RASSEGNA STAMPA di lunedì 7 ottobre 2019

SOMMARIO

“Nel freddo di un obitorio a Trieste ci sono due giovani morti - scriveva ieri sulla prima pagina di Avvenire Marina Corradi -. Uno, l’agente scelto Pierluigi Rotta, era di Pozzuoli, poliziotto figlio di un poliziotto. L’altro, l’agente semplice Matteo De Menego, veniva da Velletri. Entrambi innamorati del loro lavoro, entrambi fidanzati. Sono stati uccisi in un’assurda sciagura, per mano di un malato di mente, in Questura. Avevano poco più di trent’anni, la vita davanti. Pensando ai loro corpi ora esanimi verrebbe da fare silenzio. Silenzio per dolore, e per rispetto. Invece parole tumultuose si abbattono su social e mass media a pochissime ore dall’omicidio. «Che i due bastardi assassini dei poliziotti di Trieste marciscano in galera per il resto dei loro giorni: sia fatta giustizia, senza attenuanti e senza sconti»: Giorgia Meloni, Fratelli d’Italia. Poco dopo, Matteo Salvini: «L’infame assassino dei due poliziotti della Questura di Trieste (anche se molti giornali e telegiornali non lo dicono) è uno 'straniero con disagio psichico'. Che a nessuno venga in mente che questa sia un’attenuante! Per gli assassini, nessuna pietà». Parole che rotolano nelle case degli italiani, sulle tavole a cui si cena, parole che soffiano su una rabbia percepibile che si va allargando. 'Bastardi', 'Marciscano in galera', e: 'È uno straniero'. Un folle, emerge dopo poco da Trieste. Un incapace di intendere e di volere. Ma 'Per gli assassini, nessuna pietà', gridano, per contentare e aizzare un po’ o un tanto di elettorato. Poi c’è uno chef – gli chef sono oggi considerati maestri di pensiero – che si leva a dire sui social che i nostri poliziotti «sono impreparati». Il fratello di un agente morto replica: stai in guardia, o fai una brutta fine. Il fratello, almeno, può essere sconvolto, e infat ti poche ore dopo si scusa. Ma il torrente di parole incanaglite intanto si ingrossa, riempie di chiasso il sabato, seppellisce quel po’ di silenzio, di pietà che ci vorrebbe, davanti a quei due morti. Il fragore degli spari nella Questura triestina ha però un antefatto. La notte innanzi qualcuno non dormiva, in una casa di immigrati dominicani. Augusto Meran, 29 anni, malato psichico in cura presso la Asl, si agitava nel letto, strepitava. La madre cercava di calmarlo. Augusto sentiva le voci. «Ma non vedi, mamma, che sono venuti a prendermi, che vogliono uccidermi?». La madre, impotente, si assopisce. Alle 7 Augusto è scomparso. Lei corre in ospedale, chiede aiuto. Suona il cellulare, è l’altro figlio: «Mamma, Augusto ha combinato un guaio». Ha rapinato un motorino per strada. L’arresto, poi repentino quello scatto: un’arma, vera, in mano, il dito che preme sul grilletto, ciecamente, senza una ragione. La morte assurda di due ragazzi che sognavano di sposarsi. I loro genitori a casa, che ancora non sanno. Sarebbe solo il luogo di un attonito silenzio, quel pavimento macchiato di sangue. Ma già comincia la raffica dei 'bastardi', 'stranieri'. (D’altronde, così si fa per invadere Facebook, perché le agenzie ti riprendano. Più sbraiti e più moltiplicano la tua voce). In questo valzer di maledizioni, tuttavia, meraviglia grandemente una breve intervista della mamma dell’assassino a un tg. Una donna provata dalla fatica, arrivata in Italia dalla Germania, la faccia precocemente invecchiata simile a quella di tante colf che lavorano nelle nostre case. In più, il tormento di quel figlio. Cosa direbbe ai genitori delle vittime, domanda la giornalista. La donna, smarrita: «Che posso dire? Che può dire una persona a un padre che perde un figlio? Non c’è parola, non c’è nulla che possa confortare di un dolore così. Mi dispiace per quello che mio figlio ha fatto, è un malato mentale». La madre reprime le lacrime, lacrime vere sulla faccia esausta. Una pausa: «Noi siamo cristiani, noi abbiamo paura di Dio. Io non so come chiedere perdono a quei genitori». E tu che ascolti hai un sussulto: («Che posso dire, non ci sono parole, non so come chiedere perdono»). Lo straniero 'bastardo' è un folle lasciato a se stesso, e sua madre è una donna che piange, e comprende il dolore di quei padri, di quelle madri sconosciute. 'Che marcisca in galera!' 'Nessuna pietà!', gridano fuori, per conquistare il favore del popolo italiano. Ma a parlare cristiano è un’immigrata dominicana venuta qui con i figli per lavorare e sopravvivere. Uno, molt o malato, sciaguratamente ha ucciso. Eppure le parole di una madre disgraziata risuonano, nel fragore delle maledizioni, quelle più pietose, e vere” (a.p.)

1 – IL PATRIARCA

IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag III “Giorni di lutto per la Polizia”. E il patriarca Moraglia prega per le vittime di N. Mun.

AVVENIRE di domenica 6 ottobre 2019 Pag 17 Venezia, il patriarca e l’imam consegnano alla città il documento di Abu Dhabi di Francesco Dal Mas

CORRIERE DEL VENETO di domenica 6 ottobre 2019 Pag 13 Dialogo e fratellanza, il patto tra il Patriarca e l’Imam di M.Ri. Moraglia: ognuno ha la propria storia, in comune la dimensione del vivere. Brugnaro: aperti al dialogo

IL GAZZETTINO DI VENEZIA di domenica 6 ottobre 2019 Pag XV Il messaggio di Patriarca e Imam, una strada per il dialogo reciproco di Giacinta Gimma

IL GAZZETTINO DI VENEZIA di sabato 5 ottobre 2019 Pag XIV “Fratellanza” senza polemiche di Giacinta Gimma A Marghera Moraglia e l’Imam delle comunità islamiche

LA NUOVA di sabato 5 ottobre 2019 Pag 25 Nella Marghera crocevia di culture il patto tra cristiani e musulmani di M.A. Al Teatro Aurora

LA NUOVA di venerdì 4 ottobre 2019 Pag 25 Moraglia e l’incontro con l’Islam. Un documento sulla fratellanza di Marta Artico

AVVENIRE di giovedì 3 ottobre 2019 Pag 17 A Marghera Moraglia, Tarquinio e l’imam

2 – DIOCESI E PARROCCHIE

IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag IV “Corvo” e veleni in Curia, svolta vicina di Alvise Sperandio Volantini anonimi contro il patriarca Francesco Moraglia, i carabinieri sarebber o ad un passo dalla soluzione del caso

CORRIERE DEL VENETO di domenica 6 ottobre 2019 Pag 5 Venezia, si stringe il cerchio sul corvo. “Sì, sono io. Ecco perché l’ho fatto” di Francesco Bottazzo Volantini contro il patriarca. Svolta nell’inchiesta

IL GAZZETTINO di domenica 6 ottobre 2019 Pag 10 Il nunzio apostolico incontra i preti veneziani del dissenso

LA NUOVA di domenica 6 ottobre 2019 Pag 17 Veleni, inchieste e intrighi di Curia. Le accuse a Moraglia e la lettera al Papa di Alberto Vitucci

CORRIERE DEL VENETO di sabato 5 ottobre 2019 Pag 7 Il card. Parolin a Venezia? Il patriarcato: “Solo voci” di f.b.

IL GAZZETTINO di sabato 5 ottobre 2019 Pag 10 Voci dal Vaticano: Parolin a Venezia di Alvise Sperandio Prende consistenza l’ipotesi che Francesco voglia trasferire monsigno r Moraglia a Genova già entro la fine di quest’anno

LA NUOVA di sabato 5 ottobre 2019 Pag 25 Veleni sul patriarca. Ma il “corvo” ora ha un nome di Marta Artico Nuove indiscrezioni sulla successione nella Curia veneziana. Dopo Moraglia arriverebbe il segretario di Stato Parolin

LA NUOVA di giovedì 3 ottobre 2019 Pagg 2- 3 Rischio statico a Santo Stefano: “Non suonate le campane” di Alberto Vitucci e Vera Mantengoli Venezia e i suoi 150 campanili, pochi soldi per curare i “malati”

3 – VITA DELLA CHIESA

CORRIERE DELLA SERA Pag 23 Il monito di Francesco: “Il fuoco in Amazzonia appiccato da interessi che distruggono ” di Gian Guido Vecchi

LA REPUBBLICA Pag 17 Francesco per l’Amazzonia: “I roghi sono contro Dio” di Paolo Rodari

IL FOGLIO Pag 1 Liberare la chiesa di Matteo Matzuzzi L’ambientalismo e l’ennesima rivolta dei vescovi tedeschi contro Roma sono i temi dello scontro tra i fronti pronti alla battaglia sinodale

Pag 1 La solitudine del prete, una virtù per il mondo di Giuliano Ferrara

LA NUOVA Pag 10 Il saluto di Michele Tomasi: “Inizio un nuovo mestiere” di Francesco Dal Mas L’ingresso del nuovo vescovo di Treviso

L’OSSERVATORE ROMANO di domenica 6 ottobre 2019 Preghiera e annuncio colonne del ministero Quattro nuovi arcivescovi ordinati dal Pontefice nella basilica vaticana

CORRIERE DELLA SERA di domenica 6 ottobre 2019 Pag 20 Il Papa in campo per l’Amazzonia di G.G.V. Al via il Sinodo con 184 religiosi e 17 rappresentanti indigeni

CORRIERE DEL VENETO di domenica 6 ottobre 2019 Pag 5 Il giorno del vescovo altoatesino: “Una camminata tra la gente, così inizierà il suo mandato a Treviso” di Siliva Madiotto

IL GAZZETTINO di domenica 6 ottobre 2019 Pag 10 Firenze, la curia paga gli studi in teologia all’imam

AVVENIRE di sabato 5 ottobre 2019 Pag 3 La Chiesa è l’altro ed è l’invito. O non è di Raul Gabriel Questo tempo della cattolciità nei pensieri di un artista / 1

Pag 3 Benedetta primavera (fuori dal recinto) di Daniele Mencarelli Questo tempo della cattolciità nei pensieri di un artista / 2

LA REPUBBLICA di sabato 5 ottobre 2019 Pag 17 “Un’alleanza guidata dal Papa per salvare l’Amazzonia” di Cristina Nadotti Intervista all’attivista brasiliano Caetano Scannavino, a Roma per il Sinodo

Pag 17 L’appunto inedito di Ratzinger: “La Chiesa si occupi di ecologia” di Paolo Rodari

LA NUOVA di sabato 5 ottobre 2019 Pag 11 Il passo di Bergoglio. Tra scandali e guerre il Papa oggi nomina i “suoi” cardinali di Domenico Agasso jr

Pag 11 Un edificio a Chelsea al centro dell’inchiesta anti-riciclaggio di Alfo nso Bianchi

Pag 31 Don Michele: “La Chiesa ha bisogno di tutti, anche delle donne e delle nuove famiglie” di Francesco Dal Mas Monsignor Tomasi arriverà a Trevio portando con sé l’inseparabile chitarra e la reliquia del Beato Mayr-Nusser

L’OSSERVATORE ROMANO di venerdì 4 ottobre 2019 Per un’ecologia integrale di Presentazione dell’Assemblea speciale del Sinodo dei vescovi per la Regione panamazzonica

CORRIERE DELLA SERA di venerdì 4 ottobre 2019 Pag 21 Lo scontro di poteri sul palazzo dello scandalo che agita il Vaticano di Massimo Franco

Pag 21 I dossier per Pignatone, dallo Ior al coro della Sistina di Gian Guido Vecchi

LA REPUBBLICA di venerdì 4 ottobre 2019 Pag 18 La battaglia del Sinodo sul celibato dei preti e l’ombra dello scisma di Paolo Rodari

CORRIERE DEL VENETO di venerdì 4 ottobre 2019 Pag 6 Richiamati in servizio di Davide Orsato Non si trovano preti, le chiese “chiudono”. E adesso le diocesi chiedono aiuto ai sacerdoti in pensione

LA NUOVA di venerdì 4 ottobre 2019 Pag 40 Crocifisso e disabili, il vescovo striglia il ministro di Elisabetta B. Anzoletti Tessarollo contro Fioramonti per le dichiarazioni sul simbolo cristiano e per i ritardi nel sostegno agli studenti con disabilità

IL FOGLIO di venerdì 4 ottobre 2019 Pag 1 Papa Francesco e l’uragano di nome Sarah di Claudio Cerasa

Pag 1 Europa scristianizzata. Parla Olivier Roy di Giulio Meotti

Pag II Contro l’ateismo fluido Il libro del cardinale

AVVENIRE di giovedì 3 ottobre 2019 Pag 17 Quei rattoppi di Chiara sul saio di Francesco di Enzo Fortunato

CORRIERE DELLA SERA di giovedì 3 ottobre 2019 Pag 17 Vaticano, scandalo milionario: sequestri e sospensioni di Gian Guido Vecchi e Massimo Franco Quei 200 milioni di euro per il palazzo di Londra. Un’ombra sulle riforme

IL GAZZETTINO di giovedì 3 ottobre 2019 Pag 13 Vaticano, scandalo finanziario. Inchiesta su cinque funzionari di Franca Giansoldati Il placet di Francesco sulla maxi-riforma dello Stato pontificio

5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO

CORRIERE DELLA SERA Pag 19 Un ragazzo su 5 lascia le superiori o non è preparato di Gianna Fregonara e Orsola Riva L’Invalsi: c’è un 7% di “diplomati ignoranti”

IL GAZZETTINO Pag 1 Inquietante foto dei nostri adolescenti di Alessandra Graziottin

CORRIERE DEL VENETO di domenica 6 ottobre 2019 Pag 1 La pensione che può attendere di Sandro Mangiaterra Società che cambia

CORRIERE DEL VENETO di sabato 5 ottobre 2019 Pag 1 La famiglia (non) va a nozze di Vittorio Filippi La nuova società

7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA

LA NUOVA Pag 16 “Pane in piazza”, il ricavato raccolto e devoluto al Duomo

Pag 17 “Mestre mia” per l’autonomia. Ma il don lascia

IL GAZZETTINO DI VENEZIA di domenica 6 ottobre 2019 Pag XI “Pane in piazza” sforna 7.400 euro in beneficenza

IL GAZZETTINO DI VENEZIA di venerdì 4 ottobre 2019 Pag X La scommessa del Duemila, giovedì all’M9

8 – VENETO / NORDEST

LA NUOVA Pag 11 Infrastrutture, al Nordest manca una visione strategica di Franco Migliorini

… ed inoltre oggi segnaliamo…

CORRIERE DELLA SERA Pag 1 A chi giova davvero la riforma di Angelo Panebianco Meno parlamentari

Pag 24 Il ruolo fondamentale della lotta all’evasione di Giovanni Belardelli

LA REPUBBLICA Pag 1 Le tante ambizioni del governo di Stefano Folli

IL GAZZETTINO Pag 1 Chi possono colpire le sciabolate di Renzi di Alessandro Campi

LA NUOVA Pag 3 In Parlamento meno non significa per forza meglio di Gianfranco Pasquino

AVVENIRE di domenica 6 ottobre 2019 Pag 1 Le sole parole cristiane e vere di Marina Corradi I morti di Trieste e la morte della pietà

AVVENIRE di venerdì 4 ottobre 2019 Pag 3 Domande da non eludere per una scelta di dignità di Massimo Camisasca Il “fine vita” tra fede e ragione / 1

Pag 3 Definire con chiarezza l’aiuto alla terminazione delle cure di Roberto Mordacci Il “fine vita” tra fede e ragione / 2

Pag 3 L’etica contro l’ideologia tutela il ruolo dei medici di Stefano Ojetti Il “fine vita” tra fede e ragione / 3

CORRIERE DELLA SERA di giovedì 3 ottobre 2019 Pag 1 Una sfida epocale alla Chiesa di Ernesto Galli della Loggia Universalismi contro

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1 – IL PATRIARCA

IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag III “Giorni di lutto per la Polizia”. E il patriarca Moraglia prega per le vittime di N. Mun.

Venezia. «È stato un ottimo e importante risultato di cui tutti noi dobbiamo gioire anche se purtroppo è arrivato nei giorni tragici dei fatti di Trieste. Giorni che sono di lutto per l'intero Corpo della polizia di Stato».Il questore di Venezia, Maurizio Masciopinto, rivolge un pensiero ai due colleghi uccisi nella questura triestina, nel commentare il risultato dell'arresto delle due ladre autrici delle spaccate a Dorsoduro.E in queste ore al cordoglio della polizia di Stato si è aggiunto anche quello del patriarca di Venezia, Francesco Moraglia.La guida della Chiesa veneziana ha «espresso al Questore di Venezia la sua vicinanza alla polizia di Stato, così duramente colpita - recita una nota diffusa ieri pomeriggio dal Patriarcato - e insieme il sentito cordoglio di tutta la Chiesa veneziana per il tragico evento accaduto venerdì scorso a Trieste.Il Patriarca si stringe attorno alle donne e agli uomini della Polizia di Stato e alle loro famiglie mentre assicura la preghiera, in particolare per gli agenti Matteo Demenego e Pierluigi Rotta che hanno perso la vita mentre operavano a servizio e tutela dell'intera collettività».Fatti, quelli di Trieste, che hanno colpito l'intera questura veneziana, che subito si è stretta attorno ai parenti delle vittime e a tutti i colleghi che lavorano nel capoluogo del Friuli Venezia Giulia. A loro, infatti, è stato idealmente dedicato l'esito dell'indagine e del lavoro che nella mattinata di domenica ha portato gli agenti delle volanti lagunari ad arrestare le protagoniste delle spaccate che hanno imperversato l'altra notte a Venezia. Con ogni probabilità la due ladre - una veneziana e una di Frosinone - sono le stesse responsabili dei colpi ai locali nella zona di Rialto e di San Polo avvenuti a cavallo dell'ultimo fine settimana di settembre.

AVVENIRE di domenica 6 ottobre 2019 Pag 17 Venezia, il patriarca e l’imam consegnano alla città il documento di Abu Dhabi di Francesco Dal Mas

Venezia. «Costruire l’umanità escludendo Dio, come oggi sta accadendo, vuol dire costruirla contro l’uomo». Lo ha detto il patriarca di Venezia, l’arcivescovo Francesco Moraglia, consegnando alla città il Documento sulla fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune, sottoscritto ad Abu Dhabi da papa Francesco e dal grande imam di Al-Azhar, Ahmad Al-Tayyeb. La cerimonia è avvenuta venerdì sera, nella parrocchia dei santi Francesco e Chiara, a conclusione del convegno per celebrare gli 800 anni dall’incontro di san Francesco con il Sultano d’Egitto e avente per titolo «Fratelli e sorelle, cittadini di un’unica terra». Presente il sindaco Luigi Brugnaro, all’evento hanno portato il proprio contributo il patriarca Moraglia, l’imam delle comunità islamiche di Venezia, Hamad Mahamed, il direttore di Avvenire Marco Tarquinio. Ed è stato quest’ultimo a presentare il Documento, ricordando, fra l’altro, come esso sia passato sotto silenzio da parte dei grandi media, a differenza di Avvenire che l’ha diffuso e puntualmente commentato. Tarquinio ha spiegato il significato di fratellanza così come richiamata nel Documento, ma anche quello della cittadinanza, che significa «uguaglianza di diritti e di doveri, rompendo la scatola delle minoranze tollerate». Quanto alla «cittadinanza piena» raccomandata dal Documento, Tarquinio ha introdotto il concetto di ius culturae, che consente, più di altri strumenti, di comporre in armonia le differenze e di «vivere insieme da concittadini». Il Documento – ha ricordato ancora il direttore di Avvenire – parla in nome di Dio, l’Innocente, «colui che oggi nel mondo è crocifisso e lapidato, è espulso e non è accolto, è cacciato e non è riconosciuto nella sua dignità». Quel Dio onnipotente che – come affermano papa Francesco e il grande iman – non ha bisogno di essere difeso da nessuno e non vuole che il suo nome venga usato per terrorizzare la gente. Il patriarca Moraglia ha poi aggiunto che la religione cristiana e quella islamica «ci aiutano a cogliere il nostro io all’interno di una dimensione che avverte la sua insufficienza e il suo limite», mentre il Papa «ci dice che incontrando Dio si incontrano i fratelli». Il Documento, pertanto, è un forte invito alla riconciliazione nella giustizia. Ma – ha precisato Moraglia – non c’è giustizia se non c’è misericordia. Analizzando altri passaggi del Documento, Moraglia ha ricordato che il fondamento ultimo della democrazia è riconoscere che lo Stato non è tutto e che ci sono leggi che non sono giuste, come quelle che non tutelano il diritto degli altri, del non nato, del non accolto. E a questo riguardo il patriarca ha osservato che «avere un’identità non vuol dire non accogliere l’altro», ma «avere una storia, una cultura, delle tradizioni». L’imam Mahamed ha riconosciuto che siamo sulla stessa barca, pur nella diversità delle fedi, «fratelli – ha specificato – nella stessa umanità. E ha rilanciato tutta l’attualità del Documento, sottolineando che «il dialogo è la lingua dei saggi». Il Documento è stato consegnato a rappresentanze della comunità locale, anzitutto al sindaco Brugnaro e al presidente della municipalità, Gianfranco Bettin.

CORRIERE DEL VENETO di domenica 6 ottobre 2019 Pag 13 Dialogo e fratellanza, il patto tra il Patriarca e l’Imam di M.Ri. Moraglia: ognuno ha la propria storia, in comune la dimensione del vivere. Brugnaro: aperti al dialogo

Mestre. Rafforzare la cultura del dialogo che passa dalla conoscenza e dal rispetto reciproco. Il concetto risuona nelle pagine del Documento sulla Fratellanza umana che, sottoscritto da Papa Francesco e dall’Imam di Al—azhahar Ahmad Al-Tayyeb, è stato «affidato» venerdì alla città di Venezia nel corso di un incontro interreligioso che ha visto fianco a fianco il patriarca Francesco Moraglia, l’Imam della Comunità Islamica Hammad al Mahamed e il sindaco Luigi Brugnaro. «Sono orgoglioso che questa serata sia stata organizzata proprio a Marghera — ha detto il sindaco— nel rispetto delle nostre libertà e tradizioni siamo aperti al dialogo». Proprio da Marghera, dove convivono tante etnie e fedi diverse che troppe volte faticano a dialogare, è stato lanciato un appello alla pace dalle due guide spirituali. «Ognuno ha la sua storia e la sua tradizione – ha ricordato Moraglia – ma abbiamo qualcosa di importante da mettere insieme: la dimensione umana del vivere. E importante è guardare insieme nella stessa direzione pensando che ci sono degli obiettivi comuni e che c’è anche un rispetto che ci fa riconoscere figli dello stesso Dio e fratelli tra di noi». Un invito a percorrere insieme una strada di rispetto e dialogo accolto dall’Imam. «Dobbiamo vivere in pace insieme – ha sottolineato l’Imam – noi musulmani abbiamo sofferto molto i dolori delle guerre a abbiamo sentito la gioia della pace in questo paese: dobbiamo tenerla stretta». Durante la serata al teatro Aurora sono stati ricordati i momenti che hanno visti dialogare le due grandi Fedi, a partire dall’incontro tra San Francesco e il Sultano d’Egitto nel 1219. L’auspicio è che il dialogo sia sempre più fitto, anche perché in passato non sono mancati momenti di tensione, come le polemiche del 2015 con la chiesa trasformata in moschea durante la Biennale. Venerdì, invece, non c’è stato spazio per le incomprensioni. Sulla questione di prevedere nei menu scolastici la carne Halal non hanno voluto esprimersi né l’Imam né il patriarca, «è un tema complesso che non può essere trattato in pochi minuti», ha detto Hamad Mohamed.

IL GAZZETTINO DI VENEZIA di domenica 6 ottobre 2019 Pag XV Il messaggio di Patriarca e Imam, una strada per il dialogo reciproco di Giacinta Gimma

La consegnano insieme la parola della fratellanza. Il Patriarca Francesco e l'imam Hamad Mahamed sono uno fianco all'altro, sul palco del teatro Aurora di Marghera, mentre affidano il documento di Abu Dhabi al sindaco Luigi Brugnaro e al presidente di Marghera Gianfranco Bettin, come a dire che il mondo di governanti, nell'amministrare, deve scoprire la cultura del dialogo e della conoscenza reciproca. Sono uno accanto all'altro anche quando affidano il documento, firmato lo scorso febbraio da Papa Francesco e dal Grande imam di Al Azhar negli Emirati Arabi, ai rappresentanti delle comunità religiose, sia cattolica che islamica, e ai migranti. Sono uno accanto all'altro quando fanno rivivere, otto secoli dopo, l'incontro tra San Francesco e il sultano Al-Kamil richiamato, da più parti, alla memoria dei presenti che gremivano la sala. Si è conclusa con un gesto vero di consegna alla città la serata di venerdì nel teatro di Marghera, laboratorio di convivenza civile e di modernità, come dice il sindaco giunto per ascoltare e seduto accanto a Bettin. Dopo il benvenuto del vicario don Marco De Rossi, spetta a Marco Tarquino, direttore del quotidiano Avvenire riassumere gli elementi fondanti del documento firmato dai due esponenti religiosi. Documento accolto, dice con amarezza lo stesso Tarquino, «da un grande silenzio del mondo mediatico pronto, invece, ad esaltare il gesto dell'ultimo degli invasati». «Il Papa e il Grande Imam spiega - indicano una strada su cui costruire la fratellanza umana, sulla scorta dell'uguaglianza dei diritti e dei doveri in città in cui vi sia la riconoscenza gli uni degli altri. Alla radice dell'ineguaglianza vi è la perdita del senso religioso, del senso della famiglia e del senso della vita. Il terrorismo esecrabile cerca di disperdere le parole comuni della nostra fratellanza». «Siamo fratelli nella stessa umanità, figli di Adamo ed Eva - esordisce l'imam Hamad che spera che simili serate, come quella appena passata, coordinata da don Nandino Capovilla, siano ripetute - le guerre sono perdite di vite umane: cerchiamo, insieme, l'armonia. Lo stesso Corano dice che Gesù, che chiedeva di amare i propri nemici, è messaggero di pace e di misericordia». «Come dice Papa Benedetto, la fede purifica la ragione arrogante. Quando Dio non entra nella prospettiva dell'uomo, come avvenuto nel secolo breve, l'uomo diventa dittatore, poco importa se abbia la camicia nera o rossa. Costruire l'umanità escludendo Dio, vuol dire costruirla contro l'uomo. Dobbiamo riscoprire la dimensione umana - esorta Moraglia - nell'altro c'è il fratello da amare. L'incontro finale con Dio ci accomuna nel nostro incontrarci».

IL GAZZETTINO DI VENEZIA di sabato 5 ottobre 2019 Pag XIV “Fratellanza” senza polemiche di Giacinta Gimma A Marghera Moraglia e l’Imam delle comunità islamiche

Marghera. Nessun commento. La polemica che si è aperta in città in merito alla richiesta di inserire nei menù scolastici la carne halal non ha raccolto commenti nella serata di ieri al teatro Aurora di Marghera, nel corso del quale è stato presentato alla cittadinanza il Documento sulla Fratellanza umana, sottoscritto lo scorso 2019 ad Abu Dhabi da Papa Francesco e il grande Imam di Al-azhahar Ahmad Al-Tayyeb. «TEMA COMPLESSO» - «Il tema della richiesta della carne halal è un tema complesso che non può essere trattato in pochi minuti» glissa l'imam delle comunità islamiche di Venezia Hamad Mahamed, mentre entra nel teatro di via Egidio Gelain, gremito di persone. Un arrivo seguito da quello del Patriarca Francesco Moraglia che parla dell'urgenza di darsi una mano e di mettere insieme la dimensione umana. «Guardiamo insieme verso la stessa direzione, sulla base del rispetto che viene dall'essere figli dello stesso Dio e, quindi, fratelli» ha esordito Moraglia. Condivisione ribadita anche dall'Imam: «Da musulmani - dice - abbiamo sofferto per i dolori della guerra e abbiamo provato la gioia di essere accolti in questi paesi. Dobbiamo tenerla stretta, condividendo pratiche di pace e di amore». All'appuntamento hanno preso parte, tra gli altri, anche il sindaco Luigi Brugnaro e il presidente della Municipalità di Marghera Gianfranco Bettin il quale, nei giorni scorsi, ha auspicato che la macellazione halal venga proibita per legge «come andrebbe proibita ogni forma di crudeltà gratuita nei confronti degli animali». «Sono molto interessato al dibattito organizzato questa sera a Marghera - ha dichiarato il primo cittadino dal palco, aprendo la serata -. Noi, nel rispetto delle nostre tradizioni e delle nostre libertà, siamo sempre aperti al dialogo. Sono orgoglioso che questa serata sia stata organizzata a Marghera». È stato così ricordato l'incontro che avvenne 800 anni fa, nel 1219, tra San Francesco e il Sultano d'Egitto: in quell'occasione allo spargimento di sangue si sostituì il dialogo ed è questo il messaggio rilanciato da Marghera, luogo simbolo di mescolanza di culture e fedi dove, nel pomeriggio, si era tenuta anche la celebrazione eucaristica presieduta dal Patriarca nella Chiesa dei Santi Francesco e Chiara. IL CROCIFISSO - Sullo sfondo anche le polemiche sulle recenti dichiarazioni del ministro dell'Istruzione, Lorenzo Fioramonti in merito alla volontà di sostituire il crocifisso nelle aule con le cartine geografiche. E se ieri il vescovo di Chioggia Adriano Tessarollo aveva apertamente attaccato il ministro («invece di occuparsi dei problemi veri delle persone, perde tempo a disquisire sulla presenza del crocefisso nelle scuole», aveva commentato Tessarollo), Moraglia sceglie parole più meditate che invitano a riflettere: «Avere un'identità non vuol dire non accogliere l'altro - ha detto il patriarca di Venezia -. Adesso si ripropone la questione del crocifisso, dimenticando che esso è quel segno che, insieme al presepe, dice agli uomini che gli altri vanno accolti».

LA NUOVA di sabato 5 ottobre 2019 Pag 25 Nella Marghera crocevia di culture il patto tra cristiani e musulmani di M.A. Al Teatro Aurora

Patriarca imam e sindaco, per la prima volta assieme, formalmente non in un luogo qualsiasi ma in una città, Marghera, simbolo del miscuglio di culture e religioni.L'incontro nel giorno di San Francesco. Un abbraccio alla città come lo ha definito il Patriarca - un segno importante quello di cui si sono resi protagonisti il capo della chiesa veneziana, Francesco Moraglia, e l'Imam della Comunità islamica di Venezia e provincia, il teologo siriano Hammad al Mahamed.Ieri sera, infatti, è stato "consegnato" e affidato alla città, con un evento interreligioso pubblico, il documento sulla fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune sottoscritto nei mesi scorsi ad Abu Dhabi da papa Francesco e dal grande imam di Al-Azhar Ahmad Al-Tayyeb. Teatro Aurora gremito, l'incontro era promosso nell'ambito delle celebrazioni per gli 800 anni dall'incontro di San Francesco con il Sultano d'Egitto e denominato "Fratelli e sorelle cittadini di un'unica terra". Vi hanno partecipato il patriarca, l'imam, il direttore del quotidiano dei vescovi italiani «Avvenire» Marco Tarquinio e le autorità locali.Il vicariato di Marghera ha fatto precedere l'incontro con una solenne concelebrazione eucaristica presieduta da Moraglia, nella chiesa dei Santi Francesco e Chiara. Platea gremita: seduti nelle poltroncine rosse i rappresentanti delle comunità musulmane della città, operatori del settore, ma anche diversi sacerdoti tra cui don Gianni Manziega, don Enrico Torta e molti altri. Ad organizzare la scaletta della serata don Nandino Capovilla, riuscito a mettere tutti assieme, anche chi aveva avuto in passato qualche dissapore. Un momento di gioia, di riflessione, di fratellanza. Per primo ha preso la parola il sindaco, Luigi Brugnaro, che ha salutato la platea dicendosi felice del luogo scelto per l'evento, ossia Marghera. Poi è rimasto in prima fila, in ascolto. La lectio del direttore di «Avvenire» e successivamente i protagonisti, imam e patriarca, seduti sul palco uno affianco all'altro. Il documento è stato consegnato al presidente della municipalità, Gianfranco Bettin, al sindaco, al presidente della comunità islamica, a una laica del coordinamento vicariale e a due giovani che partecipano alla Fraternità, una cattolica e un musulmano. Don Marco De Rossi, vicario foraneo di Marghera e coordinatore dell'incontro ha spiegato i gesti e i due nomenti finali. La comunità cristiana ha offerto una meditazione di un testo di Faustino Teixeira, la comunità islamica una preghiera melodica eseguita da Tahir Usysal, imam della comunità turco Macedone. Si è trattato di un incontro importante, soprattutto dopo le "incomprensioni" che erano seguite all'episodio della chiesa trasformata in moschea durante la Biennale del 2015, che aveva avuto strascichi non da poco nei rapporti tra il Patriarcato e le comunità islamiche. «Il Santo d'Assisi» ha scritto il patriarca Moraglia in un breve testo anticipato nelle scorse settimane per presentare l'evento «ci insegna ad abbracciare l'intera umanità, andando incontro ad ogni uomo».

LA NUOVA di venerdì 4 ottobre 2019 Pag 25 Moraglia e l’incontro con l’Islam. Un documento sulla fratellanza di Marta Artico

«Un abbraccio alla nostra città sarà il segno che daremo insieme, imam e patriarca, perché se l'intolleranza abita in tutti gli uomini, noi diremo a tutti che in un mondo sempre più minacciato nella sua capacità di incontrarsi, è possibile riconoscersi tutti figli dello stesso Dio e per questo fratelli». Sono le parole con le quali il patriarca, Francesco Moraglia, ha accolto martedì l'imam Hammad al Mahamed, in udienza per preparare nei dettagli l'evento di stasera a Marghera, a otto secoli di distanza dell'incontro di Francesco con il Sultano.«Che gioia conoscersi sempre meglio» ha risposto l'imam «il Corano dice esplicitamente che i fratelli più vicini a noi sono proprio i cristiani. Non vogliamo fare un momento troppo distante dalla vita quotidiana della gente perché non ci cambieranno i nostri incontri diplomatici e ufficiali ma il convivere insieme tra fratelli». Stasera, proprio nel giorno di San Francesco, sarà ufficialmente "consegnato" e affidato alla città, con un evento interreligioso pubblico, il documento sulla fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune sottoscritto nei mesi ad Abu Dhabi da papa Francesco e dal grande imam di Al-Azhar Ahmad Al-Tayyeb. All'evento in questione - in programma alle 20.30 al Teatro Aurora di Marghera - organizzato nell'ambito delle celebrazioni per gli 800 anni dall'incontro di San Francesco con il Sultano d'Egitto e denominato «Fratelli e sorelle cittadini di un'unica terra» parteciperanno il patriarca, l'imam, il direttore del quotidiano Avvenire Marco Tarquinio e le autorità locali (prefetto questore e sindaco).Per questo patriarca e imam si sono incontrati nel palazzo patriarcale proprio in vista dell'appuntamento.Il vicariato di Marghera farà precedere l'incontro con una solenne concelebrazione eucaristica presieduta da Moraglia, alle 18.30, nella chiesa dei Santi Francesco e Chiara. Si tratta di un incontro importante, soprattutto dopo le "incomprensioni" che erano seguite all'episodio della chiesa trasformata in moschea durante la Biennale del 2015, che aveva avuto strascichi non da poco nei rapporti tra il Patriarcato e le comunità islamiche.«Il Santo d'Assisi» ha scritto Moraglia in un breve testo anticipato nelle scorse settimane per presentare l'evento «ci insegna ad abbracciare l'intera umanità, andando incontro ad ogni uomo, anche a quello a noi più distante. La fede porti i credenti delle differenti confessioni religiose a vedere nell'altro un fratello da incontrare». L'incontro di stasera inizierà alle 20,30. sarà moderato da Marco Tarquinio e sarà aperto a tutti.

AVVENIRE di giovedì 3 ottobre 2019 Pag 17 A Marghera Moraglia, Tarquinio e l’imam

Domani alle 20.30, al Teatro Aurora di Marghera (Venezia), sarà “consegnato” alla città il Documento sulla fratellanza umana per la pace mondiale sottoscritto ad Abu Dhabi dal Papa e dal grande imam di Al-Azhar Ahmad Al-Tayyeb. All’evento, intitolato «Fratelli e sorelle cittadini di un’unica terra» e organizzato nell’ambito dell’800° anniversario dell’incontro tra san Francesco e il sultano d’Egitto, partecipano il patriarca di Venezia Francesco Moraglia, l’imam delle comunità islamiche di Venezia Hamad Mahamed e il direttore di “Avvenire” Marco Tarquinio.

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2 – DIOCESI E PARROCCHIE

IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag IV “Corvo” e veleni in Curia, svolta vicina di Alvise Sperandio Volantini anonimi contro il patriarca Francesco Moraglia, i carabinieri sarebbero ad un passo dalla soluzione del caso

Venezia. Sono giorni delicati per la diocesi, tra le voci che escono dalle mura vaticane su possibili cambi al vertice di Curie importanti che potrebbero coinvolgere anche quella di Venezia e l'inchiesta sul corvo con i calunniosi volantini anonimi, diffusi a più riprese in città. «Siamo ottimisti e fiduciosi nell'operato della magistratura», hanno fatto sapere l'altro giorno dalla Curia a conferma che qualche novità importante potrebbe emergere a stretto giro di posta. L'inchiesta ha fatto passi avanti e sarebbe vicina a una svolta. I carabinieri di Venezia aspettano la relazione dei Ris sulle impronte riscontrate sui volantini e non si esclude che dietro il Fra.Tino che ha firmato gli anonimi volantini, possa esserci non una singola persona ma un'azione di gruppo, con autori degli scritti e incaricati di appenderli per le calli di Venezia. Nelle stanze del Patriarcato a San Marco c'è chi è convinto che la talpa che funge da mandante per la campagna denigratoria nei confronti di alcuni sacerdoti e del patriarca Francesco Moraglia - che ieri non aveva in agenda uscite pubbliche - abbia ormai le ore contate. Addirittura il nome e cognome del soggetto in questione sarebbe conosciuto dallo stesso presule le forze dell'ordine attenderebbero una seconda querela, dopo quella già presentata contro ignoti, questa volta nominativa, da parte del patriarca in qualità di parte lesa. IL CASO D'ANTIGA - L'indagine sul corvo e sui volantini anonimi, è inevitabilmente legata, almeno sul piano temporale, all'affaire che ha come protagonista don Massimiliano D'Antiga, l'ex parroco amministratore di San Salvador da tempo discusso, che, dopo aver rifiutato il trasferimento in Basilica di San Marco disposto dal Patriarca, lo ha attaccato pesantemente. I volantini anonimi sono comparsi più volte nottetempo in giro per la città proprio nelle settimane successive alla rimozione di D'Antiga, ma quest'ultimo ha sempre smentito di essere lui il regista dell'operazione e della campagna denigratoria contro Moraglia. Di sicuro c'è che il patriarca ha portato D'Antiga a processo. Un procedimento del quale Moraglia stesso è il giudice in quanto ordinario diocesano, coadiuvato da due esperti, monsignor Davide Salvatori e monsignor Davide Cito, in qualità di coadiutori, chiamati a dare un parere. A quanto è dato sapere per ora su D'Antiga grava principalmente il capo d'imputazione di disobbedienza al vescovo, ma trattandosi di un processo amministrativo-penale almeno per il momento il sacerdote non rischierebbe la riduzione allo stato laicale che può essere data solo dal Papa. Segno forse che il patriarca tiene aperta la possibilità di una ricomposizione o vuole evitare che la situazione deflagri. La sanzione potrebbe essere un ammonimento o qualche forma d'interdizione, ad esempio alla celebrazione dei sacramenti, la messa in primis. Il processo attualmente sta vivendo una fase di stallo perché, conclusa l'istruttoria con l'acquisizione delle prove da parte del domenicano padre Bruno Esposito, spetta ora a Moraglia fissare i termini per le memorie conclusive. Contro D'Antiga, che sarebbe stato interrogato, ci sarebbe la testimonianza di una trentina di persone mentre dal canto suo il sacerdote, per vie indirette, avrebbe fatto sapere di avere in mano delle prove inconfutabili a sostegno della sua posizione. La sentenza potrebbe eventualmente essere appellata alla Congregazione del Clero in Vaticano, dove tutta la vicenda è seguita non senza preoccupazione.

