Quaderni del

Liceo Orazio

N. 8 Anno Scolastico 2017/2018 Liceo ginnasio statale Orazio ROMA

Questa pubblicazione è stata curata da Mario Carini

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INDICE

Introduzione …...... 5

SEZIONE DOCENTI

ANNA PAOLA BOTTONI – MARIO CARINI, Giorgio Perlasca ricordato al Liceo Orazio (evento organizzato in collaborazione con l’ANCRI) ………………………………………… 17

LUCIANO ZANI, I militari italiani prigionieri in Germania nella seconda guerra mondiale …………………………………………. 27

ANNA PAOLA BOTTONI, Da Biblioteca a Biblioattiva …………...... 35

MASSIMO CALDERONI – WALTER FIORENTINO, Elementi politico-sociali delle Fenicie euripidee ………………………………… 51

MARIO CARINI, Introduzione al diario di prigionia di Francesco Arpini (1944-1945)………………………………...... 61

FRANCESCO ARPINI, Res tua agitur!! Diario di prigionia 1944-1945, a cura di Mario Carini …………………………………..... 101

ANNA MARIA ROBUSTELLI, Un’Antigone irlandese: Eibhlín Dubh Ní Chonaill / Eileen O’Connell, Il lamento per Art O’Leary …………………………………………..… 229

AMITO VACCHIANO, Che fine ha fatto Papa Marcellino? ……..… 249

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SEZIONE DIDATTICA (collaborazioni degli studenti)

Eleonora Guerra – Luca Argiro’ (III H), Il tribunale di Ἰσότης …….. 277

Prof.ssa Simona Colini, Il Liceo Orazio alle Romanae Disputationes …………………………………………………………..… 283

Prof.ssa Simona Colini, XXV Olimpiade di Filosofia ……………….. 299

Miscellanea di matematica, a cura del prof. Maurizio Castellan ………………………………………………………………….. 309

Prof. Roberto Cetera, Il male innocente ……………………………… 331

Per Denisse ………………………………………………………………. 335

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INTRODUZIONE

Anche questo ottavo volume dei “Quaderni del Liceo Orazio”, come i precedenti, presenta diari e ricordi di vita vissuta, proseguendo una linea editoriale che vede il recupero di fonti memorialistiche inedite relative alla storia d’Italia nella seconda guerra mondiale. In essa cominciano ormai ad acquistare spazio e a motivare interessi tra gli storici le vicende degli IMI, ossia degli Internati Militari Italiani, e anche in questo numero presentiamo un diario di prigionia, quello del Capitano Francesco Arpini, che visse gli ultimi mesi dell’internamento nel campo di Wietzendorf in Germania. Il suo diario, finora inedito e qui pubblicato per la prima volta, è molto dettagliato nel narrare le vicende di quei giorni e costituisce il documento di una straordinaria esperienza umana, fatta di privazioni e sofferenze ma anche di una incrollabile fede nella Provvidenza e nei valori umani, che i nostri giovani non possono non conoscere. Sono storie, quelle che abbiamo pubblicato in questo numero, nelle quali i protagonisti si sono trovati a fare delle scelte, e queste scelte hanno privilegiato fondamentali valori morali: la difesa dell’onore e della dignità dell’uomo, la coscienza del proprio dovere fino al sacrificio, il rifiuto della guerra, la libertà, il rispetto degli altri, l’onestà, la dedizione al lavoro, il merito riconosciuto e premiato. Perché proporre queste storie oggi, e soprattutto perché proporle ai nostri giovani studenti? La risposta la dànno i tempi in cui viviamo: tempi difficili, ove ad una generale insicurezza per le sorti della nostra economia e della politica si connette la diffusione nella società di una violenza, fisica e anche verbale, tanto feroce quanto gratuita, che si manifesta soprattutto tra i giovanissimi (come, ad esempio, mostrano il cyberbullismo o le baby-gang di Napoli), mentre, a livello mondiale, il clima è agitato dai difficili rapporti tra la Corea del Nord e gli Stati Uniti. Il timore che dagli scontri verbali fra il dittatore nordcoreano, che ama allertare il mondo con le sue provocazioni missilistiche, e il presidente Trump, che non possiede certo l’amabilità e la diplomazia del suo predecessore Obama, si passi ad un confronto armato dagli esiti imprevedibili, è forte. Non a caso Papa Francesco, nel corso del suo viaggio in Perù e Cile

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(gennaio 2018), ha espresso la sua grave preoccupazione per il rischio di una possibile guerra nucleare. E allora, leggere queste pagine significa, secondo noi, arricchire la propria memoria in senso “proattivo”: non tanto per dimenticare eventi recenti e sgradevoli, quanto per andare con la mente al passato e trovarvi stimoli e motivi per azioni virtuose, che siano utili agli altri nell’interesse generale della società. Esprimiamo perciò l’auspicio che la lettura di queste pagine giovi all’intelligenza dei giovani, contribuendo in qualche modo alla loro formazione umana, culturale e spirituale nel segno dei valori etici più alti, i soli che possano salvaguardare l’avvenire dell’uomo. In questo ottavo numero compaiono i seguenti lavori. La “Sezione docenti” comprende: il contributo del Prof. Luciano Zani, Ordinario di Storia Contemporanea presso l’Università degli Studi di Roma “La Sapienza”, sul tema I militari italiani prigionieri in Germania nella seconda guerra mondiale (intervento svolto in un incontro con gli studenti del Liceo Orazio, nell’Aula Magna, il giorno 10 febbraio 2017); l’articolo della Prof.ssa Anna Paola Bottoni, Da Biblioteca a Biblioattiva, che contiene le linee del progetto di una Biblioteca Innovativa Digitale; la ricerca dei Proff. Massimo Calderoni e Walter Fiorentino, Elementi politico-sociali delle Fenicie euripidee; Res tua agitur!!, il diario di prigionia del Capitano Francesco Arpini, militare italiano internato in Germania dopo l’8 settembre 1943, pubblicato a cura e con introduzione dello scrivente; Un’Antigone irlandese: Eibhlín Dubh Ní Chonaill / Eileen O’Connell, Il lamento per Art O’Leary, della Prof.ssa Anna Maria Robustelli, poetessa e saggista, già docente di lingua e letteratura inglese presso la nostra scuola e apprezzata collaboratrice dei “Quaderni”; Che fine ha fatto Papa Marcellino?, ricerca del Prof. Amito Vacchiano sull’oscura figura di questo Pontefice vissuto al tempo della persecuzione dioclezianea. La “Sezione didattica (collaborazioni degli studenti)” comprende: l’elaborato di due nostri ex studenti, brillantemente maturatisi lo scorso anno scolastico 2016-2017, Eleonora Guerra e Luca Argiro’ (classe III H), Il tribunale di Ἰσότης; la relazione della Prof.ssa Simona Colini, Il Liceo Orazio alle Romanae Disputationes, con l’elaborato delle studentesse del Team Junior, Lògos e téchne: alla ricerca dell’umanità; il resoconto sulla XXV Olimpiade di Filosofia, a cura della Prof.ssa Simona Colini, con i quattro elaborati

6 risultati primi nella selezione d’Istituto; la consueta Miscellanea di matematica, a cura del Prof. Maurizio Castellan. Chiude la sezione il testo Il male innocente del Prof. Roberto Cetera. Ci è doveroso ringraziare tutti i collaboratori di questo numero per il loro fondamentale e prezioso apporto alla vita della pubblicazione. E mentre salutiamo il nuovo Dirigente Scolastico, Prof.ssa Maria Grazia Lancellotti, non possiamo non ricordare con affetto e gratitudine il Preside uscente, Prof. Massimo Bonciolini, che ha trascorso otto anni con noi alla guida del Liceo Orazio. Prima di congedarci, vogliamo ora qui ricordare due persone care a tutti noi della scuola, che ci hanno lasciato nel trascorso anno 2017: la prima all’alba dei suoi progetti di vita, la seconda al tramonto di un lungo e prestigioso percorso di intellettuale e studioso. Ci riferiamo alla giovanissima studentessa Denisse, che un crudele e prematuro destino ci ha sottratto nel novembre scorso, e al grande Maestro degli studi linguistici Tullio De Mauro, scomparso il 5 gennaio 2017. Alla cara Denisse rendono omaggio il testo Il male innocente, pronunciato dal Prof. Roberto Cetera durante l’ultimo commiato terreno alla ragazza, e una poesia a lei dedicata dall’amica e compagna di classe Diana Pilloni (classe IV B). Del Prof. Tullio De Mauro, un Maestro di Civiltà,1 non abbiamo bisogno di ricordare in questa sede gli altissimi meriti nel campo della linguistica,2 della didattica3 e della divulgazione culturale,4 e il suo

1 Così intitola il suo articolo Paolo Di Stefano, Tullio De Mauro Maestro di civiltà, in “Corriere della Sera”, 6 gennaio 2017, pp. 42-43. 2 I suoi incisivi interventi negli anni Settanta sull’evoluzione della lingua nazionale e sui rapporti tra lingua e dialetti sono raccolti in: Tullio De Mauro, Le parole e i fatti, Editori Riuniti, Roma 1978 rist. Dal quale testo, a proposito della sua battaglia per lo studio della “lingua d’uso” nella scuola, citiamo questa riflessione sempre attuale (da Tullio De Mauro, La scuola nuova, in pratica, in Le parole e i fatti, cit., p. 351): “… ciò che va riaffermato è il ruolo delle parole, del momento espressivo e simbolico nella pratica scientifica e nella vita individuale e sociale. Sbaglia lo trascura o dimentica. Ma sbaglia anche chi dimentica che, fuori dell’uso che ne fa la pratica scientifica o l’insieme degli individui e dei gruppi sociali, il linguaggio non ha senso né scopo.” L’elenco delle pubblicazioni di Tullio De Mauro per la sua vastità occuperebbe moltissime pagine. Ci limitiamo a citare testi assai noti come l’edizione italiana del Corso di linguistica generale di Ferdinand de Saussure e la Storia linguistica dell’Italia unita, opere entrambe edite da Laterza e assai diffuse

7 competente operato come Ministro della Pubblica Istruzione: meriti accompagnati, sul piano dei rapporti umani, da grande generosità, probità e signorilità. Ci piace soffermarci, invece, sui rapporti che legarono De Mauro alla nostra scuola. Per quanto ci riguarda, ci riterremo sempre onorati e orgogliosi di aver potuto collaborare, sia pur indirettamente, con il grande Maestro, grazie alle conferenze organizzate dall’indimenticata Prof.ssa Licia Fierro sui temi di approfondimento culturale in anni non più recenti. Nell’ambito del ciclo di conferenze sul tema Umanesimo e Scienza, svolto nell’anno scolastico 2008-2009, fummo incaricati di trascrivere dal nastro magnetico il discorso tenuto agli studenti dal Prof. De Mauro il giorno 14 gennaio 2009.5 Una fatica ben ripagata sia perché Tullio De Mauro espresse il suo apprezzamento per il risultato sia perché quel volume, con gli interventi del fisico e matematico Carlo Bernardini, della giornalista Antonella Rampino, del noto giornalista e conduttore televisivo Corrado Augias e le relazioni degli studenti,6 è nella biblioteca della scuola, in più copie, a nelle scuole e nelle università. Ricordiamo anche il monumentale Grande dizionario italiano dell’uso, 8 voll., UTET, Torino 20072, realizzato sotto la sua direzione. Per un sintetico ritratto di De Mauro rimandiamo ai contributi di Eugenio Gaudio e di Alberto Asor Rosa raccolti in Un eretico di successo, in “Nuova Antologia”, fasc. 2281, gennaio-marzo 2017, pp. 228-234; vd. anche Giovanni Arledler S.I., La saggia precisione di Tullio De Mauro, in “La Civiltà Cattolica”, n. 4001, 2017, pp. 504-512. 3 Nel dibattito sulla riforma degli studi liceali e sul destino delle lingue classiche si veda la sua proposta (del 2008) di istituzione di un liceo unitario con quattro materie fondamentali e una ricca scelta di materie opzionali, tra cui il latino e il greco, in: Associazione TreeLLLe, Latino perché? Latino per chi? Confronti internazionali per un dibattito, Questioni aperte/1, Maggio 2008, pp. 83-95. 4 In questo ambito basti ricordare la sua direzione della collana I Libri di Base, degli Editori Riuniti, una serie di agili volumetti che trattavano argomenti anche impegnativi esposti in modo semplice e accattivante, per l’intelligenza di tutti i lettori. 5 Tullio De Mauro, Il linguaggio e le scienze, nel volume Umanesimo e Scienza. Tema di approfondimento culturale per l’a.s. 2008/2009 (a cura della prof.ssa Licia Fierro), Liceo Classico Orazio, Roma 2009, pp. 11-33. 6 Questi gli interventi dei relatori citati, compresi nel volume Umanesimo e Scienza: Carlo Bernardini, Il linguaggio della realtà; Antonella Rampino, Il linguaggio nella formazione della pubblica opinione, Corrado Augias, Il linguaggio della scienza e quello della poesia.

8 disposizione di studenti e docenti. Altra occasione di presenza al Liceo Orazio il Prof. De Mauro la diede con le conferenze di Agorà Scuola Aperta, iniziativa della Casa Editrice Laterza: il pomeriggio di mercoledì 7 dicembre 2011, nell’Aula Magna gremita, egli tenne un’applauditissima conferenza, assieme al corrispondente del quotidiano francese Libération Eric Jozsef, sul tema “Piccolo catalogo dei nostri pregiudizi”. Ma siamo oltremodo riconoscenti verso il Prof. De Mauro perché ha saputo esprimerci, con parole semplici ma dense di cordiale considerazione, l’incoraggiamento a proseguire sulla non facile strada delle pubblicazioni scolastiche. Ci fece pervenire, infatti, due suoi messaggi, uno relativo alla “Miscellanea di Saggi e Ricerche” l’altro riguardante proprio i “Quaderni del Liceo Orazio”. Il primo era un biglietto, il secondo una mail: pubblichiamo con piacere entrambi, a conclusione del nostro reverente e affettuoso omaggio al grande Maestro scomparso.

17.01.2009 Caro professor Carini, La ringrazio molto del dono ponderoso della Miscellanea. Il valore culturale e di alta didattica dei contributi e dei volumi è grande e dovrebbe far da modello a una scuola che sappia fondere in una stessa linea di attività insegnamento, ricerca e impegno attivo anche delle e dei giovani. Ho guardato e apprezzato qua e là singoli lavori e spero nella prossima settimana di poter leggere più attentamente il tutto. Intanto accetti le mie congratulazioni per il Suo e vostro lavoro. Un saluto cordiale Tullio De Mauro

6.10.2015 Caro Carini, La ringrazio dei cinque Quaderni. Li ho sfogliati rapidamente e messi da parte per una lettura più tranquilla di alcuni lavori Suoi e di Sue colleghe. Ho scorso anche le spesso impegnative ricerche degli allievi. Ancora una volta devo esprimere la mia ammirazione per l'impegno che, come già Licia Fierro, ora Lei dedica a sollecitare colleghe e colleghi e a portare alla luce riflessioni e ricerche altrimenti nascoste. Ho cercato più volte di indicare l'esempio e modello del Liceo Orazio ai docenti del liceo, il Giulio Cesare, in cui sono stato alunno, al tempo delle Guerre puniche o giù di lì, e negli ultimi anni, fino a un paio d'anni

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fa, presidente dell'associazione degli ex alunni. Ma il risultato è per ora zero. Questo zero aiuta a capire quanto invece è meritoria la Sua fatica e degli altri collaboratori e altre collaboratrici ai Quaderni. Accetti un saluto grato accompagnato da molta stima, Tullio De Mauro

Roma, 26 gennaio 2018

Mario Carini

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Ricordo di Anna Cannas

Il giorno 1° febbraio 2018 è venuta improvvisamente a mancare la nostra cara Collega Anna Cannas, docente di lingua e letteratura francese al Liceo Linguistico. In attesa di ricordare più ampiamente e degnamente la nostra Collega, che tanti anni di vita ed energie ha profuso nel suo insegnamento all’Orazio, trascriviamo di seguito il discorso che il giorno 17 febbraio 2018, durante la solenne commemorazione svoltasi nell’Aula Magna del Liceo Orazio, è stato letto dalla Prof.ssa Sylvie Perrin. Il testo è stato composto dalla Prof.ssa Maria Teresa Rossi, che ce lo ha cortesemente fornito e che qui ringraziamo.

Racchiudere in un breve discorso quello che Anna ha rappresentato per il nostro liceo, per i nostri alunni e per noi colleghi non è semplice. Anna era una donna riservata, ma forte e determinata, dotata soprattutto di una capacità di coinvolgere gli altri con il suo entusiasmo nella realizzazione dei suoi progetti, nella sua lotta per la difesa dei diritti civili. Grazie al suo impegno costante, l’Orazio ha collaborato con partner importanti come il Centro Astalli e Amnesty Interna- tional che oggi sono qui insieme a noi per ricordarla. I nostri alunni attraverso il progetto: Finestre, da lei promosso insieme al Centro Astalli, sono venuti a contatto con rifugiati di ogni parte del mondo, hanno ascoltato, partecipi e commossi, i loro racconti, le loro storie di esilio, solitudine, emarginazione ed hanno condiviso le loro speranze per il futuro, conoscendo

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quindi realtà particolarmente difficili e riflettendo i ragazzi sul tema dell’esilio e su ciò che significa lo status di rifugiati. Questo interesse si è tradotto, poi, in lettura, scrittura e adesione al progetto: La letteratura non va in esilio, consistente nella stesura di un racconto riguar- dante un tema a scelta tra il diritto di asilo, l’immi- grazione, il dialogo interreligioso, la società inter- culturale. Sempre grazie all’impegno, alla determinazione e ad un’intuizione di Anna, l’Orazio è stata la prima scuola del Lazio, e la terza in Italia, a stipulare una conven- zione con Amnesty International come Scuola amica dei diritti umani. Da questa felice collaborazione sono nati i numerosi ed importanti eventi organizzati da Anna con Chiara Pacifici; tra questi ricordiamo: le conferenze sui Muri, con l’obiettivo di abbattere appunto i muri e creare ponti tra culture diverse, nonché sulla Tortura e Pena di Morte, sulle Spose Bambine; le giornate contro l’Omofobia; la realizzazione degli Origami per l’otto marzo, quale gesto simbolico di solidarietà con le donne che si sono battute per la difesa dei diritti umani, poi consegnati alla Presidenza del Consiglio per chiedere azioni concrete a tutela e difesa di tali donne; le maratone per la raccolta firme per la liberazione di prigionieri politici negli Stati dominati da dittature; il flashmob per Giulio Regeni. Tutti momenti importanti che hanno contribuito a sensibilizzare gli alunni, e anche noi docenti, nei confronti di temi e situazioni di scottante attualità ed educarli alla difesa della libertà di coscienza, di espressione e al rifiuto di ogni forma di discriminazione. Tutto ciò non deve farci dimenticare il suo amore per l’insegnamento del francese, attento agli aspetti lingui-

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stici, ma sempre permeato dalla sua cultura vasta e non convenzionale e dalle sue raffinate letture. In questa ottica ha promosso la partecipazione della scuola all’innovativa sperimentazione del teatro in lingua francese. Anna è stata molto determinata nel portare avanti tutte queste iniziative e questi progetti, nonostante i suoi problemi di salute. Ma Anna ha attraversato e superato tanti momenti bui grazie a quella energia immensa che scaturiva dalla ricchezza dei suoi interessi e dalla forza di quegli ideali per i quali ha lottato fino agli ultimi giorni della sua esistenza e che ora ancora di più sentiamo il dovere di portare avanti, consapevoli di non essere alla sua altezza.

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Sezione docenti

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ANNA PAOLA BOTTONI – MARIO CARINI

Giorgio Perlasca ricordato al Liceo Orazio (evento organizzato in collaborazione con l’ANCRI)

“Lei, che cosa avrebbe fatto al mio posto?”. Questa semplice domanda, che Giorgio Perlasca pose al giornalista Enrico Deaglio che lo intervistava, riassume una storia di straordinario coraggio che fa di Perlasca uno degli italiani più rappresentativi nella storia della seconda guerra mondiale. Il nome di Giorgio Perlasca, dopo oltre quarant’anni di silenzio, è divenuto improvvisamente famoso, proprio grazie al libro di Enrico Deaglio, La banalità del bene1, uscito nel 1991 per i tipi dell’editore Feltrinelli, e soprattutto per il film TV di Alberto Negrin, Perlasca. Un eroe italiano (2002), con Luca Zingaretti. Ciò che rende unica la storia di Giorgio Perlasca è stato il coraggio di aver sfidato i nazisti e i loro alleati delle Croci Frecciate,2 in piena seconda guerra mondiale e nell’Ungheria occupata dalle truppe del Terzo Reich, per mettere in salvo gli ebrei, condannati in quel tempo tragico alla deportazione e ad una morte sicura nei campi di sterminio come Auschwitz e Treblinka. Ma veniamo alla storia di Perlasca. Giorgio Perlasca, commerciante padovano di 34 anni, si trovava nel 1943 a Budapest per trattare

1 Titolo che richiamava per antitesi il famoso saggio di Hannah Arendt, La banalità del male, resoconto del processo al criminale nazista Adolf Eichmann celebrato a Gerusalemme nel 1961. Il libro di Enrico Deaglio fu preceduto nel 1990 da una puntata della trasmissione Mixer, curata dallo stesso Deaglio e da Giovanni Minoli, interamente dedicata a Giorgio Perlasca. 2 Partito nazionalista e antisemita fondato in Ungheria da Ferenc Szálasi nel 1935. Ispirato esplicitamente al Partito Nazionalsocialista Tedesco dei Lavoratori, fu alleato della Germania nazista durante la seconda guerra mondiale.

17 l’acquisto di una partita di bestiame per conto della sua ditta, la S.A.I.B. (Società Anonima Importazione Bovini) di Trieste. Dopo l’8 settembre, giorno dell’armistizio, rifiutò di aderire al nuovo stato fascista fondato da Benito Mussolini, dopo essere stato liberato dai tedeschi, la Repubblica Sociale Italiana, professandosi fedele al re Vittorio Emanuele III, che dopo l’armistizio era fuggito a Brindisi per mettersi sotto la protezione degli angloamericani. Perlasca, catturato dai tedeschi, riuscì a fuggire e si rifugiò presso l’ambasciata di Spagna, nazione verso la quale vantava benemerenze in quanto aveva collaborato con le milizie di Francisco Franco durante la guerra civile spagnola del 1936-1939. Il 15 ottobre 1944 il Capo dello Stato d’Ungheria, l’ammiraglio Horty, annunciò l’armistizio con l’Unione Sovietica, le cui truppe erano in procinto di assediare Budapest. Hitler rispose imponendo con un colpo di stato un governo filonazista, il cui capo era Ferenc Szálasi, il leader delle famigerate Croci Frecciate, movimento nazionalista e fortemente antisemita, alleato del Terzo Reich. Dopo che l’ambasciatore spagnolo Angel Sanz Briz, il cui Paese non riconosceva il governo di Szálasi, fu costretto a fuggire dall’Ungheria, Giorgio Perlasca si insediò nella sede abbandonata e con l’aiuto di Madame Tourné e dell’avvocato Zoltán Farkas, riuscì a farsi accreditare come incaricato d’affari per l’ambasciata spagnola (in pratica fungeva da viceconsole) dal ministero degli esteri ungherese. All’uopo cambiò il suo nome in Jorge Perlasca e, poiché parlava lo spagnolo perfettamente, l’inganno riuscì in pieno. Diventato il viceconsole spagnolo Perlasca riuscì a organizzare un sistema di protezione degli ebrei di Budapest, alloggiandoli in apposite case protette, edifici posti sotto la protezione e il controllo dell’ambasciata di Spagna. Egli riuscì a ottenere dal maggiore Tarpataki della polizia ungherese che gli ebrei delle case protette rimanessero indisturbati e che in esse non entrassero le Croci Frecciate. Dal 2 dicembre 1944 al 13 gennaio 1945 Giorgio Perlasca, fingendosi il viceconsole spagnolo, rilasciò salvacondotti e passaporti a numerosissimi ebrei, facendoli espatriare e mettendoli in salvo. Oltre cinquemila ebrei dovettero la loro salvezza a Giorgio Perlasca. Durante questo periodo (come scrive nelle sue memorie dal titolo L’impostore, pubblicate dalla casa editrice Il Mulino nel 1997) egli incontrò numerose volte il ministro dell’interno Erno Vajna, feroce antisemita, correndo gravissimi rischi personali, per convincerlo a risparmiare gli

18 ebrei di Budapest. Il 18 gennaio 1945, quando l’Armata Rossa entrò a Budapest, Perlasca si consegnò ai sovietici, che lo impiegarono nello sgombero delle rovine e nel recupero dei cadaveri sotto le macerie. Finalmente nel maggio successivo poté partire per l’Italia. Egli tacque della sua attività in favore degli ebrei ungheresi come finto diplomatico e per oltre quarant’anni conservò un rigoroso silenzio su quanto aveva compiuto a Budapest. Solo nel 1991, grazie al libro di Enrico Deaglio che scoprì la storia di Perlasca, gli italiani hanno potuto conoscere le avventurose vicende dello Schindler italiano. Per il suo eroico coraggio Giorgio Perlasca è stato insignito di varie onorificenze, tra cui quella di “Giusto tra le Nazioni” concessa dallo Stato d’Israele. Proporre oggi la figura di Giorgio Perlasca agli studenti significa non solo permettere loro di conoscere una straordinaria storia di generosità e altruismo, ma anche far comprendere meglio gli orrori del nazismo e i valori della libertà e della dignità umana, che il nazismo aveva conculcato. Proprio di Giorgio Perlasca si è parlato il 24 novembre 2017 al Liceo ginnasio statale Orazio, in un convegno che ha avuto luogo in Aula Magna nella mattinata. Il convegno, patrocinato dall’ANCRI (Associazione Nazionale dei Cavalieri al Merito della Repubblica Italiana), ha visto la partecipazione del figlio di Giorgio Perlasca, il Dott. Franco Perlasca, che di fronte ad una platea gremita di docenti e studenti, ha rievocato, con parole semplici ma efficaci e coinvolgenti, la figura paterna. In sala, oltre alle massime cariche dell’ANCRI erano presenti l’Assessore del III Municipio (delegato alle Politiche Educative e Scolastiche, Sport e Cultura e valorizzazione del Patrimonio Archeologico) Gilberto Kalenda, il Presidente del Consiglio d’Istituto Prof. Giancarlo Solaroli, l’Ing. Altavilla e il Dott. Roberto Mendoza dell’Associazione Montesacro, il Comandante della Compagnia dei Carabinieri di Città Giardino, Luogotenente Varone, il Comandante della Polizia Municipale Maurizio Sozzi. Ha condotto l’incontro il Prof. Franco Graziano, Vicepresidente Nazionale dell’ANCRI. Ha aperto gli interventi il Dirigente Scolastico del Liceo Orazio, Prof.ssa Maria Grazia Lancellotti, portando il saluto della scuola alle autorità presenti e invitando gli studenti a partecipare all’incontro, ascoltando con attenzione, per riuscire arricchiti da questa esperienza. Il Prof. Graziano, dopo aver ringraziato la Preside per la sensibilità con cui

19 ha accolto la proposta dell’ANCRI di celebrare la figura di Giorgio Perlasca al Liceo Orazio, ha esortato, rivolgendosi agli studenti, a seguire con attenzione questo evento, “un evento più unico che raro nella vostra vita – queste le parole del Prof. Graziano –, un evento che è stato pensato, progettato e realizzato dal Liceo Orazio e dall’ANCRI espressamente per voi, per provare a trasmettervi valori alti, nella speranza che attecchiscano in voi e contribuiscano a elevare ancora di più la vostra etica e il vostro senso civico.” Quindi ha preso la parola il Cav. Dott. Tommaso Bove, Presidente Nazionale dell’ANCRI, che ha spiegato le origini e le finalità di questa Associazione, nata con l’intento di riunire in un unico sodalizio tutti gli insigniti del Cavalierato al Merito della Repubblica, il primo degli ordini onorifici repubblicani. Si tratta di persone accomunate dagli stessi valori e gli stessi ideali, ha detto il Cav. Bove, persone che si propongono soprattutto di offrire attraverso l’impegno nel sociale, volontario e gratuito, la testimonianza delle motivazioni che a suo tempo hanno dato luogo alle origini dell’ANCRI. L’intento dell’ANCRI, infatti, è l’impegno nel sociale e da qui nasce il motto dell’Associazione, Parati sumus iterare, “siamo pronti a ripetere, a ripetere ciò che abbiamo fatto in passato”, ha spiegato il Cav. Bove. A giudizio del Presidente dell’ANCRI Giorgio Perlasca non è stato propriamente un eroe, perché eroe è chi aiuta gli altri, mettendo a repentaglio la propria vita, agendo d’istinto, senza riflettere. Perlasca, invece, forte dei suoi valori, sentendo le grida e il pianto di dolore di una intera umanità, ha fatto in piena coscienza una scelta di vita straordinaria che giustamente è stata tramandata quale esempio che deve restare vivo in tutti noi, un esempio di umana solidarietà e generoso altruismo. Non è stato propriamente un esempio di altruismo, ha ripetuto il Cav. Bove, perché l’eroe agisce d’istinto, ma una scelta di vita straordinaria che deve esortare tutti noi a scegliere sempre, nella vita, il bene. Il Prof. Graziano ha quindi dato la parola al Prefetto Dott. Francesco Tagliente, presente al tavolo dei relatori. Il Dott. Tagliente nel suo intervento ha ricordato le origini e i valori morali ricevuti dalla sua famiglia, valori che gli hanno permesso di percorrere una prestigiosa carriera da agente di Pubblica Sicurezza a Questore di Firenze e Roma e, infine, Prefetto della Repubblica Italiana. “Siamo qui – ha proseguito il Prefetto, rivolgendosi agli studenti in sala – per ascoltare la

20 testimonianza del figlio di un Giusto tra le Nazioni che ha messo in discussione la propria vita per salvare le vite degli altri. Oggi voi avete sentito parlare di persone che per essere state insignite della onorificenza al Merito della Repubblica hanno spesso rinunciato ai propri diritti per garantire i diritti degli altri, ponendosi di fronte all’esigenza di bilanciare i valori, quei valori richiamati ad ogni passo dalla Costituzione. Al vertice della scala dei valori c’è la Persona, i cui diritti fondamentali sono riconosciuti e garantiti dall’art. 2 della Costituzione (…). Da questo valore assoluto, da questo pilastro della democrazia che è il valore dell’Uomo come Persona, discendono gli altri valori, che sono i valori della democrazia, della libertà, della giustizia, della lealtà, del rispetto, della salute…” Concludendo, il Prefetto ha sottolineato che solo guardando al valore assoluto della Persona e agli altri valori della Costituzione, i giovani possono poggiare le loro conoscenze e i saperi per conservare quella società che noi abbiamo ereditato. E proprio per difendere il valore della Persona, che vedeva conculcato negli altri, Giorgio Perlasca mise in gioco la sua vita. Succedendo, nell’ordine degli interventi, il Prof. Mario Carini del Liceo Orazio ha tratteggiato brevemente le tappe della persecuzione antisemita in Europa negli anni Trenta, dall’avvento al potere di Hitler in Germania, fino alla seconda guerra mondiale, e si è soffermato a narrare le vicende dell’Ungheria, ossia il contesto storico nel quale si colloca l’operato di Giorgio Perlasca: l’armistizio con l’Unione Sovietica proclamato dal reggente Horthy, il capo dello Stato ungherese alleato della Germania, il 15 ottobre 1944; il colpo di stato organizzato dai nazisti e l’insediamento a Budapest del governo delle Croci Frecciate, il partito filonazista, guidato dal feroce Ferenc Szálasi; la fuga dell’ambasciatore spagnolo Angel Sanz Briz, il cui Paese non riconosceva il governo di Szálasi; l’insediamento, nell’ambasciata abbandonata, di Giorgio Perlasca, il suo accreditamento come finto diplomatico spagnolo e l’organizzazione del salvataggio degli ebrei ungheresi. L’intervento del figlio del Giusto tra le Nazioni, il Dott. Franco Perlasca, è stato preceduto dalla proiezione del trailer del film TV Perlasca. Un eroe italiano (2002), realizzato da Alberto Negrin: le sequenze belle e coinvolgenti del film di Negrin, che ricostruisce la drammatica vicenda di Perlasca con obiettività e realismo, talvolta anche

21 crudo, senza scadere negli effetti patetici e nella retorica, non hanno mancato di emozionare i presenti e tutti hanno seguito il lungo trailer con assoluto silenzio. Franco Perlasca ha anzitutto precisato che il film rispecchia esattamente la storia di suo padre Giorgio e che il copione alla base della sceneggiatura è stato il secondo, perché il primo venne rifiutato dalla famiglia in quanto non aderente alla realtà dei fatti. Il Dott. Perlasca ha voluto ricordare un aneddoto al riguardo. Quando all’anteprima del film di Negrin, in un grande cinema di Padova, l’attore Luca Zingaretti, il protagonista, si avvicinò alla madre di Giorgio Perlasca e le chiese un giudizio, la signora non più giovanissima (92 anni) rispose: “Lei è stato molto bravo a interpretare il mio Giorgio nella maniera migliore, devo farle i complimenti. Però devo dirle anche un’altra cosa. Non si deve offendere, ma mio marito era molto ma molto più bello di lei.” Al di là della battuta, ha chiarito Franco Perlasca, la signora certificò il fatto che Luca Zingaretti e il film erano riusciti a interpretare al massimo Giorgio Perlasca e la sua storia. Quindi l’oratore ha rappresentato il carattere dell’uomo Perlasca: quando vide quello che stava avvenendo, non si voltò dall’altra parte, non fece finta di non vedere, ma si caricò le sofferenze altrui sulle sue spalle e in questa maniera riuscì a salvare da morte sicura almeno 5.200 ungheresi di religione ebraica, “inventandosi un ruolo non suo, quello di diplomatico spagnolo, perché lui non era né un diplomatico né uno spagnolo”, ha detto il Dott. Perlasca. Franco Perlasca ha poi parlato della seconda parte della storia di suo padre, costituita da quarantacinque lunghi anni di silenzio. Perché Giorgio Perlasca non ha mai raccontato niente della sua storia? Il figlio ha provato a darsi varie risposte. Una parte delle risposte riguarda la situazione politica dell’Italia e dell’Europa nel dopoguerra – si era in piena Guerra Fredda –, inoltre Perlasca era stato fascista (volontario in Africa Orientale e in Spagna, con le truppe del generale Francisco Franco) e nazionalista. Franco Perlasca al riguardo ha rivelato che il padre, da ragazzo, fu espulso per un anno da tutte le scuole del regno per aver difeso l’impresa di d’Annunzio a Fiume contro un professore di idea avversa. Proprio aver combattuto dalla parte di Francisco Franco risultò insperatamente utile a Perlasca nel settembre 1943 – ha raccontato il figlio – quand’era in Ungheria per conto della

22 sua ditta di carni, la S.A.I.B. Rifiutatosi di aderire alla RSI3 per mantenere fede al giuramento prestato al re, Perlasca si trovò in gravissimo pericolo, ma si ricordò delle benemerenze che vantava verso la Spagna e si rifugiò in quella ambasciata, ottenendo senza indugio la cittadinanza spagnola col nome di Jorge Perlasca. Iniziò così a collaborare con l’ambasciatore Angel Sanz Briz nel programma che Svezia, Svizzera e Vaticano stavano portando avanti per salvare gli ebrei, che in Ungheria erano tanti, 900.000 su una popolazione di dieci milioni, quasi il 10%. Finita la guerra Perlasca tornò in Italia, ma nessuno – così ha detto Franco Perlasca – era interessato dal punto di vista “politico” a far uscire questa storia. Anche l’Italia aveva avuto le leggi razziali e la sua piccola Shoah, ma il Paese non voleva fare i conti con il passato. E poi la famosa amnistia Togliatti aveva messo una pietra tombale sui crimini dell’una e dell’altra parte. Non era perciò politicamente corretto ricordare questa storia, almeno in Italia. Però secondo Franco Perlasca, il vero motivo per cui suo padre non ha mai voluto raccontare né in famiglia né all’esterno la sua storia è stato un altro. È un motivo che si ricollega alla tradizione ebraica dei 36 Giusti.4 Nessuno sa chi siano, ma quando il Male sembra prevalere si prendono il destino del mondo sulle spalle, e quando il Male è cessato ritornano alla vita normale e quotidiana di tutti i giorni, dimenticando quello che hanno fatto. “Non perché non sappiano raccontare o siano timidi, – ha chiarito Franco Perlasca – ma perché ritengono di aver fatto il proprio dovere di uomini, nulla di più e nulla di meno, e chi fa il proprio dovere non deve necessariamente avere una ricompensa.” Lo Yad Vashem,5 a Gerusalemme, dà il titolo di Giusto Tra le Nazioni6 con due requisiti:

3 La Repubblica Sociale Italiana, lo stato neofascista alleato dei nazisti e fondato da Mussolini dopo la sua liberazione, ad opera dei tedeschi, dalla prigionia sul Gran Sasso, nel settembre 1943. 4 Secondo questa tradizione per ogni generazione umana vi sono 36 Giusti che si preoccupano di difendere i valori della Libertà, della Giustizia e della Solidarietà quando sembra che il Male prevalga sugli uomini. Ed è per causa di questi 36 Giusti che Dio non distrugge l’umanità. 5 L’Ente nazionale per la Memoria della Shoah, istituito nel 1953 dal Parlamento Israeliano. 6 Titolo assegnato ai non ebrei che rischiarono la vita per aiutare gli ebrei durante la Shoah.

23 aver salvato la vita almeno di un ebreo e aver trovato dei testimoni, dei terzi, che raccontino questo atto (che non può essere riferito dalla persona interessata). Proprio qui sta la differenza tra l’eroe e il Giusto, ha precisato Franco Perlasca. L’eroe è una persona che fa qualcosa di importante, di molto bello, però ci vive sopra, si vanta e la racconta, e non c’è niente di male a fare ciò. Il Giusto, invece, è qualcuno che fa qualcosa di importante, come l’eroe, ma quando ha finito ritorna alla vita di tutti i giorni, dimenticando quello che ha fatto, perché ritiene di aver fatto esclusivamente il proprio dovere, e chi fa il proprio dovere non deve necessariamente avere una ricompensa. Proprio come fece Giorgio Perlasca, che si ritirò nel silenzio e la cui storia uscì quarantacinque anni dopo ciò che aveva compiuto7. Quindi Franco Perlasca ha rievocato l’origine della notorietà di suo padre, narrando della prima, commovente visita che egli ricevette nel 1988, a Padova, dai coniugi Évá e Pál Lang, anziani ebrei ungheresi sopravvissuti alla Shoah. Era Perlasca, come ricordò la signora, colui che portava il cibo tutti i giorni agli ebrei rinchiusi nelle case protette, era lui quello straniero alto che la mise in salvo da una retata improvvisa delle Croci Frecciate, le milizie che aiutavano i nazisti nella caccia agli ebrei. E la signora Lang volle donare a Giorgio Perlasca tre oggetti che le erano assai cari e che erano tutto ciò che la sua famiglia aveva potuto salvare dalla persecuzione: un cucchiaino da caffè, un piccolo medaglione e una tazzina di porcellana. Perlasca non avrebbe voluto prenderli, le disse: “Signora, non devo tenerli io, quando sarà il momento li darà ai suoi figli.” Ma la signora ribatté, decisa a darglieli: “Signor Perlasca, li deve tenere lei, perché senza di lei noi non avremmo avuto né figli né nipoti.” Con questo toccante episodio, e con il ricordo dell’incontro di Franco Perlasca con il regista teatrale Giorgio Pressburger (che nel 1944 era un piccolo ebreo ungherese e si ricordava anch’egli di Perlasca), avvenuto durante la presentazione del memoriale di Giorgio Perlasca dal titolo L’impostore, pubblicato dalla Casa Editrice Il Mulino nel 1997, l’incontro si è avviato al termine. “La storia di Giorgio Perlasca – ha concluso il Dott. Franco Perlasca – è la dimostrazione di una cosa

7 Nel dopoguerra Giorgio Perlasca si impiegò alla Liquigas, come ispettore, e poi diresse il self-service La Mappa, a Padova. Mai, nell’ambiente di lavoro e in famiglia, fece riferimento alla sua storia personale.

24 semplicissima, che ciascuno di noi, se vuole, qualcosa può fare, basta che non si volti dall’altra parte, basta che non faccia finta di non vedere cosa sta avvenendo. Lui, con fantasia molto mediterranea anche se era uomo del profondo Nord perché era nato a Como, si inventò questo ruolo di diplomatico spagnolo, lui che non era né diplomatico né spagnolo e in questo modo riuscì a salvare almeno 5200 ebrei ungheresi delle case protette e probabilmente almeno 60.000 ebrei che erano rinchiusi nel ghetto comune di Budapest e aspettavano di essere uccisi.” E i prolungati, calorosi applausi dei presenti hanno fatto eco alle sue parole.

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LUCIANO ZANI Ordinario di Storia Contemporanea presso la Facoltà di Scienze Politiche – Sociologia – Comunicazione dell’Università degli Studi di Roma “La Sapienza”

I militari italiani prigionieri in Germania nella seconda guerra mondiale

Il giorno 10 febbraio 2017, nell’Aula Magna del nostro Istituto, il Prof. Luciano Zani, Ordinario di Storia Contemporanea presso la Facoltà di Scienze Politiche – Sociologia – Comunicazione dell’Università degli Studi di Roma “La Sapienza”, ha tenuto un incontro con gli studenti sul tema: “I militari italiani prigionieri in Germania durante l’ultimo conflitto mondiale”. Riceviamo e volentieri pubblichiamo il testo del discorso del nostro prestigioso Ospite.

Nella seconda guerra mondiale, con i bombardamenti delle città e, alla fine, l'utilizzo della bomba atomica, si inverte il rapporto tra vittime militari e vittime civili rispetto alla prima guerra mondiale. Inoltre i militari in essa impegnati vissero esperienze complesse e diversificate. Erano tutti reduci della stessa guerra, ma i mille fronti in cui questa si frantumò configurarono dimensioni e narrazioni disomogenee e spesso conflittuali, da cui sono scaturite identità multiformi dopo la fine della guerra. La molteplicità dei luoghi in cui hanno combattuto, dal Nord Africa ai Balcani, dalla Francia alla Grecia, dall’Italia alla Russia, ha comportato esperienze di cattura e di prigionia le più disparate; tra il crollo del regime fascista e la fine della monarchia, di fronte al collasso della classe dirigente e dell’apparato statale, il traumatico spartiacque dell’armistizio dell’8 settembre, prima con la totale irresponsabilità con cui fu gestito, poi con la creazione di due Italie, due patrie irriducibili l’una all’altra perché rivendicanti pari legittimità e analoghi fondamenti patriottici, pur con differenti valori di riferimento, e due idee alternative di ordine istituzionale e politico, ha frantumato l’identità precedente, aprendo un enorme ventaglio di scelte materiali e ideali. C’è quindi chi,

27 dopo la Liberazione, torna da partigiano in Italia, chi da partigiano all’estero, chi da militare inquadrato nell’esercito del Regno del Sud, chi da prigioniero degli Alleati, chi da internato in Germania, chi da reduce dell’esercito della Rsi, chi provato ma sano e chi mutilato, figure a volte compresenti nella stessa persona, anche per l’estrema differenziazione dei tempi e delle modalità del ritorno, per non dire di quanto sfumata appaia, nella seconda guerra mondiale, la differenza tra vittima militare e vittima civile. Una complessità che si acuisce nell’ex esercito regio, che insieme alle famiglie di riferimento rappresentava una fetta assai rilevante della popolazione della nuova Italia, tra i sette e i dieci milioni di persone. Se escludiamo le due minoranze, la componente che combatté subito contro i tedeschi, come a Cefalonia, per poi alimentare il movimento partigiano, e quella che optò per l’esercito della Rsi, la stragrande maggioranza dei militari italiani (circa 650mila su oltre un milione di prigionieri), fu catturata e internata nei lager del Reich, finendo col costituire un gruppo sociale e culturale certamente disomogeneo, certamente diviso tra opposizione, sopportazione e sottomissione, ma unito da una sorte analoga e soprattutto da una scelta comune, al di là delle diverse motivazioni che ne furono alla base: il no alla guerra, il no all’adesione alla Rsi, che pure avrebbe permesso il ritorno in Italia. Questa negazione di se stessi e del proprio passato, questa rottura di schemi e di abitudini familiari e sentimentali, questa scelta a suo modo realistica (se si sfronda la memorialistica dalle forzature retoriche e dagli aggiustamenti fatti a posteriori) emersa in un ampio dibattito pieno di incertezze ma anche di grandi potenzialità, accomunava prigionieri e internati ai giovani uomini come loro che avevano fatto la Resistenza, a partire dagli stessi interrogativi e superamenti del passato; ma a un alto e difficile processo di riflessione e di confronto si è preferito un più facile e meno traumatico processo di rimozione: in Italia, in Germania, in Francia, in Austria, in Polonia, la democrazia «è stata costruita sulla perdita della memoria», o almeno su una memoria selettiva. Il rifiuto di optare per la Repubblica di Salò da parte dei militari italiani catturati dai tedeschi dopo l'8 settembre implicava, consa- pevolmente o meno, una presa di distanza dalla Rsi, contribuendo a indebolirla e delegittimarla. Basta immaginare quale forza politico- militare avrebbe ricavato la Rsi se la maggior parte di quei 700.000

28 avesse fatto una scelta diversa! Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, in occasione del 70° anniversario della Liberazione, ha completato un percorso, iniziato dal presidente Ciampi, di riconoscimento del ruolo fondamentale delle forze armate italiane nella Liberazione, con parole che più e meglio che in passato valorizzano la scelta degli Imi: «Cosa sarebbe successo se questi militari italiani avessero deciso in massa di arruolarsi nell’esercito della Repubblica Sociale? Quanto sarebbe stata più faticosa per gli Alleati l’avanzata sul territorio italiano e con quante perdite?». Quasi cinquant’anni prima, in un’edizione riveduta e corretta della sua Storia della resistenza italiana, Roberto Battaglia si era espresso in modo analogo: «Ben diversa e ben più grave sarebbe stata la tragedia dell’Italia se non ci fosse stata questa prova collettiva di fermezza, di tenacia, di amor patrio». Qui c’è un punto da chiarire, anche rispetto a una certa vulgata della memorialistica, che sostiene che in ogni momento l’internato avrebbe potuto firmare e essere rimpatriato. Non è così. Avagliano e Palmieri dicono giustamente che “i soldati e i sottufficiali vennero immedia- tamente avviati al lavoro coatto”, il che vuol dire che spesso l’opzione non venne proposta e certamente mai dopo l’invio al lavoro. Aggiungono che dopo l’arrivo nei campi «la richiesta di adesione venne rivolta di massima una sola volta ai militari di truppa e ai sottufficiali – che subito dopo il primo no vennero avviati al lavoro coatto – e ripetutamente, con varie formule, agli ufficiali effettivi e di complemento». La questione dell’opzione per Salò, dunque, riguarda quasi esclusivamente gli ufficiali e viene reiterata fino alla tarda primavera del ’44, quando la finestra del ritorno a casa viene chiusa dai tedeschi, che poco gradivano la costituzione di un esercito di Salò. Negli ufficiali inizia un percorso di riflessione critica e autocritica, alimentato dalle accese discussioni nelle baracche dei campi, nel quale coesistono fattori diversi, ma che assume progressivamente il senso di una scelta meditata e quindi volontaria. Accanto al fatalismo, accanto alla paura e al rischio di dover riprendere a combattere contro altri italiani, o addirittura doversi ritrovare per la seconda volta sul fronte russo, appare prioritaria la motivazione istituzionale – il giuramento al Re prevalente rispetto a quello al Duce, un nuovo stato fascista i cui tratti di legittimità sfuggono, a parte la lealtà alla Germania – che ha anche un aspetto paradossale, essendo il Re responsabile della tragica

29 gestione dell’8 settembre, ma va letta come ricostruzione di una separazione tra patria e fascismo, tra esercito e fascismo, rispetto all’identificazione operata dal regime; e come appiglio giuridico in collegamento con altri due elementi, quello patriottico e quello antitedesco, entrambi strettamente legati alla dignità del ruolo e della divisa, pesantemente insultati e degradati dall’8 settembre in poi. Perché per decenni è sceso un cono d’ombra su questo No, questo No patriottico? C’è stato un vuoto di memoria, perché la storia di quegli anni per un lungo periodo è stata ridotta e semplificata a una contrapposizione fascismo – antifascismo in base alla quale tutto quello che non rientrava nella prima o nella seconda categoria non si sapeva dove collocarlo. Per alcuni gli IMI rappresentavano l’imbarazzante conseguenza dell’armistizio e del modo in cui era stato gestito, per gli eredi della Resistenza erano l’esercito regio, una realtà da ripudiare tout court, estendendo indebitamente a tutti i militari, in particolare a tutti gli ufficiali, le gravissime responsabilità dei vertici. Un documento conservato nell’archivio del Comando generale delle brigate Garibaldi, di poco successivo all’8 settembre, recita: «Ci vorrà molto tempo alla ufficialità italiana per redimersi dalla fama di incapacità e di indifferenza verso la Patria o addirittura tradimento, fattasi nei giorni più critici del periodo badogliano». Oppure, per dirla seccamente con le parole di un partigiano: «Gli ufficiali effettivi che non fanno il partigiano sono dei traditori e un giorno li metteremo al muro». “Indifferenza” e “tradimento”, accuse paradossalmente condivise sia dagli italiani, fascisti e antifascisti, che dai tedeschi. Di più, il peso di una colpa esattamente coincidente con ciò che gli Imi ritenevano di aver essi stessi subìto. Comincia qui, osserva Elena Aga Rossi, un’artificiosa contrapposizione tra due Italie, quella fascista che muore nel periodo 25 luglio-8 settembre e quella nuova che nasce il 9 settembre con il CLN e la resistenza. Si dà per scontato che l’8 settembre e nei giorni immediatamente seguenti l’esercito si dissolse e con esso il vecchio stato. La condanna dell’esercito che si sciolse ignominiosamente ha accomunato per una volta sia i fascisti, che come i tedeschi considerarono l’armistizio un tradimento, sia gli antifascisti.

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Gli optanti della fine del ’43, quando i discorsi degli emissari di Salò erano accolti generalmente con sarcasmo e disgusto, raramente corrispondono all’appello patriottico del Duce, scelgono piuttosto per debolezza psicofisica e per valutazioni di opportunità, nel calcolo costi- benefici. Molti internati ricordano sorpresi il voltafaccia opportunistico di chi in un primo momento si era detto alfiere del No, per poi diventare portavoce di Salò. Per reazione, i non optanti decidono di rinnovare, in vari campi, il giuramento di fedeltà al Re. Ma sul tema la memorialistica è divisa: in alcuni campi si creano tensioni anche aspre tra optanti e non optanti, in altri permane un rapporto di reciproca e fraterna comprensione. Federico Ferrari, a Deblin Irena, non ha alcuna recriminazione nei confronti di chi opta: «i primi amici partono oggi, diretti a lidi migliori» e «accompagno la loro speranza con tutti i miei voti»; il tenente Paolo Demetrio Poidomani, nei campi di Przemjsl e di Hammerstein:

La separazione da questi Ufficiali avvenne in tutta cordialità e comprensione. Non vollero scuse o sotterfugi alla loro decisione. Ci dissero che avevano optato perché non ce la facevano più a tirare avanti con il loro fisico malato o debole, che spiritualmente restavano legati a noi.

Emerge un’area maggioritaria che discute e riflette senza motivazioni ideologiche, una zona grigia intermedia, caratterizzata da dubbi, incertezze, grande contiguità, considerazioni simili cui fanno seguito scelte diverse. Al primo No, quello all'opzione per Salò, segue un secondo No, quello alla "civilizzazione", cioè alla trasformazione in lavoratori civili, proposta nel luglio del '44, imposta in ottobre. Il rifiuto della "civilizzazione" e, ad esso connesso, il rifiuto del lavoro nelle sue diverse declinazioni - agognato, chiesto, temuto, rifiutato, accettato, sopportato, subìto, coatto - è una realtà complessa, come tutta l'esperienza dell'internamento, ma fino a oggi, sia nella memorialistica che in parte della storiografia, è passato in secondo piano rispetto al rifiuto di rientrare in patria optando per l'inserimento nel costituendo esercito della repubblica di Salò. È apparso subito evidente il paradosso (non l'unico) che costituisce una delle peculiarità della vicenda: rispetto alla frase Arbeit Macht Frei, Il lavoro rende liberi, che sormontava l'ingresso di campi di sterminio, come Auschwitz e Dachau, gli ufficiali

31 italiani che rifiutano di lavorare dimostrano che il rifiuto di lavorare li ha resi liberi! Che nel rapporto tra la Germania e gli internati la questione capitale fosse proprio il lavoro è testimoniato anche dal carattere particolare che negli IMI ha assunto la deumanizzazione, una delle peculiarità dell'universo concentrazionario. Il punto di partenza non è razziale, ma politico-morale, inciso nella definizione di “traditori badogliani”, nella quale i due termini, entrambi spregiativi, si rafforzano a vicenda. L’approdo è analogo a quello di ogni altro deportato: anche per gli Imi il nome è sostituito da un numero, la spoliazione, la nudità, la perquisizione corporale, la disinfestazione di corpi e vestiario segnano il passaggio da persone a cose - la “disculturazione” gofmaniana. Che in loro però assume una dimensione specifica, che riflette il destino cui il Reich li ha destinati: numeri, certamente, ma nella memorialistica dell’internamento è più forte e centrale il termine Stücke, “pezzi”, arnesi da lavoro, rotelle dell’ingranaggio produttivo, non uomini, ma schiavi ridotti a una mera funzione materiale. “Ho contato 200 pezzi”, in genere l’appello nel campo si concludeva così, col numero dei “pezzi” presenti. Ma se la questione del lavoro è quella centrale, perché investe la loro condizione oggettiva e la loro scelta soggettiva, non meno importanti sono le motivazioni sottese a quella scelta e il processo di reale e potenziale maturazione che rivelano, il viaggio dentro sé stessi sovrapposto a quello verso e tra i lager dell'Europa centrale. Zampetti, un ufficiale internato, spiega come la "patria" fosse diventata "il problema più toccante": "Dopo il 25 settembre 1943, è stata per me una parola priva di significato. Tutti i valori terreni dell'ordine sociale si sono contratti nell'unica realtà della famiglia, ma ora l'appello del tricolore, il richiamo del nome di Italia corrono di nuovo nel sangue e dicono che non tutto è distrutto!". Il tenente Desana ci torna a più riprese, ma forse l'affermazione più significativa è la seguente: rivendicammo "diritti e dignità in nome di un'Italia che non c'era al di fuori di noi". Che dunque non era certo l'Italia del loro passato, del fascismo e della sua idea di patria, ma un'Italia interiore, nuova e diversa, non "morta" nei loro cuori, ma alla ricerca di una definizione: non un'esigenza consapevole di democrazia, ma un anelito di libertà e la ricerca di un punto di riferimento diverso dal fascismo, individuato proprio nell'idea di patria, incarnata nella divisa e nel giuramento

32 prestato al re. È questo il terreno su cui dopo la Liberazione (e per molti versi già prima, almeno per ciò che riguarda il Regno del Sud) la cecità morale e la sordità politica dei massimi vertici militari e istituzionali è stata più ingiustificabile e più evidente, colpevole di respingere e rinserrare quella scelta nel recinto della precedente appartenenza al fascismo, attribuendole piuttosto il marchio del collaborazionismo che quello di un distacco dal vecchio universo di valori e di una potenziale rigenerazione democratica. Una delle ragioni che fanno dell’interna- mento dei militari italiani in Germania un nodo storiografico rilevante è il fatto di mostrare come una delle risposte alla questione nazionale che la morte dello Stato, non della nazione, aveva posto in termini di scelta, fu il separare l'idea di patria da quella di fascismo, e farne anzi il puntello per il rifiuto dell'adesione alla Rsi e al lavoro preteso dai tedeschi.

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ANNA PAOLA BOTTONI

Da Biblioteca a Biblioattiva

È apparsa evidente, in questi ultimi anni, l’esigenza di armonizzare l’ambiente della biblioteca scolastica con le innovazioni introdotte dalla “Buona Scuola” e l’ingresso sempre più massiccio delle tecnologie informatiche nella didattica, nella ricerca e nella educazione all’informazione. Al riguardo il Piano Nazionale della Scuola Digitale (PNSD) invita le biblioteche delle scuole a un rinnovato impegno per creare o migliorare le condizioni per apprendere le competenze informative e digitali. Come si legge nell’Azione #24 del PNSD (Biblioteche Scolastiche come ambienti di alfabetizzazione all’uso delle risorse informative digitali) “un potenziamento e un aggiornamento della missione delle biblioteche scolastiche, che in molte realtà faticano a trovare spazio, mentre in altre svolgono un ruolo determinante per l’attività di promozione della lettura anche grazie all’uso della rete e di strumenti digitali, può rendere la scuola protagonista attiva di nuovi modelli di formazione e apprendimento, che – attraverso attività di lettura e scrittura su carta e in digitale – combattano il disinteresse verso la lettura e le difficoltà di comprensione.” Le biblioteche scolastiche hanno un ruolo di mediazione informativa e formativa, sono luoghi in cui prende vita l’incontro fra il libro e il lettore, spazi aperti alle realtà del territorio, nella prospettiva di un ampliamento della fruibilità come previsto dall’Obiettivo 4 (Istruzione di Qualità) dell’Agenda 2030 ONU per lo Sviluppo Sostenibile: “Fornire un’educazione di qualità, equa ed inclusiva, e opportunità di apprendimento per tutti”. Negli obiettivi per lo Sviluppo Sostenibile, inoltre, viene più volte ribadito il ruolo imprescindibile dell’istruzione quale unico strumento in grado di consentire ai giovani di costruire una società e un futuro migliore. Sarà possibile, tuttavia, parlare di un vero e proprio progresso, solo se, eliminata ogni forma di discriminazione, tutti i processi educativi, accompagnati da insegnamenti di qualità, diventeranno

35 accessibili a tutti. È facilmente intuibile, quindi, come sia compito soprattutto della biblioteca della scuola, agenzia informativa e formativa per eccellenza, impegnarsi nel processo di miglioramento culturale che investa, nell’ottica dell’educazione permanente, tutte le fasce d’età della popolazione territoriale. Una delle finalità, infatti, del rinnovamento delle biblioteche è la possibilità di promuovere la democratizzazione del sapere, ovvero la creazione di “una società democratica della conoscenza”, per citare l’obiettivo peculiare dell’ “Organizzazione Mondo Digitale”, sito impegnato nella condivisione della conoscenza inclusiva. La biblioteca innovativa si configura, così, come un ambiente accogliente e inclusivo, stimolante e motivante, un luogo di lettura, ricerca e studio, ma anche di socialità e condivisione il cui obiettivo primario consiste proprio nel coniugare innovazione, istruzione e partecipazione delle categorie a rischio di esclusione. Lo spazio reale e virtuale (nell'utilizzo della rete informatica), nell’esperienze individuali di lettore o in quelle condivise e condivisibili, è divenuto, così, lo start point per la costruzione del progetto. Viene indicato, infatti, al primo punto del bando Azione #24 del PNSD, relativo ai criteri di selezione progettuale, la necessità di valorizzare gli spazi interni.8 La biblioteca è un “luogo dell’anima”, pregnante dei pensieri di chi scrive e di chi legge (per citare una delle espressioni usate dalla dott.ssa Vincenza Iossa, responsabile della Biblioteca De Gregori del MIUR, per definire il concetto di biblioteca, in occasione del Convegno, promosso lo scorso dicembre). La biblioteca è il luogo in cui si incontrano storie che rimandano ad altre storie, in cui convivono scenari reali e

8 È possibile vedere, consultando il sito della Scuola Digitale, il PSDN del MIUR e anche l’INDIRE, relativamente ai progetti di scuole innovative digitali, e anche siti di alcune biblioteche pubbliche del Trentino, come la biblioteca non sia più un luogo dall’architettura rigidamente strutturata in separate sale di consultazione, ma uno spazio aperto, dinamico e suscettibile di differenziati utilizzi. L’importanza dello spazio troverebbe conferma, secondo quanto rappresentato nel video tutorial del progetto, da alcuni esempi delle scuole della Finlandia e della Corea del Sud, che gli alunni frequentano molto volentieri perché godono di ambienti scolastici piacevoli e confortevoli.

36 dimensioni utopiche: è uno spazio, quindi, che naviga ed esplora tutti gli orizzonti del reale e dell’immaginario. La biblioteca, dunque, quale ambiente privilegiato per la conoscenza della realtà e del proprio mondo interiore, ambito di ricerca e di domande senza fine, non può imprigionare il lettore, soprattutto se giovane, in un deposito di contenuti e di conoscenze, organizzate in volumi cartacei e disposte su anonimi e freddi scaffali metallici. Si è posta, così, l’esigenza di sostituire la tradizionale immagine della biblioteca scolastica con la costruzione di uno spazio flessibile, dinamico, multifunzionale e aperto non solo agli alunni ma anche al territorio. Va precisato, tuttavia, che sarebbe impensabile, sia per la condizione dei locali preesistenti all’interno della nostra scuola che per i costi, riuscire a rinnovare completamente la biblioteca della nostra istituzione scolastica (faccio riferimento alla biblioteca della sede centrale del nostro Liceo). Il presente progetto intende avviare un’opera di riammodernamento graduale che solo negli anni futuri potrà avviarsi a compimento. Sono state proposte, pertanto, soluzioni di arredo per cercare di superare l’impressione di freddezza, estraneità, e anche isolamento dei lettori. Uno spazio accogliente deve essere in grado di creare condizioni adatte sia all’incontro personale del lettore con il testo sia alla condivisione delle informazioni, conoscenze e giudizi, scaturite dalla lettura dei testi. Al riguardo sono state avanzate delle ipotesi di alcune modifiche ambientali, come ad esempio la realizzazione di una parete modulare attrezzata e colorata, l’introduzione di qualche comoda seduta con adeguata illuminazione, l’aggiunta di qualche postazione digitale. La progettazione dello spazio biblioteca, che prende l’avvio con il presente progetto rappresenta, di fatto, un modo diverso di vivere gli spazi della conoscenza e una risposta all’esigenza di costruire, a cominciare dal senso materiale del termine, veri e propri ambienti d’apprendimento, rispondendo alla necessità di creare le condizioni ottimali per la formazione e l’informazione. Si tratta, dunque, di avviare quella trasformazione che investe l’immagine stessa di biblioteca: da luogo-deposito di saperi conservati a spazio di saperi che conversano e convergono, in un rapporto dialogico e

37 dinamico con il fruitore ricercatore, un cercatore di risposte, sia esso studente o semplice lettore. La continua trasformazione del mondo dell’informazione coinvolge la dimensione e il ruolo della biblioteca in un processo dinamico e costantemente evolutivo. La biblioteca, sotto questa nuova luce, necessita di un ripensamento che non può esaurirsi, però, solo in un ammodernamento degli spazi o nell’utilizzo delle più sofisticate piattaforme digitali. L’introduzione di novità funzionali (dalla diversa concezione architettonica degli spazi all’utilizzo delle tecnologie digitali di ultima generazione) è solo un aspetto del ruolo innovativo, progettuale e formativo della biblioteca, specie se biblioteca scolastica. Come scrive Luisa Marquardt, nel suo articolo La biblioteca scola- stica: un ponte tra scuola e territorio, tra carta e digitale, per formare lettori competenti e cittadini attivi, la biblioteca scolastica non può definirsi tale solo per “la sua ubicazione nella scuola o all’appartenenza amministrativa, quanto, piuttosto, all’essere legata all’offerta formativa dell’istituzione scolastica di appartenenza, in generale, e al curricolo in particolare, alle attività educative e alla loro attuazione, al costituire un ponte tra la scuola e l’extrascuola, quale intersezione tra il mondo educativo e quello dell’informazione e della comunicazione”. Questo ruolo era già indicato nel Manifesto IFLA/Unesco del 1994 e confermato ancora una volta dalla seconda edizione delle linee guida per le biblioteche scolastiche pubblicate dall’IFLA lo scorso anno, le IFLA School Library Guidelines, 2nd edition, dell’IFLA School Libraries Standing Committee, a cura di Dianne Oberg e Barbara Schultz-Jones.9 La biblioteca scolastica deve essere intesa, dunque, come uno spazio versatile, una comunità di apprendimento un “learning commons” quale luogo fisico e virtuale (es., piattaforme online, social network, blog, tecnologie mobili ecc.) in grado di coordinare attività e proposte cultu- rali ed educative, aperte al territorio. Requisiti indispensabili per una Biblioteca Scolastica Innovativa Digitale non possono non essere le strumentazioni informatiche finalizzate all’accesso a piattaforme di archiviazione e prestito digitale (Digital lending). Al riguardo si accenna alla scelta della nostra scuola

9 Barbara Schultz-Jones & Dianne Oberg (Editors), Global Action on School Library Guidelines, IFLA Publications Series 167, De Gruyter Saur, Berlin/Munich 2015.

38 di utilizzare la piattaforma SBN o il software SEBINA, per la catalogazione dei materiali librari in quanto usata dalle biblioteche del nostro territorio.10 Fra le indicazioni del bando Azione #24 del PNSD come requisiti per la realizzazione di una biblioteca innovativa scolastica figurano anche l’apertura al territorio e la collaborazione con altre istituzioni locali e/o biblioteche del territorio. In ottemperanza a tale richiesta la nostra scuola ha stabilito un Protocollo d’Intesa, che facendo capo alla Biblioteca Flaiano e attivando una rete di contatti e scambi con le altre biblioteche, promuove eventi e iniziative. L’adesione alla rete delle biblioteche scolastiche di Roma offre al nostro Liceo una serie di opportunità: dalla bibliocard per gli studenti, alla formazione per i docenti-bibliotecari, all’assistenza per gli alunni coinvolti nell’alter- nanza scuola-lavoro. Segnaliamo, inoltre, la possibilità di stabilire contatti e scambi con i bibliopoint delle scuole del territorio, come il Liceo Nomentano, usufruendo dell’opportunità di condividere in rete materiali, iniziative e progetti. Obiettivo primario nella realizzazione di una biblioteca proattiva resta sempre la promozione della lettura, la possibilità di creare un luogo d’incontro virtuale o reale fra l’autore e il lettore, il solo spazio in cui possano prendere vita conversazioni capaci di superare i secoli e azzerare le distanze. L’apertura della biblioteca pomeridiana, in tal senso, non si configura così, solo come l’estensione di un servizio di consultazione e prestito attivo la mattina, aperto agli utenti del territorio. Essa diventa occasione per vivere liberamente e in modo privilegiato lo “spazio librario”, la dimensione in grado di trasformare i nostri alunni da studenti in “studiosi”, nel senso etimologico di studium. Le iniziative proposte (dallo storytelling digitale alla graphic novel digitale; dalle interviste impossibili a scenari utopici in cui i libri dialogano fra loro,

10 E’ auspicabile che anche la nostra biblioteca entri a far parte di un polo, come quello dell’Università La Sapienza, per poter usufruire di un ricchissimo patrimonio bibliografico. Al momento si sta valutando anche l’iscrizione alla piattaforma MLOL in grado di offrire un ricchissimo servizio di digital lending (dagli e-book ai dvd) e soprattutto di un servizio di emeroteca digitale di tutti i quotidiani in lingua originale.

39 raccontandosi le loro storie in una fitta trama di intrecci e parole) si propongono di immergere il giovane lettore nel mondo delle parole, appassionandolo, di fare di lui, fruitore e consumatore passivo di contenuti, un rielaboratore di idee, un creativo. L’apertura al territorio consente di vivere la scuola nella sua dimensione profondamente culturale, quella di educazione permanente, intesa come un processo di crescita che investe ogni individuo nella ricerca di quel difficile equilibrio fra la conservazione e trasformazione, rapporto dialettico con la realtà che ci circonda, a cominciare dal mondo dell’informazione. L’educazione all’Information Literacy proposta agli studenti come strategia didattica diventa condivisione di una modalità di fare ricerca da estendere a tutti gli utenti della biblioteca, attraverso la realizzazione di indicazioni per orientarsi in una biblioteca digitale. È prevista, la realizzazione di una graphic novel digitale per tutti i frequentatori della biblioteca su un utilizzo proficuo della consultazione e della ricerca digitale, “Don Chisciotte e la lettura”. L’emblematico hidalgo impegnato contro i pericoli dell’infosfera, nella lotta contro gli errori più comuni della ricerca nel web, contro le fake news, inseguendo l’autenticità, la fondatezza e soprattutto la validità delle informazioni e delle fonti, offrirà agli utenti della biblioteca semplici ma utili suggerimenti per non perdersi nei meandri dell’informazione digitale o bloccarsi di fronte ad una richiesta per il prestito digitale. Il tutto illustrato da colorate vignette digitali.11 La biblioteca, in questa rinnovata dimensione, si propone, dunque, di diventare uno spazio versatile al servizio della comunità, luogo dell’apprendimento permanente, come si è detto, in grado di offrire occasioni sviluppo della persona, come acquisizione di competenze, ma anche creativo.12

11 La graphic novel digitale sarà realizzata da un gruppo di alunni, guidato da un docente tutor per l’utilizzo dei programmi digitali (attraverso corsi in presenza e in e-learning con Moodle e Telegram) e da un disegnatore per la parte grafica. 12 Riguardo alle principali linee di sviluppo formulate dalle istituzioni nazionali e internazionali si fa riferimento anche al Libro Bianco della Commissione Europea sul Futuro dell'Europa, secondo il quale "per sfruttare al meglio le nuove opportunità attenuandone nel contempo qualsiasi effetto negativo occorrerà investire massic- ciamente nelle competenze e ripensare i sistemi di istruzione e di apprendimento permanente".

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La scelta del titolo del nostro progetto “Da biblioteca a biblioattiva” intende rispondere al ruolo innovativo della biblioteca, un ruolo fortemente proattivo nella scuola e nel territorio. Abbiamo accennato all’importanza dell’Information Literacy nei processi di comunicazione attuali e nell’apprendimento. Una delle richieste e delle finalità peculiari e caratterizzanti il progetto e la dimensione più spiccatamente proattiva della biblioteca è, infatti, la promozione dell’educazione all’informazione digitale. Il bando dell’Azione #24 del PNSD invita le biblioteche delle scuole a un rinnovato impegno per creare o migliorare le condizioni di apprendimento delle competenze informative e digitali, educando all’Information Literacy. Prima di elencare le iniziative che al riguardo si intendono realizzare, introduciamo una riflessione sulla complessità dell’informazione digitale, sulla lettura critica e sulla selezione delle informazioni del mondo dell’infosfera. Negli ultimi anni l’Information Literacy riscuote nel mondo bibliotecario e nella scuola un’attenzione crescente, testimoniata dalla costituzione di gruppi di lavoro e dalle numerose iniziative di studio al riguardo.13 Con Information Literacy intendiamo un insieme di competenze necessarie a quanti vogliono fare ricerca correttamente navigando nella rete Web, selezionando e valutando le informazioni reperite. Il problema della valutazione dell’attendibilità delle informazioni diventa quindi un’esigenza prioritaria per non disperdersi in una massa indistinta di saperi ubiquitari e spesso inutili o fuorvianti, definiti “secondo diluvio universale” secondo una efficace metafora proposta da Pierre Levy. L’Information Literacy, dunque, quale strategia per insegnare l’accesso alle informazioni e la corretta gestione di esse da parte degli utenti, comprende attività focalizzate alla capacità di utilizzare la biblioteca, alla ricerca, al recupero e all’uso delle informazioni, quindi

13 Facciamo qui riferimento al prossimo Convegno delle Stelline, che si terrà i giorni 15 e 16 marzo 2018 a Milano, il cui tema è “LA BIBLIOTECA (IN)FORMA. Digital Reference, Information Literacy, e-learning.”

41 allo sviluppo delle abilità informative da parte degli utenti.14 Importanti diventano le strategie di ricerca come Starting point, Walking around e Indexing. Fra queste Indexing permette di razionalizzare in modo più efficiente l’archiviazione dei dati di ricerca.15 La rapidissima diffusione delle tecnologie informatiche in questi ultimi decenni e l’uso pervasivo che se ne sta facendo anche nella scuola come in qualsiasi campo di attività pubblica e privata, ha comportato il sorgere di nuovi problemi per chi voglia cercare un’informazione attendibile e corretta nel Web. L’utente, utilizzando i più comuni motori di ricerca, è posto davanti a pagine che rimandano a decine di siti relativi a un medesimo argomento, ciascuno contenente una enorme messe di informazioni: di fronte al diluvio di informazioni che si ricavano da ogni sito l’utente è posto nella impossibilità pratica di orientarsi e di scegliere le informazioni provenienti da fonti autorevoli. Risulta pertanto difficile muoversi nel Web e trasformare i dati ottenuti in una salda acquisizione di conoscenze e saperi durevoli, anche perché le stesse fonti possono essere continuamente modificate. Due gli aspetti che sembrano in netto contrasto e che sono legati alla necessità di superare il concetto di biblioteca come luogo deputato alla conservazione di un sapere statico con l’idea di biblioteca come luogo materiale e virtuale di un sapere dinamico, in continua evoluzione ma al tempo stesso capace di garantire stabilità e solidità ai processi di apprendimento, attraverso il conseguimento di certezze. Sarebbe

14 L’Information Literacy è dunque una strategia strettamente legata all’appren- dimento permanente (Lifelong Learning), il cui reciproco potenziamento costituisce un elemento cruciale per la formazione e la riuscita di ogni individuo nella società altamente competitiva del XXI secolo. Entrambe le attività, Information Literacy e Lifelong Learning, sono attività autodirette e automotivate, non richiedendo necessariamente la presenza di elementi esterni, hanno lo scopo di aiutare l’individuo a trovare le risorse per progredire in se stesso, a prescindere dal proprio status sociale o economico, sono attività autorinforzanti, in quanto permetteranno di acquisire conoscenze e strategie utili per risolvere problemi non solo teorici ma concreti, che comportano scelte nella vita quotidiana. 15 Vd. i materiali di studio di Piercesare Rivoltella, Information Literacy, Progetto DIDATEC, in “Scuola Valore. Risorse per docenti dai progetti nazionali”, sul sito INDIRE, 2012, all’indirizzo: http://www.scuolavalore.indire.it/nuove_risorse/information-literacy-concetti- chiave/

42 auspicabile, in questo senso, parlare allora di luogo di conservazione inteso nel senso etimologico del cum servare, ossia dell’impegno comune, che si assume una comunità, alla tutela e alla salvaguardia di un patrimonio culturale comune, a cominciare dalle tradizioni che scandiscono la storia locale. Un possibile rischio della conoscenza ubiquitaria della rete, della immediatezza e della velocità del dato acquisito è la perdita delle coordinate spazio-temporali, in una percezione del reale che annulla distanze e tempi, con l’evidente perdita della diacronia e dell'importanza della memoria storica. Si prospettano, dunque, percorsi, come sarà successivamente illustrato, finalizzati al recupero della memoria, intesa come testimonianza diretta o indiretta di un passato anche recente, partendo da uno spazio vicino, ossia dall'esplorazione di una realtà non dematerializzata. Tali ricerche troveranno conferme, completamenti, riscontri e verranno divulgate attraverso la rete, nella percezione che il passaggio dall’Information Literacy alla Media Literacy è breve e consequenziale. La riflessione sull’apprendimento non può non vedere disgiunte la fase di conoscenza teorica da quella rielaborativa e applicativa. Cercare informazione nell’infosfera è un atto che cambia non solo la nostra conoscenza del mondo ma anche la percezione che abbiamo di noi stessi. Oggetto di dibattito mediatico crescente sono le Fake News: le biblioteche in questo contesto disorientante hanno l’opportunità di porsi come mediatori della conoscenza, promuovendo ed educando i propri utenti alla gestione consapevole dell’informazione. L'infografica IFLA sulle false notizie può costituire un punto di partenza per l’Information Literacy. intesa come vera e propria strategia didattica. Il problema, infatti, non si riduce solo all’accertamento della veridicità delle informazioni ma anche all’individuazione di una modalità per attestare l'autorevolezza e la gerarchia delle fonti reperibili sui siti Internet. Gli strumenti di interrogazione e recupero dell'infor- mazione sono sempre più diversificati (discovery tool, banche dati, archivi aperti) e i motori di ricerca sono una fonte informativa primaria in grado di strutturare un quadro epistemologico di riferimento anche se l’Information Literacy non va intesa come un modello lineare di conoscenza ma come espressione di una ricerca documentale dinamica e iterativa, in grado di accogliere criticamente i flussi formativi.

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Se finalità prioritaria dell’Information Literacy è dunque quella in grado di promuovere una learning library, la biblioteca si configura come ambiente formativo in grado di predisporre i documenti, creare i luoghi del web per poter porre l'informazione al centro dell'attività di insegnamento, come occasione di condivisione, ma anche scambio delle informazioni e delle conoscenze. Non si tratta di un processo semplice: si tratta di accogliere la dimensione enciclopedica dei saperi digitali, per renderli facilmente fruibili, superando l’idea di biblioteca quale luogo chiuso ed elitario di cultura. Risulta evidente, dunque, il rischio della disorientante dispersione di notizie, di dati non organizzati, alla portata di tutti ma al tempo stesso risultano inaccessibili senza una guida, sia essa rappresentata da chiare indicazioni di ricerca sia essa la presenza del bibliotecario scolastico, ossia di una figura appositamente formata. Il fenomeno del Divide Digital, ossia il “divario digitale”, non credo possa più essere ridotto alla distinzione tra chi ha accesso alle tecnologie informatiche (computer, tablet, smartphone) e chi non lo ha. Il Divide Digital diventa sempre più evidente fra i fruitori, consapevoli ricer- catori, in grado di organizzare le informazioni ottenute dal Web in conoscenze corrette, strutturate e orientate all’acquisizione di nuovi saperi, e i frequentatori della rete, spesso dispersi e naufraghi nel mare dell’infosfera. Sono state, pertanto, previste attività finalizzate alla realizzazione di veri e propri percorsi di gestione dell’informazione digitale, dalla consultazione delle pagine web delle biblioteche nazionali al funzio- namento di opac, banche dati e siti web. Fra le attività proposte ne richiamiamo solo alcune: l’illustrazione di chiare indicazioni in grado di esplicitare i passaggi fondamentali per avviare la ricerca bibliografica per nome, categoria e soggetto attraverso la tecnica della graphic novel digitale (espediente già in uso in una biblioteca americana), con disegni elaborati dagli stessi alunni; la realizzazione di un catalogo on line con tag e parole chiave sugli argomenti oggetto di studio da parte degli alunni, la consultazione selettiva dei motori di ricerca, delle banche dati e la creazione delle indicizzazioni per soggetto e campi semantici, ricercando i concetti chiave usando lingue diverse.

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Tali processi contribuiscono a rafforzare le competenze della cittadinanza attiva, l’ “imparare ad imparare”, attraverso lo sviluppo di elaborazione della sintesi, della selezione e della gerarchizzazione dell'informazione, nonché attraverso l'individuazione dei concetti analoghi e correlati ad essa. Si tratta di avviare attività di ricerca-azione proprio attraverso la gestione dei dati: la consultazione e l'utilizzo ragionato della biblioteca digitale sono strumenti essi stessi per consentire agli alunni di ottenere una metodologia di studio e di ricerca. Punto d’arrivo, infatti, dovrebbe essere la “user education”, intesa come l’avvenuto passaggio dello studente dalla dimensione di fruitore consumatore di testi a quello di fruitore critico della documentazione e dell'informazione, venendosi così a completare quel processo educativo e formativo che l’Information Literacy promuove e stimola. In ogni processo (in)formativo lo sviluppo della capacità critica viene a coincidere con l’acquisizione della capacità di interrogare un testo. Una guida insostituibile, un “ponte” fra il mondo delle informazioni digitali e quello della costruzione dei saperi, fra il consultare e fare ricerca, è proprio il bibliotecario scolastico, suscitatore di domande di senso. Il tradizionale ruolo informativo del bibliotecario. Relegato, spesso, all’assistenza alla ricerca bibliografica, si è arricchito di una funzione fortemente educativa, ricoprendo un ruolo proattivo, mediatore della comunicazione.16 L’alunno, quindi, da lettore consumatore veloce di contenuti può diventare, con la guida del bibliotecario scolastico, un fruitore critico dell’informazione, un costruttore di saperi durevoli. Non è difficile non riconoscere nel ruolo proattivo e fortemente educativo del bibliotecario, alcuni dei tratti salienti del ruolo e del compito del docente. Indispensabile, dunque, la formazione dei docenti, quali anello di congiunzione fra il mondo della scuola e la cultura bibliotecaria.

16 Scrive Lankes: “I bibliotecari possono avvicinarsi al loro lavoro con un nuovo approccio, come facilitatori e mediatori delle conversazioni dei membri delle comunità di riferimento, comunicazioni che devono cercare di arricchire, acquisire, memorizzare e diffondere fra comunità diverse ma potenzialmente affini.”

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Facciamo riferimento, al riguardo, agli incontri promossi dal MIUR e agli incontri proposti dalle biblioteche scolastiche di Roma per i docenti referenti del progetto finalizzati alla formazione della figura del bibliotecario scolastico, ossia di un docente che costituirà una figura di raccordo fra la trasmissione dei saperi analogici e digitali. È auspicabile, ovviamente, la formazione più ampia possibile di tutti i docenti per rendere “attiva” la Biblioteca Digitale Innovativa, fucina di domande, di interrogativi scaturiti dalla curiosità culturale, vera anima dell’interesse verso la lettura. Obiettivo primario del progetto, è ancora una volta, e diremo di ogni biblioteca fin dai suoi albori, quello di promuovere interesse e curiosità verso la lettura. La biblioteca innovativa, in ultima analisi, non dovrebbe solo cercare di dare risposte ma dovrebbe essere soprattutto in grado di suscitare domande. Se la domanda nasce da un bisogno, ciò significa che si è riusciti ad individuare un elemento la cui assenza è percepita come limitante e il cui possesso, al contrario, come un possibile miglioramento. Di fronte a migliaia di volumi o a sterminati fiumi di parole che scorrono liquide su monitor accesi, non è facile comprendere cosa cercare, non conoscendo o non riuscendo nemmeno ad immaginare cosa potrebbe animare la nostra curiositas, o quali argomenti, contenuti, idee e progetti potrebbero essere più rispondenti ai nostri più autentici interessi. Non è facile capire quali saperi potrebbero esserci necessari o addirittura indispensabili. La dimensione “dell’isolamento culturale”, pigra difesa dalla profluvie di informazioni in viaggio nell’infosfera a velocità siderale, si configura, a volte, come l’unico terreno sicuro per il nostro limitante quotidiano. La biblioteca deve sia superare il chiuso delle pareti dell’edificio scolastico, sia riportare nella giusta traiettoria le informazioni naufragate nell’infosfera. Come richiesto dal bando, quindi, aspetto importante è la pubblicizzazione e la condivisione dei materiali, intesi come possibili sentieri di conoscenza e crescita personale per tutte le componenti del territorio. Pensare di rendere nota la sterminata mole di informazioni che una biblioteca virtuale può contenere è impensabile. Pubblicizzare significa divulgare iniziative in grado di proporre conoscenze organiz- zate secondo percorsi di apprendimento e formativi, dalla dimensione fortemente orientante (Storytelling digitale e biblioterapia).

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Vengono riportate di seguito, in modo schematico, secondo quanto richiesto dal bando del progetto, le iniziative proposte e gli aspetti caratterizzanti del progetto.

Attività formative e di Information Literacy • Formazione dei docenti (conoscenza degli strumenti e della biblioteca digitale innovativa dal Digital Lending alla creazione di E-book, etc.) • Formazione degli alunni coinvolti nell'uso sistematico della biblioteca (Classi Colorate, percorso “Insegnamento multimediale delle lingue classiche”) • Elaborazione con la partecipazione degli alunni di indicazioni chiare, sotto forma di graphic novel, illustranti alcune delle funzioni della Biblioteca Innovativa Digitale (dalla consultazione al prestito) • Elaborazione, con la partecipazione dei gruppi di alunni, di indicizzazione di parole e concetti chiave, tag relativi ad alcuni argomenti svolti in classe o ai percorsi delle Classi Colorate

Attività finalizzate ad evitare la dispersione scolastica e di Media Literacy • Storytelling individuale come possibilità per aiutare l'alunno a comprendere meglio i suoi interessi e orientarlo nello studio • Storytelling corale come possibilità per aiutare l’alunno allo scambio e alla condivisione di esperienze • La biblioterapia in collaborazione con la psicologa della scuola

Attività finalizzate a promuovere la lettura • Realizzazione di book-trailer • Un libro in 10 vignette • Il libro mese per le classi colorate • Realizzazione di audiolibri • Le interviste impossibili a personaggi storici e letterari • Una notte in biblioteca: se i personaggi delle storie dialogassero fra loro

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• Il “Bollettino del lettore”: periodico in formato digitale di informazione libraria e sulle iniziative della Biblioteca Innovativa Digitale • I dieci libri irrinunciabili della narrativa moderna e contemporanea • Le frasi celebri e gli incipit famosi delle opere letterarie • Il cronòtopo nella narrativa (ad esempio, il cronòtopo del castello) • Emeroteca digitale: una finestra sui fatti del mondo (spoglio delle principali testate nazionali e internazionali) • Mediateca di versioni cinematografiche di opere letterarie • Inserimento e aggiornamento dei materiali già prodotti dai ragazzi per il sito web delle Classi Colorate e per Radio Isolabella • I libri che mi hanno cambiato la vita: letture particolarmente coinvolgenti riferite dagli studenti

Attività di apertura al territorio • Organizzazione di eventi (conferenze a tema, presentazione di libri, incontri con l'autore) • Presentazione di temi culturali in stile TED Talk • Mostre digitali realizzate dagli studenti su argomenti vari, tra cui la storia del Liceo Orazio • Giornata dedicata all’auto-editoria scolastica • Recitationes: pubbliche letture da parte degli alunni e degli altri utenti di pagine tratte dai capolavori della letteratura introdotte dagli alunni stessi • Presentazione di lavori ed eventi in modalità Webinar e Workshop Collaborazione con Radio Isolabella (radio in versione Web)

Attività finalizzate a promuovere il recupero della dimensione storica della memorialistica • Creazione di un sito di documentazione sulla storia del Liceo Orazio, aperto ai contributi memorialistici (scritti, foto, riprese

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audio/video, testimonianze orali) di ex allievi, di ex docenti e di tutte le persone interessate • Ricerca e documentazione, in accordo con il IV Municipio, sui personaggi storici che sono vissuti nel nostro territorio (ad esempio, Orlando Orlandi Posti) • Raccolta di testimonianze scritte e orali su eventi storici a cui hanno assistito le persone residenti nel nostro territorio

Facciamo infine riferimento ad un altro aspetto evidenziato dal bando, che, come si è visto nel corso della nostra esposizione, può leggersi già, per la completezza delle sue indicazioni, come una vera e propria guida alla realizzazione di tutti gli aspetti più profondamente innovativi delle biblioteche scolastiche, in una strettissima interazione con lo studente lettore e con il territorio. Facciamo riferimento alla biblioteca come strumento per ridurre la dispersione scolastica. Si ipotizza un progetto di biblioterapia da realizzarsi in collaborazione con la psicologa della scuola. I libri, come teorizzato, ad esempio, da autori come Ella Berthoud e Susan Elderkin,17 Erin Blakemore,18 Brenda Walker,19 nel confronto tra le esperienze dei lettori e le situazioni immaginate dagli autori per i propri personaggi letterari forniscono chiavi interpretative della realtà e soluzioni. Si forniranno indicazioni di lettura, parafrasando le parole dell'imperatore Adriano che definiva la lettura “ospedale dell’anima”, per ogni disagio, stato d'animo o solo per sentirsi meno soli, scoprendo che le emozioni e i propri sentimenti, ossia la propria percezione del sé e del reale, sono stati già narrati dagli altri. Si aggiunge, al riguardo, l’attivazione della strategia dello Storytelling, intesa non solo come raccontare per raccontarsi, ma come possibilità di orientare l'alunno (vedi le brevi osservazioni sullo Storytelling contenute

17 Ella Berthoud – Susan Elderkin, Curarsi con i libri. Rimedi letterari per ogni malanno, trad. di Roberto Serrai, Sellerio editore, Palermo 2013. 18 Erin Blakemore, Le protagoniste. Da Rossella O’Hara a Jane Eyre, lezioni di vita dalle eroine della letteratura, trad. di Elisabetta Stefanini, Castelvecchi, Roma 2015. 19 Brenda Walker, Come i libri mi hanno salvato la vita, trad. di Maria Eugenia Morin, Cairo Editore, Milano 2011.

49 nel sesto numero dei “Quaderni del Liceo Orazio”).20 A ciò può essere aggiunta una dimensione corale dello Storytelling, con lettura collettiva dei testi narrativi prodotti dagli studenti, espressione della dimensione aperta della biblioteca. In conclusione la biblioteca o, se si preferisce, la “biblioattiva” è non solo uno spazio aperto alla dimensione individuale di ricerca e conoscenza dell’io e del reale, e alla elaborazione di saperi, ma è anche uno spazio aggregante in cui si lavora per apprendere insieme e per arricchire le proprie conoscenze con gli interventi e le esperienze che provengono dall'esterno, a partire dal territorio. Essa è non solo uno spazio scolastico, un modo di fare ricerca, imparando a trasformare notizie fluide in saperi permanenti, ma anche uno spazio in cui leggere non è un obbligo ma la soddisfazione di una domanda di senso, spesso sconosciuta e inespressa. Le iniziative proposte per promuovere la lettura vanno quindi intese solo come l’avvio di un processo più ampio e duraturo, finalizzato all’educazione alla lettura e all’acquisizione della consapevolezza della necessità di parlare e di conoscere, in altri termini di acquisire la dimensione integrata e integrante della comunicazione.

20 ANNA PAOLA BOTTONI, Una modalità di orientamento narrativo: lo Story- telling, in “Quaderni del Liceo Orazio”, n. 6, Anno Scolastico 2015/2016, Liceo ginnasio statale Orazio, Roma 2016, pp. 9-12.

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MASSIMO CALDERONI – WALTER FIORENTINO1

Elementi politico-sociali delle Fenicie euripidee

Premessa Le riflessioni sulle Fenicie che seguono questa breve introduzione sono il frutto di un’idea didattica che da alcuni anni ormai si è fatta prassi: leggere e commentare, durante il quinto anno, una delle tragedie rappresentate a Siracusa, approfondirne le questioni storiche, filosofiche e filologiche che il testo greco porta, raccogliere le emozioni e le intelligenze che gli studenti riversano in questo lavoro e, in ultimo, accompagnare la classe a Siracusa al teatro greco a vedere come quelle stesse emozioni e quelle stesse intelligenze si muovano in uno scenario di incomparabile bellezza. Questa premessa è tanto importante perché, senza l’architrave di questa idea, senza il lavoro quotidiano in classe preparato a casa, senza la magia della lezione che raccoglie idee e rilancia interpretazioni, nessuna delle idee che seguono avrebbe preso forma. C’è, in questo lavoro, la doverosa frequentazione di una bibliografia all’altezza del compito, il frutto di un lavoro di ricerca che ha cercato di essere rigoroso e approfondito, ma niente di questo avrebbe avuto il senso ricercato se non fosse stato riversato a scuola, in classe. Nell’anno scolastico appena concluso, la 5C del liceo De Sanctis e la 3H del liceo Orazio hanno letteralmente dato vita alle Fenicie euripidee con un fervore che è l’unica vera fonte di vitalità dei classici. Al tempo passato insieme intendiamo dedicare il frutto di questo lavoro che senza non sarebbe potuto esistere.

Introduzione I drammi di Euripide sono fortemente legati alla realtà ateniese del tempo: gli avvenimenti che turbano radicalmente la società in cui

1 Il Prof. Walter Fiorentino è docente di latino e greco presso il Liceo classico Gaetano De Sanctis di Roma.

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Euripide viveva e rappresentava i suoi drammi, influenzano in modo rilevante le sue opinioni su questioni di fondamentale importanza. Nelle sue tragedie riconosciamo l’espressione e il riflesso della crisi del V secolo, delle sue tensioni conflittuali; la visione critica delle vicende umane è in stretta relazione con la crisi della cultura democratica: la fragilità della condizione umana e l’incertezza del futuro spinge i suoi personaggi a cercare nuove strade da percorrere. Il poeta, nell’ultima fase di produzione assiste al crollo dei principi democratici di libertà ed uguaglianza e la loro trasformazione in politica di aggressione imperialistica; osservò la decadenza della vita familiare e la riduzione di spazi pubblici; fu spettatore della decadenza della religione ufficiale: Euripide era un democratico che assisteva alla fine di un’idea politica e ne denunciava le contraddizioni di fondo. Giudice e testimone di questi mutamenti, nelle sue opere riflette i cambiamenti e le contraddizioni di cui è stato attore.

