Gianni Dessì, Riflessi V

Anno IV, numero 8 – Novembre 2014

Angela De Lorenzis, Le nuove drammaturgie contemporanee e la recitazione. Il teatro della presenza di Joël Pommerat, p. 1; Mauro Petruzziello, Attore, performer, recitazione nel nuovo teatro italiano degli anni Zero, p. 61; Sonia Bellavia, L’arte dell’attore nella Schauspielkunst di Hermann Bahr, p. 87; Alberto Scandola, Tra performance e presenza: la recitazione di Brigitte Bardot, p. 112; Maria Venuso, La ‘danza’ di Amina e il ‘canto’ di , p. 132; Susanne Franco, Archivi per la danza tra ricerca storica e pratica coreografica. I casi di Martha Graham e Rudolf Laban, p. 182.

I Libri di AAR Hyppolite Clairon, Memorie e riflessioni sulla declamazione teatrale. Traduzione, introduzione e note di Valeria De Gregorio Cirillo.

Acting Archives Review n. 8, novembre 2014 Direzione Claudio Vicentini e Lorenzo Mango Direttore responsabile Stefania Maraucci Comitato scientifico Arnold Aronson (Columbia University), Silvia Carandini (Università di Roma, La Sapienza), Marco De Marinis (Università di Bologna), Mara Fazio (Università di Roma, La Sapienza), Siro Ferrone (Università di Firenze), Pierre Frantz (Université Paris Sorbonne), Flavia Pappacena (Accademia Nazionale di Danza), Sandra Pietrini (Università di Trento), Willmar Sauter (Stockholms Universitet), Paolo Sommaiolo (Università di Napoli “L'Orientale”) Redazione Review: Salvatore Margiotta, Mimma Valentino, Daniela Visone; Essays: Laura Ricciardi, Barbara Valentino

Peer Review. Gli articoli vengono esaminati da revisori esterni. Gli articoli richiesti e concordati dalla direzione della rivista secondo il programma editoriale sono sottoposti alla valutazione interna dei direttori o dei membri del comitato scientifico, secondo le competenze. ______Rivista semestrale Autorizzazione del Tribunale di Napoli n. 82 del 21/10/2010 ISSN: 2039-9766 www.actingarchives.unior.it Sito: www.actingarchives.it

Anno IV, numero 8 – Novembre 2014

Angela De Lorenzis

Le nuove drammaturgie contemporanee e la recitazione. Il teatro della presenza di Joël Pommerat

Scrittura o scritture, testo o messa in scena? In che modo i testi teatrali contemporanei e le nuove drammaturgie hanno influenzato o stanno influenzando, per vie dirette o indirette, il corso delle forme teatrali nel periodo che va dalla fine del ventesimo e l’inizio del ventunesimo secolo? Come mai ed in che modo il declino, sempre più palpabile, della figura del regista-taumaturgo, sta aprendo una nuova frontiera della creazione teatrale? Ed in che modo l’autore sta timidamente riconquistando la sua antica centralità nel gioco teatrale, grazie, ad esempio, all’apporto della scrittura collettiva, del teatro di narrazione e dei nuovi modi di produzione del testo? Facciamo un passo indietro. Lungo tutto il corso del ventesimo secolo il regista ha avuto vocazione a diventare un meta-autore, la cui messa in scena si é implacabilmente sovrapposta al testo scritto. É così che la messa in scena, in quanto organizzazione semantica del sistema di segni della rappresentazione, si é progressivamente elevata ad una forma di scrittura.1 Oggi potremmo dire che a questa sequenza storica, in cui la parola scritta entra in concorrenza con modi di espressione plastici, visivi, sonori e recitativi, ne é subentrata un’altra, in cui il potere unificatore del regista comincia ad essere scalfito dall’autonomizzazione ‘polifonica’ dei segni stessi della rappresentazione. Come scriveva già negli anni 1980 Bernard Dort,

oggi assistiamo ad un’emancipazione progressiva degli elementi della rappresentazione teatrale. La concezione unitaria del teatro, che essa si fondi sul testo o sulla scena, si sta sfaldando, lasciando progressivamente spazio all’idea di una polifonia significante, di una competizione tra le arti sorelle che collaborano al fatto teatrale.2

Sintomo di tale emancipazione, l’estensione del termine ‘scrittura’ a tutti i segni della creazione teatrale: scenografia, suono, luci, costumi, recitazione, ecc. Ormai, aggiunge Dort,

1 «L’ascensione del regista e la considerazione della messa in scena come luogo stesso del significato (non come traduzione o decorazione di un testo) hanno, senza dubbio, costituito la prima fase [di questa trasformazione che riguarda il teatro]». Bernard Dort, La représentation émancipée, Arles, Actes Sud, 1988, p. 178. Nostra traduzione. Ma su tutta la questione vedi il fondamentale studio di Lorenzo Mango, La scrittura scenica, Roma, Bulzoni, 2003. 2 Bernard Dort, Le spectateur en dialogue, Paris, POL, 1995, p. 273.

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bisogna cercare di pensare alla rappresentazione teatrale come luogo di pratiche irriducibili l’una all’altra, che tuttavia si coniugano, come momento in cui queste si affrontano e s’interrogano, come combattimento reciproco, di cui lo spettatore é, in fin dei conti, il solo giudice e la chiave di volta.3

Altro effetto di questa svolta, l’emergere della funzione della ricezione come elemento destinato ad assumere un ruolo partecipativo nella «creazione» dello spettacolo. In un periodo cecovianamente a cavallo tra due secoli, le categorie di porosità, di ‘entre-deux’, hanno costituito l’identikit di una situazione diffusa caratterizzata dalla contaminazione fra i codici e i linguaggi. Negli ultimi anni, grazie all’apporto dei linguaggi sempre più complessi all’opera sui palcoscenici contemporanei (la musica, l’immagine, l’arte contemporanea e le arti plastiche, il video, il linguaggio elettronico, virtuale e quello digitale delle interfacce del web)4 l’opposizione tra teatro di testo e teatro della rappresentazione si relativizza grazie all’emergenza di nuove forme di teatralità in cui é possibile «fare teatro di tutto».5 Ecritures de plateau, performances, ‘scritture sceniche’, ‘scrittura e creazione collettiva’, costituiscono, già nella varietà lessicale, il sintomo di una sperimentazione in atto, in cui l’idea di laboratorio, di cantiere, di work in progress, di lettura pubblica, di ateliers, di prova e di saggio, si impone ed informa le differenti scritture.6 La riflessione sui testi contemporanei e sul loro rapporto con lo spazio della rappresentazione implica quindi una difficoltà legata all’accelerazione della diversificazione delle scritture stesse e della loro ibridazione. In questo senso, gli autori contemporanei, da una trentina d’anni a questa parte, sembrano tornati alla ribalta per iniettare nei loro testi un vento di cambiamento, lanciando una sfida silenziosa all’aura indiscussa del regista. Ma la figura dell’autore partecipa a sua volta del cambiamento, con testi che interagiscono sempre più coi nuovi linguaggi e con le nuove tecniche della scena, dando talvolta la sensazione (ad esempio con l’ipertrofia delle didascalie o con forme di scrittura in ‘presa diretta’ sulla scena) di moltiplicare gli ostacoli all’intenzione del regista o di prenderne addirittura il posto. È quello che vedremo analizzando, fra l’altro, il teatro di Joël Pommerat, autore contemporaneo, che scavalca la dicotomia testo-messa in scena, per proporre una forma di teatro in cui la scrittura del testo e le sue progressive realizzazioni sceniche vanno di pari passo. Vedremo in particolare in che modo la sua ricerca favorisce la genesi di nuove soluzioni

3 Ivi, p. 181. 4 Cfr. Y. Thommerel, Trafic, Paris, éditions Les Petits matins, coll. «Les Grands Soirs», 2013. 5 A. Vitez, Le théâtre des idées, Paris, Gallimard, NRF, 1991. 6 A proposito dello spettacolo come specifico teatrale che trascende il testo, vedi: Florence Dupont, Aristote ou le vampire du théâtre occidental, Paris, Aubier-Montaigne, 2007 et Philippe Lacoue-Labarthe, Jean-Luc Nancy, Scène, Paris, Christian Bourgois éditions, coll. «Détroits», 2013.

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drammatiche, oltre che di modalità inedite dell’investimento e dell’impegno dell’autore e dell’attore, in un momento storico in cui l’opzione astrattamente ideologica ha mostrato i suoi limiti. A partire dalla realtà francese ed europea, cercheremo quindi di riformulare i termini di queste problematiche, sforzandoci di seguire passo a passo le drammaturgie e le scritture teatrali contemporanee.

Testo teatrale o testo letterario? Parallelamente al conflitto storico tra l’autore e il regista che ha animato tutto il ventesimo secolo, troviamo un’altra dicotomia, da cui vorremmo ugualmente emanciparci: quella che oppone il ‘testo letterario’ al ‘testo teatrale’. Marvin Carlson scrive a questo proposito:

Nel teatro occidentale, la forma più frequente di concorrenza é quella che oppone il testo letterario al testo drammatico, e alle diverse arti della scena. Da secoli, gli autori drammatici ed i critici che s’interessano al testo, ci hanno messo in guardia contro gli inconvenienti dell’esperienza di teatro totale, che si farebbe a scapito del testo drammatico, spodestato da una sovrabbondanza di elementi non verbali. Questa preoccupazione é stata spesso espressa in termini di rivalità tra il ‘letterario’ e il ‘teatrale’, in cui quest’ultimo é considerato evidentemente nocivo per i valori, presunti superiori, del testo, e accusato di umiliare e disprezzare i suddetti valori, nonché di stornarne l’attenzione del pubblico. Ancora una volta, la teatralità soffre del suo rango di termine derivato e inferiore, prigioniera d’una figura binaria del discorso critico, anche se, in questo caso, la teatralità non minaccia la purezza della vita, ma quella della letteratura.7

In un paese come la Francia, che ha formalizzato la tirannia drammaturgica delle ‘regole’ e delle ‘unità’, é fatale che la scrittura drammatica non sia considerata alla stessa stregua dell’opera letteraria, a causa del suo carattere ibrido, irregolare, incompleto, e che, in nome della fruibilità, essa sia costantemente sottoposta a tentativi di restaurazione delle sue forme tradizionali. Tuttavia, nel quadro della ricerca drammaturgica contemporanea, anche questa opposizione sembra stemperarsi grazie ad una testualità che integra, da una parte, l’autonomia delle forme sceniche (iconiche o gestuali) e dall’altra, come bene sanno i teorici dell’epicizzazione del dramma moderno (Brecht, Benjamin, Szondi) anche moduli tipici di altre forme letterarie (in primis il romanzo)

Il timido ritorno degli autori che si delinea da una trentina d’anni nel paesaggio teatrale francese - scrive Didier Plassard - si fonda sul paradosso di una teatralità che s’inventa al di fuori degli schemi riconosciuti della scrittura drammatica, nello « sfregamento » (frayage) con la scrittura poetica e romanzesca. E questo non solo per tentare di cancellare la distinzione tra i

7 M. Carlson, Résistance à la théâtralité, in «Théâtre Public», juillet-septembre 2012, n. 205, p. 33.

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generi o più esattamente tra le modalità della creazione letteraria, ma piuttosto per ristabilire i legami tra il testo di teatro e la letteratura, per rimettere il teatro ’sotto tensione letteraria’, secondo la formula di Jean Joudheuil e Jean-François Peyret.8

Potremmo dire che, grazie ai procedimenti di scrittura che si diversificano, diventando sempre più complessi e «resistenti» al passaggio alla scena, gli autori introducono

una teatralità dello scarto, della resistenza (nel senso che i dispositivi testuali resistono alla loro trasposizione immediata sul palcoscenico), restituendo all’opera scritta per la scena una complessità comparabile a quella della poesia o del romanzo contemporaneo.9

Creando un testo che resiste alla messa in scena tradizionale, alcuni autori lanciano una nuova sfida ai registi, costringendoli a confrontarsi con delle esigenze inedite del testo.10 Le drammaturgie contemporanee partecipano dunque a questa «nuova alleanza» evocata da B. Dort11 tra il testo e la scena. Ma in questo combat sigulier, fondato su una reciproca istigazione all’innovazione, anche la «presenza» dell’attore viene ad essere modificata.

Forme rapsodiche di ibridazione testuale Scrive Jean-Pierre Sarrazac:

la mia ipotesi é che le basi di ciò che chiamo ‘dramma moderno’ siano state poste negli anni 1880, momento di rottura nella storia del dramma. Preciso inoltre che questa denominazione ‘dramma moderno’ si estende al dramma contemporaneo e a quello più immediatamente contemporaneo. Ciò nella misura in cui mi sembra che la creazione drammaturgica attuale poggi ancora su quei fondamenti nuovi, che essa non fa che continuare ad esplorare e ad approfondire. Sul piano drammaturgico, la distanza tra un testo di Sarah Kane o di Jon Fosse ed una pièce di Strindberg é infinitamente inferiore a quella esistente tra l’ultimo dramma romantico o l’ultimo dramma borghese e una qualunque pièce di Strindberg o Cechov. […] L’origine della creazione drammatica contemporanea si trova nella rottura, nel cambiamento di paradigmi che si sono prodotti con autori quali Ibsen, Strindberg, Cechov,

8 D. Plassard, Des théâtres de papier: quelques remarques sur l’écriture théâtrale contemporaine, in «Théâtre Public», juillet-septembre 2012, n. 205, p. 73. 9 Ibidem. 10 É un dato di fatto che la maggioranza dei teatri, assuefatti agli imperativi del rendimento e del riempimento delle sale, preferisce programmare una messa in scena, anche se mediocre, di un classico, invece di rischiare presentando un testo rappresentativo della nuova drammaturgia contemporanea. A questo proposito, cfr. il rapporto commissionato dal Dipartimento dello Spettacolo (D.M.D.T.S.) del Ministero della Cultura francese: Michel Simonot, De l’écriture à la scène. Des écritures contemporaines aux lieux de représentations, coll. «Entre/vues», hors série n. 1, Dijon, 2001. 11 Cfr. B. Dort, Le jeu du théâtre, Le spectateur en dialogue, Paris, P.O.L., 1995.

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Pirandello, Brecht… Il ‘lunghissimo ventesimo secolo’ della nuova forma drammatica si estende dagli anni 1880 ad oggi – e forse anche oltre.12

Per quanto riguarda le pratiche di scrittura contemporanee, quindi, più che di una mutazione, secondo Jean-Pierre Sarrazac, si deve parlare di una lenta, ma decisa evoluzione di linee di forza che provengono dalla fine del diciannovesimo secolo. Ma come caratterizzare il nuovo paradigma nato da questa rottura pregressa? Cominciamo col dire che se, secondo Szondi, il dramma moderno si epicizza, secondo Bachtin, si «romanzizza», diventando plurilingue, dialogico, polifonico.13 È ciò che Sarrazac chiama il «divenire rapsodico» del dramma contemporaneo:

Il divenire rapsodico delle scritture contemporanee si opera attraverso un’ibridazione permanente dei tre grandi modi di espressione poetica : l’epico, il lirico e il drammatico. […] La rapsodia costituisce una protesta vigorosa, direi cannibalesca – contro l’eugenismo drammatico ereditato dal dogma aristotelico del bell’animale. Il rapsodico é il fuori norma, il mostruoso, l’Irregolare. Osiamo affermare che la forma drammatica non si rinnova veramente, non si perpetua vigorosamente se non attraverso ibridazioni successive, seguendo, cioé, il suo divenire rapsodico, il suo divenire mostro.14

Invece di rappresentare un fattore di rischio, la progressiva esposizione e contaminazione del genere drammatico con la poesia ed il romanzo, garantisce la sua vitalità proteiforme. I procedimenti rapsodici sono infiniti, e vanno dall’alternanza di dialogo e narrazione alle incursioni logorroiche dell’io monologante che minaccia lo scambio dialogico, fino ad eliminarlo del tutto. Ricordiamo la progressiva indeterminazione (o scomparsa) dell’identità del personaggio, spesso senza nome, rimpiazzata dalla semplice indicazione del rapporto di parentela (Madre, Nonno, Figlia), o dal pronome personale (Lei, Lui), quando non da una lettera dell’alfabeto (A, B, C) o da un mero segno tipografico (un semplice trattino). Degna di nota, infine, la metamorfosi delle didascalie, che, da semplici indicazioni sceniche, si trasformano in elementi del dialogo, e che quindi sono sempre più spesso ‘recitate’. Questa porosità degli ambiti e dei settori testuali concorre ad un’opacizzazione del messaggio, all’attenuazione della

12 J. P. Sarrazac, Poétique du drame moderne, De Henrik Ibsen à Bernard-Marie Koltès, coll. «Poétique», Paris, Seuil, 2012, p. 18. 13 É noto che secondo Bachtin l’avvento del romanzo sulla scena letteraria provoca una contaminazione diffusa degli altri generi, cioé la loro progressiva «romanzizzazione». Ciò avviene, naturalmente, anche nel caso del dramma. Cfr. M. Bachtin, Epos e romanzo. Sulla metodologia dello studio del romanzo, in «Estetica e romanzo», Torino, Einaudi, 1979, pp. 445- 482. 14 J. P. Sarrazac, Théâtres du moi, théâtres du monde, coll. «Villégiatures/essais», Rouen, éditions Médianes, 1995, p. 17.

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linearità e della chiarezza dell’azione scenica, la quale evolve verso la sfumatura dei contorni ed un’ambiguità costitutiva.

Tristesse, animal noir Tristesse, animal noir,15 testo recente di Anja Hilling, talentuosa autrice tedesca contemporanea, messo in scena da Stanislas Nordey al Théâtre National de la Colline, a Parigi, nel 2012, presenta un caso interessante di contaminazione ‘mostruosa’. La storia é banale. (I parte) Sei giovani, tra i trenta ed i quarant’anni, ‘bobos’16 metropolitani, decidono di fare una gita in foresta per ritrovare, il tempo di un picnic, una natura incontaminata. (II parte) Dopo aver fatto un barbecue si addormentano, ma un lapillo (non si sa se della brace o di una sigaretta) dà fuoco al bosco. I sei si disperdono cercando di salvarsi dalle fiamme in una catarsi apocalittica. Una di loro, Miranda, morirà cercando vanamente di salvare la figlia neonata carbonizzata dalle fiamme. Tutti gli altri si salvano. (III parte) Di ritorno alla vita cittadina, i sopravvissuti, feriti e traumatizzati, sono obbligati a confrontarsi con la responsabilità, indiretta, della morte di Miranda e di sua figlia. Se la storia é banale, il modo di raccontarla é, al contrario, d’una complessità tutt’altro che gratuita. Il testo é diviso in tre parti – La festa, Il fuoco, La città – a cui corrispondono tre modi di scrittura e tre distinte drammaturgie.17 La prima parte é caratterizzata dallo small talk, un dialogo volutamente banale, caratterizzato da frasi corte e da scambi brevissimi che si sovrappongono l’uno all’altro, come in una qualsiasi conversazione quotidiana. Grazie a questo linguaggio ‘parlato’ ed alla rapidità degli scambi, l’autrice accentua l’aspetto triviale, quasi interscambiabile dei personaggi, caratterizzati da nomi brevi, che ricordano certe telenovele televisive: Miranda, Paul, Martin, Jennifer, Oskar, Flynn. Di conseguenza, l’identità dei personaggi invece di essere messa in risalto, é come ‘irretita’ nella coralità delle voci. Ė come se le diverse battute si mischiassero per dar vita a un unico corpo collettivo, un coro da cui non si distacca nessun ‘solista’. Più che di personaggi, si può parlare di particelle elementari, semplici elettroni in movimento. Si pensi all’incipit.

MIRANDA: Guarda. PAUL: Sì. MIRANDA: Guarda Gloria. MARTIN: I colori. MIRANDA: Un JENNIFER: Sì. OSKAR: Ė bello.

15 A. Hilling, Tristesse, animal noir, traduzione francese di S. Berutti, Paris, éditions Théâtrales, 2011, p. 29. 16 Contrazione di ‘bourgeois bohèmes’ (borghesi bohèmiens). 17 Questa struttura tripartita ricorda un’altra pièce ‘mostruosa’, Blasted di Sarah Kane, in cui al naturalismo del primo atto succede il paesaggio apocalittico del terzo atto.

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JENNIFER: Sì. Molto bello. PAUL: Un MIRANDA: Sì. PAUL: Dove. MIRANDA: Ha avuto paura. OSKAR: Anche tu, di’ qualcosa. FLYNN: - - - OSKAR: Perché non parla. Il tuo amico. JENNIFER: Lascialo stare. MARTIN: Là. PAUL: Dove. MARTIN: Là. Il sole nell’albero. […] FLYNN: Ė tornato di nuovo. JENNIFER: Chi. FLYNN: Il capriolo. OSKAR: Sai parlare allora. MIRANDA: Smettila.

L’interscambiabilità dei personaggi, rappresentanti ‘tipici’ di una generazione cittadina privilegiata, che sogna solo di sfondare nella moda, nel business e nei media, costituisce un elemento drammaturgico importante che accentua il loro aspetto ordinario, e senza qualità. In tal modo, Hilling, da una parte prende una distanza critica rispetto ad un repertorio sociale di comportamenti, dall’altra ‘istruisce’ il futuro attore.18 Le battute brevi e concitate fanno di ogni attore il semplice membro di un colosso dai contorni indefiniti, polifonico e transindividuale. L’attore dovrebbe quindi fondersi nella recitazione collettiva, evitando di smarcarsi dai suoi simili e rinunciando ai suoi ‘tic’. Inoltre, la neutralità dei nomi corti, generici, dovrebbe a sua volta indurre gli attori a mettere da parte la loro personalità, per non interferire con i tratti volutamente sfocati del personaggio. Questo invito a recitare ‘in incognito’, quasi a non recitare, sottende una cifra recitativa disincarnata, in levare. Il regista Stanislas Nordey, nella sua messa in scena di Tristesse, animal noir, ha fatto appello ad attori che costituiscono delle personalità molto note del teatro pubblico francese.19 Potremmo dire che Valérie Dreville (Jennifer), Vincent Dissez (Oskar) e Laurent Sauvage (Paul) sono delle vedettes, e sono stati traditi dalla loro stessa notorietà. Così, malgrado i loro sforzi, le forti identità dei protagonisti non si sono armonizzate con la neutralità dei personaggi, con

18 In Germania, d’altronde, gli autori, come è noto, fanno parte integrante degli organigrammi dei teatri, ed hanno quindi l’abitudine di scrivere per le troupes permanenti dei teatri pubblici, che conoscono bene. Da qui, la loro familiarità con le tecniche della recitazione. 19 Il che implica dei tempi di prove relativamente brevi e la distribuzione di qualche vedette per essere sicuri di riempire la sala. Come abbiamo già accennato, i testi contemporanei non attirano un pubblico formato ai classici, che in assenza di una politica di ‘educazione’, di preparazione e di diffusione, non ha gli strumenti necessari per accogliere i testi contemporanei.

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la loro fusione corale, in un corpo solo,20 come esige la scrittura della Hilling. L’attore vedette rifiuta di restare in incognito, non é evidentemente allenato a cancellarsi, non ha gli strumenti per scomparire – come fanno (lo vedremo più tardi) gli attori di Pommerat. La seconda parte del testo, corrispondente all’incendio e alla catastrofe, é una lunga teichoscopia21 di grande forza suggestiva, in cui l’autore sembra far parlare la foresta,22 che segue i personaggi nella loro disperata ricerca di salvezza. Il dialogo cede il posto al racconto. Benché la voce della foresta venga recitata sulla scena dai vari attori, in una polifonia radicalmente straniata, qui il dramma si muta in epopea della fragilità umana di fronte al divampare dalle fiamme.

Dal secondo al quinto minuto. Il minibus (Miranda) - Miranda riesce a mettersi in piedi. Non sa come sia stato possibile, dove trova la forza. Nessuna importanza. - Segue la direzione del fuoco - Verso ovest. - Non riesce a vedere il pulmino. - Ma avanza. - Avanza nel fuoco. […] - Quando raggiunge la portiera del minibus, la maniglia le brucia la mano. Lei la ritira. Del metallo fonde nell’incavo della sua mano, luminoso, argentato. Intorno, la mano é nera. - Rimette la mano sulla maniglia. Una seconda volta. - Miranda apre la portiera. - Ma é respinta, è colpita al viso, il corpo viene gettato indietro. Il fuoco si é impossessato di questo spazio. L’interno del minibus. I cuscini, le cinture di sicurezza, il volante, i poggiatesta, il cruscotto. La bambina. - Miranda si alza. […] - Miranda allunga le braccia attraverso il vetro all’interno del minibus, un odore di carne cotta ricopre allora qualunque pensiero. - Estrae la bambina dal minibus. - La posa a terra, in un punto scuro in mezzo a tutta quella luce. - I vestiti della neonata non sono più incandescenti. - Stacca i vestiti dalla pelle della bimba. Non é difficile, se ne vengono via da soli. (…)

20 Un esempio efficace di ‘coro sociale’ é quello che Il regista svizzero Christophe Marthaler realizza con i suoi attori. Negli spettacoli di Marthaler «la presenza quasi permanente di tutti gli attori sulla scena contribuisce a creare questo effetto. Scegliendo la presenza corale di tutti i partecipanti, anche di coloro che – temporaneamente – restano apparentemente inattivi, questi appaiono come facenti parte di un coro sociale», cfr. Hans-Thies Lehmann, Le Théâtre postdramatique, Paris, L’Arche éditeur, 2002, p. 213. 21 Nel testo di Anja Hilling si tratta in realtà di una lunga didascalia che occupa tutta la seconda parte. L’unico scambio dialogico é quello alla fine del II atto tra la guardia forestale e sua moglie, personaggi semplici, ‘naturali’, i quali, vivendo nella foresta, sono coinvolti nell’incendio, ed intervengono per prestare soccorso ai personaggi. 22 Questa seconda parte si apre, infatti, con una citazione tratta da Walden di Henry David Thoreau, autore americano della fine dell’ottocento, che dopo aver provocato involontariamente un incendio in una foresta, si ritira a vivere per due anni in una capanna.

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- Sotto questo strato nero, ci sono delle zone rosa. Miranda le sfiora con le dita piegate, la carne che tocca é cruda.23

Come in un lungo piano sequenza, il testo della teichoscopia segue i diversi percorsi dei sei amici minacciati dall’incendio, descrivendone minuziosamente i gesti e le sensazioni. Nella sua fredda catalogazione delle percezioni sensoriali dei personaggi, la scrittura oggettiva finisce per diventare d’una crudeltà propriamente insopportabile. Il fuoco richiama così l’impassibilità di una natura tanto rutilante e multicolore, quanto implacabile.

La assapori, questa corsa di colori al suolo. Ti ricorda qualcosa. A causa dei colori. I colori convocano una magia, una luce, una felicità seppellita. Si potrebbe dire che é blu. In certi punti lilla, poi il fuoco si separa, c’é del giallo e anche dell’arancione Ti ricorda un pennello.

Questa seconda parte, in cui la narrazione prende il sopravvento sullo scambio dialogico pone un’altra interessante sfida alla recitazione. L’epicizzazione del dramma, come ben sapeva Peter Szondi, non é una novità. Tuttavia, nel caso di Anja Hilling, la teichoscopia in quanto tipico espediente epico suona come un appello diretto al pubblico secondo un procedimento che é sempre più frequente nelle nuove drammaturgie. Scrive Jean-Pierre Ryngaert ,

l’autore situato dietro i suoi personaggi, grande enunciatore mascherato che manipola il discorso, é apparso allo scoperto. Un tempo si era travestito da ‘colui che racconta’, sotto l’apparenza del narratore, del recitante o del grande didascalico. […] Quando l’autore ha eliminato tali orpelli, é apparso frontalmente allo spettatore, in un faccia a faccia che prende la forma dell’appello al pubblico, del vis-à-vis con il pubblico. Una volta che la sua presenza é stata riconosciuta come tale, diventa infine possibile rivolgersi direttamente agli spettatori, senza ricorrere alla mediazione del personaggio o della finzione.24

In quanto procedura incontestabilmente epica, infatti, la teichoscopia della seconda parte di Tristesse, animal noir si presenta e risuona come un appello diretto al pubblico. In questo senso, gli attori che prestano la voce al resoconto anonimo del disastro sono i nuovi rapsodi di un teatro perennemente in bilico fra monologo e polifonia, fra ‘reportage dell’apocalisse’ e gioco. Sottolineiamo a questo proposito che gli attori porta-parola della drammatica cronaca dell’incendio possono sia rivolgersi

23 A. Hilling, Tristesse, animal noir, cit., p. 87-89 e 91. 24 J. Sermon, J. P. Ryngaert, Théâtres du XXIè siècle: commencements, Paris, Armand Colin, coll. « Arts du spectacle », 2012, pp. 11-12.

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direttamente al pubblico, in modo frontale (come fa, ad esempio, in alcune versioni sceniche, Teramene nella Fedra di Racine), sia indirizzare il racconto ai compagni di sventura, sparpagliati in vari punti del palcoscenico costellato di fiammelle di candele. Stanislas Nordey sembra così suggerire che il dialogismo intrinseco malgrado tutto nell’enunciazione epica (anche quella più crudelmente impassibile) sia un elemento costitutivo dell’agonismo teatrale, con o senza ‘quarto muro’. Nella terza parte, quella del ritorno alla normalità traumatizzata dei sopravvissuti, la struttura drammaturgica esplode, come il furgoncino degli otto malcapitati, frantumando in mille pezzi ogni convenzione. La catastrofe ha definitivamente minato qualunque certezza nell’animo dei superstiti, così come ha fatto esplodere qualunque resto di coerenza e tentativo di verosimiglianza al livello testuale. La dislocazione delle strutture del linguaggio procede parallelamente allo sbandamento dei sopravvissuti, alla loro perdita di ogni punto di riferimento. Non c’é più dialogo, monologo, narrazione, didascalia, punteggiatura che tenga, ma solo un patchwork di frammenti scomposti, in cui tutte queste modalità enunciative o tipografiche coesistono, senza soluzione di continuità. Al terremoto intimo dei protagonisti fa eco una vera e propria catastrofe drammaturgica. L’unico dialogo possibile tra i sopravvissuti, diventati degli automi, si realizza ormai in modo differito, tramite la segreteria telefonica. La voce umana sembra essersi definitivamente trasformata nel suono gracchiante, disincarnato di un mezzo meccanico.

Alcune chiamate per Paul. Cucù. Cucù a tutt’e due. Miranda. Sono Paul. Io. Beh, volevo dire che sono ancora bloccato qui. Presso una coppia. Una coppia molto gentile. E voi.25

Il dialogo precipita, si disloca e diventa così un grande discorso indiretto libero, fondato sulla ripetizione-variazione, in cui la punteggiatura a sua volta si degrada.

JENNIFER: Eccoci. OSKAR: Eccoci. Ha detto l’infermiera. E spinge la mia carrozzella nella stanza. Credo che abbia sorriso. JENNIFER : Cosa ha da sorridere stupidamente. OSKAR: Jennifer. Mia sorella avvolta di bianco.

25 A. Hilling, Tristesse, animal noir, cit., p. 185.

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La testa le orecchie il viso il collo la cassa toracica. JENNIFER: Oskar. Il braccio, destro, in una plastica argentata. Alluminio. Hai disimparato a camminare. OSKAR: La mia mano é in pericolo. JENNIFER: Cammini sulle mani o cosa. OSKAR: Se potessi. Camminare sulle mani. Strapperei subito la medicazione. Per vedere cosa resta di lei. JENNIFER: Due signori. Vorrebbero farvi una o due domande Riguardo all’incendio. OSKAR: Riguardo alla sua origine eventuale. Ha detto l’infermiera. Molto seria questa volta. JENNIFER: Come testimone della catastrofe. OSKAR: Come vittime. JENNIFER: Se non siamo troppo deboli. Se é possibile parlare con noi, se non siamo traumatizzati. OSKAR: Ho proposto. Che si facesse l’interrogatorio insieme. Così ognuno può indirizzare l’altro. JENNIFER: Ha detto l’infermiera. Amabile. OSKAR: Le domande. JENNIFER: Da quando vi trovavate nella zona dell’incendio. OSKAR: Come ci siete arrivati. Macchina bicicletta. Dove avete lasciato il veicolo. […] JENNIFER: Ė morta. OSKAR: Bruciata. Sì. JENNIFER: E Gloria. OSKAR: Anche. Sì. JENNIFER: Allora. OSKAR: Allora non lo so neanche io. […]26

I rari scambi autenticamente dialogici sono turbati dall’irruzione abrupta del discorso altrui, segnalato tardivamente e mantenuto in uno stato di deliberata ambiguità. Ma non é tutto. Si pensi all’episodio in cui, nel bel mezzo di uno scambio tra Jennifer e Paul (il marito di Miranda, morta nell’incendio), quest’ultimo, in un gesto improvviso, si lascia cadere dalla finestra su cui é seduto. Nulla, nel testo e nella messa in scena, prepara questo evento: nessuna anticipazione, nessun accento, nessun commento. In compenso l’azione scenica del suicidio, talmente breve da passare quasi inosservata (l’atto fulmineo dell’attore non può che sfuggire ad alcuni spettatori), viene poi ‘raccontata’ da Jennifer. In tal modo, la scrittura di Hilling passa impercettibilmente dal dialogo tra Jennifer e Paul (che si é appena defenestrato) al monologo interiore di Jennifer che descrive la caduta fuori campo di Paul. Ė così che la recitazione dell’attrice ‘precipita’ a sua volta in una dizione ipnotica, in cui passato e presente, realtà e immaginazione si confondono.

26 Ivi, p. 177 e 183.

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JENNIFER: E poi é caduto. Caduto senza saltare. Gli é preso improvvisamente. Spostare il centro di gravità. Forse non stava comodo. Seduto sul davanzale della finestra. Forse aveva sporto troppo il naso per odorare l’aria dopo la pioggia. Il mio appartamento é al terzo piano. Sarebbe potuta finire bene. Tutto si sarebbe sistemato. Non ho sentito lo choc. Immagino che deve essere stato dolce. Un atterraggio da gatto. Silenzioso e morbido sulle quattro zampe.27

La pièce si conclude, infine, con una lunga didascalia che descrive l’installazione realizzata da uno dei sopravvissuti qualche tempo dopo la catastrofe. La grafica della scrittura, che lascia ampi spazi vuoti, contribuisce a costruire una temporalità lenta, interiorizzata:

Always on my mind

Sei mesi dopo.

Una mostra.

Molto mediatizzata e controversa.

Un’installazione in un loft lontano da tutto.

Un fuoco. Artificiale e bello.

Blu nella parte bassa giallo verso l’alto arancione sui lati.

Copie di luci laser.

Vietato fumare.

Ingresso libero ma solo senza scarpe.

Lasciare le scarpe e le calze all’ingresso.

Alcuni passi su un prato di legna ed erba.

Erba calda.

Affianco ad un bidone della spazzatura.

Nel quale non c’é nulla. Solo carta. E un braccio. Un braccio di bambola.

Musica.

Elvis.

27 Ivi, pp. 217-219.

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Always in my mind.28

Ancora una volta gli enunciati eterogenei sono giustapposti secondo un sistema paratattico, come altrettanti elementi perturbanti che tradiscono la metamorfosi post-traumatica dei personaggi. Il climax tragico a sua volta si dissolve nella voce atonale e nella recitazione disincarnata degli attori. Trasformatisi in automi, i personaggi non tradiscono alcun pathos. Le componenti eterogenee del testo contribuiscono a creare un’atmosfera derealizzata, da cui é bandita ogni coerenza psicologica. La principale difficoltà per gli attori (e per la messa in scena) è così quella di dare una coerenza stilistica recitativa, un’unità estetica, alla discontinuità dei codici espressivi. Queste diverse strutture drammaturgiche e la moltiplicazione del loro uso in una stessa opera, concorrono a dar forma a quella che Michel Vinaver definisce una «pièce paysage».29 Opposta alla «pièce machine» – in cui l’azione d’insieme progredisce secondo un rapporto di causa-effetto (conflitto, peripezie, risoluzione), seguendo una continuità temporale lineare che corre verso l’epilogo del dramma – la «pièce paysage» procede «per reptazione aleatoria, giustapposizione contingente di micro-azioni discontinue»,30 dando luogo ad un’attenuazione, quando non un’abolizione, della linea di separazione tra immaginario e reale, storia rappresentata e rappresentazione, personaggio e attore-autore-spettatore. Si verifica così un’interferenza, un’interpenetrazione, una confusione dei piani, esattamente come durante una passeggiata in montagna, in cui il «paesaggio» che ci circonda appare e scompare, sale o scende, si apre o si chiude, seguendo l’irregolarità del terreno che noi percorriamo. Invece di seguire l’iter diacronico, verticale, della pièce machine, la pièce paysage propone la sincronia e la simultaneità di procedimenti che coesistono su uno stesso piano orizzontale. Questi procedimenti di frammentazione, sempre più diffusi nei testi teatrali contemporanei, favoriscono delle forme ibride di enunciazione e di recitazione. Quest’ultima, per adattarsi, si vede costretta a rimettere in discussione i suoi codici abituali, fondati sull’immedesimazione e ad esplorare forme e codici recitativi imparentati con lo straniamento e con la biomeccanica di Meyerch’old. Se questo ricolloca nuovamente la figura dell’attore al centro della scena, ciò implica la formazione di nuovi interpreti, disposti a rivedere le loro acquisizioni, e a lanciarsi in una sperimentazione recitante dalle caratteristiche assolutamente inedite.

28 Ivi, p. 223. 29 Michel Vinaver ha messo a punto un metodo di analisi dei testi teatrali, basato sull’estrazione di un piccolo frammento di testo: la micro-sequenza, e sulla sua analisi al microscopio. Questo metodo ha influenzato profondamente le successive teorie del testo teatrale. 30 M. Vinaver, Ecritures dramatiques, Essai d’analyse de textes de théâtre, Arles, Actes Sud, 1993, p. 905.

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Una sintesi del «nuovo» : il teatro della presenza di Joël Pommerat All’interno di questo panorama variegato, in cui gli autori esercitano una pressione tendente al rinnovamento degli stilemi recitativi, sulle scene francesi si é affacciato un fenomeno, in cui questi processi di ibridazione e di rapsodizzazione sembrano fondersi in un’unica proposta scenica che le riassume tutte. Questa sintesi del nuovo è rappresentata dalla collaborazione fra il poema scenico di Joël Pommerat e la compagnia Louis Brouillard. In effetti, i testi teatrali di Pommerat sono indissociabili dalla loro messa in scena e dai gesti, dai corpi dei loro attori-interpreti. Il successo della compagnia é il risultato di un percorso rigoroso, di un processo creativo dal tempo insolitamente lungo di gestazione, consacrato alla ricerca del ‘soggetto’31 dello spettacolo, e caratterizzato dalla meticolosità ossessiva della preparazione delle prove, oltre che da un procedimento inedito di scrittura dipendente dalla recitazione dei suoi attori. Né écrivain de plateau, né regista, né autore tout court, né performer, questo «scrittore di spettacoli»,32 come Joël Pommerat preferisce definirsi, è tutte queste cose al tempo stesso. Egli ottiene nella sua pratica teatrale una sintesi di tecniche che sembrano trovare nella sua proposta un equilibrio inedito ed una coerenza particolarmente vigorosa. Ne risulta un ‘poema scenico’, in cui lo ‘spettacolo-testo’ nasce in primo luogo dalla scena.

Non scrivo delle pièces, scrivo degli spettacoli. […] Il testo é quello che viene dopo, é quello che resta dopo lo spettacolo. […] Il teatro si vede, si ascolta. Si muove, fa rumore. Il teatro é la rappresentazione. […] Mi confronto alla questione della parola. Ma lavorare il gesto, l’atteggiamento, il movimento di un attore é altrettanto importante che scrivere parole. Rifiuto l’idea di una gerarchia tra questi diversi livelli di linguaggio o di espressione a teatro.33

Superando la teoria del teatro come «art à deux temps»,34 che tradizionalmente separa l’atto di scrittura da quello della sua ri-creazione nella messa in scena, Pommerat si schiera a favore di un movimento unico, che associa intrinsecamente autore e regista, scrittura scenica e scrittura testuale, performance e teatralità.

Penso che oggi si diventi veramente autori di teatro solo associando in modo particolarmente intimo il lavoro della scrittura del testo al lavoro della messa in scena. Eppure, quando ho cominciato ad avere la pretesa di scrivere per il

31 Utilizziamo volontariamente questa parola che fa parte del campo semantico del cinema, in quanto l’influenza del cinema sul teatro di Pommerat é particolarmente forte. 32 «Non sono un écrivain de plateau, non sono nemmeno un regista, né voglio diventarlo », ha detto Joël Pommerat durante l’incontro che ha tenuto nell’ambito delle Journées d’études de l’IRET, Ecole Doctorale dell’Université de Paris 3 – Sorbonne Nouvelle, 19 ottobre 2013. Inedito. 33J. Pommerat, Je n’écris pas des pieces, j’écris des spectacles, in J. Gayot, J. Pommerat, Joël Pommerat, troubles, Arles, Actes Sud, 2009, pp. 19-21. 34 Cfr. H. Gouhier, Le théâtre et les arts à deux temps, Paris, Flammarion, coll. «Essai», 1989.

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teatro, ero cresciuto nell’ideologia del famoso confronto/scontro tra un testo ed un regista. […] Penso che sia un errore concepire questi due tempi come separati l’uno dall’altro. Ho cominciato molto presto a sentire quanto fosse giusto ed anche naturale che la scrittura del testo e della messa in scena nascessero da uno stesso movimento, e non fossero più considerate in modo distinto, separato. […] Mi sono spesso chiesto le ragioni che avevano condotto a questa separazione istituita, per non dire istituzionalizzata, della scrittura e della messa in scena. Ho avanzato l’ipotesi che fossero state dissociate artificialmente per delle ragioni di comodità o di pigrizia. Poi ho capito che, in realtà, questo faceva comodo ai registi.35

La critica dell’ideologia liberista che é alla base della divisione del lavoro e delle tecniche teatrali, in cui «la specializzazione é la chiave del rendimento e dell’efficacia», spiega dunque anche la divisione testo-messa in scena che caratterizza il sistema produttivo teatrale francese, in cui «il potere ed i mezzi di produzione sono stati logicamente ed incontestabilmente nelle mani del regista».36 Che questa forma di corporativismo e di protezionismo non aiuti la creazione é un dato di fatto. Una forma di scrittura che sia veramente innovativa può trovare uno stimolo solo al di fuori dei canali istituzionali e dei diktat di un mercato che impone massimo rendimento in tempi brevi. Nella ‘fabbrica’ teatrale di Pommerat, politica, estetica ed etica sembrano intrecciarsi indissolubilmente. Alla ricerca di una nuova forma d’espressione teatrale, l’artista sente di dover prima di tutto rivoluzionare il sistema di produzione, partendo proprio dai protocolli, dai procedimenti, dai tempi e dalle tecniche delle prove, esattamente come aveva fatto, qualche decennio prima, Ariane Mnouchkine e il Théâtre du Soleil,37 la cui eredità ideologica ed artistica Pommerat non esita a rivendicare. «Le domande relative all’arte e alla cultura riguardano tutti. Ė urgente, come spiega Ariane Mnouchkine, rifondare un patto tra gli artisti e la società».38 Per una ventina d’anni, Pommerat ed i suoi attori hanno lavorato in un isolamento pressoché totale. Ancora sconosciuto e senza un pubblico, Pommerat ha scritto insieme ad i suoi attori, e nella più totale indifferenza, una decina di spettacoli, che, a partire dal 1990, ha presentato al Théâtre de la Main d’Or. Fra questi, Le Chemin de Dakar, Le Théâtre, Des suées, Vingt-cinq années dans la vie de Leon Talkoi, Les Evénements. Si tratta di spettacoli di cui non resta più nessuna traccia. Nel 1995, le messe in scena di Pôles - in cui recita Pierre-Yves Chapalain, pilastro della futura troupe –, di Mon ami (2001) e di Cet enfant (precedentemente intitolato Qu’est-ce qu’on fait?, 2003),

35 J. Pommerat, Théâtres en présence, Arles, Actes Sud-Papiers, coll. «Apprendre», n. 26, 2007, pp. 15-18. 36 Ivi, p. 19. La riflessione sul sistema di produzione e del lavoro é al centro di alcuni degli spettacoli di Pommerat come Les marchands et La grande et fabuleuse histoire du commerce. 37 Cfr. A. De Lorenzis, Ariane Mnouchkine e l’arte della recitazione, in «Acting Archives Review», Anno I, numero 2 – Novembre 2011, pp. 25-64. 38 J. Pommerat, Ce qui reste ce sont les œuvres, in J. Gayot, J. Pommerat, Joël Pommerat, troubles, Arles, Actes Sud, 2009, p. 118.

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cominciano ad avere una timida eco sotto forma di recensioni. Ma é solo nel 2007, che la sua trilogia - Au Monde (2004), D’une seule main (2005) e Les Marchands (2006) - che esplora alcuni temi ricorrenti nella sua opera (le relazioni familiari, i rapporti di potere, i rapporti di lavoro), presentata al festival di Avignone,39 incontra il grande pubblico, facendo esplodere il ‘caso’ Pommerat.

Les Marchands Les Marchands é una ‘favola teatrale’ che racconta la cronaca ordinaria di una donna disoccupata, disperata all’idea di essere l’unica a non essere assunta a Norscilor, la fabbrica d’armi che dà lavoro a tutta la regione.40 In seguito ad un’esplosione accidentale, la fabbrica é però costretta a chiudere e ventimila operai perdono il lavoro. Mentre la catastrofe si abbatte sugli abitanti, la nostra disoccupata, obbedendo a delle voci che glielo suggeriscono, commette un’autentica follia: per ‘salvare’ i suoi concittadini dalla chiusura della fabbrica, sacrifica suo figlio, facendolo cadere dal ventunesimo piano. Dopo questo gesto incomprensibile, ed in assenza di qualunque logica, come in una favola, per l’appunto, avviene il ‘miracolo’: la televisione annuncia lo scoppio di una guerra, la fabbrica riapre le porte e tutti tornano a lavorare. La storia é presentata seguendo un artificio che dissocia dizione e rappresentazione. Da una parte c’é il racconto ‘parlato’ della voce off di una narratrice – l’amica della donna disoccupata – che espone i fatti secondo il suo punto di vista; dall’altra, le scene rigorosamente mute degli attori. La recitazione, però, non mima il testo, ma racconta, a modo suo, quello che il testo non dice o non può esprimere. «Le scene che accompagnano, sul palcoscenico, il racconto della narratrice – precisa Joël Pommerat – non sono semplicemente illustrative. Completano la parola della narratrice, o la rimettono in discussione».41 La diegesis e la mimesis, sono quindi apparentemenete riunite in questo spettacolo per fornire in realtà due versioni distinte della stessa storia, fornendone due versioni diverse. Nella prefazione dell’edizione dei Marchands, come un manifesto di poetica, l’autore ci tiene a precisare che «la scrittura di questa pièce é costituita dall’insieme di queste due dimensioni, [il racconto e la recitazione] che saranno riunite soltanto in occasione delle rappresentazioni».42 La dizione e l’opsis veicoleranno ognuna un diverso piano di realtà, in maniera dialettica, sfruttando appieno il principio di

39 Diretto all’epoca da Vincent Baudriller e Hortense Archambault. 40 La data di creazione dello spettacolo Les Marchands é il 24 gennaio 2006 al Théâtre National de Strasbourg, con Saadia Bentaïb, Agnès Berthon, Lionel Codino, Eric Forterre, Murielle Martinelli, Ruth Olaïzola, Jean-Claude Perrin, Marie Piemontese. Le luci sono di Eric Soyer, e il paesaggio sonoro di François Leymarie (musica, rumori, bisbigli degli attori amplificati dai microfoni HF). 41 J. Pommerat, Les Merchands, Actes Sud-Papiers, 2006, p. 5. 42 Ibidem

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contraddizione brechtiano, come principio fondatore dell’atto artistico. Vediamo l’incipit :

La voce che ascoltate in questo momento é la mia voce. Dove io sia nel momento in cui vi parlo non ha nessuna importanza credetemi. Sono io quella che vedete lì, ecco quella sono io che mi alzo sono io che sto per parlare… Ecco sono io che parlo…

Ero la sua amica, quella che vedete là, seduta affianco a me. La sua amica. Lo so questa parola é vaga ma ero la sua amica.

Lei pensava e lo pensavo anch’io allora che fosse naturale mantenersi in contatto con delle persone che erano morte…

Solo i morti diceva hanno un’esistenza vera. una vita reale. Per lei solo i morti vivevano. Quindi noi parlavamo con i morti. Parlavamo con i morti anche abbastanza regolarmente.43

La voce fuori campo registrata, neutra, atonale, introduce la vicenda come in un flusso di coscienza, mentre le figure sulla scena sono una presenza silenziosa, muta. Nessun dialogo, nessuna parola é pronunciata dagli otto attori, impegnati in uno spartito gestuale molto sobrio, ma preciso. Gli attori ‘vivranno’ sulla scena le quaranta sequenze (di cui é composto il testo), eseguendo con estrema precisione dei gesti semplici, fondati su una grande economia, compiendo azioni altrettanto semplici, quotidiane (stringersi la mano, stare seduti davanti alla televisione, ricevere un’amica o dei parenti). I loro gesti sono discreti, ed essenziali, la recitazione é minimalista, per non dire assente. La fisionomia degli attori dà un’impressione di familiarità, di vicinanza, la loro apparente «normalità» li avvicina alle persone ordinarie, ne fa delle persone qualunque, che ci assomigliano. La donna disoccupata, ad esempio, é bassina, minuta, cicciottella, mentre la sua amica (la narratrice) é molto magra ed ha un

43 J. Pommerat, Les Marchands, Arles, Actes Sud-Papiers, 2006, p. 7.

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volto scolpito, angoloso, tragico. L’assenza di trucco teatrale, e gli abiti prêt- à-porter, di taglio moderno, contribuiscono a rafforzare quell’impressione di monsieur e madame tout le monde. Nella realizzazione presentata al pubblico di Avignone, e poi replicata fino ad oggi, la scena si presenta a sua volta come uno spazio mentale, un’astrazione che traduce in luce, spazio e forma teatrale, il sentimento di angoscia, di noia e di depressione della donna disoccupata. Il palcoscenico, concepito intenzionalmente come una camera oscura, é talmente vuoto e spoglio, da sembrare immenso. Solo qualche raro accessorio e qualche mobile prendono posto sulla scena: un tavolo, una sedia, una lampada, il bancone di un bar, una televisione accesa. Immersi in una penombra surreale, solcata da fasci di luce, gli attori vivono nei diversi luoghi del racconto: l’appartamento al ventunesimo piano, completamente vuoto, dove abita la donna che non lavora; il bar, la fabbrica, l’appartamento dell’altra donna, quella che lavora, ecc. Per lo più immobili, più che recitare, gli attori bisbigliano, sussurrano, mormorano tra di loro dei suoni indistinti, pressoché inudibili. Isolate nell’immensità di questo spazio astratto, le loro figurine si stagliano nel chiaroscuro come ombre avvolte da un’aura di mistero, perse in un’esistenza vuota. E se il senso del vuoto ricorda l’universo metafisico di Edward Hopper, le tenebre richiamano i grigi ed i neri della pittura di Soulages. Nel procedere del racconto, realtà ed immaginazione cominciano a confondersi, mentre il quotidiano, apparentemente banale, della donna comincia a popolarsi di fantasmi. Quanto alla televisione, che emette lampi di luce bluastra, si direbbe un medium luciferino sintonizzato sul mondo dei morti, evocato dalla voce recitante:

Uno di quei giorni fu il giorno in cui la mia amica vide apparire sua madre per la prima volta da quando era morta. Dietro il bancone del bar. Le braccia cariche di fiori come se prendesse il volo. Sua madre la guardava e la sosteneva con tutte le sue forze. […]

Spesso come quella sera dopo terribili preamboli é alla televisione che si manifestavano i morti.

E quella sera per fortuna fu un morto molto particolare che ci diede un segno: il padre della mia amica. La mia amica era pazza di gioia. Noi li vedevamo

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e potevamo parlare loro attraverso la mia televisione.44

Nel prosieguo della storia, la porosità tra realtà e immaginario si accentua, mentre il mondo reale é sempre più contaminato dalle visioni della donna, provocando un senso diffuso di malessere:

Lei vedeva il mondo in cui viviamo come un mondo che non é vero. Un mondo nel quale noi immaginavamo di vivere Senza renderci conto che non ci vivevamo. […]

Mi succedeva spesso quando ero al lavoro di ripensare a tutti questi avvenimenti che vivevo fuori. Di ripensare alle discussioni con la mia amica a proposito di questa vita presente che credevamo di vivere e che non sarebbe vera e a proposito della morte, che essa sarebbe vera, e che soprattutto sarebbe la vita.45

Ad accentuare il sentimento perturbante d’inquietante étrangeté, l’eco dei passi degli attori, amplificato in differita, risuona forte nel silenzio, ma disgiunto dall’azione di camminare. Quanto agli ormai celebri cambi di scena (ottenuti grazie a macchinisti che realizzano, nel buio, le manipolazioni in tempi serratissimi, coadiuvati dagli attori), essi sono talmente fulminei da risultare praticamente impercettibili. Sembrano irreali, magici: dopo un noir di pochi secondi, ad esempio, la scena appare radicalmente trasformata, inquadrata da un punto di vista diverso. Grazie ad una minima variazione della posizione degli attori e dei mobili, é come se l’occhio di una telecamera invisibile la stesse filmando da un’altra angolatura. La rapidità dei cambi permette così una sorta di montaggio cinematografico delle scene.46 Il mondo strano, oscuro, in cui evolvono i personaggi sulla scena, proiezione della sofferenza psichica della donna, contrasta con il racconto della narratrice, che, malgrado la sua voce soave, prende le distanze dalle azioni e solleva dubbi sulla loro effettiva realtà. Le parole del racconto sono semplici, quasi banali, il linguaggio non é mai ricercato, é una poesia ‘senza aura’, che produce un effetto destabilizzante:

Lei si sbagliava certo spesso su questo genere di percezione che aveva delle cose, e delle persone. No, lei non aveva sempre perfettamente il senso della realtà.47

44 Ivi, p. 19 e 21. 45 Ivi, p. 20 e 24. 46 Sull’influenza degli effetti cinematografici nel teatro di Joël Pommerat, cfr. M. Chabrol, T. Karsenti, Théâtre et cinéma: imaginaires croisés, PUR, coll. «Le Spectaculaire», 2013. 47 J. Pommerat, Les Marchands, cit., p. 16.

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L’autore ci aveva avvertito, nell’introduzione, che il racconto «non ha nessuna affidabilità oggettiva», e che «i fatti espressi in risonanza con la parola, in certi casi, la smentiscono».48 Nei Marchands lo scarto tra verità e apparenza si approfondisce, insieme alla confusione tra realismo e illusione. Il tema del lavoro é raccontato attraverso il vuoto quotidiano della donna disoccupata, col suo progressivo slittamento nella follia. Si tratta dei due «poli»49 intorno ai quali verte tutta la ricerca di Pommerat: il polo fantastico e il polo politico, sociale dello sfruttamento del lavoro, dialettizzati in una tensione biunivoca, permanente. L’autore non sviluppa una tesi sociologica, storica, o politica (lo spettacolo non rientra nella categoria del teatro didattico o documentario), ma usa l’illusione e l’enigma della favola per confondere i due poli, e complicarne la ricezione. Una scena muta mostra gli operai che lavorano alla catena di montaggio, mentre la narratrice evoca la problematica del lavoro in termini ambigui : il lavoro é un diritto – suggerisce il testo – ma fa di noi dei ‘mercanti’.

Il lavoro é un diritto ma é anche un bisogno, per tutti gli uomini. Ė anzi il commercio di noi tutti. Perché é grazie a lui che viviamo. Noi siamo uguali ai commercianti, dei mercanti. Noi vendiamo il nostro lavoro. Noi vendiamo il nostro tempo. Ciò che abbiamo di più prezioso. Il nostro tempo di vita.50

Questo passaggio dispiega le contraddizioni del racconto ed apre alla riflessione (gli operai stanno costruendo armi), mentre la cifra fantastica, principale motore della favola, lavora all’inattendibilità della storia. La donna che sacrifica il figlio buttandolo dal ventunesimo piano, sicura che il suo gesto inconsulto farà riaprire la fabbrica, ottiene apparentemente il ‘miracolo’. Ma l’illusione è di breve durata. Apprendiamo infatti rapidamente che la fabbrica ha riaperto, in realtà, perché é appena scoppiata una guerra. La ripresa del lavoro degli operai sarà, quindi, all’origine del massacro di una massa indifferenziata di esseri umani ignari, ridotti a carne da cannone, prefigurato dall’infanticidio. Mentre il tempo scorre lento, come dilatato, dall’inizio alla fine, la storia continua a galleggiare in una sorta di indeterminazione diffusa. L’autore non fornisce nessuna giustificazione dell’atto incredibile della donna, o delle

48 Ivi, p. 5. 49 Pôles é, per l’appunto, il titolo di una delle prime pièce di Pommerat. 50 J- Pommerat, Les Marchands, cit., p. 31.

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apparizioni, affidando allo spettatore il compito di «completare a suo modo, anche in sogno, il senso di questa favola».51 Complice la serenità rassicurante della voce fuori campo, che prosegue il filo del racconto, lo spettatore scivola lentamente in questo mondo parallelo popolato di fantasmi, un mondo magico, enigmatico che diventa assolutamente reale. La scena in bianco e nero, dominata dal chiaroscuro, l’atmosfera felpata, unite alla sensazione di incertezza, di galleggiamento, ‘aspira’ letteralmente lo spettatore, lo attira verso di sé. Non é più la scena a ‘andare verso’ il pubblico, ma é quest’ultimo ad essere invitato su una scena che sembra allontanarsi, impalpabile e capziosa. I diversi linguaggi della scena concorrono ad un’esperienza sensoriale totale dello spettatore, sulla base di un dispositivo ‘immersivo’ fondato sull’estetica della ‘prossimità’. Dal canto suo, la drammaturgia della favola, il cui senso resta costantemente tremblé,52 in bilico tra varie interpretazioni possibili, ‘apre’ il significato, lasciando un varco all’immaginazione dello spettatore. Il flusso di coscienza del narratore guida ed accompagna lo spettatore,53 ne acuisce la curiosità convalidando o criticando le azioni rappresentate sulla scena, come un rapsodo il cui racconto sdoppia costantemente l’azione, creando un margine di dubbio e di riflessione. La drammaturgia e l’indeterminazione della storia fantastica, non risolvono la dialettica tra questi due «poli», ma la lasciano costantemente sul filo, senza mai scioglierne l’ambiguità, obbligando lo spettatore a rimanere brechtianamente in allerta. Dopo questa irreale immersione nell’inconscio, il pubblico prova la sensazione diffusa di assistere all’emergenza di qualcosa che allarga il suo orizzonte d’attesa, la gamma delle sue percezioni. L’indeterminazione del testo, il suo linguaggio semplice, orale, quotidiano, i personaggi ordinari, ‘trasparenti’, protagonisti di una storia banale, ma che poco a poco si colora di merveilleux, la camera oscura ed il montaggio cinematografico, l’immobilità degli attori, la loro recitazione, i cambi di scena fulminei, l’amplificazione straniante del suono, contribuiscono a creare un’atmosfera onirica e perturbante. Uscendo dal teatro, si ha l’impressione di svegliarsi dopo qualche sonno bizzarro, in cui le cose più ordinarie avevano il fascino strano, impenetrabile, caratteristico del sogno «provocato dall’insonnia».54 In bilico tra l’onirismo di Strindberg e le storie senza storia dei romanzi di Duras, sospesi tra lo spazio vuoto di Brook ed il set cinematografico di Godard, gli attori evolvono in una sorta di teatro d’ombre sospeso tra iperrealismo e straniamento. La loro

51 Ivi, p. 5. 52 Una delle sue pièce si intitola, infatti, Je tremble. 53Vedi François Flahault (che Pommerat cita come uno degli ispiratori della sua poetica), Contraste entre la parole du conteur et celle des personnegs du conte, in «La pensée des contes», Paris, Anthropos, Economica, coll. «Psychanalyse», 2001, pp. 35-40. 54 Secondo la felice formula utilizzata di Gilles Deleuze, in Critique et Clinique, Paris, Éditions de Minuit, 2002, p. 163.

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recitazione, la loro ‘presenza’ enigmatica, diventano così una componente fondamentale del ‘teatro d’autore’ di Joël Pommerat.

La catena di montaggio I due ‘poli’ tematici dei Marchands si agglutinano intorno ad un nodo centrale: mostrare l’alienazione del lavoro o dell’assenza di lavoro. Si tratta di un tema tipico, che irriga molti testi di Joël Pommerat, e la cui ricorrenza é sintomatica. Il tema si cristallizza in un’immagine, che può essere considerata la scena primaria dei Marchands: quella della catena di montaggio. L’idea é nata visionando un documentario girato in una fabbrica russa, dove gli operai eseguivano un lavoro estremamente ripetitivo: spostare dei blocchi di terra, reiterando lo stesso gesto, lo stesso movimento, otto ore al giorno, per tutta la vita. «Questi operai erano come assenti da se stessi, sembravano dei fantasmi fatti di carne: i corpi erano lì, ma la loro anima era altrove, si era assentata; era un’immagine al tempo stesso terribile e bella».55 Pommerat non intende parlare del lavoro, spiegandolo a partire da una tesi, da una dottrina. Per parlare del proletariato ha bisogno di trasporre la dimensione politica in una realtà concreta, in grado di tradurre scenicamente l’alienazione dei ‘corpi al lavoro’. Ė una rinuncia a spiegare che nei Marchands diventa radicale, dando vita ad una favola teatrale ‘senza parole’, cioè senza dialoghi, ed in cui il filo della narrazione é affidato solo alla presenza straniante della voce fuori campo. La fibra tragica, e al tempo stesso poetica, dell’assenza d’anima, che l’aveva colpito nel documentario russo deve essere trasposta nella rappresentazione del gesto stesso del lavoro, dell’atto di lavorare. L’idea della catena di montaggio si cristallizza quindi a partire da quest’immagine e prende corpo, diventando il generatore di tutto il lavoro successivo. Essa é sufficientemente concreta per evitare il rischio di una riproduzione documentaria della condizione ‘operaia’, tipica del teatro politico-sociale degli anni 1970-80. La scena della catena di montaggio (che dura quattro minuti) necessita settimane e settimane di prove e d’improvvisazioni, prima di rivelarsi probante. Immersa in un’atmosfera fantasmatica e irreale, in virtù del movimento stilizzato dei corpi intorno ad un gesto solo immaginato, la fatica alienante e ripetitiva della fabbrica diventa un paesaggio interiore, ciò che Gilles Deleuze chiamerebbe un «percetto»,56 una percezione epurata da qualsiasi concessione psicologica. Per evitare di mimare l’azione dell’operaio alla catena di montaggio, Pommerat decide di non mostrare il gesto della manipolazione degli oggetti sulla linea di produzione, ma solo un movimento d’insieme: le mani degli attori sono

55 J. Pommerat, nell’ambito delle Journées d’études all’Université de Paris 3 – Sorbonne Nouvelle, cit. 56 G. Deleuze, F. Guattari, Percetto, affetto e concetto, in G. Deleuze, F. Guattari, Che cos’é la filosofia?, trad. A. De Lorenzis, Torino, Piccola Biblioteca Eiunaudi, 2002.

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infatti nascoste sotto la striscia nera della catena di montaggio, posta a metà del loro corpo. Il gesto é appena evocato dal movimento complessivo delle braccia degli attori ‘al lavoro’, sicché lo spettatore può solo immaginare che sotto la linea di produzione si stia manipolando qualcosa di concreto, con un peso ed una realtà propria. Con l’aiuto del suono e della luce, gli attori reinventano, durante le prove, una linea di produzione immaginaria, improvvisando ciascuno un movimento diverso, trovando una propria specifica posizione rispetto ad essa e ai propri compagni : «L’unico modo di avvicinarci alla rappresentazione dell’operaio, era di creare la nostra propria fabbrica e di lavorare veramente, noi».57 Partendo dalla sequenza del documentario russo e da un lavoro di esplorazione interiore, gli attori, messi in situazione, traducono in atti, gesti, stati d’animo e movimenti ripetitivi, il loro personale ‘paesaggio’ dell’alienazione del lavoro. Ė la cifra degli spettacoli di Pommerat, che non spiegano né descrivono, ma traspongono dei concetti, delle tematiche o dei nodi esistenziali in ‘paesaggi interiori’. Si tratta di paesaggi dai confini sfuggenti come quelli dei romanzi ‘oscuri’ di Thomas Bernhard, uno dei suoi autori di riferimento. A questo proposito, Bernhard scrive:

I miei scritti parlano solo di paesaggi interiori, una cosa che la maggior parte della gente non vede: non vedono quasi niente all’interno dei miei libri, perché si immaginano sempre che dentro é buio e allora evidentemente, non vedono niente. Credo di non aver mai descritto un paesaggio in nessuno dei miei libri. Perché non esiste. Io non faccio altro che scrivere dei concetti: ‘il mare’, o ‘le montagne’ oppure ‘una città’ o ancora ‘le strade’, ma a cosa assomiglino, credo di non averlo mai detto. Non ho mai fatto descrizioni di paesaggi, la cosa non mi ha neanche mai interessato.58

In assenza di testo e di parole, le azioni fisiche degli attori costituiscono un poema drammatico corporeo, fatto di spazi vuoti e di silenzio, attraverso i quali la drammaturgia aperta di Pommerat iscrive il suo dialogo permanente con la scena. Non essendo stata trascritta nel testo dei Marchands, la sequenza muta della catena di montaggio assurge a paradigma di un’opera che si dispiega essenzialmente con e sulla scena.

La necessità di formare una troupe Prima di essere ‘scrittore’, Joël Pommerat é stato attore. Ha debuttato a 19 anni, e per quattro ha lavorato nelle compagnie amatoriali, per poi smettere di recitare e cominciare a scrivere. Grazie anche a questa doppia formazione, potremmo dire che il suo approccio del teatro é totalizzante, e tende a fare della scena un luogo, più ancora che un mezzo, di conoscenza.

57 J. Pommerat, Comment travaillons-nous?, in J. Gayot, J. Pommerat, Joel Pommerat, troubles, cit., p. 106. 58 T. Bernhard, Monologues à Majorque, in idem, Evénements, trad. Dominique Petit, Paris, L’Arche, 1988, pp. 69-70.

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Nel 1987, inizia, da autodidatta, un percorso solitario di ricerca e di scrittura durato quattro anni, in cui utilizza la sua esperienza fisica della scena, in quanto serbatoio emotivo ed intellettuale, a cui attingerà non solo nel suo futuro lavoro con gli attori, ma anche nella sua pratica d’autore.

Pur avendo deciso che non sarei diventato attore, ho conservato preziosamente, ed in modo molto fisico, il ricordo di quello che mi aveva spinto sulla scena: il perché si entra nella luce e nel silenzio, perché se ne esce, entro quali limiti ci si tiene, quale soglia si varca. Ho capito tutto questo attraverso il corpo, é una comprensione che, per quanto mi riguarda, parte dal corpo e si trasmette al pensiero. Ho deciso di cercare il teatro a partire dalle mie sensazioni. E mi sono sentito immediatamente libero, padrone e responsabile di ciò che avrei creato.59

L’attore é infatti il centro di quest’avventura collettiva e la ricerca é talmente personale ed esigente da aver bisogno di interpreti vergini, che non siano già iniziati alle tecniche tradizionali in voga nelle scuole o nei conservatori. Risultato: i suoi attori non sembrano ‘recitare’ e propongono una qualità di ‘presenza’ molto particolare. Pommerat ha bisogno di costituire un gruppo nuovo, una vera e propria troupe che sposi un movimento generale di ricerca. Fin dall’inizio il suo modo di procedere é stato originale: l’attore-autore ha cercato i suoi futuri compagni di strada mettendo un annuncio sul giornale. Saadia Bentaïeb, una delle sue attrici storiche, ricorda a questo proposito:

Il mio incontro con Joël risale al 1996, in occasione di uno spettacolo-atelier intitolato Présences. Aveva messo un annuncio su Libération, in cui si presentava come un autore in cerca di attori desiderosi di confrontarsi con la scrittura.60

Lo stage permette a Joël Pommerat di conoscere concretamente i suoi attori a partire dal lavoro sulla scena, ed é un modo di procedere che conserva tuttora. Ė significativo tuttavia che il primo contatto avvenga attraverso la scrittura ed il ‘racconto’: prima di incontrarli per l’audizione, fin dal suo annuncio Pommerat chiede ad ognuno di scrivere una lettera di presentazione con la propria ‘biografia’. Aggiunge Saadia Bentaïeb:

Quest’idea mi é piaciuta e gli ho inviato sei pagine un po’ deliranti in cui parlavo di tutto: della mia nascita nella casa familiare sopra al garage di mio

59 J. Pommerat, Dialogue entre Claudine Galea et Joël Pommerat, novembre-décembre 2005, in «Ubu, Scènes d’Europe», nn. 37/38, Avril 2006, p. 54. 60 S. Bentaïeb, Ce n’est pas un théâtre où l’on fabrique. Entretien avec Maïa Bouteillet, in «Ubu, Scènes d’Europe», nn. 37/38, Avril 2006, p. 77.

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nonno in Algeria, dove ho vissuto fino all’età di quattordici anni, della mia passione per gli Stones.61

In seguito, l’autore manda ai candidati selezionati, delle tracce scritte del futuro lavoro:

Per lo stage, ci aveva inviato un manoscritto con alcune scene e delle note drammaturgiche sulla ricerca che voleva portare avanti. Proprio queste note hanno intensamente stimolato il mio interesse, e determinato il desiderio di lavorare con lui, dato che, all’epoca, non ci conoscevamo affatto.62

A poco a poco, grazie agli stage, Pommerat costituisce una struttura nomade con un gruppo di quindici-venti attori, e nel 1990 fonda la sua compagnia, dal nome fortemente simbolico: Compagnie Louis Brouillard, che denota ancora una volta la sua diffidenza nei confronti della parola.

Ho scelto la parola brouillard (nebbia) in opposizione a clarté (chiarezza) e al dogma: Chi pensa bene, enuncia chiaramente. Sottinteso: la parola deve circoscrivere tutto, e quello che non si può definire con la parola, non ha né senso, né realtà. Ė il fantasma di dominazione, di controllo assoluto tramite la parola e il testo, tipico dell’esprit francese.63

Nel 2003, giorno dei suoi quarant’anni, firma con la sua compagnia un contratto di natura prima di tutto etica, che sigla un impegno reciproco a tempo praticamente illimitato.

Tre anni fa, ho enunciato il mio progetto di realizzare una creazione all’anno, come un progetto di vita, un progetto di relazione al tempo. Una creazione all’anno per quarant’anni. Lo posso dire in modo ufficiale : con un certo numero di attori che fanno parte del gruppo, al momento sono sette, mi sono impegnato ad affidare ad ognuno di loro una parte, una bella parte, in ciascuno dei miei testi futuri, per i prossimi quarant’anni. […] Quello che domando è di continuare a restare nella passione della ricerca e di assumersi la responsabilità e l’impegno che questa implica.64

Prima di ogni altra cosa, la sua ‘fabbrica’ mette radicalmente in discussione il normale sistema di produzione che prevede in media due mesi di prova, con un gruppo di attori provenienti generalmente da orizzonti molto diversi tra loro. A un professore che gli chiedeva se Patrice Chéreau fosse

61 M. Piemontese, Nous sommes comme les points d’appui de ces présences particulières qu’il cherche à créer. Entretien avec Maïa Bouteillet, in «Ubu, Scènes d’Europe», nn. 37/38, Avril 2006, p. 81. 62 R. Olaïzola, Au plus près de nous. Entretien avec Claudine Galea, in «Ubu, Scènes d’Europe», nn. 37/38, Avril 2006, p. 84. 63 J. Pommerat, C’est bien de moi qu’il est question, in J. Gayot, J. Pommerat, Joel Pommerat, troubles, cit., p. 37. 64 J. Pommerat, Théâtres en présence, cit., pp. 6-7.

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per lui un riferimento, Pommerat ha risposto laconico : «Chéreau é un regista che prova due mesi con attori famosi e scenografie fastose, io mi sono costruito contro questa modalità di produzione».65 I suoi modelli sono piuttosto Peter Brook66 e Ariane Mnouchkine: come nel loro caso, il suo teatro presuppone un rapporto di continuità nel tempo, allenamento quotidiano e conoscenza reciproca.

Corsi e ricorsi : il collettivo e l’attore-creatore La ricerca di Pommerat sembra riprendere, riproponendole in una forma nuova, alcune istanze della rivoluzione teatrale del maggio del ’68 e sviluppate nel decennio successivo. Partendo dalla critica della società dello spettacolo, la rivoluzione del ‘68 mise violentemente in discussione il logocentrismo centralizzatore del regista, alfine di promuovere nuove forme di ricerca artistica, fondate sulla sperimentazione, sul lavoro collettivo, l’autonomia dell’attore e l’invenzione di un nuovo rapporto attore-spettatore.67 Sembra quindi interessante, per precisare la specificità della ricerca sul gesto di Pommerat, mettere a confronto i Marchands con uno spettacolo simile di Jean-Pierre Vincent: Germinal, creazione collettiva liberamente ispirata al romanzo di Zola, che inaugurò, nel 1975, la sua prolifica direzione del Théâtre National de Strasbourg.68 Molti elementi

65 J. Pommerat, nell’ambito delle Journées d’études all’Université de Paris 3 – Sorbonne Nouvelle, cit. 66 Joël Pommerat é stato ‘artiste en résidence’ al teatro delle Bouffes du Nord a Parigi, invitato da Peter Brook (2006-2012), prima di essere associato all’Odéon-théâtre de l’Europe (2010- 2013) e attualmente al Théâtre National di Bruxelles. 67 Oggi assistiamo nuovamente al ritorno in forza dei collettivi teatrali e alla ricerca di modi nuovi di fare teatro che abolendo le antiche gerarchie, rimettono l’attore al centro del processo della creazione artistica. Quella dell’ancillarità dell’attore é una polemica che si ripresenta periodicamente in Francia. In Italia la situazione é molto diversa, basti pensare alla figura dell’attore-autore, presente nella tradizione del teatro di narrazione, in cui l’attore si presenta sulla scena come un soggetto narrante. Questo tipo di teatro necessita di ben poche cose: una tavola, una sedia, un palchetto, mentre la scenografia ed i costumi sono praticamente neutralizzati, le luci ridotte all’essenziale. In un siffatto contesto, l’attenzione dello spettatore si porta essenzialmente sull’attore, la sua parola e la sua recitazione. Questa forma di teatro (che non esiste in Francia), é tipicamente italiana. Basta pensare, tra gli altri, a Marco Baliani, (Corpo di stato, (2004); ad Ascanio Celestini (Radio clandestina, (2000), Storia di un scemo di guerra (2004); La pecora nera (2006); a Laura Curino e Gabriele Vacis, Olivetti, Camillo alle radici di un sogno; a Davide Enia, Italia-Brasile 3 a 2 (2002) ; Maggio'43 (2004); a Moni Ovadia, Le balladin du monde yiddish, 2002 e a Marco Paolini, Il racconto del Vajont (1995) e I-TIGI, canto per Ustica, (2000). L’attore-narratore, che può incarnare più di un personaggio, si inscrive nella tradizione popolare del cantastorie e nella tradizione dei monologhi (affabulazioni) di Dario Fo, di cui eredita la dimensione civica, politica e letteraria. 68 «Germinal» d’après Emile Zola. Projet sur un roman, la cui prima ebbe luogo nell’ottobre del 1975 al Théâtre National de Strasbourg, è uno spettacolo di Jean Badin, Jacques Blanc, Claude Bouchery, Patrice Cauchetier, Hervé Cellier, Bernard Chartreux, Philippe Clevenot, Christiane Cohendy, Christine de Conninck, Jean Dautremay, Yveline Dautremay, Michel Deutsch, Evelyne Didi, André Engel, Yves Ferry, Michèle Foucher, Bernard Freyd, Jean- François Lapalus, Daniel Lindenberg, Laurence Mayor, Dominique Muller, Sylvie Muller,

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apparentano questi due spettacoli ed in entrambi casi la disgiunzione tra parola e recitazione viene messa al servizio del racconto. Gli attori di Germinal, infatti, leggono brani del romanzo di Zola, recitandone di tanto in tanto alcuni frammenti, con gli effetti di disgiunzione fra il racconto e il corpo degli attori che abbiamo già constatato a proposito dei Marchands. Anche in Germinal, infatti,

ciò che si vedeva era completamente disgiunto da quello che si ascoltava. Il testo che si ascoltava non era un commento di quello che si vedeva, ma una sorta di colonna sonora parlata, parallela alle azioni sulla scena, e che non parlava della stessa cosa.69

Quello che li distingue, è il modo di concepire il gestus degli attori. Il collettivo di Vincent, permeato di materialismo storico, intende restituire lo statuto di soggetto ad una classe in piena trasformazione, il proletariato, riposizionando al centro della scena il suo habitus sociale. Germinal propone, infatti, una serie di ‘quadri’ (tableaux), di scene su un palcoscenico nudo, che descrivono alcuni momenti di vita della classe operaia, prendendo il posto delle descrizioni del romanzo. Pulire con abbondante acqua un pavimento sporco di carbone, bere un caffè troppo caldo, attraversare con estrema lentezza il palcoscenico al ritorno dal faticoso lavoro in miniera, lavare in una bacinella gli uomini tornati dalla miniera : questi quadri descritti dagli attori grazie alla ricostituzione di semplici azioni quotidiane, diventano azioni reali, gesti autentici ‘rubati’ alla quotidianità dei lavoratori. In Germinal, la categoria del ‘tipico’ sociale s’incarna in situazioni realiste, concrete, come la scena del lavaggio del pavimento proposta da Michèle Foucher, sorta di Madre Coraggio della miniera.70 La concezione di Zola, per cui il personaggio naturalista é un uomo reale, fatto di carne e muscoli, ed il cui gesto rompe l’astrazione del teatro romantico e borghese, viene ripresa dagli attori di Vincent. Ma

Nicky Rieti, Alain Rimoux, Laurent Sandoz, Jean-Jacques Scheffer, Jean Schmitt, Karel Trow, Hélène Vincent, Jean-Pierre Vincent. Recitato da: Jean Badin, Claude Bouchery, Philippe Clevenot, Christiane Cohendy, Jean Dautremay, Yveline Dautremay, Evelyne Didi, Yves Ferry, Michèle Foucher, Bernard Freyd, Jean-François Lapalus, Laurence Mayor, Alain Rimoux, Laurent Sandoz, Jean-Jacques Scheffer, Jean Schmitt, Hélène Vincent. 69 J. P. Vincent, Le désordre des vivants, Mes quarante-trois premières années de théâtre, Besançon, Les Solitaires intempestifs, coll. « Mémoires », 2002, p. 45. 70 «La Maheude lava con cura il pavimento, mentre fa i conti tra sé e sé dei proventi della giornata di lavoro ‘In tutto, porteranno nove franchi. A casa siamo sette. Papà e Zacharie, tre; fa sei… Catherine e Bonnemort, due; fa quattro, quattro e sei, dieci […] poi ricopre il parquet di giornali per evitare che i minatori lo sporchino con le scarpe piene di polvere nera di carbone». Cfr. B. Dort, Théâtre en jeu. Essai de critique 1970-78, Paris, Éditions du Seuil, 1979, p. 182.

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laddove Vincent descrive, Pommerat racconta.71 Quest’ultimo si allontana dalla descrizione del dettaglio naturalistico, non mostra il gesto, che àncora l’individuo ad una classe sociale, ma ritrae un vuoto esistenziale, che non é più solo quello di una classe, ma quello dell’uomo in quanto «essere generico». Il materialismo storico evolve e si potenzia. Isolato nel paesaggio oscuro, onirico e angoscioso della sua alienazione, il gesto degli attori di Pommerat é sintomatico della sua particolarissima concezione del personaggio.

Incubazione dell’idea Il tempo é l’alleato essenziale della ricerca di Pommerat: «il teatro ha bisogno di tempo» e necessita di «attori che non abbiano fretta».72 Per questo teatro di nodi esistenziali, la gestazione dell’‘idea’, richiede un tempo di incubazione che può andare da sei mesi ad un anno. Pommerat rifiuta di inventare un testo in modo avulso dal contesto della creazione. Quella dell’autore solitario, autoreferenziale e ripiegato su se stesso, gli sembra una maniera di concepire e di pensare il teatro ormai superata: «Voglio uscire dal fenomeno autonomo dell’io. Non posso riflettere, maturare un’idea separata dall’azione. Io sono un uomo di teatro, che reagisce a situazioni concrete».73 All’inizio quindi esiste solo il germe di un ‘soggetto’, un’idea che nasce il più delle volte da un’intuizione, da un’immagine e dal bisogno di esplorare una tematica: le relazioni familiari (Cet enfant, D’une seule main e Au Monde), il rapporto tra le generazioni (Le petit chaperon rouge), la famiglia (Au Monde), la relazione padre-figlio (Grâce à mes yeux e Pinocchio), il rapporto col lavoro (Les Marchands), col commercio (La fabuleuse histoire du commerce), il rapporto tra classi sociali (Cercles/Fictions), la guerra, la costruzione e il commercio delle armi (tema onnipresente nei suoi testi), e, per finire, l’iniziazione all’età adulta, tematica che l’autore esplorerà, riscrivendo, a modo suo, la materia di miti e di racconti popolari in Le petit chaperon rouge, (2004), Pinocchio (2008) e Cendrillon (2012).74 Per Le petit chaperon rouge (Cappuccetto rosso), ad esempio, il motore é un ricordo d’infanzia, un’immagine ripescata nelle profondità dell’inconscio, quella della madre che racconta il lungo cammino che percorreva da bambina per andare a scuola: nove chilometri attraverso la campagna e la foresta di pini, con qualunque tempo. «So che questo lungo cammino che ha fatto mia

71 Ritroviamo così la celebre opposizione stabilita da Lukacs in Narrare o descrivere (1936), in Problèmes du réalisme, trad. C. Prévost e J. Guégan, Paris, L’Arche éditeur, coll. «Le sens de la marche», 1975. 72 J. Pommerat, Le théâtre a besoin de temps, in libretto drammaturgico di Au Monde, éditions du Théâtre National de Strasbourg, gennaio 2004, p. 4. 73 J. Pommerat, nell’ambito delle Journées d’études all’Université de Paris 3 – Sorbonne Nouvelle, cit. 74 Per arrivare alla sua personale versione, Pommerat si é ispirato alle favole di Perrault (1697), dei fratelli Grimm (1812) e di Walt Disney (1950).

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madre, quasi ogni giorno della sua infanzia, ha segnato ed orientato la mia vita».75 A partire da questo ricordo, ed in mancanza di un testo – Joël Pommerat non mette quasi mai in scena testi altrui76 – il lungo periodo che precede la prima prova, corrisponde ad un lavoro di maturazione, sotterraneo e ‘incontrollato’, di approfondimento del sintomo dedicato alla definizione dell’argomento. Questa ricerca si avvale di un complesso lavoro di preparazione drammaturgica, basata su inchieste, ricerche sul campo, ritagli di giornali, fatti di cronaca, atti processuali, lettura e rilettura di opere letterarie e testi teatrali classici o contemporanei intorno all’argomento. Se il sintomo risponde a «percezioni soggettive», manifestandosi in un primo momento nell’ambito della sfera personale, Pommerat lo innesta in seguito su qualcosa di più ampio, all’incrocio tra l’intimo e l’universale: «cerco un argomento che possa unirmi agli altri in un pensiero comune, in una stessa riflessione».77 Il tempo di maturazione deliberatamente lungo riservato alla definizione del soggetto serve a «circoscrivere quelle zone d’ombra » della contemporaneità, i punti oscuri che si celano nello «scarto, nello sfasamento, nella diacronia»78 del tempo presente, nella sua dimensione inattuale. Come scrive Giorgio Agamben,

il contemporaneo é colui che fissa lo sguardo sul suo tempo per percepirne non le luci, ma l’oscurità. Tutti i tempi sono oscuri per coloro che ne provano la contemporaneità. Il contemporaneo é quindi colui che sa vedere questa contemporaneità, che é in grado di scrivere affondando la penna nelle tenebre del presente. Può dirsi contemporaneo colui che non si lascia accecare dalle luci del secolo e riesce a captare in loro la parte d’ombra, la loro oscura intimità.79

Le differenti piste di questa ricerca vengono in seguito precisate e approfondite, nel corso di ateliers e laboratori con giovani attori, grazie ai quali Pommerat esplora e sviluppa il senso della tematica a venire, prima di iniziare il lavoro vero e proprio con gli attori della sua compagnia,

75 J. Pommerat, Il était une fois une petite fille, in «Ubu, Scènes d’Europe», cit., p. 95. 76 L’eccezione che conferma la regola é rappresentato da Une année sans été dell’autrice- regista Catherine Anne, che Pommerat ha realizzato recentemente all’Hippodrome di Douai, con Carole Labouze, Franck Laisné, Laure Lefort, Rodolphe Martin, Garance Rivoal. Questo testo, scritto e messo in scena da Catherine Anne nel 1987, l’anno in cui Pommerat ha cominciato a scrivere, costituisce per Pommerat un importante motivo d’ispirazione : «Era il primo testo che Catherine Anne aveva scritto e messo in scena da sola. Che una giovane donna fosse riuscita a mettere insieme questi due aspetti della creazione, é stato per me una rivelazione, uno stimolo». J. Pommerat, nell’ambito delle Journées d’études all’Université de Paris 3 – Sorbonne Nouvelle, cit. 77 J. Pommerat, nell’ambito delle Journées d’études all’Université de Paris 3 – Sorbonne Nouvelle, cit. 78 Ibidem 79G. Agamben, Qu’est-ce que le contemporain?, trad. M. Rovere, Paris, Rivages poche/Petite Bibliothèque, 2008, pp. 19-21 (Che cos’é il contemporaneo, Nottetempo, 2008).

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destinati a recitare nel futuro spettacolo. «Quando preparo una ricerca con la mia équipe, circoscrivo degli obiettivi, costruisco dei territori, degli orientamenti di cui ho il presentimento che siano importanti».80 L’autore- regista paragona questo lungo lavoro preparatorio a quello dei pionieri, degli scalatori o degli avventurieri che, nei mesi che precedono la partenza, organizzano minuziosamente la spedizione, studiando i minimi dettagli, alfine di creare le condizioni ideali per una missione fruttuosa. In questa lunga fase di incubazione, Pommerat comincia a mettere a punto tutti gli elementi che comporranno il futuro spettacolo: luci, costumi, audio, scenografia, suono. Diversamente da una produzione di stampo tradizionale, in cui la scenografia, i costumi, le luci arrivano solo nell’imminenza della prima, nel caso di Pommerat il primo giorno di prove, tutti gli elementi scenici sono già pronti ed operativi, proprio come su un set cinematografico. La sala prove, ad esempio, é attrezzata, la scenografia definitiva é già costruita e montata, e un campionario, composto da quaranta-cinquanta costumi, é a disposizione degli attori. Cinquanta proiettori, inoltre, sono pronti ad inventare nuovi effetti di luce, insieme ai microfoni HF degli attori ed ai dodici altoparlanti che servono ad elaborare l’installazione del ‘paesaggio sonoro’, uno degli elementi forse di maggiore originalità dei suoi spettacoli. Una volta che tutto é pronto per poter iniziare a ‘scrivere’ lo spettacolo, l’unica cosa che manca é proprio il testo. All’inizio delle prove, infatti, il testo non esiste, non é ancora compiuto, ci sono solo delle frasi, o qualche nota:

Per esempio, nel 2000, prima della creazione dello spettacolo Mon ami, per molti mesi avevo scritto dei frammenti di testo, svariati brani di testo, che spesso non avevano nessuna logica e nessun legame tra loro. Non volevo scrivere seguendo una continuità narrativa prestabilita. Gli attori hanno avuto in mano questi frammenti di un testo che non aveva continuità, che consisteva in brani completamente indipendenti gli uni dagli altri, che gli attori dovevano imparare.81

Il testo, in realtà, concresce con le prove e necessita dell’apporto degli attori. Il testo incompiuto non prevede neanche una scaletta e verrà scritto, giorno dopo giorno, con il concorso degli attori e di tutti gli altri elementi della struttura scenica. Una volta che tutti gli ‘strumenti’ necessari alla scrittura sono a portata di mano, l’autore di spettacoli può finalmente cominciare a scrivere ‘sul palcoscenico’. Il premio Nobel Claude Simon descrive l’importanza del processo stesso dell’atto della scrittura:

80J. Pommerat, C’est bien de moi qu’il est question, in J. Gayot, J. Pommerat, Joel Pommerat, troubles, cit., p. 41. 81 J. Gayot, J. Pommerat, Comment travaillons-nous?, in J. Gayot, J. Pommerat, Joel Pommerat, troubles, cit., pp. 97-98.

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Per quanto mi riguarda, non conosco altri sentieri della creazione che quelli aperti passo dopo passo, cioè parola dopo parola, grazie al procedere stesso della scrittura. Prima di mettermi a tracciare delle linee, sulla carta non c’é nulla, a parte un magma informe di sensazioni più o meno confuse, di ricordi più o meno precisi accumulati, e un progetto vago – molto vago. Ė soltanto nell’atto stesso di scrivere che qualcosa si produce, in tutti i sensi del termine. Quello che mi affascina é come questo ‘qualcosa’ sia sempre infinitamete più ricco di quello che mi proponevo di fare. Sembra dunque che la pagina bianca e la scrittura abbiano un ruolo almeno altrettanto importante delle mie intenzioni, come se la lentezza dell’atto materiale di scrivere fosse necessaria affinché le immagini abbiano il tempo di addensarsi.82

Come nasce il testo: il ‘racconto’ del gesto Il testo che non preesiste alla creazione di uno spettacolo, si prefigura come un’«opera aperta»,83 che si materializzerà durante il work in progress delle prove, in un dialogo incessante tra il testo e la scena. Ė così che le infinite versioni del testo si susseguono, accavallandosi e sovrapponendosi. Questi strati di scrittura drammaturgica e scrittura scenica, posti, depositati gli uni sugli altri formano una sorta di palinsesto, talvolta a più mani. Come il Pierre Menard di Borges che per anni ricopia il Don Chisciotte di Cervantès senza cambiare una sola parola, Pommerat afferma di ‘riscrivere’ sempre sul palinsesto del testo di un altro, di inventare a partire dalla leggenda e dall’immaginario di un testo già scritto, per dargli un nuovo significato.84 Nel caso di Au Monde, ad esempio, una sua creazione del 2004, le Tre sorelle di Cechov sono state il Chisciotte ossessivamente riscritto da Pommerat, o meglio l’‘ipotesto’ su cui l’autore ha vergato gli innumerevoli strati della sua opera in fieri.85 Ma questo lavoro di stratificazione non deve far pensare ad un’addizione del senso. Al contrario, dopo i primi testi, più verbosi, più scritti, Pommerat é approdato ad una scrittura che procede sempre più per rarefazione. All’inizio delle prove di Au monde, come aveva già fatto per Mon Ami o per Grâce à mes yeux, Pommerat non scrive delle vere e proprie scene, ma solo frammenti, a volte di sole tre righe, un breve scambio tra due personaggi, o ancora un monologo di due pagine. Quindi distribuisce questi brani agli attori, a cui fornisce una serie di indicazioni sulle loro parti, sul carattere dei personaggi, la natura dei loro rapporti, il loro grado di parentela, il luogo in cui si trovano. L’autore comincia così a raccontare

82 C. Simon, Préface à «Orion aveugle» (Skira, coll. «Les Sentiers de la création», Genève, 1970), in idem, Œuvres, Éditions Gallimard, coll. «Pléiade», Les Éditions de Minuit, Paris, 2006, p. 1181. 83 Joël Pommerat fa espressamente riferimento al libro di Umberto Eco, Opera aperta, Milano, Bompiani, 1962. 84 Cfr. G. Genette, Palimpsestes, la littérature au second dégré, Paris, Seuil, 1982. 85 Una prova del ‘second dégrée’ di cui parla Genette, sono i nomi che Pommerat attribuisce ad alcuni suoi personaggi, che riprendono, storpiandoli leggermente, i nomi di personaggi famosi: per esempio, Léon Talkoi, Elda Older, ecc.

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ai suoi personaggi, come un rapsodo o un cantastorie, l’incipit di una storia che non c’é.

C’é una grande tavola, una tovaglia bianca, una luce bianca, una finestra, la cui apertura dà sulla strada, il giardino, da cui arriva questa luce, mentre tutto intorno c’é l’oscurità. L’azione si svolge nelle differenti camere dell’appartamento. Gli uomini hanno un vestito e una cravatta, le donne sono molto femminili.86

Queste indicazioni ricordano l’abbrivio di una favola, quel ‘c’era una volta’, che serve a mettere in moto l’immaginario degli attori, che l’autore convoca come co-scrittori per dare un seguito alla sua storia. Il protocollo ed il metodo variano a seconda dello spettacolo, ma lo schema é sempre lo stesso: prima di ogni prova, gli attori imparano rigorosamente a memoria dei frammenti di testo, da anni sono allenati a questo tipo di esercizio che permette loro di imparare e disimparare alternativamente. Ė una ginnastica mentale che rasenta talvolta l’acrobazia mnemonica:

Quando correggo il testo, può succedere che domandi loro di continuare a tenere a mente la versione precedente e di imparare contemporaneamente il testo nuovo. Alcuni attori hanno sviluppato una memoria fortissima, imparano da una a due pagine di testo in un pomeriggio, come dei computer. Una ginnastica incredibile.87

Una volta sul palcoscenico, gli attori si familiarizzano con lo spazio, sperimentando fisicamente il rapporto col suono, la luce, il costume, il partner. A partire da questi frammenti di testo, instancabilmente corretti e riscritti muovendo dal lavoro effettuato, gli attori iniziano ad improvvisare, e mettono alla prova il ‘testo’, facendolo interagire con gli elementi circostanti: «Faccio parlare delle persone, ma non so in anticipo cosa potrà succedere tra di loro, né come si organizzerà l’insieme».88 Sono gli attori a scegliere la frase del testo ed il momento in cui dirla, «lasciandosi sorprendere dalla parola scritta», ma rimanendo sempre fedeli alle parole dello spartito consegnato ad ognuno, e che hanno imparato rigorosamente a memoria. «Qualcuno entra, li guarda, si guardano. Allora ad uno di loro viene voglia di dire una certa frase».89 Gli attori sperimentano lungamente il loro rapporto col partner, col tempo, con le proprie parole e con quelle altrui, cercando di captare e di esprimere le sensazioni che il complesso ambiente spaziale e sonoro circostante suscita in loro, alla ricerca di una

86 J. Pommerat, Comment travaillons-nous?, in J. Gayot, J. Pommerat, Joel Pommerat, troubles, cit., p. 98. 87 J. Pommerat, Théâtres en présence, cit., p. 9. 88 J. Pommerat, Comment travaillons-nous?, in J. Gayot, J. Pommerat, Joel Pommerat, troubles, cit., p. 98. 89 Ibidem

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‘temperie’ emotiva, di una sensazione, di una Stimmung, un’atmosfera. «Camminate dicendo il testo, dite una frase, una parola di questo testo solo quando sentite di volerlo fare. Ma soprattutto, autorizzatevi a non dire nulla, a non fare altro che ascoltare».90 Questa prima fase corrisponde al lavoro di ‘sottrazione’ precedentemente evocato. Il silenzio e il vuoto costituiscono una propedeutica per ottenere quello stato di abbandono, di laisser être, di rilassamento, che Pommerat richiede, e che consiste nel posarsi semplicemente all’interno di uno spazio, in modo naturale, senza necessariamente ‘fare’ qualcosa, ma esercitando una delle facoltà essenziali del teatro: quella di ascoltare. Le parole della ‘seconda figlia’, in una delle svariate versioni di Au monde, sembrano una sorta di manifesto di questo metodo. ‘Guardare’ il silenzio ed ‘ascoltare’ il vuoto assurgono qui a dimensione quasi metafisica, e non per niente ‘sinestetica’, dell’essere au monde (cioè sulla scena).

Che fortuna avere ancora questo giardino tutto nostro in piena città i rumori della città sono attutiti sembra di essere altrove guarda questo silenzio é come se mi accarezzasse in fondo agli occhi dentro (all’interno) tutto questo verde questi alberi questa vita che non vediamo migliaia forse milioni di vite, vite di insetti alcuni sono appena più grandi di granelli di polvere forse (è) l’ultimo posto di questa città dove si ascolta (il silenzio) (degli) uccelli quando sono qui rifletto, e mi dico: esiste (al mondo) una più grande ricchezza di tutto questo vuoto?91

Fare il vuoto è la premessa per poter abitare pienamente l’istante presente. Cercare uno stato di abbandono, di oblio di sé, significa acuire la percezione, comunicare con gli strati più profondi della sensibilità e mettersi in relazione con la propria ‘voce interiore’. I testi di Pommerat

90 Ivi, p. 99. 91 Le parentesi presenti nel testo corrispondono ai punti ancora provvisori. Questo brano é estratto dalla versione del 10 novembre 2003 del manoscritto di Au monde, pubblicata nel libretto drammaturgico del Théâtre National de Strasbourg, in occasione della creazione dello spettacolo il 21 gennaio 2004. Il libretto pubblica altri due estratti di differenti versioni del testo: una del 20 settembre 2003, l’altra del 10 gennaio 2004, che rendono conto delle ulteriori stratificazioni del copione.

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sono disseminati di indicazioni al riguardo. Per esempio, in Pôles, Elda Older, il personaggio dell’attrice (il cui nome ricorda l’Edda Gabler ibseniana), che non a caso soffre di amnesie, e ricorda solo il momento presente, afferma:

Per quanto riguarda la mia attività canora, ho imparato da sempre a lavorare dentro me stessa, senza esteriorizzare la voce. Ad ascoltare la mia voce dentro di me. Utilizzo lo stesso procedimento quando faccio l’attrice. Come per il canto, so che questo metodo costituisce una vera preparazione e se domani mi chiedessero di recitare in teatro, sarei sicuramente pronta.92

In tal modo, come nel caso della musica, il silenzio genera paradossalmente il suo contrario, l’ascolto – di se stesso, dell’altro, ed è un’efficace propedeutica all’apertura ed alla disponibilità verso il partner.

Cerco un luogo dove ascoltare le parole, in cui i gesti abbiano un peso. Sono ossessionato dalla realtà, forse perché sono ossessionato dal vuoto, il contrario del pieno, dalla non-conoscenza, da quello che sfugge, che resiste alla luce. Ė per questo che a teatro voglio ascoltare e voglio vedere, cerco di ascoltare e cerco di vedere.93

Ė un lavoro che richiede un’estrema concentrazione, una disciplina ferrea, sensibilità e sudore, e che si ottiene grazie ad un allenamento quotidiano, «modesto, esigente, paziente, ragionevole e folle».94 E Pommerat insiste: «per arrivare ad un risultato, bisogna andare a cercare al di là dei propri limiti. Chiedere più del ragionevole mi sembra ragionevole nell’attività della creazione artistica».95 I tempi lunghi delle prove consentono quindi quella maturazione del corpo e dello spirito che abilita all’‘in-corpo- razione’ delle idee: il corpo deve accedere all’intelligenza e lo spirito alla sensazione attraverso un processo di sottrazione che consiste nello ‘spogliarsi di sé’, nell’assentarsi dalla propria ‘identità d’attore’, per lasciare affiorare una materia psichica, dandole corpo. Si tratta di una postura, di un atteggiamento che non mancheranno di far pensare alla concezione del comédien désincarné propria a Louis Jouvet:

L’attore esiste grazie alla sua cancellazione, alla disciplina ed alla viva immaginazione, che é la regola di vita dei suoi pensieri e del suo corpo. Ė un lavoro di umiltà, di svuotamento, di affetto. L’attore deve aspirare al vuoto. Bisogna raggiungere l’attenzione totale, quella concentrazione, quella ricettività, in cui il corpo non resiste più. Ascoltare, teso, fino a svuotarsi di sé. Tensione

92 J. Pommerat, Pôles, suivi de Grâce à mes yeux, Arles, Actes Sud-Papiers, 2003, p. 49. 93 J. Pommerat, Le théâtre a besoin de temps, in libretto drammaturgico di Au Monde, éditions du Théâtre National de Strasbourg, gennaio 2004, p. 5. 94 J. Pommerat, L’acteur est au centre, in J. Gayot, J. Pommerat, Joel Pommerat, troubles, cit., p. 84 95 Ibidem

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estrema che permette di essere unicamente preoccupati di ascoltare, di sentire, di provare, piuttosto che capire attraverso una percezione puramente intellettuale. Bisogna imparare a realizzare questo vuoto di sé, che é necessario per riempirsi del senso dell’opera […]. Svuotare dal proprio spirito, dai propri sensi, tutto quello che potrebbe impedire quest’ascolto, questa ricettività. Vaso che l’attore riempie, dove possono versarsi ed espandersi sentimenti ed idee (è il contrario dell’analista e del critico che fa appello a tutto l’arsenale del controllo razionale quando si impadronisce dei testi), questo vuoto è un atteggiamento/postura, non una realtà; è una disposizione dello spirito e della sensibilità. Non affrettarti a capire. Non capire troppo in fretta, ma liberati di te stesso.96

Questa ricerca preliminare del vuoto interiore serve soprattutto a liberarsi dalle abitudini del gesto automatico e dell’artificio della recitazione accademica imparata nelle scuole. Detto con le parole di Pommerat: «Chiedo ai miei attori di essere con le parole nel modo più semplice possibile. Ho bisogno che i miei attori si approprino del testo, che siano nella parola, e non nella recitazione o nella restituzione di un testo».97 L’attore, in altre parole, deve «smettere di recitare», deve smettere di fare l’attore, deve smettere di rappresentare una parte esteriore, ma deve «parlare e pensare a partire da se stesso»,98 appropriandosi delle parole del testo come se fossero le sue, come se ne fosse lui stesso l’autore. «Domando loro» – conclude Pommerat – «di essere presenti ad ogni istante, di essere se stessi, per poter rendere veri gli elementi artificiali di una scrittura, di una parola, di una storia».99 Questa forma di ‘presenza’ senza tensioni, è simile a quella si prova quando si è soli, nell’intimità, in famiglia, ed è l’unico modo, come vedremo, di attirare il personaggio «il più vicino possibile a sé» («au plus près de nous»).100 La chiave di quella particolare ‘presenza’ degli attori, della semplicità estrema del loro modo di ‘vivere’ sulla scena, Pommerat la definisce il ‘non-jeu’, la ‘non-recitazione’. Ė la cifra stilistica di una nudità naturale, che consiste nel ‘mostrare’, rivelare, dare corpo alla propria ‘voce interiore’, senza camuffarla dietro segni teatralizzati, impregnati di spettacolarità, di artificio. Il segreto dell’intensità e della pienezza della ‘presenza’ degli attori, é quello di una singolarità esente da qualsiasi rappresentazione di sé e che esibisce, al contrario, il suo particolare «sentimento di esistere».101 Questa concezione del non-jeu

96 L. Jouvet, Le comédien désincarné, Paris, Flammarion, 1994, pp. 160-161 97 J. Pommerat, Théâtres en présence, cit., pp. 9 e 11 98 J. Pommerat, Comment travaillons-nous?, in J. Gayot, J. Pommerat, Joel Pommerat, troubles, cit., p. 94. 99 J. Pommerat, L’acteur est au centre, in J. Gayot, J. Pommerat, Joel Pommerat, troubles, cit., p. 80 100 Secondo la definizione dell’attrice Ruth Ozaïola, che dà il titolo al suo Entretien avec Claudine Galea, in «Ubu, scènes d’Europe», nn. 37/38, avril 2006, p. 84. 101 Pommerat é influenzato dal pensiero del filosofo francese François Flahault, Le sentiment d’exister : ce soi qui ne va pas de soi, Paris, Descartes & Cie, 2002.

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affonda le radici in una presa di posizione che é prima di tutto politica e filosofica, che é già percepibile nei Marchands e in altri testi. Joël Pommerat riassume così:

L’attuale sistema economico liberale ha condotto ciascuno di noi a diventare l’imprenditore di se stesso. Ognuno si costruisce una personalità per potersi vendere e gestire la propria carriera individualmente. Concepiamo e ci rappresentiamo un’immagine di noi stessi per metterla in scena. Recitiamo, insomma; ognuno di noi recita una parte. Perciò mi sembra necessario che oggi il teatro diventi il luogo in cui si giochi a sbarazzarsi della recitazione. Ho l’impressione che oggi, precisamente, si sia pronti a pagare per vedere qualcuno che non recita.102

L’assenza di rappresentazione, quindi di recitazione, fa appello a quell’intimità dell’essere che Pommerat cerca di carpire nella materia dei suoi interpreti, a cui chiede di ‘spogliarsi’ delle proprie immagini e rappresentazioni esterne, per cercare un certo grado di nudità, di inettitudine. In Roberto Zucco Koltès aveva già fatto l’elogio della trasparenza: «Ė un compito difficile quello di essere trasparenti; è un mestiere; è un vecchio sogno, molto vecchio, quello di essere invisibili».103 Anche il teatro di Pommerat, a modo suo, è invisibile – si potrebbe attraversarlo senza vedere nulla – perché mostra poco e non esibisce niente.

Il mio teatro si situa a metà strada tra teatro e non-teatro, in una posizione intermedia tra il teatro e una categoria mentale, immaginaria. Cerco di produrre teatro (movimento, senso ed emozione) nella più grande economia di segni esteriori, cerco di creare teatro nella testa, dunque nel corpo degli spettatori.104

Infine, grazie alle nuove tecnologie ed all’utilizzo dei microfoni HF, gli attori possono restare nei limiti di una cifra recitativa particolarmente intima, discreta, potremmo dire ‘cinematografica’. Nel corso del lavoro degli attori, alcune immagini cominciano a formarsi, si aprono nuove piste, che l’autore registra quotidianamente, correggendo un testo che può prendere strade sempre nuove, che annovera sempre nuove versioni. Si tratta di un processo praticamente senza fine, visto che Pommerat continua a modificare il testo anche una volta che lo spettacolo é andato in scena, affinando un’opera che, ai suoi occhi, non sarà mai propriamente compiuta.

Joël non finisce mai di dirigere gli attori, è presente praticamente a tutte le rappresentazioni, nel momento in cui il suo sguardo sul percorso di ciascuno

102 J. Pommerat, Comment travaillons-nous?, in J. Gayot, J. Pommerat, Joel Pommerat, troubles, cit., p. 94 103 B.M. Koltès, Roberto Zucco, Paris, édition de Minuit, 1990, p. 36. 104 J. Pommerat, Le théâtre a besoin de temps, in libretto drammaturgico di Au Monde, éditions du Théâtre National de Strasbourg, gennaio 2004, p. 5.

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di noi diventa ancora più preciso. Ogni sera, dopo lo spettacolo, ci dà degli appunti molto dettagliati, che riprendono tutta la rappresentazione, punto per punto.105

Gli attori diventano così, se non degli autori, i «traghettatori» delle varianti testuali, che costruiscono giorno dopo giorno, replica dopo replica, nel loro reticolo scenico e relazionale. «Quello che conta é la relazione tra i personaggi, il racconto che sta per nascere e per esistere tra loro».106 L’evoluzione della loro relazione dà forma a quella storia, fatta di gesti, di azioni, di emozioni, che si configura come una ‘variazione inerente’ del testo scritto. Il legame, la relazione d’alterità costituisce, infatti, il punto nodale, l’essenza stessa del racconto degli attori. Nell’interazione con gli altri, grazie ad un modo di restare all’erta, presente ad ogni istante, costantemente ‘connesso’ con il partner, si manifesta un peculiare modo di essere al mondo. Catturato all’interno di quel ‘gioco di sguardi’ e di una rete di rapporti e di situazioni, il personaggio si mette in movimento, si modifica, si trasforma, scrivendo la sua storia, che l’autore si sforza di captare e di innestare sulla sua scrittura. A proposito della fenomenologia della parola nel romanzo, Claude Simon scrive:

Una dopo l’altra le parole esplodono come delle torce, diffondendo i loro bagliori in tutte le direzioni. Ogni parola rappresenta un incrocio, in cui s’intersecano strade diverse. Ma se, invece di voler contenere, addomesticare ognuna di queste esplosioni, o attraversare rapidamente questi incroci avendo già deciso il cammino da prendere, ci fermiamo ed esaminiamo quello che ci appare alla loro luce o in prospettive aperte, si rivelano delle risonanze e degli echi insospettabili.107

Gli attori per Pommerat rappresentano a loro volta quelle ‘esplosioni di luce’ che, rifrangendosi, aprono nuove prospettive alla scrittura. Nel corso delle improvvisazioni, infatti, Pommerat scruta il gesto che ‘racconta’, l’azione fisica o lo ‘stato’ emotivo degli attori, facendo evolvere, biforcare la storia. Ricorda l’autore:

Nella fase dell’improvvisazione di Au Monde si è prodotto ad un certo punto qualcosa a cui non avrei pensato da solo. Ad un certo momento, Marie ha cominciato ad accarezzare dolcemente i capelli di Saadia, che interpretava la parte della sua sorellina. Si trattava di un gesto spontaneo, nato alla fine di

105M. Piemontese, Nous sommes comme les points d’appui de ces présences particulières qu’il cherche à créer. Entretien avec Maïa Bouteillet, in «Ubu, Scènes d’Europe», nn. 37/38, Avril 2006, p. 82. 106 J. Pommerat, Le theatre est un lieu de simulacre, in J. Gayot, J. Pommerat, Joel Pommerat, troubles, cit., p. 68. 107 C. Simon, Œuvres, Paris, Gallimard, Pléiade, 2006, pp. 1182-1183.

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una lunga improvvisazione, e che risultava ancora più dolce, perché era estremamente disteso.108

I tempi lunghi e dilatati delle prove, che inducono uno stato quasi ipnotico di abbandono, contribuiscono a far cadere le tensioni, le difese di ognuno, facendo affiorare stati di intimità. «Quando ho visto questo stato emotivo, l’ho percepito come la chiave, sulla quale, in seguito, ho sviluppato tutto lo spettacolo».109 Una serie di foto di alcuni suoi spettacoli riprodotte nel volume Troubles, dal titolo estremamente significativo (troubles significa turbamento), rendono conto di una sorta di ‘museografia’ di gesti stilizzati (di tenerezza, d’affetto o di violenza) il cui condensato di pudore, semplicità, intensità e precisione, si sostituisce alla retorica del gesto ‘teatrale’. In quanto precipitato degli affetti e della natura delle relazioni tra gli esseri, il gesto diventa così un vettore del racconto. I commenti di Pommerat relativi a queste foto sono sintomatici di questa tendenza alla ‘mimografia’. In una foto scattata durante una replica di Pôles, per esempio, Laurence Lévy e Jean-Louis Coulloc’h sono seduti l’uno affianco all’altro, di spalle, e, senza guardarsi, l’uno posa la sua mano sulla spalla dell’altro, quasi per caso, distrattamente.

Questa foto – commenta l’autore – è la dimostrazione della mia ricerca di focalizzazione sul dettaglio : una mano sulla spalla. Sono due fratelli. Questa mano, in quel momento, racconta con ingenuità il tentativo di riconciliazione di questi due fratelli che la vita aveva diviso a morte.110

Lo stesso gesto, semplice ma intenso, lo ritroviamo in una foto tratta da Pinocchio, in cui Geppetto posa teneramente il braccio sulla spalla del figlio ‘ritrovato’. La spontaneità del gesto, la sua verità, emanano direttamente da quel non-jeu, recitazione senza rappresentazione, che è la cifra stilistica dell’intera opera di Pommerat. Ma questi gesti semplici, ingenui, anti- spettacolari, scolpiti con una precisione maniacale, sembrano tradire il gusto del dettaglio associato ad una lancinante ‘volontà di perfezione’. Nel teatro di Pommerat, la ricerca con gli attori é un lavoro a due velocità. La prima fase ‘estensiva’ di esplorazione, di spoglio e d’improvvisazione, è seguita dalla fase ‘intensiva’ della scrittura, nella quale Pommerat organizza i gesti ed i corpi degli attori nello spazio, fissandoli in un’inquadratura ideale, che ‘richiamerà’ lo sguardo dello spettatore.

Osservare le posizioni di ciascuno, il rapporto di una posizione rispetto all’altra, relativamente alla luce, al suono, è essenziale nella ricerca della nota

108 J. Pommerat, Comment travaillons-nous?, in J. Gayot, J. Pommerat, Joel Pommerat, troubles, cit., p. 101. 109 Ibidem 110 J. Pommerat, Il faut rouvrir la perception, in J. Gayot, J. Pommerat, Joel Pommerat, troubles, cit., p. 47.

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giusta. Se sento che un attore é troppo frontale, o è seduto, quando dovrebbe essere in piedi, lo fermo subito. Lo faccio alzare, sposto la sedia, chiedo di modificare la luce o il suono, e così via… Ogni istante conta. Ė il mio modo di lavorare. Se c’è qualcosa che non va, se la posizione di un attore nello spazio non è giusta, la devo correggere immediatamente, perché altrimenti quest’immagine mi tortura lo sguardo.111

La ‘giusta presenza’ dell’attore si inscrive quindi nello spazio-tempo presente, ma anche in una successione di istanti, che Pommerat struttura con la luce, con il suono, ‘inquadrandoli’ volta a volta nello spazio. La scrittura scenica avanza quindi in modo simultaneo: mentre gli attori ‘scrivono’ il loro racconto della storia, Pommerat ‘scrive’ ogni istante in un ‘fotogramma’ di volta in volta diverso.

Pommerat ha inventato la prova teatrale come una presa cinematografica: cerchiamo di costruire tutto nello stesso tempo – spazio, luce, suono, recitazione – in modo preciso, esattamente come si fa per una ripresa cinematografica.112

L’inquadratura di ogni istante, studiata e messa a punto con una minuzia maniacale, coincide con il momento della messa in forma, di quella ricerca di equilibrio tra vari elementi, che determina l’estrema coerenza dei suoi spettacoli. La precisione geometrica del dettaglio ed i limiti imposti da questo spartito spaziale e gestuale, fissato nei minimi particolari, costituisce però paradossalmente una delle condizioni della libertà dell’attore. «Il fatto di essere chiuso in un perimetro estremamente piccolo, permette all’attore di appropriarsi completamente di questo territorio e di muoversi con un’assoluta libertà».113 La tecnica di lavoro ed il dialogo incessante tra l’autore e i corpi nello spazio, nella luce, nel suono, fa degli attori la materia prima del ‘poema scenico’. Analogamente alle parole per un romanziere, al colore per un pittore e al marmo per uno scultore. Gli attori entrano così a far parte integrante della scrittura teatrale di Pommerat. «Domando a delle persone di farmi vedere, ascoltare e provare ciò che sono, per poterne fare della materia poetica. Non recitano la poesia di Joël Pommerat, ma sono, in parte, la poesia stessa».114 In quanto articolazione, sostanza della scrittura stessa, l’attore di Pommerat ne rappresenta il soggetto e l’oggetto, l’argomento ed anche, come vedremo, il personaggio. Ormai i personaggi non hanno più bisogno di fare anticamera la domenica mattina, nella penombra dello studio del loro autore, come i melanconici postulanti della Tragedia di un personaggio di Pirandello. Nel suo teatro, Pommerat i

111 J. Pommerat, Comment travaillons-nous?, in J. Gayot, J. Pommerat, Joel Pommerat, troubles, cit., p. 102. 112 M. Piemontese, Nous sommes comme les points d’appui de ces présences particulières qu’il cherche à créer, in «Ubu, Scènes d’Europe», cit., p. 81. 113 J. Pommerat, L’être n’est pas que parole, in «Ubu, Scènes d’Europe», cit., p. 60. 114 J. Pommerat, Théâtres en présence, cit., pp. 8 - 11.

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personaggi li ha sottomano e ci lavora quotidianamente, plasmandoli e scrutando i loro minimi gesti e movimenti.

Figura o non-personaggio? I personaggi di Pommerat sono delle «astrazioni» che incarnano delle idee, delle figure che servono a rappresentare il «processo di ricostituzione della scena del crimine, esattamente come fa un giudice d’istruzione davanti ai giurati».115 Ė un’idea del personaggio che riprende il Brecht delle Aggiunte al Breviario di estetica teatrale, per cui i personaggi nella citazione sono non tanto testimoni, ma ‘idee’ valutatrici di eventi:

La trama non corrisponde semplicemente a una vicenda tratta dalla convivenza umana, così come essa potrebbe essersi svolta nella realtà, ma consiste piuttosto in un assieme di fatti opportunamente ordinati in cui si esprimono le idee sulla convivenza umana del loro inventore. Così i personaggi non sono semplici copie di persone vere ma figure costruite e formate secondo certe idee.116

Modellare un personaggio in funzione delle idee, come proponeva Brecht, significa trasformarlo in una di quelle imago, di cui parla Roland Barthes, cioé in un «personaggio esemplare, un exemplum, un pezzo di ricambio (une pièce détachable) che comporta un senso».117 Per Brecht, scegliere delle imago, significa «fare il vuoto del personaggio. Vuoto psicologico, certo. Ma anche vuoto storico. Ed anche vuoto ideologico»,118 per arrivare all’uomo della massa, il più ordinario, passivo, senza carattere, senza identità (Galy Gay, Arturo Ui, ecc.), cioé letteralemente un nessuno.119 Anche le figure ‘senza qualità’ del teatro di Pommerat, generalmente ordinarie, banali, passive, senza parola organizzata, senza vita autonoma, né identità, rappresentano qualcosa di «vuoto sul piano umano».120 In altre parole, sono dei non- personaggi, come li definisce l’autore, o dei personaggi invisibili, come la donna, assente, protagonista di Atteintes à sa vie di Martin Crimp: «Lei dice di essere non un vero personaggio, come nei libri o alla televisione, ma un non-personaggio, un’assenza – come dice – di personaggio».121 Questi non- personaggi sono quindi delle figure spettrali senza consistenza, dei

115 J. Pommerat, Journées d’études all’Université de Paris 3 – Sorbonne Nouvelle, cit. 116 B. Brecht, Aggiunte al Breviario, in Scritti teatrali, v. II, L’acquisto dell’ottone, Breviario di estetica teatrale e altre riflessioni 1937-1956, Torino, Einaudi, 1975, p. 188. 117 R. Barthes, Œuvres complètes, tome II: 1966-1973, Éditions du Seuil, Paris, 1994, p. 933. 118 Jean-Pierre Sarrazac, La Parabole ou l’enfanceduthéâtre, Circé, coll. «Penser le théâtre», Belfort, 2002, p. 217 119 In francese ‘nessuno’ si dice ‘personne’, ma ‘personne’ vuole anche dire ‘persona’. Valère Novarina gioca su quest’ambiguità quando ripete in tutti i suoi testi, teatrali e non, che il personaggio che l’attore recita é ‘personne’. Cfr. V. Novarina, Le théâtre de parole, Paris, P.O.L., 2000. 120 J. Gayot, J. Pommerat, Joel Pommerat, troubles, cit., p. 66. 121 M. Crimp, Le Traitement, Atteintes à sa vie, Paris, L’Arche, 2006, p. 149.

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prototipi di queste entità passive, vuote, ma proprio per questo in grado di captare le contraddizioni dell’esistenza umana. «I personaggi su cui lavoriamo sono come ombre che ci accompagnano e quando arriviamo sul palcoscenico, possiamo avere l’impressione di arrivare insieme a tutte queste ombre».122 Figurine mute, immobili e isolate nell’astrazione dello spazio scenico, gli attori di questo teatro d’ombre, la cui recitazione ha evacuato qualsiasi illusione mimetica, rimandano alle ‘figure’ sconsolate che aspettano, sedute, stese o in piedi, nei quadri di Bacon.

La Figura è isolata nel quadro. Perché? Bacon lo dice spesso: per scongiurare il carattere figurativo, illustrativo, narrativo, che la Figura avrebbe necessariamente se non fosse isolata. La pittura non ha né modelli da rappresentare, né storie da raccontare. A partire da questo, ci sono due strade possibili per sfuggire al figurativo: verso la forma pura, attraverso l’astrazione; oppure verso il puro figurale, per estrazione o isolamento. […] La Figura seduta sulla sedia, stesa sul letto, a volte sembra aspettare che succeda qualcosa. Ma quello che succede, o sta per succedere, o è già successo, non è uno spettacolo, una rappresentazione. Gli ‘attendants di Bacon, non sono degli spettatori. Nei suoi quadri, sorprendiamo lo sforzo di Bacon di eliminare lo spettatore, e quindi lo spettacolo.123

Come gli attendants di Bacon, le eteree ‘presenze’ di questo teatro di non- personaggi sono delle ‘composizioni immaginarie’, delle figure indeterminate, indistinte, in grado di captare le contraddizioni di elementi disparati e sfuggenti, dai mille volti sovrapposti, le nebulose di differenti identità, la molteplicità di differenti personalità, su cui si viene a innestare l’immaginario dell’attore. Gli attori incarnano queste figure per «dare corpo al loro immaginario, svelarne l’interiorità, mischiare interiorità ed esteriorità, e mostrarne la vita interiore, come avviene in letteratura».124 I personaggi, composti da elementi oggettivi e dall’immaginario che li accompagna, sono quindi un misto di biologia e di leggenda, di corpo e d’immaginario, esattamente come il personaggio di un romanzo, sul quale il lettore proietta immagini contraddittorie che si confondono per dare vita ad una figura dai contorni vaghi e sfumati.

Anche se, leggendo un libro, sentiamo una grande familiarità con il personaggio, alla fine ci rendiamo conto che questo effetto di vicinanza era fallace. Anche se lo sentivamo fortemente vicino, la precisione dei tratti ci sfuggiva, così come la forma precisa del suo corpo. Anche se avevamo la sensazione di una certa precisione, in realtà, nella composizione immaginaria di quella persona, si sono mischiati, a volte in modo contraddittorio, tutta una serie di volti, di corpi e di elementi concreti e astratti. Per comporre un essere,

122 R. Olaizola, Au plus près de nous. Entretien avec Claudine Galea , in «Ubu, scènes d’Europe», n. 37/38, avril 2006, p. 84. 123 Gilles Deleuze, Le Rond, la Piste, in idem, Francis Bacon. Logique des sensations, Paris, éditions de la Différence, 1994, p. 9 e 15. 124 J. Gayot, J. Pommerat, Joel Pommerat, troubles, cit., p. 46.

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che sia nello stesso tempo vero e multiforme, nel nostro spirito si sovrappongono molti elementi diversi. Tuttavia, il viso, il corpo, la personalità di questo essere immaginario hanno la complessità effettiva, giusta, della relazione che noi intratteniamo con il mondo che ci circonda, che é opaca, sfuggente, ambigua.125

Il non-personaggio si avvicina a quello che Jean-Pierre Sarrazac definisce l’impersonaggio, colui che «avendo perso lo statuto di eroe, e coincidendo sempre più con l’uomo ordinario»,126 diventa «un personaggio aperto a tutti i ruoli, a tutte le possibilità dell’umana condizione e permette quindi una disponibilità infinita, può prendere qualunque forma, quindi anche la più piccola dimensione, la nostra».127 I personaggi ‘ordinari’ di Pommerat assomigliano alle minuscole figurine di Giacometti, assimilabili a «quel punto prezioso in cui l’essere umano è riportato a ciò che ha di più irriducibile: la solitudine di essere esattamente equivalente a tutti gli altri».128 I non-personaggi di Pommerat rappresentano prima di tutto dei rapporti umani tipici, delle figure archetipali. La famiglia è quella cellula semplice, fatta di combinazioni elementari, intorno alla quale la maggior parte di queste ‘presenze’ senza nome, si agglomerano, declinando unicamente un grado di parentela. Esse sono prima di tutto figli, sorelle, madri, padri, suoceri, matrigne.

Quando un personaggio sulla scena dice ‘papà’ o ‘mamma’, ha già detto tutto. Le storie dei padri e dei figli rappresentano degli strumenti, un macchinario che mi permette di portare alla luce una materia che non si può ridurre a sola psicologia. Mi servo di questi schemi, perché non saprei esprimere in altro modo la musica che producono, le risonanze che svelano.129

In Au Monde, per esempio, le tre sorelle si chiamano semplicemente ‘la figlia maggiore’, ‘la seconda’, ‘la più piccola’, e sono coadiuvate da un generico Padre, dal Marito della figlia maggiore, dal Figlio maggiore e dal Figlio minore, che é l’unico ad avere un nome: Ori. Altre volte, la parentela é più complessa, dando luogo a perifrasi molto fantasiose, con evidente intento comico, come in Cendrillon, dove la matrigna diventa l’‘ex-futura moglie del padre della figlia giovanissima’ (l’‘ex-future femme du père de la très jeune fille’).130 Altre volte, i legami familiari servono a svelare l’Edipo che affligge un personaggio. Sempre in Cendrillon, alla sua prima attesissima apparizione, il giovanissimo principe (le très jeune prince), grassoccio e scostante, canta in pubblico la canzone di Cat Stevens, Father

125 J. Pommerat, Théâtres en présence, cit., p. 31. 126 J. P. Sarrazac, Poétique du drame moderne, cit., p. 217 127 Cf. J. P., Sarrazac, Poétique, cit., p. 232 e. 241 128 J. Genet, L’Atelier d’Alberto Giacometti, Paris, L’Arbalète, 1995, non paginato. 129 J. Pommerat, Ouvrir des puits, «Ubu Scène d’Europe», nn. 37/38, Avril 2006, p. 63. 130 J. Pommerat, Cendrillon, Paris, Babel, coll. «Théâtre», 2013.

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and Son, che dedica, con grande emozione, a suo padre.131 Ma quasi sempre i gradi di parentela con cui sono ‘nominati’ i personaggi servono a sottolineare la parte di rimosso, di non detto o di ambiguità che si nasconde dietro le relazioni familiari. Per esempio, nei Marchands, si forma sotto i nostri occhi una coppia molto discussa e discutibile:

Un giorno, lo zio della mia amica e la sorella della mia amica si sono sposati, tra loro. Vista dall’esterno, quest’unione sarebbe potuta sembrare un fatto di natura molto speciale, strano anche, ma lo zio della mia amica era soltanto il fratellastro del padre della mia amica e di sua sorella. Il matrimonio era dunque un matrimonio rispettabile e soprattutto era un vero matrimonio d’amore.132

Il neutro candore con cui la narratrice cerca di descrivere il legame che unisce questa coppia, il confuso giro di parole, intricato e un po’ artefatto, con cui sembra voler mascherare la natura di una parentela, che a prima vista sembrerebbe contro natura, acuisce ancor più il sospetto di una relazione tra consanguinei, su cui plana il dubbio dell’incesto – la cui ombra aleggia peraltro su molti altri componenti delle ‘famiglie’ di Pommerat. Il legame di parentela é talmente associato alla concezione del personaggio, che, a proposito degli attori, Pommerat afferma: «Chiedo ai miei attori di dimenticare la loro identità d’attore e di essere semplicemente i figli dei loro genitori, tutto qui».133 Indicatori del reale, sentinelle, segni o formazioni significanti, gli attori sembrano rappresentare dei sintomi, quel «punto di articolazione del reale e dell’illusione, il cui nodo é il soggetto che lo porta. Più che una patologia, sono una ‘forma di esistenza’ (psichica)».134 Supporti di questa forma di esistenza psichica, gli attori sono il «punto d’appoggio di queste presenze», e crescono con loro: ogni attore rappresenta infatti la declinazione di uno stesso personaggio, della stessa idea, «dello stesso soggetto»,135 ‘pronipoti’ di una vera e propria ‘generazione’ di personaggi. In questo senso, attori e personaggi evolvono in un curioso parallelismo. L’attore Pierre-Yves Chapalain, per esempio, dopo essere stato ‘figlio’, é diventato uomo d’affari, poi ministro:

131 «Mesdames et messieurs, celui que vous attendez depuis tellement longtemps, le prince de Wagram et de Normandie, chante pour vous ce soir et en anglais une chanson qu’il dédie à sa famille et plus particulièrement à son père». J. Pommerat, Cendrillon, cit., p. 80. 132 J. Pommerat, Les Marchands, cit., p. 13. Siamo noi che sottolineiamo. 133 J. Pommerat, Théâtres en Présence, cit., p. 11. 134 P. L. Assoun, Marx et la répétition historique, Paris, Quadrige / Presses Universitaires de France, 1999, p. 12. 135 R. Olaizola, Au plus près de nous. Entretien avec Claudine Galea, cit., p. 84.

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Da figlio, il mio personaggio – dice significativamente Pierre-Yves Chapalain – si é trasformato in un uomo, diciamo più ‘realizzato’. C’é sempre un piccolo cambiamento. La materia principale é costituita dall’attore che é sulla scena, e siccome io non cambio in modo radicale, si tratta di piccoli cambiamenti. Per seguire l’evoluzione di un personaggio, sarebbe interessante vedere tutti gli spettacoli uno dietro all’altro.136

Talvolta, un attore può anche incarnare più figure, che intrattengono tra loro affinità più intime, segrete. Ė il caso di Saadia Bentaïeb, a cui la piccola statura conferisce un aspetto ‘senza età’ e che recita, in genere, sia ruoli di bambina che di donne anziane, come se la fragilità legata alla fanciullezza e alla vecchiaia facesse, di queste opposte età, due momenti contigui del ciclo vitale. Inoltre su ogni personaggio e su ogni attore si accumulano gli strati delle scritture e delle opere precedenti.

Assistiamo alla nascita del personaggio e lavoriamo fino a quando questo non prende forma. […] Alla fine, il personaggio che creiamo contiene sia il testo che é stato tagliato, sia quello che é stato conservato. Come se ci fossero degli strati e questi strati si sovrapponessero e si arricchissero gli uni con gli altri.137

Il ‘personaggio’ nasce quindi alla confluenza di più scritture, comprese quelle che il palinsesto ha finito per occultare, ma che l’attore non può non ricordare, poiché il testo é cresciuto, evoluto con e grazie a lui.138 Questa ‘con-crescita’ del ‘personaggio’ e dell’attore ha degli effetti che vanno ben al di là della permanenza, nella memoria e nel corpo dell’attore, di versioni ‘rimosse’ del testo. Infatti, visto che Joël Pommerat lavora sempre con gli stessi attori, i corpi di questi ultimi diventano degli autentici archivi su cui si accumulano le esperienze dei personaggi precedenti. In un certo senso, é come se, ad ogni spettacolo, Pommerat scrivesse la sua pièce non solo insieme e con gli attori, ma anche, letteralmente, sugli attori, di cui utilizza la materia poetica e la stratificazione dei personaggi.139 Seguire la

136 Pierre-Yves Chapalain, Des arrière-petits enfants du personnage. Entretien avec Claudine Galea, in «Ubu Scène d’Europe», nn. 37/38, avril 2006, p. 91. 137 R. Olaizola, Au plus près de nous . Entretien avec Claudine Galea, cit., p. 84. 138 Pommerat non manca mai di ringraziare la sua ‘famiglia’ di attori che lo ha aiutato a scrivere i suoi testi. Vedi, per esempio, la dedica pubblicata nella prefazione della Réunification: «A Saadia Bentaïeb, Agnès Berthon, Yannick Choirat, Philippe Frécon, Ruth Ozaiola, Marie Piemontese, Anne Rotger, David Sighicelli e Maxime Tshibangu che mi hanno accompagnato nella scrittura di questo testo». In J. Pommerat, La réunification des deux Corées, Arles, Actes Sud-Papiers, 2014, p. 5. 139 In questo senso, gli attori-personaggi degli spettacoli di Pommerat assomigliano a quei ‘maestri di vita’, di cui parla Saramago: «In un certo senso, potremmo dire che, lettera dopo lettera, parola dopo parola, pagina dopo pagina, libro dopo libro, sono arrivato successivamente ad impiantare nell’uomo che sono stato, i personaggi che ho creato. Ora sono capace di vedere chiaramente chi furono i miei maestri nella vita, coloro che mi hanno insegnato il duro mestiere di vivere, queste decine di personaggi di teatro che vedo sfilare davanti ai miei occhi, quegli uomini e quelle donne fatti di carta e d’inchiostro, persone che

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produzione di Joël Pommerat può dare talvolta l’impressione di essere alle prese con una telenovela infinita in cui i personaggi invecchiano con gli attori e con gli spettatori, in una vicinanza, in una familiarità che nessuno straniamento riesce a smentire fino in fondo e che costituisce una delle componenti fondamentali del suo teatro. Gli attori di Pommerat, vero e proprio «capitale artistico» della ricerca della compagnia, costituiscono l’intelligenza collettiva del suo piccolo teatro d’arte; essi contengono un sapere comune accumulato in molti anni e formano quella ‘biblioteca’ mobile a cui l’autore può attingere durante le prove, esattamente come quando si sfoglia un libro alla ricerca di un determinato brano.

Lavoro anche con tutto quello che si é depositato in loro in questi cinque, otto, dieci anni. Se scelgo questi attori – conclude l’autore – non é solo perché sono degli artisti bravi e intelligenti, ma anche perché, con il passar del tempo, essi diventano i depositari di un sapere che accumuliamo insieme. In Africa si dice che quando un vecchio muore, é tutta una biblioteca che brucia. Quando un mio attore se ne va, sono quattro o cinque anni di lavoro che partono in fumo.140

Il play-back e la poetica del corpo Un altro procedimento diffuso degli spettacoli di Pommerat, é la tecnica del ‘play-back disgiuntivo’. In Au Monde, Ruth Olaïzola che interpreta la donna assunta come impiegata domestica (la femme embauchée dans la maison) alla sua prima apparizione, canta in play-back, davanti al microfono, rivolta frontalmente al pubblico, una canzone di varietà molto sentimentale. All’effetto già di per sé straniante del play-back, si aggiunge però un secondo effetto, ancora più straniante: la voce registrata é quella di un uomo. Malgrado la sorpresa, l’attrice recita in modo talmente naturale, che si potrebbe persino credere che la voce maschile sia veramente la sua. Dice Ruth Olaïzola:

per poter recitare in play-back, devo prima capire, come attrice, che corpo ha questa voce, per integrarla, appropriarmela. Appena si tenta di mimare il cantante o la cantante, non funziona. Il play-back richiede di essere veri, di andare verso quel corpo che nello stesso tempo deve essere il nostro. Bisogna fare in modo che gli spettatori credano che sia l’attrice a cantare, ma che nello stesso tempo dubitino. Il pubblico deve restare con il dubbio e deve chiedersi: é lei che canta, o no?141

credevo di dirigere secondo i miei bisogni di narratore e secondo le mie volontà di autore, come delle marionette le cui azioni non provocavano altro effetto su di me che il peso di mantenerle e la tensione dei fili alla punta dei quali le facevo muovere», cfr. J. Saramago, Comment le personnage fut le maître et l’auteur son apprenti, trad. Michelle Giudicelli, Paris, Mille et une nuits, 1999, pp. 16-17. 140 J. Pommerat, Théâtres en présence, cit., p. 7. 141 R. Olaizola, Au plus près de nous. Entretien avec Claudine Galea, cit., p. 84.

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Ė infatti impossibile disgiungere il corpo dell’attrice dalla voce maschile registrata del play-back, e lo spettatore rimane catturato in un’ambiguità perturbante, tra incertezza e riconoscimento, interrogazione e turbamento. Come dice un personaggio di Cercles/Fictions: «Le apparenze si presentano a noi, in un certo modo, é evidente, ma poi sta a noi non interpretarle in modo completamente folle e assurdo».142 Il play-back aiuta insomma non tanto a ‘simulare’ quanto a scomporre la recitazione, per dar vita ad una specie di recitazione al quadrato. Ė quanto mostra, con mezzi diversi, una scena di Cendrillon, in cui sul cielo azzurro proiettato sui muri del palcoscenico da un video-proiettore, appaiono in sovraimpressione le parole ‘storia’, ‘dire’ e ‘immaginazione’, che un attore (‘l’uomo che fa dei gesti mentre lei parla’), situato al centro della scena, ‘traduce’ in simultanea nella lingua dei segni, grazie ad una coreografia di gesti molto stilizzata. Ė come se l’autore ripetesse, insomma, che, allo stesso titolo della voce, le parole sono ambigue e polivalenti, e che i segni hanno sempre bisogno di essere tradotti, sdoppiati, doppiati. «Le parole sono oggetti galleggianti, infedeli, pronti a fondersi in significati a volte contraddittori».143Come dice la narratrice di Cendrillon:

Le parole sono molto utili, ma possono essere anche molto pericolose. Soprattutto se le capiamo male. Alcune parole hanno molteplici significati. Altre si assomigliano talmente che le possiamo confondere. Non é così semplice parlare e non é semplice ascoltare.144

Dissociando la parola dalla recitazione, la tecnica del play-back serve quindi a rivelare i confini tra l’artificio e il vero, a distinguere la frontiera tra finzione e realtà, rendendo ‘trasparente’ il processo di fabbricazione della maschera, svelandone il montaggio. Il limite tra maschera e recitazione è un tema centrale della sua drammaturgia che Pommerat sviluppa ulteriormente in un altro suo testo: La Grande et fabuleuse histoire du commerce. L’autore ‘smaschera’ le tecniche del venditore porta a porta, mettendo a nudo i meccanismi di un mestiere in cui «il miglior modo di mentire, é quello di essere sinceri».145 Attraverso il mestiere del venditore, vincolato, come l’attore, alla necessità di «fabbricare dell’autentico»,146 Pommerat esplora e mette a nudo il paradosso della recitazione. Al giovane Franck, ancora puro, che rifiuta di vendere la sua anima e di manipolare il cliente, un collega, più navigato, si affretta a spiegare:

142 J. Pommerat, Cercles/Fictions, Arles, Actes Sud-Papiers, 2010, p. 63. 143 J. Pommerat, Théâtres en Présence, cit., p. 20. 144 J. Pommerat, Cendrillon, cit., pp. 9-10. 145 J. Pommerat, Texte de présentation, libretto di sala del Théâtrede Saint-Ouen, espace 1789, novembre 2012, le pagine non sono numerate. 146 Ibidem

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Un buon venditore, è uno che non ti dà mai l’impressione di essere un venditore, uno che ti sta vendendo qualcosa. […] Tu non vendi, mai, levati questa parola dalla testa! Una volta che sei riuscito a penetrare in casa, devi continuare ad interessarti alle persone! Le devi ascoltare, mentre ti raccontano la loro vita, e la loro vita, ti interessa! Anzi gli vuoi proprio bene! Diventano i tuoi amici. E alla fine, quando loro cominceranno a voler bene anche te, allora, in quel momento, tu gli rendi un gran servizio! Accetti di mettere a loro disposizione il tuo prodotto. In cambio, ti daranno dei soldi, ma sei tu che gli stai facendo un favore, non loro. Hai capito?147

Dopo essersi opposto all’ideologia commerciale dei suoi colleghi, il giovane venditore accetta così di indossare la maschera e comincia a recitare la sincerità con tale gusto e con tale successo, da diventare il ‘capo’.

Quello che é vertiginoso nel mestiere di venditore – dichiara Pommerat – é che il miglior metodo, la migliore delle tecniche per colui che l’esercita, é l’autenticità. Il bravo venditore deve lavorare con quello che ha di più sincero: con la sua verità, con quello che ‘é’. Potremmo dire che la tecnica migliore, é quella di riuscire ad essere se stessi (contraddittorio e assurdo: nessuno sa veramente cosa voglia dire ‘essere se stessi’). […] Il paradosso dell’attore diventa per il venditore una maledizione. Un giorno il venditore dimentica di ritirare la maschera dopo la rappresentazione e la maschera diventa pelle.148

Altrove Pommerat denuncia le tecniche ed i meccanismi dell’illusione, mostrando il processo di fabbricazione e di ‘manipolazione’ della marionetta. Nel preambolo scenico di Pinocchio, il presentatore ringrazia la sua banda di attori (delle semplici marionette con maschere di cartone) per averlo aiutato a non mentire mai.

Ed ecco infine tutta una compagnia, una compagnia che é accanto a me ancora oggi. (Appare un’accozzaglia di marionette con delle maschere di cartone). Una compagnia che é qui per aiutarmi e sostenermi nel compito, per me, più importante al mondo: non mentire mai, non dirvi altro che la verità, non deviare mai dalla verità; non uscire mai dalla verità […] Non c’é nulla di più importante che Vivere nella verità.149

Di sicuro, la ricerca dello «smascheramento» dell’illusione, l’instancabile tentativo di giocare «con l’ambiguità del reale, facendo l’esperienza di ciò che è vero e di ciò che non lo è»150 pervade il teatro di Pommerat e fonda la complessità dei suoi personaggi, sempre in bilico tra scelte contraddittorie,

147 J. Pommerat, La Grande et fabuleuse histoire du commerce, Arles, Actes Sud-Papiers, 2012, p. 16 e 20. 148J. Pommerat, Testo di presentazione della Grande et fabuleuse histoire du commerce, pubblicato nel libretto di sala del Théâtre Espace 1789, Saint-Ouen, novembre 2013, non paginato. 149 J. Pommerat, Pinocchio, Arles, Actes Sud-Papiers/CDN de Satrouville, coll. «Heyoka Jeunesse», 2013, pp. 7-8. 150 J. Gayot, J. Pommerat, Joel Pommerat, troubles, cit., p. 66.

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confrontati a situazioni paradossali che provocano quel turbamento che, secondo il vecchio attore Minetti di Thomas Bernhard, costituisce il vero motore dell’arte: «Il mondo vuole distrazione ma bisogna turbarlo turbarlo turbarlo, invece noi oggi vediamo solo un meccanismo di distrazione».151 Mettere personaggi «ordinari in situazioni straordinarie», cioè dinanzi a paradossi insolubili, dilemmi laceranti, è un modo per dislocare lo spettatore spingendolo a «riaprire le percezioni», a trasformarsi, a mettersi «in gioco».152

Nelle mie pièces, quello che mostro è di ordine familiare, ma creo turbamento, ambiguità. Secondo me, questo turbamento può essere un piacere e un gioco. Il turbamento è il momento in cui siamo spiazzati, e non riconosciamo più i nostri riferimenti abituali. In quel momento risvegliamo qualcosa in noi stessi. Siamo nello stupore e nella destabilizzazione. Ci dobbiamo allora mobilitare, come di fronte a un pericolo. Acuire la nostra percezione.153

Il miglior complemento di queste parole ce lo fornisce Brecht quando sottolinea l’aspetto affermativo e dilettevole dello straniamento:

Il teatro dell’era scientifica è in grado di trasformare la dialettica in godimento. Le sorprese dell’evoluzione procedente secondo una logica oppure a sbalzi, dell’instabilità di tutte le situazioni, del sale delle contraddizioni e via dicendo ci fanno godere della vitalità degli uomini, delle cose, dei processi, esaltano l’arte del vivere come la gioia della vita. Tutte le arti contribuiscono alla più grande di tutte le arti: l’arte di vivere.154

La riattivazione della virtualità dell’apparato percettivo dello spettatore confrontato all’insolito é dunque una fonte del diletto della fruizione. Il Presentatore di Cercles/Fictions propone allo spettatore il gioco dell’Infinito, la cui regola é «semplice come l’infanzia»:

CREDERE… semplicemente CREDERE… in VOI… CREDERE… in VOI… SIGNORE e SIGNORI. Prima avevate un solo DIO, unico, in cui credere e sperare. Ora vi propongo di sostituirlo con un altro. Un DIO più indulgente e più comprensivo : si’ VOI STESSI… DIVENTARE il DIO di voi stessi ! e prendere posto al centro, prendere il mio posto al centro di questo cerchio, al centro del cerchio.155

151 T. Bernhard, Minetti, Paris, L’Arche, coll. «Scène ouverte», 1983, p. 27. 152 «Ricordandogli che la sua vita può essere ‘giocata’ in un altro modo; che anche lui, se partecipa a questo gioco, può giocare l’Altro gioco della sua vita. Il gioco di essere, cioé di cambiare», come scrive Daniel Sibony, in Le jeu et la passe, Paris, Seuil, coll. «Identité et théâtre», 1997, p. 13. 153 J. Gayot, J. Pommerat, Joel Pommerat, troubles, cit., p. 73 154 B. Brecht, Aggiunte al Breviario, cit., p.187. 155 J. Pommerat, Cercles/Fictions, cit., p. 37.

