RASSEGNA STAMPA di martedì 22 maggio 2018

SOMMARIO

“Ho pensato, dopo avervi ringraziato per tutto il lavoro che fate – è abbastanza! –, di condividere con voi tre mie preoccupazioni, ma non per «bastonarvi», no, ma per dire che mi preoccupano queste cose - ha detto ieri pomeriggio Papa Francesco all’apertura della 71ª Assemblea generale della Conferenza episcopale italiana -. La prima cosa che mi preoccupa è la crisi delle vocazioni. È la nostra paternità quella che è in gioco qui! Di questa preoccupazione, anzi, di questa emorragia di vocazioni, ho parlato alla Plenaria della Congregazione per gli Istituti di vita consacrata e le Società di vita apostolica, spiegando che si tratta del frutto avvelenato della cultura del provvisorio, del relativismo e della dittatura del denaro, che allontanano i giovani dalla vita consacrata; accanto, certamente, alla tragica diminuzione delle nascite, questo «inverno demografico»; nonché agli scandali e alla testimonianza tiepida. Quanti Seminari, chiese e monasteri e co nventi saranno chiusi nei prossimi anni per la mancanza di vocazioni? Dio lo sa. È triste vedere questa terra, che è stata per lunghi secoli fertile e generosa nel donare missionari, suore, sacerdoti pieni di zelo apostolico, insieme al vecchio continente entrare in una sterilità vocazionale senza cercare rimedi efficaci. Io credo che li cerca, ma non riusciamo a trovarli! Propongo ad esempio una più concreta – perché dobbiamo incominciare con le cose pratiche, quelle che sono nelle nostre mani –, vi propongo una più concreta e generosa condivisione fidei donum tra le diocesi italiane, che certamente arricchirebbe tutte le diocesi che donano e quelle che ricevono, rafforzando nei cuori del clero e dei fedeli il sensus ecclesiae e il sensus fidei. Voi vedete, se potete… Fare uno scambio di [sacerdoti] fidei do- num da una diocesi a un’altra. Penso a qualche diocesi del Piemonte: c’è un’aridità grande… E penso alla Puglia, dove c’è una sovrabbondanza… Pensate, una creatività bella: un sistema fidei donum dentro l’Italia. Qualcuno sorride… Ma vediamo se siete capaci di fare questo. Seconda preoccupazione: povertà evangelica e trasparenza. Per me, sempre - perché l’ho imparato come gesuita nella costituzione - la povertà è «madre» ed è «muro» della vita apostolica. È madre perché la fa nascere, e muro perché la protegge. Senza povertà non c’è zelo apostolico, non c’è vita di servizio agli altri… È una preoccupazione che riguarda il denaro e la trasparenza. In realtà, chi crede non può parlare di povertà e vivere co me un faraone. A volte si vedono queste cose… È una un contro-testimonianza parlare di povertà e condurre una vita di lusso; ed è molto scandaloso trattare il denaro senza trasparenza o gestire i beni della Chiesa come fossero beni personali. Voi conoscete gli scandali finanziari che ci sono stati in alcune diocesi… Per favore, a me fa molto male sentire che un ecclesiastico si è fatto manipolare mettendosi in situazioni che superano le sue capacità o, peggio ancora, gestendo in maniera disonesta «gli spicc ioli della vedova». Noi abbiamo il dovere di gestire con esemplarità, attraverso regole chiare e comuni, ciò per cui un giorno daremo conto al padrone della vigna. Penso a uno di voi, per esempio – lo conosco bene – che mai, mai invita a cena o a pranzo co n i soldi della diocesi: paga di tasca sua, sennò non invita. Piccoli gesti, come proposito fatto negli esercizi spirituali. Noi abbiamo il dovere di gestire con esemplarità attraverso regole chiare e comuni ciò per cui un giorno daremo conto al padrone de lla vigna. Sono consapevole – questo voglio dirlo – e riconoscente che nella Cei si è fatto molto negli ultimi anni soprattutto, sulla via della povertà e della trasparenza. Un bel lavoro di trasparenza. Ma si deve fare ancora un po’ di più su alcune cose, ma poi ne parlerò. E la terza preoccupazione è la riduzione e accorpamento delle diocesi. Non è facile, perché, soprattutto in questo tempo… L’anno scorso stavamo per accorparne una, ma sono venuti quelli di là e dicevano: «È piccolina la diocesi... Padre, perché fa questo? L’università è andata via; hanno chiuso una scuola; adesso non c’è il sindaco, c’è un delegato; e adesso anche voi…». E uno sente questo dolore e dice: «Che rimanga il vescovo, perché soffrono». Ma credo che ci sono delle diocesi che si possono accorpare. Questa questione l’ho già sollevata il 23 maggio del 2013, ossia la riduzione delle diocesi italiane. Si tratta certamente di un’esigenza pastorale, studiata ed esaminata più volte - voi lo sapete - già prima del Concordato del ’29. Infatti Paolo VI nel ’64, parlando il 14 aprile all’Assemblea dei vescovi, parlò di «eccessivo numero delle diocesi»; e successivamente, il 23 giugno del ’66, tornò ancora sull’argomento incontrando l’Assemblea della Cei dicendo: «Sarà quindi necessario ritoccare i confini di alcune diocesi, ma più che altro si dovrà procedere alla fusione di non poche diocesi, in modo che la circoscrizione risultante abbia un’estensione territoriale, una consistenza demografica, una dotazione di clero e di opere idonee a sostenere un’organizzazione diocesana veramente funzionale e a sviluppare un’attività pastorale efficace ed unitaria». Fin qui Paolo VI. Anche la Congregazione per i vescovi nel 2016 - ma io ne ho parlato nel ’13 - ha chiesto alle Conferenze episcopali regionali di inviare il loro parere circa un progetto di riordino delle diocesi alla Segreteria generale della Cei. Quindi stiamo parlando di un argomento datato e attuale, trascinato per troppo tempo, e credo sia giunta l’ora di concluderlo al più presto. È faci le farlo, è facile… Forse ci sono un caso o due che non si possono fare adesso per quello che ho detto prima – perché è una terra abbandonata –, ma si può fare qualcosa. Queste sono le mie tre preoccupazioni che ho voluto condividere con voi come spunti di riflessione. Ora lascio a voi la parola e vi ringrazio per la parresia” (a.p.)

1 – IL PATRIARCA

LA NUOVA Pag 19 Nominati 14 nuovi cardinali, non c’è il patriarca Moraglia di n.d.l. Le scelte di Papa Francesco

3 – VITA DELLA CHIESA

L’OSSERVATORE ROMANO La Chiesa è donna e madre Messa a Santa Marta

Segno dell’universalità della Chiesa Il Papa annuncia che il 29 giugno creerà quattordici cardinali

Come suona doloroso oggi il nome di Gaza Appello per la Terra santa durante la messa di Pentecoste

AVVENIRE Pag 1 Ciò che ci fa più liberi di Umberto Folena Il cammino della Chiesa italiana

Pag 5 Le tre preoccupazioni: vocazioni, povertà evangelica, accorpamenti Il Papa: in Italia si può ridurre il numero dell e diocesi. “Credo che sia giunto il tempo di arrivarci al più presto”

Pag 18 Francesco annuncia quattordici cardinali di Gianni Cardinale “Segno dell’universalità della Chiesa”. “Creati”nel Concistoro del 29 giugno

Pag 29 La profezia che salva dagli idoli di Marco Girardo Luigino Bruni continua a esplorare l’umanesimo biblico in chiave sociale, economica e antropologica

IL FOGLIO Pag 3 Il coppino del Papa alla Cei Bastonate no, ma Francesco chiede ai vescovi di darsi una mossa

IL GAZZETTINO Pag 7 Il Pap a s’infuria con i vescovi: “Non potete parlare di povertà e vivere come faraoni” di Franca Giansoldati

4 – ISTITUZIONI, ASSOCIAZIONI, MOVIMENTI E GRUPPI

IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag XXXI Nuova “stanza del tesoro” per i 250 anni dei Carmini di M.T.S. Celebrazioni concluse con un concerto

8 – VENETO / NORDEST

IL GAZZETTINO Pag 11 Infortuni sul lavoro, un morto a settimana di Angela Pederiva Fra 2015 e 2018 in Veneto 170 vittime di incidenti professionali. In servizio solo 140 tecnici Spisal

… ed inoltre oggi segnaliamo…

CORRIERE DELLA SERA Pag 1 Le novità (e i rischi) per il Paese di Antonio Polito Scelte e potere

Pag 17 La legge sull’aborto, 40 anni di Elena Tebano In Italia il calo costante di interruzioni di gravidanza. Ma dagli usa al’Irlanda il tema continua a dividere. Emma Bonino: “Ha funzionato bene. I medici obiettori? Sono ancora troppi”. Lucetta Scaraffia: “Applicata male, è stata trasformata in un’ideologia”

LA REPUBBLICA Pag 1 Palazzo Chigi a sovranità limitata di Mario Calabresi

Pag 28 Al Quirinale la partita non è chiusa di Stefano Folli

AVVENIRE Pag 2 L’ultima battaglia di un uomo di Marina Corradi La tragedia tre volte mortale di Francavilla al Mare / 1

Pag 2 Quando tutto è avvolto di follia di Giovanni D’Alessandro La tragedia tre volte mortale di Francavilla al Mare / 2

Pag 3 L’amara vittoria del Caudillo di Lucia Capuzzi Il Venezuela non “incorona” Maduro

Pag 3 Perché la spesa in armamenti limita sviluppo e democrazia di Raul Caruso I costi del riarmo: più insicurezza e ritardi nell’innovazione

Pag 7 Il ruolo: esecutore o “compensatore” di Eugenio Fatigante

Pag 10 Quarant’anni di 194, l’ora di andare oltre di Carlo e Marina Casini Realismo e tenacia per agire su mentalità, scelte ed errori determinati dalla legge

IL GAZZETTINO Pag 1 Il nuovo asse e due leader da mettere alla prova di Alessandro Campi

LA NUOVA Pag 1 Il rischio del premier notaio fra i due maggiori azionisti di Massimiliano Panarari

Pag 2 Il professore che ha studiato nel “tempio” di Villa Nazareth di Fabio Martini

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1 – IL PATRIARCA

LA NUOVA Pag 19 Nominati 14 nuovi cardinali, non c’è il patriarca Moraglia di n.d.l. Le scelte di Papa Francesco

Papa Francesco, nel giorno di Pentecoste, ha nominato 14 nuovi cardinali. Nell'elenco Venezia non c'è. Sull'argomento della creazione dei porporati il Patriarca Moraglia ha più volte ribadito che nella scelta dei cardinali «il Papa esprime l'universalità della Chiesa. Dobbiamo abituarci alle novità del Santo Padre che annuncia la misericordia a tutti gli uomini». Vale a dire che lo sguardo del Sommo Pontefice spazia a 360 gradi, da un continente all'altro, e assegna le berrette rosse con modalità che non prevedono automatismi. Ma Venezia ha ricordi indelebili; c'è quello che risale al 16 settembre 1972 quando in Piazza San Marco Papa Paolo VI, che sarà proclamato santo il prossimo 14 ottobre, pronunciò parole che rimasero storiche: «Quanto interesse rappresenta Venezia per Roma. Venezia deve vivere». Con Papa Francesco sono decadute le tradizionali usanze, sono saltate le cosiddette sedi cardinalizie e sono arrivate modalità sorprendenti. D'altro canto nella storia della Chiesa si registrano precedenti simili: durante il pontificato del beato Pio IX il patriarca di Venezia, gli arcivescovi di Firenze, Genova, Milano, Palermo e Torino (due arcivescovi) non furono mai creati cardinali per l'intero loro mandato. Il Patriarca Moraglia, in questi giorni e fino alla conclusione giovedì 24 maggio con la conferenza stampa, si trova a Roma per partecipare all'assemblea generale promossa dalla Cei imperniata sul tema «Quale presenza ecclesiale nell'attuale contesto comunicativo».Vi partecipano tutti i vescovi italiani che si stanno confrontando sulla responsabilità missionaria ed educativa della Chiesa all'interno di una cultura forgiata prettamente dalla comunicazione. Ieri, alle 16.30, l'assemblea si è aperta con l'intervento di Papa Francesco.

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3 – VITA DELLA CHIESA

L’OSSERVATORE ROMANO La Chiesa è donna e madre Messa a Santa Marta

A Santa Marta, il 21 maggio, Papa Francesco ha celebrato per la prima volta la messa nella memoria della beata Vergine Maria madre della Chiesa: da quest’anno infatti la ricorrenza nel calendario romano generale si celebra il lunedì dopo Pentecoste, come disposto dal Pontefice con il decreto Ecclesia mater della Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti (11 febbraio 2018), proprio per «favorire la crescita del senso materno della Chiesa nei pastori, nei religiosi e nei fedeli, come anche della genuina pietà mariana». «Nel Vangeli ogni volta che si parla di Maria si parla della “madre di Gesù”» ha fatto subito notare Francesco nell’omelia, riferendosi al passo evangelico di Giovanni (19,25-34). E se «anche nell’Annunciazione non si dice la parola “madre”, il contesto è di maternità: la madre di Gesù» ha affermato il Papa, sottolineando che «questo atteggiamento di madre accompagna il suo operato durante tutta la vita di Gesù: è madre». Tanto che, ha proseguito, «alla fine Gesù la dà come madre ai suoi, nella persona di Giovanni: “Io me ne vado, ma questa è vostra madre”». Ecco, dunque, «la maternalità di Maria». «Le parole della Madonna sono parole di madre» ha spiegato il Papa. E lo sono «tutte: dopo quelle, all’inizio, di disponibilità alla volontà di Dio e di lode a Dio nel Magnificat, tutte le parole della Madonna sono parole di madre». Lei è sempre «con il Figlio, anche negli atteggiamenti: accompagna il Figlio, segue il Figlio». E ancora «prima, a Nazareth, lo fa crescere, lo alleva, lo educa, ma poi lo segue: “La tua madre è lì”». Maria «è madre dall’inizio, dal momento in cui appare nei Vangeli, da quel momento dell’Annunciazione fino alla fine, lei è madre». Di lei «non si dice “la signora” o “la vedova di Giuseppe”» - e in realtà «potevano dirlo» - ma sempre Maria «è madre». «I padri della Chiesa hanno capito bene questo - ha affermato il Pontefice - e hanno capito anche che la maternalità di Maria non finisce in lei; va oltre». Sempre i padri «dicono che Maria è madre, la Chiesa è madre e la tua anima è madre: c’è del femminile nella Chiesa, che è maternale». Perciò, ha spiegato Francesco, «la Chiesa è femminile perché è “chiesa”, “sposa”: è femminile ed è madre, dà alla luce». È, dunque «sposa e madre», ma «i padri vanno oltre e dicono: “Anche la tua anima è sposa di Cristo e madre”». «In questo atteggiamento che viene da Maria che è madre della Chiesa - ha fatto presente il Papa - possiamo capire questa dimensione femminile della Chiesa: quando non c’è, la Chiesa perde la vera identità e diventa un’associazione di beneficienza o una squadra di calcio o qualsiasi cosa, ma non la Chiesa». «La Chiesa è “donna” - ha rilanciato Francesco - e quando noi pensiamo al ruolo della donna nella Chiesa dobbiamo risalire fino a questa fonte: Maria, madre». E «la Chiesa è “donna” perché è madre, perché è capace di “partorire figli”: la sua anima è femminile perché è madre, è capace di partorire atteggiamenti di fecondità». «La maternità di Maria è una cosa grande» ha insistito il Pontefice. Dio infatti «ha voluto nascere da donna per insegnarci questa strada». Di più, «Dio si è innamorato del suo popolo come uno sposo con la sposa: questo si dice nell’antico Testamento. Ed è «un mistero grande». Come conseguenza, ha proseguito Francesco, «noi possiamo pensare» che «se la Chiesa è madre, le donne dovranno avere funzioni nella Chiesa: sì, è vero, dovranno avere funzioni, tante funzioni che fanno, grazie a Dio sono di più le funzioni che le donne hanno nella Chiesa». Ma «questo non è la cosa più significativa» ha messo in guardia il Papa, perché «l’importante è che la Chiesa sia donna, che abbia questo atteggiamento di sposa e di madre». Con la consapevolezza che «quando dimentichiamo questo, è una Chiesa maschile senza questa dimensione, e tristemente diventa una Chiesa di zitelli, che vivono in questo isolamento, incapaci di amore, incapaci di fecondità». Dunque, ha affermato il Pontefice, «senza la donna la Chiesa non va avanti, perché lei è donna, e questo atteggiamento di donna le viene da Maria, perché Gesù ha voluto così». Francesco, a questo proposito, ha anche voluto indicare «il gesto, direi l’atteggiamento, che distingue maggiormente la Chiesa come donna, la virtù che la distingue di più come donna». E ha suggerito di riconoscerlo nel «gesto di Maria alla nascita di Gesù: “Diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo pose in una mangiatoia”». Un’immagine in cui si riscontra «proprio la tenerezza di ogni mamma con suo figlio: curarlo con tenerezza, perché non si ferisca, perché stia ben coperto ». E «la tenerezza» perciò è anche «l’atteggiamento della Chiesa che si sente donna e si sente madre». «San Paolo - l’abbiamo ascoltato ieri, anche nel breviario l’abbiamo pregato - ci ricorda le virtù dello Spirito e ci parla della mitezza, dell’umiltà, di queste virtù cosiddette “passive”» ha affermato il Papa, facendo notare che invece «sono le virtù forti, le virtù delle mamme». Ecco che, ha aggiunto, «una Chiesa che è madre va sulla strada della tenerezza; sa il linguaggio di tanta saggezza delle carezze, del silenzio, dello sguardo che sa di compassione, che sa di silenzio». E «anche un’anima, una persona che vive questa appartenenza alla Chiesa, sapendo che anche è madre deve andare sulla stessa strada: una persona mite, tenera, sorridente, piena di amore». «Maria, madre; la Chiesa, madre; la nostra anima, madre» ha ripetuto Francesco, invitando a pensare «a questa ricchezza grande della Chiesa e nostra; e lasciamo che lo Spirito Santo ci fecondi, a noi e alla Chiesa, per diventare noi anche madri degli altri, con atteggiamenti di tenerezza, di mitezza, di umiltà. Sicuri che questa è la strada di Maria». E, in conclusione, il Papa ha fatto notare anche come sia «curioso il linguaggio di Maria nei Vangeli: quando parla al Figlio, è per dirgli delle cose di cui hanno bisogno gli altri; e quando parla agli altri, è per dire loro: “fate tutto quello che lui vi dirà”».

