. Dopo aver premesso al Dialogo la sentenza pronunziata contro Galileo e la relativa abiura, non pago di ciò, dichiarava: “Quanto alla questione principale del moto della terra, anche noi ci conformiamo alla ritrattazione e protesta dell'autore, dichiarando nella più solenne forma, che non può né dee ammettersi se non come pura ipotesi matematica, che serve a spiegare più agevolmente certi fenomeni. Per questo abbiamo levate, o ridotte a forma ipotetica, le postille marginali che non erano, o non pareano affatto indeterminate: e per la stessa ragione abbiamo aggiunta la dissertazione del Padre Calmet, colla quale si spiega il senso dei luoghi della Sacra Scrittura attenenti a questa materia, secondo la comune cattolica credenza. Per altro il dialogo comparisce nella sua integrità; se non che in alcuni luoghi, per maggior illustrazione, si è fatta qualche giunta, lasciata scritta dall'Autore stesso sopra un suo esemplare stampato che si conserva in questa Biblioteca del Seminario. Queste giunte si sono stampate in carattere diverso, per argomento della buona fede con cui procediamo. Sopra queste pure torniamo a ripetere la protesta soprascritta, non volendoci noi in minima cosa dipartire dalle venerate prescrizioni della Sacra Romana Chiesa.„ Tacque tuttavia l'editore, che delle aggiunte e postille scritte di pugno del sommo filosofo nei margini ed in fogli aggiunti al citato esemplare, omise tutto ciò che affermava recisamente il moto della terra o conteneva allusioni manifeste contro la insensatezza dei giudici incompetenti che l'avevano condannato, come in altra occasione abbiamo posto in piena evidenza. Non ostante però queste mende; non ostante l'altra più grave di aver trascurate, come scrivono gli editori, “alquante lettere di Galileo ben lunghe... sì perchè avendole scritte l'Autore innanzi di compor il Dialogo, tutto quello che avea creduto esservi di buono e degno del pubblico, in quello raccolse, sì anche per altri riguardi;„ non ostante finalmente l'altra gravissima di non aver in alcun modo tentato di risalire alla fonte, dalla quale poteva sperarsi d'aver maggior copia di cose inedite; la edizione padovana godette a lungo e giustamente di molta reputazione, per modo da essere, anche a confronto delle edizioni posteriori, esclusivamente adoperata dagli studiosi fino a circa quarant'anni or sono. E forse il tempo nel quale si stava attendendo a questa edizione sarebbe stato il più propizio per salvare il prezioso fondo dei manoscritti galileiani dalla sciagurata dispersione, alla quale abbiamo già per incidenza accennato. Come da tale dispersione abbia potuto salvarsi quel tanto che fino a noi ne è pervenuto, non sarà fuori di luogo ricordare qui brevemente. Accadde in Firenze nella primavera del 1750, che il dottor Giovanni Lami, bibliotecario della Riccardiana, andando, secondo il suo solito, con alcuni amici a desinare in campagna, cioè all'osteria del Ponte alle Mosse, passando di Mercato, suggerì al signor Gio. Battista Nelli, che era della comitiva, di comprare dal pizzicagnolo Cioci della mortadella, che aveva credito d'essere migliore di qualunque altra si trovasse in Firenze. Così fece il Nelli, e giunto all'osteria, nel distendere la mortadella su d'un piatto, s'avvide che il foglio nel quale il Cioci l'aveva rinvoltata, era una lettera di Galileo. La disunse alla meglio con una salvietta, la ripiegò e se la mise in tasca, senza dir nulla al Lami: e la sera, tornati in città, e licenziatosi da esso, volò alla bottega del Cioci, dal quale seppe che un servitore da lui non conosciuto, di tanto in tanto gli portava a vendere un fascio di simili scritture. Ricomprò egli tosto quelle che restavano in mano al Cioci, colla promessa che se altre gliene fossero capitate, le avrebbe serbate per lui, procurando in pari tempo di scoprire donde uscissero. Infatti pochi giorni appresso ne capitò un fascio maggiore, ed il Nelli potè accertare che quei preziosi documenti uscivano da una “buca da grano„ della casa cosiddetta dei Cartelloni, già appartenuta al Viviani ed allora abitata dai pronipoti di lui, Carlo ed Angelo Panzanini. Come quei documenti abbiano terminato con l'essere deposti nella “buca da grano„, non è ben chiaro: il Targioni-Tozzetti afferma che il Viviani stesso ve li aveva celati; ed il Libri, non sappiamo bene se sulla fede sola del Targioni- Tozzetti medesimo, o appoggiandosi sopra altri documenti, aggiunge che era stato costretto a farlo, per sottrarre quei preziosi manoscritti alle attive ricerche dei frati, tanto potenti in Toscana ai tempi di Cosimo III. Altri invece racconta che, alla morte dell'abate Iacopo Panzanini, seguìta nel 1737, i nipoti ed eredi di lui, Carlo ed Angelo, lasciarono per qualche tempo negli armadi e scaffali, dove li aveva posti lo zio, i manoscritti galileiani; dipoi li tolsero per riporvi biancheria, livree e filati, buttandone una parte in una “buca da grano„ della casa medesima. Aggiunge il Nelli che gli stessi fratelli Panzanini erano stati quelli che a spizzico avevano fatto vendere le carte preziose, delle quali erano pervenuti in possesso, al pizzicagnolo, e da essi potè egli acquistare quanto ne rimaneva, cioè ancora una gran quantità di manoscritti di Galileo, del Viviani, del Torricelli, del Borelli, insieme con gran numero di strumenti matematici, già appartenuti al Viviani; il tutto per il prezzo di ottantotto scudi. Nella medesima occasione pervenne il Nelli al possesso dell'anello di smeraldo che Galileo aveva ricevuto come accademico linceo dal Principe Federigo Cesi, non che di una raccolta di disegni dei più celebri architetti d'Italia, e diversi ritratti originali de' matematici della scuola galileiana. A questo importante acquisto, fatto nel 1750, altro se ne aggiunse nell'anno 1754, mercè il quale potè il Nelli ricuperare buona parte de' manoscritti galileiani che per lo innanzi erano stati dai Panzanini alla spicciolata venduti. Ma altri non venne fatto al Nelli di ricuperare; come, per esempio, i sei grossi volumi contenenti alcune centinaia di lettere di persone più o meno illustri a Galileo; i quali, per la vendita dell'archivio domestico del cavalier Tosi-Galilei, seguíta in questi ultimi anni, pervenuti alle mani del marchese Giuseppe Campori, gli somministrarono buona parte dei materiali per quella importantissima pubblicazione che a tutti è nota. Altri ancora ne messe in luce la indicata vendita; parte dei quali poterono essere ricuperati ed assicurati alla collezione della Biblioteca Nazionale di Firenze, e parte andarono miseramente dispersi. Altri due volumi, prima dell'acquisto fatto dal Nelli, pervennero nelle mani di Gio. Battista Felici, e sono quelli appunto dai quali il Targioni ricavò i monumenti di Galileo da lui pubblicati. Della importantissima sua collezione si valse il Nelli per iscrivere la Vita di Galileo, la cui pubblicazione andò essa stessa soggetta a tante vicissitudini, e che sarebbe riuscita di tanto maggiore importanza, s'egli l'avesse corredata dei documenti preziosi promessi nel titolo dell'opera: se ne valse altresì per parecchi altri lavori da lui condotti intorno ai contemporanei di Galileo ed alla scuola galileiana, i quali rimasero inediti. Alla morte del Nelli, avvenuta il 25 dicembre 1793, la importante collezione dei suoi manoscritti passò ai suoi eredi, e dopo molte vicende fu acquistata dal granduca Ferdinando III. Di essa tuttavia non si giovarono in alcun modo gli editori dei Classici Italiani, che procurarono la prima edizione milanese delle opere galileiane. I quali, mentre si erano accinti a questa impresa col proposito di staccarsi affatto dalle precedenti edizioni per quanto concerneva l'ordine nella distribuzione delle materie, finirono con l'accorgersi che “le due assai celebri edizioni di Firenze e di Padova presentavano già una sì acconcia distribuzione di tutte le Opere di Galileo, da doversi stimare temerità il volersene allontanare;„ e per ciò seguirono in tutto e per tutto la edizione padovana, della quale i primi dodici volumi della milanese sono una semplice riproduzione, colla sola differenza di esser molto meno commendabili per la correzione e per la diligenza tipografica: nel tredicesimo ed ultimo sono aggiunti altri scritti, nella padovana non compresi, ma nessuno dei quali era inedito. Intanto il Venturi, già cosi benemerito degli studi di storia scientifica, avendo ricevuto in dono dal marchese Gherardo Rangone il trattato manoscritto di Galileo intorno alle fortificazioni, nell'accingersi a darlo alla luce, s'avvide esistere tuttavia molta copia di scritture e di lettere appartenenti al medesimo autore; alcune inedite, altre sparse in più libri stampati, ma non peranco comprese in alcuna delle quattro edizioni fino allora pubblicate: perciò s'accinse a raccogliere insieme tutte queste reliquie, formandone un supplemento, soprattutto alle due edizioni di Firenze e di Padova. Per tale lavoro compulsò il Venturi molte biblioteche pubbliche e private; e l'avuto permesso di giovarsi dei manoscritti Nelliani, acquistati in questo mezzo dal Granduca di Toscana, lo pose in condizione di raccogliere una mole considerevole di preziose scritture. Ma anzi tutto l'ordine per materie, dal Venturi adottato nella pubblicazione dei documenti, invece di giovare, nuoce grandemente alla chiarezza che l'editore si proponeva di ottenere. In secondo luogo, duole di vedere mutilate dall'editore la maggior parte delle lettere, sotto pretesto di riportarne soltanto quello ch'egli stima utile a chiarire quel determinato argomento per il quale le produce. Finalmente gli errori di date e di nomi vi sono numerosissimi. Dei materiali, non ostante tutto ciò, di grandissima importanza, dal Venturi raccolti, non si giovarono se non in parte coloro che curarono la seconda edizione milanese delle Opere di Galileo costituita dai volumi XX e XXI della Biblioteca Enciclopedica Italiana pubblicata dal Bettoni. Ben si afferma che vi soprintesero il Carlini e Giovanni Capelli; ma non v'è ragion di credere che v'abbiano avuto molta parte. La esclusione degli scritti letterari propriamente detti, fatta di deliberato proposito, rende la edizione stessa necessariamente imperfetta: tutti gli scritti non di Galileo, ma che erano stati accolti nelle precedenti edizioni per maggiore schiarimento delle risposte galileiane, vennero in questa lasciati completamente da parte: vi è enunciata una distribuzione, la quale non viene poi scrupolosamente seguíta, e le varie scritture vi son fatte succedere le une alle altre, talvolta perfino senza il respettivo titolo. Queste mende, la soverchia economia di spazio, e la estrema trascuranza tipografica, rendono la seconda edizione milanese delle Opere di Galileo molto inferiore a tutte le precedenti.

III.