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Forse bisogna prendere sul serio quest’appello del Presentatore ad essere indulgenti con se stessi e a mettersi in gioco ogni volta daccapo, prendendo posto accanto a lui sul palcoscenico della vita. Le nuove tecnologie svolgono, a loro volta, un ruolo importante nell’intensificare l’inquietante stranezza degli spettacoli-testi di Joël Pommerat, creando quel dispositivo immersivo – paesaggio sonoro straniante, luci che, invece di illuminare, sembrano sollevare le ombre dell’inconscio – che sfocia, appunto, nella riattivazione dei sensi dello spettatore, stimolandone finanche le percezioni olfattive. Come Anja Hilling, che nella sua scrittura fa ‘provare’ il calore dell’incendio, fa vedere i colori, Pommerat mette in scena gli odori. In uno degli episodi di Cercles/Fictions, un giovane imprenditore incontra in un parcheggio due barbone dall’aspetto ripugnante, che, come le streghe di Macbeth, gli predicono che diventerà il più grande, il numero uno, se si azzarderà a fare l’amore con una di loro. Ancor prima dell’arduo cimento, la profezia comincia ad avverarsi e la resistibile ascesa di questo nuovo Arturo Ui nella scala gerarchica dell’azienda sembra inarrestabile. Appena nominato aiuto direttore finanziario, ad esempio, i suoi superiori cominciano a morire uno dopo l’altro, spalancandogli la strada al posto di direttore generale. E quando l’uomo, dietro consiglio della sua Lady Macbeth, si appresta ad accontentare la barbona per assicurarsi il primo posto, un odore di clochard si diffonde nel teatro. «La materia più consistente del mio teatro si produce nella testa, dunque nel corpo degli spettatori»,156 conclude Pommerat.

La Réunification des deux Corées, ovvero il montaggio Ad ogni spettacolo, Pommerat cambia stile di lavoro, modalità delle prove e dispositivo scenico. Au Monde, era strutturato sulla frontalità; Cercles/Fictions, al teatro delle Bouffes du Nord, sul cerchio; Je tremble sullo spazio sotterraneo (un pozzo, al centro della scena, canalizzava l’immaginario dello spettatore ‘verso il basso’), mentre La reunification des deux Corées157 si sviluppa intorno al mosaico. Riprendendo la forma frammentaria, fondata sulla disgiunzione e il montaggio brechtiano, Pommerat abbandona in questo caso qualunque forma narrativa ‘magistrale’. Se in Je tremble, Cercles/Fiction o Ma chambre froide, si assiste all’incrocio di tre o quattro storie tenute insieme da un unico filo narrativo, la Réunification si sviluppa a partire dalla coordinazione di frammenti indipendenti l’uno dall’altro, come una successione di ‘sequenze’ radicalmente autonome. Anche la scenografia cambia, prevedendo una scena bi-frontale, in cui il pubblico «delle due Coree» si fronteggia su due gradinate opposte e simmetriche, mentre la scena é situata nel corridoio

156 J. Pommerat, Le théâtre a besoin de temps, cit., p. 5. 157 J. Pommerat, La Réunification des deux Corées, Arles, Actes Sud-Papiers, 2013.

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stretto e lungo – «come una pista d’atterraggio»158 – che separa le due gradinate. Precisiamo che la Réunification é composto quindi da una ventina di episodi,159 che costituiscono altrettante variazioni intorno ad un tema unico: la relazione amorosa.160 Pommerat giustappone i vari episodi, secondo un montaggio brechtiano, fondato sulla disgiunzione della narrazione. Ė così che questi nuovi ‘frammenti di un discorso amoroso’ si presentano deliberatamente come l’antagonista rapsodico, paratattico dello stile ‘legato’, tipico del discorso menzognero.

Brecht a sua volta ha fatto il processo alla continuità – spiega Barthes – al discorso concatenato (enchaîné). Tutta la pseudo-logica del discorso – le congiunzioni, le transizioni, la glassa (nappé) dell’elocuzione, insomma la continuità della parola – genera un’illusione di sicurezza. Se il discorso concatenato è indistruttibile, trionfante, il primo modo di attaccarlo è sgretolarne la continuità, facendolo letteralmente ‘a pezzi’.161

Già Barthes aveva notato come un insieme di frammenti produca una rapsodia, nel senso (etimologico) di cucire (raptein): «l’opera si cuce come un vestito; il testo rapsodico implica un’arte originale, come quella della sarta: dei pezzi, degli scampoli sono sottoposti a degli incontri, a degli aggiustamenti, a dei richiami: un vestito non é un patchwork».162 Pommerat ‘cuce’ la sua opera grazie all’uso della tecnica cinematografica, particolarmente suggestiva nella sua versione teatrale, della dissolvenza incrociata. La cucitura viene sottolineata. Mentre una scena non é ancora finita, i personaggi della scena successiva appaiono dal lato opposto del lungo corridoio, visibili nella penombra, in attesa, secondo la tecnica del ‘cambiamento a vista’. In tal modo, le scene si fondono e si accavallano, problematizzando di volta in volta (e in parziale simultaneità) un aspetto diverso del discorso amoroso. Questi frammenti testimoniano del percorso non lineare che caratterizza la ricerca artistica di quest’autore, il cui stile fa pensare al modo in cui Claude Simon parla della narrazione e del suo destino di scrittore:

Mi sembra che il sentiero aperto da Orion aveugle debba ora continuare da qualche parte. Perché é molto diverso dal cammino che segue abitualmente il

158 J. Pommerat, Journées d’études all’Université de Paris 3 – Sorbonne Nouvelle, cit. 159 Divorce, La part de moi, Ménage, Séparation, Mariage, Mort, Philtre, Argent, Clés, Amour, Attente, Guerre, Enfants, Mémoire, L’Amour ne suffit pas, Amitié, Valeur (1°, 2°, 3° partie) e Enceinte. 160 Questo mosaico di frammenti ricorda la struttura dei Frammenti di un discorso amoroso, in cui Roland Barthes attua un tentativo innovativo di teatralizzazione del racconto, creando una sorta di dialogo tra i vari frammenti della narrazione. Cfr. C. Bident, Le geste théâtral de Barthes, Paris, Hermann, coll. «Le Bel aujourd’hui», 2012. 161 R. Barthes, Fragments d'un discours amoureux, Paris, Éditions du Seuil, 1977. 162 R. Barthes, Œuvres complètes V, Livres, textes, entretiens, 1977-1980, Paris, Éditions du Seuil, 2002, p. 463.

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romanziere e che, partendo da un ‘inizio’ arriva ad una fine. Il mio gira e rigira su se stesso, come farebbe un viaggiatore che, perso nella foresta, torna indietro sui suoi passi, va di nuovo avanti, illuso (o guidato) dalla somiglianza di certi luoghi, pur tuttavia diversi, ma che gli sembra di riconoscere, oppure al contrario, dai diversi aspetti di uno stesso luogo, che lungo il percorso, ha incrociato di frequente, essendo ripassato attraverso gli stessi posti già attraversati, e può anche succedere che alla ‘fine’, ci ritroviamo allo stesso posto in cui eravamo all’inizio.163

A questo, si aggiunge il principio d’indeterminazione che si insinua nelle pieghe di ogni singolo episodio e di cui una scena di separazione della Réunification des deux Corées sembra rendere perfettamente conto.

Una stanza da letto, di notte. Una donna finisce di vestirsi, un uomo dorme nel letto. L’UOMO (svegliandosi). Cosa fai ?? Non riesci a dormire ? LA DONNA. Sì. L’UOMO. Sì cosa?? LA DONNA. Sì, riesco a dormire. L’UOMO. Ma allora perché ti alzi? LA DONNA. Me ne vado. L’UOMO. Dove te ne vai? LA FEMME. Da mio fratello. LA DONNA. Sì. L’UOMO. A fare che? LA DONNA. Vado ad abitare da lui. Non ci vedremo più. Ci lasciamo. L’UOMO. Cosa ci lasciamo?? Che succede?? Ė uno scherzo? LA DONNA. No. L’UOMO. Non é successo niente!! Non abbiamo neanche litigato!! LA DONNA. No. L’UOMO. Embé, allora? Sei matta o cosa? Che stai dicendo? Mi lasci? LA DONNA. Si. L’UOMO. Quando hai preso questa decisione?? LA DONNA. Non lo so. L’UOMO. Sei matta. LA DONNA. No, per niente, ho riflettuto molto. L’UOMO. A cosa? LA DONNA. A questo, a noi, all’amore, al nostro amore. E sono sicura… L’UOMO. Sei sicura di che? LA DONNA. L’amore non basta. L’UOMO. Ripeti scusa. LA DONNA. Ci amiamo ma non basta. L’UOMO. Ci amiamo ma non basta? LA DONNA. Sì. L’UOMO. Ma é assurdo. […] Hai incontrato qualcuno? LA DONNA. Assolutamente no. L’UOMO. E mi lasci? LA DONNA. Sì. Comincia ad andarsene. L’UOMO. Ma nessuno ha mai lasciato qualcuno per questo. LA DONNA. Non ne sono sicura.

163 C. Simon, Œuvres, cit., pp. 1182-1183.

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L’UOMO. Invece io ne sono sicuro… Se mi fai questo adesso, non so se ce la faccio, te lo giuro… Dimmi almeno qualcosa… ti prego. LA DONNA (avviandosi verso l’uscita). Mi dispiace veramente. Ti amo, ma non basta. L’UOMO. Ma non é possibile !! LA DONNA. Mi dispiace. L’UOMO. Divento matto. LA DONNA. L’amore in effetti non basta. (Fermandosi, si gira, sembra riflettere.) Si’ è così, lo so è terribile, l’amore non basta. Esce. Noir.164

Il testo è laconico, la recitazione maieutica: davanti all’uomo disperato, Ruth è impenetrabile come una sfinge che lancia il suo enigma in faccia allo spettatore, impattando la sua coscienza.165 Di fronte a questa sequenza enigmatica, lo spettatore è libero di spiegare la separazione della coppia risalendo ad una gamma pressoché illimitata di sintomi precursori. Ė il motivo per cui un’opera come quella di Pommerat è destinata a creare una ricezione a raggiera.166 Infatti per Pommerat, l’incontro col pubblico rappresenta l’ultima fase, l’«ultimo tempo» della scrittura:

In questa fase, un’ultima operazione invisibile, ma concreta, si opera sulle parole, sui gesti, sui corpi, sui silenzi della rappresentazione. Questo tempo non si conclude la sera della prima, al contrario; forse quest’ultimo é il tempo più lungo. La pièce non si conclude quando si finisce di scriverla sulla carta, ma ha ancora bisogno di parecchio di questo tempo per finire di scrivere quello che c’é ‘tra le parole’ del testo, che é costituito di silenzio, ma non solo.167

In uno scritto recente, Jean-Pierre Sarrazac sembra essere arrivato ad una conclusione analoga: «La pulsione rapsodica non si può arrestare, essa prosegue al di là della pièce nello spirito dello spettatore. La pulsione rapsodica possiede questa proprietà discriminante d’illimitare il dramma».168

164 J. Pommerat, La Réunification des deux Corées, cit., p. 77-79. 165 Irresistibile il rapporto con la carenza di motivazione dell’abbandono di Riccardo da parte di Emilia nel Disprezzo di Moravia. La versione cinematografica del romanzo, cioé il celeberrimo Mépris di Jean-Luc Godard non fa che intensificare l’alone di mistero. 166 Non a caso, la seduta del seminario del secondo anno di Master all’Università di Paris 3- Sorbonne Nouvelle, che verteva sull’analisi della Réunification des deux Corées, fu particolarmente animata, in quanto ogni studente ricostruiva secondo una propria logica causale inoppugnabile il percorso che aveva condotto alla separazione della coppia. Era come se il carattere enigmatico della crisi fra i partners facesse di tutte queste ipotesi divergenti dei ‘mondi co-possibili’. 167 J. Pommerat, Le théâtre a besoin de temps, in libretto drammaturgico di Au Monde, éditions du Théâtre National de Strasbourg, gennaio 2004, p. 4. 168 J. P. Sarrazac, Poétique du drame moderne, De Henrik Ibsen à Bernard-Marie Koltès, cit., p. 338.

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Congedo Nell’ultima scena della Réunification, tutti gli attori-personaggi, raggruppati in una sorta di fantasmagoria finale, entrano in scena in una nuvola bianca di fumo, circondata dall’oscurità. In questo piano sequenza di qualche minuto, si intravvede tutta la grazia degli acrobati del circo che in un’ultima sarabanda gioiosa, salutano il pubblico. Ma la loro progressione é al rallentatore, e i giochi di luce della sfera stroboscopica frammentano i loro movimenti in una serie intermittente di fermo-immagine successivi (un effetto ben conosciuto dai frequentatori delle discoteche alla moda). Le loro espressioni vengono così fissate dalla luce sincopata in un susseguirsi di smorfie tragicomiche, mentre il movimento si scompone in una galleria di gesti, facendo degli attori delle marionette irreali. Come dei fantasmi colorati, gli attori-personaggi incarnano così per l’ultima volta l’apparenza dei nostri incubi interiori, in un percorso al rallentatore, che sembra senza fine, come il romanzo teatrale che Pommerat non finisce mai veramente di scrivere. Ad un romanziere spetterà quindi il compito di concludere:

Non ci può essere altra fine se non lo sfinimento (épuisement) del viaggiatore che esplora questo paesaggio infinito (inépuisable). In quel momento, sarà forse concluso ciò che chiamo un romanzo (poiché, come tutti i romanzi, è una finzione che mette in scena dei personaggi impegnati in un’azione), romanzo che ciononostante non racconterà la storia esemplare di qualche eroe o eroina, ma quell’altra storia, completamente diversa, che è l’avventura singolare del narratore che non smette di cercare, scoprendo il mondo a tentoni, dentro e attraverso la scrittura.169

Bibliografia delle pièces di Pommerat:

Pôles e Grâce à mes yeux, Arles, Actes Sud-Papiers, 2003. Au Monde e Mon ami, Arles, Actes Sud-Papiers, 2004. D’une seule main e Cet enfant, Arles, Actes Sud-Papiers, 2005 Le petit chaperon rouge, Arles, Actes Sud-Papiers, «Heyoka Jeunesse», 2005. Les Marchands, Arles, Actes Sud-Papiers, 2006. Je tremble (1), Arles, Actes Sud-Papiers, 2007. Pinocchio, Arles, Actes Sud-Papiers/CDN di Satrouville, «Heyoka Jeunesse», 2008. Je tremble (1) e (2), Arles, Actes Sud-Papiers, 2009. Cercles/Fictions, Arles, Actes Sud-Papiers, 2010. Cet enfant, Arles, Actes Sud-Papiers, 2010. Ma chambre froide, Arles, Actes Sud-Papiers, 2011. Cendrillon, Arles, Actes Sud-Papiers, « Heyoka Jeunesse », 2012, Babel n. 1182.

169 C. Simon, Œuvres, cit., pp. 1182-1183.

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La Grande et Fabuleuse Histoire du commerce, Arles, Actes Sud-Papiers, 2012 Au Monde, nouvelle édition, Arles, Actes Sud-Papiers, 2013

Saggi: Théâtre en présence, Arles, Actes Sud-Papiers, coll. «Apprendre», n. 26, 2007. J. Gayot, J. Pommerat, Joël Pommerat, troubles, Arles, Actes Sud, 2009.

Video dei suoi spettacoli: Ma Chambre froide, COPAT, 2013 Cendrillon, Axe Sud, 2013 Pinocchio, Axe Sud, 2013

Creazioni audio-visive (inedite) 1998. Scrittura e realizzazione di Me (cortometraggio) 1999-2000. Visages (film di 30 minuti) : nell’ambito della sua residenza d’autore, filma, insieme a Marguerite Bordat, 800 volti degli abitanti di Brétigny-sur Orge. 2000-2003. Realizzazione di una dozzina di cortometraggi in video

Teatrografia : Creazioni (date e distribuzione)

1990. Le Chemin de Dakar (Centre culturel du Languedoc di Montpellier ; Paris, Théâtre Clavel) Anne-Claire Guilloteau

1991. (maggio) Le théâtre (Paris, Théâtre de la Main d’Or) Pierre Giraud Lionel Codino Bruno Lebarazer Carole Rouland

1993. (8 gennaio) 25 années de littérature de Léon Talkoi (Paris, Théâtre de la Main d’Or) John Arnold Pierre Aussedat Dominique Bernard Lionel Codino Anne-Claire Guilloteau Isabel Juanpera Charlie Nelson Eric Rey

54 Angela De Lorenzis, Le nuove drammaturgie contemporanee e la recitazione

1994. (19 aprile) Des suées (Paris, Théâtre de la Main d’Or ; Paris, Théâtre du Lierre) Pierre Aussedat Emmanuelle Bougerol Pierre-Yves Chapalain Pauline Guiziou Stéphane Jais Serge Noël Ruth Olaïzola Corinne Picciocchi Raluca Raclis

1994. (3 giugno) Les événements (Paris, Théâtre de la Main d’Or) Emmanuelle Bougerol Philippe Carbonneaux Pierre-Yves Chapalain Pauline Guiziou Stéphane Jais Isabel Juanpera Muriel Piquart Didier Robakowski

1995. (ottobre) Pôles (Montluçon, Théâtre des Fédérés ; Paris, Théâtre de la Main d’Or) Patrick Blondel Pierre-Yves Chapalain Jean-Louis Coulloc’h Gaël Guillet Stéphane Jais Serge Lelay Laurent Lévy Ruth Olaïzola Corinne Picciocci Muriel Piquart

1997. (mai) Treize étroites têtes (Montluçon, Théâtre des Fédérés ; Théâtre Paris-Villette, Brétigny-sur-Orge, Festival di Saarbrück) Saadia Bentaïeb Pierre-Yves Chapalain Lionel Codino Christophe Hatey Stéphane Jais Laurence Jamet

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Maher Kamoun Ruth Olaizola Muriel Piquart

2000. Mon ami (Paris, Théâtre Paris-Villette ; Théâtre de Brétigny-sur-Orge e Guyancourt) Saadia Bentaïeb Agnès Berthon Philippe Carbonneaux Pierre-Yves Chapalain Lionel Codino Christophe Hatey Ruth Olaizola Marie Piemontese

2002. (ottobre) Grâce à mes yeux (Paris, Théâtre Paris-Villette) Saadia Bentaïeb Agnès Berthon Pierre-Yves Chapalain Marc Lador Ruth Olaizola Marie Piemontese

2003. (8 gennaio) Qu'est-ce qu'on a fait ? (Caen, La Comédie) Saadia Bentaïeb Agnès Berthon Lionel Codino Marc Lador Ruth Olaizola Marie Piemontese

2004. (24 gennaio) Au monde (Strasbourg, Théâtre National de Strasbourg) Saadia Bentaïeb Agnès Berthon Pierre-Yves Chapalain Lionel Codino Philippe Lehembre Ruth Olaizola Jean-Claude Perrin Marie Piemontese

56 Angela De Lorenzis, Le nuove drammaturgie contemporanee e la recitazione

2004. (7 giugno) Le Petit Chaperon rouge (Théâtre de Brétigny-sur-Orge) Lionel Codino Saadia Bentaïeb Florence Perrin

2005. (8 febbraio) D’une seule main (Thionville, Centre Dramatique Régional) Ulla Baugué Saadia Bentaïeb Agnès Berthon Pierre-Yves Chapalain Lionel Codino Philippe Lehembre Ruth Olaizola Marie Piemontese Maya Vignando

2006. ( 20 gennaio) Les Marchands (Strasbourg, Théâtre National de Strasbourg) Saadia Bentaïeb Agnès Berthon Lionel Codino Éric Forterre Murielle Martinelli Ruth Olaizola Jean-Claude Perrin Marie Piemontese

2006. (17 aprile) Cet enfant (Paris, Théâtre Paris-Villette) Saadia Bentaïeb Agnès Berthon Lionel Codino Ruth Olaizola Jean-Claude Perrin Marie Piemontese

2007. (25 maggio) Je tremble (1) (Chambéry, Théâtre Charles Dullin) Saadia Bentaïeb Agnès Berthon Hervé Blanc Lionel Codino Ruth Olaizola Jean-Claude Perrin

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Marie Piemontese

2008. (8 marzo) Pinocchio (Paris, Odéon-Théâtre de L’Europe) Pierre-Yves Chapalain Daniel Dubois Florence Perrin Maya Vignando

2008. (19 luglio) Je tremble (2) (Opéra-Théâtre d’Avignon, 62° Festival d'Avignon) Saadia Bentaïeb Agnès Berthon Gilbert Beugniot Hervé Blanc Lionel Codino Éric Forterre Ruth Olaizola Marie Piemontese

2010. (26 gennaio) Cercles/Fictions (Paris, Théâtre des Bouffes du Nord) Jacob Ahrend Saadia Bentaïeb Agnès Berthon Gilbert Beugniot Serge Larivière Frédéric Laurent Ruth Olaizola Dominique Tack

2011. (13 gennaio) Ma chambre froide (Paris, Odéon-Théâtre de L’Europe) Jacob Ahrend Saadia Bentaïeb Agnès Berthon Lionel Codino Serge Larivière Frédéric Laurent Ruth Olaizola Marie Piemontese Dominique Tack

58 Angela De Lorenzis, Le nuove drammaturgie contemporanee e la recitazione

2011. (5 luglio) Thanks To My Eyes (Festival d'Aix en Provence) Hagen Matzeit Brian Bannatyne-Scott Anne Rotger Keren Motseri Fflur Wyn Antoine Rigot

2011. (11 ottobre) Cendrillon (Bruxelles, Théâtre National ; Odéon-Théâtre de l’Europe Ateliers Berthier) Alfredo Cañavate Noémie Carcaud Caroline Donnelly Catherine Mestoussis Deborah Rouach

2011. (12 dicembre) La Grande et Fabuleuse Histoire du commerce (Béthune, La Comédie) Patrick Bebi Hervé Blanc Eric Forterre Ludovic Molière Jean-Claude Perrin

2013. (17 gennaio) La Réunification des deux Corées (Paris, Odéon-Théâtre de L’Europe Ateliers Berthier) Saadia Bentaïeb Agnès Berthon Yannick Choirat Philippe Frécon Ruth Olaizola Marie Piemontese Anne Rotger David Sighicelli Maxime Tshibangu

2014. (8 gennaio) Une année sans été (Douai, L’Hippodrome) Carole Labouze Franck Laisné Laure Lefort Rodolphe Martin Garance Rivoal

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2014. (30 marzo) Au monde – opéra (Bruxelles, Théâtre national de La Monnaie) Frode Olsen Werner Van Mechelen Stéphane Degout Charlotte Hellekant Patricia Petibon Fflur Wyn Yann Beuron Ruth Olaizola

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Anno IV, numero 8 – Novembre 2014

Mauro Petruzziello

Attore, performer, recitazione nel nuovo teatro italiano degli anni Zero

Una microstoria Diversi gruppi nella prima decade del duemila si sono affacciati sulla scena del teatro italiano, tra questi Anagoor, Babilonia Teatri, Città di Ebla, Codice Ivan, CollettivO CineticO, Cosmesi, Dewey Dell, Fibre Parallele, gruppo nanou, Menoventi, Muta Imago, Opera, Orthographe, Pathosformel, Silvia Costa/Plumes Dans La Tête, ricci/forte, Santasangre, Alessandro Sciarroni, Teatro Sotterraneo. Essendo quasi tutte formazioni ancora in attività e in continua ridefinizione, non è possibile catturare una loro immagine definitiva, ma un’istantanea che fissi l’esistente a partire dalla sua condizione di movimento. Un attendibile punto di partenza di una microstoria che raggruppi le formazioni che abitano la scena italiana degli anni Zero – da cui, per comodità, la definizione di gruppi degli anni Zero – sono i primi cinque anni del nuovo millennio. In questo periodo si assiste alla nascita di alcune esperienze che nel corso del decennio svilupperanno continuativi percorsi di ricerca e sperimentazione: tra il 2000 e il 2001 vengono alla luce Anagoor e Santasangre, nel 2003 Cosmesi, nel 2004 Città di Ebla, gruppo nanou, Pathosformel, Menoventi, Muta Imago e Teatro Sotterraneo e nel 2005 Opera e Orthographe. Volendo procedere a una localizzazione geografica dei loro luoghi di nascita si può osservare un addensamento in Romagna (Città di Ebla, gruppo nanou, Menoventi, Orthographe), area geografica che già negli anni Ottanta aveva prodotto compagnie che hanno segnato e continuano a segnare la sperimentazione sul linguaggio teatrale (Teatro delle Albe, Teatro Valdoca, Socìetas Raffaello Sanzio) e, successivamente, grazie ad amministrazioni politiche capaci di investire su cultura, arte, festival, aveva generato il fenomeno della ‘Romagna Felix’ nel quale hanno potuto cominciare ad articolarsi le ricerche di vari gruppi formatisi negli anni Novanta e tuttora in attività: Fanny & Alexander, Masque Teatro, Motus, Teatrino Clandestino (sebbene questi ultimi non propriamente romagnoli, ma di Bologna). Non si può, invece, ricondurre ad un unico punto geografico di irradiazione il resto dei gruppi qui presi in esame: in Veneto vedono la luce Anagoor e nel 2006 Babilonia Teatri ma,

 Allegati all’articolo: materiali video ed iconografici consultabili on line su Acting Archives Review, numero 8 – Novembre 2014 (www.actingarchives.it cliccando su ‘Review’). Per visualizzare i video cliccare sui link o digitare ctrl + tasto sinistro del mouse.

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© 2014 Acting Archives AAR Anno IV, numero 8 – Novembre 2014

frequentando entrambi un corso di teatro e arti visive allo IUAV di Venezia, si incontrano anche Daniel Blanga Gubbay e Paola Villani, ovvero i Pathosformel; nella provincia più estrema friulana nascono i Cosmesi, in Toscana il Teatro Sotterraneo, mentre a Roma Santasangre e Muta Imago. Sia quelli dei singoli componenti che quelli dei gruppi sono percorsi fra loro differenti, accomunati, come sottolineerò più avanti, da un approdo al teatro inteso come unico medium capace di sintetizzare diversi linguaggi. C’è chi viene dalle arti visive (Eva Geatti e Nicola Toffolini dei Cosmesi, che proseguono una parallela attività in questo campo, ma anche Daniel Blanga Gubbay dei Pathosformel e Maria Carmela Milano, ex componente fondatrice dei Santasangre), chi da studi di scenografia (Diana Arbib e Pasquale Tricoci dei Santasangre), chi dal design (Paola Villani), chi da studi musicali (Roberto Rettura del gruppo nanou e Dario Salvagnini dei Santasangre), chi dalla ginnastica artistica (Rhuena Bracci del gruppo nanou), ma anche da scuole di teatro (Marco Valerio Amico del gruppo nanou e Claudia Sorace dei Muta Imago, entrambi dalla Scuola d’Arte Drammatica Paolo Grassi di Milano). In molti casi, anche quando la provenienza non è teatrale stricto sensu, vale a dire che quella teatrale non si costituisce come cartina di tornasole dell’esperienza di formazione, essa appare accanto a numerose altre attività formative: è il caso di Claudio Angelini di Città di Ebla, che agli studi di ingegneria affianca esperienze con Antonio Latella, di Valentina Bravetti della stessa compagnia che frequenta un seminario sul personaggio condotto da Antonio Latella e partecipa alla Scuola di Formazione Superiore per l’Attore Non di Repertorio diretta da Cesare Ronconi e Mariangela Gualtieri (Teatro Valdoca), di Luca Brinchi dei Santasangre che prende parte ad alcuni seminari del Teatro del Lemming. In ogni caso molti di questi percorsi formativi passano anche attraverso il lavoro in produzioni di compagnie già consolidate che valgono come una sorta di praticantato attivo: Marco Valerio Amico del gruppo nanou nell’Iliade (2002) del Teatrino Clandestino; Eva Geatti dei Cosmesi in Vacancy Room (2001) dei Motus, Madre e assassina (2004) del Teatrino Clandestino fino a Le cognate (2008) di Teatri di Vita e partecipando alle performance di Teddy Bear Company; Valentina Bravetti di Città di Ebla con il Teatro Valdoca di Imparare è anche bruciare (2003) e con Paola Bianchi in alcune delle Visioni irrazionali (2007) e, per venire ad artisti il cui ingresso sulle scene avverrà con una leggera sfasatura temporale rispetto a quelli presi finora in considerazione, Alessandro Sciarroni con Lenz Rifrazioni e Licia Lanera e Fabrizio Spagnulo, ovvero Fibre Parallele, la cui formazione avviene in circuiti che esulano da quelli della ricerca e abbracciano il teatro popolare con la Compagnia Alfredo Vasco di Bari. Spesso quella teatrale può essere considerata una forma di ‘alfabetizzazione secondaria’ nel senso che, nel momento in cui vi è l’approdo al settore in

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maniera professionistica, la maggior parte dei membri delle compagnie mette in campo processi di formazione e autoformazione frequentando assiduamente sia spettacoli legati alla sperimentazione teatrale sia laboratori e workshop sia occasioni di scambio quali i momenti appositamente organizzati.1 Parimenti diversificata è la storia di ogni gruppo per quanto riguarda le infinite traiettorie che lo hanno orientato verso il teatro: i Santasangre provengono da una militanza nei rave e nei locali underground con una programmazione di musica elettronica e industrial nei quali facevano irruzione con azioni performative spesso legate alla body-art più estrema da cui si sono progressivamente allontanati quando l’impatto col teatro ha generato altri tipi di interrogativi legati a istanze drammaturgiche;2 i Cosmesi, come si è già accennato, considerano naturale far slittare nel teatro la loro esperienza nel campo delle arti visivi e il loro interesse nei confronti dell’architettura; altri gruppi hanno il teatro più marcatamente iscritto nel DNA proprio in virtù di un’affinità elettiva che li ha sempre spinti verso questa forma artistica (Babilonia Teatri, Fibre Parallele, Teatro Sotterraneo). Consolidando quella che è diventata una ‘tradizione della sperimentazione’, i primi spettacoli di queste formazioni non necessariamente nascono e vengono ospitati da strutture teatrali ufficiali, la cui programmazione si mostra recalcitrante ad accogliere e sostenere formati che non rispondono a canoni già cristallizzati. Dalla fine degli anni Sessanta, infatti, molti degli esponenti della ricerca sviluppano i loro percorsi artistici in case del popolo, dopolavoro, circoli ARCI e anche – fenomeno tipicamente romano – nelle cosiddette cantine. Ovviamente le diverse fisionomie di questi spazi, lungi dall’essere passivamente accettate come contenitori a cui adattare la proposta spettacolare, vengono introiettate nel processo costruttivo dell’opera, come nel caso degli ‘studi per ambiente’ del Carrozzone in cui, con una volontà di azzeramento dell’elemento spettacolare, l’evento è determinato anche, se non soprattutto, dalle relazioni che intercorrono fra la presenza dei performer e gli spazi di volta in volta diversi. Come per le formazioni degli anni Novanta, in alcuni casi i primi spettacoli di questi gruppi nascono o

1 Fra questi mi preme ricordare Aksè. Si tratta di una serie di quattordici periodi di residenze creative non finalizzate alla produzione che, in vari luoghi fra il 2005 e il 2011, per iniziativa del gruppo nanou sono nate con lo scopo di generare condivisione, apertura e confronto fra i gruppi, di volta in volta diversi, che partecipavano potendo osservare il lavoro degli altri e discutere insieme in momenti in cui la convivialità era il meccanismo generativo delle varie riflessioni. Per questa esperienza, mi permetto di segnalare il libro, da me curato, Aksè. Vocabolario per una comunità teatrale, Mondaino, L’arboreto edizioni, 2012. 2 Il primo spettacolo dei Santasangre, Celle silenziose (2003), nasce anche come montaggio di quanto sviluppato nelle performance per i rave e locali underground (Dalla colonia penale, 2001; 0-Trame, 2001; Wunderkammer, 2002), ovvero come momento in cui all’irruzione performativa si sostituisce la necessità di un respiro drammaturgico più complesso.

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circuitano in centri sociali e spazi autogestiti,3 la cui abituale programmazione ospita forme d’arte disparate (fotografia, cinema, musica, videoarte) e altrettanto diversi formati (restrospettive, mostre, istallazioni, concerti, dj set, vj set) che nei gruppi che nascono e si sviluppano in queste situazioni, grazie a una sorta di processo osmotico, generano un’attitudine interdisciplinare al lavoro sul formato teatrale e viceversa una teatralizzazione degli altri linguaggi. Allo stesso modo, come per le formazioni che li hanno preceduti, i primi spettacoli dei gruppi degli anni Zero sono essenzialmente delle autoproduzioni o delle produzioni che intercettano fondi occasionali che non consentono una progettualità a lunga gittata. Se, ad esempio, molte compagnie degli anni Novanta, una volta avviata e consolidata la loro attività artistica, avevano potuto contare su finanziamenti ministeriali, le nuove formazioni percepiscono subito che, in virtù di una situazione economica che ha reso il Paese più sofferente, occorre riconfigurare il sistema economico-produttivo con cui alimentare la propria necessità di esistere.4 Nemmeno i teatri stabili di innovazione, che avrebbero dovuto tutelare le nuove realtà, riescono a sollevarsi da una situazione di stasi, rinunciando così alla loro funzione. In alcuni casi la necessità di esistere in condizioni non più favorevoli porta alcuni gruppi a organizzare autonomamente spazi di confronto e di circuitazione. È il caso degli Anagoor, i quali nel 2003 creano In Forma Di Festival, che offre sia residenze creative sia una vetrina in cui far circuitare esperienze legate al mondo del teatro, della danza, della musica e dell’arte-video. Il progetto nasce a Castelfranco Veneto, città madre del gruppo, e dal 2008 si sposta a Castelminio di Resana , dove agli Anagoor viene affidato lo spazio de La Conigliera, che diventa il loro quartier generale. Sin dall’inizio il gruppo veneto si apre a una capillare operazione di promozione e diffusione dei linguaggi contemporanei sul suo territorio, non solo attraverso la propria attività creativa e il progetto di accoglienza In Forma Di Festival, che ben presto finisce per inserirsi nella programmazione del festival più strutturato OperaEstate ma anche istaurando rapporti con le scuole e creando laboratori per la formazione di un nuovo pubblico.5 Nel 2006, questa necessità di auto organizzarsi spinge i Santasangre, una volta ultimato il teatro che porta il loro nome negli spazi del Kollatino

3 Se per la ‘stagione’ teatrale degli anni Novanta erano stati attivi soprattutto Interzona di Verona, il Link di Bologna, il Leoncavallo di Milano, per quella degli anni Zero mi preme sottolineare il Kollatino Underground e il Rialto Santambrogio di Roma, il circolo ARCI Officina 49 di Cesena e il TPO – Teatro Polivalente Occupato di Bologna, la cui attività, più che spettacoli, ha ospitato seminari e laboratori. 4 Attualmente i gruppi finanziati dal MiBACT sono solo gruppo nanou, Santasangre e CollettivO CineticO – tutti con finanziamenti per il settore danza – e oltretutto con cifre notevolmente più basse rispetto a quelle delle compagnie degli anni precedenti. 5 Si tratta di un festival che attualmente coinvolge quaranta città del Veneto.

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Underground, centro sociale occupato nella periferia di Roma, a rivolgersi ad altre giovani compagnie di ricerca tramite un appello in Rete, volto a reperire adesioni per costruire l’ossatura della prima edizione di Ipercorpo. Il festival prende il nome dall’omonimo libro curato da Paolo Ruffini,6 in cui una serie di registi, attori, architetti, sociologi, musicisti, fotografi, con i loro saggi contribuiscono alla riflessione sul concetto di corpo in rapporto alla contemporaneità. Nella primavera del 2006, negli spazi del Kollatino Underground va dunque in scena la prima edizione del festival, al quale, oltre agli organizzatori Santasangre, partecipano Città di Ebla, Cosmesi, gruppo nanou e Offouro.7 Alla prima edizione fa subito seguito una seconda, tra settembre e novembre dello stesso anno, a Forlì: gli organizzatori, Città di Ebla, mettono in cartellone le altre quattro compagnie della rassegna romana (alle quali si aggiunge Paola Bianchi) e ne declinano a loro modo il formato aprendola a una serie di incontri con studiosi, filosofi, critici d’arte, designer (Da2 Strategic Design, Pier Luigi Tazzi e Andrea Lissoni, Elio Grazioli e Rocco Ronchi, Alessandra Violi, Matteo Roffilli, Viviana Gravano e il sottoscritto). Alla terza edizione, ancora una volta negli spazi del Kollatino Underground di Roma, partecipano i gruppi di questo nuovo network unitamente ad alcune compagnie che si sono formate prevalentemente negli anni Novanta: Accademia degli Artefatti, Habillé D’Eau, Margine Operativo, Masque Teatro, Motus e Teatro del Lemming.8 Quello che appare come il definitivo intensificarsi di una rassegna senza fissa dimora è invece l’ultima edizione con questo proposito: da allora fino ad oggi Ipercorpo, giunto alla sua quattordicesima edizione, viene organizzato annualmente a Forlì da Città di Ebla.9 A sopperire, in parte, al vuoto istituzionale intervengono dei progetti nati per sostenere la creatività giovanile. Sebbene declinati secondo modalità e finalità diverse, il tratto che li accomuna è la loro struttura a rete, vale a dire il loro essere organizzati come connessione fra associazioni, residenze creative, festival. Tale struttura organizzativa esprime sicuramente la

6 Paolo Ruffini è un intellettuale romano che col suo accompagnamento critico ha contribuito a far coagulare la scena della sperimentazione teatrale degli anni Novanta. Il libro da lui curato a cui faccio riferimento è Ipercorpo, Roma, Editoria & Spettacolo, 2005. 7 Fra queste compagnie dalle estetiche profondamente diverse si crea un legame-network embrionale non certo volto a moltiplicare le possibilità di mercato ma una strategia che permetta loro, attraverso il confronto paritario, di crescere artisticamente. Per una prima ricognizione su queste realtà, si veda il libro, da me curato, Iperscene, Roma, Editoria & Spettacolo, 2007. 8 I romani Margine Operativo e il Teatro del Lemming di Rovigo sono le uniche formazione non nate durante gli anni Novanta. I primi iniziano la loro attività nel 2001 mentre i secondi nel 1987. 9 Dall’edizione 2013 Ipercorpo ospita anche Italian Performance Plataform, sezione del festival in cui alcune compagnie italiane presentano i loro lavori ad organizzatori e programmatori italiani e soprattutto europei.

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volontà di esercitare un maggiore potere di affermazione, ma è anche il portato più esplicito del sistema modellizzante offerto da internet, che a metà del primo decennio del Duemila, dopo l’implosione della new economy di fine anni Novanta, vede nascere il web 2.0, basato non più su siti statici ma su piattaforme di condivisione, forum e blog e, in una seconda fase, sui social network. È per il mondo della danza contemporanea che in primo luogo nascono questi progetti di interconnessione volti alla diffusione di un linguaggio che in Italia ha sempre mostrato una difficoltà di affermazione e circuitazione. Ne sono alcuni esempi Anticorpi,10 nata per promuovere la giovane danza d’autore con azioni fra le quali un bando annuale, e MOVING_movimento,11 che ha offerto a giovani coreografi – e successivamente anche ad artisti di performing art in genere - residenze creative, monitoraggio da parte di osservatori e critici, opportunità di creazione e presentazione di spettacoli. Con l’ottica della rete di monitoraggio e sostegno, nel 2008 nasce anche una delle ultime iniziative dell’ETI, poco prima dello smantellamento dell’ente.12 Si tratta di Teatri del Tempo Presente, progetto che affida a compagnie teatrali, teatri stabili di vario tipo, residenze e festival, il compito di selezionare gruppi e artisti al di sotto dei trentacinque anni, con particolare attenzione a coloro che usano un approccio interdisciplinare. L’iniziativa mette in campo anche un circuito virtuoso secondo il quale, oltre al monitoraggio, gli enti preposti alla selezione offrono agli artisti e gruppi scelti un cofinanziamento di almeno il 50% della spesa per la produzione dell’opera e si impegnano alla presentazione dello spettacolo nei propri spazi per almeno due settimane. Se si vuole individuare uno svincolo fondamentale per la maggior parte delle compagnie qui prese in esame, occorre riferirsi, inoltre, al Premio Scenario, che, con cadenza biennale, è organizzato dall’omonima associazione nata nel 1987 e costruita anch’essa quale rete di compagnie teatrali, centri di ricerca, festival diffusi su tutto il territorio nazionale.13 Giunto alla quattordicesima edizione, questo premio offre un finanziamento allo spettacolo vincitore, selezionato

10 Rete di rassegne, festival, residenze creative legate alla danza. Il progetto è nato nel 2006 da alcuni operatori dello spettacolo dal vivo emiliano-romagnoli. Grazie all’opera di promozione di questo network il gruppo nanou porta lo spettacolo Namoro nell’importante vetrina del festival di Santarcangelo 2006. Cfr. www.anticorpi.org. 11 Nato nel 2005 in seno al festival Fabbrica Europa, il progetto è sostenuto da Officina Giovani – Cantieri Culturali Ex Macelli di Prato, Associazione Santarcangelo dei Teatri, Giardino Chiuso/Teatro dei Leggieri di San Gimignano, Movi│mentale di Napoli, CDTM di Napoli, Fondazione Teatro Vittorio Emanuele di Noto. 12 Ente teatrale Italiano, nato nel 1948 per promuovere attività legate alla prosa, alla danza e alla musica attraverso attività di coordinamento, gestione diretta di teatri sul territorio nazionale e organizzazione di iniziative e progetti. L’ETI è stato soppresso dal Decreto Legge n. 78 del 31 maggio 2010. 13 Cfr. www.associazionescenario.it.

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attraverso lavori che gli artisti e i gruppi partecipanti mostrano in forma di studio breve.14 Il 2007 sembra essere un anno spartiacque in questa microstoria, per numerosi motivi. Il primo riguarda un piano eminentemente estetico. Dopo una serie di tentativi, i gruppi degli anni Zero approdano a quegli spettacoli che registrano uno scarto rispetto alle prime produzioni e sono il segno di una più matura consapevolezza dei mezzi artistici a disposizione. In altre parole, in questa fase si assiste a un rapido processo di crescita che li porta a precisare con maggiore nettezza la propria visione, gettando le basi per le evoluzioni future. Occorre ricordare che è l’anno centrale in cui Città di Ebla porta avanti il complesso progetto in cinque movimenti- spettacolo Pharmakos; quello in cui il gruppo nanou elabora il work in progress Tracce verso il nulla che diventerà, l’anno successivo, Sulla conoscenza irrazionale dell’oggetto; in cui Muta Imago inaugura con (a + b)3 una personale Trilogia della Memoria che comprenderà anche Lev (2008) e Madeleine (2009); in cui il debutto dei Pathosformel con Volta e La timidezza delle ossa si segnala per una cifra stilistica già molto precisa; il Teatro Sotterraneo mette in scena Post It e i Santasangre con Spettacolo sintetico per la stabilità sociale approfondiscono lo scarto, già evidenziato dal precedente 84.06 (2006), con l’estetica più cruenta della body-art interrogandosi sulla presenza del corpo non più a partire dalle pratiche di lacerazione fisica ma facendo definitivamente cortocircuitare in scena attori in carne ed ossa e proiezioni olografiche. Contemporaneamente a questa dichiarazione di maturità, vi è una nuova fioritura di gruppi, anticipata, l’anno precedente, dalla nascita di Babilonia Teatri e ricci/forte: il 2007 si propongono sulla scena della ricerca italiana CollettivO CineticO, Silvia Costa/Plumes Dans La Tête, Dewey Dell, Fibre Parallele,15 Alessandro Sciarroni e, l’anno successivo, Codice Ivan. Ma il 2007 ha un ruolo importante nella ricostruzione di questi avvenimenti anche perché, per la prima volta, ben quattro nuovi gruppi vengono inseriti nel programma di Santarcangelo International Festival Of The Arts: si tratta di Cosmesi con Lo sfarzo nella tempesta, gruppo nanou con Tracce verso il

14 Solo per citare alcuni nomi, all’edizione 2003 del premio partecipa, l’anno prima di formare il gruppo nanou, Marco Valerio Amico con Kostia; a quella del 2004 Città di Ebla con uno studio preliminare di Pharmakos, Cosmesi con Prove di condizionamento (fuori concorso), Teatro Sotterraneo con 11/10 in apnea (che ottiene la segnalazione speciale), Santasangre con Frame60; nel 2007 Babilonia Teatri vince con Made In Italy e Pathosformel ottiene la segnalazione speciale con La timidezza delle ossa, nel 2009 il premio è assegnato a Codice Ivan con Pink Me & The Roses e la segnalazione speciale va agli Anagoor con Tempesta. 15 In realtà la formazione guidata da Licia Lanera e Riccardo Spagnulo è attiva dal 2005, ma, da una conversazione privata, è emerso che la data simbolica stabilita quale atto di nascita di Fibre Parallele è per i due fondatori il novembre 2007, quando il loro Mangiami l’anima e poi sputala debuttò al Rialto Santambrogio di Roma.

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nulla, Ooffouro con ABQ e Santasangre con 84.06.16 In realtà Santarcangelo non è l’unico festival che garantisce l’ingresso ai nuovi gruppi, visto che altre rassegne colgono il loro emergere inserendoli nella loro programmazione. È anche il caso di Fabbrica Europa,17 di Contemporanea,18 del Festival Colline Torinesi19 e di Vie – Scena Contemporanea.20 Non ultimo motivo per cui la storicizzazione dei fenomeni legati ai gruppi degli anni Zero trova in quell’anno una serie di felici convergenze è anche la fondazione di Fies Factory One, progetto di Centrale Fies. Oltre a fornire gli spazi della centrale idroelettrica, in parte ancora funzionante, per Drodsera, festival che durante il primo decennio degli anni Zero ha fortemente rappresentato l’istanza di apertura ai nuovi fermenti culturali non solo di matrice teatrale, Centrale Fies ha creato una factory di artisti offrendo loro possibilità di residenza, producendone gli spettacoli, aiutandoli nella ricerca di eventuali coproduttori, assistendoli nella gestione finanziaria, nella promozione e nella distribuzione dei lavori. Ad oggi, fanno parte di questa struttura Anagoor, Marta Cuscunà, Codice Ivan, Dewey Dell, Francesca Grilli, Pathosformel e Teatro Sotterraneo. Se, in una prima fase, l’assenza di sistematici finanziamenti e la conseguente ricerca di produttori, che impongono ai gruppi il vincolo dell’anteprima o del debutto, toglie a molti la possibilità di sviluppare tempi più morbidi per la ricerca, spingendoli a una produzione a getto continuo, dall’altra, negli ultimi anni del primo decennio del nuovo secolo, la recrudescenza della crisi che devasta il Paese genera un mortificante piano di tagli sulla cultura e sullo spettacolo dal vivo da cui le nuove realtà sono gravemente colpite. È anche vero che molte delle compagnie che si sono formate nel primo quinquennio degli anni Zero sono alle prese con progetti più complessi, e spesso più costosi, che sono il portato di quel fisiologico processo evolutivo di cui si scriveva più su: Città di Ebla costruisce l’articolato dispositivo scenico di The Dead sperimentandolo attraverso una serie di studi (2011-2012), il gruppo nanou affronta la composizione della trilogia Motel (2008-2011), Muta Imago dà vita al progetto Displace (2010-2011) che si articola attraverso studi fra loro profondamente diversi, i Santasangre lavorano ad un progetto (2009-2010) che si avvale di diversi esperimenti e che porterà allo spettacolo Bestiale

16 Nel 2007 il Festival di Santarcangelo assume questo nome che segnala la volontà del direttore Olivier Bouin e del condirettore Paolo Ruffini di costruire una rassegna con un epicentro nel teatro, ma aperta anche ad altre forme artistiche. 17 Nell’edizione di quell’anno vengono schierati Città di Ebla con Pharmakos V_Anatomia del sacro, il gruppo nanou con Tracce verso il nulla e il Teatro Sotterraneo con La cosa 1. 18 La sezione ‘Alveare’, appositamente dedicata alle nuove realtà, offre spazio a Cosmesi con Cumulonembi alla mia porta, Menoventi con Semiramis e Teatro Sotterraneo con Post It. 19 Nella programmazione vi sono Orthographe con Erinnerung e Vincenzo Schino con Opera, spettacolo che dal 2010 finirà per dare il nome alla compagnia. 20 Sono presenti gli Orthographe con Tentativi di volo.

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Improvviso con Teodora Castellucci (componente di Dewey Dell) e Cristina Rizzo, oltre che con Roberta Zanardo, membro del collettivo romano.21 Nel frattempo i festival ospitano sempre più nei loro cartelloni gli esponenti della scena degli anni Zero, a cui si affiancano anche quelli della seconda gittata (post 2005), offrono residenze creative e, in alcuni casi, come si è visto, diventano veri e propri produttori. Inoltre nel 2005 a Roma nasce il Festival Equilibrio, dedicato alla nuova danza che dal 2008 promuove anche il Premio Equilibrio, volto a finanziare il progetto vincitore; nel 2006, sempre a Roma, va in scena la prima edizione del festival Short Theatre e a Terni il Festival es.terni, entrambi molto attenti a cartografare le geografie del teatro di ricerca. Nel 2010 a Roma viene costruita una nuova piattaforma per le arti sceniche legate alla sperimentazione, la cui direzione è affidata a Giorgio Barberio Corsetti: gli obiettivi di quella che, ad oggi, è l’unica edizione di Vertigine sono la promozione delle nuove tendenze a un pubblico più eterogeneo rispetto a quello che frequenta gli spettacoli di ricerca e la possibilità di creare eventuali circuiti all’estero per le nuove compagnie che, in quest’occasione, presentano i loro spettacoli anche di fronte a trentacinque operatori internazionali che assegneranno a Babilonia Teatri il premio di diecimila euro.22 La fitta partecipazione di gruppi sia di recente formazione che già con una storia alle spalle sta a indicare una sempre più sentita speranza di

21 Per la realizzazione di progetti così compositi i gruppi devono costruire altrettanto complesse reti di produttori. The Dead è prodotto da Città di Ebla con Romaeuropa Festival 2012, il Teatro Diego Fabbri, il Comune di Forlì, con il sostegno della Regione Emilia Romagna e la Provincia di Forlì-Cesena, e ha potuto avvalersi delle residenze di Santarcangelo 2012 - Anno Solare, Teatro Goldoni di Bagnacavallo/Accademia Perduta. Per Motel, oltre allo sforzo produttivo dello stesso gruppo nanou, sono coinvolti i coproduttori Fondo Fare Anticorpi, Fondazione Pontedera Teatro, Fondazione Fabbrica Europa, ZTL-Pro, Armunia, Schloss Broellin, la collaborazione di Palladium-Università Roma Tre e il sostegno di Cantieri, Centrale Fies, L’arboreto – Teatro Dimora di Mondaino, Città di Ebla, Teatro Fondamenta Nuove, Ravenna Teatro e il contributo del MiBAC, Regione Emilia-Romagna, Assessorato alla Cultura. Per Displace occorre la sinergia produttiva di Muta Imago, Romaeuropa Festival 2011, Festival delle Colline Torinesi 2011, Focus On Art And Science In The Performing Arts e il sostegno dell’Assessorato alla Cultura, Spettacolo e Sport della Regione Lazio, nonché di un percorso di residenze articolato fra L’arboreto – Teatro Dimora di Mondaino, La Corte Ospitale – Teatro Herberia di Reggio Emilia, Inteatro di Polverigi, Città di Ebla e la collaborazione di Centrale Preneste, Kollatino Underground e Angelo Mai di Roma. Bestiale Improvviso si avvale della produzione dei Santasangre insieme a Romaeuropa Festival 2010, Centrale Fies, Festival delle Colline Torinesi, Fabbrica Europa, il sostegno del MIBAC-Programma Cultura della Commissione Europea per il progetto Focus On Art and Science In The Performing Arts, il contributo della Regione Lazio, ma anche forme di sostegno, attraverso residenze, del festival Opera Estate, di Fabbrica Europa/Stazione Leopolda, Centrale Fies, Kollatino Underground e Lavanderia a Vapore di Collegno. 22 Ciò avviene intercettando il pubblico dell’Auditorium Parco della Musica di Roma, dove si tiene la rassegna.

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varcare i confini nazionali, all’interno dei quali la situazione si fa sempre più asfittica.23 All’inizio del secondo decennio del Duemila la situazione della cultura in Italia è ormai in fase di stallo completo. Quei pochi teatri, festival e centri di produzione culturale che nel precedente decennio avevano sostenuto e promosso le realtà legate alla sperimentazione, resistendo ai continui tagli operati sui budget, ora lamentano, in maniera generalizzata, l’inasprimento di una situazione che ne riduce notevolmente la portata culturale, spesso fino ad azzerarla. In questo orizzonte radicalmente depauperato, le possibilità di affermarsi sono sempre meno e eventuali nuovi gruppi vengono confinati in una situazione di spinto precariato e relegati in condizioni di lavoro che non permettono lo spostamento dall’attività semi- amatoriale al professionismo. Punto di chiusura puramente indicativo e provvisorio di questo primo abbozzo di microstoria è il 2014. All’inizio di gennaio, una mail dei Pathosformel raggiunge gli iscritti alla loro newsletter segnalando che il duo ha deciso di sciogliersi per proseguire singolarmente l’attività di ricerca in altri ambiti. Un avvenimento che sicuramente priva la scena italiana di una delle esperienze più interessanti e fa seguito a una serie di mutamenti interni che sembrano interessare numerose compagnie: Cosmesi, la cui attività è stata sempre più discontinua rispetto a quella degli altri gruppi, decidono di aggirare completamente le logiche del mercato teatrale;24 la struttura di compagnie quali Codice Ivan e Santasangre diventa più fluida aprendosi alla possibilità di lavori firmati sia collettivamente sia singolarmente dai componenti; da Teatro Sotterraneo fuoriescono Iacopo Braca e Matteo Ceccarelli e la sigla del gruppo fiorentino rimane a Sara Bonaventura, Claudio Cirri e al dramaturg Daniele Villa. Cambiamenti che talvolta mettono in discussione strategie operative e scelte estetiche, riconfigurando la fisionomia di alcuni gruppi e con essa le modalità di intervento nel panorama del teatro contemporaneo italiano. Non una fine. Un nuovo inizio.

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23 Alla piattaforma partecipano i vincitori Babilonia Teatri con Made In Italy, Cosmesi con Periodonero, Fibre Parallele con Mangiami l’anima e poi sputala, gruppo nanou con la Prima stanza del trittico Motel, MenoVenti con Invisibilmente, Vincenzo Schino/Opera con Voilà. Non sono ammessi, invece, Muta Imago, Pathosformel e Santasangre proprio perché le loro produzioni hanno già avuto modo di circuitare all’estero. 24 In una conversazione privata in occasione della rassegna Tropici all’Angelo Mai di Roma, organizzata da Michele Di Stefano della compagnia MK, il 7 giugno 2013, Nicola Toffolini mi dice: «Siamo molto meno schiavi delle dinamiche lavorative. Se ci va di fare qualcosa la facciamo e non ci sentiamo nemmeno in dovere di farla in un posto o in un circuito preciso», dichiarazione a cui Eva Geatti fa eco: «Non userei la parola schiavitù. Abbiamo meno voglia di ‘stare dentro’ un mondo. Se desideriamo fare un lavoro, lo facciamo e basta. Non importa dove debuttiamo».

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Una scrittura per stratificazione mediale Nel discutere di questi fenomeni di nuovo teatro il ricorso alla categoria di ‘generazione’ che potrebbe essere tentati di utilizzare appare, invece, di scarsa utilità. Il termine generazione, infatti, tende a stabilire una cesura rigida, laddove in questo caso sono più sfumati i confini fra il ‘prima’ e il ‘dopo’ e lo stesso presente è abitato dalla prosecuzione delle ricerche dei gruppi nati prima degli anni Zero e da quelle dei nuovi gruppi. E, in definitiva, è morbido il rapporto che le realtà prese in esame istaurano col passato. Non vi sono fratture, né dichiarazioni di intenti che, in nome di un’esigenza di rinnovamento teatrale, pratichino un taglio netto con quanto accaduto prima. L’atto di nascita dei nuovi gruppi, quindi, non si segnala attraverso lacerazioni, ma avviene in un ambiente che, negli anni e nei decenni precedenti, ha già tematizzato il mutuo scambio fra arti visive e arti performative, portando le prime a performativizzarsi e le seconde a declinarsi in maniera visiva; in cui l’attraversamento di generi e formati è diventato pratica consolidata nei territori della sperimentazione; in cui i linguaggi che compongono la scena sono stati fatti esplodere e rimontati; in cui il testo drammatico è stato sostituito (o è stato affiancato) da scritture sceniche, a partire dalla drammaturgia dello spazio, della luce, del suono accanto alle quali l’attore si configura come segno fra segni. La scena degli anni Zero raccoglie e radicalizza queste tensioni, ponendo sullo stesso piano i diversi linguaggi accolti dal medium teatrale. Un teatro che si articola attraverso un processo di scrittura scenica di diverse drammaturgie non è più, quindi, un fenomeno che nasce con l’esigenza di rottura rispetto a vecchi codici teatrali, o di un ripristino di un ‘grado zero’ del teatro, ma un assunto di partenza, un dato di fatto, un codice genetico iscritto nella maggior parte delle compagnie, i cui membri provengono da discipline diverse. Talvolta lo stesso termine di compagnia teatrale è inadeguato, laddove il secondo termine di tale binomio tende a polarizzare il primo, mentre ci troviamo, spesso, di fronte a formazioni configurate come collettivi che nel teatro riconoscono l’unico medium capace di sintetizzare linguaggi fra loro differenti. Tale configurazione interna rende naturale, se non fisiologico, un approccio ad esperienze di natura disparata, in un palese allargamento del raggio produttivo: il teatro è senz’altro una delle forme espressive, se non quella principale, ma accanto ad esso vi è la produzione di dj-set, di installazioni transmediali, site-specific, conferenze-spettacolo. Questo dipende sia da motivazioni artistiche che riguardano la necessità di sondare campi diversi, sia dalla sfaccettata composizione interna di ogni gruppo, sia da ragioni economiche legate a una committenza differenziata che, sempre più, richiede formati inediti e adattabili agli spazi e alle risorse di danaro.25

25 Oltre ai formati già menzionati, vale la pena sottolineare quanto gruppi come Santasangre e Città di Ebla siano approdati anche a produzioni eminentemente legate alla musica, i

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Ancora una volta, come fu per quelle compagnie che dagli anni Sessanta in poi riformularono il lessico teatrale aprendosi a suggestioni provenienti dalle arti visive, dalla musica, dal cinema, per i gruppi degli Anni Zero rischia di essere limitativo ricostruire precisi percorsi di filiazione legati soltanto al teatro, visto che la matrice di queste esperienze non è solo essenzialmente teatrale. Rispetto a questo problema c’è un termine forte che sento di sposare: bastardaggine. È una definizione coniata da Marco Valerio Amico del gruppo nanou durante una conversazione privata, e solo successivamente formalizzata,26 che può essere estesa con facilità a molti altri gruppi. Quando gli chiedevo di una possibile orfananza, cioè di padri che per il loro teatro non erano facilmente identificabili o addirittura non esistevano, mi è stato risposto:

Più che di orfananza parlerei di bastardaggine. Insomma, di una non riconoscibilità diretta dei padri: non sono cresciuto, ad esempio, con gli spettacoli di un determinato gruppo. Non sviluppo quello che era ‘il mestiere di famiglia’ dei teatranti, cioè non esco fuori da una compagnia per sviluppare il linguaggio appreso in seno ad essa. È il contrario di quello che è successo al Terzo Teatro, che ha avuto un grande impatto estetico e ha generato una filiazione molto importante e rilevante, così come possiamo dire che Stanislavskij ha generato Mejerchol’d e Brecht ha generato Heiner Müller. Nel nostro caso, avendo a disposizione più riferimenti, l’esperienza che si cerca di mettere in campo non fa capo soltanto a quello che ha realizzato quindici anni fa un determinato regista. Il nostro riferimento è quello che è successo nella performance, nel cinema, nella fotografia e in tutti i linguaggi che a noi sono accessibili. Questo rende il tutto più complicato, perché in realtà qualcuno ha sempre fatto prima di te quel che tu vuoi fare ed è difficile usare l’aggettivo ‘nuovo’. Portiamo avanti, tuttavia, una continua rielaborazione di cosa è primi con Harawi (2012) di Olivier Messiaen, ciclo di dodici canti per soprano e pianoforte ispirati alla leggenda di Tristano e Isotta, e i secondi con Suite Michelangelo (2013), undici poemi di Michelangelo Buonarroti messi in musica da Dimitri Šhostakovič. Vorrei inoltre ricordare l’installazione sonora Source (2012) del gruppo nanou in cui Roberto Rettura, sound designer e membro interno del gruppo, in una sala completamente vuota espone per quattro minuti l’ascoltatore a suoni metamorfici che spesso diventano inascoltabili e si collocano sulla soglia del dolore. Cito anche anche Tuono (2012) di Dewey Dell, spettacolo che si pone a metà fra il live-set di Black Fanfare (ovvero il progetto di musica elettronica di Demetrio Castellucci, che è anche parte del collettivo) e l’azione coreografica degli altri membri del gruppo. Esempio di ‘eccedenza’ rispetto al formato teatrale è il progetto KING (2013) di Strasse, chiusura di un ciclo di laboratori, Camminare nella frana, a cura di Leonardo Delogu. Pensato come ponte fra i Festival Inequilibrio e Santarcangelo 13, KING analizza il rapporto fra corpo e paesaggio attraverso un percorso che si articola in una costellazione di eventi: l’abitazione delle spiagge bianche di Rosignano Solvay; un cammino di diciannove giorni in cui il gruppo attraversa l’Appennino da ovest a est, aprendosi all’imprevedibilità del contatto con le comunità locali e lasciando tracce residuali attraverso scritti, video, materiali sonori; la creazione di un sito in cui i materiali prodotti durante il cammino vengono raccolti di giorno in giorno in attesa dell’arrivo del gruppo e di un accampamento realizzato con materiali di riciclo, nella periferia di Santarcangelo di Romagna. 26 Cfr. M. V. Amico/gruppo nanou, Realtà artistiche apolidi e bastarde, in «Alfabeta2», anno III, n. 30, giugno 2013.

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successo e cosa potrebbe succedere in un altro campo, usando degli strumenti e delle domande che si sono aperte e non necessariamente chiuse.27

Solo per fare un esempio di questa stratificazione, vorrei evidenziare proprio il lavoro del gruppo nanou su Motel. Si tratta di una trilogia articolata in ‘stanze’. Nella Prima stanza un uomo e una donna28 abitano lo spazio e con minimi movimenti coreografici si mettono in relazione fra loro e con gli oggetti (un tavolo, due poltroncine, un tappeto-tovaglia, una gabbia per uccelli) che, così come la luce e il suono, hanno lo stesso peso drammaturgico dei corpi dei performer. Attraverso le loro azioni l’uomo e la donna evocano sempre un altrove, rendendo palese che il vero motore drammaturgico è esterno al campo visivo offerto dalla scena. Nella Seconda stanza viene dato per scontato un avvenimento già accaduto (un omicidio, ma ai danni di chi? Chi è l’assassino?) di cui sono percepibili le tracce e la necessità di occultarle. Alcune scene vengono reiterate, facendo esplodere la conseguenzialità logico-temporale dello spettacolo che, come nella precedente stanza, si dà invece per indizi, per residui narrativi, baluginii di senso. Nell’ultima stanza, Anticamera, una figura femminile indietreggia fino a sprofondare nello spazio angusto di un cubo bianco contenente elementi visivi che rimandano agli spettacoli precedenti (il tessuto del tappeto e una delle poltroncine della Prima stanza). All’interno del cubo i movimenti del corpo si congelano come in fotografie che vengono scattate da prospettive diverse (dall’alto, da un lato, da quello opposto) o che mettono a fuoco dettagli precisi (una gamba, il ventre, la testa). Anticamera chiude la trilogia connettendosi con il suddetto sistema visivo alle precedenti stanze e chiamando definitivamente in causa lo spettatore a conferire un’ipotesi di senso non solo a quest’ultimo episodio ma anche ai precedenti che ad esso si raccordano. Motel si compone, quindi, di tre spettacoli fra loro diversi tenuti insieme non tanto dal sistema iconografico che certamente rimanda, fra gli altri, alla pittura di Edward Hopper così come alla fotografia di Gregory Crewdson, quanto alla modellizzazione del dispositivo drammaturgico sulla qualità che il pittore e il fotografo statunitensi riservano alle loro immagini, ovvero la capacità sia di definire un attimo preciso sia di evocare un altrove rispetto a quanto raffigurato. Non tanto sul piano visivo – dove si manifesta un’adesione al cinema noir americano anni ‘40 e ‘50 – quanto su quello diegetico, i riferimenti più evidenti sono al cinema di David Lynch e di Wong Kar-Wai per la logica che agisce sulla frattura della fabula.29 ‘Bastardaggine’, quindi, non come rifiuto di paternità, ma come

27 Da una conversazione privata, in occasione del Festival Tropici tenutosi nel giugno 2013 all’Angelo Mai di Roma. 28 I due performer sono Marco Valerio Amico e Rhuena Bracci. 29 Per Lynch mi riferisco, in particolare, a film quali Mulholland Drive (2001) e Inland Empire (2006), per Wong Kar-Wai a In The Mood For Love (2000) e 2046 (2004).

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riconoscimento di un più complesso sistema di filiazione che comprende anche padri che appartengono a discipline extrateatrali e che variano non solo di compagnia in compagnia ma anche di spettacolo in spettacolo. I modelli messi in campo da questi padri oltretutto non si presentano mai in maniera omogenea, come pura citazione, ma, come si è visto nel caso del gruppo nanou, stratificati e costantemente metabolizzati in un disegno complessivo che li rende materiali d’uso e strategie operative nella costruzione di una scena che diviene sempre altro rispetto alla somma degli elementi che la compongono. Vale la pena citare, solo en passant, anche la fascinazione esercitata su Alessandro Sciarroni dalla fotografia di Diane Arbus; il riferimento alla musica elettroacustica così come all’orizzonte del glitch30 (gruppo nanou, Santasangre); la pittura di Giorgione accanto alla video-arte di Bill Viola che fanno da paradigma visivo per gli Anagoor di Tempesta. Nella mappatura dei riferimenti, teatrali ed extrateatrali, che vanno a comporre lo sfaccettato orizzonte dal quale attingere, vi è anche, sebbene in maniera e con gradazioni diverse, l’universo della cultura pop. Fanno il loro ingresso sulla scena, quando non la modellizzano, la televisione, la musica leggera, la moda. Anche se preceduto da una serie di irruzioni in alcuni spettacoli andati in scena fra la fine degli anni Sessanta e i Settanta,31 il pop fa la sua comparsa definitiva nel mondo della sperimentazione, all’inizio degli anni Ottanta, con la Nuova Spettacolarità e con quei gruppi – Magazzini Criminali, Falso Movimento, Krypton – che edificano un ponte col presente includendo nel loro teatro anche la fascinazione esercitata dai nuovi media, dagli scenari urbani, dal fumetto e da forme musicali extracolte. Allora sembrò un necessario tradimento all’ortodossia della cultura alta quando non un prelievo che, contestualizzato nel panorama del teatro di ricerca, finiva per intellettualizzare il pop. Sebbene, in alcuni casi, verso questo immaginario venga ancora opposta una sorta di fioca resistenza, oggi il pop è più spontaneamente considerato materiale fra i materiali, frammento di un più complesso sistema da cui attingere.

30 Per glitch si intende quel sottogenere della musica elettronica basato sull’estetica dell’errore e quindi su rumori prodotti da eventuali improvvisi malfunzionamenti di apparecchiature digitali. Una definizione di glitch, prelevata dal campo dell’elettrotecnica, è «picco breve e improvviso in un’onda generato da un errore non prevedibile» da cui il titolo di uno spettacolo dei Santasangre Sincronie di errori non prevedibili (2009). Tale estetica sonora ha avuto un grande sviluppo durante gli anni Novanta grazie al lavoro dell’etichetta tedesca Mille Plateaux oltre che a musicisti quali Oval, Pan Sonic, Carsten Nicolai (anche conosciuto con lo pseudonimo di Alva Noto) e Ryoji Ikeda. 31 Ad esempio quei lavori di Leo De Berardinis e Perla Peragallo come ‘O Zappatore (1972) che attinge al free jazz quanto ai poeti maledetti e alla sceneggiata napoletana o King Lacreme Lear Napulitane (1973) che mescola nuovamente la sceneggiata con Shakespeare. L’apertura all’orizzonte pop voleva essere, per Leo De Berardinis e Perla Peragallo, uno strumento per entrare in contatto con le classi meno agiate di Marigliano, paese dell’interland napoletano in cui si erano trasferiti, alla ricerca di nuovi stimoli, nel 1971.

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Insomma, è stato ormai ‘naturalizzato’ fra i dispositivi che modellizzano32 il nuovo teatro e fornisce segni per la costruzione dello spettacolo. L’uso del pop è conclamato e perfettamente consapevole nei lavori di Babilonia Teatri sulla cui scena, sempre vuota, esplodono canzoni da alta hit parade, enumerazioni di giornali e riviste e citazioni di telenovelas, favole, slogan, filastrocche, tutte dette in modo stentoreo, ritmico e apparentemente privo di coloriture, modalità che diviene cifra stilistica della compagnia.33 Esso si pone a cavallo fra il nostalgico e il mostruoso. In un’accelerazione che rasenta una sorta di cinismo partecipe fa la sua apparizione in The End (2011) e nella versione corale dello spettacolo, poiché affidata a tre attrici invece che alla sola Valeria Raimondi, The Rerum Natura, entrambi imperniati sul tema della morte, che secondo il gruppo è il rimosso collettivo della cultura occidentale contemporanea. In questo caso le canzoni usate, scampoli di un immaginario collettivo, denotano la loro funzione drammaturgica agendo spesso per ossimoro con le immagini: ne è un esempio Ciao amore, ciao, brano che evoca il suicidio del suo autore e interprete, Luigi Tenco, dopo l’esclusione dalla finale del Festival di Sanremo 1967, associata nello spettacolo alle disimpegnate movenze del ballo hully-gully.34 Altra formazione che accede a questo orizzonte con lampante evidenza e soprattutto con naturalezza è Dewey Dell. I loro spettacoli compiono ampi prelievi dai bestiari immaginifici della graphic novel, attingono a piene mani dal mondo della fantascienza, si rifanno alle figure dei manga così come all’estetica delle band di musica indie-rock.35 Affrescati su sonorità EDM36 che ne enfatizzano la potenza immaginifica e talvolta teneramente mostruosa, lavori quali KIN KEEN KING (2008) e il brevissimo Baldassarre (2008) – la cui durata, di solo cinque minuti, gli conferisce quasi il senso di un’apparizione fantasmatica – offrono la visione di figure indefinibili: una creatura esile la cui testa è invece enorme e oblunga e un’altra rivestita da

32 Secondo Marco Valerio Amico del gruppo nanou è, per esempio, possibile riscontrarne il potere modellizzante sulla durata degli spettacoli: «Siamo la generazione della televisione. Il format televisivo dura quaranta minuti. E anche i nostri spettacoli hanno la stessa durata». Ancora una volta riporto un frammento della conversazione privata del giugno 2013. 33 Mi riferisco a spettacoli come Underwork (2007), Made In Italy (2007), Pornobboy (2009). 34 Per un approfondimento delle tematiche legate al suono nel lavoro di Babilonia Teatri rimando alla mia intervista a Enrico Castellani: http://www.gruppoacusma.com/art/t-74- categoria-interviste-ini-P/conversazione-di-mauro-petruzziello-e-enrico-castellani-- babilonia-teatri.html 35 Insieme di generi musicali nato negli anni Ottanta in Inghilterra e USA attorno a etichette indipendenti che, all’inizio, proponevano musica di vari generi staccandosi dai dettami commerciali imposti dalle etichette major e tutelando l’autonomia creativa dei loro artisti. Negli anni successivi, e in particolare nell’ultimo ventennio, sono andati a frantumarsi i confini fra il circuito commerciale e quello indipendente. 36 EDM è l’acronimo di Electronic Dance Music, macrogenere che accoglie al suo interno molti generi della musica elettronica nata per il ballo (techno, house, acid house, post- techno, fino alla fidget).

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morbidissimi aculei nel primo, mentre nel secondo una figura dalla mano di grandezza spropositata, correlativo-oggettivo della generosità del re magio. In entrambi, i costumi dei danzatori, opponendo resistenza al movimento, determinano gran parte delle evoluzioni coreografiche. A suggerire l’impianto iconografico di Marzo (2013) sono invece elementi giapponesi, particolarmente in quei momenti in cui i personaggi sono robot, mentre molti dei movimenti sono organizzati sui moduli comportamentali delle arti marziali. Un teatro, questo, che, in definitiva, fa della babele linguistica non solo il suo specifico, ma in virtù della diversa provenienza dei membri dei gruppi, la sua conditio sine qua non. I diversi segni, corrispondenti ai diversi codici non sono mai organizzati in maniera gerarchica e ciascuno di essi ha lo stesso peso specifico degli altri. In questa maniera il segno non si ripiega mai su se stesso ma moltiplica il suo potenziale nell’interazione con gli altri. Ne è un esempio il teatro dei Santasangre. In Seigradi (2008), spettacolo in cui viene ipotizzato un disastro ecologico dovuto a un eventuale innalzamento della temperatura terrestre, i progressivi cambiamenti di stato della materia seguono l’andamento della forma-sonata. Il suono, in questo caso non è solamente un segno accanto agli altri ma vero e proprio dispositivo drammaturgico. Tutti i linguaggi che sulla scena concorrono a creare il senso dello spettacolo sono modellizzati sulla scansione della sonata in esposizione-sviluppo-ripresa e coda: quello del corpo della performer Roberta Zanardo, il cui movimento evoca il ciclo di nascita, crescita e morte ed è incastonato in quello video, generato da un sistema di ologrammi che ridisegna in continuazione le fattezze della performer; quello sonoro, creato da suoni glitch e dalla vocalità che richiama lo stesso ciclo muovendosi dalla lallazione infantile al canto e poi a suoni duri e concitati per concludersi nel silenzio; quello della luce in cui il passaggio dal bianco al blu, da quest’ultimo al rosso e infine a un giallo bruciato si fa portatore dello stesso significato. Diverso è il caso di The Dead di Città di Ebla, creazione scenica liberamente ispirata al racconto I morti di James Joyce. Sondato attraverso una serie di studi che hanno portato alla versione finale del progetto, il dispositivo è quello della fotografia, o meglio la tecnica del ‘real time shooting’. Sul palco assistiamo all’apparire di una donna e al progressivo materializzarsi di una serie di oggetti che vanno a comporre una camera da letto. In questo spazio vengono esposti frammenti di intimità: evocazioni della vita di coppia e successivamente momenti di solitudine in cui la donna ora si spoglia, ora dorme, ora prende un caffè, fuma una sigaretta, legge una rivista. A questo piano si sovrappone quello della fotografia, scattata in tempo reale e immediatamente mostrata su pannelli che si chiudono occludendo la visione diretta della scena o giustapponendosi ad essa attraverso un sistema che permette di vedere sia quanto accade sul palco sia la fotografia

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che ferma l’accadimento. Si crea così un continuo tentativo di ricucitura dello iato fra l’azione messa in scena e il suo inseguimento da parte del fotografo. La riflessione innescata sulla natura dei diversi linguaggi, quello scenico e quello fotografico, e sui diversi sistemi semiotici che mettono in campo, permette di individuare nella fotografia un dispositivo che, anche se come in questo caso nasce inseguendo l’istante, irrimediabilmente congela il tempo nella fissità del passato e della memoria. Per tale motivo esso diventa strumento d’eccellenza per tematizzare il ricordo, vero fulcro del racconto di Joyce a cui lo spettacolo di Città di Ebla è ispirato. Nella realizzazione di Avvisaglie di un cedimento strutturale (2003) e Lo sfarzo nella tempesta (2007) i Cosmesi partono dalla costruzione di spazi architettonici autosufficienti: per il primo lavoro una grande scatola maniacalmente bianco-rossa in cui tutto ciò che vi è inscritto, perfino il corpo della performer Eva Geatti, segue questo dettame cromatico; nel secondo una tensostruttura a forma di tronco di cono orientata verso il pubblico e capace di produrre più volte getti d’aria, con un sistema di ventilatori posti sul fondo. Per i Cosmesi di questi primi lavori il teatro non si dà senza questi spazi, nel senso che tutto lo spettacolo vi è contenuto, non vi è un ‘fuori’ (se non solamente evocato) e le figure che li abitano sono isolate dall’esterno. È lo spazio stesso a generare possibilità drammaturgiche costituendosi come ‘protoregia’ intrinseca e sistema che regolamenta la drammaturgia del gesto e del movimento.37 Nel primo dei due spettacoli assistiamo all’insediamento della figura all’interno del contenitore e a una sequenza di azioni che la mettono in relazione con una serie di oggetti estratti da un podio: un telefono, una teiera, un cappello, un ombrello, una torta di compleanno, delle rose, che sono il baluginio di frammenti narrativi, ipotesi di storie mai del tutto affermate. Nel secondo lavoro, la superficie rende costantemente incerta ogni azione della performer che tenta la relazione con lo spazio e con gli oggetti in esso disposti: camminare, esercitare una pressione sulla tensostruttura, produrre gesti che richiamano l’alfabeto di un segnalatore marittimo, introdurre un albero di Natale, venire sculacciata. Anche quando questo teatro si incanala nel filone della nuova drammaturgia, accedendo nuovamente al testo drammatico e alla sua messa in scena, ciò avviene non lesinando importanza agli altri elementi della scrittura scenica che assumono un peso paritario a quello del testo drammatico. È il caso dei pugliesi Fibre Parallele. In 2.(Due) (2008) la scena è ridotta a pochi segni: sullo sfondo una vasca da bagno sovrastata da uno specchio, due microfoni con asta, una serie di buste sospese dall’alto e

37 Tanto è vero che, non potendo produrre uno spazio per mancanza di finanziamenti, Mi spengo in assenza di mezzi (2006) non ammette declinazione visiva e pone lo spettatore, per la quasi interezza del lavoro, in una condizione di buio gravido di azioni.

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gonfie di liquido rosso che richiama il sangue. Per come è costruito, lo spazio scenico si attesta come spazio mentale, in cui a ogni elemento è sottratta la funzione di décor ed è conferita una valenza drammaturgica. All’interno di questo spazio il racconto in prima persona è affidato esclusivamente al corpo e alla voce di Licia Lanera, uno dei due componenti della compagnia. Vestita completamente di bianco, con un abito a metà fra quello di un’infermiera e di una comunicanda, la donna racconta dell’omicidio di cui si è resa colpevole ai danni del suo fidanzato, dopo che questi le aveva confessato di essere omosessuale. La voce al microfono, maneggiato come asta in un concerto pop, si impasta su uno stesso piano con i suoni che fanno da costante ossatura all’intero spettacolo a tal punto da costituirsi come drammaturgia sonora: scricchiolii, fruscii in loop che sul finale – quando è raccontata con tono splatter la scena dell’omicidio – lasciano completamente spazio al ticchettio amplificato del sangue che, gocciolando, cade ritmicamente a terra dalle buste bucate con uno spillo dall’attrice. Parimenti al tono alienato della voce, il suono costituisce la densità atmosferica della scena conferendole una dimensione noir e onirica e sprofondandola in un’atmosfera sinistra e maniacale.

Il paradigma del performativo A questo punto è possibile, e per molti versi doveroso, introdurre alcune considerazioni sul rapporto di queste nuove formazioni con quelle che hanno caratterizzato i decenni precedenti, le quali hanno definito molti degli elementi linguistici e fondato molte delle pratiche operative lungo la cui direttrice i gruppi degli anni zero si muovono. Quanto distingue questi ultimi dalle esperienze precedenti si risolve, sostanzialmente, in un aspetto importante. Mentre molte delle ricerche sperimentali degli anni Sessanta e Settanta tendevano a scomporre l’unità linguistica per sondare il singolo segno e le sue specificità38, i nuovi gruppi seguono sostanzialmente un processo di riunificazione dei codici della scena. Tale processo avviene secondo due traiettorie:

38 Faccio riferimento a quei lavori della postavanguardia in cui l’intento analitico corrisponde a una necessità di scomposizione dei linguaggi della scena per favorire la ricerca di ‘unità minime’, come nel caso degli ‘studi per ambiente’ inaugurati dal Carrozzone nel 1976 (per questo problema rimando a S. Lombardi, Ipotesi di teatro analitico in G. Bartolucci, L. e A. Mango, Per un teatro analitico esistenziale, Torino, Studio Forma, 1980, pp. 68-71), ma anche ad alcuni spettacoli che hanno preceduto di qualche anno questo filone, come ad esempio James Joyce (1968) di Mario Ricci. Edoardo Fadini scrive, a proposito del lavoro di Ricci su James Joyce: «la sua ricerca sull’oggetto scenico, sull’attore-oggetto, sul gioco come elemento fondamentale della teatralità, depurandola al massimo sul piano della comunicazione verbale, staccando elemento da elemento in modo da darci una tavolozza nitida, trasparente, concepita come masse di colore puro», E. Fadini, ‘James Joyce’ di Mario Ricci in scena all’Unione Culturale, in «l’Unità», 1 dicembre 1968, citato in S. Margiotta, Il nuovo teatro in Italia 1968-1975, Corazzano (Pisa), Titivillus, 2013, p. 127, è mia la sottolineatura di alcune parole.

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1. attraverso un’enfatizzazione dell’omoritmia nell’evoluzione drammaturgica dei singoli linguaggi: tutti i segni vanno a comporre un unicum in cui essi si addensano, amplificandosi uno con l’altro, per concorrere a creare unità di senso. È, ad esempio, il caso del citato Seigradi dei Santasangre in cui la drammaturgia video, quella della luce, quella del suono e quella del corpo si dipanano sostenendosi a vicenda in un processo di fusione. 2. Attraverso lo slittamento di un segno rispetto agli altri, ma per continue sfasature. È il caso del gruppo nanou di Motel e di Sport. Nei lavori della formazione ravennate l’evoluzione drammaturgica di un segno non procede di pari passo con quella degli altri, ma per continue sfasature. La drammaturgia sonora non sottolinea un’azione ma si apre ad altri paesaggi, allo stesso modo in cui la drammaturgia della luce non segue le altre drammaturgie ma si evolve col suo ritmo peculiare e viceversa. Questo continuo sfaldarsi dell’unità ritmica, lungi dal separare i diversi codici, inscrive in ciascuno di essi una tensione verso gli altri, tensione che apre faglie di senso la cui ricomposizione è affidata allo spettatore.

Se la scena è fisiologicamente pluricodica e la compresenza dei singoli segni avviene per una sorta di cortocircuito che li fa deflagrare uno nell’altro, ad innescare tale dinamica è la definitiva performativizzazione dell’evento scenico. Chris Salter sostiene che, dopo l’enfasi posta sul virtuale, la performance è tornata ad essere tematizzata a tal punto da diventare uno dei maggiori paradigmi del XXI secolo, non solo nel campo delle arti, ma anche in quello delle scienze, dell’architettura e delle discipline umanistiche.39 Caratteristiche della performance, aggiunge Salter, sono l’interesse verso il fare, il suo avvenire in tempo reale, la sua connessione col presente, la presenza umana insieme a quella non umana e il suo processo trasformativo. Il performativizzarsi dell’evento scenico aveva costituito per molti gruppi, fra la fine degli anni Sessanta e gli anni Settanta, lo strumento di adesione al panorama delle arti visive o, in altri casi, il mezzo per evidenziare il processo più che il prodotto artistico o in altri ancora il grimaldello estetico per azzerare gli stereotipi del teatro quando non per fare tabula rasa dei linguaggi.40

39 C. Salter, Entangled: Technology and the Transformation of Performance, Cambridge, Massachusetts - London, England, The MIT Press, 2010. 40 A tal proposito, si veda, per fare solo un esempio, quanto dichiarava il Carrozzone: «Non si tratta di uscire dai teatri, equivoco che porta in luoghi non deputati gli spettacoli lasciando intatte le tradizionali leggi interne: si tratta di uscire da queste leggi. Azzerare il proprio linguaggio, non per ripartire daccapo, quanto per collocarsi ancora una volta in una terra sconosciuta in cui reimparare a muoversi, a stabilire contatti, a progettare incontri, a misurare lo spazio che ci circonda, a pesare i suoni che ci escono di bocca; una ricognizione sul linguaggio. Non per affermarsi entro le coordinate di una nuova poetica, quanto per

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Del paradigma performativo, liquido amniotico in cui nascono, i gruppi degli anni Zero enfatizzano, ancora una volta, la dimensione dell’evento, dell’accadimento hic et nunc, ovvero l’unica dimensione che può accomunare i diversi linguaggi della scena. Secondo questa prospettiva, allora, è evento performativo, e quindi con legittimità scenica, un suono prodotto in tempo reale, il movimento di un corpo, sia esso umano che meccanico, un’immagine-video che si attiva. In quanto accadimento in tempo reale è quindi teatrale anche un evento come Framerate 0 (2009) dei Santasangre, uno degli ‘esperimenti’ che hanno portato alla composizione di Bestiale improvviso (2010), in cui unici agenti della scena sono suoni che hanno la densità dei corpi, proiezioni di cromie e una grande lastra di ghiaccio che, tramite un sistema di carrucole conficcate nella sua ‘pelle’, si stacca dal suo supporto, ruota di novanta gradi sul proprio asse e si offre alla vista dello spettatore nella sua imponenza. Per definirsi teatrale, quindi, secondo questa declinazione performativa dello spettacolo non è necessario che il corpo del performer sia conclamato. È quanto accade anche nei primi lavori dei Pathosformel Volta (2007), La timidezza delle ossa (2007) e La più piccola distanza (2009). Nel primo, i corpi dei performer sono cosparsi di cera colante e l’azione, completamente al buio, viene illuminata esclusivamente da luci Wood che rendono visibile solo la fluorescenza della cera che si compone e scompone in complesse figurazioni. Nel secondo, i corpi dei performer sono occultati da un telo bianco in PVC, simile a uno schermo cinematografico, sul quale le azioni si imprimono come bassorilievi, in un gioco di apparizione-sparizione fantasmatica di ossa, seni, glutei, muscoli addominali. La presenza corporea, allora, si dà e si nega allo stesso tempo. Ne La più piccola distanza gli unici attanti in scena sono dei quadrati che si spostano orizzontalmente, azionati da performer dietro le quinte mentre una drammaturgia sonora, basata sul suono di un harmonium e di un violino, ‘sovrascrive’41 la meccanicità del movimento: ciò che lo spettatore coglie visivamente è quindi solo il riverbero di un’azione materiale che si svolge altrove. La qualità precipuamente performativa delle esperienze legate alla scena della ricerca esercita una pressione sui confini del teatro generando una modulazione del medium stesso. Nel medesimo anno, il 2011, il gruppo nanou e i Pathosformel realizzano due spettacoli – i primi An Afternoon Love mentre gli altri Sport – in cui inscenano azioni sportive. I Pathosformel mettono in scena un allenamento del giocatore di basket Joseph Kusendila negarsi continuamente alle poetiche: parlare ognuno una lingua diversa, la propria lingua, cancellarsi, scomparire». in G. Manzella (a cura di), Magazzini Criminali. Nascita della visione: verso il teatro di poesia, Salerno, Rispostes, 1985, p. 51. 41 Per uno studio sulle pratiche e le estetiche sonore dei Pathosformel si veda la mia intervista a Daniel Blanga Gubbay, parte del gruppo insieme con Paola Villani, su www.gruppoacusma.com/art/t-66-categoria-interviste-ini-P/sovrascrivere-le-immagini- conversazione-di-mauro-petruzziello-e-daniel-blanga-gubbay--pathosformel.html

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e il gruppo nanou una serie di azioni legate alla ginnastica artistica eseguite da Rhuena Bracci, cofondatrice della compagnia con un passato di attività agonistica in questo campo. I due lavori sono molto diversi. L’allenamento di basket dei Pathosformel suggerisce la complessità dei rapporti a due, mentre le evoluzioni ginnico-coreografiche del gruppo nanou colgono l’atleta nella sua fragilità. Anche se in maniera differente, entrambi sembrano prendere le mosse dalla domanda: può un atto sportivo, spostato nella cornice offerta dal teatro, assumere una dimensione teatrale? Ovvero, fino a che punto un atto teatrale può essere elasticamente teso pur conservando una specificità di tipo teatrale? Mi sembra che questa sotterranea interrogazione al medium teatrale, questa messa in tensione del suo specifico, non riguardi solo il macro-medium, appunto il teatro. In alcuni casi ad essere messo in discussione è ogni singolo linguaggio che va a comporre l’evento scenico. In Sincronie di errori non prevedibili (2009) dei Santasangre il corpo, il movimento e i vocalizzi della performer Roberta Zanardo si incastonano al centro di uno spazio incessantemente ridefinito da proiezioni luminose. La luce che dissolve/ricompone lo spazio e con la sua pulsazione altera nello spettatore anche la percezione del tempo è generata da proiettori, il cui uso è, quindi, cambiato di segno: non per creare immagini, ma uscendo dalla sua specificità mediale, per produrre una particolare qualità di luce ottenibile solo attraverso la sovversione dell’uso consueto di quel mezzo.42 Ad interrogare il medium teatrale è anche un uso ricorsivo della metateatralità, declinata in maniera diversa a seconda dei gruppi. Vorrei precisare i termini entro i quali utilizzo il concetto, non prendendolo nella sua globalità, ma in un’accezione che riguarda la possibilità di creare dispositivi che mettano in discussione il medium-teatro, tentando di squadernarne il meccanismo. Non che il ricorso a questo tipo di metateatralità possa costituirsi quale tratto peculiare della scena degli anni Zero, in quanto già ampiamente sperimentato, ad esempio, nella stagione del già citato teatro analitico ancora una volta come atto di definitiva manomissione degli stereotipi del teatro. È opportuno invece evidenziare l’attenuarsi della carica eversiva da cui era stato caratterizzato e il suo porsi come strumento di riflessione privilegiato sul medium teatrale senza uscire da esso ma ponendosi sulla soglia, stando contemporaneamente dentro e fuori, non appiattendosi totalmente su di esso e al contempo non rinunciando alle sue potenzialità.

42 Devo questa intuizione a Matteo Antonaci che nel saggio ancora inedito Da Bestiale improvviso a Bestiale improvviso_sovrapposizione di stato. Un percorso analitico sugli esperimenti di Santasangre scrive: «I diversi media implicati nella costruzione scenica vengono utilizzati fuoriuscendo dai canoni dei mezzi tecnologici stessi in modo tale che la specificità mediale – compresa la specificità del teatro – non sia più cartina di tornasole per inquadrare l’opera all’interno di un genere di riferimento».

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Particolarmente indicativo in questa direzione è il lavoro del CollettivO CineticO, guidato da Francesca Pennini. In XD Scritture retiniche sull’oscenità dei denti (2010) vi è un tentativo di smascheramento del linguaggio teatrale a partire dalle sue modalità compositive. La scena si va continuamente componendo/scomponendo per accumulazione, spostamento e azionamento di oggetti da parte di figure che si pongono sul limen fra performer e agenti della scena quali porteur/azionatori di oggetti. Ancora una volta, lo spazio non si configura più come simbolico, ma come ospite di un puro meccanismo e, spesso, meccanismo stesso. Tanto è vero che sul finale l’area scenica viene perimetrata con la segnaletica bianco/rossa che abitualmente indica le zone di pericolo, quasi a rendere manifesto che trattasi di spazio pericolosamente messo in tensione. La processualità metateatrale, atta a svelare i meccanismi del gioco scenico, durante il percorso di ricerca di CollettivO CineticO va radicalizzandosi con la costruzione di sei dispositivi che generano spettacoli e performance: fra gli altri vi sono una mappa concettuale, un gioco da tavolo, un gioco di carte, i quali, attraverso il ricorso all’aleatorietà, mettono a sistema le scelte registiche e ambientali. Il teatro di Codice Ivan riflette apertamente su se stesso, sul suo farsi e sulle sue strategie compositive: accade in Pink Me & The Roses (2009) in cui l’azione portata avanti dai performer, o le ipotesi di azioni, vengono spesso commentate in tempo reale da chi è in scena, creando un tentativo di ossimoro fra l’artificio della rappresentazione, connaturato al medium teatrale, e una presunta spontaneità, che invece è inscritta, come un gioco di scatole cinesi, nello stesso meccanismo teatrale. Una vocazione alla metateatralità ricorre anche nell’operazione dei Menoventi di Perdere la faccia (2011) in cui lo spettatore è invitato ad assistere ad un film, ma la pellicola non parte, lasciando ai performer, chiamati a presentare l’evento, solo la possibilità di generare un crescendo grottesco di reiterazione di sequenze che finiscono per rivelare i meccanismi del teatro.

Recitazione, corpo, performer Come più volte evidenziato, la scena viene costruita in maniera plastica e a questa composizione concorrono elementi che creano drammaturgie paritetiche che si pongono alla stregua di vere e proprie presenze attoriali. È quindi possibile solo mediante un atto ‘chirurgico’, dettato da una necessità metodologica, studiare il lavoro svolto dall’attore isolandolo all’interno del macrosistema. Il corpo umano – e mi preme qui sottolineare l’aggettivo umano, perché molto spesso questo teatro utilizza plasticamente corpi-video, corpi-suono, corpi-meccanica – viene declinato nella sua letteralità, ovvero a partire dai tratti peculiari che contraddistinguono la singolarità di ogni performer. Esso quindi non rimanda ad altro se non a se stesso, non è semplicemente la pura somma dei suoi attributi (giovane, vecchio, atletico, esile, pingue), ma la maniera in cui essi si incarnano in un

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particolare individuo. A partire da questa irripetibile individualità esso scrive la scena in un modo peculiare e diventa strategia compositiva e ‘testo’ stesso dello spettacolo. Eva Geatti (Cosmesi), Valentina Bravetti (Città di Ebla), Rhuena Bracci (gruppo nanou), risolvono il problema del corpo e della corporeità offrendolo nella sua insostituibilità. Ciò succede anche in Your Girl (2007) di Alessandro Sciarroni, il cui tema ruota attorno all’indagine sull’amore e la cui scaturigine è la sovraesposizione del corpo disabile di Chiara Bersani accanto a quello perfetto di Matteo Ramponi. Come scrive lo stesso Sciarroni nelle note che accompagnano il lavoro, «La drammaturgia procede attraverso la biologia degli interpreti, nell’istante biografico che li ha uniti nel quadrato scenico».43 Spettacoli come i già citati Sport del gruppo nanou e An Afternoon Love dei Pathosformel si incarnano sulle competenze atletiche di individui specifici. Lo stesso accade per Come acqua (2006/2007) dei Muta Imago la cui drammaturgia non può prescindere dall’attributo di somiglianza dei performer, i fratelli Glenn e Simon Blackhall, e dalla loro peculiare attitudine alla gestione degli oggetti scenici (una corda che li lega uno all’altro, delle buste d’acqua che pendono dall’alto, dei tubi). Un percorso, quello di centralizzazione della scrittura del corpo, di un corpo particolare, che è sotteso a tutte le produzione di ricci/forte.44 Si tratta di spettacoli che citano il pop, la queer culture e che nascono, spesso, come rivisitazione di favole o miti che si ammalano cambiando di segno: tratti di un teatro che intercetta i gusti di una comunità composta non solo da coloro che abitualmente frequentano la sperimentazione, ma anche da spettatori che abitualmente non assistono a spettacoli di ricerca teatrale. Punto di partenza è sempre un’accumulazione di elementi prelevati dal vissuto quotidiano dei performer e offerti attraverso tecniche di confessione che ricordano i reality show. Come dichiara Stefano Ricci in un’intervista:

Come succede per ogni lavoro che faccio, devo essere convinto che nessun altro può fare quello che fa quella persona in quel momento perché è assolutamente autentico rispetto alla persona che lo fa. Non riguarda le peculiarità tecniche, il tipo di formazione, il talento di interprete. Riguarda vedere una persona e voglio che quella persona occupi quel posto e che quella persona con quel posto e con le sue mancanze mi racconti qualcosa. Non sarà teatro per qualcuno, ma per me lo è. Per me è questo il teatro.45

Vi è quindi una sorta di impossibilità di attuazione e di replicabilità dello spettacolo al di fuori della particolare forma data dal corpo specifico che lo

43 Cfr. www.alessandrosciarroni.it/your_girl.html. 44 Vorrei citare Troia’s Discount (2006), il ciclo di sette Wunderkammer Soap (2011) e Imitation Of Death (2012). 45 Da un video documentario su Grimmless, www.youtube.com/watch?v=BBJ5Ps7o4mU.

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ha generato. Riferendosi alla fisicità debordante ma anche alle qualità di mezzosopranista di Floriano D’Auria che è fra gli interpreti di *Plek (2012), spettacolo dal forte impianto metateatrale in cui molto spesso le azioni coreografiche vengono commentate dopo essere state eseguite e a sua volta il commento viene commentato, Francesca Pennini, fondatrice di CollettivO CineticO, spiega che:

Non abbiamo iniziato cercando un corpo funzionale a qualcosa che avevamo in mente di fare, ma un corpo dal quale potesse partire il lavoro. Il corpo è la regola generativa dell’opera.46

Una visione, questa, portata all’estremo nello spettacolo (2012). Un gruppo di adolescenti mette in scena se stesso guidato da alcune regole che consentono loro di eseguire quanto richiesto secondo un inventario personalizzato di movimenti. Su uno schermo sul fondo della scena appaiono delle indicazioni, di sera in sera diverse, che il gruppo deve seguire creando, ad ogni richiesta, sottogruppi legati sia a dati oggettivi che alla maniera di percepirsi (ad esempio il sottogruppo dei sonnambuli, quello degli indecisi, di coloro che si vergognano di piangere). In una seconda fase, sempre seguendo le indicazioni sullo schermo, essi rispondono agli stimoli che generano sottogruppi a cui viene associata la richiesta di eseguire precisi comportamenti (ad esempio, sottogruppo degli impazienti/comportamento di allenamento, sottogruppo di coloro che pesano 61 kg/comportamento di bacio, sottogruppo degli allenati/comportamento di emulazione). Si tratta, ancora una volta, di un gioco metateatrale basato sul sistema sull’alea che si rifà all’estetica di John Cage, a cui il lavoro è dedicato.47 Lo spettacolo si offre ogni sera diverso a seconda della scelta delle indicazioni e in funzione del gruppo di adolescenti che vi prende parte, rendendo evidente il suo legame con la singolarità di un corpo e con le sue possibilità di scrivere la scena, ma aprendosi profondamente a qualcosa di più ampio che riguarda la percezione di se stessi. L’uso letterale del corpo non fa altro che ribadire la centralità che ha assunto nella sperimentazione teatrale degli ultimi trent’anni, caratterizzata in larga parte dalla disgregazione del testo e dalla morte del personaggio.48 Nel momento in cui uno dei poli della triade attore/recitazione/personaggio va a cadere è l’intero asse che esplode creando la necessità di riformulare la presenza dell’attore in scena. Analizzando la formazione delle tipologie del nuovo attore nel Secondo

46 Da una conversazione privata, giugno 2014. 47 Lo spettacolo infatti è vincitore del Bando Progetto Speciale Performance 2012. Ripensando Cage, in occasione del ventennale dalla scomparsa del musicista statunitense. 48 Per quest’ultimo tema, si veda E. Fuchs, The Death Of Carachters: Perspectives On Theatre After Modernism, Bloomington, Indiana University Press, 1996.

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Novecento, Valentina Valentini individua delle linee di fondo che, radicalizzate, possono essere colte anche nella nuova scena italiana:

L’attore e il personaggio tendono a coincidere non perché si inneschi un meccanismo di immedesimazione, ma perché i gesti, i suoni, le parole non rimandano ad altro, non costruiscono relazioni, semmai tendono verso un totale sprofondamento nel corpo: l’attore è il personaggio.49

E ancora:

Si disegna una nuova figura di artista proteso oltre lo specifico disciplinare del teatro, la cui norma estetica privilegia il fare piuttosto che l’interpretare, l’eseguire una partitura piuttosto che una parte, al di là del voler significare qualcosa. Esonerato dalla funzione di dover trasportare personaggi, sentimenti, stati d’animo, l’artista-attore si è imposto come carica di energia pura, espressività fisica e psichica del suo esistere nello spazio.50

La matrice di questa declinazione della corporeità che disegna la scena in maniera univoca può essere rintracciata nelle esperienze della danza del Secondo Novecento lungo una traiettoria che va da Pina Bausch a William Forsythe, ma è anche, se non soprattutto, la Performance Art a fare da cartina di tornasole a questa prospettiva. Mi riferisco a quei lavori di artisti che hanno tematizzato il corpo a partire da una sua dimensione totalmente autoreferenziale, in cui cioè esso non rimanda altro che a se stesso a tal punto da scivolare nell’autobiografismo.51 Ma il teatro degli anni Zero non è interessato all’aspetto autobiografico della Performance Art e non considera il corpo opera d’arte. Il corpo, la sua dimensione di autenticità, è inserita nella cornice teatrale che, per convenzione, genera un meccanismo di rappresentazione e mai di pura presentazione. Si apre quindi uno iato fra l’ostensione dell’autenticità del corpo e la finzione inscritta nel medium teatrale. Con quale concetto riempire, allora, il termine recitazione?

Per noi è sempre tutto finto e la questione del recitare è bypassata. Stare sulla scena è una dicitura che basta e avanza. Per stare sulla scena intendiamo agire nell’interzona che sta fra la simulazione di un mondo (rappresentazione) e l’attuazione di una protesi del mondo (presentazione). Quando un attore entra ed esce continuamente dai due ambiti sta lavorando sui codici, sul contratto col pubblico, sui segni, cioè su quello che condiziona il presente molto più di ogni questione sul vero/falso. A noi interessa questa oscillazione, configura una specie di allenamento a muoversi dentro e fra i

49 V. Valentini, Mondi, corpi, materie. Teatri del secondo Novecento, Milano, Bruno Mondadori, 2007, p. 98. 50 Ivi, p.111. 51 Solo per fare alcuni esempi cercando di cogliere questo fil rouge in artisti e opere fra loro molto differenti, citerei alcuni lavori di Vito Acconci, di Gina Pane, di Marina Abramovic e Ulay, fino ad arrivare a Frako B.

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codici, ovvero l’esercizio di cittadinanza che ci piace attribuire al teatro. Questo, con una sintesi estrema, è tutto.52

Recitare, o meglio, stare sulla scena, è per i gruppi del teatro degli anni Zero questa oscillazione, questo iato, questa infinitesima voragine di spazio.

52 È quanto rispondono i componenti del Teatro Sotterraneo a una mail privata che aveva per oggetto la questione della recitazione.

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Sonia Bellavia

L’arte dell’attore nella Schauspielkunst di Hermann Bahr

Bahr e la recitazione Pubblicato a Lipsia nel 1923, il saggio di Hermann Bahr Schauspielkunst era stato scritto l’anno precedente con l’intenzione di ricercare e indagare l’essenza ultima dell’arte della recitazione.1 Dopo le grandi stagioni del realismo e dell’idealismo, del romanticismo e del naturalismo, di cui lo stesso Bahr nel 1891 aveva richiesto a gran voce il superamento (con il suo Die Überwindung des Naturalismus) sembrò possibile al letterato austriaco fare il punto della situazione; specie nel momento in cui gli esiti maturi della cosiddetta prima avanguardia – il cui sviluppo, com’è noto, copre il ventennio che va dal 1905 al 1925 –2 proponevano una concezione radicalmente nuova del modo di fare e intendere il teatro, individuavano nuovi compiti per la recitazione e ideavano, di conseguenza, una fisionomia diversa dell’attore. Le elaborazioni teoretiche e pratiche che presero corso in ambito tedesco – quello in cui Bahr si formò, come pensatore e letterato – giocarono, nei processi culturali che preparavano il novecento (anche) teatrale, un ruolo determinante fin dall’apertura di secolo.3 La pietra miliare venne posta a Berlino, dove nel 1900 il futuro fondatore del primo Istituto di studi teatrali, Max Hermann,4 tenne la sua prima theaterwissenschaftliche Vorlesung. Furono gli enunciati in essa contenuti a indicare chiaramente il percorso che avrebbe condotto al determinarsi di una concezione di teatro affatto diversa da quella dominante. Di un teatro, cioè, il cui valore e la cui legittimazione non sono più assicurati dalla presenza del testo scritto di cui la rappresentazione dev’essere, in un modo o nell’altro, la fedele trasposizione (o nel senso della ricostruzione dell’ambiente – nota la Fischer-Lichte – o come latrice del

1 Cfr. H. Bahr, Die Schauspielkunst, Dürr & Weber m. b. H., Leipzig 1923. 2 L’attenzione di Bahr alle nuove tendenze artistiche ed estetiche era ulteriormente confermata dalla pubblicazione nel 1916, per la casa editrice Delphin di Monaco, di un altro dei suoi importanti saggi programmatici: Expressionismus, che vide una seconda, terza e quarta edizione nel 1918, 1919 e 1920. 3 Si confronti a proposito il mio: L’attore e il personaggio nella recitazione tedesca, dal realismo di Schröder all’impressionismo di Kainz, in «Il Castello di Elsinore», anno XXI, N. 57, pp. 21-43. 4 Nato a Berlino nel 1865, Max Hermann fu studioso di letteratura e di teatro. Ottenne la sua prima cattedra alla Berliner Universität nel 1919 e qualche anno dopo fu, con Arthur Kutscher, tra i fondatori della Theaterwissenschaft come disciplina indipendente dalla germanistica. Nel 1923, alla Humboldt Universität di Berlino, Hermann costituì il primo Theaterwissenschaftliches Institut, di cui tenne la direzione. Nel 1933, in quanto ebreo, venne sollevato dal suo incarico e nel 1942 deportato a Theresienstadt, dove morì.

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messaggio contenuto nell’opera scritta).5 Hermann era dell’idea che non fosse la letteratura a fare del teatro un’arte, ma il momento dell’esecuzione, che era esattamente ciò di cui gli studiosi e i critici teatrali, se tali volevano essere, dovevano occuparsi. Così venivano sciolti i legami fra il teatro – visto finalmente come disciplina autonoma – e la letteratura, e ribaltata la gerarchia fra testo e messinscena; tanto che nel pensiero di Max Hermann si può individuare l’origine dell’idea di teatro performativo che avrebbe preso vita settant’anni dopo.6 Liberare il teatro dalla sudditanza nei confronti dell’opera scritta, va da sé, significava anche liberare l’attore da quella nei confronti del ruolo. E proprio questo fu il punto su cui, nel 1908, ragionava da Strasburgo il filosofo e sociologo Georg Simmel, il quale nel suo saggio Zur Philosophie des Schauspielers (Sulla filosofia dell’attore)7 esprimeva la convinzione che sulla scena non sta il dramma scritto, bensì «i punti di vista interamente nuovi e soggettivi che scaturiscono dall’agire dell’attore».8 Partendo dal presupposto che nella recitazione il contenuto oggettivo della prestazione e la soggettività creatrice dell’artista sono curiosamente slegati e intrecciati (poiché l’interprete, col suo carattere e il suo temperamento, nella rappresentazione del ruolo deve esprimere un contenuto altrove dato e coniato), lo studioso arrivava ad affermare che l’interpretazione di un personaggio nulla aveva a che vedere con la figura creata dall’autore; mettendo così in discussione l’idea dell’incarnazione dell’attore nel personaggio che si era imposta dalla metà del XVIII secolo. L’Amleto di Kainz9 o di Salvini, sosteneva infatti Simmel, non sono una trasposizione materiale del ruolo che Shakespeare nella sua tragedia ha tratteggiato con segni verbali; sono un altro Amleto, che esiste solo nel momento in cui gli attori, nel loro Dasein, quali presenza viva e fenomenica, lo recitano. Furono questi i presupposti da cui sarebbe derivata una concezione nuova della

5 Cfr. E. Fischer-Lichte, Der Begriff der Aufführung, in Ead., Ästhetik des Performativen, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 2004, pp, 42-57. 6 Ivi, p. 26. 7 G. Simmel, Zur Philosophie des Schauspielers, in «Der Morgen» (settimanale di cultura tedesca fondato e edito da Erner Sombart con Richard Strauss, Georg Brandes e Richard Muter, con la collaborazione di Hugo von Hofmannstahl), Berlin. 2. Jhrg., nn. 51-52, 18. Dezember 1908, pp. 1685-89. Si ricorda che Simmel (1858-1918) teneva dal 1885 la cattedra di filosofia alla Berliner Universität, contando fra i suoi allievi anche Ernst Bloch e György Lukàcs, e che nel 1894 venne nominato professore ordinario all’università di Strasburgo, dove avviò il periodo forse più fecondo del suo pensiero. 8 Ivi, p. 1686. 9 Josef Kainz (1858-1919), il più grande attore austriaco fra ottocento e novecento, aveva cominciato a mettersi in luce negli anni passati tra le fila della compagnia dei Meininger (1877-1880), a cui seguì l’ingaggio al Teatro Reale di Monaco diretto da Ernst von Possart. Lì restò fino al 1883, quando passò al Deutsches Theater di L’Arronge, che avrebbe lasciato sei anni dopo per il Berliner Theater di Ludwig Barnay. Nuovamente al Deutsches Theater dal 1892, vi restò anche quando la direzione passò nelle mani di Otto Brahm. Nel 1899, felice di aver coronato il sogno di tutta una vita, venne ingaggiato al Burgtheater di Vienna, dove restò fino alla morte.

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recitazione quale attività fisica e creativa al contempo, ribadita e concretamente tradotta dai teatranti più geniali che hanno vivificato il novecento. Un anno dopo la stesura del saggio di Simmel, nel 1909, Georg Fuchs scriveva la sua Revolution des Theaters (Rivoluzione del teatro), in cui com’è noto assimilava la recitazione alla danza, e indicava agli attori quello che sarebbe dovuto essere per loro, da allora in poi, il compito primo da assolvere; ovvero, incarnare «fisicamente e ritmicamente» il dramma.10 Il corpo dell’attore cominciò dunque a liberare il suo linguaggio, fino al punto in cui gesto, movimento e musica interna delle azioni finirono per essere considerate come ‘significanti di per sé’ e non più, o non soltanto, veicolo d’espressione di un significato secondo. Percorso, quest’ultimo, di cui Mejerchol’d segnò una tappa fondamentale, operando sul principio della fisicizzazione delle emozioni11 per arrivare, fra il 1913 e il 1917, alla sua formulazione dell’attore biomeccanico, in cui la Fischer-Lichte individua il concretarsi del ribaltamento del concetto tradizionale di Verkörperung (incarnazione).12 L’elenco potrebbe continuare a lungo, ma ciò che ora ci interessa è piuttosto l’emergere di un’immagine dell’attore che in mezzo al profilarsi di teorie nuove, tese a disciplinarne la funzione e ridefinirne l’importanza, va alla ricerca della propria identità. Macchia di colore o Supermarionetta per Gordon Craig, termine medio fra autore e spazio per Adolphe Appia, oppure ‘semplicemente’ oggetto, al pari degli altri componenti scenici per Aleksandr Tairov, ‘elemento dinamico interferenziale d’espressione tra l’ambiente scenico e il pubblico’ per l’avanguardia Futurista: lungo il primo ventennio del Novecento l’attore fu il centro delle riflessioni che segnarono il passaggio dall’idea della trasformazione del suo corpo da organico in semiotico (quella su cui si era basato il concetto di ‘incarnazione’ nel secondo Settecento) alla valutazione della sua presenza fenomenica come sorgente di stimoli e reazioni; e che di conseguenza, e parallelamente, portarono dalla posizione di ‘messa a servizio’ dell’attore nei confronti del personaggio, a una visione del personaggio come mezzo dell’attore per arrivare a se stesso. Senza

10 Il saggio di Fuchs è riportato, nella traduzione di Luisa Tinti in M. Fazio, Lo specchio, il gioco e l’estasi, Bulzoni, Roma 2003, p. 238. 11 Il principio della fisicizzazione delle emozioni, ricordiamo, era stato già adombrato da Lessing a metà Settecento. Significativo che proprio in Lessing Uwe indichi, fra l’altro, il lontano preconizzatore della nascita di una pedagogia dell’attore. Cfr. O. Uwe, Lessings Verhältnis zur französische Darstellungstheorie, Peter Lang, Frankfurt/Hebert Lang, Bern 1976. 12 Cfr. E. Fischer-Lichte: Ästhetik des Performativen, cit., pp. 138-139. In base al concetto di ‘incarnazione’ nel personaggio, il corpo dell’attore dà natura sensibile ai significati del testo, permettendo allo spettatore di decifrarli. La ‘performatività’ dell’attore è dunque al servizio della espressività. Nella concezione biomeccanica, invece, il corpo dell’attore agisce im- mediatamente su quello dello spettatore che, stimolato per riflesso, genera nuovi significati, indipendenti dal testo di partenza. In questo caso la ‘performatività’ è piuttosto un potenziale energetico, che non ha più nulla a che vedere con l’idea tradizionale di recitazione come interpretazione.

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dimenticare, come ‘termine medio’ ideale, la Ich-Distanz teorizzata da Brecht. All’interno di questo panorama fecondo e convulso, in questo rincorrersi di idee più o meno rivoluzionarie, si colloca lo scritto di Hermann Bahr: intellettuale poco conosciuto presso i nostri studiosi, dai quali viene considerato più che altro nella sua qualità di letterato e romanziere; neanche fra i più grandi della sua epoca. Ma il suo pensiero ci interessa, perché era il pensiero di un uomo intriso di ‘teatralità’, svezzato culturalmente nella Vienna, ancora barocca – e dunque pervasa dal senso della grandiosa relatività del teatro13 – di fine ottocento; ed era preso da un interesse, sostanzialmente mai venuto meno, per l’arte degli attori. Basti guardare ai suoi Rezensionen14 e Glossen zum Wiener Theater,15 ai saggi dedicati al Burgtheater, a Josef Kainz, a Eleonora Duse. Schauspielkunst contiene, su quell’arte così amata, la sua ultima riflessione. La visione di una personalità complessa e contraddittoria, che proprio per questo poté essere denominata il sismografo della sua epoca e del suo sviluppo teatrale. Una personalità dotata di sensibilità acuta e moderna, in cui non si escludeva però una tensione necessaria verso il passato, dove soltanto era possibile recuperare il «legame vivente e costante degli occhi con lo spirito».16 Ed è proprio in virtù della singolarità della figura del suo autore, capace di correre incontro all’esigenza di novità di una generazione che sotto il suo impulso avrebbe trasformato la capitale austriaca «in una città artisticamente autonoma dalla tutela germanica o francese»,17 che il saggio acquista interesse; aldilà del valore intrinseco delle enunciazioni in esso contenute. È necessario dunque, prima di leggere e comprendere le pagine della Schauspielkunst, delineare l’origine e lo sviluppo del pensiero di Bahr.

Il tempo di Bahr: teatro e cultura Nella ricorrenza del ventennale dalla sua morte, il noto storico del teatro Heinz Kindermann dedicò a Hermann Bahr un importante studio monografico, attraverso cui ricostruiva il profilo di uno dei maggiori rappresentanti del mondo culturale tedesco fin de siécle: non solo testimone attento, ma uno dei primi fautori del passaggio fra Tradition und Moderne che nell’Europa al volgere dell’ottocento interessò ogni espressione del fare e del sentire umano; dunque le arti tutte, compresa quella dell’attore. L’arte a cui Bahr si era appassionato dai tempi in cui a Linz, bambino, sentiva il padre raccontargli delle glorie del Burgtheater: dei grandi attori come Heinrich Anschütz, Ludwig Löwe e Joseph Wagner.18 Il trasferimento da

13 Cfr. M. Fazio, Lo Specchio, il Gioco e l’Estasi, cit., p. 86. 14 H. Bahr, Rezensionen – Wiener Theater 1901 bis 1903, S. Fischer Verlag, Berlin 1903. 15 Idem, Glossen – Zum Wiener Theater (1903-1906), S. Fischer Verlag, Berlin 1907. 16 H. Bahr, Expressionismus, Delphin, Monaco 1916. 17 M. Freschi, La Vienna di fine secolo, Editori Riuniti, Roma 1977, p. 118. 18 Heinrich Anschütz (1785-1865) venne ingaggiato al Burgtheater nel 1821, dove – fra gli altri – interpretò il ruolo di Lear nella grande tragedia shakespeariana, lasciando

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Salisburgo (dove aveva frequentato il ginnasio) a Vienna, la città che fino a metà dell’ottocento era considerata il metro di misura della scena tedesca, costituì la tappa fondamentale nel suo percorso formativo; nell’evoluzione della sua estetica, che era allora già fortemente improntata dalle letture di Goethe, a cui si aggiunse non a caso l’interesse per gli studi filologici: l’amore per la Grecia antica, ineliminabile in un’ottica quale quella goethiana, per l’appunto, in cui il fine dell’arte – in specie la teatrale – doveva essere la vera educazione estetica.19 Dunque, a Vienna Bahr frequentava l’università per studiare filologia classica e la platea del Burgtheater – da sempre simbolo della città – per osservare da vicino gli artisti che si esibivano sul palcoscenico considerato la Wahlhalla degli attori. Eppure, proprio quel teatro – osserva Kindermann – fu una delle delusioni più cocenti di quegli anni.20 Sera dopo sera, Bahr percepiva l’inautenticità del pathos che dominava lo stile recitativo del «più autorevole santuario della drammaturgia in lingua tedesca»,21 così dopo una rappresentazione del Riccardo III con Lewinsky decise di deporre le armi; e credette di essere guarito dall’antico desiderio di diventare egli stesso attore.22 La letteratura, il pensiero politico, la definizione, tra virgolette, della propria estetica – perché quella di Bahr sarà l’estetica della elusività, della non-definibilità, della continua mutevolezza, che spiegano peraltro l’«apertura universale» dei suoi interventi, in cui volontariamente «ignora le separazioni storiche e

un’impronta memorabile; Ludwig Löwe (1794-1871) entrò nelle fila della compagnia del Burgtheater – dove restò fino alla morte - nel 1826, dopo aver già conquistato la fama nell’intera Germania grazie alle tournée che lo impegnarono tra il 1823 e il 1825 nelle città di Dresda, Lipsia, Mannheim, Amburgo, Braunschweig, Berlino e nella stessa Vienna. Eccelse particolarmente nell’interpretazione degli eroi romantici; Joseph Wagner (1818-1870) venne ingaggiato al Burgtheater da Heinrich Laube, che tenne la direzione del primo palcoscenico di Vienna dal 1849 al 1867 e ottenne particolare successo nei panni di Romeo nel Giulietta e Romeo di Shakespeare e nei ruoli schilleriani. 19 Sul rapporto con l’antico quale base per lo sviluppo della recitazione weimariana rinvio alla mia relazione: Goethe à Weimar – Les fondaments du jeu dramatiquee idéaliste tenuta al convegno Le arti dello spettacolo e il modello antico, Parigi, Università di Paris Sorbonne, 13-15 dicembre 2012 e Roma, Università Sapienza, 8-9 febbraio 2013. Gli atti del convegno sono in corso di stampa presso Classique Garnier di Parigi.

20 H. Kindermann, Hermann Bahr, Hermann Böhlaus Nachf., Graz-Köln 1954, p. 17. 21 M. Freschi, La Vienna di fine secolo, cit., p. 21. 22 H. Bahr, Selbstbildnis, Fischer Verlag, Berlin 1923, p. 130. Destinatario del giudizio assai poco lusinghiero di Hermann Bahr fu il viennese Josef Lewinsky (1835-1907), che nel 1865 era entrato stabilmente al Burgtheater, dove dal 1870 ricoprì anche la carica di Régisseur (ovvero, responsabile della disposizione e dei movimenti in scena degli attori). Riccardo III, insieme a Franz Moor, Jago, Mephisto e Shylock è ricordato come uno dei suoi ruoli di maggior successo. Eppure, proprio la sua esibizione nel Re deforme di Shakespeare, segnò l’allontanamento di Bahr dalla platea del Burgtheater.

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geografiche»23 – divennero allora il centro dei suoi interessi. Entrato nella cerchia dello Jung-Wien (la giovane Vienna), la scuola poetica più vivace dell’epoca – la definisce Freschi – Bahr sarebbe stato destinato a incarnare la «personalità dominante per il successo della Nervenkunst, dell’impressionismo austriaco».24 Sostenitore dell’adesione culturale «del nuovo movimento alla concezione wagneriana dell’opera d’arte totale, come pure [del]l’attenzione per Nietzsche», sentì e visse pienamente il clima fecondamente inquieto della capitale austriaca, che a cavallo fra XIX e XX secolo divenne luogo di una «trasformazione culturale senza sosta».25 Il dissidio contraddistingueva la Vienna di quegli anni: «mondo di ieri dall’ovattata atmosfera della sicurezza sociale, dalle certezze culturali e dall’aristocratica eleganza; e insieme [..] officina dello sperimentalismo, dell’avanguardia intellettuale radicalmente impegnata ad aprire nuove frontiere».26 E il dissidio pervase il pensiero stesso di Hermann Bahr, «paladino del moderno ad oltranza [che] sarebbe infine approdato, paradossalmente, al barocco, alla poetica e alla politica secentesca, a una ideologia tradizionalista»; fino ad apparire a Canetti, negli anni Venti (proprio quelli a cui risale la stesura di Schauspielkunst), come uno che «aveva recitato troppe parti, in nessuna delle quali, ormai, veniva più preso sul serio».27 Ma proprio la sua sospensione fra passato e presente, che portò lo scrittore Josef Nadler a definire Bahr lo «Schliemann del barocco»,28 il tentativo ostinato di saldare l’uno all’altro – causa del suo oscillare continuo, anche in ambito artistico ed estetico, da posizioni innovative, se non propriamente rivoluzionarie, a un conservatorismo talora imbarazzante – resero Bahr, come si è già accennato, il sismografo della sua epoca e del suo sviluppo teatrale.29 Quando lasciò l’Austria per Berlino, dove restò dal 1884 al 1887, prima di raggiungere Parigi e appassionarsi ai simbolisti francesi – distaccandosi così definitivamente dal materialismo

23 M. Freschi, La Vienna di fine secolo, cit., p. 112. Freschi nota come, in ragione dei cortocircuiti temporali e geografici, gli scritti di Bahr possano facilmente essere accusati di dilettantismo. Ma proprio questa facilità di accostamenti, prosegue, fa parte del fascino che essi hanno esercitato sulla generazione degli giovani artisti e letterati austriaci degli anni novanta dell’ottocento. 24 Ivi, p. 113. Significativi, a proposito, i due saggi programmatici che Bahr scrive nel 1890 e nel 1891: Zur Kritik der Moderne e Die Überwindung des Naturalismus (Il superamento del naturalismo). 25 M. Freschi, La Vienna di fine secolo, cit., p. 112 e p. 21. 26 Ivi, p. 23. A pagina 19, Freschi descrive la Vienna a cavallo fra i due secoli «palcoscenico di inconciliabili paradossi, di irriducibili contraddizioni. […]É la culla del sionismo di Theodor Herzl […] e dell’antisemitismo virulento di Adolf Hitler […] nonché dell’estetica decadente e dello sperimentalismo dodecafonico» di Alban Berg. 27 E. Canetti, Il frutto del fuoco. Storia di una vita (1921-1931), Adelphi, Milano 1982, p. 127. 28 Cfr. M. Freschi, La Vienna di fine secolo, cit. p. 113. 29 H. Kindermann, Hermann Bahr, cit., p. 123.

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berlinese – l’incontro con la ‘fattività’ di stampo bismarckiano30 lo aveva inizialmente distratto dall’interesse e dalla frequentazione dei palcoscenici. L’incontro con Otto Brahm: l’‘uomo dell’oggi’, la collaborazione con la Freie Bühne (da cui, com’era ovvio, era destinato a allontanarsi bruscamente)31 e poi i primi tentativi di messinscene dei drammi di Ibsen lo riportarono in platea.32 Fu però il viaggio in Russia, nella primavera del 1891, a risvegliare la sua inclinazione per l’arte teatrale e – soprattutto – a riportare l’attore al centro dei suoi interessi.33 Lì, a San Pietroburgo, Bahr vide per la prima volta recitare Josef Kainz; e scoprì la grandezza della Duse (anch’ella menzionata in Schauspielkunst)34 di cui immediatamente scrisse sulla «Frankfurter Zeitung», spingendo un agente teatrale di Vienna a ingaggiare l’attrice per una tournée nella capitale austriaca, viatico per il suo successo sui palcoscenici mitteleuropei. Kainz e la Duse: due indimenticabili esperienze, afferma Kindermann, che da allora in poi avrebbero accompagnato la vita di Bahr.35 Gli attori che subito apparvero ai suoi occhi quali detentori e portatori di uno stile nuovo; della recitazione cosiddetta ‘moderna’ perché capace di reimpostare, negli anni della Jahrhundertwende (il passaggio fra i due secoli), la relazione fra arte e realtà stabilita dall’estetica naturalista allora imperante.36 Non a caso, il viaggio in Russia data lo stesso anno dell’uscita del saggio famoso di Bahr, già menzionato, Die Überwindung des Naturalismus (Il superamento del naturalismo).La loro recitazione gli sembrò l’incarnazione dello stile impressionista che egli stesso avrebbe teorizzato. Una recitazione figlia dei tempi che mettevano in discussione l’oggettività del reale per privilegiare l’indagine dell’‘io’ in

30 Bahr era rimasto fortemente affascinato dalla personalità di Bismarck, fascinazione che cessò in seguito alla decisione del cancelliere di non annettere l’Austria alla Germania. 31 «Brahm aveva molta pazienza con me», ricordava Bahr, «io non ne avevo nessuna con lui; passarono appena sei mesi e neanche ci salutavamo più; insieme al fedele amico Arno Holz diedi l’addio alla Freie Bühne». H. Bahr, Selbstbildnis, cit., p. 192. 32 Nel 1887, sui quaderni della «Deutsche Worte», Bahr pubblicò la brochure Henrik Ibsen. Cfr. H. Bahr: Henrik Ibsen, Sonderabdruck aus dem 8. Und 9. (August und September) Heft der «Deutschen Worte» (Engelbert Pernerstorfer), Wien 1887, pp. 1-19. Lo scritto comparve l’anno in cui lo scalpore e il successo seguiti alla prima berlinese di Spettri al Residenztheater avevano contribuito in modo decisivo a diffondere la fama del drammaturgo norvegese in Europa e avevano spaccato in due la critica. Bahr tentò di dimostrare come la modernità di Ibsen risiedesse nell’aver tentato con la sua Problemdichtung – definita l’ultima esternazione dello spirito romantico – una sintesi di naturalismo e romanticismo, cercando dunque di assolvere a quello che egli definiva il compito della letteratura contemporanea. 33 Cfr. H. Bahr, Russische Reise, E. Pierson, Dresden 1891. A ribadire la distanza estetica che separava Bahr da Brahm, basti pensare che Josef Kainz, visto dall’uno come il primo artista realmente moderno, agli occhi dell’altro appariva un «[Ernesto] Rossi tedesco», un epigono della tradizione ottocentesca. Cfr. O. Brahm, Kainz. Gesehenes und Gelebtes, Egon Fleischel & Co., Berlin 1910, p. 13. 34 Cfr. H. Bahr, Die Schauspielkunst, cit., pp. 14-15. 35 H. Kindermann, Hermann Bahr, cit., p. 45. 36 Cfr. S. Bellavia, L’attore e il personaggio nella recitazione tedesca, dal realismo di Schröder all’impressionismo di Kainz, cit., p. 43.

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divenire, colto nel suo eterno mutare; che propugnavano la ricerca dell’autenticità – contraddittoria e instabile – in luogo della fissa verità fotografica:37 dell’immagine del reale impressa, come una lastra di cloruro d’argento, nella parola dell’autore. Nella temperie dei nuovi tempi venne così a precisarsi, nel pensiero di Bahr, l’immagine dell’attore nuovo, che dal poeta avrebbe preteso l’occasione di dispiegare la propria grandezza; un attore che non recitava tanto il ruolo, quanto piuttosto «si recitava sul ruolo» (così egli disse a proposito di Kainz) e trasformava tutto nel proprio essere.38 Che era vero e autentico non perché capace di restituire con verità e autenticità l’immagine del reale, ma perché rivelantesi agli altri e comunicante con gli altri. «Essere, non semplicemente apparire. Essere realmente. Vivere»,39 scavalcando quel muro della finzione che era la quarta parete (che escludendo il pubblico ribadiva il carattere fittizio della rappresentazione)40 per recuperare un contatto intimo con la platea, in virtù del quale lo spettatore non guardava, ma ‘viveva’ lo spettacolo. Laboratorio dell’anima e delle emozioni, indagine sull’umano e mezzo di espressione dell’Innenwelt, del mondo interiore: questo era stato il senso ultimo del teatro per i tedeschi riformatori, dalla metà del Settecento. Rivelarsi, rivelando così la propria essenza umana, doveva essere adesso il compito primo dell’attore nell’era della psicanalisi di Freud e della scoperta dei raggi X. In quest’era, il teatro apparve a Bahr la via privilegiata per arrivare al «legame vivente e costante – già invocato da Goethe – degli occhi con lo spirito»; e Bahr decise di «tornare» al teatro. Nella sua prospettiva esso sarebbe stato, da allora in poi, «il punto di fuga di tutte le arti, il cuore della vita culturale dei popoli, su cui confluisce il meglio delle direttive artistiche sintomo dei nuovi tempi, che da esso dipartono per riflettersi poi nuovamente in ogni singolo campo della vita artistica e culturale».41 La passione riaccesa per il palcoscenico e l’esigenza del superamento, anche a teatro, dell’estetica naturalista (mai realmente radicatasi in suolo austriaco) lo riportò a Vienna, dove l’amico Max Burckhard42 era stato nominato direttore del Burgtheater e aveva allestito, nell’aprile del 1891, la prima

37 Ivi, p. 22. 38 Cfr. H. Bahr, Russische Reise, cit., pp. 155-158. 39 Cfr. H. Bahr, Josef Kainz, Wiener Verlag, Wien-Leipzig 1906, p. 10. 40 Dietro la quarta parete, diceva Bahr, «lo spettatore si sente sicuro che nulla lo può toccare. Un muro tra lui e la rappresentazione, nulla lo travalica. Ed è solo una recita! Mai, mai è concesso dimenticare che si tratta sempre e solo di una recita». Ibidem, p. 8. 41 H. Kindermann, Hermann Bahr, cit., p. 113. 42 Max Burkhard (1854-1912), docente di diritto privato e vicesegretario ministeriale, fu nominato direttore del Teatro di Corte viennese nel 1890. Dotato di un occhio particolare per l’evoluzione e le necessità del suo tempo, cercò e trovò per il Burgtheater la drammaturgia moderna; e seppe anche imporla con la tenacia che lo contraddistingueva. Accanto a Ibsen, anche Hauptmann, Schnitzler, Sudermann e Anzengruber conquistarono il repertorio del teatro. Cfr. W. Greisenegger, Gerhart Hauptmann und das Burgtheater, in «Maske und Kothurn», Hermann Böhlaus Nachg., Graz-Köln 1962, p. 212.

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rappresentazione dei Pretendenti alla Corona (proseguendo il dialogo fra Ibsen e il primo palcoscenico di Vienna, istituito da Franz von Dingelstedt nel ’76).43 Negli anni della collaborazione con Burkhard, Bahr era mosso fondamentalmente da due propositi: far conoscere in Austria la dimensione essenzialmente europea del nuovo teatro – mettendo così il proprio paese in connessione con l’Europa –44 e cercare di modificare la recitazione della Burggesellschaft (la compagnia del Burgtheater), secondo una direzione che avrebbe dovuto portarla da Kammerkunst (arte ‘da camera’) di impronta idealistica, come si era venuta definendo sotto la direzione Laube e la sua Wortregie (regia ‘di parola’),45 a vero e proprio Stile, consono anche alla dimensione più grandiosa della nuova sede sulla Ringstrasse.46 In questi anni, l’intensa Auseinandersetzung di Bahr con l’arte teatrale si rivela anche nell’attività di critico e recensore, osservatore attento degli attori tutti, di lingua tedesca e non, attraverso cui egli influisce sul gusto del proprio tempo. La Vienna dell’ultimo decennio del secolo è la Vienna di Hermann Bahr. E la vita teatrale della capitale austriaca si muove sotto l’influsso delle sue idee e della sua estetica. Almeno fino a quando i gravi problemi di salute, la conversione religiosa (1904), che Bahr vide a posteriori come in realtà una semplice agnizione di se stesso,47 il dissidio interiore che – come già detto – lo caratterizzavano per natura, lo condussero verso l’espressionismo e fuori dai confini austriaci: di nuovo in Germania e ancora a Berlino. Qui, dal 1906, Bahr cominciò con entusiasmo la sua collaborazione con Max Reinhardt, al Deutsches Theater (che Brahm – accanto al quale Reinhardt si era formato – aveva lasciato nel 1904,48 dopo averlo reso il primo fra i teatri dei paesi di lingua tedesca, strappando la palma al Burgtheater) in qualità di Régisseur. Entusiasmo con ragione, poiché molti erano gli elementi che accomunavano i due e facevano ben sperare in una cooperazione fattiva e fruttuosa. Reinhardt – classe 1873,

43 Cfr. S. Bellavia, Il vento da Nord. L’opera di Ibsen e il teatro di Vienna, dalle prime messinscene alla morte dell’autore, in «Il castello di Elsinore», anno XIX, n. 53, pp.106-107. 44 Kindermann notava come Bahr non guardasse al mondo e al particolarismo regionale come contrasti insanabili, ma sempre e solo come polarità, in senso goethiano (cfr. H. Kindermann, Hermann Bahr, cit., p. 38). Il concetto di polarità come incessante attrazione e repulsione, insieme a quello di potenziamento come continuo innalzarsi e raffinarsi delle forme di vita, sono per Goethe i concetti necessari a comprendere la Natura. 45 Si confronti a proposito il mio: Laube et Dingelstedt au Burgtheater de Vienne, in La fabrique du théatre - Avant la mise en scène (1650-1880), Desjonquères, Paris 2010, pp. 238-248. 46 L’arteria della Ringstrasse venne inaugurata da Francesco Giuseppe il primo maggio 1865. Dal 1873 cominciò la costruzione del Parlamento (realizzato in stile neoclassico, terminato nel 1883). Nel 1884 partirono i progetti per il nuovo Burgtheater, che nel 1888 lasciò la vecchia sede di Michaelerplatz. Cfr. M. Freschi, La Vienna di fine secolo, cit., pp. 17-18. 47 «Un giorno mi accorsi», scrisse Bahr, «che semplicemente io ero sempre rimasto, quand’anche inconsapevolmente, cattolico. […] Quella che si dice la mia conversione era semplicemente un riconoscimento di me stesso» H. Bahr, Selbstbildnis, cit., p. 262. 48 Ricordiamo che sciolto il contratto con Brahm, la direzione del Deutsches Theater fu tenuta per un anno da Paul Lindau, prima di passare nelle mani di Reinhardt.

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dunque solo dieci anni più giovane di Bahr – era nato a Baden, a pochi chilometri da Vienna, cresciuto nel gusto barocco di cui la città era permeata, gusto che le aveva regalato la sua natura ‘teatrale’ e l’aveva resa unica, fra le capitali europee, a non farsi sedurre dal dilagare del pensiero positivista. «Il suo [di Reinhardt] senso del teatro e della vita come teatro», osserva Mara Fazio, «venivano da Vienna».49 Partito, come Bahr, dalla fascinazione per il Burgtheater e per i suoi attori (anche per Lewinsky)50 Reinhardt fu animato, come Bahr, da quella tensione al sensualismo e all’impressionismo che segnò la differenza profonda fra la capitale austriaca e la Berlino roccaforte del naturalismo. Anche Reinhardt, come Bahr, era voglioso di «scavalcare la quarta parete», per permettere il dispiegarsi della fantasia dello spettatore, che doveva anch’esso «partecipare, indovinare, completare, elaborare», poiché anche per lui il teatro, in quanto arte composita, esisteva solo quando veniva recepito.51 Per entrambi, il teatro era il centro di tutto, e al centro del teatro era l’attore. I due, inoltre, avevano già progettato insieme a Hofmannstahl il Festival di Salisburgo, che sarebbe stato inaugurato nel 1922; e Schauspielkunst, scritto proprio in quell’anno, si chiude non a caso sull’evento. Da subito, però, sorsero fra loro tensioni e contrasti; generati in fondo, a ben vedere, da una semplice, sostanziale differenza: Reinhardt era un teatrante puro, permeato dall’amore per il teatro, mentre Bahr era un amante del teatro, a cui si accostava con la natura dell’intellettuale e del pensatore. In quanto tale, vedeva l’arte come ciò che poteva e doveva interagire nell’esistenza umana, ‘rispondendo’ al rapporto problematico che i tempi avevano instaurato fra l’uomo e il mondo. Reinhardt incarnava la fuggevolezza dell’impressionismo, il gusto per la fascinazione del teatro, il gioco e il disincanto, il sogno e la magia, che regalavano all’uomo una via di fuga nei tempi in cui era necessario «rendere irreale la realtà per poterla sopportare», perché «come si fa a parlare», affermava Reinhardt in un suo ultimo scritto, «in un mondo in cui non c'è più nessuno che ride - se non dei guai di un altro - in cui non c'è nessuno che piange, se non della propria infelicità?»52 Bahr, invece, non vedeva nel teatro una via di fuga dalla realtà, ma la strada per arrivare alla sua essenza. Animato da alcuni degli aspetti romantici inclusi nello spiritualismo di fine ottocento di cui era intriso, il suo pensiero era provvisto di una forte tensione idealistica; la stessa che lo portò all’idea che potesse essere ancora possibile all’uomo recuperare, in qualche modo, un qualche senso di unità e di totalità. Ed era proprio lo stile ‘neoromantico’ di Bahr – osservava Kindermann – che non si accordava con

49 M. Fazio, Lo Specchio, il Gioco e l’Estasi, cit., p. 82. 50 Cfr. M. Reinhardt, Autobiographische Aufzeichnungen, in G. Adler, Max Reinhardt. Sein Leben, Festlungsverlag, Salzburg 1964, p. 12. 51 Cfr. M. Fazio, Lo Specchio, il Gioco e l’Estasi, cit., p. 94. 52 M. Reinhardt, Resignation, in M. Fazio, Lo Specchio, il Gioco e l’Estasi, cit., p. 147.

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la regia ‘illusionistica’ di Reinhardt; e, oltretutto, al direttore del Deutsches Theater sembrava che il suo Régisseur non tenesse nella giusta considerazione l’importanza della relazione fra attori e pubblico.53 In realtà, nella concezione di Hermann Bahr la relazione fra Schau-spieler (attore) e Zu-schauer (spettatore) era fondamentale, nel senso però di una comunicazione sottile, che dava all’idea della fascinazione dell’uno sull’altro, ancora vista come necessaria, un senso nuovo e diverso: non si trattava più di suscitare la Illusion settecentesca o il pathos emozionale romantico, quanto piuttosto di stabilire un circuito di comunicazione viva e autentica basata sulla rivelazione, da parte dell’attore, del proprio io, che metteva in connessione l’io di tutti i singoli, per ricreare il senso di quella unione e di quella totalità altrove perduta. Non era necessaria, per questo, la messa in discussione della consueta relazione spaziale fra palcoscenico e platea, che era invece ciò a cui Reinhardt cominciava a dedicarsi, sperimentando la variabilità dello spazio e immaginando la scena del futuro, in cui anche il sipario sarebbe dovuto sparire e gli attori sarebbero dovuti entrare, quando possibile, dalla platea; una platea decorata in sintonia con la scena per «rimuovere la sopravvissuta tradizione che [i due settori] siano […] rigidamente separati fra loro».54 L’emergere delle divergenze portò Bahr a lasciare, appena un anno dopo averla assunta, la carica di Régisseur al Deutsches Theater e a tornare a Vienna, dove fu attivo in qualità di critico del Burgtheater al «Neues Wiener Journal». Sarebbe rimasto nella capitale austriaca per il quadriennio successivo, contrappuntato dai viaggi nella Venezia di Thomas Mann,55 a Bayereuth, a Londra e a Parigi. Furono anni ‘caldi’: gli anni del contatto con Klimt e la cerchia dei pittori della Sezession, che lo portò a riflettere sull’importanza del rapporto fra teatro e pittura, dell’amicizia con Richard Strauss e di un rinnovato interesse per la musica, e – non certo in ultimo – del passaggio dall’impressionismo all’Expressionismus, all’idea di un artista che «non vede ma guarda, non rappresenta ma vive, non riproduce ma plasma, non prende ma cerca».56 Pittura, colori, musica e parole: a ridosso della prima guerra mondiale, quando già era nell’aria l’odore della deflagrazione di qualsiasi ‘unità’, il legame mai perduto con Vienna e la sua tradizione

53 Cfr. H. Kindermann, Hermann Bahr, cit., p. 66. A proposito del disinteresse di Bahr sul circuito di comunicazione fra attori e pubblico: «Questo spiega anche – gli disse Reinhardt – perché voi, che avreste molto come Régisseur, come vero Régisseur, pure non lo siete affatto». A questa osservazione , riportata in ibidem, allude Bahr nel suo Schauspielkunst, a pagina 21. 54 M. Reinhardt, Il teatro ideale (1928) in M. Fazio, Lo specchio, il gioco e l’estasi, cit., pp. 177-178. 55 Il romanzo di Thomas Mann, Morte a Venezia, è del 1912. Dal 1909 al 1913, Bahr trascorse sempre uno dei mesi estivi nella città lagunare. 56 Sono le parole di Kasimir Edschmid (1890-1966), uno dei primi narratori definiti espressionisti e tra i primi critici del movimento culturale; cfr. K. Edschmid, Über den Expressionismus in der Literatur und die neue Dichtung, 1919.

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teatrale condussero Bahr al recupero del Gesamtkunstwerk, che ben prima del Wort-Ton-Drama di Wagner – a ben vedere – era stato una creazione dell’età barocca. Logicamente conseguente il trasferimento a Salisburgo – di Barockstadt Österreichs – dal 1912, che mise al centro dei suoi interessi il teatro musicale e il progetto grandioso del Festival, ideato assieme a Hofmannstahl – primo librettista di Strauss – e, come già detto, Max Reinhardt. Ma Bahr era destinato a ritornare a Vienna, all’amato e odiato Burgtheater, alla parola degli attori. Il Festival di Salisburgo dovette aspettare, a causa della guerra; e la fine del conflitto portò alla guida del primo palcoscenico di Vienna uno degli amici più stretti, suoi e di Hofmannstahl: Leopold Freiherr. Bahr venne chiamato ad affiancarlo, nel 1919, in qualità di primo Dramaturg (Chefdramaturg), con il compito – che nessuno meglio di lui avrebbe potuto svolgere – di regalare al Burgtheater, quanto più possibile, dimensione europea. Bahr decise di aprire la stagione con l’Antigone di Sofocle, lasciando perplessi i più. Eppure, qui è il chiaro segnale del suo percorso circolare, che cerca di riconnettere il presente con il passato nella ricerca dell’armonia e dell’unità perduta tra l’uomo e il mondo. «Da allora in poi», osserva Kindermann, «non è più la superstizione del progresso a dominare l’opera di Bahr, ma una restaurazione che poggia sulla fede di Goethe che la natura umana può anche essere svilita e oppressa, finanche a una grado indicibile; ma non può essere repressa e annullata».57 Il che spiega come mai Bahr abbia cavalcato tutte le correnti estetiche, senza mai aderire propriamente a questa o a quella; esattamente come Reinhardt. Per Reinhardt si trattava però di curiosità, del gusto della varietà e della mutevolezza, insiti nella natura ‘giocosa’ del suo teatro. In Bahr, fu piuttosto la dimostrazione della sua tensione verso quel recupero dell’unità perduta, che nei tempi della frammentazione del reale, in cui il mondo si è rotto nella molteplicità delle prospettive, è possibile solo tentando di riconnettere fra loro le molteplicità di visioni, cercando un elemento unificante che non poteva che essere l’arte; e soprattutto quell’arte ‘umana’ che è il teatro. Ad esso, nel 1923, Bahr dedica Schauspielkunst, l’ultimo tributo.