Le Fenicie. Il dramma della polis Dopo la caduta dell’oligarchia la società ateniese conosce un periodo di grande incertezza e confusione: il ristabilimento della democrazia ad Atene si accompagna ad una serie di conflitti sociali e di processi che rischiavano di minare alla base la concordia cittadina. Euripide, profondamente turbato da questo stato di cose, mette in scena le Fenicie probabilmente nel 409 a.C.2, dramma che nella sua attualizzazione del mito intercettava l’interesse del pubblico, quella che M. Sonnino chiama ‘la gestione politica del mito promossa da Atene’3. Il titolo prende le mosse dal coro di giovani donne schiave straniere che sono inviate dalla terra fenicia al tempio di Apollo a Delfi come offerta di vittoria e che durante il viaggio rimangono bloccate a Tebe per il sopraggiungere dell’esercito degli Argivi. Il processo di rielaborazione e di personale rilettura del materiale mitico offre all’autore uno strumento di riflessione su questioni di stretta contingenza ed attualità dell’Atene del V sec. a.C.: le innovazioni tematiche delle Fenicie proiettano elementi di sofferta

2 Il terminus post quem è il 412 (schol. Ad Aristoph. Rane, 53); il terminus ante quem è il 407/406, morte dell’autore; cfr. E. Medda, Le Fenicie, BUR – Milano 2006, pp. 77-81. 3 M. Sonnino, Erechthei quae exstant, Le Monnier – Firenze, 2010.

52 attualità nel passato mitico, quasi fosse un gioco di specchi4. Lo scontro fratricida tra Eteocle e Polinice diviene lotta per il controllo e il dominio del potere, privo di qualsiasi giustizia morale, nel quale tutti e due rivendicano la legittimità delle proprie scelte, egoistiche, a scapito dell’interesse comune. Euripide ha apportato una radicale novità nella vicenda dei Labdacidi per la quale Eteocle, secondo la rilettura euri- pidea, è svestito del ruolo di difensore legittimo della città di Tebe, mentre Polinice intercetta maggiori simpatie tra gli spettatori. In tutto il dramma la polarità fra Eteocle e Polinice assume chiare connotazioni politiche: Eteocle appare come un arrogante difensore dell’ordine e delle istituzioni di cui è garante, un rappresentante della tradizione, un simbolo dell’intransigenza del potere; Polinice si offre al pubblico con una profonda umanità, fragile, per certi versi malinconica, ma che con altrettanta fierezza rivendica il diritto delle ragioni di chi vuole spezzare le catene del potere politico contrapponendovi i valori subordinati alla legge umana. Le Fenicie sono velate da un’esplicita critica al nuovo assetto della democrazia ateniese, chiusa nella propria intransigenza soprattutto negli anni che hanno seguito il breve periodo di governo della democrazia incline alla costituzione oplitica5. Questa tragedia appare dunque come punto di snodo di un processo ideologico-politico per il quale iniziano ad essere messe in forte discussione le intransigenze politiche del partito dei democratici ad Atene. Ruolo di mediatrice spetta alla madre Giocasta che, spinta dalle sollecitazioni del confronto dialettico tra Eteocle e Polinice, nel I episodio, con una straordinaria rhesis, invita i figli a deporre l’interesse personale a favore di quello della patria. Le Fenicie rappresentano come l’intransigenza e la chiusa riven- dicazione delle proprie ragioni porti conseguenze nefaste all’intero nucleo sociale, familiare e civile: Euripide ha rivisitato l’immagine cristallizzata di Giocasta ripensandola come madre più che regina, che postula una condotta incardinata sull’ideale di vita caratterizzata da valori umani e dalla ricerca dell’ēsuchia. In generale Eteocle, Polinice e

4 E. Medda, Le Fenicie. 5 Nel 411 il numero dei cittadini era orientativamente di 5000, ma i pieni diritti erano nelle mani degli opliti e dei cavalieri; resta esclusa la parte dei cittadini della cosiddetta democrazia marinara. (Musti, Storia greca, Laterza – Bari 1998)

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Giocasta potrebbero essere definiti come rappresentanti delle tre fazioni politiche che in quegli anni andavano confrontandosi ad Atene, rispetti- vamente del partito oligarchico, di quello democratico tradizionale e di quello che invece occupava la posizione di mezzo che cercava la patrios politeia6. Già nel prologo, diviso in due scene, la prima con Giocasta che ripercorre le vicende di Edipo e la seconda con la Teichoskopia di Antigone, è definito il sentimento di sofferenza e di angoscia che domina l’esistenza dei personaggi protagonisti della tragedia e degli uomini tutti7. La Teichoskopia è una sorta di telescopia rispetto alla quale il pubblico, grazie alla prospettiva del racconto extrascenico, nell’imma- ginare l’arrivo dell’esercito argivo compie un percorso nel tempo a ritroso: si riavvicina alla sotēria mitica del passato glorioso, garante di pace ed equilibrio, proprio quando le difficoltà che seguono il 411 a.C. minavano l’esistenza stessa degli ateniesi. Riflessione malinconica di Euripide che sembra ripensare al senso delle cose quando sente ormai prossima la fine di una stagione importante per la città di Atene, dunque del teatro tragico. Nella parodo il Coro, rappresentato da donne straniere, con senso di emarginazione e di smarrimento rispetto al delirio della guerra fratricida, incontra le complessità emotive del pubblico: è la parte che lega la storia mitica al passato (Cadmo, infatti, proveniva dalla terra fenicia), luogo di idillica e serena convivenza. Assistiamo all’identificazione tra il coro di donne fenicie, e schiave, ed il pubblico: vi è un delicato equilibrio tra

6 La questione si ripropose con violenza nel 404; vedi Aristotele, La Costituzione degli Ateniesi 34, 3: καταστῆσαι τοὺς τριάκοντα τρόπῳ τοιῷδε. τῆς εἰρήνης γενομένης αὐτοῖς ἐφ᾽ ᾧ τε πολιτεύσονται τὴν πάτριον πολιτείαν, οἱ μὲν δημοτικοὶ διασῴζειν ἐπειρῶντο τὸν δῆμον, τῶν δὲ γνωρίμων οἱ μὲν ἐν ταῖς ἑταιρείαις ὄντες, καὶ τῶν φυγάδων οἱ μετὰ τὴν εἰρήνην κατελθόντες ὀλιγαρχίας ἐπεθύμουν, οἱ δ᾽ ἐν ἑταιρείᾳ μὲν οὐδεμιᾷ συγκαθεστῶτες, ἄλλως δὲ δοκοῦντες οὐδενὸς ἐπιλείπεσθαι τῶν πολιτῶν, τὴν πάτριον πολιτείαν ἐζήτουν. 7 I versi si pongono con una forte valenza allusiva: l’autore, richiamando i versi omerici, invita a guardare le cose da una giusta distanza, a tenersi lontano dalle passioni, ad avere un approccio critico laico e sfrondato da passionalità: negli anni che seguono la democrazia oplitica era punto fondamentale per ricostruire il saldo basamento di un tessuto civile perché potesse ritrovare l’armonia e l’ēsuchia.

54 consapevolezza dell’estraneità e l’impulso alla partecipazione emotiva, grazie alla capacità di collegare la vicenda ad un patrimonio di memoria collettiva; la reazione di paura e compassione per le sciagure di Tebe e di Giocasta si saldano nell’animo degli spettatori di fronte alle difficoltà della propria città. Il senso di estraneità nell’attualità dello scontro civile tra fratelli viene ricollocato nel coinvolgimento emotivo del pubblico attraverso un procedimento empatico: senso di distanza rispetto agli accadimenti scenici che invece nella realtà erano di strettissima attualità.

La polemica antisofistica del I episodio Nel giugno del 411 sotto la pressione della reazione oligarchica guidata da Pisandro8, il popolo approvò la limitazione del diritto di cittadinanza ed altri provvedimenti, come la delega di poteri assoluti a quattrocento membri del Consiglio. Arrivato al potere, il partito oligarchico deluse le aspettative e la fiducia del popolo dimostrando la propria incapacità e gli egoismi di parte. Gli appartenenti a questi gruppi di potere erano stati educati alla scuola sofistica e pensavano di ricostruire un fondamento costituzionale ideale; ipotizzando il ritorno ad un passato vago, incapaci di far fronte ai problemi reali di una città piegata dalle sofferenze della guerra e dell’indigenza, si abbandonano all’egoismo e all’illegalità. Questa esperienza durò pochi mesi e nel settembre del 411 il Consiglio dei Quattrocento fu sciolto. Il testo delle Fenicie sembra convergere sulle ragioni che hanno portato alla crisi dell’ideale democratico della concordia sociale e al crollo dei pilastri che sostenevano l’ideologia della polis; tutta la tragedia è carica delle tensioni civili che segnano gli eventi di quegli anni. In particolare il primo episodio, strutturato in quattro scene, è un punto di snodo fondamentale per lo sviluppo di tutto il dramma: la prima scena (vv. 261-300) introduce Polinice sospettoso e guardingo; nella seconda (vv. 301-356) Giocasta incontra e riabbraccia il figlio Polinice; nella terza (vv. 357-442) Polinice ripercorre le proprie vicende dopo l’esilio attraverso un dialogo intimo con la madre; la quarta e ultima scena (vv. 443-637) riporta il duro colloquio tra Eteocle e Polinice mediato, invano, dalla presenza della madre. Tutto l’episodio, cruciale nella

8 Pisandro era stato un esponente del partito democratico estremo e poi si era posto a capo della reazione oligarchica.

55 struttura del dramma, converge sul tema delle condizioni degli esuli, della giustizia, della legittimità del potere, della tetraggine dell’odio. Ai versi 469 sgg inizia una delle amillai logon, a tre interlocutori9, con una lunga riflessione che pone sotto la lente di ingrandimento il concetto di sophon e sophia. Polinice porta avanti con forza le ragioni degli esuli, mentre le parole di Giocasta nei versi immediatamente precedenti sembrano preparatori allo sfogo di Polinice in riferimento alla questione dell’esilio; Giocasta richiama alla memoria il tema della vista - e della doppia vista - ripreso da Polinice al v 475: il mēdenos mneian echein che anche fonicamente richiama il principio del mē mnēsikakein che imponeva la rinuncia alla recriminazione e la conseguente amnistia per ricostituire l’homonoia della città10. I due interlocutori, Eteocle e Polinice, pronunciano il medesimo numero di versi, mentre l’intervento di Giocasta sviluppa la sua riflessione per un numero di versi quasi identico11 alla somma di quelli dei due figli (57 versi per Giocasta, 27 per Polinice, se si consi- dera spurio il v. 480, e 27 per Eteocle). Il discorso di Eteocle, come la replica di Polinice, è modellata sugli schemi dell’oratoria giudiziaria del tempo: abbiamo l’exordium (vv. 469-472; 499-502) la narratio (vv. 473- 491; 503-520); la peroratio (vv. 491-496; 521-525). Il discorso di Polinice apre con una massima che richiamandosi a principi etici contrappone il discorso giusto a quello ingiusto: “Semplice è il discorso che si basa sulla verità e ciò che è giusto non ha bisogno di astute interpretazioni: ha di per sé la misura opportuna. Il discorso ingiusto, che è in sé malato, ha bisogno invece di rimedi artificiosi”12. Si scorge in queste parole una chiara condanna ad un certo tipo di speculazione sofistica, completata nella chiusura del suo intervento quando in modo

9 Vedi anche Ifigenia in Aulide, 631 sgg. 10 Il principio del mē mnēsikakein, riproposto da Trasibulo nel 403 dopo la sconfitta al Pireo dei Trenta Tiranni, è testimoniato in fonti del V secolo: Erodoto VIII, 29, 2: ἡμεῖς μέντοι τὸ πᾶν ἔχοντες οὐ μνησικακέομεν. Tucidide IV, 74, 2: ὁρκώσαντες πίστεσι μεγάλαις μηδὲν μνησικακήσειν; Aristofane, Nuvole, 999 sg μηδ᾽ ἀντειπεῖν τῷ πατρὶ μηδέν, μηδ᾽ Ἰαπετὸν καλέσαντα / μνησικακῆσαι τὴν ἡλικίαν ἐξ ἧς ἐνεοττοτροφήθης; Lisistrata, 590: σίγα, μὴ μνησικακήσῃς 11 Nell’analisi del problema si tenga presente che il testo delle Fenicie è stato oggetto di numerose interpolazioni che obbligano alla cautela. 12 Traduzione di E. Medda.

56 anulare pronuncia parole che ribadiscono la forza di valori cardine quali dikē e sophia13. Polinice argomenta attraverso un linguaggio metaforico, quasi profetico, le sue idee e converge sul tema della giustizia e dell’ingiustizia, a partire dal logos adikos del v. 471: in nuce porta avanti la sua polemica antisofistica tenendosi lontano dai periplokas logon caratteristici dei tiranni (v. 483). Il linguaggio è tutto allusivo: in termine dikē nelle sue varianti compare diverse volte, come anche il termine sophos: tema della conoscenza e del principio del mallon matho, del to sophon d’ou sophia (sapienza non è saggezza). Dopo un breve intervento del corifeo, che interviene a ribadire la ragionevolezza del discorso di Polinice14, esordisce Eteocle ponendosi da subito però come seguace della scuola sofistica: “Se il bene e la saggezza fossero per tutti la stessa cosa, non ci sarebbe tra gli uomini contesa di discorsi contrapposti. Di fatto, però, per i mortali niente è simile né uguale, tranne che nell’esprimersi a parole; la realtà non è questa… solo la parola può raggiungere tutti gli obiettivi che potrebbe ottenere il ferro dei nemici…”15; nel negare il valore del to ison, ed in generale dell’isonomia, legittima l’utilizzo dell’arte della parola come strumento del potere16. Qui c’è la contrapposizione tra questo sapere e la sapienza dei saggi, motivo letterario di tutto l’ultimo Euripide e conseguenza del profondo cambiamento in atto: la crisi della razionalità sofistica si manifesta dunque anche nel genere letterario della tragedia. L’attacco antisofistico, che in Euripide ricorre più volte17, si basa sulla contrapposizione tra sophia e sophon, con l’idea che il conoscere non è sapienza18.

13 Il termine dikē ricorre nel discorso di Polinice più volte in poliptoto e derivatio. 14 Il corifeo sottolinea come i discorsi di Polinice siano stati ξυνετά: la ξύνεσις è una delle principali qualità umane, qui definita attraverso un atticismo voluto e ricercato, quasi a ribadire quanto il concetto fosse radicato nella cultura ateniese 15 Traduzione di E. Medda. 16 Cicerone, De officiis, III, 82: nam si violandum est ius, regnandi gratia violandum est; aliis rebus pietatem colas. 17 Medea, 294 sgg.; 580 sgg.; Ecuba, 1187 sgg.; Supplici, 894 sgg.902 sgg.; Ippolito 486 sgg.; Oreste, 907 sgg. 18 Euripide, Baccanti, v 395.

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Euripide sembra invitare al rifiuto della hybris: la vera saggezza si realizza all’interno di un sapere etico in base al quale l’uomo determina il suo valore non con una affermazione individuale, egoistica, ma con quelle doti che orientano l’individuo all’interno del complesso sociale. L’identificazione della saggezza con l’aidos, l’invito ad abbandonare l’eccesso, l’affermazione della centralità dell’ison e l’elogio della democrazia, celebrata nella rhesis di Giocasta (vv.528-585), sono conse- guenza di una nuova concezione alla cui base c’è una presa di coscienza dell’instabilità e della vanità delle cose umane:

Fenicie, vv. 584-585 μέθετον τὸ λίαν, μέθετον: ἀμαθία δυοῖν, ἐς ταὔθ᾽ ὅταν μόλητον, ἔχθιστον κακόν.

Abbandonate l’eccesso, abbandonatelo; la stoltezza di due quando procedano nella stessa direzione, è di gran lunga il male peggiore.

L’intellettualismo di questo episodio è adeguato alla passionalità di Euripide che trasferisce sulla scena le criticità di una città che si era posta come ‘scuola dell’Ellade’19, individuando nella bramosia di potere e in chi lo cerca a tutti i costi, il vero flagello della città. Euripide fu un sostenitore della democrazia e difensore dei valori di libertà e uguaglianza, convinto però che ci si doveva difendere dagli eccessi che le maglie larghe della democrazia offrivano, grazie alle quali i sofisti poterono trovare margini di manovra. Il prolungato elogio che fa Giocasta nella sua rhesis dell’uguaglianza, salda principi politici ai comportamenti individuali: all’interesse della collettività va sacrificato l’interesse del singolo.

Conclusione Scritta attorno al 410/409 a.C., ovvero negli ultimi anni di vita, Le Fenicie hanno avuto la forza di proporsi come simbolo dei fermenti culturali e sociali della propria epoca e la sofferta trasmissione del testo, interpolato e corrotto probabilmente anche per i motivi di continuo

19 Tucidide, II, 41 sgg.

58 interesse nell’attualità politica ai quali si prestava, ne è una conferma indiretta. Il pensiero tragico governa una saggezza costituita dall’ ac- cettazione della fragilità e della vulnerabilità dell’uomo e, nell’approdo euripideo, intravede unica possibilità di salvezza nel non sapere, nel permanere in uno stato di non conoscenza, come afferma con forza nelle Baccanti del 406 a.C., quando è ormai pienamente matura la consa- pevolezza dell’insufficienza del logos di fronte alla realtà. Baccanti, vv. 1259-1262 φεῦ φεῦ: φρονήσασαι μὲν οἷ᾽ ἐδράσατε ἀλγήσετ᾽ ἄλγος δεινόν: εἰ δὲ διὰ τέλους ἐν τῷδ᾽ ἀεὶ μενεῖτ᾽ ἐν ᾧ καθέστατε, οὐκ εὐτυχοῦσαι δόξετ᾽ οὐχὶ δυστυχεῖν.

Ahi ahi; quando capirete che cosa avete fatto, soffrirete una sofferenza tremenda. Se invece continuerete a restare sempre nella condizione attuale, felici non siete, ma vi sembrerà di non essere infelici

Appendice Metateatro dell’ultimo Euripide: Fenicie, Ifigenia in Aulide e Baccanti Nell’ultima fase produttiva, la drammaturgia euripidea converge su un piano di riflessione critica sul senso della propria attività di drammaturgo e del ruolo costitutivo del teatro stesso. Intuendo la conclusione del grande sogno democratico, ripiega su se stesso e riserva all’azione scenica la funzione di strumento di comprensione e di analisi del reale, offrendosi come specchio delle inquietudini di un pubblico che non lo aveva mai troppo amato ma che cercava in lui risposte alle proprie incertezze. E si apre alla più completa riflessione quando porta all’estremo punto di rottura la tragedia realizzando un gioco metateatrale con le sue due ultime opere, Ifigenia in Aulide e Baccanti. Non sarebbe azzardato pensare che nel suo testamento spirituale-teatrale Euripide abbia giocato con il suo pubblico e lo abbia coinvolto nella riflessione sulla storia della tragedia20. Nelle sue ultime opere Euripide condensa gli elementi che avevano caratterizzato la storia del teatro tragico, quale ritroviamo nei drammi eschilei e sofoclei: destino e responsabilità

20 Cfr. V. Di Benedetto, Le Baccanti, BUR – Milano 2004, pp. 122-124.

59 individuale; rapporto tra libertà e anankē; la redenzione attraverso il dolore (il pathei mathos); visione escatologia della vita segnata dall’estrema fiducia nel volere degli dei che hanno segnato il destino per ognuno di noi (temi eschilei); poi il teatro come immagine della condizione umana; l’eroe al centro dell’azione; il contrasto tra il singolo e la collettività; dilemma parentale, diritto dello stato e diritto della famiglia, la poetica del pianto (temi sofoclei). Elementi che appaiono nei drammi costruiti negli anni successivi al 411 a.C., già a partire dalle Fenicie; un approccio metateatrale nell’evoluzione dei temi nelle Fenicie, dei contenuti nell’Ifigenia in Aulide, della struttura nelle Baccanti.

Bibliografia E. Cerbo, Il Coro nelle Fenicie di Euripide: una testimonianza della nuova espressività teatrale, ‹‹Dioniso›› 55 (1984-1985) J. De Romilly, La tragedia greca, Il Mulino – Bologna 1996 V. Di Benedetto, Euripide: teatro e società,Einaudi – Torino 1992 E. R. Dodds, I greci e l’irrazionale, Sansoni – Milano 2003 G. Fornari, La conoscenza tragica in Euripide e Sofocle, Transeuropa – Massa 2014 A. Garzya, Sul problema della rappresentazione della individualità nella tragedia, Cuadernos de filologia clásica. Estudios griegos e indoeuropeos, 2005, 15 D. J. Mastronarde, Euripides. Phoenissae, Cambridge University Press 1994 E. Medda, Le Fenicie, BUR – Milano 2006 D. Musti, Storia greca, Laterza – Bari 1989 M. Pohlenz, La tragedia greca, Paideia Editrice – Brescia 1961 T. A. Sinclair, Il pensiero politico classico, Laterza – Bari 1961 M. Sonnino, Erechthei quae exstant, Le Monnier – Firenze, 2010 D. Susanetti, Il teatro dei greci, Carocci editore – Roma 2000

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MARIO CARINI

Introduzione al diario di prigionia di Francesco Arpini (1944-1945)

Sommario: 1) L'8 settembre e il dramma degli IMI. 2) Il diario di Francesco Arpini.

1) L'8 settembre e il dramma degli IMI. Il dramma degli IMI ha inizio dall’8 settembre 1943, il giorno dell’armistizio che provocò la dissoluzione dell’esercito italiano e delle strutture stesse dello Stato unitario.1 Ma come si arrivò all’8 settembre? Quel giorno drammatico

Desidero esprimere il mio personale ringraziamento ai Signori Carlo e Valeria Arpini per aver messo a mia disposizione la trascrizione del manoscritto di Francesco Arpini, autorizzandomi a pubblicarlo in questa sede, e per avermi fornito numerose e preziose informazioni al riguardo. Mario Carini

1 Sull'armistizio dell'8 settembre la pubblicistica è amplissima. Ci limitiamo a citare: Ruggero Zangrandi, 1943: 25 Luglio – 8 Settembre, Feltrinelli, Milano 1964; Id., L’Italia tradita. 8 settembre 1943, Garzanti, su lic. Mursia, Milano 1974; a cura di Mario Cervi, L'8 settembre (collana “I documenti terribili”, n. 11), Mondadori, Milano 1973; Ettore Musco, La verità sull'8 settembre 1943, Garzanti, Milano 1976 (I ed. 1965); Silvio Bertoldi, Settembre 1943: il significato di una data, in “Storia Illustrata”, n. 310, settembre 1983, pp. 24-30; Filippo Stefani, 8 Settembre 1943. Gli armistizi dell'Italia, Marzorati Editore, Milano 1991; Gaetano Afeltra, I 45 giorni che sconvolsero l'Italia, Rizzoli, Milano 1993; Renzo De Felice, Mussolini l'alleato, vol. II La guerra civile 1943-1945, Einaudi, Torino 1997 (cap. La catastrofe nazio- nale dell'8 settembre, pp. 72-101); Silvio Bertoldi, Apocalisse italiana, Rizzoli, Milano 1998; Elena Aga Rossi, Una nazione allo sbando, Il Mulino, Bologna 2003, nuova ed. ampliata (I ed. 1993); Marco Patricelli, Settembre 1943. I giorni della vergogna, Laterza, Roma-Bari 2009; Gianni Oliva, L'Italia del silenzio, Mondadori, Milano 2013; Piero Baroni, 8 settembre 1943. Il tradimento, Il Giornale – Biblioteca Storica, su lic. Greco&Greco Editori, Milano 2017. Il famoso saggio di Ernesto

61 ha per la verità il suo antecedente nel 25 luglio, giorno in cui il re Vittorio Emanuele III depose e fece arrestare Benito Mussolini, capo del governo, Duce del fascismo e primo ministro del re per ventidue anni. La sostituzione di Mussolini con il Maresciallo d’Italia generale Pietro Badoglio fu il segno che molto era destinato a cambiare nella politica italiana. Proseguiva l’alleanza con la Germania, l’alleato dell’Asse (rispetto alla quale la frase “La guerra continua” inserita da Badoglio nel suo messaggio alla nazione intendeva offrire le più ampie rassicurazioni), ma prendeva sempre più piede nella corte e tra i generali l’idea che l’Italia dovesse uscire al più presto dalla guerra perché oramai era giunta allo stremo delle sue risorse materiali e morali. Le popolazioni erano ridotte alla fame e vivevano sotto l’incubo dei bombardamenti, gli sperati aiuti richiesti alla Germania non erano stati concessi, i cieli erano ormai dominio incontrastato dei caccia e dei bombardieri angloamericani, le città erano ridotte a cumuli di rovine, le colonie erano andate perdute, le migliori divisioni erano state distrutte sui fronti dell’Africa e della Russia, il nemico aveva conquistato la Sicilia e si apprestava a sbarcare nella penisola, mentre migliaia di prigionieri languivano nei campi russi e inglesi. Tutto ciò non era più sopportabile dalla grande maggioranza del popolo italiano, che sperava che con la fine di Mussolini e del fascismo (che dopo l’arresto del Duce si era praticamente dissolto “come neve al sole”, come disse beffardamente Hitler al suo sodale, incontrandolo dopo la liberazione) avesse termine anche la maledetta guerra che tanti lutti e rovine aveva portato alle famiglie italiane. L’idea di cercare una via, quale che fosse, per uscire dalla guerra cominciò a farsi strada a corte e furono iniziate, sia pur timidamente, le trattative segrete con gli Alleati, naturalmente all’insaputa dei tedeschi. I quali però diffidavano fortemente del governo Badoglio e della sua volontà di continuare a rispettare il patto dell’Asse (Hitler aveva definito “un crimine” l’arresto

Galli Della Loggia, La morte della patria (Laterza, Roma-Bari 1996), imputa all'8 settembre la mancanza, ancor oggi, a suo giudizio, evidente, di una salda coscienza nazionale degli italiani. Assai interessante il saggio di Paolo Emilio Petrillo, Lacerazione / Der Riss, La Lepre Edizioni, Roma 2014, che studia le reazioni psico- logiche dei tedeschi all'annuncio dell'armistizio, quali fattori di pregiudizi verso il nostro Paese che sopravvivono ancora oggi e condizionano l'unità europea.

62 di Mussolini) e già dall’aprile 1943 gli strateghi del Führer avevano elaborato un piano (il piano Alarich, poi divenuto Achse, quando fu reso operativo dopo l’armistizio) per disarmare integralmente l’esercito italiano se l’alleata si fosse rifiutata di proseguire la guerra al fianco del camerata germanico. Le trattative furono dunque iniziate e proseguirono in un clima di ambiguità e incertezze. Ambiguità perché il re e il governo ufficialmente non ne sapevano nulla, incertezze perché c’era, tra i generali, chi voleva la pace con gli anglo-americani, chi voleva continuare a combattere con i tedeschi per ragioni di principio e ideologia e chi aveva semplicemente paura della loro potenza distruttiva e soprattutto della loro ira. Sicché sulla chiarezza, sulla responsabilità e sulla capacità di decisione ebbero il sopravvento machiavellici calcoli e meschini e inutili bizantinismi che trascinarono alla rovinosa disfatta, insieme con l’esercito e il Paese stesso, gli artefici dell’armistizio e del mancato approntamento di un piano difensivo per tutelare l’esercito italiano. Il 1° agosto 1943 il ministro degli Esteri Raffaele Guariglia inviò a Lisbona come suo rappresentante il consigliere d’ambasciata Blasco Lanza D’Ajeta per avvicinare l’ambasciatore britannico Campbell e proporgli il seguente piano: l’Italia aveva intenzione di ritirarsi dal conflitto, ma necessitava dell’aiuto degli anglo-americani per rendere inoffensivi i tedeschi. La risposta dell’ambasciatore Campbell fu che non se ne parlava neanche, gli italiani avrebbero dovuto arrendersi e basta. Ossia l’ambasciatore chiedeva la semplice resa incondizionata, secondo il principio stabilito da Churchill e Roosevelt alla conferenza di Casablanca del gennaio 1943. Lanza d’Ajeta trasmise a Roma la risposta di Campbell e il governo non trovò altra strada che prendere tempo: temporeggiare, infatti, fu la tattica di Badoglio per tutta la durata delle trattative fino alla proclamazione dell’armistizio. Finalmente il 10 agosto Badoglio inviò a Lisbona come suo rappresentante personale il generale Giuseppe Castellano, che però non era munito di credenziali né di un codice cifrato per la trasmissione in segreto: ciò significa che il governo ebbe sempre in ritardo le notizie sull’andamento delle trattative e per un certo tempo fu all’oscuro degli sviluppi di esse. L’irrigidimento degli Alleati fu però smussato da Churchill e Roosevelt, che intravidero i vantaggi che avrebbe potuto arrecare per l’esito del conflitto una uscita dell’Italia e la sua possibile collaborazione contro la Germania. Sicché

63 venne firmato in segreto a Cassibile (presso Siracusa) l’armistizio dell’Italia con gli Alleati il 3 settembre.2 Questo era il cosiddetto “armistizio corto”, in 12 articoli, che rimandava a un testo più completo, l’armistizio “lungo”, che avrebbe dovuto contenere ulteriori clausole (che furono, come scoprirono amaramente gli italiani, peggiorative rispetto al primo armistizio e imposero sul territorio dell’Italia meridionale l’amministrazione politica e militare degli Alleati).3 Ci si mise d’accordo anche per un intervento delle truppe anglo-americane, concertato in questo modo: all’atto della proclamazione dell’armistizio gli Alleati sarebbero sbarcati sulle coste della penisola, mentre una divisione aviotrasportata sarebbe stata lanciata su Roma, per mettere la città in salvo dai tedeschi. Gli italiani ammettevano dunque implicitamente di non essere in grado di fronteggiare da soli i tedeschi, anche se erano in netta superiorità di uomini e mezzi, e questa debolezza o paura condizionò fortemente l’azione dello Stato Maggiore nelle ore successive alla proclamazione dell’armistizio l’8 settembre. In sostanza era come se gli italiani avessero detto agli Alleati: voi ci liberate dai tedeschi e noi usciamo dal conflitto, mentre gli Alleati insistevano per la resa incondizionata, promettendo poi un aiuto contro i tedeschi. Inoltre non si poté o non si volle trovare l’accordo per la proclamazione congiunta dell’armistizio. Gli Alleati avevano fretta di renderlo pubblico, anche per escludere un eventuale ripensamento degli italiani di cui continuavano a diffidare, gli italiani volevano procrastinare l’annuncio il più possibile per dar modo all’esercito di organizzarsi per la necessaria difesa del territorio. Nessuna iniziativa però venne presa in tal senso, giacché gli alti comandi delle tre Armi e quelli intermedi vennero lasciati all’oscuro di tutto fino all’annuncio dell’armistizio. La notte del 7 settembre avvenne un colpo di scena. Due alti ufficiali dell’aviazione americana, il generale Maxwell Taylor e il colonnello Gardiner, sbarcati in gran segreto in Italia e portati a Roma in ambulanza, si incontrarono con il maresciallo Badoglio e il generale Carboni, comandante della difesa di Roma, per concordare insieme le modalità dell’azione dei paracadutisti americani, un’azione che

2 L’armistizio fu firmato dal generale Castellano, in rappresentanza di Badoglio, e dal generale Bedell Smith, in rappresentanza di Eisenhower. 3 L’armistizio lungo venne poi firmato il 29 settembre 1943.

64 comprendeva anche il trasporto di un centinaio di pezzi di artiglieria su zattere lungo il corso del Tevere. Il generale Carboni dipinse però ai due alti ufficiali americani un quadro nerissimo della situazione a Roma: disse che le forze tedesche erano preponderanti, che tutti gli aeroporti disponibili (Cerveteri, Furbara, Centocelle e Guidonia) erano salda- mente presidiati dalle truppe tedesche e che un lancio su Roma dei paracadutisti americani si sarebbe risolto in un massacro. Furono notizie molto probabilmente esagerate. Anche il maresciallo Badoglio prese per buone le informazioni di Carboni e insistette in tutti i modi per ottenere l’annullamento dell’operazione già programmata (operazione Giant 2). I due ufficiali Maxwell e Gardiner se ne tornarono sconsolati e con la pessima impressione che gli italiani non volessero tener fede seriamente ai patti stabiliti e firmati. Il generale Eisenhower allora ruppe gli indugi e, sospettando anch’egli la malafede degli italiani, il pomeriggio dell’8 settembre rese pubblico l’armistizio firmato a Cassibile il 3 settembre. Al re e al governo, colti alla sprovvista, non restò che annunciare l’armistizio subito dopo, e il proclama di Badoglio venne trasmesso alla radio alle ore 19,45 dalla sede dell’EIAR, l’Ente Audizioni Radio (l’antenata della RAI), di via Asiago, a Roma. Per colmo di ipocrisia, la stessa mattina dell’8 settembre il maresciallo Badoglio aveva assicurato all’ambasciatore tedesco von Rahn (che poi sarebbe diventato il rappresentante di Berlino presso la RSI) che l’Italia era più che mai intenzionata a proseguire la guerra con la Germania. L’annuncio dell’armistizio fece avvampare d’ira Hitler e i tedeschi, che non si fecero scoraggiare e decisero di prendere l’iniziativa. Per la verità vi sarebbe stato modo di difendere efficacemente il territorio nazionale e mettere gli ex alleati in condizioni di non nuocere, ma alla prova dei fatti la corte, il governo e i generali dello Stato Maggiore si trovarono prigionieri di una colpevole irresolutezza e dominati in gran parte dalla paura della reazione tedesca. Si perse tempo in discussioni inutili che non sortirono alcun risultato se non alimentare la confusione e il disorientamento delle nostre forze armate. V’era, tra i generali, addirittura chi voleva smentire l’armistizio e proseguire la guerra con i tedeschi, sfidando follemente l’ira degli anglo-americani e quella dei tedeschi stessi (perché le fotografie mostravano inequivocabilmente che l’armistizio era stato realmente firmato e che non era un trucco della propaganda alleata). L’unica preoccupazione che si impadronì del re, del

65 governo e dello Stato Maggiore in quelle drammatiche ore fu quella di mettersi in salvo. Sembrò perciò opportuno allontanarsi in fretta e furia da Roma, per assicurare la continuità dello Stato (così disse), ma quel- l’allontanamento rappresentò una vera e propria fuga, moralmente indegna e disonorante, che lasciava nel caos l’esercito e il Paese.4 Mentre il re, Badoglio e i generali fuggivano a e da lì si imbar- cavano sulla nave Baionetta che doveva portarli al sicuro, a Brindisi, regnava nel Paese la più totale confusione.5 All’annuncio dell’armistizio l’euforia illusoria della guerra finita si impadronì dei nostri soldati: ufficiali e fanti abbandonarono le postazioni e le caserme, corsero alla ricerca di abiti civili e presero la via di casa. Furono le ore del “Tutti a casa”, com’è il titolo di un famoso film di Luigi Comencini, che rievoca quei drammatici momenti di caos e dissoluzione delle forze armate e dello stato italiano. Emblematica una sequenza del film in cui si vede il sottotenente Innocenzi, interpretato da Alberto Sordi che, sotto il tiro dei tedeschi, telefona trafelato al suo colonnello per dirgli: “Signor colonnello, è successa una cosa incredibile! I tedeschi si sono alleati con gli americani!”, giacché è totalmente ignaro dell’armistizio. E poi, alla domanda: “Ma quali sono gli ordini?”, non ottiene alcuna risposta. Questa fu la reale situazione del nostro esercito in quei momenti: mancarono gli ordini e le direttive, mancarono piani di difesa e la

4 Come scrive causticamente lo Zangrandi, partirono “tutti gli esponenti militari che avrebbero potuto attivare la resistenza delle forze armate italiane” e venne, invece, lasciato a Roma, senza averlo informato della partenza, il ministro degli Esteri Guariglia, proprio colui che sarebbe stato necessario per garantire la “continuità di governo” (vd. Ruggero Zangrandi, L’Italia tradita, cit., p. 185 e nota 1). 5 Per la verità il principe Umberto di Savoia (il futuro Umberto II), primogenito del re e destinato alla successione, si rammaricò molto della partenza e sarebbe voluto rimanere a Roma, per organizzare la resistenza contro i tedeschi. Ne fu dissuaso dal padre, da Badoglio e dalla regina Elena, che in piemontese supplicò il figlio di non tornare nella capitale: “Bepo, s’at píu at massu…” (se ti prendono, ti ammazzano): vd. Ruggero Zangrandi, L’Italia tradita, cit., pp. 207-208. Forte, in effetti, era il timore che i tedeschi catturassero a Roma Umberto e lo mettessero a capo di un governo fantoccio filonazista, uccidendolo in caso di suo rifiuto. Si ricordi del resto che quando l’Ammiraglio Horthy, capo dello Stato ungherese, annunciò il 15 ottobre 1944 l’armistizio con l’Unione Sovietica, un commando di SS guidate dal maggiore Otto Skorzeny entrò nel palazzo reale e rapì il figlio di Horthy, noto per il suo antinazismo, deportandolo in Germania.

66 conseguente organizzazione, mancò chi si prendesse carico della responsabilità di decisioni anche estreme. Il capo di Stato Maggiore Generale, il generale Ambrosio, pensò bene di andare a Torino proprio poco prima dell’armistizio, per curare certi affari che aveva in quella città. Ognuno decise secondo coscienza o secondo l’opportunità del momento. Sicché la frase con cui terminava il proclama di Badoglio (“Esse [scil. le forze armate] però reagiranno ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza”) fu interpretata in vario modo dagli alti comandi. Il comportamento delle forze armate, infatti, fu diverso a seconda delle circostanze che si presentarono. V’era chi non era d’accordo ad arrendersi agli Alleati, chi voleva continuare la guerra con i tedeschi, chi voleva rispettare invece il proclama di Badoglio e reagire di fronte ai tedeschi che già attaccavano le nostre postazioni. I tedeschi, infatti, lungi dal ritirarsi a nord della penisola come avevano sperato gli italiani, posero subito i nostri di fronte al dilemma: o continuare la guerra con i camerati dell’Asse o arrendersi e consegnare le armi. Roma poteva essere adeguatamente difesa dalle sette divisioni che erano acquartierate intorno alla capitale (altre due erano stanziate nel Lazio e potevano rapidamente intervenire),6 mentre i tedeschi ne avevano a disposizione soltanto due e senza carri armati. Invece Roma non venne difesa, a parte l’episodio della resistenza a Porta San Paolo di militari e civili. Il comandante del Corpo d’Armata motocarrozzato generale Carboni, responsabile della difesa di Roma, ricevette l’inopinato ordine dal suo diretto superiore, il generale Roatta, di ripiegare su Tivoli per proteggere il corteo reale che stava allontanandosi dalla città.7 Il

6 Intorno a Roma vi erano sette divisioni: Ariete, Piave, Centauro, Granatieri di Sardegna, Sassari, Lupi di Toscana, Piacenza. I tedeschi disponevano soltanto della 2a divisione Paracadutisti e della 3a divisione Panzergrenadieren. 7 La figura e l’operato del generale Giacomo Carboni sono state poste in discussione dagli storici: nella ricostruzione dei fatti relativi all’8 settembre v’è chi, come Paolo Monelli (in Roma 1943, Mondadori, Milano 1979, I ed. 1948, pp. 236-242, 250-263 e le note alle pp. 353-366), lo accusa quantomeno di incompetenza o peggio, mentre altri, come Ruggero Zangrandi, difendono il suo intento di creare una efficace resistenza contro i tedeschi e addossano la responsabilità della mancata difesa di Roma alle divisioni in seno allo Stato Maggiore e persino nello stesso Comitato di Liberazione Nazionale (in L’Italia tradita. 8 settembre 1943, cit., pp. 317-346). In effetti v’è da dire che il generale Carboni ricevette l’ordine di ripiegare su Tivoli proprio dal suo diretto superiore, il generale Roatta, e fu lo stesso Carboni che

67 generale Calvi di Bergolo, comandante della divisione Centauro trattò la resa e consegnò ai tedeschi la città di Roma, che venne dichiarata “città aperta” (il che era falso perché Roma era presidiata dalle truppe germaniche).8 Il comandante militare della Lombardia, generale Rug- giero, dopo aver chiesto invano rinforzi, trattò la resa di Milano e si diede prigioniero ai tedeschi che lo deportarono in Germania. Il comandante della piazza di Torino, generale Adami Rossi, consegnò la città ai tedeschi e successivamente aderì alla Repubblica Sociale Italiana. Il comandante della Campania, generale Pentimalli, restato ignaro dell’armistizio fino all’ultimo, non seppe o non poté organizzare alcuna difesa e lasciò che Napoli cadesse nelle mani dei tedeschi. Per giunta alle ore 0,20 del 9 settembre venne emanata dal comandante in capo dell’esercito, generale Ambrosio, la direttiva n. 24202 che imponeva di non attaccare in nessun caso i tedeschi e metteva le nostre truppe nella difficilissima situazione di non poter prendere alcuna iniziativa a loro tutela. L’aiuto degli anglo-americani comunque ci fu con lo sbarco di Salerno nella notte tra l’8 e il 9 settembre, ma la testa di ponte alleata venne bloccata dai furiosi contrattacchi tedeschi. All’estero però i reparti italiani diedero prova di eroico coraggio rifiutando sia la collaborazione che il disarmo richiesto dai tedeschi e opponendo una fiera resistenza agli attacchi degli ex alleati. A Rodi, a Lero, a Cefalonia i nostri versarono un altissimo tributo di sangue in nome della fedeltà alla patria e al re, che pur li aveva abbandonati fuggendo al sud. A Lero gli italiani resistettero, aiutati dalle truppe inglesi, fino al novembre 1943, il comandante militare di Rodi, l’ammiraglio Campioni, che aveva organizzato la difesa dell’isola, dopo la resa fu tratto prigioniero e consegnato ai fascisti di Salò che lo condannarono a morte nel 1944. La resistenza di Cefalonia fu pagata dalla divisione Acqui con il massacro, tra caduti in battaglia e fucilati, di 341 ufficiali e 4750 soldati, compreso propose di distribuire le armi ai cittadini e ai volontari antifascisti per creare una insurrezione popolare contro i tedeschi. 8 Va detto però che i soldati della Centauro, provenienti dalla Divisione M che era fedele al Duce, espressero la loro volontà di non combattere contro i tedeschi e fu merito del generale Calvi di Bergolo mantenere la disciplina tra i suoi uomini (vd. al riguardo Ettore Musco, La verità sull’8 settembre 1943, cit., p. 77). Calvi di Bergolo venne poi deportato in Germania dai tedeschi.

68 il comandante generale Gandin, che prima di morire gettò a terra la croce di ferro con cui i tedeschi l’avevano decorato.9 Le nostre marina e aviazione, che avevano ricevuto l’ordine di dirigersi verso le linee alleate, pagarono anch’esse un altissimo prezzo. Solo 200 aerei su 800 – che era quanto restava della nostra aviazione – poterono atterrare sul territorio controllato dagli Alleati, gli altri furono catturati o abbattuti dai caccia tedeschi. La nostra flotta salpò da La Spezia, al comando dell’ammiraglio Bergamini, per eseguire gli ordini ricevuti dal ministro De Courten e rifugiarsi a Malta, ma il 9 settembre, al largo dell’isola della Maddalena, a nord-ovest della Sardegna, venne centrata da una bomba radioguidata la corazzata Roma, il gioiello della nostra marina, che affondò portando con sé 1253 membri dell’equi- paggio, compreso l’ammiraglio Bergamini. Un ulteriore tributo di vittime lo diedero i piroscafi che dall’Egeo e dalla Grecia portavano in patria i militari italiani prigionieri dei tedeschi: le mine disseminate in mare dagli inglesi ne fecero affondare parecchi, provocando la morte di 13.000 italiani. Stando alle testimonianze dei superstiti degli affon- damenti, la strage fu una ulteriore prova della crudeltà dei tedeschi, perché questi, a bordo delle unità di scorta ai convogli dei prigionieri,

9 Sulla strage di Cefalonia le posizioni degli storici divergono, dividendosi tra coloro che giudicano l’episodio come il primo esempio di una spontanea e univoca sollevazione delle truppe contro i tedeschi e chi punta il dito contro l’ambiguo o irresoluto comportamento di alcuni ufficiali e dello stesso generale Gandin. Vd. in proposito: Vincenzo Mantovani, L’eccidio di Cefalonia, in Enzo Biagi, La Seconda Guerra Mondiale. Una storia di uomini, vol. IV El-Alamein e l’8 settembre, Gruppo Editoriale Fabbri, Milano 1983 rist., pp. 1426-1427; Indro Montanelli – Mario Cervi, L’Italia della guerra civile, edizione CDE, su lic. Rizzoli, Milano 1986, pp. 39-42; Alfio Caruso, Italiani dovete morire, Longanesi & C., Milano 20014; Luigi Caroppo, Cefalonia doppia strage, Stampa Alternativa, Roma 20032; Massimo Filippini, La tragedia di Cefalonia, IBN Editore, Roma 2004; Paolo Paoletti, I traditi di Cefalonia, Fratelli Frilli Editori, Genova 20053; Gian Enrico Rusconi, Cefalonia, Il Giornale – Biblioteca Storica, su lic. Einaudi, Milano 2009; Romualdo Formato, L’eccidio di Cefalonia, Mursia, Milano 2010 rist.; Elena Aga Rossi, Cefalonia. La resistenza, l’eccidio, il mito, Società Editrice il Mulino, Bologna 2016; Guido Pescosolido, Il mito di Cefalonia, “Il Foglio”, testo leggibile su Internet all’indirizzo: http://www.ilfoglio.it/gli-inserti-del-foglio/2016/10/31/news/il-mito-di- cefalonia-106012/?refresh_ce

69 non solo si rifiutarono di soccorrere i naufraghi, ma addirittura spararono con le mitragliatrici contro gli italiani che, ammassati nelle stive, cercavano di salire sui ponti delle imbarcazioni per salvarsi.10 Nella totale dissoluzione dell’esercito i tedeschi misero le mani su un enorme bottino di materiali, di armi e soprattutto di uomini. Perfettamente organizzati e assai efficienti i soldati germanici poterono disarmare le ottanta divisioni italiane, entro e fuori del nostro Paese. I militari catturati furono ammassati entro i carri-bestiame e deportati nei Lager in Germania. Così comincia il dramma degli IMI, gli Internati Militari Italiani. Considerati dapprima prigionieri di guerra, Kriegs- gefangene, dopo che Mussolini, liberato il 12 settembre 1943 dalla prigione a Campo Imperatore sul Gran Sasso, da una arditissima missione di paracadutisti tedeschi guidati dal capitano delle SS Otto Skorzeny,11 fondò il nuovo stato fascista destinato a continuare la guerra al fianco della Germania e denominato Repubblica Sociale Italiana, i militari italiani ebbero la nuova qualificata, escogitata proprio per loro, di IMI, ossia Internati Militari Italiani.12 Il nuovo termine di IMI venne appositamente adottato ad indicare il particolare status giuridico di questi prigionieri, giacché sarebbe stato imbarazzante per i tedeschi considerare prigionieri di guerra, e dunque nemici, gli appartenenti alla medesima nazionalità di uno stato loro alleato, la RSI di Mussolini. Perciò vennero chiamati IMI, qualifica che non li faceva considerare prigionieri di guerra ma li sottraeva alle garanzie previste dalla

10 Testimonianze impressionanti sulle stragi dei trasporti marittimi in Antonio e Giuseppe Zupo, Storia di IMI. Diario Ricettario Nostalgia e Ricordi di un Prigio- niero Internato Militare Italiano – I.M.I. – in Germania durante la Seconda Guerra Mondiale, Herald Editore, Roma 2011, pp. 85-88. 11 L’impresa fu progettata dal generale dell’aviazione Kurt Student, ma Skorzeny se ne prese tutto il merito. A proposito della liberazione del Duce, che presenta taluni aspetti tuttora non chiariti, si è ipotizzato che essa sia stata l’effetto di una sorta di accordo segreto tra Badoglio e il comandante delle forze tedesche in Italia, il feldmaresciallo Albert Kesselring: il libero transito del convoglio reale da Roma a Pescara e da lì a Brindisi in cambio della consegna di Mussolini ai tedeschi. Tale ipotesi è stata avanzata da Ruggero Zangrandi in L’Italia tradita, cit., pp. 251-263. Recentemente è stata ripresa, con dovizia di documenti, in Riccardo Rossotto, Il patto scellerato. I Savoia e il mistero dell’ignobile fuga, Mattioli 1885, Fidenza (Parma) 2015. 12 In tedesco, Italienische Militär Internierten, IMI.

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Convenzione di Ginevra del 1929 sui prigionieri di guerra e anche alla tutela della Croce Rossa Italiana e Internazionale. Il 17 ottobre 1943 una direttiva dell’OKW (Oberkommando der Wehrmacht, ossia lo Stato Maggiore dell’esercito tedesco) stabiliva che gli ufficiali e i soldati prigionieri sarebbero stati selezionati per entrare nel costituendo esercito della RSI. Gli inviti ad arruolarsi incontrarono però il netto rifiuto dei prigionieri, stanchi della guerra e disgustati all’idea di combattere per coloro che li avevano tolti alle loro famiglie e li tormentavano in mille modi. Sicché la stragrande maggioranza degli IMI preferì languire di stenti nei Lager e sopportare la durissima disciplina tedesca piuttosto che aderire alla RSI. Ben pochi furono i cosiddetti “optanti”13 e ovunque si guadagnarono il disprezzo o la commiserazione dei loro commilitoni che avevano opposto il “NO”. Nell’estate del 1944 intervennero gli accordi tra Hitler e Mussolini, a seguito dei quali gli IMI furono trasformati in “liberi lavoratori civili”. “Liberi lavoratori”: il termine era una vera beffa, perché in realtà furono costretti a impiegarsi coattivamente nelle industrie e nelle fattorie della Germania, prendendo il posto dei tanti operai tedeschi che erano partiti per il fronte, lasciando sguarnite fabbriche e opifici. In pratica Mussolini “regalò” a Hitler la manodopera di cui aveva bisogno il Terzo Reich per continuare la lotta contro gli Alleati e i sovietici. Una manodopera a bassissimo costo, costretta a lavorare in condizioni estenuanti, con un vitto del tutto insufficiente, orari disumani e senza alcuna garanzia di sicurezza, sicché molti italiani morirono per le fatiche e gli stenti o coinvolti in mortali incidenti sul lavoro. Per esempio, a Dora gli italiani dovettero lavorare tutto il giorno, senza poter vedere la luce, in enormi gallerie sotto terra, a decine di metri di profondità, per costruire le parti delle famose armi segrete di Hitler, le terribili V1 e V2.14 Quelli che rifiutavano il lavoro

13 Col nome di “optanti” si indicarono i prigionieri che accettarono di aderire alla Repubblica Sociale Italiana o a collaborare in vario modo con il Terzo Reich. Il numero degli “optanti” non è mai stato stabilito con certezza e le cifre variano di molto: si va da un minimo di 46.000 a un massimo di 200.000 uomini (su 800.000 militari catturati dai tedeschi dopo l’8 settembre). Sugli “optanti” vd. Antonio e Giuseppe Zupo, Storia di IMI, cit., pp. 92-95. 14 Testimonianze sulle indicibili condizioni dei prigionieri segregati nei tunnel di Dora: Dante Rossi, Gli orrori del campo di Dora e Gregorio Pialli, L’inferno di Dora, in Paride Piasenti, Il lungo inverno dei Lager, A.N.E.I., Roma 1977, pp. 220-

71 coatto subivano il peggioramento della già dura disciplina o venivano inviati nei terribili campi di punizione come quello di Wietzendorf. Nei campi di prigionia come quello di Sandbostel, da cui provengono i diari di Serafino Clementi e Ugo d’Ormea che abbiamo pubblicato nei “Quaderni del Liceo Orazio”, nn. 5 e 7,15 gli IMI sopportarono lunghi mesi di privazioni, sofferenze e angherie da parte degli aguzzini tedeschi, che per ordine di Hitler dovevano far scontare agli italiani il tradimento dell’8 settembre. Costretti a lunghi appelli all’aperto, sotto qualsiasi clima, esposti alla torturante fame (giacché il vitto era assolutamente insufficiente e spesso il poco cibo distribuito era avariato), alle malattie (giacché scoppiavano periodicamente epidemie di tifo petecchiale e molti internati furono colpiti dalla TBC e dalla malaria), alle cimici e ai pidocchi, conseguenza delle condizioni igieniche disastrose, ai soprusi e alle sadiche violenze dei guardiani, gli IMI resistettero eroicamente e scrissero una luminosa pagina della Resistenza, che per loro fu la “Resistenza senz’armi”. Pur dimenticati da chi avrebbe potuto e dovuto assisterli,16 gli IMI seppero nella grande

222 e 223-230. Vd. anche la testimonianza del soldato Mario Redaelli in Gino Bertolini, Liriche dell’esilio, Unione Tipografica Editrice Ferrari, Occella e C., Alessandria 19463, pp. 45-47. 15 Vd. Mario Carini, Una voce dal lager: il taccuino di Serafino Clementi (1943- 1945), in “Quaderni del Liceo Orazio”, n.5, Liceo Classico Orazio, Roma 2015, pp.21-116; Id., “Per far più lieti i tristi giorni…”: il diario della prigionia in Germania di Ugo d’Ormea, in “Quaderni del Liceo Orazio”, n.7, Liceo Classico Orazio, Roma 2016, pp.29-93. I testi si possono leggere sul sito del Liceo Orazio (www.liceo-orazio.it) nella sezione Didattica, Materiale Didattico, Pubblicazioni. 16 La Croce Rossa quasi nulla poté fare, anche per causa dell’ambasciata della RSI a Berlino, che non volle distribuire viveri e materiali con l’etichetta americana che la Croce Rossa Internazionale aveva raccolto per gli internati, lasciando così in giacenza nei depositi i pacchi, per le lungaggini burocratiche; la RSI poi spedì ai prigionieri alcune tonnellate di generi alimentari, che giunsero però in buona parte avariati; nulla venne dal Regno del Sud; soltanto il Vaticano poté aiutare concretamente i prigionieri grazie agli sforzi del Nunzio Apostolico di Berlino, mons. Cesare Orsenigo. Sulla preziosa opera di Mons. Orsenigo a favore dei prigionieri italiani vd. Don Luigi Pasa, Tappe di un calvario 1943-1966, Tipografia Cafieri, Napoli 19663 (I ed. 1947), pp. 113-116. Sull’opera di assistenza della Croce Rossa Internazionale a favore dei prigionieri italiani nei campi gestiti dagli Alleati vd. Carmine Lops, Il retaggio dei reduci italiani, Centro Studi A.N.R.P., Attività Editoriali A.N.R.P., Roma 1971, pp. 182-195.

72 maggioranza respingere le lusinghe degli inviati fascisti che periodicamente visitavano i campi cercando di raccogliere le adesioni alla neonata repubblica di Mussolini e il loro “NO” fu una grande vittoria morale, un gesto di alto valore etico che aiutò il Paese a ritrovare la strada della libertà e della democrazia.17 Basti ricordare le cifre degli IMI. 810.000 soldati italiani vennero catturati dai tedeschi, dopo l’8 settembre, e deportati in Germania. Di questi 160.000 circa optarono per la RSI o si arruolarono nelle SS italiane o si impiegarono nella Organizzazione Todt (che reclutava operai per adibirli a lavori di ogni genere in Germania) o collaborarono in vario modo con il Reich. V’è da dire che fra coloro che si arruolavano nelle divisioni della RSI, assai alto era il numero dei disertori che si dileguavano dai ranghi appena tornati in Italia. Gli altri 650.000 preferirono restare come IMI nei campi. Di questi ne morirono dai 30.000 ai 50.000 (le cifre ancora non trovano accordo tra gli storici) per gli stenti, le malattie o assassinati dai guardiani tedeschi. Cosa sarebbe accaduto, così si è chiesto Claudio Sommaruga, ex deportato e autore di numerosi interventi sugli IMI pubblicati in periodici specializzati, se i 650.000 internati avessero aderito in massa alla repubblica di Salò? Una prospettiva inquietante che per fortuna non si è realizzata. Al ritorno in patria gli IMI furono sfortunatamente sepolti nell’oblio della memoria. Lo Stato italiano non volle riconoscere i sacrifici affrontati nei campi di Germania e negò indennizzi e risarcimenti. Inoltre molti IMI preferirono tacere, non ricordare le loro esperienze operando una sorta di gigantesca rimozione collettiva, che fece sì che per molti anni, nel dopoguerra, il loro dramma fosse ignorato o dimenticato.18 Solo in questi ultimi decenni, grazie alla meritoria opera

17 Sul profondo significato morale del “NO”, come Resistenza non armata degli internati militari italiani ai tedeschi e ai fascisti, rimandiamo alle pagine di Antonio Parisella, L’esperienza del Lager come lotta non armata nella Resistenza, in Sopravvivere liberi, Atti del convegno di studi Roma 12 marzo 2002, a cura di Anna Maria Casavola – Nicoletta Sauve – Maria Trionfi, A.N.E.I., Roma 2005, pp. 71-86. 18 Spiega Claudio Sommaruga le ragioni della gelida accoglienza che in patria ebbero gli IMI: chi aveva combattuto i tedeschi tra le fila partigiane diffidava di loro, rinfacciando la comoda posizione di attendismo nei campi, eguale diffidenza mostravano le autorità perché la propaganda della RSI aveva dipinto gli IMI come collaboratori e, dall’agosto 1944, come liberi lavoratori in Germania. Inoltre gli IMI

73 di associazioni di ex internati, come l’ANEI, Associazione Nazionale Ex Internati, e l’ANRP, Associazione Nazionale Reduci dalla Prigionia in Germania, e alla pubblicazione sempre più numerosa di diari e memoriali dei reduci e di studi specifici compiuti da valenti studiosi, si è cominciato a fare luce sulla vicenda degli IMI, e oggi molto si conosce della loro storia.19 Possiamo dire che il tempo ha reso e renderà sempre più giustizia agli IMI, anche se molti dei crimini commessi contro di loro resteranno impuniti. Come ha affermato il grande storico Tacito, “veritas visu et mora, falsa festinatione et incertis valescunt”,20 la verità si rafforza con la luce e con il tempo, la falsità con la fretta e con l’oscurità.21 orgogliosamente si dichiaravano soldati di Sua Maestà Vittorio Emanuele III, e in suo nome avevano resistito ai tedeschi, proprio quando la monarchia con la fuga a Brindisi, dopo l’8 settembre, aveva perso credito agli occhi della Nazione. Infine tra i militari più giovani covava il risentimento verso il re insieme a velate simpatie per la RSI, considerata tutrice dell’onore degli italiani di fronte all’alleato dell’Asse tradito dall’armistizio di Badoglio. Vedi su ciò Claudio Sommaruga, Una storia “affossata”, Quaderno-Dossier N. 3, Archivio “IMI”, 2005, pp. 9-12, testo leggibile nel sito “Schiavi di Hitler – Museo virtuale della deportazione”, all'indirizzo: www.schiavidihitler.it/Pagine/saggi-sommaruga.html Vd. anche Luciano Zani, Il vuoto della memoria: i militari italiani internati in Germania, da La seconda guerra mondiale e la sua memoria, a cura di Piero Craveri e Gaetano Quagliariello, Rubbettino Editore, Soveria Mannelli 2006, testo leggibile on line all'indirizzo: www.sociologia.uniroma1.it/users/zani/VuotoDellaMemoria.doc 19 Ricordiamo le meritorie iniziative e progetti che impegnano l’ANRP allo scopo di conservare e trasmettere la memoria storica delle vicende degli IMI: l’Albo degli IMI Caduti nei lager nazisti 1943-1945, il Lessico Biografico degli IMI (LeBI) e la Mostra permanente Vite di IMI. Percorsi dal fronte di guerra ai lager nazisti 1943- 1945. Vd. al riguardo: Gli Internati Militari Italiani. Da una memoria divisa a una storia condivisa tra Italia e Germania, a cura di Rosina Zucco, Mediascape – Edizioni ANRP, Roma 2017; Maria Elena Ciccarello, Da una memoria divisa ad una storia condivisa tra Italia e Germania, in “Liberi” n. 5-7, Maggio – Luglio 2017, pp. 4-7; Luciano Zani, Custodire per costruire costruire per custodire: i progetti dell’ANRP, in “Liberi” n. 8-10, Agosto – Ottobre 2017, pp. 6-9. Inoltre l’ANRP collabora con le scuole superiori statali per realizzare progetti nell’ambito dell’Alternanza Scuola Lavoro: tra le scuole coinvolte vi è anche il nostro Liceo Orazio, per il corrente anno scolastico 2017-2018. 20 Tacito, Annales 2,39. 21 Sugli Internati Militari Italiani indichiamo alcune letture per una prima informazione: Paride Piasenti, Il lungo inverno dei Lager. Dai campi nazisti,

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2) Il diario di Francesco Arpini. I “Quaderni del Liceo Orazio” hanno l’onore di ospitare un’altra testimonianza sul dramma degli IMI, dopo quelle di Serafino Clementi e di Ugo d’Ormea (pubblicate rispettivamente nei nn. 5 e 7). Si tratta del diario di Francesco Arpini, militare italiano (matricola 42535) catturato a Durazzo il 19 settembre 1943 e tradotto, come centinaia di migliaia di suoi commilitoni, in Germania per essere internato nei campi di prigionia riservati agli ufficiali italiani (Oflager) dopo l’armistizio. Il diario che qui si pubblica è un diario più lungo di quelli di Clementi e di d’Ormea, con sue specifiche peculiarità, che appresso illustreremo. Diamo intanto alcune notizie biografiche su Francesco Arpini, quelle che cortesemente ci ha fornito il figlio dell’autore, il Signor Carlo Arpini. Francesco Arpini, nato nel 1895, partecipò alla Prima Guerra Mondiale in qualità di tenente, ottenendo la Medaglia d'Argento al Valor Militare nel 1923. Eletto Sindaco ad Ombriano (Crema) nel 1923-24, col grado di Capitano partecipò alla Seconda Guerra Mondiale, ottenendo una seconda Medaglia d’Argento al Valor Militare per resistenza al nemico, e fu nominato dal re Cavaliere dell'Ordine Coloniale della Stella d'Italia. Dopo l’armistizio, il 19 settembre 1943 fu catturato a Durazzo dai tedeschi e deportato nei campi di Tarnopol e Beniaminowo (in Polonia), e poi a Sandbostel e a Wietzendorf (in Germania). Liberato nel 1945 e rientrato in Italia, nel 1964 fu nominato Commendatore della Repubblica Italiana. Infine, essendo in congedo, fu nominato Maggiore nel 1961 e Tenente Colonnello nel 1962. Fu trent’anni dopo, A.N.E.I., Roma 1977; Alessandro Natta, L'altra resistenza, Einaudi, Torino 1997; Ricciotti Lazzero, Gli schiavi di Hitler, Mondadori, Milano 1998 rist.; Claudio Tagliasacchi, Prigionieri dimenticati. Internati militari italiani nei campi di Hitler, Marsilio Editori, Venezia 1999; Gabriele Hammermann, Gli internati militari italiani in Germania 1943-1945, trad. di Enzo Morandi, Il Mulino, Bologna 2004; Luca Frigerio, Noi nei lager. Testimonianze di militari italiani nei campi nazisti (1943-1945), Edizioni Paoline, Milano 2008; Mario Avagliano – Marco Palmieri, Gli internati militari italiani. Diari e lettere dai lager nazisti 1943-1945, Einaudi, Torino 2009; Luciano Zani, Resistenza a oltranza. Storia e diario di Federico Ferrari, internato militare italiano in Germania, Mondadori Università – Sapienza Università di Roma, Milano 2009; Andrea Parodi, Gli eroi di Unterlüss, Mursia, Milano 2016.

75 presidente dell’Associazione Famiglie Numerose (ebbe 8 figli) ed in questa carica intrattenne rapporti ed udienze con i vari presidenti della Repubblica ed i Papi del periodo. Si spense nel 1985. Veniamo ora alle vicende della sua prigionia. L’itinerario di Francesco Arpini, ricostruito dai suoi familiari attraverso la corrispondenza, i documenti e il diario, toccò i campi di Polonia e di Germania. Dopo la cattura avvenuta a Durazzo, in Albania, il 19 settembre 1943, egli fu deportato a Tarnopol, in Polonia, ove rimase dal 29 settembre al 20 dicembre 1943 (Stammlager 328), poi fu a Beniaminowo dal 5 gennaio 1944 al 5 aprile (Oflager 73 XB), quindi a Sandbostel (in Germania, presso Brema) dall’8 aprile al 30 dicembre 1944 (Baracca 65 Camerata 23/B), infine a Wietzendorf dal 1° febbraio 1945 al 21 aprile (Campo 83 Blocco 15-5). Dopo la riacquistata libertà, egli fu alloggiato tempora- neamente a Bergen dal 22 al 30 aprile 1945, quindi dovette ritornare, assieme ai suoi compagni liberati, al campo di Wietzendorf (una decisione delle autorità inglesi che gettò nel più profondo sconforto gli italiani), dove rimase dal 1° al 16 maggio. Alla data del 16 maggio 1945 si interrompe il suo scritto, mentre risulta che fu rimpatriato l’8 ottobre 1945. A testimonianza della lunga prigionia Francesco Arpini ci ha lasciato una serie di annotazioni, che compongono il diario del periodo 1944- 1945 e che sono state significativamente intitolate dall’autore Res tua agitur!! Per quanto riguarda la struttura interna del diario di Francesco Arpini, questo, come abbiamo premesso, si differenzia dai precedenti diari, da noi pubblicati, per la ragguardevole ampiezza e per la ricchezza di dettagli che aiutano a comprendere molti degli episodi avvenuti nei mesi di aprile e maggio 1945, ossia dopo la liberazione di Wietzendorf. Il testo che ci è pervenuto si compone di due grandi blocchi narrativi, il primo relativo alla permanenza a Sandbostel nel 1944, il secondo relativo ai mesi di aprile e maggio 1945, durante e dopo la liberazione dalla prigionia a Wietzendorf e la permanenza nella vicina cittadina di Bergen. Il primo blocco comprende note e appunti contrassegnati da titoli, di cui tre sono seguiti da data e luogo specifici, uno dalla sola data, un altro dalla sola indicazione del giorno (18 ottobre). Elenchiamo di seguito i titoli dei brani: Inane exspectaveris (Sandbostel 18.5.44); Reticolato (Sandbostel 20.5.1944); Volga-Volga (Sandbostel 21.5.1944);

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Sorella fame; Avviso pubblicitario; Tifo petecchiale 4 settembre 1944; Il capitano Pinkel; Haudegen; Viveri; Bagno disinfestazione; Per cortesia; La distribuzione del pane; Una porta!!!; Un buon affare; Adattarsi: 18 Ottobre proposta oscena da parte del maggiore tedesco; Strano!; Più povero dei poveri; I mali del nostro tempo in relazione alle nostre responsabilità; La prima di una serie di risposte. Si tratta in tutto di venti brani, relativi alla prigionia di Sandobstel, di cui solo cinque risultano datati, e tutti all’anno 1944 (Inane exspectaveris al 18 maggio 1944, Reticolato al 20 maggio, Volga-Volga al 21 maggio, Tifo petecchiale al 4 settembre, Proposta oscena da parte del maggiore tedesco al 18 ottobre). Al brano La prima di una serie di risposte segue nelle annotazioni uno iato temporale, coincidente con la mancanza di alcune pagine, fino all’aprile del 1945. Le note riprendono dalla data del 12 aprile, quando era ormai imminente la liberazione, e si susseguono giorno per giorno, come un vero e proprio diario, fino al 16 maggio 1945. Questi i brani del secondo blocco, che non hanno titoli ma sono contrassegnati all’inizio dalle date e dai giorni della settimana: 12.4.1945 Giovedì; 13.4.1945 Venerdì; 14.4.1945 Sabato; 15.4.1945 Domenica; 16.4.1945 Lunedì; 17.4.1945 Martedì; 18.4.1945 Mercoledì; 19.4.1945 Giovedì; 20.4.1945 Venerdì; 21.4.1945 Sabato; 22.4.1945 Domenica; 23.4.1945 Lunedì; 24.4.1945 Martedì; 25.4.1945 Mercoledì; 26.4.1945 Giovedì; 27.4.1945 Venerdì; 28.4.1945 Sabato; 29.4.1945 Domenica; 30.4.1945 Lunedì; 1.5.1945 Martedì; 2.5.1945 Mercoledì; 3.5.1945 Giovedì; 4.5.1945 Venerdì; 5.5.1945 Sabato; 6.5.1945 Domenica; 7.5.1945 Lunedì; 8.5.1945 Martedì; 9.5.1945 Mercoledì; 10.5.1945 Giovedì Ascensione; 11.5.1945 Venerdì; 12.5.1945 Sabato; 13.5.1945 Domenica; 14.5.1945 Lunedì; 15.5.1945 Martedì; 16.5.1945 Mercoledì. Si tratta complessivamente di trentaquattro giorni, che includono il periodo forse più delicato e drammatico dell’esperienza dei prigionieri italiani, ossia il passaggio dal regime di durissima detenzione imposto dai tedeschi alla libertà, una libertà che però fu concessa gradualmente e con molte limitazioni, almeno nei primi tempi, dagli inglesi. Di fronte a questa disposizione del materiale diaristico dobbiamo porci la domanda: sono, questi, tutti gli appunti di Francesco Arpini o vi è ancora dell’altro? Viene naturale pensare che Arpini abbia scritto sue annotazioni anche durante la precedente prigionia a Tarnopol e a

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Beniaminowo, ma questa parte diaristica, che riguardava il periodo dal 29 settembre 1943 al 5 aprile 1944, deve essere andata perduta. Ci resta la parte relativa a Sandbostel e quella scritta a Wietzendorf e a Bergen, che formano, appunto, i due grandi blocchi narrativi del diario di Francesco Arpini. Se esaminiamo meglio queste due parti, notiamo in esse alcune rilevanti differenze. Le annotazioni di Sandbostel hanno più la forma di un memoriale che di un diario e sembrano essere state scritte a posteriori o perlomeno in tempi successivi, e comunque assai vicini, all’esperienza della prigionia in quel campo. Notiamo al riguardo che i verbi sono usati sistematicamente al passato per le narrazioni, al presente per le riflessioni. Si veda, ad esempio: “Il filo spinato che duplice cingeva il nostro campo…”, “Tristemente ogni sera mi avvicinavo ad esso22…”, “Andavano lentamente i tre carri cisterna…”. E, invece, nelle meditazioni l’Arpini adopera il presente, un presente diremmo “gnomico”: “Tutto può essere tramutato in roba commestibile, tutto diventa un aperitivo per una simile fame. E passano i giorni uno dietro l’altro, e si somigliano le stagioni ed essa non si quieta mai, mai, senza speranza.”, “La prigionia è senz’altro una di quelle istituzioni che ha il potere di ricondurre l’uomo verso gli atavici istinti e verso la primordiale vita vegetativa a discapito di quella intellettiva, facendogli peraltro dimenticare tutte le buone norme di educazione.” Notiamo altresì che compaiono, in talune frasi, espressioni e avverbi di tempo che collocano nel passato le esperienze e i fatti riferiti dallo scrivente. Citiamo, ad esempio: “L’alba quella mattina non tardò a venire…”, “L’ora più bella della giornata nel lager era certamente quella della distribuzione viveri. C’era allora in ogni camerata un’animazione nuova…”, “Gracchiavano i corvi quella mattina al lager e soffiava un gelido vento attraverso i reticolati che separavano le varie baracche.” Altri particolari colti nel testo ci inducono a valutare come un memoriale questa prima parte del diario di Francesco Arpini. Nel brano in cui calcola minuziosamente quante volte viene aperta la porta della sua camerata nell’arco di 24 ore, il prigioniero ricorda “il carattere estremamente gelido ed umido del clima di lassù”. È naturale usare l’espressione di lassù per chi risiede nel sud Europa, ossia in Italia, e

22 Ossia al filo spinato.

78 pensa alla Germania, e in effetti Sandbostel si trova all’estremo nord di questo Paese. Se Arpini si fosse trovato a Sandbostel mentre scriveva quell’annotazione, avrebbe dovuto dire clima di quassù. Ancora: nel brano intitolato La prima di una serie di risposte, che appartiene al blocco di Sandbostel e nel quale Arpini ricorda commosso l’unanime abiura del fascismo da parte di 2500 giovani militari internati, il nostro autore scrive: “La nostra sorte era decisa. Noi l’avevamo scelta. Così ai lager, un lager di 650.000 giovani quasi spinti da un mutuo tacito ed intuitivo accordo furono primi nell’esempio.” Appunto 650.000 furono i militari italiani internati in Germania che non vollero aderire né alla Repubblica Sociale Italiana né alle diverse forme di collaborazione civile e militare con il Terzo Reich, ma il numero dei “non optanti” o “resistenti” si conobbe solo alla fine della guerra. Sulla base delle nostre osservazioni, giungiamo alla conclusione che tutta la prima parte del diario di Arpini sia in realtà un memoriale scritto durante la prigionia a Wietzendorf, comprese le parti relative al periodo di Sandbostel, o, forse, nei giorni successivi alla liberazione.23 Alcune parti di esso, però, come i brani intitolati Tifo petecchiale, Bagno disinfestazione e La distribuzione del pane, per la loro vivacità e immediatezza, hanno lo stile narrativo proprio del diario: possono certamente essere stati scritti sul momento, ossia a Sandbostel, ed essere stati inseriti nel memoriale in un momento successivo. Il fatto che si tratti probabilmente in parte di un memoriale, vogliamo chiarirlo, nulla toglie al suo valore di documento storico, di preziosa testimonianza della prigionia di un militare italiano in Germania. Il memoriale, rispetto al diario, può talvolta essere più ricco e significativo per lo storico: le vicende vissute, lasciate “decantare” dal decorso del tempo e liberate dallo schermo di emozioni e passioni, sono meglio filtrate e oggettivate dal narratore, e, arricchite dalle sue riflessioni a posteriori, permettono di lumeggiare meglio la personalità dello

23 L’Arpini potrebbe aver premesso alla parte scritta a Wietzendorf, giorno per giorno, gli appunti stesi a Sandbostel. È improbabile che il diario sia stato scritto dopo l’arrivo in Italia, rielaborando appunti presi a Sandbostel e a Wietzendorf. Se anche ciò fosse vero, comunque lo scritto di Arpini non perderebbe nulla del suo valore di documento storico, data la precisione dei dettagli e la coincidenza dei riscontri con altri diari e memoriali di internati nei medesimi campi.

79 scrivente e insieme di avere un quadro più chiaro, nei dettagli, dei fatti narrati e del loro contesto. Non sussiste alcun dubbio, invece, sul fatto che i brani della seconda parte del diario, quella relativa a Wietzendorf e Bergen, che data dal 12 aprile al 16 maggio 1945, costituiscano un diario vero e proprio, scritto giorno per giorno e sotto l’immediata impressioni dei fatti e delle situazioni. Le descrizioni in questa parte si fanno più vivide e minuziose e i commenti più schietti e sinceri, talvolta d’una sincerità quasi brutale: l’autore sembra smascherare certe ipocrisie e mistificazioni che una rappresentazione volutamente oleografica e forse eccessivamente retorica dell’internamento degli italiani in Germania ha provveduto a nascondere e soprattutto ci mostra gli stati d’animo, le tensioni, i malumori e i dissapori che rendevano non semplici i rapporti tra i soldati e gli ufficiali e tra gli stessi ufficiali che avevano patito la comune esperienza della prigionia. Tra i nostri militari prigionieri v’erano i generosi e gli altruisti, ma v’era anche una minoranza di egoisti e approfittatori. I militari internati non erano proprio tutti eroi senza macchia e i commenti, talvolta amari e sarcastici – diremmo, al vetriolo – di Francesco Arpini smascherano implacabilmente certe debolezze umane, certi dannosi egoismi, coesistenti, talvolta, con l’altruismo e la solidarietà che sarebbe naturale attendersi fra compagni di sventura. Per tornare alla struttura interna di Res tua agitur!!, notiamo che vi è una soluzione di continuità fra le due parti, perché le annotazioni relative a Sandbostel si interrompono con il brano La prima di una serie di risposte: questo brano non porta la data e deve, a nostro giudizio, risalire ai primi tempi del soggiorno a Sandbostel, perché vi si narra del “sondaggio”, effettuato, con l’aiuto di un interprete, da un capitano tedesco, “un corpulento e massiccio ufficiale tedesco”,24 sul credo politico dei prigionieri. Tale sondaggio, in caso di espressione della fede fascista, avrebbe dovuto preludere alla richiesta di adesione alla Repubblica Sociale Italiana. L’annotazione successiva è, invece, la prima del periodo 12 aprile – 16 maggio 1945. Questa soluzione di continuità può spiegarsi in due modi: o che vi erano altre annotazioni scritte da Arpini, che coprivano il periodo 19 ottobre 1944 – 11 aprile 1945 e che sono andate perdute o sequestrate

24 Forse il comandante del campo, il famigerato capitano Pinkel?

80 durante le frequenti perquisizioni,25 o che l’Arpini non abbia potuto o voluto scrivere della sua esperienza giornaliera, forse per una stanchezza fisica o morale o per un’accentuata sorveglianza delle guardie. Inoltre mancano le annotazioni successive al 16 maggio 1945, probabilmente perdute anch’esse, forse durante il rientro. Venendo al contenuto delle annotazioni, notiamo che il tenore dei due blocchi narrativi è alquanto diverso. Nel primo blocco l’Arpini rievoca la sua triste condizione di internato a Sandbostel. L’immagine che apre la narrazione è la tragica vicenda dell’assassinio di un militare italiano ad opera di una sentinella: il brano è datato al 18 maggio 1944, ma il fatto rievocato ricorda molto, per le sue modalità, l’uccisione del Capitano Antonio Thun di Hohenstein, avvenuta la notte del 7 aprile precedente, alla vigilia di Pasqua. È possibile che Arpini abbia premesso questo episodio – che peraltro destò un fortissimo sdegno tra gli internati, come testimoniano i diari dei prigionieri – come una sorta di flashback, cambiando erroneamente la data e variando l’ordine cronologico dei suoi ricordi. I brani di questa prima parte, che ci danno l’impressione di un memoriale, rappresentano in quadri impressionanti la vita dell’internato, fatta di stenti, sofferenze e innumerevoli, feroci angherie che la voluta crudeltà delle guardie infligge senza risparmio. Lo sguardo di Arpini si appunta anzitutto sul reticolato, con i suoi piccoli riquadri formati dal filo spinato e con le sue “punte acuminate, ancor più spinose della stessa realtà metallica”, che si ergono irte a contrastare la sete di libertà del prigioniero: immagine-simbolo dell’esclusione dal mondo e della detenzione in una realtà minacciosa e totalitaria, concepita per annientare la persona, spegnendone la volontà e i sentimenti. E goffi, disarticolati burattini appaiono i prigionieri russi del brano immediatamente successivo, i quali spingono, con un ritmo meccanicamente sincrono, il carro-botte che raccoglie i liquami dei pozzi neri, chiamato “carro Volga-Volga”: assurdi “carro-uomini”, come

25 Questo è il caso di un altro prigioniero di Sandbostel, Serafino Clementi, il cui taccuino, da noi pubblicato sui “Quaderni del Liceo Orazio” (n. 5, 2015, pp. 21-116) sembra presupporre un diario più ampio, di cui il taccuino sarebbe stato una sorta di piccolo brogliaccio di appunti. L’espressione “Addio diario” posta dopo la parola “Perquisizioni”, alla data del 19 marzo 1944, ci induce, in effetti, a credere che il diario sia stato sottratto al Clementi proprio durante una perquisizione delle guardie tedesche (vd. alla p. 65).

81 li chiama l’autore, sfiancati dallo sforzo di trascinare per il campo quella pesante e maleodorante cisterna cilindrica. E comunque quei “carro- uomini” trovano l’occasione di vendere ai prigionieri affamati, per pochi marchi, fette di fetido pane, sfuggendo all’occhiuta sorveglianza delle guardie. Alla fame, ossessiva e torturante, la “sorella fame” compagna ineludibile del prigioniero, l’Arpini dedica un altro significativo brano, denso di dolorosa, amara ironia, da cui citiamo: “E passano i giorni uno dietro l’altro, e si somigliano le stagioni ed essa non si quieta mai, mai, senza speranza. E lo stomaco si riempie di acqua e di patate ed essa non se ne va. La bocca ingoia tutto insieme, e patate e pane, ed essa resiste. L’esofago è colmo fino al gozzo di rape secche ed un’acquo- lina continua invita la gola vuota ad ingoiare ancora. Il pasto viene suddiviso in sottopasti e la tortura aumenta… fame… fame. Maledetta fame! Quanta margarina vorresti? E quanta sbobba e quanto pane per calmare le tue brame? Che cosa mai devono fare allora i poveri tedeschi, oltre ai sacrifici che già facevano per mantenerti.” Seguono quindi il ricordo dell’epidemia di tifo petecchiale, che afflisse il campo nel settembre 1944, l’invettiva al feroce comandante del campo, il capitano Pinkel, e la descrizione minuziosa delle sigarette che si facevano i prigionieri, usando a mo’ di tabacco le bucce di patata e le foglie di tiglio, e avvolgendole con carta velina, con carta di giornale o, in mancanza, con carta igienica. Vi è poi la descrizione della disinfestazione, minuzioso rituale a cui tutti i prigionieri dovevano assoggettarsi, e che terminava invariabilmente con la spennellatura sulle parti intime di un misterioso liquido urticante, forse benzina, ad opera di ieratici prigionieri russi. Quindi l’Arpini rievoca la distribuzione dei viveri, i pagnottoni rettangolari, i blocchi di margarina, lo zucchero, i sanguinacci, la ricotta acida, trasportati in catini di alluminio, e descrive la minuziosa operazione per ricavare da ogni pagnotta cinquantacinque fettine di pane. Nel campo i prigionieri si ingegnano come possono per integrare il vitto quotidiano assolutamente insufficiente (costituito prevalentemente da una zuppa acquosa di rape e patate marce): due militari, come narra l’Arpini, combinano lucrosi affari riparando orologi in cambio di razioni di pane e sigarette (il brano relativo si intitola significativamente “Un buon affare”). Alla riflessione sulla cortesia in uso tra i prigionieri, che nasconde non troppo velatamente l’ipocrisia di chi egoisticamente bada soltanto al proprio “particulare”, segue una

82 lunga riflessione intitolata “I mali del nostro tempo in relazione alla nostra responsabilità”. Si rivela qui un altro aspetto della personalità dell’Arpini, quello dell’uomo di fede legato profondamente alle sue radici cristiane e in salda comunione con la Chiesa.26 Una Chiesa, però, della quale l’autore addita l’incapacità di richiamare gli uomini ai valori del Vangelo e di promuovere un autentico rinnovamento spirituale degli animi e dei cuori, in un’epoca che è una tragica notte della Storia, segnata dal nero nichilismo spirituale.27 Una Chiesa venuta meno alla sua missione, la salvezza degli uomini nel nome di Cristo, per essersi legata al mondo e aver smarrito la sua fede nella Provvidenza: solo da una formazione interiore seria e da un’unità interiore che superi le fratture delle varie Chiese cristiane – riflette l’Arpini – sarà ridata al Cattolicesimo la sua funzione di guida spirituale per l’elevazione dell’uomo nel segno della carità e della fraternità cristiana.28 È comunque notevole la profonda cultura filosofica e religiosa dell’Arpini,

26 Continui sono, in questa parte del memoriale, i ricordi dei momenti di raccoglimento e preghiera, i rosari recitati la sera, le Messe e le celebrazioni delle festività liturgiche a cui il nostro autore assistette, i continui appelli e richiami alla Provvidenza. 27 Che Arpini vede rappresentato soprattutto dal romanzo Noi vivi della scrittrice statunitense di origine russa Ayn Rand (1936). 28 Riflessioni che ci sembrano in singolare consonanza con uno scritto di Giovanni Papini, di poco posteriore, ossia le Lettere agli uomini del Papa Celestino Sesto (Vallecchi Editore, Firenze 1946), ove si possono leggere espressioni come queste, che il Papini attribuisce al suo immaginario Pontefice (pp. 20-21): “Il rifiuto di Cristo l’ha condotto (scil. il mondo) al rifiuto della gioia, alle soglie della catastrofe. Non potrà salvarsi che andando a Cristo. I non cristiani debbono diventar cristiani; ma per far ciò è necessario che i cristiani divengano ciò che ora non sono, cioè veri cristiani. E allora soltanto avremo l’unità spirituale degli uomini, la concordia dei cuori, la pace del mondo. Trasformarsi per unirsi; questo, oggi, dev’essere il nostro motto e il nostro compito; questo, a dispetto di tutti gli errori, è il termine della mia speranza. Di questo abbandono dell’Evangelio chi ha colpa? Di tutti è la colpa ma in particolar modo di coloro che si dicono e si credono cristiani. La responsabilità massima è la nostra, di quelli che si proclamarono seguaci di Cristo e si vantarono d’esser salvati dal suo battesimo d’acqua e di sangue.” Il libro di Papini è un appello a tutte le categorie sociali, ai preti, ai frati e monaci, ai ricchi, ai poveri, ai reggitori dei popoli, etc., ad abbandonare la satanica religione dell’Arimanismo, della cupidigia dei beni materiali, madre delle guerre e delle sue funeste conseguenze, e a ritornare allo spirito del Vangelo (pp. 18-20).

83 come si evince dalle citazioni, nel brano, di Berdjaev, Spengler, San Paolo, Sant’Agostino, Chesterton, Mauriac, e dei Messaggi di Papa Pio XII. L’ultimo brano della prima parte, intitolato “La prima di una serie di risposte”, che possiamo considerare anch’esso una sorta di flashback, rievoca l’eroica, unanime abiura dell’ideologia fascista da parte dei 2500 prigionieri italiani di Sandbostel, di fronte a un “corpulento e massiccio capitano tedesco” e al suo servile interprete italiano. Fu, quello, il primo “sondaggio” a cui vennero sottoposti i prigionieri a Sandbostel, per attirarli, con varie lusinghe e promesse, nella nuova Repubblica Sociale Italiana, stato vassallo di Hitler, creata da Mussolini all’indomani della sua liberazione dalla prigione del Gran Sasso. Ma, conclude orgogliosamente l’Arpini, “il burbero e corpulento capitano tedesco, sconcertato e deluso, se ne andò con le pive nel sacco.”29 La seconda parte dello scritto di Francesco Arpini è un vero e proprio diario, e contiene la cronaca, scritta giorno per giorno, delle settimane che videro, in un succedersi tumultuoso di eventi, la liberazione dei prigionieri dal campo di Wietzendorf, il loro trasferimento alla cittadina di Bergen e l’inaspettato e tristissimo ritorno a Wietzendorf. È, questo, un documento assai prezioso perché contiene la narrazione dettagliata di quei giorni e fa luce su tanti particolari, talvolta sorprendenti per il lettore. Ogni brano è datato giorno per giorno, e i singoli avvenimenti sono nell’immediato fissati per iscritto, come afferma lo stesso Arpini al 16 aprile 1945: “Sono entrato in camerata e subito ho disteso queste note perché rappresentino i sentimenti che sgorgarono in quelle ore.” Dobbiamo dire che nei numerosi diari e memoriali di reduci di Sandbostel e Wietzendorf, che abbiamo letto, nessuno contiene un resoconto così dettagliato, esauriente ed efficace del periodo aprile- maggio 1945. Risalta subito agli occhi, in questa narrazione, un

29 “Sondaggi” di questo genere facevano parte della propaganda organizzata dai tedeschi e dai fascisti della Repubblica Sociale Italiana per convincere i prigionieri a collaborare, con la promessa di un miglioramento nel vitto e di un immediato rientro in Italia. A Berlino, per cura dell’ambasciata della RSI., si stampava un giornale propagandistico, La Voce della Patria, che molta diffusione ma scarso credito aveva tra gli IMI. Sulla RSI e gli internati militari vd. Luigi Ganapini, Gli internati militari e le strategie della Repubblica Sociale Italiana, in Sopravvivere liberi, Atti del convegno di studi Roma 12 marzo 2002, cit., pp. 87-107.

84 significativo contrasto di situazioni. Da una parte vi è il graduale ritorno ad una condizione “normale” di vita nei prigionieri, ritorno accompagnato dallo stupore per la riconquistata libertà e l’assa- poramento gioioso di quelle piccole cose, come una semplice passeggiata fuori dal reticolato, prima negate durante l’internamento.30 Ma il graduale ritorno significa soprattutto poter finalmente spegnere i morsi torturanti della fame e riempirsi la pancia a sazietà, con l’abbondante vitto distribuito dagli inglesi e il ben di Dio di viveri trovato dagli ex prigionieri nelle case abbandonate dalle famiglie tedesche a Wietzendorf. E, parallelamente, dall’altra parte l’Arpini registra giorno per giorno, momento per momento, la dissoluzione del ferreo apparato militare nazista, sotto i colpi di maglio dell’offensiva alleata. Un disfacimento che avviene anzitutto nelle coscienze dei soldati tedeschi, i cui sguardi spenti e smarriti denunciano l’insicurezza di chi ha perduto ogni fiducia nelle promesse di vittoria e potenza del già Grande Reich e insieme la paura per la sorte loro riservata dai vincitori. Tutt’intorno, un paesaggio di rovine scosso dal fragore delle cannonate e dei bombardamenti, com’era ridotta la Germania negli ultimi mesi di guerra. Così Arpini annota al 13 aprile 1945, nell’imminenza della liberazione di Wietzendorf, quando il trapasso dei poteri è già avvenuto e le guardie ora devono obbedire agli ordini degli ufficiali italiani ormai ex prigionieri, osservando che i tedeschi hanno perso la solita baldanza: “Più tardi ho fatto un giro per osservare e vedere la faccia di quelle povere sentinelle tedesche che alle porte senza la solita baldanza e col viso sempre fisso alla terra e con colore cadaverico eseguivano gli ordini che davano ufficiali italiani salutando con il solito saluto già in uso nell’esercito.”31 E ancora, si veda il

30 Sensazione comune a molti prigionieri, la felicità mista a stupore provata alla prima libera uscita dal campo di prigionia, come, ad esempio, annota Ugo d’Ormea, anch’egli prigioniero a Wietzendorf, nel suo diario alla data dell’8 maggio: “Oggi per prima volta esco da solo fuori del reticolato a fare una passeggiata. I sentimenti che ho provato in quell’ora di libertà non li scorderò mai!” (in Mario Carini, “Per far più lieti i tristi giorni…”: il diario della prigionia in Germania di Ugo d’Ormea, cit., p. 59). 31 Allo stesso giorno nota significativamente Giovannino Guareschi nel suo Grande Diario (Rizzoli, Milano 2011 rist., p. 481): “Passano soldati tedeschi senza fucile, su carrettelle.”