Segno dell’universalità della Chiesa Il Papa annuncia che il 29 giugno creerà quattordici cardinali

«Sono lieto di annunciare che il 29 giugno, terrò un Concistoro per la nomina di 14 nuovi Cardinali»: lo ha detto il Papa al termine del Regina caeli recitato con i fedeli presenti in piazza San Pietro a mezzogiorno di domenica 20 maggio. Dopo aver celebrato la messa di Pentecoste nella basilica vaticana, Francesco si è affacciato alla finestra dello studio del Palazzo apostolico per la preghiera mariana del tempo pasquale, commentando le letture della solennità.

Cari fratelli e sorelle, buongiorno! Nell’odierna festa di Pentecoste culmina il tempo pasquale, centrato sulla morte e risurrezione di Gesù. Questa solennità ci fa ricordare e rivivere l’effusione dello Spirito Santo sugli Apostoli e gli altri discepoli, riuniti in preghiera con la Vergine Maria nel Cenacolo (cfr. At 2, 1-11). In quel giorno ha avuto inizio la storia della santità cristiana, perché lo Spirito Santo è la fonte della santità, che non è privilegio di pochi, ma vocazione di tutti. Per il Battesimo, infatti, siamo tutti chiamati a partecipare alla stessa vita divina di Cristo e, con la Confermazione, a diventare suoi testimoni nel mondo. «Lo Spirito Santo riversa santità dappertutto nel santo popolo fedele di Dio» (Esort. ap. Gaudete et exsultate, 6). «Dio volle santificare e salvare gli uomini non individualmente e senza alcun legame tra loro, ma volle costituire di loro un popolo, che lo riconoscesse secondo la verità e lo servisse nella santità» (Cost. dogm. Lumen gentium, 9). Già per mezzo degli antichi profeti il Signore aveva annunciato al popolo questo suo disegno. Ezechiele: «Porrò il mio spirito dentro di voi e vi farò vivere secondo le mie leggi e vi farò osservare e mettere in pratica le mie norme. […] Voi sarete il mio popolo e io sarò il vostro Dio» (36, 27-28). Il profeta Gioele: «Effonderò il mio spirito sopra ogni uomo e diverranno profeti i vostri figli e le vostre figlie. […] Anche sopra gli schiavi e sulle schiave in quei giorni effonderò il mio spirito. […] Chiunque invocherà il nome del Signore sarà salvato» (3, 1-2.5). E tutte queste profezie si realizzano in Gesù Cristo, «mediatore e garante della perenne effusione dello Spirito» (Messale Romano, Prefazio dopo l’Ascensione). E oggi è la festa dell’effusione dello Spirito. Da quel giorno di Pentecoste, e sino alla fine dei tempi, questa santità, la cui pienezza è Cristo, viene donata a tutti coloro che si aprono all’azione dello Spirito Santo e si sforzano di esserle docili. È lo Spirito che fa sperimentare una gioia piena. Lo Spirito Santo, venendo in noi, sconfigge l’aridità, apre i cuori alla speranza e stimola e favorisce la maturazione interiore nel rapporto con Dio e con il prossimo. È quanto ci dice San Paolo: «Il frutto dello Spirito è amore, gioia, pace, magnanimità, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé» (Gal 5, 22). Tutto questo fa lo Spirito in noi. Per questo oggi festeggiamo questa ricchezza che il Padre ci dona. Chiediamo alla Vergine Maria di ottenere anche oggi alla Chiesa una rinnovata Pentecoste, una rinnovata giovinezza che ci doni la gioia di vivere e testimoniare il Vangelo e «infonda in noi un intenso desiderio di essere santi per la maggior gloria di Dio» (Gaudete et exsultate, 177).

Al termine dell’antifona mariana il Papa ha lanciato un appello per la pace in Terra santa e in Venezuela, ha ricordato che «l’evento di Pentecoste segna l’origine della missione universale della Chiesa» e ha salutato i gruppi presenti.

Cari fratelli e sorelle, la Pentecoste ci porta col cuore a Gerusalemme. Ieri sera sono stato spiritualmente unito alla veglia di preghiera per la pace che ha avuto luogo in quella Città, santa per ebrei, cristiani e musulmani. E oggi continuiamo a invocare lo Spirito Santo perché susciti volontà e gesti di dialogo e di riconciliazione in Terra Santa e in tutto il Medio Oriente. Desidero dedicare un particolare ricordo all’amato Venezuela. Chiedo che lo Spirito Santo dia a tutto il popolo venezuelano - tutto, governanti, popolo - la saggezza per incontrare la strada della pace e dell’unità. Anche prego per i detenuti che sono morti ieri. L’evento di Pentecoste segna l’origine della missione universale della Chiesa. Per questo oggi viene pubblicato il Messaggio per la prossima Giornata Missionaria Mondiale. E mi piace anche ricordare che ieri si sono compiuti 175 anni dalla nascita dell’Opera dell’Infanzia Missionaria, che vede i bambini protagonisti della missione, con la preghiera e i piccoli gesti quotidiani d’amore e di servizio. Ringrazio e incoraggio tutti i bambini che partecipano a diffondere il Vangelo nel mondo. Grazie! Rivolgo il mio cordiale saluto a voi, pellegrini venuti dall’Italia e da diversi Paesi. In particolare, agli alunni del Colegio Irabia-Izaga di Pamplona, al gruppo del Colégio São Tomás di Lisbona e ai fedeli di Neuss (Germania). Saluto la Schola cantorum di Vallo della Lucania, i fedeli di Agnone e quelli di San Valentino in Abruzzo Citeriore, i ragazzi della Cresima di San Cataldo, la Cooperativa sociale “Giovani Amici” di Terrassa Padovana e l’Istituto Scolastico “Caterina di Santa Rosa” di Roma, che festeggia i suoi 150 anni.

Infine il Papa ha annunciato il concistoro per la nomina di quattordici porporati.

Cari fratelli e sorelle, Sono lieto di annunciare che il 29 giugno, terrò un Concistoro per la nomina di 14 nuovi Cardinali. La loro provenienza esprime l’universalità della Chiesa che continua ad annunciare l’amore misericordioso di Dio a tutti gli uomini della terra. L’inserimento dei nuovi Cardinali nella diocesi di Roma, inoltre, manifesta l’inscindibile legame tra la sede di Pietro e le Chiese particolari diffuse nel mondo. Ecco i nomi dei nuovi Cardinali: 1. Sua Beatitudine Louis Raphaël I Sako — Patriarca di Babilonia dei Caldei. 2. S. E. Mons. Luis Ladaria — Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede. 3. S. E. Mons. — Vicario Generale di Roma. 4. S. E. Mons. — Sostituto per gli Affari Generali della Segreteria di Stato e Delegato Speciale presso il Sovrano Militare Ordine di Malta. 5. S. E. Mons. — Elemosiniere Apostolico. 6. S. E. Mons. — Arcivescovo di Karachi. 7. S. E. Mons. António dos Santos Marto — Vescovo di Leiria-Fátima. 8. S. E. Mons. — Arcivescovo di Huancayo. 9. S. E. Mons. Desiré Tsarahazana — Arcivescovo di Toamasina. 10. S. E. Mons. — Arcivescovo de L’Aquila. 11. S. E. Mons. Thomas Aquinas Manyo [Maeda] — Arcivescovo di Osaka. Insieme ad essi unirò ai membri del Collegio Cardinalizio: un Arcivescovo, un Vescovo ed un Religioso che si sono distinti per il loro servizio alla Chiesa: 12. S. E. Mons. Sergio Obeso Rivera — Arcivescovo Emerito di Xalapa. 13. S. E. Mons. — Prelato Emerito di Corocoro. 14. R. P. Aquilino Bocos Merino — Claretiano. Preghiamo per i nuovi Cardinali, affinché, confermando la loro adesione a Cristo, Sommo Sacerdote misericordioso e fedele (cfr. Eb 2, 17), mi aiutino nel mio ministero di Vescovo di Roma per il bene di tutto il Santo Popolo fedele di Dio.

Come suona doloroso oggi il nome di Gaza Appello per la Terra santa durante la messa di Pentecoste

Il nome di Gaza oggi risuona particolarmente «doloroso». Per questo Papa Francesco, all’omelia della messa di Pentecoste celebrata domenica 20 maggio, nella basilica vaticana, ha espresso l’auspicio che «lo Spirito cambi i cuori e le vicende e porti pace nella Terra santa». Insieme con il Pontefice hanno concelebrato ventisette cardinali e sedici presuli. Al momento della consacrazione sono saliti all’altare i porporati Bertone, Arinze, Tomko e Kasper. Tra i presenti al rito gli arcivescovi Gallagher, segretario per i Rapporti con gli Stati, Gänswein, prefetto della Casa pontificia, e monsignor Sapienza, reggente della Prefettura.

Nella prima Lettura della liturgia di oggi, la venuta dello Spirito Santo a Pentecoste è paragonata a «un vento che si abbatte impetuoso» (At 2, 2). Che cosa ci dice questa immagine? Il vento impetuoso fa pensare a una forza grande, ma non fine a sé stessa: è una forza che cambia la realtà. Il vento infatti porta cambiamento: correnti calde quando fa freddo, fresche quando fa caldo, pioggia quand’è secco... così fa. Anche lo Spirito Santo, a ben altro livello, fa così: Egli è la forza divina che cambia, che cambia il mondo. La Sequenza ce l’ha ricordato: lo Spirito è «nella fatica, riposo; nel pianto, conforto»; e così lo supplichiamo: «Lava ciò che è sordido, bagna ciò che è arido, sana ciò che sanguina». Egli entra nelle situazioni e le trasforma; cambia i cuori e cambia le vicende. Cambia i cuori. Gesù aveva detto ai suoi Apostoli: «Riceverete la forza dallo Spirito Santo […] e di me sarete testimoni» (At 1, 8). E avvenne proprio così: quei discepoli, prima paurosi, rintanati a porte chiuse anche dopo la risurrezione del Maestro, vengono trasformati dallo Spirito e, come annuncia Gesù nel Vangelo odierno, “gli danno testimonianza” (cfr. Gv 15, 27). Da titubanti diventano coraggiosi e, partendo da Gerusalemme, si spingono ai confini del mondo. Timorosi quando Gesù era tra loro, sono audaci senza di Lui, perché lo Spirito ha cambiato i loro cuori. Lo Spirito sblocca gli animi sigillati dalla paura. Vince le resistenze. A chi si accontenta di mezze misure prospetta slanci di dono. Dilata i cuori ristretti. Spinge al servizio chi si adagia nella comodità. Fa camminare chi si sente arrivato. Fa sognare chi è affetto da tiepidezza. Ecco il cambiamento del cuore. Tanti promettono stagioni di cambiamento, nuovi inizi, rinnovamenti portentosi, ma l’esperienza insegna che nessun tentativo terreno di cambiare le cose soddisfa pienamente il cuore dell’uomo. Il cambiamento dello Spirito è diverso: non rivoluziona la vita attorno a noi, ma cambia il nostro cuore; non ci libera di colpo dai problemi, ma ci libera dentro per affrontarli; non ci dà tutto subito, ma ci fa camminare fiduciosi, senza farci mai stancare della vita. Lo Spirito mantiene giovane il cuore - quella rinnovata giovinezza. La giovinezza, nonostante tutti i tentativi di prolungarla, prima o poi passa; è lo Spirito, invece, che previene l’unico invecchiamento malsano, quello interiore. Come fa? Rinnovando il cuore, trasformandolo da peccatore in perdonato. Questo è il grande cambiamento: da colpevoli ci rende giusti e così tutto cambia, perché da schiavi del peccato diventiamo liberi, da servi figli, da scartati preziosi, da delusi speranzosi. Così lo Spirito Santo fa rinascere la gioia, così fa fiorire nel cuore la pace. Oggi, dunque, impariamo che cosa fare quando abbiamo bisogno di un cambiamento vero. Chi di noi non ne ha bisogno? Soprattutto quando siamo a terra, quando fatichiamo sotto il peso della vita, quando le nostre debolezze ci opprimono, quando andare avanti è difficile e amare sembra impossibile. Allora ci servirebbe un “ricostituente” forte: è Lui, la forza di Dio. È Lui che, come professiamo nel “Credo”, «dà la vita». Quanto ci farebbe bene assumere ogni giorno questo ricostituente di vita! Dire, al risveglio: “Vieni, Spirito Santo, vieni nel mio cuore, vieni nella mia giornata”. Lo Spirito, dopo i cuori, cambia le vicende. Come il vento soffia ovunque, così Egli raggiunge anche le situazioni più impensate. Negli Atti degli Apostoli - che è un libro tutto da scoprire, dove lo Spirito è protagonista - assistiamo a un dinamismo continuo, ricco di sorprese. Quando i discepoli non se l’aspettano, lo Spirito li invia ai pagani. Apre vie nuove, come nell’episodio del diacono Filippo. Lo Spirito lo sospinge su una strada deserta, da Gerusalemme a Gaza - come suona doloroso, oggi, questo nome! Lo Spirito cambi i cuori e le vicende e porti pace nella Terra santa -. Su quella strada Filippo predica al funzionario etiope e lo battezza; poi lo Spirito lo porta ad Azoto, poi a Cesarea: sempre in nuove situazioni, perché diffonda la novità di Dio. C’è poi Paolo, che «costretto dallo Spirito» (At 20, 22) viaggia fino agli estremi confini, portando il Vangelo a popolazioni che non aveva mai visto. Quando c’è lo Spirito succede sempre qualcosa, quando Egli soffia non c’è mai bonaccia, mai. Quando la vita delle nostre comunità attraversa periodi di “fiacca”, dove si preferisce la quiete domestica alla novità di Dio, è un brutto segno. Vuol dire che si cerca riparo dal vento dello Spirito. Quando si vive per l’autoconservazione e non si va ai lontani, non è un bel segno. Lo Spirito soffia, ma noi ammainiamo le vele. Eppure tante volte l’abbiamo visto operare meraviglie. Spesso, proprio nei periodi più bui, lo Spirito ha suscitato la santità più luminosa! Perché Egli è l’anima della Chiesa, sempre la rianima di speranza, la colma di gioia, la feconda di novità, le dona germogli di vita. Come quando, in una famiglia, nasce un bambino: scombina gli orari, fa perdere il sonno, ma porta una gioia che rinnova la vita, spingendola in avanti, dilatandola nell’amore. Ecco, lo Spirito porta un “sapore di infanzia” nella Chiesa. Opera continue rinascite. Ravviva l’amore degli inizi. Lo Spirito ricorda alla Chiesa che, nonostante i suoi secoli di storia, è sempre una ventenne, la giovane Sposa di cui il Signore è perdutamente innamorato. Non stanchiamoci allora di invitare lo Spirito nei nostri ambienti, di invocarlo prima delle nostre attività: “Vieni, Spirito Santo!”. Egli porterà la sua forza di cambiamento, una forza unica che è, per così dire, al tempo stesso centripeta e centrifuga. È centripeta, cioè spinge verso il centro, perché agisce nell’intimo del cuore. Porta unità nella frammentarietà, pace nelle afflizioni, fortezza nelle tentazioni. Lo ricorda Paolo nella seconda Lettura, scrivendo che il frutto dello Spirito è gioia, pace, fedeltà, dominio di sé (cfr. Gal 5, 22). Lo Spirito dona intimità con Dio, la forza interiore per andare avanti. Ma nello stesso tempo Egli è forza centrifuga, spinge cioè verso l’esterno. Colui che porta al centro è lo stesso che manda in periferia, verso ogni periferia umana; Colui che ci rivela Dio ci spinge verso i fratelli. Invia, rende testimoni e per questo infonde - scrive ancora Paolo - amore, benevolenza, bontà, mitezza. Solo nello Spirito Consolatore diciamo parole di vita e incoraggiamo veramente gli altri. Chi vive secondo lo Spirito sta in questa tensione spirituale: si trova proteso insieme verso Dio e verso il mondo. Chiediamogli di essere così. Spirito Santo, vento impetuoso di Dio, soffia su di noi. Soffia nei nostri cuori e facci respirare la tenerezza del Padre. Soffia sulla Chiesa e spingila fino agli estremi confini perché, portata da te, non porti nient’altro che te. Soffia sul mondo il tepore delicato della pace e il fresco ristoro della speranza. Vieni, Spirito Santo, cambiaci dentro e rinnova la faccia della terra. Amen.