CORRIERE DEL VENETO di domenica 6 ottobre 2019 Pag 5 Venezia, si stringe il cerchio sul corvo. “Sì, sono io. Ecco perché l’ho fatto” di Francesco Bottazzo Volantini contro il patriarca. Svolta nell’inchiesta

Venezia. Il cerchio si stringe. «Siamo fiduciosi e ottimisti sull’operato della magistratura sull’identificazione di Fra.Tino», ha detto il Patriarcato parlando del «corvo» che nei mesi scorsi ha attaccato la Chiesa veneziana, all’indomani delle indiscrezioni (smentite dalla Curia) sul trasferimento del patriarca Francesco Moraglia e l’arrivo in Laguna del segretario di Stato . Gli investigatori mantengono il riserbo sull’indagine ancora in corso, ma pare evidente che la svolta sia vicina. «Il malato va curato nel migliore dei modi, la Chiesa di Venezia è malata, ma nessuno se ne sta occupando». Per cinque volte ha attaccato oltre duecento volantini sui muri di calli e campielli con accuse sulla gestione economica e sulla vita sessuale di alcuni sacerdoti. Fra.tino (così si è sempre firmato) ha deciso di parlare e ha contattato il Corriere del Veneto, chiedendo l’anonimato. «Voglio spiegare i motivi che ci hanno spinto a comportarci così». Usa il plurale, come se lui fosse solo uno dei tanti «corvi». «Nella situazione attuale veneziana non c’è solo un corvo, si sono ormai riprodotti, ce ne sono dieci o venti, tanto è alto lo scontento. Fossi individuato, ci sarebbe qualche altro che continuerebbe a pungolare la Curia e il patriarca». Che hanno subito reagito: «Le offese hanno fatto soffrire e ferito profondamente la nostra Chiesa e tutti coloro che veramente la amano e con generosità, si spendono per il Vangelo», è intervenuto in difesa il patriarca Francesco Moraglia accusato di tollerare i comportamenti dei suoi preti. Le denunce alle forze dell’ordine sono state immediate, tanti sono stati i manifesti appesi. La procura ha aperto un fascicolo, gli investigatori stanno indagando da mesi incrociando le immagini riprese dalle telecamere di sorveglianza. Perché la bufera, che lo stesso vescovo definisce «momento di grande sofferenza e prova», ha cominciato ad essere sempre più devastante. Qualcuno collega le indiscrezioni sull’arrivo di Parolin a Venezia proprio a questo, qualche altro parla invece di «promozione» del cardinale che vorrebbe tornare ad occuparsi della «cura delle anime». Se gli si fa notare che probabilmente Papa Francesco non approverebbe il modo in cui il corvo sta combattendo la sua battaglia «per la moralità della Chiesa veneziana» risponde: «Può essere che questa volta gli scappi un sorriso». Tutto è partito nei giorni dell’allontanamento di don Massimiliano D’Antiga da parte del patriarca dalla chiesa di San Zulian, a due passi da San Marco, «ma don Massimiliano non c’entra niente, lui si è sempre detto contrario ai manifesti», dice. Nonostante lo spostamento sia stato traumatico, sia per il sacerdote sia per i fedeli (che hanno manifestato la propria contrarietà davanti al Patriarcato), poi sfociato in un processo canonico, ancora in corso. «Le chiese si svuotano, i fedeli si allontano, le prediche sono stantie e i comportamenti di alcuni preti sono contrari al Vangelo. Da tempo a due a due o in piccoli gruppi riflettiamo su questa deriva», aggiunge. Le accuse sono pesanti «ma dei singoli casi adesso non voglio parlare, il problema non è il corvo ma se le cose scritte sono vere». Precisa: «Un vescovo deve far crescere la fede coinvolgendo tutti i sacerdoti, se il presbitero non è visto come un suddito. Dovrebbe operare con amore e pazienza nei confronti di quei preti in difficoltà, ma anche prendere delle decisioni collegialmente in un territorio così diverso e complesso com’è la Diocesi di Venezia», l’attacco a Moraglia. «C’è sempre spazio per ravvedersi e modificare i comportamenti che se restano fuori controllo possono dare anche scandalo. Rivendichiamo con forza l’insegnamento del Vangelo con le parole e con l’esempio», l’invito ai preti. Nei mesi scorsi una quarantina di sacerdoti hanno sottoscritto una lettera in difesa del patriarca e degli amici nel mirino definendo i manifesti «un vile atto di diffamazione», «ma non si vuole diffamare nessuno, sono stati lanciati solo degli avvertimenti», reagisce il corvo. «La diffamazione fa male a tutti, a chi la fa e chi la subisce». Le denunce di Moraglia alle forze dell’ordine hanno fatto il resto. «Ma io ho le prove, sono pronto a recarmi nelle sedi ecclesiali deputate a dimostrare quanto viene scritto, anche con testimoni». Perché non lo ha ancora fatto? Risponde: «Ho provato con varie persone, anche preti, ma si sono tutti dichiarati impotenti a seguire i nostri ragionamenti perché non si sentivano “coperti”». Si definisce «una persona che cerca di richiamare quello che è l’insegnamento del Papa su una Chiesa più umile e semplice». «Voglio fare da cassa di risonanza, se si vuole in modo sbagliato, ma penso che questo partecipi al rinnovamento di tutta la Chiesa veneziana».

IL GAZZETTINO di domenica 6 ottobre 2019 Pag 10 Il nunzio apostolico incontra i preti veneziani del dissenso

Venezia. Mentre dalla Santa Sede continuano le smentite le voci su una possibile staffetta tra il segretario di Stato Pietro Parolin, candidato alla nomina a Patriarca di Venezia al posto Francesco Moraglia, resta alta l'attenzione del Pontefice sulla situazione di Venezia. La Curia Romana è al corrente della spaccatura tra vescovo e molti sacerdoti, conosce perfettamente la questione dei volantini affissi in giro per la città nottetempo, da colui che si cela dietro la firma Fra Tino, con insinuazioni e pesanti accuse sulla gestione della diocesi. La Curia Romana ha acceso il suo faro su Venezia in particolare quando gli è pervenuta la lettera, firmata da diversi preti e parroci (si parla di una trentina) con argomentazioni circostanziate per chiedere il trasferimento di Moraglia perché non in grado di governare la diocesi. Un'accusa durissima, peraltro sostenuta a quanto risulta - anche da chi, al contrario si è fatto promotore di una lettera di solidarietà nei suoi confronti all'indomani della scoperta proprio di uno di quei volantini. Per sapere bene cosa stia accadendo in laguna, il Papa è arrivato a chiedere al nunzio apostolico in Italia di ascoltare i sacerdoti che gli hanno inviato la missiva. Incontro che si è tenuto in gran segreto e di cui quello che è il rappresentante diplomatico della Santa Sede nel nostro Paese ha riferito puntualmente a Francesco. In Vaticano si sta seguendo con grande attenzione anche la destabilizzazione che l'affaire don Massimiliano D'Antiga ha generato sulla diocesi. Il sacerdote, sul quale gravano pesanti sospetti e che è stato sottoposto a processo canonico, poco prima dello scorso Natale non aveva accettato di essere spostato ad altro incarico da Moraglia, com'è nelle prerogative di un vescovo, ritirandosi a vita privata con critiche pesantissime rivolte al patriarca. Del processo canonico si attende ancora l'esito, mentre Moraglia ha presentato querela contro ignoti per i volantini che, contenendo accuse ben precise, hanno di fatto messo in evidenza la presenza in Curia di un corvo.

LA NUOVA di domenica 6 ottobre 2019 Pag 17 Veleni, inchieste e intrighi di Curia. Le accuse a Moraglia e la lettera al Papa di Alberto Vitucci

La lettera di segnalazione al papa, firmata da alcuni sacerdoti veneziani, sarebbe solo l'ultimo atto di una campagna che va avanti da mesi. Il patriarca Francesco Moraglia è sotto tiro. E in questi giorni sono ricominciate le attività del misterioso «corvo», che contando su fonti bene informate dall'interno della Curia, vuole screditare il vescovo veneziano e metterlo in cattiva luce. Calunnie? Vendette? Lotte di potere? Chi frequenta il patriarca in queste ore lo descrive come «molto addolorato» per la nuova ondata di accuse diffamatorie. Culminate nell'ipotesi di una sua imminente sostituzione. Smentita fermamente. Il cambio. Si vocifera addirittura di un cambio al vertice, con nuovo patriarca l'attuale segretario di Stato Pietro Parolin. Mai nella storia della Chiesa veneziana un patriarca è stato sostituito. Per farlo ci vorrebbero argomenti forti, che in questo caso non sembrano esserci. Se n'è andato da Venezia alla fine del 2011 Angelo Scola, per prendere in carico l'Arcivescovado di Milano, dopo Roma il più importante d'Italia. Ma lo scandalo Mose era ancora lontano. E Scola era tra i più forti candidati a succedere a Ratzinger, lo stesso che lo aveva nominato. Le lettere. Dopo i volantini anonimi affissi sui muri della città e le accuse «(infondate e diffamatorie», le ha definite il patriarca), le lettere e le «segnalazioni» inviate a papa Francesco. Forse non sufficienti per la rimozione di un patriarca. L'uomo. Secondo i suoi detrattori, Moraglia «non sarebbe in grado di reggere una diocesi come Venezia». Nella sua gestione del patriarcato, dal 1 gennaio 2012 a oggi, il vescovo genovese ha dimostrato grande sensibilità alle problematiche sociali e vicinanza agli ultimi. Numerose le uscite a sostegno dei poveri, dei malati e dei migranti. le nomineMolte sue nomine e pensionamenti di parroci hanno sollevato critiche e malumori. Così come i trasferimenti di figure importanti come don Dino Pistolato, monsignor Orlando Barbaro, don Antonio Meneguolo e il cambio di incarichi e responsabilità. Ma succede a ogni cambio di gestione. Adesso il potere della Curia è concentrato in poche mani, nel vicario don Fabrizio Favaro e nell'altro vicario generale Angelo Pagan. Il cardinalato. Qualcuno ha associato il possibile cambio al vertice con la mancata nomina a cardinale - dunque con diritto di partecipazione al conclave - del patriarca Moraglia. Una tradizione che come tante altre papa Francesco non ha rispettato. «Ma di patriarca in Italia ce n'è uno solo, è un incarico molto prestigioso», hanno risposto a Roma. Moraglia non fa nemmeno parte, a differenza dei predecessori di congregazioni episcopali. Ma anche questo, dicono gli osservatori, non è di per sè indice di scarsa fiducia da parte del Pontefice». Le indagini. In Curia si dicono certi che sia questione di giorni. La chiusura delle indagini coordinate dal pm Gava potrebbe portare presto all'individuazione del «corvo» e del suo mandante- informatore. «Fra.Tino» lo pseudonimo sotto cui si cela l'estensore dei volantini al veleno contro il patriarca. E le accuse contro sacerdoti bene identificabili, anche se il loro nome è stato storpiato, accusati senza di far parte di una lobby. Il caso D'Antiga. Il duro scontro che ha opposto il patriarca all'ex parroco di San Luca don Massimiliano D'Antiga, non si è concluso. Moraglia lo aveva prima trasferito, poi deferito al Tribunale ecclesiastico chiedendone il ritorno al laicato. Sentenza attesa a breve. In caso di assoluzione, potrebbero presentarsi nuovi problemi per il patriarca. «Con quelle lettere non c'entro», la difesa di D'Antiga. Nuovi equilibri. La tempesta che investe la Chiesa romana e il nuovo scandalo per l'acquisto di un palazzo con 200 milioni dello Ior non è probabilmente estranea ai rumors sulla Curia veneziana. Vecchi «notabili» che cercano di rientrare in pista dopo le riforme di Francesco. Sacerdoti legati all'ala più conservatrice che vogliono rimescolare le carte del potere. Un guazzabuglio dove sguazzano anche corvi di varia estrazione.

CORRIERE DEL VENETO di sabato 5 ottobre 2019 Pag 7 Il card. Parolin a Venezia? Il patriarcato: “Solo voci” di f.b.

Venezia. La notizia arriva deflagrante alla mattina: «Francesco vuole mandare Parolin a Venezia», titola La Verità, il giornale di Maurizio Belpietro. Un declassamento per il segretario di Stato o una promozione trampolino verso il papato si chiede il quotidiano. Dal palazzo patriarcale di piazza San Marco monsignor Francesco Moraglia evita qualsiasi commento, ma dagli ambienti vicini al vescovo filtra insofferenza per le indiscrezioni definite «prive di qualsiasi fondamento». È risaputo però che da diversi mesi si stanno rincorrendo voci sulla possibile partenza di Moraglia a quasi otto anni dalla nomina (di Benedetto XVI, era il 31 gennaio 2012) a patriarca di Venezia. Qualcuno le associa alle vicende legate al corvo, ai volantini affissi in calli e campielli e alle accuse di gestione economica poco attenta e di comportamenti sessuali poco consoni di alcuni sacerdoti veneziani, altri a semplice avvicendamento, anche se difficilmente nella tradizione veneziana il patriarca lascia la Diocesi se non per diventare Papa (Sarto, Roncalli e Luciani), andare in Diocesi più grandi (Scola a Milano), per limiti d’età (Cè) o morte. Di certo il patriarca si sta augurando che la vicenda dei volantini anonimi e delle accuse alla Chiesa di Venezia possa risolversi velocemente. Alle denunce presentate alle forze dell’ordine sono seguite le indagini, tanto che il patriarcato si dichiara fiducioso e ottimista sull’operato della magistratura, sull’identificazione del corvo e del contesto da cui provengono le accuse. Il segretario di Stato Pietro Parolin dal canto suo, scrive La Verità, avrebbe chiesto al Santo Padre di non rinnovarlo nell’incarico affidatogli nel 2013. Non sarebbe un mistero che il cardinale preferisca fare il pastore piuttosto che occuparsi degli affari del Vaticano. In più si avvicinerebbe a Verona dove vive la madre anziana. C’è poi qualcuno che ricorda la storia del patriarcato di Venezia che nell’ultimo secolo ha dato tre Papi. E se fosse un trampolino verso il Soglio di Pietro? Ma per ora sono solo voci, «prive di fondamento».

IL GAZZETTINO di sabato 5 ottobre 2019 Pag 10 Voci dal Vaticano: Parolin a Venezia di Alvise Sperandio Prende consistenza l’ipotesi che Francesco voglia trasferire monsignor Moraglia a Genova già entro la fine di quest’anno

Venezia. Il cardinale Pietro Parolin nuovo patriarca di Venezia al posto di monsignor Francesco Moraglia? La voce non è nuova, ma ora l'indiscrezione, uscita dalle segrete stanze del Vaticano e rilanciata ieri dal quotidiano La Verità, si fa ancora più insistente. Il tutto mentre a Venezia crescono le tensioni intorno a Moraglia, investito negli ultimi mesi dai veleni dei volantini anonimi comparsi a più riprese in città, a firma di Fra Tino, con insinuazioni e informazioni molto circostanziate che hanno portato a ipotizzare la presenza di un corvo in Curia. A questo si aggiunge una lettera che un gruppo di parroci e sacerdoti della Diocesi (si parla di una trentina), ha deciso di inviare al Papa per chiedere senza mezzi termini la rimozione di Moraglia «perché non in grado di governare la diocesi». L'attuale patriarca, a Venezia da quasi otto anni quando sostituì il cardinale Angelo Scola mandato a Milano, non sembra dunque avere il consenso di alcuni sacerdoti e deve gestire il delicato caso D'Antiga, il sacerdote del centro storico di Venezia su cui gravano pesenti sospetti e che è stato sottoposto a processo canonico. D'Antiga, allontanato da Moraglia alla vigilia dell'Avvento e ritiratosi a vita privata non ha risparmiato durissimi attacchi a Moraglia. Dal palazzo patriarcale di San Marco, intanto, non arriva alcun commento ufficiale. A trapelare è solo che, a quanto consta in Curia, l'indiscrezione dell'avvicendamento sarebbe infondata, mentre a proposito della spinosa vicenda di Fra Tino si parla di ottimismo e fiducia nell'operato della magistratura per l'individuazione dell'autore non solo dei volantini, ma anche del corvo che farebbe da mandante. IL MALESSERE - Una situazione delicata e complessa, comunque, che coinvolge lo stesso clero, la cui componente più vecchia è stata via via estromessa da Moraglia da ogni incarico di responsabilità, affidati alla classe dei trentenni e dei quarantenni e in alcuni casi a sacerdoti freschi di ordinazione. Gli stessi collaboratori più stretti della prima ora di Moraglia, registi di operazioni delicate sul piano pastorale e pure economico, un anno fa sono stati mandati a fare i parroci alle estremità della diocesi. Il Papa, che della situazione in laguna è ben informato, starebbe dunque meditando il grande cambio pensando che stia arrivando il momento più opportuno per attuarlo. Il quotidiano La Verità, nell'articolo firmato con lo pseudonimo Massimo Credito, ha ipotizzato lo spostamento in laguna di Parolin, porporato di origini venete (è vicentino di Schiavon) di cui il Papa ha da sempre molta stima, avendolo voluto con sé per le sue doti umane e diplomatiche da nunzio apostolico. Il trasferimento avverrebbe entro fine anno in una sorta di promozione per rimozione che non avrebbe uguali. La mossa, infatti, servirebbe a centrare più obiettivi in un colpo solo. Il più immediato sarebbe una presa di posizione formale di fronte allo scandalo finanziario che sta investendo la Santa Sede, in riferimento all'acquisto di un edificio di lusso nel cuore di Londra per centinaia di milioni di euro di cui la Segreteria di Stato Vaticano non avrebbe informato a sufficienza il Papa: punizione utile a Francesco per parare l'obiezione di farla passare in cavalleria. Questo solo in apparenza, tuttavia, perché in realtà l'operazione sarebbe più complessa. Francesco avvicinerebbe a casa Parolin, che vorrebbe stare più vicino alla madre molto anziana che attualmente risiede con una figlia vicino a Verona (con la quale il porporato è solito trascorrere qualche giorno di vacanza ad agosto tra le montagne del Primiero, in Trentino, dove la voce di un possibile arrivo a Venezia circola da un po') e che a Padova ha i suoi medici di fiducia per alcuni problemi di salute dopo l'operazione cui si sottopose sei anni fa in concomitanza con la sua nomina a Segretario di Stato. LA SUCCESSIONE - Ma la scelta di mandarlo a Venezia, diocesi che nel secolo scorso ha dato ben tre papi (Pio X, Giovanni XXIII e Giovanni Paolo I), potrebbe anche essere letta come indicazione di Parolin come suo possibile successore alla guida della Chiesa. D'altro canto questo consentirebbe lo spostamento di Moraglia sul quale il Papa starebbe ragionando già da un po' di tempo. È evidente infatti l'atteggiamento di Francesco nei confronti dell'attuale patriarca: lo dimostra il fatto che ripetutamente non l'ha promosso cardinale nei suoi concistori, con la non secondaria conseguenza che Venezia oggi non sarebbe rappresentata in Conclave. Inoltre, nonostante la promessa di una visita a Venezia, annunciata dallo stesso Moraglia, questa di fatto non sia mai avvenuta né sia mai stata neanche programmata. Per alcuni ben informati l'exit strategy potrebbe essere quella di mandare Moraglia a Genova, di dove è originario e dove a gennaio scade la proroga biennale dell'arcivescovo , sponsor dell'attuale patriarca che è espressione della corrente dei genovesi i quali, quando Scola andò a Milano, pretesero per loro la sede di Venezia. La scelta cadde su Moraglia, il cui mentore è indicato nel cardinale , non a caso invitato a celebrare la solennità dell'Assunta nell'isola di Torcello lo scorso Ferragosto, ma tra i primi a essere declassato da Francesco. Con il cardinale Parolin patriarca, Venezia tornerebbe a essere presente in cappella Sistina per l'elezione del nuovo Papa, in caso di morte di Francesco o se anche questi, sull'esempio di Benedetto XVI, a un certo punto decidesse di dimettersi, prospettiva da molti data per possibile.

LA NUOVA di sabato 5 ottobre 2019 Pag 25 Veleni sul patriarca. Ma il “corvo” ora ha un nome di Marta Artico Nuove indiscrezioni sulla successione nella Curia veneziana. Dopo Moraglia arriverebbe il segretario di Stato Parolin

È tornato in azione il "corvo" che continua a prendere di mira la Curia patriarcale, e in particolare il pastore e capo della Chiesa veneziana, Francesco Moraglia, nel mirino dell'anonimo accusatore. Questa volta, però, il Patriarca ha fatto sapere di essere fiducioso e ottimista circa l'operato della magistratura a riguardo dell'identificazione della persona che si firma come «Fra Tino» - autore delle affissioni scandalistiche degli scorsi mesi - e dunque dell'ambiente, dei soggetti e del contesto dell'anonimo "corvo" veneziano che vuole mettere in cattiva luce Moraglia. Insomma, dalla Curia trapela ottimismo, ergo Fra Tino potrebbe avere le ore contate, il cerchio attorno a lui essersi chiuso, e presto la giustizia potrebbe fare il suo corso e rivelare chi si cela dietro la penna di fuoco.Solo ad agosto un ennesimo volantino pesante e diffamatorio nei confronti del Patriarcato che ha puntato il dito contro numerosi preti e sacerdoti della Diocesi.L'autore dello scritto ha tirato in ballo lobby, poteri forti, accusato i vertici della Chiesa Venezia di non prendere provvedimenti insinuando che «le due lobby che comandano nel patriarcato, sono quella affaristica e quella omosessuale».Il Patriarcato di Venezia è intervenuto definendo le dichiarazioni «false e altamente diffamatorie», e successivamente sporgendo denuncia querela verso l'autore dello scritto. L'ottimismo di queste ore, però, fa presumere che a breve ci saranno novità.L'ultima azione legata al mondo dell'anonimato è quella inerente le notizie diffuse venerdì da un quotidiano nazionale il quale riporta indiscrezioni che circolerebbero negli ambienti vaticani, secondo cui il Patriarca sarebbe in procinto di essere sostituito.A Venezia, sempre stando ai "rumors" che la Curia veneziana ha già definito «privi di fondamento» potrebbe arrivare niente meno che il segretario di Stato Vaticano, Pietro Parolin - veneto di Schiavon, nel Vicentino - al quale mancherebbe nel suo vasto curriculum di incarichi importanti delicati e di rilievo, un'esperienza squisitamente pastorale considerata imprescindibile. E quella di Venezia, non è certo un'incardinazione qualsiasi, dal momento che il Patriarcato della città lagunare, è da sempre viatico e trampolino di lancio per diventare Papa. Specialmente dal momento che Parolin è già cardinale e Venezia attende e anela alla berretta cardinalizia da molto tempo. Il "primo ministro" di Papa Bergoglio è legato al Veneto, è vicentino, amico del vescovo di Chioggia, quando può viene nel Veneziano, e lo fa sempre con piacere. Pochi mesi fa ha inaugurato la nuova cappella dell'Ospedale di Chioggia e ha raccontato alcuni episodi personali di carattere sanitario che lo legano alla nostra terra, stringendo mani e fermandosi con tutti a fare due parole. Ed è stato lui a farsi portavoce della richiesta della Diocesi d Venezia e di quella di Padova, di poter avere il Papa in visita. Parolin, dunque, ama Venezia. Tanto che il suo nome si era fatto anche prima che arrivasse in laguna Moraglia. Il Patriarca, è a Venezia da sette anni, il suo predecessore il cardinal Angelo Scola era rimasto un paio di anni di più e a breve il cardinale Angelo Bagnasco, arcivescovo di Genova, potrebbe andare in pensione nonostante i due anni di proroga concessi dal Papa.

LA NUOVA di giovedì 3 ottobre 2019 Pagg 2- 3 Rischio statico a Santo Stefano: “Non suonate le campane” di Alberto Vitucci e Vera Mantengoli Venezia e i suoi 150 campanili, pochi soldi per curare i “malati”

Venezia. Il campanile ha problemi statici, stop alle campane. Da qualche giorno a Santo Stefano la torre campanaria è stata «silenziata». «Decisione cautelativa», confermano in Curia, «per consentire approfondimenti sulla questione statica». Gli ultimi dati della commissione scientifica che si occupa della salute dei campanili veneziani (composta da ingegneri, soprintendenza, provveditorato e Curia) ha infatti verificato l'aggravarsi della situazione statica della torre campanaria, con i suoi 66 metri di altezza una delle più alte della città. Nei giorni scorsi al parroco di Santo Stefano è arrivata una lettera firmata dal vicario episcopale don Fabrizio Favaro, responsabile dell'Ufficio amministrativo e del patrimonio. Che comunica la risultanza degli ultimi studi. L'indicazione è adesso quella di sospendere subito il suono delle campane. «Anche per verificare», dicono i tecnici, «se senza le oscillazioni provocate dalle campane il fenomeno possa arrestarsi o consolidarsi». Il campanile di Santo Stefano splendido esempio di torre campanaria del Tardo Rinascimento, è sotto osservazione da anni. La sua inclinazione rispetto al centro e la sporgenza alla base della loggia campanaria ha raggiunto anche i due metri, per lo scivolamento del grande masso d'appoggio alla base. Colpa del terreno cedevole dove venne costruito sei secoli fa. Che già aveva dato problemi nel passato. Nei primi anni del Novecento, dopo il trauma del crollo del vecchio campanile di San Marco, qualcuno ne aveva proposto la demolizione, riscontrando crepe e cedimenti sul tipo di quelli già visti a San Marco. Alla fine si decise per il restauro, affidato all'ingegnere Crescentino Caselli, avviato nel 1904.E anche allora le campane vennero silenziate e il loro utilizzo temporaneamente sospeso.Una provvisorietà che durò per anni. Tanto che si decise di costruire un piccolo campanile alternativo «a vela» sopra la sagrestia, ben visibile dal campo,Una costruzione ideata dall'architetto Giovanni Sardi che come riferiscono i testi storici, porta ancora ben visibile la scritta originaria sulla trabeazione: «Donec major silet», cioè «Finchè il maggiore tace». I parrocchiani preoccupati hanno segnalato il silenzio improvviso alla Curia. Sperano che non si tratti di una interruzione di lungo periodo. «Non dovrebbe essere così», tranquillizzano in Curia. Ma intanto il campanile sarà sottoposto a una serie di controlli e rinforzi alla base. In particolare si dovrà verificare la consistenza del terreno di appoggio. Come anche in altri luoghi della città, fondata su fango e legno, terreno «morbido» e soggetto ad assestamenti nei secoli. La caratteristica di Venezia, che provoca però anche inclinazione dei palazzi sul loro asse originario e dei campanili.«La palificata del campanile di S. Stefano è costituita da pali di ontano e pioppo che presentano un buono stato di conservazione e su alcuni elementi estratti è stato possibile eseguire prove di caratterizzazione meccanica con risultati soddisfacenti», si leggeva in una relazione dei tecnici risalente a dieci anni fa. Poi sono stati compiuti alcuni interventi, ma non radicali come invece successo per il campanile dei Frari. Lo stato di salute precario di alcuni tra i più importanti campanili della città ha convinto poi a istituire la «commissione campanili». «Periodicamente verificano lo stato di salute delle torri», dicono in Curia. E adesso è arrivata questa indicazione. Non ci sono pericoli immediati. Ma la cautela consiglia di non aumentare le vibrazioni». Dunque, campane «silenziate».

Venezia. Torri di avvistamento. Torri campanarie. Simbolo delle comunità parrocchiali. A Venezia i campanili sono circa 150. Di forme molto diverse tra loro, in mattoni, in pietra d'Istria - come quello di San Pietro di Castello. Per la particolare conformazione dei terreni molti sono «pendenti», cioè spostati dal loro asse. Non significa pericolo, anche perché negli ultimi anni le torri sono continuamente monitorate. Il crollo più clamoroso riguardò, il 14 luglio del 1902, proprio il paron de casa, il campanile di San marco. Che non pendeva affatto, né dimostrava segni così preoccupanti di cedimento. Una decina di anni fa venne ingabbiato e consolidato con lavori durati mesi diretti dal Consorzio Venezia Nuova. In città ci sono anche campanili evidentemente inclinati. Quello di Burano in piazza Galuppi, quello di San Giorgio dei Greci, quelli di Santo Stefano e dei Frari. Quest'ultimo, di fine Trecento, è costituito da due canne, come due campanili uno entro l'altro. Il peso e la mole (è alto 70 metri) e le modalità di costruzione, in parte addossato alla Basilica, ne hanno fatto emergere più volte criticità e problemi. Qualche anno fa si è concluso un restauro statico importante, curato dalla soprintendenza e da esperti internazionali. Interventi difficili, perché si tratta di rispettare le pietre del manufatto e curarne la «sopravvivenza», senza interventi pesanti. Una struttura adesso monitorata per verificare eventuali aggravamenti dello stato di salute.Un parco monumentale imponente. Che spesso è meno visibile delle chiese nelle sue criticità soprattutto ad altezze irraggiungibili. Occorrerebbe dunque una cura delicata e continua per evitare eventi traumatici e il degrado complessivo del patrimonio. Un'opera fino a qualche decennio fa affidata al Magistrato alle Acque, con fondi dedicati della Legge Speciale. Poi è arrivato il Mose, che ha assorbito tutte le risorse disponibili. I finanziamenti al Magistrato alle Acque - e anche agli edifici sacri - sono stati tagliati. Non si sono trovate altre strade, come la riduzione delle tasse a chi investe in questi settori. Così ci si arrangia con i pochi fondi disponibili e con l'intervento di qualche sponsor. Ma vista la mole enorme di controlli e i lavori necessari, è ancora troppo poco.

Venezia. Hanno tutte bisogno di manutenzione, ma non è facile trovare i fondi per le circa 140 chiese presenti in tutta Venezia e isole e i circa 136 campanili. Del centinaio di chiese che sono nella città storica, 70 sono gestite direttamente dal Patriarcato, 16 da Chorus e le restanti da altri enti. Una trentina sono chiuse e inaccessibili, bisognose più o meno di cure. Attualmente le due più malmesse, San Salvador e San Moisé, sono in via di restauro grazie a una cordata di sponsor e al lavoro di Sovrintendenza, ma la manutenzione per tutte, esattamente come gli edifici veneziani, urge sempre. Una soluzione ormai consolidata per le spese di base è quella di Chorus che, nelle chiese con particolare interesse artistico, fa pagare un biglietto di 3 euro di media. L'ingresso è gratuito per veneziani, veneti e per chi dichiara di aver bisogno di un momento di raccoglimento e preghiera: «La mia personale opinione è che, se si vogliono tenere aperte le chiese, questa sia la direzione» commenta il professore Giandomenico Romanelli, vice presidente di Chorus e già direttore dei Musei Civici. «Diamo lavoro e riusciamo a pagare le bollette delle chiese e a tenerle pulite. A mio parere questa è la strada più semplice e più logica da percorrere che non va in contrasto con la posizione di chi dice che bisogna tenerle aperte». La questione è annosa e, per adesso, non c'è ancora una soluzione condivisa. Per il patriarca Francesco Moraglia e per la Cei le chiese devono rimanere aperte. «L'indirizzo della Conferenza Episcopale Italiana conferma che le chiese non devono essere a pagamento» spiega il presidente di Chorus don Roberto Donadoni. «La soluzione di Chorus ha il merito di dare lavoro a 16 famiglie e può funzionare per le spese di base, ma per i restauri grandi ci vogliono sponsor perché non ci sono mecenati e i fedeli sono pochi. Problemi come quelli delle chiese di San Salvador o San Moisé dove rispettivamente si sgretolavano le statue e c'erano delle crepe nel soffitto, non possono essere risolti con gli ingressi dei turisti». Un sostegno è arrivato dal Comune lo scorso fine luglio quando sono state approvate due delibere per un totale di 460 mila euro: 400 mila euro per gli interventi di restauro di 21 parrocchie per il 2019 ai sensi degli articoli 7 e 8 della Costituzione, mentre 60 mila per cinque edifici di culto danneggiati dal maltempo (campanile di San Samuele e finestroni della Basilica della Salute a Venezia). Tuttavia, nonostante l'importo dall'inizio dell'amministrazione nel 2016 sia stato di un milione e mezzo, le chiese necessitano sempre di un fondo. In una ricerca della docente di Architettura Iuav Sara Marini vengono presi in considerazioni tutti gli aspetti per poter valorizzare le chiese chiuse veneziane. Lo stesso sforzo è stato avviato dal gruppo di studenti americani del Venice Projec Center diretto dal veneziano Fabio Carrera. Gli universitari stanno realizzando un'applicazione che permetta al cittadino di entrare, attraverso una ricostruzione fotografica tridimensionale, in alcuni campanili e chiese, come si può già vedere con la chiesa dei Carmini nel sito my.matterport.com. In questo modo si crea un rapporto diretto con quei beni culturali che appartengono alla storia della città e potrebbero ricevere un supporto da tutti i cittadini.

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3 – VITA DELLA CHIESA

CORRIERE DELLA SERA Pag 23 Il monito di Francesco: “Il fuoco in Amazzonia appiccato da interessi che distruggono ” di Gian Guido Vecchi

Vesti tradizionali e volti dipinti tra le porpore cardinalizie. Nella messa in San Pietro ci sono anche rappresentanti dei popoli indios ad ascoltare il Papa che sillaba: «Il fuoco appiccato da interessi che distruggono, come quello che di recente ha devastato l’Amazzonia, non è quello del Vangelo. Il fuoco di Dio si alimenta con la condivisione, non coi guadagni. Il fuoco divoratore, invece, divampa quando si vogliono portare avanti solo le proprie idee, il proprio gruppo, bruciare le diversità per omologare tutti e tutto». I lavori del Sinodo panamazzonico cominciano oggi, ieri Francesco lo ha inaugurato dispiegando il compito della Chiesa in Amazzonia e nel mondo, la missione a fianco dei più poveri e minacciati: «Quando senza amore né rispetto si divorano popoli e culture, non è il fuoco di Dio ma del mondo. Dio ci preservi dall’avidità dei nuovi colonialismi». Il Papa chiede una «prudenza audace» ai padri sinodali: «Se tutto rimane com’è e a scandire i nostri giorni è il “si è sempre fatto così”, il dono di Dio svanisce, soffocato dalla preoccupazione di difendere lo status quo. Tanti fratelli e sorelle in Amazzonia portano croci pesanti e attendono la consolazione liberante del Vangelo».

LA REPUBBLICA Pag 17 Francesco per l’Amazzonia: “I roghi sono contro Dio” di Paolo Rodari

Città del Vaticano - Il primo Papa latino americano e che in tanti viaggi ha saputo dare voce alle minoranze apre il Sinodo dei vescovi (da ieri fino al 27 ottobre) dedicato all' Amazzonia con parole durissime pronunciate contro coloro che appiccano il «fuoco » nella grande foresta brasiliana: è un fuoco, dice durante la messa celebrata in San Pietro, che «ha dietro precisi interessi quello che sta mandando in cenere tanta parte della foresta amazzonica, un fuoco che non viene da Dio». Ad ascoltarlo i padri sinodali convocati da ogni parte del mondo, ma anche i leader dei popoli indigeni. Sono loro e le loro terre, per il vescovo di Roma, la prima emergenza a cui la Chiesa deve guardare oggi: non c'è Vangelo senza cura del creato e delle popolazioni che lo abitano. «Il fuoco appiccato da interessi che distruggono - dice - come quello che recentemente ha devastato l'Amazzonia, non è quello del Vangelo». E ancora: è un fuoco che «divampa quando si vogliono portare avanti solo le proprie idee, bruciare le diversità per omologare tutti e tutto». Non è da ieri che papa Francesco attacca le multinazionali che portano avanti i propri interessi a discapito delle diverse popolazioni indigene. Neanche in modo troppo velato, l'accusa è diretta contro il presidente brasiliano, Jair Bolsonaro, che considera i vescovi suoi nemici e ritiene insieme che l'Amazzonia non sia «patrimonio dell'umanità». Proprio in Brasile sono comparsi in questi giorni alcuni cartelli pubblicitari anti-Sinodo, che riportano lo slogan "No alla Chiesa partito, No al Sinodo sull'Amazzonia!". Nello stesso tempo Francesco chiede anche alla Chiesa di avere rispetto verso le popolazioni locali, di evitare quindi i «nuovi colonialismi» e rispettare il modo di vivere ed esprimere la fede degli indios. Mentre dagli indigeni viene la richiesta di superare la mancanza di sacerdoti soprattutto nelle regioni più remote, con l'ordinazione sacerdotale dei cosiddetti "viri probati", e cioè uomini anziani sposati e di provata fede. La linea del Papa sembra chiara: il celibato non è un dogma, bensì soltanto una legge ecclesiastica che, come tale può essere eliminata. Insieme, la richiesta è anche di un maggiore protagonismo delle donne. La Chiesa, dice non a caso ancora Francesco, non può stare «mai ferma», non può farsi «soffocare dai timori e dalla preoccupazione di difendere lo status quo». La fede, spiega, non è quella di chi «fa finta di essere un grande credente» e poi finisce per fare anche «figuracce».