85 seguente brano datato al 19 aprile 1945, sul crollo morale dei soldati tedeschi prigionieri dei francesi, che piangono come bambini: “Si diceva ieri che i soldati tedeschi fatti prigionieri dai francesi appena seppero della liberazione, si misero a piangere e a scongiurare di lasciarli al campo e di non mandarli via, sì, gli accordi erano tali che si dovevano rispettare. Questa è la prova dello spirito di combattimento del soldato tedesco dopo sei anni di guerra, li tiene uniti solo la grande disciplina e la paura di essere fatti fuori dalle S.S.” Quei soldati tedeschi che prima incutevano terrore ed erano il tangibile segno dell’invincibile potenza del Reich nazista, ora, agli occhi dell’Arpini, ispirano pietà, tanto che li si potrebbe anche cristianamente perdonare, come egli annota al 15 aprile: “Mi vado domandando, da chi dipendiamo? A rigor di termini saremmo ancora dei tedeschi fino a quando il presidio loro non ci abbia consegnato agli inglesi, ma l’ufficiale chi lo vede, e i pochi soldati rimasti sono considerati solo portieri, giacché è questa la loro mansione. Fanno pietà ad osservarli: testa bassa e sempre pronti agli ordini dei nostri ufficiali i quali conservano nei loro riguardi modi corretti. Sempre così noi italiani, gridiamo, ammazziamo tutti, ma poi all’atto pratico dimentichiamo, è una dote che oggi ammiro tanto, quantunque per alcuni di essi (tedeschi) si dovrebbe applicare il contrario. Però il precetto di Cristo è certamente il più confacente al nostro temperamento: la miglior vendetta è il perdono.” Arpini non dimentica, però, le tante angherie e umiliazioni subite da lui e dai suoi compagni e ha per i tedeschi, come singoli e come nazione in toto, parole di dura riprovazione. È il rancore troppo a lungo covato per gli imperdonabili crimini di cui quella nazione, preda della follia dei suoi capi, si è resa responsabile, un rancore che fuoriesce inarrestabile dall’animo dell’ex prigioniero e si traduce in feroci anatemi contro la “mala razza” dei tedeschi.32 Il 14 aprile egli così scrive, a proposito dei

32 Reazione psicologica comune a molti prigionieri: si veda, ad esempio, il diario di Tomaso Civinelli, Perché? Per chi? Per che cosa? Diario di prigionia in Germania di un italiano qualsiasi, Editrice Fortuna, Fano 1989. Internato nel campo di Wesuwe presso Meppen, ecco cosa scrive il Civinelli alla data del 29 marzo 1944: “Come potrò dimenticare questi terribili mesi di prigionia? Come potrò dimenticare le umiliazioni, le sofferenze morali e fisiche che hanno allietato la mia prigionia? Come potrò dimenticare che questi tedeschi mi tenevano fuori della baracca per ore intere incolonnato, mentre infuriava la tormenta di neve del terribile inverno

86 tedeschi: “I tedeschi fanno tutto di notte, sembra che di giorno si voglia apparire calmi, mentre poi di notte si fa quello che non si è riusciti a fare alla luce. Si scappa di notte, si distrugge di notte: è un popolo maledetto, giacché l’unione di due di loro, riesce pericolosa alla stessa umanità.” E, di seguito, rimarcando la “diversità ontologica” del popolo tedesco dal resto dell’umanità, aggiunge: “Mai il cielo ha allietato così poco la nostra prigionia, cieli sempre tristi e nuvolosi e freddo, lo stesso vitto, lo stesso modo di ragionare, tutto lo differenzia dal resto dell’umanità. Lo stesso consorzio civile ci penserà a metterli a posto dopo questa seconda esperienza di guerra.”33 E poi, il 27 aprile, ascoltando da Radio Londra che Milano è insorta contro i tedeschi e i fascisti, annota: “Mi dispiace di essere qui inoperoso e di non potermi trovare a Milano, alle barricate. Il mio odio per questa razza è tale che preferisco starmene in casa per non vedermeli sotto gli occhi. E pensare che noi cerchiamo di aiutarli nel far loro trasportare roba, dopo tutto quello che ci hanno fatto patire.” Altre espressioni del medesimo tenore si riscontrano al 6 maggio, miste ad una forte diffidenza sul presunto “rinsavimento” dei tedeschi: “Ripeto e non ripeterò mai abbastanza, è una razza che merita di essere distrutta. Vi si presentano,34 ora che vedono la realtà, col sorriso e parlando vi diranno poi che la guerra essi non l’hanno voluta, che Hitler era ed è un pazzo e che come tale ha rovinato la nazione tutta, ma dateci l’illusione di poter sembrare forti che ci vedrete tutti a mostrare i denti. Pochi giorni fa passando vicino al nostro reticolato cantavano e facevano cantare ai loro figli canzoni e polacco? (…) Se un giorno incontrerò sulla mia via un tedesco, potrò forse trattenermi, se è nelle mie possibilità, dal fargli scontare tutto ciò che m’hanno fatto soffrire? Forse che ai miei figli insegnerò ad amare i Tedeschi e la Germania? Insegnerò l’odio, l’odio più fremente e più acuto, verso questo popolo di bruti, di macchine umane, guidate da un uomo che si può chiamare cuore di pietra, che non ha nulla di umano e che tende solo a realizzare il suo sogno ambizioso di dominare l’Europa, passando su centinaia di migliaia di vittime, di soldati, di donne, di bimbi ch’egli non vede perché accecato dalla sua sete di dominio.” (pp. 64-65). 33 La “diversità” dei tedeschi, la loro estraneità al genere umano, avvertita soprattutto nelle coscienze dopo la diffusione delle sconvolgenti immagini e notizie sui campi di concentramento, è peraltro chiaramente rimarcata nel titolo di un famoso romanzo resistenziale, Uomini e no, di Vittorini, apparso subito dopo la Liberazione, nel 1945. 34 Soggetto: i tedeschi.

87 canzonacce per deriderci e per chiamarci traditori, oggi il sorriso, domani il cartello sulla schiena. Non c’è e non vi può essere distinzione35 specie in questa Prussia che fu, nel corso della storia, il covo dove uscirono dal cervello umano le cose più turpi per l’umanità.” Quegli accenti di pietà e di compatimento che Arpini, memore delle troppe angherie subite, non riesce a provare quando assiste, da testimone, alle violenze e alle devastazioni perpetrate dagli invasori russi sui beni e sulle persone degli odiati tedeschi,36 affiorano poi spontanei nel suo animo alla vista delle caserme di Münster, piene di soldati tedeschi feriti e mutilati: “Mi ha fatto pena osservare tanti visi emaciati dal dolore e doloranti e la tragedia della nazione che poche ore prima aveva capitolato riconoscendo la superiorità degli alleati e la disfatta dell’esercito germanico” (annotazione dell’8 maggio 1945). Nella rappresentazione degli italiani, la narrazione di Arpini si fa oltremodo interessante. I giudizi che egli riserva a personaggi ben noti e assai stimati per unanime giudizio tra i prigionieri, divergono in modo sorprendente da quelli che possiamo leggere in altri diari e memoriali. La figura del Tenente Colonnello Pietro Testa, unanimemente lodato per il suo impegno a favore dei prigionieri e la sua fermezza di fronte alle umilianti pretese delle autorità tedesche, esce piuttosto ridimensionata dalle pagine dell’Arpini, ricevendo il suo comportamento qualche apprezzamento non troppo lusinghiero. I diari e i memoriali dei reduci e i documenti riportati da Guareschi nel suo Grande Diario comprovano però che il Tenente Colonnello Pietro Testa, comandante italiano del campo di Wietzendorf, operò sempre per difendere la dignità dei nostri soldati e per assicurare agli italiani, finché poté, un trattamento più

35 Intendi: fra tedeschi buoni e cattivi. 36 Riferiamo in proposito dal diario del 23 aprile 1945 (“I tedeschi hanno un sacro terrore dei russi e diversi ci vengono a pregare di occupare noi le loro case, perché se le sentono più sicure, si accorgono oggi cosa gli riservano in sorprese tutti i milioni di deportati.”) e del 24 aprile (“E ben fanno oggi i russi a far sentire con il peso di tutta la loro ferocia un po’ di quanto hanno sofferto i loro cittadini: loro [scil.: i tedeschi] che hanno sempre fatta la guerra in casa altrui, provino i dolori e le pene che hanno fatto satanicamente gustare agli altri e che gioverà a farli riflettere in un domani se velleità sorgessero per altre guerre.”), giorni in cui Arpini è alloggiato con i suoi compagni nella cittadina di Bergen.

88 umano dagli aguzzini tedeschi.37 Alla luce di questi indubbi e unanimi riconoscimenti, sorprendono perciò le parole dell’Arpini riservate proprio al comandante italiano di Wietzendorf. Quando il nostro lamenta, annotando al 3 maggio 1945, che gli inglesi considereranno prigionieri di guerra gli internati che hanno rifiutato il lavoro coatto e sono rimasti nei campi, assoggettando al medesimo trattamento gli

37 Eloquente il commento di Guareschi al primo incontro, nel campo di Wietzendorf, con il Ten. Col. Testa: “Ho conosciuto il comandante tenente colonnello Testa. È uno splendido ufficiale” (ne Il Grande Diario, cit., p. 457). Non pochi furono gli interventi del comandante Testa per alleviare le pene dei prigionieri ed essere loro il più possibile vicino e solidale. Ne citiamo qui solo alcuni. Egli difende appassiona- tamente, scrivendo all’Alto Comando della Wehrmacht, gli ufficiali italiani che si rifiutano di passare alla condizione di lavoratori civili, come rileva Antonella Bartolo Colaleo in Matite sbriciolate, Edizioni Studio Gaidano & Matta, Chieri (To) 2017, p. 145. Difende la dignità dei soldati italiani di fronte ai francesi e agli inglesi, dopo la liberazione da Wietzendorf (in Guareschi, il Grande Diario, cit., pp. 482 e 497-498). Ottiene il servizio religioso per gli internati italiani e un locale del campo adibito a cappella, come ricorda don Luigi Pasa, cappellano militare a Sandbostel e a Wietzendorf (in Tappe di un calvario 1943-1966, Tipografia Cafieri, Napoli 1966, p. 153), il quale aggiunge significativamente: “Tutti amavano e stimavano il Testa per le sue qualità di dirigente e d’uomo.” (ibid.). Notiamo che egli dedica il suo libro alla memoria del Generale di Corpo d’Armata Pietro Testa con la seguente epigrafe (p. 5): “Precedette migliaia di internati militari nei «Lager» sulla via dell’onore e della responsabile scelta che ebbe nei morti i testimoni più sacri. Riunito ora ai fratelli che non sono tornati, da queste pagine intrise di ineguagliabili dolori con eroico esempio ancora addita ai viventi lo stesso cammino.” Anche Antonio Zupo, internato anch’egli a Sandbostel e a Wietzendorf, nel suo diario riserva parole di encomio al Ten. Col. Testa (vd. Antonio e Giuseppe Zupo, Storia di IMI, cit., p. 46): “… il Comandante del Campo Italiano 83 di Wietzendorf, col. Pietro Testa, che non senza rischio personale aveva organizzato i militari italiani prigionieri e ne teneva alto l’onore di fronte alle vessazioni del Comando Tedesco del Campo…”. Va infine ricordato che il Ten. Col. Testa nella sua relazione denuncia puntigliosamente e implacabilmente le crudeltà e i veri e propri crimini commessi dai tedeschi ai danni degli italiani prigionieri: vd. Ten. Col. Pietro Testa, Wietzendorf. Rapporto sul Campo 83, 22 giugno1945, testo leggibile on line all'indirizzo: www.storiaxxisecolo.it/internati/Wietzendorf.pdf (il testo è, con qualche divergenza, anche in Giovannino Guareschi, Il Grande Diario, cit., pp. 114-129: per le violazioni delle norme internazionali vd. le pp. 117-124 e per i delitti, le “criminalità germaniche”, vd. le pp. 124-128).

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“eletti”38 e i “reprobi”39, dubita che il Testa sia il più adatto a giudicare il comportamento dei singoli ed esprime forti riserve sul suo operato prima della liberazione. Riportiamo il passo, scritto il 3 maggio 1945, quando i prigionieri erano ormai passati sotto la custodia inglese: “Come poi si riuscirà a dividere gli eletti dai reprobi? Molti e molti sono stati prelevati e convogliati al lavoro ma molti non aspettavano che si commettesse qualche infrazione per sentirsi più o meno camuffati dalle imposizioni, mentre sollecitavano più o meno privatamente per la loro uscita dai lager. Non so se Testa sia il più adatto a presiedere una tale commissione di giudizio, se durante la sua gestione non ha mai fatto proteste scritte, solo ultimamente è stato indotto dai gemiti dei nostri convogli.40 Egli è qui giudicato il colonnello lavoratore e la voce di popolo è voce di Dio. Tutte belle parole, tutto per l’esteriorità, niente per il solido. Ci siamo dimostrati senza spina dorsale ed ora ne subiamo le conseguenze. Mai dai nostri superiori è uscito un atto energico di protesta e così tutti hanno avuto modo di sbizzarrirsi in tutte le loro angherie pensate e volute. Il cadreghino valeva più di qualsiasi atto di solidarietà col colpito e poi la cattura serviva a qualche cosa. A Sandbostel dopo la nostra partenza i gerarchi del campo in massa sono andati al lavoro e qui si è supinamente continuato a trangugiare anche quando il solo masticare poteva salvare delle situazioni. Del dopo su ciò si potrà scrivere a lungo, ma la conclusione sarà sempre quella: il cadreghino è la marmitta che ha fatto tacere tante e tante coscienze.” In realtà di “atti energici di protesta” il Tenente Colonnello Testa, quale

38 I “puri”, quelli che dissero no a qualunque collaborazione con i tedeschi e i fascisti. 39 Gli “optanti”, quelli che scelsero volontariamente di lavorare nelle fabbriche e nelle fattorie tedesche o collaborarono in vario modo con tedeschi e fascisti, anche dando la loro adesione alle SS. Una minuziosa casistica dei soldati, sottufficiali e ufficiali rimasti nei lager è nel Grande Diario di Guareschi, cit., alle pp. 77-79. 40 In effetti una commissione venne istituita dal Tenente Colonnello Testa il giorno 6 maggio 1945 riunendo un gruppo di ufficiali. A questi il comandante Testa affidò il compito di distinguere tra i prigionieri, sulla base della documentazione disponibile, chi volontariamente aveva collaborato con tedeschi e fascisti da chi era stato obbligato al lavoro fuori dal lager. La relazione della commissione, datata all’11 giugno successivo e firmata dai suoi membri, è stata pubblicata per la prima volta nel Grande Diario di Guareschi, cit., alle pp. 109-113.

90 comandante degli italiani a Wietzendorf, ne compì vari e in date non sospette. L’Arpini entra nel campo di Wietzendorf il 1° febbraio 1945. Già il 30 gennaio precedente il comandante Testa scriveva al comandante tedesco dell’Oflag 83 (Wietzendorf) Bernard von Bernardi, protestando “da soldato a soldato”,41 contro la destinazione obbligatoria al lavoro e la riduzione allo stato civile, con perdita del grado, di tutti gli ufficiali italiani. Il 10 febbraio successivo il Testa reiterava le energiche proteste scrivendo all’Alto Comando (Oberkommando) della Wehr- macht e rimarcando che era contrario ad ogni legge internazionale obbligare al lavoro ufficiali prigionieri o parificati a prigionieri. Il 5 aprile 1945, in vista dello spostamento dei prigionieri dal campo di Wietzendorf, il Testa scrive al colonnello von Bernardi pregandolo di esentare dalla marcia a piedi gli ufficiali italiani a causa del loro stato di gravissimo deperimento fisico “e la assoluta impossibilità da parte degli ufficiali italiani di fare qualsiasi spostamento a piedi.”42 Dopo l’evacuazione da Wietzendorf del corpo di guardia tedesco e dei suoi ufficiali, il Testa assume il comando della sezione (il Campo 83) riservata agli italiani e, d’accordo con il collega francese, il colonnello Duluc, detta nell’ordine del giorno n. 1 del 13 aprile 1945, assieme al Capitano Avogadro, le disposizioni per assicurare la disciplina e il vettovagliamento dei prigionieri. Il 16 aprile il Ten. Col. Testa proclama ufficialmente la liberazione dei prigionieri con l’ordine del giorno che contiene quella significativa, entusiasmante frase: “Ufficiali, sottuffi- ciali, soldati italiani del Campo 83 di Wietzendorf: siamo liberi! Le sofferenze di diciannove mesi di un internamento peggiore di mille prigionie sono finite.”43 Il 3 maggio 1945 il comandante Testa scrive al Military Government di Soltau denunciando le fortissime pressioni, le angherie e i soprusi patiti dagli ufficiali e soldati italiani ad opera dei tedeschi per indurli ad accettare il lavoro obbligatorio, a partire dal

41 Questa lettera del Ten. Col. Testa e le altre sue citate di seguito si possono leggere nel Grande Diario di Guareschi, cit., alle pp. 81-86 e 92-107. 42 Così nella lettera al von Bernardi, in Guareschi, Il Grande Diario, cit., p. 92. 43 L’ordine del giorno della liberazione si legge in Guareschi, Il Grande Diario, cit., p. 95.

91 luglio 1944,44 e ricordando le numerose proteste che egli aveva elevato, a voce e per iscritto, contro questo umiliante sopruso, contrario del resto a ogni norma internazionale. Da Wietzendorf, il 9 maggio 1945, scrive al Ministero della Guerra in Italia, rappresentando la gravissima situazione dei prigionieri italiani e affermando che solo con molta difficoltà hanno ottenuto la qualifica di “ex prigionieri di guerra” dagli inglesi.45 Di fronte all’encomiabile, generosa attività del comandante Testa (e ai rischi personali che si assunse di fronte alle autorità tedesche perorando la causa degli italiani) le critiche dell’Arpini possono apparire a prima vista ingiustificate. Certamente, è un duro atto di accusa il suo, ma non sta a noi giudicare se e quanto sia motivato. Possiamo però comprendere il forte risentimento dell’Arpini, che ha la percezione di non essere stato sufficientemente tutelato, l’astio del prigioniero fisicamente e soprattutto moralmente torturato che sfoga in amara polemica il veleno accumulato in corpo nei lunghi mesi di disumana prigionia. Il Capitano Arpini, del resto, non risparmia critiche ad altri personaggi, peraltro elogiati nei diari e memoriali dei reduci dai lager. Consideriamo i cappellani militari, la cui opera fu giudicata unani- memente assai preziosa per confortare lo strazio fisico e morale dei prigionieri. Cappellano di Sandbostel e Wietzendorf fu il salesiano Don Luigi Pasa, cappellano fu Don Francesco Amadio46, entrambi sacerdoti di alte qualità morali e spirituali, eppure non risparmiati da certi giudizi dell’Arpini. Al di là di specifici episodi che non possiamo conoscere ma che erano ben noti all’autore, le critiche dell’Arpini debbono

44 A seguito degli accordi tra Mussolini e Hitler, nel luglio 1944, gli ufficiali e soldati prigionieri furono trasformati d’autorità in “liberi lavoratori civili” e obbligati a lavorare nelle fabbriche e nelle fattorie tedesche, senza però che il loro trattamento migliorasse. Ai numerosi rifiuti del lavoro coatto da parte degli italiani, soprattutto a partire dal gennaio 1945, corrispose un incrudelimento delle condizioni di vita dei campi, predisposto ad arte per fiaccare le volontà e i corpi dei prigionieri. 45 I quali, in principio, li volevano paradossalmente considerare o ex alleati della Germania o ex collaboratori da trattare come “internati” (vd. la lettera del 9 maggio 1945 in Guareschi, Il Grande Diario, cit., p. 104). 46 Allegata alla trascrizione del diario abbiamo visto una fotografia di Don Francesco Amadio con la dedica olografa al Capitano Arpini: “Al compagno buono e fraterno di prigionia con profondo affetto, per consacrarne il ricordo. Don Francesco. Wietzendorf. Pasqua 1945.” Riproduciamo l’immagine nell’inserto fotografico che accompagna il testo del diario dell’Arpini.

92 necessariamente essere valutate nel contesto ambientale in cui visse per lunghi mesi il prigioniero, che è quello di un infernale e alienante universo concentrazionario finalizzato prima alla riduzione del sé, come le istituzioni totali analizzate dal sociologo Ervin Goffman,47 e poi alla disintegrazione della persona, ridotta dal sistema nazista a strumento passivo da sfruttare come mera forza-lavoro fino allo sfinimento. L’animo esacerbato dalle troppe umilianti vessazioni, i patimenti della fame e delle malattie, le violenze morali, l’angoscia dell’isolamento e della separazione dai propri cari, la paura e l’assoluta incertezza del futuro, la rabbia impotente contro gli aguzzini nazisti e, infine, dopo la riacquistata libertà, la delusione, con accumulo di ulteriore rabbia, per l’incomprensibile ritardo nel rimpatrio, dovettero orientare i giudizi del Capitano Arpini ed esternarli nella forma di un comprensibilissimo e umano sfogo, uno sfogo esacerbato ma senza rancore.48 Uno sfogo che, sul piano ideologico, si abbatte come un maglio sul fascismo e sul suo Duce, primo responsabile dell’avventura bellica e dei disastri e lutti che ne furono conseguenza. Della tragica fine di Mussolini, con l’esposizione del suo cadavere e di quello della Petacci a Piazzale Loreto, l’Arpini dà sulle prime un giudizio sarcastico e compiaciuto (così scrive alla data del 29 aprile 1945: “La radio alle 16.30 trasmette che anche Mussolini e altri gerarchi sono stati giudicati ed eseguita stamane la sentenza di fucilazione ed i cadaveri esposti in piazza Loreto a Milano per la constatazione della persona. Questa volta l’amico49 non ha potuto mandare l’aliante.50 Veramente anche in Italia si sono messi a

47 Si veda sull’istituzione totale, come mondo chiuso e retto da proprie regole condizionanti in modo traumatico e assoluto l’internato, Ervin Goffman, Asylums. Le istituzioni totali: i meccanismi dell’esclusione e della violenza, trad. di Franca Basaglia, Einaudi, Torino 2016, rist., pp. 43-71 (I ed. 1968). 48 E la scrittura, a cui l’Arpini affida i suoi giudizi, le sue emozioni, gli stati d’animo sospesi tra entusiasmo e scorato pessimismo, assume il ruolo di un processo di liberazione dai traumatici condizionamenti dell’istituzione totalitaria quale era il lager. Vedi sulla funzione liberatoria della scrittura il saggio di Jean-Yves Revault, Guarire con la scrittura, trad. di José F. Padova, Red Edizioni, Milano 2005. 49 Hitler. 50 L’Arpini si riferisce alla liberazione di Mussolini dalla prigione di Campo Imperatore sul Gran Sasso, eseguita il 12 settembre 1943 da un commando di paracadutisti tedeschi guidati dal capitano delle SS Otto Skorzeny.

93 fare sul serio e questo mi fa piacere.”). L’apparente ferocia del giudizio, nel quale scorgiamo però un desiderio di giustizia verso il responsabile di tanti lutti e rovine, era lo specchio della ferocia del tempo, un tempo dominato dall’odio e dall’ansia di rivalsa (o anche vendetta) che attanagliava i cuori degli uomini. E questo clima di odio, che poi si rivolse contro sé stesso, era stato alimentato proprio dal fascismo, e soprattutto dall’ultimo fanatico e spietato fascismo di Salò, pronto a collaborare con i nazisti nelle feroci rappresaglie. Non dubitiamo però che l’Arpini, uomo di profondi sentimenti cristiani, abbia rivisto in seguito questo suo giudizio sulla fine di Mussolini e abbia saputo trovare accenti di carità e compassione, superando gli odi di parte, nel commentare il tragico episodio, come accadde a tanti suoi compagni di prigionia. Viceversa l’Arpini giustifica con sincera adesione l’operato del re e di Badoglio. Egli scorge in molti compagni “il tentennamento nel vedere la nostra bandiera con la corona di casa Savoia” e si chiede se si voglia porre in dubbio la continuità dinastica (annotazione del 17 aprile 1945,51 il giorno dopo la liberazione del campo da parte delle avanguardie inglesi guidate dal maggiore Cooley). Ma per il Capitano Arpini non si può porre in discussione la figura e l’operato del re, non lo si può accusare di complicità con il fascismo. La corona – questo il suo ragionamento – ha subito la ventennale dittatura fascista, che fu imposta al re dal popolo italiano. La colpa della corona è “colpa nostra, giacché noi stessi abbiamo dato motivo alla stessa, con la nostra condotta, a farle prendere quelle decisioni che ora si vogliono addossare alla Maestà.” Si potrebbe forse obiettare che il re avrebbe potuto opporsi all’alleanza con la Germania, alle leggi razziali e alla dichiarazione di guerra proclamata dal Duce il 10 giugno 1940. Ma come si sarebbe comportato Mussolini, che allora deteneva saldamente le leve del potere, di fronte ad un re non disposto ad avallare le sue scelte di politica interna e soprattutto estera? Vi è poi da aggiungere che proprio il giuramento prestato al re diede alla grande maggioranza degli internati militari quella forza morale che permise di resistere a tante sofferenze e privazioni, a non piegare la propria volontà di fronte alle pretese degli

51 Anche le annotazioni seguenti, nel testo citate in corsivo, risalgono al 17 aprile 1945.

94 aguzzini nazisti. Anche l’armistizio proclamato da Badoglio, epilogo di una guerra mai sentita né voluta dagli italiani, secondo l’Arpini, ha tutto il consenso del Nostro (“Il gesto di Badoglio ha tutta la mia adesione e consenso formale, sia come italiano credente che vecchio combattente della grande guerra.”), anzi è un gesto venuto in ritardo. Proprio questa riflessione mostra i sentimenti antifascisti dell’Arpini, frutto non di resipiscenze opportunistiche ma di una coerente concezione democratica della politica, che lo portò, in gioventù, ad aderire al Partito Popolare di Don Sturzo. Per l’Arpini l’insurrezione di Milano e delle città dell’Alta Italia, che egli segue appassionatamente ascoltando i comunicati di Radio Londra, rappresenta il riscatto degli italiani dalla servitù imposta dall’invasore straniero e gli ispira, con orgoglio ed entusiasmo, l’idea di una nuova epopea risorgimentale52 (così annota al 28 aprile 1945: “Quello che avviene a Milano e in quasi tutte le città d’Italia, è cosa che ci deve far andare orgogliosi. Siamo arrivati ai tempi del Risorgimento. Il commentatore inglese ha magnificato l’organizzazione e del come sono scoppiati i moti. È l’Italia genuina, sono gli italiani veri che hanno ritrovato se stessi e la loro dignità, pronti a tutto pur di rompere la cerchia degli sfruttatori e decisi a governarsi in regime di libertà. Fuori l’oppressore, caccia al barbaro, è il grido che appassiona e per il quale si mette a repentaglio la vita, gli averi, le cose, ma decisi a portare il contributo e a non essere assenti nelle ore storiche della nazione.”) I sinceri sentimenti patriottici del Capitano Arpini rifulgono in occasione del rituale dell’alzabandiera, momento solenne che segue la liberazione dei prigionieri e denso di profondo valore simbolico. L’alzabandiera costituì per i nostri internati militari nei campi nazisti, in Germania e nei Paesi occupati, il momento più significativo della riacquistata libertà. L’abbassarsi dall’asta del vessillo nazista e l’alzarsi del Tricolore italiano fu seguito da tutti gli ex prigionieri con sentimenti di commozione: era quello il momento di percepire la fine dell’inferno

52 Idea sviluppata da uno storico come Aldo Garosci, per il quale gli ideali di libertà, quegli ideali che la nazione italiana aveva saputo concepire nel Risorgimento, durante il fascismo “non vennero sostituiti nei cuori, bensì cacciati con la forza, rimanendo al loro posto il vuoto o sonori appelli d’istinti indefiniti. Si interruppe un processo non cominciò una novella storia” (Aldo Garosci, Gli ideali di libertà dal Risorgimento alla crisi fascista, in Aa. Vv., Il secondo Risorgimento, Istituto Poli- grafico dello Stato, Roma 1955, p. 94).

95 concentrazionario che aveva inghiottito migliaia di innocenti esistenze, di poter riassaporare la libertà, di dichiarare orgogliosamente la propria dignità e il proprio onore preservati dalle infami vessazioni degli aguzzini, ma anche di pensare più vicino il ritorno in patria, il poter finalmente riabbracciare i propri cari dopo mesi di terribile prigionia ed essere restituiti agli affetti quotidiani. E il Tricolore significava anche un rinnovato contatto con la Patria che pareva perduta, ma che tornava nei cuori e negli animi incredibilmente vicina e risorta. Riportiamo le annotazioni del Capitano Arpini scritte in occasione dell’alzabandiera nel campo di Wietzendorf il 7 maggio 1945: “Per 20 mesi abbiamo tenuti appesi nelle camerate l’editto che era inibito a tutti gli italiani di avvicinare tedeschi, oggi dimostriamo che le donne tedesche non sono degne della nostra virilità. Siamo a tutti gli effetti prigionieri di guerra, perché fin dal giorno della nostra cattura eravamo a tutti gli effetti prigionieri, salvo che al nostro rientro in Italia rivendicheremo il diritto di chiamarci internati, perché solo così si potrà differenziare quanto abbiamo maggiormente patito, in quanto la nostra cattività vale cento prigionie. E ora l’alzabandiera, che salga questa nostra insegna che sempre abbiamo avuto presente ai nostri occhi e che sospirando ci sentivamo più sereni e tranquilli quando nelle ore tristi distendevamo nelle nostre cerimonie, mentre squadre facevano la ronda per avvisarci dell’arrivo dei “crucchi”. Oggi sale, sale alta, ma l’asta che la porta in alto al cielo è stata formata dalla nostra volontà e dalla nostra fede e inchiodata con chiodi talmente potenti che mai forza al mondo saprà e vorrà distaccare e far ammainare. L’ammaino del giorno della nostra prigionia, è riscattato dal sacrificio di venti mesi di dura prigionia attraverso i quali oggi i suoi colori vengono purificati dal bianco della fede, dal verde della nostra speranza e dal rosso del nostro sacrificio. La cerimonia a mercoledì”.53 Il 9 maggio il rituale venne ripetuto a Wietzendorf in forma solenne. Cogliamo nelle parole dell’Arpini non la tentazione dell’enfasi retorica ma il profondo attaccamento ai valori dell’Onore, della Dignità, della Patria, che gli permisero di realizzare la sua personale “resistenza senz’armi” al nemico nazista. Unico cruccio dell’autore, il fatto che la bandiera tricolore era issata per merito non degli italiani, ma di un

53 Ossia al 9 maggio 1945.

96 esercito straniero che li aveva liberati. Da ciò la riflessione sugli errori della nostra politica estera, sulla mancata alleanza di Mussolini con gli angloamericani, su ciò che poteva essere e non era stato. “Questa mattina alza bandiera. Cerimonia molto significativa e alla quale ha partecipato tutto il campo compresi tutti i soldati. Nessun discorso, perché certe cerimonie sono troppo eloquenti per sé, la bandiera italiana con la corona sabauda viene issata in Germania!! Mi ricordavo in quel momento tutti gli stratagemmi escogitati per non farcela prendere durante le migliaia di perquisizioni, giacché i nostri morti non potevano essere coperti neppure dalla bandiera, contrariamente a tutte le norme internazionali. Eppure oggi, con questo sole tutto italiano la nostra bandiera saliva alta sul pennone accompagnata dal nostro sguardo e dai battiti dei nostri cuori e sventolava tutta spiegata al vento perché tutti gli 8000 italiani la potessero maggiormente contemplare, più bella, perché irrorata dalle nostre lagrime e stirata dai nostri dolori. Anche l’ufficiale inglese che partecipava alla cerimonia sull’attenti, la salutava mentre il picchetto presentava le armi e la tromba suonava la marcia al campo! Bella e suggestiva la cerimonia, ma un senso di qualche cosa di triste rimane in noi. Oh, se la nostra bandiera poteva essere oggi issata sul pennone senza la presenza di nessun altro rappresentante estero, ma solamente per virtù nostra, quanto avrei maggiormente gustata la cerimonia. Se i nostri uomini politici avessero curato gli interessi di noi italiani e non d’ideologie politiche e nel disimpegno del loro mandato avessero tenuto presenti i sentimenti di tutti gli italiani. È stata questa la sola spina che ha amareggiata nel mio animo la cerimonia. Che possa tu o bel tricolore sventolare libero ed essere segno di grandezza quale oggi desideravo e bramavo. Con i sacrifici nostri e dei camerati che durante la guerra ti irroravano del loro puro sangue vermiglio, ti accompagnino o bel tricolore e ti siano propizi.”54

54 Annotazione del 9 maggio 1945. Anche il Ten. Col. Pietro Testa, ricorda nel suo memoriale la solenne cerimonia che suscitò la commozione di tutti i presenti: “Il 9 maggio si poteva svolgere finalmente la cerimonia ufficiale dell’Alzabandiera nel campo di Wietzendorf. Vi assistevano, perfettamente inquadrati, tutti i battaglioni ufficiali ed i battaglioni di soldati in via di costituzione. Rendeva gli onori un picchetto in armi composto di 4 ufficiali, 3 soldati ed 1 civile. Cerimonia semplicissima. Dopo i tre squilli di attenti cominciavo ad issare la bandiera sul

97

A conclusione di questo nostro scritto introduttivo, vorremmo stilare, senza alcuna pretesa di giudizio, un breve profilo umano del Capitano Francesco Arpini, quale ci appare dal suo diario e dalle notizie che abbiamo potuto ricevere grazie alla cortese disponibilità della sua Famiglia. Diciamo anzitutto che Francesco Arpini percorse una onorevole e brillante carriera sui fronti di guerra, ricca di prestigiosi riconoscimenti. Partecipò alla Prima e alla Seconda Guerra Mondiale, e in entrambe il coraggio dimostrato gli permise di ottenere la Medaglia d’Argento al Valor Militare.55 Fu nominato dal re Cavaliere dell’Ordine Coloniale della Stella d’Italia e, nel dopoguerra, Commendatore dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana, con Decreto del Presidente Antonio Segni emanato in data 16 luglio 1964. Francesco Arpini è stato, dunque, un valoroso soldato e la sua tempra di combattente, che in guerra gli aveva permesso di compiere azioni degne di onore, lo sorresse certamente nella difficilissima prova della prigionia e lo aiutò a preservare quei principi di Onore, Dignità dell’Uomo, Libertà e Giustizia che aveva coltivato nel suo animo di uomo libero e non asservito né al fascismo né all’oppressore nazista. Egli fu uno dei vecchio pennone tedesco che era stato trasportato davanti al comando italiano. Vidi la bandiera spiegarsi con uno schiocco, staccarsi dal palo e continuai ad issare con le lacrime agli occhi. Forse nessuno dei 6.000 italiani presenti la vide se non attraverso un velo di commozione. Era la bandiera di Trento; un ufficiale me l’aveva affidata prima di partire – in gennaio – per il lavoro obbligatorio. Da quel giorno l’avevo custodita nel mio sacco da montagna. Solo una sera avevamo voluto vederla; così spiegata nella angusta camerata la copriva tutta; dicevamo: «Che bella! Che bella!» e piangevamo. Sventolava finalmente sul pennone di Wietzendorf, alta sopra i reticolati.” (da: Pietro Testa, Wietzendorf, a cura del “Centro Studi sulla Deportazione e l’Internamento”, Roma 19883, p. 168). 55 Nella Prima Guerra Mondiale la Medaglia d’Argento al Valor Militare gli fu concessa con Decreto Reale in data 24 maggio 1923, con la seguente motivazione: “Circondato da numerosi nemici, rifiutava di cedere le armi, gravemente contuso ad un piede da un colpo di calcio di fucile, fieramente resisteva, finché non veniva liberato dalla sopraggiungente ondata, con la quale continuava a combattere. Offeso, di poi, da gas lacrimogeni, non s’allontanava dalla lotta che dopo essere stato ferito da pallottola ad una gamba e dopo aver fino all’ultimo, con la parola e con l’esempio, dato prove di serena tenacia e di valore. Sclo 19-20 agosto 1917” Nella Seconda Guerra Mondiale gli fu concessa la Medaglia d’Argento al Valor Militare per resistenza al nemico.

98 seicentocinquantamila militari italiani che, a costo di indicibili tormenti, scelsero la prigionia invece di combattere a fianco dei fascisti e dei tedeschi, come gli era stato proposto, rinunciando a notevoli miglio- ramenti nella condizione e anche all’immediato rientro in Italia. Il “NO” di Francesco Arpini e di quelli che fecero la sua stessa scelta poteva significare la morte, ma essi sarebbero morti da uomini liberi. Nella scelta tra il “no” e il “sì” era in gioco, infatti, la libertà e la dignità di uomini e in ciò si sostanzia la strenua battaglia degli internati militari: come ha scritto Camilla Albini Bravo, “dicendo “sì” sarebbero sopravvissuti ma non sarebbero stati più se stessi e quindi sarebbero “morti nell’anima” pur rimanendo vivi, al contrario dicendo “no” avrebbero potuto morire di stenti, ma sarebbe pur sempre stata la loro morte, la morte di un uomo che può dire “io sono libero””.56 La vicenda di Francesco Arpini, pertanto, merita di essere tramandata e conosciuta da tutti, soprattutto dai nostri giovani studenti che oggi sanno poco o niente delle vicende dell’Italia nella seconda guerra mondiale, perché il sacrificio del Capitano Francesco Arpini, assieme a quello di tutti gli IMI che resistettero nei campi, ha contribuito alla rinascita morale e civile del nostro Paese e ha permesso di consegnare alle generazioni successive un’Italia libera, pacifica e democratica. E come in ogni sofferenza è nascosto, piccolo o grande, un “seme d’oro” (come ha scritto un altro internato militare, Tullio Odorizzi, all’inizio del suo libro di memorie),57 così anche dalla vicenda della prigionia di Francesco Arpini possiamo ricavare il “seme d’oro” da tramandare ai giovani: saper trasformare le sofferenze e gli ostacoli, anche quelli più duri, in argomenti di conforto e di forza morale e spirituale, e lottare sempre in difesa della propria libertà e dignità. E al riguardo, forse non la più bella ma la più significativa onorificenza, come un’ulteriore medaglia al valore, è, a nostro giudizio, la dichiarazione rilasciata al Capitano Francesco Arpini dal Ten. Col. Pietro Testa, comandante dei

56 Camilla Albini Bravo, Uno sguardo all’universo concentrazionario: analisi del comportamento umano in condizioni estreme, in Sopravvivere liberi, cit., p. 68. 57 Vd. Tullio Odorizzi, Un seme d’oro. Vicende d’un internato militare nei lager nazisti, Grafiche Artigianelli, Trento 1984, p. 5. L’Odorizzi ha tratto l’immagine del “seme d’oro”, che ha posto a titolo del suo libro, dal discorso che il Comandante Pietro Testa rivolse ai militari italiani il giorno della liberazione di Wietzendorf, il 17 aprile 1945 (vd. p. 7).

99 prigionieri italiani a Wietzendorf, con la quale ci piace concludere la nostra introduzione al diario Res tua agitur!!: “Dichiaro che il Cap. ARPINI Francesco 42535 si trovava in questo campo di concentramento all’atto della liberazione il 16.4.1945. Detto ufficiale è rimasto ininterrottamente nei campi di concentramento. Allo stato degli atti, risulta che egli non ha compiuto azioni manifestanti volontà di collaborazione e non ha comunque collaborato con Germania e con la Repubblica Sociale Italiana. Wietzendorf, 18 giugno 1945. IL COMANDANTE (Ten. Col. Pietro Testa)”.

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FRANCESCO ARPINI

Res tua agitur!! Diario di prigionia 1944-1945

a cura di Mario Carini

Nota preliminare

Pubblichiamo in questa sede la trascrizione del diario del Capitano (poi Tenente Colonnello) Francesco Arpini, che ci è pervenuta grazie alla cortese disponibilità del Sig. Carlo Arpini, suo figlio. Il diario è accompagnato da 65 note di chiarimento di personaggi, concetti e parole tedesche. La trascrizione del diario, così come le note, è stata compiuta dalla Signora Valeria, nuora di Francesco Arpini. Abbiamo conservato nel testo le 65 note originali che accompagnano il diario di Francesco Arpini, aggiungendo, per ulteriori chiarimenti e riscontri con altri memoriali e diari da noi esaminati, e a beneficio dei lettori, le nostre note. La numerazione delle note, perciò, è unica e comprende sia le nostre sia quelle della Sig.ra Valeria Arpini. Per distinguere le note della Sig.ra Arpini dalle nostre, abbiamo inserito le nostre note fra parentesi quadre [… ] e abbiamo indicato, fra parentesi tonde (… ), la numerazione originale delle note della Sig.ra Arpini nella trascrizione del manoscritto. Abbiamo inoltre distinto queste ultime note nel carattere tipografico, impiegando per esse il carattere Calibri corpo 9. Così, la seguente nota, che si legge a p. 44, significa che è la terza nota al testo e la seconda nella trascrizione del diario di Arpini: 3(Nota 2) Servizio Assistenza Internati Militari Italiani, costituito dall’ambasciata di Salò a Berlino, denominato poi SAI. Per quanto riguarda lo stile del diario di Francesco Arpini, abbiamo voluto rispettare il più possibile l’enunciato, non sempre scorrevole anche se ben comprensibile. Abbiamo apportato alcune lievi modifiche al testo, per una migliore intelligenza di esso, e corretto, laddove necessario, le parole latine e in lingua straniera. Le correzioni hanno però sempre rispettato – almeno così crediamo – il pensiero dell’autore. Le note di commento che abbiamo posto in calce al testo presentano citazioni, talvolta ampie, tratti da memoriali e diari di chi patì l’esperienza della prigionia in Germania, e talora negli stessi campi, a Sandbostel e a Wietzendorf. I numerosi passi citati permetteranno al lettore di avere utili e significativi riscontri alle annotazioni del Capitano Arpini, perché riguardano le medesime o analoghe

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situazioni ed episodi. Di seguito elenchiamo le abbreviazioni usate nelle note di commento (altri testi sono citati nelle note). Mario Carini

Abbreviazioni usate nelle note di commento:

AVAGLIANO-PALMIERI 2009 = Mario Avagliano – Marco Palmieri, Gli internati militari italiani. Diari e lettere dai lager nazisti 1943-1945, Einaudi, Torino 2009

BARTOLO COLALEO 2017 = Antonella Bartolo Colaleo, Matite sbriciolate. I militari italiani nei lager nazisti: un testimone, un album, una storia comune,

Edizioni Studio Gaidano & Matta, Chieri (To) 2017

BETTA 1992 = Bruno Betta, 3653 giorni tra umano e disumano, Temi Editrice,

Trento 1992

CARINI 2015 = Mario Carini, Una voce dal lager: il taccuino di Serafino Clementi (1943-1945), in “Quaderni del Liceo Orazio”, n.5, Liceo Classico Orazio, Roma

2015, pp.21-116

CARINI 2016 = Mario Carini, “Per far più lieti i tristi giorni…”: il diario della prigionia in Germania di Ugo d’Ormea, in “Quaderni del Liceo Orazio”, n.7,

Liceo Classico Orazio, Roma 2016, pp. 29-93

CAROCCI 1995 = Giampiero Carocci, Il campo degli ufficiali, Giunti, Firenze 1995

(I ed. 1954)

CAVALLO CONVERSANO 2013 = Lina Cavallo Conversano, Un soldato italiano – Storia di un Internato del Terzo Reich, Sulla rotta del sole – Giordano Editore,

Manduria 2013

CIVINELLI 1989 = Tomaso Civinelli, Perché? Per chi? Per che cosa? Diario di

prigionia in Germania di un italiano qualsiasi, Editrice Fortuna, Fano 1989

D'AMBROSIO 2007 = Giordano Bruno D'Ambrosio, Il coraggio e la fortuna,

Edizioni LiberEtà, Roma 2007

DE BERNART 1973 = Enzo De Bernart, Da Spalato a Wietzendorf 1943-1945.

Storia degli internati militari italiani, Mursia, Milano 1973

GUARESCHI 199118 = Giovannino Guareschi, Diario clandestino 1943-1945, 18 Rizzoli, Milano 1991

GUARESCHI 2011 rist. = Giovannino Guareschi, Il Grande Diario. Giovannino

cronista del Lager 1943-1945, Rizzoli, Milano 2011 rist.

LEONARDI 20122 = Orazio Leonardi, Sandbostel 1943. Anch’io ho detto no, a cura di Giorgio Mezzalira, Circolo Culturale ANPI di Bolzano, Bolzano 20122, testo

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leggibile in Internet all’indirizzo:

http://www.deportati.it/static/upl/qu/quaderno5_leonardi.pdf

MANOCCHI 2017 = Anellino Manocchi, 600 Volte NO! Memorie di un prigioniero di guerra, a cura di UPM Un Punto Macrobiotico – Associazione Nazionale

Partigiani d’Italia, Fermo 2017

MANONI 2017 = Luigi Manoni, Memorie di Prigionia di un IMI nei lager nazisti al

1943 al 1945, a cura di Gemma Manoni, Roma 2017

MELONI 2017 = Enrico Meloni, Del nostro caos e della nostra solitudine,

Mediascape – Edizioni ANRP, Roma 2017

ODORIZZI 1984 = Tullio Odorizzi, Un seme d’oro. Vicende d’un internato militare

nei lager nazisti, Grafiche Artigianelli, Trento 1984

DON PASA 1966 = Prof. Don Luigi Pasa, Tappe di un calvario 1943-1966, Tipografia Cafieri, Napoli 1966 (riedizione ampliata di Tappe di un calvario.

Memorie della prigionia, Editrice S.A.T., Vicenza 1947)

PELLIZZONI 1995 = Per non dimenticare: diario di guerra di Arnaldo Pellizzoni, Lissone 1995, testo leggibile sul sito dell’ANPI di Lissone – Sezione “Emilio Diligenti” all’indirizzo:

http://anpi-lissone.over-blog.com/article-35390833.html

PIASENTI 1977 = Paride Piasenti, Il lungo inverno dei Lager, A.N.E.I., Roma 1977

RESISTENZA SENZ'ARMI 1984 = Associazione Nazionale Ex Internati, Resistenza senz'armi. Un capitolo di storia italiana (1943-1945) dalle testimonianze di militari toscani internati nei lager nazisti, Le Monnier, Firenze

1984

STANO 1968 = Alberto Stano, Uno dei tanti. Diario di guerra e di prigionia 1942-

1945, Gastaldi Editore, Milano 1968

TAGLIASACCHI 1999 = Claudio Tagliasacchi, Prigionieri dimenticati. Internati

militari italiani nei campi di Hitler, Marsilio Editori, Venezia 1999

TESTA 1945 = Ten. Col. Pietro Testa, Wietzendorf. Rapporto sul Campo 83, Wietzendorf, 22 giugno 1945, testo leggibile on line all'indirizzo: www.storiaxxisecolo.it/internati/Wietzendorf.pdf (il testo è anche in Giovannino Guareschi, Il Grande Diario. Giovannino cronista del

Lager 1943-1945, Rizzoli, Milano 2011 rist., pp. 114-129)

ZUPO 2011 = Antonio e Giuseppe Zupo, Storia di IMI. Diario Ricettario Nostalgia e Ricordi di un Prigioniero Internato Militare Italiano – I.M.I. – in Germania durante la Seconda Guerra Mondiale, Herald Editore, Roma 2011

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Res tua agitur!!1

[2] Inane exspectaveris…

Invano avrai aspettato, o povero prigioniero, la fine dei tuoi tormenti. Invano la speranza della tua famiglia lontana ti assilla la mente e desideri la terra natale, la senti nel cuore, sale nella tua gola, in tutto il tuo essere? No! Poiché hai chi pensa ai tuoi così hai un’assistenza che tu non sogni neppure, ma fa i tuoi interessi. Il S.A.I.M.I.3, esso si interes- serà sicuramente di te ma ahimè desidera la tua adesione al partito repubblicano fascista. La desidera solo perché i tedeschi sono dietro di loro e sono essi a guidare le redini del carro, altrimenti non ne avrebbe bisogno. Ti assisterebbe anche se tu non aderissi, ma purtroppo non ha i mezzi e i tedeschi dicono sempre: “Morgen”.4 Quando mi daranno le sigarette di spettanza? dice il prigioniero. Rispondono gli alemanni “Morgen”. Quando si potranno mandare notizie in Italia? Dice il S.A.I.M.I.: i tedeschi non ci danno disposizioni. Quando ci daranno delle disposizioni adeguate al nostro grado secondo le regole dell’internazionalità? Ma! Dice il S.A.I.M.I. domani, i tedeschi hanno promesso Morgen. Si chiedono i pacchi della C.R.I. Niente da fare. La C.R.I. darebbe, ma i tedeschi non ci vogliono riconoscere come prigionieri… Ma allora?! Cosa siamo noi? Dei poveri Cristi? Dei loschi delinquenti solo degni del tavolaccio duro che ci hanno fornito per letto e del letame che ci hanno dato per pasto? Res tua agitur è una vana frase e i poveri malati se ne sono accorti. Res tua agitur è una strana frase che rassomiglia tristemente ad inane exspectaveris.

1 (Nota 1 della trascrizione del manoscritto) “Si tratta di cosa tua”. [2 Nel testo: aspectaveris.] 3 (Nota 2) Servizio Assistenza Internati Militari Italiani, costituito dall’ambasciata di Salò a Berlino, denominato poi SAI. 4 (Nota 3) “Domani.”

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Atropo recide….5 ovvero l’ora sopravveniente. L’alba quella mattina non tardò a venire, di lontano il cielo terso assumeva colorazioni di opale. La sentinella tedesca nel Tor6 batteva i piedi per riscaldarli. Un’ombra si avvicina cauta: «Bitte,7 Posten.»8 «Ja[9]» rispondeva la voce gutturale, qualcosa di giallo si intravedeva nella mano dell’ombra. «Haben sie Brot?»10 «Ja» rispondeva e prendeva la gialla moneta. La cauta ombra attendeva trepida. Due detonazioni si susseguirono veloci e l’ombra si piegò su se stessa. La sentinella continuò a battere i piedi contro la terra. Alle nove e trenta durante l’appello generale dei prigionieri, una voce sonora, calda, lentamente scandendo ritmicamente, come una triste canzone invernale le parole, disse: «Questa notte è stato assassinato il nostro compatriota, si faccia un minuto di silenzio.» 6.000 voci tacquero. Le allodole cantavano nella chiarità del cielo. Nell’azzurro il sole brillava ma quel maledetto freddo non cessava.[11]

5 (Nota 4) La più vecchia delle tre Parche, che troncava il filo della vita degli uomini, determinandone la fine. 6 (Nota 5) “Porta.” 7 (Nota 6) “Per favore.” 8 (Nota 7) “Sentinella.” [Posten in minuscolo, nel testo.] [9 Nel testo, Ya.] 10 (Nota 8) “Avete pane?” [Brot in minuscolo, nel testo.] [11 L’assassinio di questo sconosciuto prigioniero italiano è datato nel diario di Arpini al 18 maggio 1944. Poiché nel Grande Diario di Guareschi nulla di ciò risulta alla medesima data, e neppure in altri diari e memoriali di prigionieri a Sandbostel, si può pensare che l’Arpini abbia sbagliato la data o, più probabilmente, abbia riferito a questo giorno un episodio avvenuto in tempo anteriore. In effetti, le modalità dell’omicidio (la notte, l’incontro notturno, il dialogo in tedesco tra il prigioniero e la sentinella, lo scambio di denaro contro viveri, le due detonazioni, la sentinella che spara) ricordano quelle del Capitano Antonio Thun di Hohenstein, ucciso da una guardia tedesca a Sandbostel la notte del 7 aprile 1944. La morte del Capitano Thun a Sandbostel è ricordata in vari scritti di reduci, alla medesima data del 7 aprile 1944, tra cui il Grande Diario di Guareschi (p. 355: “Questa notte è stato ucciso il capitano Thun. Un minuto di raccoglimento”), il taccuino di Serafino Clementi (CARINI 2015, p. 70: “7.4.44. L’uccisione del cap. Thun [Principe di Hohenstein, cav. Di Malta…]), il diario di Ugo d’Ormea (CARINI 2016, p. 55: “Questa notte un capitano viene barbaramente ucciso per essersi avvicinato al

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Sandbostel 18.5.44[12]

reticolato.”), quello di Antonio Zupo (ZUPO 2011, p. 34: “Un fatto doloroso suc- cede nel campo il venerdì Santo. Un capitano italiano, il conte Tunn (sic), viene ucciso presso un reticolato da una sentinella tedesca.”), quello di Alberto Stano (STANO 1968, p. 163: “Questa notte, alle ore 3,30, abbiamo udito due colpi di moschetto. All’alba è stato trovato morto, presso i reticolati interni – che dividono cioè un’ala dall’altra del campo –, il Capitano, Comandante del I Battaglione. Era un nobile altoatesino e si era avvicinato ai reticolati forse per commerciare con i tedeschi stessi.”). Più ampi ragguagli si leggono memoriale di Tullio Odorizzi (ODORIZZI 1984, pp. 165-166), tra cui anche che sul corpo riverso del Thun, lasciato sul posto dalle guardie tedesche fino al mattino seguente, non vennero più ritrovati i due orologi e le sterline d’oro che il Capitano portava con sé per darli ai tedeschi in cambio di viveri. Il conte e cavaliere di Malta Antonio Thun di (o von) Hohenstein, appartenente ad una nobilissima famiglia trentina, nato in Boemia a Proeluc il 12 novembre 1911, ufficiale di cavalleria prigioniero a Sandbostel, rifiutò di arruolarsi nella Wehrmacht, preferendo mantenere la cittadinanza italiana, e probabilmente per questo motivo fu proditoriamente assassinato da una sentinella tedesca, con la quale aveva concordato un appuntamento notturno per scambiare suoi oggetti preziosi contro viveri per i militari prigionieri. Notizie più dettagliate sulla sua morte si leggono nella raccolta poetica di un ex deportato, Gino Bertolini, Liriche dell’esilio, Unione Tipografica Editrice Ferrari, Occella e C., Alessandria 19463, p. 43. All’eroico Capitano Thun Gino Bertolini volle dedicare una delle sue liriche, intitolata La Croce di Malta, di cui riportiamo i primi versi (in Liriche dall’esilio, cit., p. 22): “Il fiero tuo sguardo ricordo, / Conte di Hohenstein, / e l’orecchio ancor m’accarezza / la voce ne la qual s’addolciva / l’aspra straniera favella, / allorché ne le grigie mattine / sferzava il nevischio i volti smagriti / e l’acqua fangosa inzuppava / le scarpe gualcite.” Altre notizie sul Capitano Antonio Thun sono nel memoriale di don Luigi Pasa, cappellano a Sandbostel e a Wietzendorf, in un capitolo significativamente intitolato Il delitto di Caino (cap. XIX). Don Pasa rievoca la statura morale, la generosità (gli oggetti preziosi, che il Thun dava alle guardie in cambio di cibo per i prigionieri, erano suoi personali, non di altri), la nobiltà d’animo e i sentimenti patriottici che animarono Antonio Thun e che lo resero caro ai compagni di prigionia (DON PASA 19663, pp. 142-143). Altre notizie sul Capitano Antonio Thun di Hohenstein si leggono sul sito “Dimenticati di Stato. I Caduti sepolti nei cimiteri militari italiani in Germania, Austria e Polonia”, a cura di Roberto Zamboni, all’indirizzo: www.dimenticatidistato.com] [12 Il diario del Capitano Francesco Arpini si apre con questo brano datato Sandbostel, uno dei luoghi di prigionia dell’autore. Sandbostel, grande campo di internamento per i militari, vicino Brema, accolse dal 1939 al 1945 un milione di prigionieri di 46 nazioni, 50.000 dei quali morirono di stenti, malattie o uccisi. Dal sito www.radio-caterina.org abbiamo appreso che il campo appartiene a proprietari

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Reticolato

privati e che nel 1986 ne fu cacciata una troupe televisiva italiana (sito aggiornato al 2008). Il 19 settembre 1943 erano presenti al campo, secondo Giovannino Guareschi, 16.000 soldati e 300 ufficiali italiani, solennemente adunati per ascoltare gli inviti del console italiano di Amburgo e dello squadrista Busetti a collaborare con le SS (aderirono due tenenti e trenta soldati: vd. GUARESCHI 2011, p. 229). Citiamo la descrizione di Sandbostel dai ricordi di don Luigi Pasa, che vi fu cappellano dal settembre 1943 al marzo 1945 (DON PASA 1966, p. 35): “Lo Stalag X B, giace in una grande brughiera di Sandbostel, piccolo abitato fra Amburgo e Brema. Una quindicina di torrette in legno, quasi rassomiglianti a quelle dei pozzi di petrolio, con le sentinelle pronte a sparare se uno sgarra minimamente, segna all'intorno il perimetro del campo, delimitato da una serie di reticolati.” Più poetica la descrizione di Bruno Betta, in Il Lager (in PIASENTI 1977, p. 87), che nota la malinconica bellezza del paesaggio: “A Sandbostel, presso Bremervörde, il Lager X B era in una landa ora fiorita d’erica ora lucida e desolata, triste. Gli stornelli in primavera a stormi si posavano azzurri e ciarlieri sui reticolati e svolazzavano qua e là. E sul far dell'estate passavano al largo le famiglie dei caprioli: avanti il maschio, e dietro la femmina col piccolo ancora picchiettato di bianco. D'autunno s'alzava la nebbia, piano piano, dal suolo, bianchissima, e crescendo, sommergeva lentamente, ovunque, le figure dei prigionieri, lambendo prima i piedi, giungendo poi a mezzo busto, lasciando emergere solo la testa, ingoiando infine anche questa. C'era un gruppetto d'alberi là, verso est, presso due case dal tetto rosso: era un punto che guardavamo spesso, come il centro d'attrazione del quadro. Era carico di emozioni e di sentimenti. E c'era anche una stradicciola nella landa. Vi passava qualche pastore col gregge, qualche donna in bicicletta. Simboli della vita che continuava. Stagliati all'orizzonte, al mattino, spiccavano i traini umani dei russi, trascinanti i carri botte dello sgombero fognature... “Volga, Volga!...” sembrava di sentir cantare, quasi rivivendo un vecchio spettacolo cinematografico ambientato in Siberia.” A Sandbostel, Stalag 10 B, le baracche non avevano all'interno né tavoli né panche, ma solo tavolacci di legno a tre piani con cunicoli da sei giacigli per scom- parto. I reclusi dovevano mangiare seduti per terra (testimonianza di Leonetto Amadei, Io capobaracca, in RESISTENZA SENZ'ARMI 1984, pp. 219-220). Ricor- da in proposito don Luigi Pasa: “Nella mia baracca i «castelli» erano a tre posti; nelle baracche 25, 27, 29 si stava ancor peggio perché chi voleva distendersi, o dormire, doveva ficcarsi entro certi scomparti, chiamati subito «conigliere», che facevano assomigliare l'intera baracca al colombario del cimitero. Se noi eravamo in 250, nelle baracche suddette gli alloggiati salivano a quasi 300.” (DON PASA 1966, p. 98). “Loculi mortuari” chiama, appunto, Serafino Clementi i tavolacci delle baracche di Sandbstel, ove erano costretti a distendersi i prigionieri (in CARINI 2015, p. 67).]

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Il filo spinato che duplice cingeva il nostro campo, aveva il pregio di essere resistente ed intoccabile in virtù delle mitragliatrici piazzate in sua difesa, un uomo all’esterno avrebbe veduto tra i quadretti formati dal reticolato metallico, una massa di uomini muoversi in tutti i sensi senza una meta. Noi vedevamo invece una libera piana verde per l’orzo nascente d’un verde un po’ pallido, ed un orizzonte di barche. Tristemente ogni sera mi avvicinavo ad esso e guardavo fuori, quella libera aria, ed invidiavo le cinguettanti allodole che cantavano libere nel cielo, sulle ali del vento. Punte acuminate, ancor più spinose della stessa realtà metallica si ergevano irte a contrastare quella libertà. Erano esse la stessa volontà di ciascun prigioniero che non voleva scavalcare quella barriera di partito che significava adesione al nuovo ordine impo- sto dal grande Reich dopo l’armistizio e naturalmente ciascuno da solo ne sosteneva il peso delle inevitabili ritorsioni e giri di chiave.[13] Il reticolato aveva diviso gli animi ed un astio lentamente penetrava nel cuore e nella mente di ognuno contro coloro che, casomai per fame, avevano creduto opportuno passare dall’altra parte. Un astio che lentamente si tramutava in odio sordo. L’altra parte in maggioranza si era buttata in braccio ai tedeschi senza ideali, senza speranza. Avevano, dicevano loro, “il coraggio di prendere una decisione”. In realtà non era forse la mancanza di coraggio o la paura dei sacrifici venienti e dall’oscura e minacciosa vita del prigioniero? Reticolato ideale del sacrificio conosciuto e sopportato. Reticolato spinoso e lacerante a cui è aggrappata una rosa rossa. Sandbostel 20.5.1944

[13 Si avverte in molti scritti di ex internati il profondo trauma che rappresenta l’attraversamento del cancello del campo, al termine del lungo viaggio in ferrovia. Ugo d’Ormea lo segna tra le date del suo memoriale, al 13 novembre 1943, quando varca l’ingresso del campo di Siedlce in Polonia (in CARINI 2016, pp. 53-54): “Alle ore 15 circa si sorpassa l’entrata principale del “Kriegsgefangenen Lager” e un grande cancello a ferri spinati si chiude dietro di noi. Con oggi si dà inizio la mia prigionia.” Applicando l’analisi di Erving Goffman (1922-1982) alle istituzioni totali, si può ben riconoscere che il varcare la barriera che separa dal mondo civile il mondo chiuso e rigidamente organizzato del Lager è il primo passo verso una serie di mortificazioni e umiliazioni finalizzate alla permanente riduzione del sé (vd. Erving Goffman, Asylums. Le istituzioni totali: i meccanismi dell’esclusione e della violenza, trad. di Franca Basaglia, Einaudi, Torino 2016 rist., pp. 44-45).]

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14 Volga-Volga

Andavano lentamente i tre carri cisterna trainati da sei coppie di individui dal viso mongoloide. Andavano avanti faticosamente e le larghe e pesanti ruote lasciavano dietro di loro due tracce scure e profonde sulla sabbia del lager. Sembravano un’espressione del destino umano quei complessi “carro-uomini” e lentamente come perni di vibratori alterni di una frequenza ondulatoria, sonora, lontana e nostal- gica si perdevano ad uno ad uno nella bruma dell’altro reticolato. Erano quelli che provvedevano allo scarico dei pozzi neri. Travasava il mezzo meccanico il liquido, scuro e nauseabondo nella cisterna cilindrica in legno o in metallo ed il lavoro ritmico e continuo di tre prigionieri alimentava la bocca nera che ingoiava il vomito del tubo metallico, mentre un quarto essere dal viso e dalla zimarra con larghe e strane macchie scure, riparava con vecchi stracci, gli sgocciolii della massa liquida e la mano inguantata puliva la goccia che cadeva dal vaso. Le sei coppie trascinavano i piedi e, premendo ritmicamente il peso del corpo sui tiranti al cui punto centrale era fissata la catena traente, facevano avanzare il carro. Due uomini lo spingevano dal di dietro accavallando, nello sforzo della spinta, le gambe e premendo col torace e con le braccia mentre il loro viso si accalcava alla parete, velata da una untuosa patina gocciolante. Un liquido colorato tra il giallo e il nero cadeva con uno stillicidio continuo dallo stoppaccio di legno di pino che chiudeva con stracci logori il foro d’uscita, e bagnava i piedi degli uomini; un terzo aiutava il movimento ondulatorio di spinta in avanti, sgomitando col suo magro peso sugli assi della ruota. «Haben sie Brot[15]?» diceva una voce lì vicina con cattiva cadenza tedesca. «Ja!» rispondeva la bestia «Zehn Lager Mark.»16 Va bene! E alcuni bigliettini aventi valore di marchi passavano al russo che furtivamente tirava fuori dai calzoni foderati, una

14 (Nota 9) È il termine che comprende, in unica unità, carri botte e uomini che fanno da cavalli, usati per lo sgombero dei pozzi neri. [15 Nel testo, Brot in minuscolo.] 16 (Nota 10) “Marchi Campo”, avrebbero dovuto costituire, a norma della Conven- zione Internazionale, il mezzo di pagamento per oggetti o viveri da acquistare presso un ipotetico Spaccio del Campo.

109 fetta di pane e nascostamente il giro obliquo degli occhi seguiva la sentinella tedesca col lungo fucile, la passava al richiedente che con mossa rapida fuggiva un poco curvo, con una mano premendo sotto l’ascella. Il traino seguiva lento il suo cammino e sembrava il destino.[17]

[17 Sul carro cisterna che raccoglieva i liquami delle latrine a Sandbostel, confronta quest’altra descrizione di Claudio Tagliasacchi (TAGLIASACCHI 1999, p. 69): “C’era poi il carro «M» che passava tre-quattro volte al giorno: una grande botte ovale lunga e relativamente bassa con un’apertura a torretta nel centro, montata su quattro ruote che terminava con un lungo timone su cui appoggiavano, tirandola, sei o sette prigionieri russi. Erano quasi tutti mongoli, sopravvissuti a una durissima prigionia di quattro o cinque anni. Vestiti estate e inverno di pesanti giacche trapuntate che indossavano all’atto della loro cattura, sembravano non sentire né il caldo né il freddo. Sostavano, calavano nella fossa il bugliolo, lo riempivano e lo travasavano nella botte. Non ho mai visto persone più sporche o puzzolenti. Credo che non si lavassero mai e le loro mani e i loro indumenti mostravano chiaramente il loro mestiere. Giravano il nostro campo e quello accanto dei prigionieri Alleati, svuotando poi il carro all’esterno del lager. Erano abbastanza indipendenti perché poche giardie osavano affrontare il loro odore avvicinandosi a meno di tre o quattro metri di distanza. Non dicevano una parola e continuavano come pacifici animali, avanti e indietro tutta la giornata, sempre più puzzolenti, sempre più sporchi. Ma non erano stupidi ed erano diventati un canale prezioso per gli scambi con l’esterno.” Aggiungiamo anche le considerazioni di Tullio Odorizzi, internato a Sandbostel, (ODORIZZI 1984, pp. 93-94): “Al campo lo spettacolo che mortifica in me il sentimento ed il rispetto della dignità umana non è lo squallore degli alloggiamenti nelle baracche; né la nostra biancheria sporca, né le nostre divise quasi irriconoscibili (…). Lo spettacolo che mi turba, invece, è la vista dei prigionieri russi aggiogati ai carri con i quali viene asportata dal campo la materia dei pozzi neri. Son carri a ruote pesanti; sull’affusto il recipiente ha la forma di un lungo cilindro (i prigionieri francesi lo chiamano «le canon de la merde»); dal lungo timone si diramano dieci attacchi ai quali si aggiogano dieci uomini, a coppie, come i buoi; quanti sono necessari per trainare il carro. Quando le ruote affondano nella sabbia la fatica è molta e vedi questi corpi umani curvi in avanti, tesi nello sforzo bestiale. Mi interdico sempre di guardarli in faccia questi infelici: non solo perché ho rossore, ma soprattutto perché quando, qualche volta, li guardo, i loro volti destano in me un’impressione difficilmente traducibile, mista di pena, di sgomento, forse di ribrezzo. Sono volti dai quali è stata cancellata ogni espressione umana: fisionomie abolite. Quale desolazione in quegli occhi spenti, quale ottusità! Che cosa li ha ridotti in questo stato? La lunga prigionia, l’assuefazione al loro triste lavoro? O, forse, l’assenza d’una fede, d’un pensiero libero e franco, la lenta demolizione interiore subita in tanti anni di materialismo?”].

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… E pioveva gelidamente. Sandbostel 21.5.1944

Sorella fame

Una fame non dolorosa, una di quelle fami che non danno crampi allo stomaco e non fanno né piangere né ridere per lo spasimo, ecco la sorella fame del prigioniero. È una cosa più aristocratica. Si fa sentire prima di aver mangiato, dopo aver consumato il rancio, continuamente, sempre manifestandosi con un certo languore insistente. Con un richiedente desiderio di masticare, di ingoiare. Sono le cellule che chiedono, sono le budella, lo stomaco, i denti, la bocca, tutto l’essere insomma che chiede pane, pane, pane… Tutto può essere tramutato in roba commestibile, tutto diventa un aperitivo per una simile fame. E passano i giorni uno dietro l’altro, e si somigliano le stagioni ed essa non si quieta mai, mai, senza speranza. E lo stomaco si riempie di acqua e di patate ed essa non se ne va. La bocca ingoia tutto insieme e patate e pane ed essa resiste. L’esofago è colmo fino al gozzo di rape secche ed un’acquolina continua invita la gola vuota ad ingoiare ancora. Il pasto viene suddiviso in sottopasti e la tortura aumenta… fame… fame. Maledetta fame! Quanta margarina vorresti? E quanta sbobba e quanto pane per calmare le tue brame? Che cosa mai devono fare allora i poveri tedeschi, oltre ai sacrifici che già facevano per mantenerti.[18]

[18 La fame fu il grande avversario degli internati militari. Lo scarso cibo distribuito nel campo (la “sbobba” o “sbobbetta”, com’è chiamata in molti memoriali), consistente spesso in una brodaglia di rape o crauti e un pezzetto di pane con margarina e poco altro, non poteva bastare al fabbisogno calorico dei prigionieri, molti dei quali morirono di stenti e di malattie o uccisi dalle sentinelle mentre cercavano di recuperare fra i reticolati merci e generi commestibili scambiati con i compagni di prigionia. Ci si riduceva a dar la caccia ai topi, pur di placare i morsi della fame: la terribile penuria li rendeva, con il ricorso agli espedienti culinari, addirittura gustosi al palato dei prigionieri. Così ricorda Claudio Tagliasacchi, sottotenente prigioniero a Siedlce e poi a Sandbostel e in altri Lager (TAGLIA- SACCHI 1999, p. 51): “Fui più fortunato con un topo (N.B.: il prigioniero aveva tentato poco prima di lessare le cornacchie): era piccolo e lo presi facilmente con la solita coperta. Fra l’interesse e i consigli invidiosi di tutti, riuscii a spellarlo. La carne era bella, di un rosa pallido. Rimaneva il problema della cottura: lesso –

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Ah! esigenti Kriegsgefangene?19 Hommes quarante – Chevaux huits.20 Questa bianca scritta riluceva sulle pareti in legno ed in ferro del carro bestiame dove ci insaccavamo dopo averci prima contati per 50 o 60. Un viaggio in tali carri comportava una forza di resistenza abbastanza elevata ed in verità per poter rimanere una decina di giorni in uno qualsiasi di essi nel numero di 50 o 60 senza poter mai uscire nemmeno per fare solamente i propri bisogni occorreva essere ben addestrati, e i tedeschi, bisogna riconoscerlo, in tutti i nostri viaggi, ci offrirono questa possibilità di collaudare la nostra vigoria fisica. Ogni secondo il parere unanime – non avrebbe reso; arrosto era impossibile cuocerlo. Mi ricordai allora del cappellano che aveva un po’ di vino che i tedeschi gli passavano per dir messa. Lo commossi e ne ottenni poco più di un cucchiaio: lo mescolai nella gavetta con un po’ di tisana, vi misi il topolino e posi tutto sulla stufa lasciandolo l’intera giornata. Alla sera tra l’invidia generale lo mangiai dividendolo con Dado. Era davvero mica male! Ma i topi non si fecero più vedere e nonostante tutta la baracca gli desse la caccia, unendosi in cooperativa non ci fu più verso di trovarne uno.” Anche Ugo d’Ormea, prigioniero a Siedlce, annota la medesima esperienza al 26 febbraio 1944 (in CARINI 2016, p. 55): “26 – Ho mangiato per prima volta una coscetta di… topo. Condita con margarina e cipolle è gustosa. O sarà la fame che la farà gustosa?”. L’inverno del 1944 fu a Sandbostel assai rigido: Serafino Clementi ricorda nel suo diario, all’8 dicembre 1944, che le razioni giornaliere davano appena 1600 calorie, appena sufficienti per mantenersi in vita, secondo il maggiore medico del campo: si passava perciò molto tempo a letto, se la disciplina lo permetteva, per risparmiare più calorie possibili (CARINI 2015, pp. 97 e 98). Si sopperiva poi alle necessità della fame acquistando a caro prezzo viveri, scarsi e talvolta introvabili, di cui era incredibilmente fornito il “mercato nero” che a Sandbostel, come negli altri campi di prigionia, comunque funzionava. A Sandbostel il mercato nero (ufficialmente vietato) era gestito anche dagli ufficiali italiani, che acquistavano merci dai tedeschi e le rivendevano a prezzi di molto maggiorati, come informa Antonio Zupo (ZUPO 2011, p. 31): un’attività lucrosa ma che screditava gli ufficiali di fronte ai soldati: “Ho potuto constatare nei vari campi come il 90% degli ufficiali italiani siano ben forniti di soldi. Lucro indegno di speculazioni fatte nella regione balcanica. Molti parlano di invio di pacchi a casa, di pelli, oggetti vari, tonno all’olio, pasta, riso, marmellate, liquori, acquistati (dicono loro) alle sussistenze militari. Ed i soldati soffrivano la fame! Uno si vanta d’avere regalato alla moglie una cinta formata da 25 sterline, frutto di mercato nero! Tutti hanno rubato, hanno speculato ed ora i soldati, che hanno sofferto e che conoscono il malfatto degli ufficiali, ci trattano da pari a pari.”] 19 (Nota 11) “Prigionieri di guerra”. [Nel testo, in minuscolo.] 20 (Nota 12) “Uomini quaranta, cavalli otto”, scritta che appariva sui carri bestiame.

112 carro aveva come sottofondo per poterci proteggere dal freddo uno strato di paglia o di torba (alcune volte esistevano delle panche di legno in senso trasversale); su questi strati in genere si compivano tutte le operazioni della giornata, compresa quella dei propri bisogni (al quale scopo gli alemanni ci fornirono di un recipiente in legno che se l’avessimo usato avrebbe oltre che appestato ogni cosa, perduto liquido d’ogni parte). In generale quelle cose si facevano su un pezzo di carta ricoperto di paglia o di torba che poi si gettava attraverso il finestrino, che oltre a tutto, dava luce al compartimento pur avendo una lunghezza di soli 90 centimetri e pur essendo sbarrato nei due sensi da un reticolato formato da filo spinato e da tavole di legno.[21] Case diroccate dalla

[21 L’esperienza del viaggio sul treno piombato rappresenta la prima tappa dell’itinerario, un’autentica via crucis, dei militari italiani verso i campi in Germania. Erano in genere carri bestiame, della capacità di 40 uomini e 8 cavalli, ma i tedeschi li stipavano di prigionieri, che erano costretti a viaggiare gli uni addossati agli altri, in condizioni di insopportabile disagio. L’oscurità era quasi completa, la luce veniva soltanto dalle fessure fra le travi che costituivano le pareti dei vagoni e da un finestrino in alto, che spesso era chiuso col filo spinato. Ricorda Arnaldo Pellizzoni, sergente dell’8° Reggimento Fanteria Cuneo, di stanza sull’isola di Tinos nel Mar Egeo (ove viene catturato dai tedeschi): “1 Ottobre 1943: vengo caricato su un vagone ferroviario con la scritta “Hommes 40, chevaux 8”; 40 uomini in un carro merci, del tipo usato per il trasporto di cavalli. I trasporti ferroviari venivano effettuati sfruttando lo spazio disponibile sino all’estremo limite delle capacità di carico.” (PELLIZZONI 1995). Il limite di capienza dei vagoni, di 40 uomini, veniva spesso superato. Il vagone su cui fece il viaggio Serafino Clementi, sottotenente di fanteria catturato a Patrasso, conteneva 45 uomini più i bagagli (CARINI 2015, p. 51). Il carro bestiame di Giovannino Guareschi, partito da Sandbostel per il campo di Czestochowa, in Polonia, il 23 settembre 1943 (lo scrittore ritornerà a Sandbostel dopo un’odissea nei campi di mezza Europa, il 2 aprile 1944), conteneva “cavalli 8, ufficiali italiani 50, cani 1” (GUARESCHI 2011, p. 231). Non era raro che alle stazioni la pietà dei civili, in attesa sulle banchine, sopperisse in qualche maniera alla penuria di viveri dei deportati. Durante la sosta alla stazione ungherese di Újvidéck e a quella polacca di Starachowice (rispet- tivamente il 27 settembre e il 16 ottobre 1943) Serafino Clementi ricevette da alcune ragazze viveri, panini e mele (CARINI 2015, pp. 53 e 59). Più doloroso il ricordo di Orazio Leonardi, soldato del 232° Reggimento Fanteria di Bolzano, in attesa di partire sul carro merci alla stazione di Bolzano il 10 settembre 1943 (LEONARDI 2012, p. 26): “Arrivati in stazione ci fanno salire su carri merci: trenta soldati per vagone. Nell’attesa della partenza, persone comuni vengono a manifestarci solidarietà, buttandoci tutto ciò che hanno: cibo e perfino indumenti, nella speranza

113 vecchiaia e vuote come quelle dei turchi, tutte le capitali dell’Europa centro orientale, villaggi lindi e puliti, gelide pianure scorrevano, davanti a quel finestrino come fotogrammi di un film fantastico.[22] Città di poterci rivestire in borghese. Illusione: la scorta tedesca allontana con vigore e cattiveria i contatti dei civili, che si accalcano davanti ai vagoni per creare confusione e poterci dare la possibilità di scappare.” Altre significative testimonianze sulle sofferenze e le vessazioni, che nei treni piombati anticipavano ai prigionieri la durissima realtà dei lager, sono i ricordi di Carmelo Cappuccio (in PIASENTI 1977, p. 93: “Una lunga tradotta, insaccata di ufficiali e soldati: ogni vagone bestiame è chiuso, stipato di uomini, i rettangoli dei finestrini hanno già dinanzi il filo spinato.”), di Massimo Franch (in AVAGLIANO-PALMIERI 2009, p. 34: “In tutto il viaggio ho notato pochissimi gesti ostili, eccettuati, naturalmente, gli urli, gli spintoni ed anche i pedatoni (uno l’ho visto dare ad un colonnello che non riusciva ad aggrapparsi abbastanza in fretta sul carro dei nostri guardiani.” ), di Antonio Zupo (ZUPO 2011, p. 24): “Giorno 12 dicembre (1943) si parte per ignota destinazione. Alcuni dicono si vada nelle vicinanze di Vienna altri in Polonia. È il viaggio della fame. Ci avevano dato viveri per tre giorni e cioè ¾ di pagnotta (un kg. circa) e 9 formaggini tipo Emmental. Ci dirigiamo verso ovest come possiamo rilevare con una bussola. Siamo in 50, fra soldati ed ufficiali, in ogni carro bestiame. Lo spazio è ristretto, non più di mezzo metro quadrato per ciascuno. Alcuni seduti altri in piedi, chiusi in questo vagone fortunatamente riscaldato, quando ci danno il carbone, da una stufa. Alle sofferenze dello stomaco si aggiungono quelle per dolori dovuti alla posizione sempre eguale degli arti inferiori. Si dorme seduti quando si può e si respira affannosamente per l’acido carbonico della stufa.” Le parole del Tenente Colonnello Pietro Testa nel suo Rapporto sul Campo 83 (Wietzendorf), scritto per denunciare i crimini di guerra compiuti dai tedeschi nel campo di Wietzendorf, ben riassumono l’effettiva realtà dei viaggi di trasferimento degli IMI nei Lager (TESTA 1945, p. 37): “Inoltre io mi sono limitato alla vita del campo di Wietzendorf. I viaggi di trasferimento in carri bestiame meriterebbero un capitolo a parte per il trasferimento bestiale usato agli ufficiali italiani viaggianti fino a 60 per vagone, senza mangiare, senza scarpe, senza coperte, senza modo di fare i bisogni corporali, spesso privi di scarpe, cinghie, bretelle per impedire i tentativi di fuga.”] [22 Osservare dal finestrino il bel paesaggio multicolore, non ancora toccato dai disastri della guerra, era l’unica forma di evasione dall’angoscioso presente di un viaggio verso una meta oscura e ignota. Con particolare sensibilità e gusto per il cromatismo il prigioniero Serafino Clementi così rappresenta il succedersi di quadretti bucolici durante il viaggio verso il Lager (in CARINI 2015, p. 53): “27.9 – Alba grigia… La lunga galleria. Il Danubio e… Strauss. Si entra in Ungheria. Perché? Dicerie… Újvidéck. La cittadina… stabilimenti, villette, campi di calcio… la stazione… le bionde ungheresi… il saluto a casa… Manifestazioni ungheresi e i

114 bombardate che la guerra aveva ridotto in cenere, esempi di egoismo e di generosità formavano le scene di ogni giorno. E il finestrino era l’anima e la vita. E qualche volta un tozzo di pane passava attraverso quel reticolato donato da qualche uomo di cuore. Raus,23 raus, gridavano le sentinelle e puntavano il fucile e noi tira- vamo su i pantaloni e via sul treno triste ammassandoci alle portiere. Scendevamo infatti qualche volta dopo 48 ore senza aver avuto né una goccia d’acqua né un tozzo di pane e correvamo come convalescenti ai bordi di qualche scarpata, sotto qualche ponte, o fra i binari di acciaio lucido e più in là il riso argentino di donna risuonava nel vedere quello spettacolo oppure qualche muto crocchio guardava e il riso si perdeva nel nulla come un insulto.[24] Carro bestiame pieno di lurido fetore dove la notte 50 o 60 corpi accavallati uno sull’altro con le gambe e le braccia aggrovigliate cercavano di dormicchiare, al lume di vecchi mozziconi di candela, invano perché il corpo del compagno opprimeva il compagno, essendo l’altro l’opprimente. Carro bestiame che la fame di 10 giorni di digiuno e di freddo faceva odiare come il leone la gabbia. Diceva il guardiano rosso di faccia e torvo negli occhi, ridendo e puntando il fucile “Badogliani” ed era in senso di scherno e di riso. Diceva l’alemanno: «Volete brot? Morgen», se ce lo daranno, ed era amarezza. Rosso come un gambero piccoli omaggi: le due studentesse… La campagna ubertosa. Terra grassa, nera: i prati ondulati: le mucche bianche a macchie di caffè-latte – le oche… i mucchi di fieno e di granturco… i pesanti cavalli… pianura e pianura… poche case… Le belle stazioncine: le eleganti locomotive (alte, slanciate, dagli ottoni lucenti).”] 23 (Nota 13) “Fuori”. [24 Tra i non lievi disagi del viaggio sui carri bestiame, per i deportati vi era il problema di ovviare ai propri bisogni, e ciò dava occasione di ulteriori angherie ai custodi tedeschi. Ricorda l'umiliante esperienza il signor Claudio S., ex internato militare, in una intervista registrata sul sito “Zwangsarbeit 1939-1945 – Erinne- rungen und Geschichte” (all'indirizzo: www.zwangsarbeit-archiv.de.): “Allora, ci caricano sul treno e ci portano via. Arriviamo in Germania e capiamo tutto, qual era il nostro futuro. Ebbene, dovevamo fare i nostri bisogni, i bisogni si facevano a comando. Quindi, tutti giù in piena stazione, tutti giù a comando a calarsi le brache col sedere rivolto alla popolazione tedesca. E i bambini, questi ragazzini biondi, ci tiravano i sassi e ci dicevano «Scheisse (trad. “merda”), Badoglio!». E noi avevamo tre minuti per fare tutte le nostre cose.”]

115 rispondeva alla richiesta del gabinet e wasser25: «Non c’è» ed era dolore. O belle città viste attraverso quei panorami fuggevoli, o case linde e pulite, quante volte desiderammo la vostra ospitalità. Belgrado sotto il sole, il Danubio al chiaro di luna, Vienna sotto la nebbia, l’Oder gelato, la Vistola e Varsavia si perdevano nell’indaco del crepuscolo, Berlino in rovina, Brema. Ahimè, come passavate veloci tristi radure tra i boschi di betulle e larici mentre un coro sommesso sussurrava… Bella Italia… amate sponde… e razzolavamo nella torba per non sentire la durezza del tavolaccio, per non sentire il freddo dalle crepe del legno.

Avviso pubblicitario

Scopo salvaguardare integrità fisica, pseudo ufficiale Superiore, cedo stellette d’ordinanza per la durata della prigionia. (Quella morale ?!?) Rivolgersi a Ministero della guerra, ufficio revisioni gradi ufficiali M.V.S.N. Roma26 (N.B. gli ufficiali della M.V.S.N. avevano aderito per la repubblica di Salò.) Cartello apparso sulla parete dell’Abort27 il 3 agosto 1944.

Tifo petecchiale 4 Settembre 1944

Giorno pieno di grigio e di tristezza. Otto casi di tifo petecchiale si scoprono alla visita medica. I tedeschi chiudono i cancelli e ci abbandonano completamente a noi stessi mettendoci in quarantena.[28]

25 (Nota 14) “Acqua”. 26 (Nota 15) Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale, costituita nel gennaio ’23. 27 (Nota 16) Gabinetto. [Nel testo, Abort in minuscolo.] [28 L'epidemia di tifo trova riscontro in Guareschi, alla stessa data (GUARESCHI 2011 rist., ibid.): “Otto casi di tifo petecchiale? Grande impressione.” E poi, al successivo 5 settembre, è annotato l'isolamento del campo: “Siamo isolati: per molti giorni nessun tedesco entrerà in campo né nessuno o niente entrerà o uscirà eccetto la morte, naturalmente. Poi si vedrà.” Notizie più dettagliate nel memoriale di don Luigi Pasa, anch'egli internato a Sandbostel (DON PASA 1966, p. 137): “Nel complesso, con tanta gente ivi riunita e proveniente da varie parti, epidemie gravissime non se n'ebbe. Avemmo sì il tifo petecchiale, ma, per grazia di Dio, fra g'italiani non si generalizzò. I primi casi si manifestarono il 4 settembre. I colpiti dovevano venire subito isolati. Dove, se non c'era posto?... Decidemmo di trasferire

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C’è all’inizio fra di noi una specie di panico poi subito misure energiche e repressive. Si moltiplicano le forze e si dichiara battaglia al pidocchio. Un gran polverone misto di fumo sale al cielo e sotto uomini che indaffarati sbattono, raspano, bruciano presi di un’attività sorprendente. Monti di scatole vecchie e di stracci si accumulano nei letamai e io riesco a prendere sulle mie spalle più polvere in un’ora che in tutta la mia esistenza di prigioniero. Il terrore della morte è vivo più che mai in questi ultimi giorni di guerra perduta per i tedeschi e ognuno vuole salvaguardarsi. Non si sa mai quello che può succedere se scoppia un’epidemia. E pensare che i tedeschi non hanno saputo far altro che lasciarci soli e liberi di ascoltare la radio inglese senza paura.[29]

30 Il capitano Pinkel nella cappella gli alloggiati della baracca 85, e, in questa, riunire gli infetti. I tedeschi, saputo del tifo, non si fecero più vedere in mezzo a noi, in modo che noi stessi dovemmo decidere, curare, insomma arrangiarci.” Il sottotenente Antonio Zupo annota i primi casi di tifo petecchiale al 6 agosto 1944 (ZUPO 2011, p.36): “Per il campo si sparge la voce che vi sono due casi di tifo petecchiale . I due ufficiali che sono colpiti da tale malattia si trovano all'ospedale.”] [29 Secondo Claudio Tagliasacchi, autore di un memoriale sulla sua prigionia nei Lager, tra cui Sandbostel, non si sarebbe trattato di vero e proprio tifo petecchiale, giacché i prigionieri erano cosparsi di pidocchi e se si fosse trattato davvero di tifo vi sarebbe stata un’ecatombe. Solo due invece furono le vittime e per altre cause (TAGLIASACCHI 1999, p. 80). Guareschi registra nel periodo della quarantena (4 settembre – 1° ottobre 1944) soltanto otto casi di presunto tifo petecchiale tra gli italiani (GUARESCHI 2011, p. 412).] 30 (Nota 17) Comandante del lager. Documenti consultati dicono che fece una brutta fine; dopo la liberazione, i russi aggiogarono Pinkel al carro M (denominato anche Volga-Volga), lo calarono più volte nella fogna ed infine lo impiccarono. [Il capitano Pinkel si rese ben noto tra i prigionieri di Sandbostel per la sua disumana e ottusa crudeltà. Il Clementi nel suo diario lo chiama “Bulldog” (CARINI 2015, p. 96), Guareschi “Bau Bau” (lo ricorda più volte nel suo Grande Diario e ne menziona l’indecoroso castigo che patì dai soldati russi: GUARESCHI 2011 rist., p. 381, 395 e 519). Anche il cappellano don Luigi Pasa nota la disciplina inumana che regnava a Sandbostel (DON PASA 1966, p. 99): “La disciplina, più che ferrea, era inumana. Il cap.no Pinghel (ossia Pinkel) verrà sempre ricordato per la sua crudeltà verso di noi.” Anche il sottotenente Antonio Zupo, arrivato a Sandbostel, dovette subito sperimentare la spietata durezza del capitano Pinkel (ZUPO 2011, p. 33: “Subito dopo (scil. dopo l’ingresso al campo, alla fine di una marcia di 12 km. dalla

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Alto, un poco curvo, rozzo nell’andatura militaresca, comandava l’Oflag31 e ogni mattina, preciso si presentava all’appello. Aveva un colorito roseo e gli occhi neri, piccoli e penetranti, nascosti dietro una ruga del viso. Dalla bocca scendevano sul mento due pieghe che davano alla sua faccia l’aspetto di un cane – Bobi – urlava, urlava sempre e la sua voce usciva dalla sua gola come un abbaiamento; abbaiava quando si era sull’attenti, quando c’era il riposo: sempre abbaiava e la sua andatura traccheggiante, da buon prussiano, sazio di birra, dava a quell’abbaiamento un ritmo musicale. I battaglioni erano sull’attenti, la pioggia scrosciava sulle spalle, e il vento gelido sibilava tra i reticolati, nell’aria silenzio e sulla terra solo l’abbaio di quell’essere obeso che scuoteva i nervi già logori. C’era uno dei 6000 prigionieri che sull’attenti starnutiva e quel cane urlava e dava arresti. C’era uno che non aveva le dita ben distese e fra l’ululato del vento che sollevava a raffiche, polvere di pioggia, si udiva subito un grido formato di frasi brevi e gutturali. C’era un piccolo parlottio in uno dei battaglioni e la tromba dava l’attenti e per almeno un’ora si restava sull’attenti impalati per punizione. Capitano! Capitano! Non sapevi forse che il vento gelido del Mar del Nord in quel 54° parallelo mordeva le nostre carni intirizzite dalla lunga inedia? E non vedevi forse coloro che cadevano svenuti qua e là per la fame? Non conoscevi negli Italiani altro che dei traditori di un patto e non sapevi che per loro era punto d’onore il tener duro contro la vostra

stazione di arrivo) adunata. Si è alla fine delle forze: per cui l'adunata, col freddo intenso e col vento che spira, completa l'opera e metà degli ufficiali cadono svenuti a terra e debbono essere ricondotti in baracca; ma il comandante del campo poco se ne cura e continua a tenerci all'aperto schiamazzando, rimproverando e sbraitando perché magari non stiamo bene sull'attenti e non siamo bene allineati.” Analoga annotazione, al 22 marzo, anche nel diario del tenente Alberto Stano (STANO 1968, pp. 158-159: “Durante l’appello pomeridiano che è durato a lungo – il capitano tedesco che, agli ordini di un maggiore, comanda il Campo, è una vera carogna – uno dei nostri è svenuto ed è stato accompagnato in baracca.” Sulla triste fine del capitano Pinkel, “un mastino che non conosceva umanità”, come lo definisce il sig. Elio Donato, ufficiale italiano deportato a Meppen, Bjala Podlaska, Sandbostel e Wietzendorf, vd. ragguagli nella sua intervista a p. 2 (testo leggibile all’indirizzo: www.schiavidihitler.it/Pagine_video/Testi/E_Donato). 31 (Nota 18) Campo ufficiali.

118 apolitica, contro la vostra cupidigia, contro i vostri soprusi e non riconoscevi tra di loro coloro che avevano dato il sangue per voi e per il vostro imperialismo. E dimenticavi tutti coloro che ebbero mozze le mani quando chiesero di salire sui carri dei tedeschi che fuggivano dal Don sotto l’incalzante marcia russa, allorché selvaggiamente chiedevi che i malati si adunassero all’aperto per poterli contare più agevolmente sotto le raffiche del maestrale. Nulla sapevi allora ed il freddo mordeva i piedi; ma ogni giorno la voce lontana di Alberto da Giussano32 risve- gliava l’assopito odio ed ogni lancinante trafittura era un nuovo sprone a spezzare quelle catene di schiavitù, a spezzare la tua albagia da guardiano di incatenati.

Haudegen

Haudegen33 era la marca di una grande sigaretta, direi una ricercata sigaretta! Era un tubetto lungo 8 cm del diametro di 6 millimetri. Degli otto, 3 centimetri e mezzo erano composti dalla vera e propria sigaretta, il rimanente da un pezzo di cartoncino che i polacchi usavano allo scopo di non bruciare i guanti nel fumare. La prima volta che ci diedero quei tubi, pochi furono quelli che riuscirono a finire quei tre centimetri e mezzo di strappacore perché un malessere lacerante allo stomaco obbligava a fermare tutta la funzione di comignolo. Sembravano foglie di patate essiccate, ma avevano anche un sapore strano di erbe selvatiche. Qualcuno prese l’abitudine di mescolare quella specie di paglia sintetica con foglie di tiglio ed allora ne usciva fuori una sigaretta dal sapore più acre ma più gradevole, specialmente se la cartina era formata da carta di giornale. Lo zampirone (così era chiamato) aveva però un pregio e cioè quello di fornire quattro centimetri e mezzo a tubo, di cartone, e un tubicino di carta di sigarette e ciò era importante, perché con la mancanza assoluta di cartine si era venuti nell’abitudine di fare le sigarette di foglie secche di tiglio o di bucce di patate avvolgendole con carta velina, con carta da giornale o meglio ancora con carta igienica.

32 (Nota 19) Uomo d’arme lombardo, sec. XII°. Durante il risorgimento il perso- naggio fu esaltato come simbolo della libertà comunale da G. Berchet (Il giuramento di Pontida). 33 (Nota 20) “Spadone”.

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Tali erano le sigarette che ogni volta i tedeschi ci passavano a 25 la volta. Però a dire il vero, avevamo anche le “Elegant” che qualcuno definì: la vendetta francese per la nostra entrata in guerra contro di lei nel 1940. E del resto che c’era di male. Io ho visto fumare anche della torba.