AVVENIRE Pag 1 Ciò che ci fa più liberi di Umberto Folena Il cammino della Chiesa italiana

Viva la libertà. La libertà di chi non accumula freneticamente denaro e potere, fino a far soffocare la propria anima. La libertà del Vangelo. E la libertà di Pietro, il primo, il prescelto, che incontrando lo storpio allarga le braccia e gli dice: «Non possiedo né argento né oro, ma quello che ho te lo do: nel nome di Gesù Cristo, il Nazareno, cammina!» (Atti 3, 6). È la maggior libertà a cui ieri Francesco ha invitato, con dolcezza e con nettezza la Chiesa italiana. Siate più liberi per «fare presto e bene ». Le vocazioni sacerdotali calano? Ci sono cause esterne, come la «cultura del provvisorio » e l’«idolatria del denaro»; ma anche cause interne, come una «testimonianza a volte tiepida » e gli «scandali»: fosse anche uno solo, sarebbe uno di troppo la cui ricaduta negativa non è misurabile. Veleni che penetrano dall’esterno, veleni generati dall’interno. Risultato: un tempo sterile, almeno all’apparenza. Come reagire? Innanzitutto con la generosità: chi ha più preti, ne doni a chi ne ha di meno, perché nella Chiesa non possono esserci 'ricchi' e 'poveri' di alcun genere. Reagire anche, e soprattutto, tornando a innamorarsi della «povertà evangelica». Facile proclamarla, assai più difficile viverla perché tutti abbiamo, almeno un poco, paura. Tutti avvertiamo il bisogno di qualche garanzia. La precarietà spaventa. Eppure un prete dovrebbe saperlo, quando decide di diventare prete. Tanto tempo fa gliel’ha ricordato il Concilio: i preti «non trattino dunque l’ufficio ecclesiastico come occasione di guadagno», avverte Presbiterorum ordinis (17), che invita ad «abbracciare la povertà volontaria». Volontaria, non subita di malagrazia. Un invito al pauperismo? Alla rinuncia alle risorse? No. L’invito è a considerare le risorse per ciò che sono: semplici strumenti, non fini. La Chiesa sceglie la povertà evangelica «non perché rinuncia alle risorse, ma non tiene nulla per sé»: e questa è la lettera ( Sostenere la Chiesa per servire tutti) che dieci anni fa i vescovi italiani scrissero nell’anniversario di Sovvenire alle necessità della Chiesa (1988), dove solidarietà, corresponsabilità e trasparenza erano le parole d’ordine. Si ricordava, allora, l’importanza di tenere due portafogli ben distinti: uno con i propri soldi, l’altro con quelli della comunità. Il vescovo che offre il pranzo, ricordato ieri da Francesco, mette mano al portafoglio numero uno. Ma si ricordava anche a ogni parroco il dovere di fare testamento, affinché sia chiaro che nulla è suo, ma tutto è della comunità. Libertà significa saper distinguere i mezzi dai fini. Il fine è uno solo, l’annuncio del Vangelo. Il bene è uno solo: Gesù Cristo. I mezzi vanno messi a disposizione di quel fine e quel bene. Anche le diocesi sono strumenti, creati per meglio annunciare Gesù Cristo e servire la causa delVangelo. Essendo strumenti, nascono e possono trasformarsi, confluendo e unendosi. Le diocesi in Italia sono 226. Tantissime, anche dopo il primo accorpamento di un terzo di secolo fa. Francesco chiede alla Chiesa italiana di snellirsi, in nome della sobrietà e dell’incisività evangeliche. Già, ma le tradizioni? Ogni diocesi ha la sua, e ne è orgogliosa. Ora il problema è semplice e 'duro' al tempo stesso: una tradizione può tramutarsi lentamente, inesorabilmente in una gabbia che si stringe fino a soffocarti; oppure evolversi in un’occasione per coniugare il nuovo e l’antico rinunciando a qualcosa per conquistare qualcos’altro. Libertà è quella dei figli di Dio che hanno lo sguardo lungo e vivono le tradizioni con fedeltà creativa. Viva la libertà, dunque. È questa che Francesco offre e chiede alla Chiesa italiana. La libertà di chi si scrolla di dosso ciò che forse pensava fosse indispensabile, ma non lo è. Di chi si libera del tragico mantra: «Abbiamo sempre fatto così». Di chi sa farsi come Pietro che davanti allo storpio allarga le braccia: ho finito quel poco oro e argento che avevo, ma erano semplici strumenti, roba che passa e si corrompe. Invece posso donarti l’unica cosa che conta, Gesù. Alzati e cammina, Chiesa che sei in Italia!

Pag 5 Le tre preoccupazioni: vocazioni, povertà evangelica, accorpamenti Il Papa: in Italia si può ridurre il numero delle diocesi. “Credo che sia giunto il tempo di arrivarci al più presto”

Pubblichiamo il discorso pronunciato da papa Francesco nell’Aula Nuova del Sinodo, in Vaticano, all’apertura della 71ª Assemblea generale della Conferenza episcopale italiana.

Cari fratelli, buonasera! Benvenuti in Vaticano. Ma credo che quest’aula [quella del Sinodo] è in Vaticano soltanto quando c’è il Papa, perché è sul territorio italiano. Anche l’Aula Paolo VI… Dicono che è così, non è vero? Grazie tante della vostra presenza per inaugurare questa giornata di Maria Madre della Chiesa. Noi diciamo dal nostro cuore, tutti insieme: “Monstra te esse matrem”. Sempre: “Monstra te esse matrem”. È la preghiera: «Facci sentire che sei la madre», che non siamo soli, che Tu ci accompagni come madre. È la maternità della Chiesa, della Santa Madre Chiesa Gerarchica, che è qui radunata… Ma che sia madre. «Santa Madre Chiesa Gerarchica», così piaceva dire a Sant’Ignazio [di Loyola]. Che Maria, Madre nostra, ci aiuti affinché la Chiesa sia madre. E - seguendo l’ispirazione dei padri - che anche la nostra anima sia madre. Le tre donne: Maria, la Chiesa e l’anima nostra. Tutte e tre madri. Che la Chiesa sia Madre, che la nostra anima sia Madre. Vi ringrazio per questo incontro che vorrei fosse un momento di dialogo e di riflessione. Ho pensato, dopo avervi ringraziato per tutto il lavoro che fate – è abbastanza! –, di condividere con voi tre mie preoccupazioni, ma non per «bastonarvi», no, ma per dire che mi preoccupano queste cose, e voi vedete… E per dare a voi la parola così che mi rivolgiate tutte le domande, le ansie, le critiche – non è peccato criticare il Papa qui! Non è peccato, si può fare – e le ispirazioni che portate nel cuore. La prima cosa che mi preoccupa è la crisi delle vocazioni. È la nostra paternità quella che è in gioco qui! Di questa preoccupazione, anzi, di questa emorragia di vocazioni, ho parlato alla Plenaria della Congregazione per gli Istituti di vita consacrata e le Società di vita apostolica, spiegando che si tratta del frutto avvelenato della cultura del provvisorio, del relativismo e della dittatura del denaro, che allontanano i giovani dalla vita consacrata; accanto, certamente, alla tragica diminuzione delle nascite, questo «inverno demografico»; nonché agli scandali e alla testimonianza tiepida. Quanti Seminari, chiese e monasteri e conventi saranno chiusi nei prossimi anni per la mancanza di vocazioni? Dio lo sa. È triste vedere questa terra, che è stata per lunghi secoli fertile e generosa nel donare missionari, suore, sacerdoti pieni di zelo apostolico, insieme al vecchio continente entrare in una sterilità vocazionale senza cercare rimedi efficaci. Io credo che li cerca, ma non riusciamo a trovarli! Propongo ad esempio una più concreta – perché dobbiamo incominciare con le cose pratiche, quelle che sono nelle nostre mani –, vi propongo una più concreta e generosa condivisione fidei donum tra le diocesi italiane, che certamente arricchirebbe tutte le diocesi che donano e quelle che ricevono, rafforzando nei cuori del clero e dei fedeli il sensus ecclesiae e il sensus fidei. Voi vedete, se potete… Fare uno scambio di [sacerdoti] fidei donum da una diocesi a un’altra. Penso a qualche diocesi del Piemonte: c’è un’aridità grande… E penso alla Puglia, dove c’è una sovrabbondanza… Pensate, una creatività bella: un sistema fidei donum dentro l’Italia. Qualcuno sorride… Ma vediamo se siete capaci di fare questo. Seconda preoccupazione: povertà evangelica e trasparenza. Per me, sempre - perché l’ho imparato come gesuita nella costituzione - la povertà è «madre» ed è «muro» della vita apostolica. È madre perché la fa nascere, e muro perché la protegge. Senza povertà non c’è zelo apostolico, non c’è vita di servizio agli altri… È una preoccupazione che riguarda il denaro e la trasparenza. In realtà, chi crede non può parlare di povertà e vivere come un faraone. A volte si vedono queste cose… È una un contro-testimonianza parlare di povertà e condurre una vita di lusso; ed è molto scandaloso trattare il denaro senza trasparenza o gestire i beni della Chiesa come fossero beni personali. Voi conoscete gli scandali finanziari che ci sono stati in alcune diocesi… Per favore, a me fa molto male sentire che un ecclesiastico si è fatto manipolare mettendosi in situazioni che superano le sue capacità o, peggio ancora, gestendo in maniera disonesta «gli spiccioli della vedova». Noi abbiamo il dovere di gestire con esemplarità, attraverso regole chiare e comuni, ciò per cui un giorno daremo conto al padrone della vigna. Penso a uno di voi, per esempio – lo conosco bene – che mai, mai invita a cena o a pranzo con i soldi della diocesi: paga di tasca sua, sennò non invita. Piccoli gesti, come proposito fatto negli esercizi spirituali. Noi abbiamo il dovere di gestire con esemplarità attraverso regole chiare e comuni ciò per cui un giorno daremo conto al padrone della vigna. Sono consapevole – questo voglio dirlo – e riconoscente che nella Cei si è fatto molto negli ultimi anni soprattutto, sulla via della povertà e della trasparenza. Un bel lavoro di trasparenza. Ma si deve fare ancora un po’ di più su alcune cose, ma poi ne parlerò. E la terza preoccupazione è la riduzione e accorpamento delle diocesi. Non è facile, perché, soprattutto in questo tempo… L’anno scorso stavamo per accorparne una, ma sono venuti quelli di là e dicevano: «È piccolina la diocesi... Padre, perché fa questo? L’università è andata via; hanno chiuso una scuola; adesso non c’è il sindaco, c’è un delegato; e adesso anche voi…». E uno sente questo dolore e dice: «Che rimanga il vescovo, perché soffrono». Ma credo che ci sono delle diocesi che si possono accorpare. Questa questione l’ho già sollevata il 23 maggio del 2013, ossia la riduzione delle diocesi italiane. Si tratta certamente di un’esigenza pastorale, studiata ed esaminata più volte - voi lo sapete - già prima del Concordato del ’29. Infatti Paolo VI nel ’64, parlando il 14 aprile all’Assemblea dei vescovi, parlò di «eccessivo numero delle diocesi»; e successivamente, il 23 giugno del ’66, tornò ancora sull’argomento incontrando l’Assemblea della Cei dicendo: «Sarà quindi necessario ritoccare i confini di alcune diocesi, ma più che altro si dovrà procedere alla fusione di non poche diocesi, in modo che la circoscrizione risultante abbia un’estensione territoriale, una consistenza demografica, una dotazione di clero e di opere idonee a sostenere un’organizzazione diocesana veramente funzionale e a sviluppare un’attività pastorale efficace ed unitaria». Fin qui Paolo VI. Anche la Congregazione per i vescovi nel 2016 - ma io ne ho parlato nel ’13 - ha chiesto alle Conferenze episcopali regionali di inviare il loro parere circa un progetto di riordino delle diocesi alla Segreteria generale della Cei. Quindi stiamo parlando di un argomento datato e attuale, trascinato per troppo tempo, e credo sia giunta l’ora di concluderlo al più presto. È facile farlo, è facile… Forse ci sono un caso o due che non si possono fare adesso per quello che ho detto prima – perché è una terra abbandonata –, ma si può fare qualcosa. Queste sono le mie tre preoccupazioni che ho voluto condividere con voi come spunti di riflessione. Ora lascio a voi la parola e vi ringrazio per la parresia. Grazie tante.

Francesco

Pag 18 Francesco annuncia quattordici cardinali di Gianni Cardinale “Segno dell’universalità della Chiesa”. “Creati”nel Concistoro del 29 giugno