Schauspielkunst. L’essenza della recitazione e il suo statuto problematico Il saggio di Bahr non è organicamente e scientificamente costituito, esprimendo piuttosto quella che potrebbe essere definita la tendenza inarticolata all’unificazione, propria del suo autore. Procede come una continua riflessione, uno svolgersi del pensiero che si dipana toccando problematiche, fenomeni, figure della storia teatrale tedesca; ma non solo. É diviso in tre sezioni, non titolate (i titoli qui apposti sono stati inseriti per agevolare la lettura), incentrate sull’essenza della recitazione e il suo statuto problematico, sul barocco teatrale e l’ attore ‘elementare’; e sull’origine

57 H. Kindermann, Hermann Bahr, cit., p. 72.

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della regia moderna, scaturita dalla mancanza di grandi attori. Ogni sezione si articola poi in più parti, segnate da titoli posti in alto pagina (undici relativi alla prima sezione, tredici alla seconda, e tredici alla terza) che fungono unicamente da guida per il lettore, come orientamento attraverso le ottanta pagine, lungo un percorso che dalla Duse e Novelli finisce con Reinhardt e il Festival di Salisburgo, passando – nell’ordine e fra gli altri – attraverso il Dramma didattico dei Benedettini e dei Gesuiti, lo Hanswurst e lo Stile di Weimar, il teatro barocco (Alle Künste schauspielern im Barock) e la nascita della regia moderna con Dingelstedt, Meininger, Brahm e Reinhardt. Un ordine evidentemente non cronologico, in linea con il pensiero dell’autore, che volontariamente, diceva Freschi, «ignora le separazioni storiche e geografiche»; ma che ha sempre un filo conduttore ben preciso, che in questo caso è lo Schauspieler. Nell’epoca in cui nascono e si affermano i primi, grandi registi della modernità e si richiede l’asservimento dell’attore alla concezione globale e preventiva dello spettacolo che il regista elabora, facendone l’elemento unificante di tutti i codici del teatro, Bahr riafferma con decisione che il teatro vive dell’attore. Solo quando all’attore è permesso il libero esercizio di quella che egli considera l’essenza della sua arte, allora il teatro può assolvere la sua vera funzione. L’individuazione dell’essenza della Schauspielkunst è esattamente ciò che costituisce materia per la prima delle tre parti in cui Bahr articola il suo pensiero; ed essa viene precisata a partire dalla constatazione della particolarità dello statuto dell’arte recitativa – avvertita dagli stessi grandi attori, i quali sentivano «che qualcosa nella loro arte non andava, che in qualche modo essa era diversa dalle altre arti, che aveva qualcosa di problematico» –58 e dalle questioni che da esso derivano. É un fatto, osserva Bahr, che il nodo centrale di tutto il dibattito intorno alla recitazione, sorto già nel Settecento, non riguarda nessun’altra forma di espressione artistica. Né per il pittore, né per il poeta – pittura e poesia, lo ricordiamo, sono le arti ‘da sempre’ considerate più prossime alla recitazione, quantomeno da quando alla recitazione viene conferito statuto d’arte – si pone la domanda se l’artista debba sentire o non sentire ciò che rappresenta; e questa è esattamente la peculiarità dell’arte recitativa: l’‘oggetto’ della creazione dell’attore è qualcuno altro da sé, e ciò pone quella che per l’autore di Schauspielkunst è la questione fondamentale, ovvero: la Verwandlung, la

58 H. Bahr, Schauspielkunst, cit., p. 7. Qui Bahr fa espilicitamente il nome di Friedrich Mitterwurzer (nato a Dresda nel 1844, morto a Vienna nel 1897), uno dei più grandi caratteristi del teatro di lingua tedesca. Era figlio di un cantante e di un’attrice del teatro di Corte di Dresda. Nel 1867 tenne una tournée al Burgtheater, recitando Amleto e Petruccio ne La bisbetica domata. Nel 1869 fu ingaggiato da Heinrich Laube allo Stadttheater di Lipsia, debuttando nel Don Carlos di Schiller. Dal 1871 al 1874, poi di nuovo dal 1875 al 1880, fu attore del Burgtheater, prima di passare al Wiener Stadttheater (di cui fu anche co-direttore), poi al Ringtheater e al Carltheater. Dal 1892 al 1894 svolse il suo ingaggio al Wiener Volkstheater, poi arrivò il suo terzo ingaggio tra le fila della Burg dove restò fino alla morte.

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trasformazione dell’artista nell’oggetto stesso della sua arte; e, soprattutto, come essa viene recepita. Il rapporto fra attore e personaggio è infatti ‘vincolato’ da quella che Bahr definisce Optik der Bühne, il punto di vista della scena. Qual è il grado di ‘immedesimazione’ che permette la produzione di una ‘realtà’ accettabile per il pubblico? Poiché c’è una sorta di legge, di cui ogni attore deve tenere conto: «Vi è un grado di autenticità che in palcoscenico dà l’effetto di inautentico!».59 Una legge che i tempi del naturalismo, spesso, avevano dimenticato, scordando che «ciò che decide, sulla scena, non è il possesso delle emozioni, ma la loro espressione e la capacità di trasmetterle».60 Esprimere per imprimere.61 E se per raggiungere questo scopo l’attore dovesse «recitare se stesso o trasformarsi nel ruolo, in ogni ruolo diventare un altro, interiormente certo, ma anche ove possibile esteriormente, mai lui stesso, ma sempre l’apparizione del suo ruolo»,62 questa restava l’altra grande questione dell’arte drammatica. L’attore è uno Schau-spieler, la sua è un’arte visiva e dunque il problema non è solo quello della innerliche, ma anche quello della äußerliche Verwandlung: della trasformazione non solo interiore, ma anche esteriore. E qui si aprivano due possibilità, emblematicamente incarnate da Eleonora Duse e Ermete Novelli. La Duse, che era stata con Kainz la grande ‘scoperta’ di Bahr, e che sarebbe scomparsa solo un anno dopo la pubblicazione di Schauspielkunst, era ormai arrivata all’apice di quel processo di ‘sottrazione’ della sua arte, che – con disappunto di Bahr – le aveva fatto togliere tutto ciò che poteva essere connotato come ‘teatrale’: «Non ci provava nemmeno a fingerci Cleopatra, Clotilde o Silvia Settala; a lei bastava essere sempre, quand’anche ogni volta da un altro lato, la Duse, nient’altro che la divina Duse!».63 Novelli invece era un trasformista nato; il più grande che Bahr – il quale lo conosceva personalmente – avesse mai visto. Sapeva, con la forza dello spirito, agire sul corpo e darti l’idea di poter modificare la sua altezza, la sua stazza, il viso e le mani. «Duse e Novelli sono i due poli della recitazione», osserva Bahr, e tutti a chiedersi cosa l’attore possa o debba fare, quale sia la cosa giusta; senza tenere conto, forse, di tutti gli altri fattori che la domanda mette in gioco: la questione

59 Ivi, p. 11. Qui Hermann Bahr riporta l’esempio di uno spettacolo di Antoine, del cui titolo non fa menzione, per il quale il fondatore del Théâtre Libre aveva ingaggiato dei magnaccia autentici da impiegare in una scena ambientata su un viale della prostituzione. Essa, racconta Bahr, risultò scialba, priva di colore, e già dalla seconda replica i veri protettori vennero sostituiti da attori professionisti. Solo a quel punto fu un successo. 60 Ivi, p. 12. 61Sull’argomento si confronti il mio: Dalla rappresentazione all'espressione. Il contributo tedesco allo sviluppo della recitazione nel Settecento, in Studi (e testi) italiani, vol. 23, Bulzoni, Roma 2009, pp. 91-121. 62 H. Bahr, Schauspielkunst, cit., p. 12. 63 Ivi, p. 14.

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dello stile, che modifica con i tempi, il legame ineliminabile con il poeta –64 che però, lo vedremo più avanti, in nessun modo deve essere di subordine – il rapporto con i colleghi, che condiziona fortemente la prestazione di un attore («per quanto un attore può aver recitato Romeo, non lo sarà mai stato finché non avrà trovato la Giulietta giusta per il suo Romeo», sostiene Bahr)65 e poi, il più strano dei vincoli: quello al tempo determinato della rappresentazione, fenomeno che Bahr designa come Produktivitaet auf Kommando (produttività a comando). Né il pittore, né il poeta, dipingono o scrivono a comando, mentre l’attore deve essere immediatamente produttivo all’alzarsi del sipario, e ciò pone in misura assai maggiore che in ogni altra forma d’arte il problema della ‘disposizione atta a creare’; quella che Stanislavskij definiva come «stato d’animo creativo». Alcuni, osservava Bahr, sostengono in realtà che in scena l’attore non produce, ma ri-produce ciò che ha stabilito nei tempi di prova. Ciò però è falso, poiché il vero attore, per essere produttivo, ha bisogno del pubblico. «Proprio questo: che l’attore solo con la sua propria forza non diviene mai produttivo, ma lo è solo e sempre in presenza del pubblico, a contatto col pubblico, in risposta, per così dire, al pubblico, proprio questo è il segreto più intimo della recitazione».66 Lo spettatore, continua Bahr, non è necessario solo a far sì che l’attore tiri fuori e accresca tutta la forza di cui è capace, ma è necessario alla Verwandlung beider durch beide: al cambiamento di entrambi attraverso entrambi. É qui che lo spettacolo si compie, perché qui risiedono il senso e lo scopo ultimo del teatro, che soli possono essere raggiunti attraverso la presenza dell’attore: la «liberazione dello spettatore da se stesso, il quale diventa così partecipe di una pura esistenza, un’esistenza molto al di sopra della propria individuazione».67 Lo spettatore non era semplicemente il destinatario dello spettacolo, ma contribuiva a costruire l’Ensemble in höchsten Sinne: l’ensemble nel senso più alto.

Barocco teatrale e attore ‘elementare’ «Solo in presenza del pubblico», insiste Bahr, «la recitazione si infiamma, solo nel pubblico essa si compie, solo saltando in mezzo al pubblico si risveglia la sua forza ultima».68 Il senso dell’intima connessione fra

64 Ivi, p. 15. Anche i Comici dell’Arte, sostiene Bahr, avevano bisogno di una traccia. 65 Ivi, p. 18. 66 Ivi, p. 21. Bahr raccontava di aver compreso tutto ciò grazie a un’osservazione di Reinhardt, al quale egli aveva detto, una volta, di ‘odiare’ il pubblico e di sognare un teatro senza spettatori. Al che Reinhardt gli rispose che ciò spiegava come mai, pur avendo la stoffa del Régisseur egli non lo fosse affatto. Con il tempo, Bahr comprese ciò che Reinhardt aveva inteso dire: aveva sempre ritenuto che con l’ultima prova tutto fosse pronto, mentre finché non si era di fronte al pubblico, era stata null’altro che ‘preparazione’. L’evento si compiva solo con l’apporto degli spettatori. 67 Ivi, pp. 23-24. 68 Ivi, p. 28.

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spettacolo spettatore, prosegue, era sentito fin dagli albori, sia in Oriente – nel teatro giapponese, col suo ‘sentiero fiorito’, la passerella che mette in comunicazione il luogo dell’azione e quello della fruizione –, sia in Occidente, nel teatro greco antico, che affidava al coro la stessa, intima funzione unificante. Eppure, una vera comunione fra attore e pubblico non poté crearsi che nel Barocktheater: nel teatro barocco, con la comparsa di quello che egli definisce der elementare Schauspieler: l’attore elementare; perché si possono sperimentare le più varie combinazioni spaziali, per creare l’interrelazione fra lo spettacolo e gli spettatori (come andava facendo Reinhardt), ma essa – nell’ottica di Bahr – non può realizzarsi che attraverso l’attore; l’attore autentico, il vero attore, in questo senso ‘elementare’: colui che ha il pieno dominio su di sé e su ciò che fa, comparso in epoca barocca e scomparso al suo declino. Un’epoca – come i tempi di Bahr – complessa e contraddittoria: «quasi vergognosamente superficiale, ma provvista anche del senso di una profondità tragica»; e così anche il teatro, sua massima espressione, solo «apparentemente era rivolto allo sguardo, ma a partire da esso sempre percorso da un sentire sottile per il battito dell’eternità».69 Dunque, il teatro barocco parlava ai sensi, ma aveva sete dell’anima. Teso fra l’alto e il basso, fra cielo e terra, era caratterizzato da un’intima insaziabilità, che lo aveva portato a offrire lo spettacolo dell’unione delle arti tutte, «attraverso cui l’uomo doveva essere scosso dai sensi fino all’ultimo recesso del suo intimo».70 Perché il Barocktheater tendeva a includere tutto in sé, anche lo spettatore. Da tale ‘voracità’ era scaturito l’attore elementare, il quale in virtù della «forza straordinaria della sua Selbstverwandlung [autotrasformazione] affascinava così tanto il pubblico che imparava anch’esso a trasformarsi e, contagiato dall’attore, diventava un compartecipe».71 Quella che noi oggi chiamiamo recitazione, asseriva fermamente Bahr, è una creazione del teatro barocco.72 Fu allora che l’attore, dopo aver indossato la maschera antica, aver mendicato un obolo esibendo agli angoli delle strade le più diverse abilità e aver prestato immagine terrena a Santi e figure bibliche, preso dall’ambizione di non voler più rappresentare, ma essere, divenne conscio della propria facoltà immaginativa, che lo portava certamente non a

69 Ivi, p. 28. 70 Ivi, p. 31. 71 Ibidem 72 Precisava Bahr: «Nell’antichità, l’attore resta un indossatore di maschere. Nel dramma religioso non porta più la maschera, ma viene reclutato fra i ragazzi del coro per i ruoli a cui sembra meglio adattarsi. Il monaco fa fare S. Giuseppe a colui che, per altezza e stazza, andatura e sguardo, somiglia al S. Giuseppe nella pala d’altare. Costume, barba posticcia e un po’ di trucco aiutano l’illusione. L’attore moderno nasce quando, in colui che rappresenta S. Giuseppe, scaturisce l’ambizione di voler essere S. Giuseppe, trasformarsi nel ruolo. Non si tratta di diventare qualcun altro, ma pensare fermamente di poter essere qualcun altro e trasferire agli altri questa illusione». Ivi, p. 33.

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diventare un altro, ma a pensare fermamente di poter essere qualcun altro. E lo faceva capace di trasferire l’illusione. Einbildende Kraft (facoltà immaginativa): questa dunque la prima qualità dell’attore elementare, che costringe chi lo guarda a credere al potere, da essa derivante, del proprio trasformismo. Lo stesso potere che fu l’origine di quel suo sentimento d’ambizione che lo portò a voler primeggiare all’interno dello spettacolo, rendendolo una minaccia per il Gesamtkunstwerk. Per il concetto in base a cui «tutte le arti, ciascuna secondo la propria forza, devono servire l’insieme».73 Esso resistette nel teatro d’Opera, in virtù del potere unificante della musica (il cantante, diceva Bahr, è un attore ‘ammanettato’) ma altrove lo Schauspieler, consapevole della propria forza, sentì di poter bastare a se stesso e di non aver bisogno altro che di due assi di legno e della potenza della propria arte; e apparve l’Hanswurst, il commediante dell’arte.74 La figura dello Hanswurst, su cui Bahr si sofferma a lungo, viene vista come quella in cui i tratti dell’ attore ‘elementare’ erano tutti presenti e potenziati; ciò non soltanto in virtù dello scambio con il pubblico, reso possibile dalla pratica dell’improvvisazione, ma anche – e molto di più, notava Kindermann –75 perché essa era colma dell’agnizione tragica del nulla dell’esistenza terrena. Lo Hanswurst sapeva che la vita è niente, ma che di questo niente ci si poteva divertire: la stessa disposizione che sarà poi di Reinhardt, figlio della Vienna a cavallo fra i due secoli, il quale ben sapeva che «la vita è sogno, che tutto è destinato a passare e cambia a seconda di come lo si guarda, che non esistono certezze assolute. E che in mezzo a tutto questo vuoto è bello giocare sapendo di giocare, fare teatro e farlo bene».76 Non è un caso, allora, che proprio su Reinhardt si chiuderà il saggio di Bahr. Alla fine sarà nel suo teatro, nonostante le differenze e le divergenze, che egli scorgerà la possibilità di un ‘ritorno’ al barocco teatrale: all’idea della riunificazione del molteplice, dell’unità degli occhi con lo spirito e della centralità dell’attore, persa nel settecento con l’avvento

73 Ibidem. comparsa dell’attore elementare tende invece a portare la recitazione in primo piano, a porla in rilievo rispetto alle altre arti. La sua forza è una minaccia per il Gesamtkunstwerk (il senso di unione e di collettività della arti) che è il principio di base del barocco teatrale. 74 Ivi, p. 34. Hanswurst (o Hans-Wurst: Giovanni Salsiccia) è una figura comica del teatro popolare tedesco. Secondo il suo interprete più famoso, Josef Anton Stranitzky (1676-1726, austriaco), il personaggio si presenta con un costume composto da una giacchetta rossa, aperta, con le maniche a sbuffo, gilet blu con un cuore verde nel mezzo, posto tra le bretelle che reggono i pantaloni gialli, lunghi fino al ginocchio. Indossa inoltre una larga cintura con una grossa chiusura di metallo e scarpe vecchie e rotte. Sulla testa porta un berretto a punta verde e al fianco una spada di legno. L’ultimo, importante Hanswurst, è stato quello dell’attore Franz Schuch, morto nel 1763, che somigliava molto all’Arlecchino italo-francese. Verso la fine del settecento, lo Hanswurst scomparve dai teatri tedeschi e venne impiegato solo nel teatro di marionette. 75 Cfr. H. Kindermann, Hermann Bahr, cit., p. 290. 76 M. Fazio, Lo specchio, il gioco e l’estasi, cit., p. 105.

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del regelmäßiges Stück: della drammaturgia regolare. Fu allora che il poeta impose la forza della parola, a cui tutto il resto doveva assoggettarsi. L’attore divenne un dicitore e il pubblico qualcuno che stava lì, seduto, ad ascoltare qualcosa di pre-confezionato. Si perse l’idea del teatro come evento, un evento comune che riunisce Schau-spieler e Zu-schauer, quest’ultimo non meno attivo del primo, e venne perpetrato – proprio da parte del pubblico serio – l’errore madornale che il teatro coincidesse con la letteratura. Evidentemente la lezione di Max Hermann, a cui abbiamo inizialmente accentato, aveva già lasciato la sua impronta su Bahr.77 Dal voler essere un elemento unificante, come la musica nel teatro d’Opera, il testo divenne invece elemento di divisione. Da allora in poi ogni arte cominciò a ‘stare per sé’ e a lavorare unicamente per rendere giustizia al poeta. Ma la poesia, anche la più alta – continua l’autore di Schauspielkunst – non è mai lo scopo, bensì solo un mezzo; uno dei tanti attraverso cui raggiungere il fenomeno della Selbstverwandlung dell’attore. Bahr, contagiato da quella che in tedesco viene denominata Wanderlust, il piacere di mutare abito e identità, di calarsi sempre in panni e parti diverse – che Hofmannstahl considerava una qualità tipicamente viennese –,78 vedeva in questa sorta di piacere racchiuso il vero senso del teatro in quanto arte collettiva, poiché essa soltanto rendeva possibile il ‘dissolversi’ dell’uno individuale nel plurale del molteplice. Riconoscibile, qui, l’eco di un altro dei punti fermi dell’estetica di Bahr: il Wagner dell’Opera d’arte dell’avvenire, laddove afferma che «l’opera d’arte universale non può essere l’atto […] di uno solo, ma l’opera collettiva» compiuta dagli uomini del futuro.79 E se il teatro del domani aveva ‘un’ compito fra gli altri, esso sembrò essere, nell’idea di Bahr, la realizzazione – finalmente – del senso wagneriano dell’opera d’arte dell’avvenire: far riconoscere tutti gli uomini in un solo essere, tutti testimoni della Natura e dunque uomini felici. Quest’ultimo era stato anche l’anelito di Goethe a Weimar, il senso della sua ‘nostalgia della Grecia’, a cui egli guardava non come modello da imitare, ma piuttosto come un’immagine di armonia e ‘ideale’ unità, con cui ci si poteva misurare e attraverso cui superare la propria frammentazione e la propria disarmonia.80 E al direttore del Weimarer Hoftheater, Bahr rendeva il

77 Bahr sottolinea come la preoccupazione degli ultimi trent’anni fosse stata quella di dover liberare la recitazione dalla dittatura della parola, e restituirle la libertà che aveva perso dalla fine dell’età barocca. Cfr. H. Bahr, Schauspielkunst, cit., p. 5. 78 M. Fazio, Lo specchio, il gioco e l’estasi, cit., p. 87. 79 R. Wagner: L’opera d’arte dell’avvenire (1849), Rizzoli, Milano 1965, p. 26. Il passaggio è compreso nel terzo paragrafo, intitolato Il popolo e l’arte. 80 Ciò che andava recuperato negli antichi, nell’ottica di Goethe, non era il loro formalismo, ma la loro «spontaneità e creatività sorgiva». Cfr. S. Caianello, Scienza e tempo alle origini dello storicismo tedesco, Liguori Editore, Napoli 2005, p. 32. Lo stesso Wagner avrebbe visto, nella realtà concreta del teatro greco, l’«arte universale» che i romantici vedevano come sintesi di tutte le arti. Cfr. A. Cozzi in R. Wagner, L’opera d’arte dell’avvenire, cit., p. 13.

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merito di essere stato il primo, dal declino dell’età barocca, a tornare alla consapevolezza che lo spettacolo doveva compiersi con l’unione di tutte le arti; il suo errore, era stato cercare di ricreare altrove ciò che solo l’attore ‘elementare’ poteva dare al teatro; poiché egli soltanto, grazie alla sua natura, che gli consentiva di diventare subito ciò che immaginava di essere, che lo rendeva modificabile da ogni pensiero: reagente, più che agente – proprio come diceva Josef Kainz –81 era in una tale connessione con il mondo da poter riconnettere ad esso il pubblico.82 La questione, però, è che attori così non si possono creare. La reattività agli stimoli interni, la sensibilità sottile, la forza dell’immaginazione sono doti di natura: non si acquisiscono con la tecnica, né c’è una tecnica in grado di fare di un attore l’attore ‘elementare’ di Bahr. La tecnica serve allo stile, che cambia a seconda del gusto e delle epoche. Ma attori di stili completamente diversi, come Ernesto Rossi e Eleonora Duse, Ermete Novelli e Josef Kainz, possono avere le qualità dell’attore ‘elementare’. E costui può rivelarle nel libero esercizio delle proprie facoltà, in un’idea di teatro finalmente svincolato dalla posizione di subordine rispetto alla letteratura, e che superando l’‘errore del tempo’ salti il diciottesimo secolo, per tornare a ricongiungersi al senso barocco della teatralità. A fugare ogni dubbio circa la non trasmissibilità della qualità prima di un vero attore, ovvero la sua potenziale trasformabilità, è il passaggio successivo di Schauspielkunst, che il titolo in alto pagina designa come Schöpferische Hysterie (isteria creativa). Qui Bahr si appoggiava alle ricerche del chirurgo e scrittore tedesco Schleich,83 che individuavano la genesi dell’isteria in una sorta di iperattività della facoltà dell’immaginazione. La tendenza all’isteria sarebbe stata dunque, perciò, connaturata all’attore ‘elementare’; quest’ultimo, però, sottolineava Bahr, non solo a differenza dei malati di isteria sapeva dominare tale stato, ma sapeva anche servirsene per porsi al di fuori di sé,

81 M. Mautner-Kalbeck [Hrsg.], Kainz. Ein Brevier, Druck und Verlag österreichischen Staatsdruckerei, Wien 1953, p. 46. Kainz, come la Duse, paragonava il segreto della sua arte con il mare: «Come il mare, che anche nella quiete si muove piano, che lascia intuire ciò che lo sconvolgerà», così anche il corpo dell’attore, barometro sensibile delle passioni, doveva sempre, in un certo qual modo, ‘dire’ tutto ciò che sentiva. 82 Cfr. H. Bahr, Schauspielkunst, cit., pp. 42-43. A proposito della consapevolezza di Goethe della supremazia della parola a teatro come causa del suo impoverimento, Bahr cita Paleofrone e Neoterpe del 1801. In una nota preliminare a questa mascherata allegorica, Goethe esprime il suo rammarico per non poter offrire al lettore che una parte dell’insieme del suo lavoro; l’altra, che vive soltanto sulle scene, è perduta per colui che legge soltanto: egli si trova sotto le mani solo un ‘libretto’, insufficiente a dargli un’idea completa dello spettacolo. Cfr. D. Valenti Burich, La ‘Pandora’ di Goethe, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1951, p. 91. 83 Carl Ludwig Schleich (1859-1922) fu colui che propose di praticare l’anestesia locale. Scrittore, oltre che medico, era interessato alle questioni della psicologia e della psichiatria moderna, materia delle sue opere maggiori. Il trattato a cui fa riferimento Bahr nel suo saggio è intitolato: Gedankenmacht und Hysterie, Rowohl Verlag, Berlin 1920: pubblicato dunque appena due anni prima della stesura di Schauspielekunst.

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per modificare il suo aspetto, sia esteriore che interiore. Cosicché dal suo ‘io’ poteva scinderne un secondo, un terzo, una serie. Dal suo ‘io’ poteva far emergere un mondo di ‘tu’ e poi ritornare in ‘sé’. Se questo processo veniva – come doveva essere – sapientemente controllato dalla ragione, se l’attore sapeva dominare la sua trasformabilità e una parte di sé restava ‘libera’, allora egli esercitava quel potere incredibile attraverso cui superava l’effetto di qualsiasi altra arte, anche la più alta.84 E poteva diventare grandioso come Kainz, il quale – muovendo da un approccio al personaggio di tipo ‘intuitivo-immaginativo’, in cui il testo non serviva che da generatore di immagini e impressioni, motore della creazione –85 era capace di essere interamente nel ruolo e contemporaneamente al di fuori di esso. Sempre perfettamente vigile su una prestazione tesa a restituire l’immagine ideale scaturita dal rapporto personale fra l’attore e il personaggio; e che alla fine trascendeva tanto il ruolo, quanto l’individualità stessa dell’attore. Artisti così erano rari a trovarsi, ma erano necessari al teatro perché esso ritrovasse il proprio centro e cominciasse a riaffermare il proprio ruolo di connessione fra l’uomo e il mondo. Chi fra i nuovi artisti della scena avrebbe potuto un giorno essere annoverato nel computo, concludeva Bahr, restava im Dunkel der Zukunft: nell’oscurità dei tempi futuri.

La mancanza di grandi attori fa la regia moderna Il caos generato dalla lotta continua fra le arti per la supremazia sullo spettacolo, dopo il declino del Barocktheater, ha ‘allevato’ il moderno Régisseur. L’affermazione, contenuta nel saggio di Bahr, apre tematicamente la terza e ultima sezione, incentrata sulla nascita della regia e dunque del regista modernamente intesi. Regista che – vale la pena ricordarlo – almeno al Burgtheater, fino alla metà dell’Ottocento, non coincide affatto (se non nominalmente) con il Régisseur (né deriva da esso), il quale null’altro era se non un attore scelto fra gli altri in base all’anzianità, alle competenze, ai favori del pubblico e al grado di stima riservatogli dai colleghi; e la cui funzione era sostanzialmente quella di affiancare il Direttore di teatro durante le prove – per alleggerirgli il compito – o di sostituirlo, quando egli era impossibilitato a presenziarvi.86 E poiché dalla dissoluzione del concetto

84 Quando l’arte dell’attore non è abbastanza forte da dargli la sicurezza di un sonnambulo, scrive Bahr, egli può incorrere o nel pericolo in cui erano caduti gli attori naturalisti, troppo poco consapevoli di sé da sottomettersi al poeta, o in quello dei virtuosi (come Bogumil Dawison), fin troppo sicuri del proprio potere da farsi guidare dall’ambizione. Cfr. H. Bahr, Schauspielkunst, cit., p. 49. 85 Si confronti a proposito il mio: L’attore e il personaggio nella recitazione tedesca, cit., pp. 40-43. 86 Cfr. S. Bellavia, Laube et Dingelstedt au Burgtheater de Vienne in Eadem, La fabrique du théatre - Avant la mise en scène (1650-1880), Desjonquères, Parigi 2010, pp. 241-242. Al Burgtheater fu Heinrich Laube, nel 1849, a unificare nella figura del Direttore le funzioni del Dramaturg e del Régisseur, vale a dire i due versanti teorici e pratici dell’attività teatrale. Fino a quel momento era stato il Régiekollegium (il gruppo di attori da cui veniva scelto, di volta in volta, il Régisseur) a occuparsi della distribuzione dei ruoli e dell’andamento delle prove.

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di teatralità barocca e dal momento in cui ebbe inizio il dominio del poeta a teatro le prove altro non erano, notava Bahr, che una «recita di parole imparate a memoria, condotta da dicitori in costume, il suo lavoro non era propriamente divertente».87 Egli ricordava, a proposito, come il massimo che facesse il grande Heinrich Anschütz, membro del Régiekollegium del Burgtheater (il gruppo di attori da cui venivano scelti, di volta in volta, i Régisseurs) fosse guardare e ascoltare, seduto con calma olimpica, riportando di tanto in tanto l’ordine dietro le quinte, sollevando decisamente una mano e con un minaccioso ‘pst! pst!’. Ma anche l’attività di Goethe alle prove, non andava più in là di un autorevole ‘pst! pst!’. Il Direttore del Weimarer Hoftheater conosceva il segreto dell’attore ‘elementare’: quello di potersi ri-creare, diversamente, per ogni ruolo. Sapeva anche, però, quanto rara fosse questa dote presso gli attori del suo teatro, ed essendo un uomo piuttosto pragmatico si accontentò – sosteneva Bahr – di vigilare affinché essi si attenessero a questa o quella regola, a questa o quella massima. Regole e Massime, quelle di Goethe, che non arrivavano a toccare l’essenza della recitazione: erano «aiuti alla declamazione ritmica e al dominio del proprio corpo», che lungi dal favorire l’attore ‘elementare’ avevano piuttosto l’effetto di ostacolarlo e di paralizzarlo.88 Alcune di esse, lette alla luce dei tempi moderni, facevano sorridere: la postura diritta, il petto in fuori, il busto, fino ai gomiti, leggermente conchiuso, la testa lievemente rivolta verso colui al quale si parla, ma giusto appena, cosicché i tre quarti del volto siano sempre rivolti allo spettatore; e l’autore di Schauspielkunst si auspicava che venissero dimenticate. Già qui emerge come nell’ottica di Bahr il vero regista, il regista in senso moderno, sia colui che non soltanto guida gli attori e se ne serve, ma colui che ne riconosce le doti e lavora affinché esse possano dispiegarsi liberamente. Non si tratta di disciplinare lo Schauspieler, di imporgli uno stile, di assoggettarlo a un diverso comun denominatore; ma di portare alla luce tutte le sue qualità ‘elementari’ e – in virtù di esse – rendere ‘agenti’ anche tutte le altre arti. Se nel suo saggio, che si è detto tendeva a ribadire la centralità assoluta dell’attore nello spettacolo teatrale, il ricorso al concetto di teatralità barocca era insistente e continuo, ciò non si spiega solo alla luce del fatto che il barocco poggiasse sul concetto di Gesamtkunstwerk; attraverso il contatto con quell’amalgama dell’insieme che era l’arte della recitazione – era questa la convinzione di Bahr – anche musica, pittura, scenotecnica e scenografia, luci e costumi, venivano contagiati dall’essenza dell’attore; perfino il pubblico stesso. Tutto e tutti diventavano schauspielerisch.89 Una scintilla di teatralità barocca, Bahr la

87 H. Bahr, Schauspielekunst, cit., p. 59. 88 Ibidem 89 Ivi, p. 55. Anche in questo passaggio si sente l’eco di Wagner, quando afferma: «La grande opera d’arte totale dovrà sintetizzare in sé tutti i generi d’arte, per sfruttare ciascuno di essi

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vedeva brillare ancora nella Kunstnatur ricercata dallo stile di Weimar: un’arte in grado di operare secondo le stesse modalità della Natura per dare vita a una natura seconda, pienamente originale e autentica perché generata dal Geist, dal genio dell’artista.90 Perciò il primo dovere di un direttore – e questo Goethe l’aveva compreso – era fornire all’attore-artista l’occasione di dispiegare tutto il suo genio; la parola, da sola, non bastava al teatro. Solo che a Weimar era mancato «l’occhio di un attore elementare», che nella Germania del Nord non sarebbe comparso, realmente, che con Ludwig Devrient.91 Per Bahr, dunque, la storia della regia moderna in Germania non cominciava propriamente con Goethe:

Goethe, Schröder, Iffland, Schreyvogel, i direttori dei palcoscenici di Weimar, Amburgo, Berlino e del Burgtheater di Vienna non avevano nulla di ciò in cui noi, oggi, vediamo l’essenza di un regista.92

D’altronde, egli stesso ammetteva di non sapere nemmeno con esattezza quando fosse nata la regia moderna; però non c’erano dubbi: le sue prime manifestazioni erano legate al nome di Franz von Dingelstedt, che l’autore di Schauspielkunst definì un direttore nato, un metteur en scène capace di stupire e meravigliare con la sontuosità, il movimento e la pienezza delle sue messinscene, nell’opera come nel teatro drammatico, a Monaco e Weimar come a Vienna. Uno spirito «ancora romantico, al quale non bastava sognare lo splendore trascorso dei vecchi tempi»,93 uno scenografo come semplice mezzo e annientarlo in vista del risultato globale di tutti i generi fusi assieme». R. Wagner, L’opera d’arte dell’avvenire, cit., p. 38. 90 Cfr. S. Bellavia, Goethe à Weimar – Les fondements du jeu dramatique idéaliste, cit.

91 H. Bahr, Schauspielkunst, cit., p. 47. Ludwig Devrient (1784-1832). Ingaggiato da Iffland nel 1814 al Königlisches Schauspielhaus di Berlino, riscosse grande successo nei ruoli shakespeariani di Shylock e Falstaff e divenne in seguito uno dei maggiori attori del suo tempo, amico di E.T.A. Hoffman. Sapeva identificarsi completamente col proprio personaggio – restò memorabile il suo Franz Moor dei Masnadieri di Schiller – realizzando, con grande potenza espressiva, la perfetta trasformazione intima ed esteriore voluta da Bahr. 92 Ivi, p. 61. Joseph Schreyvogel (nato nel 1768 e morto nel 1832 a Vienna) fu drammaturgo, giornalista e direttore teatrale. Fondò la tradizione del repertorio classico, segnando una delle cosiddette ‘epoche d’oro’ del Burgtheater: Shakespeare, Schiller, Goethe, Lessing, ma anche Calderon, Moliére e Corneille, grazie a lui entrarono a far parte stabilmente dello Spielplan del primo palcoscenico di Vienna. Schreyvogel si occupò inoltre di costituire una compagnia dallo stile recitativo vario e omogeneo: un amalgama del tono da ‘conversazione’, sobrio e misurato, dal pathos controllato, con note che attraversavano tutti i registri, dal lirico al tragico e fino al comico. Ingaggiò attori del calibro di Sophie Schröder, Heinrich Anschütz, Luidwig Löwe e lottò inoltre contro la censura teatrale. 93 Ivi, p. 62. A dimostrazione delle qualità di Dingelstedt, Bahr rievoca l’impianto per la Sposa di Messina, con cui il metteur en scène inaugurò il Gesamtgastspiel di Monaco nel 1850, dopo aver assunto la direzione del teatro di Corte. Lì si vedeva tutto il suo talento innato per lo sviluppo e l’effetto delle scene di massa, la grandiosa capacità di ricostruzione degli ambienti. In particolare, l’autore di Schauspielkunst ricordava l’impianto scenografico del

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puro, un grande apparatore, un orchestratore di scene, luci, suoni, colori e masse. Pure, non era qui la sua dote maggiore: essa, sosteneva Bahr, risiedeva nella sua grande capacità di immaginare, quando leggeva una pièce, tutti i diversi ruoli posseduti da attori ‘elementari’ di prim’ordine, e di riuscire a vederli svolgersi davanti agli occhi della sua fantasia. Dingelstedt, insomma, operava esercitando la stessa facoltà di ogni ‘vero’ attore: l’immaginazione, elevata in sommo grado; e proprio dalla mancanza di attori pervasi dalla stessa potenza della sua forza immaginativa, da una necessità insoddisfatta che lo costrinse a lavorare sul resto con intensità inusitata, si rivelò in lui il regista moderno. Lo stesso discorso, in fondo, valeva per il Duca di Meiningen. Anche Giorgio II, privo di grandi attori, dovette far leva su altro. La mancanza di autentici Schauspieler veniva nascosta da «masse pittoricamente organizzate, superbamente abbigliate; e lo spettatore aveva così tanto da guardare, così tanto di nuovo da ammirare, di quell’autenticità mai vista prima di decorazioni e costumi, che non gli restava tempo per accorgersi della mancanza degli attori».94 Dingelstedt e i Meininger, secondo Bahr, avevano insomma avviato in suolo tedesco il percorso della regia moderna facendo di necessità virtù. In Germania però, a ben vedere, uno solo sembrava essere l’incarnazione del ‘vero’ regista; qualcuno provvisto, non a caso, anche delle qualità dell’attore e proveniente – anche questo non a caso – dalla città del barocco, dalla Vienna del Burgtheater, da un’idea di teatro che tende a accogliere tutto, in sé, e quel tutto viene unito dalla forza di una grande fantasia creatrice: Max Reinhardt.

Anni fa, a Weimar – ricordava Bahr – sedevo con Kainz e parlavamo di Reinhardt, che lo voleva ingaggiare.95 Kainz mostrava di non averne voglia e quando io lo esortavo disse: Ed è una cosa senza senso pure per Reinhardt. Se prende me, si rende superfluo. Tutto ciò che lui può fare, nel momento in cui ha me, diventa inutile. Il pubblico mi crede Amleto anche se indosso il frak e sto davanti a un sipario nero. A che scopo dunque Reinhardt con la sua regia? Le arti di Reinhardt, per essere efficaci, presuppongono attori che non sono forti abbastanza da contendere lo spettacolo col proprio potere; qualcuno deve venir loro in aiuto e così è venuto fuori Reinhardt. Io non ne ho bisogno, io non devo essere aiutato, io mi aiuto da solo e dunque, se mi ingaggia, non fa altro che rendere impossibile se stesso.96

Kainz però si sbagliava. Ciò che aveva detto poteva valere per il primo Reinhardt, quello degli esordi; non certo per il Reinhardt che avrebbe dichiarato: «Io credo in un teatro che appartenga all’attore. Io sono attore,

salone, con una scalinata imponente, che dal centro del palco conduceva sul proscenio. La «scala che oggi », notava Bahr, è l’«orgoglio di Jessner», ivi, p. 66). 94 Ivi, p. 67. 95 Kainz e Reinhardt si erano conosciuti a Berlino, sotto Brahm. 96 H. Bah, Schauspielkunst, cit., p. 68.

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ho una sensibilità d’attore e per me l’attore è il centro del teatro».97 Lasciato il Deutsches Theater di Brahm, Reinhardt si era trovato in una situazione simile a quella di Dingelstedt a Monaco. Era stato dalla mancanza di autentici Schauspieler, notava Bahr, che aveva preso vita il bosco del Sogno di una notte di mezz’estate al Neues Theater (1905), in cui il regista austriaco, mosso dalla convinzione che la poesia dovesse essere «anche una musica, un parola, un segno»,98 aveva «profuso tutta la sua volontà sognatrice».99 Solo che né Dingelstedt, né Giorgio II, avevano un rapporto così stretto con la Schauspielkunst, mentre Reinhardt – come avrebbe detto egli stesso di sé – era nato come attore, lo era nella propria essenza e tale sarebbe rimasto. Sempre. «Se Kainz avesse preteso da Dingelstedt di lasciargli recitare Amleto in frak e davanti a un sipario nero», continuava Bahr, «Dingelstedt lo avrebbe spedito da uno psichiatra».100 Riguardo a Reinhardt, invece, c’era da stupirsi che ancora non gli avesse chiesto di farlo; perché in Reinhardt l’attore era la prima cosa, dall’attore egli partiva per un cammino tortuoso, che all’attore riconduceva. Musica, luci e macchine, nel suo teatro, servivano a potenziare la Schauspielkunst. Reinhardt veniva da Brahm. E Brahm, sosteneva Bahr, era stato una reazione contro Dingelstedt e contro i Meininger: la rivincita dell’orecchio sull’occhio. Una reazione che rimandava indietro fino al Settecento, poiché il fondatore della Freie Bühne serviva l’autore, non lo spettacolo e si riallacciava così, concludendola, alla grande tradizione del teatro borghese illuminista. Reinhardt scavalcò Brahm e andò molto più indietro di lui; oltre il teatro borghese, ritrovando quella che Bahr definisce la «tradizione universale»: la tradizione teatrale barocca, che era stata dimenticata, ma che non si era mai dissolta e aveva continuato ad agire, per così dire, sotterraneamente.101 E il ‘programma’ di Wagner ne sembrava il nuovo manifesto; perché, osservava Bahr citando Nietzsche:

In Wagner tutto ciò che nel mondo è visibile vuole approfondirsi e interiorizzarsi in ciò che è udibile, e cerca la sua anima perduta; del pari, tutto ciò che nel mondo è udibile vuole, in Wagner, risalire ed uscire alla luce anche come apparenza per l’occhio, vuole per così dire acquistare corpo.102

97 L’affermazione di Reinhardt, contenuta nei suoi Autobiographische Aufzeichnungen, è riportata, tradotta, in M. Fazio, Lo specchio, il gioco e l’estasi, cit., p. 106. 98 Ivi, p. 99. 99 Ivi, p. 104. 100 H. Bahr, Schauspielkunst, cit., p. 71. 101 Ivi, p. 72. 102 Ivi, p. 74. Qui Hermann Bahr cita espressamente un passaggio dello scritto di Nietzsche: Richard Wagner a Bayreuth (1873). Cfr. F. Nietzsche, Scritti su Wagner, Adelphi, Milano 2013, p. 116. A p. 105, Nietzsche sostiene che «il rapporto fra musica e vita […] è anche il rapporto fra il perfetto mondo uditivo e l’intero mondo visivo». Pensiero che rimanda all’affermazione di Wagner secondo cui «l’uomo è un essere esteriore e interiore insieme. I sensi ai quali egli si presenta come oggetto artistico sono la vista e l’udito. L’udito coglie l’uomo interiore. E quanto più l’uomo esteriore è in grado di rivelare l’uomo interiore, tanto

110 Sonia Bellavia, L’arte dell’attore nella Schauspielkunst di Hermann Bahr

La sua arte lo portava segretamente dall’Hörspiel (spettacolo per l’orecchio) allo Schauspiel (spettacolo per l’occhio). Goethe, Wagner e Nietzsche: Hermann Bahr, nel percorso circolare che era proprio del suo pensiero, della sua visione del cammino dell’arte e della storia, della vita stessa dell’intera umanità, torna alle radici, laddove si è formata la sua estetica: il suo amore per un teatro che fosse espressione di una comunità sempre collegata, che dà a ciascuno il suo ruolo, mai ineliminabile dall’insieme e sempre facente parte del tutto Uno. La società barocca non era democratica, ma il suo teatro sì, poiché mostrava a ciascuno come l’essere sulla terra fosse null’altro che un gioco,

e alle dieci, assicurava sempre lo Hanswurst, tutto era finito, si poteva andare a dormire e ciascuno, per quanto in esso fosse stato magnifico, avrebbe dovuto lasciare il proprio ruolo e colui che aveva recitato il Re, non era Re e chi aveva recitato il mendicante non lo era più.103

Naturale che l’arte di Reinhardt, che «si fondava sull’accettazione e l’apoteosi della precarietà, dell’effimero, della fugacità e della mutevolezza»,104 l’esistenzialismo di Bahr, la poesia di Hofmannstahl (in cui «la percezione della relatività di tutte le cose», diceva Lukàcs, «raggiunge forse la vetta più alta»)105 infine si incontrassero. Nel 1922, mentre Bahr scriveva il suo saggio, diedero finalmente vita al ‘vecchio’ progetto del Festival di Salisburgo, che venne inaugurato il 22 agosto con Jedermann. Con questo «dramma sacro che riecheggiava i drammi gesuitici del barocco» Reinhardt «tentava di far rivivere un patrimonio spirituale ereditato dai secoli precedenti, stabilendo un ponte con la grande tradizione del passato».106 Un passato a cui il presente doveva necessariamente ricongiungersi, se voleva cercare di riconnettere fra loro la molteplicità delle prospettive in cui si era rotta la visione del mondo. Questo il compito ultimo che Bahr affidava ora al teatro e il teatro, per assolverlo, non aveva che due vie: i Festspieles, come quello di Bayreuth e – soprattutto - l’arte dell’attore ‘elementare’.

più chiaramente l’uomo si manifesta come un essere artistico». R. Wagner: L’opera d’arte dell’avvenire, cit., p. 42. 103 H. Bahr, Schauspielkunst, cit., p. 77. 104 M. Fazio, Lo specchio, il gioco e l’estasi, cit., p. 86. 105 G. Lukàcs, Il dramma moderno dal naturalismo a Hofmannstahl, Sugar, Milano 1967, p. 183. 106 M. Fazio, Lo specchio, il gioco e l’estasi, cit., pp. 138-139. Jedermann era il dramma liturgico che Hofmannstahl aveva scritto nel 1911 e che Reinhardt aveva cercato di rappresentare senza troppo successo al Circo Schumann e al Circo Busch di Vienna nel 1911 e nel 1912.

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Alberto Scandola

Tra performance e presenza: la recitazione di Brigitte Bardot*

Je n’ai jamais été une actrice dans l’âme (Brigitte Bardot)

«La più sexy delle dive bambine, la più bambina delle dive sexy».1 Nessuno meglio di Edgar Morin ha saputo descrivere quell’alchimia di erotismo e infantilismo che ha fatto di Brigitte Bardot uno dei fenomeni divistici più luminosi del ventesimo secolo. A più di quarant’anni dal ritiro dalle scene, confinata in una villa – La Madrague - vuota di uomini e piena di animali, Brigitte Bardot resta nell’immaginario collettivo l’icona di una rivoluzione più socio-culturale che artistica. Il leggero broncio sulle labbra – immortalate half-opened nelle serigrafie di Andy Warhol2 – i piedi scalzi e la schiena nuda scoperta dal lenzuolo hanno rivoluzionato il costume e il gusto del nostro dopoguerra incarnando un modello di seduzione tanto nuovo quanto perturbante: non più la maggiorata latina e nemmeno la dumb blonde hollywoodiana, ma una donna dall’aspetto finalmente ‘naturale’ (capelli sciolti sulle spalle, sigaretta fra le dita) e, al contrario di quanto si conveniva alle star del divismo classico, accondiscendente allo sguardo maschile. Il suo è un sex-appeal nuovo, privo di ogni aspetto che rimandi al femminino come qualcosa di materno o disponibile alla procreazione. A differenza della coetanea Sofia Loren, ad esempio, Brigitte Bardot non offre latte materno, ma solo un piacere fugace; quanto basta, comunque, per trasformarne l’icona in un «prodotto di esportazione importante come le automobili Renault».3 Come ogni industria, anche lo star-system può produrre capitale solo se offre al mercato un prodotto che coniughi la consuetudine con la novità4 e B. B., in un panorama cinematografico incerto tra caccia alle streghe e neorealismo di maniera, era proprio questo: un connubio perturbante di classicismo e avanguardia.

* Allegati all’articolo: materiali video ed iconografici consultabili online su Acting Archives Review, numero 8 – Novembre 2014 (www.actingarchives.it cliccando su “Review”). 1 E. Morin, I divi, (1957), tr. it. Garzanti, Milano 1977, p. 31. 2 Come fece con Marilyn, serigrafata post-mortem a partire da una foto promozionale di Niagara, Warhol compone i ritratti di B. B. solo nel 1973, ovvero nell’anno del ritiro dalle scene, ma lo fa su commissione. Rispetto alla serie-Marilyn, tecnica e poetica non cambiano: colori saturi come il verde e il blu raggelano il volto della diva, fissato da Richard Avedon nel 1959, in un’immobilità tanto funerea quanto infinitamente riproducibile. 3 S. de Beauvoir, Brigitte Bardot: the Lolita Syndrome, «Kainos» n. 8, 2008 (http://www.kainos.it/numero8/disvelamenti/debeauvoir.html). 4 Cfr. E. Morin, Lo spirito del tempo, Meltemi, 1997, p. 48.

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112 Alberto Scandola, Tra performance e presenza: la recitazione di Brigitte Bardot

Classica è l’armonia delle forme, scolpite ma non troppo dalla danza. Moderna - o meglio pre-moderna - è invece l’immagine divistica, fatta di piedi nudi, pantaloni attillati e frangia cadente su un viso dalla morfologia ambigua, che Morin si è divertito ad analizzare in chiave fisiognomica:

Effettivamente il suo volto da gattina racchiude in sé qualcosa di infantile e felino al tempo: i suoi lunghi capelli sciolti sulle spalle sono il simbolo di una scoperta sensualità e di una nudità senza inibizioni, ma la frangia spettinata ad arte sulla fronte fa venire in mente una giovane collegiale. Il naso piccolo e sbarazzino accentua contemporaneamente le sue caratteristiche di monella e di giovane animale; il labbro inferiore ben carnoso le mette un broncio da bambina, ma è anche un invito al bacio.5

Modella, ballerina, attrice, cantante, attivista politica: di questi cinque volti, diffusamente indagati anche in ambito accademico,6 quello attoriale è stato forse sempre il più trascurato. Nemmeno Truffaut, testimone dell’ascesa del fenomeno sulla Croisette, si preoccupò di rilevare le doti performative di una diva riconosciuta come «la salvezza del cinema francese […]: non un’attrice dalla buona dizione, ma un personaggio, una star, nel senso in cui l’intende Malraux».7 Non sono sicuro però, come invece sostiene Richard Dyer, che «Brigitte Bardot sia un esempio significativo di star i cui film possono essere meno importanti di altri aspetti della loro carriera».8 Molti dei ruoli interpretati – dalla Juliette di Et Dieu...créa la femme (Piace a troppi, di Roger Vadim, 1956) alla Dominique di La vérité (La verità, di Henri-Georges Clouzot, 1960) – non hanno fatto altro che rafforzare e amplificare quei tratti caratteriali e psicologici che non appartengono alla giovane rampolla della borghesia parigina, ma alla creatura immaginaria forgiata dalla relazione dell’attrice con i rispettivi personaggi: fragilità sentimentale, rapporto disinibito con il sesso, incapacità di comunicare il proprio malessere. Quello di non vedere riconosciuto il proprio talento è un destino comune a molte star del cinema, Marylin in primis. Ma per B. B. la situazione è diversa. Proveniente, esattamente come Marilyn, dalle luci della moda, l’étoile mancata Brigitte conquista la vetta dell’Olimpo cinematografico con la stessa rapidità con cui, dopo 21 anni e 43 film, l’abbandona. E senza alcun rimpianto. «I want to be an actress», sussurrava Marilyn poco tempo prima di morire, mentre disperdeva energie nervose tra letture impegnate e

5 E. Morin, I divi, cit., pp. 31-32. 6 Sull’influenza di B. B. nella storia del divismo contemporaneo si vedano in particolare: G. Vincendeau, Brigitte Bardot, BFI, London 2013; C. Jandelli, Breve storia del divismo cinematografico, Marsilio, 2009, pp. 150-151; V. Pravadelli, Le donne del cinema. Dive, registe, spettatrici, Laterza, Bari 2014. 7 F. Truffaut, Il piacere degli occhi, Marsilio, Venezia 1988, p. 208. 8 R. Dyer, Star, (1979), Kaplan, Torino, 2004, p. 80.

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corsi di recitazione. Quella di attrice, invece, è per Bardot solo la prima stazione del viaggio, e forse nemmeno la più amata:

Il cinema è un mestiere faticoso. La cosa massacrante sono le ore di attesa durante le quali non si può fare nulla. Raccapricciante poi tutta quella gente che ti viene a parlare […] e tutte quelle prove a non finire per la luce, per il suono, per la recitazione. Quando, alla fine, si gira, si è già distrutti ma è proprio allora che bisogna essere perfettamente concentrati, dimenticare tutto e non pensare che all’istante da immortalare. […]. Quando finalmente sei completamente presa dalla parte, la scena viene interrotta per l’ombra del microfono nell’inquadratura o perché ti eri messa troppo di profilo. E bisogna ricominciare da capo […]. Non sono mai stata un’attrice nell’anima.9

Dichiarazioni come queste, Brigitte Bardot, ne ha fornite molte nell’arco dei vent’anni di carriera e, come spesso accade per gli attori cosiddetti ‘inconsapevoli’, nessuna di esse è utile ai fini di ciò che ancora manca nella ricca letteratura sulla diva, ovvero un’analisi di ciò che il suo segno attoriale ha portato all’economia espressiva delle opere che l’hanno vista protagonista. Ha ragione Jacqueline Nacache: né l’aura del divo, né l’identificazione spettatoriale nel personaggio e neppure l’ego del più autoriale tra i registi possono in qualche modo negare il fatto che qualsiasi film recitato sviluppi delle forme attoriali più o meno ricche e significanti.10 Per sfortuna di Brigitte Bardot, pochi sono i maestri che hanno cercato di lavorare sulla potenzialità espressiva della sua presenza e tra questi Henri-George Clouzot (La vérité) e Jean-Luc Godard (Le mépris, Il disprezzo 1963) sono indubbiamente coloro che hanno raccolto i risultati più interessanti. La scarsa significanza di almeno la metà delle performance che l’attrice ci ha lasciato è dovuta più alla modestia estetica delle relative produzioni che ai limiti espressivi di un corpo il quale, come osservò all’epoca Simone de Beauvoir, si è offerto fin da subito nella duplice accezione di fantasma e di merce. Una merce tanto appetitosa quanto portatrice di peccato e sventura:

Non mi meraviglia il fatto che il Vaticano, nel padiglione allestito a Bruxelles, abbia scelto B. B. come simbolo del male, né che ovunque, negli stessi U.S.A., i ben noti specialisti della morale abbiano brigato per vietare l’importazione dei suoi film. Non è cosa nuova che i moralisti identifichino la carne e il peccato, con nell’animo la segreta speranza di poter ridurre in cenere le opere d’arte, i libri, i film che la rappresentano con compiacenza o franchezza.11

9 B. Bardot, Mi chiamano B.B. Autobiografia, (1996), tr. it Bompiani, Milano 1997, pp. 160-161. 10 Cfr. J. Nacache, L’attore cinematografico, cit. 11 S. de Beauvoir, Brigitte Bardot: The Lolita syndrome, cit. http://www.kainos.it/numero8/disvelamenti/debeauvoir.html.

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Se Bardot fa paura, è perché, a differenza delle stelle che l’avevano preceduta, la sua immagine non è divina ma umana, troppo umana: «Se ne infischia di come è vestita, non porta gioielli, non ricorre a busti, non si profuma, non fa uso di nessun artificio».12 I piedi non sono né levigati dalla luce né sostenuti dai tacchi, ma solcano lo stesso marciapiede percorso dalla donna comune. «Non sei come lei, - questo dice l’apparato pubblicitario - ma potresti esserlo»: di qui la pericolosità morale13 di un modello che, incarnando il mito nascente di Lolita, si offre al maschio come una preda irresistibile, impenetrabile, sfuggente. Non c’è desiderio senza distanza tra soggetto e oggetto: la differenza d’età garantisce suddetta distanza. Di questo potere ammaliatore oggi, nell’anno in cui la ex-Marianne di Francia spegne 80 candeline, non resta nulla, se non il simulacro audiovisivo di una silhouette tonica e affusolata, quasi sempre bionda. Le rare immagini che ritraggono oggi l’ex-diva, attorniata da animali e solcata di rughe, nulla o quasi hanno in comune con il fantasma imperituro della sua bellezza, che è il vero oggetto di uno studio, il presente, dedicato alle sei performance più rappresentative del mito e dell’arte di B. B.: Et Dieu...créa la femme, En cas de malheur (La ragazza del peccato, di Claude Autant-Lara, 1958), La vérité, Vie privée (Vita privata, di Louis Malle, 1962), Le mépris, William Wilson (di Louis Malle, episodio di Histoires Extraordinaires, Tre passi nel delirio, 1968). L’immagine filmica è già in se stessa fantasma, figura dell’assente, analogon di un reale perduto. L’innesto in essa di un corpo divistico, il quale da parte sua raccoglie e incarna i fantasmi di generazioni di spettatori, non fa che aumentare la potenzialità mitopoietica del cinema e consentirgli, come dice il falso Bazin citato da Godard,14 di sostituire al nostro sguardo un mondo che si accorda ai nostri desideri. Corpo del fantasma, ma anche fantasma del corpo: sotto il segno di quest’affascinante dialettica nasce, nel 1956, il mito di Brigitte Bardot.

E Vadim creò B. B. «Brigitte era Eva prima che Dio perdesse la pazienza nel giardino dell’Eden. Non pensò mai alla nudità come a un’arma segreta che permettesse alle donne di sedurre gli uomini. La nudità non era niente di più o di meno di un sorriso o del colore di un fiore».15 Roger Vadim,

12 Ivi. 13 Come ricorda Simone de Beauvoir, centinaia sono le lettere che presunte madri indignate scrivono alle autorità religiose e laiche per protestare contro «l’esistenza» di Brigitte Bardot. 14 Nel celebre prologo di Le mépris, Godard cita una frase di Michel Mourlet, anch’egli critico ai Cahiers, attribuendola falsamente a André Bazin: «Il cinema sostituisce al nostro sguardo un mondo che si accorda ai nostri desideri» (M. Mourlet, Sur un art ignoré, «Cahiers du cinéma», n. 98, agosto 1959). 15 R. Vadim, Bardot, Deneuve, Fonda, Rizzoli, Milano, 1986, p. 27.

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sceneggiatore, regista ma soprattutto pigmalione di bellezze fatali, ne è convinto: quella ragazza scapigliata intravista sulla copertina di «Elle» avrebbe portato, nel panorama stantio dello star-system francese, il vento nuovo della naturalezza. Come per Marylin, tutto nasce da una cover, ma il giovane Vadim, all’epoca assistente di Marc Allégret, intuisce le potenzialità espressive di un volto e soprattutto di un corpo in grado di soddisfare quella che è forse l’ossessione più antica dell’arte drammatica: una recitazione che somigli alla vita. Viene in mente l’apologo di Kleist sulle marionette,16 interpreti perfette in quanto innocenti, prive di peso e dunque in grado di mantenere integra l’armonia delle loro forme. La ninfa dai «lunghi capelli ondeggianti» descritta da Vadim sembra possedere la medesima grazia naturale della marionetta, una grazia rafforzata non solo dall’innocenza morale, ma anche e soprattutto dalla totale mancanza di formazione tecnica. Quando, all’età di 17 anni, fa il suo debutto sul set nel ruolo di una contadina scontrosa in Le trou normand (di Jean Boyer, 1952), Brigitte non conosce alcun rudimento dell’arte drammatica, ma poco importa. «Ciò che bisogna fare davanti alla cinepresa è esserci, esserci e basta», diceva Vittorio Gassman, e B. B. si limita a prestare la sua fotogenia alla cinepresa. duecentomila vecchi franchi sono sufficienti per far intravedere all’esordiente realistici sogni di gloria: «Addio baccalaureato, addio conservatorio, sarei stata una stella del cinema!».17 Vadim, però, non è soddisfatto. Per la nuova Venere,18 «spontanea come un ruscello che scorre», era opportuno costruire un ruolo dominante plasmandolo su quelle qualità naturali – il portamento elegante, lo sguardo sfrontato, la camminata flessuosa – che nessuna scuola di recitazione avrebbe mai potuto fornire:

Compresi immediatamente che Brigitte era inimitabile e che i suoi difetti avrebbero potuto essere a volte delle qualità. Sarebbe stato un atto di vandalismo educare la sua voce personalissima. Non le interessava minimamente discutere la psicologia o le motivazioni di un personaggio. Comprendeva istintivamente o non capiva affatto. Digeriva il personaggio e lo rendeva reale attraverso le proprie emozioni. Allora avveniva il miracolo19.

E si tratta di un miracolo per certi versi rivoluzionario. Mentre Hollywood prima corregge con la chirurgia il volto di Marilyn e poi ne educa dizione,

16 Cfr. H. von Kleist, Über das Marionettentheater, in Il teatro delle marionette, Il Nuovo Melangolo, Genova 2005. 17 B. Bardot, Mi chiamano B. B., cit., p. 89. 18 «La dea dell’amore emergente dal mare non si era più mostrata ad occhi mortali da quando Botticelli dipinse Venere galleggiante su una conchiglia di madreperla. Ma fu questo lo spettacolo che duemila marines americani poterono ammirare […] il 12 maggio 1953 dalla portaerei Entreprise all’ancora della baia di Cannes» (R. Vadim, Bardot, Deneuve, Fonda, cit., p. 9). 19 Ivi, p. 19.

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portamento e mimica facciale, Vadim lascia che la cinepresa catturi le misteriose particelle20 di un corpo sensuale in quanto autentico, non educato, non raffinato. Ma che cosa si intende qui per naturalezza? Come ha dimostrato Jacqueline Nacache, la naturalezza non è solo «il contrario della presenza teatrale, ovvero di ciò che permette a un attore di teatro di essere percepito da lontano»,21 ma anche e soprattutto una tecnica, forse la più complessa delle operazioni richieste a un attore cinematografico: dimenticarsi del dispositivo e farlo dimenticare allo spettatore. Se gli spettatori di Et Dieu...créa la femme, il film che consacra definitivamente B. B. come fiamma del peccato, non si sono accorti del dispositivo non è certo grazie all’arte drammatica dell’attrice, la quale, nei momenti in cui si sforza di recitare, non fa altro invece che rivelare l’artificio. B. B. convince non perché è tecnicamente ‘brava’, ma in virtù di un magnetismo fotogenico che Vadim si guarda bene dall’alterare: «Non aveva esperienza di recitazione ma dava l’impressione di essere stata per tutta la vita davanti a una cinepresa».22 Di norma – e penso a Ornella Muti – la recitazione passiva delle dive inconsapevoli prevede un utilizzo parco della parola. Bardot, invece, parla molto e lo fa con una cadenza degna non di una femme fatale, ma di una ragazzina capricciosa. Le sillabe – questo vale almeno per tutte le performance degli anni cinquanta – sono scandite lentamente e senza variazioni di tono, come se non il contenuto delle parole fosse importante, ma la materia stessa di quel suono, corrispettivo sonoro della plasticità visiva di un volto che, come ha sentenziato Morin, non ha una ma due espressioni: l’erotismo e l’infantilismo.23 Talvolta B. B. sembra caricare la pronuncia delle parole in modo da attirare l’attenzione sul dispositivo di fonazione, ovvero su quelle labbra carnose che il trucco non dimentica mai di esaltare. Ma più delle labbra, ciò che sconvolge l’America puritana del 195724 è la nudità, «gioiosa e innocente» (Vadim), che illumina fin dalla prima sequenza il paesaggio di Et Dieu...créa la femme.

20 Con la cinepresa Bardot sembra instaurare una relazione erotica molto simile a quella descritta da Ingmar Bergman a proposito di Harriet Andersson, scandalosa protagonista di Sommaren Med Monika (Monica e il desiderio, 1953): «La macchina da presa si innamora di quella ragazza. Lei ha una storia d’amore con la macchina da presa. La macchina da presa la stimola e lei se ne sente estremamente stimolata» (Ingmar Bergman in O. Assayas, S. Björkman, Conversazione con Ingmar Bergman, Lindau, Torino, 1996, p. 38). Al mistero di questa relazione corpo-cinepresa accenna anche Louis Malle nella prima parte di Vie privée. 21 J. Nacache, L’attore cinematografico, cit., p. 61. 22 R. Vadim, Bardot, Deneuve, Fonda, cit., p. 20. 23 Cfr. E. Morin, I divi, cit., p. 32. 24 Il personaggio di Juliette, seduttrice suo malgrado e sposa fedifraga, scandalizza un pubblico, quello hollywoodiano, non preparato ad affrontare un simile modello di erotismo. Solo alcuni anni dopo Elia Kazan, con Baby Doll (1956) e Splendor in the grass (Splendore nell’erba, 1961), porterà a Hollywood il tabù della liberazione sessuale.

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Il plot è esile: orfanella annoiata al sole di Saint-Tropez, Juliette è il vertice di una ronde amorosa attorno a cui ruotano il maturo direttore di un night- club e due fratelli, uno dei quali riesce ad averla come sposa; nessuno dei tre però potrà colmare la sua solitudine. Fin dalla prima apparizione, B. B. è corpo esposto, spettacolo nello spettacolo (video 1). Nella quiete estiva di una terrazza, Juliette sta prendendo il sole a pancia in giù, nuda. Non ne vediamo il volto, ma un frammento non dotato di autonomia espressiva - la parte inferiore delle gambe (fig. 1) - e la figura intera di spalle (fig. 2), inquadrata di profilo in modo da sottolineare la perfezione geometrica delle curve. Testimone di cotanta beltà è Mr. Carradine, il direttore della locale dove la ragazza, nel finale, si esibirà in quella danza dionisiaca atta a completare la costruzione del sex-symbol. La focalizzazione interna trasforma lo spettatore in voyeur, complice suo malgrado di una frammentazione del corpo in funzione feticistica. Vadim ne è convinto: la sua direzione avrebbe preservato Brigitte «dall’ossificazione prodotta da regole prefabbricate che spesso distruggono i talenti».25 Eppure ciò che vediamo non è altro che – direbbe Laura Mulvey – l’ennesima dimostrazione di come il cinema narrativo sia subordinato alla soddisfazione del piacere visivo dello spettatore maschile,26 al quale l’anatomia visiva operata dal montaggio offre l’illusione di possedere l’oggetto del desiderio. Non conosciamo ancora il nome di questa ragazza, ma poco importa. Prima ancora di “essere” il personaggio (Juliette), Bardot appare, grazie alla trasformazione del suo corpo in «configurazione visivo – dinamica»,27 l’archetipo plastico della Donna, scolpita da un montaggio che conferisce al corpo profilmico la natura auratica di una creazione tanto divina quanto diabolica: «Ho addentato la mela della tentazione», dice il voyeur a colei che nel corso del racconto verrà definita «animale da domare». Ma domare una creatura così sfuggente è impossibile e allora Mr. Carradine si limita a contemplarne le forme, protetto da un lenzuolo che funge da didascalico schermo nello schermo.28 Più che approfondire la psicologia del personaggio, a Vadim interessa lavorare sulle affinità tra la creatura immaginaria (Juliette) e quella reale (Brigitte). Quello dell’orfanella di Tolone sarebbe stata solo la prima di tante maschere, tutte uguali le une alle altre e soprattutto leggere da

25 R. Vadim, Bardot, Deneuve, Fonda, cit., p. 60. 26 Cfr. L. Mulvey, Piacere visivo e cinema narrativo, in L. Mulvey, Cinema e piacere visivo, a cura di Veronica Pravadelli, Bulzoni, Roma 2012. 27 Sulla relazione tra il corpo dell’attore e lo spazio dell’inquadratura si veda P. Bertetto, Azione!. Come i grandi registi dirigono gli attori, Edizioni Minimum Fax, Roma, 2007, pp. 42- 45. 28 Eloquente è l’autoironia nascosta nell’inganno con cui l’uomo si prende gioco della sua preda: le dice di averle portato l’auto dei suoi sogni, ma in realtà si tratta solo di un modellino in miniatura. Al posto dell’oggetto, il feticcio.

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portare, perché perfettamente aderenti. Non a caso parliamo di maschera: l’espressività monocorde dell’attrice traduce alla perfezione l’atteggiamento del tipo che ella è chiamata a incarnare, ovvero la lolita indifferente, incapace di esprimere emozioni e di riflettere il mondo esterno. Consapevole di questi limiti mimici, Vadim affida ai dialoghi il compito di definire il carattere del personaggio, con risultati spesso grotteschi. Si veda ad esempio la sequenza del corteggiamento di Antoine, interpretato da quel Jean-Louis Trintignant che sul set ruba al regista prima il cuore e poi il corpo della sua musa (video 2). Pedinati in figura intera, Juliette e Antoine camminano lungo la banchina del porto, deserta come a favorire la comunicazione dei due amanti:

Antoine: «Et si tu te mariais?» Juliette: «Non, j’aime trop m’amuser. Je sais pas, c’est comme si j’allais mourir le lendemain. Il y a quelque chose de très fort en moi qui me pousse à faire des bêtises».29

La ventenne dalla chioma fluente che passeggia sulla bicicletta blu, dunque, nasconde un tormento interiore che la invita a cogliere l’attimo. E lo nasconde bene, perché nulla, nel portamento, nella gestualità o nel timbro dell’intonazione potrebbe far pensare a cotanta inquietudine, un sentimento familiare invece a quella gioventù che – incarnata da James Dean – negli stessi anni sta “bruciando” dall’altra parte dell’oceano. Ma Dean, prodotto esemplare del Metodo Stanislavskij, esprime suddetta rabbia con una tensione muscolare e un overacting gestuale tale che i suoi personaggi non avrebbero nemmeno bisogno di parlare. Cosa che invece è costretta a fare B. B. Se però osserviamo la sequenza di cui sopra escludendo l’audio – ovvero parole e rumori –, la sensazione è quella di assistere a un ménage da neorealismo rosa. Non c’è seduzione senza mistero e la rinuncia di Vadim al primo piano si giustifica anche in questo senso. L’impenetrabilità psicologica del personaggio – le cui entrate e uscite dal quadro sembrano dettare al regista il ritmo del découpage – è espressa visivamente con una serie di inquadrature in figura intera, più semplici da gestire per un’attrice dalla limitata versatilità mimica. Limiti, questi, che però emergono in una delle rare scene madri di questo mélo, quando alla ninfa proibita è richiesto un compito tanto nuovo quanto arduo, ovvero scavare dentro se stessa (video 3). Così Vadim rievoca lo sforzo profuso alla ricerca di quella che resta forse l’utopia di ogni performance, ovvero la verità dell’emozione:

29 Antoine: «E se tu ti sposassi?». Juliette: «No, mi piace troppo divertirmi. Non so, è come se dovessi morire il giorno dopo. C’è qualche cosa di molto forte in me che mi spinge a fare delle sciocchezze».

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Spogliarsi davanti alla cinepresa non l’aveva mai imbarazzata. Ma il pensiero di mettere a nudo la propria anima e di rivelare il suo sé intimo la terrorizzava. Prima di ogni scena le scompigliavo i capelli, e fra una ripresa e l’altra le impedivo di rifarsi il trucco. Si sentiva nuda e vulnerabile. Era in preda al panico. Io sapevo che questo spogliarello psicologico, per quanto spiacevole, poteva essere indispensabile per il successo del film, e per il successo di Brigitte. Lei si era abituata ad essere una starlet. Io stavo creando una star.30

Esterno notte: avvolta in uno scialle nero, che esalta ancor di più la lucentezza di una chioma tutt’altro che scomposta, Juliette è il punto di fuga delle linee di forza dell’inquadratura (fig. 3). Dice di aver paura, di aver bisogno di conferme, poi crolla a terra in preda a una disperazione più ‘detta’ che mostrata (fig. 4). Pur distesi sulla sabbia, i capelli rifulgono grazie alla back-light mentre lo sguardo resta catatonico, fisso in un’apatia che sconfina non nell’angoscia, come voleva Vadim, ma nell’indifferenza. Quello che il regista riesce a ottenere – va detto – è la sensazione di totale abbandono psicologico del personaggio, che B. B. esprime facendo leva su un’agilità muscolare costruita con la danza. Fluidità fisica e opacità psicologica: la nuova Eva si offre innanzitutto come enigma.

Giovane e innocente. Verso la fine del decennio, B. B. ha due occasioni per alzare l’asticella delle proprie ambizioni artistiche. La prima è offerta da Claude Autant-Lara, che, contro il parere di Jean Gabin, la sceglie per il ruolo di Yvette, prostituta-bambina difesa dall’accusa di rapina da un avvocato apparentemente irreprensibile (En cas de malheur). Dal lungomare di Saint- Tropez agli studi di Joinville, il passo è lungo. Dietro il personaggio – finalmente dotato di un certo spessore psicologico – non si cela solo la logica del marketing, ma anche l’immaginario di Zola, dalla cui Nana gli sceneggiatori Aurenche e Bost traggono il modello della giovane traviata, vittima di una società che ne sfrutta le essenze carnali senza preoccuparsi di proteggerla. Un tipo, questo, forse ancora più commerciabile della Lolita di cui sopra, in quanto soddisfa l’ego maschile ma al contempo tranquillizza le donne in età matura. Molto si è scritto sul confronto con Gabin, partner di quello che è apparso un duello non solo tra due modelli divistici, ma anche tra due stili di recitazione che più distanti non potrebbero essere: da un lato un’attenzione minuziosa alla composizione del personaggio attraverso micro-atteggiamenti che sfiorano la maniera,31 dall’altro una naturalezza che si traduce in autenticità solo grazie all’omologia tra attrice e personaggio. Analizziamo la scena forse più celebre, quella in cui Yvette, impossibilitata a pagare la parcella, svela le

30 R. Vadim, Bardot Deneuve, Fonda, cit. p. 78. 31 Sullo stile «atomizzato» di Jean Gabin si veda G. Vincendeau, C. Gauter, Jean Gabin. Anatomie d’un mythe, Nathan, Paris, 2002.

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sue grazie all’avvocato, Mr. Gobillot (video 4). Il piano d’insieme che introduce il dialogo è costruito in funzione dello sfruttamento del sex- symbol. Mentre risponde alle domande di Mr. Gobillot, Yvette agita vistosamente le gambe, accompagnando anche con le braccia le repliche stizzite alle insinuazioni dell’uomo. Ma è il dondolio intermittente della gamba destra il sottogesto più interessante, in quanto ha un effetto duplice e per certi versi contraddittorio. Se da un parte attira lo sguardo dello spettatore favorendo quella sospensione della diegesi che tanto disturba Laura Mulvey, dall’altra rafforza l’identificazione dell’attrice nel personaggio, di cui Bardot traduce appunto impazienza e insolenza. La stessa insolenza che, qualche secondo dopo, porta la ragazza a sollevare la gonna per mostrare ciò che la cinepresa, meno ardita di quella di Vadim, lascia fuori campo. Come Vadim, Autant-Lara fa leva sulla fluidità plastica dell’attrice, che si alza di scatto per appoggiarsi alla scrivania, senza che il contatto con gli oggetti d’ambiente faccia alcun rumore: ancora una volta un atteggiamento interiore del personaggio – la coscienza del proprio potere seduttivo – è espresso attraverso un gesto. Quando invece è costretta alla staticità, B. B. risulta molto meno convincente. Penso ad esempio alla sequenza della prima notte con Mr. Gobillot. Interno notte. Bardot e Gabin sono in piedi, immobili l’uno di fronte all’altra. L’unico dinamismo è quello offerto dal montaggio, che sale la scala dei piani sino a scrutare eventuali palpitazioni emotive sul volto di Yvette, alla quale però Bardot non sa conferire mezzi-toni. Quando l’avvocato invita la ragazza ad avvicinarsi («Viens ici!»),32 l’attrice china leggermente il capo all’indietro e disegna sul suo volto i medesimi cliché seduttivi di Marilyn: occhi semi-chiusi e labbra semi-aperte (fig. 5). Molto più perturbante e personale è la carica erotica che sprigiona dal corpo di Dominique Marceau, l’eroina di La Vérité, opera che ancora oggi porta i segni dello scandalo. La copia italiana è infatti amputata di trenta minuti rispetto a quella originale, e sono minuti che non raccontano nulla se non la sessualità disinvolta di una generazione che la morale nostrana non poteva non considerare perduta. Quando Yvette, sbarcata a Parigi assieme alla sorella in cerca di fortuna, porta in camera la sua prima conquista, Clouzot lascia i corpi degli amanti fuori campo e affida al dialogo la verbalizzazione di un rapporto sessuale che invece non è nemmeno alluso nella copia italiana. Non ci interessa in questa sede approfondire i dettagli della pruderie, né rinverdire la leggenda delle liti tra l’attrice e il regista, noto per la crudeltà del metodo di direzione. Basti ricordare che il chiacchierato tentativo di suicidio dell’attrice – a quanto pare logorata dalle fatiche del set - non è altro che l’ennesima conferma di come l’identificazione tra arte e vita costituisca il fondamento ontologico del mito Bardot. Al pari dell’interprete, infatti, anche il personaggio tenta il

32 «Vieni qui!».

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suicidio, dopo aver ucciso per errore l’oggetto di un amore senza ritorno. Dominique mostra tutte le stimmate dell’icona: instabilità nei rapporti sentimentali, facilità di costumi e fragilità psicologica. Clouzot non rinuncia all’anatomia visiva del sex-symbol e delizia lo spettatore con dettagli delle parti anatomiche più celebri della diva, come le gambe e il fondoschiena. Mi riferisco alla sequenza che vede Dominique alzarsi nuda dal letto e improvvisare una danza alla prima luce del mattino. Il ritmo della diegesi, è vero, si interrompe per qualche minuto, ma la regia giustifica la breve cesura filmando la messa a nudo come un’emanazione del carattere del personaggio. Si noti, infatti, la voluttà infantile con cui Yvette, non appena uscita la sorella, si abbassa per azionare il giradischi posto sotto il letto, prima di saltellare sulle punte verso la tenda, struttura oggettuale che l’attrice rende complice di un gioco a metà tra seduzione e monelleria (video 5). Non c’è spazio per il gioco, invece, nelle inquadrature lunghe con cui Clouzot documenta le increspature che, udienza dopo udienza, lentamente affiorano sul volto di B. B., lasciando trasparire paesaggi emotivi sinora inediti come angoscia, rimorso, disperazione. Per la prima volta, infatti, l'attrice riesce fare ciò che le aveva chiesto anni prima Vadim, ovvero sporcare la pelle di bambola con la verità dell’emozione. «E’ una donna leggera – ammette l’avvocato – ma volete processarla perché è una donna leggera o perché ha ucciso un uomo?». Ancora una volta, per B. B. di tratta di recitare se stessa ma questa volta l’identificazione con il personaggio - una donna reclusa - si avvale di una memoria emotiva molto recente. Solo pochi anni prima infatti, al microfono di una televisione nazionale, B. B. aveva rilasciato la seguente dichiarazione:

La mia vita assomiglia a una prigione. Una prigione piacevole forse, ma pur sempre una prigione. […] Appartengo a tutti, ma non a me stessa. Mi fanno fare delle cose che non faccio, mi fanno dire delle cose che non dico..Ho l’impressione di non essere più libera.33

Sul set di Clouzot, invece, la diva sembra più libera di quanto non lo fosse nei film precedenti. Si consideri ad esempio la sequenza della visita notturna a Gilbert, momento che sancisce la rottura definitiva tra i due (video 6). Prima di varcare la porta, Dominique è tesa e la regia dà all’attrice il tempo di durare nell’inquadratura, in modo da permetterle di raffigurare anche con i sottogesti il turbamento interiore. Si osservi in particolare l’utilizzo delle mani, che l’attrice stringe nervosamente l’una nell’altra prima di portarle al volto, nel disperato tentativo di placare l’ansia. La situazione è identica a quella analizzata sopra a proposito di En

33 L’intervista è ora disponibile qui: https://www.youtube.com/watch?v=uqKTEZzS4qk

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cas de malheur: due amanti in camera da letto in piedi l’uno di fronte all’altra. A differenza di Autant-Lara, però, Clouzot impedisce all'attrice di rifugiarsi nei cliché e la costringe prima ad abitare lo spazio e poi a mostrare gli effetti di trascinamento34 con cui il suo volto passa, senza soluzioni di continuità, dalla trepidazione dell’attesa alla gioia per l’incontro. Anche qui, come sulla sabbia di Saint-Tropez, B. B. crolla a terra davanti all’amante, ma questa volta il suo corpo non si irrigidisce in una posa da sirena. Ancora coperta dal cappotto, Dominique supplica in ginocchio l’amato chiedendo perdono e dove non arriva la mimica facciale, limitata dal taglio di inquadratura (un piano ravvicinato di profilo), agiscono le mani, che stringono ai fianchi il partner con un’energia che rivela tutta la tensione emotiva del personaggio. Una tensione che l’attrice permetterà al personaggio di sfogare completamente in quella che resta forse una delle sue più alte vette performative, ovvero la sequenza dell’uccisione di Gilbert (video 7). Mentre dalla pistola partono gli ultimi colpi, la cinepresa trascura l’immagine del cadavere dell’uomo e si concentra sul volto dell’assassina, bagnato di lacrime e allucinato dallo shock. Ancora una volta, però, Clouzot non si accontenta e spinge i limiti espressivi dell’attrice sino al virtuosismo, pedinando per dieci secondi la deriva di un personaggio che, sconvolto dal crimine commesso, si appoggia al muro per non cadere. Trascinandosi, con andatura barcollante, lungo la parete della stanza, Brigitte Bardot rivela un’insospettata varietà nella propria gamma mimetica, passando dalla paralisi catatonica a un singhiozzo convulsivo che si tramuta, per qualche istante, in una risata disperata. Forse ci siamo: la bambola sta diventando donna.

Questa è la mia vita. Gli anni sessanta iniziano sotto il segno del cinema d’autore. Louis Malle prima e Jean-Luc Godard poi accelerano il processo di maturazione artistica dell’attrice preoccupandosi innanzitutto di decostruirne l’immagine divistica. Se, come recita uno dei tanti slogan tautologici di Godard, il cinema è il cinema, vana è ogni mistificazione: B. B. non può essere nessun personaggio se non se stessa, ovvero una donna a cui il successo ha tolto la libertà (Vie privée) e allo stesso tempo un ‘mito di oggi’, una creatura bella «come l’Eva del quadro di Piero della Francesca»35 e colorata come una statua greca sotto il cielo di Capri (Le mépris).

34 Sulla nozione di «effetto di trascinamento» si veda C. Vicentini, L'arte di guardare gli attori. Manuale pratico di per lo spettatore di teatro, cinema, televisione, Marsilio, Venezia, 2007, pp. 80- 84. 35 J.-L. Godard, Note per Il disprezzo, in J.-L. Godard, Il cinema è il cinema (1968), Garzanti, Milano, 1981, p. 217.

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La lavorazione di Vie privée comincia sotto cattivi auspici. Durante uno dei primi ciak, nel centro di Ginevra, la troupe viene bersagliata da un lancio di pomodori, frutta e vasi di fiori, condito con insulti rivolti «puttana di Francia», colpevole di incarnare vizi e peccati del genere femminile. Così la diva ha raccontato il susseguente crollo psicologico:

Mi sentivo profondamente straziata. Che cosa avevo fatto all’umanità per essere odiata fino a quel punto? Ero semplicemente me stessa, rifiutavo ogni ipocrisia, non recitavo una parte, non imbrogliavo nessuno. Mi fecero dormire a colpi di pasticche e di iniezioni […]. Il mio culo, simbolo sessuale universalmente noto, anche per un dottore svizzero duro di comprendonio rappresentava qualcosa di diverso da uno scarico per siringhe.36

«Non recitavo una parte», dice B. B. E proprio questo Louis Malle le chiede, ovvero rivelare alla cinepresa le frustrazioni di quella vita privata negata, come il sole d’estate,37 alle dive scandalose. Ma, come dice Godard, il cinema resta cinema e così, nonostante gli sforzi, l'attrice non riesce a portare sullo schermo «la dimensione profonda, il perché, lo squilibrio, la disperazione vera», ma solo il già noto: ressa di paparazzi, incessante richiesta di autografi, solitudine dorata. Jill – questo è il nome del personaggio plasmato da Malle – ha lo stesso sogno di B. B., ovvero diventare una famosa ballerina. Per recitare questo sogno, all’inizio del film, l’attrice non fa altro che rispolverare il tutù e recuperare quegli esercizi di danza abbandonati dieci anni prima. La conoscenza del gesto tecnico favorisce la naturalezza di un performance che però mostra tutti i suoi limiti nel momento in cui il regista, incerto tra i codici del documentario e quelli della finzione, chiede alla diva di imitare se stessa, ripetendo davanti alla cinepresa gesti, movenze e consuetudini della vita di tutti i giorni. Scendere dal motoscafo, salutare la capretta e mordere una coscia di pollo: gesti familiari come questi perdono, davanti all’obiettivo della cinepresa, tutta la loro immediatezza. Si osservi, ad esempio, la precisione con cui l’attrice – che ha lo stesso sguardo indifferente di una star diretta in taxi al Lido di Venezia – indossa il cappello di paglia e inforca la bicicletta, conducendola con una postura eretta, troppo elegante per apparire naturale (fig. 6). Mai come in questo film B. B. fa sentire la presenza del dispositivo. Non è il personaggio che si sente osservato, ma l’attrice, e questa sensazione traspare nel modo in cui ella abita lo spazio e si relazione con gli oggetti. Le cose vanno meglio quando si tratta di effettuare non azioni quotidiane, ma performance nella performance. E’ il caso di quel breve intermezzo

36 Cfr. B. Bardot, Mi chiamano B. B., cit., p. 339. 37 «Dodici ore di vita per girare un film. Ritornavo sfinita, a pezzi. E pensare che mi invidiavano! Eh, perché facevo cinema. Intanto, tutti i culi non simboli sessuali si doravano al sole, nuotando in quell’acqua salata che io amo» (Ivi).

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musicale che Jill, isolata in un’angusta soffitta di Spoleto, si concede illudendosi di essere al riparo di sguardi indiscreti.38 Sistemato lo chignon davanti allo specchio, Jill\B.B. prende la chitarra e, a occhi chiusi, intona Sidonie, una ballata musicata da Jean Max Rivière appositamente per il film. E’ sufficiente ascoltare la prima strofa per capire come quella di Sidonie non è che l’ennesima maschera di B. B.:

Sidonie a plus d’un amant\c’est une chose bien connue\ qu’elle avoue elle fièrement\ Sidonie a plus d’un amant.39

Quello che interessa a Malle, qui, non è il glamour del sex-symbol, ma l’intimità del quotidiano. Per questo prima inquadra la diva china sulla chitarra come una donna di Vermeer sul ricamo e poi la coglie durante un gioco tanto infantile quanto innocente, quello di seguire con il dito le trame del tappeto sul pavimento: un controcanto perfetto all’immagine di femme fatale decantata dalla ballata. Come Dominque (La vérité), infine, anche Jill muore. Ma il suo, più che un suicidio, è un incidente tanto tragico quanto buffo; quasi una pena del contrappasso. Fabio, il compagno regista (Marcello Mastroianni), mette in scena Caterina di Heilbronn nella piazza di Spoleto ma Jill, assediata dai paparazzi, non può uscire di casa. All’ultimo momento però decide di fare ciò che i giornalisti fanno con lei, ovvero di guardare di nascosto lo spettacolo dall’alto dei cornicioni. Basterà il flash di un fotografo per farle perdere l’equilibrio, ma Malle, con un efficacissimo effetto speciale, ne preserva bellezza e soprattutto malinconia. I capelli mossi da un vento artificiale come quello di uno studio fotografico, Jill si lascia cadere nel vuoto senza opporre alcuna resistenza: la quiete della morte – meta vanamente inseguita dall’attrice – sembra aver finalmente placato la sua pena.

Un’attrice è un’attrice. Non immune da pene è la breve vita di Camille, creatura forgiata da Godard a partire da un personaggio di Alberto Moravia, la Emilia di Il disprezzo (1954), «volgare romanzo da stazione»40 che offre all’autore lo spunto per una riflessione metalinguistica non solo sulla relazione tra cinema e letteratura, ma anche sull’ontologia stessa del cinema. Girato tra Capri e Cinecittà e finanziato con capitale (anche) hollywoodiano, Le mépris41 resta oggi una delle più lucide analisi della forza mitopoietica di

38 https://www.youtube.com/watch?v=0fxzcu2ktDA 39 «Sidonie ha più di un amante\è una cosa ben nota\che lei confessa con fierezza\Sidonie ha più di un amante». 40 J.-L. Godard, Note per Il disprezzo, in J.-L. Godard, Il cinema è il cinema, cit, p. 215. 41 Ricchissima è naturalmente la bibliografia su Le mépris. Si vedano in particolare A. Aprà, Jean-Luc Godard fra mondo classico e mondo moderno, «Filmcritica», n. 151-152, novembre-

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un’arte che, come dice Samuel Fuller in Pierrot le fou (Il bandito delle ore 11, di Jean-Luc Godard, 1965), è come una battaglia: «amore, odio, azione, violenza, morte: in una parola, emozione». E l’emozione è proprio ciò che manca nella vita di Camille, moglie fedifraga spinta dal marito Paul, sceneggiatore senza qualità, tra le braccia di Prokosch, produttore di un’Odissea diretta in chiave neoclassica da Fritz Lang. Dopo aver esaltato, sulle pagine dei «Cahiers du cinéma», il montaggio di Bergman come battito di ciglia,42 Godard ora vuole cogliere quell’istante impercettibile in cui dall’amore si scivola nel disprezzo e quindi nell’indifferenza. «Eri strana poco fa», dice Paul a Camille durante la lunga conversazione a metà del film. B. B. dunque è attesa a un compito difficilissimo: esprimere, in un tempo inteso non come istante ma come durata, il misterioso trascolorare dei sentimenti sul paesaggio del corpo. Perché tutto il corpo è segno in questo film, e in particolare le zone più apparentemente opache dal punto di vista espressivo come le spalle, la nuca, la schiena. «Il libro di Moravia – ricorda B. B. – mi era piaciuto enormemente e sapevo che sarebbe stato deformato da una regia e da dialoghi discordanti con il tono dell’originale. Mi stavo imbarcando per una delle più strane avventure della mia vita».43 Pur imposto dalla produzione, il casting di Bardot è perfetto in quanto permette all’autore di filmare il conflitto dialettico tra un mito di oggi – non a caso censurato nell’edizione italiana del film44 – e i miti di ieri, come il cinema classico hollywoodiano e gli Dei dell’Olimpo, che l’autore qui orna con i colori della sua palette: rosso, giallo e blu.45 Più che dipingere le sculture, però, a Godard interessa scolpire un corpo che sembra incarnare alla perfezione uno dei topoi di questo cinema, ovvero la dialettica tra sogno e realtà. Dal criminale di À bout de souffle (Fino all’ultimo respiro, 1959) alla prostituta-casalinga di Deux ou trois choses que je sais d’elle (Due o tre cose che so di lei, 1966), tutti gli anti-eroi di Godard dicembre 1964, pp. 581-588; M. Marie, Il disprezzo, Lindau, Torino, 1999; M. Cerisuelo, Le Mépris, Editions de la Transparence, Yvelines, 2006; C. McCabe, L. Mulvey, Godard’s Contempt. Essays from the London Consortium, Wiley-Blackwell, London, 2012; A. Aprà, P. Pistagnesi, I differenti: Capri 1963, Il disprezzo: Moravia, Godard, Bardot e gli altri, Skira, Milano, 2013. 42 Cfr. J.-L. Godard, Bergmanorama, in J.-L. Godard, Il cinema è il cinema, cit., p. 99. 43 B. Bardot, Mi chiamano B. B., cit., p. 372. 44 Come noto, la distribuzione italiana impose tagli di ogni genere, per un totale di venti minuti. Delle due sequenze di nudo analizzate in questo capitolo non resta quasi nulla nella versione italiana, che inoltre sostituisce la musica di Georges Delerue – e dunque anche il tema di Camille – con il jazz di Piero Piccioni e sopprime le lingue madri di ciascuno dei personaggi. 45 Sul colore in questa e in altre opere del primo Godard si veda L. Venzi, Gli anni Karina e il colore, «Predella», n. 31 http://www.predella.it/archivio/indexfdc6.html?option=com_content&view=article&id=2 30:godard-gli-anni-karinae-il-colore&catid=83:storia-dellarte-e-film-studies-chasse- croise&Itemid=110.

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sognano una vita altrove e il loro sogno si configura spesso come nostalgia di un’armonia perduta. Si pensi al lavoro effettuato un anno prima su Anna Karina, musa di questo decennio. Sul set di Vivre sa vie (Questa è la mia vita, 1962), l’ex-modella danese vive non solo la sua vita ma anche quella di un personaggio che patisce destini e sofferenze di altre vite: il viso solcato dalle lacrime e ornato dalla parrucca nera, Anna Karina è al contempo Nana (Zola), Loulou (Pabst) e Giovanna d’Arco (Dreyer).46 Prima di vivere la sua vita, questa non-attrice aveva vissuto quella di Veronica Dreyer (Le petit soldat (1960), l’amante-spia di un terrorista più interessato a fotografarne il volto che a carpirne i segreti politici. Privo di trucco e illuminato solo dalla luce naturale, questo volto si offre come icona di un nuovo modello di bellezza, fondato non più sull’aura atemporale del glamour, ma sulla caducità materica di un tempo inteso come durata. Sporcato dalle imperfezioni del vero,47 il volto di Anna Karina non è più un volto giusto, ma - per riprendere un aforisma dell’autore - giusto un volto.48 Anche Camille, come Anna Karina\Nana, porta il caschetto nero. Forse per riaccendere il gioco della seduzione, ha acquistato una parrucca e vorrebbe fare una sorpresa al marito. Ma Paul, immerso nella vasca con un cappello alla Dean Martin, non la degna nemmeno di uno sguardo. Al di là delle esigenze narrative, questo dettaglio conferma come l’attore, in Godard, non sia altro che materia plastica soggetta alla migrazione di film in film. Un destino, questo, che Bardot fatica a tollerare:

Un giorno Godard mi disse che dovevo essere ripresa di spalle, camminando diritto davanti a me. Provai. Non andava bene. Gli chiesi perché. Perché la mia andatura non assomigliava a quella di Anna Karina. Insomma, dovevo imitare la mia controfigura… Non ci mancava che questo. Rifacemmo quella scena almeno venti volte. Alla fine gli dissi di andarsi a prendere Anna Karina e di lasciarmi in pace.49

Se il cinema è il cinema, un’attrice altro non può essere che un’attrice. Decostruire il mito Bardot vuol dire allora chiedere alla diva di non essere né Bardot e nemmeno il tipo che lo star-system nazionale le ha cucito addosso, ma semplicemente un’(altra) attrice. Il fascino di questo ruolo è tutto nella stratificazione intertestuale che esso nasconde. Camille vive il

46 Se il trucco ricorda quello di Loulou, la protagonista di Die Büchse der Pandora (Il vaso di Pandora, di Georg Wilhem Pabst, 1929), l’attrice che, nel buio della sala, commuove Nana è Renée Falconetti, interprete di La passion de Jeanne d’Arc (La passione di Giovanna d’Arco, di Carl Theodor Dreyer, 1924). 47 Sul lavoro di Godard con l’attore si veda P. Caproni, Attrice ed attore nel primo Jean-Luc Godard (1959-1965), Tesi di Dottorato in Letteratura e Filologia (XXIVo ciclo), Scuola di Dottorato in Studi Umanistici, Università di Verona, 2009. 48 «Ce n’est pas une image juste, mais juste une image» (Non è un’immagine giusta, ma giusto un’immagine»). 49 B. Bardot, Mi chiamano B. B., cit., pp. 371-372.

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destino di un personaggio di Moravia, porta il nome di un’eroina di De Musset,50 patisce la medesima noia della protagonista di Viaggio in Italia (Rossellini, 1954)51 e offre alla cinepresa le forme di B. B. Mi riferisco in particolare al flashback con cui l’autore, anziché mostrare l’amplesso coniugale, espone la carne del sex-symbol52 e allo stesso tempo ne depotenzia la carica erotica, invitando i personaggi a verbalizzare fuori- campo la loro crisi (video 8):

Camille: «Autrefois, tout se passait comme dans un nuage d’inconscience, de complicité ravie. Tout s’accomplissait avec une inadvertance rapide, folle, enchantée». Paul: «Maintenant cette inadvertence était complètement absente de la conduite de Camille et par conséquent de la mienne. Pouvais-je même, en soulevant le pied de l’excitation des sens, observer ses gestes d’un regard froid, comme elle sans-doute pouvait regarder les miens».53

Mentre la cinepresa svela le grazie della diva, Paul ci dice che suddette grazie non eccitano più i suoi sensi, e forse nemmeno quelli della cinepresa. Nessuna particella sembra infatti riscaldare l’occhio di Godard, che nei nudi paratattici di questo montaggio anticipa di almeno dieci anni il lavoro di Andy Warhol. Separato dalla propria voce e costretto alla posa, il corpo appare infatti già come cosa, feticcio inorganico infinitamente riproducibile. Di questo regard froid, però, lo spettatore ha potuto già fare esperienza nella sequenza iniziale del film,54 che segue i celebri titoli di testa, “letti” e non mostrati. Distesa, nuda, a pancia in giù, Camille cerca conferme amorose dal marito, il quale però si limita ad accarezzarne timidamente i capelli. Per vincere la sua insicurezza, allora, la donna non trova di meglio che

50 Come ha ricordato lo stesso Godard, Camille è la protagonista della commedia On ne badine pas avec l’amour di Alfred De Musset (1834). Naturalmente Camille è anche il nome della celebre dame aux camélias di Alexandre Duman figlio. 51 Come Le mépris, anche Viaggio in Italia è la radiografia di un amore malato. Incomunicabilità, egoismo ed apatia mettono in crisi il matrimonio tra Alex (George Sanders) e Catherine Joyce (Ingrid Bergman), che nella bellezza catartica di Pompei ritrova la forza di rompere il proprio vuoto. 52 Questa sequenza, al pari del nudo iniziale, è stata imposta dalla produzione e realizzata in base a una convenzione firmata dal regista il 16 ottobre 1963. Carlo Ponti e Joseph Levine volevano tre scene d’amore: all’inizio, a metà e alla fine del racconto. Godard rispose che mostrare l’amore a metà e alla fine del film non era possibile, perché i personaggi non si amano più. 53 Camille: «Un tempo, tra di noi tutto accadeva come in una nuvola di incoscienza, di complicità felice. Tutto si svolgeva con un’inconsapevolezza rapida, folle, incantata». Paul: «Ora, questa inconsapevolezza era completamente assente dal mio comportamento e di conseguenza anche da quello di Camille. Distaccandomi dall’eccitazione dei sensi, potevo osservare i suoi gesti con uno sguardo freddo, lo stesso sguardo con il quale lei poteva guardare i miei». 54 https://www.youtube.com/watch?v=v_m85eoa-8s

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assumere le sembianze di un simulacro, compiendo da sola, su se stessa, l’operazione di anatomia visiva esercitata di norma dal montaggio:

Camille: «Tu vois mes pieds dans la glace? Tu les trouve jolis? Et mes chevilles? Tu les aimes? Tu les aimes mes genoux aussi? Et mes cuisses?55

Di tutti questi dettagli anatomici Paul, dunque, guarda solo il riflesso proiettato sullo specchio fuori campo: B. B. è già immagine di un’immagine. Come sempre in Godard, tra parola e immagine la relazione è però dialettica. La tanto attesa nudità infatti è solo detta e non mostrata da un occhio, quello della cinepresa, che nasconde i frammenti anatomici per mezzo di ombre e filtri colorati. Come ha osservato Jean-Louis Leutrat,56 i colori della tricromia (giallo, rosso, blu) “scolpiscono” questo nudo e lo apparentano alle statue greche, anch’esse colorate, che si intravedono nei giornalieri del film nel film. Totalmente privo di colore, invece, è il timbro con cui la diva sporca la propria aura in quello che resta forse uno dei più fulgidi esempi di decostruzione di una star, ovvero l’intermezzo scurrile con cui l’autore spezza la lunghissima scena di conversazione a metà del film, prima della partenza delle coppia per Capri (video 9). Ancora avvolta dall’asciugamano rosso, B. B. appoggia il profilo destro alla parete e elenca una serie di parolacce che il sottotitolaggio italiano fatica a tradurre:

Al momento di elencare tutte quelle parolacce, mi toccò sciorinarle atone come un rosario, senza alcuna coloritura. Forse Anna Karina si incavolava in quella maniera lì, vai a sapere.57

La diva, insomma, non capisce. Aveva amato il personaggio di Moravia ma non riesce ad entrare in quello di Camille. E il motivo è semplice: Godard non le chiede di entrare nel personaggio, ma di starne fuori, di guardarlo con il medesimo regard froid di cui sopra. Uno sguardo freddo come il sangue rappreso che brilla sul suo volto nella penultima inquadratura (fig. 7), quando, il capo chino sulla carcassa dell’Alpha Romeo – anch’essa «mito di oggi» (Barthes) – la nouvelle Eve non appare altro che una bambola di pezza, pronta per essere ricucita e utilizzata per altri giochi. «Non è sangue quello che vedete, – ha detto Godard – ma rosso». Dal rosso al nero. Concludiamo questo viaggio nel cinema di Brigitte Bardot con l’analisi dell’ultima performance degna di nota prima

55 Camille: «Vedi i miei piedi allo specchio? Li trovi belli? E le caviglie? Ti piacciono? Ti piacciono anche le mie ginocchia? E le cosce?». 56 Cfr. J.-L. Leutrat, S. L. Guigues, Jean-Luc Godard. Alla ricerca dell’arte perduta, (1994), Le Mani, Recco, 2001. 57 B. Bardot, Mi chiamano B. B., cit., p. 372.

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dell’addio alle scene.58 La regia, ancora una volta, è di Louis Malle, che – se escludiamo il Toby Dammit di Fellini – realizza con William Wilson l’episodio forse più riuscito di Histoires Extraordinaires, ennesimo tentativo di trasportare al cinema i fantasmi di Edgar Allan Poe. Il plot è noto: ufficiale cinico e arrogante, William Wilson non riesce a fuggire l’ombra di un misterioso sosia, che porta il medesimo nome pur incarnando virtù diversissime. Forse nessuno meglio di Alain Delon avrebbe potuto interpretare l’ambiguità emotiva di questo personaggio, scisso tra essere e dover essere ma alla fine vinto da un destino che ricorda quello de Der Student von Prag (Lo studente di Praga, di Stellan Rye, 1913): uccidere il proprio doppio significa uccidere se stessi. Nel destino del Wilson cinematografico, però, c’è una donna, un personaggio totalmente inventato da Louis Malle in omaggio all’arte dell’amica Brigitte. Quella di Giuseppina, la nobildonna dall’aria tenebrosa sfidata a poker da Wilson, è una maschera che però B. B. non gradisce:

Mi conciarono con un’enorme parrucca, nera come il carbone, una specie di berretto da ussaro napoleonico che mi incaschettava il viso in una sorta di appendice assolutamente disastrosa. Mi sono sempre chiesta perché Louis Malle mi abbia voluto deturpare a quel modo. Sono i rischi del mestiere.59

Più che deturpata, Bardot è semplicemente privata dell’apparato sul quale ha costruito la sua fortuna, ovvero il corpo, amputato fuori campo dalla postura seduta che il personaggio mantiene per tutta la durata della partita a poker (video 10). Sigaro nella mano destra e occhi segnati dal rimmel, la diva è costretta a recitare unicamente con il volto, esattamente come fa il partner Delon, il cui chiacchierato narcisismo crea le premesse per un interessantissimo conflitto divistico che si estende anche ai relativi personaggi. Icona versus icona: la contessa Giuseppina disprezza Wilson esattamente come Bardot detesta Delon, «troppo preoccupato dall’illuminazione sul suo viso e dai suoi famosi occhi blu per interessarsi a colei che, di fronte a lui, non era che un’ombra fra tante altre».60 Il montaggio in campo-controcampo restituisce la fisicità di un duello che all’inizio si gioca unicamente sul piano dello sguardo, quasi le due star volessero sfidarsi sul piano del virtuosismo mimico. Anche questa partita però - come quella giocata dai personaggi – è vinta da Delon, il quale, anziché ricercare effetti drammatici convenzionali, lavora di sottrazione

58 L’ultima maschera indossata dalla diva è Arabelle, dama licenziosa co-protagonista di L’histoire très bonne et très joyeuse de Colinot Trousse-Chemise (Colinot l’alzasottane, 1973), una commedia picaresca firmata da Nina Companeez. 59 B. Bardot, Mi chiamano B. B., cit., pp. 487-488. 60 Ivi.

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riducendo la mimica facciale all’intensità opaca della maschera.61 Pur giustificata dal contesto narrativo (la partita a poker), l’enigmaticità dell’espressione è rafforzata dai tagli di inquadratura, che separano le mani dai volti lasciandoci intravedere di quest’ultimi, peraltro, solo un profilo. La fine della partita sancisce, in abisso, anche la conclusione del duello attoriale. Frustata dopo frustata, Delon abbandona progressivamente la maschera e lascia che sul volto del suo personaggio affiori l’emozione del godimento. Wilson non vuole possedere Giuseppina. Vuole umiliarla, punirla, proprio come avrebbero voluto fare centinaia di madri e mogli con Brigitte Bardot. Castrata dall’abito nero, la bella chioma nascosta dalla parrucca, B. B. non esprime invece alcuna emozione. Ad ogni colpo di frusta il suo capo si china sempre più in avanti, inerte e molle, proprio come quello di Camille nel finale di Le mépris. La celebre schiena, un tempo tonica e abbronzata, è ora carne bianca, livida, martoriata. Ma le ferite non fanno male. Perché quello del divo è, da sempre, un corpo inorganico.

61 Cfr. Y. Deschamps, Le masque de Delon: la présence contre la performance, in G. D. Farcy, R. Prédal, Brûler les planches, crêver l’écran. La présence de l’acteur, Entretemps Editions, Saint- Jean-de-Védas, 2001, pp. 279-284.

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Maria Venuso

La ‘danza’ di Amina e il ‘canto’ di Giselle. Alcune osservazioni comparative dal balletto La Somnambule a Giselle, passando per La Sonnambula di Vincenzo Bellini∗

Il presente contributo ha per oggetto la disamina della drammaturgia di uno dei balletti del repertorio ottocentesco sui quali più si è scritto e che ancora alimenta idee e utili riflessoni, Giselle, ou Les Wilis su musica di Adolphe Adam, coreografia di Jean Coralli e e libretto da un’idea di Théophile Gautier, sviluppata per lo scenario da Jules Henry Vernoy de Saint-Georges (prima rappresentazione il 28 giugno 1841, all’Opéra di Parigi). In questa sede, sia pure con i dovuti limiti, si utilizzeranno i dati acquisiti dalla letteratura musicologica relativa a uno dei più fortunati esiti del melodramma italiano, La Sonnambula, o i due fidanzati svizzeri su musica di Vincenzo Bellini e versi di Felice Romani (prima rappresentazione al Teatro Carcano di Milano il 6 marzo 1831) e si tenterà di ‘trasferirli’ sul balletto principe del Romanticismo francese, a tutt’oggi inossidabile tassello del repertorio delle più grandi compagnie di balletto. Il melodramma, quale arte teatrale fondata sul connubio di musica canto e gestualità, è il genere di spettacolo più legato alla rappresentazione ballettistica.1 La musica è la parola del balletto, laddove il gesto si ferma; è l’anima del melodramma laddove la voce tace, la voce fuori campo del narratore o della mente del personaggio. E nel balletto la musica diventa voce e pensiero di quest’ultimo, completandone necessariamente l’espressione del sentimento o dell’azione. La metodologia impiegata dagli studi musicologici (di diretta derivazione filologica) sarà qui applicata all’articolazione strutturale e drammaturgica del disegno coreografico, in quanto appare assai adatta a trasferire sul materiale ballettistico di rilevanza storica gli stessi criteri per decodificare l’intrinseco valore artistico e la potenza drammaturgica della messa in scena coreica. Senza alcuna pretesa di esaustività, in questo contributo si prenderanno in considerazione, sia pure in maniera non completa, i punti

∗ Allegati all’articolo: materiali video ed iconografici consultabili online su Acting Archives Review, numero 8 – Novembre 2014 (www.actingarchives.it cliccando su “Review”). 1 Cfr. M. Smith, Ballet and Opera in the Age of Giselle, Princeton, Princeton University Press, 2000; Eadem, Ballet, Opera and Staging Practices at the Paris Opéra, in La realizzazione scenica dello spettacolo verdiano. Atti del Congresso internazionale di studi (Parma, Teatro Regio – Conservatorio di musica, 28-30 settembre 1994), Parma, Istituto Nazionale di Studi Verdiani, 1997, pp. 172-318.

© 2014 Acting Archives 132 Maria Venuso, La ‘danza’ di Amina e il ‘canto’ di Giselle.

più significativi di due rappresentanti emblematici di entrambi i generi in oggetto, considerando che le ascendenze del balletto Giselle sono state per lo più ricercate nel mondo esclusivo della poesia e della letteratura, a cagione della genesi dalla situazione derivata da Hugo e Heine, che piacque tanto a Gautier, la cui paternità del libretto, condivisa con Vernoy de Saint-Georges, è a tutt’oggi controversa. La stretta collaborazione di Gautier e Saint-Georges ─ quest’ultimo già tecnicamente versato nella composizione di librtetti da ballo, dal momento che aveva già lavorato per due fortunati balletti di J. Mazilier, La Gipsy (1839) e Le dialble amoreaux (1840) ─ era una prassi abituale al tempo e le tesi di autorevoli studiosi del Novecento (tra cui Serge Lifar, Ivor Guest, Edwin Binney) confermano la difficoltà di dirimere la faccenda dell’autorialità.2 È fuor di dubbio che l’estro poetico di Gautier abbia contribuito in maniera determinante alla fortuna di Giselle non solo nell’idea, espressa in prima persona nel resoconto pubblicato su «La Presse» a pochi giorni dal debutto del balletto (il 5 luglio del 1841). La dichiarata fonte di ispirazione trovata nelle descrizioni del mondo lunare popolato di elfi e pallide Villi nel De l’Allemagne di Heine, la sua iniziale intenzione di ricavarne un balletto dal titolo Les Wilis, in realtà poco ‘rappresentabile’ secondo le abitudini correnti, nonché lo scambio di idee con Saint-Georges sul tema e sulla sua resa per il ballo, conducono all’esito che noi conosciamo, senza chiarirne i punti più problematici. Nella stessa lettera ad Heine Gautier dichiara l’intenzione iniziale di plasmare il profilo della protagonista sulla fanciulla spagnola del poema Fantômes di Victor Hugo, ma anche il successivo ripensamento dettato dalla mancanza dell’effetto scenico necessario. Il primo atto, di impianto più tradizionale, sarebbe dunque – secondo quanto lascia intendere il poeta – opera dello smaliziato librettista Saint-Georges, quale fabula topica, con la definizione del carattere ingenuo fresco e ‘diverso’ della protagonista (diverso dai suoi simili), finalizzata essenzialmente a ‘procurare’ «la graziosa morta» necessaria all’introduzione dell’atto bianco3 di ascendenze germaniche, rendendo

2 Si veda in merito E. Cervellati, Théophile Gautier e la danza. La rivelazione del corpo nel balletto del XIX secolo, Bologna, Clueb, 2007, p. 106 e ss. 3 Per ‘atto bianco’ si intende quella parte di un balletto (il ballet blanc dell’Ottocento romantico) popolata da creature soprannaturali, generalmente donne vestite di leggerissimi e bianchi tutù. Dalle monache morte di Robert le diable di Giacomo Meyerbeer (1831) fino a Raymonda di Alexandr Glazunov e (1898), gli atti bianchi appaiono una costante del balletto del XIX secolo, fino a Les Syplhides (1909), su musica di Fryderyk Chopin e coreografia di Mikail Fokine, nostalgica ricostruzione dello stile romantico e aereo di Maria Taglioni. La novità della scelta musicale operata da Fokine segnava la rottura definitiva con il balletto romantico letteralmente inteso. Come scrive Debra H. Sowell «L’affascinante immagine del corpo di ballo, che volteggia in tutù bianchi e lunghi fin sotto il ginocchio in balletti come La Syplhide e Giselle, dette origine alla denominazione di ballet blanc, di questo repertorio, una tradizione che sarebbe giunta fino agli anni Novanta dell’Ottocento, e che può ammirarsi ancor oggi nelle candide formazioni di ballerine-cigno

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peraltro «accettabile e possibile all’Opéra» la leggenda narrata da Heine, «pur rispettando lo spirito della …leggenda».4 La fonte è espressamente citata all’inizio del libretto di Giselle, dove Gautier riporta un brano di De l’Allemagne preceduto dalla dicitura «tradizione tedesca da cui è tratto il soggetto del balletto di Giselle ou Les Wilis».5 Temi, motivi e idealità del balletto romantico confluiscono magistralmente in Giselle, le cui fonti, come si è visto, contengono in nuce potenzialità espressive idonee a testare lo spirito del tempo. La fenomenologia del soprannaturale entra nella coreografia influenzandone gli esiti drammatici, che approdano a numeri di ballo a solo e d’insieme. Alla stregua di opere eloquenti come Lucia, Sonnambula e altre, Giselle riflette la Weltanschauung romantica con non minore evidenza.6 La Sonnambula e Giselle sono due capolavori molto più vicini di quanto non si creda.7 L’accostamento, apparentemente insolito, prende le mosse dall’affinità, intravista ma non sviluppata, tra Sonnambula e Giselle da parte di Giancarlo Landini: un confronto ritenuto dallo studioso «affascinante» quanto «fuorviante»:

riuscì a Bellini di costruire la più completa sublimazione romantica dell’amore, che nell’immaginario collettivo si presenta come una versione operistica delle punte e del tulle di Giselle. Accostamento affascinante, ma per certi versi fuorviante.8

che popolano il II e IV atto del Lago dei cigni». Si vedano in merito M. U. Sowell et al., Il balletto romantico. Tesori della Collezione Sowell, Palermo, L’Epos, 2007, p. 25 e F. D’Amico, Forma Divina-Novecento e balletti, a cura di N. Badolato e L. Bianconi, Firenze, Olschki, 2012, p. 512. 4 «La Presse», 5 luglio 1841, cit. in Cervellati, Théophile Gautier, cit., p. 107. 5 In Ivi, p. 105. 6 Mi sia consentito di rinviare per, la definizione del profilo della protagonista a partire dalla prima idea di Gautier fino alla definizione finale del personaggio, a C. W. Beaumont, The ballet called Giselle, London, Dance Books Ltd, 2011 (prima ed. 1944), pp. 78-80 e all’imprescindibile studio summenzionato di Elena Cervellati. 7 Alberto Testa ha voluto vedere ne La Traviata verdiana il corrispondente operistico di Giselle, sottolineando il passaggio da un regime ‘leggero’ a uno ‘drammatico’ tra primo e secondo atto. Cfr. in proposito A. Testa, Giselle: leggenda, simbolo, realtà, in Giselle, per il Teatro dell’Opera di Roma, gennaio 1994, p. 39. L’accostamento ha avuto una certa fortuna nel mondo della danza, ma un’analisi approfondita delle situazioni e delle circostanze – sulle quali non ci si addentrerà in questa sede – rendono in realtà diversissime le psicologie di Giselle e di Violetta. Nello stesso luogo, tuttavia, Testa coglie l’essenza dell’«emotività visiva» che contraddistingue Giselle: «musica senza suono, canto senza voce, linguaggio senza parole». Cf. Ivi, p. 46, cit. in M. Cipriani, Giselle e il fantastico romantico tra letteratura e balletto, Roma, Armando, 2004, p. 83. 8 G. Landini, Arcadiche eleganze vocali, in La Sonnambula, Programma di sala del Teatro di San Carlo di Napoli, stagione 2001, p. 39. Su Giselle e l’ideologia che si esprime nel secondo atto del balletto, proprio in virtù di tale sublimazione, si veda E. Alderson, Ballet as Ideology: Giselle, Act II, in «Dance Chronicle», vol. X, n. 3 (1987), pp. 290-304.

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Già Bruno Cagli, a proposito della moda delle eroine folli o sonnambule nei primi decenni dell’Ottocento, aveva sottolineato quanto Giselle si inserisse, al pari dell’opera belliniana, nella novità di un nuovo genere:

Come Giselle crea per le nuove platee la figura dello spirito che emerge dall’al di là per rivendicare il proprio diritto all’amore, così, le sonnambule, al pari delle eroine in preda al delirio, delle regine ingiustamente condannate, si servono della loro malattia per provocare il trionfo della verità. Si delira, prima di Lady Macbeth, soprattutto per dire il vero, per difendere il passato, acquistare l’aureola, condannare per il futuro i colpevoli. Queste sonnambule del teatro musicale sono depurate da ogni scoria. La belliniana Amina, fragilissima ed eterea nel momento in cui, sull’orlo del tetto, cammina sulla trave pericolante nel bianco abito delle nozze non consumate, ne è la più perfetta astrazione.9

Il Landini stesso, dopo aver osservato che il risultato belliniano dové certo più al linguaggio della tradizione napoletana (e come non avrebbe potuto?), nella «essenziale nudità» dell’«economia di mezzi» propria della Nina di Paisiello – semplice, trasparente e pura10 – che si riscontra nel canto nobile di Amina, nelle righe successive risolve egli stesso la sua affermazione in una direzione efficace. È proprio questo fattore che avvicina la Giselle di Adam-Gautier, pietra miliare del balletto romantico, al capolavoro belliniano, la cui influenza appare chiara agli occhi di chi non ha il campo visivo ristretto alla sola danza. La lunghezza e la semplicità della linea melodica del canto, la parsimonia della tecnica finalizzata all’ottenimento di un risultato innovativo (nel regno del brillante stile rossiniano) fece di Bellini Maestro indiscusso di quello stile elegiaco che non penalizza ma fa fluire sapientemente la drammaturgia dell’opera.

Dal balletto La Somnambule al melodramma La Sonnambula: una prima trasformazione dal codice della danza al codice della musica. È ben noto che un’opera di grande successo e valore artistico come La Sonnambula di Vincenzo Bellini abbia attinto l’idea del soggetto da un balletto del repertorio francese (un balletto, tra l’altro, che non ha avuto la stessa fortuna dell’opera, per la costante abitudine di assegnare a musicisti scadenti e a coreografi non sempre di valore i lavori di balletto per i teatri d’Opera). Epperò, nel nostro tipo di speculazione, questo vuol dire molto.

9 B. Cagli, Il risveglio magnetico e il sonno della ragione, in «Studi musicali», a. XIV (1985), pp. 157-170: 165. 10 G. Landini, Arcadiche eleganze vocali, cit., pp. 33-34. Nina, una delle prime ‘sublimazioni’, nel teatro musicale, di un turbamento mentale. Cfr. Q. Principe, La Sonnambula di Vincenzo Bellini, Milano, Mursia, 1991, pp. 77 e ss.

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Di certo l’assunzione di un modello drammatico proveniente dalla messa in scena danzata era una cosa piuttosto rara per un librettista d’opera, vista la struttura del libretto da ballo.11 Tuttavia è lecito pensare che una questione di praticità, dettata dalla fretta del momento (visto il cambio improvviso di argomento), 12 e la funzionalità di un plot di gran moda, strutturato secondo numeri agevolmente trasferibili in melodramma all’italiana (soli, duetti, masse etc.) e una sequenza già teatralmente ordinata, abbiano suscitato l’interesse di Felice Romani.13 La fonte di cui si parla è La somnambule, ou l’Arrivée d’un Nouveau Seigneur, su musica di Louis-Joseph-Ferdinand Hérold, coreografia di Jean-Pierre Aumer e libretto di Eugéne Scribe, andato in scena il 19 settembre del 1827 all’Opéra di Parigi. Un panorama di riferimenti visivi e di allusioni musicali evocano la figura della giovane donna in trance, tanto di moda in quegli anni sulle scene francesi. Presto scomparso dal repertorio,14 il lavoro di Aumer-Hérold presentava, già nel 1827, tutte le caratteristiche peculiari del balletto romantico, con l’ambientazione idilliaca nella Provenza rurale, una trama la cui protagonista, graziosa fanciulla destinata alle nozze, vagava sui tetti in preda a sonnambulismo entrando e uscendo dalle finestre (come farà, cinque anni dopo, la Silfide nelle sue apparizioni dalla finestra della casa di James) in un clima da sogno nel quale immergere i suoi virtuosismi. Fonte del libretto era stata la comédie-vaudeville in due atti La Somnambule, che trionfò al Theatre du Vaudeville di Parigi il 6 dicembre del 1819, nata anch’essa dalla penna di Scribe, in collaborazione con Casimiri Delavigne (1793-1843). Molti dei libretti e delle partiture venivano elaborati da compositori versati in entrambi i generi teatrali, i più noti dei quali al tempo erano Adolphe

11 Si veda in merito F. Pappacena, Dal libretto di balletto alle note per la messa in scena, «Acting Archives Review», a. III, n. 6 (novembre 2013), pp. 1-25. 12 La Sonnambula fu composta, com’è ben noto, in sostituzione dell’Ernani, dramma derivato direttamente da Hugo, cui l’autore non diede termine per preoccupazioni di natura prevalentemente censoria, da parte del Lombardo-Veneto. Il nuovo soggetto fu scelto sempre nell’ambito del repertorio francese. 13 La Sonnambula di Vincenzo Bellini, Riduzione per canto e pianoforte condotta sull’edizione critica della partitura, a cura di A. Roccatagliati, L. Zoppelli, Milano, Ricordi, 2012, p. XXIII e ss. 14 Una recente ripresa per l’allestimento del Teatro dell’Opera di Roma del 2008, con coreografia di Luciano Cannito e regia di Beppe Menegatti, ha riproposto il balletto senza tuttavia la possibilità di una ripresa filologica, data la mancanza assoluta di qualsivoglia documento scritto, né di tradizione orale, come invece è avvenuto per gli altri balletti del repertorio ottocentesco. In questo caso il solo libretto, qualche vecchio dagherrotipo e i bozzetti dei costumi sono stati gli elementi che hanno garantito il rispetto della drammaturgia originale, così come fu annotata da A. Bournonville su uno spartito conservato in Danimarca, con l’aggiunta di un completo Pas de Deux (fatto inserire nel 1858 dalla ballerina Carolina Rosati). Cfr. in merito il Programma di sala del Teatro dell’Opera di Roma, stagione 2008, La Somnambule, pp. 12; 19.

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Adam15 e Ferdinand Hérold (Parigi 1791 –1833),16 noti soprattutto per balletto e opéra comique, mentre fra i librettisti i nomi principali erano quelli di Eugène Scribe e Jules Henry Vernoi de Saint-Georges Georges, entrambi autori di più di venti opere e balletti all’Opéra, durante la Monarchia di luglio. I danzatori erano impiegati regolarmente nelle opere, mentre i cantanti, se non comparivano nei balletti, avevano comunque modo di collaborare in diversi modi; il tenore Adolphe Nourrit, ad esempio, scrisse il libretto per i balletti La Sylphide, La Tempête, L’Ile des pirates. Quello che appare scontato, ossia la presenza di una trama, è in realtà l’elemento imprescindibile per un discorso su due generi che si fondano sulla stessa premessa di base: una storia da raccontare. Gli ingredienti fondamentali delle trame di opera e balletto, in questo contesto, erano pressoché gli stessi: contrasti politico-sociali e drammi amorosi. Entrambi i temi assumevano tuttavia un peso diverso, a seconda che si trattasse dell’uno o dell’altro genere (nel balletto si presentavano più leggeri rispetto all’opera e si concludevano per lo più con un lieto fine), mentre l’azione si svolgeva prevalentemente in Europa e nelle sue colonie, con particolare privilegio per le ambientazioni in Spagna, Francia e Italia. Il periodo storico favorito era per lo più quello medievale o dei secoli XV-XVII, una volta abbandonata la predilezione per l’età antica e del mito, tanto care alle messe in scena settecentesche. Il cliché librettistico generale imponeva formule rese popolari da Eugène Scribe, in cui non si escludevano soluzioni ‘a effetto’ (in genere più impressionanti nell’opera), colpi di scena, incidenti vari.17 Comuni erano molte scene tipiche: processioni, scene di preghiera, celebrazioni di fidanzamenti, balli in maschera, letture di missive rivelatrici, furiosi baccanali, utilizzo di musicisti sul palco. Di ascendenza precipuamente comique, nel balletto, è il ricorso al ‘colore locale’, realizzato attraverso la ripresa di modelli folclorici montani, oltre alla eclettica varietà nell’impiego dei mezzi espressivi che si adattano al tipo di situazione o di personaggio di volta in volta presentato in scena.

15 Fu probabilmente per la sua forte personalità, tanto quanto per il suo talento, che Adam ottenne nove balletti, più di ogni altro compositore del suo tempo. Egli ne fece la sua attività grazie anche alle giuste amicizie, ottenendo la sua prima commissione, La Fille du Danube nel 1836, tramite la conoscenza di Eugene Desmares, amante di Maria Taglioni. Dal tempo di Giselle nel 1841, Adam conseguì il rispetto dovuto per essere accolto con ampio plauso nelle produzioni del teatro. Cfr. A. Pougin, Adolphe Adam. Sa vie, sa carrière, ses mémoires artistiques, Paris, 1877, cit. in S. Jordan, The Role of the Ballet Composer at the Paris Opéra: 1820- 1850, in «Dance Chronicle», vol. IV, n. 4 (1981), pp. 374-388: 384, n. 34. Il potere di Adam, raro per un compositore di balletti, fu tale che riuscì a modificare la scena finale del balletto, in cui Giselle, invece di tornare nel sepolcro, veniva condotta da Albreht su un letto di fiori, che l’avrebbero lentamente ricoperta. 16 Cinque furono le partiture di balletto presentate all’Opéra, tutte fra il 1827 e il 1829; egli morì 1833, prima che Adam iniziasse a scrivere per l’Opéra. 17 Cfr. Smith, cit., pp. 20-25.

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Ambientato in un villaggio tra Arles e Tarascon, la dimensione campestre e arcadica della Provenza precorre lo scenario di Giselle, in cui la stagione della vendemmia e la danza dei giovani contadini corrispondono alla stagione della fienagione e alle danze dei popolani nella Somnambule. L’argomento si sviluppa nell’arco di tre atti e il libretto riferisce, com’era d’uso all’epoca, dialoghi e pensieri che sarebbero stati esplicati sulla scena dai danzatori in una notevole quantità di sequenze pantomimiche.18 Il balletto appare totalmente epurato dall’elemento gotico, presente invece nel vaudeville e nel libretto del Romani per Bellini, e cioè del terrore popolare per le apparizioni notturne del bianco fantasma che infesta il villaggio e che si svelerà essere la povera fanciulla.19 La raffigurazione di una natura rassicurante e benigna, minacciata tuttavia dal timore di forti passioni, dall’angoscia generata dall’irrazionale notturno, dai turbamenti di un amore che sembra infranto per sempre riflettono il disorientamento generato dalla complessa situazione politica della Francia dell’epoca. Prima interprete del balletto fu Pauline Montessu, che pare fosse la favorita dell’allora Direttore Lubbert. Il successo immediato fece seguire riallestimenti a Copenaghen, per opera di Auguste Borrnonville, e a San Pietroburgo da parte di Didelot nel 1829. Nel 1859 anche Marius Petipa ne diede una propria versione, mente non si hanno notizie precise sulle rappresentazioni italiane. Fatto sta che nel 1831 la trasformazione del soggetto in opera lirica, su libretto di Felice Romani e musica di Vincenzo

18 La storia narra dell’orfanella Thérèse, allevata dalla vedova di un ricco mugnaio e promessa sposa di Edmond, contadino benestante. L’ostessa del villaggio, Gertrude, è sua rivale in amore. L’arrivo di un nuovo signore del castello, elemento inesistente nel vaudeville di Scribe, sarà centrale nel balletto e nell’opera belliniana. Costui decide di trascorrere la notte nella locanda del villaggio, nella quale, nottetempo, non tarda a verificarsi un intrigante gioco di seduzione con Gertrude e la sua servetta Marcelline. A un sinistro rumore le due donne fuggono e Gertrude perde nella stanza il suo scialle: Thérèse entra dalla finestra in veste da notte, recando una lanterna. M. Saint Rambert (questo il nome del Signorotto) comprende immediatamente il suo sonnambulismo e cerca di sostenerla affinché non cada, ma l’arrivo dei paesani, tra i quali c’è anche Edmond, suscita immediata concitazione e sdegno per la riprovevole scena di palese tradimento, con l’inevitabile ripudio della ragazza da parte del fidanzato. Gertrude può finalmente approfittare della situazione e sposare Edmond, ma la madre di Thérèse fa presto a rivelare a tutti che anch’ella è compromessa, data la presenza del suo scialle nella camera da letto del signore. Intanto tutti possono vedere Thérèse camminare nel sonno sull’orlo del tetto del mulino rischiando di cadere nel vuoto ma, nella paura generale, il suono delle campane la ridesta e il suo Edmond può finalmente capire l’errore e perdonarla. Il signore che arriva nel villaggio da lungi rappresenta quella figura autoritaria immancabile in un contesto rurale e portatrice di superiori conoscenze scientifiche ignorate dalla massa di popolani incolti, ai quali l’uomo spiega la natura del sonnambulismo (un par mio non può mentir, dice seriamente nell’opera di Bellini, e il volgo ben lo crede, dopo aver immaginato chissà quale fantasma). Si veda in merito G. Guandalini, Sonnambulismo e rappresentazione, in La Somnambule, Programma di Sala del Teatro dell’Opera di Roma, stagione 2008, pp. 37 e ss. 19 Ivi.

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Bellini abbagliò il pubblico che, con tutta evidenza, all'azione danzata preferì La Sonnambula belliniana.20 I ritmi narrativi della partitura del balletto erano stati dettati a Hérold dalla drammaturgia di genere, come d’uso al tempo, per cui la musica era stata espressamente scritta sul canovaccio ricavato dal coreografo sulla traccia del drammaturgo. Le connotazioni fondamentali non si discostano da quelle consuete per l’epoca: gradevolezza e fluidità per l’ascoltatore, all’occorrenza una verve ritmica, un fascinoso impasto timbrico per le scene più sentimentali, costante attenzione alle situazioni rappresentate in scena e alle esigenze coreografiche. Ancora una volta, una musica più funzionale che di spessore artistico autonomo. La partitura è divisa in tre atti e si compone di ventotto numeri musicali (ventitré originali e cinque aggiunti nel 1854), nelle quali Hérold si impegna a seguire la narrazione definendo temi melodici legati a personaggi e situazioni, come nel Pas de Deux del primo atto, mentre nell’Introduzione e nel Finale I (che nella versione del 1854 diventa Finale II) si ripresentano i temi principali del balletto con la scena del sonnambulismo e il Finale III con la riconciliazione dei due innamorati.21 Gina Guandalini, nel suo contributo sula balletto per il Programma di sala del Teatro dell’Opera di Roma, sottolinea l’esiguità delle indicazioni musicali nel testo e mette in evidenza la frequenza delle citazioni tematiche. Quando, ad esempio, la sonnambula entra nella stanza del Signor di Saint- Rambert, l’orchestra riporta alla mente dello spettatore (e dei personaggi) le arie di danza della giornata appena trascorsa. Oppure, nel momento in cui ella cade addormentata sul divano dell’ospite, l’indicazione precisa è «L’orchestra suona l’aria Dormez donc, mes chers amours», un’arietta o ninna nanna allora molto celebre di Amadée (o Amedée) de Beauplan (1790- 1853), pseudonimo di A. Rousseau. Ancora una volta la prassi del balletto preromantico di far comprendere la situazione scenica mediante la ripresa di brani già noti si ritrova nella comune pratica di Hèrold, come sottolinea il suo biografo Benoîtv Jouvin, il quale del compositore elogiava la elegante «arte di arrangiarsi» tra brani altrui, perfettamente adatti al momento scenico, e colpi d’ala di ispirazione propria.22 Un’altra indicazione

20 Nel 1946 il grande coreografo George Balanchine creò per la compagnia del Colonnello De Basil, a Montecarlo, un balletto omonimo ma con soggetto diverso, in cui la musica utilizzava brani tratti da La Sonnambula e da I Puritani di Bellini, riarrangiati da Vittorio Rieti. Cfr. Programma di sala del Teatro dell’Opera di Roma, stagione 2008, La Somnambule, p. 18-19. 21 La popolarità, all’epoca, della musica di questo balletto è testimoniata da riprese varie e parafrasi come il Mélange per pianoforte di Henry Karr (1828) e Le Bal, fantasia su temi de La Somnambule di Nicolas Louis. Cfr. L. Tozzi, Hérold, chi era costui?, in Sonnambulismo e rappresentazione, in Programma di Sala del Teatro dell’Opera di Roma, stagione 2008, La Somnambulei, pp. 34 e ss. 22 G. Guandalini, Sonnambulismo e rappresentazione, cit., pp. 39 e ss.

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prescritta dal libretto annuncia «Una musica vivace e lieta» per accompagnare l’arrivo di un cesto nuziale inviato dal signorotto, assolutamente inconsapevole del dramma causato dal sonnambulismo della precedente sera, mentre un’ultima indicazione sottolinea la forte tensione emotiva della scena in cui Thérèse ricompare la seconda volta nelle vesti di sonnambula (scena assente nel vaudeville del 1819). In questo particolare momento l’attenzione del pubblico è catalizzata sul pericolo della rischiosa passeggiata della fanciulla e lo stesso potere emotivo scaturisce dalla medesima scena nell’opera di Bellini, specie se coadiuvato dalle grandi interpretazioni delle storiche “Amine” come la Malibran, la Lind o la Callas. Il balletto di Hèrold-Aumer aveva anticipato questa sensazione di suspense, in cui il pubblico assiste col fiato sospeso alla camminata della protagonista in stato di trance sull’asse del mulino sospesa nel vuoto, al di sopra della pericolosissima ruota. Una coloritura sentimentale che, grazie alla commistione di musica pantomima e danza, da arcadica diventa protoromantica.23 Fra le diverse arie prese in prestito, Hérold ebbe tuttavia il merito di essere stato il primo ad impiegare, nella prima scena di sonnambulismo, l’artificio delle arie ripetute, al fine di suggerire la rievocazione, da parte di Thérèse, di momenti felici del passato. E questo, come si vedrà qui di seguito, ritornerà con grande effetto drammatico in Bellini come in Adam, benché la ‘tonalità’ generale del balletto di Hérold- Aumer sia molto diversa da quello di Sonnambula e Giselle. L’atmosfera di Somnambule è difatti pervasa da un’aria gaia e festante che, finanche nei momenti più delicati, conserva una certa leggerezza. La verve musicale è costantemente brillante e la scena del sonnambulismo presenta una ‘oscurità comica’ e non tenebrosa. L’orchestra dà voce musicale all’equivoco che fa già intuire il lieto fine; nella parte finale del balletto, nel momento in cui Edmond sta per sposare Gertrude e interviene in nobile Signore, è chiaramente percepibile una citazione della ouverture de La gazza ladra di Rossini. Un’atmosfera più lunare la si trova nella seconda scena di sonnambulismo. Il soggetto è vissuto nell’opera con notevole diversità, rispetto alla fonte ballettistica, che tuttavia permea il melodramma con la sua intrinseca impalpabilità. La fonte francese costituita dai due testi di Scribe (vaudeville e balletto) non è tuttavia la sola ad aver influenzato il libretto di Felice Romani. Un altro testo attinente al tema del sonnambulismo, la Dame blanche di Boïldieu (1825), ridotta da Gaetano Rossi a libretto per Pavesi con il titolo di La dama bianca di Avenello per la Canobbiana di Milano nel 1830, incise con ogni probabilità sull’elaborazione del soggetto. Inoltre, la presenza a Napoli di un libretto anonimo sullo stesso soggetto e con gli stessi personaggi, intitolato La dama bianca e stampato per la rappresentazione al Teatro del

23 Ivi, pp. 42-43.

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Fondo nel carnevale del 1827, potrebbe far supporre una conoscenza dello stesso da parte di Bellini, che in quell’anno si trovava ancora nella città partenopea. Veicolo esclusivo dell’ascesa verso il mondo degli spettri è, in questo particolare momento storico, come ben si sa, la donna. Eredità del riscoperto medioevo, oltre al folklore e alla ricerca della più genuina identità di ciascun popolo, le protagoniste femminili invadono la letteratura e ispirano le arti.24 Con l’affermazione del romanzo gotico e l’invasione di elementi ‘oscuri’, il ramo che non devia verso l’orrido del romanzo nero vede congiunti elementi del romanticismo più sentimentale − ossia la storia d’amore (a lieto fine o meno) − e il paranormale, l’amore perduto e i conflitti interiori. Il confluire di questi stati d’animo lacerati dalla passione e dal dubbio, in un contesto spesso arretrato o ‘isolato’ storicamente e, specie nei momenti di maggiore tensione drammatica, ambientato in un paesaggio notturno in cui l’oscurità permettesse la rivelazione dei sentimenti più profondi, rende leggende miti e saghe nordiche gli scenari prediletti in Francia per il balletto, analogamente a quanto accadeva per l’opera in Germania. L’altra faccia del “demoniaco”, qualora si voglia intendere il significato etimologico della parola come manifestazione dell’anima di un individuo o di una più generica potenza divina che permetta di intendere il sovrasensibile, la si trova nel retroterra comune di ben più blandi fenomeni intesi come paranormali o metafisici, temuti perché sconosciuti. Uno di questi è il fenomeno del sonnambulismo, che a un certo punto divenne di gran moda nel XIX secolo.25 Partendo dalla rappresentazione della figura di

24 Il cliché della fragile fanciulla nelle vesti di protagonista aveva guadagnato il primo piano già in Pamela, o la virtù premiata di Samuel Richardson, romanzo in due volumi che vide la luce tra la fine del 1739 e l’inizio del 1740, che riscosse immediatamente un grande successo, inaugurando una fiorente stagione di eroine. 25 Sarah Hibberd, partendo dalla fonte dell’opera di Vincenzo Bellini, il ballet-pantomime La Somnambule di F. Hérold - generalmente ricordato oggi in funzione dell’opera e che ispirò tutta una serie di popolari vaudevilles sul tema - illustra la forza e l’attrazione voyeuristica per i fenomeni di trance, negli anni finali della Restaurazione borbonica in Francia. Cf. S. Hibberd, “Dormez donc, mes chers amours”: Herlod’s La Somnambule (1827) and dream phenomena on the Parisian lyric stage, «Cambridge Opera Journal», Vol. XVI, n. 2 (luglio 2004), pp. 107-132. La studiosa procede con un’analisi delle relazioni fra sonnambulismo, mesmerismo, follia e soprannaturale, introducendo in primo luogo importanti sfumature sulla spesso generalizzata natura delle scene di trance nel teatro del XIX secolo, opponendo un modello alternativo a quello dell’eroina fuori di senno dell’opera italiana. La Hibberd illustra e le pratiche musicali specifiche della tarda Restaurazione a Parigi, che costituirono un momento cruciale nell’estetica e conseguentemente contribuirono al successo delle eroine sonnambule. Un panorama di allusioni visive e musicali concentrate attorno a queste figure femminili che, relazionate con le folli eroine dell’opera italiana, denotano una propria personalità, con le relative implicazioni sociali. Data la predominanza di episodi di follia, piuttosto che di sonnambulismo, agli occhi dello spettatore moderno quest’ultima patologia apparirebbe come una sorta di «follia diluita», a detta della stessa Hibberd.

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Giovanna D’Arco sulla scena parigina del tempo, in cui la ‘pulzella d’Orleans’ veniva rappresentata come sonnambula, folle o invasata dal fanatismo religioso, la fascinazione per il mondo dell’inconscio a Parigi toccava il suo punto più alto fra l’aprile e il dicembre del 1827, dal momento che lavori di genere differente si concentravano sul tema del sonnambulismo.26 Per ben otto mesi le scene parigine furono costantemente popolate da donne in trance, folli e sonnambule, tutte presentate nella stessa mise, ovvero in vestaglia bianca, a piedi nudi, con i capelli sciolti e gli occhi sgranati.27 Le fanciulle erranti per i tetti delle case abbigliate in questa foggia sono oggi classificate come eroine dalla follia ‘semiseria’. Amnesie, allucinazioni, comportamenti irrazionali e sonnambulismo appaiono tutti fenomeni confluiti nelle scene di pazzia e c’è da dire che l’opera lirica aveva accolto il fenomeno già prima, in chiave comica o semiseria, per poi farlo successivamente sfociare in chiave drammatica. Nel 1797 Luigi Piccinni (1764-1827), figlio del celebre Niccolò, compose un’opera buffa dal titolo La Sonnambula. Nel 1800, in occasione del Carnevale, il Teatro San Benedetto

26 Secondo le ricerche più attendibili il termine somnambule apparve per la prima volta nel 1688 nel numero di ottobre della rivista Nouvelles de la république des lettres. L’argomento richiamava inevitabilmente l’evocazione di cause soprannaturali, di spiriti maligni e possessioni diaboliche. Intorno alla fine del XVII secolo si cominciò a constatare che il sonnambulismo non dipendeva né da Dio né dal diavolo e si cominciò a banalizzarne la visione. Qualche decennio più tardi apparve sulle scene parigine una commedia in un atto Le Sonnambule, rappresentata alla Comédie-française dal 19 gennaio 1739, sugli autori della quale vi è ancora disputa fra il conte di Pont-de-Veyle, il conte de Caylus o un Sallé segretario del conte di Maurepas. In ogni caso, pare sicura la genesi in un ambiente di signori libertini, amanti dei piaceri. Una storia di quiproquo, priva di qualunque riferimento al soprannaturale, che apre la strada all’interpretazione comica del sonnambulismo giunta fino a noi attraverso lo stereotipo del personaggio in camicia da notte che avanza a occhi chiusi e le braccia tese orizzontalmente in avanti. Cfr. P. Enckell, Petite promenade somnambulique, in La Somnambule, in «l’Avant-Scène Opéra», n. 178 (1997), pp. 62-65: 63-64. 27 A partire da Nina, la protagonista dell’opera di Dalayrac Nina, ou la folle par amour (1786), sopravvissuta nel repertorio dell’Opéra nel balletto, basato sulla stessa trama, di Louis-Luc Loiseau de Persuis (1813), numerose figure femminili sconvolte dalla follia apparivano in La Folle de Glaris, un adattamento dell’opera di Conradin Kreutzer Adele von Budoy (1821) al Teatro Odéon, oltre che in un certo numero di lavori basati su novelle di Walter Scott, compresa La Folle, ou le testament s’une anglaise o Emilia, ou la folle, andati in scena rispettivamente al Gymnase-Dramatique e al Théâtre-Français. In questo frangente facevano la loro comparsa sulle scene le due eroine folli per antonomasia del repertorio shakespeariano: Lady Macbeth, la cui scena di sonnambulismo costituiva il punto culminante della tragédie lyrique di Hyppolite Chelard, Macbeth, andata in scena all’Opéra e Ofelia, interpretata da Harriet Smithson nelle recite dell’Hamlet all’Odéon. Ma lo spettacolo che accolse maggior successo fu il summenzionato ballet-pantomime La Somnambule, ou l’arrivé d’un nouveau seigneur, che infervorò il pubblico di un grande entusiasmo, così che ben quattro vaudevilles sullo stesso tema furono rappresentati nei teatri secondari della città (La Villageoise somnambule, Héloïse, La Somnambule du Pont-aux-choux e La Petite somnambule). Cfr. Smith, Ballet and opera, cit., p. 109, n. 2.

