Leggi, Scrivi E Condividi Le Tue 10 Righe Dai Libri FRANCESCO CANESSA
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leggi, scrivi e condividi le tue 10 righe dai libri http://www.10righedailibri.it FRANCESCO CANESSA ATTORI SI NASCE protagonisti e grandi famiglie del teatro napoletano EDIZIONI LA CONCHIGLIA N.B. Abbiamo scelto per la copertina una foto di Titina ed Eduardo per ricordare ai lettori un doppio anniversario: i cin- quant’anni dalla scomparsa di Titina, nel 2013, e i trent’anni dalla scomparsa di Eduardo, nel 2014. La foto di copertina e i due collages in pattina di quarta provengono dal fondo Helsèn-Carloni. © Diritti letterari riservati Edizioni La Conchiglia Via Le Botteghe, 12 – 80073 Capri (Napoli – Italia) Tel + 39 0818376577 – Fax + 39 08119723718 www.edizionilaconchiglia.it [email protected] A PALAZZO SCARPETTA Napoli quartiere Chiaia, via Vittoria Colonna 4. Una dea alata che impugna una tromba con la destra e una maschera con la sinistra sovrasta il portone, facendo da stemma a un palazzo che nobile non è, come invece sono quelli che gli stanno dappresso. Alcuni prendono nome da casate storiche, Palazzo Carafa dei principi di Roccel- la, Palazzo d’Avalos dei principi di Vasto, residenze antiche circondate da un proprio borgo, sacrificato a fine Ottocen- to all’apertura di una nuova strada chiamata, nell’euforia garibaldina di quel tempo, via dei Mille. Altri appena più distanti, Palazzo Leonetti, Palazzo Mannajuolo, richiama- no aristocrazie di censo non principesco, ma egualmente illustri. Quello con angelo, tromba e maschera è Palazzo Scarpetta, costruito da Eduardo, attore famoso nei primi anni del Novecento che principe fu, ma della risata come egli stesso immortalò sul marmo di una lapide murata all’ingresso della villa in collina aggiunta alla dimora di cit- tà, quando prematuramente decise di ritirarsi dalle scene: «Qui rido io!». Ma rispetto ai palazzi che lo circondano, il suo ha qualcosa in più, tre statue marmoree in altrettante nicchie nell’androne, che figure di antenati non sono, ma di creature di spettacolo, personaggi della commedia che più gli aveva dato lustro e danari, ’A Santarella: L’Organi- sta, la Superiora del convento e l’irreprensibile Educanda di giorno e soubrette di notte di cui al titolo. Volle essere un segno tutt’altro che ironico, ma serio e d’un gusto un 13 po’ barocco destinato ai contemporanei ed ai posteri per certificare il risultato sociale del proprio successo, il salto di qualità che con lui compiva una classe subalterna, quella dei comici. Partito dalle tavole sconnesse del San Carlino, era riuscito ad affrancarsi da quello stato senza smettere in scena l’abito ridicolo di Felice Sciosciammocca, la masche- ra da lui creata, ma trasformandosi nella vita in un borghe- se ricco e ben vestito, fiore all’occhiello, orologio e catena d’oro nel panciotto. Con le giuste relazioni intellettuali, da Benedetto Croce a Massimo Gorky, ed a capo di una com- plessa famiglia allargata, conseguenza di esuberanza amo- rosa e della tendenza al culto della personalità anche dentro le mura di casa, praticava “alla napoletana” usi e costumi dei califfati mediorientali. Cominciai a frequentare Palazzo Scarpetta nell’estate del 1944 quando Napoli era piena di soldati americani, gli Alleati entrati a Roma e presa Firenze si erano fermati con- tro la Linea Gotica di Kesserling e le incursioni aeree sulla città le facevano i tedeschi. La prima volta mi accompagna- va un nuovo amico che mi diventerà carissimo, Augusto Carloni, il figlio di Titina De Filippo che con i genitori abitava al primo piano e per assicurarmi un sostanziale la- sciapassare in caso di eventuali visite future fui contestual- mente presentato al portiere don Peppino. Inconsciamente teatralizzatosi con la frequentazione di inquilini quasi tutti dediti a professioni di palcoscenico, non portava la livrea come i colleghi dei palazzi vicini, ma al pari di questi cal- zava un inequivocabile berretto rigido con visiera, bordato da un gallone rosso un po’ stinto su cui si intravedevano, al posto degli stemmi, alcuni indecifrabili geroglifici. Pareva recitasse il ruolo di guardaportone secondo canovaccio co- mico, nel muoversi e nel parlare, accentando con sussiego certe risibili storpiature linguistiche. E non sarà un caso se Eduardo De Filippo lo copierà pari-pari facendone un per- sonaggio da antologia in una delle sue commedie più for- 14 tunate, il portiere Raffaele, “anima nera” diQuesti fantasmi! Nel lato di fianco a quello in cui si apriva lo scalo- ne principale, che al centro lasciava spazio a un ascensore liberty con la cabina in legno, la porta a due ante con i pomelli di ottone e il divanetto di velluto, si apriva una seconda scala assai più modesta, appena due rampe che portavano a un paio di stanze affacciate sul cortile, forse pensate come alloggio del custode. Le abitava invece l’ere- de numero uno del Palazzo, Vincenzo Scarpetta, figlio primogenito di Eduardo con la moglie Amelia Bottone, entrambi attori intristiti dall’età e dall’oblio in cui li aveva- no cacciati i protagonisti emergenti