Viveri

L’ora più bella della giornata nel lager era certamente quella della distribuzione viveri. C’era allora in ogni camerata un’animazione nuova, un movimento continuo di esseri che chiamavano, tagliavano, pesavano, si arrangiavano a fare qualche cosa. Ogni camerata grande, piccola, assumeva allora l’aspetto di un mercato. Un vocio continuo si fermava a mezz’aria e vi permaneva vibrando in quell’atmosfera carica di vapori e di fumo con un continuo succedersi di ondate sonore. Le squadre di camerata arrivavano cariche e curve sotto il peso dei viveri. Le pagnotte rettangolari e massicce dentro le coperte, lo zucchero e i blocchi di margarina dentro catini di alluminio e quando c’era, il sanguinaccio, la marmellata o la ricotta acida anch’essi dentro i catini. Tutti i generi passavano sui tavoli delle squadre di servizio per la suddivisione in gruppi. Il pane veniva accatastato in un numero determinato di file che poi si estraevano a sorte col metodo del conteggio fra i rappresentanti dei gruppi o con le carte da gioco. Arrivato sul tavolo di ogni singolo gruppo, il pane veniva suddiviso fra le squadre. Un prigioniero fra i più precisi si dava da fare per dividere i pagnottoni. Veniva usato a tal uopo una specie di doppio decimetro rudimentale fabbricato per evitare l’inconveniente delle mal divisioni. Sorteggiato il pane così suddiviso perveniva alla squadra dove un altro incaricato divideva quella pagnotta in 8 o 10 parti. Questa volta, oltre al doppio decimetro interveniva per la divisione una bilancia, anch’essa costruita con mezzi di fortuna, quando poi gli 8 o 10 pezzi erano ben equiparati e la differenza per ogni razione non superava i 5 grammi, allora le carte davano la sorte. Un pezzo di pane a ciascun componente la squadra che aveva un numero corri- spettivo alle carte da gioco. Tale sistema era senz’altro il migliore in quanto eliminava ab initio le discussioni possibili fra ogni prigioniero per la paura di essere rimasti fregati. Similmente avvenivano le altre divisioni con minimi che davano la quantità costante del genere. A turno giornaliero uno dei prigionieri era il primo. Ogni giorno avveniva verso

120 le ore 10, questo lavoro che durava circa due ore ed in tale periodo di tempo si decideva la sorte di 16 grammi di margarina e di altrettanto zucchero, 200 grammi di pane, 20 di sanguinaccio, generi che escluso il pane erano contenuti in un comune cucchiaio. Ahimè! Due ore di preparazione e due minuti per finire tutto.[34]

[35] Bagno disinfestazione

[34 La fame, una fame inestinguibile e torturatrice, fu la vera assillante compagna degli internati, giacché lo scarsissimo e pessimo vitto distribuito dai tedeschi non poteva minimamente assicurare il fabbisogno giornaliero di sostanze nutritive ai prigionieri, stretti nella morsa del gelo e costretti ai lavori pesanti. Per realizzare in qualche modo un’equa distribuzione delle scarse razioni di viveri, si approntarono bilance di fortuna e si stabilirono pignoleschi e meticolosi rituali di divisione, condotti da apposite figure scelte tra gli ufficiali più autorevoli nelle camerate, come il “razioniere” e l’ “Achiquestiere”. Sulla fame che patirono gli internati a Sand- bostel, nei ricordi del capitano Antonio Colaleo, vd. BARTOLO COLALEO 2017, pp. 178-185; sul personaggio dell’Achiquestiere vd. il Diario clandestino di Guareschi (GUARESCHI 199118, pp. 188-191); altre testimonianze in MELONI 2017, pp. 66-68. Il sottotenente Serafino Clementi nel suo taccuino ha annotato le tabelle settimanali dei viveri distribuiti a Sandbostel per i periodi 19-26 novembre 1944, 3-10 dicembre 1944, 24-31 dicembre 1944: in esse si nota una progressiva diminuzione dei quantitativi distribuiti a Sandbostel. Citiamo l’ultima tabella viveri, quella del 24-31 dicembre 1944 (CARINI 2015, pp. 102-103): “Pane: ogni giorno gr. 300, Patate: ogni giorno gr. 280-300, Patate: il venerdì gr. 230, Zucchero – ogni giorno gr. 25, Margarina: ogni giorno – il martedì gr. 25, Marmellata – la settimana gr. 120, Sanguinaccio – la settimana gr. 120, Rape fresche crude – la settimana gr. 700, Zuppa Domenica – 100 gr. orzo, Martedì – 37 gr. piselli, – 50 gr. orzo – 40 gr. farina, Rape fresche gr. 500-600 grasso gr. 10 il Lunedì, Mercoledì, Giovedì, Sabato, Crauti in salamoia gr. 230 il Venerdì.” Il Clementi peraltro ricorda più volte nel suo taccuino le sbobbe di rape e crauti distribuite a Sandbostel e annota all’8 dicembre 1944 che la razione dava solo 1600 calorie, “appena sufficienti per mantenere in vita (secondo i calcoli del maggiore medico del campo)” (CARINI 2015, p. 98).] [35 I prigionieri venivano sottoposti al lungo e umiliante rituale della disinfestazione ad ogni trasferimento di campo, prima dell’ingresso alle baracche, come ricorda Claudio Tagliasacchi nel capitolo delle sue memorie relativo a Sandbostel (TAGLIASACCHI 1999, pp. 63-64). La penosa operazione della disinfestazione viene così ricordata da Cosimino Cavallo, anch'egli prigioniero a Sandbostel (CAVALLO CONVERSANO 2013, p. 25): “Qui (nella camera della disinfestazione, nda) ci fecero spogliare e, dopo una doccia di massa con acqua fredda, ci rasarono i capelli e nelle parti intime perché eravamo infestati dai pidocchi; come ultima

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Gracchiavano i corvi quella mattina al lager e soffiava un gelido vento attraverso i reticolati che separavano le varie baracche. Bianchi cumuli di bambagia si addensavano nel cielo pallido e si muovevano enormi sotto la spinta poderosa del vento. Miseri esseri magri rannicchiati nei loro non più attillati pastrani, infagottati in pellicciotti una volta bianchi, incravattati da larghe fasce tolte da vecchie coperte di lana si aggiravano fra le fosse che avrebbero dovuto servire da trinceroni anticarro, in attesa di entrare nel bagno, casamento in mattoni dai muri un po’ scrostati per l’umidità, che i tedeschi avevano adibito a bagno. Erano gruppi di 50 uomini che ogni mezz’ora il Posten36 veniva a prelevare per la disinfestazione, necessaria per penetrare nei sacri recinti dell’Oflag.37 Ognuno aveva uno zaino, oppure un sacco facente funzione, qualcuno aveva ancora la cassetta d’ordinanza, misero relitto dell’immane naufragio che già da molti mesi aveva colpito ciascun prigioniero. Poveri stracci, barattoli, gamelle, che essi trascinavano attraverso gli spinosi grovigli dei reticolati dei lager per Kriegsgefangene38 della Polonia e della Germania. Tessuti di tutti i tipi che rappresentavano l’unica ricchezza e che occorrevano in ogni momento per difendere i corpi infreddoliti dal morso del gelo. Attese estenuanti di ore, di giorni, per entrare in quella specie di pagoda, a repentaglio di una brutale soldataglia, mentre il vento gelido soffiava sempre più forte, sempre più

operazione, comparve un prigioniero russo – ben presto mi resi conto che i russi erano adoperati a svolgere i servizi di più infimo ordine, anche se ciò consentiva loro di avere facile accesso in tutti i settori del campo –, un omone che lo divertiva molto imbrattarci il basso ventre e il fondo schiena con un grosso pennello intriso di un liquido giallo. Poi ci dettero un ricambio di vestiti – avevamo addosso ancora la divisa estiva con la quale eravamo stati catturati – che avevano IMI stampigliato sulla schiena.” Analoghe annotazioni anche nel diario di Giordano Bruno D’Am- brosio, prigioniero in un campo presso Leobersdorf (D’AMBROSIO 2007, p. 152): “Ci fecero entrare in una camera e ci ordinarono di spogliarci completamente nudi per essere rasati a zero su tutto il corpo; la rasatura fu eseguita da prigionieri russi i quali si divertivano un mondo a raparci a zig-zag con delle macchinette rasatrici che ci davano pizzicate dolorosissime specialmente nelle parti basse.”] 36 (Nota 21) Sentinella. [In minuscolo nel testo.] 37 (Nota 22) Campo ufficiali. 38 (Nota 23) Prigionieri di guerra.

122 forte. Ah! Finalmente è l’ora! Decimo gruppo di 50 uomini i quali faticosamente si muovono trascinandosi dietro i bagagli, tirandoli, mettendoli sulle spalle a soma o spingendoli. Una prima baracca di legno apre la sua porta e i 50 esseri penetrano nell’interno accaval- landosi, spingendosi, urtandosi, rinculando insieme alla loro roba. Ognuno sembra pervaso di un’inerzia che ha del patetico, ognuno ha bisogno di muoversi perché l’attesa fa impazzire, bisogna raggiungere ad ogni costo qualche cosa. Ma che cosa? La lunga camera di 80 metri quadri accoglie quell’onda furiosa che ribolle. In fondo ci sono due militi tedeschi e tre russi che fanno una specie di rivista sommaria suddividendo la biancheria dagli altri oggetti. Qualcuno sussurra delle parole e allora è un rimescolio nei sacchi ed un togliere e rimettere. Si ha la paura che quel poco che è rimasto, sparisca. Una calza strappata, il pennello della barba, alcuni fazzoletti si nascondono nei pantaloni, qualche aspirina, qualche bloc-notes si intrufola fra la camicia. La rivista dell’alemanno corpulento dal viso roseo e l’occhio storto è ruvida, tutto va in aria; una fascia gambiera si srotola, una maglia si perde, delle pezze bianche si riacchiappano a mala pena per rimetterle fra gli altri indumenti nell’appendi panni di ferro che un russo imperturbabile tiene in mano mentre le sue labbra si muovono impercettibilmente e sussurrano parole incomprensibili; il pancione tedesco si infuria e punta quell’arnese di ferro sul mio petto che viene respinto indietro dalla brutale forza. Sembra un cane che abbaia mentre con i piedi dà calcioni al misero sacco del prigioniero. Perché poi? “Perché quei poveri fazzoletti sono troppo lenti a venir fuori”, mormorano gli altri 50 e disapprovano, ma il cane abbaia più ferocemente mentre la collera rende paonazzo il suo viso e il suo naso. Il russo dagli zigomi larghi sembra preghi nel suo angolo. Cinquanta paia di occhi che odiano, guardano. Si passa oltre scavalcando il bancone. Gli effetti d’uso vanno in un carrello di legno appesi ad un gancio, l’altra roba mescolata nelle valige aperte, nelle cassette senza lucchetti, nei sacchi non legati, vanno ad ammucchiarsi in un angolo. È passata mezz’ora ed altri tre tedeschi più gentili del primo, fanno una visitina al portafoglio e alle tasche. Non è cortese ma legale ed utile. Da questo piccolo camerino dove l’attesa non è che di un quarto d’ora si passa in un’ampia stanza dove gli esseri già incappucciati si spogliano lentamente, mettendo quegli indumenti, con una cura meticolosa, negli

123 appositi attaccapanni in ferro o nelle croci di legno e portandoli poi, così nudi come si trovano, fuori all’aria aperta sul carrello della disin- festazione, abbracciando il tutto teneramente. Qualcuno mostra lunghe pieghe che partendo dagli inguini salgono in su e sono lunghe pieghe di pelle che hanno perduto il grasso e penzolano così inerti in quei corpi invecchiati che hanno passato la cinquantina. E’ passata ancora una mezz’ora e bisogna entrare nel bagno vero e proprio. Prima si lasciano i viveri e i valori ad un tipo losco, poi i 50 vengono spinti in un altro camerone, alto, colorato in azzurro. Siamo al massimo caldo ed un senso di sollievo dà ad ognuno la gioia di cantare sotto l’acqua che toglie il sapone. Appena saltati via da sotto la doccia, un tedesco magro dal viso corroso, con un bacchettino in mano visita uno ad uno guardando i peli ad ognuno per vedere se c’è un qualche incomodo parassita, poi un russo che emette alternativamente gridi gutturali secondo il gesto, con un pennello in mano, ed intingendo in un grosso secchio di disinfettante, dà un colpo alle varie parti pelose del corpo con un movimento regolare ed automatico. Uno! sul petto e sotto le ascelle, due! sul pube, tre! sulle parti posteriori, quattro! colpo di commiato sul grande gluteo dietro. Si passa poi un’altra mezz’ora in un’altra stanza più piccola – Che freddo! Brr – dice qualcuno. È questa la stanza del primo raffreddamento dove bisogna asciugarsi attendendo. I minuti passano, la pelle ha brividi continui, i corpi si mescolano, si riscaldano vicendevolmente alla meno peggio; dopo un quarto d’ora si riapre una nuova porta e i 50 prigionieri passano sotto la luce di un riflettore, una nuova visita ai peli. Se qualche animaletto ne esce fuori, allora occorre tornare dietro e farsi radere completamente. Un russo ripete la visita alle parti posteriori, anch’esso facendolo automa- ticamente e senza convinzione, guardando nel vuoto. Un terzo dall’a- spetto mistico e con gesto sacro prende le piastrine, le disinfetta in un lurido bacile, poi solennemente aggiunge su un quadernetto un’astic- ciola alle altre migliaia separandole ogni dieci con un’altra più lunga. Sembrava Rasputin39 e nella sua funzione era ieratico. Rapidamente si sfolla passando in un’altra stanza ancora più fredda e poi in un’altra ancora più gelida. In fondo alla parete sono rannicchiati un 200 esseri in attesa, nudi, uno accanto all’altro, che tremano di freddo, qualcuno si

39 (Nota 24) Avventuriero russo (1871-1916).

124 siede sulle panche che sono là e si raggomitola reggendo le ginocchia con le braccia, qualche altro guarda da un finestrino, alcuni in piedi, altri ritirano i viveri e gli oggetti preziosi. Una voce rauca ogni tanto chiama un numero; il numero si muove e va fuori ma tenta subito di entrare perché d’un tratto si trova in una tettoia aperta da tutti i lati in mezzo al vento, così tutto nudo. Ha appena avuto gli abiti che già se li è indossati, se gli mancano le scarpe, poco male, troverà qualche altro paio, vuol dire che l’ultimo starà male. Finita questa funzione si esce all’aperto completo dove su uno spiano sono sparse le valigie! Gli zainetti, i sacchi, le borse, le gamelle, le coperte della disinfestazione e si va alla ricerca della propria roba fra quel caos. Sono passate circa quattro ore per completare il ciclo. Il vento gelido soffia più forte fra i comignoli della disinfestazione e fra la rete metallica del recinto della roba. 200, 300, 400 uomini attendono, raggomitolati nei loro cappotti, zaino in spalla, che l’Unteroffizier40 li venga a prendere per portarli dentro in un altro spinoso reticolato su di un comodo tavolaccio per dormire, dormire, dormire perché sfiniti.

Per cortesia

La prigionia è senz’altro una di quelle istituzioni che ha il potere di ricondurre l’uomo verso gli atavici istinti e verso la primordiale vita vegetativa a discapito di quella intellettiva, facendogli peraltro dimenticare tutte le buone norme di educazione. Questo avviene naturalmente nei primi tempi; ma, man mano che la prigionia si allunga nel tempo e nello spazio allora c’è un ritorno da parte dello stesso alla manovra della ragione. Ricorda egli di avere un’intelligenza ed un’educazione e allora cerca, merito anche dei perché, di metterle in uso ed in verità raggiunge l’effetto con l’aiuto di vecchie reminiscenze scolastiche ed educative della famiglia. Incomincia a chiamare i suoi simili “collega”, “camerata”, “signur” etc, quando vuole una cosa premette “desidero” o “per cortesia” o “per favore” ma ahimè, ai buoni intendimenti subentra la necessità di difendere i propri interessi ed allora l’egocentrismo, l’egoismo, l’interesse individuale, la paura di dover dare agli altri qualcosa che appartiene a noi, il timore di rimanere fregati,

40 (Nota 25) Sottufficiale.

125 tutto fa sì che sulla faccia di ogni prigioniero appaiano oltre ai segni dell’appetito anche una tetra e sgarbata malinconia, una luce fredda e dispettosa negli occhi e tutto ciò, venendo in contrasto con le reminiscenze della vecchia educazione fa sì che la bocca dica “per cortesia” e le mani e i piedi e la testa facciano quello che ad ognuno interessa. “Per cortesia collega” per cortesia, per cortesia, dovunque si sente per cortesia e l’eco gli risponde “ipocrisia”.

La distribuzione del pane

Erano circa le ore 16 quando vennero sorteggiati nella mia squadra i 200 grammi di pane che mi aspettavano, ora occorreva portare quel pane, non dico alle ore 16 del giorno dopo (cosa impossibile per ovvie ragioni) ma fino alle ore 22 della stessa giornata. Il piccolo rettangolo era là in piedi sul bancone di faggio e brillava per il suo colore tra l’oro giallo e la terra di Siena bruciata, piccola massa compatta ammassata con patate, segale, paglia e farine varie con leggere striature più scure o più chiare a seconda della tinta generale. La base si presentava oltre che con la normale crosta leggermente abbruciacchiata, con un leggero strato gelatinoso color grigio, simile a quello del pan di spagna quando non cresce bene nel forno. Come fare con quel piccolo diavolo tentatore? Occorreva dividerlo, sì dividerlo in tre parti per poter mangiarlo in tre riprese successive alla distanza regolare di due ore. Allora fuori un coltello e mettendoci all’opera perdendo maggior tempo possibile per poter arrivare alle ore tarde. Si incomincia a tagliare prima la crosta in tre parti regolari; il pane è alcune volte elastico, gommoso ed il coltello si affonda prima di tagliare, oppure si sgretola come fosse terriccio o segatura. Tagliata la crosta, il parallelepipedo si suddivide in 13 o più fettine di semplice mollica e ciascuna fettina poi si taglia con due tagli in quattro quadratini, si fanno così 55 o più fettine con le quali arrivare alle ore ventidue. I pezzi sono regolari là sul tavolo allineati in bel ordine, come tanti soldatini. Occorrerà ora spalmare un po’ di margarina su ciascuna fettina per perdere ancora del tempo ed anche perché non ci riuscirei a metterle nello stipetto. Si spalma sulla prima, sulla seconda ma qualcosa rumoreggia dentro lo stomaco, qualcosa come una voce che chiami e la lingua sembra che sciacqui ed un’acquolina si va formando nella bocca e le labbra avide cercano il morbido della mollica ed il naso annusa,

126 annusa come se potesse con l’odorato masticare. Una mano adunca prende quella piccola fettina che per prima riluce e giù fra quei frantoi infaticabili e bianchi; oh com’è buona, un’altra, un’altra ancora: sono 55 le fettine che veloci spariscono in quella voragine profonda e buia. Ahimè! Sono le ore 16,31 e fino a domani più nulla.

Una porta!!!

Avete mai pensato a quante volte una normale porta possa aprirsi durante una giornata di 24 ore? No. Ebbene lo faccio io il conto. La mia camerata 23B al campo prigionieri di Sandbostel a nord di Brema, contava 288 prigionieri suddivisi su di una superficie di metri quadrati 300. La camerata accanto, la 23A separata da noi dai lavandini ne conteneva altrettanti (in totale su 600 metri quadrati passeggiavano i piedi di 560 persone). Orbene, al campo venivano fatti due appelli giornalieri e la povera porta iniziava il suo lavoro con un bilancio di 2240 giri dato che la persona che ne usciva doveva necessariamente rientrare. Dopo l’appello c’erano i servizi ed erano circa 60 tra trasporto di patate, sbobba, viveri e tiglio, quindi raddoppiando per le due baracche erano 120 che diventavano 240 perché chi apriva doveva chiudere per evitare litigi con i colleghi che temevano le correnti, dato il carattere estremamente gelido ed umido del clima di lassù. Con ciò la porta andava a 2480 giri, se poi si calcola che ogni individuo in media andava all’Abort per i propri bisogni, almeno due volte al giorno, la cifra saliva a 4720. A ciò aggiungasi le visite dei colleghi di altre baracche che possiamo calcolare in media di uno per ogni singolo coabitante, avremo la cifra di 5840 giri, in più i servizi dell’ordinanza portano la cifra a 5900 che aggiunta alla cifra dei giri obbligati da parte di gente che veniva alla baracca per cambi vari, complessivamente dava il totale di 6000-6500 giri ogni 24 ore. Da quattro a sei giri ogni minuto ed ogni giro percorreva due metri e 13 centimetri, quindi in totale più di 12 chilometri e 780 metri al giorno. E non aveva grasso sui cardini e cigolava maledettamente e un vento gelido penetrava dalle fessure ed io purtroppo dormivo là vicino, non più di mezzo metro lontano.

Un buon affare

127

Uno dei due aveva un viso da orientale, occhi leggermente obliqui, andatura vigile ma un po’ claudicante. L’altro più piccolo aveva il viso ruvido, ciglia lunghe, occhi metallici. Avevano fame di pane e desiderio di fumo nel lager XB. Il più alto scrisse brevemente alcune righe su un pezzo di carta bianca, quindi alzato si avviò rapidamente verso l’Abort, alla cui porta applicò il foglietto con vecchi francobolli da 50 centesimi. Qualcuno lesse: “Non dilettanti riparano orologi di qualsiasi tipo, applicano vetri, acquistano orologi di vecchio tipo, rotti o inservibili per pezzi vecchi, rivolgersi a…” Il più piccolo era specialista nel rifare i vetri degli orologi con vecchi pezzi di celluloide che rendeva “bombé” secondo l’ultima moda, a mezzo di uno sferoide in alluminio, avuto in prestito, arroventato sulla stufa comune. L’altro aveva parola sciolta e viso duro. Alle 14 un giovane tenente dal fare timido si presenta e domanda di smerciare un piccolo orologio a braccio, ricordo della fidanzata, un piccolo Invicta da 15 rubini completo di tutti gli accessori d’uso meno il coperchio della cassa. Tira e molla nella discussione per la compravendita, alfine viene lanciata l’offerta! «Dò una razione di pane!» «È troppo poco!» «Prendere o lasciare.» «Beh!... dammi la razione di pane.» Il tenentino dall’aria timida, ma oramai felice se ne va e l’altro dal viso con ingrossamenti zigomatici da orientale sorride e si frega le mani. Alle ore 14.10 ecco un tipo ossuto, alto, con una folta barba e dei neri baffoni, entra portando a mano il suo orologio a braccio, manca una sfera, quella grande che indica i minuti. «Va bene! Posso accontentarvi!» dice il più alto dei due amici, «rimetterò la sfera, tornate questa sera.» Con mosse che vogliono essere di una persona esperta, la sfera tolta dall’Invicta 15 rubini viene rimessa al posto di quella mancante. «Va bene!» dice il tipo alto con i gradi da capitano, appena tornato «cosa vuoi per il tuo disturbo?» L’altro con sguardo severo, lievemente sorridente e senza scomporsi: «Due razioni di pane e 14 sigarette, tipo Elegant, credete» aggiunge «non è molto, mi ci sono volute due ore di lavoro ed in più ho dovuto

128 comprare la sfera, poco fa, a caro prezzo.» Il tipo ossuto, paga la richiesta e va via contento e si frega le mani soddisfatto.[41]

Adattarsi

In un campo di prigionieri di guerra lo scrivere, il disegnare o comunque il dedicarsi ad uno studio qualsiasi, dovrebbe essere una cosa facile, data la continua inerzia e le molte ore di riposo.[42] No. Nel comune banco di scuola che ci faceva da tavolo e da sedile io scrivo ed il “collega” limava un chiodo. La lima produceva un rumore continuo, assillante e penetrante. La testa non resisteva a quel trapanio ed i nervi si logoravano. Eppure non potevo fermarmi dallo scrivere per non perdere il turno a sedere. E allora? Occorreva adattarsi. Ma come fare con una lima che raspa e fa tremare il banco continuamente e rode il cervello?...

[41 Anche Antonio Zupo, per rimediare qualcosa da mangiare e aumentare il magrissimo vitto, a Sandbostel, si mette a confezionare cinturini per orologi e a riparare occhiali, guadagnando con questa attività razioni di pane e sigarette (ZUPO 2011, p. 35). Lavoretti e piccoli commerci erano molto diffusi tra i prigionieri nei Lager. Naturalmente Antonio Zupo non ha niente a che vedere con l’episodio narrato da Arpini.] [42 Nei Lager erano permesse, in una certa misura, attività culturali e ricreative. A Sandbostel, grazie all’impegno di valorosi internati, si tenevano conferenze di letteratura (sull’ermetismo), musica e teatro, declamazioni di poeti moderni ad opera del futuro attore Gianrico Tedeschi (che proprio a Sandbostel ebbe conferma e incoraggiamenti sul suo talento scenico), si era organizzata una università all’aperto con corsi di diritto, lettere, ingegneria, ragioneria, agraria (come informa Guareschi al 1° giugno 1944, vd. alla p. 378 del suo Grande Diario e, soprattutto, per gli spettacoli, le conferenze, le attività culturali, le letture di racconti e le conversazioni che teneva nelle camerate lo stesso Guareschi vd. l’appendice compresa nel Grande Diario alle pp. 545-553), concorsi letterari e mostre d’arte. Si realizzò il famoso “giornale parlato”, ad opera di Giovannino Guareschi e di altri valenti collaboratori, esperienza che poi venne proseguita e arricchita anche nel campo di Wietzendorf (sul “giornale parlato” di Wietzendorf, che vantava tra i collaboratori anche i futuri giuristi Enrico Allorio e Riccardo Orestano, vd. i ricordi di Giuliano Pratellesi in PIASENTI 1977, pp. 154-157). Tali attività servirono certamente a risollevare lo spirito dei nostri prigionieri e se non poterono alleviare le asprezze della detenzione, evitarono che gli uomini degradassero nel totale abbrutimento. Sull’arte, la cultura e la poesia che fiorirono nei campi di prigionia, ampia documentazione in MELONI 2017, pp. 91-111; vd. anche BARTOLO COLALEO 2017, pp. 209-214]

129 come fare? Nulla di più facile, basta cogliere i ritmi del lavoro del “collega”, la lima sega per un po’, poi si riposa, torna a rosicchiare, poi a fermarsi, indi riprende lo stridio, si riposa ancora… E allora? Nei momenti di riposo… zac, la matita sul foglio bianco, scrive cinque o sei parole di un periodo già formato nella mente in un momento di riposo precedente. La lima morde il ferro e tutto l’apparato intellettivo insieme alla matita si ferma, poi si riposa e allora di nuovo la matita scorre rapida per fermarsi al turno di lavoro dell’asticciola di acciaio, e così di seguito aritmicamente ed alternativamente dando agio a due persone di continuare il lavoro come se normalmente intorno ad uno ci fosse una bella biblioteca colma ed intima ed all’altro una invitante bottega di ferraio.

18 Ottobre Proposta oscena da parte del maggiore tedesco

Se non volete morire bisogna che la legna quest’inverno ve l’andiate a prendere da voi dato che noi non abbiamo uomini per farlo. Lascerete la parola d’onore che non fuggirete.

Un tragico grido nella notte!

Lamentevole e triste, richiedente con supplichevole tenacia, errava lagrimevole per la gelida aria nordica della piana polacca – 52 voci querule ripetevano una dopo l’altra come una eco disperata dal carro bestiame: «Posten?43 Herr.44» «Posten? Bitte.» «Posten? Abort!!45» «Posten? Bitte.» «Posten? Wasser!!46» «Posten? Bitte.» «Posten? Brot!!47» «Posten? Bitte.»

Strano!

43 (Nota 26) “Sentinella”. 44 (Nota 27) “Signore”. 45 (Nota 28) “Gabinetto”. 46 (Nota 29) “Acqua”. 47 (Nota 30) “Pane”.

130

Nel lager nessuno parla di donne ed invece alle mense Ufficiali era il piatto del giorno. Di chi la colpa?

Più povero dei poveri

Mi sono accorto di esserlo il giorno in cui sono stato fatto prigioniero poiché ho desiderato un tozzo di pane e di cipolla oltre a tutti gli altri desideri che un essere umano può avere quando non ha assolutamente nessuna comodità ed ha perduta ogni speranza sulla virtù degli uomini.

I mali del nostro tempo in relazione alle nostre responsabilità

Intorno allo spirito del nostro tempo le letture che abbiamo potuto fare, quello che ci è stato dato ascoltare o abbiamo potuto osservare, ci forniscono elementi di giudizio discordi e contrastanti perché alla fine di fronte alla conclusione, ci siamo più volte trovati incerti. E in realtà il giudizio è stato formulato assai diversamente a seconda del punto di vista nel quale l’osservatore si è messo e quindi, in definitiva, a seconda dell’atteggiamento spirituale che lo ispira. Tuttavia è possibile vedere da una parte alcuni pensatori scorgere nella nostra epoca i segni indubbi, i semi fecondi o addirittura l’arrivo di una nuova e più progredita civiltà di un mondo nuovo, di un meccanicismo,48 di una rinascita più felice, di un credere nuovo non solo economico e politico, ma anche spirituale, più perfetto per pensiero e concessione stessa della vita, mentre dall’altra critici e studiosi ci sembrano a prima vista più aderenti alla realtà, formulano un giudizio di verso anzi opposto, molto pessimistico; sono noti in proposito libri e autori: basti ricordare uno Spengler49 e un Berdjaev,50 per essi la nostra età segnerebbe una tappa negativa: decadenza, crollo, involuzione di

48 (Nota 31) Dottrina filosofica e scientifica secondo la quale tutti i fenomeni della natura si svolgono per una rigida concatenazione causale, con esclusione di ogni finalismo. 49 (Nota 32) Spengler Oswald, filosofo tedesco (1880-1936). 50 (Nota 33) Berdjaev Nikolaj, filosofo russo (1874-1948).

131 civiltà, riaffioramento di barbarie, trionfo dell’irrazionale e quindi del non umano, anzi contro umanesimo e macchinismo. Noi cattolici non possiamo evidentemente aderire senz’altro all’una o all’altra delle due versioni, troppo assolutistiche e che suppongono talora una concezione meccanicista della vita. La nostra posizione può dirsi intermedia. Non si sia diffidenti di fronte a una tale posizione che può sembrare a chi guardi le cose troppo superficialmente come la più facile a un compromettere, e quindi poco impegnativa. Intermedia è la nostra posizione per chi ha fiducia in Dio che non è altro sentimento, ma un dato preciso che non dobbiamo mai trascurare proprio in nome di quella obiettività che forma gli spiriti zenlisti51 e fa aderire ai fatti; tale fiducia aiuta noi a guardare con ottimismo le risultanze esterne di questa situazione caotica; intermedia anche perché è pure con serenità che valutiamo molti elementi della realtà presente. Noi cattolici infatti non possiamo non vedere ciò che di buono e promettente fermenta nel tramestio di idee e di indirizzi dell’uomo. Per questo sinceramente senza timori ma coi voti migliori possiamo con il Papa desiderare e auspicare l’avvento di un ordine nuovo. Che anzi per la certezza dataci dalla fede che al di sopra delle agitazioni e movimenti umani sta vigile e paterno, un volere provvidenziale, che tutto dirige in bene, anche quando il male sembra essere l’inevitabile sbocco di certi eventi; noi crediamo fermamente che dal disordine attuale diverrà indubbiamente una elevazione ulteriore dell’umanità per la quale è legge inderogabile avanzare lottando e sanguinando. Tuttavia ciò non impedirà di osservare quanto di male o ancora solo di negativo, vi è nello stato attuale degli spiriti e come ciò stesso che di buono e positivo si incontra nelle tendenze attuali, non si elevi mai alla sfera, del vero e autentico soprannaturale, al contrario sia vincolato, tenacemente all’ordine materiale.

51 (Nota 34) Seguaci della dottrina zen. Storicamente lo zen si presenta come un “puntare diretto al cuore dell’uomo” e come liberazione dai numerosi simboli linguistici, logici e concettuali che si frappongono tra noi e la percezione diretta delle cose. Recentemente lo zen si è diffuso anche nel mondo occidentale sia a livello letterario sia nel costume delle nuove generazioni.

132

Circa l’ordine spirituale vi è una amara constatazione da fare, ci circonda un arido deserto, ci angustia un’immensa povertà, “senza anima” definiva qualche anno fa questo nostro mondo, Rops in un libro molto noto:[52] e da allora la situazione non è certo migliorata e la qualifica rimane in tutta la sua gravità. Pio XII nel messaggio Natalizio del ’42 scolpiva con una espressione felicissima le condizioni più truci del nostro tempo, definendolo “scriteriatamente scoordinato”, e più diffusamente egli descrive tale situazione nel messaggio del ’41: “un’anemia religiosa – egli disse – ha così colpito molti popoli e fatto un tal vuoto morale che nessuna rigovernatura religiosa e mitologismo nazionale ed internazionale varrebbero a colmarlo”. Le allusioni sono evidenti, ma a noi importa attendere a tutte le parole perché esse mentre precisano la natura del male che affligge il mondo, il vuoto morale, ne individua la causa principale nell’anemia religiosa ed esclude la possibilità di rimedio, fuori dal ritorno alla religione piena. Ed è facile per noi cattolici capire che l’anemia religiosa a causa del vuoto morale è conseguenza del distacco operatosi fra religione e vita, per cui la vita e i suoi interessi più vivi sono visti completamente staccati dal sentimento religioso: due zone senza alcuna comunicazione fra loro. L’idea religiosa nulla ha da dire al pensiero filosofico, alla scienza, all’esercizio delle professioni. In chiesa l’uomo è religioso, fuori è economico, è filosofo, è scienziato e così via senza che per questo la fede debba interferire sulle leggi autonome che governano l’economia, la politica, la filosofia come la scienza, il pensiero come la pratica. In questo passo viene in mezzo la fede religiosa e si avvia logicamente a escludere il trascendente che pone fuori oltre l’uomo l’origine ed il fine della sua esistenza. E lo spirito chiuso nel suo io, è piombato nella più cupa ovvietà. È da secoli che questo distacco si va operando ma ora l’insensibilità religiosa e morale si è rilevata di una vastità e di una profondità insospettate ponendo nelle stesse masse popolari sin quasi a paralizzare, almeno per qualche tempo, quelle energie, resistenze e esigenze che forse avevano abitudine a considerare spontanee negli spiriti. Ci cullavamo in una

[52 Riferimento al saggio dello scrittore cattolico francese Daniel-Rops, Il mondo senz’anima (Le monde sans áme, 1932), uscito in traduzione italiana nel 1947 (Morcelliana, Brescia).]

133 pericolosa illusione pensando che il senso religioso è innato, connaturato all’anima, e la commozione per manifestazioni di carattere sentimentale o estetico scambiavamo, insieme con l’obbedienza esteriore a tradizioni svuotate della loro significazione esteriore e del loro spirito, col senso cristiano. Qualcuno ha notato la differenza fra la fondamentale religiosità dell’800 intesa come omaggio a valori superiori e la areligiosità del nostro secolo, che è un registrare un totale regresso. Che non dire, ad esempio, dell’affievolirsi del senso del pudore della donna? E l’ignoranza compiaciuta e l’indifferenza di tanti giovani per i problemi spirituali? E la diminuita frequenza delle chiese? Ricordo che prima della nostra catastrofe una persona molto equilibrata e degna mi faceva presente la sua meraviglia nel vedere le donne stesse, pure in mezzo ai dolori e alle devastazioni che la guerra causava al nostro paese, le donne italiane, che siamo così abituati a vedere tanto inclini alle pratiche religiose, disertare coscientemente la chiesa alla domenica: naturalmente si riferiva ad un fenomeno isolato e le sue parole non vanno prese in senso assoluto od offensivo per le nostre donne, ma purtroppo a quella categoria di donne, la Messa stessa non diceva più niente. Si sente che qualche cosa di veramente essenziale è morto in molti. L’esistenza del vuoto lasciato dalla scomparsa della religione fu profondamente sentito. Di qui il tentativo di sostituire una religione umana, una religione dell’uomo, in cui il culto dello spirito umano prendesse il posto del culto di Dio: di qui anche il continuo appropriarsi come del nome stesso di religione così dei termini religiosi, sono a parlare di una novella teologia umana. Notevole al riguardo l’abilità e l’intelligenza spiegata per ridurre il fatto religioso a normale attività umana eliminando la ragione. L’individualismo divinizzatore dell’io, l’umanesimo nuovo a sfondo materialistico, il mito del sangue, le mistiche umane più svariate, lo stesso immanentismo modernistico sono le espressioni più clamorose, chiamate dal S. Padre rigovernature religiose e mitologiche di questa affannosa ricetta per riempire il vuoto che faceva paura. Ma il risultato è stato nullo o quasi, perché nessuno di questi tentativi ha avuto presa sugli animi e ha resistito a lungo. Non poteva! Ne è invece derivato uno scetticismo sconsolato sulla stessa verità, la stessa bontà: a guida dell’operato umano si è preferito l’irrazionale e l’utile. Per moltissimi il mondo non è che tragica illusione, la vita un’avventura, gli uomini

134 marionette ridicole come per il commediografo Rosso di San Secondo.53 Il senso della vita smarrito. Che cosa significa più! Non manca chi senta questo tragico destino, preso da infinita angoscia per aver fallito la vita. Proprio da questa angoscia è nata la filosofia dell’esistenzialismo che è una reazione, un tentativo di superare l’angoscia. Sennonché l’esistenzialismo stesso non finirà che per essere, di fatto, una nuova dolorosa constatazione della fatalità che avvolge il povero uomo, che inchiodato all’esistenza, non riesce ad essere, abbandonato a questa fatalità, non ad altro si è pensato che a vivere. Si è pensato allora di idealizzare la vita per se stesso. Non si tratta che di un gioco illusionistico, la realtà finisce sempre col trascinare l’individuo o nell’angoscia del fallimento o nell’acquiescenza cieca. A questo proposito significativa è soprattutto la letteratura romantica di ogni paese, è penoso l’osservare quale seguito abbia di fatto la concezione di vita in essi presentata. È il trionfo dell’istinto, del senso, mancanti totalmente la coscienza del peccato, del dovere, della responsabilità delle proprie azioni. Vita insensibile ai problemi morali e spirituali; estraniati completamente dai quesiti che il problema del bene e del male pongono, i personaggi sono in genere fuori dalle leggi del bene e del male. Quanti che leggono tali romanzi notano ciò e lo criticano? Si trova tutto naturale: il clima è questo, e lo sventolio delle massime maschera ogni cosa e ammanta. Solo i più avvertiti noteranno che c’è qualche cosa che non va e notano il crollo che essi rilevano. Significativo il diffusissimo Noi vivi di Rand.54 Il romanzo è stato definito sinceramente brutto, ma senza dubbio è un documento terribile, come delle condizioni del popolo russo, così per il suo successo delle condizioni spirituali del mondo dei suoi lettori. È espressione ed anche scuola del più nero nichilismo russo,55 il nichilismo spirituale. Lo stesso titolo Noi vivi

53 (Nota 35) Rosso di San Secondo Piermaria, scrittore ed autore drammatico italiano (1887-1956). 54 (Nota 36) Rand Ayn. [Riferimento al romanzo della scrittrice statunitense di origine russa Ayn Rand, Noi vivi (We the Living), uscito in prima edizione nel 1936, storia di una ragazza, Kira, in lotta contro l’oppressivo potere sovietico per affermare i suoi ideali di libertà e di amore.] 55 (Nota 37) La dottrina di un movimento rivoluzionario russo che si proponeva di distruggere l’ordinamento politico e sociale esistente (deriva dal latino nihil, “nulla, niente”).

135 indica il contenuto cioè una esaltazione della vita in se stessa considerata. La professione di fede della protagonista Kira è come la chiave del romanzo. Ella crede nella vita, la vita per lei è la più alta concezione individuale inimmaginabile: per questo vuole sempre accertarsi se i suoi interlocutori vi credano altrettanto, in quanto domanda loro se credono in Dio, se essi mi rispondono di sì, di credere in Dio, spiega, so che non credono nella vita. Perché la vita è sopra Dio stesso e valuta troppo poco se è la propria vita, chi ponga la sua più alta concezione al di sopra delle proprie possibilità personali; ma questo ideale di vita è nulla poi nel romanzo medesimo; tutto mostra non dico l’inconsistenza, ma la miserabilità. E c’è un punto dove tutta l’artificiosità della costruzione appare intera ed è quando Irim56 davanti alle avversità della propria vita pone la domanda tremenda “ma la vita che essa è?” E dunque anche il tentativo di idealizzare la vita per se stessa, non resiste. Negato il trascendente non resta che abbandonarsi alla fatalità del destino e scendere fino in fondo dove nessun raggio splende, per vivere nella polvere. A questo si è pervenuti con il naturismo57 dominante, a chi dunque parlare ormai di vita? Tutto sa di morte, e lo sgomento della morte è nell’animo di tutti, che non sapendo resistere alla fatalità si lasciano vivere, ma è da rilevare anche l’aspetto sociale. È un punto questo sul quale conviene richiamare l’attenzione di tutti noi, perché sin qui troppo trascurato. E permettetemi di dirvi che questa è una raccomandazione che ho accolto dalle labbra di un mio professore e tengo sempre presente. Mancare di senso di responsabilità significa pure non sentire il proprio dovere verso la società. Questa congruenza merita di essere rilevata, essa è del resto facile ad essere riservata nella realtà quotidiana per la leggerezza con la quale vediamo talora venir assunte ed assolte molte funzioni socialmente anche gravi. E viene qui opportuno il riferimento ai doveri professionali di natura essenzialmente sociale. E dobbiamo guardare ad ogni aspetto della vita sociale, di ogni società, anche della famiglia. Pensate all’inspiegabile incoscienza di tanti padri e di tante madri incuranti dei propri figli e figlie e come ciò rappresenti se non la continuazione, certo l’inizio di

56 (Nota 38) Un altro personaggio del citato libro. 57 (Nota 39) Movimento che, per reazione agli eccessi dell’urbanesimo, propone un genere di vita più vicino alla natura.

136 una serie di famiglie e di generazioni alienate dal senso del proprio dovere, alla mancata o insufficiente preparazione tecnica e morale o dell’incompetenza, e ogni forma di vita sociale viene a soffrire. Come per l’individuo così per la società il vuoto morale è fatale ed ogni disordine può derivare. Sentimmo qualche anno fa il vecchio maresciallo Pétain58 attribuire appunto all’esprit de jouissance59 della popolazione francese, la responsabilità maggiore della decadenza della sua nazione. La guerra, mentre ha aggravato questo bilancio negativo, ne ha fatto apparire maggiormente le conseguenze. Semplice è il quesito che viene fatto di porsi: un diverso stato degli spiriti non avrebbe potuto scongiurare questo conflitto?? Si possono risolvere completamente e definitivamente i problemi posti dal conflitto con le premesse spirituali alla quali abbiamo accennato? La nostra risposta è affermativa per il primo punto, negativa per il secondo, ossia un diverso stato degli spiriti avrebbe potuto scongiurare l’immane catastrofe che si è abbattuta sul mondo e risolvere le questioni che hanno determinato il crollo, pacificamente, con spirito di intesa e di reciproca comprensione e fiducia. Dall’altra parte lo stato attuale degli spiriti, lo scardinamento interiore ed il vuoto morale, la presente mancanza del senso del dovere, di responsabilità e di peccato, se dovesse avere influenza decisiva nella risoluzione del conflitto non potrebbe condurre a una soluzione vera, completa e definitiva. Queste risposte per noi cattolici sono tanto ovvie che non è opportuno indugiare in spiegazioni, giacché esula ogni intenzione apologetica o polemica. Basti solo accennare che col decadimento della coscienza del fine che Dio, padre comune di tutti gli uomini, ha posto alla vita di ogni uomo e alle leggi che egli ha dettato allo scopo, la solidarietà umana è divenuta parola vuota, voce senza significato, privata della sua dinamica interiore e l’egoismo è apparso in tutta la sua brutalità e la legge del più forte è stata ritenuta l’unica valida con le conseguenze che tutti sopportiamo. Ma appunto quelle risposte ci fanno affiorare altre due domande, che tante volte in questi ultimi tempi, ci siamo sentiti ripetere a noi stessi forse talora, in solitari pensamenti, abbiamo rivolto a noi medesimi

58 (Nota 40) Pétain Philippe, generale e politico francese (1856-1951). 59 (Nota 41) “Lo spirito del piacere”.

137 senza osare di sviluppare tutte le conseguenze che ne derivano e condurre un esame critico che avrebbe richiesto un risveglio e un impegno estremamente risoluto. Ci siamo forse soverchiamente rifugiati nella nostra fede per la certezza che deriva dalla promessa del Cristo, non considerando adeguatamente l’opera di concorso a noi richiesta. Le domande, pertanto, sono rimaste sempre attuali e cioè: 1°, che cosa ha fatto allora il Cristianesimo? 2°, qual è il compito del Cristianesimo per l’avvenire? Dalla risposta a queste domande dipenderà il problema delle nostre responsabilità in ordine al passato e all’avvenire. Che cosa ha fatto il Cristianesimo per impedire la catastrofe? Nulla, si risponde dall’altra sponda, da parte di quelli che credono di aver fatto il gran salto e di aver ormai superato il valico mettendosi al di fuori e al di là del periodo cristiano della storia; nulla, insistono, perché non poteva far nulla, avendo esso esaurito la sua funzione, ed essendo storicamente finito. Si è fossilizzato nei suoi intangibili principi e gli è sfuggita la vita che sempre si rinnova e crea sempre nuovi problemi ed esige sempre una soluzione che il Cristianesimo non può più dare, il nostro progresso gli è ormai estraneo. Nel “Corriere della sera”, Curzio Malaparte60 scriveva: fra i tanti che dalla guerra usciranno gravemente diminuiti, se non peggio, sono da mettere i valori del Cristianesimo. Bon. La stessa cosa era stata detta e ripetuta da altri dentro e fuori l’Italia. Bonaiuti ha detto che Roma, ossia la chiesa cattolica, è ormai una meccanica ed arida tradizione, non è più vita; mentre per Benedetto Croce61 si è ridotta ad un semplice raggruppamento di interessi politici. È superfluo il dire che noi non pensiamo a questo modo. Per pensare così, bisognerebbe essere anche noi oltre il valico, come oltre il valico si credono quelli, mentre riteniamo nostro tesoro più prezioso l’essere nel grembo della chiesa. Ora non possiamo indugiare in un esame dei principi cristiani, ci porterebbero fuori, né d’altra parte, ve n’è vero bisogno, essi sono presenti nei nostri spiriti in tutta la loro vitalità e ogni qual volta su essi meditiamo, ci troviamo così prodigiosamente fecondi e freschi che neppure il sospetto ci viene che siano incapaci di interferire nella vita

60 (Nota 42) Scrittore italiano (1898-1957). 61 (Nota 43) Filosofo, storico e critico italiano (1866-1952).

138 degli uomini di oggi. Essi hanno tuttavia la forza del fermento di cui parlava Cristo, del fermento capace di sollevare la massa. Forse, anzi mai come oggi, appare la capacità dei principi del Vangelo, perché mai come oggi, si vedono le conseguenze disastrose dell’aver abbandonato Cristo, tanto che Chesterton62 poteva dire che l’ora del Cristianesimo ha ancora da venire. All’estromissione del Cristianesimo noi rispondiamo con le parole stesse del S. Padre nel messaggio natalizio del ’41. Gli uomini si sono ribellati al Cristianesimo vero e fedele a Cristo e alla sua dottrina, si sono forgiati un Cristianesimo a loro talento, un nuovo idolo che non salva, che non ripugna alle passioni della concupiscenza della carne, dell’avidità dell’oro e dell’argento che affascina l’occhio, alla superbia della vita, una nuova religione, una maschera del Cristianesimo, senza lo spirito di Cristo, ed hanno proclamato che il Cristianesimo è venuto meno alla sua missione. Prima si è falsato il Cristianesimo, lo si è svigorito riducendolo e diminuendolo in maniera che fosse inefficace e poi si è proclamato: il Cristianesimo è morto. Non si sono più rivisti i suoi principi autentici, non se ne sono sviluppati i dettami e le soluzioni che alle questioni sempre nuove offre e l’annuncio è passato di bocca in bocca, accettato con dubbio e meraviglia dapprima, ma poi sempre con maggiore considerazione Il Cristianesimo è morto, sì, è morto quel tale Cristianesimo, è andato in rovina, si è sfasciato, ma quello non è il Cristianesimo, è il nostro cattolicismo, risponde per tutti il Papa. Per noi il preciso intento del Cristianesimo, si può concludere con un non luogo a procedere ma evidentemente con questo non abbiamo risolto il problema. Il problema rimane, bisognerà farne conto diversamente, ma rimane. E cioè, se c’è un Cristianesimo sempre vivo e vitale, come si spiega la sua inefficienza? Si può rispondere che ciò è dipeso dalla mancata applicazione dei principi cristiani alla vita, alla separazione fra religione e vita alla quale accennavamo, così come inefficace è una medicina, per quanto ottima, se non viene presa. E al Cristianesimo è toccata anche questa avventura, invero curiosa, gli si è messo spesso il bavaglio, lo si è incatenato e poi altrettanto scioccamente quanto altezzosamente lo si è accusato di non parlare e di non muoversi. Tuttavia neanche questa risposta è del tutto risolutiva, ancora una volta non fa che spostare la

62 (Nota 44) Chesterton Gilbert Keith, scrittore inglese (1874-1936).

139 nostra ricerca, altre domande ci si parano davanti: perché tale applicazione dei principi cristiani alla vita è mancata? Non sempre, né ovunque infatti al Cristianesimo fu posto il bavaglio o fu messo in carcere e anche quando ciò avvenne, perché poté avvenire? Come mai non riuscì a creare un’atmosfera in cui tali attentati non avessero potuto assolutamente verificarsi? Il mondo non è più cristiano, ma lo era almeno in parte, diventato. Come mai si è scristianizzato o si è lasciato scristianizzare? E se il Cristianesimo ha in sé tanta forza di attrazione, perché gli uomini si sono allontanati da esso? Chi ha la responsabilità di quanto è accaduto? Domande gravi! Che fanno pensare e si impongono alla nostra riflessione!! Sul banco degli imputati possiamo far sfilare molti responsabili a incominciare dal protestantesimo, dalla filosofia razionalista, dall’economia liberale, per finire alla politica anticlericale e laica. E’ la solita requisitoria: l’abbiamo altre volte considerata e ci sono note le tappe del fatale distacco, ma questo è un guardare la cosa troppo dal di fuori, da giudici, è tempo che schiettamente fra gli indiziati mettiamo pure i cristiani, che non hanno fatto quello che avrebbero dovuto fare. E perciò se non al Cristianesimo è ai cristiani che si deve fare il processo perché proprio a noi risale in parte la colpa. Se il mondo non sente più il valore del Vangelo e ha dimenticato Cristo, ciò è anche perché gli stessi cristiani non hanno vissuto abbastanza Cristo e non hanno così valorizzato sufficientemente il Cristianesimo. “Non pochi di coloro che si chiamano cristiani – dichiarava nel messaggio natalizio del ’42 Papa Pio XII – entrano in certa guisa nella responsabilità collettiva dello sviluppo economico, dei danni e della mancanza di altezza morale della società moderna.” Naturalmente per essere completo il processo non può essere limitato ai cristiani d’oggi soltanto, noi infatti insieme con le nostre proprie colpe scontiamo anche le colpe delle generazioni che ci hanno preceduto. Non è facile dire quali colpe siano maggiori, pur ammettendo che senza dubbio più grave è la responsabilità di chi ha lasciato sfondare il fronte, che di chi non l’ha potuto ristabilire. E in sostanza, per noi l’indagare riesce superfluo, perché di fatto la solidarietà storica carica su di noi anche le colpe del passato e ciò che ora a noi più preme è ricercare oggettivamente le colpe stesse per ripararle e trarne insegnamento per l’avvenire. Abbiamo ridotto la nostra autoaccusa in

140 fondo a questo: i cristiani non hanno abbastanza vissuto Cristo, non hanno vissuto cioè tutto il Cristianesimo e non l’hanno vissuto con tutta l’anima, totalmente. Troppe transazioni si sono fatte, a troppe debolezze si è ceduto, a troppi accomodamenti ci si è adattati. I cristiani hanno spesso vissuto a margine della verità, senza viverla, senza penetrarla profondamente. La verità è perciò apparsa arida, ridotta a formale, senza risonanza nella vita, la quale per conseguenza si rivelò superficiale, qualche volta perfino in contrasto con la verità professata. E la stessa vita spirituale, per la dimenticanza del grande piano divino si fece complicata fino a confondere la devozione con le devozioni, le pratiche con la pietà, le opere con la carità, le formalità con la vita, e voi vedete come questi equivoci formalizzino molti cuori. Come poteva il mondo sentire l’influenza di questi cristiani? Che anzi ne fu urtato, perché credette di scorgervi una mancanza di sincerità, un nuovo fariseismo63 pullulato64 nel Cristianesimo, donde la frequente accusa di ipocrisia fatta ai cristiani, accusa che giustamente con sdegno e fierezza rifiutiamo, ma che poco forse ci ha fatto riflettere potendo essere indicativa di un pericolo sempre presente. Una categoria di questi cristiani dicono che Mauriac65 li descrive in un suo romanzo del ’41, La Parisienne. Oggi vi sono cristiani che corrono avidamente alle fonti per dissetarsi e confortarsi e sentono il bisogno di vivere francamente e interamente la loro fede. Ne sono indici i tanto promettenti movimenti liturgici, le iniziative che hanno avuto origine e impulso dall’Azione Cattolica, la diffusione dei ritiri per esercizi spirituali, le pregevoli pubblicazioni che attingono direttamente ai testi sacri e ai padri della chiesa. Ma quanti sono costoro? E riescono questi pochi a vincere il disgusto che provoca il Cristianesimo immiserito che tanti altri cristiani professano e vivono? Anime elette hanno spesso notato le difficoltà in cui si trovano nel vivere a contatto con persone, specialmente cristiani, mediocri e grette. Pensate analogamente come molti, che forse cercano la verità e la vorrebbero veder vissuta, operare nella pratica attraverso coloro che dicono di esserne in possesso ed aspirerebbero ad essere

63 (Nota 45) Dottrina dei farisei, atteggiamento di chi guarda più all’apparenza che alla sostanza. 64 (Nota 46) Apparso. 65 (Nota 47) Mauriac François, romanziere francese (1885-1970).

141 abbagliati, si devono sentire male e delusi al contatto di cristiani piccoli e chiusi, nei quali il Cristianesimo sembra anche aver soffocato la fioritura delle virtù umane: che concetto si possono essi fare del Cristianesimo se non di una religione di mediocri e perciò di una religione mediocre? Di più, a molti cristiani è mancato il coraggio della propria fede, non hanno osato sfidare il mondo, opporsi alla sua mentalità e al suo andazzo, e il mondo li ha irrisi e disprezzati, o non hanno saputo reagire alle forze interiori che inclinano l’uomo al male, la lex peccati di S. Paolo, e così lo spettacolo doloroso della viltà innumerevole dei cristiani ha scandalizzato il mondo. Si è pensato a una mancanza di convinzione profonda, e purtroppo tante volte era così, donde l’accusa di fariseismo, ma si è pensato anche ad una mancanza di capacità intrinseca dell’idea cristiana, e non è così. Non è un luogo comune o obbligato e abusato argomento retorico, ricorrere all’esempio di Cristo e dei martiri, degli apostoli del Vangelo di ogni tempo. È una mirabile storia che sta a dimostrare quale fonte di energia sia la verità cristiana per chi la viva internamente trasfondendola in ragione di vita. E del resto lo stesso contenuto della predicazione di Cristo, suppone ed esige necessa- riamente prontezza al sacrificio in tutti quelli che l’accettano. Giustamente fu detto che il Cristianesimo o è eroico o non lo è affatto, ma il Cristianesimo non fu vissuto eroicamente dai più e con ciò si è contribuito a diffamare la religione nel mondo, facendola giudicare come religione di deboli e di paurosi. Pensiamo all’impressione profonda lasciata nei cuori dei pochi, dei pochissimi, che hanno vissuto interamente ed eroicamente il Cristianesimo, da un Cottolengo a un don Bosco a un don Orione, per limitarci a uomini vicini al nostro tempo e alla nostra vita. Il Cristianesimo di altri scrittori, di fronte ai santi ne è documento. Come diverso sarebbe il mondo se tutti i cristiani avessero vissuto interamente il Vangelo! Ma il mondo non ha visto che lo spettacolo miserando dei cristiani mediocri e paurosi e da questo ha giudicato il Cristianesimo! Questo ci porta ad osservare qualche altra cosa: lo stesso movimento cristiano, si è lasciato alle volte attorniare dalla massa dei mediocri e dei deboli. Un difetto di tempestività si è infatti spesso registrato nell’azione dei cristiani. Non si sono sempre osservati a tempo i cambiamenti operatisi nel mondo e non sempre in tempo si è fatto

142 fronte con mezzi nuovi alle situazioni nuove. Mentre i tempi correvano, si bruciavano le tappe, i cristiani si direbbe che se ne siano stati appartati, assenti, come se ciò che accadeva non li riguardasse, oppure se ne sono stati neghittosi a contemplare, paghi solo di criticare e di condannare. Molti hanno fatto così per timore di novità o per amore della tradizione, ma dietro questi sentimenti spesso si nascose tardità di cuore, e guardate che sono Pio XI nella Quadragesimo anno e Pio XII nel messaggio Natalizio del ’42, a dirlo. Nella prima il testo latino è tradotto nel testo ufficiale italiano con “troppo teneri dell’antico” un fissarsi duro e ostinato, tenace ed infantilmente caparbio in ciò che è ignavia e egoismo, spiegava Pio XII nel citato messaggio. Né ogni novità è male, né ogni tradizione è buona, se Pio XI non ha temuto di parlare di una nuova filosofia sociale instaurata da Leone XIII e se Pio XII irride la tranquillità di coloro che sono riluttanti a por la mente a problemi e nelle questioni che il volger dei tempi ed il corso delle generazioni coi loro bisogni e col progresso fanno maturare. Non è saggezza lasciarci rimorchiare dalla storia, bensì il saperla dominare, e la storia si domina unicamente prevedendola e prevenendola. Ai cristiani l’atteggiamento fruttava l’accusa e il ridicolo di retrogradi mentre i movimenti sfuggono loro di mano, e l’occasione all’inazione o ad un’azione inadeguata fu forse talora una errata visione di fede e malintesa pietà. È doloroso constatarlo ma è necessario. Nulla di più santo della fiducia assoluta nella divina Provvidenza e specialmente circa le sorti della chiesa, avendo ad essa il Cristo promessa la sua assistenza fino alla fine dei tempi. Non è un falsare il concetto della Provvidenza divina, l’attendere tutto e solo da essa. Le vie prime della Provvidenza sono infatti gli uomini stessi, da essa fatti suoi strumenti consapevoli e coscienti e che essa ispira e sorregge. Ed è vero per la storia degli uomini presi come collettività quanto sapientemente S. Ignazio di Loyola66 diceva per la storia di ciascuno: agisci come se tutto dipenda da te e credi che tutto dipenda da Dio. I cristiani avrebbero così dovuto agire in ogni tempo come se la salvezza della chiesa e del mondo fosse loro totalmente affidato pur sapendo di dover ripetere la parola evangelica “servi inutili noi siamo”, con tutta persuasione e sincera

66 (Nota 48) Ignazio di Loyola, religioso spagnolo (1491-1556).

143 umiltà. Il consenso fattivo dei cristiani era indispensabile perché pende su loro sempre esaminatore il severo giudizio di S. Agostino. “Qui erravit sine te, non serbavit se sine te.”67 Ma vivere non fu sempre così. Si attese il miracolo fino a tentare Dio. Da questo breve esame dei mali che ci affliggono e dei doveri che ci incombono sorge una domanda: come riuscire a compenetrare la massa di queste idee e in conseguenza muoverle? Quesito importante, dato che abbiamo notato come la massa ha talora attardato col suo peso morto lo stesso movimento cristiano? Cattolici estremisti vorrebbero senz’altro uscire dall’equivoco e abbandonare alla loro sorte i falsi cristiani, ma evidentemente ciò non può essere fatto senza sacrificare l’essenza stessa del Cristianesimo che è carità. Il Cristo è venuto per tutti e tutti gli uomini. La chiesa, deve portarli a salvamento. “Deus vult omnes homines salvos fieri et ad veritatem pervenire”,68 proclama con solennità S. Paolo. Per cui non rimane che mettersi risolutamente all’opera, consapevoli della gravità del momento. In seguito alle considerazioni fatte intorno alle nostre responsabilità e ai nostri doveri come individui e come membri dell’organismo sociale, mi pare si possa convenire a due mezzi principali per ottenere lo scopo: - atteggiamento più chiaro e più risoluto verso quei cristiani che stanno ai margini e anzitutto verso noi stessi qualora l’ignavia ci collocasse fra quelli; perché risulti chiaro che non essi sono i rappresentanti genuini del cristianesimo genuino. - formazione di élite spirituale, cioè di guida o minoranze guida che sollecitino e dirigano il cammino degli altri. Il primo mezzo, cioè l’atteggiamento di risolutezza, riguarda particolarmente la preparazione individuale e deve essere sensibile ai seguenti punti: - fortezza di spirito nel saper sopportare, in qualunque tempo e lungo le traversie. - senso di giustizia intesa nel più ampio significato di giustizia politica, internazionale, fra le classi, e sensibilità ai suoi postulati; giustizia non

67 (Nota 49) “Chi errò senza di te, non servì se stesso senza di te.” 68 (Nota 50) “Dio vuole che tutti gli uomini, salvi e pieni di fede, pervengano alla verità.”

144 avulsa dalla carità, ma anzi da questa resa più umana e desiderata in maniera che si possa dire che la carità è una superiore forma di giustizia. - onestà e lealtà nel riconoscere i propri torti e i propri difetti, disciplina interiore con coraggio e rispetto della duplice gerarchia dell’autorità e dei valori. - solidarietà soprannaturale che è la forza del cristiano. In ogni uomo è il volto di Cristo: tutti i rapporti devono essere impostati a questa realtà. Il secondo mezzo, cioè la formazione dei gruppi guida, investe la nostra preparazione in funzione sociale e ci induce a richiamare le due principali forme nelle quali va riversato: la famiglia e la professione. Raggiungerà lo scopo se sarà irrobustito da: - cultura religiosa adeguata allo sviluppo e alle informazioni raggiunte negli altri campi. - formazione interiore seria, per la quale la lex peccati di S. Paolo non prevalga o quanto meno non alteri la vivezza della fede, sia veramente l’anima dell’apostolato. - unità interiore onde evitare fratture e compartimenti chiusi in maniera da essere sempre e ovunque, anzitutto e soprattutto dei cristiani. - nessuna diffidenza od ostilità di fronte al progresso del mondo moderno, ma di tutto far mezzo di elevazione, così i cattolici saranno fedeli alla missione che in questo momento è la più importante, di rappresentarci il Cristianesimo integrale e appunto perché integrale conquistatore: non quello quieto e fermo su posizioni difensive, ma un Cristianesimo vivo e audace lanciato verso l’avvenire che gli appartiene con tutta la sua ricchezza e la sua grande eredità, con tutta la sua freschezza e gioventù.

La prima di una serie di risposte!

Il campo di concentramento era un groviglio di reticolati e di baracche, ogni più piccolo spazio di terreno era cintato. Reticolati ve ne erano ovunque, tutto intorno, all’esterno; alti fusti frusciavano sbattuti da un vento insistente e gelido ed erano quasi mai spogli. Eravamo ai primi di ottobre e tutto ci diceva che la natura lentamente si assopiva. Anche la nostra mente andava perdendo la sua vivacità di pensiero. Al pari della natura ai primi di ottobre, anch’essa si annebbiava e non riusciva a formulare altro che pensieri tristi. Un’idea fissa balenava

145 oramai dentro di noi. Una parola tragica affiorava sulle nostre labbra. Prigionia! E lunga prigionia! Da alcuni giorni vagavamo su e giù in quel cortiletto, coltivando e maturando in noi la nostra pena. Quel mattino erano poco più delle otto, quando il solito stridulo fischietto ci chiamò per la solita snervante adunata. Ci adunammo svelti nel cortile, schierandoci di fronte alla baracca, eravamo più di 2500; trascorse molto tempo, tre quarti d’ora, forse un’ora. Il freddo penetrava nelle ossa e le guance erano ghiacciate. Radio scarpa lanciava le voci più strampalate sul motivo di questa ennesima adunata. Bagno, disinfestazione, fotografia, perquisizione personale alle baracche, ricerca di armi, radio? Ma invece questa volta la cosa era ben diversa, infatti dopo tanta attesa ecco comparire accompagnato dall’interprete un corpulento e massiccio ufficiale tedesco. Giunse innanzi a noi osteggiando un aspetto burbero e tracotante, era un capitano, ci fu ordinato l’attenti! Poi l’ufficiale, con voce rauca, un poco strozzata in gola, parlò brevemente all’interprete; questi rivolto a noi disse: «Il signor capitano tedesco chiede se già sapete che il Duce è stato liberato.» Nessuno rispose, breve attimo e poi aggiunse: «Chiede ancora se siete a conoscenza che, dopo la liberazione del Duce, una nuova Italia sta per sorgere.» Nessuno rispose, disappunto del capitano tedesco. L’interprete continuò: «Per ordine del signor capitano tedesco, chi di voi è fascista, alzi la mano.» Eravamo ancora sull’attenti e mai tale posizione fu mantenuta così perfettamente. Eravamo 2500 e più, avevamo freddo e fame, stanchi nel cuore, nei movimenti e nella mente, in terra inospitale e nemica, di fronte al capitano tedesco e vicino alla mitraglia, ma non alzammo la mano. Nessuno alzò la mano, allora il capitano sconcertato e deluso, fece aggiungere: «Chi non è fascista, alzi la mano.» Eravamo 2500 e più, di fronte a noi si delineava un destino fatto di sofferenze e di dolore, la via della prigionia si apriva di fronte a noi per carpirci e buttarci nella voragine. Le miniere, le fabbriche, gli altiforni, gli Arbeitskommando69 erano lì in agguato per carpire la preda.

69 (Nota 51) Squadre di lavoro.

146

Tutti alzammo la mano. Tutti, nessuno escluso! In quell’istante soprattutto ci sentimmo Italiani. Capivamo che solidali e compatti, dovevamo accettare l’avverso destino pur di salvare l’Italia, ricordando agli Italiani che l’ora della risoluzione era giunta. L’ufficiale riprese: «Da dove vengono?» «Dalla bella Dalmazia, Alba- nia, Grecia», gli fu risposto. Sorriso! Di scherno o di malizia? Quali pensieri passano per la sua mente? Ma il suo grugno non conta. La nostra sorte era decisa. Noi l’avevamo scelta. Così ai lager, un lager di 650.000 giovani quasi spinti da un muto tacito ed intuitivo accordo furono primi nell’esempio. Addio Italia bella! Addio mamma, non piangere, un giorno tuo figlio tornerà. Eravamo 2500 e più e alzammo tutti la mano. Il calvario incominciò, ma il burbero e corpulento capitano tedesco, sconcertato e deluso, se ne andò con le pive nel sacco.[70]

[70 Alla fame, alle privazioni e ai maltrattamenti che dovevano subire gli internati si aggiungevano anche i pressanti inviti rivolti da ufficiali e funzionari civili rappresentanti della RSI che visitavano in giri di propaganda i campi per indurre i prigionieri ad aderire alla neonata repubblica di Mussolini. Citiamo un episodio ricordato da Orazio Leonardi, in un capitolo del suo memoriale significativamente intitolato L’ignobile proposta, alla data di metà settembre del 1943, quando venne a visitare i prigionieri di Sandbostel anche l’ambasciatore italiano a Berlino Filippo Anfuso (LEONARDI 2012, p. 34): “Un mattino di metà settembre ci radunano, soldati e ufficiali, in un grande piazzale, saremo in cinquemila circa. Davanti a noi c’è un palco con microfoni e altoparlanti. Nell’attesa di quanto sta per accadere, facciamo le più svariate ipotesi. Poi arrivano diverse macchine, ne scendono ufficiali tedeschi e persone in abiti civili, uno dei quali si presenta come l’ambasciatore italiano a Berlino, Anfuso. Dopo averci arringati sul tradimento perpetrato da Casa Savoia, le autorità tedesche ci propongono, per riscattarci, di arruolarci nelle SS. La risposta a questa ignobile proposta è un’ondata di fischi.” Anche Guareschi narra nel suo Grande Diario al 19 settembre, a Sandbostel, la visita degli ufficiali fascisti che con scarso successo propagandavano l’adesione alla RSI, questa volta accompagnati dal console italiano di Amburgo (GUARESCHI 2011, p. 229): “Adunata dei sedicimila soldati e dei trecento ufficiali italiani presenti nel campo. Una tribunetta con altoparlante preparata in mezzo a un grande spiazzo. L’hanno anche decorata con dei festoni verdi. Il console italiano di Amburgo Oderigo e lo «squadrista Busetti» (così lo presentano) cercano di convincerci a collaborare con le SS germaniche. Aderiscono due tenenti e trenta soldati.” A seguito di questi giri di propaganda, nei campi nasceva perciò una situazione particolare e assai penosa, la divisione in seno agli stessi prigionieri tra

147

Dal 12.4.1945 Giovedì al 16.5.1945 Mercoledì

Metà della pagina è mancante perché strappata…

Anche i francesi si mostrano inquieti ma non si sono rifiutati di fare l’appello. Questa sera parlando con un colonnello francese mi assicurava che entro domani o al massimo domenica, saremo liberi. Dopo il rosario mi metto a redigere queste note, mentre il tuono dei cannoni in lontananza fa sentire la sua voce. La stazione di Saltan è saltata per aria, sia per bombardamenti aerei, che per carri munizioni che sostavano. Vivo queste ore con grande ansia e con grande gioia, in quanto il mio sacrificio di due anni di prigionia è valso a rendermi ossequiente al mio Re ed al mio giuramento.

13.4.1945 Venerdì

Vivo ancora sotto l’impressione degli avvenimenti che si sono succeduti e per i quali è doveroso ringraziare la Provvidenza per tutto quanto ha fatto per me. E ora la cronaca. La notte tranquilla come guerra, solo pallinamenti dei colpi di cannone in lontananza e dopo cena mangiate o divorate le patate, non potevo prendere sonno anche perché la sagoma del russo e la sua mimica mi balenavano alla mente. Quando gli indicai la medaglietta che tenevo al collo, il russo volle rassicurarmi che era cattolico e che professava la mia stessa religione.

Metà della pagina mancante…

Per cercatori fuori campo bisogna essere muniti di permesso. Alla cucina fervore di lavorio giacché la razione patate è stata portata a mille.[71] Più tardi ho fatto un giro per osservare e vedere la faccia di

“optanti” (una minoranza) e “resistenti” (la stragrande maggioranza). Tale situazione rifletteva la divisione del nostro Paese, stretto fra due eserciti stranieri e spaccato dalla guerra, che divenne anche guerra civile, in due stati, la RSI e il Regno del Sud.] [71 L’aumento della razione di patate pro capite è l’effetto della distribuzione extra di quintali di patate, ultimo atto del comandante tedesco, il colonnello von Bernardi, prima di lasciare il campo di Wietzendorf. La quantità di patate distribuita ai prigionieri provocò scene di entusiasmo alleviò di molto la fame arretrata, ma per molti, non abituati da mesi a mangiare tanto cibo, fu causa di letale costipazione

148 quelle povere sentinelle tedesche che alle porte senza la solita baldanza e col viso sempre fisso alla terra e con colore cadaverico eseguivano gli ordini che davano ufficiali italiani salutando con il solito saluto già in uso nell’esercito. Si assicura che non si uccise per non assistere a questo trapasso. Anche l’ufficiale prese contatti con il comandante[72] per dare e ricevere ordini. Intanto si andava di camerata in camerata per salutare ed abbracciarsi agli amici più cari, rievocando il patito, e soddisfatti della decisione presa. Giornata di festa, che per noi è e sarà la data più bella della nostra vita, perché si festeggerà al ritorno in Italia.[73] Nel pomeriggio erano segnalate nei parchi in vicinanza del campo, le prime pattuglie inglesi ed il comandante di tutto il campo, Duluc,[74] un colonnello francese, faceva uscire delle pattuglie con dei segnali, per indicare la nostra presenza, tanto più che la mitragliatrice si sentiva sparare in lontananza. Assistetti al reticolato che dava verso strada, al passaggio di borghesi specie di donne e bambini che, portando dei piccoli involti su biciclette o mezzi trainati, abbandonavano le loro case per rifugiarsi altrove. Anche militari alla spicciolata se ne andavano, non più cantando canzonette alla vista di noi prigionieri italiani, ma a testa bassa. Così passò la prima giornata di libertà mentre il Terzo e Grande Reich se ne andava in frantumi. Ed ora il nostro comando alle prese con le difficoltà per il mantenimento di 4000 italiani e 3000 francesi. Si dice che diversi ufficiali, usciti per il lavoro, si sono presentati ai reticolati per essere ricoverati, ma che il colonnello francese abbia preferito farli intestinale. Sull’episodio della distribuzione delle patate vd. i ricordi di Antonio Colaleo in BARTOLO COLALEO 2017, pp. 226-227; anche Guareschi annota con soddisfazione al 13 aprile nel suo Grande Diario (p. 481): “Dicono che danno ottocento grammi di patate extra! (…) In totale millequattrocento grammi di patate mangiate.”] [72 Intendi: il capitano Lohse (il “capitano Armistizio” di Guareschi), che era rimasto l’unica autorità tedesca del campo di Wietzendorf dopo la fuga del colonnello von Bernardi e degli altri ufficiali.] [73 La partenza dei tedeschi dal campo fu salutata con scene di entusiasmo e di gioia tra i prigionieri. Annota Guareschi nel Grande Diario alla data del 13 aprile 1945 (p. 481): “Tutti si fanno belli. Saltano fuori, come per miracolo, divise diagonali nuove di zecca! Le bandiere tricolori fioriscono dappertutto.”] [74 Il colonnello francese Duluc ricevette la consegna del campo di Wietzendorf dal capitano Lohse, il capitano “Armistizio”, dopo lo sgombero della guarnigione tedesca il 13 aprile 1945 (vd. GUARESCHI 2011, p. 480-481).]

149 ricoverare altrove per tener distinti gli eletti dai reprobi.[75] Volontari e squadre miste a francesi sono andati in città mettendosi in contatto con le autorità per predisporre le requisizioni. Ed infatti a sera alcune vacche e maiali hanno fatto ingresso nel campo. A sera in baracca grandi canti mentre nostre pattuglie vigilano in attesa degli alleati che si attendono di ora in ora. Il signor Rosa ha lavorato per la costruzione della sua radio che andrà in funzione oggi stesso. Roosevelt si reca al congresso. I russi a Tarvisio, inglesi e americani occupano Verona. Queste sono le voci che circolano in campo e per le quali attendiamo la conferma.[76] Unico desiderio di noi internati è quello di poter far sapere alle nostre famiglie che ci troviamo al sicuro, almeno per il momento, e che il trapasso per il quale io personalmente tremavo, era avvenuto con calma e con dignità e fierezza da parte nostra. Ed anche per questo ne ringrazio il Cielo. Mentre scrivo dalla mia branda al chiaro di una candela, altri lumi brillano in lontananza.

14.4.1945 Sabato

Stanotte mi sono alzato per osservare vasti incendi con dense ed alte fiamme che si innalzavano al cielo rendendolo tutto rossastro. I tedeschi fanno tutto di notte, sembra che di giorno si voglia apparire calmi, mentre poi di notte si fa quello che non si è riusciti a fare alla luce. Si scappa di notte, si distrugge di notte; è un popolo maledetto, giacché l’unione di due di loro, riesce pericolosa alla stessa umanità. Raminghi e senza patria, così come si vedono in questi giorni con pochi fagotti e con biciclette o carretti a mano, vanno di paese in paese in cerca di un posto o se non dormono addirittura all’aperto. Anche il clima congiura contro di loro.

[75 “Eletti” e “reprobi” sono le categorie di prigionieri che Arpini nel suo diario distingue sul piano morale, ossia quelli che dissero “no” a qualunque forma di con i e quelli che scelsero di aderire alle proposte di tedeschi e fascisti (come lavoratori civili del Reich o arruolandosi nelle SS e nelle altre organizzazioni naziste o aderendo alla RSI). I “reprobi”, tra gli internati, erano riconoscibili perché uscivano giornalmente dal campo per lavorare nelle fattorie e nelle fabbriche vicine.] [76 Riscontro nel Grande Diario di Guareschi, alla medesima data (p. 481): “Notizie: alle ore 19 i francesi sono entrati in Italia, gli angloamericani a Verona, i russi a Tarvisio.”]

150

Mai il sole ha allietato così poco la nostra prigionia, cieli sempre tristi e nuvolosi e freddo, lo stesso vitto, lo stesso modo di ragionare, tutto lo[77] differenzia dal resto dell’umanità. Lo stesso consorzio civile ci penserà a metterli a posto dopo questa seconda esperienza di guerra. Anche oggi si sentono scoppi più o meno lontani di depositi che saltano, almeno così arguisco dalle dense nubi che salgono al cielo, ma di inglesi ancora nulla, si dice che siano chiusi e che gli alleati sono a venti chilometri da noi. L’esodo della popolazione è cessato ed oggi al reticolato un nostro soldato lavoratore ci assicurava che la popolazione non si muove e che tutti aspettano nelle loro case che la finisca al più presto. Quelli che cambiano residenza sono coloro che occupavano cariche e nel partito e nello stato e che avevano eletta residenza con famiglia nei luoghi di loro giurisdizione. Oggi cinquanta grammi di carne alla mano, tutti preferiscono alla mano, ottocento grammi di patate a fettine, duecento grammi di pane ben cotto fatto dai nostri soldati, margarina e zucchero della giornata e trecento grammi di rape. Una sbobba buona ottenuta con i pacchi in giacenza i cui proprietari erano irreperibili. Non so se questa ultima disposizione possa essere legale, ma qui vige il codice militare ed esso entra sempre anche quando non ci vuole la forza maggiore. La diatriba per il comando del campo per Angiolini[78] ed il Tenente Col. Pietro Testa, l’intrigo del Magg. Castellani ed i quesiti di Don Amadio. Angiolini ha molte colpe e la più grossa è quella che si era circondato di lestofanti e che lasciava fare. L’azione di questi lo coinvolge di responsabilità che lo hanno reso e lo rendono poco simpatico tra tutti gli ufficiali. Certo che anche i cappellani giunti prima gli hanno preparato bene il terreno. Per me il fatto che tutto il campo si sia schierato dalla cappella alla porta di uscita, per rendere onore al tenente trucidato da una fucilata tedesca mentre si

[77 Intendi: il popolo tedesco.] [78 Il Colonnello Arrigo Angiolini fu dall’agosto 1944 il comandante dei prigionieri italiani a Sandbostel, in sostituzione del tenente di vascello e Medaglia d’Oro Giuseppe Brignole. Egli aveva scritto all’ambasciata della RSI a Berlino, diretta da Filippo Anfuso, denunciando le penose condizioni di vita del campo di Sandbostel. Vd. l’annotazione di Serafino Clementi, prigioniero a Sandbostel, nel suo diario in data 4 dicembre 1944: CARINI 2015, p. 97. Sull’avvicendamento del Col. Angiolini al Ten. di Vascello Brignole ha parole caustiche Guareschi nel suo Grande Diario in data 15 agosto 1944 (p. 404).]

151 lavava,[79] ed egli comandante, non si è sentito il dovere di salutare con la sua presenza la salma che se ne andava, dico che questo suo atto me lo ha reso antipatico. La distribuzione viveri del S.A.I.M.I. veniva fatta a casaccio e come ordine del giorno aveva la truppa, quando ufficiali venivano trovati morti all’infermeria per esaurimento nel chiamare.[80] 1500 scatole di latte, quantità trascurabili, sulle sue manchevolezze di comando[81] ne ho parlato a suo tempo ed in date diverse; era però raggiunto per il momento l’accordo tra i due e cioè che l’inferiore non può né deve ignorare il superiore,[82] che deve informare. Anche Testa sembra non sicuro al suo posto, sì, ha fatto e continua a fare adunate e si raccomanda a tutti perché lo aiutino e gli facciano la claque, anche i cappellani sono stati invitati al lavoro. Il gagà Amadio[83] si dà da fare

[79 Si tratta del Tenente Vincenzo Romeo, calabrese di Siderno Marina, ucciso proditoriamente a Sandbostel, in pieno giorno, da una sentinella tedesca mentre, vicino alla fontana, faceva l’atto di appoggiare un suo asciugamano al filo spinato che recingeva il campo. La sua morte è datata da Guareschi nel Grande diario al 28 agosto 1944 (GUARESCHI 2011, p. 408): “Alle ore 10,30 (è stato) ucciso il tenente Vincenzo Romeo, (dal)lo stesso che ha accoppato il russo sabato. Stava lavandosi, lo curava. La palla di rimbalzo sulle ossa (si è piantata) nella nostra baracca (89 B).” Nel Diario clandestino, pubblicato anteriormente al Grande Diario ma da considerarsi come uno sviluppo successivo delle brevi note contenute in questo, Guareschi narra con dovizia di particolari la morte del tenente Romeo, ma la riferisce all’8 agosto (una probabile svista dell’autore, perché tutte le altre testi- monianze sono concordi sul giorno del 28 agosto: vd. GUARESCHI 199118, pp. 122-124). Riscontri anche in ZUPO 2011, p. 37, alla data del 28 agosto: “È stato colpito presso il reticolato il Ten. Romeo di Siderno M. È morto quasi subito.”, e nel taccuino di Serafino Clementi, sempre al 28 agosto del ’44 (CARINI 2015, p. 85), con l’indicazione dell’ora in cui avvenne il tragico episodio: “Ore 10,20: L’assassinio del Ten. Romeo – la vivissima indignazione…!”.] [80 Probabilmente Arpini intende che nelle distribuzioni degli scarsi quantitativi di viveri spediti a Sandbostel dal S.A.I.M.I., il servizio di assistenza per gli internati militari italiani creato dalla RSI, erano privilegiati i soldati rispetto agli ufficiali, anche quelli ricoverati nell’ospedale del campo. E di questa grave sperequazione attribuisce la responsabilità al col. Angiolini.] [81 Intendi: del colonnello Angiolini.] [82 Il superiore è il Ten. Col. Pietro Testa.] [83 Si tratta del cappellano militare don Francesco Amadio, che condivise la sorte dei prigionieri italiani a Sandbostel e a Wietzendorf. Don Luigi Pasa nel suo memoriale Tappe di un calvario ricorda più volte l’opera spesa da don Amadio per il conforto

152 per poter essere qualche cosa, e questo non va, faccia il prete ed attenda alla sua missione e, di più, lavori alla gloria del Signore e non alla messa in vista, ma lo scuso perché è un terrone. In serata vado a trovare il colonnello Fusi e con Angiolini parliamo delle cose passate e presenti. Di guerra si dice: sbarco a Trieste degli anglo-americani e francese a Genova. Angiolini ha famiglia a Milano in viale Romagna. Ricordo oggi il fervorismo di Don Pasa al termine del rosario e delle orazioni in camerata.

15.4.1945 Domenica

Mi vado domandando, da chi dipendiamo? A rigor di termini saremmo ancora dei tedeschi fino a quando il presidio loro non ci abbia consegnato agli inglesi, ma l’ufficiale chi lo vede, e i pochi soldati rimasti sono considerati solo portieri, giacché è questa la loro mansione. Fanno pietà ad osservarli: testa bassa e sempre pronti agli ordini dei nostri ufficiali i quali conservano nei loro riguardi modi corretti. Sempre così noi italiani, gridiamo, ammazziamo tutti, ma poi all’atto pratico dimentichiamo: è una dote che oggi ammiro tanto, quantunque per alcuni di essi (tedeschi) si dovrebbe applicare il contrario. Però il precetto di Cristo è certamente il più confacente al nostro temperamento: la miglior vendetta è il perdono. Al rapporto di ieri è stato raccomandato di evitare discussioni più o meno politiche con i francesi: c’è di tutto anche tra loro. Però la maggioranza sa comprendere le nostre condizioni e ce ne danno atto: “nessuno più di voi ha sofferto in questa prigionia e sarà nostro dovere darvene atto non appena saremo in grado.”[84] Nessun aiuto da nessuno ed alla completa mercé del tedesco, “del resto le stesse vostre condizioni di salute ce ne parlano assai eloquen- temente”.[85] La stessa disposizione del colonnello francese di non ricevere al campo ufficiali e soldati usciti per lavoro e di distinguere gli eletti dai reprobi, lasciando ai comandi poi nostri il vegliare sui volontari o precettati. Però tra loro c’è anche chi non ci vede di buon fisico e spirituale degli internati (egli tenne anche un corso sulla fede, a Sandbostel, vd. DON PASA 1966, p. 111), sicché le critiche dell’Arpini possono apparire ingiu- stificate. Non sappiamo però a quali fatti intendesse riferirsi il nostro autore.] [84 È un giudizio dei prigionieri francesi.] [85 Altro giudizio dei francesi.]

153 occhio, ricordando la nostra inferiorità politica pre- e durante la guerra. “Noi si voleva innalzare al campo la nostra bandiera”:[86] la risposta di Testa è stata disgustosa[87] e perentoria: “ovunque voi innalzerete la francese io inchioderò quella italiana.” Però tra noi c’è chi non si mantiene all’altezza della situazione, la sparizione degli oggetti per cambio al reticolato e certe facce così barbute e non lavate da tempo, si dà l’impressione, ed in questo caso realtà, di gente stracciona. O la bassa Italia, come andrebbe scossa e incivilita! Oggi al giornale parlato,88 ha parlato il colonnello Vita, per ringraziare del contegno dignitoso di questi giorni e comunicandoci che radio Londra ha annunciato notizie sensazionali entro le 24 ore. Vienna, Graz sorpassate; Italia, l’8a armata ha sferrato la sua offensiva. Brema e Bremerwörde[89] occupate. Tutto il fronte russo in movimento. Quali saranno le notizie sensazionali? Ne aspetto una sola che le comprenda tutte: fine. Viveri 1/5 latte, cento grammi marmellata, cinquecento grammi rape, pane duecento grammi, ricotta settanta grammi. Eccellente sbobba con carne e relativo brodo, patate ottocento grammi. Si continua a ragionare, la tabella nostra sarà

[86 È la richiesta dei francesi, propriamente del colonnello Duluc.] [87 Intendi: sdegnosa. Guareschi nota al 14 aprile 1945 nel suo Grande Diario (p. 482): “Contegno fiero del colonnello Testa nei riguardi anche dei francesi.” Leggiamo l’episodio come è narrato dal Col. Pietro Testa (nel suo memoriale Wietzendorf, a cura del “Centro Studi sulla Deportazione e l’Internamento”, Roma 19983, I ed. 1947, p. 143): “Si parlava un giorno dell’imminente arrivo degli inglesi. «Dovrò andare loro incontro» mi disse il colonnello Duluc. «Anch’io» risposi. «Ma capirà, per me rappresentano gli alleati. Innalzerò nel campo la bandiera francese». «Io non so che cosa rappresentano per me. So però, che siamo rimasti qui nel reticolato per la stessa causa e che quelli che verranno saranno ugualmente liberatori per voi e per noi. E di una cosa posso assicurarla, signor colonnello, che quando Lei innalzerà la bandiera francese, io innalzerò quella italiana».] 88 (Nota 52) Consisteva in una esposizione verbale di articoli, su vari argomenti. [Ingegnosa iniziativa opera delle migliori menti tra gli internati e diffusa in vari Lager, il “giornale parlato” ebbe funzione di stimolo intellettuale e di strumento per la coesione morale e politica dei prigionieri. Vi collaborarono intellettuali e scrittori come Enzo Paci, Giuseppe Lazzati, Armando Ravaglioli, Giovannino Guareschi, con i loro articoli di argomento filosofico, storico, letterario, umoristico. Sul “giornale parlato” a Sandbostel e a Wietzendorf, vd. Enrico Allorio, Giornale parlato, in PIASENTI 1977, pp. 147-151.] [89 Nel testo, Bremervoerde.]

154 uguale o superiore a quella francese. Il capitano tedesco Lohse[90] ci tiene, dopo quello che ci ha fatto soffrire, a volerci dimostrare la sua simpatia per lo spirito eccezionale che abbiamo dimostrato nella sofferenza. Non ragionavi così tu giorni fa, se ci pensassi al freddo e all’acqua che ci hai fatto prendere prolungando gli appelli per una ragione non giustificata, e con punizioni collettive; se ha coscienza, gliela deve sentire mordere e come!! E pensare che credeva alla vittoria anche pochi giorni fa. Si dice che non appena ci avranno consegnati, si metterà, e con lui gli altri, in abiti borghesi e sarà inviato a casa. Sono arrivati anche quest’oggi quattro camion della C.R.I. con pacchi per i francesi, per noi ci si assicura l’arrivo domani o dopo. Non capisco come non lo abbiano fatto subito oggi, ben sapendo delle nostre condizioni, anche qui funziona il “morgen”.[91] È in campo un soldato da Vidolasco, Lucini, l’ho invitato a venirmi a trovare per vederlo e conoscerci. Verso le ore 20 sparatoria intensa di cannone e mitraglia e dense nubi al cielo, mi si assicurava la pattuglia a 3 km da noi. La postazione anticarro vicino al campo, verso le 20,30 ha fatto zaino, ha gettato il pane entro il reticolato e dopo averci salutati, fertig,92 se ne sono andati per la campagna. Veniva subito ordine del comando di ritirarci nelle camerate e di non uscire per nessun motivo giacché le mitragliatrici si odono vicine, e borghesi che vanno in campagna ne

[90 Il capitano Lohse, o capitano “Armistizio”, come viene chiamato da Guareschi, era un vecchio e asmatico militare tedesco dall’aria bonaria e inoffensiva, che finì impiccato dalle SS per aver ceduto il campo di Wietzendorf ai prigionieri italiani, il 13 aprile 1945. Al capitano “Armistizio” Giovannino Guareschi dedica, con malcelata simpatia, un intero paragrafo del suo Diario clandestino (GUARESCHI 199118, pp. 210-212) e lo cita in varie annotazioni nel Grande Diario (GUARESCHI 2011, pp. 480, 484, 485, 499). Vd. anche ODORIZZI 1984, pp. 145-146. Anche a Lohse Arpini imputa, però, i maltrattamenti subiti a Wietzendorf, sicché riuscirebbe difficile, leggendo queste righe, classificarlo tra i “buoni tedeschi”. Ma Lohse ebbe il merito di aver salvato la vita a molti ufficiali italiani e in suo ricordo il consolato italiano di Hannover e i reduci di Wietzendorf, rappresentanti dael’associazione GUISCO, nel 1987 hanno posto una lapide in quel campo tedesco: vd. BARTOLO COLALEO 2017, pp. 277-278.] [91 Morgen (“domani”) era la desolante risposta che quasi sempre le guardie e gli ufficiali tedeschi davano alle richieste degli internati italiani. Quel morgen in realtà voleva dire njemals (“mai”).] 92 (Nota 53) “Pacifici, tranquilli.”

155 assicurano l’arrivo in città. Il nostro comando sta mettendosi in collegamento[93] per indicare la nostra posizione, li attendiamo a minuti nel campo. Nessuno dorme, tutti attendono e sperano che il trapasso avvenga senza incidenti. Le mitragliatrici sgranano senza interruzione e tre aerei sorvolano la nostra zona ed il nostro campo mettendosi in collegamento con le batterie.

16.4.1945 Lunedì

Questo è il giorno che ha fatto il Signore, le batterie tuonano vicine e la nostra liberazione è attesa di ora in ora. Tutta la notte batterie hanno bombardato a vicenda le loro postazioni e noi siamo nel mezzo.[94] Stamani ci si è alzati al suono di musica, speriamo che tutto non abbia conseguenze. Alle ore 9,20 l’ufficiale tedesco della postazione vicino al reticolato del campo ci avverte di stare tranquilli giacché fra un quarto d’ora salterà la postazione e la stazione ferroviaria. Le artiglierie s’incrociano rabbiose e i proiettili li sentiamo fischiare al di sopra delle nostre teste. Ciò non toglie che tutti assistiamo imperterriti in cortile, tanto più che un sole magnifico riscalda le nostre membra. Con esattezza direi matematica, una scossa tremenda e il fabbricato dall’altura del campo lo si vede alzarsi e precipitare. Per le postazioni un poco di terriccio e nulla più. L’ufficiale ci saluta e con i soldati s’incammina verso la pineta. In questo momento tacciono, giacché aerei sorvolano la zona, ma dense nubi salgono al cielo quasi ad offuscare e rendere tetra questa bella giornata di sole. I cingoli dei carri armati si sentono avvicinarsi in lontananza e dai rialzi della biblioteca li scorgiamo in lontananza. Verso le 16,45 mi precipito al primo ingresso del campo attraversando il precampo[95] perché mi si disse da un nostro soldato che si attendeva il comandante angloamericano. Difatti verso le 17, una

[93 Intendi: con gli angloamericani.] [94 Sappiamo dal Grande Diario di Guareschi che vi erano postazioni di artiglieria tedesca, mortai e razzi Katiusha, a nord-ovest, nord-est e sud-est del campo, ad una distanza fra i cento e i quattro metri dai reticolati (annotazione del 15 aprile 1945, p. 483). Ovviamente ciò esponeva i prigionieri al rischio altissimo di essere colpiti dal fuoco degli angloamericani.] [95 Il precampo o Vorlager era quell’edificio all’ingresso del campo ove si compivano la schedatura dei prigionieri, la perquisizione e la disinfestazione.]

