La folle estate del cinema in Puglia

Una volta era “Cinecittà” la capitale del cinema italiano; oggi possiamo definire la Puglia, la regina incontrastata della settima arte. Set naturale, come pochi altri nel mondo, la Puglia è ormai da anni oggetto delle attenzioni delle più grosse produzioni cinematografiche nazionali ed internazionali. Ma mai come in questa estate, la nostra regione è stata presa d’assalto dal jet set cinematografico. E’ in Puglia infatti, il meglio del cinema brillante nazionale, con produzioni che vedremo tra televisione e cinema, tra l’autunno e il Natale prossimi.

E’ vero, il revival della Puglia come set cinematografico è un fenomeno avviato da anni e sempre in costante crescita, ma quello che sta accadendo in questi giorni nella nostra regione, è qualcosa di visto solamente a Roma e Napoli, in quelli che erano gli anni d’oro della commedia all’italiana (n.d.r. anni ’60 e ’70). Sul Gargano e nei dintorni si registra in questo momento un sovraffollamento di set.

Carlo Verdone è impegnato tra Salento e bassa costa barese con le riprese di , con Max Tortora, Rocco Papaleo e Anna Foglietta; mentre Sophia Loren è impegnata a Trani per La vita davanti a sé, film diretto dal suo secondogenito Edoardo Ponti. Intanto Checco Zalone, sta terminando le riprese della sua ultima chilometrica fatica, dal titolo Tolo Tolo, girato tra Africa e Puglia: Massafra, Monopoli e Salento interno, le zone geografiche più toccate dall’attore barese. Sono in Puglia anche Aldo, Giovanni e Giacomo, che hanno scelto la regione pugliese per tornare insieme, dopo tre anni di assenza dai set cinematografici: le riprese del loro 12esimo film in trio, dal titolo Odio l’estate, diretto da Massimo Venier, sono cominciate ad Otranto a metà giugno e dureranno per circa due mesi. Fino al 29 giugno tra Nardò, Galatina, Acaya e San Vito dei Normanni, con Claudio Bisio, Stefania Rocca, Pietro Sermonti e Dino Abbrescia si è girata la serie Cops, prodotta da Dry Media per Sky e diretta da Luca Miniero, che racconta la vicenda di una piccola cittadina di provincia nella quale da anni non si commettono reati e il cui commissariato è diventato quindi una spesa superflua.

A Taranto fino al 20 luglio tengono banco i ciak della fiction Rai Il commissario Ricciardi diretto da Alessandro D’Alatri, con Lino Guanciale nei panni del commissario inventato dallo scrittore napoletano Maurizio De Giovanni. Dall’inizio di giugno e fino al 6 luglio, tra Bari, Spinazzola e Pulsano, c’è Salvatore Esposito, il Genny Savastano di Gomorra per le riprese del film drammatico Spaccapietre di Gianluca e Massimiliano De Serio, prodotto da La Sarraz Pictures, Shellac Sud e Rai. E in agosto, sbarca in Puglia anche una grossa e storica produzione hollywoodiana: James Bond Daniel Craig con la sua nuova avventura farà tappa tra gli uliveti e le spiagge pugliesi, con Taranto sede principale della maggior parte delle scene.

Insomma per la Puglia, per anni tagliata fuori dalle grosse produzioni nazionali e riscoperta praticamente dalla commedia sexy all’italiana in poi (metà anni ’70), cinematograficamente è un periodo d’oro, che sembra non avere fine. L’estate poi, dona alla regione, grazie alla bontà del suo clima e ai colori paesaggistici unici al mondo, la luce naturale perfetta per essere invasa dalle grandi produzioni cinematografiche. Qualcuno già anni fa si era accorto della grandezza cinematografica della nostra Puglia, qualcuno che si chiamava Pier Paolo Pasolini, che diceva questo a proposito di Taranto, la quale tra tanti problemi sociali, è pur sempre la seconda città della regione:

“Taranto brilla sui due mari come un gigantesco diamante in frantumi. Viverci è come vivere all’interno di una conchiglia, di un’ostrica aperta. Qui Taranto nuova, là, gremita, Taranto vecchia, intorno i due mari e i lungomari. Per i lungomari, nell’acqua ch’è tutto uno squillo, con in fondo delle navi da guerra, inglesi, italiane, americane, sono aggrappati agli splendidi scogli, gli stabilimenti.”

