leggi, scrivi e condividi le tue 10 righe dai libri http://www.10righedailibri.it FRANCESCO CANESSA

ATTORI SI NASCE protagonisti e grandi famiglie del teatro napoletano

EDIZIONI LA CONCHIGLIA N.B. Abbiamo scelto per la copertina una foto di Titina ed Eduardo per ricordare ai lettori un doppio anniversario: i cin- quant’anni dalla scomparsa di Titina, nel 2013, e i trent’anni dalla scomparsa di Eduardo, nel 2014.

La foto di copertina e i due collages in pattina di quarta provengono dal fondo Helsèn-Carloni.

© Diritti letterari riservati Edizioni La Conchiglia Via Le Botteghe, 12 – 80073 Capri (Napoli – Italia) Tel + 39 0818376577 – Fax + 39 08119723718 www.edizionilaconchiglia.it [email protected] A PALAZZO SCARPETTA

Napoli quartiere Chiaia, via Vittoria Colonna 4. Una dea alata che impugna una tromba con la destra e una maschera con la sinistra sovrasta il portone, facendo da stemma a un palazzo che nobile non è, come invece sono quelli che gli stanno dappresso. Alcuni prendono nome da casate storiche, Palazzo Carafa dei principi di Roccel- la, Palazzo d’Avalos dei principi di Vasto, residenze antiche circondate da un proprio borgo, sacrificato a fine Ottocen- to all’apertura di una nuova strada chiamata, nell’euforia garibaldina di quel tempo, via dei Mille. Altri appena più distanti, Palazzo Leonetti, Palazzo Mannajuolo, richiama- no aristocrazie di censo non principesco, ma egualmente illustri. Quello con angelo, tromba e maschera è Palazzo Scarpetta, costruito da Eduardo, attore famoso nei primi anni del Novecento che principe fu, ma della risata come egli stesso immortalò sul marmo di una lapide murata all’ingresso della villa in collina aggiunta alla dimora di cit- tà, quando prematuramente decise di ritirarsi dalle scene: «Qui rido io!». Ma rispetto ai palazzi che lo circondano, il suo ha qualcosa in più, tre statue marmoree in altrettante nicchie nell’androne, che figure di antenati non sono, ma di creature di spettacolo, personaggi della commedia che più gli aveva dato lustro e danari, ’A Santarella: L’Organi- sta, la Superiora del convento e l’irreprensibile Educanda di giorno e soubrette di notte di cui al titolo. Volle essere un segno tutt’altro che ironico, ma serio e d’un gusto un

13 po’ barocco destinato ai contemporanei ed ai posteri per certificare il risultato sociale del proprio successo, il salto di qualità che con lui compiva una classe subalterna, quella dei comici. Partito dalle tavole sconnesse del San Carlino, era riuscito ad affrancarsi da quello stato senza smettere in scena l’abito ridicolo di Felice Sciosciammocca, la masche- ra da lui creata, ma trasformandosi nella vita in un borghe- se ricco e ben vestito, fiore all’occhiello, orologio e catena d’oro nel panciotto. Con le giuste relazioni intellettuali, da Benedetto Croce a Massimo Gorky, ed a capo di una com- plessa famiglia allargata, conseguenza di esuberanza amo- rosa e della tendenza al culto della personalità anche dentro le mura di casa, praticava “alla napoletana” usi e costumi dei califfati mediorientali. Cominciai a frequentare Palazzo Scarpetta nell’estate del 1944 quando Napoli era piena di soldati americani, gli Alleati entrati a Roma e presa Firenze si erano fermati con- tro la Linea Gotica di Kesserling e le incursioni aeree sulla città le facevano i tedeschi. La prima volta mi accompagna- va un nuovo amico che mi diventerà carissimo, Augusto Carloni, il figlio di Titina De Filippo che con i genitori abitava al primo piano e per assicurarmi un sostanziale la- sciapassare in caso di eventuali visite future fui contestual- mente presentato al portiere don Peppino. Inconsciamente teatralizzatosi con la frequentazione di inquilini quasi tutti dediti a professioni di palcoscenico, non portava la livrea come i colleghi dei palazzi vicini, ma al pari di questi cal- zava un inequivocabile berretto rigido con visiera, bordato da un gallone rosso un po’ stinto su cui si intravedevano, al posto degli stemmi, alcuni indecifrabili geroglifici. Pareva recitasse il ruolo di guardaportone secondo canovaccio co- mico, nel muoversi e nel parlare, accentando con sussiego certe risibili storpiature linguistiche. E non sarà un caso se lo copierà pari-pari facendone un per- sonaggio da antologia in una delle sue commedie più for-