156 macchina si avvicinò e ne discese un uomo ben rotondo[96] con una corona sulle spalline salutato dal presidio tedesco al comando del capitano[97] il quale saluta alla vecchia maniera e consegna la rivoltella. Le sentinelle ritirano le cartucce dal fucile che consegnano ai soldati prigionieri anglo-americani che si trovavano alla nostra infermeria. Il capitano tedesco piange. Il colonnello angloamericano[98] dà ordine di concentrare il presidio a Wietzendorf. Arriva poi un signore tedesco il quale detiene in mano delle chiavi e ne fa omaggio all’ufficiale il quale le ritira e se le pone in tasca. È il borgomastro di Wietzendorf che è venuto a fare atto di sottomissione. L’ufficiale è di modi compiti, ringrazia e dice delle parole che non posso afferrare. Ho vicino a me una persona che parla inglese e che mi traduce. Si spalancano i cancelli e tutto il campo si mette ai due lati, entra in campo e viene portato a

[96 Si tratta del maggiore inglese Cooley, venuto a liberare – incredibilmente, soltanto con la sua scorta personale – il campo di Wietzendorf. Il tenente colonnello Pietro Testa, comandante dei prigionieri italiani nel campo di Wietzendorf, scrive che il maggiore Cooley giunse nel pomeriggio, alle ore 17,31, a bordo di una berlina nera. Ne riportiamo in proposito i ricordi del 16 aprile 1945 (da PIASENTI 1977, p. 310): “Alle ore 11 del giorno 16, vedevo, dalla finestra del mio ufficio, ad un km circa di distanza, sbucare sulla strada di Reddingen, diretto verso est, un carro armato; sostava, sparava, riprendeva la corsa; lo seguivano altri tre. Ne parlavo subito con il col. Duluc. Non potevano essere che inglesi o americani. Ma il combattimento si spegneva e tornava la calma. Noi restavamo in ansia. Al pomeriggio sedevo, in ufficio, preso da mille pensieri e da una idea fissa: dove erano? quando sarebbero arrivati? Di scorcio, dalla finestra, potevo vedere a 15 metri il cancello del campo. All’improvviso un movimento. Si ferma una vettura, una berlina nera; scendono uomini in kaki, armati. Guardo l’orologio: sono le 17.31; poi mi precipito fuori. Era arrivato il liberatore, il maggiore inglese Cooley. Aveva lasciato il suo reparto carrista al ponte saltato di Marbostel, un chilometro fuori di Wietzendorf; aveva proseguito accompagnato da un soldato. In paese, aiutato da due ufficiali francesi e da due soldati italiani, aveva disperso un gruppo di soldati tedeschi con una mitragliatrice. Si era impadronito di una vettura privata ed era arrivato al campo.” Il maggiore se ne va promettendo di ritornare con dei rinforzi. Il giorno dopo, però, ritornano i tedeschi, questa volta le SS, che si fanno restituire le guardie catturate dagli internati e impiccano il comandante tedesco del campo, capitano Lohse (il capitano “Armistizio”), reo di aver ceduto Wietzendorf ai prigionieri italiani.] [97 Intendi: il capitano Lohse.] [98 In realtà è il maggiore inglese Cooley.]

157 spalla. Bandiere italiane hanno fatto la loro apparizione. Si grida e si piange. Sono momenti che non si descrivono ma si vivono intimamente, lo si accompagna al campo francese perché lì terrà rapporto ai due comandanti.[99] Avrebbe detto di avere il grosso delle truppe a 4 km e che potevano entrare ieri sera ma non lo hanno fatto per evitare danni al campo e per un ponte saltato. Comunicherà l’entusiasmo trovato al campo e le nostre condizioni di salute. All’uscita si portò con sé l’ufficiale tedesco. Sono signori anche con i prigionieri. Sono entrato in camerata e subito ho disteso queste note perché rappresentino i sentimenti che sgorgarono in quelle ore. Il presidio tedesco era là convocato perché dovevano essere di picchetto armato ai funerali del capitano Palieri Filippo.[100] Cooley, il maggiore inglese, è entrato da solo con una macchina in Wietzendorf in attesa del grosso delle truppe che a 4 Km attendono la riparazione di un ponte fatto saltare in aria. Mentre passava il capitano Lohse, ho gridato come del resto faceva sempre lui: «Raus, raus!» Ma fui zittito. Si disse: «Piange.» Rispondo: «Anch’io ho pianto.» Più nessun segno di guerra si ode in territorio, ora si attende solo il giorno della partenza. I francesi dicono che 500.000[101] verranno trasportati per via aerea. In serata vado alla ricerca di novità, perlomeno di sapere qualche cosa dei colloqui con il maggiore inglese. Le so dallo stesso colonnello Testa. L’ufficiale inglese è un ammiratore dell’Italia e degli italiani ed ha affrettato la sua personale entrata in Wietzendorf sapendo delle nostre condizioni, crede che il nostro rientro, se si fa come in precedenti casi, possa avvenire fra otto giorni, parte in camion, parte via aerea. La notizia è tanto bella che si resta scettici. Prenderà ancora contatto col borgomastro, perché ci siano assicurati i viveri, e da oggi

[99 Ossia al tenente colonnello Testa, comandante degli italiani, e al colonnello Duluc, comandante dei prigionieri francesi a Wietzendorf.] [100 Secondo il memoriale di don Luigi Pasa il maggiore Cooley sarebbe entrato con la sua macchina a Wietzendorf proprio mentre si svolgevano i funerali del Capitano Filippo Palieri, il quale era morto il 13 aprile, pochi giorni dopo essere uscito dall’infermeria: ai funerali del Palieri assistette il picchetto armato tedesco, per rendere gli onori al defunto, vd. DON PASA 1966, p. 159.] [101 Intendi: prigionieri. Sull’onda dell’entusiasmo per la liberazione, cominciavano a circolare voci di un immediato e comodo rimpatrio. In realtà i prigionieri, e tra essi l’Arpini, dovettero attendere vari mesi prima di tornare in Italia.]

158 anche noi volontari prigionieri, saremo considerati di guerra e concorreremo ai servizi nella stessa misura dei francesi. In serata distribuzione di un secondo chilo di patate, assalto ai depositi di legna e tutti cucinano. Il bello oggi è stato due kg di patate, 185 grammi di pane, una buona sbobba e 110 grammi di carne. Nel ritorno dal precampo ho visto il capitano tedesco Lohse che prigioniero con gli arnesi che da 20 mesi adopero, li trasportava al suo alloggio accompagnato da un prigioniero francese con baionetta innestata; mi ha fatto pena, oggi a me, domani a te, che mediti sulle angherie usateci, e di quegli appelli interminabili con punizioni, in un clima rigidissimo. Prima di coricarmi ringrazio il Signore per la sua assistenza durante questo passaggio da prigioniero a libero, in questo putiferio di proiettili e mitragliatrici, e nessun incidente verificatosi in tutto il campo.

17.4.1945 Martedì

Ho assistito alla S. Messa che per me fa da ringraziamento per il modo come il Signore mi ha tolto da questa situazione e l’ho ringraziato di cuore. Se ci penso al passato sofferto, alle condizioni precarie di salute per l’internamento, digiuni passati e all’epilogo della tragedia bisogna proprio concludere che, se il Signore è stato con me prodigo della Sua assistenza, i proponimenti fatti in questi 20 mesi di calvario, il Signore mi dia la forza di avvalorarli con una vita che sia esempio alla mia famiglia. Ho pensato molto e poi molto ad essa, specie all’avvenire di essi,[102] che crescano per primo col santo timore di Dio, sì, il Signore mi dia fortuna per avviarli al lavoro con fortuna. Ho pensato anche alla patria, per la quale ho sempre nutrito amore e per la quale ho sofferto. L’amore per essa inculcatami durante la mia istruzione, i sentimenti che per essa ho sempre nutriti, buona parte mi hanno aiutato a superare questi tributi e spine, per il coronamento di questi ideali. Oggi, contentissimo, ho versato lacrime di gioia. La mia patria, che essa viva, prosperi, con quegli ideali per i quali tanti nostri compagni d’armi hanno versato il loro sangue e per quelli che in questo frangente qui con me hanno raggiunto immaturi il loro traguardo. Certo

[102 Intendi: i figli.]

159 che ieri il tentennamento di molti nel vedere la nostra bandiera con la corona di casa Savoia, ha avuto momenti di incertezza, il che è apparso, almeno mi è sembrato, che su quella corona molti vi abbiano posto il loro punto interrogativo. Che proprio il nostro Re di Vittorio Veneto sia proprio in discussione? E perché? Riconosco che ha delle responsabilità che si è accollate durante il ventennale ma chi legge “bastone e carota” può benissimo comprendere in quale posizione era venuto a trovarsi, dopo che la nazione aveva desiderato e voluto l’esperimento fascista aggravato dalla organizzazione totalitaria di esso. Io che allora militavo nel partito popolare e che quelle ore ho vissuto, so purtroppo come la pensava la totalità degli italiani e come si guardava al fascismo come unica soluzione del momento, e vi ha partecipato poi la totalità. Le adunate che avvenivano in tutte le città italiane, specie alla presenza del Duce, ne rappresentavano l’animo. Al toccare il Duce vi era veramente pericolo di morte tanta era la sua popolarità o ascendente fra tutte le classi sociali. La colpa della corona[103] è quindi colpa nostra, giacché noi stessi abbiamo dato motivo alla stessa, con la nostra condotta, a farle prendere quelle decisioni che ora si vogliono addossare alla Maestà. Mi ricordo durante la mia ultima licenza quanto mi disse l’avv. Brando: tutti gli italiani debbono battersi il petto, chi lo104 seguì ciecamente e in lui ha creduto, ben conoscendo il passato e memore del proverbio “il lupo cambia il pelo, ma non il vizio”. Chi aderendo ha cercato di trarne più profitto che gli servisse, e quelli in buona fede che accortisi dell’errore, supinamente non tentarono di reagire. La libertà si acquista, non la si subisce. Il 25 luglio e poi l’8 settembre è la stessa Sacra Maestà che conoscendo il suo popolo e giunto il momento opportuno ne assumeva la responsabilità condividendola con il proprio popolo: la storia dirà se egli abbia visto lungo. Per noi oggi pare di sì. In Italia avrò modo di approfondire al riguardo la mia tesi che fin da questo è coronamento del passato: Viva il Re, Viva casa Savoia, Viva Vittorio Emanuele. Oggi all’albo del campo è apparso il seguente ordine del giorno, chiamato ordine della liberazione:

Wietzendorf 16.4.1945 ore 17.31

[103 Intendi: di essere stata complice della ventennale dittatura mussoliniana.] [104 Intendi: Mussolini.]

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Ufficiali, sott’ufficiali, soldati italiani del campo 83 di Wietzendorf: Siamo Liberi! Le sofferenze di 19 mesi di internamento, peggiore di mille prigionie, sono finite Abbiamo resistito nel nome del Re e della Patria. Siamo degni di ricostruire. Ufficiali, sott’ufficiali e soldati italiani! Ricordiamo i nostri morti, morti di stenti, ma fieri nelle facce sparute, sotto gli abiti a brandelli, con una fede inchiodata alta come una bandiera. Salutiamo la Patria che risorge, che noi dobbiamo far risorgere. Viva il Re, Viva l’Italia, Viva le nazioni alleate [105] Firmato: Il Comandante Ten. Col. Pietro Testa

Questa mattina il comandante venuto nella nostra Stube,106 ci comunica a viva voce quanto il maggiore inglese ha detto circa il nostro rimpatrio. I nuovi prigionieri[107] sono stati sottoposti a perquisizioni e al bagno. Si ricordino i detentori che noi dopo due mesi abbiamo potuto lavarci, e le perquisizioni vanno intese nel vero senso della parola: spogliazione, a più riprese, perché chi ci perquisiva potesse servirsene di tutto quello che occorreva, ma non c’era da protestare. Che dire poi del gesto e della portata e conseguenza politica dell’8 settembre? Se ne giudico solo da quel poco che so, il gesto è stato di grande portata politica che ha un solo difetto, di essere venuto troppo in ritardo. Ad ogni buon conto l’intervento della corona, quando la nazione ha bisogno di direttive, è di assumersi le responsabilità. Se la politica del controcorrente, della voce grossa, e della imposizione non si fosse realizzata, se noi ci fossimo tenuti dalla parte degli alleati[108] o quanto meno neutri, avremmo risparmiati tanti danni e dolore agli italiani tutti, ed oggi saremmo in condizione di sederci al tavolo della pace senza rossore e vergogna.

[105 La versione dell’ordine del giorno della liberazione del Campo 83 di Wietzen- dorf, riportata in GUARESCHI 2011, p. 95, reca la firma anche del capitano Avogadro. Nella versione riportata da DON PASA 1966, p. 160, mancano le parole Viva il Re, Viva l’Italia, Viva le nazioni alleate.] 106 (Nota 54) “Camerata.” [In minuscolo, nel testo.] [107 Intendi: i soldati tedeschi catturati e disarmati.] [108 Intendi: degli angloamericani.]

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Il gesto di Badoglio ha tutta la mia adesione e consenso formale, sia come italiano credente che vecchio combattente della grande guerra.[109] Noi questa guerra non l’abbiamo mai sentita né voluta, è stata decisa da due[110] che si diffidavano a vicenda, che bluffavano ben sapendo di farlo, e da tutta una cricca di politicanti che applaudivano in ragione delle prebende distribuite, e così prostituirono la nazione tutta. Si confronti l’Italia di Vittorio Veneto e quella mussoliniana e si vedrà che noi non abbiamo fatto altro che distruggere e non sostituire, nel campo dell’arte, della gente non preparata al domani, né ad avere un suo modo di vedere e ragionare. Le belle arti, tutto ridotto alla porcheria del ’900, ed intanto il ridicolo e le voci sommesse di commiserazione su tutta l’impalcatura politica; che cosa potevamo fare se il loro prestigio venne messo in discussione, ed il mito distrutto?[111] Oggi al panificio, due soldati nostri e francesi con alcuni ufficiali di quest’ultimi, vennero prelevati da soldati delle S.S. e portati quali pri- gionieri con loro; gli italiani vennero rispettati, e chiesero[112] la liberazione della scorta che era detenuta nel campo se volevano che i

[109 Per la verità il giudizio degli storici è molto severo non tanto verso l’armistizio quanto verso la gestione dell’armistizio, che si risolse nella catastrofica dissoluzione dello stato unitario e delle Forze Armate italiane. Si veda il seguente giudizio di Elena Aga Rossi (in Una nazione allo sbando. L’armistizio italiano del settembre 1943 e le sue conseguenze, il Mulino, Bologna 2003, nuova ed. ampliata, p. 197): “Gli avvenimenti del settembre 1943 dimostrano che vent’anni di regime totalitario avevano annullato ogni capacità della classe dirigente, e particolarmente dei quadri militari italiani, di assumere responsabilità prendere decisioni. Costituiscono anche la prova evidente dell’inadeguatezza della monarchia di fronte al grave compito di guidare il paese fuori e oltre l’esperienza fascista.” Ma già durissime critiche sul contegno del re, di Badoglio e dei generali aveva espresso nel dopoguerra il socialista Carlo Silvestri (colui che tentò vanamente di promuovere un pacifico passaggio di poteri tra la RSI e il CLNAI), in un suo volume intitolato significativamente I responsabili della catastrofe italiana, C.E.B.E.S., Milano 1946, pp. 52-53. Per il Silvestri il comportamento della classe dirigente del paese allora, tranne rare eccezioni, fu dominato dalla paura e dall’opportunismo.] [110 Intendi: Hitler e Mussolini.] [111 Probabilmente l’autore vuole intendere che la vecchia classe dirigente liberale non fu in grado di governare efficacemente il Paese, all’indomani della prima guerra mondiale, e si lasciò esautorare dal fascismo, che ottenne i consensi anche usando come argomento polemico il tema della “vittoria mutilata”.] [112 Intendi: le SS.]

162 francesi fossero rimandati ostaggi. Vennero lasciati ed in questo momento alla baracca tenda li vedo passare, sento anche il rumore di cannonate qui vicine.[113] Puntate tedesche in Wietzendorf approfittando che ancora nessun presidio militare alleato è entrato. È guerra all’americana. Sono però reparti sbandati che agiscono di loro iniziativa, questo indusse il comandante[114] ad affrettare l’entrata del grosso delle truppe.

18.4.1945 Mercoledì

[115] Ordine Wietzendorf 17.4.1945 firmato dal colonnello francese Duluc.

Diversi incidenti verificatisi sin dalla sera del 16.4 hanno dato luogo a gravissime misure contro il campo. Alcuni sobillatori[116] reclutati erano pronti ad aprire il fuoco contro il campo stesso. In seguito a delicate ed incresciose trattative col colonnello tedesco comandante il settore di combattimento, sono riuscito ad eliminare questa minaccia. Per eliminare ciò ho dovuto: 1°) liberare i tedeschi trattenuti nel campo dal 16 aprile, 2°) consegnare tutte le armi che si trovavano nel campo, 3°) assumere per il futuro l’impegno che nessuno, da

[113 Guareschi nel Grande Diario (pp. 486-487) fornisce il suo resoconto dell’epi- sodio, causato da una incursione delle SS nel paese di Wietzendorf ove si erano recati, per fare il pane, i prigionieri ormai liberi: “Quattro ufficiali francesi, cinque soldati italiani e due francesi sono al panificio in paese con un soldato tedesco. Quattro SS tedesche e un maresciallo scambiano i francesi per inglesi: mitragliano gettano una bomba a mano nel panificio. I francesi sono catturati, perquisiti e accusati di aver ucciso un tedesco (ndc: in realtà il tedesco era stato ucciso da soldati inglesi). Un ufficiale francese riesce a spiegare e rimandano al campo lui con i soldati italiani mentre gli altri tre ufficiali francesi e il soldato tedesco sono portati via dalle SS. Scorno francese. C’è nella zona un comando tedesco di settore. Sono entrati nel campo condotti da un patatoso ragazzo tedesco informatore. Alle 20 i tedeschi hanno restituito gli ostaggi francesi. Alcuni soldati italiani sono stati rimandati perché un vecchietto tedesco attesta che anche prima lavoravano nel forno.”] [114 Intendi: alleato.] [115 Questo è il testo dell’ordine del giorno n. 2 firmato dal colonnello francese Duluc, comandante del Campo Italiano OFLAG XB, e dall’aiutante maggiore Capitano Avogadro, riportato anche nel Grande Diario di Guareschi alle pp. 96-97. Nel testo riferito dall’Arpini manca la menzione del capitano Avogadro.] [116 Nel testo riportato nel Grande Diario di Guareschi (p. 96) il termine sobillatori corrisponde a Nebelführer.]

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questo momento, detenga armi nel campo, nessuno uscirà dal campo, nessun soldato tedesco sarà disarmato e condotto o accettato nel campo. A queste condizioni ho ottenuto che: 1°) io conservo il comando del campo senza intromissione di nessun tedesco, 2°) la panificazione continuerà ad aver luogo a Wietzendorf come pure, nella misura necessaria, la macellazione del bestiame, 3°) il comando del campo e dei tre Oflag come il maggiore del campo ed il servizio dell’intendenza si stabiliranno negli ex locali del Komman- dantur117 a partire dal 18 aprile. Siccome questi locali quantunque adiacenti al campo sono esterni al reticolato non dovrà risultare nessuna comunicazione con l’esterno. 4°) Richiamo l’attenzione di tutti sull’estrema importanza di questo ordine, ogni atto di disubbidienza rimetterebbe in vigore la minaccia di fare fuoco, la qual cosa sarebbe un crimine.

Io prenderò eventualmente contro ogni infrazione, le sanzioni necessarie.

Del pericolo occorso solo ora ne veniamo a conoscenza ed è un bene, anche perché eravamo ben allineati secondo le nuove norme, giacché se qualche infrazione alle norme internazionali vi fu, nessuna da parte nostra ma da componenti il comando dei francesi. Difatti le donne che accusavano i francesi dell’uccisione dei due tedeschi, ritengo non corrisponda a verità. È certo però che le concessioni usateci dal comando tedesco, sono corrispondenti alla situazione. Noi non siamo ancora liberati, giacché in Wietzendorf non vi sono ancora angloamericani armati i quali hanno ritardato la venuta per l’abbattimento di un importante ponte e giacché nella zona vi sono bande ben organizzate, hanno preferito richiedere rinforzi prima di iniziare l’avanzata. Stamane il cannone ha ripreso a farsi sentire ma lontano. Pare che Amburgo stia per cadere. Qui qualche spicciolata[118] in auto scorrazza per far intendere che ci sono ancora loro, quando la popolazione tutta non vede l’ora che si cambi padrone. La puntata di ieri al campo delle S.S. era prima dovuta all’uccisione del borgomastro reo di aver fatto sottomissione all’ufficiale inglese e forse per dar motivo nei loro comunicati che Wietzendorf è stata riconquistata!! Mando messaggio a parole fisse ai famigliari a Cassano perché sappiano che sto bene e libero.

117 (Nota 55) “Comando”. [118 Intendi: qualche tedesco alla spicciolata.]

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La fame va diminuendo, ci stiamo rimettendo, abbiamo però bisogno di grassi che ancora scarseggiano. Oggi ottocento grammi di patate, pane novanta grammi, rape trecento grammi, marmellata cinquantasette grammi, è una potente sbobba e condita con abbondante carne. Ritiro oggi la scheda amministrativa per la quale non mi fu possibile per il passato rivedere, ritrovo però ad onor del vero tutte le scrittura- zioni con i depositi effettuati, bisogna che io gli[119] dia atto della loro precisione.

19.4.1945 Giovedì

Durante la notte il cannone ha continuato a tuonare. Stamani mi sono svegliato prestissimo, è una giornata bellissima, ed il rumore delle armi da fuoco non mi tiene a letto, si vedono dense nubi di fumo che avvolgono il cielo, sta passando la bufera giacché si dice che Amburgo stia nelle ore critiche. Noi qui sempre in attesa degli angloamericani, che vengano a presidiare la nostra località per poterci a tutti gli effetti considerare liberi, giacché i tedeschi non sanno che farsene di noi, e non ci vogliono certo con loro. La giornata di oggi è all’italiana,[120] però siamo tutti alla ricerca di notizie, anche perché ieri radio Londra nel suo notiziario riferendosi al discorso del nuovo presidente degli Stati Uniti, Truman, assicurava che i prigionieri di guerra, dagli alleati, si sarebbero subito fatti rientrare. Mariani si è prenotato per avermi con lui a Chieti in attesa che Milano sia redento. Speriamo che le cose anche lì prendano un ritmo veloce e che le conseguenze siano meno gravi di quanto si pensa e si vede qui. Qui tutto portano via[121], nulla, assolutamente nulla lasciano lungo i paesi lasciati, salvo però ad essere raggiunti dagli alleati e perdere tutto. Anche stamane la parola, ed assai per tempo e da tempo, è al cannone, qualche cosa di grosso succede a Saltan a meno che sia la solita messa in scena per far del rumore e nulla più. Si diceva ieri che i soldati tedeschi fatti prigionieri dai francesi appena seppero della liberazione, si misero a piangere e a scongiurare di lasciarli al campo e di non mandarli via, sì, gli accordi erano tali che si

[119 Intendi: ai tedeschi.] [120 Ossia, nel campo non si fa nulla.] [121 Intendi: i tedeschi in ritirata.]

165 dovevano rispettare.[122] Questa è la prova dello spirito di combattimento del soldato tedesco dopo sei anni di guerra, li tiene uniti solo la grande disciplina e la paura di essere fatti fuori dalle S.S. Neppure fra di loro si confidano e si temono uno con l’altro, alle volte se considero la loro situazione, li compiango, ma non so capacitarmi, come si possa arrivare a quel punto senza che il loro cervello possa ragionare e gli occhi possano vedere, concludo che non sanno ragionare, né l’evidenza dei fatti li convince. Parlare ancora in queste condizioni di vittoria e crederci è cosa da pazzi e solo lui[123] ha la forza di farlo, perché sa che ha per sudditi delle pecore solo da mattatoio. Ogni popolo ha la sua guida che si merita, ma qui anziché guida è tomba.

20.4.1945 Venerdì

Anche ieri e tutta la notte non si è fatto altro che sentire il rumore intenso del cannone preciso e con la stessa intensità e rabbia come il giorno che giunse il maggiore inglese, il che dà a vedere che qualche rastrellamento era in azione nelle nostre vicinanze. Noi, abbandonati a noi stessi, attendiamo sempre l’arrivo e con l’arrivo la notizia della nostra partenza. Soldati tedeschi nella zona se ne vedono e parecchi, ma sono disarmati, altri e armati girano in automobile. Mancano gli uni e gli altri di baldanza, ci penseranno alla loro vita che inizia? Essi si sono divisi quella poca roba che contenevano i pacchi, sui quali dissento completamente dal come vennero privati i proprietari e di ritorno le loro

[122 Confronta anche quanto riferisce don Luigi Pasa in Tappe di un calvario, a proposito di questi sventurati prigionieri tedeschi che erano stati liberati dalle SS. Essi temevano ben più dei francesi i loro camerati, ben consci che li avrebbero fucilati o impiccati perché rei di essersi lasciati disarmare. Vd. DON PASA 1966, p. 161: “… l’espressione dei loro volti non era precisamente quella di soldati che vengono rimessi in libertà. Si volgevano a guardarci con cert’aria, come per dire che avrebbero preferito rimanere nelle nostre mani. Pare che il cap. Loser (ndc, ossia il cap. Lohse) sia stato ammazzato dalle S.S. appena fuori del campo; naturalmente per il motivo che un tedesco non dovrebbe mai lasciarsi disarmare…” Cfr. anche GUARESCHI 2011, p. 486, annotazione del 17 aprile 1945: “Facce tristi dei tedeschi “liberati”: molti saranno probabilmente fucilati perché si sono presentati spontaneamente al campo.” Vd. anche BARTOLO COLALEO 2017, p. 228-229.] [123 Ossia Hitler.]

166 famiglie, tanto più che parecchi erano diretti a soldati. Ben poca cosa, ma quello che mi ha colpito è di vedere come la maggior parte vogliono essere presenti al ritiro ed alla divisione per vedere, giacché non ci si fida più di uno con l’altro: che tra noi non ci sia più gente onesta?[124] O l’animo loro è stato testimone di tante porcherie, che oggi allo stato dei fatti, si è venuti nella considerazione che la presenza è indice di freno e d’impegno a fare le cose per bene? E’ certo che molta, molta diffidenza è nata in noi, e che la parola d’onore è un “pour parler” alla quale non più si fa caso; si constata che anche i più puri[125] in questi mesi, sia per la fame, sia per altre cause, hanno dato prova di qualche cosa che non li mette in buona luce. Mainetti nella distribuzione della sbobba. Lo stesso don Amadio è diventato diffidente, ma non penso però che se sbaglia lo fa con il materiale di don Pasa. Il ragionamento fattomi ieri per le lire italiane è ragionamento di terrone, e per noi è indice che non siamo fessi, o mangiare o fumare, mi disse ieri don Pasa. Domani compleanno o anniversario del mio matrimonio 21.4.1924, ventuno anni: Don Pasa e Amadio celebreranno per me. Spero e mi auguro di celebrare quello civile, 21.7.1924, con la mia famiglia. Ventuno anni di responsabilità tremenda per l’educazione della prole. Ben poco mi sono interessato di loro, al ritorno vorrò rifarmi di

[124 Il Ten. Col. Testa, subito dopo l’evacuazione dei tedeschi dal campo, dispose che centinaia di pacchi accantonati dai tedeschi venissero aperti e il loro contenuto distribuito ai prigionieri (vd. DON PASA 1966, p. 156). Il senso delle considerazioni dell’Arpini è che i soldati tedeschi, prima di ritirarsi dal campo, avevano aperto e saccheggiato i pacchi destinati agli italiani, cosa che del resto facevano abitualmente. I pacchi, infatti, unico legame assieme alla posta delle famiglie in patria con i prigionieri, erano consegnati spesso semiaperti e manomessi, essendo stati asportati dalle guardie i cibi migliori. Gli internati meridionali erano più svantaggiati rispetto a quelli provenienti dal centro-nord d’Italia, perché le comunicazioni postali con il Regno del Sud erano interrotte ed essi non ricevevano nulla. Si lamenta di ciò il sottotenente Antonio Zupo, prigioniero a Sandbostel e a Wietzendorf, nel suo diario (vd. ZUPO 2011, p. 31). Sulla ricezione dei pacchi vd. BARTOLO COLALEO 2017, p. 193-194. Ma sembra di capire, dalle parole dell’Ar- pini, che anche fra gli italiani v’era chi rubava nel pacco destinato al compagno di prigionia.] [125 Intendi: quelli che non avevano optato per la collaborazione con i tedeschi e i fascisti.]

167 quello[126] perduto!! Continua il rabbioso bombardamento aereo a bassa quota, sorvolano e bombardano la zona, se si decidessero di venire fin da noi, sarebbe una bella cosa. Certo che la nostra liberazione è un po’ all’americana. Si potevano evitare le minacce e lui[127] arrischiare meno.

21.4.1945 Sabato

Natale di Roma. Allarme continuo e movimento in campo, vediamo un andirivieni al comando francese e italiano. Si riposa ma si sta con le orecchie in attesa. Mi alzo all’ora solita, don Amadio celebra in camerata per il 20°,[128] don Pasa in cappella alle ore nove. Si sa intanto che si parte. Verso mezzanotte il colonnello tedesco che comanda avrebbe fatto chiamare i due colonnelli[129] e ci avrebbe proposto di portarci nelle linee inglesi e ciò unicamente perché noi siamo d’ingombro e pochi sono i viveri per la popolazione civile. L’ordine è di preparare il bagaglio in attesa che il colonnello francese sia stato accompagnato nelle linee inglesi per recapitare la proposta tedesca. Si dovrebbe fare a piedi una decina di chilometri e per un determinato tempo si sospenderebbero in quella zona le operazioni militari in attesa che sia effettuato il nostro passaggio e poi con il camion nel campo di smistamento. Il tutto è ora all’approvazione del comando inglese. La notizia è così bella, che non ci si vuol credere anche perché dei tedeschi non ci si fida più. Attendiamo sereni e il tutto poniamo nelle mani della Provvidenza la quale ci assisterà certamente come lo ha fatto nel passato.[130] Notizie più dettagliate giunte in attesa dei messi al campo

[126 Ossia del tempo.] [127 Intendi: il maggiore Cooley.] [128 Intendi: l’anniversario di matrimonio.] [129 I due colonnelli chiamati dal tedesco sono l’italiano Testa e il francese Duluc, comandanti rispettivamente dei prigionieri italiani e francesi.] [130 Venne raggiunto il 21 aprile 1945, sabato, un accordo tra gli inglesi e i tedeschi per il trasferimento dei prigionieri da Wietzendorf alla vicina cittadina di Bergen. Lo spostamento dei prigionieri, che sarebbero usciti dal campo preceduti dalla bandiera della Croce Rossa, doveva essere effettuato durante la tregua, tra le ore 6 e le ore 14 del giorno 22 aprile. Gli inglesi avrebbero fatto trovare alcuni autocarri a Marbostel, a 8 chilometri dal campo, per il trasporto dei bagagli. Il trasferimento venne eseguito come previsto, sia pure con enorme fatica: vd. BARTOLO COLALEO 2017, pp. 231-233. La notizia dell’imminente uscita dal campo di Wietzendorf fu accolta con

168 inglese: l’accordo per trasportarci sarebbe avvenuto tra i due comandi, tedesco e angloamericano, e il francese sarebbe andato a parlamentare per convenire i particolari. Alla mensa oggi in occasione del 20°,[131] don Amadio mi fa trovare una bottiglia di vino e brindiamo così all’evento lontano e prossimo. Anche il Fusi parte, dei conoscenti rimane solo Cicchetti che resta per il servizio del campo. Io preferisco andarmene. Sono le venti ma non c’è la conferma dell’ordine di par- tenza, giacché il colonnello francese non è ancora rientrato. Noi tutti in orgasmo attendiamo con impazienza; buone notizie vengono dal teatro dell’Italia. È Roma che nasce e nello spirito e nella fede. Si parte domani mattina, alle quattro e un quarto sveglia, distribuzione rancio e viveri; alle ore sei partenza dei francesi ed alle sei e tre quarti inizia la nostra. Chi dorme? Si parte per direzione Bergen dove si troveranno degli autocarri per inoltro accantonamento.

22.4.1945 Domenica

Nessuno ha potuto dormire, sia per i tre chilogrammi di patate mangiate, coi rumori viscerali che li accompagnano, sia per preparare qualche cosa per il viaggio. I viveri a secco ci vengono distribuiti in quantità, anche per non lasciare provvisti i depositi e poi all’ora stabilita e con ritmo militare di blocchi con blocchi, distanti l’uno dall’altro 50 metri e distanziati, i 1000 da altri 1000, si va verso le linee inglesi. Sveglia prestissimo, si fanno tutte le operazioni di distribuzione viveri e finalmente alle ore 9,37 è l’uscita dal reticolato senza sentinelle e guardati all’uscita dal nostro comando. Si va per due, poi per uno per il passaggio di un solo ponte distrutto che passiamo su passerella. Da un grande soddisfazione dai prigionieri e anche l’Arpini esprime qui la sua contentezza. Diversamente Guareschi, divenuto sospettoso nei riguardi degli inglesi, come testimonia il Grande Diario al 21 aprile 1945 (p. 489): “Notizia improvvisa: salvo contrordini domani mattina si parte verso le linee inglesi. Dobbiamo abbandonare il superfluo. Un capitano “lavoratore” arriva da Celle avvertendo che gli inglesi ci trattano a calci, mettendoci assieme ai tedeschi prigionieri. Vedremo anche questa? Non mi fido degli inglesi. Rimpiangeremo i tedeschi?” Don Pasa (DON PASA 1966, p. 164) vede nella proposta tedesca non un improvviso senso di pietà per i prigionieri, ma “la volontà del nemico di togliere di mezzo l’ostacolo a una sua resistenza accanita.”] [131 È l’anniversario del suo matrimonio. ]

169 soldato nostro lavoratore sappiamo che Wietzendorf fu liberata dal maggiore[132] e che la popolazione era felicissima, ma per la partenza del maggiore e la discesa in paese dei militi delle S.S. ora si attendono che vengano a presidiarla. Il borgomastro non sarebbe stato ucciso ma fuggito con gli inglesi. Si cammina sotto i nostri pesanti bagagli quando nella zona bianca[133] si delineano in distanza divise kaki americane. Dalle linee tedesche rivedo solo una mitragliatrice e pochissimi soldati. Occupiamo con don Pasa un camion e vi deponiamo i nostri zaini e si va nelle linee angloamericane. Sono le 11,50 quando un cappellano cattolico americano ci saluta e ci fa un bel sorriso. Alle 12,15 siamo in zona neutra e rivediamo dove si svolsero le azioni di guerra, caratterizzate da pinete bruciate e dalle postazioni di artiglieria tutt’ora in attesa di far sentire le loro voci. Durante il viaggio in camion si succedono lunghe colonne di carretti e carrettini con poche masserizie e la maggior parte donne e bambini che si dirigono verso la campagna. Mi si disse che rientravano alle loro case, si seppe poi che provenivano tutte da Bergen da cui avevano ordine di evacuare tutto perché doveva servire tutto a noi e ai francesi per abitazione. Incontriamo le colonne francesi che ordinate proseguivano la loro marcia e alle 12,45 con una grandine e pioggia che ci bagnava e con noi il nostro bagaglio, scendevamo nella piazza principale di Bergen ove un bellissimo monumento ai caduti per la guerra 1914-18, ne abbelliva la piazza. “Das Kirchspiel Bergen 1914-18 Seinen[134] Helden”,135 era l’iscri- zione sul monumento. Poi la nostra odissea di Italiani che non sappiamo fare nulla di ordinato e che stanchi e affannati non abbiamo fatto altro che girare a destra e a sinistra per trovare un posto per poter dormire o ripararci dall’aria, mentre i francesi in pochi secondi sono andati tutti a destinazione.[136] Ho appoggiato gli zaini in piazza maggiore, redigo

[132 Il maggiore Cooley.] [133 La zona tra le linee tedesche e angloamericane, dove dovevano transitare i prigionieri diretti a Bergen.] [134 Nel testo, Seinem.] 135 (Nota 56) “La parrocchia di Bergen 1914-1918 ai suoi eroici morti”. [136 Anche Guareschi annota nel Grande Diario, al 22 aprile, la disordinata sistemazione degli italiani a Bergen, come si legge alla p. 490: “Un casino

170 queste note mentre don Pasa e don Amadio girano di comando in comando. Finalmente Vicini ci trova un posto e ci portiamo in luogo dopo che Amadio ha trattato prima col protestante e poi col cattolico. Possiamo finalmente mangiare un po’di frutta conservata e ci portiamo dal sarto ove cuciniamo due galline e mangiamo col proprietario.

23.4.1945 Lunedì

Mi sveglio presto, vado in cerca di viveri che trovo, una gallina, e poi alla ricerca di maiale ma non posso combinare. Preparo per mezzogiorno una bella scorpacciata che ci possa mettere a puntino e ci riesco e con gli gnocchi e ben sei bottiglie di vino, pranziamo. A mezzogiorno c’è rapporto, distribuzione viveri del borgomastro reintegrato nella zona americana. Wietzendorf liberata, dice radio Londra. Scrivere a casa lettera-telegramma assicuranti le famiglie della nostra liberazione, tanto più che ieri sera radio Londra trasmetteva la nostra liberazione. A giorni si partirà per Bruxelles e di là, via mare per l’Italia.[137] Oggi Te Deum alla chiesa protestante dei cappellani cattolici francesi. Bel discorso in francese e chiesa gremita da ufficiali delle due nazioni. Oggi primo rancio inglese, duecento grammi di pane bianchis- simo, frutta sciroppata, carne in scatola, prosciutto, latte, the, zucchero e burro, da scoppiare.[138] Se poi si aggiunge quanto si trova si vuole scoppiare. I tedeschi hanno un sacro terrore dei russi e diversi ci vengono a pregare di occupare noi le loro case, perché se le sentono più sicure, si accorgono oggi cosa gli riservano in sorprese tutti i milioni di deportati. Stamane quattro maiali e il deposito dei vini. Ho convinto il

spaventoso per gli alloggi. Io e Coppola dal droghiere. Siamo nelle case dei tedeschi. Gli italiani hanno svaligiato il magazzino militare inglese di coperte e bacinelle e gli inglesi minacciano di cacciarci in un Lager.”] [137 Le voci di un rimpatrio immediato inesorabilmente destinate a essere smentite dai fatti.] [138 Il rancio inglese e le scorte di viveri trovate nelle case dei tedeschi a Bergen provvidero a migliorare immediatamente la condizione fisica degli ex prigionieri. Così Guareschi elenca quanto il 24 aprile poté gustare a Bergen (p. 491 del Grande Diario): “Menù di domani: budino, marmellata, pastasciutta, braciole con fagiolini, purè di mele, caffè vero, spumante (offerto dai russi), sigarette, minestrina, pollo con verdure, budino, spumante, caffè, sigaro, pane e scatolette.”]

171 mio sarto a non venire più a dormire in Bergen. Dall’Italia giungono buone notizie.

24.4.1945 Martedì

Stamane si riparla di partenze via aerea. Si stanno approntando i ruolini di marcia. Scrivo a casa dando l’annuncio della mia liberazione così pure a don Natale e al comm. Rivolta. Le squadre russe restitui- scono ai tedeschi qualche cosa di quello che hanno sofferto loro e i tedeschi sono terrorizzati. Ne fanno di tutti i colori e noi siamo trattati come camerati.[139] Si continua qui la solita vita di mangiare a crepapelle, servendoci di tutto quello che troviamo.[140] Erano però

[139 Anche Guareschi al 25 aprile annota le violente depredazioni dei russi a Bergen, lasciati liberi dai loro ufficiali di saccheggiare e devastare e talvolta mal disposti anche verso gli italiani (Grande Diario, p. 491-492): “I russi sono diventati un incubo: entrano nelle case, nelle nostre stanze, portano via tutto, minacciano spesso a mano armata. Sono in frotte: hanno fame. Gli inglesi danno loro da mangiare ma li internano nei campi di smistamento e allora costoro preferiscono rimanere fuori. Non si vede un solo inglese! Dio ci salvi anche dai russi. Dio ci salvi da tutti gli alleati. (…) Tutto il giorno russi dentro e fuori dalla finestra in casa nostra. Uno mi chiama – ha visto i baffi – «papà Stalin». Litigio, coltello: «Siete fascisti!» dice uno. Malavasi salva la situazione. I russi con le biciclette e una pendola entrano, spaccano tutto, rubano la nostra roba. Uno ha in testa un chepì rosso col piumino bianco.”] [140 Anche gli italiani a Bergen si diedero a saccheggiare le case vuote dei tedeschi, trovandovi nascosto ogni ben di Dio: barattoli di vetro con carne di maiale, margarina, melassa, salsicce, uova, zucchero e caffè. In buche scavate negli orti vennero trovate stoviglie d’argento e oggetti d’oro. La rapina, peraltro comprensibile dopo mesi di assolute privazioni e sofferenze, venne compiuta sotto lo sguardo impassibile dei tedeschi. Citiamo, dai ricordi di Antonio Colaleo trascritti dalla nipote Antonella Bartolo Colaleo questo passo (BARTOLO COLALEO 2017, p. 235): “Da un ricordo Nonno Antonio non riuscì mai a liberarsi: uno sguardo gelido di una donna che li osservava. Era in piedi, nei pressi della casa occupata. Guardava impassibile i militari mentre scavavano allegramente nei giardini e saccheggiavano senza ritegno. Chi era quella donna? Forse la padrona della casa che veniva devastata; assisteva allo scempio delle sue cose, senza scomporsi, senza reagire e senza dire una parola.” L’ex internato Tullio Odorizzi, nell’apostrofe al borgomastro di Bergen, conservata nelle sue memorie dal titolo Un seme d’oro, spiega le ragioni degli abusi e delle ruberie commesse dagli italiani (ODORIZZI 1984, pp.187-188): “E inoltre: immaginate per un momento che questi abusi siano

172 tutti[141] ben provvisti di tutto, e mi ricordo la miseria che ho trovato in Italia durante la mia ultima licenza. E le loro provviste andavano al tutto mangiare e vestire. Che dire se per le case[142] di piccole famiglie troviamo chili di zucchero, di carne affumicata, di frutta sciroppata e una quantità di vestiti, e poi si voleva che noi si combattesse per la loro bella faccia. È il nostro delinquente[143] a farci tirare la cinghia, il requisirci e far lavorare tutta l’umanità per loro. E ben fanno oggi i russi a far sentire con il peso di tutta la loro ferocia un po’ di quanto hanno sofferto i loro cittadini: loro[144] che hanno sempre fatta la guerra in casa da voi commessi ai danni di cittadini d’uno Stato che vi ha imprigionato con la menzogna; vi ha posto in un’arbitraria posizione giuridica che vi ha privato di ogni assistenza internazionale per tutta la durata della prigionia; ha calpestato e violato, ogni volta che gliene è venuto l’estro, i diritti che vi derivano da norme di convenzioni interstatali inspirate ad elementari sentimenti di umanità; vi ha affamato e vi ha fatto provare privazioni e maltrattamenti gravi o gravissimi contro i quali il vostro spirito impotente ha dovuto, per tanto tempo, comprimere ogni impulso di ribellione; pensate un po’, in codeste condizioni non sareste probabilmente tentato di considerare i vostri soprusi di questo momento come una ritorsione, come una giustificata rappresaglia (lieve, troppo lieve in confronto ai patimenti e ai danni subiti!)?” Di fronte alle ruberie indiscriminate subite dai tedeschi, altre considerazioni fa nel suo diario l’ex gerarca Giuseppe Bottai, che nel 1945 combatteva in Germania con la legione straniera, nella quale si era arruolato per “espiare” (vd. Giuseppe Bottai, Diario 1944-1948, a cura di Giordano Bruno Guerri, Rizzoli, Milano 1992 rist., p. 176): “Ho visto io, coi miei occhi, svaligiare case di povera gente, allibita e spaventata; togliere anelli e monili di dosso alla gente che ci ospitava. Il popolo tedesco doveva, deve, “pagare”, siamo d’accordo: ma deve pagare ai popoli danneggiati. È un conto da popolo a popolo, con cui si debbono ripagare i danni sofferti, e non distribuire a casaccio profitti a chi ha la mano più svelta. Aggiungo, e concludo, per situare il fenomeno, che questa attività ladresca non fu specialità della legione “straniera”: ma fu generale. Tutti, americani, americani, inglesi, francesi (non parliamo degli “indigeni”, arabi, marocchini, negri!) hanno applicato ai tedeschi metodi tedeschi: giustizia primitiva del dente per dente etc. etc. Forse, i tedeschi, la “meritavano”; ma eravamo anche noi, i vincitori, che “meritavamo” di distinguerci dai tedeschi. Una civiltà che si rinnova tornando alle origini barbariche sarà, forse, una rivoluzione: non, di certo, una evoluzione.”] [141 Intendi: i tedeschi.] [142 Nel testo, cose.] [143 Allusione a Hitler?] [144 Ossia i tedeschi.]

173 altrui, provino i dolori e le pene che hanno fatto satanicamente gustare agli altri e che gioveranno a farli riflettere in un domani se velleità sorgessero per altre guerre. Da stasera sono in allestimento le liste per le partenze per aereo: 23 ufficiali e due ordinari, si partirà al più presto giacché i francesi hanno iniziato il movimento nel pomeriggio.[145] Io comanderò un convoglio, il secondo Mainetti ed il terzo Pagliano. Si inizierà la partenza come è avvenuto da Wietzendorf.

25.4.1945 Mercoledì

Inizio la mia giornata col preparare della pasta con la bella farina che ci è stata distribuita ieri con i fagioli. Il sarto mi ha chiesto di poter mangiare anche lui, giacché deve lavorare da sarto per il capitano Negri. Si vedono i soliti russi in pattuglia che girano di casa in casa cercando di scassinare. Di noi però appena si parla di prigionieri italiani, ci rispondono con la parola camerata e se ne vanno. Certo che del danno a queste case ne hanno fatto e continuano a farne, chissà dove la mettono la refurtiva. Ore 15,15 l’invasione della casa dei russi[146]: “Noi non toccare la roba dei prigionieri italiani, noi portare via oggetti tedeschi, primo perché tacere poi per privarli di quanto in cinque anni hanno privato i russi.” La donna[147] andava in cerca di oggetti e vestiti di seta, si dice che poi al campo abbiano dei camion che riempiono e li portano in luoghi stabiliti per la divisione. Bisogna vederli con che fare si presentano, alcuni cercano di usare violenza pur di raggiungere lo scopo.[148] Si dice che chi comanda abbia detto: “Sono anche loro prigionieri ed hanno anche loro diritto a vivere”. E così di giorno e

[145 Riscontro nel Grande Diario di Guareschi alla data del 24 aprile (p. 491): “Partono cinquecento francesi.”] [146 Ossia da parte dei russi.] [147 Evidentemente una soldatessa o ufficialessa sovietica. L’Armata Rossa era aperta anche alle donne, che nella seconda guerra mondiale furono impiegate nelle varie specialità, tra cui anche l’aviazione.] [148 Oltre alle annotazioni di Guareschi al 25 aprile, già riferite, aggiungiamo, sul comportamento dei russi, quelle del giorno 28 (dal Grande Diario, p. 493): “Questi russi sono monotoni e senza fantasia. Entrano continuamente in drogheria con la presunzione di essere i primi. Aprono tutti i cassetti, buttano all’aria tutte le scatole. Una pattuglia russa è comandata da un capitano in gambissima. Un russo ruba una pendola e un carillon. Un russo gira in frac.”]

174 anche di sera inoltrata queste bande girano di via in via e di casa in casa, spalancando e asportando. Abbiamo fatto un buon acquisto? Se si continuerà così, la storia dirà il suo verdetto, e verdetto severo. Si dice che il comando inglese abbia informato il governo Bonomi[149] della nostra liberazione, essendo il nostro, il primo[150] di internati liberati, e attende istruzioni circa il nostro rimpatrio. Speriamo che si decida, e presto, qualche cosa anche per noi. Sono inquieto e da due giorni sento che i nervi non sono a posto. Stamane ho litigato con don Pasa e don Amadio per alcuni oggetti, si appianerà?! Se non ci fossero di mezzo dei mascalzoni. Radio Londra annuncia la caduta di Cremona e che il generale Pétain attraverso la Svizzera ha raggiunto la Francia e che il generale De Gaulle gli ha affidato il governo provvisorio della Francia. Pare anche che il governo italiano si preoccupi dell’incolumità disponendo dei plotoni di venti ufficiali armati, pronti ad intervenire ove richiesto contro aggressori russi.

26.4.1945 Giovedì

Non mi rendevo conto quando i lavoratori russi nei lager mi raccon- tavano e mi assicuravano che erano ufficiali e che all’atto della prigionia strapparono[151] i gradi per vivere la vita dei soldati. Ora comprendo come i russi, almeno dalle squadre che fanno razzie, sono inquadrati e diretti dai loro ufficiali e agiscono con ordini prestabiliti. Del resto il trattamento fatto dalla Germania[152] in questa guerra è tutto unico sia per gli ufficiali che per i soldati. Noi invece abbiamo voluto la differenziazione ed abbiamo abbandonato i nostri soldati alla mercé dei tedeschi, ed in questo momento che potremmo averne bisogno, sono girovaghi per le campagne e per i paesi, senza che nessun ufficiale si interessi di loro. Dirà la storia, e con severità, che purtroppo anche in

[149 Personalità politica di spicco nell’Italia prefascista, aderente al socialismo ma di simpatie monarchiche, Ivanoe Bonomi (1873-1951), presidente del Comitato di Liberazione Nazionale dal 9 settembre 1943, costituì un nuovo governo, espressione di tutte le forze antifasciste, l’11 giugno 1944, subentrando al dimissionario Badoglio.] [150 Ossia il primo gruppo.] [151 Intendi: i tedeschi.] [152 Intendi: ai suoi militari.]

175 questo[153] abbiamo mancato d’organizzazione e di predisposizione estraniandoci[154] così l’animo dei nostri soldati. E difatti durante il nostro pellegrinaggio molti sono venuti a chiederci che cosa dovevano fare, ma nessuno ha saputo fornire o prendere iniziative in proposito. Ora si è preoccupati a mantenere la differenziazione fra internato e lavoratore, che se si pensa a quanto ha fatto Pétain queste potrebbero essere tutte quisquilie anche da parte italiana. Alle volte viene il dubbio e ci si domanda: è vano il nostro sacrificio? Non credo, perlomeno siamo a posto con la nostra coscienza, ma questo si saprà ben presto al nostro rientro in Italia, rodersi il cervello sul domani è cosa prematura. Anche stamane sono iniziate le ronde russe e continuano in permanenza a girare di casa in casa. E che cosa fanno!? Ora comprendo l’atto del comando tedesco di invitare quello inglese a portarci nelle loro linee. Sanno che serpe si sono messi in seno con tutti i lavoratori di tutte le nazioni.[155] Ora si sfogano, come io mi sfogo con don Pasa, è un povero uomo che crede tutto, gli fanno vedere lucciole per lanterne e più di tutto si dimentica di quanto ha detto. I ponti sono troncati, lui li ha voluti e così sia. Del resto è meglio dividerci da certi filibustieri.[156] L’Italia non è stata invitata alla conferenza di S. Francisco,157 il ministro degli esteri De Gasperi protesta. Como, Varese e dintorni si sono sollevati e scacciano la repubblica.[158] Le truppe alleate puntano su Mantova. La nostra partenza alla settimana prossima.

[153 Intendi: in questo frangente. Il senso del passo ci sembra essere una forte critica dell’Arpini alla strutturazione rigidamente gerarchica dell’esercito italiano e alla differenza di trattamento tra ufficiali e truppa, differenza che fu riprodotta anche nelle diverse condizioni di prigionia previste per gli ufficiali e i soldati, e risultanti certamente più dure per i soldati.] [154 Intendi: alienandoci.] [155 Era naturale per i tedeschi – questo il pensiero dell’Arpini – attendersi atti di vendetta da parte dei prigionieri e dei lavoratori civili di tutte le nazionalità, che erano stati per anni obbligati al lavoro coatto in Germania, nelle più disumane condizioni di vita.] [156 Intendi: quelli che attorniavano, secondo l’Arpini, don Pasa.] 157 (Nota 57) Indetta per fissare i criteri per l’Organizzazione delle Nazioni Unite, dal 25.4.1945 al 25.6.1945. [158 Intendi: i soldati della Repubblica Sociale Italiana, in ritirata assieme ai tedeschi.]

176

27.4.1945 Venerdì

Manenti mi assicura che radio Londra ha trasmesso la nostra liberazione, 3500 scheletri viventi: non è certamente esagerato, giacché gli stessi tedeschi avevano riconosciuto che non potevamo essere trasportati, perché deperiti. La stessa radio assicura che a Buchenwald 30000 prigionieri sono stati avvelenati, le autorità britanniche hanno invitato i giornalisti e si è girato il film che sarà riprodotto davanti ai tedeschi. A Fallingbostel è stato sparato sui prigionieri. Siamo stati fortunati, io in modo speciale, giovedì paventavo così tanto la fine, invece proprio nulla mi accadde. Milano caduta e Mussolini fatto prigioniero dai ribelli a Pallanza.[159] È la rinascita dell’Italia tutta. Il tutto si compie a 12 mesi dalle opposizioni, ora si attende il ritorno che

[159 Le prime notizie che circolarono rapidissime sulla cattura di Mussolini furono imprecise come questa. Mussolini, secondo la versione ufficiale, venne riconosciuto e catturato sulla piazza di Dongo, nel primo pomeriggio del 27 aprile 1945, all’interno di un camion tedesco. Il Duce aveva addosso un pastrano militare e un elmetto ed era armato con un mitra e una pistola Glisenti. Il riconoscimento avvenne ad opera dei partigiani della 52a Brigata Garibaldi, comandata da Pedro (il conte Pier Luigi Bellini delle Stelle) e Bill (Urbano Lazzaro). La notizia della cattura di Mussolini giunse alla sede del Corpo Volontari della Libertà, a Milano, la sera del 27 aprile e da lì fu ripresa e trasmessa dalle radio alleate. Secondo la versione ufficiale il Duce venne fucilato assieme all’amante, Claretta Petacci, dal “colonnello Valerio”, alias Walter Audisio, oscuro funzionario del Partito Comunista, il giorno 28 aprile 1945 verso le ore 16,00, davanti al cancello di Villa Belmonte a Giulino di Mezzegra, comune di Tremezzina, sul lago di Como. La narrazione di “Valerio”, contenuta nel memoriale In nome del popolo italiano (Teti Editore, Roma 1975), presenta molte zone d’ombra e particolari contraddittori, cosicché vi è stata nel tempo una fioritura di versioni alternative tutte tendenti ad accreditare la definitiva verità sulla morte di Mussolini. Un saggio ben informato è quello di Luciano Garibaldi, La pista inglese. Chi uccise Mussolini e la Petacci?, Edizioni Ares, Milano 20022: secondo l’autore la morte del Duce fu voluta dagli inglesi, che temevano le eventuali e scottanti rivelazioni che il capo della RSI avrebbe potuto fare in un ipotetico processo. Al riguardo, l’ex dirigente industriale Bruno Giovanni Lonati (1921-2015), partigiano e al servizio dello spionaggio inglese durante l’ultima guerra, ha rivelato di esser stato lui a giustiziare Mussolini per conto di Churchill: il suo libro-rivelazione, Quel 28 aprile. Mussolini e Claretta: la verità, Mursia, Milano 1994, presenta un racconto plausibile dell’esecuzione, rimasto però finora senza alcun riscontro.]

177 pare debba avvenire al principio della settimana. Anche Genova caduta. Tutta l’Italia è sollevata e grida: fuori i barbari, fuori gli oppressori. Mi dispiace di essere qui inoperoso e di non potermi trovare a Milano, alle barricate. Il mio odio per questa razza[160] è tale che preferisco starmene in casa per non vedermeli sotto gli occhi, e pensare che noi cerchiamo di aiutarli nel far loro trasportare roba, dopo tutto quello che ci hanno fatto patire. La signora dove stamani ho macellato il maialino, una piccola proprietaria che ha avuto il marito morto in guerra ed il figlio, di cui da otto mesi non riceve più notizie, mi soggiungeva, ad una mia osservazione (“Voi avete voluto la guerra, l’avete portata in casa d’altri con tutti i rigori che solo la vostra ferocia sa escogitare, ed ora vi si rende quanto avete seminato”): “Né noi, né voi abbiamo voluto la guerra,[161] l’hanno decisa loro due[162] e noi l’abbiamo dovuta fare. Il sollevarsi è cosa inutile dati i vostri sistemi, si aggiungono vittime a vittime, questi occhi possono dire qualche cosa di quanto ho veduto. Si aspettavano gli angloamericani come una liberazione, giacché non vedevamo altra via che ci potesse portare alla soluzione desiderata. Purtroppo sappiamo cosa l’avvenire ci riserba, lavoreremo, pagheremo, ma che l’umanità possa vivere in pace.” Il ragionamento oggi, così, è bello, ma quanto avete seminato di odio e di atrocità neppure il vostro Signore ve lo può perdonare. La signora è qui a descrivermi la bontà di suo marito e di suo figlio, e io a replicarle che li tenevo uguali a chi ci rubava quel poco che le leggi internazionali ci assegnavano, l’averci spogliati di tutto, l’averci privato perfino dell’acqua da bere e da lavare. Il vostro maiale, signora, è un grande signore, ci fosse dato a noi, quanto voi date alle vostre bestie. Fa segni di assenso e piange ma le sue lacrime non mi convincono, e glielo spiattello sul muso: “Non credo alle

[160 Ossia per i tedeschi.] [161 È la risposta della signora tedesca ad Arpini: essa chiaramente cerca di giustificare il comportamento dei tedeschi e di attenuare la loro responsabilità per i lutti e le rovine della guerra. Che i tedeschi aspettassero gli alleati “come una liberazione” è affermazione alquanto discutibile: in verità all’ingresso delle truppe alleate e alla notizia della morte di Hitler in nessuna città tedesca vi furono scene di giubilo. Eloquente la testimonianza dello storico Giampiero Carocci, allora tenente, che il 2 Maggio 1945 si trovava nel villaggio di Pirna, presso l’Elba: vd. CAROCCI 1995, p.167.] [162 Ossia Hitler e Mussolini.]

178 vostre lacrime, penso solo a quello fattoci provare e chiedo che il Signore vi distrugga tutti.” Mussolini, Farinacci[163] e Pavolini[164] presi dai patrioti a Pallanza, Graziani a Como,[165] e Donna Rachele alla frontiera.[166]

28.4.1945 Sabato

Quello che avviene a Milano e in quasi tutte le città d’Italia, è cosa che ci deve far andare orgogliosi. Siamo arrivati ai tempi del Risorgimento. Il commentatore inglese ha magnificato l’organizzazione e di come sono scoppiati i moti. È l’Italia genuina, sono gli italiani veri che hanno ritrovato se stessi e la loro dignità, pronti a tutto pur di rompere la cerchia degli sfruttatori e decisi a governarsi in regime di libertà. Fuori l’oppressore, caccia al barbaro, è il grido che appassiona e per il quale si mette a repentaglio la vita, gli averi, le cose, ma decisi a portare il contributo e non essere assenti nelle ore storiche della nazione. Da oggi i russi non entreranno in città, pattuglie li convoglieranno in campi di concentramento: così ha disposto il comando inglese, ed era ora giacché ora era presa di mira anche la nostra roba personale e quel che è peggio, entravano in casa,[167] giravano l’appartamento e con la

[163 Il gerarca Roberto Farinacci venne in realtà catturato dai partigiani a Beverate, presso Brivio in provincia di Lecco, il 27 aprile 1945.] [164 Nel testo, Paoli. Alessandro Pavolini (1903-1945) fu ministro della Cultura Popolare durante il ventennio fascista e, dopo la fondazione della RSI, segretario del Partito Fascista Repubblicano. Come comandante delle Brigate Nere, milizia creata nell’estate del 1944 in risposta alle brigate partigiane, si distinse per l’organiz- zazione di una feroce e terroristica repressione del movimento partigiano. Fu catturato assieme ai gerarchi che seguivano Mussolini sul lago di Como e fucilato a Dongo il 28 aprile 1945. Il suo cadavere, assieme a quelli del Duce e di altri gerarchi, fu esposto il giorno dopo a Piazzale Loreto, a Milano.] [165 Il Maresciallo d’Italia Rodolfo Graziani, ministro della Guerra nella RSI e nemico acerrimo di Badoglio, nelle convulse giornate dell’aprile 1945 riuscì a scampare alla morte perché non seguì la colonna Mussolini ma se ne separò a Menaggio il 27 aprile e, tornato al suo quartier generale a Cernobbio, si consegnò al capitano americano Emilio Daddario.] [166 Donna Rachele Mussolini, consorte del Duce, fu respinta alla frontiera svizzera assieme ai figli Romano e Anna Maria. Catturata dai partigiani, fu inviata al confino sull’isola d’Ischia, ove rimase sino al 1957.] [167 Intendi: i russi.]

179 scusa di distruggere le case dei tedeschi, ci alleggerivano degli orologi e di quanto capitava a portata di mano. Meglio così. I soliti lavori giornalieri con la chiacchiera delle novità, chi fa la spesa è Mussolini e Graziani. Oggi altre notizie, Himmler ha chiesto l’armistizio. Sentiremo stasera le notizie in merito. Si dice che fu chiesto all’America e all’Inghilterra e non alla Russia, per cui è stato respinto. Ma anche al baffone[168] si inoltrerà richiesta se non si vuole continuare all’infinito. Farinacci giustiziato,[169] Achille Starace catturato,[170] Bergamo liberata, a Milano ovunque sventola la bandiera sabauda.

29.4.1945 Domenica

Sono sempre qui,[171] specie ora con le notizie che radio Londra trasmette, si desidererebbe essere in Italia a casa, per assistere e per prestare man forte. Invece si parla sì, ma a quando? Bisogna correre, giacché proprio qui, calza giusto, chi si ferma è perduto. Farinacci è stato giustiziato, ecco un altro che per tutte le sue malefatte, la giustizia popolare ha voluto emettere il suo verdetto, e severo. Tutta la sua opera nel Cremonese e anche fuori è stata nefasta, politicamente è stato un partigiano dell’entrata in guerra a fianco della Germania e un seminatore di discordie anche nel campo religioso erigendosi a Papa e dottore della

[168 Ossia a Stalin.] [169 Roberto Farinacci, il “ras” di Cremona, uno dei gerarchi più duri del regime fascista e apertamente filotedesco, era stato progressivamente emarginato durante la Repubblica Sociale, anche se godeva ancora di prestigio e autorità. Il 27 aprile 1945 fuggì da Cremona, assieme alla marchesa Carla Medici del Vascello, segretaria dei fasci femminili repubblicani, sperando di rifugiarsi in Valtellina. Bloccato dai partigiani durante il percorso, fu portato a Vimercate e qui, il giorno 28 aprile, processato sommariamente e condannato a morte. Lo stesso giorno fu fucilato nella piazza del paese.] [170 Achille Starace, che per molti anni era stato il segretario del Partito Nazionale Fascista rendendosi ben noto per le sue iniziative spesso grottesche e ridicole (ma tutte ispirate o approvate da Mussolini), durante i mesi della RSI era vissuto appartato, a Milano, sotto falso nome e quasi nell’indigenza. La mattina del 28 aprile 1945 fu riconosciuto dai partigiani mentre correva in tuta da ginnastica per le vie della città: arrestato e portato al Politecnico, fu sottoposto ad un processo sommario e condannato a morte. Venne fucilato l’indomani, a Piazzale Loreto, proprio davanti ai corpi appesi del Duce e degli altri gerarchi.] [171 Intendi: a Bergen.]

180 chiesa, sia nel voler dare sentenze in merito sia facendosi circondare di tanti preti spretati[172] per mettere zizzania nel campo religioso. Vantavasi puro e strigliava chi era più ingenuo! Nudi alla meta, ma ben sappiamo che il suo patrimonio ammontava a svariati milioni.[173] Personalmente siamo stati nemici in principio, poi così così. In alcune contingenze della mia vita, mi fu di aiuto. Cremona e Crema ne esulteranno della sua fine, giacché ancora in quelle zone, faceva il ras. La radio alle 16.30 trasmette che anche Mussolini e altri gerarchi sono stati giudicati ed eseguita stamane la sentenza di fucilazione ed i cadaveri esposti in piazza Loreto a Milano per la constatazione della persona. Questa volta l’amico[174] non ha potuto mandare l’aliante.[175] Veramente anche in Italia si sono messi a fare sul serio e questo mi fa piacere. Bisogna che ci rifacciamo anche internamente se vogliamo sinceramente fare qualche cosa. Educarsi ed educare per l’oggi e per il domani. Sopra questo forse ne riparleremo quando notizie più attendibili saranno trasmesse.[176]

[172 Uno di questi “preti spretati” fu il giornalista e uomo politico Giovanni Preziosi, ex sacerdote, nominato da Mussolini Ispettore generale per la Demografia e la Razza in quanto ispiratore della politica antisemita della RSI. Sfuggito alla cattura da parte dei partigiani, la mattina del 27 aprile 1945 Preziosi si tolse la vita gettandosi assieme alla moglie da un palazzo, a Milano. Su Giovanni Preziosi, incarnazione dell’odio antisemita durante il fascismo, vd. Silvio Bertoldi, Salò. Vita e morte della Repubblica Sociale Italiana, Rizzoli, Milano 19763, pp. 331-345.] [173 “Nudi alla meta” era uno dei più noti slogan mussoliniani. Il tenore di vita austero, propagandato dal fascismo e ostentato dai gerarchi, spesso non corrispondeva alla realtà dei fatti. Molti gerarchi approfittarono delle alte cariche ottenute nel ventennio per migliorare notevolmente le proprie condizioni patrimoniali (come peraltro volle ricordare lo stesso Mussolini la notte dell’ultimo Gran Consiglio, prima della votazione dell’ordine del giorno Grandi: così attesta Giuseppe Bottai nel suo Diario 1935-1944, a cura di Giordano Bruno Guerri, Rizzoli, Milano 1989 rist., p. 418). Per quanto riguarda Farinacci, va detto che, dopo la cattura a Beverate, i partigiani sequestrarono al gerarca dodici valigie cariche di gioielli e denaro.] [174 Ossia Hitler.] [175 Riferimento alla liberazione di Mussolini dalla prigione di Campo Imperatore sul Gran Sasso, eseguita il 12 settembre 1943 da un commando di paracadutisti tedeschi guidati dal capitano delle SS Otto Skorzeny.] [176 Tali affermazioni potrebbero sembrare di feroce compiacimento per la terribile sorte del Duce e dei suoi seguaci. Noi però vi vogliamo scorgere l’espressione di un

181

Capitano Brocchi, tenente Gazzotti. D’Amore, Bernardini e Branci rientreranno per punizione al campo di Wietzendorf per aver commesso gravi infrazioni disciplinari. Il non presentarsi li ha fatti considerare disertori a tutti gli effetti. Certo che l’unica soluzione, e anche per tagliar corto a certi fatti che potrebbero eventualmente accadere, sarebbe il nostro rientro anche perché la disciplina ci potrebbe maggiormente sistemare e renderci meno nervosi, non escluso il fatto che ci sentiamo il bisogno di poter lavorare e non continuare ad oziare come abbiamo fatto in questi venti mesi. A messa cantata dei francesi nella chiesa dei protestanti. Il canto e la devozione degli ufficiali francesi, di tutte le età e di tutti i gradi, meritava che assistessero parecchi dei nostri, per osservarne la pietà e la compostezza nei loro atti: anche in questo noi dobbiamo imparare. Alle volte mi domando, ma dunque siamo caduti proprio così in basso, da non scorgere la vetta ove eravamo. Io questi atti del rispetto della roba altrui sono o li voglio ritenere come una mentalità che il prigioniero si è fatto, quando constato che di tutto sincero, anche se esasperato, empito di giustizia, per le tante sofferenze e rovine di cui il Duce, trascinando il Paese nell’avventura bellica il 10 giugno 1940, si era reso responsabile di fronte agli italiani. V’è da dire che le tragiche circostanze della morte del Duce e l’orribile oltraggio di Piazzale Loreto non mancarono, quando vennero conosciuti, di impressionare gli internati italiani. Il rancore e l’odio, nutriti per il responsabile di tanti lutti e sofferenze, lasciarono talvolta il posto alla commiserazione, come testimonia il soldato Cosimino Cavallo nel suo memoriale (CAVALLO CONVERSANO 2013, p. 64): “Il 9 maggio si seppe della misera fine di Mussolini, impiccato a Piazzale Loreto a Milano. Durante il ventennio, io avevo malvisto quell’uomo, dopo questi due ultimi anni l’avevo odiato, la sua fine così sommaria, miserabile e infelice però, lo aveva reso, come tanti di noi, un derelitto, e questo mi portava ad inframmezzare nel mio animo l’odio con la pena per una morte così triste e meschina.” Da riferire l’icastico e sdegnato commento di Guareschi nel Grande Diario al 4 maggio 1945 (p. 500): “Ho visto le foto su un giornale inglese, «Mussolini ultimo atto»: Mussolini, Pavolini e la Petacci cadaveri impiccati per i piedi al distributore di piazza Loreto a Milano. Che orrore! La donna mi fa una pena enorme. Sono riusciti a renderlo un martire. L’italiano è un popolo di m…” La tragica fine di Mussolini, con l’epilogo di Piazzale Loreto, scosse molto il suo avversario inglese, ossia Winston Churchill, il quale annotò la sua riprovazione per la morte dell’innocente Claretta Petacci ma aggiunse che si risparmiò al mondo una Norimberga italiana: vd. Winston Churchill, Storia della seconda guerra mondiale, trad. di Arturo Barone e Glauco Cambon, vol. VI Trionfo e tragedia, Mondadori, Milano 1963, p. 611.]

182 quanto avevo sono stato spogliato, che per vivere ci si doveva adattare a quel poco insufficiente per campare e che tutti dovevano studiare di notte, per cercare di poter vivere anche il giorno dopo. Nessuno ha assaporato la prigionia in tutta la sua parola fuorché gli italiani e i russi, i primi internati; ci si dava di meno, ci si voleva affamare per piegarci e mandarci al lavoro. Questa mentalità scomparirà col ritorno per poter disporre così, senza preoccupazione al domani ed alla distensione dei nostri nervi così tremendamente tesi. Si parla di rientro per tutti a Wietzendorf. Spero di no.[177] Vicenza, Padova liberate. Tutti i tedeschi in Italia, chiusi in trappola.

30.4.1945 Lunedì

Le notizie che vengono dall’Italia non mi impressionano, quello che può fare meraviglia è la data e che ciò avvenga a così distanza di tempo. Il non aver voluto rimanere al proprio posto, che il destino e la protezione della Corona gli[178] assegnava e garantiva, l’aver continuato con insistenza e malafede in una causa inizialmente sballata,[179] seminando dolori e rovine in Italia e fuori, erano le cause che gridavano vendetta e che non poteva tardare. Ho detto, e fuori d’Italia. I nostri soldati uccisi a bruciapelo dalle S.S. perché stanchi, si fermavano ai margini della strada per riprendere fiato. Le miniere fatte saltare con, nei sotterranei, i nostri lavoratori senza prima ritirarli e treni prigionieri mitragliati durante lo scarico nelle stazioni di arrivo o di partenza. La mancata distribuzione di quella parvenza di vitto che ci ricordava che eravamo ancora vivi, erano tutte cose che reclamavano una punizione esemplare. Ed è stata ben fatta.[180] Siamo stati venduti o meglio

[177 La notizia sarà invece confermata il giorno successivo. Commenti più allarmati e caustici nel Grande Diario di Guareschi alla medesima data del 29 aprile 1945 (p. 494): “Colpo di fulmine: si torna a Wietzendorf nel Lager! È una cosa orrenda: talmente di cattivo gusto che nemmeno i tedeschi l’avrebbero potuto fare. Noi poveri straccioni! Ritornare in quelle tane orrende e fetide. Le cimici, le pulci, i topi ci attendono sul cancello del disumano recinto. E i “camerati” francesi rideranno!] [178 Intendi: a Mussolini.] [179 La causa sballata dall’inizio è l’alleanza con la Germania, sancita ufficialmente dal “Patto d’Acciaio”, firmato il 22 maggio 1939 dai ministri degli Esteri d’Italia (Ciano) e Germania (von Ribbentrop).] [180 Riferimento alla fucilazione del Duce e a Piazzale Loreto.]

183 consegnati, legati, al tedesco perché di noi potesse fare quello che ne voleva. Il ricordo della diminuzione del vitto, niente riparazione scarpe rotte, con acqua e neve su cui bisognava camminare, perché le riparazioni di tutti gli oggetti si facevano solamente a chi chiedeva di andare a lavorare. Niente legna per il riscaldamento con 30 gradi sotto zero, perché bisognava andare a farla nel bosco, niente medicinali, ma che dico, purganti, perché per noi non c’erano pacchi in arrivo, si tenevano depositati nei ripostigli per non distribuirli a chi li attendeva con ansia per poter saziare almeno per poche ore la fame. La mancanza dell’acqua da bere e di tutte le altre angherie degne della razza[181] erano cose che gridavano vendetta e il Cielo non poteva fare il sordo, ed è venuto il giorno dei nodi al pettine. La storia, sulla fine dei manigoldi dell’umanità, ne dovrà dare il responso e si vedrà quanto severa sarà al proposito. Stamane ore nove rapporto al comando del campo. Domani mattina si rientra al campo di Wietzendorf; è una notizia tremenda alla quale non volevamo prestar fede e per la quale ci siamo recati al comando italiano per saperne di più. È confermata, con l’aggravante che è solo per noi, poiché i francesi continueranno a rimanere.[182] La ragione ufficiale è che Bergen occorre al comando inglese per sistemare truppe che sono in arrivo. La ufficiosa è che l’Italia, come gli italiani debbono essere ignorati.[183] A rapporto si

[181 Intendi: tedesca.] [182 I prigionieri francesi furono presto rimpatriati in Francia via Bruxelles, agli italiani invece venne riservato dalle autorità inglesi il ritorno al campo di Wietzendorf.] [183 L’amara riflessione dell’Arpini sembra anticipare quell’atteggiamento di emarginazione o rimozione di cui furono oggetto i reduci italiani dai Lager in Germania quando ritornarono in patria. Li si accusava di non aver partecipato alla Resistenza né alla RSI (accuse opposte e speculari che venivano paradossalmente dagli antifascisti e dai fascisti), di aver “comodamente” atteso la fine della guerra, di propugnare ideali, come la fedeltà al Re, ormai superati, di avanzare vittimistiche rivendicazioni per il periodo di detenzione. I reduci erano personaggi scomodi per tutti e la loro memoria fu oscurata per decenni, fin quasi ai giorni nostri. Sull’accantonamento in patria degli ex internati militari, vd. le considerazioni di BARTOLO COLALEO 2017, pp. 258-261, e anche Claudio Sommaruga, Una storia “affossata”, Quaderno-Dossier N. 3, Archivio “IMI”, 2005, testo leggibile nel sito “Schiavi di Hitler – Museo virtuale della deportazione”, all'indirizzo: www.schiavidihitler.it/Pagine/saggi-sommaruga.html ]

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è detto dei documenti, rapporto che Testa ha inoltrato agli inglesi per dire chi siamo e che cosa abbiamo fatto per essere tali, perché essi non sanno altro.[184] Anche …[185] è stato interessato della nostra situazione. Ritorno sul luogo del martirio, non si doveva assolutamente accettare, giacché è indice del ritorno suppergiù allo stato primitivo e per di più un campo giudicato inabitabile dalla C.R.I. Che diranno i tedeschi? Ma la propaganda è stata fatta e basta. Siamo tutti esterrefatti di questo trattamento. Inizio partenze, venticinque per camion, domani mattina per tempo e giunti si occuperà gli stessi blocchi e camerate che si aveva prima di partire. S.A.R.[186] la principessa Mafalda è deceduta in un campo di concentramento di Buchenwald, fatta internare dal consorte. A Trieste combattono quelli di Tito e così pure a Fiume. Vedremo che cosa sarà serbato alla nostra patria, sì, tutti debbono protestare perché la si vuole ignorare. Certo che stiamo dando prova di popolo barbaro. Esposizione dei cadaveri su pubbliche piazze.[187]

[184 Il rapporto del Ten. Col. Pietro Testa al Comando Militare Alleato di Soltau, datato Wietzendorf, 3 maggio 1945, è riprodotto tra i documenti nel Grande Diario di Guareschi alle pp. 98-103. Probabilmente l’Arpini si riferisce al medesimo rapporto che il Comandante Testa indirizzò alle autorità inglesi di Bergen.] [185 Probabile lacuna nel testo, manca il soggetto.] [186 Sigla di Sua Altezza Reale. La principessa Mafalda di Savoia, figlia di Vittorio Emanuele III e moglie del principe Filippo d’Assia fu arrestata con un tranello a Roma dai tedeschi e deportata nel campo di Buchenwald, mentre il marito, pur essendo ufficiale dell’esercito tedesco, fu internato a Flossenburg (non ebbe quindi alcuna colpa nell’arresto di Mafalda). Mafalda visse a Buchenwald mesi durissimi di prigionia, segregata dalle altre deportate e schedata sotto il falso nome di Frau von Weber. Morì il 28 agosto 1944 per le conseguenze di una difficile operazione chirurgica, resasi necessaria a seguito delle ferite riportate dalla prigioniera in un bombardamento. Che Filippo d’Assia fosse responsabile dell’arresto di sua moglie Mafalda era una calunnia, inventata da un giornale statunitense, “The Rubicon”, che circolò nel maggio 1945. In realtà il principe Filippo d’Assia era completamente estraneo all’arresto e all’internamento di Mafalda, essendo egli stesso arrestato per ordine di Hitler, proprio l’8 settembre 1943 e internato nel campo di concentramento di Flossenburg, ove rimase fino all’aprile del ’45. Vd. al riguardo: Renato Barneschi, Frau von Weber. Vita e morte di Mafalda di Savoia a Buchenwald, Edizioni CDE, su lic. Rusconi, Milano 1984, pp. 130-140.] [187 Forse un riferimento a Piazzale Loreto. L’Arpini qui sembrerebbe condannare decisamente quell’episodio, dimenticando le ragioni dell’odio contro il fascismo e Mussolini che prima ha esposto.]

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Speriamo siano momenti eccezionali e che le teste calde rientrino nella normalità e dignità.

1.5.1945 Martedì

Giornata di grande facchinaggio per il trasporto di quel poco che avevamo trovato per la strada e rientro nel campo. Partenza del gruppo verso le 10.45, in camion con tutte le nostre masserizie. Si fa l’autostrada Saltan-Amburgo tagliando nei pressi di Wietzendorf per il campo. Per la strada nulla che indichi che è passata la guerra. Tutto normale ad eccezione di un lungo andirivieni di automezzi inglesi con carri armati, dicono il grosso delle truppe che transitano per Amburgo. Alle 12.20 si rientra in campo e si va alle nostre abitazioni. Blocco 15-5. Quale disastro, le casse e le valigie che contenevano il nostro bagaglio personale e che ci fu suggerito, con apposti indirizzi, tutte scassinate, sventrate e manomesse, il contenuto sparpagliato per la camerata. Il Cicchetti che era rimasto alla custodia dei bagagli ci dice che hanno contribuito un po’ tutti, civili, militari e ceffi. Non so come andrà a finire giacché i proprietari intendono reclamare. Certo che stiamo dando prova di una degradazione morale che ci fa pensare con serietà all’avvenire. Se è così la classe dirigente, che ne sarà dei meno colti? E di tutti insieme come potrà farsi rispettare la nazione? Siamo braccati e come braccati siamo qui, in campo, perché le autorità inglesi hanno avuto tanti e tanti reclami di gente che scassinava, rapinava il latte ai francesi, ed altro agli inglesi.[188] Visite indesiderate in casa di gente per asportare e immagaz- zinare. Roba che se si racconta non si crede. Si può con un esercito composto di simili esseri, educare il soldato? No, bisogna ritornare all’antico, i gradi bisogna che si meritino e non si buttino addosso.

[188 Dalle parole dell’Arpini sembra di capire che le autorità inglesi abbiano voluto punire gli italiani per le ruberie di Bergen, disponendo il loro rientro a Wietzendorf. Per Guareschi il trasferimento a Wietzendorf è una mera ingiustizia che attribuisce a un odio pregiudiziale e razzista degli inglesi per gli italiani, vd. il Grande Diario al 1° maggio 1945 (p. 497): “All’inferno gli inglesi. Per gli inglesi da Calais cominciano i negri. Per me dalle Alpi cominciano i tedeschi. Sono tutti tedeschi! (…) Gli inglesi hanno comunicato al mondo che i Lager erano inabitabili da esseri umani. E allora erano organizzati. Adesso disorganizzati, saccheggiati, sono diventati abitabili? Oppure noi non siamo esseri umani. Probabilmente sì: siamo, infatti, ufficiali italiani.”]

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Bisogna che il senso del dovere, della dignità faccia presa nel loro animo e finalmente si ritorni alla normalità anche in ciò. Il compito è grave e lungo, sarà abbreviato se chi è incaricato si inquadrerà subito e con inflessibilità e senza misericordia curerà la piaga senza curarsi di chi grida. Pochi ma buoni e per di più onesti. Il nostro secolo è il secolo della fregatura e della disonestà. Pur di arricchire per soldi non si guarda al mezzo pur di arrivare. Oh, i bei tempi della parola data e del giusto guadagno. Se si vuole veramente costruire, si deve educare e seriamente. Qui nulla di notizie, giacché manca la forza elettrica. Mese di maggio, mi auguro di non terminarlo in prigionia. Sarà vero? Me lo auguro.

2.5.1945 Mercoledì

Risveglio triste quello di stamane. Siamo ritornati nella solita letamaia con il solito fetore di gabinetto e con i soliti scocciatori. Ma quando, quando terminerà questa vita in comunione che diventa impossibile ogni giorno. Ho preferito stamane per questo, fare una giratina in paese anche perché avevo bisogno di acquistare del latte, sia anche per poter essere solo e pensare ai fatti miei. Ho potuto avere latte e uova che mi vennero dati gratis. Ma anche quei falce e martello,[189] i razziatori organizzati, si sono installati e portano via alle buone o alle cattive quello che vedono o che cercano. E girano con automobili, motociclette e poi radunano in certe località e vendono. Sono ufficiali russi che sapendo di non trovarsi in regola con gli ordini ricevuti, cercano di crearsi una posizione indipendente. Oggi due visite al paese per lo stesso motivo: latte e uova. Danno,[190] gli si offre la loro moneta che rifiutano, giacché essi stessi non hanno più fiducia. Ho notato che ad ogni porta è esposta bandiera bianca in segno di resa. Le case tutte intatte, ad eccezione di due verso la ferrovia, il paese tutto normale. Sono stato anche al cimitero per notare del come ebbero sepoltura i camerati che ci abbandonarono e per sapere e vedere dove il tenente Ferrari Riccardo, cugino di Zaniboni, è stato tumulato. Si dice che sia stato ricoverato in infermeria e curato per indigestione, invece si tentò all’ultimo l’operazione per appendicite, ma soccombette. Giace

[189 Intendi: i militari russi.] [190 Intendi: i tedeschi.]

187 nell’ultima fila. Prima di andarmene mi recherò ancora sulla sua tomba. Don Pasa celebrerà la messa da requiem in sua memoria. Ricordo che oggi è un anno dalla morte di Teresina, un anno e non sapere ancora nulla di lei, quando la rivedrò al cimitero? Speriamo presto. È stata data comunicazione che siamo considerati ex prigionieri[191] e come tali in sussistenza degli inglesi. I lavoratori che, volontari, andarono a prestar la loro opera ai tedeschi, saranno separati da noi, perché il comando li considera come prigionieri politici e quindi passibili di punizioni e sanzioni.

3.5.1945 Giovedì

È la seconda volta che anche gli inglesi ci comunicano che noi che siamo rimasti nei campi siamo considerati a tutti gli effetti prigionieri, ma alla dichiarazione non corrispondono i fatti. Speriamo che questa sia la volta giusta e che i signori inglesi si convincano che i rimasti, sono di sentimenti badogliani. Certo che è strano se dopo 20 mesi di prigionia, con tutto il servizio di spionaggio a loro disposizione non si sia mai pensato di avere notizie anche di noi, è cosa grave, se poi si pensi a tutto quanto è stato scritto dai nostri comandi circa le nostre condizioni e proteste, è cosa inaudita se tutto è andato nel nulla o peggio, nel dimenticatoio. Il tenerci ora separati dai lavoratori, è cosa che si doveva fare dal primo giorno. Come poi si riuscirà a dividere gli eletti dai reprobi? Molti e molti sono stati prelevati e convogliati al lavoro ma molti non aspettavano che si commettesse qualche infrazione per sentirsi più o meno camuffati dalle imposizioni, mentre sollecitavano più o

[191 Intendi: prigionieri di guerra (POW, Prisoners of War) e non più internati militari, e quindi protetti finalmente dalle garanzie internazionali. Cfr. Guareschi nel Grande Diario al 3 maggio 1945 (p. 498): “Pare che gli inglesi si siano decisi a trattarci come ex prigionieri di guerra”. Però l’autore di don Camillo aveva annotato il giorno precedente questa disposizione degli inglesi tanto ingiusta quanto grottesca, che aveva suscitato la sdegnata reazione del colonnello Testa (pp. 497- 498): “Un tenente inglese dell’amministrazione afferma che noi dobbiamo avere la razione dei… civili tedeschi! Dice che noi, in fondo, siamo alleati della Germania! Bene! Diciannove mesi di sacrifici hanno avuto un bel risultato! Il colonnello Testa, indignato, rifiuta di continuare la discussione e chiede di parlare solo all’ufficiale più elevato in grado della zona.”]

188 meno privatamente per la loro uscita dai lager.[192] Non so se Testa sia il più adatto a istituire o presiedere una tale commissione di giudizio, se durante la sua gestione non ha mai fatto proteste scritte,[193] solo ultimamente è stato indotto dai gemiti dei nostri convogli. Egli è qui giudicato il colonnello lavoratore e la voce di popolo è voce di Dio. Tutte belle parole, tutto per l’esteriorità, niente per il solido. Ci siamo dimostrati senza spina dorsale ed ora ne subiamo le conseguenze. Mai dai nostri superiori è uscito un atto energico di protesta e così tutti hanno avuto modo di sbizzarrirsi in tutte le loro angherie pensate e volute. Il cadreghino valeva più di qualsiasi atto di solidarietà col colpito e poi la cattura serviva a qualche cosa. A Sandbostel dopo la nostra partenza i gerarchi del campo in massa sono andati al lavoro e qui si è supinamente continuato a trangugiare anche quando il solo masticare poteva salvare delle situazioni. Del dopo su ciò si potrà scrivere a lungo, ma la conclusione sarà sempre quella: il cadreghino è la marmitta che ha fatto tacere tante e tante coscienze. Ho ripetuto oggi la domanda per essere assegnato a reparti italiani che collaborano con gli alleati, fatta il 10.4.45, che spero mi possa venire al più presto accolta per mettermi in movimento e in attività. Oggi niente libera uscita per pulizia campo e baracche. Anche qui si potrebbe dire e ridire molto. È vero che questa è stata la prigionia del soldato, il quale era fornito di tutto e praticava prezzi proibitivi contro di noi, o che erano nella possibilità di acquistare (prezzi), ma è pur vero che se subito da principio avessimo mantenuto la nostra autorità e benevolenza, il nostro soldato ci avrebbe servito in pro e non in danno. Certo che quello che hanno visto ai reparti, per lo meno il menefreghismo o peggio, li ha allontanati dai propri ufficiali, nei quali vedevano degli sfruttatori e null’altro.[194] Anche qui la parola alla storia.

[192 Forse l’Arpini intende dire che alcuni, non volendo urtarsi con i compagni scegliendo il lavoro volontario ma desiderando in ogni modo uscire dal Lager, commettevano infrazioni a bella posta, per poter essere puniti con l’assegnazione al lavoro coatto nelle fabbriche e nelle fattorie. Con tale sotterfugio speravano di non essere qualificati dai compagni di prigionia come “optanti”.] [193 Ciò non corrisponde al vero, ma forse l’Arpini ignorava le lettere scritte a febbraio dal Comandante Testa e dirette alle autorità tedesche, per protestare contro l’inumano trattamento riservato agli internati italiani.] [194 Il sottotenente Antonio Zupo, internato a Sandbostel e a Wietzendorf, nel suo diario ha parole di fuoco contro quegli ufficiali italiani che trafficavano e si

189

A Caserta è stata firmata la resa delle truppe tedesche e alleati operanti in Italia e anche per l’Austria,[195] mentre si annuncia la morte di Hitler ed il passaggio dello stato all’ammiraglio.[196] In serata sono arrivati con 30 autocarri ben 800 lavoratori della zona di Amburgo. Ne raccontano di tutti i colori. Lavorare in stabilimento, alloggio all’ultimo piano della fabbrica con sentinelle alla porta. Vietato

arricchivano con il mercato nero, prima nelle zone di operazioni e poi nei Lager, provocando il risentimento dei soldati. Riportiamo dal suo diario (in ZUPO 2011, p. 31): “Ho potuto constatare nei vari campi come il 90% degli ufficiali italiani siano ben forniti di soldi, lucro indegno di speculazioni fatte nella regione balcanica. Molti parlano di invio di pacchi a casa, di pelli, oggetti vari, tonno all’olio, pasta, riso, marmellate, liquori, acquistati (dicono loro) alle sussistenze militari. Ed i soldati soffrivano la fame! Uno si vanta d’aver regalato alla moglie una cinta formata da 25 sterline, frutto di mercato nero! Tutti hanno rubato, hanno speculato ed ora i soldati, che hanno sofferto e che conoscono il mal fatto degli ufficiali, ci trattano da pari a pari. Ma quello che più mi fa pena è l’egoismo d’ognuno. Tutto è commerciabile. Se si ha bisogno di un bottone non si riesce ad ottenerlo, da un collega, se non in cambio di qualche altra cosa. Guai ad avere bisogno! Nel campo entrano pure delle pagnotte, farina, burro o altro.” Però tra i prigionieri v’era spazio anche per gesti di solidale generosità, come quello ricordato nel suo memoriale dal sottotenente Ugo d’Ormea, prigioniero nel campo di Siedlce (Polonia), alla data del 24 febbraio 1944: “Un mio collega che aveva comperato del pane disfacendosi del suo orologio, vista la mia fame, me ne regala due fette. Quale gioia! Lo ringrazio vivamente, afferro quel poco pane e vado a mangiarlo in fondo alla stanza in un angolo buio per non farmi vedere” (CARINI 2016, p. 54).] [195 La resa delle truppe tedesche in Italia venne firmata il 29 aprile 1945 nel Palazzo Reale di Caserta, dopo che si raggiunse un accordo in Svizzera tra il capo del controspionaggio americano (OSS) e il generale delle SS Karl Wolff, plenipotenziario di Himmler per l’Italia. Per i tedeschi firmarono la resa il colonnello von Schweinitz e il maggiore Wenner, per gli alleati il tenente generale dell’esercito inglese W.D. Morgan, in rappresentanza del comandante delle armate alleate in Italia, il generale Harold Alexander, e due alti ufficiali sovietici. Gli accordi furono resi operativi su tutto il fronte italiano il 2 maggio 1945, a mezzogiorno.] [196 Si tratta dell’ammiraglio Karl Dönitz, designato successore alla guida del Reich dallo stesso Hitler nel suo testamento politico, prima di uccidersi nel bunker della Cancelleria il 30 aprile 1945.]

190 uscire anche durante l’Arm,[197] moltissimi i morti per bombardamenti. Speravo trovare fra questi alcuno dei miei, ma per ora nulla. Notizie dall’Italia buone, e noi quando si andrà? Donna Rachele, Romano e Anna Maria consegnati dai patrioti agli anglo americani.

4.5.1945 Venerdì

Ho fatto domanda per arruolamento per vera convinzione e perché desideravo fare qualche cosa anche in questa guerra, ma vedo la messa in scena di chi sa gli errori commessi per il passato e cerca di crearsi degli alibi per il domani.[198] Noi continuiamo con le stesse pecche e manchiamo di sincerità. Niente si è fatto quando come pecore ci si sospingeva al cancello d’uscita,[199] e si cerca oggi d’ingraziarsi i nuovi padroni per crearsi una verginità che non ci fu mai. Si abbia il coraggio di dare le dimissioni quando si sa che non si guidi con autorità e il tutto è costruito sul trust di pochi preoccupati di salvare il posto ed essere in condizioni domani di potersi difendere da un posto preminente.[200] I soldati giunti ieri sono partiti stamane per le caserme tedesche nella pineta. È meglio così perché con la mentalità dei nostri ufficiali, che non vedono l’ora di poter gridare, comando io, ti schiaffo dentro, e con lo spirito rivoluzionario dei nostri soldati,[201] le cose qui potevano andare di peggio in peggio.[202] L’averli separati fu ottima cosa. Ho sentito oggi un soldato conoscente di Dusini che raccontava la sua odissea in Germania. Il racconto semplice e così pieno di nobili sentimenti mi ha

[197 Forse intende Alarm, “allarme”, più coerente con il contesto: i moltissimi morti per i bombardamenti erano effetto della mancata evacuazione della fabbrica durante gli attacchi aerei. ] [198 Forse l’Arpini si riferisce a optanti e collaboratori volontari dei nazisti che, dopo la liberazione, cercavano di dissimulare la loro scelta oppure alle pecche nell’azione di comando dei responsabili italiani di Sandbostel e Wietzendorf.] [199 Intende i prigionieri che uscivano dal campo perché obbligati a lavorare nelle fabbriche e nelle fattorie tedesche. [200 Sembra un’ulteriore critica al Ten. Col. Testa.] [201 Che evidentemente erano pieni di risentimento per il comportamento dei loro ufficiali.] [202 Evidentemente la liberazione, con il generale e notevole miglioramento del trattamento alimentare e igienico, aveva portato alla luce le disarmonie esistenti fra ufficiali e soldati, che covavano sotto la cenere durante la prigionia.]

