RASSEGNA STAMPA di martedì 26 settembre 2017

SOMMARIO

“La Chiesa italiana, per portare la luce di Cristo in questo mondo nuovo, deve far affidamento su alcune preziose bussole di orientamento. Si tratta di priorità che coniugano una sapienza antica con l’attuale magistero pontificio: lo spirito missionario; la spiritualità dell’unità; la cultura della carità. Siamo chiamati, innanzitutto, ad essere Chiesa al servizio di un’umanità ferita. Che significa, inequivocabilmente, essere Chiesa missionaria. E la prima missione dei cristiani consiste nell’annuncio del Vangelo nella sua stupenda, radicale e rivoluzionaria semplicità. Un annuncio gioioso, come ci ricorda l’Evangelii Gaudium, che punti all’essenziale…”: è uno dei passaggi iniziale della prima prolusione del card. al consiglio permanente della Cei (testo integrale qui in Rassegna). Parlando poi di famiglia ha affermato: La Chiesa italiana, pur tra molte difficoltà, è una Chiesa di popolo. E questo popolo è senza dubbio costituito da milioni di famiglie, che costituiscono la cellula basilare della società italiana. Il contesto attuale - caratterizzato da un crescente aumento di convivenze, separazioni e divorzi, nonché da un tasso di natalità che continua a diminuire drammaticamente - ci impone di guardare alla famiglia in modo concreto, senza cercare alcuna scorciatoia, scorgendo nelle fragilità della famiglia non solo i limiti dell’uomo, ma soprattutto il luogo della Grazia. Sono almeno tre le sfide che la famiglia deve affrontare nel mondo contemporaneo. E queste sono altrettante sfide anche per la Chiesa italiana. La prima è di tipo esistenziale e risiede nelle difficoltà di formare ed essere una famiglia. Spesso vedo molte coppie indugiare, dubbiose e incredule che sia possibile dar vita ad una relazione «per sempre». Infatti, le donne e gli uomini di oggi sono cresciuti in un clima dove tutto - perfino le relazioni umane - viene consumato in modalità «usa e getta». La seconda sfida è di tipo sociale e consiste nel riuscire a rendere più a misura di famiglia la nostra società, sempre più complessa e logorante. Questa faticosa civiltà urbana, come aveva già intuito Paolo VI, produce una serie di ostacoli oggettivi alla vita familiare: la precarizzazione del lavoro, ad esempio, ferisce l’anima dei coniugi e impedisce di formare una base minima di stabilità; i ritmi ossessivi producono una sorta di nevrosi sociale impedendo di avere del tempo da dedicare al co niuge e ai figli; la mobilità sociale rompe le tradizionali reti generazionali di mutua assistenza tra nonni e figli; e infine, in parte inesplorata ma dal significato antico. Bisogna subito sgombrare il campo da un equivoco che potrebbe sorgere da un dibattito pubblico particolarmente aspro su questi temi: la Chiesa cattolica si è sempre occupata dell’ospitalità del forestiero e del migrante. E lo ha fatto non certo per un’idea politica o sociale, ma per amore di ogni persona. È il cuore della nostra fede: di un Dio che si è fatto uomo. L’ospitalità è, da tradizione, un’opera di misericordia e, come ci insegna Abramo, una delle più alte forme di carità e di testimonianza della fede. Attraverso l’ospite noi scegliamo di accogliere o respingere Cristo nella nostra vita. Il richiamo alla difesa della dignità inviolabile del migrante, inoltre, è un insegnamento presente in molti documenti della Santa Sede e che si è fatto carne nell’opera di alcuni grandi apostoli del passato, tra i quali molti i taliani: Francesca Cabrini, Geremia Bonomelli, Giovanni Battista Scalabrini. Oggi questa sfida antica si ripropone con tratti nuovi. E lo sguardo profetico di papa Francesco ha il merito storico di aver tolto i migranti da quella cappa di omertà in cui erano stati confinati dalla «globalizzazione dell’indifferenza » e di averli messi al centro della nostra attività pastorale. Promuovere una pastorale per i migranti significa, prima di tutto, difendere la cultura della vita in almeno tre modi: denunciando l a «tratta» degli esseri umani e ogni tipo di traffico sulla pelle dei migranti; salvando le vite umane nel deserto, nei campi e nel mare; deplorando i luoghi indecenti dove troppo spesso vengono ammassate queste persone. I corridoi umanitari - nei quali la Chiesa italiana è impegnata in prima persona - sono, quindi, necessari per dare vita ad una carità concreta che rimane nella legalità. Il primato dell’apertura del cuore al migrante ci fa guardare oltre le frontiere italiane. Ci invita a intensificare la cooperazione e l’aiuto allo sviluppo al Sud del mondo, per far risorgere tra i giovani la speranza di un futuro degno nella propria patria. È una linea su cui si muove da tempo la Cei, sostenendo numerosi progetti di sviluppo e, recentemente, con la campagna Liberi di partire, liberi di restare. Si tratta di la donna, sempre più spesso racchiusa tra una maternità desiderata e un lavoro necessario, rischia di non comprendere più qual è il suo ruolo all’interno della famiglia e della società. La terza sfida ci introduce, infine, in uno dei più grandi temi di discussione degli ultimi decenni e si riferisce alla questione antropologica e alla difesa e alla valorizzazione della famiglia tra uomo e donna, aperta ai figli. Una sfida culturale e spirituale di grandissima portata. Per questo motivo noi abbiamo di fronte due strade: innanzitutto, quella pastorale in cui dobbiamo impegnarci nelle diocesi, nelle parrocchie e negli uffici pastorali per recepire con autenticità lo spirito dell’esortazione apostolica Amoris Laetitia; in secondo luogo, quella sociale in cui chiediamo con forza alle Istituzioni - a partire dalla prossima Conferenza Nazionale per la famiglia - di elaborare politiche innovative e concrete, che riconoscano, soprattutto, il «fattore famiglia» nel sistema fiscale italiano. Una misura giusta e urgente, non più rinviabile, per tutte le famiglie, in particolare quelle numerose. Una misura di cui avvertiamo l’assoluta importanza non solo perché avrebbe dei benefici sui redditi familiari ma perché potrebbe avere degli effetti positivi su un tema cruciale per il futuro della nazione: quello della natalità”. Ed infine ha così concluso: “Cari confratelli, tra queste priorità irrinunciabili per il Paese che ho appena tratteggiato c’è un unico filo comune: l’Italia. A noi interessa che l’Italia diventi un Paese migliore. Bisogna perciò avere la forza, il coraggio e le idee per rimettere a tema l’Italia nella sua interezza: con la sua storia, il suo carattere, la sua vocazione. L’Italia è un Paese bellissimo, straordinariamente ricco di umanità e paesaggi, ma estremamente fragile: sia nel territorio che nei rapporti socio- politici. Ai cattolici dico che la politica, come scriveva La Pira, «non è una cosa brutta», ma una missione: è «un impegno di umanità e santità». La politica come affermava Paolo VI, è una delle più alte forme di carità. Papa Francesco ha più volte auspicato la necessità dei cattolici in politica. Ma come? Non spetta a me dirlo. Quello che mi preme sottolineare è che il cuore della questione non riguarda le formule organizzative. Il vero problema è come portare in politica, in modo autentico, la cultura del bene comune. Non basta fare proclami. La proclamazione di un valore non ci mette con la coscienza a posto. Bisogna promuovere processi concreti nella realtà. Non è auspicabile che, nonostante le diverse sensibilità, i cattolici si dividano in «cattolici della morale» e in «cattolici del sociale». Né si può prendersi cura dei migranti e dei poveri per poi dimenticarsi del valore della vita; oppure, al contrario, farsi paladini della cultura della vita e dimenticarsi dei migranti e dei poveri, sviluppando in alcuni casi addirittura un sentimento ostile verso gli stranieri. La dignità della persona umana non è mai calpestabile e deve essere il faro dell’azione sociale e politica dei cattolici. I cattolici hanno una responsabilità altissima verso il Paese. Dobbiamo, perciò, essere capaci di unire l’Italia e non certo di dividerla. Occorre difendere e valorizzare il sistema-Paese con carità e responsabilità. Perché il futuro del Paese significa anche rammendare il tessuto sociale dell’Italia con prudenza, pazienza e generosità. Cari confratelli, lo Spirito Santo ci sostenga nel nostro servizio alla Chiesa e alimenti la nostra comunione; la preghiera comune e fiduciosa di tutti noi ottenga dalla Misericordia del Signore una crescita di tutti nella carità e nell’amore per il Vangelo!” (a.p.)

1 – IL PATRIARCA

IL GAZZETTINO DI VENEZIA di lunedì 25 settembre 2017 Pag II Moraglia: “Succede se l’altro diventa oggetto” di a.spe.

3 – VITA DELLA CHIESA

L’OSSERVATORE ROMANO Per Dio non è mai tardi Messa del Papa per il corpo della Gendarmeria

Comunicato della Sala stampa della Santa Sede

Prepararsi alla consolazione Messa a Santa Marta

Tutti sono chiamati All’Angelus il Pontefice commenta la parabola dei lavoratori nella vigna

AVVENIRE Pag 1 Oltre le paure di Marco Tarquinio Consolare, denunciare, fare bene

Pag 2 Pedofilia nel clero, vero allarme ma da valutare senza paraocchi (intervento di Mauro Visigalli, avvocato della Curia Romana)

Pagg 5 – 6 “Il lavoro, priorità per il Paese” La prolusione di Bassetti: chiamati ad essere Chiesa al servizio di un’umanità ferita

Pag 18 Amoris laetitia, manipolazioni anti-Papa di Luciano Moia Lorizio: “Sette posizioni eretiche? Ma nell’esortazione quelle frasi non esistono”. L’arcivescovo Forte: “Forzatura strumentale, prende di mira la Chiesa”

CORRIERE DELLA SERA Pag 23 Il Vaticano: “La petizione anti-Papa? Il sito mai bloccato, le restrizioni c’erano già” di Gian Guido Vecchi

Pag 23 Don Prodi lascia la sua parrocchia: “Sono ferito per le critiche in piazza” di Alessandro Fulloni

Pag 32 La Chiesa “materna” del presidente della Cei di Andrea Riccardi Primo discorso del cardinale Bassetti al consiglio permanente: un rito sobrio con un messaggio sostanzioso pronunciato con un linguaggio “pastorale”

LA REPUBBLICA Pag 19 Scontro frontale su finanze e famiglia, il Papa alla resa dei conti con i frondisti di Paolo Rodari Al centro le apert ure ai divorziati risposati ma soprattutto la trasparenza dei bilanci. Bassetti sullo ius soli: “Integrazione passa da lì”

Pag 19 Il prete nipote di Prodi: “Lascio la parrocchia, troppe critiche in piazze” di Eleonora Capelli

IL GIORNALE «Siamo donne in clausura, normali e senza baffi...» di Serena Sartini Pregano e danno consigli a coppie e disoccupati. Sono aperte al mondo ma non a Facebook

IL FOGLIO Pag 1 Dalla dottrina ai soldi, ecco la “guerra civile” nella chiesa di Francesco di Matteo Matzuzzi Inquisizione e misericordia

LA NUOVA Pag 9 Firme contro il Papa bloccate dal Vaticano Protesta anti-Bergoglio: l’adesione alla petizione potrà avvenire solo da computer fuori dalla Santa Sede

VATICAN INSIDER Il documento contro le “eresie ˮ del Papa: toccò anche a Wojtyla di Andrea Tornielli Dal fronte “sedevacantista ˮ, gliene attribuirono ben 101. Assai più numerose e diffuse furono le critiche a san Giovanni Paolo II dall'altro versante, da parte di teologi che contestavano il “centralismo romano ˮ. Il cardinale Müller fu soggetto ad esami di dottrina dai blogger

5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO

CORRIERE DELLA SERA Pagg 26 - 27 L’Italia dei figli lontani di Gianna Fregonara La prima migrazione di giovani che partono con il diploma in tasca (e spesso lasciano mamma e papà soli). Uno su tre ha anche la laurea. Lo psicanalista Ammaniti: “Senso di colpa o compiacimento, così i genitori vivono la distanza”

AVVENIRE Pag 2 Ripresa preziosa e da sfruttare al meglio di Leonardo Becchetti Buone notizie, risorse limitate, ricchezze da valorizzare

7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA

IL GAZZETTINO Pag 16 Chiarot lascia il Teatro La Fenice di Paolo Navarro Dina Per la successione si parla del direttore Fortunato Ortombina

IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag VII Hotel in canonica a Santa Fosca, parte la denuncia ai vigili urbani di Daniela Ghio Esposto del 25 Aprile su presunti abusi edilizi nell’edificio affittato dalla Curia

Pag XXV La Fenice nel cuore di Mestre di Giampaolo Bonzio Giovedì sera l’atteso concerto nel Duomo per la festa di san Michele che conferma un solido legame

LA NUOVA Pag 18 Canonica trasformata in albergo: «Commesso un abuso edilizio» di Carlo Mion Esposto alla polizia locale del Gruppo 25 Aprile per denunciare presunte irregolarità a Santa Fosca: «L'hotel Tintoretto ha realizzato una p orta e sistemato una parte dell'edificio per fare la sala pranzo». Il Patriarcato: «Non sappiamo di questi lavori»

… ed inoltre oggi segnaliamo…

CORRIERE DELLA SERA Pag 1 Gli sconti che Berlino non farà di Lucrezia Reichilin Noi e il voto

Pag 3 “Non importa se sei bravo, questo è un do ut des. Ricorri? Ti giochi il futuro”. Così il professione chiese il ritiro della domanda di Fiorenza Sarzanini Accordi illeciti per la spartizione degli assegni di ricerca

Pag 15 La spregiudicata metamorfosi moderata del Movimento di Massimo Franco

LA REPUBBLICA Pag 1 Il crepuscolo europeo di Eugenio Scalfari

AVVENIRE Pag 3 L’instabilità politica di un Paese normale di Giorgio Ferrari L’effetto Germania sull’Europa / 1

Pag 3 La sfida di uno sviluppo che argini i populismi di Mauro Magatti L’effetto Germania sull’Europa / 2

IL GAZZETTINO Pag 1 Gli immigrati cambiano gli equilibri nella Ue di Marco Gervasoni

LA NUOVA Pag 1 Quell’ombra nazista in Germania di Ferdinando Camon

Pagg 2 – 4 Atenei nella bufera. Concorsi truccati, sette prof in arresto di Sabrina Tomè, Enrico Tantucci, Enrico Ferro e Matteo Marian Inchiesta della Procura di Firenze, 59 indagati e 22 interdetti dall’insegnamento. Veneto investito in pieno: sotto inchiesta i docenti Loris Tosi e Mauro Beghin

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1 – IL PATRIARCA

IL GAZZETTINO DI VENEZIA di lunedì 25 settembre 2017 Pag II Moraglia: “Succede se l’altro diventa oggetto” di a.spe.

Monsignor Moraglia, ieri a Mestre, ha dedicato un passaggio molto deciso anche allo stalking: «Quando si pensa di impossessarsi dell’altro, l’altro e l’altra non sono più il tu, ma diventano oggetto di proprietà. Il reato di stalking ha qui la sua radice. Alla fine si giunge alla disumanizzazione reciproca. Tale impostazione della relazione uomo donna, la relazione sessuale, rende impraticabile una comunità familiare, impossibile un dialogo tra io e tu in cui i due soggetti si riconoscano nella loro alterità. Riconoscere l’altro è rispettarlo».

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3 – VITA DELLA CHIESA

L’OSSERVATORE ROMANO Per Dio non è mai tardi Messa del Papa per il corpo della Gendarmeria

Nella mattina di domenica 24 settembre, alla grotta di Lourdes dei giardini vaticani, il Papa ha celebrato la messa per il corpo della Gendarmeria, in occasione della festa del patrono san Michele arcangelo. A rivolgergli un saluto è stato il cappellano salesiano Sergio Pellini, che ha parlato della formazione umana e spirituale dei gendarmi come esperienza di ricerca della «perfezione evangelica». Di seguito l’omelia tenuta a braccio dal Pontefice. Nella prima Lettura il profeta Isaia ci esorta a cercare il Signore, a convertirci: «Cercate il Signore mentre si fa trovare; invocatelo mentre è vicino. L’empio abbandoni la sua via e l’uomo iniquo i suoi pensieri» (55, 6-7). C’è la conversione. Ci dice che la strada è quella: cercare il Signore. Cambiare vita, convertirsi… E questo è vero. Ma Gesù cambia la logica e va oltre, con una logica che nessuno poteva capire: è la logica dell’amore di Dio. È vero, tu devi cercare il Signore e fare di tutto per trovarlo; ma l’importante è che è Lui che sta cercando te. Lui sta cercando te. Più importante che cercare il Signore, è accorgersi che Lui mi cerca. Questo passo del Vangelo, questa parabola, ci fa capire questo: Dio esce per trovarci. Per cinque volte in questo passo si parla dell’uscita: l’uscita di Dio, il padrone di casa, che va a prendere a giornata i lavoratori per la sua vigna. E la giornata è la vita di una persona, e Dio esce al mattino, a metà mattinata, a mezzogiorno, il pomeriggio fino alla sera, alle cinque. Non si stanca di uscire. Il nostro Dio non si stanca di uscire per cercarci, per farci vedere che ci ama. «Ma, padre, io sono un peccatore...». E quante volte noi stiamo in piazza come questi [della parabola] che tutta la giornata sono lì; e stare in piazza è stare nel mondo, stare nei peccati, stare... «Vieni!» - «Ma è tardi...» - «Vieni!». Per Dio non è mai tardi. Mai, mai! Questa è la sua logica della conversione. Lui esce da Sé stesso per cercarci, e tanto è uscito da Sé stesso che ha mandato il suo Figlio a cercarci. Il nostro Dio sempre ha lo sguardo su di noi. Pensiamo al padre del figlio prodigo: dice il Vangelo che lo vide arrivare da lontano (cfr. Lc 15, 20). Ma perché lo vide? Perché tutti i giorni, e forse varie volte al giorno, saliva sul terrazzo a guardare se il figlio veniva, se il figlio tornava. Questo è il cuore del nostro Dio: ci aspetta sempre. E quando qualcuno dice: «Ho trovato Dio», sbaglia. Lui, alla fine, ti ha trovato e ti ha portato con sé. È Lui a fare il primo passo. Lui non si stanca di uscire, uscire... Lui rispetta la libertà di ogni uomo ma sta lì, aspettando che noi gli apriamo un pochettino la porta. E questa è la cosa grande del Signore: è umile. Il nostro Dio è umile. Si umilia aspettandoci. Sta sempre lì, ad aspettare. Tutti noi siamo peccatori e tutti abbiamo bisogno dell’incontro con il Signore; di un incontro che ci dia forza per andare avanti, di essere più buoni, semplicemente. Ma stiamo attenti. Perché Lui passa, Lui viene e sarebbe cosa triste che Lui passasse e noi non ci accorgessimo che Lui sta passando. E chiediamo oggi la grazia: «Signore, che io sia sicuro che Tu stai aspettando. Sì, aspettando me, con i miei peccati, con i miei difetti, con i miei problemi». Tutti ne abbiamo, tutti. Ma Lui è lì: è lì, sempre. Il peggiore dei peccati credo che sia non capire che Lui è sempre lì ad aspettarmi, non avere fiducia in questo amore: la sfiducia nell’amore di Dio. Il Signore, in questa giornata gioiosa per voi, vi conceda questa grazia. Anche a me, a tutti. La grazia di essere sicuri che Lui sempre è alla porta, aspettando che io apra un pochettino per entrare. E non avere paura: quando il figlio prodigo incontrò il padre, il padre scese dal terrazzo e andò incontro al figlio. Quell’anziano andava in fretta, e dice il Vangelo che quando il figlio incominciò a parlare: «Padre, ho peccato...», non lo lasciò parlare; lo abbracciò, lo baciò (cfr. Lc 15, 20-21). Questo è quello che ci aspetta se noi apriamo un pochettino la porta: l’abbraccio del Padre.

Comunicato della Sala stampa della Santa Sede

«La Santa Sede prende atto con sorpresa e rammarico delle dichiarazioni rilasciate dal dottor Libero Milone, già revisore generale»: così si legge in un comunicato della Sala stampa diffuso nella tarda mattinata del 24 settembre. «In questo modo — prosegue la nota — egli è venuto meno all’accordo di tenere riservati i motivi delle sue dimissioni dall’ufficio. Si ricorda che, in base agli statuti, il compito del revisore generale è quello di analizzare i bilanci e i conti della Santa Sede e delle amministrazioni collegate. Risulta purtroppo che l’ufficio diretto dal dottor Milone, esulando dalle sue competenze, ha incaricato illegalmente una società esterna per svolgere attività investigative sulla vita privata di esponenti della Santa Sede. Questo, oltre a costituire un reato, ha irrimediabilmente incrinato la fiducia riposta nel dottor Milone, il quale, messo davanti alle sue responsabilità, ha accettato liberamente di rassegnare le dimissioni. Si assicura, infine, che le indagini sono state condotte con ogni scrupolo e nel rispetto della persona».

Prepararsi alla consolazione Messa a Santa Marta

Nessuno è escluso dall’incontro col Signore: Dio «passa» nella vita di ognuno e ogni cristiano è chiamato a essere «in tensione verso questo incontro» per riconoscerlo e accogliere la sua pace. È un messaggio di speranza e di gioia quello lanciato dal Papa nell’omelia della messa celebrata a Santa Marta il 25 settembre. Ma è anche un invito a togliersi il torpore di dosso, a non essere cristiani «chiusi». Lo spunto della riflessione è venuto dalla prima lettura del giorno (Esdra, 1, 1-6) che «racconta il momento nel quale il popolo di Israele è liberato dall’esilio». Un popolo che - come è ripetuto anche nel salmo - canta: «Grandi cose ha fatto il Signore per noi». Vedendo come Dio aveva ispirato «il cuore del re pagano per aiutare il popolo a tornare a Gerusalemme», ripetevano felici: «Ci sembrava di sognare». E ancora: «la nostra bocca si riempì di sorriso, la nostra lingua di gioia». Essi, ha detto Francesco, «non capivano, ma erano tanto gioiosi». Era lo stesso popolo che, sollecitato dai pagani a cantare durante l’esilio, aveva risposto: «Ma no, non possiamo, è lontano». Ha spiegato il Pontefice: «Le chitarre erano lì, sugli alberi, non potevano cantare perché non avevano la gioia: avevano la tristezza dell’esilio». Quella che viene descritta nella Scrittura è quindi «una visita del Signore: il Signore visitò il suo popolo e lo riportò a Gerusalemme». E proprio sulla parola «visita» si è soffermato il Papa: una parola «importante nella storia della salvezza». La si ritrova, ad esempio, quando «Giuseppe disse ai suoi fratelli in Egitto: “Dio, certo, verrà a visitarvi. Portate le mie ossa con voi”». Ogni volta che si parla di «liberazione, ogni azione di redenzione di Dio, è una visita: il Signore visita il suo popolo». E anche «al tempo di Gesù», quando «la gente che era guarita o liberata dai demoni, diceva: “Il Signore ha visitato il suo popolo”». Lo stesso Gesù, ha ricordato Francesco, «quando guarda Gerusalemme pianse... Pianse su di lei. Perché pianse?». Perché, afferma, «non hai conosciuto il tempo in cui sei stata visitata; non hai capito la visita del Signore». Ecco allora l’insegnamento per ogni uomo: «Quando il Signore ci visita ci dà la gioia, cioè ci porta in uno stato di consolazione», porta a «mietere nella gioia», dona «consolazione spirituale». Una consolazione, ha aggiunto, che «non solo accade in quel tempo», ma «è uno stato nella vita spirituale di ogni cristiano». Su di essa il Papa ha articolato, in tre punti, la sua meditazione: «aspettare la consolazione», poi «riconoscere la consolazione, perché ci sono dei falsi profeti che sembrano consolarci e invece ci ingannano», e «conservare la consolazione». Per prima cosa, ha spiegato Francesco, occorre «essere aperti alla visita di Dio», perché «il Signore visita ognuno di noi; cerca ognuno di noi e lo incontra». Ci possono essere «momenti più deboli, momenti più forti di questo incontro, ma il Signore sempre ci farà sentire la sua presenza, sempre, in un modo o nell’altro». E, ha aggiunto, «quando viene con la consolazione spirituale, il Signore ci riempie di gioia» come è accaduto con gli israeliti. Occorre quindi «aspettare questa gioia, aspettare questa visita», e non, come pensano tanti cristiani, aspettare solo il cielo. Ha chiesto infatti il Pontefice: «In terra, cosa aspetti? Non vuoi incontrarti con il Signore? Non vuoi che il Signore ti visiti nell’anima e ti dia questa cosa bella della consolazione, della felicità della sua presenza?». La domanda successiva è allora: «Come si aspetta la consolazione?». La risposta è: «Con quella virtù umile, la più umile di tutte: la speranza. Io spero che il Signore mi visiterà con la sua consolazione». Bisogna «chiedere al Signore che si faccia vedere, si faccia incontrare». Occorre «prepararsi», ha spiegato il Papa, perché «il cristiano è un uomo, una donna, in tensione verso l’incontro con Dio», verso «la consolazione che dà questo incontro». E se non è così, «è un cristiano chiuso, è un cristiano messo nel magazzino della vita, non sa cosa fare». Perciò, ha ribadito ancora una volta, occorre «prepararsi alla consolazione, chiedere la visita del Signore», come gli israeliti che «per settant’anni hanno chiesto questa visita. Il Signore li ha visitati». Prepararsi con «speranza», anche se si pensa di avere una speranza «piccola», perché «tante volte» questa speranza «è forte quando è nascosta come la brace sotto la cenere». Il secondo punto è «riconoscere la consolazione». Infatti «la consolazione del Signore non è un’allegria comune, non è una gioia che si può comprare», come quando «andiamo al circo». La consolazione del Signore, ha detto Francesco, «è un’altra cosa». Si riconosce: «tocca dentro e ti muove e ti dà un aumento di carità, di fede, di speranza e anche ti porta a piangere per i tuoi peccati» e a «piangere con Gesù» quando contempliamo la sua passione. La «vera consolazione», ha spiegato il Papa, «eleva l’anima alle cose del cielo, alle cose di Dio e, anche, quieta l’anima nella pace del Signore». Non si può confondere con il «divertimento». Non che, ha precisato, il divertimento sia «una cosa cattiva quando è buono, siamo umani, dobbiamo averne»; ma la consolazione è altro. Essa «ti prende e proprio la presenza di Dio si sente» e fa riconoscere: «questo è il Signore». È la stessa esperienza vissuta dai discepoli sul lago di Tiberiade, la notte in cui non avevano pescato nulla e Giovanni sulla riva disse: «“È il Signore!”. Lo ha riconosciuto subito». Ed è quella vissuta dagli israeliti dopo l’esilio: «La nostra lingua si riempì di gioia. La nostra bocca si riempì di sorriso». Perciò occorre riconoscere la consolazione «quando viene». E quando viene, «ringraziare il Signore». Ognuno deve essere consapevole che «è proprio il Signore che passa, che passa per visitarmi, per aiutarmi ad andare avanti, per sperare, per portare la croce». A questo, ha detto il Pontefice, occorre anche «prepararsi con la preghiera». Speranza e preghiera: «Vieni Signore, vieni, vieni». C’è infine un terzo punto: «conservare la consolazione». Perché se è vero che la «consolazione è forte», è anche vero che «non si conserva così forte - è un momento - ma lascia le sue tracce». Entra, così, in gioco il fare «memoria». Come fece il popolo d’Israele quando fu liberato. E quando poi, si è chiesto Francesco, «passa questo momento forte» dell’incontro e della consolazione, «cosa rimane? La pace», che è proprio «l’ultimo livello di consolazione». Uno stato che si riconosce; si dice, infatti: «Guarda: un uomo in pace, una donna in pace». Ecco allora che «ognuno di noi può domandarsi: io sono in pace? Sono sereno nell’anima?». L’esortazione finale del Papa è stata quindi quella di chiedere «al Signore che ci insegni questa tensione verso la redenzione, questa strada di tensione» riguardo alla quale il salmo, commentando il ritorno dall’esilio, dice: «Nell’andare se ne va piangendo, portando la semente da gettare, ma nel tornare viene con gioia, portando i suoi covoni». Da qui l’auspicio conclusivo: «Che il Signore ci dia questa grazia: aspettare la consolazione, riconoscere la consolazione spirituale e conservare la consolazione».