14 tunate, il portiere Raffaele, “anima nera” diQuesti fantasmi! Nel lato di fianco a quello in cui si apriva lo scalo- ne principale, che al centro lasciava spazio a un ascensore liberty con la cabina in legno, la porta a due ante con i pomelli di ottone e il divanetto di velluto, si apriva una seconda scala assai più modesta, appena due rampe che portavano a un paio di stanze affacciate sul cortile, forse pensate come alloggio del custode. Le abitava invece l’ere- de numero uno del Palazzo, Vincenzo Scarpetta, figlio primogenito di Eduardo con la moglie Amelia Bottone, entrambi attori intristiti dall’età e dall’oblio in cui li aveva- no cacciati i protagonisti emergenti dell’allargata famiglia, i fratellastri Eduardo, Titina e . Si erano sistemati lì cedendo il loro vecchio appartamento al quarto piano, ampio e con una bella veduta verso il mare, alla fi- glia Dora che aveva sposato Vittorio Viviani, uno dei figli di Raffaele, imparentando così due illustri casate teatrali che in palcoscenico erano rimaste a distanza, lungo percor- si diversi. Dora era una bella signora dai capelli rossi, molto estroversa e simpatica. Aveva fatto l’attrice anche lei, ma soltanto da giovane, in una compagnia che aveva in “ditta” il padre Vincenzo e Tina Pica, in un ruolo brillante cucitole addosso dalla zia Maria Scarpetta, che con lo pseudoni- mo di Mascaria aveva adattato in napoletano la commedia milanese Felicita Colombo di Giuseppe Adami, opportu- namente trasformata nel titolo in Donna Rosa Palumbo. Il marito Vittorio faceva il regista, scriveva libretti d’Opera per gli ultimi compositori di scuola napoletana – Jacopo Napoli, Terenzio Gargiulo, Guido Pannain – insegnava letteratura drammatica in conservatorio e collezionava vecchi copioni teatrali, locandine e altri cimeli che ormai fuoriuscivano dal cascione cui erano destinati, ed il termine indicava il baule di pertinenza del suggeritore nelle vecchie compagnie di giro. Sul medesimo pianerottolo affacciava la casa di Maria Scarpetta, che di Vincenzo era la sorella-

15 stra, nata da una fugace relazione del prolifico Eduardo, ma che il padre aveva preferito a tutti gli altri esponenti della composita nidiata adottandola con il consenso del- la legittima moglie e dandole il proprio cognome. Aveva sposato Mario Mangini, un avvocato che, deposta la toga, era diventato uno degli autori più significativi del Teatro leggero italiano. A dargli una grossa mano era la moglie, che smesso anche lei di fare l’attrice, riversava il talento di famiglia nell’abbozzare scene e scenette destinate a rimpol- pare i copioni del marito. La loro figlia Giulia non aveva mai fatto Teatro, ma esprimeva la sua esuberante vivacità all’interno della comunità scarpettiana ed era una sorta di antologia parlante delle battute più significative delle com- medie recitate dal parentado. Le adoperava per ammiccare all’atteggiamento di persone, ironizzare su fatti e fattarelli, sdrammatizzare circostanze, dando origine ad una sorta di linguaggio criptato spesso condiviso dagli interlocutori, ma la cui comprensione era impossibile a chi non cono- scesse le commedie da cui provenivano. Qualche esempio: un estraneo, in casa sua o di altri, prendeva un oggetto da un tavolo e indugiava nel rigirarlo tra le mani: «Queste si chiamano posate perché si posano!» (da Scarpetta, Miseria e Nobiltà). Oppure si avvicinava a un gruppo di amici che giocava a carte intorno a un tavolo di fortuna: «S’è aperto Montecarlo!» (da Viviani, Il vicolo). Qualcuno lamentava l’esito sfavorevole di una pratica qualsiasi o raccontava di un’ingiustizia subìta: «Cagna ’o paglietta e miette appello!» (da Di Giacomo, Assunta Spina) ove il termine “pagliet- ta” indica un penalista di poche pretese. Un parente o un amico giungeva trafelato, come se avesse corso o venisse da lontano: «Tengo ancora il rombo del motore nelle orec- chie!» (da Eduardo De Filippo, L’ultimo Bottone). E così via, continuamente aggiornando il glossario man mano che il repertorio si rinnovava. Il contributo numerico mag- giore alla comunità teatrale di Palazzo Scarpetta lo dava

