IL SIGNOR DIAVOLO regia di Pupi Avati (Italia, 2019) Trama. Laguna veneta, 1952. Furio Momentè (Gabriel Lo Giudice) è un oscuro funzionario ministeriale che viene inviato nel Veneto per indagare su un triste fatto di cronaca: il quattordicenne Carlo Mongiorgi (Filippo Franchini) ha ucciso un suo coetaneo, Emilio Vestri Musy (Lorenzo Salvatori), affermando che egli sia in realtà il diavolo. A spingerlo sarebbero stati Gino, il sacrestano del paese () e una suora, zia del ragazzo. Intanto, la madre del morto Clara Vestri Musy (Chiara Caselli), una potente nobildonna del luogo, minaccia di creare uno scandalo per compromettere la vittoria della Democrazia Cristiana in una zona tradizionalmente bianca. Accanto a questi personaggi si muovono il parroco don Dario Zanini (Lino Capolicchio), padre Amedeo, un anziano esorcista (), il medico legale dr Rubei ()e il giudice istruttore (Massimo Bonetti). Durata: 86’. Il signor Diavolo ricorda due film fondamentali nell’opera di e che avesse come perno il male. Nella vita quotidiana non parliamo Pupi Avati: La casa dalle finestre che ridono (1976) e mai del male perché lo pratichiamo e vogliamo autoassolverci con (1983). Titoli centrali del genere horror italiano, riletto in pesanti conseguenze; c’è l’abitudine ad addossarlo al diverso da noi quella forma poetica che viene solitamente chiamata e ad avere nei confronti del male una certa elasticità e permeabilità. “gotico padano”, e che ha nel regista bolognese il suo Per questo la figura del diavolo è stata completamente cancellata principale autore. Esso, insieme al , costituisce la come è stato ridimensionato il concetto di peccato». La scelta di far versione più originale della produzione horror e thriller ricadere il peso della più grave colpa umana immaginabile italiana e in una certa misura riflette, deformandola però, sulle spalle di un bambino (un minore) consente ad Avati l’altro polo di interesse della cinematografia avatiana, il di riflettere sul concetto stesso di maligno, costruendo ritratto agrodolce della piccola borghesia di provincia. Se uno schema in cui poter giustapporre continuamente i da un lato, in tutta la sua filmografia, Avati congela un concetti di bene e male, di apparenza e verità, celate fermo immagine dell’Italia attraverso il racconto della sua spesso l’una dentro l’altra. Tutti i personaggi del film classe media, di epoca in epoca (sfruttando come genere agiscono spingendosi – più o meno volontariamente – in di riferimento tanto la commedia quanto il dramma), direzione del male: dal piccolo Carlo, che pure afferma di dall’altro nel suo riflesso si notano le ombre lunghe di una aver agito per una necessità superiore, allo stesso società contadina sospesa tra superstizioni ancestrali, fede funzionario Furio Momentè, che brama far carriera e ha cristiana e modernità. Infatti, Il signor Diavolo, che Avati ha un rapporto conflittuale con il padre, rimasto a Roma tratto dal suo romanzo omonimo pubblicato da Guanda incosciente nel letto di un ospedale. Avati rende i suoi nel 2018, è un “racconto del gotico maggiore”. Al centro personaggi attori di una vita che non può evitare le ombre c’è sì infatti la costruzione di un’atmosfera, elemento lunghe dei demoni notturni (interiori, mentali o reali, il essenziale per il genere – e il Veneto lagunare, da Venezia confine non è determinato) che la abitano. Essi sembrano al delta del Po, non è mai apparso così malinconico, calarsi nelle fenditure tra il mondo reale e razionale e paesaggio autunnale di un mondo che muore – ma vi quello irreale e onirico, attraverso le quali queste due trova spazio una sensibilità religiosa in cui l’ispirazione dimensioni si osservano a vicenda. Nello spazio angusto cristiana è dominata da una più antica fascinazione per il e fuggevole della contaminazione reciproca Pupi Avati “tremendo”, che insieme al “fascinoso” è l’elemento evoca zone d’ombra in cui luce e tenebra si alternano costitutivo del sacro primordiale. Non è un caso che i titoli continuamente, e l’orizzontalità e la quiete sono sempre strettamente ricollegabili all’orrore all’interno della soltanto apparenti. È «quel male che volevo raccontare, quel male filmografia di Avati ruotino sempre attorno alla religione che muore e si rigenera in una infinità di vite nuove e imprevedibili», e a figure ecclesiastiche al limite dell’ortodossia (il parroco scrive ancora Pupi Avati nelle note di