Crisi Ambientale: Un Problema Filosofico

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Crisi Ambientale: Un Problema Filosofico Corso di Laurea Magistrale in Scienze filosofiche Tesi di Laurea Crisi ambientale: un problema filosofico Relatore Ch.mo. Prof. Giorgio Brianese Correlatore Ch.mo. Prof. Edwin Craig Martin Laureando Federico Prà Matricola 859202 Anno Accademico 2017 / 2018 Ai miei animali domestici: Lapo, Reginaldo, Mozart, Silvano e il piccolo Salieri. 1 Indice Introduzione………………………………………………………………………3 PARTE I: DUE ESEMPI E UNA PANORAMICA……………...........................8 1. La situazione…………………………………………………………9 2. Rachel Carson: La “madre” dell’ambientalismo…………………...12 3. Lara Bettoni: Una diretta “discendente” di R. Carson……………...22 4. Panoramica delle radici storiche della filosofia ambientale………..32 4.1. Il pensiero ambientalista nel Novecento………………………40 4.2. Antropocentrismo, Biocentrismo e Deep Ecology…………….46 PARTE II: L’ECOSAGGEZZA DI ARNE NAESS……………………………54 1. Ecologia profonda ed ecologia superficiale: l’articolo del 1973…...55 2. L’approccio che contraddistingue la Deep Ecology………………..61 3. Il diagramma a grembiule e la piattaforma…………………………67 4. L’ecologia come saggezza e responsabilità………………………...74 5. La relazionalità……………………………………………………..78 6. L’esperienza spontanea……………………………………………..81 7. Contenuti concreti e strutture astratte del reale……………………..84 8. Fatti e valori………………………………………………………...95 9. Due accezioni del termine visione totale…………………………...98 10. Valore intrinseco e biocentrismo………………………………….103 11. Il Sé ecologico…………………………………………………….110 12. L’azione bella……………………………………………………..128 13. L’etica come sistema normativo…………………………………..135 Conclusione……………………………………………………………………143 Appendice……………………………………………………………………...148 Bibliografia…………………………………………………………………….153 2 Introduzione Crisi ambientale: un problema filosofico, questo è il titolo del mio ultimo lavoro universitario. In questo lavoro vorrei sostenere, assieme ad Arne Naess ed i suoi interlocutori, che la crisi ambientale deriva, anche, da una certa mentalità tecnico-scientifica, che nel tempo, si è sempre più consolidata nella zona occidentale del nostro pianeta riducendo a sole poche qualità fondamentali la natura a scapito di molte altre, come ad esempio le qualità secondarie e terziarie, considerate solamente soggettive. Gli stili di vita dell’uomo moderno si scontrano nettamente con la realtà circostante, da un lato sembrano donare ricchezze sempre maggiori garantendo una “felicità” pressoché illimitata, ma dall’altro nasconde una degenerazione preoccupante del rapporto Uomo-Mondo. I danni ambientali sembrano essere un palese campanello d’allarme dell’irrispettosa posizione che gli uomini si sono arrogati di assumere all’interno della natura; ma se la mentalità non viene modificata saremo destinati a veder sempre più zone del nostro pianeta inquinate dal quel “progresso tecnico” (con tutte le imprevedibili conseguenze che esso spesso porta in seno) che tanto inorgoglisce le nostre menti. Sembra che si stiano avverando tutte le preoccupazioni che Gunther Anders aveva già messo in luce nel secolo scorso. “La tecnica è oggi il nostro fato”1 scriveva Anders, ed il cieco e inarrestabile imporsi di strutture tecniche nella nostra vita comporta qualcosa come un progressivo svuotamento o un’inesorabile atrofizzazione di ciò che rende umano l’uomo, della sua natura profonda, della sua essenza. Tra la dimensione prettamente umana dell’esistenza singolare, irripetibile, che è data a se stessa e che non si è voluta, ma che può progettare se stessa a partire da tale datità, e la dimensione tecnica, caratterizzata invece dall’esecuzione di funzioni perfette e anonime, all’insegna di una serialità meccanica tanto più efficace quanto più sottratta al carattere provvisorio e contingente della vita, non può che aprirsi un baratro: un vuoto che per Anders è scavato dalle procedure tecniche al centro della humanitas dell’uomo, a causa del 1 G. Anders, L’uomo è antiquato, vol. I Considerazioni sull’anima nell’epoca della seconda rivoluzione industriale, trad. it. L. Dallapiccola, Bollati Boringhieri, Torino 2007, p. 17. 