16 l’appartamento di Titina De Filippo che sulla targhetta d’ottone sopra il campanello portava scritto il suo cogno- me da sposata, Carloni. Una volta suonato e passati nella sala d’ingresso, c’erano due possibilità di scelta, una porta a destra o un’altra a sinistra senza rischio di sbagliare, perché comunque i Carloni erano sia da una parte che dall’altra. Titina, il marito Pietro e il figlio Augusto stavano a destra, Augusto senior e la moglie Addolorata a sinistra. Cinque in tutto, così pochi? Macché, c’è da aggiungere subito a sinistra tre nipoti, affidati ai nonni e poi mettere nel conto dallo stesso lato sei dei sette figli attori in giro per l’Italia, periodicamente in arrivo in quello che era il loro domicilio di riferimento: Alberto, Ettore, Italia, Adelina, Maria, Este- rina. Il settimo, Pietro, il marito di Titina, se ne stava sulla destra dell’appartamento, in casa sua con moglie e figlio. Sull’altro lato gravava, anche se in maniera più saltuaria, il drappello dei congiunti del sestetto carlonico itinerante: Margherita Bagni compagna di Alberto, attrice di cartello nelle compagnie “in lingua” e poi Beppe Pertile marito di Maria, e Nino Marchesini marito di Italia anch’essi attori. Adelina era sposata a Peppino De Filippo ed abitava per conto suo, ma il matrimonio aveva alti e bassi e il rifugio istituzionale era la casa della mamma. Ed ancora il mari- to di Esterina, Enzo Ardovino, che non recitava, ma fa- ceva l’organizzatore teatrale. Un’altra Carloni era Gigina, eccezionalmente refrattaria alla polvere di palcoscenico e bravissima sarta d’alta moda, sposata ad un commissario di bordo genovese e perciò trasferita in Liguria. Il capo- stipite, nonno Augusto, aveva passato anche lui una vita in palcoscenico e l’irriverente Giulia Mangini l’aveva so- prannominato “Ermete Zacconi”, massimo attore tragico della generazione precedente, sia per i drammoni in cui si era cimentato nel passato, che per un vistoso tremolio della mano che lo faceva assomigliare all’illustre modello, che quel male esibiva con naturalezza trasformandolo in gesto