191 commosso. Raccontando il tormento dell’aderire o chiedere di lavorare, raccontava di aver passato parecchie notti insonne e solo nella preghiera ha potuto superare certi momenti di crisi. Il suo contegno, a proposito di fare quanto gli si ordinava,[203] ma di non chiedere neppure uno spillo per sé. E la soddisfazione provata nel ritorno a ritrovare i suoi ex padroni che con le lacrime agli occhi lo pregavano di accettare qualche cosa, mentre si beava di vederli accudire quei lavori che quando erano fatti da lui non erano mai fatti bene. In un primo tempo gli ordini del padrone includevano, giacché non conosceva la lingua, i lavori suoi e quelli della donna di servizio, la quale in dieci mesi non gli volle lavare una camicia e riparare un paio di calze. Le scarpe rotte, in queste paludi in campagna sempre coi piedi bagnati, ma mai ha potuto far riparare le sue rotte, né avere un paio di zoccoli. Trattamento speciale, mangiare sempre in cucina e con gli avanzi dei padroni. Che dire poi di questi padroni, del trattamento fatto ai nostri, quando nella famiglia due figli sono essi pure prigionieri? È mai possibile che il loro cervello non arrivi a ragionare in maniera umana anche per gli altri, quando quelli della stessa famiglia possono avere pietà per sé, dagli altri? La radio ha trasmesso che Schuster, cardinale di Milano,[204] con un suo passo presso il comando tedesco è riuscito ad ottenere che nessun danno fosse arrecato agli impianti industriali ed un appello lanciato alla popolazione perché i viveri siano messi in commercio a prezzi non proibitivi. Oggi non sono uscito, giacché mi sento indisposto, penso, e sempre, a quando terminerà questa baraonda che non ha nessuna ragione di continuare. E dove sono i membri delle commissioni e italiani che facciano per noi?

[203 Egli aveva quindi accettato di lavorare in una fattoria tedesca.] [204 Il Primate di Milano, cardinale Ildefonso Schuster, tentò nei convulsi giorni dell’aprile 1945 una difficile mediazione tra le autorità della RSI e il CLNAI, che culminò il pomeriggio del 25 aprile nell’incontro all’Arcivescovado tra Mussolini e i suoi gerarchi (tra cui il Maresciallo Graziani, ministro della Guerra, e il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Barracu), da una parte, e i rappresentanti del Comitato di Liberazione (il comandante generale del Corpo Volontari della Libertà Raffaele Cadorna, socialista Riccardo Lombardi, il democristiano Achille Marazza e il liberale Giustino Arpesani). Le trattative fallirono perché Mussolini, venuto a conoscenza che i tedeschi stavano trattando con gli alleati la resa, abbandonò la riunione e decise di fuggire con i suoi fedeli verso la Valtellina, secondo alcuni, o, secondo altri, verso la Svizzera.]

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Bonomi e chi per esso, dorme? Temono di venire in mezzo a noi, sapendo del loro abbandono nelle mani tedesche?[205] Vogliono convincersi che anche qui degli italiani si sono dimostrati tutti di un pezzo ed hanno scelto il calvario ed il martirio, per non venir meno ai doveri di ufficiali e di italiani? Questo abbandono da parte dei nostri,[206] sarà argomento trattato in molti diari di guerra, mi piacerà allora sentire quello che si dirà dall’altra parte. È il primo venerdì del mese che da quando sono in prigionia è il primo che non faccio. Sto attraversando delle crisi: prego il Cielo che passino in fretta. Si conferma la consegna agli angloamericani di donna Rachele, Romano e Anna Maria.

5.5.1945 Sabato

Nel comitato di liberazione milanese faceva parte Luigi Meda,[207] nella sua qualità di cattolico. Luigi[208] figlio di Cadorna è stato

[205 In effetti da Regno del Sud non giunsero soccorsi agli internati militari in Germania.] [206 Sulla rimozione della sorte degli IMI e il mancato riconoscimento dei loro sacrifici nell’Italia liberata vd. Luciano Zani, Il vuoto della memoria: i militari italiani internati in Germania, da La seconda guerra mondiale e la sua memoria, a cura di Piero Craveri e Gaetano Quagliariello, Rubbettino Editore, Soveria Mannelli 2006, testo leggibile on line all'indirizzo: www.sociologia.uniroma1.it/users/zani/VuotoDellaMemoria.doc ] [207 Luigi Meda (1900-1966), figlio del ministro del Regno d’Italia Filippo Meda, aderì al Partito Popolare Italiano e, dopo l’8 settembre, fu tra i capi della Resistenza a Milano. Arrestato dai fascisti nel novembre 1943, nell’aprile successivo venne liberato grazie all’intervento del cardinale Schuster. Dopo la guerra fu eletto all’Assemblea Costituente per la Democrazia Cristiana e partecipò al quarto Governo De Gasperi come sottosegretario. In una pergamena offerta dai partigiani ai militari britannici delle “Special Forces” e riprodotta nel volume Aa. Vv., Il secondo Risorgimento, Istituto Poligrafico dello Stato, Roma 1955, tra le pp. 352 e 353, il nome di Luigi Meda però non risulta nell’elenco dei membri del CLNAI.] [208 Si tratta in realtà del generale Raffaele Cadorna (1889-1973), Comandante del Corpo Volontari della Libertà. Era figlio di Luigi Cadorna, capo di Stato Maggiore dell'esercito italiano durante la prima guerra mondiale, e nipote di Raffaele, comandante delle truppe italiane nella presa di Roma (20 settembre 1870). Comandò l’insurrezione di Milano il 25 aprile 1945 e, dopo la guerra, fu nominato capo di stato maggiore del Regio Esercito (4 luglio 1945). L’Arpini forse fa riferimento alla riammissione del Cadorna nell’esercito col grado che aveva, quello di generale, prima di passare alla clandestinità dopo l’8 settembre. In effetti Raffaele Cadorna,

193 nominato nel regio esercito, fortunato lui e noi: sì, sugli esempi del padre ci vorrà ridare un esercito degno delle tradizioni e delle esperienze di tanto genitore! Bisogna far presto subito e seriamente. Anche Toscanini ha fatto sentire la sua voce, lo approvo ma non nella chiesa. Libero in Italia libera, sotto le consegne[209] di casa Savoia, se così avesse detto e scritto, sarebbe ritornato in maggiore considerazione ed il suo sacrificio maggiormente avrebbe acquistato di valore. Ma in fin dei conti che male ci ha fatto la monarchia, o non fu colpa di tutti i cittadini italiani? Che cosa sarebbe avvenuto se la Corona fosse andata contro corrente?[210] Proprio quelli che oggi inveiscono, sarebbero insorti, accusandola di non tenere in considerazione la volontà popolare. Prima quindi di accusare la Corona bisogna battersi il petto. Oggi disinfestazione all’inglese, spruzzatore di polvere ai vestiti.[211] Ne constateremo il beneficio dai disturbi che notavamo stando sui nostri pagliai ecc. Con lunedì andrà in vigore un nuovo vitto passato dagli inglesi. Ventuno generi di cui tre solo da cucinare, il rimanente tutto in scatolame. Parte di essi viene distribuito a settimana, è detto di 50 sigarette settimanali. Ma più che questo, io penso a quando[212] il nostro rimpatrio, giacché per tutto quello che accade in questi giorni, chissà a quale epoca si parlerà ancora di noi. Scrivo a casa avvisando di far preparare l’appartamento di Milano e raccomandando di darsi attorno

dopo essere stato fino al 25 aprile 1945 Comandante del Corpo Volontari della Libertà, fu capo di Stato Maggiore dell’Esercito dal maggio 1945 al gennaio 1947, quindi senatore per la Democrazia Cristiana dal 1948 al 1963. Nel suo scritto La Resistenza: il Corpo Volontari della Libertà (in Aa. Vv., Il secondo Risorgimento, cit., pp. 263-290) il generale Raffaele Cadorna riassume l’operato del Corpo Volontari della Libertà nella lotta di Liberazione contro tedeschi e fascisti,] [209 Da intendere: insegne?] [210 Ossia se il re non avesse seguito Mussolini nella sua avventura militare, rifiutando di condividere la dichiarazione di guerra a Francia e Inghilterra il 10 giugno 1940 e obbligando l’Italia a rimanere neutrale: le riflessioni dell’Arpini sconfinano in questo caso nella storia alternativa, ma vi è l’intento di giustificare la condotta di Casa Savoia.] [211 Cfr. Guareschi nel Grande Diario al 5 maggio 1945 (p. 500): “Disinfestazione all’inglese: infarinatura a pompa.”] [212 Sottintendi: avverrà.]

194 per l’impiego dei figli. Quest’oggi cerco di starmene a dieta e coricato per disturbi intestinali.

6.5.1945 Domenica

Sto pensando ai ventuno generi in distribuzione ed alle razioni di circa un mese fa al disotto del normale e se si era costretti a subirla per altro periodo di tempo più o meno lungo, certo che a piedi dal reticolato non si sarebbe usciti. Pensare a fare dei movimenti era da pensarci, come era cosa gravosa essere il gruppo di servizio per la fatica di trasportare il rancio. Per due giorni poi si stava orizzontali a letto per rifarci dello sforzo compiuto.[213] Oggi si mangia a crepapelle e per il troppo, perché non abituati, si hanno disturbi viscerali.[214] Il perché del trattamento? Non comprendo come in pieno secolo XX° non si sia

[213 Il sottotenente Serafino Clementi, detenuto a Sandbostel, annota al 5 dicembre 1944: “Nevischio e freddo notevole… Fame crescente: si applica la tattica del “monopasto” e della “posizione orizzontale”!” (CARINI 2015, p. 97). Ossia molti detenuti, per risparmiare calorie ed energie soprattutto nei mesi freddi, passavano del tempo immobili, sui propri giacigli. Così ci informa il tenente e futuro storico Giampiero Carocci, allora recluso nel campo di Hammerstein (CAROCCI 1995, pp. 90-91): “Ad Hammerstein, contrariamente agli altri campi non esisteva la consue- tudine dell'appello giornaliero. Questa fu per noi una novità molto piacevole perché anziché essere costretti ad alzarci la mattina presto (l'appello avveniva generalmente alle sette o alle otto) ci consentiva di restare sotto le coperte fin quando ci pareva. Ne approfittavamo per restarvi fino alla distribuzione del rancio. Non che fosse una cosa oltremodo piacevole, ma era il mezzo migliore che avevamo per difenderci contro la fame. Infatti, stando sdraiati fino a quell'ora, lo stomaco rimaneva in uno stato di sonnolenza che impediva di avvertirne le contrazioni, e l'organismo reagiva meglio contro la debolezza in cui la denutrizione lo aveva fatto cadere. Anzi, molti, consumato il rancio, si sdraiavano nuovamente e trascorrevano così l'intera giornata in cuccetta. Facevano questo allo scopo di difendersi non soltanto contro la debolezza, ma anche contro il freddo.”] [214 Ugo d’Ormea alla fine del suo diario elenca i generi alimentari distribuiti a Wietzendorf il 6 maggio 1945, confrontandoli significativamente con quelli del 19 marzo precedente. Il vitto del 6 maggio è enormemente superiore per qualità e quantità, per cui davvero i prigionieri poterono mangiare “a crepapelle”. Lo riportiamo di seguito (CARINI 2016, p. 60): “carne in iscatola gr. 250; pesce gr. 20; formaggio gr. 20; pane bianco gr. 350; prugne gr. 20; latte gr. 45; margarina gr. 45; maiale gr. 60; zucchero gr. 70; the gr. 10; marmellata gr. 30; latte fresco ½ l; patate cotte gr. 500; minestra piselli e avena l. 1.”]

195 ancora raggiunto l’accordo che ai prigionieri di guerra, come tali perché tagliati fuori dalla loro nazione, li si debba vettovagliare, non a spese della potenza detentrice, ma da un ente internazionale o di uno stato protettore il quale al termine del conflitto, possa ritirare il quantitativo speso per il mantenimento dei prigionieri garantendo ad essi un quantitativo di calorie atte a poter vivere, lontano dalle angherie dello stato detentore. Sicuro, poiché per gli accordi internazionali, noi si aveva diritto alla razione viveri che si amministrava alle truppe di servizio, ma in realtà non lo era,[215] altrimenti essi stessi non avrebbero più avuto la forza di portare il fucile, e neppure[216] quella della popolazione civile, in quanto ben sappiamo e personalmente abbiamo constatato, quali riserve avevano le famiglie tutte e a Bergen e a Wietzendorf, con la possibilità di poter arrotondare per quello che si produceva nei propri campi e quello che si poteva acquistare dalla campagna. Solo per noi nulla e poi nulla. La stessa Croce Rossa Internazionale[217] che ai prigionieri delle altre nazionalità, perché dichiarati tali, fu larga di provvidenziali aiuti, per noi fu lettera morta anche se i comandi di campo lanciavano appelli di soccorsi anche per gli ammalati ricoverati in infermeria: erano sprovvisti di medicinali e di viveri e venivano trovati stecchiti nei propri letti, cadaveri per esaurimento. Alle volte ci si domandava, ma perché questi componenti il comitato non si fanno autorizzare a girare nei diversi campi per constatare de visu le condizioni dei diversi campi di concentramento? Mi si rispondeva che l’autorizzazione per il nostro[218] non sarebbe mai venuta, perché noi eravamo fin da principio assegnati alla sorte, che era o piegarci ad aderire alle diverse forme di collaborazione o adagio prepararsi alla fossa.[219] Di noi nessuno doveva entrare in Italia. Lo

[215 Ossia la razione distribuita ai prigionieri era di molto inferiore, per quantità e qualità nutritive, a quella distribuita alle truppe tedesche.] [216 Intendi: e neppure era uguale a quella della popolazione civile.] [217 In minuscolo nel testo.] [218 Intendi: l’autorizzazione a visitare il nostro campo.] [219 Il 17 gennaio 1945 finalmente arrivò al campo di Wietzendorf il rappresentante della Croce Rossa Italiana, dott. Rubini, che aveva aderito alla RSI. Costui rivelò al Col. Testa che le autorità fascista pretendevano la cancellazione delle etichette sulle merci e generi che la Croce Rossa Internazionale aveva inviato agli Internati militari italiani, giacché queste provenivano dai paesi alleati. Stante il rifiuto della Croce

196 confermano i diversi campi di internati specie quello di Belsen dove solo pochissimi poterono salvarsi e solo la loro bocca vi può ragguagliare di quanto furono vessati e il loro cimitero, 400 su 600 iniziali,[220] ne confermano la veridicità del loro racconto, di cose incredibili. Ripeto e ripeterò mai abbastanza, è una razza che merita di essere distrutta. Vi si presentano ora che vedono la realtà, col sorriso e parlando vi diranno poi che la guerra essi non l’hanno voluta, che Hitler era ed è un pazzo e che come tale ha rovinato la nazione tutta, “ma dateci l’illusione di poter sembrare forti che ci vedrete tutti a mostrare i denti.”[221] Pochi giorni fa passando vicino al nostro reticolato cantavano e facevano cantare ai loro figli canzoni e canzonacce per deriderci e per chiamarci traditori, oggi il sorriso, domani il cartello sulla schiena. Non c’è e non vi può essere distinzione,[222] specie in questa Prussia che fu

Rossa Internazionale, le autorità della RSI avevano rifiutato gli aiuti della Croce Rossa per gli IMI. Citiamo la risposta del Col. Testa al Rubini (dal memoriale Wietzendorf di Pietro Testa, a cura del “Centro Studi sulla Deportazione e l’Internamento”, cit., p. 127): “Era paradossale e mostruoso. «Ma vi rendete conto – gli ribattevo – della responsabilità che vi prendete? Ed in base a quale investitura voi parlate a nome nostro? Non vi basta averci consegnato ai tedeschi? Vi atteggiate anche a nostri tutori per negarci l’aiuto degli altri e imporci la vostra fame».” Il Rubini si limitò a prendere in consegna dal Col. Testa una lettera di protesta alla Croce Rossa, che però non sortì alcun esito.] [220 Da intendersi, probabilmente, che di 600 internati italiani a Belsen ne morirono per vessazioni, fame e malattie 400 o che di 600 sepolture, nel cimitero, 400 erano di italiani.] [221 Vale la pena al riguardo, a riscontro della sotterranea ansia di rivincita che allignava fra la popolazione, riferire il dialogo che ebbe l’ex prigioniero Bruno Betta con una ragazzina tedesca, la quattordicenne Elisabeth, “dall’espressione mite e quasi ragionevole”, in una fattoria presso Wietzendorf (da BETTA 1984, p. 201): “– Che cosa farai, Elisabeth, fra qualche anno quando sarai cresciuta ancora un po’? – Voglio andare in città a lavorare in una fabbrica di munizioni. – Ma ora la guerra è finita. – Questa guerra è finita; ma noi ne faremo un’altra contro l’Inghilterra, e la vinceremo.” Ed era il 23 luglio 1945.] [222 Intendi: fra tedeschi buoni e cattivi. È questo l’assunto di un recente e discusso saggio di Daniel Jonah Goldhagen, I volonterosi carnefici di Hitler (trad. di Enrico Basaglia, Mondadori, Milano 1999 rist.) il quale si propone di dimostrare che tutti i tedeschi, indistintamente, erano a conoscenza dei campi di sterminio ed erano animati da feroce odio antisemita, divenendo perciò complici, in modo sistematico o occasionale, del mostruoso crimine della Shoah.]

197 nel corso della storia, il covo dove uscirono dal cervello umano le cose più turpi per l’umanità. Ho fatto un giretto in cerca di uova incamminandomi verso Saltan. Tutta gente specie quelli di campagna asserragliati nelle proprie case e difficilmente ci riesci a parlare giacché anche se picchi alla porta, nessuno viene ad aprire. Ho potuto avere in una fattoria del pane e del prosciutto che una donna mi ha dato, più per paura che per volontà, in quanto che ad ogni parola che pronunciava si vedeva la sua gola trangugiare la saliva. E sì che facevo girare nelle mani le monete del Reich,[223] facendo intendere che volevo acquistare. Mi volle però dare del pane e del prosciutto che pagai quanto mi chiese. Il giro per parecchi chilometri e che termina alle ore 15 mi frutta cinque uova che portai a casa. Certo che l’asserragliarsi nelle case è cosa che l’esperienza gli ha suggerito, in questi momenti che squadre di tutte le nazionalità non esclusi i russi che non fanno complimenti, si introducono nelle case e sotto i loro occhi asportano quanto loro occorre o serve.[224]

[223 In minuscolo nel testo.] [224 Sulle ruberie e i saccheggi dei russi a Bergen ha lasciato dettagliate annotazioni, che ancora oggi sgomentano il lettore, don Luigi Pasa nel memoriale Tappe di un calvario, cit., pp. 165-66: “Un centinaio di prigionieri russi, addetti al lavoro presso alcune famiglie, ora che le famiglie non c’erano più, scorazzavano per il paese con aria tutt’altro che rassicurante. Entravano nelle case in cerca di tedeschi da massacrare, e nonostante la nostra presenza, saccheggiavano più che potevano, prendendoci un gusto matto a distruggere stoviglie, vetri, mobili, saltandovi sopra e pestando coi pesanti piedi. L’odio, che covavano per i tedeschi, era tale che nemmeno gli altri si sentivano sicuri quando la furia li prendeva. Perché verso di noi si mostrassero inoffensivi, dovevamo ripetere, come una parola d’ordine, il nome di Badoglio: allora essi ci guardavano come disarmati nel loro cieco furore, e rispondevano: «Camerata!». La loro passione erano gli orologi. Per procurarsene uno avrebbero raso al suolo un intero abitato. Orologi, macchine fotografiche, radio; ma soprattutto orologi. Li vedo come li avessi qui, sotto gli occhi, a sollevare il polso fino all’orecchio per ascoltare il ritmico ticchettio della magica macchinuccia; e il senso della grande loro ignoranza, me lo ridà il ricordo di colui che buttò via il proprio orologio da polso, perché s’era fermato. E questo non fu un esempio isolato, un esempio unico. Ce ne fu un altro che si presentò al s.ten. Vicini con una sveglia, pregandolo che di essa ne facesse tre orologi. Poi quell’altro che, ficcata una sveglia nel sacco, e udito all’improvviso che quella sveglia suonava, fu colto da spavento al punto di saltare sul sacco, ch’era a terra, pestando pestando, quasi a soffocare, a spegnere un grave pericolo. Né minore era la passione per le

198

Purtroppo anche dei nostri sono diventati peggio dei russi e stamane nel mio giro ne ho riscontrati parecchi che armati di fucile, spaventano le famiglie per estorcere poi quanto loro serve per far bottino.[225] È cosa preoccupante e se il comando non vi porrà rimedio a gravi cose assisteremo. Anche il comando inglese vuol rendersi conto di una massa così enorme di soldati che per 22 mesi rimasero privi di disciplina e che ora finalmente liberi di ogni contratto, possono finalmente sfogare la loro bile con la stessa gente che un giorno fu loro aguzzina e che ha tentato tutti i modi per piegarli a loro piacimento.

7.5.1945 Lunedì

Notizie di ieri sera danno come sospese le trattative polacche anche per l’arresto da parte dei russi, delle autorità polacche.[226] È triste la biciclette.” Ben di peggio i russi faranno a Berlino e nelle altre città tedesche, come si legge in Erich Kuby, La fine della Germania, vol. secondo di I Russi a Berlino, trad. di Sergio Bologna, Longanesi & C., su lic. Einaudi, Milano 19732, pp. 117-150. Vd. anche Andrew Tully, Le ultime ore di Berlino, trad. di Ugo Carrega, Longanesi & C., Milano 1971, pp. 242-258; Joanna Bourke, La seconda guerra mondiale. Storia di una tragedia civile, Il Giornale – Biblioteca Storica, su lic. Il Mulino, Milano 2009, pp. 102-104; Max Hastings, Apocalisse tedesca, trad. di Alessio Catania, vol. II, Il Giornale – Biblioteca Storica, su lic. Mondadori, Milano 2009 rist., pp. 631-635. Sulle violenze dei russi in Pomerania: Jürgen Thorwald, La grande fuga, trad. a cura di Aurelio Garobbio, Sansoni, Firenze 1964, pp. 285-288.] [225 Probabile riferimento anche ai cosiddetti “zebrati”: militari e civili italiani prigionieri per delitti comuni, indossanti la divisa a strisce tipica un tempo dei carcerati, che i tedeschi avevano riunito in un campo separato e i canadesi avevano liberato. Scrive Enzo de Bernart al riguardo (in DE BERNART 1973, pp. 105-106): “Nel sentirsi restituite le facoltà di movimento e di decisione gli «zebrati» erano passati dall’esultanza alle scorrerie, dal furto di liquori all’ubriachezza molesta e, per patriottica vendetta, all’amore per qualche contadina tedesca e all’eliminazione a mano armata dell’odiato rivale che ne era il marito.” Gli “zebrati” però furono presto ricondotti alla disciplina dal valoroso ufficiale Foschini (p. 106).] [226 I più prestigiosi esponenti del movimento di resistenza clandestino in Polonia, guidati dal generale Leopold Okulicki, furono arrestati a Varsavia dai sovietici, per ordine di Stalin il 28 marzo 1945, mentre stavano trattando la formazione di un governo polacco di unità nazionale. Solo il 4 maggio il ministro degli esteri sovietico Molotov ammise che essi erano trattenuti come prigionieri a Mosca. Questo episodio fu uno dei primi atti che segnarono il deterioramento dei rapporti tra le potenze alleate e l’Unione Sovietica e preannunciarono la cosiddetta “guerra

199 storia di questo popolo, ma è altrettanto deciso che essi si oppongano all’avanzata del bolscevismo in Europa. È ancora presente e allora ci sembrava strano, quanto gli ufficiali polacchi ci narravano a proposito della Russia e dei suoi sistemi e più di tutto delle sue mire. Ripeto che allora mi sembravano strane le loro asserzioni, oggi ne ho la conferma. O la Russia come la storia ci insegna, vincendo la guerra la perde, o noi ci dobbiamo preparare alla guerra ed iniziarla prima che termini questa. E il lavorio è in atto con l’assenso dei tedeschi.[227] Al nord si resiste ed i russi non possono progredire come era loro desiderio e portarsi nel cuore della Germania, mentre le armate angloamericane dilagano ovunque senza resistenza e con la bandiera bianca a tutte le abitazioni. Lo scopo è sia di far occupare meno che sia possibile territorio ai russi perché domani non avanzi delle pretese, sia anche perché la popolazione tedesca sotto la dominazione angloamericana si senta più protetta. Non a caso i russi che scorribandano di paese in paese hanno il loro compito, coi loro atti vandalici, di attirare odio da tutti gli abitanti e ivi lasciarlo germogliare.[228] Le preghiere delle autorità d’occupazione di non fare fredda”. Stalin rispose molto freddamente alla richiesta di spiegazioni del primo ministro inglese Winston Churchill, accusando i polacchi di atti “diversivi” ai danni dell’Armata Rossa (Winston Churchill, La seconda guerra mondiale, vol. VI, cit., pp. 582-584). Il presupposto di quell’episodio è che durante la guerra si erano creati due governi polacchi in esilio, uno a Lublino, alleato dei sovietici, l’altro a Londra, sotto la protezione degli angloamericani. A Jalta, il 10 febbraio 1945, Stalin promise che si sarebbero tenute libere elezioni in Polonia per la costituzione di un unico governo democratico e rappresentativo della volontà della nazione, ma poi smentì le sue promesse. Sul lavorìo diplomatico condotto a Jalta per giungere ad un compromesso sul destino della Polonia, riferisce con abbondanza di documenti Winston Churchill nella sua ponderosa La seconda guerra mondiale, vol. VI, cit., pp. 450-472.] [227 In effetti negli ultimi giorni dell’aprile 1945 Heinrich Himmler, il potente capo delle SS, tentò un abboccamento con gli alleati, grazie alla mediazione del conte Folke Bernadotte, capo della Croce Rossa svedese, ed offrì la capitolazione delle truppe tedesche sul fronte occidentale in cambio della continuazione della guerra contro l’Unione Sovietica. Proposta non accettata dagli angloamericani (vd. Winston Churchill, Storia della seconda guerra mondiale, vol. VI, cit., pp. 616-618).] [228 Sulle violenze a Bergen degli ex prigionieri russi, ossessivamente attirati come i loro connazionali in armi dalle biciclette, citiamo i ricordi di Claudio Tagliasacchi (TAGLIASACCHI 1999, p. 139), reduce da Wietzendorf: “Più passava il tempo, più li trovavamo liberi e scatenati. Poi cominciò il periodo delle biciclette e degli

200 delle angherie verso le popolazioni, di non richiedere viveri perché la razione è più che sufficiente, di non danneggiarli nella loro roba o averi, sarà propaganda, ma ha uno scopo ben preciso la cui portata avrà i suoi effetti a non lunga scadenza. Certo che è preoccupante il vedere questi russi, in torme, con le loro donne che, sloggiati i tedeschi dalle case, vi si sono installati e con gli ufficiali dirigono il depredamento di tutto quanto capita, bisogna vederli e guardarli in faccia per convincerci di quanto spirito di anarchia e distruzione hanno nei loro atti e nelle loro parole. Ripeto che il comando lascia fare, fa sembianza di non vedere, ma li lascia fare, il non vedere ha il suo scopo. È purtroppo doloroso che a queste masnade si aggiungano dei nostri o lavorino con gli stessi sistemi, si stanno formando dei pattuglioni che girino la zona ed intervengano ed arrestare o a premere[229] i nostri connazionali. È problema difficile, ma qualche cosa si fa e se ne vedono gli effetti. Il

orologi. Credo che non li avessero mai visti né li conoscessero. Stavano diventando violenti: strappavano gli orologi a chi li aveva e se li infilavano sulle braccia, cinque o sei per volta o forse più. Se trovavano una bicicletta se ne appropriavano e cominciavano a girare, cadendo, rialzandosi, sbattendo contro i muri, contendendosela tra loro fino a che non era completamente distrutta. Alla fine diventarono pericolosi. Non erano più ex prigionieri: gli americani li distinsero – erano alleati e vincitori. Li riunirono sommariamente tra loro, gli dettero una specie di indipendenza e di conseguenza anche delle armi. Spararono, violentarono: diventammo anche noi dei nemici. Erano degli animali nel senso letterale della parola. Animali prima semplici e mansueti, poi bizzarri e incostanti e infine feroci.” Aggiungiamo anche la testimonianza di Tullio Odorizzi, anch’egli prigioniero a Wietzendorf, dal suo memoriale Un seme d’oro (ODORIZZI 1984, p. 189), alla data del 26 aprile: “Oggi sono stato comandato in servizio di ronda col compito di impedire, per quanto possibile, i saccheggi che i russi continuano a perpetrare nelle case. Sono russi ex prigionieri di guerra, già impiegati dalla Germania in lavori di vario genere. Pare che qui, nella zona, ce ne siano parecchie migliaia. Dopo l’occupazione da parte degli angloamericani si son sentiti liberi; circolano a gruppi di tre, cinque, dieci, venti, qualche volta anche di più. Rondano attorno alle case e quando hanno fiutato la preda, penetrano e portano via tutto quello che torna loro comodo e fanno barbaramente inutile scempio di tante cose. Poi dividono il bottino, in istrada, e se ne vanno portando sulla schiena i loro sacchi rigonfi d’ogni ben di Dio.” Una terribile denuncia delle devastazioni e violenze patite dalla Prussia Orientale ad opera dei soldati sovietici è nel diario del conte Hans von Lehndorff, Arrivano i russi, trad. di Luigi Neri, Edizioni del Borghese, Milano 1963.] [229 Intendi: frenare.]

201 ministro giapponese ha protestato perché la Germania è venuta meno al patto anti-Comintern,230 perché ha trattato la resa senza il consenso del Giappone (senza commento). Certo con questa dovizia di mezzi e di generi il signor Giappone bisogna che ci pensi e bene ai fatti suoi, se gli esempi forniti possono avere dell’eloquenza. È triste che i popoli giovani che inizialmente avevano dalla loro parte delle buone ragioni, non si siano mantenuti su di un piano ragionevole per raggiungere, con il consenso delle persone benpensanti, il loro scopo. Invano “laboraverunt qui aedificant eam.”231 Si è voluto fare senza di Lui, anzi contro di Lui e i risultati ottenuti sono qui da vedere e da ammirarsi.[232] Se i profeti[233] comprendessero la grande e severa lezione che ci dà oggi la storia e ne facessero tesoro, il male non sarebbe stato inutile. La radio trasmette che la guerra in Europa è terminata.[234] Se gli iniziatori di questa inutile strage potessero fare dei bilanci, quali tremende conclusioni dovrebbero concludere e di quali e quante tremende responsabilità si sono caricati. Hitler e Mussolini i due sanguinari dell’umanità,[235] hanno dilapidato le

230 (Nota 58) Sigla dell’Internazionale Comunista. 231 (Nota 59) “Invano, lavorarono coloro che la costruiscono”. [232 Con tono ironico l’Arpini denuncia l’empietà dell’uomo che presume di agire contro la volontà del Signore. E in effetti la dottrina nazista poggiava su un fondo di paganesimo anticristiano: vi furono religiosi in Germania che pagarono con la vita la loro resistenza al nazismo, basti citare il pastore protestante Dietrich Bonhöffer (1906-1945).] [233 Intendi: gli intellettuali.] [234 La dichiarazione di resa totale e incondizionata fu firmata a Reims dal generale Bedell Smith, per gli alleati, e dal generale Jodl, per i tedeschi, alle ore 2,41 antimeridiane del 7 maggio 1945. Le ostilità cessarono alla mezzanotte dell’8 maggio. Colorito il commento di Guareschi (nel Grande Diario, p. 501, alla data del 7 maggio 1945): “Hanno detto che stamattina è finita la guerra. E chi se ne frega?”] [235 L’Arpini appaia qui i due dittatori, ma è indubbio che, a differenza della feroce e sanguinaria dittatura hitleriana, quella di Mussolini fu velata da una parvenza di umanità. Riferiamo al riguardo questo giudizio dello storico inglese Denis Mack Smith, autore di una biografia del Duce (Denis Mack Smith, Mussolini, trad. di Giovanni Ferrara Degli Uberti, Rizzoli, Milano 1983, p. 189): “Mussolini era meno crudele di parecchi, e forse della maggior parte dei dittatori; ma dietro manifestazioni minori di un’indulgenza che non costava nulla c’era, com’egli stesso riconosceva, un uomo vendicativo, che godeva di odiare e di essere odiato. Nel

202 sostanze delle nazioni e seminato lutti, e quale la conclusione? Il tutto si dovrebbe serbare di norma, se per l’avvenire si sentisse parlare ancora di guerre. Chi voleva dettare legge a tutto il mondo è quello che al mondo oggi comunica che la Germania ha capitolato accettando la resa senza condizioni. L’arma subacquea che pretendeva affamare e che tante vittime ha disseminato sul profondo dei mari, è quella che oggi dirama l’ordine di rientro alla base e di cessare le ostilità.[236] Rapporto di stamane ai blocchi 13 e 15 del colonnello Testa. La questione delle domande di volontariato, dei lavoratori e discriminati. Noi siamo tutti dei giudicabili che al nostro rientro dovremo rendere conto del nostro operato, niente quindi discriminati, ma raccolta di notizie e testimonianze da rendere alle competenti autorità al rientro in Italia. “Il governo non ha mandato nessun rappresentante per voi e vi

modo in cui trattò Clara Petacci e le sue numerose altre amanti c’era un chiaro elemento di sadismo.” E più oltre (p. 235): “È un fatto che altre dittature sono state infinitamente più feroci del fascismo mussoliniano.” Tuttavia, a smentire la presunta bontà mussoliniana, Denis Mack Smith nel suo breve saggio A proposito di Mussolini (Laterza, Roma-Bari 2004, pp. 28-29) cita due circostanze, una delle quali riferitagli dal leader dei fascisti inglesi, Oswald Mosley, di inutile crudeltà del Duce.] [236 Il comandante in capo della marina tedesca e successore del Führer, ammiraglio Karl Dönitz, fu il teorico della guerra sottomarina, che tanto filo da torcere diede agli alleati. Il naviglio nemico affondato dagli U-Boote nel corso del conflitto assommò a quattordici milioni di tonnellate. E negli ultimi mesi della guerra erano in costruzione sottomarini di nuova concezione, gli Elektroboote, tecnologicamente avanzatissimi e dotati di grande autonomia, ma i tedeschi non fecero in tempo a impiegarli sul mare. Vd. al riguardo: Enza Fontana – Andrea Angiolino, Le armi segrete di Hitler, in “Conoscere la storia” n. 34, marzo 2017, pp. 36-37; Giorgio Bergamino – Gianni Palitta, Armi segrete di Hitler, EmmeKLibri, Santo Stefano di Magra (SP) 2017, pp. 6-19. In generale sulle armi segrete dei nazisti, tra cui alcuni annoverano anche prototipi di “dischi volanti” e un rudimentale ordigno nucleare sperimentato nell’isola di Rügen, oltre ai testi sopra citati si veda anche: Nino Nava, Le armi segrete, Edizioni Ferni, Ginevra 1973; Luigi Romersa, Le armi segrete di Hitler, Mursia, Milano 2005; Gary Hyland, I segreti perduti della tecnologia nazista, trad. di Milvia Faccia, Newton & Compton, Roma 2004³. Churchill, dal canto suo, riserva un giudizio ammirato sul coraggio e l’ardimento della marina tedesca e si rammarica che i sottomarini più perfezionati siano caduti nelle mani sovietiche (in La seconda guerra mondiale, vol. VI, cit., pp. 624-628).]

203 ignora.”[237] La situazione tragica al primo colloquio a Saltan, si è ottenuto quello che abbiamo, perché guardandoci in faccia, dalle nostre sofferenze, hanno capito la fede che animava il nostro spirito di resistenza e la fiaccola che ardeva nei nostri cuori. Per 20 mesi abbiamo tenuti appesi nelle camerate l’editto che era inibito a tutti gli italiani di avvicinare tedeschi, oggi dimostriamo che le donne tedesche non sono degne della nostra virilità. Siamo a tutti gli effetti prigionieri di guerra, perché fin dal giorno della nostra cattura eravamo a tutti gli effetti prigionieri, salvo che al nostro rientro in Italia rivendicheremo il diritto di chiamarci internati, perché solo così si potrà differenziare quanto abbiamo maggiormente patito, in quanto la nostra cattività vale cento prigionie. E ora l’alzabandiera, che salga questa nostra insegna che sempre abbiamo avuto presente ai nostri occhi e che sospirando ci sentivamo più sereni e tranquilli quando nelle ore tristi distendevamo nelle nostre cerimonie, mentre squadre facevano la ronda per avvisarci dell’arrivo dei “crucchi”. Oggi sale, sale alta, ma l’asta che la porta in alto al cielo è stata formata dalla nostra volontà e dalla nostra fede e inchiodata con chiodi talmente potenti che mai forza al mondo saprà e vorrà distaccare e far ammainare. L’ammaino del giorno della nostra prigionia, è riscattato dal sacrificio di venti mesi di dura prigionia attraverso i quali oggi i suoi colori vengono purificati dal bianco della fede, dal verde della nostra speranza e dal rosso del nostro sacrificio. La cerimonia a mercoledì.[238]

[237 Sono le parole del Ten. Col. Testa.] [238 Commossi accenti, rievocando l’episodio dell’alzabandiera che data al 9 maggio, sono anche nel memoriale di Don Luigi Pasa (DON PASA 1966, p. 174): “Fra i momenti più commoventi mi resterà in cuore quello del 9 maggio, quando sull’alto pennone della bandiera nemica, salì il tricolore nostro. Finalmente, per una cerimonia tutta nostra, tutta italiana, potevamo incolonnarci, marciare bene e spontaneamente inquadrati, schierarci su quattro lati, metterci sull’attenti, mentre il nostro comandante (con le lacrime agli occhi, e non lui solo!) tirava lento la cordicella, e a poco a poco saliva in alto, accompagnata dai nostri sentimenti, da tutto il nostro cuore, la bandiera italiana. Una commozione ci prese tanto che moltissimi si sentivano quasi venir freddo, e per poco non esplosero in frenetiche grida di gioia. Quell’alzabandiera era assai più di una cerimonia. Era la fine di una mal sopportata schiavitù, ch’essa indicava; era il crollo d’un inumano nemico, ch’essa sanzionava; era il risorgere delle più intime e tenere speranze: le speranze che avevano nome: mamma, babbo, sposa, teneri figlioletti dal volto talora ignoto,

204

8.5.1945 Martedì

Oggi alle ore 8, partenza per Münster[239] per due ragioni, la prima per vedere se a quel campo c’è internato qualche Arpini o soldati del 4° Corpo d’armata e per trovare gli ufficiali subalterni del Zucchi. Abbiamo attraversato per chilometri e chilometri il campo di tiro che serviva per le esercitazioni del distretto militare più importante della Prussia. Ripeto, grande estensione di territorio disseminato di fortini e case collegate fra loro da telefoni e da grandi poligoni per le esercitazioni delle diverse armi. Poco distante dai poligoni la città- esercito, tutte caserme e grandi magazzini che servivano per le truppe quando di stanza dovevano rimanere il periodo necessario per le esercitazioni. Caserme che mancavano di nulla, una vera città militare con tutti i servizi e necessità, distante dalla città borghese un chilometro circa. Tutte le caserme erano adibite ad ospedali militari ed oggi stesso i feriti vengono tutt’ora curati. E sono ricoverati i mutilati, giacché quelli che ho potuto vedere dai cortili del giardino mancavano tutti di qualche arto. Era pronto in stazione un treno della Croce Rossa[240] che giunse in giornata e formato da carrozze delle ferrovie italiane. Mi ha fatto pena l’osservare tanti visi emaciati dal dolore e doloranti e la tragedia della nazione che poche ore prima aveva capitolato riconoscendo la superiorità degli alleati e la disfatta dell’esercito germanico. Nei magaz- zini tutto scassinato, rotto, roba asportata, calpestata. Ne abbiamo visitati parecchi giacché si aveva intenzione di trovarvi delle paia di pantaloni, giacché divise italiane erano conservate. Tutta roba asportata dall’Italia, dalla Francia e dalla Russia. E armi, armi rotte e montagne di munizioni di tutte le armi e di tutti i calibri. Pasta di Torre Annunziata, Agnesi e vino Chianti, almeno così dicevano le casse, giacché il contenuto era stato asportato prima dai nostri lavoratori e da tutti i casa nostra, gente nostra, aria, sole, terra nostra. Forse il ciclone s’era abbattuto devastatore pure sul nostro paesello, sulla nostra famiglia, la nostra casa; e avremmo trovato, laggiù nel sud, qualche fossa dalla terra tutt’ora fresca; comunque ci aspettava sempre la patria nostra, che per noi, dopo quella lunga e tremenda prigionia, era più che mai un luogo di conforto, di riposo, di ripresa…”.] [239 Nel testo, Muenster.] [240 In minuscolo, nel testo.]

205 lavoratori della zona e di tutte le razze e poi fatto ritirare dal comando inglese per conservarlo per gli ospedali. È certo che tutti i militari e gli stessi borghesi se ne sono serviti di tutto e di tanto facendone dei depositi a casa. I paracadute di seta, venivano anche stamane trasportati con i soliti carrettini a mano, da donne e uomini. E mentre così gli ufficiali dei lager continuavano la visita alle diverse caserme-deposito, una fiumana di popolo con sacchi e le slitte trasportavano a casa senza che alcuno lo proibisse, quanto dalla visita riteneva potesse loro servire. Ho girato ed ho rotto con gioia pensando a quanto gli stessi ex proprietari un giorno fecero a Kruia[241] del magazzino della mensa del 4° Corpo d’armata ed uscendo dal grande circolo ufficiali ho asportato il ritratto del Führer[242] e ve lo depositai alla porta d’entrata perché chi passasse osservasse il responsabile di tanto disastro e di tanta distruzione. Nulla volli avere di quanto si presentava alla mia vista. Neppure al deposito vino volli toccare né bere, ma con il mio bastone rendevo in frantumi tutto quanto mi capitava e sentivo dentro di me una vera gioia di poter rendere del danno a chi aveva sul suo cammino fatto man bassa di tutto quello che apparteneva ad altri. La farina del diavolo va in crusca, mai ho visto così bene. A mezzogiorno una ricchissima e saporitissima pasta asciutta italiana e alle 17.30 abbiamo fatto ritorno al lager. Anche qui soldati muniti di tutto, da biciclette al maiale, poveretti, quante me ne raccontarono, specie il carabiniere Cicchetti: ora finalmente possono guardare, parlare e muoversi senza dirsi[243] badogliani e per di più per un nonnulla fucilati a bruciapelo. Quando un giorno sapremo quanti di questi giovani hanno lasciato la loro giovane vita in questa infame Germania, saranno cifre che ci faranno impallidire.244 Ora i rimasti

[241 Kruja, centro dell’Albania interna, a 20 km a nord di Tirana.] [242 Nel testo, Fuerer.] [243 Intendi: essere detti.] [244 Le vittime italiane dei tedeschi furono complessivamente 80.000 (51.000 morti di stenti e torture nei campi di prigionia a cui si assommano altri 29.000 militari, periti durante gli scontri con i tedeschi o fucilati dopo l'8 settembre). Prendiamo queste cifre da: SCUOLA PER LA PACE della Provincia di Lucca, Il coraggio del no. Storie e memoria degli internati militari italiani, 27 gennaio 2012, quaderno speciale in collaborazione con l'Istituto Storico della Resistenza e dell'Età Contemporanea in Provincia di Lucca (testo leggibile in rete, all'indirizzo:

206 raccontano e possono benissimo servirsene di quanto troveranno, giacché fino a pochi giorni fa era riservato per loro solo il bastone e il lavoro. Desiderio hanno tutti di ritornare tranquilli alle loro case e ricostruire e rifare quello che la guerra ha demolito e distrutto. Anelano tutti alla tranquillità ed al riposo e non ne vogliono sentire parlare di partiti. Alle 15 si annunciava ufficialmente al mondo la fine della guerra e questa sera Sua Maestà Britannica parlerà ai sudditi dell’impero inglese. Sono giornate di gioia dell’Inghilterra tutta e la stessa radio continuamente trasmette le campane che suonano a festa in tutta l’Inghilterra.

9.5.1945 Mercoledì

Sono giornate di tripudio in Inghilterra e gli uomini che le hanno preparate devono essere ben orgogliosi di non aver sbagliato nel loro prevedere. Sì, noi pensiamo alle giornate nere che passarono gli alleati durante il conflitto in cui tutto faceva prevedere che oramai questa era la volta dell’impero britannico e che in quei periodi non garantiva partita finita,[245] eppure la tenacia, la giusta causa ed il tempo prepararono per loro queste giornate di tripudio. Possono essere orgogliosi, e i loro popoli grati a questi uomini che seppero amministrare i popoli con saggezza. Se il nostro Mussolini avesse mantenuto fede a quello che scrisse durante la grande guerra 1915-18 e per il quale si batté da leone,[246] se il suo cervello malsano non avesse avuto altra mira che il benessere del popolo italiano, come allora sarebbero state le nostre www.storiaxxisecolo.it/internati/internati.htm). Vd. anche Giovannino Guareschi, Il Grande Diario, cit., p. 57. Un ampio e documentato studio di Gabriele Hammer- mann fissa però il numero dei militari italiani deceduti durante la prigionia in Germania a 20.000-30.000 unità (vd. Gabriele Hammermann, Gli internati militari italiani in Germania 1943-1945, trad. di Enzo Morandi, Il Mulino, Bologna 2004, p. 379).] [245 Espressione sostituita oggi dall’inglese game over.] [246 Mussolini, prima a favore della neutralità, alla fine del 1914 divenne un acceso interventista appoggiando la Francia e l’Inghilterra contro gli Imperi centrali (Germania e Austria-Ungheria). L'Italia decise poi con il Patto di Londra, negoziato segretamente dal Presidente del Consiglio Antonio Salandra all’insaputa del Parlamento, di unirsi ai Paesi della Triplice Intesa (Francia, Inghilterra e Russia) ed entrò in guerra il 24 maggio 1915.]

207 giornate di gloria e da questo annuncio di resa si sarebbe iniziato il periodo di ascesa e di benessere del popolo italiano.[247] Certo che sentirsi in coda a tutte le potenze per noi italiani, e per noi discendenti diretti del popolo romano che dettò legge a tutto il mondo, è cosa che ci umilia nel nostro orgoglio patriottico. E per buona fortuna che con la sterzata violenta del 25 luglio e dell’8 settembre la maestà del re ha cercato di salvare qualche cosa ancora, altrimenti oggi saremmo prostrati nella polvere e nel disastro immane che circonda la nostra ex alleata a confessare e a chiedere pietà per l’avvenire, riconoscendo che tutta la loro tracotanza non è stata che un flop e per la nazione e per i popoli e per certi che avevano tirati nella stessa rete.[248]

[247 Se Mussolini fosse sceso in campo al fianco degli alleati… È una riflessione, quella di Arpini, di “storia alternativa” (o “ucronia”) che anticipa sorprendentemente il pensiero di Winston Churchill, quale appare in un passo della sua monumentale Storia della seconda guerra mondiale (trad. di Giorgio Monicelli e Arturo Barone, vol. V La morsa si stringe, Mondadori, Milano 19638, p. 66), mentre traccia un bilancio del ventennio mussoliniano, all’indomani del 25 luglio e dell’arresto del Duce. Vale la pena di riportare il passo, che dimostra come i giochi fossero ancora aperti, pur dopo tre anni dall’entrata in guerra dell’Italia al fianco della Germania: “L’errore fatale di Mussolini fu la dichiarazione di guerra alla Francia e alla Gran Bretagna dopo le vittorie di Hitler nel giugno 1940. Se non lo avesse commesso, avrebbe potuto tenere benissimo l’Italia in una posizione d’equilibrio, corteggiata e ricompensata dalle due parti, derivando inusitata ricchezza e prosperità dalle lotte di altri paesi. Anche quando le sorti della guerra apparvero manifeste, Mussolini sarebbe stato bene accetto agli Alleati. Egli aveva molto da dare per abbreviare la durata del conflitto. Avrebbe potuto scegliere con abilità e intelligenza il momento più adatto per dichiarare la guerra a Hitler. Invece prese la strada sbagliata. Non aveva mai compreso a pieno la forza dell’Inghilterra e neppure le tenaci sue qualità di resistenza e di potenza marinara. Così provocò la propria rovina. Le grandi strade ch’egli costruì resteranno un monumento al suo prestigio personale e al suo lungo governo.”] [248 L’Arpini, come soldato fedele alla monarchia, qui giustifica l’operato del re, ma forse egli, come del resto tutti i prigionieri, non conosceva ancora il censurabile comportamento di Vittorio Emanuele III e dello Stato Maggiore, ossia la fuga a Pescara e da lì l’arrivo a Brindisi, dopo aver lasciato l’esercito praticamente senza ordini e senza possibilità di organizzare la difesa. Fu però in nome del giuramento prestato al re che la stragrande maggioranza degli IMI rifiutò ogni collaborazione con i nazisti e i loro alleati della RSI.]

208

La Francia è stata ammessa alla conferenza di S. Francisco,[249] ci doveva essere anche l’Italia ma per l’intransigenza nei nostri riguardi della sorella latina, nulla è stato deciso. È certo che il colpo patito da parte dell’Italia di Mussolini (uno così per maggiormente intenderci) è stato l’assalto contro un cadavere o contro chi tentava gli ultimi colpi inutili, ma che poteva dare l’impressione di resistenza e di uscirne con onore.[250] L’aver dovuto sguarnire gli altri fronti per far fronte all’ar- mata italiana nella Savoia è stato il precipizio e la fine più o meno miseranda fatta dalla Francia e da quel momento è cominciato il disastro che può essere paragonato in certo qual senso al nostro che porta alla divisione della Francia in due campi. Alleata degli alleati e alleata dei tedeschi,[251] con questo, che gli italiani, ad eccezione dell’Italia repubblicana[252] che continuò la sua linea di condotta, ben poco poterono mettere a disposizione di Hitler, mentre la Francia occupata fu un cantiere funzionante di notte e di giorno per il nemico, tanto che tutta l’industria pesante fu a completa disposizione dei tedeschi. Militarmente ben pochini allori raccolse sul campo di battaglia, direi che noi qualche cosa possiamo accordarci al nostro attivo durante la resa, e non ne parliamo della riscossa. Ma queste sono disamine di ieri, l’Italia oggi non è più di Mussolini, l’Italia oggi è degli italiani liberi e indipendenti, di quella nazione che la guerra non l’ha mai sentita né voluta, che se a quei tempi fosse stato possibile manifestare la propria opinione, non esito a dichiarare che la totalità degli italiani sarebbe stata propizia agli

[249 A San Francisco si tenne dal 25 aprile al 26 giugno 1945, con la partecipazione dei rappresentanti di 50 nazioni alleate, una conferenza internazionale, che gettò le basi per la creazione dell’Organizzazione delle Nazioni Unite.] [250 Vale la pena di ricordare quel che disse l’ambasciatore francese André François- Poncet a Galeazzo Ciano, ministro degli esteri e genero del Duce, allorché questi gli presentò la dichiarazione di guerra il 10 giugno 1940 (da Galeazzo Ciano, Diario 1937-1943, a cura di Renzo De Felice, Rizzoli, Milano 1990 rist., p. 442): “È un colpo di pugnale ad un uomo in terra. Vi ringrazio comunque di usare un guanto di velluto.”] [251 Dopo l’armistizio tra Francia e Germania (22 giugno 1940) venne creata, nella parte non occupata dall’esercito tedesco, la repubblica di Vichy, stato satellite della Germania nazista. Capo dello stato fu il maresciallo di Francia Philippe Pétain, eroe della prima guerra mondiale, capo del governo Pierre Laval.] [252 Ossia la RSI, che continuò l’alleanza politica e militare con la Germania, sancita dal Patto dell’Asse Roma-Berlino, firmato il 24 ottobre 1936.]

209 alleati o per lo meno neutri.[253] Il canagliarsi[254] contro di noi, il continuare con il solito sistema di rancore e di dissidio contro il nostro

[253 Questo giudizio dell’Arpini sembra anticipare le testimonianze e le impressioni che vennero poi pubblicate sul “giorno della follia”, ossia il 10 giugno 1940. In effetti, la memorialistica del tempo, e in particolare quella di parte fascista, registra che le acclamazioni della folla “oceanica”, radunata sotto il balcone di Palazzo Venezia per ascoltare la solenne dichiarazione di guerra del Duce il 10 giugno 1940, furono meno entusiastiche del consueto. Si consideri il diario di Galeazzo Ciano a quella data (Galeazzo Ciano, Diario 1937-1943, cit., p. 442): “Mussolini parla dal Balcone di Palazzo Venezia. La notizia della guerra non sorprende nessuno e non desta eccessivi entusiasmi. Io sono triste: molto triste. L’avventura comincia. Che Dio assista l’Italia.”. Eloquente anche l’annotazione di un altro rappresentativo gerarca, Giuseppe Bottai, nel suo diario al medesimo giorno (Giuseppe Bottai, Diario 1935-1944, cit., p. 193): “A Palazzo Venezia, per l’adunata di guerra. La piazza si gremisce d’una folla ora silenziosa ora tumultuante. Si avverte la fatica dei pochi nuclei volitivi a indirizzare gridi e acclamazioni. Senso d’una quasi stupita disciplina, che il Partito non à saputo illuminare con parole d’ordine. Mussolini parla preciso, senza gesti, ridicendo a memoria un discorso meditato. Intorno i gerarchi convenuti presso il balcone, ànno un’aria confusa di circostanza.” Un altro testimone di quegli anni, Fidia Gambetti, descrive lo stato d’animo rassegnato e scettico, se non ostile, della popolazione e dei gerarchi più in vista, a dispetto della propaganda bellicista del regime (Fidia Gambetti, Gli anni che scottano, Mursia, Milano 1995 rist., pp. 329-330): “Da quindici anni, almeno, non si parla e non si scrive che di Nazione armata e guerriera, di spade che difendono i solchi, di vocazione eroica, di addestramenti pre-post-paramilitari, di combattere, di morire. Non si vedono che divise, sfilate, parate. Eppure la schiacciante maggioranza degli italiani, maschi e fascisti inclusi, strizza l’occhio, non sopporta le divise, ha voglia di tutto meno che di combattere e di crepare prima del tempo. Persino al vertice i gerarchi sono tutt’altro che concordi. Grandi è stato richiamato da Londra, perché contrario alla firma del Patto d’acciaio. Ciano, dal canto proprio, non nasconde la sua avversione per Hitler, per von Ribbentrop, per Goebbels, pure essendo stato, questo è il più bello, uno dei fautori dell’Asse. Al golf e nei salotti ostenta i suoi rapporti con gli esponenti della diplomazia inglese e americana, nonché con i più qualificati rappresentanti della haute romana, tutta imparentata con famiglie d’oltre Manica e d’oltre Atlantico. Bottai la pensa sostanzialmente come loro e continua a fare la piccola fronda con gl’intellettuali e gli artisti. Italo Balbo, che ha sempre odiato i tedeschi, accusa apertamente Mussolini di pazzia suicida, dà in escandescenze nel cuore di via Veneto, denuncia le disastrose condizioni della Libia, il miserabile armamento, la assoluta impreparazione militare, la vulnerabilità delle frontiere con la Tunisia e con l’Egitto.” Ruggero Zangrandi, poi, denuncia implaca- bilmente le enormi responsabilità della classe dirigente fascista e dello Stato

210 avvenire, mi sembra che ridondi di disdoro alla repubblica stessa,[255] giacché nel quadro generale del dopoguerra l’Italia avrà e dovrà avere la sua parte nel settore del Mediterraneo, tanto più che l’Inghilterra e più ancora l’America sembrano ben intenzionate nei nostri riguardi. Avevo appreso con piacere l’annuncio che il generale aveva offerta a nome della Francia, l’amicizia alla sorella latina, ma quello non fu forse che pio desiderio di pochi e lascia il tempo che trova perché le parole non corrispondono ai fatti. Noi italiani riconosciamo oggi a distanza di tempo l’affronto, ma che le ragioni poi che ci fecero militare al loro fianco e i sacrifici sopportati per la stessa causa devono aver fatto dimenticare. Questa mattina alza bandiera.[256] Cerimonia molto significativa e alla quale ha partecipato tutto il campo compresi tutti i soldati. Nessun discorso, perché certe cerimonie sono troppo eloquenti per sé, la bandiera italiana con la corona sabauda viene issata in Germania!! Mi ricordavo in quel momento tutti gli stratagemmi escogitati per non farcela prendere durante le migliaia di perquisizioni, giacché i nostri morti non potevano essere coperti neppure dalla bandiera, contra- riamente a tutte le norme internazionali. Eppure oggi, con questo sole tutto italiano la nostra bandiera saliva alta sul pennone accompagnata dal nostro sguardo e dai battiti dei nostri cuori e sventolava tutta spiegata al vento perché tutti gli 8000 italiani la potessero maggiormente contemplare, più bella, perché irrorata dalle nostre lagrime e stirata dai nostri dolori. Anche l’ufficiale inglese che partecipava alla cerimonia sull’attenti, la salutava mentre il picchetto presentava le armi e la tromba suonava la marcia al campo! Bella e suggestiva la cerimonia, ma un senso di qualche cosa rimane di triste in noi. Oh, se la nostra bandiera

Maggiore, che conoscevano perfettamente le deficienze e l’impreparazione dell’esercito alla vigilia della guerra, ma nulla fecero per sottrarre l’Italia al futuro disastro, vd. Ruggero Zangrandi, Il lungo viaggio attraverso il fascismo, Feltrinelli, Milano 1963 rist., pp. 422-432.] [254 Intendi: incanaglirsi.] [255 Riteniamo che l’Arpini intenda riferirsi alla RSI (la cui propaganda, anche nei campi di prigionia, accentuava l’odio e il disprezzo per il Regno del Sud e per quegli italiani che non aderivano all’alleanza con la Germania) più che all’idea stessa del regime repubblicano.] [256 Vd. i ricordi di don Pasa alla nota 254.]

211 poteva essere oggi issata sul pennone senza la presenza di nessun altro rappresentante estero, ma solamente per virtù nostra, quanto avrei maggiormente gustata la cerimonia. Se i nostri uomini politici avessero curato gli interessi di noi italiani e non d’ideologie politiche e nel disimpegno del loro mandato avessero tenuto presenti i sentimenti di tutti gli italiani. È stata questa la sola spina che ha amareggiata nel mio animo la cerimonia. Che possa tu o bel tricolore sventolare libero ed essere segno di grandezza quale oggi lo desideravo e lo bramavo. Con i sacrifici nostri e dei camerati che durante la guerra ti irroravano del loro puro sangue vermiglio, ti accompagnino o bel tricolore e ti siano propizi. Pare che don Pasa parta in missione in Italia, scrivo due lettere una a casa l’altra a don Natale.

10.5.1945 Giovedì Ascensione

Don Pasa rimanda la partenza, don Amadio a Bergen per vedere se Morpurgo, ufficiale di collegamento, può perorare al comando inglese la partenza ufficiale dal campo.[257] Si spera che la partenza avvenga posticipata di sole 24 ore. Vedremo che novità ci portano da Bergen. Don Pasa è assillato da tutti perché porti corrispondenza in Italia, perché giunga alle famiglie la notizia che li tranquillizzi. Chi sta o aveva conoscenze in partiti che sono al potere, fa memoriali e petizioni perché intervengano in nostro favore e ci facciano presto rientrare. Ho tutta la

[257 Don Luigi Pasa e don Francesco Amadio, altro cappellano di Wietzendorf, partirono insieme diretti a Bergen il 12 maggio 1945. Qui si incontrarono con il tenente Morpurgo, interprete e ufficiale di collegamento con gli inglesi, il quale riuscì ad accompagnare don Pasa all’aeroporto di Celle. Don Pasa partì da Celle in aereo alle ore 15,45 e giunse alle ore 17,45 a Bruxelles, ove si recò dal Nunzio Apostolico Mons. Clemente Micara, per ottenere i documenti necessari al rientro in Italia (i dettagli del viaggio sono nel memoriale di Don Pasa, cit., alle pp. 181-185. Sul viaggio di don Pasa vi è un irriverente commento, ingiusto e maligno, di Guareschi nel Grande Diario, cit., alla data del 12 maggio 1945 (p. 502): “Don Pasa, l’intrufolone, è partito e arriverà in aereo in Italia. Bel rappresentante che abbiamo. Speriamo che abbi a tolto il cucchiaio dal breviario. Noi non siamo riusciti a mandare un ufficiale. Ma il prete sì! Potenza del Vaticano.”]

212 relazione del Testa al capo del governo,[258] scheletrica e veritiera, mentre il telegramma del giornalista Forchini Abruzzese a Bonomi non mi è piaciuto perché ha cercato di esagerare e anche inventare, e purtroppo non abbiamo tanti altri al nostro attivo, che con l’esagerare mi sembra che rendiamo il nostro martirio non degno di fede. La notizia confermata dalla moglie dell’ufficiale tedesco aviatore e gli ordini scritti presentati sono la conferma che se noi chiamiamo i nostri lager come il campo della morte certa, non esageriamo. Infatti dai documenti a mano del comando, il campo negli ultimi giorni doveva essere mitragliato dagli aerei tedeschi prima di abbandonare la zona, così erano gli ordini; ordini che non vennero eseguiti perché è prevalso negli esecutori il timore di rappresaglia inglese sulla popolazione civile, tra le quali moltissime famiglie di ufficiali, e dato anche che il grosso dell’esercito di occupazione era vicinissimo.[259]

[258 La relazione del tenente colonnello Pietro Testa al Regio Governo d’Italia, datata Wietzendorf 9 maggio 1945, è leggibile nell’edizione citata del Grande Diario di Guareschi alle pp. 104-107. Riportiamo la parte conclusiva (alla p. 107): “Invano per lunghi mesi è stata attesa una parola di conforto dalla vera Italia, un qualsiasi segno che parlasse di comprensione, di incitamento a resistere. Forse queste parole ci sono state, ma non hanno potuto superare le chiusure ermetiche dei campi. Ora è necessario che l’Italia libera si occupi, pure attraverso le enormi difficoltà che sono qui ben comprese, di questi figli che aspettano. Essi chiedono di ritornare per uscire finalmente dai campi tedeschi, di ritornare presto per contribuire alla ricostruzione della patria che è premio per il quale hanno voluto e saputo resistere.” Le speranze di poter tornare presto in Italia furono però disattese. L’Arpini riuscì a tornare a casa soltanto l’8 ottobre 1945.] [259 Questa notizia trova riscontro nel Diario clandestino di Guareschi, ove si legge alla data del 21 aprile (paragrafo intitolato Vivi ma non troppo, pp. 218-219): “Il maggiore inglese non si era fatto più vivo, mentre soldati tedeschi avevano preso a gironzolare attorno al campo. Inoltre, tra le carte dell’ex-comando tedesco erano stati trovati documenti dai quali risultava che, allo scopo di evitare ai prigionieri (di cui si riconoscevano con molta umanità le misere condizioni di salute) la dura marcia di trasferimento resa necessaria per l’incalzare degli avvenimenti, si disponeva che si trovasse per essi prigionieri una definitiva sistemazione nel campo stesso. E ciò a mezzo di bombardamento e mitragliamento opportunamente organizzati. Sapersi vivi per miracolo è indubbiamente una cosa che fa piacere, quando però uno sia ben sicuro di essere vivo; e noi allora avevamo ancora dei rispettabili dubbi in proposito perché la terra di Germania ci era sempre sembrata terra di un altro mondo, e spesso addirittura terra dell’altro mondo.” L’ordine di

213

I documenti che testimonieranno, i diari e le relazioni che si susseguiranno al nostro rientro saranno interessantissimi, il poterli e leggere e possedere, perché lì sarà descritta speriamo con pacatezza e con senno la nostra via crucis in questi venti mesi di prigionia. Dico pacata giacché vorrei che gli scrittori e i giornalisti che si sbizzarriranno nel raccontare, non pecchino del passato che si finiva sempre con l’esagerare e allontanarsi dalla realtà, ma raccontino la verità e i fatti come sono stati o avvenuti. Poiché se i pensatori o scrittori si fossero mantenuti sempre in questo piano, molti traviamenti non sarebbero tra i lettori e l’opinione pubblica, e gli stessi estensori non sarebbero poi caduti nel ridicolo, giacché più nessuno ci credeva. La stampa ed il giornalismo cosa importa al pubblico? Interessantissimo sarà il diario di don Pasa in sé e per i documenti che diversi ufficiali sin dalla prigionia hanno divisato di fare e di raccogliere. Certo che qui con noi ci sono artisti che meritano di essere chiamati tali e lo hanno dimostrato nelle varie e svariate note personali che hanno l’attenzione dei competenti del campo ed il consenso e l’ammirazione dei visitatori. Come ce ne sono stati altri che sono stati fischiati, e questo è capitato ai futuristi e ai sognatori dello stile ’900. Don Pasa si è scelto i migliori, ipse via260 è venuto da Fallingbostel a trovarci e a portarci i saluti dei camerati della combriccola Brignole, se ne riparlerà stasera. Il capitano Pusiani[261] ha liquidare i prigionieri italiani di Wietzendorf è confermato peraltro nel rapporto del Ten. Col. Pietro Testa al Comando Truppe Britannico per denunciare i crimini di guerra commessi dai tedeschi a Wietzendorf (Ten. Col. Pietro Testa, Wietzendorf. Rapporto sul Campo 83, 22 giugno1945, leggibile in rete e nel Grande Diario di Giovannino Guareschi alle pp. 114-129). Citiamo dal rapporto di Pietro Testa (in Guareschi, pp. 128-129): “Da elementi raccolti fra il personale germanico già in servizio al campo, risulta con fondatezza che nella prima decade di aprile è arrivato dalle autorità superiori l’ordine di assassinare gli ufficiali mediante azione di mitragliamento o bombardamento del campo. Risulta anche che erano state prese alcune delle disposizioni necessarie all’attuazione del massacro. Il piano non venne effettuato probabilmente perché gli avvenimenti precipitavano e i tedeschi si trovavano di fronte alla certezza di dover scontare presto il delitto.” Sembra che anche due donne tedesche, che lavoravano a Wietzendorf come interpreti, Margherita Stibler e Annarosa Thies, abbiano per prime rivelato il piano omicida: vd. BARTOLO COLALEO 2017, p. 225. Vedi anche ZUPO 2011, pp. 115-116.] 260 (Nota 60) “Spontaneamente”. [261 Si tratta probabilmente di un militare italiano che collaborava con i tedeschi.]

214 fatto capolino al campo, alcuni dicono che si sia fermato, altri ritornato al suo comando. Comanderebbe delle centurie di soldati che lavorano per i tedeschi, è certo che dal come ha abbandonato il suo battaglione che aveva a Sandbostel si è estraniato da quelle poche amicizie che aveva e quindi se n’è andato perché ha compreso che non tirava aria per lui.

11.5.1945 Venerdì

Ho letto la relazione inglese su alcuni campi di prigionieri, mi sembrava esagerata sia nei sistemi sia nelle cifre, ma i soldati qui giunti[262] mi assicurano e me ne aggiungono di quelle più grosse. Erano i campi ove le S.S. avevano la direzione e la custodia. Il loro vestito sgualcito, i loro corpi ed il loro sistema nervoso così terribilmente scosso è indice del martirio che non ha nulla da paragonare[263] al nostro. Per fortuna l’età ed il nostro carattere ce li fanno presto scordare, ma ora i campi dove vengono ammassati i prigionieri tedeschi sono oggetto di appurate indagini e detenuti nostri vi vanno a visitarli, perché si spera di trovare quegli uomini di guardia perché non sfuggano alla loro punizione. Le ricerche vengono estese a tutti i territori di più recente occupazione e saranno intensificate fino a quando non saranno catturati questi criminali vivi o morti. Per ora i campi maggiormente incriminati sono: Buchenwald presso Weimar,[264] Belsen vicino a Brema e Nordhausen nelle vicinanze di una grande fabbrica di aeroplani e presso gli ingressi di una colossale fabbrica sotterranea per la produzione delle V-1 e V-2 nel territorio di Nordhausen;[265] 20.000 lavoratori obbligati a

[262 Si tratta di soldati, ufficiali, lavoratori, civili che giunsero a Wietzendorf quel giorno provenienti da altri campi, come conferma Guareschi alla medesima data (Grande Diario, cit., p. 502).] [263 Intendi: invidiare.] [264 Nel testo, Weimer.] [265 Si tratta del campo di Mittelbau-Dora, presso Nordhausen, che comprendeva una gigantesca fabbrica sotterranea per la costruzione delle V-1 e V-2, le “armi segrete” di Hitler. Vi furono impiegati 60.000 prigionieri, che dovettero vivere e lavorare in condizioni disumane, come testimoniano gli agghiaccianti racconti dei reduci. 20.000 furono le vittime dello spietato trattamento inflitto ai prigionieri dai guardiani di Dora. Vd. i ricordi del geniere Dante Rossi, Gli orrori del campo di Dora, in PIASENTI 1977, pp. 220-222. Lo stesso ministro nazista Albert Speer,

215 lavorare sotto terra e che da venti mesi non vedevano il sole né la luce. Il vitto era un litro di rape e mezza libbra di pane, 120 morti giornalieri. Al campo di Langenstein erano adunati i lavoratori che partivano al mattino per i lavori e ritornavano alla sera, al mattino avevano il tiglio, alla sera al ritorno minestra di rape e pane asciutto. Molti morivano per la strada mentre andavano o ritornavano dal lavoro, altri per le bastonate che non potevano evitare, non ricevevano aiuto ed era proibito portarglielo. I pacchi della Croce Rossa o inviati da casa, non venivano distribuiti, ed il contenuto consumato dai guardiani e dalle malefemmine che vivevano vicino a loro. Nel campo di Buchenwald era anche la principessa Mafalda condotta dal marito dopo il ferimento in seguito all’attacco aereo. Qui è morta.[266] Si trovava nel campo con altre personalità: Blum267 e Daladier.268 Le pubblicazioni che seguiranno a questi misfatti a danno dell’umanità faranno sbalordire il mondo. Oggi, dopo il racconto dei soldati e da quello che ho potuto sentire da persone degne di fede, la nostra prigionia, se togliamo la razione viveri, è stata regolare e si è conclusa umanamente, ma d’altra parte mi confermano che gli ordini dati per il nostro mitragliamento, c’erano e non furono eseguiti per puro miracolo. Oggi è venuto al campo il comandante Brignole, ha ordine di trasferimento qui, è venuto per constatare che non ci sono posti.[269] Dovrebbe essere qui domani con tutti i suoi di Fallingbostel. Si riparla visitando gli impianti di Dora nel dicembre 1943, rimase fortemente impressionato dallo stato miserevole dei prigionieri: vd. Enzo Collotti, L’Europa nazista, Giunti, Firenze 2002, pp. 324-343. Ampie testimonianze su Dora anche in Ricciotti Lazzero, Gli schiavi di Hitler, Mondadori, Milano 1998, pp. 109-153. Visitò spesso le gallerie di Dora, per controllare la produzione delle V-1 e V-2 anche lo scienziato Wernher von Braun, che nel dopoguerra divenne il padre dell’astronautica americana.] [266 Vedi nota 203.] 267 (Nota 61) Blum Léon, uomo politico francese (1872-1950). 268 (Nota 62) Daladier Edouard, uomo politico francese (1884-1970). [269 Al tenente di vascello Medaglia d’Oro Giuseppe Brignole dedica un intero capitolo del suo memoriale don Luigi Pasa, elogiandone l’alta statura morale e la benefica e meritoria opera di assistenza agli internati italiani a Sandbostel. Vd. Uno dei nostri comandanti, in DON PASA 1966, pp. 101-104. Lo stesso Brignole nel suo memoriale ricorda le sue visite negli ospedali agli italiani ammalati e la loro forza d’animo nel sopportare le tante sofferenze, vd. Giuseppe Brignole, Ho compiuto il mio dovere di soldato, in PIASENTI 1977, pp. 368-370.]

216 del nostro rientro via aerea e presto qui dovrebbero essere concentrati tutti i militari italiani. Si riparla anche di spostamento nelle case civili di Celle o Saltan. Manchiamo completamente di notizie, specie di quelle della patria. Mi è stato assegnato alla Stube 5 del blocco 15 il sotto- tenente Pallio rientrato dal lavoro e non so ancora se è partito volontario o precettato. Don Pasa è partito per Saltan al comando inglese per vedere se può ottenere di partire. Tutti i soldati di Münster sono stati trasportati qui. È questa la nostra Italia, in Germania, e tutti saremo concentrati. Però se non si provvede anche un pochino per l’igiene ci incamminiamo male.

12.5.1945 Sabato

Stamane finalmente è partito don Pasa,270 lo accompagnano i cuori con mille auguri di buon viaggio e di buona missione di tutti i componenti il nostro lager e starei per dire di tutti gli italiani internati e non in Germania. Ieri con i nuovi giunti da Celle ho trovato un mio cugino figlio di Cantoni Vincenza, ci siamo riconosciuti e parlato della nostra odissea. È qui con me nello stesso campo. Povera gioventù abbandonata a sé stessa per sì lungo tempo e lontana dai propri genitori! La maggior parte avevano fatto famiglia e venivano ospitati nelle case private come legittimi mariti. Bisogna sentire quanta miseria, forse, hanno imparato in questi mesi. Perfino inviti alla diserzione pur di trattenerli nelle case. Niente chiese, perché i cappellani erano trattenuti nei lager, niente chiese perché erano chiuse, niente Pasqua e con il contorno di tutto il resto. Continuo a sentirne delle belle e dal racconto e da quello subito, si delinea chiaramente il piano tedesco nei nostri riguardi, perderci per la strada. La razione viveri ridotta al disotto del normale, la mancanza di ambienti riscaldati nei mesi freddi, il vestito e i medicinali quando si era ammalati, tutto predisposto perché molti dovessero perdersi durante la strada. Ora è la volta delle 30.000 pagnotte avvelenate che dovevano essere distribuite ai detenuti nel campo di Buchenwald come coronamento

270 (Nota 63) Partì in aereo da Celle per Bruxelles e Roma, portando una lettera per il Santo Padre ed una relazione per il Ministero della Guerra.

217 dell’opera.[271] Il forno crematorio che funzionava giorno e notte, in media 150 cadaveri ed altre barbarie, che se non ci fossero presenti altri soldati che lo confermano ed integrano il discorso non ci crederei, tanto più che io già l’ho letto dal notiziario inglese, e che i soldati raccontano, perché appena giunti, non sanno della diffusione. Gli ebrei devono avere per tutta la vita dei conti da liquidare con la razza tedesca. Ora però ci pensano anche un pochino gli inglesi, perché stanno selezionando i prigionieri, tenendo in disparte ed in campi speciali le formazioni delle S.S.[272] E i rastrellamenti che si fanno nelle case e di città e di campagna e la perlustrazione delle foreste, come è stata da ieri iniziata con così larga affluenza di mezzi, indica che si vogliono fare le cose sul serio. Anch’io stamane sono stato fermato ed ho dovuto non poco fare per farmi conoscere quale prigioniero italiano. Nei boschi vicino al campo è un continuo sparo di munizioni. Don Pasa è partito in aereo diretto a Bruxelles e fra due giorni sarà a Roma, chi non risica non rosica. Bravo. Intanto la radio commenta il telegramma del comandante di Wietzen- dorf, con la conferma che in Italia si è approntato il campo per la quarantena e che giornalmente entrano in Italia 10.000 internati. A quando il nostro convoglio? Che la missione Don Pasa abbia ad avere il suo effetto.

[271 Il campo di concentramento di Buchenwald, che sorgeva presso la cittadina di Weimar nella Germania Orientale, fu uno dei più grandi della Germania nazista e contava nel marzo 1945 106.000 internati. Le vittime, causate dagli stenti, dalle malattie e dalle torture, furono oltre 50.000. Celebre per le sue turpi efferatezze fu Ilse Koch, la moglie del comandante del campo, il colonnello delle SS Karl Koch. Sul lager di Buchenwald: Lord Russell di Liverpool, Il flagello della svastica, trad. di Elisabetta Nocenti, Newton Compton editori, Roma 2006 rist., pp. 177-180; Frediano Sessi, Non dimenticare l’Olocausto, Rizzoli, Milano 2002, pp. 225-228. Su Ilse Koch, la “cagna di Buchenwald”: Shelley Klein – Miranda Twiss, I personaggi più malvagi della storia, trad. di Milvia Faccia, Newton Compton editori, Roma 2015 rist., pp. 350-360.] [272 Spesso le SS, i loro capi e i guardiani del campo si mischiavano ai prigionieri, sperando di non essere riconosciuti. Oppure si rifugiavano in case private. Quando venivano però scovati erano ricondotti al campo e puniti dai prigionieri che avevano tormentato, prima di essere consegnati agli angloamericani: tale la sorte del Lagerführer Clemens, spietato comandante del campo di Menden, come ricorda nel suo memoriale Adler Raffaelli, Fronte senza eroi, Edizioni “A.N.E.I.”, Roma 1971, pp. 164-165.]

218

13.5.1945 Domenica

È un passo dalla liberazione e siamo ancora qui ad aspettare. La promessa era che saremmo stati portati in Italia in una settimana, ed invece bisogna che si mandino missioni per perorare la nostra causa. Gli avvenimenti sono precipitati in un colpo e gli alleati si sono trovati davanti a problemi così vari e impellenti che hanno fatto passare in seconda linea gli internati. Però è consolante sapere che in Italia si sta predisponendo campi di contumacia, è previdente per far fronte alle prime necessità del rientro. Ci attendiamo ora che la viva voce del governo italiano si faccia sentire anche qui, in risposta al telegramma Testa, commentato alla radio di Roma.[273] L’agglomeramento di così tanti italiani qui, specie per il calo sanitario, incomincia seriamente a preoccupare. La mancanza di tutto e soprattutto di acqua non è cosa da poco, mancando completamente tutti i servizi di campo. La dissenteria, essendo il nostro vitto a base di scatolame, è all’ordine del giorno e minaccia di aumentare specie con questo caldo intenso che si fa sentire. Oggi messa in canto e Te Deum di ringraziamento.[274] Cerimonia prettamente militare, ha assistito tutto il campo e lavoratori con alcune italiane al seguito. Belle e appropriate parole di circostanza del tenente cappellano, sul dolore. All’albo sono esposte le notizie, man mano che vengono intercettate. Il problema del rientro in Italia dei lavoratori ed internati, studiato ed in via di attuazione nell’Italia settentrionale. Gli alleati che promettono di intensificare il trasporto. E noi, a quando la nostra ora? Speriamo bene.

[273 Si tratta della lettera al Governo italiano datata al 9 maggio 1945 e riprodotta in Pietro Testa, Wietzendorf, a cura del “Centro Studi sulla Deportazione e l’Internamento”, cit., pp. 268-271 (Allegato 13). Così commenta Guareschi l’avvenimento nel Grande Diario alla data del 12 maggio 1945 (p. 502): “Si sa che la Radio italiana ha riportato il telegramma del colonnello Testa al Governo italiano. Dice il Governo che si ricorderà di noi. Finalmente Bonomi si è accorto della nostra esistenza. Un po’ tardi, signor Governo! Dice il Governo che ci premierà dandoci da cinquemila a settemila lire a testa secondo il grado. Che spendaccione!”] [274 Irritato commento di Guareschi, probabilmente esasperato per la snervante attesa del rientro in patria, nel Grande Diario alla data del 13 maggio 1945 (p. 503): “Te Deum di ringraziamento. Perché? Di che cosa?”]

219

Il discorso di Churchill. È finita per modo di dire, ma dalle poche parole dette, di chiusura contro i sistemi autoritari e per le personalità fatte sparire dai Russi nella Polonia, è indice che siamo al secondo capitolo della tremenda tragedia. Nulla di notevole per l’Italia, quella frase: nel ’40 l’Italia di Mussolini ci pugnalò alla schiena, la poteva evitare.[275] Non l’Italia, ma Mussolini li pugnalò alla schiena. Giacché

[275 Si tratta del discorso di Winston Churchill pronunciato per il V-Day, l’8 maggio 1945, in cui lo statista inglese rievoca i momenti salienti della lotta contro il Terzo Reich. Citiamo il passo che ha colpito l’Arpini: “Per qualche tempo il nostro nemico capitale, il nostro poderoso nemico, la Germania, sommerse quasi tutta l’Europa. La Francia, che ebbe a sopportare uno sforzo così spaventoso nell’ultima grande guerra, fu prostrata e le occorse qualche tempo per riaversi. I Paesi Bassi, combattendo allo stremo delle forze, furono soggiogati. La Norvegia fu travolta. Mussolini ci pugnalò alla schiena quando eravamo, come credeva lui, agli ultimi respiri. Tranne per noi stessi — voglio dire la nostra gente, il Commonwealth e Impero britannico — eravamo assolutamente soli.” Anche Guareschi annota nel Grande Diario al 13 maggio 1945 (p. 503): “Discorso di Churchill. «L’Italia ci pugnalava alle spalle…»” Evidentemente per gli Italiani, dopo la liberazione, era un ricordo imbarazzante la condizione di ostilità del Paese verso gli angloamericani all’inizio della seconda guerra mondiale. Il discorso si concludeva con l’avvertimento per i paesi europei liberati dal giogo nazista, di guardarsi dall’instaurare regimi totalitari ammantati di un’apparente libertà e democrazia. Churchill già preavvertiva i disegni egemonici dell’Unione Sovietica sull’Europa Orientale e l’avvento delle “democrazie popolari” instaurate dall’Armata Rossa nei paesi dell’est. Citiamo la conclusione del discorso di Churchill: “Nel continente europeo noi dobbiamo ancora accertarci che i semplici e onorevoli scopi per i quali entrammo in guerra non siano spazzati in un canto o trascurati nei mesi susseguenti al nostro successo, e che le parole “libertà”, “democrazia” e “liberazione” non vengano deformate nel loro vero significato quale abbiamo sempre inteso. Ben poco gioverebbe punire gli hitleriani dei loro crimini se la legge e la giustizia non regnassero, e se Governi totalitari o di polizia dovessero prendere ii posto degli invasori germanici. Noi non vogliamo niente per noi stessi; ma dobbiamo accertarci che le cause per le quali ci siamo battuti trovino un riconoscimento al tavolo della pace nei fatti non meno che nelle parole, e soprattutto dobbiamo adoperarci a garantire che l’Organizzazione Mondiale che le Nazioni Unite stanno creando a San Francisco non diventi un nome ozioso, non diventi uno scudo per i forti e una beffa per i deboli. Sono i vincitori che debbono interrogare il proprio cuore nelle loro ore fulgide, e rendersi degni con la loro nobiltà delle forze immense che manovrano.” Il “secondo capitolo della tremenda tragedia”, come intuisce l’Arpini, è il rischio di un conflitto tra USA e Inghilterra, da una parte, e l’Unione Sovietica, dall’altra. Il conflitto armato non scoppierà, ma la “guerra fredda” durerà fino al 1989 e al crollo

220 proprio allora Mussolini non rappresentava l’Italia e specie su tale argomento, e questo era l’animo di chi aveva combattuto l’altra guerra e che di tedeschi non ne voleva assolutamente sapere. Durante il 1940 in Africa, io ne posso testimoniare qualche cosa.[276] Del resto alla luce dei fatti è certo che chi presiedeva alla condotta della guerra, non si è preparato a fare la guerra come guerra, contro la tale coalizione, piuttosto che un’altra, ma di abbattere il fascismo con la guerra.[277] E ritengo che gli archivi segreti, quando potranno essere riaperti agli studi, sì, ce ne daranno conferma.

14.5.1945 Lunedì

Brignole ha trovato modo di non raggiungerci, la ragione è semplice, non vogliono frammischianze[278] di lavoratori. E hanno ragione. Le azioni di Testa nel campo sono in ribasso. Il non aver prima protestato verso il comando tedesco per il lavoro che in questo campo ultimamente era stato reso più o meno obbligatorio, il non aver indicato a noi ufficiali una linea di condotta del come comportarci, è stato rimandato per creare la confusione delle lingue, ed arrogarsi il diritto e il mandato di discriminare e di fare dei puri e di tutti gli altri un solo fascio.[279] Era dell’URSS. Il discorso di Churchill si può leggere in rete, nel sito “Ali e uomini” al seguente indirizzo: http://www.alieuomini.it/pagine/dettaglio/documenti,11/] [276 Che durante la campagna d’Africa i militari italiani siano stati assai più generosi e altruisti dei tedeschi lo conferma un anziano reduce dell’Afrikakorps in Paolo Emilio Petrillo, Lacerazione / Der Riss, La Lepre Edizioni, Roma 2014, p. 107.] [277 Va notato che nel dopoguerra si è sviluppata una corrente storiografica e giornalistica minoritaria che ha inteso rigettare la responsabilità della sconfitta sullo Stato Maggiore e sui generali e ammiragli italiani, tacciati di incompetenza, disfattismo e perfino di intesa col nemico. Pensiamo ai libri di Carlo Silvestri, giornalista antifascista che negli ultimi mesi tentò vanamente di realizzare un accordo tra la RSI e i capi partigiani per il pacifico passaggio dei poteri (Carlo Silvestri, I responsabili della catastrofe italiana, C.E.B.E.S., Milano 1946), di Antonino Trizzino (Gli amici dei nemici, Longanesi & C., Milano 19598; Navi e poltrone, Longanesi & C., Milano 1968 rist.; Settembre nero, Longanesi & C., Milano 1969 rist.) a cui si è aggiunto, da ultimo, Piero Baroni (8 settembre 1943 – Il tradimento, Il Giornale – Biblioteca Storica, Milano 2017, rist.).] [278 Ossia mescolanze.] [279 Le critiche al Ten. Col. Testa da parte dell’Arpini si appuntano soprattutto sul fatto che egli non abbia separato e distinto quelli che avevano scelto di lavorare nel

221 ottima cosa, e qui si sarebbe distinto se egli si fosse curato o avesse tenuti separati tutti coloro che si trovavano in campo il 13.4.1945, costituendo per i lavoratori dei blocchi a parte, e a parte, gli aderenti alla repubblica,[280] così pure i civili in Germania per ragioni di lavoro senza obblighi militari. Due distinzioni: 1°) lavoratori più o meno obbligati in attesa che apposite ed incaricate commissioni definissero la loro posizione, 2°) gli aderenti alla repubblica, alla Wehrmacht281, alle S.S. ecc. Se così si fosse comportato avremmo guadagnato in considerazione presso gli inglesi e ora saremmo in ben altre località. Il primo abboccamento a Saltan dopo il rientro a Wietzendorf da Bergen è l’indice del come la pensavano gli inglesi della torre di Babele fatta dal Testa. Ora tutto il campo non funziona, i servizi abbandonati, i sarti, i calzolai, i barbieri tutti in azione e nessuno che se ne interessi. Quello che più preoccupa sono i servizi igienici, latrine e pulizia nelle camerate senza scope e recipienti per la raccolta.[282] Si dice che abbia paura[283] a

Reich e quelli che erano rimasti nel campo rifiutando di collaborare con tedeschi e fascisti. Entrambi i gruppi di italiani, ossia gli “optanti” e i resistenti, godevano dello stesso trattamento, ciò che rappresentava un’ingiustizia agli occhi dell’Arpini. Da tale situazione nacquero momenti di forte tensione, con frequenti risse, tra i due gruppi. Ma già durante la prigionia la scelta di chi usciva dal campo per andare a lavorare con i tedeschi scatenava l’ira di chi rimaneva, come attesta Alessandro Dietrich, deportato a Wietzendorf, in Baracche. Appunti di prigionia 1944-1945, Sironi Editore, Milano 2007, p. 124.] [280 Ossia alla RSI.] 281 (Nota 64) “Forze armate”. [282 A conferma delle parole dell’Arpini, il quadro delle condizioni di Wietzendorf che risulta dal memoriale del Ten. Col. Testa è impressionante, soprattutto per la precarietà delle condizioni igieniche, al cui risanamento dovettero provvedere, con i pochi mezzi di cui disponevano, gli ex prigionieri italiani. Riportiamo il passo relativo, dal memoriale di Testa (Pietro Testa, Wietzendorf, cit., pp. 168-169): “La vita al campo, pur nella libertà, incominciava a risentire del nervosismo dovuto a tante legittime ragioni e prima quella che non si vedeva alcun sintomo pratico che confermasse le promesse di rapido rimpatrio. Le autorità britanniche, rendendosi conto delle bestiali condizioni di alloggio, incominciavano a preoccuparsi della situazione igienica generale, senza tener conto che una sola poteva essere la soluzione e cioè quella di bruciare semplicemente tutto come già fatto a Belsen e a Buchenwald. I parassiti pullulavano e non era certo la polvere disinfettante che poteva eliminarli. Le latrine erano letteralmente coperte di milioni di grosse larve

222 comandare i soldati, giacché sono ancora gli stessi ufficiali che debbono continuare a fare con quei mezzi che ogni camerata dispone, la pulizia, e i signori soldati con le braccia conserte, assistere 6.000 soldati e 4.000 ufficiali.[284] Debbo ancora maggiormente convincermi che il governo Bonomi ha fatto bene a sciogliere lo Stato Maggiore. Ora si deve preoccupare della scatola cranica disponendo il giudizio nella scelta ed in base ai fatti e non alle parole. I competenti debbono fare carriera e non i furbi e i parolai. Solo così si potrà tentare di impiantare l’esercito, sulle vecchie tradizioni, in modo che effettivamente serva per lo scopo che la nazione lo sussidia. Rimodernarsi mentalmente e moralmente se si vuol fare sul serio e se ci si vuol mettere d’impegno a ricostruire. Sono gente di mare in servizio permanente, quelli effettivi della camerata. Povero esercito e poveri figli in mano a simili esseri. Fabbro quando si lava? Sercovia dove fa da mangiare? Rizzoli vorrebbe sempre dividere, ma le spettanze altrui. Luitner, lo scaltro, e alle volte il poco furbo. Che lo spirito del vecchio Cadorna sorregga il figlio nell’ardua prova e lo renda inflessibile nell’esplicazione del mandato.

15.5.1945 Martedì

Siamo alla mercé di coloro che vogliono relegare l’Italia fra le ultime potenze e creare discordie ed irredentismi. Trieste, città per la quale si combatté la grande guerra 1915-18 e assegnata dagli attuali alleati alla madre patria, ora dagli stessi vengono predisposte tante combinazioni per prepararci al distacco o a renderla città libera amministrata bianche. Venivano a far sopraluoghi numerosi ufficiali medici britannici; uno anzi sembrava aver l’aria di incolpare noi dello stato delle camerate e di tutto il resto, come se fossimo stati noi a costruire quel nostro luogo di pena o a rendere, ad esempio, l’acqua impotabile. Le richieste di medicinali venivano inizialmente ed in parte soddisfatte; poi si ripiombava nella mancanza di tutto come all’epoca dei tedeschi. L’unico provvedimento che veniva ordinato era la costruzione di nuove latrine e queste, del tipo campale, ce le costruimmo noi.”] [283 Riferimento al Ten. Col. Testa, responsabile di fronte agli inglesi dei militari italiani.] [284 Per comprendere l’atteggiamento renitente e indisciplinato tenuto a Wietzendorf dai soldati nei confronti dei loro ufficiali v’è da dire che i nostri soldati avevano patito per molti mesi la propaganda tedesca che insegnava a disprezzare gli ufficiali “traditori e badogliani” (vd. Pietro Testa, Wietzendorf, cit., p. 169).]

223 internazionalmente. La decisione di tutto viene rimandata alla fine della guerra, per adoperare tutti col miraggio del contentino a fare forza per trainare il carro dei padroni.[285] La pace con giustizia non so come si possa attuare se si comincia con le questioni territoriali e col creare degli irredentismi. Si ricomincia la storia delle vendette e del padrone che vuol tenere gli altri schiavi e ligi all’obbedienza e quindi il fomento nel fondo dell’anima del rancore e del sentimento di rivincita. Si fa di tutto per far rimpiangere il fascismo, specie da questo lato, libertà per tutti, si grida, ma si ha poca voglia di attuarla, giustizia, e non si applica, umanità, e si usano sistemi barbari. Belle parole, bei programmi, ma non corrispondono i fatti. Ho poca fiducia, ammaestrato dal passato, sulla attuazione di così bei programmi. Mi auguro di sbagliare. La radio anche questa sera tratta il problema di Trieste e sembrano ben disposti a non lasciarsi trovare davanti a fatti compiuti. Se saranno rose, fioriranno. I soldati hanno fatto giustizia contro gli italiani loro aguzzini. Due o tre sono stati ricoverati all’infermeria.[286] Si dice che più di 600 italiani siano morti per i sistemi adoperati dai nostri nei loro riguardi. Questo però non sarebbe accaduto se il Testa si fosse tenuto alle istruzioni date dagli inglesi di tener divise le due categorie.