IL FOGLIO Pag 1 Liberare la chiesa di Matteo Matzuzzi L’ambientalismo e l’ennesima rivolta dei vescovi tedeschi contro Roma sono i temi dello scontro tra i fronti pronti alla battaglia sinodale

Il vescovo di Essen, nella Ruhr, mons. Franz-Josef Overbeck, la scorsa primavera aveva annunciato al mondo che dopo il Sinodo sull'Amazzonia nulla nella chiesa sarebbe stato più come prima. Tutto sarebbe cambiato, perché nell'Aula Nuova, oltre a discutere del destino delle popolazioni che abitano i villaggi sparsi nella foresta, i padri avrebbero dovuto focalizzarsi sulla "struttura gerarchica della chiesa", "la sua moralità sessuale", "l'immagine del sacerdozio", "il ruolo delle donne che deve essere riconsiderato". Il vescovo tedesco è sicuro che ciò accadrà, dopotutto l'elenco dei partecipanti all'assise voluta dal Papa consente d' affermare con una certa sicurezza che se dibattito ci sarà non potrà che svilupparsi attorno a un terreno comune che avrà nel desiderio del cambiamento il suo tratto caratterizzante. Il neocardinale , gesuita, ai vertici dell'organizzazione sinodale, ha ribadito che si discute di Amazzonia per poi ampliare il discorso alla chiesa universale. Il cardinale brasiliano Cláudio Hummes, relatore generale del Sinodo e molto vicino al Papa - è lui che gli ha suggerito di prendere il nome di Francesco - durante la conferenza stampa di presentazione dell' appuntamento assembleare ha detto con grande chiarezza che "il contesto ampio è la grave e urgente crisi socio-ambientale di cui parla l'enciclica Laudato Si': la crisi climatica, ossia il riscaldamento globale per l'effetto serra; la crisi ecologica come conseguenza del degrado, contaminazione, depredazione e devastazione del pianeta, in particolare in Amazzonia; la crescente crisi sociale di una povertà e miseria lampante che colpisce gran parte degli esseri umani e, in Amazzonia, specialmente gli indigeni, i rivieraschi, i piccoli agricoltori e quanti vivono nelle periferie delle città amazzoniche e altri ancora". Serve, ha aggiunto, sviluppare una "ecologia integrale" perché "tutto è interconnesso, gli esseri umani, la vita comunitaria e sociale, la natura. Ciò che di male si fa alla terra, finisce col fare male agli esseri umani e viceversa. C'è bisogno di una conversione ecologica, ispirata a san Francesco d' Assisi". Avvenire, in un'ampia analisi pubblicata giovedì e firmata dall' editorialista Stefania Falasca, ha scritto che "senza l' Amazzonia il mondo non ha speranza di vita. Qui si gioca il futuro del pianeta e dell'umanità". Tanto per chiarire che la questione è centrale e seria, non da conversazione pomeridiana davanti a una tazza di tè e a qualche biscotto. Al di là delle giuste considerazioni sulla sofferenza del polmone verde (che polmone comunque non è, visto che come ha scritto il Guardian - non certo un caposaldo del negazionismo in ambito climatico - la foresta amazzonica produce meno del sei per cento dell' ossigeno necessario alla Terra), è ormai acclarato che il vero tema del contendere sarà un altro, non la saggezza degli indios "che ci insegna a vivere in armonia col creato", per citare ancora il quotidiano della Conferenza episcopale italiana. Ridata la comunione ai divorziati risposati, seppure dopo una valutazione del singolo caso che è più severa in certi contesti e più veloce in altri, è il celibato che dominerà, si vedrà in che modo, l'assise. Il che può destare sorpresa, considerando che "il celibato sacerdotale non c'entra niente con la regione amazzonica", dice al Foglio il cardinale Gerhard Ludwig Müller, prefetto emerito della congregazione per la Dottrina della fede. Il fatto, aggiunge il porporato tedesco, "è che alcuni vogliono usare e strumentalizzare questo Sinodo per promuovere una loro agenda finalizzata a dare il via libera all' ordinazione delle donne, a mettere in discussione il celibato sacerdotale e l'autorità ecclesiastica, vista come un mero potere politico". Il cardinale Müller al celibato ha dedicato un volume, Affinché siate una benedizione, dodici lettere sul sacerdozio che l' editore Cantagalli manderà in libreria il prossimo 24 ottobre. Concorda con il confratello tedesco Overbeck, benché da una prospettiva diametralmente opposta: il Sinodo, dice, "avrà conseguenze sulla chiesa universale, questo è chiaro. Se si ascoltano le voci di alcuni dei protagonisti di questa assemblea si comprende facilmente che l'agenda è tutta europea. Un'agenda di una chiesa in crisi: sempre più vuota, con la partecipazione domenicale ridotta ai minimi termini, i seminari e i monasteri vuoti, la catechesi nulla. In Baviera, trent'anni fa si dichiarava cattolico il sessanta per cento della popolazione, oggi il trenta. La metà. Mi chiedo - dice il cardinale - se si vuole riformare la chiesa in Gesù Cristo con questa qualità spirituale". Il problema di fondo è che si è radicata, in maniera inesorabile, la convinzione che la chiesa sia un' organizzazione non governativa, "ed è strano che coloro che si mostrano e professano come i vassalli perfetti del Papa siano i primi a non rispettarne le parole quando quest'ultimo ha parole forti contro il rischio di trasformare la chiesa in una ong. Faccio un esempio. Prendiamo il motu proprio della scorsa settimana, Aperuit illis, sulla Parola di Dio. E' un documento molto chiaro, direi classico. Perché non viene rispettato? Basterebbe leggerlo per trarre utili suggerimenti al fine di coprire le lacune dell'Instrumentum laboris del Sinodo amazzonico. Un documento che non parla della rivelazione, del verbo incarnato, della redenzione, della croce, della resurrezione, della vita eterna". "Il celibato sacerdotale non c'entra niente con la regione amazzonica", eppure è uno dei temi al centro dell'assemblea "Il Sinodo avrà conseguenze sulla Chiesa universale", avevano preannunciato dalla Germania già in primavera Matteo Matzuzzi, giornalista. Lavora al Foglio dal 2011, dove si occupa non solo di chiesa ma anche di libri. Già arbitro di calcio, ama Roth (Joseph), Nesta, Bruegel (il Vecchio) e il Grand Old Party. Perché nel documento preparatorio non si parla della rivelazione? Una risposta a tale lacuna, probabilmente, la si trova nel pensiero del teologo Paulo Suess, tedesco di Colonia ma dal 1966 in Brasile. Suess, che nel 2007 fu tra i più veementi critici del discorso di Benedetto XVI ad Aparecida - definì "indifendibili" le parole del Papa a proposito del rapporto tra la fede e le popolazioni indigene - sostiene la necessità di sviluppare "una nuova comprensione della rivelazione di Dio", "storicizzando" tale concetto in modo che sia possibile "scoprire la rivelazione divina tra questi popoli indigeni". E per quanto riguarda il discrimine sottile che c'è tra proselitismo ed evangelizzazione, Suess chiariva: "Non abbiamo il diritto di fare proselitismo, sminuire una religione piuttosto che un' altra o invogliare alle conversioni. Il popolo deve decidere quale sia la migliore religione per questo momento storico". Al di là di tali punti di vista, Müller ribadisce la sua posizione: "Nessun termine del Credo è menzionato nel documento - che comunque, ha detto il segretario generale cardinale Lorenzo Baldisseri, non è un atto di magistero, ndr -. Nel motu proprio, invece, tutto è detto e scritto, ed è su questo che bisognerebbe fermarsi", osserva Müller. Su chi siano i "vassalli" che professano l'incrollabile fede nel Sommo Pontefice salvo poi disattenderne le direttive, vi sono pochi dubbi: i vescovi tedeschi, che nella loro quasi totalità hanno deciso la scorsa primavera di indire un Sinodo vincolante per la chiesa in Germania che si ripromette di affrontare proprio i temi che evidenziava mons. Overbeck. Sinodo che ha ricevuto prima l' altolà del Papa in persona a mezzo lettera, il 29 giugno scorso, e poi del prefetto della congregazione per i Vescovi, il cardinale canadese . Avvertimenti inutili, visto che la compagine guidata con pugno fermo dal cardinale ha confermato di volere andare avanti per la propria strada nonostante gli ultimatum romani, con tanto di statuti già approvati. Dopotutto, è la Conferenza episcopale il cui presidente, tra un Sinodo e l'altro sulla famiglia, disse che "non sarà Roma a dirci quello che dobbiamo fare in Germania". Il dilemma è se si tratti della esplicita volontà di rompere, magari con uno scisma - evocato dal Pontefice e nei giorni scorsi dal cardinale Rainer Maria Woelki -, o piuttosto di alzare la posta per ottenere maggiore autonomia dottrinale, in linea con i propositi di Evangelii gaudium, il programma del pontificato di Francesco pubblicato nel novembre del 2013. "La chiesa tedesca - dice Müller - non vuole la rottura perché vuole essere parte della chiesa universale. I vescovi tedeschi rispettano il Pontefice, sanno che è molto conosciuto e considerato. Però vogliono sviluppare la chiesa cattolica secondo il loro pensiero. Vogliono quasi rifondare la chiesa cattolica". Superbia? "Pensano che Cristo sia solo un uomo vissuto duemila anni fa, ritengono che non fosse un uomo moderno, sono convinti che non avesse nulla della loro dotta formazione. Nessun problema, dal loro punto di vista non si tratta di deprecare tale situazione, ci mancherebbe. Pensano però che sia necessario riempire queste lacune e mancanze, e - sempre seguendo il filo logico del pensiero che va per la maggiore in Germania - spetta a loro agire". Ambizione alta. "Il cardinale Marx in un'omelia ha domandato retoricamente: 'Se Cristo fosse qui oggi, direbbe ciò che disse duemila anni fa?'". Questione delicata. "Ma Cristo non è una figura storica come Cesare. Gesù Cristo è il risorto presente, celebra la messa tramite il suo rappresentante ordinato sacerdote. E' il soggetto della chiesa e la sua Parola rimane e vale in eterno. Cristo è la pienezza della rivelazione, per cui non vi sarà un'altra rivelazione. Siamo noi che dobbiamo cercare di conoscerla di più e meglio, ma non possiamo di certo cambiarla. Cristo è insuperabile e irreversibile e questo oggi non pare essere molto chiaro a certe latitudini". Ma sostenere il via libera ai viri probati, cioè l'ordinazione di uomini sposati per far fronte al decremento inesorabile di sacerdoti significa mettere in discussione la rivelazione? Sulla questione c'è molta prudenza. Se una parte consistente della gerarchia, soprattutto latinoamericana ed europea, sostiene che non vi sono alternative, altri frenano. L'ha fatto il cardinale Ouellet, autore di un altro libro Amici dello sposo. Per una visione rinnovata del celibato sacerdotale (Cantagalli) che presentando mercoledì scorso il libro ha detto di non essere contrario ai viri probati, bensì "scettico". Come scettico, a suo dire, "è uno sopra di me che però autorizza il dibattito". "Il celibato sacerdotale - dice il cardinale Müller - si può capire solo nel contesto della missione escatologica di Gesù, che ha creato un mondo nuovo. E' stata una nuova creazione. Con le categorie del secolarismo non si possono comprendere l'indissolubilità del matrimonio, così come il celibato o la verginità degli ordini religiosi. Né, con tali categorie, si possono risolvere problemi che hanno la loro origine esclusivamente nella crisi della fede. Non si tratta di reclutare più gente per amministrare i sacramenti. E' necessaria una preparazione spirituale e teologica, bisogna entrare nella spiritualità degli apostoli, non prestando ascolto alle agenzie laiche che consigliano molto e su molte cose per ragioni del tutto contrastanti con la missione della chiesa. Serve spiritualità, non mondanizzazione". Il prefetto emerito della congregazione per la Dottrina della fede prende a esempio la riforma della curia romana, che dovrebbe trovare realizzazione tra non molto dopo sei anni di lavoro e un titolo provvisorio, Praedicate evangelium. Il peccato originale della riforma, secondo lui, è proprio nell'idea di fondo: "La curia non è un apparato, un' azienda con tanti uffici. Tutti i collaboratori della curia, dal primo cardinale all'ultimo usciere, lavorano spiritualmente al servizio del ministero papale. Ho detto spiritualmente, perché è questo che serve, la spiritualità. San Paolo ha detto 'Non conformatevi al mondo, ma trasformatevi rinnovando la vostra mente, per poter discernere la volontà di Dio'. La chiesa non è l'Onu". Concetto, questo, ripetuto con altre parole anche dal cardinale Robert Sarah, prefetto della congregazione per il Culto divino e la Disciplina dei sacramenti nel suo ultimo libro: "Mi rammarico del fatto che molti vescovi e molti sacerdoti trascurino la loro missione essenziale, che consiste nella propria santificazione e nell'annuncio del Vangelo di Gesù, per impegnarsi invece in questioni sociopolitiche come l'ambiente, le migrazioni o i senzatetto. E' un impegno lodevole occuparsi di questi temi. Ma se trascurano l' evangelizzazione e la propria santificazione si agitano invano. La Chiesa non è una democrazia nella quale "Con le categorie del secolarismo non si possono comprendere l'indissolubilità del matrimonio, così come il celibato o la verginità negli ordini religiosi. Né, con tali categorie, si possono risolvere problemi che hanno la loro origine esclusivamente nella crisi della fede" Il tema dei viri probati, sostenuto da gran parte delle gerarchie latinoamericane ed europee. Mons. Erwin Kräutler disse tre anni fa: "Dobbiamo avanzare suggerimenti coraggiosi. Per esempio, possiamo pensare a uomini e donne ordinati per presiedere l'eucaristia" alla fine è la maggioranza a prendere le decisioni. La Chiesa è il popolo dei santi". Una delle ragioni portate a sostegno del placet consiste nel fatto che decine di villaggi vedono un sacerdote solo una o due volte all'anno, potendo così comunicarsi solo in tali circostanze. Troppo poco, sostiene una corrente assai forte, bisogna provvedere. Il più convinto è mons. Erwin Kräutler, vescovo austriaco prelato emerito di Xingu, diocesi dell' Amazzonia - territorialmente la più estesa del Brasile - che ha guidato dal 1981 al 2015, succedendo allo zio Erich. Kräutler, vicino alla teologia della liberazione, è considerato uno dei veri animatori del Sinodo, tanto da essere stato incluso nel Consiglio pre- sinodale. Molte delle sue idee sono finite nell' Instrumentum laboris, e si tratta di idee cristalline: "Dobbiamo avanzare suggerimenti coraggiosi. Per esempio, possiamo pensare a persone, uomini e donne, leader di una comunità che siano incaricati - e a tal fine, ordinati - per presiedere l'eucaristia domenicale". Nel suo libro Abbi Coraggio, cambia ora il Mondo e la Chiesa!, pubblicato nel 2016, va oltre perfino l' ipotesi di dare il via libera ai viri probati: "Una possibilità ecclesiale comprovata sarebbe quella di permettere ad experimentum, in Amazzonia, che uomini e donne sposati che dirigono una comunità possano presiedere l'eucaristia". Il doppio Sinodo parallelo, da una parte l' Amazzonia e dall' altra la Germania. Le conseguenze interesseranno "la Chiesa universale". I viri probati, strada per rivedere il celibato sacerdotale. L'ordinazione delle donne. L' ideologia ambientalista che si è fatta largo tra le gerarchie "Ma per me non è una soluzione che a farlo debbano essere solo i tanto citati viri probati, dal momento che ciò vorrebbe dire che solo gli uomini potrebbero assumere questo ministero pieno. Invece nello Xingu oggi due terzi delle comunità sono diretti da donne". E, in modo ancora più esplicito, Kräutler osserva che già "ci sono molte donne che preparano la liturgia domenicale, esistono uomini giovani e vecchi che si impegnano volontariamente con la comunità. Con la dovuta preparazione, tali persone potrebbero essere formate anche per presiedere l'eucaristia, non come sacerdoti di seconda classe, bensì come donne e uomini ordinati per la loro comunità al fine di presiedere il mysterium fidei, la celebrazione eucaristica. L'ideale sarebbe averne due o tre per ogni comunità". "Ma non esiste né può esistere un diritto al sacramento", commenta Müller. "Noi siamo creature di Dio e una creatura non può reclamare un diritto al suo creatore. La vita e la grazia sono un dono. L'uomo ha il diritto di sposarsi, ma non può pretendere che una determinata donna lo sposi rivendicando un diritto specifico. Gesù ha eletto liberamente fra tutti i suoi discepoli dodici di essi, presentando così la sua autorità divina. Ha scelto quelli che ha voluto, è Dio che sceglie. Nessuno può entrare nel santuario senza essere chiamato. Ancora una volta prevale la mentalità secolarizzata: si pensa come gli uomini, non come Dio", aggiunge Müller. Mentalità secolarizzata che è ben evidente, secondo il prefetto emerito di quello che fu il Sant' Uffizio, anche nella battaglia per la salvaguardia dell' ambiente, con i suoi integralismi che sembrano non aver risparmiato neppure vasti settori ecclesiali. Le campagne di sensibilizzazione per la custodia del Creato finite per sposare le teorie più catastrofiste in campo climatico, dando voce e offrendo pulpiti anche a quanti da decenni sostengono che tutto sarebbe risolto se sul pianeta Terra ci fosse meno gente, operazione possibile con un chirurgico controllo delle nascite. Quattro anni fa, il gesuita James Schall (1928-2019), a lungo titolare della cattedra di Filosofia politica alla Georgetown University, commentando i paragrafi più green dell' enciclica Laudato Si' scrisse che da quel che si sente in giro pare di capire che "la vera missione umana sia quella di mantenerci in vita su questo pianeta il più a lungo possibile. Questo sforzo è il compito serissimo che l' umanità è chiamata a compiere. E tutti gli altri scopi, gli altri fini umani, diventano insignificanti. L'alternativa al Cielo diventa così la colonizzazione interstellare o il mantenere la terra incontaminata". Quanto alla posizione della chiesa sul riscaldamento globale, in un' intervista al Foglio Schall fu altrettanto netto: "La chiesa rischia di diventare ridicola se agisce al di fuori del proprio campo, confondendo la scienza, riformabile quanto ai princìpi, con quelli che sono i fatti. La questione più problematica è lo status scientifico della posizione del Papa sul riscaldamento terrestre. Nella migliore delle ipotesi si tratta di opinioni sostenute da qualche prova, ma Laudato Si' non menziona alcuna prova contraria". E' vero, tutti i Papi hanno parlato di ambiente, di salvaguardia del creato. Non tutti, però, allo stesso modo. Benedetto XVI, nell' enciclica Caritas in veritate, ha riproposto come obiettivo centrale lo sviluppo umano integrale, con al centro l' uomo creato a immagine e somiglianza di Dio. Oggi, anche tra parecchi partecipanti al Sinodo amazzonico, tra membri votanti e uditori, prevale il concetto di "sviluppo sostenibile", con le sue ovvie derive: dal controllo delle nascite alla condanna del mondo ricco sfruttatore, l'economia che uccide. Sono conciliabili le due teorie? Il cardinale Müller cita di nuovo il motu proprio papale Aperuit illis: "Tutto deve cominciare con la Parola di Dio e questa ci dice che l'uomo è il culmine della creazione. Assodato ciò, come si fa a sostenere, come fa una certa ideologia ambientalista, che l'uomo è il nemico del pianeta e ha una colpa verso Dio? La chiesa è di Gesù Cristo e deve predicare il Vangelo e dare la speranza per la vita eterna. Non può farsi protagonista di alcuna ideologia, che sia quella gender o il neopaganesimo ambientalista. E' pericoloso se ciò accade. Torno sull'Instrumentum laboris preparato per il Sinodo sull' Amazzonia. In un suo paragrafo si parla della 'madre Terra': ma questa è un' espressione pagana. La terra viene da Dio e la nostra madre nella fede è la chiesa. Noi siamo giustificati per la fede, la speranza e l'amore, non per l'attivismo ambientale. Certo, la custodia del Creato è importante, dopotutto noi viviamo in un giardino voluto da Dio. Ma non è questo il punto dirimente. Lo è il fatto che per noi Dio è più importante. San Tommaso dice che è l' uomo al centro della creazione. Gesù ha dato la sua vita per la salvezza degli uomini, non del pianeta". Anche per questo si resta disorientati quando si legge sull' Osservatore Romano il necrologio per il ghiacciaio islandese Okjökull, morto "per colpa nostra". "Gesù si è fatto uomo", chiosa tranchant Müller, non cristallo di ghiaccio. Ma se tutto è così evidente e lineare, perché la chiesa insiste su questi temi, con un impegno serio e una campagna di sensibilizzazione assai penetrante nella società? "Perché si è persa la fiducia nella fede e nel Vangelo e ci si vuole giustificare davanti al mondo secolarizzato. Ma noi siamo chiamati a giustificarci davanti a Dio. Per risolvere i problemi politici della società ci sono i parlamenti, i rappresentanti eletti dal popolo, gli esperti nei diversi campi e nelle più diverse materie. Naturalmente, la chiesa può dare il proprio contributo con una buona etica, con la dottrina sociale, con il magistero, richiamando i princìpi antropologici. Dopotutto il Pontefice è il supremo interprete della legge morale. In questo senso anche la chiesa ha una grande responsabilità per assicurare la giustizia sociale nel mondo, per la sua promozione e sviluppo secondo i criteri della solidarietà. Ma la prima missione della chiesa è predicare Cristo figlio di Dio. Gesù non ha detto a Pietro di occuparsi del governo dell' Impero romano, non entra in dialogo con Cesare. Si è tenuto a buona distanza. Pietro non era amico di Erode o di Pilato, ma ha sofferto il martirio. E' giusta la cooperazione con un un legittimo governo, ma senza mai dimenticare che la missione di Pietro e dei suoi successori consiste nell' unire tutti i credenti nella fede in Cristo, che non ha raccomandato di occuparsi delle acque del Giordano o della vegetazione della Galilea", osserva il cardinale Müller. E il compito della chiesa "non è neppure quello di piantare alberi. Va bene come atto caritativo, ma non è con tale azione che ci si avvicina di più a Dio, purificando il cuore. Corriamo il rischio di strumentalizzare i sacramenti per promuovere un' ideologia". E se fosse il Papa a raccomandare di piantare più alberi? "Il Papa ha la sua missione e c' ìè un magistero, ma non è che se dice che non gli piace il caffè dobbiamo bere tutti tè". La chiesa è sotto attacco ed è anche a questo che si dovrebbe pensare. Consideriamo la figura del sacerdote: "Sono stato vescovo di una grande diocesi tedesca, Ratisbona, per dieci anni. Di preti ne ho conosciuti parecchi, ho parlato molto con loro. Faticano e tanti di loro non si sentono rispettati, nono solo all' interno della chiesa, ma soprattutto all'esterno, dove la propaganda è fortissima. Il dramma degli abusi sessuali è stato come un' onda impetuosa che ha lasciato macerie. Sono accusati di una colpa collettiva. Nessuno può dire che tutti i tedeschi hanno la colpa per le azioni di Adolf Hitler, ma se c'è un sacerdote che commette un crimine, la colpa ricade su tutti. E' il concetto devastante di colpa collettiva. La stampa occidentale è anticattolica e cavalca questi fatti, magari non occupandosi poi molto di quanto accade altrove, in altri ambiti, visto che le statistiche ci dicono che tra coloro che sono responsabili di abusi i membri del clero rappresentano una minoranza molto piccola. Certo, come ha detto san Tommaso, i peccati del sacerdote, imago Christi, valgono il doppio. Ma ciò non toglie che il sacerdote sia, oggi, il bersaglio prediletto del mondo". "La missione di Pietro e dei suoi successori consiste nell' unire tutti i credenti nella fede in Cristo. Il compito della Chiesa non è di piantare alberi. Non è con tale azione che ci si avvicina di più a Dio, purificando il cuore. Corriamo il rischio di strumentalizzare i sacramenti per promuovere un' ideologia" "La custodia del Creato è importante, dopotutto noi viviamo in un giardino voluto da Dio. Ma il punto dirimente per noi è che Dio è più importante. Perché la Chiesa insiste con l'ambientalismo? Perché si è persa la fiducia nella fede e nel Vangelo e ci si vuole giustificare davanti al mondo secolarizzato"

Pag 1 La solitudine del prete, una virtù per il mondo di Giuliano Ferrara

La chiesa può fare a meno del celibato del clero, ma nel sacerdote non si vedrebbe più lo stigma dell'imitazione di Cristo e dell'obbedienza al popolo di Dio Non ho niente contro la fine del celibato dei preti. E non ho voglia di ripetere pedante che non è un dogma, che è un'articolazione della chiesa nel tempo e nel mondo, la regola può cambiare. Le carezze di Lutero a sua moglie e ai suoi figli non tolgono alcunché al suo genio religioso. Però bisogna riconoscere che a mutare questa disciplina ecclesiastica qualcosa si perde. Si perde la solitudine del prete, la semplice idea che il prete non ha sposa perché gli basta Cristo e non ha figli perché ogni essere umano è suo figlio. Non mi pare poco. L'intimità della chiesa è violata per ogni dove, spesso in forme sprezzanti e brutali, e nel clero non sono mai mancati gli scandali, eppure una disciplina non è meno importante per il fatto di essere violata o guardata di sbieco da chi non la comprende. Paolo VI nel 1967 aveva argomentato con generosa eloquenza magisteriale in favore del celibato sacerdotale, aveva passato in rassegna le molte obiezioni di fatto e possibili per concludere con la convinzione che della testimonianza del prete non sposato il mondo ha bisogno. Qui è il punto. L'ascesi virile del prete, nella sua emancipazione dai legami carnali e di sangue, è qualcosa di cui la chiesa può fare a meno, in linea di principio e di fatto, come avviene eccezionalmente e a certe condizioni in alcune chiese orientali, ma solo sottraendo al mondo una virtù, sempre più desueta, sempre più derisa e a tratti infamata, che rende il clero cattolico di rito occidentale un fatto unico, una personalità originale e irriducibile alle leggi della temporalità: qualcuno che non appartiene a nessuno, nemmeno a sé stesso, e dunque appartiene a tutti. Il carisma della castità è distinto dalla regola del celibato, ed è tipico senza eccezioni di ogni monachesimo cristiano. Il sacerdote che non ha famiglia, al di là della sua verginità o continenza, è un modo particolare della sua vocazione, il disciplinamento ascetico che gli consente un'unione di livello superiore, che non è contro natura e non smentisce la promozione del matrimonio cristiano e sacramentale tra i fedeli, con l'umano e con il divino. Forse sono arcaismi, e come tali certo appaiono alla generalità dell' opinione secolare oggi, tuttavia è da dubitare che senza il celibato il mestiere del prete, inteso come vocazione o perfetto Beruf, possa mantenere forza, fascino tragico, solitaria potenza dell'individualità nella fraternità universale. Un prete con la suocera, la nuora, i figli, i nipoti e poi inevitabilmente con il divorzio, forse anche con il matrimonio omosessuale, è un calco umano, troppo umano del tempo che passa. In lui non si vede più il segno, lo stigma dell'imitazione di Cristo e dell' obbedienza alla sola chiesa, cioè al popolo di Dio gerarchicamente ordinato secondo la tradizione apostolica. Può essere che la sua personalità risulti meno arida, può certo essere un buon pastore anche nella celebrazione dell'appartenenza a sé e a un altro nell' amore, per carità, può risolvere qualche problema in più: ma solo togliendosi come problema egli stesso. Ora non si può negare che la suggestione sacra della chiesa consista prima di ogni altra cosa nella delineazione dell' impossibile, la fede è fede nel non credibile, non è semplice conoscenza. La figura solitaria del prete è appunto un segno anche modesto, parrocchiale, di vicinanza dell' impossibile: in tutti i tempi di questo miracolo spesso tradito e vanificato si è sghignazzato con spirito burlone più o meno sacrilego, ma ci si accorgerà della sua mancanza solo a nozze consumate.

LA NUOVA Pag 10 Il saluto di Michele Tomasi: “Inizio un nuovo mestiere” di Francesco Dal Mas L’ingresso del nuovo vescovo di Treviso

Treviso. Il vescovo rock. Il bocconiano di Dio. Il vescovo del sorriso. Il monsignore che i giovani si ostineranno a chiamare Michele, al massimo don Mike. Don Michele, appunto, ha sorpreso i 10 mila trevigiani che si sono affollati lungo le strade che l'hanno portato da Pederobba a Treviso. Una folla imprevista per un prete - don Michele Tomasi, appunto - che è diventato "vescovo per sbaglio", come lui stesso ha ammesso, attribuendo l'errore a papa Francesco. E che ha chiesto, ieri nel giorno del suo ingresso, di essere aiutato a fare questo "mestiere" perché ancora non sa farlo. Come? Camminando insieme. Ma attenzione: don Michele ha passi lunghi e veloci, l'ha dimostrato attraversando il centro di Treviso. in duomoErano le 16 e 19 minuti quando, in Duomo, il predecessore, padre Gianfranco Agostino Gardin, gli ha consegnato il pastorale in legno e lo ha insediato nella cattedra da vescovo. Un lunghissimo applauso, davanti ad una folla di fedeli, anche all'esterno. Più di cento arrivati dall'Alto Adige, il fratello ed altri famigliari compresi, con il vescovo Ivo Muser; una decina i presuli presenti, tra cui Magnani, emerito di Treviso, i trevigiani Mazzocato (Udine), Pizziolo (Vittorio Veneto), Marangoni (Belluno). Il senso della sua missione in terra trevigiana, Tomasi lo ha detto interpretando un passaggio del Vangelo nella solenne concelebrazione di circa due ore. I discepoli - ha ricordato - non chiedono posti di privilegio o di potere, non pretendono di stare alla destra e alla sinistra del Signore, ma chiedono al Signore che dia loro un "di più" di fede. E questo perché erano stati richiamati dal Signore «con una certa durezza - come ha sempre spiegato il vescovo - alla decisione radicale di non dare scandalo ai piccoli, a preferire il bene di questi anche alla propria stessa vita e poi, in rapida successione, all'esigenza altrettanto e forse ancor più radicale della continua, perseverante disponibilità al perdono, anche quando il fratello dovesse senza sosta insistere nel farci del male». Ieri, dunque, monsignor Tomasi non ha voluto fare nessun sconto con chi l'ascoltava. Ma è sorprendente come i giovani l'abbiano seguito; sono stati loro ad animare le tappe lungo la Feltrina, fino a Treviso. Una piazza più affollata dell'altra, col sindaco Favero a Biadene, scampanii a festa, applausi, abbracci e strette di mano dispensate letteralmente a migliaia. GLI INDUSTRIALI E Maria Cristina Piovesana, presidente di Confindustria VenetoCentro si è dichiarata desiderosa d'incontrarlo perché anche lei sorpresa di tanta freschezza. Ma don Michele ha messo le mani avanti. «Io stesso vorrei chiedere al Signore - e glielo chiedo, ve lo confesso, in questo momento così particolare della mia vita - di poter svolgere il compito che mi viene affidato di essere vostro vescovo con saggezza, con salda mitezza, con mite fermezza, di poter essere una buona guida per una Chiesa viva e fedele qual è questa Chiesa di Treviso; voglio chiedere e chiedo di poter superare i miei limiti, o almeno di poterli rendere quanto più innocui possibile, e di poter impiegare al meglio i doni che il Signore mi ha fatto e continua a farmi». «La stessa umiltà di Luciani», ha commentato un vittoriese. In continuità, per tanti aspetti, con padre Gardin. l'applausoQuando Tomasi l'ha ringraziato («per il Vangelo che hai testimoniato»), il lungo applauso del Duomo gli ha strappato la commozione. D'altra parte, Gardin gli aveva detto: «Sappiamo che la tua disponibilità non ti ha impedito di sperimentare, nel ricevere questa nomina, un certo smarrimento e una sana trepidazione. Ma poi ti sei consegnato con fiducia a Colui che, nel chiamarti, ti assicura il suo sostegno. Questa Chiesa ti ringrazia e ti abbraccia. Essa sa che porti con te una vasta esperienza ed una ricca preparazione». Tomasi è stato accompagnato da una interminabile teoria di preti, almeno 200. Nonostante la lunga e faticosa cavalcata, in vescovado ha sospirato: «È stata una lunga e bellissima giornata».

L’OSSERVATORE ROMANO di domenica 6 ottobre 2019 Preghiera e annuncio colonne del ministero Quattro nuovi arcivescovi ordinati dal Pontefice nella basilica vaticana

Venerdì pomeriggio, 4 ottobre, nella basilica vaticana il Papa ha conferito l’ordinazione episcopale al gesuita Michael Czerny e ai monsignori Paolo Borgia, Antoine Camilleri e Paolo Rudelli. Durante il rito, il Pontefice ha pronunciato nella sostanza l’omelia rituale per l’ordinazione dei vescovi prevista nell’edizione italiana del Pontificale Romano, integrandola con alcune aggiunte personali. Ne pubblichiamo di seguito il testo.

Fratelli e figli, riflettiamo un poco a quale alta responsabilità ecclesiale vengono promossi questi nostri fratelli. Il Signore nostro Gesù Cristo inviato dal Padre a redimere gli uomini mandò a sua volta nel mondo i dodici apostoli, perché pieni della potenza dello Spirito Santo annunziassero il Vangelo a tutti i popoli e riunendoli sotto un unico pastore, li santificassero e li guidassero alla salvezza. Al fine di perpetuare di generazione in generazione questo ministero, i Dodici si aggregarono dei collaboratori trasmettendo loro con l’imposizione delle mani il dono dello Spirito ricevuto da Cristo, che conferiva la pienezza del sacramento dell’Ordine. Così, attraverso l’ininterrotta successione dei vescovi nella tradizione vivente della Chiesa si è conservato questo ministero primario e l’opera del Salvatore continua e si sviluppa fino ai nostri tempi. Nel vescovo circondato dai suoi presbiteri è presente in mezzo a voi lo stesso Signore, sommo sacerdote in eterno. È Cristo, infatti, che nel ministero del vescovo continua a predicare il Vangelo di salvezza e a santificare i credenti, mediante i sacramenti della fede. È Cristo che nella paternità del vescovo accresce di nuove membra il suo corpo, che è la Chiesa. È Cristo che nella sapienza e prudenza del vescovo guida il popolo di Dio nel pellegrinaggio terreno fino alla felicità eterna. Accogliete, dunque, con gioia e gratitudine questi nostri fratelli, che noi vescovi con l’imposizione delle mani oggi associamo al collegio episcopale. Quanto a voi, fratelli carissimi, eletti dal Signore, riflettete che siete stati scelti fra gli uomini e per gli uomini, siete stati costituiti non per voi stessi, ma per le cose che riguardano Dio. «Episcopato» infatti è il nome di un servizio, non di un onore, poiché al vescovo compete più il servire che il dominare, secondo il comandamento del Maestro: «Chi è il più grande tra voi, diventi come il più piccolo. E chi governa, come colui che serve». Annunciate la Parola in ogni occasione: opportuna e non opportuna. Annunciate la vera Parola, non discorsi noiosi che nessuno capisce. Annunciate la Parola di Dio. Ricordate che, secondo Pietro, negli Atti degli Apostoli, i due principali compiti del vescovo sono la preghiera e l’annuncio della Parola (cfr 6,4); poi tutti gli altri [compiti] amministrativi. Ma queste due cose sono le colonne. Mediante l’orazione e l’offerta del sacrificio per il vostro popolo, attingete dalla pienezza della santità di Cristo la multiforme ricchezza della divina grazia. Nella Chiesa a voi affidata siate fedeli custodi e dispensatori dei misteri di Cristo, posti dal Padre a capo della sua famiglia seguite sempre l’esempio del Buon Pastore, che conosce le sue pecore e da esse è conosciuto e per esse non ha esitato a dare la vita. Vicinanza con il tuo popolo. Le tre vicinanze del vescovo: la vicinanza con Dio nella preghiera - questo è il primo lavoro -; la vicinanza con i presbiteri nel collegio presbiterale; e la vicinanza con il popolo. Non dimenticatevi che siete stati tolti, scelti, dal gregge. Non dimenticatevi delle vostre radici, di coloro che vi hanno trasmesso la fede, che vi hanno dato l’identità. Non rinnegate il popolo di Dio. Amate con amore di padre e di fratello tutti coloro che Dio vi affida. Anzitutto, i presbiteri e i diaconi, vostri collaboratori nel ministero; ma anche amate i poveri, gli indifesi e quanti hanno bisogno di accoglienza e di aiuto. Esortate i fedeli a cooperare all’impegno apostolico e ascoltateli volentieri. E abbiate viva attenzione a quanti non appartengono all’unico ovile di Cristo, perché essi pure vi sono stati affidati nel Signore. Ricordatevi che nella Chiesa cattolica, radunata nel vincolo della carità siete uniti al Collegio dei vescovi - questa sarebbe la quarta vicinanza - e dovete portare in voi la sollecitudine di tutte le Chiese, soccorrendo generosamente quelle che sono più bisognose di aiuto. Custodite questo dono che oggi riceverete per l’imposizione delle mani di tutti noi vescovi. E vegliate con amore su tutto il gregge nel quale lo Spirito Santo vi pone a reggere la Chiesa di Dio. Vegliate nel nome del Padre, del quale rendete presente l’immagine; nel nome di Gesù Cristo, suo Figlio, dal quale siete costituiti maestri, sacerdoti e pastori; e nel nome dello Spirito Santo che dà vita alla Chiesa e con la sua potenza sostiene la nostra debolezza.

CORRIERE DELLA SERA di domenica 6 ottobre 2019 Pag 20 Il Papa in campo per l’Amazzonia di G.G.V. Al via il Sinodo con 184 religiosi e 17 rappresentanti indigeni

Città del Vaticano. Padre Michael Czerny, gesuita, neocardinale canadese di origine ceca e segretario speciale del Sinodo sull’Amazzonia che inizia oggi, si è presentato ieri a San Pietro con una croce pettorale di legno, la vernice rossa e grigia erosa dalla salsedine, «è intagliata da una barca usata dai migranti per attraversare il Mediterraneo e arrivare a Lampedusa e dietro c’è scritto Suscipe: ricevere». Tutto si tiene, nel pianeta, Francesco ama ripetere che oggi «non ci sono due crisi separate, una ambientale e un’altra sociale, bensì una sola e complessa crisi socio-ambientale». Ieri il Papa ha creato i 13 nuovi cardinali annunciati un mese fa e incentrato l’omelia sulla compassione, l’avere cura contrapposto al «lavarsi le mani», fino ad avvertire i porporati: «Tanti comportamenti sleali di uomini di Chiesa dipendono dalla mancanza di compassione, l’abitudine di guardare da un’altra parte, l’indifferenza». E così stamattina, con la messa a San Pietro, si apre il Sinodo: fino al 27 ottobre si riuniranno 184 padri sinodali, cardinali, vescovi e religiosi, 113 dalle Nazioni della regione panamazzonica: Guyana francese, Repubblica della Guyana, Suriname, Venezuela, Colombia, Ecuador, Brasile, Bolivia e Perù. Ci saranno 17 rappresentanti indigeni, nove donne. Le donne in tutto sono 35, ancora senza diritto di voto a dispetto dei proclami sulla loro importanza nella Chiesa. Nei mesi scorsi le polemiche tra conservatori e riformatori si sono incentrate sulle ipotesi di ordinare sacerdoti in zone remote dei «viri probati», uomini anziani sposati, e di riconoscere un «ministero ufficiale» (non il sacerdozio) alle donne, per rimediare alla carenza di preti. Al centro, tuttavia, resta la crisi climatica. Il cardinale Czerny, su «Civiltà cattolica», riassume la posta in gioco, un’area di 7,8 milioni di chilometri quadrati che conta 33 milioni di abitanti - tre milioni sono indigeni di 390 popoli o gruppi diversi - e ha un impatto decisivo nell’ecosistema terrestre. L’elenco delle minacce è lungo, dall’«assassinio degli attivisti» alla «appropriazione e privatizzazione di beni naturali, inclusa l’acqua», disboscamenti legali o illegali, progetti minerari e petroliferi, inquinamento e malattie, traffico di esseri umani, annientamento delle culture indigene, miseria crescente.