Tutti sono chiamati All’Angelus il Pontefice commenta la parabola dei lavoratori nella vigna

Nel regno di Dio «non ci sono disoccupati, tutti sono chiamati a fare la loro parte; e per tutti alla fine ci sarà il compenso che viene dalla giustizia divina». Lo ha ricordato il Papa all’Angelus di domenica 24 settembre, in piazza San Pietro, commentando la parabola evangelica dei lavoratori chiamati a giornata.

Cari fratelli e sorelle, buongiorno! Nell’odierna pagina evangelica (cfr. Mt 20, 1-16) troviamo la parabola dei lavoratori chiamati a giornata, che Gesù racconta per comunicare due aspetti del Regno di Dio: il primo, che Dio vuole chiamare tutti a lavorare per il suo Regno; il secondo, che alla fine vuole dare a tutti la stessa ricompensa, cioè la salvezza, la vita eterna. Il padrone di una vigna, che rappresenta Dio, esce all’alba e ingaggia un gruppo di lavoratori, concordando con loro il salario di un denaro per la giornata: era un salario giusto. Poi esce anche nelle ore successive - cinque volte, in quel giorno, esce - fino al tardo pomeriggio, per assumere altri operai che vede disoccupati. Al termine della giornata, il padrone ordina che sia dato un denaro a tutti, anche a quelli che avevano lavorato poche ore. Naturalmente, gli operai assunti per primi si lamentano, perché si vedono pagati allo stesso modo di quelli che hanno lavorato di meno. Il padrone, però, ricorda loro che hanno ricevuto quello che era stato pattuito; se poi Lui vuole essere generoso con gli altri, loro non devono essere invidiosi. In realtà, questa “ingiustizia” del padrone serve a provocare, in chi ascolta la parabola, un salto di livello, perché qui Gesù non vuole parlare del problema del lavoro o del giusto salario, ma del Regno di Dio! E il messaggio è questo: nel Regno di Dio non ci sono disoccupati, tutti sono chiamati a fare la loro parte; e per tutti alla fine ci sarà il compenso che viene dalla giustizia divina - non umana, per nostra fortuna! -, cioè la salvezza che Gesù Cristo ci ha acquistato con la sua morte e risurrezione. Una salvezza che non è meritata, ma donata - la salvezza è gratuita -, per cui «gli ultimi saranno primi e i primi, ultimi» (Mt 20, 16). Con questa parabola, Gesù vuole aprire i nostri cuori alla logica dell’amore del Padre, che è gratuito e generoso. Si tratta di lasciarsi stupire e affascinare dai «pensieri» e dalle «vie» di Dio che, come ricorda il profeta Isaia, non sono i nostri pensieri e non sono le nostre vie (cfr. Is 55, 8). I pensieri umani sono spesso segnati da egoismi e tornaconti personali, e i nostri angusti e tortuosi sentieri non sono paragonabili alle ampie e rette strade del Signore. Egli usa misericordia - non dimenticare questo: Egli usa misericordia -, perdona largamente, è pieno di generosità e di bontà che riversa su ciascuno di noi, apre a tutti i territori sconfinati del suo amore e della sua grazia, che soli possono dare al cuore umano la pienezza della gioia. Gesù vuole farci contemplare lo sguardo di quel padrone: lo sguardo con cui vede ognuno degli operai in attesa di lavoro, e li chiama ad andare nella sua vigna. È uno sguardo pieno di attenzione, di benevolenza; è uno sguardo che chiama, che invita ad alzarsi, a mettersi in cammino, perché vuole la vita per ognuno di noi, vuole una vita piena, impegnata, salvata dal vuoto e dall’inerzia. Dio che non esclude nessuno e vuole che ciascuno raggiunga la sua pienezza. Questo è l’amore del nostro Dio, del nostro Dio che è Padre. Maria Santissima ci aiuti ad accogliere nella nostra vita la logica dell’amore, che ci libera dalla presunzione di meritare la ricompensa di Dio e dal giudizio negativo sugli altri.

Al termine della preghiera mariana il Papa ha ricordato la beatificazione del missionario Francis Rother, prete statunitense martire in Guatemala, e ha salutato i gruppi presenti.

Cari fratelli e sorelle, ieri, a Oklahoma City (Stati Uniti d’America), è stato proclamato Beato Stanley Francis Rother, sacerdote missionario, ucciso in odio alla fede per la sua opera di evangelizzazione e promozione umana in favore dei più poveri in Guatemala. Il suo esempio eroico ci aiuti ad essere coraggiosi testimoni del Vangelo, impegnandoci in favore della dignità dell’uomo. Saluto con affetto tutti voi, romani e pellegrini provenienti da diversi Paesi. In particolare saluto il coro della Missione Cattolica italiana di Berna, la comunità romana di Comunione e Liberazione, i fedeli di Villadossola, Offanengo e Nola. A tutti auguro una buona domenica. E per favore, non dimenticatevi di pregare per me. Buon pranzo e arrivederci!

AVVENIRE Pag 1 Oltre le paure di Marco Tarquinio Consolare, denunciare, fare bene

Costruire e vivere l’unità. Qui e ora, immersi in questo «cambiamento d’epoca», da protagonisti consapevoli e umili, concreti eppure capaci di mettere in campo anche la forza della propria spiritualità. Che è, appunto, una «spiritualità dell’unità», da vivere nella comunità cristiana e nella più vasta comunità civile, in Italia e in un mondo da rendere migliori. Il cardinale Gualtiero Bassetti, nel suo nuovo ruolo di presidente della Cei, apre i lavori del Consiglio permanente dell’episcopato italiano e offre come idea guida della riflessione comune l’«unità». Parola che oggi viene contraddetta e sembra come assediata, in ogni ambito – anche nella Chiesa – e a troppi propositi e spropositi, nella stagione della diffidenza che si fa paura, scoramento e respingimento. Sfiducia in persone e valori, rifiuto della fraternità con ogni altro essere umano e soprattutto con chi è più fragile e ferito, svuotamento della speranza e dell’amore che vengono da Dio e che alimentano quell’«umanesimo concreto» che ci riconcilia con noi stessi e ci fa comprendere qual è il nostro giusto posto nella «casa comune». Unità nella Chiesa, dice dunque Bassetti. Attorno a papa Francesco, accogliendo e offrendo come il Successore di Pietro chiede il Vangelo della vita e della gioia, perché le comunità cristiane hanno un solo vero «termometro »: la «missione». E ognuno deve fare la propria parte, persone consacrate e fedeli laici, non nella uniformità ma nella multiforme solidarietà. E non dimenticando mai che la prima prossimità per un cristiano è quella con i poveri. Tutti i poveri, senza distinzioni. L’arcivescovo di Perugia trova una sintesi perfetta in uno scritto di don Primo Mazzolari: «Non avrei mai pensato che in terra cristiana, con un Vangelo che incomincia con “Beati i poveri”, il parlar bene dei poveri infastidisse tanta gente, che pure è gente di cuore e di elemosina». E commenta «Parole che sono attualissime perché la povertà, ancora oggi, è uno scandalo da nascondere e da occultare. Andare verso i poveri, invece, è inequivocabilmente una questione che investe la fede e che si riflette nel modo di vivere la Chiesa». Unità nella partecipazione alla vita sociale. Nella quale, sottolinea il presidente della Cei, lievita da tempo una grande «questione antropologica ». E sprona a fronteggiare le disumane e disumanizzanti tentazioni e imposizioni – Bassetti non usa queste esatte parole, ma lì il suo ragionamento conduce – della tecnoscienza e di ogni suprematismo, per far crescere invece la «cultura della carità» che rappresenta l’antidoto alle culture dell’«indifferenza » e «dello scarto» che si accompagnano sempre più spesso a presunzioni tragiche e a paure che inclinano alla fobia, come quelle contro le vite imperfette e inopportune di bambini non ancora nati, di anziani inutili o di diversi per pelle e storia. Perché gli impauriti vanno abbracciati, consolati e, se necessario, scossi, ma gli spacciatori della droga della paura e della xenofobia vanno denunciati e fermati. Unità nella proposta alla politica. Politica che bisogna saper fare e interpellare secondo priorità chiare. E non è affatto un caso che le priorità politiche che il cardinale presidente torna a indicare siano tali anche nell’azione pastorale della Chiesa: lavoro (grande tema del cammino della 48° Settimana Sociale dei cattolici che si concluderà tra un mese a Cagliari), famiglia (con la ricezione e l’attuazione dell’esortazione apostolica Amoris laetitia di papa Francesco) e giovani (protagonisti del nuovo Sinodo convocato dal Papa). Politica che è necessario spingere a scelte lungimiranti: dalla valorizzazione dei talenti, spesso umiliati, dei nostri ragazzi all’impegno, anche con i «corridoi umanitari», per stroncare il traffico di persone nel Mediterraneo e per avviare saggi programmi di integrazione dei migranti; dal giusto riconoscimento della cittadinanza dei nuovi italiani al “fattore famiglia” per sostenere i nuclei con figli. C’è infatti bisogno di «prudenza, pazienza e generosità» per «rammendare il tessuto sociale dell’Italia». Ecco perché ai credenti non è dato di dividersi in «cattolici della morale» e «cattolici del sociale». Non è cioè possibile, avverte Bassetti, «prendersi cura dei migranti e dei poveri per poi dimenticarsi del valore della vita; oppure, al contrario, farsi paladini della cultura della vita e dimenticarsi dei migranti e dei poveri, sviluppando in alcuni casi addirittura un sentimento ostile verso gli stranieri». Parole che tengono acceso un prezioso «faro dell’azione politica e sociale dei cattolici», mentre le ombre si addensano e non pochi, purtroppo, rischiano di perdere l’orientamento. Per questo non ci si può stancare di testimoniare che se vogliamo davvero costruire un futuro buono e giusto, nessuna vita può essere “fatta a pezzi”, e nessuna difesa della vita.

Pag 2 Pedofilia nel clero, vero allarme ma da valutare senza paraocchi (intervento di Mauro Visigalli, avvocato della Curia Romana)

Gentile direttore, dopo aver letto l’interessante rubrica di Salvatore Mazza riguardo alla lotta contro la pedofilia nella Chiesa, vorrei aggiungere alcune note, tratte dalla mia esperienza di avvocato nei tribunali vaticani. Texas, una domenica pomeriggio estiva, barbecue e qualche amico – fra cui un giovane sacerdote – nella piccola piscina dietro casa. Qualcuno chiacchiera sulle sdraio, il sacerdote e Anna (prendiamo a piacere dal calendario il nome da assegnare alla figlia dei padroni di casa) entrano in acqua e ingaggiano – chi non l’ha mai fatto? – una battaglia scherzosa a colpi di spruzzi. Anna pare soccombere, si ritira verso la scaletta, il sacerdote con un paio di bracciate la raggiunge, allunga un braccio per trattenerla, il costumino scivola lungo la gamba e la bambina, graziosamente impermalosita come a otto anni si è soliti fare, si volta e – fra le risate generali – insulta il suo “nemico”. Purtroppo ad Anna la vita non va bene: circa trent’anni dopo la ritroviamo divorziata, senza denaro, con una figlia e un passato pesante, di droga e prostituzione. Anna si reca in Diocesi e racconta che il proprio fallimento è la conseguenza di un abuso subito da piccola: chiede un risarcimento ma premette che si accontenterebbe di un divano nuovo e della riparazione della sua automobile. Cambiamo luogo: frate Gioacchino (uso sempre il calendario) si reca tutti i giorni a fare visita ai ricoverati nell’ospizio di Baltimora, posto dietro al Convento ove lui risiede. Un giorno, poco dopo aver terminato il giro, il religioso viene convocato d’urgenza dal Superiore: una degente novantatreenne del nosocomio, trovata discinta e in stato confusionale, ha riferito di essere stata aggredita sessualmente da un uomo. Poiché la poveretta pare non avere molti visitatori, si avvia un procedimento nei confronti del frate, presto chiuso dalla polizia per mancanza di elementi, incongruenza del racconto, descrizione dell’aggressore incompatibile con l’aspetto di frate Gioacchino. Caso chiuso dalla Polizia, ma non dall’Ordine, che immediatamente sospende il religioso, lo interroga e controinterroga, lo invia in un istituto specializzato nella valutazione psichiatrica, rinuncia infine a processarlo, ma mantiene (son passati circa vent’anni!) la sospensione per evitare che qualcuno possa accusare il Superiore di avere “insabbiato” il caso e, con una richiesta di risarcimento, mettere «a repentaglio il patrimonio dell’Ordine» (testuali parole!). Sia il giovane sacerdote della piscina, sia frate Gioacchino compaiono nell’elenco pubblico – scaricabile da internet o dai siti diocesani – dei “credibilmente accusati” per abusi sessuali. Potrei menzionare molti altri episodi, riguardanti altri religiosi e/o sacerdoti: dalla mano sulla spalla durante la Confessione («La spalla – scrive il consulente del tribunale diocesano – si trova vicino al seno, quindi anche se il sacerdote non aveva intenzioni impure il penitente può averle percepite, configurandosi così un reato di “sollecitazione”»), al bacio in fronte del docente in Seminario al neoprofesso (possibile invito – secondo i giudicanti – a più torbide intimità), ma non mi interessa divulgare casistica. Ciò che invece voglio esprimere – e ho già espresso più volte, sia con la stampa locale che con quella internazionale – è il mio sconcerto verso un argomento di cui tanto spesso si parla senza cognizione, inseguendo più le torbide elucubrazioni di gente in cerca di vendette o di cronisti a caccia di notizie sensazionali che il giusto accertamento di fatti e responsabilità. A tale proposito non esito a dire (errando probabilmente per difetto) che i casi come quelli sopra riportati costituiscono il 75% dei numeri impressionanti (anche se in realtà modesti rispetto alle proporzioni “laiche” dei casi di abuso sessuale) che si riportano quando si parla di “pedofilia nella Chiesa”. Certo, casi ci sono, e per un cattolico anche uno soltanto sarebbe di troppo; l’allarme non va sottovalutato e il criminale deve essere punito con severità, ma chi non si ferma alla superficie delle cose, bene intende come l’attenzione spasmodica all’opinione pubblica sia il peggior nemico della vera giustizia e come, nel disordine, i veri criminali sguazzino perché non c’è migliore posto per nascondere una mela marcia che un cestino di mele buone. La ringrazio per l’attenzione e saluto, assieme a lei, tutti i suoi lettori.

Pagg 5 – 6 “Il lavoro, priorità per il Paese” La prolusione di Bassetti: chiamati ad essere Chiesa al servizio di un’umanità ferita

Cari confratelli e - permettetemi - soprattutto cari amici, sono ormai molti anni, dal 1994, che partecipo ai lavori della Conferenza episcopale italiana. Vi sento amici: per la conoscenza lunga e profonda, la comunione vissuta in momenti di fraternità, la condivisione di responsabilità e la discussione franca dei problemi della Chiesa italiana e del mondo. Desidero esprimere la mia più profonda gratitudine al Santo Padre per la fiducia e la premura che ha riposto nella mia persona affidandomi questo incarico. Un pensiero particolare lo rivolgo, inoltre, al cardinale , per due mandati presidente della Cei. Lo ringrazio di cuore, a nome di tutti, per il suo servizio, la fedeltà al Papa e alla Chiesa, e l’attenzione dedicata ad ognuno di noi. Pensando al territorio di cui siamo espressione, sento il dovere di esprimere una parola di profonda riconoscenza ai nostri parroci: sono costruttori di comunità, strumenti della tenerezza di Dio, presbiteri che si spendono e si ritrovano nella carità pastorale. Accanto a loro, mi è impossibile non accennare ai religiosi: uomini e donne che, nella varietà dei loro carismi, ci restituiscono il primato dell’amicizia con il Signore, la profezia della fraternità e la fecondità delle opere. Un ringraziamento doveroso, infine, in questa sede anche agli operatori della comunicazione, che ci consentono di arrivare nelle case della gente, con una parola che vuol essere di sostegno e speranza. L’incarico che mi è stato affidato mi pesa sulle spalle, anche per l’età. Mi consolano le parole che monsignor Enrico Bartoletti scrisse nel suo Diario, l’11 agosto 1972, quando gli fu comunicato il suo nuovo compito in Cei. Così scrisse: «In manus tuas, Domine! Signore, accetta il mio umile sacrificio e dammi la grazia di cercare solo te». Con gioia e commozione cerco di far mie queste parole con l’assoluta convinzione che senza l’aiuto di Dio non potrei far nulla. Sento una grande responsabilità che si addolcisce nella consapevolezza di servire la Chiesa italiana. Cari confratelli, è mia intenzione aprire il Consiglio permanente rivolgendo un pensiero a quelle persone che ora sono nella sofferenza e nel lutto. Vorrei testimoniare la più sincera vicinanza a tutte quelle donne che in Italia, pressoché quotidianamente, sono vittime di una violenza cieca e brutale. Un pensiero affettuoso va, anche, a tutte le popolazioni italiane ferite dal terremoto, da Ischia all’Italia centrale; ai cittadini di Livorno, colpiti da una tragica alluvione; e al Messico dove un terribile terremoto ha tolto la vita a centinaia di persone.

1. UN CAMBIAMENTO D’EPOCA - Parlando a Firenze al Convegno ecclesiale nazionale, papa Francesco ha detto che «oggi non viviamo un’epoca di cambiamento quanto un cambiamento d’epoca ». Questo è uno snodo decisivo: il punto di partenza per la riflessione e l’impegno. Quasi nulla è più come prima. Dobbiamo assumere la piena consapevolezza che stiamo vivendo in un mondo profondamente cambiato, in un’Italia molto diversa rispetto al passato e con una Chiesa sempre più globale. In questa nuova realtà, sorgono nuove sfide e nuove domande a cui bisogna fornire, senza paura e con coraggio, delle risposte altrettanto nuove. Oggi viviamo in una società tecnologica e secolarizzata. Una società, afferma papa Francesco, che corre un «grande rischio»: quello di essere caratterizzata da «una tristezza individualista che scaturisce dal cuore comodo e avaro, dalla ricerca malata di piaceri superficiali, dalla coscienza isolata» (Evangelii Gaudium 2). L’uomo moderno è troppo spesso un uomo spaesato, confuso e smarrito. Un uomo ferito non solo perché ha perso il «senso del peccato », ma perché «cerca salvezza dove si può». E così si aggrappa a tutto e a chiunque sia in grado di fornire un significato alla vita. Questa umanità ferita, inoltre, abita un mondo dove è ormai emersa una nuova questione sociale che investe la sfera economica e quella antropologica, la dimensione culturale e quella politica, i cui riflessi si fanno sentire profondamente anche in ambito religioso. Basti pensare all’introduzione della robotica nell’industria, alle applicazioni biomediche sul corpo umano, all’impatto ambientale delle grandi città, alle nuove forme di comunicazione e agli sviluppi dell’intelligenza artificiale. Questa nuova questione sociale è caratterizzata da almeno tre fattori: lo sviluppo pervasivo di un nuovo potere tecnico, come aveva intuito profeticamente Romano Guardini; la crisi dell’umano e dell’umanesimo che è il fondamento della nostra civiltà; una manipolazione sempre più profonda dell’oikos, della nostra casa comune, della Terra. In questo eccezionale «cambiamento d’epoca», da cinque anni, abbiamo la grazia di trovarci di fronte al messaggio profetico di papa Francesco, che mette al centro di tutto il Vangelo di Gesù, ci esorta ad andare verso i poveri e ci invita a guardare questo nuovo mondo da un angolo visuale diverso, quello delle periferie. Il cuore pulsante di questo messaggio profetico è la conversione pastorale. Che è, al tempo stesso, un richiamo tradizionale e radicale: è «l’esercizio della maternità della Chiesa», di una Chiesa che è incarnata nella storia, che non si ritira nelle astrattezze moralistiche o solidaristiche e che parla i linguaggi della contemporaneità in continuo movimento. Questo messaggio richiede una autentica ricezione di tutta la Chiesa: dei vescovi, dei preti, dei religiosi, delle suore, dei diaconi e dei laici. Qui si gioca la nostra responsabilità. Il Papa chiama ognuno a fare la sua parte. Sa che c’è bisogno di tutti. E chiede di liberarci dal clericalismo, perché ogni persona possa avere pienamente il suo spazio in una Chiesa autenticamente sinodale.

2. QUELLO CHE CI STA A CUORE - La Chiesa italiana, per portare la luce di Cristo in questo mondo nuovo, deve far affidamento su alcune preziose bussole di orientamento. Si tratta di priorità che coniugano una sapienza antica con l’attuale magistero pontificio: lo spirito missionario; la spiritualità dell’unità; e la cultura della carità. 2.1. Lo spirito missionario - Siamo chiamati, innanzitutto, ad essere Chiesa al servizio di un’umanità ferita. Che significa, inequivocabilmente, essere Chiesa missionaria. E la prima missione dei cristiani consiste nell’annuncio del Vangelo nella sua stupenda, radicale e rivoluzionaria semplicità. Un annuncio gioioso, come ci ricorda l’Evangelii Gaudium, che punti all’essenziale, «al kerygma» perché «non c’è nulla di più solido, di più profondo, di più sicuro, di più consistente e di più saggio di tale annuncio» (EG 165). È la visione francescana di un Vangelo sine glossa, quel Vangelo che dobbiamo ad ogni uomo e a ogni donna, senza imporre nulla. È un annuncio d’amore per ogni uomo. Ricordando sempre, come ci ha insegnato don Primo Mazzolari, che «l’Amore non è colui che dà ma Colui che viene» e che può nascere in una stalla e morire sul Calvario «perché mi ama». Molto si fa nelle nostre Chiese, ma questo cammino va accelerato. Crescono nuove generazioni, diverse dalle precedenti. Ha scritto il Santo Padre: «Affinché questo impulso missionario sia sempre più intenso, generoso e fecondo, esorto anche ciascuna Chiesa particolare ad entrare in un deciso processo di discernimento, purificazione e riforma» (EG 30). È assolutamente necessario un deciso impegno per rivitalizzare le realtà che già esistono al nostro interno, ma che forse hanno smarrito la tensione e la capacità di animazione sul territorio. Va nella linea di un rilancio della pastorale missionaria anche la prima edizione del Festival nazionale, che quest’anno si svolgerà Brescia dal 12 al 15 ottobre. La missione non solo è possibile, ma è il termometro della nostro essere Chiesa. Abbiamo percorso questa strada con decisione e libertà da noi stessi e dal passato? Mi interrogo. L’obiettivo, per la Chiesa italiana, è semplice quanto decisivo: concretizzare «il sogno missionario di arrivare a tutti» (EG 31). Un sogno che ci scuote dalle abitudini e dalla pigrizia e ci appassiona. È il senso della nostra vita, come dice l’apostolo Paolo: «guai a me se non annuncio il Vangelo» (1 Cor 9, 16). Che il «sogno missionario» diventi la nostra passione personale e quella del popolo di Dio. Così, nel cuore di questo 'cambiamento d’epoca', la Chiesa italiana sta in mezzo al popolo con la semplicità eloquente del Vangelo, senza altra pretesa che darne testimonianza. Il primato dell’annuncio del Vangelo fa tornare semplici. Talvolta fa archiviare progetti, non sbagliati, ma secondari rispetto a tale primato. Il nostro orizzonte diventa più semplice, ma non meno impegnativo: prima il Vangelo! 2.2. La spiritualità dell’unità - Uno dei fatti più belli della Chiesa italiana è la multiformità, frutto di storia, radicamenti secolari, coraggiose intraprese, iniziative carismatiche, fedeltà costruttive. In questo tempo di particolarismi e allentamento dei legami ci può essere la tentazione di andare ciascuno per la propria strada. Isolarsi è una tendenza che può entrare anche all’interno della Chiesa ma che va allontanata con decisione: un corpo è vivo solo se tutte le membra cooperano tra loro. Nessun membro del corpo può vivere da se stesso. Mi auguro che queste affermazioni siano accolte per quello che intendono essere: un forte richiamo a un maggiore apprezzamento tra le diverse realtà ecclesiali, in un’autentica gara a stimarsi e valorizzarsi a vicenda (cfr. Rm12, 10). La ricca complessità della Chiesa, però, non può essere ordinata con una geometria pastorale calata dall’alto. È necessario far maturare, in questo tessuto, una spiritualità dell’unità. Il cuore di questa spiritualità conduce a parlarsi con parresia, «a voce alta e in ogni tempo e luogo» (EG259), a partire dal Consiglio permanente della Cei fino alla più piccola parrocchia d’Italia. Siamo chiamati a dare vita non ad una Chiesa uniforme, ma ad una Chiesa solidale e unita nella sua complessa pluralità. Si tratta dunque di un’autentica vocazione alla collegialità - tra i vescovi e tutto il corpo della Chiesa - e al dialogo. Chi dialoga non è un debole ma è, all’opposto, una persona che non ha paura di confrontarsi con l’altro. 2.3. La cultura della carità - La cultura della carità è la cultura dell’incontro e della vita, che si contrappone alla cultura della paura, dello scarto e della divisione. Essa è l’incarnazione della parabola del samaritano. «L’antica storia del Samaritano», come disse Paolo VI alla conclusione del Vaticano II, «è stata il paradigma della spiritualità del Concilio». La Chiesa è chiamata a promuovere una cultura che si prefigge «l’inclusione sociale dei poveri» perché essi «hanno un posto privilegiato» nel popolo di Dio (EG 186- 216). E proprio perché «non amiamo a parole ma con i fatti» il Papa ha istituito la Giornata mondiale del poveri che si celebrerà per la prima volta il 19 novembre. Di fronte ai poveri la Chiesa italiana prende a modello san Francesco: quando incontra «il cavaliere nobile ma povero» si toglie il mantello per darlo a chi è nel bisogno. Perché i poveri, anche se non fanno notizia, ci lasciano intravedere il volto di Cristo. «Non avrei mai pensato che in terra cristiana, con un Vangelo che incomincia con 'Beati i poveri'» diceva don Mazzolari «il parlar bene dei poveri infastidisse tanta gente, che pure è gente di cuore e di elemosina». Parole che sono attualissime perché la povertà, ancora oggi, è uno scandalo da nascondere e da occultare. Andare verso i poveri, invece, è inequivocabilmente una questione che investe la fede e che si riflette nel modo di vivere la Chiesa. La cultura della carità è anche sinonimo della cultura di una vita, che va difesa sempre: sia che si tratti di salvare l’esistenza di un bambino nel grembo materno o di un malato grave; e sia che si tratti di uomo o una donna venduti da un trafficante di carne umana. Noi abbiamo il compito, non certo per motivi sociologici o morali, di andare verso i poveri per una missione dichiaratamente evangelica.