Papa Francesco ha designato 14 nuovi cardinali che creerà nel Concistoro convocato per il prossimo 29 giugno. Domenica l’annuncio al termine della preghiera del Regina Coeli. I futuri nuovi porporati provengono da quattro continenti. Undici, di cui tre italiani, hanno meno di ottanta anni e quindi sono elettori in un eventuale Conclave. Tre invece (tra cui un religioso non vescovo) hanno superato questo limite di età. «La loro provenienza esprime l’universalità della Chiesa che continua ad annunciare l’amore misericordioso di Dio a tutti gli uomini della terra», ha spiegato il pontefice prima di pronunciare il nome dei designati. Dapprima ha elencato gli undici cardinali elettori. Nell’ordine: Louis Raphaël I Sako, 70 anni, dal gennaio 2013 Patriarca di Babilonia dei Caldei; Luis Francisco Ladaria Ferrer, gesuita spagnolo, 74 anni, dal luglio 2017 prefetto de la Congregazione per la dottrina della fede; Angelo De Donatis, originario di Casarano (Le), 64 anni, dal maggio 2017 Vicario Generale di Roma; Giovanni Angelo Becciu, originario di Pattada (SS), 70 anni, dal 2011 Sostituto per gli Affari Generali della Segreteria di Stato e dal febbraio 2017 Delegato speciale presso l’Ordine di Malta; Konrad Krajewski, polacco di Lodz, dall’agosto 2013 Elemosiniere Apostolico; Joseph Coutts, 73 anni, dal 2012 arcivescovo di Karachi, presidente della Conferenza episcopale del Pakistan dal 2011 al 2017; António dos Santos Marto, 71 anni, dal 2006 vescovo Leiria-Fátima, diocesi visitata da Papa Francesco lo scorso anno; Pedro Barreto, gesuita, 74 anni, dal 2004 arcivescovo di Huancayo in Perù, membro del Consiglio pre-sinodale per il Sinodo speciale per la regione panamazzonica che si terrà nell’ottobre 2019; Desiré Tsarahazana, 64 anni, dal 2010 arcivescovo di Toamasina e dal 2012 presidente della Conferenza episcopale del Madagascar; Giuseppe Petrocchi, 70 anni, originario di Ascoli Piceno, dal giugno 2013 arcivescovo de L’Aquila; Thomas Aquinas Manyo Maeda, 69 anni, dall’agosto 2014 arcivescovo di Osaka e dal 2016 vicepresidente della Conferenza episcopale giapponese. Quindi Papa Francesco ha pronunciato i nomi dei tre futuri cardinali ultraottantenni: Sergio Obeso Rivera, 87 anni, arcivescovo Xalapa dal 1979 al 2007, più volte presidente della Conferenza episcopale messicana; Toribio Ticona Porco, 81 anni, che in gioventù ha lavorato in miniera, vescovo prelato di Corocoro in Bolivia dal 1992 al 2012; padre Aquilino Bocos Merino, spagnolo, 80 anni compiuti il 17 maggio, dal 1991 al 2003 superiore generale dei Claretiani. Attualmente i cardinali sono 213 di cui 115 elettori. Con il Concistoro di fine giugno - tenendo conto che all’inizio del mese raggiungerà gli 80 anni il cardinale salesiano , prefetto della Congregazione delle cause dei santi - saranno 227, di cui 125 elettori (ad oggi però 126). Verrà così superato il limite di 120 fissato da Paolo VI. Ma ogni Pontefice ha la facoltà di poterlo fare e in passato è successo più volte. Il numero dei cardinali elettori ritornerà comunque a quota 120 al più tardi nel giro di tredici mesi. Infatti se nel resto del 2018 non ci saranno più cardinali che raggiungeranno gli 80 anni, nel 2019 lo faranno invece in 10, cinque dei quali entro il 31 luglio. Con gli 11 nuovi cardinali elettori Papa Fran- cesco avrà nominato la maggioranza dei porporati elettori: 59 su 125 (47 rimarranno quelli creati da Benedetto XVI, 19 quelli di Giovanni Paolo II). Ben 6 degli 11 nuovi cardinali saranno europei, ma i porporati del Vecchio Continente rimarranno comunque nettamente al di sotto della metà del Collegio degli elettori: 53 su 125 (con gli italiani che saliranno a 22). Con il prossimo Concistoro aumenterà poi la quota di latinoamericani (da 21 a 22), di africani (da 15 a 16) e in particolare di asiatici (da 14 a 17). Rimarranno inalterati invece i nordamericani (13) e i cardinali dell’Oceania (4). Per la prima volta il gesuita Papa Francesco ha designato due cardinali del suo stesso ordine. Al momento tra gli elettori non c’è nessun figlio di Sant’Ignazio. A fine giugno saranno così 23 i cardinali elettori appartenenti a istituti religiosi. Oltre ai gesuiti i consacrati con più di un porporato elettore saranno salesiani (4), i domenicani e gli spiritani (2 ciascuno). Con il nuovo Concistoro risale (appena un po’) il peso la Curia romana, con tre nomine. I cardinali curiali quindi saliranno a 29. Mentre riceveranno un cardinale Paesi che al momento non sono rappresentati nel collegio degli elettori: Giappone, Iraq, Madagascar e Pakistan. Tralasciando sedi di consolidata tradizione come Cracovia, Milano e Parigi, Papa Francesco continua nella sua scelta di elevare a dignità cardinalizia diocesi dove non era mai arrivata una porpora. Questa volta è toccato alla sede di Leira- Fatima in Portogallo, a quella di Huancayo in Perù (così per la prima volta questo Paese avrà un altro cardinale residente oltre a quello della capitale Lima) e a quella di Toamasina in Madagascar (i tre precedenti porporati malgasci erano tutti arcivescovi della capitale Antananarivo). Lo stesso vale per Xalapa in Messico e Corocoro in Bolivia. Diverso il discorso per Karachi, dove c’è già stato un cardinale: Joseph Cordeiro, arcivescovo dal 1958 al 1994, creato da Paolo VI nel 1973. Così come è successo ad Osaka con Paul Yoshigoro Taguchi, vescovo e poi arcivescovo dal 1941 al 1978, creato anche lui nel 1973. Anche il Patriarcato caldeo è stato già guidato da un cardinale, seppure Emmanuel III Delly aveva già compiuto 80 anni quando fu creato da Benedetto XVI nel novembre 2007. A L’Aquila invece si ha notizia del rango cardinalizio di un arcivescovo (Amico Agnifili) nel XV secolo. Sono 'tradizionali' invece le nomine cardinalizie del vicario di Roma, del prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, nonché la promozione del Sostituto della Segreteria di Stato (che seguendo una prassi consolidata verrà destinato ad altro incarico, di carattere 'cardinalizio'). Riguardo all’elemosiniere apostolico, in passato era successo che il titolare di questo incarico ricevesse la porpora e quindi venisse promosso in altro ufficio (l’ultima volta è successo nel 1935 con Carlo Cremonesi). Ora bisognerà vedere se invece la berretta a Krajewski (oltretutto il primo polacco a ricevere la porpora in questo pontificato), rimarrà anche 'durante munere'.

Pag 29 La profezia che salva dagli idoli di Marco Girardo Luigino Bruni continua a esplorare l’umanesimo biblico in chiave sociale, economica e antropologica

Finché sulla terra ci sarà un idolo, avremo ancora bisogno di profeti. E dagli idoli la nostra società post-capitalistica appiattita sul feticismo del consumare – un culto con milioni di totem, oggi pure virtuali e personalizzati – è quasi divorata. L’umanesimo biblico che Luigino Bruni continua a esplorare in chiave sociale, economica e antropologica rappresenta anzitutto un antidoto all’idolatria. Ma non si svela pienamente trascurando i profeti: «Ci resta soprattutto precluso senza Isaia», afferma l’economista marchigiano, con il quale conversiamo in occasione dell’uscita del suo ultimo libro, Dialoghi della notte e dell’alba (Edb, euro 240, pagine 20,00), raccolta delle riflessioni ispirate dai testi biblici e pubblicate da Avvenire la domenica. Isaia è una cima massima del genio umano, continua Bruni: «Grazie a lui possiamo capire Cristo: i Vangeli sono stati scritti sul retro del rotolo di Isaia, e se lo dimentichiamo li trasformiamo in una raccolta di testi morali o una collezione di miracoli ». Del resto, conveniamo, più che aver ereditato una cultura atea, oggi – come temeva Karl Barth – siamo banalmente regrediti in un mondo strapieno di feticci. La tradizione profetica affonda le sue radici nella conoscenza sapienziale, processo in cui non si attiva il logos, ma il cuore. Isaia, di tale tradizione, esalta l’universalità, l’inclusività, la spinta anti-ideologica e ancor prima la bellezza. Nell’arte ad esempio, dice Bruni, «c’è una dimensione profetica che permette di cogliere un dato empirico della profezia: si tratta di un dono oggettivo, universale, di un bene comune globale che abbraccia anche gli ultimi, gli scartati rendendo loro giustizia nel richiamare i re e le istituzioni alla limitazione del potere». Anche per la psicoanalisi la dignità dell’arte è tale solo se non evita l’incontro del reale con il trauma e con le cicatrici del dolore. Il primo compito del profeta dunque – di Isaia, come di Quèlet – è liberare il campo dall’idea errata di Dio quale potere sommo, affamato di sacrifici, che agisce dentro la logica contabile del dare e dell’avere: «Le offerte al tempio e ai suoi commerci, i sacrifici, sono una strada sbagliata. La strada giusta è un’altra: quella della giustizia e quindi dell’azione a favore dei poveri ». In tal senso, rileva l’economista, la voce profetica di papa Francesco è paradigmatica: in un mondo distratto, molto distratto, meno capace di ascoltare, di riconoscere l’Altro, i profeti continuano a esserci e hanno un valore infinito. Ma la mentalità contabile nell’era del capitalismo tecno- finanziario è sorretta e potenziata da quella che oggi identifichiamo come “razionalità digitale” e che Isaia riconobbe quale idolo della Babilonia degli astronomi e degli astrologi, degli “scienziati” e “tecnici” dell’epoca. Bruni: «L’errore più grave che il profeta vi riconobbe è la mancata conoscenza della precarietà del proprio successo e potere». E quindi l’emergere del delirio di onnipotenza – o volontà di potenza – che le impediva di pensare alla fine. Uno dei contributi, preziosissimo, dei profeti consta proprio nella capacità di vedere in tempo il punto critico e quindi l’avvicinarsi della cosiddetta «maledizione delle risorse» (materiali e intellettuali) che scatta ogni qual volta le ricchezze di ieri diventano un ostacolo alla creazione del raccolto di domani. Il paradigma dello sviluppo sostenibile denuncia esattamente il medesimo limite, quello che tecnici, futurologi e sondaggisti non riescono purtroppo a scorgere. Le culture contemporanee, sempre più uniformi, sono del resto schiacciate sull’eterno presente, sintonizzate sull’istante e in virtù di ciò oramai incapaci di concepire il futuro. In tal senso la contrazione dei tempi – e quindi capacità di visione – della politica è impressionante. Quando in una comunità, ricorda Bruni, in un popolo, in una civiltà, in ciascuno di noi «si appanna la profezia, la giovinezza è nostalgia, l’invecchiamento maledizione e la vita adulta non arriva mai». La profezia interpreta pertanto un ruolo ancor più importante, oggi, spostando il confine: «Non sulla differenza sacro-profano, sulla distinzione tra templum e tempus, dove Kairos domina Kronos; non è più lo spazio, cioè, a dividere sacro e profano, ma la parola a curvare il tempo e sovvertire l’ordine». Nel mondo delle fake news la Bibbia ci ricorda il potere della parola, capace di «creare» dal nulla, «come nel momento in cui due sposi dicono sì davanti a un sacerdote». Le parole dei profeti sono «sommamente generative », per Bruni, essendo i virgolettati di Dio: «Con Isaia la parola buca il tempo, la parola diventa il tempio». Si fa tempio soprattutto la notte, nel tempo di crisi, perché essendo i profeti stessi uomini e donne dell’insuccesso, «la loro parola e la loro esistenza ci donano una mappa etica e spirituale per orientarci nell’ora del fallimento». E, dunque, per intercettare come sentinelle i primi lucori dell’alba. Nella società attuale, prima delle luci del futuro, è già difficile cogliere la differenza. Anche per questo proliferano i falsi profeti, «negazione della notte o negazione dell’alba». Nell’Espulsione dell’Altro il filosofo Byun Chul Han stigmatizza «la violenza dell’Uguale», violenza invisibile. La proliferazione dell’Uguale, aggiunge, si presenta come crescita, ma da un certo punto in poi, «la produzione non è più produttiva, bensì distruttiva, l’informazione non è più informativa, bensì de-formativa, la comunicazione no è più comunicativa, bensì cumulativa». E perde significato. Isaia ci insegna a smascherare l’omologazione del falso profeta: «Che è ruffiano, dà ragione al potente, dice quello che vuole il potente. E a-teo subalterno al potere. Il problema dei falsi profeti è che alle volte lo diventano in presunta buona fede, quando iniziano ad ascoltare la propria voce» e non più quella eccedente dell’Altro. Così diventano retori e sofisti: «Accade nella politica che cede il passo al populismo, accade anche dentro la Chiesa». L’idolatria del resto non è esterna alla religione. È la sua principale malattia auto-immune, che essa stessa genera quando perde contatto con la profezia. La profezia, poi, è sempre inclusiva. Apre le porte ai gentili. In Isaia, continua Bruni «c’è il tema immenso dell’universalismo della salvezza. Per questo senza i profeti avremo solo dinamiche tribali. La visione (éskatos) di Isaia è quella di una nuova Gerusalemme in cui tutti i popoli fanno festa e celebrano insieme». La direzione in cui va il mondo è diametralmente opposta, constata amaramente Zygmunt Bauman (Retropia) richiamando le analisi di Michael Walzer: «Se mai gli Stati diventassero dei grossi vicinati – come accade nell’attuale fase di globalizzazione digitale accompagnata dal divorzio tra politica e potere – è probabile che i vicinati diventerebbero dei piccoli Stati e che i loro membri si organizzerebbero per difendere la politica locale e la loro cultura dagli estranei». Incombente è dunque la dinamica di un mondo che si arrocca come effetto di una globalizzazione che ha finito per aumentare le disuguaglianze, dagli Stati Uniti all’Europa. Senza dimensione profetica, ricorda Bruni, non avremmo probabilmente avuto l’Unione Europea e non a caso per De Gasperi, Schuman e Adenauer - tre cattolici, tre uomini di frontiera, tre perseguitati dalle dittature nazifasciste - è in corso la causa di beatificazione. Pertiene infine alla profezia la dimensione della gratuità, regola prima della grammatica sociale. «Il profeta è l’immagine di qualcuno che serve una parola non propria, anche scomoda, sempre gratuita». Non un regalo, dentro una logica commerciale di «dare e avere», una logica debitoria, ma un dono inserito in una prospettiva relazionale: «Isaia parla alle persone guardandole negli occhi, conoscendole. La parola è un bene relazionale, sta sempre dentro la relazione». La profezia nel tempo dei social media è pertanto un richiamo allo sguardo dritto negli occhi. Per evitare, ancora con Byun-Chul Han, che l’ordine digitale, ontologicamente solipsistico, provochi una progressiva scomparsa della realtà generata invece dall’incontro.

IL FOGLIO Pag 3 Il coppino del Papa alla Cei Bastonate no, ma Francesco chiede ai vescovi di darsi una mossa

Il Papa, aprendo l'Assemblea generale della Cei, premette che non intende "bastonare" i vescovi presenti. Però, in qualche modo, lo fa. E' brevissimo il discorso, poco più d'una decina di minuti. Un'introduzione che deve servire come base di lavoro, uno stimolo perché le due centinaia di presuli lì convenuti parlino, anche "criticando il Papa", chiede Bergoglio. Di solito lo fanno - qualche spiffero in tal senso è uscito dall'Aula Nuova, benché non si possa sapere visto che il collegamento televisivo viene interrotto. Il Papa non bastona ma getta sul tavolo tre "preoccupazioni" che rappresentano tre enormi problemi: "La crisi, anzi, l'emorragia delle vocazioni sacerdotali", "la povertà evangelica e la trasparenza", "la riduzione e l'accorpamento delle diocesi". Tanto è stato fatto, dice il Pontefice, ma bisogna "fare un po' di più". I problemi sono tanti, dal denaro che distrae all'inverno demografico che svuota sempre di più seminari e case religiose, fino a una troppo frequente "testimonianza tiepida". Il risultato degli approfondimenti sviluppatisi in questi anni sono magri, se Francesco invita a darsi una mossa su tutti e tre i fronti: per far fronte alla carenza di preti, la proposta è quella di scambiarsi i sacerdoti tra diocesi, "una più concreta condivisione fidei donum". Quanto alla "trasparenza", il Papa dice basta con quei vescovi che parlano di povertà evangelica e poi "vivono come faraoni, conducono una vita di lusso". Infine, è giunto il momento di arrivare alle conclusioni sul progetto per l' accorpa mento e la riduzione delle diocesi. Se ne discute da 50 anni, Francesco ha detto che il tempo è maturo per decidere. Il Papa, nel suo intervento, sembra aver preso atto che quanto da lui detto cinque anni fa in San Pietro (la richiesta di cambiare registro) e poi ripreso in occasione del Convegno ecclesiale di Firenze nel 2015, è rimasto lettera morta o quasi. La Cei si muove ancora come un treno a vapore nonostante il suo leader (che è il Papa) le abbia chiesto di correre come un treno ad alta velocità sui binari da lui approntati.

IL GAZZETTINO Pag 7 Il Papa s’infuria con i vescovi: “Non potete parlare di povertà e vivere come faraoni” di Franca Giansoldati

Città del Vaticano - «Voglio condividere con voi tre preoccupazioni ma non per bastonarvi. Poi potrete pure rivolgermi critiche e domande, non è un peccato criticare il Papa». I vescovi italiani hanno intuito subito che su di loro si stavano abbattendo i fulmini papali quando, nella sala del sinodo, Bergoglio ha attaccato a parlare davanti all'assemblea della Cei. «COME FARAONI» - Le telecamere nel frattempo catturavano volti increduli e sguardi smarriti. Nessuno si aspettava una rampogna del genere. L'eco degli applausi per i tre nuovi cardinali annunciati ieri e festeggiati qualche minuto prima Angelo Becciu, Angelo De Donatis, Giuseppe Petrocchi veniva cancellato da una improvvisa cappa di silenzio. Al centro delle preoccupazioni papali c'è l'uso del denaro. «Non potete parlare di povertà e poi vivere come dei faraoni. Vivere una vita nel lusso è una contro-testimonianza». Pausa. «SCANDALOSO» - «E' scandaloso trattare il denaro che vi arriva senza trasparenza o usarlo come se fosse vostro. A me fa male sentire che un ecclesiastico gestisce in maniera disonesta gli spiccioli della vedova». Non sono mancate le inchieste della magistratura sull'uso dei fondi dell'8 per mille. Salerno, Montecassino, Trapani, Padova, Massa Carrara. «I PRANZI NO» - Papa Francesco ha rincarato la dose ordinando ai vescovi di tenere ben separate le gestioni, quella diocesana e quella privata. Anzi, ha aggiunto, addirittura, a mò di esempio di non caricare le spese dei pranzi sui bilanci della Chiesa. È andato giù pesante. La seconda preoccupazione, invece, riguarda la crisi delle vocazioni. «Quanti monasteri e conventi saranno chiusi non si sa». TESTIMONIANZE - La responsabilità viene attribuita al potente vento della secolarizzazione che ha allontanato i giovani dalla Chiesa ma pure ai tanti scandali che in questi decenni sono stati al centro delle cronache. Il rimedio non è così automatico. Nessuno ha la bacchetta magica. Papa Francesco piuttosto punta a catturare l'attenzione delle nuove generazioni con la testimonianza credibile. Nel frattempo ha chiesto di costituire una rete di sacerdoti che su proposta del vescovo vengono inviati a svolgere un servizio temporaneo altrove in modo da fluidificare la collaborazione tra le 226 diocesi. FUSIONI - Il Papa vorrebbe anche ridurle di numero e arrivare a degli accorpamenti. «Servirebbero delle fusioni». Una idea che va avanti da un po' ma non decolla per le resistenze interne. Tante realtà diocesane anche se minuscole vantano una lunga storia. Naturalmente la richiesta dovrebbe prima o poi essere tradotta in un passaggio concreto e non trascinarsi troppo. POVERTÀ - All'origine vi è anche il bisogno di contenere i costi, oltre che di razionalizzare il personale e i beni posseduti. «Abbiamo il dovere di gestire con esemplarità e con regole comuni quello che possediamo» ha aggiunto Bergoglio, facendo proprie le idee che il segretario della Cei, Nunzio Galantino, aveva esposto a febbraio. «Dobbiamo operare perché la nostra gestione sia trasparente: qui è in gioco la nostra credibilità. Troppi beni frenano la Chiesa in uscita» aveva detto, annunciando che la Cei stava studiando il modo di pubblicare on-line tutti i bilanci relativi all'uso dell'8 per mille, diocesi per diocesi. Cosa che al momento non viene fatta.

