1938 – Lo Sport Italiano Contro Gli Ebrei

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1938 – Lo Sport Italiano Contro Gli Ebrei 1938 – Lo sport italiano contro gli ebrei Esiste una sola razza, quella umana. Albert Einstein Il 18 settembre 1938 fu una domenica di pallone per gli italiani. Quel giorno prendeva infatti il via il campionato di Serie A. E le sorprese non mancarono: la Roma batté in casa il Milan per 1-0 e con lo stesso punteggio la Juventus di Foni e Rava, freschi campioni del mondo, venne sconfitta dalla piccola Lucchese. Però il fatto più rilevante, quello destinato a entrare nei libri di storia, andò in scena lontano dai campi di gioco ed ebbe come scenario Trieste, dove la città era stata ricoperta da alcuni giorni con luci e insegne inneggianti al duce. Lui, Benito Mussolini, gran capo del fascismo, sbarcò sul molo giuliano di mattina, vestito con la divisa militare che indossava dalla conquista dell’Etiopia di due anni prima. Sfilò lungo le vie del centro, cibandosi del solito bagno di folla, e poi scelse piazza dell’Unità per scandire il discorso sulla razza, portato nelle case gli italiani dall’Eiar, l’Ente radiofonico nazionale. Fu un colpo duro per tutti. Con quelle parole minacciose, sfrontate, l’Italia entrava ufficialmente nella stagione delle leggi razziali. Fu un risveglio brusco e insopportabile per migliaia di ebrei presenti nel Paese, alcuni attivi patrioti sin dai tempi del Risorgimento, altri fascisti della prima ora. Per molti si spense lì ogni passione politica, si chiuse la dimensione civile e pubblica della loro vita. Di colpo, sparì in tutti la sicurezza data dalle abitudini quotidiane, dai ritmi scanditi dal fluire normale del tempo, e tra queste mutò all’istante la vita degli sportivi ebrei, visto che le leggi investirono società di Serie A e circoli sportivi, atleti di ogni disciplina, i campi da tennis come i ring del pugilato. Una bufera esistenziale poco nota, pochissimo raccontata, ma che accadeva esattamente 80 anni fa nello sport del nostro Paese. Va detto che sino ad allora, l’Italia non si era mai professata razzista, distante dall’ossessione antisemita che Adolf Hitler portava avanti, in Germania, dalla salita al potere e dalle leggi di Norimberga del 1935. Qualche anno prima, in una intervista rilasciata al giornalista americano Emil Ludwig, Mussolini si era tenuto neutrale rispetto alla materia. Ma qualcosa da un paio di anni era cambiato e stava continuando a cambiare in quei mesi del 1938. In febbraio era giunta l’informazione diplomatica n° 14, il primo, vero atto ufficiale sul tema razziale in Italia. A quel provvedimento sarebbero seguiti i virulenti attacchi dell’estate e l’impianto normativo dell’autunno. A cambiare le convinzioni e i sentimenti di Mussolini erano stati due fattori. Il primo risiedeva nell’alleanza con il nazismo tedesco, rafforzato dall’unione dei Paesi durante la guerra civile di Spagna tra il 1936 e il 1939, e da una serie di incontri fra i due dittatori, ultimo dei quali nel maggio del 1938. Ai quali si aggiungevano le legislazioni antiebraiche varare da Paesi come Romani, Slovacchia, Ungheria e Polonia. Il secondo fattore, ancora più decisivo, risaliva alla precedente campagna d’Africa, conclusa con l’ingresso delle nostre truppe ad Addis Abeba nel maggio 1936. In quella vicenda, gli italiani erano entrati in contatto per la prima volta con altri gruppi, con etnie diverse. E quell’incontro, lungi dall’aprire la Nazione al nuovo mondo, aveva acceso in Mussolini e nei suoi collaboratori una crescente fobia per la contaminazione. Nello scatolone di sabbia che il fascismo chiamava impero, fu scorta l’insidia del “meticciato”, cioè dell’incrocio tra il sangue italiano – giudicato superiore – e la “negritudine”. Tanto che la legge n. 880 del 19 aprile 1937 vietò il “madamato”, ogni unione tra i nostri soldati e donne africane. Stando all’ambito sportivo, la proibizione fu estesa ai tornei di calcio: nessun contatto era più ammesso tra le squadre dei primi coloni e le squadre locali. Il 14 luglio 1938, due mesi prima che Mussolini tenesse il discorso di Trieste, era stato pubblicato il manifesto della razza, firmato da antropologi, medici e docenti universitari. Si scoprirà più tardi quanto l’apporto dello stesso Mussolini e del ministro della Cultura popolare, Dino Alfieri, fosse stato fondamentale nella stesura dei 10 punti. Eccone alcuni: “Gli ebrei non appartengono alla razza italiana/ Esistono grandi razze e piccole razze/ È tempo che gli italiani si proclamino francamente razzisti/ Esiste ormai una pura razza italiana”. Sfidando il ridicolo, un ultimo punto sosteneva che “la popolazione dell’Italia attuale è di origine ariana e la sua civiltà è ariana”. Ma visto l’aspetto poco biondo e per nulla muscolare dei nostri ragazzi, venne varata la categoria dei sedicenti ariani-mediterranei. Cioè noi. Lo sport non rimase fuori. Tra i dieci firmatari, di cui l’unico noto a un pubblico più ampio era Nicola Pende, comparve Lino Businco, docente di Allergologia alla Sapienza di Roma, soprattutto collaboratore dello Sport Fascista, giornale che da