Il Cipresso E La Vite
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IL CIPRESSO E LA VITE Lorenzo Viani Da Val di Castello a Bolgheri i cimiteretti sono tagliati in mezzo a floridi vigneti, un quadrato di cipressi presenta rigido le armi lanceolate. Dalla camera mortuaria alla prima tinaia non c'è che un tiro di schioppo. Sotto al muro che recinge l'isoletta dei morti, le radici della vite e del cipresso si stringono come mani di amici: E non sapeva l'uno che da un sentiero di morte egli cresceva; e non sapeva l'altra che le foglie d'autunno s'arrossano alla brina come sangue, ed al vento cadono come gocce di pianto. Quando l'estate si è del tutto spenta, nell'autunnale quiete le ultime pampine delle viti ardono come fiammelle al calcio dei cipressi terminali e i cipressi, nello sfacelo, spiccano più neri e risoluti. Stamane, tra il fischio lacerante di una locomotiva e i sussulti della macchina che, di sulla via Aurelia, ci trasporta a Roma i cipressi del celebre viale carducciano, simili ad incappati della Misericordia, salgono verso il cimitero ov'è sepolta nonna Lucia. Le passerette ciciurlano come al Carducci un loro lagno strillante, il mare di piombo argenta, coi battiti sonori, la rupe di Talamone. Le floride donne maremmane vendemmiano e cantano, i bovi statuari alitano nebbia dall'umide froge e col pennecchio nero della coda pennelleggiano i campi di ginabro. I poeti, quelli dai versi incorruttibili come il legno del cipresso, avvicinano sovente l'albero del pianto alla vite, che, col suo umore, dona l'oblio; anche il contadiname imparenta la vite al cipresso (è assai diffusa la credenza che le bacche del cipresso, bollite nel vino legittimo, rassodino la nervatura dei bambini) e su, verso le colline, e giù, verso il mare, i ragazzi maliscenti vengono messi in fusione in questa lavanda. Il cipresso è detto l'albero del pianto, ma ad inciderne il tronco non geme altro che una specie di gomma dragante. Se invece tagliate, quando è in succhio, o, come dicono in Versilia, quando è in amore, la vite, essa piange lacrime schiette, ed è ancor vivo il dittaggio: «Ei piangeva come vite taglia». L'austero cipresso, scontroso al saluto degli uragani, taciturno ai richiami d'amore, austero e sdegnoso, longevo egoista ed altero (ogni pianta che gli si avvicina la isterilisce e l'uccide), va in amorevole accordo con il salice del pianto. Spira dal negromante cipresso un'aura funebre, le coccole che scuote dalle sue rame sono amare come il fiele, le tavole stagionate del suo tronco arginano le tombe, ma egli non lacrima che a pioggia dirotta. La vite, invece, che con il suo umore dona l'oblio del dolore e dello sconturbato amore, piange di nulla, e massimamente se è in amore. Del resto anche gli ubriachi piangono di nulla. Pochi sanno che vi sono perfino le sbornie piangine assai prossime a quelle ridarelle: «E se si piange non è amaro il pianto». ♦ Domè, uno dei più forti bevitori e trascurati di queste fertili contrade, falegname nelle ore lucide, era così terrorizzato di doversi ricongiungere alla terra che quando ne parlava era preso da ribrezzo. Inteso dire, dai suoi congeneranti, che il legno cipresso resiste al corrompimento della terra, allora fece tanto e poi tanto che, sacrificando un po' d'umor della vite al giorno, potè acquistare il tronco stagionato di un cipresso di bracciata, e stagionato che fu lo segò a tavoloni e ci si fece la cassa da morto. – Cara sangue.... questa cassa – diceva il suo amico «Tabacchino» osservando la cassa lunga distesa per la bottega. – Cara vino – rispondeva enigmatico il pavido Domè. Dal giorno che Domè aveva rifilato sotto la coperta del suo tettuccio la famosa cassa le traversità parevano cascare a ombrello aperto su di lui, e poi quell'odorino di cipresso (vago richiamo di cimitero) gli sconturbava i sonni e gli corrompeva i sogni, talchè sognava sempre di aver tre braccia di terra addosso, e si svegliava con la palpitazione. «Il vino mi teneva in allegria, il cipresso mi tiene in agonia». Avvenne che una sera dei trascurati gli scalfirono, a punta di coltello, il mento, la scalfittura gemeva sangue come lo zipolo di una botte, in un momento gli abiti di Domè ne furono mézzi. Una casigliana dell'imperterrito Domè, incontratolo in quello stato, urlò: – O Domè, v'hanno assassinato! – Non mi spaventate che la ferita non è vicina al cuore. Il dimane Domè trasse di sotto il lettuccio la famosa cassa e disse: – Sono stanco di rimescoli di sangue, il cipresso, che mi mette in agonia, ritorni vino che mi mette in allegria – e fece baratto della cassa con vino legittimo. ♦ La colleganza del cipresso con la vite è antica quanto la storia dell'uomo; gli antichi non disdegnavano tracciare anche sulle mura nude dei cimiteri questa parentela. Nell'antico cimitero, di Pisa, dirimpetto al terrificante affresco dell'Orgagna Il