Ti è piaciuto? Cosa ne pensi? Faccelo sapere nei commenti. Rispondiamo sempre.

Resta aggiornato sulle nostre pubblicazioni e sulle ultime novità dal mondo del marketing e della comunicazione. Stai tranquillo, anche noi odiamo lo spam! Da noi riceverai SOLO UNA EMAIL AL MESE, in concomitanza con l’uscita del nuovo numero del mensile.

Nome

Cognome

Email *

Consenso Consentici di usare i tuoi dati Qui, se vuoi, puoi consultare la nostra Privacy Policy Iscriviti alla newsletter

68 anni di : la grande anima d’Italia dei tempi moderni

Per quanto lo stesso Carlo Verdone respinga al mittente il paragone con Alberto Sordi per umiltà o per semplice superstizione, è innegabile che l’attore romano dagli anni ’80 ad oggi, sia stato il più fulgido e concreto costruttore di maschere sociale che rappresentano l’italiano medio di fine millennio e di parte del nuovo secolo. Il cinema di Verdone, è un cinema che guarda alla realtà che lo circonda, i suoi personaggi sono monumenti comici, velati di malinconia, sui vizi, sui tanti difetti e sulle poche virtù dell’uomo italico. Verdone piace ed è intelligente come nessun altro, perché parla di noi stessi, perché parla di un popolo che lui conosce benissimo e che ha anche studiato prima di compiere il passo decisivo sul grande schermo. Già perché Carlo è laureato in Lettere Moderne presso l’Università degli Studi di Roma “La Sapienza” con una tesi intitolata “Letteratura e cinema muto italiano”, nonché diplomato in regia al Centro Sperimentale cinematografico di Roma. Il padre Mario, decano dei Critici cinematografici italiani, gli ha in qualche modo inculcato e passato la passione per il Cinema, il talento e la caparbietà hanno poi fatto il resto.

I l s u o d e b u t t o c i n ematografico avviene nel 1980 con Un sacco bello sotto l’egida addirittura del grande Sergio Leone, che si spese affinché il film vedesse la luce, convincendo la Medusa a produrre e distribuire il film. Realizzato in cinque settimane con un budget di 500 milioni di lire, il film si guadagnò i favori di critica e pubblico, con un incasso di oltre 2 miliardi. Diviso in tre episodi che si sviluppano sullo sfondo di una Roma semideserta (siamo a ferragosto), Un sacco bello è costruito intorno a tre personaggi, comici e al contempo malinconici, tutti interpretati da Verdone, con una vis comica di incredibile efficacia. Anche la sua seconda esperienza, ovvero Bianco, rosso e Verdone (1981), segue la falsariga della prima opera, una rinnovata kermesse di personaggi del suo repertorio, in cui però emerge la figura attempata ma divertente di , la sorella di Aldo, meglio nota come la “Sora Lella”, da allora entrata nella leggenda. Ma è da Acqua e sapone (1983) in poi, che il cinema di Verdone acquista quelle sfumature agrodolci che sono il segreto del suo successo e che lo ergono come il guru della nuova commedia all’italiana (e in questo riecheggia ancora il paragone con Alberto Sordi). In Acqua e sapone Verdone scende nel campo sentimentale basandosi su un fatto reale in puro stile da commedia all’italiana.