3. AMBITI DA NON DISERTARE - In questo contesto che ho sinteticamente illustrato vedo alcuni ambiti su cui la Chiesa italiana è chiamata a fare un serio discernimento: il lavoro; i giovani; la famiglia; le migrazioni. 3.1. Il lavoro - La Chiesa guarda al mondo del lavoro non certo per esprimere una rivendicazione sociale, ma per ribadire un principio evangelico: il lavoro è sempre al servizio dell’uomo e non il contrario. Anche dal lavoro passa la dignità di una persona. «Un mondo che non conosce più i valori e il valore del lavoro – ha detto Francesco a Genova recentemente – non capisce più neanche l’Eucaristia». Oggi il lavoro è senza dubbio la priorità più importante per il Paese e la disoccupazione giovanile è la grande emergenza. Nonostante in Italia ci siano piccoli segnali di ripresa per l’economia, non posso non essere preoccupato di fronte agli 8 milioni di poveri descritti dall’Istat, la metà dei quali non ha di cosa vivere. Sono giovani, sono donne, sono coppie e sono cinquantenni che hanno perso il lavoro e che sono stati scartati dal sistema economico. Le parole del Papa a Genova sono di cruciale importanza: «La mancanza di lavoro è molto più del venire meno di una sorgente di reddito per poter vivere». Una società a misura d’uomo si giudica dall’attenzione che riserva alla dignità del lavoro, equamente retribuito, accessibile a tutti. Ci sono oggi tante affermazioni gridate, ma forse manca un «pensiero lungo» sul Paese. In questa prospettiva si colloca la prossima Settimana Sociale di Cagliari dal titolo: Il lavoro che vogliamo: 'libero, creativo, partecipativo e solidale'. Auspico vivamente che questa riflessione, bene impostata nell’Instrumentum laboris, si trasformi presto in una proposta concreta da mettere al centro dell’agenda pubblica del Paese. Infatti, non è sufficiente evocare il problema del lavoro, ma è necessario anche provare a discernere proposte e vie percorribili. Sono almeno tre le strade che, a nostro avviso, vanno percorse e su cui invitiamo le istituzioni a guardare con decisione: il lavoro e il Mezzogiorno d’Italia; il lavoro e la famiglia; il lavoro e i giovani. 3.2. I giovani - Sui giovani si gioca la parte più importante della missione della Chiesa. Accanto al lavoro, cioè al pane, i giovani hanno bisogno della Grazia di Dio. Di fronte all’effimera leggerezza con cui ci si riferisce alle giovani generazioni, si staglia la preoccupazione sapiente di una Chiesa che è un’autentica madre dei suoi figli. Tornano alla mente le parole di don Milani: «Su una parete della nostra scuola c’è scritto grande I care. È il motto intraducibile dei giovani americani migliori. 'Me ne importa, mi sta a cuore'». Cari confratelli i giovani ci stanno profondamente a cuore. Per questo siamo in cammino verso il prossimo Sinodo dei Vescovi. Anche se oggi viviamo immersi in un mondo in cui la «cultura del frammento» e un «forte relativismo pratico» allontanano i giovani dalla fonte della vita che è Cristo, questo è senza dubbio un tempo propizio per fermare il vortice quotidiano della società consumistica e per dare una parola autentica di incoraggiamento e un senso a quella straordinaria sete d’infinito che caratterizza i giovani di ogni generazione. I giovani sono «come le rondini», diceva Giorgio La Pira, «sentono il tempo, sentono la stagione: quando viene la primavera essi si muovono ordinatamente, sospinti da un invincibile istinto vitale - che indichi loro la rotta e i porti». I giovani, infatti, non hanno bisogno di qualcuno che gli indichi loro cosa sognare perché sono capaci a farlo da soli. Hanno molto più talento di noi vecchi e molta più capacità di pensare e immaginare un mondo nuovo. Quando si parla ai giovani bisogna parlare con parole di verità. Senza ripetere ad oltranza una serie di frasi mielose e senza sostanza. Sui giovani, infatti, c’è una drammatica e stucchevole retorica, che purtroppo non viene sempre supportata dai fatti. Dovremmo impegnarci su questo. C’è molto lavoro da fare. 3.3. La famiglia - La Chiesa italiana, pur tra molte difficoltà, è una Chiesa di popolo. E questo popolo è senza dubbio costituito da milioni di famiglie, che costituiscono la cellula basilare della società italiana. Il contesto attuale - caratterizzato da un crescente aumento di convivenze, separazioni e divorzi, nonché da un tasso di natalità che continua a diminuire drammaticamente - ci impone di guardare alla famiglia in modo concreto, senza cercare alcuna scorciatoia, scorgendo nelle fragilità della famiglia non solo i limiti dell’uomo, ma soprattutto il luogo della Grazia. Sono almeno tre le sfide che la famiglia deve affrontare nel mondo contemporaneo. E queste sono altrettante sfide anche per la Chiesa italiana. La prima è di tipo esistenziale e risiede nelle difficoltà di formare ed essere una famiglia. Spesso vedo molte coppie indugiare, dubbiose e incredule che sia possibile dar vita ad una relazione «per sempre». Infatti, le donne e gli uomini di oggi sono cresciuti in un clima dove tutto - perfino le relazioni umane - viene consumato in modalità «usa e getta». La seconda sfida è di tipo sociale e consiste nel riuscire a rendere più a misura di famiglia la nostra società, sempre più complessa e logorante. Questa faticosa civiltà urbana, come aveva già intuito Paolo VI, produce una serie di ostacoli oggettivi alla vita familiare: la precarizzazione del lavoro, ad esempio, ferisce l’anima dei coniugi e impedisce di formare una base minima di stabilità; i ritmi ossessivi producono una sorta di nevrosi sociale impedendo di avere del tempo da dedicare al coniuge e ai figli; la mobilità sociale rompe le tradizionali reti generazionali di mutua assistenza tra nonni e figli; e infine, in parte inesplorata ma dal significato antico. Bisogna subito sgombrare il campo da un equivoco che potrebbe sorgere da un dibattito pubblico particolarmente aspro su questi temi: la Chiesa cattolica si è sempre occupata dell’ospitalità del forestiero e del migrante. E lo ha fatto non certo per un’idea politica o sociale, ma per amore di ogni persona. È il cuore della nostra fede: di un Dio che si è fatto uomo. L’ospitalità è, da tradizione, un’opera di misericordia e, come ci insegna Abramo, una delle più alte forme di carità e di testimonianza della fede. Attraverso l’ospite noi scegliamo di accogliere o respingere Cristo nella nostra vita (Mt 25, 35.43). Il richiamo alla difesa della dignità inviolabile del migrante, inoltre, è un insegnamento presente in molti documenti della Santa Sede e che si è fatto carne nell’opera di alcuni grandi apostoli del passato, tra i quali molti italiani: Francesca Cabrini, Geremia Bonomelli, Giovanni Battista Scalabrini. Oggi questa sfida antica si ripropone con tratti nuovi. E lo sguardo profetico di papa Francesco ha il merito storico di aver tolto i migranti da quella cappa di omertà in cui erano stati confinati dalla «globalizzazione dell’indifferenza » e di averli messi al centro della nostra attività pastorale. Promuovere una pastorale per i migranti significa, prima di tutto, difendere la cultura della vita in almeno tre modi: denunciando la «tratta» degli esseri umani e ogni tipo di traffico sulla pelle dei migranti; salvando le vite umane nel deserto, nei campi e nel mare; deplorando i luoghi indecenti dove troppo spesso vengono ammassate queste persone. I corridoi umanitari - nei quali la Chiesa italiana è impegnata in prima persona - sono, quindi, necessari per dare vita ad una carità concreta che rimane nella legalità. Il primato dell’apertura del cuore al migrante ci fa guardare oltre le frontiere italiane. Ci invita a intensificare la cooperazione e l’aiuto allo sviluppo al Sud del mondo, per far risorgere tra i giovani la speranza di un futuro degno nella propria patria. È una linea su cui si muove da tempo la Cei, sostenendo numerosi progetti di sviluppo e, recentemente, con la campagna Liberi di partire, liberi di restare. Si tratta di la donna, sempre più spesso racchiusa tra una maternità desiderata e un lavoro necessario, rischia di non comprendere più qual è il suo ruolo all’interno della famiglia e della società. La terza sfida ci introduce, infine, in uno dei più grandi temi di discussione degli ultimi decenni e si riferisce alla questione antropologica e alla difesa e alla valorizzazione della famiglia tra uomo e donna, aperta ai figli. Una sfida culturale e spirituale di grandissima portata. Per questo motivo noi abbiamo di fronte due strade: innanzitutto, quella pastorale in cui dobbiamo impegnarci nelle diocesi, nelle parrocchie e negli uffici pastorali per recepire con autenticità lo spirito dell’esortazione apostolica Amoris Laetitia; in secondo luogo, quella sociale in cui chiediamo con forza alle Istituzioni - a partire dalla prossima Conferenza Nazionale per la famiglia - di elaborare politiche innovative e concrete, che riconoscano, soprattutto, il «fattore famiglia» nel sistema fiscale italiano. Una misura giusta e urgente, non più rinviabile, per tutte le famiglie, in particolare quelle numerose. Una misura di cui avvertiamo l’assoluta importanza non solo perché avrebbe dei benefici sui redditi familiari ma perché potrebbe avere degli effetti positivi su un tema cruciale per il futuro della nazione: quello della natalità. 3.4. Le migrazioni - Accogliere, proteggere, promuovere e integrare: sono questi i 4 verbi che papa Francesco ha donato alla Chiesa per affrontare la grande sfida delle migrazioni internazionali. Una sfida complessa, un progetto innovativo perché affronta il tema del diritto delle persone a restare nel proprio Paese senza essere costrette a scappare a causa della guerra o della fame. Accogliere è un primo gesto, ma c’è una responsabilità ulteriore, prolungata nel tempo, con cui misurarsi con prudenza, intelligenza e realismo. Non a caso il Santo Padre, di ritorno dalla Colombia, ha ricordato che per affrontare la questione migratoria occorre anche «prudenza, integrazione e vicinanza umanitaria». Tale processo va affrontato con grande carità e con altrettanta grande responsabilità salvaguardando i diritti di chi arriva e i diritti di chi accoglie e porge la mano. Il processo di integrazione richiede, innanzitutto, di fronteggiare, da un punto di vista pastorale e culturale, la diffusione di una «cultura della paura» e il riemergere drammatico della xenofobia. Come pastori non possiamo non essere vicini alle paure delle famiglie e del popolo. Tuttavia, enfatizzare e alimentare queste paure, non solo non è in alcun modo un comportamento cristiano, ma potrebbe essere la causa di una fratricida guerra tra i poveri nelle nostre periferie. Un’eventualità che va scongiurata in ogni modo. Infine, alla luce del Vangelo e dell’esperienza di umanità della Chiesa, penso che la costruzione di questo processo di integrazione possa passare anche attraverso il riconoscimento di una nuova cittadinanza, che favorisca la promozione della persona umana e la partecipazione alla vita pubblica di quegli uomini e donne che sono nati in Italia, che parlano la nostra lingua e assumono la nostra memoria storica, con i valori che porta con sé.

4. L’ITALIA - Cari confratelli, tra queste priorità irrinunciabili per il Paese che ho appena tratteggiato c’è un unico filo comune: l’Italia. A noi interessa che l’Italia diventi un Paese migliore. Bisogna perciò avere la forza, il coraggio e le idee per rimettere a tema l’Italia nella sua interezza: con la sua storia, il suo carattere, la sua vocazione. L’Italia è un Paese bellissimo, straordinariamente ricco di umanità e paesaggi, ma estremamente fragile: sia nel territorio che nei rapporti socio-politici. Ai cattolici dico che la politica, come scriveva La Pira, «non è una cosa brutta», ma una missione: è «un impegno di umanità e santità». La politica come affermava Paolo VI, è una delle più alte forme di carità. Papa Francesco ha più volte auspicato la necessità dei cattolici in politica. Ma come? Non spetta a me dirlo. Quello che mi preme sottolineare è che il cuore della questione non riguarda le formule organizzative. Il vero problema è come portare in politica, in modo autentico, la cultura del bene comune. Non basta fare proclami. La proclamazione di un valore non ci mette con la coscienza a posto. Bisogna promuovere processi concreti nella realtà. Non è auspicabile che, nonostante le diverse sensibilità, i cattolici si dividano in «cattolici della morale» e in «cattolici del sociale». Né si può prendersi cura dei migranti e dei poveri per poi dimenticarsi del valore della vita; oppure, al contrario, farsi paladini della cultura della vita e dimenticarsi dei migranti e dei poveri, sviluppando in alcuni casi addirittura un sentimento ostile verso gli stranieri. La dignità della persona umana non è mai calpestabile e deve essere il faro dell’azione sociale e politica dei cattolici. I cattolici hanno una responsabilità altissima verso il Paese. Dobbiamo, perciò, essere capaci di unire l’Italia e non certo di dividerla. Occorre difendere e valorizzare il sistema-Paese con carità e responsabilità. Perché il futuro del Paese significa anche rammendare il tessuto sociale dell’Italia con prudenza, pazienza e generosità. Cari confratelli, lo Spirito Santo ci sostenga nel nostro servizio alla Chiesa e alimenti la nostra comunione; la preghiera comune e fiduciosa di tutti noi ottenga dalla Misericordia del Signore una crescita di tutti nella carità e nell’amore per il Vangelo!

Pag 18 Amoris laetitia, manipolazioni anti-Papa di Luciano Moia Lorizio: “Sette posizioni eretiche? Ma nell’esortazione quelle frasi non esistono”. L’arcivescovo Forte: “Forzatura strumentale, prende di mira la Chiesa”

«Pretendere di attaccare il Papa, anzi accusarlo di eresia partendo da Amoris laetitia, utilizzando sette frasi che però nell’Esortazione postisinodale non sono espresse in quei termini, è disonestà intellettuale ». Monsignor Giuseppe Lorizio, docente di teologia fondamentale all’Università Lateranense, membro del Comitato nazionale per gli Studi superiori di teologia e di Scienze religiose della Cei, prende subito le distanze da coloro che vorrebbero far passare la difesa di Amoris laetitia per papolatria: «Qui non stiamo difendendo il Papa, ma il Vangelo. E anche tutta una tradizione che arriva dal Concilio di Trento e che i 62 firmatari del documento evidentemente ignorano». Il documento in questione si intitola “Correzione filiale in ragione della propagazione di eresie” e rappresenta una vera e propria manipolazione dell’Esortazione postsinodale. È stato diffuso nella notte tra sabato e domenica in contemporanea negli Stati Uniti e in Europa, ed è stato pubblicato in Italia da alcuni siti tradizionalisti che da mesi, prendendo spunto proprio da Amoris laetitia, attaccano il pontificato di Francesco. Tra coloro che hanno firmato il testo figurano il banchiere Ettore Gotti Tedeschi, il superiore generale della Fraternità sacerdotale San Pio X (lefebvriani) Bernard Fellay, il professor Antonio Livi e altri esperti meno noti. Nessun vescovo in comunione con Roma, nessun cardinale, neppure i due porporati ancora in vita tra i quattro che avevano sottoposto al Papa i Dubia. Il testo, circa 25 pagine, al di là delle sette accuse, è una confusa miscellanea di citazioni dell’Esortazione postsinodale, del magistero, del Vangelo, di altri testi. La sostanza però è chiara. Papa Francesco avrebbe «dato scandalo alla Chiesa in materia di fede e di morale, mediante la pubblicazione di Amoris laetitia e mediante altri atti». La saggezza latina avrebbe liquidato l’iperbolica pretesa con un sutor ne ultra crepidam. Cioè sarebbe facile concludere che nessuno di coloro che hanno firmato il testo possiede né l’autorità né la dottrina per rivolgere al Papa una simile accusa. Ma visto che il testo sta girando vorticosamente su Internet e che l’operazione per screditare Francesco è evidentemente orchestrata da qualcuno che sta alle spalle dei firmatari, entriamo nel merito delle accuse. Monsignor Lorizio, Amoris laetitia è davvero il frutto di una tradizione che arriva da Trento? In un punto significato dal capitolo 12 del Decreto sulla riconciliazione del concilio di Trento – e quindi siamo in piena tradizione – si dice che nessuno può avere la certezza assoluta di essere graziato o predestinato, il che significa che nessuno può ritenersi in una situazione di “certezza” per quanto riguarda la grazia. Il Papa, con Amoris laestitia, si innesta in questa tradizione. Chi dice il contrario, come traspare dal documento, evidenzia un problema di imperizia teologica. Qual è il punto che contraddice questa posizione tradizionale sulla grazia? Proprio il primo, dove a proposito della giustificazione si mostra una visione automatica e statica della Grazia, che invece è un fatto dinamico, che dobbiamo sempre invocare e che comunque non proviene dal nostro merito ma dal dono di Dio. In questo senso questa dinamica della grazia comporta che anche la persona che si è confessata, riceve il perdono e quindi è in stato di grazia, non è perfetta. E se non è perfetta, ha bisogno di conversione. Questo è il percorso in cui i sacramenti ci aiutano e ci sostengono. Come valutare l’osservazione a proposito dell’Eucarestia per i divorziati risposati? L’Eucarestia non può essere concepita come il Pane di coloro che già sono perfetti. Ma è il panis viatorum, di coloro cioè che sono in cammino. Se dovessimo tutti attendere la pienezza dell’unione con Dio per accedere all’Eucarestia, nessuno vi si potrebbe accostare. Tanto che pochi istanti prima di riceverla tutti, dal celebrante all’ultimo dei fedeli, diciamo “Signore non sono degno di partecipare alla tua mensa”. Questo non essere degni, vuol dire che l’Eucarestia è data anche alla nostra fragilità La quinta accusa, sulla sessualità tra persone divorziate e risposate, sembra fare una grande confusione sul ruolo della coscienza? In effetti è così. In Amoris laetitia c’è un elogio della coscienza che era già in Benedetto XVI e nel Vaticano II, ma qui si dimentica che la coscienza è un tabernacolo sempre abitato dalla luce del-l’Altro, cioè della verità. Il problema è mettere in rapporto la soggettività della persona e della coscienza con l’oggettività della trascendenza. La coscienza non è auto-prodotta, ma è frutto di una mediazione che si chiama discernimento. Una parola che nel documento in questione viene del tutto ignorata. Eppure sulla base di queste traballanti conoscenze, si attribuiscono al Papa posizione eretiche. L’Esortazione postsinodale ha una qualifica di magistero ordinario e quindi va accolta come tale, non è la posizione di una scuola teologica. È l’espressione di un percorso di Chiesa. E come si fa ad ignorare che l’intento dell’Esortazione è preminentemente pastorale. E dicendo che è pastorale non diciamo che si tratta di un livello inferiore rispetto alla teologia. Diciamo proprio il contrario, perché la pastorale comprende e include la teologia. E non il contrario. Altrimenti il cristianesimo sarebbe una sorta di intellettualismo, proprio ciò che il Papa dice di voler evitare. Molta confusione anche a proposito di quella che viene definita “perenne disciplina” dei sacramenti... Ma quale “perenne”? La disciplina dei sacramenti arriva da Trento. E i 1.500 anni precedenti? Amoris laetitia attribuisce valore al cammino penitenziale che la persona fa insieme al vescovo o al presbitero. Ma questo appartiene da sempre alla tradizione della Chiesa. Quando dopo Humanae vitae i vescovi olandesi andarono da Paolo VI per fargli presente le difficoltà di mettere insieme le indicazioni dell’enciclica e la coscienza dei fedeli, rispose: “In confessionale ogni prete è papa”. C’è insomma un’interpretazione affidata alla valutazione illuminata della direzione spirituale che non ci inventiamo oggi. La realtà supera l’idea e quindi la pretesa di normare tutto appartiene a una visione superata e pericolosa. Pensiamoci.

Il documento che accusa il Papa di eresia è «un grave attacco, una forzatura strumentale, un pregiudizio, una operazione contro il Papa e la Chiesa». È il parere di Bruno Forte, arcivescovo di Chieti-Vasto, che è stato segretario speciale del Sinodo dei vescovi sulla famiglia. «È l’espressione di un gruppo assolutamente minoritario – ha osservato ancora il teologo – che non ha colto in profondità il messaggio di Amoris Laetitia ma lo ha equivocato». Forte ha fatto anche osservare che nell’Esortazione postsinodale un punto è fuori discussione: «Si tratta di un documento non ha cambiato la dottrina della Chiesa ma ha semplicemente risposto a una domanda pastorale, in particolare ai divorziati risposati, certi che l’amore di Dio non abbandona queste persone, come può esprimere la Chiesa concretamente l’amore divino per queste situazioni di famiglie ferite? Una domanda pastorale assolutamente legittima – ha spiegato ancora – che risponde anche a un’esigenza profondamente evangelica, fondata sulla carità. Ignorare questo spirito, e al contrario voler cogliere a tutti i costi posizioni di abbandono della fede cattolica, è una forzatura strumentale, un atteggiamento pregiudizialmente chiuso verso lo spirito del Concilio Vaticano II che papa Francesco così profondamente sta incarnando». Come valutare allora un documento che addirittura accusa il Papa di eresia? «È una operazione che non può essere propria di chi ama la Chiesa, di chi è fedele al successore di Pietro nel quale riconosce il pastore che il Signore ha dato alla Chiesa come guida della comunione universale. La fedeltà va sempre rivolta al Dio vivente, che oggi parla nella Chiesa attraverso il Papa». Estrema chiarezza anche a proposito dei sette presunti capi di imputazione. «Fraintendono la necessità di verità e di misericordia da parte della Chiesa, che non chiude le porte in faccia a nessuno perché Dio non lo fa, nella costante ricerca di forme sincere, oneste e leali di accoglienza, discernimento e integrazione di tutte le persone nella vita della Chiesa».

CORRIERE DELLA SERA Pag 23 Il Vaticano: “La petizione anti-Papa? Il sito mai bloccato, le restrizioni c’erano già” di Gian Guido Vecchi

Città del Vaticano. E se uno, in Vaticano, volesse aderire alla petizione che propone una «correzione filiale» al Papa elencando «sette proposizioni false ed eretiche» attribuite a Francesco? Chi ha fatto per curiosità la prova, ieri, si è trovato la via sbarrata: si entra nel sito correctiofilialis.org, dove appare la «lettera aperta» in sei lingue, ma non si può sottoscrivere il testo perché il link che porta alla pagina delle adesioni, «clicca qui per firmare!», non funziona. Ne è nato un piccolo giallo, l’idea che il Vaticano avesse deciso di bloccare l’accesso all’iniziativa delle 40 persone, poi divenute 62, che meditavano la faccenda da mesi: studiosi, qualche sacerdote e giornalisti legati al mondo tradizionalista, alla destra cattolica e ai lefebvriani. Ma non è proprio così, «nessun blocco, la notizia è falsa». Il portavoce della Santa Sede, Greg Burke, ieri sorrideva, «ma figuratevi se facciamo questo per una lettera di sessanta persone». Monsignor Dario Viganò, prefetto della Segreteria per la Comunicazione, spiega al Corriere: «Non abbiamo bloccato nulla. Quel sito è rientrato in una serie di restrizioni che esistono da anni e valgono anche per molti altri indirizzi in Rete». Nella rete del Vaticano esistono dei «firewall», meccanismi di sicurezza e difesa «come avviene in tutte le aziende del mondo». Sono quelli che, ad esempio, impediscono di accedere a siti pornografici o a indirizzi che nelle pieghe della pubblicità contengono programmi «malware» dannosi. Tra l’altro i filtri bloccano anche i siti che richiedono di inserire dati personali, indirizzi email e simili. Se insomma qualcuno Oltretevere fosse tentato di sostenere la cosiddetta «correzione filiale» a Francesco, potrebbe leggere il testo ma non sottoscriverlo, magari con un nome fittizio: dovrebbe farlo fuori dal Vaticano, senza lo schermo di un indirizzo della Santa Sede. In Vaticano si nota con ironia «la stravaganza degli scismatici che danno dell’eretico al Papa». A partire da monsignor Bernard Fellay, superiore dei lefebvriani, molte firme sono infatti collegate alla «Fraternità San Pio X» fondata da Marcel Lefebvre in opposizione al Concilio, il che potrebbe tra l’altro complicare il faticoso cammino di riconciliazione tentato da Benedetto XVI e proseguito da Francesco. Le firme sono destinate ad aumentare, se non altro perché basta indicare nome, titolo e mail, senza altri requisiti particolari. Non ci sono cardinali né vescovi cattolici. I nomi più noti, finora, sono quello di Fellay e dell’ex presidente dello Ior, Ettore Gotti Tedeschi.

Pag 23 Don Prodi lascia la sua parrocchia: “Sono ferito per le critiche in piazza” di Alessandro Fulloni

Zola Predosa (Bologna) «Grazie di tutto». Sotto la scritta tracciata con lo spray su un lenzuolo appeso tra due colonne, compare anche la firma: «I ragazzi del biliardino». Il calcio-balilla è piazzato proprio lì, davanti all’ingresso della canonica, non lontano dal campo di calcio dell’oratorio di Santa Maria di Ponte Ronca, frazione di Zola Predosa, a due passi da Bologna. Pomeriggio di una bella giornata soleggiata. Don Matteo Prodi, 50 anni, il parroco che poche ore prima ha annunciato, con un lungo post su Facebook, di essersi dimesso, dopo 12 anni, dalla guida della comunità «perché non a tutti è piaciuta la mia vita», rincasa in bicicletta. Pantaloni da lavoro, felpa sportiva, la barba imbiancata che s’accompagna all’aria assai giovanile. Sulle prime il reverendo - con un curriculum sterminato: due lauree, una in Economia e commercio presa nel 1990 e l’altra più recente, nel 2010, in sacra teologia - non ha troppo voglia di parlare con i giornalisti che lo attendono davanti casa. «Se siete qui è solo perché sono il nipote di Romano Prodi, altrimenti la mia storia sarebbe passata inosservata» racconta don Matteo, nipote dell’ex premier ulivista e figlio di Vittorio, ex presidente della Provincia di Bologna e due volte europarlamentare, prima con la Margherita e poi con il Pd. Domenica il prete ha spiazzato i fedeli di Ponte Ronca (borgo di circa tre mila abitanti tra la Bassa e le prime colline dell’Appennino) con quel lungo annuncio a sorpresa: «Che potessi fare meglio, è fuori discussione» ha ammesso. Aggiungendo anche, piuttosto criptico: «Non a tutti è piaciuta o piace la mia vita; a nessuno, però, era lecito portare in pubbliche piazze valutazioni negative sulla mia persona, che hanno fatto male a me ma soprattutto alla comunità». Inevitabile la domanda: don Matteo, ma a cosa si riferiva? Dopo qualche istante di riflessione la risposta, mentre poggia la mano sullo stipite, è più accalorata che diplomatica: «Ho ringraziato tutti quelli che mi hanno voluto bene. Ma con altri, una piccola minoranza, ho avuto qualche problema. Che chiarirò parlando con loro personalmente». C’entrano magari i migranti in passato ospitati in canonica? Matteo scrolla la testa: «Siamo a Bologna... davvero pensate che qui possa esistere un problema di questo genere?». A chiedere ai passanti tra bar centrale e stazione si direbbe di no. Per il prete si moltiplicano i superlativi assoluti: «Don Matteo? È un uomo eccezionale: pratico poco la parrocchia, ho cominciato ad andarci per i suoi sermoni. I migranti? Chi altro deve pensarci se non la chiesa?» si chiede un signore sulla settantina. Maria Pia, tabaccaia sulla via principale, abbassa gli occhi intristita: «Mi si accappona la pelle a pensare che non sara più con noi». Figurarsi Michela, la figlia di Maria Pia: «Gli ho appena mandato un sms per chiedergli di ripensarci». Una coppia di pensionati seduti su una panchina del giardino comunale racconta dell’aiuto dato a una famiglia di rifugiati: «Hanno vissuto per qualche tempo in chiesa. Ora il papà ha trovato lavoro come operaio, i bimbi vanno a scuola: Matteo non ha pensato solo ad accoglierli, ma anche a integrarli». Adesso cosa farà il prete? Prima di richiudere la porta l’ex parroco di Santa Maria chiarisce: «Ogni mia decisione è in sintonia con il vescovo». E poi: «Continuerò a occuparmi di migranti».

