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INTRODUZIONE ...... 5 CAPITOLO 1 – ANALISI DEL CONTESTO SOCIO, ECONOMICO E CULTURALE DI RIFERIMENTO ...... 11

1.1 PREMESSA ...... 12 1.2 A MI È KRIOLU. IL MONDO CREATO ...... 14 1.3 LA QUESTIONE GIOVANILE A CAPO VERDE ...... 20 1.4 GIOVANI E VIOLENZE NEL CONTESTO CAPOVERDIANO ...... 23 1.5 ALLARME VIOLENZA URBANA A ...... 24 1.6 LOTTA CONTRO LA VIOLENZA GIOVANILE ...... 30 1.7 : LABORATORIO DI PREVENZIONE ALLA VIOLENZA GIOVANILE34 CAPITOLO 2 – LE TEORIE DI RIFERIMENTO ...... 43

2.1 IL CONTRIBUTO DELLA PSICOLOGIA: VIOLENZA ED AGGRESSIVITÀ ...... 44 2.1.1 Le teorie di riferimento in psicologia sociale ...... 48 2.1.2 La teoria dell’apprendimento sociale (Social learning theory) ...... 48 2.1.3 Script Theory ...... 50 2.2 IL CONTRIBUTO DELLA SOCIOLOGIA: DEVIANZA E CRIMINALITÀ ...... 51 2.1.1 Teoria funzionalista ...... 51 2.1.2 General Strain Theory ...... 53 2.1.1 Le teorie interazioniste ...... 54 2.3 IL CONTRIBUTO DELL’ANTROPOLOGIA MEDICA E DELL’ETNOPSICHIATRIA. LA RIFLESSIONE SULLA VIOLENZA STRUTTURALE E SIMBOLICA ...... 56 2.1.1 Etnopsichiatria. La questione dell’appartenere ...... 59 2.4 STUDI POSTCOLONIALI E LA DECOLONIZZAZIONE DEL SAPERE ...... 61 2.5 LA PEDAGOGIA CRITICA E L’APPROCCIO COMUNITARIO ...... 63 2.5.1 La Comunità al centro della riflessione pedagogica ...... 65 CAPITOLO 3 – QUESTIONI METODOLOGICHE ...... 69

3.1 PREMESSA ...... 69 3.2 AUTO-ETNOGRAFIA ...... 71 3.3 LA RICERCA-AZIONE ...... 75 3.4 METODO ...... 77 3.4.1 Partecipazione osservante ...... 78 3.4.2 Il diario di ricerca ...... 78 3.4.3 Narrazione: La pratica del diario ...... 79 3.4.4 Storie di vita ...... 80 3.4.5 Photovoice ...... 81 3.4.6 Il percorso di ricerca ...... 82 3.4.7 La scrittura ...... 86 CAPITOLO 4 – ANALISI DEI DATI ...... 88

4.1 I GIOVANI SI RACCONTANO. STORIE E TRAIETTORIE DI VITA DEI GIOVANI ATTIVISTI DEL PILORINHU ...... 89

2

4.2 KABRAL JA ENTRA NA ME. CULTURA, EDUCAZIONE E RIVOLUZIONE...... 100 4.2.1 Amilcar Cabral, il pedagogo della rivoluzione ...... 101 4.2.2 Attualità di Cabral nell’esperienza dell’AP ...... 108 4.2.3 La bandiera di Cabral: Componente identitaria ed estetica ...... 109 4.2.4 Nos Realidade, Finka Pè...... 111 4.2.5 Occupazione e riappropriazione degli spazi pubblici ...... 113 4.2.6 Intuizione e sapienza popolare ...... 115 4.3 TERRITORIO: IDENTITÀ ED APPARTENENZE. SOSTARE NELLE FRONTIERE, LA POSSIBILE MEDIAZIONE COMUNITARIA ...... 116 CONCLUSIONI ...... 132 BIBLIOGRAFIA ...... 143

FILMOGRAFIA ...... 154 ALLEGATI ...... 155

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INTRODUZIONE

“Scrivere la violenza” rappresenta un’operazione rilevante per comprendere la contemporaneità e la globalizzazione, in quanto è negli spazi marginali del panorama mondiale che la violenza diviene a volte, una delle uniche risorse per l’affermazione culturale e l’espressione dell’identità (Whitehead, 2004). L’Africa oltre ad essere il continente con la più rapida urbanizzazione del mondo, è il continente più giovane, registrando un boom demografico senza precedenti. Questi elementi costituiscono un fattore di grande fermento per dei paesi relativamente giovani, che da meno di 50 anni hanno ottenuto l’indipendenza politica, condizionando una rapida trasformazione della società. La grande velocità della crescita urbana, è troppo spesso caratterizzata dalla mancanza di pianificazione. Nell’ ultimo African Economic Outlook (2016) si registra che il 70 % della popolazione urbana dell’Africa subsaraiana vive in bidonville, queste megalopoli sono quindi caratterizzate da una forte polarizzazione che crea informalità, disparità ed esclusione sociale. I giovani, che rappresentano mediamente il 70% della popolazione africana, sono i protagonisti di questo mutamento, passando dalla figura di «combattenti per la libertà» ad «agenti di una crisi politica e sociale» (Martins, 2012) oppure di «criminali violenti» (Kunkeler, Peters, 2011). Comprendere le dinamiche del cambiamento sociale in Africa richiede che ci si interroghi sulle modalità con cui i giovani, si riconfigurano nelle geografie e negli spazi di esclusione ed inclusione della società in uno stato post-coloniale influenzato dalle dinamiche globali, che offre non solo poche opportunità per transitare all’ età adulta (Ukeje, Iwilade, 2012).

Negli ultimi dieci anni l’arcipelago di Capo Verde è stato campo di un allarme inatteso riguardante la violenza giovanile urbana organizzata in bande. La comunità internazionale ha incoraggiato il paese a combattere la delinquenza giovanile e la violenza urbana (UNHRC, 2013). Il governo ha reagito con politiche repressive e di criminalizzazione verso i giovani (ZOETTL, 2016); ignorando le motivazioni strutturali sottostanti al fenomeno, non ha saputo contribuire in modo efficace alla promozione di programmi di inclusione e coesione sociale nel contesto urbano. Inoltre, come suggeriscono vari resoconti riguardanti la società civile, la struttura partitaria e le dinamiche elettorali

5 hanno manipolato la comunità locale e le organizzazioni giovanili. Alcuni studi (LIMA, 2014, BORDONARO, 2012) hanno sottolineato come questa dinamica penalizzi la partecipazione di giovani e bambini, aggravando lo stato di esclusione dei giovani, poveri provenienti dai sobborghi e delle loro comunità di appartenenza.

La finalità che guida la ricerca è quella di proporre una prospettiva pedagogica sulla violenza giovanile, partendo dal contesto urbano capoverdiano, che superi la questione patologica, considerando la violenza come un “sintomo” di una società sempre più complessa e frammentata. Si cercherà di aprire un orizzonte nel quale i giovani e i quartieri periferici urbani diventino protagonisti (spazi e attori) di una trasformazione sociale del continente mirata alla sostenibilità.

Il campo specifico della ricerca è il quartiere di Achada Grande Frente, nella capitale capoverdiana dove è situato lo spazio Pilorinhu, sede dell’omonima associazione e motore del Movimento Korrenti di Ativistas.

La motivazione che mi ha portato a sviluppare questo tema è legata alla mia esperienza lavorativa quinquennale nella periferia ovest di Praia cominciata nel 2010 dopo il mio trasferimento a Capo Verde.

Nel 2011 António Mascarenhas Monteiro, ex presidente della Repubblica di Capo Verde e presidente della Fundação Esperança decide, dopo anni di silenzio mediatico, di adoperarsi per la promozione della cultura della pace1 nella capitale. Foi contattata dalla sua fondazione per integrarmi nell’equipe di lavoro volta a condurre un intervento di prevenzione alla violenza giovanile nella capitale capoverdiana. Dal 2010, Praia, registrava un aumento di omicidi giovanili, rapine a mano armata, e scontri tra gruppi gangsters auto- denominati thug. Da settembre 2011 cominciai a lavorare al progetto Simenti, nato e sviluppatosi ad Achada Grande Frente come coordinatrice del dipartimento: gioventù e comunità.

Il progetto aveva come approccio quello della prevenzione primaria: l’empowerment dei giovani e delle famiglie e l’integrazione con il tessuto comunitario di Achada Grande Frente. Nell’anno 2013 il progetto che al momento era sostenuto dai fondi dell’ambasciata francese a Capo Verde, dovuto alle dinamiche economiche internazionali di

1 Fonte: http://noticias.sapo.cv/inforpress/artigo/7202.html

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“crisi economica” perde l’appoggio finanziario e subisce delle modifiche strutturali trasformandosi nel corso degli anni in Movimento Korrenti di Ativistas (MKA) ed associazione Pilorinhu (AP). Il movimento Korrenti di Ativistas, si autoproclama pubblicamente sulle reti, dichiarando il 2013 l’anno dell’attivismo sociale a Capo Verde, realizzando la prima Marcha Cabral che avrà cadenza annuale, con l’obiettivo di rivendicare la voce e i diritti delle periferie e dei giovani, ispirandosi alla prospettiva panafricana e anticoloniale di Amilcar Cabral, combattente per la libertà di Cabo Verde e assassinato prima della proclamazione dell’indipendenza del paese. Il movimento, è guidato da João Jose Tavares Monteiro, ex-operatore del progetto Simenti e lìder della comunità di Achada Grande Frente e raccoglie lìder comunitari e lìder associativi di tutta l’isola di Santiago, un gruppo rappresentativo dei Rebelados2 e giovani artisti delle comunità periferiche che sentono la necessità di fare sentire la loro voce e mostrare il proprio malcontento verso la situazione di ingiustizia sociale e diseguaglianza presente nel contesto urbano periferico e l’inefficacia delle politiche governamentali.

Il passo più importante che ha dato vita all’associazione è stata l’occupazione dello spazio denominato Pilorinhu3, un mercato realizzato dal Comune di Praia nel quartiere di Achada Grande Frente nella fine degli anni ‘90, ma in stato di abbandono da diversi anni, utilizzato dalla comunità come latrina. L’occupazione rappresenta il momento della presa di posizione politica della comunità, che ha permesso la formalizzazione dell’intervento. L’associazione Pilorinhu viene istituita nel 2014, con un direttivo composto da giovani artisti, lìder comunitarios la maggioranza dei quali con un passato di criminalità alle spalle o appartenenza a gangs e la sede completamente recuperata e trasformata grazie al mutuo aiuto comunitario, il riciclo e il supporto del settore privato nello spazio occupato. L’obiettivo dell’associazione era, ed è tuttora, quello di estendere e concretizzare l’approccio comunitario iniziato dal progetto Simenti e creare uno spazio locale e autogestito di crescita per bambini, giovani e famiglie, valorizzando le risorse e il sapere interno alla comunità e la logica della sostenibilità locale in un ottica preventiva. L’approccio è quello della pedagogia critica che mettendo in discussione l’impianto strutturale della società (post-coloniale), costruisce percorsi di “educazione liberatrice” che comportano il superamento della contraddizione tra educatore ed educando, sviluppano una

2 Rebelados: comunità famigliare religiosa, che vive in isolamento presso l’Isola di Santiago, per preservare il messaggio originario della fede cristiana, e proteggere un’ideologia conservatrice e lontana dal mondo moderno, mantenendo la tradizione culturale e ancestrale rivelata ai suoi fondatori. (Silva, 2016) 3 In lingua creola, in portoghese è Pelourinho, che significa: mercato di compra vendita; in epoca coloniale era una colonna di pietra disposta nella piazza dove venivano castigati gli schiavi oppure esibiti i criminali.

7 coscienza politica per resistere alle ingiustizie sociali ed economiche, e la “coscientizzazione” intesa come metodo pedagogico che cerca di dare all’uomo l’opportunità di riscoprirci attraverso al riflessione sulla propria esistenza (Freire, 74).

Nel corso della tesi il mio posizionamento sarà problematizzato nel corso della ricerca dato il mio continuo passaggio tra pratica e teoria. Il mio ruolo infatti da coordinatrice pedagogica del projecto Simenti, cambia in diverse funzioni: co-fondatrice di un’associazione comunitaria, volta a promuovere la trasformazione dal basso e attivista in un movimento per il riconoscimento dei diritti delle comunità periferiche. Il ritorno in Italia nell’ottobre 2014, rappresenta un distanziamento fisico e l’inizio di un nuovo processo di riflessione ed analisi, che mi vede assumere il ruolo di ricercatrice. La prima riflessione realizzata fin dall’inizio del mio periodo di ricerca è stata quella della questione metodologica, data la mia implicazione4 nel contesto. Su questo stimolo partì con l’analisi del mio diario personale e i moltissimi materiali fotografici e video raccolti dal 2010, accogliendo come guida iniziale il concetto formulato dalla comunità filosofica Diotima di Verona del “partire da sé” (Diotima, 1996). «Era la strada della filosofia pratica, impegnata non nella modificazione del mondo in sé, impresa ormai vana ma del mio rapporto con il mondo e in me nel mondo, il suo privilegio principale è che nel tuo ragionare, giudicare, decidere non ti fai trovare dove gli altri ti aspettano» (Diotima, 1996, p.34). Dall’ottobre 2014, continuo a mantenere i contatti con il Pilorinhu utilizzando i social media, partecipo alle riunioni condivise di programmazione online fino a comprendere che questo mio fare parte, questa necessità che sento ad assumere una posizione diventa la mia legittimazione a fare ricerca e la mia maggiore motivazione ad assumere una prospettiva scientifica di analisi del contesto e dell’esperienza che era in corso. Era stata espressa da parte del direttivo e di alcuni volontari dell’associazione la necessità di realizzare un percorso di riflessione condivisa sul passato e futuro del Pilorinhu in modo da orientare al meglio le azioni future, con l’obiettivo di dare continuità e sostenibilità all’intervento nella comunità. Scelgo quindi in maniera condivisa di avviare una ricerca-azione che vede quindi un esercizio di riflessività e connessione diretta con la situazione socio educativa, il coinvolgimento degli attori e la sua emancipazione e l’impegno attivo del ricercatore in vista di valori e obiettivi definiti, con implicazioni filosofiche, sociali, pedagogiche e politiche chiaramente orientate ed esplicite sul terreno della pratica (Pourtois, 1986). Il periodo di ricerca e la raccolta dati è

4 Implicazione deriva dal latino implicatio (= intreccio, concatenazione, connessione) implǐco : essere trovarsi coinvolto, essere associato, impegnarsi, occuparsi.

8 stata realizzata dal 2014 al 2017, alterando momenti di ricerca sul campo (in totale 8 mesi) e lavoro condiviso online con la creazione di griglie, diari e dibattiti condivisi ed infine la creazione di testi online attraverso i social media (Google drive, Facebook, Instagram e Skype).

Partendo da un analisi del contesto socioculturale e storico di Capo Verde, sarà contestualizzata la problematica della violenza giovanile creando una connessione con il passato coloniale e schiavista, per poi passare alla riflessione sul ruolo attuale del paese nel contesto globalizzato. Il fenomeno della violenza giovanile sarà letto partendo da un approccio interdisciplinare orientato da una riflessione sistemica. Sarà infine presa in considerazione l’azione e la mediazione dei giovani e della comunità locale, con le istituzioni. Lo sforzo politico/pedagogico della società civile capoverdiana nel tentativo di resistere alle logiche centralizzate del governo nazionale, alle politiche neoliberali e alla dinamiche di potere messe in atto dagli apparati di aiuto e controllo internazionale.

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CAPITOLO 1

ANALISI DEL CONTESTO SOCIO, ECONOMICO E CULTURALE DI RIFERIMENTO

Nel corso di questo capitolo introdurrò il contesto di riferimento dal quale è partita la mia ricerca. Comincerò dal Paese: Capo Verde descrivendo la sua componente storica, identitaria e socioeconomica. L’excursus avrà inizio dalla sua scoperta ad opera di marinai e mercenari portoghesi nel 1460, per poi passare al ruolo che il paese ha avuto nella tratta degli schiavi e scambio tra continenti in modo da fare una breve analisi tra passato e presente, dimostrando come il paese sia sempre stato al centro delle interconnessioni e scambi globali e attualmente stia vivendo una frammentazione tipica della società moderna.

Passerò poi in analisi il target group di riferimento: i giovani di Capo Verde, che pur rappresentando la maggioranza della popolazione stentano a trovare un luogo di rappresentazione per transitare all’età adulta, in una società sempre più segmentata.

L’analisi del fenomeno violenza giovanile urbana, costituisce il fulcro della mia riflessione per capire come le connessioni tra passato coloniale e le influenze della società globale, le politiche neoliberali possano sfociare in cambiamenti inattesi di difficile lettura se si guardano solamente con un’ottica locale o patologica/paternalista come nel caso dei media e delle visioni moraliste diffuse nel paese.

La periferia di Praia capitale, il quartiere di Achada Grande Frente e la realtà associativa del Pilorinhu, saranno il mio punto di analisi sulle pratiche bottom up di prevenzione alla violenza giovanile e sarà mia intenzione ricercare le pratiche, le capacità e possibilità ma anche le debolezza di queste pratiche di costruzione sociale volte a favorire la coesione sociale urbana partendo dalla periferia.

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1.1 Premessa

L’arcipelago di Capo Verde è uno Stato insulare africano localizzato nell’Oceano Atlantico. È costituto da dieci isole maggiori di origine vulcanica e da altri isolotti. È situato a 455 km dalla costa occidentale dell’Africa e prende il nome dalla punta estrema del continente africano che si trova in Senegal, chiamata appunto penisola di Capo Verde. Ha una superficie di 4033 km² ed è classificato a livello geopolitico come «small island state» (Madeira, 2015), le sue peculiarità geopolitiche sono: l’insularità, la perifericità da una parte, dall’altra l’opportunità data la posizione geografica privilegiata nei legami politici e commerciali tra continenti. Ricordiamo nel passato il ruolo cruciale avuto durante la tratta degli schiavi, porto di snodo tra continenti e sosta necessaria per approvvigionamento e commercio di chi viaggiava verso le Americhe e le Indie; nel presente grazie alla sua posizione ha speciali accordi con la UE soprattutto nel settore della pesca e del turismo, con le cooperazioni bilaterali internazionali e partecipa all’ECOWAS (comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale) continuando a mantenere il ruolo cruciale che ha avuto come crocevia tra continenti nella storia e nell’attualità politica ed economica globale.

Gli abitanti sono concentrati nelle zone urbane, infatti il 61% della popolazione vive in città (INE, 2010), tra Praia, la capitale nell’isola di Santiago e Mindelo capoluogo dell’isola di São Vicente. Le altre isole sono meno popolate, ed una di esse quella di Santa Lucia è disabitata e sede di un parco naturale protetto. Esse sono divise tra isole di Sotavento e Barlavento. Tra le isole di Sotavento ricordiamo Santiago e Fogo, sede di un vulcano ancora attivo, che ha avuto un eruzione recente, nel 2014, con un altitudine di 2829 m. Mentre tra le isole di Barlavento ci sono São Vicente, Santo Antão e le isole desertiche di Sal e Boavista.

Capo Verde, come la maggioranza degli stati africani, ha una popolazione giovane, su un totale di 491.875 abitanti, il 54,4% ha tra i 0 e i 25 anni. Il principale gruppo in base all’età è costituito da giovani dai 15 ai 19 anni. (INE, 2010). Per questo motivo i giovani a livello demografico stanno esercitando una forte pressione alle strutture sociali ed economiche dello Stato che però non sempre è efficace nella risposta dato a causa delle scarse risorse finanziarie e l’efficienza delle sue azioni.

La caratteristica peculiare dell’arcipelago è la costante siccità e la scarsità di piogge data dal clima desertico, questo fattore ha determinato grandi periodi di carestia nell’arcipelago ed ha fomentato forti legami di dipendenza del paese con l’estero e con la

12 cooperazione internazionale volta a favorire l’approvvigionamento e l’importazione di materie prime e l’emigrazione massiccia soprattutto nei secoli XIX e XX.

Anche se a riguardo non esiste un accordo tra gli storici, una teoria afferma che nell’isola esistesse una popolazione autoctona di pescatori provenienti dalle coste africani, altre teorie affermano che l’isola era già stata visitata dal periodo greco/romano; in ogni caso dobbiamo convenire sul fatto che la storia di Capo Verde come fonda le sue radici nel periodo dell’ esplorazione del XV secolo, la scoperta dell’isola di Santiago infatti, nel 1460 è opera della marina portoghese. Le numerose note di bordo informano che l’isola appariva disabitata, e che fu popolata e organizzata come colonia d’oltremare portoghese secondo un preciso progetto coloniale.

Capo Verde, da ex colonia portoghese si è riconosciuta come paese indipendente solo nel 1975 grazie alla lotta di liberazione guidata da Amilcar Cabral, fondatore del PAIGC, combattuta nelle selve della Guinea Bissau in quanto i due paesi si erano uniti per combattere contro il colonizzatore: il Portogallo. Amilcar Cabral perì in un attentato nel 1973, non riuscendo mai a vedere la divisione dei due paesi. Fu Aristides Pereira a diventare primo presidente del paese costruendo un primo governo capoverdiano di ispirazione socialista che durò per 16 anni. Negli anni ’90 l’arcipelago è stato scenario di profondi cambiamenti politici e socio-economici: nel 1991 si colloca, infatti, il passaggio dal regime monopartitico ad un’effettiva democrazia pluripartitica. L’apertura politica e la vittoria del nuovo partito d’opposizione MPD hanno inaugurato una nuova fase della vita nazionale di ispirazione filo-occidentale e neoliberista (Varela, 2008), caratterizzata da una crescita progressiva del PIL del paese, che si è accompagnata, tuttavia, ad un aumento parallelo della disuguaglianza economica (Sangreman, 2009). Nel corso dell’ultima decade il paese si è distinto nei ranking globali per la buona governabilità e la crescita del mercato. Grazie all’aumento esponenziale degli investimenti esteri: da 400 milioni nel 2005 a 2.000 milioni nel 1009 (Baker, 2009), ha visto aumentare del 7% la crescita economica annuale dal 2005 al 2008, inoltre le rimesse della diaspora capoverdiana, che rappresentano una fonte significativa di finanziamento delle attività economiche a Capo Verde (Tavares, 2010), hanno contribuito a rendere Capo Verde l’unico stato africano ad aggiudicarsi lo status di paese a reddito medio, insieme al Botswana.

Questo dato è però accompagnato da un aumento della diseguaglianza sociale, Capo Verde nel contesto urbano ha un coefficiente GINI pari al 0.45%, ciò corrisponde ad un

13 indice elevato di diseguaglianza nella distribuzione della ricchezza in città, e un tasso di povertà assoluta alto: 35% della popolazione è povera tra questi il 10% povertà estrema (INE, 2015). L’apertura del mercato agli investimenti esteri soprattutto nel settore del turismo di massa ha trasformato Capo Verde in un paradiso tropicale; la privatizzazione delle poche industrie locali e la più recente crisi del settore della pesca artigianale dovuta agli accordi internazionali stabiliti con i grandi partners come UE e Giappone, e grandi industrie pescherecce, hanno alimentato negli ultimi anni una polarizzazione sempre più marcata del mercato del lavoro (Bordonaro, 2012) ed una sempre più marcata frammentazione della società. La disuguaglianza socio-economica si riflette nella geografia urbana di Praia, che ad oggi appare una «città schizofrenica» (Stefani, 2015), in cui un forte fenomeno di segregazione territoriale divide i pochi quartieri ad alto reddito dai sempre più affollati bairros periferici, in cui sono affluiti negli anni migranti interni in cerca di lavoro e provenienti dalle coste africane.

Tale fenomeno di zoning si è rafforzato in relazione all’aumento del fenomeno della violenza urbana (Furtado et al., 2011), legata alla nascita di numerose gang urbane a partire dagli anni 2000, autodefinite thug. Il mancato riconoscimento da parte dei media e delle autorità delle cause di violenza strutturale sottostanti tale fenomeno si è tradotto in una colpevolizzazione dei giovani, della classe socio-economica inferiore e delle famiglie monoparentali, ritenuti responsabili dell’insicurezza sociale nella capitale. Tali discorsi ufficiali hanno contribuito alla rappresentazione delle periferie come uno spazio di degrado urbano, morale e sociale, in cui si concentrano le problematicità della società capoverdiana in un ambiente di totale mancanza di risorse ed opportunità. Tuttavia, proprio in reazione a questa profonda disuguaglianza e marginalizzazione sociale le periferie rappresentano uno spazio fertile per la nascita di nuove tipologie di soggetti politici e di attività politiche che fuoriescono dalla sua definizione ufficiale (Sassen, 2010).

1.2 A mi è kriolu5 Il mondo creato

Il poeta capoverdiano Germano Almeida, nella sua opera del 2003, Cabo Verde,Viagem pela história das ilhas, ci propone una lettura del mito cosmologico sulla nascita di Capo Verde, rappresentandolo come il paese creato dalla poeira de Deus”6. “Dio, stanco, dopo

5 Traduzione: sono creolo. 6 Traduzione: polvere di Dio.

14 aver creato tutti i Paesi del mondo si accorge che sul palmo della sua mano sono rimaste ancora delle piccole briciole di terra che butta nel centro dell’Oceano Atlantico”, la tradizione vuole che queste briciole abbiano dato vita all’arcipelago di Capo Verde. Questo mito è rappresentativo dello stato di isolamento e abbandono del paese e delle sue ridotte dimensioni “nato da degli scarti, dalle briciole”, dalle quali però si è creato un forte senso di identificazione e rivendicazione identitaria, da qui il forte orgoglio per aver dato vita e sviluppo ad una terra arida e desertica. Darwin, sostando a Capo Verde in un viaggio attorno al globo, contrappone Capo Verde alle Galapagos, predicendo che nessuna specie sarebbe potuta mai sopravvivere in questa landa brulla e inospitale.

In realtà, da un punto di vista storico, Capo Verde rappresentò, attraverso i suoi porti quello di Ribeira Grande, Praia e Mindelo, uno degli snodi fondamentali per la tratta degli schiavi e per gli approvvigionamenti nelle spedizioni verso le Americhe, l’India e l’Africa seguendo il progetto coloniale della corona del Portogallo che dalla sua scoperta fino all’indipendenza ha governato nell’arcipelago.

La scoperta di Capo Verde è attribuita al marinaio genovese, al servizio del Portogallo, Antonio Di Noli, nel 1460, che si imbatté nell’isola di Santiago e la parte orientale dell’arcipelago. Diogo Alfonso avvistò per primo il gruppo orientale nel 1462, si dice che stesse navigando in cerca di una nuova rotta per le Indie, imbattendosi però nella terra ferma (Albuquerque, 1991).

Le prime ad essere popolate furono le isole di Santiago e Fogo, l’arrivo dei coloni fu incentivato dalla corona portoghese che offriva, a chi si trasferiva e investiva nel commercio degli schiavi, privilegi con somme di denaro e benefici speciali. La prima città ad essere insediata fu Ribeira Grande, che diventò la sede di questo disegno coloniale, polo decentralizzato del dispositivo7 coloniale, per lo scambio e il commercio ma anche spazio per l’assimilazione dei re africani attraverso la cristianizzazione. L’autrice Hernandez per spiegare questo termine utilizza il termine ladinização8 per parlare del progetto di attribuzione di un anima agli schiavi neri, che vede come processo fondamentale il battesimo, l’insegnamento basico del latino e della catechesi. I ladinos avevano un destino diverso rispetto al lavoro nelle piantagioni perché divenivano schiavi domestici e sostituirono il clero già presente in loco cominciando a formare in loco una élite di letterati

7 Il dispositivo qui è inteso nel significo attribuito da Foucault:«strategia delle relazioni di forza, che appoggia ed è appoggiato da un tipo di conoscimento». (Power/ Knowleadge Brighton, Harvester Press, 1980, p.196) 8 Deriva dal termine ladino in portoghese che significa indigeno.

15 che dava origine alla letteratura nativa di Capo Verde (Fernandes, 2009) e la popolazione mulatta.

Capo Verde fu dal XVI secolo fino al XIX secolo un centro strategico del commercio triangolare, dove le mercerie e i materiali arrivati dall’Europa venivano barattate con schiavi, che trasportati in America (Brasile) per lavorare nelle piantagioni di caffè, tabacco, zucchero, cotone, e cacao; prodotti poi rivenduti a caro prezzo in Europa. Il ricavo per i coloni non era immediato, il contante investito, riusciva a fruttare solamente dopo 3 anni, ma portava ad un guadagno altissimo. Capo Verde per due secoli, rappresentò il luogo più sicuro e strategico di questo commercio, data la posizione geografica: la tappa per gli approvvigionamenti era necessaria. (Hernandez, 2002). Grazie a questa prosperità si nota la crescita di una nuova produzione locale quella dei moradores abitanti autoctoni, ossia chi viveva sull’isola che cominciarono a produrre materie prime che entravano nel commercio come aguardente (liquore), urzela e anile che servivano come coloranti, stoffe così come l’allevamento caprino e bovino; in questo modo la manodopera schiavizzata veniva impiegata in loco accelerando il processo di creolizzazione.

Nel 1582 esistevano sull’isola 13.000 schiavi provenienti dalle coste dell’Africa Occidentale e 100 coloni che li avrebbero smistati e venduti nelle Americhe oppure impiegati in loco (Genovesi, 2011) da qui si denotano gli arbori di una popolazione autoctona mulatta. La provenienza della popolazione bianca era eterogenea, infatti non erano solo portoghesi ma di diverse nazionalità europee, in questo modo la creazione del mulatto ha preso influenza da diverse culture e nazioni. Importante notare la specificità del processori creolizzazione capoverdiano rispetto ad altri paesi; per prima cosa la maggioranza della popolazione era nera e schiava, essa veniva comandata da una piccola élite che era in minoranza; in secondo luogo il meticciato avveniva attraverso la relazione tra uomini bianche e donne nere schiave, infine Capo Verde a differenza del Brasile e di altri paesi non è stato influenzato dalla differenziazione su base razziale, data la mescolanza che i portoghesi hanno intrapreso con i nativi nell’isola. Il sociologo brasiliano Freyre (1933) afferma infatti, che Capo Verde può essere considerato l’unico esperimento interrazziale effettuato dalla corona portoghese e rispetto agli altri paesi colonizzati o ad altre colonie. A Capo Verde infatti non esiste una differenziazione razziale ma sociale, essa viene infatti stabilita su parametri di salute e benessere, e status sociale e riconoscimenti comunitario.

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Le unioni tra l’élite bianca e popolazione neri erano incoraggiate dalla corona portoghese, soprattutto perché la popolazione bianca aveva una tassa di mortalità molto alta. Secondo le statistiche già dal secolo XIX la maggior parte della popolazione presente a Capo Verde era meticcia (Seibert, 2014).

Il processo di creolizzazione del paese nasce da questo: i capoverdiani si considerano creoli, e Capo Verde è considerata una nazione creola intesa come il risultato della colonizzazione portoghese e delle condizioni storiche/climatiche peculiari del luogo. La formazione della coscienza nazionale si costruisce in contrasto con la cultura occidentale, grazie alla nascita della popolazione autoctona mulatta, si afferma un popolo, una cultura che non esiste come nazione ma come entità culturale distinta ( Fernandes, 2009). A questo proposito il lavoro di A. Correia da Silva mostra come questa coscienza creola venga rinforzata anche dalle rivolte degli schiavi e dei ladinos. Lo studioso rintraccia l’esistenza di quilombos, come quello di Julangue sull’isola di Santiago dove gli schiavi si rifugiavano e si riunivano resistendo ai tentativi di neutralizzazione dei coloni e ai tentativi da parte della popolazione schiavista di resistenza e violenza contro il potere coloniale.

Quando parliamo di creolizzazione, riprendo la definizione di Knörr (2014) che la definisce come «un processo durante il quale persone di etnie diverse diventano indigene e sviluppano una nuova identità collettiva, portando con sé diverse caratteristiche etniche. Questo significa che durante il processo, le identità anteriori scompaiono e sono sostituite per una nuova identità etnica».

Il kriolu, come identità e lingua, è l’emblema dell’identità mulatta prodotto di una sintesi delle diverse culture quella europea e quella africana. L’antropologa Fêo Rodrigues (2003), analizzando il processo di creolizzazione di Capo Verde, lo lega al ruolo che ha avuto la sessualità e il meccanismo di perpetuazione del modello patriarcale europeo nell’Africa occidentale. Il processo di creolizzazione da lei non è più visto solamente come un incontro pacifico tra diverse culture che vede la formazione di una cultura nuova con le sue regole interne, ma un processo che è stato influenzato da dinamiche violente, secondo il modello della disuguaglianza e del potere coloniale, che ha altresì avuto la capacità di trasformare entrambi i soggetti, i colonizzati e i colonizzatori.

A partire dalla fine del XVI secolo ci fu un grave declino economico che vide il declino della prima città europea in Africa: Riberia Grande. Uno dei fattori che la influenzò fu il decreto del 1647 che legalizzò definitivamente il commercio diretto tra i mercati della

17 costa della Guinea con i mercati delle Americhe, questo provvedimento fece perdere a Capo Verde tutti i benefici fiscali e le tasse che non passavano più a Santiago. Di conseguenza Santiago non riuscendo a vendere i propri prodotti e non riuscendo a creare una economia latifondista date le condizioni climatiche e la conformazione del territorio, si videro costretti a dividere il territorio in piccole porzioni di terre, di conseguenza Ribeira Grande cominciò a deflagrare e la popolazione bianca si spostò verso l’interior, l’entroterra di Santiago dove le condizioni climatiche erano più favorevoli alla produzione di sussistenza.

Se fino alla metà del XVII secolo Capo Verde aveva attinto una prosperità economica dovuta alla posizione geostrategica come punto di navigazione e commercio nell’Atlantico, da questo periodo in poi Capo Verde e il popolo mulatto resta abbandonato al proprio destino, diventando, per forza di cose, il principale motore di costruzione del paese.

Le difficili condizioni di vita per la mancanza di risorse naturali, acquifere; così come le grandi stagioni di seca e fome (carestia e siccità) che colpirono l’arcipelago nello scorso secolo portarono all’emigrazione di capoverdiani in cerca di opportunità migliori in tutti gli continenti vicini: Europa, America ed Africa. La prima ondata di migrazione di capoverdiani, soprattutto dall’isola Brava, è quella verso l’America del nord nella regione del Massachusett; nella prima decade del ‘900, i capoverdiani lavoravano come manodopera sulle baleniere dato che le navi si fermavano in questa isola per l’approvvigionamento. I periodi di carestia che si susseguivano nei primi anni del secolo XIX, condizionati anche dalla grave depressione dell’economia globale tra il 1929-33, hanno portato poi all’emigrazione istituzionalizzata mediante la dispensa di visti e passaporti oppure la migrazione forzata verso altri paesi dell’Africa portoghese come São Tome (lavoro nelle piantagioni) e Angola, America Latina (Brasile) e il Portogallo dato che l’entrata negli Stati Uniti era stata rallentata da leggi restrittive di entrata. Un esempio sono i contratados (Sousa, 2014), termine che definica i capoverdiani che venivano inviati dal regime coloniale portoghese a lavorare presso le amministrazioni degli altre colonie in Africa, Angola, Mozambico e Sao Tome de Prince; il motivo della scelta era quello di essere più istruiti e “non totalmente indigeni”.

Il grande esodo dell’emigrazione capoverdiana avviene tra il ‘46 e il ‘73 soprattutto verso i paesi europei: Olanda, Portogallo, Francia, Italia. La diaspora capoverdiana attualmente presente in USA, Portogallo, Olanda, Angola e Senegal e supera del doppio il

18 numero della popolazione residente nell’arcipelago. Capo Verde è quindi considerato un paese con carattere diasporico nonostante i tassi di emigrazione attuali siano diminuiti per via alle restrizioni delle leggi di migrazione internazionale; la tendenza è piuttosto quella del ritorno in patria, della rimessa di investimenti dalla diaspora a Capo Verde e l’accoglienza di migranti provenienti dall’Africa Occidentale.

I forti legami esistenti con l’estero e il continuo flusso riflette il carattere transnazionale dei commerci e lo scambio di persone e sapere (Marzia Grassi, 2003 e Martina Giuffrè, 2007) che caratterizza il paese dalla sua scoperta fino ai giorni nostri.

Attualmente Capo Verde continua ad essere un nodo strategico di commercio e scambio tra continenti: è un’importante base per la pesca transnazionale dato che ha firmato un protocollo speciale con Unione Europea e Giappone nel 2015 per la libera circolazione di imbarcazioni di pesca internazionali; per il traffico di droga internazionale, soprattutto cocaina proveniente dall’America Latina ospitando nei suoi tribunali casi internazionali di crimine organizzato come la lancha voadora nel 2016; per il turismo perché è divenuto un territorio ambito dagli impresari turistici stranieri che a Capo Verde hanno creato il mito delle vacanze ai tropici trasformando Sal e Boavista in paradiso del turismo delle 4 S (sand, sea, shore and sex) creando non poche trasformazioni a livello socio-economico e ambientale (Gallinaro, 2009).

Capo Verde continua ad essere un paese dipendente dall’estero nell’approvvigionamento e importazione di materie prime. Considerando le statistiche sul commercio prodotte dall’INE, 2016 si può notare come il tasso di importazione di materie dall’Europa cresce, mentre diminuiscono quelli di esportazione. La Spagna e Portogallo sono i paesi più interessati da questo scambio. I principali prodotti di esportazione sono quelli ittici mentre l’importazione è formata da beni di consumo primario come combustibile e cibo.

Molte sono le sfaccettature dell’identità creola vista dall’interno, oppure dall’esterno, nella diaspora. Si comprende quindi come la questione identitaria sia stata forgiata dalla tratta degli schiavi e dal sistema coloniale portoghese. Il tema dell’identità creola è un tema di discussione costante e motivo di interrogazione anche delle giovani generazioni. “Chi sono i capoverdiani?” Dalla nascita della rivista «» nel 1930, considerata l’avvento della letteratura capoverdiana, scritta in lingua portoghese dove si sentono gli influssi della politica dell’assimilazione portoghese, gli intellettuali

19 capoverdiani, gli artisti e la popolazione si interrogano sulla propria identità: “Siamo più europei o più africani?” la risposta sta sempre nell’identità creola, un’identità creata, basata sul contesto specifico culturale e territoriale e sul peso di una violenza: la storia di schiavitù e colonialismo e la grande resistenza del suo popolo che nonostante le avverse condizioni climatiche è riuscita a vivere e svilupparsi.

É considerata una naçao jovem9 perché solo nel 1975, dopo la Revoluçao dos Cravos in Portogallo, l’indipendenza sarà riconosciuta e legittimata a Capo Verde. La lotta di liberazione non venne combattuta a Capo Verde, ma nelle foreste della Guinea Bissau. Fu guidata da Amilcar Cabral, agronomo, politico e pedagogo di origine capoverdiana che nel suo partito PAIGCV che nel suo disegno politico vedrà valorizzata la componente africana di Capo Verde, e l’ideologia panafricana, che vede nel riconoscimento dell’essere africano e della cultura la base per la liberazione nazionale.

Capo Verde viene definita la patria della morabeza10, paese della docilità e dell’ospitalità, data la sua funzione storica di luogo di passaggio e snodo, enfatizzata dalla letteratura e dalla saudade, ma al centro delle dinamiche globali il paese sta cambiando e come dice Helio Batalha, un rapper famoso nella scena musicale capoverdiana, nel suo album Golpe de Stadu ci si chiede: nos morabeza è kel lì sabura de mas cuidado pa bo ka kai, paz pa ondi bo bai11”

1.3 La questione giovanile a Capo Verde

A Capo Verde, «la categoria della gioventù sta guadagnando rilevanza ed estensione, sia demografica, sociale, economica, politica e simbolica» (Martins, 2012). Un'estensione segnata però dall'ambiguità del suo significato – “Chi sono i giovani? Quando finisce la giovinezza?” – queste domande riflettono allo stesso tempo le la complessità e frammentazione dei paesaggi sociali contemporanei. Durham nel 2000, negli studi che compie sulla gioventù in Botswana e in altri paesi dell’Africa centrale, ci dice che «la gioventù è una categoria sociale costruita storicamente, come concetto relazionale e come

9 Traduzione: Nazione giovane 10 Il fatto che il capoverdiano aspiri a viaggiare, a conoscere nuove terre e popoli, come emigrante, può aver sviluppato in lui una naturale volontà di accogliere qualsiasi visitatore, il suo vicino a persone provenienti da altre località, altre isole e altre nazionalità. È questo atteggiamento amichevole, ospitale e gentile nel ricevere l’ospite che è la morabeza sia un modo di esprimere il modo in cui vorresti essere ricevuto. 11 Traduzione: Dove stiamo andando? Attenti che potremmo cadere. Pace dove sei finita?; Cfr: http://www.heliobatalha.com/p/noz-morabeza.html

20 gruppo di attori, formano una lente particolarmente precisa attraverso cui le forze sociali si concentrano sull'Africa, come in gran parte del mondo come produttori di social media, creando una rottura (De Boeck e Honwana, 2005), da una parte sono considerati come una generazione perduta e dall’altra come una fonte innovativa di potere politico (O 'Brien, 1996), i giovani stanno portando nuove realtà sociali e nuove prospettive all'analisi sociale in Africa. Contrassegnato dall'esclusione politica, dallo sfruttamento, dalla guerra e dalla violenza, dalla mancanza di istruzione e opportunità di lavoro, dall'emigrazione, dall'influenza della globalizzazione e dall'occidentalizzazione della cultura locale, i giovani ricostruiscono una nuova dimensione simbolica di agency e cambiamento» (Durham, 2000) per informalità e illegalità, dalla violenza e dal crimine, dall'intimità e dalla sessualità, da espressioni culturali innovative e pratiche sociali, forgiando nuove dimensioni e usi dello spazio pubblico e della cittadinanza (De Boeck e Honwana, 2005; Argenti, 2002; Diouf, 2003; Comaroff and Comaroff, 2005). Tuttavia, Capo Verde non si adatta alla rappresentazione tipica negativa di un paese africano economico, politico e culturalmente instabile. Conseguita la sua indipendenza dal Portogallo nel 1975 e sotto il regime socialista del partito unico fino al 1991, il paese registra notevoli sviluppi su economia, istituzioni politiche democratiche, servizi pubblici e organizzazioni della società civile, raggiungendo nel 2008 lo standard ONU di Paese di sviluppo medio. Essendo una società etnicamente omogenea e prevalentemente rurale, negli ultimi decenni Capo Verde ha beneficiato della stabilità civica e della pace, consentendo agli aiuti internazionali di ottenere buoni risultati nella riduzione della povertà e nella costruzione di infrastrutture. Tuttavia, soprattutto dopo il 1991, le pressioni e i cambiamenti economici neoliberali hanno portato a una crescente dipendenza esterna, alla diminuzione della produzione nazionale, a un'urbanizzazione rapida e incontrollata e alla crescita delle disuguaglianze sociali (Laurent e Furtado, 2008). Come conseguenza la povertà, il lavoro precario e le condizioni di vita, l'abuso di alcol, la criminalità e le violenze, il narcotraffico sono diventati generalizzati. Così negli ultimi anni la società capoverdiana ha sviluppato un forte senso di crisi sociale e panico morale, dove i giovani sono visti come capro espiatorio.

Partendo dai dati, pubblicati dall’Istituto nazionale di statistica capoverdiano nel 2015, la situazione si vede in forma chiarissima. La maggioranza della popolazione a Capo Verde è rappresentata dalla fascia di età tra i 10 ai 34 infatti l’età media del paese è di 28 anni. La povertà è un fattore che incide molto in questo segmento di popolazione dato che la percentuale di povertà tra i giovani tra i 15 e i 25 anni è di 62%, di cui il 38% di povertà

21 estrema (IDRF 2015). Possiamo quindi dire che la fascia di età più colpita dalla povertà sono i giovani dalla pre-adolescenza alla gioventù. Lo stesso studio, sottolinea come questo dato legato alla povertà influenzi l’incidenza dell’abbandono scolastico. Se da una parte il sistema educativo capoverdiano dice di fornire ai giovani opportunità di accesso all’insegnamento pubblico secondario fino al 12° anno, che equivale al quarto anno della scuola secondaria superiore italiana e a scuole tecniche, i dati ci dicono che nel 2011 il 49,9% della popolazione tra i 15 e i 25 anni non lavorava e non frequentava la scuola. I dati presi da questo studio sulla povertà ci dicono che tra i giovani tra i 15 e i 25 anni il tasso di abbandono scolastico attinge il 62,5% dei ragazzi e il 59,2 % delle ragazze in stato di povertà, accentuandosi nelle zone rurali del paese. La popolazione povera è quindi rappresentata da donne (53%), giovani (62%), che migrano verso la città (15%), che hanno come unico titolo scolastico il diploma primario (44%). I poveri vivono soprattutto in città (51%), sull’isola di Santiago (59%) nella città di Praia (22%). La dimensione media degli aggregarti famigliari è di 5,5 persone, dove la maggioranza (45%) è monoparentale. La maggioranza della popolazione povera ha un lavoro anche nel settore informale (65%) e solo il 5% è disoccupato. Alimentazione, abitazione, acqua, elettricità e trasporti sono le principali spese economiche degli aggregati poveri, che vivono in casa propria, ma senza condizioni adeguate di abitabilità, con gravi problemi igienico-sanitari (senza reti fognarie), accesso ai servizi e sicurezza. I dati rivelano però che la quasi totalità della popolazione povera ha un telefono ed una televisione e più di un terzo di essi ha accesso ad internet.

I giovani appaiono così come forte gruppo sociale e simbolo sociale, come sintomi e agenti della crisi sociale. Gli adulti tendono a vedere i giovani contemporanei come indolenti, irresponsabili, senza obiettivi, viziosi, incapaci di sforzi e impegni, interessati solo alla festività e al consumo, e persino immorali, devianti, pericolosi e criminali. Gli adulti di oggi paragonano spesso i giovani di oggi con la loro generazione post- indipendenza, idealizzandosi come piena di obiettivi sociali e culturali, impegno nazionale, orgoglio e forte senso di responsabilità e sforzo per raggiungere lo sviluppo personale e sociale. Affrontando le trasformazioni contemporanee, spesso idealizzate, dei valori tradizionali e delle relazioni private1 e pubbliche, del lavoro e del tempo libero, del consumo e del risparmio, dell'espressione e del rispetto, la gioventù di oggi diventa così una metafora sociale per i desideri e progetti sociali non realizzati della generazione adulta presente (Martins, 2012).

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1.4 Giovani e violenze nel contesto capoverdiano

Partendo dalla definizione di violenza proclamata dall’OIM, considerata come il prodotto di vari livelli di interazione: individuale, comunitario e sociale è interessante qui riportare le varie sfaccettature di violenza che un giovane a Capo Verde può vivere, essere testimone o perpetuare quotidianamente in casa, in famiglia, a scuola, con il gruppo di pari, nel vicinato e nella società. Tutte queste componenti e sfaccettature di violenze si influenzano reciprocamente come un circolo (Brankovic, 2012) e non possono essere esaminate singolarmente.

Le condizioni socioeconomiche di povertà ed esclusione dal sistema scolastico, la marginalizzazione dei quartieri periferici e le scarse condizioni igieniche e sanitarie, a cui abbiamo accennato precedentemente, affliggono soprattutto i giovani nelle aree urbane del paese togliendo loro opportunità di riscatto e agency; queste, secondo la definizione di Farmer (1996), sono considerate una forma di violenza strutturale, molto stesso questo tipo di violenza è politicamente e socialmente legittimata dalla politica, è pervasiva e normalizzata e accettata come parte della vita, ci si dimentichi che «dietro questa violenza c’è una decisione umana» (Farmer, 1996).