17 scenico. Aveva abbracciato sin da giovane la forma antica della “Carretta dei Comici” con una compagnia itinerante dotata di una attrezzatura mobile che consentiva di fare spettacolo ovunque, anche nei paesi che non avevano tea- tro. Con un termine più commiserevole che dispregiativo, quelli come lui venivano chiamati “scavalca montagne” ma egli non lo fu per una particolare dignità e cultura e anche perché operava in Puglia, ove montagne non ce ne sono. In una cittadina di quella regione s’era innamorato della figlia di un notaio, che si mostrò recalcitrante a benedire l’idillio, dando origine al rituale della fuiuta, rapimento consensua- le e fuga della coppia con conseguenti nozze riparatrici. La giovane borghese, affascinata dall’attore errante, rimarrà accanto a lui tutta la vita e sarà la titolare del presidio di sinistra dell’appartamento Carloni di Palazzo Scarpetta. All’inizio si era aggiunta alla compagnia non come attrice, ma come sarta e girando-girando partorì i suoi figli cia- scuno in un paese diverso: Pietro a San Pietro Vernotico, Alberto a Manfredonia, Ettore – manco a dirlo! – a Troia, Italia a Conversano, Adelina a Termoli, Gigina a Bitetto, Esterina a Guardiagrele, Maria a Squinzano. Tutti contri- buivano pro-quota al sostentamento dei genitori, ma chi arrivava in casa aggiungeva un “rimborso spese” giornalie- ro. Visto il mestiere comune, non erano mai presenti tutti assieme, ma l’alternanza era costante e, solo a sera, la madre stilava una specie di ordine del giorno con l’assegnazione delle camere e dei letti disponibili. Manco i tre nipoti stan- ziali erano certi di dormire tutte le sere nello stesso letto, ma entravano nella rotazione come gli altri. Soltanto lei e nonno Augusto ne erano esonerati, il vecchio talamo non permetteva intrusi. Accessorio indi- spensabile che accompagnava in ogni dove gli attori era il baule–armadio e dal numero di questi, parcheggiati in ver- ticale nella sala d’ingresso, si poteva fare il conto di quanti Carloni fossero presenti nella casa comune.

18 Nella parte destra dell’appartamento, la stanza in cui aveva vissuto Luisa De Filippo, la mamma di Titina scom- parsa durante lo sfollamento a Roma, era ora occupata da due sorelle di lei, le zie Ninuccia e Rosina. Si erano trasfe- rite a Palazzo Scarpetta quando la nipote era andata via e i bombardamenti alleati si erano fatti più frequenti, perché vicino c’era un buon ricovero, la stazione della metropoli- tana. Entrate in città le truppe alleate, la giustificazione per restarvi s’era raddoppiata: oltre al rischio delle incursioni aeree ora compiute dalla Luftwaffe si era aggiunto quello della requisizione degli appartamenti, provvedimento che il comando della Quinta Armata prendeva a vasto raggio, limitandosi però alle case lasciate vuote da proprietari o inquilini ancora sfollati. La precauzione aveva funzionato, perché un sergente americano accompagnato da un poli- ziotto italiano aveva bussato alla porta e girato per le stanze, trovando in una la zia Rosina a letto ammalata e in un’altra Margherita, la figlia di zia Ninuccia che s’era trasferita dalla madre col suo bimbo in culla, avendo litigato col marito. La casa fu salva, ma non il pianoforte di Titina che stava nel suo studio e che fu requisito e ritirato con tanto di ricevuta firmata da un ufficiale responsabile. In quell’autunno del 1944 si respirava aria di crisi in Pa- lazzo Scarpetta così come dappertutto, con le ferite ancora sanguinanti di una guerra vissuta con le fortezze volanti sulla testa; una situazione che, da un fronte all’altro, ancora continuava con allarmi e bombe a smorzare l’euforia del boogie-woogie, del pane bianco e delle sigarette americane. I teatri erano distrutti o danneggiati o requisiti e quei po- chi disponibili erano ancora chiusi, con gli impresari senza soldi e i possibili spettatori pure. Qualcuno s’era trasfor- mato in cinema, per sfruttare la pioggia di film americani appena arrivati dopo tanta siccità e dei divi di Hollywood finora sconosciuti o dimenticati, da Bette Davis a Gary Cooper, da Ginger Rogers a Fred Astaire, da Clark Gable