CORRIERE DEL VENETO di domenica 6 ottobre 2019 Pag 5 Il giorno del vescovo altoatesino: “Una camminata tra la gente, così inizierà il suo mandato a Treviso” di Siliva Madiotto

Treviso. Una Diocesi di quasi 900mila abitanti e 265 parrocchie, quasi interamente trevigiana ma che tocca anche le province di Padova e Venezia, accoglierà oggi il suo nuovo vescovo: monsignor Michele Tomasi, il pastore mitteleuropeo, entrerà questo pomeriggio per la prima volta nel Duomo di Treviso, al termine di una camminata che attraverserà il centro storico dalla Madonna Granda alla Cattedrale. Ha scelto di presentarsi così, tra la gente, salutando la comunità della quale diventerà il pastore. Sono attese oltre 1500 persone, rendendo necessario l’allestimento di un maxischermo in piazza Duomo e imponenti misure di sicurezza: ci saranno tutte le istituzioni trevigiane, molti parroci e tanti fedeli veneti e altoatesini (un centinaio arriveranno da Bolzano, la sua terra natale). Michele Tomasi, 54 anni, è stato nominato da papa Francesco il 7 luglio scorso per prendere il posto del vescovo emerito Gianfranco Agostino Gardin, al termine di un incarico durato dieci anni. Prima di prendere i voti Tomasi si è laureato in Discipline economiche e sociali alla Bocconi di Milano, pubblicando contributi che toccano teologia ed economia, cattolicesimo e capitalismo, mercati della solidarietà e impegno sociale. È un attento studioso delle dinamiche umane ma soprattutto è uomo di grande fede, capace di creare solidi legami con il territorio. Per pura coincidenza si ritroverà dirimpettaio del più importante gruppo imprenditoriale del Nordest: la famiglia Benetton, che da tre anni ha trasferito la sede della holding «Edizione» proprio in piazza Duomo. E arriverà nella provincia più leghista d’Italia, dei cinquanta sindaci del Carroccio e del governatore Luca Zaia. Tomasi ha già avuto modo di parlare del suo futuro incarico e di un territorio che andrà a scoprire giorno dopo giorno, confrontandosi con le parrocchie e la sua nuova comunità. «Abbiamo la responsabilità, come cristiani, di assicurare che ogni persona sia accolta e cresca nella dignità umana - sono state le sue prime parole -. Dobbiamo essere fedeli alla persona, al povero, all’emarginato. Se il messaggio non fosse abbastanza chiaro nel Vangelo, è molto chiaro come ce lo insegna Papa Francesco. Seguendo il Vangelo in comunione con il Papa, è difficile sbagliare strada». «Ritengo la scelta di Papa Francesco un atto di grande attenzione nei confronti di questa Diocesi - erano state le parole di Gardin nel presentare il suo successore -. Un vescovo mitteleuropeo può portare anche cose interessanti. Tomasi è una persona stimata, solare e amabile, con un’esperienza vasta, conosce la realtà». Tutto è pronto per la grande cerimonia di insediamento. Dopo aver incontrato alcune parrocchie fuori città, monsignor Tomasi arriverà alle 14 a Treviso per un momento di preghiera con i giovani alla Madona Granda; da lì partirà a piedi per raggiungere il Duomo dove, dopo i saluti delle autorità civili, comincerà la celebrazione in cattedrale. «Cominciamo insieme, e insieme a tutti i trevigiani, uno splendido cammino - è il benvenuto del sindaco di Treviso, Mario Conte -. L’intera città lo accoglie con affetto e sono convinto che troveremo in lui una guida spirituale. Monsignor Tomasi trova una Treviso ricca di eccellenze, una terra che fa del volontariato, dell’integrazione e della solidarietà i propri punti forti. Nella mia breve illustrazione gli parlerò della nostra città, della sua storia, della crescita demografica, economica e turistica. Mi piace che abbia scelto il cammino per entrare nella nostra comunità, è una metafora di ciò che ci aspetta, un percorso da fare insieme». Tutta la politica locale sarà presente all’evento. «Credo che il vescovo sia stato molto ben consigliato quando ha scelto le parole simbolo del suo mandato e scegliendo di incontrare tra i primi la Caritas e i Giovani - commenta il capogruppo del Pd, Stefano Pelloni -. Troverà una città molto attiva dal punto di vista della solidarietà, dell’accoglienza verso i più deboli, del volontariato. Spero che si mantenga nel solco del vescovo uscente Gardin, che ringrazio per questi dieci anni. Ogni volta che ha mandato un messaggio alla politica è stato molto saggio e apprezzato». Non capitava da inizio ‘800 che la Marca avesse un vescovo altoatesino. La cerimonia di ingresso di monsignor Tomasi sarà trasmessa anche in diretta streaming sul sito della Diocesi di Treviso.

IL GAZZETTINO di domenica 6 ottobre 2019 Pag 10 Firenze, la curia paga gli studi in teologia all’imam

Firenze. Ex profugo yemenita arrivato ragazzino in Italia 16 anni fa e oggi guida spirituale musulmana nel carcere fiorentino di Sollicciano prenderà presto la laurea in teologia cristiana presso la Facoltà teologica dell'Italia centrale a Firenze. Hamdan Al Zeqri, 33 anni, il 15 ottobre discuterà la tesi e diventerà dottore in scienze religiose, titolo che lo abilita anche a insegnare la religione cattolica nelle scuole. I suoi studi sono stati pagati dalla Curia mentre l'iscrizione a teologia cristiana è stata fortemente voluta dalla Comunità islamica fiorentina nell'ottica di rafforzare il dialogo interreligioso anche attraverso la conoscenza diretta della religione cristiana. Al Zeqri è cittadino italiano dal 2017, lavora in un'azienda aerospaziale del Mugello ed è anche mediatore culturale in tribunale. Nella comunità islamica fiorentina siede nel consiglio direttivo ricoprendo il ruolo di responsabile del dialogo interreligioso, e della formazione spirituale coranica ai giovani. Il neo dottore diventerà il primo esponente di una comunità islamica italiana, con incarichi ufficiali, a laurearsi in scienze religiose. Titolo della tesi Profilo e responsabilità del ministro di culto islamico in carcere. Per quattro anni Al Zeqri ha studiato a fianco di seminaristi, sacerdoti e suore. «Molti dei miei migliori amici sono preti - spiega lo stesso Al Zeqri -. È stata un'esperienza per andare oltre gli stereotipi e i pregiudizi, per conoscere gli altri oltre i luoghi comuni».

AVVENIRE di sabato 5 ottobre 2019 Pag 3 La Chiesa è l’altro ed è l’invito. O non è di Raul Gabriel Questo tempo della cattolciità nei pensieri di un artista / 1

Ho sempre pensato che la Chiesa, come intenzione di presenza del mistero, è una dimensione che sfugge alle categorie delle istituzioni di altro genere. Lo penso per le chiese di tutte le religioni ovviamente. L’origine del termine ha a che fare con l’invito. Chiesa è un invito. Che si può accettare, rifiutare, negare, temere, sostenere. Ognuna di queste reazioni non intacca in alcun modo la sostanza dell’invito. La Chiesa in sé non ha bisogno di nulla. La Chiesa è se Chiesa c’è. Non se si raggiunge un certo numero di iscritti, non se si vince una competizione di possedimenti terreni o spirituali, non se si ottengono risultati, non se si crea una dimensione gerarchica raffinata più di ogni altro sistema organizzativo. Ho sempre visto, e oggi a maggior ragione, la intenzione Chiesa come una inarrivata e inarrivabile dichiarazione di libertà. Libertà dalla necessità del compimento delle pastoie umane, libertà dalla necessità del risultato. La Chiesa è o non è. E se è, è come è. Le Chiese di tutte le fedi rappresentano una possibile porta di realizzazione, non di negazione. Sono il varco invisibile dell’adesione a un invito. I dettami sono secondari, ovvero vengono in seconda battuta. Se avviene il contrario non stiamo parlando di Chiesa, ma di una organizzazione che mette al primo posto le regole, sempre inquinate da fini altri, e sostituisce l’invito con la cooptazione. Non è un gioco di parole. È l’unico modo che mi viene in mente per riflettere sul fatto che invece tutti, ma proprio tutti, non resistono alla tentazione di farne lo specchio personale delle proprie ambizioni, passioni, velleità di appartenenza a organizzazioni para-monarchiche, dove il riflesso di un re immaginato bagna di luce diffusa tutti i cortigiani, contenti di vivere in quel riflesso di un potere che non significa nulla da un punto di vista spirituale. La Chiesa non ha bisogno di un capo. Mi spiego. Il capo è Cristo. E le fibrillazioni che questo Papa ha portato in alcuni ambienti, derivano dal fatto che Francesco ha cominciato a derubricare la figura del Papa come sovrano e la Chiesa cattolica come perifrasi di una monarchia. Che invece in molti desiderano. Ha cominciato a smantellare un tipo di percezione e realtà portando la propria esperienza personale nel magistero. Il proprio invito. Inizio di un cammino, quanto mai urgente, il cui compimento è nel suo farsi, mai esauribile o esaustivo. Certo è un punto di inizio che ha destabilizzato molti. Quelli che nella Chiesa vedono un riflesso delle dinastie monarchiche di altri tempi e di una propria inspiegabile dimensione nostalgica per chiusure e irrigidimenti. La Chiesa non è una monarchia e non è una banda, che necessita del capo. La Chiesa è un invito al mistero cui ognuno secondo il proprio carisma, è chiamato a portare il proprio contributo dentro una storia, dentro una fedeltà. In questo non vi è alcun populismo sudamericano, o ideologia del bon sauvage da strada. Vi è la stanchezza di tutti i diaframmi che nella storia gli esseri umani hanno frapposto tra chi invita e chi è invitato. Vi è la stanchezza di sovrastrutture che nella storia si sono cementate di odio, diffidenza, intrigo e violenza rese istituzione per comodità temporale, come stanno a testimoniare le aberrazioni inquisitorie e le crociate, per citarne due. Coloro che si agitano in nome di una ortodossia algida, lontana dall’uomo, sclerotizzata in paramenti che una Chiesa vicino all’uomo per fortuna sta cominciando a dismettere, rischiano di impantanarsi nei propri stessi meandri. Minacciare uno scisma è appellarsi a uno schema mentale simile a quello che ha partorito chicche come il 'Malleus maleficarum' dove c’è la proiezione della propria idea di una Chiesa che nega, esattamente all’opposto della Chiesa che invita. Trovo analogie di pensiero in campi differenti. Brexit, sovranismi d’altri tempi, negazione dei flussi inarrestabili delle migrazioni umane e scismi agitati come spauracchi senza fondamento, sembrano essere partoriti tutti da una sorta di fuga nel passato, e in un passato che certo non ricordiamo per i suoi lati migliori. La Chiesa non sarà mai compiuta, perché è iniziata camminando. Camminando e invitando nella libertà e nel profondo amore per ogni identità, senza alcuna esclusione. La Chiesa è cammino. La Chiesa è altro. La Chiesa è l’Altro. La Chiesa aspira con la giusta fatica alla sua identità che è libera, sublimata, e finalmente leggera e potente come lo spirito che non comanda. Ti dà la vita.

Pag 3 Benedetta primavera (fuori dal recinto) di Daniele Mencarelli Questo tempo della cattolciità nei pensieri di un artista / 2

I segni sono evidenti, colorano queste settembre di congedo dall’estate con i colori di una primavera fuori stagione. Una primavera degli uomini, e dei cuori. Ad alcuni potrà sembrare una provocazione, ma è un dato di fatto, è la realtà, per rendersene conto basta osservare con attenzione, e scevri da ideologie. Un desiderio di rinnovamento dello spirito cristiano sta viaggiando dentro le anime del nostro Paese. Sono in molti a percepire quest’aria nuova, piena di passione e speranza, di dialogo possibile. I motivi che hanno acceso questo desiderio di rinascita sono tanti, il primo sta nelle mani di chi ha principiato la semina di questa primavera, è grazie alla sua opera se altri, molti altri, hanno proseguito imitando il suo esempio concreto. Le mani non possono che essere quelle di Jorge Mario Bergoglio, il nostro papa Francesco. È lui, venuto dal nuovo mondo, ad aver inaugurato questa tempo di cambiamento, è lui la linfa fresca che ha rigenerato l’intera Pianta. Nella sua azione risuonano, incarnate, tante delle parole che quotidianamente dedica ai poveri, e atra i poveri a più precari di tutti, i migranti, a chi arriva in cerca di riscatto, pieno di preoccupazione ma anche disposto a scommettere realmente su se stesso e il prossimo, determinato a soddisfare la sua fame di benessere e felicità. Papa Francesco, in questo senso, è egli stesso in tutto e per tutto migrante: ha attraversato un oceano intero, le promesse che vuole mantenere sono più forti dell’istinto di conservazione di chi giace senza più vera ragione, né sentimento. La primavera avviata da papa Bergoglio si fonda su azioni concrete, si potrebbe iniziare l’elenco di esse partendo da alcune scelte interne alla Santa Sede, ma è sul vero fuoco della sua Opera che ci si vuole concentrare. È il racconto di Cristo la chiave di volta, e la volontà di portarlo a chi è fuori dal perimetro secolare della religione. È qui la sua unicità. Francesco ha capito che la Parola deve tornare a essere offerta a chi è lontano dal recinto di Dio, a quelli che si dichiarano distanti dalla fede. In termini di evangelizzazione, il nostro Papa sta portando migranti a Cristo, gente di altre terre, perlopiù provenienti dalla rovine ideologiche del Novecento. Questo dato, che indispettisce chi nella fede vive da sempre, un po’ come il fratello del Figliol prodigo che non sente su di sé l’amore che vorrebbe, è la sua vera e grande semina, che porta e porterà frutti nuovi dentro la Chiesa. Perché i ponti vanno costruiti verso terre che non ci appartengono e con cui vogliamo entrare in relazione, perché il rischio, altrimenti, è quello dell’elitarismo, del dialogo con chi parla già la nostro lingua, che porta, infine, all’esclusione di chi sentiamo diverso. Anche qui risuonano le analogie con il fenomeno migratorio, basta guardare i tanti che con occhio avverso guardano all’arrivo di chi considerano estraneo e pericoloso, eternamente straniero. Questo, ovviamente, anche per colpa della retorica allarmistica di una parte della nostra politica. Grazie all’invito del Papa sono molti a essersi avvicinati a Dio, in tal senso arrivano da ogni ambiente del nostro Paese testimonianze preziose. Naturalmente, ciò è avvenuto anche per merito degli altri, molti altri, che sul suo esempio hanno continuato a seminare dentro i luoghi del nostro vivere. Scuole e università, ambienti delle cultura e della scienza, ospedali, uffici, case. La primavera s’inizia a percepire ovunque. E di fronte a questi occhi è apparsa una gemma da togliere il fiato, da far ricacciare la commozione giù per la gola. La gemma che ha piantato dentro di me la certezza di questa Primavera appena iniziata. Alessandro, studente di fisica alla Sapienza di Roma, vent’anni appena, sul viso la gioia di chi conosce la libertà più grande, che mi dice con il sorriso che se Dio è vero per lui deve esserlo anche per i suoi amici, e che farà di tutto per testimoniarglielo. Un tempo di rinascita è possibile, sta a noi viverlo con la stessa passione, lo stesso ardimento di Alessandro.

LA REPUBBLICA di sabato 5 ottobre 2019 Pag 17 “Un’alleanza guidata dal Papa per salvare l’Amazzonia” di Cristina Nadotti Intervista all’attivista brasiliano Caetano Scannavino, a Roma per il Sinodo

Roma - Salvare la foresta amazzonica significa prima di tutto salvare chi ci vive e le attività che ha sempre portato avanti. Caetano Scannavino, coordinatore della ong "Saude e Alegria", più volte minacciato di morte per le sue attività contro la deforestazione, e Vandria, leader del popolo Borari, la prima donna india laureata in legge, sono a Roma per il sinodo speciale sull'Amazzonia convocato da papa Francesco per domani. Oggi, i due leader intervengono a Roma alla conferenza "Difendiamo il nostro futuro", organizzata da Europa Verde, per portare in Italia la voce delle popolazioni minacciate. Perché, dicono Scannavino e Vandria «quando si parla di Amazzonia troppo spesso si dimenticano gli indios, i primi custodi delle risorse e i più minacciati da chi accelera la deforestazione. Che importanza ha per voi la convocazione di questo sinodo? «Enorme - risponde Scannavino contro gli indios è in atto un etnocidio, la sfrontatezza con cui il presidente Bolsonaro ha ostentato il suo piano per gestire l'Amazzonia come meglio crede e aumentare le terre da sfruttare per la ricerca mineraria ha dato forza alle attività illegali. Il sinodo rafforza l'idea che c'è bisogno di un'alleanza per combattere e se a chiamare a raccolta è un leader come papa Francesco, rispettato in tutto il mondo, la nostra lotta se ne avvantaggia». Perché la minacciano di morte? La sua ong si occupa soprattutto di istruzione e diritto alla salute. «In Amazzonia occuparsi di salute in zone come il Parà, da dove viene Vandria, significa soprattutto ridurre la mortalità infantile per inquinamento da mercurio e dall' acqua sporca. Significa cioè opporsi allo sfruttamento minerario i cui residui di lavorazione avvelenano l'ambiente. E studiare significa conoscere i propri diritti, sapere che la legge brasiliana impone di consultare le comunità locali per lo sfruttamento delle risorse nelle loro terre». Il movimento dei Fridays for Future sta dando forza alla vostra lotta? «Qualsiasi occasione per parlare del problema aiuta la nostra causa e il movimento di opinione mondiale serve a sottolineare che la lotta degli indios non è una lotta contro Bolsonaro, è la lotta contro un sistema sociale che li vuole cacciare dalle loro terre in nome di uno sviluppo che non è tale». Chi si oppone agli ambientalisti spesso argomenta che senza attività minerarie e agricole non può esserci sviluppo economico. Cosa risponde? «Nessuno di noi è contrario alle attività economiche e le comunità indios non intendono fare dell' Amazzonia un santuario. Bisogna però chiedersi che tipo di sviluppo vogliamo e chi deve beneficiare di queste attività. Basta un esempio: nel Parà la coltivazione tradizionale delle palme açai frutta circa 6.200 euro per ettaro, mentre quella della soia, una delle colture responsabili della deforestazione, frutta 800 euro per ettaro. Bolsonaro dice che gli indios sono arretrati, invece ci sono ottimi esempi di imprese locali capaci di produrre senza distruggere l'ambiente. La potente lobby dei deforestatori vuole cacciare gli indios, invece le popolazioni locali sono una risorsa da valorizzare». Anche in Brasile ci sono state manifestazioni dei Fridays for Future, ritiene che il suo Paese stia prendendo coscienza del problema? «La mobilitazione internazionale è stata cruciale per porre un freno alle politiche di Bolsonaro. La nostra società è più consapevole della necessità di un progetto nazionale per l' Amazzonia, perché sviluppo non può significare fare nuove strade e nuove miniere. Deve passare il messaggio che gestire l'Amazzonia rispettando l'ambiente crea benefici globali e locali».

Pag 17 L’appunto inedito di Ratzinger: “La Chiesa si occupi di ecologia” di Paolo Rodari

Città del Vaticano - La Chiesa, e dunque il Papa, deve poter occuparsi anche di giustizia sociale e di ecologia. Sono parole di Benedetto XVI, vergate in un appunto inedito reso noto ieri dall'Huffington Post, con le quali cadono gioco forza tutte le accuse che il mondo conservatore muove a papa Francesco: si occupa troppo di ecologia. A ben vedere, a dare la linea fu il suo predecessore che, segnalando in questo modo continuità con Bergoglio, già in vista della promulgazione dell'enciclica Caritas in Veritate del 7 luglio 2009 scriveva che giustizia sociale ed ecologia sono temi centrali nel magistero della Chiesa. Benedetto vergò quegli appunti in risposta alle obiezioni sollevate da alcuni membri della Dottrina della Fede, il dicastero vaticano che l'attuale pontefice emerito aveva presieduto prima della sua elezione al soglio di Pietro. L'ex Sant'Uffizio provò sorprendentemente a correggere il Papa teologo. Venne preparato un testo alternativo a quello prossimo alla pubblicazione, ritardandone la promulgazione, sollevando il dubbio che fosse necessario elevare il livello teologico dell'enciclica ancorandola maggiormente alle verità della fede. Più o meno il medesimo destino che l'ala tradizionalista dell'attuale episcopato e collegio teologico muove contro la Laudato Sì di Francesco. Il tutto anche se più volte Bergoglio ha sostenuto di non fare altro che dare seguito al Vaticano II e agli insegnamenti dei suoi predecessori. Nell'appunto, Ratzinger scrisse che «le certezze filosofiche sono tutte relative, ma questo non vuol dire assolutamente chiudersi nell'ambito della fede, predicare solo i sacramenti e la preghiera». E così respinse l'idea che alla Chiesa «rimanga solo di ritirarsi nello spazio della fede e della sua certezza», in quanto proprio in forza della fede il Papa deve parlare a tutto l'uomo». E ancora: «La Chiesa non può ritirarsi nel fideismo e non deve nascondere da dove prende la sua luce». Proprio mentre c'è chi accusa Francesco di occuparsi, indicendo un Sinodo sull'Amazzonia, di tematiche che relegano Cristo a mera icona ecologica, ecco Benedetto che spiega come la Chiesa debba difendere la terra, l'acqua, l'aria «come doni della creazione appartenenti a tutti», ed anche «l'uomo contro la distruzione di sé stesso», in quanto «l'ambiente naturale è stato donato da Dio a tutti e il suo uso rappresenta per noi una responsabilità verso i poveri, le generazioni future e l'umanità intera».

LA NUOVA di sabato 5 ottobre 2019 Pag 11 Il passo di Bergoglio. Tra scandali e guerre il Papa oggi nomina i “suoi” cardinali di Domenico Agasso jr

Città del Vaticano. In mezzo ai «fuochi incrociati» che, dall'America come da alcune Sacre Stanze, tentano di farlo cadere, e tra scandali finanziari e minacce di scismi, papa Francesco oggi celebra un Concistoro che sa tanto di controffensiva. Con la creazione di 13 nuovi cardinali di cui dieci sotto gli 80 anni, il numero dei porporati elettori di nomina bergogliana supera la maggioranza assoluta: 67 su 128 (43 sono stati scelti da Benedetto XVI, 18 da Giovani Paolo II) . Bergoglio mette le mani sul prossimo conclave. Dunque, sulla sua successione. Una svolta non solo numerica: i prelati che alle 16 nella basilica di San Pietro ricevono la berretta rossa rappresentano temi chiave del pontificato: periferie, migranti, apertura al mondo, dialogo interreligioso, ambiente, Europa. Francesco blinda così la linea della Chiesa che verrà. L'assedio«Vi chiedo di pregare per me»: il Pontefice argentino lo dice alla fine di ogni incontro. Da qualche tempo aggiunge: «Ne ho davvero bisogno». Un'ammissione dell'accerchiamento di questa fase del papato. Nel recente viaggio in Africa, ai Gesuiti ha spiegato il motivo: «Il Papa è tentato, è molto assediato. Davvero sento il bisogno di chiedere l'elemosina della preghiera». Il Vescovo di Roma è consapevole di avere nemici e avversari. Anche «in casa». Le riforme, la scelta della Chiesa in uscita, la lotta ai privilegi, la predilezione per gli ultimi e tra loro i migranti, e ora anche il Sinodo sull'Amazzonia: tutti terreni su cui si scatena il «fuoco», anche «amico». Il Sinodo e gli scismi. «Non ho paura di uno scisma nella Chiesa», ha recentemente scandito, replicando a chi evoca scissioni di parti del mondo ecclesiastico ostili al pontificato. Il fronte anti Bergoglio avrebbe origine e alimento negli ambienti conservatori degli Stati Uniti. Francesco è visto come fumo negli occhi per le posizioni assunte sui temi ambientali ed economici. Per la parziale apertura ai divorziati risposati. E per l'accordo con la Cina. Poi, c'è il Sinodo sull'Amazzonia, che si apre domani tra moniti e avvisaglie di scissione nel caso si mettessero in discussione aspetti della dottrina ritenuti irriformabili. Per molti l'assemblea dei vescovi potrà diventare un campo di battaglia dirimente per il futuro del pontificato e per la geopolitica degli schieramenti che potranno consolidarsi in vista della scelta del prossimo papa. In particolare, rovente potrà diventare la questione dei «viri probati»: in queste tre settimane si discuterà la possibilità di ordinare sacerdoti, in zone remote, uomini anziani e sposati «di provata fede» per rimediare alla carenza del clero.Tutto questo mentre «da sinistra», o meglio dalla Germania, i vescovi tedeschi stanno lavorando a un sinodo parallelo per avviare riforme («rivoluzioni», le chiama qualcuno) su temi estremamente sensibili nei Sacri Palazzi: su tutte, apertura alle coppie omosessuali e diaconato femminile. I guai finanziariAl di là delle mura vaticane si trema per lo scossone dell'inchiesta sulle operazioni finanziarie che ha preso di mira gli uffici della Segreteria di Stato e dell'Autorità di Informazione finanziaria (Aif) della Santa Sede, l'authority anti- riciclaggio. Va avanti l'indagine sul nuovo presunto scandalo finanziario, legato tra l'altro all'acquisizione per 200 milioni di euro di un immobile di pregio a Londra tramite società locali, sollevato lo scorso giugno dalle denunce dello Ior e del Revisore generale dei bilanci vaticani. Clamore ha suscitato la sospensione immediata e il divieto di entrare in Vaticano per cinque dirigenti, tra cui due note personalità come monsignor Mauro Carlino e il direttore dell'Aif, Tommaso Di Ruzza. Il prossimo ConclaveScorrendo l'elenco dei neo-principi della Chiesa che vengono nominati oggi, è evidente la predilezione di Francesco per uomini di Chiesa in diocesi di frontiera.I prelati della Curia romana sono tre: il presidente del Pontificio Consiglio per il Dialogo interreligioso, Miguel Angel Ayuso Guixot, spagnolo, in prima linea nel dialogo con l'islam. José Tolentino Calaça de Mendonça, portoghese, archivista e bibliotecario di Santa Romana Chiesa. Michael Czerny, gesuita, sottosegretario della sezione Migranti del Dicastero per lo Sviluppo umano. L'unico italiano è Matteo Zuppi, arcivescovo di Bologna e figura simbolo della Comunità di Sant'Egidio: diventa il nuovo «uomo forte» della Chiesa italiana. L'altro vescovo diocesano europeo è il lussemburghese Jean-Claude Höllerich, gesuita. Due i latinoamericani: il cubano Juan de la Caridad García Rodríguez e il guatemalteco Alvaro Leonel Ramazzini Imeri. Due in Africa: , cappuccino, arcivescovo di Kinshasa nella Repubblica democratica del Congo; e il salesiano di origini spagnole Cristóbal López Romero, arcivescovo della città di Rabat, in Marocco. Infine, uno dall'Asia: Ignatius Suharyo Hardjoatmodjo, arcivescovo di Jakarta, in Indonesia. È sempre più chiaro uno degli obiettivi di Papa Bergoglio: rendere la Chiesa davvero universale.

Pag 11 Un edificio a Chelsea al centro dell’inchiesta anti-riciclaggio di Alfonso Bianchi

L'edificio al centro dello scandalo sulle operazioni immobiliari del Vaticano all'estero si trova a Chelsea, uno dei quartieri più chic di Londra. A pochi minuti a piedi dalla stazione della metro di South Kensington, tra un negozio di Chanel, un ristorante con cibo biologico e lo store della Golden Goose Deluxe, ci sono gli uffici del 60 Sloane Avenue, un palazzo che unisce stile antico e moderno.Al piano terreno c'è una Spa che sembra abbandonata da tempo, dalla vetrina si vedono l'entrata impolverata, gli scaffali vuoti e diversi volantini sparsi sul pavimento. Un enorme cartello offre l'intero piano in affitto, ben 190 metri quadrati destinati a negozi a cui si aggiungono altri 100 metri quadri di seminterrato. Anche qui l'impressione è che la struttura sia abbandonata da tempo. Con le turbolenze economiche legate alla Brexit, l'esoso mercato immobiliare della capitale britannica sta vivendo da tempo un momento di difficoltà. Negli altri quattro piani dell'edificio, invece, gli impiegati degli uffici sono al lavoro. Alla reception dicono di non sapere niente della proprietà dell'immobile. «Noi ci rapportiamo a un'agenzia che lo gestisce, non sappiamo altro», si limita a dire il responsabile. Secondo le carte dell'inchiesta il palazzo dovrebbe valere circa 160 milioni di dollari, o almeno questo sarebbe stato il prezzo nel giugno del 2013 quando fu acquistato dalla segreteria di Stato vaticana insieme con il fondo di investimento lussemburghese Athena del finanziere Raffaele Mincione. Proprio questo acquisto sarebbe al centro dell'inchiesta che in questi giorni ha condotto al sequestro da parte dei pm vaticani di carte e computer negli uffici della Segreteria di Stato e dell'Autorità anti-riciclaggio (Aif), e alla sospensione cautelare di cinque funzionari, di cui quattro laici e un monsignore. La vicenda, secondo quanto ricostruito dal settimanale L'Espresso che ha pubblicato le carte dell'inchiesta, riguarda operazioni finanziarie avvenute tra Roma, Londra e il Lussemburgo negli ultimi otto anni. Proprio nel Granducato, tra il 2011 e il 2012, quando il Papa era ancora Ratzinger, la Segreteria di Stato aveva deciso di fare affari con Mincione, finanziere italo-londinese balzato recentemente agli onori delle cronache in quanto da qualche mese sta provando a scalare Banca Carige, di cui è arrivato a possedere il 7 per cento delle azioni. Alla sua Athena Capital Global Opportunities, un fondo che fa investimenti di varia natura, nel 2012 il Vaticano avrebbe versato 200 milioni di euro, utilizzati in parte per l'acquisto del palazzo a Chelsea, la cui proprietà venne divisa in parti quasi uguali. Ma nel 2018 i nuovi vertici della segreteria di Stato si accorgono che l'investimento non porta i rendimenti sperati e ne chiedono conto. Non convinti delle spiegazioni, decidono di uscire dal fondo lussemburghese e, come pagamento, ricevono la totalità degli immobili di pregio a Londra prima divisi con Mincione. Ma proprio in questo giro di soldi e proprietà, lo Ior, a cui sarebbe stato chiesto un sostegno economico, decide di voler vedere chiaro dando vita alle indagini. I pm del Papa indagano ora da una parte su eventuali irregolarità dell'operazione immobiliare e dall'altra su ipotetici giri di denaro che avrebbero arricchito alcuni mediatori e dipendenti vaticani. Gli investigatori starebbero poi analizzando anche alcuni flussi finanziari dei conti su cui transita l'Obolo di San Pietro, l'insieme delle offerte di denaro fatte dai fedeli e inviate al Papa per essere redistribuite a sostegno della missione della Chiesa e delle opere di carità. Anche questi soldi, che dovrebbero essere destinati esclusivamente ad aiutare i più bisognosi, potrebbero essere finiti negli investimenti sospetti.

Pag 31 Don Michele: “La Chiesa ha bisogno di tutti, anche delle donne e delle nuove famiglie” di Francesco Dal Mas Monsignor Tomasi arriverà a Trevio portando con sé l’inseparabile chitarra e la reliquia del Beato Mayr-Nusser

«Sono passati tre mesi dalla nomina a vescovo e adesso sono contento davvero di iniziare. So che ho tantissimi amici che mi aspettano e che saprò riconoscere come tali. Sì, adesso vengo molto volentieri».Ancora 24 ore e don Michele Tomasi, così si fa chiamare, prenderà possesso della diocesi. Mettendo subito le mani in pasta: carenza di preti, spazio ai laici con le donne ai vertici della pastorale («se mancassero la Chiesa sarebbe più povera»), nessuna chiusura ai "viri probati" e alle "nuove" famiglie, lavoro per i giovani. Ma con una precisazione: «dico quello che penso. In politica come in economia e sull'ambiente».Don Michele arriverà con una reliquia. E con la chitarra: «mi piacevano i Genesis».La reliquia del Beato Josef Mayr-Nusser, che le ha donato il vescovo di Bolzano-Bressanone, Ivo Muser, la porterà con sé a Treviso? «Certo. Poi decideremo dove e come collocarla. Si tratta di una vertebra, dal significato preciso».Mayr-Nusser si rifiutò di prestare giuramento a Hitler e morì mentre veniva portato in campo di concentramento. Proprio l'altro giorno, a Bressanone, sulla tomba del beato, Muser ha detto: «Chiediamo perdono come Chiesa e come cristiani se ci siamo resi colpevoli di non aver alzato la voce a favore dei deboli, degli anonimi, dei non produttivi».«Condivido. Mayr-Nusser merita un'attenzione adeguata. Una vertebra per reliquia, significa la fedeltà al Vangelo. E alla persona umana. Ci sono dei momenti in cui questa fedeltà richiede anche il sacrificio della vita. Le due fedeltà vanno di pari passo». Troverà una diocesi dove i preti stanno calando, con "i parroci a scavalco"; le parrocchie riunite nelle collaborazioni pastorali.«Mi piace molto il nome che la diocesi ha scelto: "collaborazione". È un valore in sé, indipendentemente dalla disponibilità di preti. Assieme dobbiamo vivere il Vangelo al tempo d'oggi e i confini sono fluidi, le parrocchie sono molto importanti ma è importante mettere assieme il lavoro di tutti. C'è bisogno di tutti». Quindi spazio anche ai laici. Incominciamo dalle donne? «Non si può pensare la Chiesa senza la partecipazione attiva e responsabile delle donne. È un dono grande e imprescindibile. Dobbiamo trovare il modo di avere una collaborazione che sia anche ai livelli dove si possono prendere delle decisioni, dove c'è da assumersi responsabilità. Se mancasse questo contributo, la Chiesa sarebbe molto più povera».Domani si apre il Sinodo sull'Amazzonia. Il dibattito si è vivacizzato sui "viri probati", su anziani sposati che potrebbero essere ordinati sacerdoti per svolgere servizio là dove i preti non ci sono. È una prospettiva che condivide? «Se il Sinodo per l'Amazzonia apre il dibattito, non dobbiamo avere paura di riflettere insieme. Il Sinodo, non dimentichiamolo, riguarda tutta la Chiesa».Lei sa che ci sono cardinali, vescovi e una parte della Chiesa che temono, con questa apertura, la fine del celibato. «Papa Francesco è stato chiaro, al riguardo. Oggi la cosa fondamentale è che riusciamo a discutere e parlare in maniera pacata e seria anche di problemi delicati come questo, mantenendo la comunione con tutta la Chiesa. Poi dove lo spirito ci porta... ci lasceremo anche sorprendere».Quindi nessun muro neanche davanti alle "nuove" famiglie? «Il Signore fa un dono all'umanità che è quello del matrimonio. Un dono che la Chiesa deve sostenere. I doni, però, vanno considerati nella concretezza della vita di ciascuno e dell'esistenza di tutti, così come essa è data. Non possiamo fare finta che il mondo sia diverso da quello che è». Lei si è laureato alla Bocconi di Milano. Aveva già deciso di farsi prete? «No, io volevo fare filosofia. Ma il mio professore di filosofia mi aveva consigliato di pensare all'economia e di vederla da un punto di vista culturale. Per questo ho deciso per quel corso di discipline economiche e sociali della Bocconi e sono stato molto contento di averlo fatto». Lei si è espresso ripetutamente in termini critici sulla "finanziarizzazione" dell'economia. Questa stagione si sta esaurendo? «La finanza ha una funzione imprescindibile. Fa andare i soldi da chi ce li ha e non sa bene come impiegarli, a quelli che non ce li hanno e che avrebbero possibilità di impiegarli. La finanza ha a che fare con il funzionamento dell'economia però è la scienza dei mezzi per i fini, i fini dobbiamo trovarli altrove. Non è il denaro che ci dice come dobbiamo sviluppare la società. È la società nel suo complesso che deve decidere come utilizzare il denaro e qui abbiamo molta strada da fare, ma possiamo dare tutti il nostro contributo». A Treviso meglio che altrove. Sa già che troverà imprenditori sensibili a questo approccio? «Mi sembra di arrivare in una zona d'Italia dove il tessuto produttivo è sano, radicato, di grandi lavoratori, di grande capacità imprenditoriale e questa è una delle grandi possibilità che ci sono messe a disposizione per creare una grande comunità e una società accogliente e bella per tutti». Ecco, una società accogliente e bella per tutti... «Mi pare che a Treviso, nonostante qualche difficoltà, diate già da tempo un contributo in questo senso. Il Trevigiano è una terra accogliente». Magari si potrebbe esserlo ancora di più. Ci sono giovani che non riescono a trovare lavoro, altri costretti a cercarlo all'estero.«Se questi ragazzi vogliono andare all'estero perché hanno altre opportunità è una bella scelta ma noi dobbiamo costruire insieme la possibilità di dire che c'è posto per chiunque voglia studiare e impegnarsi e lavorare anche a casa. Il mondo è la nostra casa, ma anche qui deve esserci la possibilità di vivere e lavorare». Quando ha imparato a suonare la chitarra? «Ho iniziato a studiare dalla seconda media e fino alle superiori». Le canzoni preferite? «Da giovane mi piacevano tantissimo i Genesis, Peter Gabriel e quella musica lì. Però ascolto volentieri la musica classica, come il pop, anche se non sono molto aggiornato sulle ultime cose». È stata "La Strada" a segnare la sua vita. "La Strada" di Bolzano è una delle prime comunità in Italia per gli ultimi, gli "scarti". «È stato un felice incontro di realismo, di rimanere con i piedi per terra e incontrare le persone così come sono. Ho imparato a non avanzare giudizi ma ad ascoltare le storie e tentare di dare un piccolo contributo di positività». Ascoltare, non dare giudizi, incontrare le persone. Lo farà anche con i politici e pubblici amministratori di Marca? Qui è nata la Lega.«Davvero, l'ascolto è un esercizio che aiuta moltissimo. Io non vengo con un programma, con delle idee precostituite. Io sono stato chiamato a vivere questa realtà, ad assumermi qui la mia responsabilità, questa cosa mi dà tremore e ho bisogno dell'aiuto di tutti. E con la fiducia nei confronti di tutti, chiunque si impegna per il bene comune ha il suo contributo da dare e l'amicizia spero nascerà e ci permetterà di costruire qualcosa di bello insieme. Ma si badi che io sono abituato a dire quello che penso». Anche con la Lega? «Certo, come con tutti». A luglio, appena nominato, lei confidò le sue preoccupazioni per la tensione, anzitutto verbale, che si stava creando nel Paese. Oggi... «Siamo più sereni». Dopodomani la sua prima uscita pubblica, alla Settimana Sociale, dove si tratta dei grandi temi dell'ecologia. Che cosa anticiperà? «La custodia del Creato è un tema centrale per la Chiesa. Elemento fondamentale della nostra spiritualità. Una delle conseguenze della nostra fede, forma di amore per quello che ci ha dato il Signore».