Dei Congressi degli Scienziati, i quali ebbero tanta parte nel preparare il risorgimento politico d'Italia, va notato in particolar modo il terzo, tenuto in Firenze nell'autunno del 1841. La nuova ristampa in quella occasione procurata dei “Saggi di naturali esperienze fatte nell'Accademia del Cimento,„ la inaugurazione della tribuna di Galileo fatta erigere nel Museo dal granduca Leopoldo II, ed altri consimili avvenimenti, rivolsero naturalmente l'attenzione degli studiosi sulla ricchissima collezione di autografi del sommo filosofo, dei suoi discepoli e corrispondenti, custodita nella Biblioteca Palatina, e fecero sorgere nella Società Editrice fiorentina la idea di valersene per una nuova edizione degli scritti galileiani. Il direttore di tale Società, Eugenio Albèri, indirizzava pertanto in sul principio del settembre 1841 una supplica al Granduca, la quale venne esaudita con rescritto degli 8 settembre 1841; e sotto la data del 25, mentre ancora era aperto il Congresso degli Scienziati, la Società pubblicava il manifesto della nuova edizione. Nel successivo anno 1842 veniva alla luce il primo volume. Nella Prefazione generale, la quale fu premessa a quel primo volume, e da non confondersi coll'Avvertimento generale, che venne ad essa sostituito a lavoro compiuto, sono fornite le seguenti notizie circa gli intendimenti del lavoro e la distribuzione delle materie che gli editori si erano prefissi di adottare: “A noi che ci ponevamo a questa impresa in tempi e coi mezzi pei quali possiamo reputarci quasi al tutto sicuri di avere a mano quanto ancora rimanga delle scritture di Galileo, onde ci era dato regolarne la pubblicazione con un concetto prestabilito, due modi si presentavano a questo fine: l'ordine cronologico e l'ordine per materie. Se non che, dopo breve esame, riconosciuto come il primo di questi ordini, che pur sembrava offerirsi per il più naturale ed opportuno, divenisse in effetto il men proprio a servire al precipuo intendimento della presente edizione, che è di offerire quanto più intero si possa il criterio della diversa sapienza di Galileo, criterio che per siffatto modo non avrebbesi potuto seguitamente rintracciare nell'ordine delle diverse speculazioni, fermammo la divisione per materie, e queste distinguemmo nelle seguenti sei classi: „ la Delle materie astronomiche; „ 2a Delle materie meccaniche; „ 3a Delle materie varie scientifiche; „ 4a Delle materie letterarie; „ 5a Della corrispondenza varia scientifica, in quanto non sian lettere che debbano considerarsi piuttosto come trattati o parte di trattati, le quali avranno il loro luogo nelle tre, e specialmente nelle due prime classi; „ 6a Delle lettere e documenti più propriamente relativi alla Vita dell'Autore, i quali verranno prodotti o nel corpo o in appendice della Vita stessa; intorno la quale riconfermiamo il pubblico italiano nella promessa da noi fattagli di un lavoro degno dei tempi nostri e di Galileo. „Ciò stabilito, ci rimaneva a giudicare quale ordine tornasse migliore nella particolare distribuzione delle opere di ciascheduna materia: la quale, per il medesimo intendimento che ci guidò nella prima general divisione, abbiamo creduto più razionalmente ordinata a questo modo: che, cioè, in ogni classe preceda l'opera capitale della medesima, quella dove intera si svolge la dottrina dell'Autore intorno la concreta materia, e le altre, dettate e prima e dopo di quella, seguano in stretto ordine cronologico, perchè qui veramente l'ordine cronologico ci è parso confondersi collo scientifico, anzi essere la cosa stessa, siccome quello che svelandoci il processo dei successivi rivolgimenti pei quali si è perfezionata od applicata l'idea, ci dà ad un tempo maggiore e più sicura ragione dell'uomo e della cosa.„ Questi propositi dovevano poi, come vedremo, ricevere profonde e radicali modificazioni. In sul cominciamento dell'impresa vi partecipavano, secondochè apparisce dallo stesso primo volume, Eugenio Albèri come direttore, il cavalier Vincenzio Antinori, al quale era principalmente dovuto l'ordinamento dei manoscritti galileiani, come consultore, Celestino Bianchi quale aiuto matematico e Pietro Bigazzi quale aiuto letterario. Queste medesime persone figurano ancora in capo al secondo volume: ma nel terzo compaiono soltanto i nomi dell'Albèri come direttore e del Bianchi come coadiutore; e ciò perchè tra la pubblicazione del secondo e del terzo volume, che portano ambedue la data del 1843, erano sorte delle questioni, in conseguenza alle quali si ritirarono dall'impresa l'Antinori ed il Bigazzi. Alla direzione dell'impresa dal 1843 al 1848, durante il qual tempo videro la luce i volumi terzo, quarto, quinto, sesto e settimo, rimasero quindi l'Albèri ed il Bianchi; ma dall'ottavo volume in poi non figura più che il solo nome dell'Albèri, giacchè il Bianchi, rimosso dai pubblici uffici per aver preso parte attiva agli avvenimenti politici del 1848-49, non poteva più prestare la sua opera ad una impresa che si proseguiva sotto il patrocinio del Granduca. Alle dichiarazioni che ho riprodotte, sopra gli intendimenti degli editori, altre se ne aggiunsero nel corso della pubblicazione dell'opera, con le quali si manifestavano proponimenti non sempre attuati, e si facevano promesse in buona parte non mantenute. Così, per modo di esempio, la promessa degli indici fatta nella Prefazione generale, ripetuta nell'Avvertimento generale a questa sostituito in fine del lavoro, e ancora nel volume di supplemento, accennandosi esplicitamente ad un “doppio indice di nomi e delle cose contenute nelle ottomila pagine della presente raccolta,„ indice assolutamente indispensabile, rimase affatto inadempiuta. E per dire di tutto il corredo di studi, coi quali si aveva in animo di accompagnare la nuova edizione, aggiungeremo che in un avvertimento, premesso a scritture varie strettamente connesse con le astronomiche di Galileo, si legge: “Compiuta l'edizione delle Opere, noi non riterremo per compiuta la parte nostra finchè non l'avremo corredata di una Prefazione generale, che non poteva aver luogo da principio, come ognun può di leggeri venir considerando, e di una Vita dell'Autore; alla quale diamo opera di lunga mano, e che sarà da noi divisa in due parti: l'una propriamente biografica, l'altra scientifica. La biografica si appoggerà specialmente al commercio epistolare, già da noi fatto di pubblica ragione, nonchè ad altri documenti che allora daremo in luce. La scientifica poi sarà distinta in tre parti nella prima sarà esposto lo stato delle scienze all'apparire di Galileo; la seconda dimostrerà i progressi per lui immediatamente operatisi in ogni ramo di quelle; la terza noterà gli ulteriori, dei quali le opere e gl'insegnamenti di lui furono germe fecondo in tutto il mondo civile.„ E questa promessa ripete l'Albèri nel volume di supplemento, e dice che lo adempirla sarà “l'ultima pietra del monumento che abbiamo inteso d'innalzare al comune padre della sapienza moderna coll'intera raccolta delle sue Opere.„ Ma ciò non ostante, la Vita non fu mai pubblicata; e non ne fu forse ultima causa quel programma altisonante, e che osiamo dire inattuabile, che l'Albèri stesso erasi prefisso. Nulla aggiungeremo poi circa l'altra promessa, parimente non mantenuta, di far succedere alle Opere di Galileo “la pubblicazione degli altri tesori Palatini, comprendenti i lavori ed i carteggi dei discepoli e continuatori di lui.„ Ed ora, passando dalla esposizione del disegno ad esaminare come si procedette nel porlo in atto, reputiamo sufficiente tenerci ad alcune parti soltanto, giacchè pur per esse si farà chiaro se realmente abbiano gli editori usata quella scrupolosa diligenza che protestano ad ogni piè sospinto. Nella deliberazione di incominciare dalle opere astronomiche, ed in queste, senza cercare il naturale ordine cronologico, farsi dall'opera capitale, erano senza dubbio venuti gli editori per potere, impreparati com'erano, dar fuori subito un volume, per il quale non fosse richiesta una certa elaborazione. Ed infatti, poche pagine dopo il programma testè riprodotto, questo è già modificato, perciocchè le opere astronomiche vengono divise in due sezioni: la prima delle cose risguardanti il sistema copernicano, la seconda delle altre speculazioni astronomiche; e per ciascuna di queste due suddivisioni, si dichiara di tenere il modo di pubblicazione adottato per le classi diverse. Così il primo posto viene a spettare al Dialogo dei massimi sistemi, al quale si incomincia, nè sappiamo invero il perché, dal mutare il titolo che ha una notevole importanza storica. L'edizione principe di quest'opera reca infatti: “Dialogo, ec. dove ne i congressi di quattro giornate si discorre sopra i due massimi sistemi del mondo, tolemaico e copernicano; proponendo indeterminatamente le ragioni filosofiche e naturali tanto per l'una quanto per l'altra parte;„ e ad esso, così significante in tutti i suoi particolari, e nel quale tutte le parole sono pesate, i direttori della nuova edizione sostituirono l'altro insignificantissimo di “Dialogo intorno ai due massimi sistemi del mondo tolemaico e copernicano.„ Non diremo poi né del grave fallo commesso, trascurando di consultare quell'esemplare del Dialogo, che, come era noto da lungo tempo a tutti gli studiosi, portava aggiunte autografe di Galileo medesimo ed era custodito nella Biblioteca del Seminario di Padova, tanto più che le riserve del Toaldo nell'accennare all'uso fattone permettevano di supporre che qualche cosa egli ne avesse lasciata inedita; nè degli errori involontariamente commessi, e che abbiamo posti nella massima evidenza mediante la diligente collazione di tre edizioni del Dialogo da noi fatta di pubblica ragione: ma non possiamo serbare il silenzio sulle inesattezze che scientemente furono commesse nella nuova edizione di questa celeberrima opera. E scientemente, in questa cosiddetta “prima edizione completa,„ si omisero le postille marginali della edizione principe, mescolandole arbitrariamente colla tavola delle materie. E scientemente si riformò tutta la calcolazione numerica della giornata terza: al quai proposito avvertono gli editori che tale calcolazione, quale si legge nella edizione principe, “è non solo così inelegantemente e variamente distesa da renderne difficilissima la comprensione, specialmente veduta la differenza che passa dall'odierno all'antico modo di calcolare, ma è talmente sparsa di veri errori da non potere assolutamente venire con profitto studiata, se non rifacendola.„ Non è questo il luogo di valutare convenientemente tale giudizio; questo soltanto vogliamo aggiungere, che, secondo il nostro parere, nelle nuove edizioni delle opere classiche, e tale è appunto il Dialogo galileiano, mentre è desiderabile che esse vengano nel miglior modo possibile illustrate, e se ne agevolino per ogni via la intelligenza e lo studio, niuno debba farsi lecito di manometterle e di correggerle. Le illustrazioni aggiunte potranno costituire un pregio della edizione novella; ma le modificazioni portate nel testo non sono che una profanazione. Troppo a lungo ci condurrebbero le analoghe censure che potrebber farsi circa il modo nel quale si ordinarono, o si pretese di ordinare, le osservazioni, i calcoli e le effemeridi dei pianeti medicei, e sui criteri seguíti nella stampa di altri trattati: nè vorremo noi qui entrare nei particolari d'una analisi minuta rispetto a ciascuno di essi, imperocchè troppo facilmente saremmo trascinati fuori dei confini imposti alla presente pubblicazione. Crediamo tuttavia di poter dire in generale, senza timore di essere smentiti, che non venne dall'Albèri scrupolosamente curata nè la fedele riproduzione dei testi stampati, nè la pubblicazione degli inediti. Un diligente confronto con gli originali e con gli autografi mostra, in più luoghi, trascurati lunghi squarci, alterate e talvolta omesse le figure, e, quello che a noi pare non minore difetto, non tenuto alcun conto della via seguíta da Galileo per giungere a formulare una data verità, della quale l'editore ha dato soltanto l'ultima espressione. Questa via è bene spesso tracciata nei manoscritti, ed indicata o da studi preparatorii o da pentimenti. Ora, trascurare il cammino che Galileo ha seguito per giungere ad una determinata conchiusione, non sottoporre all'esame dello studioso se non la definitiva espressione di essa, pare a noi omissione così grave come sarebbe quella della quale si renderebbe colpevole un naturalista, il quale si tenesse a studiare certi insetti quando rivestono la forma di smagliante farfalla, e non concedesse quindi attenzione alcuna alle crisalidi ed alle larve meno perfette che ne rappresentano gli stati di transizione. Vi sarà ora alcuno disposto ad ammettere che l'esame delle trasformazioni di un insetto abbia maggiore importanza che non lo studio delle varie fasi per le quali è passato il pensiero di Galileo, tutte le volte che le bozze de' suoi immortali lavori ci permettono di studiarne la genesi e le fasi di svolgimento? Ma pur essendoci imposta la massima concisione, non possiamo non soggiungere qualche altra osservazione intorno al modo tenuto dall'Albèri nella stampa del carteggio. Abbiamo già veduto quali fossero gl'intendimenti degli editori a tale proposito, quando si accinsero all'impresa. Se non che, presa qualche cognizione dell'indole del carteggio, riconobbero ben tosto che la distinzione di esso in scientifico e familiare era assolutamente inattuabile, non riuscendo possibile di assegnare esattamente il luogo della maggior parte delle lettere, cioè in modo che o l'una o l'altra classe non venisse a rimanere in difetto a motivo della duplice natura che hanno moltissimi di questi documenti, vogliam dire familiare e scientifica ad un tempo; e perciò fermarono di prescindere da qualsiasi distinzione di materie, distribuendo tutte queste lettere secondo l'ordine cronologico nelle tre seguenti categorie: la Lettere universali di Galileo; 2a Lettere universali a Galileo; 3a Lettere fra terzi relative a Galileo. Ma neppure questo disegno venne fedelmente attuato: e tenuta ferma, salve però frequenti infrazioni alla massima, la prima distinzione, e pubblicate conformemente ad essa in due volumi le lettere della prima categoria, nell'accingersi alla edizione delle altre avvertì l'Albèri, rimasto solo alla direzione dell'impresa, la convenienza di derogare al primitivo concetto e di formare delle rimanenti una sola classe, inserendo ai luoghi loro fra le diverse lettere a Galileo quelle fra terzi a lui relative, a fine di conseguire in modo più completo e spedito la illustrazione dei fatti e delle cose. Ecco del rimanente in quali termini si esprime l'Albèri medesimo a tale proposito: “E primieramente, essendoci noi fin da principio proposti di comprendere in questa nostra edizione quanto finora si conosceva relativo al nostro filosofo, abbiamo dato luogo nella presente raccolta a tutte quante le lettere a lui dirette, ovvero a lui riferentisi, che già correvano a stampa, sia nelle collezioni generali delle sue Opere, sia in qual altra si fosse pubblicazione, ancorchè alcune di tali lettere a noi ed al lettore possano parere di mediocre o di nessuna importanza; fedeli al nostro primitivo concetto, che nulla possa ormai citarsi attinente a questo grande argomento, che nei nostri volumi non si riscontri. In secondo luogo, produciamo tutte le lettere, che nelle già pubblicate di Galileo abbiamo citato in nota o negli argomenti come missive o responsive alle sue. Finalmente, dall'ingente numero di oltre a duemila inedite a lui dirette, o a lui relative, che si hanno nei Codici Palatini, abbiamo scelto, col più pesato esame che per noi si potesse, tutte quelle che sono sembrate maggiormente importare così alla scienza, che alla vita dell'Autore ed alla storia letteraria dell'epoca.„ Adunque, prescindendo anco dal fatto che parecchie lettere di Galileo ed a Galileo, ed altri documenti galileiani, che già si avevano alle stampe, non vennero nella nuova edizione compresi, scientemente e deliberatamente non si pubblicò allora completo il carteggio galileiano; e fu errore gravissimo: molto più, che a chiunque conosca non solo i codici galileiani, dei quali poteva disporre liberamente l'Albèri, ma anche soltanto quel che posteriormente alla ultima edizione fiorentina ne venne pubblicato, chiaro apparisce come lettere de' più cospicui corrispondenti di Galileo, e importantissime alla conoscenza della vita e ad un più esatto giudizio sulle opere di lui, siano state lasciate del tutto inedite anco dopo il volume di supplemento, col quale si tentò di recare tardo e scarso riparo alle mal avvisate omissioni. Nè ciò basta; chè anco le edite non lo furono tutte integralmente: per modo che, agitandosi una qualche grave questione, la quale possa essere risoluta mediante ciò che ne somministra l'epistolario, rimane sempre il desiderio di consultare direttamente i documenti nei loro originali. A questo si aggiunga che non sempre venne osservata la massima prestabilita di separare dall'epistolario quelle lettere che di lettera hanno soltanto la forma. Finalmente numerosissimi sono gli errori nelle date, e talvolta tali da ingenerare dubbi e confusione. Ed è una novella prova delle inconseguenze commesse dagli editori il fatto che l'Avvertimento generale, sostituito a lavoro compiuto alla Prefazione generale, continua ad accennare esplicitamente ad una distinzione del carteggio scientifico da quello familiare, la quale in effetto era stata completamente abbandonata nel corso del lavoro. In generale poi, sembra a noi sia stato errore non lieve quello di non conservare a tutti indistintamente gli scritti compresi nella nuova edizione, almeno per quanto lo concedevano gli autografi e gli originali fino a noi pervenuti, la forma letteraria propria del tempo al quale appartengono, ma correggere con licenze soverchie forma e ortografia secondo l'uso moderno: nè pare a noi che sia così grande vantaggio, come stimarono quegli editori, il relegare le relative figure alla fine dei volumi, invece di mantenerle intercalate nel testo, il che si era pur fatto nelle edizioni principi e nella maggior parte delle raccolte delle Opere di Galileo per lo innanzi pubblicate. A chi abbia esaminata attentamente la edizione delle Opere di Galileo diretta dall'Albèri, si fa chiaro come gli editori non si fossero formata fin da principio una idea esatta del lavoro al quale si accingevano. Si direbbe quasi che andavano studiando gli scritti di Galileo, via via che ne passavano sotto i loro occhi le prove di stampa; o almeno lo farebber credere il troppo frequente mutare d'intendimenti e di programma, e le rettificazioni che ricorrono ad ogni passo nelle illustrazioni. Nè si dica, come abbiamo udito talvolta ripetere, che la cosiddetta “prima edizione completa„ delle opere di Galileo, tale quale venne condotta, sodisfaceva alle esigenze dei tempi; le quali non si può credere che nel breve volgere di pochi lustri si siano così profondamente mutate, da far stimare allora opera egregia quella che oggidì è giudicata insufficiente. Tanto bisognosi noi stessi della indulgenza degli uomini di studio, in sul punto di imprendere alla nostra volta il lavoro arduo e gravissimo, non possiamo tuttavia tacere che se pur voglia giustificarsi l'Albèri per aver omesso qualche scritto ch'egli potè stimare, o che la conoscenza la quale si aveva allora delle cose galileiane potè far credere, superfluo, nulla varrà a scusarlo delle inesattezze commesse nella riproduzione di altri, della quale vanta ad ogni passo la scrupolosa fedeltà. A ciò contribuirono forse in qualche parte i gravissimi avvenimenti politici che interruppero a più riprese il lavoro; ma il difetto di scrupolosa esattezza, quale è assolutamente richiesta nelle imprese di simil genere, la mancanza di preparazione, di ordinato nesso logico e di concetto largo e sintetico, ebbero indubbiamente la parte maggiore nella men felice riuscita. Non ostante tutto ciò, non v'ha dubbio, e noi lo ammettiamo assai di buon grado, che, se non altro, per la maggior copia di scritti in essa compresi e per la relativa ricchezza dell'epistolario, la “prima edizione completa„ supera e di gran lunga le precedenti: ma poichè una nuova edizione delle Opere di Galileo è impresa tale da non potersi condurre a termine senza il concorso di molte forze e di molti mezzi; e non pochi quegli editori ne ebbero a loro disposizione; è sommamente deplorabile che siffatta occasione siasi lasciata sfuggire senza appagare le legittime aspettazioni degli studiosi. Ora, da un lato gli appunti che siamo venuti movendo alla edizione ultima delle Opere di Galileo, e dall'altro uno sguardo alle molte cose galileiane in essa non comprese benchè già edite, ovvero posteriormente ad essa pubblicate, né tutte a facile disposizione degli studiosi, basteranno a persuadere chicchessia della necessità di provvedere a ciò, che chi si fa ad attingere a quella purissima fonte, che è rappresentata dalle Opere dell'immortale filosofo, ne abbia a mano una edizione, per quanto è possibile, compiuta, sulla cui esattezza egli possa ciecamente riposare, e che oltre a ciò sia razionalmente ordinata e corredata di tutto quanto occorre per essere consultata con la massima agevolezza. Questo scopo parve a taluno che si potesse conseguire mediante la pubblicazione di alcuni volumi di appendice, presso a poco sul genere di quella curata dal Venturi, dove si raccogliessero diligentemente le cose inedite o disperse, si correggessero i molteplici errori ne' quali era caduto l'Albèri, e si aggiungessero infine degli indici relativi tanto alla edizione dell'Albèri quanto alla nuova appendice. Ora questo disegno, il quale a prima giunta potrebbe invaghire, non foss'altro per la ragguardevole economia che verrebbe ad ottenersi nelle spese di stampa, e che riuscirebbe particolarmente grato a tutti i possessori della edizione ultima fiorentina, esaminato bene a fondo, apparisce pressochè inattuabile. A quale enorme e, ci sia permesso dirlo, inonorato lavoro dovrebbe sobbarcarsi lo studioso che si accingesse alle necessarie correzioni, risulta implicitamente da quanto siamo venuti esponendo: e d'altra parte, per quanto gl'indici agevolassero il confronto del testo con le eventuali correzioni, questo riuscirebbe sempre incomodo per lo studioso; senza poi tener conto di ciò, che in moltissimi casi, come per esempio in quelli di omissioni di frasi e di periodi, pur troppo frequentissime, le correzioni sarebbero rappresentate da un informe mosaico. Per quel che concerne poi le aggiunte, così di cose inedite come delle edite ma disperse, quando si dovesse inserirle in volumi di supplemento alla edizione dell'Albèri, l'uso di esse non sarebbe molto più comodo di quanto abbiamo testè avvertito per le correzioni. Infatti la maggior mole delle aggiunte riferendosi all'epistolario, questo si avrebbe per tal modo disperso in tre parti, cioè nei cinque volumi dedicati al carteggio nella edizione dell'Albèri, nel volume di supplemento all'edizione medesima, ed in questi ulteriori supplementi che si vorrebbero pubblicare: cosicchè si riconosce facilmente di quanto disturbo riuscirebbe il seguire nell'epistolario la trattazione d'un determinato argomento, nel quale se entrino lettere di Galileo, dovrebbe lo studioso andar cercando contemporaneamente le lettere in quattro volumi diversi. Per ultimo, e questo ancora ci sembra argomento di qualche peso, rimarrebbe la difficoltà di trovare un uomo coscienzioso, il quale, conoscendo bene a fondo la condizion delle cose, assumesse sopra di sè un lavoro da richiedere parecchi anni della sua vita, senza che per ciò egli potesse sperare che grande onore fosse per ridondargliene; anzi colla certezza di aver fatta cosa di assai dubbia utilità.