Pag 32 La Chiesa “materna” del presidente della Cei di Andrea Riccardi Primo discorso del cardinale Bassetti al consiglio permanente: un rito sobrio con un messaggio sostanzioso pronunciato con un linguaggio “pastorale”

Ieri è stato un giorno importante per la Chiesa italiana: l’inauguration day del presidente della Cei, un rito sobrio ma un messaggio sostanzioso. Il cardinale Bassetti ha tenuto il primo discorso al consiglio permanente, cuore pulsante della Cei. Durante la presidenza del cardinale Ruini, questi discorsi (detti «prolusioni») hanno avuto anche rilevanza politica. Si nota subito la novità del linguaggio «pastorale» di Bassetti anche su nodi spinosi, come lo ius soli temperato, che ha fatto discutere pure i cattolici. Sulle migrazioni, il cardinale rivendica un interesse della Chiesa che viene da lontano: articola una linea saggia al di là del dibattito di questi mesi: denunciare la tratta di esseri umani, salvare le persone dal mare e dal deserto, deplorare i luoghi dove i migranti sono ammassati, lavorare per corridoi umanitari e vie legali, aiutare l’Africa perché dia futuro ai giovani, integrare quanti accolti in Italia. È una sintesi articolata che rappresenta una piattaforma importante non solo per il mondo cattolico. L’integrazione - per Bassetti - ha un passaggio decisivo nel «riconoscimento di una nuova cittadinanza» ai nati in Italia, figli di migranti, che condividono lingua e cultura. Un invito che farà pensare i parlamentari cattolici. Ma il discorso del presidente va ben oltre questo solo tema. Mentre il clima non è tranquillo nella Curia romana e riguardo al processo di riforma, il messaggio di Bassetti manifesta serenità, non solo personale ma della Chiesa italiana, accanto al Papa e nel Paese: «…la Chiesa italiana sta in mezzo al popolo con la semplicità eloquente del Vangelo, senza altra pretesa che darne testimonianza». Una serenità non inconsapevole dei problemi che incalzano: lavoro, famiglia e fisco a sua misura, giovani, l’«umanità ferita» della gente, Mezzogiorno... Con sensibilità inedita nel mondo ecclesiastico, il cardinale dice la sua vicinanza alle donne, «vittime di una violenza cieca e brutale». La serenità del messaggio è frutto della chiarezza con cui la Chiesa si ripensa attorno alla «missione», in linea con Francesco, «che mette al centro di tutto il Vangelo di Gesù e ci esorta ad andare verso i poveri». Così, per Bassetti, «il primato dell’annuncio del Vangelo fa tornare semplici». Si potrebbe dire che un vescovo di Bergoglio è giunto alla testa della Cei dopo più di quattro anni dall’elezione del Papa (Giovanni Paolo II ci mise sette anni a nominare un «suo» presidente alla Cei, il card. Poletti). È vero: Bassetti è stato creato cardinale da Francesco in una sede non «cardinalizia»; è stato un candidato alla presidenza auspicato dal Papa. Ma ha una sua personalità, che esprime la storia italiana del cattolicesimo. È vescovo dal 1994, occupando sedi episcopali rilevanti ma provinciali, visitando tutti i seminari italiani e facendo vita pastorale di base. Nel suo discorso, compaiono figure qualificanti il cristianesimo italiano: da mons. Bartoletti, a Mazzolari, Milani, La Pira. Il cardinale Bassetti rappresenta un punto di convergenza tra l’itinerario storico della Chiesa italiana e Francesco, che trae pacata autorità dalla sua storia e non solo dall’avallo papale. La «prolusione» mostra una forza di sintesi (si parla anche della questione antropologica e dei problemi della famiglia), capace di superare le querelle del cattolicesimo italiano, antiche e oggi riproposte in chiave pro o contro Bergoglio. Bassetti non accetta la divisione tra «cattolici della morale» e «cattolici del sociale»: non si possono difendere la vita o i valori e poi respingere i migranti oppure - ha spiegato — curare i poveri e dimenticare il valore della vita. La sua è una sintesi dinamica, non mediativa, attorno all’idea bergogliana di Chiesa in uscita. Il cardinale sa quanto il cattolicesimo italiano sia multiforme, tentato da derive frammentarie come la società. Non intende imporre geometrie unificanti, ma «far maturare la spiritualità dell’unità» bisogna parlarsi! - insiste -. È la sua filosofia «pastorale» nella Chiesa e fuori: «Chi dialoga non è un debole ma è, all’opposto, una persona che non ha paura…». Il tema della paura è presente nel discorso del cardinale e viene affrontato in modo pastorale: «Non possiamo non essere vicini alle paure delle famiglie…». Ma le paure e la xenofobia non vanno enfatizzate. Per fronteggiarle, la Chiesa - dice Bassetti - ha due strumenti: la pastorale e la cultura. La cultura ha molto spazio nel parlare «evangelico» del cardinale. Paura e spaesamento si battono con cultura e visioni: «Ci sono oggi tante affermazioni gridate, ma forse manca un pensiero lungo sul Paese». La Chiesa non rifugge una discussione sul futuro del Paese. Chiama i cattolici alla politica. Il presidente vorrebbe «rimettere a tema l’Italia nella sua interezza: con la sua storia, il suo carattere, la sua vocazione». La Chiesa s’impegna per l’unità di un Paese «fragile»: «Dobbiamo… essere capaci di unire l’Italia e non certo di dividerla». Egli è convinto che «il futuro del Paese significa anche rammendare il tessuto sociale dell’Italia con prudenza, pazienza e generosità». Pulsa in queste parole la tradizione di una «Chiesa materna», quella di Francesco, ma anche della grande stagione del cattolicesimo della Firenze di La Pira.

LA REPUBBLICA Pag 19 Scontro frontale su finanze e famiglia, il Papa alla resa dei conti con i frondisti di Paolo Rodari Al centro le aperture ai divorziati risposati ma soprattutto la trasparenza dei bilanci. Bassetti sullo ius soli: “Integrazione passa da lì”

Città del Vaticano. Dentro il Vaticano il documento dei 62 sacerdoti e studiosi firmatari di una "correzione filiale" mossa a papa Francesco per le sue aperture contenute nel testo post sinodale "Amoris laetitia" ha dato parecchio fastidio. E la notizia, poi precisata, del blocco per i computer vaticani del sito che critica il Papa - correctiofilialis.org - anche di questo è manifestazione. Ieri la Santa Sede ha spiegato che in realtà il sito è accessibile, «ma chi vuole aderire all' iniziativa e firmare via web la proposta anti-Bergoglio suggerita da tradizionalisti e lefebvriani, allora deve farlo da casa sua, da un computer non vaticano». Tradizionalisti e lefebvriani. Tali sono per la Santa Sede i 62. Una classificazione avvalorata anche dal dato che, in effetti, l'unico esponente dell'episcopato a firmare la petizione è il superiore della Fraternità Sacerdotale San Pio X fondata dal vescovo scismatico Marcel Lefebvre, monsignor Bernard Fellay. I 62 sostengono di non attaccare il Papa, ma semplicemente di volerlo correggere «da figli e fedeli addolorati per come si stanno mettendo le cose». Eppure, dentro le mura leonine, la loro mossa è letta come un attacco: si tratta di un «grave attacco, forzatura strumentale, pregiudizio, operazione contro il Papa e la Chiesa», dice senza mezzi termini il teologo Bruno Forte, segretario speciale del Sinodo dei vescovi sulla famiglia. Un'offensiva che segue altre mosse del mondo tradizionalista. Su tutte la recente decisione della Congregazione per il culto divino guidata dal cardinale di nominare Giovanni XXIII, il Papa della "Pacem in terris", patrono dell'esercito. Una provocazione, secondo molti in Vaticano. Una decisione «assurda», a detta di monsignor Giovanni Ricchiuti, vescovo presidente di Pax Christi Italia. Non è un mistero per nessuno che a gran parte del mondo conservatore cattolico Francesco non piace. Per molti di loro una data decisiva sarà il cinquantesimo anniversario di Humanae vitae: accusano il Papa di aver costituito una commissione affidata a Gilfredo Marengo, docente dell'Istituto Giovanni Paolo II per studi su matrimonio e famiglia, con lo scopo di voler riesaminare, per superarla, l'enciclica di Paolo VI che dedica diversi passaggi alla morale sessuale coniugale. A nulla sono servite le smentite dello stesso Marengo che ha spiegato di non voler ribaltare il testo di papa Montini: «Studiare la storia di "Humanae Vitae" è una bella avventura. I complottisti si rassegnino. Qui non ci sono spunti per le loro fantasie malsane», ha twittato lo studioso lo scorso 30 agosto. La resistenza al Papa, ovviamente, vive anche Oltretevere. E i recenti scandali finanziari emersi ne sono, loro malgrado, un'espressione non secondaria. L'uscita di Libero Milone, ex revisore dei conti del Vaticano, che accusa la Santa Sede di non aver voluto la riforma mostra l'esistenza di una curia che non accetta chi, magari in modo scomposto, vuole rinnovarla. Fu il cardinale autraliano ad accorgersi dell'esistenza di un tesoretto di oltre un milione di euro non messo a bilancio dal Vaticano. Lui, con Milone, provò a chiederne conto tuttavia senza alcun successo. Il braccio di ferro fra Pell e diversi organismi della Santa Sede è in corso da mesi. La scorso maggio una lettera inviata da Pell e da Milone a tutti i dicasteri per ricordare che «l' Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica (Apsa) non ha nessuna autorità né prerogativa per richiedere agli Enti della Santa Sede e del Vaticano di sottoporsi ad attività di revisione contabile né di inviare informazioni afferenti al proprio Ente alla società esterna PwC o ad altri soggetti», ha evidenziato uno scontro durissimo esistente fra il porporato australiano e il cardinale a capo dell'Apsa, , curiale portato promosso dall' ex segretario di stato .

Città del Vaticano. Pur senza citare mai il dibattito politico sullo Ius soli appoggia, di fatto, l'idea di una nuova cittadinanza. Così il cardinale Gualtiero Bassetti al suo primo Consiglio permanente della Cei - una sorta di direttivo dei vescovi - da presidente. «Penso che la costruzione di questo processo di integrazione possa passare anche attraverso il riconoscimento di una nuova cittadinanza, che favorisca la promozione della persona umana e la partecipazione alla vita pubblica di quegli uomini e donne che sono nati in Italia», dice. Bassetti, che è intenzionato a eliminare la prolusione del direttivo in favore di un intervento finale che tenga conto degli interventi dei vescovi, elenca le priorità della Chiesa italiana: il lavoro, i giovani, la famiglia, i migranti. Sono fragilità verso le quali devono volgere lo sguardo e l'azione anche i cattolici ai quali il cardinale chiede di non dividersi ma piuttosto di mettersi in gioco per «rammendare» il tessuto sociale del Paese. Bassetti interviene anche sulle critiche rivolte all'esortazione "Amoris laetitia", accusata in queste ore di eresie da un gruppo di tradizionalisti: piuttosto il testo papale deve essere «recepito con autenticità», dice. Ma sulle famiglie bisogna anche andare al concreto, tanto più alla vigilia della Conferenza nazionale voluta dal governo. «Non è più rinviabile - dice - una misura giusta e urgente», quella del «fattore famiglia» che agevolerebbe fiscalmente il reddito dei nuclei ma soprattutto «potrebbe avere effetti positivi» sulla natalità.

Pag 19 Il prete nipote di Prodi: “Lascio la parrocchia, troppe critiche in piazze” di Eleonora Capelli

Bologna. Don Matteo Prodi ha detto ieri la sua ultima messa nella parrocchia di Ponte Ronca, il paese alle porte di Bologna che per 12 anni l'ha visto parroco. Il nipote dell'ex premier, figlio dell'europarlamentare Vittorio, ha dato le dimissioni (tecnicamente ha presentato la "rinuncia") dopo un anno in cui ha detto di aver «sperimentato grandissime difficoltà». In una lettera ai parrocchiani, che poi ha pubblicato anche su Facebook dimostrando il suo spirito contemporaneo, ha scritto: «Non a tutti è piaciuta la mia vita; a nessuno però è lecito portare nelle pubbliche piazze valutazioni negative su di me, che hanno fatto male a me ma soprattutto alla comunità». Una comunità che ieri si è riunita in lacrime nella chiesetta ai piedi delle colline bolognesi, tra i campi e la zona industriale. Tanto che Don Matteo ha ironizzato dal pulpito: «Vorrei che foste in tanti anche nel giorno del mio funerale, ma vi ricordo anche che non sono ancora morto, questa funzione religiosa comunque è sponsorizzata dalla Kleenex». Dice di aver ricevuto «4.782 messaggi su WhatsApp, così per fortuna mi è morto il telefono» e i fedeli ieri sera si sono messi in fila per firmare una lettera al vescovo e «ringraziare per il dono di Don Matteo». Un prete sempre in blue jeans, definito come "carismatico e poco convenzionale", o anche "troppo uomo e troppo poco prete" per piacere a tutti. Grande appassionato di basket, pronto a giocare con la schiuma a Carnevale con i bambini dell' oratorio, che ieri affollavano la chiesa, o a partire per un viaggio all'altro capo del mondo. Pronto a citare Guccini, a chiamarlo "il grande profeta", nella sua lettera aperta. Don Matteo, perché ha deciso di lasciare la sua parrocchia? La sua "rinuncia" ha fatto molto rumore... «Il codice di diritto canonico tutela il parroco a tal punto che non può essere in alcun modo toccato dal vescovo, per questo ho dovuto dare le dimissioni. Non me ne vado sbattendo la porta verso i miei superiori, il fatto è che altrimenti non avrebbero potuto nominare un nuovo parroco». Hanno pesato alcune critiche per l'ospitalità ai migranti? «Continuerò a occuparmi di accoglienza ai migranti, ma voglio specificare che non c'è stato nessuno problema su questo. Non c'entrano niente con la mia decisione. Si tratta di sensibilità su come si interpreta la vita cristiana». Ora cosa farà? «Devo finire alcuni studi teologici, portare avanti un po' di insegnamento, in continuità con quel che stavo già facendo. Non avrò una parrocchia per quest'anno ma l'ho chiesto io. Ho parlato col vescovo Matteo Zuppi varie volte, l'ultima stamattina (ieri per chi legge, ndr)». Nella lettera parla di "valutazioni negative portate in pubbliche piazze" e cita anche Gesù che "schiaffeggiato chiede: perché?". «Il Papa stesso dice che una delle piaghe della Chiesa è il pettegolezzo, e quando si saluta la propria comunità si dice anche se ci sono state delle fatiche. Come qualunque capo ufficio quando lascia l'incarico, dice tutte le cose buone e anche quelle che non sono andate bene. Io chiarirò con le persone, una minoranza non rilevante, intanto però le ferite ci sono». Davanti alla porta della sacrestia adesso c'è lo striscione con la scritta: «Grazie di tutto, i ragazzi del biliardino». Lei come si sente di fronte all'affetto che le viene tributato? «Io sono stato molto amato da questa comunità che ho molto amato. Tutto l'interesse di oggi è dovuto solo al cognome che porto».

IL GIORNALE «Siamo donne in clausura, normali e senza baffi...» di Serena Sartini Pregano e danno consigli a coppie e disoccupati. Sono aperte al mondo ma non a Facebook

Dimenticate le grate, la contemplazione full time o l'isolamento totale dagli uomini e dalla realtà. Le monache di clausura vivono sì «in clausura» (non escono dal monastero se non per motivi urgenti e necessari, come il medico) ma sono aperte all' uomo di oggi. Vivono in un luogo che favorisce la contemplazione e l'intimità, con i canti che riportano a un clima di misticismo, gli affreschi della meravigliosa Basilica che ben si sposano con l'atmosfera di profondità e silenzio interiore. Siamo nel Monastero agostiniano dei Santi Quattro Coronati, al Celio, nel cuore di Roma. Qui vivono le monache agostiniane che si ispirano alla regola di Sant'Agostino. La vita monastica si svolge proprio in mezzo al caos della Capitale. Ed è questa la sfida: «Vivere la clausura non significa isolarsi dal resto del mondo, chiudere la porta e buttare la chiave», dicono a più riprese nel tentativo di smontare l'idea che si ha di loro. Ci parlano senza una grata in mezzo, sorridono, scherzano e si raccontano come donne di tutti i giorni: «Non siamo aliene, non siamo frustrate, non siamo disperate perché viviamo in clausura. Siamo donne normali, non abbiamo i baffi, viviamo nella preghiera e in comunione». STUDIO, PREGHIERA E LAVORO - Comunione. È la parola che più ricorre nel nostro incontro con le monache che raccontano la loro vita e le ragioni di una scelta così radicale. «La nostra giornata è scandita da tre momenti fondamentali: tempo della preghiera, tempo dello studio e tempo del lavoro», spiega suor Francesca. Alle 6 la sveglia, poi subito la preghiera con l'ufficio delle letture, la meditazione personale, le lodi e la colazione. «C'è poi il momento di studio, durante il quale ci fermiamo a meditare e approfondire la spiritualità agostiniana. Sant' Agostino diceva che anche attraverso lo studio si arriva a Dio», prosegue la religiosa. C'è anche lo studio della musica: chi si esercita all'organo, chi alla cetra, chi al canto. Perché cantare è pregare due volte. Infine, il tempo dei lavori. Cucina, lavanderia, gestione della casa, accoglienza e portineria. Ed ancora: lavoro nell'orto e alcuni lavoretti per autosostentamento, come la realizzazione di rosari o oggetti religiosi. Alle 14 tempo di silenzio, mentre dopo pranzo e dopo cena un tempo di ricreazione, «per favorire la vita fraterna e di comunione», dicono. La messa quotidiana e il rosario sono gli altri due momenti fondamentali della giornata. LA COMUNE - Ma cosa distingue le agostiniane dagli altri ordini claustrali? «Il tratto che ci caratterizza dice Annalisa, novizia è la tensione alla perfetta vita comune, cioè il desiderio di cercare qualcosa di distante dall'individualismo che vive l'uomo di oggi; tendere alla comunità e alla comunione. Lavoriamo tanto su questo. La vita comune delle monache è una vita contemplativa, ma fatta di vita interiore e vita fraterna che ti portano ad avere un rapporto intimo con Dio. È una relazione con Dio, anche attraverso la comunità». «Ci sentiamo come una piccola chiesa dentro una grande chiesa prosegue suor Ilaria è una comunione che apre alla gente, per dire di dare tempo all'altro, di dare tempo alla preghiera; insomma, per dire all'uomo di oggi fermati a pregare. L'uomo non è un'isola. Il monastero è in pieno inserimento nella chiesa. Siamo anche in centro, tra il Colosseo e San Giovanni in Laterano, siamo inserite pienamente nel contesto della città. Il Papa ci invita a essere una chiesa in uscita. È vero, qui c'è una clausura, ma siamo aperte alle urgenze della società, e la nostra vita è una intercessione, che va a braccetto con l'uomo di oggi che sta arrancando. Siamo un faro per l'uomo che corre e grida il bisogno di ritrovarsi». Monache tecnologiche? Sì, ma non troppo. «Perché la sobrietà resta l’elemento fondamentale, ma occorre stare anche al passo con i tempi e in relazione con la società». E allora c'è la televisione che «si guarda insieme», e soprattutto il tg per stare aggiornate. Una mail e un cellulare comunitario, e un sito ricco di notizie, appuntamenti, richieste di preghiere ed eventi. Oltre a una newsletter che viene inviata per segnalare le iniziative. Facebook e i social network? «No, quelli proprio no prosegue Annalisa -. Ci riporterebbero alla frenesia dell'uomo di oggi che non può stare un secondo senza cellulare in mano e che perde poi la profondità dell' intimo e la relazione con gli altri. Non vogliamo essere prese dalla frenesia della tecnologia, diventata oramai fonte di ansia, dall' ossessione dell'essere sempre connesse, dall'avere tutto sotto controllo. Anzi vogliamo dire che si può vivere nella non immediatezza, che abbiamo la libertà di prendere sul serio ciò che è da prendere sul serio e che possiamo rimanere in contatto con il mondo senza ansie e iperconnessioni. E questo ti garantisce maggiore profondità. Possiamo entrare nella notizia non con strumenti multimediali, ma con il cuore». LE CONFIDENZE - Tanti sono gli incontri, le chiacchierate con padri che hanno perso lavoro, con giovani in ricerca, con coppie in crisi e fidanzati in difficoltà. E tante le iniziative che le monache agostiniane propongono. Come le quattro domeniche di meditazioni nel mese di agosto. «La Basilica era piena, nonostante il gran caldo e le vacanze. Questo significa che c'è sete di Dio». Adiacente al monastero c'è anche una foresteria per l'accoglienza di persone che vogliono concedersi qualche giornata di meditazione e di preghiera. «Non per turismo», ci tengono a sottolineare le monache. Qui c'è spazio per tutti: da chi vuole dedicare tempo alla preghiera a chi vuole essere semplicemente ascoltato. Fino a chi è alla ricerca di silenzio, contemplazione e intimità. E a chi vuole fuggire dalla frenesia.

«Per me fino a vent'anni c'erano solo rock e vizi» - Annalisa ha 29 anni, gli occhi azzurri, originaria di Roma, quartiere Centocelle. Indossa l'abito bianco, perché ancora non ha professato i voti solenni («Spero di farli il prossimo anno», dice), suona la cetra. «Non ho mai pensato di farmi suora, né tanto meno di clausura racconta non sono stata mai sollecitata dalla fede in famiglia, ho ricevuto la cresima da grande, non frequentavo la chiesa. A 14 anni mi sono fidanzata, con un musicista. È stato un fidanzamento lungo, fino ai vent'anni. Con lui ho viaggiato tantissimo, andavamo in giro per l'Europa a vedere concerti di rock progressive. Poi la prima botta. Una delle mie migliori amiche, a 18 anni, si è suicidata; per me è stato un colpo al cuore che mi ha mandato in tilt. Nonostante questa notizia dolorosissima ho continuato ad andare in chiesa, anche con il mio ragazzo. Dopo poco tempo la seconda botta: un'altra persona cara, di famiglia, si è suicidata. Questa doppia morte mi ha mandato in confusione totale. Avevo 16 anni, non trovavo le risposte e la reazione è stata la fuga, da tutto e da tutti». Annalisa prende fiato, raccontare il suo passato è pur sempre una ferita. «Ho iniziato una vita fatta di eccessi in tutti i sensi prosegue dai 16 ai 20 anni ho vissuto tutti i vizi e le dipendenze che ci potevano essere, che mi servivano a produrre una alienazione. Questo ha portato necessariamente a un allontanamento e a un'ira verso Dio. Ma a 20 anni mi sentivo già una vecchia, stancata dal peccato, svuotata dentro. Viaggiavo, viaggiavo tanto per non fermarmi a pensare. Anche il fidanzamento è andato in crisi». Poi, la conversione. «Mi hanno invitato a una serie di incontri promossi da sacerdoti, I dieci comandamenti. Ho riaperto dei file, e ho avuto un vero e proprio incontro con Dio. Ho chiesto a lui di trasformare i miei desideri. È stata una conversione lampo. Una notte ho avuto la percezione che Dio mi abitasse dentro, come se fosse arrivato per cancellare la cecità che mi ero costruita sulla bellezza di vivere. Ho sentito l'esigenza di pregare e stare da sola. Poi un giorno sono arrivata qui, al monastero delle agostiniane. Ho avuto immediatamente una sensazione che mi ha riportato al primo incontro con Dio, quella notte, e subito ho capito che questa era casa mia. Dopo sei anni di fidanzamento, ho iniziato teologia, e poi sono entrata. Ora sono qui da tre anni». La famiglia? «I miei genitori non l'hanno presa male risponde sorridendo ma alcuni amici ancora non ci credono e si sorprendono perché sono ancora qui. Ma io so di avere trovato la mia strada».

«Ho detto no al Brasile e alla Ferrari» - Suor Ilaria invece ha avuto un percorso molto diverso. Quarantanove anni, originaria di Bologna, viene da una famiglia tradizionale cattolica: messa la domenica, preghiera ai pasti, rosario con la nonna prima di andare a letto. «Fin da quando avevo 12 anni ho sempre frequentato la parrocchia, era la mia seconda casa», ci racconta. «La mia storia non è così eclatante come quella di Annalisa», dice scherzando. «Ma bisogna dire che anche senza avere una conversione bomba si può diventare monache di clausura. Per me è stato così. Ovviamente quando ero giovane non pensavo alla consacrazione, né tanto meno alla clausura. Però mi piaceva fare volontariato con i disabili, con i tossicodipendenti, stare in parrocchia con gli altri giovani. A 18 anni mi sono detta: sarebbe bello fare questo per tutta la vita. Bisognerà farsi suora? Nel frattempo però mi sono fidanzata e ho rimesso in discussione la mia scelta. Tuttavia con il mio ragazzo mi sentivo stretta, capivo che la vita di coppia non faceva per me. Ci siamo lasciati e ho iniziato a studiare fisioterapia. Poi ho conosciuto il monastero delle agostiniane. Un bellissimo senso di preghiera mi avvolgeva, la semplicità, c'era tutto quello che cercavo. Quella stessa estate, a 22 anni, dopo essermi laureata in fisioterapia, mi chiamarono per un lavoro, a tempo indeterminato, al punto mobile della Ferrari in Brasile. Sì, proprio la Ferrari dice ripensando a quel momento ma io ho detto no, grazie, e sono diventata monaca». Ma non è un modo per escludersi dal mondo? «Non ho scelto la clausura per chiudermi, ma ho scelto la relazione con Dio e con gli altri. La clausura mi permette di vivere questa relazione. Il mondo qui entra, con tutti i suoi problemi e le sue sfide, ma la clausura è un modo per non disperdersi e di scendere in profondità». E fuori di pericoli ce ne sono tanti, a partire dal terrorismo islamico. E anche loro si pongono l'interrogativo di tutti noi: cosa fare? «Non possiamo andare di certo all'Onu, o essere ricevute da Trump o dai grandi della Terra. Abbiamo invece un' arma più potente, che è quella di intercedere per la pace. Possiamo essere prese dallo scoraggiamento o dal dolore, queste sono le reazioni immediate, ma poi passiamo ai fatti e la nostra arma, la preghiera, è davvero potentissima».

«La mia vita era un tour ma oggi vedo più gente» - Faceva la guida turistica, laureata in lettere antiche con indirizzo archeologico. «Incontro più persone qui in monastero che quando facevo la guida», dice scherzando suor Francesca, quarant'anni, originaria di Napoli. «Anche io come suor Ilaria sono di famiglia cattolica e praticante, ma non frequentavo gruppi parrocchiali. L'ambiente non mi attraeva, mi piaceva tantissimo studiare e suonare il pianoforte. A 17 anni, a causa del lavoro di mio padre, ci siamo trasferiti ai Castelli romani. Il trasferimento è stato molto duro e ha provocato in me tanta rabbia e fatica. Il periodo dell'Università però è stato bellissimo, e ad Albano ho cominciato anche a frequentare la chiesa, nei gruppi dell'Azione Cattolica. Ho cambiato piano piano idea sulla chiesa e grazie al gruppo parrocchiale e a quello diocesano ho conosciuto il volto bello della chiesa. Attraverso questa bellezza, ho conosciuto Dio. Mi sono laureata, ho iniziato a fare la guida turistica e alcune supplenze a scuola. Avevo anche terminato il piano esami in conservatorio, ma a un certo punto dovevo scegliere tra il pianoforte e l'università, e ho scelto quest' ultima. Eppure, nonostante facessi tutte le cose che amavo, mi accorgevo che non ero felice, c'era qualcosa che mi mancava. A 25 anni ho incontrato Dio, ho cominciato a pregare veramente, ho compreso davvero l'esistenza di Dio. Ogni giornata dice ripensando alla sua scelta - aspettavo con ansia la mezz'ora che mi ritagliavo per pregare, per stare con il Signore, è stato così che ho iniziato a innamorarmi di Dio. Ho così iniziato a frequentare un monastero di clausura, le clarisse di Albano e ho capito che era quello che desideravo: una vita esclusiva con Dio. Più trascorreva il tempo e maggiore era la comprensione che questo era ciò che volevo veramente. Così sono arrivata qui al monastero agostiniano a Roma, e a 32 anni sono diventata una monaca di clausura. Non è stata una scelta di chiusura ma ho scelto la relazione con Dio e con gli altri. La clausura mi permette di vivere questa relazione. Il mondo qui entra, con tutti i suoi problemi e le sue sfide, ma la clausura è un modo per non disperdersi e di scendere in profondità».