L’OSSERVATORE ROMANO di venerdì 4 ottobre 2019 Per un’ecologia integrale di Lorenzo Baldisseri Presentazione dell’Assemblea speciale del Sinodo dei vescovi per la Regione panamazzonica

Saluto cordialmente tutti voi che partecipate a questa conferenza stampa in vista dell’imminente Assemblea speciale del Sinodo dei vescovi sul tema «Amazzonia: nuovi cammini per la Chiesa e per un’ecologia integrale», che si terrà dal 6 al 27 di questo mese. Con molti di voi ci rivediamo a distanza di poco più di tre mesi. Il 17 giugno scorso, infatti, in questa sala si è tenuta la presentazione dell’Instrumentum laboris di questo Sinodo. Com’è noto, esso è sostanzialmente la raccolta e la sistematizzazione per argomenti del materiale prodotto durante la fase della Consultazione, nell’ascolto di tutte le componenti del popolo di Dio interessate al tema. Viene offerto ai padri sinodali come punto di riferimento per la discussione durante i lavori dell’assemblea sinodale. L’Assemblea speciale è una tipologia di Sinodo convocata per «trattare materie che riguardano maggiormente una o più aree geografiche determinate» (Costituzione apostolica Episcopalis Communio Art. 1, 3°). Ma anche se si focalizza l’attenzione su un territorio specifico, ogni Sinodo riguarda sempre e comunque la Chiesa universale. Per questo motivo la fase celebrativa viene tenuta a Roma, sede del Successore di Pietro, e non in qualche luogo della Regione panamazzonica. A questa assemblea partecipano tutti i vescovi ordinari e ausiliari delle circoscrizioni ecclesiastiche amazzoniche o che hanno un territorio amazzonico e i presidenti delle Conferenze episcopali interessate. Quindi, a differenza delle assemblee generali ordinarie e straordinarie, non si tratta di una rappresentanza parziale dei vescovi. Sono convocati tutti i presuli della Regione, facendo risaltare in questo modo la collegialità, caratteristica peculiare dell’istituzione sinodale. Partecipano inoltre presuli provenienti da altre Chiese particolari e organismi ecclesiali regionali o continentali e i capi Dicastero della Curia Romana che hanno una qualche competenza sul tema. Anche la loro partecipazione mette in evidenza il legame che intercorre tra l’Assemblea speciale e la Chiesa universale. È tutta la Chiesa che mostra la sua sollecitudine per l’Amazzonia: per le difficoltà, i problemi, le preoccupazioni e le sfide che in essa si riscontrano, ma anche essendo pronta ad accogliere il contributo per un’esistenza migliore che da essa può giungere. I padri sinodali sono 184. 136 di loro partecipano ex officio; tra questi, 113 provengono dalle diverse circoscrizioni ecclesiastiche panamazzoniche. I capi dei Dicasteri della Curia Romana sono 13. Nel numero complessivo rientrano anche i membri del Consiglio pre- sinodale, 15 religiosi eletti dall’Unione dei superiori generali e 33 membri di nomina pontificia. Tra i padri sinodali figurano 28 cardinali, 29 arcivescovi, 62 vescovi residenziali, 7 ausiliari, 27 vicari apostolici e 10 vescovi prelati, 21 membri non vescovi, tra diocesani e religiosi. La Regione panamazzonica, com’è noto, occupa un territorio di nove nazioni (Guyana francese, Repubblica Cooperativista della Guyana, Suriname, Venezuela, Colombia, Ecuador, Brasile, Bolivia, Perú). Per questo motivo, i padri sinodali ex officio appartengono a 7 Conferenze episcopali: Antille, Venezuela, Colombia, Ecuador, Brasile, Bolivia, Perú. Così, tra i 113 padri sinodali delle circoscrizioni ecclesiastiche panamazzoniche, 3 provengono dalle Antille, 6 dal Venezuela, 13 dalla Colombia, 7 dall’Ecuador, 57 dal Brasile, 11 dalla Bolivia, 10 dal Perú. La dimensione universale della Chiesa viene espressa anche dai 33 membri di nomina pontificia, i quali provengono in special modo da paesi e zone geografiche, come ad esempio il bacino fluviale del Congo, che presentano le stesse problematiche ecologiche che costituiscono uno dei due grandi ambiti richiamati nel titolo del Sinodo. Partecipano al Sinodo 6 delegati fraterni, in rappresentanza di altre Chiese e comunità ecclesiali presenti nel territorio amazzonico, la cui presenza alimenta in noi il desiderio di poter conseguire la piena unità visibile della Chiesa di Cristo e rafforza la volontà di lavorare insieme, sicuri che lo Spirito Santo è all’opera e suggerisce percorsi nuovi per l’annuncio e la testimonianza del Vangelo di Gesù Cristo. Di particolare rilievo è pure la presenza di 12 invitati speciali, il numero più alto finora fra i partecipanti a un’Assemblea speciale. Sono stati scelti per la loro elevata competenza scientifica oppure in quanto membri di enti che nei più svariati modi svolgono attività di natura umanitaria o tendenti alla salvaguardia dell’ambiente. Integrano il numero dei partecipanti 25 esperti, designati a motivo di competenze specifiche in vari campi. Essi collaborano con il relatore generale e i segretari speciali in ordine alle tematiche che vengono trattate. Gli uditori e le uditrici sono 55. Tra di loro figurano specialisti e operatori di pastorale, la cui maggioranza proviene dalla Regione panamazzonica, anche dai luoghi più interni. In questo gruppo ci sono 10 religiose presentate dall’Unione internazionale delle superiore generali (U.I.S.G.). Il numero complessivo delle religiose è superiore agli altri sinodi, a testimonianza della rilevanza pastorale e missionaria che esercitano. Tra i partecipanti a vario titolo al Sinodo, emerge pure la presenza di 17 rappresentanti di diversi popoli originari ed etnie indigene, tra i quali 9 donne. Essi portano la voce e la testimonianza viva delle tradizioni, della cultura e della fede delle loro genti e contribuiscono a delineare una conoscenza della situazione della Regione panamazzonica che sia la più rispondente possibile alla realtà locale. Il numero totale delle donne che partecipano ai lavori sinodali è di 35: 2 sono invitate speciali, 4 esperte (di cui 2 sono suore) e 29 uditrici (18 sono suore). Come evidenziato dal titolo, il focus di questa Assemblea speciale per la Regione panamazzonica è duplice ed è stato indicato con precisione dal Santo Padre all’atto della sua convocazione. Si tratta di individuare «nuove strade per l’evangelizzazione di quella porzione del Popolo di Dio, specialmente degli indigeni, spesso dimenticati e senza la prospettiva di un avvenire sereno, anche a causa della crisi della foresta Amazzonica, polmone di capitale importanza per il nostro pianeta» (Francesco, Angelus, 15 ottobre 2017). L’attenzione, quindi, si concentra sulla missione evangelizzatrice della Chiesa in Amazzonia, con al centro l’annuncio della salvezza in Gesù Cristo, e sulla tematica ecologica, data l’importanza che il territorio amazzonico riveste per tutto il pianeta. Per quanto riguarda questo secondo aspetto, l’approccio parte dalla visione di un’ecologia che non si limiti a trattare le questioni guardando esclusivamente all’ambiente naturale, ma che «comprenda chiaramente le dimensioni umane e sociali» (LS 137). Un’ecologia, quindi, che sappia tenere presente l’essenza dell’umano, come si afferma in LS 11. «Tutto è connesso», sottolinea spesso Papa Francesco. Occorre essere consapevoli che l’agire umano non si esercita in “compartimenti stagni”, ma che ogni comportamento, in positivo o in negativo, che si adotta riguardo all’ambiente naturale ha delle inevitabili conseguenze anche nell’ambito socio-culturale e spirituale dei popoli e delle singole persone. Per questo motivo, la difesa della terra, la difesa delle culture e la difesa della vita sono inestricabilmente intrecciate, come ha affermato Papa Francesco durante l’incontro avuto a Puerto Maldonado con i popoli dell’Amazzonia il 19 gennaio 2018, incontro che possiamo dire ha dato il “la” a tutto il percorso sinodale. Le stesse modalità di annuncio del Vangelo non possono prescindere dal rapporto con la natura, le culture, le società in cui esso si attua. Tenendo conto che uno degli assi tematici del Sinodo ruota intorno alla problematica ecologica, la Segreteria generale ha promosso alcune iniziative con lo scopo di limitare l’inquinamento e di favorire la sostenibilità ambientale, in maniera da contribuire, per quanto possibile, a salvaguardare la casa comune. Ne accenno brevemente. La prima in ordine di tempo riguarda l’iscrizione dei partecipanti. È stata adottata una procedura informatica per mezzo della quale le registrazioni sono avvenute direttamente online. Questa nuova prassi ha velocizzato la comunicazione, ma soprattutto ha permesso un notevole risparmio di carta stampata, eliminando, oltretutto, anche i costi legati all’utilizzo della posta tradizionale. Vi è inoltre una particolare attenzione a limitare il più possibile l’uso della plastica. Per questo, per esempio, — i bicchieri che verranno utilizzati saranno in materiale biodegradabile; — la borsa con il materiale di lavoro che verrà consegnata ai Partecipanti è in fibra naturale; — la carta utilizzata per i documenti che verranno distribuiti ha il maggior numero di certificazioni di provenienza e di filiera di lavorazione. Ci si augura che il Sinodo possa rispondere a quanto enunciato nel suo titolo, individuando nuovi cammini per favorire, in Amazzonia, l’annuncio di Gesù Cristo, Redentore di ogni uomo, e indicare modalità attuabili per la salvaguardia e la cura dell’ambiente naturale, umano e sociale. Ringrazio tutte e tutti per l’attenzione non solo a questo mio intervento, ma più in generale a un evento che interessa la vita della Chiesa e delle popolazioni amazzoniche in questo mese di ottobre.

CORRIERE DELLA SERA di venerdì 4 ottobre 2019 Pag 21 Lo scontro di poteri sul palazzo dello scandalo che agita il Vaticano di Massimo Franco

Il palazzo posseduto dal Vaticano a Londra si trova esattamente in Sloane Avenue numero 60, nel cuore del quartiere lussuoso di Chelsea. Ed è gestito dalla società 60 SA, acronimo che riprende il nome della strada. Dovrebbe valere, almeno nelle intenzioni, l’equivalente dei 160 milioni di dollari sottoscritti nel giugno del 2013 dalla segreteria di Stato vaticana con il fondo di investimento lussemburghese Athena del finanziere Raffaele Mincione: soldi che quando dopo un quinquennio il fondo venne liquidato non furono restituiti se non trasferendo la proprietà del palazzo; e con sospetti di perdite che hanno scatenato una vana rincorsa a recuperare almeno una parte del capitale uscito dalle casse papali. A oggi, quell’investimento a dir poco maldestro è uno dei pochi punti fermi dello scandalo che ha investito la Santa Sede, con la sospensione di cinque dipendenti. Per il resto, ci sono solo veleni in abbondanza. Accreditano un Papa informato male per l’ennesima volta dalla sua cerchia di consiglieri. Evocano tensioni ai vertici della Segreteria di Stato tra il «primo ministro» Pietro Parolin e i sostituti di ieri e di oggi, il cardinale Angelo Giovanni Becciu e Edgar Peña Parra. Fanno filtrare voci inquinate di provvedimenti nei confronti dello stesso cardinale Becciu, che invece oggi vola tranquillamente in Brasile dopo avere incontrato Francesco la sera prima. Anche se il ruolo del suo segretario «storico» monsignor Mauro Carlino, tra i cinque sospesi, riporta ai rapporti con il fondo Athena, al quale Becciu e monsignore Alberto Perlasca, allora controllore della cassaforte della Segreteria di Stato, arrivarono attraverso Credit Suisse e Ubs. Ma nella cerchia del cardinale si tende a limitare tutto allo scontro tra Peña Parra e lo Ior che non è voluto «venire incontro a una sua richiesta di trasferimento di ingenti somme di denaro su un conto londinese: un fatto circostanziato» del gennaio 2019. Si tratta di 150 milioni di euro che lo Ior avrebbe dovuto versare per tornare in possesso, secondo Peña Parra, del capitale inghiottito dal fondo Athena: richiesta reiterata fino a un incontro drammatico del luglio scorso. Il blitz alla Segreteria di Stato e all’Aif, l’Agenzia di informazione finanziaria chiamata a vigilare e controllare sulla trasparenza delle attività dello Ior, sarebbe nato così: con la creazione di «un impianto accusatorio» contro Peña Parra, che però ha finito per colpire soltanto «il suo segretario e altri pesci piccoli», riferiscono in Vaticano. Si tratta di un affresco desolante, e tuttavia riduttivo. Queste faide evocano un caos e un uso della giustizia e dei fondi della Santa Sede caratterizzati da una disinvoltura sconcertante. E portano più d’uno a parlare di crisi istituzionale e di terremoto negli equilibri vaticani. Non è chiaro nemmeno quando e fino a che punto il segretario di Stato Parolin fosse stato informato da Papa Francesco dell’irruzione della Gendarmeria per sequestrare documenti e computer: pur essendo il suo «primo ministro». Lo stesso vale per l’Aif. Sembra che il presidente René Bruelhart abbia saputo della sospensione del suo direttore Tommaso di Ruzza soltanto a cose avvenute. E, dopo essersi lamentato per la genericità delle accuse al suo collaboratore e all’Aif, abbia chiesto che la sospensione del direttore venga spiegata o revocata al più presto. Si tratta di un capitolo delicato e scivoloso. L’Aif è la proiezione esterna del Vaticano nelle istituzioni finanziarie internazionali. Si occupa di antiriciclaggio del denaro sporco. E il suo coinvolgimento nello scandalo che si sta consumando, sebbene limitato secondo le accuse al solo di Ruzza, rappresenta una macchia che non può non avere un impatto negativo all’estero. Le ultime indiscrezioni parlano di un consiglio dell’Aif orientato a ottenere rassicurazioni sul modo di agire della giustizia vaticana; convinto che sia in corso un attacco da parte di gruppi di interessi che non hanno gradito il tormentato tentativo di rendere i conti dello Ior più trasparenti. C’è chi ha sentito parlare perfino di dimissioni dell’intero consiglio, per protesta contro un’inchiesta giudiziaria considerata approssimativa e insieme pilotata per delegittimare l’Agenzia. Difficile districarsi in un microcosmo di potere nel quale tutti tendono a accusare tutti e a sospettare di tutti. Il Papa argentino riceve quotidianamente la conferma che molti usano la sua attenzione per consumare rese dei conti spietate e senza fine. Il tema della selezione della classe dirigente vaticana si ripropone con drammaticità. La difficoltà di Francesco a circondarsi delle persone giuste riaffiora in ogni ragionamento, di alleati e avversari. Anche sui protagonisti di questo scandalo, la tentazione di scaricare le responsabilità sulle «scelte sbagliate» del pontefice è vistosa. La situazione finanziaria già non brilla: al punto che nell’ultima riunione dei capi delle congregazioni, la settimana scorsa, si è ipotizzato di stilare bilanci non più annuali ma triennali. È stata data la colpa al calo delle entrate dovuto alla congiuntura internazionale, ma la tesi è stata accolta con scetticismo. Lo scandalo di questi giorni promette di moltiplicare i mugugni. Eppure, ieri è stata annunciata la nomina di un galantuomo e un professionista come l’ex procuratore capo di Roma, Giuseppe Pignatone, a presidente del tribunale dello Stato del Vaticano. E questa scelta costringe a correggere lo schema tradizionale. Ma il contesto caotico e intossicato nel quale Pignatone si troverà a operare fa impallidire anche le sue inchieste più difficili.

Pag 21 I dossier per Pignatone, dallo Ior al coro della Sistina di Gian Guido Vecchi

Città del Vaticano. Nel momento più difficile, sullo sfondo uno scontro interno tra Ior e Segreteria di Stato, arriva la mossa di Francesco: il Papa ha nominato Giuseppe Pignatone, 70 anni, ex procuratore della Repubblica a Roma in pensione da maggio, come presidente del Tribunale dello Stato della Città del Vaticano. Bergoglio si affida ad un magistrato di altissimo livello - l’uomo che da procuratore aggiunto della Direzione distrettuale antimafia coordinò le inchieste culminate con l’arresto del capo di Cosa nostra Bernardo Provenzano, nel 2006, e da ultimo, come procuratore capo di Roma, ha guidato l’inchiesta su «Mafia Capitale» - proprio mentre la vicenda delle (presunte) operazioni immobiliari illecite con cinque dipendenti indagati mostra di essere ancora più complicata di quanto apparisse. «Ringrazio il Santo Padre per la fiducia che mi onora e mi commuove», ha commentato il neopresidente del Tribunale. Certo, di questi tempi il clima in Vaticano non è dei migliori, tutta l’inchiesta è nata da una denuncia dello Ior dopo una richiesta di finanziamento arrivata alla Segreteria di Stato. Ma proprio in una situazione simile l’esperienza di Pignatone, 45 anni di magistratura, sarà preziosa. Del resto l’inchiesta che ha coinvolto l’Autorità di informazione finanziaria e la Segreteria di Stato non è l’unico dossier delicato che la giustizia vaticana sta seguendo. A Roma Pignatone si è già occupato del caso della scomparsa di Emanuela Orlandi, con relative «piste» ricorrenti che almeno finora si sono risolte in altrettanti vicoli ciechi. In tema di grane finanziarie, peraltro, è ancora in corso il processo all’ex presidente dello Ior, Angelo Caloia, e al suo legale Gabriele Liuzzo, accusati di peculato e autoriciclaggio per una serie di dismissioni del patrimonio immobiliare tra il 2001 e il 2008, l’accusa parla di un danno di 50 milioni. C’è poi la vicenda oscura legata al coro della Cappella Sistina, commissariato da Francesco all’inizio dell’anno, e in questo caso le indagini riguardano sia la gestione disinvolta dei soldi, con ipotesi di riciclaggio, truffa e peculato, sia il sospetto di maltrattamenti sui piccoli coristi. E ancora gli abusi sessuali tra due ragazzi del preseminario San Pio X, il collegio dei chierichetti del Papa: assieme al presunto abusatore, don Gabriele Martinelli, 28 anni, all’epoca ancora studente, il mese scorso è stato rinviato a giudizio l’allora rettore, monsignor Enrico Radice.

LA REPUBBLICA di venerdì 4 ottobre 2019 Pag 18 La battaglia del Sinodo sul celibato dei preti e l’ombra dello scisma di Paolo Rodari

Città del Vaticano - «Le critiche sul Sinodo? Sui preti sposati abbiano fatto solo proposte». Lorenzo Baldisseri, cardinale, segretario speciale del Sinodo dei vescovi che domenica prossima apre in Vaticano i lavori dedicati ai problemi dell'Amazzonia, smorza così le accuse arrivate dal mondo conservatore, in particolare da un'uscita del cardinale ultraottantenne Walter Brandmüller, per cui il piano dell'assise sarebbe quello di mettere in discussione il celibato ecclesiastico. «Se ne parlerà», ha detto Baldisseri, ricordando che in questo modo hanno voluto le consultazioni precedenti ai lavori, nelle quali è stato richiesto soltanto «che si studiasse la possibilità che in zone remote dell'Amazzonia senza preti vengano ordinati anziani sposati di provata fede». «Alla fine tutti saremo cum Petro et sub Petro, seppure con opinioni diverse», dice invece il cardinale brasiliano Claudio Hummes, elettore di Bergoglio che più di dieci anni fa, da prefetto del Clero, si attirò le ire dei conservatori per aver ricordato un'ovvietà: il celibato, spiegò, non è un dogma. La sensazione, a pochi giorni dall'apertura dei lavori, è che sul Sinodo si stia giocando una partita durissima, che mira a mettere in discussione l'intero pontificato in corso. I conservatori minacciano addirittura uno scisma nel caso il Sinodo cambi aspetti della dottrina da loro ritenuti irriformabili. Ma uno scisma potrebbe arrivare anche da sinistra. La Chiesa tedesca, infatti, guidata oggi dal cardinale Reinhard Marx e da sempre teologicamente distante da Roma, vuole portare avanti un Sinodo parallelo per mettere in cantiere riforme - dalla benedizione per le coppie omosessuali al diaconato femminile - sulle quali ancora Oltretevere si predica prudenza. Nel mezzo Francesco, il Papa che, come ha dimostrato un recente lavoro di Vatican News, parla spessissimo, ad esempio nelle catechesi del mercoledì, della dottrina di sempre, smentendo chi ritiene che si dedichi prevalentemente ad altro. Il mondo conservatore da mesi sostiene la tesi, non ancora suffragata da prove, secondo cui i lavori del Sinodo saranno pilotati per abbattere certezze dottrinarie, fra queste appunto la legge del celibato ecclesiastico. E che in questo senso il Papa e i suoi fedelissimi avrebbero già deciso. Nei pressi dell'Università Lateranense, sede dell'Istituto Giovanni Paolo II, lo scontro è aperto e pubblico. La vecchia guardia dell' Istituto che ha avuto fra le sue guide il cardinale , oggi esautorata dai suoi incarichi dopo un profondo rinnovamento guidato da Vincenzo Paglia e Pierangelo Sequeri e voluto da Bergoglio, accusa direttamente il Papa di voler tradire l'intero magistero di Karol Wojtyla in materia di famiglia. Francesco, che ritiene che la dottrina vada applicata caso per caso e per questo, in Amoris laetita , ha aperto alla possibilità di dare la comunione ai divorziati risposati, va avanti per la sua strada. L'ex leadership dell'Istituto nel quale sono stati confezionati i dubia (le richieste di chiarimenti sulla dottrina in seguito proprio alle aperture sui divorziati risposati, cui il Papa non ha mai voluto rispondere) è rimasta senza cattedre nonostante proteste e appelli. Sei anni di opposizione dura al papato, probabilmente, sono troppi anche per un vescovo di Roma come Bergoglio che, nei primi anni dopo l'elezione a marzo 2013, non pensionò nessuno della vecchia curia vaticana in cui era scoppiato, con effetti deflagranti, il primo Vatileaks. Il Sinodo ha effetti geopolitici che vanno oltre le mere beghe intraecclesiali. La sua sola convocazione è un messaggio chiaro alle politiche economiche che sfruttano il territorio senza dare alcun vantaggio alle popolazioni indigene. Il presidente brasiliano Jair Bolsonaro si è detto preoccupato del Sinodo perché «quelli - i vescovi, ndr - stanno cercando di creare nuovi Paesi dentro al territorio brasiliano». «Vogliono rubarci l'Amazzonia», ha detto, tesi seccamente smentita da Erwin Krauter, vescovo di Xingù. Mentre Hummes ha ribadito: «La Chiesa vive in Brasile da quattro secoli, sappiamo di cosa parliamo». La diplomazia di Francesco ha intenti internazionali precisi. I suoi viaggi, come molte delle convocazioni romane, mirano a mettere sotto i riflettori le popolazioni più emarginate. Fu così nel 2017, quando in Myanmar e Bangladesh disse che «il nome di Dio è anche Rohingya». In Cile, qualche mese dopo, incontrò la minoranza Mapuche vessata dalla dittatura di Pinochet. Quindi, a Puerto Maldonado, nel cuore dell'Amazzonia peruviana, ebbe uno storico incontro con gli indios. E infine il Sinodo: il primo Papa latinoamericano porta a Roma la voce degli ultimi, nonostante critiche e crescenti opposizioni.

CORRIERE DEL VENETO di venerdì 4 ottobre 2019 Pag 6 Richiamati in servizio di Davide Orsato Non si trovano preti, le chiese “chiudono”. E adesso le diocesi chiedono aiuto ai sacerdoti in pensione

Venezia. Prima cinquanta, poi quaranta, poi trenta. L’anno prossimo, tra Pasqua e Pentecoste, quando le diocesi celebreranno il rito dell’ordinazione, rischiano di essere meno di venti. Tra alti e bassi, il trend è evidente: le vocazioni al sacerdozio, nel giro di vent’anni, sono colate a picco. Insomma, se c’è un «mestiere» che soffre del problema del turn-over è proprio quello del prete: un fenomeno risaputo, evidenziato dai numeri che emergono dall’indagine dell’Osret, l’Osservatorio socioreligioso del Triveneto che ha sede a Vicenza, che ha raccolto il numero dei religiosi presenti nelle diocesi di Veneto, Trentino Alto Adige e Friuli Venezia Giulia (che per la Chiesa cattolica italiana formano un’unica regione ecclesiastica) dal 1996 in poi. Dati che dimostrano un inesorabile declino. Ventitré anni fa i sacerdoti presenti nel Nordest erano 5.861, nel 2016 (ultimo anno conteggiato), 4.132. Quelli freschi di ordinazione 57 (41 nelle sole diocesi del Veneto, inclusa quella di Pordenone - Concordia), l’anno successivo 64, di cui 50 in Veneto. Un dato sceso, nel 2016, a 38 (28 in Veneto), che ha raggiunto il minimo storico nel 2013: 27 «preti novelli» nel Nordest, 21 nelle diocesi venete. Ma i record sono fatti per essere battuti, così l’anno successivo, secondo la stima della Conferenza episcopale del Triveneto, il numero da Bressanone a Trieste, rischia di scendere sotto i 20, con molte diocesi che non vedranno nemmeno un’ordinazione. Quasi un terzo, sei, verranno ordinati a Verona, che ha il seminario più affollato di tutta l’area. La Chiesa reagisce al fenomeno con praticità e una certa fiducia, con la convinzione che non si arriverà a un «punto di non ritorno». Del resto, è vero che il calo è palpabile in Italia (dove, in vent’anni, si sono «persi» tremila preti) e in Europa, dove il «saldo» è -28mila, ma sono aumentati di ventimila unità, se si contano le presenze in tutto il mondo. E proprio dagli altri continenti sta arrivando un «rinforzo» importante: sono 1.178 i sacerdoti stranieri presenti in Italia, ovvero oltre uno su trenta. In molti (circa 800) sono «fidei donum », giunti per breve esperienza nelle parrocchie, ma molti decidono di rimanere. Ma alcuni vescovi hanno preso posizione al riguardo: per monsignor Claudio Cipolla, a capo della diocesi patavina, «la risposta alla crisi delle vocazioni non possono essere i preti stranieri». Parole che sono suonate come un monito alla chiesa locale di non cadere nella tentazione di trovare facili soluzioni.Un altro possibile aiuto può arrivare dai preti «in pensione» (il ritiro, per i sacerdoti, scatta tardi: a 75 anni). Di recente, la diocesi di Treviso, ne ha richiamati in servizio sette. Preti che non ritornano a fare i parroci, ma che diventano assistenti nelle parrocchie da loro rette o, spesso, in quella di origine. «Quello del collaboratore parrocchiale è un compito prezioso - spiega monsignor Tiziano Telch, trentino, che per la Conferenza episcopale triveneta è responsabile dei seminari e si occupa, di conseguenza, delle vocazioni - un modo preziosissimo di mettersi a disposizione del territorio e del Vangelo. Spesso dai preti più anziani arrivano bellissime testimonianze vocazionali, caratterizzate dalla capacità d’ascolto e dal saper vivere in fraternità». I numeri sempre più ridotti hanno portato le diocesi venete a riorganizzarsi sul territorio. Le parrocchie (che, nominalmente, continuano ad esistere) sono sostituite da unità parrocchiali. In questo modo, due o più sacerdoti (che normalmente risiedono nella canonica del «capoluogo») riescono a seguirne anche una decina. Infine, i diaconi. In passato figure poco conosciute (per i più si trattava di un breve «passaggio» in attesa del sacerdozio) ora, quelli permanenti, di norma sposati, giocano un ruolo sempre più attivo: alcune diocesi, come quella di Vicenza, ricorrono a loro, per la liturgia della parola nelle comunità più piccole. Sono gli unici in costante aumento: in vent’anni, in Veneto, sono più che raddoppiati, passando da 162 del 1996 ai 370 del 2016.

Verona. I parrocchiani della zona di Borgo Santa Croce, a Verona, lo conoscono e lo riconoscono per la sua altezza, che sfiora i due metri. Sul suo profilo LinkedIn si definisce «fisico e metafisico». E anche, da dieci anni a questa parte, diacono. Piergiorgio Roggero, 67 anni, è uno dei quaranta diaconi permanenti in servizio nella diocesi scaligera. Una vocazione, la sua, che come per molti suoi colleghi, è arrivata dopo il matrimonio (viceversa ci sarebbe l’obbligo del celibato) e dopo un lunghissimo impegno nell’associazionismo cattolico, soprattutto con gli scout dell’Agesci. Ma, come tutte le vocazioni, non si è trattato di «un’ illuminazione estemporanea», bensì di un lungo percorso, che l’ha fatto tornare sui banchi di scuola, o meglio, del seminario maggiore, decenni dopo aver conseguito la laurea in fisica. «Sono passato dal fare il manager in un’azienda che opera nel campo dell’elettronica – spiega – a mettermi al servizio della diocesi, della comunità e del vescovo». Come si diventa diaconi, e cosa l’ha portata a prendere questa decisione? «È un percorso che richiede formazione e discernimento, come tutti i sacramenti. Non è una scelta personale, è la risposta a una chiamata. È il Signore che suscita il desiderio di mettersi al servizio della comunità. Ed è qualcosa che ho condiviso con la famiglia, con mia moglie e con i miei due figli. Poi spetta alla Chiesa verificare la vocazione, dare il via libera. Viene richiesta, in ogni caso, la laurea triennale in Scienze religiose (la stessa che hanno i docenti nelle scuole, ndr), più un’ulteriore anno prima dell’ordinazione» Cosa fa può fare, concretamente, un diacono? «Il diacono è una figura prevista dalle chiesa delle origini, reintrodotta, a mio parere provvidenzialmente, da Paolo VI con il Concilio Vaticano II. Secondo la tradizione, ha un compito liturgico, come l’amministrazione dei sacramenti, tra questi battesimo e matrimonio, a cui si accompagna l’assistenza del presbitero sull’altare. Tiene anche la liturgia della parola, omelia compresa, laddove non sia possibile celebrare la messa. Non può consacrare ma può distribuire la comunione». Tuttavia, come per i sacerdoti, è la diocesi a «suddividere i compiti». «Sì, occorre tenere presente che molti diaconi arrivano a questo ministero con famiglia e con un lavoro, quindi i compiti sono ridotti. Essendo in pensione ho molto più tempo da dedicare alla comunità. In ogni caso, il diacono non è mai un delegato dei parrocchiani, ma ha il compito di aiutare la comunità in modo attivo. Non è un sostituto del sacerdote, anzi, sbaglia chi vuole cercare un conflitto tra le due vocazioni». Come svolge il suo impegno da diacono? «Mi è stata affidata la cura spirituale del centro Samaritano, la casa d’accoglienza della Caritas Veronese. Un compito impegnativo, si tratta di stare vicino a persone che vivono situazioni di grave marginalità» Il vostro numero è in aumento… «Sì, in molti hanno deciso di impegnarsi. In questo momento, nella diocesi di Verona, ci sono dieci diaconi in formazione».

LA NUOVA di venerdì 4 ottobre 2019 Pag 40 Crocifisso e disabili, il vescovo striglia il ministro di Elisabetta B. Anzoletti Tessarollo contro Fioramonti per le dichiarazioni sul simbolo cristiano e per i ritardi nel sostegno agli studenti con disabilità

Chioggia. Il vescovo di Chioggia, monsignor Adriano Tessarollo, striglia il neo ministro dell'Istruzione Lorenzo Fioramonti. L'attacco, nelle righe dell'editoriale presente nel prossimo numero del settimanale diocesano Nuova Scintilla, è duplice perché riguarda la posizione del ministro sul crocifisso e le mancate risposte sul sostegno agli alunni disabili. «Se il buongiorno si vede dal mattino siamo messi male», sbotta monsignor Tessarollo, «il ministro, intervistato da Radio Uno, è entrato nel merito della questione del simbolo cristiano in classe sostenendo che «le scuole non debbano rappresentare una sola cultura, ma permettere a tutte di esprimersi».Ha detto che «eviterebbe un'accozzaglia di simboli, altrimenti diventa un mercato», proponendo di togliere il crocifisso dalle aule e, già che ci siamo, anche la foto di Mattarella, sostituendoli con una carta geografica... Mentre il ministro trova il tempo per regalarci queste perle di saggezza sul crocifisso, rimandava invece il tavolo con le associazioni disabili che chiedono gli insegnanti di sostegno a scuola per i propri figli». Il vescovo si è pure indignato perché nel successivo incontro con le associazioni, nell'ambito dell'Osservatorio sull'inclusione scolastica, il ministro ha delegato un dirigente del Miur, limitandosi ai saluti iniziali e a rispondere a alcune questioni non strettamente inerenti. I presidenti della Federazione tra le associazioni nazionali delle persone con disabilità e della Federazione italiana per il superamento dell'handicap hanno lasciato l'aula e hanno spiegato il loro gesto in una nota in cui sostenevano «ci auguriamo che, di fronte alla gravità della situazione che coinvolge migliaia di studenti con disabilità, il ministro da questo gesto sappia cogliere la necessità e l'urgenza di un intervento politico che segni la reale discontinuità con il passato e sia disponibile al confronto diretto sul punto, all'interno dell'Osservatorio o in qualsiasi altro contesto istituzionale ritenga valido». «Giustamente le federazioni si sono alzate e hanno commentato il comportamento irresponsabile in modo molto duro», spiega il vescovo, «l'anno scolastico è iniziato, ancora una volta, con diffusi disagi per le alunne e gli alunni con disabilità: insegnanti di sostegno non assegnati, supporti all'assistenza e alla comunicazione non garantiti, trasporti non attivati. In sintesi, un'inclusione scolastica non pervenuta finora...».

IL FOGLIO di venerdì 4 ottobre 2019 Pag 1 Papa Francesco e l’uragano di nome Sarah di Claudio Cerasa

Robert Sarah, come sanno bene i lettori di questo giornale, è un famoso e tosto cardinale guineano. Nel 2001, Papa Giovanni Paolo II, a cui fu molto legato, lo nominò segretario della congregazione per l'Evangelizzazione dei popoli. Nel 2010, Papa Benedetto XVI, a cui tuttora è molto legato, gli concesse la porpora. Nel 2014, quattro anni dopo, Papa Francesco lo scelse come prefetto della congregazione per il Culto divino e la disciplina dei sacramenti. Sarah è una voce molto importante, molto ascoltata, molto appassionata. Negli ultimi tempi, in coincidenza con il pontificato di Papa Francesco, è diventato uno dei cardinali maggiormente seguiti da quello che potremmo volgarmente definire come il fronte con minor tasso progressista della chiesa e da questa settimana Sarah farà parlare molto di sé grazie a un libro scandaloso, pubblicato con Cantagalli, che da ieri si trova in libreria. Il libro ha un titolo dai toni apocalittici, Si fa sera e il giorno ormai volge al declino, e il contenuto del saggio di Sarah, che lui stesso definisce in alcuni passaggi scandaloso, "perdonatemi se alcune mie parole vi scandalizzeranno", rischia, per la chiesa di oggi, di avere la forza di un uragano. Nel suo saggio, che arriva a pochi giorni dall'atteso e controverso Sinodo sull'Amazzonia, Sarah, con uno stile per così dire eminenziale, non critica mai direttamente Papa Francesco, anzi più volte lo elogia all'interno del libro (viene nominato 55 volte, Papa Benedetto 132) ma segnala fattori di crisi che sfuggono all'agenda bergogliana. Al centro del pensiero di Sarah - al netto di critiche molto e troppo severe alla società liberale, al liberalismo, al capitalismo, al consumismo e agli eccessi del multiculturalismo - vi è l' idea che la chiesa non possa sopravvivere senza avere a cuore il futuro dell'Europa e il destino dell'occidente ("La decadenza dell'occidente è il risultato dell'abbandono da parte dei cristiani della loro missione") ma vi è soprattutto l'idea che "la crisi europea sia essenzialmente una crisi spirituale, che affonda le sue radici nel rifiuto della presenza di Dio nella vita pubblica". Senza Europa, la chiesa non può andare lontano. Senza Dio, l'Europa non può andare lontano. Sarah ovviamente non si ferma a questo e come un uragano arriva a scoperchiare diverse verità della chiesa moderna. Il cardinale critica la chiesa che ha trasformato l'ambientalismo in una religione, con i suoi fedeli e i suoi infedeli, e dice di provare "rammarico del fatto che molti vescovi e molti sacerdoti trascurino la loro missione essenziale, che consiste nella propria santificazione e nell' annuncio del Vangelo di Gesù, per impegnarsi invece in questioni sociopolitiche come l' ambiente, le migrazioni o i senzatetto: è impegno lodevole occuparsi di questi temi ma se trascurano l' evangelizzazione e la propria santificazione si agitano invano. La chiesa non è una democrazia nella quale alla fine è la maggioranza a prendere le decisioni". Poi denuncia il "degrado della liturgia trasformata in spettacolo, la negligenza nelle celebrazioni e nelle confessioni, la mondanità spirituale ne sono solo i sintomi", attaccando "i sacerdoti che desiderano che le proprie azioni siano efficaci, apprezzate e valutate secondo criteri mondani" (non crediamo, dice Sarah, di poter vivere da cristiani adottando tutti gli atteggiamenti di un mondo senza Dio: "A forza di non vivere come si crede si finisce per credere come si vive"). E ancora accusa "i ferventi sostenitori della postmodernità", tra i quali anche i fautori del gender che vogliono decostruire la famiglia, secondo i quali "i valori tradizionali della civiltà giudaico-cristiana sarebbero desueti, inutili e pericolosi". E, con parole che ricordano gli affondi di Ratzinger a Ratisbona, mette in rilievo i pericoli di un "islamismo fanatico e fondamentalista", che "promuove una religione fondata sulla pura obbedienza a una legge estrinseca che non si rivela nella coscienza, ma si impone attraverso la società politica", che "vive la tentazione di una religione che rifiuta di lasciarsi purificare dalla ragione" e che al contrario del cristianesimo tende a imporre "il proprio credo contro la ragione, con la forza, con la violenza" mentre "predica un dio che può ordinare ciò che va contro alla dignità dell' uomo e viola la coscienza e la libertà". Al centro dei ragionamenti di Sarah vi è l'idea che la chiesa del futuro debba resistere alla tentazione più grande del nostro tempo, la mondanità, il mondo senza Dio, e per questo il compito degli uomini di fede è combattere faccia a faccia un ateismo viscido e sfuggente che Sarah definisce fluido. Ma per capire bene la profondità della critica del cardinale africano può essere utile attingere ai contenuti di una lunga intervista rilasciata pochi giorni fa da Sarah al National Catholic Register, utile a capire meglio in che senso l'obiettivo del saggio è proprio quello di denunciare i problemi della chiesa di oggi. "Il declino della fede nella Presenza reale di Gesù nell'eucaristia è al centro dell'attuale crisi della chiesa e del suo declino, specialmente in occidente. Vescovi, sacerdoti e fedeli laici siamo tutti responsabili della crisi della fede, della crisi della chiesa, della crisi sacerdotale e della scristianizzazione dell'occidente". Sarah, nel suo ragionamento, definisce "falsi profeti" tutti "coloro che annunciano ad alta voce rivoluzioni e cambiamenti radicali" e che nel fare questo "non stanno cercando il bene del gregge: cercano la popolarità dei media al prezzo della verità divina" e l'attualità del suo pensiero ha una forza non indifferente se si pensa proprio ai temi del Sinodo sull'Amazzonia - di cui ha scritto a lungo Matteo Matzuzzi in queste settimane e di cui ci occuperemo largamente nel Foglio del lunedì con un'intervista esclusiva - che si aprirà la prossima settimana e sul quale il cardinale ha qualcosa in più di un sospetto: "Temo che alcuni occidentali confischeranno questa assemblea per portare avanti i loro progetti. Penso in particolare all'ordinazione degli uomini sposati, alla creazione di ministeri per le donne o alla giurisdizione dei laici Approfittare di un sinodo particolare per introdurre questi progetti ideologici sarebbe una manipolazione indegna, un inganno disonesto, un insulto a Dio, che guida la sua chiesa e gli affida il suo piano di salvezza. Inoltre, sono scioccato e indignato per il fatto che il disagio spirituale dei poveri in Amazzonia venga usato come pretesto per sostenere progetti tipici del cristianesimo borghese e mondano". Al centro del pensiero di Sarah vi è la possibilità che il Sinodo sull'Amazzonia si trasformi in un sinodo per abolire il celibato, "uno dei modi concreti in cui possiamo vivere questo mistero della croce nelle nostre vite che inscrive la croce nella nostra carne e per questo è diventato insopportabile per il mondo moderno". E su questo punto, nel suo libro, Sarah sembra voler rivolgere un messaggio a tutti coloro che hanno scelto di affrontare il tema in modo troppo obliquo. Gesuitico? "Tra le cause delle moltiplicate infedeltà all'impegno del celibato - ricorda Sarah - Benedetto XVI registra 'una tendenza, dettata da retta intenzione ma errata, a evitare approcci penali nei confronti di situazioni canoniche irregolari'. A mio avviso, questo punto è particolarmente importante. Abbiamo bisogno di ritrovare il senso della pena. Un sacerdote che commette un errore deve essere punito. Ciò significa dimostrare carità nei suoi confronti, perché così gli si dà la possibilità di correggersi. Ma è anche segno di giustizia verso il popolo cristiano. Un sacerdote che venga meno alla castità deve subire una pena". Non sappiamo quante possibilità ci siano che la linea di Sarah possa conquistare la maggioranza del prossimo Sinodo (poche, a guardare l'elenco dei partecipanti). Ma se così dovesse essere per il nuovo presidente del Tribunale di prima istanza del vaticano, Giuseppe Pignatone, potrebbe esserci più lavoro del previsto.