Per quanto riguarda la questione sulla violenza sessuale contro adolescenti e minori e alla violenza di genere, Capo Verde registra un aumento delle denunce: dopo il 2013, anno in cui è stato approvato lo statuto per salvaguardare i diritti dei minori e una procedura particolare per la denuncia, coinvolgendo le due maggiori istituzioni che si occupano di equità di genere (ICIEG) e protezione dei minori (ICCA). Il documento presentato mostra come l’abuso e le violenze avvengano in maggioranza in famiglia dove l’aggressore è normalmente una figura maschile di riferimento oppure nel vicinato. Esistono tre caratteristiche che fanno notare come questo comportamento sia socialmente radicato e legato alle situazioni di svantaggio socioeconomiche di giovani e adolescenti di sesso femminile e alla perpetuazione della società patriarcale: il primo dato ci mostra come le violenze avvengano dove le famiglie e le giovani ricevano regali, prodotti alimentari o denaro in cambio del favore sessuale; un altro quando la casa diventa uno spazio di prostituzione o esplorazione sessuale e il terzo che riguarda il business della notte e del turismo sessuale straniero. Lo studio realizzato infatti, mostra come esistono reti transnazionali che utilizzano bambini e adolescenti dei due sessi nel mercato del turismo sessuale. Gli elementi salienti che contribuiscono a non rivendicare queste violenze

23 solitamente sono le buone condizioni economiche e di sussistenza dell’aggressore sessuale, oppure la questione della vergogna (Oliveira, 2015). È evidente come la violenza sessuale e la violenza di genere siano il prodotto delle relazioni di potere egemoniche tra uomo e donna, legittimate per l’ideologia patriarcale dominante tipica della società capoverdiana che si ritrova in tutti i settori della società e di socializzazione dei bambini e giovani.

Altri ambienti di socializzazione primari come la scuola, diventano molto spesso luoghi nei quali viene ancora imposta la disciplina attraverso punizioni fisiche e castighi, in questo modo si perpetua un modello di autoritarismo di stampo coloniale che, al di là dell’egemonia maschile, propone un modello relazionale in cui l’abuso di potere è consentito. Il messaggio implicito che viene trasmesso con le punizioni fisiche è che la violenza sia un comportamento accettabile e che una persona più forte possa colpire una più debole.

La violenza giovanile come gli altri tipi di violenza che abbiamo visto, sono radicati nel tessuto e nella cultura locale e rappresentano un’espressione paradossale degli elementi che caratterizzano la costruzione locale delle relazioni e della mascolinità nella sua forma egemonica. I giovani e le bande giovanili non sono una discontinuità per la storia e la società capoverdiana, non sono una anomalia ma un’espressione estrema degli elementi propri della cultura del paese, della dinamica di identificazione nei quartieri e dell’idea di mascolinità egemone (Bordonaro, 2012) e delle relazioni di potere esistenti.

1.5 Allarme violenza urbana a Praia

Praia è la capitale di Capo Verde, è situata nella parte litorale dell’isola di Santiago. Deve la sua crescita alla costruzione del porto, che nel periodo coloniale diventò un luogo strategico per la prestazione di servizi e lo sviluppo di commerci, scambi di prodotti e merci con il mondo. Durante il secoli XIV e XIX, Praia fu il centro portuario, economico e amministrativo principale della colonia portoghese d’oltremare, sostituendosi a quello di Ribeira Grande che cadrà in decadenza per via delle sfavorevoli condizioni di difesa ed ancoraggio. Nel 1858 Praia fu decretata città attraverso un decreto del governatore; i motivi che lo spinsero a questa scelta erano l’aumento demografico, la veloce edificazione urbana e la posizione di sicurezza che la baia assicurava. La capitale fu scelta per l’ampiezza della sua baia e la presenza di un altopiano sovrastante dove venne costruito il , centro

24 amministrativo della città coloniale; esso dava la possibilità di difesa e protezione dalle insidie del mare e dai pirati. Sin dalla fine del XIX secolo, Praia, grazie al suo porto era considerata un anello di collegamento tra urbano e rurale (molti dei prodotti venduti venivano prodotti nel centro dell’isola) e come anello di congiunzione tra l’isola e il cosmo esterno (Correia e Silva, 1996).

La crisi mondiale di inizio Novecento provoca una momentanea decadenza del porto di Praia per via della diminuzione degli scambi e dell’ancoraggio a Capo Verde delle imbarcazioni dirette verso l’America; contemporaneamente tuttavia si sviluppa il porto di Mindelo, situato sull’isola di São Vicente. L’opera di ampliamento avvenne grazie agli investimenti della bandiera britannica che utilizzò l’isola come deposito di carbone per l’America. Dopo questo periodo di stazionamento, Praia cominciò ad avere un vero e proprio aumento della popolazione a partire dall’indipendenza di Capo Verde, avvenuta nel 1975, quando ha inizio un fenomeno di velocissima urbanizzazione. Motore di questa crescita fu la popolazione contadina che abitava le zone rurali, la quale era costretta a lasciare la terra perché avverse condizioni climatiche e lunghe stagioni di seca colpirono Capo Verde nella prima parte del secolo. Alla ricerca di occupazione, la popolazione rurale proveniente dall’interior e dalle altre isole arrivava nella capitale e si insediava molto spesso ricorrendo a situazioni abitative temporali e precarie. Dal 2003 la città cresce a dismisura, occupando gli altipiani e le periferie, seguendo un espansione orizzontale non controllata. La struttura della città rimane però di stampo coloniale, come possiamo vedere nella cartina; il centro Plateau, sede amministrativa della città coloniale ristretta in un altipiano, è divisa dalle periferie. Case di persone agiate e abitazioni popolari sono separate e lontane, mettendo in luce un processo di polarizzazione tipica delle città moderne di tutto il mondo (Bordonaro, 2013).

Il momento di maggiore espansione territoriale della città avviene tra il 2003 e il 2010, a seguito dell’avvento della democrazia a Capo Verde. La popolazione urbana nelle ultime due decadi, dal 1990 al 2010 è cresciuta dal 44,1%, fino al 63% attuale (INE, 2010). Seguendo i dati forniti dal comune di Praia (PDM, 2013), il 50% della popolazione di Praia vive in aree urbane spontanee. Circa il 25% degli edifici informali si trova su pendenze superiori al 30% (Tavares, 2012) e circa il 36% dello spazio urbano costruito è in aree a rischio. Almeno il 63% delle aree abitate a rischio identificate sono soggette a inondazioni / allagamenti, movimenti di massa (pendenze ripide, ecc.) (Pina da Silva, 2014). Questa nuova forte pressione demografica è giustificata principalmente dal continuo flusso

25 migratorio causato dall'esodo rurale e dall’immigrazione proveniente dalla costa dell’Africa occidentale (Capo Verde da paese di migrazione diventa anche paese di immigrazione) dato dall'attrattiva associata allo status di centro politico, economico e amministrativo della città di Praia, la capitale del paese (Nascimento, 2009). Praia rappresenta ancora oggi, nella realtà e nell’immaginario capoverdiano il centro del paese, la città del progresso, dello sviluppo, della cultura, descritta come il luogo dove le cose succedono (Stefani, 2014). Data la conformazione geografica del paese, e la politica di centralizzazione delle attività economiche/politiche nella capitale, nell’immaginario comune Praia è pensata come il luogo in cui è possibile trovare lavoro, sviluppare i propri studi e risolvere le questioni burocratiche. Malgrado i trasporti marittimi e aerei abbiano costi elevati, molte famiglie e giovani optano per il trasferimento nella capitale, sfuggendo dalla povertà, isolamento e precarietà che sono caratteristici delle altre isole dell’arcipelago e del territorio rurale interno all’isola di Santiago dove il tasso di povertà è più alto.

La capitale della Repubblica di Capo Verde, conta con una popolazione di circa 140.000 (INE, 2010), ed è stata descritta dal sociologo Lima (2011) come una città partida12, dove il divario sociale si inscrive nella morfologia urbana e la distribuzione della popolazione sul territorio. In modo paragonabile ad altri contesti urbani (Simone del 2004, Davis 2006), lo sviluppo urbano di Praia riflette la crescente polarizzazione della popolazione capoverdiana. Le famiglie della classe media occupano gli altopiani storici riclassificati (come il Plateau, l'ex quartiere di amministrazione coloniale) e le zone residenziali di nuova costruzione secondo alla pianificazione urbana. Mentre quartieri spontanei si diffondono su terreni meno redditizi situati nella periferia, senza accesso ad acqua, luce e igienizzazione. È proprio in queste zone e altri quartieri storici della città (Achada Grande Frente, , Brasile) che la maggior parte delle questioni sociali, legate alla popolazione giovanile, sono diventate particolarmente visibili negli ultimi dieci anni.

Praia, è stata sede nell’ultima decade, dal 2000 di un rapido incremento della violenza urbana. Nel 2011 il 73% degli abitanti di Praia dichiarano che “sono sempre e molto preoccupati dalla violenza e dalla sicurezza nella città” (MAHOT 2011) ed il clima di insicurezza è forte. Il 2012 è stato l’anno in cui si è registrato il maggior numero di omicidi volontari: 53 contro i 20 dell’anno anteriore, e si è registrato un aumento dei gruppi organizzati nella città: 101 gangs giovanili molte delle quali costituite da minorenni (Lima,

12 Traduzione: rotta , spezzata.

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2013). A partire dal 2010, quando il fenomeno comincia a entrare nel discorso mediatico locale aumenta il terrore per i thug13, appellativo con cui si autodefiniscono le bande giovanili a Capo Verde; il fenomeno a livello mediatico e sociale viene inizialmente ed erroneamente legato all’arrivo dei repatriados degli USA. I rimpatriati sono immigrati capoverdiani negli Stati Uniti D’America di seconda o terza generazione che a partire dagli anni ’90 a seguito di politiche di difesa e sicurezza delle frontiere degli stati occidentali come USA e Portogallo, vengono deportati e rimpatriati nel paese di origine, a causa di problemi di criminalità, giustizia o mancanza di documentazione, essi per il 70% si insediano a Praia. La sociologa Katia Cardoso che ha lavorato su questo tema, mostra come questo semplicistico binomio rimpatrio e violenza determini l’esclusione e l’etichettatura nel processo di reintegrazione nel paese di origine. Argomenta che il fenomeno della deportazione è basato su di una violazione dei diritti umani, e perpetra una doppia punizione: la prima è quella di lasciare il paese di residenza, la seconda di “ritornare in un contesto che non conosci e dove nessuno ti riconosce”. Il deportato annulla l’immagine dell’emigrante di successo associato al ritorno volontario di migranti e l’immagine di ricchezza e benessere degli Stati Uniti e dei paesi occidentali, nella maggior parte dei casi per via di questo spettro e della poca sensibilità sulla tematica, governo, associazioni e famiglie non facilitano la reintegrazione nel paese, aumentando lo stigma sociale (Cardoso, 2012). L’antropologo Bordonaro (2012) nella sua ricerca etnografica forense nel quartiere storico praiense di Brasil, ci mostra come la violenza giovanile non sia scaturita dall’arrivo di forze endogene ma che essa sia radicata nel tessuto e nella cultura locale e rappresenti un’espressione estrema degli elementi che caratterizzano la costruzione locale dell’identità e appartenenza al quartiere e la mascolinità nella sua forma egemonica. I giovani e le bande giovanili non sono quindi una discontinuità per la storia e la società capoverdiana, non sono un anomalia ma la perpetuazione di un modello di stampo patriarcale e coloniale. Esiste una cultura della violenza storicamente legittimata nel paese (Lima 2010 e Varela 2010) e, nel caso della città di Praia, le tensioni sociali storiche tra il centro storico (Plateau) e la periferia sono attualmente trasferiti nei nuovi centri emergenti e riappropriati dai giovani. Questo, infatti, rende la città di Praia, a differenza di chi continua a definire Capo Verde, il paese della morabeza e dei gentili costumi, una città divisa, segnata dalla distanza spaziale tra i suoi membri (Lima, 2015). Si può vedere una dialettica storica in cui i giovani,

13 Acronimo per “The hate u give little infants fucks everyone”. Questo acronimo è stato reso popolare dall’artista rapper Americano TuPac.

27 attraverso i gruppi che li rendono visibili, si pongono come reazione alle logiche sociali e culturali locali e, attraverso l'appropriazione di culture giovanili globali, reagiscono alle violente trasformazioni economiche che hanno segnato la società capoverdiana nel periodo post-apertura democratica dell’ 1990 e le emergenti questioni sociali (Bordonaro, 2013) .

Il ruolo dei media e della stampa capoverdiana e dei discorsi politici dagli inizi del 2010 dallo stampo semplicista e paternalista ha diffuso sempre di più nella città un forte senso di insicurezza e terrore legato ai quartieri periferici e alla gioventù periferica chiamati e auto definiti dagli stessi “gueto” incrementando il processo di criminalizzazione e distanza sociale. La sicurezza urbana diventa allarme nazionale per il paese fomentando il dibattito antecedente le elezioni del 2015. Nello stesso anno, a Praia si conta un aumento dei gruppi organizzati e molti sono i giovani anche minorenni che perdono la vita o sono colpiti da armi da fuoco/ armi bianche o scontri tra gruppi. La forma più consueta di azione delle bande è il kasubodi (cash or body) ossia la rapina a mano armata, che colpisce soprattutto nelle zone centrali o quartieri borghesi della città anche questo fenomeno è in aumento nelle stime nazionali. I dati della polizia nazionale ci mostrano che la tendenza continua a crescere, tanto da fare registrale nel 2016 una crescita del 9% dall’anno anteriore di crimini commessi da giovani.

Redy Wilson Lima, sociologo capoverdiano che si è occupato dello studio qualitativo delle bande in loco dal 2007, considera che le bande giovanili che si auto- identificano thug, fanno uso di violenza come una forma di affermazione identitaria, sociale ed economica (Lima, 2015). Parlando di violenza urbana tribale come la definisce il sociologo, siamo lontani dal parlare di un gruppo etnico, ma stiamo parlando metaforicamente dell'attrazione sociale o della resistenza sociale di uno specifico gruppo giovanile in antitesi alla cultura dominante caratterizzata da una forte normatività sociale. I giovani che formano gruppi nei quartieri più poveri, incorporando lo stile di vita dei giovani neri dei ghetti nordamericani, optano per certi comportamenti visti dalla maggioranza dominante come disallineati, conflittuali ed esotici. (Lima, 2015) Ancora enfatizza che l’ingresso di molti giovani e minori in questi gruppi è dovuto al fatto che essi ricerchino un identità che li faccia transitare attraverso un rito di passaggio verso nella fase adolescenziale alla fase di visibilità sociale e appartenenza.

È opportuno tenere in considerazione che molti giovani capoverdiani sono coinvolti in reati non solo per soddisfare i propri bisogni primari, “sia crimine, violenza e spaccio di

28 droga sono strumenti per aumentare il loro potere, la loro appartenenza sociale, proclamando la tua identità” (Bordonaro, 2010). Questo processo diventa quindi una forma di rivendicazione sociale, personale ed economica che altrimenti, nella struttura di segregazione ed emarginazione che vivono sarebbe difficilmente raggiunta. L’integrazione dei giovani nelle bande, prendendo le distanze da certi standard sociali, non significa che essi si stiano isolando da quello che li circonda, ma corrisponde per loro alla possibilità di trovare un luogo di incontro tra pari, con referenze e condizioni vicine alle loro. La strada diventa il “forum alternativo” (Bourgois, 2001) il luogo in cui si afferma l’autonomia e la dignità umana.

Lo stesso luogo dove si sviluppa la cultura della resistenza caratterizzata da varie pratiche di rivolta e uno stile di vita segnato dall’opposizione sociale che può trasformarsi con il passare del tempo in una carriera delinquenziale.

Ultimo aspetto da evidenziare è il carattere performativo dei gruppi, la maggior parte dei gruppi ha un rapper di riferimento che agisce come collegamento e presentazione degli stessi nella comunità, inoltre è data molta importanza all’immagine di sé: pantaloni larghi e magliette particolari, collane e orecchini ingombranti, tatuaggi simbolo dello stile afroamericano dei ghetti e della cultura hip-hop in cui il corpo viene utilizzato come luogo di identità ed espressione del sé. Le espressioni della lingua utilizzate dai ragazzi rispecchiano l’influenza dell’inglese americano dei ghetti (nigga, street, block, gun, soldjer, thug). Proprio come le tribù si identificano con determinati spazi, allo stesso modo, le nuove tribù urbane si identificano con determinati spazi urbani come le piazze, scale, strade, angoli, ingressi, trasformandoli in luoghi di significato e di socialità, dove loro stessi possono incidere i propri marchi e segni.

In sintesi gli studi sociologici ed antropologi che ho esaminato basati tutti su lavori etnografici sul campo e di stampo qualitativo, riconducono la situazione di violenza giovanile capoverdiana ad una connessione tra fattori locali e congiunture internazionali globali legate alla violenza esercitata dal passato coloniale e dalle attuali politiche globali e locali neoliberali. Viene evidenziata nel paese una grande diseguaglianza ed esclusione sociale (Lima, 2012/2014); la fortificazione di un modello della supremazia maschile (Bordonaro, 2013/Stefani, 2014); l’emergenza del narcotraffico (Lima, 2014); la disponibilità di armi da fuoco (Reis, 2008); una cultura dell’orgoglio ed onore patriarcale (Stefani, 2014), il forte tasso di abbandono scolastico e inefficacia educativa/formativa

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(Fortes, 2011), una continuità con la violenza coloniale “razzista e classista” (Lima, 2013), la schizofrenia della città e la segregazione degli spazi della capitale e delle opportunità (Furtado, 2011). Gli studi legati alla prospettiva sui movimenti sociali (Bairros, 2007) hanno evidenziato anche la prospettiva legata all’agency sociale e politica delle bande giovani, (Cardoso, Rocha, 2013; Lima, 2015/2016) i giovani si identificano in gruppi di loro pari manifestando una necessità di visibilità, identificazione e appartenenza sociale, dimostrando in alcuni casi, come vedremo nell’analisi dei dati una tendenza alla resistenza o lotta contro il potere neocoloniale egemonico.

1.6 Lotta contro la violenza giovanile

La lotta contro la violenza giovanile è stata, dopo la nascita del fenomeno mediatico thug dal 2009/2010, molto dibattuta nell’arcipelago atlantico, e le azioni intraprese a livello politico sono state esigue e prevalentemente repressive (Bordonaro, 2013; Zoettl, 2014). Negli ultimi dieci anni il numero delle detenzioni è aumentato del 100% (Zoettl, 2014) soprattutto in riferimento alla popolazione giovanile maschile (12-30 anni di età), nel 2012 il carcere della capitale è stato ampliato per accogliere la nuova sezione giovanile (dai 16 ai18 anni). Nello stesso periodo viene istituto nella polizia nazionale il dipartimento BAC (Brigadas anti-Crime) ossia un settore specializzato per la lotta al crimine con riferimento alle comunità periferiche e ai gruppi giovanili organizzati, le modalità di intervento nei quartieri prevedono il mascheramento degli agenti di polizia, denominati informalmente dalla popolazione ninja, ricordando i lottatori mascherati dei film cinesi.

La reazione del governo capoverdiano è stata prevalentemente quella di una politica voltata alla difesa e alla penalizzazione in nome della sicurezza, questo ha segnato un aumento del potere e della centralizzazione dello Stato sotto lo slogan “Tolerȃncia zero” (Zoettl, 2014) fomentando la criminalizzazione della popolazione giovanile, dei quartieri periferici e della povertà (Lima, 2016). Questa tipo di politica è stata appoggiata da un opinione pubblica e mediatica favorevole e concentrata nella semplificazione e stereotipizzazione della criminalità giovanile e dell’immaginario periferico urbano.

Gli studi degli osservatori internazionali sul paese assumono, che la violenza esercitata dallo Stato e dalla polizia è uno dei principali problemi di violazione dei diritti umani e le detenzioni illegali sono sistematiche (United States Department of State, Country

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Reports on Human Rights Practices, 2011) rappresentando un grave attacco alla democrazia (OHCR, 2013) per un Paese come Capo Verde segnalato a livello mondiale come riferimento per lo sviluppo economico, la democrazia e la libertà.

Per quanto riguarda il discorso e le azioni delle istituzioni sociali legato alla prevenzione della violenza e alla soluzione dei problemi strutturali alla violenza si è notato come esista un discorso paternalista, di categorizzazione e stigmatizzazione dei bambini / giovani a rischio e delle famiglie, considerate come moralmente disfunzionali e dei casi problematici individuali da istituzionalizzare (Bordonaro e Lima, 2012).

Bordonaro e Lima nella loro analisi sulle politiche sociali di protezione dei bambini e adolescenti che vivono in strada, ci mostrano come l’emergere di categorie di intervento sociale come i bambini di strada, adolescenti in conflitto con la legge, bambini lavoratori compare nell’agenda nazionale parallelamente all’abbandono di un modello politico che ha designato lo Stato come attore principale nel processo di riformulazione sociale , politica ed economica14, per un sistema nazionale di protezione sociale con l’obiettivo di garantire l’ intervento istituzionale in casi problematici, essenzialmente rinunciando ad un progetto politico e sociale di integrazione della popolazione giovanile. In sintesi con l’avvento della liberalizzazione e la democrazia si è passati ad un Servizio sociale statale che Wacquant definisce come ordine sociale paternalista (Wacquant, 1999).

Una delle caratteristiche è stata l’introduzione di un modello di classe media dell’infanzia, quindi la creazione immaginaria di una famiglia nucleare che protegge, della strada come luogo pericoloso che non crea autonomia, l’istituzionalizzazione ed il controllo, questi sono stati parametri che hanno agito ed agiscono non solo sulla morale della società ma anche nei piani strategici istituzionali e sull’azione di operatori che agiscono senza considerare i dati contestuali, ma soprattutto senza riuscire a trovare un modo efficace per favorire la coesione sociale.

In questo contesto le politiche sociali tendono a svalutare uno sguardo ampio sui fenomeni sociali, economici e politici costruendo soluzioni correttive ed individuali ai problemi sociali. Di conseguenza viene data priorità alla causa ed effetto, sottolineando la disfunzionalità e le patologie dei singoli individui o famiglie (Boyden, 1997). La preoccupazione per i bambini e i giovani che vivono in strada sorge non solo perché essi

14 Di stampo socialista, i giovani erano la leva del paese e venivano educati ed integrati in gruppi e organizzazioni come i Pioneiros de Abel Djassi con un determinato disegno politico e ideologico.

31 possano soffrire, essere in una situazione di rischio o al limite della sopravvivenza, ma perché essi possano turbare la tranquillità, la stabilità e la normalità della società (Bordonaro e Lima, 2014).

Anche se Capo Verde a livello statistico è considerando un paese che ha raggiunto grandi mete a livelli di sviluppo, le fragilità del suo sistema sono state segnalate nel Fragil State Index 201815. Per la fondazione Fund for Peace, uno stato “è fragile quando non è in grado o non vuole svolgere le funzioni necessarie per la riduzione della povertà, la promozione dello sviluppo, la protezione della popolazione e l'osservanza dei diritti umani". In altre parole, lo stato non è in grado di svolgere funzioni di base nei settori della sicurezza, dello stato di diritto e dei servizi sociali di base Come rileva l’analisi delle politiche ed istituzioni sociali capoverdiane si nota un effettiva incapacità di dare risposte concrete ed effettive ai problemi sociali come per esempio la povertà e l’esclusione sociale, e nel frangente sociale. Esistono delle inerzie istituzionali che non riescono a dare una efficace soluzione alla prevenzione dell’uso/abuso di droga nell’infanzia e preadolescenza ( i centri di recupero sono attivi solo dopo l’età adulta), al reinserimento post penitenziario (non esiste un programma attivo per questo fine); alla formazione professionale, l’abbandono scolastico (secondo i regolamenti ministeriali un alunno dopo essere rimandato la seconda volta è espulso dalla scuola); ai problemi occupazionali; alle violenze interpersonali che i giovani soffrono nella società, nelle famiglie e nella scuola.

Tuttavia i principali capri espiatori che hanno influenzato sia a livello politico, sia sociale il discorso sulla lotta alla violenza giovanile sono stati i discorsi sulla crisi della famiglia: ossia la destrutturazione del nucleo, la mancanza di educazione, l’utilizzo di droga, la disoccupazione e la mancanza di punizioni severe per i criminali (UNODC, 2007). L’élite capoverdiana ha sempre più supportato nell’era post-coloniale la politica della vicinanza culturale all’Europa, dove la famiglia nucleare europea è stata costantemente adottata come un modello di sviluppo e organizzazione sociale, nonostante la realtà diversa del paese (Lobo, 2008). Le analisi in questo senso hanno dimostrato come questo ideale sia stato condizionato da una visione ideale: eurocentrica e patriarcale della famiglia (Martins, 2011) dato che il 45% delle famiglie capoverdiane è guidato da donne (INE, 2010) e segue storicamente un modello matrilineare (Giuffrè, 2007); ma piuttosto che questo ideale sia servito allo Stato per «scaricare la propria responsabilità» (Lima, 2012) sulle famiglie, considerate incapaci di rispondere all’educazione dei propri figli.

15 Fonte: http://fundforpeace.org/fsi/data/

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Per quanto riguarda l’utilizzo di droga e le tossicodipendenze, negli ultimi 20 anni Capo Verde è diventato un luogo di snodo strategico per il narcotraffico internazionale (UNODOC, 2012) che ha avuto un impatto nell’economia e nella società rilevante, coinvolgendo anche apparati istituzionali e dell’alta società capoverdiana. Certamente come rivelano i dati del CCCD (Commisão de Coordinamento Combate a droga) una parte di queste sostanze è consumata nel paese soprattutto dalla popolazione giovanile/maschile, trasformandosi talvolta in una opportunità per una retribuzione finanziaria e innalzamento dello status economico/sociale, ma secondo l’analisi di Zoettl è sbagliato assumere cause e relazioni lineari tra l’uso di droga e l’appartenenza ad una gang, prima di tutto perché non esistono dati a riguardo, e perché potrebbe come è successo nel discorso mediatico ancora una volta colpevolizzare gli individui e le famiglie e le comunità per l’incapacità di controllare l’utilizzo di droga nel suo interno, dato che dalle statistiche è soprattutto consumata a casa o sulla strada, correndo ancora il rischio di stigmatizzare la popolazione più povera ed esclusa della società, che sarebbe solamente coinvolta nel giro più basso di affari legati alla droga e al traffico internazionale.

Una tendenza del sistema sociale capoverdiano è stata quella della delega alle organizzazioni sociali e comunitarie. Lima riporta come nel 2011, sia stato intrapreso un processo di pacificazione, attraverso l’utilizzazione di un potere intelligente (NYE JR, 2012) da parte dello Stato, attraverso il finanziamento di progetti sociali e comunitari che è servito per sbollentare i quartieri periferici e calmare l’insoddisfazione dei giovani, che ormai si andava manifestando in tutta la società, ma è ancora plausibile visto il continuo manifestarsi della problematica, che questo non abbia ancora creato una risposta efficace alle cause strutturali della violenza giovanile (Zoettl, 2016).

Ricordiamo che nel periodo che va dal 2009 al 2015, alcuni sono stati i tentativi istituzionali di dare risposta al problema della violenza giovanile urbana attraverso dei piani e dei programmi specifici come: ‘Programa de Segurança Solidaria’ da parte del Ministero degli Interni con il finanziamento di progetti comunitari e la campagna ‘Entrega de Armas volontaria’ , il Programa ‘Bo ki ta decidi’ da parte del Ministero della Gioventù, il rinforzo del sistema di formazione attraverso i centri di formazione professionale, il progetto ministeriale ‘Inclusao Social de Jovens’. Tuttavia la centralizzazione degli interventi, il bipartitismo, la corruzione nei progetti politici e comunitari, l’interferenza delle elezioni, la mancanza di interazione e collaborazione interministeriale, il coinvolgimento di consulenti ed esperti internazionali privi di esperienza e conoscenza del contesto, la mancanza di

33 sostenibilità e aderenza delle comunità all’intervento, la logica del presente hanno impedito che essi dessero delle risposte efficaci ai giovani. Durante l’analisi dei dati rifletteremo partendo da casi concreti per comprendere l’inefficacia di questi programmi che ancora una volta si sono dimostrati uno sforzo fallimentare da parte del governo, fomentando ancora un discorso contro il sistema sociale e le istituzioni capoverdiane da parte dei giovani, beneficiari del progetto.

1.7 Achada Grande Frente: laboratorio di prevenzione alla violenza giovanile

Achada Grande Frente è un quartiere alla periferia ovest di Praia, assume una posizione strategica nella capitale oggi e nel passato di colonia ultramarina portoghese: è situato vicino al porto e all’aeroporto, attualmente è la sede eletta da numerose imprese internazionali, soprattutto portoghesi, che decisero a partire dagli anni ‘90 di investire nell’arcipelago atlantico, che ancora oggi importa l’80% dei prodotti di consumo (INE, 2010).

Il quartiere è situato su un altopiano ad ovest della baia di Santa Maria e la spiaggia di Praia Negra, esattamente sopra il porto e Ponta da Mulher Branca, luogo del primo ancoraggio dei coloni portoghesi ( D. Fernandes, 2009). Lo sviluppo del quartiere lo si deve alla costruzione del porto che innescò un processo amministrativo ed economico della Praia coloniale a partire dalla metà del ‘500, intorno ai quale si sono configurati gli spazi e le dinamiche sociali ed economiche nel passato e nel presente del quartiere e della città.

Dagli anni ’90 Achada Grande Frente divenne un quartiere attrattivo per la vicinanza al Plateau, al porto ed aeroporto, accogliendo famiglie e comunità immigrate da altre isole, dall’interior del paese e dall’Africa occidentale. Gli immigrati hanno dovuto trovare nelle coste degli altopiani un luogo per stabilirsi, creando nuovi quartieri, nuove costruzioni molto spesso in modo abusivo e che piano piano hanno formato una nuova struttura della città, che si va espandendo anno dopo anno. Anche nel quartiere di Achada Grande Frente, si legge il processo di costruzione continua, come se Praia fosse una città in continua opera di costruzione ed ampliamento. Seguendo il concetto di polarizzazione (Bordonaro, 2013) che abbiamo presentato prima notiamo come Achada Grande Frente sia divisa in due zone. Nella parte superiore, più recente, hanno sede e fabbriche, magazzini, depositi delle poste e le famose discoteche che assicurano il divertimento nel week end ai

34 lavoratori del ceto medio e alto della città; nella parte inferiore si estende il quartiere popolare, che ospita i pescatori e le rabidantes16 dedite alla vendita del pesce in tutta la capitale. Il quartiere è legato e deve la sua identità alle attività di pesca e al porto marittimo che ancora oggi porta sostenibilità al quartiere. Dal ’90 anche l’aeroporto e le imprese insediate nel territorio limitrofo hanno assunto manodopera locale del quartiere anche se per gli impresari stranieri perpetuano lo stereotipo che le persone di questo quartiere soprattutto giovani siano “criminali”. I giovani sono impiegati in lavori di carico e scarico merci da container o camion riforniti che arrivano in città in maniera informale e discontinua; gli scaricatori guadagnando intorno ai 1500 escudos al giorno. Dalle interviste svolte con alcuni degli impresari, si nota come durante tutti gli anni di insediamento non siano mai entrati nel quartiere vero e proprio percorrendo solo la strada asfaltata che porta dall’impresa all’aeroporto. I numerosi furti di materiale edilizio, di rifornimenti alimentari impressionano ancora gli impresari della zona che rinforzano ancora lo stereotipo e criminalizzano i vicini, creando una barriera netta tra quartiere popolare e capannoni industriali.

I cambiamenti e le modifiche alle dinamiche portuarie hanno influenzato gli abitanti del quartiere, che si dedicano soprattutto all’attività di pesca e vendita del pesce, oppure ai servizi legati al porto. Nel 2007 Capo Verde firmò un accordo ventennale con l’Unione Europea per permettere ai grandi pescherecci spagnoli, francesi e portoghesi di pescare in territorio nazionale in cambio di denaro. Dalla stipula di questo accordo i pescatori del quartiere, hanno manifestato la difficoltà incontrate nel dare continuità alla pesca tradizionale e denunciato un aumento delle morti e scomparse in mare. Le condizioni di pesca diventano sempre più insidiose soprattutto perché le specie di pesce autoctone, a rischio di estinzione soprattutto in alcuni periodi dell’anno, sono ora protette e le tecniche di pesca tradizionale non sono più sufficienti per provvedere a rifornire il mercato di pesce locale.

Il quartiere popolare a livello sociale e storico ha radici ben forti, essendo la sede della Tabanca, una delle prime manifestazioni culturali fondate nell’isola di Santiago. La Tabanca è storicamente una manifestazione sincretica di aggregazione sociale e spirituale

16 Le donne all’alba appena ritornano le barche dei pescatori, vanno al porto e qui dopo la compravendita, caricano il pesce nelle vasche che trasportano a mano o con il taxi, da vendere nella città alta: al mercato di Praia o Sucupira. Loro sono le uniche ad avere accesso al porto, dato che per una modifica urbanistica e organizzativa della città negli ultimi anni il pubblico e la vendita diretta del pesce è stata vietata al porto. Questa attività è principalmente un attività indipendente della donna che garantisce il sostentamento dei figli.

35 sviluppatasi nel periodo di insediamento della popolazione schiava dall’Africa occidentale. Essa rappresenta un movimento sociale/culturale che parte da un incrocio tra tradizione religiosa legata alla venerazione di Santo Antonio e San João e elementi pagani. Nonostante la Tabanca riprenda in molti aspetti la cultura della tradizione cristiana portoghese, essa è stata una manifestazione fortemente ostacolata e marginalizzata durante il regime coloniale in quanto promuoveva il senso di resistenza, il rafforzamento delle comunità e lo spirito anticolonialista. Nel corteo della Tabanca sfilano, oltre al Santo patrono di ogni comunità, anche figure e caratteri della società civile e della cultura africana: il re, la regina, la madrina, la polizia, i soldati e gli infermieri.

Dopo la nascita del fenomeno allarme thug nella città di Praia come abbiamo visto nel paragrafo precedente, Achada Grande Frente è diventata come altri quartieri, nell’immaginario cittadino uno dei quartieri più pericolosi e problematici, soprattutto per le questioni legate agli scontri territoriali tra gruppi e le problematiche legate alla criminalità giovanile.

Le problematiche esistenti nel quartiere popolare a livello di accesso ai servizi, igiene e rifiuti, segmentazione sociale, precarietà delle abitazioni, occupazione illegale del territorio e economia informale sono rilevanti per le condizioni di vita delle famiglie e portano molto spesso alla stigmatizzazione e successiva esclusione sociale degli abitanti: grazie al binomio “popolazione problematica in un quartiere problematico”.

Il 28 aprile 2010, il primo ministro di Capo Verde, Josè Maria Neves indice un Forum di consenso ‘Por uma cultura da paz e tolerancia’ al quale partecipano le maggiori autorità istituzionali, ecclesiastiche e della società civile del paese. L’obiettivo era quello di discutere, riflettere e trovare delle soluzioni in rete per risolvere o attenuare il problema della violenza giovanile che veniva emergendo a livello mediatico e di allarme sociale nella società. Dal documento conclusivo del forum si estrapolano elementi come: l’importanza di conoscere e fare ricerca su questo nuovo fenomeno, conoscere i fattori di rischio, formulare modelli di prevenzione. Nelle raccomandazioni finali del documento si cita la famiglia: come luogo fondamentale di prevenzione ed educazione; la scuola come attore per la promozione della cultura della pace, la comunità e la società civile come alleato, il governo che si dovrà impegnare a promuovere politiche sociali ed educative capaci di rispondere alle necessità della popolazione.

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La Fundaçao Esperança, guidata da Antonio Mascarenhas Monteiro che durante il Forum Nacional pela Paz, aveva deciso di impegnarsi per promuovere azioni di pace che coinvolgessero giovani dei quartieri periferici, ha radunato un equipe di esperti per promuovere un progetto per favorire il benessere nelle comunità e la prevenzione della violenza. L’equipe dopo aver creato un diagnostico sulla situazione di violenza decide di selezionare un quartiere per iniziare il proprio intervento: Achada Grande Frente viene scelto perché si trova al centro di rivalità tra bande di altri quartieri come , Achada Grande Tras e Achada Mat; perché al suo interno si trovavano risorse interne istituzionali collaborative come la scuola, la delegazione municipale e culturali come la Tabanca; perché si potevano valorizzare le azioni già intraprese da Uv, lìder comunitario che individualmente aveva già intrapreso nel quartiere delle attività volte a favorire la coesione sociale e l’integrazione di giovani, come lìder e come sociologo autore di una tesi sul tema della violenza giovanile, vincitrice del Premio Capoverdiano per lo sviluppo rurale 2011.

Nel 2010 grazie ai finanziamenti della cooperazione internazionale francese proprio ad Achada Grande Frente, si è realizzato un progetto biennale pilota di prevenzione primaria della violenza giovanile, Projecto Simenti 17 implementato dalla Fundação Esperança guidata da Antonio Mascarenhas Monteiro18 una Fondazione sociale che porta come obiettivo quello della promozione sociale dei giovani attraverso l’educazione.

L’obiettivo primario del progetto era la prevenzione primaria della violenza giovanile, promuovendo il benessere nella comunità di Achada Grande Frente, puntando allo sviluppo delle risorse locali e la creazione di una rete tra la comunità e le istituzioni attraverso l’educazione non formale. I beneficiari identificati per il progetto furono bambini, giovani, famiglie, associazioni e gruppi, comunità.

Fondamentale nell’esecuzione del progetto fu la partecipazione nell’equipe di progettazione e intervento di membri attivi nella comunità: il lìder comunitario Josè Tavares Monteiro, educatori e giovani animatori, i rappresentanti di istituzioni e organizzazioni locali come la scuola elementare, l’ associazione dei pescatori, la Tabanca,

17 In kriolo caboverdiano, significa seme per la tradizione contadina; ha una forte valenza simbolica nel raccogliere dopo la seca , che a Capo Verde dura 6 mesi ogni anno. 18 Antonio Manuel Mascarenho Gomes Monteiro è stato il primo Presidente della Repubblica Capoverdiana eletto democraticamente nel 1991. Giurista e Magistrato della Repubblica Capoverdiana e personaggio di spicco nell’isola Atlantica, dal 2001 collabora con le Nazioni Unite come controllore internazionale durante i processi elettorali di numerosi paesi africani.

37 la delegazione locale municipale, il centro sanitario, le associazioni sportive e religiose e gruppi non formali di giovani e batucadeiras.

Le attività realizzate furono legate alla sfera socio-educativa come ATL (attività del tempo libero e rinforzo della competenze sociali) per bambini e ragazzi, gruppi di auto sostegno e genitorialità, Officina delle idee (spazio per la promozione e realizzazione di idee dei giovani), formazioni di animazione socioculturale comunitaria e incontri comunitari.

Il progetto cominciato nel 2010, dopo due anni, aveva coinvolto 200 utenti tra giovani, bambini e genitori e creato molti legami a livello comunitario e istituzionale ma non era riuscito a garantire un effettiva sostenibilità per proseguire le attività, il finanziamento internazionale era terminato, e l’equipe ricercò forme e strategie per continuare con le attività che avevano una ottima risposta.

Una delle questioni critiche rilevate durante il lavoro di campo era stata la difficile e conflittuale relazione tra istituzioni statali e comunità. Se da una parte i giovani venivano colpevolizzati dai discorsi politici per la situazione della violenza e dell’insicurezza urbana, e si chiedeva la loro partecipazione, dall’altra chi cercava di costruire e produrre delle soluzioni partendo dalla comunità non veniva incoraggiato con un supporto reale a farlo, un esempio era proprio Simenti. I molteplici tentativi di mediazione istituzionale tra comunità e governo effettuati tra il 2011 al 2014 attraverso i progetti presentati e gli incontri effettuati con i maggiori esponenti del governo capoverdiano, non ebbero il risultato atteso e il progetto non ebbe un supporto concreto locale istituzionale per continuare le proprie attività.

Le ipotesi percorribili che prenderemo in considerazione nei capitoli successivi erano molte: la centralizzazione e il protagonismo nella strategia ministeriale, la forte partitizzazione del potere istituzionale e del lavoro sociale, la scarsa trasparenza, la mancanza di risorse finanziarie dovute alla sfavorevole congiuntura economica internazionale, la discriminazione linguistica, la cultura di appartenenza. I metodi ed il modus operandi del progetto Simenti, rappresentato in quelle circostanze dai rappresentanti comunitari, fece incrementare la distanza tra comunità e apparato istituzionale.

Nel 2013 venuti a mancare gli aiuti internazionali a causa della crisi economica internazionale e il cambiamento negli accordi di cooperazione internazionale tra Capo

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Verde e Europa (l’ambasciata di Francia lascia Capo Verde) il progetto Simenti cambia volto.

Esso si lascia alle spalle la fatale convinzione per cui un progetto non finanziato dall’esterno non possa sopravvivere. Questo passaggio cruciale mise in discussione un paradigma centrale per cui il potere era basato sulle decisioni delle istituzioni e sul loro beneplacito economico, portando così ad un appropriazione del progetto da parte della comunità locale. Nel gennaio 2013, i giovani (animatori socioculturali, lìders associativi della comunità, genitori e educatori della comunità) che avevano partecipato al progetto Simenti, decisero come primo passo di azione, di appropriarsi di uno spazio pubblico abbandonato nella comunità di Achada Grande Frente: il Pilorinhu. Il Pilorinhu era stato costruito negli anni ’90 ed era una struttura destinata ad essere un mercato ittico, per il quartiere, data la vicinanza del porto. Cambiata l’amministrazione comunale il grande locale era stato abbandonato, come anche l’idea di trasformare il quartiere in un centro di commercio del pesce. La struttura esterna e la pavimentazione rimasero intatte, ma la struttura degenerò a causa dello stato di abbandono, diventando e rappresentando per la comunità uno spazio utilizzato come orinatoio, discarica e sede di attività illecite come spaccio e consumo di droga. Nonostante la richiesta ad istituzioni e municipalità per l’aiuto alla sgombero delle immondizie e alla sanitizzazione del luogo, le istituzioni risposero con un silenzio ed un indifferenza completa. Alcune imprese private con l’idea di costruire una succursale per i propri magazzini oppure un centro sportivo internazionale si fecero vive ma non convinsero il gruppo comunitario ad accettare le proposte, dato che l’obiettivo era quello di trasformare lo spazio per dare risposte alle necessità della comunità.

In questo contesto di forte consapevolezza e azione politica comunitaria, in contrasto con il potere statale centrale, ad Achada Grande Frente, grazie all’intraprendenza di João Josè Tavares Monteiro che era stato membro dell’equipe del progetto Simenti, nasce la Korrenti di Ativista (KdA). Questa si configura come un movimento sociale formato da lìder comunitari, giovani e bambini, ispirato dall’ideologia panafricana di Amilcar Cabral, volto all’occupazione e riappropriazione di spazi pubblici per la riflessione critica e azione politica promuovendo la resistenza neo-coloniale e la rivendicazione di spazi, voce e diritti per i giovani e le periferie. Accanto alla proposta politica il movimento accosta una forte enfasi all’educazione e trasmissione di sapere comunitari: come i dibattiti aperti, l’arte come strumento di rivendicazione ed incontro, formazione storica e politica panafricana, l’educazione dell’infanzia. L’analisi di Stefani (2014) su questa tematica ci mostra come

39 esistano delle continuità e una forte connessione tra il modello promosso dai gruppi thug e la Korrenti, dato che molti dei ragazzi che vi fanno parte sono ex-appartenenti ai gruppi thug, ex-carcerati, bambini di strada, lìder associativi e artisti in questo vengono valorizzati un particolare linguaggio, un sistema identitario di appartenenza al gruppo, riconosciuto nella comunità e nella società.

In questo processo di agency possiamo riconoscere la comunità come soggetto competente, che ha identità, competenza, potere, diritto e dovere, capace di un azione trasformativa della stesso territorio (Westoby& Shevellar, 2013).

Attraverso l’autorganizzazione, la collaborazione, la mappatura delle risorse esistenti, la KdA ha guidato la ristrutturazione di una struttura fatiscente trasformando il Pilorinhu in un centro comunitario autogestito che attualmente funziona come biblioteca e ludoteca, spazio di discussione e formazione, da poco sede dell’Associazione Pilorinhu.19 L’azione dei membri della Korrenti si sviluppa quindi a partire da una riappropriazione dello spazio urbano. Gli attivisti contrastano il degrado delle periferie e l’alienazione che ne deriva, valorizzandole come luoghi in cui costruire un senso di appartenenza condiviso. Attraverso le ‘campanhas de limpeza’ e le occupazioni la Korrenti mira a valorizzare i bairros periferici e a creare spazi di aggregazione comunitaria e di promozione culturale e artistica. Il Pilorinhu, struttura comunale occupata dalla Korrenti, ad oggi sede delle sue attività, si costituisce come un luogo al servizio della comunità locale impegnato in un’opera di dinamizzazione del quartiere. Dalla periferia partono anche le marce organizzate dagli attivisti, che si dirigono verso il centro della città, sede delle attività politiche e finanziarie del paese, e costituiscono, dunque, degli strumenti di affermazione degli abitanti della periferia nel territorio cittadino e di riappropriazione dello stesso.

Al tempo stesso le azioni della Korrenti contribuiscono alla creazione di un’auto- rappresentazione alternativa delle periferie, in contrasto con i discorsi dominanti etero- prodotti che le dipingono come luoghi di degrado, povertà, violenza e problematicità. Gli attivisti hanno creato dei dispositivi che mirano a ridare la capacità di voice (Hirschman, 1970) alla popolazione dei quartieri periferici. Nelle sessioni di ‘parlamentu di guetto’, per esempio, gli abitanti dei bairros sperimentano la possibilità di esprimere la propria “voce” e contribuiscono alla costruzione collettiva di una narrativa alternativa delle periferie e a una critica sociale indipendente da affiliazioni partitiche.

19 Fonte: http://www.rtc.cv/index.php?paginas=13&id_cod=30178&data=2014-01-08

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A tali attività si aggiunge l’utilizzo dell’arte come forma di mobilizzazione e azione politica. Le forme di arte urbana partono della cultura transnazionale hip-hop e vivono un processo di globalizzazione nel contesto praiense e diventano strumenti fondamentali nella lotta degli attivisti per la trasformazione della periferia. La produzione e la diffusione di musica rap nella lingua creola rappresenta a Praia uno spazio di denuncia e critica sociale e un ulteriore strumento di riappropriazione della voice (Lima, 2013). Nei testi rap l’appartenenza al guetto viene trasformata da stigma ad emblema (Palmas, 2009) e viene valorizzato lo spirito di solidarietà e appartenenza comunitaria dei suoi abitanti. I graffiti costituiscono un ulteriore forma di azione politica: realizzati in luoghi significativi, contribuiscono a focalizzare l’attenzione su determinate questioni del dibattito sociale e a segnare la presenza degli attivisti nel territorio urbano. All’arte urbana si aggiunge la valorizzazione dell’espressione artistica degli attori locali, che trovano nel Pilorinhu uno spazio di realizzazione e di trasmissione delle competenze. In accordo con la filosofia di Amìlcar Cabral, la Korrenti di Ativistas considera l’arte e l’educazione come uno strumento di liberazione dalla povertà e dalla violenza, mezzo fondamentale per sviluppare sé stessi e la propria comunità e uscire dalla situazione di oprimidos (Freire, 1974).