IV.

Nessuna, adunque, fra le edizioni delle Opere di Galileo fin qui procurate è tale da corrispondere pienamente alle giuste esigenze della critica; nessuna, soprattutto, fu condotta in modo, da offrire tal facilità di riscontri e di ricerche, che possa renderla facilmente accessibile a tutti gli studiosi; nessuna infine si può con tutta sicurezza consultare, senza che a ogni tratto il timore d'una inesattezza o d'una omissione obblighi a risalire alle fonti. E poichè, oltre a questo, crediamo d'avere ancora dimostrato non essere in alcun modo opportuno di provvedere al compimento ed alla correzione dell'ultima fra esse, la quale è la più copiosa, scaturisce come immediata conseguenza la necessità di curarne una nuova secondo i criteri adottati in questi ultimi tempi negli studi di storia scientifica. Nè ci pare che per giungere a questa conchiusione ci volesse meno della analisi da noi fatta; nella quale, esponendo l'avviso nostro su tutto ciò che nelle sei precedenti edizioni si presta a critiche ed a censure, abbiamo anche indirettamente fatti conoscere i principii generali, i quali noi stimiamo debbano seguirsi nell'attendere alla nuova, che, per sapiente iniziativa del Governo, sta ora per essere intrapresa. Questa nuova edizione noi intendiamo anzi tutto che debba riuscire veramente “completa,„ almeno per quanto sia umanamente possibile; e quando diciamo “completa,„ intendiamo che in essa debbano essere compresi non solo tutti indistintamente gli scritti di Galileo editi ed inediti, da lui medesimo stesi od ispirati, qualunque ne sia la importanza assoluta o relativa, ma ancora quelli contro di lui diretti dai suoi oppositori e che porsero occasione a repliche, ad osservazioni od a postille; tutte le lettere da lui scritte, ed oltre ad esse tutte quelle a lui dirette, le quali pervennero a nostra conoscenza; quelle fra altri contemporanei, che risguardano casi della sua vita e che somministrano notizie o giudizi intorno alle sue opere; finalmente tutti i documenti che lo concernono, incominciando dall'atto matrimoniale de' suoi genitori, fino a quello di data più recente, che al momento di pubblicare la nostra raccolta possa essere stato rinvenuto. Le prime cure saranno naturalmente rivolte a raccogliere colla massima diligenza così le cose galileiane pubblicate posteriormente alla edizione curata dall'Albèri ed in essa non comprese, come quelle che tuttavia rimangono inedite. Delle quali ultime, molte, a torto giudicate dall'Albèri indegne di essere stampate, eppure importantissime, erano già nella Biblioteca Palatina e si trovano attualmente nella Nazionale di Firenze; altre è noto trovarsi nella Biblioteca Braidense e nell'Ambrosiana di Milano; altre altrove. Nè mancano i privati Archivi ricchi di scritture e di lettere inedite del sommo filosofo e a lui indirizzate o che lo concernono; basterà qui ricordare quello della famiglia Marsigli di Bologna, nel quale sono contenute lettere inedite, da noi vedute, di Galileo a Cesare Marsili ed a Bonaventura Cavalieri, notando ancora che non sono pochi i domestici Archivi di ragguardevoli famiglie fiorentine e romane, dove sono custoditi documenti, dei quali la nuova edizione potrà essere arricchita. E siccome ancora è probabilissimo, per non dire certo, che in varie parti d'Italia si conservino nei pubblici e nei privati Archivi (per esempio nell'Archivio Vaticano) documenti galileiani tuttora ignorati, così un sistema di bene ordinate indagini, dirette specialmente verso le fonti additate dalle relazioni personali di Galileo, precederà il lavoro della nuova edizione; e queste indagini saranno estese per modo, da far giungere la domanda dappertutto dove sia la più tenue speranza della messe più modesta. Nelle ricerche da farsi fuori d'Italia, saranno guida del pari le relazioni personali di Galileo, alle quali abbiamo già accennato. Per tenerci soltanto a qualche esempio, la corrispondenza del Peiresc, attualmente sparpagliata in diverse raccolte a Parigi, a Carpentras, a Montpellier, ad Aix ed altrove, edita finora soltanto in minima parte, contiene numerosi documenti atti ad illustrare di nuova luce la vita e le opere di Galileo. La collezione dei manoscritti del Keplero, attualmente in parte nella Biblioteca dell'Osservatorio di Pulkowa, ed in parte in quella Imperiale di Vienna, sarà pure attentamente esaminata: e del pari dovranno essere studiate le corrispondenze di Ticone Brahe sparpagliate tra Pulkowa, Copenaghen, Vienna e Basilea, e che sappiamo già contenere qualche particolare sconosciuto intorno alle prime relazioni fra i due grandi scienziati. Gli Archivi di Stato di Spagna e d'Olanda daranno modo di completare la serie già numerosa dei documenti concernenti le lunghe ed intralciate trattative per il negozio della longitudine. E così va' dicendo. È quasi superfluo l'aggiungere che, oltre alle indicate fonti, dovranno esaminarsi quel grandi emporii di documenti, che sono il British Museum, la Biblioteca Nazionale di Parigi, ed altri; e siccome ancora molte e molte cose galileiane in tempi pur a noi vicinissimi varcarono le Alpi per andarsi talvolta a seppellire in collezioni, delle quali o non è noto il catalogo, o si dura grandissima fatica ad averlo, così un pubblico invito sarà diretto col mezzo della stampa in Italia ed all'estero, per sapere donde i documenti sono emigrati e dove sono andati a finire, chiedendo notizie ed informazioni, ed invitando gli studiosi a contribuire con esse al monumento che la Nazione eleva al genio maraviglioso che creava la filosofia sperimentale. In breve, tutte queste indagini preventive si condurranno in modo da non trascurare alcuna precauzione affinchè se ne ottengano i migliori risultati, e sia in pari tempo, per quanto è possibile, salvata la responsabilità di chi si sobbarca al gravissimo ufficio. Nè le indagini stesse avranno soltanto per iscopo la ricerca delle cose inedite, ma altresì quella delle fonti delle edite tutte, poichè non si riprodurrà nella nuova edizione una sola riga della quale esista o l'autografo, o l'originale, o almeno una copia del tempo, senza che ne sia stata fatta una diligente collazione; insomma, ogniqualvolta sia possibile, si risalirà sempre alle fonti, siano esse manoscritte, o siano le edizioni prime alle quali soprintese Galileo medesimo, quando queste rappresentino l'ultima espressione del suo pensiero, tenendo conto anco delle fasi per le quali sarà passato, quando gli autografi ne serbino traccia; oppure, se si tratti di scritti d'altri, si prenderanno per guida i medesimi criteri. E quanto alle norme generali da seguirsi nella nuova edizione, per ciò che concerne la cura del testo, possiamo dire fin d'ora ch'esso sarà tenuto fedele alle sue fonti autorevoli e legittime, sia manoscritte, sia stampate; conciliando bensì il rispetto alla grafia originale con un sistema di razionale ortografia, necessario alla sicura intelligenza del testo. Per ciò che concerne poi le forme della riproduzione, ci terremo scrupolosamente ligi alle intenzioni degli autori: manterremo gli argomenti nei margini, se si avevano nelle edizioni curate dall'autore, e così le figure intercalate nel testo, le quali saranno esattamente riprodotte e non alterate, come lo furono per modo di esempio quelle delle macchie solari, le quali di riproduzione in riproduzione sono divenute irriconoscibili. Anzi per queste, e per le altre concernenti le configurazioni lunari, ci varremo di quei mezzi più delicati che l'arte somministra, traendole dagli originali se esistano, od almeno dalle riproduzioni prime curate da Galileo stesso. Una sola licenza ci prenderemo per ciò che risguarda le figure, e consisterà nel ripeterle, qualora taluna di esse si trovasse in diverse pagine richiamata; come del resto usava di fare costantemente Galileo ne' suoi manoscritti. Detto pertanto del modo che intendiamo di tenere nel raccogliere i materiali, e delle norme generali nel valercene, diremo, pur brevemente, dei criteri che ci proponiamo di seguire nella distribuzione delle materie. Vincenzio Viviani, il quale, come vedemmo, s'era proposto di curare una completa edizione delle Opere del suo Maestro, ce ne lasciò il disegno che qui stimiamo opportuno di riprodurre dall'autografo fino a noi pervenuto. “Proemio della Vita divisa in tre libri: il 1° dalla nascita fino all'invenzione dell'occhiale; il 2° dall'occhiale fino alla morte; il 3° delle abitudini del suo corpo, delle malattie, de' costumi, de' detti e de i diletti, de i dogmi, etc., opinioni non dichiarate nè scritte. Degli amici e scolari. Clarissimorum Virorum testimonia. — Lettere di personaggi al Galileo. „Illustrazioni dell'opere stampate. „Dopo la Vita: „Ristampar tutte l'opere del Galileo in foglio reale in quattro volumi, latine e volgari, a due colonne: „il 1° contenga le materie astronomiche; „il 2° le materie meccaniche, fisiche e matematiche; „il 3° le materie sospette e proibite; „il 4° l'opere postume, Collettanee e lettere. „Far riveder la parte toscana e ridurla a lettura di lingua imitabile dalla straniera, acciò venga poi citato come autor classico. „Un frontespizio in rame comune a tutti i tomi. „I ritratti del Galileo, Salviati e Sagredo con elogi. „Far fare le traduzioni in latino delle cose toscane che non sono state tradotte finora da alcuno, e nel medesimo tempo far fare l'indice per ciascun tomo delle cose notabili, e corregger tutti gl'errori di lingua e di grammatica, acciò si riduchino a lettura d'Autore che faccia autorità etiandio appresso gli Oltramontani come di Accademico della Crusca. „Corregger dove sia qualche difficoltà o contraddizione.„ Il trovare pertanto che il Viviani stesso aveva ammessa una divisione delle Opere di Galileo in astronomiche, meccaniche, fisiche e matematiche, ci aveva da principio indotti ad accettare in massima una analoga distribuzione, seguendo tuttavia scrupolosamente in ogni categoria l'esatto ordine cronologico. Se non che, dopo maturo consiglio, abbiamo dovuto considerare che da un lato i criteri di distribuzione, dai quali sarà partito il Viviani, non possono oggidì accettarsi senza sindacato; mentre, dall'altro, non v'ha che un ordine solo, il quale sia consono all'andamento razionale da darsi alla nuova edizione delle Opere di Galileo, cioè l'ordine cronologico generale, come quello che è meglio atto a rappresentare fedelmente la figliazione naturale delle idee in quella mente sublime. Ed anco se si venisse nella determinazione di distribuire le scritture scientifiche galileiane in due gruppi soltanto, cioè delle fisiche (comprendendo in questo anco le meccaniche) e matematiche, e delle astronomiche, non sarebbe senza gravi difficoltà, od almeno senza ambiguità, l'assegnare alcune di esse ad un gruppo piuttosto che ad un altro. Così, per modo di esempio, il Dialogo sopra i due massimi sistemi, il quale, per il titolo che porta, dovrebbe risguardarsi principalmente come scrittura astronomica, tale non è realmente, per il suo contenuto, molto più che non il libro “De coelo„ di Aristotele; e non ebbe proprio tutto il torto il Delambre, che lo risguardò come di ben poca importanza per la storia dell'astronomia nel senso ordinario che a questa disciplina si attribuisce. Infatti, se noi lo andiamo analizzando, vi scorgiamo che le parti di esso le quali rivestono caratteri di maggiore importanza escono dal campo astronomico propriamente detto, ed appartengono in quella vece alla critica della filosofia aristotelica, alla storia della meccanica ed alla geografia fisica. Per la qual cosa questo Dialogo, che pure non potrebbe inserirsi altrove che nel gruppo delle scritture astronomiche, verrebbe a mancare nell'altro. Lo stesso, ed anzi più, dee dirsi del Saggiatore, al quale le comete porsero la occasione prima, senza tuttavia costituirne l'argomento. E forse non sono più astronomiche di queste le varie scritture contenute nel secondo volume della edizione curata dall'Albèri. Siffatte considerazioni, le quali potrebbero applicarsi ad altre scritture galileiane, mostrano che la distribuzione di esse per materie correrebbe grave pericolo di riuscire logicamente e praticamente assai poco opportuna: ed oltre a questo, non sarebbe sempre conforme alla stessa indole della indagine galileiana. Noi ci siamo pertanto indotti nella convinzione che l'ordine strettamente cronologico sia il solo, che