IL FOGLIO Pag 1 Dalla dottrina ai soldi, ecco la “guerra civile” nella chiesa di Francesco di Matteo Matzuzzi Inquisizione e misericordia

Roma. Ha scritto qualche giorno fa sul New York Times Ross Douthat che il caos nella chiesa, con le categorie schmittiane di nemico-amico divenute i termini con cui classificare e definire le opposte fazioni, chi è dalla parte di Francesco e della sua rivoluzione e chi contro, è ormai inevitabile. Il clima, ha aggiunto il commentatore americano, è da inquisizione, i conservatori che mettono all'indice i libri dei preti progressisti (è il caso del gesuita James Martin, cui la Catholic University of America ha rifiutato di concedergli un'aula per presentare il suo libro Costruire un ponte sul tema dell'omosessualità nella chiesa) e i filosofi conservatori che vengono cacciati dalle università perché dubbiosi su Amoris laetitia (Josef Seifert, punito dall'arcivescovo di Granada con il licenziamento per aver definito l'esortazione controversa sulla famiglia una "bomba"). Non sapeva, Douthat, che nel frattempo sarebbero arrivate le accuse a mezzo stampa dell' ex revisore generale dei conti, Libero Milone, che accusa le alte sfere d'oltretevere (il sostituto mons. Becciu e il capo della Gendarmeria, Giani, di averlo costretto - non con le buone - alle dimissioni per voler tarpare le ali alla ventata di trasparenza nelle finanze vaticane. Non sapeva neppure che sarebbe giunta l'attesa correzione filiale al Papa, "supplicato" di porre rimedio a "sette eresie" contenute in Amoris laetitia (tanti firmatari, ma nessun vescovo o cardinale, il che rende il documento assai meno dirompente di quanto lo sarebbe stato se in calce al testo fosse apparso il nome di qualche prelato. E ovviamente Douthat ignorava che il sito internet ove la correzione è apparsa sarebbe stato bloccato in tutto il territorio della Città del Vaticano per "motivi di sicurezza", sì da far gridare alla censura in stile cinese diversi blog. Comunque sia, il risultato è che la chiesa sta vivendo la sua guerra civile e - aggiunge - ad avercela infilata con entrambi i piedi è stato il Papa in persona. E' Francesco, con le sue ambiguità, il suo detto-non detto, ad aver voluto alimentare questo hobbesiano bellum omnium contra omnes, la guerra di tutti contro tutti. Non si tratta tanto di prendere in mano il vessillo dell'una o dell'altra parte, di agitare fango velenoso nel ventilatore per danneggiare questo o quel presule reo d'interpretare una precisa linea, considerato che "nella chiesa cattolica di Papa Francesco è pericoloso essere troppo conservatori così come lo è essere troppo liberal". E' un pontificato di rottura, che vive "usando dichiarazioni ambigue e interventi non ufficiali" anziché "fare un utilizzo esplicito dei poteri che il suo ruolo gli attribuisce". Questione di stile, insomma, ma non solo, perché la conseguenza è che Bergoglio ha "sconvolto le linee di autorità all'interno della chiesa". Con il risultato che tutti, dal porporato più in vista fino al pretino di campagna, dal vaticanista eminente al freelance più o meno d'assalto, si sentono in qualche modo in dovere di prendere parte alla contesa. E allora i social diventano terreno di battaglia, con le trincee lasciate sguarnite e le baionette pronte per gli assalti. Veleno, dispute teologiche sovente raffazzonate, catene di preghiere organizzate per perorare la causa del Papa o, al contrario, per farlo rinsavire. Queste si facevano già prima dell' avvento di Twitter e Facebook, basti considerare le chiacchierate suppliche serali per la dipartita di Pio XII nei lontani anni Cinquanta. E poi, appunto, "correzioni filiali" come non si vedevano dal Trecento. Douthat sembra aver frequentato le magnifiche stanze della Gregoriana, dove già nell' estate del 2013, quindi pochi mesi dopo l'ascesa al Soglio di Francesco, un anziano gesuita diceva che non vi sarebbe stata mai alcuna cesura eclatante con il passato, remoto o immediato che fosse. No, il nuovo Papa avrebbe circumnavigato le questioni fondamentali e delicate, lasciandole montare nella baruffa interna ed esterna alla chiesa, per poi scavare tutt'attorno e decidere. Senza formalmente mutare i princìpi tramandati nei secoli. Scrive infatti l'editorialista americano che Bergoglio incentiva la decentralizzazione - dopotutto l'ha chiarito per bene nella Evangelii gaudium, il programma del pontificato - ma in realtà mantiene tutti i poteri formali del suo ruolo. Spinge allora per una discussione teologica aperta, lascia fare e non s'esprime, se non (appunto) con lettere private (ai vescovi argentini, per esempio, scrisse che la loro interpretazione di Amoris laetitia era quella giusta) o telefonate, o ancora con conversazioni con auguste penne del giornalismo. E' naturale, argomenta ancora Douthat, che così facendo ogni paese, ogni conferenza episcopale faccia un po' a modo suo, mettendo in pratica il medesimo insegnamento in modi opposti, stando poi attenti a non perdersi "le strizzate d'occhio" e le "allusioni" del Papa per comprendere se si è in ragione o nel torto. "L'unica certezza cattolica - osserva allora l'editorialista - è l'incertezza (perfino sulla formula del Credo, che come ha scritto di recente il professor Alberto Melloni, potrebbe cambiare per andare incontro ai fratelli ortodossi). "Sotto la guida di Francesco - ha chiosato l'editorialista del Nyt -, l'insegnamento della chiesa sulla comunione ai divorziati risposati varia da paese a paese, da diocesi a diocesi. Perfino gli ammiratori del Papa non sembrano concordare su quali siano le posizioni del Vaticano".

LA NUOVA Pag 9 Firme contro il Papa bloccate dal Vaticano Protesta anti-Bergoglio: l’adesione alla petizione potrà avvenire solo da computer fuori dalla Santa Sede

Città del Vaticano. Chi vuole leggere da un computer pubblico vaticano la petizione che accusa il Papa di eresia può farlo, ma se poi vuole aderire all'iniziativa e «firmare» per via internet la proposta anti-Bergoglio suggerita da una quarantina di tradizionalisti e lefebvriani, allora deve farlo da un computer non vaticano. Cioè se ne deve assumere la responsabilità, e la firma non potrà essere addebitata a un indirizzo IP vaticano. Grazie ai filtri e alla protezione dei dati sui propri computer il Vaticano ha riportato ieri l'attenzione su un punto finora troppo trascurato: chi ha firmato la petizione che accusa papa Francesco e le intere assise dei vescovi cattolici di eresia? Capire chi firma vuol dire anche valutare fondatezza e sensatezza delle accuse. E acquisire qualche elemento circa la tempistica della pubblicazione. Contrariamente ai famosi «dubia», che erano avanzati da quattro cardinali, non ci sono cardinali tra i firmatari della petizione, né ci sono vescovi cattolici: l'unico vescovo è Fellay, cioè il capo dei lefebvriani. Primo firmatario è uno psicologo e giornalista olandese, secondo un giurista americano in pensione, segue un prete diocesano, la lista prosegue su questa linea, con altri preti diocesani di diversi Paesi, con il professore emerito di storia del cristianesimo Roberto De Mattei, non da oggi severamente critico nei confronti del pontificato bergogliano, c'è anche il direttore di un dipartimento della università Cattolica di Milano, e c'è il banchiere Ettore Gotti Tedeschi, ex presidente dello Ior. La compagine iniziale dei firmatari non ha alcuna competenza né titolo per rivolgere al sommo pontefice e ai vescovi riuniti in sinodo accuse tanto gravi come quelle di eresia: destinatario e accuse mai potrebbero essere oggetto di quella «correzione filiale» che invece la petizione richiama nel proprio sito, «corretiofilialis.org». Forse neppure un Concilio sarebbe legittimato ad accusare Bergoglio e il sinodo dei vescovi di quella che la petizione chiama «propagazione di alcune eresie sviluppatesi per mezzo della esortazione apostolica "Amoris laetitia" e mediante altre parole, atti e omissioni di Vostra santità». La lettera - che è stata indirizzata al Papa in data 11 agosto - cerca di portare al proprio attivo anche i «dubia» dei cardinali, due dei quali, nel frattempo, sono però deceduti. A quel che risulta papa Francesco non ha risposto ai suoi accusatori, e va avanti per la propria strada.

VATICAN INSIDER Il documento contro le “eresie ˮ del Papa: toccò anche a Wojtyla di Andrea Tornielli Dal fronte “sedevacantista ˮ, gliene attribuirono ben 101. Assai più numerose e diffuse furono le critiche a san Giovanni Paolo II dall'altro versante, da parte di teologi che contestavano il “centralismo romano ˮ. Il cardinale Müller fu soggetto ad esami di dottrina dai blogger

La velocità del web e i social che fanno da ripetitore contribuiscono a ingigantire quanto sta accadendo - ad esempio nel caso della cosiddetta “correzione filiale ˮ a Papa Francesco - come se mai nulla di simile fosse accaduto prima. Uno sguardo alla storia recente della Chiesa fa comprendere che così non è, e aiuta a riportare nel giusto alveo anche il documento firmato da 79 studiosi, ricercatori, giornalisti e blogger nel quale si sostiene che Papa Francesco ha propagato 7 “proposizioni eretiche ˮ. Gli autori del testo, firmato anche dall'ex presidente dello IOR Ettore Gotti Tedeschi, virgolettano 7 “eresie ˮ in realtà mai scritte o pronunciate dal Pontefice, ma che sono da loro “dedotte ˮ dal suo magistero e dai suoi interventi. Si tratta, con ogni probabilità, di un primo passo verso quella “correzione formale ˮ della quale ha parlato con frequenza il cardinale americano , uno dei quattro firmatari dei “dubia ˮ su Amoris laetitia presentati a Bergoglio. Uno sguardo all'indietro aiuta a capire la reale portata del documento di cui si discute in questi giorni. Giovanni Paolo II, per le sue affermazioni in linea con il Concilio Ecumenico Vaticano II (vero oggetto del contendere di molti critici) in materia di ecumenismo, libertà religiosa e dialogo con le altre religioni, venne ripetutamente attaccato mentre era in vita. E dopo la sua morte c'è chi, nell'area più estrema del tradizionalismo rappresentata dal sedevacantismo (cioè da coloro che ritengono non esservi più un vero Papa sulla cattedra di Pietro da Pio XII in poi), è arrivato ad attribuirgli ben 101 “eresie ˮ. Utilizzando, per contestarlo, citazioni estratte dai documenti dei Papi del passato. Riguardano affermazioni di Papa Wojtyla sull'ecumenismo, cioè sui fratelli separati, che vengono appunto definiti fratelli e non più «figli del diavolo», la possibilità di definire “cristiani ˮ anche i non cattolici, la salvezza possibile anche al di fuori dei confini visibili della Chiesa, o ancora la salvezza dei bambini morti senza il battesimo, la possibilità del martirio cristiano al di fuori della Chiesa cattolica, la definizione degli ebrei come «nostri fratelli», la libertà di coscienza come diritto umano, il diritto alla libertà di professare la propria fede anche per i non cattolici... Il tutto corredato di note che indicano dove e quando Giovanni Paolo II ha fatto certe affermazioni, e dove e quando i Papi del passato avevano affermato il contrario. Ma non si deve dimenticare che nel caso appena citato si sta parlando di frange estremiste e marginali, che oggi si fanno conoscere sfruttando le potenzialità di Internet ma non hanno reale consistenza presso il popolo cristiano. Ben diverse per serietà, toni adoperati, argomentazioni proposte e proporzioni, furono le critiche e le petizioni rivolte a san Giovanni Paolo II dall'altro versante, cioè dai teologi contrari al cosiddetto “centralismo romano ˮ. Una critica al Pontefice polacco ma anche al suo Prefetto della Congregazione per la dottrina della fede Joseph Ratzinger. Stiamo parlando della famosa Dichiarazione di Colonia, che fino a qualche anno fa veniva presentata come un «attacco al magistero» da parte di coloro che oggi si comportano allo stesso modo perché il magistero non dice esattamente ciò che essi pensano. I firmatari della dichiarazione non facevano certo gli esami di dottrina al Papa, come accade oggi, ma contestavano un allontanamento dalle istanze conciliari. Nel 1989, promossa inizialmente con dai teologi di Tubinga Norbert Greinacher e Dietmar Mieth e da un primo gruppo di dissidenti, la “lettera aperta ˮ fu sottoscritta da 162 docenti di teologia cattolica di lingua tedesca. Venne quindi rapidamente firmata in Olanda da 17.000 laici ed ecclesiastici e, nell'allora Repubblica Federale Tedesca, 16.000 parroci e laici, insieme a un centinaio di gruppi cattolici. Analoghe dichiarazioni apparvero in Belgio, Francia, Spagna, Italia, Brasile e Stati Uniti. Il motivo scatenante della dichiarazione era stata la successione del vescovo di Colonia e la messa in discussione delle prerogative tradizionalmente concesse al capitolo di molte diocesi tedesche circa l'indicazione delle terne di candidati. Si criticava dunque il «centralismo romano» e il mancato ascolto da parte della della Santa Sede delle istanze e delle indicazioni delle Chiese locali. Si definiva «un grave pericolo e attentato alla libertà di ricerca» la negazione dell’autorizzazione ecclesiastica all’insegnamento a «teologi e teologhe qualificati». Si stigmatizzava il tentativo di «estendere in modo indebito la competenza magisteriale del Papa». Si usavano, nel documento, gli stessi argomenti oggi impugnati da chi contesta Francesco, invitando «i vescovi a ricordarsi dell’esempio di Paolo, che è rimasto in comunione con Pietro pur “resistendogli in faccia” nella questione della missione tra i pagani». Il 15 maggio 1989 anche in Italia, cioè nella nazione considerata la più cattolica d'Europa e dove risiede il Papa che ne è anche primate, 63 teologi pubblicarono sula rivista “Il Regno ˮ un loro documento di dissenso intitolato “Lettera ai Cristiani – Oggi nella Chiesa ˮ, esprimendo il loro «disagio per determinati atteggiamenti dell’autorità centrale della Chiesa nell’ambito dell’insegnamento, in quello della disciplina e in quello istituzionale», manifestando «l'impressione che la Chiesa cattolica sia percorsa da forti spinte regressive». A firmarlo molti importanti docenti nelle facoltà teologiche e nelle università italiane. Abbiamo ricordato la Dicharazione di Colonia non per suggerire improponibili paragoni con quanto accaduto in questi giorni, ma per documentare come dissensi e petizioni non rappresentino affatto una novità. Tornando alle critiche provenienti dal versante “tradizionalista ˮ o comunque conservatore, non si devono dimenticare gli attacchi, talvolta feroci, contro Benedetto XVI per alcuni suoi interventi in tema di ecumenismo o per la decisione di partecipare all'incontro interreligioso di Assisi. E non va neppure dimenticato che critiche durissime vennero rivolte anche al cardinale (allora non ancora cardinale) Gerhard Ludwig Müller, nelle settimane precedenti la sua nomina a Prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, nel 2012. Un'operazione condotta ad alto livello anche con sponde interne alla Curia romana, per mettere in luce alcune sue affermazioni giudicate “eterodosse ˮ e tentare di bloccarne la nomina. La traduzione in diverse lingue dei passaggi delle sue opere giudicati “dubbi ˮ venne anonimamente fatta recapitare via email a diversi giornalisti nella speranza che si trasformassero in inquisitori contro Müller. E i testi diffusi in siti web e blog vicini al mondo cosiddetto tradizionalista e lefebvriano. Il futuro Prefetto aveva a suo tempo scritto che la dottrina sulla verginità di Maria «non riguarda tanto specifiche proprietà fisiologiche del processo naturale della nascita», che «il corpo e il sangue di Cristo non indicano componenti materiali della persona umana di Gesù nel corso della sua vita o della sua corporeità trasfigurata» e che grazie al battesimo «noi come cattolici e cristiani evangelici siamo già uniti persino in ciò che chiamiamo la Chiesa visibile». In quel momento, in difesa di Müller, scese in campo don Nicola Bux, che era consultore della Congregazione per la dottrina della fede, il quale in una intervista con Vatican Insider disse: «Lo sviluppo dottrinale trae giovamento dal dibattito: chi più ha argomenti, convince. Nelle accuse a monsignor Müller si estrapola dal contesto: così è facile condannare chiunque. Un vero cattolico deve fidarsi dell’autorità del Papa, sempre».

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5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO

CORRIERE DELLA SERA Pagg 26 - 27 L’Italia dei figli lontani di Gianna Fregonara La prima migrazione di giovani che partono con il diploma in tasca (e spesso lasciano mamma e papà soli). Uno su tre ha anche la laurea. Lo psicanalista Ammaniti: “Senso di colpa o compiacimento, così i genitori vivono la distanza”

Si chiamano cervelli in fuga, talenti, ma spesso sono soltanto dei giovani laureati o studenti che preferiscono tentare la loro fortuna e la loro carriera nel mercato globale, fuori dai confini italiani. Nel solo 2015, ultimo dato disponibile certificato dall’Istat, sono stati 23 mila su un’emigrazione di oltre 100 mila persone, con un aumento del 15 per cento rispetto all’anno prima e raddoppiato rispetto al 2010. E sono dati per difetto. Con una sola certezza: rispetto a tutte le emigrazioni precedenti dalla fine dell’Ottocento in poi, questa è la prima di giovani che partono con il diploma in tasca. E lasciano qui un’Italia con i figli lontani. Se si considerano i cittadini italiani emigrati con più di 25 anni, il 31 per cento ha la laurea: tantissimi, la media di laureati in Italia è del 14,8 per cento. E questa diaspora è un fenomeno che aumenta proprio mentre gli spostamenti all’interno del nostro Paese sono in diminuzione costante. «Nelle precedenti emigrazioni chi partiva erano gli scarsamente acculturati e preparati che non trovavano più lavoro in Italia, ora parte la meglio gioventù, un capitale umano molto elevato - spiega Antonio Schizzerotto, professore di sociologia a Trento, coautore per il Mulino del saggio Generazioni disuguali -. Si tratta di un impoverimento del nostro Paese che esporta medici e ingegneri e importa badanti. Purtroppo il motivo principale è che non esiste una domanda di capitale umano perché si è storicamente puntato sulle politiche del lavoro invece che su quelle della produzione». Partono i giovani, la metà ha tra i 15 e i 39 anni. Ma vanno soprattutto in Europa, Regno Unito e Germania, almeno fino alla Brexit sono state le due mete preferite degli emigrati, seguite da Svizzera e Francia. Partono in tanti dalla Sicilia ma tantissimi anche da Lombardia, Veneto e Trentino. «Intanto dobbiamo dire che i movimenti all’interno dell’Europa non possono considerarsi come delle vere e proprie emigrazioni, ma sono ormai spostamenti anche fisiologici: dovremmo invece chiederci perché i tedeschi o i francesi non vengono da noi», spiega Francesco Billari, professore di demografia alla Bocconi. Ma è vero che visto dalla parte di chi resta, «è la prima volta che partono i figli unici. In passato le famiglie non si disgregavano o perché partivano tutti o perché c’erano sempre uno o due figli o figlie che restavano. Questo nuovo fenomeno porrà delle sfide al welfare: la popolazione sarà più vecchia di quel che ci si aspettava e sarà più sola per quel fenomeno che si definisce già il “care drain”». Tecnologie e trasporti rendono più semplice la lontananza ma ci sono momenti in cui la vicinanza anche fisica è insostituibile: «Non solo, oggi 100 mila italiani che se ne vanno possono sembrare pochi, ma proiettiamo la cifra in dieci anni: fa un milione». Nel 2015 sono partiti in 102 mila italiani e ne sono tornati 30 mila, stando ai dati dell’Istat che misura le iscrizioni all’anagrafe degli italiani all’estero, l’Aire. Cinque anni prima, nel 2011, se ne erano andate 82 mila persone, poco più della metà. Una stima del centro studi Idos fa salire il numero degli espatriati a 285 mila nel 2016. Se si dovesse confermare significa che l’emigrazione è simile a quella del Dopoguerra. Ma se anche si confermassero le tendenze rilevate dall’Istat è come se ogni anno l’Italia cancellasse dalla sua cartina Rimini, come se tutti gi abitanti della città romagnola partissero.

Che cosa succede ai genitori con i figli lontani, a parte la malinconia del distacco? Che cosa succede dopo una giornata passata ad aspettare una chiamata via Skype o un messaggio WhatsApp? Secondo lo psicanalista Massimo Ammaniti, autore del best seller Il mestiere più difficile del mondo (genitori) , non è solo questione di gestire la lontananza, il vuoto. Chi ha i figli lontani è diviso tra senso di colpa e compiacimento: «C’è certamente un problema di separazione e di distanza dei figli, che non solo si fanno un’altra vita ma si inseriscono - specie se vanno lontano - in un mondo e in una cultura a volte completamente diversi dal nostro, da quello in cui sono cresciuti con noi». Ma oggi con Skype, i cellulari e le low cost le distanze si accorciano. Una volta c’erano le lettere, la posta e qualche telefonata dal «fisso»... «È vero che Skype e WhatsApp aiutano molto oggi a mantenere i rapporti, ma non è solo una questione di parlarsi tutte le sere. Per i genitori l’idea di un figlio o figlia lontano crea un senso di fallimento, che diventa uno stato d’animo diffuso nel nostro Paese visti i dati sui giovani che vanno all’estero. Uno sente di non aver creato le condizioni perché il figlio restasse vicino, in Italia. Un genitore sa che deve provvedere al figlio, dargli tutte le risorse per crescere e entrare nel mondo adulto. In questo caso è un Paese straniero che diventa genitore e sostituisce loro che non sono stati in grado di prendersi cura». Come si cura questo senso di fallimento? «Bisogna accettare i propri limiti, riconoscere che come singoli e come Paese non abbiamo forse fatto abbastanza, magari è uno stimolo a pensare di impegnarsi per modificare le condizioni. Ma va detto che c’è un sentimento opposto che si può sviluppare nei genitori dopo un po’ ed è il compiacimento di aver dato ai figli comunque un’alternativa al vivacchiare, al rischio di depressione di chi non trova lavoro e non riesce a realizzarsi». A costo di perderli, di non vederli a Natale. «È vero, ma la disgregazione delle tradizioni familiari dovuta alla distanza è un fenomeno che altre culture e altri Paesi vivono da tempo. Penso soprattutto a Stati Uniti e Gran Bretagna, dove i ragazzi se ne vanno già per l’Università. Certo noi ne risentiamo di più perché è meno abituale, ma vedremo sempre più genitori costretti a rinunciare ai propri sogni per assecondare il futuro dei figli».

Un figlio a studiare in Spagna «perché l’Italia non ti consente neppure di istruirti e formarti», l’altro a Singapore «perché lì ha trovato opportunità che qui non ci sono». Flavio Didoné, fisioterapista a Milano, e sua moglie si sono trovati in quattro anni «genitori con i figli lontani». «Con i figli “costretti” ad essere lontani - precisa il papà -. Andrea, dopo Economia, ha fatto uno stage in una cooperativa e gli hanno proposto Singapore. Le cose non andavano bene: dopo sei mesi è passato alla Luxottica, sempre a Singapore. Ha 32 anni e da 4 vive lì. Quest’anno andremo a trovarlo». Con Andrea si sentono una volta alla settimana via Skype e si parlano con WhatsApp che «è più comodo anche se non si fanno certo chiacchiere». Adesso è partito anche Luca, 19 anni, destinazione Spagna per la laurea in Fisioterapia: «Qui da noi c’è il test, ma ci sono pochi posti. A Milano erano in mille per 50 posti e lui non è passato. Così avevamo il piano B: Austria o Spagna». Si lamenta papà Flavio: «Qui uno paga le tasse e poi non trova un posto per far studiare il figlio? A Murcia in Spagna, invece, c’erano tanti candidati e hanno aperto un secondo corso». Flavio spera ovviamente che Luca torni: «Ho un solo rimpianto: sarei dovuto partire con la mia famiglia, qualche anno fa. Avevo pensato di andare in Canada: lì i miei figli avrebbero studiato e trovato la loro strada». E invece sono partiti da soli. «Preoccupazioni? Li vedo contenti. Noi li sosteniamo. Dal punto di vista affettivo intendo, economico poco».

«Sì, certo che uno ci pensa». Non solo hai il figlio lontano ma ci sono anche le bombe lanciate dal regime nordcoreano sui Paesi vicini. Ogni volta che apri un sito web, lo fai col cuore in gola», racconta mamma Chiara Rinaldini, il cui figlio, Lorenzo Antinori, trent’anni il primo novembre, è da febbraio a Seul, in Corea del Sud: «Ma quando sono stata lì il mese scorso sono rimasta impressionata: la città è dinamica, ci sono tanti giovani». E Lorenzo ha un lavoro di bar manager al Four Seasons, una carriera davanti e già diversi premi vinti. Sì però: «È una vita dura. E poi è una cultura così diversa che è difficile da conoscere e comprendere, la lingua... Ma sono orgogliosa perché mio figlio ha cercato la sua strada, ha rischiato e ci è riuscito». Università a Roma, la noia, la decisione di partire: «Dopo cinque anni a Londra però era stufo: fatichi tanto e guadagni bene ma la vita è carissima e non riesci a goderti gli sforzi che fai». Il costo di avere un figlio così lontano non è soltanto quello del biglietto aereo. Vuol dire niente feste insieme perché a Natale e Capodanno è alta stagione, «e il vuoto si sente molto». È quella che Chiara chiama la «solitudine affettiva»: «Ti assalgono i sensi di colpa per non esserteli tenuti vicino. Ma per un genitore è una bella lezione, capisci che i figli non sono tuoi». E poi c’è il futuro: «Non credo che Lorenzo tornerà in Italia. Ma - ride - sono pronta a nipotini dal mondo... E quanto a noi, speriamo di non pesare sui nostri figli».

Per lavoro Alessia Cremona aiuta gli studenti che vogliono partire e fare l’Università all’estero. Aveva cominciato tre anni fa con cinque ragazzi, oggi ne segue 250 affiancando a loro altri studenti esperti che fanno da tutor. Ma quando si tratta dei propri figli che se ne vanno, anche Alessia diventa una vera mamma italiana che accorre per fare i traslochi («le altre mamme ci guardano male, ma il risultato del nostro intervento è migliore») e diventa apprensiva: «Io ai miei figli ho fatto fare la scuola internazionale a Milano perché volevo dar loro la possibilità di studiare qui o all’estero. Ma andarsene è un sacrificio per i ragazzi. E anche per noi mamme farli partire è durissima». Olimpia, 22 anni, è negli Stati Uniti e Niccolò, 24, a Londra: «Ha studiato all’Imperial College e lavora a Goldman Sachs, ma con la Brexit sono tutti preoccupati. Poi c’è la paura degli attentati: diciamo che ho imparato a farmi passare l’ansia». Londra almeno «è vicina, i figli possono tornare spesso con le low cost, ma gli Stati Uniti... lì è difficile. L’Università è iper-competitiva, molti ragazzi finiscono anche per usare alcol e droga per combattere le frustrazioni. Bisogna vigilare quando i ragazzi partono: io al secondo anno di mia figlia ero lì spesso perché aveva crisi di panico, poi se hai un buon rapporto le cose funzionano. Mio figlio quando cucina si collega con Skype e “lavoriamo” insieme». Perché c’è anche la solitudine: «Vedo che tendono a fidanzarsi tra italiani, chissà se è un ripiego per non sentire la lontananza».