Leggi anche:

■ Trent’anni di “”: il capolavoro generazionale di Carlo Verdone ■ Addio a Carlo Vanzina, il “cineasta” della moderna commedia all’italiana ■ La ripresa economica degli anni ’80 e la seconda commedia all’italiana

Acqua e sapone infatti, ha uno spunto che si basa su un servizio giornalistico della Rai, realizzato da Carlo Sartori, che raccontava il fenomeno delle cosiddette “babymodelle”, per lamentare lo sfruttamento delle madri sulle loro figlie prodigio; madri non molto sensibili alla necessità di uno sviluppo psicologico equilibrato delle figlie adolescenti, che le privavano di una serena infanzia per portarle a tappe forzate al successo. Per il ruolo della giovanissima partner femminile, Verdone sceglie Natasha Hovey, nel 1983 soltanto 16enne, per cui adattissima alla parte. Questa volta il nostro abbandona bulli di borgata, padri beceri e burini emigranti ,e sonda per la prima volta(e non sara’ l’unica) le ragioni del cuore. Ne vien fuori un ritratto semplice ma mai banale,una storia dal contenuto esile che tocca momenti di pura ilarita’. E’ la svolta della carriera cinematografica di Verdone, che pur non abbandonando mai del tutto gli istinti iperbolici e virtuosisti degli esordi (vedasi – 1995 e Grande, grosso e Verdone - 2008), pone le basi del suo modo di raccontare il cinema: un registro meno comico, con un certo retrogusto amaro nella stesura delle storie e più attento ai temi della modernità, del cinismo e degli eccessi della società e del disagio dell’individuo di fronte ad essa. E la goffaggine e inadeguatezza della maschera comica ha fatto posto alle nevrosi e all’ipocondria, reazioni quasi somatiche alle pressioni di un mondo frenetico. Verdone mantiene comunque un rapporto, per così dire, privilegiato con i canoni della commedia all’italiana presenti nella tradizione, dai grandi della comicità fino ad arrivare ai dettami di un cinema più impegnato, tenendo fede ad uno stile “medioalto” che ne fa un regista e un interprete tra più amati dal pubblico.

In mezzo a tanti film di successo, tra cui due insieme al grande Maestro Alberto Sordi (In viaggio con papà -1982 e -1986), si arriva al 1988 del capolavoro della carriera autoriale e attoriale di Carlo Verdone. Parliamo del celebratissimo Compagni di scuola, anche a detta dello stesso attore romano, il film della vita. Ed effettivamente Compagni di scuola ha tutto per essere considerato non solo un capolavoro, ma tra i migliori film dell’intera storia del cinema italiano. E infatti è uno strepitoso spaccato veritiero e agghiacciante dell’Italia degli anni ’80, che si affaccia ai ’90; ma anche malinconico ritratto, che fa parte dell’esperienza comune di tutti, sulle rimpatriate di ex liceali. Verdone immagina, quello che in fondo sono le rimpatriate: malinconiche, tristi e amare, in cui si riaccendono antiche antipatie, si suscitano commiserazioni, si riacutizzano invidie sopite e anche vecchi amori, si esumano scherzi vetusti, si contano i morti, si constata quanto la vita ci trasforma e non in meglio. Ma poi ognuno torna alla propria vita, come una parentesi fuori tempo massimo, come il ricordo di una magia cercata, forse ritrovata per qualche attimo, ma che non torna più. Compagni di scuola, parla di noi, parla di tutta una generazione, parla di emozioni che sono nei nostri cuori, sopiti magari dagli impegni e dalle frenesie quotidiane; parla di ricordi malinconici, parla di nostalgie, di quello che desideravamo di essere e forse non lo siamo; parla delle nostre ansie, delle nostre paure. Si ride, ma si ride amaro, in pieno stile da commedia all’italiana, cui sono chiare le radici, con le sue virtù (la capacità di osservazione, la cattiveria) e i suoi vizi (il cinismo spicciolo, l’adesione alle volgarità di alcuni personaggi).