per il complesso delle scritture scientifiche di Galileo debba razionalmente adottarsi. Che se così verranno a succedersi talvolta scritture le quali si riferiscono ad argomenti disparati, come avverrà a modo di esempio delle lettere sulle Macchie solari, le quali succederanno immediatamente al corpo di scritture relative alle cose che stanno in su l'acqua, o che in quella si muovono, l'ordine ne resulterà anzi naturale; molto più naturale ad ogni modo che se questi trattati, ispirati ad un medesimo concetto fondamentale, resultassero separati l'uno dall'altro da più volumi, come avverrebbe certamente, qualora il criterio della distribuzione per materie governasse l'ordinamento delle scritture galileiane. Ci siamo fermati anche su quella parte del disegno del Viviani, per la quale dalle opere pubblicate durante la vita dell'Autore venivano ad essere separate le postume; e per associazione di idee siamo stati condotti a chiederci, se per avventura non tornasse opportuno di distinguere anco quelle che l'Autore non destinava alla stampa e che pure furono edite dopo la sua morte. Ma anche a questo proposito cadde ogni esitazione, di fronte al concetto fondamentale di disporre tutte le varie produzioni scientifiche del sommo filosofo nell'ordine cronologico, per quanto sia possibile scrupolosamente esatto, nel quale o furono da lui date alla luce, o uscirono dalla sua mente. Che se una determinata scrittura non venne da lui medesimo pubblicata, oppure se anche non era da lui destinata a ciò, non è tuttavia men vero che, in un dato punto della sua vita, a quel determinato argomento egli si sia in particolar modo applicato; e quindi il non inserire, colà dove cade, la scrittura da lui intorno ad esso dettata ci farebbe venir meno al proposito nostro, cioè di seguire nello scrupoloso ordine cronologico qualsiasi manifestazione del divino suo ingegno. Del modo che terremo nella pubblicazione abbiamo già toccato più volte: qui però vogliamo espressamente avvertire che intendiamo dipartirci interamente dal modo tenuto finora nel dare le postille di Galileo agli scritti de' suoi oppositori. E intorno a tali scritti aggiungeremo subito che, tutto ben considerato, abbiamo stabilito di riprodurli nella nuova edizione, con l'aggiunta di altri i quali, ciò posto, non possono lasciarsi da parte, e che pur vennero trascurati nelle edizioni precedenti. Egli è evidente che nella maggior parte dei casi non si comprendono le postille di Galileo senza avere sott'occhio le scritture alle quali si riferiscono: e l'essere state queste già riprodotte in alcune delle edizioni precedenti delle Opere galileiane, non ci parve argomento sufficiente per dispensarcene ora; molto più perchè, nel curare con tanta diligenza questa nuova edizione, ci proponiamo appunto, pur prefiggendoci la massima economia possibile di spazio, di darla in modo tale da rendere assolutamente inutile il ricorrere a qualsiasi delle precedenti. Quanto alla innovazione che noi ci proponiamo d'introdurre, essa consisterà precisamente in ciò, che le postille di Galileo saranno esattamente richiamate al luogo al quale si riferiscono, e poste appiè di pagina (poichè il collocarle in margine presenterebbe difficoltà tipografiche insuperabili), in modo che possano a un colpo aversi sott'occhio e l'argomentazione avversaria e la replica galileiana. Noi abbiamo fin qui tenuto parola delle scritture scientifiche di Galileo; dalle quali intendiamo che debbano pubblicarsi separatamente le letterarie, serbando bensì anche per esse quell'ordine cronologico di successione, il quale abbiamo stabilito come massima generale e costante. Alle singole scritture, tanto scientifiche quanto letterarie, o, quando ne sarà il caso, ai singoli gruppi delle une e delle altre, premetteremo brevi informazioni storico-bibliografiche. Resta finalmente che diciamo delle intenzioni nostre rispetto alla pubblicazione delle lettere, le quali, a motivo dello straordinario loro numero, verranno a costituire tanta parte della nuova edizione. Dal complesso del carteggio è nostro proposito di togliere soltanto quelle lettere, che di tali hanno soltanto la forma, ma sono veri trattati scientifici: queste saranno inserite al loro posto secondo l'ordine cronologico nella serie degli scritti, e semplicemente richiamate nel luogo che avrebbero occupato, secondo la data loro, rispetto alle altre dell'epistolario, a fine di mantenere insoluta la continuità della serie. Toltene soltanto queste, le altre tutte, siano esse di Galileo, o d'altri a lui indirizzate, o fra altri ma concernenti Galileo, ci proponiamo di raccogliere insieme in quella che, susseguendo alle scritture scientifiche ed alle letterarie, verrà a costituire la terza parte della nostra edizione. Avremmo per verità desiderato di stralciare dal carteggio anco quelle lettere, le quali, legandosi strettamente alla trattazione d'un determinato argomento, sembrano non poterne essere ragionevolmente separate; ma d'altra parte confessiamo di non esserci sentito il coraggio di spogliare l'epistolario di documenti tanto importanti e che ad esso legittimamente appartengono: nè vogliamo nascondere che abbiamo voluto fin da principio toglierci l'adito a dubbi e ad incertezze, che facilmente conducono ad arbitrii e a licenze. Gl'indici ed i richiami rimedieranno agl'inconvenienti, i quali da tale nostra deliberazione fossero per derivare. Era pertanto nostro primo intendimento mantenere anco nella pubblicazione del voluminoso carteggio le tre categorie sopraccennate: ma abbiam poi creduto il migliore, accoglierle tutte insieme in una serie unica, distinguendo con artifizi tipografici i documenti che fanno parte d'una medesima categoria. Lo stesso Albèri, il quale da principio s'era proposto di mantenere l'anzidetta distinzione, soppresse in effetto la terza categoria, interponendo al loro luogo, secondo l'ordine cronologico, tra quelle delle due prime categorie, le lettere fra terzi relative a Galileo; e non mantenendo immutato il suo disegno nemmeno per ciò che concerne la prima apparentemente costituita in un tutto a sè, giacchè ben s'avvide che in casi determinati non era assolutamente possibile dissociare le lettere di Galileo dalle respettive risposte. Com'è possibile infatti, per modo di esempio, formarsi una idea esatta delle trattative imprese, abbandonate e riprese per il negozio della longitudine, leggendo dispersi in tre serie diverse i documenti che le concernono? E il gran dramma del secondo processo non si potrà bene intendere in tutti i suoi minuti particolari, se non raccogliendoli giorno per giorno, cioè approfittando dei documenti, i quali, qualora venisse mantenuta l'accennata divisione, andrebbero qua e là sparpagliati. Lo stesso si dica di altri episodi minori, per esempio dell'affare della calamita col Sagredo e col Vinta, della corrispondenza relativa al passaggio da Padova a Firenze, del processo del 1616, e di molti altri simili, dove il complesso delle notizie fornite da Galileo e dagli altri corrispondenti non può illustrarsi e completarsi altrimenti, che seguendo l'ordine cronologico strettamente osservato nelle lettere. Forse, se la nuova edizione fosse destinata ai soli eruditi, sarebbe tornato presso a poco indifferente il serbare un ordine piuttosto che un altro, poichè tutto il corpo delle Opere avrebbe potuto mediante buoni indici e richiami opportuni essere facilmente coordinato. Ma l'epistolario di Galileo non può giudicarsi alla stregua delle altre raccolte consimili: esso non è soltanto una serie di documenti, sì anco un quadro animato e vivente del più glorioso periodo della storia scientifica italiana; nel quale, intorno al protagonista e alla principale azione (che è il contrasto del nuovo metodo sperimentale con la scolastica e col peripateticismo male inteso), si aggruppano le nobili figure di tanti nostri illustri scienziati, e tante altre azioni secondarie, interessanti, quale per un lato e quale per un altro. L'epistolario così disposto e ordinato costituisce un vero dramma, nel quale i diversi attori parlano per lettera essi medesimi, e ad ogni frase mostrano qualche lato del loro carattere; un dramma che ha i suoi episodi e le sue peripezie, e nel quale, se mantenessimo la divisione di che parliamo, i personaggi reciterebbero, ciascuno separatamente, la parte respettiva. Nè le lacune, che pur troppo si hanno a lamentare nelle lettere scritte da Galileo, oppongono un ostacolo insuperabile alla perfetta intelligenza del tutto: infatti dalle risposte dei corrispondenti può il lettore, almeno con qualche approssimazione, argomentare il contenuto delle mancanti di Galileo; per modo che l'effetto di que' disgraziati vuoti venga ad essere di molto attenuato. È ben vero, e non vogliamo nasconderlo, che a questo modo in mezzo alle lettere concernenti un dato argomento verranno ad inserirsene altre che non hanno con esso alcuna relazione, e che talvolta lettera e risposta saranno divise da un intervallo di non poche pagine; ma siffatto inconveniente, inevitabile comecchessia, verrebbe nel caso nostro ridotto al minimo, non essendo mai tanto grande l'intervallo da cancellare nel lettore l'impressione delle cose lette poco tempo prima. Anche nel poema dell'Ariosto, tanto caro a Galileo, il lettore vede bene spesso interrompersi improvvisamente il filo, il quale non potrà ripigliare se non due o tre Canti più innanzi. Del rimanente, nel caso nostro, agl'inconvenienti di simil genere potrà essere assai facilmente ovviato mediante rimandi bene ordinati, coi quali sarà reso sommamente agevole il seguire, e le più volte in un medesimo volume, lo svolgersi delle varie fasi d'un medesimo episodio. L'artifizio tipografico, al quale abbiamo già accennato, farà subito distinguere dalle altre le lettere di Galileo, per chi a quelle sole rivolga particolarmente la sua attenzione. Gli studiosi della persona di Galileo e della storia scientifica generale o nazionale, leggeranno tutto l'epistolario di seguito, giovandosi poi de' rimandi, quando vorranno seguire segnatamente un dato avvenimento od una speciale trattativa; e potranno in quest'ultimo caso valersi, meno rare eccezioni, d'un volume per volta. Gli eruditi avranno il vantaggio di saper subito dove cercare una lettera qualsiasi, conoscendo presso a poco il tempo in cui fu scritta, e servendosi, per la indagine, della data, che si avrà cura di collocare in capo ad ogni pagina. Al carteggio per tal modo ordinato faremo seguire la pubblicazione dei documenti, ai quali abbiamo già accennato, e con essi pur quella degli scritti biografici dettati intorno a Galileo dai contemporanei, che furono in qualche modo testimoni della sua vita; aggiungendo finalmente una accurata bibliografia galileiana, la quale possediamo già molto copiosa, e che le ricerche che si andranno facendo contribuiranno naturalmente ad arricchire. Tutti questi materiali verranno opportunamente distribuiti in volumi, taluno dei quali potrà anco per avventura essere diviso in più parti: e siccome parve a noi sommamente utile di stabilire fin da principio un disegno di operazioni assai concreto, cosi abbiamo stimato sotto parecchi rispetti conveniente spingere i particolari di questo disegno fino a determinare anco la distribuzione degli scritti galileiani nei singoli volumi. La qual determinazione, sebbene sia tutt'altro che definitiva, anzi sebbene sia destinata a ricevere certamente, venendo all'atto, questo o quel cambiamento, vogliamo ciò nonostante che sia fin d'ora conosciuta dagli studiosi. E saremo lietissimi se ci sarà dato di approfittare dei loro consigli per renderla più razionale e meglio conforme ai criteri ai quali ci siamo ispirati, e se allo stesso fine concorreranno i resultati delle ricerche alle quali abbiamo accennato. Riservandoci pertanto pienissima libertà sul definitivo coordinamento delle varie scritture, stimiamo, ne' termini presenti delle nostre cognizioni ed in armonia colle premesse, che in generale la distribuzione possa aver effetto nell'ordine seguente

I. Studi giovanili. Studi sopra Archimede: La Bilancetta. Tavola delle proporzioni delle gravità in specie de' metalli, ec. Postille al libro I de sphaera et cylindro d'Archimede. Teoremi primi sulla determinazione del baricentro di alcuni solidi. Giudizio pronunziato in Bologna sopra uno di tali teoremi. De motu.