AVVENIRE Pag 2 Ripresa preziosa e da sfruttare al meglio di Leonardo Becchetti Buone notizie, risorse limitate, ricchezze da valorizzare

La Nota di aggiornamento per il Documento di economia e finanza (Def) conferma due buone notizie: le previsioni di crescita per quest’anno si attestano all’1,5% e il rapporto debito/Pil comincia lentamente a scendere. L’imperativo è trasformare questa debole ripresa in un volano che consenta di guarire le ferite del Paese: la disoccupazione troppo elevata, la precarizzazione e la sottoccupazione, i quasi 5 milioni di persone sotto la soglia di povertà e i più di due milioni di giovani che non lavorano né studiano. Dalle caratteristiche della manovra si evince la strategia del governo. Riduzione graduale del rapporto debito/Pil e del deficit, ma senza sottostare alle forzature del Fiscal Compact che imporrebbero una correzione troppo drastica rischiando di soffocare la crescita. Questo passaggio è accompagnato da un impegno nella Ue per aumentare il flusso degli investimenti pubblici alimentato dalle garanzie del Piano Juncker. Lavorando, in aggiunta, per lo scorporo dal computo del deficit di spese per beni e servizi pubblici essenziali (sicurezza, migranti, efficentamento antisismico degli edifici). I limiti delle risorse a disposizione per rispettare i vincoli di bilancio che ci siamo imposti obbligano però il governo a impegnare meno del previsto in tanti capitoli di spesa, quasi tutti meritevoli. Le risorse per la rete di protezione universale contro la povertà salgono molto poco (e restano molto al di sotto dei 7 miliardi necessari per intervenire a favore di tutti coloro che sono sotto la soglia di povertà). Sul superammortamento e soprattutto sulla riduzione del costo del lavoro le risorse sono meno di quelle sperate. L’impressione che abbiamo tratto nel percorso verso la Settimana Sociale dei cattolici italiani (Cagliari, 26- 29 ottobre 2017) dall’indagine sul campo di più di 200 «Cercatori di LavOro» che hanno individuato circa 400 buone pratiche, appunto, in materia di lavoro è che l’Italia ha grandi potenzialità, ma anche alcuni punti deboli che meritano attenzione ancora maggiore. Il miglioramento della qualità del capitale e del lavoro è fondamentale per il successo della manifattura. È assolutamente urgente ridurre la distanza tra mondo della formazione e lavoro. In Germania quasi uno studente su tre esce dalla scuola o dall’università dopo aver realizzato un percorso di apprendistato. Da noi l’avvio dell’alternanza scuola-lavoro ha suscitato molte resistenze, ma è solo un primo passo in una direzione su cui proseguire con più decisione. Se il valore della scuola non può essere ridotto strumentalmente alla ricerca di lavoro la separazione attualmente esistente tra i due mondi è un ostacolo enorme alla ripresa dell’occupazione giovanile in un mondo in cui l’aggiornamento di qualifiche e competenze è sempre più importante. La ricchezza dell’Italia sono i suoi territori e la globalizzazione è fatta di territori che competono tra loro per attrarre giganteschi flussi che si muovono a livello mondiale (di capitali, di persone, di visitatori). Siamo una Grande Potenza in quel vasto mondo fatto di arte, storia, cultura, biodiversità naturale ed enogastronomica. È pertanto essenziale stimolare e favorire l’autorganizzazione delle parti sociali sui territori attorno a progetti di sviluppo del loro genius loci di cui tutte beneficerebbero. L’altra enorme risorsa è l’energia delle piccole e medie imprese frenata dalla debolezza di un sistema poco attento alle loro esigenze. L’attenzione verso questo mondo è relativamente maggiore, ad esempio, in Paesi come gli Stati Uniti d’America dove la Small Business Authority ha parere vincolante per decidere se un regolamento può applicarsi alla piccola e media impresa o va adattato per evitare costi fissi troppo pesanti. Se è vero che la crescita dimensionale è auspicabile, è ancora più vero che per crescere bene c’è bisogno di un’«infanzia felice». I costi della giustizia civile (fuori linea rispetto ai nostri partner europei), la pesantezza della burocrazia, il peso fiscale e soprattutto le difficoltà di accesso alle fonti di finanza esterna (bancaria e no) sono ancora un fardello troppo pesante. Un punto finale, delicato ma importantissimo, è riuscire a fare sempre più sintesi tra creazione di valore economico da una parte e sostenibilità ambientale dall’altra. Più che di un problema si tratta di una grande opportunità perché richiede la nascita di una nuova generazione di beni e servizi nella logica dell’economia circolare e una scelta decisa verso le fonti rinnovabili rispetto alle fossili. Molto importante che in questi giorni l’Asvis, l’Alleanza per lo sviluppo sostenibile, valuti l’impatto della Manovra sugli indicatori di benessere in senso lato (ambiente e aspettativa di vita inclusi) e che il governo debba per legge indicare l’impatto delle sue misure su alcuni di questi indicatori. In un futuro che speriamo molto prossimo disporremo di modelli e indicatori innovativi con i quali poter superare la schizofrenia e le incongruenze tra crescita economica e ben-vivere. Per mettere la manovra economica al servizio del bene comune e dell’obiettivo ambizioso dell’art. 3 della Costituzione: la rimozione degli ostacoli alla piena realizzazione della persona umana.

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7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA

IL GAZZETTINO Pag 16 Chiarot lascia il Teatro La Fenice di Paolo Navarro Dina Per la successione si parla del direttore Fortunato Ortombina

La lettera è già sul tavolo del sindaco Luigi Brugnaro. Cristiano Chiarot, sovrintendente ad interim del Teatro La Fenice ha deciso: addio all'ente lirico veneziano. D'ora in poi si dedicherà completamente al suo nuovo incarico, quello di numero uno del Maggio Fiorentino. La decisione è stata comunicata ieri al primo cittadino, che è anche presidente del Consiglio d'indirizzo dell'ente, e ai consiglieri che adesso saranno chiamati a scegliere il successore di Chiarot con la benedizione del ministero per i Beni culturali, Dario Franceschini. In pole position per l'incarico, anche nel segno della continuità con Chiarot, potrebbe essere l'attuale direttore artistico Fortunato Ortombina, uno degli artifici delle recenti stagioni di successo della Fenice. IN POLE POSITION - Oltre a Ortombina si fanno anche i nomi di due donne: Adriana Baso e Giorgia Pea, quest'ultima consigliere comunale della Lista Brugnaro, attuale presidente della Commissione cultura del Comune. Insomma, i giochi devono ancora essere fatti, ma nei corridoi della Fenice ci si augura che il passaggio sia indolore e soprattutto legato a questioni di squisita competenza. L'addio di Chiarot annunciato ieri è solo la conclusione di un percorso concordato con il sindaco Brugnaro che, in un primo tempo, aveva chiesto al sovrintendente di rimanere al proprio posto per un periodo ad interim. Ora, però, visti gli impegni in terra toscana, Chiarot, che nel frattempo ha inanellato per la Fenice lo stanziamento di 1 milione e mezzo dal Fus (Fondo unico dello spettacolo), messo in pareggio il bilancio e soprattutto allestito la nuova stagione 2017- 2018, è arrivato il tempo di passare la mano (anche per non pregiudicare l'attività nel suo complesso del Teatro). «La situazione - sottolinea Chiarot - è positiva. Oltre al Fus soprattutto tiene conto del riequilibrio dei costi, smentendo anche teorie economiche pessimistiche come il modello Baumol-Tobin che stabilisce a priori una perdita per le attività culturali. Noi, con un pizzico di presunzione, possiamo dire che abbiamo smentito quella teoria...». ANNI IN PAREGGIO - E ci sono i dati a dimostrarlo». E tra questi vale la pena ricordare gli oltre 9 milioni di euro con i ricavi della biglietteria e il pareggio di bilancio in una serie di gestione successive, almeno dal 2011 ad oggi che hanno fatto dell'ente lirico, uno dei teatri maggiormente in buona salute della Penisola. «Sono stati sette anni importanti - sottolinea Chiarot - durante i quali abbiamo fatto passi da giganti consentendo alla Fenice di mantenere il ruolo di gran teatro nel sistema della lirica nazionale e internazionale. Ancor più oggi siamo punto di riferimento per gli appassionati». LOTTA PER LA SUCCESSIONE - Prima di tutto spetterà al sindaco Luigi Brugnaro convocare il Consiglio di indirizzo dell'ente che porrà al vaglio le candidature. Infine giungerà l'imprimatur del Governo che ratificherà il nome del nuovo sovrintendente. Per il momento, in attesa che i giochi siano fatti, il Teatro avrà come reggente l'attuale direttore generale dell'ente, Andrea Erri. E proprio il suo ruolo potrebbe portare, secondo indiscrezioni, anche ad un possibile sdoppiamento delle cariche ai vertici della Fenice. Con un direttore generale impegnato nelle questioni squisitamente amministrative e manageriali (Erri); e un sovrintendente, chiunque esso sia, più attento alla parte artistica e legato alla programmazione.

IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag VII Hotel in canonica a Santa Fosca, parte la denuncia ai vigili urbani di Daniela Ghio Esposto del 25 Aprile su presunti abusi edilizi nell’edificio affittato dalla Curia

Venezia. Un primo esposto al comando della polizia municipale è stato presentato e un secondo è già pronto al partire. Il Gruppo 25 Aprile intende verificare il possibile abuso edilizio nell’ex canonica, adiacente la chiesa, in campo Santa Fosca. Anche da una documentazione fotografica risulta infatti che l’hotel Tintoretto abbia aperto una porta ed effettui le prime colazioni in alcuni locali al primo piano della ex casa del prete affittata dalla Curia patriarcale per 9 + 9 anni e destinata ad ospitare la sala colazioni e nove camere d’albergo con bagno. Ieri Marco Gasparinetti, portavoce del Gruppo 25 Aprile, ha presentato l’esposto al commissario capo Gastaldi, dopo aver anche parlato con il comandante Marco Agostini, descrivendo la situazione. «Al primo piano dell’albergo – si legge nella denuncia - sarebbe stato creato un varco (porta) per mettere in comunicazione l’albergo con la canonica, che è tuttora di proprietà del Patriarcato di Venezia e non risulta adibita ad uso alberghiero; al primo piano della canonica è stata già creata una sala da pranzo per le colazioni dei clienti dell’albergo, mentre dagli articoli di stampa di questi giorni risulta che il cambio di destinazione d’uso sarebbe stato richiesto, ma non è ancora stato accordato, per la suddetta canonica che è stata data in affitto all’albergo con un contratto di locazione 9+9. Sulla parete della canonica prospiciente al canale è stato affisso un cartello di “manutenzione ordinaria” incompatibile con le trasformazioni edilizie già realizzate e qui documentate». «È necessario fare luce sulle trasformazioni edilizie in corso dal punto di vista delle regolarità – spiega Gasparinetti –. Il nostro non è accanimento verso un albergatore ma in un sestiere come Cannaregio, dove ci sono ancora molti residenti, eventuali abusi non possono passare inosservati. Intanto a partire da oggi sembra che sia stato sospeso il servizio colazioni nell’ex canonica. Un primo passo è stato fatto. È importante il rispetto delle regole. Il fenomeno degli alberghi che si allargano negli edifici circostanti è purtroppo diffuso». Per il momento bocche cucite all’Associazione veneziana albergatori (Ava), dove il presidente, Vittorio Bonacini, attualmente in ferie fuori Venezia, non ha ancora avuto alcuna segnalazione. «È evidente che siamo sempre dalla parte della legalità – afferma il presidente dell’Ava - Lo abbiamo dimostrato più volte. Se si dimostrerà la presenza di abusi nel discuteremo in consiglio e prenderemo provvedimenti».

Gruppo 25 Aprile, Italia Nostra e Assemblea sociale per la casa hanno organizzato sabato scorso un flash mob a Santa Fosca cui hanno partecipato un'ottantina di residenti. i manifestanti hanno steso una corda coi panni ad asciugare, messo striscioni e una casa di cartone, simbolo delle case in affitto che non si trovano più.

Pag XXV La Fenice nel cuore di Mestre di Giampaolo Bonzio Giovedì sera l’atteso concerto nel Duomo per la festa di san Michele che conferma un solido legame

Mestre. L'orchestra della Fenice arriva in concerto anche a Mestre per confermare e rinsaldare un legame sempre più stretto con il pubblico residente in terraferma. E l'iniziativa, in questo caso, rientra all'interno del programma dei festeggiamenti di San Michele. Questo concerto per la festa del patrono ha quindi un sapore del tutto particolare e rinforza quindi il legame tra lo storico teatro di campo San Fantin e la terraferma. IL CONCERTO – L'appuntamento in questione è per giovedì, con inizio alle 21, nel Duomo di Mestre Per chi non frequenta abitualmente il teatro lagunare quella proposta è sicuramente un'occasione unica per seguire da vicino la celebre l'orchestra. In questo caso l'orchestra della Fenice, diretta da Giovanni Battista Rigon, eseguirà un programma di musiche di Frescobaldi, Handel, Bach, Vivaldi, Pergolesi e Panchelbel. Rigon sarà affiancato dal soprano Giulia Semenzato, dal contralto Valeria Guirardello e da Ulisse Trabacchin all'organo. Per l'occasione, come si può notare dal programma, la Fenice ha deciso di proporre un programma abbastanza vario che spazia su composizioni molto diverse tra di loro (gli inviti per il concerto possono essere ritirati presso la libreria San Michele di Via Poerio a Mestre). Il concerto, che è organizzato in collaborazione con gli Amici della musica di Mestre e la parrocchia di San Lorenzo, fa anche parte delle iniziative del Comune di Venezia dal titolo La città in festa. IL PROGRAMMA - La serata di giovedì avrà inizio con un omaggio all'organo della chiesa principale di Mestre, lo strumento (opus 378) realizzato nel 1800-1801 da Gaetano Callido, celebre organaro veneto molto apprezzato dal senato veneziano che lo esentò dal pagamento dei dazi doganali per il trasporto delle sue creazioni fuori dal territorio della Repubblica, in modo da ricambiarlo' del prestigio che con il suo lavoro portava alla Serenissima oltre che nel resto d'Italia. C'è poi da sottolineare che per esaltare le qualità tecniche del prezioso strumento musicale, Ulisse Trabacchin, altro maestro del coro della Fondazione teatro la Fenice, eseguirà alcune pagine dai Fiori musicali op. 12 di Girolamo Frescobaldi: la Toccata avanti la Messa della Madonna, Recercar dopo il Credo e Bergamasca. Seguiranno due brani per voce e clavicembalo affidati all'interpretazione di artiste dal prestigio internazionale che non solo vantano origini venete (Giulia Semenzato è nata a Venezia, Valeria Girardello a Schio ) ma che nelle principali istituzioni musicali della città lagunare quali il Conservatorio Benedetto Marcello e il Teatro La Fenice hanno svolto la loro formazione e parte della loro carriera professionale. La Semenzato si misurerà con «Meine Seele hört im Sehen» HWV 207, la sesta delle Neun deutsche Arien di Händel, mentre Valeria Girardello canterà l'aria «Die Obrigkeit ist Gottes Gabe» dalla cantata sacra Preise, Jerusalem, den Herren BWV 119 di Johann Sebastian Bach. Entrambe saranno accompagnate da Ulisse Trabacchin al clavicembalo. Le due interpreti saranno ancora al centro del palcoscenico nel Salve Regina in fa maggiore per contralto, archi e continuo di Nicola Porpora e in «Nulla in mundo pax sincera» RV 630 per soprano, archi e continuo di Vivaldi, alternandosi alle celeberrime pagine strumentali del Canone in re maggiore di Pachelbel e dell'Aria sulla quarta corda' dalla Suite n. 3 BWV 1068 di Bach; le soliste con l'Orchestra del Teatro La Fenice saranno infine impegnate insieme nel gran finale con il «Sancta Mater, istud agas» dallo Stabat Mater per soprano, contralto, archi e basso continuo di Pergolesi.

LA NUOVA Pag 18 Canonica trasformata in albergo: «Commesso un abuso edilizio» di Carlo Mion Esposto alla polizia locale del Gruppo 25 Aprile per denunciare presunte irregolarità a Santa Fosca: «L'hotel Tintoretto ha realizzato una porta e sistemato una parte dell'edificio per fare la sala pranzo». Il Patriarcato: «Non sappiamo di questi lavori»

Canonica di Santa Fosca e cambio d'uso, il "Gruppo 25 Aprile" presenta un esposto ai vigili urbani. C'è il sospetto, secondo i firmatari, che sia stato commesso un abuso edilizio. A compiere l'eventuale irregolarità sarebbe stato il titolare dell'Hotel Tintoretto che ha preso in affitto canonica e campanile della chiesa. Avrebbe realizzato una porta, ricavandola dal muro che divide il suo albergo dalla canonica, e poi sistemato una parte dell'edificio del Patriarcato per realizzare una sala da pranzo dove servire la colazione ai clienti. Secondo chi ha presentato l'esposto, mancherebbe qualsiasi permesso per realizzare la porta e non ci sarebbe quindi nemmeno il nulla osta dell'Usl per consentire l'utilizzo della sala da pranzo ad uso pubblico. Naturalmente ora dovranno essere i vigili urbani a stabilire se tutto questo è avvenuto. La canonica sicuramente era in abbandono, il campanile aveva perso da tempo il suo utilizzo. Se a questo si aggiunge che il Patriarcato non aveva e non ha soldi per mantenere in piedi tutti i suoi edifici, non c'è da meravigliarsi che sia stato dato in affitto con il doppio beneficio: da una parte la manutenzione spetta ad altri e dall'altra si incassano soldi. Da almeno tre mesi campanile e canonica sono state in affitto con la formula "nove anni più nove anni". Nell'esposto inviato ieri al comando della polizia locale, Marco Gasparinetti, portavoce del Gruppo, ha scritto: «Sottoponiamo alla Sua attenzione (il riferimento è al funzionario dei vigili che si occupa di questi accertamenti, ndr), con preghiera di verifica urgente, un caso di possibile abuso edilizio in Campo di Santa Fosca e più precisamente all'interno della canonica adiacente all'omonima Chiesa». Il gruppo, per spiegare di cosa sta parlando, allega anche quattro foto: «Al primo piano dell'albergo sarebbe stato creato un varco (porta) per mettere in comunicazione l'albergo con la canonica, che è tuttora di proprietà del Patriarcato di Venezia e non risulta adibita ad uso alberghiero; al primo piano della canonica è stata già creata una sala da pranzo per le colazioni dei clienti dell'albergo, mentre dagli articoli di stampa di questi giorni risulta che il cambio di destinazione d'uso sarebbe stato richiesto, ma non è ancora stato accordato, per la suddetta canonica che è stata data in affitto all'albergo con un contratto di locazione 9 anni più 9 anni». Sempre nell'esposto viene fatto presente che sulla parete della canonica, dal lato del canale, è stato affisso un cartello che spiega che sono in corso lavori di "manutenzione ordinaria". Chi presenta l'esposto sottolinea nella segnalazione che il cartello è «incompatibile con le trasformazioni edilizie già realizzate e qui documentate». Il portavoce Gasparinetti chiarisce: «A Cannaregio una situazione del genere è difficile che passi inosservate». Sentito in proposito Berardo Di Francesco Antonio, titolare del Tintoretto, si limita a un «Stiamo valutando la vicenda».

Don Dino Pistolato, il moderator curiae - una specie di amministratore delegato del Patriarcato - spiega: «Io non so nulla dei lavori. Naturalmente la responsabilità è di chi ha commesso una eventuale irregolarità, ma mi pare strano conoscendo l'architetto che sta seguendo i lavori». Don Dino, su questo cambio d'uso, ha già spiegato che il restauro della canonica per la Chiesa era troppo oneroso e quindi hanno preferito usare quei soldi a favore della residenza dei veneziani. Fronte per il quale il Patriarcato, ricorda don Dino, è impegnato parecchio sia stipulando accordi con il Comune che con la Prefettura e investendo, recentemente, ben 100mila euro. In una nota ufficiale il Patriarcato spiega: «La canonica in oggetto faceva parte di una serie di strutture abitative storicamente inserite nel Fec (Fondo Edifici di Culto, un fondo immobiliare la cui gestione è in capo al Ministero dell'Interno); negli anni passati alcuni di questi immobili, tra cui la canonica di Santa Fosca, sono stati acquisiti dal Patriarcato di Venezia - che ne ha e ne conserva tuttora la proprietà - mentre altre strutture, la maggior parte, rimangono ancora in carico al Fec. La canonica di Santa Fosca non è mai stata messa in vendita e quindi non è mai stata acquistata da terzi. L'immobile, in realtà, da circa un anno è stato dato in affitto al vicino Hotel Tintoretto che, nell'ambito dell'accordo siglato, si occuperà anche della ristrutturazione dell'adiacente chiesa di Santa Fosca che necessitava di alcuni significativi interventi e potrà ritornare così pienamente disponibile. La soluzione trovata per tale immobile che è - lo si sottolinea - ad uso abitativo e non un luogo di culto va, piuttosto, valutata in sintonia e nella direzione già da tempo prospettata dalla Diocesi di Venezia circa la conservazione, la valorizzazione e la destinazione dei luoghi di culto presenti in città, ma non più utilizzati per fini liturgici».

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… ed inoltre oggi segnaliamo…

CORRIERE DELLA SERA Pag 1 Gli sconti che Berlino non farà di Lucrezia Reichilin Noi e il voto

L’esito delle elezioni tedesche è una brutta notizia per l’Italia e per l’Europa. La perdita dei voti della Cdu di Angela Merkel e della Spd di Martin Schulz accompagnati dal rafforzamento della destra dell’AfD mostra chiaramente che la Germania si ribella sia all’apertura nei confronti dei migranti sia a un governo economico dell’euro in cui si preveda più condivisione del rischio tra Paesi. Il nuovo patto per l’Europa tra Macron e Merkel di cui si è tanto parlato nei mesi scorsi - se andrà ancora in porto - sarà sicuramente un atto più formale che un punto di svolta. Questo è vero in particolare per la parte che riguarda la riforma del governo economico dell’euro. L’Italia deve stare molto attenta a come giocare le sue carte in questo nuovo quadro politico. Nei mesi scorsi i leader di Francia e Germania si sono dichiarati favorevoli a un bilancio dell’eurozona, a un ministro delle Finanze europeo e a un fondo monetario europeo. Dietro queste proposte apparentemente così ambiziose si cela tuttavia una differenza profonda di visione sul ruolo di queste istituzioni. Mentre la Francia pensa a un bilancio europeo alimentato da entrate fiscali federali e da usare ai fini della stabilizzazione economica (un meccanismo di condivisione del rischio macroeconomico, quindi), la Germania ha in mente uno strumento più limitato da usare a supporto delle riforme strutturali. Per quanto riguarda il fondo monetario europeo i punti di vista sono altrettanto differenti: il governo tedesco vuole rafforzare il meccanismo europeo di stabilizzazione (Esm) dandogli un maggiore potere di sorveglianza delle politiche nazionali mentre la Francia vorrebbe dotarlo di maggiori risorse finanziarie da usare per erogare liquidità in caso di crisi. Queste differenze riflettono una diversità di cultura economica tra i due Paesi che vede la Germania sottolineare l’importanza delle regole e la disciplina di mercato, mentre la Francia pensa siano necessari strumenti per la gestione delle crisi e meccanismi per la condivisione del rischio. Dopo le elezioni tedesche lo spazio per un compromesso si è ridotto drasticamente ed è realistico prevedere che la Germania - accettando il principio del fondo monetario europeo e del ministro delle Finanze federale - chiederà in cambio un rafforzamento delle regole, più sorveglianza sulle politiche degli Stati membri e più disciplina di mercato, per esempio proponendo che il prezzo dei titoli di stato sia in relazione al debito pubblico e la possibilità della ristrutturazione in caso di insolvenza mentre respingerà l’idea di un fondo di stabilizzazione del ciclo economico vedendo in questo il primo passo per un’unione in cui le risorse finanziarie vadano in una sola direzione, dai Paesi virtuosi al club-med. Per l’Italia, che ha sia un’alta esposizione delle sue banche ai titoli di stato nazionali che un alto debito pubblico, passare a un sistema più vulnerabile al rischio di mercato senza prima attenuare queste due problemi, potrebbe crearsi una rinnovata instabilità. È essenziale seguire nei dettagli le trattative dei prossimi mesi e tenere gli occhi ben aperti. Il bilancio europeo così come il Fondo monetario europeo - nella forma in cui realisticamente si proporranno - non sono essenziali né per noi né per il futuro dell’euro. Anzi, potrebbero andare nella direzione sbagliata. Più importante è evitare che nuove regole finanziare e di trattamento del debito - anche se auspicabili in principio - non siano attuate senza un’adeguata attenzione ai costi della transizione ad un nuovo eventuale regime. Inoltre non dobbiamo rinunciare a mantenere aperto il negoziato sul completamento dell’unione bancaria e sullo sviluppo dell’unione dei capitali. Questo vuol dire soprattutto migliorare le regole esistenti, rendendole più snelle e più chiare nel determinare la ripartizione di responsabilità tra livello nazionale e federale. Questo è lo spazio oggi: rafforzare le istituzioni che abbiamo costruito in risposta alla crisi - in particolare completando e migliorando il funzionamento dell’unione bancaria - sapendo che il punto debole della architettura economica dell’euro è la sua vulnerabilità alle crisi finanziarie più che la mancanza di meccanismi fiscali di condivisione del rischio. Certamente la partita non finisce qui. Le elezioni tedesche spengono entusiasmi affrettati sulla possibilità di una nuova stagione di riforma dell’eurozona, ma è importante mantenere il dialogo aperto sapendo che i tempi per un unione economica europea saranno lunghi e possibili solo a condizione di una maggiore integrazione politica che li legittimi.