Nonostante le fratture createsi durante il percorso e la distanza che separa il discorso e l’attuazione della Korrenti/ Pilorinhu e quella istituzionale dei Ministeri e degli apparati di cooperazione internazionale, il lavoro e l’azione dal basso realizzato nel corso degli anni sono stati valorizzati ed essi costituiscono una referenza nazionale nel campo dell’azione comunitaria e la prevenzione della violenza giovanile urbana. Proprio nell’anno 2013, l’Onu in collaborazione con L’Osservatorio per i diritti umani di Capo Verde ha premiato questa esperienza, con il Premio della promozione dei diritti umani a Capo Verde nel settore Cultura della pace. Il progetto si è nuovamente aggiudicato il premio nazionale nel 2015 e ha vinto nel 2016 il premio internazionale Diritti Umani di Operation Daywork in Italia.

Nel 2016 l’associazione Pilorinhu in collaborazione con l’ONG Africa ’70 è stata vincitrice del finanziamento triennale europeo (Delegazione della Commissione Europea a Capo Verde), del progetto di Turismo comunitario, che vedrà la struttura del Pilorinhu e la stessa comunità di Achada Grande Frente, come la base per un progetto di sviluppo comunitario legato al turismo solidale.

Una delle sfide che porta questo processo di costruzione dal basso rimane la comunicazione e la mediazione con le istituzioni, e un sistema di cooperazione o

41 istituzionalizzazione guidato da logiche che molto spesso vanno in contraddizione con il pensiero e l’attuazione del Pilorinhu comunità co-costruita partendo dalle idee e identità dei giovani e la comunità locale. Questa problematica sarà oggetto della mia analisi nei capitoli successivi.

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CAPITOLO 2

LE TEORIE DI RIFERIMENTO

In questo capitolo passerò in rassegna le teorie di riferimento che hanno guidato la mia ricerca. Partirò da una analisi interdisciplinare sul fenomeno violenza giovanile in una prospettiva sistemica, poi parlerò dell’influenza che hanno avuto nella mia analisi gli studi postcoloniali come portatori di un sapere altro che mette in discussione le dinamiche di potere tra nord e sud del mondo, per poi addentrarmi nell’analisi delle teorie di riferimento dei processi comunitari seguendo l’approccio della pedagogia critica.

È stato fondamentale prendere in considerazione diverse teorie di riferimento per avere una prospettiva critica ed interdisciplinare sul fenomeno della violenza giovanile a Capo Verde, passerò analizzerò i principali contributi delle teorie psicologiche, sociologiche ed antropologiche che verranno combinate durante la mia analisi dei dati.

La visione sistemica del fenomeno mi ha portato a leggere la questione della violenza giovanile su diversi livelli, orientando la mia riflessione pedagogica non tanto verso interventi rivolti alla prevenzione di un comportamento deviante in termini patologici ma alla promozione di situazioni di potenziamento e trasformazione sociale attraverso azioni volte a valorizzare ed incrementare le competenze e dei giovani e delle comunità di appartenenza. La visione che ci propongono le impostazioni teoriche-scientifiche classiche si scontra sia nella teoria, sia nella pratica con le richieste provenienti da un apparato punitivo e repressivo e ci porta a ripensare al sistema nel suo complesso in termini di azione e politica, alla luce delle recenti acquisizioni che provengono dalla ricerca scientifica e dai dati che qui esporrò.

Il focus della mia analisi si concentra sugli aspetti comunitari, la comunità infatti è una necessaria condizione dell’organizzazione sociale e sistema di appartenenza per i giovani ed è influenzata dalle dinamiche di potere che provocano inclusione ed esclusione, ma qui anche si creano spazi innovativi di azione e resistenza alle logiche universalistiche, neocoloniali e neoliberali. La pedagogia critica è quindi contestualizzata come un processo di trasformazione umano e politico che necessariamente parte dal riconoscimento dello stato

43 di esclusione ed oppressione del soggetto, che è soggetto attivo del proprio processo di trasformazione.

2.1 Il contributo della psicologia: violenza ed aggressività

Se partiamo dall'etimologia della parola violentia, essa deriva da vis (lat.), che nel suo significato originale indica "forza, vigore, possanza, prepotenza", è stata in seguito associata al concetto di "far forza, opprimere, distruggere". Bergeret (1994)20 definisce così la violenza: “l’origine della parola violentia deriva dal radicale indoeuropeo che in greco diviene bios e in latino vita . La parola violenza si ricollega quindi all’idea di vita , di forza vitale e non implica nessuna connotazione distruttiva”. La violenza ha diverse sfumature, essa è presente nella vita sin dall‘infanzia, in adolescenza e certamente nel mondo degli adulti. Seguendo il pensiero di alcuni filosofi e psicologi essa può essere contemporaneamente fonte di vita e di distruzione. Essa rappresenta una questione dai tratti primordiali e antichi (basti pensare alla violenza insita nel mito di Caino e Abele , archetipo e modello di infinite violenze). Pensare alla violenza significa quindi rendersi conto che non ci troviamo necessariamente di fronte ad un istinto, ad una pulsione o ad una predisposizione. È quindi necessario tener conto della dimensione interpersonale di quel comportamento, seguendo l’idea per cui il modo di percepire il mondo è intimamente legato al senso di sé, a convinzioni e atteggiamenti, emozioni e comportamenti, ognuno dei quali fa parte della matrice sociale o culturale a cui apparteniamo. La violenza è quindi essenzialmente umana e riguarda il significato che diamo a una forma di comportamento distruttivo che solitamente si manifesta tra le persone. Essa dimora in tutta la vita, dall’ infanzia alla morte, potremmo ripensare alla violenza in relazione alla vita dell‘uomo nel suo divenire, al ruolo della violenza nella costruzione della propria identità. L’aggressività, invece si differenzia dalla violenza perché essa è una forma di comportamento sociale, mentre la violenza è l‘interpretazione che viene data a questo comportamento sociale, interpretazione che dipende essenzialmente dal contesto sociale e culturale in cui si vive. Etimologicamente il termine aggressività deriva dal latino aggredior (aggredisco) che - come ingredior, progredior, regredior - è un composto di gradior (vado, cammino, mi avvicino, entro in contatto ecc.) comprendiamo quindi la rilevanza della componente relazionale, di moto verso un oggetto, che l‘aggressività contiene (Heimann,

20 Bergeret J. (1994), La violenza e la vita, Borla, Roma 1998.

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1972) quindi qualunque forma di comportamento che abbia come obiettivo quello di danneggiare o ferire un altro essere vivente che non vuole né desidera subire quel trattamento. L’aggressione comprende una vasta gamma di comportamenti di natura fisica, verbale o psicologica. Può essere considerata come una risposta ad una minaccia o ad una provocazione ma anche un azione intenzionale, pianificata che può essere rivolta verso sé stessi o verso altre persone. L’aggressione può essere considerata come disadattante, quando è utilizzata per ottenere un determinato beneficio, o come una soluzione ad un conflitto oppure può essere considerata adattante se usata come autodifesa in una cornice psico-socio-culturale in cui atteggiamenti e comportamenti aggressivi fanno parte dell’ordinaria quotidianità.

Gli studiosi convengono nell’accettare che il comportamento aggressivo persista ove esiste l’intenzionalità del danneggiare, una finalità per cui si vuole danneggiare qualcosa o qualcuno e la motivazione della vittima di voler evitare il danno. Quindi definiamo una azione come aggressiva quando l’esecutore di tale azione è intenzionato a provocare un danno, indipendentemente dal fatto che lo faccia o meno. Infatti i soggetti che compiono atti aggressivi si aspettano che, in qualche modo, le loro vittime siano danneggiate, anche se l’eventuale danno procurato non necessariamente corrisponda alla forma o intensità di aggressione utilizzata.

È importante considerare che con l’atto aggressivo si possono avere altri obiettivi, al di fuori del danno fisico o psicologico che si vuole procurare alla vittima, e che per questo motivo il danno non è necessariamente un fine; esso potrebbe configurarsi come un tassello di un processo più ampio che punta a degli obiettivi superiori, o diversi rispetto all’immediatezza dell’azione di aggressione.

I comportamenti psicologici che stanno alla base del comportamento aggressivo, tanto a livello emotivo quanto cognitivo, sono l’ira, la rabbia e l’ostilità. L’ira, è un componente importante dell’aggressione ed è configurabile come lo stato emotivo soggettivo che varia d’intensità e che va dalla semplice irritazione fino alla furia rabbiosa e intensa, come conseguenza di una frustrazione vissuta o di una minaccia percepita. L’ira può indurre il soggetto ad agire in modo costruttivi oppure in modo distruttivo. L’ostilità, è un costrutto cognitivo che rimanda all’interpretazione e valutazione negativa che un soggetto ha delle persone, oggetti, stimoli provenienti dal contesto sociale e accompagnata

45 spesso dal desiderio di danneggiarli. Si tratta di un comportamento dispregiativo; un giudizio sfavorevole verso gli altri i quali sono percepiti come antagonisti o minacciosi.

L’ira e l’ostilità sono costrutti che presentano analoghe conseguenze psicologiche se rapportate alla predisposizione del soggetto ad avere comportamenti aggressivi (distruzione di oggetti, insulti a persone, danni a esse, ecc). Se si analizza l’aggressione come fenomeno multidimensionale, indipendentemente dai modelli teorici entro i quali essa è spesso inquadrabile, dobbiamo allora fare i conti considerare con dei criteri riguardanti il modo di esprimersi dell’aggressione (verbale o fisica) e il motivo che la guida (proattiva, reattiva).

La divisione dei modi aggressivi di esprimersi di una persona risponde a criteri pratici. Essa è molto utile per capire i diversi livelli delle dinamiche sociali che influiscono e determinano l’azione aggressiva ma, al tempo generale, la relazione di quest’ultima con le differenti dinamiche sociali. In senso generale, va fatta attenzione alla funzione dell’aggressione, cioè i propositi e le motivazioni che la promuovono e la innescano, e alla forma che essa adotta natura e direzione verso cui è diretta.

Se prendiamo in considerazione la motivazione che guida l’atto aggressivo, ci risulta più semplice distinguere tra aggressione indotta dall’ira e dall’impulsività da quell’altro tipo di aggressione che compie in modo deliberato e che persegue un fine che va aldilà del danno iniziale provocato alla vittima scelta. All’interno dell’aggressione indotta dobbiamo distinguere tra aggressione attiva e proattiva. L’aggressione attiva trova la sua origine esplicativa nella teoria della frustrazione e dell’aggressione; essa è considerata una risposta a qualche tipo di minaccia o provocazione percepita e per questo motivo essa è spesso accompagnata dall’ira, cioè da un fenomeno emotivo innescato dalla frustrazione. L’aggressione proattiva, invece è configurabile come quel tipo di aggressione in cui sono assenti le emozioni e predominano la pianificazione e la premeditazione; predominano cioè aspetti razionali. Dalla prospettiva dell’aggressione proattiva, il comportamento aggressivo si configurerebbe come un mezzo per ottenere qualcosa che il soggetto aggressore considera molto più importante dell’eventuale danno che egli procurerebbe alla vittima.

Distinguere l’aggressione proattiva e quella reattiva non è semplice, alcuni autori infatti criticano la necessità di fare distinzioni tra questi due tipi di aggressione. Felson (2002) per esempio considera che l’aggressione che sia impulsiva o spontanea, coinvolge un insieme di decisioni che lo porta a sostenere che: ogni aggressione è strumentale. Partendo da questa concezione strumentale Felson, tenta di avanzare una differenza tra il carattere

46 proattivo e quello reattivo dell’azione aggressiva: secondo lui, l’aggressione reattiva sarebbe predatoria mentre quella proattiva saprebbe più consona alle dispute. L’aggressione predatoria sarebbe quindi quel tipo di aggressione che emerge come risposta ad una minaccia o provocazione e nella quale l’esecutore dell’aggressione desidera stoppare un comportamento che egli percepisce come dannoso per sé stesso. Egli agisce per reprimere il comportamento pervio dell’altro. Nell’aggressione che rimanda alla disputa, invece il soggetto non percepisce nessuna provocazione dannosa per sé bensì tenta di usare l’oggetto dell’aggressione per ricavarne un beneficio, ovverosia per raggiungere i propri fini. Secondo Felson l’aggressione sarebbe guidata da tre motivi fondamentali: controllare il comportamento della vittima (conformità), modificare un comportamento che si considera ingiusto (giustizia) e promuovere o difendere la propria immagine (identità sociale). Questi tre motivi o funzioni dell’aggressione guiderebbero sia l’aggressione predatoria, sia quella riguardante le dispute. Ma, indipendentemente del tipo di aggressione indicata, la motivazione sottostante, è comunque legata all’obiettivo o finalità ultimi del comportamento dell’aggressore.

L’aggressione reattiva sembra connessa a criticità soggettive riguardanti l’elaborazione dell’informazione sociale. Tra queste criticità o problemi possiamo indicare la propensione ad attribuire finalità ostili alle intenzioni dei pari ma anche la mancanza di abilità nella risoluzione dei problemi. L’aggressione proattiva, invece, sembrerebbe più connessa alla mancanza di ansietà e dalla presenza di una forte sopravalutazione di sé.

I due tipi di aggressione di cui stiamo parlando sono stati vincolati a differenti esperienze di socializzazione dei soggetti aggressivi. Uno stile parentale autoritario, rapporti familiari impoveriti e scarsità di coinvolgimenti nei processi educativi, sembrano legati all’aggressione reattiva mentre l’aggressione proattiva sembra più legata all’imitazione di modelli aggressivi all’interno di un ambiente famigliare dove, cioè, si valorizzerebbe l’aggressione come un modo efficace per risolvere i conflitti all’interno del nucleo famigliare e per raggiungere gli obiettivi personali all’interno del nucleo stesso.

Ci sarebbero delle differenze tra l’aggressione proattiva e quella reattiva anche rispetto ai motivi che guidano l’aggressione. Alcune ricerche sul bullismo a scuola mostrano che la motivazione reattiva o quella proattiva di questo tipo di aggressione varia secondo l’età dei partecipanti: più bassa è l’età del soggetto, più la rabbia e l’ostilità sarebbero aspetti fondamentali per il ruolo di aggressore e più predomina l’uso

47 dell’aggressione reattiva. Ma, dato che questo tipo di aggressione non è, in generale, tollerato dal gruppo di pari sembra essere più stretto il rapporto tra bullismo e aggressione proattiva. Il che suggerisce che l’aggressione reattiva potrebbe derivare, con il tempo, in aggressione proattiva. Questo “passaggio” da un tipo di aggressione all’altro potrebbe compiersi per il fatto che, nel nostro caso, il bullo capisce che l’aggressione continua ad essere funzionale ai suoi obiettivi. Per il bullo, insomma la valutazione cognitiva del suo comportamento aggressivo continua ad essere positiva. Di fatto, l’aggressione può servire in alcune occasioni a raggiungere obiettivi adattativi; il suo uso, in altre parole, può essere utile al soggetto aggressore in termini di sviluppo dell’identità ma anche come meccanismo di regolazione sociale all’interno del gruppo di pari.

2.1.1 Le teorie di riferimento in psicologia sociale

Gli sforzi per comprendere e spiegare il comportamento aggressivo dei soggetti sono stati fatti partendo da differenti approcci teorici. Per lungo tempo questi approcci sono stati identificati in due grandi tentativi di spiegazione che contrappongono gli aspetti biologici e istintivi a quelli dell’apprendimento derivato da fattori sociali, culturali e ambientali. Negli ultimi anni però sono state avanzate delle proposte teoriche che tentano di coniugare queste opposte spiegazioni. Le “terze vie” teoriche intendono l’aggressione come la risultante di fattori esterni ed interni al soggetto. Rispettando la validità degli approcci biologici, psicoanalitici e etologici, le spiegazioni alternative hanno centrato l’attenzione su tentativi che vogliono offrire una spiegazione di come la cultura, l’educazione, e l’interazione sociale influiscono sul comportamento aggressivo del soggetto. Questi tentativi di interpretazione teorica alternativi saranno alla base della scelta esplicativa che ci aiuterà più avanti ad entrare nel merito della questione della violenza giovanile.

2.1.2 La teoria dell’apprendimento sociale (Social learning theory)

Pur non negando l’influenza de e degli aspetti biologici e dei fattori mediatori come la frustrazione e la provocazione sulla risposta aggressiva del soggetto, l’approccio teorico dell’apprendimento sociale sostiene che il comportamento aggressivo si acquisisce tramite l’esperienza e, come ogni altro comportamento umano, è il prodotto dell’apprendimento del soggetto. Le forme, le frequenze, le situazioni che la evocano e gli obiettivi verso cui viene

48 compiuto l’atto d’aggressione sarebbero il prodotto di questo apprendimento soggettivo. Da questo punto di vista, i fattori mediatori si configurerebbero soltanto come possibilità di compiere atti aggressivi. Gli argomenti messi in campo dalla teoria dell’apprendimento consentono di fornire una ragionevole spiegazione al perché il comportamento aggressivo si manterrebbe e addirittura, si rafforzerebbe, nel tempo. Bandura nell’opera “Social learning Theory” pubblicata nel 1977, formula la teoria secondo la quale il comportamento aggressivo va considerato come un comportamento sociale acquisito e mantenuto. Esso, insomma, sarebbe il prodotto di un apprendimento diretto (il soggetto in primo piano) ma anche indiretto (imitazione ed osservazione di modelli). La continuità nel tempo del comportamento aggressivo dipenderebbe allora, dal suo diretto e costante rafforzamento ma anche dalle soddisfazioni ottenute dal modello osservato che farebbero possibile l’imitazione del comportamento. La situazione famigliare e comunitaria, i modelli educativi di riferimento, il gruppo di pari ma anche le fiction (cinema e tv) dunque, porterebbero situazioni nelle quali si possono osservare diverse situazioni di aggressione che potrebbero essere imitate nella vita reale. Howell nel 1998, negli studi empirici legati alle gang statunitensi afferma che la disorganizzazione famigliare, l’abuso di alcool e sostanze stupefacenti nelle famiglie, la bassa presenza del ruolo maschile, basso status socioeconomico, la privazione economica sono identificati come fattori di rischio per l’appartenenza alle gangs, come nella pubertà l’influenza del gruppo di pari, la socializzazione di strada.

L’osservazione e la riproduzione di questi comportamenti possono fare credere che l’aggressione sia buona, perché procura benefici tangibili o psicologici a coloro che la realizzano. Insomma, l’aggressore otterrebbe, nel primo caso l’oggetto o il bene che un altro possiede e nel secondo caso otterrebbe l’attenzione dei suoi pari. Ambedue queste situazioni sarebbero viste e/o vissute come positive o, comunque come normali. In questo modo, il contenuto appreso dal soggetto può essere aggiunto al suo repertorio comportamentale e, posteriormente, usato con finalità benefiche per lui.

Uno studio sull’uso e mantenimento dell’aggressione in funzione delle aspettative e dei risultati del suo uso, è stato analizzato da autori come Boldizar e alt. (1989). Nelle loro ricerche questi autori hanno dimostrato che ragazzi considerati come aggressivi, se paragonati a coetanei non aggressivi, attribuivano un grande valore anche simbolico ai risultati positivi delle loro aggressioni. I ragazzi aggressivi erano contenti di avere sotto controllo le loro vittime o di ricevere benefici materiali per i loro comportamenti. D’altra

49 parte essi davano scarso valore alle conseguenze negative delle loro aggressioni (sofferenza della vittima, rifiuto dei pari, ecc.), pur essendo consci degli effetti negativi delle loro aggressioni davano comunque maggiore importanza ai benefici ottenuti sotto forma di effetti positivi per sé. Questi risultati hanno indotto gli autori a sostenere che le aspettative e i risultati benefici dell’uso dell’aggressione, contribuiscono alla sua continuità d’uso nelle relazioni tra pari.

Tapper e Boulton (2005) nello studiare le caratteristiche rafforzanti che hanno le conseguenze di un comportamento aggressivo nei bambini della scuola di base, hanno osservato che l’aggressione indiretta è rinforzata in modo molto più positivo che aggressione diretta. In altre parole, nella misura in cui l’aggressione diretta è rinforzata dal minor rifiuto da parte del gruppo dei pari, essa tenderebbe ad essere potenziata.

Anche le conseguenze dell’aver subito un atto di aggressione e i risultati del modellamento sono stati oggetto di studio. Aceves e Cookston (2007) hanno evidenziato che gli adolescenti che hanno subito qualche tipo di atto violento, sono più propensi a commettere, posteriormente, un’azione violenta se confrontati con ragazzi che non erano mai stati vittime di un atto violento.

2.1.3 Script Theory

Partendo dai principi base dell’apprendimento sociale e seguendo le tracce ai modelli di elaborazione dell’informazione, Huesmann (1986) propone una teoria che vuole evidenziare l’influenza del comportamento soggettivo delle immagini aggressive. Secondo la Script Theory il comportamento sociale di una persona è guidato da schemi cognitivi creati tramite l’esperienza soggettiva ma anche tramite immagini audio visuali. Una volta che questi schemi e queste immagini audio visuali vengono immagazzinate nella memoria della persona, essi guidano il suo comportamento. In altre parole, l’abituale esposizione a programmi televisivi o a videogiochi con contenuti violenti, insegnerebbe ai bambini e adolescenti abitudini e comportamenti che, successivamente possono influenzarli nel loro modo di essere e fare ed essere conservati fino all’età adulta. Molte sono state le ricerche che hanno tentato di analizzare l’impatto e le conseguenze sul comportamento umano dei modelli aggressivi proposti e mostrati dalla tv e dal cinema. E anche se alcune di queste ricerche ci dicono che le persone che hanno visto film o programmi televisivi aggressivi,

50 hanno una maggiore tendenza a comportarsi in una maniera aggressiva rispetto a quelli che non l’hanno visto, non ci sono evidenze incontestabili che consentano di stabilire una ferma e definitiva conclusione a riguardo. Coyne (2006) per esempio hanno analizzato i contenuti della tv britannica e studiano il comportamento degli adolescenti di quel paese e hanno dimostrato che questi ultimi sono più esposti all’influenza dell’aggressione indiretta da parte di esempi nella televisione piuttosto che da esempi della vita reale.

2.2 Il contributo della sociologia: devianza e criminalità

Gli studi sociali hanno facilitato il riconoscimento delle differenze tra comportamenti aggressivi nelle diverse società: è stata messa in evidenza l’idea che l’aggressione è promossa da norme sociali peculiari che possono provocarla, giustificarla e perfino renderla accettabile.

Le riflessioni sociologiche sulla violenza si sono sviluppate partendo dalle definizioni di criminalità e devianza. La devianza può essere definita come la non conformità a una norma o complesso di norme accettate da un numero significativo di individui all'interno di una collettività. Tutte le norme sociali sono accompagnate da sanzioni che promuovono il conformismo e proteggono la società dal non conformismo. Una sanzione è qualsiasi reazione al comportamento di un individuo o di un gruppo volta ad assicurare l’osservanza di una data norma. Comprendiamo quindi che la devianza è una qualità che deriva dalle risposte, dalle definizioni e dai significati attribuiti a questi dai membri di una collettività. Un atto, per essere considerato deviante, deve essere riferito al contesto socioculturale di riferimento in cui ha luogo. Devianza e criminalità non sono sinonimi, anche se in molti casi possono coincidere. Rispetto a quello di criminalità, riferito specificamente a un comportamento che viola la legge, il concetto di devianza è assai più ampio. Molte forme di devianza infatti non sono sanzionate dalla legge.

2.2.1 Teoria funzionalista

Fondamentale per l’analisi sociologica del comportamento deviante è stato il contributo del sociologo francese Durkheim della corrente funzionalista, che ha introdotto il paradigma socio strutturale dell’anomia, alla fine dell’Ottocento attraverso la sua opera «Il suicidio»

51 del 1897. L’autore riconosce la crisi epocale delle società industriali di fine ottocento caratterizzate da fasi alterne di crisi e prosperità, l’emarginazione sociale, il ribaltamento dei valori, l’organizzazione del lavoro, le sue forme e gerarchie sociali ed ha inquadrato il comportamento deviante come parte integrante dello sviluppo dell’economia capitalista. La teoria dell’anomia parte dal presupposto che la divisione del lavoro industriale ha dato origine a processi di razionalizzazione e individualizzazione che hanno portato nel soggetto l’assenza di norme sociali e regole. «L’anomia è una condizione sociale in cui la coscienza collettiva è indebolita e le finalità delle azioni diventano vaghe perché vengono a mancare le convinzioni morali ancorate nella società» (Lamnek 1994) da questa prospettiva strutturale il comportamento deviante è perciò considerabile normale. Il fenomeno dell’anomia derivante dalla struttura della moderna divisione del lavoro segue una razionalizzazione tecnico-economica con cui l’individuo stenta a tenere il passo e che può avere effetti socialmente disgreganti. Poiché questa tematica fondamentale della divisione del lavoro esiste ancora oggi nella tarda modernità, anzi è divenuta più accentuata, possiamo considerare la teoria dell’anomia come un paradigma ancora valido, esemplare per la modernità e dunque di carattere epocale (Böhnisch, 2014).

Sempre sulla stessa scia, Merton, negli anni ’30 riprende il concetto di anomia di Durkheim, cercando di approfondire la questione generale della produzione del comportamento deviante nella società moderna. Egli parte dallo studio della società statunitense del XX secolo, insistendo sul fatto che quando si verifica la disintegrazione sociale si possono sviluppare contemporaneamente e parallelamente comportamenti devianti e comportamenti conformi. «Quando in una società moderna basata sulla divisione del lavoro esiste una dissonanza tra le aspirazioni generali culturalmente prescritte e le vie per accedere ai mezzi legittimi per la realizzazione di queste aspirazioni, nasce una situazione di integrazione disturbata che viene percepita dai soggetti come un assenza sociale di regole (anomia). I soggetti tentano di superare la situazione anomica, in relazione alla loro situazione struttura sociale e alle risorse bibliografiche, per salvaguardare e normalizzare la loro capacità di agire». Il comportamento deviante è un comportamento indotto dalla struttura sociale: l’anomia, considerata come assenza di norme, è parte integrante della società industrializzata caratterizzata dalla divisione del lavoro. Merton si dichiara tuttavia ottimista dal momento che è convinto che la struttura sociale, di fronte all’ambivalenza della divisione del lavoro nella società, crei non solo prospettive patologiche ma soprattutto prospettive innovative o di ribellione, ricche di possibilità di

52 sviluppo e promuovere le capacità dell’individuo e l’evoluzione culturale e sociale di una società. La criminalità e la devianza sono quindi viste come risultati di una tensione causata dall’insufficienza dei mezzi legittimi per raggiungere obiettivi socialmente approvati. La direzione finale e il tipo di contenuto dell’agire sociale sono quindi il risultato dell’interazione tra condizioni sociali e prospettive individuali e biografiche dell’azione.

2.2.2 General Strain Theory

Tra gli approcci teorici che considerano i fattori sociali come scatenanti di aggressione, troviamo la General Strain Theory (Teoria generale della tensione) che interpreta il comportamento aggressivo come un prodotto culturale, cioè lo considera una conseguenza delle caratteristiche politiche ed economiche della società. La teoria è stata coniata dal sociologo americano Robert Agnew, ed è una teoria di riferimento per gli studi criminologici dagli anni novanta. Questo approccio afferma che quando un individuo riceve un trattamento d’inferiorità o subisce una pressione all’interno delle sue relazioni sociali, può reagire con rabbia e sviluppare comportamenti aggressivi. Tra le pressioni sociali che il soggetto subirebbe ci sarebbero quelle derivate dall’impossibilità o anche incapacità di raggiungere traguardi la lui considerati di prestigio (status, autonomia economica, ecc.). Quando le aspettative su quei traguardi entrano in contraddizione con l’attuale e concreta condizione personale, il soggetto potrebbe essere tentato a ricorrere alla violenza come mezzo ideale ed efficace per raggiungere traguardi. Con il vocabolo strain si intende un cambiamento in un soggetto o in una situazione, dovuto alla pressione di una o più forze esterne o interne. Il termine, tradotto letteralmente come tensione, si avvicina molto a quello di stress. In generale, secondo le teorie dello strain classiche, i comportamenti delinquenziali sono la conseguenza di una tensione che viene prodotta da una discrepanza oggettiva, ma avvertita anche a livello soggettivo, tra le mete come il denaro e il successo ed i mezzi che si hanno per raggiungerle. Da questa discrepanza ha origine lo strain per l’individuo, il quale tendenzialmente cerca di adattarsi alla situazione per sottrarsi alla tensione. Gli individui meno dotati da un punto di vista sociale e culturale, come gli adolescenti o i giovani svantaggiati, possono avere un repertorio ridotto di adattamenti. La delinquenza, la tossicodipendenza e la devianza in genere sono tutti degli esempi di adattamento alla tensione esterna. La General Strain Theory di Agnew è una teoria della delinquenza e devianza in genere, che centra la sua attenzione sul rapporto tra l'individuo ed

53 il suo ambiente immediato, in particolare sulle relazioni negative che il giovane ha con gli altri. Tali relazioni negative possono essere fonte di strain e facilitare l’avvicinamento a condotte delinquenziali o devianti.

2.2.3 Le teorie interazioniste

L’interazionismo simbolico si sviluppa attorno alla fine degli anni Cinquanta e del decennio successivo ad opera essenzialmente di Mead (1934). È maturato nella riflessione fenomenologica e da questo si comprende il suo interesse per la sfera soggettiva, per l'esperienza personale come fonte dei significati che, attraverso l'interazione danno origine al sistema di valori riconosciuti dei partecipanti allo stesso processo interattivo. I concetti fondamentali di questo filone possono essere riassunti attraverso tre elementi cruciali: gli esseri umani si comportano verso le cose basandosi sul significato che le cose stesse hanno per loro; questi significati sono il risultato dell’interazione sociale che si sviluppa all’interno della società umana; gli stessi significati sono modificati e manipolati tramite l’utilizzo di un processo interpretativo attuato da ogni singolo individuo quando entra in rapporto con i segni che incontra. Per alcuni autori, «il carattere saliente dell’interazionismo simbolico (…) è quello di mettere in evidenza i processi attraverso cui gli individui, agendo nei confronti dell’ambiente che li circonda sulla base dei significati che emergono nel corso dell’interazione sociale, fabbricano gli ingredienti (…) della vita sociale» (Ciacci 1983). L’interazione viene definita simbolica perché l’individuo vive immerso in una società in cui gli stimoli che lo sollecitano sono intrinseci di significati e di valori appresi attraverso il processo di comunicazione e di interazione sociale. Ma anche perché l’interazione si realizza tra le persone attraverso l’uso di simboli. Questo in quanto gli individui non rispondono in modo diretto alla parola ma le attribuiscono un significato e rispondono a quel significato. Secondo Mead, «l’anima della socializzazione è rappresentata dalla capacità di prevedere ciò che gli altri si aspettano da noi e di orientare di conseguenza il nostro comportamento. Tale capacità si acquisisce tramite l’assunzione di un preciso ruolo». Mead, inoltre, sosteneva che «la socializzazione non è mai perfetta né completa». Egli distingueva tra l’Io, il sé spontaneo, impulsivo e non socializzato ed il me, il sé socializzato, consapevole delle norme, dei valori e delle aspettative sociali. Per Mead, «il sé socializzato riesce nella maggior parte dei casi a dominare il me; d’altra parte tutti quanti abbiamo la capacità di infrangere le regole sociali e di violare le aspettative degli altri».

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Partendo dall’interazionismo simbolico, si sviluppano successivamente una serie di approcci paralleli, di cui uno è la teoria dell’etichettamento la quale è un punto di approdo fondamentale per lo studio sulla violenza. A questo riguardo, molto importante è l’elaborazione di Lemert, la quale parte dal presupposto che la devianza sia un comportamento che viola le norme di gruppo, un comportamento diverso che in un determinato periodo è disapprovato (Lemert, 1981). Le modalità secondo le quali viene dimostrata la disapprovazione possono essere varie, tenendo anche in debita considerazione che ogni individuo inevitabilmente finirà in qualche occasione per comportarsi in modo deviante. La questione principale riguarda la comprensione del perché alcuni individui vengono etichettati come devianti mentre altri no. La risposta va ricercata nel conflitto di valori e interessi tra i soggetti che hanno il potere di assegnare l’etichetta e coloro che non hanno il potere di respingerla. In particolare, utilizzeremo la sequenza interattiva di Lemert che cerca di spiegare cosa spinge un individuo a agire in maniera deviante. Si parte dal concetto di devianza primaria, che comprende quelle persone che attuano comportamenti devianti per un periodo limitato nel tempo; un esempio di tale devianza è un individuo facoltoso che dichiara al fisco meno redditi di quelli che percepisce. Il trasgressore viene posto di fronte all’evidenza di quello che ha compiuto, attraverso una punizione sociale, portando ad una presa di coscienza che lo conduce a sviluppare un nuovo concetto di sé. Successivamente, l’individuo può commettere nuovamente una azione deviante nei confronti della nuova idea di sé stesso che ha sviluppato (ulteriore devianza primaria). A ciò segue una punizione più forte ed un allontanamento, che configura una visione di soggetto pericoloso e quindi di etichettamento. Un ulteriore deviazione, traduce i sentimenti di ostilità e risentimento nei confronti di coloro che attuano le sanzioni. Si mette quindi in crisi il quoziente di tolleranza che porta ad una formale stigmatizzazione da parte della comunità. In altri termini, all’interno di ogni società esiste una soglia di tolleranza nei confronti della devianza e quando questa soglia viene superata scatta la stigmatizzazione vera e propria. Un ulteriore fase comprende, a questo punto, il rafforzamento del comportamento deviante in reazione alla stigmatizzazione ed alle punizioni; in tal senso, ormai le punizioni hanno solo il potere di potenziare maggiormente il comportamento deviante che intendono eliminare. In conclusione, c’è la definitiva accettazione dello status sociale deviante con conseguente sforzo di adattamento sulla base del ruolo relativo.

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2.3 Il contributo dell’antropologia medica e dell’etnopsichiatria. La riflessione sulla violenza strutturale e simbolica.

A partire dagli anni Novanta del Novecento nell’antropologia culturale, partendo dagli avvenimenti violenti e traumatici che hanno segnato quel secolo, si è sviluppato un vero e proprio dibattito sul tema della violenza. Si è riflettuto sulle seguenti questioni: le condizioni socioculturali della violenza di massa e di chi l’ha subita; sulla possibilità di rappresentare e comprendere la violenza attraverso gli strumenti classici della ricerca etnografica; sulle forme della memoria traumatica nelle comunità colpite dalla violenza radicale (Dei, 2013). Si è messo in discussione il concetto stesso di alterità e del rapporto con il noi, avvenuto in condizioni di dominio occidentale, talvolta come successo durante il XX secolo segnato da tragici esempi di sterminio e genocidio. Questa nuova consapevolezza costringe l’antropologia ad una autocritica sulla legittimità del proprio discorso. Da questa introduzione emerge che quando si analizza la violenza è necessaria una riflessione antropologica sulla violenza e sulle persone che l’hanno subita. La violenza visibile è collegata alla violenza simbolica attraverso la circolarità per questo motivo non dobbiamo ricercare le cause “culturali” bensì riflettere sulle cause economiche e politiche che li causano.

Le prime riflessioni critiche in questo senso furono quelle di Franz Fanon, psichiatra e filosofo interessato al fenomeno della decolonizzazione, sul potere coloniale come un governo fondato sulla pratica costante e normale della violenza, che convive e si allea con essa. In questo senso ai colonizzati non è concesso nessun diritto di essere soggetti: «Il colonialismo non è una macchina pensante non è un corpo dotato di ragione. Esso è la violenza allo stato di natura, e non può piegarsi se non davanti ad una violenza ancora maggiore». Si riferisce alle lotte di decolonizzazione alle quali partecipa attivamente. Fanon, come medico, è costretto ad affrontare «gli effetti della guerra e della violenza coloniale sui corpi e sulle menti – su quelli dei colonizzati come su quelli dei colonizzatori, su quelle delle vittime come su quelli dei carnefici» (Dei, 2013); da questa esperienza ne emerge una nuova nozione di violenza considerata come una forza che sembra trascendere la volontà dei soggetti che in essa sono coinvolti come vittime e carnefici. I soggetti non decidono di praticare la violenza per ottenere fini specifici, ma i soggetti e i loro decisioni sono invece costituiti della violenza, sia da quella subita che da quella agita. Fanon nella sua opera “I Dannati della Terra”(1961) coglie la dimensione di una forza che struttura i modi in cui gli individui e gli attori collettivi sono produttori e riprodotti di violenza: coinvolti in

56 repertori di violenza prima ancora che possano prendere la decisione se usare o no la violenza in un caso specifico. Questa lettura ha l’intuizione di considerare la violenza come una peculiare dimensione politica, capace di plasmare i soggetti e modificare le condizioni dell’azione razionale.

Saranno Bourdieu (1970) e Farmer (2004) nel dibattito attuale dell’antropologia, a rielaborare il significato politico della violenza enunciando i concetti di violenza simbolica e strutturale. Gli autori sopracitati hanno cercato di capire come alcuni meccanismi sociali e politici violenti vengano incorporati dall’individuo e influenzino la struttura egemone. Per comprendere la nozione di violenza simbolica teorizzata da Bordieau, si parte dall’assunzione che in una società convivono chi è legittimato ad usare la violenza e chi non lo è. Lo Stato è l’unico soggetto che ha il monopolio legittimo della violenza. La violenza simbolica è l’espressione del conflitto di interessi, economici, di genere presenti nella società. È quindi una coercizione significativa volta ad imporre dei modelli di pensiero e restringere il ventaglio delle possibilità di azione e di riflessione nel soggetto sociale. Qualsiasi forma di violenza ha bisogno di presentarsi in modo legittimo all’interno di una società, in questo caso se è considerata legittima è intesa e interiorizzata come ovvia e indiscutibile. Per questo motivo viene riprodotta nelle relazioni umane e nel sistema scolastico educativo penetrando e immobilizzando la spinta individuale.

Fermer, nell’ambito della ricerca realizzata ad Haiti sull’AIDS e sulla TBC, nel campo dell’antropologia medica, cerca di comprendere come dietro ad una malattia esistano dei meccanismi sociali e politici che vengono incorporati e che la spieghino. Parlando dell’introduzione dell’Aids ad Haiti lui parla dell’influenza che ha avuto il turismo sessuale nordamericano e le ineguaglianze economiche per diventare il paese con il tasso più alto di contaminazione nelle Americhe.

La violenza strutturale è strutturata e strutturante ossia limita le capacità di azione delle sue vittime.

Per violenza strutturale si intende quindi quel particolare tipo di violenza che viene esercitato in modo indiretto, che non ha bisogno di un attore per essere eseguita che è prodotta dall’organizzazione sociale stessa, dalle sue profonde disuguaglianze e che si traduce i patologie, miseria, mortalità ed abusi. (Farmer, 2004). Il concetto di violenza strutturale mira a studiare i meccanismi sociali dell’oppressione come risultato di molte condizioni, non ultime quelle consapevoli, come la povertà e la disuguaglianza, le

57 discriminazioni razziali e di genere. La violenza strutturale è una violenza esercitata in modo sistematico e indiretto, da chiunque appartenga ad un certo ordine sociale, Farmer qui si riferisce all’economia neoliberista considerata come la costellazione dominante di idee circa il commercio, lo sviluppo e il dominio, interiorizzata e riprodotta da molti. Il neoliberismo rappresenta l’ideologia promossa dai vincitori, al cuore di questo modello si crede risieda il dominio di un mercato improntato alla competizione, ma in verità questa ideologi è radicata in e contribuisce a riprodurre disuguaglianze di potere. Per fare un approfondimento completo su queste tematiche è necessario guardare il presente ed il passato, bisogna trovare e comprendere le disuguaglianze che sono state strutturate e legittimate nel corso del tempo ma anche quelle attuali e che influenzano quotidianamente la vita delle persone ed il loro stato di benessere. Infatti «il lavoro etnografico si basa su conversazioni con i vivi – o su resoconti scritti lasciati da persone letterate- non abbiamo una visione completa. Un’antropologia che voglia registrare il conto delle vittime dovrà necessariamente guardare ai morti e a quelli abbandonati come se fossero morti. Tale indagine cercherà di comprendere come la sofferenza è stata messa a tacere o del tutto elisa. Esplorerà la complicità necessaria per cancellare la storia e rimuovere i chiari rapporti tra i morti e i quasi - morti e i vincitori nella lotta per la sopravvivenza».(Farmer, 2004)

A questo proposito è interessante citare il contributo di Françoise Sironi, che in Violenze collettive (Sironi, 2007), riflette sul posto che occupa la storia collettiva (politica, culturale, etnica, religiosa e sociale) nella psicologia individuale. Gli avvenimenti traumatici che attraversano i gruppo, le civiltà e le culture ne modellano la storia e modellano anche i tipi di disordini psichici che si manifestano nella popolazione.

La storia collettiva ha un rapporto di complementarietà con la storia individuale, che a sua volta ha un rapporto di complementarietà con la storia delle emozioni create in ciascuno di noi dal politico. Si tratta allora di cogliere la complessità della storia di un individuo considerando più matrici di senso che agiranno in sinergia. Quando incontriamo un blocco in una delle matrici di costruzione di senso (avvenimenti legati alla storia affettiva della prima infanzia per esempio) un’altra matrice diventerà pertinente, anche se dovesse essere diacronica rispetto alla prima. In questo modo ogni situazione clinica viene presa in esame dal punto di vista della costruzione storica della persona; questo è un approccio che tiene pienamente conto del ruolo del contesto, degli avvenimenti esterni e delle esperienze che ognuno attraversa. La storia collettiva è quindi considerata un vero e

58 proprio oggetto attivo, fa sì che gli esseri umani e i gruppi compiano determinate azioni. I comportamenti individuali sono il frutto di determinati eventi legati alla storia collettiva.

L’impatto della storia collettiva sulla storia individuale è rilevato direttamente dall’esistenza dell’emozione politica, che è un emozione scatenata da una particolare categoria di avvenimenti: quelli legati direttamente al mondo politico (terrorismo, ideologie, guerre e torture), sociale (conflitti, frattura sociale), culturale (antagonismi) e religioso (egemonismi e fanatismi). Esse nascono dall’articolazione tra storia individuale e storia collettiva, sono provocate da avvenimenti esistenziali di natura politica nel senso più ampio del termine.

A livello clinico l’attenzione è rivolta all’emozione politica nella vita degli esseri umani, ruolo che riguarda al contempo la natura e l’impatto psicologico delle emozioni prodotte dalla politica e il ruolo delle emozioni che risvegliate nell’individuo dai politici.

2.3.1 Etnopsichiatria. La questione dell’appartenere

Etnopsichiatria è un termine ambiguo, che si innesta nel contesto delle etnoscienze. La stessa parola etnoscienza implica aprioristicamente che la disciplina tratti di conoscenze legate ad un popolo e non di conoscenze astratte, auto-impostesi dall'alto della loro verità universale. Nonostante questo loro tratto legato all'ascendenza verticale di ciascun essere umano e di ciascuna popolazione, queste etnoscienze costituiscono un vero sistema di pensiero che, in quanto tale, interessano l'umanità intera. L'etnopsichiatria è stata costruita seguendo questo modello e dunque presuppone che quanto definiamo psichiatria abbia un proprio equivalente sotto forma di etnoscienza. Devereux afferma che non esista alcun popolo privo di una etnopsichiatria, ossia un popolo che non possieda un sistema di individuazione e di presa in carico di un certo tipo di disturbi. Etnopsichiatria è, quindi, il contrario di psichiatria transculturale: questa rappresenta una psichiatria adeguatamente congegnata, fino a renderla accettabile a popolazioni diverse, non preparate ad essa. L'attributo transculturale ha un obbiettivo: attraversare; cioè attraversare le culture senza perdere il bagaglio messo a punto nella propria. La psichiatria transculturale è un tentativo di annullare la metamorfosi del viaggio, spiegare in maniera certa la psiche umana universale, comune a tutte le culture. L'etnopsichiatria, invece, partendo dal principio che i popoli possiedano un sapere proprio sulla malattia, sul disturbo, ma soprattutto sulle

59 pratiche di cura, e considerando che tale sapere è suscettibile di insegnamento e che le sue tecniche possono venire teorizzate, sperimentate, utilizzate, non può essere che uno strumento di decostruzione delle certezze. L'etnopsichiatria non può essere una professione ma solo un obbligo a mettersi a scuola di un altro mondo (Nathan, 1990), in un altro spazio; di conseguenza, non si tratta di una pratica già etichettata nel nostro universo ma piuttosto di un'area di indagine, di riflessione, di ricerca. Questo la distingue radicalmente da chi pratica la psichiatria transculturale: lo specialista in psichiatria transculturale è uno psichiatra, poiché tale pratica non va a modificare i connotati della sua professione; il professionista in etnopsichiatria, invece, assume a priori la postura di un apprendista, e l'esistenza stessa del suo dominio di interesse presuppone che i popoli di cui si occupa sono esperti in pensieri, ricerche, dispositivi che li riguardano e che conoscono meglio di lui. Colui che pratica l'etnopsichiatria fa un tirocinio immerso in un universo intorno al quale si domanda se vi sia qualcosa che interessi la psichiatra dei mondi moderni (Nathan, 1998); tenta, forse, di conoscere ed osservare qualcosa di vivo.

L'etnopsichiatria potrebbe realmente sviluppare una multidisciplinarità e una complementarietà al sapere classico, a condizione che uno stesso ricercatore riesca a dar conto, in modo ugualmente convincente, di una spiegazione indigena (etnoscienza) e di una spiegazione scientifica (scienza) dello stesso fenomeno. Nell'ambito delle scienze umane non si riuscirebbe a trovare la complementarietà tra psicologia e antropologia, ma solo tra scienza ed etnoscienza, tra psichiatra ed etnopsichiatria.

A proposito della migrazione, Nathan sostiene che se accettiamo l'idea di comparare la migrazione ad un percorso iniziatico e, al contempo, a uno spazio transizionale, bisogna constatare quanto sia insensato esigere dai migranti e dalle loro famiglie che affrontino in solitudine le prove della vita in un paese straniero. Nello spazio della migrazione il gruppo ideale e naturale non esiste più, ci si deve arrangiare con i materiali e le persone presenti nel paese di accoglienza, ossia, essenzialmente, gli operatori sociali insieme al personale medico e psicologico (Moro, 2001). È formulabile, quindi, l'ipotesi che il quadro ed il dispositivo etnopsichiatrici permettano di rimpiazzare o di ricreare, in via transitoria e momentanea, il gruppo originario mancante.

L'etnopsichiatria clinica, inventata e messa in funzione nei suoi dispositivi da Nathan, trova la sua precipua originalità nel saper stabilire, nel corso della consultazione, dei legami dinamici tra lo psichismo del paziente, la sua cultura specifica e le altre culture,

60 rappresentate da persone di diversa origine che si dispongono attorno al paziente. Durante le sedute, il materiale culturale fornito dal paziente e dai co-terapeuti serve da leva terapeutica al gruppo curante, al paziente e alla famiglia migrante, per negoziare lo spazio psicoterapeutico ma anche per correggere le disfunzioni psichiche e relazionali introdotte dal viaggio migratorio e dall'esperienza che ne segue.

2.4 Studi Postcoloniali e la decolonizzazione del sapere

Gli studi postcoloniali si sviluppano alla fine degli anni ’70 delineandosi come un insieme di studi interdisciplinari che hanno come carattere principale l’attenzione verso quelle soggettività subalterne che con modalità differenti sono state marginalizzate dal dominio culturale ed economico dell’Occidente (Loomba, 2000). In particolare essi analizzano gli effetti culturali e sociali che la colonizzazione ha avuto e continua ad avere sui paesi e sui soggetti colonizzati (Chambers, 2003).

