Studi Storici Siciliani Semestrale Di Ricerche Storiche Sulla Sicilia

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Studi Storici Siciliani Semestrale Di Ricerche Storiche Sulla Sicilia STUDI STORICI SICILIANI SEMESTRALE DI RICERCHE STORICHE SULLA SICILIA Anno V n. 6 Settembre 2018 Confraternita - Disegno di Giuseppe A. Scarpa COMITATO SCIENTIFICO: Sonia Zaccaria (Presidente), Gero Difrancesco, Filippo Falcone, Mario Siragusa DIRETTORE RESPONSABILE: Filippo Falcone DIRETTORE EDITORIALE: Mario Siragusa SEDE: via Foderà n. 38 - Agrigento CONTATTI: 339 2032093 - www.comitatoenginomadonita.altervista.org/CREM/ STUDI STORICI SICILIANI - Semestrale di ricerche storiche sulla Sicilia EDITORIALE SUL DELITTO D’ONORE di Sonia Zaccaria lla fine del 1960, Giovanni Arpino consegnò all’editore il suo romanzo “Un de- Alitto d’onore”, prestandosi a raccontare una vicenda, sicuramente inventata ma nello stesso tempo molto realistica, ambientata in un paese immaginario della provincia di Avellino, nel periodo contestuale all’avvento del fascismo ed al suo consolidamento politico. Parlava dell’assassinio da parte di un giovane medico (diremmo oggi di uno psicopatico) della moglie non trovata illibata la prima notte di matrimonio. Ella aveva confessato, dopo le sue pressioni, un precedente rapporto con un giovane ufficiale, che in un primo momento l’aveva posseduta contro la sua volontà e successivamente l’aveva illusa facendole intravedere un matrimonio riparatore. Il medico, dopo avere assassinato anche la sorella dell’ufficiale ritenuta responsabile del raggiramento della donna che era diventata sua moglie, si era consegnato volontariamente alla giustizia per pagare lo scotto del suo reato. L’anziana ma energica madre, donna benestante e volitiva sebbene vedova, riesce ad assicurargli la difesa di un noto e riverito penalista di Napoli che, incentrando la sua azione difensiva sulla causa d’onore ne ottiene l’assoluzione. Il penalista si avvale, nel romanzo, anche di un movimento d’opinione favorevole al medico omicida, creato appositamente dai fascisti locali cui la vedova benestante aveva sostenuto economica- mente il loro organo di stampa. La pubblicazione del romanzo di Arpino partiva dalla esigenza, negli anni del dopo guerra e della ricostruzione, di mettere sotto accusa l’articolo 587 del codice penale ap- provato nel 1930 (il famigerato codice Rocco), che garantiva ancora la quasi impunibilità dell’omicidio (e delle lesioni personali) motivato dalla causa d’onore, in un momento in cui la società italiana si stava trasformando e cominciava a sentire l’anacronismo di una legislazione retrograda, imperniata ancora su un diritto di famiglia a forte predominio di genere.“Chiunque cagiona la morte del coniuge, della figlia o della sorella, nell’atto in cui ne scopre la illegittima relazione carnale e nello stato d’ira determinato dall’of- fesa recata all’onor suo o della famiglia, è punito con la reclusione da tre a sette anni. Alla stessa pena soggiace chi, nelle dette circostanze, cagiona la morte della persona, che sia in illegittima relazione carnale col coniuge, con la figlia o con la sorella. Se il colpevole cagiona nelle stesse circostanze alle dette persone, una lesione personale, le pene stabilite negli articoli 582 e 583 sono ridotte ad un terzo; se dalla lesione personale deriva la morte, la pena è della reclusione da due a cinque anni”. Si trattava, in parole povere, della licenza di uccidere le donne che trasgredivano le regole imposte dalla so- cietà maschilista espressione di una famiglia egemonizzata dalla figura del padre-marito- padrone, dal reato di adulterio solo per le donne, dall’assenza del divorzio, dal cosiddetto matrimonio riparatore dopo uno stupro, dal delitto di procurato aborto. La narrazione di Arpino manifestava però un’artata contraddizione. Rimandava ad un periodo (intorno al 1922) in cui quella norma del codice Rocco, con la sua specificità giuridica “l’offesa recata all’onor suo o della famiglia” non era ancora vigente, ma era preceduta da un’altra in vigore, forse ancora più permissiva, che non contemplava espres- samente l’onore violato e si limitava ai fatti accaduti in flagranza del reato. Si trattava dell’articolo 377 del codice penale Zanardelli approvato nel 1889, che stabiliva le atte- nuanti per i delitti contro la persona (quali l’omicidio e le lesioni personali) con riduzioni 3 STUDI STORICI SICILIANI - Semestrale di ricerche storiche sulla Sicilia della pena anche a meno di un sesto “se il fatto sia commesso dal coniuge, ovvero da un ascendente, o dal fratello o dalla sorella, sopra la persona del coniuge, della discendente, della sorella o del correo o di entrambi, nell’atto in cui li sorprenda in flagrante adulterio o illegittimo concubito, la pena è ridotta a meno di un sesto, sostituita alla reclusione la detenzione, e all’ergastolo è sostituita la detenzione da uno a cinque anni”. Lo scrittore aveva mischiato le carte, trasponendo i tempi (ovvero l’anno in cui poneva la vicenda narrata e quello in cui essa veniva narrata) per mettere in luce il falso concetto dell’onore espresso dal codice Rocco, vigente fino al 1981, reso preminente dalla ideo- logizzazione del sistema giuridico fascista, in quanto pilastro dello