II. Fortificazioni. Della scienza meccanica. Frammento sulla forza della percossa. Estratto da una lezione del Torricelli sulla forza della percossa. Trattato della sfera. Lettera a Iacopo Mazzoni del 30 maggio 1597. Frammenti di lezioni sulla nuova stella dell'ottobre 1604. B. Capra, Consideratione astronomica; con le postille di Galileo. Dialogo de Cecco di Ronchitti. Le operazioni del compasso geometrico e militare. B. Capra, Usus et fabrica circini, ec.; con le postille di Galileo. Difesa contro il Capra. Le matematiche nell'arte militare.

III. Sidereus Nuncius. Keplero, Dissertatio Cum Nuncio Sidereo. M. Horky, Brevissima peregrinatio, ec. Wodderborn, Quatuor problematum, ec. Keplero, Narratio de observatis a se, ec. G. A. Roffeni, Epistola apologetica. F. Sizzi, Dianoia astronomica; con le postille di Galileo. Nuntius Sydereus Collegii Romani. De lunarium montium altitudine. L. delle Colombe, Discorso sul moto della terra; con le postille di Galileo. G. C. Lagalla, de phaenomenis in orbe Lunae; con le postille di Galileo. Theorica speculi concavi sphaerici. Pensieri vari (in latino). Osservazioni, calcoli ed effemeridi intorno ai Satelliti di Giove. Lavori del P. Renieri intorno ai Satelliti di Giove.

IV. Discorso intorno alle cose che stanno in su l'acqua, ec. Considerazioni dell'Accademico Incognito; con le risposte di Galileo. G. Coressio, Operetta intorno al galleggiare, ec. Errori del Coressio scoperti dal P. Castelli. Lettera di Tolomeo Nozzolini a Mons. Marzimedici, 22 settembre 1612. Lettera di Galileo a Tolomeo Nozzolini. L. delle Colombe, Discorso apologetico, ec. V. di Grazia, Considerazioni, ec. Risposta del P. B. Castelli alle opposizioni di Lodovico delle Colombe e di Vincenzio di Grazia.

V. Macchie solari. Lettera al P. B. Castelli, 21 dicembre 1613. » a Mons. Piero Dini, 16 febbraio 1615. » » » marzo 1615. » a Maria Cristina di Lorena. » del P. Foscarini sopra l'opinione de' Pittagorici, ec., 6 gennaio 1615. » del Card. Bellarmino al P. Foscarini, 12 aprile 1615. Scritture di Galileo in difesa del sistema copernicano. Discorso sopra il flusso e reflusso del mare. Lettera al Duca Muti, 28 febbraio 1616. Scrittura di Francesco Ingoli. Fr. T. Campanellae, Apologia pro Galilaeo.

VI. O. Grassi, Disputatio astronomica de tribus cometis. Discorso delle Comete di Mario Guiducci. Lettera di M. Guiducci al P. Tarquinio Galluzzi, 20 giugno 1620. Il Saggiatore. Keplero, Spicilegium ex Trutinatore Galilaei. Ratio ponderum Librae ac Simbellae L. Sarsio auctore; con postille di Galileo e del Guiducci. Risposta di Galileo a Francesco Ingoli. Parere » intorno alla stima d'un cavallo. » » sulla sistemazione del fiume Bisenzio, 16 gennaio 1631. Altre scritture relative a questo stesso argomento.

VII. Dialogo sopra i due massimi sistemi.

VIII. G. B. Morin, Famosi et antiqui problematis de telluris motu vel quiete hactenus optata solutio; con le postille di Galileo. Esercitazioni filosofiche di Antonio Rocco; con le postille di Galileo. C. Scheiner, Rosa Ursina, libro I. Parere intorno all'angolo del contatto. Lettera di Galileo ad Alfonso Antonini, de' 20 febbraio 1638.

IX. Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze. Le operazioni astronomiche. Misura dei diametri apparenti delle stelle. Frammenti astronomici. Ex Litheosphoro Liceti. Lettera di Galileo al principe Leopoldo, dell'aprile 1640. Lettera di Galileo al principe Leopoldo, pure del 1640. Scritti di data incerta: Considerazioni sopra il giuoco dei dadi. Parere su d'una macchina da pestare. Pensieri sulla confricazione. Parere sopra una macchina col pendolo, ec. Avvertenza intorno al camminare del cavallo. Pensieri vari (in italiano). Problemi vari. Risposta al problema onde avvenga che 'acqua, ec. Guazzabugli astrologici. Postille varie.

X. Scritti letterari.

XI-XIX. Carteggio.

XX. Documenti — Processo — Bibliografia — Indici.

Il carico che, nel concepimento e nell'attuazione di questo disegno, ci addossiamo dinanzi al mondo scientifico, ben sentiamo essere gravissimo; ed il sagrifizio, che a questa impresa ci disponiamo a fare degli anni nostri migliori, deve rendere ciascheduno persuaso, che ne comprendiamo tutta la estensione, e che non dipenderanno da mancanza di buon volere le imperfezioni che nell'operato nostro siano per rilevarsi. E tali obblighi nostri ci fa più altamente sentire l'augusto patrocinio del Re; del Re, che dopo aver fatta curare la pubblicazione di un nuovo Commento al Poema di Dante, dopo aver provveduto così largamente a far conoscere le Opere di Leonardo, accoglie ora sotto il suo patrocinio la nuova edizione delle Opere di Galileo, dispensando con equa mano il suo favore alle lettere, alle arti ed alle scienze, additando anche in questo la via che gli Italiani debbono seguire per rendersi degni dei nuovi ed alti loro destini.

SCRITTI E DOCUMENTI GALILEIANI GIÀ EDITI, MA NON COMPRESI NELL'ULTIMA EDIZIONE FIORENTINA, O POSTERIORMENTE AD ESSA DATI ALLE STAMPE.

I. De novis astris et cometis Libri sex, in quibas elementarium coelestiumque stellarum recentium, tum sine coma tum crinitarum, in alto micantium affectiones primum adducuntur; aliorum placita de ipsis deinde perpenduntur, etc. Autor FORTUNIUS LICETUS genuensis in Patavino Lyceo Philosophus Ordinarius. Venetiis, apud Io. Guerilium, MDCXXII.

A pag. 194 è pubblicata nella traduzione latina una lettera, o assai più probabilmente uno squarcio di lettera, di Galileo Galilei a Fortunio Liceti. Firenze, 11 gennaio 1620 nella quale è inserita una figura rappresentante l'apparenza di Saturno.

II. De vero Telescopii inventore, cum brevi omnium conspiciliorun historia. Ubi de eorum confectione ac usu seu effectibus agitur, novaque quaedam circa ea proponuntur. Accessit etiam Centuria observationum microscopicarum. Authore PETRO BORELLO, etc. Hagæ-Comitum, ex typographia Adriani Vlacq, M DC LV.

Quivi a pag. 58-61 sono riprodotte alcune lettere concernenti i negoziati di Galileo cogli Stati Generali d'Olanda intorno alla proposta della longitudine. Tra queste furono nell'ultima edizione fiorentina omesse le seguenti: Galileo Galilei ad anonimo. Arcetri, 16 luglio 1635. Galileo Galilei ad anonimo. Arcetri, 15 gennaio 1640. Vi si trova ancora integra e nel testo originale francese una lettera di Elia Diodati a Costantino Huygens tradotta in parte in italiano e pubblicata con data erronea dall'Albèri (Le Opere di Galileo Galilei, ecc. Tomo VII. Firenze, 1848, pag. 247), ed ancora nell'originale francese la lettera di Elia Diodati a Pietro Borel, data da Parigi sotto il dì 21 aprile 1640, la quale fu data dall'Albèri nella traduzione italiana (Ibidem, pag. 251). — Cfr., a proposito di questa medesima pubblicazione, il successivo n° LVI.

III. Quinto libro degli Elementi d'Euclide, ovvero Scienza Universale delle proporzioni spiegata colla dottrina del Galileo, con nuov'ordine distesa, e per la prima volta pubblicata da VINCENZIO VIVIANI ultimo suo discepolo. Aggiuntevi cose varie e del Galileo e del Torricelli, i ragguagli dell'ultime Opere loro, con (altro che dall'indice si manifesta, ec. In Firenze, alla Condotta, M.DC.LXXIV.

A pag. 80, 81 sono contenuti due brani di lettere di Galileo Galilei ad Elia Diodati. Arcetri, 6 dicembre 1636 Galileo Galilei ad Elia Diodati. Arcetri, 24 aprile 1637 omessi nell'ultima edizione fiorentina, nella quale venne pure omesso un brano della lettera indirizzata da Elia Diodati a Galileo sotto il dì 22 dicembre 1637, il quale si legge a pag. 84 di quest'opera. — Cfr., a tale proposito, il successivo n° LXXXIII.

IV. HUGONIS GROTII, ec. Epistolae quotquot reperiri potuerunt; in quibus praeter hactenus editas, plurimae theologici, iuridici, philologici, historici et politici argumenti occurrunt Amstelodami, ex typographia P. et I. Blaev, MDCLXXXVII.

Oltre la ben nota lettera a Galileo, la quale si legge qui sotto il n° 654, ve ne sono contenute parecchie altre a Gerardo Giovanni Vossio ed a Martino Ortensio, concernenti cose galileiane.

V. GERARDI IOAN. VOSSII et clarorum virorum ad eum epistolae, collectore Paulo Colomesio, ec. Augustae Vindelicorum, typis Schönigianis, M. DC. XCI. Lettere del Vossio ad Ugo Grozio in relazione con quelle notate al n° IV.

VI. Epistolae ad Ioannem Kepplerum mathematicum caesareum scriptae, insertis ad easdem responsionibus kepplerianis quotquot hactenus reperiri poterunt, ec. Anno Aerae Dyonisianae MDCCXIIX.

Oltre alle lettere dell'Horky, le quali non furono date integralmente dall'Albèri, ne sono qui contenute e del Bruzio e d'altri, concernenti Galileo.

VII. Catalogue raisonné de la Collection de livres de M. Pierre Antoine Crevenna, négociant à Amsterdam. Second Volume. Jurisprudence, Philosophie, Histoire Naturelle et Arts. Amsterdam, J. V. Schley, MDCCLXXVI.

A pag. 108-109 è riprodotto un componimento poetico di Galileo intitolato «Befanata,» che l'Autore asserisce d'aver trovato manoscritto in appendice alla lettera di Galileo a Cristina di Lorena. A questo componimento ebbe occasione di accennare P. Fanfani in un suo scritto il quale venne pubblicato nelle Lettere di Famiglia, Anno XXXV, N° 30 del 29 luglio 1883, pag. 466. Tutti questi antecedenti non ci erano noti quando, avendo avuta la ventura di trovarne un esemplare apografo tra i Manoscritti Galileiani della Biblioteca Nazionale di Firenze, stimammo opportuno di darlo alla luce. Cfr. Befanata inedita di Galileo Galilei. Padova, tip. del Seminario, 1884. — Poco dopo, questo componimento poetico del sommo filosofo venne edito ancora una volta nelle «Poesie giocose inedite o rare pubblicate per cura del Dr Adolfo Mabellini e precedute da un saggio di poesia giocosa in Italia di Pietro Fanfani. Edizione integra. Firenze, tipografia editrice del Vocabolario ec, 1884,» pag. 159. Il testo della «Befanata» si dice qui tratto dalle car. 111-113 del Codice Riccardiano 2898.

VIII. Processo verbale pel collocamento di una vertebra di Galileo Galilei nella sala di Fisica dell'I. R. Università di Padova nel dì XXX agosto MDCCCXXIII. Padova, nella tipografia Crescini, MDCCCXXIII.

IX. The Works of FRANCIS BACON, Baron of Verulam, Viscount St. Albans, and Lord High Chancellor of England. London, printed for W. Baynes and son, ec. 1824. A pag. 91-93 e 217-218 del Tomo VI sono contenute due lettere di Tobia Matthew a Bacone date da Bruxelles, rispettivamente sotto il dì 21 aprile 1616 e 14 aprile 1619, e concernenti i lavori galileiani.

X. Isographie des hommes célèbres, ou collection de fac-simile, de lettres autographes et de signatures. Tome II. Paris, Alexandre Mesmer libraire, 1828-1830.

Nella carta 37° è pubblicato uno squarcio di lettera inedita di Galileo Galilei a Girolamo Quaratesi. Padova, 24 agosto 1607. Cfr., a tale proposito, il successivo n° LXXXIII.

XI. Sopra un fatto inedito della vita di Galileo Galilei. Padova, coi tipi del Seminario, MDCCCXXXIX. A pag. 29-34 è contenuto l'atto verbale della elezione del primo matematico dell'Accademia Delia. Cfr., a tale proposito, il successivo n° LXV.

XII. Cenni storici dell'I. R. Accademia di Scienze, Lettere ed Arti in Padova del Segretario per le scienze, Prof. LODOVICO MENIN. (Relazioni delle Memorie lette nell'I. R. Accademia di Scienze, Lettere ed Arti in Padova negli anni MDCCCXL-MDCCCXLI). Padova, coi tipi di Angelo Sicca, 1842.

A pag. xvi è un documento concernente la partecipazione di Galileo ai lavori della Accademia dei Ricovrati, alla quale era aggregato.

XIII. Biographie de Galilée par le Vicomte DE FALLOUX. (Le Correspondant, Recueil périodique paraissant le 10 et le 25 de chaque mois. Religion, Philosophie, Politique, Littérature, Sciences, Beaux-Arts. Tome XX, 5me année. 10 me livraison. 25 novembre). Paris, Sagnier et Bray, 1847.