Infatti la parola post non significa in assoluto un superamento oppure una rottura con il periodo precedente, quello coloniale, dal momento che come ci spiega il sociologo portoghese Bonaventura de Santos, «la fine del colonialismo in quanto relazione politica non comportò la fine del colonialismo inteso come relazione sociale, mentalità e forma di sociabilità autoritaria e discriminatoria» (Bonaventura, 2002). Gli studi postcoloniali cercano di realizzare una revisione critica del passato, la contestazione al dominio e all’eredità coloniale, considerato nei termini della modernità occidentale e la sua identificazione con un presente ancora permeato da una serie di narrative, pratiche, rappresentazioni e relazioni politiche che confluiscono nella perpetuazione della distribuzione asimmetrica del potere e della ricchezza a livello globale. Questo tipo di analisi critica fornisce degli stimoli utili per il processo di «spostare il centro del mondo» (Ngugi Wa Thiong’, 2000), il centro dominante rappresentato dall’universo di senso della cultura occidentale, a favore della molteplicità di centri di cui si costituisce il mondo. Il colonialismo europeo ha infatti costruito nel contesto della conoscenza umana, una serie di idee che ancora oggi condizionano, la cultura nel senso dell’esercizio di un potere, di una relazione up down tra il bianco e il selvaggio, di un proliferare di stereotipi, di teorie e visioni etnocentriche finalizzate a giustificare ogni forma di violenza e sopruso (Siebert, 2003).

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La premessa del pensiero postcoloniale viene dagli scritti di Foucault (1976, 1985) secondo cui la conoscenza non è mai innocente ma profondamente connessa alle operazioni di potere. Gli studi postcoloniali si sono sviluppati da questo posizionamento svelando molti processi culturali, politici ed economici attraverso i quali l’Occidente ha tentato di imporre nuove forme di controllo politico e attraverso analisi teoriche, e riflessioni critiche sono diventati una conoscenza di contropotere. Hanno focalizzato l’attenzione su una serie di questioni che riguardano i rapporti tra Occidente e sud del mondo tra cui lo sfruttamento economico delle ex-colonie, tentativo di assimilazione globale delle culture locali, le imposizioni linguistiche e religiose, i condizionamenti di mercato, le posizioni ambigue nei contesti relativi alla ridefinizione dei confini territoriali, il commercio di armi e materiali strategici, le problematiche e le politiche sociosanitarie, la diffusione e la cura di malattie, le politiche di sviluppo agricolo, economico ed industriale compatibili con le situazioni locali e sostenibili, lo smaltimento dei rifiuti, gli approcci (Zito, 2010).

Riconoscendo le intricate relazioni sapere-potere soggiacenti ad ogni pratica accademica, gli studi postcoloniali propongono una critica – un sapere – che sia cosciente della sua funzione politica e che sappia opporsi all’asimmetrica distribuzione globale del potere e a tutte quelle ingiustizie che essa porta con sé. In questo senso gli studi postcoloniali devono conseguire lo scopo di ottenere l’implosione dei discorsi egemonici coloniali/occidentali che, soprattutto attraverso la retorica della modernità, considerano naturali le disuguaglianze fra paesi, classi, razze e popoli. Quando Gayatri Spivak pone la domanda «Can the subaltern speak?», lega la messa ai margini dei gruppi e della retorica subalterna al fatto che siano stati ridotti al silenzio: individua nella parola la conditio sine qua non per il sovvertimento della subalternità. Secondo l’opinione di questa teorica indiana, lavorare perché emerga la parola subalternità richiede un’attività politica che oltrepassa la retorica accademica, segnando un vero e proprio impegno della critica postcoloniale in favore dei “subalterni della Terra”. Boaventura de Sousa Santos si appropria di questa volontà di privilegiare la subalternità in quanto luogo di enunciazione da cui gli studi postcoloniali possano emergere, ponendo questa prospettiva nella premessa secondo la quale i margini e le periferie sono i loci (o i luoghi) di enunciazione privilegiati per identificare e sovvertire le strutture di potere del sapere.

Con la conclusione della Seconda guerra mondiale inizia il periodo che segna fortemente la fine dei sistemi coloniali, con un processo definito di decolonizzazione. All’inizio degli anni sessanta molti paesi africani conquistarono la propria sovranità

62 nazionale. È in quegli anni che il processo di decolonizzazione già cominciato nel decennio precedente e annunciato ancora prima, accelera i ritmi del continente. Da questo contesto storico nasce una riflessione molto profonda sulla decolonizzazione del sapere; essa è radicata in un approccio critico che si concentra nella creazione di spazi intellettuali contra egemonici, in cui convergano nuove letture del mondo, impostati verso il cambiamento, sia in teoria che in pratica. Fedeli a questo obiettivo, molti studiosi si sono ispirati alla tradizione critica della teoria sociale, fondata e sviluppata attraverso gli scritti di Marx, Hegel, Gramsci, Lukács, la Scuola di Francoforte, Foucault, Habermas e altri. Se pensiamo alla tradizione pedagogica critica, pensiamo ai teorici pedagogici progressisti e radicali del XX secolo come Dewey, Freire, Giroux, McLaren, Apple, Shor, Ami, Kincheloe i quali hanno contribuito a definire questo importante progetto politico contro-egemonico per scuola e società.

2.5 La pedagogia critica e l’approccio comunitario

La pedagogia critica è l’approccio teorico di riferimento scelto per l’analisi degli interventi di attivazione comunitaria legati ai processi di prevenzione alla violenza giovanile che esaminerò.

La pedagogia critica è un movimento pedagogico che si sviluppa alla fine degli anni ’70, essa si è posta come fondamento le idee e il lavoro pedagogico del pedagogista brasiliano Paulo Freire. Le caratteristiche sostanziali del suo pensiero pedagogico rivoluzionario si trovano raccolte nell’opera La Pedagogia degli Oppressi (1970); in tale opera l’educazione è considerata come pratica della libertà, esperienza di liberazione dallo stato di oppressione seguendo un accezione pratica, riflessiva e politica dell’educazione.

Freire, nei suoi testi ed attraverso la sua pratica pedagogica, denuncia a più riprese «la realtà brutale» in cui l’autentica vocazione umana viene «negata nell’ingiustizia, nello sfruttamento, nell’oppressione, nella violenza degli oppressori» (Freire, 2002, pp. 48-49), in cui prevale a volte «un ordine ingiusto, che genera la violenza degli oppressori» e il processo educativo ha come obiettivo quello di superare la realtà di oppressione, l’obiettivo è l’umanizzazione: «la liberazione è un parto, un parto doloroso, e l’essere che nasce è un uomo nuovo, un uomo che libera sé stesso» (Freire, 2002). I principi educativi che caratterizzano il suo pensiero sono (Tizzi, 2015) la critica al concetto depositario e bancario

63 dell’educazione, secondo il quale l’insegnante deposita nozioni nella mente dell’educando, così come si deposita in banca; la necessità di un educazione liberatrice che comporti il superamento della contraddizione educatore/educato, in modo che ambedue divengano educatori ed educandi; il metodo del dialogo e della discussione dei temi generatori, con cui sviluppare una coscienza politica e resistere alle ingiustizie sociali ed economiche; la coscientizzazione intesa come metodo pedagogico che cerca di dare all’uomo l’opportunità di riscoprirsi attraverso la riflessione sul processo della propria esistenza.

Nell’analisi dei dati di campo focalizzerò la mia attenzione sulle differenze e similitudini del pensiero di Freire con quello di Amilcar Cabral, considerato anche esso uno dei teorici ed esperti che hanno influenzato la nascita della pedagogia critica (Mallot&Porfilio 2011). Cabral, fu guida politica e ideologica dei movimenti nazionalistici e indipendentistici della liberazione della Guinea Bissau e Capo Verde. Paulo Freire conosce gli scritti di Amilcar Cabral, attraverso lo studio delle lotte anticoloniali nelle colonie portoghesi svoltosi durante l’esilio a Ginevra, dove ricevette l’invito a contribuire nell’equipe di alfabetizzazione della Guinea Bissau e Capo Verde. Durante questo processo di analisi egli ha l’opportunità di studiare la lotta del PAIGCV, focalizzando l’attenzione sulla resistenza culturale del popolo guineano al dominio coloniale portoghese in Africa. La teoria pedagogica di Cabral fa infatti riferimento al contesto culturale, sociale e politico della Guinea Bissau e di Capo Verde ed in particolare all’occupazione coloniale e alle lotte di liberazione, al quale partecipa come lìder del partito PAIGCV. La trasformazione culturale operata dal PAIGCV che ha ottenuto l’indipendenza e insediato il nuovo governo indipendente nel 1975, è stata realizzata secondo la lettura di Freire su due livelli, quello strutturale (costruzione di scuole e formazione di professori) e quello ideologico (combattendo l’alienazione dell’ideologia coloniale con la riformulazione dei programmi scolastici e la pratica di un insegnamento popolare). Il sistema di educazione diventa così il prodotto della lotta di liberazione, facendo riferimento all’elemento umano come principale forza di reazione e resistenza al colonialismo portoghese. «Se il dominio imperialista ha come necessità vitale la pratica dell’oppressione culturale, la liberazione nazionale è necessariamente un fatto di cultura» (Cabral, 1970). La cultura, per Cabral, ricopre quindi un importante valore come atto politico della lotta. L’impatto della cultura, derivata dalla resistenza alla dominazione coloniale portoghese, alla valorizzazione delle radici etniche, come un risultato di una particolare esperienza e pratica messa in atto mostra come ogni società è portatrice e creatrice di una propria legittima cultura. Per l’Africa questo è un fatto

64 incontestabile, nei testi di Cabral si comprende come egli stesso abbia approfondito gli aspetti della cultura, delle tradizioni e della realtà storica, religiosa del suo popolo; partendo da questa realtà egli ha costruito il suo progetto di liberazione. La risposta alla guerra di liberazione nazionale in Guinea e Capo Verde è stata proprio quella di andare oltre la violenza per sviluppare una lotta fondamentalmente politica e culturale con carattere rivoluzionario.

2.5.1 La Comunità al centro della riflessione pedagogica

Nelle proposte pedagogiche di Cabral e Freire, come nella pedagogia critica moderna la comunità (con le varie accezioni riferite al territorio e al contesto culturale), rappresentano il luogo ideale per restituire all’individuo il suo stesso potere attraverso la pratica educativa e politica della liberazione. Anche se con varie accezioni, considerando anche lo sguardo etnografico e l’attenzione alla diversità del contesto capoverdiano, la comunità viene intesa come una risorsa educativa e come risposta alle nuove sfide che si presentano sempre più urgenti nel tempo della post-modernità quali il dominio dello Stato sociale, il fenomeno della globalizzazione, la crisi della democrazia occidentale. Da questa esigenza della società postmoderna, nasce la pedagogia di comunità intesa come la ricerca di partecipazione sociale e come creazione di un nuovo attore della trasformazione sociale (Viola, 1999). All’educazione, infatti, viene affidato l’importante compito di formare una nuova cittadinanza, consapevole, attiva, partecipativa e critica, mantenendo vive le differenze e le specificità di ognuno; si tratta di promuovere una partecipazione dal basso, articolata in modo pluralistico e differenziato in relazione a diverse comunità (Tramma, 2009). L’assunto di fondo di tale approccio emancipavo è che la struttura della società presenta delle forme di potere e oppressione che si riproducono anche all’interno dei contesti educativi, creando varie forme di ingiustizia sociale. E’ quindi dalla critica alle istituzioni educative che occorre partire per individuarvi le relazioni di potere che ne fanno luoghi di riproduzione di ideologie, piuttosto che luoghi di crescita umana. I pedagogisti critici assumono il compito di problematizzare criticamente l’esistente e di prefigurare possibili alternative, riflettendo su una prassi dialogica che sia lotta contro le diverse forme di dominio, presa di coscienza da parte dei soggetti più deboli e ricerca di una democrazia autentica. L’individuo in questa visione è considerato come un soggetto che fa storia (Capitini, 1967). L’educazione è atto politico, dialogo critico e costruttivo con la realtà, che

65 impegna tutti a partecipare, in prima persona al cambiamento nel mondo che gli viene consegnato, è una pedagogia in cui il dialogo è elemento essenziale della democrazia, che va appresa in modo permanente e che si realizza attraverso il cambiamento, la partecipazione, il superamento dell’individualismo, l’apertura e l’ascolto dell’altro; è dialogica perché restituisce la parola agli ultimi (Milani, 1967). La comunità diventa quindi il luogo della liberazione e della formazione democratica: è l’idea di una scuola aperta a tutti centro del mondo politico (Capitini, 1967/8), luogo in cui tutti sono chiamati coralmente a fare la storia della direzione della realtà liberata (Falchicchio, 2009) acquistando la fiducia della propria capacità di creare nuovi aspetti e dove far valere liberamente i propri valori. La comunità è il luogo in cui si inventa il futuro (Dolci, 1972). Contrapponendosi all’idea di una trasmissione unidirezionale della cultura che produce soggetti passivi, viene proposta la creazione di strutture comunitarie in cui l’apprendimento avviene attraverso la ricerca comune, il dialogo, la problematizzazione e la relazione comunicativa con l’altro.

La comunità è quindi considerata come una pratica del noi (Tramma, 2009) che non sovrasta l’io, ma gli dà spazio e secondo il modello relazionale della comunicazione, poggia su un pluralismo comunitario che non riguarda una sola entità, non si identifica con un gruppo, ma lascia convivere all’interno dello stesso soggetto differenti comunità. In questo modo si supera l’unidimensionalità del soggetto, di cui vengono potenziate le capacità relazionali e incoraggiati i rapporti autentici, senza ricadere nei pericoli della manipolazione e dello sfruttamento. Si parla infatti di comunità aperta, la quale non può essere pensata come una corporazione in cui gli individui si incontrano per creare un grande individuo, perché non è data dalla moltiplicazione del soggetto individuale, ma è un modo d’essere del soggetto sociale e aperto come la chiama Capitini è la compresenza. Considerandolo come un principio in base al quale tutti, i morti e i viventi fanno parte fin dalla nascita di una realtà che li unisce in modo corale.

La parola comunità deriva dal latino communitas, indica la coesistenza originaria di tutti gli esseri umani e riconosce che tutti, fin dal momento della nascita, hanno come proprio destino di vivere in comune. Non ci sono persone che prima si uniscono e poi creano insieme la comunità, ma c’è in ogni essere una natura relazionale e comunitaria che spetta all’educazione e alla formazione incoraggiar, per rendere tutti consapevoli del proprio agire sociale e politico. La parola communitas infatti ha la stessa radice semantica della parola communicatio (comunicazione, partecipazione) che è un cum e mununus , con

66 dono. La comunità quindi nel suo significato originario è l’insieme di persone unite non da una proprietà, ma da un dono da dare. Dentro la comunità ognuno diventa persona attraverso la corresponsabilità.

Da un’altra prospettiva, però, è emergente il tema del contesto come luogo interdipendente, dunque non prerogativa dell’istruzione, nel quale accadono i fatti educativi e formativi, e nei quali uomini e donne possono formare agentività e capacità di dirigere le loro scelte. Le comunità vengono interrogate sulla loro capacità di slegare le nuove oppressioni, trasformandosi in contesti in grado di capacitare lo sviluppo umano e l’agentività di uomini e donne. Una nuova condizione che, con Freire, possiamo identificare nella trasformazione della pratica pedagogica e sociale che conduca all’auto-riconoscimento di ognuno all’interno di una collettività, in quanto coscienza critica, che trova nella fase riflessiva – individuale e sociale - il nucleo fondante della trasformatività. Sono le comunità, i luoghi e i contesti dell’emancipazione moderna nelle quali sono riconosciuti, e ritrovano significato, gli apprendimenti di tipo informale e non-formale, tessuto di quell’immateriale che oggi forma il valore del locale, del milieu dei territori, restituendo alle comunità allargate l’espressione di culture, di relazioni e di artefatti che divengono il nuovo patrimonio sul quale contare. Le comunità divengono i contesti per superare le contraddizioni attraverso l’affermazione del dialogo problematizzante, permettendo di interpretare il mondo e i rapporti che si stabiliscono come un processo in divenire, stimolando la riflessione e l’azione dell’uomo sulla realtà storica e agire per trasformarla.

Tramma, nel suo libro Pedagogia di comunità, parla di questo approccio come di un antidoto all’inerzia e all’individualismo dell’età moderna e si pone una domanda, chiedendosi che cosa possa effettivamente intendersi per comunità, poiché si configura come qualcosa che va oltre l’appartenenza generica, l’aggregazione, il progetto comune, la dimensione collettiva per approdare ad una realtà circoscritta, caratterizzata da rapporti interpersonali diretti che non hanno una mediazione istituzionale. La comunità prendendo il significato del dizionario sociologico è pensabile come un insieme di persone che hanno legami sociali, valori condivisi e agiscono per rafforzare quel complesso collettivo che esse stesse costituiscono. Una situazione relazionale si può definire comunitaria quando la disposizione ad agire poggia su una comune appartenenza soggettivamente sentita dagli individui che vi partecipano; quando è caratterizzata dall’interdipendenza dei sistemi relazionali tra le persone, dal forte grado di omogeneità rispetto ad alcuni valori e ad alcune norme condivise; dal manifestarsi di queste caratteristiche come elementi intensamente

67 interiorizzati; dalla presenza di un senso del noi molto più forte rispetto a ciò che circonda il gruppo. La comunità quindi si delinea come entità collettiva costituita da uno speciale legame tra i suoi membri e sostenuto da uno scopo comune. Queste caratteristiche non sono certo caratteristiche della nostra società, la quale non presenta, se non in limitate espressioni, uno scopo comune, mentre di fondo i legami tra i suoi membri sono legami sostenuti dalle ragioni di un contratto di reciproca utilità e relazioni umane più fredde e strumentali. La modernità si afferma sottomettendosi violentemente ad un ordine comunitario i cui benefici non riescono più a bilanciare i rischi che comportano: gli individui divengono moderni solo se liberati dal debito che li vincola l’un l’altro.

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CAPITOLO 3

QUESTIONI METODOLOGICHE E DI POSIZIONAMENTO

È ormai assodato che la ricerca in campo educativo abbia subito nell’ultimo decennio una svolta (Damiano, 2006), che l’ha portata alla messa in discussione della dicotomia tra ricerca e pratica. In questo capitolo si vuole fare, dunque, un passo verso una ricerca engaged (Mayo, 2013), costituita da alti livelli di reciprocità, che riconfigurano i ruoli tra ricercatrice e i soggetti della ricerca, inserendo anche i protagonisti solitamente muti dei processi educativi e, cioè, i loro destinatari nel processo di ricerca. Cercherò attraverso l’interazione con il metodo etnografico di problematizzare la relazione tra il ricercatore e i soggetti coinvolti, partendo dall’idea che «la voce del ricercatore non è la voce del nativo perché i due livelli sono distinti: una cosa è cosa il nativo pensa e un’altra cosa è che cosa l’antropologo pensa che il nativo pensi» (De Castro, 2002). Il punto di vista dell’antropologo dipende quindi dalla relazione che riesce ad instaurare con il nativo. La ricerca è quindi frutto di un relazione che si instaura durante la ricerca, che modifica etrambi.

Per poi arrivare al passo successivo: frutto dell’iterazione tra etnografia e pedagogia ed azione, la ricerca diventa, uno strumento di coscientizzazione, che permette ai processi educativi di farsi indagine del pensiero in azione, movimento necessario, perché «quanto più ricerco con la popolazione locale il suo pensiero, tanto più ci educhiamo insieme. Quanto più ci educhiamo insieme, tanto più continuiamo a ricercare» (Freire, 2002 p. 103) seguendo una prospettiva di emancipazione degli attori sociali.

Nelle prossime pagine cercherò di rendere conto di come questi cambi di paradigma abbiano gettato i presupposti metodologici per una ricerca azione incarnata.

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3.1 Premessa

Il contesto internazionale è profondamente mutato. Ciò ha provocato mutamenti rilevanti nelle concezioni ed opinioni del modo con cui la ricerca educativa può contribuire allo sviluppo dei paesi, ma soprattutto come essa può essere impiegata per affrontare problemi come quello della violenza giovanile che occupa uno spazio rilevante non solo nel contesto locale ma nella società globale. I governi e le istituzioni sono obbligati a decidere dentro ottiche di compatibilità internazionali in un contesto di fragilità strutturale e complessità; il che spinge ad attribuire un’importanza crescente alle evidenze ricavate dalle analisi di efficienza ed efficacia dei sistemi di protezione e prevenzione e dinamiche di controllo.

Prima dei governi, però gli spazi educativi e i soggetti che agiscono nella pratica, trovano e creano modi e vie innovativi per creare cittadinanza che significa per molti di essi, acquisire quelle competenze e saperi che permettono di conoscere diverse modalità, diversi metodi di soluzione ai problemi alle nuove sfide sociali spesso in contrasto con regolamenti e disposizione internazionali e senso comune diffuso.

Tutti sanno che non può esservi sviluppo reale per la ricerca educativa se essa non può contribuire a verificare processi educativi, se essa non è compresa e giustificata, se non risulta usata nei contesti opportuni, se non viene raffinata nei contesti d’uso dell’esperienza educativa. Tale condizione è poi aggravata dalla tendenza ormai diffusa nelle politiche sociali di molti paesi di privilegiare soluzioni “usa e getta” o “copia incolla”, oppure quantitative per risolvere i problemi socio-educativi. Se una soluzione di ricerca a tali problemi non presenta caratteri empirici, pratici ed utilitaristici, essa non viene accolta o alla peggio ostacolata.

Un approccio non positivistico, non lineare, non statico alla ricerca educativa, presuppone perciò sia lo sviluppo di nuovi approcci conoscitivi e di nuovi metodi di indagine e di diverse competenze sia nei suoi attori che nei suoi utilizzatori.

È a partire da questa consapevolezza e da questo impegno che la mia ricerca può essere inquadrata, nel tentativo di dare credibilità e fondamento a delle pratiche co-costruite nel contesto capoverdiano in modo che esse possano essere fruibili a livello internazionale e trasferibile21, sfuggendo alle dinamiche prima riportate. La scelta di lavorare sulla ricerca

21 Nel campo della ricerca azione si parla di trasferibilità di risultati, e non di generalizzazione perché non si tratta di un passaggio induttivo dal campione indagato alla popolazione da cui tale campione è stato estratto, enunciando una legge universale, ma di un trasferimento quindi di un passaggio da un caso ad un altro, ipotizzando che tra i due casi

70 azione è una scelta che punta all’innovazione educativa intesa come capacità di sedimentare o di attecchire in un determinato contesto di attività modificandolo.

3.2 Auto-Etnografia

All’inizio degli anni ‘70, Clifford Geertz ha cambiato l’analogia linguistica che aveva caratterizzato fino ad allora l’antropologia cognitivista, con la sua concettualizzazione dell’interpretativismo: le culture non venivano più presentate come grammatiche metaforiche da registrare e decifrare, ma come linguaggi da tradurre, perché diventassero comprensibili per altri (Geertz, ’73). Nello stesso decennio e in quello successivo, un altro importante contributo al cambiamento di paradigma è arrivato dall’antropologia femminista, che ha messo in discussione i modelli androcentrici, ponendo la riflessività come elemento fondante del metodo etnografico. Il processo di cambiamento ha raggiunto il suo culmine con gli studi di Clifford e Marcus, che hanno mostrato la centralità della scrittura nell’antropologia e nelle scienze sociali, evidenziando come i procedimenti letterari permeino la rappresentazione culturale. Questi autori gettano le basi per una trasformazione ulteriore della ricerca etnografica, non solo riconoscendo la posizione anfibia dell’antropologo che, andando sul campo, deve mettere insieme la sua cultura e quella del campo che indaga, ma anche andando più in profondità rispetto alle implicazioni di un osservatore che non può essere neutro e nemmeno solo osservatore (Clifford e Marcus, ‘86). Geertz sosteneva che l’accostamento delle parole osservazione partecipante, fosse un ossimoro: in qualità di etnografo agisci da partecipante, ma non puoi dimenticare di tenere gli occhi aperti; ti fai coinvolgere nella pratica, ma poi ti devi fermare e scrivere, con il paradosso di dover esprimere il punto di vista di un gruppo cui non appartieni veramente, attraverso una scrittura intrisa di una retorica così pervasiva che persone e luoghi diventano immaginabili solo nel testo dell’autore. Nel dire questo, sottolineava la necessità di un genere che potesse rendere la vicinanza tra il ricercatore e la comunità. Del resto, già trent’anni prima Devereux evidenziava che la soggettività è insita nel lavoro etnografico, affermando di sognare delle scienze sociali più soggettive, in modo da diventare più oggettive, guadagnando, appunto, in autenticità.

esistano analogie tali da far si che quanto è stato compreso circa il primo possa permettere di gettare luce sul secondo e consentire così una migliore comprensione.

71

Ruth Behar risponde a queste riflessioni con quella che chiama «antropologia che spacca il cuore», definendola come una scienza vulnerabile, che va oltre il semplice viaggiare, incontrare e ricercare e che sta nelle eccedenze. Eccedenze che sono difficili da esprimere e la cui espressione, quando trova metodi e parole, rischia di essere valutata non scientifica e non essere considerata materia di dottorato. Il suo punto di partenza è il rapporto tra etnografia e autobiografia: «da studentessa mi è stato insegnato di mantenere un chiaro confine tra etnografia e biografia, ma sono arrivata al punto in cui questi aspetti non erano più facilmente separabili» (Behar, 1997).

Mentre la Behar constatava questa difficoltà, sviluppava anche la consapevolezza che molta della letteratura contemporanea a riguardo sembrava andare nella sua stessa direzione e che l’etnografia si era fatta più autobiografica, mentre l’autobiografia si era fatta più etnografica. Da qui nasce la sua necessità di una scrittura vulnerabile, non ancora del tutto legittimata dall’accademia, che la considera marginale. Agire questo tipo di ricerca, inoltre, è come «aprire il vaso di Pandora» (Behar, 1997), perché se riconosce e legittima la soggettività, la misura di quanto questa possa entrare nella scrittura dipende da un equilibrio che va costruito in itinere. Se, infatti, è vero che dichiarare la propria continuità con l’oggetto della ricerca è un modo per chiarire il proprio posizionamento, è anche vero che ciò può anche generare comprensione empatica con i lettori. A riguardo Beahr porta l’esempio di Kay Redfield Jamison, una psichiatra e studiosa di bipolarismo, che nel momento in cui ha confessato di essere a sua volta bipolare, nominandosi «guaritrice ferita», ha migliorato il suo lavoro, perché questa trasparenza ha permesso a lei di raggiungere un migliore equilibrio interno con la sua malattia e ai suoi pazienti e lettori di dare corpo alle sue parole e al suo lavoro. Su questa linea, Daphne Patai, sostiene che una voce personale, creativamente usata, possa condurre il lettore anche verso la comprensione di gravi problemi sociali che, senza uno sguardo soggettivo, non sarebbero colti.

Ma è anche vero che non sempre e non su tutto è possibile creare corrispondenza empatica: fino a quanto è lecito fare entrare il sé e le proprie emozioni nella ricerca?

Se le proprie emozioni eccedono, l’etnografia scompare e la ricerca perde di valore. A sostegno di questa tesi, Behar porta l’esempio di una collega che, lasciandosi andare a una confessione molto riservata e delicata durante una conferenza, ha paralizzato il suo auditorio, perché troppa emozione spaventa e paralizza, invece che generare comprensione. Si tratta, dunque, di una misura da ricercare e, prima di farlo, è necessario che ciò di sé che

72 si sceglie di trasmettere sia stato precedentemente vagliato e che sia qualcosa su cui la ricercatrice abbia raggiunto un proprio equilibrio, perché non solo la scrittura, ma anche il posizionamento può essere vulnerabile e prima di essere chiarito e assunto, richiede consapevolezza e analisi di sé.

Anche Mari-Luz Esteban inserisce la sua ricerca all’interno dello spostamento epistemologico ed empirico dato dal cambio del rapporto tra soggettivo e oggettivo, ravvisando la necessità di una metodologia adeguata e la individua in quella che definisce «antropologia incarnata». Esteban è medica e antropologa e ha incentrato il suo lavoro prevalentemente sul corpo, a partire dalla sua esperienza con il corpo delle donne in anni di pratica medica. Riconosce la complessità della materia, data la lunga tradizione di ricerca legittimata come oggettiva, ma in realtà tendente all’oggettivismo e vede come necessario un ritorno al personale e al soggettivo nella pratica scientifica e accademica, senza compromettere il compito delle scienze sociali. Il suo lavoro parte dal corpo, grazie alla sua esperienza lavorativa con persone sopravvissute a gravi forme di cancro o a gravi incidenti. Da qui nasce il bisogno di legittimazione di un partire da sé, che permetta di comprendere e riscrivere nella propria biografia quanto è successo. In questo senso, la ricerca diventa uno strumento per vedere le persone come agenti della loro vita e non come vittime di quanto è capitato pur tenendo conto dei bisogni e delle sofferenze quotidiane, che provocano diseguaglianze di diversi tipi e che sono iscritte nel corpo.

Con questa teorizzazione Esteban aggiunge al già dibattuto tema del soggettivo e delle emozioni, anche quello del corpo, con l’invito a vedere le pratiche di genere come pratiche fisiche corporali e le lotte e le sfide femministe come incarnate. Anche questa studiosa innesta il suo pensiero su quello dell’antropologia femminista ed è proprio dal femminismo che mutua un’idea di corpo che non è solo luogo di discriminazione, ma anche di resistenza, di replica e risposta. Questa teorizzazione appare particolarmente significativa ai fini di questa ricerca, in quanto è a partire da un’antropologia incarnata che Esteban opera un cambio di visuale, in grado di riconoscere alle persone coinvolte nella ricerca (e nei processi educativi) un ruolo di protagonisti. La soggettività, dunque, è qui intesa in senso ampio, considerando tutti gli attori della ricerca.

L’antropologia incarnata vuole essere uno stimolo a far chiarezza rispetto ai punti di incontro tra la propria esperienza di vita e l’esperienza di ricerca e, al contempo, essere uno strumento di validazione e legittimazione di uno spazio di analisi proprio, alternativo, che

73 permetta di dialogare con le prospettive dominanti negli altri quadri di riferimento della ricerca. Lo sguardo auto-riflessivo serve a teorizzare e a riflettere e, nello stesso tempo, a portare una legittimazione di ciò che facciamo. L’auto-etnografia, infatti, presuppone un doppio compromesso, sia con la propria cultura, sia con la comunità scientifica e accademica.

Per Donna Haraway tutte le osservazioni e le analisi sono situate nel soggettivo, parziale e incompleto sé, che è allo stesso tempo anche privilegiato e necessario: la parzialità è, infatti, un tratto caratterizzante dell’etnografia, ma la dimensione della coscienza è in grado di renderci consapevoli dei limiti della teorizzazione. In questo senso, l’auto-etnografia diventa la porta di accesso alla riformulazione di vecchi dibatti scientifici, per aprirne di nuovi e arricchire la metodologia e la teoria, permettendo di in definitiva, una revisione critica profonda non solo dell’antropologia, ma anche delle scienze sociali più in generale.

L’auto-etnografia è il punto di partenza anche della visione postcoloniale, ulteriore riferimento per questo lavoro di ricerca. Per postcoloniale si intende il lavoro quotidiano di individuazione delle tracce di colonialità nel proprio sguardo sul mondo e nel proprio stile di vita, proponendo di adottare un’ottica trasformativa.

« “Il vostro popolo desidera ricevere informazioni su come coltivare la terra?” e lo sciamano intrepido risponde: “No. Quello che voglio ottenere è la demarcazione del nostro territorio”».

Con queste parole tratte dalla prefazione del libro di Davi Yanomami e Bruce Albert, La caduta dal cielo, Viveiros da Castro introduce la pretesa di verticalità nella relazione con l’Alterità della società occidentale. Il generale che si rivolge allo sciamano mostra la presunzione dell’uomo bianco che immagina di poter insegnare ai signori della terra come coltivarla; convinto che, popolo della natura, gli indios non capissero nulla della cultura, forse doveva pensare che gli Yanomami erano nomadi o qualcosa di simile; riteneva inoltre che i poveri indios fossero ansiosi di bere da questa scienza agronomica posseduta dai Bianchi.

Viene a configurarsi, dunque, come un vero e proprio orizzonte di senso, che invita a orientare in maniera etica il processo di ricerca-azione attraverso una relazione di scambio orizzontale, disegnandolo anche come una pratica collaborativa, in cui il ricercatore stimola una comunità a co-costruire gli strumenti di analisi del proprio lavoro, con l’obiettivo non

74 solo di dire la pratica e i processi che la muovono, ma anche per permettere alla comunità ricercante di migliorare il proprio lavoro.

Infine, l’auto-etnografia fa un ulteriore passo in avanti, puntando ad una co-ricerca dal valore scientifico, riflessivo e, anche, trasformativo dei processi educativi e sociali.

In definitiva, adottare l’approccio dell’auto-etnografia consente di «cercare una prospettiva da quei punti di vista che non possono mai essere conosciuti in anticipo, che promettono qualcosa di straordinario, e cioè un sapere che ha il potere di costruire mondi meno organizzati secondo assi di dominio» (Harawayd, 1999).

3.3 La ricerca-azione

«La ricerca azione è una metodologia che ha lo scopo di individuare e migliorare una situazione problematica attraverso il coinvolgimento di ogni singolo attore. Viene definita catalizzatore del cambiamento». (Pourtois 1981)

Rappresenta la forma più strutturata ed avanzata della ricerca partecipante. E’ stata teorizzata grazie al lavoro di K. Lewin nel corso degli anni ’70 negli Stati Uniti. L’idea di base è che la teoria è strettamente connessa e inseparabile dall’esperienza e dall’esperienza si traggono gli elementi per inquadrarla e formulare le ipotesi, che solo la successiva pratica può incaricarsi di confermare e smentire. «La teoria serve per sondare la realtà e per immaginare ipotesi di cambiamento, essa si costituisce nell’interazione costante con la realtà, che trasformandosi falsifica i costrutti su cui si appoggia per agire» (Colucci, 2005, p. 134). Dalle considerazioni dello psicologo americano Lewin, che sosteneva che non si può capire un organizzazione se non si cerca di cambiarle, la ricerca azione ha preso diversi rami ed è cresciuta in diversi filoni di pensiero continuando ad essere considerata uno dei filoni più innovativi per l’innovazione pedagogica in diversi contesti.

Ciò che la caratterizza è il suo approccio olistico che ben si adatta all’educazione, in quanto processo organico, complesso, più circolare che lineare, sempre dinamico e aperto: nella ricerca – azione teoria e prassi educativa sono momenti inscindibili. Il ricercatore nell’attività di ricerca è impegnato attivamente in vista di valori ed obiettivi definiti, con implicazioni filosofiche, sociali, pedagogiche, politiche chiaramente orientate ed esplicitate sul terreno della pratica. Al ricercatore attivo si attribuisce un ruolo essenziale sul piano dell’organizzazione e della messa in atto della valutazione dei risultati della ricerca stessa,

75 perché egli partecipa ad ogni fase dell’evoluzione del progetto, allo stesso titolo che i soggetti della ricerca, cioè gli attori. In altre parole «la ricerca azione costituisce un progetto sociale, rivestito da un progetto scientifico». (Pourtois, 1986, p.134)

I tratti fondamentali della ricerca azione secondo la prospettiva di Pourtois sono:

- La connessione con i problemi socio educativi (la ricerca nasce da un problema socio-educativo avvertito come rilevante);

- Il circolo analisi-azione (il passaggio dall’azione alla riflessione sull’azione, è continuo, reciproco, effettuato in linea di massima da tutti i soggetti coinvolti);

- L’elaborazione delle transizioni (il cambiamento è l’obiettivo della ricerca e coinvolge anche il contesto sociale e politico in cui essa attua);

- L’emancipazione degli attori (tutti i soggetti coinvolti sono protagonisti a vario titolo della ricerca la cui direzione viene continuamente rinegoziata);

- Il coinvolgimento esistenziale degli attori;

- La riabilitazione dell’affettività e dell’immaginario;

- La centralità dell’efficacia, rispetto a obiettivi di tipo conoscitivo.

Il coinvolgimento di tutti gli attori si inquadra all’interno di una concezione ermeneutica della ricerca. Il ricercatore si pone come soggetto sullo stesso piano di coloro di cui indaga le azioni, senza nascondere loro i propri scopi, ricercandone non il semplice consenso, ma la compartecipazione, negoziando quindi, con loro anche i valori a cui ispirare l’intera attività. Il gruppo di ricerca è precondizione essenziale per l’efficacia del lavoro di ricerca e prevede: l’adesione spontanea, l’individuazione di obiettivi realistici, significativi e sostenibili, la condivisione delle scelte procedurali, la specificazione dell’impegno e dei ruoli di ciascuno dei membri.

Secondo Pourtois, è attraverso una pratica interagita che si configura come interrogazione sistematica all’interno del gruppo circa la validità, nelle sue diverse posizioni, delle interpretazioni avanzate che si attua il passaggio dai semplici dati di esperienza ai dati scientifici proprio della ricerca azione. Nella ricerca azione lo statuto di dato scientifico viene attribuito agli enunciati le cui pretese di validità siano state supportate da argomentazioni che hanno soddisfarlo adeguatamente i criteri di validità. In altri termini

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«vengono considerati scientifici gli enunciati che il gruppo è arrivato consensualmente a riconoscere come comprendibili, veritieri e giustificati». (Baldacci, 2001, p.148)

Nel paradigma della ricerca-azione la circolarità teoria-pratica è interminabile, in un certo senso la ricerca conserva sempre un carattere esplorativo perché la stessa teoria che la illumina è sempre di nuovo messo in questione dai dati che via via emergono in quello che Pourtois chiama “dispositivo di raffinamento”: il momento qualitativo, pertanto, non può che essere inestricabilmente connesso con quello quantitativo.

3.4 Metodo

«Nella prassi delle prestazioni spontanee, intuitive, nell’agire quotidiano, ci dimostriamo intelligenti in modo peculiare. Spesso non riusciamo ad esprimere quello che sappiamo. Il nostro conoscere è normalmente tacito, implicato nei nostri modelli di azione e nella nostra sensibilità per le cose delle quali ci occupiamo». (Donald Schön, 1991 p. 169)

Si è già ampiamente trattato, in questa sede, della svolta della ricerca nelle scienze sociali, che ha portato alla disarticolazione della dicotomia tra ricerca e pratica, con la messa in rapporto di complementarietà tra educatori e ricercatori. Abbiamo fatto anche un ulteriore passo, con la disarticolazione della dicotomia tra operatore e utente, andando a inserire anche quest’ultimo in un rapporto di complementarietà ai fini della ricerca. Questi tre attori - ricercatore, operatore e utente - dunque diventano interlocutori di un dialogo indispensabile, che può costruire conoscenze e nuove pratiche. Il loro rapporto consente una più profonda conoscibilità dell’azione e interroga su come possa essere condivisa la riflessione nella pratica e su come si possa mettere in parola il pensare incorporato nell’azione di contesti educativi complessi, come quelli indagati in questa ricerca.

In questa visione, i ruoli del processo educativo ed euristico acquistano nuovi tratti e i loro confini si fanno sfumati, pur nella distinzione di posizioni, intrecciandosi e sovrapponendosi: tutti sono co-responsabili dei processi formativi e di descrivere e narrare il sapere tacito del processo di costruzione trasformativo del Pilorinhu, offrendo un nuovo punto di vista per l’osservazione di pratiche sociopolitiche di prevenzione alla violenza e sviluppo comunitario con comunità e persone che vivono una forte situazione di emarginazione sociale.

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In questo modo il Pilorinhu non è solo il luogo in cui si realizzano attività ludiche, sportive e ricreative, ma anche quello in cui riflettono sull’azione, si fanno ricercatori e acquistano, gradualmente, una loro expertise.

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3.4.1 Partecipazione osservante

La mia presenza su un campo dai confini così incerti, sia per una questione di posizionamento, sia per una questione di una spazialità e di una temporalità non circoscrivibili, ha fatto sì che, pur negli spostamenti suggeriti dall’auto-etnografia e fosse necessario delineare degli strumenti chiari di indagine, che permettessero delineare con chiarezza, almeno per quanto riguardava il mio grado di agentività, le narrazioni attinenti al mio processo di ricerca-azione quotidiana all’interno del Pilorinhu, distinguendoli e separandole finalmente dal mio passato di coordinatrice. Ho quindi scelto di rifarmi agli strumenti dell’antropologia, per darmi un rigore nella raccolta e analisi dei dati.

Lo strumento principale per l’analisi sul campo, dunque, è stato quello dell’osservazione. Occorre però fare una riflessione a riguardo: Ronzon definisce l’«osservazione partecipante» come la tecnica centrale della ricerca etnografica, avente l’obiettivo di ottenere informazioni di prima mano e una conoscenza dei fenomeni dal punto di vista di coloro che li vivono o li costituiscono, attraverso il controllo e la partecipazione dell’osservatore (Ronzon, 2008). Tale formulazione, sebbene ponga al centro il fenomeno, appare però sbilanciata prevalentemente sull’azione del ricercatore e rischia di essere riconducibile ad una prospettiva positivista e oggettivante. Tedlock, ancora, sostiene che il costrutto osservazione partecipante esprima un ossimoro, in quanto appare come una procedura emotivamente destabilizzante, che richiede allo stesso tempo di farsi coinvolgere e ingaggiare nella ricerca, pur restando freddamente distaccati (Tedlock, 1991). Si propone, dunque, il passaggio alla partecipazione osservante, che offre una visione diversa del binomio osservazione-esperienza, ponendo l’accento sulla co-partecipazione che si genera nell’incontro tra la ricercatrice e il campo, con le persone che lo abitano. Al centro, dunque, non sta più solo l’antropologo, ma il processo di costruzione dialogica della conoscenza.

Solitamente il termine «partecipazione osservante» contempla che l’osservatore sia già membro del gruppo (Macrì e Tagliaventi, 2000).

3.4.2 Il diario di ricerca

Fin da quando ho iniziato il mio lavoro di educatrice a Capo Verde, ho sempre cercato di tenere traccia delle evoluzioni del mio lavoro, provando a narrare, quanto meno, ciò che mi colpiva e stupiva, sia in senso positivo, sia in senso negativo, portandomi a compiere delle

79 piccole variazioni, rispetto alla mia formazione e alla progettazione delle pratiche. Ho sempre creduto, infatti, che fosse necessario riflettere sul nuovo, soprattutto con l’obiettivo di fare tesoro di alcune esperienze per superare le difficoltà di un lavoro precario e mai uguale a se stesso, cercando di sopperire a una delle mancanze di questo lavoro e, cioè, quella di non avere a disposizione adeguati strumenti di verifica e supervisione.

Nel corso della ricerca ho sentito la necessità di esplorare diverse metodologie di scrittura e di notazione, per individuare uno strumento il più possibile rispondente alle mie caratteristiche di ricercatrice e di pratica riflessiva.

3.4.3 Narrazione: La pratica del diario

«È necessario continuare senza scoramenti il difficile lavoro sul simbolico, cioè mettere in parole la nostra esperienza, osservarla e analizzarla nella collocazione centrale dove abbiamo risolto di stare non per un’invenzione linguistica, ma per la necessità, appunto, di non separare vita quotidiana e politica» ( Cigalini, 2010 p.244).

Uso queste parole di Lia Cigarini come spunto, che mi permette di indugiare ancora sulla scrittura del diario, che in questo processo euristico ha rappresentato per me una delle più grandi fonti di domande, dubbi e riflessioni di senso, a partire da alcune consapevolezze sviluppate in questi anni di lavoro. Da un lato, mi preme sottolineare lo scarso apporto narrativo da parte dei lavoratori sociali a Capo Verde come del resto in Italia che riescono a investire poco tempo e pochi mezzi nella narrazione, reputata in genere superflua, ma che avrebbe invece un grande valore. Non si tratta di dire come si debba educare, ma di trovare strumenti adeguati a capire qualcosa in più sul lavoro educativo, sia attraverso la scrittura di sé, sia attraverso la lettura e l’ascolto di altri, a partire proprio dalle storie di pratica educativa. Il solo agire, seppure in linea con il fornire una risposta alle richieste più profonde e urgenti delle nostre comunità, non basta. Per diventare agire politico deve mettere in parola, comunicare le parti di ogni mediazione trovata, dire che cosa eccede queste parti, per farlo diventare ordine di riferimento.

Come è possibile fare tutto questo nelle ristrettezze del lavoro sociale? La mia risposta - provvisoria - è quella di cercare forme di scrittura e narrazione il più possibile rispondenti. Il diario è sembrato lo strumento più adeguato.

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Hess da anni si dedica allo studio del diario come strumento di esplorazione del quotidiano non solo per gli etnologi, i sociologi e i ricercatori, ma anche per gli insegnanti e gli educatori e, ancora, per i padri e le madri. Secondo la sua prospettiva, annotare ogni giorno le proprie riflessioni, imparare a rileggere se stessi, a classificare le proprie descrizioni, permette di essere più efficaci e di dare valore al proprio vissuto, in uno scambio sociale con chi ha accesso alle scritture.

La scrittura diaristica, dunque, oltre a poter essere uno strumento di indagine oggettiva e un dispositivo da utilizzare nella ricerca, può essere anche un momento soggettivo, personale, di ricerca, per tenere memoria di percorsi e scoperte e, infine, farsi strumento di consapevolezza e di condivisione, per una conoscenza che non è situata nella testa di ciascuno, ma «distribuita» nel mondo di chi scrive e nelle sue interazioni e relazioni. Il diario e la scrittura autobiografica rappresentano anche uno strumento di memoria, per imparare a «controllarla emozionalmente, a rivisitarla prendendone le distanze», attraverso lo sviluppo della capacità di controllo autoriflessivo, sia in chi scrive, sia in chi legge, come testimone di un discorso sull’educazione che sia stimolo all’azione. Fare memoria, raccontare eventi passati, genera quotidianità e getta le basi per una trasformazione del presente. Non è dunque un atto statico, che inchioda le parole alla carta, ma diventa una «possibilità di futuro» (Hess, 2010)

3.4.4 Storie di vita

Il racconto autobiografico, non è solo un modo di raccontarsi, di dare spiegazione alle scelte fatte durante la propria vita, ma è un vero e proprio processo di ricostruzione alla luce dell’interpretazione che, nel momento in cui si racconta, si da di sé stessi. Un aspetto importante del raccontarsi risulta essere quella che viene definita da Demetrio bilocazione cognitiva; essa consiste nella capacità che si ha, attraverso il racconto, di collocarsi al di fuori di sé, di prendere le distanze da sé stessi, questo permette di riscoprirsi attraverso l’immagine di un altro da sé e si scoprono aspetti della propria persona fin allora inimmaginabili. Demetrio introduce il concetto di intelligenza autobiografica intesa come l’insieme delle capacità cognitive stimolate dalla mente grazie alla riflessione e al raccoglimento che l’atto autobiografico offre. Tra questi procedimenti cognitivi acquista valore la retrospezione, che è in grado di arginare la dispersione dei ricordi e di rivitalizzare la memoria; il pensiero introspettivo, che conduce ad una maggior auto-conoscenza, ad una

81 più consapevole riflessione su sé stessi e sulla realtà; il pensiero abduttivo, un altro strumento cognitivo che si avvale dell’uso di metafore ed analogie, permettendo così di potersi esprimere con forme diverse da quelle convenzionali. Demetrio riconosce al processo autobiografico quattro importanti funzioni che ne confermano la validità. Ad iniziare da quello meta-cognitivo che si riferisce alla scoperta del funzionamento mentale del soggetto, un modo per prendere coscienza di ciò che si pensa, di come lo si pensa e di come si è arrivati a pensarlo. Il secondo motivo è legato al concetto di apprendimento, il quale offre al soggetto la possibilità di interrogarsi sul perché delle cose e, grazie alla scoperta della propria “storia”, di collegare i fatti alla propria esperienza; ad esso è legato il principio del desiderio, il reale motore di questo processo di riscoperta e più precisamene il desiderio di apprendimento che nasce da quello più esteso di essere e di essere, forse, altro.