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4 – ISTITUZIONI, ASSOCIAZIONI, MOVIMENTI E GRUPPI

IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag XXXI Nuova “stanza del tesoro” per i 250 anni dei Carmini di M.T.S. Celebrazioni concluse con un concerto

Venezia. Amor profano e amor sacro è il titolo del concerto che ha concluso - insieme all'inaugurazione della stanza del Tesoro -, le celebrazioni per il 250° anniversario dell'elevazione a Grande della Scuola di Santa Maria del Carmelo (vulgo dei Carmini). Il concerto è stato eseguito dall'Ensemble della Scuola di Musica Antica del Conservatorio Benedetto Marcello di Venezia. Molto soddisfatto il Guardian Grande, Franco Campiutti, anche per il nuovo e suggestivo percorso espositivo nella stanza del tesoro che, benedetto dal Cappellano, don Andrea, è stato presentato da Emanuela Zucchetta: due vetrine con preziosi messali, la mariegola secentesca in velluto rosso e ornamenti in argento, patene, ostensori, due corone e uno scettro, oreficeria sacra, ex voto, due monete d'argento (due grossi' del 1300-1400) coniate sotto il dogado di Antonio Venier, una stauroteca, e reliquari che contengono le reliquie della Vergine (capelli e velo), alcune carteglorie con cornici in argento sbalzato e cesellato. Una minima parte degli oggetti di un patrimonio ricchissimo che la Confraternita aveva raccolto nel tempo, prima delle soppressioni napoleoniche. La sala del Tesoro (seconda metà del Seicento), è stata dedicata al Vicario della Scuola, avvocato Mario Vianello, che ha voluto offrire un'erogazione per il progetto di restauro, legando il suo nome a quello del nonno Santino Vianello che, nel primo Novecento, fu Guardian Grande della Scuola stessa, per un trentennio. Questi i nomi dei giovani del Conservatorio che hanno suonato musiche del Cinque-Seicento: Caterina Chiarcos, soprano; Davide Gazzato, liuto, flauto dolce e percussioni; Alvise Zanella liuto chitarra barocca; Carlo Santi, viola da gamba. I professori: Cristina Miatello, Tiziano Bagnati, Crisiano Contandin.

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8 – VENETO / NORDEST

IL GAZZETTINO Pag 11 Infortuni sul lavoro, un morto a settimana di Angela Pederiva Fra 2015 e 2018 in Veneto 170 vittime di incidenti professionali. In servizio solo 140 tecnici Spisal

Venezia. Ogni settimana il Veneto piange un morto sul lavoro: erano 52 nel 2015, 46 nel 2016 e 48 nel 2017, ma sono già 24 dall'inizio del 2018. «Siamo di fronte ad un vero e proprio bollettino di guerra, 170 vittime in tre anni e mezzo, di cui quasi metà tra agricoltura ed edilizia», ha sottolineando ieri il governatore Luca Zaia, presiedendo a Palazzo Balbi gli stati generali della sicurezza. Un vertice istituzionale che punta, già entro fine mese, a redigere un piano strategico di prevenzione e contrasto degli infortuni professionali. I NUMERI - Del resto i numeri sono allarmanti, malgrado il complessivo dimezzamento registrato negli ultimi tre lustri. «Il Veneto non è all'anno zero in questo tema ha evidenziato Zaia in quanto gli infortuni sul lavoro sono scesi dai 70.961 dei primi anni Duemila ai 34.674 del 2016. Ma gli ultimi gravi casi di cronaca ci impongono di non abbassare la guardia. Con un tasso di 18,87 incidenti per mille lavoratori nell'ultimo triennio, il Veneto è alle spalle di altre regioni ad alta densità aziendale, ma supera di due punti la media nazionale». Cifre ulteriormente aggravate dal fatto che i tecnici dei Servizi di prevenzione, igiene e sicurezza sui luoghi di lavoro (Spisal) sono solo 140 in Veneto, a fronte dei 221 dell'Emilia Romagna e dei 400 della Toscana. «È da un anno ha replicato a stretto giro il dem Graziano Azzalin che in Consiglio è stata approvata all'unanimità una mozione su questo: perché non è stato fatto niente? Basta chiacchiere, servono azioni concrete». LA PIATTAFORMA - Proprio l'assunzione di almeno un centinaio di nuovi ispettori è una delle proposte contenute nella piattaforma, elaborata dai sindacati, che costituirà il canovaccio del chi fa cosa da mettere sul tavolo regionale. Le altre: controlli più frequenti nelle aziende da parte degli Spisal attraverso interventi più educativi che repressivi, filo diretto tra gli esperti delle Ulss e i rappresentanti sindacali della sicurezza, più formazione per i lavoratori e gli imprenditori, maggiori investimenti nella salute e nella sicurezza dei luoghi di lavoro sia nella contrattazione aziendale e territoriale che nella tecnologia, monitoraggio sincronizzato e costante degli incidenti, delle loro dinamiche e delle cause. «Abbiamo bisogno di segnali immediati di inversione di tendenza ha commentato Christian Ferrari, segretario regionale della Cgil e questo è l'inizio di un percorso non facile né breve». «Avevamo programmato un pacchetto di otto ore di sciopero ha aggiunto Gianfranco Refosco, leader veneto della Cisl ma lo attueremo solo se sarà necessario, perché il clima che si è respirato è certamente positivo». Resta comunque confermata per stamattina a Venezia la manifestazione dei metalmeccanici di Fim, Fiom e Uilm: alle 9 partenza del corteo da piazzale Roma e alle 10.30 presidio fuori da Palazzo Ferro Fini, dov'è all'ordine del giorno proprio il tema Spisal, in contemporanea all'incontro con gli assessori Elena Donazzan (Lavoro) e Luca Coletto (Salute). LE VALUTAZIONI - Nel giro di una settimana i vari attori forniranno le loro osservazioni al programma, al di là delle prime valutazioni. Agostino Bonomo (Confartigianato): «Serve più coordinamento tra le istituzioni negli interventi di controllo». Luigi Bassani (Confagricoltura): «Non servono sanzioni più pesanti, sono più efficaci i controlli frequenti e reiterati, ad alta probabilità». Alberto Bertin (Coldiretti): «La tecnologia può aiutare molto in agricoltura, per esempio evitando ai conducenti di disabilitare la barra di sicurezza sui trattori». Gabriella Chiellino (Confindustria): «Bisogna attuare le buone prassi nella formazione, anche attraverso i progetti di alternanza scuola-lavoro». Angelo Tosoni (Anci): «Attenzione al massimo ribasso, che non si coniuga con il rispetto della sicurezza». Giovanni Salmistrari (Ance): «Occorre vigilare sull'applicazione del contratto dell'edilizia». Per Daniela Petrucci, direttrice dell'Inail del Veneto, investire su questo fronte paga: «Il costo della mancata sicurezza vale il 4 per cento del Pil e le imprese che migliorano le condizioni di lavoro sono le più performanti».

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… ed inoltre oggi segnaliamo…

CORRIERE DELLA SERA Pag 1 Le novità (e i rischi) per il Paese di Antonio Polito Scelte e potere

Quello che sta nascendo è un governo del direttorio. Mette fine alla fase rivoluzionaria del nuovo potere, legittimato del resto da ogni voto dal 4 marzo fino a ieri in Val d’Aosta; e, con un compromesso sulla figura del presidente del Consiglio, modifica sostanzialmente la Costituzione materiale che regge l’Italia dal 1948. A guidarlo è chiamato un non parlamentare, e questo suona paradossale per partiti che hanno fino a ieri protestato contro i «quattro premier di fila non eletti» succedutisi da Monti a Letta, da Renzi a Gentiloni. Conte sarebbe infatti il quinto, a conferma del fatto che nelle urne si elegge il Parlamento e non il governo, ma anche di una grave crisi di funzionamento del nostro sistema politico. Pur decisamente meno noto dei «tecnici» precedenti, Conte offre garanzie di continuità culturale con l’establishment e la tradizione, perché uomo di diritto e con esperienza istituzionale. Ma è stato scelto alla fine di un processo senza precedenti. Nominato prima di essere incaricato, subordinato a un contratto sottoscritto da altri, rischia di essere un premier debole dopo venticinque anni di ricerca spasmodica del premier forte. Un’inversione della storia della Seconda Repubblica, ma che non ci riporta affatto alla Prima Repubblica e al suo assemblearismo. Anche ai tempi della partitocrazia, infatti, il governo si reggeva su premier deboli e partiti forti, ma con una grande differenza: lo strapotere dei parlamentari che, costituiti in correnti e grazie al voto segreto, indirizzavano l’esecutivo e ne condizionavano il programma. Se Di Maio e Salvini terranno fede al loro contratto, invece, il residuo di libertà politica dei parlamentari sparirà del tutto insieme con la libertà del loro mandato. Deputati e senatori diventerebbero marionette nelle mani dei leader. È dunque importante che il premier non sia un burattino, come paventava ieri la tv Bloomberg. Altrimenti resterebbero forti solo i partiti, e deboli le istituzioni. Mattarella ne è consapevole, e ha avvertito Di Maio e Salvini. Cinquestelle e Lega, che non si definiscono neanche partiti, sono in ogni caso formazioni autocratiche, basate cioè sul comando diretto e al bisogno plebiscitato, via on line o nei gazebo. Se ne deve dedurre che andiamo incontro a una nuova Repubblica autoritaria? La risposta è no, o almeno non necessariamente. I rischi ovviamente ci sono. Ma la riforma costituzionale prevista nel programma sposta piuttosto la barra in direzione di forme di democrazia diretta. Se davvero introdurranno i referendum propositivi e aboliranno il quorum per quelli abrogativi, il nostro processo legislativo diventerà infatti molto simile a quello della Svizzera, che non è certo un’autocrazia (tra parentesi, è il solo Paese europeo dove resiste il governo del direttorio). Altra questione è se possa funzionare un governo quasi «duale», non diretto cioè dal presidente del Consiglio ma da un programma, come sostiene Di Maio. Può reggere la prova della complessità e il rapporto con il resto del mondo? Può reggere il confronto tra la quantità e la portata delle aspettative suscitate e i mezzi e le risorse effettive di cui disporrà? Qui è lecito avere molti dubbi. I governi hanno un leader legittimato dal voto popolare in tutt’Europa, e risulta difficile immaginarli seduti intorno al tavolo delle decisioni comuni, a Bruxelles, mentre aspettano che il premier italiano si consulti a Roma con il suo consiglio di sorveglianza prima di apporre la firma dell’Italia. Ancor più pericolosa sarebbe l’idea di infischiarsene degli altri, mercati, governi europei, opinioni pubbliche straniere, come è parso in certe reazioni scomposte a critiche che vengono dall’estero, fortunatamente corrette ieri da Salvini, che ha invitato i partner europei a non temere il nuovo governo. Siamo infatti molto più interdipendenti di quanto certi «sovranisti» lascino credere agli italiani. Il battito d’ali di una farfalla in un’agenzia di rating può produrre tempeste sugli interessi che paghiamo sul nostro ingente debito pubblico (il volo dello spread già ce lo ricorda). E in Europa gli altri governi rispondono al loro interesse nazionale e ai loro elettori non meno del nostro, e dunque è ingenuo pensare di poterli piegare mostrando i pugni. L’Italia sta per cominciare una nuova avventura politica, in terre incognite. A Mattarella e ai due partiti andrà riconosciuto il merito di aver fatto nascere un esecutivo, opera che sembrava pressoché impossibile dopo il voto del 4 marzo: gli italiani preferiscono un governo a nuove elezioni. Ma la tenuta del bilancio pubblico e dunque dei risparmi, e il rispetto delle alleanze internazionali del nostro Paese sono beni più importanti del governo pro tempore, e infatti sono protetti dalla Costituzione. Al Presidente spetterà dunque di esercitare i suoi poteri di incarico del capo del governo e di nomina dei ministri nel pieno delle sue prerogative, a cominciare dalle scelte per gli Esteri e l’Economia. Al Parlamento e all’opinione pubblica competerà sorvegliare perché il cambiamento, tanto atteso da tanti italiani, non si trasformi in un salto nel buio.

Pag 17 La legge sull’aborto, 40 anni di Elena Tebano In Italia il calo costante di interruzioni di gravidanza. Ma dagli usa al’Irlanda il tema continua a dividere. Emma Bonino: “Ha funzionato bene. I medici obiettori? Sono ancora troppi”. Lucetta Scaraffia: “Applicata male, è stata trasformata in un’ideologia”

È uno strano destino quello della legge 194 sull’interruzione volontaria della gravidanza del 22 maggio 1978 . Da un lato i suoi 40 anni hanno il suggello dei numeri, che vedono la continua diminuzione degli aborti volontari - da 234.801 (il massimo, registrato nel 1982 con l’entrata a regime della norma) a 84.926 nel 2016 - e uno dei tassi di abortività più bassi a livello internazionale, 6,5 ogni mille donne. Dall’altro arrivano in un momento di rinnovata divisione sul tema, prima di tutto fuori dall’Italia. Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ne ha fatto un cardine della sua battaglia conservatrice: a gennaio si è collegato in diretta con la marcia della vita a Washington, dicendo agli attivisti pro-life «Siamo con voi dall’inizio alla fine»; questa settimana potrebbe emanare una misura che toglie i fondi federali alle strutture non solo che praticano aborti, ma anche che indirizzano le pazienti a chiunque li faccia. Venerdì, intanto, l’Irlanda dovrà decidere in un referendum se abrogare l’Ottavo emendamento alla costituzione, che vieta l’aborto anche in caso di incesto o stupro. Si stima che, dagli Anni 80, 170 mila irlandesi abbiano abortito all’estero, ma la vittoria del sì per quanto probabile, sembra risicata. Al contrario di quanto successo l’anno scorso con il referendum sulle nozze gay. Che ci sia un movimento antiabortista internazionale ben organizzato lo sostiene l’European Parliamentary Forum on Population and Development di Bruxelles, che denuncia l’esistenza di una rete fondata nel 2013 e denominato «Restaurare l’ordine naturale: un’agenda per l’Europa». Sul blog di Agenda Europa tra le associazioni «raccomandate e sostenute» c’è anche CitizenGo, quella che ha affisso il manifesto antiabortista a Roma nei giorni scorsi. Intanto in Italia l’applicazione reale della 194 si gioca su questioni «tecniche» come l’obiezione di coscienza per i medici e l’aborto farmacologico. Spesso nell’indifferenza delle generazioni che non hanno vissuto la mobilitazione collettiva per la legge.

«Nonostante sia nata da un compromesso per evitare il referendum che avrebbe depenalizzato l’aborto, oggi possiamo dire che la legge 194 ha funzionato». Emma Bonino, storica leader radicale e più volte ministra, ha iniziato la sua militanza politica nel movimento per legalizzare le interruzioni di gravidanza, dopo essere stata costretta nel 1974 a un aborto clandestino ed essersi autodenunciata un anno più tardi per quelli che aveva procurato ad altre donne (finì in carcere per tre settimane). Perché la 194 ha funzionato? «Ha garantito il diritto delle donne alla libera scelta della maternità. E ha portato negli anni, a una diminuzione del numero degli aborti. Anche se contestualmente si sono acuiti alcuni problemi». Quali? «Il principale è l’obiezione generalizzata dei medici: il 70% dei ginecologi a livello nazionale, con punte dell’84% a Bolzano, del 96% nel Molise, dell’88% in Basilicata, del 78% nel Lazio. Così ci sono intere Regioni dove di fatto la norma non viene applicata». Che cosa si dovrebbe fare secondo lei? «Quello che ha fatto per esempio la Toscana: introdurre una quota riservata ai medici non obiettori nei concorsi per le assunzioni. È una delle proposte dell’Associazione Luca Coscioni e permette di non mettere in discussione l’obiezione di coscienza individuale, ma al contempo di salvaguardare ovunque la legge nazionale. Poi c’è la Ru486». L’aborto farmacologico? «Sì, in Italia c’è voluta una vita perché fosse riconosciuta. La legge del 1978 dice espressamente che gli ospedali devono adeguarsi alle tecniche scientifiche meno invasive e più rispettose: invece si continua a limitare l’uso della pillola abortiva, imponendo per esempio un inutile ricovero di 3 giorni. Bisognerebbe estenderne e facilitarne l’uso. Purtroppo però non mi sembra che adesso ci sia il clima adatto a risolvere questi problemi». La legge 194 secondo lei è a rischio? «No, quello no. C’è stata in tutti questi anni una minoranza contraria alla 194 che però è sempre stata sconfitta: questo perché l’aborto non è un’ideologia, riguarda la vita concreta di moltissime persone. Le donne sanno che è uno strumento, anche se emotivamente doloroso, di cui hanno bisogno quando la contraccezione non ha funzionato».