Pag 3 “Non importa se sei bravo, questo è un do ut des. Ricorri? Ti giochi il futuro”. Così il professione chiese il ritiro della domanda di Fiorenza Sarzanini Accordi illeciti per la spartizione degli assegni di ricerca

Firenze. Come funziona il «sistema» lo spiega il professor Pasquale Russo quando cerca di convincere Philip Laroma Jezzi a ritirare la richiesta di abilitazione: «Non è che si dice è bravo o non è bravo. No, si fa questo è mio, questo è tuo, questo è tuo, questo è coso, questo deve anda’ avanti per cui...». Il ricercatore non cede. Il professore lo mette in guardia: «Così ti giochi la carriera. Invece se accetti, ti facciamo scrivere un paio di articoli così reimposti il tuo curriculum e vieni abilitato nella prossima tornata». Sono le intercettazioni, ma anche le registrazioni dei colloqui effettuate proprio da Laroma a svelare quello che i docenti definiscono «il patto sui candidati da abilitare» all’insegnamento di diritto tributario in tutta Italia. È il titolo necessario per essere poi scelti dalle università, dunque alla spartizione delle cattedre partecipa solo chi è indicato dai professori. «È un do ut des» - L’indagine parte nel 2013. Laroma ha presentato domanda e viene convocato dal professor Pasquale Russo che gli chiede di ritirarsi. Scrive il giudice: «L’interesse di Russo a che Laroma non partecipasse al concorso derivava dal fatto che la sua presenza all’abilitazione rendeva difficile abilitare certi candidati con meno titoli di lui». Russo lo dice chiaramente: «I commissari si sono già riuniti un paio di volte e ognuno ha portato i suoi o dei suoi amici. Ognuno ha chiesto e tutti hanno dato agli altri. Insomma c’è stato un do ut des». E quando il ricercatore si ribella, non si scompone: «È il vile commercio dei posti. Ti ritiri per mantenere integra la possibilità di farlo in un secondo momento». Laroma ricorre al Tar e presenta una denuncia alla Guardia di finanza. Loro non si scompongono. Anzi. Il 14 gennaio 2014, durante un incontro con Russo e il professor Guglielmo Fransoni, quest’ultimo dice: «Io non ho capito la tua scelta di restare dopo che ti era stato dato il messaggio di ritirarti. Cioè se uno ti dà il messaggio di ritirarti un motivo c’era..., cioè una consapevolezza del... di come si era orientata la Commissione. C’era il veto di Roberto Cordeiro Guerra perché non voleva che tu passassi davanti a Dorigo «un altro ricercatore ndr». La cena di Fantozzi - Nel febbraio 2015 Livia Salvini, una delle docenti ora «interdetta» riceve una «soffiata» sull’inchiesta. Ne parla con il collega Giuseppe Zizzo, gli confida che «dieci giorni dopo essere stata nominata membro della Commissione, era pervenuta una richiesta da parte della Procura della Repubblica di Firenze di intercettazione». E si lamenta: «Gli altri lo sapevano e non mi hanno avvisata». Il 9 giugno 2014 viene organizzata una cena in un ristorante romano tra alcuni tributaristi. Augusto Fantozzi fa la sua proposta: «Se uno fa i concorsi così non ci sarà mai un minimo di... perché naturalmente nessuno ha responsabilità di niente e ognuno va lì con il coltello alla gola e dice “o mi dai quello o... quindi capite”. Bisogna trovare delle persone di buona volontà che di qua e di là, di sotto o di sopra... e ricostituiscano un gruppo di garanzia che riesca a gestire la materia nei futuri concorsi... e allora si tratta di ... capisaldo o con gli uomini di buona volontà oltre che ...qualche, possano stare in una nuova cupola, tanto per non usare un termine». L’assegno di ricerca - C’è la spartizione delle cattedre e c’è l’assegnazione degli assegni di ricerca. Il 18 maggio 2014 Roberto Cordeiro Guerra telefona a Pietro Mastellone (conversazione n° 262) chiedendogli di inoltrargli «quella bozza di richiesta dell’assegno». Mastellone: «Pronto?». Cordeiro Guerra: «Ciao Pietro, scusa, mi giri sull’iPad quella bozza di richiesta dell’assegno?». Mastellone : «Sì, sì, sì ...». Annota il giudice: «L’assegno a cui si fa riferimento nel corso della telefonata deve ritenersi quello oggetto del bando di selezione conferito a Pietro Mastellone il 15 settembre 2014. Il responsabile della ricerca è stato, successivamente, individuato nel professor Cordeiro Guerra. Dalla telefonata in questione si ricava quindi che Pietro Mastellone, colui che sarà il destinatario dell’assegno, circa un mese prima della delibera del Consiglio del Dipartimento di Scienze Giuridiche del 26 giugno 2014 che ha approvato la previsione dell’assegno di ricerca e circa due mesi prima della pubblicazione del bando di selezione, era nel possesso della “bozza di richiesta” dell’assegno stesso».

Pag 15 La spregiudicata metamorfosi moderata del Movimento di Massimo Franco

Strano: il risultato delle elezioni tedesche sembra fare emergere in Italia solo due protagonisti: le forze di centrodestra e il Movimento 5 Stelle. Sono loro, in modo diverso, a contendersi il ruolo di beneficiari del voto in Germania. Forse per la sconfitta dei socialdemocratici, la sinistra e soprattutto il Pd si mostrano poco loquaci: quasi dovessero valutare a fondo le implicazioni di quanto è successo. Ma colpiscono anche la prontezza e la spregiudicatezza con le quali il candidato premier del M5S, Luigi Di Maio definisce i suoi l’«unico argine agli estremismi in Europa». I Cinque Stelle che si trasformano, da avanguardia del populismo, a diga contro l’estremismo. È il segno di una metamorfosi accelerata e un po’ troppo rapida, che la candidatura del vicepresidente della Camera certifica: a costo di malumori interni e della possibilità di perdere pezzi. Evidentemente, il Movimento ha deciso che dalla crisi del sistema si esce come movimento moderato; e che, per entrare nell’orbita del governo è necessario assumere il volto della forza che, dopo avere contribuito a destabilizzare, ora ambisce a puntellare il sistema. E lo fa avvicinandosi più a FI che alla Lega. Anche se poi Di Maio non rinuncia a chiedere «investimenti in deficit all’Unione Europea per gli investimenti»: un argomento che riceverà un secco rifiuto dalla Germania emersa dalle urne, perché a nazioni come l’Italia si chiederà maggiore e non minore disciplina sul debito pubblico. Ma va rilevata la distanza dalla Lega di Salvini, e una larvata sintonia con il partito di Silvio Berlusconi. Il leader della Lega, infatti, proclama: «Viva AfD», e cioè il partito dell’ultradestra AfD. Alternative für Deutschland è entrata in Parlamento con oltre il 13 per cento dei consensi. È tacciata in modo un po’ superficiale e sbrigativo di essere erede del nazismo. L’aspetto da sottolineare, tuttavia, è che Salvini ritiene «la grande differenza tra Lega e AfD il fatto che noi andremo a governare, mentre per ora loro sono una sana opposizione». Per il resto, sembra di capire, hanno posizioni simili. E questo mentre il presidente del Parlamento europeo, Antonio Tajani, esponente di spicco di FI, definisce tra i sarcasmi leghisti «il rafforzamento dell’estrema destra in Germania un segnale negativo per l’Italia». Sembra di capire che anche il voto tedesco entrerà nello scontro per la leadership del centrodestra: con Salvini fiero di interpretare il vento estremista; e Berlusconi inedito portavoce dell’europeismo di Angela Merkel. Al momento riesce difficile capire come posizioni così inconciliabili possano approdare a un patto elettorale. L’inserimento di Di Maio è una variabile imprevista fino a poco fa. In teoria, il M5S potrebbe essere alleato di una coalizione di centrodestra: sempre che una nuova legge elettorale non argini la frammentazione.

LA REPUBBLICA Pag 1 Il crepuscolo europeo di Eugenio Scalfari

Il leader dei socialisti tedeschi (Spd) Martin Schulz ha deciso di non fare alcuna coalizione con la Cdu di Angela Merkel. L’Spd che aveva nel precedente Parlamento il 26 per cento, in quello attualmente eletto è al 20 e questa è la ragione che ha motivato il passaggio dei socialisti all’opposizione. Merkel non si è persa d’animo e ha in poche ore sostituito i socialisti di Schulz con i liberali-liberisti e i verdi. Invece d’una coalizione di centrosinistra ne ha fatta una decisamente di destra e per di più anti-immigrati. In una situazione così diversa da quella che si auspicava e per di più con l’ingresso in Parlamento del partito populista di estrema destra semi-nazista, cresciuto dal 4 al 12,6 per cento, pensare che la Germania possa essere il perno del rafforzamento dell’Unione europea e soprattutto dell’Eurozona è diventato semplicemente immaginario: l’europeismo tedesco è finito in soffitta o in cantina. Il tema, rilanciato da Jean-Claude Juncker, non scompare ma passa in altre mani. Certamente in quelle dell’Italia e anche in quelle di Macron, sebbene l’europeismo del presidente francese sia soprattutto un’Europa francese piuttosto che una Francia europea. Questa situazione, che dopo l’intervento di Juncker sembrava molto positiva, si è trasformata nel suo contrario. Tutto questo a causa dell’egotismo di Schulz. Un personaggio che è stato per anni presidente del Parlamento europeo diventa l’affossatore dell’Europa regalando il suo Paese alle forze antieuropee. È pur vero che la coerenza è una virtù molto fragile perché le persone cambiano continuamente il loro rapporto con il mondo in cui vivono; ma di solito si tratta di cambiamenti marginali. Uno come quello di Schulz però non è marginale ma fondamentale ed è un tragico danno per le sorti dell’Europa, di quelli che ci vivono e in particolare della Germania, passata in poche ore dal bianco al nero.

LA STAMPA Voto tedesco e conseguenze italiane di Marcello Sorgi

Oltre a creare una serie di problemi complicati a Berlino e nel Bundestag, i risultati delle elezioni in Germania hanno avuto l'effetto di demolire, uno dopo l'altro, gli obiettivi per cui dichiaratamente o no, in vista del voto politico della prossima primavera, si stava lavorando anche in Italia. A cominciare dalla grande coalizione, per la quale, con approcci differenti, si muovevano Berlusconi e Renzi, e del sistema elettorale tedesco, affossato dai franchi tiratori alla Camera l' 8 giugno, ma considerato un'ancora di salvezza, da riproporre in extremis nel caso del già annunciato fallimento del Rosatellum. Il ridimensionamento della Merkel e il crollo verticale dei socialdemocratici tedeschi dimostrano infatti che le larghe alleanze comportano un prezzo troppo alto per chi vi partecipa e un vantaggio imprevedibile per chi vi si oppone, tanto maggiore quanto più forte e radicale è l'opposizione. Un processo del genere, del resto, si era manifestato anche in Italia, con il calo del Pd dall'ottimo risultato (40,8%) conseguito da Renzi nelle europee del 2014 alle più modeste affermazioni nelle regionali del 2015. Finendo poi con le sconfitte vere e proprie nelle amministrative del 2016 e 2017 che, combinate con il disastro del referendum costituzionale, hanno portato il leader del partito a rinunciare alla guida del governo e a dover pagare la propria riconferma alla segreteria con una scissione, in grado di compromettere l'esito delle regionali siciliane del 5 novembre, senza dire, appunto, del decisivo appuntamento con le urne per il prossimo Parlamento. Parallelamente - ed è in qualche modo una conferma dell'esaurimento delle grandi coalizioni, o delle alleanze tra ex-avversari come Pd e Ap, l'ex-Nuovo centrodestra - Berlusconi, passando all'opposizione, seppure un'opposizione moderata, ha visto rifiorire il consenso intorno a sé. Quanto al sistema elettorale tedesco, valutato come un toccasana per consentire anche all'Italia di uscire dalla stagione del bipolarismo, ormai superata con l'avvento di Grillo e del M5S, senza ricadere nella paralisi del proporzionalismo, le urne della Germania ci dicono che non è più così. Lo sbarramento al 5 per cento non ha impedito alla destra radicale, nazionalista e xenofoba (quando non nostalgica del nazismo), a cui i nostri Salvini e Meloni si richiamano apertamente, di eleggere un centinaio di parlamentari in grado di condizionare, sia il governo che le opposizioni; la sinistra-sinistra della Linke ha riottenuto il suo 10 per cento che farà sognare Pisapia, Bersani e il variegato arcobaleno che gli si muove attorno e in concorrenza; il ritorno dei liberali al Bundestag, dopo una legislatura in cui ne erano rimasti fuori, spinge verso il recupero delle identità e contro i compromessi delle alleanze a qualsiasi costo. In sintesi, un quadro spezzettato e difficile da ricomporre, che impone, anche in Italia, un drastico ripensamento delle strategie. Diciamo la verità: l'idea di rimettere su le coalizioni, vista la crisi delle larghe alleanze, è abbastanza teorica, se non proprio fuori dalla realtà, al punto in cui sono ridotti i rapporti tra i leader che dovrebbero ricostruirle. Non si può escludere che ci si riprovi, o si faccia finta di riprovarci, per poi distruggerle, in vista non si sa di cosa, dopo il voto. Lo sanno bene quelli che dicono di volerle e quelli che non le escludono, ma sotto sotto le sabotano. In casi come questi ci vorrebbe una novità. Ma veramente nuova, ai limiti dell'azzardo, un po' com'era - e purtroppo non è più - il Renzi di quattro-cinque anni fa. Oppure ci vorrebbe qualcuno in grado di rompere i confini e le identità sclerotizzate delle attuali forze in campo, con un programma serio, concreto, realistico, di pochi punti sganciati da ipocrisie e inutili ancoraggi ideologici. Per intendersi, uno (o una) alla Macron. A guardarsi intorno, dalle nostre parti non è che se ne vedano tanti, e neppure pochi. Ma chi ci sta provando, prendendo di petto il problema dei problemi, l'immigrazione clandestina che sta terremotando le opinioni pubbliche e gli elettorati di tutto il mondo, c'è e si chiama Minniti. Non è detto che sia in grado di svolgere la seconda parte del lavoro, la più difficile: rompere gli schieramenti. Ma potrebbe esserne tentato. O sarà lui o uno che prenderà esempio da lui.

AVVENIRE Pag 3 L’instabilità politica di un Paese normale di Giorgio Ferrari L’effetto Germania sull’Europa / 1

Da ieri la Germania ha perduto più di un primato. E non soltanto per l’imbarazzante ingresso al Bundestag – per la prima volta dalla fine della Seconda guerra mondiale – di oltre novanta deputati appartenenti alla formazione dell’estrema destra xenofoba Alternative für Deutschland (Afd), né per il drastico risultato della Spd, naufragata con quel 20,5% al proprio minimo storico, tanto da farci domandare se il glorioso partito nato centocinquant’anni fa sotto l’impero guglielmino e subito messo fuorilegge da Otto von Bismarck sia ancora da considerare un Volkspartei, ossia un grande partito popolare. Il primato perduto davvero significativo è piuttosto quello della peculiarità germanica, quella cioè che nei lunghi anni dell’inarrestabile crescita del Paese dapprima diviso e poi riunificato associava la forza rassicurante di una stabilità politica davvero invidiabile. Il verdetto delle urne ci consegna viceversa una Camera alta dove il partito di maggioranza relativa, la Cdu-Csu di Angela Merkel perde l’8,5% dei consensi, dove i liberali del Fdp si riaffacciano con un 10,7% alla ribalta della politica e dove i Verdi guadagnano l’8,9%, ma dove Afd ha raccolto quasi il 13% dei voti. Un quadro che ora rende la Germania instabile e molto simile a molti dei suoi partner europei. Ed è appunto dell’Europa che vogliamo parlare. Quale sarà la sua sorte, ora che con questa vittoria mutilata Angela Merkel rischia di assomigliare molto da vicino a una lame-duck (la proverbiale 'anatra zoppa', incubo di ogni presidente americano allorché perde la maggioranza al Congresso)? Potrà davvero riconfigurarsi quell’asse Parigi-Berlino di impronta neocarolingia che si dava per scontata solo pochi mesi fa con la straripante vittoria di Emmanuel Macron (che già non nasconde il proprio pessimismo) e il duro castigo inflitto alla destra anti-europea di Marine Le Pen? E soprattutto si potrà ancora parlare di quella road map che avrebbe dovuto imprimere una svolta storica ai balbettii di un’Unione Europea affaticata e incapace di uscire dal proprio labirinto? Il raggelante silenzio del presidente della Commissione Europea Jean-Claude Juncker e del Presidente del Consiglio Donald Tusk di fronte ai primi exit poll di domenica parla da solo. Come parlano i numeri delle uniche due possibili maggioranze (a meno di una più che fragile soluzione di minoranza): la prima è una riedizione della Grosse-Koalition Cdu-Csu e Spd, che tuttavia lo sconfitto Martin Schulz (ma fino a quando resterà leader di un partito che complice la modestia della sua statura politica ha condotto alla disfatta?) ha già dichiarato impraticabile, anche per evitare che il ruolo istituzionale dell’opposizione passi nelle mani della Afd. La seconda è un’intesa (detta 'Giamaica', dalla composizione dei colori dei singoli partiti) fra Cdu-Csu, liberali di Fdp ( Freie Demokratische Partei) e Verdi. Un puzzle difficile da comporre, in quanto i liberali pretenderanno quasi certamente il Ministero delle Finanze, quello finora guidato da Wolfgang Schäuble: e – questo già lo si sa – saranno molto più severi e rigorosi del pur durissimo ministro che con la sua intransigenza mise in ginocchio la Grecia. Con loro, niente sconti sul Fiscal compact per noi italiani, niente deroghe sul pareggio di bilancio, solo 'compiti a casa' da svolgere il più diligentemente e il più celermente possibile: la temutissima troika è lì dietro l’angolo. Non solo, i liberali arricciano il naso di fronte quell’accelerazione dell’integrazione europea che molti Paesi – tra cui l’Italia – invocano: soprattutto, nessun bilancio comune europeo e meno margini di controllo sui conti pubblici da parte della Commissione. I Verdi invece l’integrazione la sostengono, come sostengono le politiche migratorie (le stesse che probabilmente sono costate l’emorragia di voti ai cristianodemocratici) che Angela Merkel stessa ha confermato subito dopo l’esito del voto. Difficile metterli d’accordo, come si può intuire, ma sappiamo che Merkel ha grande capacità di mediazione. Del resto in Germania il programma di governo viene minuziosamente scritto e rispettato e nel caso di un governo di coalizione necessita di puntigliose trattative. Così accadrà anche questa volta e difficilmente vedremo insediarsi il nuovo gabinetto prima di dicembre, forse gennaio. Senza dimenticare che al Bundestag una forza consistente come Afd sarà comunque in grado di contrastare e condizionare le scelte della cancelliera. Comprese le politiche sui flussi migratori. A cominciare dalla richiesta italiana (e non solo) di riformare la Convenzione di Dublino sul diritto di asilo. A suo tempo la Merkel si era detta favorevole. Lo sarà ancora con la Baviera che le ha giurato vendetta e ha voltato le spalle alla Csu votando la destra xenofoba?

Pag 3 La sfida di uno sviluppo che argini i populismi di Mauro Magatti L’effetto Germania sull’Europa / 2

Stati Uniti e Regno Unito e poi Francia e ora Germania. Il vento forte del cambiamento è dunque arrivato anche nel Paese più importante dell’Unione Europea. Anche se l’autorevolezza di cui ancora gode la signora Merkel ha attutito l’urto. In ogni caso, dopo questo nuovo scossone elettorale è urgente aggiornare le nostre mappe politiche. La sinistra è in grave difficoltà, e un po’ dappertutto sembra aver perso il contatto con la propria base sociale. Incerta sull’idea di società da prospettare e incapace di parlare con i ceti popolari, la sinistra è alla ricerca di se stessa più che dell’elettorato. Ciò apre il campo alla destra populista che fa della questione dei migranti il catalizzatore del malcontento sociale diffuso. Dato che nessuno sa dove andare, il messaggio dei nuovi partiti populisti – 'contro', non 'per' – fa breccia tra i tanti che ritengono che le cose siano destinate solo a peggiorare. In mezzo ci sono i partiti di governo – alleati con quel che resta dell’establishment economico e finanziario – che più o meno volenterosamente tentano di manovrare il transatlantico delle società contemporanee per evitare il naufragio. Viviamo dunque tempi difficili e, proprio per questo, interessanti. La buona notizia – confermata ancora una volta dal voto tedesco – è la resilienza delle democrazie contemporanee. Ormai da parecchi anni i segni di difficoltà ci sono tutti, e ben visibili. Ma non dobbiamo sottovalutare la capacità dei sistemi politici contemporanei di reggere questi anni di crisi. Certo, ci sarebbe bisogno di ben altra capacità di aggiustamento. Ma non si dimentichi che, senza far nessuno sconto alla classe politica (spesso inetta e inadeguata), è l’intero corpo sociale a essere oggi pesantemente sfrangiato. Anche se è impopolare dirlo, la crisi delle classi dirigenti riflette – e quindi aggrava – la crisi della società nel suo insieme. E tuttavia, è chiaro a tutti che il tempo a disposizione è destinato a esaurirsi in fretta: per Macron come per la Merkel, il problema non è conservare ciò che ormai non regge più ma avviare una stagione nuova. Lo scenario che si è venuto a creare in Germana certo non aiuta. La cancelliera avrà difficoltà a formare un governo, dato che verdi e liberali non sono alleati facilmente conciliabili. Ma c’è ragione di credere che la sua grande esperienza, insieme alla autorevolezza di cui ancora gode e alla sua indiscussa rettitudine, la aiuteranno a superare le difficoltà che si trova davanti. Ma più che la formazione, il problema sarà la direzione di marcia del nuovo governo. Ci sono in particolare due nodi che Angela Merkel non potrà evitare di affrontare. A livello di politica economica, il governo tedesco ha seguito in questi anni i princìpi del cosiddetto ordoliberalismo. L’idea di fondo è la costituzionalizzazione dell’ordine liberale non solo in economia ma nell’intera società. Un modello all’origine del successo economico della Germania di questi anni, che si scontra ora con le sue contraddizioni: in primo luogo, la crescita economica - e persino la piena occupazione lasciata a se stessa in questo momento storico non elimina e anzi per alcuni aspetti alimenta il malcontento. Il punto è che la crescita economica se non adeguatamente redistribuita è insufficiente. In secondo luogo, l’efficienza di per sé non produce società ma rischia al contrario di lacerarla. Dopo gli anni dello slegamento neoliberista, oggi è il tempo in cui è necessario rinegoziare – e qualificare – il legame sociale. A livello di politica europea, in questi anni la Merkel è stata scaltra nel tenere una posizione ambivalente: ha sostenuto Draghi e la sua politica monetaria espansiva senza mai abbandonare la cura degli interessi tedeschi (come dimostra il livello record raggiunto dal surplus commerciale tedesco); ha accettato il rischio di aprire ai migranti (anche avendo in mente i benefici economici di una tale operazione) senza però impegnarsi per la costruzione di una vera e propria politica europea su questo tema. Il problema è che, in questo modo, è rimasta a metà del guado, senza mai riuscire ad assumere la leadership di una nuova Europa. Come se ancora una volta la Germania, nella persona della sua cancelliera, si ritrovasse prigioniera della propria storia: straordinariamente capace di diventare potente, ma al tempo stesso incapace di coagulare attorno a sé interessi e prospettive più grandi. Di certo, i recenti passaggi elettorali suonano come la campana dell’ultimo giro per le democrazie contemporanee: tra qualche anno o avremo imboccato la strada di un modello di crescita più equilibrato e capace di integrazione oppure ci esporremo al rischio di vedere crollare gli argini che pure hanno finora resistito. A quel punto, rotta la diga, i populismi dilagherebbero. Ecco perché non c’è tempo da perdere: occorre mettere insieme i pezzi migliori delle nostre società avendo il coraggio di pensare - e realizzare - il futuro. Speriamo che la Merkel, nel suo quarto mandato, riesca a dare inizio a un processo nuovo.

IL GAZZETTINO Pag 1 Gli immigrati cambiano gli equilibri nella Ue di Marco Gervasoni

Ai tempi di Bill Clinton era diffusa la battuta «è l'economia, stupido!». Cioè: vinceva il politico meglio capace di rendere prospero il paese. Dopo le elezioni tedesche questa regola va rivista, o almeno ne va introdotta un'altra: «è l'immigrazione, stupido!». Le consultazioni degli ultimi tempi, dalla Nuova Zelanda alla Norvegia fino appunto alla Germania indicano nell'immigrazione l'orizzonte politico del nostro tempo, uno specchio in cui si riflettono la percezione delle difficoltà economiche, la paura del declino, demografico ma anche culturale e religioso, la sempre più scarsa fiducia nei confronti dei governi. Chi dimostra di voler affrontare con fermezza e realismo il fenomeno viene premiato dagli elettori (come la FDP). Al contrario di chi sottovaluta il problema, o adotta soluzioni ispirate solo alla generosità e a un atteggiamento da «cuore senza testa», come scrive Paul Collier, uno dei massimi studiosi dell'emigrazione. Sarebbe limitativo definire «senza testa» il «noi possiamo farcela» di Merkel sui migranti e sui rifugiati, improntato anche a un disegno realistico, favorevole al rinvigorimento dell'economia tedesca; solo che l'hanno solo in parte capito gli elettori, a cominciare da quelli del suo partito. Questo non ha impedito alla Cancelliera di (ri)vincere le elezioni, ma uscendo indubbiamente ridimensionata. Oggi «Mutti» è un po' meno potente, dal punto di vista politico, se con potenza politica intendiamo la capacità di far eseguire ordini. Al contrario di Macron che ora appare l'unica figura europea capace di garantire un governo stabile fino alla fine del suo mandato, nonostante sia uscito a sua volta un po' acciaccato dal non felice esito delle elezioni senatoriali. Per questo il cambiamento di scenario a Berlino, con la fine della grande coalizione, se da un lato ritarderà i progetti di riforma dell'eurozona proposti dall'Eliseo, dall'altro renderà più equilibrato un asse franco-tedesco fino ad ora fortemente sbilanciato dalle parti di Berlino. Sarà quindi importante ascoltare che cosa dirà oggi Macron, in un discorso in cui proporrà nientemeno che il «rifacimento» dell'Europa. E ancora più cruciale sarà leggere le dichiarazioni dell'establishment d'oltre Reno. Siamo meno certi, rispetto alle previsioni di qualche giorno fa, che la Ue finirà per essere governata da un asse franco-tedesco. Si affermerà piuttosto una sorta di Europa multipolare, a più velocità, con Francia e Germania a occupare il primo posto ma in cui l'Italia potrà riprendere un ruolo importante. Non condividiamo infatti i timori che, con la fine della grande coalizione, la Germania tornerà ad essere arcigna con noi, soprattutto perché non dobbiamo adottare la psicologia degli scolaretti. Si è aperta, come ha detto il presidente Antonio Tajani «un'occasione per essere protagonisti» che non dobbiamo lasciarci sfuggire. Un esempio? I rapporti con la Russia. Possiamo infatti considerare le elezioni tedesche anche come una vittoria per Putin. AFD, FDP, Linke sono tutti contrari alle sanzioni a Mosca e non nascondono rapporti di varia natura con il Cremlino, come una parte dell'SPD. E oggi anche nella CDU molti criticano Merkel per aver abbandonato la Ost politik introdotta da Willy Brandt negli anni Sessanta del secolo scorso e dismessa dalla Cancelliera. È probabile perciò che la politica estera tedesca si sposterà maggiormente verso l'Europa orientale. Tutt'altro che una cattiva notizia per l'Italia, che potrebbe contribuire a spegnere i focolai di nuova guerra fredda con Mosca, voluti soprattutto dagli Usa. Occorre insomma che la nostra classe politica e quello che un tempo era chiamato establishment definiscano con chiarezza l'interesse nazionale, da far giocare in quello europeo. Evitiamo quindi la ridicola rincorsa a intestarsi le vittorie degli nazionalisti stranieri. Ma anche la sottomissione ai disegni degli altri governi. Impresa difficile, ma forse non impossibile.