Quivi a pag. 515-516 è contenuta una lettera di Galileo, a proposito della quale l'autore dell'articolo scrive: « Une lettre conservée à la Bibliothèque royale de Paris, et que je m'étonne de supposer inedite jusqu'à ce jour, montre à nu l'état de son áme et la liberté do ses épanchements au dehors (janvier 1694).» Prima di tutto è da osservarsi che la data «1694» è evidentemente erronea, dovendosi leggere 1634. Si tratta qui della lettera di Galileo Galilei ad Elia Diodati. Arcetri, 7 marzo 1634 della quale un brano era stato già prima pubblicato dal Viviani (cfr. n° III), riprodotto poi dal Venturi, e finalmente dall'Albèri (Le Opere di Galileo Galilei, ec. Tomo VII. Firenze, 1848, pag. 44). Intorno a questa medesima pubblicazione cfr. n° LIII.

XIV. Miscellanea di cose inedite e rare raccolta e pubblicata per cura di FRANCESCO CORAZZINI. Firenze, tip. di Tommaso Baracchi, succ., di G. Piatti, 1853.

Sono qui pubblicati a pag. 368-371 due sonetti e quattro madrigali attribuiti a Galileo nel codice miscellaneo magliabechiano, che ne contiene un esemplare apografo. Noteremo che il codice citato (271 della Cl. 7) contiene un quinto madrigale, trascurato dall'editore.

XV. LUIGI PASSERINI, Due lettere di Galileo e alcuni documenti dell'Accademia dei Lincei. (Giornale storico degli Archivi Toscani che si pubblica dalla Soprintendenza generale agli Archivi del Granducato. Anno I). Firenze, presso l'editore G. P. Vieusseux, coi tipi di M. Cellini, 1857. Le due lettere contenute a pag. 66-67 sono di Galileo Galilei a Curzio Picchena. Bellosguardo, 19 aprile 1618. Galileo Galilei a Curzio Picchena. Bellosguardo, 20 aprile 1618.

XVI. IOANNIS KEPLERI astronomi Opera omnia. Edidit CH. FRISCH. Frankofurti a. M. et Erlangæ. Heyder & Zimmer, MDCCCLVIII-MDCCCLXVIII.

Oltre ad alcune lettere concernenti la scoperta delle macchie solari, e che non furono date dall'Albèri, si contengono qui altri documenti galileiani.

XVII. Dell'origine e del progresso della fisica teorica sperimentale nell'Archiginnasio padovano. Prelezione del prof. ab. cav. FRANCESCO ZANTEDESCHI. Seconda edizione arricchita di una guida cronologica per i visitatori del Gabinetto di Fisica. Venezia, tip. Naratovich, 1858.

Questa seconda edizione contiene indicazioni di alcuni strumenti di fisica attribuiti a Galileo.

XVIII. Breve discorso della istituzione di un principe e Compendio della scienza civile di Francesco Piccolomini con otto lettere e nove disegni delle macchie solari di Galileo Galilei. Pubblicava per la prima volta SANTE PIERALISI, bibliotecario della Barberiniana. Roma, tip. Salviucci, 1858.

Le otto lettere inedite, tratte dagli autografi della Barberiniana di Roma e contenute nella presente pubblicazione (pag. 195-212), sono le seguenti: Galileo Galilei al cardinale Maffeo Barberini. Di Firenze, 2 giugno 1612 (con 9 disegni). Galileo Galilei al cardinale Maffeo Barberini. Di Firenze, 9 giugno 1612. Galileo Galilei al cardinale Maffeo Barberini. Di Firenze, 14 aprile 1613. Galileo Galilei al cardinale Maffeo Barberini, Di Firenze, 29 giugno 1619. Galileo Galilei al cardinale Maffeo Barberini. Di Firenze, 7 settembre 1620. Galileo Galilei a Francesco Barberini. Di Firenze, 19 settembre 1623. Galileo Galilei al cardinale Francesco Barberini. Di Firenze, 9 ottobre 1623. Galileo Galilei al cardinale Francesco Barberini. Di Firenze, 23 dicembre 1624.

XIX. Galileo Galilei. Sa vie, son procès et ses contemporains d'après les documents originaux avec un portrait gravé d'après l'original d'Ottavio Leoni. Par PHILARÈTE CHASLES. Paris, Poulet- Malassis, libraire-éditeur, 1862. A pag. 253-255 è contenuta la traduzione francese di una lettera di Galileo ad anonimo sotto il dì 4 marzo 1675 da Arcetri. Lo Chasles dichiara aver ottenuto il permesso di pubblicarla dal signor Feuillet de Conches, il quale ne possedeva l'autografo. In calce alla traduzione francese è dato anche il testo italiano. Non occorre avvertire che la data è erronea, dovendosi in luogo di «1675» leggere «1635» Questo autografo figura nel Catalogue d'une collection d'autographes vendue le 10 mars 1847 chez Charavay, libraire, rue Git-le-Cœur, n° 4. Una seconda traduzione francese di questa medesima lettera, eseguita per cura del signor Stefano Charavay, perito, venne pubblicata nell'Inventaire des autographes et des documents historiques de M. Benjamin Fillon. Paris, 1877, pag. 8. − Tuttavia questa lettera, data dallo Chasles per inedita, non lo è, essendo tutt'uno con quella di Galileo Galilei a Benedetto Guerrini. Arcetri, 4 marzo 1637 data alla luce dal Venturi e riprodotta dall'Albèri (Le Opere di Galileo Galilei. Tomo VII. Firenze, 1848, pag. 150-151).

XX. Lettere di Fra Paolo Sarpi raccolte e annotate da F.-L. POLIDORI, con prefazione di FILIPPO PERFETTI. Vol. I. Firenze, G. Barbèra, editore, 1863. A pag. 7-9 è contenuta una lettera di Fra Paolo Sarpi a Galileo, data da Venezia sotto il dì 2 settembre 1602, omessa dall'Albèri perché da lui dichiarata «oscura e mal dettata.»

XXI. L'Amateur d'Autographes paraissant les 1er et 16 de chaque mois, n° 53. − 3e année, 1er avril 1864. Paris, Charavay ainé, 1864.

A pag. 100-102 è data la traduzione francese d'una lettera di Galileo Galilei ad anonimo. Arcetri, 16 marzo 1634 (ab Inc.).

XXII. La primogenita di Galileo Galilei rivelata dalle sue lettere edite ed inedite per cura di CARLO ARDUINI. Firenze, Felice Le Monnier, 1864. S'era qui proposto l'Arduini di pubblicare tutte le lettere di Suor Maria Celeste a Galileo, ma non vi riuscì completamente. Egli asserisce infatti che quelle di tali lettere, che si conservano nella Biblioteca. Nazionale di Firenze, sono in numero di 121, aggiunge che 27 soltanto ne erano state pubblicate e che egli dava alla luce le rimanenti 87; ora ognuno vede che queste due ultime cifre sommate insieme danno 114 e non già 121: probabilmente v'ha errore di stampa: e infatti le lettere tralasciate dell'Albèri erano 97, che sommato colle 27, da lui date alla luce, formano 124. E 124 sono realmente le lettere di Suor Maria Celeste a Galileo, contenute nel tomo XIII della parte I dei Manoscritti Galileiani nella Biblioteca Nazionale di Firenze; e l'Arduini, non ne avendo pubblicate che 121 (e non tutte integralmente), ne lasciò inedite tre. – Cfr., a tale proposito, il seguente n° LVII. Una appendice contiene alcune lettere inedite di donne indirizzate a Galileo, e che in parte si connettono colle precedenti.

XXIII. Nel trecentesimo natalizio di Galileo Galilei in Pisa, XVIII febbraio MDCCCLXIV. Pisa, tip. Nistri, 1864.

In questa occasione vennero date alla luce le seguenti lettere inedite di Galileo Galilei a Lodovico Cardi da Cigoli. Di Firenze, 20 giugno 1612. Galileo Galilei al cavaliere Andrea Cioli. Di casa (Firenze), 10 giugno 1617. Galileo Galilei a Curzio Picchena. Di Bellosguardo, 20 aprile 1618. Galileo Galilei al Granduca Ferdinando II...... 1629.

Seguono poi nove lettere a Galileo e tre appendici. Nella prima di queste è esposto: Un particolare ignoto della vita di Galileo Galilei; nella seconda sono alcuni cenni sopra Pisa e la sua Università ai tempi di Galileo; nella terza un Saggio di concetti di Plauto, col volgar fiorentino attribuito a Galileo. La seconda delle citate appendici è corredata di note, che contengono alcuni documenti inediti risguardanti le relazioni di Galileo collo Studio di Pisa.

XXIV. Documenti risguardanti la Cattedra di Galileo Galilei e il suo Busto nello Studio di Padova, raccolti e pubblicati dal professore FRANCESCO ZANTEDESCHI. Padova, tip. A. Bianchi, 1864.

Oltre ad alcuni documenti, taluni dei quali inediti, sono qui pubblicate per la prima volta le seguenti lettere di Galileo Galilei ai Riformatori dello Studio di Padova. Padova, 12 febbraio 1602. Galileo Galilei ai Riformatori dello Studio di Padova. Padova, 4 novembre 1609.

XXV. Notizie su la festa centenaria di Galileo Galilei celebrata a Pisa il 18 febbraio 1864, coll'aggiunta di alcune lettere inedite di Galileo possedute dalla Biblioteca Nazionale di Milano e per la prima volta illustrate da GIUSEPPE SACCHI. (Patria e Famiglia, Anno IV, Disp. V, VI e VII, giornale pubblicato dalla Società Pedagogica Italiana, residente in Via dei Moroni, N.10). Milano, tip. di Dom. Salvi e C., 1864.

Le lettere inedite contenute in tale pubblicazione sono le seguenti: Galileo Galilei a Giambattista Baliani. Di Firenze, 25 gennaio 1613. Galileo Galilei a Giambattista Baliani. Di Firenze, 12 marzo 1613. Galileo Galilei a Giambattista Baliani. Di Firenze, 6 agosto 1630. Galileo Galilei a Giambattista Baliani. Di Firenze, 7 gennaio 1636. Galileo Galilei a Giambattista Baliani. Di Firenze, 1 agosto 1639. Galileo Galilei a Giambattista Baliani. Di Firenze, 1 settembre 1639.

XXVI. Lettere di Daniele Antonini a Galileo Galilei edite da VINCENZO JOPPI per le nozze Ciconi- Beltrame-Albrizzi. Udine, tip. di Giuseppe Seitz, 1865. Sono dieci lettere, delle quali tre erano già state pubblicato dall'Albèri, e sette lo sono qui per la prima volta.

XXVII. Annali delle Università Toscane. Parte prima. Science noologiche. Tomo ottavo. Pisa, tip. Nistri, 1866.

Sono qui riprodotte, anzi tutto, le lettere edite per la prima volta nella pubblicazione segnata sotto il n° XXIII. Vengono appresso le lettere date per la prima volta alla luce nella pubblicazione segnata sotto il n° XXV. Finalmente una appendice contiene una lettera inedita di Galileo Galilei alli signori Diodati e Gassendi. Di Firenze, li 9 aprile 1632.

XXVIII. Poesie inedite di Galileo Galilei, di Francesco Redi, di Pier Salvetti, di Marco Lamberti e di Antonio Malatesti pubblicate da GIULIO PICCINI. Firenze, tip. Galileiana di M. Cellini e C., 1867.

A. pag.5 è un sonetto di Galileo, il quale più tardi venne pubblicato siccome inedito nel catalogo intitolato: I Manoscritti Italiani della Biblioteca Nazionale di Firenze descritti da una società di studiosi, alunni nella facoltà di lettere del R. Istituto Superiore sotto la direzione del prof. Adolfo Bartoli. Sezione Prima. Codici Magliabechiani. Serie Prima. Poesie, Tomo III. In Firenze, tip. Carnesecchi. 1880, pag. 333-334.

XXIX. Due lettere di Galileo Galilei pubblicate nelle nozze Dalcolle-Boldrini. Mantova, stab. tip. di Luigi Segna, 1867.

Le due lettere inedite sono lo seguenti: Dalla Villa delle Selve, 21 gennaio 1611 (Ab Inc.). Di Firenze, 15 giugno 1612.

XXX. Sull'epoca vera e la durata della cecità del Galileo. Nota del P. ANGELO SECCHI d. C. d. G. (Giornale Arcadico. Nuova Serie, Tomo LIV). Roma, tip. delle Belle Arti, 1868.

Nell'appendice sono riportati parecchi squarci di lettere, date dall'autore per inedite, mentre trovansi tutte nell'edizione dell'Albèri, dalla quale egli le trasse ad verbum, compresa anche la indicazione di «inedita.»

XXXI. Intorno a tre lettere di Galileo Galilei tratte dall'Archivio dei Gonzaga per GILBERTO GOVI (Bullettino di Bibliografia e di Storia delle Scienze matematiche e fisiche, tomo III, pag. 267-281). Roma, tip. delle scienze matematiche e fisiche, 1870.

Oltre alle due già edite nella pubblicazione segnata col n° XXIX, e che il nuovo editore scoperse rispettivamente indirizzate a Margherita Sarrocchi ed a Ferdinando Gonzaga, vi si contiene ancora una lettera inedita di Galileo Galilei a Vincenzio Gonzaga. Di Padova, 22 maggio 1604. Nella occasione poi di illustrare queste lettere ne sono pubblicate altre di inedite indirizzate a Galileo.

XXXII. Il Processo Galileo (sic) riveduto sopra documenti di nuova fonte dal prof. comm. SILVESTRO GHERARDI. Firenze, tip. dell'Associazione, 1870. A pag. 28-37 sono contenuti trentadue documenti che l'autore afferma tratti dai «verbali e decisioni delle sedute della Congregazione del Sant'Uffizio, o della S. Inquisizione di Roma, tenute per il processo di Galileo, o per occasione, e prima e dopo di esso.»

XXXIII. La venuta di Galileo Galilei a Padova e la invenzione del telescopio del prof. Domenico Berti. (Atti del R. Istituto Veneto di scienze, lettere ed arti. Serie terza, tomo decimosesto). Venezia, tip. Antonelli, 1871.

Nell'Appendice a questo scritto è pubblicata parte dei Ricordi autografi di Galileo contenuti nel tomo XVI della parte I dei Manoscritti Galileiani nella Biblioteca Nazionale di Firenze; ed inoltre un brano di dispaccio del Residente toscano a Venezia relativo alla invenzione del telescopio, e finalmente una lettera inedita di Tommaso Campanella a Galileo.