Professoressa Scaraffia, lei da cattolica è contraria alla legge 194 sull’aborto? «Io sono contraria all’aborto, e favorevole alla sua depenalizzazione. La 194, quando è stata fatta, era una buona legge. Purtroppo è stata applicata male e si è tramutata in una bandiera ideologica». Lucetta Scaraffia, storica della Chiesa, editorialista dell’Osservatore Romano è una delle voce più autorevoli nel mondo cattolico italiano sulle questioni di genere. In che senso applicata male? «Pensare che sul diritto all’aborto si fondi l’uguaglianza delle donne come cittadine è stato un errore fondamentale che il femminismo sta pagando caro. L’aborto è una terribile disgrazia che tutte le donne soffrono nel corpo e nell’animo». Le femministe parlano di diritto alla maternità consapevole, non all’aborto... «Ma lo hanno trasformato nella categoria attraverso la quale si definisce la libertà della donna. Penso che considerare solo le donne responsabili dell’aborto e dare unicamente a loro la possibilità di scegliere se abortire abbia spezzato all’origine il rapporto tra uomo e donna». Crede che debba decidere pure l’uomo? «Sì, oggi si discute solo dell’obiezione dei medici, invece bisognerebbe costruire intorno alla 194 un percorso psicologico più attento, accompagnare le donne al discernimento in una riflessione approfondita che coinvolga il ragazzo». Anche se si gioca sul corpo delle donne? «I figli vengono nel rapporto con gli uomini, servono gli spermatozoi. E sono di tutta l’umanità: è sbagliato negarlo. Inoltre scegliere da sole condanna le donne alla solitudine. Oggi invece la libertà sessuale si fonda sullo scarico del peso della contraccezione su di loro: un altro errore». Dall’ultimo rapporto sulla 194 risulta però che tra i giovani sia in aumento l’uso del preservativo maschile. «Speriamo, io credo che questo sia anche per motivi ecologici, per non farsi avvelenare dagli ormoni della pillola anticoncezionale. Sono comunque tantissime le ragazze che si ritrovano a cercare da sole la pillola del giorno dopo». E gli uomini cosa dovrebbero fare? «Accettare anche da giovani la responsabilità di essere padri. Cosa che di solito non avviene. Dobbiamo smettere di considerare la maternità una iattura nella vita delle donne. Loro desiderano avere figli. Bisogna piuttosto metterle in condizioni di essere madri e lavorare».

LA REPUBBLICA Pag 1 Palazzo Chigi a sovranità limitata di Mario Calabresi

Sta per nascere un soggetto strano, mai visto: un governo politico con un premier tecnico. Un presidente del Consiglio che sarà chiamato a realizzare un programma che non ha scritto con una squadra che non ha scelto. Ieri pomeriggio i leader della nuova maggioranza di governo hanno indicato il nome dell'esecutore del contratto che hanno firmato. Non si può non chiedersi con quale forza e convinzione potrà illustrare alle Camere qualcosa che non è farina del suo sacco e che margini di manovra potrà avere chi si trova chiuso tra Salvini e Di Maio. Il prescelto poi non ha alcuna esperienza politica o di gestione. Di nessun livello. Non è mai stato parlamentare o sindaco, nemmeno consigliere comunale. Il più noto tecnico degli ultimi anni, Mario Monti, veniva dall'università ma era stato commissario europeo. Proviamo invece a immaginare Giuseppe Conte al G7 in Canada o ai vertici europei: cosa potrà dire o decidere senza consultare gli azionisti della coalizione? Perché le situazioni in cui un premier si trova a guidare la politica di un paese sono molte e spesso improvvise. Ci diranno che basta attenersi al contratto approvato dal popolo, unica fonte di legittimità. Ma la realtà quotidiana porrà sfide che quel patto ambiguo e nebuloso nemmeno ha immaginato. Il rischio che l'Italia venga rappresentata da un premier a sovranità limitata è forte e reale. Ricordate Ambra Angiolini che nella tv degli Anni '90 riceveva nell'auricolare indicazioni sul da farsi? Aveva la fortuna di dover ascoltare solo Gianni Boncompagni, non la doppia voce di Di Maio e Salvini.

Pag 28 Al Quirinale la partita non è chiusa di Stefano Folli

Si può fingere di non vedere, ma è impossibile negare che la giornata di ieri ha segnato un'innovazione istituzionale. Al punto che il presidente della Repubblica, invece di affrettarsi ad apporre il suo sigillo sui nomi e i testi fornitigli dal binomio Di Maio-Salvini, ha convocato per stamane i due presidenti delle Camere. È un passo del tutto inusuale, ma è evidente il desiderio di ricostruire una cornice procedurale entro cui collocare il bizzarro ma prevedibile epilogo della crisi. In concreto, Di Maio e Salvini non hanno fatto nulla per salvare le apparenze, ossia per riconoscere al capo dello Stato il rispetto autentico e non meramente formale delle sue prerogative. Hanno voluto far sentire a tutti, al palazzo come all'opinione pubblica, che i depositari del nuovo potere politico sono loro. E che il presidente è da loro considerato un notaio il cui compito consiste nel ratificare senza indugi gli accordi presi altrove. Si dirà che anche nella cosiddetta Prima Repubblica le crisi erano risolte sulla base delle intese partitiche. Tuttavia allora si salvavano le apparenze (e talvolta non solo le apparenze). Per cui era il presidente incaricato (o pre-incaricato) dal Quirinale l'uomo intorno a cui ruotava la formazione del governo. Colui che rispondeva al presidente della Repubblica, suo naturale interlocutore. E capitava che la volontà di quest'ultimo a volte prevalesse sull'intenzioni dei partiti, specie nel mezzo dei passaggi più scabrosi e paralizzanti. Lo stesso Mattarella lo ha ricordato giorni fa citando Einaudi. Adesso invece sullo scrittoio del presidente sono stati recapitati tutti i dati per chiudere la pratica: il nome del premier (peraltro "esecutore"), la squadra di governo, il contratto firmato. Tutto molto asettico e vagamente contraddittorio non con "il rispetto della volontà popolare", che non è in discussione, quanto con l'equilibrio istituzionale di una democrazia parlamentare. Anche perché i numeri della maggioranza giallo-verde non sono così incoraggianti: al Senato il governo, in assenza del soccorso berlusconiano, si reggerà su 6 voti. Un po' poco per reggere l'onda d'urto di un programma che si vuole "rivoluzionario" e come tale destinato a dividere il paese. Vedremo oggi quali decisioni prenderà il capo dello Stato, la cui irritazione è palese. È plausibile che come minimo voglia mettere l'incaricato, se sarà il prof. Conte, sui binari procedurali. Il che significa chiedergli di studiare il programma, quindi di farlo suo, e di tornare poi al Quirinale per sciogliere la riserva e presentare la lista dei ministri. Fra i quali, come è noto, nella casella del Tesoro, figura il nome del prof. Savona, economista prestigioso che fu ministro con Ciampi e le cui idee oggi sono scettiche sull'euro. E questo sarà il passaggio cruciale: ragione per la quale stamane è troppo presto per sostenere che la crisi è risolta. Se Mattarella dovesse manifestare una riserva sul nome di Savona, vorrebbe dire che l'intero equilibrio M5S-Lega è a rischio. E questo proprio perché si tratta di un nome significativo, con una visione del rapporto fra Italia ed Europa che è certo discutibile, ma che oggi risulta decisiva per qualificare la presenza della Lega in un governo non ancora nato ma già sotto attacco della stampa internazionale e di alcune cancellerie. Ieri sera Salvini, il capo della Lega a cui si deve l'indicazione dell'economista, sembrava il vincitore politico della partita. A lui spetterebbero infatti i ministeri più pesanti: dall'Interno all'Economia. Ma tutto potrebbe ancora cambiare.

AVVENIRE Pag 2 L’ultima battaglia di un uomo di Marina Corradi La tragedia tre volte mortale di Francavilla al Mare / 1

Per tutto il pomeriggio di domenica nelle immagini dei tg quell’uomo aggrappato alla rete di protezione del viadotto dell’A14, verso Francavilla al Mare, i piedi a stento poggiati sulla soletta di cemento: sotto, un abisso di trenta metri, in basso carabinieri e polizia e ambulanze, e curiosi con gli occhi all’insù. Fausto Filippone, 49 anni, dirigente d’azienda, sposato, padre, uomo definito da tutti tranquillo, a mezzogiorno di una domenica di maggio ha visto la sua vita travolta da una tragica, ancora oscura piena. La moglie, insegnante, precipita dal terzo piano di casa e muore poco dopo. Caduta? Spinta? O invece si è buttata? Non ci sono testimoni, nessuno sa. Ma pochi minuti dopo Filippone va a prendere la figlia Ludovica, dieci anni, dagli zii e si dirige verso l’A14. Verso un viadotto che corre sopra un precipizio. Ferma la macchina al km 389, come se già conoscesse quel punto. Come se altre volte, passando in auto, avesse annotato fra sé quando terribile era il vuoto, lì sotto. Prende per mano la figlia, la solleva oltre il guard-rail, la precipita nel nulla. Tocca il suolo con un tonfo leggero il suo piccolo corpo di bambina. Poi, anche l’uomo scavalca. Ma non si butta. Per sette ore resta lì, in quel vertiginoso bilico, e così, ora dopo ora, lo vediamo in tv. Ora dopo ora, la nostra domenica tranquilla e quell’uomo sul viadotto, che guarda giù, stacca una mano dalla rete, sembra decidersi, poi torna a aggrapparsi saldamente. “Scusa! Scusa!”, grida nel vuoto, come rivolto alla bambina. Non vuole che nessuno le si avvicini. Ascolta a stento le parole degli agenti e degli infermieri, che lo esortano a desistere. Di nuovo si stacca dal sostegno. Di nuovo cambia idea. Per sette ore. Un’infinita pena, in te che pure lo guardi da estranea. Un’infinita pena per quell’uomo che, spinto da non sai quale disperazione o follia, ha appena, comunque, ucciso la sua bambina, e dunque nel cuore è già come morto; e vuole, ha deciso di farla finita, giacché il pensiero di ciò che ha fatto è insopportabile; eppure qualcosa all’ultimo istante lo trattiene, e le mani sudate si riavvinghiano all’ultimo sostegno. Cosa lo ferma? Un istinto di vita terribilmente umano, terribilmente forte. La moglie è morta, la bambina è quella piccola chiazza chiara inerte, laggiù fra i cespugli. L’ha buttata forse per non lasciarla sola in un mondo che gli pare terribile, l’ha buttata con l’idea di seguirla immediatamente e morire insieme? Ma, adesso, non ce la fa. Il nulla, sotto, gli comunica un orrore insuperabile. La vita di Fausto Filippone in un’ora, non sappiamo ancora come, è stata sconvolta da una frana di morte. Eppure questo pover’uomo ancora ha in sé una fiammella che gli sussurra: non farlo, vivi, c’è ancora una speranza. Quando alza gli occhi al cielo, è forse per una preghiera? Che immane lotta, al chilometro 389 dell’A14, mentre le auto dietro sono ferme in coda, e nessuno suona il clacson. Di sotto, fra chi è accorso a vedere, ci si racconta di una famiglia normale, mai una lite. Un lutto, sì, la mamma di lui morta recentemente, dopo una lunga malattia, e il figlio fattosi più silenzioso. Ma in quante case muore un vecchio, e la vita, pure dolorosamente, continua? Appena l’altro giorno, dicono i conoscenti, Fausto e la moglie avevano portato la bambina a una manifestazione canora. Ludovica aveva cantato “Controvento” di Arisa. Tutto così semplice, così familiare. Nessuno che si fosse accorto di niente. Poi, repentina, l’onda di morte. Quell’uomo tranquillo trascinato via, spinto all’inaudito: uccidere la figlia. Certo pensando: e subito mi getto anch’io. Invece, sette infinite ore. Lottando, diviso fra forze immani. La morte, e, nonostante tutto, ostinata, la vita, che gli attanaglia alla rete di metallo le mani. Infine, è quasi sera, uno schianto. L’epilogo della tremenda battaglia di un pover’uomo. Il cielo sopra, immenso e muto. Eppure, ne sei certa, una misericordia immensa ora abbraccia quel soldato travolto e caduto.

Pag 2 Quando tutto è avvolto di follia di Giovanni D’Alessandro La tragedia tre volte mortale di Francavilla al Mare / 2

Quando la follia avvolge tutto. Questo potrebbe essere l’occhiello della “tragedia del viadotto”, avvenuta domenica a Francavilla al Mare, in provincia di Chieti, in Abruzzo. Una follia che forse non sarà mai neppure appieno ricostruibile, per aver annientato tutti, autore e vittime. Questi sono i pochi dati non smentibili che al momento si hanno: una professoressa di liceo vola giù dal quarto piano (morirà ore dopo in ospedale) di un appartamento in precedenza locato studenti presso il campus universitario di Chieti Scalo; il marito, un manager della Brioni Style, resta appeso per sette ore prima di buttarsi giù, all’esterno della rete di un viadotto autostradale, alla base del quale è il corpo di una bambina di 10 anni; non permette ad alcuno, sotto, di avvicinarsi a lei, ma non servirebbe a niente, è morta sul colpo; e infine una forte lite era stata sentita da parte dei vicini (in questa tranquilla coppia, di elevata condizione socioculturale), nelle ore precedenti. Se i dati sono pochi, la dinamica emerge chiara: la bimba da casa dei nonni è stata portata lì e scaraventata giù dal padre; per il volo dal quarto piano, il suo comportamento fa ritenere probabile che non si sia trattato di un incidente o di un gesto volontario di lei, bensì di un primo omicidio compiuto da lui. Quanto orrore. Quanto raccapriccio. L’Abruzzo – luogo di vacanze balneari in arrivo sulla costa, regno della movida – era già sotto choc dal tempo della tragedia di Rigopiano, avvenuta a gennaio 2017, coi 29 morti dell’hotel travolto dalla valanga; da poche settimane nel 2018 lo era con la scomparsa del ragazzo di Spoltore, figlio di una famiglia di imprenditori, ritrovato ucciso a colpi di pistola in un fosso. Ora lo è con questi tre morti, in una spirale dalle agghiaccianti dinamiche, per chi provi a raffigurarsele. Una riempie di orrore più d’ogni altra: l’immagine dell’ultima fase di vita della bimba di dieci anni, caricata in macchina e buttata giù dal viadotto. Il resto riguarda le sette interminabili ore, seguite da tutti i media, dell’uomo appeso alla rete, che si sposta con passi sempre più esitanti, urlando a tutti di andarsene, e che sembra presa da un racconto di Stephen King. Gli accertamenti stanno seguendo il loro corso. Parenti, amici, vicini, colleghi, conoscenti verranno ascoltati. Qualcosa, forse anche d’inatteso, trapelerà. Ma il tutto già si presenta, e resterà, avvolto nel velo nero della follia, di un black out mentale di annientamento, che non risponde ai canoni, purtroppo consueti, del raptus familicida: troppe sono le ore, dall’inizio alla fine, che è durata la strage. Sono fenomeni non razionalizzabili, la scienza li catalogherà e li nominerà in futuro (e dar loro un nome non aggiungerà alcunché alla loro comprensione). Intanto è successo. E questo dà un’altra certezza, agli inorriditi d’Abruzzo, d’Italia e di tutto il mondo: la follia cammina, non percepita, tra noi e siamo indifesi rispetto ad essa. Fuori della matrice di un anomalo familicidio, l’accaduto non ha la collocazione socioeconomica propria di altri fatti ed eventi criminosi, quali quelli osservati dalle forze politiche e che qualcuno possa avere la pretesa di individuare, prevenire, contrastare. Ci sarebbero volute qui percezioni presensoriali alla Minority Report, volendo citare lo scrittore Philip Dick, solo che quello è un racconto, questa è una realtà (e stonano, comunque, tutti i riferimenti letterari, anche quando si interrogano sul tema del buio della mente). Protagonista, dunque, la pazzia? Sì. Pazzia covata, poi esplosa, omicida e suicida? Sì: al di là dell’evento scatenante della lite, o delle rivelazioni che seguiranno; al di là di quella che psichiatri e criminologi non a caso definiscono “concausa scatenante della follia”, presupponendo di base quest’ultima. Quale altra possibile matrice, infatti, potrebbe sorreggere accadimenti susseguitisi in questo modo? Qual mai altro movente offrirne una diversa configurazione? Resterà solo la terrificante fragilità-madre di violenza, dell’essere umano, ad ascrivere tutti, vittime e colpevole, alla follia, quale protagonista dei tre morti di Francavilla.