Pag 1 Europa scristianizzata. Parla Olivier Roy di Giulio Meotti

Roma. "La secolarizzazione ha lasciato il posto a una profonda scristianizzazione, dal 1968 l'Europa ha subìto un grande cambiamento antropologico". Olivier Roy nel suo ultimo libro si è avventurato in una terra incognita, dopo anni di libri di successo sull'islam. La terra è quella desolata dell' Europa post cristiana. "La 'scristianizzazione' è antica in Francia, recente in Irlanda e appena iniziata in Polonia, dove la partecipazione alla messa rimane forte ma c'è un calo nei seminari". Così parla al Foglio Roy, politologo di fama e autore del libro "L'Europa è ancora cristiana?" (Feltrinelli). Roy ne discute oggi al Festival della rivista Internazionale a Ferrara, dove sarà fra gli ospiti di punta. Un mese fa, il quotidiano La Libre ha dedicato un' inchiesta al cattolicesimo belga arrivato al capolinea: appena cinque sacerdoti ordinati in un anno, il venti per cento delle chiese di Bruxelles che andrebbero chiuse, regioni dove la frequenza domenicale è sotto all' un per cento. Ieri, lo Spiegel ha pubblicato un reportage sui "monasteri che stanno scomparendo in Germania": "Nel 1960, c' erano ancora 110 mila monache e monaci in Germania. Venti anni fa erano 38.348. Oggi sono 17.900. 'Abbiamo ancora trent' anni, poi è finita', dicono. La società tedesca si sta allontanando dalla religione e soprattutto dalla chiesa. Questo sviluppo è particolarmente sentito tra gli ordini religiosi. Stanno morendo. Ovunque, monasteri e conventi stanno scomparendo". "Quale missione per i cattolici in una Francia scristianizzata?", si è domandato il Figaro del 27 settembre. Non passa settimana che non escano articoli di questo tenore. "Ovunque, tranne che in Polonia e Irlanda, la percentuale di coloro che vanno regolarmente a messa è sotto al dieci per cento della popolazione totale e la cifra è ancora più bassa fra i giovani", prosegue Olivier Roy al Foglio. "Non stiamo assistendo all' ascesa dell' anticlericalismo, come nel XIX secolo, ma dell' ignoranza religiosa. Le persone hanno perso familiarità con la chiesa. La pratica religiosa appare oggi come qualcosa di strano, persino fanatico. Non è solo la pratica religiosa che sta diminuendo, è la cultura cristiana che sta svanendo". In Francia, secondo lo storico Guillaume Cuchet autore di Comment notre monde a cessé d'être chrétien, la Francia cristiana è "caduta" letteralmente nel 1966. Roy è d'accordo: "Il gruppo di maggioranza in Francia è oggi quello che si definisce 'senza religione', vale a dire chi non riconosce più alcun legame culturale con il cristianesimo. Il secondo gruppo è quello dei 'cristiani di identità' che non praticano e ignorano i dogmi della fede cristiana; infine, i 'cristiani credenti e praticanti', che sono sotto al dieci per cento. Solo il 4,5 per cento dei francesi va a messa ogni domenica. Soprattutto quest'ultima categoria è forte tra gli ultracinquantenni, ma cala nei giovani. Il declino della pratica religiosa cristiana non è quindi terminato". La particolarità della Francia è la radicalizzazione politica di parte dei cattolici praticanti, come la Manif. "Si stanno sacrificando per l'episcopato. Ma è stato un fallimento perché la maggioranza dei cattolici praticanti ha votato per le liste di Macron alle elezioni. Possiamo dire che in Francia abbiamo, da un lato, un secolarismo intransigente che vuole scacciare la religione dallo spazio pubblico, dall'altro un cristianesimo di minoranza, militante e normativo. Questo non facilita il dialogo". Secondo Roy, il cristianesimo in Europa non "scomparirà". "Sopravviverà per due motivi: esiste un 'nucleo duro' che trova ancora più forza in quanto è minacciato. D'altra parte, c'è una richiesta di spiritualità nella società e la secolarizzazione non è esattamente sinonimo di 'materialismo'. I valori dominanti in Europa fino agli anni Sessanta erano valori cristiani secolarizzati. Questo ora non vale più. Volevamo basare i valori dell' Europa sui diritti umani. Ma hanno contribuito ad accentuare l'individualismo che accompagna la crisi del legame sociale e della globalizzazione. Il problema del cristianesimo è che non ha più alcuna legittimità, deve riconoscere di essere una minoranza e uscire dalla fortezza per offrire una risposta a questa diffusa richiesta di spiritualità nella società. Una richiesta che avvantaggia i fondamentalisti protestanti (evangelici), i musulmani (salafiti), le sette (testimoni di Geova) o una spiritualità diffusa (zen, autorealizzazione, medicina sommersa). I laicisti rispondono alla crisi con un' estensione dei sistemi di controllo religioso, molto spesso in nome della lotta contro l'islam: controllo rigoroso dei segni religiosi nello spazio pubblico, identificazione della pratica religiosa con il 'fanatismo'. Per proibire il velo si proibiscono il crocifisso e la kippah. Ma allo stesso tempo, questo secolarismo non promuove valori positivi". Dal libro emerge una guerra strisciante fra cattolici liberali e cattolici identitari. "Il cristianesimo progressista e il cristianesimo identitario poggiano entrambi sulla stessa contraddizione, anche se il primo si identifica con la sinistra e il secondo con la destra: è l'idea che la fede e il dogma non siano realmente importanti ma solo i valori che vengono difesi. Queste sono due forme di secolarizzazione, perché affidano ai non credenti la gestione del riferimento religioso: ai partiti di sinistra o alla destra populista. La sinistra è stata raramente cristiana così come la destra non è più cristiana (Sarkozy, Berlusconi, Johnson), mentre la Lega ha un'origine pagana. Un certo cristianesimo progressista è già morto: quello del Vaticano II e della sinistra della democrazia cristiana. Ma secondo me, anche il cristianesimo identitario è già in crisi". Nelle analisi sullo stato del cristianesimo in Europa ricorre quella parola: effondrement. Ma, ribadisce Olivier Roy, il cristianesimo non crollerà: "Abbandona l'Europa tanto quanto l'Europa lo ha abbandonato. Questa è la differenza tra Papa Francesco e i suoi due predecessori, che erano europei e profondamente preoccupati per questa scristianizzazione dell'Europa. Francesco non condivide questa preoccupazione perché non è europeo: vede un cristianesimo mondiale che sta bene e che è la religione che oggi si sta sviluppando di più". Ok, il cristianesimo si sta trasferendo nelle famose periferie. Ma per riprendere la domanda di un altro intellettuale francese come Rémi Brague, se il cristianesimo potrà sopravvivere senza l'Europa, potrà l'Europa fare altrettanto senza il cristianesimo?

Pag II Contro l’ateismo fluido Il libro del cardinale Robert Sarah

Pubblichiamo alcuni stralci tratti da "Si fa sera e il giorno ormai volge al declino", il nuovo libro del cardinale Robert Sarah con Nicolas Diat. Il volume, da ieri in libreria, è edito da Cantagalli (400 pp., 24,90 euro). Sarah, creato cardinale da Papa Benedetto XVI nel 2010, è stato nominato nel novembre del 2014 prefetto della congregazione per il Culto divino e la disciplina dei sacramenti da Papa Francesco.

Nicolas Diat: Come considera lo scetticismo della modernità nei confronti del passato e delle tradizioni? Cardinale Robert Sarah: L' uomo moderno occidentale disprezza il passato. E' fiero della propria civiltà che ritiene superiore a tutte quelle che l'hanno preceduta. I progressi nei campi scientifico e tecnologico alimentano questa sua illusione; le ultime rivoluzioni nell'ambito della tecnologia e della comunicazione, in particolare in Internet, rafforzano tale pretesa. L'uomo moderno è smemorato. Aspiriamo alla rottura con il passato, mentre il nuovo si trasforma in un idolo. Esiste a mio avviso una sorta di aggressiva ostilità nei confronti della tradizione e, più in generale, di ogni eredità. Ora, vivendo un continuo mutamento, l' uomo moderno si priva della bussola. I giovani però possono condannare gli errori delle generazioni precedenti. Capisco certamente che essi vogliano voltare pagina: come biasimare i giovani tedeschi del dopoguerra di non voler più pensare ai fantasmi del passato nazista? Non vanno però dimenticate nemmeno le pagine più nere della storia. E' fondamentale conservare la memoria della Shoah. Sostanzialmente, la tradizione è un patto con il futuro che rintracciamo nel passato. Rimango purtroppo allibito davanti all' amnesia degli occidentali. Siamo lontani dalla piccola scuola primaria del mio villaggio guineano dove ho imparato che i miei antenati erano dei galli Questo insegnamento poteva sembrare strano, ma non traumatico. Dipendeva da una reale volontà di apertura dell' identità francese verso i guineani, in un'epoca in cui il paese era una colonia francese. La crisi della memoria non può che generare una crisi culturale. Il requisito per il progresso consiste nella trasmissione delle acquisizioni del passato. L'uomo è fisicamente e ontologicamente legato alla storia di coloro che l'hanno preceduto. Una società che rifiuta il passato si preclude il proprio futuro. E' una società morta, una società senza memoria, una società spazzata via dall' Alzheimer. Questa dinamica attuale vale anche per il cristianesimo. Se la Chiesa si separasse per un determinato tempo dalla sua lunga storia, non tarderebbe a smarrirsi. Ne L'affrontamento cristiano, Emmanuel Mounier spiega come la volontà di rottura con il passato abbia provocato un decadimento congiunto della civiltà occidentale e del cristianesimo. Il cristianesimo fu sostenuto ai suoi esordi dal "vigore della civiltà"; oggi ne starebbe subendo il crollo. Secondo lui, però, la crisi è anzitutto interna al cristianesimo. Esiste una certa asperità tra la civiltà e la religione cristiane. Se il cristianesimo scende a patti con il mondo invece di illuminarlo, significa che i cristiani non sono rimasti fedeli all' essenza della propria fede. La tiepidezza del cristianesimo e della Chiesa provoca il crollo della civiltà. Il cristianesimo è la luce del mondo. Se il cristianesimo smette di risplendere, contribuisce a far sprofondare l' umanità nelle tenebre. Come giudica il complicato rapporto dei moderni con il concetto di radici? Le radici costituiscono la base e l'alimento della vita. Innestano la vita in un terreno fertile e la irrorano di una linfa nutriente. Si immergono nell'acqua perché la vita sia lussureggiante in ogni stagione. Permettono la crescita della chioma e la comparsa di fiori e frutti. Una vita senza radici richiama la morte. Il complicato rapporto dei moderni con il concetto di radici sorge dalla crisi antropologica che abbiamo menzionato prima. L'uomo moderno ha paura che le proprie radici diventino un vincolo. Preferisce misconoscerle. Si crede libero quando è invece più vulnerabile. Diventa come una foglia morta staccata dall' albero, in balìa del vento. Questa difficoltà è un fenomeno tipico dell' occidente. In Africa e in Asia restiamo aggrappati alle nostre radici, esse tuffano le nostre vite e la nostra storia nelle nostre più profonde origini ancestrali. Le etnie, le religioni e le culture hanno storie antiche di cui si nutrono di continuo. Il passato e il futuro sono imbricati con esse, sono inseparabili. Questo ancoraggio non è determinismo, ma è la condizione della nostra libertà. Il rifiuto delle radici cristiane nella Costituzione europea è il sintomo più evidente di questo atteggiamento. Le istituzioni europee oggi sono ridotte a una struttura economica e amministrativa. Al di fuori degli interessi finanziari, sostenuti da una piccola oligarchia, l'Europa produce ideologie, le nutre di utopie e perde la propria anima. L'Europa si è tagliata fuori da ciò che essa è in profondità. Ha rinnegato sé stessa. "Dopo di me il diluvio", sembra esclamare l'uomo del XXI secolo. Questo salto nel vuoto non si accompagna a una volontà quasi suicida di non-trasmissione? La nozione di eredità è morta. Il vuoto è la norma. Per i sommi sacerdoti del nuovo ordine mondiale, la cultura, i valori, la religione e le tradizioni non possono essere trasmesse. Devono rimanere sepolte nell' oblio, e per essere certi di non sentirne più parlare, se ne sigillerà la tomba eliminandoli dai programmi scolastici. La volontà di non trasmettere procede da un desiderio di morte. Come possiamo decidere di non trasmettere ciò che il passato ci ha dato? Questo orgoglio autosufficiente è terribile, opprimente, asfissiante. Le società occidentali sono incapaci di garantire e di farsi carico della trasmissione dell'eredità culturale e dell'esperienza del passato, dopo che hanno fatto della rottura il motore della modernità. Rifiutare ogni eredità, fare tabula rasa del passato e della cultura che ci precede, disprezzare i modelli e le filiazioni, rompere in modo sistematico con la figura del padre: azioni moderne che invischiano le società nella dittatura del presente, provocano le peggiori catastrofi, umane, politiche e anche economiche. Ho la sensazione che la storia dei paesi occidentali sia diventata una distesa di rovine. Come possiamo trasmettere ciò che non c'è più? Sta per scomparire tutto? Il cristianesimo, la storia, la civiltà, gli uomini stessi spariranno per essere sostituiti dai robot? Le nuove generazioni sono prive di un'eredità plurisecolare che avrebbe consentito loro di costruire la propria vita. Un adolescente che vede un presepio ne comprende a malapena il significato. Un adolescente che vede un quadro in un museo è incapace di riconoscerne le grandi figure bibliche. Un adolescente che legge un romanzo del XIX secolo non comprende più nulla della vita e della cultura dell' epoca. Senza storia, senza radici, senza riferimenti, egli si perde nelle paludi del virtuale. In queste condizioni, il passato è una terra incognita e il presente una tirannia. La rottura, dunque, è il motore della modernità? Per risultare moderni gli occidentali si ritengono oggi costretti ad assumere un atteggiamento di continua rottura. Le élite globalizzate vogliono creare un mondo nuovo, una cultura nuova, uomini nuovi, un'etica nuova. Le uniche cose che non possono fare sono un sole nuovo, una luna nuova, montagne nuove, un'aria nuova, una terra nuova. La rottura è il motore del loro progetto politico. Non vogliono più fare riferimento al passato. Gli uomini che continuano a proclamare i valori del mondo antico, volenti o nolenti, devono sparire. Sono emarginati e ridicolizzati. Per i fautori del nuovo ordine mondiale, questi subumani appartengono a una razza inferiore. Questa volontà di rottura è tragicamente puerile. L'uomo saggio è cosciente e fiero di essere erede. Osservo, talvolta, con sgomento, atteggiamenti analoghi in seno alla Chiesa. Che Chiesa sarebbe quella dalla quale venissero eliminati quanti si aggrappano ai tesori della tradizione cristiana e restano fedeli all'insegnamento immutabile di Colui che "è lo stesso, ieri, oggi e sempre" (Eb 13,8)? La nostra epoca vive in un eterno presente? Il fatto di vivere in un presente che vorremmo fosse senza fine tradisce un rifiuto per le cose dell'eternità. Il presente diventa sovrabbondante e Dio invisibile. L'uomo cerca sempre più di fuggire in realtà parallele. Sono costernato nel vedere quante persone trascorrano un' infinità di tempo al cellulare, assorbiti dalle immagini, dalle luci, dai fantasmi. Il cellulare ci trasporta continuamente fuori da noi stessi; ci taglia fuori da ogni vita interiore. Ci dà la sensazione di essere sempre in viaggio attraverso i continenti, permettendoci di essere in contatto con tutti. In realtà, ci svuota della nostra interiorità e ci trasporta nel mondo dell' effimero. Il cellulare ci fa perdere il contatto con la realtà, ci proietta lontano, verso l'inaccessibile. Ci fa credere di generare lo spazio e il tempo, di essere degli dèi in grado di comunicare senza che niente possa fermarci. Le folli macchine della comunicazione rubano il silenzio, distruggono la ricchezza della solitudine e violano l'intimità. Spesso ci strappano dalla nostra vita amorosa con Dio per esporci alla periferia, all'esterno di noi stessi, in mezzo al mondo. Eppure, anche il presente appartiene a Dio. Il Padre abita tutte le dimensioni del tempo. Dio è. Se l'uomo conosce la propria identità e vive con ragionevolezza nel presente, potrà ancora radicarsi in Dio. Attraversiamo il tempo per trovare più intimamente Dio. Il tempo è un lungo cammino verso Dio. Il culto dell'hic et nunc e il rifiuto dell'eternità vanno di pari passo? Nel mondo moderno il presente è diventato un idolo. Ora, l'uomo è nato per l'aldilà. La vita eterna è inscritta in lui. La cultura dell'istante crea, dunque, una costante tensione nervosa. Occorre riuscire a liberare l'uomo contemporaneo da questa dannosa idolatria dell'immediatezza. L'uomo non può ritrovare la calma e la vera quiete a meno che non riposi in Dio. Il culto dell'hic et nunc è il frutto della crisi filosofica e della crisi della cultura dei tempi moderni. Come possiamo far capire che i tesori più preziosi non sono quelli che si possono toccare? L'apertura a Dio è un atto di fede che nessuno può quantificare. Credo sia necessario far comprendere al mondo occidentale che l'eccessivo attaccamento alle cose materiali è una trappola. La civiltà materialista postindustriale come la nostra è destinata a una morte imminente. E la civiltà transumanista sarebbe una catastrofe ancor più grande. L'umanità deve prendere coscienza della crisi materiale e spirituale in cui si trova. Non serve a niente stordirsi di piccole gioie egoiste, artificiali e fugaci. In una conferenza tenuta a Rio de Janeiro, il 22 dicembre 1944, Georges Bernanos dichiarava con ragione: "Non si arriva alla speranza se non attraverso la verità, a costo di grandi sforzi. Per ritrovare la speranza è necessario aver superato la disperazione. Alla fine della notte, si trova un'alba nuova". Il nostro mondo non potrà fare a meno della verità e della speranza in Dio. Questo cammino di verità ci condurrà a enormi sofferenze. Impariamo a distanziarci dai beni materiali e dal potere. Restiamo scrupolosamente aggrappati a Dio e alla sua parola di vita. Arriveremo così tutti insieme all' unità nella fede e alla conoscenza della verità che si chiama Gesù Cristo. Che messaggio vorrebbe lasciarci a conclusione di questo libro? Voglio farvi una confidenza. Io penso che il nostro tempo viva la tentazione dell'ateismo. Non dell'ateismo duro e militante, che ha scimmiottato il cristianesimo con le sue pseudo-liturgie marxiste o naziste. Questo ateismo, una sorta di religione al contrario, si è fatto discreto. Intendo, invece, riferirmi a una condizione dello spirito sottile e pericolosa: l'ateismo fluido. Si tratta di una malattia insidiosa e nociva, anche se i suoi sintomi sembrano a prima vista innocui. Nel suo libro Notre coeur contre l'atheisme (Il nostro cuore contro l'ateismo), padre Jérôme, monaco cistercense dell' Abbazia di Sept- Fons, lo descrive così: "L'ateismo fluido, mai professato come tale, si mescola senza clamore ad altre filosofie, ai nostri problemi personali, alla nostra religione. Può permeare senza che ce ne rendiamo conto il nostro giudizio di cristiani. In ciascuno di noi possono penetrare infiltrazioni dell'ateismo fluido in tutti quei recessi che non sono occupati dalla fede teologale e dalla grazia. [] Ci riteniamo indenni, e tuttavia applaudiamo stupidamente a ogni sorta di ipotesi, di postulato, di slogan, di presa di coscienza che pregiudicano il nostro credo. Pubblicizziamo delle idee senza curarci del loro marchio di fabbrica. La cosa peggiore è che certe idee materialiste possono stabilirsi nella nostra mente senza affatto scontrarsi con le idee cristiane che dovrebbero essere presenti dentro di noi. Il che rivela che le nostre convinzioni cristiane non hanno una consistenza sufficientemente solida. E' l'inizio della disfatta: il materialismo fluido coabita dentro di noi con il nostro cristianesimo che probabilmente è anch'esso fluido". Dobbiamo prendere coscienza del fatto che questo ateismo fluido scorre nelle nostre vene. Non pronuncia mai il proprio nome ma si infiltra dappertutto. () Il suo primo effetto è una sorta di letargo della fede. Anestetizza la nostra capacità di reagire, di riconoscere l'errore. Si è diffuso nella Chiesa. Papa Francesco, nell'omelia della Messa del 29 novembre 2010, celebrata a Casa Santa Marta, ha pronunciato parole terribili. Ha commentato la distruzione di Babilonia città "del lusso, dell' autosufficienza, del potere di questo mondo, covo di demoni, rifugio di ogni spirito impuro". "Questa distruzione incomincia da dentro - ha spiegato il Papa -e finisce quando il Signore dice: "Basta". E ci sarà un giorno nel quale il Signore dirà: "Basta, alle apparenze di questo mondo". Questa è la crisi di una civiltà che si crede orgogliosa, sufficiente, dittatoriale, e finisce così". Poi il Papa ha proseguito denunciando "la paganizzazione della vita [] E concludendo, ci ha invitato a pensare alle "Babilonie" del nostro L'uomo moderno ha paura che le proprie radici diventino un vincolo. Preferisce misconoscerle. Si crede libero quando invece è più vulnerabile Come possiamo trasmettere ciò che non c'è più? Sta per scomparire tutto? Il cristianesimo, la storia, la civiltà, gli uomini stessi spariranno? Occorre riuscire a liberare l' uomo contemporaneo da questa dannosa idolatria dell' immediatezza, la cultura dell' istante "Mi direte che così gira il mondo, che la Chiesa deve adattarsi o morire. Chedobbiamoessereelastici.No,con la menzogna non si scende a patti" tempo: "così finiranno anche le grandi città di oggi e così finirà la nostra vita, se continuiamo a portarla su questa strada di paganizzazione. [] ". Che cosa dobbiamo fare? Mi direte forse che così gira il mondo. Mi direte forse che la Chiesa deve adattarsi o morire. Mi direte forse che, se il nucleo essenziale è salvo, dobbiamo essere elastici per quanto riguarda i dettagli. Mi direte forse che la verità è teorica e che i casi particolari le sfuggono. Tante affermazioni che confermano la gravità della malattia! Vorrei piuttosto invitarvi a ragionare in modo diverso. Nel romanzo autobiografico di Solenicyn, Il primo cerchio, il protagonista esita a conservare i privilegi che il sistema totalitario gli aveva concesso per comperare il suo silenzio. Una scoperta lo fa vacillare. Si imbatte nel diario della defunta madre e vi legge queste parole: "Che cos' è la cosa più preziosa del mondo? Essere consapevoli di non partecipare alle ingiustizie. Esse sono più forti di noi, ci sono state e sempre ci saranno, ma che almeno non avvengano attraverso di noi". Anche noi cristiani dobbiamo lasciarci sconvolgere da queste parole. Non si scende a patti con la menzogna! La prerogativa dell' ateismo fluido è il compromesso con la menzogna. E' la tentazione più grande del nostro tempo. Non lasciatevi ingannare, con questo nemico non si può combattere. Finisce sempre per prevalere. Si può combattere faccia a faccia con l'ateismo duro, colpirlo, denunciarlo e rifiutarlo. Ma l'ateismo fluido è viscido e sfuggente. Se lo si attacca, se si ingaggia contro di lui un combattimento fisico, un corpo a corpo con l'ateismo fluido, si rimarrà invischiati nei suoi compromessi sottili. È come una ragnatela, più ci si dibatte e più ha presa su di noi. L'ateismo fluido è l'ultima piaga del Tentatore. Ci attira sul suo terreno, se lo seguiamo saremo portati a fare uso delle sue armi: la menzogna e il compromesso. Fomenta attorno a sé la divisione, il risentimento, l'acredine e la rivalità. Abbiamo l'esempio della situazione della Chiesa! Essa è pervasa da dissenso, ostilità e sospetto. Con tutto il mio cuore di pastore, invito oggi i cristiani ad agire. Non dobbiamo creare partiti in seno alla Chiesa. Non dobbiamo proclamarci salvatori di questa o quella istituzione. Tutto ciò significherebbe fare il gioco dell'avversario. Viceversa, ciascuno di noi può prendere questa decisione: non mi lascerò più coinvolgere dalla menzogna dell' ateismo. Non voglio più rinunciare alla luce della fede, non voglio più che, per comodità, pigrizia o per conformismo, coabitino in me luce e tenebre. È una decisione molto semplice, al contempo intima e concreta. E trasformerà la nostra vita fin nei minimi dettagli. Non si tratta di andare in guerra. Non si tratta di denunciare dei nemici. Non si tratta di attaccare o criticare. Si tratta di rimanere saldamente fedeli a Gesù Cristo. Non possiamo cambiare il mondo, ma possiamo cambiare noi stessi.

AVVENIRE di giovedì 3 ottobre 2019 Pag 17 Quei rattoppi di Chiara sul saio di Francesco di Enzo Fortunato

Ho “scoperto” qualcosa di sorprendente, parcheggiato da molti anni tra gli scaffali della nostra biblioteca. Secondo Mechthild Flury-Lemberg, una delle più importanti studiose di tessuti antichi, le pezze, i rattoppi sulla tonaca di san Francesco, conservata nella Sala delle Reliquie presso la Basilica ad Assisi – sono stati cuciti da santa Chiara. Due le ipotesi, esposte in «La tonaca di san Francesco», San Francesco Patrono d’Italia n.2 febbraio 1989 e Textilkonservierung, Schriften der Abegg-Stiftung, Bern, 1988. «Osservando il mantello di Chiara», scrive Mechthild Flury-Lemberg, «potei subito stabilire un rapporto con la tonaca di Francesco: le molte pezze marroni poste con cura sulla tonaca di Francesco provengono tutte dal mantello di Chiara! Questo mantello consiste di un pezzo di tessuto largo circa 55 centimetri e lungo 356 centimetri, che viene ripreso con una cucitura di circa 20 centimetri sul margine del collo per formare una mantellina». Questa invece la seconda ipotesi: «Chiara è sopravvissuta a Francesco per molti anni. È possibile che lei abbia rappezzato la tonaca del suo fratello di fede quando questi era ancora in vita, ma è anche possibile che lei abbia “abbellito” col suo mantello quella veste così povera come ultimo atto d’amore, dopo la morte del santo, quando la tonaca era già diventata una reliquia. Lo stato ben conservato delle cuciture testimonia a favore di questa seconda versione. Non ci può essere comunque alcun dubbio sul fatto che sia stata santa Chiara a cucire le pezze sulla tonaca, perché non è immaginabile che le sue sorelle potessero danneggiare il mantello della fondatrice del loro ordine dopo la morte della santa, visto che anche questo mantello era diventato una reliquia di notevole importanza». Ipotesi che trovano un probabile fondamento nelle fonti scritte, in cui si racconta che Francesco, una volta all’anno, andava da Chiara per farsi rammendare il piccolo corredo che possedeva. Una sola tonaca. Si legge nello Specchio di perfezione: «In nessun caso [Francesco] ammetteva che i frati avessero più di due tonache, che però concedeva fossero rattoppate con pezze. Diceva che le stoffe ricercate le aveva in orrore, e ruvidamente rimproverava quelli che facevano il contrario. E per eccitarli con il suo esempio, portava sempre cuciti sulla sua tonaca dei pezzi di sacco grossolano. E, morente, comandò che la tonaca per le esequie fosse ricoperta di sacco ». Francesco comprende che tanto vale l’uomo quanto vale dinanzi a Dio e nulla più. Abbiamo contato 31 rattoppi della tonaca, di cui 19 sono quelli cuciti dal mantello di santa Chiara. Un simbolismo forte. Indicano la lacerazione e il limite che ognuno porta con sé inevitabilmente, inesorabilmente. Gli strappi sono stati cuciti, o ricuciti. Solo l’amore può ricucire, permette di racconciare e ricominciare. Un amore che l’arcivescovo Felice Accrocca, uno tra i massimi esperti e studiosi di francescanesimo, definisce «libero e intenso». Che cosa tiene in vita una tonaca, una persona, se non la comprensione, la carità, la capacità di ricucire con l’altro, altrimenti siamo tutti chiamati ad essere gettati via perché non amati. Il colore marrone e grigio del tessuto naturale della tonaca è l’immagine della terra. Non solo l’humus dove poggiamo i piedi; la terra a cui l’abito richiama è la capacità intrinseca che ha ogni persona di generare vita: è il compito di nostra madre terra, di ognuno di noi; forse comprendiamo anche perché la Laudato si’ è innervata di francescanesimo. Quando si ricompatta la nostra unità interiore? Quando nasce la fraternità? Quando vive la relazione con gli altri? Solo quando si è capaci di generare vita. Mi sono chiesto il senso di questa “scoperta” e riproposta. Ne ho parlavo con il cardinale , che, con lo sguardo che si poggiava sulle ansie del mondo, mi ha detto: «È la condivisione della povertà». Un’affermazione questa che potrebbe aiutare i tanti cuori induriti di chi grida «prima noi e poi gli altri». Non posso che concludere con i versi di Alda Merini, che racconta la concretezza di questi “stracci“: «Felice colui / che mi ha rivestito di un saio / che è diventato un pavimento di rose. / Non ho mai sentito / l’asperità di questo tessuto, / ma odorava di fresco, / odorava di mattino, / odorava di resurrezione. / Le mie spalle sono diventate deboli ma forti: / sono diventato un contadino di fede. / Aravo solo la terra di Dio, la sua volontà».

CORRIERE DELLA SERA di giovedì 3 ottobre 2019 Pag 17 Vaticano, scandalo milionario: sequestri e sospensioni di Gian Guido Vecchi e Massimo Franco Quei 200 milioni di euro per il palazzo di Londra. Un’ombra sulle riforme

«Come spiegheremo ai fedeli che il Vaticano di Papa Francesco abbia un edificio di lusso a Sloane Square, nel cuore di uno dei quartieri più costosi di Londra, sul quale sono stati investiti avventurosamente duecento milioni di euro?». La domanda arriva dal cuore del potere vaticano. E consegna la certificazione del fallimento delle riforme finanziarie che il pontificato doveva introdurre; e che invece, a sei anni di distanza, ripropone un uso disinvolto del denaro a ogni livello. Di nuovo, odore di malaffare, superficialità nella gestione dei soldi, e selezione disastrosa dei controllori e dei controllati. Il fatto che il pontefice argentino abbia dato il via libera al blitz della Gendarmeria vaticana e alla «sospensione cautelativa» di cinque dipendenti apre, non chiude quello che si profila come un nuovo scandalo dai contorni ancora confusi. Proietta nuove ombre su progetti di riforma che sono stati annunciati ma non portati a termine. E promette di arrampicarsi dalle seconde e terze file su, in alto nella gerarchia ecclesiastica. «La verità è che anche questa storiaccia dice che le riforme di Francesco sono abortite: soprattutto quelle finanziarie». Il giudizio senza appello arriva da un cardinale vicino al pontefice argentino. Ma è una presa d’atto che accomuna avversari e alleati di Jorge Mario Bergoglio, anche se ognuno lo dichiara con obiettivi diversi: col risultato probabile di usare questo sperpero di denaro come arma pro o contro il Papa; e con lo sguardo rivolto alle cordate del prossimo Conclave, quando ci sarà. L’ala bergogliana si prepara a riproporre la tesi di un Francesco deciso a fare pulizia; quella avversaria a puntare il dito sulla sua incapacità a governare e a compiere scelte nel nome della competenza e dell’onestà. Non è un tema nuovo, in realtà, né limitato agli anni di Francesco. Problemi simili sono affiorati anche all’epoca di Benedetto XVI e dei predecessori. E questo dice qualcosa di più e di peggio in termini di sistema. Ma che la questione si ripresenti ora colpisce proprio perché sgualcisce il profilo riformatore, quasi rivoluzionario di Bergoglio. Nelle maglie di un papato sociale molto popolare e proiettato verso la protezione dei poveri, nuovo e vecchio si sono intrecciati e mescolati in un impasto maleodorante. L’impressione è che nella bolla autoreferenziale di Casa Santa Marta, residenza del pontefice, si sia perso il contatto con una realtà impermeabile a tutti i proclami di sobrietà e di rinnovamento. La struttura che doveva rivoluzionare la gestione dei conti è stata decapitata da anni. Con l’ex prefetto agli affari economici, cardinale , condannato in Australia per una vecchia e opaca storia di molestie, e mai sostituito. E col «revisore generale» dei conti vaticani, Libero Milone costretto nell’estate del 2017 alle dimissioni sotto minaccia di essere arrestato, perché aveva messo il naso dentro transazioni e operazioni «eccellenti» quanto sospette. Nè è servita la costosa consulenza finanziaria di società private, rigettate dalla struttura e considerate alla fine inutili dallo stesso pontefice, o le riforme a ripetizione dello Ior, Istituto per le Opere di religione. Viene da chiedersi come mai nessuno si sia accorto che nel vuoto si sarebbero riaffermati le pratiche di sempre e un uso maldestro di fondi destinati in teoria a opere benefiche. Si parla di segnalazioni dei servizi segreti arrivate all’ambasciata d’Italia a Londra, riferite dall’allora ambasciatore Pasquale Terracciano agli interlocutori vaticani, e ignorate: riguardavano chiacchierati finanzieri scelti per l’acquisto di titoli mobiliari di un fondo lussemburghesi trasformati in immobiliari. Filtrano anche voci di pressioni recenti sul direttore dello Ior, Gian Franco Mammì, per pompare altri finanziamenti ingenti nella speranza di recuperare il capitale speso: pressioni che non avrebbero avuto successo, perché Mammì avrebbe risposto di dovere avere l’autorizzazione dal Papa. L’aspetto più inquietante riguarda proprio gli autori di queste pressioni. Le ombre non si addensano solo sui cinque dirigenti della Segreteria di Stato vaticana e dell’Aif, l’Autorità di informazione finanziaria che dovrebbe in teoria controllare, sospesi ieri dal servizio. Spunta la sagoma di monsignor Alberto Perlasca, che per anni ha tenuto le chiavi della cassaforte della Segreteria di Stato vaticana; e che nel luglio scorso Francesco ha nominato «Promotore di giustizia». Da quanto si sente dire in queste ore di indiscrezioni convulse e spesso inquinate da odi personali, c’è da chiarire anche il ruolo avuto dall’ex Sostituto alla Segreteria di Stato, oggi cardinale , che dovrebbe incontrare Francesco in queste ore; e del suo successore, il monsignore venezuelano Edgar Peña Parra: nuovo «uomo forte» del Vaticano per i rapporti col Papa. Sarebbe stato Peña Parra, secondo voci non confermate, tra quelli che hanno premuto su Mammì per ottenere nuovi finanziamenti allo scopo di recuperare il capitale sparito nell’investimento londinese. Quanto al segretario di Stato vaticano, Pietro Parolin, sembra invece che fosse all’oscuro di tutto, anche perché ha sempre preferito lasciare ad altri la gestione degli affari economici. Tra l’altro, sarebbe stato informato da papa Francesco soltanto a poche ore dal blitz: un dettaglio che conferma la scarsa comunicazione tra Francesco e il suo «primo ministro», e contribuisce a alimentare le voci su un disagio crescente di Parolin.

Città del Vaticano. Indagini, documenti e pc sequestrati pure in Segreteria di Stato, sospetti di operazioni finanziarie e immobiliari illecite o almeno imbarazzanti, uno scandalo milionario, due alti dirigenti e tre impiegati «sospesi cautelativamente dal servizio» e tra questi Tommaso di Ruzza, direttore dell’Autorità di Informazione Finanziaria (Aif) che dovrebbe vigilare su trasparenza e antiriciclaggio. L’eterno ritorno del sempre uguale, in Vaticano, è affidato a un comunicato reticente e a indiscrezioni. Tutto è cominciato martedì, con le perquisizioni negli uffici della prima sezione della Segreteria di Stato e dell’Aif. Un’operazione mai vista, nella Terza Loggia: «Acquisizione di documenti e apparati elettronici», pc sequestrati. La Santa Sede fa sapere solo che l’indagine della procura vaticana «si ricollega alle denunce presentate agli inizi della scorsa estate dallo Ior e dall’Ufficio del Revisore generale, riguardanti operazioni finanziarie compiute nel tempo». Si parla di operazioni milionarie. Nel giro di ventiquattr’ore, ieri, sono arrivati i primi provvedimenti: un documento diffuso dal settimanale l’Espresso mostra la «disposizione di servizio» alle guardie svizzere, firmata dal comandante della Gendarmeria Domenico Giani: i cinque dipendenti sospesi potranno entrare nello Stato solo «se autorizzati dalla magistratura vaticana». Vengono indicati con nome e foto. Un prete, monsignor Mauro Carlino, capo ufficio informazione e documentazione della Segreteria di Stato, che continua a risiedere a Santa Marta. E quattro laici: oltre a Di Ruzza, due «minutanti» (impiegati) degli uffici protocollo e amministrativo della Segreteria di Stato, Vincenzo Mauriello e Fabrizio Tirabassi, e una addetta di amministrazione, Caterina Sansone. Francesco sapeva dell’operazione e, si dice, «vuole andare fino in fondo». Certo la strada verso la trasparenza è lunga. Operazioni «nel tempo»? Risalirebbero al 2011. Pare che il Segretario di Stato Pietro Parolin abbia saputo all’ultimo delle perquisizioni. Si parla di palazzi a Londra e Parigi. E anche di una guerra interna, mai sopita. Tommaso di Ruzza, genero dell’ex Governatore di Bankitalia Antonio Fazio, era della cordata legata al cardinale Bertone. Il gruppo di comando dell’Aif non è cambiato da Ratzinger a Bergoglio ed è stato promosso, con l’ex direttore René Brülhart divenuto presidente.

IL GAZZETTINO di giovedì 3 ottobre 2019 Pag 13 Vaticano, scandalo finanziario. Inchiesta su cinque funzionari di Franca Giansoldati Il placet di Francesco sulla maxi-riforma dello Stato pontificio

Città del Vaticano. Nel solito andirivieni che ogni giorno ingorga i confini del piccolo Stato pontificio, da ieri mattina i gendarmi scrutano con maggiore attenzione chi entra e chi esce dai varchi d'ingresso. Hanno ricevuto l'ordine di sbarrare il passo a cinque persone non gradite. Si tratta di un sacerdote e quattro laici, tra cui una donna che improvvisamente da funzionari stimati e irreprensibili agli occhi di tutti fino a ieri, si sono trasformati di colpo in sospettati di crimini, messi sotto indagine. Quali reati precisi però ancora non è dato sapere perché il Vaticano ufficialmente non ha voluto fornire spiegazioni, se non quanto detto nello scarno comunicato di due giorni fa che informava dell'avvio di una inchiesta da parte della magistratura, su sollecitazione dello Ior e dell'Ufficio del Revisore Generale dei conti, «per operazioni finanziarie compiute nel tempo». SPIEGAZIONI - Nel tam tam interno si parla di operazioni immobiliari all'estero, in Svizzera e a Parigi, riguardanti beni che non sono sotto la competenza dell'Apsa ma sotto la guida della Segreteria di Stato durante il periodo che va da Bertone a Parolin, quando sostituto era ancora il cardinale Angelo Becciu. Gli investigatori starebbero inoltre analizzando alcuni flussi sui conti su cui transita anche l'Obolo di San Pietro, l'insieme delle offerte che servono per le opere di carità e per il sostentamento dell'apparato amministrativo. In Vaticano si respira aria di smarrimento ma è inutile andare più a fondo perché anche la trasparenza tanto desiderata dal Papa - ancora una volta - è andata a farsi benedire. In compenso da ieri mattina la vita di cinque persone è finita nel tritacarne dopo che la Gendarmeria ha diffuso, in modo irrituale, un ordine interno con tanto di foto segnaletica e con i nomi dei sospettati. Tra questi la personalità più in vista è Tommaso di Ruzza, direttore dell'Aif, l'authority che è incaricata di vigilare sul riciclaggio e i movimenti di denaro sospetti. Pensare che Papa Francesco lo aveva promosso nel 2014. Di Ruzza è il genero dell'ex governatore della Banca d'Italia Antonio Fazio avendo sposato una sua figlia. In questo quadro inedito i magistrati della Santa sede si sono trovati ad indagare su chi dovrebbe controllare i flussi economici della banca vaticana da cui proviene la denuncia. Un bel garbuglio. I cinque funzionari, «a decorrere dalla data odierna, fino a nuova disposizione sono sospesi cautelativamente» dal lavoro. Potranno però accedere in Vaticano solo per usufruire dei servizi sanitari interni, ma solo se provvisti da un apposito certificato firmato dai magistrati che hanno in carico l'inchiesta, il promotore di giustizia, Gian Piero Milano e l'aggiunto, Alessandro Diddi. Il sacerdote finito nell'inchiesta, don Mauro Carlino, è l'unico ad avere ottenuto la facoltà di continuare a risiedere a Santa Marta dove vive anche il Papa. Pensare che prima di essere stato uno dei segretari dell'allora Sostituto, era stato appena promosso a capo ufficio della sezione della Segreteria di Stato, che cura l'informazione alle nunziature. A detta dei navigati monsignori di curia che hanno una memoria da elefante un provvedimento del genere non si era mai visto. Si dice però che sia stato avallato direttamente dal Papa che «vuole andare fino in fondo». Di anomalie però ce ne sono altre. Per esempio, che della perquisizione fatta l'altra mattina negli uffici della Segreteria di Stato nemmeno il Segretario di Stato Parolin era al corrente. Cosa piuttosto singolare considerando il fatto che tutto dovrebbe dipendere da lui. ANOMALIE - La perquisizione dei magistrati è durata una mattinata e ha avuto come obiettivo l'acquisizione della memoria del disco rigido di un paio di computer da tavolo situati in due uffici della prima sezione, quella che si occupa degli affari interni, dei dipendenti, della corrispondenza, dei nunzi, del protocollo e dei conti. I magistrati accompagnati da esperti informatici hanno effettuato tutte le operazioni velocemente, lavorando in due stanze che non sono occupate da nessun dipendente. Come se i due computer fossero a disposizione dei dipendenti in caso di necessità. Un'altra anomalia.