19 a Claudette Colbert. A Napoli poi c’era il coprifuoco, la gente non poteva manco uscire di casa la sera, se pure ne avesse avuto voglia. Si dava però l’opera tutti i giorni al pomeriggio per i militari inglesi al San Carlo e a sera per quelli americani al Delle Palme. Tanto melodramma aveva assicurato lavoro almeno ad uno degli abitanti del Palazzo, Vittorio Viviani che essendo l’unico regista lirico presente sulla piazza di Napoli godeva di sicuri ingaggi per inscenare a ripetizione, da una parte e dall’altra, Traviata, Butterfly o Bohème. Funzione che aveva come benefit un permesso per circolare durante il coprifuoco, il che assecondava la sua vocazione di nottambulo, esercitata malgrado le sce- nate mattutine della moglie Dora e gli sfottò continui del- la cugina Giulia, che si esercitava anche nell’alimentare i mormorii del Palazzo sui misteriosi itinerari e le possibili tappe di quelle incontrollabili scorribande notturne. In proposito Giulia aveva avviato anche una estemporanea at- tività di chiromante insieme con la già esperta Margherita, il cui grado di parentela era difficilmente catalogabile dato l’intreccio dell’albero genealogico scarpettiano e che, pur essendo tornata in pace col marito, continuava a frequen- tare la madre Ninuccia tuttora in casa di Titina. Entrambe interrogavano carte e interpretavano fondi di caffè per sco- prire se non vi fosse un’altra donna a tener lontano di casa nottetempo l’irrequieto Vittorio. Ma un po’ di am-lire – le svalutate banconote emesse dall’amministrazione militare alleata – riusciva a rimediarle anche Mario Mangini, tor- nato a Napoli da Roma in giugno con la figlia, ma senza la moglie Maria, la sua “metà pensante”, come la definivano i vicini di casa, perché non stava bene in salute e il viaggio era duro da affrontare, come nella realtà fu, sul cassone di un camion affittato in società con Titina, Pietro e il figlio Augusto. Mangini aveva ritrovato il suo vecchio partner Francesco Cipriani, un avvocato ancora in professione, che scriveva per il Teatro con lo pseudonimo di Nelli, ben in-

20 trodotto con gli anglo-americani del potentissimo PWB, acronimo del Psychological Warfare Branch, l’organismo che si occupava di propaganda, controllava i giornali e che aveva creato, dalle ceneri dell’EIAR, una stazione radio che copriva l’Italia liberata e aggiungeva collegamenti periodici con la BBC inglese, trasmettendo nel Regno Unito le ope- re liriche che si rappresentavano al San Carlo. La stazione si chiamava Radio Napoli e riuniva – onore al merito dei re- sponsabili del PWB – giovani collaboratori di qualità altis- sima, come il tempo confermerà, da Maurizio Barendson a Luigi Compagnone, Antonio Ghirelli, Ettore Giannini, Raffaele La Capria, Giuseppe Patroni Griffi, Domenico Rea, Francesco Rosi e come annunciatori Arnoldo Foà e Carlo Giuffrè. A Nelli e Mangini venne affidato uno spazio settimanale che trattasse in maniera non problematica la vita cittadina. Si chiamò Succede a Napoli ricco di sketch divertenti, centrati sul comico Agostino Salvietti, antico compagno d’arte di Titina e un po’ di tutti i Carloni. Nes- suno dei quali fu però inserito nel cast che di volta in volta si aggiungeva al protagonista e in Palazzo Scarpetta l’omis- sione fu avvertita come palese atto di guerra familiare. Nell’attesa di improbabili scritture – nei rest-camps americani si allestivano un po’ alla buona spettacoli per i militari, ma erano richiesti soltanto cantanti e ballerine – qualcuno dei Carloni si era associato a un commercio di lampadine – genere divenuto prezioso a seguito dell’eca- tombe provocata da tremolii, scossoni e spostamenti d’aria durante i bombardamenti – avviato da un ulteriore espo- nente del parentado scarpettiano che non abitava nel Pa- lazzo, ma vi veniva spesso per far visita a Titina, Pasqualino Passarelli. Era un cognome d’arte, in realtà si chiamava pure lui De Filippo ed era figlio di un’altra sorella della madre di Titina, anche lei nel catalogo delle donne amate dal dongiovanni di famiglia. Pasqualino prima di occuparsi di lampadine faceva il commerciante di tessuti girando per