Pag 3 L’amara vittoria del Caudillo di Lucia Capuzzi Il Venezuela non “incorona” Maduro

Mai una vittoria ha avuto il sapore tanto amaro della sconfitta. A trionfare in Venezuela non è stato il presidente Nicolás Maduro, bensì l’astensione. Domenica alle urne si è recato, secondo le cifre governative, il 46 per cento dei cittadini. Poco più della metà della quota abituale. Alle presidenziali più recenti – 2006, 2012 e 2013 –, l’affluenza aveva sfiorato l’80 per cento. Un messaggio potente per l’esecutivo che in questi comizi si giocava molto più di altri sei anni di mandato. Maduro puntava alla riconferma plebiscitaria. Per ottenere una legittimazione 'tridimensionale': agli occhi dell’opposizione, della comunità internazionale e del suo stesso schieramento. Negli ultimi mesi, il leader ha profuso enormi energie nel conseguirla. Con misure che vanno dall’estromissione dalla competizione degli avversari più temibili alla promessa di aiuti extra, garantiti da un’apposita «scheda della patria». Il presidente-candidato non ha esitato a mettere la popolazione di fronte all’alternativa tra «voti o pallottole» durante la campagna. Alla fine, però, Maduro ha perso la sua triplice scommessa. In primis, i risultati hanno ricompattato, nel disconoscimento unanime, il fronte anti-chavista, spaccato da oltre un anno in fazioni antagoniste. Il rifiuto di Henri Falcón, l’unico oppositore ad aver acconsentito a sfidare l’esecutivo 'ad armi impari', ad accettare la sconfitta, lo hanno riavvicinato alla Mesa de unidad democrática (Mud). La strategia del boicottaggio promossa da quest’ultima ha coagulato un consenso trasversale che riunisce il 54 per cento dei venezuelani. Con l’aggiunta del 21 per cento di Falcón tra i votanti – sempre in base ai dati ufficiali –, la Mud rappresenta quasi i due terzi della popolazione. Inclusi un buon numero di maduristi delusi, rimasti a casa nonostante le lusingheintimidazioni del leader. Un capitale politico enorme. Maggiore perfino di quello ottenuto con il successo alle politiche del 2015 e poi sprecato in inutili guerre intestine. L’ennesimo strappo del successore di Hugo Chávez alla legalità democratica, dopo la controversa Costituente, ha obbligato, inoltre, la comunità internazionale ad alzare la voce. Stati Uniti, Europa oltre a quattordici Paesi latinoamericani hanno respinto l’esito delle presidenziali. È improbabile, nel breve periodo, che l’Amministrazione Trump – cliente cruciale del petrolio di Caracas – arrivi a un embargo totale delle importazioni, nonostante la retorica infuocata. All’orizzonte, però, si profilano nuove sanzioni nei confronti dei dirigenti chavisti. La prima tranche è già arrivata da Washington all’indomani del voto. Dal punto di vista degli equilibri interni, infine, la 'vittoria di Pirro' di Maduro non fa che accrescere le frizioni. Con l’ala moderata, disponibile a concessioni agli avversari per allentare la pressione esterna. E con il settore duro, riunito intorno al numero due Diosdado Cabello, fautore di un ulteriore giro di vite per stroncare sul nascere il dissenso, reale o presunto. A unirli, l’astio verso l’imprevedibile e altalenante presidente. È dalle proteste della scorsa primavera-estate che il governo venezuelano non appariva tanto fragile e isolato. Tale vulnerabilità apre uno spazio di manovra politica importante. Innanzitutto per l’opposizione. Forte del risultato, essa ha l’opportunità di ripartire da una strategia finalmente unitaria per costringere il governo a farsi carico del dissesto economico e sociale del Paese. La comunità internazionale, da parte sua, ha un inedito margine di manovra per compiere insieme un’azione diplomatica di ampio respiro, lontana dagli slogan propagandistici, degli sterili avventurismi e delle contrapposizioni manichee. Per chi ha a cuore le sorti del Venezuela è il tempo della 'saggezza'. Quella a cui ha fatto riferimento papa Francesco al termine del Regina Coeli di domenica. L’unica 'arma' indispensabile in politica interna come internazionale per 'trovare la via della pace e dell’unità'.

Pag 3 Perché la spesa in armamenti limita sviluppo e democrazia di Raul Caruso I costi del riarmo: più insicurezza e ritardi nell’innovazione

Il riarmo a livello mondiale non sembra arrestarsi. Secondo gli ultimi dati del Sipri la spesa militare mondiale nel 2017 è stata pari a 1.739 miliardi di dollari, dato in crescita rispetto al 2016. La maggioranza dei Paesi sta aumentando i propri arsenali e la produzione della 'Pace' sembra divenire sempre più difficile. I costi legati all’espansione della spesa militare sono diversi e sostanziali. Al fine di avere un’idea più compiuta del nocumento e dei rischi legati al riarmo in corso in particolare per un Paese come l’Italia, dobbiamo in primo luogo interpretare il termine 'costo' in un’accezione ampia andando a indicare non solamente un esborso monetario ma più propriamente un 'disagio' o una 'privazione'. In sintesi, tre sono i costi da evidenziare, vale a dire un minore sviluppo economico, un indebolimento della democrazia e una maggiore insicurezza. Le spese militari, in quanto intrinsecamente improduttive, costituiscono un peso per lo sviluppo economico. Una delle argomentazioni più utilizzate per giustificare un crescente impegno militare è quella che fa leva sullo spillover tecnologico che deriverebbe dagli avanzamenti della tecnologia militare. In altre parole, secondo molti le attività di ricerca e sviluppo in ambito militare potrebbero generare innovazioni poi riutilizzabili in ambito civile. Questo convincimento è tuttavia sbagliato per una serie di ragioni. In primo luogo – in particolare per Paesi piccoli come l’Italia – il capitale umano impiegato nella ricerca militare è sottratto a quella in ambito civile. Tale distorsione nell’allocazione del capitale umano ha conseguenze spiazzanti sulla ricerca civile, dal momento che la disponibilità di risorse umane qualificate è limitata. In ogni caso, la più importante criticità della ricerca militare è la segretezza. Poiché i prodotti della ricerca in questo ambito dovrebbero essere destinati a realizzare un vantaggio concreto nei confronti di nemici, tradizionalmente i ricercatori e gli inventori che vi sono impegnati sono tenuti a rispettare vincoli di segretezza, che da un lato generano un ritardo nell’innovazione e dall’altro rendono impossibile sfruttarne i ritorni in ambito commerciale. Se quindi le innovazioni sviluppate nell’industria militare tendono a essere introdotte con ritardo, gli eventuali benefici per l’economia civile tendono conseguentemente a essere limitati. Costo ancor più rilevante è quello legato all’indebolimento della democrazia. Alcuni avanzamenti tecnologici, tra cui i droni armati e i dispositivi d’arma autonomi (come i Killer Robot), infatti, destinati a cambiare la condotta della guerra, vengono solitamente indicati nel discorso pubblico come strumenti che aumentano i livelli di efficienza bellica, ma in realtà incidono sulla legittimità, la qualità e la solidità della democrazia stessa. Questo è particolarmente vero nel caso dei killer robot. Uno dei principi alla base delle società democratiche, infatti, è quello della responsabilità. Nelle democrazie i cittadini dovrebbero essere messi in condizione di identificare e valutare i responsabili delle azioni del loro governo, in particolare di fronte a scelte tragiche quali ad esempio quelle in merito alla partecipazione e alla condotta da tenere in guerra. Nel momento in cui una 'macchina intelligente' operi in maniera autonoma e brutale, potrebbe infatti innescarsi un meccanismo di negazione della responsabilità a causa del quale nessun soggetto vorrà essere chiamato in causa per risultati indesiderati. In parole più semplici: nel momento in cui un robot dovesse rendersi protagonista di stragi o uccisioni indiscriminate sorgerebbe un problema di attribuzione di responsabilità. Almeno tre soggetti potrebbero essere additati come responsabili: i programmatori e coloro che hanno sviluppato gli algoritmi di azione dei robot; il comando militare che ha decretato l’impiego delle macchine; i decisori politici che hanno deciso in favore dell’impegno bellico e della sua intensità. È chiaro che l’incertezza e la confusione nell’attribuzione di responsabilità sono sicuramente una buona notizia per i leader politici ma una pessima notizia per la democrazia. Nella storia sappiamo, infatti, che non è infrequente che leader politici tendano a sminuire il proprio ruolo laddove le azioni di guerra siano state caratterizzate da gravi abusi e da violazioni dei diritti umani. Il caso delle torture di Abu Grahib in questo senso è emblematico: l’amministrazione Bush respinse una responsabilità diretta parlando di 'mele marce' e trasferendo in tal modo la responsabilità sui singoli soldati coinvolti. Tali meccanismi di negazione di responsabilità (il blame shifting) rappresentano un costo elevato per le democrazie e per la pace, in virtù del fatto che se i capi non sono chiamati a rispondere delle proprie azioni la prudenza dei leader democratici rispetto alla partecipazione ad azioni belliche tende ad attenuarsi diminuendo la probabilità di mantenimento della pace. In assenza di chiare responsabilità le guerre potrebbero dunque essere più frequenti e più sanguinose. Ultimo tra i costi del riarmo, ma chiaramente non in termini di importanza, è l’aumento del livello di insicurezza. In linea generale, a dispetto del senso comune, la sicurezza di un Paese decresce al moltiplicarsi delle armi disponibili. L’aumento delle spese militari è infatti percepito come una 'minaccia' dagli altri Paesi che, di conseguenza, alzeranno a loro volta le proprie spese militari, con un effetto negativo sulla pace. Questa dinamica nelle rivalità più accese prende il nome di 'corsa agli armamenti' che è caratterizzata da instabilità. Paradossalmente, la mancata guerra tra Stati Uniti e Unione Sovietica a colpi di bombe atomiche ha convinto molti che la deterrenza sia una condizione intrinsecamente stabile e che una politica in questa direzione sia pertanto auspicabile. Anche questa tuttavia è una convinzione sbagliata ma sovente utilizzata per giustificare i processi di riarmo. Una delle condizioni essenziali della stabilità della Guerra Fredda, infatti, era la sua natura diadica. La presenza di soli due attori favoriva la stabilità al verificarsi di alcune specifiche condizioni. In presenza di una molteplicità di soggetti coinvolti, l’analisi e la gestione della deterrenza diviene più complessa e le condizioni che lasciavano pensare a un’intrinseca stabilità di tali scenari tendono a scomparire. Per questi motivi è necessario provare a invertire la rotta e impegnarsi per il disarmo. L’Unione Europea in particolare si trova di fronte a un bivio. Da un lato i Paesi mantengono un proprio modello di difesa basato sull’esistenza di 'campioni nazionali' di proprietà pubblica (come nel caso di Leonardo ex Finmeccanica) in ambito industriale e dall’altro si dicono disponibili alla costruzione di una difesa comune. Questo scenario purtroppo presenta diverse problematiche. In primo luogo, la quotazione in Borsa dei gruppi industriali di proprietà pubblica spinge gli amministratori a muoversi finanche al di fuori del perimetro degli accordi internazionali sottoscritti e ratificati dai loro principali azionisti come ad esempio l’Att, il Trattato sul commercio delle armi, ratificato da tutti i Paesi Ue ma disatteso nei fatti. In secondo luogo tali gruppi al fine di generare i maggiori rendimenti possibili oltre ad aumentare l’offerta e la varietà di armamenti competono tra loro rischiando di minare anche le tradizionali alleanze politiche. È necessario, quindi, rivedere la natura di aziende orientate al profitto dei gruppi industriali militari ma anche creare un’agenzia indipendente europea per il controllo del commercio internazionale di armamenti che abbia i poteri adeguati per limitare le esportazioni in linea con i trattati internazionali ratificati dai parlamenti. Questo è tanto più urgente se consideriamo il processo di creazione di una Difesa comune appena iniziato con la Pesco e con l’istituzione del fondo europeo per la Difesa. In questa fase iniziale sembra che i nuovi accordi europei non limiteranno gli impegni di spesa nazionali ma piuttosto si affiancheranno ad essi andando infine ad aumentare la spesa militare aggregata. Come detto, questo costituisce una fonte di declino economico e di svuotamento di significato delle democrazie con conseguenti ricadute sui livelli di sicurezza e Pace. Speriamo che le classi dirigenti abbiano la visione e la forza per invertire questa tendenza abbandonando i falsi convincimenti che le danno forma.

Pag 7 Il ruolo: esecutore o “compensatore” di Eugenio Fatigante

La sorpresa è naturale e giustificata. La perplessità ci sta, in fondo. È sin troppo evidente che il professor Giuseppe Conte è persona non avvezza al mondo politico, per non dire un principiante, come ieri ci hanno - in rapida successione - ricordato giornali come il Financial Times, Le Monde e la tedesca Faz. D’altronde, che il voto del 4 marzo e - ancor più - l’insolito approdo scaturito con il contratto fra i 2 'mezzi vincitori' delle elezioni ci proiettasse, come Paese, sotto le luci della ribalta internazionale era un aspetto da mettere ampiamente in preventivo (soprattutto da parte degli elettori). Così come erano da prevedere le reazioni, a tratti scomposte, degli operatori finanziari al solo annuncio dei primi contenuti del 'patto di governo'. Certamente colpisce che due partiti fra i più radicali nel criticare la sequela di premier «non eletti» (come recitava, in modo anche improprio, la loro propaganda), per trovare un’intesa abbiano fatto ricorso a un nuovo nome 'terzo'. Fatto sta che il ruolo che sarà chiamato ad affrontare - qualora sia confermato l’incarico a lui - il giurista Conte, figura totalmente 'innovativa' per gli scenari politici nazionali (ben più di quanto non lo fu Mario Monti, portato a Palazzo Chigi quasi per necessità sull’onda di una crisi gravissima), si presterà nelle prossime settimane a un esperimento senza precedenti. Potrà essere un presidente del Consiglio più o meno mero e fedele 'esecutore' delle indicazioni delle due forze 'azioniste' dell’esecutivo, quasi una sorta di uomo di paglia (come, forse, vorrebbero in cuor loro 5 stelle e Lega, ammesso che riescano sempre a trovare la sintesi fra di loro). Ma, in questa inedita architettura che si va profilando, il premier potrebbe essere chiamato a svolgere un ruolo, quanto mai delicato, di continua 'camera di compensazione' fra le iniziative dei due partiti e le istanze della presidenza della Repubblica. Con un occhio sempre attento alle evoluzioni del quadro internazionale, in particolare quello finanziario. Fermo restando che l’accordo su Conte rispecchia le indicazioni dei due partiti più votati dagli italiani. E, fino a prova contraria, è a queste che il premier deve avvicinarsi, più che ai 'desiderata' esterni. Almeno fino a quando regge il quadro delle compatibilità.