XXXIV. Lettere inedite a Galileo Galilei raccolte dal dottor ARTURO WOLYNSKI. Firenze, tip. dell'Associazione, 1872.

Oltre a 150 lettere scritte da vari a Galileo, o inedite o ridotte a miglior lezione, trovansi qui riprodotti quindici documenti ed una lettera inedita di Galileo Galilei ad Andrea Cioli. Di casa (Firenze), 16 giugno 1617.

XXXV. Relazioni di Galileo Galilei colla Polonia esposte secondo i documenti per la maggior parte non pubblicati del dott. ARTURO WOLYNSKI (Archivio Storico Italiano, Serie III, tomo XVII). Firenze, tip. di M. Cellini e C., 1872. In questa pubblicazione si contengono parecchie lettere a Galileo e documenti galileiani o inediti o ridotti a miglior lezione.

XXXVI. Intorno ad alcune note di Galileo Galilei ad un'opera di Giovanni Battista Morin di BALDASSARRE BONCOMPAGNI (Bullettino di Bibliografia e di Storia delle scienze matematiche e fisiche, tomo VI, pag. 45-60). Roma, tip. delle scienze matematiche e fisiche, 1873.

Sono quivi riprodotte ed accompagnate da opportune illustrazioni bibliografiche alcune «Note per il Morino», scritte di pugno di Galileo in alcune carte aggiunte ad un esemplare dell'opera: Famosi et antiqui problematis, de telluris motu vel quiete, hactenus optata solutio etc. A Joanne Baptista Morino etc. Parisiis, apud Authorem, M.DC.XXXI, posseduto dalla Biblioteca Nazionale di Firenze.

XXXVII. Una lettera inedita di Galileo Galilei (Gazzetta del Popolo di Firenze, Anno XIII. 1873, Domenica, 16 marzo, n° 75, Appendice).

Il prof. Francesco Berlan pubblicò qui, accompagnandola con illustrazioni filologiche, una lettera fino allora rimasta inedita di Galileo Galilei a Giacomo Contarini. Di Padova, 22 marzo 1593. Questa medesima lettera, annunziata anche nell'Archivio Veneto, Bollettino di Bibliografia Veneziana, n°4, tip. del Commercio, 1878, pag. 26-27, venne quattro anni appresso ripubblicata come inedita ed accompagnata da illustrazioni tecniche di L. Fincati ed inserita nel numero di dicembre 1877 della Rivista Marittima. Ne fu fatta anco una tiratura a parte sotto il titolo: Una lettera di Galileo Galilei pubblicata da L. Fincati. Roma, tip. Barbèra, – 1877, Cfr. n° LII.

XXXVIII. Un sogno spiegato da Galileo Galilei (Gazzetta del Popolo di Firenze, Anno XIII, 1873, Lunedì, 28 aprile, n°117, Appendice).

Sotto questo titolo è qui pubblicata una lettera ad anonimo e senza data, e che viene dal professore Francesco Berlan, a quanto pare anche col voto di Tommaso Gar, attribuita a Galileo. – Cfr. n° LII.

XXXIX. Le relazioni di Galileo con alcuni Pratesi a proposito del falso Buonamici scoperto dal signor Th. Henri Martin di CESARE GUASTI (Archivio Storico Italiano, serie III, tomo XVII). Firenze, tip. Galileiana, 1873. Sono qui contenute alcune lettere inedite a Galileo o ad altri concernenti Galileo.

XL. Intorno a due scritti di Raffaele Gualterotti fiorentino relativi alla apparizione di una nuova stella avvenuta nell'anno 1604. Nota dell'ing. FERDINANDO JACOLI (Bullettino di Bibliografia e di Storia delle science matematiche e fisiche pubblicato da B. Boncompagni, tomo VII). Roma, tip. delle scienze matematiche e fisiche, 1874.

In appendice a questa nota sono pubblicate (pag. 406-415) sette lettere inedite di Raffaele Gualterotti, delle quali sei indirizzate a Galileo ed una ad Alessandro Sertini, tratte tutte dai Manoscritti Galileiani della Biblioteca Nazionale di Firenze.

XLI. La diplomazia toscana e Galileo Galilei per il dott. ARTURO WOLYNSKI. Firenze, tip. dell'Associazione, 1874.

Documenti in buona parte inediti relativi a Galileo o divisi nelle serie seguenti: I. Gita a Roma nel 1611. − II. Gita a Roma nel 1616. − III. Gita a Roma nel 1624. − IV. Gita a Roma nel 1630. − V. Negoziazioni intorno ai Dialoghi. − VI. Processo. − VII. Cecità del Galilei. − VIII. Morte del Galilei.

XLII. Galileo e i matematici del Collegio romano nel 1611. Documenti e illustrazioni del prof. GILBERTO GOVI (Atti della R. Accademia dei Lincei, tomo II, serie III). Roma, coi tipi del Salviucci, 1875.

Accompagnato da molte illustrazioni, leggesi qui il Nuntius Sidereus Collegii Romani.

XLIII. Urbano VIII e Galileo Galilei. Memorie storiche del sacerdote SANTE PIERALISI. Roma, tip. Poliglotta, 1875.

Documenti galileiani inediti, tratti dalla Barberiniana di Roma.

XLIV. Copernico e le vicende del sistema copernicano in Italia nella seconda metà del secolo XVI e nella prima del XVII, con documenti inediti intorno a Giordano Bruno e Galileo Galilei. Discorso letto nella R. Università di Roma, in occasione della ricorrenza del IV centenario di Niccolò Copernico, dal prof. DOMENICO BERTI, deputato al Parlamento. Roma, tip. G. B. Paravia e C., 1876.

Oltre a documenti galileiani e ad alcune postille attribuite a Galileo, è contenuta qui (pag 104) una lettera inedita di Galileo ad anonimo e senza data, ma che deve essere stata scritta intorno al 1615. − Cfr. a tale proposito il n° LXIV.

XLV. DOMENICO BERTI, Il processo originale di Galileo Galilei. Nuova edizione. Roma, tip. Voghera, 1878.

Delle parecchie edizioni, fatte prima e dopo alla prima completa del Berti, citiamo questa come la più corretta ed insieme più completa.

XLVI. D. BERTI, Lettere inedite di Tommaso Campanella e Catalogo de' suoi scritti (Atti della R. Accademia dei Lincei. Anno CCLXXV, 1877-78, serie terza. Memorie della Classe di scienze morali, storiche e filologiche. Volume II). Roma, coi tipi del Salviucci, 1878.

È qui riprodotta la lettera di Tommaso Campanella a Galileo, già edita dal medesimo autore (cfr. n° XXXIII), ma ridotta a miglior lezione.

XLVII. Nuovi documenti inediti del processo di Galileo Galilei illustrato dal dott. ARTURO WOLYNSKI. Firenze, tip. della Gazzetta d'Italia, 1878.

Questi documenti sono: Circolare della Congregazione dell'Indice a tutti gli Inquisitori e Nunzi apostolici. Lettera del Nunzio apostolico in Firenze all'Arcivescovo di Firenze. Lettera del cardinale Barberini all'Inquisitore di Firenze. Lettera dell'Inquisitore di Firenze alla Congregazione del Sant'Offizio a Roma. Lettera del cardinale Ottoboni al Padre Ambrogi. Estratti di dispacci dell'ambasciatore Niccolini al Balì Andrea Cioli risguardanti il cardinale Gasparo Borgia. Estratti di dispacci dell'ambasciatore Niccolini relativi a monsignor Giovanni Ciampoli.

XLVIII. Due lettere del P. Abate D. Benedetto Castelli a Monsignore D. Ferdinando Cesarini (Bullettino di Bibliografia e di Storia delle scienze matematiche e fisiche pubblicato da B. Boncompagni, tomo XI). Roma, tip. delle scienze matematiche e fisiche, 1878.

La prima di tali lettere (pag. 645-650) è quella nella quale il Castelli riferisce intorno alla costruzione del termoscopio per opera di Galileo. Brani di questa lettera erano già stati pubblicati più volte antecedentemente, come con ogni più minuto particolare avverte in copiose note illustrative il Boncompagni.

XLIX. ANGELO DE GUBERNATIS, Carteggio Galileiano. Nuovi documenti inediti per servire alla biografia di Galileo Galilei (Nuova Antologia, serie II, vol. XVIII). Roma, tip. Barbèra, 1879.

Col corredo di numerose illustrazioni si pubblicano qui parecchie lettere inedite a Galileo, l'atto di legittimazione di Vincenzio Galilei, una scrittura di Galileo sopra argomento legale, ed una nota di debiti da lui lasciati alla sua morte.

L. Le aggiunte autografe di Galileo al Dialogo sopra i due massimi sistemi nell'esemplare posseduto dalla Biblioteca del Seminario di Padova, pubblicate ed illustrate da ANTONIO FAVARO (Atti della R. Accademia di Scienze, Lettere ed Arti di Modena. Tomo XIX). Modena, Società tipografica, 1880.

Aggiunte, postille e correzioni tratte dagli autografi ed in buona parte inedite. LI. Inedita Galilaeiana. Frammenti tratti dalla Biblioteca Nazionale di Firenze, pubblicati e illustrati dal prof. ANTONIO FAVARO (Memorie del Reale Istituto Veneto di scienze, lettere ed arti. Vol. XXI). Venezia, tip. Antonelli, 1880.

Le cose inedite contenute nella presente pubblicazione trovansi distribuite come appresso: I. Notizie biografiche. − II. Studi sperimentali. − III. Frammenti geometrici.− IV. Frammenti di idraulica. − V. Pensieri varii. Una prima appendice contiene una lettera inedita di Galileo Galilei ad anonimo. Da Bellosguardo, li 22 settembre 1630. In una seconda appendice sono riprodotte le iscrizioni poste da Vincenzio Viviani sui cartelloni della sua casa, pubblicate per la prima volta giusta la esatta lezione.

LII. Lettera di Galileo Galilei sull'azione dei remi e risposta di Giacomo Contarini, pubblicate per la prima volta, l'una nel 1873, l'altra nel 1880, dal prof. FRANCESCO BERLAN, giuntovi uno scritto filosofico morale attribuito a Galileo. Venezia, tip. del giornale Il Tempo, 1880.

Oltre ai due scritti accennati nel titolo e già editi (cfr. ni XXXVII e XXXVIII), è qui pubblicata per la prima volta la risposta di Giacomo Contarini a Galileo.

LIII. Galilée, Torricelli, Cavalieri, Castelli. Documents nouveaux tirés des Bibliothèques de Paris, par CHARLES HENRY (Memorie della Classe di scienze morali, storiche e filologiche della R. Accademia dei Lincei. Vol. V). Roma, coi tipi del Salviucci, 1880.

Oltre ad alcune varianti relative a scritti galileiani già editi, è qui pubblicata nel testo originale per la prima volta la lettera di Galileo ad Elia Diodati in data di Arcetri, 7 marzo 1634, della quale abbiamo già tenuto parola (cfr. n° XIII). A questa segue una lettera inedita di Galileo Galilei al signor di Peiresc. Arcetri, 16 maggio 1635. Finalmente una scrittura intitolata: «Academia Parisiensis viros clarissimos Galilei familiares et amicos lyncaeos precatur, uti sequentibus in dialogorum libros notis respondeant.» I Dialoghi qui menzionati sono quelli delle nuove scienze.

LIV. Gli Istituti scientifici, letterari ed artistici di Milano. Memorie pubblicate per cura della Società storica lombarda in occasione del secondo Congresso storico italiano. II di settembre MDCCCLXXX. Milano; tip. Luigi di Giacomo Pirola, 1880.

Sono qui per incidenza pubblicate, benchè non integralmente, le seguenti lettere inedite: Galileo Galilei al cardinale Federigo Borromeo. Firenze, 27 aprile 1613. Galileo Galilei al cardinale Federigo Borromeo. Dalla villa di Bellosguardo, 23 dicembre 1617. Galileo Galilei al cardinale Federigo Borromeo. Firenze, 29 giugno 1619. Galileo Galilei al cardinale Federigo Borromeo. Firenze, 18 novembre 1623. Cfr. il successivo n° LXII.

LV. Galileo Galilei ed il «Dialogo de Cecco di Ronchitti da Bruzene in perpuosito de la stella nuova.» Studi e ricerche di ANTONIO FAVARO (Atti del Reale Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti. Serie V, tomo VII). Venezia, tip. Antonelli, 1881.

Oltre al Dialogo menzionato nel titolo, sono riprodotte quattro lettere inedite a Galileo. LVI. La proposta della longitudine fatta da Galileo Galilei alle confederate provincie belgiche, tratta per la prima volta dall'Archivio di Stato all'Aja e pubblicata da ANTONIO FAVARO (Atti del Reale Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti. Serie V, tomo VII). Venezia, tip. Antonelli, 1881.

In questa pubblicazione è contenuta la esatta lezione della lettera di Galileo Galilei agli Stati Generali d'Olanda. Arcetri, 15 agosto 1636. Ed oltre a questa, sono riprodotte le due altre lettere di Galileo contenute nella pubblicazione indicata sotto il n° II e che erano state trascurate dall'Albèri. Finalmente due lettere di Elia Diodati, l'una a Costantino Huygens e l'altra a Pietro Borel concernenti il negozio della longitudine.

LVII. Documenti inediti sulla primogenita di Galileo, pubblicati ed illustrati da ANTONIO FAVARO. Padova, tip. del Seminario, 1881.

I documenti menzionati nel titolo della presente pubblicazione sono i seguenti: Fede di battesimo di Virginia Galilei. Oroscopo di Virginia Galilei steso da Galileo. Atto di monacazione di Virginia Galilei, che assume il nome di Suor Maria Celeste. Tre lettere di Suor Maria Celeste a Galileo.

LVIII. Galileo Galilei e l'Università di Bologna. Memoria del cav. dott. CARLO MALAGOLA, con appendice di documenti inediti sul Magini (Archivio storico italiano. Tomo VII). Firenze, coi tipi di M. Cellini e C., 1881.

Istanza, colla quale, a nome di Galileo, è chiesta nel 1587 la cattedra di matematica nello Studio di Bologna.

LIX. Galileo Galilei e lo Studio di Bologna. Nota del prof. ANTONIO FAVARO (Atti del Reale Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti. Serie V, tomo VII). Venezia, tip. Antonelli, 1881.

Giudizio pronunziato in Bologna sopra una proposizione di Galileo relativa alla determinazione del baricentro d'alcuni solidi.