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di Venezia presentò La Sonnambula, farsa giocosa su musica di Ferdinando Paer (1771-1839), libretto di Giuseppe Maria Foppa. Alla Scala di Milano nel 1805 Giulio Viganò mise in scena La finta sonnambula, ‘ballo comico’ rappresentato come intermezzo all’opera buffa Lo stravagante e il dissipatore, su libretto del Foppa e musica di Francesco Basily o Basili. Grande successo nel 1824, sempre alla Scala, del melodramma semiserio di Michele Carafa su libretto di Felice Romani: Il Sonnambulo. Nel contesto storico parigino del 1820 la rappresentazione teatrale del sonnambulismo evocava tuttavia associazioni specifiche, dato il confronto dei coevi lavori letterari con gli esperimenti scientifici; il balletto di Hérold e quanto da esso scaturito inglobavano alcune delle idee circolanti nel 1827 sul tema dell’immoralità, il mesmerismo28 e le ambigue relazioni fra inconscio e soprannaturale. Lo spettatore poteva partecipare a questo clima attraverso il potere narrativo della musica dei teatri parigini, in cui erano d’uopo i riferimenti allusivi e motivi familiari, oltre all’utilizzo di cliché musicali.29 Queste strutture narrative (e il topos della fanciulla folle per amore) si affermano con imperitura vitalità drammatica.30 Nel ponte ideale che collega la fonte diretta della Sonnambula a Giselle, l’avanzamento del tragico sulla scena procede in maniera progressiva: dal balletto Somnambule, di diretta ascendenza comica, in cui il sonnambulismo è piuttosto un equivoco, all’opera di Bellini, che si muove «nella galassia stilistica e concettuale del drame e dei suoi derivati musicali»,31 con momenti di alto lirismo che promanano dalla tragedia solo sfiorata, a Giselle, in cui la tragicità della sorte della protagonista è il fulcro della vicenda. Nella elaborazione della fonte parigina, Felice Romani opera una vera e propria evoluzione della «tonalità d’insieme del soggetto», nel comune intento con Bellini di trovare il registro stilistico di livello più elevato.32 Ne La Sonnambula l’innocenza di Amina ha un profilo musicale che Bellini sembra aver ricalcato su quella della Nina o sia La pazza per amore del 1789,

28 Franz Anton Mesmer (1734-1815), studioso austriaco, si affermò in tutta Europa con fondamentali osservazioni sul magnetismo animale, sull’esistenza cioè di un equilibrio interno di ogni essere umano. Le malattie erano considerate squilibri su cui era possibile intervenire con l’elettricismo, la suggestione, con l’induzione di trance durante la quale il paziente era in grado di compiere ogni tipo di azioni con coerenza e lucidità. Cfr. G. Guandalini, Sonnambulismo e rappresentazione, cit., p. 39. 29 Cfr. Smith, Ballet and Opera, cit., p. 101 e ss. 30 G. Carli Ballola, Intorno all’astro maggiore. Nascita, apogeo e fine di un sistema solare, in Vincenzo Bellini: la vita, le opere, l’eredità, a cura di G. Taborelli, Acireale, Banca Popolare Santa Venera, 2001, p. 16. 31 L. Zoppelli, Il personaggio belliniano, in Vincenzo Bellini nel secondo centenario della nascita. Atti del convegno internazionale (Catania 8-11 novembre 2001), a cura di G. Seminara, A. Tedesco, Firenze, Olshki, 2004, p. 146. 32 La Sonnambula di Vincenzo Bellini, Riduzione per canto e pianoforte condotta sull’edizione critica della partitura, a cura di A. Roccatagliati, L. Zoppelli, cit., p. XXIV.

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su musica di Giovanni Paisiello e libretto di Giuseppe Carpani, in un contesto in cui, fino agli anni Venti dell’Ottocento, il balletto mutuava sovente soggetti operistici.33 La purezza della fanciulla è condizione essenziale dello sviluppo di tutta la drammaturgia. La Nina è l’opera che nella tradizione napoletana segnò l’inizio del cosiddetto genere larmoyante, l’ascendente della fresca purezza della Sonnambula, che ebbe notevole influsso sui soggetti operistici, dando vita alle eroine alienate per dispiaceri d’amore, quali saranno la Lucia di Lammermoor nel 183534 e la Linda di Chamounix nel 1842.35 Sul personaggio di Amina, lo stesso Felice Romani scriveva, sulla «Gazzetta Ufficiale Piemontese» del 7 settembre 1836:

Il personaggio di Amina … è forse il più difficile di molti … Conviene che l’attrice sia schietta, ingenua, innocente, e nel tempo stesso appassionata, sensitiva, amorosa; che abbia un grido per la gioia come pel dolore … in ogni sua mossa … in ogni sospiro un non so che di ideale e insieme di vero, come si vede in certe pitture dell’Albani, come si sente in certi idilli di Teocrito; conviene … che il suo canto sia semplice e nello stesso tempo fiorito, che sia spontaneo e nel punto medesimo misurato, che sia perfetto e non apparisca lo studio.36

La caratterizzazione della fanciulla Giselle sembra ricalcare alla perfezione questo personaggio. E non è necessario ripercorrere in questa sede quanto già noto in proposito. Se Gautier immaginava la sua Giselle come una felice combinazione di due opposti caratteri, quello etereo e quello terreno (fino ad allora sempre distinti e mai concentrati in un’unica ballerina) sintetizzati rispettivamente da Maria Taglioni e Fanny Essler,37 è anche vero che Giselle nel primo atto esprime gioia di

33 Questa tendenza sarà successivamente capovolta e i soggetti del ballo passeranno nei libretti d’opera. Sulla «migrazione tematica ballo-opera» si veda ancora G. Guandalini, Sonnambulismo e rappresentazione, cit., p. 47. Qui si ricorda come il Nabucco verdiano sia stato derivato dallo scenario di Antonio Cortesi, come la Manon Lescaut di Puccini sia stata costruita sullo stesso tema di Aumer, come , balletto su musica di A. Adam e libretto di J. H. Vernoy de Saint Georges e Joseph Mazilier, abbia ispirato il Corsaro di Pacini e poi di Verdi. Nel Novecento inoltrato sarà invece il balletto a riprendere i soggetti delle grandi opere, con La dame aux camélias, Manon, Carmen, Cenerentola, etc. Un interscambio tematico che costituisce ancora oggi un fenomeno tipico delle produzioni teatrali, indipendentemente dal genere di appartenenza. 34 Opera in tre atti su musica di Gaetano Donizetti e libretto di Salvatore Cammarano, da The Bride of Lammermoor di Walter Scott. Prima rappresentazione al Teatro di San Carlo di Napoli il 26 settembre 1835. 35 Opera in tre atti su musica di Gaetano Donizetti e libretto di Gaetano Rossi. Prima rappresentazione al Teatro di Porta Carinzia di Vienna, il 19 maggio 1842. 36 Cit. in G. Carli Ballola, Intorno all’astro maggiore. Nascita, apogeo e fine di un sistema solare, cit., p. 72. 37 Cfr. C. W. Beaumont, The ballet called Giselle, cit., pp. 78 e ss. Su T. Gautier e l’idea della danzatrice romantica si veda E. Cervellati, Théophile Gautier e la danza. La rivelazione del corpo nel balletto del XIX secolo, cit., pp. 199-218.

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vivere e passione delicata, più che sensualità. Anche in Giselle vi è la nobilitazione del personaggio tipico della contadina, non più villanella comique (come ancora in Somnambule), poiché la sua allegria non è spensierata gaiezza, come si evince da continui presagi, bensì solo felice scoperta di un sentimento puro e totalizzante, avviluppato nella rete di ripetuti ammonimenti che turbano finanche i momenti più belli.38 L’anomalia psichica – un fenomeno tradizionalmente legato al genere femminile, in ambito artistico e letterario – diviene uno ‘stato di grazia’, un invasamento che ricorda la trance necessaria all’epifania degli dei pagani. Il Romanticismo aveva trasformato queste figure di folli, già «bizzarre e nevrotiche in diafane entità lunari», dalla Muette de Portici (1828) di Daniel Auber, su libretto ancora una volta di Scribe, alla Lucia di Lammermoor fino alla nostra Giselle e alla Linda di Chamounix. Per Quirino Principe Amina è ‘isolata’ dal contesto generale delle eroine folli per amore, in quanto «intatta dall’eros, immune dal peccato, libera dalla follia. Passa attraverso il male che scivola su di lei senza intaccarla».39 Non interessa, in questa sede, elucubrare sulla presunta purezza di Giselle o di Amina40, ma notiamo come alla danza di Giselle ben si adatti la triade di aggettivi che Principe attribuisce al colore orchestrale della Sonnambula: «tenue, brillante e trasparente».41

Dall’opera al balletto: Amina si trasforma in Giselle. Il carattere romantico della drammaturgia musicale di Bellini, benché essa propenda spontaneamente verso i modi di presentazione del classicismo tragico, mostra grande interesse per le suggestioni notturne e lunari.42 Se La Sylphide43 aveva introdotto una serie di grandi novità, l’irruzione della

38 Albrecht, nel primo atto, tenta di seguire Giselle in casa come fa Edmond con Thérese in Somnambule, nel tentativo di anticipare la prima notte di nozze, dopo il dono di anello e fiori e le danze d’insieme, ma la madre lo allontana. La situazione è la stessa ma la tonalità è profondamente diversa, in quanto il mesto diniego della madre di Giselle fa intuire che l’esito della vicenda sarà un altro e il pubblico stesso sa che Albrecht sta mentendo. 39 Q. Principe, La Sonnambula di Vincenzo Bellini, cit., pp. 36-37. 40 Cfr. in proposito J. Mueller, Is Giselle a Virgin?, «Dance Chronicle», vol. IV, n. 2 (1981), pp. 151-154. 41 Ivi, p. 94. 42 Questo in perfetta aderenza alla koinh# culturale italiana nella quale il catanese affonda la sua formazione, dal momento che la suggestione ambientale delle Notti di Young o dei poemi ossianici fu, con ogni probabilità, il primo elemento della complessa poetica preromantica a essere accolto. Cfr. L. Zoppelli, Il personaggio bellininano, cit., p. 145. 43 Lo scrittore e cantante Adolphe Nourrit, grande viaggiatore, immagina per Maria Taglioni, insieme alla quale era stato protagonista dell’opera di Meyerbeer Robert le Diable il 21 novembre del 1831, la trasformazione dell’opera del suo amico Charles Nodier, Trilby ou Le lutin d’Argail (1822), ne La Sylphide, spirito che seduce il fattore scozzese James, sottraendolo alle braccia della fidanzata Effie. Grandissimo il successo della prima rappresentazione, il 10 marzo 1832, con coreografia di Filippo Taglioni, musica di Jean

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psicologia del sentimenti interiori trova in Giselle piena maturità. L’incubazione del nostro il balletto passa dunque necessariamente per La sonnambula di Vincenzo Bellini e Felice Romani. Alla luce della particolarità della fonte utilizzata da Bellini e Romani, come nota Gioacchino Lanza Tomasi, l’origine ballettistica influenza a tal punto la stesura di Sonnambula da conferire all’opera «tratti formali specifici, unici nel quadro del melodramma romantico italiano».44 Di qui una riflessione necessaria: siamo abituati, per cultura italiana, a dare precedenza all’opera e, per conferire valore al balletto, a leggerlo come un melodramma per trasferirvi categorie di pensiero proprie dell’opera. Più che leggere Giselle in chiave operistica, è principalmente l’opera di Bellini a poter essere letto come un balletto e, nel caso specifico, ci si dovrà rivolgere al summenzionato ascendente diretto, La Somnambule di Scribe-Hérold- Aumer avvicinando, con un procedimento inverso, il più importante balletto romantico (il cui paragone con la Somnambule sarebbe, in vero, dissacrante!) al lirismo della Sonnambula belliniana. Quest’ultima è un’«opera progetto» – come la definisce Tintori – «perché l’idillio non rientrava fra i generi melodrammatici praticati attorno al 1830, tanto più che La Sonnambula, proprio per la sua origine di ballet-pantomime, si distacca

Madeleine Marie Schneitzhoeffer, scenografie di Pierre Ciceri e costumi di Eugéne Lamy, con l’innovazione del bianco e leggero tutu, mentre il libretto dà il via a tutta una serie di balletti ispirati allo stesso modello. Per la prima volta il pubblico assiste a una conclusione tragica in un balletto. La morte del protagonista suggella l’incapacità di conciliare, nel suo animo, gli opposti, mentre il pericoloso terreno dell’erotismo è accuratamente evitato dal bianco spirito, che nel primo atto invita deliziosamente James a seguirlo, con fare talvolta infantile e finanche dispettoso, mentre nel secondo evita ogni contatto diretto con lui. L’approccio erotico costituisce un pericolo per la Silfide, destinata a non poter (o non dover?) mai regalare la felicità all’amato, sì da morire nel momento dell’unico abbraccio. Il sognatore rincorre senza esito l’oggetto del suo desiderio onirico; la sfera sensoriale e sensuale annullano l’armonia e la felicità illusoria. Questo dualismo esistenziale richiama la visione dell’umanità e la concezione della vita che emergono dalla prefazione di Victor Hugo al Cromwell (1827): il poeta si batte per una nuova forma di dramma che rappresentasse la vita stessa, come riflesso della cultura e della società. La svolta che Victor Hugo imprime alla storia del teatro, con il prologo del Cromwell e con la pièce Hernani, teorizza e mette in pratica un nuovo tipo di azione scenica, con la mescolanza degli stili (tragico e comico, alto e basso, sublime e grottesco), con il rifiuto delle convenzioni classicistiche come l’unità di tempo e di luogo, la moltiplicazione dei personaggi, dei luoghi, dei registri linguistici. Ed è proprio il ‘fantasma’ dell’Hernani mai portato a termine da Bellini, ma in germe e presente nelle parti già composte, che si aggira in Sonnambula. Questa visone dell’uomo come ‘essere duale’ più volte sottolineato nella suddetta prefazione, diviene un interrogativo cruciale durante il Romanticismo. L’esclusione di uno dei due volti (quello materiale e quello spirituale) della natura umana e il risultato perenne di un essere incompleto sono concetti tradotti a pieno nella drammaturgia del balletto dei due Taglioni, non solo prototipo di ballet blanc, ma simbolo forte di questo dualismo, che si presta a diversi livelli interpretativi. Cf. in proposito E. Aschengreen, La Sylphide: un balletto dedicato a un sognatore e alle sue aspirazioni, Programma di sala del Teatro alla Scala, stagione 2005-2006, p. 23 e ss.; M. Cipriani, Giselle e il fantastico romantico tra letteratura e balletto, cit., pp. 20-21. 44 G. Lanza Tomasi, Bellini, Palermo, Sellerio, 2001, p. 99.

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anche dall’articolazione drammaturgica delle precedenti partiture larmoyantes che ne sono l’antefatto in campo operistico».45 È questa originalità della sua struttura, sottolineata da Lanza Tomasi, che ci induce ancor più a confrontare quest’opera con Giselle, per le novità di cui il balletto si fece foriero nel mondo della danza. Le analogie col balletto furono notate già all’epoca, quando il recensore dell’«Allgemeine musikalische Zeitung», in occasione della recita palermitana del 1833, riferì sulla presenza di «arie di danza» nell’opera. Dalla rappresentazione coreica è mutuata, ad esempio, l’attenzione per l’oggettistica: l’anello, prima donato in pegno d’amore, diventa simbolo di forte rimembranza affettiva. Sottratto alla disperata Amina nel momento della gelosia e poi nuovamente a lei reso alla fine della vicenda, nell’ultima scena del secondo atto il gioiello nuziale è ancora oggetto del pensiero della fanciulla, che rievoca la dolorosa rabbia di Elvino baciando il fiore, ormai inaridito, offertole dall’amato in segno di amore e di rispetto:

La Sonnambula (Atto II, scena ultima)46

AMINA (si guarda la mano come cercando l'anello di Elvino) L’anello mio... l’anello... Ei me l’ha tolto... ma non può rapirmi l'immagin sua... Sculta ella è qui, qui... nel petto. (si toglie dal seno i fiori ricevuti da Elvino) Né te d’eterno affetto tenero pegno, o fior, nè te perdei. Ancor ti bacio, ma... inaridito sei.

L’anello di fidanzamento, quale simbolo di amore eterno, è presente come referente di grande importanza psicologica ne La Sylphide: qui la bianca signora dei boschi lo sottrae dispettosamente a James, per poi renderglielo in punto di morte. In Giselle l’anello reale non esiste, ma è solo immaginato nel corso della scena pantomimica con Bathilde, la nobile fidanzata di Albrecht, nel momento in cui le due donne si incontrano al villaggio. L’unico gioiello in scena è la collana, dono fatto non dallo sposo, ma dalla rivale. Amina, al culmine del dramma, si toglie dal seno il mazzolino di fiori inaridito; così Giselle getta via il dono nuziale di Bathilde e ricorda la margherita, nel trasalimento della follia. (video 1 e video 2)47

45 Cfr. Ivi; F. Cella, Indagini sulle fonti francesi dei libretti di Vincenzo Bellini, Milano, Vita e Pensiero, 1968, pp. 498-514. 46 Il testo del libretto è tratto dal Commentaire littéraire et musical de J.f. Boukobza, La Somnambule, «L’avant-Scène Opéra», n. 178 (1997), pp. 6-54. 47 Si è scelto di utilizzare, per la maggior parte dei video relativi al balletto Giselle, il film del 1969, per la regia di Hugo Niebeling e David Blair, con Carla Fracci ed Erik Bruhn (interpreti perfetti), con i solisti e il Corpo di ballo dell’American Ballet Theatre per l’effetto suggestivo che gli accorgimenti televisivi permettono (ad esempio le dissolvenze di immagine su determinati riferimenti musicali).

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Il motivo dei fiori, anch’esso mutuato dal balletto, si offre ne La Sonnambula con il tema variato nella seconda sezione del cantabile del Duetto Cara nel sen ti posi questa gentile viola ed è ripreso sempre nella scena conclusiva, con l’aria di Amina Ah! non credea mirarti. Tra le più famose scene di balletto (romantico) in cui la presenza di fiori costituisce un elemento importante del processo drammaturgico,48 quella della margherita in Giselle appare emblematica, poiché strettamente connessa al destino della giovane e inserita in un analogo duetto pantomimico dei due amanti, che non si configura propriamente come Pas de deux canonico, in quanto presenta pochissima danza e, non essendo un pezzo ‘chiuso’, confluisce nella scena dell’intervento geloso di Hilarion, prima del Pas de deux vero e proprio inserito nella festa della vendemmia. ( (video 3) Con dei fiori bianchi lo spirito di Giselle accoglierà Albrecht nel bosco e con un fiore, in molte versioni del balletto portate in scena, si accomiaterà per sempre dall’amato alla fine del secondo atto. (video 4) Un bouquet avvelenato viene recapitato alla protagonista di un altro importante balletto del repertorio romantico, L’Ombre, andato in scena il 4 dicembre del 1839 al Teatro Bolshoij di San Pietroburgo, su libretto e coreografia di Filippo Taglioni, con musica di L. Wilhelm Maurer.49 Ma l’ombra della contessa Angelica ha ben poco in comune con le protagoniste dei due più celebri balletti romantici del XIX secolo:50 è vendicativa e ben diversa dalla pia Giselle e da tante altre anime destinate al martirio.51

48 I fiori faranno perennemente parte dell’oggettistica del balletto classico ottocentesco, dai balletti di Petipa-Minkus e Petipa-Ĉajkovskij fino all’ultimo lavoro di Petipa-Glazunov, Raymonda (1898). 49 Collocato cronologicamente tra La Syplhide e Giselle, L’Ombre di Filippo Taglioni, concepito per l’addio della figlia Maria a San Pietroburgo, segnava marcatamente il ritorno allo stile ‘aereo’ e il trionfo del ballet blanc. Non ebbe tuttavia grande fortuna, per via della debolezza del soggetto e della musica. 50 Le affinità drammaturgiche con balletti successivi si ritrovano soprattutto ne La Bayadére (1877), per via della rappresentazione delle azioni sotto forma di sogno. Nel balletto di Petipa-Minkus il sogno è indotto dall’oppio, per cui Solor può ricongiungersi a Nikya nel regno elle ombre, mentre qui, come da versione originale del libretto di Gautier per Giselle, il sogno rivela al pubblico la presenza di un’altra donna che avrebbe poi – sia pure indirettamente – provocato la morte della protagonista. Nella versione originale del libretto Giselle compiva il primo ingresso in scena già presaga di quanto sarebbe avvenuto, per via di un sogno, in cui «era gelosa di una bella signora che Loys amava e preferiva». Il libretto fu pubblicato da Gautier in T. Gautier, Théâtre, Mystère, Comédïes et Ballets, Paris, Charpentier, 1872, pp. 331-363. Cfr. Programmi-libretti di balletto di J.-G. Noverre, J.B., Blache, J.H. Vernoy de Saint Georges, P.G. Gardel, T. Gautier, «Acting Archives», a. III, n. 6 (novembre 2013), pp. 26-93: 72. Ne L’Ombre il Cavaliere Loredano sogna l’amata contessa Angelica, morta il giorno stesso delle nozze; il sogno rivela che il potente Gran Duca, deciso a dare in moglie la propria figlia a Loredano, si era voluto sbarazzare di Angelica facendole recapitare un bouquet di fiori avvelenati, i cui miasmi ne avevano provocato la morte. Lo spettro di Angelica allora si mostra a Loredano in un contesto di fiori e rivoli d’acqua, dove danza malinconicamente intromettendosi fra lui e la contessa Eudosia (come aveva fatto la Silfide con James ed Effie, nel Pas de trois del primo atto della ricostruzione di Pierre Lacotte, e

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Le caratteristiche peculiari che Quirino Principe, nella monografia che dedica al capolavoro belliniano, attribuisce alle opere «sempreverdi» valgono allo stesso modo per il nostro balletto, specie nella considerazione della Sonnambula come «svolta» decisiva nel rapporto fra musica e trame teatrali.52 Così Giselle, dal medesimo punto di vista, costituisce una vera svolta nell’ambito del balletto narrativo.53 Quattro anni dopo la messa in scena del balletto di Hérold -Aumer, il 6 marzo del 1831 veniva rappresentata al Teatro Carcano di Milano la prima de La Sonnambula di Vincenzo Bellini. «Melodramma» − come da definizione del frontespizio del libretto − in due atti, la nuova opera si configurava come un idillio paesano, anziché dramma, inserendosi con qualche difficoltà entro categorie prestabilite, a causa della sua «atipicità».54 Ispirato dagli amori per Giuditta Cantù, già sua amante dal 1829,55 Bellini modellò la nuova opera su misure tipiche del genere idilliaco-sentimentale, acquisendo carattere del tutto diverso dai due libretti che Felice Romani aveva messo a punto, in quello stesso torno di tempo, rispettivamente per Donizetti e Bellini stesso, con Anna Bolena e Capuleti e Montecchi. Tuttavia, nonostante l’ambientazione campestre, La Sonnambula rivela «quel progetto implicito di un nuovo teatro musicale italiano – romantico e borghese – che si andava faticosamente precisando negli anni Trenta».56 La vita semplice e idilliaca sul Lario, poi, aveva senza dubbio influito positivamente sul catanese, mentre Giuditta Pasta, scritturata per il Carcano, poteva aver

come farà Nikya nel terzo atto de La Bayadére di Natalia Makarova, frapponendosi tra Solor e Gamzatti durante la cerimonia nuziale). Alla festa per il nuovo matrimonio, l’Ombra si palesa anche alla Duchessa, nel momento in cui sta per firmare il contratto, strappandole la penna di mano e inseguendola perché respiri anch’ella il veleno dei fiori malefici. Alla di lei morte, un terremoto devasta il palazzo uccidendo tutti. Angelica e Loredano possono finalmente ricongiungersi nel regno della luce, proprio come in Bayadére le anime di Nikya e Solor saranno ricongiunte dopo il crollo del tempio. Il celeberrimo Pas de l’Ombre, in cui la protagonista tenta invano di afferrare la propria ombra, fu introdotto successivamente in altri balletti, tra cui l’Ondine, ou la nayade et le pêcheur di Perrot (1843). 51 Cfr. M. Pasi, Fiori avvelenati per una vendetta, in «Il Corriere della sera», 23 giugno 1994, p. 30, per la presentazione del balletto ricostruito da Pierre Lacotte per Alessandra Ferri e il Balletto di Nancy. 52 Q. Principe, La Sonnambula di Vincenzo Bellini, cit., p. 5 e ss. 53 Sulle affinità tra le scene dell’opera di Bellini e il balletto Somnambule cfr. Ivi, pp. 50 e ss. 54 L’opera fu detta ‘semiseria’ per via di qualche atteggiamento del coro e del personaggio quasi caricaturale di Alessio, ma essa si configura come un vero idillio, costruito su un lungo duetto d’amore. Cfr. in merito O. Andolfi, La Sonnambula di Vincenzo Bellini, Roma, A. F. Formiggini,1930, p. 11. 55 Milanese, sposa di Ferdinando Turina, Bellini la incontrò a Genova in occasione della rappresentazione di Bianca e Fernando. Cfr. Ivi, p. 4. 56 L. Zoppelli, L’idillio borghese, in La sonnambula, Programma di sala del Teatro La Fenice di Venezia, stagione 1996, p. 49.

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suggerito la scelta,57 o meglio, la ‘virata’ dalla prima intenzione dell’Hernani. Assegnata al filone dell’opera semiseria, nella quale, dalla fine del XVIII secolo, le situazioni tragiche non costituivano più appannaggio esclusivo della sfera aristocratico-eroica, essa portava in scena la dignità morale e sentimentale dei più umili.58 La vicenda, fatta eccezione per la soppressione dei servitori dell’ostessa e del signore, nonché per il cambiamento nella onomastica dei personaggi (Edmondo e Thérèse si trasformano nei decisamente più poetici Elvino e Amina, mentre la madre Michaud e il signorotto De Saint - Rambert diventano rispettivamente Teresa molinara e Conte Rodolfo), è sostanzialmente la stessa del balletto di Hérold-Aumer, La Somnambule, ou l’Arrivée d’un Nouveau Seigneur, trasposta geograficamente dalla campagna provenzale in un villaggio svizzero.59 Come nota Claudio Mancini, l’interesse per un libretto del genere poteva considerarsi fonte di sincera ispirazione per Bellini, in quanto offriva diverse situazioni tutte fondate su una vasta gamma si sentimenti elementari (gelosia, furore, allegria, solitudine, etc.).60 E saranno proprio questi sentimenti elementari, o meglio ‘universali’, a far trionfare il canone che si affermerà in Giselle. Stati d’animo di primigenia purezza che emergono nella musica (a dispetto del «logocentrismo» belliniano di

57 Alle doti mimiche della cantante ben si addiceva la doppia scena di sonnambulismo, variante alle scene di pazzia già consuete nel teatro d’opera. Cfr. Ivi, p. 10 e ss. 58 Il genere dell’opera semiseria nasce alla fine del Settecento come variante sentimentale o larmoyante dell’opera buffa italiana (o dell’opéra comique francese). I lavori principali del nuovo genere furono la Cecchina, ossia la buona figliola di Piccinni (1760, su libretto di Carlo Goldoni) e la summenzionata Nina pazza per amore di Paisiello. Proprio quest’ultima continuava a restare in repertorio grazie alle celebri interpretazioni di Giuditta Pasta, per la quale Bellini concepì il ruolo di Amina. Cfr. in proposito. L. Zoppelli, L’idillio borghese, cit., p. 51. 59 Amina, casta e dolce orfanella, sta per convolare a nozze con il benestante Elvino e il paese tutto, tranne l’ostessa Lisa, di lui innamorata e gelosa della buona sorte della rivale, è lieto di partecipare alla festa per una così bella unione. L’arrivo del conte Rodolfo, che non risparmia alla sposa una serie di complimenti destinati ad ingelosire Elvino, è seguito dai racconti dei popolani sullo spettro che ogni notte infesta il villaggio. Come nel balletto, nottetempo l’ostessa si introduce nella camera del Conte con fare civettuolo, quando compare la sonnambula Amina in bianca veste notturna, ancora traboccante di gioia per la giornata di festa appena trascorsa. Nonostante il Conte, ben consapevole di quanto stia accadendo, si allontani con il dovuto rispetto, Lisa approfitta della situazione ambigua per far accorrere Elvino e i paesani a testimonianza del flagrante (presunto) adulterio. Al ripudio di Amina da parte del fidanzato e all’imminenza del matrimonio con Lisa, seguono l’intercessione del Coro presso il Conte, affinché riveli quanto accaduto e lo smascheramento della menzogna dell’ostessa, il cui fazzoletto era stato rinvenuto nella camera del conte dalla madre di Amina, che fa presto a svergognarla pubblicamente, come lei aveva già fatto con la figlia innocente. Il Conte, pur evitando cavallerescamente di mettere alla gogna Lisa, svela il sonnambulismo di Amina, che compare, ancora una volta dormiente, in equilibrio precario sul tetto. Assicurata la verità, ella si risveglia fra le braccia di Elvino. 60 F. Boukobza, La Sonnambula, in «L’avant - Scene Opéra», n. 178 (1997), pp. 6-54 : 9.

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stampo classicista),61 per far emergere quel romanticissimo ardore e quella ricercata semplicità che fecero della Sonnambula il grande successo che è a tutt’oggi. Nonostante l’attenzione precipua del catanese fosse rivolta alla purezza e alla musicalità intrinseca del verso poetico (a differenza di Verdi, che trarrà ispirazione dalle «situazioni», e così come Gautier era stato impressionato dalla situazione presentata da Hugo in versi), 62 data la sua formazione e le sue idee estetiche Bellini non poteva astoricamente estraniarsi dal «processo romantico di decostruzione della drammaturgia tragica, di riduzione dell’astratta sublimità alla quotidianità colloquiale e molteplice del reale».63 La drammaturgia dell’opera impone ai personaggi un processo di interiorizzazione tale che villani e borghesi si trasformano in figure emblematiche dal sentire più o meno nobile, grazie al dipanarsi del nucleo drammatico-concettuale dell’opera, che, come sarà in Giselle, fonda il suo sviluppo drammaturgico sullo «squilibrio del rapporto amoroso tra i due protagonisti»64, rivelando «un amore tutto dedizione, senza riserve, quello di lei; un amore imperfetto, un po’ egoista, legato all’idea di possesso quello di lui».65 Sia pure con le dovute differenze, Amina prefigura Giselle. L’opera di Bellini, come già affermato, trae spunto da un ballet-pantomime preromantico subendone l’influenza in alcuni tratti formali specifici che confluiranno, nel decennio successivo, in Giselle, il balletto più importante della generazione romantica. A proposito de La Somnambule, scrive Franca Cella:

I singoli elementi sono spinti alla caratterizzazione per l’esigenza mimica: stizzosa la parte di gelosia, soave la prima ballerina innocente, nervoso nelle reazioni l’amante che, coi chiari gesti, e perciò con l’immediata sostituzione di una nuova sposa, deve significare contrarietà ed ira; galante – e perciò militare – il signore De Saint-Rambert, personaggio tipico del genere semiserio, con una superiorità cittadina affidata al riso frequente. L’elemento sentimentale veniva sfruttato sapientemente attraverso la prospettiva lirica concessa dal sonnambulismo. Romani e Bellini lessero la vicenda soprattutto in chiave di idillio sentimentale, dell’elemento brillante quasi non s’accorsero; e quel poco fu alterato e confinato al ruolo marginale di Lisa. L’esclusione del dramma

61 Sul fatto che i versi e non le situazioni siano stati la principale fonte di ispirazione belliniana si veda L. Zoppelli, Il personaggio belliniano, cit., p. 134. L’aspetto classicistico del pensiero belliniano, che fa presentare il personaggio non tanto nel contesto di una posizione drammatica, ma dando voce alla sua struttura autodichiarativa in forma tendenzialmente monologizzante. 62 In una lettera comparsa su «La Presse» del 5 luglio 1841 e indirizzata all’amico Heine, lo stesso Gautier esprimeva il suo vivo interesse per la creazione di un balletto, che la lettura dello scritto gli aveva ispirato. Cfr. A. Testa, Giselle, cit., pp. 59-64 e E. Cervellati, Théophile Gautier, cit., pp. 100 e ss. 63 L. Zoppelli, L’idillio borghese, cit., pp. 54-55. 64 F. Della Seta, Bellini,«Musica e Dossier», n. 15 (febbraio 1988), pp. 23-61: 54. 65 Ivi.

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dovette a un certo punto rendere accorto il maestro, che non vede, e perciò non fa, personaggi buffi, ma è portato dal non poter fare opera tragica a utilizzare stilemi di quella buffa. L’occhieggiare malizioso di Saint-Rambert permette d’intendere il fraseggiare semiserio del conte Rodolfo e certe sue reminiscenze del Dongiovanni. Nel passaggio al melodramma la vicenda subisce un processo idealizzante e d’approfondimento sentimentale, accresciuto anche dal fatto che Romani e Bellini dimenticano l’assolutizzazione simbolica cui l’espressione per gesti costringe, e assumono quei dati, deformati per eccesso, come verità».66

La studiosa sottolinea come il melodramma romantico tenda a un «piano di verità», pur emergendo la dicotomia fra l’annullamento dei mezzi meccanici e degli artifici teatrali nella «illusione di vita» e la liricità di Bellini, che per natura si allontana dalla «concretezza», «astraendo i sentimenti in un mondo contemplativo […] attraverso un’ambientazione concreta e paesana».67 Di qui la subordinazione della prospettiva del librettista, il quale concretizza l’ambientazione nelle persone dei paesani, secondo una visione tipicamente italiana e più specificamente lombarda, a quella del Maestro, giungendo a una idealizzazione del Coro, che diviene personaggio sognante, e dei luoghi ai quali cercava di dare corpo. Anche la gestualità ballettistica, che nel libretto diventa parola, viene assimilata alla tradizione testuale propria dell’opera. Le situazioni che vedono protagonisti i due fidanzati sono colte e debitamente adattate alle esigenze dell’opera, grazie al vantaggioso canovaccio offerto dal testo di Scribe, che aveva evitato al Romani il consueto trasporto del dramma originale in prosa con l’organizzazione delle scene, poi tradotte nelle forme poetiche destinate al libretto d’opera e quindi organizzate secondo l’equilibrio musicale dei pezzi chiusi. Valga come esempio la situazione scenica del Pas de deux nella scena terza del primo atto del balletto di Hèrold:

La Somnambule (Atto I, Scena 3)68

«Thérèse et Edmond […] témoignent leur joie, leur livresse. - Tu est donc à moi, rien ne peut nous séparer! Dit Edmond. […] Edmond met au doigt de Thérèse son anneau de fiancée, puis lui donne un bouquet, […] Thèrèse porte alors à ses lèvres le bouquet […] et le cache dans son sein».

Nell’opera il Pas de deux diventa contemplazione dell’amore nell’aria dell’anello (Atto I, scena V). L’intervento del Coro funge da corpo di ballo e fa da cornice al duetto, confermando lo stato di gioia dei due fidanzati: (video 5)

66 Cfr. F. Cella, Indagini, cit., p. 500. 67 Ivi. 68 E. Scribe, Oeuvres complètes, Paris, e. Lebigre-Duquense, 1854, p. 65-77.

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La Sonnambula (Atto I, scena 5)

ELVINO Prendi: l’anel ti dono Che un dì recava all’ara L’alma beata e cara Che arride al nostro amor. Sacro ti sia tal dono Come fu sacro a lei; Sia de’ tuoi voti e miei Fido custode ognor.

CONTADINI Scritti nel ciel già sono, Come nel vostro cor.

ELVINO Sposi or noi siamo.

AMINA Sposi! Oh! tenera parola!

ELVINO Cara! nel sen ti posi Questa gentil viola. (Le dà un mazzetto.)

AMINA Puro, innocente fiore! (Lo bacia.)

ELVINO Ei mi rammenti a te.

AMINA Ah! non ne ha d’uopo il core.

ELVINO Ei mi rammenti a te.

AMINA E ELVINO Caro(a)! Dal dì che univa I nostri cori un Dio, Con te rimase il mio, Il tuo restò con me, ecc.

AMINA Ah! vorrei trovar parole A spiegar com’io t’adoro! Ma la voce, o mio tesoro, Non risponde al mio pensier.

ELVINO Tutto, ah! tutto in quest’istante Parla a me del foco ond’ardi: Io lo leggo ne’ tuoi sguardi, Nel tuo riso lusinghier! L’alma mia nel tuo sembiante Vede appien la tua scolpita, E a lei vola, è in lei rapita Di dolcezza e di piacer! Tutto, ah! tutto in quest’istante, ecc.

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CONTADINI, TERESA, ALESSIO Ah! così negli occhi vostri Core a core ognor si mostri: Legga ognor qual legge adesso L’un nell'altro un sol pensier.

AMINA Ah! Mio ben.

LISA (Il dispetto in sen represso più non valgo a sostener.)

[…]

ELVINO Domani, appena aggiorni, Ci recheremo al tempio e il nostro imene Sarà compiuto da più santo rito.

La figura del contadino Alessio, che nel secondo atto de La Sonnambula è disposto a mettere sottosopra tutto il villaggio per impedire l’unione con Elvino, potrebbe essere accostata a quella di Hilarion in Giselle, che non si cura di nulla pur di impedire l’unione della ragazza con Albrecht (video 6). Per quanto riguarda la drammaturgia dell’opera in oggetto, la traccia tematica del sonnambulismo, motore principale dell’evoluzione di tutti gli eventi, compare per la prima volta nella scena sesta del primo atto, quando il clima generale da festoso diventa cupo. La gioia del paese in festa per le nozze appare un antefatto del dramma che si sta per compiere e che viene annunciato dall’arrivo del Conte. Quest’ultimo è un personaggio inizialmente avvolto dal mistero, in quanto forestiero e perciò guardato dal popolo con sospetto e curiosità; ma la sua razionalità e le sue conoscenze scientifiche sono destinate a sollevare il velo che obnubilava gli occhi dei paesani, atterriti dal fantasma generato dalla superstizione popolare. La vicenda sembrerebbe qui declinare verso quell’orrido di spettri e demoni correlati all’azione di personaggi macchiati di colpe imperdonabili, in cerca di una redenzione che potrà essere conquistata solo con il sacrificio estremo della persona amata. Il Liebestod, tema consueto nella Romantische Oper, è lontano dal sentire belliniano, ma sarà l’elemento fondamentale nello sviluppo della vicenda di Giselle. Ne La Sonnambula, il clima che si instaura in questo senso è destinato a rimanere solamente allusivo e sostanzialmente ambiguo, dal momento che il pubblico è ben consapevole che si tratta di suggestioni, così come è certo della integrità di Amina, ben marcata fin dal principio e che difficilmente avrebbe potuto offrire lo spunto per un capovolgimento radicale della situazione.69 L’allusione sinistra è così ben costruita che le fosche tinte richiamate dal coro suggeriscono allo spettatore due analogie con scene del balletto Giselle: il racconto che Thérèse, madre adottiva di Amina, fa al Conte sulla

69 Cfr. in merito Q. Principe, L’opera tedesca nell’età romantica, «Musica e Dossier», n. 58, (nov./dic. 1992), pp. 35-55: p. 48 e ss.

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presenza dello spettro misterioso richiama quello della Madre di Giselle ai giovani del villaggio, sulla presenza delle Villi e sul destino toccato in sorte alle giovani ragazze che muoiono prima delle nozze. Nel bel mezzo di un contesto gioioso e pastorale, l’incupirsi dei toni dell’orchestra evoca le misteriose presenze

La Sonnambula, Recitativo e Coro (Atto I, Scena 6):

TERESA (con gran mistero) Sapete Che l’ora si avvicina in cui si mostra Il tremendo fantasma.

CONTADINI È vero, è vero!

RODOLFO Qual fantasma?

TUTTI È un mistero un oggetto d’orror!

RODOLFO Follie!

CONTADINI Che dite? Se sapeste, signor...

RODOLFO Narrate.

CONTADINI Udite.

Così, in Giselle, il racconto di Berthe ai giovani del villaggio annuncia la presenza delle Villi nei boschi e ammonisce le fanciulle a non lasciarsi irretire dalla foga per la danza, che potrebbe condurle all’infelice destino di diventare spettri notturni.70 (video 7)

Giselle (Atto I, Scena 6):

Ma danzerai dunque sempre? – dice a Giselle –, la sera, la mattina! È una vera passione, e questo invece di lavorare, di curare la casa!». «Ella danza così bene!» dice Loys a Berthe. «È il mio solo piacere – risponde Giselle –, come egli – aggiunge indicando Loys – è la mia sola felicità!».

70 Nel caso di Giselle è proposto un unicum di aderenza fra struttura coreografica e libretto, in cui le parole rendono visibile la danza in un raro esempio di obbedienza del coreografo al librettista. Nel testo scritto, come nota Flavia Pappacena, a seconda delle situazioni cambia anche il ritmo e il registro espressivo. Sul libretto per la messa in scena della danza, con riferimento ad alcune caratteristiche specifiche del libretto per Giselle – in particolare a questa scena – e alle differenze sul programma del balletto francese e di quello italiano, si veda F. Pappacena, Dal libretto di balletto alle note per la messa in scena, «Acting Archives Review», cit., pp. 11-13.

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«Sono sicura – insiste Berthe – che se questa piccola folle morisse, diventerebbe una Villi e danzerebbe ancora dopo la sua morte, come tutte le fanciulle che hanno troppo amato il ballo». «Che volete dire!», gridano le giovani vendemmiatrici con paura, serrandosi le une contro le altre. Berthe, allora, al suono di una lugubre musica, sembra descrivere un’apparizione di morti che, ritornati al mondo danzano insieme. I contadini sono colmi di terrore. Giselle soltanto ride e risponde allegramente alla madre che tanto non cambierà e che, morta o viva, danzerà sempre. «Eh già! Ma è proprio questo che può nuocerti – aggiunge Berthe –. Si tratta della tua salute, della tua vita, forse!». «È tanto delicata – dice rivolta a Loys –: la fatica, le emozioni, potrebbero esserle fatali. Anche il medico l’ha detto». Loys, turbato da queste confidenze, rassicura la buona madre e Giselle, prendendo la mano di Loys la stringe al suo cuore, come per dirgli che, accanto a lui, non teme alcun pericolo. Fanfare di caccia si odono in lontananza. Loys, preoccupato da questo suono, dà vivacemente il segnale della partenza ai vendemmiatori e sollecita le contadine ad avviarsi mentre Giselle, forzata dalla madre a rientrare nella capanna, manda un bacio d’addio a Loys, che si allontana seguito da tutti.

Per la scena dello spettro de La Sonnambula, il Romani organizza una sorta di ballata romantico-popolare, perché il Coro attiri il conte Rodolfo nella propria sfera superstiziosa, allorquando è fatta per la prima volta menzione dell’oscura presenza. La musica incontra l’intenzione popolare del librettista e con essa si fonde in un «realismo di sogno», che nell’ora del crepuscolo suggestiona le anime: (video 8)

La Sonnambula (Atto I, Scena 6)

CONTADINI A fosco cielo, a notte bruna, Al fioco raggio d’incerta luna, Al cupo suono di tuon lontano Dal colle al piano – un’ombra appar. In bianco avvolta lenzuol cadente, Col crin disciolto, con occhio ardente, Qual densa nebbia dal vento mossa, Avanza, ingrossa, immensa par.

RODOLFO Ve la dipinge, ve la figura La vostra cieca credulità.

TERESA, AMINA Ah! non è fola, non è paura: ciascun la vide: è verità.

ELVINO In verità!

CORO Dovunque inoltra a passo lento, Silenzio regna che fa spavento; Non spira fiato, non move stelo; Quasi per gelo il rio si sta, I cani stessi accovacciati,

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Abbassan gli occhi, non han latrati. Sol tratto tratto da valle fonda La Strige immonda urlando va.

Le tinte tenui (p. e pp.)71, le armonie dolci (tonalità con due, tre, quattro bemolli) sono predominanti. La caligine notturna dipinta dal Coro dell’opera richiama l’ingresso di Myrtha, la regina delle Villi, che appare in solitudine nella notte umida, nella scena terza del secondo atto di Giselle: (video 9)

Giselle, (Atto II, Scena 3):

Un fascio di giunchi marini si schiude lentamente e, dal seno dell’umido fogliame, balza fuori la leggera Myrtha, ombra trasparente e pallida, la regina delle Villi. È circonfusa da un alone misterioso che rischiara subitamente la foresta, fugando le ombre della notte. È così ogni volta che le Villi appaiono. Sulle bianche spalle di Myrtha palpitano e fremono diafane ali nelle quali la Villi puo’ ammantarsi come in un velo di luce. Questa inafferrabile apparizione non può non restare ferma e balza ora su un cespuglio di fiori, ora su un ramo di salice; volteggia qua e là, percorrendo come se volesse riconoscerlo, il suo piccolo impero, di cui ella viene ogni notte a prendere nuovo possesso. Si bagna nelle acque dello stagno poi si sospende ai rami dei salici, come su un’altalena. Dopo un passo danzato da sola, coglie un ramo di rosmarino e con questo tocca alternativamente ogni pianta, ogni siepe, ogni cespuglio.

Le differenze di atmosfera sono tuttavia notevoli e appartengono a presupposti di partenza ben precisi, dacché con Giselle ci troviamo di fronte a un prodotto francese non estraneo alle influenze dei «motivi oscuri» tipici del mondo germanico, mentre l’italianità di Bellini e Romani ha concepito questo momento con una visione ben diversa dell’elemento soprannaturale, connaturata al gusto italiano, che rifugge solitamente il fantastico.72 Il Maestro catanese interpreta la dimensione onirica offerta dal sonnambulismo secondo le tipiche suggestioni che dall’opera tedesca erano confluite, più che nel ballet-pantomime alle origini del libretto di Felice Romani, in quel ballet-blanc che proprio in quegli anni nasceva a Parigi con La Sylphide e che trionferà, appunto, con Giselle nel 1841. I versi appaiono intrisi di una certa ironia, mentre la musica accompagna la paura generale con convincente immedesimazione, come nota Giancarlo Landini a proposito di questo secondo coro:

71 Le due sigle stanno, nel linguaggio musicale, per piano e pianissimo. 72 Sulla ricezione in Italia del balletto Giselle si veda E. Cervellati, Da Giselle (Parigi, 1841) a Gisella (Bologna, 1843). Traduzione e ricezione di un capolavoro in una città italiana dell’Ottocento. Atti del convegno L’Italia e la danza. Storie e rappresentazioni, stili e tecniche tra teatro, tradizioni popolari e società (Roma, 13-15 ottobre 2006), in L’Italia e la danza. Storie e rappresentazioni, stili e tecniche tra teatro, tradizioni popolari e società, Roma, Aracne, 2008.

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…ascoltiamo l’accompagnamento del racconto, cupo quanto basta per creare l’atmosfera orrorosa e per capire che né Bellini, né Romani né il pubblico italiano sono disposti a credere sul serio ai neri fantasmi. Sonnambula non è il Freischütz; Bellini non è Weber.73

L’ambiguità protrattasi fino a questo momento scompare alla fine dell’ultima scena, in cui tutto è chiarito e le paure si sono dissolte. Anche il paesaggio si rasserena, come l’aurora che scaccia i fantasmi delle Villi nella scena finale di Giselle (sia pure con esito differente, nonostante la stessa sensazione di uscita dal buio che il pubblico può percepire) e Amina, da fantasma immaginario, diventa finalmente sposa reale. Bellini adopera il Coro attribuendogli un ruolo importante. Esso rimane sulla scena per quasi tutto il primo quadro, rientra all’inizio del secondo ed è nuovamente in scena, dopo un breve intervallo, in tutto il terzo quadro (atto secondo). Come scrive Otello Andolfi, l’azione corale

è innestata continuamente a brevi tratti fra una strofe e l’altra delle cavatine, a imitazione delle canzoni popolari, o anche in mezzo a un recitativo, quando il Coro è chiamato a partecipare quasi in funzione di personaggio, come nei classici esempi della tragedia.74

Esso diviene elemento attivo e motore della vicenda stessa: il corpo di ballo che incornicia i gesti dei singoli protagonisti è qui massa di un paese festante. Così avviene nella coreografia di Giselle: nel primo atto il corpo di ballo partecipa attivamente alle figurazioni che fanno da cornice al Pas de Deux dei protagonisti, dapprima disposto sullo sfondo nel valzer che Giselle inaugura da sola e poi, in maniera sciolta o composta secondo linee geometriche, muovendosi insieme ai primi ballerini nella consonanza della gioia per la festa della vendemmia. Come nella Sonnambula si verifica grande «precisione e aderenza degli accenti musicali col testo»,75 così in Giselle la danza aderisce spontaneamente alla musica riproducendo un effetto unico. Non a caso si tratta del balletto romantico la cui coreografia, sia pure ripresa e rimaneggiata in parte, è giunta fino a noi in maniera più fedele rispetto ad altri lavori. Solo più di un secolo dopo, il mito è stato ‘smantellato’ (dal punto di vista gestuale, più che ideale, perché il linguaggio coreico è cambiato radicalmente, ma l’essenza dell’amore di Giselle è rimasta la stessa) e riproposto in veste completamente nuova, senza che tuttavia la partitura venisse sostituita.76(video 10)

73 Cfr. G. Landini, Arcadiche eleganze vocali, cit., p. 31. 74 O. Andolfi, La Sonnambula di Vincenzo Bellini, cit, p. 10 e ss. 75 Ivi. 76 Ci si riferisce in particolare alla versione di Mats Ek, creata nel 1982 per il Cullberg Ballet con Ana Laguna come protagonista, che abbandona le punte e trasferisce l’azione in un manicomio: Giselle, la sciocca del villaggio, l’emarginata, vittima della seduzione di

158 Maria Venuso, La ‘danza’ di Amina e il ‘canto’ di Giselle.

Il culmine della vicenda, ossia la risoluzione dell’equivoco che ha rischiato di consumare Amina, ma che si risolverà, nell’opera, in un lieto fine (mentre nel balletto di Adam-Gautier avrà esito tragico e la sublimazione del sentimento sarà totale), va in contro al passaggio – inevitabile quanto necessario – della donna attraverso un rituale di morte e resurrezione. La morte figurale di Amina sarà lo stato di trance che la isola dagli altri. Elvino dovrà ‘sentire’ la sofferenza espressa dallo struggente canto della fanciulla Ah! Non credea mirarti, momento di assoluto lirismo tragico che indurrà l’uomo a esprimere la sua ‘consonanza’, ossia il proprio dolore e pentimento, unendosi al canto di lei (Più non reggo a tanto duolo), intervento che si deve allo stesso Bellini, il quale volle inserire questo pertichino non previsto dal libretto di Felice Romani.77 Fabrizio Della Seta parla di

intenso e purissimo legame di anime», del suggerimento di una «maggior responsabilità dell’elemento femminile … un’inopinata celebrazione romantica della superiorità morale della donna da parte del freddo Bellini (ma non si dimentichi che il pubblico al quale si rivolgeva e che sanzionò il suo successo era principalmente quello delle romantiche gentildonne milanesi).78

Niente di più consonante con il legame che Giselle vorrà insegnare, circa un decennio più tardi, ad Albrecht, dopo la sua trasfigurazione in Villi. Da un balletto a un’opera e dall’opera al balletto. Questo sembra il percorso dell’idillio campestre, della comédie-vaudeville che si trasforma in ballet- pantomime di carattere essenzialmente giocoso, che si ripiega nelle maglie della voce,79 sfiorando appena la tragedia. La protagonista del nuovo balletto (sempre in territorio francese) porterà invece in scena una tragedia vera e propria nella quale l’esito di salvezza (per l’uomo) e il perdono stempereranno l’oscurità della morte, aprendosi al lieto fine dell’anima.

Albrecht, non morirà ma finirà folle. L’esperienza nel manicomio, dove sono rinchiuse altre fanciulle che hanno avuto la stessa sorte, renderà Albrecht un uomo migliore. Da non trascurare le rivisitazioni di Jerome Robbins (The Cage, 1951), Fergus Early e Jackie Lansley (I, Giselle, 1980), John Neumeier (Giselle, 1983 e 2000), Masaki Iwana (The Legend of Giselle, 1994), Maryse Delente (Giselle ou le mensonge romantique, 1995), quella firmata da Sylvie Guillem, nel 1998, per il Balletto Nazionale Finlandese, quella di Mark Tompkins (Song and Dance, 2004) – Cit. in E. Cervellati, Théophile Gautier, cit., p. 116, n. 134 – e la Giselle di Pontus Lidberg (2012). 77 Sulle felici intuizioni di Bellini si ricordi anche l’espunzione della prevista scena di agnizione di Amina quale figlia illegittima da parte del Conte Rodolfo, della quale rimane eco in alcuni versi ancora presenti. L’eliminazione della scena allontana La Sonnambula dai cliché più consumati, elevando temi e personaggi al di sopra dell’idillio di maniera. Cfr. F. Della Seta, Bellini, cit., p. 55. 78 Ivi, p. 56. 79 Dal titolo del lavoro di G. Alfano, Nelle maglie della voce: oralità e testualità da Boccaccio a Basile, Napoli, Liguori, 2006.

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Il filo rosso che lega questi quattro momenti della storia del teatro, dalla commedia di Scribe al balletto di Gautier, è senza dubbio la scrittura librettistica, o meglio l’idea che nasce, si modifica e si eleva a poesia, per diventare musica, canto, danza. Francesco Degrada, in proposito, sottolinea il valore del libretto nell’economia del piano drammaturgico belliniano, evidenziando come il testo letterario non sia né prevalente né subordinato rispetto alla musica (che è l’elemento dalla percezione innegabilmente più immediata da parte del pubblico), parlando piuttosto – e a ragione – di una dialettica vera e propria fra testo e musica:

le relazioni dialettiche che intercorrono tra musica e testo, considerando la loro unione come insieme stratificato e complesso di significati, organizzati in un delicato equilibrio di interrelazioni, di tensioni, di condiscendenze compiacenti e di più o meno rilevate resistenze tra i due sistemi di segni; molteplicità dinamica e attiva di situazioni dunque (aperte sino a un certo grado all’ulteriore intenzionalità del gesto interpretativo, ognuna delle quali mantiene una propria valenza specifica all’interno del singolo momento linguistico e dell’opera nel suo insieme (intesa come totalità omnicomprensiva del progetto drammatico) […]. Il rapporto tutt’altro che pacifico che si instaurava tra Bellini e i suoi librettisti (e in particolare con il principe dei suoi librettisti, Felice Romani) …. Prosegue nella concreta strutturazione musicale della parola, nella complessa fenomenologia del rapporto musica- testo.80

Ma è un’osservazione successiva del Degrada che fa nascere una ulteriore riflessione sulla ‘confluenza’ della Sonnambula in Giselle, sulla scia di quanto già rilevato nello studio di Franca Cella a proposito delle fonti francesi di Bellini e Romani e più precisamente nelle modifiche strutturali intervenute nel passaggio dal balletto La Somnambule al melodramma, che si concretano nell’idealizzazione e nell’approfondimento sentimentale che emergono grazie al rifiuto, da parte degli autori, della

assolutizzazione simbolica cui l’espressione per gesti costringe, e assumono quei dati, deformati per eccesso, come verità… Il gesto, carico d’espressione, entra a far parte della tradizione gestuale già propria del melodramma, si lega ad essa nonostante la diversa provenienza e fisionomia»81

L’assunto già in precedenza citato, giustissimo nel suo riferimento al passaggio dal balletto di Hérold-Aumer, non va tuttavia inteso in senso assoluto per il balletto tout court, rispetto al melodramma, come se la costrizione a simbolo, dettata dalla mancanza di parola scritta o cantata, congelasse o cristallizzasse in un’azione stereotipata (com’è spesso quella del balletto di maniera) il sentimento e ne rendesse impossibile

80 Si veda in merito F. Degrada, Prolegomeni ad una lettura della sonnambula, in G. Pestelli (a cura di), Il melodramma italiano dell’Ottocento. Studi e ricerche per Massimo Mila, Torino, Einaudi, 1977, pp. 321-322. 81 Cit. in Ivi, pp. 323-324.

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l’interiorizzazione più profonda. È anzi vero che il passaggio naturale della gestualità dal balletto al melodramma conferisce espressività visiva al momento musicale, ma il profondo clima di mutamento che negli anni trenta del secolo stavano vivendo entrambi i generi permette di spiegare quanto il gesto del balletto Giselle, epurato dal manierismo di circostanza, assumerà valenze diverse. L’anello di congiunzione ce lo offre lo stesso Degrada, quando sostiene che

la mediazione tra gesto pantomimico e gesto melodrammatico è offerta da un linguaggio che l’aderenza assoluta ai moduli e alle convenzioni della tradizione melica e operistica italiana priva di ogni connotazione realistica. La sua consistenza, ancorché il registro adottato sia, per quanto attiene alle scelte linguistiche, medio e non sublime, è esclusivamente, iperbolicamente… letteraria.82

Il distacco più evidente dal balletto di Hérold-Aumer sta nella psicologia profonda dei due personaggi principali, oltre che nel valore intrinseco di musica e coreografia. Dal gesto al canto e dal canto di nuovo al gesto più consapevole di un balletto ormai maturo, nutrito dei sedimenti dell’opera di un italiano a Parigi e ‘colorato’ dalle ascendenze dell’opera romantica tedesca. L’unione di «semplicità e profondità»,83 l’aereità dello stile derivante dalla impalpabilità del balletto che ne aveva palesemente influenzato la tecnica narrativa – non solo per le situazioni previste nello scenario (e qui ci si riferisce al balletto Somnambule) ma anche per la gestualità rituale, come già detto – sono tutte peculiarità che avvicinano l’opera a Giselle, la cui struttura coreografica e drammaturgica è quella che confrontiamo, in questa sede, con la musica belliniana. Se Bellini sa «interrogare in musica la radice del gesto e dalla parola»,84 la naturalezza e la semplicità apparente sono le caratteristiche principali della coreografia del primo atto, quello terreno. Aereità e ancora apparente semplicità descrivono il regno dell’aria e delle creature infernali. È l’esito rispettivo del canto e dalla danza, due codici che assumono qualità immaginifiche e presentano una struttura in molti punti analoga. Lo stesso Landini descrive quella di Amina come «una vocalità talmente studiata da apparire semplicissima»85 e questo è quanto Giselle appare in danza: la sublimazione di una materia vocale ampia e generosamente colorata, che appartiene al soprano post-rossiniano, la cui tessitura tende più al patetico

82 Cfr. Ivi. 83 In una lettera a Francesco Florimo del 13 agosto 1835, cit. in C. Rosen, La generazione romantica, Milano, Adelphi, 1997, p. 672, lo stesso Bellini scrive: «La natura piana e corsiva delle cantilene che non ammettono altra natura d’instrumentazione che quella che vi è». 84 Cfr. F. Cella, Opera di sussurri, in La Sonnambula, Programma di sala del Teatro di San Carlo di Napoli, stagione 2001, pp. 14-15. 85 G. Landini, Arcadiche eleganze vocali, cit., p. 46.

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che al virtuosismo, alla conciliazione dei contrari.86 Niente di più consono alle sfumature che la danza offre per circoscrivere il personaggio di Giselle, come si vedrà qui di seguito con la disamina di alcuni dei punti nodali di queste due fortunate creature del Romanticismo europeo e la mitizzazione che ne derivò per le prime interpreti: Giuditta Pasta,87 per l’opera, e Carlotta Grisi,88 per il balletto. Il clima di festa che si respira all’inizio dell’azione, nell’opera come nel balletto, inserisce il quadro scenico nel consueto sistema descrittivo oleografico dell’idillio campestre. La ‘canzone a ballo’ In Elvezia non v’ha rosa in ritmo popolare di 6/8 e in tonalità di Sol maggiore tesse le lodi di Amina e corrisponde alla sia pure più stringata entrata dei vignaioli in Giselle.89 (video 11)

86 J. Cabourg, Profil des voix, in La Somnambule, in «L’Avant- Scène Opéra», n. 178 (1997) pp. 66-68: 66. 87 Giuditta Maria Costanza Negri, nata a Saronno il 28 ottobre 1797 e iniziata alla musica dallo zio materno, dilettante di violoncello, studiò canto a Milano con Giuseppe Scappa, sostituto di Lavigna alla Scala, dove il soprano esordì nel 1815. Sposò molto giovane l’avvocato e tenore dilettante Giuseppe Pasta, ricoprendo i ruoli principali nelle opere rappresentate a Milano e al King’s Theatre di Londra. Dopo la nascita della figlia Clelia fu scritturata dal Teatro Argentina di Roma, al Teatro Nuovo di Trieste, al Nuovo di Padova, al Carignano di Torino e al Théatre- Italien di Parigi fino ad arrivare a San Pietroburgo, nel 1841. Inizialmente alcune sue note velate, sorde e finanche aspre davano l’impressione di una voce ribelle o non sufficientemente educata. L’alto senso drammatico del fraseggio (una delle grandi conquiste del Romanticismo musicale) segnò la distanza con le altre interpreti e l’inizio del canto cosiddetto ‘moderno’. Aveva una voce da mezzosoprano, sulla quale erano innestate con scaltriti artifici le note del soprano, sì da farne un odierno soprano drammatico. Dopo il ritiro dalle scene non tenne una vera scuola, ma non rifiutò consigli e lezioni ad aspiranti meritevoli. Nel 1864 morì di bronchite a Como, dove si era trasferita. Cfr. Enciclopedia dello Spettacolo, Roma, Le Maschere, 1960, pp. 1758-1759. 88 Carlotta Grisi fu la danzatrice italiana passata alla storia per aver creato il ruolo di Giselle. Nata a Visinada, un paesino dell’alta Istria, nel 1821, ella dimostrò fin dalla prima infanzia una spiccata attitudine per la danza e, già all’età di sette anni, calcò il palcoscenico milanese impegnata in un ruolo da solista. Formatasi con il Maestro francese Guyet, danzò a Napoli, Venezia, Vienna e in Inghilterra, dove mise in bella mostra il suo talento per il canto. Il grande soprano Maria Malibran l’avrebbe voluta cantante, consigliandole di abbandonare la danza, ma la Grisi preferì esprimere la propria arte attraverso la levità dei suoi passi, continuando a regalare momenti di ‘bel canto’ ai soli amici. Théophile Gautier, innamoratissimo di lei, ne descrisse il sorriso «alla Leonardo da Vinci, con più tenerezza e meno ironia»; la definì fauvette (‘capinera’), per le sue ali e la sua voce melodiosa. Per lo scrittore rappresentava la bellezza femminile fragile ed effimera, fonte perenne di amore. Le cronache dell’epoca la raffiguravano di media statura, sottile, dal piede minuto e dall’incarnato fresco e puro. Compagna del Maestro e coreografo Perrot, la Grisi seppe essere brillante nel primo atto, eterea nel secondo, come lo sarebbe stata Maria Taglioni (con la quale Perrot aveva lavorato per quattro anni, attingendo moltissimo dallo stile ‘aereo’ della grande étoile). 89 La struttura delle strofe della canzone, tema-vocalizzo-coda è confrontabile con la struttura del Pas de deux di impianto classico in cui il tema corrisponde all’adagio melodico, il vocalizzo alla variazione di bravura, la coda alla coda stessa del Pas de Deux.

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Nel balletto la breve ma efficace ouverture denota un inizio in medias res, rispetto alla tragedia che si annuncia già nelle prime battute. L’allegro con fuoco e l’organico utilizzato da Adam proiettano immediatamente l’uditore nel vorticoso circolo delle Villi, sottolineato con crescente ostilità dagli archi e confermato dagli ottoni, che annunciano con timbri inquietanti il mondo dell’aldilà, in cui sprofonderanno i protagonisti.90 Presto, però, le fosche tinte91 si stemperano nel placido Andante che dipinge la scena idilliaca del mattino campestre, nel quale il risveglio della natura solleva il sipario sulla vicenda che sta per essere portata in scena (alternanza delle tonalità in sol minore/la - utilizzo delle tonalità ‘agresti’ di sol e fa maggiore). Lo status di contadina Giselle è reso da Adam con l’Allegro ma non troppo che segna il suo ingresso in scena, in 6/8, rapido e leggero, un perfetto ritratto sonoro della sua tenera ingenuità. Qui il compositore avrebbe potuto optare per un ‘pezzo chiuso’, un numero riservato alla protagonista, che sarebbe terminato in maniera netta, sì da concedere spazio agli applausi normalmente riservati all’ingresso della prima donna. Il pezzo invece non termina, bensì confluisce dapprima nel commovente incontro con Loys e, di lì a poco, nella ingannevole dichiarazione d’amore. Ingresso emozione e dichiarazione costituiscono un momento unitario, come unica è la scena del libretto, così che la drammaturgia della narrazione non venga interrotta, conservando la sua forza emotiva, e la narrazione proceda senza interruzioni.92 Si tratta di un particolare degno di rilievo, benché la semplicità dia quasi per scontato l’esito: condurre opportunamente il pubblico sull’azione, quindi sui protagonisti, e non sugli interpreti, come spesso accadeva e accade ancora. Il commovente moto di sentimenti che ne deriva, alla fine del secondo atto, inizia in questo momento e con questi espedienti finalizzati a evitare qualsivoglia distrazione, come se si trattasse della lettura di un testo scritto, in cui la concentrazione del fruitore è tutta rivolta al dipanarsi della vicenda. (video 12) All’osservazione delle rappresentazioni più moderne, il balletto di Adam è letto ancor più alla stregua di un’opera. I suoi personaggi si trovano coinvolti in dialoghi e monologhi di natura sentimentale e contemplativa, analogamente a quanto si verifica nei recitativi e nelle scene drammatiche del melodramma. Questo aspetto è oggi pressoché scomparso dal balletto, in quanto determinate sezioni, quando non sono state trasfigurate in numeri danzati, sono relegate a piccole scene della durata di pochi minuti,

90 È l’incalzare delle infernali creature che subito scuote l’orecchio dell’uditore e lo conduce, suo malgrado, già nell’atmosfera del secondo atto, vera ‘novità’ del balletto. 91 Non vi è definizione migliore di quella verdiana di «tinta», per descrivere questa introduzione, e non solo, attraverso il clima dato dagli elementi timbrici, ritmici, armonici. 92Cfr. F. Sartorelli, A proposito di Giselle, Note a margine della musica di Adam, www.fabiosartorelli.net/materiale%20didattico/.../Note%20su%20Giselle.pdf.

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ben lontane dalla gestualità danzante di intensa valenza teatrale che ne aveva caratterizzato la creazione. Il registro limitato di passi e figure accademiche, nel primo come nel secondo atto, consente a tutt’oggi di concentrare l’attenzione sull’espressività dell’azione, sull’interpretazione dei personaggi, sia da parte dei danzatori sia del pubblico. Come per la musica, ciò è reso possibile grazie alla semplicità dell’impianto e all’utilizzo di Leitmotiv coreutici, come illustra il Beaumont,93 a proposito del tema della gioia: il piacere della danza è espresso da Giselle attraverso una serie di ballonés (il termine indica una sospensione in aria, in questo caso eseguito con ritmo incalzante), piqués (denota un ancoraggio della punta sul pavimento, con spostamento nello spazio) e temps de flèche (qui uno scambio delle gambe en l’air, con rapido sviluppo della seconda gamba sull’accento forte) in una sequenza che ricorre nella danza della vendemmia, nel dialogo con la madre, nella descrizione della sua gioia di danzare fatta a Bathilde,94 poi ancora in coppia con Albrecht nel valzer dei contadini, per ripresentarsi, rallentata e distorta, nella scena della follia, in cui il suo corpo ricorda meccanicamente i momenti più felici.95 (video 13) Nell’opera di Bellini-Romani, Amina è quasi sempre in scena, con tre duetti, la cavatina del primo atto, l’aria finale e i concertati (quintetto e quartetto); così Giselle porta in scena tre Pas de Deux, una variazione nel primo atto e una nel secondo, il momento della follia. Se nella scena dell’anello Amina si mantiene su un «registro sommesso»,96 è possibile dire esattamente lo stesso della poetica creatura di Gautier: la dichiarazione di Albrecht richiama un vero e proprio duetto di natura operistica. Una semifrase acuta, affidata a un violino solo, e un’altra più bassa, affidata invece a un clarinetto, che rappresentano rispettivamente il farsi avanti di lui e il timido ritrarsi di lei. La musica di Adam è l’affresco di un amore innocente, da parte di Giselle, fatto di dolci sguardi e di una tenerezza quasi infantile. Se gli strumenti musicali impegnati nella descrizione dell’azione diventano vera e propria ‘voce’ dei personaggi, per cui la parola non appare più conditio sine qua non per l’esplicazione di un affetto che la sola musica, accompagnata dal gesto, è perfettamente in grado di figurare, la coreografia ne dipinge l’affresco ben più visibile. Ed è la linea coreografica che, più della musica di Adam, ‘traduce’ l’opera belliniana, in cui

93 Si veda in merito C. Beaumont, The ballet called Giselle, London, Dance Books, 2011 (prima ed. 1944), pp. 85 e ss. 94 Quando Giselle danza per Bathilde, dopo il tempo di valzer sul tema noto la musica si oscura in concomitanza al monito della madre, preoccupata per la salute della figlia. Un avvertimento, per lo spettatore, con l’inserimento di elementi tragici in un contesto apparentemente gioioso di festa e ospitalità. 95 Cfr. M. Venuso, cit., pp. 107-125. 96 O. Andolfi, La Sonnambula di Vincenzo Bellini, cit., p. 18.

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La melodia è sempre purissima, l’abbellimento ha sempre una funzione logica rispetto all’arco melodico, il fraseggio si stende puntualissimo e incantevole.97

Il «registro sommesso» Giselle lo mantiene per tutta la prima parte del primo Pas de deux, in cui invita Albrecht alla danza. Solo successivamente, e per poco, si lascerà andare alla gioia e sarà da questa grande gioia che scaturirà la tragedia. Nel balletto, dopo l’ingresso in scena dei vendemmiatori, sottolineato dalla presenza di un vero e proprio contrassegno di musica contadina (la quinta vuota della zampogna), Giselle si libra sulle note di un valzer semplice, leggero e trasparente che esalta la caratterizzazione del personaggio. Coerentemente con questo disegno, i due protagonisti danzano in un Pas de deux in cui il carattere della musica evidenzia il mondo villereccio della ragazza: anche qui le quinte vuote e la coreografia traducono in gesti la iniziale riluttanza al ballo da parte del duca, indotto dall’amata che gli insegna i passi dell’allegra danza paesana. Una volta sciolto ogni imbarazzo, Albrecht si esibisce in una variazione su ritmo binario, la cui musica contribuisce a camuffare la sua identità, adattandosi alla situazione. (video 14) L’elemento aristocratico, rappresentato nell’opera belliniana dal Conte Rodolfo (altro personaggio emblematico, sul quale non ci si soffermerà in questa sede), trova una sua corrispondenza in Giselle con l’arrivo del corteo di nobili tra cui è Bathilde, promessa sposa di Albrecht, impegnati in una battuta di caccia. Un’associazione superficiale, giacché manca, nel balletto, una figura ‘illuminata’ che metta a tacere la leggenda delle Villi (e forse salvi così Giselle dal suo destino?). Il racconto della madre di Giselle è dunque assurto a verità, resa necessaria dall’esito tragico dell’azione drammatica. E qui prevale una differenza sostanziale tra l’opera semiseria e il balletto a epilogo tragico, ambientato in un contesto che non sembra conoscere ancora la salvezza della ragione. La stessa predilezione di Bellini per una sorta di «patetismo fatalistico», per la sofferenza degli innocenti causata dal nefas di un destino ineluttabile e dunque tanto più malvagio, senza alcun movente ‘umano’ che ne determini consapevolmente le sventure, appare uno degli elementi di maggiore consonanza con lo spirito di lettura di Giselle, se si considera l’azione di Albrecht come espressione di una nefasta necessità di sottomissione al capriccio dei potenti. Luca Zoppelli riporta, in merito, una dichiarazione dello stesso Bellini, a proposito del soggetto dei Puritani:

Un interesse profondo, combinazioni che sospendono l’animo e l’invitano a sospirare per l’innocenti che soffrono senza alcun carattere cattivo che procuri

97 G. Tintori, Bellini, Milano, Rusconi, 1983, p. 157.

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tali sventure, ma il destino ne è creatore e quindi le commozioni saranno più forti, perché non si trova umano riparo per far cessare la sventura.98

Come Amina, Giselle è distante dal suo stesso mondo per la profondità del sentimento che ne fa un personaggio di grande levatura morale. Il conflitto della coppia Amina-Elvino, quale nucleo centrale della vicenda operistica che si evince dal testo e dalla condotta del personaggio, è sottolineato dalla struttura musicale e mette subito in luce la diversità dei due personaggi, legati dall’imminente promessa di nozze, e fin dal principio connotati da una differenza sostanziale. Elvino, con la sua maschilistica concezione dell’amore come possesso, la sua gelosia inizialmente fuori luogo, irriverente e poi culminante nella frettolosa credulità del villano arricchito, è il tipico rappresentante di quella visione arcaica del nucleo familiare. Il paragone immediato tra la madre defunta e la novella sposa, col migliore augurio di rinnovarne le virtù domestiche ne è la dimostrazione. Come Hilarion in Giselle, la cecità derivata dalla gelosia condurrà alla vergogna la protagonista dell’opera e addirittura alla morte l’eroina del balletto (sono appunto due uomini a condividere la colpa della morte di Giselle). Il sentimento di vergogna costituirà un ulteriore punto di consonanza nella sottile trama di rovina della psicologia femminile: quella di Amina al suo risveglio involontario nella camera del conte e quello di Giselle, davanti al gioco di seduzione del finto contadino Loys/Albrecht. Entrambe, alla scoperta della propria vergogna, corrono tra le braccia della madre, per piangere o per morire.99 La prima vittima dell’apparenza di una seduzione non subìta né provocata; la seconda vittima reale di un gioco non raro, che avvicina Giselle alla Amina belliniana nel ricordo della madre naturale sedotta e abbandonata, che nei versi poi espunti dalla versione definitiva del libretto del Romani recitavano:

…morte, qual fior reciso Di vergogna e di dolor…

Nel sogno delle nozze Amina, in recitativo (nella stanza del conte) invoca la madre. Giselle cerca la madre nella follia, ma non la invoca mai nei momenti di gioia, anzi le sfugge con caparbia risolutezza. Il presunto tradimento di Amina è ampiamente commentato dai presenti, incluso il coro. Qui l’asse Amina/Giselle si sposta su quello Amina/Albrecht, il cui tradimento non può essere invece commentato perché sopravanza immediata la follia di Giselle. È anzi da essa stessa commentato. La solitudine di Amina si annuncia già qui, da un punto di vista formale, in quanto la mancanza del consueto (nel duetto ottocentesco)

98 L. Zoppelli, L’idillio borghese, cit., pp. 51-52. 99 Il risveglio di Amina è dal sonno ingannatore; quello di Giselle è dalla «cieca credulità» all’uomo.

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«tempo d’attacco» di tipo dialogico configura l’inizio del numero come una cavatina (il La bemolle maggiore – e come «cavatina» il pezzo era indicato nell’autografo ) del solo tenore, che offre l’anello all’amata. Un amore di tipo «monologico, rivolto ad un’astrazione più che ad un partner autonomo e di pari dignità».100 Questi due «fidanzati svizzeri» non sono ancora una vera coppia e Amina, che sulle parole Ah! Vorrei trovar parola/ a spiegar com’io t’adoro attacca la cabaletta da sola (in malinconico Fa minore su armonie napoletane), sembra preannunciare un avvertimento inconscio del pericolo imminente che incombe su un quadro apparentemente idilliaco. Questo distacco di Amina si evince da confronto ulteriore della «fattura tecnico-compositiva delle arie destinate a lei con quelle destinate agli altri personaggi», ai quali «compete la classica forma chiusa dell’arco melodico all’italiana, quattro periodi di cui i primi due simili, il terzo contrastante, l’ultimo che riconduce al primo (AABA o sue innumerevoli varianti»).101 Ecco quindi che la melodia di Amina è generalmente «aperta: sfugge le simmetrie, evita di tornare su se stessa, si volge costantemente verso nuove destinazioni tonali e nuovi sviluppi melodici, in un’elastica e sognante indeterminazione onirica».102 Niente di più adatto al confronto con la linea coreografica che conferisce parola al carattere del personaggio di Giselle, che inizia a danzare da sola il primo Pas de deux. L’unico ‘pezzo chiuso’ della protagonista è infatti costituito dalla variazione in Mi maggiore del primo atto, estranea per musica e stile coreografico alla partitura di Adam e a quella di Coralli-Perrot, in cui Giselle danza al cospetto di Albrecht e degli amici. Essa fu con ogni probabilità introdotta da Marius Petipa a San Pietroburgo per la ballerina Ekaterina Vazem (la prima Nikya in La Bayadére) nel febbraio del 1878 o poco prima, per esaltare le sue doti di forte tecnica par terre.103 La variazione fu reinserita nel repertorio corrente da Olga Spessitseva. Nella ripresa del balletto per il Teatro dell’Opera di Roma del 2008 Carla Fracci ha inserito un ulteriore solo di Giselle su flauto arpa e archi (oltre a un altro piccolo Pas de deux dopo la variazione in Mi maggiore del primo atto) molto più adatta allo spirito del balletto. Si tratta della variazione che eseguì Carlotta Grisi, poi sostituita intorno al 1880 da quella di Petipa. Albrecht si muove e, in entrambi gli atti, in sezioni chiuse di carattere tecnico-virtuosistico che ben si addicono al suo reale status di nobile en

100 Cfr. L. Zoppelli, L’idillio borghese, cit., p. 59. 101 Ivi, p. 61. 102 Cfr. Ivi e pp. ss. 103 La musica è di L. Minkus . Cfr. in proposito R. Stenning Edgecombe, Notes on Giselle and : The Probable Authorship of the E-Major Variation in Act I of Giselle and Problems Arising from the Grand Pas from Paquita, «Dance Chronicle», vol. XXII, n. 3 (199), pp. 447-452: 447-449. Terminus post quem sarebbe, nel 1847, l’introduzione di ‘salti in punta’ mai eseguiti prima, riferendosi alla diagonale di ballonés eseguita dalla Vazem nel balletto di Petipa- Minkus Le Papillon.

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travesti. Questa caratteristica tecnica lo isola visivamente dal contesto villereccio: l’eleganza dei movimenti e il tipo di musica suggeriscono al pubblico la sua pericolosa diversità. Il suo ingresso in scena, come nota Fabio Sartorelli, appare già particolarmente significativo sia sotto il profilo della velocità, sia dell’efficacia narrativa. Nelle prime venti battute (della durata di pochi secondi) è rivelato già molto del personaggio: le quattro in fortissimo dichiarano in maniera sonora che in scena non c’è un contadino ma un duca. Nelle successive quattro la musica è invece sospettosa, quasi sinistra, nel momento in cui l’uomo si premura di non essere visto mentre ripone via il corno e la spada. Alle battute nove e dieci, laddove Adam annota poco più lento e piano, sembrerebbe aprirsi uno spiraglio di sentimento autentico nel personaggio. Sebbene velocità ed efficacia narrativa non siano percepibili con la stessa intensità in tutto il corpus del balletto, questi momenti possiedono una notevole forza drammaturgica.104 (video 15) La scena pantomimica per antonomasia del balletto Giselle è quella della follia, altro topos del teatro musicale ottocentesco, ed è quella che va messa al confronto con il sonnambulismo di Amina. Cavallo di battaglia delle più prestigiose interpreti,105 essa combina una serie di elementi che la rendono il momento più commovente di tutto il balletto, imprimendo nella mente dello spettatore, con verità e crudeltà, la distruzione psicologica della donna. Il contemporaneo utilizzo di motivi reminiscenza coreutici e musicali spinge lo spettatore a ripercorrere quanto già visto e udito, rendendolo partecipe della sofferenza come non si era mai verificato prima, nel mondo del balletto. (video 16) Cyril de Beaumont aveva tratto una lettura della follia di Giselle, dovuta a nevrosi e debolezza di carattere, paragonandola a quella di Ofelia, nell’Amleto di Shakespeare e a quella della Lucia di Lammermoor di Donizetti. Tutte eroine che avrebbero perso la ragione, secondo Beaumont, a causa della debolezza del loro carattere, una volta rifiutate in amore.106 A questa tesi oppone la propria John Mueller, il quale disapprova l’accostamento con l’eroina shakespeariana e donizettiana, data la maggiore complessità delle vicende che portano entrambe alla follia. Amleto non rifiuta direttamente l’amore di Ofelia: egli, agli occhi della

104 Cfr. F. Sartorelli, A proposito di Giselle, Note a margine della musica di Adam, www.fabiosartorelli.net/materiale%20didattico/.../Note%20su%20Giselle.pdf. 105 Carla Fracci può a ben ragione essere considerata la più grande Giselle del nostro tempo. Definita la Taglioni del XX secolo per l’aereità dello stile, dotata di una non comune intensità drammatica, ha fatto della scena della follia la sua più grande interpretazione. Il successo della prima di Sonnambula, come per la prima di Giselle, fu anche dovuto alla concomitanza di doti tecniche e drammatiche delle protagoniste: Giuditta Pasta ‘attrice e cantante’ come Carlotta Grisi. 106 C. Beaumont, The characters in Giselle, cit., p. 80 e M. Cipriani, Giselle e il fantastico romantico tra letteratura e balletto, cit., p. 84.

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fanciulla, è piombato in uno stato di demenza selvaggia ed ha assassinato suo padre. La Lucia di Donizetti è stata invece promessa ad un uomo che non amava, convinta con l’inganno di essere stata abbandonata per un’altra. Costui, una volta tornato, convinto del tradimento della donna, l’aveva denunciata pubblicamente e con tale brutalità da farla impazzire. Mueller, a proposito di Giselle, sostiene che la risposta più logica da ricercare nella subitanea follia della contadinella sia ammettere che i due giovani siano divenuti amanti: l’inganno non avrebbe, così, assunto il solo significato di perdita dell’amore e dell’amante, ma soprattutto dell’onore e della possibilità di ricostruirsi un’altra vita. La perdita della ragione figurerebbe come la conseguenza plausibile di una terribile verità sull’unico uomo che ella abbia amato. Agli occhi del perbenismo borghese, soprattutto per gli affezionati del balletto romantico più puro, che hanno sedimentato l’idea di una Giselle innocente fanciulla di villaggio, questa opinione potrebbe apparire quasi blasfema. Tuttavia lo studioso sottolinea come, in molte società, non sia il matrimonio a costituire l’impegno definitivo, bensì il solo fidanzamento, per cui le coppie avrebbero potuto condividere il talamo, una volta stipulato il patto.107 Punto fondamentale del libretto, che indurrebbe ad avallare questa ipotesi, si trova nella scena quarta del primo atto e riguarda il primo incontro di Giselle e Albrecht agli occhi del pubblico. Sempre il Mueller sottolinea, a ragione, quanto il testo originale sia lontano dalla versione coreografica conosciuta. Qui Giselle è di una pudicizia quasi infantile, si sottrae continuamente agli sguardi di Albrecht, vorrebbe fuggire in casa e non accetta nemmeno di stare seduta accanto a lui nello sfogliare la margherita, un atteggiamento che farebbe pensare ben poco ad una intimità fra i due. Ma il libretto esprime ben altra scioltezza, da parte della protagonista:

Atto I, Scena IV

[…] Giselle coglie allora delle margherite e ne toglie i petali uno ad uno per accertarsi dell’amore di Loys. La prova riesce ed ella si getta nelle braccia del suo amante. Hilarion, non resistendo più, accorre accanto a Giselle e le rimprovera la sua condotta. Egli era là ed ha visto tutto! «Eh! Che m’importa – risponde gaiamente Giselle –; io non ne arrossisco, l’amo e non amerò altri che lui!». Gli ride in faccia poi gli volta bruscamente le spalle mentre Loys lo respinge e lo minaccia della sua collera se egli non desiste dalle profferte amorose a Giselle

Lo slancio della fanciulla fra le braccia dell’amato e il mutuo trasporto dei due giovani descritti da Gautier sono ben altra cosa, rispetto alla ritrosia di

107 Innumerevoli sono, in proposito, gli esempi che la letteratura e l’opera offrono di donne sedotte e abbandonate, dopo una promessa di matrimonio Si veda in merito J. Mueller, Is Giselle a Virgin?, cit., pp. 151-154.

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una giovane contadina che sembra quasi non conoscere l’uomo che bussa alla sua porta. Nella danza del primo atto i due innamorati avanzano spesso affiancati, le loro persone procedono parallelamente nei pas ballottés iniziali (salto che consiste nello scambio altalenante delle gambe in direzione anteriore e posteriore rispetto al tronco) o nei ballonés (cf. pag. supra) che scendono dalla diagonale, nella festa della vendemmia. I due corpi procedono all’unisono eseguendo per lo più gli stessi passi, perfettamente in armonioso accordo (uno schema molto diverso da quello del secondo atto, in cui il Pas de Deux segue la linea tradizionale in cui l’uomo sorregge la donna, in primissimo piano). La felicità di questo momento è così piena e totalizzante da determinare un forte contrasto con il dolore che farà seguito alla scoperta della vera identità di Loys. Il contrasto tra gioia e dolore genera ‘il tragico’, in accordo con gli schemi della tragedia classica e con quanto espresso, in piena età romantica, dal grande Goethe, per il quale la tragedia nasceva immediata, nell’attimo di trapasso da una grande gioia a un grande dolore.108 I temi ripresi sono diversi ed è possibile enumerarli singolarmente: il motivo del violento smascheramento di Albrecht da parte di Hilarion e la disperazione di Giselle. Il primo ripropone il momento di scontro fra il guardacaccia e il duca, dopo la scena della dichiarazione d’amore fra i due giovani protagonisti; l’irruenza della incursione del villano geloso e l’inizio di un duello, che fortunatamente non si compirà.109 Segue l’accenno deformato al motivo d’amore − quello del primo incontro, s’intende. Alla deformazione della musica fa riscontro quella della danza e della mimica: i gesti di Giselle ripercorrono i momenti più belli, che svaniscono presto, ponendo la fanciulla dinanzi alla sua tragedia. Sempre nella versione Fracci del 2008, per il Teatro dell’Opera di Roma, la scena della follia è stata ampliata con l’inserimento della pantomima delle nozze da parte di Giselle, che entra in casa a prendere il velo nuziale e, come Amina nel sogno, nella sua follia ella vede il giorno che non arriverà mai. Il velo, che tornerà all’inizio del secondo atto, allorquando lo spirito della fanciulla darà il suo ingresso rituale nel regno delle Villi (e velata sarà Mirtha nella sua prima apparizione) manifesta qui, più che altrove, la sua duplice valenza ereditata dall’antichità e a tutt’oggi presente come accessorio tradizionale nei rituali matrimoniali delle più diverse culture e attributo stabile di tutti gli ordini religiosi femminili nei vari culti. Un elemento che, sia pure desemantizzato, resta il residuo dell’idea del

108 La tragedia, in accordo con Goethe, ha origine da un conflitto inconciliabile. Se si presentasse una soluzione a questo conflitto, essa perderebbe il suo carattere tipico. Il tragico, indipendentemente dalla forma che assunse nel teatro greco, si esprime prima di tutto come contrasto tra volontà e destino, tra libertà e necessità: è questo il conflitto maggiore, quello che opprime anche ogni protagonista della tragedia greca. 109 Le entrate in scena dello sfortunato Hilarion appaiono musicalmente connotate da un costante senso di tragica negatività.

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passaggio della donna da uno status all’altro. In Giselle esso segna il passaggio allo stato di Villi: nella scena in genere rimossa del primo atto, l’azione di velarsi non è, tuttavia, solo vagheggiamento di nozze che non si realizzeranno, ma isolamento del personaggio dal contesto. Tra i vocaboli più significativi che la grecità classica ha utilizzato come significante del velo, i sostantivi ka/luptra e ka/lumma sono entrambi correlati al verbo kalu/ptw, che etimologicamente richiama l’idea del ‘celare’ (come nel campo semantico dell’italiano ‘velo’).110 La caduta del velo, nell’epica omerica paragonato alla caduta delle mura di una città, segna la drammatica perdita di rispettabilità della donna. Tutte le occorrenze dei vocaboli relativi al velo femminile si identificano, infatti, con tre specifiche situazioni: la definizione, come già detto, dello status e della dignità della donna, l’espressione gestuale dei sentimenti di dolore e di lutto, di rabbia e di vergogna (si pensi a Elena, che si nasconde con il velo ripensando alla propria casa e alla propria città abbandonate per seguire Paride, celando con l’isolamento le sue lacrime)111 e l’individuazione di azioni rituali delle cerimonie nuziali. Allo stesso modo, nella convenzione drammatica greca, il gesto di velarsi corrisponde al silenzio, a significare il grado estremo di dolore tragico, divenendo ‘rivelatore’ di un dolore così grande da non poter essere espresso dalla comunicazione verbale.112 Così, nel mondo latino, il verbo obnubere veniva utilizzato sia per indicare l’atto della sublimazione della sposa attraverso il rito nuziale, sia la copertura del capo dei parricidi nel momento dell’esecuzione capitale, ossia, in una prospettiva antropologica – come sottolinea Rossana Valenti – la rottura del vincolo che lega i figli al padre.113 Nelle Villi e in Giselle (che disubbidisce alla madre) il velo è il simbolo della rottura con la vita, l’elemento che orna il capo delle fanciulle che hanno sposato la morte e si sono, appunto, sublimate in vendicativi fantasmi notturni. Digressioni a parte, colpisce in questa situazione il tema della dichiarazione d’amore ripresa alla lettera, così come era stata presentata la prima volta. In genere i compositori non riprendevano in maniera letterale i temi già esposti in precedenza, ma li modificavano finalizzando il cambiamento all’idea del ‘ricordo’. Con grande sottigliezza psicologica, Adam non lo modifica, perché in quel momento Giselle non ricorda ma rivive ogni

110 Cfr. R. Valenti, Il latino dentro e oltre la scuola. Memoria, identità, futuro, Napoli, Loffredo Editore, 2011, pp. 46-47. 111 Omero, Iliade, III, vv. 139-145, cit. in Ivi, pp. 49-50. 112 Cfr. O. Longo, Silenzio verbale e silenzio gestuale nella Grecia antica: alla riscoperta di un codice culturale, «Orpheus», vol. VI, n. s. (1985), pp. 241-249; M. Centanni, Velare, svelare: dai misteri pagani a Le età della donna, in S. Bertelli e M. Centanni, Il gesto nel rito e nel cerimoniale dal mondo antico ad oggi, Firenze, Ponte alle Grazie, 1995, pp. 176-198. 113 Cfr. R. Valenti, Il latino dentro e oltre la scuola. Memoria, identità, futuro, cit., pp. 51-60.

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momento con la stessa intensità del passato.114 Dopo una breve parentesi in cui la trama sonora sembra sfaldarsi, ricompare il motivo, sempre deformato in un’atmosfera ─ questa volta sognante ─ del Pas de Deux della vendemmia, infranto da brevi guizzi di follia. La drammatica conclusione in Mi minore segna la fine della celeberrima scena, che all’epoca della prima vantava una sequenza pantomimica ben più articolata, poi notevolmente ridotta nelle ricostruzioni posteriori. Similmente, sia pure con le notevoli differenze dovute alla diversa natura del ‘delirio’, allorquando Amina nel primo atto entra, sonnambula, nella camera del conte Rodolfo, ripercorre con la mente e a voce alta tutti i particolari della cerimonia nuziale, sì da impietosire il nobile, che resiste al desiderio di approfittare di lei. (video 17) Così sarà, di nuovo, nella seconda e ultima scena di sonnambulismo, sulla passerella che conduce alla ruota del mulino, nella rievocazione della cerimonia nuziale e dell’ingiusto abbandono. Tornano, frammentati in orchestra, il tema dell’anello prima posto al dito e poi violentemente rimosso da Elvino stesso, e quello della dichiarazione amorosa allo sposo, sortendo un grande effetto di «rievocazione musicale e psicologica».115 Il trasalimento della folle Giselle corrisponde, sia pure in maniera amplificata, al sogno di Amina, per la quale il momento del ricordo è il recitativo: prima dell’aria finale,

Oh! se una volta sola Rivederlo io potessi, anzi che all’ara Altra sposa ei guidasse!

Esso è paragonabile alla pantomima in Giselle. Quest’ultima non è danza come il recitativo non è canto, ma entrambi i generi conducono il personaggio in una sfera più umana e lo avvicinano emotivamente al pubblico, che riesce così a seguire meglio la vicenda. Il «monologo interiore che ci permette di andare oltre il significato della parola» è suggerito dagli spunti dell’orchestra,116 nell’opera come nel balletto.(video 18) Il ricorrere di alcune delle più toccanti melodie del dramma in musica, che si palesano come motivi chiave dell’azione scenica, riassume nel sogno di Amina il senso dell’opera – come nota Francesco Degrada. In maniera analoga, il ricorrere dei motivi chiave musicali e coreutici in Giselle opera

114 Giselle non è, come La Sylphide, un spirito fin dall’inizio del balletto, ma donna in carne e ossa che si trasforma in Villi. È pertanto in grado di mantenere l’esperienza della vita reale, sublimatasi con la morte, e la sua danza non è solo mezzo espressivo di un’apparizione, bensì contenuto stesso dell’azione, mediazione tra due stadi dell’essere, il terreno e l’ultramondano. Cfr. M. Cipriani, Giselle e il fantastico romantico tra letteratura e balletto, cit., pp. 104 ss. 115 O. Andolfi, La Sonnambula di Vincenzo Bellini, cit., p. 29. 116 Cfr. G. Landini, Arcadiche eleganze vocali, cit., p. 34.

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lo stesso risultato, con il vantaggio che lo spettatore può ‘vedere’ ciò che sente, in quanto il gesto rafforza conferma e completa la musica in una sorta di componimento circolare. Il secondo atto di Sonnambula si apre con la «morte» del cuore di Elvino, dato il presunto tradimento della sposa. Di qui l’aria-lamento in La minore di cupezza mortale intonata dal protagonista maschile, da cui promanano i versi:

Tutto è sciolto. Più per me non v’ha conforto; I mio cor per sempre è morto Alla gioia ed all’amor!

È la fine di un sentimento, di un’idea. Qui abbiamo per un attimo l’accostamento (sia pure dissonante) Elvino/Giselle, nella delusione del sentimento tradito e nella impossibilità di odiare l’altro, nonostante il male ricevuto:

Ah, perché non posso odiarti, Infedel, com’io vorrei!

Il secondo atto del balletto è più che mai immerso in un’atmosfera di morte e dolore. L’apertura dei soli di Giselle si evidenzia soprattutto nel secondo atto, in cui la necessità di rendere palpabile quella «indeterminazione onirica» tanto cara all’arte scenica del tempo non poteva prescindere dalla scelta, geniale, di passaggi della protagonista attraverso la coscienza di Albrecht, in cui né la musica né la coreografia si fermano per consentire l’applauso da parte del pubblico. Se la musica della prima variazione del secondo atto di Giselle appare un pezzo chiuso, lo spirito tuttavia continua a fuggire lontano dagli occhi del pubblico, verso una indefinita direzione che la porterà dal suo amato. Nel lirismo di questo atto c’è eco di molti punti della Sonnambula; se Amina, specie nel suo secondo atto, è costantemente permeata di languida sofferenza, Giselle esordisce nella sua nuova essenza di spirito con una variazione dall’irruenza inaspettata. Evocato da Myrtha, regina delle Villi, l’eiòdolon della sposa mancata irrompe in una danza che esprime, con la sua energia, un grande desiderio di vivere e di amare. La musica di Adam dipinge tutto questo affidando l’impeto vorticoso della liberazione dal sepolcro − tipico delle Villi − ai violini primi, che traducono il mutamento della giovane da essere umano in pallido fantasma. Non sono più i fiati del primo atto, bensì gli archi a dare il benvenuto a Giselle nel nuovo mondo fatto di danze notturne.

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Ancora una volta un impatto forte, un richiamo alle forze infernali di cui la fanciulla fa parte, suo malgrado.117 (video 19) In lungo lamento della melodia sostenuta dall’oboe, che introduce l’arrivo di Albrecht alla tomba di Giselle, nella sua promenade funèbre, commuove lo spirito della ragazza avvolgendo la figura maschile di un’aura finalmente diversa, è la voce del rimorso per un atto di violenza ai danni di un’innocente e lascia presagire il pentimento sincero, prima ancora che Giselle compia il suo estremo gesto d’amore, salvandolo dalla furia delle donne-vampiro. Non un’Euridice, non un’Alcesti che lo sposo (o chi per lui) è disceso a prelevare dal regno dei morti. Per Giselle non c’è salvezza e l’incontro con lo spettro avviene in terra, non negli inferi, grazie alla particolare natura delle Villi. Quella di Albrecht non è una eroica impresa di catabasi: il suo pianto non commuove nessuno, se non la sua vittima. C’è solo il rimorso di una superficialità fatale. La melodia, che confluisce nel primo Pas de deux del secondo atto, è attraversata da momenti di forte impatto emotivo per effetto dei singulti del tema infernale, fatto di archi e percussioni, che evocano il terrore di trovarsi di fronte alle Villi spietate. Qui il tema musicale appare una inversione (chiaramente percepibile a un orecchio attento) del tema d’amore principale, quasi un iperbato musicale. Il nuovo incontro di Giselle con Albrecht riscopre la timidezza iniziale in un ‘colore’ non più struggente d’amore, bensì triste e malinconico. Mentre il duca è genuflesso con la testa china e la fronte appoggiata alla mano, la fanciulla lo avvolge nelle arabesques (figura importantissima nella danza classica, che consiste nell’elevazione più o meno alta della gamba in direzione posteriore rispetto al tronco) e nei developpés a la seconde (movimento che consiste nell’estensione della gamba in direzione laterale rispetto al tronco) disegnando un cerchio. Un chiaro simbolo di protezione. Diventa sfuggente come una nuvola finché i due si ricongiungono. La musica, analogamente al primissimo duetto degli amanti, cresce nuovamente nello scambio dei grand jetés entrelacés (grande salto che si articola nel lancio di una gamba in avanti con immediata torsione del busto e scambio delle due gambe in aria, come fosse un ‘intreccio’) e nel lancio degli emblematici fiori. (video 20) Mentre Elvino attenderà la fine dell’opera per inserirsi nel canto di Amina con il passaggio che aveva commosso Chopin, l’io più non reggo all’interno dello struggente cantabile Ah, non credea mirarti,118 Albrecht è precipitato nel pentimento immediato dal tragico epilogo che chiude il primo atto. Egli si inserirà costantemente nei movimenti di Giselle, nel secondo atto, in una danza che diviene progressivamente canto, specie nel solo della viola, un

117 Giselle è ‘diversa’, anche nell’oltretomba, per l’altruismo dissonante nel cerchio delle donne-vampiro. 118 L. Zoppelli, L’idillio borghese, cit., p. 61.

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numero solistico che confluisce naturalmente in Pas de deux come una fusione di voci in un duetto.119 (video 21) Lo spirito della fanciulla diventata donna attraverso la propria trasfigurazione in spettro, nel suo ultimo e struggente contatto con l’amato, rivive pienamente i momenti più belli. Il tema della dichiarazione d’amore del primo atto ricompare, nel secondo, per ben due volte: la prima in forma sognante, la seconda come valzer, nell’ultima variazione di Giselle, in quel ‘componimento circolare’ di un’opera poetica affidata alla musica e al gesto. Il cerchio, peraltro, costituisce la figura geometrica più utilizzata nello sviluppo coreografico del secondo atto, dal summenzionato incontro di Giselle e Albrecht al cerchio che le Villi stringono intorno a Hilarion catapultandolo nelle acque del lago, al manège (esecuzione di un passo percorrendo una circonferenza ideale inscritta nel rettangolo di base della sala) finale di Albrecht stesso. L’identificazione della protagonista coincide in maniera assoluta con il tema della dichiarazione amorosa, quella illusione che aveva colorato l’esistenza di una povera contadina, fragile come i petali della margherita bugiarda.120 Il canto d’amore si trasforma in danza e indica all’uomo una via di salvezza. Evidenti, anche nel secondo atto, i rimandi al melodramma italiano, al suo clima romantico e appassionato che esprime l’esaltazione del cuore. E questo sentimento amoroso ispira Giselle, insieme alle tematiche del sogno, del tradimento, dell’espiazione, della follia. Come per Elvino e Amina, l’entrata nel canto o nella danza dell’altro segna la risoluzione definitiva del dramma, nel senso più o meno tragico della situazione, ponendo i due personaggi maschili (emblema dell’egoismo e della superficialità) in piena «consonanza» − per riprendere quanto detto in partenza − con l’elemento femminile, una «consonanza che è compassione e conoscenza dell’altro […], il passaggio ineludibile verso un amore più consapevole e vero, giunto a conclusione di una vera e propria dialettica di coppia»121 − scrive ancora Zoppelli − anche se, nel caso di Giselle, non vi è stata dialettica in vita bensì post mortem. L’Ah! non credea mirarti di Amina, eleva la figura della contadina al di sopra di tutti, nel suo sentire così nobile e nello struggimento toccante del dolore di un’innocente ingiustamente condannata alla pubblica vergogna. Essa

119 In merito all’importanza dello svolgimento drammaturgico in Giselle, va notato come, rispetto ad altri balletti, non vi siano qui i consueti ringraziamenti dei danzatori al termine delle variazioni o dei Pas de deux, proprio al fine di non distogliere l’attenzione del pubblico dalla vicenda narrata, rompendo il legame tra una scena e l’altra. In questo, il ballet- pantomime di introspezione psicologica può ben ergersi alla pari con le altre tipologie di arte teatrale. Sull’aria che si trasforma in duetto in Sonnambula si veda anche Q. Principe, La Sonnambula, cit., p. 85. 120 Strappando nascostamente un petalo alla margherita che Giselle sfoglia, il duca Albrecht compie il suo primo inganno ai danni della fanciullesca credulità della ragazza. 121 Cfr. L. Zoppelli, L’idillio borghese, cit., p. 62.

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concentra in sé quanto espresso in danza da Giselle alla fine del secondo atto. Se l’analogia più immediata va al solo della viola danzato dalla fanciulla e al celeberrimo Pas de deux, il cui la figura dominante è sempre quella di Giselle in una sorta di un lungo assolo sostenuto dalla presenza – in secondo piano – di Albrecht, la cabaletta successiva di Amina troverebbe una certa rispondenza nella seconda sezione del Pas de Deux, dopo l’arabesque ‘sospesa’ sul dorso di Albrecht in ginocchio, quando Giselle riprende una danza vibrante nella quale si innesta un momento maschile (che manca in Sonnambula, il cui explicit è tutto affidato al trionfo di Amina e della sua vocalità), per poi riconfluire in un esito più mosso del duetto ballettistico. La differenza sostanziale starebbe nel ‘colore’ della situazione, che per Amina è gioia e per Giselle è invece amorevole sostegno della danza dell’amato. Il variare delle tonalità nella costruzione belliniana corrisponde al mutamento cromatico della coreografia che, anche nel blanc Pas de deux, accosta passi scenici di natura molto diversa: dall’arabesque prolungata, che accompagna la linea melodica della musica disegnandola nell’aria, all’entrechat (salto in cui lo scambio veloce e brillante delle gambe in aria dà l’idea di un ‘intreccio’) e il passé (passaggio di una gamba che scivola ripiegandosi lungo l’asse dell’altra tesa) brillanti e ripetuti, come un fremito di vita che ancora pervade lo spettro di Giselle, o il velocissimo pas jeté (passo seguito da un salto con leggera apertura delle gambe e spostato lungo la direzione da seguire) che vola nelle quinte. Sembra davvero di cogliere, nella struttura coreografica di Giselle il lavoro di «condensazione e rarefazione»122 di ascendenza belliniana. La struttura specifica del Pas de Deux ‘bianco’ è direttamente rapportabile al tempo lento del duetto nel melodramma. Spesso indicato come ‘cantabile’, esso è caratterizzato da un’espressione lirica e non drammatica che lo differenza dai tempi adiacenti (il primo tempo e il tempo di mezzo – strutture non sempre presenti in maniera analoga nei duetti di ballo, entrambi a carattere dialogico). Il tempo lento del duetto determina una netta prevalenza della logica musicale su quella drammaturgica o meglio – come scrive Damien Colas in un suo saggio sul confronto tra duetto e dialogue nei duetti belliniani – «della codificazione poetica sulla verosimiglianza della mimesis teatrale», a sostegno del fatto che Bellini, in piena età rossiniana, fosse sensibile al «problema del conflitto tra forma musicale e verosimiglianza teatrale che il duetto poneva».123 È interessante notare come la drammaturgia di “affetti” dell’opera belliniana (e la nozione di “affetto” è, per Dahlhaus, intrinseca alla fenomenologia stessa dell’opera in musica) sia presentata in forma autodichiarativa in Bellini, come nella

122 Cfr. F. Gioviale, Idilli imperfetti. La linea drammaturgica Sonnambula – Puritani, in Vincenzo Bellini nel secondo centenario della nascita, cit., p. 188. 123 Cfr. in merito D. Colas, Duetto e dialogue a confronto: dal cantabile al «dialogo musicale» nei duetti di Bellini, in Vincenzo Bellini nel secondo centenario della nascita, cit., pp. 149-150.

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tragedia classicistica, anche nei recitativi, in cui il dialogo tende ad essere melodico e formalizzato, senza che si abbia l’impressione – dovuta alla base orchestrale – che i personaggi siano risucchiati nel circolo degli eventi (come in Donizetti ad esempio).124 Come scrive Giampiero Tintori a proposito dell’opera di Bellini, «la melodia è sempre purissima, l’abbellimento ha sempre funzione logica rispetto all’arco melodico, il fraseggio si stende puntualissimo e incantevole»125 ed è quanto più si addice anche al linguaggio coreografico di Giselle, laddove la scelta dei passi e delle figure rifiuta il virtuosismo sterile e si veste di semplicità ricercata, in cui gli «andamenti insistenti tipici del fraseggio belliniano» sembrerebbero tradotti in danza nelle ripetizioni, all’interno della stessa sequenza, dello stesso passo eseguito con ‘tonalità’ differenti. Valga come esempio il Pas de deux nel valzer dei vignaioli nel primo atto, con il ‘passo tematico’ dei due ballonés seguiti dal temps de flèche, o ancora nelle succitate arabesques che si susseguono nel secondo atto.126 Come in Sonnambula Bellini si mantiene su pagine contenute e purissime, la coreografia di Giselle parla dunque al pubblico evitando il ‘pezzo d’effetto’, così come i «significativi silenzi» manifestano i lati più difficili della psicologia delle due eroine, penetrando nel loro inconscio. I versi Ah! non credea mirarti / sì presto estinto, o fiore; / passasti al par d'amore, / che un giorno sol durò sembrano dipinti nei gesti conclusivi di Giselle, prima che ella rientri nel sepolcro. Un giorno solo – da quanto appare nel tempo di azione del balletto – durò la sua felicità con Albrecht: la margherita non ha avuto neppure il tempo di appassire, sfogliata maliziosamente dall’uomo per nascondere il petalo rivelatore di un destino segnato. L’amore della donna salva la vita dell’uomo e Giselle dona all’amato quel fiore, metafora per eccellenza fin dal mondo classico della giovinezza troncata, che un giorno sol durò, a monito perenne per il futuro, affinché non svanisca anche il ricordo di tanto sacrificio. La sublimazione di questo sentimento, che in Amina tocca punte di lirismo altissimo, pur senza la tragedia della morte, è il tratto comune più importante delle due eroine, la loro «luminescenza argentea».127 L’aereità del vocalismo di Amina (una

124 L. Zoppelli, Il personaggio belliniano, in Vincenzo Bellini nel secondo centenario della nascita., cit., pp. 135-136. 125 G. Tintori, Bellini, cit., p. 157. 126 Nel Pas de Deux del secondo atto Giselle e Albrect danno spesso luogo a figure che richiamano il simbolo della croce, come nelle arabesques penchée (l’aggettivo indica una inclinazione del busti in avanti) fuori asse ripetute più volte percorrendo il palco in senso sinistrorso e poi destrorso; così appare una croce egizia l’arabesque di Giselle posata sul dorso di Albrecht in ginocchio, nello stesso numero. Cfr. M. Cipriani, Giselle e il fantastico romantico tra letteratura e balletto, cit., p. 73, n. 23 e C. Lo Iacono, L’alba di un nuovo giorno, in Giselle, Programma di Sala del Teatro dell’Opera di Roma, stagione 1994, p. 27. 127 Cfr. F. Degrada, Prolegomeni ad una lettura della sonnambula, cit., p. 339.

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voce che diventa surreale e si snatura) rappresenta, come la danza di Giselle, quell’artificiosità di una verità che non è reale. (video 22) La grandezza che ha determinato buona parte della fortuna dell’opera sta, come per il balletto, nell’essenza stessa della protagonista, «che dette occasione alle più grandi artiste della scena lirica di brillare con la voce e con l’azione»,128 così come il ruolo di Giselle permise di brillare parimenti con la danza e con l’azione del tessuto drammaturgico, senza soluzione di continuità.129 L’aereità dello stile richiesto per questo ruolo trova nell’Amina belliniana il suo confronto operistico più utile. La reiterazione ipnotica dei motivi nel canto de La Sonnambula, il celebre stile spianato fatto di legati espressivi entro i quali la linea vocale fluttua liberamente, innalza Amina e la sua vocalità nel mondo fantastico delle bianche creature ultraterrene, delle quali subisce inconsapevolmente il fascino e lo trasmette al pubblico. Pur rimanendo sospesa nell’inconscio del mondo onirico del suo sonnambulismo, Amina si avvicina alle giovani di cui parla Gautier, alle figure di vergini private dell’amore e costrette nelle tombe senza riuscire a meritare un riposo tranquillo. La colpa di cui non si è macchiata, ma che avrebbe potuto provocare un esito decisamente tragico alla vicenda, è l’elemento di sofferenza che la avvicina al Liebestod, fortunatamente evitato da quella sorta di deus ex machina che è il Conte. Giselle non ha salvezza perché non vi è chi la salvi e il Liebestod si compie, poiché il tradimento, che è alla base dell’esito tragico della vicenda, nel balletto è reale mentre nell’opera è solo presunto.130 L’errore nei confronti dell’onesta Amina rischia di far precipitare negativamente gli avvenimenti e in Sonnambula il momentaneo senso del ‘tragico’ è dato proprio dall’errore, dalla mancata conoscenza di qualcosa di fondamentale, secondo la più tradizionale visione che va da Aristotele a Shakespeare.131 Amina ha solo sfiorato il pericolo di entrare nella cerchia delle eroine morte per amore, mentre non vi è tragedia più autentica di quella di Giselle. Anche quest’ultima ignora una condizione, ossia il vero status di Albrecht e il preesistente fidanzamento di cui ha solo un monito nella dimensione del sogno. Ciò conduce dalla felicità alla disperazione, senza che tuttavia ella riesca ad odiare l’amato. In questo particolare sentire, ecco che un personaggio femminile si avvicina ad uno maschile: Giselle prova lo stesso

128 Cfr. Andolfi, La Sonnambula di Vincenzo Bellini, cit., p. 12. 129 La natura gentile delle due eroine, allevate entrambe dalla sola madre, farebbe pensare a una consonanza finanche nell’appartenenza a un’altra classe sociale. Di Giselle non si dice nulla, ma non si può tuttavia escludere il topos della trovatella illegittima, così come è in realtà per Amina nel libretto originale. 130 Giselle e Amina sono entrambe vittime di una situazione al di fuori della norma, anche a causa della mancanza di una figura paterna che le protegga dalla vergogna pubblica causata dalla seduzione maschile e dall’arbitrario ripudio di una fanciulla indifesa. 131 Cfr. M. Stanco, Il caos ordinato. Tensioni etiche e giustizia poetica in Shakespeare, Roma, Carocci, 2009, pp. 30 e ss.

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sentimento di Elvino, il quale, nonostante sia infuriato e si senta tradito a morte nel suo sentimento più caro (scena quarta del secondo atto), pur non impazzendo (prerogativa, questa, dei personaggi femminili), non riesce a odiare Amina, così come Giselle non può odiare Albrecht:

La Sonnambula, Atto II, Scena 4:

ELVINO (si presenta ad Amina vivamente commosso) Ah! perché non posso odiarti, Infedel, com’io vorrei! Ah! del tutto ancor non sei Cancellata dal mio cor. Possa un altro, ah! possa amarti Qual t’amò quest'infelice! Altro voto, o traditrice, Non temer dal mio dolor.

Uno schema riassuntivo dell’incrocio di corrispondenze fra i personaggi dell’opera di Bellini e del balletto Giselle può essere così agevolmente riassunto :

Giselle/Amina Personaggi affini per sentimento e situazione Conte Rodolfo/Albrecht Affini nell’ambiguità e nel topos del nobile dongiovanni Amina/Albrecht Nel tradimento, sia pure presunto Lisa/Hilarion Nella gelosia rivelatrice e foriera di dolore Elvino/Albrecht Nel pentimento dopo l’offesa

Elvino/Giselle Nell’amore che non sa odiare

Elvino/Hilarion Nella cieca gelosia

Madre di Amina/ Madre di Giselle Nella presenza scenica

Coro di Sonnambula /Madre di Giselle Nel raccolto del fantasma

Lisa/ Bathilde Nell’essere l’antagonista femminile, l’una attiva e l’altra passiva sulla scena

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Assistere a un dramma danzato o a un’opera in musica significa saper cogliere lo spirito del tempo che l’ha generato e il riflesso del comune reale storico. Ma danza e musica sono anche due universi artificiali o, meglio ancora, due forme diverse di uno stesso universo abitato dall’irreale e dall’onirico, come è stato possibile rilevare attraverso la disamina di un momento storico in cui opera e balletto apparivano intimamente congiunti. La continua trasmigrazione di topoi letterari e musicali tra opera e ballet- pantomime si può ben cogliere nel capolavoro belliniano, come nel più noto dei balletti romantici. L’analisi condotta sottolinea l’importanza del balletto come espressione di un genere autonomo, fonte di ispirazione per un’opera importante quale La Sonnambula di Vincenzo Bellini.132 In Giselle, l’incidenza delle fonti operistiche appare più che considerevole sia nei momenti d’azione sia in quelli contemplativi, in cui il procedere dell’azione lascia spazio ai virtuosismi, che si esprimono in maniera analoga per l’opera e per il balletto. Un processo osmotico che, nel corso dei secoli, ha saputo arricchire con mutue interrelazioni entrambi i generi, così distanti l’uno dall’altro, all’occhio dello spettatore moderno, eppure strettamente correlati. Dalla sostanziale consonanza di temi motivi e idealità, fino alla derivazione di una fenomenologia del soprannaturale che si esplica attraverso la tecnica, l’opera e il balletto della prima metà del XIX secolo portano in scena la realtà in maniera artificiosa, facendo leva su un registro vocale/coreutico di ‘aereità’, finalizzato a scavalcare la pura tecnica, che viene utilizzata quale mezzo necessario e imprescindibile per lo svolgimento della drammaturgia.133

132 L’ascendenza ballettistica è ben sottolineata, ad esempio, in alcune riprese teatrali i cui costumi sono direttamente ispirati a quelli della danza (Amina in veste di tulle con tanto di diadema e capelli raccolti, uomini in calzamaglia e una scenografia che potrebbe confondersi con quella di Giselle), come è possibile vedere all’indirizzo http://www.youtube.com/watch?v=T7GJGdQPZLg, nel video in cui Ferruccio Furlanetto, nei panni del conte Rodolfo, canta Vi ravviso, o luoghi ameni (Spoleto, 1979). Inoltre, uno dei più famosi allestimenti di Sonnambula, quello di Luchino Visconti del 1955 con la grande Maria Callas al Teatro alla Scala di Milano, enfatizza la moda del ballet blanc attraverso l’impiego di un costume candido e di un’acconciatura da vera e propria danseuse, con chignon di capelli raccolti a coprire le orecchie e tanto di coroncina di fiori (anch’essi bianchissimi) di vera silfide o villi. Tra l’altro, per rendere all’opera di Bellini la sua aura romantica, La Scala aveva associato La Sonnambula a uno spettacolo di balletto, Le Spectre de la rose e una Suite, in cui, tra le diplomande della Scuola di ballo del Teatro, una giovanissima Carla Fracci (la danzatrice ‘romantica’ per eccellenza del XX secolo) portava in scena Le Spectre come ‘Passo d’addio’. Questo connubio fu peraltro la buona stella sotto l’auspicio della quale la fulgida carriera della Fracci avrebbe preso avvio. 133 Dalla parola alla danza e dalla danza alla voce, l’immediata fortuna di Giselle si rileva in diversi ambiti anche del quotidiano: un decoro per cappelli in forma di fiore, un tessuto stampato, le parodie (Cfr. E. Cervellati, Théophile Gautier, cit., p. 114), ma anche una partitura per pianoforte e voce, su parole di Gustave Lemoîne (1802-1885) e musica di M.lle Loïse- Françoise Puget (1810-1889) ─ disponibile al Conservatorio di Napoli San Pietro a Majella e presso la sezione Lucchesi Palli della Biblioteca Nazionale di Napoli Vittorio Emanuele III. Presumibilmente dello stesso 1842 o di poco posteriore al balletto, la canzonetta fa

180 Maria Venuso, La ‘danza’ di Amina e il ‘canto’ di Giselle.

riferimento, in francese e in italiano, alla bellezza di Giselle e alla sfida del pericolo delle Villi che il cantore è disposto a sfidare pur di ottenere un suo bacio. Il testo in traduzione italiana così recita: Odi…l’ora maledetta / tragge i spirti a danzar qui [sic]. / ell’è dessa che t’affretta / la regina de’ villì! / odi…l’ora maledetta / tragge i spirti a danzar qui [sic] / più di me non t’abusar / vè, col guardo par che dica / vieni a me, ti vò baciar; / o mia cara e dolce amica! / or lasciami partir, / e dovess’io morir / soltanto per rapir / un bacio d’ella! / è ben ella / ah com’è bella! / certo ch’ella / è Gisella. / Imprudente il passo arresta / tempo ancor hai di fuggir; / non sai tu ch’a simil festa / fur veduti altri perir? / imprudente il passo arresta / tempo ancor hai di fuggir! / ma l’insano pur seguì / la spergiura ch’egli adora; / presso a morte alfin cosi [sic] / delirando ei disse ancora: / ognor perchè fuggir? / ah! dovess’io morir / soltanto per rapir / un bacio d’ella / si, miei dì / darei per ella / per Gisella / ell’è si bella.

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Susanne Franco

Archivi per la danza tra ricerca storica e pratica coreografica. I casi di Martha Graham e Rudolf Laban Storie di incorporazioni e incorporazioni della storia

Lo studioso che si appresta a costruire un oggetto di ricerca incentrato sulla danza deve confrontarsi con un’inevitabile questione epistemologica, ovvero il fatto che sia ritenuta un’arte e una pratica sociale effimera. La sua breve durata e transitorietà ha posto la danza ai margini della cultura dominante. D’altro canto, proprio il suo statuto di forma immateriale del sapere e il suo legame con l’incorporazione – il modo in cui il corpo e le sue pratiche accumulano tracce nel tempo – le hanno garantito la possibilità di essere trasmessa sfuggendo in alcuni casi anche ai meccanismi della censura che ha tendenzialmente privilegiato il vaglio delle componenti drammaturgiche, coreografiche, scenografiche e iconografiche degli spettacoli di danza. Come un fiume carsico questo sapere coreutico incorporato può inabissarsi per lunghi periodi dai contesti in cui ha avuto origine o si è radicato, per riaffiorare a distanza di tempo e in situazioni molto diverse, trasformato e insieme preservato dal transito in nuovi corpi. Questa dimensione del sapere coreutico non solo va pienamente riconosciuta ma anche integrata allo studio dei documenti materiali che la danza genera o che catalizza e che non sono di minore importanza per chi vuole ricostruirne la storia. In che misura, dunque, lo studioso di danza consapevole di questi meccanismi della trasmissione può continuare a ritenere effimero il suo oggetto di ricerca? E se la danza ha lasciato tracce utili a ripercorrerne la memoria e a ricostruirne la storia, dove sono reperibili? Di quale concetto di archivio si parla per la danza? Le teorie che negli ultimi decenni studiosi di storia, filosofia, sociologia, antropologia, letteratura, storia dell’arte, del teatro e della performance, oltre che archivisti e bibliotecari, hanno sviluppato per ripensare il ruolo e la funzione dell’archivio inteso come istituzione e come strumento di conoscenza si stanno rivelando fondamentali anche per immaginare il presente e il futuro della ricerca sulla danza. Se fino a tempi recenti l’identificazione e l’interpretazione delle fonti sulla base di assunti teorici poco consapevolmente applicati alla ricerca ha prodotto narrazioni storiche parziali e spesso aneddotiche, riflessioni più recenti hanno portato gli studiosi a prendere atto della necessità di negoziare le molte prospettive sulla natura e gli scopi dell’archivio con la costruzione del proprio oggetto

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© 2014 Acting Archives Susanne Franco, Archivi per la danza tra ricerca storica e pratica coreografica

di ricerca.1 L’archivio, in sostanza, determina la nostra relazione col passato e la costruzione stessa del significato storico. Per gli studiosi di oggi riflettere sui modi possibili di archiviare un’eredità coreutica e di trasmetterla tramite i processi di incorporazione significa conferire una nuova centralità agli archivi corporei e riconoscere il valore documentario delle pratiche di movimento e delle tecniche coreutiche. Ciò implica anche un più ampio ripensamento critico del funzionamento della memoria nella danza e di come essa intreccia il discorso storico.2 L’approccio problematico alle questioni legate al riconoscimento e all’utilizzazione degli archivi è dunque profondamente legato alla valorizzazione della discontinuità intesa come concetto operativo o strumento della ricerca necessario a cogliere gli scarti, le fratture, e i diversi tipi di relazione esistenti tra i fenomeni e gli eventi storici. La visione foucaultiana del processo di archiviazione come di un sistema di costruzione del sapere che trasforma simultaneamente il passato, il presente e il futuro,3 si è saldata, tra le altre, alla proposta di Jacques Derrida di sfumare le differenze tra archivio materiale e immateriale, dato che anche quello più disincorporato richiede un lavoro di interpretazione per essere decifrato, una ri-attivazione che a sua volte produce una trasformazione.4 Ne emerge che la natura paradossale dell’archivio consiste propriamente in questo suo essere, da un lato, il luogo deputato a preservare il passato, e dall’altro, nel non essere esente dalle trasformazioni generate proprio da chi entra in contatto con esso. In altre parole è l’interpretazione stessa dell’archivio, l’esperienza che ne fa lo studioso, ad alterarlo ogni volta. Proprio perché oscilla tra il concreto e il metaforico, ovvero tra un luogo materiale che ospita un corpus di documenti e il movimento corporeo di chi lo attiva per accedere a questo corpus, l’archivio offre un importante punto di riferimento per lo storico della danza. Come suggerisce Christina Thurner, si può arrivare ad affermare che l’archivio costituisce un fondamento per «uno spazio di realtà e possibilità» per la ricerca, in

1 M. Manoff, Theories of the Archive from Across the Disciplines, «Portal: Libraries and the Academy», n. 4, 2004, pp. 9-25. 2 Per una ricognizione di questi temi si vedano: Migrations of Gesture, a cura di C. Nolan, S. A. Ness, Minneapolis, Minnesota University Press, 2008; Ricordanze. Memoria in movimento e coreografie della storia, a cura di S. Franco, M. Nordera, Torino, UTET Università, 2010; Original und Revival. Geschichts-Schreibung im Tanz, a cura di C. Thurner, J. Wehren, Zurich, Chronos, 2010; Dance (and) Theory, a cura di G. Brandstetter e G. Klein, Bielefeld, Transcript, 2013, in particolare il capitolo Archives, pp. 213-250 e la relativa bibliografia finale. 3 M. Foucault, L’archeologia del sapere, Milano, Rizzoli, 1971 (ed. or. Archéologie du savoir, Paris, Gallimard, 1969). 4 J. Derrida, Mal d’archivio: un’impressione freudiana, Napoli, Filema, 1996 (ed. or. Mal d’archive: une impression freudienne, Paris, Gallimard, 1995).

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particolare per la ricerca sulla danza.5 Le tendenze postmoderne della storiografia arrivano infatti a considerare l’archivio come uno spazio dinamico che si apre grazie all’analisi e grazie al quale l’analisi prende vita. In questo senso l’archivio può essere anche considerato come una metafora per il modo di fare storia e rapportarsi alla storiografia. Su un piano diverso, per molti coreografi contemporanei la «volontà di archiviare»,6 come la definisce André Lepecki, si concretizza sempre più spesso in spettacoli basati su citazioni o riappropriazioni di materiali coreutici del passato. Spinti dal desiderio di confrontarsi con una storia della danza di cui sentono di non potere accettare interamente o parzialmente l’eredità, questi artisti dalla formazione eterogenea ma accomunati dall’interesse per letture teoriche di matrice filosofica,7 utilizzano gli spunti di riflessione sui temi dell’archivio e della trasmissione di tecniche, coreografie o repertori, per ri-scrivere in scena la storia della danza ponendo al centro delle loro produzioni la rappresentazione del funzionamento dei complessi meccanismi della memoria (corporea) individuale e collettiva.8 Gli esiti di questa progettualità pratico-teorica sono spesso presentati come re-enactment, termine che usualmente si riferisce alle rievocazioni di battaglie, feste e altri eventi di epoche passate, ma che ha finito per essere utilizzato per indicare un più ampio spettro di soluzioni che vanno dalla ricostruzione, alla rivisitazione, alla re-invenzione di spettacoli che hanno fatto epoca o hanno dato vita a una tradizione. Ramsay Burt precisa che le «attualizzazioni incorporate»9 di opere del passato così frequenti sulle scene internazionali dall’inizio del nuovo secolo, sono il segnale di un approccio attivo e non reattivo, generativo e non imitativo da parte dei coreografi contemporanei alla storia della danza. Per evidenziarne il ruolo di ri-attivatore di eventi del passato, Rebecca Schneider arriva a definire i re-enactment una forma di «contro-memoria» e «ri-documentazione»,10 capaci di imprimere nuovo slancio allo studio della performance.

5 C. Thurner, Leaving and Pursuing Traces. ‘Archive’ and ‘Archiving’ In Dance Context, in Dance (and) Theory, cit., p. 241. 6 A. Lepecki, The Body as Archive: Will to Re-Enact and the Afterlives of Dances, «Dance Research Journal», n. 2, 2010, pp. 28-48. 7 Su questo aspetto si veda in particolare C. Schellow, Diskurs-Choreographien. Zur Produktivität von Denk-Bewegungen der Negation, Negativität und Absenz für den zeitgenössischen Tanz-Diskurs, Tesi di Dottorato, Universität Bern, 2014. 8 Si veda in proposito R. Burt, Memory, Repetition and Critical Intervention. The Politics of Historical References in Recent European Dance Performances, «Performance Research», n. 2, 2003, pp. 34-41. 9 Ivi, p. 34. 10 R. Schneider, Archives Performance Remains, «Performance Research», n. 2, 2001, p. 106.

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Archivi corporei e trasmissione della danza Ogni pratica di danza incarna una teorizzazione di relazioni tra il corpo e il sé, e tra i corpi e la società. Il significato di una danza o di una tecnica coreutica è infatti sempre il prodotto di un accordo culturale, vale a dire il risultato di un uso sistematico di codici e di convenzioni condivise da un gruppo, come i concetti di bellezza e grazia o determinate regole comportamentali. Il corpo umano, dunque, come hanno evidenziato le pionieristiche ricerche dell’antropologo Marcel Mauss negli anni Trenta del Novecento,11 si muove (e danza) in un mondo di significati organizzati nello spazio che fanno parte di quel corpo (e di quell’idea di danza), e che devono essere re-istituiti nel momento in cui lo spettatore esterno non faccia parte di quel mondo. La profonda ristrutturazione delle culture del sapere in corso da qualche decennio ha evidenziato quanto il corpo sia un luogo della memoria, poiché la sensorialità, le esperienze emotive e cognitive sono custodite nei movimenti e nei gesti. Il sapere tacito del corpo e la memoria corporea sono state riconosciute a pieno titolo delle forme culturali e come tali connotate da una loro specificità storica,12 sebbene questa loro dimensione sia da sempre un’evidenza nelle culture orali. La materialità del corpo è pensata, dunque, come un accumulo di documenti capaci di suggerire significati che vanno oltre la dimensione fisica. Leggere queste tracce di sapere custodite nel corpo traghettate nel presente da epoche lontane significa riuscire a portare in superficie quanto la storiografia occidentale ha troppo a lungo relegato ai margini del concetto stesso di cultura e mettersi in condizione di comprendere un dato approccio alla vita espresso attraverso la pratica coreutica.13 La metafora del corpo-archivio è sembrata particolarmente efficace nel rendere l’ampio spettro di concetti che sostanziano queste nuove impostazioni metodologiche della ricerca applicate alla danza. Tuttavia, alcune recenti riflessioni prodotte da antropologi ed etnografi critici rispetto al modo in cui questa metafora è stata utilizzata nel definire le politiche per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale avviate dall’UNESCO, hanno rilanciato il dibattito anche in seno agli studi teatrali e della performance, specialmente in ambito anglosassone. II programma inizialmente proposto dall’UNESCO negli anni ’90 del Novecento, mirava a

11 M. Mauss, Le tecniche del corpo, in Id., Teoria generale della magia e altri saggi, Torino, Einaudi, 1965, pp. 383-409 (ed. or. Les techniques du corps, «Journal de psychologie», n. 32, 1936, pp. 271-293). 12 Per una lettura storica del lavoro di Marcel Mauss e della sua portata per gli studi di danza si veda in particolare I. Baxmann, The Body as Archive. On the Difficult Relationship between Movement and History, in Knowledge in Motion: Perspectives of Artistic and Scientific Research in Dance, a cura di S. Gehm, P. Husemann, K. von Wilcke, 2009, pp. 127-135. 13 F. A. Cramer, Body, Archive, in Dance (and) Theory, a cura di G. Brandstetter, G. Klein, Bielefeld, Transcript, 2013, pp. 219-221. S. A. Ness, The Inscription of Gesture: Inward Migrations in Dance, in Migrations of Gesture, cit., pp. 1-30.

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salvare dall’oblio alcune forme originali o antiche di sapere comunicate tramite pratiche di incorporazione. La traduzione di concetti utili a salvaguardare aspetti materiali della cultura in soluzioni funzionali a preservare forme immateriali del sapere ha però sollevato non pochi dubbi metodologici. Una domanda per tutte: come distinguere ciò che un danzatore esegue in scena da ciò che insegna a lezione? In altre parole, come distinguere tra la danza come esito di una progettualità artistica e destinata a un pubblico in un preciso contesto culturale sotto forma di spettacolo, e il sapere tecnico ed estetico che la informa e l’attraversa custodito e trasmesso dal corpo-archivio? L’apparato burocratico richiesto dalle politiche di salvaguardia dei beni materiali e immateriali del passato messe in campo dall’UNESCO ha portato paradossalmente a una progressiva oggettivazione di questi ‘tesori viventi’ e ‘capolavori’, trascurando quanto in realtà il loro significato sia sempre dato dal contesto in cui hanno luogo. Così facendo, cioè, si è enfatizzata la centralità del prodotto a scapito del processo di trasmissione, che peraltro presuppone sempre un movimento continuo e si fonda sulla relazione tra persone, corpi e linguaggi. Pensare ai corpi (che danzano) come ad archivi viventi significa pensare che l’artista è in primo luogo un veicolo che fa circolare la cultura, e ciò implica pensare che la cultura sia stabile e fissa. Un simile approccio alla cultura immateriale ha rischiato, cioè, di creare una serie di dislocazioni spazio temporali e rendere l’hic et nunc della performance, la memoria corporea dei performer, e non da ultimo l’interazione tra performer e spettatori, un prodotto culturale astratto e universale. Queste osservazioni di ordine teorico e metodologico hanno condotto all’eliminazione di definizioni ambigue come quelle di ‘tesori viventi’ e di ‘capolavori’, e a una profonda revisione delle politiche di sostegno indirizzandole ai processi di trasmissione dei maestri e non più soltanto alle loro opere. È interessante notare che, d’altro canto, nella cultura occidentale, la storia della danza si è configurata in larga parte attorno ai ricordi dei suoi protagonisti (in larga parte artisti e critici) che in questo modo sono stati legittimati a pensare alla loro esperienza e alla loro testimonianza come a un dato storico dal valore incontrovertibile e dal valore assoluto. Se da un lato i loro corpi-archivio sono stati presi come la fonte principale per scrivere ‘La’ storia della danza la maggior parte di questi volumi pubblicati fino a tempi recenti sono andati strutturandosi attorno all’idea che la continuità genealogica della memoria corporea trasmessa da maestro ad allievo sia l’unico modo sicuro per preservare la danza dall’oblio. In questo modo sono passati in secondo piano il carattere costruito di quella stessa memoria, la sua discontinuità e la sua frammentarietà, oltre che la problematicità di concetti come corpo-archivio e cultura immateriale.

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Questa operazione di revisione delle politiche messe in campo dall’UNESCO non ha tuttavia sgombrato il campo da alcuni luoghi comuni, come l’idea stessa che un’eredità immateriale sia costitutivamente fragile, di breve vita, e ancorata al passato, e che chi la trasmette non sia attivamente implicato alla sua (ri)creazione.14 La salvaguardia culturale dei saperi e dei patrimoni immateriali sembra dunque non riuscire a risolvere l’ambiguità tra la creazione di condizioni favorevoli ad assicurarne una continuità nel tempo, e la costituzione di inventari e archivi.15 Ma se le pratiche incorporate eccedono sempre il sapere scritto come possiamo ri- pensare l’archivio per lo studio della danza? Nell’ambito dei performance studies la nozione di archivio corporeo è stata rielaborata da studiosi interessati a capire come si trasmettono le eredità culturali immateriali e adottata da quanti in questo ambito di ricerca rigettano l’idea che la danza sia effimera. Diana Taylor oppone l’archivio inteso come insieme di materiali presumibilmente stabili, ovvero testi, documenti, ma anche edifici, scheletri e così via, a quello che definisce «repertorio effimero di pratiche/saperi incorporati»,16 come il linguaggio verbale, la danza, lo sport o i rituali. Gli atti incorporati o gesti culturali non sono, a suo dire, rintracciabili negli archivi materiali, bensì nei ‘repertori’ dove possono essere riattivati ogni volta. Per Taylor anche la performance funziona come una riserva di memoria incorporata e veicolata da gesti, parole, danza e canto. Come tale la performance può fornire una comprensione supplementare o alternativa dei valori di una comunità rispetto ai documenti scritti. Questi atti e gesti incorporati sono trasmessi alle generazioni future grazie al passaggio da un corpo all’altro e proprio nell’atto di essere trasmessi dal passato essi vengono ri-creati ed esperiti nel presente, che è intriso di passato tanto quanto è proiettato verso il futuro, proprio come l’archivio. Dunque anche per Taylor la distinzione tra archivio e repertorio è funzionale a chiarire le diverse dimensioni possibili della trasmissione di un’eredità, pur rivelandosi meno radicale di quanto non possa sembrare a prima vista. Sempre nell’ambito dei performance studies, Rebecca Schneider sottolinea quanto la trasmissione corpo a corpo sia caratterizzata da una pratica della ripetizione e considera la performance come un modo di portare il passato nel presente e come tale

14 Su questi dibattiti si vedano in particolare N. Aikawa, An Historical Overview of the Preparation of the Convention for Safeguarding of the Intangible Cultural Heritage, e B. Kirshenblatt-Gimblett, Metacultural Production, in Intangible Heritage, numero monografico, Museum International UNESCO, nn. 1-2, 2004, rispettivamente pp. 137-149 e pp. 53-58; D. Taylor, Performance and Intangible Cultural Heritage, in The Cambridge Companion To Performance Studies, a cura di T. Davis, Cambridge, Cambridge University Press, 2008, pp. 91-104. 15 B. Kirshenblatt-Gimblett, Metacultural Production, cit. 16 D. Taylor, The Archive and the Repertoire. Performing Cultural Memory in the Americas, Duke University Press, Durham 2003, p. 19.

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va assimilata all’archivio.17 Inge Baxmann, partendo dagli studi sui rapporti tra storia e memoria, in particolare di Pierre Nora, considera i corpi alla stregua di luoghi della memoria, e i corpi in movimento come forme di archiviazione.18 Infine, Joseph Roach ha esteso il concetto di archivio ai corpi in movimento da lui definiti come «riserve mnestiche»19 e come tali trasportabili e traducibili nel transito da un corpo all’altro e da un’epoca all’altra.

Nell’insieme questi approcci teorici all’archivio e alle modalità di trasmissione della performance (e dunque anche della danza) intesa come trasposizione, traduzione e ripetizione di un’eredità immateriale e di una memoria culturale, offrono strumenti utili a mettere in crisi la rappresentazione lineare del tempo e la narrazione della storia in cui il passato è pensato come qualcosa di definitivamente superato dal presente.20 Secondo il modello suggerito da Aleida Assmann, la memoria culturale attiva o funzionale, ovvero quella che custodisce e riproduce di continuo il capitale culturale di una società, riciclandolo e riaffermandolo, preserva il passato come presente; al contrario la memoria culturale passiva o memoria-archivio preserva il passato come passato. La prima custodisce un ‘passato presente’ sotto forma di canone, la seconda custodisce il ‘passato passato’ e la sua istituzione paradigmatica è l’archivio. La funzione del canone è di essere selettivo e pertanto si basa sul principio di esclusione, mentre quella dell’archivio consiste nel bilanciare il lavoro della memoria attiva, creando una sorta di meta-memoria in grado di preservare ciò è stato dimenticato. L’archivio, dunque, funziona come «un ufficio oggetti smarriti»21 per quello che non serve più o che non è compreso nell’immediato, come un magazzino delle occasioni perdute e delle opzioni alternative e delle opportunità non utilizzate. La tensione che si instaura tra il modello del canone e quello dell’archivio rispecchia quella tra contrazione ed espansione della memoria culturale.

17 R. Schneider, Performing Remains. Art and War in Times of Theatrical Reenactment, London - New York, Routledge, 2011. In italiano si veda anche R. Schneider, Resti performativi, in B. Motion. Spazio di riflessione fuori e dentro le arti performative, a cura di V. Gravano, E. Pitozzi, A. Sacchi, Costa&Nolan, Milano 2008, pp. 13-30. 18 I. Baxmann, Der Körper als Gedächtnisort, in Deutungsräume. Bewegungswissen als kulturelles Archiv der Moderne, a cura di F.A. Cramer, I. Baxmann, München, Kieser, pp. 15-35. 19 J. Roach, Cities of the Dead: Circum-Atlantic Performance, New York, Columbia University Press, 1996, p. 26. 20 G. Lenclud, La tradition n’est plus ce qu’elle était, «Terrain», n. 9, 1987, (anche http://terrain.revues.org/index3195.html). 21 A. Assmann, Canon and Archive, in Cultural Memory Studies. An International and Interdisciplinary Handbook, a cura di A. Erll, A. Nünning, Berlin - New York, de Gruyter, 2008, pp. 97–107. Si veda anche A. Assmann, Ricordare. Forme e mutamenti della memoria culturale, Bologna, Il Mulino, 2002, pp. 148-157.

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Gli studi di caso che seguono presentano un’analisi del funzionamento della trasmissione della memoria culturale della danza moderna secondo il modello dell’archivio e del canone. Richard Move e Yvonne Rainer hanno stabilito con la modern dance di Martha Graham una relazione di distanza e straniamento grazie a un lavoro di contestualizzazione e al confronto con altre tradizioni coeve seguendo il modello esemplificato dalla memoria- archivio. Gli eredi diretti del lascito immateriale di Rudolf Laban, al contrario, sembrano agire seguendo la strategia del canone, e dunque venerando e decontestualizzando l’opera del maestro per farne un oggetto di ammirazione avvolto da un’aura mitica.

Ripensare le genealogie. Martha Graham, Yvonne Rainer e Richard Move Due aspetti della narrazione veicolata dalle storie della danza di impostazione tradizionale sembrano avere maggiormente orientato la conoscenza della modern dance (ma anche di molti altri generi coreutici). Da un lato, la costruzione di precise genealogie corporee di maestri e allievi sulla base di un principio di causa-effetto che non tiene conto degli slittamenti, delle discontinuità, delle rimozioni, e non da ultimo delle forme di resistenza all’insegnamento ricevuto; dall’altro, il principio secondo cui il movimento danzato ha seguito un’emancipazione progressiva dall’espressività narrativa del gesto verso forme più astratte. Da questa prospettiva intrinsecamente modernista, la narrazione della storia della danza, come nota Norman Bryson, segue un percorso lineare in cui «l’astrazione diventa il punto finale del processo storico stesso».22 Approcci più recenti sia alla ricerca storica sia alla pratica coreografica hanno, al contrario, messo in evidenza l’importanza di modalità di trasmissione trascurate fino a tempi recenti e che al contrario possono essere utili a rompere lo schema lineare e verticale del passaggio di patrimoni immateriali. Ramsay Burt suggerisce di ripensare la storia della danza come «un campo decentralizzato di possibilità in cui degli individui e dei gruppi identificano le zone dove si sono accumulati idee e avvenimenti che ritengono più pertinenti».23 Un passaggio ineludibile in questa reimpostazione del discorso storico sulla danza consiste nel ripensare a quali sono i documenti capaci di restituire il passato e nell’individuare gli archivi che li custodiscono. Lo studio della trasmissione della modern dance così come è stata declinata da Martha Graham e della sua eredità che è stata contestata dalla generazione di artisti affacciatasi sulle scene verso gli anni ’60 attivi nel

22 N. Bryson, Cultural Studies and Dance History, in Meaning in Motion: New Cultural Studies of Dance, a cura di J. Desmond, Durham NC, Duke University Press, 1997, pp. 55-77. 23 R. Burt, Re-Presentation of Re-Presentations. Reconstruction, Restaging and Originality, «Dance Theatre Journal», n. 2, 1998, pp. 30-33.

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promuovere la post-modern dance o, al contrario, raccolta da Richard Move, esponente di una generazione successiva, offre molti spunti di riflessione su come funzionano gli archivi in danza e su come la ricerca può farne tesoro.

Yvonne Rainer, una delle protagoniste della stagione della post-modern dance statunitense della seconda metà del Novecento, coreografa, danzatrice, videomaker e non da ultimo teorica della danza e della performance, nel testo introduttivo alla raccolta di saggi pubblicata nel 1999 e composta da scritti prodotti in momenti diversi della sua carriera, confessa un certo imbarazzo nel rileggere alcune sue affermazioni degli anni ‘60 e ’70.24 A colpirla a distanza di tempo è soprattutto la sua miopia nei confronti della modern dance di cui ammette di avere avuto solo una vaga idea a causa della mancanza di documentazione disponibile e di archivi specifici dove recarsi per colmare le proprie lacune e ampliare le proprie conoscenze. In particolare, Rainer afferma di avere scritto alcuni testi sulla post-modern dance poi diventati canonici senza avere potuto vedere il repertorio grahamiano o quello degli altri protagonisti della modern dance negli anni ‘30, ‘40 e ’50. Rainer, che negli anni ’60 aveva seguito delle lezioni di tecnica Graham, precisa che se avesse visto, per esempio, la ricostruzione del pezzo intitolato Steps in the Street (1936) negli anni ‘60 e non nella sua ricostruzione del 1995, avrebbe probabilmente cambiato tutta la sua visione dell’approccio grahamiano, che aveva bollato tout court come pesantemente psicologico e drammatico. In sostanza, Rainer afferma che se avesse conosciuto il repertorio di Graham nella sua complessa stratificazione avrebbe posto la sua visione di una danza anti- narrativa in un percorso storico ed estetico ben più articolato. A ben vedere, era stata la stessa Graham, a partire dagli anni ’70, a prendere coscienza dell’importanza di rintracciare il passato e trasmettere il proprio repertorio, ricostruendo alcune coreografie create all’inizio della sua carriera, e che oggi sono diventate a loro volta dei materiali di archivio per conoscere la storia della modern dance. Lamentation, creato nel 1930, fu infatti ricostruito da Graham nel 1974 per Peggy Lyman, nota danzatrice della sua compagnia, e che è ora visionabile anche su youtube.25

Ma da che prospettiva guardava all’epoca Graham alla prima fase della sua ricerca artistica? Che memoria ne aveva a distanza di oltre quarant’anni? Si può parlare di ricostruzione filologica e di trasmissione diretta in virtù del fatto che a firmarla era l’autrice? E se sì che grado di attendibilità si può attribuire a questa ricostruzione? Come nota Mark Franko, l’operazione di

24 Y. Rainer, A Woman Who… Essays, Interviews, Scripts, Baltimore, Maryland, The Johns Hopkins University Press, 1999, p. 27. 25 Cfr. http://www.youtube.com/watch?v=xgf3xgbKYko&feature=player_embedded.