LA NUOVA Pag 1 Quell’ombra nazista in Germania di Ferdinando Camon

C'è una dichiarazione choccante dei veri vincitori di queste elezioni in Germania, quelli della Destra estrema, Alternative für Deutschland, e rivela come la Germania entri in una nuova fase della sua storia, una fase rivendicativa, orgogliosa e di nuovo primatista. Dopo la seconda guerra mondiale a Germania si è sentita messa in quarantena, per le colpe che aveva commesso, imperdonabili in quanto colpe contro l'umanità. Il problema politico-culturale-educativo della Germania era: "Come potremo liberarci da quel passato?". Questo problema era noto, in Germania e in Austria (e in Alto Adige), con la formula "il passato che non passa".Era la vergogna per quel che avevano fatto le armate tedesche in giro per il mondo. Ieri, con un autentico choc per la coscienza di tutti gli europei, esponenti dell'AfD hanno pubblicamente dichiarato: "Siamo orgogliosi di quel che han fatto i soldati tedeschi nelle due guerre mondiali". Noi europei credevamo che "il passato che non passa" venisse fatto passare lasciando morire tutti i suoi testimoni: i decenni dal dopoguerra ad oggi sono stati in Germania, da parte della Giustizia, una corsa a insabbiare e nascondere le pratiche processuali aperte dalle altre nazioni europee. Anche dall'Italia. Queste pratiche vanno diminuendo, perché gli intestatari vanno morendo. È il dramma morale della nostra epoca. Anche dell'Italia. Se crescesse una destra estrema in Italia, è probabile che i suoi esponenti rivendicherebbero con orgoglio le malefatte del fascismo, le impiccagioni nelle colonie, l'olio di ricino in patria, il "testa per occhio" in Istria, e le fucilazioni di quelli che noi chiamiamo partigiani, cioè salvatori, e che loro chiamano ribelli, cioè traditori. Che cosa sia stata la Germania in questi decenni del dopoguerra ce l'ha fatto capire un mese fa un film sulla vita del popolo comune, il titolo è "La linea di separazione", andato in onda su Sky. C'è una moglie che chiede al marito: "Sei un assassino anche tu?". Un reduce dal fronte confessa: "Volevamo tornare da eroi, torniamo da assassini". Era il dramma di una generazione. Dramma anche giudiziario. Come può una nazione condannare i suoi soldati, che hanno fatto esattamente quello che essa gli ordinava? La dichiarazione dell'AfD ("siamo orgogliosi di quel che han fatto i nostri soldati nelle due guerre") scioglie questo problema come Alessandro Magno sciolse il nodo di Gordio: con un colpo di spada. La vergogna si trasforma in orgoglio: era vergogna secondo le leggi dell'umanità, diventa orgoglio secondo le leggi dello Stato, e lo Stato torna ad essere l'entità fondante del diritto e della morale. Così vuole la destra politica, quando torna a contare. Pensavamo che "il passato che non passa" sarebbe passato con la morte dei suoi esponenti e l'oblio dei sopravvissuti, e invece la nuova politica lo assolve, lo abbraccia e se ne proclama orgogliosa. C'è da aver paura? Sì, c'è da aver paura.L'ex ministro Tremonti, commentando lo strapotere tedesco nell'euro, aggiunse questo giudizio: "Ogni tot anni la Germania, nella storia europea, combina un disastro". Ecco, sono passati i tot anni dall'ultimo disastro, la Germania torna a concepirne un altro. Che la Germania, paese dominante nell'economia e nella produzione europea, puntasse a una egemonia politica, era nell'ordine delle cose, anzi era ormai nella realtà. E che l'Italia, paese perdente nell'economia e nella produzione, scendesse a un ruolo subalterno, era purtroppo non solo prevedibile, ma visibile nei fatti da anni e anni. Quel che è nuovo è la connotazione etnica che l'egemonia tedesca assume. Per adesso puntano al contenimento e alla riduzione degli islamici, che "snaturano la civiltà dei paesi dove arrivano". Bisogna dire che la stolta politica dell'immigrazione facilita alla Destra la strada verso il potere. Anche con Hitler andò così: gli avversari commettevano tanti errori, e lui li sfruttò.

Pagg 2 – 4 Atenei nella bufera. Concorsi truccati, sette prof in arresto di Sabrina Tomè, Enrico Tantucci, Enrico Ferro e Matteo Marian Inchiesta della Procura di Firenze, 59 indagati e 22 interdetti dall’insegnamento. Veneto investito in pieno: sotto inchiesta i docenti Loris Tosi e Mauro Beghin

Venezia. Un vero e proprio mercato delle promozioni e delle bocciature con i commissari d'esame che concordavano, indipendentemente dai risultati delle prove, quali candidati abilitare all'insegnamento e quali invece rimandare a casa. È quanto emerge dall'inchiesta per corruzione a carico di 59 persone, per lo più professori universitari (tra cui anche l'ex ministro alle Finanze Augusto Fantozzi) e riferita ai concorsi pubblici relativi all'Abilitazione Scientifica Nazionale all'insegnamento del diritto tributario. L'indagine coordinata dalla Procura di Firenze e condotta dalla Guardia di Finanza, ha fatto scattare ieri 29 provvedimenti cautelari personali firmati dal gip Angelo Antonio Pezzuti nei confronti di altrettanti docenti universitari: 7 sono finiti gli arresti domiciliari mentre altri 22 sono stati interdetti allo svolgimento delle funzioni di professore universitario e di quelle connesse ad ogni altro incarico assegnato in ambito accademico per 12 mesi. Tra quest'ultimi figurano tre prof veneti: Loris Tosi, 60 anni, docente di Ca' Foscari, dipartimento di Management e notissimo avvocato con studio legale a Mestre, impegnato in difese di alto profilo in materia tributaria; Mauro Beghin di 56 anni, docente di Diritto Pubblico Internazionale e Comunitario all'Università di Padova; Daniela Mazzagreco nata a Pieve di Cadore, 43 anni, docente a Palermo. Ieri sono state inoltre fatte 150 perquisizioni, anche negli studi di Beghin e Tosi. Le accuse. La contestazione, per tutti, è di corruzione con riferimento al concorso nazionale condotto da una commissione di nomina ministeriale, per abilitare i laureati all'insegnamento universitario del diritto tributario. Secondo i pm Luca Turco e Paolo Barlucchi, i professori coinvolti nell'inchiesta avrebbero ottenuto di far abilitare candidati personalmente sponsorizzati (in proprio o per conto di aderenti alla propria associazione professionale) e di bloccare invece quelli ritenuti di ostacolo alle loro carriere o a quelle dei loro allievi. Il tutto sarebbe avvenuto attraverso uno scambio di nomi e di voti, a partire dal 2012 e fino al 2015 tra Firenze, Roma e Venezia dove più volte si è riunita la commissione giudicatrice. «Accordi sistematici». A mettere in moto l'indagine è stata la denuncia di un candidato: ha raccontato di un tentativo di indurlo a ritirare la sua domanda allo scopo di favorire un altro ricercatore in possesso di un curriculum notevolmente inferiore, promettendogli in cambio l'abilitazione nella tornata successiva. «Non è che non sei idoneo... Non rientri nel patto. Non siamo sul piano del merito, ognuno ha portato i suoi», la frase che si sarebbe sentito dire da un docente. Le indagini successive hanno portato alal luce, secondo una nota della Finanza, «sistematici accordi corruttivi tra numerosi professori di diritto tributario». Alcuni di loro erano componenti di commissioni nazionali nominate dal Miur, finalizzate a rilasciare abilitazioni «secondo logiche di spartizione territoriale e di reciproci scambi di favori», per soddisfare «interessi personali, professionali o associativi». Secondo il gip Pezzuti si dimostra nei comportamenti degli indagati «il totale spregio del rispetto del diritto proprio da professori che sarebbero deputati ad insegnare il valore di esso».Le accuse a Mauro Beghin. Al professore padovano viene contestato l'interesse, nel 2015, alla mancata abilitazione del candidato, anch'esso padovano, Giovanni Moschetti; per gli inquirenti il docente sapeva che la bocciatura era frutto di uno scambio di voti tra commissari. E questa mancata abilitazione era per il professore, secondo una conversazione intercettata tra altri due docenti, «un'idea fissa in testa». Le accuse a Tosi. Per gli inquirenti il tributarista veneziano, nel 2015, era a conoscenza delle dinamiche della Commissione esaminatrice e le «condivideva apertamente», secondo quanto si legge nell'ordinanza. Inoltre avrebbe «contribuito apertamente ad orientare le scelte dei commissari a lui legati». Tosi, sostiene la Procura di Firenze, avrebbe parlato con un altro prof degli interventi da fare in commissione per condizionare i giudizi e favorire le trattative. La difesa. «Sono allibito, sono accuse da fantascienza», ha replicato ieri il professor Tosi che assicura di non aver mai incontrato alcuno dei commissari, di non aver mai fatto loro una telefonata, di non averci bevuto insieme neppure un caffè. «Non ho mai sostenuto alcun candidato, né ho mai fatto alcun nome», ha assicurato. Non solo: il tributarista inizialmente designato per far parte della Commissione, si è dimesso in quanto incompatibile vista la presenza di due candidati a lui vicini. «Ebbene, uno è stato bocciato e l'altro è passato con il massimo dei voti, 5 su 5». Tosi chiederà di essere interrogato per chiarire la sua totale estraneità alle accuse.

Firenze. Ecco tutti i professori coinvolti nell'inchiesta della Procura di Firenze guidata da Giuseppe Creazzo. Domiciliari. Fabrizio Amatucci, docente alla Federico II di Napoli, Giuseppe Maria Cipolla (Università di Cassino), Adriano di Pietro (Università di Bologna), Alessandro Giovannini (Università di Siena), Valerio Ficari (Università di Roma 2), Giuseppe Zizzo (Università Carlo Cattaneo di Castellanza, Varese), Guglielmo Fransoni (Foggia). Interdizione. Massimo Basilavecchia dell'Università Luiss di Roma, Mauro Beghin dell'Università di Padova, Pietro Boria della Sapienza di Roma, Andrea Carinci dell'Università di Bologna, Andrea Colli Vignarelli dell'Università di Messina, Roberto Cordeiro Guerra, ordinario di diritto tributario a Firenze e nel cda di Starhotels, Giangiacomo D'Angelo dell'Università di Bologna, Lorenzo Del Federico dell'Università di Chiati, Eugenio Della Valle dell'Università Sapienza di Roma, Maria Cecilia Fregni dell'Università di Modena e Reggio Emilia, Marco Greggi dell'Università di Ferrara e consulente della commissione tributaria regionale dell'Emilia Romagna e docente presso la Scuola superiore della Magistratura, Giuseppe Marino dell'Università di Milano, delegato di Confindustria presso l'Ocse, Daniela Mazzagreco dell'Università di Palermo, Francesco Padovani dell'Università di Pisa, Maria Concetta Parlato dell'Università di Palermo, Paolo Puri dell'Università del Sannio, Livia Salvini della Luiss Guido Carli di Roma, Salvatore Sammartino dell'Università di Palermo, Pietro Selicato della Sapienza di Roma, Thomas Tassani dell'Università di Bologna, Loris Tosi dell'Università di Venezia Ca' Foscari, Francesco Tundo dell'Università di Bologna. In riserva. I docenti per i quali il gip si è riservato la valutazione dell'interdizione all'esito dell'interrogatorio sono Augusto Fantozzi, ex ministro e dal 2009 rettore dell'Università di Benevento, Andrea Fedele, Giovanni Eugenio Marongiu, Andrea Parlato, Pasquale Russo, Francesco Tesauro, Carlos Maria Lopez Espadafor. Misure rigettate. I docenti indagati per i quali il gip ha rigettato la richiesta di misure cautelari sono Roberta Giuseppina Antonietta Alfano, Angelo Contrino, Manlio Ingrosso, Giuseppe Marini, Andrea Mondini, Maria Pia Nastri, Giovanan Petrillo, Claudio Sacchetto.

Firenze. È il 21 marzo 2013 quando J.P.L., candidato al concorso per l'abilitazione all'insegnamento del diritto tributario, parla col professor Pasquale Russo, ordinario all'Università di Firenze. La conversazione dà il quadro di come funzionava il concorso pubblico. Fin dall'inizio del colloquio, il docente chiede al ricercatore la massima riservatezza; non sa di essere registrato. Il prof fa riferimento ai commissari e dice che «si sono già riuniti un paio di volte», che «ognuno ha portato i suoi... o dei suoi amici». Poi è ancora più esplicito: «Ciascuno ha chiesto e tutti hanno dato agli altri; quindi c'è stato un do ut des». Per gli inquirenti il riferimento è allo scambio di voti tra commissari. Il docente, sempre secondo la ricostruzione della Procura, dimostra di conoscere la lista degli ammessi e degli esclusi ed è a quest'ultima che appartiene J.P.L. Il prof lo rassicura però sulle sue capacità: «Non è che non sei idoneo alla seconda fascia... non rientri nel patto de mutando». In sostanza il professor Russo lascia intendere che tra i commissari c'è stato un patto che prescinde dal merito dei candidati. Quindi: «Ad ogni richiesta di uno dei commissari corrispondono tre richieste» provenienti dagli altri. Per cui: «Io ti chiedo Luigi e allora tu mi dai Antonio, ti mi dai Nicola, tu mi dai Saverio». Di qui la proposta a J.P.L. di presentarsi alla prova successiva. Il ricercatore insiste, chiede quali siano i criteri che hanno portato alla sua esclusione. E Russo: «I criteri del vile commercio di posti». Il giovane non ci sta e il professore lo riprende: «Smetti di fare l'inglese e fai l'italiano».

Firenze. Figura anche l'ex ministro Augusto Fantozzi tra gli indagati dell'inchiesta sulla corruzione nei concorsi pubblici abilitanti all'insegnamento all'Università. In una cena tra docenti di diritto tributario, avvenuta nel giugno 2014 in un ristorante di Roma, l'ex ministro Augusto Fantozzi sottolinea la necessità di trovare «persone di buona volontà», che «ricostituiscano un gruppo di garanzia che riesca a gestire la materia dei futuri concorsi». L'ex ministro definisce scherzosamente questo gruppo «la nuova cupola». È quanto emerge dagli atti dell'inchiesta della Guardia di finanza di Firenze. Fantozzi, stando alla ricostruzione degli inquirenti, contestava il criterio secondo cui vengono abilitati i candidati che appartengono all'associazione che ha la maggioranza dei commissari, invocando una regola che doveva essere creata da un gruppo di persone, «uomini di buona volontà». Secondo gli inquirenti, con queste affermazioni Fantozzi avrebbe inteso sottolineare la necessità che le future abilitazioni fossero gestite non di volta in volta dai singoli commissari, ma da un «gruppo di garanzia». In una conversazione intercettata nel 2015, inoltre Fantozzi parla di "trade off" (nella pratica commerciale la perdite di qualcosa per ottenere qualcos'altro in cambio) citando due nomi. Le accuse sono state respinte con decisione dalla difesa dell'ex ministro: «Il professor Fantozzi è completamente e indubitabilmente estraneo ai fatti in contestazione in primo luogo perché era già andato in pensione all'epoca degli avvenimenti oggetto di indagine. La sua integrità è altresì testimoniata da una limpida e unanimemente apprezzata carriera accademica», ha affermato l'avvocato Antonio D'Avirro. E sugli esiti dell'inchiesta fiorentina è intervenuto ieri il ministro all'Università Valeria Fedeli: «Sono sorpresa e anche preoccupata per quel che ho letto. Ho immediatamente fatto fare verifiche sulle circostanze della vicenda. Mi hanno riferito che i fatti contestati risalgono al 2013. Detto questo, voglio andare fino in fondo. Il ministro ha inoltre assicurato che a prescindere dal caso di Firenze, già mesi fa si era mosso per favorire la trasparenza nei concorsi attraverso un accordo col presidente dell'Autorità nazionale anticorruzione, Raffaele Cantone per un codice di comportamento per l'università». L'atto è atteso entro ottobre.

Venezia. È considerato il «principe» degli avvocati tributaristi del Veneto, un professionista ricercatissimo dalle grandi aziende per le sue riconosciute competenze in campo fiscale. Per questo fa particolarmente rumore a Venezia e in Veneto che nell'inchiesta sui concorsi universitari truccati aperta dalla Procura di Firenze sia coinvolto anche il professore e avvocato Loris Tosi, 60 anni, ordinario di Diritto tributario all'università veneziana di Ca' Foscari, veneziano di Cannaregio con studio a Mestre in via Torino. Per Tosi, come per altri 21 colleghi di atenei italiani, è scattata l'interdizione per un anno dall'insegnamento. Una misura più blanda rispetto agli arresti ai domiciliari già scattati per altri docenti, ma che comunque impressione proprio per la notorietà del personaggio. Prudentissimo non a caso il comunicato emesso da Ca' Foscari, che nemmeno lo nomina. «Abbiamo appreso questa mattina dell'operazione che vede coinvolti diversi professori del sistema universitario italiano - recita la nota ispirata dal rettore Michele Bugliesi - tra i quali figura anche un docente del nostro Ateneo. Riteniamo importante e nell'interesse di tutti che sulla vicenda venga fatta chiarezza al più presto, e restiamo in attesa degli sviluppi e delle notizie ufficiali che ci verranno comunicate dagli organi preposti». Una prudenza dettata anche dal calibro del personaggio, già consigliere di amministrazione della Save - la società dell'aeroporto di Venezia e di quello di Treviso - e di Veneto Banca. Ha lavorato inoltre come consulente per numerose Ulss del Veneto, a cominciare proprio da quella di Venezia. Ed è stato nei collegi di difesa di numerosi importanti processi, compreso quello del Mose, dove l'avvocato Tosi ha difeso Mario e Stefano Boscolo Bacheto, della «Cooperativa San Martino», una delle «chiavi» iniziale di tutta l'inchiesta legata al sistema di dighe mobili alle bocche di porto. Si è anche occupato di un tema attualità come la fiscalità legata alle città d'arte, per «colpire» anche i turisti a vantaggio dei residenti, occupandosi in particolare proprio di Venezia. Il volume «La fiscalità delle città d'arte», da lui pubblicato, intende affrontare proprio la sfida delicata di costruire un sistema compiuto di finanziamento di un ente locale, speciale e ad alta vocazione turistica, come la città metropolitana di Venezia, suggerimento l'istituzione di un'imposta di scopo.Fa parte anche di un gruppo di imprenditori veneti tra cui il trevigiano Arrigo Buffon che a Venezia è proprietaria di alberghi come l'hotel Ai Cavalieri, Ai Reali, Al Bailo e Redentore.

Padova. Conosciuto e apprezzato come uno «studioso molto serio». Di più, chi lo frequenta ogni giorno dice senza mezzi termini che la sua storia accademica e il suo modo di comportarsi non lasciano spazio a dubbi. «Tutto tranne che un barone». Un docente, quindi, lontano mille miglia dal cattedratico che sfrutta l'autorità di cui gode in ambito universitario per esercitare un potere indebito condizionando, magari, il superamento dell'esame di abilitazione all'insegnamento. Mauro Beghin, professore di diritto tributario del Bo, avvocato cassazionista e commercialista, è considerato l'"astro nascente" in tema di diritto tributario a Padova. Non solo perché si è formato alla corte Francesco Moschetti, sia dal punto di vista accademico sia da quello strettamente professionale visto che dal 1990 al 2011 ha lavorato come collaboratore del noto studio padovano occupandosi di consulenza e contenzioso tributario. Beghin, a sua volta titolare di uno studio legale tributario con sede in via Venezia a Padova, fa parte del Dipartimento di diritto pubblico, internazionale e comunitario ma insegna diritto tributario alla triennale e alla magistrale del corso di Economia. «Consapevole del fatto che il diritto tributario è una materia giuridica curvata su un oggetto economico», si legge in una sua biografia, ha conseguito la laurea sia in Economia e Commercio a Ca' Foscari sia in Giurisprudenza a Parma. Dopo aver svolto attività di ricerca in Diritto tributario all'Università di Ferrara ma anche a Roma (La Sapienza) nel 2001 è diventato professore associato del Bo. Questa la rampa di lancio della sua carriera accademica che l'ha visto poi diventare nel 2006 professore straordinario alla Facoltà di Economia e, nel marzo del 2010, professore ordinario della stessa facoltà. Una carriera impreziosita da prestigiose collaborazioni: dalla Bocconi, agli ordini dei commercialisti passando dall'Ipsoa all'Associazione nazionale Tributaristi Italiani. È anche condirettore della Rivista di diritto tributario e fa parte del comitato scientifico della rivista Corriere Tributario. Nel 2017 è entrato anche nel comitato di redazione della rivista Bollettino Tributario. Molte le pubblicazioni, anche nella collana "L'ordinamento tributario italiano", diretta dal professor Augusto Fantozzi. Un profilo professionale e accademico di tutto rispetto che gli è valso, nel 2015, la nomina dal Miur quale membro della commissione chiamata a valutare l'idoneità all'insegnamento degli aspiranti docenti di diritto tributario. Un incarico comunicatogli il 20 gennaio 2015 e che lui il giorno dopo, con una integrazione datata 23 gennaio, aveva declinato.

Padova. «Che non vada Moschetti. Punto e basta». Marzo 2015, Adriano Di Pietro telefona a Thomas Tassani. Parlano di Mauro Beghin e della sua "idea fissa in testa". Una su tutte: Giovanni Moschetti non deve passare. L'avvocato in questione è il figlio di Francesco Moschetti, che di Mauro Beghin è stato il maestro. Cosa spinga il professore universitario a una simile netta opposizione, non lo capisce nemmeno il diretto interessato che di tutto questo sistema è una vittima. «Francamente sono allibito» ha ammesso ieri. «Pensare che l'ho invitato come relatore a un convegno da me organizzato per il mese di ottobre». Le indagini della Guardia di finanza hanno mostrato come le motivazioni che spingevano Beghin fossero sostanzialmente due. Da un lato la sua ferma volontà di favorire l'allievo Marcello Poggioli nell'ateneo di Padova, dall'altro quello di impossessarsi di un incarico. Un incarico di insegnamento come professore a contratto, di cui Beghin aveva denunciato l'illegittimità poiché riteneva di aver lui stesso diritto a quell'incarico in quanto professore strutturato. L'8 aprile del 2015 Adriano Di Pietro telefona anche a Mauro Beghin, lasciando intendere che la condotta dei commissari Amatucci e Zizzo poteva mettere a rischio l'abilitazione del suo allievo Poggioli: "Ti dico con molta sincerità, avere una durezza ancora oggi di posizioni che Amatucci e Zizzo difendono per Tundo e Selicato... tanto da non far passare nessun altro mi preoccupa perché non la trovo giustificata". Mauro Beghin, terminata la comunicazione, telefona subito a Loris Tosi: "Su questi due qua lui sta facendo muro contro muro e quindi c'è il pericolo che salti tutto, ecco questo volevo dirti. Siccome siamo ancora in tempo per fare un ragionamento... è il momento di farlo adesso". Loris Tosi risponde: "Adesso rifletto e vedo cosa posso fare... hai fatto bene a chiamarmi". Quello da cui Giovanni Moschetti è stato segato è un concorso per entrare come professore di seconda fascia. «Ho fatto ricorso al Tar e sto attendendo l'esito», ha detto ieri, quasi incredulo di fronte al quadro delineato dalle indagini delle fiamme gialle. Nessun commento, nel merito. «Non me l'aspettavo» è la frase ricorrente. E c'è da crederci, visto che il padre è stato il maestro del professore universitario che ora, stando alle intercettazioni, fa di tutto per boicottarlo. Eppure i rapporti sembravano ottimi. C'è la locandina di quel convegno in programma per il 27 ottobre prossimo a Rovigo che testimonia un rapporto di stima reciproca che nessuno si sarebbe sognato di mettere in discussione. Giovanni Moschetti è l'organizzatore del convegno dal titolo "Principio di proporzionalità e tutela dei diritti fondamentali". Tra i relatori chiamati c'è anche Mauro Beghin con l'argomento "La nuova Iri alla luce del principio di proporzionalità". Gli investigatori della Guardia di finanza hanno in mano le trascrizioni delle telefonate intercorse tra Beghin e Di Pietro, da cui emerge l'impegno di quest'ultimo di tagliare fuori Moschetti dal concorso. Il tutto come adempimento di un "debito" proprio nei confronti di Beghin. E per debito si intende uno scambio di voti tra commissari. Ancora il docente veneziano Loris Tosi al telefono con Beghin l'8 aprile 2015: "Non può passare Maisto e non passa Seli... capisci? E non passa Tundo... mi segui? A fronte dell'avviso del collega secondo cui "sono in ballo anche i tuoi Giovanardi e Viotto" e del suo invito a fare qualcosa ("se c'è una parola da spendere è il momento di farlo"), il professor Tosi si riserva di intervenire dicendo: "Adesso riflesso e vedo cosa posso fare". Tra le telefonate intercettate c'è anche quella della bellunese Daniela Mazzagreco, candidata con Filippo Alessandro Cimino. Dopo aver appreso dal sito del Ministero l'esito del sorteggio, hanno esultato per l'estrazione dei nominativi dei professori Amatucci. Zizzo e Cipolla e per il nuovo commissario comunitario, lo spagnolo Lopez Espadafor Carlos Maria, formulando un commento finale che non lascia adito a dubbi: "Allora se le cose stanno così è un trionfo", ansiosi di avvisare il loro "capo scuola" Salvatore Sammartino.

«Ho ricevuto anch'io l'informazione e voglio essere molto chiaro. Da un lato aspettiamo l'esito delle indagini e assumiamo, come sempre, la presunzione di innocenza. Dall'altro se il docente in questione risulterà colpevole ne risponderà nelle sede penali come da inchiesta». È netto il commento del rettore del Bo Rosario Rizzuto sul coinvolgimento del professor Mauro Beghin nell'inchiesta di Firenze e conseguente interdizione all'insegnamento dello stesso. Una posizione, quella del rettore, che se da una parte chiama in causa la necessaria attesa per il chiarimento giudiziario del caso dall'altra vuole evitare che il coinvolgimento di un docente del Bo nell'inchiesta sui concorsi truccati finisca per gettare ombre sull'Università stessa. «Voglio dire con chiarezza» ha sottolineato «che questo è un ateneo che raggiunge i livelli scientifici che tutti conosciamo perché qui i concorsi sono fatti correttamente. Le persone che vincono sono colleghi bravi, perché altrimenti il Bo non otterrebbe i risultati che stiamo raggiungendo».

Padova. «Non possiamo che prendere atto dell'inchiesta e della conseguente interdizione all'insegnamento». Patrizia Marzaro - direttore del Dipartimento di Diritto Pubblico, Internazionale e Comunitario (Dipic) - era presente durante l'acquisizione di atti che ieri mattina ha visto la Guardia di Finanza varcare la soglia di Palazzo Bo per recarsi nello studio del professor Mauro Beghin. L'esperto di diritto Tributario era ovviamente presente, ma il direttore del Dipartimento non lascia spazio a nessuna valutazione. «Ho assistito ed era presente anche il professor Beghin ma non ho altro da aggiungere». Il gip di Firenze Angelo Antonio Pezzuti, oltre ai sette professori arrestati, ha stabilito nell'ordinanza 22 interdizioni per altrettanti indagati stabilendo la sospensione dalle «funzioni di professore universitario e di quelle connesse ad ogni altro incarico comunque assegnato in ambito accademico per la durata di 12 mesi». Tra questi c'è anche Beghin che pur essendo incardinato nel dipartimento che ha sede al Bo insegna diritto Tributario alla facoltà di Economia. «Assumeremo i comportamenti conseguenti» dice Marzaro relativamente alla sospensione del docente «e aspetteremo l'esito processuale».Rispetto al coinvolgimento di Beghin nelle commissioni per la valutazione dell'idoneità all'insegnamento - commissioni chiamate a redigere delle graduatorie nazionali sulla base delle quali le singole università sono poi tenute a chiamare i docenti per coprire le cattedre non assegnate - il direttore del Dipartimento sottolinea: «A quanto mi risulta è stato nominato ma si è anche dimesso quasi contestualmente» spiega Marzaro. «Detto questo non voglio commentare ulteriormente visto che c'è un'indagine in corso». La notizia ha scosso sia Palazzo Bo sia il Dipartimento di Scienze economiche e aziendali. Il suo corso di diritto Tributario è in programma nel secondo trimestre con inizio a gennaio prossimo. C'è il tempo, quindi, per dare modo all'Università di riorganizzare il corso: per Beghin, in attesa di un chiarimento della sua posizione, si profila infatti un anno di stop dell'attività accademica e degli altri incarichi assegnatigli dall'ateneo padovano.

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