Come terzo motivo viene indicato quello trasformativo: il ripercorrere la propria storia, infatti, apre nuovi scenari in cui appare la possibilità di scelta, la possibilità di fare previsioni future e di scoprire le potenzialità inespresse. Il quarto motivo è quello formativo che fa sì che si realizzi l’autonomia del soggetto all’interno del proprio percorso di formazione. Dal 2010 è attivo presso il Pilorinhu un laboratorio sulle storie di vita, la narrazione avviene attraverso la mediazione di diverse espressioni artistiche (disegno, drammatizzazione, danza, musica). Partendo da questo laboratorio abbiamo raccolto con l’equipe 10 storie di vita di volontari e giovani che frequentano quotidianamente il Pilorinhu. L’obiettivo principale è quello di promuovere attraverso l’arte l’espressione del sé della propria autocoscienza, autostima e lavorare su un processo di attivazione personale e comunitaria.

3.4.5 Photovoice

La raccolta di fotografie, la condivisione di video è una realtà giovanile nel mondo globalizzato, grazie all’avvento degli smartphone e alla diffusione popolare di materiale tecnologico. Nel Pilorinhu fin dagli inizi la raccolta di fotografie per documentare la comunità, la vita quotidiana è sempre stato uno strumento utilizzato e interiorizzato dai ragazzi, con un duplice motivo: la raccolta e la conservazione di materiale per la “memoria” del Pilorinhu, e come secondo aspetto l’esigenza di comunicare con la diaspora e con chi sta fuori dal paese. Dal 2010, molti video maker e fotografi sono passati per il Pilorinhu, e

82 come volontari hanno trasmesso alcune nozioni basiche di fotografia, assodando questa pratica tra i giovani e gli educatori del Pilorinhu.

Ho deciso di utilizzare questa risorsa intesa come materiale fotografico ed umano, affrontandola come una sfida. La tecnica del Photovoice permette infatti di dare voce alle persone generalmente escluse dai processi decisionali, offrendo l’opportunità di mostrare la loro visione della comunità attraverso le immagini fotografiche. (Mastrillo, Nicosia, Santinello, 2015)

Dividendo le fotografie raccolte in gruppi tematici, abbiamo selezionato una decina di fotografie, sulle quali abbiamo creato dei gruppi di discussione aperti alla comunità. Le riflessioni sono state oggetto di analisi per la ricerca.

3.4.6 Il percorso di ricerca

Renderò conto di quali siano state le fasi della ricerca e come il mio posizionamento abbia influito sul suo corso, anche attraverso l’analisi del diario di campo. La ricerca è cominciata nel 2014, dalla presa di conoscenza di una nuova posizione nel processo di sviluppo nella comunità di Achada Grande Frente, come ho spiegato in precedenza, il distanziamento fisico e il distacco dal contesto socio educativo si è concretizzato proprio nel ritorno in Italia. A settembre 2014, l’inizio del dottorato, ha contribuito a rendere chiara la mia nuova posizione e formalizzare il nuovo obiettivo condiviso, quello di analizzare e creare un luogo riflessivo condiviso sulle azioni che erano in corso in materia di empowerment comunitario e prevenzione della violenza giovanile. Sin dall’inizio del progetto Simenti nel 2010, avevamo cominciato la raccolta di dati come interviste, e la riflessività attraverso il diario, le registrazione delle riunioni comunitarie erano già una pratica costante del lavoro socio educativo, ma era svolta priva di una consapevolezza, di una formalizzazione, di uno scopo scientifico. Il primo passo intrapreso è stato quindi quello di dare una forma organizzata alla raccolta dati e condividere una struttura per la ricerca. In questa fase abbiamo stabilito in primis chi avrebbe realizzato la ricerca, e quale sarebbe stata la partecipazione dell’ equipe del Pilorinhu. Da dicembre 2014 a giugno 2015, ho raccolta attraverso skype pareri, interviste, ho partecipato attivamente attraverso video chiamate alle riunioni del Pilorinhu, ho ridefinito e problematizzato la mia posizione, in maniera tale da preparare e strutturare il mio primo intervento di campo: realizzatosi da maggio a settembre 2015.

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«Ogni ricerca nasce e si sviluppa attraverso un continuo confronto con il campo, e chiede di elaborare scelte, ridefinire il progetto iniziale, affinare progressivamente gli strumenti di indagine, in relazione a ciò che accade nel corso del lavoro» (Mortari, 2010, p. 47). Questo continuo confronto è stato per me estremamente significativo, perché la mia non neutralità all’argomento, dovuto al posizionamento particolare già tematizzato sopra, ha reso il percorso molto complesso, portando anche a battute d’arresto.

In questa prima fase di lavoro di campo, abbiamo costituito il gruppo di ricerca formalizzato le motivazioni profonde e le necessità contestuali, le domande di ricerca, l’ipotesi di partenza e stabilito un programma per la raccolta data e il riordino dei dati che avevamo in archivio.

Il gruppo di ricerca è composto da una media di 10 persone: chi coordinava gli incontri ero io quando ero presente nel campo e Uv, il presidente dell’AP, i volontari/ volontarie dello spazio Pilorinhu: i due educatori di Capoeira, la responsabile della biblioteca comunitaria dentro lo spazio, i due animatori di teatro comico e circo, l’addetto alla comunicazione e diffusione e un rappresentante del MKA; molto spesso erano presenti degli uditori come spesso succede durante le riunioni del Pilorinhu che venivano invitati ad uscire o a partecipare in base alle tematiche che venivano affrontate. Spesso all’equipe hanno partecipato i volontari internazionali22 impegnati nelle attività di supporto alle attività del Pilorinhu.

Realizzare una ricerca-azione, in un progetto in andamento in continua costruzione, condizionato da carenze strutturali come la ristrutturazione continua dello spazio Pilorinhu, ancora in andamento; la formalizzazione legale dell’associazione comunitaria avvenuta a fine 2014; la continua ricerca di fondi e strategie per l’autogestione dello spazio e dei volontari che operano al suo interno, è stata da una parte una fragilità, in quanto molto spesso il livello di informalità era alto, ma dall’altra parte è stata una ricchezza perché il gruppo riflessivo divenne il “luogo necessario”, che affrontava il bisogno reale di una trasformazione effettiva della situazione dei giovani e dello spazio, per diventare esso stesso sostenibile, riconosciuto come una risposta effettiva alle necessità di chi lo abitava.

«All’inizio le riunioni duravano ore, ore […] molti si arrabbiavano, si cercavano solo risposte ai problemi personali, piano piano siamo riusciti ad organizzarci con la guida di

22 Era attivo un programma di coach surfing informale, in cambio dell’alloggio e l’alimentazione si prestava opera di volontariato nello spazio e grazie alla visibilità del progetto, durante questi anni sono stati accolti più di 30 volontari provenienti da diversi paesi del mondo.

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Stefania e Uv, le riunioni divenivano ordinate e non perdevo tanto tempo, io ho una famiglia che mi aspetta a casa […]. Mi rendo conto degli sforzi e dei cambiamenti avvenuti anche nell’organizzazione delle riunioni. Adesso ognuno ha un compito, io che sono segretaria devo scrivere e costruire il riassunto di tutto quello che succede, adesso mi risulta veloce farlo. All’inizio non sapevo da dove cominciare». (Jessica, equipe AP).

Le domande di ricerca che ci hanno guidato sono state le seguenti:

- In che modo si può creare un sistema di prevenzione alla violenza nel nostro contesto superando le carenze strutturali del sistema e l’antagonismo delle politiche sociali? Quali sono le nostre risorse e i limiti della nostra azione?

- Chi sono i giovani? Chi siamo noi, quali sono le nostre necessità, che cosa rappresenta per noi lo spazio Pilorinhu, che cosa può diventare per gli altri? Potremmo divenire un modello per altri?

- Che cosa abbiamo imparato in questi anni di esperienza, che cosa abbiamo raccolto, quali errori sono correggibili?

- In che modo le nostre storie di vita ed esperienze personali si sono intrecciate con la pratica e la mobilitazione sociopolitica?

L’ipotesi che accompagna la ricerca è quella di co-creare a partire dall’esperienza diretta di giovani, ex-offenders, volontari e lider comunitari una prospettiva sulla violenza giovanile che superi la “questione patologica” e la stigmatizzazione, ma che la consideri un sintomo di una società spaccata, aprendo la possibilità di considerare i giovani e le comunità come spazi e attori per la promozione del cambiamento e della trasformazione sociale.

Durante questo prima fase della ricerca, l’avvenimento che ha segnato la maggior complessità e la tenuta del gruppo di ricerca, è stata l’occupazione del Djeu di Santa Maria da parte del Movimento Korrenti di Ativistas ad agosto 201523. Questo avvenimento ha condizionato gli incontri di lavoro del gruppo di ricerca spaccando quasi in due i componenti, la maggiore conflittualità che si presentava era la diversa prospettiva, sulla maniera con cui era possibile superare le condizioni strutturali di emarginazione e povertà del paese: da una parte chi proponeva la lotta per denunciare le ingiustizie e le politiche neoliberali del governo che secondo la loro prospettiva avevano creato la situazione di povertà attuale, dall’altra il secondo schieramento era composto dai volontari del Pilorinhu

23 Cfr: http://ku-frontalidadi.blogspot.com/2015/08/korrenti-ativizta-e-as-politicas-de.html

85 che credevano che la mediazione con le istituzioni era necessaria e quindi era necessario concentrarci sull’organizzazione delle attività educative ed associative del Pilorinhu senza entrare nei discorsi politici. La discussione centrale era sull’ideologia pedagogica del Pilorinhu, se l’obiettivo della ricerca era quella di trovare una strategia condivisa nel gruppo la soluzione era quella di superare la dicotomia, che fu possibile solo attraverso il dialogo e la discussione. Segnando un momento strategico di riflessione sull’azione nella ricerca, che continuerà come nucleo centrale nella seconda fase della ricerca.

Infatti, nella seconda fase della ricerca, quando ormai ero sommersa dai dati, dalle informazioni che settimanalmente l’equipe produceva, e dal continuo processo di separazione e riordino dei piani dell’azione e delle ricerca, che andavano continuamente ad intrecciarsi, sono partita per la seconda fase della ricerca di campo: da Febbraio a Maggio 2016. L’obiettivo era quello di creare dei nuclei tematici che producessero una sintesi effettiva del lavoro di ricerca in atto in modo da ridefinire le strategie d’azione, necessarie come ultima fase della ricerca. Questo periodo è coinciso con diversi avvenimenti fondamentali anche per la produzione dei risultati della ricerca: il primo era il tentativo da parte del Pilorihu di riproporre un azione simile a quella di Achada Grande Frente nel quartiere limitrofo e quindi di superare le barriere territoriali tra gruppi e bande rivali attraverso un processo di mediazione comunitaria; il lancio della campagna di crowdfunding24 a favore del nuovo spazio, recentemente occupato dall’AP a Lem Ferreira in collaborazione con giovani e lider locali dal nome Finka Pè, per l’implementazione di un centro comunitario auto sostenibile e indipendente di ispirazione panafricana ed infine la preparazione alle elezioni politiche che nel settembre 2016 hanno decretato la vittoria del partito per la democrazia MPD. Durante questa fase il gruppo di ricerca si è concentrato nel trovare una strategia di azione, in grado di restituite alla comunità e ai membri che hanno fatto parte da una parte: la storia di questo processo divisa in nuclei tematici (si è scelto il metodo narrativo: storie di vita e scrittura condivisa) e la definizione della strategia di intervento per la nuova fase del Pilorinhu, data l’imminenza partenza di Uv per il Senegal e l’esperienza ottenuta nel quartiere limitrofo e il consolidamento delle pratiche in atto nel Pilorinhu.

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I risultati prodotti dall’equipe di ricerca locale sono stati essenzialmente 2: «O livro do Pilorinhu», attraverso il quale l’associazione è stata premiata a livello internazionale con il riconoscimento del Premio per la promozione dei diritti umani ‘Operation Daywork 2016’25 e il testo strategico che racchiude i nuclei tematici affrontati durante la ricerca scritto a più mani e raccolto da Uv, Joao Josè Tavares Monteiro dal titolo: Como se cria una organização social e politica ao serviço da comunidade. Experiencia pràtica de Projecto Simenti, Movimento Korrenti de Ativistas à Associação Pilorinhu.

Questi due risultati concreti co-condivisi, sono stati integrati con i dati che ho raccolto relativi alle sessioni di photo voice, le storie di vita, le interviste raccolte da me, con la visita di Nha Dunda, madrinha26 del Pilorinhu e lider politica e spirituale del quartiere di Achada Grande Frente in Italia durante l’estate 2016 e completate con l’esperienza di internazionalizzazione della visita della delegazione dell’associazione del Pilorinhu presso scuole e centri di formazione in Alto Adige, dove l’equipe capoverdiana ha ritirato il premio per i diritti umani nel marzo 2017.

3.4.7 La scrittura

Scrivere i risultati di una ricerca densa come questa che, oltre a dire l’essenza di un fenomeno, coinvolge attori che hanno sviluppato saperi e pratiche complessi, attraverso processi di ricerca, studio, incontri, quotidianità ed esperienza, mi è sembrato un compito titanico.

La prima impresa è stata quella di tenere fede alla necessità di trovare le parole giuste per un’apertura rispettosa al dirsi dell’altro, sapendo nominare adeguatamente il senso che attribuiva all’esperienza (Mortari, 2010). Per farlo, ho cercato di mantenere una scrittura attenta alla soggettività di ciascuno, riconoscendone l’unicità e non avendo la pretesa di arrivare a un sapere generale e astratto. Per Mortari «da cercare, dunque, sono le parole che siano come la clorofilla, capaci cioè di captare la luce che viene dalle parole di altri per riuscire a strutturare una teoria in grado di dire le cose come stanno» (Mortari, 2010, p.36)

25 Vedi: http://operationdaywork.org/italiano/wordpress/wp-content/uploads/2016/07/TH2016_2017_ WEB.pdf 26 Traduzione: madrina

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La seconda impresa da affrontare è stata quella di comprendere come essere davvero una luce discreta, dal momento che io stessa sono una delle fondatrici del Pilorinhu. Fin dall’inizio ho cercato di farmi presenza silenziosa, che aveva bisogno di ascoltare, piuttosto che di dire qualcosa sul fenomeno, ed è stato proprio l’immedesimarmi con quello stare «ai confini, sui bordi dei precipizi delle teorie e dell’incontro con l’altro» che mi ha fatto comprendere che ciò che stava accadendo a me era solo una storia, all’interno di altre storie, e che questo riconoscersi parte di una narrazione più grande, poteva essere una chiave, non solo per la ricerca, ma anche e soprattutto per andare in profondità nella pratica, perché poter inserire le fatiche del lavoro educativo all’interno di un noi le ridimensiona e dà ossigeno (Cima, 2009).

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CAPITOLO 4

ANALISI DEI DATI

In questo capitolo ho raccolto l’analisi e la riflessione sulla ricerca. Ho scelto tre filoni tematici sui quali tracciare l’analisi.

Il primo è la narrazione di due delle storie di vita dei ragazzi che fanno parte dell’associazione Pilorinhu e la loro traiettoria di trasformazione, frutto di un lavoro collaborativo inteso sia come momento di autoformazione personale che come empowerment. Nella storia di Pediu, Marcos 24 anni, si parte sulla riflessione sulle condizioni strutturali della vita nella capitale, troviamo il tema della trasformazione e rovesciamento della situazione di esclusione «da stigma ad emblema» (Goffmann, ’69, Sayad2002). Dal bambino che vive in strada chiedendo soldi e «viziato di soldi», la trasformazione in un clown di nome Pediu, rispettato e accolto dai bambini della comunità e chiamato per intrattenere il pubblico in eventi istituzionali. Il processo di coscientizzazione (Freire) e di presa di coscienza (Cabral) è facilitato dalla narrazione in gruppo e dall’arte in questo caso il teatro comico.

Il secondo filone, prende spunto dalla pedagogia rivoluzionaria di Cabral, pensatore e politico capoverdiano e guineense líder del PAIGC nella lotta per l’indipendenza. Gli ideali panafricani di lotta contro il colonialismo di Cabral, partendo dal concetto di cultura, rinascono nell’attuale contesto giovanile della capitale. Tali ideali si manifestano attraverso la ricerca di un’identità giovanile che garantisca una narrativa anti- egemonica; nelle ideologie del Movimento Korrenti di Ativiztaz e nelle azioni di sviluppo e valorizzazione della comunità locale dell’associazione Pilorinhu contrapposte ad uno Stato liberale disinteressato alle realtà svantaggiate, create da una società sempre più segmentata.

L’ultimo filone riflette sulle esperienze di mediazione comunitaria realizzate dall’equipe: partendo dal contesto capoverdiano marcato dalla costruzione di identità e appartenenze territoriali si traccia un legame storico e culturale tra il passato coloniale, le bande giovanile e l’azione di attivazione comunitaria messa in pratica dal Pilorinhu.

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4.1 I giovani si raccontano. Storie e traiettorie di vita dei giovani attivisti del Pilorinhu

In questa sezione cercherò di analizzare due delle storie di vita che ho raccolto, in maniera partecipata, durante la mia ricerca. Ho scelto di proporre la storia di Marcos, 24 anni, animatore e clown presso il Pilorinhu, e la storia di Fernanda, 26 anni, tesoriere dell’AP, lo farò affrontando tre nuclei: l’infanzia, il cambiamento e il futuro.

Marcos

Il racconto di Marco è certamente emblematico per comprendere la realtà delle violenze commesse, subite e perpetuate dai giovani capoverdiani nelle periferie urbane di Praia; d’altra parte si manifesta anche la possibilità di trasformare la rabbia e la frustrazione, in una fase dell’adolescenza in cui la ricerca dell’autonomia è una prerogativa, in agency. Si dimostra infatti la possibilità di superare le barriere strutturali quali la povertà e la stigmatizzazione attraverso un supporto orizzontale, messo in atto dalla comunità stessa e dai pari, volto all’emancipazione del soggetto nel proprio contesto.

«Sono nato ad Achada Grande Frente nel 1992, ho ventiquattro anni adesso. Non mi ricordo di avere mai vissuto con i miei genitori, da quando ero piccolo la mia mamma è andata a vivere ad Achada Santo Antonio e anche mio papà si è costruito una famiglia a Giamaica. Sono cresciuto con mia nonna paterna, i suoi figli e i suoi nipoti. Non mi ricordo di essere stato felice nell’infanzia, mi ricordo tanta tristezza e di aver passato tante difficoltà, perché non c’erano mai soldi a casa. Ho sempre pensato che la famiglia di mia nonna non mi voleva: mi chiamavano vagabundo, bo ka tem cura27 perché non mi piaceva stare a casa; tutti mi picchiavano perché non ritornavo a casa volentieri, mi piaceva stare e vivere in strada con i miei amici. Avevo molte cose da fare oltre ad andare a scuola: andavo sempre al porto a vedere se trovavo dei pesci da cucinare o vendere, andavano a raccogliere immondizia e le rivendevo, ero spesso a Stufon, una discarica, dove si raccolgono ferri e plastica usata. Arrivato alla settima classe ero davvero stufo di Achada Grande Frente e della situazione nella famiglia di mia nonna, quindi ho smesso la scuola là e mi sono trasferito da mia mamma e le mie sorellastre a Brasil anche se dovevo convivere con il compagno di mia mamma che non sopportavo. Ho cominciato ad andare a scuola là ma ho smesso presto perché avevo trovato un expediente: ho rubato una bicicletta e ho cominciato a chiedere soldi per strada, davanti agli hotel e ho cominciato a fare piditorias scrivere

27 Traduzione: non c’è soluzione per te.

90 richieste d’aiuto. Funzionava così: io scrivevo una lettera a mano su un foglio bianco in portoghese, perché ero bravo a scrivere rispetto agli altri “Le chiediamo il suo contributo per organizzare un torneo di calcio nel quartiere” e facevamo firmare a chiunque sostenesse economicamente. Facevamo tutto in gruppo eravamo uniti, dopo aver raccolto i fondi, mangiavamo insieme e tornavamo a casa a dormire. La sera riuscivo a tornare a casa con un po’ di soldi e mia mamma era contenta, perché non aveva un lavoro. Io ero autonomo, nta daba nha expediente.

Sono cresciuto insieme ai ragazzi di Brasil e Achada Santo Antonio, ho assistito alla prima guerra tra Brasil e Asa Branca, quelli che erano tutti miei amici. Però la situazione con il compagno di mia mamma era diventata insostenibile perché io non sopportavo quando lui non rispettava mia mamma e la picchiava e intervenivo sempre a costo di prendere la mia dose di botte […].

Per questo motivo ho abbandonato la scuola, la casa di mia mamma e mi sono trasferito a Casa Lata, con la scusa di andare da mia zia. Avevo però una stanza separata, vivevo da solo. Là potevo davvero fare davvero quello che volevo, nessuno mi fermava: fumare, uscire e rientrare quando volevo, non andavo a scuola. Uno dei miei migliori amici era davvero violento, si chiamava Policia; lui aveva un traffico di armi anche grosse nel quartiere e con lui che ho imparato a fare kashbody, rapine. Ho fatto tante cose cattive insieme a lui e alla banda. Ecco vedi questo tatuaggio, c’è scritto Casa Lata, il quartiere era nostro, e una pistola, perché era la nostra arma per fare rapine e intimidire gli altri dei quartieri avversari. Questo quartiere è vicino a Palmarejo, dove vivono i più ricchi della città. Noi riuscivamo anche a costruirci le armi […].

Sono andato in prigione piccolo, avevo sedici anni, sono restato là 12 mesi e 12 giorni. Condannato in fragrante per furto e rapina insieme a quattro amici, la polizia ci stava controllando da tempo, qui funziona così… Aspettano che tu compia sedici anni poi ti prendono, prima quello che fanno è darti dei richiami, ti fanno stare nella squadra, ma a livello legislativo non possono fare niente… Vedi questo tatuaggio è la data in cui sono uscito, il più bel giorno della mia vita. In prigione è terribile, il cibo era orribile, l’unica cosa che puoi fare è allenarti con pesi e fare tatuaggi, è quello che facevamo là. Nsai de là nhaco homi sono uscito dalla prigione che ero muscoloso e rinforzato di muscoli, ero pentito, volevo cambiare vita, soprattutto perché non volevo ritornare in prigione. C’era tanta omosessualità in prigione. Se andavi in bagno rischiavi di essere violentato soprattutto noi i più giovani … Orribile. Anche in prigione le guerre tra bande continuavano, un giorno figurati che un poliziotto ha sparato ad un prigioniero, perché era cominciata una rissa tra detenuti. In prigione si fumava […].

Quando sono uscito, mio zio mi ha regalato un libro di Cabral ed è venuto a prendermi. Sono ritornato ad Achada Grande Frente, qui è dove vi ho conosciuto, erano gli inizi del

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2010. Era stato ucciso da poco tempo mio cugino da una banda avversaria, che abitava ad Achada Grande Frente. Mio zio mi ha aiutato a trovare un po’ di pace, ad accettare di vivere con mia nonna, da qui sono ripartito. Sapevo che non potevo tornare a vivere a Casa Lata, altrimenti sarei caduto nel circolo di nuovo. Ero sempre con lui, andavo dove lui andava. Amavo ballare e cantare rap, insieme a degli amici di Achada Grande abbiamo fondato il gruppo Soldados da paz, era un gruppo di danza, ci aiutavamo l’uno con l’altro e il progetto è stato sostenuto dalla Oficinas de Ideias28 del progetto Simenti. Ti ricordi, era anche andato in onda la nostra performance alla tv. […] La danza è un modo per stare bene, tra di noi, però noi non eravamo solo un gruppo di danza come gli altri. Ci chiamavamo Soldados da paz, soldati della pace, facevamo spettacoli nella diverse comunità durante i Parlamentos de Guetto e avevamo sempre ragazzini che ci seguivano e volevano ballare con noi. La nostra missione era la pace, ballare e cantare per portare la pace e la coscienza nei giovani. Facevamo corsi e laboratori per ragazzini nella comunità e nel Pilorinhu. Oltre a questo viste le mie conoscenze nei quartieri accompagnavo il processo di organizzazione dei Parlamentu d Ghetto avevo accesso facilitato in molti quartieri, grazie ai miei spostamenti e alle conoscenze che avevo fatto in prigione… Ora ho preso coscienza, sono membro attivo della Korrente de Ativiztas, sono un rivoluzionario, un attivista. Sono anche diventato clown e lavoro con i bambini, all’inizio mi vergognavo di uscire di casa vestito da pagliaccio, fare animazioni, adesso so che questa è la mia vita. Tutti i bambini mi salutano e mi chiamano sia nel quartiere sia nella città, ho capito che grazie all’arte, alla danza e all’essere clown, mi sono salvato, “a arte me salvou”. Sai con le ultime animazioni che ho fatto mi sono riuscito a comperare un terreno, a Giamaica, io penso di darlo a mia mamma. “Quanto lo hai pagato?” 25 contos, è illegale ma basta costruire una casetta, anche di cartone o mattoni e poi nessuno ti tira da là, adesso hanno anche portato la luce […]. Il mio nome clown è Pediu, questo nome è nato per caso, avevamo lavorato sulle storie di vita, un po’ come stiamo facendo adesso […]. Quando ero piccolo tutti mi cercavano perché conoscevo tutti i trucchi del chiedere soldi, mi odiavano anche perché a forza di chiedere ero diventato viziato nei soldi. Ho voluto trasformare questa mia storia in un nome, il mio nome clown. Fare clown per me è raccontare la mia storia di vita, e trasformarla in risate, parlare della realtà che ci circonda in forma comica, buttare fuori la sofferenza che ho dentro. Dare allegria ai bambini. Sento di avere un grande potere perché quando ho un naso rosso tutti mi ascoltano, posso salire su qualsiasi palco, e con un microfono parlo […]. Faccio il clown per lavoro e per volontariato. Lavoro in luoghi vip, anche nei condomini chiusi di Palmarejo ci chiamano per fare feste di compleanno, anche il presidente della Repubblica, i consolati, tante istituzioni ci chiamano, per animare le feste dei figli oppure organizzare attività pubbliche, orami siamo conosciuti in tutta l’isola ma anche fuori, siamo

28 Officina delle idee, erano dei laboratori nei quali un animatore sosteneva attraverso la progettazione e un piccolo finanziamento idee innovative di giovani della comunità di Achada Grande Frente. Era una delle azioni del Projecto Simenti, che ebbe una durata di due anni.

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stati invitati in Brasile per recitare il nostro nuovo pezzo teatrale comico: Rebelados de Cau Berde. Il volontariato è nelle comunità, anche se non prendo uno stipendio, ed è difficile, lo faccio spesso, uno perché fare il clown mi fa stare bene, due perché in quei bambini mi rivedo, e voglio dare loro una speranza. Ho il morale alto, sono rivoluzionario […]». (Marcos, marzo 2016)

Fernanda

La storia di Fernanda, rappresenta la diversa prospettiva, quella del mondo femminile, gli spazi e gli ambienti sono quelli domestici, dalla ricerca della libertà passiamo all’autoaffermazione delle donna nella società attraverso la maternità. Fernanda è educatrice presso l’ATL (attività del tempo libero) dove si rinforzano le capacità scolastiche dei bambini in rischio di abbandono scolastico attraverso metodologie ludiche e partecipative.

«Sono Fernanda ho ventisei anni, sono mamma di due figli, la terza in arrivo, la prima figlia vive a Tarrafal con la nonna paterna, la seconda viveva con me e suo padre, ma da quando ci siamo separati vive con il padre nella casa della nonna paterna, ora aspetto il terzo figlio con il mio nuovo compagno, ed è arrivata questa sfortuna. Se me l’avessero detto prima, avrei abortito, ma qui non si può perché è illegale; mi sono rivolta ad alcune cliniche private, ma il prezzo è esorbitante […] (Fernanda è uno dei casi colpiti dal virus zika in gravidanza, quindi successivamente alla nostra intervista ha partorito una figlia con microcefalia29). Me ne sono accorta perché alla televisione avevano dato l’allerta, se nelle donne incinte si presentano casi di virus zika, contattare subito il Centro di salute. Io avevo avvertito ma mi hanno detto che andava bene, da quel momento però non ho più dormito sogni tranquilli, ci pensavo continuamente. Appena sono riuscita a trovare chi mi pagasse un ecografia sono andata da un medico privato, che mi ha diagnosticato la microcefalia di mia figlia, è stato troppo tardi, ora sono al sesto mese di gravidanza. Sono chiusa in casa da quel momento, non vado più neanche al Pilorinhu, girano voci nella comunità che è perché ho lasciato il mio ex compagno che ho avuto questa sfortuna […].

Se penso alla mia infanzia penso a Tarrafal30, dove vivevo. Io sono stata contesa dai miei genitori, quando ero piccola, nel momento della separazione. Quando piove e quando non

29 L’epidemia Zika si è diffusa nel paese dal 2015 al 2016, sembra che sia diminuita l’incidenza nel corso 2017, ma l’OMC non la considera ancora debellata. I tassi di infezione maggiore si hanno nell’isola di Santiago, Praia; San Filipe (isola di Fogo), le più colpite sono state le donne 65% contro il 35% degli uomini; la fascia etaria più colpita è stata quella dai 25 ai 35 anni. Nell’anno 2016 si è registrato un aumento dei neonati nati da mamme infette, con gravi malformazioni microcefaliche. 30 Tarrafal, località rurale nel versante orientale dell’isola di Santiago.

93 sto bene, sento sempre dolore nel petto, perché da come mi hanno raccontato mio papà mi tirava da un braccio, mia mamma dall’altro braccio, stavano quasi per dividermi in due. Poi mio papà che era più forte era riuscito a tenermi, ma mia mamma venne subito dopo a riprendermi con la macchina della polizia e mi ha portata a Tarrafal (interior/zona interna dell’isola di Santiago), infine sono venuta con lei a Praia.

Sono sempre stata una bravissima alunna nella scuola, ma la mia situazione economica non mi ha dato l’opportunità di studiare e frequentare l’università. Mia mamma vende pesce al mercato, mi aiuta ma ha altri cinque figli, non sempre è possibile. Sono venuta ad abitare ad Achada Grande Frente per via del mio ex compagno, mi sono trasferita nella sua casa, ma da un giorno all’altro, dovuto a degli attriti che abbiamo avuto, si è trasferito da sua mamma, ha tagliato l’elettricità e sono dovuta uscire di fretta. Nessuno della famiglia mi ha supportato, perché lui aveva detto che io ero troppo violenta con lui e con suo figlio. Non so se erano delle scuse perché già dopo un mese, nella casa di sua mamma c’era già a fargli visita la sua nuova compagna. Comunque ho deciso di restare qui ad Achada Grande Frente perché lavoravo come educatrice nell’ATL del Projecto Simenti, quindi appoggiavo i bambini con più difficoltà delle scuole elementari del quartiere, nel doposcuola. Ho anche fatto il corso di animatrice infantile nel progetto e mi sono specializzata in pittura facciale, adesso quando c’è una festa, un’attività mi chiamano per pitturare i visi, e animare le feste, con l’equipe Arcorisos. Il mio compito non è solo quello: io sono il pombo correio, il piccione viaggiatore del Projecto Simenti e dell’AP, porto le informazioni in tutto il quartiere, se ci sono delle opportunità, o degli aiuti per le famiglie, spargo la voce nel quartiere, qui tutti mi conoscono e a casa mia passano sempre altre donne e amici. Sono contenta di aver imparato tutte queste cose, prima ero disoccupata, ora so che cosa voglio fare. Voglio fare la professoressa ed iscrivermi all’università di Scienze della Formazione Primaria. Voglio avere un lavoro ed essere autonoma. Sul tema del Pilorinhu e del volontariato, sai già le difficoltà […] una donna ha molte responsabilità in casa, e se non prepari la cena o il pranzo, può diventare un problema. Quando venivo a fare le animazioni, oppure andavamo in trasferta in qualche isola, dovevo preparare il cibo e congelarlo, era uno stress incredibile, perché il compagno non credeva che delle attività sociali potessero dare beneficio alla famiglia o aiutarmi». (Fernanda, aprile 2016)

(Fernanda è riuscita a vincere la borsa di studio per l’Università grazie all’esperienza acquisita nell’ATL, con i ragazzi/bambini con difficoltà nel progetto Simenti e AP, e brevemente comincerà il primo stage del corso triennale in Scienze della Formazione Primaria).

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Il racconto autobiografico, non è solo un modo di raccontarsi, di dare spiegazione alle scelte fatte durante la propria vita, ma è un vero e proprio processo di ricostruzione alla luce dell’interpretazione che, nel momento in cui si racconta, si da di sé stessi. Un aspetto importante del raccontarsi risulta essere quella che viene definita dal pedagogista Demetrio la bilocazione cognitiva; essa consiste nella capacità che si ha, attraverso il racconto, di collocarsi al di fuori di sé, di prendere le distanze da sé stessi, questo permette di riscoprirsi attraverso l’immagine di un altro da sé e si scoprono aspetti della propria persona fin allora inimmaginabili (Demetrio, 1996). Demetrio introduce il concetto di intelligenza autobiografica intesa come l’insieme delle capacità cognitive stimolate dalla mente grazie alla riflessione e al raccoglimento che l’atto autobiografico offre. Tra questi procedimenti cognitivi acquista valore la retrospezione, che è in grado di arginare la dispersione dei ricordi e di rivitalizzare la memoria; il pensiero introspettivo, che conduce ad una maggior auto-conoscenza, ad una più consapevole riflessione su sé stessi e sulla realtà; il pensiero abduttivo, un altro strumento cognitivo che si avvale dell’uso di metafore ed analogie, permettendo così di potersi esprimere con forme diverse da quelle convenzionali. Demetrio riconosce al processo autobiografico quattro importanti funzioni che ne confermano la validità.

La prima funzione è quella meta-cognitiva che si riferisce alla scoperta del funzionamento mentale del soggetto, un modo per prendere coscienza di ciò che si pensa, di come lo si pensa e di come si è arrivati a pensarlo. Il secondo motivo è legato al concetto di apprendimento, il quale offre al soggetto la possibilità di interrogarsi sul perché delle cose e, grazie alla scoperta della propria storia, di collegare i fatti alla propria esperienza; ad esso è legato il principio del desiderio, il reale motore di questo processo di riscoperta e più precisamene il desiderio di apprendimento che nasce da quello più esteso di essere e di essere, forse, altro. Come terzo motivo viene indicato quello trasformativo: il ripercorrere la propria storia, infatti, apre nuovi scenari in cui appare la possibilità di scelta, la possibilità di fare previsioni future e di scoprire le potenzialità inespresse. Il quarto motivo, il più importante per la mia ricerca, è quello formativo che fa sì che si realizzi l’autonomia del soggetto all’interno del proprio percorso autobiografico.

L’esperienza della narrazione condivisa ha accompagnato tutta la ricerca, i giovani hanno raccontato le loro storie, e anche l’equipe di ricerca ha lavorato sulla storie e sulle riflessioni legate al Pilorinhu e alla comunità di appartenenza. Tutte le narrazioni, salvo

95 quelle dei soggetti che hanno chiesto di realizzare l’intervista in privato, sono state realizzate in gruppo. Il gruppo ha quindi rappresentato un mediatore indispensabile, che ha portato alla riflessione condivisa e alla presa di coscienza condivisa, arricchendo la prospettiva della ricerca.

Riporto ora alcune riflessioni nate nel gruppo di ricerca e dalla riflessione condivisa. La prima differenza marcante delle due storie è la questione di genere, bisogna realizzare che la sfera maschile e quella femminile nella società capoverdiana risultano separate, rappresentano due universi distinti, anche nel contesto associativo analizzato. Da una parte l’uomo, la strada, i soldi, le bande, la pistola, la prigione ed infine l’attivismo; dall’altra la donne, i figli, la casa, il compagno, la scuola e l’educazione. Marcos cerca di affermarsi nella società utilizzando il criterio della libertà che trova nella strada, «la strada a Capo Verde sembra rispondere a molti dei bisogni dei bambini: economici, sociali ed identitari» (Bordonaro, 2012). Fernanda si afferma al contrario nel suo ruolo di madre ed educatrice, e nel dopo scuola comunitario. Le donne capoverdiane sono gravate da un numero enorme di responsabilità a livello di gestione domestica, come dal mantenimento economico dei nuclei famigliari. Questa differenza rappresenta una delle dicotomie classiche che riproducono il binomio di genere: la divisione tra lo spazio domestico e quello pubblico, il primo dei quali viene fatto corrispondere a un dominio femminile, mentre il secondo maschile. Tale dicotomia è presente in diverse società ed è correlata ad altre credenze relative al sistema di genere, per esempio la naturale predisposizione femminile a perseguire l’interesse privato o di una cerchia ristretta di persone, in opposizione all’innata propensione maschile ad adoperarsi per il bene comune (Stefani, 2014). Da queste differenti attitudini deriverebbe una giustificata disuguaglianza nell’accesso al potere e a funzioni pubbliche, a favore degli uomini. Se pensiamo al paese, Capo Verde, possiamo constatare l’esistenza di una disuguaglianza di genere. La popolazione femminile è caratterizzata da un accesso limitato alle possibilità di vari settori, a partire da quello lavorativo, e da un sovraccarico di compiti relativi alla gestione della casa e della famiglia. Gli uomini, al contrario, sembrano essere sostanzialmente liberi da questi vincoli e favoriti in numerose attività rispetto alla controparte femminile, in virtù di un tipo di pressione sociale esercitata su di loro qualitativamente diversa (Stefani, 2014).

In entrambe le storie possiamo notare l’incidenza di diversi fattori strutturali, che prima abbiamo identificato come violenza strutturale; tali fattori segnano in maniera

96 marcante la vita dei due giovani: il conflitto famigliare, la povertà, il mancato accesso alle cure sanitarie pubbliche, l’educazione autoritaria. Possiamo quindi confermare che la violenza risulta essere un fenomeno intricato, “a strati” (Grassi, 2010); in esso differenti dimensioni dell’esperienza vengono coinvolte: politiche, intellettuali, sociali e psicologiche. Nelle storie sopra raccontate vengono rilevate diverse forme di violenze subite nel contesto famigliare e comunitario che evidenziano un quadro complesso, dentro il quale le possibilità di emanciparsi sembrano ostacolate dal contesto. I fattori di resistenza e resilienza individuale, si intrecciano con i tentativi politici dell’AP che cerca di creare un ponte con le istituzioni, in modo da affrontare in maniera effettiva le problematiche quotidiane affrontate dalla popolazione. Come risulta dal resoconto delle due storie di vita, la risposta delle istituzioni è stata in entrambi i casi inesistente e tarda; inoltre in entrambi i casi gli aiuti istituzionali sono stati mediati dall’azione dell’AP. Il lavoro di mediazione istituzionale, tra comunità e popolazione locale, è fondamentale; la comunità si fida e si rivolge all’AP per qualsiasi questione: dalla salute, all’educazione, alla formazione professionale.

«Delle volte ci sembra che il nostro lavoro sia fondato sulle emergenze: ogni giorno succede qualcosa di molto grave, non esiste una risposta istituzionale per i problemi che emergono nella comunità. È necessaria creatività, nervi saldi, e molto spesso anche noi tecnici non riusciamo a trovare una soluzione. Molto spesso ci sembra di fare un lavoro che non è il nostro, proviamo a delegare ai servizi statali ma non abbiamo risposte immediate, efficaci. Il lavoro in comunità è come tappare i buchi di una vecchia camera d’aria, appena sotto pressione, si formano nuove crepe, o nuovi buchi, i cerotti si aprono. Credo proprio che la soluzione sia cambiare la camera d’aria e la ruota […]». (Clara, coordinatrice Projecto Simenti, Riunione di equipe, 2013)

A Capo Verde, durante l’epoca del partito unico, il Partito era il mediatore essenziale tra comunità e Governo, esso si occupava dei diversi aspetti della vita, e contava con la partecipazione attiva di giovani e comunità attraverso il partito. Con l’avvento della democrazia e delle politiche neoliberali dagli anni ’90 si passa alla fase del riconoscimento del servizio sociale nazionale che agisce nelle situazioni di disagio, molto spesso favorendo la logica assistenzialista. Come segnalano Bordonaro e Lima nello studio del sistema di protezione dei bambini di strada a Capo Verde, in un primo periodo, quello del partito unico, lo Stato era attore principale nel processo di riformulazione sociale ed economica delle comunità. Oggigiorno, si è passati da un sistema nazionale di protezione sociale con l’obiettivo di garantire l’intervento istituzionale in casi problematici, o addirittura lasciando

97 campo per l’intervento non governativo, rinunciando completamente ad un progetto politico di integrazione della popolazione in un progetto politico e sociale. Per questo gli autori decretano il «passaggio da uno Stato Sociale ad uno Stato Servizio Sociale». (Bordonaro e Lima, 2011, p. 119)

Il welfare così diventa sempre più fragile, in quanto la tendenza, come successo in molti contesti europei, è stata quella di centralizzazione e istituzionalizzazione dei servizi, si tende a fare affidamento o ricercare un tipo di servizio assistenzialista senza pensare allo sviluppo di una partecipazione diretta dei cittadini, dovuto anche alla situazione di svantaggio ed emarginazione che la popolazione più povera vive. L’unico risultato apparente è che le disuguaglianze aumentino e che lo Stato, sempre più fragile, non riesca a dare risposta alle problematiche esistenti. Lo Stato capoverdiano, troppo spesso manipolato dalla logica dei partiti, si perde nel tentativo di dimostrare alla popolazione il suo successo e protagonismo, non assumendosi il rischio di intraprendere azioni innovative nelle comunità in una prospettiva di emancipazione; i politici temono di perdere voti o di essere criticati, rinforzando ancora di più gli stereotipi e le etichette sociali sulle comunità e i giovani delle periferie.

«Durante il progetto Inclusão Social de jovens, guidato da PNUD, Ministero della Gioventù, siamo stati invitati ad una riunione presso il Ministero, alla quale partecipavano 5 istituzioni statali diverse: tecnici del programma di prevenzione alla droga, il programma di educazione e scolarizzazione degli adulti, il centro di accoglienza per la protezione dell’infanzia, formazione professionale, Unicef e Ministero dell’amministrazione interna, i coordinatori brasiliani del progetto. Eravamo molto felici perché finalmente eravamo riusciti a fare parte di una rete, e i nostri sette ragazzi/e tra gli undici e i quattordici anni segnalati, avrebbero finalmente trovato una soluzione o una possibile per evitare che il tragitto che avevano cominciato ad intraprendere potesse portarli ad un punto di non ritorno, l’obiettivo era quello di essere sostenuto e appoggiato da altre istituzioni, dato che noi non avevamo la capacità e le risorse per occuparcene.

La riunione durò più di tre ore, prendemmo ad analisi tutti i casi uno ad uno, molti dei ragazzi erano già conosciuti dalle istituzioni, per non essere stati dei casi di successo, anzi ci rendemmo conto di quanto questi ragazzi avevano un etichetta data dai servizi sociali di indomabili, con cui non c’è nulla da fare. L’insuccesso era dipeso da fughe nel caso di due dei ragazzi che vivevano nel centro Icca; la maggior parte di loro faceva uso regolare di droga, forse a causa del fatto che a Capo Verde non esiste un sistema di intervento per dipendenze prima dell’età adulta; all’impossibilità di accedere alla formazione professionale visto che alcuni non avevano completato il ciclo primario, ed era impossibile

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rientrare nella scuola pubblica perché erano già intercorsi i due anni di bocciatura, per la quale il regolamento impedisce di frequentare la scuola. Abbiamo capito che nessuno di loro voleva risolvere il problema, nessuna decisione presa, di fronte all’incredulità dell’equipe brasiliana e alla nostra amarezza.

Nessuno li voleva! Tutti si sono lavati le mani!» (Riunione presso il Ministero della Gioventù, luglio 2014 Diario di bordo).

La salute costa, e non tutti se la possono permettere. Nei casi che abbiamo riscontrato la mancanza di risposta alle difficoltà segnalate dai racconti: la povertà strutturale, l’educazione e l’abbandono scolastico. Nel caso di Marcos, possiamo notare la fragilità nel sistema penale capoverdiano, le condizioni dei prigionieri che non rispettano i diritti umani, la violenza, l’inadeguatezza delle pena nel sistema di giustizia minorile, l’inesistenza di un programma di reinserimento sociale rivolto ad ex prigionieri minorenni, la dispersione scolastica. Per quanto riguarda Fernanda la povertà strutturale della famiglia, l’insorgenza della malattia della figlia denotano un tarda diagnosi da parte del sistema di salute pubblico. Queste condizioni ci mostrano una condizione di ingiustizia sociale e di problemi strutturali avversi che discriminano in base al ceto sociale di appartenenza dato che si basano sulle possibilità economiche dei cittadini.

Nel contesto politico istituzionale e nella società in generale, capita che si pronuncino discorsi come: “non ci sono mai state tante opportunità per i giovani”, o:“esistono molti centri dedicati alla salute della popolazione capoverdiana”, oppure: “nonostante queste avversità alcune persone sono riuscite ad emanciparsi grazie al loro impegno”; il passo successivo è dunque quello di incolpare la vittima per la situazione in cui vive. Il tentativo dell’attuale politica è quello di proporre come valide le spiegazioni sociologiche deterministiche prevalenti negli anni '70 e '80: nei discorsi ufficiali non si parla mai di giovani che crescono in condizioni avverse, negando che le condizioni di vita che affrontano denotano degli svantaggi strutturali che possono essere superati solo da cambiamenti strutturali nella politica. Si tende alla semplificazione di una prospettiva sociologica sulle origini della delinquenza; proclamando che vi sono alcuni giovani che non sono diventati criminali malgrado le loro carenze, le istituzioni cercano di affermare che si tratta di una questione di impegno personale.

L’equipe coinvolta nella ricerca considera l’esperienza che ha portato la fondazione dell’AP un processo di apprendimento continuo per la definizione di una strategia di lavoro

99 volto al autonomia di giovani e comunità locali, ma anche nel riconoscimento di alcuni limiti soprattutto nella suddivisione di responsabilità tra Stato e comunità.