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recupero di questo patrimonio immateriale è stata condotta senza una consapevolezza metodologica del funzionamento della ricostruzione o della rivisitazione di un’opera coreografica, e ha prodotto dei risultati dubbi sia sul piano estetico sia su quello storico. Allo studioso contemporaneo il pezzo rivela il funzionamento dei meccanismi psicologici di proiezione del presente sul passato più che l’attendibilità della fonte, o presunta tale, ovvero il corpo e la memoria di Graham. Quest’ultima, infatti, dopo un inizio carriera all’insegna della ricerca di una tecnica di movimento e di un modo di rappresentare in scena una nuova immagine di corpo (a quel tempo esclusivamente femminile), oltre che del rinnovamento del linguaggio coreografico in linea con le tendenze dell’espressionismo astratto, a partire dalla metà degli anni ’40 aveva alimentato soprattutto un corpus di opere coreografiche con una spiccata espressività narrativa del gesto e un impianto drammaturgico complesso. Questa visione si era fatta sempre più totalizzante e aveva portato Graham a deformare anche il ricordo delle linee estetiche delle sue prime sperimentazioni.26 L’astrazione, un elemento così centrale nei primi lavori di Graham, sembra dunque sottrarsi a quella traiettoria lineare indicata da Bryson. Laddove per Graham l’astrazione si colloca all’inizio di un percorso che nel tempo l’ha portata altrove, per Rainer rappresenta il cardine estetico della sua visione della post-modern dance e proprio nell’intento di superare le derive narrative e psicologiche da lei attribuite alla modern dance. Se, dunque, Graham ha riattivato il proprio archivio corporeo a distanza di decenni portando in superficie soprattutto le complesse interazioni tra memoria, oblio e rimozione, d’altro canto, proprio l’assenza di archivi materiali ha portato Rainer a immaginare una dimensione di ricerca che pensava antitetica e innovativa rispetto a quella di Graham, ma che in realtà era già stata esplorata alcuni decenni prima e proprio da Graham. Ma quali sono gli archivi che uno studioso o un artista desideroso di mettersi sulle tracce dell’opera di Graham potrebbe considerare oggi? Cosa ne è stato dell’eredità materiale e immateriale di Graham dopo la sua morte? Fin dal 1991, il patrimonio della coreografa - il suo repertorio e la sua stessa tecnica di danza oltre che i materiali del suo archivio privato - è stato al centro di una disputa legale tra eredi veri e presunti. Il corpus di documenti riguardanti la vita privata e professionale di Graham sono stati destinati, su volere della coreografa, a costituire un fondo d’archivio presso la Library of Congress di Washington e catalogati dopo lunghi anni. La recente biografia intellettuale che Mark Franko ha dedicato a Graham, ne ha fatto tesoro per illuminare il rapporto tra letteratura, teorie psicanalitiche e pratica coreografica,27 così come gli studi di Victoria Philips

26 Si veda M. Franko, Dancing Modernism – Performing Politics, , Bloomington, Indiana University Press, 1995, p. 160 n. 53. 27 M. Franko, Martha Graham in Love and War. The Life in the Work, New York, Oxford

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per ricostruire la genesi dell’autobiografia della danzatrice.28 La compagnia e la scuola fondate da Graham, rispettivamente la più antica e quella attiva da più tempo negli Stati Uniti, sono finite sotto la direzione di Ron Protas, un fotografo di formazione molto vicino a Graham a fine carriera e che, malgrado la sua scarsa preparazione in materia di danza, la coreografa aveva designato come erede universale. La querelle legale tra Protas e i danzatori ha prodotto una paralisi totale dell’attività della compagnia e della gestione della scuola che ha danneggiato non poco la conservazione del repertorio e della tecnica Graham. La vittoria dei danzatori della compagnia un decennio più tardi e il lento e faticoso riavvio dell’attività didattica e artistica, hanno fatto riflettere anche a livello teorico sui meccanismi della trasmissione e sulla natura degli archivi della danza.29 Nel contempo, proprio lo spazio lasciato libero dalla paralisi delle attività della scuola e della compagnia, ha reso possibile l’affermazione di idee e soluzioni alternative per la trasmissione del suo patrimonio immateriale. Questo è il caso del danzatore e coreografo americano Richard Move (alias Richard Weinberg), già nota drag queen sulla scena newyorchese.30 Formatosi in parte alla scuola Graham, Move è partito dal fascino che provava per la statura intellettuale, la personalità carismatica di donna e artista fuori dagli schemi, e per l’aura mitica da cui è stata avvolta la figura della coreografa, per creare un personaggio a metà strada tra l’omaggio a un mito della danza e la sua citazione parodica. In Martha@Mother (1996), lo spettacolo che prende il nome da un cabaret del Meatpacking District di Manhattan, Move si presenta in scena nei panni di una Graham-drag queen incorporandone la gestualità, i movimenti, e il modo di parlare fa rivivere la ‘sua’ Martha. La serie di ‘distillati’, ovvero di brevissime e condensate versioni dei balletti epici e altri frutto della mescolanza di due o più titoli originali, si alterna a lunghi monologhi in cui Move spiega il significato e le origini di ciascun pezzo.31 In alcune delle numerose versioni di Martha@...

University Press, 2012. 28 Si veda in particolare V. Philips, Martha Graham's Gilded Cage: Blood Memory. An Autobiography (1991), «Dance Research Journal», n. 2, 2013, pp. 63-83. 29 Su queste vicende si veda S. Franco, Martha Graham, Palermo, L’Epos, 2003 (2° ed. 2006), pp. 181-193; J. Acocella, The Flame. The Battle Over Martha Graham’s Dances, «The New Yorker», 19.2.2001, p. 182. 30 Per i dati biografici di Richard Move e un’ampia presentazione dei suoi lavori e delle tournée cfr. http://[email protected]/move/bio.html. Su Richard Move e le sue performance si veda anche S. Franco, Eredità contese e trasmissioni indirette. Il caso di Richard Move e Martha Graham, in Danza e teatro. storie, poetiche, pratiche e prospettive di ricerca. Atti del convegno di studi dedicato a Silvana Sinisi ed Eugenia Casini Ropa (Università di Bologna, 24-25 settembre 2009), Acireale-Roma, Bonanno Editore, pp. 169-178, e S. Franco, Trasmettere citando. Richard Move, Yvonne Rainer e le storie della danza, in Roots&Routes. Research on Visual Cultures. Arte (con)temporanea in un (con)testo affettivo di parole (in)corporate che propongono un pensiero (alter)nativo, 2012, http://www.roots-routes.org/?p=6526. 31 Richard Move è apparso nei panni di Graham anche nel docu-fiction di Christopher Herrmann, amico intimo di Graham e produttore di alcuni documentari televisivi sul lavoro

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(che prendono di volta in volta il nome del luogo che le ospita) i monologhi si alternano a dialoghi tra Move ed esponenti del mondo della danza del calibro di Merce Cunningham, Mikhail Baryshnikov, Mark Morris, Matthew Bourne, e così via, spesso invitati anche a presentare dei frammenti delle loro creazioni. Con l’intento di trasmettere una forma di conoscenza della tecnica e dell’opera grahamiane che hanno contribuito alla sua formazione coreutica alle generazioni che non hanno potuto vederla in scena, ma al tempo stesso sentendosi svincolato dai doveri che un erede designato dal maestro avrebbe avuto, Move ha dato vita a quelle che ha definito delle «de-ri- costruzioni».32 Partendo, cioè, da accurate ricerche di documenti d’archivio e dall’eco della memoria collettiva di questi spettacoli, Move agisce da una prospettiva teorica postmoderna secondo cui non è possibile risalire all’originale di un’opera coreografica, bensì soltanto alle numerose ri- presentazioni della sua prima rappresentazione.33 Se, dunque, per un verso si contrappone al discorso culturale e artistico dominante che attribuisce un valore all’‘originalità’, per l’altro, come puntualizza André Lepecki, Move mira ad attualizzare il passato ritagliandosi uno spazio per la propria creatività.34 Con il suo corpo-archivio mette in discussione la questione dell’autorialità in danza, incorporando spettacoli del passato e trattandoli alla stregua di una fonte a cui attingere liberamente per nutrire nuove creazioni. Allo stesso tempo, si mostra critico nei riguardi di chi pretende di avere un controllo esclusivo sull’eredità delle opere d’arte pensando di potere dominare ogni aspetto della loro trasmissione. Così facendo, Move solleva anche importanti questioni sul fatto che esistano forme d’arte stabili e fisse nel tempo, e ci offre un esempio di come, al contrario, la danza sia un sistema dinamico di incorporazioni multiple e intersoggettive attraverso le epoche storiche.35 La tensione tra questa sua originale strategia artistica e le logiche economiche in cui la pratica teatrale è imbrigliata esplode nel 2006, quando, dopo essere stato a lungo osteggiato da Protas, Move è invitato a partecipare alle manifestazioni per l’ottantesimo anniversario della compagnia Graham oramai tornata a gestire autonomamente il proprio destino. In questa

e le opere della danzatrice, Ghostlight (2003), nel documentario intitolato Channelling Martha di Talal Al-Muhanna. 32 J. Gilbert, Martha Graham: It's Such a Drag Being an Icon. The Dance Legend Martha Graham Lives On... in a Slightly Taller Body, http://www.independent.co.uk/arts- entertainment/theatre-dance/features/martha-graham-its-such-a-drag-being-an-icon- 615979.html. 33 R. Burt, Re-Presentation of Re-Presentations. Reconstruction, Restaging and Originality, «Dance Theatre Journal», n. 2, 1998, pp. 30-33. 34 A. Lepecki, The Body as Archive, cit. 35 G. Brandstetter, Choreography as Cenotaph: The Memory of Movement, in ReMembering the Body, a cura di G. Brandstetter, H. Völckers, Ostfildern, Hatje Cantz, 2000, pp. 102-132.

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occasione gli viene commissionato un nuovo pezzo, Lamentation Variation (2007) poi entrato a fare parte del repertorio della compagnia. L’indubbio riconoscimento del valore del suo lavoro si innesta in una più complessa operazione di assimilazione di un’opera coreografica nella memoria culturale di una comunità. In modo analogo al canone, infatti, il repertorio custodisce le opere che grazie alla loro ripetuta rappresentazione in contesti istituzionalizzati diventano un punto di riferimento per guardare al passato come se fosse una dimensione del presente. Il canone (e dunque il repertorio), come precisa Assmann, è l’esito di operazioni di selezione delle opere da custodire e tramandare, con una conseguente contrazione della memoria culturale di cui anche le opere escluse erano espressione. E tuttavia, precisa la studiosa, l’energia sottesa alle dinamiche della memoria culturale è alimentata dall’interdipendenza tra le sue diverse modalità di funzionamento, rendendo possibile stemperare il modello del canone in quello dell’archivio o viceversa.36 La strategia artistica di Move riesce nel difficile intento di includere nel suo progetto di archivio vivente anche questa deviazione verso il modello di trasmissione della memoria culturale via canone, destinando l’eredità dei suoi spettacoli all’espansione della memoria culturale. Ma in che modo la visione della modern dance veicolata dai suoi show può contribuire a destabilizzare la struttura delle narrazioni storiche tradizionali e le genealogie stabili che vedono le generazioni avvicendarsi senza sosta e senza cesure? In che modo la sua opera funziona come un archivio in cui trovare gli oggetti smarriti dalla tradizione, quello che la cultura del presente non trova immediatamente utile o non riesce a comprendere?

La versione dello show di Move presentata nel 2002 al Jacob Pillow e intitolata Martha@thePillow, affiancava la ricostruzione firmata da Patricia Hoffbauer di un pezzo minimalista di Yvonne Rainer, Three Seascapes (1962), che era stata preceduta da un dialogo tra Move-Graham e Rainer – qui impersonata da un anonimo uomo di origini asiatica – sul suo rapporto con la tecnica e l’opera di Graham. Un dialogo simile è stato infine inserito dal regista Charles Atlas nel documentario intitolato Rainer Variations (2002), girato in occasione della retrospettiva che celebrava quarant’anni di attività di Rainer,37 e ora disponibile anche su youtube.38

In questa versione è Move-Graham a chiedere lumi a Rainer – quella vera questa volta – sulle opere del suo repertorio e sul senso del suo approccio postmoderno alla danza. Quest’ultima tenta infine con scarso successo di

36 A. Assmann, Canon and Archive, cit., p. 102. 37 Yvonne Rainer: Radical Juxtapositions 1961-2002, allestita a New York presso la Schmidt Center Gallery (4 novembre 2005 – 21 gennaio 2006). 38 Cfr. http://www.youtube.com/watch?v=hXgascpElKA&feature=player_embedded

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insegnare a Move-Graham uno dei suoi pezzi più celebri, Trio A (1966), creato come un solo per se stessa, ancorché presentato al pubblico la prima volta come un work in progress presso la Judson Church col titolo The Mind Is a Muscle, Part I ed eseguito simultaneamente ma non all’unisono da Rainer, David Gordon e Steve Paxton.39 La scelta di Rainer e Atlas di inserire questo dialogo tra i due artisti e di rendere oggetto della trasmissione ‘impossibile’ Trio A non è casuale. Innanzitutto Rainer ha creato Trio A per esplorare la dinamica corporea intesa come ripetizione e come successione di azioni orientate a eseguire un compito. Il pezzo doveva trasmettere l’idea di una performatività ‘neutra’ in cui la distribuzione dell’energia doveva apparire al pubblico come la traduzione corporea di ciò che in musica è definito come un fraseggio non modulato. L’impianto così esplicitamente (e polemicamente) anti- grahamiano di Trio A risponde dunque pienamente all’esigenza di Rainer di prendere la distanza dall’estetica della modern dance a lei coeva e che grossolanamente aveva ritenuto essere tipicamente grahamiana. In secondo luogo Trio A che, dopo una ricezione iniziale negativa, è divenuto una delle pietre miliari della coreografia postmoderna, ed è stato interpretato in luoghi assai diversi tra loro da moltissimi danzatori, professionisti e amatori. La documentazione materiale a disposizione oggi (video, fotografie, spiegazioni e ricordi di Rainer, interviste ai protagonisti, resoconti, recensioni, e così via) su questo pezzo è consistente e altrettanto si può dire della sua trasmissione corpo a corpo, iniziata dalla stessa Rainer e proseguita con i suoi allievi che lo hanno a loro volta insegnato ad altri e senza la sua supervisione. Questa vera e propria inflazione di memoria ha reso Trio A un caso più unico che raro nella storia della danza occidentale diventando un esempio di archivio corporeo diffuso. I due danzatori si confrontano nella diversa interpretazione di un pezzo e i loro corpi, quello della drag queen e quello da butch [termine che indica una donna lesbica con atteggiamenti e abbigliamento spiccatamente virili] parlano a differenti livelli, esprimendo le implicazioni di genere nella costruzione e ricezione del corpo del danzatore, la difficoltà di cancellare le tracce indelebili di una tecnica di danza, e la mancanza di pazienza dimostrata da chi come Graham, ha dovuto impegnarsi molto per affermare il suo punto di vista sull’arte e sul mondo. La sua personalità debordante le ha reso più difficile accettare l’idea che anche le generazioni successive mirassero ad affermare il proprio stile e rivendicassero un ruolo in piena autonomia.

39 La ripresa video di Trio A eseguito in versione solo da Yvonne Rainer è consultabile al sito http://www.vdb.org/titles/trio. Dell’ampia documentazione esistente sullo spettacolo si veda almeno Y. Rainer , Trio A: Genealogy, Documentation, Notation, in «Dance Research Journal», n. 2, 2009, pp. 12-18; C. Wood, Yvonne Rainer: The Mind Is a Muscle, London, Afterall Books, 2007; C. Lambert-Beatty, Being Watched: Yvonne Rainer and the 1960s, Cambridge, MIT Press, 2008.

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La messa in scena di questo dialogo impossibile e di un anacronismo storico solo apparente, come mostrare Graham intenta a imparare da Rainer, pone in primo piano la necessità di questi artisti di decostruire la logica cronologica e teleologica della trasmissione in danza così come è stata concettualizzata dai maestri e dalle storie della danza di impostazione tradizionale, e di immaginare al suo posto un circuito orizzontale in cui siano contemplabili anche relazioni indirette e involontarie tra artisti e un transito di saperi che può partire dagli allievi e stimolare i maestri.

Rudolf Laban: il canone e la storia Anche la storiografia dell’Ausdruckstanz (danza di espressione) fino a una ventina di anni era intrisa di assunti modernisti e veicolava l’idea di un’arte sostanzialmente apolitica sebbene tesa verso una generica idea di progresso sociale oltre che di innovazione estetica. Questa tradizione coreutica è stata presentata come foriera di affascinanti utopie moderne, senza tuttavia tenere conto dei suoi aspetti più reazionari,40 le cui radici sono da individuare nel vasto e poliedrico movimento di reazione alla civiltà industriale e ben resi dall’antitesi Kultur (cultura)/Zivilisation (civilizzazione) e Gemeinschaft (comunità)/Gesellschaft (società). A rendere possibile l’affermazione di questa visione mitizzante dell’Ausdruckstanz (danza di espressione) ha contribuito soprattutto il fatto che a scriverne la storia siano stati i suoi protagonisti (artisti e critici), troppo coinvolti per avere uno sguardo critico e poco consapevoli degli strumenti metodologici che utilizzavano. Ancora oggi, per gli eredi diretti di questa tradizione è difficile mettere in prospettiva storica gli elementi che hanno determinato il grande successo delle pratiche coreutiche che a loro volta trasmettono ai loro allievi. Temi come la centralità della sfera corporea, la capacità di tradurre visivamente e fisicamente la tensione verso un agognato stato originario, per citare solo un paio dei capisaldi dell’Ausdruckstanz, continuano a esercitare un grande fascino ma restano privi di un’adeguata contestualizzazione storica. Il caso dell’eredità materiale e immateriale di Rudolf Laban, riconosciuto generalmente come uno dei massimi teorici della danza del ventesimo secolo ed esponente di spicco dell’Ausdruckstanz, è emblematico dell’intreccio tra politiche dell’interpretazione e della conservazione di un patrimonio coreutico. Poliglotta e nomade, Laban ha lasciato tracce del suo pensiero, delle sue molteplici attività e della sua vita privata in documenti che non sono soltanto stati a lungo di difficile reperibilità, ma anche scritti

40 Si vedano soprattutto S. Manning, Ecstasy and the Demon. Feminism and Nationalism in the Dances of Mary Wigman, Berkeley, University of California Press, 1993 (2° ed. Ecstasy and the Demon. The Dances of Mary Wigman, University of Minnesota Press, 2006); L. Karina, M. Kant, Tanz unterm Hakenkreuz, Berlin, Henschel, 1996 (tr. ingl. Hitler’s Dancers: German Modern Dance and the Third Reich, New York, Berghahn Books, 2003) e L. Guilbert, Danser avec le IIIe Reich: les danseurs modernes sous le nazisme, Bruxelles, Complexe, 2000 (2° ed. 2012).

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in più lingue. La storiografia labaniana è di conseguenza marcata dalla quantità e dalla qualità di fonti cui ha fatto di volta in volta riferimento. Gli archivi materiali legati all’attività di Laban sono stati segnati dalla distruzione e dalla dispersione durante la seconda guerra mondiale e dalla loro ripartizione seguita alla divisione della Germania. A complicare la gestione di questo lascito materiale è stata l’improvvisa partenza nel 1937 di Laban per la Gran Bretagna, dopo che i suoi rapporti con il Reich, prima assai intensi e fertili si deteriorassero irrimediabilmente. Infine, le dispute legali tra alcuni eredi dopo la sua morte hanno reso ulteriormente delicata la questione del suo lascito artistico e materiale. Le logiche che hanno determinato i criteri di conservazione e fruizione degli archivi labaniani hanno finito per condizionare, quando non ostacolare, per lunghi anni gli esiti delle ricerche storiche. Chi tra gli eredi si è nominato il vero custode del suo lascito immateriale, ovvero della conoscenza diretta della sua pratica e della sua teoria, ha rafforzato l’idea che la memoria incorporata sia la fonte per eccellenza a cui attingere per appropriarsi di questo sapere. La trasmissione dell’eredità immateriale del pensiero di Laban è avvenuta lungo una via tedesca, minoritaria, e una anglosassone, maggioritaria ma a sua volta sfaccettata.41 In Germania, è stata la generazione di danzatori e coreografi che negli anni ’70 si sono riconosciuti nella rivoluzione estetica del Tanztheater ad avere raccolto in parte la lezione dell’Ausdruckstanz, ma prolungandone la dimensione leggendaria a scapito di quella storica. Di fronte a un vuoto documentario pressoché totale all’epoca e alla mancata trasmissione del repertorio coreografico labaniano, che il regime nazista alla fine degli anni ‘30 aveva bandito dai teatri, questi artisti hanno preso parte alla costruzione di ricordi parziali della modernità coreutica tedesca, forti unicamente del loro rapporto privilegiato con i loro maestri che ne erano stati gli esponenti di spicco. Le loro esperienze di incorporazione sono così divenute fondanti per le narrazioni storiche dell’Ausdruckstanz andate radicandosi in quel periodo. In Gran Bretagna è stato il Laban Centre, sotto l’egida di due ex allieve di Laban, Marion North e Valerie Preston-Dunlop, a porsi come il garante della trasmissione di questa eredità, privilegiandone gli aspetti più spiccatamente didattici e artistici. L’assenza di corsi dal taglio storico all’interno dell’offerta formativa del Centre e la mancata riunificazione dei suoi archivi con il lascito materiale più consistente di Laban, destinato all’università del Surrey da un’altra sua ex allieva e collaboratrice, Lisa Ullmann, ha sancito una distanza più politica che geografica tra i due poli, immateriale e materiale, dell’eredità labaniana.

41 Per una disamina approfondita di queste questioni si veda S. Franco, Ausdruckstanz: tradizioni, traduzioni, tradimenti, in I discorsi della danza. Parole chiave per una metodologia della ricerca, a cura di S. Franco, M. Nordera, Torino, UTET Università, pp. 91-114.

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Una seconda fase della ricerca storica attorno alla vita e alla carriera di Laban risale alla fine degli anni ‘90 del Novecento, ed è il risultato della nuova gestione degli archivi tedeschi dopo la caduta del muro di Berlino e dell’impegno di una generazione di studiosi con una preparazione metodologica più affinata. A contrastare l’avanzata dei contro-discorsi di studiosi non legati da rapporti di filiazione diretta con Laban, è stato in particolare il lavoro di Valerie Preston-Dunlop che con la sua biografia storica e presumibilmente fondata su materiali di archivio che però non sono citati con le dovute precisazioni, ha di fatto continuato a veicolare anche a livello storico un’immagine mitica di Laban. Il suo volume ha rafforzato ancora una volta l’idea che l’archivio corporeo e la memoria individuale siano le fonti più autorevoli e dunque sufficienti per sostanziare la storia della danza. Altri due studi pubblicati di recente grazie al sostegno di editori di riferimento per gli studi sulla danza e in grado di assicurarne un’ampia diffusione, offrono l’occasione di verificare la problematicità degli intrecci fra storia e memoria, eredità materiali e immateriali, archivi e repertori. The Laban Sourcebook42 a cura di Dick McCaw, attivo nella formazione e organizzazione in ambito teatrale, è un’antologia di testi di Laban commentati brevemente da un gruppo di suoi ex allievi e danzatori, e da due studiose tedesche di teatro, Evelyn Dörr e Stefanie Sachsenmaier, che hanno condotto delle ricerche sulla danza e il teatro nel corso dei loro studi universitari.43 Lo scopo del volume, come dichiara il curatore, è di offrire in traduzione inglese testi fino ad allora inediti o inaccessibili a un pubblico di lettori più ampio di quello di lingua tedesca. In questo senso esso colma un vuoto evidente nella storiografia labaniana, dato che degli scritti di Laban compresi tra il 1920 e il 1937 soltanto l’autobiografia e un volume sulla notazione della danza vantano una traduzione in inglese.44 I testi raccolti da McCaw, che provengono unicamente da due archivi britannici minori, sono presentati come «l’esempio più chiaro del pensiero labaniano»45 e sono ordinati cronologicamente ma senza che la loro selezione in quanto fonti del pensiero labaniano sia motivata da criteri scientifici più specifici. Si tratta, infatti, di materiali eterogenei come lettere, recensioni di spettacoli,

42 The Laban Sourcebook, a cura di D. McCaw, London, Routledge, 2011. 43 In particolare Evelyn Dörr ha pubblicato due testi su Laban, una monografia e un catalogo ragionato delle sue opere coreografiche, a partire da ricerche d’archivio ancorché deboli sul piano metodologico: si vedano E. Dörr, Rudolf Laban: Das choreographische Theater, Books on Demand Gmbh, 2004; ed E. Dörr, Rudolf Laban. Die Schrift des Tänzers: Ein Portrait, Books on Demand Gmbh, 2005 (ed. ingl. The Dancer of the Crystal, Lanham, The Scarecrow Press, 2007). 44 Cfr. R. Laban, Schrifttanz. Methodik, Orthographie, Erläuterung, Wien, Universal, 1928 (tr. ing. E fr. Schrifttanz - La danse écrite – Script Dancing, Wien, Universal, 1930), e R. Laban Ein Leben für den Tanz, Dresden, Reissner, 1935 (ed. in anastatica Bern-Stuttgart, Paul Haup, 1989; tr. ing. a cura di L. Ullmann, A Life for Dance, London, Macdonald&Evans, 1975). 45 The Laban Sourcebook, cit., p. 2.

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capitoli di volumi o articoli di Laban ed è pertanto inevitabile chiedersi in che misura siano rilevanti per la ricerca storica sulla danza. La scarsa consapevolezza teorica e metodologica che ha guidato la composizione del volume si evince anche dalla bibliografia conclusiva, piuttosto lacunosa, per non dire eloquentemente evasiva in merito alla letteratura critica pubblicata da studiosi che non vantano una filiazione diretta con la tradizione labaniana, ma che, proprio in virtù di ricerche di archivio condotte secondo criteri scientifici, hanno messo in luce aspetti politicamente e ideologicamente controversi ed esteticamente complessi di questa tradizione coreutica. Fin dal titolo, questa antologia sembra confermare l’idea ampiamente criticata dalle tendenze contemporanee della storiografia che una fonte sia storicamente investita del presupposto dell’origine e vada considerata come il sintomo di una pienezza di significati. Ciò che non passa insieme all’importanza innegabile di rendere disponibile un corpus di testi in traduzione è il principio secondo cui anche i documenti, per loro natura, sono l’esito di una complessa stratificazione di cause e di azioni di chi li ha prodotti, della tradizione ‘storica’ che ha creato i presupposti della loro esistenza, degli archivisti che li hanno inseriti in un contesto e secondo una logica di ordine e senso, degli storici che ci hanno preceduto nell’esaminarli orientando il nostro sguardo che li riconosce come tali, e così via.46 È interessante notare come questa antologia, insieme alla biografia storica di Preston-Dunlop,47 sia servita da sponda teorica per la monografia pubblicata dalla stessa autrice e intitolata Rudolf Laban. Man of Theatre.48 Il testo apparso a distanza di due anni da The Laban Sourcebook, è stato scritto per documentare e approfondire uno degli aspetti meno studiati della carriera di Laban, ovvero la pratica coreografica, la cui trasmissione corpo a corpo sotto forma di repertorio si è presto interrotta. Il testo riporta le varie fasi del lavoro di ri-creazione di alcune opere coreografiche firmate da Laban negli anni ’20 e condotto da Preston-Dunlop insieme agli studenti del Trinity Laban Conservatoire of Music and Dance (il centro di formazione nato dalla fusione del Laban Centre con un conservatorio musicale). Di ciascuno dei pezzi ri-creati, Der Schwingende Tempel (1922), Kammertanz Solos and Duos (1924-26), Nacht (1927), e Die Grünen Clowns (1926-1928), esiste anche una ripresa video, confluita in una serie di documentari acquistabili separatamente.49

46 P. Burke, Testimoni oculari. Il significato storico delle immagini, Roma, Carocci, 2002, p. 15. 47 V. Preston-Dunlop, Rudolf Laban. An Extraordinary Life, London, Dance Books, 1998. 48 V. Preston-Dunlop, Rudolf Laban. Man of Theatre, London, Dance Books, 2013. 49 Recreating Rudolf Laban's Die Grünen Clowns, 1928, L.-A. Sayers, Trinity Laban, London, IDM Ltd., 2008; Recreating Rudolf Laban’s ‘Der Schwingende Tempel 1922’. Performance and Documentary, M. Clarke; R. Coleridge; V. Preston-Dunlop, Trinity Laban Conservatoire of Music and Dance, London, IDM Ltd., 2012; Recreating Rudolf Laban's Nacht, 1927, A. Curtis- Jones, V. Preston-Dunlop, Trinity Laban Conservatoire of Music and Dance London, IDM

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L’intento di Preston-Dunlop è di offrire uno strumento per mettere lo spettatore contemporaneo in condizione di «giudicare autonomamente»50 il valore della pratica coreografica di Laban e di diffondere la propria esperienza di ricerca a un ampio pubblico di appassionati di danza a vari livelli, oltre che agli studiosi della danza. Lungi dal volere rimettere in scena delle opere del passato secondo un approccio filologico, Preston- Dunlop ha voluto piuttosto riproporle al pubblico contemporaneo come l’esito di un lavoro di ricerca sul processo creativo che le aveva generate. A suo dire, infatti, l’autenticità non va cercata nella forma coreografica che i diversi pezzi assumono nelle ri-creazioni, e dunque in prodotti finiti, bensì nel metodo di lavoro che li sostanziava in origine e che è stato ripercorso per arrivare a soluzioni sceniche inevitabilmente diverse perché immerse nella contemporaneità.51 A ciò si aggiunge l’instabilità costitutiva del repertorio labaniano di questo periodo, dovuta alle esigenze di sperimentazione e improvvisazione e al modo di procedere di Laban, soprattutto con i pezzi creati per la Kammertanzbühne, la sua compagnia da camera per dimensioni e intenti. Egli non soltanto spaziava tra generi assai diversi, ma variava di continuo la struttura coreografica delle opere, quando non i titoli, i costumi, le musiche o gli interpreti. Se le intenzioni di Preston-Dunlop rispecchiano questa modalità creativa, il volume che fissa gli esiti della sua ricerca finisce per consegnare alla storia della danza una visione parziale e soggettiva del repertorio labaniano. Si tratta, cioè, di un esempio di circolarità della memoria, in cui la memoria (individuale e collettiva) informa la narrazione storica, che, a sua volta, inquadra e sostiene il lavoro di ri-creazione incentrato sulla memoria incorporata. Il fatto che il sapere pratico e il discorso storico all’interno di questo universo restino dichiaratamente e polemicamente a distanza di sicurezza dai dibattiti animati dagli studiosi non direttamente implicati nella filiazione coi maestri ma impegnati a contestualizzarne l’operato, fa riflettere. Il rischio per una memoria incorporata che si pone come atemporale è di diventare, come precisa Laure Guilbert, «una memoria elettiva, che privilegia delle filiazioni ‘sante’ a scapito della consapevolezza del lavoro della storia sui corpi, e che fabbrica anche l’oblio».52 L’abuso di questa forma di memoria funzionale in assenza di confronto con altre dimensioni della ricerca storica porta alla ripetizione, alla fissità e alla

Ltd. 2012; Recreating Rudolf Laban's solos and duos, V. Preston-Dunlop, A. Curtis-Jones, Trinity Laban Conservatoire of Music and Dance, London, Verve, 2013. Su questa operazione si veda anche V. Preston-Dunlop e L.-A. Sayers, Gained in Translation: Recreation as Creative Practice, «Preserving Dance as Living Legacy», numero monografico di «Dance Chronicle», n. 1, 2011, pp. 5-45. 50 V. Preston-Dunlop, Rudolf Laban. Man of Theatre, p. 4. 51 Si veda in particolare l’intervista di Martin Hargreaves a Valerie Preston-Dunlop contenuta nel documentario Recreating Rudolf Laban’s ‘Der Schwingende Tempel 1922’, cit. 52 L. Guilbert, Postface. Les constructions de l 'oubli, in Id., Danser avec le IIIe Reich, cit., p. 428.

200 Susanne Franco, Archivi per la danza tra ricerca storica e pratica coreografica

chiusura, trasformandosi in abuso di oblio. Inoltre, proprio come un processo di canonizzazione, questa operazione di ri-costituzione di un repertorio funziona a partire dalla selezione e dall’esclusione di altre opere, nella fattispecie la ri-creazione del pensiero coreografico degli anni ‘30, notoriamente più controverso. Come precisa Aleida Assmann, il rinnovamento della struttura della coscienza storica è garantito, piuttosto, quando la memoria-archivio, che è oggetto privilegiato delle scienze storiche, è intesa come lo sfondo e non come l’antitesi della memoria funzionale. Soltanto trasformando lo schema dualistico e oppositivo delle forme del ricordo in uno schema prospettico si può restituire interamente la struttura profonda della memoria «con il suo traffico interno tra elementi attualizzati e non».53 La storia della danza che stiamo vivendo oggi come studiosi, artisti e spettatori non potrà sottrarsi alla sfida di tenere conto di questi stimoli teorici per restituire le molte dimensioni dei corpi che la trasmettono rinnovandola a chi la erediterà leggendola, danzandola e guardandola.

53 A. Assmann, Ricordare. Forme e mutamenti della memoria culturale, cit., p. 152.

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Hyppolite Clairon

MEMORIE E RIFLESSIONI SULLA DECLAMAZIONE TEATRALE

I Libri di AAR

Hyppolite Clairon

MEMORIE E RIFLESSIONI SULLA DECLAMAZIONE TEATRALE

Traduzione, introduzione e note di Valeria De Gregorio Cirillo

I Libri di AAR

Titolo originale: Mémoires de Mlle Clairon, actrice du Théâtre Français, écrits par elle-même Paris, Ponthieu, 1822

Traduzione introduzione e note di Valeria De Gregorio Cirillo Copyright © 2014 Acting Archives Acting Archives Review, Napoli, Novembre 2014 ISSN: 2039-9766 INDICE

9 INTRODUZIONE

32 NOTA ALLA TRADUZIONE

MEMORIE D’HYPPOLITE CLAIRON E RIFLESSIONI SULLA DECLAMAZIONE TEATRALE

PARTE PRIMA

Memorie e fatti personali 35 Lettera di mademoiselle Clairon al redattore de «Le Publiciste»

36 Prima epoca. Dalla nascita di mademoiselle Clairon nel 1723, fino all’età fra i tredici e i quattordici anni 40 Riepilogo

41 Seconda epoca. Dall’adolescenza di mademoiselle Clairon fino al ritiro dal teatro, nel 1765, all’età di quarantadue anni 52 Riepilogo

55 Terza epoca. Dal ritiro dal teatro fino all’epoca in cui scrive le Memorie (1789-1791)

Fatti particolari 62 Ordine di debutto 62 Aneddoto su Rodogune 64 Viaggio a Bordeaux 66 Lettera a monsieur Meis[ter], che desiderava ricevere per iscritto il seguente aneddoto 73 Il vestito o la visita del maresciallo di R[ichelieu] 80 Nota sul quadro di Medea di cui si è detto in precedenza

© 2014 Acting Archives 5 82 Lettera [al conte di Valbelle] 85 Spiegazione da me richiesta con S.A.S., la M… 90 Lettera a S.A.S., il Margravio di A… 91 Altra lettera al Margravio di Anspach

PARTE SECONDA

Riflessioni morali e brani sparsi 94 Avvertenza preliminare alle Riflessioni morali 95 Agenda o riflessioni 100 Riflessioni sui matrimoni d’amore, ovvero perché non mi sono voluta sposare 104 Lettera a Madame de V*** 106 Lettera di mademoiselle Clairon scritta da Anspach a una sua amica 107 Consigli alla mia giovane amica 117 Dialogo tra monsieur L***, madame L*** e mademoiselle Cl*** 120 Canzone offerta qualche giorno dopo questa conversazione, a madame L*** 121 Altra, sulla stessa aria, indirizzata a madame Drouin

PARTE TERZA

Riflessioni sull’arte drammatica e sull’arte della declamazione teatrale 123 Estratto di una lettera al cittadino Buisson, editore 125 Riflessioni sulla declamazione teatrale 125 Voce e pronuncia 126 Forza 128 Esempio della necessità di ricondurre tutto all’arte 131 Memoria 132 Fisicità 133 Tiranni 133 Re 133 Primo attore 134 Primo attor giovane 134 Confidenti 135 Divisione dei ruoli femminili 135 Madri 136 Ruoli forti 137 Ruoli sentimentali 137 Confidenti 137 Abbigliamento 138 Pericolo delle tradizioni 139 Sulla biacca

6 Talenti che si possono acquisire 141 Danza e disegno 141 Musica 141 Lingua, geografia, belle lettere 144 Riflessioni generali 149 Ritratto di mademoiselle Dumesnil 152 Parte di Monime 153 Ermione 155 Scuola 160 Orosmane 161 Studio di Paolina, in Polyeucte 162 Profilo di Roxane in Bajazet 164 Sulle tragedie di Manlius e di Venise sauvée 164 Su Cornelia, nella Mort de Pompée 165 Fedra 167 Bianca, in Blanche et Guiscard 169 Su monsieur de La Touche e sulla sua tragedia d’Iphigénie en Tauride 172 Le due Elettre

ALLEGATI

177 Lettere di Voltaire a mademoiselle Clairon relative alla rappresentazione di Oreste (gennaio 1750) 180 Lettera di Voltaire a mademoiselle Clairon da Ferney, 23 luglio [1765] 181 Jean-François Marmontel, Mémoires 182 «Le Publiciste», 21 termidoro anno VI [6 agosto 1798] 184 «Journal de Paris», n° 56, 26 brumaio anno VII [16 novembre 1798] 187 «Journal de Paris», n° 58, 28 brumaio anno VII [18 novembre 1798] 189 Lettera di mademoiselle Clairon del 5 frimaio anno VII [25 novembre 1798]

7

Hyppolite Clairon, Memorie e riflessioni sulla declamazione teatrale

Introduzione

Quel auguste maintien! Quelle noble fierté! Tout, jusqu’à l’art, chez elle a de la vérité! Dorat, La Déclamation théâtrale

Arte e verità: tra questi due poli apparentemente antitetici si concretizza il processo attoriale di mademoiselle Clairon. La ricerca quasi ossessiva della perfezione interpretativa traspare nelle sue annotazioni, l’intero suo programma di studi e di approfondimenti è incentrato sul raggiungimento di una esemplarità ideale, ma nel contempo vera e verosimile. Le Memorie di mademoiselle Clairon implicano un duplice scopo, l’uno dichiaratamente artistico, l’altro implicitamente sociale.1 Artistico in quanto declina la psicologia della recitazione drammatica con le sue regole, le sue esaltazioni caratteriali, oltre alle espresse o sottaciute miserie e grandezze in cui la quotidiana creatività sul testo proposto al pubblico si scontra con la ricezione; sociale perché in filigrana accerta la ritualità della cultura francese del Settecento, secolo in cui l’offerta teatrale si caratterizza per un repertorio diversissimo. La finzione recitativa se da un lato accede a eventi lontani nel tempo, storici o mitologici che siano, nella ricognizione di un archetipo ideale, istituisce anche e organizza una rinnovata mitografia dei personaggi ai quali le inclusioni ispirative tengono conto di una più moderna sensibilità. Brillante attrice ben calata nel contesto sociale dei Lumi, mademoiselle Clairon ci ha lasciato testimonianza di una folgorante carriera e nel contempo del suo apprendistato in una continua oscillazione fra la conferma e il precario di cui il teatro, per la sua stessa natura, è il logico spazio di laica liturgia. È la prima comédienne a comunicare, alla fine della sua vita e quando ormai da trent’anni ha abbandonato il teatro, le proprie considerazioni sull’arte teatrale, frutto di un’attività ventennale vissuta sul palcoscenico più prestigioso dell’Europa del tempo. Non erano mancati, in precedenza, esempi di attori che avevano affidato alla scrittura esperienze e considerazioni come Jean Poisson (1717), Luigi Riccoboni (1738) e Jean- Nicolas Servandoni d’Hannetaire (1774), ma mademoiselle Clairon sembra aprire la strada a una copiosa e rinnovata memorialistica che conta nell’immediato gli scritti di Dorfeuille, di Dazincourt, di Préville e di Larive.2

1 Mémoires de Mlle Clairon, actrice du Théâtre Français, écrits par elle-même, Paris, Ponthieu, 1822 (per le diverse edizioni, cfr.: Nota alla traduzione, infra). 2 Secondo Sabine Chaouche «l’attore prende poco la parola allorquando il Settecento è caratterizzato […] dalla teatromania e da una proliferazione di spettacoli di generi diversissimi, anche secondari e non ufficiali», S. Chaouche, Écrits sur l’art théâtral (1753-

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Un’attrice che fa sentire la propria voce in una società che tende a escluderla in quanto donna e che la condanna in quanto teatrante, ma che pur tuttavia trova il coraggio di raccontarsi, è un fatto emblematico di un nuovo rapporto fra il sé e il mondo. Se a volte lascia trasparire una certa sua fragilità femminile e il timore di non assolvere pienamente gl’intenti progettati, ella appare nel contempo decisa nell’idealizzare i propri comportamenti per far conoscere il suo personale processo di creazione artistica affinché possa essere di guida a chi desidera intraprendere la strada del teatro.3 La redazione si stratifica nel tempo, da semplici appunti, a concise riflessioni, all’esame delle opere interpretate, a lettere, a brevi componimenti dialogici in una continua introspezione critica su di sé in cui momenti di disincanto, di pessimismo, di sfiducia si alternano all’alta consapevolezza del proprio valore e del ruolo di demiurgo che appartiene all’attore quale interprete del testo poetico.4 La sua particolare scrittura frammentaria e frammentata si inserisce nella variegata letteratura memorialistica francese, dai Mémoires di François de La Rochefoucauld, a quelli di Saint-Simon e alle ben più recenti Confessions di Jean-Jacques Rousseau. Segue, nello stesso anno delle Memorie, la pubblicazione a nome di mademoiselle Dumesnil, sua rivale sulla scena della Comédie-Française, di un altrettanto lungo testo autobiografico, sorta di risposta e di messa a punto ironica e sferzante, non solo a quanto mademoiselle Clairon aveva scritto su di lei nel capitoletto «Portrait de mademoiselle Dumesnil», ma anche riflessione e analisi del pensiero e del sistema ideologico della rivale. E da subito ne critica il titolo: «si sostituisce l’enfasi alla verità. La vostra arte, cittadina, non è l’arte drammatica, è l’arte teatrale. L’arte drammatica è

1801), Paris, Champion, 2005, 2 voll., vol. I – Spectateurs, vol. II – Acteurs; (Réflexions sur l’Art dramatique, pp. 416-543), qui vol. I, p. 14. 3 Sulla ricezione delle Memorie, cfr. in Allegati, l’articolo di Pierre-Louis Rœderer pubblicato sul «Journal de Paris» del novembre 1798. Riprova di quanto i contemporanei fossero interessati alle sue Memorie, sono le traduzioni che nel giro di pochi anni comparvero in Europa, dapprima in Olanda: Gedenkschriften van Hyppolite Clairon, en aanmerkingen over de tooneelkunde, Den Haag, Isaac van Cleef, 1799; e successivamente nello stesso anno in Inghilterra: Memoirs of Hyppolite Clairon, the celebrated French actress: with reflections upon the dramatic art, written by herself, translated from the French in two volumes, London, S. Hamilton, 1800; in Danimarca: Hypolite Clairons Beretragtninger over sig selv og over den dramatiske Konst, Kopenahagen, Gyldendal, 1800, 2 voll.; in Spagna: Reflexiones de Mma Clairon, actriz del teatro de la Comedia Francesa, sobre el arte de la declamación, Madrid, Géronimo Ortega, 1800. 4 Scrive Diderot a proposito dell’azione teatrale, ricordando Cicerone e Quintiliano: «La voce, il tono, il gesto, l’azione ecco ciò che appartiene all’attore ed è quello che ci colpisce, soprattutto negli spettacoli delle grandi passioni. È l’attore che dà al discorso tutta l’energia che c’è. È lui che porta all’ascolto la forza e la verità dell’accento», Entretiens sur Le Fils naturel [1757], in Œuvres Esthétiques, textes établis, avec introductions, bibliographies, notes et relevés de variantes, par Paul Vernière, Garnier, Paris, 1959, p. 102.

10 Hyppolite Clairon, Memorie e riflessioni sulla declamazione teatrale

quella di Corneille, di Racine, di Molière, di Voltaire. La distanza fra l’arte di comporre e quella di recitare è incommensurabile»,5 tanto che nella seconda edizione delle Memorie, Hyppolite registra l’appunto e l’intestazione viene modificata nel senso suggerito. Anche il contenuto non corrisponde all’orizzonte d’attesa del lettore, ci si aspetterebbero, secondo mademoiselle Dumesnil, racconti di avventure galanti, tragiche o comiche, e invece troviamo, scrive in modo riduttivo, «qualche pagina sugli scherzi di uno spettro, qualche compendio sull’arte teatrale e digressioni sugli eroici amori di mademoiselle Clairon con il conte di Valbelle, il solo dei suoi innumerevoli amanti di cui dichiari il nome, consigli, ma soprattutto continui, fastidiosi ed esagerati elogi di se stessa».6 Rientra in questa autocelebrazione la pubblicazione della Lettre du Chevalier M… à Milord K… del 1765, forse da lei stessa incoraggiata in cui, oltre ad alcune riflessioni sul teatro vengono riportati i vari testi poetici che le sono stati dedicati e l’elenco della produzione figurativa che la riguarda: quadri, busti, stampe, medaglie, così che perenne risulti la sua memoria. La «Correspondance littéraire» criticando questa «raccolta di monumenti eretti a sua gloria», annota che il pubblico si mostra irritato dalla sua vanità e dalle sue pretese.7

5 Mémoires de Marie-Françoise Dumesnil, en réponse aux Mémoires d’Hyppolite Clairon, suivis d’une lettre du célèbre Le Kain et de plusieurs anecdotes curieuses relatives au Théâtre Français, Paris, Dentu, an VII, p. 3. Le Memorie sono apocrife, il vero autore è il letterato Charles- Pierre Coste d’Arnobat (1731-1808). D’ora in poi il testo viene semplicemente citato: Mémoires Dumesnil, seguito dal numero della pagina. Scrive Adolphe Jullien a proposito del volume: «Questo libro acido e a volte plateale non presenta quasi nessun interesse. Si tratta di una parafrasi critica del libro di mademoiselle Clairon, parafrasi maligna e che sacrifica spesso la buona fede all’ironia. […] Lo scrittore non aveva veramente nessuna buona ragione da opporre all’opinione di mademoiselle Clairon», Histoire du costume au théâtre depuis l’origine du théâtre en France jusqu’à nos jours, Paris, Charpentier, 1880, p. 102. Marie- Françoise Marchand, detta mademoiselle Dumesnil (1713-1803), aveva debuttato alla Comédie-Française nel 1737 per diventare sociétaire l’anno successivo. Grimm diceva che «saliva sul palcoscenico senza sapere ciò che avrebbe detto; i tre quarti del tempo non sa cosa dice, il resto è sublime!». Recitando d’istinto aveva una grande presa sulla sensibilità del pubblico, in ciò si opponeva alla recitazione tutta di studio di mademoiselle Clairon. 6 Ivi, pp. 1-2. 7 Correspondance littéraire, philosophique et critique, par Grimm, Diderot, Raynal, Meister, Etc., éd. Maurice Tourneux, Paris, Garnier, 1877-1882, 16 voll., qui vol. VI, maggio 1765, pp. 281-283 (d’ora in poi solo «Correspondance littéraire»). In particolare alcune opere erano state recensite nella «Correspondance littéraire»: il quadro di Carle Van Loo cui lei stessa accennerà nelle Memorie (vol. VI, agosto 1764, p. 51), la stampa di Laurent Cars e Jacques Beauvarlet ordinata dal re (vol. VI, settembre 1764, pp. 65-66) la medaglia fatta coniare in suo onore dal conte di Valbelle (vol. VI, febbraio 1765, p. 206), a queste si deve aggiungere il busto in marmo di Jean-Baptiste II Lemoyne (1704-1778) del 1761 (mademoiselle Clairon come Melpomene), che fa parte oggi della collezione di opere d’arte della Comédie- Française.

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Certamente, come evidenzia anche Lemazurier, l’attrice presenta tutti gli avvenimenti della sua vita sotto la luce che le è più favorevole e aggiunge che «bisogna diffidare di una storia apologetica secondo la quale ella sarebbe un modello perfetto di ogni virtù e innocente vittima costantemente perseguitata da ingiusti nemici».8 Modello non di meno di quanto possa la volontà straordinaria di una giovanetta che, superando uno stato di indigenza sia fisica che morale, assurge alla conoscenza di sé e del mondo, possibilità unica per uscire dalla situazione di schiavitù psicologica dettata dall’ignoranza e dal bisogno. In realtà non mancarono cabale e prese di posizione contro di lei come ad esempio, proprio all’inizio della carriera, ne dà testimonianza un opuscoletto dal titolo Mémoires pour le sieur De La Noue, la Demoiselle Gaussin & Consorts, opposans à la reception de la Demoiselle Cleron [sic],9 in cui, facendo allusione al suo soprannome di Frétillon legato a un libello insultante scritto nei suoi confronti, trovano fuori luogo che un personaggio dalla condotta così poco edificante possa entrare alla Comédie-Française anche se non le si possono contestare indubbi talenti: «recitazione nobile, declamazione facile, gesto naturale, voce sonora, dignità d’animo». Ma mademoiselle Clairon dedica solo una parte del suo scritto alle Memorie personali, le sue Riflessioni riguardano la formazione e la cultura degli attori affinché si rendano partecipi dello spirito dell’opera da portare in scena. Possedere precise nozioni di storia, di letteratura e di altre discipline artistiche significa essere flessibili nel percepire lo specifico del passato nel quale è inserita la tragedia, e di ricrearne, se pur rendendola conforme alle moderne bienséances, la verosimiglianza nella prassi recitativa. Una qualche differenza stilistica potrebbe notarsi fra le due parti, la prima più libera e discorsiva cui fa da sfondo una sommaria esposizione del contesto storico, la seconda più incisiva e impositiva con un certo tecnicismo di maniera in cui prevale l’aspetto autoreferenziale. Regina di Cartagine, divina, superba Melpomene del teatro francese, ninfa, interprete sublime (così scrivono di lei, in modo iperbolico, i contemporanei), ma anche donna ambiziosa, dal carattere altero, fiero, violento e dominatore, sprezzante nei confronti dei compagni, spesso ingrata e arrogante; consensi e dissensi si alternano tra le voci ricorrenti e contrastanti del tempo. Da semplice soubrette nelle sue prime apparizioni a grande eroina delle tragedie classiche, soprattutto con Fedra che segna il suo debutto alla Comédie-Française, un percorso così non poteva che appartenere a un carattere forte e disposto a tutto.

8 P. D. Lemazurier, Galerie historique des Acteurs du Théâtre Français depuis 1600 jusqu’à nos jours, Paris Chaumerot, MDCCX, 2 voll., vol. II, p. 116. 9 Plaquette di 20 pp., in-12, s.l.n.d.

12 Hyppolite Clairon, Memorie e riflessioni sulla declamazione teatrale

Nella brochure Lettre à la Marquise V. de G…, sur le début de Mademoiselle Clairon à la Comédie-Française,10 leggiamo i dettagli della rappresentazione, la capacità espressiva dell’artista nei gesti e nella voce e la sua aria nobile e altera. Il ritratto fisico è altrettanto attraente: incarnato eburneo, sguardo intenso e voluttuoso, bei denti, fisico piacevole, portamento degno, spirito brillante, amica delle arti sa prestarsi a tutto e riuscire in ciò che vuol essere; il «Mercure de France» lo completa:

È una fanciulla che dimostra grande intelligenza che esprime con una bellissima voce i sentimenti di cui si compenetra con arte. Si può dire che la natura le abbia prodigato i più felici talenti per interpretare tutti i caratteri adatti alla sua giovinezza, al fascino della sua persona e della sua voce.11

Lo studio accanito per accedere alla cultura che le era stata preclusa le permette di interpretare i ruoli classici con raffinata consapevolezza, ma anche di poter frequentare i salotti più esclusivi della capitale fra i quali quelli di madame du Deffand, di madame d’Épinay e di madame Geoffrin e di diventare la musa di alcuni dei più autorevoli drammaturghi del secolo, in particolare di Voltaire suo ammiratore e mentore, mai pago di consigli, precisazioni e incoraggiamenti che scandiscono la fitta corrispondenza. Le dedicherà la tragedia Zulime, uno degli ultimi ruoli da lei creati:

Questa tragedia vi appartiene, mademoiselle, l’avete sostenuta a teatro. I talenti come i vostri hanno un vantaggio assai unico, quello di risuscitare i morti: cosa che a volte vi è accaduta. Bisogna ammettere che senza i grandi attori una pièce teatrale è senza vita; voi le date l’anima. La tragedia è fatta più per essere rappresentata che per essere letta. […] L’arte della declamazione richiede nel contempo tutti i talenti esteriori di un grande oratore e quelli di un grande pittore. Quest’arte come tutte quelle inventate dagli uomini per estasiare mente, udito e vista, sono figlie del genio e diventate necessarie alla società perfezionata, e comune a tutte è il fatto che non è permesso loro di essere mediocri. Non c’è vera gloria che per gli artisti che raggiungono la perfezione, il resto è solo tollerato.12

Della sua lunga vita che attraversa periodi storici così diversi, dalla monarchia assoluta, alla Rivoluzione, al Direttorio, al Consolato e sui quali mai mademoiselle Clairon si sofferma se non molto marginalmente, non pensiamo sia utile ripercorrerne le svariate fasi visto che la memorialista, sia pur succintamente, ne offre una sintesi piuttosto esaustiva; è pur tuttavia necessario evidenziarne alcuni momenti.

10 La brochure, anonima, porta la menzione: A la Haye, MDCCXLIV, figura in S. Chaouche, Écrits sur l’art théâtral…, cit., vol. I, pp. 826-835. 11 «Mercure de France», settembre 1743, p. 2080. 12 Voltaire, Zulime, Œuvres complètes, édition Louis Moland, Paris, Garnier, 1877-1885, 52 voll., vol. IV, pp. 6-7.

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Negli anni tra il 1748 e il 1752 crea i ruoli di alcune nuove tragedie di Marmontel, in un sodalizio affettivo che certamente arricchisce l’attrice che verrà da lui celebrata nel famoso articolo della Déclamation théâtrale redatto per l’Encyclopédie.13 Mademoiselle Clairon sarà Arétie nel suo Denys le Tyran (5 febbraio 1748),14 Léonide in Aristomène (30 aprile 1749),15 Cléopâtre nella tragedia eponima (20 maggio 1750) e Olympie ne Les Héraclides (24 maggio 1752).16 Parallelamente recita nelle ultime novità di Voltaire: è Azéma in Sémiramis (29 agosto 1748) dove riporta un modesto successo data una parte poco significativa soprattutto in confronto a quella della protagonista,

13 Jean-François Marmontel (1723-1799), fu scrittore poliedrico: poeta, drammaturgo, filosofo, memorialista. Dopo i primi successi nella tragedia Denys le Tyran, ottenuti in età giovanile, e in Aristomène, il pubblico non apprezzerà altrettanto le pièces successive; madame Pompadour, per consolarlo gli affiderà la direzione del «Mercure de France» (Avant-propos dell’agosto 1758). Accademico di Francia nel 1763, è di quegli anni il romanzo filosofico Bélisaire, censurato per il suo attacco al fanatismo, ma che gli dette fama internazionale. Agli esordi così si esprimeva su mademoiselle Clairon: «Trovai nella sua recitazione troppi scatti, troppo impeto, non sufficiente scioltezza e varietà, e soprattutto una forza che non essendo misurata derivava più dalla foga che dalla sensibilità», Œuvres complètes, Mémoires d’un père pour servir à l’instruction de ses enfans, Genève, Slatkine Reprints, 2013, [édition de Paris, 1819-1820], 7 voll., vol. I, libro V, pp. 152-153. 14 Marmontel nelle sue Memorie esulta per il successo della tragedia e per la bravura dell’attrice «si rivelò più sensibile, più incantevole che mai. Immaginarsi con quale piacere andavano a cenare insieme l’attrice e l’autore applauditi! Il mio entusiasmo per mademoiselle Clairon era in me un sentimento troppo vivo ed esaltato perché mi fosse possibile distinguere, nella mia passione per lei, quello che non era che amore; ma, indipendentemente dal fascino dell’attrice, ella era ancora ai miei occhi un’amante molto desiderabile per la sua giovinezza brillante di vivacità. […] Finché amava, nessuno amava più teneramente, più appassionatamente di lei», per poi concludere che nei suoi amori era poco costante e che il legame fra loro era stato di breve durata, Mémoires d’un père…, cit., vol. I, libro III, pp. 96-97. 15 Marmontel racconta che si erano rivisti in occasione della lettura di Aristomène e, superata la «brouille», da quel momento era iniziata una perfetta intimità durata per trent’anni e, per quanto lontani, nulla era cambiato nei reciproci sentimenti di un’amicizia libera e sicura. Alla prima della tragedia Voltaire assiste nel palco di Marmontel e si entusiasma nel vedere Léonide incatenata come una criminale apparire fra i giudici, dominarli col suo grande carattere, conquistare la scena e l’animo degli spettatori, capovolgere la sua difesa in accusa, attaccare i nemici, non può fare a meno di esclamare: «Coraggiosa Clairon! Macte animo, generose puer!», ivi, pp. 98-100. 16 La prima fu un mezzo insuccesso, con tocco umoristico Marmontel racconta che mademoiselle Dumesnil-Déjanire aveva bevuto un bicchiere di vino di troppo (era noto che l’attrice non disdegnava l’alcool) e che aveva recitato in uno stato «d’ebbrezza e di stordimento […] balbettò la sua parte con un’aria così smarrita, così senza senso che il patetico diventò risibile», ma il pubblico, che non era al corrente della condizione dell’attrice, pensò che il tono della pièce fosse di una familiarità così folle e divertente che si era riso a crepapelle, ivi, libro IV, p. 117.

14 Hyppolite Clairon, Memorie e riflessioni sulla declamazione teatrale

Semiramide, impersonata da mademoiselle Dumesnil, Elettra nell’Oreste (12 gennaio 1750), Amélie in Rome sauvée (24 febbraio 1752).17 Collé la giudica ben superiore a mademoiselle Gaussin nei ruoli tragici, ma con qualche riserva per la sua

declamazione ampollosa, cantilenante e piena di gemiti è quella della vecchia Duclos e mi sembra insostenibile. Ha tuttavia entrailles18 e rende a volte benissimo i brani di sentimento per quanto inferiore, in questi, alla Dumesnil, ma rispetto a lei esprime meglio l’amore, soprattutto l’amore oltraggiato; interpreta egregiamente la principessa abbandonata, Arianna, Didone… Le è inoltre ben superiore per nobiltà e per una fierezza piena d’intelligenza nei passaggi che richiedono poco calore e grande dignità: per questa ragione le si addicono le parti delle pièces di Corneille […] ha una voce profonda, seppur bella, ma monotona e piena di respirazione forzata e a volte di spiacevoli singulti.19

E ancora nel luglio del 1753 il critico della «Correspondance littéraire» si rammarica del fatto che mademoiselle Clairon faccia perdere il gusto della vera déclamation appartenuto a Baron e a mademoiselle Lecouvreur:

L’affettazione e la monotonia della sua recitazione sono notate solo dai conoscitori. La forza dei suoi polmoni, una felice articolazione, la veemenza, la foga e l’impeto che spesso mette nelle scene più tranquille stupiscono gli stolti pronti ad applaudire l’eccesso e la recitazione esagerata, incompatibile col vero talento, col vero sublime,20 come se mademoiselle Clairon non fosse ancora capace di quelle sfumature e di quella sensibilità che in seguito sarà suo appannaggio precipuo e su cui insiste nelle sue pagine di ricordi. Malgrado i successi e alla fine di profonde riflessioni decide di modificare il suo modo di recitare e approfitta del suo «viaggio a Bordeaux» nel 1753 per mettere a frutto le sue intuizioni probabilmente supportata da Marmontel.21

17 Già in precedenza, all’inizio della sua carriera, si era distinta, nella Mérope di Voltaire (20 febbraio 1743), recitando nella parte secondaria d’Isménie, confidente della vedova di Cresfonte, Merope, impersonata da mademoiselle Dumesnil. Negli anni a venire continuerà a rappresentare eroine voltairiane, sarà Aménaïde in Tancrède (3 settembre 1760), Zulime nella tragedia eponima (ripresa il 29 dicembre 1761 con alcuni cambiamenti rispetto al testo del 1740 che non aveva avuto successo) e infine Olympie (17 marzo 1764). 18 Si potrebbe tradurre con «passionalità viscerale», alla lettera significa viscere, cuore, è un termine molto usato nel Settecento, indica la parte profonda dell’essere sensibile, sede delle emozioni. 19 Journal et Mémoires de Charles Collé sur les hommes de lettres, les ouvrages dramatiques et les événements les plus mémorables du règne de Louis XV (1748-1772), Paris, Didot,1868, 3 voll., vol. I, p. 142 (riflessioni del marzo 1750). 20 «Correspondance littéraire», vol. II, luglio 1753, p. 265. 21 Vedi negli Allegati, un estratto dalle Memorie di Marmontel. Questi «viaggi» nelle varie città di Francia dovevano essere autorizzati dalla Comédie-Française; molto acclamate anche le sue recite del repertorio voltairiano a Lione, nel teatro di Germain Soufflot (1713-1780) allora inaugurato, e a Marsiglia (luglio-agosto 1756).

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AAR Anno IV, numero 8 – Novembre 2014

Agli scoppi di furore, alla tonalità potente della voce sostituisce un’impostazione semplice e naturale, la sua Agrippina del Britannicus di Racine, come lei stessa racconta, è coronata da un indiscusso successo. Sfuggire al ritmo accentuativo dell’alessandrino e alla ben distinta interpunzione fonica della cesura, superare la recitazione cantilenante ed enfatica, spezzare la musicalità prosodica e la monotonia della declamazione, era la grande scommessa che mademoiselle Clairon era riuscita a vincere. La critica degli anni successivi ne registra il cambiamento. Collé nell’ottobre del 1755 che la vede recitare nella nuova tragedia di Voltaire L’Orphelin de la Chine (20 agosto 1755), pur giudicando l’opera brutta senza rimedio, (per altro, amico di Crébillon tutta l’opera voltairiana viene sempre da lui aspramente criticata), trova che l’attrice nella parte di Idamé sia stupenda:

ella fa progressi ogni giorno, si allontana a poco a poco dalla sua declamazione e si avvicina a grandi passi alla recitazione naturale: se continuerà raggiungerà l’arte della Lecouvreur; i progressi che ha fatto sono troppo incisivi e troppo stupefacenti per non aspettarcene altri: forse dobbiamo attenderci la perfezione.22

Giudizio molto interessante da opporre a quanto lo stesso Collé scriveva invece nel marzo 1750, precedentemente citato. Interprete dei grandi ruoli tragici, il repertorio da lei portato in scena sia sui palcoscenici ufficiali che su quelli di corte23 è ben più vasto delle opere ricordate nelle sue Riflessioni sull’arte drammatica; basta scorrere le pagine dei periodici del tempo per rendersene conto. Nella sua carriera ha creato circa quarantacinque nuovi ruoli in tragedie inedite. Oltre alle eroine di Crébillon, Voltaire, Marmontel, de Belloy, Guimond de La Touche, Saurin e La Place cui lei stessa fa cenno, val la pena di ricordare anche quelle di Chateaubrun (Cassandre ne Les Troyennes, 11 marzo 1754 e Sophie nel Philoctète, 1°marzo 1755), di La Harpe (Eroxime nel Timoléon, 1° agosto 1764), di Lemierre (Hypermnestre nella tragedia eponima, 13 agosto 1758; Progné in Terée, 25 maggio 1761 e Erigone in Idoménée, 13 febbraio 1764) e di Colardeau (Caliste nella tragedia eponima, 12 novembre 1760). La sua decisione di abbandonare il teatro certo motivata dall’amarezza per l’arbitraria carcerazione a seguito dell’affaire Dubois (aprile 1765) ha un’origine ben più profonda e travagliata, quella cioè dell’ingiusto trattamento della chiesa e delle leggi nei confronti degli attori, da sempre in

22 Journal et Mémoires de Charles Collé…, cit., vol. II, p. 33. 23 Gli attori della Comédie-Française erano tenuti a recitare a corte, e questo fin dall’epoca di Luigi XIV, a Fontainebleau, a Versailles e in altri teatri privati, secondo scadenze ben precise e con un repertorio richiesto che non sempre corrispondeva a quello presente nello stesso momento sul palcoscenico parigino. La stagione andava da ottobre ad aprile e rispettava il periodo di chiusura dei teatri durante le feste pasquali.

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Francia privati dei sacramenti e dei diritti civili da retrograde proibizioni che relegano l’attore in una sorta d’imperfetta statuità limbale. Mademoiselle Clairon si è a lungo battuta, come lei stessa racconta, contro un inaccettabile sopruso, cercando di sensibilizzare il re, i suoi ministri e la chiesa gallicana per la risoluzione di un problema solo francese, ma invano; la delusione per non essere riuscita nell’intento a cui si aggiunge spossatezza morale e infermità fisiche la fortificano nella sua rinuncia. Nel settembre 1765 così si legge nella «Correspondance littéraire»: «M. Tronchin da lei consultato sulla sua salute, l’ha condannata a rinunciare o alla vita o al teatro, ella ha successivamente dichiarato che il solo mezzo per convincerla a tornarvi, sarebbe di dare allo stato di attore i diritti di cittadino e di abolire la scomunica e la nota d’infamia civile nei loro confronti, come richiesto dalla ragione e dalla giustizia».24 Vibranti d’emozione e di sdegno sono le sue riflessioni su una società che esalta l’attore in scena e poi lo tratta come un reprobo nel quotidiano. Se nulla cambia in questa fine d’anno, all’inizio del 1766 sembra prospettarsi forse uno spiraglio per il suo ritorno sulle scene, alla riapertura della nuova stagione teatrale dopo l’interruzione pasquale. Si parla infatti di erigere la Comédie-Française in ‘Accademia reale drammatica’ con lettres patentes registrate dal Parlamento. Questa nuova forma potrebbe portare all’abolizione della scomunica o almeno al godimento dei diritti civili, e siccome «in virtù della loro istituzione, gli attori della Comédie-Française fanno parte della camera del re, si dice che si accorderà loro il titolo di valet de chambre del re o di femme de chambre della regina».25 Ma il progetto non andrà in porto né avrà alcun seguito. Solo con la caduta dell’Ancien Régime si riconoscerà dignità civile agli attori, ed è significativo che la loro assemblea, riunita per presentare al re il proprio Cahier de doléances in occasione degli Stati Generali, metterà nel primo articolo la richiesta di annullare l’ingiustizia che pesa su di loro per l’anatema della chiesa.26 Cosicché nel pieno della maturità mademoiselle Clairon abbandona le scene ufficiali, per recitare soltanto in qualche particolare occasione. Nell’agosto 1765 è a Ferney, Voltaire che non la vedeva da diciassette anni,

24 «Correspondance littéraire», vol. VI, settembre 1765, p. 356. Ma la sua malattia non è recente, in una lettera del 9 marzo 1763 al conte d’Argental, Voltaire, parafrasando l’episodio miracoloso raccontato nel Vangelo, scrive: «Forse non ignorate che mademoiselle Clairon è nella situazione dell’emorroissa e che il salvatore Tronchin le ha comunicato che non poteva guarirla se non fosse venuta a toccare il lembo della sua veste. La dichiara morta se continua a recitare», Voltaire, Correspondance, édition Théodore Besterman, Paris, Gallimard, «Bibliothèque de la Pléiade», 1964-1993, 13 voll., vol. VII, p. 152. 25 «Correspondance littéraire», vol. VI, marzo 1766, p. 492. 26 Cahier de doléances, remontrances et instructions de l’Assemblée de tous les Ordres des Théâtres Royaux de Paris, plaquette di 20 pp. che riepiloga le decisioni dell’assemblea degli attori, tenutasi il 10 aprile 1789.

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può finalmente sentirla interpretare, sul suo palcoscenico privato specialmente riattato per l’occasione, i ruoli di Aménaïde e di Elettra, e resta particolarmente sorpreso dalle sue doti interpretative: «Coloro i quali l’hanno ascoltata a Parigi, dicono che mai ha recitato in un modo così nuovo, così vero, così sublime, così straordinario, così straziante».27 Per poi aggiungere in una missiva successiva a Theriot: «Non sono io l’autore di quei due ruoli, lo è solo lei».28 Per sua stessa ammissione, anche mademoiselle Clairon era convinta di quanto l’attore potesse aggiungere alla poesia del testo e andare persino aldilà dell’immaginazione dell’autore, osservazione che non era sfuggita a Diderot:

Per un punto in cui il poeta ha sentito più intensamente dell’attore, ce ne sono cento in cui l’attore sente più intensamente del poeta; e nulla è più veritiero dell’esclamazione di Voltaire sentendo recitare la Clairon in una delle sue pièces: Sono proprio ad aver fatto questo? Da cosa proveniva? Forse mademoiselle Clairon ne sa più di Voltaire? Forse il suo modello ideale, nel recitare, era ben superiore al modello ideale che il poeta si era fatto nello scrivere: ma quel modello ideale non era lei. Cosa faceva allora? Copiava di genio, imitava il movimento, le azioni, i gesti, tutta la natura di un essere ben al di sopra di lei; recitava in modo sublime.29

In questa trasformazione dalla persona al personaggio, lo sforzo maggiore da compiere per accedere a una realtà altra da sé è quello di smettere di essere se stessi tramite un processo di mimesi del tutto astratto che coinvolge l’immaginario e la sensibilità dell’artista; «poète d’action» la definisce, in un lungo articolo del «Journal de Paris», Pierre-Louis Rœderer (cfr. Allegati). Nell’agosto 1766 interpreta Arianna, nella tragedia eponima di Thomas Corneille, nel salotto della duchessa di Villeroy. Il 19 febbraio 1767 partecipa a uno spettacolo, il cui ricavato sarà devoluto a Molé, nell’abitazione privata del barone d’Esclapont, alla barrière di Vaugirard.

27 Correspondance, cit., lettera ai d’Argental del 23 agosto 1765, vol. VIII, p. 160. 28 Ivi, p. 172, lettera del 30 agosto. Voltaire tornerà di nuovo a ribadire la sua sorpresa in una missiva del primo settembre al marchese du Plessis-Villette: «Non conoscevo il merito di mademoiselle Clairon: non avevo neanche idea di una recitazione così animata e perfetta. Ero stato abituato a quella fredda declamazione dei nostri freddi teatri, e non avevo visto che attori recitare versi ad altri attori, in un cerchio ristretto circondato da ‘petits-maîtres’», Ivi, p. 175. Quando Voltaire aveva lasciato la Francia, infatti, la riforma sovvenzionata dal conte di Lauraguais non era ancora stata attuata. 29 Observations de M. Diderot sur une brochure intitulée Garrick, ou les Acteurs anglais, ouvrage contenant des réflexions sur l’art dramatique, sur l’art de la représentation et le jeu des acteurs; avec des notes historiques et critiques sur les différents théâtres de Londres et de Paris; traduit de l’anglais, pubblicate sulla «Correspondance littéraire», vol. IX, novembre 1770, p. 152. Le Osservazioni confluiranno nel celebre Paradoxe sur le comédien, che sarà pubblicato postumo solo nel 1830 (Paris, A. Sautelet).

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Furono eseguite la tragedia di de Belloy, Zelmire30 e la commedia in due atti di Louis de Boissy, L’Époux par supercherie, «stupendamente recitate» a dire di Charles de Mouhy.31 «Non c’è da stupirsi, continua, sapendo che Lekain vi rappresentò la parte principale e mademoiselle Clairon quella che rendeva con così grande dignità quando l’interpretava prima del suo ritiro. La partecipazione del pubblico fu prestigiosa». Nel marzo di questo stesso 1767 si esibisce in alcuni delle sue parti nel salotto di madame de Florian, nipote di Voltaire. Una successiva sua apparizione si registra nel 1770 quando viene chiamata a recitare a Versailles in occasione del matrimonio del Delfino, il futuro Luigi XVI, con Maria Antonietta nel teatro appena inaugurato, opera dell’architetto Jacques Gabriel. Dovrà sostenere le parti di Athalie nella tragedia eponima di Racine e di Aménaïde nel Tancrède.32 Ma dopo cinque anni di assenza dal palcoscenico il suo talento appare appannato, viene insinuato che mademoiselle Clairon si aspettasse che il re le chiedesse di tornare alla Comédie-Française e che forse una richiesta in tal senso avrebbe potuto convincerla a un ipotetico rientro.33 Il tono della recitazione si rivela lento e monotono, in più mademoiselle Clairon ha fatto l’errore di optare per la parte di Athalie, parte che apparteneva da sempre a mademoiselle Dumesnil e in cui eccelleva. Anche la scelta dei costumi sembra poco brillante, insomma una caduta di stile e di tono che suscita anche versi ironici nei suoi confronti, riprodotti nella «Correspondance littéraire».34 Eppure è solo qualche mese dopo che appaiono su questa pubblicazione le celebri Osservazioni di Diderot che saranno al centro di tutto il successivo dibattito sull’arte interpretativa e che fanno di mademoiselle Clairon il modello per eccellenza del paradosso, modello che la lettura delle sue

30 Pierre Laurent Buirette, detto Dormont de Belloy (1727-1775), drammaturgo di successo soprattutto con Le Siège de Calais, che contribuì alla sua elezione all’Accademia di Francia nel 1770. Di questo autore mademoiselle Clairon aveva creato la parte di Zelmire nella tragedia eponima il 6 maggio 1762 per poi impersonare Aliénor ne Le Siège de Calais (13 febbraio 1765). 31 Charles de Fieux, chevalier de Mouhy (1701-1784), prolifico autore di opere oggi quasi del tutto dimenticate, tranne il suo Abrégé de l’histoire du théâtre François depuis son origine jusqu’au premier juillet de l’année 1780, A Paris, chez l’Auteur et L. Jorry, M.DCC.LXXX, 3 voll., qui vol. III, pp. 88-89. 32 Athalie va in scena il 23 maggio con i cori su musica di François-Joseph Gossec (1734-1829), il Tancrède di Voltaire il 20 giugno. Nel settembre del 1772, in occasione di una cerimonia che ebbe luogo nella sua abitazione di rue du Bac, dove abita dal 1768, mademoiselle Clairon vestita da sacerdotessa di Apollo recita un’ode di Marmontel «à la louange de Voltaire» e ne incorona il busto. Scrive il recluso di Fernay, il 29 settembre 1772, a La Harpe: «La casa di mademoiselle Clairon è diventata il tempio della gloria. È lei che consegna gli allori, dato che ne è interamente avvolta», Correspondance, cit., vol. XI, p. 84. 33 Per invogliarla il duca d’Aumont le aveva offerto un abito per recitare nell’Oreste di Voltaire, ma alla riapertura del teatro il suo ritorno sulle scene tanto atteso, non ebbe luogo. 34 Cfr. «Correspondance littéraire», vol. IX, luglio 1770, p. 77.

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Memorie ci propone e che qui Diderot sembra riassumere come se le avesse lette. È quindi utile riportare il lungo brano, anche se conosciutissimo, per la finezza con cui l’autore dell’Encyclopédie ha saputo sintetizzare il metodo di lavoro e il percorso delle ricerche intrapresi da mademoiselle Clairon e forse di cui ha con lei discusso negli ambienti dei Philosophes a loro familiari:

Quale recitazione più perfetta di quella di mademoiselle Clairon? Tuttavia seguitela, osservatela e presto vi convincerete che ella conosce a memoria ogni dettaglio della sua recitazione come ogni parola della sua parte. Probabilmente ha avuto in mente un modello al quale ha cercato in un primo tempo di attenersi, forse lo ha concepito più alto, più grande, più perfetto quanto ha potuto; ma quel modello non è lei: se il modello fosse se stessa la sua imitazione sarebbe certamente debole e limitata! Quando, a forza di lavoro, si è avvicinata il più possibile a quel modello ideale, tutto è fatto. Non dubito che provi un gran tormento nei momenti di studio, ma una volta superati, la sua mente è calma, è padrona di se stessa, si ripete senza quasi nessuna emozione interiore, le sue ricerche hanno fissato tutto e tutto stabilito nella mente; indubbiamente sdraiata in poltrona, gli occhi chiusi, può, seguendo in silenzio la sua parte a memoria, sentirsi, vedersi in scena, giudicarsi e giudicare le impressioni che susciterà.35

Anche Lemazurier nel ritratto che di lì a poco avrebbe tracciato di mademoiselle Clairon nella sua Galerie historique sul teatro di quegli anni, ribadisce il fatto che mai l’attrice si sarebbe cimentata in un ruolo se prima non avesse proceduto a studi così approfonditi da permetterle di abbracciarne ogni minuzia:

sapeva a ogni verso, quasi a ogni sillaba, il tono da prendere per interrogare, per rispondere, quali atteggiamenti permettersi, attraverso quali gradazioni passare per rendere tutti i sentimenti del personaggio interpretato, quando doveva alzarsi, sedersi, camminare con lentezza o con precipitazione e quali espressioni dare poi al volto. Così, una volta deciso l’insieme del ruolo, era per sempre e non c’erano più cambiamenti.36

Così si stratifica nel tempo e si consolida quell’opposizione tanto cara a tutta la critica di quegli anni fra le due attrici più celebri della Comédie- Française: mademoiselle Clairon e mademoiselle Dumesnil, l’una ouvrage de l’art, cioè dello studio, dell’approfondimento, della volontà critica, dell’antiemozionalismo e l’altra ouvrage de la nature, che tutto fa di getto, d’istinto, nell’immediatezza incontrollata della passione, affidandosi all’estro e all’improvvisazione; insomma dell’acquisito vs l’innato. «È troppo attrice» diceva di lei Garrick, e

35 Observations de M. Diderot…, cit., «Correspondance littéraire», vol. IX, ottobre 1770, p. 137. 36 P. D. Lemazurier, Galerie historique…, cit., vol. II, p. 85.

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sapeva mantenersi come Racine in una perfezione inalterabile. […] Gli effetti che mademoiselle Dumesnil produceva con l’ispirazione, mademoiselle Clairon li otteneva tramite la tecnica; aveva nella gola, affermava Voltaire parlando di quest’ultima, ciò che l’altra aveva nel cuore.37

Un altro osservatore straniero, Carlo Goldoni, che da quando era arrivato a Parigi nell’agosto 1762 godeva di un ingresso ad inviti alla Comédie- Française, in una sua riflessione sugli attori del tempo e sull’incidenza del passato, scrive:

Il teatro della nazione mi sembrò ben preparato sia per il tragico, sia per il comico. I Parigini mi parlavano con entusiasmo degli attori celebri che non erano più: si diceva che la natura avesse rotto lo stampo di tali grandi comici, ma ci si sbagliava. La natura fu contemporaneamente lo stampo, il modello e l’originale e li rinnova a suo piacimento. Accade così in ogni tempo: si rimpiange il passato, ci si lamenta del presente; fa parte della nostra natura. Si potevano forse desiderare attrici più compiute della signorina Dumesnil e della signorina Clairon? La prima rappresentava la natura con la più grande verità; la seconda aveva spinto l’arte della declamazione al sommo grado della perfezione.38

Per Maria Ines Aliverti l’opposizione fra le due attrici va letta anche a un altro livello in quanto essa segna innegabilmente il «passaggio da una cultura teatrale a un’altra»:

[Nel]l’azione riformatrice della Clairon […] vanno di pari passo la concezione dell’identità artistica dell’attore e quella di una identità scenica unitaria del personaggio. […] Nel vecchio tipo di recitazione […] la mediazione funzionale tra l’attore e il testo non era costituita dal personaggio concepito come identità psichica unitaria, e come identità scenica realizzata in base a criteri di verisimiglianza e storicità, ma dalle situazioni patetiche all’interno delle quali era operante […] il codice dell’espressione delle passioni.39

Il pubblico è quindi chiamato a scegliere tra il piacere spirituale della ragione e l’entusiasmo della passione ed è «questo duello d’ordine estetico che investe l’avvenire dell’arte teatrale». Per Sabine Chaouche, infatti questi due sistemi di recitazione sono antinomici: «L’uno antico che ricorda la necessità assoluta dell’Arte e che la considera prioritaria, l’altro moderno

37 [Antoine-Vincent Arnault], Les souvenirs et les regrets du vieil amateur dramatique ou Lettres d’un Oncle à son Neveu sur l’ancien théâtre Français, Paris, Librairie d’Alphonse Leclerc, MDCCCLXI, p. 50 (con incisioni colorate da Foëch de Basle et Whirsker). Cfr. anche quanto scrive Jean-Georges Noverre, Lettre sur les arts imitateurs en général et sur la danse en particulier, Paris-La Haie, Collin-Immerzeel, 1807, 2 voll., vol. II, p. 194. 38 Il testo francese delle Memorie, dedicate a Luigi XVI, Mémoires de M. Goldoni pour servir à l’histoire de sa vie et à celle de son théâtre, fu pubblicato in tre volumi a Parigi nell’agosto 1787, presso la Veuve Duchesne. Cito dalla traduzione di Paola Ranzini: Carlo Goldoni, Memorie, a cura di Paolo Bosisio, Milano, Mondadori, «I Meridiani», pp. 550-551. 39 M. I. Aliverti, Poesia fuggitiva sugli attori nell’età di Voltaire, Roma, Bulzoni, 1992, pp. 202- 203.

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che accorda allo slancio un posto preponderante». La contemporaneità sul palcoscenico di queste due attrici eccezionali è stata fondamentale per interrogarsi sull’identità dell’attore e sul processo creativo e per proporre «una riflessione approfondita su nozioni antitetiche quali la mancanza di sensibilità e il dono del patetico, la perfezione e l’irregolarità, il controllo o l’abbandono di sé, l’interiore e l’esteriore, il bello e il sublime».40 L’antiemozionalismo di mademoiselle Clairon rientra nella tradizione, nell’estetica e nei principi ereditati dall’actio oratoria, mentre mademoiselle Dumesnil incarnerebbe la modernità.41 L’esercizio costante di mademoiselle Clairon per l’attuazione di un’arte naturale derivante da un progetto razionale implica naturalmente l’immutabilità della resa del personaggio una volta individuata la chiave di lettura confacente, e anche questo sembra avere una potente attrattiva:

Tale è la magia di un’imitazione perfettamente vera che mai indispone né stanca il conoscitore sensibile, per il quale ogni carattere ben espresso, anche se sempre allo stesso modo, è come la Venere di Prassitele il cui fascino sembra perennemente rinnovarsi. Così la recitazione di un buon attore sembrerà tanto più varia e più nuova, quanto più si avvicinerà alla natura e alla verità, anche se sempre la stessa in ogni ruolo.42

Nelle Riflessioni sull’arte drammatica, secondo la tradizione retorica dell’actio, mademoiselle Clairon esamina dapprima la voce, in seguito la memoria, in due diversi paragrafi, quanto al gesto ne riporta diffuse esemplificazioni, senza però soffermarsi in particolare. Per capire quanto nel pensiero della comédienne la voce sia importante e risultare unica e inconfondibile marca della personalità attoriale, è un aneddoto riportato da Hérault de Séchelles che aveva preso qualche lezione da mademoiselle Clairon per migliorare il proprio eloquio: «Avete della voce? mi chiese la prima volta che la vidi. Un po’ sorpreso dalla domanda e peraltro, non sapendo cosa dire, risposi: – Ne ho come tutti. – Ebbene dovete farvene una».43 Alcuni dei suoi principi e consigli che non appaiono se non in filigrana nel trattato, vengono sintetizzati con schematicità e una certa dose di tecnicismo sempre da Hérault de Séchelles che sembra farsi portavoce delle considerazioni dell’attrice e del suo tono impositivo; ne riportiamo un ampio passaggio che ben esemplifica e completa il pensiero di mademoiselle Clairon:

40 S. Chaouche, La Philosophie de l’acteur: la dialectique de l’intérieur et de l’extérieur dans les écrits sur l’art théâtral français, 1738-1801, Paris, Champion, 2007, p. 296. 41 Ivi, p. 314. 42 J.-N. Servandoni D’Hannetaire, Observations sur l’art du Comédien, Et sur d’autres objets concernant cette profession en général, Paris, Société Typographique, MDCCLXXIV, p. 22. 43 M.-J. Hérault de Séchelles, Œuvres littéraires et politiques, édition établie et présentée par Hubert Juin, Lausanne, Éditions Rencontre, 1970, «Réflexions sur la déclamation», pp. 167- 182, qui p. 172.

22 Hyppolite Clairon, Memorie e riflessioni sulla declamazione teatrale

C’è un’eloquenza dei suoni. Sforzarsi soprattutto di dare rondeur alla voce: affinché ci sia rondeur nei suoni bisogna sentirli ripercuotersi contro il palato.44 Soprattutto andare piano, semplice! semplice! La varietà delle intonazioni costituisce il fascino della dizione. Quando una parola è forte di per sé come orrore, sacro, è inutile rinforzarla, basta pronunciarla correttamente. Sostenere i significati incompiuti, quelli che lasciano in sospeso. Cambiare tono a ogni cambiamento di senso. Non iniziare mai la frase successiva sullo stesso tono con il quale si è finita la frase precedente. – Aver cura di dare alle parole il loro giusto valore, la loro reale estensione; merito più raro di quanto si pensi. – Ogni cosa ha un accento che gli è proprio. – Risparmiare molto la voce, i movimenti, è sostanzialmente con l’economia che si riesce a far brillare il proprio dispendio.45

Passando dalla teoria alla pratica, Hérault de Séchelles annota poi il modo in cui mademoiselle Clairon si serve delle inflessioni della voce e come ne attua l’impostazione:

ella dice alcune parole con una forza incredibile. – Bisogna, affermava, stabilire la pronuncia su una base stabile e fortemente appoggiata, ingrossare la voce su alcune parole per farle valere, non alzare, ma appoggiare la voce. Sforzarsi ogni giorno a innalzare impercettibilmente la voce, impegnarsi a fortificarla affinché ogni parola sembri provenire dal comando. È importante più di quanto si pensi di parlare forte e di non dire nulla con mollezza: fortificate la voce, il carattere si fortifica nello stesso tempo. In genere la voce forte è la voce dell’ostinazione.46

In quanto alla memoria mademoiselle Clairon le assegna una fondamentale collocazione: senza di essa non può esservi attore perché da essa discendono le altre indispensabili tecniche. Questa non va intesa come attuazione meccanica del ricordo, ma come riassunzione emotiva di una vicenda alla quale dà voce l’attore. Non solo si deve conoscere la propria parte ma anche quella dell’interlocutore per prevenirne espressioni ed effetti. Non c’è, come invece ci si poteva aspettare, una trattazione specifica sull’azione: gesti, espressività, sguardi, silenzi, movimenti scenici…, se non qualche sporadica indicazione e se mademoiselle Clairon suggerisce a Hérault de Séchelles «pochissimi gesti, ma impiegarli a proposito e rispettare le opposizioni che ne fanno risaltare i cambiamenti»,47 in realtà la sua gestualità per quanto si legge nei resoconti del tempo è ricca e diversificata: ad esempio, il critico annota che «parlando tiene il polso un

44 Il suono che ha rondeur significa che deve fluire con la facilità con cui un corpo rotondo rotola; in retorica indica l’armonia di una frase equilibrata. 45 Hérault de Séchelles, Œuvres littéraires et politiques, cit., p. 172. 46 Ivi, p. 172. 47 Ivi, p. 175.

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po’ al di fuori del braccio».48 E nella parte d’Idamé ha dei gesti étrangers (stranieri, perché siamo in Cina? oppure più semplicemente strani): mette «spesso una mano o tutte e due sui fianchi», a momenti appoggia sulla fronte il pugno chiuso.49 E ancora nella parte di Penelope50 l’immobilità del corpo nel riconoscere Ulisse solo udendo la voce dello straniero, la recitazione muta, quel volto che passa gradualmente dalla sorpresa alla speranza e alla gioia «è talmente naturale che la costrizione dell’arte diventa l’espressione della natura».51 Voltaire nella Prefazione della sua tragedia Les Scythes (16 marzo 1767) scrive:

Chi avrebbe osato prima di mademoiselle Clairon recitare nell’Oreste la scena dell’urna come ha fatto lei? Chi avrebbe immaginato di rappresentare così la natura, di cadere svenuta tenendo con una mano l’urna e lasciando l’altra pendere immobile e senza vita? […] Gli intenditori, stupiti dalla perfezione inattesa dell’arte, hanno ricordato i quadri di Michelangelo. Ecco in effetti la vera azione teatrale.52

Il Prince de Ligne, osservando in parallelo la tenuta scenica di mademoiselle Dumesnil e di mademoiselle Clairon pur nelle loro differenze, afferma che entrambe «hanno silenzi più eloquenti dei più bei versi delle pièces da loro recitate. Tramite questi, con un’inflessione di voce, con il modo in cui riprendono fiato, con un non so che non si può spiegare, entusiasmano e incantano».53 «Il sublime dell’arte» consiste allora nel far intuire, attraverso una recitazione muta, la verità del personaggio anche al di là delle parole;

48 Ivi, p. 179. 49 C. Collé, Journal et Mémoires…, cit., vol. II, p. 34. 50 La tragedia di Charles-Claude Genest (1639-1719) Pénélope, fu molto apprezzata da Bossuet (prima rappresentazione, 22 gennaio 1684), qui si accenna al momento del riconoscimento atto V, scena 3. 51 Marmontel, Déclamation théâtrale, articolo Encyclopédie (vol. III, 1753, in Œuvres complètes, Éléments de littérature, cit., vol. IV, p. 326.); citazione ripresa da Jean-Nicolas Servandoni D’Hannetaire, Observations sur l’art du Comédien…, cit., p. 277 e da Préville, Réflexions sur l’art du comédien, in Mémoires de Préville et Dazincourt, Paris, Baudouin frères, 1823, p.136; già in precedenza Rémond de Sainte-Albine si era soffermato su questa scena: «In tante occasioni il loro silenzio [dell’attore] deve essere eloquente come le loro parole [dell’autore], e spesso hanno più da fare quando tacciono che non quando hanno da pronunciare versi pomposi. Senza la recitazione muta dell’attrice, […] il quadro del riconoscimento di Ulisse e della sua sposa avrebbe fatto un’impressione così viva sugli spettatori? Non si smetteva mai di ammirare l’impercettibile gradualità con cui quest’attrice si volgeva verso il preteso straniero, mentre insieme era sempre più persuasa che la voce che sentiva era proprio quella i cui suoni avevano tanto dominio sul suo cuore», Pierre Rémond de Sainte-Albine, Le Comédien, A Paris, chez Vincent, M.DCC.XLIX, p. 143, cito dalla traduzione di E. G. Carlotti, L’Attore, pubblicata in AAR, anno II, n° 4, novembre 2012, p. 319. 52 Voltaire, Œuvres complètes, cit., vol. VI, p. 268. 53 C.-J. Prince de Ligne, Lettres à Eugénie, Paris, M.DCC.LXXIV, p. 66.

24 Hyppolite Clairon, Memorie e riflessioni sulla declamazione teatrale

bisogna con un bel ossimoro, che appartiene a un grande attore quale Préville,

far parlare il silenzio. Questo modo di esprimersi è la scienza di ogni attore che calca il palcoscenico. Nulla di ciò che avviene deve essergli indifferente. Non si può ascoltare un discorso da cui si è commossi, senza farlo vedere, la situazione in cui ci si trova non permette d’interromperlo: il movimento dei muscoli della fisionomia deve allora sostituire la parola.54

Notevole è la sua interpretazione di Zénobie: ad un certo punto del récit fatto a Phénicie sul tentato omicidio da parte del marito che l’ha precipitata nel fiume Araxe, l’attrice si ferma su quella tremenda descrizione:55

i suoi occhi si fissano, il suo volto cambia, la sua emozione diventa turbamento, la sua passione trasporto, e senza lasciarsi andare all’odio verso chi voleva ucciderla, con la più felice reticenza resta immobile e il suo dolore parla solo il linguaggio della pietà. […] Non ci fu uno spettatore che non fosse emozionato quando interruppe la narrazione. I suoi occhi, il suo atteggiamento, le sue braccia, il suo fremito, il suo silenzio, tutto parlava in lei e quella voce muta incantò tutti i cuori.56

Sempre Hérault de Séchelles racconta dell’incredibile sequenza di espressioni di cui mademoiselle Clairon era capace, emula di Garrick:

Un giorno si sedette in poltrona e senza proferir parola, senza alcun gesto, rappresentò solo col viso tutte le passioni: l’odio, la collera, l’indignazione, l’indifferenza, la tristezza, il dolore, l’umanità, la natura, l’allegria, la gioia… Rappresentò non solo le passioni in se stesse, ma anche tutte le sfumature e tutte le differenze che le caratterizzano. Ad esempio, nel timore espresse lo spavento, la paura, l’emozione, lo sbigottimento, l’inquietudine, il terrore…57

Ammetteva di essere stata aiutata in questa larga gamma mimica dagli studi di anatomia per cui sapeva quali muscoli far muovere. Per altro mademoiselle Clairon era particolarmente incline a servirsi di una grande varietà espressiva e della pantomima persino a scapito del testo il che suscitava le ire di Voltaire quando era la sua scrittura ad essere in un certo qual modo condensata in quella recitazione muta che era invece molto gradita a Diderot. Così quest’ultimo scriveva al filosofo di Ferney a proposito dell’interpretazione di Aménaïde e del talento pantomimico dell’interprete:

Se vi fosse dato di vedere la Clairon che attraversa il palcoscenico semi svenuta sui carnefici che la circondano, le ginocchia che le si piegano, gli occhi chiusi, le braccia cadenti come morta, se poteste udire il grido che getta nel

54 Préville, Réflexions sur l’art du comédien, cit., pp. 135-136. 55 Nella tragedia di Crébillon Rhadmiste et Zénobie (23 gennaio 1711), atto I, scena 1. 56 Lettre à la Marquise V. de G…, cit., pp. 13-14. 57 Hérault de Séchelles, Œuvres littéraires et politiques, cit., p. 173.

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vedere Tancredi, restereste convinto più che mai che il silenzio e la pantomima hanno a volte una pateticità irraggiungibile da tutte le risorse dell’arte oratoria. […] Guardate l’Esther di Poussin che appare davanti ad Assuero, è la Clairon al supplizio.58

Lei stessa insiste su un dettaglio che certamente non poteva essere da tutti apprezzato se non da chi era più vicino al palcoscenico, è cioè quello delle lacrime sul cui significato e differenziazioni si sforza di stilare una curiosa casistica. Al pianto dell’attrice rispondeva, in uno straordinario coinvolgimento emotivo, il pubblico con ‘torrenti di lacrime’, come pare che avvenisse alle rappresentazioni dell’Orphelin de la Chine,59 e, di contro, «È la prima ad aver riso nella tragedia», afferma il Prince de Ligne.60 Il costume rientra nell’interessamento di mademoiselle Clairon. L’impiego del costume, tutt’altro che fatto accessorio, testimonia la sua volontà di restituire la storia e il passato con quelle sfumature e diversità dovute a luoghi, situazioni politiche, circostanze che vanno attentamente vagliate in un contesto mobile; i personaggi romani o greci che siano non appartengono a un solo tempo monolitico cristallizzato dall’abitudine; esso si rivela estremamente mutevole e considerevoli devono essere lo sforzo e lo studio, come mademoiselle Clairon ribadisce più volte, per appropriarsene. Così ad esempio sarà necessario operare un distinguo tra le diverse costumanze a Sparta e ad Atene dovendo portare in scena personaggi quali Ermione e Monime, e non solo negli atteggiamenti, ma anche negli abiti e negli accessori. Marmontel riporta che l’attrice affermava che nelle sue interpretazioni «il costume doveva essere osservato; la verità della declamazione dipende da quella dell’abbigliamento».61 Una nuova concezione artistica sembra delinearsi con la messa in scena dell’Orphelin de la Chine (20 agosto 1755) dove, su suggerimento di Voltaire e disegni di Joseph Vernet, i costumi e la scenografia avrebbero dovuto riflettere, seppur in forma edulcorata, la realtà orientale. Per coprire le ingenti spese dell’allestimento che si voleva della massima coerenza, Voltaire aveva rinunciato alla sua «part d’auteur» avvertendo come lo spaesamento in uno spazio-tempo totalmente estraneo alle convenzioni fosse l’alchimia necessaria per sottolineare l’unicità del testo. Eppure il costume di mademoiselle Clairon, di cinese, presenta solo i dragoni ricamati sulla gonna che si intravede attraverso la sopravveste guarnita di pelliccia e i pantaloni sbuffanti, sul capo un’acconciatura che termina con una aigrette. Questo primo tentativo fu però il segno di un cambiamento di

58 Lettera di Diderot del 28 novembre 1760. Voltaire, Correspondance, cit., vol. VI, p. 1210. 59 Così riferisce il «Mercure de France» a proposito d’Idamé (rappresentazione del 13 ottobre): «Non è un’attrice, è una madre, la natura stessa nelle situazioni più patetiche e più interessanti», ottobre 1759 p. 197. 60 Prince de Ligne, Lettres à Eugénie, cit., p. 68. 61 Marmontel, Mémoires d’un père…, cit.,vol. I, p. 153.

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rotta certamente avvertito nel tempo, tanto che per ornare un salone del castello della Malmaison, Joséphine de Beauharnais ordinò al pittore Lemonnier un quadro relativo alla lettura della tragedia nel salotto di madame Geoffrin, rue Saint-Honoré.62 Quando va in scena mademoiselle Clairon non esita a scelte audaci, quale per esempio di apparire «en chemise» nella prima scena del quinto atto della tragedia Didone di Lefranc de Pompignan dove la regina di Cartagine, svegliandosi dall’incubo che l’aveva fatta balzare dal letto, evidenzia nel disordine del leggero abbigliamento il tumulto dei sensi nel vedere lo spettro del marito Sichée coperto di sangue.63 Anche Rémond de Sainte- Albine ricorda che nella prima rappresentazione di Didone l’attrice «comparve nel quinto atto con i capelli scompigliati e nel disordine di una persona uscita precipitosamente dal suo letto», ma non fu così nelle rappresentazioni successive. «A quel che sembra, fu secondo i consigli di alcuni pretesi intenditori» ma forse, chiosa, sarebbe meglio non seguire tali suggerimenti.64 E sempre Arnault annota come impersonando Elettra, nella tragedia eponima di Crébillon, non poteva scegliere nulla di più semplice e nobile: un vestito nero senza panier né guarnizioni, capelli sciolti, solo un velo di cipria, senza belletto e le mani in catene: il risultato era splendido.65 L’illusione teatrale necessita soprattutto di questo; quando Collé si reca il 30 aprile 1759 alla Comédie-Française dove finalmente gli appare il

62 Il dipinto di Anicet Charles Gabriel Lemonnier (1743-1824) del 1812 è una ricostruzione immaginaria dell’evento: intorno al busto di Voltaire siedono i massimi rappresentanti della cultura e della nobiltà del tempo, al centro Lekain in atto di leggere il testo della pièce con accanto mademoiselle Clairon. 63 Antoine-Vincent Arnault, Les souvenirs et les regrets…, cit., p. 54. Anche Diderot nel suo Discours sur la poésie dramatique (novembre 1758) si sofferma sulla portata innovativa di mademoiselle Clairon: «Un’attrice coraggiosa si è liberata del panier, e nessuno ha trovato la cosa sbagliata. Andrà anche oltre, ne sono sicuro. Ah! se osasse un giorno mostrarsi in scena con tutta la nobiltà e la semplicità di vestimento richieste dalla parte; diciamo di più, nel disordine in cui ci precipita un avvenimento così terribile come la morte di uno sposo, la perdita di un figlio e le altre catastrofi della scena tragica; cosa diventerebbero in confronto di una donna scarmigliata tutte queste bambole incipriate, ricciute, agghindate? Sarebbe necessario che presto o tardi si mettessero all’unisono. La natura, la natura! non le si resiste. Bisogna o eliminarla o obbedirle», De la poésie dramatique, in Œuvres Esthétiques, ed. cit., p. 267. 64 R. de Sainte-Albine, L’Attore, trad. cit., p. 336. 65 A.-V. Arnault, Les souvenirs et les regrets…, cit., p. 55. Nel 1756, in uno spettacolo dato a Versailles, interpreta Roxane «senza ‘paniers’, vestita da sultana e le braccia mezze nude. Lo stupore dell’augusto pubblico fu estremo e ci si chiedeva ‘dove arriveremo?’», E.-D. De Manne, Galerie historique des Comédiens Français de la Troupe de Voltaire, Gravés à l’eau-forte, sur des documents authentiques par Henri Lefort avec des détails biographiques inédits, recueillis sur chacun d’eux par Edmond-Denis De Manne, Lyon, N. Scheuring éditeur, M.DCCC.LXXVII, p. 101.

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palcoscenico liberato dai palchetti,66 esulta: il nuovo spazio permette facilità di movimento agli attori, solennità di gesti, un’acustica migliore; scopre nel contempo che finalmente gli attori di Venceslas e mademoiselle Clairon, che recita quel giorno nella parte di Cassandra, vestono abiti alla polacca e pellicce, non più gli anacronistici «habits à la française».67 Tutto a teatro è finalizzato a soddisfare il piacere del pubblico, basta rilevare l’occorrenza del termine all’interno delle Memorie per rendersi conto di quanto mademoiselle Clairon ne avesse consapevolezza. Esso si configura nelle sue pagine come un essere proteiforme che se da un lato sostiene e incoraggia l’esordiente con indulgenza e simpatia, incensa il proprio beniamino e crea i talenti decidendone il successo, dall’altro può rivelarsi superficiale e poco incline alla riflessione lasciandosi condizionare da pericolosi ‘capibanda’ o dalla magniloquenza di oppositori prezzolati per trasformarsi in una «bestia brutale e feroce». Se spesso appare chiuso alle novità ci sono le felici eccezioni dei veri intenditori in grado di offrire preziose indicazioni agli interpreti in uno scambio esaltante fatto di empatia e condivisione. Interessante testimonianza di quanto educazione e istruzione siano le primarie esigenze per intraprendere la professione di attore, risulta il racconto del famoso Rêve attribuito a madame d’Épinay, attiva collaboratrice della «Correspondance littéraire»: l’autrice, addormentatasi inizia a sognare e crede di essere mademoiselle Clairon:

Passeggiavo nella stanza con incedere maestoso e mi rimiravo soddisfatta negli specchi del mio appartamento, trovandomi un portamento così imponente, rimpiangevo con amarezza di aver lasciato il teatro, riconoscevo di aver avuto successo solo a forza d’arte e che se avessi potuto ricominciare la mia carriera, forse avrei scelto una strada più semplice e sicura che avrebbe forse richiesto altrettanto studio, ma maggior genialità e minor sforzo.68

Malgrado varie digressioni, è soprattutto sulla rilevanza dello studio che s’incentra il sogno: si racconta allora di un giovane aspirante attore che si dice nato con la passione per il teatro e che si reca da mademoiselle Clairon per farsi dare un consiglio sulla validità della sua interpretazione: ha preparato la parte di Nerone dal Britannicus. Ma più che alla recitazione

66 Riforma fortemente appoggiata da Voltaire, Lekain e mademoiselle Clairon e attuata grazie alla generosità del conte di Lauraguais; alla riapertura del teatro, il 23 aprile, va in scena la tragedia di Chateaubrun, Les Troyennes in cui recita anche la Clairon nella parte di Cassandra, parte da lei creata per la prima dell’11 marzo 1754. 67 Journal et Mémoires de Charles Collé, cit., vol. II, p. 172, che aggiunge quanto l’attrice si fosse adoperata anche in passato per una scelta degli abiti consona al testo. Lekain parimenti era stato tenace fautore di tale rinnovamento. La tragedia di Rotrou, Venceslas (26 settembre 1680), era stata in parte riscritta per l’occasione da Marmontel. 68 Louise-Florence-Pétronille Tardieu d’Esclavelles d’Épinay (1726-1783), autrice di opere pedagogiche, di un romanzo autobiografico e di un importante epistolario. «Correspondance littéraire», vol. IX, gennaio 1772, pp. 401-409, qui p. 401.

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mademoiselle Clairon dà peso alle sue conoscenze sul personaggio storico, constatate le carenze sull’argomento, sbotta: «come potete pensare di rendere la parte di Nerone se non ne conoscete la vita come se fosse la vostra stessa vita?». Gli consiglia di sviscerare il personaggio, di interrogarsi sulle cause della sua crudeltà, se dipende dal suo animo, dalla corruzione della corte o del suo tempo, dal concatenarsi delle circostanze che spesso stravolgono la natura. Un grande attore deve saper far sentire tutte queste sfumature, ma anche cambiare atteggiamento e contegno secondo l’interlocutore con cui si confronta. Insomma non smettere mai di riflettere su ogni minima piega del testo. Madame d’Épinay ha riassunto con grande precisione il pensiero di mademoiselle Clairon che nelle sue Memorie suggerisce per altro d’indagare vari campi del sapere, ché ognuno apporta conoscenze utilissime, per prima cosa la storia, ma anche il disegno, la scultura, l’anatomia, la musica: tutti possono concorrere alla costruzione del personaggio. L’idea di offrire indicazioni ai debuttanti arricchendole di utili aneddoti a lei pertinenti e in cui l’esperienza assevera consigli di prima mano e di farsi lei stessa istruttrice di giovani talenti, basti pensare ai consigli dati a Mélanie Laballe,69 a mademoiselle Dubois e a mademoiselle Vestris per recitare nella parte di Aménaïde,70 agli insegnamenti impartiti a Larive71 e a mademoiselle Raucourt,72 a qualche lezione di dizione data a Germaine Necker73 e a Mélanie Guilbert, amica di Stendhal,74 farebbero supporre che

69 Mélanie Laballe (1732-1748) aveva debuttato giovanissima nella parte di Agnès nella Scuola delle mogli di Molière; morirà di lì a poco. 70 Cfr. «Correspondance littéraire», vol. VIII, febbraio 1769, p. 260. 71 Nelle Memorie Larive figura fra i quattro attori della Comédie-Française che a dire di mademoiselle Clairon sono i soli degni di essere citati. Jean Mauduit Larive (1747-1827) allievo di mademoiselle Clairon che ne aveva seguito trepidante l’esordio dalla buca del suggeritore (dicembre 1770) e che non aveva smesso di consigliarlo e sostenerlo in un nutrito carteggio (pubblicato su «Le Coureur des spectacles», luglio 1846). Sarà ammesso alla Comédie-Française solo nel 1775. Rivale di Lekain e poi erede del suo repertorio dal 1778, reciterà fino al 1796, pur avendo lasciato la Comédie nel 1788. Darà corsi di recitazione ed è autore, tra l’altro, di un testo teorico: Réflexions sur l’art théâtral, Paris, Rondonneau, an IX, [1801] e di un Cours de déclamation, Paris, Delaunay, 1804-1810, in 3 volumi. 72 Françoise-Marie-Antoinette-Josèphe Saucerotte, detta mademoiselle Raucourt (1756-1815) aveva debuttato giovanissima alla Comédie nel 1772 con un successo eccezionale, ma la sua vita sregolata l’allontanò dalle scene per un certo periodo. Sociétaire dal 1799, sarà incaricata da Napoleone, nel 1807 dell’organizzazione di una troupe di attori per recitare nelle principali città del regno d’Italia. Autrice di un dramma in tre atti in prosa Henriette (1° marzo 1782). 73 Negli anni 1777-1778 mademoiselle Clairon frequenta il salotto di madame Necker e da alcune testimonianze risulta che avesse impartito alla giovanissima Germaine, la futura madame de Staël (1766-1817), qualche lezione, cfr. D. Johnson-Cousin, Les ‘leçons’ de déclamation de Germaine Necker: note sur le ‘mystère Clairon’, «Studies on Voltaire», n° 183, 1980, pp. 161-164. 74 Mélanie Guilbert (1780-?) aveva assunto a teatro i nomi di Louason e di Saint-Albe. Nel suo Diario, Stendhal afferma che la giovane aspirante attrice era grande ammiratrice di

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l’attrice fosse favorevole a una scuola di teatro, in quanto il debutto sul palcoscenico avveniva con diverse implicazioni, fortuite o spesso protettive e nella rarità dei casi per innato talento. Resta invece legata all’idea vecchia e consolidata che l’attore si forma calcando i palcoscenici di provincia con compagnie di giro che recitano di fronte a un pubblico certamente meno esigente rispetto alla capitale, capace tuttavia di formarlo e di fargli superare lo scoglio iniziale di paure e possibili inadeguatezze. In filigrana sono anche interessanti le riflessioni, che potremmo definire sociologiche, proposte da mademoiselle Clairon; se centrale appare la questione irrisolta del riconoscimento dei diritti comuni dell’attore, anche le limitazioni alla libertà personale soprattutto delle donne si rivelano frutto delle convenzioni e dei pregiudizi di casta. Così nelle sue considerazioni sul matrimonio e sulla durata dei sentimenti, in particolare nel capitolo «Riflessioni sui matrimoni d’amore o perché ho rifiutato di sposarmi», al leggero marivaudage salottiero oppone una visione pessimistica delle situazioni ingenerate da un trasporto momentaneo; allora la rinuncia appare come l’unica via percorribile soprattutto per ovviare al problema delle mésalliances in un contesto in cui le diversità di stato sono fortemente avvertite. Doppiamente limitata, in quanto donna dalle oscure origini e attrice, mademoiselle Clairon sa bene che la sua rinuncia al matrimonio è l’unica via percorribile per salvaguardare la propria dignità, dilemma magistralmente esemplato in quegli anni, seppur al contrario, dalla Julie di Rousseau nella sua Nouvelle Héloïse (1761). La virtù costituisce allora la chiave di volta di un modus vivendi: il suo godimento giustifica di per sé pesanti rinunce: abbandono dei piaceri e dei vantaggi, sacrifici, abnegazione, persino la povertà. Ma questa virtù tanto preconizzata nelle pagine delle Memorie, e il racconto castigato di alcune sue passioni, non appare, nei ricordi dei contemporanei, quale credibile appannaggio di mademoiselle Clairon. La sua reputazione piuttosto sulfureuse, a parte libelli e poemetti di bassa lega, risulta da resoconti assai attendibili; certo non era una vestale, scriveva ironicamente Lemazurier;75 i suoi rapporti amorosi non si contano e non sempre sono disinteressati.

mademoiselle Clairon: ne aveva fatto il suo ‘eroe’ e ne aveva letto dieci volte le Memorie (Journal, 22 pluvioso anno XIII [11 febbraio 1805]) e alla stessa data annota «Louason prova esattamente per Clairon quello che io provo per Shakespeare», Œuvres intimes, texte établi et annoté par Henri Martineau, Paris, Gallimard, 1955, «Bibliothèque de la Pléiade», pp. 625- 626. Il suo giudizio sullo stile della memorialista non è altrettanto entusiasta: «Leggo stasera Clairon, che mi sembra costantemente tesa, priva di naturalezza e senza grazia; forse parlando aveva tutto questo, ma nello scrivere si faceva sussiegosa» (26 pluvioso, anno XIII [15 febbraio 1805]), ivi, p. 634. 75 P. D. Lemazurier, Galerie historique…, cit., vol. II, p. 79. Goncourt che insiste non poco sulla galanterie dell’attrice richiama alcuni rapporti di polizia non proprio edificanti: «[mademoiselle Clairon] passa per un temperamento fra i più forti e appassionati e per essere la demoiselle più lubrica. Durante l’azione grida talmente che bisogna chiudere le

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Quando vengono pubblicate le Memorie i gusti e i palcoscenici di Parigi sono ben cambiati dall’epoca dei successi di mademoiselle Clairon: in brevi accenni si avverte il disincanto per questa attualità da lei definita di «bizarre fermentation», una sorta di rimpianto non solo per il tempo perduto che ora stenta a ritrovare, ma anche per una raffinatezza intellettuale propria dell’Ancien Régime ormai definitivamente appannata. Con amara ironia deve constatare l’imbarbarimento del gusto di fine secolo, il degrado della civiltà che incide sul degrado della scena; i personaggi femminili cui aveva dedicato tutti i suoi studi, vengono non solo recitati in modo volgare, ma anche applauditi da un pubblico mediocre che vede i grandi caratteri dell’antichità sviliti a povere macchiette; che le sue riflessioni possano veramente servire ora come consiglio per una nuova ripartenza?

finestre», Edmond de Goncourt, Mademoiselle Clairon d’après ses correspondances et les Rapports de Police du temps, Paris, Charpentier, 1890, p. 98.

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Nota alla traduzione

- Si è scelto di tradurre i Mémoires prendendo in conto l’edizione del 1822 curata da François Andrieux:

Mémoires de Mlle Clairon, actrice du Théâtre Français, écrits par elle-même. Nouvelle édition, mise dans un meilleur ordre, et contenant: 1° Mémoires et Faits personnels; 2° Réflexions morales et Morceaux détachés; 3° Réflexions sur l’Art dramatique et sur la Déclamation théâtrale; le tout accompagné de notes contenant des faits curieux et des observations utiles, et précédé d’une notice sur la vie de Mlle Clairon76 in quanto il curatore non solo ha rispettato e introdotto tutte le varianti della seconda edizione rispetto alla prima (entrambe datate 1798),77 ma ha anche ridistribuito i vari paragrafi che compongono le Memorie in un ordine più razionale che permette così di conoscere prima la vita dell’attrice e in seguito le sue teorie interpretative. È probabilmente l’urgenza di dare alle stampe il suo memoriale, come la stessa mademoiselle Clairon esplicita nella lettera al redattore del «Publiciste», una sorta di brevissima introduzione, che le ha fatto adottare una distribuzione così disorganica. Se dobbiamo dar credito al fatto che l’edizione in tedesco, Hypolite [sic] Clairon Bertrachtungen über sich selbst, und über die dramatische Kunst,78 appare senza il beneplacito dell’attrice è pur vero che mademoiselle Clairon ne riprende la distribuzione il che lascia adito al sospetto che forse non ignorasse il progetto della pubblicazione in Svizzera, ma che anzi quel precedente potesse costituire un buon trampolino di lancio per l’edizione francese.

76 Paris, Ponthieu, 1822, e ora disponibile nella riedizione Slatkine (Ginevra, 1968), nella «Collection des Mémoires sur l’art dramatique». 77 Prima edizione: Mémoires d’Hyppolite Clairon, et réflexions sur l’art dramatique publiés par elle- même, A Paris, chez F. Buisson, an VII de la République [1798], deposito legale 4 settembre 1798 (il testo è stato recentemente ristampato in forma anastatica, Hachettte Livre, BnF); nello stesso anno esce un’edizione identica alla precedente ma in due volumi, formato in- 12°: Mémoires d’Hyppolite Clairon, et réflexions sur l’art dramatique: publiés par elle-même, A Paris, chez tous les marchands de nouveautés, an VII (il primo volume, pp. 269, inizia direttamente con la lettera e termina con la ricapitolazione della prima epoca; il secondo volume, pp. 272, inizia con la seconda epoca e termina con i consigli); seconda edizione: Mémoires d’Hyppolite Clairon, et réflexions sur la déclamation théâtrale; publiés par elle-même. Seconde édition, revue, corrigée et augmentée, A Paris, chez F. Buisson, an VII de la République [1799], deposito legale 8 aprile 1799. Una successiva edizione è quella a cura di François Barrière: Mémoires de Mlle Clairon, de Lekain, de Préville, de Dazincourt, de Molé, de Garrick, de Goldoni, Paris, Firmin-Didot, «Bibliothèque des Mémoires relatifs à l’histoire de la France, pendant le XVIIIe siècle», 1846, vol. VI (che opera parecchi tagli soprattutto nella terza parte). 78 Zurich, Bey Orell, Füssli und compagnie, 1798, 2 voll. Sul risguardo del primo volume c’è la seguente annotazione a mano di Edmond de Goncourt: «Edizione originale delle Memorie di Mlle Clairon, pubblicate dapprima in tedesco. Edizione difficile da trovare in Francia», Bibliothèque-Musée de la Comédie-Française.

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In quanto alla seconda edizione, in una lettera autografa, datata 18 brumaio anno VII (8 novembre 1798), riportata da Edmond de Goncourt nella sua monografia su mademoiselle Clairon,79 si legge che l’attrice chiede all’editore di fare «un’edizione più conforme al manoscritto» e suggerisce una distribuzione diversa del materiale, richiesta che viene del tutto disattesa. Poche sono le differenze tra le due edizioni; i cambiamenti più vistosi vengono segnalati in nota. Il testo è stato tradotto nella sua integralità e se alcune parti potrebbero apparire scarsamente attinenti alla carriera teatrale dell’attrice, queste contribuiscono tuttavia a dare un quadro esaustivo della sua personalità e in particolare dei rapporti con l’alta nobiltà dove mai vengono meno la sua intransigenza, i suoi giudizi taglienti, i suoi consigli che mettono in primo piano il dovere e il rispetto delle convenzioni (vedi in particolare le lettere al margravio di Anspach e al conte di Valbelle).

- In tempi recenti tutta la terza parte dei Mémoires è stata riprodotta ne «Les Cahiers» de la Comédie-Française80 unitamente ad alcuni brani di commento tratti dalle Memorie di mademoiselle Dumesnil e da Sabine Chaouche nel secondo volume della sua raccolta di testi sull’arte teatrale.81

- Per le pièces citate si danno in nota, tra parentesi, le date della prima rappresentazione; se non altrimenti specificato il palcoscenico è sempre quello della Comédie-Française (Cfr. Alexandre Joannidès, La Comédie- Française de 1680 à 1900 – Dictionnaire général des pièces et des auteurs, Paris, Plon, 1901).

- Si precisa che, in quanto concerne alcune citazioni tratte da Diderot si fa riferimento piuttosto che al testo canonico del Paradoxe sur le comédien pubblicato solo nel 1830 (Paris, A. Sautelet) ad un articolo uscito in due parti (15 ottobre e 1° novembre) sulla «Correspondance littéraire» che confluiranno come è noto nel Paradoxe con varie modifiche: Observations de M. Diderot sur une brochure intitulée Garrick, ou les Acteurs anglais, ouvrage contenant des réflexions sur l’art dramatique, sur l’art de la représentation et le jeu

79 E. de Goncourt, Mademoiselle Clairon…, cit., pp. 432-434: uscito dapprima in feuilleton ne «L’Echo de Paris», a partire dal numero del 6 aprile 1889. In tempi più recenti sull’attrice sono state pubblicate due biografie romanzate, la prima di Edwige Feuillère, Moi la Clairon, Paris, Albin Michel, 1984, è scritta in prima persona e si basa essenzialmente sulle Memorie, la seconda di Jacques Jaubert, Mademoiselle Clairon, comédienne du Roi, Paris Fayard, 2003, restituisce, attraverso la vita dell’attrice, un panorama dell’epoca. Ricordiamo anche la monografia scientifica di Maren Isabel Schmidt-Von Essen, Mademoiselle Clairon, Verwandlungen einer Schauspielerin, Peter Lang, Frankfurt am Main, 1994. 80 N° 27, 1998, pp. 34-91. 81 S. Chaouche, Écrits sur l’art théâtral, cit., vol. II: Réflexions sur l’Art dramatique, pp. 416-543.

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des acteurs; avec des notes historiques et critiques sur les différents théâtres de Londres et de Paris; traduit de l’anglais. Questa scelta è dettata dal fatto che si può ipotizzare che mademoiselle Clairon avesse letto e discusso con Diderot quelle pagine e che forse le avesse rielaborate a distanza di anni. Amica intima di Meister, al quale aveva affidato il suo manoscritto e della figlia di Diderot come si evince dalla lettera che figura nella seconda parte delle Memorie, tutto lascia supporre che l’attrice non tralasciasse una lettura, certo esclusiva seppur nelle sue corde, visti gl’interessi letterari più volte ribaditi. Per altro alcuni brani delle sue Memorie vengono pubblicati proprio sulla «Correspondance littéraire».

- I nomi dei personaggi citati da mademoiselle Clairon sono stati normalizzati, si sono rispettati i corsivi.

- Le note in corsivo sono di mademoiselle Clairon, quelle in tondo della curatrice.

- Negli Allegati sono stati riuniti alcuni scritti strettamente collegati alle Memorie di mademoiselle Clairon che, se inseriti nell’Introduzione, avrebbero appesantito il testo, senza per altro poterli restituire nella loro coinvolgente totalità.

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MEMORIE D’HYPPOLITE CLAIRON E RIFLESSIONI SULLA DECLAMAZIONE TEATRALE

Parte prima

Memorie e fatti personali

Lettera di mademoiselle Clairon al redattore de «Le Publiciste»82

Issy, vicino Parigi, il 25 Cittadino, Ho letto sul vostro foglio del 21 corrente mese un articolo che annuncia un’edizione delle mie Memorie, pubblicata in Germania e in tedesco.83 Ho infatti affidato il manoscritto delle mie Riflessioni sull’Arte Drammatica e su me stessa a uno straniero, un letterato, che mi piace e di cui ho la massima stima.84 L’intima conoscenza che ho dei suoi principi e della sua moralità respinge lungi da me qualsiasi idea d’infedeltà. Se nominassi il mio amico, tutte le persone da cui è conosciuto gli renderebbero la stessa giustizia. Quell’edizione non può essere che un furto perpetrato alla sua delicatezza. Era mia intenzione che il mio breve lavoro fosse pubblicato solo dieci anni dopo la mia morte, ma questo incidente, il giudizio dato dal vostro corrispondente e soprattutto il timore di apparire manchevole a quanto devo di gratitudine al pubblico e di rispetto alla nazione, mi determinano a dare io stessa alle stampe questo saggio. Dichiaro dunque solennemente che l’unica edizione che posso riconoscere è quella che sarà stampata in francese, sotto i miei occhi e che uscirà il più presto possibile. Vi prego anche, Cittadino, di esser certo che il mio animo sensibile non dimenticherà mai quanto il vostro Corrispondente ha avuto la bontà di aggiungere al suo parere di gradito e di lusinghiero per me. Firmato, Clairon.

82 La lettera è pubblicata sul numero del giornale del 28 termidoro anno VI [13 agosto 1798], p. 4. 83 La circostanziata recensione figura nella rubrica «Beaux-arts», col titolo Au Rédacteur du Publiciste, pp. 3-4 e viene riportata negli Allegati. L’edizione non è pubblicata in Germania ma a Zurigo. 84 Si tratta, come si evince dalla Lettera (vedi infra, nell’apostrofe «mio caro Henri») di Jacques-Henri Meister (1744-1826), segretario di Grimm con il quale aveva collaborato alla stesura della «Correspondance littéraire». Aveva lasciato Parigi nel 1792.

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Prima epoca. La provvidenza mi ha posto in seno a una borghesia povera, libera, irresoluta e ottusa… La disgrazia ha preceduto la mia esistenza. L’usanza della cittadina in cui sono nata85 era di riunirsi, nei giorni di carnevale, presso i più ricchi borghesi per trascorrervi le giornate in danze e festini; lungi dal disapprovare quel piacere, il curato lo raddoppiava condividendolo e si travestiva come gli altri. In uno di quei giorni di festa, mia madre, incinta solo di sette mesi, mi mise al mondo tra le due e le tre del pomeriggio; ero così gracile, così debole che si pensò che sarei vissuta pochi momenti. Mia nonna, donna di una devozione veramente rispettabile, volle che mi si portasse seduta stante in chiesa per ricevere almeno il passaporto per il cielo. Mio nonno e la levatrice mi condussero in parrocchia, era chiusa, non c’era neanche lo scaccino e invano si recarono al presbiterio. Una vicina disse che tutti erano all’assemblea presso Mr***, mi ci portarono. Il curato, vestito da Arlecchino, e il vicario da Gille,86 trovarono il pericolo così incombente che giudicarono che non c’era un momento da perdere. Si prese subito dalla credenza quanto poteva esser necessario, si fece tacere per un istante il violino, furono dette le parole di rito e fui riportata a casa.87 Nata a sette mesi, avevo ricevuto dalla natura una costituzione debole, in ugual modo sventurata e contraria agli sviluppi del mio fisico e del mio morale. Né carezze né tenerezze né cure hanno protetto la mia infanzia, nessun’idea d’arte, di talento, di una qualsiasi conoscenza ha favorito la mia educazione: leggere è la sola cosa che sapevo all’età di undici anni. Il catechismo e il libro di preghiere erano gli unici libri che conoscessi, solo mi trastullavo con racconti di spettri e di stregoni che mi si diceva fossero storie vere. Una donna violenta, ignorante e superstiziosa non sapeva che tenermi inattiva in un angolo o chiamarmi accanto a lei per farmi tremare con minacce e percosse.88 La mia ripugnanza per il lavoro manuale al quale mi

85 Claire-Josèphe-Hippolyte Léris Clairon de Latude era nata a Condé-sur-l’Escaut (dipartimento del Nord), il 25 gennaio 1723; dal registro parrocchiale risulta che Claire- Joseph Lerys è la figlia illegittima di François-Joseph-Désiré Léris, sergente del reggimento di Mailly, e di Marie-Claire Scana-Piecq; l’atto è riportato nella Galerie historique des comédiens françois de la Troupe de Voltaire gravés à l’eau forte, sur des documents authentiques par Henri Lefort, avec des détails biographiques inédits, recueillis sur chacun d’eux par E.-D. De Manne, Lyon, Scheuring, éditeur, MDCCCLXXVII, p. 88. Il suo futuro pseudonimo: Clairon (anche a volte scritto Cleron) è il diminutivo del suo nome di battesimo. 86 Personaggio della commedia buffa recitata nei teatri delle fiere; vestito di bianco come Pierrot, rappresentava il servo ingenuo e rozzo. Celebre il quadro Pierrot ou Gilles di Antoine Watteau (1684-1721). 87 Se l’aneddoto può risultare divertente, è però del tutto inverosimile, perché mai il carnevale sarebbe potuto cadere nel mese di gennaio. 88 «È quasi la storia di Cenerentola», chiosa mademoiselle Dumesnil, Mémoires, p. 222.

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si voleva assoggettare, era causa di quel trattamento, e quel trattamento raddoppiava il mio orrore per il lavoro; ignoro da dove provenisse il mio disgusto, ma non potevo sopportare l’idea di non essere che un’operaia. Ciò di cui sono sicurissima è di dovere alle contrarietà e all’infelicità dell’infanzia il carattere più compassionevole e più deciso. Ho costruito la mia condizione, ho sostenuto la mia esistenza fisica e morale solo grazie alle risorse procurate da quelle due qualità. A undici anni, la sorte ebbe infine pietà di me, obbligò mia madre a cambiare alloggio;89 la mia situazione era sempre identica, ma dei vicini, colpiti dallo stato di languidezza in cui ero ridotta dalla mia sventura, dal mio volto, dalla bellezza della mia voce, da alcuni segni di sensatezza, dalla dolcezza inalterabile fin quando non mi si presentava l’ago, ottennero che mi si lasciasse un po’ di tempo per me senza esigere nulla. Per la prima volta respirai senza dovermi lamentare. Ma o per carattere o perché ci si voleva sbarazzare di me, venivo spesso rinchiusa da sola in una stanza che dava sulla strada, là, senza alcun mezzo per occuparmi, senza neanche la possibilità di aprire la finestra e di vedere i passanti, salii, fin dal primo giorno, su una sedia per guardare almeno il vicinato. Mademoiselle Dangeville abitava proprio di fronte a me,90 le sue finestre erano aperte: prendeva una lezione di danza; emanava da lei tutto il fascino che si può trovare in natura e nella giovinezza. Il mio intero piccolo essere si concentrò nello sguardo, non persi neanche una delle sue movenze. Era attorniata dalla sua famiglia; finita la lezione, tutti l’applaudirono e sua madre l’abbracciò. La differenza della sua sorte con la mia mi pervase di un profondo dolore, le lacrime non mi lasciavano vedere più nulla. Scesi dalla sedia e quando il mio cuore meno emozionato mi permise di risalire, era tutto scomparso. Per quanto poteva permetterlo la mia debole ragione, mi misi a parlare con me stessa. Mi promisi innanzi tutto di non dire nulla di quanto avevo visto per paura che in futuro me lo si impedisse, poi cercai di saltare e di eseguire le graziose figurazioni che avevo visto fare… Vennero infine a tirarmi fuori e mi chiesero cosa vessi fatto. Per la prima volta in vita mia mentii e risposi molto prontamente: Non avendo nulla da fare, ho dormito.

89 Dopo aver lasciato Condé e vissuto per breve tempo a Valenciennes, madre e figlia si trasferiscono e Parigi e vanno ad abitare in un appartamento della rue d’Anjou-Dauphine, oggi rue de Nesle, nel quartiere latino, quartiere in cui mademoiselle Clairon vivrà a lungo. 90 Se dobbiamo dar credito al fatto che la Clairon avesse all’epoca undici anni, siamo nel 1734. Marie-Anne Botot, detta mademoiselle Dangeville (1714-1796), figlia d’arte, aveva debuttato alla Comédie-Française a soli quindici anni ed era stata ammessa nel ruolo delle servette nel marzo 1730. Sarà proprio questa attrice che mademoiselle Clairon sarà tenuta a rimpiazzare al momento del suo ingresso alla Comédie, come risulta dal documento del 26 dicembre 1743 riportato in Émile Campardon, Les Comédiens du Roi de la troupe française pendant les deux derniers siècles. Documents inédits recueillis aux Archives Nationales, Paris, Champion, 1879, pp. 45-46.

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Questo dettaglio può sembrare a molti pedante, ma deve far conoscere a chi ha figli la necessità di non perdere la loro fiducia. Questa prima slealtà mi incoraggiò a dire nuove menzogne e sviluppò tutta la malizia di cui potevo esser capace. La dissimulazione divenne per me un piacere e tutto ciò mi portò a provare per mia madre un disprezzo di cui la mia inesperienza mi nascondeva l’orrore e che, in un’anima viziosa, avrebbe potuto condurre alle più grandi disgrazie. Non avevo più un momento di respiro se non quando mi si metteva in castigo; fortunatamente il cattivo umore o gli affari di mia madre mi ci mettevano spesso. Correvo in fretta alla finestra, ero favorita dal bel tempo, vedevo fino in fondo alla strada della mia divinità. La studiavo per quanto mi era possibile e non appena scompariva facevo tutto ciò che le avevo visto fare. La mia memoria e il mio impegno mi aiutarono tanto che coloro che venivano da noi crederono che avessi dei maestri. Il mio modo di presentarmi, di salutare, di sedermi non erano più gli stessi. Le mie idee si chiarirono, i miei ragionamenti e il mio garbo ottennero l’approvazione persino di mia madre. Tuttavia il segreto mi pesava. Avevo un desiderio grandissimo di sapere chi fosse mademoiselle Dangeville. Osai confessarmi con una persona della nostra cerchia che mi aveva sempre trattata meno da bambina degli altri. Mi fece conoscere per sommi capi cosa fosse la Comédie-Française e cosa vi faceva mademoiselle Dangeville. Mi promise altresì di farmi vedere tutto ciò: l’ottenne non senza difficoltà. Mia madre ravvisava negli spettacoli solo dannazioni eterne, ma infine mi portarono a vedere la rappresentazione de Le Comte d’Essex e de Les Folies amoureuses.91 Non sono in grado di descrivere oggi ciò che accadeva allora in me; so solo che durante lo spettacolo e il resto della serata, non si riuscì né a farmi mangiare né a farmi articolare una parola. Concentrata del tutto in me stessa, non vedevo, non sentivo nulla attorno a me: Andate a letto, stupidona, furono le sole parole che mi colpirono e mi precipitai. Ma invece di cercare di dormire, mi preoccupai solo di ritrovare, di dire, di fare tutto ciò che avevo visto e l’indomani tutti restarono sorpresi nel sentirmi ripetere più di cento versi della tragedia e i due terzi della commedia. Quella prodigiosa memoria stupì meno ancora del modo in cui avevo colto la recitazione di ogni attore. Parlavo con la erre moscia come Grandval92, farfugliavo e imitavo il salto di

91 Il Conte di Essex, tragedia di Thomas Corneille (Théâtre de l’Hôtel de Bourgogne, gennaio 1678), Le Follie amorose, commedia in tre atti in versi di Jean-François Regnard (15 gennaio 1704). 92 François-Charles Racot de Grandval (1710-1784) aveva debuttato nel 1729, il suo difetto di pronuncia non gli impedì di ottenere il successo sia nel genere comico che tragico. Reciterà nella Fedra, al momento del debutto di mademoiselle Clairon, nella parte d’Hippolyte sarà per un breve periodo l’amante di mademoiselle Clairon. Mademoiselle Dumesnil scrive che la Clairon era stata perdutamente innamorata di lui, «una delle sue passioni che le fa più onore», Mémoires Dumesnil, p. 392.

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Crispino come Poisson93, facevo l’impossibile per cogliere l’aria aggraziata di mademoiselle Dangeville e l’aria dura e fredda di mademoiselle Balicourt.94 Alla fine mi guardarono come un prodigio. Ma mia madre, aggrottando le sopracciglia, disse che avrebbe preferito che sapessi fare un vestito o una camicia piuttosto che tutte quelle sciocchezze. Le sue parole mi misero fuor di me, mi sentivo appoggiata: osai dire che non avrei imparato mai nulla e che volevo recitare a teatro. Le ingiurie e gli schiaffi mi costrinsero a tacere, e ciò che gli astanti riuscirono a fare fu d’impedirmi di morire sotto le botte. Superato questo primo momento, mi fu annunciato che mi avrebbero lasciata morire di fame o che mi avrebbero spezzato gambe e braccia se non avessi lavorato. I tratti di carattere non si scordano mai e mi rivedo ancora in quel frangente, ebbi la fierezza di trattenere le lacrime e di dichiarare con tutta la fermezza adatta alla mia età: Ebbene, allora uccidetemi subito, perché altrimenti reciterò a teatro. I trattamenti più crudeli che mi furono inflitti durante due mesi non riuscirono a far mutare la mia decisione, ma stavo morendo. I pregiudizi di una scarsa educazione erano gli unici motivi che guidavano mia madre, il suo cuore era fondamentalmente buono, il mio stato la commosse tanto più che non mi lamentavo mai; andò a confessare il suo dolore a una donna onesta, avveduta e sensibile per la quale lavorava. Il risultato di quella decisione, di cui mai conobbi i particolari, fu di farmi provare un sentimento di tenerezza di cui non avevo mai avuto la minima idea. Mia madre, tornando, mi prese fra le braccia, m’inondò di lacrime e mi promise di acconsentire a ciò che volevo purché l’amassi, che il passato fosse dimenticato e che pensassi a ristabilirmi. Quel cambiamento insperato mi costò quasi la vita, ma presto mi ripresi e fui accompagnata presso la mia benefattrice, dove Deshais, attore della Comédie-Italienne, mi fece un’audizione; ne fu piuttosto contento tanto da presentarmi ai suoi compagni.95 Fui ammessa a uno spettacolo, fui istruita di ciò che dovevo imparare, ottenni un ordine di debutto ed esordii sul palcoscenico quando non avevo ancora compiuto dodici anni.96

93 Il personaggio del servo Crispino fu un’invenzione di Raymond Poisson, detto de Belleroche (v. 1630-1690), capostipite di una numerosa famiglia di attori. 94 Marguerite, Marie, Thérèse Elisabeth de Balicourt (?-1746) aveva debuttato alla Comédie- Française nel 1727 e sostenuto con successo i ruoli di regina; aveva lasciato il palcoscenico dopo una decina d’anni di attività per motivi di salute. 95 Il nome dell’attore era in realtà Dehesse (cfr. P. D. Lemazurier, Galerie historique des Acteurs du Théâtre-Français, depuis 1600 jusqu’à nos jours, Paris, Chaumerot Libraire, MDCCX, 2 voll., vol. II, p. 78). Aveva debuttato alla Comédie-Italienne il 2 dicembre 1734 nel ruolo di valletto nella commedia del Petit-Maître amoureux. 96 In realtà avrebbe dovuto avere tredici anni. Il debutto ebbe luogo l’8 gennaio 1736 nella parte di Cléanthis nell’Isola degli schiavi di Marivaux: «Hippolite de la Tude, conosciuta col nome di Clairon ha recitato con intelligenza malgrado i suoi tredici anni. I successi più brillanti l’attenderanno al Théâtre-Français che ha lasciato troppo presto», Antoine

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Gli applausi che ricevevo consolarono mia madre della decisione presa, ebbi maestri di scrittura, di danza, di musica e di lingua italiana; il mio impegno, il mio fervore e la memoria sorpresero gli educatori: ricordavo e divoravo tutto, ma la giovanissima età, la bassa statura, il timore dimostrato dal famoso Thomassin che il mio talento avrebbe potuto nuocere alle figlie97 e la mancanza di protezione, mi obbligarono, dopo un anno, a cercare fortuna altrove. Fui ingaggiata nella compagnia di Rouen per interpretare i ruoli consoni alla mia età, cantare e ballare. Dovevo recitare a teatro, tutto il resto mi era indifferente.

Riepilogo Fin qui non ho certo nulla da rimproverarmi, non conoscevo nulla, non potevo nulla, obbedivo ciecamente al destino di cui sono stata, per tutta la vita, vittima e beniamina.98 Ogni essere ha la propria sorte segnata, almeno tutto mi permette di crederlo, la mia esperienza, le riflessioni su quanto ho osservato in società e letto negli annali, mi dimostra l’insufficienza del nostro sistema. Possiamo, quando siamo in grado di paragonare, di distinguere le vie che conducono alla virtù da quelle che portano al crimine; ci accorgiamo dei nostri turbamenti, dei nostri difetti, dei nostri torti, avvertiamo i vantaggi di una condotta specchiata, di un’azione generosa, sembra infine che possiamo tutto per noi. Ma nell’impossibilità di prevedere e di conoscere ogni cosa, di snaturare il sangue che circola nelle nostre vene, di controllare la volontà di quanto ci circonda, non posso che riconoscere la nostra impotenza e abbassare uno sguardo incerto sulla sorte che ci conduce.

D’Origny, Annales du Théâtre italien depuis son origine jusqu’à ce jour, dédiées au Roi, Paris, veuve Duchesne, M.DCC.LXXXVIII, 3 voll., vol. I, p. 144. 97 Thomassin (Tommaso Antonio Vicentini) era una celebrità nel ruolo di Arlecchino. Nato a Vicenza nel 1682, aveva recitato in patria, era poi giunto a Parigi con la compagnia di Riccoboni nel 1716. Muore nel 1739. 98 Scrive Andrieux nella sua Notice nell’edizione delle Memorie del 1822: «Un istinto irresistibile sembra averla destinata al teatro; si può dire che fosse nata attrice tragica, un’intelligenza viva e profonda, un carattere elevato, energico, una sensibilità pronta e delicata, erano i doni ricevuti dalla natura; l’emulazione, l’amore degli applausi vi si aggiunsero, capì la misura degli sforzi da compiere e ci si dedicò: lo studio, le riflessioni e l’esercizio dell’arte completarono quanto la natura aveva felicemente iniziato», ed. cit., p. III.

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Seconda epoca Giunta a Rouen ebbi la fortuna di piacere al pubblico, di farmi dei protettori.99 Alcune gentildonne rispettabili sotto ogni punto di vista mi permisero di frequentare le loro case e mi riempirono di regali e di cortesie; nulla è cambiato fin tanto che sono restata in quella città, e una di quelle signore mi ha serbato, per quarant’anni, l’amicizia, la stima, e una totale fiducia.100 I miei emolumenti e quelli di mia madre, che aveva un incarico,101 bastavano per le nostre esigenze; lavoravo allora volentieri per tutto ciò di cui avevamo entrambe bisogno e non immaginavo che si potesse essere più felici di me. Una mia compagna prese alloggio nella nostra stessa casa, seppe conquistare mia madre e convincerla a prenderla a pensione; ottenne che di tanto in tanto si venisse a cena da noi e la compagnia diventò di giorno in giorno più numerosa; mia madre sostituì i piaceri al suo rigore: si sparlava in giro, ma se ne fece beffe. Crescevo, si poteva e si dovette credere che dividessi con loro la torta. Un giovanotto che mi stava dietro più di ogni altro e che, confesso, non mi dispiaceva, passò per essere il mio amante: con la stessa franchezza, ammetterò che ignoro cosa gli impedì di esserlo. Lasciata completamente a me stessa, senza alcun principio di bene e di male, avrebbe potuto molto facilmente fare di me ciò che voleva, ed è veramente per caso che sono uscita dopo tre anni in questa città pura come vi ero entrata. La nostra pensionante avendo trovato, credo, mezzi migliori per installarsi, ci lasciò; un’altra, mille volte più scombinata, ne prese il posto. Sia che si rispettasse la mia età, sia che si temesse, mettendomi al corrente, di avere una rivale, non vedevo niente e il mio modo di pensare non mi forniva i mezzi di sospettare; solo molto tempo dopo ho potuto sapere quello di cui ora mi ricordo. Un povero diavolo,102 assai divertente, che scriveva versi e cercava ovunque dove cenare, ottenne da queste signore di venirle qualche volta ad allietare; ricevevo ogni giorno o le strofe di una canzone, o una quartina nelle quali Venere e Vesta non erano nulla paragonate a me; ma, pur

99 Nessuna testimonianza è stata ritrovata che certificasse, nei particolari, il suo soggiorno a Rouen. Il teatro era diretto da La Noue. Jean-Baptiste Sauvé, detto La Noue (1701-1761), attore e drammaturgo dopo aver recitato a Lione, Rouen e Berlino, arriva a Parigi nel 1742. Entra alla Comédie-Française. Autore di commedie e tragedie, celebre la sua tragedia Mahomet second (1739) che precede di qualche anno il Mahomet, ou le Fanatisme [Maometto, o il Fanatismo] di Voltaire (9 agosto 1742); di successo fu anche la sua commedia in cinque atti, in versi, La Coquette corrigée (23 febbraio 1756). 100 La presidentessa di Bimorel. 101 Come suggerisce Andrieux il lavoro materno era in parte subordinato al successo della figlia, il suo incarico (poste) essendo molto probabilmente quello di aprire i palchi o di distribuire i biglietti (Notice, ed. cit., p. V). 102 Il suo nome era Gaillard.

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lodando le mie grazie e la mia virtù, gli passò per la testa di godere delle une e di cancellare l’altra. Ben conoscendo le persone di casa, sapendo un giorno che mia madre doveva uscire per affari, ottenne dalla vecchia fantesca che avevamo di lasciarlo arrivare fino alla mia stanza. Erano le nove del mattino, ero ancora a letto: studiavo; faceva caldo, nessun rumore mi avvertì di rimediare al mio disordine, non avevo ancora quindici anni e la camicia e i capelli erano la mia unica copertura. Quella vista non gli permise di restare a lungo padrone di sé: si precipitò, volle prendermi fra le braccia, ebbi la fortuna di sfuggirgli. Le mie grida fecero accorrere la fantesca e una vicina alloggiata sullo stesso pianerottolo. Afferrammo allora scope e pale e scacciammo quel miserabile. Al ritorno di mia madre, decidemmo di sporgere denuncia; fu redarguito dal magistrato, preso in giro in una canzone dalla cittadina e scacciato per sempre da casa nostra. Ma la rabbia subentrando al suo amore e ai suoi desideri, scrisse su di me quel disgustoso libello che è stato letto in tutta Europa.103 Ero all’Hâvre-de-Grâce104 con la compagnia quando fu pubblicato, non trovo parole per esprimere il mio dolore. Lontana dai miei protettori, non sapendo cosa dover fare, non volendo affidarmi all’ignoranza, per stupidità e per noncuranza, non feci nessun tentativo per chiedere soddisfazione di quell’oltraggio, la mia ingenuità mi lasciò credere che dovevo contare sulla giustizia degli uomini. Ma come avrei agito con maggior esperienza? Qualche mese di prigione a cui avrei fatto condannare quel disgraziato non avrebbe ostacolato la pubblicità del libro; la mia pretesa vergogna sarebbe comunque circolata dappertutto e la riparazione sarebbe stata presto dimenticata. Tuttavia oggi so che ho fatto male a non chiederla. Ma senza considerazione per l’età, l’ignoranza e la fragilità dell’oppresso, c’è bisogno che i tribunali attendano, per far giustizia, che un privato cittadino presenti querela? Un libro calunnioso di cui per pudore non si osa confessare la lettura, il cui autore ha l’audacia di autonominarsi, che la stampa fa passare nelle mani di tutti, il clamore della pubblica indignazione che obbligò

103 Histoire de Mademoiselle Cronel dite Frétillon, actrice de la Comédie de Rouen, écrite par elle- même, La Haye, Aux depens de la compagnie, M.DCC.XXXXI, la prima edizione era del 1739. Una successiva edizione ampliata in 4 voll. (1741-1750), porta come titolo della quarta parte: Mémoires pour servir de suite à l’Histoire de Mademoiselle Cronel, dite Frétillon, ci-devant actrice de la comédie de Rouen & présentement à la Comédie de Paris. Il testo, che sarà più volte ristampato, è stato attribuito a Anne-Claude-Philippe, comte de Caylus (1692-1765) nella Biographie universelle e a Gaillard de la Bataille (pseudonimo di Pierre-Alexandre Gaillard, 1708-1779) da Antoine-Alexandre Barbier (Dictionnaire des ouvrages anonymes, Paris, Paul Daffis, 1872-1879). Nella France littéraire contenant les auteurs français de 1771 à 1796, (Hambourg, chez B. G. Hoffmann, 1797-1806, 5 voll.) di Joseph-Marie Quérard, l’autore del libello (Gaillard) è detto «tesoriere di Francia» (vol. III, p. 239). Nell’infamante libello, in cui Cronel è l’anagramma di Cleron, vengono attribuiti alla giovane attrice, che ha solo sedici anni, numerosissimi amanti in racconti assai licenziosi già annunciati dallo pseudonimo del titolo che allude ai movimenti dell’amore. 104 Era il nome dato alla città di Le Havre in epoca rivoluzionaria.