PER APPROFONDIRE:

■ Scopri la nostra rubrica dedicata al Cinema

Maturato come regista, Verdone è in grado di tenere sotto tiro per due ore una ventina di personaggi senza dispersione né cadute di ritmo, né momenti opachi: la mano è sempre leggera, farsa e dramma sono tenuti ugualmente a distanza. E al di là degli interpreti c’è tanto del suo autore nell’opera, c’è tanto della sua capacità di descrivere un’epoca, perché vuoi o no, Compagni di scuola è la riflessione su un’epoca, gli anni ’80, forse perché siamo alla fine del decennio (fine 1988) e quindi è anche giusto fare un bilancio; forse perché gli anni ’80, pur tra tante contraddizioni, sono il più periodo più nostalgico del nostro Paese. Tutto è giusto, ma è anche certo che Verdone si dimostra ancora una volta ottimo osservatore di un vissuto reale sul viale del decadentismo, la sua “Lente” d’osservazione entra a 365 gradi sull’involgarimento e l’A-culturazione di un periodo amaro a livello sociale.

Altro film considerato dallo stesso Verdone, sul suo podio personale, è Maledetto il giorno che t’ho incontrato (1992), una tragicomica storia d’amore di una coppia nevrotica e insoddisfatta, in cui Verdone si serve della straordinaria bravura di , bella, brava, graziosa e raffinata. Maledetto il giorno che t’ho incontrato è la commedia della maturità di Carlo Verdone regista e attore, un cammino intrapreso da Acqua e sapone in poi, più spazio al racconto e all’approfondimento dei caratteri e con situazioni comiche incastonate bene nel contesto. Questo è film sull’impossibilità dell’amicizia tra uomo e donna, infatti i due si innamoreranno. Ispirato a Harry ti presento Sally, di Rob Reiner, il film è però tra i più riusciti della carriera di Verdone. I personaggi non sono superficiali o banali, ma anzi, sono definiti bene e presi di peso dalla vita reale. Molte scene sono da antologia, come la scenata di gelosia a tre, con i due uomini che passano alle mani; oppure i momenti di fretta, gli eventi concitati che si sovrappongono, l’incomprensione dovuta alla lingua, e la donna che mette in scacco l’uomo con i suoi capricci o i suoi colpi di testa. Il regista- attore è qui misurato e controllato sia nell’uno che nell’altro dei suoi ruoli. Non si compiace di sé e non gira a vuoto. Margherita Buy è perfetta per la parte, specie quando fa la nevrotica e val la pena dirlo, qui è al massimo della sua bellezza. Insomma, un piccolo grande film senza eccessi e non pretenzioso, che regge bene per le sue quasi due ore di lunghezza.

Ma il cinema di Verdone, oltre che dominato da una propria indipendenza autoriale (altro paragone con Sordi, vi pare?), è anche un cinema corale, fatto di brevi sodalizi con alcuni ugualmente grandi colleghi. Possiamo nominare ad esempio Cuori nella tormenta (1984), delizioso remake di Dramma della gelosia: tutti i particolari in cronaca (1970), recitato in coppia con Lello Arena; oppure (1984), in coppia con Enrico Montesano; l’esilarante e surreale 7 chili in 7 giorni (1987), al fianco di Renato Pozzetto; il film corale Grand Hotel Excelsior (1982), in cui Verdone divide la scena e il successo con Diego Abatantuono, Enrico Montesano e Adriano Celentano; e per finire con il più moderno L’abbiamo fatta grossa (2016), in coppia con Antonio Albanese. Tante donne, tante attrici anche al fianco di Carlo Verdone nel corso dei 40 film della sua strepitosa carriera: dalle già citate Natasha Hovey (Acqua e sapone, Compagni di scuola) e Margherita Buy (Maledetto il giorno che t’ho incontrato; a (Viaggi di nozze, Sono pazzo di Iris Blond); ad Ornella Muti (, )ad Asia Argento (Perdiamoci di vista); per finire con Laura Morante (L’amore è eterno finchè dura); o Paola Cortellesi ().