qualche anno occupava le edicole. Per lui, i dieci punti del manifesto andavano applicati allo sport. Perché la razza – questo era il suo pensiero - andava conservata e rafforzata attraverso la pratica. La differenza scientifica con altre etnie, insisteva Businco nel manifesto del 9 settembre 1938, era all’origine dell’affermazione italiana in alcune discipline e il fine ultimo doveva essere preservare integrità e prestigio della razza. Era come se l’Uomo Nuovo auspicato da Mussolini, lontano nei costumi e nei modi dalla pigrizia borghese, coincidesse in modo perfetto con i corpi dei migliori atleti nazionali, spesso ritratti in alcuni manifesti dell’epoca e nelle prime immagini dell’Istituto Luce. Secondo i difensori della purezza, che stando a Julius Evola e ad altri ideologi doveva invece essere spirituale prima ancora che biologica, tutto passava per il rafforzamento fisico e morale della stirpe. Il campione non era più solo tale, ma diventava “campione di razza”. Lo sport fu considerato lo strumento ideale per rigenerare una popolazione uscita malconcia dalla miseria dei lunghi secoli, dalle privazioni e dalle malattie, assecondando il sogno di nuova potenza. E i numeri suonavano impressionanti: dalla salita al potere del fascismo, nel 1922, l’Atletica leggera aveva aumentato di dieci volte gli iscritti, il calcio era passato da poco più di 2mila tesserati a oltre 50mila, il ciclismo era aumentato di quattro volte e il tennis, dai 500 iscritti del primo dopoguerra, era salito alla vigilia della seconda guerra mondiale sino a 7.500. Il duce, in proprio, non era un grande sportivo, si destreggiava con la racchetta in qualche scambio nel giardino di casa sua, a Villa Torlonia, con il campione del mondo di calcio Eraldo Monzeglio, già terzino di Bologna e Roma. E si esibiva talvolta a cavallo, più che altro per coltivare il mito dell’uomo forte voluto dalla provvidenza. Trebbiava, arava, nuotava nel mare per piacere alle donne e pure agli uomini. In compenso, aveva dato grande importanza allo sport come macchina per il consenso, frutto del fiuto di giornalista che lo portava a interpretare i gusti popolari prima di altri. L’ingresso delle masse nella storia attraverso lo sport era un’occasione irripetibile e l’ex maestro elementare lo colse al volo. Il maggiore tempo libero delle classi operaie, grazie alle conquiste sull’orario di lavoro, aveva favorito gli hobby, il dopolavoro, lo sport. Mussolini fece defluire tutto questo nelle associazioni giovanili fasciste e dall’altro lato, per giornali e tv, si fece fotografare sempre di più negli stadi. Aveva adottato la Nazionale azzurra di Vittorio Pozzo, la squadra in grado di vincere due volte di seguito il Mondiale tra il ‘34 e il ‘38, grazie ai gol di Giuseppe Meazza, alle geometrie di Giovanni Ferrari e a un gruppo di oriundi – quali Orsi, Monti, Guaita e Andreolo - ritenuti più italiani degli ebrei per via del sangue degli antenati. La Nazionale, vincitrice anche delle Olimpiadi del 1936 con un gruppo di studenti guidati in quel caso dall’occhialuto Frossi, fu ricevuta più volte a Palazzo Venezia, col capo del fascismo affiancato nella circostanza da Achille Starace e dal fidatissimo collaboratore di questi, Giorgio Vaccaro, presidente della Federcalcio. Del resto, a rimarcare l’importanza dello sport per il regime, il ruolo di segretario del Partito nazionale fascista coincideva per statuto, dalla metà degli Anni 20, con quello di capo del Coni. Nel giro di pochi anni sorsero moltissimi nuovi stadi, oltre 2.000 secondi i calcoli del Partito nazionale fascista. Da Bologna a Firenze, da Livorno a Torino, cambiò la faccia degli impianti, molti di allora rimasti purtroppo gli stessi di oggi. Ma Mussolini estese la maniacale propaganda ad altre discipline, ad altri campioni dello sport. Il più celebrato fu Primo Carnera, alto oltre due metri e dunque immagine perfetta, quasi plastica, della forza muscolare e della giovinezza del fascismo. Un accostamento mantenuto intatto fino a quando il gigante di Sequals, eroe nazionale, non cadde al tappeto contro l’ebreo Max Baer, il quale aveva combattuto con la stella di David cucita sui calzoncini. Una notizia tanto sconveniente da costringere il Minculpop, l’ala del ministero che si occupava della stampa, ad affrettarsi a cancellarla dai giornali con un’apposita velina. La propaganda riguardò meno il ciclismo, sport povero, eppure amatissimo dagli italiani, grazie alle imprese di Gino Bartali, l’uomo che durante la guerra avrebbe salvato molti ebrei mascherandosi da staffetta lungo l’Appennino, e che proprio in quell’estate del 1938 trionfava al Tour de France. Nella scia della velocità, cara al futurismo di Marinetti, molto spazio fu dato a Tazio Nuvolari, vincitore del GP di Italia e di Inghilterra, e alle due ruote di Omobono Tenni, trionfatore a Monza su MotoGuzzi. Con loro, la velocista Claudia Testoni, trionfatrice europea degli 80 metri ostacoli, due anni dopo il successo di Ondina Valla nella stessa specialità alle Olimpiadi di Berlino, prima azzurra medaglia d’oro nella storia.
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