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quell’infelice a nascondersi, le querele da me in precedenza presentate contro la sua azione criminale, la mia età, la mia assenza erano, credo, recriminazioni sufficienti. Un’inutile formalità che la mia ignoranza e la mia debolezza m’impedivano a un tempo di adempiere, doveva fermare la giustizia di coloro i quali si dicono interpreti delle leggi, difensori dell’umanità e vindici dell’innocenza? Non ero nessuno, non potevo nulla, non tenevo a nulla: fu il mio crimine e la mia disgrazia. Ahimè! Cosa importa alla maggior parte degli uomini che ci sia un infelice in più? Oggi posso rispondermi che godono a veder soffrire i loro simili; la loro leggerezza non approfondisce nulla; la loro malignità e il loro egoismo esigono le lacrime di disperazione del nostro sesso. Per quanto inverosimile sia la storia scandalosa che corre su di noi, la loro perversità permette di crederla e l’impunità di cui sono sicuri offre loro l’audacia e la crudeltà di attestarla. Non hanno visto nulla, non sanno nulla, lo si dice, è sufficiente. Che cosa ci guadagnano con tutto ciò? Di dar ardire al calunniatore e di esserne loro stessi vittime, se il caso li porta ad attirare il pubblico sguardo per un posto o un incarico qualsiasi. Il libello che è stato fatto contro di me si perde oggi nell’immensità di quelli che sono stati scritti contro tutti. Innocenza, grandezza, persino divinità, nulla è più al riparo della cattiveria e tutto ciò che leggo sugli altri deve certamente consolarmi di quanto è stato letto su di me. Ma ero lungi dal rendermene conto al momento dell’infortunio. Tornai a Rouen tremante, immaginavo che mi sarebbero state chiuse tutte le porte, non osavo alzare gli occhi su nessuno e ricomparvi sul palcoscenico piena di timori, ma ritrovai lo stesso pubblico e gli stessi amici. Quella gentildonna rispettabile che tanto mi amava mi aprì gli occhi sulla causa della mia sventura, capii che la dovevo interamente alla cattiva condotta di mia madre e questa rivelazione mi provocò una grande avversione; mi è costato molto restare con lei fino al suo ultimo respiro, ho superato così bene l’impulsività del mio carattere che posso, forse, menar qualche vanto degli sforzi e del silenzio che ho osservato e del benessere di cui ha costantemente goduto. Restò padrona assoluta, solo la compagnia fu meno numerosa e più scelta. Da qualche tempo si era infatuata di uno dei miei compagni e voleva farmelo sposare. Mi sembrò inferiore a me, il protetto di mia madre mi era odioso e quell’uomo per altro sembrava aver servito da modello al personaggio di Thibaudois.105 Una fierezza che non ho mai potuto reprimere m’impediva di trovare interesse e attrattiva se non in chi mostrasse un atteggiamento veramente nobile, e il mio pretendente era l’individuo più sciocco, più grossolano e più banale al mondo. Ebbi la capacità di difendermi per quasi due anni. La nostra compagnia aveva

105 Personaggio de L’Esprit de contradiction [Lo spirito di contraddizione], commedia in un atto di Charles Du Fresny (27 agosto 1700).

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lasciato Rouen per recarsi a Lille,106 quello zoticone era sempre con noi e lungi dall’arrendersi alle mie ragioni e alle mie preghiere, intensificò le sue insistenze. Gli ordini di mia madre, la sua violenza spinta al punto di minacciarmi con una pistola per ottenere il mio consenso, mi fecero alla fine sentire che avevo bisogno di un protettore che, senza invocare la legge, potesse tenere a bada chi mi era accanto e difendermi. Spinta solo dalla disperazione, senza pensare ad alcun vile interesse, senza amore né desideri, andai a offrirmi e ad affidarmi alla sola condizione che mi si salvasse dal matrimonio e dalla morte da cui ero al tempo stesso minacciata. Questo momento che presenta di primo acchito solo l’idea del libertinaggio, è forse il più nobile, il più interessante e il più sorprendente della mia vita. Benché avessi allora quasi diciassette anni e i libri e le confidenze mi avessero insegnato molte cose, la pace dei sensi mi difendeva dalle sollecitazioni degli spasimanti e dalla curiosità che hanno di solito le giovanette, e se si vuol ricordare che ero nata debole e che ero stata oppressa nell’infanzia, se si vuole pensare che il lavoro più forzato e continuo assorbiva necessariamente ogni facoltà del mio essere, negando il merito della mia saggezza, si potrà almeno accordarmi la sorprendente realtà. Comunque sia, quel momento è fra quelli che ricordo con maggior piacere e con cui intrattengo più volentieri i miei amici. Vorrei poterlo scrivere, sono sicura che la donna più austera compatirebbe il conflitto della mia anima e non arrossirebbe del quadro; l’impossibilità di dipingerlo adeguatamente e il timore di affievolirlo sono le uniche ragioni a fermarmi. Il matrimonio fu rotto, mia madre smise di perseguitarmi, mi dedicai più che mai a tutto ciò che poteva arricchire il mio talento. La Noue sciolse la compagnia per debuttare alla Comédie-Française. Fui scritturata da un’altra che doveva andare a Gand richiesta dal quartier generale del re d’Inghilterra che si trovava lì. Non fui né lusingata dal successo ottenuto, né tentata dall’immensa fortuna offertami da milord Ma***.107 Il disprezzo che la nazione inglese ostenta nei riguardi della mia me ne rese insopportabili tutti gl’individui: mi risultava impossibile ascoltarli senza irritazione. La compagnia non poteva reggersi senza di me: ci si accorse della mia avversione, fui guardata a vista, ma malgrado tutte le disposizioni date alle porte, trovai il modo di fuggire e di recarmi a Dunkerque. Il governatore della città ricevette presto un ordine del re di farmi partire per andare a cantare all’Opéra di Parigi. Avevo un registro vocale prodigioso e, benché fossi una musicista molto modesta, mi fecero

106 Ed è forse proprio a Lille che Garrick vide l’attrice in occasione del suo primo viaggio in Francia, come afferma Jean Georges Noverre: «Cantava bene, danzava in modo piacevole, recitava le servette con grande intelligenza. Garrick, da conoscitore, e che aveva uno squisito presentimento, le trovò più di una attitudine per distinguersi un giorno, e pensò che si sarebbe perfezionata nel ruolo delle servette avendo un modello così perfetto come quello di mademoiselle Dangeville», Lettre sur les Arts imitateurs, cit., vol. II, pp. 193-194. 107 Il duca di Marlborough.

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rimpiazzare mademoiselle Lemaure,108 ed ebbi il piacere di superare la prova.109 Ma vidi che ci voleva così poco talento per quello spettacolo per sembrare averne molto, trovai così poco merito a seguire solo le modulazioni del musicista, il tono delle quinte non mi piacque affatto, la mediocrità degli emolumenti rendeva inevitabile la necessità di degradarsi, e dopo quattro mesi chiesi il congedo. Un nuovo ordine del re mi dispensò dal fare i sei mesi previsti dalla pratica di allora a condizione che passassi alla Comédie-Française come sostituta di mademoiselle Dangeville.110 All’epoca in cui fui richiesta a Parigi, il mio ruolo principale in provincia, era quello delle servette. Avevo recitato in tre o quattro secondi ruoli tragici nella compagnia di La Noue e Sarrazin, che mi aveva vista in Ériphile,111 aveva predetto allora che un giorno sarei diventata la risorsa del teatro. Il desiderio di ricevere emolumenti più sostanziosi e la vanità di affrontare qualsiasi cosa, mi spinse a mettere nel mio ultimo contratto che avrei interpretato le grandi parti tragiche. All’arrivo a Parigi, ne conoscevo solo cinque e non le avevo recitate che una o due volte ciascuno. Ero lungi dal prevedere la celebrità che un giorno il pubblico mi avrebbe accordato in quel genere. Quando andai a presentarmi all’assemblea, i «semainiers»112 mi avvertirono che, quantunque il mio ordine non comportasse che un ruolo, la legge della Comédie richiedeva la presenza di tutte le abilità e che dovevo acconsentire a rendermi almeno utile nei due generi e a cantare e a danzare nelle «pièces d’agréments». Gli attori attuali sembrano provare che, con la loro condotta che per quel poco che fanno e che valgono, si debba esser loro riconoscenti e che è per loro che esiste il teatro. Ai miei tempi, eravamo persuasi che eravamo noi a esser fatti per esso: gareggiavamo a chi avrebbe mostrato più zelo e profuso il maggior impegno e, benché i primi attori di allora non ricevessero neanche un quarto degli emolumenti che vengono oggi

108 Catherine-Nicole Lemaure (1703-1786), entrata prima nel coro dell’Opéra (1719) debutta come solista nel 1721. La sua splendida carriera fu coronata da grandi successi «onore della nostra scena» la definisce Claude Joseph Dorat (1734-1780) nel suo poema sulla Déclamation théâtrale. La rivalità con mademoiselle Pellissier la spinge a lasciare l’Opéra nel 1735, per poi tornarvi nel 1740, si ritira definitivamente nel 1744. 109 Nel marzo del 1743 recita la parte di Venere nell’Hésione, opera di Danchet sul testo di André Campra (1660-1744). Il «Mercure de France» racconta in versi il successo e il fascino dell’interprete, maggio 1743, p. 1009. 110 Il congedo viene accordato, dietro richiesta di mademoiselle Clairon, dal direttore generale dell’Académie royale de Musique in data 10 settembre 1743. 111 Ériphile, figlia di Elena e di Teseo, è un personaggio della tragedia di Racine Iphigénie en Aulide (Théâtre de l’Hôtel de Bourgogne, fine 1674-inizio 1675). In questa parte mademoiselle Clairon aveva recitato a Rouen. Pierre, Claude Sarrazin (1689-1762) fu per trent’anni acclamatissimo attore tragico della Comédie-Française. 112 Gli attori della Comédie-Française erano tenuti, a turno, di riempire durante una settimana vari incarichi d’ordine amministrativo, organizzativo e di controllo sulla troupe (puntualità alle prove, presenza alle assemblee, disciplina interna, assenze per malattia…) onde assicurare il buon funzionamento del teatro.

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prodigati agli ultimi che vi recitano, per quanto mi sia permesso ancora di capirne, il pubblico era meglio servito. Accettai ciò che mi si richiedeva ma credei che, poiché bisognava recitare una tragedia, fosse giusto cominciare da lì. Perché? Non lo so. L’aria fredda e sprezzante che accolse la mia proposta mi offese. Insistetti in modo da dimostrare che ero una persona da trattare con riguardo. Mi fu proposto Constance in Inès113 e Aricie in Phèdre. Risposi che era poca cosa, che conoscevo la parte di Fedra e che quella avrei recitato. Era una delle parti in cui trionfava mademoiselle Dumesnil,114 lo ignoravo. Non ero andata alla Comédie-Française dal Comte d’Essex. La mia proposta fece ridere tutti, sostennero che il pubblico non avrebbe acconsentito a lasciarmi terminare neanche il primo atto.115 La collera mi divorava, ma la fierezza mi sostenne. Risposi con tutta la tranquillità e soprattutto la maestà che mi erano possibili: «Signori, mi volete, sì o no; ho il diritto di scegliere. Reciterò Fedra o null’altro». Tutti desistettero: acconsentirono e debuttai con Fedra.116 Non parlerò degli incoraggiamenti lusinghieri che furono accordati alle mie prove, né della costante simpatia che mi ha sostenuto nei miei lavori per ventidue anni: si potrebbe attribuire forse alla mia vanità quanto dettato dalla riconoscenza. Mi sono solo permessa di dar conto delle mie difficili ricerche: le si troveranno in dettaglio nelle riflessioni sull’arte drammatica. Mi resta solo da giustificare il mio ritiro, dando così conto delle malvagità che mi ci hanno obbligata. Naturalmente e purtroppo violenta e fiera, ho manifestato spesso insofferenza per le cabale, per le contrarietà e per le ingiustizie cui ero esposta di continuo dall’invidia e dalla gelosia. Nessuno ignora che in tutte le classi e associazioni, solo la mediocrità viene lasciata in pace, il merito acquisito o personale non vi trova grazia. Questa verità mi ha spesso

113 Personaggio eponimo della tragedia Inès de Castro (6 aprile 1723) di Antoine Houdar de La Motte (1672-1731). 114 Parte di cui l’attrice era titolare, una delle più prestigiose del repertorio raciniano. 115 Il pubblico poteva infatti richiedere che il sipario venisse abbassato se la pièce o l’attore non erano di gradimento. 116 Phèdre tragedia di Racine (Théâtre de l’Hôtel de Bourgogne, 1° gennaio 1677), una delle più celebri opere di tutti i tempi. Il debutto avvenne il 19 settembre 1743 (l’«ordre de début» del 10 settembre era stato firmato dal duc de Gesvres, riportato in: Émile Campardon, Les Comédiens du Roi…, cit., p. 44; cfr. anche i «Papiers administratifs et notariés» nel dossier Clairon della Bibliothèque-Musée de la Comédie-Française). Nella «petite pièce», La Nouveauté di Marc-Antoine Legrand (1673-1728), commedia in un atto in prosa (13 gennaio 1727), mademoiselle Clairon interpreta il ruolo del titolo, la Novità; oltre a recitare canta e accenna a passi di danza. Il «Mercure de France» registra un plauso generale per la giovane attrice nelle diverse parti da lei interpretate nel mese di ottobre: Zénobie in Rhadamiste et Zénobie di Crébillon, Cléantis nella commedia Démocrite, Céliane nel Philosophe marié, Ariane nella tragedia eponima di Thomas Corneille, e le dedica dei versi (ottobre 1743, pp. 2278- 2280). Il 10 recita al teatro di corte a Fontainebleau, ottenendo identico successo, tanto che viene ammessa a part-entière alla Comédie-Française a partire dal 30 dicembre 1743.

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consolata di quanto si tramava contro di me, ma spesso me ne sono anche lamentata con tutta la vivacità possibile. Tuttavia oso affermare che nessuna parola disonesta, nessun rimprovero increscioso, nessun reclamo formale presso i nostri superiori, nessun rancore nei loro confronti, non ha potuto né dovuto alienarmi l’affetto di un solo dei miei compagni; non ce n’era neanche uno al quale non avessi fatto cosa gradita, né che mi fosse qualche volta venuto meno. Più diventavo celebre, più mi sforzavo di migliorare gli introiti, più ottenevo favori e per il teatro e per gli attori e più cercavano di mortificarmi. Citerò due episodi che li esemplificano tutti. Eravamo in ristrettezze economiche, impossibilitati a ricevere quanto ci era dovuto. I «semainiers» andavano, ogni settimana, da monsieur de Boulogne, all’epoca controllore generale, a sollecitare il pagamento della pensione del re senza nulla ottenere. Dopo poco tempo fui nominata nella nuova delegazione che era stata decisa e andai all’udienza di monsieur de Boulogne assieme ai miei compagni, fra i quali c’erano due altre donne. Il ministro mi riconobbe, allontanò la folla che lo circondava e venne a chiedermi il perché della mia presenza. Risposi: La disperazione, eccellenza, a cui siamo ridotti dalle nostre ristrettezze e dai vostri rifiuti. Sarei molto dispiaciuto, disse, che abbiate a dolervi di me; andate nell’ufficio di Amelin, ditegli di preparare tutto affinché io possa firmare; domani sarete pagati. I miei compagni avevano udito tutto, pensavo che fossero contenti quanto me e mi avviai per salire nell’ufficio, ma, a mezza strada, vedendo che nessuno mi seguiva, ritornai sui miei passi per conoscerne la ragione. Préville,117 incollerito, fuori di sé dalla rabbia, li fermava nell’anticamera per persuaderli che il ministro aveva doppiamente sbagliato nei loro confronti e nei rifiuti fatti alla compagnia e nella grazia speciale che sembrava accordare alla sola mademoiselle Clairon e che per nulla al mondo si sarebbe abbassato a seguirmi nell’ufficio né a ricevere quel denaro. Non feci parola, mi avviai per salire. Soltanto Armand mi seguì.118 L’indomani riscuotemmo il denaro, e Préville non fu l’ultimo a ritirare la sua parte. Questo il primo, passiamo all’altro. La scomunica degli attori è un’infamia così barbara e oserei dire stupida, così controproducente per i talenti, prova in modo inequivocabile l’incoerenza della nazione: basterebbe il fatto di appartenere al genere umano e di essere francese per trovarla ingiusta, e in più ero attrice. Non è questo il luogo per approfondire questa materia, né voglio parlare del mio sdegno o dei chiarimenti ottenuti su questo punto: per ora mi basta il fatto.

117 Pierre-Louis du Bus, detto Préville (1721-1799), dopo aver recitato da giovane nei teatrini della Foire Saint-Laurent, aveva debuttato alla Comédie-Française nel 1753. Dotato di grande talento, fu riconosciuto come uno dei più grandi attori comici del tempo. 118 François Armand Duguet, detto Armand (1699-1765), attivo sul palcoscenico della Comédie-Française dal 1723, era apprezzato nell’interpretazione delle parti comiche: Scapino, Crispino, Pantalone.

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Monsieur de La Mothe, dell’ordine degli avvocati, che non avevo mai visto, venne a pregarmi di fargli un favore. Fra le altre cose parlammo della scomunica; vidi chiaramente che non era in suo potere farla abolire, ma parlava da persona abbastanza istruita e volli fare un timido tentativo per capire cosa avrei potuto intraprendere in futuro. Mi offrì i suoi servigi e accettai, ma invece di informarsi da me, di consultarmi sulla forma, il significato e il tenore dell’opera desiderata, spinto, credo, dal bisogno di denaro, fece stampare la sua povera Memoria e la lessi allora per la prima volta.119 Non appena uscì, i miei compagni trovarono fuori luogo che volessi attribuirmi la gloria di tirarli fuori dal fango. Ebbi un bel dire che non domandavo altro a che si unissero a me e cercare di far comprendere loro l’onore e il vantaggio che sarebbero potuti derivare da quell’iniziativa; tranne madame Drouin,120 sempre ispirata da intelligenza e onestà che si offrì di appoggiarmi, non trovai in tutta la compagnia che l’ottenebramento della stupidità e della gelosia. Un certo Co… de Chau…,121 anch’egli avvocato, amico intimo della famiglia Préville e che andava a pranzo e a cena da tutti gli attori e in più scelto per essere membro del loro consiglio (che per quanto scomunicati, hanno un consiglio come i sovrani), questo Co[queley] de Chau[ssepierre] persona abietta tanto da essere il censore di Fré[ron],122 al punto di andare, insieme ad alcuni attori, a recitare nelle case dove erano richieste quelle operine licenziose che si osano ascoltare solo in segreto, abbastanza disonesto da voler aggravare la degradazione di coloro di cui era consigliere, abbastanza barbaro da togliere la posizione sociale e i mezzi di

119 François-Charles Huerne de La Mothe, avvocato al parlamento di Parigi aveva pubblicato nel 1761: Libertés de la France, contre le pouvoir arbitraire de l’excommunication, ouvrage dont on est spécialement redevable aux sentiments généreux et supérieurs de Mlle Clai**, (Amsterdam). L’opera, denunciata al parlamento, fu condannata a essere bruciata in place de Grève il 22 aprile 1761 e l’autore venne espulso dall’ordine degli avvocati. 120 Françoise Drouin (1720-1803, agli inizi della carriera mademoiselle Gaultier), aveva diretto con La Noue il teatro di Rouen nel periodo in cui vi recitava la giovanissima Clairon. Ne seguì una lunga amicizia rafforzata dall’appartenenza alla Comédie-Française, quando vi entrò una volta tornata a Parigi (1742). 121 Si tratta di Coqueley de Chaussepierre. Nel testo, come in questo caso, mademoiselle Clairon non sempre indica il nome di alcuni personaggi per intero; piuttosto che moltiplicare le note diamo, d’ora in poi, il nome completo, mettendo tra parentesi quadre la parte omessa. 122 Elie-Catherine Fréron (1718-1776) acerrimo nemico dei Philosophes e di Voltaire in particolare, i suoi scritti polemici di argomento letterario, filosofico, teatrale, religioso riempiono le pagine dell’«Année littéraire», periodico da lui fondato nel 1754. Le sue critiche su mademoiselle Clairon sono quasi sempre negative. Scrive mademoiselle Dumesnil: «Fréron era forse fra tutti i letterati colui che conosceva più perfettamente il teatro. […] Non trovava interessanti le tragedie di Marmontel, che allora onoravate dei vostri favori, e gli articoli di questo giornalista sulle tragedie sono modelli di gusto, di ragione, di conoscenze drammaturgiche, preziose lezioni, insomma, per i giovani che intraprendono la spinosa carriera teatrale», Mémoires Dumesnil, pp. 243-244.

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sussistenza a un suo sodale, andò a denunciare il libro e l’autore: il primo fu dato alle fiamme ai piedi della grande scalinata, il secondo fu radiato dall’albo. Trovai tutte le prove possibili di questi vergognosi maneggi, ne informai i miei compagni, speravo che avvertissero almeno l’insulto e che con il riguardo dovuto al resto del consiglio, si pregasse il signor Co[queley] di ritirarsi. Non solo lo mantennero, ma ne fecero il loro più caro amico. Da questi due racconti si può facilmente arguire e dedurre che non ero adatta ai miei compagni e che i miei compagni non erano adatti a me. Questa avventura mi rese il mestiere così doloroso, ero così disgustata dal tono delle nostre assemblee e dei foyers, così indignata nel vedere i Gentiluomini della Camera123 pagarsi i loro piaceri con i ruoli e le parti del teatro; mi trovai così estranea, il dispiacere indebolì la mia salute che, senza riflettere sull’estrema mediocrità del mio patrimonio, decisi di ritirarmi. Le reazioni dei miei amici e i benefici del duca di Choi[seul]124 e di monsieur de La Bo[rde], mi obbligarono a restare:125 sacrificai ogni mia ripulsa. Ma alla fine, gl’intrighi di Préville portarono a quel momento desiderato tanto da lui quanto da me. L’infelice o piuttosto la ridicola faccenda Dubois,126 iniziata con il duca di Du[ras]127 troppo sventato e sconsiderato

123 I Gentiluomini della Camera del Re ogni anno, a turno erano «in esercizio», occupandosi in particolare del teatro; in quanto responsabili dell’amministrazione dei Menus-Plaisirs erano molto vicini al Re con un budget in cui figuravano le spese più disparate: toilettes della famiglia reale, spese della Camera del Re e del Delfino, vetture di corte, feste religiose e pubbliche, spettacoli a corte, regali per gli artisti, emolumenti dei musicisti, dei medici… 124 Étienne-François de Choiseul-Stainville (1719-1785). 125 Questi due signori depositarono quarantamila libbre presso il notaio Trutat con la disposizione di chiedermi come volevo che fossero investite. 126 Louis Blouin, detto Dubois (1716-1775), attore alla Comédie-Française dal 1736, manierato, pieno di pretese e poco rispettoso nei riguardi dei suoi compagni, fu causa, con il suo comportamento, del ritiro di mademoiselle Clairon dalle scene. Un lungo articolo della «Correspondance littéraire» alla data del 15 aprile 1765 (vol. VI, pp. 256-261), ironico e canzonatorio, racconta nei dettagli cosa avvenne alla Comédie-Française il giorno della ripresa, dopo la chiusura pasquale, della tragedia di Dormont de Belloy (Pierre Laurent Buirette, detto, 1727-1775), Le Siège de Calais (13 febbraio 1765) [L’assedio di Calais], avrebbe dovuto essere la ventesima rappresentazione della nuova pièce che aveva ottenuto un grande successo con Clairon nella parte da lei creata di Aliénor, figlia del governatore di Calais. Recitata a Versailles il 21 febbraio e di nuovo a corte il 7 marzo, Luigi XV, avendola apprezzata, aveva richiesto che l’opera patriottica fosse data in uno spettacolo gratis per il popolo. Dubois, afflitto da una malattia «che non rispetta né l’eroe né il confidente e che si può buscare nelle fatiche della guerra come nell’ozio della pace» si era fatto curare ma aveva omesso, malgrado le ripetute richieste, di pagare il medico. Citato in giudizio aveva giurato, mentendo, di aver saldato il conto. Per il buon nome del teatro e per por fine alla contestazione, gli attori avevano deciso di accollarsi il debito e nel contempo di espellerlo dalla compagnia. Bellecour avrebbe interpretato la parte del cavaliere inglese Mauni che era di Dubois. Ma l’intervento della figlia fece sì che al mattino del giorno della rappresentazione i Gentiluomini della Camera ordinassero che Dubois fosse reintegrato. Gli attori sdegnati da tale atteggiamento si rifiutarono di recitare con un imbroglione «escluso dalla troupe per decisione unanime». Mademoiselle Clairon, pur presente a teatro, vedendo

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per prevederne le conseguenze, poi discussa e gestita dalla leggerezza dispotica del maresciallo di Ri[chelieu]128 finì con la famosa catastrofe che a lungo è stata definita la Giornata dell’assedio di Calais e che fornì a Préville la speranza di vedere infine realizzati i suoi progetti. Prima di quel momento aveva saputo guadagnarsi la fiducia del luogotenente di polizia che non nascondeva il suo desiderio di disporre di noi, dell’intendente dei Menus che desiderava amministrare le nostre finanze e di un consigliere del parlamento, impressionato magistralmente dall’autorità dei Gentiluomini della Camera; queste quattro persone si riunirono per approfittare della circostanza. Siccome costituivo un oggetto di terrore per tutti i gradassi dai progetti disonesti, fu deciso, benché mi fossi opposta apertamente a da sola al putiferio che era stato fatto e mi fossi presentata a teatro per sottomettermi all’ordine così detto del re, benché fosse stata consegnata in mia presenza nelle mani di Préville una lettera firmata da Lekain e da Molé129 che chiariva la loro rinuncia e il loro congedo, benché Brizard e Dauberval130 avessero rifiutato di ubbidire, fu deciso che si sarebbe fatto ricadere tutto sui miei intrighi e il mio fascino. Dal canto suo mademoiselle Dubois, dimenticando che mi doveva il poco talento che aveva, padrona di recitare tutto ciò che voleva, avvertita da me di quanto si tramava contro il padre, in verità stupida all’eccesso e per lo meno altrettanto briccona,

che non si poteva andare in scena, si era ritirata a casa dichiarandosi malata; Lekain e Molé erano spariti insieme a Brizard. Il pubblico infuriato che attendeva in sala richiese a gran voce, pur senza conoscere i dettagli dell’affaire, che gli attori fossero puniti per la loro insolenza. L’indomani oltre a mademoiselle Clairon anche Brizard, Lekain e Dauberval furono arrestati e al contrario di mademoiselle Clairon restarono in prigione per un mese. Di fatto l’articolo XXXVI del regolamento della Comédie-Française, come per altro riportato nell’Abrégé de l’histoire… di Mouhy, stabilisce che i comédiens ordinaires sono tenuti a recitare ogni giorno senza potersi dispensare sotto alcun pretesto (cit., vol. III, p. 59). L’affaire del Siège viene raccontata in dettaglio anche nell’Abrégé (ivi, pp. 82-86). Dopo lo scandalo Dubois sarà allontanato dal teatro e pensionato. Cfr. anche Mémoires Dumesnil, pp. 251-255. 127 Emmanuel Félicité de Durfort, duc de Duras (1715-1789), maresciallo di Francia e accademico, vero modello del gran signore settecentesco, valoroso, istruito e attraente. 128 Louis-François-Armand du Plessis, duc de Richelieu (1696-1788), uomo del suo tempo per la corruzione raffinata e le brillanti qualità intellettuali, nelle sue numerosissime avventure sembrava cercare più lo scandalo che il piacere. 129 François-René Molé (1734-1802) aveva debuttato alla Comédie-Française nel gennaio 1760 e l’anno successivo era stato nominato «sociétaire». Recitava con altrettanto successo in ruoli tragici e comici: durante la sua carriera aveva creato più di centoventi parti diverse. 130 Jean-Baptiste Britard, detto Brizard (1721-1791), invitato a Parigi su sollecitazione di mademoiselle Dumesnil e mademoiselle Clairon, diventa «sociétaire» nel 1758. Stimato da Diderot per l’interpretazione nel suo Père de famille [Padre di famiglia] (18 febbraio 1761) fu acclamato interprete di varie pièces di Voltaire. Si distinse per il suo modo naturale di recitare sia nelle commedie che nelle tragedie e fu sensibile al problema dello svecchiamento dei costumi. Etienne, Dominque Bercher, detto Dauberval (1725-1800) debuttò nel 1760 per diventare, dopo due anni «sociétaire»; ricoprì i ruoli di confidente sia nelle tragedie che nelle commedie; il suo stile di recitazione era giudicato piuttosto manierato.

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assecondò a meraviglia le intenzioni del consiglio ristretto.131 Giovane, graziosa, con il privilegio di rendere felici tutti i Gentiluomini della Camera, tutelata da un duca di Fro[nsac],132 da un duca di Vil[lequier], da un marchese di Fit[z-James], venne nei foyers, coi capelli sciolti, a chiedere vendetta delle mie atrocità e delle sventure del suo rispettabile padre. Le sue grida, il pugno di ferro di questi signori che prendevano tutti per il bavero, il giudizio di un ufficiale del reggimento di Fitz-James emesso ad alta voce nel parterre che bisognava quanto meno impiccarmi, persuasero una parte del pubblico dei miei torti, di lì e con la stessa scorta mademoiselle Dubois andò a portare le sue lacrime ai piedi del maresciallo di Ric[helieu]. Il mio talento, i miei servigi, una condotta irreprensibile, venti anni d’amicizia cosa contano paragonati a una bella ragazza? Chiese che fossi messa in prigione, l’ottenne tanto più facilmente, perché fare degli infelici è un piacere da gran signore. Il silenzio del governante e delle leggi di cui sono sicuri, permette loro di agire come vogliono e più la loro vittima è celebre, più il loro potere è riconosciuto. Fu dato ordine di arrestarmi, vennero a strapparmi dal letto in cui ero inchiodata da un’infiammazione alle viscere. In quel momento si trovava con me madame de Sauvigny, intendente di Parigi, tutto ciò che poté ottenere dal messo, fu di accompagnarmi di persona a For-l’Evêque.133 Vi fui lasciata per cinque giorni, poi mi si ordinò di restare agli arresti domiciliari col divieto di non ricevere più di sei persone che mi era stato permesso di designare. Gli arresti durarono ventuno giorni e tutto ciò senza prove, senza avermi ascoltata, senza che nessun intrigo o affare precedente potesse rendermi sospetta. Ricevetti in prigione ogni sorta di omaggi lusinghieri, ma anche oltraggi che il mio cuore era nell’impossibilità di perdonare: non poteva essere che su mandato e con la certezza dell’impunità che si aveva l’audacia di venirmi a insultare in quel luogo. Non fiatai, non mi svilii in preghiere, non lasciai sfuggire né lagnanze né gesti d’impazienza, neanche i miei amici poterono intuire quanto succedeva nel mio animo. Attesi che a teatro tutto fosse tornato nella

131 Maire-Madeleine Blouin, detta mademoiselle Dubois (1746-1779), allieva del padre e di mademoiselle Clairon, il cui giudizio appare assai negativo, aveva debuttato nella parte di Didone e nella commedia Le Préjugé à la mode in quella di Costance. Il «Mercure de France» prevede una sua riuscita nel ‘comico nobile’ (settembre 1759, p. 201). Garrick invece avanzò su di lei qualche perplessità. Sociétaire dal 1761, il suo successo fu dovuto soprattutto alla sua bellezza. 132 Figlio del duca di Richelieu. 133 Madame de Sauvigny era la moglie dell’intendente della circoscrizione finanziaria di Parigi. For-l’Évêque, una delle prigioni meno dure della capitale, si trovava dietro l’attuale teatro del Châtelet tra il quai de la Mégisserie e la rue Saint-Germain l’Auxerrois, divenne nel Settecento, fino alla sua demolizione nel 1783, il luogo di detenzione destinato agli attori che vi venivano arrestati per gravi mancanze, ma anche per brevi periodi se colpevoli di un comportamento non consono al loro status.

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normalità, allora annunciai che me ne sarei andata. Il mio tempo era scaduto, la gelosia dei miei compagni, la folle e barbara amministrazione dei miei superiori, la facilità con cui i malvagi riescono sempre a fare di un pubblico così stimabile una bestia brutale e feroce a volontà, la condanna della Chiesa, la ridicolaggine di essere Francese senza godere dei diritti di cittadinanza, il silenzio delle leggi sulla schiavitù e l’oppressione degli attori, mi avevano fatto troppo sentire la pesantezza, il pericolo e l’abiezione delle catene perché accettasi di portarle più a lungo; per altro volevo una vendetta, il mio ritiro mi sembrò l’unica cosa onesta per me; soddisfaceva tanto più che, avendo solo quarantadue anni potevo contare su qualche rimpianto.134 Nel momento in cui mi fu permesso di lasciare gli arresti, andai a ringraziare il duca d’Aumont, l’unico che si fosse comportato in modo degno in questo ridicolo scontro: ignorava il perché di tutto, l’informai e gliene detti le prove. Le disposizioni che prese fecero fallire tutte le speranze del consiglio dei quattro e trovando, lo confesso, un qualche piacere a tormentare quei piccoli tiranni subalterni, acconsentii, dietro richiesta del duca d’Aumont, a render noto agli attori il mio ritiro solo dopo un anno.135

Riepilogo Nei ventotto anni appena passati in rassegna ho solo seguito l’ordine della mia carriera drammatica, ne ho soppresso molti fatti interessanti nel timore di apparire troppo minuziosa e di nuocere alla linearità della narrazione: troveranno posto altrove. Ho tralasciato tutto ciò che riguardava i miei sentimenti di cui non devo dar conto a nessuno poiché costituisco da me sola tutta la mia famiglia; ma senza entrare nel dettaglio degli errori, delle disgrazie e dei piaceri in cui

134 Voltaire, a conoscenza della grave disavventura di mademoiselle Clairon, le scrive il primo maggio 1765: «L’uomo che s’interessa di più alla gloria di mademoiselle Clairon e all’onore delle belle arti, la supplica molto insistentemente di cogliere questo momento per dichiarare che è una contraddizione troppo assurda di essere a For-l’Évêque se non si recita, e di essere scomunicato dal vescovo se si recita e che è impossibile sostenere questo doppio affronto. […] Che mademoiselle Clairon riesca o no, sarà riverita dal pubblico, e se risale sul palcoscenico come uno schiavo che si fa danzare in ceppi, perde tutta la sua considerazione. Mi aspetto da lei una fermezza che le farà onore quanto i suoi talenti e che renderà un’epoca memorabile», Correspondance, vol. VIII, pp. 43-44. 135 La retraite le fu accordata il 23 aprile 1766 per motivi di salute. Secondo Lekain, in una lettera del 14 aprile 1766 ai componenti del consiglio della Comédie-Française: Mémoire tendant à prouver l’injustice de la demande de la demoiselle Clairon, touchant sa pension de 1,500 liv., si dovrebbe rigettare la richiesta dell’attrice per la somma pattuita, sproporzionata per un’attività di soli ventuno anni e mezzo, e per l’ingiustificato abbandono della compagnia, Mémoires de Lekain précédés de réflexions sur cet acteur et sur l’art théâtral par M. Talma, A Paris, chez Étienne Ledoux, Libraire, 1825, pp. 198-205.

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sono stata trascinata dall’educazione, dalla sensibilità d’animo, dal libero arbitrio e dall’esempio, troppo sincera per mentire a me stessa non pretendo dissimulare alcuno dei miei errori e ammetto di averne commessi molti. L’invidia, la calunnia e l’impunità ne hanno esagerato così tanto il conto che mi sembra impossibile che un essere pensante lo creda: le mie occupazioni, gli studi, una salute malferma, il mio disinteresse e (devo permettermi di dirlo a mia difesa) lo spirito e la fierezza, che si sono riscontrati in tutte le grandi occasioni della mia vita, sono sicuri garanti che mai ho conosciuto gli stravizi e la dissolutezza. Il mio talento, il mio aspetto, la facilità di avvicinarmi mi hanno fatto vedere così tanti uomini ai miei piedi che era impossibile che un cuore naturalmente tenero, costretto a compenetrarsi ininterrottamente di quanto le passioni hanno di più seducente, potesse essere inaccessibile all’amore. Che si smetta di sorvegliare per qualche istante le fanciulle bennate, che si schiuda appena il più piccolo cancello di un chiostro, sarò pienamente giustificata. L’amore è una necessità della natura, ne sono stata appagata, ma in modo da non arrossire, sfido che mi si citi un mercimonio vergognoso, un solo uomo che mi abbia pagata; sfido che mi si citi una sposa o un padre che abbia fatto soffrire; non c’è donna di mia conoscenza che possa rimproverarmi di aver ascoltato il suo amante, non c’è persona che possa accusarmi di averla ingannata; non ho permesso né eccessi né negligenze nei doveri, nessun disordine negli affari. Per potermi piacere bisognava mostrarsi virtuoso quanto garbato, nessun pargolo biasimato dai costumi e dalle leggi mi fa arrossire per la sua esistenza. Più di una volta è dipeso solo da me che diventassi legittimamente una gran dama, ho potuto resistere quindici anni di seguito alle istanze, alle preghiere, alle lacrime dell’uomo più seducente al mondo e il più caro al mio cuore per ascoltare e seguire solo il cammino dell’onore e del dovere. Da qualsiasi parte volga lo sguardo vedo, lo confesso, ben poche donne che possano andare con la fronte più alta di me, ma non mi arrogo il diritto di scusarmi: il mio più mortale nemico, il più severo casista mi condannerebbe con la stessa forza con cui io stessa mi condanno. Non mi vergogno e non provo alcun rimorso, tuttavia mi affliggo per i miei errori, lo sguardo che porto su di me mi fa sentire a disagio. Sia che il mio fisico indebolito dall’età e dai malanni mi renda pusillanime e che la calma attuale dei sensi m’inganni sulla possibilità di tenerli sempre a freno, o che la vanità mi confonda dicendomi che avevo virtù bastante per pretendere averle tutte, non mi perdono le debolezze, né mi permetto di cercarne la scusa nei decreti del fato. Stilando queste pagine ho la sola intenzione di conoscermi, di correggermi e di acquisire alla vista dei miei difetti l’indulgenza e la compassione dovuta ai miei simili. Se questo scritto mi sopravvive, che possa essere

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un’utile lezione e preservare l’anima onesta e sensibile dalle trappole e dalle lusinghe dell’errore!

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Terza epoca. Quando il duca d’Aumont mi ebbe tranquillizzata con la garanzia che avrei ottenuto l’ordine di ritiro alla prima domanda che avessi presentata, cercò con proposte vantaggiosissime di eliminare per sempre il desiderio di chiederlo. Mi offrì di farmi pagare dal re, di non dipendere più da qualsivoglia superiore, di non aver più nulla a che fare con gli altri, di recitare solo quando lo avessi desiderato con l’unica formalità di scrivere all’assemblea: Richiedo tale pièce per tale giorno. In tutte queste proposte non vidi che il pericolo di farmi nuovi nemici e li avrei meritati liberandomi da tutte le convenzioni del mio stato in modo così orgoglioso; allora mi offrì di aiutarmi a liberare il teatro dalla vergogna della scomunica, sapeva che accarezzavo quel progetto da lungo tempo, che avevo condotto ogni possibile ricerca, che mi ero fatta aiutare da persone ricche di conoscenze e di merito, che potevo contare su sostenitori potenti e che i miei memoriali erano già pronti. Non nasconderò che univo un’illimitata vanità al desiderio giusto e naturale di godere di uno status più onesto; il mio talento non può né descriversi né rappresentarsi, se ne perde l’idea con i miei contemporanei, e avevo motivo di credere che sarebbe stato giudicato superiore a quanto non fosse mai stato se avessi ottenuto la gloria di trionfare sui pregiudizi della mia nazione: il solo tentarlo significava molto per me. Accettai: decidemmo che al mio ritorno da Ginevra dove andavo a consultare il famoso Tronchin,136 avremmo compiuto i passi necessari presso il re e che, in caso di successo, sarei tornata sulle scene. Prima della partenza rividi tutti i miei superiori ed ebbi motivo di esser soddisfatta dal loro imbarazzo e dal loro rammarico, ma è inutile sperare di far ricredere i persecutori; la vista della loro vittima dà fastidio, la odiano per il male che le hanno fatto. Appresi durante la mia assenza che i risultati dei sollazzi di mademoiselle Dubois erano visibili e pressanti al punto di non permetterle di recitare a Fontainebleau. Scrissi al duca d’Aumont che, se questa notizia era vera, mi offrivo per recitare il repertorio per la corte qual che fosse; mi faceva piacere vendicarmi di monsieur de Richelieu togliendoli una preoccupazione e dando prova al re della mia rispettosa riconoscenza per tutto quanto aveva degnato di farmi dire di lusinghiero sulla mia persona e sul mio talento. Il duca d’Aumont contentissimo per una proposta che gli facilitava ogni possibile disposizione, s’incontrò con il maresciallo de Richelieu e non fu poco sorpreso nel sentirgli dire: No, questo dispiacerebbe alla piccola Dubois: faremo come potremo. Dandomi il resoconto di quell’incredibile

136 Théodore Tronchin (1709-1781) celebre luminare in campo medico e grande sostenitore dell’inoculazione, consultato dai potenti mezza Europa, aveva tenuto in cura per anni Voltaire. Per ragioni di salute l’attrice non aveva recitato che in una quarantina di spettacoli nelle precedenti stagioni teatrali.

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comportamento, il duca d’Aumont aggiunse nella lettera che ancora conservo: Per il momento pensate solo a rinsaldare la vostra salute, sono indegni dello sforzo che volete fare. Arrivo, si approntano tutte le batterie, il mio memoriale è consegnato al conte di Saint-Florentin137 che s’impegna a leggerlo nel consiglio, i miei sostenitori mi permettono di contare su di loro; l’arcivescovo acconsente a tacere, il re sa che devo chiedergli una grazia e promette, se possibile, di accordarla; doveva essere istruito dal duca di Du[ras] che si era impegnato a leggergli il Memoriale.138 Quello sventurato duca che vuole sempre il bene, ma che fa solo il male, non dubitando di niente e temendo tutto, balbetta qualche parola sulla mia iniziativa, il re l’ascolta con bontà e chiede cosa voglio. Il momento era favorevole per presentare il Memoriale, ma il timore di riuscire sgradito al conte di Saint-Florentin distrugge di colpo lo zelo del mio duca: si limitò a rispondere che il cruccio di essere scomunicata m’impediva di tornare sulle scene e benché il re proferisse: «In effetti è una cosa assai ridicola, vedremo quali sono le possibilità; farò tutto ciò che potrò»; il momento perso non si ripresentò. È per bocca dello stesso duca di Du[ras] che ho appreso quanto ho appena raccontato. Qualsiasi cosa ci si possa permettere di pensare sulla sua frivola esistenza, bisogna almeno rendere omaggio alla sua buona fede. Giunge infine il giorno in cui ci si doveva pronunciare sulle mie richieste. Vedendo che il consiglio sta per finire, che tutti i portafogli sono chiusi, il re si degna di dire: Comunicatemi allora cosa vuole mademoiselle Clairon. – Forzare la mano di vostra maestà come il Parlamento, risponde il duca di Pras[lin]. – So che è troppo avveduta per questo, ribatte il re, fatemi conoscere ciò che desidera. – Allora il conte di Saint-Florentin legge su un pezzettino di carta che: richiedevo a sua maestà la ristampa della dichiarazione di Luigi XIII già da ella confermata. Sua maestà non conosceva quella dichiarazione più di quanto conoscesse il mio Memoriale, credé di agire per il meglio, ordinando che la si ristampasse. E io, avvertendo il rischio e l’inutilità di tornare alla carica, domandai il mio pensionamento.139 Ecco il perché di questa manovra. Quel ministro che mi rappresentava così male era da parecchio tempo l’amante di un’attrice in pensione che non poteva soffrirmi in quanto mi ero rifiutata di sposarne un fratello, non conosco per altro nessun’altra causa. Decise che era della massima insolenza che io volessi essere più di

137 Ministro della Maison du roi. 138 Gli avvenimenti narrati hanno luogo nell’aprile 1766. 139 L’ordre de retraite a firma del maresciallo duca de Richelieu e del duca de Duras porta la data del 23 aprile 1766: «Mademoiselle Clairon dopo aver servito il re e il pubblico durante ventidue anni con la più grande assiduità e la più grande distinzione trovandosi obbligata a causa della sua cattiva salute a lasciare il teatro, le abbiamo accordato di conseguenza il suo congedo di pensionamento» (Dossier Clairon nella Bibliothèque-Musée della Comédie- Française).

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quanto lei non fosse stata; l’amante le dette ragione:140 ottenne che il referendario avrebbe chiesto il contrario di quanto volevo e, malgrado tutte le sue promesse, il duca di Choi[seul] mi confessò che non aveva osato smentire il cugino. Ammetto che avrei molto gradito ottenere ciò che avevo tanto desiderato, ma riposarmi, sfuggire per sempre alla gelosia, all’invidia, all’intrigo e alla tirannia era ancora meglio e non ho mai smesso di benedire la mia sorte da quando ho lasciato. Il piacere del riposo che non avevo mai assaporato, un compagno gradevole, una fortuna sufficiente per tutte le vere necessità, una mente esercitata dall’applicazione e dall’esperienza mi dettero la forza di sopportare i mali consueti e lo studio della Storia Naturale sostituì le mie antiche fatiche, non rimpiangevo né desideravo nulla. La felicità non durò a lungo. Il conte di Val[belle] ricevette un’eredità cospicua e la ricchezza ne cambiò il cuore; le sue assenze si fecero frequenti e lunghe, era l’anima della nostra società, la sua lontananza la rese spenta.141 Aveva richiesto che contassi per sempre su di lui, feci di tutto perché mi restasse almeno amico, fu ingrato: persi tutto. In quel mentre le operazioni dell’abate Terray142 mi sottrassero il terzo dei miei beni; il timore d’indebitarmi mi costrinse a rinunciare a qualsiasi occasione di spesa e in poco tempo persi il resto della mia cerchia. A Parigi bisogna brigare o tener tavola imbandita se non si vuole restar soli. L’afflizione del mio cuore e la solitudine tremenda mi dettero l’idea di ritirarmi in convento o almeno in provincia; decisi di vendere il mio «cabinet»143 e molti altri beni preziosi: il ricavato, investito in rendite vitalizie risparmiate in qualche anno di economia, avrebbe potuto rendermi più ricca di quanto non lo fossi mai stata, ma non mi fu dato di seguire il progetto. Il conte di Val[belle] indebitato con centoventimila libbre di

140 Mademoiselle Clairon si riferisce a mademoiselle de Dangeville che aveva vissuto per più di trent’anni con il duca di Praslin. 141 Il conte Joseph-Alphonse-Omer de Valbelle, più giovane di sette anni di mademoiselle Clairon (era nato nel 1729, morirà nel 1778), brillante colonnello del reggimento di Berry, ebbe con lei un rapporto piuttosto movimentato durato circa diciannove anni (fino al 1772) come lei stessa afferma. Qui si fa forse riferimento all’eredità ricevuta per la morte del fratello maggiore nell’agosto 1765. 142 Controllore generale delle finanze, l’abate Terray fu responsabile di una parziale bancarotta nel 1770. Sarà sostituito da Turgot. 143 Sorta di wunderkammer. Il catalogo redatto in vista della vendita porta il titolo di: Catalogue des ouvrages de l’art du cabinet de Mlle C*** tels que: armes et habillemens étrangers; ouvrages en argent, nacre et ivoire, pagodes de terre des Indes, porcelaines, instrumens de physique, bijoux d’or, tableaux de grands maîtres et estampes, qui seront vendus rue du Bacq, près le Pont- Royal, dans le mois de mars 1773, et dont le jour sera annoncé par des affiches publiques, il titolo è già di per sé indicativo del gusto eclettico della collezionista, a cui vanno ad aggiungersi tra l’altro una mummia egiziana nella sua cassa di sicomoro, maschere cinesi, calzature di selvaggi, un parasole di piume di struzzo, oggetti di storia naturale… (E. de Goncourt, Mademoiselle Clairon…, cit., pp. 324-327). La vendita durata sei settimane produsse, secondo de Manne, cinquantamila libbre, somma all’epoca enorme (Galerie historique…, cit., p. 99).

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rendita, insufficienti per le sue imprese lussuose, e non trovando da ottenere un prestito, era in un momento critico che mi preoccupò per la sua reputazione, più avevo da recriminare, più mi sembrò giusto toglierlo d’impaccio. Vendetti tutto quanto in mio possesso, gli prestai il ricavato della vendita all’interesse del cinque per cento per dieci anni. All’epoca ero gravemente ammalata, l’ufficiale giudiziario era un imbroglione, nessuno mi fece il favore di occuparsi dei miei affari, incassai novantamila franchi per ciò che era stato stimato a cinquantamila scudi. Non avendo più un letto per coricarmi e dovendo ricevere gl’interessi del mio denaro dopo un anno, decisi di espatriare. Avevo conosciuto casualmente il Margravio di Anspach, quanto avevo ravvisato nel principe di candore, la sua nobile e commovente sincerità, l’interesse premuroso e fiducioso testimoniatomi fin dai primi istanti e di cui le sue lettere mi promettevano la durata, mi fecero accettare l’espatrio.144 Parigi non mi offriva più che ricordi dolorosi, ero importuna a tutti, l’amicizia di un sovrano mi lasciava la speranza di poter ancora essere utile ai miei simili. Costretta a chiudere il mio cuore al solo essere che un tempo lo colmava, troppo illuminata dalla ragione e dall’esperienza per abbandonarmi ancora all’amore, ma tormentata dal bisogno di amare, estesi la mia sensibilità al mondo intero e i mezzi che mi erano offerti per essere almeno necessaria a qualcuno mi fecero trovare tutto possibile. Partii. La Germania mi offrì un clima troppo rigido per la mia età e per i miei malanni, i piaceri della società vi erano appena conosciuti, gli uomini di cultura non parlavano che la loro lingua e le finezze della mia non venivano recepite da nessuno; le arti erano ridotte allo stretto necessario e la boria del lignaggio, sommata alla più profonda ignoranza del talento, non aiutava a conferirmi prestigio agli occhi degli abitanti. Gli omaggi che ricevetti nei primi momenti furono dovuti unicamente al desiderio di compiacere il principe; non solo non mi conoscevano qual ero, ma dovevo ancora far ricredere tutti sulle opinioni e i progetti che mi erano stati attribuiti da un mostro; per quanto piccola ogni corte ha il suo Narciso.145 Dovetti difendere il mio onore e persino la vita da tutte le macchinazioni concertate da quello sciagurato; il mio corpo cedette sotto l’accumulo di così tanti dispiaceri, ebbi una terribile malattia e da allora non conto più i miei giorni che con i miei malanni e la mia languidezza.

144 Auguste-Christian-Frédéric, margravio di Anspach (1736-1806) e poi di Bayreuth, nipote di Federico II di Prussia, di una raffinata cultura cosmopolita, aveva frequentato a Parigi letterati e artisti; alla sua corte mademoiselle Clairon aveva sperato di rivestire un ruolo di rilievo, tra madame de Maintenon e madame de Pompadour: «La filosofa del Margravio» diceva di lei Voltaire. La sua permanenza ad Anspach durò tredici anni, dai primi di marzo del 1773 al 1786, ma in questo lasso di tempo fece frequenti soggiorni a Parigi 145 Allusione al personaggio di Narciso, gouverneur di Britannico nella tragedia eponima di Racine, Britannicus (Théâtre de l’Hôtel de Bourgogne, 13 dicembre 1669).

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Per quanto penosa sia la mia vita, il suo protrarsi mi ha fornito i mezzi di distruggere la calunnia, di operare il bene e di attirarmi delle amicizie, questa gioia mi consola di vivere. Non darò conto degli innumerevoli servigi resi a quel paese, alla mia coscienza basta sapere che gli abitanti non li dimenticheranno. Non mi permetterò di fare l’elogio, né la critica del margravio; senza misconoscere i suoi difetti l’ho creduto per quasi diciassette anni uno fra gli esseri più virtuosi al mondo e il rispetto per la sua dignità, la riconoscenza per la fiducia di cui mi ha così a lungo onorata, mi vietano oggi di giudicarlo, mi limito a chiamare a testimonianza lui e tutte le persone oneste che vivono sotto la sua autorità come garanti della rettitudine della mia condotta e del mio disinteresse. Ho esercitato tutto il bene che mi è stato permesso di fare, ho difeso e lasciato in carica i miei più grandi nemici, non mi si possono imputare né intrighi né recriminazioni né vendette né amicizie particolari. Non ho mai criticato amanti o favoriti; ho fatto costantemente, durante diciassette anni, il sacrificio della mia volontà, della mia quiete, dei miei interessi, delle attrattive della mia patria e della mia salute. La felicità e la gloria del Margravio erano l’unico scopo del mio impegno e della mia ambizione e, il solo prezzo che riceve un attaccamento così schietto, è il sovvertimento della mia fortuna e della mia esistenza, l’oltraggio e l’oblio… Taccio, compiango e perdono e formulo i voti più fervidi affinché si sia felici. Non penso che il resto della mia esistenza possa offrirmi fatti interessanti: tutto è detto, tutto è sicuramente finito per me. Distrutta da trent’anni di fatiche, da dispiaceri di ogni genere, dal peso del tempo, da continui dolori e da malattie gravissime che si verificano in modo ricorrente, mi sembra impossibile che nulla mi strappi alla vita semplice e tranquilla che mi sono imposta.146 Mi consacro solo a cinque o sei salotti che frequento raramente, non mi restano che pochi amici e qualche conoscenza. Ma l’espansione di Parigi obbliga ora a calcolare le distanze e tutte le menti sono in un tale bizzarro fermento che è normale che una vecchia signora, inutile e sofferente, sia spesso sola: così senza mai lagnarmi dell’abbandono che avverto, assaporo con riconoscenza i momenti che mi vengono sacrificati.

146 Nel lontano 1766 così le scriveva Voltaire: «Credo che nel secolo in cui viviamo, non c’e nulla di meglio da fare che restare a casa propria e coltivare le arti per personale soddisfazione senza compromettersi con il pubblico. La corte non esiste più, e il pubblico di Parigi è diventato ben strano. Il secolo di Luigi XIV è passato, ma non esiste secolo che non avreste onorato», lettera del 15 aprile 1766, Correspondance, cit., vol. VIII, p. 437. Il termine ‘cultiver’ evoca la clausola del celebre racconto filosofico di Voltaire Candide ou l’Optimisme (1759) «il faut cultiver notre jardin», dove per altro, all’abate che guida Candido a Parigi questi richiede di fargli incontrare mademoiselle Clairon «perché [gli] è sembrata ammirevole», Œuvres complètes, cit., vol. XXXI, per sottolineare quante affinità elettive permeano il pensiero di entrambi.

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Ho scelto un alloggio comodo, piacevole, forse troppo sfarzoso per il mio stato e la mia fortuna, ma è il resto dell’abitudine della mia magnificenza teatrale: ho sognato per trent’anni troni e palazzi, il lusso universale non ha dovuto richiamarmi a me stessa e credo che qualsiasi piacere sia ragionevole quando non nuoce né costa nulla a nessuno.147 Il cedimento del mio corpo non influisce ancora sullo spirito e la mente, ho intatte la sensibilità e l’attività della gioventù. Il piacere per la lettura è felicemente aumentato, serve a essere circondata ogni giorno dai personaggi di ogni tempo e di ogni luogo, imparo con loro a confrontare, a riflettere, a sopportare il vuoto e le pene della vita, a provare a me stessa che è ineluttabile che tutto finisca e si distrugga e che devo attendere il mio turno senza impazienza né rimpianti.148 Avrei molto gradito di poter andare a cercare negli spettacoli le distrazioni che tutta la mia rassegnazione non m’impedisce a volte di desiderare. Benché non abbia dimenticato nulla di tutti i nostri grandi poeti e che li rilegga spesso, vederli rappresentati mi darebbe un più vivo piacere e conforterebbe molto la mia immaginazione: chi non può rinunciare a desiderare quanto l’incanto dell’azione aggiunge interesse allo splendore delle pièces? Ma, ahimè, cosa ho visto in questi spettacoli? L’abiezione del mercimonio o la follia delle case di malaffare! Nessuna nozione d’arte, nessuna idea sulla dignità dei personaggi, ognuno recita la propria parte a suo modo senza rendersi conto di ciò che ci si deve mutualmente scambiare

147 La casa ‘superba’, si legge nei «Mémoires secrets» è a Issy e, malgrado le sue infermità, aggiunge il periodico «il gusto [di mademoiselle Clairon] per il tribadismo non è cambiato, ha preso con sé una certa madame Tessier, donna superba che appare come la sua governante, che sembra essersi impossessata di lei in modo esclusivo e probabilmente sarà la prima a raccogliere la sua successione» (vol. XXXIII, 26 settembre 1786, p. 70). La costruzione avrà però bisogno di ristrutturazioni e sarà il barone Eric Magnus de Staël ad aiutarla con l’acquisto della nuda proprietà e una rendita vitalizia. La differenza di età di circa ventisei anni tra mademoiselle Clairon e l’ambasciatore di Svezia a Parigi non impedì un’affettuosa amicizia tra i due che durerà per cinque anni fino al 1801, quando trovandosi in ristrettezze economiche, il barone non poté più pagarle la rendita. Ottenne però per lei, interessando Luciano Bonaparte, allora Ministro delle Belle Arti, che le fosse ripristinata la pensione, pensione sospesa durante la rivoluzione. Successivamente mademoiselle Clairon si trasferirà a Parigi in rue de Lille, qui morirà il 9 pluvioso anno XI (29 gennaio 1803) per una caduta dal letto. 148 La sua biblioteca, secondo l’inventario stilato alla sua morte, era particolarmente ricca e contava edizioni di qualità. Autori greci e latini: Senofonte, Platone, Epitteto e Cesare; i grandi memorialisti da l’Estiole a Bussy-Rabutin; gli storici moderni: Maizeray, Rollin, Gibbon, i venti volumi della Storia di Russia, i sedici volumi della Storia d’Inghilterra; i grandi classici: Pascal, Fénelon, La Bruyère, Corneille, La Fontaine, Racine. «Da Confucio a Pierre Charron, da Lesage a Beaumarchais nulla mancava alla lettura di un ‘honnête homme libertin’ di fine Settecento. A parte gli otto volumi della Bibbia, nessun libro di devozione. Pochi romanzi, ma i migliori: La Princesse de Clèves, Don Chisciotte, Manon Lescaut; infine di Madame de Staël le Memorie e Dell’influenza delle passioni pubblicato nel 1796», André Doyon, Trois esquisses stendhaliennes: Vincent Rivier, Mlle Clairon, Mme Jubié, «Stendhal Club», 22 année, n° 85, 15 ottobre 1979, pp. 5-15, qui p. 12.

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in ogni scena, degli sforzi e dei sacrifici dovuti all’armonia del testo, nessuna unità di tono, né nobiltà nel contegno. Ho visto degli eroi gettarsi bocconi e trascinarsi sulle ginocchia, ho visto giungere l’oblio della decenza al punto di comparire con un semplice velo di taffetà color carne che ritraeva esattamente il nudo dalla testa ai piedi; ho visto, sotto il nome dei personaggi più maestosi dell’antichità, gracili lavoranti alla giornata, piegate in due, pestare i piedi, battersi i fianchi, appoggiandosi sugli uomini e lasciandosi toccare con la più disgustosa familiarità; ero stordita dalle strida, dai muggiti e, per darmi il colpo di grazia, il parterre gridava: bravi! Non tocca a me decidere se il pubblico e gli attori di oggi si sbagliano o se si sbagliavano il pubblico e gli attori di allora, ma mi si deve permettere di affermare che non c’è traccia di somiglianza tra gli uni e gli altri. Forse è stato giusto abbandonare qualsiasi genere di tradizione: oggi si recita Merope da spensierata, Ermione da giovane amante, Monime da svergognata poiché piacciono così,149 devo credere che i miei studi mi avevano fuorviata, mi rimetto rispettosamente al giudizio che si dà oggi; ma, sia un resto di vanità sia… tutto ciò che si vuole, non c’è nulla che possa dispiacermi e infastidirmi quanto l’incredibile cambiamento del Théâtre-Français.

149 Eroine rispettivamente della tragedia eponima di Voltaire, Mérope e delle tragedie di Racine: Andromaque (Théâtre de l’Hôtel de Bourgogne, novembre 1667) e Mithridate (Théâtre de l’Hôtel de Bourgogne, 13 gennaio 1673). Personaggi tutti che saranno analizzati nella terza parte delle Memorie.

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Fatti particolari

Ordine di debutto Non volendo interrompere il racconto, ho lasciato da parte alcuni aneddoti che però credo assai peculiari e che vale la pena raccontare. Eccone uno. Benché fosse su ordine del re che lasciai l’Opéra per passare alla Comédie- Française, mi fu detto che dovevo presentarmi al duca di Gesvres, governatore di Parigi e Gentiluomo della Camera in esercizio, per ricevere l’ordine scritto. Mademoiselle Dumesnil si incaricò di accompagnarmi. Avevo vent’anni, una figura che tutti trovavano piuttosto provocante, ero abbigliata in modo impeccabile; per gusto e per principio il mio contegno era della massima decenza. Ero autorizzata a credere che la mia persona dovesse interessare. Il duca di Gesvres era un grand’uomo, piuttosto rassomigliante nell’aspetto a quelli che non lo sono più.150 Il volto pallido, scialbo, la voce stridula, il naso impastricciato di tabacco di Spagna e la navetta da ricamo che teneva in mano, pur sorprendendomi, non m’impedirono di trovargli l’aria di un gran signore e il gesto di titubanza che m’ispirò dovette parlargli in mio favore. Mademoiselle Dumesnil fu obbligata a farmi da interprete. Avendo spiegato la mia richiesta il duca, avanzando di qualche passo, disse: È graziosa. Si dice che abbiate talento, vi ho letta, certamente riuscirete.151 – Come colpita da un fulmine, alzai lo sguardo con tutta l’indignazione da cui ero pervasa e osai dire al duca, squadrandolo dalla testa ai piedi: Anch’io vi ho letto, ma credo, monsignore, che abbiamo bisogno di conoscerci in privato per poterci apprezzare mutualmente. Benché nella sala ci fossero più di cinquanta persone, si sarebbe sentita volare una mosca, tutti abbassarono gli occhi e il duca di Gesvres, dopo un attimo di riflessione, mi prese la mano e mi disse, con il tono più giusto e più affettuoso: Mademoiselle, per quanto dipenderà da me, potete essere sicura della mia sollecitudine nel servirvi. Tacqui, feci una rispettosa riverenza e mi ritirai. Da quel giorno, non passava settimana che non andassi a fargli la corte e non ho mai avuto un protettore meno esigente e più compiacente.

Aneddoto su Rodogune La maggior parte del pubblico non riflette, si lascia trascinare dall’abitudine, dai capibanda che vengono creduti istruiti perché sono rumorosi quanto audaci. Si è sempre sicuri di piacere alla maggioranza con

150 La moglie gli aveva intentato causa in Parlamento per impotenza. Morirà nel 1757 e sarà sostituito dal duca de Duras. 151 Allusione al presunto libello autobiografico così deprecato da mademoiselle Clairon.

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grandi scoppi di voce, abbondanza di gesti, transizioni pazzesche e la più volgare familiarità. Confesso che l’approvazione di siffatti giudici poco m’importava. Ascoltavo tutte le critiche, le esaminavo tra me e me senza alcun compiacimento per la mia vanità. Pregavo tutte le persone istruite affinché m’illuminassero sui miei difetti e che non risparmiassero alcun errore. All’epoca in cui recitavo, cercavo di scoprire in sala la presenza di un intenditore e recitavo per lui. Se non ne vedevo, recitavo per me stessa. Non calcolavo il più o il meno di applausi, ma solo quanto sentivo di aver più o meno meritato. Pur ammirando i talenti delle mie compagne, volevo conseguirne di ancor più autorevoli. Per quanto i loro errori fossero applauditi, mi sarei vergognata di farli. Per esempio mademoiselle Gaussin aveva un volto bellissimo, il tono di voce più emozionante possibile, il suo aspetto era elegante e ogni suo movimento aveva una grazia infantile alla quale era impossibile resistere; ma era mademoiselle Gaussin in tutto.152 Zaïre e Rodogune erano dello stesso stampo: età, condizione, tempo, luoghi, tutto aveva un identico colore. Zaïre appare come una commovente educanda di convento e Rodogune, che chiede ai suoi amanti la testa della loro madre, è certamente una donna molto altera e risoluta, e ciò non appare. È vero che Corneille ha scritto per questa parte quattro versi di un genere più pastorale che tragico:

Ci sono legami segreti, ci sono simpatie, I cui cuori in armonia, per il piacevole rapporto, Si legano l’uno all’altro e si lasciano stregare Da un non so che, impossibile da spiegare.153

Rodogune ama e l’attrice, dimentica che l’espressione del sentimento si modifica secondo il carattere e non secondo le parole, diceva questi versi con una grazia, un’ingenuità voluttuosa, giusta, secondo me per Lucinde

152 Jeanne Catherine Gaussem, detta mademoiselle Gaussin (1711-1767), debuttò alla Comédie-Française nel 1732. Dotata di grande sensibilità colpì Voltaire tanto che volle affidarle, alla sua creazione, il personaggio di Zaïre (13 agosto 1732) che restò una delle sue più celebri e acclamate interpretazioni. 153 La tragedia di Pierre Corneille, Rodogune, princesse des Parthes, [Rodogune, principessa dei Parti] fu rappresentata la prima volta al Théâtre de l’Hôtel de Bourgogne nel 1644. I versi qui riportati (atto I, scena 5, vv. 359-362) sono pronunciati da Rodogune a Laonice per giustificare la sua passione per Antioco : «Il est des nœuds secrets, il est des sympathies / Dont, par le doux rapport, les âmes assorties, / S’attachent l’une à l’autre et se laissent piquer / Par ce je ne sais quoi qu’on ne peut expliquer». Rémond de Sainte-Albine, nel suo L’Attore, cita questi stessi versi e plaude all’interpretazione di mademoiselle Gaussin (L’Attore, traduzione,introduzione e note di E. G. Carlotti, Napoli, I libri di AAR, 2012 – Acting Archives Review, n. 4 , Novembre 2012, p. 351). http://actingarchives.unior.it/Books/Libro.aspx?ID=d4257bdf-387f-44fb-82af-0e27ae73e4b9

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nell’Oracle e non per Rodogune.154 Il pubblico, abituato a quel modo, attendeva quei versi con impazienza e li applaudiva entusiasticamente. Per quanto temessi il pericolo nell’allontanarmi da quella strada, ebbi il coraggio di non mentire a me stessa. Declamai quei versi con l’irritazione di una donna fiera che si vede obbligata a confessare di essere sensibile. Non ci fu un rifiuto, ma neanche un applauso: era bastevole per il mio tentativo. Chi contraddice con irruenza il pubblico presente e va contro i pregiudizi, per quanto abbia ragione, deve ritenersi felice di non essere punito. Mi ricordavo della storia di Galileo. Ebbi il più gran successo nel resto della parte e, secondo la mia abitudine, andai, tra le due pièces, ad ascoltare dietro la porta del foyer le critiche che si sarebbero fatte. Sentii Duclos155, dell’Académie française, dire, col suo tono di voce assertivo, che la tragedia era stata ben recitata, che avevo avuto degli ottimi momenti, ma che non dovevo pensare a recitare le parti tenere dopo mademoiselle Gaussin. Stupita da un giudizio così poco misurato, temendo l’impressione che avrebbe potuto produrre su tutti coloro i quali lo ascoltavano e spinta da un moto di collera, andai da lui e gli dissi: Rodogune, una parte tenera, signore? Una Parta, una furia che chiede ai suoi amanti la testa della loro madre e regina, una parte tenera? Ecco, certo, un bel giudizio!… Spaventata io stessa dalla mia iniziativa, fui sopraffatta dalle lacrime e fuggii tra gli applausi. Tutti gli studi fatti da allora mi hanno confermato nelle mie prime idee. Voltaire le ha giustificate nel suo Commento su Corneille156 e il pubblico contento della mia fierezza quanto della sensualità di mademoiselle Gaussin, mi ha permesso di credere che non era stata una fatica sprecata e che, armandosi di pazienza, di rispetto e di ragione, si poteva a volte tenergli testa e non essere sempre della sua opinione.

Viaggio a Bordeaux157 Più procedevo nei miei studi più avevo paura. Sentivo che, isolando alcune verità, mi trovavo in contrasto con la recitazione consueta. Il timore di

154 Personaggio de L’Oracle [L’Oracolo], (commedia in un atto in prosa, 22 marzo 1740) di Saint-Foix (Germain-François Poullain de, 1698-1776). 155 Charles Pinot-Duclos (1704-1772) accademico di Francia nel 1747, autore di opere storiche, di memorie e di romanzi. 156 Commentaires sur Corneille (1764). Secondo Voltaire, Corneille per alcuni tratti avrebbe fatto di Rodogune un essere timido e innocente quale avrebbe potuto essere una persona giovane, cosa che in realtà non era avendo sposato Nicanor quando i due principi erano in tenera età, e ora sono ventenni. «Quel rossore [atto I, scena 7, v. 88], quella timidezza, quell’innocenza sembrano piuttosto esagerati per la sua età, poco si accordano con le tante massime di politica, si attagliano ancor meno a una donna che presto domanderà la testa di Cleopatra ai suoi stessi figli», Remarques sur Rodogune princesse des Parthes, in Voltaire, Œuvres complètes, cit., vol. XXXI, pp. 533-600, qui p. 553. 157 Vi si reca nel 1753 per recitarvi in una trentina di spettacoli.

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suscitare ripulse non mi lasciava il coraggio di mettere nelle mie parti le caratteristiche che desideravo. Temevo persino di non aver ancora riflettuto abbastanza per percorrere liberamente la strada che mi prefiggevo. Avvertivo l’immensa distanza fra teoria e pratica. Avevo trascorso circa dieci anni a fare ricerche approfondite quanto minuziose. Sfinita dal lavoro, temendo di vederlo inutile, credei di dover andare in una provincia qualsiasi a provare su un pubblico, privo di preconcetti e di convinzioni, l’effetto che il mio nuovo genere avrebbe potuto produrre. Mi fu accordato il permesso di recarmi a Bordeaux. La necessità di affermarmi mi fece usare, nella parte di Fedra con cui avevo debuttato, le accentuazioni, la veemenza e l’irragionevolezza che venivano applaudite a Parigi e che tanti ignoranti definiscono la bella natura. Sbalordii gli astanti, mi trovarono superba. L’indomani scelsi la parte di Agrippina, la recitai per me dal primo all’ultimo verso.158 Quel genere semplice, posato, armonico lì per lì sorprese;159 un eloquio accelerato alla fine di ogni strofe e scoppi graduati suggerivano di consueto la risposta del parterre: sapeva che in quel momento doveva applaudire e non dandogli modo di rispondere, non ricevetti l’applauso. Padrona di me stessa, ne osservai attentamente i movimenti e i bisbigli, sentii distintamente a metà della prima scena: Ma come è bello! Che bello! La strofe successiva fu normalmente applaudita e posso vantarmi del più assoluto successo nel resto della parte. Detti trentadue rappresentazioni di diverse parti, sempre nel mio modo nuovo, Arianna fu fra queste160 e gli autori dell’Encyclopédie nell’articolo Declamazione hanno voluto trasmettere ai posteri il lusinghiero ed emozionante omaggio dovuto alla verità da me ricercata.161 Nondimeno, sempre titubante, dubitando nel contempo e del pubblico e di me, volli recitare Fedra come l’avevo recitata la prima volta e vidi con entusiasmo che mi si giudicava molto mediocre; osai dire che era una prova che avevo

158 Personaggio del Britannicus di Racine: vedova di Domizio Enobarbo, padre di Nerone, e successivamente dell’imperatore Claudio. 159 «Non doveva sorprendere chi aveva visto recitare in quella parte mademoiselle Dumesnil, perché era così che recitava. Avrete un bel dimenarvi, un bel viaggiare, malgrado tutti i vostri tentativi e i vostri successi a Bordeaux, mai siete stata né così bella né così vera come Dumesnil in Agrippina; mai vi siete avvicinata a lei in quella bella parte», Mémoires Dumesnil, pp. 336-337. 160 Personaggio della tragedia omonima Ariane [Arianna], di Thomas Corneille (Théâtre de l’Hôtel de Bourgogne, 4 marzo 1672). D’Hannetaire riporta quanto aveva già raccontato Marmontel nel suo articolo Déclamation: «in occasione di una recita in provincia l’attrice aveva recitato la parte di Arianna con così tanta verità e calore, da ricevere quest’applauso così sincero e giusto. Nella scena in cui Arianna cerca con la confidente chi possa essere la sua rivale, ai versi È Mégiste, Églé che lo rende infedele, l’attrice vide un uomo, le lacrime agli occhi, che si sporgeva verso di lei e le gridava a mezza voce: È Fedra, è Fedra. Ecco il grido della natura che applaude la perfezione dell’arte», cfr. S. D’Hannetaire, Observations sur l’art du Comédien, cit., pp. 271-272. 161 Accenno al celebre articolo di Marmontel pubblicato nel III volume dell’Encyclopédie.

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creduto dover fare e che avrei recitato in modo diverso quella parte se mi si permetteva una terza rappresentazione: l’ottenni. Seguii i miei studi alla lettera per quanto mi fu possibile e si riconobbe che non c’era paragone. Incoraggiata dai successi or ora ottenuti, tornai a Parigi fermamente risoluta a lasciare il teatro o a vedervi applauditi i miei sforzi e non mi sono ritirata che tredici anni dopo. Invito tutti coloro i quali recitano a teatro a riflettere a lungo sulla mia condotta, vedranno che non ci si deve sempre giudicare sugli applausi ricevuti, spesso soltanto indice di bontà e d’incoraggiamento, a volte questione d’abitudine, di confronto con attori più mediocri o meno favoriti dalla natura; bisogna persino osar confessare che sono talora elargiti anche dall’ignoranza, da sostenitori prezzolati ed è raro trovare un pubblico che non abbia la sua vittima e il suo prediletto. Ogni giorno uno spettatore si ritira e ogni giorno ne sopraggiunge uno nuovo, dopo dieci anni non c’è quasi più nessuno dello stesso uditorio. Le tradizioni si perdono e in mancanza di buoni attori e di buoni giudici, il teatro ricade nella mediocrità dei primordi. Studiate, cercate assiduamente la verità, a forza d’impegno e di studio rendetevi degni di formare un nuovo pubblico e obbligatelo a riconoscere che professate un’arte fra tutte difficilissima e non il mestiere più vilipeso.

Lettera a monsieur Meis[ter], che desiderava ricevere per iscritto il seguente aneddoto162 Nel 1743 la mia giovinezza e i miei successi sui palcoscenici dell’Opéra e della Comédie-Française mi attirarono un seguito considerevole di giovani vanesi e di vecchi lussuriosi fra i quali ci furono alcune persone oneste e sensibili. Monsieur de S…, figlio di un mercante bretone, di circa trent’anni, di bell’aspetto, ben fatto, autore di versi facili e di spirito, fu uno di quelli che colpii più profondamente.163 I suoi propositi e il suo contegno rivelavano la più accurata educazione e la pratica della buona società; la riservatezza e la timidezza che si rivelavano solo nelle attenzioni e negli sguardi, me lo facevano distinguere fra tutti. Dopo averlo a lungo osservato nei nostri foyers, gli permisi di frequentarmi e non gli lasciai alcun dubbio sull’amicizia che m’ispirava. Vedendomi libera e sensibile, si armò di pazienza sperando che il tempo avrebbe generato un sentimento più affettuoso… Eh! chissà?… chi può dirlo?… Ma pur rispondendo con sincerità a tutte le domande dettate dal mio intendimento e dalla curiosità, comprometteva i suoi affari. Tormentato dal fatto di essere solo un

162 Giudicato ridicolo da Lemazurier che afferma che mademoiselle Clairon avrebbe fatto meglio a sopprimerlo (Galerie historique…, cit., vol. II, p. 78). Nelle sue annotazioni Barrière scrive, per giustificarla, che all’epoca l’attrice aveva tra i ventidue e i venticinque anni, età dell’immaginazione, esaltata anche dalla vita teatrale (F. Barrière, Mémoires de Mlle Clairon…, cit., p. 53). 163 Si tratta del gentiluomo bretone monsieur de Senan.

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borghese, si era servito in modo improprio dei suoi beni e li aveva scialacquati a Parigi per procurarsi titoli più importanti: ciò mi dispiacque. Vergognarsi di sé, credo sia un modo di giustificare il disprezzo degli altri. Il suo umore era malinconico, astioso; conosceva troppo bene gli uomini, diceva, per non disprezzarli e fuggirli. Aveva in progetto di non frequentare che me e di indurmi a frequentare solo lui. Ciò mi dispiacque ancor più, come ben potete immaginare. Potevo acconsentire a che mi si fermasse con i fiori e non che mi si rattenesse con catene. Vidi, fin da quel momento, la necessità di distruggere del tutto la speranza consolatoria di cui si nutriva e di ridurre il rapporto giornaliero a visite occasionali. Ciò fu causa di una grave malattia durante la quale gli resi ogni cura possibile. Ma il persistente rifiuto rendevano la ferita più profonda e purtroppo per quel povero e bravo ragazzo, il cognato, al quale aveva dato carta bianca per incassare e fargli pervenire le rendite, volendo raddoppiare la dote della moglie, aveva lasciato monsieur de S… in ristrettezze così impellenti da obbligarlo ad accettare quel poco denaro che avevo per gli alimenti e i medicamenti richiesti dal suo stato. Tutto ciò fa rabbrividire e avvertirete, mio caro Henri, l’importanza di serbare per voi questo segreto; ne rispetto la memoria e non voglio abbandonarla alla pietà spesso insultante degli uomini; mantenete per voi il religioso silenzio che rompo per la prima volta e che cede solo alla profonda stima che nutro per voi. Alla fine recuperò i suoi beni, ma mai la salute e credendo di fargli un favore allontanandolo da me, rifiutai costantemente le sue lettere e le sue visite. Due anni e mezzo erano intercorsi tra la nostra conoscenza e la sua morte. Mi fece pregare di accordare ai suoi ultimi momenti la gioia di vedermi ancora: i miei amici m’impedirono di compiere quel passo. Morì avendo vicino solo i domestici e una vecchia signora, unica compagnia che aveva da tempo. Alloggiava allora sui bastioni vicino alla chaussée d’Antin dove si iniziava a costruire, io rue de Buci in prossimità della rue de Seine e dell’abazia di Saint-Germain. Avevo mia madre e parecchi amici venivano a cenare da me. I commensali abituali erano un intendente dei Menus- Plaisirs di cui avevo di continuo bisogno presso i Gentiluomini della Camera e alcuni attori, il buon Pipelet che avete conosciuto e che vi era caro, Rosely, un mio compagno, giovane bennato, pieno di spirito e di talento.164 Le cene di quel tempo erano più allegre, per quanto modeste, di tutte le più belle feste degli ultimi quarant’anni. Avevo appena cantato delle graziosissime pastorali che avevano mandato in estasi i miei amici, quando, al rintocco delle undici seguì un grido acutissimo. La sua cupa

164 Antoine, François Raisouche Montet, detto de Rosely (1722-1750), aveva debuttato alla Comédie-Française nel 1742; dotato di sensibilità e di temperamento scomparve presto dalle scene ucciso a seguito di un duello con un attore rivale.

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modulazione e lunghezza stupirono tutti, mi sentii venir meno e per quasi un quarto d’ora restai priva di conoscenza. L’intendente era innamorato e geloso mi disse, piuttosto incollerito quando tornai in me, che i segnali dei miei appuntamenti erano troppo rumorosi. La mia risposta fu: padrona di ricevere, a qualsiasi ora chi mi piace, non servono segnali e quello che voi definite così è troppo straziante per essere l’annuncio dei piacevoli momenti che potrei desiderare. Il mio pallore, il tremore che non cessava, le lacrime che scorrevano mio malgrado e le mie preghiere perché si restasse una parte della notte, dimostravano che ignoravo cosa potesse essere. Si discusse a lungo sulla provenienza di quel grido e si decise di mettere degli osservatori in strada per sapere, nel caso si facesse di nuovo sentire, quale ne era la causa e chi l’autore. Tutti i nostri famigli, gli amici, i vicini, persino la polizia hanno inteso quel grido, sempre alla stessa ora, sempre proveniente sotto le mie finestre e che sembrava uscire dal vuoto dell’aria. Non ebbi alcun dubbio che non fosse per altri che per me. Cenavo raramente in città, ma i giorni in cui accadeva, il grido non si sentiva e varie volte, nel momento di chiederne notizia a mia madre e ai miei famigli quando rientravo l’urlo partiva in mezzo a noi. Una volta il presidente de B…, presso il quale avevo cenato, volle riaccompagnarmi per accertarsi che non mi succedesse nulla per strada. Al momento di augurarmi la buonanotte sulla porta, il grido partì fra noi due. Come tutti a Parigi conosceva quella storia, tuttavia fu fatto salire in vettura più morto che vivo. Un’altra volta pregai il mio compagno Rosely di accompagnarmi rue Saint- Honoré per scegliere delle stoffe e per fare poi visita a mademoiselle de Saint-P… che dimorava nei pressi della porta Saint-Denis. L’unico argomento di conversazione, nei due tragitti, fu il mio spettro (così lo si chiamava). Quel giovane, pieno di spirito, non credendo a nulla, era tuttavia colpito dalla mia avventura, mi spingeva a evocare il fantasma promettendomi di crederci se mi avesse risposto. Per debolezza o per ardire, feci quanto mi chiedeva: il grido partì a tre riprese, terribili per possanza e rapidità. Arrivati alla porta della nostra amica, ci volle l’auto di tutti per tirarci fuori dalla carrozza dove eravamo entrambi privi di conoscenza. Dopo questa scena passarono alcuni mesi senza che sentissi nulla. Credevo che me ne fossi liberata per sempre, m’ingannavo. Tutti gli spettacoli erano stati richiesti a Versailles per il matrimonio del Delfino.165 Dovevamo restarvi tre giorni, alcuni alloggi erano stati

165 Louis-Ferdinand de France (1729-1765), il Delfino, primogenito di Luigi XV (1710-1774), sposava nel 1747 Marie-Josèphe de Saxe.

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dimenticati. Madame Grandval ne era priva.166 Attesi inutilmente con lei che gliene fosse trovato uno. Alle tre di notte, le offrii di dividere la stanza a due letti che mi avevano assegnata nell’avenue de Saint-Cloud: accettò. Le detti il letto piccolo, quando vi si stese, mi misi nel mio. Mentre la mia cameriera si spogliava per coricarsi accanto a me, le dissi: Siamo in capo al mondo, c’è un tempo orribile, il grido difficilmente potrebbe venirmi a cercare qui… Esplose! Madame Grandval credé che l’inferno intero fosse nella stanza; corse in camicia su e giù per la casa dove nessuno riuscì a chiuder occhio per il resto della notte, ma almeno fu l’ultima volta che si fece sentire. Circa una settimana dopo, parlando con i miei amici abituali, i rintocchi delle undici furono seguiti da una fucilata sparata verso una delle mie finestre. Tutti noi udimmo il colpo e vedemmo la fiammata, la finestra era indenne. Giungemmo alla conclusione che si attentava alla mia vita, che ero stata mancata ma che in avvenire si dovevano prendere delle precauzioni. L’intendente si precipitò da monsieur de Marville, a quel tempo luogotenente di polizia e suo amico. Fu subito ispezionata la casa di fronte alla mia. I giorni successivi furono sorvegliate dall’alto in basso, si controllò la mia; la strada fu occupata da un numero incredibile di piantoni, ma, malgrado tali accorgimenti e durante tre mesi di fila, quella deflagrazione fu intesa e vista colpire sempre alla stessa ora, nello stesso vetro della finestra, senza che nessuno abbia mai potuto vedere da qual punto partisse. Questo fatto è stato constatato nei registri della polizia. Abituata al mio spettro che giudicavo un buon diavolo visto che si limitava a giochi di prestigio, senza por attenzione all’ora e avendo molto caldo, aprii la finestra e con l’intendente ci affacciammo al balcone. Suonano le undici, il colpo parte e ci scaraventa entrambi al centro della stanza dove cadiamo mezzi morti. Dopo esserci ripresi, considerando che non avevamo nulla, guardandoci e riconoscendo di aver ricevuto, lui sulla guancia sinistra, io su quella destra, lo schiaffo più terribile mai preso, ci mettemmo a ridere come pazzi. L’indomani niente. Il giorno successivo invitata da mademoiselle Dumesnil a partecipare a una festicciola notturna che dava nella sua abitazione della barrière Blanche, alle undici presi un fiacre con la mia domestica. C’era un bellissimo chiaro di luna e attraversammo i viali dove si cominciavano a costruire case: osservavamo i lavori in corso quando la mia domestica mi chiese: Non è qui che è morto monsieur de S…? Dalle informazioni che mi sono state date dovrebbe essere, le risposi indicandole con la mano, una delle due case di fronte a noi. Da una di quelle partì la stessa fucilata che mi perseguitava, attraversò la nostra vettura, il fiaccheraio raddoppiò l’andatura pensando di essere attaccato

166 Marie Geneviève Dupré, detta Madame de Grandval (1711-1783) in quanto aveva sposato nel 1732 l’attore François Charles Racot de Grandval. Entra alla Comédie-Française nel 1734 per recitare soprattutto nel genere comico.

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dai ladri; arrivammo all’appuntamento appena riavuteci e personalmente pervasa da un terrore che, lo confesso, ho serbato a lungo; ma fu l’ultima prodezza dell’arma da fuoco. All’esplosione subentrò un batter di mani con una certa misura che via via s’intensificava: quel rumore al quale ero abituata dalla generosità del pubblico per un po’ non mi spinse a fare alcun commento, ma lo fecero i miei amici. Siamo stati in guardia, mi dissero, si verifica alle undici e sembra prodursi quasi sotto la vostra porta; lo sentiamo, non vediamo nessuno, non può essere che il seguito di quanto è successo. Dato che quel rumore non aveva nulla di terribile, non osservai la data della sua durata, né feci attenzione ai suoni melodiosi che si fecero sentire in seguito: sembrava che una voce celestiale accennasse all’aria nobile e struggente che avrebbe cantato; la voce iniziava dal carrefour de Buci e finiva alla mia porta. E come era successo con tutti i rumori precedenti, si susseguivano, si sentivano e non si vedeva nulla. Infine tutto cessò dopo circa due anni e mezzo. La casa da me occupata era molto rumorosa per la vicinanza del mercato e il numero di affittuari che vi abitavano, avevo bisogno di maggior calma per i miei studi e per la mia salute già molto compromessa, non ero più così indigente e desideravo star meglio. Mi parlarono di una casa in rue des Marais, al prezzo di milleduecento libbre.167 Mi dissero che Racine vi aveva abitato per quarant’anni con tutta la sua famiglia, che lì aveva composto le sue opere immortali e lì era morto e che poi la commovente Lecouvreur l’aveva occupata, abbellita e che anche lì vi era morta.168 Già le mura di questa casa devono bastare, mi dicevo, a farmi comprendere la sublimità dell’autore e a farmi raggiungere il talento dell’attrice, è in questo santuario che devo vivere e morire! Mi fu concessa e un cartello fu posto su quella da me occupata. Fra quelli che cercavano un alloggio, si intrufolarono molti curiosi. Il pubblico non mi vedeva mai se non a teatro, volle osservarmi senza corona e senza il sostegno di Corneille, Racine e Voltaire, ridotta insomma al comportamento semplice, ai discorsi comuni di una borghese.

167 Il nuovo alloggio, dove si trasferisce nel settembre 1748, non è lontano dal precedente domicilio, oggi rue Visconti; al n° 20 aveva vissuto e vi era morto Racine nel 1699; al n° 16 Adrienne Lecouvreur vi aveva abitato fino alla sua scomparsa, il 20 marzo 1730. Le successive dimore di mademoiselle Clairon prima di lasciare la Francia saranno: rue Vivienne (agosto 1765) e poi rue du Bac (1768-1773). 168 Adrienne Couvreur, detta mademoiselle Lecouvreur (1692-1730), insuperata grande interprete del repertorio classico, iniziò la sua carriera su alcuni palcoscenici privati, debuttando con successo alla Comédie-Française il 27 marzo 1717 nell’Elettra di Crébillon. Seguendo i consigli e l’esempio di Baron, col suo grande talento riuscì a imporre una recitazione naturale e sensibile. Alla sua morte improvvisa, avvenuta in circostanze misteriose, assisté Voltaire che denunciò lo scandalo del corpo di Adrienne abbandonato nottetempo in un terreno incolto lungo la Senna, la sepoltura religiosa essendo negata agli attori che prima di morire non avessero fatto atto formale di pentimento per la loro professione.

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Sono sicura che il mio morale non perse nulla, ma restavano la mia anima e le mie abitudini. Ma voi sapete che sono piuttosto bassa e avrete certamente inteso dire che mi credevano di circa sei piedi. Nell’intimità non ero che me stessa, non mi servivo dell’arte se non a teatro:169 temevo che vedendomi da vicino mi si togliesse dalla mia piccola statura il doppio di quanto si aggiungeva abitualmente. Sapevo già che non ci si impone agli uomini e che non si può pretendere nulla da loro. Per fortuna allora i miei connazionali non riflettevano e potei persino constatare che credevano che crescessi giorno dopo giorno. Che digressione! mi direte, la vostra strana storia è già troppo lunga; abbreviate, non aggiungete… Ammetto che avete ragione, ma voi mi avete chiesto questa storia, non sapendo cosa ne volete fare, non devo omettere alcunché. Non posso tracciare una sola parola senza avervi presente nella mente quanto interessante al mio cuore. È colpa mia se gli anni, i malanni, la sfortuna mi lasciano ancora le illusioni di un’anima sensibile? Scrivo per voi. M’immagino di parlarvi e che ascoltate le mie storielle e i miei noiosi racconti con quella gentile dolcezza che vi rende così caro ai vostri amici e così prezioso in società e, ahimè, con quanto rammarico mi separo dalla mia chimera consolatoria!… Su, riprendiamo il racconto. Vennero a dirmi che una signora anziana chiedeva di vedere il mio appartamento e che era lì. È stato sempre uno dei miei principi di testimoniare la massima considerazione per la vecchiaia: le andai incontro. Un’emozione a mala pena controllata me la fece guardare a lungo dalla testa ai piedi e l’emozione raddoppiò quando mi accorsi che provava e si comportava come me. Potei, infine, proporle di sedersi, accettò; era necessario per entrambe. Il silenzio continuava, ma gli sguardi non lasciavano alcun dubbio sul desiderio che avevamo di parlare: sapeva chi ero, io non la conoscevo, sentivo che toccava a lei rompere il silenzio, ed ecco la nostra conversazione. «Da lungo tempo, mademoiselle, provo il più vivo desiderio di conoscervi. Non frequentando il teatro, non conoscendo nessuno di coloro ai quali accordate il piacere di vedervi e non volendo spiegarmi per iscritto temendo che una lettera, che avrebbe potuto lasciarvi dei dubbi sulle mie

169 Dichiarazione smentita poi dalla stessa mademoiselle Clairon che affermava che non si può essere borghesi e al tempo stesso regine, per altro anche la stampa del tempo aveva notato il suo portamento regale al di fuori del palco. Così Julien Louis Geoffroy ironizza sul suo modo di porsi: «Mademoiselle Clairon ha spinto fino al ridicolo l’alta opinione che aveva di se stessa, del suo stato e del suo talento: era sempre in scena in società come a teatro; aveva, parlando agli amici, alla cameriera, la dignità e l’altezzosità di una regina. […] è forse questo vizio alla base di parte della sua reputazione e persino del suo merito teatrale», Cours de littérature dramatique, ou recueil par ordre de matières des feuilletons de Geoffroy, précédé d’une notice historique sur sa vie et ses ouvrages, Paris, Blanchard, 1825, 5 voll., vol. VI, p. 171.

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motivazioni, fosse rifiutata; il cartello messo per l’appartamento mi fornisce alfine questo prezioso momento, perdonatemi. Vi confesso che non è esso ad attirarmi, non sono abbastanza ricca per permettermelo, ciononostante vi pregherò di farmelo visitare; i luoghi da voi abitati sono interessanti da conoscere. Il vostro celebre talento non lascia dubbi sul vostro spirito, vedo che non mi hanno ingannata sul vostro sembiante, desidero sapere se il racconto dei luoghi è altrettanto fedele e seguire qua e là il mio sventurato amico nelle sue speranze e nella sua disperazione… – Mi sembra, signora, che l’agitazione in cui mi vedete e che ogni vostra frase ingigantisce, vi obbliga in modo pressante a dirmi chi siete e di chi parlate, infine che desiderate da me: il mio carattere non può accettare di essere lo zimbello o il martire di chicchessia. Parlate, o me ne vado. – Ero, mademoiselle, la migliore amica di monsieur de S…, e la sola che abbia voluto incontrare nell’ultimo suo anno di vita, ne abbiamo insieme contato ogni giorno e ogni ora, parlando di voi, vedendovi talvolta come un angelo talaltra, come un diavolo, io spingendolo sempre a cercare di dimenticarvi, lui asserendo sempre che vi avrebbe amato persino aldilà della tomba… I vostri occhi che vedo pieni di lacrime, mi permettono di chiedervi perché l’avete reso così infelice e come, con un’anima onesta e sensibile, avete potuto rifiutargli la consolazione di parlarvi, di vedervi una volta ancora?… – Al cuore non si comanda. Monsieur de S… aveva pregi e qualità stimabili, ma il suo carattere cupo, astioso, dispotico mi ha fatto temere nel contempo la sua compagnia, la sua amicizia e il suo amore. Per renderlo felice avrei dovuto rinunciare a qualsiasi relazione sociale e persino al mio talento. Ero povera e fiera, voglio, e spero volerlo sempre, non dover nulla che a me stessa. L’amicizia che m’ispirava mi ha fatto tentare di tutto per ricondurlo a sentimenti più tranquilli e più equanimi, non riuscendoci, persuasa che la sua ostinazione dipendesse più dalla violenza del carattere che dall’eccesso della passione, ho preso e mantenuto la risoluzione irremovibile di separarmene del tutto. Ho rifiutato di vederlo nei suoi ultimi istanti perché quello spettacolo mi avrebbe straziato il cuore, perché ho temuto di mostrami troppo crudele nel rifiutare quanto avrebbe potuto chiedermi e troppo infelice nell’accordarlo; ecco, signora, i motivi della mia condotta, oso pensare che non mi procurerà il biasimo di chicchessia. – Condannarvi, sarebbe forse un’ingiustizia, ci si deve sacrificare solo per i propri giuramenti, i parenti, i benefattori e su questo punto non eravate voi, lo so, a esser tenuta alla riconoscenza e vi assicuro che la sua anima ben sapeva quanto vi doveva, ma il suo stato e la passione lo dominavano e i vostri ultimi rifiuti hanno affrettato il momento finale. Contava ogni minuto, quando alle dieci e mezzo il lacchè è venuto a dirgli che di sicuro non sareste venuta. Dopo un momento di silenzio mi prese la mano con un riacutizzarsi della disperazione che mi spaventò. Crudele!… non ci

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guadagnerà nulla; la perseguiterò dopo morto quanto l’ho perseguitata in vita!… Cercai di calmarlo, ma era spirato!…». Credo, amico mio, di non aver bisogno di descrivervi l’effetto che queste ultime parole fecero su di me; l’analogia che presentavano con le apparizioni mi riempì di terrore, credei che tutte le potenze infernali e celesti si sarebbero riunite per tormentare la mia povera vita; ma la sospensione, almeno apparente, il tempo e la ragione meglio rinsaldata, riportarono serenità ai miei sensi. Se nulla muove questo universo, mi dicevo, niente può riportare un cadavere in vita. Se c’è un Dio, come tutto me l’attesta, è giustizia e bontà e non rimanda su questo triste e doloroso mondo coloro che ne sono stati allontanati! Chi mai sono io? Cosa sono per osar credere che si adoperi a farmi degli scherzi? Che ci dia, con qualche impedimento apparente della natura, avvertimenti della sua collera o della sua bontà e mezzi per evitare la sventura e il crimine, il suo interessamento è degno del signore del mondo: l’universo intero può occuparlo. Ma il singolo, paragonato alla sua immensità, non è, ai nostri deboli occhi che un granello di sabbia. Adoriamo, rendiamoci degni, non pretendiamo nulla. Questo breve ragionamento e un esame di coscienza che non mi facevano sentire né peggio né meglio per quanto era accaduto di straordinario, mi hanno portato ad attribuire ogni cosa al caso… Non so cosa sia il caso, ma non posso negare che quello che chiamiamo così non abbia la più grande influenza su quanto avviene nel mondo. Riprendete fiato. Ecco la mia storia e la fine delle mie riflessioni. Fate di tutto ciò quanto vi aggraderà fare. Se sarà vostra intenzione che questo scritto esca dalle vostre mani, vi prego di sopprimere la lettera iniziale del nome e la denominazione della provincia. Vi invio l’originale affinché possiate giudicare dal mio scritto, così al di sopra delle mie forze, il mio intangibile e tenero affetto per voi.

Il vestito, o la visita del maresciallo di R[ichelieu] Come, siete voi, maresciallo! Eh! buon dio, quale bella signora o quale affare urgente vi fa uscire così presto?170 – Sono salito in carrozza alle nove, vengo dallo sprofondo del Marais e benché abbia ancora molta strada da fare, ho voluto vedervi. Ho bisogno di voi. Organizzo stasera uno spettacolo in onore della duchessa di Gra[mmont], porterà il suo bel mondo, verrà il fratello; so che gli piacete, che quella corte è di vostro gradimento, vengo a pregarvi di onorare la mia festa. – Mi dite cose dell’altro mondo! Solo quattro giorni fa eravate come cani e gatti e oggi

170 Si chiede giustamente Barrière se: «una storia simile fa onore ai principali personaggi che vi figurano. Il maresciallo di Richelieu recita il ruolo di un libertino, mademoiselle d’Epinay di una personcina molto accomodante, e mademoiselle Clairon, malgrado la sua grande dignità, quella di una compiacente che si presta agli amori del maresciallo, ciò che le permette di essere introdotta nell’alta società» (F. Barrière, Mémoires de Mlle Clairon…, cit., p. 70).

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organizzate feste? Qual è la causa di questa sorprendente rivoluzione? – Oh! non c’è tempo per raccontarvi tutto, ho troppe cose da fare. Ci dobbiamo riunire alle cinque e mezzo per iniziare lo spettacolo alle sei, desidererei che possiate venire prima. Ho promesso di stilare la lista delle gratifiche e dato che conoscete meglio di me chi è meritevole, mi farete questa distribuzione e questa sera porterete il foglio che La Ferté farà copiare durante lo spettacolo.171 – Desolata, maresciallo, di non poter fare quanto desiderate, oggi mi è impossibile uscire. – Perché mai? – Sto male. – Non è vero: avete il miglior aspetto possibile. Non siete ancora agghindata e scommetto che nessuno vi darebbe trent’anni. – Come siete galante stamane; eppure è verissimo che sono molto sofferente e peraltro ho degli studi urgenti. – Non sono buone ragioni. So che non state preparando nulla di nuovo, sono sicuro che siete trattenuta da qualche appuntamento e che volete consacrare la giornata al vostro maledetto amore. – Val[belle] non è a Parigi. – Ebbene! Allora è qualcun altro. – Mi spazientite. – Mi spazientite ancor più. – Ma perché volere che venga al vostro spettacolo? In cosa può esservi utile? – In primo luogo vi divertirà. Saranno rappresentati due deliziosi drammi lirici cantati dalla giovane Nécelle che spianeranno le rughe della vostra augusta fronte e parlerete con Monsieur de Choi[seul], che non vi dispiace. – Bah! Ci sarà la sorella. – Sapete tutto. – Ho, se non altro, ricordato quanto mi avete detto più di cento volte. – È quasi mezzogiorno, in nome di dio, venite o mi bisticcio con voi. – Poiché bisogna dirvi la verità: non ho un vestito. – Scherzate? – Ahimè, no! – Avete il più bel guardaroba possibile. – Non l’ho più: gli scarsi incassi che facciamo mi hanno obbligata a vendere la maggior parte dei miei vestiti e dei miei gioielli; tutto il resto è dato in pegno, non ho un vestito con il quale osare mostrarmi, soprattutto a una festa. – Parola d’onore? – Parola d’onore. – Viva l’amore! Che bella cosa! Come, neanche un vestito nero? – Un vestito nero? quello sì. – Ah, respiro. – Non ha senso andare a una festa vestita a lutto. – Non è una festa, è semplicemente uno spettacolo e potete far morire un vostro parente senza che nessuno abbia sospetti. – Sono d’accordo, ma non ho una compagna. – Prendete mademoiselle d’Epin[ay].172 – Sarà libera? – Sì. – Ah! ecco allora perché insistete così tanto. – È incantevole, non è vero? – Chiedetelo al duca di Du[ras], lo sa meglio di me. – È furioso contro di me, ma le cose si sistemeranno. – Ma mi crederà vostra complice e

171 Denis-Pierre-Jean Papillon de La Ferté, intendente e controllore della Camera del re, fungeva da intermediario fra gli attori e i Gentiluomini della Camera fino alla Rivoluzione. Autore di un Journal sul periodo 1756-1780, sarà ghigliottinato in pieno Terrore il 7 luglio 1794. 172 Si tratta di Pierrette-Claudine-Hèlene Pinet (1740-1782): aveva debuttato alla Comédie- Française nel 1761, sposerà l’attore Molé nel 1769 dopo anni di convivenza. Secondo Edmond de Goncourt all’epoca (anni 60) era l’amante del marchese Joseph-Ignace de Valbelle, fratello maggiore dell’amante di mademoiselle Clairon (Mademoiselle Clairon…, cit., p. 147).

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non voglio essere implicata in tutte le vostre porcherie. – Ah! ecco che vi rimettete il vostro diadema. In nome di dio, finiamola! Mademoiselle d’Epin[ay] è avvertita, verrà a prendervi alle quattro. Cercate di essere più umana. – Mi fate pena. Verrò. – Parola! – Ve lo prometto. – In verità siete incantevole. A dopo.

Seguito della giornata La toilette della mia compagna era stata più lunga del dovuto, arrivammo tardi. Il maresciallo era troppo attorniato perché entrassimo negli appartamenti; andammo subito a prender posto; ci inviò un valletto per pregarci di attenderlo nel suo gabinetto dopo lo spettacolo e mi fece dire che vi avrei trovato tutti i documenti necessari per il lavoro di cui avevamo parlato. Poco dopo vedemmo arrivare la duchessa di Gr[ammont], accompagnata dal maresciallo di R[ichelieu]; il duca di Ch[oiseul] dava la mano alla duchessa di Lau[raguais] e il duca di Gon[taut] alla contessa d’Egm[ont], ho dimenticato il resto. Passando la duchessa di Gr[ammont], di cui non avevo mai udito il tono di voce, disse Ah! ecco mademoiselle Clairon! In quel momento il suo volto, non esprimendo né piacere né cortesia, credei che fosse in una terribile collera nel trovarmi lì. Tutte le altre gentildonne mi salutarono con aria amabilissima, ma nulla poté cancellare il turbamento causato dalla duchessa. Mi scoppiò un terribile mal di testa, lo spettacolo mi annoiò, ne desideravo la fine per potermi ritirare, la temevo per paura di qualche altra apostrofe nel passarmi davanti, mi fece invece un semplice cenno del capo che, terrorizzata com’ero, trovai delizioso. Il duca di Ch[oiseul] mi aveva guardata piuttosto spesso, ma non mi parlò; l’avevo previsto. Quando tutti furono usciti ci recammo nel gabinetto del maresciallo attraverso una scala segreta; tutte le porte dell’appartamento erano aperte e il brusio e le luci indicavano che c’era folla nel salotto contiguo a quello in cui stavamo; trovai sullo scrittoio le carte di cui avevo bisogno e mi misi al lavoro. Ma la penna mi cadde presto di mano: si fece sentire quella terribile voce, credei che il fulmine mi piombasse in testa. Ma a forza di prestare l’orecchio a quanto si diceva, sentii delle cose molto argute, molto cortesi con lo stesso tono che mi aveva spaventata, mi tranquillizzai e ringraziai dio di non avere una voce come quella. Spazientita dalla riunione che non accennava a finire, andavo di quando in quando a guardare alla porta se non se ne andavano. La duchessa di Gr[ammont] intravide qualcosa e disse al maresciallo: C’è qualcuno nel vostro gabinetto. È mademoiselle Clairon, rispose, l’ho pregata di stabilire lo stato delle gratifiche. – Sarei molto contenta di incontrarla, fatela venire. Il maresciallo disse una parola a bassa voce alla mia compagna che mi

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prese per mano e mi condusse nel salotto dove trovai anche la duchessa di Lau[raguais] e il duca di Gon[taut]; entrambi si alzarono per salutarmi.

MADAME DE GR[AMMONT] Mi fa molto piacere incontrarvi, perché non eravate con noi?

MADEMOISELLE CLAIRON Non credevo, signora, nella felicità di essere desiderata; solo la vostra richiesta poteva darmi l’idea di presentarmi.

MADAME DE GR[AMMONT] Da tempo desideravo conoscervi; non perdo mai l’occasione di andare a teatro i giorni in cui so che reciterete, soprattutto se si tratta di Corneille; siete ancora più sublime. Ho visto Cinna tre volte di seguito. È sorprendente la vostra declamazione in quella parte, soprattutto… Tout beau!173 Duchessa, l’avete sentita?

MADAME DE LAU[RAGUAIS] (con voce dolcissima) No, non ho avuto quel piacere.

MADAME DE GR[AMMONT] Andate a vederla, sarete in estasi, soprattutto per quel Tout beau!; è incredibile.

MONSIEUR LE DUC DE GON[TAUT] L’ho sentita e, come voi, duchessa, ne sono stato molto colpito.

MADAME DE GR[AMMONT] È una vecchia espressione che non oseremmo usare oggi, che certamente non fu mai degna della tragedia e che lei rende così nobile, così maestosa, che non si crede possibile sostituirla con un’altra.

IL MARESCIALLO Mademoiselle Clairon è certamente la più grande attrice mai esistita: ho visto le Duclos, le Desmares, la famosa Lecouvreur: lei è al di sopra di tutte.174

173 P. Corneille, Cinna, ou la Clémence d’Auguste [Cinna, o la clemenza d’Augusto] (Théâtre de l’Hôtel de Bourgogne, 1640-1641); la battuta è pronunciata da Emilia nella scena con Fulvia (atto I, scena 3, v. 125): «Tout beau, ma passion, deviens un peu moins forte» [Calmati, passione mia, fatti un po’ meno forte]. L’espressione «tout beau» significa alla lettera: piano, un momento. 174 Marie-Anne de Châteauneuf, detta mademoiselle Duclos (1668-1748), sociétaire dal 1696 fino al suo ritiro definitivo nel 1736. Aveva debuttato alla Comédie-Française nel 1693,

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MADAME DE GR[AMMONT] Lo credo bene. Perché siete vestita di nero?

MADEMOISELLE CLAIRON Porto il lutto di una cugina.

(il maresciallo scoppia a ridere)

MADAME DE GR[AMMONT] Di che ridete?

IL MARESCIALLO Della povera creatura che uccide.

MADAME DE GR[AMMONT] Che significa?

IL MARESCIALLO Non ha che quel vestito!

MADAME DE GR[AMMONT] Bah! Ha il più bel guardaroba al mondo, a quanto si dice.

MADEMOISELLE CLAIRON Per rispondere a quanto richiede il teatro, signora, sono stata obbligata a vendere tutto quanto mi serviva per agghindarmi in città.

MADAME DE GR[AMMONT] Perché? Non ha la sua parte?

MADEMOISELLE CLAIRON Scusatemi, signora, ho la mia parte; ma i duemila scudi di reddito, di media, senza una grazia particolare della corte, bastano appena alle esigenze di prima necessità, e poiché la leggerezza del Maresciallo mi obbliga, gli farò l’onta di confessare che sono in ristrettezze.

prima come sostituta della Champmeslé e poi come prima interprete nelle parti tragiche fino all’arrivo di Adrienne Lecouvreur. In contrasto con la recitazione semplice e naturale di Baron aveva adottato una declamazione ampollosa e cantilenante. Marie Desmares, detta mademoiselle Champmeslé (1642-1698), celebre interprete delle parti raciniane, tutte da lei create, fu acclamatissima per sensibilità ed espressività sui palcoscenici dell’Hôtel de Bourgogne e poi del Théâtre Guénégaud.

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MADAME DE GR[AMMONT] Maresciallo, è orribile.

IL MARESCIALLO È colpa sua, signora, non mia. Perché si rifiuta di fare come le altre? Potrebbe navigare nell’oro; ma si vuole solo un sentimento delicato e puro: l’amore, la costanza, comportamenti dell’altro mondo! Si rifiutano tutte le offerte vantaggiose, e si muore di fame con Céladon.175

MADEMOISELLE CLAIRON (dopo un istante di riflessione) Poiché avete sopportato, signore, una scena così poco degna delle vostre orecchie, spero che mi accorderete il permesso di rispondergli.

LE DUE SIGNORE Nulla di più giusto.

MADEMOISELLE CLAIRON Monsignore, ogni giorno siete assalito dalle richieste generali e personali di aiuto di cui gli attori non possono più fare a meno. La nostra indigenza è estrema, gl’incassi diminuiscono ogni giorno, e sarete d’accordo, lo spero, che non è né per mancanza di talento né di zelo. Fra noi ci sono donne anziane e uomini, non potete proporre loro l’onesta risorsa di farsi mantenere: andate almeno in loro aiuto. Vi ho appena dato un buon esempio da seguire. Mi avete incaricata di fissare la somma delle gratifiche, degnate gettare lo sguardo su questa situazione, vi troverete cancellato il mio nome, e le cento pistole che ricevo abitualmente, distribuite su tutti gli altri.

IL MARESCIALLO È una Bélise!…176

MADEMOISELLE CLAIRON Non temo che mi crediate suscettibile, e oso sperare che vedrete in questo sacrificio solo l’indispensabile necessità di venire in nostro aiuto. Ma, monsignore, andiamo a quanto mi riguarda personalmente: avete appena

175 Personaggio dell’eterno innamorato nel romanzo pastorale L’Astrée di Honoré d’Urfé (1567-1625). «È di una massima indelicatezza – scrive mademoiselle Dumesnil – scegliere il maresciallo de Richelieu per fargli tenere un linguaggio tanto triviale quanto poco misurato. Il suo stile nella conversazione era il più brillante per cortesia, finezza e buone maniere. La cittadina Hyppolite ci permetterà di credere che tutto ciò non è che un brutto sogno», Mémoires Dumesnil, pp. 351-352. 176 Sorella di Chrysale nella commedia Les Femmes savantes di Molière.

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avuto la bontà di dire che avevo un enorme talento e posso permettermi di credere che si pensa come voi in alcune parti dell’Europa. L’imperatrice Elisabetta177 mi ha fatto offrire quarantamila franchi di appannaggio annuo, una casa arredata, una carrozza, un coperto per sei persone, mattina e sera; ho rifiutato e avete trovato che avevo ragione. Quello stato era tuttavia più sicuro, più vantaggioso e più onorevole di quello di una mantenuta, e ho pensato che un così grande sacrificio, conosciuto dai miei superiori e dallo stesso re, non mi avrebbe più lasciata nell’orribile alternativa o di mancare di sussistenza o di degradarmi per trovarla, ma questo sacrificio mi è valso l’onore di vedere il mio quadro di Medea contornato da una cornice ordinata dal re e, da parte vostra, monsignore, ogni prova possibile di leggerezza, di sconsideratezza e di disumanità. Non dovevo certamente aspettarmele dall’amicizia alla quale mi avete ordinato di credere. Sappiate, monsignore, che è impossibile essere una grande attrice senza avere una grande nobiltà d’animo: sono tenuta a rappresentare quanto l’universo ha visto di più rispettabile e non posso essere contemporaneamente Semiramide e Marion de Lorme.178 Non ho né il lignaggio né la fortuna per farmi rispettare, ma la mia coscienza, infinitamente al di sopra del mio stato, vi impone la legge di avere almeno dei riguardi nei miei confronti.

IL MARESCIALLO Vi assicuro che…

MADAME DE LAU[RAGUAIS] Tacete, maresciallo, non c’è nulla da replicare a tutto ciò.

MADAME DE GR[AMMONT] No, proprio nulla: lei ha tutte le ragioni. Ma, mademoiselle, so nondimeno che siete troppo fiera. Mio fratello mi ha detto che vi aveva offerto un aiuto e che voi l’avete rifiutato, perché?

MADEMOISELLE CLAIRON Siate il mio giudice, signora. Il duca di Choi[seul], è di per sé un gran signore, è re di Francia, almeno in seconda, ha tutta l’intelligenza possibile, amabilità, lignaggio; la grazia che associa a quanto dice, a quanto concede, di fatto, credo, uno dei più seducenti personaggi al mondo. Sono sensibile, se aggiungessi il dovere della riconoscenza a tutti i sentimenti che m’ispira,

177 Mademoiselle Clairon accenna qui alla proposta fattale, tramite la principessa Galitzine, moglie del ministro plenipotenziario di Russia a Vienna, di trasferirsi alla corte dell’imperatrice di Russia, Elisabetta Petrovna (1709-1762, sul trono dal 1741). 178 Celebre cortigiana (1613-1650) la cui vita particolare nell’alta nobiltà parigina dell’epoca, ha ispirato più di un romanziere.

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potrebbe darsi che questo mi porterebbe troppo in là… Non disapproverete forse che eviti questo pericolo? Che non gli lasci i mezzi di sospettare di un vile interesse i rispettosi omaggi che tanto mi fa piacere rendergli? Ma per meglio provarvi, signora, che la mia fierezza non mi acceca, il maresciallo vi ha appena detto che non avevo un vestito, degnatevi di regalarmene uno e mi onorerò di indossarlo.

MADAME DE GR[AMMONT] (commossa e abbracciando mademoiselle Clairon) Siete incantevole! Proprio incantevole! Domani ne avrete uno. Vi ringrazio di questa preferenza e dei bei momenti che mi avete fatto trascorrere. Avete la fortuna, maresciallo, di non cenare con me, vi avrei rimproverato per tutta la serata. Mademoiselle, ogni volta che andrete a Versailles, vedrete mio fratello, mettetevi d’accordo tutti e due come vorrete, ma offritemi qualcuno di quei momenti… Non esiste maggior brio, maggior eloquenza; voglio conversare con voi: promettetemi che verrete a trovarmi.

MADEMOISELLE CLAIRON Il dovere che mi ordinate, signora, sarà per me molto piacevole da assolvere.

MADAME DE GR[AMMONT] (guardando l’orologio a pendolo) Ah! mio dio! sono quasi le undici; non me ne ero accorta. Signora duchessa, andiamo via subito… Quando verrete a Versailles?

MADEMOISELLE CLAIRON Giovedì prossimo.

MADAME DE GR[AMMONT] Vi aspetterò.

MADEMOISELLE CLAIRON Non mancherò per nulla al mondo.

Nota sul quadro di Medea di cui si è detto in precedenza Questo quadro dipinto da Carle Van Loo, primo pittore del re,179 mi era stato regalato da madame de Galitzine, principessa russa, che degnava considerarmi sua amica e che fu incaricata di tutte le proposte

179 Carle Van Loo (1705-1765) era stato nominato da Luigi XV nel 1762, primo pittore del re: godeva di immensa fama come autore di soggetti storici, biblici e mitologici, fu anche ricercato ritrattista.

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dell’imperatrice Elisabetta. Luigi XV volle vedere il quadro.180 Dopo averlo a lungo esaminato fece l’elogio più lusinghiero del pittore e del soggetto rappresentato e aggiunse: «Ci sono solo io che possa far mettere una cornice a questo quadro e ordino che la si faccia la più bella possibile». La cornice è costata cinquemila franchi.181 Le riduzioni dell’abate Terray, non mi lasciarono altra scelta che quella di vendere tutti i miei beni e di ritirarmi in Germania. Il margravio di Anspach mi sollecitava a raggiungerlo nei suoi stati, dovetti decidermi a disfarmi di quello splendido quadro. M. Randon de Bossette venne a offrirmi ventiquattromila franchi, gli chiesi qualche giorno per decidermi. Nel frattempo il margravio mi scrisse che se era mia intenzione venderlo, mi chiedeva di dargli la preferenza, mi decisi di fargliene omaggio. Mi furono richiesti cinquanta luigi per una ripulitura, per smontarlo, imballarlo e trasportarlo a Strasburgo: li pagai. Si trova nel castello del margravio,

180 Il quadro era stato commissionato al pittore dalla principessa Galitzine per farne dono all’attrice di cui era fervente ammiratrice; della stessa dimensione del Sacrificio di Ifigenia, dipinto per il re di Prussia, era stato esposto al Salon del 1759. Rappresenta l’attrice nel quinto atto della tragedia di Longepierre: Medea con in mano la fiaccola e nell’altra il pugnale viene trasportata sul carro magico tirato da due draghi per sfuggire alla vendetta di Giasone (che ha il volto di Lekain, interprete con lei nella tragedia) che sta per sfoderare la spada e al quale indica i figli sgozzati ai suoi piedi; sullo sfondo il palazzo di Creonte in fiamme. Un disegno preparatorio per la testa di Medea figura nella collezione della Comédie-Française. Quadro tanto più interessante dal punto di vista della ritrattistica in quanto, come riferisce Charles de Mouhy, il pittore recatosi all’ultima rappresentazione della Medea restò così colpito dalla recitazione di mademoiselle Clairon da volerne fare subito uno schizzo. Nel quadro gl’intenditori scorsero «la perfetta rassomiglianza tale qual era apparsa in scena: culmine dell’arte e del genio». Carle Van Loo aveva saputo cogliere «le crudeli passioni raffigurate in quel momento orribile sul volto di quella sublime attrice, egli intuì nell’espressione terribile dei suoi tratti il tremendo coacervo del crimine e dei rimorsi che la dilaniavano» (Abrégé de l’histoire…, cit., III vol., p. 87). Ben diverso il giudizio di Diderot, recatosi il 15 settembre al Salon: «Si tratta di una decorazione teatrale con tutta la sua falsità, uno sfoggio di colori insopportabile, un Giasone di un’idiozia inconcepibile. […] Avrebbe dovuto alzare al cielo le braccia disperate, avere il capo rovesciato all’indietro, i capelli ritti, la bocca spalancata in un lungo grido, gli occhi smarriti, e poi una piccola Medea, corta, rigida, infagottata, sovraccarica di stoffe, una Medea da palcoscenico, senza una goccia di sangue che cada dalla punta del pugnale o che scorra sulle sue braccia, nessun terrore. Si guarda, si resta stupiti, ma freddi. I drappeggi sul corpo hanno i riflessi di una corazza, si direbbe una placca di rame giallo. […] Il pittore non pensa né sente» (Œuvres, Esthétique – Théâtre, éd. par Laurent Versini, Paris, Laffont, 1996, vol. IV, p. 194). Voltaire si complimenta per il bel quadro e per la stampa che ne è stata tratta a opera di Laurent Cars e Jacques Beauvarlet, lettera a mademoiselle Clairon del 10 settembre 1764, Correspondance, vol. VII, p. 836. Cfr. anche l’articolo elogiativo del «Mercure de France», febbraio 1759, pp. 188-189: «vi si trovano riuniti la fedeltà del pittore di ritratti con l’arditezza e la libertà del genio del pittore di storia». 181 La cornice fu affidata al disegnatore del gabinetto del re, Michel-Ange Slodtz.

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ignoro se qualche volta lo guardi, ma sono almeno sicura che non ne conosca il valore.182

Lettera [al conte di Valbelle] Questa lettera è l’unica che si sia potuta ritrovare fra le più di mille e cinquecento scritte al conte di Val…, durante venti anni; può dare l’idea e forse giustificare i sentimenti che provavo. Da Anspach, il 20 febbraio 1774 Nata per le passioni consolatorie e sensibili, non ho mai immaginato come si potesse odiare e, se vi restasse il più piccolo ricordo del mio carattere e dei sentimenti che mi ispiravate, sareste sicuro che non comincerei da voi. Mi avete costretta a smettere di amarvi e, contro la mia speranza, ci sono arrivata. Avete fatto di tutto per lasciare, al cuore più amorevole che mai sia esistito, solo la dolorosa scelta fra indignazione e indifferenza; ma non ho potuto né voluto rinunciare a esservi affezionata. Vostro malgrado, vi ho serbato l’amicizia più viva e più disinteressata, in questo momento è lei che mi ingiunge di rispondervi. Poiché siete amareggiato, dovete avermi vicina. Essere in cattivi rapporti con vostra madre è dunque una pena per voi? Sono persuasa che ciò che dite su di lei sia falso. No, certamente il suo risentimento non arriva fino a maledirvi. Altera, violenta, ha potuto spingersi troppo in là; l’orgoglio di donna e di madre può anche impedirle di tornare sui suoi passi; ma le persone più impulsive non sono le più cattive. So per certo che è più esacerbata dal dolore che dall’odio. Madame de Sauvigny, che incontra spesso, me ne parla in tutte le sue lettere. Siete tratto in inganno, ma riflettete voi stesso: paragonate l’austerità dei suoi costumi e l’eccesso delle vostre galanterie; l’ordine con cui dispone della sua fortuna e il disordine della vostra; ricordatevi del disprezzo per vostro fratello da lei amato, le vostre leggerezze su monsieur Dam[ezure] la cui persona e fortuna costituivano oggetto delle sue attenzioni; la vostra riprovazione per tutto ciò che faceva e il modo brusco e tagliente che usavate in tutte le vostre discussioni. Aggiungete a questo la rabbia nel vedere l’intera fortuna della sua casata passare in mani che detesta, l’orrore nel vedere scomparire con voi un nome che idolatra e quella privazione, così terribile per tutte le persone anziane, nel non guardarsi rinascere nei nipoti: tutto ciò non ha dovuto rendere vostra madre prevenuta in modo sfavorevole nei vostri confronti? Nel suo carattere non c’è la pazienza e la dolcezza che possono far piegare il vostro: avrà anche dei torti, ne convengo, ma è vostra madre. Chi fra voi due deve cedere? Quanto esige da voi non è forse il giusto tributo che dovete alla natura e alla società? Il vostro nome e la vostra fortuna fanno, del vostro celibato, un crimine. Voi

182 Dopo l’abdicazione dell’ultimo margravio di Anspach nel 1791, entrò nella collezione del re di Prussia Federico Guglielmo II, si trova oggi nel museo del castello del Neues Palais nel Parco di Sans-Souci a Potsdam.

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credete che odi la donna che vi interessa per la sola ragione che vi interessa; ma ricordatevi allora i sentimenti che mi ha sempre attestato, i passi fatti per sapere se esistesse un qualche frutto della nostra unione, i vincoli che avrebbe accettato per una nostra unione. Chi sono io? Non la conoscevo affatto e tutto provava allora che mi amavate appassionatamente… No, Val…, no, non perseguita né voi né l’oggetto di un attaccamento naturale; è una donna sposata che ostenta pubblicamente di essere la vostra amante che, con un marito ancora in vita, esige da voi una promessa di matrimonio, la cui età attuale non lascia alcuna speranza di avere un erede, che vi trattiene in luoghi dove, dopo il matrimonio di mademoiselle de Mari…,183 non potete trovare più nulla che vi convenga, dove ostentate il fasto più dispendioso, dove tutti vi odiano dal profondo dell’animo. Tranne tre donne, mi avete detto di averle avute tutte. Sperate che vi perdonino così tanta leggerezza? Sperate che i mariti oltraggiati e gli amanti trascurati per voi possano mai esservi amici? È forse in Provenza, dove siete impegnato solo nel piacere, che troverete la promozione a cui non vi è dato rinunciare? Mancare così a voi stesso è più che sufficiente per deludere vostra madre. Aprite gli occhi sui vostri veri interessi, rinunciate a ostentazioni chimeriche che degradano la vostra vera grandezza, abbiate nei vostri affari l’ordine cui siete vincolato dalla vostra età, dal vostro ingegno e dal vostro onore. Abbandonate dei luoghi dove non potete compiere che errori funesti alla pace della vostra vecchiaia e alla gloria della vostra vita; scegliete una compagna che vi faccia onore: il vostro nome, la vostra fortuna, tutti i doni seducenti della natura vi danno la possibilità di scegliere. Se potrete assaporare la felicità di essere padre, sono certa che non rimpiangerete la vita dissoluta che conducete oggi e, qualsiasi cosa accada, salverete almeno la vostra vecchiaia dall’orrore di vederla circondata solo da adulatori, da intriganti e da lacchè. Il vostro secondo cruccio è una sorta di dimenticanza da parte dei vostri amici. Siate equanime, cosa fate per loro? Per alimentare l’amicizia sono necessari il piacere della fiducia, dei favori, delle attenzioni, della condivisione. Sempre assente senza che ciò vi sia imposto da alcun dovere, avendo annunciato da sei anni che non avreste più servito se la guerra non si fosse fatta entro dieci anni, parlando solo della vostra avversione per Parigi e del desiderio di stabilirvi in Provenza; ricco, senza assicurarvi i mezzi per fare un favore; troppo lontano per potersi aspettare da voi i consigli, le attenzioni e le consolazioni richieste quotidianamente, di cosa volete che si alimenti l’affetto dei vostri amici? L’universo intero assomiglia a quella donna che diceva al suo amante: «Signore, se mi fosse possibile amare un assente, amerei Dio». Per accrescere la propria felicità e per

183 Mademoiselle de Marignane, chiesta in matrimonio dal conte, ma andata poi in sposa al conte di Mirabeau, cfr. Edmond de Goncourt, Mademoiselle Clairon…, cit., p. 332.

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raddoppiare la propria esistenza ci si sceglie un legame; tornate a chi vi era affezionato e troverete tutto l’amore di cui avete bisogno. Questa lettera già troppo lunga, mi fa paventare di discutere il vostro terzo cruccio; significa impegnarvi più del dovuto e non ne ho più il diritto, ma mi trovo in uno stato abbastanza miserevole da impedirmi di contare sul minimo avvenire. Questa lettera sarà forse l’ultima che potrò scrivervi e desidero che leggiate ancora una volta nel mio cuore. Avete interrogato il vostro nello scrivermi: «Vi rimpiango…, dovete per sempre influire sul mio destino… Vivremo… Potremo riunirci?». Ah! Val…, m’ingannate ancora, o piuttosto ingannate voi stesso. Non ritroverete il mio cuore da nessuna parte! Lo credo, pochi sono così sinceri e così affezionati e la vostra cattiva condotta mi assicura che madame de R… non mi assomiglia. Vedo che cercate di illudervi in ogni modo; per venti anni ho perdonato tutte le vostre infedeltà; sperate la stessa indulgenza per i vostri nuovi amori, sperate di farmi approvare i vergognosi legami che avete promesso: disilludetevi. Sempre generosa da rendervi libero quando vi ho visto dover adempiere a nuovi obblighi, vi ho sciolto dai giuramenti e dalle promesse che ci univano: ma, rinunciando a un amante, a uno sposo, ho preteso che il mio compagno mi confortasse con un matrimonio che non avrebbe fatto vergognare né lui né me; ho preteso trovarvi eternamente degno della mia stima e del mio rimpianto, e se mi credete capace di considerare senza orrore la donna disonesta e criminale che disonora e maledice i giorni in cui il marito respira, mi avete crudelmente dimenticata. No, non avrete mai la mia approvazione; ho sacrificato il mio amore e i miei diritti al vostro onore e ai vostri doveri: l’animo capace di queste rinunce non potrà mai acconsentire alla vostra vergogna. Se aveste una vera passione, sarei la prima a compiangervi e a scusarvi! Ahimè! mi avete ben fatto conoscere qual è il loro potere! Ma le graziose fanciulle che vi vengono offerte quotidianamente nella vostra dimora non mi possono far credere che sia l’amore a farvi girare la testa e la vostra cecità non ha nome. Tuttavia qualsiasi cosa vogliate fare, siamo separati in modo irrevocabile. La mia età, i miei soliti malanni, il sentimento profondo dei mali che mi avete causato, la cattiveria degli uomini e l’asprezza del clima dove vivo mi hanno ridotta a momenti estremi di dolore e di debolezza; non credo possibile che possa mai riprendermi; e se, malgrado la mia aspettativa, si prolungassero i miei giorni, questi saranno consacrati al Margravio. Ogni giorno la sua fiducia mi offre nuovi motivi di riconoscenza e poiché la mia felicità ha voluto che la sua dipendesse da me, riceverà l’omaggio di ogni istante che mi resta. Se non fosse per la salute, mai la mia vita fu altrettanto piacevole. Ho degli amici, mi si permette di fare ogni bene possibile, non troverei da nessuna parte quello che perderei qui. Certamente non ci rivedremo mai, ma in qualsiasi luogo viva, qualsiasi cosa mi succeda, potete contare almeno sulla più affezionata e solida

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amicizia. Vi perdono la mia infelicità e vi prego di aver cara la mia memoria… Le lacrime m’impediscono di vedere ciò che scrivo. Addio Val…

Spiegazione da me richiesta a S.A.S., la M…184

MADEMOISELLE CL… Oso supplicarvi, signora, di ricordarvi che sono arrivata nel vostro principato con il vostro benestare e che mi ci sono stabilita per ordine vostro; oserei persino aggiungere dietro vostra preghiera. Vi abito da più di due anni e questo tempo impiegato a distruggere la cabala che voleva annientare il ministero, gli abusi bloccati, le riforme nelle spese, i mezzi da me messi in atto per estinguere i debiti al ventotto per cento d’interesse, le mie cure, i miei riguardi, le mie attenzioni per quanti ricorrevano al mio favore, il perdono delle ingiurie, la scrupolosa cautela nel stare al mio posto, il mio profondo rispetto per V.A.S., la felicità che ho fatto rinascere nel vostro animo nel riportarvi il vostro sposo, uno sposo calmo, soddisfatto e docile grazie alle mie cure, non hanno potuto lasciarvi alcun dubbio sulla trasparenza delle mie intenzioni e della mia condotta. Tuttavia, signora, le vostre bontà nei miei riguardi diminuiscono giorno dopo giorno. Vi degnate ricevermi, ammettermi alla vostra tavola, tutto ciò che mi fate l’onore di dirmi è giusto, ma ho troppa esperienza per non accorgermi che la mia presenza vi infastidisce e che nel ricevermi cedete al timore di dispiacere al M… Questo cambiamento influisce troppo sulle mie scelte da osare domandarvene il motivo. Di cosa V.A. mi accusa? Cosa ho fatto, o cosa vi è stato detto?

MADAME LA M… Non posso amare l’amante di mio marito.

MADEMOISELLE CL… (dopo un istante di riflessione) Il M… mi ha raccontato tutte le sue avventure, e voi stessa, signora, mi avete confessato che siete stata sempre molto trascurata da lui e molto bistrattata dalle sue amanti; so tra l’altro che la marchesa de B. voleva assolutamente che vi ripudiasse e avere la precedenza nella vostra stessa corte; che, se non fosse stata fermata, ne avreste ricevuto uno schiaffo e che tutte, senza eccezione, strappavano di continuo il vostro sposo dalle vostre braccia e dal vostro letto. Da venti anni che conducete questa vita, dovreste esservi abituata, e poiché il M… ha bisogno di un’amante, quella che gli

184 Si tratta della Margravia di Anspach, principessa di Saxe-Cobourg, sposata dal Margravio per volere del padre, contro le sue inclinazioni.

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consiglia di riempire giornalmente i doveri matrimoniali, che vuole che non rientri né esca senza vedervi, che l’obbliga a cenare con voi in privato, che vi fa attenzioni e galanterie di cui né voi né lui avevate mai avuto idea, è certamente un’amante ben diversa dalle precedenti e sarebbe una grave ingiustizia rifiutarle la vostra indulgenza e le vostre bontà.

MADAME LA M… Porterete il M… via con voi, non lo rivedrò più e vi impadronirete del tutto di lui.

MADEMOISELLE CL… Ho sofferto per una gravissima malattia, il vostro clima troppo rigido e troppo rude per la mia età e i miei malanni, mi costringe a respirare per qualche tempo sotto un cielo più mite; ho per altro degli affari che mi richiedono a Parigi e il M… non mi segue, passerà l’inverno in Italia e ci ritroveremo solo per tornare qui.

MADAME LA M… Ma siete voi che lo fate viaggiare, non ne ha l’abitudine, gli possono succedere mille disgrazie. Non avremo un istante di tranquillità…

MADEMOISELLE CL… Dimenticate di chi è figlio il M…? I minimi moti di stizza o di noia da lui manifestati non fanno forse tremare tutti per le conseguenze funeste che potrebbero avere?

MADAME LA M… (con commozione) Ah, mio Dio! non è che troppo vero!

MADEMOISELLE CL… Lasciate quindi che si distragga. Cosa diventerebbe questo paese? Cosa diventereste voi se succedesse una disgrazia? Per dovere e per timore i vostri ministri avvertirebbero la corte di B… Non avete figli, avreste una reggenza e tutto andrebbe perduto e se ritornasse in sé, il M…, disperato, potrebbe ridursi agli estremi. Sopportate dunque con coraggio una lontananza dettata dalla prudenza e benedite la mie intenzioni piuttosto che maledirle.

MADAME LA M… Certamente, ma non vi lascia e ciò mi affligge al massimo.

MADEMOISELLE CL…

86 Hyppolite Clairon, Memorie e riflessioni sulla declamazione teatrale

Avete tutte le sue notti, cena quotidianamente con voi, con c’è giorno che non passi almeno tre o quattro volte nel vostro appartamento; ho il resto del tempo, non è troppo. Ho sacrificato tutto per venire nelle vostre terre, non aspetto che lui e se non lo vedessi, nulla sarebbe in grado di farmi restare. Se voi mi trattaste meglio sarei più spesso da voi e ci verrebbe; allontanandomi, siete voi stessa a sfuggirlo.

MADAME LA M… Ma pretendete che vi ami più di me.

MADEMOISELLE CL… Non lo pretendo, ma è così. È il vostro padrone e non il mio; non vi è permesso di avere una volontà, io ho il potere di averne una e la ragione sufficiente per farla temere e rispettare; metto del belletto che mi fa sembrare più giovane e più vivace e voi siete di un pallore da sconvolgere qualsiasi possibile desiderio. Non vi trova mai se non con il vostro triste macramè dal quale non alzate gli occhi, detesta vedervi a quel lavoro e non può ottenerne la rinuncia; io ho la prontezza di gettare immediatamente dalla finestra qualsiasi cosa abbia l’aria di dispiacergli; voi gli predicate l’odio verso tutti i suoi, cosa che lo rende infelice, io gli raccomando continuamente l’amore per l’umanità e ciò lo consola. L’austerità del vostro contegno rivela il rispetto che esigete per il vostro rango, e in quanto donna questa necessità può essere per voi una virtù in più; io che lo compiango per essere principe perché ne avverto troppo i doveri, lo esorto a volte a credersi un individuo qualunque, che non ha nulla da pretendere se non per le sue virtù. In mancanza di consigli illuminati, raccolgo tutto il mio buonsenso, l’esperienza, lo zelo, l’umanità per tirarlo fuori dallo stato d’oppressione in cui l’hanno costretto i suoi predecessori. Condividendo in ugual modo sofferenze e soddisfazioni, ho la gioia di alleviare le une e di accrescere le altre. Voi, signora…, perdonatemi la posizione in cui mi mettete di dirvi ogni cosa: inutile a tutti, non occupandovi mai di nulla, restate in un’apatia che si può prendere per indifferenza o qualcosa di peggio, e questo non invoglia. Infine, signora, non costo nulla, ho dato molto e fino a questo momento non ho ricevuto nulla in cambio, e nemmeno desiderato nulla. Contenta di…

MADAME LA M… Come? non avete ricevuto nulla in cambio? Vi è stato pagato tutto ciò che avete dato e so che la vostra organizzazione costa molto cara.

MADEMOISELLE CL… Vi hanno ingannata, signora. Le spese che si fanno nella mia casa sono unicamente per il M… e per le persone che invita; la mia salute non mi

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permette di assaggiare i piatti che vengono serviti; un pezzo di carne ordinaria, preparato il più semplicemente possibile, è l’unica spesa che arreco e sono sicura che non costo più di un fiorino al giorno. Da quando sono qui ho speso quattordici mila franchi della mia rendita. In quanto al pagamento dei miei doni, oso ripetere a V.A. che non ho mai ricevuto nulla. Vi supplico di chiedere al M… se ve l’ho imposto.

MADAME LA M… È da lui che so che siete pagata, in particolare per il mio abbigliamento e per tutto quanto avete fatto venire per me.

MADEMOISELLE CL… (alzandosi) Per fortuna lo sento nel vostro salotto.

MADAME LA M… (fermandola) Dio mio, cosa volete fare? Mi farà una scenata…

MADEMOISELLE CL… (aprendo la porta) Mi avete costretta a questa sfida. Monsignore, avete detto alla M… che mi avevate pagato tutto ciò che lei e voi vi siete degnati di ricevere da me. Vi prego di dire quando e come? IL M… Mia cara mammina, vi chiede umilmente scusa; l’ho detto e lo confesso.

MADEMOISELLE CL… Ma avete detto la verità? Sono pagata?

IL M… No, mia cara mammina, non lo siete: ho mentito.

MADEMOISELLE CL… Signora, lo sentite? Monsignore, rimetto al vostro cuore la vendetta di una menzogna che umilia voi quanto me: la sola penitenza che vi impongo è di lasciarmi godere sola a sola con la vostra signora i momenti che mi saranno concessi.

MADAME LA M… (guardando uscire il marito) Che autorità avete su di lui!

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MADEMOISELLE CL… Vedete, signora, l’autorità della ragione e della verità sulla debolezza; traetene profitto. Se fossi al vostro posto, le rivali non sarebbero che dei gingilli di cui non avrei mai timore.

MADAME LA M… Cosa posso fare?

MADEMOISELLE CL… Rendervi necessaria, essere informata. Potete farlo più facilmente di me: conoscete la lingua. Avrete pur conoscenza delle istituzioni germaniche, al vostro posto sarei primo ministro, cercherei almeno di essere in grado di far fronte a tutto. Se scoppiasse un qualche disordine durante l’assenza di mio marito, sarei la persona sulla quale potrebbe contare di più per conoscere la verità; signora, sarebbe meglio piuttosto che stare sul vostro macramè per giornate intere.

MADAME LA M… Sarebbe la più grande felicità che potrebbe capitarmi. Ma il M… non acconsentirebbe mai.

MADEMOISELLE CL… Perché?

MADAME LA M… Il M… è geloso della sua autorità.

MADEMOISELLE CL… Non può fare a meno di demandarla: non può nulla senza i suoi ministri. La delega persino a me che sono straniera e i cui interessi sono certamente ben minori rispetto ai vostri. Potrebbe forse temere la vostra indolenza: interrogatevi. Vi sentite capace di impegno, di riflessione, della fermezza e della saggezza richiesti da un così grande compito?

MADAME LA M… Credo di sì. Farei almeno l’impossibile.

MADEMOISELLE CL… Ebbene, signora, mi sento capace di ottenerlo e di darvi il potere di fare in futuro tutto il bene o il male che vi piacerà.

MADAME LA M… (si alza con trasporto e abbracciando mademoiselle Cl…, dice)

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Ah! se realizzerete per me questa eventualità, riconoscerò di non aver mai avuto un’amica come voi.

MADEMOISELLE CL… Ricordatevi, signora, che durante la prima conversazione personale che ho avuto l’onore di scambiare con voi, vi ho promesso di adoperarmi per la vostra felicità; fino ad oggi ho tenuto parola, continuerò; e, per rendere il vostro spirito del tutto sereno, siate certa che non sono l’amante del M… Non ho per lui che sentimenti di madre e di amica e anche lui mi vuol bene allo stesso modo. Già dai primi progressi che farete in politica dove state per impratichirvi, vi accorgerete subito che un’amante non accorderebbe né tanto onore né tanto potere…

Lettera a S.A.S., il Margravio di A… La vostra passione sfrenata per una donna che purtroppo solo voi non conoscete,185 lo sconvolgimento dei vostri progetti e del mio destino, la noncuranza dell’opinione pubblica, la licenza della vostra recente condotta, la mancanza di rispetto per la vostra età e la vostra dignità, mi hanno obbligata a vedere in voi soltanto un’anima viziosa che ha smesso di controllarsi o una mente sconvolta da compiangere e da arginare. L’abitudine di volervi bene, di credere nelle vostre virtù mi ha fatto rifiutare quanto vi sviliva. Di conseguenza ho sopportato tutto: la vostra crudeltà, gl’insulti e l’ingratitudine non hanno potuto farmi cambiare il piano di condotta che mi ero prefisso. Col mio silenzio su tutto ciò che riguardava la vostra amante, ho per lo meno arginato il colmo che volevate mettere ai vostri torti, lasciando pubblicamente la nostra casa. Fin quando ho potuto, ho nascosto, dietro una fronte sempre calma e a volte allegra, i dolori strazianti del mio animo e del mio corpo. Ho lasciato credere che non vi disapprovavo e che vi consideravo sempre come il mio miglior amico. Ma il tempo di fingere è finito. Siete tornato nei vostri stati; qualsiasi cosa vogliate fare adesso, non temo che mi si reputi colpevole né responsabile e voi stesso ammetterete forse che è ora che rifiuti le vostre false proteste d’amicizia. Il velo è caduto, monsignore, so adesso che non sono mai stata che la povera vittima del vostro egoismo e delle vostre svariate fantasie; se foste stato realmente mio amico, non mi avreste allontanata dal vostro regno per madame de Ca…, madame Ku…, ecc., ecc., non avreste distrutto le mie lettere nelle quali ogni parola illustrava la mia tenerezza e i vostri doveri; mi avreste serbato la fiducia che non ho smesso di meritare; non avreste abusato delle prerogative del vostro sesso e del vostro rango per

185 Mademoiselle Clairon fa accenno a Lady Craven, un’Inglese, donna sposata, che aveva viaggiato in tutta Europa, a suo modo artista (si dilettava di pittura, scultura, archeologia), che, dopo la morte della principessa di Saxe-Cobourg, diventerà la consorte del Margravio.

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opprimermi e umiliarmi; avreste (quale che sia il vostro nuovo amore) rispettato i sentimenti e la condotta che mi conoscete da diciassette anni; avreste avuto pietà della mia età e dei miei malanni; avreste riconosciuto il mio disinteresse e l’utilità delle mie opinioni. Convinta, per esperienza, della mia accondiscendenza ai vostri gusti, alle vostre fantasie, alle vostre passioni, non vi sareste separato da una donna che non aveva altre aspirazioni o altri sentimenti se non quelli della madre più affettuosa e dell’amica più sicura. Non riesco a immaginare come non vi siate vergognato di mostrarvi ai miei occhi come un forsennato, godendo ad assassinarmi con le vostre punzecchiature. Giusto cielo! siete voi l’uomo di cui ho tanto esaltato le virtù? Ammetto che, durante le cinque ultime settimane del vostro soggiorno a Parigi, vi siete mostrato molto meno sleale, vi siete dato la pena di reprimervi, mi avete qualche volta forzata a credere che la mia stima e la mia amicizia importavano ancora alla vostra felicità; ma il mio rientro in società e il clamore da voi suscitato hanno distrutto quel momento d’illusione. So, non senza stupirmene, tutto ciò che avete fatto in questi ultimi sette o otto anni; la vostra consumata e profonda dissimulazione mi è ora palese, vedo che non ho più nulla da pretendere e che i nostri legami devono rompersi in modo definitivo. Forse ve ne rallegrate? e me infelice! non me ne consolerò mai. La mia anima affettuosa quanto immutabile porterà nella tomba i sentimenti che vi ho consacrato; vi compiango, vi perdono e vi auguro tanta gloria e felicità quanto i dolori e i rimpianti che provo. È con pena infinita che rimetto ai vostri piedi il bene che ricevevo da voi. Non mi nascondo che questa decisione ferisce la vostra dignità (ben lungi da me, ahimè!, volervi offendere) ma il vostro comportamento me ne fa un dovere. Ricordatevi che non ho mai voluto niente per me, che ho desiderato accrescere la mia fortuna solo per moltiplicare i vostri piaceri; che non siete il mio sovrano e che, per ottenere il titolo di benefattore, avreste dovuto conservare per sempre quello di amico. Non sono niente, monsignore; l’ho sempre ammesso senza vergogna e senza rimpianti, ma la mia anima vale qualcosa e, fino all’ultimo respiro, vi obbligherò almeno a stimarla. Addio…, addio per sempre.