Insomma…68 anni, 38 di carriera cinematografica, 40 film da attore, 26 da regista, 9 Nastri d’argento, 9 David di Donatello, 5 Globi d’oro, mai nessuno in Italia come Carlo Verdone, preso letteralmente d’assalto sulla sua pagina facebook da migliaia di auguri provenienti da tutta Italia. Segno che Verdone è forse l’attore italiano in vita più amato e che la sua aura è ormai pari a quella di un Totò o di un Sordi o di un Troisi, una leggenda vivente a cui dobbiamo dire grazie per la profondità delle descrizioni sociali dei suoi film, sempre azzeccate e ricche di sfumature. Qualcuno solleva un’unica pecca: mai un riconoscimento a livello internazionale? La risposta è semplice, cosi come lo fu per Sordi. Verdone è troppo italiano, ha rappresentato troppo l’essenza più profonda dell’essere italiano per poter ricevere un premio internazionale. E questo non è una pecca, ma un pregio, perchè probabilmente solo 4 attori sono stati talmente italiani, da comprendere cosa vuol dire il Cinema per il nostro Paese e cosa vuol dire “essere italiani” nel suo significato più intimo, più profondo: Totò, Alberto Sordi, Massimo Troisi e Carlo Verdone, mai nessuno come loro.

Trent’anni di “Compagni di scuola”: il capolavoro generazionale di Carlo Verdone

Strepitoso spaccato veritiero e agghiacciante dell’Italia degli anni ’80, che si affaccia ai ’90; ma anche malinconico ritratto, che fa parte dell’esperienza comune di tutti, sulle rimpatriate di ex liceali. Verdone immagina, quello che in fondo sono le rimpatriate: malinconiche, tristi e amare, in cui si riaccendono antiche antipatie, si suscitano commiserazioni, si riacutizzano invidie sopite e anche vecchi amori, si esumano scherzi vetusti, si contano i morti, si constata quanto la vita ci trasforma e non in meglio. Ma poi ognuno torna alla propria vita, come una parentesi fuori tempo massimo, come il ricordo di una magia cercata, forse ritrovata per qualche attimo, ma che non torna più. Ebbene questo è “Compagni di scuola”, il film al quale lo stesso Carlo Verdone è più affezionato; e in definitiva è il suo capolavoro.

L’idea nacque da uno spunto autobiografico dello stesso Carlo Verdone e del suo compagno di scuola, e futuro cognato, Christian De Sica, i quali si trovarono invitati a una rimpatriata dai tristi esiti. La fenomenologia della rimpatriata scolastica, chiaro spunto verdoniano, è immutabile da sempre e consente a chiunque di identificarvisi. “Compagni di scuola”, parla di noi, parla di tutta una generazione, parla di emozioni che sono nei nostri cuori, sopiti magari dagli impegni e dalle frenesie quotidiane; parla di ricordi malinconici, parla di nostalgie, di quello che desideravamo di essere e forse non lo siamo; parla delle nostre ansie, delle nostre paure. Si ride, ma si ride amaro, in pieno stile da commedia all’italiana, cui sono chiare le radici, con le sue virtù (la capacità di osservazione, la cattiveria) e i suoi vizi (il cinismo spicciolo, l’adesione alle volgarità di alcuni personaggi). Maturato come regista, Verdone è in grado di tenere sotto tiro per due ore una ventina di personaggi senza dispersione né cadute di ritmo, né momenti opachi: la mano è sempre leggera, farsa e dramma sono tenuti ugualmente a distanza e le residue tentazioni pecorecce sono poche.