«Dal 2010, fin dai primi anni attraverso il Progetto Simenti, abbiamo cercato in tutti i modi di trovare un avvicinamento tra noi ed i poteri istituzionali del governo attraverso la creazione di partnership, protocolli, tentativi continui di mediazione tra istituzioni e comunità. Dal 2013 dopo la perdita dei finanziamenti internazionali del progetto a seguito della crisi economica globale, e il conseguente blocco di fondi da adibire a progetti sociali, è nata su iniziativa dei giovani e lìder stessi coinvolti nella prima fase del progetto, il MKA, costituito partendo dagli ideali di Cabral, rivendicando attraverso la sua occupazione lo spazio Pilorinhu. Ciò aveva lo scopo di rispondere alla necessità di pensare ed agire politicamente per rivendicare spazio, diritti e partecipazione della comunità e dei giovani lìder comunitari contro il consumismo e il neocolonialismo. Con questo processo politico, si era raggiunta la maggiore visibilità mediatica del percorso attraverso l’azione di occupazione del Djeu di Santa Maria, situato di fronte alla comunità di Achada Grande Frente e Lem Ferreira, ceduto dalla municipalità di Praia, all’impresario cinese David Chow per la costruzione di un casinò internazionale. Il MKA aveva occupato l’isola per più di una settimana, per rivendicare la proprietà di quel terreno, e la necessità di consultare la popolazione in materia di tali decisioni. In quel momento si era creata una spaccatura tra elementi attivi nel Pilorinhu che rivendicavano l’impossibilità di conciliare l’associazionismo con la lotta politica. Questa spaccatura ha dato però vita ad un dibattito costruttivo sulla necessità di conciliazione tra politico e sociale. Da queste vicende nasce quindi la nuova consapevolezza dell’AP come formazione di un azione sociopolitica: l’occupazione degli spazi urbani fomentando il protagonismo delle comunità e dei giovani, la riappropriazione della parola e degli spazi urbani, la rivendicazione dei diritti, la promozione della propria storia e dell’identità africana, la sostenibilità delle comunità». (Diario di equipe, 2016)

Attraverso queste due storie di vita, si comprende come sia possibile superare la condizione di emarginazione e devianza attraverso la presa di coscienza della nostra responsabilità e delle nostre capacità personali, trasformando lo stigma in emblema (Goffman 2004). Attraverso la promozione di interventi come quello del Pilorinhu, che non si sostituiscono alla stato ma spingono alla presa di coscienza la società, è possibile rinforzare la comunità creando luoghi e spazi di ascolto ed intervento nel quale i giovani possano sentirsi parte integrante, nel quale ognuno possa essere capace e avere un dono.

«Tutti noi abbiamo un dono, e lo abbiamo scoperto, delle volte pensavamo che non eravamo nessuno ma abbiamo imparato ad amarci, amare la nostra comunità e trasmettere il nostro dono agli altri». (Capinheiro, educatore AP).

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4.2 Kabral ja entra na me. Cultura, educazione e rivoluzione

«La nostra cultura deve essere popolare, ossia una cultura delle masse; tutti devono avere diritto alla cultura. In più devono essere rispettati i valori culturali del nostro popolo che meritano di essere rispettati. La nostra cultura non può essere per un elite, per un gruppo di persone che sa molto e che conosce le cose. No. Tutti i figli della nostra terra, in Guinea Bissau e Capo Verde , devono avere il diritto di avanzare culturalmente, di partecipare ai nostri atti culturali, di manifestare e creare cultura.». (Cabral, 1978)

Kabral ja entra ne me, Cabral abita in me, è il titolo di una canzone in lingua kriolu di Helio Batalha rapper molto riconosciuto nella scena musicale capoverdiana. La canzone è stata scritta nel 2012 e inserita nell’album Golpe de Estado II, il ritornello recita: “Cabral abita dentro di me. Mi dici che cosa facciamo? Facciamo la rivoluzione che parte dal cuore, le parole sono un’arma nella nostra bocca, insieme alla penna che stringi nella mano, noi siamo il Sindacato del Ghetto, il lavoro da fare nel ghetto è questo.31” La figura, le parole e l’ideologia di Cabral è presente nella narrativa dei giovani capoverdiani, soprattutto nel lavoro artistico e culturale di molti di quelli che si considerano attivisti o artisti “coscienti”. Cabral è celebrato come eroe nazionale a Capo Verde, viene considerato un icona della nascita dell’identità capoverdiana, simbolo della lotta e della resistenza al colonialismo, morto per liberare la patria dal dominio portoghese. Cabral è anche considerato uno dei più importanti ideologi e politici all’interno del processo di decolonizzazione africano. Nasce nel 1924 da genitori capoverdiani nella Guinea portoghese, studia agraria a Lisbona e ritorna nel paese d’origine nel ’52 per lavorare in un progetto di mappatura delle colture agricole per il Portogallo. È in questi anni che matura il suo dissenso nei confronti del regime portoghese, in quanto il suo lavoro lo porta a conoscere la realtà del territorio e del popolo della Guinea. Dopo un periodo in Angola, nel 1956, torna in patria per fondare il partito clandestino PAIGC (Partito africano per l’indipendenza della Guinea e di Capo Verde) stabilendo come obiettivo chiaro l’immediata conquista dell’indipendenza, dando vita ad un conflitto armato con il regime portoghese. Cabral muore nel ’73 assassinato a Conakry come molti dei lìder africani che hanno lottato per l’indipendenza dei propri paesi, nello stesso anno in cui la Guinea si proclama come stato indipendente; seguirà poi Capo Verde, due anni più tardi. Se negli anni della lotta di indipendenza i giovani erano i fautori della lotta e avevano un loro ruolo politico nella società socialista e nei movimenti giovanili di liberazione nazionale, la partecipazione politica dei giovani ha cambiato contorni,

31 Fonte: https://www.youtube.com/watch?v=DnnUPrhszhw

101 soprattutto dopo gli anni ’90 con l’avvento del sistema liberale bipartitico nel paese. La Chiesa cattolica, che durante il regime portoghese deteneva le responsabilità educative e sociali, e lo Stato socialista, con l’avvento del bipartitismo, vanno a perdere il loro ruolo di guida sulle istituzioni comunitarie e sulle organizzazioni giovanili. Tali entità comunitarie e giovanili perdono la loro centralità e la loro importanza nelle decisioni politiche e vengono coinvolte in un contesto sempre più frammentato ed anticollettivista e troppo spesso strumentalizzate durante le elezioni o la propaganda politica dei due partiti dominanti a Capo Verde. Questa segmentazione, ha spinto i giovani a reinventare forme di socialità all'interno di gruppi di pari, in un contesto segnato dalla globalizzazione e dall'afroamericanizzazione del mondo, in cui la cultura hip-hop, attraverso il suo elemento orale, il rap, appare come un veicolo per libertà di espressione e protesta dei gruppi urbani in una situazione di maggiore precarietà (Lima, 2012). Attraverso il carattere polemico del rap e l'esplicita avversione per il dominante, la gioventù abbandonata e alienata ha trovato un modo per richiamare l'attenzione della società sulla situazione in cui vivono, rivoltandosi contro la propaganda e gli incentivi alla violenza, promuovendo l'afro-centrismo e il Panafricanismo. I giovani reinterpretano Cabral riproponendo la sua ideologia in una prospettiva glocale (incrocio tra contesto locale e tendenze globali), diventando uno strumento di emancipazione ma anche di protesta per la situazione di oppressione vissuta e la creazione di uno spazio nuovo indipendente di ascesa nella società. Gli elementi fondamentali caratterizzanti di questo processo di ri- significazione sono l’identità africana, quindi il ricorso alla lingua nativa, l’attivismo con la denuncia della situazione vissuta e della realtà sociale capoverdiana moderna e come vedremo in seguito l’azione sociale nelle comunità. Per questo motivo ritengo che il discorso che i giovani rappresentano oltre ad avere una valenza politica ed identitaria abbia una valenza pedagogica, questo verrà dimostrato da una parte dai racconti degli educatori e attivisti dello spazio Pilorinhu e dalla loro pratica pedagogica che esaminerò in seguito, partendo dalla rilettura pedagogica dell’opera di Amilcar Cabral.

4.2.1 Amilcar Cabral, il pedagogo della rivoluzione

È Paulo Freire che, ritornato in Brasile dopo l’esilio a Ginevra, appella Cabral “pedagogo della rivoluzione”, nel corso di una lezione presso la facoltà dell’Università di Brasilia32 nel novembre del’85 confessando di aver letto i testi del politico africano che fu partecipe nella

32 Fonte: http://forumeja.org.br/files/am%C3%ADlcar.pdf

102 creazione di tutti i movimenti di liberazione delle colonie di lingua portoghese. Freire si recò in Guinea Bissau e Capo Verde dopo l’indipendenza su invito dei paesi stessi, nel periodo post-indipendenza, per lavorare sull’alfabetizzazione del popolo, in questo contesto ebbe la possibilità di studiare e vedere il frutto del pensiero di Cabral. Freire afferma il ruolo di Cabral come pedagogo della rivoluzione, definizione diversa da quella di pedagogo rivoluzionario; secondo il brasiliano «lui (Cabral) ha incarnato il sogno della liberazione del suo popolo e i procedimenti politici pedagogici per realizzare questo sogno» (Freire, 85). Amílcar Cabral rappresenta l’eccellenza della teoria e della prassi rivoluzionaria africana del XX secolo poiché le idee da lui formulate hanno portato ad un’azione effettiva, dalla trasformazione in campo sociale, culturale e politico alla decolonizzazione rivoluzionaria, mediante la lotta di liberazione (Rabaka, 2009). Ricordiamo che Cabral aveva approfondito lo studio del suo paese, grazie al lavoro di censimento che aveva svolto per la sua tesi di laurea in agricoltura; conosceva il territorio, gli usi e costumi, ed è solo a partire da questa consapevolezza antropologica che produce il suo pensiero.

Vediamo di passare a rassegna alcuni dei principi base del suo pensiero partendo dai concetti di unità, lotta e cultura. La lotta di liberazione di Capo Verde e della Guinea Bissau fu combattuta nella selve della Guinea Bissau, questo paese ha una composizione etnica molto eterogenea per lingue, culture e costumi: troviamo i fula, i mandinka, i balanta e i mandjako. Essi parlano lingue differenti ma il creolo è la lingua parlata dal 44% della popolazione e utilizzata per la comunicazione corrente, essa lega i due paesi Guinea e Capo Verde. La lingua creola è stata per la lotta di indipendenza lo strumento di comunicazione tra i due popoli, e le etnie stesse e la valorizzazione del sapere locale contro la lingua portoghese, parlata in Guinea solamente dal 14% della popolazione e simbolo del potere coloniale. Nonostante questo filo comunicativo e storico tra i due paesi valorizzato durante la lotta di indipendenza, esisteva ed esistono ancora grandi differenze tra Capo Verde e Guinea Bissau. Guardando al piano socioeconomico, i capoverdiani nella Guinea erano i commercianti soprattutto concentrati nella capitale e inseriti nel sistema coloniale; a livello legislativo i capoverdiani erano considerati cittadini dai portoghesi in seguito al disegno assimilazionista creato nell’arcipelago, mentre i guineani erano indigeni; a livello di alfabetizzazione e possibilità di ascesa, i capoverdiani erano privilegiati, perché impiegati come amministratori e commercianti nelle altre colonie. Nonostante queste differenze il discorso sull’unità nel progetto politico di Cabral aveva come obiettivo quello di trasformare un gruppo eterogeneo di persone in un congiunto, unito e definito detto nelle

103 parole di Cabral «qualsiasi siano le differenze è necessario essere un tutt’uno, per raggiungere un determinato obiettivo» (Cabral, 76) che era quello di lottare contro un unico nemico: il colonialismo portoghese e l’imperialismo. L’unità è un processo di costruzione dinamica, legato alla costruzione e fortificazione del partito PAIGC.

Nel raccolta di testi di Cabral “A arma da teoria: unidade e luta” la lotta appare come una metafora dove vita e lotta si confondono. La lotta è intesa come una condizione naturale a cui l’uomo è soggetto: “tutti sono in lotta, tutti lottano” (Cabral, ‘76). Le popolazioni africane hanno sempre reagito alla dominazione straniera con la resistenza, che è fondamentale elemento per riconoscere la lotta attuale, quella di “una forza nuova, il PAIGC che si oppone alla forza colonialista” attraverso una lotta armata rivoluzionaria di ispirazione marxista, nella quale la lotta di classe assume una nuova connotazione africana, contestualizzata nella realtà guineana. Nell’ideologia marxista le forze produttive sono la forza motore della storia; in ogni società storica è il livello di sviluppo delle forze produttive che crea le sovrastrutture culturali e cognitive, plasma la capacità di agire e reagire dei popoli. Secondo Cabral sono le società e le classi sociali escluse a svolgere il ruolo di forze agenti della storia, nella condizione di soggetti storici rivoluzionari. «Serve unità per combattere contro i colonialisti e lottare per raggiungere la nostra unità, per costruire la nostra terra, come nazione libera» (Cabral, ’76). L’elemento umano è la principale forza di reazione alle condizioni materiali di dominio e sfruttamento imperialista, allo stesso modo la cultura appare nella teoria di Cabral, come un’arma per combattere l’imperialismo e trasformare la società colonizzata. Il dominio imperialista nega il processo storico della società dominata, negando la sua storia e bloccando il suo processo di sviluppo culturale. La cultura è un elemento essenziale della storia di un popolo. Nell’opera notiamo come Freire sia illuminato dalla concezione della cultura di Cabral, che supera la concezione della liberazione del proletariato ma avvia un processo di ricerca e valorizzazione delle origine del sapere del popolo antecedente alla dominazione portoghese.

«Forse la cultura è la risultante di questa storia, come il fiore è la risultante di una pianta. Come la storia, o poiché è la storia, la cultura ha come base materiale il livello delle forze produttive e il modo di produzione. Essa immerge le sue radici nell’humus della realtà materiale del luogo nel quale di sviluppa e riflette la natura organica della società, potendo essere in parte influenzata da fattori esterni. Se la storia permette di conoscere la natura e l’estensione dei disequilibri dei conflitti (economici, politici e sociali) che caratterizzano l’evoluzione di una società, la cultura permette di sapere quali furono le sintesi dinamiche, elaborate e fissate dalla coscienza sociale per la soluzione di questi conflitti, in ogni tappa

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dell’evoluzione di questa società, alla ricerca della sopravvivenza e del progresso. La cultura è quindi espressione della natura organica di una determinata società con la sua realtà storica. La cultura essendo paragonata al seme del fiore, essa è in grado di influenzare (positivamente o negativamente) la fecondazione della storia. … Come succede con i fiori di una pianta, è nella cultura che risiede la capacità (o responsabilità) dell’elaborazione e della fecondazione dei semi che garantiscono la continuità della storia e, simultaneamente le prospettive dell’evoluzione e del progresso della società in questione». (Cabral, 1979, p. 224)

Cabral parte dalla premessa che indipendentemente dalle condizioni storiche e materiali, ogni società è portatrice e creatrice di cultura. L’esistenza della cultura africana è un fatto incontestabile, essa non è né superiore né inferiore rispetto ad altre culture; la cultura africana è parte del patrimonio dell’umanità e in questo senso si oppone alla idealistica convinzione Occidentale che vede il colonizzato come selvaggio e privo di cultura. La liberazione dall’oppressione straniera assumeva la dimensione «della creazione culturale nell’ambito stesso della società coloniale, precorrendo l’esperienza collettiva concreta acquistava il valore di un apprendistato di libertà». (De Andrade, 1974, p.112)

Nell’interpretazione del filosofo eritreo Serequeberhan, che nei suoi testi fa una critica all’eurocentrismo, si parte dal sapere indigeno secondo una prospettiva postcoloniale, affermando: «Cabral concorda già, quando afferma che bisogna respingere la visione imperiale europea, secondo cui: “In verità non c’è che una storia e in ciò che conta questa storia coincide con la nostra”. Respingendo tale visione eurocentrica, restrittiva e paralizzante possiamo quindi cogliere pienamente il significato della lotta anti-colonialista africana, vista come sforzo per rivendicare la propria storia, e possiamo altresì interpretare il colonialismo come una interruzione o un blocco della storicità del colonizzato» (Serequeberhan 2009). È proprio Cabral che afferma che non bisogna dimenticare la prospettiva storica dei più grandi eventi dell’umanità, né, nel rispetto dovuto a tutte le filosofie, bisogna dimenticare che il mondo è creazione dell’uomo. Il colonialismo può essere considerato come paralisi, deviazione,ostacolo alla storia di un popolo a favore dell’accelerazione dello sviluppo storico di altri popoli. La decisione da parte del popolo colonizzato di combattere la negazione del proprio processo storico è un fatto di cultura. La lotta di liberazione è perciò una prova del valore della cultura e della resistenza culturale africana, così come del potere di trasformazione che essa comporta. Il fattore culturale è nella sua teoria come una premessa indispensabile dell’atto politico della lotta.

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«Se combiniamo questi fattori inerenti alla lotta armata di liberazione con la pratica della democrazia, della critica e dell’autocritica, con la responsabilità crescente delle popolazioni nella gestione delle loro vite, con l’alfabetizzazione, la creazione di scuole e di assistenza sanitaria, la formazione degli operai, vedremo che la lotta di liberazione non è solo un fatto culturale ma un fattore di cultura». (Cabral, 1979, p. 152)

La cultura non è solo un elemento di resistenza alla dominazione coloniale, ma è anche l’origine stessa del movimento di contestazione. Anche Davidson ha voluto mettere in evidenza l’impatto decisivo di questa nuova cultura derivata dalla resistenza alla dominazione coloniale portoghese. Lo storico inglese sottolinea come l’espressione di questa cultura si trovava negli uomini e nelle donne che partecipavano alla lotta con consapevolezza della necessità del processo di liberazione nazionale. Inoltre, a suo avviso, l’adesione sempre crescente della popolazione alla lotta dimostra che la trasformazione culturale agiva sul principio basilare autentico rispetto alla politica coloniale: “Lascia che il popolo faccia da sé”. Quello che lo storico intende dimostrare è che l’avvio di questa nuova cultura era connesso allo scopo centrale della creazione di zone liberate e della loro autonomia organizzazione democratica (Davidson, 1969). Il P.A.I.G.C. adottò una strategia innovatrice che gli permise di organizzare e di gestire, a partire del 1963, le zone liberate del paese. Esse erano degli spazi autogestiti dalle popolazioni locali sul territorio Guineense dal 1964, dove i membri del partito potevano lavorare e preparare la lotta direttamente connessi con la popolazione. Era il partito che gestiva le attività politiche, economiche, sociali e culturali che nascevano in quel contesto. La struttura organizzativa messa in atto e il carattere democratico del loro funzionamento favorì la mobilitazione delle masse rurali, elemento fondamentale nello sviluppo della lotta armata. Vi fu fin dall’inizio del processo una stretta dipendenza degli organi inferiori rispetto a quelli superiori; e d’altra parte una forte interrelazione tra loro. Un esempio di tale pianificazione, la sezione era formata dall’insieme dei gruppi, la zona era formata dall’insieme delle sezioni e la regione era formata dall’insieme delle zone. Questo tipo di organizzazione rese più semplice il funzionamento delle strutture e la comunicazione tra gli organi. Tra gli obiettivi del Partito vi fu l’emancipazione e la democratizzazione delle popolazioni africane in Guinea e a Capo Verde. Occorreva innanzitutto controllare il territorio, controllare le popolazioni che vi abitavano e creare le strutture politiche, amministrative e sociali che avrebbero dovuto essere alla base della formazione del nuovo Stato. Nelle regioni liberate, il P.A.I.G.C. dovette assumere, anche se a titolo transitorio, il ruolo di Stato in un contesto di indipendenza. Il popolo venne quindi coinvolto nella determinazione della nuova cultura, la

106 quale non si propose mai come affermazione o astrazione teorica, ma era il risultato di una particolare pratica ed esperienza sul campo. Il superamento del concetto di guerra di liberazione è stato proprio quella di andare oltre alla violenza con lo scopo di sviluppare una lotta fondamentale politica, la quale opera al fine di ottenere pacificamente vantaggi sociali. Costruire la rivoluzione mentre si combatte è la concretizzazione di conquiste sociali come l’auto-organizzazione dal basso; tale esempio rivela sia il carattere rivoluzionario del processo di liberazione, sia la solida strada che l’opera politica di Cabral voleva aprire verso un vero sviluppo. L’alfabetizzazione era una questione cruciale per il paese dato che il paese era composto da un 95% di analfabeti, le scuole e la pedagogia vennero quindi considerate lo spazio primario ed essenziale per la costruzione teorica, politica, educativa della lotta. In un estratto di dialogo tra Cabral e un compagno di lotta si comprende l’importanza dell’aspetto educazionale nella lotta di indipendenza.

«Cabral: “devo ritirare duecento di voi dal fronte di lotta, perché andiate a studiare e capacitarvi, in modo che possiate lavorare come professori nelle zone liberate”. Allora un compagno di Cabral risponde: “Beh, manderai altri sostituti al fronte, oppure rimanderemo questa questione al post indipendenza?” Cabral: “Ecco è qui che sbagli!” L’altro risponde: “noi non possiamo perdere questa guerra”. Cabral conclude: “è esattamente per non perdere la guerra, che io ho bisogno di formare duecento di voi per diventare professori”.» (Freire, 85. p.8)

La creazione dell’autentica cultura nazionale capoverdiana e guineense poteva avvenire, secondo Cabral, solo ponendosi come culture antiautoritarie e rivoluzionarie. Con questo proposito identifica cinque obiettivi della resistenza culturale:

- Lo sviluppo di una cultura popolare e di tutti i valori culturali positivi ed autoctoni;

- Lo sviluppo di una cultura nazionale basata sulla storia e sulle conquiste della propria lotta;

- L’elevazione costante della coscienza politica e morale del popolo;

- Lo sviluppo di una cultura scientifica, tecnica e tecnologica, compatibile con le esigenze del progresso;

- Lo sviluppo basato sull’assimilazione critica di una cultura universale indirizzata alla progressiva interazione del mondo reale e nelle prospettive della sua evoluzione;

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- L’elevazione costante e generalizzata dei sentimenti di umanesimo, solidarietà, rispetto e dedizione disinteressata alla persona umana.

Nel libro di Freire, Cartas a Guinè-Bissau, troviamo una visione dinamica delle attività e degli aspetti sviluppati nella Guinea liberata per quanto riguarda la creazione di una nuova pratica educativa, opposta ai valori di dominazione del sistema coloniale portoghese. La Guinea non viene costruita da zero, ma ricostruita; essa infatti rielabora le sue fonti culturali e storiche, riparte da qualcosa di suo, dall’anima del suo popolo che la violenza coloniale non ha potuto distruggere. Il pedagogo brasiliano riferisce che la trasformazione culturale operata dal PAIGC è stata compiuta tanto a livello strutturale, con la costruzione di scuole e la formazione di professori, quanto a livello ideologico, combattendo l’alienazione dell’ideologia coloniale con la riformulazione del programma di storia, geografia e lingua portoghese, la sostituzione dei testi di lettura e la pratica di un insegnamento popolare. La particolare attenzione per la costruzione di una nuova cultura e per la formazione di uomini e donne nuove di cui ci si era preoccupati durante la lotta di liberazione nazionale di cui parla Cabral, «um educador educando do seu povo»33, come lo chiama Freire, ricevono la conferma dello stesso nel corso della sua visita nella Guinea liberata, dove rimane colpito dagli sforzi di ricostruzione di un popolo nella maggior parte analfabeta dal punto di vista politico e culturale.

«Da quanto ho imparato dell’esperienza in Guinea, mi sembra che uno degli aspetti basilari del sistema di educazione costituitosi in questo paese è il richiamo indirizzato agli studenti, accanto all’indispensabile formazione scientifica e alla concomitante responsabilità sociale, al gusto per il lavoro libero come fonte di conoscenza nella produzione del socialmente necessario, il cameratismo autentico e non la composizione che l’individualismo genera. Ed è proponendosi questo compito che il Commissariato dell’Educazione contribuisce alla formazione di un uomo e una donna nuovi». (Freire, 1978)

Se da una parte il pensiero di Cabral ci ricorda le scuole di alfabetizzazione per i contadini brasiliani e la grande rivoluzione educativa in Brasile di Freire, in Cabral leggiamo un attenzione peculiare alla cultura, intesa come ritorno alle origini, e quindi attaccamento alla realtà e alle condizioni reali del paese, con un rispetto approfondito della sapienza popolare e della tradizione culturale guineense, e un elevato senso di militanza politica nella quale vita, educazione e lotta si confondono.

33 Traduzione: Un educatore educato dal suo popolo.

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4.2.2 Attualità di Cabral nell’esperienza dell’AP

Nell’attuale contesto della globalizzazione le sfide e le questioni di potere tra paesi sviluppati e Africa si ripropongono continuamente sotto una nuova veste, quella del neocolonialismo; fenomeno che già Cabral ed altri pensatori africani nell’epoca della lotta per l’indipendenza avevano predetto (Nkrumah, 2011). Il pericolo più grande che oggi l’Africa ci trova a fronteggiare spiega Nkrumah, è rappresentato dal neocolonialismo e dal suo strumento più potente la balcanizzazione: cioè la suddivisione mirata dell’Africa in una serie di stati piccoli e deboli attraverso l’imposizione di una sudditanza finanziaria e diplomatica. Le riflessioni, gli interrogativi e le prospettive annunciate nel pensiero di Cabral sono indispensabili per rintracciare quelle vie autentiche di emancipazione e di liberazione dell’Africa e soprattutto delle sue popolazioni che oggi come allora possono garantire una grande efficienza. Una di queste vie è quella della contraddizione e non di armonia (Alvez, 2010), l’unica a potersi rivelare come strumento efficace al ribaltamento dei rapporti sociali di dipendenza, e quindi a mettere in atto un meccanismo di reale trasformazione sociale. Il discorso sulla cultura proposto da Cabral può divenire uno strumento per la gestione e il ribaltamento del potere, volto a favorire il diritto e il dovere di riflettere, criticare e ricercare i mezzi necessari allo sviluppo di processi che conducono alla materializzazione delle trasformazioni e scelte sociali. Questa capacità implica l’esercizio di analisi e la conoscenza dei problemi reali delle popolazioni e quindi anche della capacità di controllo delle decisioni prese dai dirigenti politici. Insomma, come ci spiega la psicologa e scrittrice maliana Traorè, il lavoro da fare è quello di riannodare i fili della speranza e dell’utopia che animavano l’Africa negli anni ‘60 per ricercare una «nuova coscienza storica e politica» (Traorè, 2002) basata sulla ricerca di un modello di sviluppo sostenibile per l’Africa direttamente attraverso i suoi stessi popoli. Ecco un estratto dal discorso del presidente dell’AP e MKA che ci aiuta a comprendere in che modo il pensiero azione di Cabral è interiorizzato e portato avanti dagli attivisti nelle loro azioni politiche e sociali nella scena attuale della città di Praia.

«Sono un rivoluzionario africano, lotto per le idee di liberazione e per fomentare la coscienza del popolo capoverdiano contro il neocolonialismo. Cabral è il mio ispiratore. Tutti i rivoluzionari africani sono stati uccisi, uccisi da un sistema, che voleva che l’Europa continuasse a essere padrona dell’Africa, prima con la politica coloniale, ora con le imprese e le multinazionali. Se non era così le idee di solidarietà e associativismo erano ben impiantate nel paese, si sarebbe potuto contare sulle proprie risorse di produzione agricola e pesca e sulle proprie risorse educative. Staremmo pensando quindi ad uno sviluppo legato

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al contesto, al di fuori di prodotti copy paste. Stiamo parlando di una nuova fase della lotta a favore di una popolazione carente ed emarginata, senza necessità di protagonismo e senza sfoggiare la ricchezza, come i funzionari stanno facendo adesso, la nostra élite che vive la vita all’europea, che vende il nostro paese per arricchirsi. Stiamo parlando di opporci ad investimenti stranieri come quelli che stanno succedendo nelle isole di Sal e Boavista, e della nuova costruzione del Casinò da parte di un’impresa cinese a Gamboa. La nostra terra non è in vendita! Capo Verde non può diventare centro di investimenti stranieri, senza che il popolo possa beneficiare di questi accordi. Non ci bastano i 100 euro che le empregadas possono guadagnare pulendo le scale del casinò! […] Lavoro da dieci anni nella comunità di Achada Grande Frente a fianco di giovani, pescatori e donne sole, abbiamo provato diverse strategie, prima ci siamo affidati al partito, ma questo ci ha ingannato con false promesse; poi abbiamo provato con le cooperazioni internazionali, ma abbiamo capito che più soldi erano in ballo, meno ne arrivano al popolo, è l’ora di contare sulle nostre forze. Per questo abbiamo deciso di unire la militanza con l’associativismo, ma attenzione noi non siamo militanti del PAICV o dell’MPD, altrimenti ci riempirebbero le tasche durante le elezioni, e poi chi si è visto si è visto; noi siamo militanti africani, ci battiamo per il rispetto della situazione umana, del rispetto per la vita delle persone, dei giovani, dei bambini che sono nelle periferie, siamo contro l’ingiustizia sociale, siamo contro il consumismo e l’imperialismo, vogliamo proporre un modo di sviluppo in cui realmente le persone possano beneficiare ed arricchirsi umanamente e socialmente. Cabral ci ha insegnato tutto questo, lui è il nostro padre, è in lui che ci ispiriamo, come in altri lìder che si sono battuti per l’Africa. Ad Achada Grande Frente abbiamo cominciato una rivoluzione […]. (Red, 35 anni, fondatore del MKA e AP. Riunione di equipe, 2016)

La prima bandiera affissa dopo l’occupazione del Pilorinhu è stata quella di Cabral con la scritta unidade e luta34. Cabral rappresenta per il MKA e per l’AP un modello da seguire. Ho provato ad analizzare partendo dai dati raccolti nel processo di ricerca alcune categorie nelle quali si ripresenta l’immagine e l’ideologia di Cabral.

4.2.3 La bandiera di Cabral: Componente identitaria ed estetica

Gli attivisti dell’AP, hanno individuato una serie di elementi che diventano simboli dell’appartenenza al gruppo. All’abbigliamento hip hop dei ragazzi appartenenti ai gruppi thug si sostituiscono i dreadlocks, la kamuflada, tuta mimetica che ricorda la lotta armata e la sumbia, il berretto che usava Cabral. Questi elementi indicano la condizione dei giovani soldado, che significa l’assunzione del compromesso della lotta. Queste rappresentazioni di

34 Traduzione: Unità e lotta.

110 sé costituiscono per i giovani una fonte di prestigio personale ed un rafforzamento dell’autostima. Inoltre, gli attivisti, riscoprono modelli culturali che affiancano la musica rap al reggae, all’emblematica figura di Bob Marley, e ricreano un significato all’immagine di Cabral. L’immagine di Cabral è parte integrante del logo del MKA e le sue frasi e i suoi motti più famosi vengono utilizzati come slogan. L’elemento più interessante ed innovativo di questi nuovi modelli identitari intrapresi dagli attivisti è l’orientamento verso il continente e la storia africana. Ad una tradizione capoverdiana che da sempre ispira i propri canoni ai modelli europei o americani, il MKA oppone una prospettiva afrocentrica. Prendere come modello Cabral esprime il desiderio di proporre percorsi di costruzione identitaria che si basino sull’orgoglio dell’appartenenza africana, in una dichiarata tensione contro-egemonica. Questo processo comporta la rivalutazione della storia africana, che è stata negata dalla colonizzazione, in una prospettiva afrocentrica. La riscoperta di un passato prestigioso è accompagnata dalla rivalutazione di elementi estetici, che contraddicono i canoni del discorso dominante, ereditato dall’epoca coloniale. Infatti, ad una rappresentazione egemonica che individua la bellezza nella pigmentazione chiara della pelle e nel cabelo fino, gli attivisti contrappongono, per esempio, la valorizzazione del cabelo velho, spesso fatto crescere in lunghi dreadlock. I capelli diventano strumenti della trasformazione dello stigma in emblema: i caratteri corporei di una maggiore affiliazione con l’Africa da vettori di marginalizzazione, diventano elemento forte di prestigio ed orgoglio. La ricerca di una prospettiva afrocentrica si ritrova anche nelle scelte linguistiche operate dagli attivisti. Mentre i thug privilegiano l’appropriazione e l’utilizzo di termini inglesi, il MKA promuove una diffusione e valorizzazione della lingua creola. Il kriolo è la lingua che gestisce tutte le transazioni quotidiane a Capo Verde, tuttavia il portoghese resta la lingua ufficiale, soprattutto a livello scritto; ciò è dovuto al fatto che non esista, a livello nazionale, una regolamentazione ufficiale della scrittura in kriolo. Gli attivisti sono coscienti delle profonde implicazioni identitarie che vengono veicolate dalla lingua e dunque scelgono volontariamente di preferire il kriolo, utilizzandolo anche e soprattutto nella forma scritta su magliette , volantini, striscioni, pubblicazioni online.

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4.2.4 Nos Realidade, Finka Pè35

«“Nós avançamos para a nossa luta seguros da realidade da nossa terra (com os pés fincados na terra)

Significa che non è possibile fare una lotta, per definire che cosa sarà della nostra terra, senza conoscere veramente la nostra realtà e senza partire da questa realtà per fare la lotta. Per sviluppare la nostra lotta abbiamo considerato la realtà geografica, la sua realtà storica, la sua realtà etnica legata alla razza e alla cultura; la realtà economica, sociale e culturale». (Cabral, 1980, p.21)

La nostra realtà, afferma Cabral, è come tutte le altre realtà: ha dei lati positivi e altri negativi, ha delle forze e delle debolezze, dobbiamo considerarla e saperla interpretare, senza correre il rischio di riprodurre metodi, azioni ed ideologie lontane dalla nostra condizione reale. Questo pensiero ci porta ad una spaccatura con la visione universalistica di Freire, «può mantenere la sua efficacia euristica in maniera tale da essere assunta da parte degli educatori per criticare e paragonare le pratiche pedagogiche nel mondo» (Mc Laren, 2016, p.218); Freire, infatti, chiedeva ai suoi lettori di reinventare il messaggio di Cabral nel contesto delle loro lotte sociali. Ciò che si può mantenere, in ogni istanza di questo processo di reinvenzione, è la spinta etica inarrestabile e costante di Freire nei confronti della solidarietà e dell’utopismo. Altri autori notano che Freire non sia riuscito ad approfondire il tema dell’appartenenza etnica, della discriminazione razziale e di genere, che sono le componenti fondamentali per comprendere la società brasiliana, nella quale ha sviluppato i suoi lavori, mantenendosi su delle categorie generali di escluso ed oppresso. La motivazione che porta l’attivazione di giovani attivisti nella città di Praia non è l’altruismo, ma piuttosto l’indignazione verso le condizioni sociali, economiche e politiche in cui vivono e in cui versa la città di Praia e la profonda ingiustizia e disuguaglianza sociale che sperimentano quotidianamente.

«Il legame con la realtà e l’esperienza sono fondamentali per definire i passi e le azioni del processo di trasformazione locale». (Isabel, fondatrice AP, riunione equipe, 2016).

«Durante la ricerca abbiamo lavorato sulla narrazione e la riflessione condivisa per comprendere come la nostra condizione e le nostre vite potessero diventare uno strumento di conoscenza della realtà in cui viviamo, perché come Cabral ci spiega molto bene, quello che pensiamo nella testa è diverso da quello che c’è nella realtà». (Diario di bordo).

35 Letteralmente significa: con i piedi fissati a terra, è anche il nome che L’AP e il MKA ha voluto dare al secondo spazio occupato nella città di Praia dai gruppi.

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L’uomo è parte della realtà; sebbene il reale esista indipendentemente dalla volontà umana, diventando consapevole di ciò che gli sta intorno l’uomo può riuscire ad influenzare e trasformare il mondo circostante grazie all’espressione della propria coscienza e azione. Cabral nel suo libro Unidade e Luta, parla proprio di un processo di conoscenza e apprendimento dall’esperienza nella lotta di liberazione, racconta che all’inizio della lotta il partito non aveva pensato di coinvolgere i capi spirituali dei villaggi della Guinea, perché la lotta era stata pensata per l’ambiente urbano, senza riconoscere la realtà effettiva del paese. Il partito, continua Cabral, si è dovuto ricredere ed è solo grazie all’alleanza con la comunità locale rurale, e quindi anche ai suoi rappresentanti spirituali che nel suo interno erano riconosciuti che era stato possibile organizzare le zone liberate e avere la credibilità delle popolazioni. In questo caso l’assunzione di un organizzazione territoriale e comunitaria basata sull’etnia di appartenenza è stata fondamentale per il successo dell’intervento politico sociale del PAIGC. L’esperienza e il contesto assumono un ruolo centrale nel lavoro educativo del AP, educare è fare esperienza e trarre dall’esperienza gli elementi per comprendere la realtà; stare in situazione a lavorare a modificare la situazione con chi la vive e la fa. Nelle attività dell’AP, l’arte, la narrazione, il teatro, il video e la fotografia sono gli strumenti che i giovani che frequentano il Pilorinhu utilizzano per rappresentare e riflettere sulla propria condizione, sulla realtà del quartiere e di quello che succede giorno per giorno. Il gruppo di pari e l’equipe di lavoro, è il mezzo privilegiato per condividere queste riflessioni e per prendere delle decisioni legate all’azione. Quando i concetti e i prodotti artistici sono condivisi, la fase successiva è la comunicazione e la diffusione sulle reti sociali. Molto spesso il Pilorinhu si è scontrato con le politiche e i piani sociali costruiti in ambiente istituzionali, che non potevano essere riproducibili nelle comunità per mancanza di compatibilità con la realtà locale. L’obiettivo di AP è quello di utilizzare tutti gli strumenti e le conoscenze possibili in modo da creare un “osservatorio della comunità”, uno spazio mediatico e riflessivo dove riconoscere bisogni, necessità, ma anche risorse e privilegi delle comunità periferiche. Per riuscire in questo processo sono impiegati diversi strumenti: le riunioni comunitarie,

Il lavoro educativo territoriale, nella scelta del campo di azione, dei contenuti e degli obiettivi, è sempre attuale, non può fare a meno di confrontarsi con il tempo presente. Lo è perché si colloca e prende forma nell’ambiente sociale di vita delle persone, cioè in quel territorio (organizzazione di tempi e luoghi, sistema di relazioni, reticolo di accadimenti educativi) in cui le rapide e incisive modificazioni degli assetti economici, sociali e culturali

113 della contemporaneità si manifestano minutamente incidendo, direttamente e in tutta la loro contraddittorietà, sulla vita delle persone.

4.2.5 Occupazione e riappropriazione degli spazi pubblici

L’operato dell’AP non si riduce a un piano di produzione discorsiva, ma comprende un numero significativo di pratiche concrete. Queste pratiche non si inseriscono in quello che tradizionalmente è considerato il settore politico, ma fanno parte del livello intra-politico individuato da Scott, definito «cemento culturale e strutturale delle azioni politiche visibili» (Scott, 2000, p.218). Le pratiche di resistenza e i discorsi di rivendicazione sociale si rinforzano reciprocamente. Scott critica le teorie della valvola di sfogo, che vedono in queste pratiche e discorsi elementi che assorbono la frustrazione e dunque il potenziale di rivolta dei dominati, rafforzando lo status quo del sistema. Al contrario l’analisi dell’autore evidenzia come tali elementi siano fattori imprescindibili per la preparazione a un’effettiva insubordinazione dichiarata alle relazioni di potere. Nel caso degli attivisti la questione è più complessa, in quanto in un paese democratico come Capo Verde la stessa retorica di riconoscimento dei diritti umani occulta la negazione pratica degli stessi in virtù di una dominazione economica e simbolica dell’élite. Le attività degli attivisti possono dunque essere considerate pratiche di resistenza operanti a livello intra-politico, che si oppongono tanto alle condizioni sociali prodotte dalla forte disuguaglianza economica, quanto al discorso dominante che criminalizza e stigmatizza la popolazione povera vittima di questa stessa disuguaglianza (Stefani, 2014). Tra le pratiche attuate ritroviamo principalmente momenti di formazione, campagne di pulizia, organizzazione di eventi, servizi informali e occupazioni di luoghi abbandonati. I momenti di formazione si basano sulla mobilizzazione dei vari attori coinvolti nel MKA, in un processo di condivisione delle risorse personali secondo una prospettiva che a Capo Verde viene popolarmente definita di junta mão, che letteralmente significa “unire le mani”, nel senso di unire le forze, aiutarsi reciprocamente condividendo le capacità di ognuno. All’interno del Pilorinhu si svolgevano corsi di circo e animazione, tai chi, capoeira per bambini, danza, francese, italiano, percussioni e falegnameria. Ogni corso era tenuto da un soggetto membro della Korrenti, che sceglieva autonomamente verso che target indirizzare la propria formazione, con che cadenza settimanale e in quali orari. Le lezioni di francese erano seguite da un gruppo di bambini del quartiere; il corso di italiano, gestito da me, da giovani intorno ai vent’anni; le lezioni di Tai

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Chi, che avvenivano all’alba nel campo da calcio vicino al Pilorinhu, erano frequentate principalmente dalle donne del quartiere. A queste formazioni si accompagnava la creazione di alcuni servizi, tra cui l’unica biblioteca presente nel quartiere. A partire dal mese di Giugno una giovanissima psicologa capoverdiana si è offerta di organizzare un servizio di ascolto e accompagnamento psicologico all’interno della struttura. Il Pilorinhu offriva a un artigiano guineense la possibilità di fruire dello spazio come ambiente di lavoro in cui realizzare le sue sculture su legno. Lo spazio inoltre ha ospitato una serie di eventi, tra cui una fiera dell’artigianato locale, un contest di musica rap e varie feste per bambini nelle ricorrenze di Natale e di altre date importanti a livello nazionale. Incorporando i frutti dell’esperienza di intervento sociale, l’AP intende trasformare il Pilorinhu in un centro dinamico all’interno del quartiere, culturalmente e socialmente attivo. Tale obiettivo concreto si oppone diametralmente alla gerarchizzazione territoriale esistente nella capitale, che prevede la localizzazione degli eventi e dei luoghi di interesse culturale nei pochi quartieri benestanti, in quanto i quartieri popolari sono considerati off-limits dalla maggior parte degli appartenenti all’élite praiense. La proposta di decentramento degli attivisti intende dunque riqualificare le zone stigmatizzate della città, attraverso un intervento che coinvolge attivamente l’intera comunità. Il Pilorinhu è di tutti, è geral, luogo che è ritornato ad essere uno spazio effettivamente pubblico e vivibile grazie all’occupazione messa in atto dagli attivisti. L’occupazione del Pilorinhu ha segnato la fondazione del Movimento di Ativitzas e ha inaugurato una serie di altre occupazioni che sono sorte o si stanno organizzando sul territorio di Praia. Le campagne organizzate dagli attivisti consistono nella mobilizzazione di un consistente gruppo di persone appartenenti al quartiere durante un’intera giornata nell’arco della quale si ripulisce dai rifiuti una zona selezionata del bairro. Questa strategia ha l’intento di formare un coinvolgimento attivo e una responsabilizzazione dei residenti verso il proprio quartiere. Le campanhas de limpeza rappresentano un veicolo per la promozione di un’immagine positiva del quartiere marginalizzato e dei suoi residenti e costituiscono uno strumento di sviluppo sociale promosso dal basso, in un’ottica bottom-up. Gli attivisti e i residenti locali, relegati dalle dinamiche politiche al ruolo di puro bacino elettorale, tornano ad appropriarsi del proprio spazio di vita, riscoprendosi portatori di un’agency che è loro negata dal discorso dominante. Una volta ripulito, il Pilorinhu è diventato la sede effettiva delle azioni del Movimento; alcuni membri della Korrenti sono andati a vivere materialmente dentro la struttura, con l’obiettivo di ottimizzarne la gestione e prevenire eventuali problemi. In realtà, molti dei ragazzi che vivono nella struttura hanno effettivi problemi a livello

115 abitativo: sono per lo più giovani che per diversi motivi hanno lasciato la famiglia d’origine, stanziata in quartieri, città o isole diverse, ma al tempo stesso, in mancanza di un lavoro, non hanno la possibilità di affittare una stanza. Il MKA offre a questi giovani la possibilità di vivere all’interno della struttura e di dedicarsi alla lotta in cambio di vitto e alloggio. Il coinvolgimento nella lotta può variare a seconda degli individui: due dei residenti, per esempio, erano i responsabili rispettivamente del corso di Capoeira e del gruppo di Batukada della Korrenti. Questo aspetto è particolarmente importante rispetto all’efficacia dell’adesione all’attivismo dal punto di vista economico. Molti giovani incontravano nelle bande urbane una risposta efficace rispetto alle proprie difficili condizioni economiche: i furti, lo spaccio e altre attività illecite compiute con il sostegno delle gangs costituivano un reddito sufficiente per mantenere condizioni di vita almeno minimamente dignitose. La maggior parte degli attivisti non sono altro che i giovani che fino a poco tempo erano coinvolti nel fenomeno delle gangs, o che comunque condividono con i thugs problemi di ristrettezza economica e mancanza di prospettive. Per i residenti nel Pilorinhu, dunque, l’attivismo rappresenta una soluzione efficace sia dal punto di vista ideologico e motivazionale sia dal punto di vista materiale. La struttura tuttavia accoglie un numero limitato di giovani, cinque ragazzi per volta; a questo proposito più volte mi è capitato di cogliere le critiche e il sentimento di insoddisfazione dei giovani membri della Korrenti, poiché si aspettavano di ritrovare una risposta alle proprie necessità materiali, non soltanto risposte a livello di costruzione identitaria e sentimento di appartenenza. Il discorso proposto dagli attivisti riguarda infatti il carattere originario di tali strutture che dovevano essere destinate a un utilizzo pubblico. A fronte dell’abbandono e del processo di degradazione a cui questi edifici sono andati incontro, gli attivisti rivendicano il diritto di prenderne possesso e riqualificarli rendendoli nuovamente spazi al servizio della collettività.

4.2.6 Intuizione e sapienza popolare

«Per me o camarada Cabral era un profeta, non perchè fosse un matto ... il profeta o chi fa profezie è chi a causa del vivere intenso dell’oggi, indovina il domani.»

Freire aggiunge: «conoscere è diverso da indovinare, è la prassi ingarbugliata nell’oggi che lo fa, comprendendo il passato, prevedere il futuro, perché lui sa che il futuro si fa nell’oggi che si trasforma». (Freire, ’85, pag. 11)

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Cabral si riferisce alla sapienza tradizionale come una conoscenza fondamentale per comprendere e pensare la lotta, è l’alleanza con essa che può portare al progresso. Parlando di ritorno alle origini Cabral fa riferimento ad un operazione di pacificazione con la tradizione etnica culturale di appartenenza che il regime coloniale ha tentato di denigrare e distruggere, dimostrando di avere grande rispetto e capacità di ascolto del contesto e riflessione sull’azione. Tentare un riferimento alle origini nel contesto capoverdiano è un operazione alquanto difficile dato che il meticciato progettato dai colonizzatori ha mescolato popoli, culture e identità. L’africanità è molto presente nei discorsi dei giovani di Capo Verde, tuttavia è considerata un’immagine stereotipata ed idilliaca, alla quale si collegano leggende e credenze popolari che vengono tramandate attraverso il sapere orale delle vecchie generazioni. Nonostante questa reticenza di fondo, i lìder del MKA hanno sponsorizzato il tentativo di avvicinarsi alla tradizione e riscoprire significati e simboli della tradizione, ciò si è materializzato nel continuo richiamo alla tradizione della e alle leggende sulla comunità.

«La nostra ricerca costante è trovare l’Africa dentro di noi, con essa noi rivendichiamo la nostra appartenenza. Qualcosa che ci è stato tolto». (leader, MKA)

Nel testo Pensare per meglio agire, Cabral riferisce l’importanza della valutazione, osservazione e riflessione per poter ottenere successo nella rivoluzione. Si tratta di un processo continuo di riflessione sull’azione e comprensione della migliore strategia per avanzare grazie al quale si dice che Cabral riuscisse a vedere lontano e prevedere quello che sarebbe successo.