Altra lettera al Margravio di Anspach Il ritiro assoluto che mi sono imposta e la vista della tomba dove presto scenderò, dovrebbero chiudere il mio cuore a ogni umano interesse, ma non avendo mai potuto smettere di volervi bene, di desiderare la vostra felicità e la vostra gloria, penserei in questo momento di tradirvi se esitassi a scrivervi. Il mio tentativo vi proverà almeno che non sento più alcun risentimento e mi piace credervi giusto e virtuoso come per il passato.

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Apprendo che siete più che mai sollecitato a cedere i vostri stati e mi si dice che è possibile che acconsentiate.186 Non posso crederlo, no: siete certamente incapace di nuocere e di recare offesa a voi stesso fino a questo punto. Non potete aver dimenticato tutto ciò che mi avete detto a tal proposito, quello che avete cento volte ripetuto in mia presenza al virtuoso barone di Gemmingen: «Amo troppo i miei sudditi per rinunciare a renderli felici. Lasciare un trono significa provare che si è indegni di occuparlo. Mi sarei accontentato di essere un privato cittadino, ma mi vergognerei di diventarlo volontariamente. Detentore unico della mia fortuna e del mio arbitrio, padrone di disporre di tutto, godendo in fine della riconoscenza e dell’amore dei sudditi ai quali ho sacrificato tutto, non farò la follia né di affidare la mia felicità ad altri né di mettermi a carico di chicchessia, ecc., ecc.». Potrei scrivere un volume su tutto quanto vi ho sentito dire di nobile, di giusto e di razionale su questo punto. Ahimè! com’è possibile che la vostra volontà cambi allorché la vostra posizione non cambia? Quando dipende persino da voi renderla più fruttuosa e più preziosa per gli uomini? La vostra rispettabile principessa, appena scomparsa, non dandovi figli, vi lasciava in una situazione molto imbarazzante; oggi libero di sceglierne un’altra, di avere dei discendenti in grado di liberarvi dalla tutela e la cui esistenza impedirebbe lo spargimento di sangue e di lacrime che potrebbero far scorrere la vostra successione e la politica, non avete più scelta sul partito da prendere. Tutti i gabinetti d’Europa hanno in questo momento gli occhi puntati su di voi. Ah! pesate bene ciò che dovete a voi stesso, riflettete all’amarezza che riempirebbe i vostri giorni se aveste da muovervi un rimprovero; considerate come cambierà l’opinione degli uomini sulla vostra esistenza fisica e morale; riflettete che essendo voi stesso uomo vi è impossibile illudervi di non aver mai un rimpianto e che, rimanendo sempre sovrano, vi resta nondimeno il potere di cessare di esserlo. Non vi piacciono i vincoli coniugali, lo so, ma solo le donne devono temerli, il vostro sesso e il vostro rango permettono di allentarli a volontà: il rispetto nel privato e la decenza in pubblico assolvono la totalità dei vostri doveri, e contrarietà così labili non possono essere paragonate al rispetto, alla stima e all’attaccamento che un coraggioso e degno sovrano non manca mai d’ispirare. Riflettete infine che è la vostra amica più indomita che vi implora per voi stesso; non vi ho mai ingannato, il linguaggio che tengo in questo momento è quello che ho sempre tenuto, conoscete il mio animo, sapete (forse meglio di chiunque altro) che mai nessuna idea di odio, di vendetta o d’interesse l’hanno attraversato. Non voglio nulla da voi, non dovrò più rivedervi, mi restano pochi momenti da vivere: la mia unica

186 Christian-Frédéric aveva ereditato nel 1769, alla morte del cugino, i margraviati di Anspach e di Bayreuth; nel 1791 vi rinuncia in favore del re di Prussia.

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aspirazione è di provarvi che non ho mai smesso di volervi bene e di interessarmi alla vostra gloria. Il 14 marzo 1791.

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Parte seconda

Riflessioni morali e brani sparsi

Avvertenza preliminare alle Riflessioni morali È l’editore che parla: Per fornire chiarimenti su queste riflessioni, credo dover ripetere parola per parola quanto mademoiselle Clairon mi confidò prima di darmene lettura. «Sapete, caro amico, che avevo dodicimila libbre di rendita quando ho lascito il teatro. L’abate Terray me ne ha appena tolte quattro. Sono costretta a rinunciare alle mie deliziose cene e persino alla mia casa. Il conte di V*** mi aveva pregato di lasciare alla mia morte il mio cabinet a uno dei suoi nipoti e sapete che ho sempre fatto quello che ha voluto. Benché mi debba tutto e che goda oggi di più di centomila libbre di rendita, l’idea di chiedergli aiuto non mi ha sfiorata. Mi conoscete e quindi potete crederlo senza difficoltà. Ho comunicato la mia sfortuna al mio amico per provargli la necessità di revocare la parola data e di vendere il cabinet; ecco la sua risposta: ‘… Ricco come sono la vendita del vostro cabinet mi screditerà, vi chiedo di grazia di cercare un altro mezzo per trarvi d’impaccio… Non ho mai conosciuto l’orrore della dissipatezza come in questo momento, godo di più di centomila libbre di rendita e non ho venticinque luigi da offrire alla mia amica…’. Ecco la mia risposta: ‘Vi trovate in una posizione così incresciosa, mio povero conte, che ne ho veramente pietà. Non vi ho chiesto nulla e nulla mi aspetto da voi; troverò sempre i mezzi per vivere decorosamente con quanto mi lascerà la sorte: state tranquillo su questo punto. Vi offro persino di inviarvi cinquanta luigi se ne avete bisogno; li ho e se non li avessi agirei come per il passato: venderei ciò che possiedo per darveli’. Non c’è bisogno di dirvi – continuò – che il mio animo era ferito: ve ne rendete conto; questa piccola vendetta per un po’ sostenne il mio coraggio, ma tutte le riflessioni che ero obbligata a fare mi gettarono ben presto in un cupo dolore tanto da aver timore per la mia vita e mi portarono a protestare nei confronti della provvidenza. Non sono devota, lo sapete, nondimeno rispetto tutto ciò che devo rispettare. I principi che mi sono imposta, mi rendono scrupolosamente giusta, il mio animo sensibile mi riconduce facilmente ai miei doveri. Osai chiedermi cosa avevo da pretendere e di cosa mi lamentavo. Questa domanda fece passare tante diverse idee nella mia mente, si susseguivano con così grande rapidità che mi sembrò impossibile di trarne beneficio. Giudicai opportuno di scriverle, annotai di getto le mie prime dieci questioni o riflessioni, come vi piacerà chiamarle, e solo dopo molti anni d’intervallo ho completato quanto sto per leggervi. I miei diversi studi su

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me stessa hanno avuto successo, la mia mente ha riacquistato il proprio equilibrio e non vi trovo che rassegnazione che devo al grande motore di tutto. Ascoltate adesso ciò che intitolo la mia Agenda».

Agenda o riflessioni Prima riflessione Il mio stato abituale è la sofferenza… Vedo che è quello della maggior parte dell’umanità. La necessità dei miei studi, dei miei lavori, la miseria che spesso ho sperimentato, le contrarietà, la sensibilità del mio animo, un amore violento e sempre infelice per le infedeltà o l’assenza, tutto ciò non ha permesso che mi trovassi nel novero ristretto degli esseri privilegiati rispettati dalla sfortuna e dal dolore; ma ne vedo di più meritevoli e da compatire più di me. Devo dunque armarmi di pazienza e di ragione, essere austera, misurare le forze, limitare i desideri, sperare tutto dal tempo, dal coraggio, persino dalla mia vanità e, per consolarmi per ciò che patisco, pensare a tutto quanto non patisco.

Seconda riflessione Per quanto mi sarà possibile, devo nascondere a tutte le persone che incontro la conoscenza delle mie infermità e soprattutto delle mie pene. Tutto è identico per gli indifferenti: gli stupidi formulano interpretazioni, i cattivi trionfano, gli amici si struggono; eh! persino in questi ultimi noia e ripulsa presto fanno seguito alla compassione! Dalle mie doglianze non ho mai tratto che pareri inutili o convinzioni laceranti. Bisogna dunque cercare di acquisire grandezza e coraggio bastevoli per sopportare da sola le mie pene e mostrare in pubblico e in privato solo il fascino che può rendermi desiderabile.

Terza riflessione Non devo mai dimenticare che sono nata nell’oscurità più assoluta: lagnarsene sarebbe un crimine, arrossirne una sciocchezza. Per quanto mi è possibile, rimedio alla volontà della sorte con la dolcezza, l’onestà, un umore equilibrato, le conoscenze dello spirito e le virtù dell’anima.

Quarta riflessione Non essendo nulla e volendo vivere in società devo fare la più scrupolosa attenzione per superare la mia fierezza d’animo;187 è un compenso che la natura ha dato a me sola, se ne fa sempre una colpa a chi non ha né nascita né fortuna e devo manifestarla solo restando al mio posto, senza pretese e senza servilismo.

187 «Più che di fierezza di dovrebbe dire ‘vanità’», chiosa mademoiselle Dumesnil (Mémoires Dumesnil, p. 206).

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Quinta riflessione Vittima della calunnia la più ingiusta e la più atroce, sarei imperdonabile se credessi con leggerezza. Tutto quanto ho sofferto deve servirmi da regola per giudicare gli altri e quando i miei occhi mi persuaderanno che quello che si dice di taluno o talaltro è vero, devo scendere nel mio cuore per scusare ciò che è solo debolezza e vietarmi di esprimere giudizi su qualsiasi cosa.

Sesta riflessione Per quanto mediocre sia la mia fortuna, devo, per accontentarmene, ricordarmi da dove sono partita, osare confessare a me stessa che dei talenti utili solo a piaceri momentanei sono ripagati abbastanza con un’onesta agiatezza; ringraziare la sorte di non aver compiuto nessun tentativo disonorevole per accrescerla; limitare i desideri e le necessità a ciò che posso, senza l’aiuto di nessuno e rimpiangere solo le poche possibilità di essere utile agli infelici.

Settima riflessione L’ingratitudine non si è accontentata di dimenticare i miei servigi, ne ha spesso fatto armi da dare alla cattiveria per tormentarmi, nuocermi e svilire i miei sentimenti. Disgustata da comportamenti inammissibili, ho voluto per un po’ rinunciare a fare il bene: avevo torto. Un’anima onesta e sensibile vuole invano chiudersi al grido della sventura; il pericolo di creare degli ingrati non può paragonarsi all’orrore di lasciar soffrire l’innocenza e la virtù e non fare tutto il bene che si può significa essere ingrati verso l’umanità. Cosa importa la riconoscenza? Basta potersi dire: c’è un infelice in meno! E forse il mio cuore troppo tenero non sarebbe stato sufficiente se avessi trovato solo persone riconoscenti. Ma credo che sia necessario non andare più in là di quanto ci è richiesto, siccome non si può tutto, non ci si deve privare dei mezzi propri per venire in soccorso a un altro, la natura non dà lo stesso grado di elevatezza a tutti gli animi, pochi sono quelli abbastanza nobili da sentire l’incanto della riconoscenza e quanti non l’avvertono sono inetti o posseduti dall’invidia; più si fa per loro e più li si irrita e significa mancare nel contempo di prudenza e d’umanità se si mettono gli uomini nella situazione di diventare cattivi.

Ottava riflessione Se non posso sviare le conversazioni sulla religione, bisogna almeno che mi astenga dall’intromettermi. Certamente le donne ne parlano più per darsi un’aria che per convinzione e le più oneste tra noi tacciono. Ho letto, riflettuto, ascoltato: la ragione e l’evidenza mi forzano a riconoscere che vedo dappertutto interesse, menzogna e debolezza, ma il punto importante resta sempre in dubbio. Sono libera? Vengo influenzata? Sento sostenere il pro e il contro dalle persone più oneste, ma nessuna delle loro spiegazioni

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m’indica ciò che muove l’universo. Interrogandomi vedo che la debolezza dei miei organi mi riconduce continuamente al timore e che non posso bastare a me stessa in nessuna delle mie pene. Per quanto attenta alla mia tranquillità e alla mia salvaguardia trovo sempre insufficienti la ragione e la forza, mi è impossibile prevedere e arrestare la catena degli eventi: ignoro in qual modo e in qual tempo la morte verrà a colpirmi, non posso insomma nulla di essenziale per me stessa e non fare il male è quanto mi è possibile per gli altri. In questo stato d’ignoranza e di miseria, mi conviene congetturare e rifiutare un appoggio? Non ho i vizi che portano a sfidare ogni cosa, non saprei confutare le virtù che ne derivano: espansiva, timorosa, sofferente, infelice, mi sembra terribile dovermi ancora dire che nulla s’interessa alla mia esistenza, che tutto è identico e perduto.188 Bisogna quindi che evochi incessantemente quanto mi permette di credere che un essere onnipotente vegli su di me. Dubbio per dubbio, scegliamo almeno quello che consola e sostiene il coraggio promettendogli un premio.

Nona riflessione Ho a volte scatti di alterigia che non riesco a controllare e nei quali indugio forse con troppo compiacimento per le mie idee. Vorrei colmare tutti di benefici senza mai riceverne da nessuno. È forse grandezza d’animo? o forse, senza sospettarlo, eccesso d’orgoglio? La prima idea m’addolora, mi trovo in torto; la buona fortuna ha voluto che talvolta potessi fare cosa gradita, perché non permettere di sdebitarsi? perché ostacolare la delicatezza, la finezza, la riconoscenza che si può avere quanta ne ho io? La condanna è nel mio cuore, non sopporterei di non sdebitarmi, accuserei di stupidità o d’insolenza un mio pari che vorrebbe togliermene i mezzi; quanto provo per me, deve essere la regola per giudicare gli altri. Bisogna dare senza nulla pretendere, non ricevere più di quanto si dà, e permettere la parità. Ricevere come mero dono è certamente la più grande prova di rispetto o di attaccamento che si possa dare poiché significa implicare la propria opinione, la propria delicatezza e la propria libertà. Se colui che regala è degno di stima, se vi obbliga per considerazione o per amicizia, se vi permette di credere che nel ricevere gli provate attaccamento, stima o rispetto, bisogna accettare senza dubitare e considerare come un gran bene di potersi abbandonare ai grati sentimenti della riconoscenza. Ma ricevere da un protettore che è soltanto sfarzoso, da una semplice conoscenza, da un amico superficiale, da un amante che non ci si può permettere di tenere, da uno sfortunato che v’implora, significa vendere all’interesse, nel modo più vergognoso, la propria opinione, la propria libertà, la propria delicatezza e i propri favori. Non lo farò mai.

188 Che il bene e il male sono indifferenti, che i sacrifici che ci si impone per restare virtuosi vanno persi.

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Decima riflessione Abbiamo il diritto di esigere che gli uomini siano premurosi, affettuosi e costanti quanto noi? Tutto ciò che si presenta alla mia immaginazione me ne dimostra l’impossibilità. La differenza delle nostre forze fisiche, dell’educazione, dei pregiudizi, delle occupazioni, tutto mi dice che le nostre pretese sono folli e che gli uomini non sono che quello che devono essere; noi dobbiamo ragionevolmente chieder loro solo due cose e cioè di non tradirci e soprattutto di non sedurci. È vergognoso dissimulare e prendersi gioco di un essere debole che non ha alcun mezzo per vendicarsi, è esecrabile cercare di corrompere la virtù di una donna già sposata, o l’innocenza di una giovane che può esserlo; portare turbamento e disperazione in seno alle famiglie, abbandonare da un lato i beni a falsi eredi e dall’altro farne che la legge disapprova e ricusa, abbandonare anime oneste alla vergogna e ai rimorsi che verranno col tempo, mi sembra il crimine più grande e più riprovevole e se l’uomo che lo commette non l’espia durante la vita con premure, attaccamento, costanza è certamente quanto la natura ha plasmato di più spregevole. Ma perdoniamo coloro che seguono la corrente dei legami volontari e riconosciamo in buonafede che faremmo come loro se osassimo.

Undicesima riflessione È quasi senza rifletterci su che accumuliamo gli anni. L’affettuosa precauzione o la falsità di chi cerca di piacerci, la delicatezza degli amici, la cecità della nostra vanità impediscono di vedere quotidianamente la devastazione che ogni giorno comporta, d’illusione in illusione arriviamo alla fine della vita, lasciando spesso dietro di noi solo il triste ricordo di smarrimenti e di ridicole pretese. Deve esserci un modo di esistere confacente a ogni età; la natura previdente e buona ha dovuto pensare a procurarci i piaceri e le compensazioni per ogni tempo e la ragione deve vietarci di pretenderne altri. Vediamo quali possono essere le consolazioni del mio. Riflettendo attentamente a quanto le passioni hanno di pericoloso e di lacerante, credo dovermi rallegrare di non aver più nel sangue l’esaltazione che le fa nascere e crescere. Fortunatamente per me, non ho mai conosciuto che quelle dell’amore: titoli e beni non mi hanno mai sedotta; la cupidigia, l’odio, la vendetta non hanno occupato i miei pensieri se non in relazione con la mia carriera teatrale e più li ho conosciuti e più li ho detestati. Il solo che rimpianga è un sentimento affettuoso, ma rinunciando all’amore sono obbligata a rinunciare al mio cuore: l’amicizia, la generosità possono ancora riempirlo. Estendendo a più persone la tenerezza di cui è capace, la sfortuna di trovare un ingrato sarà compensata dalla consolazione di contare su molte altre persone. La perdita di un unico oggetto non lascia

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che la scelta della disperazione che ci consuma o di una vendetta che avvilisce. A questo proposito sto dunque meglio. Il piacere dei sensi non è, per le persone veramente sensibili, che l’ultima necessità e il più inconsistente complemento della felicità. Me ne sembra facile il sacrificio se la ragione o la necessità fanno rinunciare all’amore. Di fatto, cosa ci lascia da rimpiangere? Delirio, rischi, godimenti grossolani, tutte le conseguenze sono in egual modo pericolose per noi; legano le donne e allontanano gli uomini; ci degradano e li onoriamo, ci rendono timorose e sottomesse e fanno di loro dei fatui o dei tiranni. Francamente in questo ridicolo mercato non c’è nulla che possa suscitare rimpianti. Ma ritirata dal teatro e senza amore, cosa posso sostituire all’impegno che mi davano entrambe le cose? Il mio spirito attivo ha bisogno d’alimento, il mio gusto e la mia salute non mi consentono di andare e venire continuamente e le frivole conversazioni che si cercano in società non valgono proprio la pena di muoversi. Non sono abbastanza ricca da avere una casa sempre aperta e troppo difficile per adattarmi a tutto indiscriminatamente; senza titoli, senza civetteria, senza intrighi né ricchezza devo aspettarmi di non essere molto desiderata. Ogni giorno il cambiamento di stato, la lontananza, l’età, la morte mi strappano gli amici e devo trovare ovvio che si dimentichi la mia esistenza poiché non è più utile a nulla. Non mi resta quasi più che me stessa… Come la Medea di Corneille oserei dire: Basta così. Ho fatto le più accurate ricerche per arrivare a conoscere gli uomini di ogni tempo e paese, cerchiamo di conoscere me stessa. Questo studio è abbastanza importante per appassionarmi e riempire ogni momento. Godrò in modo piacevole di quanto potrò trovare in me di meritevole. Farò l’impossibile per rimediare a quanto avrò fatto di riprovevole. Eliminare i difetti, formare l’animo alla virtù, renderlo superiore agli eventi, essere in grado di considerare la follia di tutte le pretese che si vedono nel mondo, meritare infine che mi si perdoni e mi si stimi, ecco, credo, i mezzi più sicuri per farmi sopportare e forse amare la solitudine. La quiete del corpo e la pace dell’anima, i libri, le riflessioni, l’attenzione sostenuta per rendere felice chi mi circonda, mi faranno terminare la vita senza ansia sulla sua durata e, oso sperarlo, senza debolezza sulla sua perdita. Alla mia età e nella mia posizione, ecco certamente quanto di meglio possa desiderare: a questo mi limiterò.

Dodicesima riflessione Per adempiere il dovere impostomi dalla ragione, per potermi giudicare, credo di dover risalire ai principi di tutto. Cosa sono? Cosa ho fatto? Cosa ho potuto?

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Riflessioni sui matrimoni d’amore, ovvero perché non mi sono voluta sposare L’ambizione è una passione così comune e forse così naturale che ci si può stupire che una donna che le studiava tutte, che sembrava penetrarsene che si permetteva di abbandonarsi ad alcune che avrebbero potuto condurre al pentimento con la pace dei sensi e il tempo, abbia respinto quella che doveva lusingare la sua vanità e preservarla dai pericoli di una libertà indefinita. Ma confesso che il mio spirito continuamente al di sopra del mio stato e dei miei errori, non mi ha mai permesso di considerare le unioni mal assortite che con sentimenti d’indignazione o di pietà; non ho mai potuto concepire che una donna accettasse uno stato inferiore a quello ricevuto dalla natura. Capisco che accetti di non essere nulla, ma non capisco che si screditi per scelta; non può esservi trascinata che da desideri e sentimenti vergognosi, dalla stupidità o dalla miseria. Quest’ultimo punto è il solo che possa essere scusato, è persino possibile farsene un merito reale se non si vuole ricordare lo stato che si è perduto solo per onorare meglio quello che si è preso: ma ho visto tanti di quei matrimoni infelici tra nobili damigelle e uomini di origine plebea che non ho potuto fare a meno di ridere spesso alle spalle dei gonzi che li avevano contratti. Gli uomini si sono arrogati il diritto di insignire del titolo nobiliare ogni loro follia amorosa e qualsiasi sia la nostra estrazione di elevarci fino a loro. Ma i vizi comuni a tutti gli uomini non cambiano nulla alla severità dei giudizi generali: invano ci si vuol mettere al di sopra dei pregiudizi: chi li sfida ne è presto o tardi vittima. Eh! come sperare che ci sarà sempre perdonato di esserci resi meno cari alla propria famiglia e meno affidabili ai propri pari? Il vero amore è così raro! È così difficile trovare l’essere che deve, che può giustificarlo! I diversi eventi della vita, l’esperienza delle varie età, l’incostanza e la pluralità dei nostri desideri, la breve durata delle vere necessità apportano così grandi cambiamenti nel morale e nel fisico che bisogna almeno riservarsi la consolazione di essere compatiti e la soddisfazione di non doversi rimproverare nulla. Su cosa si fondano questi sentimenti travolgenti da cui gli uomini si lasciano accecare? Sulla bellezza che tutti invidiano, la virtù che fa resistenza, la fortuna che tenta l’uomo che ne è privo, le seduzioni della mente, delle grazie e del talento; ecco, credo, tutto. Ma la bellezza passa in fretta e raramente si trovano le qualità che possono consolare della sua perdita; le compagne più comuni sono l’orgoglio e la stoltezza: portano presto il disgusto, il rimpianto, l’abbandono e spesso l’offesa da entrambe le parti è quanto resta dopo pochissimo tempo ai due sposi. La virtù deve trovare chi l’approva e può sostituire tutti i beni del mondo, ma è reale, pura? Siamo così simulatrici! L’educazione c’insegna a fingere, l’interesse ce ne fa spesso una necessità e per quante ragioni si possano avere di credere nella virtù, il carattere, l’ignoranza, la miseria, l’esempio

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delle donne, la seduzione e la cattiveria degli uomini non impediscono di portarle attacchi molto concreti; significa essere a dir poco imprudenti di crederci senza un esame approfondito e di affidarle sempre il proprio onore e la propria libertà. Le ricchezze! Se non le si devono alla propria famiglia, da dove provengono? Le donne di rango inferiore e nate povere trovano le loro risorse nel lavoro, nel talento e nel vizio. L’operaia può a malapena sottrarsi alla miseria. Gli emolumenti dei più famosi talenti erano, ai miei tempi, al di sotto del necessario per la loro condizione e chi non voleva svilirsi traeva qualche agiatezza solo da piccoli interessi ottenuti negli affari tramite la protezione dei grandi o dalle benevolenze irrilevanti e momentanee del sovrano. Solo dal vizio possono provenire queste ricchezze e questo vizio… No, non voglio cercare neanche di descriverlo; l’orrore chi m’ispira mi farebbe cadere la penna di mano. Chi peraltro ignora lo scandalo di questi mercimoni che portano ai piedi delle donne più svilite i beni acquisiti col lavoro o dagli antenati, la dote di una sposa e l’eredità dei propri figli? Quali popoli non soffrono sotto il fardello dell’intemperanza dei loro sovrani? Per quanto tollerato, nessuno si nasconde che questo vizio sia in assoluto il più infamante. Com’è possibile che esistano animi così abietti da volerne condividere il vergognoso salario? Gli uomini hanno così tanti mezzi per far rispettare la loro miseria! Il linguaggio, la forza, le arti, i lumi, le virtù aprono così tante strade alle loro esigenze e alle loro ambizioni che non possono sperare di sfuggire al disprezzo generale e persino al disprezzo delle donne che sposano. La seduzione! Mi permetto di credere che poche donne posseggano maggiori mezzi di quanti ne avessi io per affermare il loro imperio e oserei persino dire, per giustificarlo. Alle dote lusinghiere di cui la natura può adornare una donna, aveva per me aggiunto la forza, il coraggio e l’animo di un uomo dabbene. Ogni impegno mi era sacro, ogni dovere mi stava a cuore. Un carattere fiero quanto sensibile non mi lasciava considerare gloria e ricchezze se non nel successo dei miei impegni e felicità se non nell’amore. Obbligata a meditare continuamente su tutti i personaggi dell’antichità, sulle loro virtù, sulle loro debolezze, era di conseguenza inevitabile che il mio spirito si sublimasse e il mio cuore s’intenerisse. La varietà dei miei abiti e delle diverse passioni portate in scena riempiva quotidianamente il gusto frivolo della mia nazione per le novità. Gli applausi che ricevevo giustificavano gli omaggi che mi erano resi. Il mio mondo era costituito da letterati illuminati quanto seri e da gentiluomini dai costumi irreprensibili, chi poteva dar adito a sospetti d’ambizione, di leggerezza, d’interesse, era scrupolosamente allontanato. Era quindi lusinghiero farne parte. Donne di alta nobiltà degnavano accompagnare i riguardi, una vera amicizia e persino la fiducia in me, alla protezione accordata al mio talento; i miei superiori e i ministri, sicuri che non avrei abusato di nulla, non si sono mai

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rifiutati di ricevermi, di ascoltarmi e di accordarmi quanto richiedevo. La mia celebrità aveva superato i confini della Francia. Quale cuore inumano o gelido non avrebbe dato la sua felicità per compiacermi? È forse con soddisfazione per la mia mente non ancora raggiunta dalla frigidità dell’età che rievoco tutti i diritti che avevo per piacere. Sono donna, l’umiltà è per noi solo una maschera e il mio carattere non ha mai ammesso falsità alcuna: qualsiasi persona in grado di parlare con se stessa sa ciò che vale e mostrarmi qual ero è per me un dovere poiché è l’unico mezzo per far perdonare lo sconcerto delle passioni che ispiravo. Non parlerò delle fortune che ho respinto, ne ricevevo l’offerta come un oltraggio. Quattro volte mi sono stati proposti i sacri vincoli del matrimonio; il lignaggio, l’onore, i lumi non lasciavano niente da desiderare. Ho rifiutato i primi tre perché non amavo e il quarto perché amavo veramente. Avevo troppo studiato il cuore umano per credere in un sentimento durevole, avevo troppo discernimento per non rispettare i pregiudizi, troppo amore per svilire chi mi era caro, troppa fierezza per rinunciare alla capacità di autostima. Ho ricevuto tutti gli scritti, tutti i giuramenti che mi erano stati fatti, acconsentii a dare le stesse attestazioni e durante diciannove anni la mia fortuna, la mia volontà, la mia condotta non hanno permesso alcun dubbio sul rispetto che avevo per questo legame;189 il mio modo di eludere una conclusione sollecitata per tredici anni di seguito dalle più vive istanze non ha potuto che manifestare meglio giorno dopo giorno il mio affetto e la mia riconoscenza. Solo io sono in grado di apprezzare i conflitti del mio cuore, forse ne scaturisce gran parte delle sofferenze che oggi avverto, ma cosa importano queste sofferenze? Cosa importa la mia stessa vita? Non ho da muovermi alcun rimprovero. Sebbene il conte di V*** dovrà essere ricco un giorno,190 la madre gli passava un vitalizio molto modesto, aveva debiti, il suo grado l’obbligava a spese piuttosto considerevoli. Era amante del fasto e della buona tavola e per soddisfare le sue necessità e i suoi gusti vendetti quanto avevo d’inutile e tranne la spesa per il teatro, cosa di cui dovevo dar conto agli autori e al pubblico, mi privai di tutto per me stessa. Nel momento più pressante delle nostre necessità, feci la conoscenza di madame de Galitzine, principessa russa. Per uno di quei casi che nulla può

189 Il conte Othenin d’Haussonville scrive che mademoiselle Clairon era più prodiga che interessata: «Viveva, cosa di per sé naturale, a spese dei suoi amanti, ma siccome li cambiava spesso e aveva capricci d’amore in cui l’interesse non entrava affatto, passava rapidamente dal lusso alla miseria. È così che serbò per vent’anni una fedeltà… relativa a un certo conte di Valbelle che sembra essere stato un personaggio piuttosto mediocre, visto che accettò che vendesse per lui un cabinet di curiosità al quale teneva molto», (Femmes d’autrefois. Hommes d’aujourd’hui, Paris, Librairie académique Perrin, 1912, p. 154). 190 Avrebbe ereditato i beni della madre.

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spiegare, quella nobildonna si appassionò così tanto a me che non poteva trascorrere due ore senza vedermi o senza scrivermi. La fiducia s’instaura presto tra due donne che si amano e che s’incontrano in ogni momento della giornata. Mi aprì totalmente il suo cuore e la lasciai leggere senza restrizioni nel mio.191 Fu colpita dalla posizione in cui mi trovavo, era ricca, generosa, le sue offerte furono degne di lei, le rifiutai tutte;192 non che riconoscessi che i benefici di un’amica così rispettabile potevano solo farmi onore, ma non ho mai desiderato nulla per me. Spesso mi è mancato il necessario e mi ricordo che quei momenti erano i più fieri della mia vita. Avrei voluto possedere tutte le ricchezze del mondo per farne omaggio a chi mi era caro, ma avrei creduto svilire il suo e il mio cuore presentandogli dei doni altrui. Solo l’amore ha il diritto di nobilitare gli aiuti che un uomo riceve da una donna. La principessa mi amò ancor di più. L’idea di separarsi da me le divenne insopportabile e le dette quella di farmi richiedere in Russia. L’imperatrice Elisabetta mi fece sollecitare dal suo ministro presso la corte di Francia e mi furono offerti da parte sua uno stipendio di quarantamila franchi, depositati annualmente presso un notaio di Parigi che avrei indicato, una casa, una carrozza, una tavola imbandita mattino e sera per sei persone. Se non fossi stata innamorata non avrei esitato. La Francia è forse il paese in cui si giudicano meglio i talenti, ma non ne esiste di più ingrato nei loro confronti.193 Comunicai tutto al conte. Nauseato lui stesso dal suo paese per beghe di corte, mi consigliò di accettare e mi disse che mi avrebbe raggiunto. Quelle parole mi fecero fremere mio malgrado. I beni che avrei potuto ottenere scomparvero, non vidi che quelli che gli avrei fatto perdere. La principessa osò trasmettere quanto avveniva nei nostri pensieri e la risposta fu che, se il conte voleva sposarmi e seguirmi, gli sarebbe stato accordato lo stesso grado che aveva in Francia e gli emolumenti necessari per assumerlo. Per dare ancora più peso e attrattiva alle sue proposte, la principessa ci assicurò che non avremmo avuto altro asilo se non la sua casa. Il conte accettò tutto

191 Questo legame cui la memorialista aveva già accennato nel dialogo del Vestito, dette adito a non pochi pettegolezzi; Edmond de Goncourt riporta che il «Journal de Sartines» nel novembre 1761 alla morte della principessa scriveva in tono ironico che mademoiselle Clairon, inconsolabile per la perdita dell’amica, si era ammalata. Epigrammisti di bassa lega accennavano alla sua vedovanza, Mademoiselle Clairon…, cit., p. 157. 192 Nel bel mondo si disse che avevo ricevuto immensi doni dalla principessa: nulla è più falso. Il mio quadro di Medea, un vestitino che ho indossato per vent’anni, una guarnizione di pizzo che conserverò per tutta la vita, sono gli unici doni che ebbi. 193 Così scriveva Dorat nel suo Discours préliminaire: «Mademoiselle Clairon ha certamente nobilitato l’arte per quanto le sia stato possibile presso un popolo che, accordando la gloria, vieta di rivendicare l’onore e macchia, per abitudine, questa categoria utile di cittadini ai quali sembra aver affidato la difesa dei suoi capolavori e la cura dei suoi piaceri», La Déclamation théâtrale, poème didactique en trois chants, précédé d’un discours, Paris, Jorry, M.DCC.LXVI, pp. 24-25. Mademoiselle Clairon aveva creato la parte di Zulica nella tragedia eponima di Dorat (7 gennaio 1760).

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e il pensiero che mi sarebbe stato obbligato per il suo avanzamento e la sua fortuna mi sedusse per qualche momento. Fortunatamente mi ammalai: dispensata dallo studio e dai doveri, in solitudine per necessità, ebbi il tempo di scrutare il mio animo e di chiedergli come si uniformava agli antichi principi. Mi sembrò che apparisse l’austera verità e dicesse per bocca mia: «Ah! infelice! quale imprudenza state per fare? Chi può contare sulla perenne volontà degli uomini? Quale amore fu mai eterno? Quale uomo, potendo ottenere tutto con le proprie forze, si perdonerà mai di aver abbandonato ogni cosa per una donna? Voi non siete nulla. Chi vi assicura che non arrossirà di esservi debitore? Dimenticate che colei che aspira alla stima del proprio sposo non deve cominciare con l’essere la sua amante, soprattutto se quest’errore non è il solo della vostra vita. Cosa vi resterà allora, quando il suo amore svanirà? Più vecchia di lui di sette anni, come potete sperare che il vostro fascino durerà quanto i desideri del cuore e dei sensi? Le infedeltà che già vi ha fatto, non vi dicono sufficientemente quello che potrà produrre il tempo, i rimpianti, i rimorsi? Dovrete difendervi dalle mire ambiziose di cui vi accuserà una famiglia indignata. Sarete umiliata dalle donne che si sentiranno sminuite assurgendo voi al loro livello: la cattiveria e l’invidia si sommeranno per accusarvi dei torti più abominevoli. Il pubblico che nulla approfondisce farà risuonare dappertutto il grido dell’indignazione. Ma quand’anche fosse possibile che tutti chiudessero gli occhi e restassero in silenzio, che il vostro amante vi adorasse sempre e non rimpiangesse mai nulla, pensate veramente di essere contenta di voi stessa? La vostra sensibilità approverà l’abuso del vostro imperio? Il vostro carattere e i vostri studi non vi hanno convinta che l’animo, capace di rifiutare tutti i beni che vi sono offerti, è mille volte più nobile di quello che li accetta?…». Tutto fu detto, la mia illusione scomparve. Restai signorina, povera; non partii, ma, sacrificando l’amore, la fortuna e la vanità al dovere, acquisendo i mezzi per una totale autostima, ho certamente guadagnato più che perduto.

Lettera a Madame de V***194 O voi che amo con il fermento della mia bella età! Voi che sessantanove anni di comunanza, di paragoni e d’esperienza mi obbligano a mettere al di sopra di tutte la donne, aiutatemi con la vostra virtù e i vostri lumi. Prima

194 Marie-Angélique de Vandeul (1753-1824), figlia di Diderot e autrice di un interessante libro di memorie (Mémoires pour servir à l’histoire de la vie et des ouvrages de Diderot, par Mme de Vandeul, sa fille, Paris, A. Sautelet, 1830), era amica di lunga data di mademoiselle Clairon, tanto che le lascerà in eredità alcuni oggetti, come risulta dal testamento redatto a Issy: «Un ritratto a pastello come musa e due anelli incisi a scudo: l’uno di calcedonio orientale che rappresenta un sacrificio alla luna e l’altro di corniola orientale che rappresenta una corona d’alloro, pregandola di non dimenticare mai i profondi sentimenti di stima e d’amicizia che avevo per lei», A. Doyon, Trois esquisses stendhaliennes…, cit., p. 10.

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di lasciare la vita vorrei sapere cos’è la felicità. Non che la auspichi e la pretenda per me, l’età e i malanni ne sarebbero ostacoli insormontabili, ma se fosse possibile che mi si accertasse che può trasmettersi agli uomini, che può esaudire i voti delle persone che mi sono care, morirei rincuorata. Sento parlarne da tutti, ne ho fatto la finalità di ogni mia azione, la cerco infine da quando respiro. Tutte le descrizioni che mi sono state date si assomigliano così poco tra loro e mi riconducono a tante idee astratte, che ho potuto paragonarle solo alle nuvole che con il movimento dell’aria mutano di forma e si sfrangono nel momento stesso in cui se ne vuole determinare l’aspetto. Quali che siano stati i miei desideri, la mia attività, le mie ricerche, non ne conosco ancora che il nome. Credete che esista realmente? Credete che sia possibile conquistarla? Speravo di incontrarla affidando la mia anima ai diversi sentimenti della natura, dell’umanità, dell’amore, dell’amicizia: non ho ottenuto nulla. Qualche piacevole illusione sostenuta dalla speranza che dovevano offrirmi la giovinezza, un carattere risoluto, la presenza, il talento, uno spirito osservatore, un’anima sensibile e forse eletta, mi hanno ingannata come ogni altra cosa; ho trovato nei miei lavori e nel rapporto con gli uomini solo occasioni di distruzione, di lacrime e di rimpianti. La dotta antichità dice che la speranza è l’unico bene che sia restato nel vaso di Pandora, non dice nulla della felicità: significa ammettere, mi pare, che non la si conoscesse. Il sublime Diderot vi ha dato i natali. L’immensità dei suoi lumi sull’umanità, le scienze, le arti, non si è pronunciata sulla felicità, un altro ha trattato questo articolo nell’Encyclopédie;195 ah! probabilmente non ci credeva! Immortalando tutte le conoscenze umane, il suo animo soccorrevole e puro non avrebbe dimenticato la più importante di tutte. Può anche essere, tuttavia, che sia stato scoraggiato dagli eccessi dei nostri vizi e che abbia voluto comunicare questo bene supremo solo a poche persone degne di goderne. Voi che amava come la sua opera più pura e più interessante, voi che i felici doni della natura legati a tutte le virtù rendono così degna della felicità, conoscete certamente il suo segreto, non denegate il sentimento affettuoso e disinteressato che mi spinge, ditemi solo se la felicità esiste e se conoscete il modo di legarla a voi. Ma ahimè! ho paura che non siate più avvantaggiata di me e che non possiate insegnarmi nulla in proposito. Non posso nascondermi che scopro in voi una salute malferma e sofferente, malgrado il consenso che offrite a quanto vi circonda, malgrado il costante equilibrio che mostrate nel vostro essere e nei vostri discorsi, oserò confessarvi che la mia premurosa amicizia vi ha talvolta sorpresa in una prostrazione straziante; che possa sbagliarmi! Ma credo che soffriate più nel morale che nel fisico. Ah! se voi non siete

195 L’articolo «Bonheur», firmato con l’iniziale C., è del teologo Jean Pestré (1723-1821).

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felice, la felicità è chimerica quanto le fate e i geni, e crederò solo nella fatalità.

Lettera di mademoiselle Clairon scritta da Anspach a una sua amica196 Dimenticarvi, signorina! eh! come potrei? Mi fa piacere credere che non vi sono indifferente né ingrata. L’interesse che avete spesso suscitato in me, il vostro spirito, la vostra posizione, persino la vostra eccentricità, vi danno diritto al mio ricordo. Vedete che sono in Germania come mi avevate vista a Parigi, creatura giusta e sincera. Il mio primo pensiero è stato di chiedere vostre notizie a Françoise; avevo tentato di averne da altre mie amiche che non avevano saputo soddisfarmi e vi ringrazio di inviarmene voi stessa. Tuttavia non mi dite nulla né della vostra salute né di cosa fate né dei vostri progetti. Non so se sia un buon segno, ma vi prego di esser certa che desidero fortemente sapervi felice. In quanto a me, sto bene e sono contenta quanto lo si possa essere lontano dalla patria e dai vecchi amici. Essendo stata sempre sofferente e convinta che invecchiando si deve soffrire, non incolpo il clima in cui vivo. Esco appena da una malattia lunga e preoccupante: senza paura della morte né ripulsa della vita, la sorte mi troverà sempre rassegnata a tutto. Vi ringrazio di esservi ricordata della mia inclinazione per la letteratura: è da sempre mia amica, la coltivo quanto possibile. Ho trovato il libro che mi avete indicato, sicura del vostro giudizio, lo leggerò con fiducia; eppure mi ricordo che non sempre eravamo dello stesso parere. Il Sistema della natura che distrugge tutto, il libro Dello spirito che fa tutto odiare, erano molto apprezzati da voi e per niente da me.197 Stanca, non voglio rifiutare il mio appoggio; sensibile, ho bisogno di amare e se parlaste con la vostra anima così come parlate con lo spirito di oggi, sono sicura che sareste della mia opinione. Il nostro sesso è così debole fisicamente e moralmente, la nostra educazione così trascurata, il nostro abbigliamento, le nostre passioni, i nostri piccoli intrighi prendono così tanto tempo che ho sempre voglia di ridere quando vedo una donna mostrarsi libera pensatrice. Ci è permesso, certo, di riflettere; la grandezza del coraggio può trovarsi in noi al più alto grado, ma le grandi questioni di metafisica sono infinitamente al di sopra dei nostri lumi e delle nostre forze. Sono di nostra pertinenza l’onestà, la dolcezza, l’umanità, il garbo; dobbiamo ricercare solo le conoscenze piacevoli. Ma, scusatemi, penso che la mia morale spicciola possa sembrarvi ben meschina, all’inizio non volevo parlare che di voi. Il gusto del dibattito che tra noi non è mai cessato, ha preso il sopravvento nello

196 La lettera è stata inserita da François Andrieux nell’edizione da lui curata, ma non figura nei due Mémoires del 1798. 197 Mademoiselle Clairon fa riferimento a due opere che all’epoca sollevarono aspri dibattiti: Le système de la nature ou Des Loix du monde physique et du monde moral (1770) del barone Paul Henri Tiry d’Holbach (1723-1789) e De l’esprit (1758) di Claude-Adrien Helvétius (1715- 1771).

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scrivervi, ma la mia lettera finirà come le nostre conversazioni, assicurandovi, signorina, dell’interesse più vero e più duraturo.

Consigli alla mia giovane amica198 L’esistenza ci è data solo per soffrire più o meno e per morire un po’ più presto o un po’ più tardi. Ho assolto il mio primo compito con sessantasette anni di fatiche, di malattie, di dispiaceri di ogni genere senza altro soccorso se non il coraggio e qualche piacevole momento d’illusione. I nuovi malanni che si aggiungono al deperimento sensibile di tutti gli organi m’impongono di prepararmi all’ultima condizione decretata dalla natura. Per sopportare questo momento, sempre terribile per l’ignorante e tremebonda umanità, a voi solo, o mio Dio! faccio ricorso. Se in momenti di debolezza le sofferenze del corpo e il malessere dello spirito mi hanno strappato qualche mugugno, degnate perdonarmelo; so che avrei potuto soffrire di più, che i beni di cui ho goduto erano più di quanto meritassi e che non vi devo che azioni di grazia; perdonatemi gli errori in cui sono stata trascinata dai sensi e dall’inesperienza, la vostra onnipotenza vi ha fatto conoscere il minimo recesso del mio cuore, sapete qual è la mia riconoscenza per le vostre bontà, la rassegnazione per le vostre decisioni, l’orrore per il vizio e il crimine, l’amore per i miei simili, il pentimento per i miei turbamenti e le continue preghiere che osavo indirizzarvi per illuminarmi sui miei doveri. Se ho mancato nel culto semplice e puro che vi ho reso, se la mia debole volontà mi ha allontanata dal cammino che avrei dovuto seguire, l’errore è involontario e temerei offendervi se non sperassi nella vostra misericordia. Profondamente convinta dell’esistenza di un Essere supremo, della sua giustizia e della sua bontà, sarà con azioni di grazia che gli restituirò la vita che mi ha dato ed è a voi, mia cara Paolina, che voglio consacrare i momenti che mi restano. La vostra fiducia e la vostra amicizia mi hanno offerto i mezzi per leggere nel vostro animo: esso è fatto per la virtù. Il vostro umore costante, la vostra prudenza, la decenza dei vostri discorsi e del vostro contegno mi hanno sempre fatto estremo piacere, tutto ciò che avete di piacevole e d’interessante basterebbe a rendervi cara al mio cuore. Entrata in una famiglia i cui stimabili antenati hanno accolto la mia giovinezza e di cui ogni componente mi è caro, è grazie alla fiducia riposta in me e all’occasione che mi è stata offerta di scegliervi, che siete diventata moglie, sorella, madre di coloro che oggi ne fanno parte. Tutti questi titoli moltiplicano logicamente il mio affetto per voi: perciò vi ho considerata come una figlia e ho desiderato vedervi soddisfatta e degna di ogni bene.

198 Si tratta della figlia adottiva di mademoiselle Clairon, Marie-Pauline Ménard de la Riandrie, che diventata vedova dividerà con l’attrice gli ultimi anni a rue de Lille e sarà dichiarata nel testamento sua legataria universale.

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Sono convinta che tra pochi anni le vostre stesse riflessioni vi guideranno in modo da non aver più bisogno dei consigli di nessuno e da diventare un modello per gli altri, ma il mio affetto vorrebbe vedervi precorrere i tempi. Permettetemi, con la mia esperienza, di premunirvi contro il pericolo delle abitudini, contro l’opinione errata che avete circa la giustizia e la bontà degli uomini, contro la mancanza di una buona coscienza le cui apparenze prestano il fianco alla malignità. Affinché una donna sia veramente felice, bisogna che si occupi senza sosta di tutto ciò che deve farla amare dalla famiglia, rispettare da quanti l’avvicinano, essere sicura che potrà sempre interrogare il proprio animo senza timore, vergogna o rimorsi. Affinché non sia ingannata, è necessario che studi tutte le persone che l’avvicinano, che cerchi il perché di quanto sente dire e di quanto vuol fare, che esamini i rapporti che devono naturalmente confarsi al suo stato, alla sua posizione e alla sua condotta. L’amicizia l’amore e la galanteria sono le basi fondamentali di ogni società. Conoscerete la prima con l’equilibrio costante dell’umore e dell’espressione, con l’attenzione continua senza mistero né esigenze, con favori resi con slancio e senza esitazione, con consigli affettuosi e sinceri che vi saranno dati sui vostri difetti o errori, con sentimenti d’onestà, di compiacimento testimoniati a quanto vi è caro e consigliabile, infine con la fiducia nei vostri confronti. Il vero amore è raro, anzi forse non esiste più: i nostri costumi ne hanno serbato solo il nome e serve ad abbellire quei legami indecenti prodotti dall’illusione, dal bisogno dei sensi, dalla vanità travisata e dalla dimenticanza di qualsivoglia principio e pudore. Il vero amore può sbocciare e perdurare solo in un’anima virtuosa: è sempre timido, modesto, rispettoso; nasconde in ugual modo la felicità e il dolore, lo riconoscerete dal languore o dalla vivacità degli sguardi, dal turbamento nell’espressione, dal timore di spiacere, dall’attenzione continua d’indovinare, di cogliere la volontà di ciò che gli piace, dal silenzio profondo che serberà per questi sentimenti. Nella vostra posizione, la persona che vi facesse una dichiarazione formale non proverebbe un amore sincero; questo sentimento deve avere per base la stima e il rispetto, non si scommette se non c’è speranza e, se c’è speranza di condivisione da parte di una donna sposata, significa cominciare a dimostrarle che non la si stima né la si rispetta. Non mi stupisco della depravazione dei costumi odierni: appena uscito dal collegio, un giovane entra in società. Trascinato dai suoi pari, si abbandona in modo sfrenato ai pericoli della tavola, delle donne, del gioco; i suoi cavalli, il suo calesse, il suo vestire indecente e ridicolo costituiscono gli unici oggetti d’attenzione: i debiti, il volto di un vanesio o di uno sciocco, il cuore di un libertino e il corpo

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sfinito di un vecchio, è spesso tutto ciò che possiede quando diventa maggiorenne. Quale marito, quale padre può essere? La nostra educazione non è migliore. Cameriere, governanti non selezionate e quindi senza meriti, religiose ignoranti, bigotte, pedanti sono incaricate di vigilare sullo sviluppo del nostro carattere: quale freno o quale principio ne possiamo ricevere? La maggior parte delle madri di famiglia incuranti, scapestrate, civettuole, spesso peggio, credono di assolvere il loro compito dando maestri di danza, di musica, di geografia; forse è giusto conoscere tutto ciò; imparare a memoria il catechismo e il vangelo del giorno esercita la memoria, approvo ancora; ma la conoscenza del bene e del male, del mondo in cui dobbiamo vivere, i doveri dell’umanità, quelli di moglie e di madre, chi ce li insegna? Nessuno. Si maritano i figli senza consultare il loro cuore: gl’interessi di rango e di ricchezza sono tutto, di conseguenza è molto raro unire due esseri che si confanno, che rispondono alle illusioni accarezzate e alle esigenze fisiche e morali ricevute dalla natura. Presentati in società, è naturale cercare di conoscere chi incontriamo, con chi dobbiamo vivere; dicendoci i nomi e i meriti di ogni persona ci vengono comunicati al tempo stesso i loro o le loro amanti, ci spiegano che è invalso l’uso d’invitarli insieme, li si incontrano nello stesso palco a teatro, vanno insieme nella stessa vettura, vediamo che i mariti non trovano nulla da ridire, che l’amante della moglie è molto ben trattato dal marito e che l’amante del marito fa parte della società intima della moglie. Ne concludiamo logicamente che ciò che tutti fanno non può essere biasimevole, che anzi sarebbe ridicolo non comportarsi come tutti. Nasciamo o sensibili o civettuole o vanesie. Trascurate da un marito, incalzate dai seduttori, consigliate da donne che non vogliono permettere che si sia più rispettabili di loro, spinte dall’esigenza di amare, dal desiderio di piacere e dall’orgoglio di vendicarci, cediamo e siamo perdute. Eppure vi sono ancora donne veramente rispettabili. Una buona educazione, un animo naturalmente puro e fiero, un giudizio sicuro, un sangue freddo, un controllo giudizioso e attento conducono alcune sulla strada della virtù: il numero non è importante, ma esiste. Per parte mia ne ho incontrate sei, quattro delle quali vivono ancora e voi avete conosciuto da me due di loro. Benché sia stata qualche volta trascinata dal turbine, non ho mai avvicinato una donna rispettabile senza provare un sentimento di deferenza per lei e di rammarico per me ed è forse al desiderio di giustificare la loro indulgenza e la loro amicizia che devo la crescita di qualche buona qualità datami dalla natura. Nel novero delle donne che si perdono ce ne sono di più o meno colpevoli, una debolezza è sempre una disgrazia, una macchia, ma non sempre un crimine, un vizio: può essere perdonata se fondata sull’inesperienza e

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l’esempio: la si riscatta non ricadendoci più. In tutto quanto vi dico, mia cara Paolina, badate bene che i miei precetti valgono solo per le donne sposate o per quelle che lo saranno a breve, altrimenti mi condannereste sulle mie parole e la lezione andrebbe perduta. È molto diverso disporre del proprio bene o di dare quello di un altro: ero libera; una donna sposata non lo è e ciò che per me era solo un errore, diventa per lei un crimine. Avete equilibrio nelle idee, sensibilità e onore nell’animo, amate vostro marito, tutto ciò mi fa sperare che non sarete sedotta, ma guardatevi dal credere che sia bastevole essere assennata per non essere sospettata. L’invidia segue costantemente i passi di ogni donna titolata, ricca, celebre, attraente e virtuosa, spia tutto e getta a fiotti il suo veleno sulla minima probabilità; la speranza del vanesio, il discorso dello sciocco, la calunnia del perfido sono avidamente colti da lei. Per allontanarla non siate né puritana, né pudibonda, permettete che vi si avvicini e che vi si allieti la conversazione, ma che il vostro contegno avverta che un proposito libero e l’aria di familiarità non vi farebbero piacere. Non lasciatevi raccontare i pettegolezzi dei salotti che in segreto e da persone che stimate, non tollerate in pubblico né i difetti né il ridicolo né i torti che si vogliono attribuire a qualcuno, quale che sia la sua condizione, anche se vostro rivale o vostro nemico; difendete quelli che vengono attaccati, fate l’impossibile per giustificarli o, se credete di non poterlo fare, esigete che si cambi argomento; tale condotta vi assicurerà la stima di tutti e la riconoscenza di quanti avrete difeso. Questa nefasta invidia può essere disarmata solo con la pratica continua di ogni virtù; ma è soprattutto per se stessi che bisogna essere buoni, giusti, umani, caritatevoli, l’anima che non ha rimproveri da farsi gode di una calma così pura, così consolatoria, vive in un ambito così armonioso da non concepire non solo come si possa fare il male, ma anche di come si possa respirare un istante senza cercare i mezzi per fare il bene. Mi direte forse che secondo quanto affermato, non posso ammettere il sospetto. Riconosco che ferisce chi lo ispira, credo che un carattere naturalmente diffidente sia almeno passibile dei vizi di cui sospetta gli altri; tuttavia esaminate il momento in cui ci troviamo, è l’amore dell’umanità, il disinteresse, la giustizia che hanno appena prodotto le due incredibili rivoluzioni della Francia? Due teste calde ne hanno potuto concepire il piano e sia. Ma questo numero immenso di cooperatori, questi banditi raccolti da ogni dove che devastano le vostre terre, che danno alle fiamme i vostri titoli e i vostri castelli, che portano dappertutto miseria e carneficine, sono solo degli sventati? Non è forse senza un piano stabilito che da anni si dirottano i grani, si creano depositi d’armi, d’uniformi, di munizioni d’ogni tipo?199

199 Nella prima edizione figurava il seguente brano, espunto nella seconda, in cui mademoiselle Clairon accennava in breve ad alcuni avvenimenti che preludono di qualche giorno la presa della Bastiglia: strano modo di parlarne all’interno di un discorso di

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Ah! mia cara Paolina, è impossibile negare l’evidenza! La cattiveria guida la maggioranza degli uomini, non sospettiamo, non accusiamo nessuno senza prove, ma stiamo in guardia nei confronti di tutti. Studiate quanti entrano in contatto con voi, sfogliate gli annali del mondo, sarete obbligata a confessare che nulla è comune quanto il vizio e che nulla è raro quanto la virtù. Ma questo non deve scoraggiarvi: la difficoltà dell’impresa mette in luce la grandezza del coraggio. Si avvicina il momento in cui potrete adeguatamente sviluppare e anche accrescere le virtù di cui siete capace. L’educazione di vostra figlia sarà la pietra di paragone di tutta la vostra vita, non potete istruirla voi stessa, bensì consigliarla nell’apprendimento studiando il suo carattere, adeguandovi alla grande pazienza richiesta dall’infanzia, considerando che la fiducia, il rispetto, l’attaccamento sono importanti per la felicità dei suoi quanto dei vostri giorni; ci vuole tanto coraggio quanta abilità per attuare una buona educazione.200 So che siete una brava donna, una brava moglie, una brava padrona di casa, una buona amica e mi piace credere che vorrete essere anche una buona madre. Ritengo che vi imporrete il dovere di non mostrare mai né collera né stizza, che rimprovererete con dolcezza e sensibilità, che carezze, regali, condiscendenze, elogi misurati saranno la ricompensa degli sforzi di vostra figlia, che la vostra volontà non cederà tutt’altro tenore. Anche mademoiselle Dumesnil ne aveva criticato l’invettiva affermando di esserne sorpresa (Mémoires Dumesnil, p. 375). «Non è senza un progetto che Parigi è stata fatta circondare da ventimila soldati? Era per rimettere in sesto le finanze che si voleva licenziare Necker e richiamare Calonne? Era per servire il popolo che si è dato l’ordine di sparare su di lui? Era per scherzare che M. de Lambesc, accompagnato da ussari, dragoni e appoggiato da un distaccamento di guardie svizzere è venuto a sciabolare e uccidere i cittadini che prendevano tranquillamente l’aria alle Tuileries? È infine per amore, per rispetto del re che lo si ingannava con ogni mezzo possibile e che lo si metteva a repentaglio di perdere la corona e la vita?». Jacques Necker (1732-1804) ministro delle finanze dal 1777 aveva tentato di riorganizzare l’economia ma il suo Compte rendu au Roi (1784) sulla situazione della Francia, non gradito all’autorità lo aveva obbligato a dimettersi. Fu sostituito da Charles-Alexandre de Calonne (1734-1802) ma anche le sue proposte di riforme radicali non furono ben accette e dovette lasciare l’incarico (1787). Necker fu richiamato nel 1788, dopo le dimissioni di Loménie de Brienne (1727-1794) succeduto a Calonne; la sua destituzione l’11 luglio 1789 aveva scatenato la collera popolare. Il 12 luglio 1789 erano scoppiati dei tumulti a Parigi per timore di un intervento militare, avendo il re fatto confluire su Versailles ventimila uomini dei reggimenti stranieri. Il principe Charles Eugène de Lambesc (1751-1825) alla testa del Royal-Allemand da lui comandato, aveva fatto sparare sulla folla riunita alle Tuileries. La difficile posizione di Luigi XVI è appena sfiorata e se, come la memorialista accenna all’inizio dei suoi Consigli di avere sessantasette anni, la stesura risalirebbe al 1790 e a meno che non siano intervenute delle integrazioni, sembra sia stata particolarmente lungimirante nel prevedere la morte del re (21 gennaio 1793). 200 Argomento molto dibattuto nel secolo dei Lumi, soprattutto dopo l’opera pedagogica di Rousseau, Emile ou De l’éducation [Emilio o Dell’educazione] (1762). Particolarmente prolifiche sulla questione si rivelano Jeanne-Marie Leprince de Beaumont (1711-1780) e Madame de Genlis, segnatamente con il suo Adèle et Théodore, ou Lettres sur l’éducation, contenant tous les principes relatifs aux trois différens plans d’éducation des Princes, des jeunes Personnes et des Hommes, Paris, Lambert, 1782, 3 voll.

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mai alla sua e che non le imporrete nulla senza dirle perché l’esigete: con questi mezzi le darete l’idea del vostro carattere, indirizzerete il suo alla bontà, alla fiducia e al rispetto e aiuterete le sue nascenti idee a organizzarsi e a crescere più rapidamente. Suppongo anche che sarà vostra intenzione assistere il più spesso possibile alle lezioni impartite, la vostra presenza le darà emulazione e il maestro non oserà mostrarsi negligente. Queste attenzioni sono profittevoli anche per le giovani madri: non si conosce tutto. La vita che si conduce in società fa dimenticare molte cose e queste lezioni le insegnano o le ricordano. Bambini destinati a vivere dei loro beni devono solo apprendere ciò che potrà renderli affabili in società e far loro sopportare senza cruccio momenti di solitudine; per eccellere in qualcosa di particolare bisogna occuparsene in modo esclusivo, questo grande impegno concerne solo chi vuole farsene un mestiere. Se avessi avuto dei figli avrei voluto che imparassero della danza solo quanto dà equilibrio e armonia alla persona, ciò che aiuta a presentarsi, salutare, camminare, sedersi con naturalezza, distinzione e grazia. Mi sarei poco curata che cantassero a prima vista. Avrei voluto unicamente formare il loro orecchio e il loro gusto, conoscere l’estensione della loro voce, far sentire l’orrore delle dissonanze e l’incanto della melodia, metterli in grado di apprendere da soli un’arietta. L’arpa è uno strumento prezioso nelle mani di una donna che ha voce e grazia, ma può causare malformazioni del busto, affatica i polmoni e rompe la voce. L’avrei evitata. Il clavicembalo e il piano mi sembrano poter essere piacevoli e utili a volte. Ne avrei spinto lo studio al punto di sentirne, di apprezzarne le difficoltà, ma non avrei voluto che si tentasse di superarle. Suonare con facilità brevi composizioni, essere in grado di occuparsi, di distrarsi, di distaccarsi dalle preoccupazioni è bastevole per il bel mondo, non è necessario assorbire tempo, memoria e le felici disposizioni dei bambini per talenti di cui, a rigore, si può fare a meno. Ciò che si deve far loro apprendere a fondo è la lingua; è vergognoso ignorare il significato, il valore, il genere, la pronuncia dei vocaboli che si sentono e si dicono. Più si conosce la propria lingua più lo spirito si apre. La proprietà di linguaggio arricchisce l’eloquenza, l’imponenza, l’emozione, la piacevolezza: la modulazione richiesta da ogni parola offre mille attrattive al discorso. Chi conosce la lingua non parla fra i denti, non sopprime le sillabe, evita la monotonia, cose estremamente spiacevoli per orecchie delicate e per quelle rese dure dall’età. Chi conosce la lingua, conosce l’ortografia. So che si fa grazia alle donne della loro ignoranza su questo punto, ma vi scongiuro di suscitare in vostra figlia quel nobile orgoglio che non implora né riceve giustificazione alcuna. Curate la scrittura, cercate che convenga a tutti gli occhi. Nulla di più stancante per chi riceve una memoria, una lettera, di cercare le parole una

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dopo l’altra: qualsiasi stile perde moltissimo nell’essere sillabato. Le linee di traverso, i caratteri indecifrabili presagiscono una persona trascurata, viziata e noncurante. Tutti i nostri libri di storia, noiosi per noi, devono sembrare insopportabili per i bambini. Vi consiglio di dare ai vostri, nei primi momenti, solo sunti ben fatti, storie singolari che sintetizzate nelle vicende devono più facilmente stuzzicare e sostenere la loro curiosità. Esigete che ve ne rendano conto; aiutateli a sbrogliare ogni minima sensazione riportata, non lasciate passare alcun tratto di virtù, d’eroismo o d’umanità senza farne l’elogio; non perdete mai l’occasione di descrivere i pericoli del vizio e l’orrore che ispira; aumentate l’importanza delle letture in ragione del loro sviluppo: aggiungete a questa seconda classe di studio quello della geografia. Come ricompensa permettete loro di leggere la tragedia che si riferisce a un passo della storia letta, permettete che impari dei versi e che ve li reciti. I bambini aborriscono ciò che s’impara come dovere e che si permetta loro d’imparare come ricompensa, li eccita. Richiedete che qualche volta si rallegri il vostro tempo libero con la lettura di una fiaba, di una breve composizione in versi, di precetti di morale distaccati e facili da ricordare; evitate i romanzi e i racconti di fate, esaltano troppo il cuore e la mente. Abbiate l’abilità di far loro desiderare di apprendere il disegno: è una dilettevole risorsa nella solitudine. È piacevole essere conoscitore di stampe, di quadri e tutto ciò che concerne il diletto in società costituisce un merito. Guardatevi, mia cara Paolina, dal credere che vi detto delle leggi. Non ho avuto figli, quanto concerne la loro educazione non è mai stato oggetto delle mie ricerche, può darsi che le mie brevi intuizioni siano senza senso: le sottopongo alla vostra ragione, se sono giuste seguitele, se non lo sono ditevi almeno che si tratta del farneticare di un’anima sensibile che forse già scomparsa, vorrebbe ancora contribuire alla vostra felicità e la cui vita triste e penosa si consola pensando a voi. Non mi sbaglio certo nel desiderare che vostra figlia vi scelga come confidente e come sua migliore amica, prodigatevi per riuscirci, così si mette al sicuro la tranquillità e la felicità di entrambe. Più gentili, più sensibili, più misurate, più controllate in ogni nostro sentimento degli uomini, a noi deve essere riservato il compito di servire da esempio per i doveri puri e sensibili richiesti dalla natura. La madre che si rifiuta, la figlia che li misconosce sono dei mostri. Siete ancora lontana, mai cara Paolina, dal tempo funesto in cui siamo obbligate ad ammettere che tutto passa, ma vostra figlia crescendo, attirando gli sguardi, sarà il termine delle vostre ambizioni e la

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testimonianza della vostra età.201 Su quanto sentite dire circa le altre donne, vi dovete aspettare a ciò che si dirà di voi. Per meglio prepararvi a quel momento critico, bisogna che vi racconti in qual modo l’ho vissuto. Ero giunta a quarant’anni senza essermi accorta di alcun degrado del mio volto: sia che gli sfarzosi abiti necessari alle mie parti favorissero l’illusione degli altri, sia che fosse sostenuto dalla varietà dei personaggi rappresentati, sia che fosse controllato dalle passioni che mi sforzavo di esprimere al meglio o dall’ottica del teatro, tutti gli amici mi trovavano incantevole e il mio amante mi amava alla follia, insomma non avevo alcun dubbio. Un giorno, spinta più del solito dal desiderio di piacere, volli aggiungere alle mie grazie il soccorso di quelle parures eleganti che abbiamo sempre di riserva e che fanno esclamare: ah!… quando vi si vede. Guardandomi di continuo allo specchio per controllare se i capelli erano a posto, mi sembrò che la cameriera facesse poca attenzione, che dimenticasse l’aria del mio volto, che avesse l’intenzione di rendermi quel giorno meno bella del solito. Chiesi tuttavia con sicurezza il grazioso cappellino che doveva completare il tutto, ma per quanto lo girassi, ne ero scontenta; lo gettai via, ne provai una ventina e confusa di non trovarne neanche uno che mi andasse come volevo, mi studiai meticolosamente. Col naso nello specchio illuminato dalla luce del giorno, scoprii varie rughe sulla fronte! su entrambi i lati degli occhi! nelle pieghe del collo! il biancore dei denti non aveva più lo stesso splendore! le labbra erano meno tumide! gli occhi meno vivaci! e purtroppo in quel momento non avevo problemi di salute!… Costretta a riconoscere che non era colpa né della cameriera né del cappellino, ma che ero io a non essere più la stessa, scoppiai a piangere. Che debolezza! direte. Ahimè! amavo! La felicità dipendeva dal fatto che piacessi, la ragione mi ordinava di non pretenderlo più. Quel momento fu terribile, il dolore durò circa sei mesi, era tanto più penoso in quanto bisognava nasconderlo per non confessarne la causa. Ma fin dal primo momento di quella crudele scoperta decisi di essere della massima semplicità, non attirando più gli occhi sulla mia parure pensavo di sfuggire più facilmente agli sguardi nel dettaglio: la critica e l’invidia devono almeno azzittirsi nei confronti di chi si rende giustizia. Non pretendevo più niente, pur raddoppiando tutte le attenzioni dell’amore non ne parlai più il linguaggio, in modo impercettibile ne repressi tutti i desideri. La mia condotta sorprese, me ne fu chiesto conto, si restò sorpresi da quanto risposi. Ottenni così di possedere ancora per cinque anni un cuore conteso da molte donne e che il possesso di un’ingente fortuna me lo fece perdere per sempre.

201 Il testo da questo paragrafo fino a quello che termina con «della bellezza», era stato pubblicato sulla «Correspondance littéraire», vol. 15, novembre 1789, pp. 548-550 con il titolo: Estratto dal manoscritto di una donna celebre intitolato: Consigli alla mia giovane amica.

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Riflettete su tutto ciò, mia cara amica. Giunte sulla soglia della trentina, gli uomini fanno la sciocchezza di considerarci vecchie e di disapprovare in noi quanto osano pretendere per loro nella più disgustosa vanità. Quest’ingiustizia è più degna di commiserazione che di sdegno, non ve ne offendete e non sacrificatele mai nulla: occorre interrogare la vostra vanità, la vostra delicatezza, la vostra ragione per sapere ciò che dovete ancora pretendere. Non potete allora nascondervi che ogni giorno vi toglierà una grazia, ma il vostro spirito esercitato dal tempo e dall’esperienza vorrà certamente sostituirla con la virtù: vi permetterà un imperio ben più gradito e ben più durevole di quello della bellezza. Andando in società non ostentate mai quella folle sregolatezza, quella leggerezza d’animo che fa sorvolare su ogni cosa in cui ci si imbatte. Non c’è nulla da cui la vostra ragione e il vostro giudizio non possano trar vantaggio per voi stessa. Si ha sempre bisogno gli uni degli altri. Se non avete considerato la persona che può servirvi, non saprete conquistarla nel modo giusto. È difficile, e forse impossibile, leggere nel cuore degli uomini, ma le azioni e le conversazioni vi faranno almeno conoscere ciò che si vuole apparire. Paragonate, aggiungete le vostre intuizioni a quanto potete sapere per altri versi, conoscerete la persona di cui avete bisogno. Osservando con attenzione, vi convincerete che ben poche sono le famiglie nelle quali la virtù è ereditaria e che in quasi tutte quelle che sono depravate i figli vanno sempre più in là dei padri. Vedrete che l’opinione che si ha dei padri, influisce su quella che si ha dei figli. Si spera che il figlio di un onesto galantuomo, la figlia di una donna dolce e pudica porteranno onore e serenità nelle famiglie che li accolgono. Questo preconcetto favorevole può prevalere a seconda della quantità di titoli e di beni offerti dalla famiglia viziosa. In tutti gli accadimenti della vita, in tutte le decisioni, la volontà motivata di una persona irreprensibile è sempre di grandissimo peso. Nulla eguaglia l’ascendente di una donna virtuosa: può tutto su quanti la circondano. Avete per natura una grande mente, coltivatela, cercate di non saltare un giorno senza fare una lettura istruttiva. La morale, la storia, le belle lettere, qualche romanzo scelto, bastano alle donne per consolidarle nei loro doveri, farle brillare in società e interessarle nella solitudine. La sciagurata libertà della stampa inonda oggi l’Europa di scritti calunniosi dettati dal crimine e dalla miseria: non perdete tempo a leggere quel cumulo di menzogne e d’inanità; ci si lascia a volte prevenire da un tono di verità, da affermazioni così motivate che non si osa credere all’audacia che le partorisce; si assume senza volerlo un’opinione, ci si permette di sostenerla. Evitate tale pericolo, è spiacevole doversi ritrattare. La donna che contesta abdica al suo ruolo e dobbiamo tutte confessare che solo le intriganti di professione, o una lunga esperienza, possono dare qualche idea

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dell’audacia, della cattiveria, delle risorse dell’ambizione e dei maneggi della politica. Potete fare un ben miglior uso del vostro tempo: avete un notevole tenore di vita, impegnatevi ad assicurare l’ordine, l’economia e la serenità della vostra dimora. Vostro marito è un superstite di quegli onesti Fiamminghi che, pieni di candore, di franchezza e di generosità credevano di dover sempre uccidere il vitello grasso per il primo che si fosse presentato e le cui anime pure rifiutavano ogni diffidenza. I tempi sono cambiati, bisogna cambiare con loro. Allora ci si riuniva di rado, il fasto era solo momentaneo, era facile sostenerlo, oggi è quotidiano e quale che sia la fortuna che si possiede se non si valutano spesso le spese, se non si hanno costantemente gli occhi aperti sullo sperpero dei domestici, se non si mette un freno alla loro cupidigia e alle loro pretese, in poco tempo si è rovinati o per lo meno ci si trova in difficoltà. Una persona saggia deve fare in modo di aver sempre qualche credito sul reddito annuo e costituirsene un fondo per le emergenze; con questo fondo si ammortizzano gl’introiti previsti e non realizzati, si ha la possibilità di un acquisto vantaggioso o gradito; può contribuire al corredo dei figli che si vogliono sistemare, può procurarvi la felicità inestimabile di rendere un servigio a un amico. Per i pochi grilli che mostrate, per l’attenzione che portate alle spese personali, con dieci anni d’esperienza su quanto conviene a vostro marito e sul modo in cui la vostra casa deve esser gestita per andar bene, non vi deve esser difficile ottenere la fiducia che si accorderebbe a chi dirige i domestici. Perché un matrimonio riesca è necessario che il marito abbia il controllo e la conduzione di tutti gli affari esterni e la moglie di tutto quanto avviene all’interno. Dopo un certo tempo gli sposi non hanno più granché da dirsi, col resoconto reciproco delle loro operazioni hanno argomenti di conversazione utili e interessanti che possono accrescere la stima, la fiducia e far contrarre l’esigenza della consuetudine altrettanto forte e più durevole di quella dei sensi. Perché una moglie ottenga la considerazione nella propria casa, bisogna che gli estranei sappiano chi vi comanda e regola ogni cosa; questo potere accerta la sua intelligenza, il suo gusto per i doveri e la fiducia accordatale dal marito, viene meglio servita e più rispettata dalla servitù, persino i figli si mostrano più ossequienti. Comportandosi con dolcezza, prudenza e fermezza, si costituisce un’autorità che può in verità costarle qualche privazione in gioventù. Ma la gioventù passa così in fretta! Le illusioni hanno a volte un seguito così crudele! La vecchiaia è così lunga! Abbiamo allora bisogno di tante gratificazioni! e il desiderio di comandare aumenta così tanto con l’età che va tentato qualsiasi sacrificio per conquistarlo.

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Avrete in tal modo un’indiscussa supremazia sulla sistemazione dei vostri figli, nulla si farà senza consultarvi, senza avere liberamente il vostro consiglio; infine la vostra efficienza in famiglia farà del vostro sposo un amico, il contrario ne farebbe per sempre il vostro padrone. La scelta spetta a voi: ma riflettete che un fastidio in gioventù non è che un battito d’ala di una farfalla cancellato dal minimo piacere, ma in vecchiaia è una pugnalata la cui ferita sanguina a ogni istante. Se il vostro gusto non è di ostacolo a questo piano, se le circostanze vi permettono di seguirlo, ardisco rispondere della felicità di tutta la vostra vita. Una vita amorevolmente e lealmente trascorsa vi terrà lontana dai pericoli del mondo; rinsalderà la vostra salute, assicurerà la tranquillità del vostro animo, vi garantirà ciò che ben poche donne possiedono, il rispetto, la stima, la tenerezza e il rimpianto della vostra cerchia. Pronta a scendere nella tomba, non godrò dei beni toccanti che vi preconizzo, ma seguendo i consigli offerti dalla mia tenera amicizia, spetta a voi prolungare la mia esistenza morale e far ritrovare il mio cuore in tutto ciò che farà il vostro. O mia cara Paolina! che possiate acconsentire ad annullarmi del tutto in voi!

Dialogo tra monsieur L***, madame L*** e mademoiselle Cl***

MONSIEUR L… È necessario che vi presenti le mie lamentele e che siate il nostro giudice. La sua civetteria mi tormenta; vuole piacere a tutti senza preoccuparsi di quanto mi fa soffrire: certamente non l’approverete?

MADEMOISELLE CL… Siete dunque molto innamorato, monsieur L…?

MADAME L… È geloso, e nient’altro.

MONSIEUR L… Prima di conoscervi sono stato innamorato due volte nella mia vita; ho creduto di impazzire per la perdita di quella fra le due che ho più amato; per un anno ero come morto, tuttavia mi accorgo che non l’amavo quanto vi amo.

MADAME L… E allora! mi amate, sono vostra; non è sufficiente per sentirvi felice?

MADEMOISELLE CL…

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Monsieur L…, ha solo vent’anni: l’esuberanza delle idee è troppo grande per lasciarle il tempo di riflettere: abbiate pazienza. Cercate di fare in modo che non conti così tanto nei vostri sentimenti, soprattutto non mostratevi mai geloso: significherebbe degradarvi entrambi. Se, come credo, la vostra sposa tiene al proprio onore, i vostri sospetti sono per lei offensivi e mai amiamo chi ci oltraggia, e, se la sua condotta non rispondesse a quanto deve a se stessa, la continuità del vostro amore sarebbe per voi una macchia. La vostra età e la vostra dignità non vi permettono di amare la persona di cui non avreste più stima.

MADAME L… Sono sicurissima di tenere sempre fede a quanto devo, ma guardatevi dal seguire il consiglio che vi si dà. Non voglio che abbiate l’aria di amarmi di meno; non è questo che mi aspetto, ma senza offendervi, senza irritarvi, posso e devo voler piacere dato che sono donna.

MADEMOISELLE CL… Bisogna ammettere che per noi è un bisogno e persino un dovere. Il desiderio di piacere c’impegna a curare la nostra bellezza, a correggere o a nascondere i nostri difetti; ci permette di dire solo cose gentili, ci rende attente a tutto ciò che costituisce il fascino della società, la felicità di chi ci è vicino e la serenità della coppia; mette a tacere l’orgoglio, addolcisce il carattere. Costituisce, a mio avviso, il germe di tutte le nostre virtù e giudico false o sciocche quelle che negano questo bisogno e questo dovere.

MADAME L… Ah! ho vinto! ne ero sicura… Ebbene! Signore, non avrete più nulla da dire, eccovi condannato dai veri conoscitori.

MONSIEUR L… (tristemente) Come, mademoiselle, voi approvate?…

MADEMOISELLE CL… Un momento, signore. Signora… acconsentite a rispondermi: volendo piacere è forse in generale: uomo, donna, giovane, vecchio, ecc., ecc.

MADAME L… Sì, tutti, tutti… non fa male a nessuno.

MADEMOISELLE CL… L’impresa non è facile, ma ammetto che vi è consentito tentarla. Suppongo che il vostro desiderio di piacere sia un’attenzione per il vostro sposo.

118 Hyppolite Clairon, Memorie e riflessioni sulla declamazione teatrale

Volete che assapori ancor più la sua felicità nel vedere che tutti gliela invidiano. Ma non temete che un vanesio possa crearsi delle aspettative e che un’anima sensibile possa soffrire? Volete piacere, ma certamente non volete chi vi si ami: non è l’amore che…

MADAME L… Perdonatemi, voglio che mi si ami quanto è possibile amare; voglio che tutti gli uomini siano innamorati di me.

MADEMOISELLE CL… E che ne farete di tutto questo? Che arduo compito vi prefiggete!

MADAME L… È affar loro: non mio.

MADEMOISELLE CL… Non vostro? Oh! perdonatemi, signora, ma vi impelagate in affari ben più grandi di quanto crediate. Il vanesio vi comprometterà e dovrete giustificarvi; l’uomo onesto e sensibile si lamenterà e avrete dei rimpianti, l’audace farà dei tentativi e vi vergognerete. Chi può dire, per altro, che non incapperete voi stessa nella rete che avete teso?

MADAME L… Conosco i miei doveri, mi sono cari, li rispetterò.

MADEMOISELLE CL… Ne avete l’intenzione, non ne dubito. Ma siete molto giovane, signora: non conoscete gli uomini. La vostra educazione e il vostro sposo non vi hanno spiegato quello che sono capaci di compiere; ma sono sicura che rabbrividireste al minimo abbozzo che potrei farvi: abili nell’approfittare di tutto, sareste presa in un momento di capriccio, d’umore, di sensibilità, di entusiasmo, di disposizione…

MADAME L… Non ne ho; dimenticatevene.

MADEMOISELLE CL… La vostro aria è ingannatrice; ebbene sia. Oggi non ne avete, ma chi vi dice che non ne avrete domani? A venti anni si possono avere dei principi che mai si cancellano, ma che il tempo e le circostanze modificano all’infinito; aspettate, signora, aspettate che i germogli della vostra esistenza siano del tutto sbocciati. Ho più di sessant’anni e mi sono studiata sotto ogni possibile aspetto: il fondo del mio carattere non è cambiato. Ma le mie idee

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e i miei sentimenti sono sempre dipesi dal tempo e dalle circostanze; dalle ricerche fatte sulla nostra conformazione e sui nostri stati periodici, dalle confessioni ottenute da un gran numero di donne e di medici, posso assicurarvi, signora, che non sarete sempre ciò che siete oggi.

MADAME L… (leggermente stizzita) Ci sono eccezioni alla regola.

MADEMOISELLE CL… Ne convengo e non dubito che ne dareste prova, ma non siete voi a impensierirmi, sono quei poveri uomini! Il tempo dei Céladon è finito. Nel nostro triste secolo si è felici solo nel godere. Come faranno? I vostri rifiuti lasceranno capir loro che in realtà li tenete in poco conto; ne vedo che moriranno di vergogna, altri di rimpianti, ne vedo d’ingiusti e di perversi che, credendo i loro rivali più felici, maligneranno in società e forse si uccideranno!… Mi fanno pietà. Ma supponiamo anche che abbiate la fortuna di non provare nulla di tutto ciò e che sappiate padroneggiarvi, e sia. Ma come farete a frenare le donne che saranno state abbandonate o trascurate a causa vostra? Vi aspettate che rinunceranno ai loro sentimenti, al loro rancore, alla loro vendetta? No, dovete aspettarvi di essere oggetto di epigrammi, di canzonette, di satire quanto mai insultanti e per quanto virtuosa possiate essere, non potrete impedire che vi si creda una donna perduta…

MADAME L… (impallidendo) Tutto ciò merita riflessione, mi fate rabbrividire.

Canzone offerta, qualche giorno dopo questa conversazione, a madame L*** sull'aria: Non chiedete di più

Chi vuol soggiogare ogni cuore Deve rinunciare al nome di saggio; È solo a forza di favori Che si ottiene l’omaggio di un uomo: Poiché il vostro sposo È degno di voi, Non chiedete di più. bis.

Temete le reazioni dei rivali, Temete la rabbia delle rivali;

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Non potreste più fare un passo Senza essere la mira di un insulto: Poiché il vostro sposo È degno di voi, Non chiedete di più. bis.

Se non si conosce tutto il vostro spirito, Benedite questo grande vantaggio; O per ragione o per dispetto Vi si terrebbe in schiavitù. Infine il vostro sposo È degno di voi, Non chiedete di più. bis.

Non scrivete mai dei libelli, Se volete esser risparmiata; Se ne leggerebbero di buoni o di cattivi, E si griderebbe che è opera vostra: Ah! servitevi meglio Dei vostri felici doni! Abbiate la bontà della vostra età. bis.

Congedo

Benché nell’inverno degli anni, Ho saputo conservare la corona Dei fiori raccolti nella mia primavera; E dei dolci frutti del mio autunno. Ascoltate la mia voce, E seguite le leggi Che l’esperienza vi detta. bis.

Altra, sulla stessa aria, indirizzata a madame Drouin

Da cinquant’anni, l’amicizia Fa un dolce uso dei nostri cuori; Ha regolato i nostri sentimenti: Aumentano con l’età. Del nostro legame, Sentiamo tutto il bene, E stringiamolo ancor di più. bis.

Benché rivali di talenti,

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Senza gelosia e senza ombre; Nei più brillanti successi, I nostri cuori acconsentivano alla condivisione. Del nostro legame, Sentiamo tutto il bene, E stringiamolo ancor di più. bis.

Al tempio sdrucciolevole del fato, Finché è durato il nostro viaggio Tu perdonasti i miei errori, Io ti perdonai di essere saggia. Del nostro legame, Sentiamo tutto il bene, E stringiamolo ancor di più. bis.

Contenta di poco più che niente, E fiera della tua schiavitù, Cercasti il ben supremo Nel tuo animo e nella tua famiglia. Ma il nostro legame, Non ne soffrì affatto, Ah! stringiamolo ancor di più. bis.

Io, condannata a maggior lustro, All’amore, al fasto, allo scalpore, Non ho visto nel mio celibato Che la perturbazione di una lunga tempesta. Ma il nostro legame, Non ne soffrì affatto, Ah! stringiamolo ancor di più. bis.

Invano cercavamo la felicità: Sfugge all’anima sensibile e saggia. Che l’amicizia ci ripaghi Delle angosce di un mondo illusorio. Del nostro legame, Sentiamo tutto il bene, E stringiamolo ancor di più. bis.

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Parte terza

Riflessioni sull’arte drammatica e sull’arte della declamazione teatrale.

Estratto di una lettera al cittadino Buisson, editore Cittadino, Mi annunciate che state per fare una seconda edizione del mio scritto, è segno che il pubblico ha degnato serbarmi l’antica benevolenza: ne ho meritato la celebrità di cui ho goduto in vita; è la mia consolazione sull’orlo della tomba dove sono pronta a scendere. Mi sarebbe stato gradito provargli la mia rispettosa riconoscenza con qualche supplemento che avrebbe potuto piacergli e facilitare lo studio dei nostri capolavori tragici. Non c’è una guida nella storia per delineare le parti di Viriate in Sertorius,202 di Aménaïde in Tancrède203 e d’Idamé nell’Orphelin de la Chine.204 Tratti frammentari, probabilità, costumi, le idee generalmente più adottate di questo o quel secolo, non sono sufficienti per dar loro un carattere effettivamente nazionale. Credo che Viriate debba presentare, nella fisionomia e negli accenti, l’indignazione e il terrore suscitati nell’universo dalla dittatura di Silla e quanto la giusta ambizione di una regina pura e fiera può produrre di vera grandezza. Fra i ruoli di Corneille è quello che richiede maggior attenzione per evitare la dizione troppo ampollosa o troppo familiare, il solo modo che conosco è di essere posata, semplice e nobile.

202 Viriate, regina di Lusitania, personaggio della tragedia di Pierre Corneille, Sertorio (Théâtre du Marais, 25 febbraio 1662). Il talento dell’interprete avrebbe sorpreso lo stesso tragediografo, scrive il «Mercure de France»: «Mademoiselle Clairon è sorprendente, e il genio di Corneille è certamente analogo al carattere del suo animo. Allora si dimentica che lei è un’attrice e si vede soltanto il personaggio eroico quale il grande Corneille doveva rallegrarsi di aver concepito», settembre 1758, pp. 191-192. 203 Personaggio della tragedia di Voltaire, Tancrède (3 settembre 1760). Il «Mercure de France» dichiara sublime il modo in cui ha interpretato l’eroina (ottobre 1760, p. 182). L’emistichio in fine battuta al padre Argire: «Eh bien, mon père» (atto V, scena 5), dopo aver letto la lettera di Tancredi, è stato particolarmente ammirato. Il 6 agosto Voltaire aveva scritto al conte d’Argental: «la fine di Tancrède è una ‘claironade’ terribile. Immaginatevi quella Melpomene disperata, debole, furiosa, morente che si lancia sul suo amico, si rialza, mandando il padre al diavolo, chiedendogli perdono, spirando tra le convulsioni dell’amore e della frenesia. Lo ripeto, sarà una ‘claironade’ trionfante», Correspondance, vol. V, p. 1038. La «Correspondance littéraire» consacra due lunghi articoli alla nuova tragedia (vol. IV: settembre 1760, pp. 281-288 e ottobre, pp. 292-299), ma i giudizi sugli interpreti sono piuttosto stringati: il IV atto è stato molto applaudito grazie alla chaleur dell’attrice e il critico, pur riconoscendo la finezza interpretativa di mademoiselle Clairon, non può esimersi dall’osservare che con lei va sempre in scena l’arte e non la natura. Il successo comunque è tale che madame de Pompadour richiederà l’attrice a Choisy: reciterà per la corte, presenti fra gli altri la contessa di Grammont e la duchessa e il duca di Choiseul, riconosciuto quest’ultimo come suo protettore ufficiale. 204 Personaggio della tragedia di Voltaire, L’Orphelin de la Chine (20 agosto 1755), una delle parti create da mademoiselle Clairon e di maggior successo.

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Per Aménaïde, bisogna ricercare nei popoli repubblicani quanto la fierezza di un essere libero, il rigore dei costumi, l’amore delle leggi, dell’ordine e dell’umanità possono ispirare le virtù, la fermezza e il coraggio nell’anima appassionata di una giovanetta. Il rispetto filiale è, in Cina, la prima fra le leggi e la base di tutte le virtù civili. Se è proprio dell’uomo di essere a volte diviso fra errore e verità, dubito che gli sia possibile dividersi fra crimine e virtù. Un figlio snaturato non può essere uno sposo degno né un degno padre. Partendo da questi tre doveri così necessari all’ordine naturale e alla felicità degli individui, avevo cercato di rendere la fermezza, la serenità e la tenerezza d’Idamé. Queste riflessioni sono insufficienti, lo ammetto, ma cosa potrebbe di più una donna che soccombe sotto i dolori più lancinanti e persistenti, che perde la vista momento dopo momento, abbandonata alla più triste solitudine che spesso manca del necessario per vivere e ora nel suo settantaseiesimo anno? Ciononostante è possibile che questo semplice abbozzo sia utile: può ispirare emulazione e invogliare alla ricerca tutte quelle che vorranno farmi dimenticare. Mi è giunto all’orecchio che alcuni mi hanno biasimata per aver parlato di mademoiselle Dumesnil, lei viva. Prego che si ricordi che ella ha più di ottant’anni e che era mia espressa volontà che le mie riflessioni, fatte per me sola, non fossero conosciute che dieci anni dopo la mia morte. Ben nota è la ragione che mi ha imposto di farle pubblicare personalmente. Mi trovavo allora in uno stato di prostrazione che non mi permise né di rileggere il manoscritto, né di seguirne la stampa. Ignoro se mademoiselle Dumesnil si ricordi di una conversazione svoltasi fra lei e me nel suo camerino dieci o dodici anni prima del mio ritiro dal teatro; affermo che è del tutto vera; lo attesto persino come una prova dei grandi talenti che le riconoscevo allora e anzi del desiderio che avevo che li aumentasse. Più rileggo il paragrafo e meno mi sembra possibile sopprimerlo o cambiarlo. Voltaire ha commentato Corneille per guidare i giovani poeti sul cammino che conduce all’immortalità e salvarli dalle trappole che l’ignoranza e la presunzione tendono a ogni passo. Io provo il desiderio di aiutare i giovani attori a riconoscere i sentieri che conducono alla celebrità; non ho potuto scegliere un modello più autorevole dei talenti e degli errori di mademoiselle Dumesnil: ho per lei la considerazione dovuta alla sua età, ai cinquant’anni di attività dilettevole per il pubblico quanto utile e preziosa per i compagni; mi dolgo di vederla condividere l’orribile miseria di tutti i ‘pensionnaires’ dell’antica Comédie-Française.205 Ma poiché mi si

205 La temperie rivoluzionaria ha annullato i privilegi dei «comédiens du roi» e cambiato l’intestazione dei teatri, ora il teatro ha preso il nome di Théâtre de l’Odéon dove si sono trasferiti parte degli attori dopo la chiusura del Théâtre-Français de la rue de Louvois (gennaio 1798).

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permette di dare dei pareri sulla tragedia, credo che mi si debba anche permettere di avvalorarli con le verità da me conosciute.

Riflessioni sulla declamazione teatrale Mi si richiede di scrivere su di un’arte da me a lungo professata. Si è dell’opinione che le riflessioni da me fatte per esprimermi in essa in modo accettabile, potrebbero essere di ausilio a coloro i quali si preparano a percorrere la stessa carriera; che forse il pubblico o per lo meno gli appassionati dello spettacolo vedrebbero con piacere le strade da me seguite per riuscire a commuoverli. Ma è tanto diverso riflettere o scrivere, mi sembra così difficile farmi intendere senza il soccorso della fisionomia, del gesto o della voce, dubito talmente di me stessa che tremo, prendendo la penna, così come tremavo comparendo davanti al pubblico. L’amicizia m’impone l’obbligo di scrivere e la mia indole sensibile non ha saputo mai resisterle. Senza un piano prestabilito, e presumibilmente senza alcun seguito, ma certamente senza pretese, indicherò ciò che giudico necessario per quest’arte molto più ardua e più difficile di quanto si creda. Il primo studio di coloro i quali si indirizzano al teatro deve essere l’autoesame.

Voce e pronuncia Dovendo farsi sentire da ogni punto della sala, è indispensabile avere una voce forte e sonora. Per trasmettere le sfumature a tutto ciò che essa deve esprimere, è necessario che sia giusta, vellutata, chiara, capace di ogni intonazione possibile. La voce che manca di estensione o di sensibilità, non può convenire a tutti i ruoli di grande passione come quelli di Fedra, di Orosmane, ecc.206 La difficoltà di pronunciare le r o le s, toni falsi, suoni duri, accenti regionali, costituiscono ostacoli insormontabili per esprimere la passione, la nobiltà, il rigore e la sensibilità I versi di Racine e di Voltaire sono i più piacevoli e i più armoniosi della nostra lingua; che li si faccia recitare – a ugual talento – da una voce libera o da una voce difettosa, si vedrà che quella libera non toglie nulla alla loro bellezza; padrone di emettere i suoni, di accelerarli, di rallentarli, di spegnerli, capace infine di mille modulazioni, lascia al verso incanto ed enfasi.207 L’altra, ovviamente, rallenta per farsi sentire e ne escono suoni

206 Orosmane, soldano di Gerusalemme, protagonista della tragedia di Voltaire, Zaïre (13 agosto 1732). 207 La voce di mademoiselle Clairon è emblematica secondo Hérault de Séchelles: «che sia dolce o forte, ella è sempre capace di modularla secondo la propria volontà. Spesso la modera facendo così brillare il minimo scoppio. Va molto lentamente ciò che contribuisce a fornire nel contempo allo spirito idee, grazia, purezza e nobiltà di stile. Credo che ci sia nel

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disarticolati se è veloce; valore, veemenza, precisione, armonia, eleganza, nobiltà, tutto è sciupato. Se pensiamo a tutti gli attori che abbiamo conosciuto, non ci furono mai grandi talenti con questo difetto. Talora viene scusato da un bel volto, da un’età interessante e dalle attitudini, ma il volto e i giovani anni passano: raramente si realizzano le speranze con difetti legati alla natura e che l’età non fa che amplificare. Ne darò come esempio Grandval. Quest’attore affascinante, ricco di grazia, di spirito e di passione con quel che si dice la «decenza teatrale»,208 ha lasciato il palcoscenico, forse non sarà mai rimpiazzato nei ruoli dei ‘petits-maîtres’ di buona compagnia209 e nel comico alto, avendo l’avvedutezza di esibirsi unicamente in parti adatte alla sua età, è stato obbligato a ritirarsi prima dei cinquant’anni per il fastidio che la cattiva pronuncia della r arrecava al pubblico di cui era stato l’idolo.210 La gioventù e la bellezza fanno del «grasseyement» un’attrattiva in più in società, ma a teatro diventa un difetto intollerabile. Ammetto tuttavia che ci sono casi in cui l’eccezione è indispensabile. Il grande talento di Préville, che era fin dagli esordi un attore piacevolissimo e provetto, era al di sopra di qualsiasi regola. Una sola imperfezione non può nulla contro il concorso di briosità, di vitalità, di sapere e di garbo soprattutto nel comico. Il farfugliare di Poisson in gioventù aggiungeva forse qualcosa al suo talento. Ma farsi capire è il primo obbligo dell’attore e chi ha un difetto di pronuncia non deve avere né l’intenzione né il beneplacito di invecchiare a teatro.

Forza Una buona costituzione è un punto capitale. Non esiste professione più stancante. Nervi, polmoni, fegato delicati non possono sostenere a lungo la tragedia. Ho incontrato sulla mia strada molti giovani autori e belle dame che pensavano che niente fosse più facile di interpretare Maometto, Merope, ecc.,211 che l’autore aveva fatto tutto, che l’attore non aveva che da imparare

discorso, come in musica, una sorta di misura dei toni: il parlare in maniera troppo veloce infastidisce e impedisce l’esercizio delle idee», Réflexions sur la déclamation, cit., p. 165. 208 Il rispetto cioè delle ‘bienséances’ e delle regole e la conformità dei gesti, della voce e del portamento con la natura del personaggio. 209 Personaggio del giovane elegante e dai modi manierati e pretenziosi. È anche il titolo di una commedia «par écriteaux» di Lesage rappresentata al Théâtre de la Foire Saint-Laurent il 19 settembre 1712: Les Petits-Maîtres. 210 Secondo mademoiselle Dumesnil non è tanto il ‘grasseyement’ di Grandval ad aver infastidito il pubblico e portato all’abbandono del palcoscenico, quanto una cabala montata dagli attori della Comédie-Française gelosi della «sua grande superiorità e del fascino inesprimibile della sua recitazione» (Mémoires Dumesnil, pp. 11-13). 211 Si tratta rispettivamente dei protagonisti di due tragedie di Voltaire: Mahomet, ou le Fanatisme e Mérope (20 febbraio 1743).

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i versi e abbandonarsi alla natura. La natura!212 Quanta gente pronuncia questa parola senza conoscerne l’estensione. Ogni sesso, ogni età, ogni stato, non ne ha forse una a parte? La differenza dei tempi, dei luoghi, dei costumi, degli usi non hanno forse una massima influenza? Quale studio affrontare all’inizio per smettere di essere se stessi? Per identificarsi in ogni personaggio? Per arrivare a rappresentare l’amore, l’odio, l’ambizione, tutti i sentimenti di cui l’uomo è capace, tutte le sfumature e tutte le tonalità con cui questi diversi sentimenti raggiungono l’espressione più compiuta? Ogni arte, ogni mestiere ha principi conosciuti, non ne esistono per l’attore tragico. Egli deve attingere i lumi dalla storia di tutti i popoli del mondo, leggerla non sarebbe sufficiente, deve approfondirla, rendersela familiare nei minimi dettagli, adattare a ogni ruolo tutto ciò che quella nazione può avere di originale; deve riflettere senza mai smettere, ripetere centinaia di volte la stessa cosa per sormontare le difficoltà che incontra a ogni passo. Non basta studiare la propria parte, bisogna che si studi l’opera intera per nasconderne le debolezze, farne risaltare le bellezze e subordinare il proprio personaggio all’insieme della pièce;213 si deve analizzare il gusto del pubblico, scrutare i sentimenti di coloro i quali l’avvicinano, districarsi nei rapporti, nei perché di quanto vede e di quanto sente: questo il lavoro segreto dell’attore.214 Non mi è difficile credere che si possa andare molto più in là di me. Uno spirito superiore, una migliore salute possono far trovare strumenti che mi sono sfuggiti; ma ho dovuto quel poco che potevo valere al piano di studi or ora tracciato. Ero nata forte, coraggiosa; il lavoro era per me un piacere, eppure solo sfidando i dolori e la morte ho potuto completare i vent’anni imposti all’attore.215 In quanto ho appena detto, non ho ancora parlato della cosa più terribile, ossia la necessità sostanziale di essere di continuo compenetrati dagli eventi più lugubri e più tragici; l’attore che non li vive come suoi è come uno scolaro che ripete una lezione, ma colui che se ne appropria e le cui lacrime accertano le ricerche complesse e dolorose dei suoi studi e l’oblio della propria esistenza, è certamente un essere

212 «Mi sembra che non conosciate i limiti e che confondiate spesso con la natura ciò che appartiene solo all’arte» (Mémoires Dumesnil, p. 16). 213 Voltaire non sembra riscontrare nell’attrice quanto da lei affermato: «Mademoiselle Clairon è un’ottima attrice, ma la sua falsa delicatezza, l’abitudine di pensare solo a se stessa e di preferire un proprio atteggiamento a quanto gli altri attori devono dire, sarebbero in grado di far cadere una pièce in modo clamoroso se non la sostenesse col suo grande talento», Lettera al conte e alla contessa d’Argental del 17 novembre 1760, Correspondance, cit., vol. VI, p. 92. 214 Anche Rémond de Sainte-Albine sosteneva che non solo bisognava conoscere la propria parte, ma anche quella degli altri attori in quanto non è sufficiente conoscere le ultime parole della battuta per prepararsi alla risposta in modo adeguato alle circostanze, L’Attore, cit., pp. 333-334. 215 Secondo gli statuti della Comédie-Française gli attori (sociétaires) non potevano lasciare la compagnia se non dopo almeno venti anni di attività.

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miserando e oso azzardare che occorre una forza disumana per ben recitare la tragedia per più di dieci anni A quest’impegni va aggiunto lo studio delle diverse abilità, delle varie conoscenze di cui parlerò in seguito, per non dimenticare poi la fatica dei viaggi a corte, quella delle prove, delle letture generali, delle assemblee, delle veglie rese necessarie dai cambiamenti che sopraggiungevano nei repertori, delle cure del vestiario, delle faccende domestiche e per finire la fatica delle rappresentazioni. Da quanto esposto, non credo si possa mettere in dubbio la necessità di avere una costituzione sana e robusta. Rievocando il mio piano di studi, spero che mi si perdonerà di ricordarmi che ho spesso riso delle sciocchezze che si dicevano, rimproverandomi di avere dell’arte. Eh! cosa volevano che avessi? Ero forse io Roxane, Aménaïde o Viriate?216 Dovevo prestare a quei personaggi i miei sentimenti e il mio modo abituale di essere? Certamente no. Cosa potevo sostituire alle mie idee, ai miei sentimenti, insomma al mio essere? L’arte, perché non c’è che questa, e se mai mi è accaduto di avere l’aria veramente naturale, è grazie alle mie ricerche, addizionate a qualche felice dono prodigatomi dalla natura che mi avevano portata all’apice dell’arte.217

Esempio della necessità di ricondurre tutto all’arte Di solito le parti di Arianna e di Didone vengono assegnate alla stessa attrice.218 Questi due personaggi devono manifestare lo stesso amore, lo stesso timore e la stessa disperazione. Se volessimo richiamarci alla natura oggi tanto esaltata, si potrebbe pensare che ciò che vale per una parte, vale anche per l’altra: le differenze sono considerevoli. Didone è vedova e regina assoluta, l’esperienza e l’abitudine al comando comportano sicurezza nello sguardo, autorevolezza nella voce, irruenza nei rimproveri. Arianna, giovane fuggiasca, supplice, deve abbassare lo sguardo dicendo: Vi amo, i suoi rimproveri devono esser fatti con voce flautata e timorosa, bisogna che il pudore sembri frenare continuamente lo sbotto della disperazione e che

216 Personaggi rispettivamente delle tragedie di Racine, Bajazet (Théâtre de l’Hôtel de Bourgogne, gennaio 1672) e delle già citate opere di Voltaire (Tancrède) e di Corneille (Sertorius). 217 «Non vi è mai stato rimproverato di avere dell’arte […], semmai di non averne abbastanza per farla dimenticare. […] Vi si è rimproverato di lasciar sempre trapelare la grande attrice nella vostra recitazione così accurata. Per quanto perfetta sia l’arte, non può mai sostituire del tutto la natura che, pur avendo bisogno di qualche aiuto dell’arte, era quella di Dumesnil. Si è detto che non avevate ricevuto dalla natura, malgrado tutte le vostre prerogative, quel grado di sensibilità che fa scomparire l’arte. In effetti non siete mai potuta giungere a questo, ed è lo stadio di perfezione che Dumesnil ha sempre raggiunto senza il minimo sforzo. […] È stata l’attrice più veramente tragica che sia mai comparsa su alcun teatro antico o moderno che sia e voi siete stata il più bel modello accademico che si sia potuto offrire alle giovani interpreti tragiche», Mémoires Dumesnil, pp. 23 e 26-27. 218 Si tratta delle eroine eponime delle tragedie di T. Corneille, Ariane (Théâtre de l’Hôtel de Bourgogne, 4 marzo 1672) e di J.-J. Lefranc de Pompignan, Didon (21 giugno 1734).

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ne permette l’acme solo alla perfidia della sorella. Secondo questi differenti caratteri bisogna adeguare la propria fisionomia, l’intero aspetto del corpo, i gesti fieri o affettuosi, l’incedere imponente o modesto richiesto da questi caratteri differenti. Sinceramente, si otterrebbe tutto ciò senz’arte? È più difficile trovare buoni attori che buone attrici. I soggetti che si consacrano al teatro provengono per lo più da genitori umili e indigenti. L’impossibilità di compiere studi seri e di poter disporre di educatori e di libri, la società in cui prevale la mediocrità soffocano il talento che in un’altra situazione avrebbe potuto nascere e svilupparsi nelle persone. Le donne sono avvantaggiate. L’educazione è suppergiù la stessa per tutto il sesso che non sia veramente plebeo; un po’ di spirito, aspetto gradevole e moralità fan loro ottenere quasi sempre la protezione delle donne e gli omaggi degli uomini; l’indulgenza e la galanteria le incoraggiano; le arti e i talenti s’offrono in abbondanza all’emulazione delle giovanette, esse sono più facilmente accolte nella società dei letterati e della così detta buona compagnia; esse vedono, ascoltano, possono far confronti. Le loro idee si precisano, la ragione si forma, le conoscenze si accumulano e quando lo spirito e la bellezza le favoriscono, il loro talento, la loro sensibilità, la finezza e la vivacità delle intuizioni, qualche esempio e quel sentimento in loro innato che non esiste nulla a cui non possano pretendere, offrono loro la possibilità di apparire ciò che vogliono. Guardate cosa sono inizialmente le donne destinate al serraglio del Sultano e cosa diventano quando la preferenza le tira fuori dallo stuolo delle schiave. Racine le ha raffigurate tutte in Roxane e ogni donna che si sforza per diventare qualcuno deve riconoscersi in lei. Da quando esiste il teatro non si possono annoverare che tre attori nel grande genere: Baron, Dufresne e Lekain. Baron ebbe il vantaggio di essere formato da Molière: dotato d’intelligenza, di aspetto imponente, viveva con quanto la Francia aveva di più illustre. In gioventù, come gli altri attori, ritmava e declamava i versi, ma a forza di esaltarsi, d’identificarsi per quanto poteva con i più alti personaggi del regno che lo accoglievano tra loro, la semplice e vera grandezza gli divenne familiare, la trasmise in tutti i suoi ruoli e a lui si devono le prime lezioni di questa verità sempre così difficile da conseguire.219 Dufresne più affascinante che profondo, nobile, ma mai era terribile; pieno di ardore, ma senza ordine, senza principi, senza nessuna caratteristica distintiva del genio, ha dovuto il successo alle supreme bellezze del fisico e

219 Michel Boyron, detto Baron (1653-1729) era entrato all’età di tredici anni a far parte della compagnia teatrale di Molière, e con lui recitò fino alla sua scomparsa nel 1673. Passò allora all’Hôtel de Bourgogne creando alcune grandi parti raciniane. Interprete impareggiabile tanto del teatro comico che tragico, era avvantaggiato da un fisico prestante, da una voce sonora e da un portamento nobile. La sua recitazione semplice e naturale (si diceva che «parlasse» la tragedia), fece apparire, secondo Marmontel, nella perfezione della sua arte «la semplicità e la realtà riunite».

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della voce ed è fuor di dubbio che il pubblico di quel tempo non fosse così esigente quanto lo è oggi.220 Lekain, semplice artigiano, dal volto sgradevole e volgare, dalla figura sgraziata, dalla voce sorda, dal temperamento arrendevole, si catapulta dal laboratorio al teatro e avendo come unica guida il genio e per solo sostegno l’arte, si afferma come il più grande attore, il più bello, il più prestante, il più interessante degli uomini.221 Non prendo in conto né le sue prime prestazioni né i suoi ultimi sforzi: nelle une dubitava, tentava, spesso si sbagliava, e così doveva essere, negli altri le forze non ne assecondavano le intenzioni, in mancanza di energie spesso era lento e declamatorio, ma nel periodo migliore non si è mai visto nessuno che si avvicinasse più di lui alla perfezione. Senza prevenzioni nei suoi confronti devo nondimeno confessare che non recitava altrettanto bene tutti gli autori. Non sapeva declamare Corneille, i personaggi di Racine erano per lui troppo semplici. Di entrambi recitava bene solo alcune scene che permettevano al suo ingegno i grandi slanci di cui aveva continuamente bisogno. La sua perfezione era totale solo nelle tragedie di Voltaire. Al pari dell’autore si mostrava sempre nobile, vero, sensibile, profondo, terribile o sublime. Il talento di Lekain era allora così grande che non si percepiva più la sgraziataggine del suo fisico. Aveva compiuto ottimi studi, conosceva diverse lingue, leggeva molto e giudicava in modo giusto, ma senza arte non sarebbe mai stato nessuno. Torniamo ai nostri principi dai quali mi sono forse troppo allontanata. Non tutti gli uomini hanno un genio creativo; cerchiamo di aprire la strada a quelli che non sanno farsela e riprendiamo le nostre riflessioni.

220 Abraham Alexis Quinault-Dufresne (Quinault cadet) (1693-1767) debutta al Théâtre- Français nel 1712 per poi ritirarsi assai presto dalle scene nel 1741. Allievo di Ponteuil e di Baron si avvalse del loro esempio scegliendo un modo di recitare naturale, ma era accusato di avere un carattere assai fatuo, dovuto forse alla sua prestanza fisica. 221 Henri Louis Kaïn, detto Lekain (1729-1778), dopo aver iniziato a recitare in piccoli teatri, fu notato da Voltaire che ne fece il suo interprete preferito aprendogli il palcoscenico privato di rue Traversière. Aveva debuttato alla Comédie-Française il 14 settembre 1750 nella parte di Tito nel Brutus di Voltaire, per essere ammesso come sociétaire nel 1754, dopo un periodo difficile di cabale. Attore inimitabile del repertorio tragico, si impegnò per riformare l’apparato scenico e l’abbigliamento per il conseguimento della verosimiglianza storica, in ciò coadiuvato da mademoiselle Clairon, che però si era opposta al suo ingresso alla Comédie-Française forse perché avrebbe preferito al suo posto Bellecour e che gli fu sempre ostile, gelosa dei suoi successi. Il tono dispregiativo con cui mademoiselle Clairon lo definisce «semplice artigiano», fa riferimento al suo lavoro di orafo quando giovanissimo aveva lavorato nell’atelier del padre, in realtà aveva studiato il disegno e ricevuto un’accurata educazione. Mademoiselle Dumesnil contesta in modo categorico i giudizi della sua rivale (cfr. Mémoires Dumesnil, pp. 67-69).

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Memoria222 Solo variando gli spettacoli si può sperare di fare buoni incassi, sicché bisogna avere molte pièces pronte e poter quindi contare sulla memoria degli attori.223 Non dovrebbero essere accettati se non quelli che avessero dato prova di conoscere la metà delle parti per le quali si presentano, o almeno di aver richiesto prove di una memoria pronta e sicura. L’attore dalla memoria vacillante e lenta e che non conosce ancora nulla, riesce appena a studiare i versi, non gli resta più tempo per riflettere, qualsiasi ricerca gli risulta impossibile; ridotto alle sole idee del momento, senza principi, senza mezzi di paragone, non è più in grado di ampliare la propria sfera, rende tutto con un solo colore e resta per forza inferiore a quanto rappresenta. Si può senza cultura avere un talento naturale e conseguire a volte verità semplici e toccanti. Ci sono a teatro parecchi ruoli per i quali è sufficiente tale talento. Britannico, Ifigenia, Ippolito, Palmira,224 purché il talento naturale sia accompagnato dalla gioventù, da un suono di voce toccante, da una facilità nel piangere e da grazia o bellezza; questo genere di ruoli si attaglia solo alla debolezza e alla mediocrità. Quelli di Agrippina, di Achille, di Fedra di Maometto esigono un altro talento.225 Gli attori che rivestono queste parti hanno tante ricerche da fare per recitarle bene, quante ne hanno fatte gli autori per ben ritrarle. Senza una memoria prodigiosa, sicura e inalterabile, sarebbe impossibile all’attore associare studi così complessi alle incombenze quotidiane; il solo genio sarebbe insufficiente e dubito che si possa esser dotati di genio e anche di grande talento senza una notevole memoria. Pur in mancanza di genio e di talento è possibile imparare senza sforzo, se a ciò si aggiunge buon senso, duttilità, una voce flessibile, una fisicità nobile o accettabile si possono scegliere ruoli di confidenti; i grandi attori

222 Articolo inutile, superfluo, oiseux, chiosa mademoiselle Dumesnil: l’argomento, per la sua ovvietà, è inutile da insegnare, è infatti una verità assodata che senza memoria non si può diventare grandi attori (p. 40). Eppure anche in altre trattazioni, la memoria occupa uno spazio di rilievo, da quella di J. Poisson, Réflexions sur l’art de parler en public par M. Poisson, Comédien de Sa Majesté le Roi de Pologne, & Électeur de Saxe, s.l., M.DCC.XVII, che inizia proprio con un capitolo sulla memoria alle Réflexions sur la déclamation di Hérault de Séchelles, cit., che dedica le prime pagine delle sue «osservazioni» a questo argomento. 223 L’alternanza delle pièces, come afferma mademoiselle Clairon, era una necessità affinché gl’incassi non diminuissero e si venisse incontro ai più diversi gusti del pubblico. Se c’era una base di opere classiche su cui contare, era necessario creare ogni anno un congruo numero di opere inedite anche se non sempre il successo ne era assicurato. 224 Personaggi rispettivamente delle tragedie di Racine: Britannicus, Iphigénie en Aulide, Phèdre e di Voltaire, Mahomet. 225 Si fa riferimento nell’ordine alle succitate tragedie.

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sarebbero in questi poco adatti perché vi si calerebbero con troppa presunzione. Per favorire l’illusione teatrale è necessario che ogni personaggio metta tanto impegno a rispettare i propri limiti, quanto invece se ne mette in società per emergere. Secondo questi tre punti ci si può dire, analizzandosi, cosa è più giusto intraprendere.

Fisicità Le usanze inglesi permettono a teatro le verità più ripugnanti; vi si rappresenta Riccardo III con tutte le imperfezioni originate dalla natura. Siccome è più facile imbruttirsi che abbellirsi, siccome ci vogliono meno sforzi per aver un’aria dozzinale piuttosto che un’aria maestosa, chi ha un largo ventaglio di possibilità può tutto permettersi rispetto a chi è vincolato a un solo genere; oso credere che l’arte dell’attore sia meno difficile a Londra piuttosto che a Parigi. Il parterre francese ammette nella tragedia solo fattezze eleganti e nobili, riderebbe nel vedere un gobbo e delle gambe storte nel personaggio che deve eccitare terrore e pietà. Tutti sanno che il più grande monarca può essere deforme e brutto, dall’aria grossolana come l’ultimo contadino del regno, che le necessità corporali, i mali fisici, le abitudini familiari lo rendono uguale a tutti gli altri uomini; ma, quel che sia, il rispetto del suo rango, il sentimento di timore o d’amore che incute, il fasto da cui è circondato, rende sempre il suo aspetto maestoso. La tragedia offre le più grandi rappresentazioni della politica, dei misfatti, delle virtù e delle disgrazie dei padroni del mondo: tutti i personaggi sono nobili, tutte le azioni avvincenti, gli accessori sontuosi; ma, si sa, è solo uno spettacolo e, senza la convergenza di ogni possibile illusione, il pubblico non vede e non sente che l’attore e perde il piacere di essere ingannato. Viene annunciato Achille, Orazio, un qualsiasi eroe che ha appena vinto una battaglia combattendo quasi da solo contro nemici terribili, oppure un principe così incantevole che la più grande principessa gli sacrifica senza doglianza il trono e la vita… e si vede arrivare un ometto esile, senza forza né voce.226 Che diventa allora l’illusione? Non posso ancora immaginarlo, ma ho visto l’attore appena descritto avere l’ardire di tentare tutto e di ricevere applausi sfrenati… O voi che vi destinate a questa spinosa carriera! Guardatevi dal rincuorarvi con tale esempio, l’errore del pubblico è momentaneo, in genere è colto, severo, capace di giudicare, persino di formare grandi talenti. Un parterre

226 Il signor M[onvel]. Dalla prima edizione mademoiselle Clairon ha espunto: «scarno, di un orrido aspetto»; si giustificherà del suo giudizio eccessivo nel paragrafo «Scuola», aggiunto nella seconda edizione (vedi infra). Jacques-Marie Boutet, detto Monvel (1745-1812), entrato alla Comédie-Française nel 1770 vi resterà fino al 1781 quando lascia Parigi per recarsi in Svezia alla corte del re Gustavo III. Fu autore di commedie e drammi, alcuni di indubbio successo come L’Amant bourru (1777) e Les Victimes cloîtrées (1791).

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seduto può riportare l’ordine, la decenza e la ragione.227 Per quanto vile e impudente sia l’uomo che si vende per cabalare, si deve sperare di vederlo sparire togliendogli i mezzi di nascondersi fra la folla. Con maggior comodità e calma torneranno le persone di buongusto. Gli attori, ricondotti al loro solo valore, si dedicheranno più seriamente al loro dovere, avvertiranno la necessità di meritare gli applausi che non potranno più essere comprati e che costituiscono la sola consolazione del loro stato!228 Abbiate allora ciò che serve per piacere, non presentatevi mai a teatro senza aver ricevuto dalla natura le doti richieste da questo stato o per lo meno, privi di mezzi, abbiate la volontà di trovare, a forza d’arte e di studio, l’equivalente di quanto la natura vi ha negato Ecco quanto desidererei per i personaggi della tragedia.

Tiranni Nel ruolo dei tiranni vorrei un uomo alto, magro, dagli occhi infossati, lo sguardo sfuggente, le sopracciglia folte, la fisionomia corrucciata che parla e gesticola sempre con aria sospettosa e che nell’insieme si presenta come un essere perennemente tormentato da progetti e da rimorsi. Mi sembra che l’attore in possesso, o con la capacità di acquisire tali prerogative, non dovrebbe poi che declamare i versi, i tre quarti del suo studio sarebbero compiuti.

Re Vorrei, per il ruolo che a teatro è detto ruolo dei re, una corporatura maestosa, una fisionomia veneranda, un tono di voce possente i cui accenti possano essere severi o bonari secondo le esigenze; un’andatura e movimenti nobili e misurati, un insieme, insomma, che rappresenti l’abitudine al comando, la longanimità dell’esperienza e la serenità delle virtù.

Primo attore Il primo attore deve avere una corporatura superiore alla media, non essere né grasso né magro, il grasso è ignobile a teatro e la magrezza dà l’aria della piccineria. Ci vuole un corpo armonioso senza imperfezioni percettibili che comunichi la forza e che sia elegante.

227 La grande innovazione del parterre che comporta solo posti a sedere e che sarà denominato parquet, sarà posta in essere nel nuovo teatro del faubourg Saint-Germain, inaugurato il 9 aprile 1782. La costruzione progettata da Marie-Joseph Peyre e Charles de Wally era iniziata nel 1779 sull’area dell’Hôtel de Condé nei pressi del Lussemburgo, preceduta da quasi un decennio di ideazioni e proposte diverse. 228 Sulla compravendita dei biglietti da distribuire poi a persone fidate che influenzeranno il giudizio del pubblico insorgono non solo gli attori, ma anche gli autori le cui opere prime potevano essere applaudite o fischiate secondo manovre ben orchestrate.

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Se è bello, tanto meglio, purché sia di una bellezza virile; dei tratti delicati costituirebbero un’imperfezione. Il ruolo richiede massima espressività e nobiltà della fisionomia, bisogna che sia capace di esprimere tutto. Il volto che rimane immobile è segno d’insipienza. Pur dotato di sapere e d’intelligenza, deve essere assecondato dalla natura. La fisionomia è espressiva solo con lineamenti volitivi, l’occhio ben aperto, le sopracciglia marcate, le labbra leggermente sporgenti e i capelli scuri. I lineamenti delicati si confondono a poca distanza, un occhio piccolo può essere penetrante, spirituale ma mai autorevole, le labbra rientranti non possono mai esprimere il dolore e il colore biondo fa slavato sul palcoscenico.

Primo attor giovane Il ruolo del primo attor giovane non richiede altrettanto studio e possanza se ci si limita ad esso. Ci sono tuttavia in questo ruolo delle parti, come quelle del Cid, di don Pèdre nell’Inès, di Seïde nel Mahomet che non possono essere rese senza un grandissimo talento.229 Ma il pubblico perdona gli errori quando le parti vengono interpretate da giovani esordienti, sa bene che solo dopo lunghissimi studi si può arrivare a superare le difficoltà; offre loro comprensione e per incoraggiarli si mostra indulgente. Ma siccome è in questo ruolo che ci si cimenta e ci si inorgoglisce nei passaggi più difficili, chi gode di un successo crede chiaramente di meritarli tutti, la favola della rana è la storia di molti attori,230 vorrei che mai se ne ammettesse uno sprovvisto dei mezzi necessari per cimentarsi in tutto.

Confidenti I direttori dello spettacolo e persino gli attori credono che il primo arrivato sia all’altezza delle parti di confidente. Lungi da me tale idea, il ruolo richiede un’intelligenza molto acuta e pronta, per di più quasi tutti rappresentano governatori, principi, ministri, generali, ambasciatori, comandanti delle guardie o favoriti, sono i depositari di tutti i grandi segreti, vengono loro affidati ordini importantissimi. È possibile che tutto questo possa confarsi a dei giovani? A individui senza distinzione, senza contegno e spesso profondamente ignoranti? Questo ruolo, spesso troppo trascurato dagli autori, richiede attori consumati, dotati di decenza, persino prestanti per non provocare il riso nei

229 Le parti citate appartengono rispettivamente alla tragicommedia di Pierre Corneille, Le Cid (Théâtre du Marais, fine novembre 1636); alle già ricordate tragedie di Houdar de La Motte (Inès de Castro) e di Voltaire. 230 Accenno alla celebre favola di Jean de La Fontaine «La grenouille qui se veut faire aussi grosse que le bœuf» (Fables, libro I, 3), il cui racconto tratto da Fedro («Rana rupta et bos», I, XXIV), mette in scena la rana che per farsi grande come il bue si gonfia fino a scoppiare. La morale: «Inops, potentem dum vult imitari, perit».

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versi dallo stile obsoleto e nei monosillabi sempre difficilissimi da articolare. I racconti richiedono una voce adatta a ogni intonazione, una fisionomia capace di ogni espressione, è quindi necessario essere scrupolosissimi nello scegliere le persone che devono sostenere questo ruolo e non farne il posto di un protetto. La stupidità e l’ignoranza devono essere assolutamente bandite a teatro. Mi ricordo che essendo molto ammalata, dovendo recitare Arianna e paventando di non reggere la fatica della parte, avevo fatto mettere una poltrona sul palcoscenico per servirmene in caso di necessità. Difatti le forze mi vennero meno al quarto atto nel manifestare la mia disperazione per la fuga di Fedra e di Teseo, mi accasciai sulla poltrona quasi priva di conoscenza. L’intelligenza di mademoiselle Brillant, nel ruolo di confidente,231 le suggerì di occupare la scena con un gioco teatrale molto coinvolgente: cadde ai miei piedi, mi prese la mano bagnandola di lacrime. Le sue parole, articolate con lentezza e interrotte dai singhiozzi, mi lasciarono il tempo di riprendermi; emozionata dal suo sguardo e dai suoi gesti, mi precipitai fra le sue braccia e il pubblico, in lacrime, ne riconobbe l’intelligenza con i più nutriti applausi. Un’attrice mediocre avrebbe risposto subito e la pièce non si sarebbe conclusa.

Divisione dei ruoli femminili Tutti i ruoli femminili, senza eccezione, esigono caratteristiche di massima distinzione: si tratta di regine, di principesse o di donne di grande elevatezza. Li suddivido in quattro categorie: madri, ruoli forti, ruoli sentimentali, confidenti. È raro che la stessa attrice abbia forza e talento per interpretarli tutti; d’altronde la stessa pièce presenta a volte tre di questi generi in contemporanea. È dunque indispensabile che ci siano, nel contempo tre attrici e che ognuna sia detentrice in esclusiva del ruolo.

Madri Vorrei che le attrici che si orientano verso le parti di madri che hanno figli già grandi, come Cleopatra, Agrippina, Semiramide, non fossero più giovanissime.232 Non mi sembra possibile che prima dei venti anni non si abbiano altre conoscenze se non quelle dei doveri del proprio sesso, dei sentimenti della natura e del potere dell’amore al suo sbocciare.

231 Marie-Jeanne Le Magnien, detta mademoiselle Brillant (1724-1767), recita a partire dal 1750 alla Comédie-Française, limitandosi, con successo, al ruolo di confidente. 232 Rispettivamente nelle tragedie di Pierre Corneille, Rodogune, di Racine, Britannicus e di Voltaire, Sémiramis (in questa prima messa in scena della tragedia voltairiana, 29 agosto 1748, la parte di Semiramide è recitata da mademoiselle Dumesnil, mademoiselle Clairon impersona Azéma).

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Lo studio del cuore umano e delle diverse passioni che lo eccitano, richiede una ragione formata dal tempo, dalle riflessioni, dagli esempi e infine dall’esperienza. Tali conoscenze si acquisiscono con l’età, lo so bene, ma il pubblico non deve mai chiedere ai principianti se non fondate speranze. Chi fosse a conoscenza di tutto, certamente non si presenterebbe a teatro. Il pregiudizio e il dispotismo rendono questo stato troppo detestabile: solo l’età felice dell’inconsapevolezza ne giustifica la scelta. Ma vorrei che non si interpretassero le parti di madri prima dei venticinque anni, che ci fosse ancora una qualche bellezza e una statura superiore alla media. Le donne piccole raramente sono imponenti, le troppo alte spesso appaiono sgraziate e a volte di un insieme disarmonico. In più le convenzioni teatrali non permetterebbero che la statura degli uomini sia superata da quella delle donne.

Ruoli forti In quelli che definisco ruoli forti, come Emilia, Elettra, Ermione,233 auspico nell’insieme il più grande carattere di fierezza, la fisionomia la più mobile e la voce la più possente; che il portamento, lo sguardo, ogni movimento facciano presagire coraggio e persino audacia, ma attenzione a non confondere l’aria dell’audacia con quella dell’ardimento. La prima scaturisce spesso dalla nobiltà d’animo, l’altra ne annuncia quasi sempre la dissoluzione. Che mai vengano meno la nobiltà del sangue, la purezza dei costumi, la modestia del sesso; se ne deve trovare l’abitudine nei più grandi trasporti dell’amore, della disperazione, della vendetta. Si dice che la natura abbia un solo grido. Certo purché il contegno mi faccia comprendere qual è il rango e quali i costumi del personaggio che vuole emozionarmi. Ogni ceto presenta varianti diverse: il domestico non ha il contegno del borghese che lo impiega; il borghese è timido di fronte a un gran signore, la nobiltà avvicina chi governa con aria di sudditanza e tutti, senza eccezione, abbassano lo sguardo rispettoso davanti al padrone. Il teatro non è che la rappresentazione di ciò che si vede di più maestoso in società. La purezza delle espressioni di cui ci si serve nella tragedia, l’importanza degli eventi, la dignità dei personaggi provano bastantemente che nulla deve esserci di arbitrario, che mai si deve tollerare un fare sconveniente e un tono triviale, che i modelli non vanno cercati nei costumi

233 Emilia, figlia di Toranius, vittima d’Augusto, figura nella tragedia di Pierre Corneille, Cinna; in quanto al personaggio di Elettra si può fare riferimento sia alla tragedia eponima di Prosper Jolyot de Crébillon (Électre, 14 dicembre 1708) che alla tragedia di Voltaire Oreste (12 gennaio 1750); mademoiselle Clairon analizzerà entrambi i personaggi nel paragrafo Le due Elettre.

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popolari e licenziosi e che è impossibile unire, in uno stesso dipinto Raffaello e Callot.234

Ruoli sentimentali I ruoli sentimentali esigono una fisionomia delicata, un tono di voce toccante, capacità di piangere, gesti garbati e misurati, un insieme modesto, un portamento equilibrato, un fisico elegante e se possibile nella proporzione delle taglie medie. Le donne non troppo alte sembrano giovani più a lungo e quanto attiene ancora all’infanzia commuove più facilmente. La maggior parte di questi ruoli presenta giovanette inesperte e timide che osano appena riconoscere l’amore che provano e quello che ispirano. Invito l’attrice detentrice del ruolo a non perdere mai di vista l’aria di purezza e di candore richieste dall’età e dal rango. Rappresentando ciò che l’amore può ispirare di più tenero, bisogna evitare con cura quanto può far pensare alla voluttà. Il tono, il contegno, lo sguardo di una donna dai facili costumi o di una civetta, non si confanno all’innocenza. La tragedia deve essere la scuola di una morale specchiata, così com’è delle grandi azioni.

Confidenti Desidero, per il ruolo delle confidenti una donna di un’età tale da ispirare fiducia, dalla fisionomia seria e dotata di decenza, che mai porta lo sguardo fuori di scena e partecipa fattivamente per avervi una sua collocazione, ma senza pretendere di essere un personaggio principale tranne in un caso simile a quello testé citato.

Abbigliamento Chiedo a tutte le donne in genere, la più scrupolosa attenzione al loro vestiario: l’abito concorre all’illusione dello spettatore e l’interprete assume più facilmente il tono della propria parte;235 è tuttavia impraticabile seguire fedelmente il modello perché potrebbe apparire indecente o dimesso. I drappeggi all’antica sottolineano e svelano troppo la nudità si confanno alle statue e ai dipinti; ma nel sopperire a ciò che manca, è necessario conservarne il taglio, indicarne almeno gl’intenti e seguire per quanto possibile il lusso o la semplicità del tempo e dei luoghi. Infule, fiori, perle,

234 Jacques Callot (1592-1635) incisore e disegnatore, la cui ispirazione dai tratti grotteschi e fantastici e nel contempo attenta ai dettagli del quotidiano si oppone all’armonia plastica ideale delle opere raffaellesche. 235 «Mademoiselle Clairon è la prima – scrive Dorat – che abbia avvertito quanto ridicole fossero le mascherate tragiche della scena; illuminata dall’abuso ha fatto di tutto per distruggerlo. Questa attrice ha saputo aggiungere al suo talento una filosofia che ne ampia la sfera, le apre nuove fonti e sottopone alla riflessione ciò che molto spesso è solo effetto del meccanismo. Ornamento della scena francese, ne è anche la benefattrice e merita l’elogio dovuto a tutti coloro i quali hanno il coraggio d’istruire o di divertire una nazione troppo incline a distruggere, in un giorno, l’idolo di venti anni», Discours préliminaire, cit., p. 24.

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veli, pietre colorate erano gli unici ornamenti conosciuti dalle donne prima che iniziasse il commercio con le Indie e la conquista del Nuovo Mondo. Desidero, innanzi tutto, che con grande rigore si evitino tutti gli abiti e tutte le mode del tempo. La pettinatura delle Francesi, nel momento in cui scrivo, la massa di capelli e le mostruose acconciature danno al loro insieme una sproporzione scioccante, denaturandone le fisionomie, nascondono il movimento del collo e conferiscono un’aria avventata, goffa, rigida e sconcia. L’unica moda da seguire è il costume della parte interpretata. Prima di tutto si devono adeguare i vestiti al personaggio: l’età, l’austerità, il dolore rigettano quanto permette la giovinezza: il desiderio di piacere e la quiete dell’anima. Ermione con dei fiori sarebbe ridicola: la violenza del suo carattere e la pena che la divora non ammettono un abbigliamento raffinato o civettuolo; può avere un abito sontuoso, ma bisogna che l’aria trascuratissima nel resto sia la prova che non pensa a se stessa. La prima occhiata che il pubblico getta sull’attrice deve prepararlo al carattere che sarà rappresentato.

Pericolo delle tradizioni Ignoranza e fantasia provocano non pochi controsensi a teatro: mi è impossibile raccontarli tutti, ma ve n’è uno che non posso passare sotto silenzio, quello di veder arrivare Cornelia vestita a lutto.236 La nave sulla quale ella fugge, il poco tempo trascorso fra l’assassinio del marito e l’arrivo ad Alessandria, non hanno potuto lasciarle il tempo di farsi confezionare abiti da vedova e certamente le donne romane non erano così previdenti da averne già pronti nel loro bagaglio. La celebre Lecouvreur facendosi ritrarre in tale abbigliamento è la prova che lo indossava a teatro.237 Dovrebbe avere per me un peso autorevole, ma, secondo la reputazione che le è fatta, oso pensare che fosse caduta in questo errore per ragioni che ignoro e che lei stessa ne avvertisse tutto il ridicolo. Ho visto recitare Elettra con un abito color rosa, elegantemente guarnito di giaietto nero e ne ho concluso che non tutte le tradizioni erano corrette e che non andavano seguite se non dopo averle vagliate.

236 Nella tragedia di argomento politico di Pierre Corneille, La Mort de Pompée [La morte di Pompeo], (Théâtre du Marais, stagione 1642-1643), dedicata al cardinale Mazarin, Cornelia, moglie di Pompeo giunge ad Alessandria nel palazzo di Tolomeo, ed è da poco a conoscenza della morte del marito. 237 Nel ritratto a pastello di Charles Antoine Coypel (1661-1722) della collezione della Comédie-Française, l’attrice è rappresentata nella prima scena del quinto atto dove, in un ampio abito nero, con in mano l’urna contenente le ceneri di Pompeo, giura di vendicare la morte del marito. Il quadro esposto di recente avrebbe fatto parte della collezione del conte Charles-Auguste Ferriol d’Argental (1700-1788) amico di Voltaire e grande ammiratore dell’attrice il cui ritratto si trovava nella sua camera da letto (cfr. catalogo: La Comédie- Française s’expose au Petit Palais, Paris, Paris-Musées, 2011, p. 142).

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Sulla biacca L’uso della biacca è quasi generale su tutti i palcoscenici.238 Questa falsa luminosità che non inganna nessuno ed è criticata da chi ha buon gusto, appesantisce e ingiallisce la pelle, spegne e cerchia gli occhi, assorbe la fisionomia, fa scomparire la preziosa mobilità dei muscoli e mette continuamente in contraddizione ciò che si sente con quanto si vede. Preferirei quasi tornare all’uso delle maschere degli antichi; si guadagnerebbe così per lo studio della dizione il tempo che si perde a comporre il viso. Il terrore, la soffocazione della rabbia, gli scoppi di collera, le grida di disperazione come possono conciliarsi con un volto ingessato che nulla esprime? Ogni stato d’animo deve leggersi sulla fisionomia: i muscoli che si tendono, le vene che si gonfiano, la pelle che arrossisce dimostrano un’emozione interiore senza la quale non c’è mai un grande talento. Non ci sono ruoli in cui le espressioni del volto non abbiano la massima importanza: saper ben ascoltare, mostrare tramite i movimenti del viso che l’anima si emoziona a quanto sente e a quanto vien detto, è un talento prezioso come quello di ben declamare. Solo tramite la fisionomia si può determinare la differenza fra ironia e sarcasmo. Suoni più o meno soffocati, più o meno tremolanti, non bastano a esprimere le sfumature dei sentimenti di terrore e di timore: solo la fisionomia può accentuarne il livello. Dato che si vogliono conoscere i miei studi, credo di poter raccontare qui ciò che mi è successo nella parte di Monime. Studiando la parte trovai nel quarto atto:

Gli dei che m’ispiravano e che ho mal seguito Mi hanno fatto tacere tre volte con segreti avvertimenti,239 e nell’atto precedente, in cui Mitridate le fa confessare il suo segreto, è impossibile trovare più di due reticenze.

238 «La biacca era un simbolo di distinzione durante l’Antico Regime. Le preparazioni a base di cerussa, la biacca di piombo, la biacca di Spagna, la biacca di stagno ebbero una grande diffusione nella società francese tra il Quattrocento e il Seicento, prima che il loro consumo conoscesse un certo declino quando negli anni 1760-70 il medico Jaubert ne denunciò la nocività. […] Il biancore doveva riflettersi in maniera simbolica, secondo il codice ideologico dell’aristocrazia, sul volto degli attori e in particolare nella tragedia», S. Chaouche, La mise en scène du répertoire de la Comédie-Française (1680-1815), Champion, Paris, 2013, 2 voll., vol. II, p. 590. 239 Versi 1237-1238 della scena 2 del IV atto tra Monime e Xipharès, dalla tragedia di Racine Mithridate: «Les dieux qui m’inspiraient et que j’ai mal suivis, / M’ont fait taire trois fois par des secrets avis». Sul personaggio di Monime, promessa a Mitridate, re del Ponto e già dichiarata regina, mademoiselle Clairon ritornerà nel breve paragrafo «Parte di Monime» (v. infra).

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Ho consultato tutte le edizioni di Racine, tutti dicono tre, tutte le attrici che ho ascoltato recitare in questa parte dicevano tre, tutte le ricerche da me fatte mi hanno confermato che mademoiselle diceva tre; benché due sia un po’ più sordo di tre, corrisponde alla misura del verso e non ne distrugge l’armonia. Si deve presumere che Racine avesse avuto delle ragioni per preferire l’uno all’altro, ma nessuna tradizione m’illuminava, non toccava a me correggere un così grand’uomo, ma non potevo decidermi a dire quello che giudicavo come un errore. Immaginai di supplire alla terza reticenza con l’espressione del volto. Nella strofe in cui Mitridate le dice:

[…] servite con suo fratello E vendete ai Romani il sangue di vostro padre,240 mi avvicinai con la fisionomia di una donna che sta per dire tutto… e feci seguire immediatamente un movimento di timore che mi vietava di parlare. Il pubblico che non aveva mai visto un simile gioco scenico mi ricompensò, approvandolo, delle fatiche delle mie ricerche. Se avessi fatto uso della biacca, non avrei potuto richiedere nulla alla mia fisionomia, avrei perso il piacere di essere applaudita e la gloria di aver intuito Racine. Ammetto che si aiuti la natura, io stessa ho spesso cercato degli ausili: sempre ammalata e non interrompendo mai i miei impegni, sovente il pallore della morte era sul mio volto; avevo notato nelle altre che nulla pregiudica l’aria di freschezza e l’espressione quanto le orecchie e le labbra pallide, un po’ d’arte ridava loro vita. Assottigliavo o ingrandivo le sopracciglia secondo il carattere richiesto dalla parte con ciprie di diversi colori; facevo la stessa cosa con i capelli ma, lungi dal nascondere gli elementi che articolano i tratti della fisionomia, avevo condotto uno studio particolareggiato sull’anatomia del volto per valorizzarli più facilmente.241 Una pelle bianca è certamente gradevole, dà luce al volto, un’aria più fresca e decisa; le vene che lascia intravedere sono quasi sempre di grande bellezza, ma a volte può dare anche un’aria languida ed esangue. Il finto pallore ha inevitabilmente uno spessore che nasconde e distrugge tutto. I pori riempiti di biacca, di talco o di cipria rendono la pelle rigida e il timore di guastarsi per un movimento troppo evidente, fa sì che il volto resti sempre statico. Non conosco per altro vezzo più importuno, più umiliante e più inutile, si teme sempre di essere prese alla sprovvista, non si può far proprio il complimento che si riceve per il volto e, lo ripeto, nessuno viene abbindolato da questo espediente.

240 Mithridate (atto III, scena 5, vv. 1087-1088): «[…] servez avec son frère, / Et vendez aux Romains le sang de votre père». 241 Coloro i quali non potranno fare questo studio dovrebbero leggere la descrizione dell’età virile dell’uomo nella Storia naturale di monsieur Buffon, vol. IV, p. 278 e segg., ed. in-8°.

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Talenti che si possono acquisire Danza e disegno Per camminare armoniosamente, per presentarsi con signorilità, per gesticolare con grazia e facilità, per avere sangue freddo ed equilibrio, per non mostrare mai atteggiamenti contrari alla natura è indispensabile studiare a fondo la danza nobile e figurata, bisogna assolutamente evitare d’imparare a eseguire dei passi e di assumere l’aria atteggiata del ballerino, ma il resto della sua arte è di grande necessità. Sarebbe auspicabile che tutti gli attori avessero una qualche conoscenza del disegno, avvertirebbero più agevolmente l’importanza dell’insieme di una figura; sarebbe per loro più facile trovare il pittoresco, sempre necessario a teatro, sia negli atteggiamenti che nell’abbigliamento. Nelle «pièces à spectacle» i gruppi e le masse, che devono sempre costituire un quadro e valorizzare i personaggi principali, verrebbero disposti in modo più intelligente e più suggestivo, ma in mancanza di tale conoscenza, invito gli attori a consultare almeno i pittori e gli scultori famosi.

Musica Senza pretendere di approfondire la musica, bisogna apprendere gli elementi per conoscere l’estensione della propria voce, per rendere facilmente ogni intonazione, per evitare le discordanze, per graduare i suoni, sostenerli, variarli e per dare agli accenti acuti o lamentosi la giusta modulazione. Senza questo studio è quasi impossibile interpretare bene Corneille: è così grande o così comune che, in mancanza di una notevole sicurezza delle proprie intonazioni, si corre il rischio di apparire o grandioso o triviale.

Lingua, geografia, belle lettere Lo studio della lingua è fra tutti il più importante. Il teatro deve essere la scuola degli stranieri e di quella parte della nazione che non ha né il tempo né i mezzi per avere dei maestri. È inammissibile che delle persone scelte per rappresentare i capolavori della nazione non conoscano spesso il valore di una lunga o di una breve, che non facciano differenza tra singolare e plurale, che confondano i generi, che non si avvertano mai le desinenze del femminile ed è inammissibile che un accento provenzale, guascone o piccardo distrugga la melodia, la nobiltà e la purezza della nostra lingua. Così è la maggioranza degli attori: non conosce il valore delle cose e se ci arriva è solo per caso; non riesco a capacitarmi che i Gentiluomini della Camera li ricevano e che il pubblico tolleri individui che si presentano con questi difetti o con questa vergognosa ignoranza. Non si può leggere con profitto la storia se non si conosce la geografia, e il diritto di giudicare gli autori che lavorano per il teatro impone agli attori di disporre di tutte le conoscenze che possono metterli in grado di

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pronunciarsi per giudicare, dopo una sola lettura, del merito di un’opera che costa almeno un anno di lavoro.242 Un’approfondita conoscenza degli effetti e delle regole del teatro, un orecchio allenato, un gusto sicuro, una mente saggia, acuta, attenta non sono ancora sufficienti: bisogna intendersi di mitologia, di storia, di geografia, di lingua; si devono conoscere tutti i generi di poesia e tutti gli autori drammatici antichi e moderni. Si può allora capire se l’autore ha centrato l’argomento, se ha utilizzato al meglio tempo, luoghi, caratteri, se è ideatore, imitatore o plagiario. Un’approvazione è lusinghiera, una critica è tollerabile, solo se si è capaci di motivarle entrambe. Non basta avere il diritto di accettare o di rifiutare un’opera, ci si deve mostrare degni di giudicarla. Circa due anni prima del mio ritiro dalle scene ho visto incominciare la lega di alcuni autori per sottrarsi al giudizio degli attori; questa pretesa di voler disporre della fortuna e della volontà di una società senza la quale, in fondo, i drammaturghi non sarebbero niente, era ingiusta quanto il pretesto era falso e disonesto. A meno che un ordine supremo annulli gli statuti degli attori, è impossibile che qualcuno di loro acconsenta a questa ingiustizia e a questo svilimento. Corneille, Racine, Voltaire non hanno chiesto nessun’altro tribunale, eppure le loro opere immortali non avevano bisogno, come quelle di oggigiorno, dell’illusione teatrale e del talento degli attori. Gli attori li derubavano, dicevano questi signori, la loro inconsistente retribuzione ne era un indizio certo. Posso rispondere su questi due punti, in modo inconfutabile, almeno per i ventidue anni in cui ho conosciuto la gestione della Comédie- Française. I registri provano, secondo lo stato delle entrate e delle uscite, che non solo gli attori non ebbero mai la bassezza di appropriarsi del bene degli autori, ma che spesso, ancorché poveri loro stessi, hanno diminuito la loro parte per aumentare quella degli autori e dare persino gratuitamente aiuto a molti di loro.243 Questi stessi registri provano che Cinna, Iphigénie, Mahomet non hanno mai fruttato agli autori quanto Venise sauvée, Zelmire, Warwick, La Veuve du Malabar, persino Varon.244 Si vede purtroppo che in tutte le

242 L’assemblea degli attori infatti decideva dopo la lettura del testo proposto se era accettabile oppure no. Di fatto il giudizio era raramente equanime e non sempre aveva a che vedere con il reale valore del dramma e spesso era pretestuoso. «Una pièce – scrive Levacher de Charnois – poteva essere rifiutata per la sola ragione che uno dei primi attori non vi trovava una parte adeguata per farlo emergere, senza preoccuparsi di tutte le imperfezioni che avrebbero dovuto fargliela rifiutare», J. C. Levacher de Charnois, Conseils à une jeune actrice avec des notes nécessaires pour l’intelligence du texte. Par un cooperateur du Journal des Théâtres, Paris, 1788, p. 18. 243 Mademoiselle Clairon accenna qui a un’abitudine invalsa da tempo: alcuni spettacoli venivano recitati gratuitamente per venire in aiuto a colleghi in difficoltà o ad autori particolarmente bisognosi per cui l’intero incasso veniva loro devoluto. 244 Si tratta rispettivamente delle seguenti tragedie: Venezia salvata di Pierre-Antoine de La Place (1707-1793), 5 dicembre 1746; Zelmire di Dormont de Belloy, 6 maggio 1762

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posizioni, più si manifesta l’insufficienza e più aumentano le pretese. Non voglio mischiare, alle mie deboli riflessioni che annoto sull’arte della tragedia, la discussione troppo seria dei fulmini della chiesa gallicana e del potere arbitrario sotto il quale soffrono tra gli otto e i diecimila Francesi che lavorano a teatro. Ho scelto questo mestiere in un’età in cui ancora non si è maturi; ho assolto quanto meglio ho potuto il compito che l’autorità m’imponeva senza arrossire per una professione che non ha certamente in sé nulla di avvilente. Il momento della mia libertà mi è sembrato il più prezioso della mia vita. Riacquistati tutti i diritti di cittadina, mi accontento di deplorare la sventura di quelli che sono ancora in schiavitù, resto in silenzio e mi consolo con la lettura di Epitteto dei casi della natura e della loro sorte, ma non posso capacitarmi che gli autori, obbligati a guadagnarsi il favore degli attori, vivendo con loro, dividendo le loro fatiche e il loro salario, provenienti per la maggior parte dalla più grama borghesia, s’ingannino al punto di unirsi agli sciocchi, alla plebaglia per insultare chi li fa vivere, conoscere e spesso valere. Questi comportamenti sono tanto più bizzarri in quanto ogni giorno si vede la luce della ragione superare i pregiudizi; lo stato di attore non trova gli stessi ostacoli di una volta. Molière, al quale l’Europa intera innalza altari, non fu giudicato degno di entrare all’Académie e attualmente leggiamo, nei suoi fasti, il modesto nome di de Belloy.245 L’uguaglianza di stato e la macroscopica differenza di merito di questi due autori, non è forse la prova più lampante della rivoluzione delle mentalità? Confesso che gli autori che lavorano per il teatro hanno spesso ragione di non essere contenti dei loro giudici: è ingiusto ricusare tutti gli attori, è giusto volere che non tutti siano ammessi a giudicare. Si può dire in modo elegante la battuta: mia cara, ho tanto visto il sole!246 e non saperne abbastanza per osare pronunciarsi su di un’opera importante.