Città del Vaticano. Piovono tegole in Vaticano. In attesa di capire gli sviluppi dell'inchiesta affiorano anche tanti interrogativi in un clima generale di sospetti che riporta inevitabilmente ai periodi bui del pontificato precedente, quando circolavano lettere anonime e c'era chi pensava già alla successione del sempre più traballante Ratzinger. Oggi è diverso e l'unico a non essere stato colto di sorpresa dalla bufera è Papa Francesco. Una decina di giorni fa lui stesso aveva accennato di quello che sarebbe accaduto in questi giorni con un suo amico argentino di passaggio a Roma, in visita a Santa Marta. A lui chiacchierando anticipò che presto sarebbe uscita una brutta notizia per il Vaticano ma che si trattava di una cosa necessaria. Di fatto da ieri il piccolo stato pontificio è letteralmente sotto choc anche perché ad essere stati indirettamente colpiti dagli schizzi di fango sono gli snodi centrali dell'amministrazione e persino due cardinali di primo piano, stimatissimi e benvoluti, Parolin e Becciu. Quest'ultimo ora è prefetto alla Congregazione dei Santi ma per diversi anni ha svolto l'incarico di Sostituto. Le persone sotto inchiesta, a cui i gendarmi hanno vietato di entrare in Vaticano, fanno parte dello staff della Segreteria di Stato nella prima sezione. L'unico appartenente ad un altro organismo è Di Ruzza, fino a ieri direttore dell'Aif, ora sospeso in attesa di giudizio. SENTIMENTI - All'imbarazzo generale si mescola tanto sbalordimento. I monsignori complottisti (che non mancano mai) anche stavolta si chiedono in latino, scomodando Seneca, «Cui prodest scelus, is fecit», «colui al quale il crimine porta vantaggi, egli l'ha compiuto». In attesa di avere riscontri almeno sulla natura dei crimini il Sismografo, il sito vicino al Vaticano tra i meglio informati, ha annotato che una cosa del genere non era mai capitata, anche per il modo bizzarro in cui si è sviluppata. «Un enigma avvolto in un mistero». A cominciare dal comunicato sibillino diramato dalla Santa Sede per informare dell'inchiesta in corso ma senza dare alcun tipo di riferimento sull'oggetto di reato. L'altra singolarità visibile è che della perquisizione non erano stati informati nemmeno i vertici della Segreteria di Stato, vale a dire l'organismo di governo del Papa. Lo hanno saputo lì per lì. Nessuno vuole esprimersi ma toccare la Segreteria di Stato è un po' come se il Papa volesse mettesse sotto inchiesta se stesso perché quell'istituzione centrale per tutta la curia e la Chiesa di fatto è la sua diretta emanazione. Qualcuno si chiede quale sarà il prossimo passaggio, a conferma che il regolamento di conti interno o la destrutturazione non è finita. E che il pontificato da ieri è un po' più debole.

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5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO

CORRIERE DELLA SERA Pag 19 Un ragazzo su 5 lascia le superiori o non è preparato di Gianna Fregonara e Orsola Riva L’Invalsi: c’è un 7% di “diplomati ignoranti”

Letti uno di seguito all’altro sono i numeri di una disfatta: 21 per cento nel Lazio, un ragazzo su cinque; 23 per cento in Molise, quasi uno su quattro; 25,7 in Basilicata e 26,8 in Puglia. E poi: Campania (31,9), Calabria (33,1), Sicilia (37) e Sardegna (37,4). Sono tantissimi e sono i ragazzi e le ragazze che il nuovo studio dell’Invalsi sulla «dispersione scolastica implicita», firmato da Roberto Ricci, considera perduti dal nostro sistema scolastico. Quelli che non finiscono le scuole superiori più quelli che arrivano sì al diploma finale ma con un livello di conoscenze così basso che quel pezzo di carta non gli servirà a nulla. Di solito questa seconda categoria non si conta nei dati ufficiali, quelli che hanno fatto dire al premier Giuseppe Conte nel discorso di insediamento che «la dispersione scolastica resta un’emergenza». Negli ultimi due anni, complice la crisi, i giovani fra i 18 e i 24 anni che hanno abbandonato la scuola prima del traguardo finale sono tornati a crescere attestandosi sopra il 14 per cento. Siamo quartultimi in Europa. Peggio di noi fanno solo Romania, Malta e Spagna, mentre siamo stati superati anche dalla Bulgaria. Questi ragazzi che la scuola perde sono condannati alla marginalità sociale. Molti finiscono nei cosiddetti Neet: non studiano né lavorano e nei contesti più svantaggiati diventano preda della criminalità. Ma non ci sono solo loro. C’è un altro esercito di ragazzi che la scuola «perde» anche se arrivano in fondo. A farli uscire dal cono d’ombra ci ha pensato l’Invalsi, usando i dati delle rilevazioni fatte all’ultimo anno delle superiori. Ragazzi che pur avendo in tasca un diploma di scuola superiore non sono in grado di capire un libretto di istruzioni di media difficoltà, figuriamoci un modulo assicurativo o bancario. Qualcuno potrà pensare che paragonarli ai «dispersi» veri e propri sia un’esagerazione retorica. Ma (purtroppo) non è così. Quelli che nei test Invalsi arrivano al massimo al livello due su cinque in italiano e matematica e sotto il B1 di inglese sono studenti che stanno per prendere il diploma ma è come se non avessero frequentato la scuola perché hanno le stesse competenze di ragazzini di terza media o al massimo di seconda superiore. In Italia sono il 7,1 per cento, nelle scuole del Nord non superano il 3-4 per cento, ma in regioni come la Calabria sono più del doppio. Se si sommano a quelli che hanno abbandonato la scuola prima di arrivare al traguardo, il totale è da brivido: 22,1 per cento, più di un giovane su 5. Ma le differenze regionali sono enormi, tanto da disegnare una mappa dell’Italia spaccata in tre parti, dove solo Veneto, Friuli-Venezia Giulia e provincia di Trento riescono a stare vicino o sotto l’obiettivo europeo del dieci per cento di giovani che abbandonano la scuola in anticipo, mentre le altre regioni del Centronord sono fra il 15 e il 20 e al Sud si supera il 25% con punte ben oltre il 30 in Campania, Calabria, Sicilia e Sardegna. Eppure sarebbe possibile individuare precocemente i soggetti più a rischio, se solo lo si volesse. Sono coloro che già alla fine della terza media non raggiungono i traguardi attesi: il 14,4 per cento su base nazionale, fra il 25 e il 30 per cento al Sud e nelle isole. Questi ragazzi a 14 anni hanno accumulato un ritardo negli apprendimenti che è quasi impossibile recuperare «dopo». Di fronte a un fenomeno di questa gravità l’impegno dei singoli docenti e delle singole scuole non può bastare, perché è evidente, come dice la presidente dell’Invalsi Anna Maria Ajello, che «la dispersione è prima di tutto un fenomeno sociale e poi scolastico. E inizia fin dalla composizione delle classi, visto che in certe aree del Paese si dividono ancora gli studenti per provenienza e censo».

IL GAZZETTINO Pag 1 Inquietante foto dei nostri adolescenti di Alessandra Graziottin

Come stanno i nostri ragazzi tra gli 11 e i 15 anni? Come si comportano? Quali sono le vulnerabilità più evidenti, quali gli aspetti positivi? L'Istituto Superiore di Sanità (Iss) nel 2018 ha fotografato con un questionario accurato i comportamenti di 58.976 ragazzi italiani peri-adolescenti. Lo studio è stato promosso dal Ministero della Salute/CCM (Centro per il Controllo e la prevenzione delle Malattie), in collaborazione con il Ministero dell'Istruzione, alcune Università, Regioni e Aziende Sanitarie Locali. Quali i dati emergenti? Il più interessante riguarda la frattura tra abitudini di vita non corrette e percezione della qualità della vita, decisamente buona. Per esempio, meno del 10% si muove almeno un'ora al giorno (mettendo insieme il camminare, il giocare o lo sport attivo): i ragazzi dicono di essere contenti così. Pigri e felici. Eppure gioco e sport sono il modo più sano, efficace ed educativamente migliore per scaricare emozioni negative (aggressività, irritabilità, rabbia, ma anche paura, inquietudine, tristezza) e ricaricare energia pulita sul fronte emotivo, affettivo, cognitivo e motorio con crescita ottimale nella competenza sociale. «Mens sana in corpore sano», lo dicevano duemila anni fa: purtroppo troppi genitori, troppi insegnanti, troppi politici se lo sono dimenticato. Attenti: quelle emozioni negative si accumulano nei sotterranei dell'anima, come direbbe Fëdor Dostoevskij, e diventano demoni inquieti che chiedono poi un prezzo sempre più alto in salute. Molta passiva placidità, molta vita comoda a casa fanno da detonatore a rischiosi comportamenti trasgressivi. Basti guardare in quale altro modo troppi giovanissimi ricercano eccitazione e gratificazioni. I più pericolosi? Il sorprendente aumento del gioco d'azzardo, in una fascia di età ancora così giovane (11-15 anni, appunto). Ben il 40% (!) di questi giovanissimi ha avuto qualche esperienza di gioco d'azzardo nella vita: i ragazzi 15enni risultano più coinvolti (62%) rispetto alle coetanee (23%). Il 16% ha già rubato (!) per avere i soldi per scommettere (+10% rispetto al 2014). Un dato inquietante perché rivela che il gioco è diventato dipendenza. Preoccupa l'aumento del bere compulsivo fino a 4-5 unità alcoliche o più in una sera (binge drinking): nel 2018 lo ha fatto il 43% dei 15enni (38% nel 2014) e il 37% delle 15enni (30% nel 2014). Queste botte alcoliche sono veleno puro per il cervello: dove sono i genitori quando questi giovanissimi tornano a casa ubriachi? Il prezzo della sedentarietà negli adolescenti è salato anche sul fronte della salute fisica: predice sovrappeso e obesità, difficoltà sessuali e infertilità, e pesanti conseguenze metaboliche, incluso il rischio di un esordio più precoce del diabete di tipo 2. Tutto normale? Meno del 30% dei giovanissimi fa colazione al mattino, prima di andare a scuola. Meno del 30% consuma frutta e verdura almeno una volta al giorno, con incremento invece dei cibi spazzatura, che però piacciono di più: golosi e felici, in barba ai principi più elementari di protezione della salute. Quanto al fumo, le ragazze 15enni fumano più dei coetanei (32% verso 25%). Con la cannabis a ruota (16% dei maschi 15enni e 12% delle femmine). Tutti parlano di vita sana, ma i comportamenti dei giovanissimi indicano una grave latitanza educativa degli adulti, proprio sul fronte dei fondamentali della salute. Questi sconosciuti chiamati figli: più del 25% trascorre più di due ore al giorno davanti al computer, prediligendo la vita virtuale e le sue fakes alla vita reale, fatta di amici, di scuola attiva, di sport e attività culturali vere, dalla musica ai progetti condivisi. Vite placide e felici in superficie, dunque, inquiete in profondità. L'accelerazione ormonale puberale accende il cervello nelle aree che portano a cercare nuove esperienze, eccitazione e piacere: con pericolose modalità compensatorie, se quelle più sane non sono vissute. In positivo, viene riferito meno bullismo a scuola. Sul fronte affettivo, dicono i ragazzi intervistati, la famiglia tiene. Nel 2018 più del 70% dei ragazzi (11-15 anni) parla molto facilmente con i genitori. Visto il quadro sorge però spontanea una domanda: di che cosa parlano? «Il segreto dell'esistenza umana non sta soltanto nel vivere ma nel sapere per che cosa si vive», diceva l'amato Dostoevskij. Quanto questa ricerca di senso è presente nei dialoghi familiari? Quanto ispira i comportamenti, le passioni, le scelte dei nostri ragazzi? Toc- toc: genitori, dove siete?

CORRIERE DEL VENETO di domenica 6 ottobre 2019 Pag 1 La pensione che può attendere di Sandro Mangiaterra Società che cambia

In fondo, anche don Camillo faceva a cazzotti (letteralmente) con Quota 100. Quando a Brescello arriva un giovane pretino, Peppone & Compagni le inventano tutte per fare tornare in servizio permanente effettivo il rivale di mille battaglie. E lui, don Camillo, appena mette piede nella vecchia canonica, ritrova lo smalto dei tempi migliori. Settant’anni dopo le vicende raccontate da Giovannino Guareschi, la situazione non è cambiata di molto. Piuttosto è peggiorata. Perché il problema, oggi, è che i preti giovani sono merce rara. E i sacerdoti anziani, più che a furor di popolo, vengono richiamati per non dovere chiudere le chiese. Secondo l’Osservatorio socio-religioso del Triveneto, in vent’anni il Nordest ha perso 1.729 tonache, un calo vicino al 30%, ben superiore al già allarmante meno 18% registrato a livello nazionale. I problemi di turnover tra i preti (che per giunta lasciano, o meglio dovrebbero lasciare a 75 anni, mica a 62 come stabilito da Quota 100 o a 67 come impone la legge Fornero) sono solamente la punta dell’iceberg. Dai medici agli avvocati, dagli operai specializzati ai capitani d’impresa, la realtà è sotto gli occhi di tutti. Altro che pensione. Le cosiddette pantere grigie, ovvero gli over 50 (e 60 e 70), sono sempre sul pezzo. Anzi, spesso e volentieri vengono richiamate al lavoro. Per coprire buchi in organico, ma anche (e soprattutto) per portare la loro esperienza e trasmetterla ai giovani. Sia chiaro: la (ri)scoperta dell’importanza dei sessantenni, portatori di un know-how preziosissimo, è fenomeno mondiale. Persino i colossi della Silicon Valley da tempo hanno invertito la corsa alla rottamazione. In Italia, però, la questione è aggravata dal record europeo di bassa natalità. Quanto al Nordest, come ha recentemente sostenuto Gian Carlo Blangiardo, presidente dell’Istat, la situazione demografica è da autentico allarme rosso. Fatto sta che un crescente numero di pensionati torna in prima linea. Il caso più eclatante è quello dei medici. In Veneto mancano 1.300 specialisti, in particolare anestesisti e radiologi (branche ad alto rischio di cause giudiziarie) e ginecologi e pediatri (discipline declinanti proprio in conseguenza del calo demografico). Risultato, la giunta di Luca Zaia, incurante delle proteste dell’Ordine dei medici, ha autorizzato i direttori generali delle Usl ad assumere a tempo determinato professionisti in pensione. Non basta. Il Veneto ha predisposto un articolato piano, approvato da tutte le Regioni e ora al vaglio del ministero della Salute, che prevede di alzare l’età pensionabile dei camici bianchi, su base volontaria, da 65 a 70 anni. Se dalle corsie degli ospedali si passa ai capannoni industriali, la presenza delle pantere grigie si fa ancora più evidente. I dati dell’Osservatorio Aidaf (Associazione italiana delle aziende familiari) mostrano che a Nordest un capo d’impresa su due ha più di 60 anni e uno su quattro supera i 70. Hai voglia a parlare di passaggio generazionale. Luciano Benetton e Leonardo Del Vecchio, due splendidi (ultra)ottantenni, ci hanno pure provato (e i loro figli non sono esattamente dei ragazzini), ma com’è come non è hanno deciso di riprendere in mano le redini. In compenso all’interno di Luxottica il tema della staffetta generazionale trova ampio spazio. Significa che gli anziani lavorano fianco a fianco con i neoassunti e insegnano loro il mestiere. Qualcosa di simile avviene ormai ovunque, dagli artigiani calzaturieri della Riviera del Brenta alla Electrolux. È l’esplosione del tutoring, talmente centrale per la crescita delle imprese che Carlo Bonomi, presidente di Assolombarda, durante l’assemblea di giovedì scorso si è spinto a chiederne la detassazione. È il cuore del Nuovo Rinascimento: nell’età della conoscenza il sapere non ha età.

CORRIERE DEL VENETO di sabato 5 ottobre 2019 Pag 1 La famiglia (non) va a nozze di Vittorio Filippi La nuova società

Sempre meno matrimoni ma sempre più famiglie. E che famiglie: un caleidoscopio di famiglie per tutti i gusti, si potrebbe dire. Quello che può sembrare un bel paradosso è rilevato nell’ultimo numero di «Statistiche Flash» edito dalla Regione Veneto. Che, pubblicando appunto delle statistiche, ci offre dei numeri per capire la grande e recente trasformazione antropologica dello stare insieme in Veneto. Innanzitutto sempre meno matrimoni: dall’inizio degli anni ottanta ad oggi i matrimoni si sono quasi dimezzati, un po’ perché si sono ridotti i giovani e un po’ perché, culturalmente, le relazioni di coppia si vogliono leggere. Ecco perché in soli dieci anni le coppie non sposate sono cresciute del 60% e – se proprio il matrimonio deve esserci – lo si fa civile e non più religioso (ormai ridotto al 40% dei matrimoni). «La vita femminile nel suo primo periodo si svolge tutta tra due veli candidi: il velo della prima comunione e il velo nuziale», esordiva il primo manuale di bon ton per signorine del ’900. Oggi tra la prima comunione e il giorno delle nozze passano venti ed anche trent’anni. Ammesso che le nozze alla fine ci siano. Ma anche se le nozze non ci sono, le famiglie aumentano. In tutti i sensi. Aumentano di numero: rispetto al 1971 sono quasi raddoppiate. Ma aumentano anche per tipologia declinandosi in una pluralità di forme che oggi compongono quell’architettura affettiva che continuiamo a chiamare famiglia. Anche qui i paradossi non mancano: perché la tipologia di famiglia più diffusa è una non-famiglia, cioè le persone sole. Queste famiglie unipersonali oggi costituiscono quasi un terzo del totale delle famiglie e sono trascinate dall’invecchiamento della popolazione. Calano anche le coppie con figli mentre la maggioranza delle coppie di figli ormai ne ha uno solo e questo spiega il calo vorticoso delle nascite. Per il resto, come si diceva, il menu del fare famiglia è assai vario: crescono le famiglie ricostituite (dopo il divorzio), quelle monogenitoriali, quelle miste e le unioni civili dello stesso sesso, prevalentemente coppie maschili. Oggi in Veneto il 56% delle coppie non coniugate ha figli (il doppio di dieci anni prima), segno che il matrimonio non costituisce più la porta obbligata del vivere insieme e dell’essere genitori. «Ogni signorina intorno ai vent’anni vagheggia il gran giorno che la vedrà sposa», si diceva. Altri tempi. Ma anche il fare figli appare un obiettivo sempre più appannato socialmente, il che non è proprio una buona notizia per chi ha a cuore la tenuta della nostra demografia.

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7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA

LA NUOVA Pag 16 “Pane in piazza”, il ricavato raccolto e devoluto al Duomo

Grazie all'iniziativa "Pane in Piazza", organizzata Confcommercio, sono stati raccolti 7.500 euro devoluti al Duomo di San Lorenzo. Il pane non era in vendita, ma le offerte pervenute destinate alle persone più bisognose della città. Il vicedirettore di Confcommercio Metropolitana di Venezia, Francesco Antonich, li ha consegnati nelle mani di don Gianni Bernardi, arciprete del Duomo di Mestre, in occasione della festività di San Francesco. Il parroco ha reso noto che la beneficenza andrà a sostegno di chi ha bisogno e contribuirà anche ad alcuni interventi urgenti, di cui necessita il Duomo; ringraziando i panificatori e Confcommercio, sottolinea come "Pane in Piazza", grazie soprattutto al convegno "Il Pane nelle religioni", sia stata non solo una festa, ma un momento di alto dialogo e di riflessione per tutta la città.

Pag 17 “Mestre mia” per l’autonomia. Ma il don lascia

Prime defezioni nel gruppo Fb "Mestre Mia" dopo l'outing pro sì al referendum di separazione del 1° dicembre. Ad alcuni, insomma, non è piaciuto lo schieramento del gruppo - su Facebook conta oltre 10mila iscritti - che sabato mattina, con i propri rappresentanti, era alla presentazione al bistrot del museo M9 per il lancio della campagna per il sì a Mestre e Venezia. Andrea Sperandio, presidente dell'associazione culturale "Mestre Mia", a parziale correzione di quanto pubblicato ieri, precisa la propria dichiarazione: «Non chiamateci separatisti, ma autonomisti».Tra le defezioni eccellenti al gruppo, quella di don Natalino Bonazza che, con un post lasciato su Facebook, ha chiarito di essere uscito da "Mestre Mia" «perché non mantiene le finalità dichiarate». E a chi tra i suoi amici gli chiedeva spiegazioni sulla scelta, il sacerdote mestrino ha chiarito che, nonostante il gruppo nella presentazione si definisca apartitico, i moderatori hanno preso una netta posizione quanto al referendum, schierandosi per il sì. «Sono uscito da un gruppo che non si occupava di fare propaganda pro o contro il referendum», ha scritto ancora don Bonazza.

IL GAZZETTINO DI VENEZIA di domenica 6 ottobre 2019 Pag XI “Pane in piazza” sforna 7.400 euro in beneficenza

Mestre. È stata anche una sorprendente gara di generosità l'iniziativa Pane in Piazza, organizzata la settimana scorsa a Mestre da Confcommercio: il pane prodotto dagli artigiani sotto gli occhi dei visitatori non era in vendita, ma si suggeriva solo un'offerta destinata alle persone più bisognose della città. E il pubblico si è dimostrate molto sensibile; così pane, pizze, schiacciate, dolci e biscotti si sono trasformati in poco meno di 7.500 euro, che Massimo Gorghetto, presidente dell'Associazione panificatori veneziani, accompagnato dal vicedirettore di Confcommercio metropolitana di Venezia, Francesco Antonich, ha consegnato nelle mani di don Gianni Bernardi, parroco del Duomo di Mestre, in occasione della festività di San Francesco. «I primi ad essere sorpresi siamo stati proprio noi panificatori afferma Gorghetto, tradendo una sincera commozione Del resto, per due giorni abbiamo lavorato tantissimo con grande passione, ma ne è valsa la pena, perché l'iniziativa Pane in Piazza è stata letteralmente abbracciata ed amata subito dai cittadini». Don Gianni Bernardi rende noto che la beneficenza andrà a sostegno di chi ha bisogno e contribuirà anche ad alcuni interventi urgenti, di cui necessita il Duomo. Ringraziando i panificatori e Confcommercio, il parroco ha sottolineato come Pane in Piazza, grazie soprattutto al convegno Il Pane nelle religioni che si è tenuto nel chiostro dell'M9, non sia stata solo una festa, ma un momento di dialogo e di riflessione per tutta la città. Adesso si guarda già alla prossima edizione, che sarà ancora più coinvolgente e ricca di eventi come auspicato anche dal sindaco, Luigi Brugnaro.

IL GAZZETTINO DI VENEZIA di venerdì 4 ottobre 2019 Pag X La scommessa del Duemila, Angelo Scola giovedì all’M9

Mestre. Il cardinale Angelo Scola, Patriarca di Venezia dal 2002 al 2011, sarà ospite di M9 nel pomeriggio del 10 ottobre, dove parteciperà ad un'iniziativa a lui dedicata organizzata da Fondazione Venezia 2000 insieme alla Fondazione di Venezia. L'evento pubblico è in programma alle 17 nell'Auditorium del Museo M9 e sarà incentrato intorno alla presentazione del libro dello stesso Scola Ho scommesso sulla libertà (editore Solferino). Ad aprire i lavori sarà il presidente della Fondazione di Venezia, Giampietro Brunello. Al suo saluto introduttivo seguiranno gli interventi del presidente di Fondazione Venezia 2000, Giuliano Segre, dell'architetto Renata Codello e del giornalista Luigi Geninazzi, co-autore del libro. Tutti gli interventi saranno accomunati dalla parola scommessa, applicata in M9 sul piano architettonico, sociale e culturale, e sul piano biografico in relazione al cardinale Scola. Il clou dell'evento sarà rappresentato da una conversazione a più voci sul tema Senso e scommessa nel Duemila, alla quale parteciperanno il giornalista e scrittore Ferruccio De Bortoli, l'ex presidente della Corte Costituzionale Cesare Mirabelli e il presidente della Fondazione Venezia 2000 Giuliano Segre, in dialogo con il cardinale. L'ingresso è libero fino ad esaurimento dei posti disponibili.

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8 – VENETO / NORDEST

LA NUOVA Pag 11 Infrastrutture, al Nordest manca una visione strategica di Franco Migliorini

Nella lista dei desiderata che di consueto i territori presentano all'insediamento di nuovi governi compaiono conferme, novità e assenze. Per l'Alta Velocità/Alta Capacità (AV/AC) Brescia-Verona-Vicenza-Padova ormai quasi tutto è stato detto. Il già elevatissimo costo medio di 60 milioni/km della intera Verona-Padova potrebbe subire ulteriori incrementi di costo per opere aggiuntive richieste dai territori con conseguenti allungamenti dei tempi che ragionevolmente porteranno ad una conclusione dell'opera non prima del 2030. A confronto coi 4 anni e 20 milioni/km per la tratta di 21 km Padova-Mestre, viene da domandarsi dove stia la enorme differenza di costo. La parte stradale di questo corridoio plurimodale europeo, ex numero 5 ora Mediterraneo, oggi regge lo scambio tra l'Est Europa e l'economia padana proiettando su quest'ultima l'onere di una mobilità tutto strada proveniente da Est nell'attesa che una organizzazione intermodale della logistica di corridoio cominci a introdurre una forma più sostenibile di mobilità. Non si ha invece notizia di iniziative su questo fronte dove la lobby della mobilità su gomma tra autotrasportatori e autostrade la fa da padrone a colpi di sconti fiscali. Verso Est riemerge ciclicamente il quadruplicamento AV/AC della Mestre-Trieste. Ed è qui che si innesta una novità filtrata di recente sulla stampa. L'idea di connettere Tessera con la ipotetica nuova rete AV, mediante una soluzione a "cappio" con binario singolo in galleria posto sotto l'aerostazione, per attrarre traffico aereo internazionale e instradarlo sulla rete veloce nazionale. Verso Roma e Milano si presume. Ma non si capisce per quale ragione chi è diretto sulle due città dovrebbe atterrare a Venezia e proseguire in treno a destinazione. Ad oggi sono in effetti solo due gli aeroporti europei connessi con la AV: Parigi e Amsterdam. Due grandi hub continentali di città capitali posti a cavallo di linee preesistenti. Non proprio la stessa cosa di Tessera. Tutti gli altri hub europei hanno stazioni servite da navette metropolitane.Con la soluzione a cappio la odierna stazione di testa di Venezia verrebbe tagliata fuori costringendo veneziani e turisti a trasferirsi in terraferma con altri mezzi per accedere ai treni veloci. Al tempo stesso il collegamento ferroviario a doppio binario di superficie - già approvato per 120 milioni dal Cipe - con stazione di testa e servizio navetta panoramica in sala arrivi del Marco Polo, innestata sul circuito metropolitano di Mestre, verrebbe affossato a favore del nuovo progetto in galleria dal costo almeno quadruplo. Si percepisce in sostanza come il Nordest si presenti ancora una volta con una richiesta frammentata di singole rivendicazioni infrastrutturali sospinte da logiche settoriali che prevalgono su di una strategia integrata e unitaria che faccia di tempi e costi una questione prioritaria e dirimente.

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… ed inoltre oggi segnaliamo…

CORRIERE DELLA SERA Pag 1 A chi giova davvero la riforma di Angelo Panebianco Meno parlamentari

Entro due giorni la Camera, salvo incidenti, approverà in via definitiva la riduzione del numero dei parlamentari. Proprio in queste ore circola un appello di +Europa, il gruppo guidato da Emma Bonino, contro tale riforma. L’appello (sensatamente) dichiara inaccettabile una riduzione drastica del numero dei parlamentari che non sia «contestuale o successiva alle altre modifiche costituzionali riguardanti il ruolo e il funzionamento delle Camere». Quella misura, voluta dai 5 Stelle in nome di una ideologia antiparlamentare, verrà supinamente accettata, a quanto pare (a meno di ribellioni dell’ultimo minuto), dal Partito democratico allo scopo di preservare la stabilità del governo. Ciò è conseguenza della prevalenza numerica dei 5 Stelle, il partito di maggioranza relativa, ma anche della debolezza culturale del Pd. E, per la verità, non soltanto del Pd. Si è sempre detto (correttamente) che il favore o l’ostilità per l’una soluzione istituzionale o per l’altra non sono mai soltanto espressioni di differenti valutazioni «tecniche» relative alla efficacia o meno delle varie misure. Dietro le scelte costituzionali (parlamentarismo, presidenzialismo, eccetera) come dietro la preferenza per un sistema elettorale o l’altro (maggioritario, proporzionale, eccetera) compaiono per lo più differenti visioni e differenti tradizioni politico-culturali. In gioco ci sono idee difformi sul dover essere della politica, dei rapporti fra politica e società, eccetera. Il presidenzialismo di Bettino Craxi degli anni ottanta era la «faccia» istituzionale di un progetto che mirava a sottrarre l’Italia al controllo spartitorio di quelle che erano allora definite le due chiese (Dc e Pci). Allo stesso modo, il federalismo della Lega di Umberto Bossi, era l’ingrediente costituzionale di un progetto che mirava alla autonomia, se non alla indipendenza, della Padania. A sua volta, il movimento referendario dei primi anni novanta che impose la trasformazione in senso maggioritario della legge elettorale, immaginava quella trasformazione come un primo passo: doveva essere seguito da una riforma della costituzione che rafforzasse il peso del governo (con un qualche sistema di cancellierato, il superamento del bicameralismo paritetico, e altre misure). C’erano senza dubbio in quel movimento referendario idee e retropensieri diversi. Il progetto veniva declinato più a destra o più a sinistra a seconda delle sensibilità. C’era chi immaginava che un esecutivo più forte e (si sperava) alla guida di una compatta maggioranza, avrebbe dovuto preoccuparsi soprattutto del risanamento finanziario e della crescita economica. E c’era chi pensava che il perseguimento di questi obiettivi non avrebbe dovuto impedire il varo di misure volte ad attenuare le disuguaglianze. Ma, nel complesso, dietro al progetto di una «democrazia maggioritaria» (tale non solo in virtù di una legge elettorale maggioritaria ma anche di mirate riforme costituzionali) c’era l’idea di una radicale rimodulazione dei rapporti fra politica, economia e società rispetto ai tempi della cosiddetta Prima Repubblica. Una coda (l’ultima) del progetto della democrazia maggioritaria è stato il referendum costituzionale del 2016. Il risultato di quel referendum ha posto la pietra tombale su quelle aspirazioni. Anche gli avversari, coloro che si opponevano alla democrazia maggioritaria, avevano una tradizione politico- culturale a cui attingere: la loro preferenza per il sistema elettorale proporzionale e per governi istituzionalmente deboli era giustificata, secondo loro, dalla condizione di permanente polarizzazione ideologica del Paese nonché dalle sue forti divisioni territoriali. Essi pensavano che l’eccesso di instabilità governativa, di irresponsabilità finanziaria e di ingerenza statale nella vita economica e sociale, dovuti al sistema politico-costituzionale in vigore dal 1948, fossero costi accettabili al fine di garantire la libertà degli italiani. Presidenzialismo, federalismo, democrazia maggioritaria. Non erano solo tre differenti soluzioni «tecniche», erano anche espressioni di differenti culture politiche e di differenti aspirazioni sociali. E sono stati tre fallimenti. Hanno lasciato dietro di loro il deserto. Nessuno può più credibilmente azzardarsi a formulare progetti istituzionali ambiziosi. Nessuno tranne i 5 Stelle. Il loro progetto (certo non da realizzare immediatamente) è la democrazia diretta in versione digitale, è il depotenziamento massimo della democrazia rappresentativa/parlamentare. La riforma messa in cantiere (la riduzione dei parlamentari) nonché i penosi argomenti che la accompagnano (sui risparmi che deriveranno dal «taglio delle poltrone») sono coerenti con una visione del mondo per la quale i Parlamenti, e quello italiano in particolare, sono potenziali luoghi di malaffare. Di fronte a questo attacco, culturale, politico e istituzionale, alla democrazia parlamentare, gli altri, per lo più, balbettano o assumono posizioni poco credibili. Balbettano quando tentano di normalizzare la riforma dei 5 Stelle, costituzionalmente ineccepibile nelle forme, ma eversiva nelle aspirazioni. Oppure, se non balbettano, fanno proposte che sembrano solo strumentali, sconnesse da una qualsivoglia visione politica. La Lega si è oggi convertita improvvisamente al maggioritario dopo avere difeso per tutta la sua esistenza il sistema elettorale proporzionale e dopo avere detto «no» nel referendum del 2016 al superamento del bicameralismo paritetico, ossia a una riforma che sarebbe stata indispensabile per stabilizzare e rendere coesi governi eletti con il meccanismo maggioritario. Gli antichi fautori del maggioritario (come chi scrive) non possono che rallegrarsi per la conversione della Lega. Ma sono consapevoli del fatto che si tratta di una conversione basata solo su calcoli di convenienza momentanea. E i calcoli sulle convenienze cambiano di continuo. Proprio perché le scelte istituzionali non sono mai solo scelte tecniche non solo Forza Italia (oggi è il caso più evidente) ma anche il Partito democratico si trovano nei guai. Nati entrambi nell’età del maggioritario, espressioni entrambi della democrazia maggioritaria allora in formazione, hanno cercato di indossare - anche loro inseguendo le convenienze del momento - il vestito proporzionale. Saranno probabilmente puniti. Il futuro sembra appartenere ad altri.

Pag 24 Il ruolo fondamentale della lotta all’evasione di Giovanni Belardelli

Il governo nella nota aggiuntiva al Def ha promesso una seria lotta all’evasione fiscale. Ma ci possiamo credere? I dubbi paiono ampiamente giustificati alla luce del fatto che questo obiettivo è stato presente in tutti i programmi di tutti gli esecutivi, ogni volta però con risultati scarsi o nulli. È diventato così un elemento cardine, più che dell’azione effettiva di un governo, della sua retorica politica, non diversamente dalla spending review o dalle privatizzazioni. Il rischio che anche questa volta la storia si ripeta sembra confermato dalla stessa, poco credibile cifra che il governo Conte ha inserito tra le entrate del prossimo anno come frutto del contrasto all’evasione: oltre 7 miliardi di euro, una cifra che ricorda i fantastilioni del Paperino di Disney. Se finisse così anche questa volta, con la lotta all’evasione utilizzata soprattutto per coprire (per lo più sulla carta) con entrate presunte delle spese effettive, sarebbe davvero un peccato, poiché la discussione e le proposte circolate negli ultimi giorni o settimane sembravano indicare un largo consenso - anche dell’opinione pubblica - attorno a qualche soluzione tecnica sulla quale il nuovo esecutivo intenderebbe puntare con decisione. Si era inizialmente parlato di tassare in qualche modo i prelievi di contante oltre una certa cifra, ma la misura - in cui, nonostante l’avesse inizialmente presentata il Centro studi di Confindustria, si percepiva l’eco di un certo giustizialismo grillino - sembra sia stata saggiamente accantonata: avrebbe infatti tassato del denaro onestamente guadagnato solo per la forma materiale che esso veniva ad assumere. Molto si intenderebbe puntare invece, sulla scia dei buoni risultati prodotti dalla fatturazione elettronica, sull’incremento dei pagamenti con carte/bancomat per contrastare transazioni e redditi sottratti al Fisco. In questi casi c’è sempre chi grida al pericolo di una limitazione della nostra libertà ed evoca lo Stato di polizia. Ma non è un’obiezione seria, visto che la maggior parte dei Paesi europei usa tranquillamente e molto più di noi i pagamenti elettronici anche per importi minimi (a chi scrive è appena capitato di stare un’intera settimana in Svezia senza aver cambiato, e neppure mai visto come son fatte, le corone svedesi). Ma forse, in tema di evasione, sarebbe anche necessaria una vera discussione che andasse oltre le misure tecniche e la necessità di far quadrare i conti della legge di bilancio in un modo tanto facile quanto poco verosimile. La questione infatti non riguarda soltanto le casse dello Stato, bensì la qualità della vita associata, il patto implicito di cittadinanza che ne è a fondamento. Da tempo una parte degli italiani ha la sensazione che un’altra parte - una minoranza, ma non certo insignificante - quel patto non lo rispetti, sottraendosi al versamento di quanto dovuto al fisco; quella parte di italiani pensa, con qualche ragione, di essere tartassata anche perché c’è chi riesce a sottrarsi ai propri obblighi di pagamento. Ecco, una delle conseguenze più negative del fenomeno dell’evasione consiste nell’alimentare in milioni di italiani un malessere diffuso, che incrina un sentimento di appartenenza alla comunità nazionale già piuttosto fragile. Senza un efficace contrasto all’evasione fiscale, anche la lotta alle diseguaglianze sociali continuamente evocata da ogni governo rischia di diventare un semplice costrutto retorico. Su cosa mai può fondarsi una politica di welfare se non sul reddito individuale o familiare? Ma se la certificazione di questi redditi non corrisponde al vero l’intervento pubblico non solo diventa meno efficace ma può perfino aumentare le diseguaglianze, togliendo a finti ricchi (ricchi solo perché non vogliono o possono sottrarsi agli obblighi fiscali) per dare a finti poveri (che a quell’obbligo si sottraggono con successo). Lamentiamo in continuazione di avere uno scarso senso civico e una percezione spesso elastica della legalità. Ebbene, più dell’educazione civica nelle scuole - che ancora nessuno sa bene in cosa dovrà consistere, con il rischio che si occupi di tutto, dall’ambiente all’Europa - favorire comportamenti di lealtà fiscale equivarrebbe a un’importante opera di vera educazione civica rivolta a ogni fascia d’età. Implicherebbe anche, in alcune zone del Paese, un’azione di bonifica del territorio. Se, in certe località del Mezzogiorno, quando stiamo per saldare il conto scopriamo che il pos è «momentaneamente scollegato» e ci viene chiesto di pagare in contanti non è presumibilmente per motivi tecnici, ma perché siamo di fronte a un’attività che si svolge almeno in parte in nero. Un’attività che, si potrebbe perfino dire, a volte deve essere in nero per sopravvivere, poiché paga già una «tassa» illegale alla camorra o a qualche altra organizzazione criminale. I principi della convivenza democratica e l’eguaglianza dei cittadini, il controllo del territorio e la politica sociale: la lotta all’evasione fiscale implica questioni del genere e perciò dovrebbe stare davvero al centro dell’azione politica, non lasciando che venga evocata retoricamente da ogni nuovo governo per mettere in bilancio entrate che presumibilmente non ci saranno.