16.5.1945 Mercoledì

Adunata degli ufficiali effettivi dal colonnello Testa per l’inquadra- mento dei soldati. Era una adunata che lo stesso iniziatore doveva non

[285 Le truppe partigiane di Tito (Josif Broz) erano entrate a Trieste il 30 aprile 1945, seguite il 2 maggio dalle truppe neozelandesi del generale Freyberg, che accettarono la resa dei tedeschi e occuparono la zona del porto. Di fronte alle mire espan- sionistiche di Tito, che intendeva annettere Trieste alla nuova Jugoslavia, Churchill ribadì l’intenzione di discutere la sistemazione del territorio dell’Istria, di Trieste e Gorizia dopo la fine della guerra. Significativa, in tal senso, una sua lettera al generale Alexander datata al 6 maggio 1945 (in Winston Churchill, La seconda guerra mondiale, vol. VI, cit., p. 637). Gli alleati avevano intenzione di sfruttare la zona di Trieste come base per i rifornimenti delle truppe destinate a operare in Austria.] [286 Riscontro in Guareschi nel Grande Diario alla data del 15 maggio 1945 (p. 504): “Sei stubendisti (capicamerata) identificati al campo dei soldati: picchiati e consegnati agli inglesi.” La riottenuta libertà significava per gli italiani anche la resa dei conti con quei compagni che erano passati dalla parte dei tedeschi.]

224 ammettere sia per lo scopo, sia per le recriminazioni susseguite. Che un colonnello comandante chieda e pietisca la collaborazione per un problema urgente e inerente alla professione degli adunati è cosa anormale e che gli stessi presenti, nessuno della mia camerata, sia disposto a lavorare e rientrare nelle sue mansioni abituali, è stata una cosa che ha fatto pietà, e che ha sollevato le proteste dei benpensanti. Se l’esercito lo si costituisce con questa mentalità e lavoro, è fiato sprecato. Se fossero in ditte private non sarebbero chiamati a collaborare ma comandati a fare il tal lavoro e se riluttanti, licenziamento. E forse se si fosse potuto usare tale sistema, stamane sarebbe stata cosa di tanto guadagnato e per loro e per lo scopo per il quale vennero adunati. Alle volte quando ci penso anche da minime cose insignificanti, mi si dà subito la sensazione che noi siamo incamminati allo sfacelo completo, se le mentalità non vengono raddrizzate e se non ci si mette una buona volta a fare sul serio ed inquadrare questi soldati che per venti mesi non hanno fatto altro che correre a briglie libere con la sensazione che tutti quelli che li circondano, non facciano altro che fregare; il ritornare alla rigidità ed al sacrificio è una strada dura a battere, ma presto o tardi a quello si deve venire ed è meglio iniziare subito piuttosto che aspettare, tutto tempo guadagnato, e a questo scopo avrebbe dovuto trovare[287] unanimi gli adunati e non costringere il superiore a delle minacce. È proprio il caso di dire: stellone d’Italia, pensaci tu. E un mese oggi, a quest’ora, si usciva dal reticolato e si andava nelle linee inglesi con la promessa di una breve fermata a Bergen e poi il trasporto in aereo in Italia. Non solo non siamo partiti, come sono partiti i francesi, ma siamo rientrati allo stesso lurido posto e di qui non si parla affatto di rientrare. Quali le cause? Sono tante, non esclusa la mania del comando e la confusione degli eletti e reprobi fatta ad arte nel campo[288]

[287 Il soggetto è sempre il Ten. Col. Pietro Testa.] [288 Eletti e reprobi sono rispettivamente i “resistenti”, quelli che dissero no ad ogni forma di collaborazione con tedeschi e fascisti, e quelli che aderirono e/o chiesero di essere mandati al lavoro, ossia gli “optanti”. Quanto al fatto che l’Arpini imputi al comandante Testa la mancata divisione dei due gruppi di italiani, così questi si difende nel suo memoriale Wietzendorf, cit., p. 166: “Il problema degli italiani non venne mai integralmente affrontato e mai risolto, probabilmente perché, nel complesso enorme di provvedimenti necessari nei territori di occupazione, se per noi esso era, dopo quello del rimpatrio e connesso con questo, il più importante e

225 e che ha messo sul chi vive i nostri liberatori.[289] Se si bandisse una buona volta la politica dall’esercito e se i comandanti facessero quello che il loro dovere impone, senza badare alla popolarità. Tutti errori che ci hanno condotto qua e che purtroppo non ci hanno ancora fatto scuola abbastanza. Svecchiarsi e rifarsi. Al rapporto dal signor colonnello, egli cerca la diatriba di camerata, nella speranza che potesse essere utile ad un maggior comando autoritario, ma purtroppo il risultato è stato negativo. Quando chi dovrebbe comandare, si lamenta che non lo si ubbidisce, cade ogni questione di prestigio e di autorità. Che tutti i torti non abbia, ma che abbia perduto il controllo è del pari vero. Dirà il tempo a quale Babele si andrà incontro se non si metterà ripiego a questa baraonda. Per i volontari non è del parere di Pilato, vuol fare per

forse l’unico, per le Autorità Britanniche costituiva una goccia nel mare e, per giunta, restava sempre offuscato da un residuo di equivoco e di sospetto. Infatti fin dai primi di maggio mi venne richiesta una discriminazione tendente ad isolare ed a consegnare ai britannici i presunti collaboratori dei tedeschi. La questione se poteva presentare una certa semplicità per la valutazione degli ufficiali, era praticamente di assai difficile, per non dire impossibile, soluzione per i soldati e per i civili. Inoltre fra i presenti in zona non si poteva certo parlare di «combattenti» per la Germania; restava quindi mio convincimento che ogni questione ed ogni decisione in merito agli elementi che io potevo raccogliere doveva essere riservata esclusivamente al Governo Italiano.” V’è da dire però che non era facile rifiutare l’offerta del lavoro per i prigionieri. Anellino Manocchi, sottotenente prigioniero nel Lager AK96 della Glanzstoff di Colonia, nel 1944, rifiutò di andare in fabbrica e vi venne accompagnato da due guardie armate di pistola e fucile, e a suon di bastonate, vd. MANOCCHI 2017, p. 93. Anche il soldato Luigi Manoni, che poté salvarsi grazie alla sua abilità nel suonare il violino (cosa apprezzata dagli aguzzini tedeschi), fu messo nel 1943, ad Amburgo, a spalare carbone nella stiva delle navi: un lavoro durissimo, compiuto tra botte e scudisciate dei suoi carcerieri, dall’alba a tarda sera, vd. MANONI 2017, pp. 12-13.] [289 Come attesta il Ten. Col. Testa, finché il campo di Wietzendorf fu sotto l’autorità del tenente Holtom, del reggimento di artiglieria inglese, e poi del tenente Wite, agli ex prigionieri italiani furono permessi comportamenti non ortodossi, come razzie e prelevamenti di beni, cibarie, frutta e verdura dalle case e dai campi dei tedeschi. Quando però le autorità superiori inglesi vennero a conoscenza delle ruberie degli italiani, il loro atteggiamento si irrigidì e si disposero restrizioni disciplinari e una più stretta sorveglianza (vd. Pietro Testa, Wietzendorf, cit., pp. 169-173).]

226 discriminazione ed avere più voci che lo sostengano, e non capisce che si aggrava di maggior responsabilità. Ora succeda quello che vuole, ho la coscienza di averlo avvisato e fatto capire certi falli. Punto e satis290.

290 (Nota 65) “Basta”.

227

228

ANNA MARIA ROBUSTELLI

Un’Antigone irlandese: Eibhlín Dubh Ní Chonaill / Eileen O’Connell1, Il lamento per Art O’Leary

‘Ha nausea l’anima mia

della mia vita, / voglio dar

libero sfogo al mio lamento, /

voglio parlar nell’amarezza

dell’anima mia.’

Giobbe, 10,1.

Marito mio, quando mi sei apparso in quel giorno di mercato i miei occhi si posarono su di te.

Sapevo che ti avrei avuto se questo voleva dire staccarmi da tutta la mia vita senza portare niente con me.2

1 Il primo nome è scritto in irlandese, il secondo in inglese. 2 Vona Groarke, Lament for Art O’Leary from the Irish of Eibhlín Dubh Ní Chonaill, The Gallery Press, 2008, p.21. Tutte le traduzioni di questo saggio sono a cura di

Anna Maria Robustelli.

Husband, / when you stood out that market day / my eyes settled on you. / I knew I would have you / if it meant / stepping out of my whole life, / carrying nothing with me.

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Così comincia, con le parole di Eileen, che si rivolge direttamente al marito morto, quello che è forse il keening più famoso della letteratura e della cultura irlandese, Il lamento per Art O’Leary che, come ricorda Vona Groarke nella sua introduzione alla traduzione dall’irlandese all’inglese, fu descritto da Peter Levi come ‘il più grande poema scritto in queste isole in tutto il diciottesimo secolo’.

Seamus Heaney ha parlato del blocco che gli era sopravvenuto nel momento in cui si accingeva a scrivere il dramma The Burial at Thebes: per settimane il poeta aveva rimescolato dentro di sé i temi della tragedia, leggendo saggi e introduzioni, ma senza trovare la spinta a riscrivere il dramma di Antigone, Poi qualcosa gli arrivò come in un soffio: erano le parole e i ritmi di un’altra opera, i versi di apertura di uno dei poemi più famosi della lingua irlandese, Lament for Art O’Leary, nel ricordo di Heaney, nella traduzione di Frank O’Connor:

My love and my delight, Mio amore e mia gioia,

The day I saw you first il giorno in cui ti vidi per la prima volta

Beside the markethouse accanto al mercato

I had eyes for nothing else non ebbi occhi per nient’altro

And love for none but you e amore per nessun’altro che te

Heaney confessa che questo ‘lamento cadenzato, urgente per un marito assassinato, […] mi diede la nota di cui avevo bisogno per l’ansiosa, isolata Antigone all’inizio del dramma. La moglie disperata fornì un registro per la sorella disperata.’3

Keening è l’anglicizzazione della parola irlandese caoineadh (che si pronuncia queen-ay e vuol dire piangere, lamentarsi). Il lamento, secondo la tradizione era intonato da donne professioniste del lamento funebre sul corpo del morto. Quindi il lamento-poema di Eileen nasce come forma orale. Qualcuno lo ha memorizzato e conservato. Fu

3 Search for the soul of Antigone, in www.theguardian.com/stage/2005/nov/02/theatre.classics.

230 trascritto da una professional keening woman, Norrie Singleton, una prima volta all’inizio dell’800 e poi poco prima della sua morte nel 1870. Il keening si è trasmesso fino al ventesimo secolo ed è comune a molte popolazioni indoeuropee e non solo. Si tratta di una pratica molto antica, pre-cristiana, che infatti è sempre stata invisa alla Chiesa Cattolica che ha cercato di limitarla anche con la violenza (si hanno testimonianze di donne che la praticavano frustate in pubblico) e persino di sopprimerla. I preti cattolici si sentivano espropriati del loro potere di gestire la veglia funebre e il funerale e per giunta da donne! Chi operava il keening è sempre stato un gruppo di donne per tradizione. È questo uno dei pochi momenti nella vita delle donne nei secoli passati in cui queste erano chiamate a gestire una sorta di potere: dovevano dare sfogo al dolore per il morto e condurre i parenti e i presenti in un periodo di elaborazione del lutto e del ritorno alla vita normale, pena la disgre- gazione della comunità in cui tutti vivevano. Ernesto De Martino nell’introduzione a Morte e pianto rituale nel mondo antico si rifà a Croce:

Nel passo dei suoi Frammenti di etica il Croce fa esplicito riferimento alle «varie forme di celebrazione e di culto dei morti» attraverso le quali «si supera lo strazio, rendendolo oggettivo», cioè si avvia l’aspra fatica di far morire i nostri morti in noi.4

Qualche pagina dopo lo stesso nota che il lamento funebre “si presenta nel quadro delle antiche civiltà mediterranee come il più adatto a consentire l’esplorazione di tutto l’arco che va dallo «strazio» alla oggettivazione del dolore, dalla crisi davanti al cadavere sino al riscatto culturale. Con una singolare ampiezza dinamica che ritrova continua eco nella nostra anima di uomini moderni il lamento antico ci permette di sorprendere il modo col quale, in un ambiente storico dal quale direttamente proveniamo e che ci siamo appena lasciati alle spalle, la dispersione e la follia che minacciano l’uomo colpito da lutto furono istituzionalmente moderate nel rito, ridischiuse alle figurazioni del mito, e drammaticamente redente nel vario operare umano, cioè nell’ethos delle memorie e degli affetti, nei significati sociali, politici e

4 Ernesto De Martino, Morte e pianto rituale nel mondo antico, Bollati Boringhieri, Torino, ristampa settembre 2016, p.9.

231 giuridici, nell’autonomia della poesia e dei gravi pensieri sulla vita e sulla morte.”5 Anche Angela Bourke nota come la lamentatrice si assicuri che “sia reso onore alla persona morta e faciliti gli altri (la comunità) nel momento del dolore e nel venire a patti con la morte.”6

Il Lamento di cui ci stiamo occupando contiene degli aspetti rituali, ma è rilevante soprattutto perché riesce anche a dar voce a una manifestazione individuale del dolore. Eileen comincia il suo lamento funebre dopo che la cavalla bruna del marito è giunta fino a lei macchiata di sangue. Monta sulla giumenta che la porta vicino al ginestrone isolato dove si trova il corpo del marito morto. Sia Eileen che il marito appartenevano a due facoltose famiglie irlandesi ma nel 1773 l’Irlanda era praticamente una colonia inglese, sottoposta per giunta alle Penal Laws, non molto diverse dalle leggi che durante il nazismo e il fascismo controllavano la vita degli ebrei. Art aveva comunque combattuto con gli ussari ungheresi ed era tornato da imprese militari a 27 anni con la sua bella giumenta. Solo che le Penal Laws stabilivano che un irlandese non poteva possedere una cavalla che valesse più di cinque sterline e lo sceriffo Abraham Morris gli aveva imposto di cedergli la sua che valeva molto. Art aveva rifiutato e la faida tra i due uomini era andata avanti per un certo tempo finché Art, che era costretto a nascondersi per non sottostare a quella ingiustizia, aveva dichiarato a un sedicente amico che avrebbe voluto uccidere Morris per mettere fine alla questione. Ma il suo presunto amico aveva rivelato tutto a Morris e questi aveva fatto sparare a Art. Tutta questa storia viene riecheggiata nei versi del Lamento nei quali interviene anche la sorella di Art a dire la sua.

Nel corso del Lamento passiamo attraverso quelle che Elisabeth Kübler Ross7 ha chiamato le cinque fasi dell’elaborazione del lutto: negazione, rabbia, negoziazione, depressione e accettazione, ma non

5 Ibidem, p.13. 6 Working and Weeping Women’s Oral Poetry in Irish and Scottish Gaelic, University College Dublin. School of Social Justice Women’s Studies, 1988. 7 Elisabeth Kübler-Ross, On death and dying, Macmillan, 1969.

232 necessariamente esse procedono in questo ordine. A volte le fasi si mischiano, si accavallano e non si esauriscono e vedremo alla fine come non esista una definita accettazione della perdita, e il Lamento lasci aperti spiragli a una visione più poetica ed esistenziale della realtà e meno antropologica, che è poi uno dei motivi per cui questo lamento è giustamente famoso.

Fin dall’inizio cogliamo il piglio energico di Eileen nel ricordare il marito e nel far rivivere la sua storia. Si tratta di un grande amore, che ha scompaginato la vita precedente della donna (se questo voleva dire / staccarmi da tutta la mia vita / senza portare niente con me). Nella prima parte del Lamento la figura di Art è magnificata e sono enfatizzati gli agi e la ricchezza che lui aveva dato alla sua donna.

Hai fatto prendere all’amo sgombri e ingrassare agnelli sull’erba tenera per me pagnotte a forma di sole e luna sono state fatte per me e mi hai dato donne a disposizione per badare a tutto, per versare, impastare e pulire.8

Poi Eileen magnifica la bellezza del suo uomo:

Mio caro, ti immagino con il sole che ti cinge la testa come un nastro d’oro, ogni tua piega e angolo – dalla spada dall’elsa d’argento alla cavalcatura curata un complimento a quel giorno di primavera

8 You had mackerel hooked for me, / lambs fattened on silky grass for me, / loaves shaped like the sun and the moon for me / and women on hand to see to it all, / to pour and knead and clean. Op. cit., p. 21.

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e a quello che aveva da offrirti.

Persino gli inglesi abbassavano gli occhi quando ti vedevano sul tuo cavallo straniero.

Non che importasse ormai: non furono i loro occhi a distruggerti.9

Quest’ultimo un ritornello che si ripete nelle strofe successive. Riprende poi il ritratto magnificato del marito.

Mio cavaliere dai guanti bianchi, ti avrei guardato per sempre con la batista e i pizzi, la lana e il cuoio, con le scarpe cucite a mano e i calzoni austriaci che facevano risaltare le tue cosce slanciate e forti a cavallo della tua giumenta bruna che era per te una compagna per vigore e eleganza.

Mio Art dalle dita morbide, la luce che faceva scintillare la tua spilla d’oro

9 My dear, / I picture you with sunlight / tied around your head / like a band of gold, / every crease and angle of you - / from your silver-hilted sword / to your fine- trimmed mount - / a compliment to that spring day / and what it had to offer you. / Even the English lowered their eyes / from the vision of you / on your foreign horse. / Not that that mattered in the end: / it wasn’t their eyes that undid you. Op. cit., pp.21-22.

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veniva a me attraverso tutto il mare.

E quando tu venivi dietro con la tua eleganza pensavo che il tuo stesso splendore avrebbe accecato persino gli inglesi nelle nostre strade.

Non che importasse alla fine: non furono i loro occhi a distruggerti.10

Carolina Hat parla de “l’insistente mescolanza da parte di Groarke di questi tre elementi – il piacere sessuale di una donna, una casa aristocratica e il corpo ben vestito del suo amante – [che] creano significati contemporanei. In questa triplice formulazione, lo spazio domestico (opposto a quello esterno sulla strada, dove Art è morto) ha una qualità generativa come pure eccessiva ed è il luogo del desiderio.”11 E dopo questo ritratto il racconto del ritrovamento del marito:

Art mio, non darei il tempo di un giorno per parlare della tua morte

10 My white-gloved horseman, / I’d have watched you forever / in your cambric and laces, / your worsted and leather, / your hand-stitched shoes / and your Austrian breeches / that showed off your / sleek, powerful thighs / astride the brown mare / that was a match for you / in vigour and elegance. // My soft-fingered Art, / the light glinting off / your golden brooch / reached me all the way / over the sea. / And when you followed / in your finery / I thought that selfsame / blaze of yours / would / even the English / in our streets. / Not that that mattered in the end: / it wasn’t their eyes that undid you. Op. cit., pp.22-23. 11 Carolina Hat: Vona Groarke’s Lament for Art O’Leary in https://www.thefreelibrary.com, p.7.

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finché quella tua stessa giumenta non venne da me con le briglie di traverso, i garresi macchiati dalla susina del tuo cuore, e la sella lucida, dove ti avevo visto per l’ultima volta dritto come un fuso, sbilanciata e disperata.

Il mio primo scatto mi portò completamente sul tuo lato del letto.

Il secondo mi portò al cancello, il terzo in groppa a lei.

Battei le mani per farla andare e lei partì con un passo precipitoso che non perse un secondo finché non mi ebbe portata al ginestrone isolato dove il tuo caro corpo si era accasciato.12

12 My Art, / I wouldn’t give you the time of day / to rumour of your death / until that selfsame mare of yours / came to me with her bridle awry, / her withers smattered / with your heart’s damson, / and the polished saddle, / where I last saw you bolt upright / lopsided and bereft. // My first spurt / took me clean over / your side of the bed. / The second got me to the gate, / the third up on her back. / I slapped my hands / to set her going / and she took off / at a heedless pace / that didn’t spill one second / until she carried me / to the single furze / where your dear body / slumped. Op. cit., pp.23-24.

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Il racconto è concitato, drammatico con quegli scatti che cadenzano i movimenti di Eileen, la sollecitudine della giumenta, la solitudine del posto dove è stato lasciato il corpo di Art.

Nessun prete era vicino per bisbigliare preghiere, nessun monaco a cantare le tue lodi, solo una vecchia addolorata, dagli occhi secchi, per gettarti addosso un mantello da poco.

Art O’Leary mi sono inginocchiata accanto a te.

Ho immerso i miei pugni nel tuo sangue versato e ho succhiato dalle mie dita inutili.13

Quest’ultima un’abitudine del keening. E a questo punto inizia la fase della negazione della morte:

Marito mio, alzati e seguimi a casa.

Ti farò preparare un pranzo di cacciagione e chiaretto.

Riempirò la casa di tuoi ammiratori.

Farò suonare musica per te.

E quando sarai soddisfatto ti preparerò un letto

13 No priest was on hand / to whisper prayers, / no monk to sing your praises, / only a dry-eyed, sorry, old woman / to throw a bare coat over you. / Art O’Leary, / I knelt down beside you. / I plunged my two fists / in your spilled blood / and sucked from my useless fingers. Op. cit., p.24.

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di coperte di cashmere e trapunte screziate per scacciare il freddo dalle tue ossa che questo vento del nord ha gelato.14

Quando, durante il Lamento la sorella di Art la rimprovera per non aver vegliato il marito, l’ira di Eileen esplode, sia contro la cognata che la calunnia, che verso l’assassino Morris.

Amico mio, agnellino mio, non dare retta alle sue chiacchiere che vorrebbero che io riposassi mentre altri ti vegliavano.

Sono stati solo i bisogni dei bambini che mi hanno tenuta lontano da te.

Non riuscivano a dormire così mi sono sdraiata tra le loro testoline per scacciare l’ombra nera

15 dal loro letto.

[…]

Morris, infido villano, spero che il tuo corpo soffrirà un migliaio di ferite anche peggiori di quelle che hai inferto a Art.

14 Husband, / get up and follow me home. / I’ll have dinner made for you / of venison and claret. / I’ll fill the house / with your admirers. / I’ll have music played for you. / When you’ve had your fill of that / I will turn down a bed for you/ of cashmere blankets and speckled quilts / to draw the cold out of your bones / that this north wind has frozen. Op. cit., pp.24-25. 15 My friend, my lamb, / pay no heed to her gossip / that would have me resting / while others watched over you. / It was only the children’s want / that kept me from you. / They could not sleep / so I lay down between their heads /to drive off the black shadow / from around their bed. Op. cit., pp.25-26.

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Spero che il fegato ti si contragga e il sangue ti si congeli, che i globi oculari ti prudano e che le tue rotule vadano in pezzi.

Mi hai portato via il marito e non vedo nessuno in Irlanda con il fegato di farti pagare.16

E poi c’è la negoziazione, il tentativo di mutare quello che non si può mutare.

Darei qualsiasi cosa per essere stata accanto a te quando hanno sparato il colpo.

Avrei potuto soffocarlo nelle pieghe del mio vestito o nelle pieghe dei miei seni, che importa, bastava che tu potessi continuare a andare mio bel cavaliere dalle mani flessuose sul ciglio della collina.17

16 Morris, you treacherous lout, / I hope your body will suffer / a thousand wounds even worse / than your wounding of Art. / I hope your liver shrivels / and your blood congeals, / your eyeballs itch / and your kneecaps split asunder. / You have taken my husband from me /and I see no one in Ireland / with the guts to make you pay. Op. cit., p.26. 17 I’d give anything / to have been beside you / when they fired the shot. / I could have smothered it / in the folds of my dress / or the folds of my breasts / what matter, so long /as you kept going, / my fine horseman, / of the lissom hands, /over the brow of the hill. Op. cit., p.27.

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Ma, ben presto viene anche il momento della tristezza ineludibile. Eileen comincia a chiedersi:

Mio amante dagli occhi a mandorla, che cosa andò male ieri?

Avevo pensato, quando ho comprato quel vestito per te, che sarebbe scivolato tra te e ogni danno, tanto che la tua pelle e le ossa dentro sarebbero tornate a casa per giacere con le mie.18

Ancora ricordi della bellezza e delle capacità amatorie del marito:

Marito mio, quando cavalcando hai portato il tuo valore in una città fortificata le mogli dei bottegai in fronzoli praticamente ti cascavano ai piedi.

Potevano vedere bene come me quello che i loro mariti non avrebbero mai potuto vedere, che tu saresti stato un amante straordinario con le redini in mano, spingendole avanti per boschetti segreti nella campagna selvaggia.

E che saresti stato un padre vigoroso a meno che qualcosa non ti facesse arrabbiare,

18 My sloe-eyed lover, / what went wrong yesterday? I thought, when I bought / that suit for you, it would slip / between you and all harm, /so your and bones inside it / would home to lie with mine. Op. cit., p. 31.

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ma sarebbe avvenuto di rado e, ad ogni modo, un uomo con tanto fuoco in sé avrebbe potuto infiammarsi di tanto in tanto.

Non che importi in ogni caso, ora che la fiamma della tua vita è stata spenta.19

E di nuovo il Lamento dà sfogo alla collera di Eileen verso chi ha tradito il marito e si attarda nel tentativo di negoziare un diverso paesaggio che avrebbe potuto scongiurare la morte di Art:

La maledizione del mio cuore esce per andare da te, bandito, Seán Cooney, che hai preso una miseria per dare informazioni su Art.

Se era solo denaro che volevi avresti potuto venire da me.

Ti avrei dato qualunque cosa ti servisse – anche un cavallo vigoroso che ti avesse fatto attraversare il funerale di Art quando tu dovevi scappare.

O una mandria di mucche o pecore gravide o un segreto per inamidare il lino;20

19 Husband, /when you rode your gallantry / into a fortress town / the shopkeepers’ wives / in their frippery / would practically fall over. / They could see as well as I / what their husbands could never, / that you’d be a masterful lover / with the reins in your hands, / leading them on through secret thickets / into the wild country. // And that you’d be a vigorous father / unless something angered you, / but that would be rare and, anyway, / a man with so much fire in him / would have to flame up now and then. / Not that it matters anyway, / now the blaze of your life has been doused. Op. cit., p.34. 20 The curse of my heart goes out to you, / outlaw, Seán Cooney, / who took a pittance to inform on Art. / If it was only money you wanted / you could have come to me. / I’d have given whatever you needed - / even a sturdy horse to bear you

241

Questa ultima affermazione fa intenerire perché si tratta di un segreto di donna, anche se prezioso! Nell’invocazione finale al marito, accanto alla rievocazione dei possedimenti opulenti di Art e della sua generosità, cogliamo la consapevolezza che non è possibile accettare la morte del marito.

Amore mio, marito mio, il tuo grano può prosperare ma le tue mucche hanno ancora bisogno di essere munte e i tuoi bambini ti stanno reclamando.

Alzati ora e vieni con me alla nostra casa bianca con le sue cucine di abbondanza e le sale dalle voci vivaci, dove gli alberi ci porteranno mele color rubino e le fragole selvatiche ci arrosseranno la lingua, dove le api ronzeranno come monaci incappucciati quando ordinerai loro di girare intorno all’albero di agrifoglio prospero e luminoso che hai piantato quando nacque il piccolo Conor e un altro dopo per Fiach.21

through / Art’s funeral / when you had to escape. / Or a herd of Cows / or ewes in lamb / or a secret for bleaching linen; Op. cit., pp.35-36. 21 My love, my husband, / your corn may thrive / but your cows still need milking / and your children are calling for you. / Rise up now and come with me / to your white house / with his kitchens of plenty / and brightly-voiced halls, / to where trees will bear us ruby apples / and wild strawberries / will crimson our tongues, / to where bees will hum like hooded monks / when you bid them take a turn around / the thriving, glossy holly tree / you planted when little Conor was born / and another then for Fiach. Op. cit., pp.38-39.

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Ma è l’ultima strofa del Lamento che ci conferma senza alcun dubbio che il dolore è grande è che non è possibile superare quella soglia e riprendere il corso della vita. È il punto culminante del Lamento per drammaticità e senso del dolore.

Alzati ora e vieni con me, poiché il peso del dolore che mi attraversa il cuore non si solleverà a meno che tu non lo scacci.

È come un petto con delle pietre dentro e ho molta paura che la serratura arrugginita e il suo chiavistello chiuso non conosceranno mai una chiave.22

Vona Groarke commenta nella sua prefazione il fatto che il lamento di Eileen O’Connell rimanga una cosa viva, anche se il keen è un’arte morente. Aggiunge che per questo siamo toccati “non solo dalla forza di una tradizione che sapeva come lanciarsi in quella desolazione, ma anche dalla singola voce di una vedova incinta (Eileen aspettava il terzo figlio) che evoca suo marito con le sue scarpe cucite a mano perché stia di nuovo accanto a lei.”23 Osserva Martha Larkin: “Con il suo rifiuto dell’accettazione, O’Connell non completò mai il processo dell’elaborazione del dolore che il caoineadh aveva lo scopo di operare…”. 24 In questo modo il suo

22 Rise up now and come with me, / for the weight of sorrow / across my heart / will not lift / unless you pitch it off. /It is like a chest / with stones in it / and I am very much afraid / that its rusted lock / and fastened latch / will never know a key. Op. cit., p.39. 23 Op. cit., pp. 18-19. 24 Martha Larkin Dr. O’Hara Independent Study Project, The Lament for Art O’Leary and the Expression of Personal Grief in Keening.

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Lamento non resta nei margini di una forma d’arte ritualizzata, ma arriva ad esprimere il suo proprio personale dolore.”

* * *

Vona Groarke ci ricorda che “il Lamento di Eileen è una fonte di ispirazione per la poesia irlandese e molti scrittori l’hanno tradotto tutto o in parte. Diversi autori ne hanno tratto ispirazione per farne drammi. Ne è stato ricavato un film ed è stato anche reso in forma musicale.” Recentemente Doireann Ní Ghríofa ha pubblicato un libro di poesie in cui compare una poesia ispirata alla giumenta di Art O’Leary. Va detto che Vona Groarke ci aveva informato nella sua prefazione che la casa dove vivevano Art e Eileen, Rathleigh House, ha un grande cortile con stalle, sotto il quale la giumenta bruna di Art fu seppellita, dopo essere stata uccisa da Eileen in un accesso di rabbia (sic!). Nella versione di Ní Ghríofa sembra che Eileen abbia fatto uccidere la cavalla presumibilmente per non lasciarla agli uomini dello sceriffo Morris, a cui suo cognato l’aveva consegnata.

La poesia comunque crea una sorta di fratellanza fra Eileen e la giumenta (Il suo collo, come il mio, conosceva la stoppia ruvida della sua guancia) come se il dolore dei due esseri di genere femminile che avevano amato Art fosse stato condiviso e restasse ancora a cementare la loro intima comunione. Nella poesia Eileen guarda la testa priva di vita dell’animale e ne individua con tenerezza i tratti sfigurati dalla morte (Tirai indietro la tela, guardai / nei suoi occhi – infossati, che non vedevano – l’orecchio lacerato, una delicata narice schiacciata.). In fondo è come se guardasse ancora una volta il marito. Sopra quel sepolcro, sopra quei morti riesce persino nel silenzio a ballare, ripensando ogni volta al passato perduto, sentendosi vicina all’adorata cavalla che ha spartito con lei la perdita e il dolore (Ogni colpetto dell’anca, ogni battito del tallone mi riporta indietro/ a quei veloci momenti prima / che lo trovammo, e di nuovo, siamo solo / noi due, e stiamo galoppando / e galoppando e non lo raggiungiamo mai.).

Il cavallo sotto il focolare

Quiete ora, le sue stalle. Non un rumore di zoccolo sui ciottoli.

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Quella mattina la sella insanguinata, di traverso, e lei con le gambe che inciampavano, macchiata di schiuma, le narici infuocate, le redini che si trascinavano.

Quando i suoi occhi trovarono i miei, seppi.

Feci tre salti: il primo sulla soglia, il secondo fino al cancello, il terzo fino ad arrivare in groppa, poi veloce al galoppo su stradine di campagna e rovi calpestati fino al suo sangue versato.

Tutti sanno quello che accadde dopo, creai versi potenti e ne parlai spesso. Ma cosa ne fu di lei?

Il suo collo, come il mio, conosceva la stoppia ruvida della sua guancia.

Non la potevo lasciare con loro. Li mandai via, i suoi uomini.

E così la testa di lei mi ritornò, in un sacco bagnato che spillava nel grembo e mi arrossava le gonne. Tirai indietro la tela, guardai nei suoi occhi – infossati, che non vedevano – l’orecchio lacerato, una delicata narice schiacciata.

La terra sospirò quando la lastra di pietra del focolare fu tolta.

Il fuoco ed io guardammo mentre scavavano. Nessuno parlava.

Feci rotolare la testa nel buco, li guardai metterla al riparo nella terra e nelle pietre.

Ora, quando guardo le fiamme consumare legna, penso al suo lento cambiamento da muscoli e criniera a ossa e terra.

Quando la casa diventa troppo silenziosa, mi metto su quella pietra e ballo. Ogni colpetto dell’anca, ogni battito del tallone mi riporta indietro a quei veloci momenti prima che lo trovammo, e di nuovo, siamo solo

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noi due, e stiamo galoppando e galoppando e non lo raggiungiamo mai.25

Colpiscono le parole di Vona Groarke alla fine della sua bella prefazione alla traduzione del Lamento:

L’urgenza, la passione e l’eleganza di quanto profferito da Eileen ci proiettano contro un’oscurità che non possiamo fare a meno di riconoscere. Siamo commossi, sì, non solo dalla pura e semplice forza di una tradizione che sapeva come lanciarsi in quella desolazione, ma anche dalla singola forza di una vedova incinta che chiama a gran voce suo marito con le sue scarpe cucite a mano perché stia ancora davanti a lei. Chi tra di noi, avendo incontrato la visione che Eileen ha di Art sul suo cavallo e avendo capito il potere sia del suo desiderio che della sua arte può dimenticarlo?26

Eileen dà voce al suo dolore e al nostro dolore, rimpiange le cose perdute e ci fa ricordare il passato perduto di tutti noi. È difficile

25 Doireann Ní Ghríofa, Clasp, Dublin, 2015.

The Horse Under the Hearth

Quiet now, his stables. No clatter-hoof on the cobbles. / That morning: her saddle bloody, askew, and she / all stumble-legged, froth-flecked, nostril-blaze, trailing reins. / When her eyes found mine, I knew. // I took three leaps: the first over the threshold, the second / to the gate, the third to her back, then fast gallop / over boreen and trampled brambles to his spilled blood. // Everyone knows what happened then, I versed it strong / and spoke it often. But what of her? / Her neck, like mine, knew the rough stubble of his cheek. / I couldn’t leave her with them. I sent them out, his men. // And so, her head came back, in a wet sack that leaked in my lap / and reddened my skirts. I pulled the burlap back, looked / into her eyes sunken, unseeing - /her ear torn, a delicate nostril crushed. // The earth sighed when the hearthstone was pried away. / The fire and I watched as they dug. No one spoke./

I rolled her head into the hole, watched them / shelter her in dirt and stone. // Now, when I watch flames consume wood, I think of her / slow change from muscle and mane to bone and dirt. / When the house grows too quiet, I stand on that hearthstone / and dance. Each ankle tap, each heel rap brings me back // to those fast moments before / we found him, and again, it is only / us two, and we are galloping / and galloping and never reaching him. 26 Op. cit., pp. 18-19

246 staccarsi dall’intensità del suo desiderio, dalla sfaccettata vivacità del suo racconto e dei ricordi scolpiti nel suo corpo. Il suo è un lamento funebre che sorpassa il terreno circoscritto dell’elaborazione del lutto per attingere alle vette della poesia tragica. È soprattutto la voce di una donna che ha parlato da uno spazio riservato alle donne, quello del pianto funebre, ma che si è allargata per protestare contro un’ingiustizia compiuta da altri uomini contro di lei in un paese umiliato da una dominazione straniera. La voce di una donna, anche, che si ribella al dolore, alla perdita e alla morte che affliggono tutti gli esseri umani rinsaldando quella corrispondenza d’amorosi sensi che sempre ci legherà con chi non c’è più e ci ha amato.

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AMITO VACCHIANO

Che fine ha fatto papa Marcellino?

In altri miei precedenti lavori, anch’essi pubblicati su questa rivista, ho già espresso il mio vivo interesse – anzi la mia vera e propria curiosità – verso momenti storici poco noti e specialmente verso fatti e personaggi, intorno ai quali la scarsa documentazione e talvolta la quasi totale assenza di notizie hanno creato un alone di mistero, li hanno resi cioè dei veri e propri enigmi storici, per risolvere i quali è necessario che lo storico dismetta i metodi propri della sua disciplina e si trasformi in un vero e proprio detective. In questi casi, infatti, avendo come base solo pochi indizi, incrociandoli con dati di altra origine e, in alcuni casi, facendo ricorso anche ad una buona dose di intuito, si possono ottenere risultati imprevedibili, che certo non potranno essere considerati una verità storica incontrovertibile, ma in qualche caso si avvicineranno molto ad una plausibile ricostruzione dei fatti1. Tale metodo può essere utilmente applicato quando affrontiamo vicende storiche controverse, senza apparente possibilità di soluzione. Una di queste, ad esempio, può essere considerata quella legata alla figura storica di Marcellino, un vescovo di Roma, vissuto in uno dei momenti più drammatici della storia della Chiesa: la persecuzione di Diocleziano. Di lui si sa pochissimo: le circostanze della sua vita, ma soprattutto quelle della sua morte restano per noi misteriose e controverse. L’unico dato antico circa il suo pontificato, per noi abbastanza sicuro è quanto riportato dal cosiddetto Catalogus sub Liberio2:

1 Cfr. soprattutto il mio saggio C. Annius Anullinus, un «impius iudex» tra Massenzio e Costantino, in «Quaderni del Liceo Orazio» 3 (2012/13), pp. 79-100. 2 Il Catalogus sub Liberio o Liberianus è una lista di papi conservata in un celebre manoscritto, redatto e illustrato dal calligrafo Furius Dionysius Filocalus nell’anno 354 e perciò detto dal suo editore, Theodor Mommsen, Chronographus anni 354. Questa lista inizia con Pietro e termina con papa Liberio (morto nell’anno 366), da

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«Marcellinus ann(os) VIII, m(enses) III, d(ies) XXV. Fuit temporibus Diocletiani et Maximiani ex die prid(ie) Kal(endas) Iulias, a cons(ulatu) Diocletiano VI et Constantio II, usque in consul(atum) Diocletiano VIIII et Maximiano VIII. Quo tempore fuit persecutio et cessauit episcopatum ann(os) VII, m(enses) VI, d(ies) XXV»3.

Da questa scarna notizia deduciamo che Marcellino successe a papa Gaio il 30 giugno 296 e governò la Chiesa fino al IX consolato di Diocleziano e l’VIII di Massimiano, vale a dire fino all’anno 304, epoca in cui la persecuzione, iniziata l’anno precedente, registrò un numero di vittime assai alto. La notizia della durata del suo pontificato, tuttavia, di 8 anni, 3 mesi e 25 giorni, porterebbe il termine del suo governo della Chiesa al 25 ottobre 303, e dunque non all’anno 304! Questo costituirebbe un primo problema da risolvere, ma neppure il più difficile: più avanti, infatti, vedremo che si tratta di un’aporia facilmente sanabile. Interessante poi è anche la notizia finale, e cioè che l’episcopato cessò per 7 anni, 6 mesi e 25 giorni: dopo la sua morte, dunque, vi sarebbe stato un lungo periodo di sede vacante che si sarebbe protratto fino al 310. Anche questa notizia crea dei problemi, poiché in questo stesso lasso di tempo il suddetto Catalogus colloca ben altri due papi, Marcello (ca. 308-309) ed Eusebio (309). Il lungo periodo di sede vacante, però, si concilia bene con la violenza e la disumanità della persecuzione di Diocleziano, che provocò l’estrema confusione e il disordine che travagliarono la Chiesa romana in questo periodo. Quella di Diocleziano, infatti, è l’ultima persecuzione decretata dalle autorità statali contro i cristiani nell’Impero romano, ma anche la più qui l’altro nome con cui è conosciuto il catalogo, una delle fonti più importanti per stabilire la lista dei primi papi. 3 Catalogus sub Liberio, in Chronographus anni CCCLIIII, ed. THEODOR MOMMSEN, in MGH, AA, 9, Chronica minora saec. IV-VII, vol. 1, Berlin 1892 (rist. Monaco 1981), pp. 13-14: «Marcellino (governò la Chiesa per) 8 anni, 3 mesi e 25 giorni. Visse nei tempi di Diocleziano e Massimiano dal 30 giugno dal consolato di Diocleziano, console per la sesta volta, e di Costanzo, per la seconda (a. 296), fino al consolato di Diocleziano, per la nona volta, e di Massimiano, per l’ottava (a. 304). Nel tempo in cui vi fu la persecuzione e l’episcopato cessò per 7 anni, 6 mesi e 25 giorni». Sono mie le integrazioni al testo e la traduzione italiana.

250 lunga e la più violenta: ben quattro editti, volti a scardinare in modo radicale, sistematico e definitivo la religione cristiana. Ebbe inizio il 23 febbraio 303 per iniziativa degli Augusti Diocleziano e Massimiano e fu sospesa solo con l’editto di Serdica, promulgato da Galerio Augusto il 30 aprile 311. In Occidente si protrasse per dieci anni, benché la sua intensità non fosse dovunque la stessa: è noto, infatti, che nelle province sottoposte a Costanzo prima, e a suo figlio Costantino poi, la persecuzione venne attuata con metodi alquanto blandi ed era praticamente terminata già prima della promulgazione dell’editto di Galerio4. In Oriente, invece, l’Augustus Massimino tenne nascosto con ostinazione l’editto di Galerio, almeno nei territori sotto la sua giurisdizione, dove la persecuzione non fu sospesa e si prolungò inesorabilmente fino all’estate del 313, con il conseguente alto numero di vittime, a volte anche eccellenti, fra cui possiamo annoverare persino Pietro, il patriarca di Alessandria e primate di tutto l’Egitto. Anche a Roma, durante la persecuzione, le comunità cristiane locali furono private dei loro capi (presbyteri e diaconi) e di fatto scompaginate. Non solo, però, le gerarchie ebbero le loro vittime: vi furono numerose condanne anche fra la gente comune. In quell’epoca, per timore di essere riconosciuti e denunciati come cristiani, era pericoloso non solo riunirsi, ma anche semplicemente farsi vedere in pubblico. Il 1° maggio 305, dopo l’abdicazione dei due Augusti, Diocleziano e Massimiano, ai quali subentrarono i due Caesares, rispettivamente Galerio e Costanzo, il clima di “caccia al cristiano” in qualche misura si attenuò, perché presto a Costanzo, morto ad Eburacum (od. York) il 25 luglio 306, subentrò il figlio Costantino e il 28 ottobre Massenzio, figlio di Massimiano con un abile colpo di mano si impadronì prima di Roma e ben presto dell’Italia e dell’Africa. La pace definitiva nella Chiesa romana tornò solo quando si concluse il conflitto che vide Roma e l’Italia al centro dello scontro tra Costantino e Massenzio, scontro che si concluse solo il 28 ottobre 312 con la famosa battaglia di Ponte Milvio e la schiacciante vittoria di Costantino.

4 Si deve, tuttavia, considerare che in queste regioni (Britannia, Galliae, Hispaniae) il radicamento della fede cristiana era assai minore rispetto ad altre zone dell’Occidente, come, ad esempio, l’Italia e l’Africa.

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Nel frattempo, dopo Marcellino, si ha notizia di ben tre papi, Marcello, Eusebio e Milziade, che si erano avvicendati alla guida della Chiesa romana o di quel che ne rimaneva. Ma di papa Marcellino che ne era stato? Quale era stata la sua fine? Pochi sapevano qualcosa di sicuro. Un dato era chiaro: era certamente morto! Ne siamo informati dalla Depositio Episcoporum5:

«XVIII Kal(endas) Feb(ruarias) Marcellini, in Priscillae».

Si sapeva, cioè, che «il giorno 15 gennaio (vi fu la deposizione del corpo) di Marcellino, nel (cimitero) di Priscilla»: e questo era tutto, probabilmente altri particolari a proposito di lui e della sua fine non erano noti, altrimenti sarebbero stati divulgati presto. Eppure non si trattava di una vittima qualsiasi della persecuzione, di uno dei tanti caduti anonimi di cui era difficile ricordarsi; anzi, in questo periodo anche le persone poco note, uomini comuni, ma che avevano testimoniato con coraggio la fede davanti a giudici e carnefici, diventavano famosi in quanto martyres o, se erano sopravvissuti, confessores, ed erano esaltati come esempi di virtù cristiana, quali eroi della fede6. Quello che, però, ora mancava all’appello era nientedimeno che il vescovo di Roma, il successore dell’apostolo Pietro, già allora considerato capo e guida spirituale per tutti i cristiani dell’Impero. È un fatto molto strano, ma è probabile che già a quell’epoca sulla fine di Marcellino fosse calato un silenzio quasi totale. A lui, infatti, accennano brevemente anche due grandi storici della Chiesa, Eusebio di Cesarea, contemporaneo ai fatti e, più tardi, Teodoreto di Cirro, che forse, in questo punto, dipende dal primo, ma anch’essi non sembrano

5 È un breve elenco di papi dal 255 (Callisto) al 352 (Giulio) con data della morte e luogo della sepoltura, anch’esso contenuto nel cosiddetto Chronographus anni 354 (vedi nota 1). 6 Com’è noto il termine martyr deriva dal greco μάρτυς e vale appunto per ‘testimone’. Il termine confessor, invece, equivalente del greco ὁμολογητής, verrà adoperato specialmente per coloro che, pur avendo testimoniato con coraggio, avevano prodigiosamente evitato la morte. Del martirio di molti santi possediamo documenti, talvolta assai dettagliati, come gli acta martyrum, veri e propri atti processuali con domande e risposte, o le passiones, resoconti più ampi e articolati della ‘testimonianza’ di coloro che avevano dato la vita per Cristo.

252 particolarmente informati e si limitano a generiche considerazioni, su cui ci soffermeremo più avanti, perché anche le loro testimonianze possono fornirci indizi non trascurabili7. In quel momento, però, era di fondamentale importanza sapere “come” era morto Marcellino. Se, cioè, avesse affrontato il martirio con coraggio e quindi se anch’egli fosse annoverabile fra i gloriosi martiri di cui la Chiesa romana vantava già una folta schiera o se le cose erano andate per altro verso. È probabile, però, che già allora nessuno sapesse o fosse in grado di dire qualcosa di certo a proposito della sua morte. La prima conseguenza logica di questa assenza di notizie su Marcellino e sulla sua fine fu che il suo nome fosse omesso non solo nella Depositio martyrum, contenuta anch’essa nel Chronographus anni CCCLIIII, e di conseguenza nel Martyrologium Hieronymianum, che da quello largamente dipende, ma anche nella maggior parte dei cataloghi papali dei secoli V-VII: Marcellino, dunque, non era morto martire come tutti i suoi predecessori, altrimenti si sarebbero conosciute, magari con qualche notizia più dettagliata, le circostanze relative alla sua morte. Col senno di poi, insomma, che non fosse morto martire sembrava, purtroppo inevitabilmente, la conclusione più logica. Ma se era sicuramente morto e non era stato un martire, allora cos’era successo in realtà? Insomma, che fine aveva fatto papa Marcellino? Assai presto, probabilmente, dovettero cominciare a circolare voci sfavorevoli sulla condotta di Marcellino durante la persecuzione. Una conferma di tali sospetti poteva trovarsi nella sua sepoltura, avvenuta in fretta e quasi di nascosto, nel cimitero di Priscilla8. Anzi, proprio il fatto che fosse stato deposto in questa necropoli cristiana faceva nascere

7 Eusebio, Hist. Eccl. VII 32.1; Teodoreto, Hist. Eccl. I 3.1. 8 Si tratta di un «vasto complesso funerario e cultuale sviluppatosi lungo la uia Salaria noua, a circa tre miglia dalla Porta Salaria del circuito murario di Aureliano, dopo i complessi cimiteriali comunitari di S. Felicita (o di Massimo), di S. Saturnino (o di Trasone) e dei Gordiani, e prima dell’attraversamento del fiume Aniene col Ponte Salario. Prende il nome da Priscilla, da identificarsi probabilmente, secondo processi attestati nella formazione della toponomastica dei cimiteri paleocristiani romani, in colei che fondò la necropoli cristiana, ovvero colei che donò alla comunità romana i possedimenti in cui si sviluppò la catacomba e l’annessa necropoli di superfice» (F. BISCONTI, R. GIULIANI, B. MAZZEI, La catacomba di Priscilla. Il complesso, i restauri, il museo, Tau Editrice, Todi 2013, pp. 3-4).

253 nuovi dubbi e controverse interpretazioni. Marcellino, infatti, è il primo papa ad essere inumato in questo sepolcreto della via Salaria. Interrompendo una prassi ben consolidata fino a quell’epoca, non era stato sepolto né nella necropoli vaticana, né nei cimiteri della via Appia. Com’è noto, i primi pontefici da Lino a Vittore († 202) furono sepolti tutti, meno Clemente e secondo alcuni anche Alessandro, presso la tomba dell’apostolo Pietro, nella necropoli vaticana. Con Zeffirino († 217) comincia la serie dei sepolcri papali sulla via Appia, i quali, salvo l’eccezione di Callisto, sepolto sulla via Aurelia, continuano poi nel luogo medesimo, senza interruzione, da Urbano († 230) fino a Gaio († 296). La scelta di questo nuovo e insolito luogo di sepoltura, forse, non è poi così misteriosa come sembra: potrebbe spiegarsi semplicemente con il fatto che il sepolcreto dell’Appia in quel momento fosse impos- sibilitato ad accogliere le spoglie mortali dei pontefici a causa di provvedimenti di sequestro da parte delle autorità romane. Le necropoli erano molto importanti per i cristiani, non solo come luogo di culto di martiri e papi del passato, ma anche come possibili nascondigli per occultare libri ed arredi sacri la cui consegna era stata perentoriamente intimata dal primo editto di Diocleziano. Ma se papa Marcellino non era morto martire, che era avvenuto in realtà? Una delle prime ipotesi, la più ovvia a cui pensare, era che di fronte alla prova suprema il papa avesse ceduto per debolezza umana, e cioè che era stato anche lui uno dei tanti lapsi (‘caduti, scivolati’), cioè uno di quei cristiani che, per salvarsi la vita, avevano vacillato nella fede e avevano sacrificato agli dei o avevano spinto qualcuno a farlo per loro. Nell’autunno del 303, infatti, forse in concomitanza con l’ormai prossimo 20 novembre, giorno in cui a Roma sarebbero iniziati i festeggiamenti per i suoi Vicennalia, Diocleziano, dopo i primi due, aveva promulgato anche un terzo editto che, probabilmente, nelle sue intenzioni voleva essere un’amnistia generale. Ogni sacerdote imprigionato in base ai precedenti editti, infatti, sarebbe stato liberato se avesse accettato di fare un sacrificio agli dei: in pratica venne decretato un dies thurificationis, un giorno, cioè, come già durante la persecuzione di Decio, in cui tutti gli imprigionati sospettati di impietas, vale a dire di mancato rispetto degli atti di culto dovuti agli dei, dovevano presentarsi davanti al magistrato e fare formale atto di adesione al culto pagano.

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Come per il passato, l’obiettivo era non la punizione del delitto, ma quello di farlo cessare, vale a dire non quello di creare martiri, ma degli apostati9, detti comunemente lapsi, thurificati, libellatici, traditores, ecc. Tutti coloro che assolvevano l’obbligo e abiuravano la fede cristiana o altra fede non licita, come ad esempio il manicheismo, in virtù della legislazione traianea, erano ipso facto assolti dal delitto. I fatti, dunque, erano andati veramente così? Davvero papa Marcel- lino aveva sacrificato agli dei? Se quest’ipotesi fosse vera, configurava per lui, per il vescovo di Roma, il ritorno al paganesimo e quindi il peccato più grave per un cristiano: quello di apostasia10. Nel 313 la ratifica dell’accordo fra Costantino e Licinio ebbe come conseguenza l’editto di Milano. Senza entrare nella complessa proble- matica relativa al testo di questo editto, è chiaro che esso nasceva dalla volontà dei due Augusti di perseguire una nuova politica religiosa, comune alle due parti dell’impero. La definitiva sconfitta di Massimino mise fine alla persecuzione, la pace tornò dovunque: nello stesso tempo, però, molti nodi vennero al pettine. In più luoghi si tentò di ricostruire le comunità cristiane devastate dalla persecuzione, ma la situazione era assai complessa. Era avvenuto nella Chiesa qualcosa di simile a ciò che accade quando su un territorio si abbatte un ciclone o un terremoto, la prima cosa da fare è rimuovere le macerie, poi ricostruire. Cosa fare, dunque, dei numerosi lapsi11 che la persecuzione aveva creato e lasciato

9 L’apostata (dal gr. ἀποστάτης) era colui che si macchiava del peccato di apostasia, dal gr. tardo ἀποστασία, der. di ἀπόστασις (cfr. ἀφίστημι ‘io mi allontano’), che indicava il ripudio pubblico e solenne della propria religione. 10 Ancora oggi, nel diritto canonico cattolico, apostasia è definita come l’abbandono totale (diverso quindi dall’eresia, che è abbandono parziale) della fede da parte di un battezzato, manifestato esteriormente in modi non equivoci e con la volontà e coscienza di abbandonarla (il passaggio ad altra fede è solo una circostanza aggravante). 11 Con il termine lapsi ‘caduti’ cui furono designati i cristiani apostati nelle persecuzioni di Decio e Valeriano. Poiché in quelle occasioni fu richiesto un atto positivo di culto pagano, attestato da un apposito certificato (libellus), si distinsero varie categorie: i sacrificati, che avevano compiuto un vero e proprio sacrificio, i thurificati, che avevano soltanto bruciato qualche granello d’incenso innanzi alle immagini, i libellatici (o acta facientes), che avevano esibito alle autorità il certificato ottenuto da funzionari compiacenti o addirittura corrotti con denaro. Più tardi, nella persecuzione dioclezianea, si ebbero, specie in Africa, i traditores, che

255 in vita come dei relitti? Andavano riammessi alla comunione con gli altri cristiani sopravvissuti o dovevano essere esclusi per sempre? Come era già avvenuto in passato, specialmente dopo la persecuzione di Decio (249-250), anche in questo frangente non solo nell’Africa romana e in Italia in particolare, ma anche in Egitto, nacquero nuovi forti contrasti intorno al problema della riammissione dei lapsi alla comunione ecclesiale. Nonostante si trattasse di una vecchia questione, dal punto di vista dottrinale ormai risolta da tempo, tuttavia le ferite che la persecuzione aveva lasciato aperte non guarivano facilmente. Era un problema articolato che implicava anche la dottrina dell’efficacia dei sacramenti, mostrando così che in fondo si trattava anche una questione di natura squisitamente dogmatica. Di solito la lotta divampava fra due partiti: uno, che possiamo definire degli “indulgenti”, e l’altro, dei “rigoristi”. Al secondo appartenevano cristiani intransigenti che, ritenendo il peccato dei lapsi gravissimo e non remissibile, si spingevano addirittura a sostenere la necessità di un nuovo battesimo. La Chiesa romana dal punto di vista dottrinale aveva risolto la questione e già da tempo ammetteva un solo battesimo12. Nella prassi, poi, i lapsi che lo desideravano erano nuovamente ammessi alla comunione ecclesiale solo dopo congrua penitenza. Ogni nuova persecuzione, però, lasciava inevitabilmente un lungo strascico di polemiche, attriti, incomprensioni e dissensi. Anche questa volta, perciò, si ridestarono dissapori vecchi e nuovi, in Africa come nella stessa Roma. Nell’Africa proconsolare, specie in Numidia, dove la persecuzione era stata straordinariamente violenta, la tensione deflagrò in lotta aperta e la Chiesa africana di divise con gravissime conseguenze. Qui, infatti, era accaduto un fatto nuovo: di fronte alla colpevole debolezza di alcuni, molti cristiani, per eccesso di zelo, si erano offerti spontaneamente alla morte, si erano cioè autodenunciati alle autorità inquirenti. Mensurio, vescovo di Cartagine e primate dell’Africa, disapprovò questo fanatismo avevano consegnato alle autorità i libri della Sacra Scrittura. Una volta cessata la persecuzione, la riammissione dei lapsi nella Chiesa diede origine a gravi controversie. 12 Il dogma sarà sancito definitivamente dal Concilio di Nicea (325): Ὁμολογῶ ἓν βάπτισμα εἰς ἄφεσιν ἁμαρτιῶν / Confiteor unum baptisma in remissionem peccatorum.

256 e personalmente mantenne un contegno di maggiore prudenza: secondo lui, in certi casi si poteva legittimamente anche ricorrere alla fuga e alla latitanza; ma ciò non riscosse il gradimento del movimento rigorista, forte e radicato soprattutto in Numidia, alla cui testa si erano posti i vescovi Secondo di Tigisi e Donato di Casae Nigrae13: costoro accusarono pubblicamente il loro primate di pusillanimità e tradimento. Specialmente Donato riteneva non validi i sacramenti amministrati dai traditores, cioè da coloro che avevano compiuto una traditio (ossia una consegna dei testi sacri ai pagani), in quanto con tale azione avevano “tradito” per sempre la loro fede. Tale posizione presupponeva, dunque, che i sacramenti non avessero efficacia di per sé, ma che la loro validità dipendesse dalla dignità di chi li amministrava. Morto Mensurio nel 311, il clero e popolo cartaginese elessero concordemente come suo successore l’arcidiacono Ceciliano, che fu consacrato da Felice, vescovo di Abtungi. Anche costoro per i rigoristi erano dei traditores, ma, secondo Ottato di Milevi14, contro di loro erano

13 Donato fu capo del movimento scismatico africano che da lui prese il nome (donatismo) e autore di varî scritti perduti, fra cui un’Epistola, confutata da sant’Agostino (Contra epistolam Donati haeretici, 394) e un trattato De spiritu sancto di tendenza arianeggiante. 14 Vescovo di Milevi in Numidia vissuto nella seconda metà del IV secolo d.C. e considerato santo dalla Chiesa cattolica. Fu il primo fiero avversario del donatismo. Fornito di una solida preparazione culturale che spaziava dall’esegesi biblica alla teologia, senza disdegnare discipline propriamente profane come la retorica e la giurisprudenza, rispose all’Aduersus ecclesiam traditorum del già famoso Parme- niano con l’Aduersus donatistas. Verosimilmente tra il 364 e il 367, subito dopo aver assunto la carica episcopale (361-363), egli sentì l’esigenza di confutare il vescovo scismatico di Cartagine, per arginare il crescente prestigio che la Chiesa dissidente stava traendo dalla politica filo-pagana di Giuliano, e molto probabilmente quando il vicario d’Africa Flaviano, convinto restauratore del paganesimo, veniva nominato praefectus praetorio Italiae Illyrici et Africae (383), e molti approfittavano della situazione per screditare ulteriormente i successori di Ceciliano, decise di rivedere e approfondire quello che aveva già scritto. Il suo Aduersus donatistas, che ci è giunto con un’Appendix di dieci documenti ecclesiastici e civili relativi agli anni immediatamente successivi allo scisma, analizza i prodromi dello scisma (libro I), mette a fuoco gli elementi costitutivi della vera Chiesa (libro II) e cerca di ricostruire le dinamiche che nel 347 provocarono l’intervento armato dell’impero contro la Chiesa donatista (libro III). Inoltre alla luce del fatto che solo Dio può effettivamente giudicare le coscienze degli uomini, dedica ampio spazio alla

257 schierati anche i candidati all’episcopato da loro sconfitti, Botro e Celestio, inoltre da coloro che dovevano restituire i tesori della chiesa loro affidati da Mensurio, e infine da una potente vedova, Lucilla, già nemica di Ceciliano e accesa sostenitrice del neonato movimento scismatico. Nel 312 Donato con il concorso di 70 vescovi fece dichiarare invalida l’elezione di Ceciliano ed eleggere un protetto di Lucilla, Maiorino, che egli stesso consacrò vescovo di Cartagine. Ceciliano naturalmente non si sottomise alle decisioni di quello che per lui era solo un “conciliabolo”: ebbe così inizio uno scisma15 aspro, lungo e, talvolta, persino violento all’interno della Chiesa, quello cioè che è passato alla storia come “scisma donatista”16. Questo scisma fu del tutto inaspettato e indesiderato per Costantino, da poco divenuto unico imperatore a Roma, in quanto ne intralciava l’azione politico-religiosa. Per l’Impero da lui governato Costantino auspicava una sola Chiesa, unita e «cattolica»17. Era per questa Chiesa che aveva confermato i provvedimenti dei suoi predecessori (Galerio e Massenzio) e li aveva perfezionati con norme dettagliate in merito alla restituzione alle singole Chiese dei beni confiscati durante la

definizione di chi sia il peccatore (libro IV), ma si occupa anche dettagliatamente del battesimo (libro V), degli atti sacrileghi commessi dai donatisti (libro VI), per concludere con un appello all’unità e di conseguenza al perdono dei cosiddetti traditores, vale a dire di quegli ecclesiastici che durante la persecuzione di Diocleziano avevano consegnato i libri sacri alle autorità imperiali (libro VII). 15 Il termine, dal lat. schisma, a sua volta dal gr. σχίσμα, indica la separazione di una parte dei fedeli da una Chiesa o da una confessione religiosa. Questa frattura non è dovuta sempre a dissensi dottrinali, ma spesso anche semplicemente a motivi disciplinari o giurisdizionali. 16 In realtà, secondo alcuni, agli scismatici era stato dato il nome di donatisti (pars Donati) verosimilmente più dal nome del successore di Maiorino, l’attivo Donato il Grande, che dal vescovo di Casae Nigrae: se pure si tratta veramente di due persone distinte. 17 Con l’espressione «Chiesa cattolica» a quel tempo non si indicava certo un’entità religiosa come l’attuale Chiesa romana, ma come nei testi dei Padri si intendeva l’universalità della Chiesa, sancita e caratterizzata dalla comunione dei vescovi e delle singole chiese fra loro. Da questa vanno distinti e separati gli “eretici”, i quali, colpiti dalla condanna (anathema) pronunciata da concili legittimamente convocati venivano esclusi dalla comunione e separati dall’appartenenza alla «cattolicità».

258 persecuzione. Ora, proprio su questo punto in Africa si accese la disputa più aspra fra i cristiani: a chi dovevano essere restituiti questi beni se la Chiesa non era più «cattolica», ma divisa al proprio interno? Nel 313, pertanto, i donatisti avevano denunciato Ceciliano presso Anullino, allora proconsole d’Africa. Questi, però, aveva emesso sentenza favorevole a Ceciliano. Maiorino e i suoi, allora, ricorsero in appello innanzi all’imperatore, investendo così della questione Costantino in persona, che intervenne per ristabilire la concordia religiosa e immediatamente riferì della questione al papa Milziade, non a caso originario dell’Africa, manifestando la sua intenzione di convocare «un concilio di vescovi per l’unità e la concordia delle chiese»18. Ordinò, quindi, a Ceciliano di presentarsi di fronte a lui con dieci vescovi della sua fazione e dieci dell’altra. Inoltre, inviò al papa i memoriali contro Ceciliano per sapere quale procedura impiegare al fine di concludere l’intera vicenda secondo giustizia. Papa Milziade convocò 15 vescovi italiani per farsi aiutare e Costantino ne aggiunse altri tre gallici, Reticio di Autun, Materno di Colonia e Marino di Arles. Il concilio di vescovi gallici e italici riunitosi tra il 2 e il 4 ottobre 313 a Roma «in domo Faustae in Laterano»19, riconobbe come valida l’elezione di Ceciliano e propose una soluzione di compromesso per i doppi vescovi di quella provincia. Alla notizia che il sinodo romano aveva assolto Ceciliano, nuovi disordini scoppiarono in Africa. I vescovi scismatici non accettarono le decisioni del concilio e inoltrarono un nuovo ricorso a Costantino. Ciò che soprattutto non gradirono fu l’intromissione, a loro avviso indebita, di un vescovo di Roma, nelle vicende africane. Ma cosa può aver scatenato tanta indignazione? Non era certo la prima volta che la Chiesa romana interveniva per dirimere le controversie in Africa: già in passato era avvenuto e per gli stessi motivi. I vescovi rigoristi africani, evidentemente, ritenevano che papa Milziade non avesse nessun diritto a giudicare la Chiesa africana. Negavano che Chiesa di Roma potesse

18 Eusebio, Hist. Eccl., X 18. 19 Si trattava probabilmente della residenza urbana dell’imperatrice Fausta, seconda moglie di Costantino, una villa non lontana dalla residenza lateranense (proba- bilmente appannaggio imperiale), in seguito donata da Costantino ai cattolici e destinata a diventare il Palazzo Lateranense, cioè la futura residenza dei papi per tutto il medioevo.

259 vantare qualche primato morale e la ritenevano indegna a giudicare chicchessia. Ma cosa poteva aver provocato tanta presunzione e tanto livore? Solo la sentenza a loro sfavorevole? A mio avviso, non è sufficiente come spiegazione, specialmente se consideriamo che si trattava di un tribunale d’appello, che giudicava uice sacra, vale a dire in luogo dell’imperatore Costantino, il quale lo aveva costituito ad hoc per dirimere pacificamente la controversia. Certo, in questo caso, un Costantino inspiegabilmente conciliante accettò il ricorso: ma come potevano prevedere i rigoristi africani che ciò sarebbe avvenuto? E se invece fosse accaduto il contrario? Se, cioè, la loro protervia avesse irritato il sovrano e lo avesse spinto ad agire con mano pesante per reprimere i disordini e le agitazioni in Africa? Non potendolo sapere, dunque, cosa li spinse a tanta audacia? A mio avviso, una spiegazione di tale comportamento può essere ricercata in ciò che avvenne a Roma, dopo la fine della persecuzione, durante i sei anni del dominio di Massenzio (306-312) e sotto Marcello ed Eusebio, i papi che avevano ricoperto la carica dopo Marcellino. Benché per questo periodo le notizie siano estremamente scarse e frammentarie, sembra tuttavia che anche a Roma siano scoppiati scontri violenti che videro protagonisti un partito “rigorista” e uno “indulgente” proprio sulla questione della riammissione dei lapsi. La disputa vide, ovviamente, coinvolti in prima persona i due papi, che dopo Marcellino avevano retto la cattedra di san Pietro. Questo almeno è quanto apprendiamo da due epigrammi composti da papa Damaso (366-384) e a loro dedicati. Il primo, che qui riportiamo integralmente, è destinato a papa Marcello (308-309), successore di Marcellino, «Marcelli ut populus meritum cognoscere possit»:

Veridicus rector lapsos quia crimina flere praedixit, miseris fuit omnibus hostis amarus. Hinc furor, hinc odium sequitur, discordia, lites, seditio, caedes soluuntur foedera pacis. Crimen ob alterius, Christum qui in pace negauit, finibus expulsus patriae est feritate tyranni. Haec breuiter Damasus uoluit comperta referre,

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Marcelli ut populus meritum cognoscere possit20.

Da Damaso dunque apprendiamo che, a causa di un non ben chiaro provvedimento di Marcello a proposito dei lapsi, nacquero a Roma furor, odium, discordia, lites, seditio, caedes: tutti termini che fanno pensare a scontri furibondi fra i cristiani, disordini e uccisioni che resero necessario l’intervento di un tyrannus (identificabile con Massenzio), che condannò all’esilio proprio il papa, facendone un “capro espiatorio”. La brevità e vaghezza delle informazioni reperite (comperta) da papa Damaso, ci portano a pensare che siano state raccolte dalla viva voce di tradizioni orali ancora circolanti alla sua epoca. Di tenore assai simile è l’epigramma di papa Damaso, dedicato a papa Eusebio, successore di Marcello:

DAMASVS EPISCOPVS FECIT

Heraclius uetuit labsos peccata dolere, Eusebius miseris docuit sua crimina flere: scinditur in partes populus gliscente furore, seditio, caedes, bellum, discordia, lites. Extemplo pariter pulsi feritate tyranni, integra cum rector seruaret foedera pacis, pertulit exilium domino sub iudice laetus, litore Trinacrio mundum uitamq(ue) reliquit21.

20 Ep. n. 48, in Damasi epigrammata, ed. M. IHM, Teubner, Lipsia 1895, pp. 51-52 «Poiché come veridico rettore (= vescovo) stabilì che i lapsi piangessero i loro peccati, egli per tutti quei miserabili fu un amaro nemico. Di qui deriva la furia (furor), di qui l’odio, la discordia, le liti, la sedizione, gli omicidi: sono sciolti i patti di pace. A causa del crimine di un altro, che in tempo di pace rinnegò Cristo, dalla ferocia del tiranno fu espulso dal territorio della patria. Questi fatti da lui appurati Damaso volle riferire brevemente, sicché il popolo poté conoscere il merito di Marcello». 21 Ep. n. 11, in Damasi epigrammata, cit., pp. 25-26: «Eraclio proibì ai lapsi di dolersi dei propri peccati, Eusebio insegnò ai miserabili a piangere per i propri delitti: il popolo si divide in (due) partiti, mentre poco alla volta cresceva la furia (furor), (scoppiano) la sedizione, le uccisioni, la guerra, la discordia, le liti. All’istante dalla ferocia del tiranno sono esulsi parimenti, mentre il rettore (= il vescovo) conservava integri i patti di pace, sopportò l’esilio lieto sotto il signore iudice, nel litorale della Trinacria (= Sicilia) lasciò il mondo e la vita»

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EVSEBIO EPISCOPO ET MARTYRI

Damasi papae cultor atque amator Furius Dionysius Filocalus scribsit.

Da questi versi, che erano stati incisi con grande arte e perizia su una lapide del cimitero di Callisto e sottoscritti dal calligrafo Furius Dionysius Filocalus22, apprendiamo che un certo Eraclio (un antipapa?), si era opposto alla penitenza imposta ai lapsi da papa Eusebio e da questo dissidio scoppiarono nuovi scontri violenti fra i due partiti, che verosimilmente erano gli stessi che si erano già fronteggiati sotto Marcello. La conseguenza fu un nuovo intervento del tyrannus che, come già in precedenza, risolse la questione decretando l’esilio per il capo supremo della Chiesa romana: questa volta sappiamo anche che il papa fu esiliato in Sicilia dove finì i suoi giorni. Grazie ai componimenti di papa Damaso, dunque, possiamo desumere che i primi passi della Chiesa romana dopo la grande persecuzione non furono certo facili. Benché ci sfuggano i particolari, la situazione appare complessa e tormentata. Massenzio è ancora visto come un persecutore, e probabilmente tale fu dal 306, anno della sua salita al trono, almeno fino al 311, quando verosimilmente recepì l’editto di tolleranza di Galerio. Ma con la fine delle persecuzioni non finiscono per lui i problemi con i cristiani: ben presto dovette intervenire proprio per sedare i tumulti che scoppiarono fra i cristiani. Il motivo della contesa sembra essere principalmente quello della riammissione dei lapsi alla comunione ecclesiale, ma non possiamo escludere che ve

22 Furius Dionysius Filocalus, vissuto nel IV secolo d.C., fu un rinomato calligrafo, di cui si servirono persino i papi (Liberio e Damaso). Fu autore nel 354 del Catalogus Liberianus (cfr. n. 2), un calendario romano ricco di annotazioni giunto fino ai nostri giorni. Filocalo era probabilmente cristiano, ma nel calendario, che redasse per un Valentino non altrimenti noto, annotò molte feste romane. È ritenuto autore di un tipo di scrittura in capitali quadrate ornate ed eleganti (litterae filocalianae), che impiegò per le epigrafi marmoree dettate da papa Damaso (366- 384), che onoravano le tombe dei martiri romani. Fu anche autore delle epigrafi scritte su grandi lastre di marmo e apposte sulle tombe dei martiri, monumentalizzate da papa Damaso I. Di queste epigrafi se ne sono conservate una trentina più o meno integre mentre una cinquantina furono trascritte su codici medievali giunti fino a noi.

262 ne fossero anche altri, come, ad esempio, il problema della restituzione dei beni sequestrati e inoltre i dissapori suscitati dalle attribuzioni territoriali alle nuove chiese titolari, fondate, secondo il Liber Pontificalis, proprio da Marcello. La ricostruzione delle gerarchie ecclesiastiche che erano stata sconvolte e decimate durante la persecuzione, venne avviata proprio da papa Marcello, se dobbiamo prestare fede a quanto riferisce il Liber Pontificalis: «Hic fecit cymiterium Nouellae, uia Salaria, et XXV titulos in urbe Roma constituit, quasi diocesis, propter baptismum et paenitentiam multorum, qui conuertebantur ex paganis, et propter sepulturas martyrum. Hic ordinauit XXV presbiteros in urbe Roma et II diaconos per mens(em) Decemb(ri); episcopos per diuersa loca XXI». Si noti l’alto numero di ordinazioni di presbiteri (25), ma anche quello relativamente maggiore di vescovi: ben 21 in circa tre anni! Non diversa, anzi forse peggiorata, appare la situazione sotto il successore di Marcello, Eusebio. Stando almeno a quanto desumiamo dal citato epigramma di papa Damaso, che parla senza mezzi termini di seditio, caedes, bellum, discordia, lites, presto a Roma si riaccesero lotte furibonde, che richiesero un nuovo pesante intervento di Massenzio. Delle nuove tensioni sembra non ci sia traccia nella biografia di papa Eusebio tramandata dal Liber Pontificalis, se escludiamo la strana notizia secondo cui Eusebio «hereticos inuenit in urbe Roma, quos ad manum impositionis reconciliauit», che potrebbe anche essere una lontana eco di quei disordini. Nella sua genericità, infatti, la notizia non chiarisce né di quali eretici si trattasse, né il motivo di una così rapida riconciliazione, né come abbia trovato il tempo di farlo nel suo breve episcopato, travagliato per giunta dalle lotte interne e presto interrotto dal decreto d’esilio. La situazione a Roma si normalizza sotto papa Milziade (311-314). Di origine africana, fu eletto – forse non a caso – il 2 luglio 311, vale a dire dopo la promulgazione dell’editto di tolleranza di Galerio del 30 aprile 311, come riporta il Catalogus sub Liberio:

«Miltiades ann(os) III, m(enses) VI, d(ies) VIII, ex die VI Nonas Iulias, a consulatu Maximiano VIII solo, quod fuit mense Septembre Volusiano et Rufino, usque in III Idus Ianuarias Volusiano et Anniano coss(ulibus)».

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Durante il suo breve ma intenso pontificato, che vide la vittoria di Costantino su Massenzio e la fine delle persecuzioni, non si hanno più notizie di disordini a Roma, grazie evidentemente a una linea di Milziade verso i lapsi evidentemente più morbida rispetto a quella dei suoi predecessori. L’eco, però, di quanto era avvenuto negli gli anni precedenti a Roma era sicuramente giunto anche in Africa, così come anche la notizia che Milziade, originario dell’Africa, avesse assunto una posizione assai più conciliante verso lapsi e traditores. Come poteva una Chiesa come quella romana, così compromessa nei riguardi dei “miserabili” (miseri), essere chiamata a giudicare la Chiesa africana? Questa certamente fu la domanda che si fecero i “rigoristi” africani, quando cominciarono a mettere sotto la lente d’ingrandimento la Chiesa romana, proprio quella che ora Costantino voleva che giudicasse quella africana. Hanno davvero le carte in regola questi giudici? Sono davvero al di sopra di ogni sospetto? Probabilmente molti vescovi africani cominciarono a chiedersi che fine avesse fatto il papa che occupava il trono di Pietro al momento della deflagrazione della grande persecuzione, cioè Marcellino. Quale era stato il suo comportamento davanti alla “prova suprema”? Aveva dato la sua “bella testimonianza” o aveva vacillato, come anche, a quanto sembra, molti altri cristiani di Roma? Proprio su questo punto, invece, la Chiesa romana mostrava il suo fianco scoperto: davvero non sapeva la verità su papa Marcellino? O non è piuttosto che non la diceva? Proprio per parare i colpi dei donatisti su questo “punto dolente” della Chiesa romana, si cercò di ricostruire, di scavare, di trovare la verità? Ma, come abbiamo visto, nonostante gli sforzi, si arrivava sempre in un vicolo cieco. Dopo tanti anni, probabilmente non c’era più nessuno che sapeva qualcosa di certo sulla fine di papa Marcellino o, quantomeno, se lo sapeva, non era in grado di provarlo in maniera indiscutibile. Come purtroppo talvolta accade quando chi indaga “brancola nel buio”, la tentazione di “fabbricare” ad arte delle prove false è assai forte. E a questa tentazione probabilmente non seppero resistere gli autori di una Passio Marcellini, oggi perduta, che doveva contenere molto materiale leggendario, perché basata anch’essa su vaghe tradizioni orali. L’intento del suo anonimo autore fu quello di colmare le lacune sulle

264 conoscenze relative alla fine di Marcellino per riscattare la sua memoria da accuse infamanti. A questa Passio Marcellini dovette attingere più tardi, nel VI secolo, il redattore del Liber Pontificalis: anche lui aveva a disposizione solo le scarne notizie tramandate dal Catalogus sub Liberio e dalla Depositio episcoporumi, ma si trovava anche nella necessità di difendere Marcellino dalle voci sfavorevoli che da tempo circolavano sulla sua condotta durante la persecuzione. Nello sforzo apologetico, quello cioè volto a difendere il defunto papa dalle accuse più infamanti, e nel tentativo, probabilmente in buona fede, di evitare ulteriori maldicenze, egli rielaborò quanto era già in suo possesso, arricchendolo di suo con un racconto piuttosto elaborato e fantasioso. Ecco il testo del Liber Pontificalis:

«XXX. Marcellinus, natione Romanus, ex patre Proiecto, sedit ann(os) VIIII, m(enses) IIII, d(ies) XVI. Fuit autem temporibus Diocletiani et Maximiani, ex die Kal(endas) Iul(ias), a consulatu Diocletiani VI et Constantio II, usque Diocletiano VIIII et Maximiano VIII, quo tempore fuit persecutio magna, ut intra XXX dies XVII milia hominum promiscui sexus per diuersas prouincias martyrio coronarentur Christiani. De qua re et ipse Marcellinus ad sacrificium ductus est ut turificaret: quod et fecit. Et post paucos dies, paenitentiam ductus, ab eodem Diocletiano pro fide Christi cum Claudio et Cyrino et Antonino capite sunt truncati et martyrio coronantur. Et iacuerunt corpora sancta in platea ad exemplum Christianorum dies XXV ex iussu Diocletiani. Et exinde Marcellus presbiter collegit noctu corpora cum presbyteris et diaconibus cum hymnis et sepeliuit in uia Salaria, in cymiterio Priscillae, in cubiculum [in alcuni codici: in cubiculo claro], qui patet usque in hodiernum diem, quod ipse praeceperat paenitens dum traheretur ad occisionem, in crypta, iuxta corpus sancti Criscentionis, VII Kal(endas) Mai(as). Hic fecit ordinationes II per mens(em) Decemb(rem) presbiteros IIII, diaconos II, episcopos per diuersa loca V. Et cessauit episcopatus ann(os) VII, m(enses) VI, d(ies) XXV persequente Dioclitiano Christianos»23.

23 L. DUCHESNE, Le Liber Pontificalis, Paris 1886, tom. I, p. 16: «30°. Marcellino, romano di nascita, figlio di Proietto, sedette 9 anni, 4 mesi, 16 giorni. Visse all’epoca di Diocleziano e Massimiano, dal giorno 1° luglio del consolato VI di Diocleziano e II di Costanzo [296], fino al consolato IX di Diocleziano e VIII di Massimiano, nel tempo in cui vi fu la grande persecuzione, allorché in trenta giorni 17.000 uomini, cristiani di entrambi i sessi nelle diverse province furono incoronati

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Come si può cogliere, anche ad una prima lettura, risulta chiaro l’intento apologetico del redattore del Liber e del suo sforzo di riabilitare la memoria di Marcellino. Ma da quale fonte attingeva le notizie? Si intuisce facilmente che si tratta, come dicevamo, di una rielaborazione di tradizioni più antiche, incentrata sulla scarna notizia della Depositio episcoporum e integrata da notizie evidentemente leggendarie, la cui origine è di difficile valutazione. Se non era tutta “farina del suo sacco”, cioè se non aveva lavorato ampiamente di fantasia, è probabile che egli avesse attinto a una Passio Marcellini o a qualche testo simile, piuttosto che a tradizioni orali, a quell’epoca ormai assai improbabili. Analizziamo ora più attentamente il testo. Innanzitutto, rispetto al Catalogus, troviamo l’aggiunta del nome del padre, Proiectus, su cui a mio avviso, sarebbe necessario indagare di più. Che origine può avere un simile nome? Da dove può essere stato desunto? È stato forse aggiunto con intenti denigratori, magari per sottolineare gli infimi natali di Marcellino? Si dilunga poi a parlare dell’apostasia di Marcellino durante la persecuzione mediante l’offerta dell’incenso, senza però specificare se avesse anche sacrificato o consegnato le Scritture. Infine aggiunge che si pentì del suo gesto, per cui dovette subire il martirio con altri cristiani (Claudio, Cirino e Antonino). Alcune redazioni del Liber Pontificalis24 aggiungono che il presbitero Marcello lo esortava a non eseguire i comandi di Diocleziano. Il suo corpo e quelli di altri cristiani con il martirio. Perciò anche lo stesso Marcellino fu condotto sul luogo del sacrificio perché offrisse incenso agli dei: cosa che fece. Dopo pochi giorni, però, pentitosi, per ordine dello stesso Diocleziano per la fede in Cristo lui, Claudio, Cirino e Antonino furono decapitati e incoronati con il martirio. I santi corpi poi per ordine di Diocleziano giacquero per 25 giorni nella pubblica via (platea) come monito per i cristiani. Quindi il presbitero Marcello di notte raccolse i corpi con l’aiuto dei presbiteri e dei diaconi col canto di inni e li seppellì nel cimitero di Priscilla, lungo la via Salaria, in un cubicolo [in alcuni codici: in un cubicolo illuminato], visibile fino ai nostri giorni, cosa che aveva raccomandato egli stesso da penitente mentre era condotto a morte, in un sotterraneo, presso il corpo di san Crescenzione, il 25 aprile. Costui fece due ordinazioni nel mese di dicembre di 4 presbiteri, 2 diaconi, 5 vescovi in diversi luoghi. E l’episcopato cessò per 7 anni, 6 mesi e 25 giorni, mentre Diocleziano perseguitava i cristiani». 24 I, p. CCIX.

266 uccisi con lui per ordine di Diocleziano erano stati lasciati insepolti per ventisei giorni (o venticinque secondo alcuni codici), e poi, di notte, furono sepolti dal presbitero Marcello nel cimitero di Priscilla, il 26 aprile, in un luogo scelto in precedenza dallo stesso Marcellino25. Si può osservare, poi, che la durata del pontificato di Marcellino è stata ritoccata. Probabilmente, avendo notato l’incongruenza del Catalogus, che dandoci una durata di 8 anni, 3 mesi e 25 giorni, ci porta al 25 ottobre 303, mentre la morte è posta esplicitamente nell’anno 304, l’autore del Liber tenta di sanare quella che per lui era una evidente contraddizione, fornendo un computo un po’ diverso: 9 anni, 4 mesi, 16 giorni, che posticipa la fine del pontificato di Marcellino al 16 novembre 304. È facile notare che, così facendo, crea un’altra e più grave incoerenza con quanto egli stesso riferisce più avanti. Afferma, infatti, che la sepoltura di Marcellino avvenne il 25 aprile (del 304), dopo una esposizione del corpo di 25 giorni: la sua morte quindi viene fissata al 31 marzo. Ciò che l’autore della biografia di Marcellino nel Liber Pontificalis, invece, lascia inalterato è il luogo della sepoltura, il coemeterium Priscillae, che anzi conferma, precisando che era nel cimitero sotterraneo presso il martire Crescenzione: «in crypta, iuxta corpus sancti Criscentionis». Notevole è quest’ultima annotazione: all’epoca della redazione del Liber il sepolcro di Marcellino era ancora visibile e, se è corretta la lezione di alcuni manoscritti, si trovava in un «cubiculum clarum», e cioè in un «cubiculo bene illuminato da un lucernario»26. Un dato questo che, unitamente ad altre testimonianze più tarde, ha permesso di individuare con precisione il luogo di sepoltura di Marcellino. L’autore del Liber, dunque, conosceva la tomba e la sua localizzazione precisa, anche perché Crescenzione, morto durante la persecuzione di Diocleziano, era molto venerato e la sua tomba molto frequentata: la sua cripta era conosciuta anche dagli itinerari del VII

25 ibid., pp. 72, 162. 26 O. MARUCCHI, Il sepolcro del papa Marcellino, in «N. Bull. arch. crist.» XIII (1907), p. 122.

267 secolo e ad essa si scendeva dalla basilica superiore di San Silvestro mediante una scala27. Il De locis sanctis martyrum quae sunt foris ciuitatis Romae, un iti- nerario dei luoghi di culto di Roma e dintorni risalente probabilmente all’epoca di Onorio I (625-638), in maniera succinta così descrive il cimitero di Priscilla:

«Iuxta eandem uiam Salariam sanctus Siluester requiescit [ad pedes eius sanctus Syricius papa] et alii quamplurimi, id est sanctus Caelestinus [papa], sancta Potentiana, sancta Praxidis, sanctus Marcellus [episcopus], sanctus Crescentianus, sanctus Maurus, sanctus Marcellinus, sancta Prisca [sancta Fimitis], sanctus Paulus, sanctus Felicis, unus de .vii., sanctus Philippus, unus de vii., sanctus Semetrius, et in una sepultura [sub altare maiore]. CCCLXV.»28.

Troviano qui, dunque, l’interessante conferma dell’esistenza del sepolcro di Marcellino, fregiato del titolo di santo, nello stesso luogo, il cimitero di Priscilla, già assai antico, destinato a diventare di lì a poco uno dei loca sancta più celebri di Roma. Dopo Marcellino, infatti, il cimitero accolse i corpi di altri pontefici: innanzitutto quello del suo diretto successore Marcello (308-309), poi quello del grande papa Silvestro (314-335), a cui in superficie sarà dedicata una basilica, quindi Liberio (352-366), Siricio (384-399), Celestino (422-432) e infine Vigilio (537-555). Il sepolcro di papa Marcellino è stato individuato presso l’ipogeo degli Acilii, nella cosiddetta regione di Crescenzione, all’interno di un cubicolo posto accanto a quello che ha ospitato la tomba del martire. Proprio la notizia della sepoltura nel cimitero di Priscilla di papa Marcello, il successore di Marcellino, ha posto qualche problema, perché il Martyrologium Hieronymianum ed altre fonti antiche, tra cui lo

27 R. VALENTINI e G. ZUCCHETTI, Codice topografico della città di Roma, vol. II, Roma 1942, p. 77. 28 Ibid. pp. 116-117: E cioè: «Presso la medesima via Salaria, riposa san Silvestro [ai suoi piedi san Siricio papa] e moltissimi altri, cioè san Celestino [papa], santa Potenziana, santa Prassede, san Marcello [vescovo], san Crescenziano, san Mauro, san Marcellino, santa Prisca [santa Fimite], san Paolo, san Felice, uno dei sette, san Filippo, uno dei sette, san Semetrio, e in un’unica sepoltura [sotto l’altare maggiore] 365 (scil. santi)».

268 stesso Liber Pontificalis, assegnano al 16 gennaio la depositio di papa Marcello nel cimitero di Priscilla, e non di Marcellino, per cui si è pensato che il passo della Depositio contenga un errore di data e di nome, e che si debba riferire in realtà a papa Marcello. Ciò ha fatto sì che in passato qualche studioso abbia ipotizzato una confusione tra Marcellino e il suo successore Marcello e che qualcun altro si sia spinto addirittura a dubitare che sia mai realmente esistito un papa di nome Marcellino. E. B. Schaefer, ad esempio, analizza le fonti di questa confusione e conclude che sia la Depositio episcoporum, sia il Martyrologium Hieronymianum indicano papa Marcello e non Marcellino29. Per queste ragioni numerosi studiosi del calibro di Louis Duchesne, Johann Peter Kirsch e Hippolyte Delehaye, pensano che nella Depositio episcoporum si sia introdotto un errore di data e di nome nella trascrizione, e quindi bisogna leggere al 16 gennaio, e non al 15, la deposizione di Marcello e non di Marcellino, in quanto indica la stessa persona e la medesima commemorazione nel medesimo luogo. Sono dunque fondate tali opinioni? Si deve davvero mettere in dubbio la reale esistenza di un papa di nome Marcellino? Come è stato possibile che di questo papa non si sia più saputo nulla dopo il suo arresto, tanto che per colmare il vuoto di notizie si è dovuto ricorrere a ricostruzioni fantasiose e si è giunti a confonderlo con il suo successore, tanto da metterne in dubbio la stessa esistenza? Andiamo per ordine e vediamo innanzitutto la questione della sua reale esistenza. Questa, per fortuna, oggi è ormai una questione superata: un papa di nome Marcellino, infatti, è attestato, oltre che dai testi letterari e dal luogo del suo sepolcro nel cimitero di Priscilla, anche da un’epigrafe su una transenna marmorea, proveniente dal cimitero di Callisto sulla via Appia, in cui si attesta che il diacono Severo dovette chiedere l’autorizzazione a papa Marcellino per poter realizzare un cubicolo familiare: «iussu p[a]p[ae] sui Marcellini»30. Questa iscrizione è particolarmente significativa anche perché costituisce la prima attestazione epigrafica del termine “papa” attribuito al vescovo di Roma.

29 E. B. SCHAEFER, Die Bedeutung der Epigramme des Papstes Damasus I. für die Geschichte der Heiligenverehrung, Roma 1932, pp. 164-70. 30 Inscriptiones Christianae urbis Romae, nr. 10183.

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Certo non dubitarono della sua esistenza i donatisti africani quando, nella loro violenta polemica contro il primate d’Africa Ceciliano, senza tanti complimenti si scagliarono contro la prassi penitenziale della Chiesa romana, che era meno rigida di loro nella possibilità di riammettere i lapsi alla comunione, e accusarono apertamente il defunto papa Marcellino di essere un lapsus e un traditor. Misero persino in circolazione leggende costruite ad arte e volte a screditarlo, come quelle di Petiliano, vescovo di Costantina, verso il 400 e del Chronicon donatista del 427. Questa aggressione senza precedenti, che usava anche la calunnia per screditare l’avversario, spinse i cattolici di Roma a rispondere in tutti i modi possibili per difendere la memoria e riabilitare Marcellino, che per la verità, in mancanza di qualsiasi notizia certa, poteva essere difeso solo creando storie al limite del romanzesco. Vedi, ad esempio, gli Atti dello pseudo-concilio di Sinuessa e, probabilmente anche quella Passio Marcellini, ora perduta, il cui contenuto, come abbiamo visto, verso il 530 passò nel Liber Pontificalis. Abbiamo, tuttavia, diversi motivi per respingere come inattendibili sia l’erronea idea dei moderni si negare addirittura l’esistenza di papa Marcellino, sia le ancora più insidiose e malevole voci relative al suo “cedimento” di fronte alla persecuzione e quindi addirittura di apostasia, come volevano i “rigoristi” africani. È possibile dire come erano andati realmente i fatti? Oggi forse siamo in grado di fornire una ricostruzione, se non certa, almeno plausibile, di quanto avvenne allora. Partiamo da un dato piuttosto sicuro: quello di Eusebio di Cesarea, il grande storico della Chiesa antica, che nella sua celebre Historia Ecclesiastica fa un breve riferimento a Marcellino, parole importanti da cui non possiamo prescindere: «Καθ’ οὓς Φήλικα τῆς Ῥωμαίων προστάντα ἐκκλησίας ἔτεσιν πέντε Εὐτυχιανὸς διαδέχεται· οὐδ’ ὅλοις δὲ μησὶν οὗτος δέκα διαγενόμενος, Γαΐωι τῶι καθ’ ἡμᾶς καταλείπει τὸν κλῆρον· καὶ τούτου δὲ ἀμφὶ τὰ πεντεκαίδεκα ἔτη προστάντος, Μαρκελλῖνος κατέστη διάδοχος, ὃν καὶ αὐτὸν ὁ διωγμὸς κατείληφεν»31.