Per approfondire:

■ 68 anni di Carlo Verdone: la grande anima d’Italia dei tempi moderni

Ma quando la compagnia degli ex alunni è finalmente al completo, nella sontuosa villa di mantenuta di lusso, una piccola folla di personaggi comincia a prendere vita. C’è Massimo Ghini sinistro onorevole, c’è Athina Cenci psicoanalista nevrotica, c’è Christian De Sica showman fallito, c’è Fabio Traversa zimbello della compagnia, c’è Angelo Bernabucci romanesco greve, c’è Maurizio Ferrini inguaribile goliardo, c’è Eleonora Giorgi separata inquieta, c’è Isa Gallinelli amica petulante, c’è Caterina Vincenti la goliarda del gruppo con un peso sul groppone. Su tutti domina, naturalmente, Verdone detto il Patata, che sarà la vittima principale della crudeltà del gruppo: nel corso della festa sarà esposto al ludibrio il suo amore segreto di professorino mal maritato per l’allieva Natasha Hovey. E dopo l’inevitabile bagno notturno e una ritirata felliniana all’alba, ciascuno riprenderà la sua strada con qualche speranza o qualche amarezza in più.

I l c a s t d e l f i l m .

“Compagni di scuola” non assomiglia affatto al film americano “Il grande freddo” al quale Verdone confessa di essersi ispirato: non ha, infatti, la minima ambizione di offrirsi come il bilancio di una generazione, anche se involontariamente lo è, non strizza l’ occhio ai sociologi né pretende di lanciare messaggi. E’ una serie di divagazioni sorridenti su temi di esperienza comune, intessuti con modestia pari all’ abilità: gli interpreti sono scelti benissimo anche nelle apparizioni fugaci e si destreggiano con ammirevole naturalezza. E al di là degli interpreti c’è tanto del suo autore nell’opera, c’è tanto della sua capacità di descrivere un’epoca, perché vuoi o no, “Compagni di scuola” è la riflessione su un’epoca, gli anni ’80, forse perché siamo alla fine del decennio (fine 1988) e quindi è anche giusto fare un bilancio; forse perché gli anni ’80, pur tra tante contraddizioni, sono il più periodo più nostalgico del nostro Paese. Tutto è giusto, ma è anche certo che Verdone si dimostra ancora una volta ottimo osservatore di un vissuto reale sul viale del decadentismo, la sua “Lente” d’osservazione entra a 365 gradi sull’involgarimento e l’A-culturazione di un periodo amaro a livello sociale. C’è di tutto in “Compagni di scuola”, riso, riflessioni ed empatie, ma anche tutte quelle tipologie di personaggi che noi tutti abbiamo avuto al nostro fianco a scuola: il tipo odioso e viscido (Massimo Ghini), il fanfarone (Christian De Sica), il cafone arricchito (Angelo Bernabucci), il candido nevrotico e pieno di ansie (Carlo Verdone), non manca proprio nessuno, anche “lo sfigato” di turno ovvero Fabris (Fabio Traversa): un bruttino vittima del cinismo dei “compagni”. Insomma, tutti gli attori sono intagliati sul proprio personaggio alla perfezione, anche chi, come il povero Fabris, scompare dopo 25 minuti di film, perché vessato all’inverosimile dal gruppo. Su tutti però svettano Athina Cenci, nei panni della saggia psicologa del gruppo, quella sempre con la testa sulle spalle; Christian De Sica, splendido cialtrone esattamente sulla stessa lunghezza d’onda di Walter Chiari in “La rimpatriata” (1963) di Damiano Damiani.

PER APPROFONDIRE:

■ Scopri la nostra rubrica dedicata al Cinema

A proposito, che sia il vero modello al quale si è ispirato Verdone? E per finire su tutti, svetta ovviamente il Verdone attore, che alla fine pur cornuto e mazziato, è forse l’unico del gruppo ad essere rimasto se stesso; e nel primo piano finale quando riprende a fumare, si dà e ci dà un bagliore di speranza e forse capisce che l’ esistenza non è quell’oscura selva di veleni da lui fino a quel momento tanto temuta, ma piuttosto un’opportunità da sfruttare, sia pure nella giungla della società d’oggi avara di emozioni e di sentimenti.