trionfo della morte: Da che prosperitade ci ha lasciato, o morte medicina d'ogni pena deh vieni a darne ormai l'ultima cena! (la morte, con la falce fienaia roncolita e nera, miete a più non posso, e massimamente i gaudenti, postergando gl'infermi che la invocano coi versetti scritti qui sopra), c'è la famosa scena della vendemmia con l'ubriachezza di Noè. Grandioso è lo stile anche di questo affresco di Benozzo. A sinistra si vede il Patriarca che, dopo aver dato ordini per la vendemmia, ne lascia la cura alla famiglia. Uno dei figli porge una canestra d'uva alla vecchia madre, appoggiandosi alla scala. Sem, come il più provetto, con le gambe ignude pesta l'uva, mentre uno dei ragazzi, per curiosità, pone il capo sull'orlo del tino. Un cane abbaia ai viandanti avvogliati d'uva. Nel mezzo del fresco è riunita, con calici e coppe dove schiumeggia e braveggia il vino rivoltino, abboccato e tondarello di buona beva, tutta la famiglia. A destra si vede la scena dell'ubriachezza di Noè. Cam lo dileggia; Jafet, tra la curiosità e la vergogna, tolto un mantello e camminando a ritroso, si prepara a coprire le nudità del Patriarca; una delle nuore (che il popolino chiama la vergognosa) si nasconde il viso, ma guarda tra un dito e l'altro la scena. Sul verde piazzolo di terra santa portata dai vecchi pisani sui galeoni dalla Terra Santa nereggiano alti cipressi che, oltre le mura, pare si affissino sulla pianura pisana tutta feconda di vigneti prosperi. Le cave di San Giuliano, rosse di pietre, sembrano colossali tinaie colanti denso umore di vite. Queste fantastiche tinaie dilungano sull'argine del lago di Massaciuccoli fino ad imparentarsi con le Alpi Apuane, dove le cave di Ceragiola sembrano serbatoi trasparenti di vino ambrispumante, ed i ravaneti delle avvoglianti cascate del nettare degli dei. ♦ In questa Maremma, un tempo desolata da stagni d'acqua nocente, rosseggia oggi la vite. Carra rosse sangue, su cui stanno delle botti capaci, aspettano le donne floride, le vendemmiatrici ben proporzionate come quelle dipinte da Benozzo, che sul capo gagliardo equilibrano ceste colme d'uve. Qui spazia l'anima di Enotrio: La nebbia a gl'irti colli piovigginando sale, e sotto il maestrale urla e biancheggia il mar; ma per le vie del borgo dal ribollir de' tini va l'aspro odor de' vini l'anime a rallegrar.... Un acre odore di vinacce calpestate esala dai cellieri; sotto le gronde del camino domestico, sui ceppi accesi, scoppietta lo spiedo; gli uccelli esplodono a sciami dalle piante e come un pugno di semente, s'annientano nell'antichissimo piano del firmamento, dove suole arare, di notte tempo, un carro dal vomere d'argento. I cipressetti di Bolgheri, mossi dal vento, dicono sì e no col capo. IL CARDUCCI E GLI «ARRUOTINI IMPAZZITI» Un pomeriggio di qualche anno fa, in compagnia del vecchio amico Brilli, passeggiavo sull'argine di un fiume, difeso dai veicoli che transitavano sulla via maestra da una fitta piantagione di pioppi, inghirlandati di pampini, quando un ciclista, sbisciando tra un albero e l'altro, con la ruota anteriore frisò il pastrano del Brilli; egli vecchio, ma impetuoso, gli urlò: – Arruotino impazzito! – Questa la passo al libro maestro, – dissi. – Ma non è mia, rispose ancora incollerito il Brilli; – è di Giosuè Carducci. – Seppi così che Giosuè Carducci non poteva soffrire i ciclisti, e quando ne scorgeva qualcuno infarinato o inzaccherato sulle vie emiliane gridava: – Arruotino impazzito! ♦ Nei giorni primaverili, quando i cimiteri di campagna sembrano giardini, e i passeri cantano e bezzicano sui vialetti cipressati, e dai cancelli si scorgono i bovi andar sui campi rosi come nuvolette bianche portate dal vento marino, si sostava sovente in quei Campisanti a leggere le epigrafi. Questo era il mio compito perchè, all'estremo margine della sua vita, il Brilli era quasi cieco. Il Brilli, col cappelluccio floscio calato sugli occhiali e le mani poggiate sul manico del bastone, ascoltava attento come se dovesse imparare qualche cosa. Leggevo: «L. M., a dì 20 febbraio 1856 diventato cittadino del cielo, per mano vendicativa». – Sì!... – diceva con certa gravità il Brilli. «Fermati passeggero se cristian ti appelli.» – Sì! ... Vedi? Carducci odiava le epigrafi. Poi ne riparleremo. ♦ Giosuè Carducci aveva messo nell'animo dei suoi scolari il terrore dello scrivere vano e del parlare vano. Ugo Brilli parlava sempre con ardore e gravità di ogni cosa. Mi confessava che, pensando a Grosseto di Maremma, immensa culla di fierezza, di grandezza e di dolore, la commemorazione del Maestro, aveva sempre davanti agli occhi l'ombra accigliata di lui. E parlò del Maestro con modestia e purità di cuore, – come in modestia e purità di cuore lo aveva avvicinato per molti anni in Bologna, – virtù indispensabili a chi vive presso i grandi per conoscerli veramente e degnamente.