LX. Galileo Galilei e Gustavo Adolfo di Svezia. Ricerche inedite. Padova, tip. del Seminario, 1881.

Parere del professore d'Adlerbeth, istoriografo del re di Svezia, intorno al principe svedese che può essere stato discepolo di Galileo a Padova.

LXI. Carteggio Galileano inedito con note ed appendici per cura di GIUSEPPE CAMPORI (Memorie della R. Accademia di Scienze, Lettere ed Arti di Modena. Tomo XX, parte II). Modena, Società tipografica, 1881.

Sono contenute in questo volume ben 654 lettere a Galileo, delle quali 652 sono interamente inedite. A questa ragguardevolissima pubblicazione fanno seguito alcune appendici illustrate da documenti inediti, delle quali ci terremo a riferire soltanto le intestazioni: I. Il giorno della nascita di Galileo. - II. La fanciullezza di Galileo. - III. Prodromi dell'andata di Galileo allo Studio di Pisa. - IV. Il cannocchiale. - V. Una supposta invenzione di Galileo. - VI. Galileo astrologo. - VII. Il Processo. - VIII. Lettera di Raffaello Magiotti al P. Francesco di S. Giuseppe. - IX. Lettera inedita di Galileo ad anonimo, senza data. - X. Lettera di Lodovico Baitelli a Fra Fulgenzio Micanzio. - XI e XII. Testamento e codicillo di Galileo. - XIII. Lettera del P. Vincenzio Renieri. - XIV. Lettera di G. B. Sampieri. - XV. Memoria inedita di G. B. Venturi.

LXII. Alcune lettere inedite di Galileo Galilei, pubblicate ed illustrate da GILBERTO GOVI (Bullettino di Bibliografia e di Storia delle scienze matematiche e fisiche. Tomo XIV). Roma, tip. delle scienze matematiche e fisiche, 1881.

Oltre alla pubblicazione integrale delle quattro lettere di Galileo edite per la prima volta nel volume menzionato al n° LIV, vi si contengono le seguenti inedite: Galileo Galilei al cardinale Federigo Borromeo. Dalla villa di Bellosguardo, li 16 di maggio 1618 Galileo Galilei a Raffaello Staccoli. Da Bellosguardo, li 3 di aprile 1631 Nella occasione di illustrare queste lettere, ne sono pubblicate altre inedite a Galileo insieme con documenti pure inediti.

LXIII. Spigolature Galileiane dalla autografoteca Campori in Modena, raccolte ed illustrate dal prof. ANTONIO FAVARO (Memorie della R. Accademia di Scienze, Lettere ed Arti di Modena. Tomo XX, parte III). Modena, Società tipografica, 1882.

Dai medesimi materiali, dei quali si servì il marchese Giuseppe Campori per la sua pubblicazione (cfr n° LXI), sono tratti questi altri documenti galileiani, consistenti in parecchie lettere inedite a Galileo ed in altre notizie risguardanti gli immediati discendenti del sommo filosofo

LXIV. Antecedenti al processo Galileiano e alla condanna della dottrina Copernicana. Memoria di DOMENICO BERTI (Memorie della Classe di scienze morali, storiche e filologiche della R. Accademia dei Lincei. Vol. X). Roma, coi tipi del Salviucci, 1882.

Oltre ad alcuni estratti dalla corrispondenza del Fabri, attualmente nell'Archivio dell'Ospizio degli Orfani di Santa Maria in Aquiro, si contiene quivi una accuratissima descrizione di due codici già Volpicelliani ed ora appartenenti alla R. Accademia dei Lincei, con alcuni materiali per una più esatta lezione di alcune scritture galileiane; finalmente è data per disteso una lettera di Galileo, della quale un brano era stato già pubblicato dallo stesso Berti (cfr. n° XLIV), e sono riprodotte alcune scritture inedite di Galileo e di altri intorno al sistema copernicano.

LXV. Galileo Galilei e lo Studio di Padova per ANTONIO FAVARO. Vol. II. Firenze, Successori Le Monnier, 1883.

Oltre ad alcuni documenti inediti sparsi qua e là, in appendice al volume secondo si trovano cento lettere inedite a Galileo, nove lettere fra terzi relative a Galileo, e trentadue documenti che lo risguardano, in parte anche autografi di lui ed inediti.

LXVI. Breve storia della Accademia dei Lincei scritta da DOMENICO CARUTTI (Pubblicazione della R. Accademia). Roma, coi tipi del Salviucci, 1883.

A pag. 32-36 sono riprodotti i ricordi accademici, non che altre notizie inedite relative a Galileo.

LXVII La difesa di Galileo scritta da Benedetto Averani, pubblicata ed illustrata da ANTONIO FAVARO (Memorie della R. Accademia di Scienze, Lettere ed Arti di Modena. Serie II, vol. II). Modena, coi tipi della Società tipografica, 1883.

LXVIII. Gli autografi Galileiani nell'Archivio Marsigli in Bologna. Nota di ANTONIO FAVARO (Bullettino di Bibliografia e di Storia delle scienze matematiche e fisiche. Tomo XV). Roma, tip. delle scienze matematiche e fisiche, 1883.

Sono qui fornite esatte notizie intorno a trentaquattro lettere autografe indirizzate da Galileo a Cesare Marsili ed a Bonaventura Cavalieri, delle quali ben sei sono tuttora inedite.

LXIX. Alcuni scritti inediti di Galileo Galilei tratti dai manoscritti della Biblioteca Nazionale di Firenze, pubblicati ed illustrati da ANTONIO FAVARO (Bullettino di Bibliografia e di Storia delle scienze matematiche e fisiche. Tomo XV). Roma, tip. delle scienze matematiche e fisiche, 1884.

I materiali dati per la prima volta alla luce nella presente pubblicazione sono distribuiti in quattro parti e sono:

Parte I. Saggio degli studi giovanili di Galileo sulla filosofia naturale. » II. Complemento di tutto ciò che rimaneva ancora inedito degli studi primi di Galileo intorno al moto. » III. Risposta di Galileo alle considerazioni fatte dall'Accademico Incognito sopra il discorso intorno alle cose che stanno in su l'acqua o che in quella si muovono. » IV. Lettera di Galileo a Giorgio Fortescue, non che quella del Fortescue alla quale risponde Galileo.

LXX. Di alcune relazioni tra Galileo Galilei e Federico Cesi illustrate con documenti inediti per cura di ANTONIO FAVARO (Bullettino di Bibliografia e di Storia delle scienze matematiche e fisiche. Tomo XVII). Roma, tip. delle scienze matematiche e fisiche, 1884.

Sono qui pubblicate per la prima volta undici lettere di Federico Cesi a Galileo.

LXXI. Sulla morte di Marco Velsero e sopra alcuni particolari della vita di Galileo. Nota di ANTONIO FAVARO (Bullettino di Bibliografia e di Storia delle scienze matematiche e fisiche. Tomo XVII). Roma, tip. delle scienze matematiche e fisiche, 1884.

Oltre ad alcuni documenti inediti, sono qui pubblicate per la prima volta tre lettere a Galileo.

LXXII. Ragguaglio dei Manoscritti Galileiani nella collezione Libri-Ashburnham presso la Biblioteca Mediceo-Laurenziana di Firenze per ANTONIO FAVARO (Bullettino di Bibliografia e di Storia delle scienze matematiche e fisiche. Tomo XVII). Roma, tip. delle scienze matematiche e fisiche, 1885.

Nella occasione d'illustrare i citati manoscritti, vengono dati alla luce alcuni documenti galileiani inediti.

LXXIII. Fabio Colonna, Linceo napolitano. Studio di N. F. FARAGLIA (Archivio storico per le provincie napoletane. Anno X, fasc. IV). Napoli, R. Stabilimento tip. Giannini, 1885.

Sono qui pubblicate per la prima volta alcune lettere di Fabio Colonna a Galileo.

LXXIV. Documenti inediti per la storia dei Manoscritti Galileiani nella Biblioteca Nazionale di Firenze, pubblicati ed illustrati da ANTONIO FAVARO (Bullettino di Bibliografia e di Storia delle scienze matematiche e fisiche. Tomo XVIII). Roma, tip. delle scienze matematiche e fisiche, 1886.

LXXV. Conchiusioni sull'Accademico Incognito oppositore al discorso di Galileo intorno alle cose che stanno in su l'acqua, o che in quella si muovono, per ANTONIO FAVARO (Bullettino di Bibliografia e di Storia delle scienze matematiche e fisiche. Tomo XVIII). Roma, tip. delle scienze matematiche e fisiche, 1886.

Sono qui pubblicate due lettere, l'una di Lodovico dalle Colombe, l'altra d'Arturo d'Elci, relative a scritture galileiane.

LXXVI. Carteggio inedito di Ticone Brahe, Giovanni Keplero e di altri celebri astronomi e matematici dei secoli XVI e XVII, con Giovanni Antonio Magini, tratto dall'Archivio Malvezzi de' Medici in Bologna, pubblicato ed illustrato da ANTONIO FAVARO. Bologna, Nicola Zanichelli, 1886.

Oltre a parecchie lettere fra terzi relative a Galileo, sono qui pubblicate tre lettere di G. A. Magini a lui indirizzate, le quali completano il carteggio fra loro tenuto e pervenuto fino a noi.

LXXVII. Scampoli Galileiani raccolti da ANTONIO FAVARO (Atti e Memorie della R. Accademia di Scienze, Lettere ed Arti in Padova. Nuova serie, vol. II). Padova, tip. G. B. Randi, 1886.

Oltre ad altre cose di minor conto, sono qui contenuti: 1° Un sonetto inedito di Galileo. 2° Una lettera inedita di Galileo a Giovanni del Ricco, data da Arcetri sotto il dì 29 gennaio 1635. 3° Una lettera inedita di Marco Velsero a Filippo Salviati, data da Augusta sotto il dì 27 febbraio 1618.

LXXVIII. Le matematiche nell'arte militare secondo un autografo di Galileo Galilei per ANTONIO FAVARO (Rivista d'Artiglieria e Genio. Anno 1886, vol. III). Roma, tip. e lit. del Comitato d'Artiglieria e Genio, 1886.

Parere autografo e inedito di Galileo intorno alle «Cognizioni che a perfetto Cavaliere et soldato si richieggono, le quali hanno dependenza dalle scienze matematiche.»

LXXIX. Ancora di due controversie sul Processo Galileiano per TOMMASO SANDONNINI (Rivista Storica Italiana. Vol. III, fasc. IV). Torino, tip. Bona, 1886.

Sono qui pubblicate, e per la prima volta da uno degli originali, la sentenza pronunziata contro Galileo e la relativa abiura.

LXXX. Lettres autographes composant la collection de M. Alfred Bovet décrites par ÉTIENNE CHARAVAY. Paris, Charavay Frères, 1887.

Una delle quarantanove tavole annesse a questa pubblicazione riproduce il fac-simile d'una lettera del Descartes al P. Mersenne, nella quale è contenuto un ragguardevole giudizio sulla condanna di Galileo.

LXXXI. P. PAGANINI, Appunti Galileiani (Rivista Critica della Letteratura Italiana. Anno IV, N° I, gennaio 1887). Firenze, tip. Carnesecchi, 1887.

Istanza di Galileo al Granduca per ottenere un luogo nella Sapienza di Pisa a favore di Vincenzio suo figliuolo.

LXXXII. Serie seconda di Scampoli Galileiani raccolti da ANTONIO FAVARO (Atti e Memorie della R. Accademia di Scienze, Lettere ed Arti in Padova. Nuova serie, vol. III). Padova, tip. G. B. Randi, 1887.

Oltre ad altre cose di minor conto, sono qui contenuti: 1° Documenti relativi all'operosità di Galileo nell'Accademia dei Ricovrati in Padova. 2° Un sonetto di Cecco di Ronchitti in lingua pavana dedicato a Galileo. 3° Documenti relativi alla ascrizione di Galileo al Consiglio dei Dugento.

LXXXIII. Miscellanea Galileiana inedita. Studi e ricerche di ANTONIO FAVARO (Memorie del R. Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti. Vol. XXII). Venezia, tip. Antonelli, 1887.

Oltre ad altre cose di minor conto sono in questa pubblicazione contenuti: 1° Documenti inediti per stabilire il giorno preciso della nascita di Galileo. 2° Illustrazione di uno squarcio di lettera inedita di Galileo. 3° Postille galileiane inedite ad Archimede. 4° Nove lettere inedite di Federico Cesi a Galileo. 5° Testo della sentenza pronunziata contro Galileo e della relativa abiura, tratto da un Codice riccardiano. 6° Corrispondenza del Viviani relativa alla revoca della condanna contro Galileo. 7° Tre squarci inediti di lettere di Galileo ad Elia Diodati, e due del Diodati a Galileo. 8° Documenti inediti per la storia del Processo di Galileo. 9° Spigolature dall'Archivio della famiglia Galilei. 10° Documenti inediti relativi alla legittimazione di Vincenzio Galilei.

LXXXIV. La Libreria di Galileo Galilei descritta ed illustrata da ANTONIO FAVARO (Bullettino di Bibliografia e di Storia delle scienze matematiche e fisiche. Tomo XIX). Roma, tip. delle scienze matematiche e fisiche, 1887.

Notizie ed indicazioni di volumi postillati da Galileo.

LXXXV. Aus Tycho Brahe's Briefwechsel von FR. BURCKHARDT. Basel, H. Georg's Verlag, 1887.

Lettera di Ticone Brahe a Gianvincenzio Pinelli del 3 gennaio 1600, concernente le prime relazioni di lui con Galileo.

LXXXVI. Les Chroniques de JEAN TARDE chanoine théologal et vicaire général de Sarlat, contenant l'histoire réligieuse et politique de la ville et du diocèse de Sarlat, depuis les origines jusqu'aux premières années du XVIIe siècle, ec. Paris, H. Oudin et A. Picard, 1887.

Una introduzione di Gabriele Tarde contiene una lettera di Giovanni Tarde a Galileo sotto il dì 6 dicembre 1614 e la narrazione d'una visita fatta dal canonico perigordino al sommo filosofo.

LXXXVII. Documenti per la storia della Accademia dei Lincei nei Manoscritti Galileiani della Biblioteca Nazionale di Firenze. Studi e ricerche di ANTONIO FAVARO (Bullettino di Bibliografia e di Storia delle scienze matematiche e fisiche. Tomo XX). Roma, tip. delle scienze matematiche e fisiche, 1887.

Trovansi qui pubblicate trentadue lettere di Federico Cesi a Galileo, delle quali erano completamente inedite quattordici, e diciotto erano state pubblicate soltanto in parte.