Eppure per questo capolavoro generazionale ed immortale, Verdone dovette lottare per fargli vedere la luce, lo stesso attore romano in un’intervista raccontò le fasi iniziali del progetto. Si era pressocchè all’inizio dell’estate del 1988, quando la sceneggiatura venne presentata a Mario Cecchi Gori che la apostrofò cosi: “Ma che cazzo scrivi!!!!! 17 personaggi so troppi!!!! un si fa nulla a Natale!!!! prenderete schiaffi da tutti!”. Nonostante la sfiducia del produttore s’inizia a girare, tra non poche difficoltà che mandano in crisi Verdone che per darsi forza invocò il padrino artistico Sergio Leone. Una volta finito il film, alla prima proiezione privata Cecchi Gori abbracciò Verdone rimangiandosi la sua diffidenza. Il film funzionava alla grande,nonostante il cinismo, la malinconia imperante, e il riso amaro, lungi dal Verdone virtuoso e da commedia, e fu uno strepitoso successo commerciale e di critica, che lo issò tra i film italiani più apprezzati e amati di tutti i tempi. Il 16 ottobre 1988, dopo due mesi di lavoro, terminarono le riprese. Ora sono passati esattamente trent’anni e il ricordo del film è limpido e indelebile, lo stesso Verdone qualche giorno fa ha voluto ricordare sulla sua pagina ufficiale di facebook il trentesimo anniversario della sua splendida opera:

“Il 16 ottobre del 1988 terminavo le riprese di Compagni di Scuola. Trenta anni fa! Prima della fine 2018 farò qualcosa per ricordare questo bel film al quale sarò sempre legato per la magnifica atmosfera, l’ispirazione, il ricordo di qualcuno che ci ha lasciato e la bravura di tutto il cast. I produttori pensavano che avrei fatto un film noioso e logorroico. E invece …”

(Carlo Verdone) L’abbiamo fatta grossa - Il Film

Domenico Palattella (122)

Nato da un’idea del solito, trascinante Carlo Verdone, “L’abbiamo fatta grossa” è un film nuovo, di rottura, un’opera che si prende il rischio di voler rappresentare lo specchio dei tempi attuali e si inoltra fra le strade della Roma umbertina, storicamente quella meno frequentata dal cinema. Un cinema quello di Verdone, che nasce dall’osservazione comica della realtà e dalla costruzione puntuale, ironica e affettuosa di “caratteri”. Laddove però Verdone osa di più, è nella scelta di avere come coprotagonista del suo venticinquesimo film il grande Antonio Albanese, della commedia all’italiana moderna, l’attore più sensibile e più talentuoso. Reduce dalla meraviglia de “L’intrepido”(2013), lodato al festival di Venezia, nel quale sembra davvero uno “Charlot dei tempi moderni”, con quel suo viso triste e quel sorriso venato di malinconia. Carlo Verdone e Antonio Albanese, attori brillanti di “rango” superiore, per la prima volta insieme, pescano abbondantemente nel proprio repertorio personale fatto per entrambi di maschere tragicomiche che tanto ci hanno dato in passato, e costruiscono una commedia venata da uno stile malinconico che giova al film.

Il lavoro registico imponente di Verdone, che lima pazientemente situazioni e battute alla ricerca dei ritmi, dei tempi, degli incastri giusti con il profilo e lo stile del coprotagonista, riesce a legare perfettamente la sua comicità “realista”, con quella funambolica, fisica e surreale di Albanese. E se entrambi, singolarmente, sono in grado di cogliere e riprodurre il ridicolo di una situazione o di un personaggio, il binomio diventa addirittura travolgente quando il ritmo del film tende a salire, per intenderci quando c’è da scappare o da restituire refurtive. La comune goffaggine, insieme alla furbizia e alla perizia nel riprodurre gli italici dialetti, produce infatti effetti portentosi. I due protagonisti, Carlo stesso e Antonio Albanese (new entry nella variopinta galleria di partner che sempre Verdone ha scelto con curiosità e disponibilità, e questa è una combinazione più audace di altre), si pongono come due ingrigiti ragazzi spaventati ed eccitati dall’averla, appunto, fatta grossa.