3 quale quest’ultimo diviene sempre più estraneo a se stesso, finendo ai margini della sua stessa esistenza. Sembra proprio che il sentimento più rappresentativo del nostro tempo sia quello della vergogna che Anders individuò come un nuovo pudendum2. L’elemento intrinsecamente antiumano della tecnica consiste nella serialità, nella potenziale riproducibilità di copie infinite, attraverso la quale si profila quella che appare a tutti gli effetti come un nuovo tipo di immortalità.3 Sfugge alla morte e all’annientamento solo ciò che può riprodurre se stesso in modo sempre identico e indefinito, ragion per cui ogni nuova copia sostituisce di fatto la precedente, in una continuità tale per cui non è praticamente possibile, né sensato, distinguere tra il vecchio e il nuovo prodotto, dal momento che l’uno e l’altro sono la medesima cosa4. Tutto ciò, nell’ottica andersiana, comporta una sorta di capovolgimento del rapporto uomo-prodotto, dove non è più il primo a creare e a servirsi del secondo, bensì è quest’ultimo a disporre di quello: “insomma: i soggetti della libertà e della mancanza di libertà sono scambiati. Libere sono le cose; mancante di libertà è l’uomo.”5 Ma dire questo significa dire che si restringe in modo consistente lo spazio per la specifica responsabilità umana. L’uomo riconoscendo la propria imperfezione di fronte alla macchina ritiene inevitabile delegare ad essa persino le scelte che normalmente incomberebbero su 2 “Credo di essere capitato sulle tracce di un nuovo pudendum; di un motivo di vergogna che non esisteva in passato. Lo chiamo per il momento, per mio uso, “vergogna prometeica”, e intendo con ciò “vergogna che si prova di fronte all’‘umiliante’ altezza di qualità degli oggetti fatti da noi stessi.” Ivi, cit., p. 31. 3 Su questo tema consiglio la lettura del romanzo dickiano Ubik. “Dick è forse il solo narratore che abbia posto al centro della sua opera l’ambiguità della merce in quanto tale, esaltandola nella sua valenza utopica e tirannica: l’essenza della merce, la merce come essenza metafisica, la merce quale sostrato spettacolare e accattivante di ogni prodotto concepito e realizzato dalla società dei consumi.” G. Cuozzo, Filosofia delle cose ultime. Da Walter Bejamin a Wall-E, Moretti e Vitali, Bergamo 2013, p. 73. 4 Anders chiama questo fenomeno reincarnazione industriale, la quale rappresenta quanto più vicino ci sia alla convinzione platonizzante di un universo di idee, matrici o modelli originari, sui quali sono plasmati tutti gli esemplari concretamente esistenti. Cfr, G. Anders, L’uomo è antiquato, cit., p. 55. 5 Ivi, cit., p. 41. 4 di lui. Anders porta il caso del generale McArthur, comandante americano nella guerra di Corea, come esemplificazione di questa rinuncia all’esercizio della responsabilità6. Gunther Anders ha avuto il merito di intuire la centralità del “vergognarsi” (atto riflessivo), vedendo come in esso si esprima una relazione dell’uomo con sé stesso. Tuttavia questa relazione fallisce di principio, in quanto colui che si vergogna scivola in una specie di antinomia, in virtù della quale si sente, al tempo stesso, identico e non identico a sé stesso. Precisamente per questa ragione Anders arriva ad affermare che la “vergogna è un turbamento dell’autoidentificazione, uno ‘stato di perturbamento’.”7 Questo turbamento dell’autoidentificazione, per Anders, non è solamente un disagio psicologico ma è la spia di una crisi antropologica in cui è in gioco il modo d’essere stesso dell’uomo, quella dignità che tutta una tradizione di pensiero filosofico gli ha conferito e che ora sembra svanire in virtù delle problematiche metamorfosi dell’anima nell’età della tecnica. D'altronde vergogna, rassegnazione, sfiducia, indifferenza ai disastri (ciechi di fronte all’Apocalisse, direbbe Anders) sono i frutti che la nostra società dei consumi ci offre quotidianamente. Ma l’uomo non può essere destinato ad essere la cellula tumorale di Gaia e, per di più, in balia delle sue stesse produzioni. Credo fermamente, assieme ad Arne Naess, che: “Ad oggi esiste essenzialmente una pietosa sottostima delle potenzialità della specie umana. La nostra specie non è destinata ad essere la piaga della Terra. Se l’uomo è destinato ad essere qualcosa, probabilmente è ad essere colui che, consapevolmente gioioso, coglie il significato di questo pianeta come un’ancor più grande totalità nella 6 “chi trasferisce la responsabilità da un uomo a una macchina trasferisce con ciò anche la sua propria responsabilità. […] Dato che contiamo meno bene della nostra macchina, non si può far conto su di noi; dunque noi non ‘contiamo’.” Ivi, cit., p. 64. 7Ivi, cit., p. 68. 5 sua immensa ricchezza. Questo potrebbe essere il suo ‘potenziale evolutivo’, o una parte ineliminabile di esso.”8 Naess sarà il filosofo di riferimento per quanto riguarda questo lavoro, in quanto ritengo che la sua particolare filosofia possa aiutare a svincolarsi dai mali astratti della nostra società, riscoprendo, al tempo stesso, la centrale importanza di noi stessi e del nostro ambiente. La tesi, dunque, ruota attorno alla figura di questo filosofo norvegese ancora poco noto in Italia ed è stata pensata come un avvicinamento a tale filosofo, immaginando il percorso come se si stesse sbirciando dallo spioncino del cancello del Priorato dei Cavalieri di Malta sul colle Aventino a Roma 9 . L’elaborato non pretenderà, dunque, d’essere un lavoro esaustivo e completo sui temi ambientali, tantomeno l’esposizione organica del pensiero di Naess, queste sono analisi che vanno oltre gli sforzi di un
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