21 mercatini o per case e tra i suoi problemi non c’era quello di darsi un cognome diverso. Ma aveva dovuto andar die- tro a suo fratello che invece l’aveva: si chiamava Eduardo e faceva l’attore. Con un Eduardo De Filippo già in carriera bisognava evitare doppioni. Ad imporgli di trovarsi un al- tro cognome era stato lo stesso tirannico “zio”, così come Scarpetta pretendeva di essere chiamato dai figli, con l’ec- cezione di quelli legittimi, Vincenzo e Maria, autorizzati ad usare il sostantivo papà, ma dandogli del “voi”. Né dall’altra parte della casa si navigava in acque mi- gliori. Titina e Pietro non avevano mai guadagnato molto anche negli anni di maggior successo dei tre De Filippo. Pur essendo la formazione nata per iniziativa di Titina all’interno del mitico Teatro Nuovo, dove già era una ve- dette mentre i fratelli ancora erano in ombra lavorando altrove ciascuno per proprio conto, non aveva mai voluto associarsi a loro nella gestione della Compagnia. La con- dizione di scritturati aveva accompagnato lei e il marito in una lunga, faticata gavetta e il fatto che la paga potesse fi- nalmente crescere e diventare sicura era un traguardo che li rendeva soddisfatti e tranquilli. Titina viveva la sua mater- nità in maniera particolarmente intensa: nel figlio Augusto vedeva il completamento di una famiglia “regolare”, pro- fondamente voluta e amorevolmente costruita, dopo che tanto aveva sofferto e non soltanto nell’infanzia per l’irre- golarità della propria. Nessun rischio economico dunque, l’impresa la lasciava ai fratelli. In quella estate del 1944 i risparmi erano ridotti all’osso dopo la lunga quarantena di Roma. Enzo Ardovino, marito di Ester Carloni e cognato di Pietro, che faceva l’organizzatore teatrale e sin dall’inizio curava l’attività della Compagnia De Filippo, aveva trova- to uno dei pochi locali in attività, il cineteatro Diana al Vomero, disponibile ad offrire un contratto, ma limitato al mese di novembre, con la possibilità di rinnovarlo, se le cose fossero andate bene. Le condizioni erano precarie non

22 soltanto dal punto di vista economico, ma anche artistiche. Lo spettacolo, infatti, si sarebbe alternato alla proiezione di un film, con due recite al giorno e tre nei festivi. Eduardo, che si interessava della parte artistica era dell’idea di rinun- ciare perché così significava tornare indietro ai tempi del loro esordio in avanspettacolo al cinema Kursaal. Peppino che curava l’amministrazione, premeva per accettare. Ne avevano discusso a lungo e animatamente, poi era inter- venuta Titina anche per porre un argine agli screzi che si creavano di continuo tra i due fratelli ed infine era preval- sa la necessità di riprendere comunque l’attività, il resto si sarebbe aggiustato per strada. Era piena estate, novembre era lontano e l’autunno era lungo da passare. Pietro cercò in tutti i modi di trovare un impegno per sé, senza guar- dare alla qualità o al genere, tutto andava bene se c’era da guadagnare una paga. Finì insieme al fratello Ettore a re- citare qualche scenetta in uno spettacolo di canzoni in un teatro di fortuna nella Villa Comunale. Due settimane e basta. Agli inizi di settembre Titina consegnò alla zia Rosi- na alcuni gioielli perché andasse ad impegnarli. Non era la prima volta e tra gli attori lo si faceva senza vergogna, era come un salvagente tra la fine di una scrittura e l’inizio di un’altra. Ma per lei era la seconda volta in poche settimane, zia Rosina aveva fatto da corriere per il Monte di Pietà già alla fine di luglio. Il costo della vita s’era gonfiato di colpo, a prezzi calmierati si comprava ben poco e con la tesse- ra annonaria toccavano cento grammi di pane bianco al giorno, cinquanta di carne tre volte per settimana e quote variabili di cibi liofilizzati donati dai comitati di beneficen- za degli Stati Uniti, polvere di piselli, o di latte o di uova. Ma al mercato nero si trovava di tutto e bisognava pagare. L’andirivieni abituale di parenti, ma sempre ospiti paganti, nel lato sinistro dell’appartamento suggerì a quelli di destra di fare qualcosa di simile. Affittare una stanza. Le due zie Ninuccia e Rosina erano tornate a casa loro e la camera che