regia. «Oggi gli autori de La casa dalle finestre che ridono, il prete spretato di Zeder, il parlano di sé e dei loro problemi quotidiani, senza sublimare il loro monsignore de L’arcano incantatore, le due converse de Il mondo personale in una narrazione fantastica. L’horror è stato nascondiglio). Anche ne Il signor Diavolo la Chiesa ricopre un l’unico modo per raccontare l’inquietudine di un male che dilaga.» Il ruolo importante: il paesino nel quale è ambientata la male è ovunque e si manifesta in dettagli significativi, nelle vicenda (Lio Piccolo, nella laguna veneziana) trova nella bizzarrie fisiognomiche di tutti, nelle deformità goyesche parrocchia il suo centro vitale e sono gli anni del dominio di Emilio, nelle leggende contadine, nel mito del “non- democristiano nel Nordest la cui stabilità politica poteva morto” masticatore cui si doveva inibire l’azione postuma essere compromessa da uno scandalo legato alla religione. sigillando la bocca. Quel che emerge è l’affresco di una Dall’esigenza strettamente pratica di evitare uno scandalo, società minata dal male in cui anche i gesti più semplici e parte precisamente lo spunto della detection che però mira quotidiani possono assumere connotati inquietanti. ad esplorare temi di maggiore profondità. Il racconto, Scegliendo una regia livida e desaturata nelle scelte volutamente tratteggiato per dettagli, anche ricorrendo a cromatiche Avati immerge il suo film in un tempo fuori brevi flashback (il ricordo di un bambino rinchiuso per del tempo, eradicando qualsiasi componente strettamente punizione al buio, la forfora sulla giacca del giovane transitoria dal racconto e rendendolo di fatto universale. funzionario ministeriale, le smagliature nelle calze della Poca importanza ha che l’azione si svolga nel 1952, perché nobildonna) più che indagine su uno scandalo, vuole ciò di cui si parla è ancestrale, è nato con l’uomo e lo essere riflessione sulla natura misteriosa di un male dalle accompagna. È la paura del buio, l’irrequietezza che crea connotazioni sfuggenti. Lo afferma lo stesso regista in l’immagine di una stanza che si apre su un abisso di scale, un’intervista: «Ho voluto scrivere una storia che potesse spaventare il gelo nel sangue provocato dal rumore di un neonato che piange nella notte. È l’ipotesi sacrilega, che turba anche narrativa: si opta per una struttura classica, quella del chi non ha fede. Per inquietare e suggestionare il pubblico, “testimone” alle prese con qualcosa di più grande di lui: Avati tratteggia un racconto ricostruito attraverso i verbali lo spettatore sposa lo sguardo e il punto di vista del degli interrogatori durante l’istruttoria. Si tratta di una protagonista e vive lo stesso grado di suspense: dovrà infatti storia già vissuta, che prende corpo in immagini partendo presto rendersi conto che le persone non sono mai ciò che da parole pronunciate e trascritte. Una ricostruzione che dicono di essere, ma nascondono qualcosa. La fotografia da orale si trasforma in visuale, e che spiazza lo spettatore, evocativa del film è firmata da Cesare Bastelli, abituale che potrà vivere il tempo presente con i personaggi in scena solo nella seconda metà del film, quando Momentè collaboratore di Avati, ed è giocata nel continuo attrito fra è oramai a Venezia e cerca di far venire alla luce un’oscura spazi aperti che hanno il rarefatto nitore metafisico di certi verità. Di ritorno all’orrore a dodici anni di distanza da Il quadri alla De Chirico e spazi interni chiusi e ristretti che nascondiglio Pupi Avati si dimostra ancora una volta in soffocano lo sguardo e il pensiero (sottoscala, sgabuzzini, grado di cogliere le sottili incrinature dell’umano, e botole sotterranee, scantinati), piccoli luoghi bui che però soprattutto il sentimento del “perturbante”, oggetto del influenzano ciò che accade nei grandi spazi aperti. celebre studio di Sigmund Freud (1919). Il perturbante si Aperto/chiuso, buio/luce, piccolo/grande: fotografia e attiva prevalentemente alla ricomparsa improvvisa di scenografia tessono una partitura di contrasti luministici e immagini e sensazione un tempo conosciute e spaziali che dialoga con i contrasti morali e sociali che successivamente represse o dimenticate. Come accade nel innervano il racconto e la sceneggiatura. Gli spenti grigi, film, ad esso si associa una reazione superstiziosa che gli ocra e i marroni, i colori quasi sepolcrali della fotografia