Come in un’avventura per adolescenti un po’ antiquata. Astratta come un gioco senz’altro scopo che il gioco stesso, priva di qualsiasi aggancio a quanto accade realmente intorno. Carlo è un detective privato tanto malridotto da vivere con la vecchia zia un po’ picchiatella. Antonio (in realtà il personaggio si chiama Yuri Pelagatti, e l’altro Arturo Merlino) invece è un attore forse dotato ma tanto abbattuto dall’abbandono della moglie da non ricordare più una battuta e di conseguenza ridotto al lastrico. L’incontro avviene perché quest’ultimo pretende di far pedinare l’ex moglie per dimostrarne, inutilmente, l’infedeltà. La diversità di “gioco” e di provenienza, cesellata dal lungo lavoro sulla coppia effettuato da entrambi, tende a non sentirsi. Giustamente Verdone non vuole “domare” Albanese, che è un condensato di pura energia, ma lasciandolo immerso nella commedia, fa uscire quel suo lato poetico così mirabilmente “sfruttato” da Francesca Archibugi in “Questione di Cuore” o da Silvio Soldini in “Giorni e nuvole”.

S’incontrano perché Yuri assume Arturo per avere prove dell’infedeltà della moglie e si trovano fra le mani una valigetta con un milione di euro, inanellando una serie di avventure a dir poco rocambolesche fra maldestri travestimenti e scambi di persona, fughe e inseguimenti. Ci sono momenti esilaranti (tutta la sequenza nel solarium) e si ride parecchio, anche se il film, per la verità, manca un po’ di ritmo. Riuscita appare invece, la vena malinconica che avvolge questa commedia vecchio stampo, tutta giocata sugli equivoci e sulla goffaggine dei due protagonisti. Si punta molto sulla coppia degli interpreti, che si compensano bene. Verdone e Albanese sono accomunati da una malinconia sottile – e umanissima – che è uno degli indubbi tratti distintivi del film, e i loro personaggi hanno la faccia onesta e sincera, oltre che l’ingenuità, di due perfetti antieroi.

Negli ultimi venti minuti il film però, decolla: diventa una satira dolente e assai politica dell’Italia di oggi, in cui le brave persone si muovono con difficoltà sempre crescenti. Il film si conclude con un gesto liberatorio: sberleffo sonoro nei confronti del «sistema» cui i due protagonisti, Yuri e Arturo, non esitano a ricorrere. Una pernacchia nei confronti del politico-ladro che li ha fatti finire dietro le sbarre ma anche di tutto ciò che esso rappresenta. Lode particolare alla giunonica Lena, interpretata dalla cantante lirica armena Anna Kasyan, vera scoperta del film, che interpreta la fidanzata di Verdone. Kasyan ha tempi impeccabili, un’esuberanza e una comicità fisica istintive che travolgono immancabilmente Arturo-Carlo, ben felice di lasciarsi investire, o di opporre al fiume in piena della donna il suo miglior cialtronismo da antico e moderno interprete dell’italiano medio, vero erede dell’Albertone nazionale, con il quale Verdone è cresciuto artisticamente. L’ alchimia tra questi due assi della nostra commedia moderna, è dunque scattata, e anche il pubblico ha dimostrato di gradire: 3 milioni e mezzo di euro incassati soltanto nel primo week-end. Un film da vedere, che si erge dalla mediocrità dilagante del cinema attuale.