23 occupavano era libera. Ma era all’interno, quasi accanto a quella di Pietro e Titina. Spostando lì Augusto si poteva però liberare una stanza molto più adatta, la cui porta si apriva sulla sala d’ingresso ed era quasi indipendente. Co- minciò la ricerca di un possibile affittuario. Qualcuno dei fratelli Carloni suggerì una compagna d’arte, Igea Lissoni un’artista di varietà torinese che faceva un numero di tango insieme ad un partner argentino. Il duo s’era sciolto e lei aveva deciso di restare per un po’ a Napoli. Era disposta a versare una mensilità di deposito e a pagare il canone in anticipo, il che la fece preferire all’istante ad un paio di altri pretendenti. La camera le piacque e bastarono pochi giorni per conquistarsi il gradimento di Titina, che avrebbe preferito non prendersi in casa una persona di Teatro. Ma era riservata e gentile, ogni tanto bussava al suo studio per farle visita. Le raccontò d’essere assai preoccupata per la sua famiglia, che viveva in provincia di Asti e di cui non sapeva nulla da quando l’Italia era divisa in due dalla guerra. Te- meva per il padre, che era un vecchio fascista e all’opposto per il fratello, una testa calda che certo se n’era andato in montagna tra i partigiani. Confidò anche di aver conosciuto un italo-americano che voleva sposarla, ma non poteva farlo subito. Veniva da un matrimonio infelice, aveva in corso la causa di divorzio a New York e la sentenza sarebbe arrivata da un momento all’altro. A sua volta Titina le raccontò un po’ di cose sue, le pre- occupazioni per il lavoro e di quanto le mancasse il piano- forte che gli americani le avevano requisito. Era abituata a mettersi alla tastiera nei momenti difficili e ritrovare la serenità suonando. Aveva studiato ed aveva talento, da giovane si era esibita anche in pubblico durante le serate d’onore al Teatro Nuo- vo ove cantava canzoncine comiche, recitava poesie napole- tane, ma poi sedeva al pianoforte e suonava Mozart e Schu-

24 bert1. Quanto al promesso sposo, la signora Igea non aveva smentito la sua riservatezza, ne aveva fatto soltanto il nome in un paio di occasioni: Salvatore. Riservato era certamente anche costui, non aveva mai bussato alla porta di casa, tutti i pomeriggi mandava una macchina, una Millecento nera con i parafanghi verniciati di bianco per l’oscuramento, a prelevare la fidanzata, che puntualmente rientrava da sola la sera. Ma una mattina arrivò a Palazzo Scarpetta un au- tomezzo diverso, un furgoncino dell’US-Army. Conteneva un pianoforte, due facchini lo scaricarono e seguiti da un sergente italo-americano lo portarono su da Titina, che però non era in casa. Li accolse Pietro, il sergente fece un po’ di difficoltà perché sul documento di viaggio era scritto che il pianoforte andava consegnato a «signora Difilippo», poi acconsentì a prendere per buona la firma del marito sulla ricevuta. «Our Rest Camp is closing and so is the pia- no Club. We are going to open a new one near Florence. Thank you from the US-Army. Statte bbuono, paisà!» Il pianoforte era addirittura accordato, quando Titina arrivò non credeva ai suoi occhi, lo aprì e suonò di getto la Marcia Turca di Mozart. Non seppe mai se fosse stato il misterioso Salvatore a sollecitare il miracolo o se questo si fosse com- piuto da solo. La gentile danzatrice torinese si schernì e respinse i ringraziamenti, poi si fece più riservata di prima e di lì a qualche giorno lasciò la stanza. Il suo fidanzato an- dava a Roma e lei lo seguiva. Il mistero di chi fosse costui si svelò più avanti, quando il portiere don Peppino raccontò di avere appreso la sua identità dall’autista della Millecen- to nera, che si era raccomandato di mantenere il segreto. Ma ormai se n’era andato, la promessa era scaduta e poteva dirlo: era Lucky Luciano, alias Salvatore Lucania, il gan-

1 Cfr. Prospetto riepilogativo della stagione 1924-1925 del Tea- tro Nuovo di Napoli; in La grande Titina, di Arthur Spurle, Regina, 1973.