mette in discussione il sapere scientifico e razionale. La rendono tangibile quella minaccia immateriale che aleggia comparsa del demoniaco mette più prepotentemente in sulle vite dei personaggi. Molte scene del film sono girate dubbio il sapere dato per acquisito, collegandosi immediatamente a reflussi primitivi ormai repressi o ponendo la macchina da presa al livello del suolo e rinnegati. Infatti, la caratteristica che fa del perturbante osservando il mondo da quella particolare prospettiva (il il paradigma ideale per la definizione delle reazioni punto di vista del diavolo). Gli effetti speciali sono curati dello spettatore davanti a un film come questo è proprio dallo specialista Sergio Stivaletti, capace di sciorinare un la capacità di generare non paura, ma inquietudine per campionario di efferatezze splatter e gore ad alto impatto la mancanza di certezze, e dubbi su aspetti della vita grafico. La regia incrocia stilemi da gotico tradizionale che prima si ritenevano stabili. Emerge qui la critica del (ralenti, prospettive basse, deformazioni verticali) a tipiche regista alla presunzione della scienza e all’inadeguatezza visioni avatiane su volti e paesaggi. L’horror di Avati però delle istituzioni (chiesa, giustizia, politica), incapaci di è fatto più di atmosfere che di effetti, più di disagio che ti comprendere che ci sono enigmi impossibili da risolvere. si insinua sotto la pelle che di sorprese che fanno Il male espresso ne Il signor Diavolo per Avati si configura sobbalzare sulla sedia; ne nasce un oggetto filmico allora come rispecchiamento del lato scuro di ogni essere affascinante, disturbante, che conferma quanto Avati sia umano, e il piccolo paese padano diviene lo specchio di ancora il maestro del cinema “padano”. Altrimenti non si un mondo in cui l’influenza maligna si propaga come un morbo, in forme oscene e grottesche. spiegherebbe come mai il bambino che si dice posseduto Accanto al tema del male, nel film c’è inoltre un accenno dal diavolo si chiami Emilio… Il cast è popolato di al motivo della perdita e della solitudine dell’infanzia: la interpreti che già tanto hanno dato al cinema del regista morte di Paolino, l’amico inseparabile di Carlo, lascia nel bolognese: da Lino Capolicchio a Gianni Cavina, da suo compagno un dolore profondo e il desiderio Alessandro Haber a Massimo Bonetti e da giovani e struggente di rivederlo. La sequenza più delicata del film giovanissimi come Gabriel Lo Giudice e Filippo è appunto quella in cui Carlo quasi supplica l’invisibile Franchini, sebbene la palma della migliore interpretazione Paolino di fare insieme con lui i compiti, ancora una volta, spetta senza dubbio a Chiara Caselli, dura e aspra, come come se niente fosse cambiato. È la stessa promessa che prevede il ruolo. Alcuni critici hanno però rilevato qualche il regista ha strappato a un amico, prima che questi difetto nel film, nell’insufficiente caratterizzazione di certi morisse: la richiesta di farsi vivo con un segno per personaggi, a partire dal protagonista, e soprattutto in consolarlo. Segno che Avati afferma di attendere ancora. alcuni passaggi bruschi del racconto che rendono poco Il punto di vista formale. Pupi Avati ha scritto la comprensibile il finale, a causa probabilmente dei limiti sceneggiatura del film traendola dal un suo romanzo, economici della produzione e della volontà del regista di assieme al fratello Antonio - che gli fa da produttore - e al offrire dei sequel al film. figlio Tommaso. Azzeccata la scelta della struttura Il regista. Giuseppe Avati detto Pupi (, 3/XI/1938) dai tempi del suo debutto come regista cinematografico (1968) si è reso interprete di un cinema nostalgico e intimista, che racconta con finezza e suggestione, ora amabile, ora patetica, esperienze sentimentali e piccole storie borghesi legate alle sue origini emiliane e ai suoi sogni americani (il cinema di Hollywood, il jazz) non disdegnando talora sperimentazioni personali ed originali incursioni nel genere horror e nel thriller. Il suo cinema prolifico (39 film da lui diretti finora) si caratterizza per l’autonomia produttiva (casa di produzione A.M.A, poi Duea, unico esempio di factory cinematografica italiana), per la capacità di scoprire e valorizzare inconsuete figure di attori restando loro affezionato, per una carriera pregevole ma vissuta sempre sottotono, al riparo dalle celebrazioni della critica e del pubblico.