Rassegna Stampa 6 Febbraio 2017
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RASSEGNA STAMPA di lunedì 6 febbraio 2017 SOMMARIO “Se sua madre quella sera non fosse andata al cinema, o se in cartellon e ci fosse stato un qualsiasi altro film, Luca Mattei oggi non sarebbe vivo – racconta Lucia Bellaspiga su Avvenire di ieri -. E nessuno (eccetto forse lei) lo piangerebbe morto: non sarebbe neanche nato. Venuto al mondo per il rotto della cuffia, Luca era già pronto in rampa di lancio per essere abortito, uno dei 100mila desaparecidos che ogni anno in Italia spariscono in silenzio. La storia è sempre quella: un uomo che volta le spalle, una donna sola, la maternità vista come un peso impossibile, l’illegalità di chi per legge (la 194) dovrebbe garantirle ogni supporto e invece emette un frettoloso certificato di morte. «Mio padre se ne andò di casa appena seppe che mia madre mi aspettava – racconta Luca, nato in Piemonte 35 anni fa –, così io crebbi senza di lui e a 7/8 anni cominciai a sentirne forte la mancanza. Notavo che con mia sorella maggiore, che lo aveva avuto in casa fino a 5 anni, per lo meno aveva un rapporto, con me nulla, il che mi rendeva un bambino molto triste, anche se mia madre invece mi ricolmava di attenzioni. Con l’adolescenza la mancanza del padre fece crescere in me una rabbia ingestibile, che scaricavo contro l’innocente mia madre, non le parlavo, ero aggressivo. Il motivo era che non sapevo più chi fossi io, senza quel punto di riferimento...». A preservarlo da droga e alcol sono stati lo sport e il desiderio di non veder piangere sua madre: «Giocavo a calcio e questo mi ha salvato, sfogavo tutto lì, e poi vedevo l’estrema sofferenza con cui mia mamma discuteva con mia sorella quando lei difendeva in lacrime quel padre che tanto le mancava, e io non volevo aggiungere strazio a strazio». Finché un giorno di 20 anni fa lei non seppe più trattenere quella verità covata a lungo: «Fosse stato per tuo padre tu oggi non saresti qui!», gli sbatté in faccia in un momento di disperazione. Parole capaci di mordere il cuore. Che Luca ormai perdona ma che allora rischiarono di ucciderlo. «Sbagliò, non puoi scaricare su un ragazzino un rancore trattenuto per anni, ma oggi che vivo accanto ai bisognosi ho imparato a guardare tutto con gli occhi della misericordia e la comprendo. Certo fu atroce...». Quel giorno Luca apprese tutto d’un fiato che «nemmeno per un secondo ero stato desiderato», di tutto era frutto fuorché dell’amore: nato da un rapporto occasionale e distratto, quando i genitori si stavano già lasciando, era pure figlio di un errore, «il preservativo si è rotto, così sei nato», gli disse la madre. Poi il rifiuto del padre, «abortiscilo, cara mia, tanto io me ne vado». Per paradosso azzerare quel bambino per cancellare ogni traccia di un amore mutato in odio diventava l’unico punto di accordo tra i due. Se non che la sera prima di abortire (è il 1980) Anna entra in un cinema. «Adoro questa cosa», si illumina il giovane a questo punto del racconto. Proiettavano un film che in Italia s’intitolava Luca bambino mio e nell’originale spagnolo Il Cristo nell’oceano, la storia di un bimbo che perde entrambi i genitori e vive con uno zio alcolista. «Un giorno nel mare trova un crocifisso portato dalle onde e lo nasconde in cantina – riassume Luca – e questo Cristo gli parla di amore, gli fa scoprire che la vita è bella. È lì che mia madre ha avuto l’intuizione: se un bambino può essere felice senza genitori, io che almeno una mamma l’avrei avuta perché non potevo nascere? È uscita da quel cinema determinata a salvarmi e a chiamarmi come lui». Luca è nato la Domenica delle Palme ed è stato la resurrezione di Anna. Dieci anni fa ha cercato quel film e se lo è divorato scena per scena, ma da solo, «mi vergognavo di vederlo con lei e mostrarle i miei sentimenti...». A dissipare pian piano quella rabbia che dentro lo divorava sono stato i suoi amici, i disabili, quelli con cui oggi vive in una struttura in cui accoglie settanta persone: «Grazie a mia madre, che pure agnostica aveva uno spiccato senso del sociale, ho iniziato a frequentarli a 16 anni e sono cresciuto alla loro scuola, non mi stancherò mai di dirlo – spiega –. Mi direte: cos’hai da imparare da un disabile? Sei tu che lo lavi, che lo vesti... Mi hanno insegnato uno sguardo di stupore sulla vita. Io a 16 anni già non mi meravigliavo più di niente, invece li osservavo e loro erano felici con poco. Quanto erano fortunati!». Se fino a quel momento la consapevolezza di essere un aborto sopravvissuto gli scorreva sottopelle, adesso tutto cambiava: «Finché ero centrato su me stesso la mia vita non mi piaceva e che io fossi nato oppure no mi pareva ininfluente, ma con gli amici ho trovato