25 gster italo-americano che era stato lanciato col paracadute in Sicilia per mobilitare i “picciotti” della mafia ed aiutare l’Operazione Husky che nel luglio del 1943 aveva riversato tra Licata, Gela, Scaglitti e Pachino i centosessantamila uo- mini della Quinta Armata americana e dell’Ottava inglese. Quando don Peppino ricevette le confidenze dell’autista della Millecento, Luciano, stando alla successiva versione ufficiale, avrebbe dovuto trovarsi ancora a Sing-Sing. Solo due anni più avanti, nel 1946, egli fu infatti graziato dei reati commessi per imprecisati «servizi resi all’Esercito degli Stati Uniti» e consegnato all’Italia come «indesiderabile». Ma questi servizi tanto preziosi per l’Esercito non po- teva averli resi dietro le sbarre. La sua missione era ed è rimasta coperta dal segreto militare e mai confermata, ma si sa con certezza che egli fu prelevato dal carcere e messo a disposizione dell’OSS, Office of Strategic Services, l’or- ganismo di spionaggio militare creato dal generale Eisen- hower che a guerra finita si trasformerà in CIA, Central Intelligence Agency. Quanto alla Lissoni, ella comparve pubblicamente ac- canto a Luciano al termine della sua clandestinità. Ebbe vita breve, morì di cancro a trentasette anni nel 1958 e il suo compagno ne rimase sconvolto. Un infarto lo stroncò quattro anni dopo in una sala d’aspetto dell’aeroporto na- poletano di Capodichino2. Certo che Napoli uscita dalle distruzioni della guerra viveva in quei mesi una situazione tragica, con la plebe sto- rica trascinata nell’abiezione, i ceti popolari e quelli operai nella miseria, con le fabbriche bombardate e gli artigiani senza lavoro, e la classe borghese con l’acqua alla gola, per le professioni ferme, il commercio onesto ridotto al lumi-

2 Nel film di Francesco Rosi Lucky Luciano, del 1974, protago- nista Gian Maria Volontè, il personaggio di Igea Lissoni è presente, interpretato dall’attrice Karin Petersen.

26 cino, l’inflazione ingigantita dalla moneta d’occupazione stampata dagli Alleati. Né i tanti, complessi problemi po- tevano essere affrontati in prospettiva dal governo provvi- sorio della città, l’Allied Military Government of Occupied Territories (AMGOT) con il suo uomo di punta, il colon- nello Charles Poletti al comando dell’Ufficio Affari Civi- li. Questi esercitava il suo potere senza scrupolo alcuno e spesso con lo sprezzo del vincitore. Benché parlasse correntemente l’italiano, aveva porta- to con sé da Palermo, di cui pure era stato governatore, il suo interprete ufficiale, “don” Vito Genovese, un mafioso dalla ricca carriera criminale, già vice di Lucky Luciano a New York, respinto in Italia nel 1937 e reclutato dallo spionaggio militare americano fin dall’inizio della guerra. Così come aveva fatto in Sicilia, il colonnello lo ostentava in pubblico, tenendolo significativamente al suo fianco in tutte le occasioni. Dalla sua posizione Vito Genovese controllava per conto proprio o anche di altri il mercato nero fiorito in- torno agli insediamenti militari americani, dalla benzina alle gomme d’auto, dalle scarpe alle coperte, dalle derra- te alimentari – farina, caffè, zucchero – alle sigarette, alle balle d’indumenti raccolti in patria per beneficenza, che dalle stive delle navi finivano direttamente sui banchi di un mercatino nella cittadina di Resina, che ne deteneva l’esclusiva. Senza contare gli altri traffici, quello della dro- ga, che in quei mesi si sviluppava incoraggiato dagli stessi militari americani che ne erano i primi consumatori. Ed è probabile che il suo ex boss americano Lucky avesse accet- tato di invertire i ruoli e gli facesse qui da luogotenente, da braccio operativo sul terreno. Il colonnello Poletti, per stare alle regole aveva istitui- to una sorta di tribunale speciale, affidato a un altro italo- americano, il tenente Mattias F. Correa. Ma sotto processo finivano soltanto gli ultimi della filiera, piccoli dettaglianti,

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