Il discorso sull’intuizione e sulla sapienza popolare è un argomento molto affrontato dal fondatore del MKA e AP; quando egli mi racconta la sua storia mi parla della vocazione; del dono di prevedere gli eventi prima che succedano che gli era stato tramandato dalla madre; del sentire e leggere il significato dei simboli che avvengono nel quotidiano della rivoluzione. Molto spesso il gruppo e l’associazione si affidano proprio a questo intuito per prendere decisioni; in alternativa vengono ricercati consigli e suggerimenti interagendo con i personaggi tradizionali di riferimento della comunità.

4.3 TERRITORIO: IDENTITA’ ED APPARTENENZE. Sostare nelle frontiere, la possibile mediazione comunitaria.

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«Ami è ka fidjo di pedra, non sono figlio di una pietra Tudo alguem sabe onde ken nasci, tutti sanno dove sono nato, A mi è fidju de quenha, tutti sanno di chi sono figlio, Ondi ken cria. tutti sanno dove sono cresciuto. Sen bai pa mau caminho Se ho intrapreso un cammino cattivo Ѐ pamodi influença de sistema bairro. è perchè sono stato influenzato dal sistema nel quartiere. Gossi nsta lì ta da nha contributo pa luta, Adesso sono qui per dare il mio contributo alla lotta, Pa comunidade. Per la comunità.» (Marcos, 19 anni, Attivista Spazio Finka Pè, Moderatore nella riunione comunitaria, Lem Ferreira, 28 marzo 2016)

La riunione comunitaria del 28 marzo 2016, venne indetta dal gruppo organizzativo dei ragazzi dello spazio Finka Pè per discutere e riflettere sul lavoro svolto e per coinvolgere la comunità locale nel ripensare azioni per dare forza al processo di sviluppo locale messo in atto da una ventina di giovani del quartiere di Lem Ferreira, ex appartenenti a bande e altri volontari. L’associazione Pilorinhu con la Korrente de Ativiztaz, nel 2015, aveva infatti deciso di intraprendere un’operazione di estensione delle attività al quartiere limitrofo di Lem Ferreira, attraverso l’occupazione dello spazio Finka Pè, un antico balneario andato in disuso e abbandonato a sé stesso dagli anni ‘90. L’obiettivo era quello di esportare il modello costruito e praticato ad Achada Grande Frente, nel Pilorinhu, verso altre comunità per creare un movimento più forte di mutualità, collaborazione e coscientizzazione politica tra comunità periferiche, in modo da promuovere una rete di interventi comunitari con un ideologia condivisa. Agendo attraverso l’apertura del transito tra comunità territoriali, la tregua tra gruppi rivali e la mediazione comunitaria era quindi stato attivato un dispositivo di mediazione36 con il coinvolgimento attivo dei lìder delle bande e giovani del quartiere di Lem Ferreira e personalità attive socialmente come lìder comunitari e altri. Il maggior fautore di questo intervento era il presidente dell’associazione Pilorinhu e fondatore della Korrente de Ativistas, João Josè Tavares Monteiro. Proprio lui aveva cominciato dal 2010, con la sua ricerca sul campo in sociologia urbana e con uno stage presso la prigione centrale, un percorso di mediazione per creare accordi e rete con lìder comunitari e giovanili nella città. Il fine ultimo era fin dall’inizio quello di programmare un azione unitaria di promozione della pace tra gruppi rivali e giustizia sociale dal basso nella capitale capoverdiana. Nel 2012 era stato l’anno dei Parlamentu de Ghetto: riunioni svolte mensilmente in diversi quartieri della capitale, che avevano come obiettivo quello di riflettere sulla sicurezza urbana, le frontiere che si erano create tra i

36 Nell’accezione messa in pratica nel Centre George Devereux dell’Università di Paris VIII. Il dispositivo di mediazione permette l’inserimento di differenti gruppi in uno spazio. Il dispositivo attiva una ricerca che si coinvolge a più livelli: dei contenuti delle eziologie, delle tecniche e dei metodi e dell’efficacia del dispositivo stesso. Si configura come un contenitore di un processo di analisi informativa che modifica il pensiero che si costruisce intorno alla terapia o alla pratica in questo caso. Innesca un procedimento di causalità. (Cima R., 2009, pag. 157)

118 quartieri della città, lavorare sulla promozione della pace nello spazio pubblico. L’unica regola imposta era che tutti dovevano esprimere la propria opinione e parlare liberamente, dato i partecipanti erano esclusivamente lìder di bande (anche rivali), attivisti e giovani che erano stati attivati localmente. Questi parlamenti giovanili erano spazi informali di discussione e dialogo che erano stati promossi dai lìder comunitari, attivisti e volontari comunitari; l’appoggio organizzativo ed economico veniva da diverse realtà della società civile che erano attive sul tema della violenza giovanile in una prospettiva comunitaria nella città di Praia: Progetto Simenti, Espaço Aberto Safende, Comunità San Egidio e il gruppo di resistenza afrocentrica di Jorge Andrade. L’incontro nel quartiere veniva sempre anticipato da un sopralluogo del team del Parlamento per comprendere la effettiva possibilità di svolgere l’attività, fondamentale quindi erano la riunioni preliminari con i lìder delle bande e la mediazione. Solo dopo queste accortezze si poteva procedere all’organizzazione del Parlamento, quindi si stabiliva lo spazio, il tema dell’incontro e la logistica, soprattutto perché all’incontro erano presenti giovani, attivisti di altre comunità. Nel 2012/13 sono stati realizzati 7 incontri in 7 comunità diverse della città di Praia, creando sinergie e uno spazio per l’assunzione di responsabilità e coscienza da parte dei giovani. Il tentativo può essere considerato un intervento di mediazione comunitaria. Quando si parla di mediazione comunitaria, si fa riferimento al conflitto come sfida ecologica, l’attenzione è posta sul potenziale di apprendimento e sulle possibilità di evoluzione personale in relazione all’ambiente (Giulini, 1995). Questo tipo di mediazione nasce a fine anni ‘90 grazie alle esperienze di San Francisco, del Community Board Programme,; si sviluppa nei settori più a rischio della città nei quali l’obiettivo è quello della ricomposizione della comunicazione e delle relazioni in un ottica comunitaria. L’esperienza assunse i connotati di un movimento del tutto indipendente dai poteri pubblici e specialmente giuridici, con l’obiettivo di restituire alla comunità funzioni che, se attribuite a specialisti esterni, vengono in un qualche modo a limitare anche la possibilità di funzionamento autonomo della comunità stessa. I punti fondamentali delle mediazione indicati da Giulini sono indicati di seguito: il conflitto va analizzato e si deve ricercare l’aspetto positivo; se si favoriscono manifestazioni pacifiche in seno alla comunità, esse, di rimbalzo, riducono le tensioni esistenti ed aumentano la possibilità di trovare una soluzione reale in un vero e proprio processo autoriproducente; il rapporto tra individuo e comunità è tracciato dall’accettazione di precise responsabilità riguardi ai propri conflitti; la soluzione volontaria di un conflitto incoraggia lo spirito di cooperazione nella comunità. L’esperienza francese guidata da Jean- Claude Gillet ha messo poi l’accento su l’importanza di valorizzare le energie comunitarie

119 di base, capaci di dare qualità sociale al territorio anche nelle condizioni di un suo maggiore degradi e marginalità (Scatolero, 1992). L’accento viene quindi dato alla ricostruzione di luoghi di socializzazione, soprattutto nei quartieri svantaggiati. Sul piano operativo lo sforzo è diretto verso un’attenta osservazione del conflitto non in astratto ma nella sua fenomenologia quotidiana, cioè agli aspetti strettamente legati all’ambiente. La mediazione comunitaria è un genere di intervento chiamato in causa per far fronte ad una tensione sociale in aumento, essa è quasi una scommessa o un tentativo informale da tentare in una società che si sta dimostrando sempre più conflittuale (Besemer C.,1999).

«Non si inventa praticamente nulla: si valorizzano le potenzialità escluse ma non eliminate e in questo senso la sapienza del sistema sociale è sicuramente più avanti della possibilità di formalizzazione che qualsiasi scienza possiede anche la più agguerrita e la più illuminata. Si tratta di un sapere sulla società nella società. Esattamente come la sapienza dei rimedi che si possono risolvere dentro i conflitti stessi» (Eligio Resta, 2006).

Quello che succedeva nel Parlamento era l’avvicinamento pacifico tra le varie comunità e tra le varie forze attive all’interno delle singole comunità, come nell’esempio di Achada Gradne Frente e Lem Ferreira e la tregua tra gruppi rivali. A Praia la mediazione comunitaria era rivestita di un’importanza peculiare poiché veniva messa in funzione dagli stessi attori comunitari attraverso un sistema informale di autorganizzazione, decentralizzato. I tentativi da parte del governo e delle istituzioni di entrare in questo spazio hanno creato spaesamento e rottura nei gruppi e negli interventi, creando fratture nel gruppo organizzativo e perdita di fiducia da parte dei partecipanti che nell’informalità e nella identificazione di risorse interne al sistema comunitario avevamo trovato un efficace spazio di riconciliazione. I giovani, all’interno di questi Parlamenti liberi da influenze statali, potevano dar vita a riflessioni sulle questioni strutturali legate alla violenza e alla difficile realtà che i giovani vivevano giorno per giorno. Vediamo di analizzare nello specifico il conflitto nei quartieri interessati dalla mia ricerca: Lem Ferreira ed Achada Grande Frente, le quali sono due comunità limitrofe. Storicamente queste due comunità hanno vissuto dei conflitti territoriali legati alla rivalità che sopravvivono nei racconti degli anziani e della popolazione adulta, le quali possono raccontare di manifestazioni molto antiche e brutali di rivalità e odio tra le comunità che però si sono accentuate durante l’ultimo ventennio, probabilmente a seguito di scontri tra bande giovanili. Il possesso del territorio è uno dei motivi principali di identificazione delle bande. Sono molte le interviste che ho raccolto durante le quali si racconta di giovani appartenenti a determinate bande i quali sono stati

120 minacciati di morte, picchiati o uccisi solo per aver messo piede in un territorio che non è loro. Spesso si supera la frontiera con un obiettivo specifico: quello di poi guerra, ovvero fare un agguato a membri di gang avversarie, o per ricercare vendetta. In questo ultimo caso, superare le frontiere diventa in questo contesto di conflitto urbano un vero e proprio atto politico, una scelta che segue una finalità di superamento autonomo, locale, del conflitto. Dato che per i giovani appartenenti a bande o che sono vicini a loro, il principale segno identificativo di una banda è il territorio, e le frontiere sono un ostacolo per lo svolgimento di una vita normale.

« “A bo è de onde? Di dove sei?” – chiedono due ragazzi di Safende a Michel, originario di Vilanova, mentre sta percorrendo la strada per comperare degli attrezzi che servivano per la costruzione delle boka velhu, un tipologia di arma confezionata nei quartieri e venduta per un valore di 1500/2000 escudos (equivalente a 20 euro). Lui risponde, mentendo “Safende”. Anche se con un po’ di dubbi, finalmente un conoscente lo difende, confermando la sua bugia. Lo lasciano proseguire e subito lui scappa; infatti arriva dai guardiani un ragazzino più piccolo che riferisce che Michel non era di Safende. Ormai era troppo tardi e lui era già scappato» (storia di vita, Michel)

È importante qui sottolineare che le bande giovanili sono generalmente associate a specifiche aree del territorio urbano, producendo identità e appartenenze basate su un violento antagonismo con altri gruppi simili basati in altre aree territoriali. La dimensione identitaria e gli elementi semantici e stilistici diventano centrali nella produzione di questi gruppi e secondariamente gli elementi economici, che non sempre sono presenti (Bordonaro, 2013).

Il processo di mediazione proposto dall’associazione Pilorinhu era molto ambizioso, ma delicato, perché si proponeva di superare le frontiere tra i due quartieri. L’obiettivo era riuscito perché da quando si era proclamata una tregua nel conflitto tra gang, era stato aperto lo spazio Finka Pè e i ragazzi potevano transitare liberamente tra i due territori, contribuendo unitariamente ai lavori nelle due comunità. Alla riunione comunitaria indetta dal gruppo organizzativo del quartiere di Lem Ferreira, erano presenti alcuni rappresentanti della comunità locale: educatrici della scuola, presidenti di associazioni locali, giovani attivisti della comunità, vicini e mamme dei bambini che durante il giorno fluivano delle attività ricreative offerte dallo spazio e l’equipe del Pilorinhu di attivisti di Achada Grande Frente. Il principale moderatore della riunione era Marcos, un ragazzo di 19 anni nato e cresciuto a Lem Ferreira, che dopo un passato burrascoso con la giustizia, lìder di una banda, passato dalla prigione, diventa attivista e si dà l’obbiettivo di aprire un piccolo

121 ristorante nello spazio Finka Pè per promuovere attività comunitarie e trovare un modo per sostenere la sua futura famiglia. Le prime parole che ha scandito alla riunione, riportate all’inizio di questo capitolo, sono state analizzate partendo dalle definizioni di identità ed appartenenza.

«L’identità è per le persone la fonte di senso e dell’esperienza. Non si ha notizia di genti prive di nome, idioma e cultura, in cui non esiste criterio per distinguere tra sé e l’altro, tra noi e loro. La conoscenza di sé – che è sempre in costruzione, per quanto simile possa essere ad una scoperta – non è mai del tutto separabile dall’aspirazione ad essere riconosciuti dagli altri in determinati modi» (Calhoun, 1994). Partendo da ciò con il termine identità si denota un processo di costruzione di significato fondato su un attributo culturale, o su una serie di attributi culturali in relazione tra loro, che assume un’importanza prioritaria rispetto ad altre fonti di senso. Le identità sono fonte di senso per gli attori e sono da questi costruite mediante un processo di identificazione e costruzione di senso di sé stesso. È facile concordare sul fatto che da un punto di vista sociologico, tutte le identità sono costruite. Esse si servono di materiali tratti dalla storia, dalla geografia, dalla biologia, dalle istituzioni produttive e riproduttive, dalla memoria collettiva, dalle fantasie personali, dagli apparati di potere e dalle rivendicazioni religiose, politiche. Tuttavia gli individui, i gruppi sociali e le società elaborano questi materiali e ne riorganizzano il senso secondo determinazioni sociali e progetti culturali che affondano le radici nelle strutture sociali e nei quadri di riferimento spaziali-temporali» (Castels, 2014).

Fare parte di una gang a Capo Verde non corrisponde ad una discontinuità storica/sociale e culturale, non è neppure una deformazione patologica o un’anomalia sociale; essa è una espressione estrema degli elementi propri della cultura del paese che ha a che fare con l’identità territoriale far parte di un quartiere, in questo caso di Lem Ferreira, e dell’idea di mascolinità, essere lìder di una banda, mentore di un progetto o di uno spazio sociale che a che fare con l’impronta patriarcale della società capoverdiana. Il ruolo maschile è fortemente legato al politico, allo spazio sociale pubblico e performativo (Stefani, 2012) mentre quello femminile, alla casa, alle cure domestiche. «Se nasci homi nsinal paplia kriolu, se nasci femea nsinal Avè Maria. Se nasce maschio insegnale a parlare kriolu, se nasce femmina insegnale a recitare Ave Maria». (Princezitu, musicista e compositore capoverdiano)

Marcos, nella presentazione che fa di sé stesso, si identifica con il quartiere dove è nato, cresciuto e dove la sua famiglia risiede in un identità costruita localmente. Tale costrutto psichico rispecchia una continuità con il passato e con la società tradizionale, la quale risale ad una costruzione spaziale e territoriale mirata alla divisione sociale nella quale la città di Praia si riconosce dal colonialismo al giorno d’oggi. L’identità personale è

122 rintracciabile soprattutto nell’appartenenza politica ad un partito, nella provenienza degli stessi abitanti e nelle reti che hanno favorito il processo di costruzione dell’identità in quel territorio. Lem Ferreira, a differenza di Achada Grande Frente, è un quartiere abitato da una popolazione di classe più alta; è probabile che la sua vicinanza al Plateau, il suo posizionamento e l’accesso immediato da una delle rotatorie principali e più transitate di Praia, nella strada che collega il centro con l’aeroporto, gli abbia concesso una situazione più importante ed eterogenea. Dentro il quartiere esistono però delle realtà di povertà e degrado urbano, soprattutto per quanto riguarda la popolazione dedita alle attività di pesca che vive nella encosta, pendio che collega Lem Ferreira ad Achada Grande Frente. Le case in questa zona, non sono collegate con le strade asfaltate, sono prevalentemente costruite in forma illegale e precaria; trovando in questa una continuità con Achada Grande Frente.

Marcos parla ancora del suo cammino cattivo per indicare la sua traiettoria di appartenenza ad una gang ed il suo passato in carcere. Sono però da sottolineare due precise parole del suo dialogo: la prima influenza e la seconda sistema.

Più volte nei discorsi con gli attivisti, è emerso il termine influencia juvenil. Questa categoria, prodotta dal discorso dominante del governo, ha un valore stigmatizzante che tende a colpevolizzare l’intera popolazione giovanile di bassa estrazione sociale. «Perché i giovani hanno tutti gli occhi chiusi. Il governo facendo così fa quello che vuole, non c’è evoluzione per noi! E i giovani non stanno vedendo questa cosa, sono tutti nell’influencia, non hanno visione!» (Attivista).

L’utilizzo che fanno gli attivisti di questo termine sembra essere un’appropriazione creativa, in cui la valenza stigmatizzante viene in parte manipolata. Infatti quando gli attivisti parlano di influencia, la riferiscono ad altri gruppi di giovani appartenenti ai loro contesti, identificandosi in una sorta di confronto negativo con loro, e rappresentandosi come gli unici agenti capaci di contrapporsi alla diffusione dell’influencia. Al contrario delle istituzioni, infatti, gli attivisti condividono la condizione di giovani marginali con i presunti soggetti vittima dell’influenza, ma, a differenza di questi, hanno gli occhi aperti, sono portatori della visione, e dunque si definiscono gli unici soggetti capaci di produrre un reale cambiamento nel quartiere. Inoltre la manipolazione creativa del concetto di influencia, ne ribalta il significato: mentre il discorso ufficiale diffonde tale termine per rinviare ad una dimensione puramente individuale le cause dell’adesione a gangs urbane, in una dinamica di colpevolizzazione delle vittime; al contrario tale definizione viene

123 utilizzata dagli attivisti sotto forma di denuncia degli effetti dell’egemonia ideologica, produttrice della disuguaglianza sociale da cui nascono le bande. Al tempo stesso il distanziamento che attuano rispetto ai giovani vittima dell’influencia sottolinea gli effetti delle dande si produzione di ulteriore marginalità sociale.

I cambiamenti che avvengono durante l’adolescenza sul piano fisico e intellettuale si accompagnano a rilevanti modificazioni dell’assetto sociale e personale. A livello sociale si notano delle trasformazioni nelle relazioni famigliari, nelle relazioni extrafamiliari, nel rapporto con i coetanei a livello di gruppo, a livello di relazioni diadiche come amicizie e rapporti sentimentali. Dal punto di vista psicologico l’adolescenza è caratterizzata dalla ricerca della propria identità, dei propri futuri valori e delle proprie ideologie di riferimento. Questi ambiti di sviluppo sociale sono interconnessi, non solo perché sono tutti inclusi nel contesto socioculturale più ampio, ma perché ciò che avviene nell’uno può avere diretta influenza sul ciò che accade nell’altro. Una delle manifestazioni ti tale interconnessione è il bisogno di autonomia; l’autoregolazione sul piano del comportamento si riflette nella capacità o volontà di gestire da sé aspetti della vita quotidiana. In questo schema vengono inseriti i comportamenti devianti, riprendendo il concetto di adolescenza come devianza potenziale (Eisenstadt, 1966), distanziandola dalla criminalità adulta. Gli adolescenti vivono infatti in una fase di transizione, in una dimensione socialmente irreale. In questa zona, essi sperimentano e si misurano con la realtà sociale altrui, al di fuori delle istituzioni coercitive come famiglie, scuola e formazione. La necessità di affermarsi a livello sociale e personale costituisce la struttura emozionale di fondo delle attitudini antisociali dei giovani. La cornice sociale è rintracciata nella cultura dei pari e nel mondo giovanile creato, che consente di vivere socialmente l’irreale. Böhnisch, nel suo testo Devianza e Violenza (2014), parla di equilibrio sociale quando esiste mediazione tra il gruppo e la società; se questo equilibrio è instabile, allora aumenta la tendenza al comportamento antisociale. In questo caso il gruppo serve come ambiente di riferimento esclusivo: appare come l’unico luogo dove vale quello che viene da dentro di sé ha ancora un valore. Il gruppo è fondamentale per l’adolescente perché è il luogo dove poter vivere e dimostrare socialmente l’unicità e l’importanza dell’essere giovane in contrapposizione alla società. Tutto ciò che il gruppo dà: la reciprocità, il riconoscimento, l’eccitazione, l’attività, succede dentro al gruppo. Esso è autosufficiente e non si interessa dei giudizi e le valutazione dell’ambiente sociale. Dal punto di vista psicoanalitico, sociologico e pedagogico il gruppo è un mezzo di regolazione tipico dell’età adolescenziale e giovanile, mediante il quale viene incanalata la

124 dinamica pulsionale, si sviluppa la differenziazione sociale e si affrontano le situazioni di transizione. Il gruppo è potenzialmente deviante perché è sempre collocato in una subcultura; è simbolo del distacco dalla famiglia, dal passaggio all’età adulta non strutturato o addirittura di un rifiuto alle norme. In questo senso il termine influenza, che abbiamo trovato nelle parole di Marcos, gioca un ruolo cruciale come comportamento di coping, legato alle condizioni create dentro il gruppo in risposta alle condizioni strutturali della società e in particolar modo della città di Praia e dalle culture globali incorporate. In questo senso possiamo notare come, storicamente, il discorso dell’appartenenza sia legato tanto alle logiche territoriali locali quanto all’influenza esterna delle culture giovanili globali di cui è testimonianza il linguaggio e il vestiario thug e la cultura hip hop e rap.

Sistema è un termine kriolu usato dai giovani per indicare, in maniera generale, tutte le istituzioni che promuovo l’esclusione, la corruzione e il blocco dei progetti di vita personali. Il sistema è molto criticato e il suo significato è legato alla coscienza da parte dei giovani dell’esistenza di una violenza strutturale e politica che blocca e discrimina. La conseguenza di ciò è che il sistema ti rende incapace di trovare soluzioni ai problemi quotidiani, se non seguendo una via di criminalità e devianza. È anche utilizzato come termine per identificare il nemico da combattere, “nu ta luta contra sistema” lottiamo contro il sistema, per mostrare come sia importante creare un unione ed una coscienza condivisa per combattere il sistema politico e istituzionale che crea disuguaglianze e povertà. Questo elemento è presente sia nel linguaggio violento delle gangs, sia nei discorsi e nelle azioni degli attivisti come volontà di resistere o criticare le violente trasformazioni economiche che hanno segnato la società capoverdiana nel periodo dagli anni ’90.

Ancora le parole di Marcos ci mostrano un nesso con altre traiettorie di vita dei giovani attivisti del Pilorinhu: essi sono ragazzi ex gangster o comunque considerati “ragazzi difficili” “cabesa rishu, vagabundos37” sui quali è stato attivato uno stigma sociale, un etichetta, ma che transitano verso una nuova identità di attivista o volontario e si occupano delle attività di animazione comunitaria, espressione musicale e altre attività politiche e sociali. Marcos, nella sua introduzione, dice di essere riconosciuto nel quartiere grazie al legame di sangue, familiare, che sancisce la sua radice territoriale, poi racconta di essere stato lìder di una gang attraverso un processo di autoaffermazione e difesa del

37 Sono i nomi in kriolu con cui vengono identificati i ragazzi che seguono la vita deviante in forma generalizzata chi non è bravo a scuola, chi passa molto tempo in strada. Per le ragazze esistono diversi appellativi catorzinha, cabesa lebe più legati alla sfera della sessualità precoce, e della prostituzione.

125 proprio territorio ed infine di voler dedicarsi e lottare per la propria comunità in una prospettiva di intervento politico e sociale.

La comunità territoriale rappresenta lo spazio dove queste identità giovanili vengono affermate dentro una complicità e continuità storico/culturale con i processi territoriali e relazioni tra generazioni, spazi agiti dalla comunità e tendenze della globalizzazione.

Ora cercherò di approfondire la relazione con il concetto di appartenenza partendo dall’accezione di Tobie Nathan, che chiede di allontanarci dalla definizione statica delle nozioni di identità ed appartenenza in quanto esso sono prive di significato in sé, ma è importante considerare le reti multiple nei quali i soggetti sono inseriti che danno senso alla vita, al percorso e alla morte di quelle persone. Questo ci ricorda l’importanza di vedere e considerare la complessità e la dinamicità del processo identitario e di appartenenza che considera l’interconnessione tra la dimensione storica/culturale, locale o globale, dell’essere giovani capoverdiani. Il concetto di appartenenza è più aperto rispetto a quello di identità, per questo motivo, nel contesto di mediazione culturale, viene privilegiata questa tematica. I segni dell’appartenenza sono la reciprocità e la protezione; inoltre gli scambi sono luoghi elettivi per indagare i processi di costruzione delle appartenenze personali e collettive (Cima, 2009). Il significato latino della parola sottolinea due movimenti. Da ad-pertinere, ad viene inteso come un muoversi verso; il motivo del tendere alla vicinanza, all’essere presso, alla reciprocità è molto forte e chiaro. Pertinere significa invece estendersi, diffondersi, come una parte che si estende a partire da un quid fondato, stabile. Seguendo questa interpretazione possiamo dire che l’appartenenza ad una cultura e alla lingua materna, cioè quella di chi ci fonda e ci introduce alle relazioni sociali; fa sì che ogni persona possa essere ammessa a far parte di un gruppo, appartenere a. Il secondo movimento è segnato dal dirigersi verso l’altro, dall’andare incontro. La reciprocità tra le due correnti di questa parola è obbligata, se non vi è una prima appartenenza (a un sé o ad un noi) si può dirigersi verso ma non si può incontrare l’altro. Appartenere è prendere la parola in relazione a dove veniamo ed è la condizione per apprendere, per incontrare altre appartenenze (Cima, 2009).

Il tentativo di mediazione proposto dagli attivisti del Pilorinhu e sperimentato in gruppi e comunità, ha suscitato in molti casi interrogativi riguardo alla questione dell’appartenenza. Questo tema può essere proposto come base di partenza per attraversare le frontiere e trovare degli spazi di dialogo ed incontro tra le varie comunità. Se il processo

126 va a buon fine, la conclusione di questa mediazione è spesso il manifestarsi di una volontà comune di resistere e combattere un sistema ingiusto e corrotto che esclude. «“Nu sa ta mata companheiro, nu sa ta mata irmon, mas nu tem ke luta contra sistema, sistema ke sta doente e tenenu assim. (trad. Ci stiamo ammazzando tra compagni, tra fratelli, dobbiamo unirci contro il sistema, è il sistema che è malato e ci tiene in questa situazione)». (Gilson)

Vediamo ora come questo sentimento di resistenza e opposizione faccia parte del processo di creazione della nazione creola trovando continuità e discontinuità con il passato e le tendenze attuali.

Abbiamo visto nel primo capitolo come la questione dell’essere kriolu sia strettamente legata al percorso storico e al ruolo avuto dalla corona portoghese dalla scoperta alla decolonizzazione di Capo Verde. La coscienza dell’essere e appartenere al mondo kriolu, si costruisce infatti in contrasto con la cultura occidentale colonizzatrice. Nel caso di Capo Verde si è affermato un popolo, una cultura kriola come entità culturale autonoma, partendo dai tentativi di opposizione e resistenza alla cultura dominante coloniale portoghese. Il senso di appartenenza alla cultura creola si forma in quei soggetti che sono in condizioni di svalutazione sociale, stigmatizzate dalla logica del dominio e che quindi sono portate a costruirsi spazi autonomi per la resistenza e la sopravvivenza dotandosi di principi diversi e a volte opposti a quello che utilizzano e propagandano le istituzioni della società dominante. L’orgoglio di essere kriolu nasce quindi da un senso di alienazione e dal risentimento contro un’ingiusta esclusione politica, economica o sociale. «Il fondamentalismo, le comunità territoriali, l’autoaffermazione nazionalistica e persino, l’orgoglio dell’auto denigrazione che capovolge i termini del discorso oppressivo diventano espressione di ciò che io chiamo l’esclusione degli esclusori da parte degli esclusi e che consiste nella costruzione di un identità difensiva nei termini delle istituzioni/ideologie dominanti, invertendo il giudizio di valore e rimarcando, al contempo, i confini del proprio campo» (Castels, 2014). In un caso esiste il problema della comunicazione tra identità escludente e identità esclusa. E la soluzione necessariamente empirica e storica, a questo problema decide se la società in questione rimarrà unita o se, invece, finirà per frammentarsi.

Esistono Tabanka in diversi quartieri della città di Praia e nell’isola di Santiago e Maio, la Tabanka di Achada Grande Frente è una delle più seguite e considerata la più

127 antica, compare spesso in clip televisive e è acclamata da artisti nazionali ed internazionali che in essa vedono l’elemento fondante della cultura e tradizione capoverdiana di Santiago.

Per comprendere il significato etimologico della parola Tabanka dobbiamo però andare in Guinea Bissau, nella comunità balanta. Questa parola ha come significato originale, considerandone la sua radice abank, quello di località, residenza, fortificazione, protezione contra le violenze create da conflitti di vario ordine. I balanta chiamano Tabanka i villaggi compatti dove vivono (Hawthorne, 2003), essa è considerata come un’unità di organizzazione sociale dell’etnia e di appartenenza per i membri. Nei tempi precoloniali i balanta vivevano dispersi nell’interno della regione, dopo il secolo XIII l’instabilità politica provocata dall’ arrivo degli europei e del intensificazione del traffico di schiavi costringono i balanta a trovare un rifugio è qui che i linguisti rintracciano la nascita di questa parola. Le tabanka diventano quindi «un villaggio compatto, dove al suo interno è coltivato il riso per la sopravvivenza e la protezione contro i trafficanti di schiavi» (Hawthorne, 2003). Tabanka è lo spazio della resistenza africana in contrasto con lo spazio della piazze, e delle città degli europei o creoli38 presenti nel paese (Wilson, 2014).

Attraversando l’oceano il termine e l’accezione di Tabanka si trasformano, significando un’associazione di mutuo aiuto fondata su un principio territoriale, i membri vengono reclutati in base all’appartenenza ad un territorio funzionando come associazione di fratellanza in casi di povertà e svantaggio, nelle zone periferiche e interne dell’isola di Santiago. Attualmente l’accezione è ancora molto legata alla territorialità ed al legame di sangue tra gli elementi che la compongono, essa è una festività realizzata nel mese di giugno, legata alla figura di un santo protettore, accompagnata da una musicalità, ritualità e celebrazione in corteo, è considerata una manifestazione sincretica religiosa (Lopes Filho, 2003). Se consideriamo la Tabanka nella sua struttura essa rappresenta una copia della società, che la fa diventare un sistema sociale in miniatura. Nel corteo della Tabanka sfila l’intero corpo regale: re e regina, governatori, agenti della legge e dell’ordine, infermieri e soldati, contadini, subordinati chiamati catibos e negas, valori e simboli propri rappresentati da bandiere o icone di gruppi di carattere socio associativo. «In forma critica e ironica, questo gruppo mimetizza la società schiavista del passato e le diseguaglianze del presente» (Trajano Filho, 2014). Tre sono gli elementi fondanti della Tabanka: il primo è

38 Come abbiamo spiegato nel capitolo 1 la popolazione creola è spesso utilizzata dal sistema coloniale portoghese per dare continuità al loro disegno, essa in questo processo i creoli assumono autonomia e potere nel commercio di schiavi e merci, dato che molti di essi diventano comandanti e mercenari, creando una distanza e una rottura autentica con la popolazione indigena della Guinea.

128 l’organizzazione del corteo che ricorda le marce militari e i pellegrinaggi religiosi, alla fine del corteo si trovano i catibos e i negas che devono sfilare in fila indiana ricordando la società schiavista, vicino a loro sfila una persona pronta per castigarli. Il secondo è l’organizzazione del tempo che rappresenta un'altra forma di esprimere l’ordine e il controllo ancora simbolo del sistema coloniale e schiavista. Un membro della Tabanka che arriva in ritardo è castigato con multe o messo in prigione, uno spazio adibito a questo scopo. La Tabanka in questo senso sembra far rivivere in maniera caricaturale e satirica l’ordine, la disciplina, la gerarchia della società dominante del passato e del presente. Le allegorie, i costumi, gli strumenti e le musiche sono chiamati armamento. Tanto i ruoli drammatizzati durante i cortei quanto la forma e lo spirito con cui sono interpretati seguono un senso di dominio religioso e militare. Il terzo elemento è il santo patrono, scelto tra i santi del cattolicesimo che sono celebrati nel mese di giugno. Per onorarli sono costruiti delle cappelle dove i fedeli chiedono l’adempimento di protezione, desideri personali e abbondanza nei raccolti.

Tra le due accezioni di Tabanka, quella della Guinea e quella di Capo Verde, esiste una relazione forte: essa è vista in entrambe le culture come luogo e territorio di protezione e appartenenza condivisa, è presente in entrambi l’idea dello spirito protettore, che può essere un antenato in Guinea e un santo per Capo Verde, essi rappresentano una fonte di benessere, prosperità, fertilità ed abbondanza per la comunità. A Capo Verde come in Guinea la Tabanka si contrappone al sistema centrale o al dominio straniero. Nell’intervista con il re della Tabanka di Achada Grande Frente, lui riferisce che la manifestazione della Tabanka in passato è sempre stata ostacolata dal governo centrale con un divieto di sfilare in momenti e zone particolari della città, come il Plateau e la zona centrale dell’élite; soltanto dopo gli anni’70 e l’indipendenza si ha un vero e proprio riconoscimento del valore culturale della manifestazione.

L’idea che soggiace è quella di opposizione nella costruzione del popolo creolo: se in Guinea, esisteva una contrapposizione tra criolidade e africanidade, nella Tabanka a Capo Verde viene rappresentata una divisione sociale tra i contadini dell’interno uniti ai poveri della città periferica, e dall’altra parte l’elite politica del Plateau e il sistema coloniale portoghese, interpretato in maniera ironica e critica.

La Tabanka ci ha riportato ancora al discorso sull’importanza dell’appartenenza al territorio che si rivela tematica presente massicciamente nelle meccaniche di attrito e

129 scontro tra le gangs giovanili, ma anche elemento di riflessione e soprattutto azione per i tentativi di mediazione del Pilorinhu e punto di partenza fondamentale per la costruzione dell’essere kriolu. Esistono Tabanka in diversi quartieri della città di Praia. All’interno di ogni gruppo esiste grande unità e fratellanza, ma non è lo stesso nell’interazione con altri gruppi di Tabanka di altri quartieri; esiste infatti il personaggio allegorico del ladro della bandiera, il quale proviene da un’altra zona della città e viene bastonato e picchiato, perché ha tentato di rubare il simbolo della propria Tabanka. Si tratta di una rappresentazione teatrale che manifesta in maniera chiara l’opposizione e la rivalità con altri gruppi e altri quartieri, fortificando d’altra parte il senso di appartenenza al proprio gruppo.

Un altro elemento comune tanto al Pilorinhu quanto alla Tabanka è l’idea di protesta, critica e rivendicazione da parte della popolazione esclusa e povera delle periferie o del contesto rurale; nella Tabanka, infatti, vengono messi in luce la corruzione e l’ingiustizia di un sistema dominante coloniale e schiavista, il Pilorinhu e la cultura gangster sono invece forme di reazione al sistema neoliberale colpevole di perpetrare i crimini dei dominatori del passato. Il ricorso alla violenza è stato spesso interpretato come espressione di una rottura nel sistema e come espressione dell’impietoso divario che la società può constatare tra ciò che ci si aspetta da un paese democratico che infonde speranza e difende l’uguaglianza, e quella povertà, sopruso e senso di abbandono che si vive nella realtà dei quartieri poveri delle città. La violenza urbana fonda le sue radici in un forte sentimento di ingiustizia, caratterizzato da una cieca necessità di imporre rispetto, riconoscimento e partecipazione sociale e politica (Lima, 2012). Partendo dall’esperienza e dalla riflessione scaturita nell’ambito delle attività del Pilorinhu ad Achada Grande Frente e nelle comunità limitrofe, posso affermare che i concetti esposti poco fa sono fondanti per la formulazione di una prospettiva preventiva alla violenza urbana nel contesto urbano e di una azione conseguente.

Il Pilorinhu si caratterizza infatti per essere una realtà sociale associativa, nata dalle periferie urbane, e composta principalmente da giovani che hanno un passato di devianza e criminalità alle spalle; Alla base di tutto ciò vi è quindi una manifestazione politica e un’espressione di rivalsa delle comunità locali periferiche e dei giovani capoverdiani. Nella bandiera di Cabral e nei simboli della cultura capoverdiana (Pilorinhu, Finka pè, Xalabas), nell’ispirazione al movimento panafricano e all’identità africana, i giovani trovano un appartenenza comune dove lotta, resistenza, unione diventano le parole fondanti per giustificare le azioni intraprese negli ultimi 10 anni e programmare un futuro migliore.

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CONCLUSIONI

In questa sezione conclusiva della tesi proporrò le considerazioni finali della ricerca, così come sono emerse dai dati raccolti, dall’analisi e dalla validazione realizzata dall’equipe della ricerca azione. La forma con cui le conclusioni verranno esposte è rappresentativa della natura interdisciplinare della ricerca e dei metodi utilizzati. Nel tentativo di rimanere fedele alle fonti, ho utilizzato la lingua creola e la saggezza popolare dei proverbi e delle espressioni popolari apprese e interiorizzate nelle azioni del Pilorinhu; le fotografie scelte e discusse dall’equipe durante le sessioni di Photovoice, le frasi ed espressioni registrate durante il processo riflessivo ed infine il documento conclusivo della ricerca redatto dall’equipe di ricerca (ALLEGATO 2): Livro do Pilorinhu: la guida strategica dal titolo “Como se cria uma organização social e politica ao serviço da comunidade”39. Seguendo l’ottica dello sviluppo di comunità, è infatti la comunità ad autodeterminare i propri processi trasformativi. Tale partecipazione nella pratica e nella ricerca ha individuato e praticato soluzioni a problemi non ancora elaborate dal sapere codificato delle professioni e degli esperti o lasciate insoddisfatte dalla razionalità amministrativa e istiruzinale delle organizzazione economiche e dagli enti pubblici. Nell’ ottica quindi di una prevenzione alle violenze e quindi un cambiamento delle condizioni strutturali della società, è nel “basso” che si possono trovare le soluzioni più efficaci che concorrono ad un effettivo sviluppo della comunità e miglioramento delle condizioni sociali. Per fare questo è necessario promuovere il coinvolgimento inteso come processo attraverso il quale i soggetti sono coinvolti emotivamente da un evento e assumono la propensione a fare qualcosa; la partecipazione intesa come esercizio di potere, quindi la possibilità reale di decidere e controllare le azioni di coloro che hanno ricevuto e accettato deleghe: le istituzioni; la creazione di connessione intesa come incremento della collaborazione delle relazioni sociali di mutuo aiuto nella comunità e nel mondo, e il senso di responsabilità come consapevolezza che le condizioni di vita di una collettività e i problemi che in essa si verificano chiamano in causa tutti coloro che ne fanno parte. In modo da creare un intervento sociopolitico che miri a dare potere, rappresentatività e legittimità per mobilitare risorse e interventi dalla e /a favore delle comunità.

39 Traduzione: como si crea una organizzazione sociale e politica al servizio della comunità. Questo documento raccoglie tutte le riflessioni realizzate durante il processo riflessivo della ricerca, ed è stato refatto in forma collaborativa dal direttivo dell’associazione e dai membri coinvolti nella ricerca.

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- Nu ka bem pa bai, nu bem pa fika. Non siamo venuti per andarcene ma per restare.

Questa massima rappresenta la critica popolare al sistema coloniale e ai visitatori di Capo Verde che “lasciano ed abbandonano il Paese”. “Non siamo venuti per andarcene”, come hanno fatto per molti anni i portoghesi, ricordiamo che dopo la decadenza dei porti utilizzati per la tratta degli schiavi, l’arcipelago era stato abbandonato e aveva perso il suo ruolo centrale di scambio subendo un forte declino economico. “Siamo qui per restare”, chi resta e resiste sono i capoverdiani che nonostante le condizioni ambientali, politiche avverse hanno liberato la propria terra dal dominio europeo e costruito il proprio paese. Se pensiamo al nostro contesto di riferimento: la comunità di Achada Grande Frente e il processo di sviluppo comunitario per prevenire la violenza giovanile, questa massima rappresenta la critica al sitema istuzionale e alle dinamiche neocoloniali e liberali, la tendenza da parte di istituzioni nazionali ed internazionali di svolgere e appoggiare progetti di breve durata, o basati sulle categorie dell’emergenza, della crisi, l’assenza di politiche volte alla coesione sociale, la valorizzazione di investimenti e dinamiche economiche non sostenibili che penalizzano le comunità locali.

“I progetti finiscono e se ne vanno …gli esperti internazionali vengono fanno il loro lavoro, guadagnano i soldi e poi scappano, siamo noi che restiamo,… come ha fatto il colonizzatore, è arrivato nella terra di Capo Verde, ha usato le nostre risorse e se né andato lasciandoci poveri. ” (Djoje, equipe di ricerca).

La questione della violenza giovanile a Capo Verde, parte da una condizione strutturale di marginalità ed esclusione sociale prodotta da sistema istituzionale, dinamiche neoliberali che impoveriscono il ruolo delle comunità locali e dei giovani piuttosto che rederli attivi e propositivi nel loro porcesso di sviluppo e raggiungimento dell’autonomia. Ci si riferisce alla necessità di creare un intervento comunitario duraturo, calato sulle necessità e implementato dalla comunità stessa, “dalla quale la comunità possa nutrirsi e allo stesso tempo esso possa nutrire la comunità” (Capineiro). Un intervento politico di appropriazione dello spazio e della parola, che parta dalla presa di coscienza della propria condizione di oppressione, per arrivare all’emancipazione.

La tendenza assodata nel lavoro sociale a Capo Verde è stata quella del “ricominciare tutto da capo: arriva un nuovo finanziamento, nuovi esperti, ed è come se tutte le nostre esperienze venissero azzerate”(Cesar) incrementando un processo di dipendenza che porta

133 alla deresponsabilizzazione e non valorizzazione dell’operato realizzato in loco. “Il processo affrontato nella comunità di Achada Grande dovrebbe essere considerato nella sua forma integrata, come un processo di costruzione a partire dall’esperienza e dalla riflessività, riconoscendo il sapere locale, l’esperienza e la storia e dando valore all’azione locale anche se costiuita nel territorio dell’informalità” (Clelia).

Per riuscire in questo intento, l’equipe traccia delle priorità come quella di lavorare sull’autonomia economica, culturale e politica, volte alla la sostenibilità della comunità locale. Queste considerazioni sono basate sull’esperienza aquisita e sull’impronta del discorso di Cabral, riguardante il concetto di decolonizzazione e resistenza, già spiegati nel capitolo precedente.

È vero, abbiamo bisogno del supporto di tutti, ma dobbiamo essere forti, il nostro potere è la nostra capacità di agire a livello locale, le nostre conoscenze acquisite, il rispetto e l’alleanza che siamo riusciti a creare in loco questo dovrebbe essere il motivo principale del nostro riconoscimento, non l’appartenenza ad un partito a o b. Dopo l’occupazione del Pilorinhu abbiamo avuto un periodo di silenzio totale del dialogo con le istituzioni, infatti dopo la fine del progetto Simenti, avevamo incontrato tutte le direzioni dei diversi ministeri, consegnato progetti e proposte di continuità. Avevamo ricevuto una sola proposta da parte del Ministero della Gioventù di diventare parte distaccata di esso, sarebbero arrivati i tecnici del ministero a giorni alterni a lavorare per dare continuità al progetto ma senza risorse finanziarie, la proposta non era stata accettata perché comprometteva la nostra fiducia, e significava la partitarizzazione del nostro intervento. Da quel momento silenzio totale. Il silenzio veniva interrotto solo dai messaggi della Korrente che rivendicavano la situazione di ingiustizia e marginalità sociale dei quartieri periferici, le conferenze stampa, e le sessioni di Parlamento di Guetto. I lavori proseguivano senza fondi grazie al supporto di tutti i volontari, fino al giorno 12 Agosto 2014, quando nell’ambito del giorno internazionale della Gioventù il Pilorinhu fu onorato dalla prima visita ufficiale nello spazio: il Presidente della Repubblica. I giovani volontari dopo una plenaria con il Presidente, sentirono che lo sforzo fatto in questo anno e mezzo di mancanza di finanziamento era servito per rinforzare le pratiche di autonomia, creare un organizzazione interna al di fuori delle logiche dei partiti e dei finanziamenti internazionali. Il dialogo con le istituzioni poteva ri-cominciare. (Livro do Pilorinhu)

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Durante gli anni l’equipe del Pilorinhu ha sperimentato diverse strategie per la ricerca di fondi: da forme più strutturate come il finanziamento internazionale e nazionale attraverso la partecipazione a bandi e concorsi, o il finanziamento diretto da parte di donatori soprattutto appartenenti alla diaspora; a forme più informali come il baratto, la colletta; a forme più moderne e mediatiche come il crowdfunding. Pensando al nostro caso di studio, dal 2010, partendo dal finanziamento della Cooperazione francese, si avviò il Projecto Simenti, progetto di prevenzione alla violenza giovanile nel quartiere di Achada Grande Frente, il progetto si interruppe a seguito della chiusura dell’ambasciata e dalle scarse risorse internazionali investite nel pase per via della crisi economica. In una fase successiva vi fu la ricerca del finanziamento nazionale, attraverso i ministeri e le autorità locali, ma mancò una risposta effettiva e trasparente. Il processo di finanzimento in questo caso era manipolato dagli interessi dei partiti che si contendevano il potere e dalla limitazione dei fondi per il settore sociale. La mancanza di fondi strutturali, non ha fermato i lavori, ma ha dato vita ad un processo di creazione sociale dove la comunità ha partecipato nella discussione delle problematiche e nella ricerca delle strategie per l’autofinanziamento. Di qui la decisione di occupare lo spazio abbandonato “Pilorinhu”, come presa di coscienza politica e l’impegno su base volontaristica della comunità nel dare continuità alle attività iniziate. Il Pilorinhu è riuscito a crearsi un’identità, fuori da ogni logica di dipendenza e cooperazione, che dimostra la possibilità della creazione sociale nelle periferie e il protagonismo di giovani marginali, il “valore umano della cultura, è la principale forza di reazione alle condizioni materiale di oppressione.” (Cabral, 79)

Questa tabella realizzata dall’equipe, durante il lavoro di ricerca-azione rappresenta la strategia formalizzata per garantire autonomia e sostenibilità allo spazio Pilorinhu. Le componenti seguono una visione politica sociale dell’intervento, una visione economica di sostenibilità, il legame con la comunità locale e la comunità mediatica attraverso i social media.

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Di fronte all’inefficacia del governo per fare fronte a problemi di esclusione sociale come la violenza giovanile, la reintegrazione dei detenuti, la dispersione scolastica, il riconoscimento sociale dei giovani il Pilorinhu costruisce ancora oggi un cammino di protagonismo, secondo la logica del djunta mon40, aiuto e collaborazione reciproca, valorizzando risorse individuali e comunitarie. Infatti il Pilorinhu non si configura come qualcosa di nuovo, di esterno ma un azione che nasce all’interno della comunità locale in modo da dare continuità alla “resistenza” delle popolazioni locali di cui parla Cabral, le comunità tradizionalmente si sono sempre costituite come spazi e gruppi di mutuo aiuto e continuerà a farlo. Dalle interviste effettuate ai liders comunitari ci siamo resi conto di quanto questa vocazione comunitaria non fosse qualcosa di estraneo per i giovani, ma qualcosa che avevano imparato in casa, a scuola, nella Tabanka, oppure nel contesto religioso.