il sale nella mia vita e ho capito che esserci, al mondo, o non esserci non sarebbe stata la stessa cosa. Ho un debito con loro, mi hanno donato lo stupore senza bisogno di stupefacenti ». In dieci anni nella sua struttura sono passate anche 32 donne incinte, soprattutto ex schiave prostitute, convinte di dover abortire. Invece sono nati 32 bambini”. “Il governo giapponese - racconta l’Osservatore Romano in un servizio di Cristian Martini Grimaldi - ha recentemente annunciato misure per ridurre la quantità di straordinari che i dipendenti possono fare, nel tentativo di contrastare il fenomeno delle morti da super lavoro (Karoshi). In Giappone la morte da superlavoro non è affatto un evento raro. Nel 2015 il governo ha ufficialmente riconosciuto circa 2000 casi e si stima un numero ancora maggiore per il 2016. Ma se Karoshi è diventata una parola ricorrente nei discorsi dei giapponesi lo si deve al caso di una ragazza ventiquattrenne che si è tolta la vita prima di Natale. La giovane si era gettata dal terzo piano della stanza del dormitorio nel quale viveva. I media internazionali non hanno evidenziato abbastanza questo particolare. Il luogo del suicidio la dice lunga, infatti, sul reale significato del lavoro per un giovane giapponese: mangiare e dormire nello stesso posto dove si lavora (soprattutto nei primi anni dopo l’assunzione) è una prassi quasi scontata. Il suicidio della ragazza è avvenuto in un’azienda tra l’altro già tristemente famosa per il trattamento disumano a cui sottoponeva da anni i propri dipendenti. Il grande clamore suscitato, e non solo in Giappone, da questo caso è dovuto ad alcuni messaggi diventati virali sui social media. La giovane, che totalizzava una media di 105 ore di straordinari al mese, aveva infatti condiviso su Twitter, senza giri di parole ed eufemismi, il proprio stato d’animo: «Hanno deciso ancora una volta che dovrò lavorare sabato e domenica. Ho seriamente voglia solo di farla finita». Si leggeva in uno dei suoi tweet poco prima di compiere il gesto estremo. Un sondaggio del governo giapponese ha rivelato che un quinto dei dipendenti del paese deve vedersela con il rischio di morte da superlavoro. Il 22,7 per cento delle imprese impiegano personale che produce più di 80 ore di straordinario al mese. Queste 80 ore - circa quattro ore al giorno da aggiungere ai normali orari di ufficio - sono ufficialmente conosciute come soglia oltre la quale il rischio di morte si moltiplica in modo drammatico. Ma nel 12 per cento delle aziende i dipendenti producono ben oltre le 100 ore mensili di straordinarie. Quasi il 30 per cento di questi dipendenti oberati di lavoro sono impiegati nel settore dell’It e delle comunicazioni, come in quelli del mondo accademico, dei servizi postali e di trasporto. Il governo sta cercando di attuare un cambiamento di mentalità all’interno delle aziende per incoraggiare maggiore flessibilità e, conseguentemente, ridurre lo stress. «Il Giappone ha bisogno di ridurre le ore dedicate al lavoro allo scopo di indirizzare il tempo alla famiglia, ai figli e anche alla cura degli anziani», ha ribadito recentemente un portavoce dell’esecutivo. Il primo ministro, Shinzo Abe, e il suo governo alla ricerca di un metodo efficace per imporre un limite allo straordinario stanno per varare un sistema chiamato «Premium Venerdì». La campagna, guidata dalla Japan Business Federation, permetterà ai lavoratori di lasciare presto l’ufficio l’ultimo venerdì di ogni mese. Ma i critici di questa iniziativa non hanno tardato a farsi sentire, mettendo in evidenza come con questa misura non si stabilisce in alcun modo un migliore equilibrio tra ore dedicate alla propria vita privata e quelle destinate al lavoro, tanto più che la Japan Business Federation ha relativamente pochi membri: 1300 aziende su oltre 2,5 milioni di imprese registrate. Allo stesso tempo il Giappone si ritrova a essere uno dei paesi al mondo meno generosi per quanto riguarda le ferie. I dipendenti hanno mediamente diritto a dieci giorni di ferie pagate, ma a zero festività nazionali retribuite (l’Australia, in confronto, offre 20 giorni di ferie pagate e otto giorni di festività pubbliche pagate). Non solo. Molti lavoratori non utilizzano nemmeno la metà dei giorni di ferie che hanno a disposizione. Allo stato attuale il governo giapponese punta a ridurre la percentuale di dipendenti che lavorano più di 60 ore alla settimana a meno del cinque per cento della forza lavoro totale, ed entro il 2020 (data non certo casuale, in quanto è l’anno delle Olimpiadi che si svolgeranno a ToKyo, ovvero quando gli occhi di tutto il mondo saranno puntati sul paese) intende convincere i lavoratori a prendersi almeno il 70 per cento delle vacanze a cui hanno diritto.