LA REPUBBLICA Pag 1 Le tante ambizioni del governo di Stefano Folli

Nessuno può sapere con certezza se il Parlamento deciderà di amputarsi in modo definitivo di 345 deputati e senatori. Forse sì, nonostante i malumori diffusi, visto che il Pd e anche il partito di Renzi, dopo essersi sempre opposti al taglio, voteranno a favore, in omaggio alla "realpolitik" che li ha condotti all'accordo di governo con i Cinque Stelle. Comunque sia, l'ultimo voto è il più a rischio: si cammina sul filo. Ma non solo per il contestato disegno di legge costituzionale, al quale non fa da corollario alcuna intesa sulle altre riforme indispensabili per dare un senso allo strappo. Ad esempio la sfiducia costruttiva, come propone Luciano Violante, oltre a una legge elettorale che non sia iniqua. Si procede lungo un sentiero stretto soprattutto perché i rapporti nella maggioranza sono rapidamente peggiorati. E negli ultimi giorni anche la posizione del presidente del Consiglio si è fatta instabile. Dipende dalla frenesia del Matteo Renzi pre- Leopolda, certo. Ma dipende allo stesso modo da eventi imponderabili che richiamano l'attenzione sul clima poco limpido in cui è maturato l'esecutivo Conte 2, con riflessi che oggi potrebbero minarne la navigazione. Si può riassumere così. Esiste un cerchio largo di interessi politici - dal Pd al premier in carica - che punta a frenare Renzi, la cui fama di destabilizzatore mai domo è ormai non scalfibile. Nella sua campagna mediatica incessante, il politico di Rignano tenta di distinguere tra le critiche alla politica economica e fiscale del governo (rivendicate) e la volontà di mettere in crisi Palazzo Chigi (smentita). È probabile che sia così, al di là delle apparenze, perché Renzi non può permettersi di correre il rischio di elezioni anticipate. Ma resta il fatto che l'astio tra lui e Conte ha ormai raggiunto e superato la soglia di sicurezza. Al punto in cui siamo, è poco verosimile che s'individui un punto di equilibrio in grado di coinvolgere e pacificare Renzi per i prossimi due o tre anni. Magari favorendo il suo ingresso nel governo in un ruolo adeguato. D'altra parte esiste un secondo cerchio in cui la vittima è proprio Conte, un uomo dall'ascesa fin troppo rapida. Prima "l'avvocato del popolo" ha fatto da cassa di compensazione tra partiti rivali, come Lega e 5S. Oggi, nel nuovo quadro, l'operazione gli riesce meno e la contesa con Renzi su Iva e cuneo fiscale lo dimostra. In tutto questo, ecco il cigno nero, l'evento imprevedibile. Non è usuale che un leader di maggioranza - sempre Renzi - chieda al premier di abbandonare la delega con cui controlla i servizi segreti. È un atto di solenne sfiducia aperto a ogni conseguenza. Sullo sfondo ci sono i contatti che Conte è sospettato di aver favorito tra un emissario di Trump e i nostri servizi. Il che rimanda ad altri interrogativi ugualmente opachi, fondati su voci e insinuazioni: Renzi ha incoraggiato a suo tempo giochi di servizi miranti a compromettere Trump sui rapporti con la Russia, così da aiutare Obama in funzione filo- Clinton? Non si sa e comunque è una vicenda che deve essere chiarita. È invece del tutto credibile la frattura politica rispetto agli Stati Uniti: Conte si è inventato con successo come uomo di Trump; Renzi è legato a Obama e a un certo establishment che oggi sostiene Biden. Due mondi opposti, due sistemi di relazioni che si riverberano sugli assetti di casa nostra e li rendono incerti.

IL GAZZETTINO Pag 1 Chi possono colpire le sciabolate di Renzi di Alessandro Campi

La nascita del nuovo partito renziano comincia a produrre i suoi primi (e inevitabili) effetti sul quadro politico nazionale. Per cominciare, il quotidiano controcanto dello stesso Renzi alle scelte del governo che ha contribuito a far nascere e che dichiara pubblicamente di voler sostenere. Talmente insistente da aver suscitato l'immediata irritazione non solo del premier Conte, ma anche dei leader degli altri partiti che compongono l'attuale maggioranza. Il timore, nemmeno tanto velato, è che si possa produrre il medesimo copione che nel febbraio 2014 portò alla caduta del governo guidato da Enrico Letta proprio a causa del fuoco amico proveniente dallo stesso Renzi. Che prontamente si insediò a Palazzo Chigi come adesso gli alleati temono che possa voler fare a scapito di Giuseppe Conte. L'accusa che si rivolge a Renzi è sempre la stessa: di agire mosso da un innato protagonismo. Di non riuscire a fare gioco di squadra a causa della sua ambizione sfrenata e del suo desiderio di voler essere sempre il primo della classe, se non il capo unico e indiscusso. L'aspetto caratteriale in effetti non va trascurato. Grazie alla crisi agostana scatenata da Salvini, Renzi si è ripreso con prepotenza la scena dopo un lungo periodo di relativo silenzio, seguito alla sconfitta politica alle elezioni del marzo 2018 e alle successive dimissioni da segretario del partito. In quelle poche e concitate giornate, a smentita di coloro che lo davano per politicamente in declino ha chiaramente mostrato di possedere un'abilità tattica e una determinazione superiori a quelle dei suoi più diretti competitori (compresi quelli appartenenti al suo stesso campo politico). Pensare che oggi, dopo aver dato un apporto determinate alla formazione dell'impossibile alleanza rosso-gialla, possa giocare il ruolo dell'alleato di minoranza, come tale remissivo e accomodante, significa davvero non conoscerlo. Ma l'attitudine e la psicologia dell'uomo non sono tutto. Rispetto al celebre (o infausto) Enrico stai sereno stavolta le cose stanno in maniera abbastanza diversa. Renzi non è più nel Pd. Ha definitivamente sciolto il rapporto ambiguo con quest'ultimo e si è appunto fatto un suo partito: Italia Viva. Accreditato nei sondaggi del 4-5% ma ancora tutto da costruire: sul piano dell'immagine come su quello dei contenuti. Per lui distinguersi e rendersi riconoscibile agli occhi degli elettori è dunque una necessità vitale. Chi oggi gli chiede di non criticare l'attuale governo, per non minarne la stabilità e il fragile equilibrio che lo regge, gli chiede dunque l'impossibile. Accadrà semmai il contrario da qui ai prossimi mesi e forse anni: su ogni punto politicamente dirimente Renzi non potrà che marcare la sua peculiare posizione. Rispetto all'esecutivo, non potrà che ricavarsi il ruolo dell'alleato tanto leale quanto critico. Il che ovviamente non significa automaticamente desiderarne la fine: significa più semplicemente crearsi uno spazio di autonomia e di riconoscibilità pubblica, avendo cura ovviamente di non tirare troppo la corda. Una scelta strategica obbligata, essendo il partito di Renzi l'ultimo arrivato sul mercato politico, che però implica anche un calcolo (e un vantaggio) tattico. Col suo voler essere, per così dire, sempre criticamente costruttivo rispetto alle posizioni del Pd e del M5S Renzi si conferma come il vero dominus del nuovo esecutivo. Lo ha fatto nascere: secondo molti sulla base di una sua personale convenienza politica travestita da emergenza democratica (andare al voto anticipato avrebbe infatti impedito al suo partito di decollare e radicarsi, senza considerare la falcidia annunciata dei gruppi parlamentari che gli erano fedeli). Ma può anche farlo cadere. Il che non vuole dire che lo faccia o che intenda farlo, ma il solo detenere questa carta nelle sue mani gli conferisce un potere di condizionamento certamente superiore alla sua forza reale (e ancora tutta da valutare). Sempre sul piano tattico è poi a dir poco evidente quello che è successo in questi giorni. A confrontarsi e a polemizzare tra loro dunque a riconoscersi come interlocutori e come figure politiche di riferimento sono ormai Conte e Renzi, con Di Maio e Zingaretti che, pur essendo nei fatti i detentori della maggioranza che sostiene il governo, appaiono sempre più spesso relegati sullo sfondo. Alleato del Pd e del M5S, Renzi ha però tutto l'interesse a indebolirli, a partire dalle rispettive leadership. Oggi in politica conta (anche elettoralmente) chi meglio occupa la scena politica. Sostenere Conte in Parlamento facendogli tuttavia le pulci e incalzandolo ad ogni passo risponde esattamente a questa necessità: giocare un ruolo da protagonista assoluto pur essendo a capo di un partito ancora piccolo. Renzi sostiene questo governo, ma ovviamente pensa già a quando probabilmente al termine naturale della legislatura si tornerà al voto. Tutto ciò detto sul perché il controcanto renziano è destinato a continuare, c'è anche da dire che tale controcanto forse andrebbe preso sul serio dai suoi alleati (in particolare dal Pd) invece di essere rubricato alla stregua di un'irritante desiderio di originalità a tutti i costi. Ci sono molti segnali che fanno temere che l'alleanza di governo tra Pd e M5S possa determinare, a dispetto delle intenzioni dichiarate, un aumento della spesa pubblica e dei livelli (già assai alti in Italia) di imposizione fiscale. L'assistenzialismo di Stato spacciato per politiche di equità sociale è, come l'esperienza insegna, la scorciatoia ideologica alla quale i partiti italiani spesso ricorrono quando vogliono conquistare facili consensi: un governo nato da un patto politico assai fragile e tutto interno al Palazzo, come quello rosso-gialla, potrebbe essere facilmente tentato dal perseguire questa strada. Sempre l'esperienza ci dice inoltre che quando non si sa che pesci prendere ci si riduce a tartassare fiscalmente le categorie sociali produttive, invece di perseguire in modo serio gli evasori piccoli e grandi. Con questo governo c'è altresì il rischio che un malinteso ambientalismo (anch'esso trasformato in una bandiera ideologica alla moda) finisca per bloccare ciò di cui l'Italia avrebbe in questo momento più bisogno: politiche industriali che favoriscano realmente la produttività e l'occupazione e investimenti pubblici finalizzati alla modernizzazione della rete infrastrutturale italiana. Per dirla grossolanamente, questo è un governo che presenta uno slancio riformista (sul lato economico-sociale) assai ridotto e una accentuata vocazione statal-dirigista: la vecchia socialdemocrazia si è alleata con i fanatici del Leviatano tecnologico. In questo quadro, le sciabolate di marca liberal-riformista di Renzi, per quanto le si voglia giudicare strumentali, dovrebbero anche essere considerate come un utile bilanciamento critico, come si è visto nel caso della polemica sull'aumento dell'Iva (Renzi è contrario a qualunque ipotesi di rimodulazione delle attuali aliquote) o di quella sul cuneo fiscale (per il leader di Italia Viva la riduzione delle tasse sul lavoro ipotizzata dal governo è ancora troppo modesta). Renzi in fondo sta dicendo una cosa semplice: un governo troppo orientato a sinistra è il migliore regalo che si possa fare alla destra. Una provocazione inutile o un avvertimento che i suoi alleati per primi dovrebbero meditare?

LA NUOVA Pag 3 In Parlamento meno non significa per forza meglio di Gianfranco Pasquino

La (buona) rappresentanza politica dipende da una molteplicità di elementi. Di questi fa parte anche il numero dei rappresentanti. Non è affatto detto che, riducendoli, la rappresentanza migliori. Nessuno può sostenere che, diminuiti di numero, coloro che entreranno in Parlamento saranno più capaci, più competenti, più efficaci. Vantare la riduzione di un terzo del numero dei parlamentari come un successo per la democrazia, che è quanto stanno facendo le Cinque Stelle, è una esagerazione priva di fondamento. Festeggiare per il risparmio che, comunque, inizierà solo dal prossimo Parlamento (2023), di 500 milioni significa solleticare gli elettori con una visione da bottegai della democrazia. Meno non è meglio e risparmiare non equivale a democratizzare. Adesso (quasi) tutti si affannano a sostenere che bisogna fare una nuova legge elettorale che sia tutta proporzionale e a trovare freni e contrappesi, a una maggioranza di governo che, eletta con la proporzionale, sarebbe sicuramente multipartitica. La legge Rosato, già per due terzi proporzionale, è pessima per la rappresentanza politica poiché consente candidature bloccate e multiple che tolgono potere agli elettori. Una proporzionale senza clausole di accesso al Parlamento frammenterebbe quel che rimane del sistema dei partiti e complicherebbe la formazione e il funzionamento dei governi a tutto vantaggio dei partiti piccoli, ad esempio, della neonata Italia Viva. Non è, poi, affatto detto che una legge maggioritaria come il doppio turno francese non offra buona rappresentanza politica a opera degli eletti in ciascun collegio uninominale che sanno di dovere prestare attenzione ai loro elettori se vogliono riconquistare il seggio. La rappresentanza politica può essere buona e diventare ottima quando i parlamentari non sono nominati dai partiti, ma eletti dai cittadini. Una buona rappresentanza già di per sé costituisce un freno a qualsiasi scivolamento autoritario del governo e un contrappeso all'azione dei governanti. Peraltro, da un lato, nel sistema politico italiano già esistono efficaci freni e contrappesi dati sia dalla Presidenza della Repubblica sia dalla Corte costituzionale, dall'altro, nessuno degli avventurosi riduttori dei parlamenti ha finora saputo indicare con chiarezza quali nuovi freni e contrappesi saranno escogitati e messi in pratica. Quel che sappiamo porta ad alcune poche tristi considerazioni, non conclusioni poiché la saga elettoral-istituzionale è destinata a durare. Cinque Stelle e PD cercheranno di fare una legge elettorale che li protegga dall'assalto di Salvini. La discussione durerà a lungo, garanzia di prosecuzione della legislatura. Nessuno individuerà freni e contrappesi aggiuntivi e i governi continueranno nella deplorevole pratica "decreti più voti di fiducia" che schiaccia il Parlamento. Pur ridotti di numero, i parlamentari continueranno a dare poca e mediocre rappresentanza all'elettorato.

AVVENIRE di domenica 6 ottobre 2019 Pag 1 Le sole parole cristiane e vere di Marina Corradi I morti di Trieste e la morte della pietà

Nel freddo di un obitorio a Trieste ci sono due giovani morti. Uno, l’agente scelto Pierluigi Rotta, era di Pozzuoli, poliziotto figlio di un poliziotto. L’altro, l’agente semplice Matteo De Menego, veniva da Velletri. Entrambi innamorati del loro lavoro, entrambi fidanzati. Sono stati uccisi in un’assurda sciagura, per mano di un malato di mente, in Questura. Avevano poco più di trent’anni, la vita davanti. Pensando ai loro corpi ora esanimi verrebbe da fare silenzio. Silenzio per dolore, e per rispetto. Invece parole tumultuose si abbattono su social e mass media a pochissime ore dall’omicidio. «Che i due bastardi assassini dei poliziotti di Trieste marciscano in galera per il resto dei loro giorni: sia fatta giustizia, senza attenuanti e senza sconti»: Giorgia Meloni, Fratelli d’Italia. Poco dopo, Matteo Salvini: «L’infame assassino dei due poliziotti della Questura di Trieste (anche se molti giornali e telegiornali non lo dicono) è uno 'straniero con disagio psichico'. Che a nessuno venga in mente che questa sia un’attenuante! Per gli assassini, nessuna pietà». Parole che rotolano nelle case degli italiani, sulle tavole a cui si cena, parole che soffiano su una rabbia percepibile che si va allargando. 'Bastardi', 'Marciscano in galera', e: 'È uno straniero'. Un folle, emerge dopo poco da Trieste. Un incapace di intendere e di volere. Ma 'Per gli assassini, nessuna pietà', gridano, per contentare e aizzare un po’ o un tanto di elettorato. Poi c’è uno chef – gli chef sono oggi considerati maestri di pensiero – che si leva a dire sui social che i nostri poliziotti «sono impreparati». Il fratello di un agente morto replica: stai in guardia, o fai una brutta fine. Il fratello, almeno, può essere sconvolto, e infatti poche ore dopo si scusa. Ma il torrente di parole incanaglite intanto si ingrossa, riempie di chiasso il sabato, seppellisce quel po’ di silenzio, di pietà che ci vorrebbe, davanti a quei due morti. Il fragore degli spari nella Questura triestina ha però un antefatto. La notte innanzi qualcuno non dormiva, in una casa di immigrati dominicani. Augusto Meran, 29 anni, malato psichico in cura presso la Asl, si agitava nel letto, strepitava. La madre cercava di calmarlo. Augusto sentiva le voci. «Ma non vedi, mamma, che sono venuti a prendermi, che vogliono uccidermi?». La madre, impotente, si assopisce. Alle 7 Augusto è scomparso. Lei corre in ospedale, chiede aiuto. Suona il cellulare, è l’altro figlio: «Mamma, Augusto ha combinato un guaio». Ha rapinato un motorino per strada. L’arresto, poi repentino quello scatto: un’arma, vera, in mano, il dito che preme sul grilletto, ciecamente, senza una ragione. La morte assurda di due ragazzi che sognavano di sposarsi. I loro genitori a casa, che ancora non sanno. Sarebbe solo il luogo di un attonito silenzio, quel pavimento macchiato di sangue. Ma già comincia la raffica dei 'bastardi', 'stranieri'. (D’altronde, così si fa per invadere Facebook, perché le agenzie ti riprendano. Più sbraiti e più moltiplicano la tua voce). In questo valzer di maledizioni, tuttavia, meraviglia grandemente una breve intervista della mamma dell’assassino a un tg. Una donna provata dalla fatica, arrivata in Italia dalla Germania, la faccia precocemente invecchiata simile a quella di tante colf che lavorano nelle nostre case. In più, il tormento di quel figlio. Cosa direbbe ai genitori delle vittime, domanda la giornalista. La donna, smarrita: «Che posso dire? Che può dire una persona a un padre che perde un figlio? Non c’è parola, non c’è nulla che possa confortare di un dolore così. Mi dispiace per quello che mio figlio ha fatto, è un malato mentale». La madre reprime le lacrime, lacrime vere sulla faccia esausta. Una pausa: «Noi siamo cristiani, noi abbiamo paura di Dio. Io non so come chiedere perdono a quei genitori». E tu che ascolti hai un sussulto: («Che posso dire, non ci sono parole, non so come chiedere perdono»). Lo straniero 'bastardo' è un folle lasciato a se stesso, e sua madre è una donna che piange, e comprende il dolore di quei padri, di quelle madri sconosciute. 'Che marcisca in galera!' 'Nessuna pietà!', gridano fuori, per conquistare il favore del popolo italiano. Ma a parlare cristiano è un’immigrata dominicana venuta qui con i figli per lavorare e sopravvivere. Uno, molto malato, sciaguratamente ha ucciso. Eppure le parole di una madre disgraziata risuonano, nel fragore delle maledizioni, quelle più pietose, e vere.

AVVENIRE di venerdì 4 ottobre 2019 Pag 3 Domande da non eludere per una scelta di dignità di Massimo Camisasca Il “fine vita” tra fede e ragione / 1

Caro direttore, la recente sentenza della Corte Costituzionale in merito all’impunibilità, a certe condizioni, dell’aiuto al suicidio di chi sia già determinato a togliersi la vita, pur in attesa delle motivazioni, richiede a tutti, credenti e non credenti, una profonda riflessione che ci consenta di uscire dai singoli casi, pur senza perderli di vista, per mettere in luce quali conseguenze questa decisione ha sulla nostra cultura e sulla nostra visione dell’esistenza. Non si tratta infatti di una questione marginale, ma di un cardine fondamentale della concezione di sé, del mondo e del rapporto con gli altri. La vita è un dono o è invece qualcosa di cui noi possiamo liberamente e arbitrariamente disporre? Non possiamo evitare questa domanda guardando a noi stessi, ai nostri figli, ai nostri amici, alle persone che ci sono più care. La vita è un dono anche quando essa è segnata dalla malattia, dalla povertà, dall’indigenza, dalle terribili conseguenze che possono avere sugli uomini e sulle donne di ogni età le gravi patologie, gli incidenti? La vita continua a essere un dono anche quando essa si svolge in condizioni drammatiche, che sembrano contraddire radicalmente tale concezione? La vita è un dono anche quando in noi sembrano spente le possibilità di relazione con gli altri, quando il dolore sembra attanagliare tutto il nostro corpo, quando sembriamo diventare un peso per coloro che più ci amano? La vita è un dono quando, in base ai criteri utilitaristici ed edonisti che dominano il nostro tempo, sembriamo essere diventati 'inutili', quando occupiamo un posto letto che potrebbe essere ambito da altri, quando l’uomo è considerato essere unicamente un numero dal servizio sanitario? Non possiamo eludere tutte queste domande, che ci obbligano a considerare quale sia il punto di vista da cui guardiamo il bene e il male, e la dignità della persona. Nel sommo rispetto verso coloro che soffrono, e che potremmo domani essere noi, verso i loro parenti e verso le necessità di tutti – rispetto che ci obbliga a non giudicare mai l’interiorità della coscienza di ciascuno – non possiamo allontanarci dal principio che ogni vita umana ha una dignità che non spetta a noi spegnere in nessun modo e per nessuna ragione. E ciò è vero non solamente sulla base di considerazioni che derivano dalla fede di chi crede, ma anche sulla base della ragione. Tutto ciò è affermato chiaramente anche dalla nostra Costituzione repubblicana all’art. 2 e dall’art. 3 della 'Dichiarazione dei diritti dell’uomo' del 1948, firmata anche dal nostro Paese. È necessario ribadire come tutto ciò sia sostenuto e accompagnato da una decisa avversione all’accanimento terapeutico. Non ci sono ragioni per prolungare indefinitamente l’esistenza, quando essa va verso la sua naturale conclusione. Questo è vero soprattutto per chi crede in una vita eterna oltre la vita naturale. Lo scacco della morte, così orribile e penoso per ciascuno di noi, non è uno scacco definitivo, ma il passaggio, pur doloroso e ripugnante, verso una vita migliore. Nessun medico, la cui professione è sempre un impegno di cura nei limiti delle umane possibilità, può arrogarsi il diritto né tanto meno ricevere per legge il dovere di contribuire attivamente a interrompere il corso della vita. Nessun famigliare, pur premuto da sentimenti di pena o di immensa fatica, può premere il bottone o azionare la siringa per determinare la morte di un suo caro. Occorre intraprendere con decisione un’altra strada: non lasciare soli i parenti, accompagnarli, sostenerli, aumentare in modo rilevante e significativo i contributi dello Stato per le strutture, pubbliche e private, predisposte ad accogliere chi necessita di terapie del dolore, di cure palliative e di ospitalità nelle fasi terminali della vita. Sono tutte situazioni che vanno affrontate con grande rispetto e con profonda partecipazione. Chi può stabilire quale sia la soglia del dolore insopportabile, psichico o fisico? Non si apre così la porta alla nascita di una cultura nuova e malvagia, per la quale una malattia mentale o un’altra patologia troverebbero nel suicidio assistito la strada normale della propria risoluzione? Papa Francesco si è pronunciato a più riprese in modo molto chiaro e con parole gravi su tutte queste tematiche. Il 20 settembre scorso ha affermato: «Si può e si deve respingere la tentazione – indotta anche da mutamenti legislativi – di usare la medicina per assecondare una possibile volontà di morte del malato, fornendo assistenza al suicidio o causandone direttamente la morte con l’eutanasia». Queste espressioni sono state riprese dalla Nota della Conferenza episcopale italiana del 26 settembre. Non devono essere mai questioni di bilancio dello Stato o delle strutture sanitarie a favorire una cultura di morte. La decisione del paziente, di cui parla la sentenza della Corte costituzionale, deve essere aiutata a sapere che esistono possibilità di affronto della sua situazione di dolore, che esistono strade di accompagnamento. Il più delle volte è proprio la paura della solitudine e della sofferenza 'inutile' a determinare la disperazione che porta verso il desiderio di morte. Troviamo qui grandi analogie con la realtà dell’aborto, che pur presenta ovviamente grandi differenze. La donna è spesso portata con immenso dolore e sensi di colpa verso la scelta dell’aborto perché non le sono state offerte altre strade, non ha avuto adeguati consigli, accompagnamenti e proposte di accoglienza. Come quarant’anni fa, ci troviamo non tanto di fronte a una divisione fra credenti e non credenti, quanto piuttosto a una di quelle scelte che determinano per decenni, e forse per secoli, lo sguardo che abbiamo sulla vita e sulla morte, e quindi sul futuro della nostra umanità. Giustamente la Nota della Cei dice: «La preoccupazione maggiore [del momento presente] è relativa soprattutto alla spinta culturale implicita che può derivarne per i soggetti sofferenti a ritenere che chiedere di porre fine alla propria esistenza sia una scelta di dignità». Diritto alla vita, accudimento dell’anziano e del malato, rispetto del creato: sono tre capitoli di un unico libro.

Pag 3 Definire con chiarezza l’aiuto alla terminazione delle cure di Roberto Mordacci Il “fine vita” tra fede e ragione / 2

Caro direttore, è innegabile che la medicina odierna abbia mutato profondamente le condizioni di vita dei pazienti in situazioni estreme. La possibilità di trovarsi in gravi sofferenze e senza alcuna prospettiva di recupero per lunghi e dolorosi periodi di tempo, costantemente legati a tecnologie di supporto vitale, è per molte persone un incubo che vorrebbero evitare. A questa previsione ha in realtà posto parziale rimedio la legge 219 del 2017 sulle Disposizioni anticipate di trattamento (Dat), attraverso le quali la persona capace di intendere e di volere può dichiarare anticipatamente il proprio rifiuto di queste cure. Manca però il chiarimento normativo della situazione in cui la persona è sottoposta a trattamento salvavita in una condizione di malattia irreversibile e l’interruzione delle cure comporta inevitabilmente una sedazione terminale. La Corte costituzionale, a mio giudizio, è intervenuta opportunamente, perché il vuoto legislativo, non colmato dal Parlamento in ben un anno di tempo, riguarda un’area in cui le categorie su cui si basa attualmente il diritto (e specificamente l’art. 580 del codice penale, che non distingue fra aiuto e istigazione al suicidio) non riescono a coprire con chiarezza i casi generati dalla medicina recente. La Corte ha posto alcune condizioni entro le quali l’aiuto al suicidio non configurerebbe un reato e con ciò ha aperto alla necessità di una nuova e più precisa legislazione in merito. La via d’uscita da questa impasse non va però cercata in una legislazione sull’eutanasia. Ciò che è in gioco è propriamente stabilire una differenza giuridicamente rilevante fra l’aiuto alla terminazione delle cure salvavita e l’aiuto al suicidio. La terminazione delle cure in condizioni di grave sofferenza, di consapevolezza, di irreversibilità e di richiesta competente, anche quando coadiuvata dalla sedazione terminale, non è equiparabile all’aiuto e men che meno all’istigazione al suicidio: l’aiuto medico va nel senso di consentire la terminazione di cure che prolungano uno stato irreversibile e di lento progressivo decadimento, rifiutate dal paziente. Questi non chiede di essere aiutato a suicidarsi, bensì di essere lasciato morire in condizioni controllate, che riducano la sofferenza del passaggio dalla vita alla morte. Dunque, questa situazione non può essere equiparata all’aiuto al suicidio. D’altra parte, questo processo non è l’eutanasia, che è un’uccisione attiva del paziente e che, come è successo in alcuni dei Paesi in cui è stata legalizzata, arriva a prescindere dalle condizioni del paziente, sia esso terminale o semplicemente depresso o in condizioni non gravi o addirittura minore. È per questo che è di somma importanza tracciare una distinzione chiara e netta fra aiuto alla terminazione delle cure, che va legittimata date le condizioni indicate dalla Corte, e da un lato l’aiuto al suicidio e dall’altro l’eutanasia, che continuano a essere illegittime. A questo punto, infatti, se il legislatore non intervenisse si aprirebbe una deriva pericolosa che potrebbe portare alla legalizzazione di un’eutanasia priva di regole e dunque esposta ad abusi.

Pag 3 L’etica contro l’ideologia tutela il ruolo dei medici di Stefano Ojetti Il “fine vita” tra fede e ragione / 3

Caro direttore, era una sentenza annunciata e facilmente prevedibile, per come era stata già formulata la legge 219 del 2017 sulle disposizioni anticipate di trattamento (Dat), quella che la Corte costituzionale ha pronunciato sull’aiuto al suicidio, questione fin’ora normata dall’art. 580 del Codice penale che prevedeva pene tra i 5 e i 12 anni di carcere per i trasgressori. La Corte, in attesa di un inevitabile intervento del legislatore, ha aperto alla non punibilità subordinandola al rispetto delle modalità previste dalla normativa sul consenso informato, sulle cure palliative e sulla sedazione profonda (la legge 219 appunto). Risulta invece incomprensibile il fatto che l’articolo 32 della Costituzione, sempre citato dai fautori dell’autodeterminazione in materia di salute, venga menzionato ed applicato solamente nella sua prima parte: «Nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge», ma mai nella sua seconda ancor più importante: «La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana» e quale è il massimo rispetto della persona umana se non quello della salvaguardia della vita? I punti fondanti di tale sentenza si basano sul riscontro di queste condizioni: presenza di patologia irreversibile, condizioni di sofferenza fisica o psicologica intollerabile, trattamenti di sostegno vitale come unico strumento di sopravvivenza del malato, capacità del malato stesso di prendere decisioni libere e consapevoli. Su tali condizioni credo che qualche considerazione di carattere medico-scientifico vada fatta. La pratica clinica insegna infatti che pazienti con prognosi infausta spesso sopravvivono inspiegabilmente per svariati anni, così come al contrario altri sopravvivono solamente pochi mesi nonostante la spettanza di vita sia, secondo i protocolli, di alcuni anni. Allora qual è il criterio di irreversibilità clinica rispetto alla reale sopravvivenza se, non raramente, ci si trova di fronte a tali inspiegabili situazioni? Parlare di dolore fisico incoercibile risulta oggi obsoleto, quando attualmente attraverso le cure palliative e, all’occorrenza, la sedazione profonda si tengono sotto controllo, con grande beneficio per il paziente, patologie dolorose che fino a qualche tempo fa era inimmaginabile poter affrontare. L’annosa problematica relativa al sostegno vitale, come «unico strumento di sopravvivenza» sollevata peraltro già nelle Dat, equivale a dire essenzialmente che se l’idratazione può essere interrotta provocando il decesso, essa allora può essere paradossalmente equiparata alla stessa alimentazione che, ovviamente, se sospesa provoca egualmente la morte. La problematica diventa complessa quando si fa cenno alla sofferenza psicologica. Si può soffrire psicologicamente infatti per le più svariate motivazioni non sempre correlate a una patologia fisica. Si può essere depressi per un crac finanziario, per un divorzio, per problematiche legate alla famiglia o a malattie dei propri cari e le ragioni possono moltiplicarsi all’infinito. Anche il malato neoplastico va tipicamente in depressione, compito del buon medico è quello di supportare psicologicamente e aiutare il paziente anche con terapia farmacologica. In tutte queste condizioni di depressione anche senili risulterà in un prossimo futuro anche lecito, se richiesto, l’aiuto al suicidio? La problematica reale che inevitabilmente si apre quindi è quella etica contrapposta a quella ideologica dell’autodeterminazione: il corpo è mio e ne faccio quello che voglio. È poi eticamente accettabile che uno Stato si preoccupi più di trovare strumenti e risorse per assicurare una 'buona morte' piuttosto che al contrario assicurare una vita dignitosa anche nella malattia a chi vuol vivere? Basti pensare ai malati non autosufficienti che quei genitori anziani, spesso con pensioni minime e senza aiuti, non riescono più anche fisicamente ad accudire in casa. La realtà è che risulta molto più facile ed economicamente conveniente per lo Stato affrontare il problema del fine vita 'staccando la spina' piuttosto che col 'prendersi cura', che significa farsi carico della persona al crepuscolo della propria esistenza con ovviamente tutta la fatica e gli oneri che ciò richiede: saper ascoltare, saper lenire la sofferenza e assicurare alla famiglia tutta quella assistenza medico-infermieristica che il sofferente richiede. Quattro sono essenzialmente le prestazioni sanitarie che bisogna garantire alla persona nel momento più difficile della propria esistenza per accompagnarlo a una morte dignitosa: l’idratazione per non condannare il paziente a morire di una orribile morte quale la sete, il controllo del dolore certamente raggiungibile oggi con tutti i presìdi – farmacologici e no – messi a disposizione dalla moderna medicina, l’assicurare una buona ventilazione con ossigenoterapia ed eventuali broncoaspirazioni se indicate, e da ultimo ma non meno importante l’igiene della persona, assicurando in tal modo al sofferente il sollievo, la dignità e il rispetto del proprio corpo. La sentenza sulla non punibilità a determinate condizioni del suicidio assistito rischia di aprire le porte all’eutanasia, offrendo un incentivo di fatto a situazioni e comportamenti (anche familiari) che potrebbero portare nel tempo ad agire negativamente nei confronti di un congiunto. In una tale problematica certamente non può e non deve essere coinvolta la figura del medico, il quale deve essere libero di operare secondo scienza e coscienza in accordo con l’art. 17 del codice deontologico « il medico, anche su richiesta del paziente, non deve effettuare né favorire trattamenti diretti a provocarne la morte». A tale proposito il Santo Padre, nel recente incontro avuto con la Federazione nazionale dei medici e odontoiatri, ha ribadito che «la medicina, per definizione, è servizio alla vita umana». Proprio di questo si tratta: non si può chiedere agli operatori sanitari di contravvenire a ciò che è nel Dna della professione medica e cioè donare salute anziché dispensare la morte; tutto ciò può essere riassunto nella scritta sul portale dell’Hotel Dieu, il più antico ospedale di Parigi: «Se sei malato vieni e ti guarirò, se non potrò guarirti ti curerò, se non potrò curarti ti consolerò».

CORRIERE DELLA SERA di giovedì 3 ottobre 2019 Pag 1 Una sfida epocale alla Chiesa di Ernesto Galli della Loggia Universalismi contro

Ci sono ragioni ben più importanti di quelle dei buongustai per continuare a ragionare intorno alla decisione di bandire la carne di maiale dalla preparazione dei tortellini in occasione della festa del santo patrono di Bologna: provvedimento motivato dal desiderio di non offendere la sensibilità di coloro cui il precetto religioso vieta di mangiare la carne di quell’animale. Ragioni più importanti anche degli sgangherati berci in difesa delle «nostre tradizioni» a cui la destra italiana è solita abbandonarsi in queste circostanze. Perché qui non si tratta tanto delle «nostre tradizioni» o di altre cose simili. Si tratta, a me pare, di alcuni decisivi indirizzi di fondo della Chiesa cattolica. Infatti, anche se l’arcivescovo di Bologna, il cardinale Zuppi, ha rifiutato la paternità della decisione, egli l’ha comunque fatta sua, confermandone l’origine negli ambienti della Curia o comunque ad essa vicini. In via preliminare viene comunque da porsi una domanda. Posto che ad avere l’interdetto religioso a cibarsi della carne di maiale sono oltre i musulmani anche gli ebrei, risulta forse che nelle precedenti celebrazioni qualcuno, e per prima naturalmente la Curia attuale, si sia mai preoccupato di creare loro qualche imbarazzo servendo per la festa di san Petronio i tortellini tradizionali? Non mi pare. So bene che a Bologna gli ebrei sono una sparuta minoranza mentre la presenza degli islamici è una presenza numerosa. Ma basta questo a fare la differenza in materia di «accoglienza»? Almeno simbolicamente la sollecitudine alimentare, chiamiamola così, non sarebbe dovuta valere anche per gli ebrei? Certo, a pensare male si fa peccato, ma è difficile credere che quando si tratta di Islam e di islamici, allora non si tenga inevitabilmente conto della capacità di pressione dell’immensa comunità islamica mondiale, delle potenzialità che essa rappresenta, del peso altrettanto formidabile delle immense risorse finanziarie del mondo arabo e, mettiamoci pure questa, dell’estrema suscettibilità di taluno dei suoi membri, pronta a trascendere nella violenza più feroce (ne sa qualcosa proprio la cattedrale di san Petronio, da anni guardata a vista dall’esercito a causa di una sempre incombente minaccia degli islamisti per via dell’esistenza tra le sue mura di un’effige di Maometto non di loro gusto). Tutte cose che per gli ebrei non si pongono di certo. Ma tralascio queste osservazioni per venire alle questioni più importanti che è dato scorgere dietro la decisione bolognese. Quella decisione, infatti, testimonia di qualcosa di generale e di profondo che riguarda un modo d’essere e di pensare che sempre più appare l’attuale modo d’essere e di pensare della Chiesa cattolica. È la tendenza, ormai avvertibile per mille segni, a confondere l’universal e con l’indistinto. A interpretare l’intima vocazione del cattolicesimo verso il mondo, la sua storica indole missionaria ad accogliere tutto il mondo dentro di sé, come equivalente alla necessità di confondersi con il mondo stesso, di recepirne esigenze, prospettive, lessico, punti di vista. Si badi non sto rimproverando affatto al magistero di indulgere a una qualche forma di quietismo morale, di «laissez faire» dottrinale o pratico di fronte alla dimensione del peccato che domina il mondo. Si tratta di un problema del tutto diverso, collegato ad una straordinaria novità storica. Al fatto che a partire dalla seconda metà del Novecento un’ideologia etica di ambito planetario è andata via via emergendo, per la prima volta nella storia, muovendo da un nucleo originario rappresentato dalla formulazione dei diritti umani. Di essa sono venuti progressivamente a far parte, insieme alla crescita continua dei suddetti diritti, il pacifismo, l’ecologismo, l’antisessismo e quant’altro potesse essere compreso in un’ indistinta prospettiva mondialistico-buonista sotto l’egida di qualche organizzazione o movimento internazionale. Il cattolicesimo romano con la sua consustanziale ambizione universale si è così trovato di fronte alla sfida interamente inedita di qualcosa che di fatto ambiva a stargli alla pari; che gli stava alla pari. Si è trovato a fare i conti con una sorta di morale anch’essa universale, d’ispirazione naturalistica e di tono fortemente laico, il cui effetto era, ed è, di porre in subordine ogni specifico discorso religioso, ormai ineluttabilmente avviato, si direbbe, a figurare al massimo come una parziale articolazione di sapore arcaico e quasi folklorico di quel più vasto afflato etico che guadagna spazio ogni giorno. La rinuncia bolognese al maiale testimonia in modo perspicuo di una postura che la Chiesa cattolica – sostanzialmente per difendersi nella sfida di cui sopra – tende oggi ad assumere. E cioè la tendenza a deporre ogni tratto della propria identità storica che denunci uno scostamento troppo marcato dai principi dell’indistinto etico-mondialista. Così facendo la Chiesa è convinta, bisogna credere, di aprirsi positivamente al mondo; e alla fine di riuscire in tal modo ad assimilarlo a sé, potendo tra l’altro essa disporre di una risorsa – il Sacro – di cui l’umanesimo buonista non può disporre. Se tale assimilazione – nella quale è sempre la Chiesa cattolica e mai gli altri che di regola appare rinunciare a qualcosa – potrà avere un reale successo, ovvero se al contrario quell’assimilazione preluda ad una virtuale fusione della Chiesa nel mondo; se piuttosto che fare cristiano il mondo la Chiesa stessa finirà invece per farsi eguale al mondo: dalla risposta che i fatti daranno a questi interrogativi dipenderà l’avvenire del cattolicesimo. E forse anche l’avvenire di qualche cosa d’altro.

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