31 Eus. Hist. Eccl. VII 32, 1: «A Felice, che presiedette la Chiesa di Roma per cinque anni, succedette in quel tempo Eutichiano, che non sopravvisse per neppure dieci interi mesi, lasciando la carica a Gaio, nostro contemporaneo. E dopo che

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Eusebio, che sembra assai bene informato sul pontificato di Felice, Eutichiano e Gaio, papi del passato, stranamente non sa dire molto a proposito del suo contemporaneo Marcellino. Dice solo che fu successore di Gaio e, come molti altri cristiani di quell’epoca, «fu colpito anch’egli nella persecuzione» o, più letteralmente, «la persecuzione prese anche lui» o anche «fu portato via dalla persecuzione». È difficile sapere cosa intendesse veramente dire Eusebio. Il verbo greco καταλαμβάνω, infatti, ha molte sfumature di significato: pertanto potrebbe aver voluto dire che Marcellino sia morto durante la persecuzione o a causa di questa, ma non in seguito a una condanna e, quindi, non di morte violenta. Altra possibilità potrebbe essere che Eusebio volesse intendere che Marcellino fosse stato esiliato. In realtà, a mio avviso, neppure Eusebio sapeva esattamente che fine avesse fatto Marcellino, ma la sua testimonianza comunque non è superflua. Innanzitutto è importante che Eusebio non confonda Marcellino con il suo successore Marcello, ma mantenga ben individuata la sua figura. Attesta, inoltre, la sua cattura durante la persecuzione, ma non accenna a un suo cedimento di fronte alla “prova”: se la notizia, infatti, fosse stata di dominio pubblico, sia nella versione negativa divulgata dai donatisti, sia in quella tarda, “edulcorata”, cioè prima negativa, poi positiva con riscatto finale, messa in circolazione dai cattolici, Eusebio certo non se la sarebbe fatta sfuggire e non avrebbe avuto nessun motivo non per riferirla nella sua opera, in una versione o nell’altra, quella che lui avesse considerato autentica. Cerchiamo ora di riassumere come potrebbero essersi svolti i fatti: questo ci permetterà di chiarire alcuni aspetti non secondari. Nell’anno 303, quando fu scatenata la grande persecuzione, il 30 giugno, per Marcellino si compivano otto anni di episcopato. Il 25 ottobre, stando al Catalogus sub Liberio, cessò dall’episcopato. Cosa avvenne quel giorno? Certo non quello in cui fu condannato a morte, altrimenti sarebbe stato inserito subito, senza problemi, nella lista dei martiri. Venne probabilmente arrestato e imprigionato in attesa di giudizio, come del resto accadde a moltissimi chierici che andarono ad quest’ultimo la resse per circa quindici anni, fu designato suo successore Marcellino, colpito anch’egli nella persecuzione».

271 intasare le poche carceri allora esistenti. Com’è noto, nell’antichità non esistevano pene detentive e le prigioni servivano solo per i detenuti in attesa di giudizio o dell’esecuzione della sentenza. Ma come si spiega il ritardo nell’arresto? Il primo editto fu promulgato il 23 febbraio, mentre il secondo, che prevedeva l’arresto e la detenzione di tutti i vescovi e i sacerdoti, è stato fissato al mese di marzo circa. Marcellino, invece, fu arrestato solo il 25 ottobre. La spiegazione di tale ritardo, forse, si può trovare nella lentezza e meticolosità con cui fu pianificata la persecuzione, che se nelle intenzioni non doveva essere un vero e proprio genocidio, comunque la sua finalità era quella di sradicare interamente e in maniera definitiva la fede cristiana dall’Impero. Il primo editto (23 febbraio), probabilmente aveva solo lo scopo di preparare il terreno per i successivi: prevedeva la raccolta e distruzione delle Sacre Scritture e dei libri liturgici, il sequestro dei luoghi di culto in tutto l’impero e si proibiva ai cristiani di radunarsi per il culto. I cristiani erano privati anche del diritto di appello, cosa che li rendeva potenziali oggetti della tortura giudiziaria; i cristiani non potevano rispondere alle cause intentate contro di loro in tribunale. Infine i senatori cristiani, gli equites, i decurioni, i veterani, e i soldati, se riconosciuti cristiani, sarebbero stati privati del loro rango, e i liberti imperiali sarebbero stati nuovamente ridotti in schiavitù. Il secondo editto fu promulgato in marzo e prevedeva l’arresto e la detenzione di tutti i vescovi e i sacerdoti, si poneva cioè l’obiettivo di decapitare le comunità cristiane, rendendole più deboli. Un nuovo editto, il terzo, venne promulgato dopo d’estate, in data non meglio precisabile. Le intenzioni originarie dei sui estensori, come abbiamo visto, erano forse buone. In previsione infatti dell’ormai prossimo 20 novembre, giorno in cui sarebbero iniziati i festeggiamenti per i suoi Vicennalia, Diocleziano proclama un’amnistia generale. Ogni sacerdote imprigionato sarebbe stato liberato se avesse accettato di fare un sacrificio agli dei: in pratica viene decretato un dies thurificationis. Diocleziano probabilmente con questo editto stava cercando di farsi un po’ di buona pubblicità e di sgravare le carceri di prigionieri. Non si può escludere, però, anche la sua volontà di frantumare l’unità delle comunità cristiane, rendendo noti i nomi dei chierici che avevano apostatato.

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Il quarto ed ultimo editto di Diocleziano venne promulgato successivamente: la data precisa è sconosciuta, ma probabilmente fu emesso nel gennaio o nel febbraio del 304. Sappiamo, infatti, che nei Balcani venne applicato a marzo, a Tessalonica nel mese di aprile 304, in Palestina poco dopo. Questo ultimo editto in Occidente non fu applicato fino in fondo in Occidente nei domini di Costanzo, ma non in quelli sotto il diretto controllo di Massimiano (Italia e Africa). È probabile che papa Marcellino sia stato arrestato, benché in ritardo, in base al secondo editto. Ma quanto avrà potuto resistere papa Marcellino in prigione dopo il suo arresto? Se consideriamo che al momento del suo fermo Marcellino doveva certo essere già avanti negli anni (50-60 anni), se aggiungiamo i maltrattamenti di coloro che lo avevano arrestato, quelli subiti in prigione dai carcerieri e in cella dai detenuti comuni, la tortura, a cui quasi certamente fu sottoposto, nel vano tentativo di fargli rivelare il luogo in cui aveva occultato i beni della Chiesa, fra cui i più preziosi erano le Sacre Scritture e i libri liturgici, e infine le tristi condizioni igieniche dei luoghi di detenzione, possiamo concludere che non avrà potuto resistere a lungo, anche se avesse goduto di ottima salute. La data della sua sepoltura, come abbiamo visto, è fissata al 15 gennaio dalla Depositio episcoporum. Ma di quale anno? L’anno della sua morte, come abbiamo visto, è fissato al 304 dal Catalogus sub Liberio. Il 15 gennaio, dunque, è una data non troppo distante da quella della sua morte, che può verosimilmente essere collocata alla fine di dicembre 303 o ai primi di gennaio 304. Se l’anno della sua morte è il 304, a mio avviso il più probabile, lo spazio di tempo che papa Marcellino trascorse in carcere fu assai breve e quindi assai probabile non sia mai arrivato davanti al giudice. È assai verosimile, dunque, che Marcellino, probabilmente già avanti negli anni, arrestato e in attesa di giudizio, sia morto prima del processo, di morte naturale a causa degli stenti, o forse anche per le violenze patite durante la prigionia. Questo spiegherebbe molte cose. Innanzitutto non essendo stato condannato, ma morto prima del processo, non vennero mai redatti gli Acta, ossia la trascrizione del processo verbale e dell’interrogatorio a cui l’illustre personaggio sarebbe stato certo sottoposto se avesse subito un processo pubblico. A Roma gli atti giudiziari erano pubblici e chiunque

273 ne avesse fatto richiesta poteva consultarli. Del resto, se fossero realmente esistiti, non si comprende perché mai, durante la violenta controversia, nessuno né degli accusatori, né di suoi difensori, abbia avuto l’idea di andare a consultarli e renderli noti. Se fossero davvero esistiti, una parte avrebbe potuto giocarli contro l’altra. Troverebbe poi spiegazione anche il lungo periodo di sede vacante che il Catalogus pone dopo la sua morte. Inoltre, se davvero papa Marcellino è morto prima di essere arrivato davanti al giudice, e se pertanto non arrivò mai ad essere condannato a morte, né all’esilio, cade del tutto l’accusa, tremenda per un papa, di aver offerto incenso agli dei pagani. E la ragione? Come si direbbe oggi, semplicemente perché “il fatto non sussiste”.

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Sezione didattica

(collaborazioni degli studenti)

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ELEONORA GUERRA – LUCA ARGIRO’ (III H)

Il tribunale di Ἰσότης

Introduzione Questo lavoro è la sintesi di un approfondimento presentato dagli alunni Eleonora Guerra e Luca Argirò in occasione di una giornata di studi tragici, organizzata dal Liceo De Sanctis di Roma sotto il patrocinio dell’INDA. Gli studenti, partendo dagli stimoli prodotti dal dibattito che in classe ha accompagnato lo studio delle Fenicie euripidee, si sono concentrati sulla portata comunicativa di alcuni elementi lessicali ritenuti cardine del I episodio. La polivalenza seman- tica di questi termini chiave rimanda al percorso dialettico per il quale Euripide costruisce un dramma convergente sulla molteplicità dei valori come della comunicazione; diverse sono le realtà che si propongono al pubblico e che coesistono nella loro pluralitàLe divergenze di pensiero e di posizione sono incardinate su un linguaggio allusivo-metaforico che richiama direttamente la politica della democrazia ateniese. Le Fenicie si inseriscono nell’ambito di un ampio dibattito in atto nella società ateniese in un momento di grande complessità della vita politica, anni che seguono il breve governo dei Quattrocento. La lingua dei personaggi rappresentati sulla scena è segnata dal lessico politico del tempo, familiare al pubblico presente a teatro e agevolato nella sua portata dal mito che lo contiene e definisce, grazie al quale consolidare quel ponte comunicativo che si voleva e doveva instaurare tra autore e spettatori. Il teatro era luogo di riflessione critica e definizione dei valori della democrazia, in termini di consenso e di contestazione. Segnare la profondità comunicativa della terminologia utilizzata nello svolgimento drammatico, consente di seguire e comprendere l’entità dei dibattiti che attraversavano la città.

Massimo Calderoni

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ELEONORA GUERRA – LUCA ARGIRO’ (III H)

Il tribunale di Ἰσότης

La terminologia politica del primo episodio

Guerra, consapevolezza, universalità: poche parole chiave che tentano di racchiudere il contenuto di una tragedia di Euripide, Le Fenicie, dalla portata sorprendentemente incontenibile, capace di comunicare valori in maniera efficace dopo oltre duemila quattrocento anni. Con un volo pindarico di immagine, si potrebbe collegare tale tragedia alla vicenda di Perseo, rappresentata emblematicamente nel suo culmine nella statua bronzea del Perseo con la testa di Medusa di B. Cellini: come descritto da Ovidio nelle Metamorfosi, una volta deca- pitata Medusa, Perseo non rifiuta quella realtà mostruosa, ma egli la assume come proprio fardello, la mostra di fronte ai suoi nemici, la porta con sé dimostrando anche delicatezza d’animo (dovendola poggiare sulla ruvida sabbia, stende prima uno strato morbido di foglie e ramoscelli). Allo stesso modo i personaggi di questa tragedia non rifiutano né eliminano la loro sofferta realtà, pervasa da ostilità, incomprensioni e philotimia, ma ne portano con sé il peso, le conseguenze e l’entità mostrandole apertamente agli altri: Giocasta manifesta il suo dolore come madre di fronte all’impossibilità di riconciliare i due figli; Eteocle esprime con forza la sua volontà di mantenere il potere per sé; Polinice dimostra in maniera sofferta il suo amore per la patria e la sua richiesta

278 di giustizia. Lo stesso Euripide fa riferimento alla Medusa e a Perseo ai versi 455-456 in maniera suggestiva ed emblematica, quando Giocasta esorta Eteocle e Polinice a guardarsi negli occhi e a riconciliarsi:  οὐ γὰρ τὸ λαιμότμητον εἰσορᾷς κάρα Γοργόνος, ἀδελφὸν δ᾽ εἰσορᾷς ἥκοντα σόν. Non stai guardando infatti alla testa recisa nel collo della Gorgone, ma guardi a tuo fratello che giunge.

Tuttavia in questo panorama, per comprendere a pieno la profondità del dramma, si può prendere in considerazione la terminologia politica adoperata da Euripide nel I episodio. Tale episodio, infatti, ruota attorno all'incontro dei due fratelli alla presenza della madre Giocasta. Fin da subito emerge l'insanabile contrasto che vede contrapposti il sistema di pensiero, le idee e la personalità di Polinice, eroe tragico trafitto dal dolore, e quelli di Eteocle. Entrambi pronunciano lo stesso numero di versi (27, escluso il verso 480 considerato spurio) nei quali riecheggiano le stesse parole chiave che assumono però valenze differenti. Primo a parlare è Polinice il cui discorso si apre con un appello alla giustizia:  ἁπλοῦς ὁ μῦθος τῆς ἀληθείας ἔφυ, κοὐ ποικίλων δεῖ τἄνδιχ᾽ ἑρμηνευμάτων: ἔχει γὰρ αὐτὰ καιρόν Semplice è il discorso che si basa sulla verità, la giustizia non ha bisogno di spiegazioni complesse: la giustizia ha la giusta misura

Egli rivendica il proprio diritto alla patria e a governare lo stesso tempo del fratello affermando di essere disposto a tutto pur di ottenere quanto gli spetta.Dikē, patrise ison: parole chiave su cui si incentra il discorso di Polinice che si contrappongono nettamente a quelle pronunciate da Eteocle. Se il primo infatti afferma   ὡς πάντα πράσσων σὺν δίκῃ, δίκης ἄτερ ἀποστεροῦμαι πατρίδος ἀνοσιώτατα Pur facendo tutto con giustizia senza giustizia sono privato della patria nel modo più empio possibile

279 il secondo, Eteocle, appellandosi all'adikia, all'ingiustizia, considerando questa essere più vantaggiosa della giustizia, ritiene che non esista alcun tipo di uguaglianza tra gli uomini:  νῦν δ᾽ οὔθ᾽ ὅμοιον οὐδὲν οὔτ᾽ ἴσον βροτοῖς Ma infatti non vi è nulla di simile e di uguale per i mortali

Egli, la cui arrogante irruenza si contrappone al tono lirico di Polinice, rappresentando gli oligarchici e quella parte della città che vuole conservare il potere, nega i valori democratici, difende e legittima il proprio potere, deifica la tirannide e sostiene la legge del più forte:  εἴπερ γὰρ ἀδικεῖν χρή, τυραννίδος πέρι κάλλιστον ἀδικεῖν, τἄλλα δ᾽ εὐσεβεῖν χρεών Se infatti bisogna agire ingiustamente, la cosa migliore è commettere ingiustizia nel nome della tirannide, per il resto si rispettino gli dei

I discorsi di Eteocle e Polinice quindi si configurano quasi come un agone giudiziario e presentano una struttura retorica: Giocasta, il cui intervento ha una lunghezza leggermente superiore alla somma dei versi dei due fratelli, acquisisce il ruolo di mediatrice e si rivolge ad entrambi. Giocasta, infatti, riprende termini politici già usati dai due fratelli (dikē e adikia, patris e tyrannis, ison) inserendoli però in un contesto nuovo: la madre cita Isotēs (Uguaglianza), in cui si assommano, in netto anacronismo rispetto al contesto storico-politico dell’Atene del dopo il 411 a.C., i valori democratici di isonomia (uguaglianza di fronte alla legge), isēgoria (uguaglianza di parola) e isotimia (pari diritti di accesso alle cariche), in contrapposizione alla philotimia di Eteocle, definita dal filologo tedesco Max Pohlenz come “la radice da cui germoglia ogni discordia, ogni deviazione dei concetti etici”. Come si evince dalle parole di Giocasta, Isotēs viene personificata e quasi deificata:  καὶ γὰρ μέτρ᾽ ἀνθρώποισι καὶ μέρη σταθμῶν Ἰσότης ἔταξε κἀριθμὸν διώρισε E infatti Uguaglianza stabilì per gli uomini misure e parti dei pesi e definì il numero

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Inoltre, appellandosi alla struttura stessa della natura, evidenziando come il giorno e la notte abbiano la stessa durata, Giocasta mostra in maniera chiara che l’ison sta alla base del mondo naturale come anche del mondo umano:

νυκτός τ᾽ ἀφεγγὲς βλέφαρον ἡλίου τε φῶς ἴσον βαδίζει τὸν ἐνιαύσιον κύκλον L’oscura palpebra della notte e la luce del Sole percorrono ugualmente il ciclo annuale

Il discorso della madre ai due figli si conclude con un’esortazione, con un invito forte e dalla valenza universale:  μέθετον τὸ λίαν, μέθετον: ἀμαθία δυοῖν, ἐς ταὔθ᾽ ὅταν μόλητον, ἔχθιστον κακόν Abbandonate l’eccesso, abbandonatelo: la stoltezza di due, quando mirano allo stesso scopo, è il male più odioso

L’intera vicenda del I episodio si configura, dunque, come un tribunale nel quale Eteocle e Polinice sono posti di fronte a Isotēs: entrambi i fratelli, davanti alla personificazione stessa dell’Uguaglianza, sono, sebbene ciascuno dei due con motivi e ragioni diverse, allo stesso tempo ugualmente e diversamente colpevoli. L’uno per essersi voluto tenere il potere soltanto per sé, onorando Tyrannis, l’altro per essere entrato in maniera dissennata nella città, in armi, pur reclamando giustamente la sua parte di regno nella sua patris. Riflettendo sul ruolo rivestito da tali personaggi e sulla struttura del primo episodio della tragedia, si può fare un parallelismo tra Le Fenicie di Euripide e un'opera di un artista novecentesco, Escher, intitolata “Relatività”. Come nella litografia le tre scale rappresentano tre prospettive, o punti di vista, della medesima realtà, così i tre protagonisti del primo episodio hanno ciascuno una propria visione, che contrasta con le altre due. Se da un lato Polinice reclama Giustizia, ma per farlo commette ingiustizia entrando a Tebe in armi con un esercito nemico, dall'altro Eteocle si appella all'ingiustizia e alla Tirannide. Infine Giocasta, rimproverando l'uno e l'altro figlio si appella ad Isotēs, all'Uguaglianza che è quanto da sempre governa il mondo.

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...κεῖνο κάλλιον, τέκνον, Ἰσότητα τιμᾶν, ἣ φίλους ἀεὶ φίλοις πόλεις τε πόλεσι συμμάχους τε συμμάχοις συνδεῖ... Molto meglio, o figlio, onorare Uguaglianza, che sempre unisce gli amici agli amici, le città alle città e gli alleati agli alleati

Eleonora Guerra – Luca Argirò III H - Liceo Classico Orazio

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SIMONA COLINI

Il Liceo Orazio alle Romanae Disputationes

Nell’anno scolastico 2016-2017 il Liceo Orazio ha partecipato per la prima volta alle Romanae Disputationes, Concorso nazionale di Filosofia per studenti di scuola secondaria superiore organizzato dall’associazione ToKalOn-Didattica per l’eccellenza in collaborazione con docenti di varie Università. Il tema scelto per questa edizione è stato “Logos e techne. Tecnologia e filosofia”. Studenti del triennio provenienti da tutta Italia sono stati accompagnati in un percorso di studio e confronto impegnativo e coinvolgente, articolato nelle seguenti tappe: a) Partecipazione in diretta streaming alle lezioni introduttive del Prof. Carlo Sini, del Prof. Carmine di Martino (Università degli Studi di Milano) e del Prof. Enrico Berti (Università degli Studi di Padova) b) Libero accesso agli ulteriori materiali di approfondimento disponibili al link http://romanaedisputationes.com/video-lezioni-ed-2017/ c) Redazione di un elaborato scritto o multimediale in gruppi di lavoro sotto la guida di un docente-tutor d) Approfondimento della teoria e pratica dell’argomentazione attraverso il recupero della tradizione classica e medievale degli age contra proposto dal Prof. Adelino Cattani (Università degli Studi di Padova) e) Partecipazione al Convegno conclusivo (Roma, Pontificia Università San Tommaso d’Aquino, 17-18 marzo 2017).

Il Liceo Orazio ha partecipato con due team (Senior e Iunior), ciascuno dei quali ha elaborato – in modo cooperativo e appassionato! – un saggio argomentativo: - SENIOR: La tecnologia: rimedio alla fatica dell’uomo o invito

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a pensare di più o altrimenti? (Antonella Di Piero, 3B; Caterina Carradori, 3D; Edna Esposito, 3D; Alessandra Piscitelli, 3D; docente tutor Prof.ssa Simona Colini) - IUNIOR: Logos e techne: alla ricerca dell’umanità (Valeria Flores, 2D; Alessandra Del Muto, 1C; Flavia Baldazzi, 1B; Eleonora Caniglia, 1B; Marta Manili, 1B; Beatrice Wielich, 1B; docente tutor Prof. Stefano De Stefano)

Il saggio delle studentesse del team Senior ha ottenuto il primo premio, per la propria categoria, con questo giudizio: «L’elaborato sviluppa la propria tesi attraverso passaggi chiari, pertinenti e ricchi di significativi riferimenti culturali; cura di definire i termini messi in campo e di portare a termine i ragionamenti in un procedere argomentativo aperto e concludente; mette in luce un serio lavoro di studio, di riflessione critica e di scrittura». Nel mese di giugno 2017, inoltre, è stato pubblicato e questi sono i riferimenti: Caterina Carradori, Antonella Di Piero, Edna Esposito, Alessandra Piscitelli, La tecnologia: rimedio alla fatica dell’uomo o invito a pensare di più o altrimenti? in Logos e Techne. Tecnologia e filosofia. Romanae Disputationes 2016-17, a cura di Gian Paolo Terravecchia e Marco Ferrari, «I Quaderni della Ricerca», n. 36, Loescher, pp. 109-120 http://www.laricerca.loescher.it/index.php/quaderni/i-quaderni-della- ricerca/i-quaderni-della-ricerca-36.html

Di seguito pubblichiamo l’elaborato delle studentesse del team iunior.

Lògos e téchne: alla ricerca dell’umanità.

Presentazione

Nel pensiero greco il termine lògos indica la “parola” come si articola nel discorso, quindi anche il "pensiero" che si esprime attraverso la parola. Una precisa affermazione del lògos come "ragione" si ha in Eraclito: principio di razionalità universale, legge di armonia e insieme principio dinamico del divenire (anche principio materiale, "fuoco"). In Platone ricopre i significati

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di "discorso" come espresso nelle parole e come "procedere del pensiero"1; in Aristotele è "discorso", con i concetti che esprime, e "facoltà di pensare, ragione". Dall’altra parte vi è la tecnica (dal greco τέχνη, téchne), "arte" nel senso di "perizia", "saper fare", "saper operare"), che è l'insieme delle norme applicate e seguite in una attività. Tali norme possono essere acquisite empiricamente in quanto formulate e trasmesse dalla tradizione, ad esempio nel lavoro artigianale, o applicando conoscenze scientifiche. In effetti la tecnica e la scienza presso gli antichi si fondavano in un unico principio: il sapere. Ma se nella scienza vi era un lavoro di tipo intellettuale, nella tecnica era presente quello manuale. Un’ipotesi interpretativa afferma che gli antichi avrebbero sottovalutato la tecnica perché il mondo della cultura non sentiva il bisogno di svilupparla come sostegno avendo già gli schiavi che si occupavano del lavoro. Studi recenti, soprattutto sostenuti dall’italiano Rodolfo Mondolfo, evidenziano un’esaltazione della tecnica nel mondo greco collegandola con l’intelletto, il pensiero e la cultura (lògos). Mondolfo cita Esiodo che ne “Le opere e i giorni” (Erga kai hemérai) prende spunto dal litigio che lo oppone al fratello Perse che pretendeva una parte non spettante della loro eredità, per affermare il valore del lavoro e la virtù dell’operosità contro l’ingiustizia (hýbris). Il poeta stabilisce così uno stretto legame tra lavoro e giustizia: i rapporti tra gli uomini sono danneggiati dalla hýbris e dall’arbitrio individuale che infrangono l’ordine divino. Alla prepotenza si oppone però il valore del lavoro, protetto da Dike, la "giustizia" con la quale Zeus ristabilisce l’armonia universale.

Il mito di Prometeo

Se frutto di techne può considerarsi anche il passaggio dal caos al cosmo, rappresentato nella Teogonia di Esiodo, è nel mito di Prometeo che la techne investe direttamente l’agire dell’uomo e diventa foriera di sviluppo e progresso. Col mito di Prometeo inoltre si esprime l’esigenza umana di superare il livello puramente istintuale dell’esistenza attraverso la coscienza e la tecnica, anzi, secondo un’antica leggenda, fu proprio Prometeo a creare l’uomo. Nel Prometeo Incatenato, una tragedia di Eschilo, il Titano si

1 Platone, Repubblica, libri VI-VII

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abbandona ad un lungo monologo e dice, tra l’altro «Tutte diè Prometeo l’arti ai mortali»2. Prometeo rappresenta l'impulso dell’uomo ad elevarsi dalle sue origini animali, anche se questo può degenerare nell’ambizione di diventare uguale a Dio: egli è costantemente in conflitto con Zeus, che, geloso del suo potere, vuole impedire all’uomo di cogliere i frutti dell’albero della conoscenza. Fondamentale è infatti il ruolo di Prometeo, che riesce a correggere la disattenzione di Epimeteo, il quale aveva dato tutti i doni e le abilità agli animali, lasciando gli uomini privi di difesa. È necessario sapere, però, che la tecnica e il fuoco non bastano all’uomo, che senza l’arte politica non è in grado di vivere civilmente. È per questo che Zeus incarica Ermes di distribuire questa sapienza, ma, a differenza delle arti, è indispensabile che questo tipo di tecnica venga distribuita a tutti poiché, come ci dice Zeus le città non potrebbero esistere se solo pochi possedessero pudore e giustizia, come avviene per le altre arti3. La tecnica è valorizzata anche nell'Apologia di Socrate: qui Socrate individua negli artigiani, confrontandoli con gli uomini politici e i poeti, gli unici che possedessero una coscienza di quel che facevano, in quanto il loro mestiere si basa su una specifica competenza tecnica, al contrario degli altri che agiscono non secondo la ragione, ma secondo una voce di cui non 4 hanno consapevolezza .

La relazione fra lògos e téchne

Il problema del rapporto tra lògos e téchne viene affrontato da Aristotele nel primo libro della Metafisica, mettendo inizialmente a confronto il comportamento di animali dotati di sensibilità e quegli altri animali (gli uomini) che alla sensibilità uniscono la capacità di imparare attraverso la memoria. Nel linguaggio aristotelico si tratta di confrontare gli empirici e i tecnici5. Con empirico s'intende tutto ciò che è in relazione col mondo sensibile e Aristotele non nega questa capacità agli altri esseri viventi, poiché anche questi sono dotati di percezione, ma ciò che li distingue profondamente dagli esseri umani è l'incapacità di ricordare e dunque di

2 Secondo episodio della tragedia citata. 3 Platone, Protagora, 322d 4 Platone, Apologia di Socrate, 22d - e 5 Metafisica,980a, 980b

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apprendere. È importante la memoria poiché appunto dalla capacità di far propria l'esperienza nasce la tecnica umana, che costituisce da singole esperienze un criterio universale6. In ciò il sapere tecnico si distingue da quello empirico, in quanto quest'ultimo costituisce la conoscenza dell'uno per uno, e sarà efficace di volta in volta alla risoluzione di problemi che riguardano singoli individui: ad esempio il medico non può prescindere dal sapere empirico nel curare un singolo malato. Il sapere empirico in sé viene tuttavia considerato inferiore rispetto a quello tecnico poiché coloro che lo utilizzano non ne conoscono affatto la causa, anzi agiscono ma senza sapere quel che fanno, proprio come certi esseri inanimati7. Il paragone qui posto è importante: l'uomo che agisce per abitudine, senza conoscere la causa, è confrontabile ad una macchina. Se poi dall’ambito produttivo passiamo a quello dell’agire, della praxis, possiamo osservare che le considerazioni sul rapporto logos - techne evidenziano altri aspetti. La praxis è un’azione che ha il proprio fine in se stessa ed è guidata da un’idea che non serve a una produzione di oggetti, come nel caso della poiesis, ma alla realizzazione di un’azione strettamente legata alla propria disposizione interiore. L’elemento fondamentale nella praxis è il linguaggio e di conseguenza anche l’arte della retorica, che usata opportunamente, può ribaltare i pregiudizi o proprio le convinzioni delle persone, portandole a cambiare la loro opinione e riuscendo a padroneg- giare il logos. Un esempio fondato proprio sulla forza della parola è l’Encomio di Elena, un testo del filosofo sofista Gorgia da Lentini, che ha come obiettivo quello di scagionare Elena, moglie del re spartano Menelao, dalla colpa di aver causato la sanguinosa guerra di Troia, dopo aver abbandonato il marito per seguire l’uomo di cui si era innamorata, Paride. Gorgia riesce a trovare numerosi motivi da esporre a favore di Elena: che era stata rapita con la forza, era stata persuasa dalle parole di Paride e quindi dall’amore verso di lui, oppure che tutto quello che aveva fatto era segnato nel destino deciso e voluto dalla sorte. Il sofista esalta l’arte del linguaggio sottolineando che la parola è un gran dominatore, che con piccolissimo corpo e invisibilissimo, divinissime cose sa compiere. Linguaggio e techne sono, nel caso di Gorgia, un’unità indivisibile nella

6 Id., 981a 7 Id.,981b, 1-2

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quale il saper fare si intreccia con l’ordine del discorso e guadagna l’obiettivo. Ma non è sempre così. Si può parlare di una forma di dualismo, fra lògos e téchne, anche nell’antichità. Secondo lo storico della scienza P. M. Schuhl le idee di tecnica e di scienza che si affermarono nel mondo greco e poi romano, sono state influenzate dal fatto che proprio i lavori più faticosi e ripetitivi erano delegati agli schiavi. In altre parole, data l’inferiorità sociale degli schiavi, le attività da essi svolte vennero considerate poco significative per lo sviluppo della tecnica e della conoscenza stessa, anche perché finalizzate in maniera utilitaristica e non puramente conoscitiva8, e infatti Aristotele si riferisce ai lavoratori manuali come a esseri inanimati e, nella Politica, afferma che la schiavitù implica l’idea che vi sono lavori così sgradevoli o noiosi che nessun uomo degno di questo nome, o per lo meno nessun uomo "libero" accetterebbe di farli. Dall'utilizzo della manodopera schiavile, che allora era molto abbon- dante, nasce quel blocco mentale9 descritto da Pierre-Maxime Schuhl che determinò lo scetticismo, se non perfino il disprezzo, del lavoro manuale da parte degli antichi.

Il blocage mental, i modernisti e i primitivisti

Con la tesi del blocage mental avanzata da P.M. Schuhl si può spiegare la poca propensione all'applicazione di quelle innovazioni tecniche che avrebbero potuto determinare uno sviluppo tecnologico esponenzialmente maggiore di quello verificatosi effettivamente. Al riguardo abbiamo nuovamente un duplice punto di vista: alcuni studiosi sostengono che l'impiego della tecnica in Grecia abbia effettivamente sfiorato l'apice proprio di tale epoca storica, e le applicazioni o la teorizzazione della tecnica, non siano state affatto marginali. A questa tesi modernista, o massimalista, si oppone quella dei primitivisti, o minimalisti, che teorizzano una stagnazione ossia un fenomeno

8 Id., 981b, 20 - 24 9 P.M. Schuhl, Perché l’antichità classica non ha conosciuto il “macchinismo”? in: A. Koyré, Dal mondo del pressappoco all’universo della precisione, P.B.Einaudi 2000, pag.121.

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secondo il quale ogni mutazione abbia rappresentato un regresso, a partire da un’acme che differisce da fenomeno a fenomeno. Fra questi ultimi possiamo includere Moses Finley che nega l'esistenza di concrete attività economiche, sostenendo che le città del mondo antico fossero principalmente "centri di consumo", non di produzione. Ma in base ad evidenze archeologiche, le città ellenistiche non apparterrebbero a tale categoria. Prendendo come esempio Alessandria, citata da Diodoro Siculo come la prima città del mondo civile10, è lecito dire che fosse tutt'altro che un centro di consumo; il punto di vista romano è infatti opposto e Dione di Prusa, nato in Bitinia nel 40 d.C., ci parla di Alessandria in toni quasi sprezzanti, sottolineando come nessuno vivesse nell'ozio, ed individua nella laboriosità, da lui considerata riprovevole, un' oltremodo eccessiva brama di ricchezza, fornendoci un esempio pregnante dell'opinione romana nei confronti delle attività manuali. Ed è proprio sulla non comprensione del progresso tecnico nel mondo romano che si basa la tesi primitivista. Contrariamente a quello ellenistico, dove gli studi di tipo scientifico e tecnologico furono consistenti così come l'interesse nei confronti della conoscenza, nella quale venne individuata dai sovrani un'essenziale sorgente di potere. Non mancano però evidenze a favore della tesi massimalista. In determinati campi, come quello agricolo, possiamo individuare applicazioni effettive delle scoperte tecniche, e per quegli ambiti in cui queste non sono presenti, si può ipotizzarle perlomeno dal punto di vista teorico, infatti Bloch afferma ad esempio che il mulino ad acqua (cardine della rivoluzione economico-agricola del Mille) fu medievale solo ed unicamente dal punto di vista della sua diffusione.

Il valore economico, morale e intellettuale del lavoro

Nell'antichità il valore del lavoro si presentava sotto tre aspetti: quello economico, quello morale e quello intellettuale. Per l'aspetto economico si affermava che il lavoro fosse l'unico mezzo posseduto dall'uomo per l'acquisizione dei beni che gli occorrono per la propria vita e comodità. Esiodo e molti autori a lui successivi sosten-

10 Citato in: Lucio Russo, La rivoluzione dimenticata, Feltrinelli 1998, pag.196.

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gono infatti che solo a prezzo di fatiche gli dei concedono qualsiasi bene ai mortali. Con il riconoscimento del valore economico del lavoro si fece strada la coscienza del suo valore morale. Il lavoro appare come un dovere che garantisce all'uomo il diritto e la dignità della vita. Anche questo aspetto ha in Esiodo il suo primo assertore: l'ozio viene definito un parassita e ritenuto vergognoso, in maniera del tutto antitetica rispetto alla futura mentalità romana. Questa esigenza morale del lavoro giungerà fino a Platone, che sostiene una vera e propria filoponia che comprenda tanto l'ambito intellettuale, quanto quello manuale, prendendo ad esempio i sette savi che, dice lui, sono sapienti anche rispetto alla téchne. Attraverso questi ultimi verrà alla luce l'aspetto intellettuale del lavoro, secondo Platone infatti per la prima volta vengono unificati l’homo sapiens e l'homo faber. Anche nel De victu ippocratico si afferma che, nelle sue operazioni, l'uomo obbedisce alle stesse necessità e leggi che regolano la natura. Il lavoro viene inteso come una via per intenderne i processi che imita appunto tali leggi e necessità, ricollegandosi idealmente a Vico nel sostenere che conosciamo veramente solo ciò che facciamo. Anassagora spiega la superiorità dell'uomo sulle altre specie con il possesso della mano, tesi poi criticata da Aristotele, e sosterrà per primo che l'uomo "va creando se stesso", concetto riaffermato in seguito da Panezio e Posidonio, e ancora Cicerone che dichiara la capacità dell'uomo di creare con le proprie mani una nuova natura entro e sopra la natura delle cose. Ma tale creazione, che non si limita alla realtà oggettiva esterna, ma anche all' autocreazione dello sviluppo dello stesso individuo, non è l'unica intuizione anassagorea: nasce da qui, infatti la convinzione, che avrà pieno sviluppo con Vitruvio, dell'esistenza di una stretta reciprocità fra le attività manuali e quelle intellettuali. Tale tesi aveva trovato espressione già con Platone che, nonostante ponesse una netta separazione fra la vita contemplativa e l'attiva, aveva coscienza dei rapporti di dipendenza che legano le azioni umane.

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I modelli eterni e gli strumenti

Vi è però una chiara derivazione socratica nel pensiero di Platone: già Socrate, infatti, come riportato precedentemente, aveva individuato negli artigiani gli unici che avessero una vera coscienza di quello che facevano. È a partire da questo concetto che Platone elabora i modelli, ossia l'insieme di quelle idee a partire dalle quali l'uomo può fabbricare strumenti mediante un ordine, una regola, una arte11 ammette cioè, tramite la conoscenza di questi archetipi, una forma di conoscenza appartenente ai mestieri, demiourgikón, pur definendo la scienza manuale, cheirotechnài, meno pura di quella intellettuale poiché a questo sapere è mescolata l'impurità della materia per necessità. Viene pertanto affermato da Socrate che il lavoro dipende dalla scienza, ma non il contrario. In parte Aristotele interverrà su questa impostazione sottolineando i legami che uniscono le stesse arti alla saggezza teoretica12, e distinguendo le conoscenze per grado, a seconda che queste si basino su principi primi, ossia conoscibili per mezzo della filosofia, o derivati, ossia legati all'esperienza. Aristotele esclude l'esistenza di idee eterne per gli oggetti artificiali poiché i principi da cui essi derivano sono "volgari" e sottoposti alle regole dell'esperienza. Aristotele afferma, poi, che l'esecuzione del lavoro stesso genera da sé la formazione delle conoscenze relative agli oggetti che produce. Riprende cioè il De victu ippocratico e considera, nei frammenti del De philosophia, anche i primi due gradi dei cinque da lui distinti nel processo di sviluppo della civiltà umana, ossia le arti atte a soddisfare le necessità della vita e quelle di raffinamento e ornamento, come sophia. Nella tecnica e nel lavoro distingue però i compiti di invenzione e direzione e quelli di esecuzione meccanica, sempre condannando il divorzio fra intelligenza e manualità e criticando conseguentemente Anassagora, sostenendo che la mano è conseguenza dell'intelligenza dell'uomo e non viceversa. Giudica i tecnici più sapienti dei meccanici in quanto conoscono la causa, ma definisce la tecnica col nome di

11 Platone, Gorgia, 506d 12 Aristotele, Protreptico, X, 46, UTET 2008

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scienza(episteme) e la considera un momento necessario dello sviluppo conoscitivo che costituisce il presupposto per gli studi più elevati, in quanto la tecnica deve avere, per necessità, un'idea dei fini e dei mezzi. Aristotele, ci attesta Cicerone13, attribuisce agli uomini un doppio destino, quello di agire e di pensare, attività l'una inscindibile dall'altra ed incluse l'una nell'altra. Su questa traccia Vitruvio sostiene nel De architectura14 che gli uomini, mediante l'attività produttiva, non solo avrebbero acquistato capacità manuali ma avrebbero raffinato anche la propria intelligenza. Da qui si genererà il conflitto fra la vita contemplativa e quella attiva, in particolare con gli stoici, con i quali il problema si ridurrà al conflitto fra la vita sociale e la filosofica, negotium e otium.

Bacone, scienze e filosofia fra lògos e téchne

È dopo il Medioevo che si determinano le condizioni per un cambio di paradigma nella relazione logos - techne e, per chiarire bene i termini della questione cerchiamo di acquisire qualche indicazione proprio sui concetti di tecnica e di tecnologia. Facciamo riferimento al prof. Rodolfo Papa (docente “professore invitato” di Storia delle teorie estetiche presso l’Università Urbaniana) che definisce la tecnica come una forma di attività che produce mezzi e processi capaci di migliorare le condizioni di vita e del lavoro umano, mentre la tecnologia, tipica della cultura contemporanea, come la scienza dell’artificializzazione; un sapere che rende sempre più artificiale l’ambiente in cui viviamo e il nostro stesso corpo15. Inizialmente la tecnica era un’arte, un mestiere, una professione o un’abilità ed era inoltre considerata un’invenzione umana che rispecchiava la qualità dell’artigiano produttore dell’opera. Veniva posta fra le forme di conoscenza finalizzate all’utile, a un interesse di tipo particolare e non universale, diverse dalla conoscenza della natura, di

13 De finibus, II, 13, 40 14 lib. II, cap. I 15 https://it.zenit.org/articles/tecnica-tecnologia-arte-nella-situazione- contemporanea-prima-parte/

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per sé disinteressata e universale. È infatti con Francesco Bacone che le cose cambiano. È sua la concezione di una scienza per la vita, di un sapere e quindi un logos teorico al servizio dell’uomo, che possa migliorare la sua condizione, attraverso l’industria, che è la manifestazione più alta della dignità dell’uomo. Egli intuisce forse per primo lo scopo nuovo del sapere, le conseguenze che può avere la scienza nella vita dell’uomo, è portavoce di una nuova speranza e fiducia in quella trasformazione dell’umanità, che si riassume nel concetto di progresso: nuove conoscenze, nuove invenzioni, nuove scoperte. Francesco Bacone si riferisce a tre grandi invenzioni sconosciute agli antichi, vale a dire l’arte della stampa, la polvere da sparo e l’ago calamitato (Francesco Bacone, Novum Organon). L’uomo baconiano è faber sui et ipsius fortunae e si distingue, nel creato, per le sue infinite capacità e possibilità di essere a sua volta creatore: è il Prometeo rinascimentale, che come analizzato da Carolus Bovillus (nelle considerazioni sulle varie interpretazioni nella storia della figura e del mito di Prometeo, da parte di Stefano Pelizzari) è “perfetta metafora dell’attività teoretica e noetica che caratterizza l’attività dell’uomo sapiente”16. Nella posizione baconiana, inoltre, forte è la valenza simbolica che hanno queste tre invenzioni non solo in rapporto al sapere – lògos – ma in relazione ad un nuovo ruolo che si ritrova a ricoprire la tecnica – téchne –: la stampa, la polvere da sparo e la bussola sono l’emblema della potenzialità delle invenzioni meccaniche e quindi delle applicazioni pratiche della scienza. Consideriamo dunque la questione alla luce della lettura dell’opera di Alexandre Koyré (Dal mondo del pressappoco all’universo della precisione) che tra l’altro è un punto saliente per lo stesso Benjamin Farrington. Se uno sviluppo della scienza ha comportato tali progressi nella tecnica, capaci di migliorare la vita dell’uomo a tal punto, allora perché non è stata possibile una “rivoluzione scientifica” nel mondo ellenistico, dove siamo a cono-

16 Stefano Pelizzari, “Veritas filia temporis”, Note sul Prometeo di Francesco Bacone; http://www.academia.edu/8252177/_Veritas_filia_temporis_._Note_sul_Promete o_di_Francesco_Bacone, pag. 5

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scenza dell’esistenza già allora di capacità tecniche fuori dall’ordinario (a tal proposito il riferimento obbligato è all’opera di Lucio Russo, La rivoluzione dimenticata)? La risposta ce la fornisce Koyré e sostiene che in realtà ciò non avvenne perché la scienza greca non poteva dare origine a una vera tecnologia e non ha costituito una vera tecnologia perché essa non ha elaborato una fisica17 semplicemente perché non ha proprio cercato di farlo. Una fisica che applica le nozioni esatte e precise della matematica e, in primo luogo, della geometria era, come lo è d’altronde quotidianamente per noi, non matematica. Tanto per dirla in breve: in natura non ci sono cerchi, ellissi, linee rette, essa è imprecisa, il mondo del più o meno, del pressappoco: l’unica eccezione di precisione, esattezza e rigore era rappresentata dall’arte (basti pensare ai canoni estetici della classicità) e dalle sfere celesti, che essendo fatte di tutt’altra essenza rispetto al mondo sublunare, ammettevano movimenti perfettamente regolati e conformi alla geometria. La svolta e il superamento di questa dicotomia del pensiero greco (mondo sensibile-imperfetto, mondo intellegibile-perfetto) è proprio nell’idea stessa del creare uno strumento di misura, perché così l’idea dell’esattezza prende possesso di questo mondo e il mondo della precisione si sostituisce al mondo del pressappoco. E in questo discorso Bacone si inserisce per la sua ferma convinzione di una coesistenza fra tecnologia e fisica (ancora lògos e téchne): fino a quel momento non è stata possibile la tecnologia perché non vi era precisione nel costruire le macchine: la precisione è possibile solo con dei calcoli a priori, prima della costruzione stessa della macchina, il calcolo è prima della tecnica, e solo così diventa tecnologia. Ci vorrà quindi il Cinquecento, con Bacone e Galilei a rivoluzionare l’idea di strumento, che non è più solo utensile. Per concludere, citando ancora Koyré un utensile, ossia qualcosa che – come aveva scorto bene il pensiero antico – prolunga e rinforza l’azione delle nostre membra, dei nostri organi sensibili, che appartiene al mondo del senso comune. E che non può mai farcelo superare. Questa invece è la funzione propria dello strumento, il quale non è prolungamento dei sensi, ma l’accezione più forte e più letterale

17 Koyré, cit., pag.89.

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del termine, incarnazione dello spirito, materializzazione del pensiero18. E qui l’assoluta novità, che se vogliamo sembra anticipare Cartesio: è la tecnica, che concretizza il pensiero dell’uomo che crea. Ma il sapere può e deve essere non “perfetto”, ma “perfettibile”, così la tecnica (che dalla scienza nasce e della scienza si serve), si sviluppa, fino a raggiungere risultati impensabili. Oggettivamente con la téchne siamo capaci di cambiare drasticamente le nostre condizioni di vita, quindi l’ambiente in cui viviamo, al contrario di tutti gli altri organismi viventi che lo fanno per istinto, in modo innato, gli esseri umani ne hanno coscienza: facciamo, e sappiamo di fare. Le nostre capacità (a dirla tutta più tecnologiche che tecniche) sono apprese, sono il nostro presupposto per conoscere (Carlo Soave, biologo e docente di Fisiologia Vegetale presso l’Università degli Studi di Milano). La questione è fino a che punto? Perché diversamente dagli altri animali l’uomo non si ferma al soddisfacimento dei suoi bisogni, cerca di continuo di raggiungere equilibri più avanzati, di avvicinarsi a traguardi che si generano nella nostra mente19. L’uomo sembra voler rendersi indipendente, essere autonomo dai suoi bisogni, e citiamo le parole dello stesso prof. Soave: “È come se non accettassimo la condizione naturale in cui siamo posti, per impadronirci della realtà naturale facendola esistere secondo la nostra idea di natura. Se possiamo modificare la natura, l’ambiente, noi stessi (si pensi alle manipolazioni genetiche possibili al giorno d’oggi), quale sarà il limite, fin dove ci spingeremo, a immagine di cosa lo faremo?” Queste riflessioni non possono assolutamente esulare da un discorso di tipo etico, da interrogativi morali, che hanno proprio come prerogativa di fornire all’uomo criteri per distinguere ciò che è bene da ciò che è male.

Conclusione

Con Platone, citato dallo stesso prof. Soave: “A cosa servirebbe una tecnica capace di renderci immortali, se poi non sapessimo quale uso

18 Id., pag.101. 19 Carlo Soave, videoconferenza Natura e Tecnologia del Bios - Romanae Disputationes.

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fare dell’immortalità?”20, lanciamo un ponte ideale verso il XX secolo. Abbiamo riscontrato la presenza di questi interrogativi nella Crisi delle scienze europee di Edmund Husserl, laddove il filosofo della Moravia sembra individuare una separazione tra scienza e uomo, a partire dal secolo XVII21 e mette in guardia l’umanità europea dai rischi di un allontanamento della scienza e della tecnica dalla loro ispirazione umana e, a nostro avviso, strettamente connessa al lògos22. Ci sembra di cogliere l’aspirazione all’umanizzazione della téchne proprio nelle parole di Husserl che individuano la presenza di un telos che, dall’antichità classica all’umanità odierna, consiste nella volontà di essere un’umanità fondata sulla ragione filosofica […]23che non può, ci permettiamo di sottolineare, abdicare a se stessa per ridursi a semplice espressione di fatti, sia pure tecnologicamente complessi.

Biblio/sitografia per “Logos e techne” /iunior:

Dialoghi platonici (Repubblica (VI, VII), Protagora, Apologia di Socrate, Gorgia, Eutidemo) in: Platone, Tutti gli scritti – a cura di Giovanni Reale, Rusconi.

Aristotele (Metafisica, I – traduzione di C.A. Viano; Politica – a cura di C.A. Viano; Protreptico – a cura di Enrico Berti).

R. Mondolfo, Polis lavoro tecnica, Feltrinelli 1982.

R. Mondolfo, Momenti del pensiero greco e cristiano, cap. III: tecnica e scienza nella Grecia antica, Morano 1964.

A. Koyré, Dal mondo del pressappoco all’universo della precisione, Piccola Biblioteca Einaudi 2000 (con, all’interno, saggio di P.M. Schuhl sul “blocco mentale”).

20 Platone, Eutidemo289b 21 La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, Il Saggiatore 1987, seconda parte, §10. 22 Id., §2. 23 Id., §6, pag.44.

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M. Pohlenz, L’uomo greco, La Nuova Italia 1989.

B. Farrington, F. Bacone filosofo dell’età industriale, P.B. Einaudi 1976.

B. Farrington, Scienza e politica nel mondo antico. Lavoro intellettuale e lavoro manuale nell’antica Grecia, Feltrinelli 1977.

E. Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, Il Saggiatore 1987.

Lucio Russo, La rivoluzione dimenticata, Feltrinelli 1998. http://www.academia.edu/8252177/_Veritas_filia_temporis_._Note_sul_Pr ometeo_di_Francesco_Bacone https://it.zenit.org/articles/tecnica-tecnologia-arte-nella-situazione- contemporanea-prima-parte

Romanae Disputationes, videoconferenze di: Enrico Berti, Carlo Sini, Carlo Soave, Carmine Di Martino.

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SIMONA COLINI

XXV Olimpiade di Filosofia

Si è svolta quest’anno la XXV edizione delle “Olimpiadi di Filosofia”, manifestazione organizzata dalla Società Filosofica Italiana (SFI) d’intesa con il MIUR allo scopo di coinvolgere studentesse e studenti frequentanti il triennio delle scuole secondarie di secondo grado nell’approfondimento di tematiche filosofiche attraverso la redazione di un saggio argomentativo. L’impegnativo percorso prevede ogni anno una selezione d’Istituto, una regionale e una gara nazionale, con la possibilità di partecipare alle Olimpiadi internazionali, che quest’anno si sono svolte dal 25 al 28 maggio 2017 a Rotterdam (Olanda). Nel 2019 sarà l’Italia, a Roma, ad ospitare le finali delle Olimpiadi internazionali. Il Liceo Orazio ha colto come negli anni precedenti questa preziosa occasione per fare filosofia, qualcosa di più di una semplice “gara”: numerosi studenti si sono cimentati con passione dopo l’orario scolastico nella scrittura filosofica, lasciandosi provocare dalle tracce predisposte (con riferimento alle indicazioni della Società Filosofica Italiana e d’intesa con l’intero Dipartimento di filosofia dell’Orazio) da una commissione formata dai professori Stefano De Stefano, Edmondo De Liguori, Simona Colini, Laura Detti, Cristian Facchin ed Elisabetta Dedato (docente di lingua inglese), che hanno poi provveduto a correggere gli elaborati e ad individuare i quattro candidati (2 per il canale in lingua italiana, 2 per il canale in lingua straniera) a rappresentare il nostro Liceo alle selezioni regionali. La selezione d’Istituto si è svolta giovedì 19 gennaio 2017 e ha coinvolto 24 studenti per la gara in lingua italiana e 6 per la gara in lingua straniera (inglese). La selezione regionale si è svolta presso l’Università di Roma Tre venerdì 10 febbraio 2017, con la partecipazione di oltre 160 studenti di numerose scuole – circa 50 – di Roma e del Lazio. Per il Liceo Orazio erano presenti Valeria Flores (2D classico) e Aurora Rossi (2A classico) per il canale in lingua italiana, Emanuela Vinci (3B classico) per il

299 canale in lingua straniera (inglese); non ha invece partecipato alla selezione regionale in lingua inglese a causa di un intempestivo malessere Edna Esposito (3D classico).

Riportiamo di seguito le tracce proposte nella selezione d’Istituto e i migliori quattro elaborati:

Traccia 1 - Morale «Il problema del rapporto tra morale e politica nasce […] dove […] vi possono essere […] azioni economicamente utili ma moralmente riprovevoli. Ho in mente, per fare un esempio di grande attualità, il problema della vendita degli organi. Si è sostenuto che il miglior modo per ovviare alla difficoltà di trovare reni da trapianto sia quello di considerarli una merce, come un’altra, perché si troverà sempre un poveraccio che per pagare i suoi debiti o anche soltanto per sopravvivere, o, come anche si è detto, per comprarsi una casetta, è disposto a vendere un rene. O per fare un altro esempio, se il fine dell’impresa in una società di mercato è il profitto, non è escluso che il profitto venga perseguito senza troppo tener conto dell’esigenze dei diritti della persona proclamati dalla legge morale. Analogamente, il problema del rapporto tra morale e politica si pone in questo modo: è constatazione comune, di chiunque sappia un po’ di storia e abbia fatto qualche riflessione sulla condotta umana, che nella sfera politica si compiono continuamente azioni che sono considerate illecite dalla morale o, all’inverso, si permettono azioni che la morale considera doverose. Da questa constatazione si è ricavata la conseguenza che la politica ubbidisce ad un codice di regole differente ed in parte incompatibile con il codice morale». (Norberto Bobbio, Morale e politica, in “Nuova Antologia”, luglio- settembre 1991, p. 70)

Traccia 2 - Estetica Nel discorso pubblico è sempre più diffuso l’uso da parte di giornalisti, politici, intellettuali in genere, della parola bellezza (“la bellezza è il principale patrimonio italiano”, “bisogna investire nella bellezza”, “la bellezza salverà il mondo”, ecc. ecc.) come se si trattasse di un valore stabile e condiviso; tuttavia nell’esperienza effettiva constatiamo

300 continuamente l’estrema varietà e differenza di gusti, opzioni ed esperienze che vengono definite “belle” che sembrano testimoniare come la “bellezza” sia un’esperienza del tutto soggettiva e solo parzialmente condivisibile. Sono due posizioni del tutto inconciliabili o è possibile trovare una mediazione tra di esse? Argomenta la tua opinione al riguardo anche con esempi di autori che conosci e/o tratti dalla tua esperienza personale.

Traccia 3 - Gnoseologia La matematica e la conoscenza del mondo I due brani seguenti forniscono spunti per riflessioni sul rapporto uomo–natura e anche sul modo di intendere il sapere. Proponete e argomentate un vostro punto di vista tenendo conto delle vostre esperienze e conoscenze in merito.

«La filosofia è scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi agli occhi (io dico l’universo), ma non si può intendere se prima non s’impara a intender la lingua, e conoscer i caratteri, ne’ quali è scritto. Egli è scritto in lingua matematica, e i caratteri triangolari, cerchi, ed altre figure geometriche, senza i quali mezi è impossibile a intenderne umanamente parola; senza questi è un aggirarsi vanamente per un oscuro laberinto». (Galileo Galilei, Il Saggiatore, in Opere, VI, 232)

«Galileo, considerando il mondo in base alla geometria, in base a ciò che appare sensibilmente e che è matematizzabile, astrae dai soggetti in quanto persone, in quanto vita personale, da tutto ciò che in un senso qualsiasi è spirituale, da tutte le qualità culturali che le cose hanno assunto nella prassi umana. [...] Oltre che la matematizzazione, diventata troppo rapidamente un’ovvietà, ciò ha come conseguenza una causalità naturale in sé conclusa, entro cui qualsiasi accadimento è preliminarmente ed univocamente determinato. [...] dobbiamo ora renderci conto che la concezione della nuova idea “natura”, di un mondo di corpi realmente e teoreticamente in sé concluso, provoca ben presto un cambiamento completo dell’idea del mondo in generale. Il mondo si spacca per così dire in due mondi: natura e mondo psichico, ove però

301 quest’ultimo, dato il suo specifico riferimento alla natura, non porta a una mondanità autonoma». (Edmund Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, II parte, §10)

Traccia 4 - Politica «La protezione contro la tirannia del potere politico non è sufficiente: è necessaria la protezione anche contro la tirannia delle opinioni e dei sentimenti dominanti, contro la tendenza della società a imporre, con mezzi diversi dalle penalità civili, le sue proprie idee e pratiche come regole di condotta a quelli che non sono d’accordo, ad ostacolare lo sviluppo, e, se possibile, a prevenire la formazione di ogni individualità non in armonia con le sue vedute, e a costringere tutti i caratteri a modellare se stessi sul suo modello. Vi è un limite alla legittima interferenza dell’opinione collettiva sull’indipendenza individuale: e trovare qual limite, e affermarlo contro ogni usurpazione, è tanto indispensabile per una buona condizione degli affari umani quanto la protezione contro il dispotismo politico». John Stuart Mill, Sulla libertà [1859], in Scritti scelti, a cura di F. Restaino, Principato, Milano 1969, pp. 148–149

Valeria Flores, 2D classico, 2016-2017

Traccia 1 - Morale

2003. L’Università della California porta a termine il progetto di “Genome read-coding”, ottenendo uno dei risultati più incredibili della storia della scienza: poter leggere per iscritto finalmente la sequenza del genoma umano. Ed è lì, davanti ai nostri occhi: il segreto, l’origine dell’uomo e della vita, finalmente “srotolato”, disponibile, “chiaro e manifesto” a tutti. O meglio a tutti coloro che sono disposti a pagare cento dollari. Senza alcun dubbio ciò ha portato ad un progresso notevole in campo medico, biotecnologico e della ricerca, e molto probabilmente sarebbe soddisfatto a pieno Francesco Bacone, che ancora agli inizi della rivoluzione scientifica rovesciava ogni concezione della natura: essa è un libro aperto, di cui dobbiamo impegnarci a conoscere le leggi, immergendoci in essa, perché la natura “non si comanda, se non obbedendole”, e più l’uomo sa, più “può”,

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ma le sue possibilità devono essere finalizzate al miglioramento della sua vita. Più conosce, più fa, e più vive “bene”. È il risultato che in fondo conta: l’utile giustifica. E non è poi così distante da lui Machiavelli, che lungi dal volere io stessa banalizzare, dopo aver sperimentato lo scempio della corruzione politica del suo tempo, afferma che alla fine se l’obbiettivo è il bene comune, non si può biasimare chi, per scopo collettivo, si sporca le mani. La politica è per lui scienza autonoma, con le proprie leggi morali, ed ecco cosa sostiene per la prima volta nella storia della filosofia. Dunque sorge una domanda: ma allora quale è il fine della politica, quale quello della morale? La politica la fa il polìtes, il cittadino, qualsiasi cittadino: la politica è il cittadino, che vive in comunità, nella convivenza più virtuosa possibile. La morale dà all’uomo la legge, il criterio di discrimine fra bene e male. È l’uomo che, in virtù di questo, dovrebbe essere disposto anche a sacrificare sé stesso, pur di tener fede alla propria legge morale, alle sue agrapha nomina, le leggi non scritte, per cui ha accettato di morire Antigone, per cui hanno accettato di morire Hans e Sophie Scholl, anche quando la legge dello Stato, la politica, andava contro di esse. In politica, tanto quanto nell’etica, non è l’uomo il fine? Dopotutto chi fa politica: l’uomo per l’uomo. E dove sorge allora il contrasto? Cosa spezza l’intimo legame, l’“amore” se vogliamo, che la politica costituisce fra uomini che hanno la legge morale “dell’uomo”? È il “terzo incomodo”, il denaro. Nell’esatto momento in cui si insinua fra due corrompe, endemico e sistematico; se c’è profitto, il rapporto fra me e te cambia. Cambia il fine. Ed è in questo preciso istante che nasce l’“economicamente utile”, il “politicamente corretto”, la filosofia del “è il risultato che conta”. Incorre inevitabilmente uno sfasamento di obbiettivi fra realtà della politica, che ha a questo punto degli interessi, e l’uomo “cittadino”, che si trova davanti alla domanda assordante e insistente della coinquilina silenziosa al suo interno, la Morale: “Sei disposto al compromesso?”. E in un mondo che corre senza sosta, anzi accelera verso il progresso, che è tecnologicamente all’avanguardia, che vive continue invenzioni e scoperte, che sperimenta le infinite possibilità di tecnica che può raggiungere l’uomo, in cui la politica deve immischiarsi, perché la società globale stessa è fatta di uomini, allora il quesito non è “lo posso fare?”, ma: “lo voglio davvero? Fin dove mi voglio spingere? Sono pronto ad affrontare un tale cambiamento?”. Perché se scienza, politica e morale sono per l’uomo, e di esso essenza profonda, non

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possono non riflettere sulle possibili conseguenze, non considerare nostra (e mia) la responsabilità di un rischio di deumanizzazione. È l’interrogativo che manca, mettere in dubbio noi stessi; non “il fine giustifica i mezzi”, ma: “Quale è il fine per cui sarei disposto ad accettare tali mezzi?”. Serve la prospettiva della meta “giusta”. È politica ed etica che non possono e non devono avere un codice di regole differenti. Non senza rischi. Non senza il timore di una disgregazione dell’essere umano, che è, per loro, essenza e fine. Politica e morale sono “uomo”. 2020. Già stati stanziati 30 milioni di dollari per la ricerca, obbiettivo: “Genome write-coding”.

Aurora Rossi, 2A classico, 2016-2017

Traccia 2 – Estetica

Una Venere che non può sfiorire. A simboleggiare l’ideale di bellezza sin dall’antichità vi è la dea Venere, giovane dai lunghi capelli dorati, guance rosee e forme pronunciate, protagonista di numerosi dipinti e oggetto di culto nella tradizione greca e romana. Tra le pur celebri opere ne è un emblema il capolavoro dell’artista Sandro Botticelli, il quale delineò la fanciulla come cardine nella sua Primavera, portatrice dell’ideale filosofico di armonia, proporzione (ragione per cui viene talvolta raffigurata nel centro prospettico delle rappresentazioni) ed equilibrio, trovando nell’arte la ragion d’essere del pensiero, che è necessario venga divulgato ed esplicato nelle molteplici forme di espressione (come anche la letteratura, di cui fu esempio nelle sue Stanze per la giostra Agnolo Poliziano, autore fiorentino legato all’Accademia di Ficino, filosofo neoplatonico). Tali ideologie furono precedentemente individuate nell’ordine logico– matematico della realtà pitagorica, la quale necessariamente trovava il bello nell’estensione, nella misurabilità (quindi nella finitezza) e in completa sintonia con le sue componenti; questi ultimi attributi fondamentali per la bellezza nel “giusto mezzo fra le parti” di Aristotele, stagirita che confermava l’oggettività della magnificenza proprio nell’esatta misura dei fenomeni. Eppure la bellezza oltrepassa i canoni di oggettività o soggettività nel considerare essa stessa strumento fondamentale e immediato per la vita dell’uomo. Plotino, canto del cigno della filosofia

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pagana, individuò come sua essenziale funzione quella di oggetto di elevazione all’amore, condizione verificabile solo attraverso tale esperienza, effetto di una μανία (nel senso di entusiasmo) che Ficino, nel platonismo rinascimentale, definirà “furore contenuto”. La Venere fu infatti simbolo di un amore inevitabilmente legato all’esteriorità, collocata, nel caso dell’artista Sandro Botticelli, in un trionfo di fiori e piante (definito perciò “trattato di botanica”). Quest’ultimo è pertanto il τόπος dell’uomo cinquecentesco, il quale riconosce se stesso come una parte della natura, a lei indissolubilmente legato e in stretto rapporto di συμπάθεια, di cui è espressione e rappresenta l’idea di intima energia vivificatrice propria di Giordano Bruno, filosofo organicista che trovò la massima esaltazione della sua passione in ogni infimo nascere della realtà vitale (da qui la sua etica degli “eroici furori”). La comune grazia, la caritas e la benevolenza di cui la divinità è divulgatrice tra il soffio delle foglie causato da Zefiro, sembrano esser valori soggetti al continuo mutare della cultura, influenzata da tendenze e temporanee passioni che nella storia si ripetono costantemente e che mirano ad attribuire l’aspetto puramente soggettivo a ciò che viene definito bellezza. Che essa sia una virtù o un parere profondamente mutevole (la sensazione cambia talvolta all’interno dell’uomo stesso) non nega la possibilità che l’espressione ne costituisca un valore universale. Bellezza è comprendere nel particolare l’infinita possibilità dell’intelletto; bellezza è saper distinguere ed apprezzare ciò di cui nell’amore è lecito aver cura. Bellezza è conservare, nella realtà in movimento, saldi fondamenti che il tempo non può intaccare. È o non è di pietra la Venere di Milo?

Emanuela Vinci, 3B classico, 2016-2017

Traccia 2 - Estetica

John Keats once wrote: «Beauty is truth and truth is beauty» (Ode on a Grecian Urn, 1819). Immediately after reading that sentence I thought: «This means absolutely nothing». But then I thought that maybe I wasn’t paying much attention to his words, so I read them again. And again… and again. After the tenth time I realized that I could not understand simply because I did not know what “beauty” or “truth” meant for him nor what they are

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for me and, since the whole concept of “truth” seemed the most complicated to figure out between the two, I decided to take up the meaning of “beauty”. At first it seems that there are some particular characteristic which make someone or something beautiful and it looks like we can all agree to those “standards”, but then I realized that those standards change from nation to nation, from age to age and, in the worst case, from person to person. To be honest I, myself, don’t find some things as beautiful as they are told to be. Some say beauty, real beauty, is concrete and it doesn’t last forever, some say the opposite. “Beauty is within the soul”, “Beauty is one’s inner beauty”, but sometimes people are horrible and yet they are so fascinating and attractive... Sometimes is just a part of them: their eyes, their lips, their smile… I don’t know. I think that maybe humanity thinks too much about futile stuff… to be beautiful or not to be beautiful what does it matter? What is beautiful for blind people? Why is beauty so important when we don’t know what “truth” is? We have so many question to ask, to answer, to discuss with someone else… To think of what is beauty with all ourselves, without being able to find just one answer, isn’t that beautiful?

Edna Esposito, 3D classico, 2016-2017

Traccia 2 – Estetica

Summer was sitting on the shore, peacefully looking at the sea, filling her bright eyes with the crumbs of shattered sun rays, now swinging on the surface of water, seagulls were resting on the rocks while the bloody sky prepared himself to welcome the Moon, blushing like a teenage girl who as just seen her crush. As she sighed, a warm wind engulfed the beach. «Beautiful... » she whispered. «I’d rather stare at the snow falling, I have to say» someone said in a loud voice, making the seagulls fly away. Summer turned around, glaring at the man. «Winter, damn you! You startled the seagulls». The guy laughed and walked closer to her, casually kicking a small rock, which froze the very moment he touched it. «Does that make any difference?» he asked, shrugging.

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«Are you kidding me?!» Summer answered, standing up and crossing her arms out of disappointment «You're ruining Pure Beauty!» she marked with emphasis the P and the B, giving Winter the chance to pretend to have just been spit in his right eye. «Do you also think spitting is beautiful? 'Cause that would be coherent» he said, being sarcastic. «Are you comparing all my work to a spit?!» Summer shot back, pissed off «Mind your own business, which would be bringing cold and burying my beautiful nature in snow, KILLING IT!» «Hey, hey, easy» a third voice reached the shore, followed by a fourth one that said «Are you guys on it again?» «Fall, help me out man, this little brat was insulting my work!» Winter whined. «YOU STARTED IT!» screamed Summer. «Stop!» Spring made them both shut up «We're fed up with you and your fights!» Fall stood up in front of his friends and took a deep breath: «Do you guys know Kant?» he asked. Both Summer and Spring frowned in confusion. «No, man, I know no Can’ts, I only know Cans» jocked Winter, earning a slap on his arm for not being serious. «Kant. The philosopher» everybody was now quiet «I heard a kid talking about him at school» Winter rolled his eyes and opened his mouth to complain but Fall interrupted him «Winter if you say ONE word I'm gonna tell Mr. Weather and he’ll fire you» he shut up again. «Kant said beauty was objective, liking wasn’t. C’mon guys I can’t believe you don’t find each other’s work stunning. You’ve just got to stop thinking of her consequences it causes to your own» they were both looking down. Summer was playing with her hands. «I actually find your snow really pretty, Winter...» she said «I can make lots of colors but I can't mix 'em up to turn 'em into white, which you can...» her cheeks were now same color as the sky. Winter looked at her, surprised. «Do you mean what you just said?», she nodded «Everybody loves to see the mountains and the wood covered with snow, I think you can’t unlike it, Kant was right». Winter was confused: «But then why do farmers hate my snow?» he asked. «Because it kills their crops» Summer answered «they think of the consequences instead of enjoying the sight, which is the same mistake I did...» a kind smile cracked on her lips.

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«I’m sorry I said bad things about your work...» Winter finally said, «I guess I was just envious 'cause white gets boring after some time». Spring went close to him and ruffled his hair «Everything gets boring after some time, that's why we have three months each, silly». They all chuckled. «This Kant wasn’t so bad after all, was he?» asked Fall raising an eyebrow at Winter. «Yeah...» he answered «I guess sometimes we forget that beauty and liking are different». «We definitely do» said Spring smiling. «Nature’s beautiful», said Summer «regardless of us seasons» they all nodded. «Okay guys, I’m gonna go back to sleep, I’ve just got one month left» said Fall. «So am I. Winter, you should go, too» said Spring. They all waved at each other and left. «Geez» she said, sighing «that was tough, but great idea Fall, I can’t believe they stopped». Fall shrugged «Philosophers aren’t that bad after all, are they?» Spring laughed «They guaranteed us a peaceful sleep, that’s for sure».

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MAURIZIO CASTELLAN

Miscellanea di matematica

Introduzione

Nel numero precedente abbiamo presentato il “Chomp”, un gioco per due giocatori che si presta ad una interessante analisi di tipo matematico nell’ambito della cosiddetta “teoria dei giochi”. Attorno ad esso si è sviluppato, nello scorso anno scolastico, il laboratorio di ricerca attiva del piano lauree scientifiche dell’Orazio (l’iniziativa, inserita nel piano lauree scientifiche 2016 -2017, si svolge in collaborazione con il dipartimento di matematica dell’università di Tor Vergata). Forniamo brevemente una descrizione del gioco rimandando il lettore alla lettura del n°7 dei quaderni o alla bibliografia [1] per un’analisi più ampia dei risultati già noti in letteratura.

Maurizio Castellan ([email protected])

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SPUNTI E RICERCHE INTORNO AL GIOCO DEL CHOMP

Adriano Pecere Federico Corallo Agnese Cursi Flavio Petrucci Alessia Vastola Gabriella Caputi Carmela Anello Giovanni Bacchetti Cristina Grani Giovanni Maria Pasquarelli Eleonora Guerra Gloria Remoli Enrico Favara Luca Argirò Federica Taglia

Abstract Il gioco del Chomp a dispetto della sua semplicità mette in luce interessanti caratteristiche e proprietà di indubbio interesse nell’ambito della teoria dei “giochi imparziali”. Vengono qui presentate e studiate diverse varianti del gioco classico che ne evidenziano i confini strutturali.

Parole chiave: Chomp, teoria dei giochi, giochi imparziali

1. Il chomp Tutto comincia da una tavoletta di cioccolata con 4 × 5 quadratini, di cui l’ultimo in basso a sinistra è contrassegnato: si tratta del quadratino avvelenato.

Il gioco chiamato Chomp (il nome è stato inventato da Martin Gardner in [2]) è la sfida tra due contendenti che devono, ad ogni mossa,

310 mangiare almeno un quadratino di cioccolato. Chi mangia il quadratino avvelenato naturalmente perde; vince quindi chi obbliga l’avversario a mangiare il veleno. La regola è che i giocatori hanno una bocca rettangolare: volendo mangiare un certo quadratino, il giocatore mangerà anche tutti quelli che si trovano più a destra e più in alto di esso.

Per chiarire bene come funziona, proviamo a seguire una partita di Chomp.

Il primo giocatore sceglie il quadratino che si trova nella terza colonna da destra e nella seconda riga dall’alto e mangia 6 quadratini. Il rettangolo del suo morso è quindi determinato dalla scelta del quadratino in basso a sinistra.

Il secondo giocatore risponde con una mossa in cui mangia due soli quadratini:

infatti sceglie il quadratino nella seconda riga dal basso e nella seconda colonna da destra, determinando così il “morso” rettangolare che è

311 tratteggiato nella figura. Questo morso ha l’effetto pratico di togliere i due quadratini marcati in grigio - perché il resto era già stato mangiato nella prima mossa.

Il giocatore che aveva cominciato sceglie il quadratino appena sopra quello avvelenato, e si fa una scorpacciata di ben 7 quadratini:

ma egli si accorge di avere in pratica regalato la vittoria all’avversario; e infatti,

mangiando tutta la cioccolata “sana” dell’ultima riga, il secondo giocatore costringe l’avversario alla sconfitta (si può giocare al chomp utilizzando una delle varie applet che si trovano in rete [2]).

1.1 Proprietà del Chomp Si può mostrare facilmente che il gioco termina dopo un numero finito di mosse e che il primo giocatore può sempre vincere, se gioca in maniera sufficientemente astuta.

312

Ci si può convincere di questo esaminando lo schema seguente che riassume tutte le possibili partite che si possono giocare a partire da una tavoletta 2×3.

Notiamo che, partendo dal basso, ossia dalla configurazione banalmente perdente (nel Chomp è quella con solo il quadratino avvelenato: chi se la trova davanti ha perso), abbiamo contrassegnato una configurazione come vincente (V, in figura) o perdente (P) se chi trova il gioco in quella configurazione e deve muovere ha una strategia per vincere il gioco o no, fino ad arrivare alla configurazione iniziale che è dunque una posizione “vincente”: chi gioca qui (il primo) può quindi sempre vincere se gioca in modo razionale; ma questo avviene in generale per qualsiasi chomp.

Possiamo infatti notare che, in generale, il primo giocatore ha a disposizione una mossa “speciale”: mangiare il quadratino in alto a destra. Qualsiasi mossa il secondo riesca a fare partendo da lì, avrebbe

313 potuto esser eseguita già all’inizio dal primo giocatore. Dunque se il secondo giocatore avesse una buona mossa il primo potrebbe precederlo facendola prima di lui: questo si chiama argomento della “mossa rubata” e la configurazione della tavoletta privata del quadratino in alto a destra si dice configurazione “pivot”. La posizione iniziale di un Chomp sarà dunque “sempre” contrassegnata con una V: il primo giocatore può sempre vincere.

1.2 Altre proprietà del Chomp Come abbiamo detto nel gioco del Chomp esiste una strategia vincente per il primo giocatore ma solo in alcuni casi particolari è possibile descrivere tale strategia.

Il Chomp 2×n.

Se la configurazione di partenza è una tavoletta 2×n come in figura:

la strategia del primo giocatore è togliere il quadretto in alto a destra

raggiungendo una configurazione a “scalino”; ora, qualsiasi sia la risposta del secondo giocatore, alla terza mossa chi ha cominciato può sempre ricreare per il secondo giocatore la configurazione a “scalino”, per un Chomp più piccolo e così via, fino alla configurazione

e a quella perdente:

314

Il Chomp n×n.

Se la configurazione di partenza è una tavoletta quadrata n×n , la strategia del primo giocatore consiste nel togliere il quadretto immediatamente sopra e a destra a quello avvelenato:

e poi proseguire “copiando” ogni volta la mossa del secondo giocatore (questa strategia prende il nome di “strategia simmetrica”).

2. Teoria dei giochi

“La teoria dei giochi” è quella parte della matematica che ha come oggetto di studio la competizione tra soggetti razionali (giochi classici, competizione tra aziende, conflitti tra gruppi, competizione politica ...)

Forniamo ora alcune nozioni elementari per lo studio di una particolare categoria di giochi di cui il Chomp fa parte.

2.1 Giochi imparziali Si definiscono giochi imparziali quelli che rispondono alle seguenti caratteristiche.

• Ci sono due giocatori che giocano alternando le mosse.

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• Ogni partita si sviluppa all’interno di un numero finito di possibili posizioni del gioco. • Le mosse lecite non dipendono dal giocatore di turno (a differenza di quanto avviene nel gioco degli scacchi o della dama nei quali ogni giocatore quando è di turno può muovere solo i suoi pezzi) • Il gioco termina quando non ci sono più mosse possibili. • Il giocatore che non può più giocare perde.

Ci riferiremo ai giochi imparziali chiamandoli semplicemente giochi. Mostriamo ora un esempio di gioco imparziale per illustrare alcuni elementi base di teoria dei giochi.

2.2 Gioco “a sottrazione” Il gioco consiste nel sottrarre a turno un numero prefissato di monete da un numero di partenza. Perde chi dei due giocatori non ha più monete da togliere. Esempio: il mucchio iniziale conta 5 monete, e le monete da togliere sono 1, 2 o 3

IL GIOCATORE A TOGLIE UNA MONETA

IL GIOCATORE B TOGLIE TRE MONETE

IL GIOCATORE A TOGLIE UNA MONETA E VINCE

2.3 Il grafo del gioco.

316

Ogni gioco imparziale può essere rappresentato da un grafo orientato finito nel quale i nodi rappresentano le diverse posizioni di gioco, e gli archi orientati il passaggio da una posizione di gioco alle successive posizioni che si raggiungono con una mossa.

Illustriamo come esempio il grafo del gioco a sottrazione visto in 2.2.

2.4 Posizioni vincenti e posizioni perdenti Le posizioni di un gioco imparziale possono essere classificate nel seguente modo: • Una posizione è vincente (V) se da essa si può passare ad almeno una posizione perdente; • Una posizione è perdente (P) se da essa si può passare solo a posizioni vincenti o se da queste non ci si può muovere Per analizzare le diverse posizioni si deve tener presente che: • tutte le posizioni terminali sono posizioni perdenti;

317

• una posizione è vincente se da essa si può passare ad almeno una posizione perdente; • una posizione è perdente se da essa si può passare solo a posizioni vincenti.

È sempre possibile quindi partendo dalle posizioni finali, etichettare via via tutto il grafo fino alla posizione iniziale. Nell’esempio del gioco a sottrazione si ha:

Se la posizione iniziale è vincente, vuol dire che c’è una strategia vincente per il primo giocatore che consiste nello scegliere ogni volta una posizione P.

2.5 Teoremi sui giochi imparziali. • In ogni gioco imparziale ogni posizione del gioco è o di tipo V o di tipo P

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• In ogni gioco imparziale esiste sempre una strategia vincente per il primo o per il secondo giocatore

3. Varianti del Chomp Presenteremo ora alcune varianti del Chomp che si ottengono nei due modi diversi:

• scegliendo una configurazione iniziale differente dalla “classica” tavoletta rettangolare; • ponendo dei vincoli alla mossa del “morso”.

3.1 L-Chomp

L’L-Chomp è una variante del Chomp nel quale la configurazione iniziale ha la forma ad elle:

L4,6

Indicheremo questa configurazione con Lm,n dove m e n indicano rispettivamente i quadretti sul braccio verticale e su quello orizzontale della L. 3.1.1 Proprietà dell’ L-Chomp

• Se m = n esiste una strategia vincente per il secondo giocatore; • se m  n esiste una strategia vincente per il primo giocatore.

319

Dimostrazione

Se m = n il secondo giocatore vince copiando la mossa che il primo effettua in uno dei due bracci della L, nell’altro braccio (“strategia simmetrica”)

Se m  n il primo giocatore nella sua prima mossa rende i due bracci di uguale lunghezza, poi continua la partita adottando la strategia simmetrica.

3.2 L*-Chomp

Nell’L*-Chomp la configurazione iniziale ha la seguente forma:

L*4,6

Indicheremo questa configurazione con L*m,n.

3.2.1 Proprietà dell’ L*-Chomp

• Se m = n o se m = n+1 con n pari esiste una strategia vincente per il secondo giocatore; • altrimenti esiste una strategia vincente per il primo giocatore. - Dimostrazione –

Omessa

3.3 I-Chomp

320

Nell’I-Chomp ad ogni mossa si possono eliminare solo quadretti appartenenti ad una sola colonna o ad una sola riga.

Es:

SÌ!

NO!

3.1.1 Proprietà dell’I-Chomp

Strategia della “mossa rubata”

L’I-Chomp possiede una configurazione “pivot” che è la medesima del Chomp classico: la tavoletta privata del quadratino in alto a destra:

Ne segue, per l’argomento della “mossa rubata”, che c’è sempre una strategia vincente per il primo giocatore.

I-Chomp 2×n.

Se la configurazione di partenza è una tavoletta 2×n come in figura:

321

il primo giocatore può vincere applicando la medesima strategia dello “scalino” del Chomp classico.

I-Chomp 3×n.

Per n è pari può essere descritta strategia vincente per il primo giocatore.

- Dimostrazione -

Omessa

3.4 -Chomp

Lo -Chomp (o “Square Chomp”) è una variante del Chomp nel quale ad ogni mossa i quadratini eliminati devono formare dei quadrati, in sostanza sono ammessi solo “morsi” quadrati. Es:

SÌ!

NO!

322

3.4.1 Proprietà dell’ -Chomp

-Chomp 1×n.

Se la configurazione di partenza è una tavoletta 1×n come in figura:

allora

• se n è pari esiste una strategia vincente per il primo giocatore • se n è dispari esiste una strategia vincente per il secondo giocatore

- Dimostrazione -

E’ sufficiente notare che i morsi permessi tolgono ogni volta un solo quadretto.

-Chomp 2×n.

Se la configurazione di partenza è una tavoletta 2×n come in figura:

il primo giocatore può vincere applicando la medesima strategia dello “scalino” del Chomp classico.

-Chomp n×n.

323

Se la configurazione di partenza è una tavoletta quadrata n×n , la restrizione dei morsi quadrati non impedisce al primo giocatore di vincere adottando la strategia che si usa nel Chomp classico, iniziando con la mossa:

per poi proseguire “copiando” ogni volta la mossa del secondo giocatore (“strategia simmetrica”).

3.5 Chessboard-Chomp

Il Chessboard-Chomp è una variante del Chomp nel quale la tavoletta è colorata a scacchi e i due giocatori effettuano un morso classico partendo solo da quadretti neri (il quadretto avvelenato è bianco)

Es:

3.5.1 Proprietà del Chessboard-Chomp

Chessboard-Chomp 2×n.

Se il Chessboard-Chomp è giocato su una tavoletta 2×n, allora

• se n è dispari esiste una strategia vincente per il primo giocatore

324

• se n è pari esiste una strategia vincente per il secondo giocatore

- Dimostrazione -

Omessa

Chessboard-Chomp n×n.

Se il Chessboard-Chomp è giocato su una tavoletta quadrata n×n, allora esiste sempre una strategia vincente per il secondo giocatore.

- Dimostrazione -

Il secondo giocatore vince utilizzando la strategia simmetrica rispetto alla diagonale di caselle bianche (“interdette”) che contiene quella avvelenata.

Esempio:

3.6 ∞-Chomp

Gli ∞-Chomp sono varianti del Chomp nel quale la tavoletta contiene un numero infinito di quadretti.

3.6.1 Proprietà degli ∞-Chomp

Chomp 1×∞.

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Se il Chomp è giocato su una tavoletta 1×∞, allora esiste banalmente una strategia vincente per il primo giocatore:

Chomp 2×∞.

Se il Chomp è giocato su una tavoletta 2×∞, allora esiste una strategia vincente per il secondo giocatore.

- Dimostrazione -

1° caso: se il primo giocatore sceglie un quadretto nella riga superiore, il secondo giocatore vince con la strategia “gradino”

Es:

2° caso: se il primo giocatore sceglie un quadretto nella riga inferiore, il secondo giocatore vince anche questa volta con la strategia “gradino”

Es:

Chomp n×∞ con n>2

Se il Chomp è giocato su una tavoletta 2×∞ con n>2, allora esiste una strategia vincente per il primo giocatore.

- Dimostrazione -

Dopo aver scelto il quadretto di due posti più alto di quello avvelenato, il primo giocatore prosegue con la strategia del secondo giocatore nel Chomp 2×∞.

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Es:

Chomp ∞×∞.

Se il Chomp è giocato su una tavoletta ∞×∞, allora esiste una strategia vincente per il primo giocatore.

- Dimostrazione -

Il primo giocatore ha a disposizione due strategie:

1^ strategia: dopo aver scelto il quadretto in alto a destro di quello avvelenato, prosegue con la strategia simmetrica. Es:

2^ strategia: dopo aver scelto il quadretto di due posti più alto di quello avvelenato, prosegue con la strategia del secondo giocatore nel Chomp 2×∞. Es:

4. Conclusioni

La ricerca qui illustrata potrebbe essere sviluppata lungo varie direttive.

In primo luogo le analisi svolte hanno individuato una serie di problemi aperti. In particolare abbiamo visto che nell’I-Chomp c’è una strategia vincente per il primo giocatore, tuttavia solo in casi particolari abbiamo potuto esibirla (ad esempio (crf. 3.1.1) nell’I-Chomp 3×n con n pari.

Un’altra strada è quella di continuare ad introdurre varianti del Chomp classico. Ecco di seguito un possibile elenco.

327

• L- Chomp “speciali”: esempio

• I-vertical- Chomp: esempio

SÌ!

NO!

• WhiteChessboard-Chomp: si possono scegliere solo i quadretti bianchi:

• Varianti di Chomp transfiniti

Infine vale la pena ricordare che per un’analisi più approfondita del Chomp e delle sue varianti si può convenientemente ricorrere ad apparati formali della moderna teoria dei giochi come ad esempio la teoria di Grundy-Sprague [6].

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5. Bibliografia e sitografia

[1] http://www.dm.unipi.it/~gaiffi/papers/giochi.pdf

[2] Martin Gardner, Mathematical Games. Scientific American, Jan.

1973, pp.110-111.

[3] http://www.math.ucla.edu/~tom/Games/chomp.html

[4] Emanuele Delucchi, Giovanni Gaiffi, Ludovico Pernazza, Giochi e percorsi matematici, Springer

[5] https://it.wikipedia.org/wiki/Chomp [6] http://bertoni.di.unimi.it/Giochi_combinatori_e_complessita.pdf

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ROBERTO CETERA

Il male innocente

L’inizio del nuovo anno scolastico si è aperto nel segno del dolore: la scomparsa improvvisa di Denisse, studentessa della IVB, di soli 14 anni. Pubblichiamo qui di seguito il breve intervento svolto dal professore di religione, Roberto Cetera, durante i funerali nella chiesa di san Liborio.

Siamo sbigottiti, increduli, dilaniati dal dolore. Cara mamma e cari fratelli di Denisse, il vostro dolore è il nostro. Siamo in tanti oggi qui, preside, professori, collaboratori e tanti studenti, a testimoniarvelo. Perché la scuola è, e deve essere, una comunità di relazioni e di affetti dove si impara a vivere, e Dennise ne era, ne è, da pochi mesi una componente. La scuola è un luogo dove si impara a pensare, dove si costruisce un senso del vivere, e noi non vogliamo abdicare a questo scopo anche oggi, anche ora mentre le emozioni sembrano prendere il sopravvento. E allora la prima domanda che ci assale tutti è “Perché?”. Perché a una ragazza di 14 anni, piena di voglia di vivere, innocente, senza colpa, ricca di energia positiva e di amore, viene impedito di vivere? Nel programma di religione del primo anno, l’anno di Denisse, trattiamo l’interpretazione esegetica dei primi capitoli della Genesi: la Creazione. E impariamo che i significati di quei racconti allegorici sono essenzialmente due: che Dio è onnipotente (crea con la parola dal nulla) ed è sommamente buono (… “e vide che era cosa buona”) perché crea per il bene. Ora, se Dio è onnipotente e sommamente buono – e noi crediamo che lo sia – perché ha permesso che Denisse morisse? Forse non è così onnipotente, e si arrende alla forza della natura che Egli stesso ha creato? O forse non è sommamente buono, ma solo neutrale e afasico rispetto alle cose del mondo? È il problema terribile del “male innocente”, su cui inciampiamo non solo noi, ma tutte le religioni e filosofie. Perché esiste il male innocente? Perché Dio permette il male innocente? È un problema, per esempio,

331 che nella teologia ebraica ha assunto un tono drammatico dopo la Shoah del popolo pur “eletto” da Dio: dov’era Dio al tempo di Aushwitz, quando sei milioni di suoi figli innocenti venivano trucidati nei campi di sterminio? Dov’eri Dio allora? Dove sei Dio oggi davanti a questa bara? Te lo chiediamo, te lo gridiamo, angosciati, disperati e impotenti. Qualche mese fa un gruppo di ragazzi della vostra età è stato invitato in udienza da Papa Francesco, il quale, nella sua consueta empatia ha esordito dicendo: “mica capita tutti i giorni di incontrare il Papa, chissà quante domande vorreste farmi, perciò io sto zitto e voi chiedetemi pure quello che volete”. E la prima domanda, di una ragazza, è stata proprio: “Padre Santo, perché i bambini, gli innocenti, soffrono e muoiono? Perché Dio lo permette?”. Il Papa è stato in silenzio per alcuni istanti e poi con grande sorpresa ha umilmente risposto “non lo so. Sono onesto con voi: non lo sappiamo, nessuno lo sa. È un mistero che la nostra mente non riesce a cogliere”. Ma poi ha aggiunto pressappoco in questi termini: “però una cosa la so: il nostro Dio non è un Dio giudice assoluto e potente che dall’alto guarda alle vicende degli uomini, non è neanche un Dio solo puro spirito che è presente nella coscienza di ciascuno e ad essa equivale. Il nostro Dio è un Dio-uomo che ha sofferto innocente ed è morto innocente. La più grande delle vittime innocenti e senza colpa.” Come Denisse, come tanti bambini qui in Italia, in Siria sotto le bombe, in Africa senza cibo. Allora noi non sappiamo con onestà il perché del male innocente, ma sappiamo che il nostro Dio lo ha conosciuto, lo ha condiviso, e quindi ci è vicino. Ci capisce. Ci consola. Se solo apriamo il nostro cuore e lo sentiamo vicino a noi. Cara mamma e cari fratelli di Denisse, cari ragazzi che siete qui oggi, non vi dico di sopprimere il vostro pianto, le vostre emozioni, o anche la vostra rabbia, vi dico però di aprire il vostro cuore, di non sentirvi soli nel vostro dolore, di non inaridirlo, ma di svilupparlo in amore, così come ha fatto Gesù. Sono certo che queste sarebbero le stesse parole che vi indirizzerebbe Denisse dal regno d’amore in cui si trova. Mentre Denisse ci lasciava, in quelle stesse ore, ero a Gerusalemme; sono appena tornato. Quando un turista o un pellegrino entra per la prima volta nella basilica del Santo Sepolcro la prima cosa da cui rimane colpito è la contiguità nello stesso tempio del Calvario e della Tomba; in genere i film ci hanno abituato a immaginare la collina della

332 crocefissione a qualche chilometro dalla tomba, e ci sorprende vederli vicini, entrambi nella stessa grande chiesa. Quando l’imperatrice Elena eresse nel 330 la prima basilica, avrebbe ben potuto costruirne due vicine: una sul Calvario e una intorno alla tomba della resurrezione. Ma scelse diversamente, e non fu una scelta solo architettonica, ma specialmente teologica: riunendo i due luoghi in uno stesso tempio voleva significarci che non c’è resurrezione senza morte, e non c’è morte senza resurrezione. Che la morte è il passaggio necessario ed ineludibile per una vita che duri in eterno. Sembra un paradosso ma non c’è resurrezione senza croce, non c’è vita che duri per sempre senza la morte. Questa è l’unica speranza che oggi abbiamo se non vogliamo che il nostro pur legittimo dolore non si tramuti in disperazione. Quella notte, mentre Denisse se ne andava, ho avuto il previlegio di passare l’intera notte in solitudine e in preghiera, con le mani sul marmo di quella tomba. Ho pregato anche per tutti coloro che soffrono il male innocente, ho pregato per Denisse anche se non lo sapevo. Ho pregato perché tutto il male del mondo passando attraverso quella pietra si trasformi, come duemila anni fa, in bene assoluto ed eterno. Questo vi invito a fare anche qui, oggi. C’è una speranza. Non abbandoniamola. In essa vi sono, vi siamo, vicini.

333

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Per Denisse

Pubblichiamo sui “Quaderni del Liceo Orazio” una poesia, scritta da una compagna di classe di Denisse, che vuole ricordare la sua cara amica prematuramente sottratta alla vita e a tutti noi.

Eri poesia,

Tutto di te era arte.

Quelle labbra sottili

Curvate in un sorriso,

La curva più pericolosa

Ma la più unica e bella.

La tua risata suonava come una canzone,

La tua canzone,

L'hai scritta nel mio cuore,

Nei nostri cuori,

E non te ne sei accorta.

La tua gioia era magia allo stato puro.

Non esisterà nessuno come te,

Perché, sì, siamo tutti unici,

Ma tu lo eri un po' di più...

Tu eri più di tutto questo,

Eri più di ciò che vedo adesso.

Nessuno può e potrà mai paragonarsi alla tua bellezza.

Ma questa vita è ingiusta,

Lo sappiamo ormai

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Che dobbiamo goderci ogni istante,

E conservare i ricordi

Per non lasciare indietro chi dobbiamo tenere nel cuore.

E cercherò di ricordarti così,

Mentre cammini sulla strada

Con quello zaino pesante sulle spalle,

Che arrivi ridendo

E sposti i capelli ricci da un lato,

E mi abbracci.

Cercherò di ricordarti come vorresti,

Ma non sono all'altezza di questi ricordi,

Perché tu rimarrai sempre superiore a questo mondo,

Tu e le tue cuffiette,

Tu e i tuoi disegni,

Tu e la tua musica,

Tu e le tue risate,

Tu.

Mi mancherai per sempre...

Diana Pilloni (classe IV B)

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Un disegno di Denisse, al tempo della scuola media.

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