(mademoiselle Clairon ne aveva creato il ruolo del titolo); Il Conte de Warwick di Jean- François de La Harpe (1739-1803), tragedia dedicata a Voltaire, 7 novembre 1763; La Vedova del Malabar di Antoine-Marie Lemierre (1733-1793), 30 luglio 1770; Varrone, di Jean- Hyacinthe de Grave, 20 dicembre 1751. 245 Già prima citato come autore di Zelmire, il grande successo della sua tragedia L’Assedio di Calais, aprì a de Belloy le porte dell’Académie française nel 1770. Poco apprezzato da Voltaire, la sua affermazione è anche dovuta all’argomento della pièce che portava in scena il coraggio e il patriottismo contro l’invasore inglese. 246 Celebre battuta letta dalla Viscontessa e corretta dal Duca nella commedia in due atti Les Acteurs de Société (atto I, scena 3) nel Théatre du prince Clénerzow, Russe, traduit en François par le baron de Blening, Saxon, Parigi, M.DCC.LXXI, i due autori del titolo sono gli pseudonimi di Carmontelle (Louis Carrogis, detto, 1717-1806). Il riferimento è alla commedia in un atto in prosa L’Oracle di Saint-Foix (22 marzo 1740) «Ma Bonne, j’ai tant vu le soleil!», recitata divinamente da mademoiselle Gaussin a dire dei contemporanei. La battuta viene proferita dalla giovane principessa Lucinde alla Fée Souveraine, madre di Alcindor di cui è innamorata.

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Senza tener conto dell’anzianità, del sesso, del ruolo, della protezione e del diritto che permette al più ignorante di avere un voto preponderante quanto quello del più erudito, vorrei che si istituisse un consiglio di dieci o dodici attori il cui gusto, sapere, esperienza sarebbero ben riconosciuti per eleggerli giudici in tutti gli affari più importanti. Là i testi verrebbero esaminati e, nella calma dell’assemblea, potrebbero esser dati i pareri, richieste le correzioni, motivati i rifiuti. Si dovrebbero mettere al bando lo scrutinio e i biglietti anonimi. Chi ha da dire solo cose ineccepibili e ragionevoli deve dare apertamente il proprio parere. Qual che sia la vanità di un autore, questi non può pretendere che una società gli sacrifichi i propri consigli illuminati e i propri interessi; né può pensare che gli attori rifiutino un’opera degna d’interessare il pubblico, d’incrementare il repertorio e di raddoppiare gli introiti. Le pièces recitate da quindici anni sono la prova evidente delle loro ristrettezze e della loro buona volontà. Il rifiuto e l’accettazione pura e semplice lasciano così poco spazio alla vanità che si è sempre indignati dal primo e raramente sensibili all’altra. L’assemblea generale non permette discussione alcuna, ma un consiglio ridotto ne farebbe un dovere indispensabile, adducendo le proprie motivazioni potrebbe dare speranza e conforto all’autore ricusato e duplicare il piacere di chi sarà accettato, dimostrando di esser degno di giudicarlo. L’assemblea generale della Comédie-Française non può esser meglio definita che da questi versi di madame Pernelle:

Non vi si rispetta nulla, ognuno vi parla ad alta voce, Ed è proprio la corte del re Pétaut.247

Riflessioni generali Tranne poche tragedie, ho recitato in tutte quelle che costituivano il repertorio della mia epoca. Per quanto permesso dalle mie esigue conoscenze, ho approfondito ogni ruolo. Credo conoscerne la forza e i caratteri e, senza lusingarmi di essere arrivata a renderli così bene quanto li si poteva desiderare, mi è almeno permesso di credere, dati gli incoraggiamenti ricevuti dal pubblico, che non disapproverebbe che si facessero i miei stessi studi o che almeno si seguissero le tradizioni evocate. Non posso dar conto di ciascuna parte in particolare, il languore dovuto all’età e al perdurare delle mie infermità, non mi lascia i mezzi d’iniziare

247 Battuta tratta dalla commedia di Molière, Le Tartuffe ou l’Imposteur (atto I, scena 1, vv. 11- 12): «On n’y respecte rien, chacun y parle haut, / Et c’est tout justement la cour du roi Pétaut». Anticamente i mendicanti riuniti in corporazione sceglievano come capo il re Pétaut, questi avendo un così limitato numero di sudditi, non aveva nessun potere. Si dice «cour du roi Pétaut», una casa dove tutti comandano.

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un’opera così imponente. D’altronde spesso si percepisce ciò che non si può esprimere: un animo fiero e sensibile ha slanci di grandezza, sfumature di sensibilità e di delicatezza difficili da descrivere; li si esprimono con uno sguardo, con un gesto, con la modulazione della voce, con i tempi; questi nonnulla esprimono spesso più della parola; avrei timore di entrare in dettagli minuziosi, noiosi da leggere, inutili per chi ha talento e pericolosi per chi è corto di mente; considerazioni generiche, alcune osservazioni particolari su ruoli e passaggi che richiedono un più attento studio, costituiranno gli unici argomenti delle mie riflessioni. Ho indicato i quattro doni di natura che reputo indispensabili: voce, forza, memoria, aspetto fisico. Si intuisce, senza bisogno di dirlo, la necessità di avere grande intelligenza, finezza e genio, se possibile. Le prime due percorrono facilmente strade già conosciute, solo il terzo ne apre di nuove. Ho parlato dell’abilità nella danza e nella musica che va ad aggiungersi alle conoscenze della storia, della mitologia, delle belle lettere, della lingua e della geografia, ma senza pretendere che coloro che non hanno studiato conoscano tutto ciò, io stessa ne so l’impossibilità, annoto soltanto ciò che si deve essere e quanto si deve studiare. Senza guida, senza consigli,248 ignorando le fonti dalle quali avrei potuto utilmente attingere, ho spesso profuso tempo e forze in studi infruttuosi e chi vuol diventare celebre nell’arte drammatica, non ha un sol giorno da perdere; ho impegnato ogni mio giorno con il massimo zelo dall’età di dodici anni fino a quarantadue e sono sicura che facevo ancora moltissimi errori quando mi sono ritirata dalle scene. Quali studi occorrono per arrivare a differenziare l’ironia dal disdegno? il disdegno dal disprezzo? l’ardore dal furore? e l’impazienza dalla collera? il timore dallo spavento e lo spavento dal terrore? Quante sfumature bisogna cercare nelle inflessioni sensibili per non confondere quanto esigono amore, natura e umanità! Quanti sforzi vanno fatti per giungere a quei grandi momenti di terrore, di strazio, di pateticità! Quanto rigore di idee e di suoni per argomentare in modo semplice e vero, senza essere né freddi né familiari! Cosa di una difficoltà enorme: essere semplice, appropriato e nobile è l’impronta massima del talento. I miei studi mi avevano fatto intravedere i percorsi che possono condurre alla più grande perfezione possibile dell’arte drammatica; ma l’ingiustizia, opponendomi ovunque barriere, mi ha costretta ad abbandonare la carriera. Non ho potuto raccogliere che qualche fiore, resta intera la palma per chi vorrà coglierla, la sola consolazione che mi rimane è di indicare, per quanto possibile, i mezzi per conquistarla. L’attore tragico deve appropriarsi nella vita quotidiana del tono e del contegno di cui necessita in scena, niente è più efficace dell’abitudine.

248 Sembra dimenticare – si legge nei Mémoires Dumesnil – i suoi stessi consigli e poi in particolare quelli di Marmontel e di Voltaire (pp. 98-99).

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Se durante ventiquattro ore al giorno mi comporto come una borghese, per quanti sforzi faccia non sarò che una borghese in Agrippina. Toni, gesti familiari mi sfuggiranno a ogni istante, la mia anima, svilita dall’abitudine di un fare timoroso e subalterno non avrà, o solo a momenti, gli slanci della grandezza di continuo necessari al ruolo rappresentato. Senza mai dimenticare la mia posizione, mi sono imposta di non fare e di non dire alcunché se fosse stato privo del carattere di nobiltà e di austerità. Non ignoro le ridicolaggini che questo modo d’essere ha suscitato nei miei compagni e nel gran numero di quelli che non si rendono conto di nulla: pretendevano che avessi sempre l’aria della regina di Cartagine.249 Credevano amareggiarmi, mi facevano piacere: significa provare che ero riuscita nel mio intento; guadagnai più fiducia, sentii allora che il lavoro che mi ero imposta in pubblico e in privato, mi dispensava da quella continua tensione mentale che un tempo tanto mi affaticava a teatro. Quando la critica si concentra su un ruolo ed è motivata, da qualsiasi parte provenga, merita la nostra riconoscenza e la nostra attenzione. Felice l’attore da cui ci si attende risultati tali da poterlo consigliare e che non ha lo sciocco orgoglio di credere di non sbagliare mai! Ma l’attore deve dar conto al pubblico solo durante il corso della rappresentazione, uscito da lì anche lui fa parte del pubblico e non ha più conto da rendergli. Ma cosa poi! Si vorrebbe che una professione che richiede istruzione, pratica nel frequentare la società, conoscenze approfondite, elevatezza d’animo, ingegno e ogni piacevole dote di natura, possa essere di continuo umiliata? che la persona che l’abbraccia non osi mai confrontarsi con gli altri? che faccia l’umile sacrifico della propria superiorità al primo venuto? Significa chiedere l’impossibile. La vergogna che si vuole ascrivere a questa condizione ricade interamente sulla nazione che non l’abolisce. Ma come? Il monarca che mi chiama, mi riceve e mi pensiona, il Gentiluomo della Camera che presiede allo spettacolo, l’autore che mi porta la sua opera, il pubblico che viene ad ascoltarmi e ad applaudirmi, sarebbero tutti innocenti, tranne me? Ubbidisco all’autorità che mi lega, aggiungo nuove bellezze ai versi che mi vengono affidati, vi faccio trascorrere due ore deliziose e voi mi punite? Questa incongruenza non ha nome.

249 Pur avendo da tempo abbandonato il teatro, il suo modo regale di fare non muta. La pittrice Élisabeth Vigée Le Brun, che incontra mademoiselle Clairon di ritorno da Anspach grazie all’interessamento di Larive, rimane sorpresa dal suo aspetto: pur minuta e magrissima conserva «il tono tragico e le arie di una principessa», Souvenirs, 1755-1842, texte établi, présenté et annoté par Genviève Haroche-Bouzinac, Paris, Champion, 2008, p. 207.

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Gli spettacoli sono pericolosi?250 Non subiteli, non corretevi in massa. Accordate a chi ne fa parte i favori che meritano il loro talento e la loro condotta. In cosa allora questo mestiere può essere infamante? La dichiarazione di Luigi XIII prova che un gentiluomo può abbracciare questo mestiere senza perdere il titolo nobiliare.251 I nostri testi passano alla censura, li riceviamo dalle mani del magistrato e di conseguenza lui solo ne è responsabile. Si può, lo ammetto essere spaventati dagli statuti della Comédie-Française, concessi dai nostri re e omologati dal parlamento: aboliscono la patria potestà, eludono il potere matrimoniale, conferiscono lo stato di maggiorenne a un’età poco adatta per goderne; annullateli. Questi principi offendono parimenti la natura, i costumi, la ragione e l’essere così insensato da rivendicarli sarebbe indegno di considerazione e di pietà, ma non ho mai sentito dire e non ho mai visto un solo attore servirsi di questi diritti indegni. Si asserisce che i costumi sono più dissoluti a teatro che altrove… Può essere che si sia perso troppo il controllo di sé. Può anche essere che la cattiveria e l’impunità permettano di parlare a sproposito, ma, comunque sia, guardatevi attorno, osservate quanto avviene presso i vostri vicini, a casa vostra e condannate con minor acredine degli esseri liberi da ogni dovere quando subite il tremendo disordine delle vostre case. Spezzate le barriere che non permettono agli attori di avvicinarsi all’altare, non costringeteli più al celibato, che possano sposarsi senza correre il rischio di

250 Che gli spettacoli fossero pericolosi, era la tesi sostenuta da Jean-Jacques Rousseau nella sua celebre Lettre à d’Alembert sur les spectacles (1758, Amsterdam) in risposta all’articolo Genève del direttore dell’Encyclopédie (vol. VII, ottobre 1757) nel quale veniva proposta la creazione di un teatro a Ginevra, vietato per legge dal 1617. D’Alembert, esponente dei Philosophes, appoggiava invece la convinzione che il teatro fosse utile per l’istruzione morale dei cittadini, capace di educare tramite il divertimento. 251 La dichiarazione di Luigi XIII (Déclaration du roy Louis XIII au sujet des Comédiens, 16 aprile 1641) enunciava che la professione di attore non era per nulla disdicevole: «Noi vogliamo che il loro esercizio, che può innocentemente distrarre il nostro popolo dalle diverse tristi occupazioni, non possa essere imputato a biasimo né portar pregiudizio alla loro reputazione nel commercio pubblico». Successivamente con un Arrest du Conseil d’Estat du Roy, en faveur du Sieur de Floridor, comédien du Roy, contre les Commis à la recherche des usurpateurs de noblesse. Qui prouve que la qualité de Comédien ne déroge point (Paris, Impr. Sevestre, 10 settembre 1668, 4 pp.), Luigi XIV aveva statuito che il sieur de Soulas, anche se attore da venticinque anni, era mantenuto nel titolo e nei diritti di gentiluomo detenuti per nascita. Josias de Soulas, sieur de Primefosse (1608-1671) dopo aver fatto parte delle guardie del re, aveva scelto la carriera teatrale con il nome di Floridor, entrando nel 1643 nella troupe dell’Hôtel de Bourgogne. Scriveva Voltaire, alla notizia che mademoiselle Clairon abbandonava definitivamente le scene: «Ci si vuole attenere alla dichiarazione di Luigi XIII. Senza considerare che al tempo di Luigi XIII gli attori non erano ‘pensionnaires’ del re, e che è contraddittorio attribuire qualche vergogna ai propri domestici. Non posso biasimare un’attrice che preferisce rinunciare alla sua arte piuttosto che esercitarla nella vergogna», lettera ai conti d’Argental, 18 aprile 1766, Correspondance, cit., vol. VIII, p. 441.

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veder diseredata la persona scelta, e se allora danno motivi di scandalo, puniteli, disprezzateli: sono d’accordo. Si dice poi che i soldi che si pagano alla porta sono infamanti per chi li riceve. È gente che viene pagata; pago quella gente, voglio avere del piacere per i miei soldi, sono frasi che a volte mi hanno fatto guardare con compassione gli stupidi insolenti che le pronunciavano. Ma c’è una sola persona che non sappia che nessuno al mondo fa niente senza essere pagato? C’è una carica, un’occupazione senza stipendio o senza onorario, o senza guadagni illeciti? Non posso nutrirmi, vestirmi, star di casa senza dar in cambio del denaro. Se redigo un atto, lo pago; se faccio una consultazione legale, pago l’avvocato e il procuratore; se chiamo in medico, lo pago. Ho presentato dei bambini al battesimo, ho pagato. Ho perso parenti, domestici, ho pagato l’assistenza spirituale ricevuta, ho pagato il loro funerale. Se voglio far dire una messa, la pago dieci, quindici o venti soldi secondo la chiesa a cui mi rivolgo. Infine si conosce la risposta di Jean-Jacques a un ambasciatore che gli diceva: Ciò che non mi piace dei libri, è che li si fa per soldi. – E sua eccellenza, perché fa i conti? Dopo esempi così ragguardevoli, chi può condannarmi per farmi anch’io pagare? Il denaro è l’idolo di ogni essere vivente, nessuno può negare questa verità. Fatica, menzogne, viltà, prostituzione, crimine, niente costa per guadagnarne e mi si biasima per ricevere, con una retribuzione volontaria l’equivalente delle mie spese e l’esiguo salario di lavori innocenti quanto gravosi! Cosa si guadagna a così tanta ingiustizia? Di avere raramente dei talenti. L’essere libero in età per riflettere si spaventa, e a ragione, della fatica insostenibile di questo mestiere, dell’insufficienza dei guadagni, di una dipendenza di vent’anni, del potere arbitrario dei superiori e della vergogna del pregiudizio nazionale. Quando, ingannati dall’età e dall’esperienza si è scelto il mestiere di attore, so sulla mia pelle quanto le ripulse nocciono agli studi e a quale stato di prostrazione mi ha spesso ridotto la disperazione. Ho contato con orrore gli ultimi dieci anni della mia schiavitù e fino all’ultimo respiro benedirò l’ingiustizia, l’atrocità, la demenza di chi mi ha offerto i mezzi per ritirarmi. I tempi dell’ignoranza e delle classi sono finiti. Se si vogliono i talenti bisogna accordare loro un’onesta esistenza. Bisogna ridurre i Gentiluomini della Camera alla semplice autorità di un tempo. Che un posto alla Comédie-Française, una parte, un ruolo non siano più la ricompensa della seduzione o della depravazione; che non si ammettano più degli immaturi protetti da chi ha il potere; che solo il pubblico sia giudice dei talenti, che solo la Comédie-Française sia giudice dell’utilità dei soggetti: allora tutto andrà bene, ma senza questo tutto è rovinato. Ma o che si migliori la sorte degli attori o che la si lasci così com’è, devono riflettere che la perfezione del loro talento ha bisogno della pratica

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che consiglio loro: che osino dirsi che è assurdo volere che un attore, inevitabilmente e di continuo preso da tutto ciò che la tragedia richiede di magnifico e di maestoso si lasci vedere in pubblico con un’aria sottomessa e modesta. L’alterigia non si confà a nessuno, l’acutezza d’animo appartiene a ogni stato. Allontanandosi da questi principi mademoiselle Dumesnil si è rovinata. Il pubblico, che non ha mai conosciuto la causa del suo scadimento, mi perdonerà forse di dargli conto delle domande che osai porle sul suo cambiamento e di quello che pensavo personalmente di questa attrice.

Ritratto di mademoiselle Dumesnil Mademoiselle Dumesnil non era né bella né avvenente, la fisionomia, la corporatura, l’insieme, pur senza alcun difetto innato, offrivano allo sguardo una borghese sgraziata, priva di eleganza e spesso nel livello della classe più bassa del popolo. Tuttavia il suo volto era interessante, gli occhi espressivi, superbi e persino terribili quando lo voleva.252 La voce poco flessibile non era mai emozionata, ma forte, sonora, sufficiente per i grandi sbotti di furore. La pronuncia era pura, nulla frenava la mutevolezza dell’eloquio. I gesti erano spesso troppo vigorosi per una donna, non erano né armoniosi né aggraziati, ma almeno erano poco frequenti. Piena di ardore, di pateticità, nessuno fu mai più travolgente, più commovente di lei nel turbamento e nella disperazione di una madre. Il sentimento della natura la rendeva quasi sempre sublime.253 L’amore, la politica, il semplice calcolo di grandezza non trovavano in lei che mediocre intendimento, ma giovane ancora, gelosa, ambiziosa, ci si potevano aspettare grandi cose dalla sua volontà di primeggiare e dai suoi studi. Tale era mademoiselle Dumesnil quando mi presentai sulle scene.254 Lo studio al quale mi consacrai fin dai primi momenti, illuminandomi su tutti i miei difetti, m’insegnò, dopo alcuni anni di riflessione, a conoscere anche quelli degli altri: mi accorsi che mademoiselle Dumesnil cercava più di sedurre la maggioranza che di piacere agli intenditori. Urlii, strani

252 Naturalmente il tono delle osservazioni di mademoiselle Dumesnil nel difendere se stessa, già di per sé beffardo e mordace, si fa più aspro: «Fisionomia interessante e occhi d’aquila, il più grande carattere nell’insieme dei tratti, la più grande nobiltà nel volto e nell’incedere sul palcoscenico, la statura alta: questa era l’inimitabile Dumesnil. È giunta all’età di ottantasei anni senza alcun segno eccessivo della devastazione degli anni, mentre la cittadina Clairon è l’emblema ambulante dell’eternità, è la decrepitezza più pittoresca, sembra che le grinfie taglienti del tempo abbiano cesellato il suo volto: quella superba regina non è più che una caricatura di Teniers», Mémoires Dumesnil, p. 122. 253 «È per questo che secondo i veri intenditori recitava Athalie, Agrippina nel Britannicus, Cleopatra in Rodogune con una perfezione che non avete mai raggiunta», ivi, p. 104. 254 Quando mademoiselle Clairon appare sulla scena della Comédie-Française, mademoiselle Dumesnil vi recita già da sei anni, avendo debuttato nel 1737.

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passaggi, un eloquio comico, gesti volgari sostituivano spesso quelle bellezze terribili e commoventi di cui aveva dato così grande lezione.255 Gli sciocchi gridavano brava! la natura! brava! ma idolatrando il talento persino nelle mie rivali, non potei fare a meno di rammaricarmi per quel cambiamento e osai chiedergliene la causa. «Avevate realizzato un percorso così splendido, le dissi, che non posso concepire perché ve ne allontaniate; sicura del pubblico e di voi stessa, cosa significano le follie che fate? Il riso che oggi suscitate vi sembra allora più lusinghiero dell’ammirazione che vi si tributava un tempo? È possibile che proprio voi confondiate Semiramide con la moglie di Sganarello?256 Cosa significano questi toni di intensità alla fine di ogni strofe? A cosa sacrificate i vostri lumi, la vostra ragione e i vostri talenti? Per quanto possa essermi vantaggiosa la vostra aberrazione, vi confesso che mi addolora e la mia condotta ve lo prova». «Ti ho ascoltata attentamente, mi rispose, e ti ringrazio: questo comportamento mi sembra onesto e risponderò con franchezza.257 Tu cerchi il vero che non troverai e di cui nessuno si accorgerebbe quand’anche lo trovassi. Il numero dei veri intenditori di una sala gremita (supponendo che ce ne siano) è di uno o due, gli altri giudicano con leggerezza, sulla parola, sulla reputazione; la volubilità, gli scatti, la singolarità lo stupiscono, lo trascinano: applaude con entusiasmo. Che uno solo gridi brava! la sala intera lo ripete senza riflettere. Le tue dotte ricerche sfuggono alla massa che resta fredda, e il tuo intenditore, di solito, equilibrato, maturo, racchiude in sé il proprio piacere senza osare manifestarlo. Uscendo dallo spettacolo ci si sparpaglia in Parigi, vi si trasmette il proprio entusiasmo: Da dove venite? Cosa si recitava? Chi erano gli interpreti? Mademoiselle Dumesnil e mademoiselle Clairon, la prima era meravigliosa, la seconda ci è sembrata fredda258. Su questo si generano le reputazioni e, se tu continui, ascendo all’empireo e ti lascio nel fango». «Sono ancora lontana, le risposi, dallo scopo che mi prefiggo, ma comincio a intravederlo: la strada è lunga e ardua, ma non faccio un passo senza l’aiuto dello studio e della ragione. Chi cerca assiduamente la verità deve prevalere presto o tardi sul vostro brillante prestigio; il pubblico non è cosi

255 A dire della critica verso il 1760 si avverta un certo declino nella sua recitazione. 256 Il personaggio popolaresco della moglie di Sganarello appare in due commedie di Molière: Sganarelle ou le Cocu imaginaire (Théâtre du Petit-Bourbon, 28 maggio 1660) e ne Le Médecin malgré lui (Théâtre du Palais-Royal, 6 agosto 1666), certo ben diverso dall’eroina voltairiana. 257 Conversazione che mademoiselle Dumesnil afferma che non ebbe mai luogo e che comunque sarebbe priva di fondamento. 258 Le due attrici hanno recitato contemporaneamente sullo stesso palcoscenico della Comédie-Française per un lasso di tempo di circa ventidue anni, dalla fine del 1743 al 1765. La freddezza di mademoiselle Clairon rientra nel topos interpretativo dell’epoca.

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sciocco come lo giudicate; dimenticate come il suo discernimento sia giusto e sincero sui lavori che gli si presentano, coglie i pensieri più arguti, i sentimenti più delicati. Il parterre che deve essere la parte meno istruita, meno difficile del nostro pubblico, non tollera alcun errore sulla storia, sui costumi, sulla metrica, persino sull’adeguatezza dei personaggi, più lo osservo e più spero che i miei studi non siano vani. Vi accorgerete che mi ascolta sempre e che spesso m’incoraggia e se voi continuate a non aver altra guida che la follia, oso credere che la bilancia su cui ci avete pesato entrambe farà il contrario di quanto avete detto». Da quel momento ho intensificato le mie ricerche e mademoiselle Dumesnil ha perso ogni controllo. L’attrice che avrebbe potuto essere una delle migliori mai viste!… La penna mi cade di mano.

***

Senza fare grandi ricerche, è facile convincersi che le varie provincie di Francia hanno fra loro differenze sensibili. Benché abbiano un unico interesse nazionale e appartengano allo stesso regno, i pregiudizi, i caratteri sembrano fare di ognuna di esse una nazione particolare. Che si osservino tutti gli stranieri che si vedono a Parigi, sarà facile riconoscere in ognuno di loro una forma mentis, un carattere, un contegno nazionale che li contraddistinguono, da ciò si può facilmente concludere quanto poliedriche dovevano essere le repubbliche che componevano il corpo intero della Grecia, tutte indipendenti e gelose l’una dell’altra. Ma ce ne sono solo due le cui differenze appaiono sensibili nella tragedia: Atene e Sparta. Non volendo riscrivere il già detto, mi limiterò a indicare le opposizioni che caratterizzavano maggiormente questi due popoli e che mi sembrano importanti per i ruoli femminili. Atene era il centro delle belle arti, del gusto, della magnificenza, dell’ingegno, dell’eloquenza, della filosofia e della civiltà. Le fanciulle delle famiglie in vista non uscivano mai tranne per le festività o le cerimonie religiose. Un velo nascondeva il loro volto: solo gli uomini fra i loro parenti più stretti potevano vederle e parlare loro. Tale educazione doveva logicamente determinare caratteri puri e timidi, l’abitudine alla circospezione e alla decenza deve ritrarsi negli sguardi e nel contegno, in una voce armoniosa, in espressioni semplici e ingenue, un’andatura misurata, gesti aggraziati e poco frequenti. A Sparta i beni erano inutili, le spese venivano fatte in comune, i figli appartenevano allo stato, i pasti erano pubblici senza distinzione di rango,

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d’età e di sesso; il lusso era un crimine e i costumi erano della più rigorosa austerità.259 Le fanciulle erano allenate agli esercizi violenti: seguivano la stessa carriera degli uomini e si battevano come gli atleti, le loro vesti lasciavano vedere braccia, gambe e cosce nude. Si intuisce che questa formazione doveva rendere le donne forti e coraggiose, dar loro una voce maschia, uno sguardo risoluto, un’andatura fiera e gesti decisi. Il pudore, interessante e preziosa prerogativa del nostro sesso era parimenti incoraggiato nelle due repubbliche, ma il modo di manifestarlo non poteva essere identico, mi potrei esser sbagliata, ma è da queste due fonti che ho attinto per dare alle parole di Monime e di Ermione i grandi caratteri richiesti da queste due parti nei generi più opposti.

Parte di Monime La parte di Monime deve offrire, dal primo all’ultimo verso, l’insieme dell’Ateniese che ho descritto. L’attrice che secondo i versi che recita al quarto atto penserebbe di potersi permettere una minima veemenza nella voce, nella fisionomia, nel portamento, nei gesti, farebbe l’errore più colossale. Resistere di fronte all’uomo scelto dal padre per essere il suo sposo, osare dirgli

Né la mia mano né il mio amore, Saranno il prezzo di una decisione così crudele,260 sfidare la morte alla quale si aspetta di essere condannata, è sufficiente per credersi dispensata dalla compostezza prescritta dalla modestia. Il primo studio che facevo di una parte consisteva nel cercare di darle il carattere richiesto, di scoprirvi poi la strofe in cui quel carattere, una volta individuato, si sarebbe fatto sentire con più forza. Il mio più gran piacere era di prospettarne le maggiori difficoltà, le trovai in questi versi:

No, signore, inutilmente volete stupirmi. Vi conosco, so tutto quello a cui mi appresto, E vedo quali disgrazie concentro sul mio capo. Ma la decisione è presa. Nulla può dissuadermi: Giudicatene, poiché oso così parlarvi, E mi lascio andare oltre quella modestia Da cui fin’ora non mi ero mai dipartita.261

259 So che questa educazione è iniziata con le leggi di Licurgo, ma è solo a quel tempo che si può fissare un carattere proprio a questa parte della Grecia. 260 Mithridate (atto IV, scena 4, vv. 1369-1370): «Ma main, ni mon amour, / Ne seront point le prix d’un si cruel détour» (il verso di Racine recita «ma foi» al posto di «ma main», come scrive mademoiselle Clairon). 261 Ivi, vv. 1358-1364: «Non, seigneur, vainement vous voulez m’étonner. / Je vous connais, je sais tout ce que je m’apprête, / Et je vois quels malheurs j’assemble sur ma tête. / Mais le

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La soavità della mia voce e l’insieme di grande modestia creavano il contrasto più sorprendente tra il valore che davo alle parole da me sottolineate e la fermezza che si dipingeva sul volto. Si può dubitare dei propositi di una donna in collera, ma credo che non ci si debba aspettare nulla da colei che resiste senza alcuna parvenza di rabbia. Questa parte è fra le più nobili e più struggenti a teatro, l’ho provata intensamente, è anche una fra le più difficili. Senza grida, senza scatti d’ira, senza la possibilità di attraversare a gran passi la scena, di aver gesti decisi ed espressioni mutevoli e autorevoli, sembra impossibile salvare questa parte dalla monotonia che presenta di primo acchito; quegli ausili aiuterebbero l’attore, ma sarebbero altrettanti controsensi per il personaggio. Solo dopo quindici anni di studio sui mezzi per controllare la voce, i gesti, le espressioni, mi sono permessa di imparare questa parte e confesso che, per arrivare a graduare di scena in scena e il suo dolore e la sua nobile semplicità, mi ci è voluto tutto l’impegno di cui ero capace e tutto il desiderio che avevo di far bene.262 Non oso sperare di essere arrivata a renderla nel modo giusto, l’ho recitata troppo poco per avere i mezzi di correggere i miei errori. Che un’altra attrice possa fare meglio di me! Ma invito tutte quelle che se ne incaricheranno a valutare con cognizione di causa ciò che si permetteranno di fare, e a ricordare che Monime è assolutamente fuori dai percorsi ordinari.

Ermione La parte di Ermione è fra quelle che vanno escluse dalla regola generale. Tutte le difficoltà che presenta sarebbero rimosse se il personaggio avesse trent’anni; sarebbe allora facile dare alla sua politica, alla sua civetteria, al suo amore e alla sua vendetta tutta la ricchezza e tutte le sfumature proprie di questi diversi modi di essere, ma Ermione deve avere all’incirca vent’anni, a quell’età si può intravedere ciò che si diventerà in futuro, ma dubito che si sia già ciò che si potrà essere. Le idee complicate e rispettate, le riflessioni profonde, le conoscenze che solo l’esperienza può dare mal si conciliano con le grazie, la timidezza, i pregiudizi dell’educazione, l’inesperienza, l’aria e la voce di una fanciulla di vent’anni.

dessein est pris. Rien ne peut m’ébranler. / Jugez-en puisqu’ainsi je vous ose parler, / Et m’emporte au-delà de cette modestie, / Dont jusqu’à ce moment je n’étais point sortie». 262 Scrive Lemazurier a proposito delle sue continue ricerche: «La sua mente era superiore, la sua intelligenza prodigiosa, il lavoro che fece su tutte le parti del suo ruolo stupisce l’immaginazione e gli studi complementari da lei perseguiti per perfezionare il proprio talento sgomenterebbero l’uomo più laborioso», P. D. Lemazurier, Galerie historique…, cit., vol. II, p. 83.

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La parte presenta di continuo il pericolo di non raggiungere lo scopo o di trascenderlo. Il carattere è appassionato e per nulla tenero, è furioso, ma non cattivo; è nobile e fiero eppure si permette seduzione e dissimulazione con Oreste e crudeltà con Pirro; orgoglio e passione procedono sempre di pari passo, tranne nei sei versi che iniziano con:

Ma, signore, se è necessario, se il cielo in collera…263 la fine del monologo del quinto atto e l’inizio dell’ultima battuta di Ermione in cui l’amore parla da solo e fa scorrere le lacrime. Tutte le risorse che ho cercato nel mio fisico e nelle mie riflessioni per arrivare a cogliere la bellezza della parte e per renderne convincente il carattere senza travisare la freschezza dell’età, hanno costituito un ben faticoso lavoro.264 Mi farebbe piacere abbreviare lo studio delle future attrici col resoconto esatto, chiaro e facile da cogliere del mio; ma, l’ho detto poc’anzi, ci sono cose che non si possono scrivere, senza l’appoggio delle intonazioni e della fisionomia mi è impossibile dare l’idea delle sfumature che si avvicinano al carattere e all’età della parte. Spetta all’intelligenza, allo studio e al talento avvalersi di queste mie limitate indicazioni.265 Là dove viene rappresentato l’amore di Ermione, si devono attentamente evitare i toni patetici e la fisionomia semplice e delicata che caratterizzano le anime sentimentali e nel suo furore distaccarsi, per quanto possibile, dagli scatti decisi e risoluti della donna agguerrita come Roxane in Bajazet. In questo ruolo, a parte l’indecenza, ci si può permettere tutto; che l’attrice cerchi in se stessa quanto può esaltare il grande carattere di una donna di vent’anni e quanto l’età può mitigare un grande carattere.

263 Racine, Andromaque, atto IV, scena 5, vv. 1369-1374: «Mais, seigneur, s’il le faut, si le ciel en colère». 264 Mademoiselle Clairon aveva recitato nella parte di Ermione nel novembre 1743 (23, 25 e 30) e il 14 dicembre. 265 A proposito delle sue «indicazioni», la giovanissima mademoiselle George racconta di essersi recata da mademoiselle Clairon per chiederle qualche consiglio, ma che era stata ricevuta con grande freddezza: «Donna bassina, dal comportamento gelido e molto vicino all’insolenza, sprezzante, senza alcuna bontà, era solo orgoglio» (Mémoires inédits de Mademoiselle George publiés d’après le manuscrit original, par P.-A. Cheramy, Paris, Librairie Plon, 1908, p. 33). Molto diversa l’accoglienza di mademoiselle Dumesnil da cui era poi andata in compagnia di mademoiselle Raucourt; l’attrice le consiglia di studiare la parte di Ermione, parte difficile in cui si intrecciano amore e gelosia, la passione diventa ferocia per l’amor proprio ferito e l’ironia viene soffocata dalle lacrime: «Non si tratta dell’ironia fredda e rabbiosa come quella di Roxane. Trattiene le lacrime che le cadono in gola. Si sbaglia quando vi si vuol mettere una dura amarezza: ben lo sapeva la buona Clairon, ma era priva di ‘entrailles’. Poi solo declamazione per produrre grandi effetti». Alla domanda dell’aspirante attrice se la parte sia difficile, mademoiselle Dumesnil risponde che ci si trova davanti a un personaggio multiplo che «implica collera, amore, civetteria, sdegnosa freddezza nei confronti di Andromaca e incertezza, amor proprio oltraggiato, insulti che getta in faccia a Oreste. In realtà per recitare in questa parte ci vorrebbero due interpreti» (pp. 37-38).

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La battuta del quarto atto che il pubblico, i letterati e gli attori denominano «couplet d’ironie», non può secondo me corrispondere a questa definizione.266 L’ironia richiede una leggerezza di spirito, una tranquillità d’animo che certamente Ermione non ha:267 il suo orgoglio e il suo amore, feriti entrambi, non possono provocare in lei che accessi di rabbia che l’alterigia del carattere reprime per quanto possibile. Un volto su cui si dipingono in ugual modo indignazione e nobiltà, i toni soffocati in un primo momento per lo sdegno e il furore, i movimenti di collera che la dominano e che non può più frenare, non possono suscitare nella voce e nella fisionomia che l’immagine del più amaro sarcasmo, l’orrore che lei stessa deve provare ricordando a Pirro le crudeltà di cui si è reso colpevole, non può abbassarsi all’ironia. Ermione deve dare alla sua riprovazione tutta l’amarezza e il disprezzo che possono renderla ancora più insultante, ma non vuole né deve ironizzare.268

Scuola Da quando mi sono ritirata dalle scene, sento parlare continuamente della necessità di creare delle scuole drammatiche, il pubblico le crede utili e possibili, i Gentiluomini della Camera si prestano a incoraggiamenti e a spese incredibili per istituirle. Questa è la riprova che i giudici e i dirigenti

266 «Versi d’ironia» (Andromaque, s. 5, vv.1309-1340). Ermione si rivolge a Pirro, che le ha appena annunciato la sua decisione di sposare Andromaca, rimproverandogli, forse in modo ironico, ma soprattutto disperato, la sua insana passione per Andromaca opponendo l’amore per una schiava a quello per una principessa, Troia immolata ai Greci e la Grecia al figlio di Ettore, ricordandogli la distruzione della città e i torrenti di sangue versato, l’uccisione di Priamo e di Polissena «sgozzata di fronte a tutti i Greci, indignati contro di voi». 267 Anche per mademoiselle Dumesnil vi sono varie specie d’ironia: di amarezza, di risentimento, di sarcasmo. «È evidente che nella scena di spiegazione con Pirro l’ironia di Ermione è caratterizzata da risentimento e disprezzo: è indignata contro Pirro e disprezza Andromaca in quanto schiava», Mémoires Dumesnil, p. 144. Afferma di essersi servita dell’ironia nella scena 3 del III atto del Britannicus fra Agrippina e Burrhus (vv. 815-820), Ivi, pp. 145-146. 268 Dorfeuille, pur riconoscendo la superiorità di mademoiselle Clairon nella parte di Ermione, la trova manchevole nella «scena dell’ironia»; sarebbe auspicabile, scrive: «una fierezza più indulgente, meno amarezza sulle labbra, una passione meno dilagante, insomma più arte. Ermione può salvare la sua fierezza ferita e trarre in inganno Pirro solo con un atteggiamento sereno, un contegno libero, una finta rassegnazione, indicati dalle esigenze di carattere e di situazione», P. P. Dorfeuille, Les Éléments de l’art du Comédien, Paris, À l’Imprimerie à Prix-fixe, an VII (1798-1801) 8 cahiers, VII, p. 270. Infatti per Dorfeuille l’interpretazione di mademoiselle Clairon non è quella dell’ironia «figura che è solo nelle parole sulle quali va composta la fisionomia, il contegno e l’espressione» (ivi, p. 271). L’attrice se ne discosta volutamente rifiutandosi di leggere il testo in una chiave che non condivide, ma alla quale le convenzioni hanno dato valore normativo. Anche in dettagli del genere si evidenzia quanto l’interpretazione possa farsi innovativa grazie a uno studio senza pregiudiziali.

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dello spettacolo non hanno la minima idea di ciò che forma un grande attore.269 S’impara a ballare e a cantare per quanto possibile in modo perfetto perché queste due abilità hanno regole e convenzioni che anche la persona più stupida può comprendere e praticare; ma non conosco né regole né convenzioni che possano offrire tutti i modi di pensare, ogni tipo di sensibilità assolutamente indispensabile per creare un grande attore; non conosco regole per imparare a pensare, a capire; solo la natura può offrire quei mezzi che si sviluppano con i consigli e con il tempo. Le uniche scuole possibili e ragionevoli sono le compagnie di provincia: la necessità di guadagnarsi lo stipendio che si riceve, la vanità d’imporsi sui compagni, la paura del pubblico, la memoria che si sviluppa con un’attività incessante, la disinvoltura e il portamento che si acquisiscono salendo ogni giorno sul palco, la facilità di abituare l’orecchio ai diversi toni, di chiarirsi le idee ascoltando le pièces per intero e l’effetto prodotto sul pubblico devono formare più in sei mesi che in due anni di lezioni date in una stanza da un maestro quale che sia.270 Credo di essere abbastanza modesta assimilandomi agli attori di oggi, forse non me lo perdoneranno, ma ho l’ardire di non crederli né più istruiti, né migliori, né più disponibili di me. Non ho risparmiato sforzo alcuno per formare mademoiselle Dubois e mademoiselle Raucourt; faccio appello a tutti quelli che le hanno viste. Le mie deliziose scolare sono state figure importanti? Ma, persuasa che il tempo e le riflessioni possano procurare più talenti delle scuole, non mi permetto di pronunciarmi sugli attori di oggi dato che da circa dodici anni non frequento più gli spettacoli.271 Solo dalla natura vanno tratti i grandi personaggi in tutti i generi: analizzate i fasti del mondo, delle scienze, delle arti, dei talenti, e per l’esiguo numero di quelli che si dice si siano distinti, riconoscete che è impossibile che il genio si statuisca e si apprenda.

269 Già nel 1756 Lekain aveva inviato una lettera circostanziata ai Gentiluomini della Camera per sollecitare la creazione di una scuola di recitazione per gli aspiranti attori: Mémoire précis, tenant à constater la nécessité d’établir une école royale, pour y faire des élèves qui puissent exercer l’art de la déclamation dans le tragique, et s’instruire des moyens qui forment le bon acteur comique, in Mémoires de Lekain…, cit., pp. 174-179. 270 Mademoiselle Dumesnil le oppone il piano di studi stilato da Lekain che «disapprovava formalmente il mezzo d’inviare gli allievi a formarsi nelle compagnie di provincia e sosteneva che si prendevano inevitabilmente cattive abitudini, quasi sempre incorreggibili», Mémoires Dumesnil, p. 151. D’altro canto l’insegnamento individuale è poco efficace, a suo dire, in quanto manca di stimoli e di emulazione. 271 Questa frase, assente dalla prima edizione, sostituisce un giudizio assai negativo: «Ahimè, malgrado le mie cure e quanto avevano di doni naturali, non ho mai potuto farne che le mie scimmie. Il loro debutto prometteva le più grandi speranze perché ero dietro le quinte e perché il pubblico si entusiasmava sempre per la gioventù e la bellezza, ma si è visto che, cessando le mie lezioni, i loro talenti erano scomparsi».

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Quando in una persona giovane si troverà ingegno, un’intelligenza equilibrata, sensibilità, forza, una bella voce, memoria, un fisico adeguato a quanto vorrà esprimere, andate in suo aiuto, offritele i mezzi per avere tutti i maestri necessari per sviluppare le sue idee, non lasciatela struggersi in una miseria che inaridisce l’anima e ritarda i progressi, che non sia il vizio a farle ottenere la situazione cui ambisce; obbligatela ad ascoltare i suggerimenti che il pubblico e alcuni attori possono darle sull’entità della passione, dell’elevatezza, della grazia, ecc., che la si aiuti, insomma, ad accorciare i tempi. Ecco, secondo me, i soli mezzi possibili. Credere che Préville possa formare degli Orosmane e delle Semiramidi, che Molé possa creare interpreti per ogni genere, è un errore di cui certamente loro stessi ridono sotto i baffi;272 darsi dell’importanza, costituirsi un harem, accumulare denaro e far tremare tutti gli altri compagni, è tutto quello che questi signori vogliono e possono fare. Credo che i Gentiluomini della Camera devono occuparsi di faccende a loro più consone e usare in modo più utile i benefici che il re degna accordare per gli spettacoli. Mi si obietterà forse che le province non forniscono più soggetti interessanti. Riconosco che l’opera buffa e la danza assorbono tutto e che oggi costituiscono la parte essenziale delle compagnie di teatro. Il talento necessario per questi due generi è alla portata quasi di tutti e di qualsivoglia formazione; a ogni età si può, con loro, guadagnarsi da vivere, gli abiti sono forniti dalla direzione e gli emolumenti sono sempre considerevoli. Gli studi per la Comédie-Française chiedono un’educazione accurata, numerose doti naturali, un’età analoga a quanto si deve sapere, provare e confrontare; gli abiti sono di un prezzo eccessivo e tutti a carico dell’attore; gli emolumenti mediocri all’inizio: si raggiunge la parte intera dopo un certo numero di anni o grazie a protezioni che a volte provengono da un genere che non si addice a tutti. Coloro i quali seguono la carriera teatrale sono nati di solito in famiglie bisognose, e ciò che rende di più e prima, e che appare più facile, deve essere quanto conviene in maggior misura. Solo dopo vent’anni di lavoro mi è stata accordata la pensione del re che ammonta a cento pistole, e fin dal primo momento del loro ingresso all’Opéra, ho visto dare a mademoiselle Allard e a mademoiselle Guimard273 delle pensioni del re di milleduecento libbre. Dopo ventidue

272 Molé e Préville parteciperanno ai primi tentativi di far funzionare una scuola d’arte drammatica. Nel maggio 1786 il duca di Duras riuscì nell’intento di creare la «Regia scuola di canto, di danza e di declamazione», vi insegneranno all’inizio anche Dugazon e Fleury: Talma sarà il loro primo allievo. 273 Marie Allard (1742-1802), aveva debuttato come prima ballerina, a Lione, era poi entrata nel corpo di ballo della Comédie-Française, per passare all’Opéra nel 1763 dove fu interprete acclamata fino al suo ritiro nel 1781. Marie-Madeleine Guimard (1743-1816), debuttò giovanissima alla Comédie, per passare poi al palcoscenico dell’Opéra. All’inizio sostituta di

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anni di servizio ho come unica ricompensa una pensione di mille libbre, e mademoiselle Heinel, in capo a quattordici anni di servizio si è ritirata con una pensione di ottomila franchi. Queste attrici avevano grande talento, lo ammetto, ma oso credere che molti dei miei compagni e io stessa potevamo pretendere almeno a una qualche uniformità: questo esempio porta a produrre più ballerini che attori. I teatri dei boulevards hanno viepiù accelerato il degrado dei talenti, la quantità di fanciulle, che partecipano a questi spettacoli e che si presentano in giovane età, rovinano la loro costituzione con impegni che superano le loro forze e, se devo credere a quanto si dice, con una cattiva condotta che le sfinisce e le invecchia già a vent’anni. Le opere oscene e triviali che sono rappresentate su questi palcoscenici allontanano di fatto dal contegno nobile e decente che il Théâtre-Français esige. Vengono rappresentate dappertutto farse, ma il pubblico le vuole con toni e contegni diversi, ne abbiamo avuto una prova inconfutabile. Non conosco l’attore di questi spettacoli delle fiere che si chiama Volange, ma il gran mondo parigino è unanime nell’elogiare la perfezione del suo talento alle Variétés- Amusantes;274 ha debuttato alla Comédie-Italienne dove le pièces e forse i talenti non possono essere paragonati a quelli della Comédie-Française e in tale ambito quel Volange così famoso non ha potuto sostenere il paragone con l’ultimo degli attori.275 Questi spettacoli non sono per nulla utili, distruggono il gusto, rovinano i costumi, denaturano persone che tramite lo studio dei nostri capolavori sarebbero potute diventare buoni interpreti. Il numero di coloro i quali decidono di apparire in pubblico è limitato come in qualsiasi situazione di vita e la facilità di trovare spazio in tutti questi teatri toglie ogni risorsa a quello che la sola vanità nazionale dovrebbe essere un obbligo sostenere. Non sta a me criticare il gusto del pubblico per questi luoghi, biasimare i magistrati che li hanno edificati e li aumentano ogni giorno; i gentiluomini che li hanno consentiti senza tener conto dell’autorità e dei diritti degli attori, ma mi permetto di affermare che finché esisteranno, non c’è sforzo o scuola che riporti il magnifico insieme di talenti che si ammiravano, un tempo, agli spettacoli della Nazione.276

mademoiselle Allard, divenne prima ballerina e ottenne vastissimi consensi. Si ritirò dalla scene nel 1789. 274 Sala di spettacolo inaugurata nel luglio 1778 sul boulevard du Temple, oggi distrutta. 275 Maurice-François Rochet, detto Volange (1756-1810) aveva debuttato nel 1778 nei teatri dei boulevards riscuotendo un gran successo nella pièce di Dorvigny Les Battus payent l’amende, tanto da tentare, ma senza esiti positivi, di prodursi sul più prestigioso palcoscenico della Comédie-Française. 276 La proliferazione delle sale di spettacolo è frutto della Rivoluzione che sanzionando la libertà di aprire nuovi teatri (legge decretata dall’Assemblea Nazionale il 13 gennaio 1791) ne diversifica i repertori e il pubblico; nel giro di poco tempo Parigi conta almeno trentotto teatri.

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La Comédie-Française ha solo quattro soggetti degni di essere citati,277 la Comédie-Italienne solo due.278 L’Opéra, checché si dica, ha solo ballerini. Come questo terribile impoverimento non suggerisce i mezzi di por rimedio a tutto ciò? E come si possono abbandonare Molière, Corneille, Racine e Voltaire per la famiglia di chi balla sulle punte! Il mezzo più sicuro per distruggere il merito è di proteggere la mediocrità. Non mi pento del severo giudizio dato precedentemente nel paragrafo sulla Fisicità.279 Se vanno applauditi i tentativi di zelo e di emulazione, si deve reprimere quanto viene intrapreso da una consuetudine presuntuosa, non si deve permettere all’attore di denaturare i testi che gli sono affidati, di cambiare le opinioni attestate, di deludere l’aspettativa dello spettatore. Un Ercole, per esempio, un Achille, un Filottete, un Oreste280 devono offrire a ogni istante con il loro portamento, la loro forza, la loro voce l’dea di un leone ruggente pronto a scagliarsi su quanto lo circonda. Che effetto può invece produrre l’aspetto e il grido lamentoso di una colomba! Pieno di spirito e di sensibilità l’attore che ho descritto mi era sempre sembrato degno di successo in tutte le parti che non richiedevano un fisico prestante; avrei dovuto rendergli prima questa giustizia, ma scrissi uscendo dalla rappresentazione di Ifphigénie en Tauride.281 Lo resi vittima del mio stupore, oso confessarlo oggi, era lui a non aver torto. In generale l’uomo è vanesio e pigro, se riceve i più grandi applausi, se sono accompagnati da grida d’entusiasmo, ha il diritto di credersi superiore a tutto e farebbe una follia se sacrificasse la sua quiete a studi che non gli vengono richiesti. L’attore che esordisce ha bisogno d’indulgenza. Io stessa l’ho ben riscontrato nel giorno del mio debutto: percepii tutte le bontà del pubblico nei primi tre atti di Fedra, ma al quarto, alla tirata dell’urna non ebbi neanche un applauso; se avessero fatto quello strepito, con il quale ho visto spesso scoraggiare i talenti nascenti, sarei scomparsa per sempre. Il silenzio mi sembrò un nuovo favore, mi dette l’idea di giustificarlo con le più grandi ricerche, i versi che proferivo erano troppo belli per non accorgermi che non li avevo resi al meglio poiché ci si negava il piacere di applaudirli, e se li avessero applauditi, la mia vanità si sarebbe attribuita il tutto. È dunque dal pubblico che dipendono i nostri talenti. È importante per il suo piacere non creare né protetti né vittime; il pubblico deve concedere al

277 Préville, Molé, Brizard, Larive. 278 Clerval e madame Dugazon. Caillot si è appena ritirato. 279 Il testo che va da qui fino alla fine del paragrafo, non figura nella prima edizione. 280 Si fa riferimento ai personaggi delle seguenti tragedie: Hercule au Mont Œta di Lefèvre (24 maggio 1787), Iphigénie en Aulide di Racine, Philoctète di La Harpe (16 giugno 1783), Iphigénie en Tauride di Guimond de La Touche (4 giugno 1757). 281 Una sorta di ammenda da parte di mademoiselle Clairon nei riguardi di Monvel di cui aveva duramente criticato il fisico poco adatto alla parte da lui interpretata.

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talento il tempo di svilupparsi e incoraggiarlo in rapporto alle aspettative che offre in avvenire e, se raggiunge lo scopo, accordare il premio meritato. Ho letto che se si costruisce senza fondamenta non si può che erigere un edificio illusorio. Senza regole, senza principi, senza una base essenziale, il capriccio e l’ignoranza degli attori farà sparire l’accordo dei suoni, il contrasto dei caratteri, la struttura di un’opera e le preziose ricerche degli autori sui luoghi, i tempi e le usanze. Senza studio aumenteranno i difetti, le bellezze si affievoliranno e non ci sarà mai la gloria di aggiungerne una. Oso desiderare che il pubblico abbia, per tutto ciò che il teatro può offrirgli, quel rigore silenzioso che, lungi dallo scoraggiare, esorta a far meglio. Ho visto il tonfo di molte opere che erano state ascoltate senza attenzione. Era tuttavia da presumere che non fossero prive di meriti, poiché gli attori osavano presentarle e i censori della polizia approvarle. D’altro canto sarebbe stato giusto schernire gli autori di Mélite, di Clitandre e della Thébaïde?282 Schiamazzi infamanti hanno forse scoraggiato un Corneille o un Racine? Eh! quale uomo in tutte le carriere votate all’onore, alle scienze, alle arti, al genio, all’ingegno, persino ai mestieri, quale uomo ha vinto alla prima prova? Ogni cosa richiede tempo, non concedendolo il pubblico distrugge da sé il piacere. Oso sperare che non mi si crederà così ardita da dettar legge, mi permetto soltanto di provare al pubblico la mia riconoscenza e il mio rispetto rivelandogli il desiderio segreto di tutti coloro i quali si adoperano per soddisfarlo.

Orosmane Mi ha sempre sorpreso che Lekain, così superiore nella parte di Orosmane, mi lasciasse insoddisfatta nel primo atto. Recitava bene, tuttavia non vedevo né sentivo nulla di quella sensibilità e di quella passione descritte in modo così vivace da Zaïre. Orosmane circondato da svariate categorie di schiavi del serraglio e rivedendo la sua amata solo per proferire un discorso preparato, mi mostrava un despota imponente al posto del tenero amante che mi aspettavo; ho letto e riletto quella tirata con la più scrupolosa attenzione;283 ho cercato, nei versi di sentimento e di passione che vi figurano e in tutto ciò che gli sguardi e le inflessioni possono avere di più toccante, di far dimenticare una certa ampollosità dei primi trentadue versi, non ho trovato nessun controsenso nel discorso e mi sono spazientita nel sentir parlare di imprese allorquando volevo che mi si parlasse d’amore. A forza di cercare, ho trovato una scena muta che potrà essere interessante. Orosmane entra circondato dal seguito che la sua grandiosità e la pompa teatrale esigono; desidero intravedere in lui quello che giovinezza e

282 Di Corneille sono la commedia Mélite (1629) e la tragedia Clitandre (1631-1632); di Racine la tragedia La Thébaïde, ou les Frères ennemis [La Tebaide o i fratelli nemici], (Théâtre du Palais- Royal, 20 giugno 1664). 283 Voltaire, Zaïre, atto I, scena 2, vv. 157-214.

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sensibilità permettono di amorevole alla sua dignità: che il suo sguardo cerchi Zaïre, che si capisca, dalla rispettosa voluttà del volto e dalla frequenza della respirazione, che scorge l’oggetto di cui è innamorato; che un movimento nobile e gentile allontani il seguito, che si avvicini a Zaïre, la prenda per mano e che con lo sguardo dell’amore e l’emozione di un sentimento profondo, ma controllato, cominci a informarla di quanto può renderlo del tutto felice. Questa breve scena recitata in modo nobile e rapido certamente non modificherebbe affatto le idee dell’autore e la dignità dei personaggi e accontenterebbe le persone emotive e impulsive.

Studio di Paolina, in Polyeucte284 Paolina è un personaggio di cui non esiste modello in natura, l’ho almeno cercato invano nella realtà e nella storia. Passioni e inclinazioni si alternano e s’incontrano quotidianamente e ovunque, ma due amori veri che esistono nel contempo, confessati a ciascuno dei due uomini che li ispirano e giustificati dal rispetto, la stima e la fiducia di entrambi, è una cosa inaudita in natura e difficilissima da rendere con la giusta decenza e verosimiglianza agli occhi dei più. Dopo aver studiato a fondo il carattere di questa parte, convinta che lo spettatore fin dalla prima occhiata segue e si presta con maggior facilità all’evoluzione causata da ogni parola, m’impegnai a concentrare su di me, per quanto possibile, la nobiltà, la dolcezza, la franchezza e la fermezza del personaggio. Feci quanto in mio potere per dare alle mie inflessioni e al mio incedere la commovente semplicità che caratterizza un’anima pura e sensibile. Padrona della mia fisionomia e delle mie azioni, questo studio non fu il più difficile, ma come fare per evitare la monotonia nel modo di esprimere i due amori? Come graduarli senza alterare la purezza del personaggio? Come evitare ogni minima idea di falsità da un lato e d’indecenza dall’altro? Mi sembrava impossibile cogliere il punto giusto. La prima passione, scaturita dalla sola esigenza del cuore, sostenuta dal fascino di una volontà libera alimentata dalla stima, dal timore e dal rimpianto, doveva avere logicamente una sfumatura di delicatezza e di sensibilità diversa dall’altra. L’imposizione del padre, la più assoluta rassegnazione a ogni azione virtuosa, persino l’illusione dei sensi non possono procedere di pari passo con un sentimento profondo; lo si contrasta, lo si forza a cedere i suoi diritti al dovere, ma finché esiste è di

284 Corneille, Polyeucte, tragédie chrétienne [Poliuto, tragedia cristiana], Théâtre de l’Hôtel de Bourgogne, inizio 1643. Corneille s’ispira alla tragedia italiana di Girolamo Bartolommei (1584-1662): Poliuto. Paolina, moglie di Poliuto, nobile armeno al quale è stata data in sposa dal padre Felice, governatore romano a Mitilene, è innamorata di Severo, cavaliere romano favorito dell’imperatore Decio. Questi, creduto morto, torna vittorioso dalla guerra contro i Parti. Durante il suo trionfo, Poliuto che si è convertito al cristianesimo distrugge l’ara pagana e accetta il martirio seguito da Paolina e da Felice.

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certo il più amorevole e il più forte. Immaginai che la differenza delle lacrime avrebbe potuto offrirmi la sfumatura che cercavo. Quelle che versavo per Severo scaturivano dal profondo dell’anima e mi scioglievo in un pianto irrefrenabile. Le lacrime per Poliuto stillavano dai miei occhi, mosse ora dalla pietà, ora dall’impazienza.285 Ben s’intuisce che la diversa provenienza delle lacrime modifica inevitabilmente il tono di voce, l’impossibilità o la facilità di movimento, ma per raggiungere lo scopo e non travalicarlo, bisogna incessantemente ricordarsi di questi quattro versi:

Concessi per dovere al suo affetto Quanto l’altro riceveva per passione.286

E benché esteriormente sia priva di emozione, Il mio animo non è che turbamento e ribellione.287

Profilo di Roxane in Bajazet Roxane è una di quelle bellezze infelici condannate, dalla miseria e dallo svilimento dell’ambiente, a desiderare la schiavitù, a vederla come unica via di ogni bene.288 Queste schiave destinate ai piaceri di un padrone che il cuore non sceglie e che spesso rifiuta; ignorando o superando le lotte scatenate dal pudore e dalla decenza prima di concedersi; osservate, trattenute nel serraglio da esseri orripilanti, crudeli, mutilati; sempre tremebonde sotto l’autorità più arbitraria; umiliate nel restare troppo a lungo nello stuolo delle schiave o temendo la ripulsa che potrebbe farvele ricadere, possono essere capaci di provare un sentimento gentile, libero, esclusivo? Possono avere l’idea di un vero amore? Non lo credo.

285 Con giusta ironia mademoiselle Dumesnil fa notare che lo spettatore, che già deve ricordarsi che Paolina ama contemporaneamente il suo antico innamorato e il marito, come potrebbe essere in grado anche di distinguere la differenza delle lacrime? «Ammettendo poi che avesse la vista abbastanza aguzza per operare una distinzione così trascendentale, come avrebbe potuto servirle d’indicatore per capire che il primo di questi due meccanismi lacrimatori riguardava l’amante e che il secondo riguardava il marito. Ciò trascende i limiti della comprensione del comune mortale», Mémoires Dumesnil, p. 172. 286 Paolina alla confidente Stratonice: «Je donnai par devoir à son affection / Tout ce que l’autre avait par inclination» (atto I, scena 2, vv. 215-216). 287 Paolina a Severo: «Et quoique le dehors soit sans émotion, / Le dedans n’est que trouble et que sédition» (atto II, scena 2, vv. 503-504). 288 Roxane, favorita del sultano di Bisanzio Amurat, che lontano per l’assedio di Babilonia le ha lasciato il potere, si innamora nel serraglio del di lui fratello Bajazet che, come ordinato da Amurat, dovrebbe far giustiziare. Il gran visir Acomat asseconda il loro amore per interesse personale. Ma quando Roxane si accorge che Bajazet non è disposto a sposarla, come da lei richiesto in cambio della vita, in quanto ama, riamato, la principessa ottomana Atalide, lo fa giustiziare. Lei stessa muore per mano dal messo del sultano al corrente dei suoi intrighi. Atalide si uccide.

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La vanità di vincere sulle rivali, l’ambizione di raggiungere il rango supremo, la necessità dell’intrigo per restarvi, quella di ammassare tesori per assicurarsi protezione, le esigenze dei loro sensi sono necessariamente i soli sentimenti, le sole passioni di cui possono aver idea e promettersi il godimento. La donna, condannata a vivere in un eterno dispotismo, deve per forza contrarre l’abitudine al timore, alla dissimulazione e persino alla menzogna e tutto ciò che corrompe l’anima conduce più facilmente alla ferocia piuttosto che alla tenerezza. Il carattere di Roxane è per lo meno presentato su questo modello: è di continuo ingrata, altera, crudele, ambiziosa. Parimenti incapace di rimorso e di sentimenti d’umanità, quando l’amore ha preceduto i vizi può ancora rimanere vivo con essi per qualche tempo, ma non credo che possa nascere in un cuore già viziato. Gl’intrighi del visir e la speranza di ascendere al rango che Amurat le rifiuta, sono gli unici motivi che la inducono a incontrare Bajazet. La vista di un uomo più giovane, più bello, più interessante del suo benefattore e padrone, suscita un fermento nei suoi sensi che scambia per amore, ma tutto ciò che fa e che dice prova solo un’illusione voluttuosa e momentanea. La vanità ferita e l’ambizione tradita sono le uniche cagioni delle lacrime, l’assillo di grandezza riempie ogni facoltà del suo animo. La minaccia è di continuo sulle sue labbra, con ponderatezza prepara la morte di Bajazet, come una cosa semplice e giusta gli propone di essere l’autore e il testimone dell’assassinio di Atalide; senza conflitti né rimorsi Roxane abbandona l’amante alla morte che l’attende e con la più ripugnante arroganza contempla ai suoi piedi la nipote dell’imperatore e osa dirle

Lungi dal separarvi, affermo oggi Di unirvi a lui con legami eterni: Presto godrete della sua piacevole vista.289

Pesate bene tutte queste parole, pensate che Bajazet è morto e giudicate voi stessi se un’anima così atroce per pronunciarle con tranquillità possa essere suscettibile d’amore. Sono sicura che Bajazet le piacesse più di Amurat, ma un’attrazione non è un sentimento. L’attrattiva pruriginosa dei sensi o il sensibile desiderio dell’anima sono cose ben diverse. Guardatevi quindi da qualsiasi espressione patetica, l’aria del desiderio, subordinata alla più rigorosa decenza, è l’unica nota di sensibilità che si debba scorgere nel vostro sguardo. Che i vostri toni duri e dispotici negli ordini dati e nelle minacce proferite, mi confermino che siete circondata

289 Racine, Bajazet: «Loin de vous séparer, je prétends aujourd’hui / Par des nœuds éternels vous unir avec lui: / Vous jouirez bientôt de son aimable vue» (atto V, scena 6, vv. 1623- 1625).

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unicamente da schiavi sviliti e tremebondi. Conservando nel vostro sembiante la nobiltà richiesta dal teatro e di cui qualsiasi essere, qual che sia il suo stato, porta la traccia sul volto e il sentimento nel cuore, aggiungetevi di tanto in tanto quel sussiego smisurato di cui si vedono tanti esempi in società; mostrandomi infine nei tre quarti della parte una sovrana crudele e nata sul trono, lasciatemi la possibilità di ritrovare, nel resto, la schiava insolente che abusa di un istante di potere dovuto solo alla sua bellezza.290

Sulle tragedie di Manlius e di Venise sauvée Non esiste parte a teatro che possa fare a meno di uno studio approfondito. Più si trovano rassomiglianze in questo o quel carattere, in questa o quella azione, più ci si deve sforzare di individuarne le diverse sfumature. Abbiamo per esempio lo stesso argomento in Manlius e Venise sauvée.291 Nei nomi, a parte i versi, si tratta della stessa azione, degli stessi personaggi, della stessa passione; ma nel Manlio la scena si svolge a Roma nell’anno 371 della fondazione, l’altra a Venezia nel 1618 della nostra era. Cercate nella storia il genius loci e quello del tempo, riflettete sull’entità della dignità dei personaggi, sottoponete ogni vostra idea all’opinione comune degli uomini di allora, vi accorgerete così che è impossibile avere in entrambe le tragedie identico tono, contegno e spirito.

Su Cornelia, nella Mort de Pompée Secondo l’opinione del pubblico la parte di Cornelia è fra le più belle a teatro. Dovendo recitare in quella parte ho fatto tutti gli studi di cui ero capace: nessuno mi è riuscito. La modulazione che volevo impostare pensando al personaggio storico, non corrispondeva affatto a quello teatrale: tanto il primo mi sembrava nobile, semplice, commovente, quanto l’altro gigantesco, declamatorio e freddo. Mi guardai bene dal pensare che il pubblico e Corneille avessero torto, la mia vanità non era arrivata a tanto, ma per non comprometterla, promisi di tacere e di non impersonare mai Cornelia. Dopo che ho lasciato le scene sono stati pubblicati i Commentaires sur Corneille e la voce Esprit nelle Questions encyclopédiques di Voltaire,

290 Mademoiselle Dumesnil riconosce che la Clairon interpretava quella parte i cui moventi sono l’orgoglio, l’ambizione, il desiderio, la gelosia, la rabbia con «la più grande superiorità ed è impossibile ricordarsi, senza rabbrividire, della perfezione con cui recitava il monologo del IV atto (scena 4, vv. 1209-1250) e come nella scena 5 del quinto ascoltava l’ultima battuta di Bajazet (vv. 1548-1564) (era il massimo dell’arte) e come rispondeva con una sola terribile parola ‘Uscite’», Mémoires Dumesnil, p. 176. 291 Tragedie rispettivamente di A. de la Fosse (1653 c.-1708), Manlius capitolinus [Manlio capitolino] (18 gennaio 1698) e di P.-A. de La Place (1707-1793), Venise sauvée [Venezia salvata], argomento tratto dalla tragedia di Thomas Otway: Venice preserv’d, or a Plot discover’d, pubblicata nel 1682. Nella tragedia di La Place mademoiselle Clairon ha creato la parte di Belvidera.

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leggetele: se mi sono sbagliata, l’esempio di un così gran letterato mi consolerà.292

Fedra La parte di Fedra è uno dei più bei ruoli a teatro, non ne esiste una scritta meglio e quindi più facile da apprendere e da ricordare.293 Non esige ricerca alcuna né di luogo né di costume, è la donna appassionata di ogni terra e di ogni tempo. Ha tradito la sorella, è sposa, madre, regina: è facile dare alla sua età e alla sua esperienza l’accordo di tono e di contegno voluti. Ogni essere sensibile, qualsiasi carattere irruento può facilmente trovare nel proprio intimo, nelle letture, in ciò che avviene ogni giorno sotto i suoi occhi i mezzi per esprimere una grande passione e Racine ha segnato, atto dopo atto, le gradualità che deve avere. Seguite l’autore esattamente nella sua progressione, cercate di coglierla, guardatevi dal superarla: tutto ciò che vi richiede è di aggiungere alla vostra intelligenza, la fisionomia mobile, la voce autorevole e sensibile di cui la parte non può fare a meno. Fedra è tormentata da rimorsi veri e continui, ne sono prova l’esposizione del primo atto e la sua morte al quinto. La virtù potrebbe vincere la passione se questa non fosse prodotta che dal normale turbamento dei sensi e dell’immaginazione, ma l’infelice Fedra subisce, amando, il potere di Venere. Una forza superiore la trascina di continuo a fare e a dire quello che anche di continuo la sua virtù riprova. In tutta l’estensione della parte, questo conflitto deve essere sensibile agli occhi e alla mente degli spettatori. Mi ero prefissa, per quanto attiene ai rimorsi, una dizione semplice, toni nobili e sensibili, molte lacrime, una fisionomia sinceramente addolorata e, per quanto attiene all’amore, una sorta di ebbrezza, di delirio proprio di una sonnambula che conserva nelle braccia del sonno il ricordo della passione che la consuma da sveglia. Presi quest’idea nei versi seguenti:

Dei! Perché non sono seduta all’ombra delle foreste! Quando potrei, attraverso una nobile polvere, Seguire con lo sguardo un carro che fugge sulla strada?

292 Voltaire, Commentaires sur Corneille, cit.; le Remarques sur Pompée, figurano nel vol. XXXI, pp. 419-480. Cornelia entra in scena alla fine del III atto solo per deplorare la morte di Pompeo «ma tale è la bellezza della parte che quasi da sola sostiene la dignità della pièce» (p. 455). Eppure in alcune battute Voltaire non può fare a meno di notare affettazione, ostentazione, verbosità, declamazione ampollosa. Questions encyclopédiques: probabilmente mademoiselle Clairon fa riferimento alla voce Spirito del Dictionnaire philosophique (1a ed. 1764). 293 Anche per mademoiselle Dumesnil si tratta di una parte bellissima, ma nel contempo molto difficile; ella annota, per quanto concerne l’interpretazione della sua rivale, che si sentiva il lavoro dell’attrice, lavoro certo degno d’ammirazione, anche se non arrivava a interessare, nello smarrimento di Fedra, quanto la Dumesnil: «la Clairon metteva in atto ogni sua risorsa con una finezza e un’intelligenza indescrivibili, l’amore incestuoso per Ippolito divampava in ogni suo sguardo», Mémoires Dumesnil, pp. 177-178.

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[…] Insensata. Dove sono e cosa ho detto? Dove ho smarrito i miei giuramenti e il mio spirito? L’ho perso. Gli dei me ne hanno tolto l’uso.294

Nella scena del secondo atto con Ippolito, dicevo la prima battuta a voce bassa, tremante e senza alzare lo sguardo. Nel momento in cui mi raggiungeva il suono della sua voce, si vedeva in tutto il mio corpo un caldo fremito che a volte è procurato dalla reminescenza nelle anime veramente sensibili. La seconda battuta, invece presentava un’emozione diversa: le parole erano inframmezzate dai palpiti del cuore e non dal timore. Alla terza, un’occhiata esaltata e al momento stesso raffrenata mostrava il conflitto che si sprigionava nel mio animo. Alla quarta il conflitto era ancora più sensibile, ma prevaleva l’amore. Alla quinta dominava da solo e nel mio smarrimento avevo mantenuto unicamente l’abitudine della nobiltà e della decenza. Il delirio del secondo atto è causato dalla rivolta dei sensi, quello del quarto dalla disperazione e dal terrore. Mettete nel primo quanto lo sguardo, il tono di voce e i gesti possono avere di seducente, di gentile, di carezzevole, serbate per l’altro l’impeto più forte. La tirata che termina quella scena mi ha sempre creato grande perplessità, nessuno dei miei tentativi era soddisfacente.295 Sia che sessanta versi appassionati senza aver quasi il tempo di riprendere fiato, trascendano le forze umane, sia che il riepilogo dei rimpianti, dei rimorsi e delle vendette degli dei ne ostacoli (con un’espressione necessariamente meno viva) la gradazione e che l’eccesso di passione, in presenza del soggetto una volta avvenuta la confessione, siano richiesti per terminare la scena. Sia che, per quanto stupendi siano quei versi, il conflitto appaia in effetti troppo lungo; sia infine che fosse al di sopra del mio intendimento dare a questa raffigurazione dell’amore e del rimorso la giusta tinta che li rappresentasse entrambi e congiuntamente al loro apice. Questa tirata è sempre stata per me di una difficoltà insormontabile e devo confessare che recitando e facendo del mio meglio, sono restata ben al di sotto dell’autore e della mia idea: ma concepire alla lettura ed eseguire sono cose ben differenti. Restano ancora da fare molte altre considerazioni su questa parte. Ho le idee confuse su parecchie indicazioni importanti, ma non oso rimettermi unicamente alla memoria che mi lascia solo in modo indistinto le idee essenziali: non sono più in condizione di condurre ricerche approfondite e

294 Racine, Phèdre, battuta di Fedra a Enone: «Dieux! Que ne suis-je assise à l’ombre des forêts! / Quand pourrais-je, au travers d’une noble poussière, / Suivre de l’œil un char fuyant dans la carrière? / […] Insensée! où suis-je? et qu’ai-je dit? / Où laissé-je égarer mes vœux et mon esprit? / Je l’a perdu: les dieux m’en ont ravi l’usage» (atto I, scena 3, vv. 176- 181). 295 Racine, Phèdre, atto IV, scena 6, vv. 1253-1294.

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avrei timore di sbagliarmi su dettagli che non mi sono più perfettamente presenti.

Bianca, in Blanche et Guiscard296 Non conosco parte che mi sia stata più piacevole da recitare quanto quella di Bianca: non necessitava di alcuna ricerca di tempo, di luogo, di dignità.297 Un amore sbocciato nella sicurezza dell’infanzia, rafforzato dall’esigenza dello spirito e dalla fiducia dell’abitudine, il sentimento del rispetto e dell’obbedienza dovuto all’autore dei suoi giorni, riportano l’animo sensibile alla purezza della natura in modo così armonioso e così facile che basta che l’attrice abbia un po’ d’intuito per recitare la parte in modo soddisfacente. Tutti i grandi personaggi dell’antichità c’impongono il dovere di dimenticarci di noi stessi: solo con i più grandi sforzi e gli studi più approfonditi possiamo arrivare a tratteggiare quelle diverse passioni che, partendo tutte da uno stesso punto e ritornandovi sempre, chiedono una varietà continua nelle inflessioni, nel volto, nel contegno senza mai permettere che il fondo del carattere sia alterato come, per esempio, lo richiede il personaggio di Fedra nella sua passione, nella sua virtù, nella sua gelosia e nei suoi rimorsi: ha soprattutto quattro moti di vergogna e tutti richiedono sfumature diverse. Nel primo atto la confessione a Enone del suo amore, nel secondo quello di essere andata troppo in là con Ippolito, nel terzo di rivelarsi al marito e di avere come testimone l’insensibile che legge nel suo cuore e la disprezza, nel quarto quello che la induce al crimine e la confessione che sarà forzata di fare agli Inferi.298 Nessuno di questi moti può avere un tono identico: la fisionomia, la voce tutto deve essere diverso. Il primo è di una donna virtuosa che muore per non venir meno al dovere e che cede all’opportunità; il secondo deve rendere la persistenza dello smarrimento e l’angoscia per ciò che le si risponderà. Il terzo è unicamente di turbamento e di rimorsi: benché abbia detto a Enone Fai ciò che vorrai bisogna guardarsi dal credere che ella abbia avvertito l’importanza di questo assentimento, non sarebbe più lo stesso

296 Tragedia di Bernard-Joseph Saurin (1706-1781), Blanche et Guiscard, tragédie imitée de l’anglois de Tomson [Bianca e Guiscardo, tragedia imitata dall’inglese di Tomson] (26 settembre 1763), che s’ispira a un episodio del Gil Blas di Lesage, Le Mariage par vengeance [Il matrimonio per vendetta]. 297 Parte da lei creata. Nell’Avertissement per la pubblicazione del testo della tragedia, Saurin scrive: «Sarebbe auspicabile, per quelli che mi leggeranno e per me stesso, che si potesse stampare con la pièce la recitazione inimitabile di mademoiselle Clairon: non è mai stata più ammirevole e mi vanto di confessare che i miei deboli talenti devono molto alla sublimità dei suoi», (A Paris, de l’Imprimerie de Sebastien Jorry, MDCCLXIV). Di Saurin, l’attrice aveva già interpretato, per la prima volta, la parte di Arthésis nella tragedia Aménophis (12 novembre 1750). 298 Racine, Phèdre, rispettivamente: atto I, scena 3, vv. 260-264; atto II, scena 5, vv. 634-662; atto III, scena 4, vv. 914-920; atto IV, scena 5, vv. 1193-1213 e scena 6, vv. 1275-1294.

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carattere.299 Non va perso di vista che Fedra è virtuosa per principio e criminale per la sola volontà degli dei, ne è la prova la sua vergogna al quarto atto e questa vergogna deve raffigurare, nel modo più terribile e più straziante, il suo terrore, i suoi rimorsi e la sua virtù. Che lavoro! Oso affermare che il superamento delle difficoltà che questa parte presenta a ogni verso travalica le forze umane, quali che siano stati i miei sforzi, le mie meditazioni, le mie ricerche, oso solo sperare di aver forse fatto qualche errore in meno delle altre. Nell’interpretare Bianca mi credevo sempre nel mio ambiente: la mia fisionomia e le mie inflessioni si ricollegavano senza arte e senza studio a tutta la sensibilità del mio animo: nata sensibile e ingenua, dovevo conoscere il timore, i sospetti, i dispiaceri dell’amore. Nell’interpretare Bianca restavo sempre me stessa:300 è l’unica parte che non abbia comportato studi devastanti. Ma se l’attrice che l’impersona non si ricorda più la purezza della gioventù, se l’amore non è l’unico desiderio del suo cuore, dovrà fare un gran lavoro. Un talento mediocre cerca gli espedienti negli scoppi di voce, in una notevole agitazione, in grandi trasporti, non ci vuole niente di tutto ciò nelle passioni delicate: con arte si possono ottenere i sentimenti esagerati, ma l’arte non semplifica; solo alla natura vanno richieste le sfumature del candore, il tono spontaneo delle prime sensazioni di una giovinezza pura, la commovente e nobile semplicità che scaturisce unicamente dall’animo. L’arte non sa dipingere che in grande, se si frena l’audacia del tocco e se si attenuano i colori non si ottengono che quadri manierati. Monsieur Saurin, autore di Blanche, di Spartacus, dei Mœurs, di Beverley e di molte altre opere interessanti, era sensato nei suoi scritti, i suoi costumi erano puri, la sua compagnia piacevole, vivace, sincera, la sua condotta e la sua rettitudine lo rendevano caro agli amici e sicuro per tutti.301 Mi sovvengo, con un ricordo piacevolissimo al mio cuore e alla mia vanità l’incanto della sua compagnia e dell’amicizia che aveva per me. I quattro principali personaggi di Bianca erano interpretati da Lekain, da Molé, da Brizard e da me. La benevolenza consueta del pubblico, i nostri

299 Racine, Phèdre, atto III, ultima battuta della scena 3: «Fais ce que tu voudras», v. 911. 300 «Come siete modesta! restavate sempre voi stessa! e cioè la creatura più dolce, più ingenua, più candida, più interessante, più perfetta che il buono, onesto, sensibile, virtuoso Saurin aveva descritto secondo il suo cuore. Va riconosciuto che non scegliete male le vostre rassomiglianze. […] Leggete la parte di Bianca (voi dite) e avrete la giusta idea della mia sensibilità, della mia estrema dolcezza, della mia indole esemplare, del mio animo e di ogni perfezione dei miei principi morali. Lutero e voi, cittadina Hyppolite, siete gli unici scrittori che abbiano mai osato lodarsi con così tanto cinismo», Mémoires Dumesnil, p. 186. 301 Bernard Joseph Saurin (1706-1781), amico di Helvétius, di Voltaire e di Saint Lambert, fu autore di tragedie e commedie che s’ispirano all’esotismo, all’antichità classica (Spartacus, 20 febbraio 1760) e soprattutto alla letteratura inglese (Beverley, 7 maggio 1768, tratto dalla tragedia di George Lillo: The London merchant, or the History of George Barnwell). Il successo di Spartacus e di Les Mœurs du temps [I costumi del tempo] (1 atto in prosa, 22 dicembre 1761) ne favorirono l’elezione all’Académie française (1761).

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sforzi per giustificarla e l’interesse presentato dalla tragedia, non ci lasciavano dubitare del successo: facevamo affidamento soprattutto sul favore delle donne. Ci sembravano di una riuscita indefettibile le passioni delicate e pure suggerite dalla loro educazione proporzionata alla sensibilità del loro essere, dettata dal loro dovere di spose e di madri e così consolatorie per la ragione che s’illumina e la bellezza che s’inscena. La nostra speranza andò delusa, le donne ci abbandonarono seguite dallo sciame dei giovani, restarono come spettatori solo pochi uomini pentiti dei loro errori e stanchi del frastuono della società. Malgrado il merito dell’autore e il nostro talento, il testo ebbe un mediocre successo. Il desiderio di acquisire nuove indicazioni tali da arricchire il mio talento, l’abitudine di volermi render conto di tutto, mi portò a cercare il perché di una defezione che non mi spiegavo. Mi fu detto: l’amore, la purezza, i doveri non sono più per noi che vecchie chimere il cui solo nome disturba i nostri nuovi costumi.

Su monsieur de La Touche e sulla sua tragedia d’Iphigénie en Tauride Monsieur Guimond de La Touche, autore d’Ifigenia in Tauride, era un mio intimo amico, mai penserò alla sua perdita senza provare i più tristi rimpianti, ma per quanto possa costarmi, voglio e devo parlare della sua tragedia e tentare, facendolo conoscere qual era, d’interessare coloro che lo amavano e di far ricredere chi lo ha criticato.302 Nato da genitori di rango e molto pii, dopo aver seguito tutti gli studi, monsieur de La Touche, all’età di quattordici anni, entrò nella società dei gesuiti. Compenetrato dal desiderio di praticare la religione e di studiare a fondo ciò che la origina e ciò che la favorisce, s’impose di non uscir mai dal convento, di condurre la vita più solitaria e di dedicarsi interamente allo studio della teologia e della storia. Dopo quattordici anni di ricerche, osò ammettere che i suoi dubbi aumentavano giorno dopo giorno, si stancò del suo stato e lo lasciò. Assorbito dalla serietà delle sue riflessioni, lontano da qualsiasi tentazione, i suoi sensi erano restati nella pace più felice, non aveva nessuna idea della società in cui rientrava: i nostri costumi, le nostre maniere lo stupivano e nel contempo lo intimidivano, il disagio dei suoi modi nei nuovi abiti, la riserva, il timore e il pudore cui era assuefatto lasciavano credere, a chi non lo conosceva, che fosse, al massimo, un uomo molto mediocre, ma la sua scrupolosa rettitudine, la sua franchezza, l’ingenuità e la semplicità nell’esprimersi, la profondità delle sue conoscenze ne facevano la persona più interessante per chi lo frequentava abitualmente e ne otteneva l’amicizia. I suoi primi momenti di libertà furono consacrati agli spettacoli di cui sentiva parlare di continuo senza potersi fare un’idea del loro effetto.

302 Claude Guimond de La Touche (1723-1760), autore di poesie e di un Mars au berceau [Marte nella culla] (1750), scomparso giovane dall’agone letterario.

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La tragedia lo entusiasmò, la mia recitazione gli piacque, scrisse la sua Ifigenia con incredibile rapidità. La marchesa di Graffigny, presso la quale dimorava, mi fece conoscere l’autore e la sua opera.303 La modestia di monsieur de La Touche per gli elogi e la sua docilità per le correzioni, costituiscono un oggetto di paragone per me piuttosto inusitato. Presentai la sua tragedia agli attori che, colpiti nel trovare così tanta bellezza in un’opera d’esordio, l’accettarono senza richiedere correzioni. Tuttavia il giorno stesso della prima rappresentazione della pièce, alla prova che ne facemmo al mattino, trovammo così tanti difetti nel quinto atto che decidemmo di chiedere all’autore di cambiare la catastrofe, di più di cento versi, promettendogli di restare insieme e d’imparare quanto avrebbe fatto. Era quasi l’una, l’atto fu riscritto per intero, appreso e provato; il sipario si alzò alle cinque e mezzo e la pièce ottenne un enorme successo.304 Quello sforzo richiedeva certo lo zelo, la memoria e l’intelligenza degli attori di quel tempo.305 Ma quale doveva essere il merito di un uomo che redige un piano e duecento nuovi versi in solo due ore, circondato da venti persone che scrivevano sotto dettatura, senza nessuna conoscenza né del teatro né del pubblico che lo avrebbe giudicato! La ragione mi ordinava di diffidare del mio debole intelletto e dell’entusiasmo ispirato dall’amicizia, ma, senza pronunciarmi su cosa monsieur de La Touche sarebbe potuto diventare un giorno, mi sia permesso di credere che lo studio di Corneille, di Racine e di Voltaire avrebbe ordinato le sue idee, formato il suo stile, sviluppato il genio che gli era naturale e che alla fine sarebbe stato degno di figurare al seguito di quei tre grandi uomini. La sua morte, tanto improvvisa quanto insolita, ci ha privati della seconda tragedia che stava scrivendo. Me ne aveva raccontato l’argomento, ma non avendo fiducia in se stesso si era imposto di comunicare l’opera agli amici solo quando l’avesse creduta del tutto terminata e di rimettersi alla loro approvazione o alla loro critica per continuare o per lasciare quella carriera. Quest’opera è stata rubata e non è mai stata ritrovata, ci resta la sola Ifigenia. Non mi permetterei mai di nasconderne i difetti e di metterne in luce le bellezze, mi limito a guidare le mie compagne negli ardui percorsi dei diversi personaggi da me interpretati. Quello d’Ifigenia mi offre poche osservazioni da fare, è uguale dal primo all’ultimo verso, alla persona intelligente basta leggere la pièce con attenzione per non smarrirsi e per non apparire monotona se la nobiltà della fisionomia e la varietà delle intonazioni non offrissero gradualmente scene più vivaci ed emozionanti.

303 Françoise d’Issembourg d’Happoncourt (1695-1758), autrice di romanzi e di due testi teatrali, riscosse un grande successo con le sue Lettres d’une Péruvienne [Lettere di una Peruviana], (pubblicate anonime nella prima edizione del 1747). 304 La parte di Ifigenia fu da lei creata (4 giugno 1757). 305 Gli attori erano per altro adusi a tale pratica, basti pensare a Voltaire che correggeva, aggiungeva, modificava fino all’ultimo le sue pièces, come una sorta di palinsesto i cui esiti erano infiniti e persino quando la tragedia era già in scena.

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Siate a conoscenza delle vostre forze, delle vostre risorse, risparmiatele in modo avveduto, distribuitele con intelligenza e fatele giungere alla fine senza rallentarvi in corso d’opera, diversificate i due generi di lacrime che dovete spargere, quelle che versate per la continuità delle vostre disgrazie devono scorrere con amarezza e in modo straziante, quelle per la pietà devono essere contenute e sommesse. Mentre vengono tolte le catene ai prigionieri, nel secondo atto, avanzate dal fondo del palco, fermatevi con dignità e compassione sull’allineamento di Pilade che è il primo, osservatelo senza alcun eccesso di dolore, avvicinatevi poi per guardare Oreste e che dalla vostra occhiata io possa sincerarmi che il suo aspetto vi sorprende e vi turba, prendete il tempo necessario per esaminarlo e senza perderlo di vista, articolate poi a voce bassa, trepidante: Che fattezze e quale contegno…306 Nella stessa scena, quando volete interrogare Oreste, e Pilade si affretta a rispondere per lui, guardatelo con aria autorevole mista a dolcezza e con un gesto nobile e condiscendente, ordinategli di tacere e di allontanarsi. Che tutte le domande sulla vostra famiglia siano poste con la massima semplicità. Non lasciate trapelare della vostra gioia e del vostro dolore che quanto la forza della natura strappa, vostro malgrado, al segreto che volete serbare; più vi sarete sforzata di trattenere le lacrime, più queste saranno commoventi quando le lascerete scorrere. Tutte queste inezie sono di somma importanza. Non mi sono mai permessa di sottovalutare una circostanza o una parola. Non tutto va detto per provocare un effetto sensibile, ma tutto deve avere un qualche valore. Nel corso della pièce Ifigenia presenta un carattere gentile, sensibile, umano; malgrado l’eccesso delle sue disgrazie non osa permettersi che le lagnanze più misurate. Solo al quinto atto, dicendo:

Ma con quale diritto ora la tua rabbia mi dà ordini?307 e in tutto il resto della scena bisogna che riunisca la fierezza dei suoi nobili natali, l’imponenza di un sacro mistero, quanto la virtù deve ispirare d’audacia e di coraggio. Avevo richiesto di non essere rimpiazzata in questa parte finché avessi continuato a recitare, l’amicizia mi faceva temere gl’inevitabili errori dell’inesperienza, io stessa l’interpretavo solo dopo nuove ricerche. Il desiderio di possedere un grande talento mi tormentava ancor più per questa parte che per tutte le altre. Mi sono decisa, dopo il mio pensionamento, di andarla ad ascoltare da due attrici diverse. L’una

306 «Quels traits et quel maintien…». 307 Guimond de La Touche, Ifigenia, atto V, scena 6: «Mais de quel droit ici me commande ta rage?», battuta di Ifigenia a Thoas che le chiede di vendicare con la morte il tradimento di Oreste.

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pervasa di decenza, nobile, bella è lungi dalla sensibilità che desideravo;308 l’altra abbastanza graziosa, ma priva di carattere e smorfiosa all’eccesso,309 mi ha tanto più indignata per l’indecenza dei suoi gesti e la triviale familiarità del suo eloquio quando ha per natura accenti toccanti che potrebbero far piangere. Mi ero persuasa che si voleva assistere a una tragedia solo per elevarsi al di sopra di se stessi, per ricevere dai grandi personaggi dell’antichità gli esempi più eccelsi di nobiltà, di decenza, di coraggio, di grandezza d’animo e che sarebbe orribile mostrare una modesta sartina a chi si aspetta di vedere una grande regina. Se volete dimostrarmi del talento, innalzatevi fino al personaggio che interpretate; facendolo abbassare fino a voi date solo prova della vostra ignoranza.

Le due Elettre Non credo offendere nessuna di quelle che seguono la mia stessa carriera, nel supporre che avranno altrettanti difetti, ignoranza e amor proprio quanti ne avevo in gioventù. Gli applausi accordati alle aspettative che davo per il futuro, i versi che ricevevo da ogni dove, le adulazioni degli spasimanti che riempiono i foyers dei teatri, l’esagerazione degli sciocchi e la gelosia delle mie compagne mi lasciarono credere che fossi la più grande interprete mai vista. Quando mi si facevano i nomi della Lecouvreur e di mademoiselle Deseine,310 provavo quella stizza che la maggior parte di quelle che sono a me subentrate hanno sentito quando mi si nominava. Così vanno le cose, ma presto o tardi bisogna imparare a conoscersi, ci si deve correggere e più prolunghiamo gli errori su di noi, più ci allontaniamo dalla verità che, per aver talento, va cercata, scoperta e seguita. Nel proporre i miei principi per il teatro, mi si perdonerà forse di presentare il mio esempio sul pericolo di troppa vanità. Mademoiselle Lecouvreur non c’era più, non potevo giudicarla. Mademoiselle Deseine, ritirata dal teatro da dieci anni, seguiva puntualmente i miei esordi e il plauso che ricevetti soprattutto nella parte di Elettra che si diceva fosse stato il suo trionfo, finirono per farmi girare la testa.

308 Françoise Marie Rosette Gourgaud, detta madame Vestris (1743-1804), entra alla Comédie-Française nel 1769, giudicata intelligente ma poco sensibile, riprenderà le parti appartenute a mademoiselle Clairon. 309 Marie Blanche Alziari de Roquefort, detta mademoiselle Sainval cadette (o Saint-Val) 1752-1836, debutta alla Comédie-Française nel 1772 e interpreterà soprattutto le grandi parti tragiche. 310 Catherine, Marie Jeanne Dupré, detta mademoiselle Deseine (1705-1767) debutta nel 1724 e viene subito ammessa come sociétaire, nel 1726 sposa l’attore Quinault Dufresne. Malgrado i successi, si ritira dalle scene nel 1736 per ragioni di salute.

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Smossi cielo e terra per conoscerla e per ottenere che accettasse di declamarmi dei versi, un comune amico riuscì a farmi avere entrambe le cose. Quando entrò nella stanza in cui mi trovavo, non vidi che una donna già invecchiata che non lasciava presagire l’imponenza che temevo di scoprire: mal pettinata, miseramente abbigliata, con un’aria di grande noncuranza; il suono della voce e le poche cose pronunciate mi avrebbero lasciato credere, se non l’avessi vista, di sentire una bambina caparbia e fiera. Esultavo. Il suo rifiuto di dire qualche verso in mia presenza mi sembrò una sorta di confessione della sua inadeguatezza quanto della mia superiorità. Alla fine acconsentì a recitare la scena di Elettra del terzo atto e elaborai a mente un breve complimento ben costruito, giusto e falso che non potevo esimermi dal farle…, ma l’aria di distinzione assunta nell’alzarsi, nel sistemare le seggiole per crearsi una sorta di palcoscenico e di quinte, la trasformazione che vidi in tutto il suo essere via via che si avvicinava il momento di parlare, mi cambiarono anche ogni idea; la mia vanità svanì del tutto e sentii già qualche lacrima sgorgare dai miei occhi e quando lei parlò, gli accenti della disperazione, il dolore profondo del viso, l’abbandono nobile e vero di tutto il suo essere vennero a sommarsi nel mio animo per penetrami, illuminarmi e trascinarmi ai suoi piedi, là, per punirmi della mia irriverente presunzione e correggermene per sempre, ne feci la confessione. L’emulazione è per noi necessaria, se mancasse non faremmo progressi, ma guardiamoci dagli errori di vanità. Parliamo ora delle due Elettre rappresentate a teatro. Si tratta dello stesso personaggio: entrambe sono nell’identica posizione e la mancanza d’istruzione può lasciar credere che si possano e che si debbano recitare indifferentemente. Quando studiai quella di Crébillon, sapevo appena chi fosse Agamennone, la sua famiglia e le sue sventure;311 la storia e Sofocle mi erano in ugual modo sconosciuti, non vidi in quella parte che una principessa afflitta dalla morte del padre che desidera la distruzione dei suoi assassini. Mi sembrò che quei sentimenti fossero facili da rendere, si trovano in ogni cuore onesto: ama, anche questo è semplice; invero la sua scelta mi sembrava un po’ meschina, tuttavia nulla mi sorprese, né mi bloccò e il pubblico approvò che recitassi la pièce così

311 È una delle opere che porta in scena al suo debutto alla Comédie-Française (26 settembre 1743). L’Électre di Prosper Jolyot de Crébillon (1674-1762) era stata rappresentata per la prima volta il 14 dicembre 1708, tragedia volutamente edulcorata con l’introduzione di una storia d’amore tra Elettra e Iti, figlio di Egisto. Crébillon aveva così cercato di allontanarsi dalla crudeltà della sua pièce precedente, Atrée et Thyeste [Atreo e Tieste] (14 marzo 1707), che aveva scioccato il pubblico. Nel «Mercure de France» dell’ottobre 1743 si legge, a proposito della rappresentazione del suo debutto che l’attrice «interpretò la parte principale con un plauso generale» (p. 2281). A distanza di sette anni torna dunque sul personaggio, con maggior consapevolezza e approfondimento emotivo.

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com’era fatta. Ma, dopo qualche anno di lavoro e di riflessione volli dare a questa parte il carattere nazionale e i tratti riservati al personaggio, non seppi più cosa pensare: quei sentimenti d’amore e di vendetta mi presentarono dei risultati impossibili da conciliare. Amando il figlio del suo persecutore, il figlio dell’assassino di Agamennone, abbandonandosi a una passione che non poteva esser giustificata da nessun eroismo e da nessuna speranza di vendetta, Elettra mi apparve come un personaggio mancato, sminuito, una mescolanza di oro e di fango; era al di sopra delle mie forze farne un insieme tollerabile. Ci rinunciai e assecondando il testo fui alternativamente una grande principessa e una donnicciola per cui lasciai che mi sostituissero in questa parte tanto quanto volevano e l’abbandonai per sempre quando apparve l’Elettra di Voltaire.312 Ah, che bella parte, questa! com’è introdotta, si sviluppa, si afferma! che grande carattere! che bella unità! Se mi avessero obbligata a non recitarne più che una sola su tutti i palcoscenici, avrei scelto questa. Lungi da me togliere a molte altre il tributo di ammirazione che meritano e negare il piacere infinito nel recitarle, ma il mio gusto della ricerca per l’antichità, la volontà che mi ero imposta di trasportare tutti i miei personaggi nel tempo e nei luoghi da cui provenivano, mi arrecava spesso molta fatica, malgrado i miei sforzi ce ne sono molti che ho dovuto lasciare al mio secolo e alla Francia: non c’è nulla da dissimulare, nulla da aggiungere, il solo lavoro che esige è di innalzare la propria anima e il proprio genio fino a lui. Chiunque voi siate, voi che detenete questa parte, studiatevi, osservatevi, non aggiungetevi nulla di vostro, qualsiasi essere comune le è inferiore; sacrificatele le vostre abitudini, i vostri affetti personali, dimenticate che siete bella, guardatevi dal cercare di sembrarlo; mettete nella vostra acconciatura solo l’arte che può dimostrarmi che vedo la bella natura senz’arte, che nessun fronzolo, nessun drappeggio elegante o artificioso

312 Il titolo della tragedia di Voltaire è Oreste (12 gennaio 1750); mademoiselle Clairon ha creato la parte di Elettra e mademoiselle Dumesnil quella di Clitennestra. In una lettera del 12 gennaio 1750 Voltaire le scrive: «Siete stata stupenda, avete mostrato in venti passaggi cosa sia la perfezione dell’arte». Le consiglia tuttavia che a volte sarebbe meglio, per movimentare il tono, «velocizza[re], senza declamare», recitare alcuni versi in tono rapido e uniforme per mettere in evidenza, per contrasto, i punti più significativi, Correspondance, vol. III, p. 153 (v. in Allegati l’intera lettera di Voltaire). A distanza di tempo, Voltaire tornerà a congratularsi con lei per l’interpretazione di Elettra e a ribadire le sue teorie drammaturgiche: «Avete restituito all’Europa il teatro d’Atene. Avete fatto vedere che si può portare il terrore e la pietà nell’animo dei Francesi senza il soccorso di un amore irriverente e di una galanteria d’alcova. […] Introdurre nella tragedia di Sofocle un intrigo d’amanti raggelati [come aveva fatto Crébillon] è una sciocchezza che tutte le persone avvedute d’Europa ci rimproverano. Qualsiasi amore che non sia una passione furiosa e tragica deve essere bandito dalle scene. […] Avete riformato la declamazione, è ora di riformare la tragedia e di purgarla dagli amori insulsi così come il palcoscenico è stato purgato dai ‘petits-maîtres’», Correspondance, 7 agosto 1761, vol. VI, p. 502.

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venga ad alterare la nobile e struggente miseria di cui dovete offrirmi l’immagine. Elettra ha più di trent’anni, da quindici è prostrata dalla disgrazia e dal dolore, voglio leggere sul vostro volto la drammaticità dei mali che durano da così tanto tempo, voglio ravvisare la traccia delle lacrime che le sono costate.313 Non dimenticate che a lungo andare la fonte delle lacrime si esaurisce, il loro profluvio attesta la disgrazia recente e con gradazione impercettibile si deve rappresentare la distanza fra il momento attuale e il passato. Nei primi due atti Elettra non deve mai piangere, ciò che dice suggerisce che vorrebbe, che avrebbe bisogno di piangere, ma quel sollievo calmerebbe l’impulsività del suo carattere e di conseguenza lo indebolirebbe. Per riuscire a imperlare solo le palpebre, a far sgorgare di tanto in tanto una lacrima dagli occhi, associavo, ad accenti di continuo dolenti, una contrazione dello stomaco che mi faceva tremare i nervi, una sorta di soffocamento, una gola che ostacolava le parole, la respirazione trattenuta e spezzata rivelava l’agitazione dell’animo. Tutti questi mezzi sono per noi devastanti quanto utili per il nostro talento; lo so, lo sento, ma qual che sia il risultato, quale sarebbe il valore della vita se dovesse trascorrere senza gloria? La scena dell’urna esige un torrente di lacrime: è una nuova sciagura e la conclusione di tutte, rompe ogni barriera, ma fatele scorrere dal profondo dell’anima e che senza grida né sforzi, siano il più possibile strazianti. Al quarto atto quando dice:

La mia sorte non è forse soggetta al vostro destino?314 compenetratevi, in modo graduale, di quelle lacrime tenere e consolatorie quali quelle strappate a volte da un amore puro e fiducioso. Ricordatevi soprattutto che la vera grandezza ha per base la semplicità, che un grande carattere, grandi progetti, grandi disgrazie richiedono il massimo accordo nella fisionomia, nelle inflessioni, nell’andatura e nei

313 La tragedia viene riproposta l’8 luglio 1761: il «Mercure de France» dedica un lungo articolo allo spettacolo, sottolineando quanto la parte di Elettra sia stata recitata da mademoiselle Clairon in modo superiore rispetto al 1750. Il critico quasi si schermisce: «È così imbarazzante dover rendere conto dei nuovi prodigi di questa attrice: ogni volta che ella recita una nuova parte o che ne riprende una precedente, il vero finisce per non essere più verosimile. […] Ella ha stupito in questa parte con tratti di un sublime e di una forza di verità che sono apparsi del tutto nuovi. Il carattere e la passione inestinguibile di Elettra essendo un furore di fuoco contro il tiranno, ne consegue un desiderio sfrenato di vendetta; è inimmaginabile quanto l’arte di questa attrice inimitabile vi abbia infuso sfumature tutte più sorprendenti le une delle altre. Da un unico sentimento ha trovato il meraviglioso segreto di far nascere ogni sorta di emozioni tali da rapire l’animo dello spettatore» (luglio 1761, pp. 188-189). 314 Voltaire, Oreste, atto IV, scena 6: «Mon sort, à vos destins, n’est-il pas asservi?», battuta di Elettra a Oreste.

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movimenti, e, al pari di me, senza mai vantarvi di raggiungere la perfezione, fate almeno l’impossibile per avvicinarvici.

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Allegati

Lettere di Voltaire a mademoiselle Clairon relative alla rappresentazione di Oreste315

Sera del 12 gennaio [1750]316 Siete stata meravigliosa, avete mostrato in venti passaggi cosa sia la perfezione dell’arte e la parte di Elettra è certamente il vostro trionfo; ma sono padre e, nel sommo piacere che provo per i complimenti che tutto un pubblico ammirato presenta a mia figlia, le farò alcuni brevi rilievi che vanno scusati all’affetto paterno. Velocizzate, senza declamare, alcuni passi come:

Senza turbamento né rimorsi, Egisto reitera Lo sfarzo criminale del suo orribile imene… Vi sbagliavate, sorella mia, ahimè! tutto ci tradisce.317

Non potete immaginare quanto tale accorgimento renda la recitazione più varia e accresca l’interesse. Nella vostra imprecazione contro il tiranno:

L’innocente deve morire, il crimine è troppo favorevole,318 non insistete abbastanza. Dite «l’innocente deve morire» in modo troppo lento, troppo struggente. L’impetuosa Elettra deve provare, a questo punto, solo una disperazione furibonda, violenta e tangibile. Nell’ultimo emistichio insistete su cri, le CRIme est trop heureux; è su CRI che ci vuole intensità. Mademoiselle Gaussin mi ha ringraziato per averle indicato di far cadere l’accento su FOU: la foudre va partir.319 Ah! come questo FOU è giusto, mi disse!

La natura è sempre funesta in questi luoghi.320

Avete messo l’accento su FU (funeste), come mademoiselle Gaussin su FOU; per questo hanno applaudito, ma non avete ancora fatto risuonare abbastanza questa corda.

315 La tragedia Oreste, andata in scena il 12 gennaio 1750, fu sospesa per una settimana e ripresa il 19, vi furono sette rappresentazioni; la tragedia fu ritirata il 7 febbraio. 316 Correspondance, cit., vol. III, pp. 153-154. 317 «Sans trouble, sans remords, Égisthe renouvelle / De son hymen affreux la pompe criminelle… / Vous vous trompiez, ma sœur, hélas! tout nous trahit», atto I, scena 2, passaggio poi omesso nella stesura definitiva. 318 «L’innocent doit périr, le crime est trop heureux», verso poi omesso. 319 «Il fulmine sta per colpire». 320 «La nature en tout temps est funeste en ces lieux», atto V, scena 2.

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Non potete rendere in modo troppo pacato i due brani del IV e del V atto. Le Eumenidi richiedono una voce più che umana, scoppi terribili. Ancora una volta lasciatevi andare, sopprimete i dettagli per non essere uniforme nei racconti dolorosi. Non si deve trascurare nulla e quello che vi dico ora non è un nulla. Ecco molte critiche. Bisogna essere veramente rigorosi per accorgersi di questi dettagli nella dismisura della mia ammirazione e della mia riconoscenza. Buonasera, Melpomene, state bene.

[Verso il 15 gennaio 1750]321 Il vostro coraggio resiste all’assalto scatenato ora dalla natura, come ha resistito alle critiche negative, ai complotti e alla fatica? Come state, bella Elettra? […] Chiedete che si accorci la scena delle due sorelle del secondo atto; è fatto senza che vi costi nulla. Ho tagliato le gonnelle d’Iphise, ma non ho toccato la gonna di Elettra. Prego la divina Elettra, di cui mi confesso indegno, di non aversela a male se ho arricchito la sua parte con qualche consiglio. Non ho preteso commentare la parte, ma solo indicare i diversi sentimenti che devono prevalere e le sfumature dei sentimenti che vanno espresse. Si tratta dell’allegro e del piano dei musicisti. Me ne avvalgo così da trent’anni con tutti gli attori che non l’hanno trovato sbagliato e non ho certo minor considerazione per i suoi grandi talenti di cui sono sempre stato il più zelante sostenitore.

[Verso il 15 gennaio 1750]322 Si è un po’ forzata la natura per meritare le bontà di mademoiselle Clairon, ed è una cosa giusta. Troverà parecchi cambiamenti nella sua parte. È stato fatto peraltro un quinto atto del tutto nuovo, è stato copiato e portato sui testi. Si supplica mademoiselle Clairon di farsi trovare domani al foyer. Sarà il sostegno di Oreste, se Oreste può essere convincente. Madame Denis le porge i più teneri complimenti e Voltaire è ai suoi piedi. Le chiede perdono in ginocchio per le insolenze di cui ha gravato la sua parte . È così docile che pensa che talenti superiori ai suoi non disdegneranno a loro volta le osservazioni che gli sono state carpite dalla sua ammirazione per mademoiselle Clairon. È meno attaccato alla sua propria gloria (se di gloria si può parlare) che a quella di mademoiselle Clairon. In generale sono convinto che se la pièce può aver successo presso i Francesi, per quanto greca, la vostra parte vi procurerà un onore infinito e obbligherà la corte a rendervi la giustizia che meritate. Il maresciallo di Richelieu dice che avete recitato in modo straordinario e che mai attrice gli ha suscitato una più grande impressione, ma trova anche che vi avete

321 Correspondance, cit., vol. III, p. 155. 322 Ivi, pp. 156-157.

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messo un po’ troppo adagio. Non bisogna andare a spron battuto, ma la tirata richiede di essere un po’ velocizzata, è un punto essenziale. Ve ne sono due che esigono un tipo di declamazione che appartiene solo a voi e che nessuna attrice saprebbe imitare. Queste due strofe richiedono che la voce si estenda in modo maestoso e terribile, alzandosi gradualmente, col finire in esplosioni che provocano nell’animo l’orrore. Il primo è quello delle Furie: «Venite Eumenidi»; 323 il secondo:

Cosa fanno tutti questi amici di cui Pammène si vantava?324

In questi due brani tutto il sublime della declamazione; i passaggi che fate in modo così stupefacente negli altri, dalla disperazione del dolore al furore della vendetta; qui l’eloquio, là i sentimenti inframmezzati di curiosità, di speranza, di paura; i rimproveri, i singhiozzi, lo scoramento della disperazione e quella disperazione persino a volte tenera, a volte terribile. Ecco quanto mettete nella vostra parte, ma vi chiedo soprattutto di non rallentarla mai, poggiando troppo su un’intonazione certamente più solenne, ma che allora smette di essere commovente, segreto sicuro per asciugare le lacrime. Per la ragione contraria si piange tanto a Merope. Per una volta, ecco la mia ultima parola, ma non sarà l’ultima delle mie azioni di grazia.

[Verso il 20 gennaio 1750]325 Avete dovuto ricevere, Mademoiselle, un piccolo cambiamento, ma che è importantissimo. Non credo di sbagliarmi; vedo che tutti i vari letterati riconoscono valore a quest’opera così come si riconoscono i vostri talenti. Grazie a un esame continuo e rigoroso di me stesso, a una massima accondiscendenza a saggi consigli, riesco ogni giorno a rendere la pièce meno indegna delle attrattive che le prodigate. Se avete un quarto della docilità di cui mi glorio, aggiungereste straordinarie perfezioni a quelle con cui arricchite la vostra parte. Direste a voi stessa l’effetto prodigioso che provocano i contrasti, le inflessioni di voce, i passaggi dall’eloquio rapido alla declamazione dolorosa, i silenzi dopo la velocità, il cupo sconforto che si esprime a voce fioca dopo le esplosioni suscitate dalla speranza e dall’impeto d’ira. Avreste l’aria abbattuta, costernata, le braccia pendenti, il capo leggermente chino, la voce bassa, spenta, rotta. Quando Iphise vi dice:

Pammène ci scongiura Di non avvicinare il suo oscuro rifugio;

323 «Euménides, venez», atto IV, scena 4. 324 «Que font tous ces amis dont se vantait Pammène?», atto V, scena 6. 325 Correspondance, cit., vol. III, pp. 158-159.

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È in pericolo la sua vita…326 le rispondereste, non con un tono naturale, ma con tutti quei sintomi di sconforto dopo un dolorosissimo ah:

Ah!… cosa mi avete detto? Vi siete sbagliata…327

Rispettando questi piccoli artifici dell’arte, parlando a volte senza declamare, sfumando così i bei colori che proiettate sul personaggio di Elettra, arriverete a quella perfezione a cui aspirate e che deve costituire lo scopo di un animo nobile e sensibile. Il mio si sente fatto per ammirarvi e per consigliarvi; ma se volete essere perfetta, considerate che nessuno lo è mai stato senza dar retta ai consigli e che si deve essere duttili nella misura del proprio grande talento.

Lettera di Voltaire a mademoiselle Clairon da Ferney, 23 luglio [1765]328 Se avessi potuto, Mademoiselle, ricevere la vostra risposta prima di avervi scritto la mia epistola, essa sarebbe ben migliore. Perché ho dimenticato la lode che vi è dovuta, di aver insegnato le costumanze ai Francesi. Ho il gran torto di aver omesso questo punto nel novero dei vostri talenti. Ve ne domando scusa e vi prometto che questo peccato di omissione sarà corretto. Abbiate riguardo per la vostra salute che è ancora più preziosa della perfezione della vostra arte. Avrei desiderato che avreste trascorso qualche mese presso Esculapio Tronchin. Penso che vi avrebbe messa in condizione di arricchire la scena francese alla quale siete così necessaria. Quando si porta l’arte così in alto come voi, diventa rispettabile persino per quelli che hanno la barbara volgarità di condannarla. Non proferisco mai il vostro nome, non leggo un passo di Corneille o una pièce di Racine senza un violento sdegno contro i furfanti e contro i fanatici che hanno l’insolenza di proscrivere un’arte che dovrebbero almeno studiare per meritare, se è possibile, di essere ascoltati quando osano parlare. È da quasi sessant’anni che questa infame superstizione mi mette in collera. Quegli animali non capiscono quale interesse ci sia a far insorgere contro di loro chi sa pensare, parlare e scrivere e a metterli nella condizione di essere trattati come l’ultimo degli uomini. La detestabile contraddizione di noi Francesi presso i quali si condanna ciò che si ammira, deve dispiacervi quanto dispiace a me e suscitare in voi violente avversioni. Piacesse a Dio che foste abbastanza ricca da lasciare il palcoscenico di Parigi e recitare a casa vostra con i vostri amici, come facciamo in un cantuccio del mondo dove ci burliamo delle

326 «Pammène nous conjure / De ne point approcher de sa retraite obscure; / Il y va de ses jours…», atto II, scena 7. 327 «Ah!… que m’avez-vous dit? / Vous vous êtes trompée…», atto II, scena 7. 328 Correspondance, cit., vol. VIII, pp. 140-141.

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scemenze e degli sciocchi! Sono fermamente deciso di non allontanarmene. Il mio unico desiderio è che Tronchin sia il solo essere al mondo a potervi guarire e che siate costretta a venire da noi. Addio, Mademoiselle, siate felice quanto meritate di esserlo. Sappiate che vi ammiro tanto quanto disprezzo i nemici della ragione e delle arti e che vi amo tanto quanto li detesto. Conservatemi le vostre bontà. Conosco quanto valete.

Jean-François Marmontel, Mémoires329 Era da tempo che ero in totale disaccordo con mademoiselle Clairon sul modo di declamare i versi tragici. Trovavo nella sua recitazione troppo fervore, troppo furore, non abbastanza duttilità e varietà e soprattutto una forza che non essendo moderata dipendeva più da un impeto d’ira che dalla sensibilità. Cercavo con discrezione di farglielo capire. «Avete, le dicevo, tutti i mezzi per eccellere nella vostra arte e per quanto grande attrice voi siate, vi sarebbe facile ancora elevarvi al di sopra di voi stessa, risparmiando viepiù i mezzi che prodigate. Mi obiettate i vostri strepitosi successi e quelli che mi avete procurato, mi opponete l’opinione e le approvazioni dei vostri amici, mi opponete l’autorità di Voltaire: lui stesso recita i suoi versi con enfasi e pretende che i versi tragici richiedano nella declamazione la stessa pompa dello stile. Io non ho da opporvi che un sentimento imperioso che mi dice che la declamazione, come lo stile, può essere nobile, maestosa, tragica con semplicità; che l’espressione per essere viva e profondamente intensa richiede gradazione, sfumature, tratti imprevisti e repentini che non può avere quando è tesa e forzata». A volte mi rispondeva spazientita che non l’avrei lasciata tranquilla fin quando non avesse assunto il tono familiare e comico nella tragedia. «Eh, no, Mademoiselle, le dicevo, mai l’avrete, la natura ve lo ha impedito; non l’avete neanche nel momento in cui mi parlate; il suono della vostra voce, l’espressione del vostro volto, la vostra pronuncia, il vostro gesto, i vostri atteggiamenti sono naturalmente nobili. Osate unicamente affidarvi al bello naturale; oso garantirvi che sarete ancora più tragica». Prevalsero consigli diversi dai miei e, stanco di rendermi inutilmente importuno, avevo desistito, quando vidi l’attrice tornare improvvisamente da sola alla mia idea. Aveva appena recitato Roxane nel piccolo teatro di Versailles. Andai a trovarla nel camerino e per la prima volta la trovai vestita da sultana, senza ‘panier’, le braccia mezze nude e nella verità del costume orientale; mi complimentai con lei. «Sarete contento di me, mi rispose. Ho appena fatto un viaggio a Bordeaux, vi ho trovato una sala molto piccola e ho dovuto adattarmici. Mi è venuto in mente di contenere la mia recitazione e di provare quella declamazione semplice che mi avete tanto richiesta. Ho avuto il più grande successo. Ne farò un tentativo

329 Mémoires, ed. cit., pp. 152-154.

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ancora qui su questo piccolo palcoscenico. Andate a sentirmi, se riesce nello stesso modo, addio all’antica declamazione». L’evento superò la sua e la mia attesa. Non fu più l’attrice, fu Roxane stessa che credei vedere e ascoltare. La sorpresa, l’illusione, il rapimento furono estremi. Ci si chiedeva: «Ma dove siamo?». Non si era ascoltato nulla di simile. La vidi dopo lo spettacolo, volli parlarle del successo appena ottenuto. «E non vedete, mi rispose, che mi rovina? Bisogna che il costume sia rispettato; la verità della declamazione è legata a quella dell’abbigliamento; tutto il mio ricco guardaroba teatrale è da adesso rinnovato; perdo circa diecimila scudi di abiti, ma il sacrificio è compiuto: tra otto giorni mi vedrete recitare qui Elettra al naturale, così come ho recitato Roxane». Si trattava dell’Elettra di Crébillon. Invece del ridicolo ‘panier’ e dell’ampio vestito a lutto che indossava in quella parte, apparve in un semplice costume da schiava, scarmigliata, le braccia appesantite da lunghe catene. Fu stupenda, e qualche tempo dopo fu ancora più sublime nell’Elettra di Voltaire. Quella parte, che Voltaire le aveva fatto declamare con una lamentazione continua e monotona, parlata più naturalmente raggiunse una bellezza a lei sconosciuta poiché, nel sentirla recitare nel suo teatro di Ferney dove lei andò a trovarlo, esclamò, bagnato di lacrime, e trasportato d’ammirazione: «Non sono io che ho fatto questo, è lei; lei ha creato la parte». E in effetti per le infinite sfumature che aveva immaginato, per l’espressione impressa alle passioni di cui la parte è pervasa, era forse quella fra tutte in cui era più straordinaria. Parigi così come Versailles riconobbero in questi cambiamenti il vero accento tragico e il nuovo grado di verosimiglianza che il costume ben rispettato dava all’azione teatrale. Così da allora tutti gli attori furono costretti ad abbandonare quei ‘tonnelets’, quei guanti con le frange, quelle parrucche voluminose, quei cappelli piumati e tutto quell’armamentario stravagante che da così tanto tempo offendeva la vista delle persone di gusto. Lo stesso Lekain seguì l’esempio di mademoiselle Clairon e da quel momento i loro talenti affinati furono in emulazioni e degni rivali l’uno dell’altra.

«Le Publiciste», 21 termidoro anno VI [6 agosto 1798]330 È stata appena stampata a Zurigo un’opera che deve, per un duplice aspetto, stuzzicare la curiosità dei Francesi che amano la letteratura e le arti. È una traduzione in tedesco di un manoscritto inedito della celebre attrice Clairon. Eccone il titolo: Hypolite Clairon Betrachtungen [sic] über sich Selbst, & c.; che significa Réflexions d’Hyppolite Clairon sur elle-même et sur l’art Dramatique. Primo vol., Zurigo, presso Orell, Fussli & comp., anno VI. La cittadina Clairon non è solo una grande attrice, ma anche una donna di spirito e di uno spirito molto colto. Ha vissuto nel gran mondo e accanto ai

330 Rubrica «Belle Arti». Al Redattore de «Le Publiciste», pp. 3-4.

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letterati, ha meritato di avere amici fra gli uomini più insigni; ha continuamente messo nella sua condotta una dignità e un disinteresse che hanno fatto onore al suo carattere e dato un buon esempio alle persone della sua condizione. I particolari della sua vita privata non possono essere senza interesse: le sue osservazioni sull’arte da lei esercitata con così grande superiorità saranno certamente preziose per coloro che amano i progressi del teatro e utilissime agli artisti che, iniziando la sua stessa carriera, potranno approfittarne per il perfezionamento dei loro talenti. Sotto quest’aspetto, il libro che vi annuncio presenta un grande interesse. Ma com’è che una siffatta opera esce in tedesco prima di un’edizione francese? L’autrice vive ancora e vicino Parigi. Non è senza la sua partecipazione che le sue memorie sono pubblicate in una lingua straniera. Non se ne può dubitare leggendo la prefazione del traduttore. Perché la cittadina Clairon non ha preferito pubblicarle personalmente nel loro aspetto naturale? Per quanto tradotta con esattezza, un’opera del genere non può mancare di perdere il suo effetto passando nell’idioma di una nazione presso la quale la tragedia, non avendo raggiunto lo stesso grado o per lo meno lo stesso genere di perfezione, l’arte di rappresentarla non può essere suscettibile delle stesse sfumature e non può essere analizzata secondo gli stessi principi. D’altronde gli esempi forniti a sostegno dei principi non possono essere resi sensibili quanto lo sono nella lingua originale. Questa particolarità può dunque suscitare anche la curiosità degli appassionati di teatro. Potrebbero supporre che la celebre attrice, troppo colpita dallo stato di degrado in cui vede precipitare per una rapida china l’arte che è stata l’occupazione e la gloria della sua vita, non crede più i suoi concittadini degni di apprezzare il frutto delle sue riflessioni e della sua esperienza. Non ci fermeremo su questa idea troppo ingiusta e troppo insultante per i nostri concittadini. Ma come la cittadina Clairon può pensare che degli stranieri siano più degni di noi di ascoltare le sue lezioni? Spetta agli amici dell’attrice di risolvere questo dilemma. Ho sotto gli occhi il testo tedesco, è stampato con molta cura. Vi si trovano all’inizio un ritratto della cittadina Clairon, molto ben inciso e di grande somiglianza, benché il tratto del profilo sia un po’ esagerato. Non voglio giudicare in merito alla traduzione. Ma da uomo d’ingegno e di buon gusto che ha familiarità con entrambe le lingue, posso assicurare che è elegante e fedele. Questo primo volume non contiene che i dettagli relativi alla vita e alla persona dell’attrice. Il secondo deve contenere le osservazioni sull’arte teatrale. Non conosco l’insieme di queste osservazioni, ma ne ho sentito leggere alcuni frammenti dall’autrice stessa molti anni fa e oso affermare che non si è scritto nulla di così essenziale, di così brillante e di così

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profondo sull’insieme delle doti naturali necessarie per ben recitare nella tragedia e sugli studi indispensabili per perfezionare i più felici doni della natura. Ma non è solo agli attori che quest’opera offrirà importanti e utili lezioni; più d’uno dei nostri poeti tragici potrebbe imparare a capire Corneille e Racine. Vi invierò alcuni estratti del primo volume se pensate che questi argomenti si addicono al tono del vostro giornale. Ma in attesa, vi voglio render conto di un’avventura straordinaria raccontata in una lettera che termina il volume e i cui particolari non possono mancare d’interessare la maggioranza dei vostri lettori, in un momento in cui le storie di spettri riempiono con così grande successo i romanzi inglesi e francesi e conquistano già irresistibilmente i nostri teatri. I romanzi di mistress Radcliffe non presentano nulla di più sorprendente e di più terribile del racconto della cittadina Clairon. Lo riassumerò perché è troppo lungo per il vostro foglio, ma senza omettere nessuna circostanza importante.331

«Journal de Paris», n° 56, 26 brumaio anno VII [16 novembre 1798]332 «Miscellanea». Sulle Memorie d’Hyppolite Clairon. Il nome d’Hyppolite Clairon evoca i nobili piaceri e il seducente lustro che caratterizzarono i bei giorni del secolo dei Lumi e della filosofia, di questo grande secolo che è il nostro e che finisce. Ricorda la perfezione dell’arte drammatica, le seduzioni del teatro e la gloria delle lettere. S’associa al ricordo di Voltaire che lo celebrò così spesso con riconoscenza, a quello di Corneille e di Racine le cui opere in quel tempo declamate e oggi urlate, incontrarono solo all’epoca in cui visse mademoiselle Clairon un grande insieme di talenti degni di esse. Il suo nome citato da Diderot nei discorsi sulla poesia drammatica, citato nell’Encyclopédie tra i modelli di tutti i generi che vi sono indicati, si collega anche al ricordo della corrente che infonde nelle menti il sentimento della dignità umana e che si risvegliò quarant’anni fa in Francia, assecondato con forza a teatro dagli autori drammatici e anche dagli attori, con l’accento instillato a un gran numero di versi vividi di libertà, che fino ad allora si erano sparsi e perduti nella folla.

331 Il riassunto molto fedele figura nelle pp. 3 e 4 de «Le Publiciste» del 23 termidoro dal titolo: Fenomeno. Estratto del racconto della cittadina Clairon annunciato nel foglio dell’altro ieri. Termina con questo breve commento: «Da parte mia non anticiperò, con riflessioni personali su questo strano racconto, le impressioni diverse che potrà suscitare sulla sensibilità dei vostri lettori». 332 L’articolo (pp. 235-238) a firma R., è di Pierre-Louis Rœderer (1754-1835) condirettore con Olivier de Corancez (1734-1810) del quotidiano fondato nel gennaio 1777. Si omettono i passaggi che sono o testuali citazioni o mero riassunto delle Memorie di mademoiselle Clairon.

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Non ci si può soffermare a pensare a questa celebre attrice senza provare la curiosità di apprendere il segreto del suo talento e i particolari della sua vita, di cogliere ciò che la distingueva a teatro dalle altre attrici, di cogliere ciò che la distingueva nella vita privata dalle altre donne, di conoscere le sue opinioni sulle diverse parti dell’arte del teatro e sul modo in cui quest’arte viene oggi esercitata. Si spera di trovare nelle tradizioni del suo talento, nei suoi giudizi sugli altri e su se stessa, nelle opinioni su quanto riguarda il teatro, la rinascita del primo dei pubblici piaceri che appartengono a una nazione civilizzata. S’intuisce che s’incontreranno nella sua esistenza privata quei segni che accertano l’alta dignità dei grandi talenti e l’inscindibile unione della nobiltà di carattere con la raffinatezza di spirito. Questo lo stato d’animo in cui ci troviamo nel metter mano al libro che annunciamo al pubblico; tale è anche, osiamo pensarlo, dei nostri lettori nel leggere quest’annuncio. Vediamo se lo scritto che ne è l’oggetto vi risponde. Vi si possono distinguere due parti: l’una è la storia della persona, l’altra la tradizione dell’attrice: di conseguenza la prima appartiene alla morale, la seconda all’arte drammatica. Nella parte che concerne l’arte, l’autrice rende conto delle circostanze che hanno fatto sbocciare il suo talento e degli studi che l’hanno formato. […] [Malgrado] il successo prodigioso alla Comédie-Française, non si accontentò degli applausi del parterre, il vero talento ha bisogno di sentirsi sicuro nel suo percorso e nella sua crescita; H. Clairon volle conoscere il segreto dei successi che doveva al suo solo istinto e iniziò seri studi che per vent’anni ne alimentarono e ne sostennero il talento sulla scena francese. Non è superfluo presentare il quadro delle conoscenze che giudicò opportuno acquisire e dei motivi che la decisero per ognuna. La danza le sembrò necessaria per disporre il corpo ai movimenti della scena, il disegno per indicare gli atteggiamenti giusti, il canto per abituare la voce alle inflessioni e alle varie modulazioni richieste dalle parti e dalle situazioni diverse, la lingua per garantire la comprensione dell’espressione e la pronuncia delle parole, la versificazione per imparare a rispettare l’armonia del verso, la geografia, la mitologia e soprattutto la storia per far conoscere gli usi dei paesi e i costumi dei personaggi rappresentati a teatro. H. Clairon non si limitò a questi studi, si dedicò a quello delle grandi passioni, per coglierne il carattere e caratterizzarne le sfumature. […] Fece di più, si consacrò alla penosa analisi dei grandi dolori per meglio compenetrarsi: bella lezione per tutti gli pseudo talenti che pretendono non riconoscere nessuna altra regola se non il loro istinto, che temono indebolirsi col comprendere e accusano d’insensibilità le persone che osservano i fenomeni dell’emozionalità come se si potessero osservare altrimenti che su se stessi e analizzare i sentimenti senza averli provati.

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Ripetiamo dunque, per l’interesse di più di un’arte e l’onore di più di un talento, che H. Clairon studiava i grandi dolori dell’animo per meglio penetrarsene per farli suoi o piuttosto, come dice, per abbandonarvisi interamente e affidar loro tutta la sua esistenza. Le lacrime che spargeva sul palco erano il risultato delle sue ricerche profonde sulle sventure dei personaggi; aveva veramente tratto dai suoi studi il triste vantaggio di rendersi, come afferma, l’essere più miserabile della terra: fu quello il suo fondamentale segreto per trovarsi sempre all’altezza delle parti interpretate. Si comprende quanto un talento come il suo, consolidato da tali studi, fosse sicuro nella sua progressione. Quindi H. Clairon sempre forte del sentimento delle sue parti e dei propri mezzi espressivi, osò liberarsi dall’intralcio delle tradizioni e prendere come modello i personaggi che doveva rappresentare piuttosto che copiare le attrici che avevano cercato di copiarle prima di lei. […] H. Clairon si è dedicata a perfezionare il suo talento non solo attraverso gli studi, ma anche nella pratica quotidiana. Si è imposta l’obbligo della dignità nella vita privata per averne la facilità e la naturalezza a teatro. […] Il modo in cui si dichiarò il talento di H. Clairon, i mezzi tramite i quali si perfezionò, costituiscono nuove prove di questa verità: che il talento è un dono di natura e che la perfezione è premio dello studio, della riflessione e dei buoni costumi. È utile ripetere questa verità per allontanare dalla carriera i soggetti senza talento e preservare i talenti dalla vergogna di fallire. È utile ripeterla per evitare all’arte l’inutile apparato delle scuole, il lungo codazzo dei professori; le scuole, i professori sostituiscono per i giovani la vocazione, attirano e rendono orgogliosa la mediocrità, vincolano o soffocano il talento. Tutti i maestri del mondo non darebbero intelligenza all’automa, sensibilità al marmo e il talento non ha bisogno di altro risveglio per manifestarsi se non lo spettacolo stesso, di altra scuola per svilupparsi se non i teatri di provincia e di altri maestri se non quelli le cui lezioni formano educazioni meticolose e illuminano spiriti colti. È in un triste bugigattolo, in una specie di prigione dove la povertà e la durezza della madre relegavano H. Clairon, insomma è dalla finestra che ha ricevuto la scintilla che le ha infiammato l’anima e fatto esplodere la vocazione. È in un’oscura bottega che Lekain fu parimenti colpito dal bisogno di catapultarsi sulla scena tragica. È nella cultura del loro spirito, a volte tramite il lavoro solitario, a volte tramite le relazioni con i letterati che entrambi trovarono gli ammaestramenti di cui poteva nutrirsi il loro talento. […] Quando si considerano le conoscenze che la rappresentazione di una tragedia esige e quanto tutte queste conoscenze possono aggiungere alla migliore pièce, si è in dubbio se la distanza che separa il grande attore dal poeta è considerevole quanto la differenza della loro considerazione.

186 Hyppolite Clairon, Memorie e riflessioni sulla declamazione teatrale

Supponiamo che dopo aver letto le riflessioni di H. Clairon su Monime, Ermione e Roxane potessimo vedere quelle parti rappresentate da lei, annotassimo con esattezza e con uno stile appropriato all’azione la recitazione dell’attrice, che unificassimo poi le sue riflessioni generali con la rappresentazione della pantomima e con le tragedie alle quali ogni cosa appartiene, che avremmo fatto con questo lavoro? Delle tre pièces avremmo fatto tre poemi. Private un poema di ogni dettaglio di luogo, di tempo, di presenze, di movimenti per non lasciar sussistere che i discorsi, affidando la rappresentazione del resto all’attore e al decoratore, di quel poema fate un’opera teatrale; infine aggiungete a un’opera teatrale la descrizione esatta di quanto il decoratore e l’attore sono incaricati di rappresentare, ne fate un poema: l’attore è dunque davvero un poeta d’azione. Aggiunge al poeta drammatico quanto il poeta drammatico aggiunge allo storico. Se il poeta drammatico redige ogni parola dell’eroe, l’attore ne determina il tono e l’accento, determina i silenzi spesso più eloquenti delle parole, compie movimenti che non possono rimpiazzare né le parole né il silenzio, parla infine quel linguaggio d’azione che esprime nel contempo e raffigura congiuntamente il pensiero, lo sguardo e il sentimento, e la cui voce si riduce a presentare successivamente le diverse parti. L’attore che assolve adeguatamente le intenzioni del poeta è, mi sembra, nel suo entusiasmo, poco al di sotto di questi; ma colui il quale sa partecipare al progetto dell’opera, lo fortifica, lo abbellisce, lo rettifica quando non si concilia con la verità storica o morale, è decisamente emulo del poeta e sarebbe suo pari se l’intendimento dell’azione non avesse bisogno di essere annunciato da quello del discorso e se non ne fosse sempre il seguito. Il lettore sarà certamente curioso di conoscere cosa pensi H. Clairon dell’attuale scena tragica. Lo soddisferemo. Non la troverà indulgente sull’argomento quanto i giornalisti nelle cui critiche inconsistenti e negli elogi sperticati si possono individuare le cause del decadimento dei nostri teatri. […] Se è vero che non si possa essere meglio giudicati che dai propri pari, non c’è da stupirsi, da quanto abbiamo letto, della caduta del teatro che si è fregiato del titolo di Théâtre Français per eccellenza.

«Journal de Paris», n° 58, 28 brumaio anno VII [18 novembre 1798]333 «Miscellanea». Seguito dell’articolo su Hyppolite Clairon. Durante vent’anni H. Clairon fu l’onore del teatro francese, subì molte vessazioni da parte dei compagni e si trova, con rammarico, il nome di Préville tra quelli dei nemici che le resero la carriera penosa. Concepì il progetto di far restituire agli attori lo stato civile; ciò che dice sulla loro

333 pp. 244-246. La prima parte dell’articolo che viene omessa, riassume, commentandola la storia del fantasma.

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scomunica civile e religiosa è di una precisione e di una logica che non permettono repliche. La sua rimostranza fu portata in consiglio, una gelosia di teatro, un’attrice invidiosa ne impedirono il successo. L’abolizione di quella barbarie era riservata alla Rivoluzione, ed è l’autore di questo articolo che ha presentato all’Assemblea Costituente la mozione che a lei non era riuscita. H. Clairon sottostò anche a dolorosissime ingiustizie da parte dei Gentiluomini della Camera e patì le offese di quel duca di Richelieu che ebbe durante tutta la vita il doppio torto di rendere il vizio piacevole per gli spiriti frivoli e le grazie sgradite agli spiriti seri. Si avrà una giusta idea del carattere e dell’animo di mademoiselle Clairon nel brano intitolato: Il vestito o la visita del maresciallo di Richelieu. È di fatto una verità in Francia che lo scherzo fa presa su tutto e che nulla fa presa su di esso; ma questa verità non è priva di eccezioni. Bisogna vedere nel colloquio di H. Clairon con il maresciallo, come smussa con la sua ragione e supera con la sua finezza le battute insolenti di quel gran signore. A ogni parola che ella dice, lui diventa più inadeguato e si vede che l’ultimo grado di pochezza in cui possa trovarsi ridotto un uomo è quello a cui arriva un vanesio disorientato. […] Le ragioni del suo rifiuto [di sposare il conte di Valbelle] vengono esposte in un pezzo intitolato Riflessioni sul matrimonio d’amore, ovvero perché non mi sono voluta sposare, forse il più interessante del libro. È considerevole per la rigidezza dei principi, per il disinteresse e la nobiltà delle vedute, per l’eloquenza dello stile. L’autrice ha prodotto un’arringa contro se stessa, contro i più cari interessi del suo cuore a favore dei padri di famiglia e dei costumi. Questo lavoro potrà essere in eterno opposto alle illusioni dei giovani disposti sempre a lasciarsi andare a legami sconsiderati e ai sofismi delle donne che si servono della seduzione come mezzo di fortuna o di reputazione. È un eccellente capitolo di morale che non ha perso di utilità con l’abolizione dei privilegi ereditari, perché sempre ci saranno, fra certe famiglie, differenze di educazione e di costumi e per la morale è opportuno che non siano disconosciute nelle istituzioni coniugali. […] H. Clairon avrà offerto la rara commistione fra un’immaginazione risoluta e una solida ragione, fra un’anima sensibilissima e un carattere superiore. Il suo talento non ha avuto giovinezza, il suo spirito nessuna caducità. Il suo cuore si è aperto a sentimenti che potevano essere estranei all’ordine sociale, ma è stato sempre chiuso alle idee e alle abitudini che avrebbero potuto provocare ad esso un pur minimo attacco. Attrice eccellente già a vent’anni, donna perspicace in società a quaranta, esimia scrittrice a sessanta, sempre godendo della stima pubblica e della propria, destinata a una lunga celebrità, può guardare con orgoglio al passato e al futuro.

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Lettera di mademoiselle Clairon del 5 frimaio anno VII [25 novembre 1798]334 Signore, da tre mesi gravemente ammalata, perdendo spesso la vista, senza alcun soccorso che possa por rimedio alla mia debolezza, sono obbligata continuamente a negarmi a quanto devo e a quanto voglio: colgo con prontezza una sorta di requie che provo oggi per ringraziarvi per i vostri elogi e per le vostre critiche. Se gli uni lusingano la mia vanità, la riconoscenza scolpisce le altre nel mio cuore; illuminandomi su errori che posso riparare, mi offrite un favore che non dimenticherò mai. Sono nata il 25 gennaio 1723 in una cittadina delle Fiandre che allora si chiamava Condé. Non ho mai avuto l’idea di fare un libro né l’audacia di dettar leggi, ho lavorato senza un piano, senza continuità nei momenti in cui i miei mali e le mie incombenze me lo permettevano e da circa dieci anni non ho scritto neanche una riga fra quelle che oggi si leggono. Dopo aver detto : «mai si riunirà il magnifico insieme di talenti della Comédie», è chiaro che non attacco nessuno dei compagni che avevo. L’epoca in cui ho creduto vedere il degrado della tragedia, mi sembra facile da capire. Non poteva che essere il tempo in cui le si recitavano tutte. Cosa avrei da criticare quando non se ne vedono che cinque o sei all’anno e sempre le stesse? Ma poiché mi fate sentire in dovere di spiegarmi ancor più concretamente, affermo che l’epoca è quella in cui due attrici tragiche, e ora ritirate dalle scene, mi proponevano nella loro recitazione, nelle loro grida, nella loro familiarità, nella loro ignoranza di ogni principio, solo l’abiezione dei mercati e la demenza delle case di malaffare. In più avvilivano la commovente melodia della nostra lingua nei suoi più bei versi con accenti provenzali insopportabili per qualsiasi persona che avverta il valore dell’armonia.335 Aggiungerò che l’odiosa esagerazione di capelli e barbe che coprivano allora la fisionomia, toglievano ogni risorsa per far valere il grande talento e il più essenziale per il piacere degli spettatori e forzare le donne a vedere in pubblico nudità che quelle che si rispettano osano appena guardare in segreto, presentandomi gli eroi e i padroni del mondo scarsamente coperti da bariletti da birraio, privandomi della pompa di cui il teatro ha bisogno per favorire l’illusione. Pensate, Signore, che non c’è sacrificio che non abbia compiuto per acquisire talento, che nulla eguaglia la riconoscenza che m’ispirano le prove di bontà che ho ricevuto dal pubblico, quanto debba

334 Lettera a un destinatario sconosciuto, pubblicata per la prima volta su «Les Cahiers», della «Revue trimestrielle de théâtre», n° 27, 1998, numero speciale sugli «Écrits d’auteurs», pp. 92-94 335 Accenno alle sorelle Saint-Val che tra il 1770 e il 1779, ebbero scontri terribili con Madame Vestris. Mademoiselle Saint-Val aînée, Marie Pauline Christine Alziari de Roquefort (1743- 1830) e mademoiselle Saint-Val cadette, già in precedenza citata.

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AAR Anno IV, numero 8 – Novembre 2014

essermi penoso vederlo mal servito e nel contempo degradata una professione di cui mi onoro. Credo di non aver permesso alcun dubbio sulla rispettosa considerazione che ho per tutti i grandi scrittori da cui la Francia trae parte della sua gloria, ma non pretenderete certo che ponga sullo stesso piano chi si dedica alla scrittura. Si dà il nome generico di uccello a tutto ciò che vediamo volare nell’aria, ma nessuno mette sul medesimo piano l’aquila e lo scricciolo: riconosco come autori solo quelli le cui opere sono degne di passare alla posterità o quelli che quotidianamente fanno un passo per raggiungerla; ma in qualsiasi modo lo si voglia dire, mai permetterò che mi si creda complice di una bassezza o che qualcuno si arroghi il diritto di dominarmi. Ubbidire scrupolosamente alle leggi, servire con zelo e rispetto il pubblico riunito, mostrare a tutti gl’individui, quali che siano, i riguardi, la considerazione richiesti dal merito personale o dalle loro virtù, è quanto si domanda agli attori; sono francesi, repubblicani! Perché allora la loro condizione sarebbe più svilita delle altre? Vi chiedo scusa, Signore, ma la mia indignazione per coloro che, senza diritto né titoli vorranno umiliarmi, avrà fine solo con la mia vita. I chiarimenti su Préville potranno essere fatti dal cittadino Molé; su preghiera di quest’ultimo e di Lekain, è per preservare al pubblico i due più grandi talenti del teatro che mi sono immischiata della questione dell’Assedio di Calais, lo reputo troppo galantuomo per rifiutarsi di dire la verità sulla mia abnegazione e sulle manovre di Préville. Siccome non si trattava di un processo, non ho prodotto prove, ma le ho tutte, firmate Lekain, Molé e alcune in cui sono aggiunti i nomi di Brizard e di Dauberval. Quell’avventura mi è costata la mia condizione, ma ho compiuto il dovere di una buona compagna, questo mi consola di tutto. Non mi permetterò di contrastare l’opinione della bella e commovente Gaussin, solo il pubblico ha diritto di pronunciarsi.336 Debole, vedendo appena quello che scrivo e temendo la noia che deve causarvi una lettera così lunga, credo dover mantenere il silenzio sugli autori da voi citati, non dirò neanche nulla a proposito di quella singolare impressione provata in gioventù dalla mia immaginazione. Se avessi l’onore di essere da voi conosciuta, Signore, oso sperare che non mi trovereste nulla di quanto può far credere nei fantasmi né l’impudenza che si permette di presentare la menzogna nell’attestare la verità. Almeno, Signore, crediate, vi scongiuro, alla considerazione e alla riconoscenza della vostra umilissima e ubbidientissima serva Clairon.

336 A partire da questo paragrafo il testo è autografo, la prima parte è di mano di un segretario.

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