dell’allargata famiglia, i fratellastri Eduardo, Titina e Peppino De Filippo. Si erano sistemati lì cedendo il loro vecchio appartamento al quarto piano, ampio e con una bella veduta verso il mare, alla fi- glia Dora che aveva sposato Vittorio Viviani, uno dei figli di Raffaele, imparentando così due illustri casate teatrali che in palcoscenico erano rimaste a distanza, lungo percor- si diversi. Dora era una bella signora dai capelli rossi, molto estroversa e simpatica. Aveva fatto l’attrice anche lei, ma soltanto da giovane, in una compagnia che aveva in “ditta” il padre Vincenzo e Tina Pica, in un ruolo brillante cucitole addosso dalla zia Maria Scarpetta, che con lo pseudoni- mo di Mascaria aveva adattato in napoletano la commedia milanese Felicita Colombo di Giuseppe Adami, opportu- namente trasformata nel titolo in Donna Rosa Palumbo. Il marito Vittorio faceva il regista, scriveva libretti d’Opera per gli ultimi compositori di scuola napoletana – Jacopo Napoli, Terenzio Gargiulo, Guido Pannain – insegnava letteratura drammatica in conservatorio e collezionava vecchi copioni teatrali, locandine e altri cimeli che ormai fuoriuscivano dal cascione cui erano destinati, ed il termine indicava il baule di pertinenza del suggeritore nelle vecchie compagnie di giro. Sul medesimo pianerottolo affacciava la casa di Maria Scarpetta, che di Vincenzo era la sorella- 15 stra, nata da una fugace relazione del prolifico Eduardo, ma che il padre aveva preferito a tutti gli altri esponenti della composita nidiata adottandola con il consenso del- la legittima moglie e dandole il proprio cognome. Aveva sposato Mario Mangini, un avvocato che, deposta la toga, era diventato uno degli autori più significativi del Teatro leggero italiano. A dargli una grossa mano era la moglie, che smesso anche lei di fare l’attrice, riversava il talento di famiglia nell’abbozzare scene e scenette destinate a rimpol- pare i copioni del marito. La loro figlia Giulia non aveva mai fatto Teatro, ma esprimeva la sua esuberante vivacità all’interno della comunità scarpettiana ed era una sorta di antologia parlante delle battute più significative delle com- medie recitate dal parentado. Le adoperava per ammiccare all’atteggiamento di persone, ironizzare su fatti e fattarelli, sdrammatizzare circostanze, dando origine ad una sorta di linguaggio criptato spesso condiviso dagli interlocutori, ma la cui comprensione era impossibile a chi non cono- scesse le commedie da cui provenivano. Qualche esempio: un estraneo, in casa sua o di altri, prendeva un oggetto da un tavolo e indugiava nel rigirarlo tra le mani: «Queste si chiamano posate perché si posano!» (da Scarpetta, Miseria e Nobiltà). Oppure si avvicinava a un gruppo di amici che giocava a carte intorno a un tavolo di fortuna: «S’è aperto Montecarlo!» (da Viviani, Il vicolo). Qualcuno lamentava l’esito sfavorevole di una pratica qualsiasi o raccontava di un’ingiustizia subìta: «Cagna ’o paglietta e miette appello!» (da Di Giacomo, Assunta Spina) ove il termine “pagliet- ta” indica un penalista di poche pretese. Un parente o un amico giungeva trafelato, come se avesse corso o venisse da lontano: «Tengo ancora il rombo del motore nelle orec- chie!» (da Eduardo De Filippo, L’ultimo Bottone). E così via, continuamente aggiornando il glossario man mano che il repertorio si rinnovava. Il contributo numerico mag- giore alla comunità teatrale di Palazzo Scarpetta lo dava 16 l’appartamento di Titina De Filippo che sulla targhetta d’ottone sopra il campanello portava scritto il suo cogno- me da sposata, Carloni. Una volta suonato e passati nella sala d’ingresso, c’erano due possibilità di scelta, una porta a destra o un’altra a sinistra senza rischio di sbagliare, perché comunque i Carloni erano sia da una parte che dall’altra. Titina, il marito Pietro e il figlio Augusto stavano a destra, Augusto senior e la moglie Addolorata a sinistra. Cinque in tutto, così pochi? Macché, c’è da aggiungere subito a sinistra tre nipoti, affidati ai nonni e poi mettere nel conto dallo stesso lato sei dei sette figli attori in giro per l’Italia, periodicamente in arrivo in quello che era il loro domicilio di riferimento: Alberto, Ettore, Italia, Adelina, Maria, Este- rina. Il settimo, Pietro, il marito di Titina, se ne stava sulla destra dell’appartamento, in casa sua con moglie e figlio. Sull’altro lato gravava, anche se in maniera più saltuaria, il drappello dei congiunti del sestetto carlonico itinerante: Margherita Bagni compagna di Alberto, attrice di cartello nelle compagnie “in lingua” e poi Beppe Pertile marito di Maria, e Nino Marchesini marito di Italia anch’essi attori. Adelina era sposata a Peppino De Filippo ed abitava per conto suo, ma il matrimonio aveva alti e bassi e il rifugio istituzionale era la casa della mamma. Ed ancora il mari- to di Esterina, Enzo Ardovino, che non recitava, ma fa- ceva l’organizzatore teatrale. Un’altra Carloni era Gigina, eccezionalmente refrattaria alla polvere di palcoscenico e bravissima sarta d’alta moda, sposata ad un commissario di bordo genovese e perciò trasferita in Liguria.