stato etico totalitario. Se Arpino avesse sfogliato il Giornale di Sicilia del 11 giugno 1923 avrebbe potuto riscontrare un fatto giudiziario ancora più attinente alla sua narrazione e più corroborante della sua idea in merito. Si stava celebrando infatti in quei giorni presso la Corte d’Assise di Caltanissetta il processo contro il tenente Matteo Bruno, che la notte di Capodanno del 1922 all’Hotel Belvedere di Castrogiovanni aveva assassinato, a colpi di rivoltella, la propria moglie Carmelina Sciuto. Il Bruno, che si esibiva come cantante lirico, aveva sparato anche contro il suo collega Salvatore Conti ritenuto l’amante della moglie senza riuscire a colpirlo. I due erano stati colti nella flagranza delreato dal Bruno che, accortosi dell’allontanamento della moglie e del Conti durante la sua esibizione, li aveva rinvenuti nella stanza occupata dal collega in flagrante adulterio. L’articolo del giornale raccontava che una folla stesse assistendo all’udienza “specialmente popolata di giovani e di fascisti, giacché l’imputato che è stato un valoroso tenente degli arditi, che ha guadagnato sul campo dell’onore due medaglie d’argento, è un fervente fascista”. Il tenente Matteo Bru- no, era stato in giro per il mondo (America, Milano) in cerca, a suo dire, di una stabilità economica per la sua famiglia. Aveva sbandierato, per coinvolgere emotivamente la Cor- te, la Giuria e tutti i presenti, di essere andato volontario in guerra da semplice soldato, di essere stato ufficiale e di avere partecipato a grandi fatti d’arme. “Fui in Libia, a Savona dove mia moglie non volle venire. Col 6° reparto di assalto presi tre volte Monte Pertica e tre volte me lo tolsero, fui vittima di gas asfissianti”. Aveva anticipato la sua narrazione con una frase ad effetto “Vi dico subito che non sono pazzo; sono invece un uomo che tengo molto al mio onore che ho vendicato”. Testimoniò a suo favore anche il colonnello Ernesto Quartaroli, questore di Caltanissetta, che lo aveva avuto come subalterno al fron- te. Il colonnello, che era stato uno squadrista a Padova e che era stato nominato questore per i suoi trascorsi politici, tratteggiò “con voce vibrante e con occhio inumidito” gli episodi di eroismo e di sprezzo per la vita compiuti dal Bruno, commuovendo l’intero au- ditorio. Il ritiro della parte civile, conseguente ad una lettera inviata dalle figlie del Bruno che richiedevano di desistere dal processo per permettere loro di riabbracciare il padre, completò l’opera determinando l’assoluzione dell’omicida. Nel piatto della bilancia della giustizia, aveva avuto un peso, al di là della flagranza del reato (che Arpino aveva accura- tamente evitato di contemplare per il personaggio del suo romanzo), il sentire comune di un pubblico che in entrambi i casi vestiva la camicia nera del fascismo. Questo non vuole significare che i delitti d’onore fossero appannaggio solo di quel periodo: tanto ne erano piene le cronache dei giornali; ma vuole mettere in evidenza, che la trasformazione della norma del codice Zanardelli in quella del codice Rocco, non fosse stata solo il frutto di una giurisprudenza consolidata nella valutazione delle attenuanti per i delitti contro la persona, ma anche di un rinnovato, concettualmente, sistema giudiziario a sostegno dello stato etico fascista e dei suoi pseudo valori: una forma di astrazione del sentire fascista, di cui, sia lo scrittore Giovanni Arpino che il fatto di cronaca riguardante il tenente Bruno, avevano dato la piena testimonianza. 4 STUDI STORICI SICILIANI - Semestrale di ricerche storiche sulla Sicilia Nel 1961, anche la cinematografia si occupò come paradosso di quella norma che con- sentiva l’assassinio facile delle donne per motivi d’onore, con il grottesco film di Pietro Germi “Divorzio all’italiana”. La vicenda, con i suoi personaggi caricaturali, risultò esse- re un attacco ad una società fortemente ipocrita che si arrotolava sui valori formali della famiglia, sull’adulterio e sull’onore quale elemento da giostrare a proprio uso e consumo. Ne venne fuori una commedia che fece riflettere sulla tragicità di comportamenti radicati nella società, alimentati ancora da una legislazione permissiva se non addirittura incitante al delitto. Tragico nel suo abominevole anacronismo era risultato in territorio di Campofranco (per restare nell’ambito della provincia nissena) nel 1958 l’assassinio da parte di un certo Calogero Provenzano della figlia e del futuro genero, trovati in “illecito concubito” prima delle imminenti nozze. Il Provenzano era stato condannato a soli cinque anni di deten- zione ed aveva giustificato il suo assurdo delitto raccontando che “ Il Ferlisi (il futuro genero) aveva tradito la fiducia che … aveva riposto in lui e che gli aveva dimostrato ac- cogliendolo in casa e permettendo che egli invece di tornare a Campofranco a notte inol- trata, tutte le volte che veniva a trovare la fidanzata si coricasse in una non molto distante stalla dove aveva sistemato un letto. Il Ferlisi non aveva meritato questa benevolenza; e la casa del valore di 400 mila lire che per lui e per la figlia aveva acquistato l’omicida e la dote che aveva dato alla Camilla sono stati sacrifici inutili.
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