Pag 10 Quarant’anni di 194, l’ora di andare oltre di Carlo e Marina Casini Realismo e tenacia per agire su mentalità, scelte ed errori determinati dalla legge

Se potessimo scegliere tra due ipotesi astratte – una società con norme che legittimano l’aborto, ma in cui peraltro l’aborto non avviene mai, e una società con leggi che proibiscono sempre l’interruzione volontaria di gravidanza, ma dove nonostante la regola, l’aborto è di fatto frequente – quale dovremmo dichiarare preferibile? È evidente che la preferenza dovrebbe andare alla prima. Questa è una delle ragioni per cui nel pensiero di alcuni il problema della legge ingiusta viene messo in disparte e si lavora soltanto per superare la legge iniqua con il solo metodo dell’aiuto alle gravidanze difficili o non desiderate. Ma le ipotesi sopra formulate sono astratte: non esistono nella realtà. È provato che le leggi permissive aumentano il numero degli aborti. Questo è tanto più vero oggi quando la prevenzione dell’aborto è divenuta largamente un effetto dello stato di coscienza individuale e sociale. La legge è percepita come un’indicazione di valori, una guida all’azione. Essa contribuisce potentemente a formare la mentalità del popolo e dei singoli. (...) La rimozione della legge ingiusta è un obiettivo ineliminabile. Ma, realisticamente, le difficoltà sono enormi perché la legge 194 in Italia è divenuta la bandiera di importanti formazioni politiche attualmente maggioritarie. Sembra, dunque, che il criterio della gradualità quale espressione di tenacia operosa debba essere accettato. Gradualità non significa legittimare l’ingiustizia, nemmeno in piccola parte, ma guadagnare spazi di giustizia il più largamente possibile in vista di un risultato finale. Un’azione diretta al cambiamento della legge 194, in una logica di realismo e di gradualità, dovrebbe almeno rimuovere le equivocità e le insincerità che sono presenti nella legge stessa, la più grave delle quali maschera sotto l’apparenza di un aborto ammesso in casi particolari l’applicazione del principio di autodeterminazione. Ma, forse, la tenacia operosa e il realismo esigono disegni più ampi, che, senza attaccare direttamente la legge 194 propongono in modo chiaro l’identità umana del concepito. (...) La prima ipotesi d’intervento legislativo capace di diminuire l’aspetto più conturbante e sovversivo dell’attuale normativa riguarda la funzione dei consultori familiari. Una riforma che rendesse evidente lo scopo esclusivo di evitare l’interruzione della gravidanza è coerente con il sentimento abbastanza generalizzato della «preferenza per la nascita». Nessuno può giudicare negativamente il lavoro svolto dai Centri aiuto alla vita (Cav). I consultori familiari pubblici dovrebbero svolgere la stessa funzione dei Cav in modo molto più ampio. Quando la legge 194 fu discussa in Parlamento non pochi, che pur la sostenevano, attribuirono ai consultori familiari la funzione esclusiva di aiutare la donna a proseguire la gravidanza, come, del resto, si può ritenere in base ad una corretta interpretazione dell’articolo 2. Purtroppo, però, questo scopo dei consultori, è stato largamente stravolto nell’attuazione pratica. Essi vengono concepiti come strumenti di accompagnamento della donna verso l’aborto e quindi, sostanzialmente, come garanzie dell’autodeterminazione. La logica avrebbe dovuto essere opposta: lo Stato non punisce più l’aborto, ma fa tutto il possibile sul piano del consiglio e dell’aiuto affinché la gravidanza prosegua. Purtroppo, l’abbandono della funzione descritta nell’articolo 2 sta giungendo ai limiti estremi, al punto che talune autorità amministrative escludono i medici obiettori dai consultori e, addirittura, pretendono di trasformare alcuni consultori in ambienti dove si possono praticare interventi abortivi. Non è possibile limitarsi a dire dei “no” a queste ulteriori forme di destrutturazione dei consultori. Bisogna passare all’attacco e chiedere una totale riforma dei consultori in modo che l’art. 2 sia applicato senza deviazioni. Una riforma dei consultori in modo da renderli efficace strumento di tutela del diritto alla vita dei concepiti, indirettamente riconoscerebbe l’identità umana del concepito, che deve essere l’obiettivo finale del servizio alla vita a livello culturale e giuridico. Ma è necessario, allora, che la funzione consultoriale sia trasparente e inequivoca. Ciò esige una totale estraneità dei consultori rispetto all’iter abortivo. La loro deve essere una funzione alternativa all’aborto, ben percepibile, come avviene per i Cav.

IL GAZZETTINO Pag 1 Il nuovo asse e due leader da mettere alla prova di Alessandro Campi

Sta dunque per nascere il governo politico voluto, voti e sondaggi alla mano, dalla maggioranza degli elettori italiani ma criticato e visto con preoccupazione dalla maggior parte dei commentatori e osservatori, a partire da quelli internazionali. La crisi delle democrazie contemporanee, a partire da quella italiana, probabilmente sta tutta in questo divorzio - di sensibilità prima che di interessi - tra la volontà popolare e una retorica pubblica o un'opinione ufficiale che sempre più spesso tende a negarla scambiando i propri desideri con la realtà. Un divorzio che è il vero alimento, sul piano psicologico ed elettorale, del tanto biasimato populismo. Il patto politico tra Salvini e Di Maio, al quale domani il Capo dello Stato darà una traduzione istituzionale con l'incarico conferito (salvo sorpresa) al giurista Giuseppe Conte, viene denunciato in queste ore come una spartizione del potere. Ma quale accordo di governo non lo è? Si ironizza anche sul tasso di dilettantismo e sull'avventatezza di coloro che lo hanno siglato, ma forse bisognerebbe riconoscere il lucido realismo con cui i due giovani leader, nell'arco di un paio di settimane e partendo da posizioni politiche divergenti, hanno saputo trovare un punto di mediazione e d'equilibrio. La loro pragmatica determinazione è stata premiata. In politica sapere quel che si vuole e dichiararlo è, fino a prova contraria, un'apprezzabile virtù. Ci si allarma (anche giustamente) per certe forzature alle vigenti procedure costituzionali, ma bisognerebbe anche chiedersi se forzature analoghe e non meno gravi, non sempre giustificate da una logica d'emergenza politica, non si siano avute anche nel recente passato. Insomma, a questo governo nascente un'occasione bisognerebbe darla, invece del fuoco pregiudiziale, peraltro inutile e controproducente per chi lo alimenta, cui stiamo assistendo. Alternative politiche, con i numeri di cui si dispone in Parlamento, non ne esistono, a meno di non voler considerare tale quella che avrebbe portato al governo, insieme ai grillini, il Pd renziano, vale a dire la forza politica che lo scorso 4 marzo ha subito la sconfitta più dura e che saggiamente, contro i cattivi consigli venuti da ogni dove, ha invece scelto la via dell'opposizione. Ogni alternativa di governo tecnica o istituzionale, per quanto all'apparenza più rassicurante, avrebbe solo esasperato gli elettori, stanchi di votare a vuoto, senza peraltro offrire una reale garanzia d'efficacia e autorevolezza sul piano dell'azione, interna e internazionale. Se i populisti fanno davvero paura il modo migliore per neutralizzarli, visto anche il consenso crescente di cui godono, è metterli alla prova, costringendoli a trasformare in decisioni di governo le loro ricette propagandistiche. Laddove la demonizzazione, specie se accompagnata da un sottile disprezzo nei confronti del voto popolare e delle cattive ragioni che lo motivano, è una strategia comunicativa che, ovunque in Europa, ha solo contribuito a renderli una forza sempre più stabile e radicata nel panorama dei partiti. Quest'ultimo d'altronde è un punto dirimente, col quale si fatica a fare i conti. Le grandi famiglie ideologiche che hanno fatto la storia delle democrazie europee dopo la Seconda guerra mondiale liberali, cristiano-popolari, socialiste sono ovunque in affanno, messe in difficoltà, prima che dall'onda del risentimento anti-politico, dalla loro difficoltà ad affrontare, sulla base di nuove ricette e programmi, le trasformazioni radicali che hanno investito le società contemporanee. Hanno un grande passato, ma forse faticano a comprendere il futuro. Stiamo probabilmente andando verso una ristrutturazione dei tradizionali sistemi di partito e dei criteri di divisione (destra/sinistra, conservazione/progresso) che li caratterizzavano. Qualcuno ha suggerito una nuova linea di demarcazione: sovranisti/europeisti. Ma forse è la stessa logica bipolare ad essere entrata in crisi. Oggi vincono o appaiono più credibili le sintesi ideologiche innovative: vale per Macron, che tutti lodano, perché non dovrebbe valere per i dioscuri nostrani? Quello giallo-verde (se un simile governo vedrà la luce, vedremo anche con quale composizione interna) è certo un esperimento, che per definizione può fallire e anche produrre gravi danni. Ma lavorare per screditarlo o farlo fallire prima possibile, è una pessima strategia. Più utile, come è nelle possibilità del Capo dello Stato, indirizzarlo nella scelta di alcuni dicasteri-chiave (Difesa, Esteri, Economia) per fare in modo che nasca al meglio delle sue possibilità. Dopo di che il giudizio si dovrà dare sulle cose fatte concretamente. Su quello che si sceglierà di realizzare (e in che forma) dei tanti punti messi nero su bianco nel fatidico contratto: certo un libro dei sogni, pieno di cose contraddittorie e di obiettivi irraggiungibili, ma di quel documento andrebbe colto il segno politico, e il segnale di novità sul piano del metodo, invece di criticarne la lettera con la pedanteria dei ragionieri. Certo, le compatibilità finanziarie sono una cosa seria e dirimente, ma andranno valutate sulle proposte concrete, non sulle intenzioni. Di sicuro suonano aprioristici certi interdetti che vengono dall'Europa, o che si nascondono dietro di essa. Se si vede un rischio politico per l'Italia, bisognerebbe anche vedere il rischio politico per l'Europa che nasce dall'ostinazione con cui le sue classi dirigenti negano il malessere collettivo che hanno contribuito a far nascere. L'Europa non è in crisi per colpa dei populisti, ma questi ultimi esistono e prosperano a causa di un europeismo che da ideale cooperativo finalizzato al benessere collettivo si è trasformato in un'ideologia del dirigismo politico e del rigore finanziario che nei cittadini non producono più alcun entusiasmo, semmai apprensione e ansia. Ora che la rivolta anti-establishment ha toccato un Paese grande e importante come l'Italia, più che le solite parole d'allarme, da Bruxelles e dintorni ci si aspetterebbe un ripensamento autocritico su ciò che in Europa non funziona.

LA NUOVA Pag 1 Il rischio del premier notaio fra i due maggiori azionisti di Massimiliano Panarari

Spread a quota 180. E un'inquietudine crescente, non più celata, da parte dell'Europa. Anche se i sottoscrittori del «contratto per il governo del cambiamento» si dichiarano contrariati al riguardo (o fanno spallucce), bisogna riconoscere che la Terza Repubblica non nasce sotto i migliori auspici continentali, né all'insegna di una prospettiva di autentica serenità. D'altronde, si tratta del primo governo integralmente populista di un Paese fondatore dell'Unione europea, ed era quindi ampiamente prevedibile che le reazioni non fossero precisamente entusiastiche. E, in maniera analoga, non ci si deve nascondere il fatto che le potenziali conseguenze sulla stabilità dell'euro, come quelle relative ai tentennamenti o ai mal di pancia del nuovo esecutivo rispetto alle nostre tradizionali alleanze politico-militari, verranno costantemente monitorate dalle cancellerie dell'Europa occidentale e dalle istituzioni comunitarie. Tenendo bene a mente che il comportamento dell'Italia in politica estera può avere implicazioni anche rispetto all'atteggiamento dei mercati e, di conseguenza, per la nostra credibilità presso gli investitori internazionali detentori del debito pubblico nazionale. Matteo Salvini e Luigi Di Maio sentono il vento in poppa - soprattutto il primo, a cui i sondaggi accreditano percentuali che oscillano tra il 22 e il 25% - ma, proprio per le motivazioni sopra citate, è indispensabile che, in quanto azionisti di controllo dell'esecutivo, mostrino le doverose consapevolezze, e non si facciano prendere dalla tentazione di scrivere gli ennesimi capitoli della loro campagna elettorale permanente. Perché, all'interno dell'economia interdipendente di questa nostra epoca, a pagare di tasca propria qualche intemerata di troppo (buona solo a gonfiare il proprio portafoglio di consensi) sarebbero, una volta di più, i risparmiatori - compresi i tanti che hanno deciso, in perfetta legittimità, di scommettere sulle forze politiche anti-establishment. L'indicazione quale presidente del Consiglio di Giuseppe Conte è quella di una persona apprezzata e dal curriculum significativo, così come portatrici di esperienze rilevanti saranno sicuramente alcune delle altre figure destinate a entrare nella compagine di governo. Ma, dopo che il nome del professor Conte è stato fatto pubblicamente dal capo politico pentastellato, l'immediata precisazione da parte del segretario leghista del fatto che ogni premier è «politico e non tecnico» rafforza una sensazione (che, a sua volta, apre ad alcuni timori). L'impressione di un primo ministro in funzione "notarile" (e di cuscinetto nei casi di tensione tra i due possessori della golden share, che potrebbero difatti entrare direttamente nel governo). Nonché la percezione di ministri pure capaci e stimati che potrebbero finire per diventare delle foglie di fico di un esecutivo totus politicus, come evidenzia anche l' "innovativa" (e assai discutibile) architettura istituzionale lasciata intravedere dal "contratto". Il pentaleghismo, ircocervo che scaturisce da due partiti- movimenti diversamente antisistemici, del resto, non costituirà in tutta evidenza un'eccezione alla ferrea legge del populismo antipolitico che sancisce il primato assoluto della politica su tutto (compresa la sua versione politique politicienne). E chissà che la decisione da parte del capo dello Stato Sergio Mattarella di ricevere quest'oggi i presidenti delle Camere non denoti un'ulteriore manifestazione della (più o meno diretta) moral suasion di un attore che, per nostra fortuna, nel corso delle interminabili settimane post-voto ha eretto il senso di responsabilità a scudo della nostra affaticata Repubblica.

Pag 2 Il professore che ha studiato nel “tempio” di Villa Nazareth di Fabio Martini

Resta ancora un personaggio impalpabile, ma dalla cortina di riservatezza che per otto giorni il professor Giuseppe Conte ha voluto mantenere sulla sua persona, cominciano a trapelare frammenti di vita che raccontano un personaggio più ricco e meno scontato di quello tratteggiato dalle prime biografie. Uno su tutti: Giuseppe Conte ha frequentato, da studente universitario, Villa Nazareth e nei decenni successivi ha continuato ad essere legato a quello che è universalmente noto come il tempio del cattolicesimo democratico italiano e come la culla del Concilio Vaticano II. In tanti anni a Villa Nazareth sono passati, come docenti o come ospiti, personaggi come Sergio Mattarella, Aldo Moro, Romano Prodi, Oscar Luigi Scalfaro. E papi diversi tra loro, come Giovanni Paolo II e Francesco, vi hanno fatto visita, riconoscendone il ruolo formativo. La vicinanza a Villa Nazareth delinea meglio - senza esaurirla - la personalità di un personaggio come il professor Conte, che per ora si è limitato ad autodefinirsi in modo generico: «Il mio cuore tradizionalmente batte a sinistra». Certo, la frequentazione di Villa Nazareth non esaurisce l'orizzonte culturale del premier in pectore, ma come spiega il professor Carlo Felice Casula, che guida il Comitato scientifico di Villa Nazareth «Giuseppe Conte fa parte del Comitato e continua a darci il suo contributo, a livello nazionale e internazionale. È stato molto attivo quando abbiamo stretto rapporti con alcune Università negli Stati Uniti e in quella occasione tra l'altro, ci è stato d'aiuto il suo perfetto uso della lingua inglese». Certo, in questi giorni la faticosa, inedita procedura che ha portato alla scelta di un presidente del Consiglio di mediazione ha portato i media a sintetizzare: il professor Conte sarà un portavoce, un notaio, un mero esecutore delle decisioni altrui. Proprio per ribaltare questa lettura, ieri sera Luigi Di Maio ha proposto un identikit molto profilato: «Molti immaginano Conte come una persona mite, ma è davvero tosto. Dovunque è andato ha fatto danni all'establishment, perché si è opposto a determinate ingiustizie. Ci ha sempre aiutato, è stato un po' un "angelo custode" del M5S nei momenti importanti».Ritratto di comodo? Una risposta si può trovare proprio negli anni di formazione a Villa Nazareth, che sono anche gli anni della giovinezza, quelli che di solito contribuiscono a forgiare la personalità. Il primo dato: a partire dai primi anni del secondo dopoguerra Villa Nazareth ospita nel suo collegio i ragazzi dal reddito basso e meritevoli. Negli anni nei quali il giovane Conte, proveniente da un paesino del Foggiano, frequentava questa struttura, il direttore si chiamava , futuro Segretario di Stato con papa Francesco, mentre allora il grande "regista" era Achille Silvestrini, che fu il braccio destro di Agostino Casaroli, il segretario di Stato protagonista dell'"Ostpolitik", la politica di distensione verso i regimi dell'Est. Quelli di Conte erano gli anni nei quali a Villa Nazareth passavano personaggi carismatici del cattolicesimo democratico come Leopoldo Elia, Pietro Scoppola, Paolo Prodi, ma anche uomini di spettacolo come Federico Fellini e Vittorio Gassman, sia pure in una versione più spirituale. Dal collegio usciva insomma una parte della classe dirigente cattolica e alcuni dei quadri più preparati della Chiesa italiana, futuri cardinali, nunzi, vescovi. Ma al netto della formazione iniziale e dell'imprinting formativo, è interessante il ritratto di Giuseppe Conte che propone un collega che lo conosce bene come il professor Felice Casula: «Non mi fa velo l'amicizia se dico che Conte è un docente molto preparato, come documenta la sua produzione scientifica. È un credente con una sua sensibilità religiosa, dotato di una forte sensibilità sociale». Ma per un uomo di 54 anni che non ha mai fatto politica, non ha mai gestito o amministrato, quali caratteristiche del suo profilo personale potrebbero aiutarlo in una sfida per lui sconosciuta come la guida del Paese? «Per il compito politico che lo attende - aggiunge Casula -, potrebbero giovargli alcune sue proverbiali qualità: non è aggressivo, ma dialogante, non è un esibizionista e non ama il decisionismo fine a se stesso, nella convinzione che ogni decisione debba essere il risultato di un dialogo».

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