40Traduzione dal kriolu: unire le mani. Tradizionalmente questa modalità è utilizzato per la costruzione delle case: i vicini di casa uniscono le forze per costruire le abitazioni o fare fronte a alcune intemperie e calamità frequenti l’allagamento delle case dopo la pioggia, oppure in agricoltura durante la semina e il raccolto; la cura dei figli. Questa modalità è frequente nei maggiori aspetti di vita delle comunità capoverdiane.

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- Quale comunità. Alla ricerca di una definizione…

Questa è la domanda ricorrente della mia ricerca, discussa nell’ambito della ricerca- azione sia nelle presentazioni pubbliche che ho realizzato della ricerca. Di quale comunità, quali comunità sono al centro della ricerca, si può parlare di comunità attualmente? Esiste una concezione capoverdiana di comunità? Riporto le parole scritte dall’equipe nel suo testo: “Puoi chiamare mille volte ad alta voce: comunità dove sei? E molto probabilmente la risposta non arriverà… Se lo chiedi a te stesso, però tu sai che attraverso la tua azione puoi creare comunità.” (Livro do Pilorinhu) Questo sta ad indicare che non sempre la comunità territoriale di Achada Grande Frente si possa considerare comunità, nel significato socio pedagogico del termine; anzi in certi momenti, soprattutto durante la prima occupazione del Pilorinhu i vicini abituati ad utilizzare lo spazio come discarica e bagno si era opposta all’idea di attivazione comunitaria del Pilorinhu.

Nella fotografia: la preparazione del pranzo per i volontari del Pilorinhu che coinvolge le donne del vicinato. (Photovoice#1)

Partiamo dalle definizioni sociologiche di comunità e troviamo due possibili accezioni: quella socioculturale è costruita in opposizione a quella di società, individua uno specifico rapporto sociale. Questa accezione indica la qualità dei rapporti tra individui, laddove questa qualità dei rapporti è espressa da sentimenti di solidarietà, da forte

137 identificazione e senso di appartenenza comune. Conseguentemente comunità è anche l’entità o l’organismo che deriva da rapporti di questo tipo. La seconda accezione è spaziale: il concetto di comunità indica fortemente il rapporto tra insieme di individui e il territorio. È una collettività di attori che condivide un’area territoriale come base per portare a compimento la maggior parte delle attività quotidiane. Per la Scuola di Chicago, i legami di tipo comunitario, sono da intendersi sia come rapporto uomo-territorio sia come veri e propri legami sociali che assumono in minor e maggior grado caratteristiche proprie alla comunità socioculturale e possono persistere anche in realtà urbane complesse, come le grandi metropoli.

La definizione di comunità, prodotta durante la ricerca parte da una prospettiva pedagogica, quella del lavoro educativo territoriale e dell’empowerment, che ha come obiettivo la promozione di forme comunitarie territoriali e la ricerca di un nesso tra individuo, comunità e territorio volto a favorire l’emancipazione dei soggetti deboli e rinforzare la voce controegemonica. Durante l’azione ci siamo resi conto che questo nesso possa esistere e non esistere, l’obiettivo è quello di crearlo o rinforzarlo nel caso in cui non ci sia.

Nella tradizione capoverdiana come abbiamo descritto nel contesto, le forme di aggregazione comunitaria sono molteplici, fondamentalmente riferite al settore politico, sportivo e religioso. “Tutto è politica a Capo Verde” anche nel quartiere di Achada Grande, le istituzioni demarcano il territorio dei partiti: la sede del gruppo carnevalesco: Vindos do Mar collegata al partito PAICV come la scuola superiore presieduta da un esponente del partito, la delegazione del municipio invece appartiene ed è frequentata da esponenti dell’MPD. Durante le elezioni questa differenze sono altamente visibili perché ogni casa è “marchiata” attraverso bandiere e simboli di appartenenza al partito. Molti dei tentativi effettuati di conciliazione e mediazione comunitaria non sono stati possibili proprio perché era impossibile sorpassare questa appartenenza al partito, soprattutto durante il periodo elettorale quando i gruppi nelle comunità sono visibilmente mobilitati attraverso comizi, sfilate e campagne di mobilizzazione. Si assiste spesso alla monopolizzazione partitica del lavoro comunitario.

A Capo Verde, gli interventi comunitari nel periodo dello Stato del Servizio Sociale41 sono ancora veicolati all’appartenenza partitica e rappresentano una forma di

41 Che si contrappone allo Stato sociale, del periodo di partito unico.

138 controllo della popolazione da parte delle istituzioni centralizzate. Tale controllo di manifesta attraverso il finanziamento o meno di programmi, la diffusione mediatica e la visibilità dell’ente e varie strategie di apadrinhamento42 e favoritismi facilmente visibili. Secondo l’equipe questa è una delle situazioni di maggiore vulnerabilità dei progetti in quanto si fa leva sulla debolezza della popolazione: la povertà strutturale. L’equipe per questo motivo ribadisce l’importanza di lavorare per un intervento autonomo ed indipendente di modo da valorizzare la professionalità e non l’appartenenza al partito. Per questo motivo è necessario definire lo scopo della comunità e dell’intervento comunitario. Il Pilorinhu si configura come uno spazio a servizio della comunità al quale partecipano bambini/e, giovani e famiglie.

E’ gestito da volontari/e, che in questo spazio hanno trovato un appartenenza e cominciato un cammino di costruzione sociale partecipata, che per loro è rappresentata come una rinascita o un opportunità di riscatto. Hanno costruito una narrazione diversa e in contrasto con quella delle istituzioni, “una narrazione da dentro” rinforzando l’identità del gruppo e la forza dell’azione pedagogica e dell’identità del territorio.

Assistiamo a livello internazionale ad un nuovo concetto di comunità, legato al digitale. L’introduzione dell’informatica provoca un cambiamento radicale in cui il fisico si trasforma in virtuale. Al territorio fisico si sostituisce una appartenenza territoriale diversa, virtuale, un territorio esperienziale costituito dalla presenza e interazione nel “non luogo” della rete. I nuovi media hanno annullato il tempo e lo spazio: questo è il nuovo modello di villaggio globale, secondo la nota definizione di McLuhan. Se è vero che virtuale si contrappone ad attuale e possibile a reale, il tempo senza tempo e senza territorio in cui si muove il cyberspazio ha già iniziato a determinare la transizione culturale. Per la comunità capoverdiana, di natura diasporica, la rete diventa lo spazio di relazioni tra il locale e il globale, facilitando la comunicazione tra famiglie, e amici. Come dimostra il Pilorinhu, la rete diventa uno spazio per dare voce ad una lotta, una campagna, come è stato il crowdfunding; attraverso la rete si sono potute stabilire molte relazioni e comunicazioni con volontari internazionali, per non parlare del lavoro di ricerca. Grazie alle videochiamate ho potuto partecipare alle riunioni di equipe, le riunioni comunitarie condividere frasi, riflessioni, immagini.

42 In italiano può essere tradotto con Raccomandazione, l’idea è quella di assumere una persona non per le sue competenze professionali ma per i legami famigliari o di conoscenza.

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In un paese dove le disuguaglianze sociali sono profonde dove molti cittadini emarginati trovano difficile impegnarsi efficacemente con le istituzioni statali i social media incidono nella sfera pubblica. In questo contesto, i media digitali, in particolare quando sono accessibili tramite i telefoni cellulari, possono offrire ai cittadini nuovi canali per interagire con la politica a vari livelli. Ciò non include solo la ricezione passiva di informazioni politiche, ma anche la partecipazione attiva all'attivismo sociale come nel caso del Pilorinhu.

- Peritos de experiência “vivir na pele” Periti di esperienza, “l’averlo vissuto sulla propria pelle”.

Analizzando le storie di vita e di successo dei volontari e i giovani che gravitano nello spazio Pilorinhu, una delle strategie educative che ha decretato il successo degli interventi è il ruolo del gruppo di pari. Lo spazio e le attività sono infatti organizzate da giovani e attivisti con un età tra i 15 e i 25 anni, alcuni vivono ad Achada Grande Frente, altri come l’attuale presidente dell’AP, vengono da altre isole o da altri quartieri della città, altri utilizzano lo spazio come luogo sicuro dopo la detenzione. La maggior parte di loro ha avuto modo di sperimentare in forma diretta o indiretta la vita da gangster e scegliendo di essere attivo nello spazio ha scelto di prendere una scelta radicale di cambiamento per sé stesso e la comunità. Oltre alla violenza la maggior parte di questi giovani hanno sperimentato e sperimentano tutt’oggi una povertà strutturale, una condizione abitativa precaria, disoccupazione e la mancanza di soluzioni per il futuro. Ogni volontario nello spazio Pilorinhu ha un ruolo, infatti assume il compito di animatore di un corso o un gruppo di bambini, ragazzi, donne in modo tale che il suo talento venga valorizzato, abbia un ruolo effettivo nel gruppo, possa trasmettere le proprie conoscenze di vita e diventare un modello per altri.

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Nella foto: un volontario si prepara per l’animazione di strada.(Photovoice#2)

Questo modello educativo è inquadrato nell’assetto teorico della peer education. L’esperienza personale, l’informalità della relazione e l’orizzontalità dei livelli portano ad un effettiva efficacia della relazione di aiuto e supporto reciproco. La stessa strada che Freire aveva indicato nel settore nell’alfabetizzazione: essa “parte dal vissuto, per problematizzarlo, arricchirlo. Modificando la modalità di percezione della realtà e dell’agire si introducono dei cambiamenti che appartengono alla logica del futuro più che del presente. I soggetti feriti dalla storia ricostruiscono il loro mondo e le loro aspirazioni, imparando con il sostegno complice dell’educatore , a trasformare i loro sogni in istanza di riconoscimento, in progetto esistenziale e politico” (Freire, 2004).

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- Somos mestres em Guettologia, la nostra università è stato il Ghetto

Nella foto: equipe di ricerca al lavoro (Photovoice#4)

Dare parola è un gesto che permette di aprire e liberare le menti e, di conseguenza, liberare chi se ne appropria. (Milani, 2005 ) Nella parte metodologica e in quella inerente alle filosofie e alle pedagogie ispiratrici della ricerca, ho sottolineato come essa sia qui intesa non solo come strumento di produzione di sapere, ma anche come possibile mediazione pedagogica, ossia che sia utile e che abbia una valenza politica di trasformazione dell’esistente. La ricerca diventa tale solo nel momento in cui è capace di avviare processi trasformativi nel reale, sia per la sua valenza presso i pratici e la comunità scientifica di riferimento.

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FILMOGRAFIA

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ALLEGATO 1

Associação Pilorinhu, DOCUMENTO DI PRESENTAZIONE redatto da Natalia Veloso (giugno, 2017)

O PILORINHU

. a visão

O Pilorinhu nasce de uma fusão entre o Projecto Simenti e o Movimento KorrentidiAtivista. com uma nova dinâmica e com uma estratégia de trabalho inovadora. Surge de uma base experimental da espírito de resistência, do sacrifício e de luta social, e principalmente do resgate da consciência de “ DjuntaMom”. Emerge das dificuldades, do fazer muito a partir do nada, do esforço e da dinâmica da força criativa e participativa das crianças e jovens em mobilizar e unir pessoas de variados estratos sociais, comunidades e nacionalidadesem uma colaboração em rede multifuncional. Pilorinhu é um projecto contextualizado, de baixo para cima, que surge de várias experiências acumuladas ao longo dos últimos anos de trabalho de intervenção social: experiências teóricas e práticas, individuais e colectivas de várias áreas e temáticas. Desde o início do paradigmático ano 2013, ano base da sua experimentação, conquistou parcerias nacionais e internacionais,fez parcerias com várias instituições do estado, protocolo e projectos conjuntos. O Pilorinhu serve para servir a comunidade. Todo o trabalho é realizado com a ambição do envolvimento total, em colaboração e com o espírito de partilha e de solidariedade.

. o espaço

Um espaço público que foi construído pela Camara Municipal da Praia destinado para ser um mercado de peixe e de outros produtos alimentares. Durante mais de 12 anos ficou abandonado e transformado pela população local em uma autêntica lixeira pública aberta. Nos inícios de 2013 e na emergência da filosofia do MovimentoKorrentidiAtivista, um grupo de jovens de diferentes comunidades, sobre a liderança do sociólogo João José Tavares (UV) em parceria com o projecto Simenti mobilizaram-se na limpeza e dinamização deste espaço para efeito de empoderamento do trabalho social, cultural e comunitário. Projecto Simenti é um projecto da Fundação Esperança, presidido pelo Ex- presidente da república de Cabo Verde Dr. António Mascarenhas Monteiro. Foi lançado em Achada Grande Frente em meados de

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2010 com o principal objectivo de promover o desenvolvimentodesta comunidade. Este projecto financiada pelo Fundo Social da Embaixada deFrança, terminou em Outubro de 2012, mas foi prolongado pelos seus coordenadores. A KorrentidiAtivistapor sua vez, é um movimento que surgiu nos inícios de 2013 com o principal propósito de despertar a consciência cívica e participativa dos jovens para questões do desenvolvimento social e comunitários das suas comunidades, empoderando as lideranças locais e motivando-os para um trabalho em rede para atingir este objectivo. Inicialmente com a parceria do Ministério da Cultura o espaço ganhou alguma dinâmica com a implementação da rede livre da Internet no espaço e posteriormente com as Nações Unidas juntamente com o Ministério da Juventude no Projecto de Inclusão Social dos Jovens em Cabo Verde, um projecto que tem como principal objectivo oferecer aos jovens vítimas de ou em risco de exclusão social percursos de vidas alternativos e viáveis, incentiva a reconciliação com a escola e uma aproximação com o mercado de trabalho, e favorece a inclusão social das famílias, bem como uma melhoria do seu acesso ao serviços públicos básicos. A partir deste momento o espaço começou a ganhar a sua própria dinâmica e autonomia passando a ser um espaço aberto de conhecimentos e práticas sociais, artísticas e culturais, juntando experiencias de famílias, jovens e crianças de várias comunidades. Portanto, este espaço é dinamizado essencialmente por crianças e jovens que antes estavam em situação de grave risco social, que acompanharam o desenvolvimento de vários projectos e atividades ao longo deste percurso e hoje são monitores e multiplicadores de oficinas culturais e artísticas, promotores destas iniciativas e de parcerias públicas e privadas. A partir de todas estas experiências acumuladas, e das demandas sociais emergentes nasce um novo projecto contextualizado e adaptado as circunstanciais, sociais económicas e culturais encontradas: A Associação Pilorinhu. O projecto AssociaçãoPilorinhu, na nossa visão é um conjunto de sonhos e pensamento levados para a prática do dia a dia dos jovens e crianças que procuram possibilidades para progredir e avançar as suas comunidades e o nível de vida que se encontram.

Imagens do espaço antes da intervenção da AP

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Instalações e atividades desenvolvidas atualmente pela AP

A Reabilitação e Habitação do espaço foca no esforço que é feito para habilitar o espaço e criar assim condições para acolher as crianças, adolescentes e jovens que recebemos diariamente. Enquanto a imaginação e a motivação existirem a escassez de recursos não é fator de paragem total. No entanto, neste momento o Pilorinhu está a tentar mobilizar cada vez mais parcerias nacionais e internacionais para que haja possibilidade de continuar a reabilitar o espaço para a servir a comunidade.

Um recurso importante aproveitado nesta frente são os materiais reciclados. Quase todo o material é aproveitado pelos artesões que fazem parte desta equipa de trabalho.

Os recursos de reabilitação são provenientes do espírito de Djuntamom, vem da sinergia dos recursos humanos unidos com uma consciência colectiva para o desenvolvimento da comunidade.Muitos materiais são recolhidos em casas dos voluntários e outros são adquiridos através de pequenos projectos financiados que são muitas vezes canalizados para diferentes frentes do Pilorinhu.

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Horta comunitária

Esta frente de trabalho representa uma importante conquista no sentido de funcionar como uma laboratório vivo para educação ambiental para jovens e crianças. Através dela pretende-se estimular as práticas de agricultura urbana na comunidade.

Antes e depois da construção da horta comunitária no espaço

Biblioteca comunitária

A biblioteca do Pilorinhu é aberta a toda a comunidade. Nela as crianças e jovens encontram um espaço para realização de pesquisa e trabalhos escolares e acesso a materiais didádicos e consulta de livros. A principal proposta é garantir apoio ao ensino formal e estimular os jovens e crianças à prática da leitura.

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“Circo Animar”

O Circo Animar é o principal fruto das oficinas de formação do projeto Inclusão Social, através delas dois monitores da AP se tornaram multiplicadores das técnicas cisrcenses e desde 2014 vêm oferecendo aulas e desenvolvendo atividades com jovens e crianças em diversas atividades da cidade da Praia. Através do projeto “Di mi pa abo”pretende-se permitir que mais jovens interessados em desenvolver essas aptidões artísticas possam particpar da formação de forma mais profissinalizante e com os materiais e equipamentos adequados.

Oficina de Carpintaria

Atualmente a AP já conta com as intalações de uma oficina de carpintaria em funcionamento e sob responsabilidade do monitor César Monteiro. Através do projeto “Di mi pa abo” pretendemos qualificar a oficina e possibilitar que jovens recebam formação nesta área.

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Membros da Associação Pilorinhu e resumo da qualificação técnica dos mesmos (Febbraio, 2017)

Adérito Gonçalves (Presidente): Atua como voluntário na AP desde 2013, como monitor de aulas de capoeira, sendo formado nesta área pelo grupo Abadá-Capoeira. Assume a presidência em Abril de 2016.

Fernando Jorge Martins (Vice-presidente): Atua como voluntário na AP desde sua fundação. É artesão com formações em desenho, grafiti, arte em cabidal e outros. Também é o principal responsável pela manutenção da horta comunitária.

Michel P. Vieira (Secretário): Recebeu formação de animador infantil pelo Projeto Simenti, em 2012, de multiplicador de circo e animação comunitária pela Ong. Afroreagge . Atua como monitor das aulas de circo na AP.

Lucas Andrade Monteiro (tesoureiro): Recebeu formação de animador infantil pelo Projeto Simenti, em 2012, de multiplicador de circo e animação comunitária pela Ong. Afroreagge . Atua como monitor das aulas de circo na AP.

Zanildo Vaz (conselheiro fiscal): mais jovens partipante da AP, recebeu formações de contação de histórias e é o responsável pela manutenção e desenvolvimento de atividades na biblioteca da AP.

Júlio César Monteiro (voluntário): é carpinteiro de profissão e recebeu formação específica em reciclagem de paletes. É o responsável pela oficina de carpintaria.

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Claudino Soares (voluntário): recebeu formação de circo e animação comunitária pela Ong. Afroreagge . Atua como monitor das aulas de circo na AP.

Leila Jolice da Silva (voluntária): estudante responsável pelos registros de entrada e saída do espaço além de apoiadora nas atividades da biblioteca.

Zelito Barbosa Fernandes (voluntário): estudante responsável pelo desenvolvimento de atividades desportivas com as crianças da comunidade.

Natalia Velloso (voluntária/secretária da Assembléia Geral): estudante brasileira de doutoramento em Antropologia, responsável por desenvolvimento de atividades na biblioteca e serviços de secretaria na AP.

Edith Cardoso (voluntária): Formada em técnicas de artesanato em cabidal e reciclagem, apóia os projetos desnvolvidos nestas áreas.

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ALLEGATO 2

LIBRO DEL PILORINHU, REDAZIONE COLLABORATIVA (06/2017)

TITOLO: Como se cria uma organização social e politica ao serviço da comunidade Experiência prática de Projecto Simenti, Movimento Korrenti di Ativista à Associação Pilorinhu

Com este pequeno resumo gostariamos de esclarecer os leitores a origem e o percurso do nosso trabalho desenvolvido na área de intervenção social em Cabo Verde, particularmente na cidade da Praia, comunidade de Achada Grande Frente, desde o ano 2010. Mas também é uma forma que encontramos para lançar-se no desafio da demonstração de como é possível sair do fosso em que chegamos da letargia social, desagregação da comunitária e da participação popular no caso concreto em Cabo Verde Trata-se de um documento que faz uma análise dos principais momentos percorridos por uma organização social à margem do associativismo formal, ou articulada a esta, e na maioria das vezes numa perspetiva crítica e de militância. Também a mesma nasce dentro de um contexto em que a cidade vivenciava uma forte influência da violência juvenil urbana, um fenómeno de formação de “gangster juvenil” que segundo as ocorrências vividas sabemos tirou a vida de centenas de jovens nesta pequena cidade, e que por sua vez demandou fortes intervenções de alguns grupos da sociedade civil, entre as quais a nossa. O objetivo deste exercício é que esta seja uma ferramenta prática que vai guiar-nos e fazer-nos a todos: estudantes, ativistas, atores políticos e sobretudo a população, a compreender as dificuldades por que passaram os obreiros desta empreitada e o papel de cada um de nós na mesma. Mas também é uma partilha de experiência para aqueles que querem aventurar em criar ou participar numa organização social, particularmente a de caracter informal, sem se preocupar a seguir os ditames burocráticos da lei associativa, que segundo a nossa percepção hoje em dia, não é mais do que uma forma de continuar a alimentar um sistema que dá menos proveito aos pobres do que os ricos, aumentando a injustiça e a pobreza, numa palavra o sistema capitalista. Trata-se de milhares de horas de trabalho voluntário, centenas de contatos, mobilizações de associações de grupos, reuniões sobre mais diversos temas, formações, articulações, tudo feito em nome de uma comunidade, dos jovens, crianças e moradores em geral.

A nossa experiência através do contato direto com praticamente todas as organizações políticas nacionais e internacionais e no trabalho com eles nos deram esta lição de forma resumida: Quanto mais investimentos estrangeiros receberem as organizações sociais de base mais distantes ficam da comunidade, porque as obriga a entrar numa lógica assistencialista, de uma ajuda externa com propósitos de uma politica capitalista disfarçado de assistência em ajuda pública ao desenvolvimento. Também a nossa missão é comprovar a resistência dos organismos estatais face as nossas propostas.

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No final, iremos fazer uma autocrítica da nossa própria organização. Considera-se impossível relembrar todos os momentos, mas vamos fazer uma tentativa para demarcar aqueles que constituíram momentos de maior impato durante a nossa missão que continua até hoje e caminhará sem dúvida para sempre. Em cada etapa significativa enquadramos vários momentos, de modo também a ajudar o leitor que também poderá ter participado em uma em outra, e lhe dar oportunidade de acrescentar o que considerava importante ser introduzido nestas páginas. Estamos aberto a este exercício sugestivo, afinal é com erros e contribuições que aprendemos a fazer uma sociedade evoluir e uma comunidade a tornar mais participativa e autónoma. Saberemos que muitos nunca aceitarão o que está aqui escrito porque escolheram um outro caminho diferente da nossa. Mas não é o nosso objetivo os convencer. O nosso principal propósito não é saber quem tem a razão mas que tenhamos consciência da importância deste tipo de trabalho numa comunidade para o presente e para o futuro do país. É certo que uma coisa são as teorias que estudamos nos bancos da universidades ou as ideologias sobre o desenvolvimento propagada pelas politicas internacionais através das redes governamentais dos países mais empobrecidos e outra é a realidade que enfrentamos no nosso dia a dia dia. Portanto, numa primeira parte abordamos as principais etapas e momentos, na segunda uma avaliação autocrítica de cada etapa e no terceiro ajudar o leitor a compreender como se pode criar uma organização social e qual é a importância de o fazer não repetindo os erros que cometemos. Finalmente é uma justa homenagem a todos que acreditaram e trabalharam do nosso lado e que continuam a resistir e acreditar que é possível fazer em meio de tanta dificuldades. A nossa organização teve os seus erros humanos sem dúvidas, mas o certo é que chegou um ponto que uma revolução já era evidente. Infelizmente nem todos estavam preparados para a fase posterior e também não compreenderam verdadeiramente o ponto que tínhamos chegado. Por isso ariscaram todo o esforço feito desde o princípio para voltarmos a estaca inicial, isto é a dependência de ajudas externas internacionais e nacionais para os nossos projetos, e pior ainda permitissem que estas ajudas continuarem a serem ministrada por uma visão exterior a comunidade. Mais uma vez aquele ponto que chegamos pode ser definido como uma posição que nos permitia ganhar um campo político e automaticamente cobrar responsabilidades sobre medidas políticas e sociais, fazer ajustamentos e acordos aos principais desafios sentidos ao nível da comunidade pobres e profundamente vulneráveis, Pois era o ponto que tínhamos a força da comunidade. Dito de outra maneira, podemos considerar que queríamos ser um espinho para os pés dos gigantes, melhor dizendo é mostrar que apesar do nosso tamanho sermos respeitados e de não nos pisarem com os seus pés gigantes sob pena de ficarem machucados e doentes. Para ser direto queremos com isto dizer que a nossa organização chegou a um ponto histórico até ao momento do projeto Finka Pé, um projeto conseguido através de um crowdfunding. Foi um momento delicado porque conseguimos pela primeira vez em Cabo Verde fazer com que uma organização de caracter social militante fosse apoiada através de um método convencional por cerca de mais de 80 pessoas espalhadas pelo mundo inteiro.

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Se conseguíssemos atravessar este canal estaríamos a entrar numa fase crucial que já começávamos a preparar as manobras a fazer. A nossa chegada a comunidade da Lém-Ferreira através do projeto Finka Pé era a consolidação prática de unidos somos mais forte para lutar, e lutar é o único caminho que temos para resolver os principais problemas que nos afetam. Duas comunidades a trabalharem juntas já em si seria uma grande vantagem, mas infelizmente o ego e a ignorância, a traição falou mais uma vez mais alto e impediu a concretização deste projeto, deste sonho. Mas Mas a luta continua… O propósito da nossa luta era movimentar-se no tereno com as nossas ideias e obviamente queríamos ter um acesso a nossa estrada, e esta estrada passava sem dúvida para a comunidade vizinha de Lêm-ferreira, e a partir daí avançar para todos os outros bairros mais próximos onde os contactos permanentes já nos esperavam.

Não podemos esquecer que a lógica e a filosofia do nosso trabalho respeitou profundamente a sua origem isto é consciencialização dos jovens, trabalhar para a nossa própria segurança, a paz, a solidariedade, o espírito de “djunta mom”, preparar lentamente uma base muito forte. Infelizmente como em praticamente a maioria das revoluções tem o seu momento crítico e a nossa foi nesta fase, uma fase que o oposto visou essencialmente a destruição da liderança, não uma destruição física mas a destruição do projeto da unidade da praia, cidade de Cabo Verde, das suas comunidades pobres e estigmatizada assolada por uma violência nunca visto. Se foi premeditada, se foi algo infiltrado se foi planeado não sabemos exatamente as principais causas diretas mas a única que temos é que neste ponto parou uma grande espetativa que tivemos que nos obrigou a recuar a pasos largos para saber como e com que estratégia avançar de novo, sem saber exatamente se teríamos forças para o fazer de novo. Mais o que sabemos é que a nossa separação era o mais desejado pelas entidades políticas que não querem a nossa independência. Muitos sem saber trabalham para os seus desideratos a de contribuir para a criação de um clima de traição, de ódio, de bloquear uma iniciativa tão honrada como a nossa. Foi um profundo desgaste psicológico, humano e financeiro, foi uma grande perda de credibilidade esta divisão. Tínhamos juntos conseguidos o mais difícil que era convencer as pessoas para nos ajudarem, e que já não acreditávamos nos projetos com financiamentos do nosso estado ou dos organismos internacionais, mas justamente quando conseguimos a batalha de mobilizar estes recursos, não conseguimos o essencial que era aplicar em conjunto o projeto, e obrigado a separar e cada um ficar no canto da sua casa. Desde modo, podemos dizer que voltamos para o princípio onde começamos. Agora só nos resta perguntar para onde vamos de novo já que perdemos uma primeira e grande batalha de reconciliação? Uma coisa é certa marcamos uma geração de trabalho de ativismo social em Cabo-verde que teve como ponto mais alto a ocupação do ilhéu de Santa Maria, vendida pelo governo ao empresário chinês para a conceção de um casino de alto nível para fomentar mais o crédito no capitalismo.

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Afinal todos mudaram a casaca. Antes a prioridade era o socialismo e hoje mesmo aqueles que lutaram ao lado de Amílcar Cabral que governaram o nosso país durante largos anos, que pretendiam a reconstrução nacional professam que o capitalismo é bom e o caminho ainda que utilizando outras sábias palavras da busca do desenvolvimento. Uma batalha não vencida mas que certamente inscreveu-se na memória dos políticos e da sociedade cabo- verdiana da nossa não aceitação da ideia, contra a opinião pública veiculada nos médias pelos organismos políticos que este investimento seria a solução para os nossos problemas.

Breve história da comunidade de Achada Grande Frente Achada Grande Frente é um dos primeiros bairros que surge na periferia da Cidade da Praia. Inicialmente foi um bairro povoado por pescadores, pastores e estivadores. Relatos oficiais apontam pela sua expansão a partir dos anos 1940 mas há indícios e relatos de moradores já no sec XIX, o que nos leva a acreditar que é um dos primeiros bairros da capital. É o bairro onde fica situado o porto e aeroporto e onde se localiza a maior parte dos armazéns de comércio de Cabo Verde. Tudo isso, permitiu que fosse uma comunidade com muita movimentação de pessoa deste muito cedo. Portanto também faz parte dos bairros que mereceram muita pouca atenção e até desprezo pelas autoridades públicas ao longo dos tempo que somente preocuparam em vender as grandes propriedades que se localizavam na comunidade, e que representaram claramente um muro com os moradores. Nunca houve um real incentivo a uma política de responsabilidade social destas empresas pelos organismos estatais até a nossa geração de ativistas. Os problemas de sobrelotação de armazéns e comércio influenciaram muito a prática de bandidagem e delinquência juvenil desde cedo nesta comunidade. É constituída por moradores muito humilde e confrontadas desde sempre com uma profunda desigualdade social e de pobreza extrema. O consumo do álcool, abandono escolar e o lixo foram fenómenos que marcaram profundamente a forma de ser de muitas crianças e jovens na comunidade. Até hoje esta realidade é marcante e visível. Cedo as crianças frequentavam o porto e aeroporto e estes armazéns para dali tirarem o sustento pessoal e familiar. Achada Grande Frente também é muito conhecido pela sua Tabanka e Batuku. Tabanka é uma cultura ancestral Cabo-verdiana. É considerado um dos primeiros em Cabo Verde. Logo é de salientar que este aspeto socio-cultural influenciou profundamente a modo de ser e de viver desta comunidade. Logicamente que as mudanças sociais afetam toda uma comunidade. De uma comunidade umilde e solidária começa paulatinamente como todos a sofrer as consequências da emergência da modernidade, da democracia liberal e capitalista, da política desigual e de exploração da organização da cidade pelos organismos públicos. Os problemas sociais se intensificam cada vez mas e a consciência da mesma. É neste contexto que a manifestação da nossa vontade de fazer se levanta para uma ação reivindicativa que vamos tentar expor nas próximas linhas.

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O Trabalho da sociologia na comunidade Tudo começou através de uma investigação ação no terreno quando eu andava na universidade Jean Piaget de Cabo Verde a fazer a minha licenciatura em Sociologia no ano 2005. A partir do segundo ano do curso comecei a interessar para estudos do fenómeno thug muito falado na altura. Como qualquer estudante tinha que fazer uma monografia final e um estágio numa organização que veio finalmente a ser realizado na cadeia central de S. Martinho, o maior estabelecimento prisional de Cabo Verde. Na altura a cidade da Praia enfrentavam um dos mais graves problemas de influências do estilo de vida de alguns jovens que foram deportados dos EUA. Muitos destes jovens nasceram nos EUA mas a legislação na altura naquele país tinha como a única solução deporta-los para o país da origem familiar sem preocupar sobre as consequências a nível social, económica política ou cultural do país de chegada, neste caso Cabo Verde. É claro que o governo americano era consciente do problema que ele iria trazer para Cabo Verde. Não é só com bombas que se ataca um país e no nosso caso, embora muitas pessoas não aceitam o sistema americano colocou um problema no seio da sociedade Cabo-verdiana, mas nunca foi culpabilizado e nem um momento a sociedade Cabo-verdiana reivindicou isso, expecto os próprios jovens deportados. O governo só estava interessado em ser financiado por estas organizações tanto através da sede das Nações unidas aqui no país, das embaixadas como por exemplo o programa de modernização de portos o milênio Chalenge Acount a construção das estradas etc e nem estavam a preocupar saber que estava colocado um virús muito forte na cidade da Praia que resultaram em perdas de centenas de vidas de jovens e desesperou muitas famílias. Nas palavras de um dos deportados “a américa criou-se o seu monstro e dela deveria cuidar”. Infelizmente tal nunca chegou verdadeiramente a acontecer. Para muito deles este era um vírus que estava lançado no tecido social Cabo-verdiano. O certo e óbvio é que este fenómeno deu um grande trabalho mudou toda a estrutura social juvenil de Cabo verde especialmente nos maiores centros urbanos. Milhares e milhares de dólares e euros foram colocados em projetos onde nós mesmos podemos ver e sentir que não tiveram um impato desejado pelas comunidades afetadas. Na minha comunidade em particular o movimento destes indivíduos se fazia sentir praticamente no seio da comunidade. No modo de vestir, de falar de andar. Era todo o mundo de uma geração nova descontente e rebelde face ao exageros do novo mundo capitalista e imperialista que eles viviam. Tudo começou a ser como nas cenas dos filmes americanos que assistíamos. A cidade acordou com uma grande novidade: gangues que antes só víamos nos filmes de acção de Hollywood passaram a ser uma realidade presente nas nossa pequena cidade. Homicídios de jovens passaram a ser atos normais na nossa sociedade e crimes passaram a ser concorridos como jogos, as rivalidades e fronteiras passaram a existir em ruas e todas as comunidades da cidade da Praia. Quando fiz o estágio na cadeia entrevistei dezenas de jovens. Havia mais de 600 jovens que estavam encarcerados na cadeia central altura por este motivo: assaltos, brigas, participação em quadrilhas e homicídios, e entre eles alguns eram os temíveis deportados dos EUA.

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Chegaram até a organizar um grande motim dentro da cadeia que resultou a morte por tiro de um prisioneiro pelo guarda. Em todas as comunidades havia estas influências que começaram a se alastrar tornar um fenómeno de difícil resolução. Estávamos em pleno década de 2010, ano em que defendi a tese: para uma perspetiva sociológica do fenómeno thug na cidade da Praia. Tinha pouco meses antes vencido o Prémio Nacional de Investigação em Desenvolvimento Local, um prêmio lançado pelo Ministério de Habitação e Ordenamento do Território. Logo que terminou a defesa da memória com 18 valores começou também os trabalhos de terreno que tinham que ser muito duros acompanhados de uma consciencialização deste fenómeno. Tinha de fazer algo para a minha comunidade que todas as noites se ouvia barulhos de tiroteios nos becos e nas ruas, e de manhã uma vítima mortal ou feridos no hospital. Poucos são aqueles que se atreviam a sair na rua nestas noites. É logo de manhã que os comentários sobre os ferimentos, sobre as vítimas mortais se divulgavam. A imprensa estava sempre atenta para publicar qualquer reação deste fenómeno que se emergia fortemente na cidade da Praia. Foi também a partir deste período que comecei a escrever alguns artigos de opinião no jornal no sentido de informar as pessoas e mobilizar a sociedade civil e política do que estava a passar. Comecei a falar com os jovens, com as famílias e a primeira proposta que fizemos a escola junto com os próprios jovens para abrirem as portas e dar uma oportunidade para estes jovens. Decorrido cerca de um mês os trabalhos de terreno começaram a ter impacto social positivo. Daí que surge uma reportagem no jornal a semana: informática trás vida nova aos jovens thugs.43 Nesta intervenção começou propriamente a primeira relação institucional. A IEFP a instituição voltada a formação profissional dos jovens prometeu apoiar a iniciativa junto do diretor da Escola. Pessoalmente nunca tive contato direto com responsáveis desta organização, nem sobre como pensavam trabalhar com os jovens pelo que não participei diretamente na segunda parte do projeto que eu mesmo concebi: o Projeto de Integração Juvenil, nome que a demos no principio. Na altura havia um programa jovem consciente, um programa da televisão nacional que transmitia exemplos de boas práticas que estava a acontecer naquela altura a partir da grande turbulência juvenil que se passava na cidade da Praia. Este programa se definia com o objetivo principal de promover a paz na sociedade e combater a delinquência juvenil.

43http://www.asemana.publ.cv/spip.php?article51281&var_recherche=informatica%20tras%20vida%20nova%20aos %20jovens%20de%20achada%20grande&ak=1).

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A Associação Acrides foi uma das associações que estava a trabalhar no terreno com jovens thugs da Comunidade de Achada Grande Trás, bem como a Associação Zé Moniz na comunidade de Safende. Este último bairro foi o escolhido para inaugurar o programa televisivo Bo Ki ta Disidi. O programa Bo Ki ta Disidi pode ser considerado uma das primeiras reações direta do Ministério da Juventude com apoio das Nações Unidas envolvendo a comunicação social para fazer a propaganda do governo na altura da sua intervenção face a demanda dos moradores, tratava-se de mais uma projeto vindo com perpetivas do exterior nomeadamente de técnico portugueses44. Nesta 1ªreportagem foi dada o exemplo da nossa iniciativa e da Acrides, uma Associação que trabalha a favor de crianças desfavorecidas. Este programa teve um forte impato na consciência das pessoas e das próprias instituições públicas sobre a possibilidade de uma intervenção neste domínio do fenómeno “thug” , da violência simbólica e física que estava a passar. O despertar das instituições públicas começou a sentir-se fortemente a partir dos vários momentos que os nosso trabalhos começaram a ser transmitidos tanto pelas reportagens na rádio e na televisão e jornais impressos como ainda nos artigos de opinião que eu escrevia no jornal a semana45. Os artigos de opinião tinham muito impato para as organizações políticas porque eram polêmicas e de caracter investigativo. Por outro lado, a escrita é uma memória que fica registada. Este projeto de integração o seu enceramento da 1º fase teve a participação da ex-ministra de administração interna a Dra. Marisa Morais, Ministra da Justiça naquele momento. Neste momento do projeto de integração juvenil um ponto que mais nos marcou foi o homicídio do jovem Nuno de pouco mais ou menos 20 anos. Este jovem que tinha deixado a vida de thug e que dava os primeiros passos de trabalho de intervenção social ao nosso lado, foi barbaramente assassinado por grupos rivais da própria comunidade onde o viu nascer. Ele deixou um filho órfão, sem pai e a mãe que acabou por imigrar, deixando o filho nos cuidados da Avô. Este é um cenário de orfandade é uma realidade que não se discute muito hoje mase que faz parte dos mais de centenas de jovens assassinados só na cidade da Praia- a capital de Cabo Verde.

Este ato profundamente hediondo marcou muito a nossa forma de fazer intervenção, pela dor e tristeza da perda de um “soldado da paz” como ele mesmo enquanto me filmava apelidou-nos. Este nome Soldado da Paz, também foi dado ao primeiro grupo juvenil que surge a partir deste trabalho baseado em dança e música hip hop, a partir do projeto Simenti de que mais adiante vamos falar. Não só ele mas também vários jovens com quem falava e convivia morreram nesta longa caminhada. Portanto, todo este percurso foi marcado pelas lembranças, numa luta que considerávamos contra a violência juvenil, sem saber que estávamos perante um fenómeno global de caracter institucional e internacional, quando se vê hoje a sua evolução, e sobretudo sua solução adiada e nunca verdadeiramente priorizada pelas entidades públicas que mais enriqueceram com os apoios e ajudas do que a própria

44 http://rtc.cv/index.php?paginas=47&id_cod=17516

45 http://www.asemana.publ.cv/spip.php?article57406

168 satisfação das carências que a comunidade sofria com os impatos deste fenómeno.

Figura mediação de conflitos na Zona de Casa Lata

1. O lançamento da Simenti na tera di Achada Grande Frente

Tudo começa por um telefonema: “Alô eu sou Estefania Bortolotte, sou italiana e neste momento estou a viver em Cabo Verde, na cidade da Praia. Eu e a minha colega Nathalie que é psicóloga estamos a trabalhar neste momento com a Fundação Esperança para criar um projeto de combate de violência juvenil na cidade da Praia. Fundação Esperança é um fundação dirigida pelo Ex-presidente da República Dr. António Mascarenhas. Tivemos a proposta para fazer este projeto e como temos estado a ler os seus artigos no Jornal a Semana sobre este tema gostaríamos de ter contigo para pessoalmente conhecer o seu bairro e as suas ideias e a possibilidade de trabalhares connosco. Aceitarias este convite? Claro foi a minha resposta. Podemos falar. Esta foi um dos primeiros contato que tive com os coordenadores deste projeto que foi lançado na comunidade sobre o guardião da Fundação Esperança intermediados pelas duas pessoas acima indicada. O projeto Simenti surge basicamente como a primeira resposta de base associativista no terreno que reflete os acontecimentos denunciados.

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Foi o primeiro projeto para aquela comunidade com uma estrutura focalizada com panejamentos sólidos e com perpetivas a longo prazo, mas que não recebeu apoio necessário do governo na altura para continuar ainda que seja por mais 1 ano, apesar de terem conhecimento do projeto através da audiência do falecido presidente da Fundação Esperança António Mascarenhas Monteiro. Portanto, da Fundação Esperança se conseguiu mobilizar fundos para financiar este projeto que veio chamar projeto Simenti46. A Fundação Esperança tinha a disponibilidade em desafiar uma alerta do fenómeno da delinquência juvenil que assolava a capital e esta surgiu como uma grande oportunidade para a nossa iniciativa que já estava a apontar no campo do trabalho social em Cabo Verde, particularmente na cidade da Praia. O projeto foi financiado pela embaixada França e teve a duração de um ano, mas tinha sido projetado para um prazo mínimo de 4 anos. Foi a minha primeira experiência de trabalho com uma organização social: técnicos sociais juntos, uma equipa de trabalho multidisciplinar: uma pedagoga, um psicólogo e um assistente social, um sociólogo. Este para mim como jovem sociólogo acabado de sair da universidade com aquelas teorias absoletas ocidentalistas este seria uma grande oportunidade para constatar na prática o que era fazer uma intervenção social no terreno. Tínhamos como meta principal no projeto a prevenção precoce da violência e intervenção diretas no campo juvenil. Ao mesmo tempo que trabalhávamos com as crianças e famílias também trabalhávamos com os jovens e a comunidade no geral47. Por falta de financiamento o projeto parou a meio tempo, um ano e meio depois e muitos objetivos não foram concretizados48. Os organismos estatais apesar de terem conhecimento da natureza do projeto e da sua importância nunca chegaram a participar verdadeiramente e mostrar um verdadeiro interesse pelos principais problemas que procurávamos soluções a saber: violência juvenil urbana, integração de jovens em situação de risco, animação infantil, apoio e acompanhamento escolar. Das poucas vezes que participaram tanto em audiências que tínhamos com eles como prestação de serviços foi devida ao fato da insistência tenaz que somos obrigados a fazer para as instituições por não ter outra escolha, além de aprender a partir das nossas experiências que tínhamos dois caminhos: alinhar categoricamente ao partido e conseguir fundos ao mesmo tempo que prestávamos serviços de mobilização e militância partidária ou teríamos que mobilizar voluntários e ativistas e sem nenhuma ajuda das organizações ter apoios da comunidade e das empresas e outras instituições para poder continuar.

46(http://www.asemana.publ.cv/spip.php?article80822&var_recherche=funda%E7%E3o%20esperan%E7a%20e%20 projeto%20simenti&ak=1) 47 http://www.rtc.cv/index.php?paginas=21&id_cod=3342 e ainda http://noticias.sapo.cv/inforpress/artigo/71199.html

48http://www.asemana.publ.cv/spip.php?article79480&var_recherche=funda%E7%E3o%20esperan%E7a%20e%20pr ojeto%20simenti&ak=1

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Tínhamos ainda uma outra opção deixar-se trabalhar com as instituições politicas: ministérios e secretárias do estados mas sem se comprometer totalmente, embora cada um dos lados podia jogar conforme os seus interesses. Como em Cabo Verde vivemos numa sociedade bipolarizada com dois maiores partidos no poder, uma dominando a camara e outro o governo esta seria a melhor solução uma vez que a própria comunidade é muito partidarizada. Neste sentido não tínhamos hipóteses de ser autónomos porque não tínhamos a capacidade financeira suficiente e nem tínhamos apoios da comunidade. As ajudas eram sempre muito reduzidas e nunca ao ponto de nos garantir uma independência total. Mesmo assim o projeto Simenti criou raízes profundas formou jovens rapazes e raparigas na área de animação infantil, grupos de dança hip hop e também deu continuidade a estudos acompanhados para crianças na comunidade. Este grupo de animação infantil que se chamou arco risos no início até ao conflito no seio dos do seus membros fundadores que se desmembraram, conseguiu a sua própria autonomia financeira o que dava aos membros uma certa renda para sua sobrevivência e articulação continuada com as organizações públicas e privadas.

2. O movimento Korrenti di Ativista e a ocupação do Pilorinhu Escrever a história do movimento Korrenti di Ativista, quando e onde surge não vai ser tarefa fácil mas basicamente podemos confirmar no tempo e no espaço que surgiu no contexto do desaparecimento institucional do Projeto Simenti e com o inicio e desenrolar dos trabalhos no terreno, particularmente com a Marcha Cabral 2013. Esta última foi uma iniciativa de homenagear o Líder Panafricano que combateu contra o imperialismo e o colonialismo Português, o revolucionário Amícar Cabral morto pelas mãos do imperialismo como todos os revolucionários africanos que lutaram pela independência total do continente do sistema imperialista e colonialista. Mas também podemos ir mais longe dizer que as suas raízes mais profundas estão situados num tempo passado onde ouvíamos e recitávamos poemas sobre Amílcar Cabral nas escolas primárias, onde todos os dias éramos obrigados a recitar o hino nacional que exortava o jugo colonial estrangeiro e “o florir nos céus da bandeira da luta do principal líder da revolução Cabo-verdiana”. Pode ainda ser nas histórias de revoltas que ouvíamos dos nossos avós sobre os maus tratos nas roças da Guiné, da Angola e Moçambique e São Tome e Príncipe pelos trabalhos forçados dos colonialistas Portugueses. Também próprio projeto Simenti já tinha enquadrado no seu programa o empoderamento da sociedade civil e definido o protagonismo juvenil como uma das suas principais metas e estratégias. É o exemplo na colaboração efetiva com o parlamento de ghetto uma iniciativa que surge da vontade entre líderes comunitários de diferentes comunidade que estavam a emergir neste contexto da grave violência entre jovens de bairros diferentes. O objetivo era mensalmente debater as principais questões

171 que nos preocupam particularmente a questão da insegurança e divisão de fronteiras por grupos rivais, abrir a consciência destes jovens para a luta pela Paz. O primeiro encontro de jovens, uma espécie de conferência teve lugar na zona de calabaceira por iniciativa do Dino, um daqueles jovens que já tinham antes de nós fortemente um trabalho de mediação de conflito na zona de safende – antiga Txetxenia, um dos espaços de maior consumo de crak na cidade da Praia nos anos 1990. Nesta comunidade e nestes arredores veio a ser fundado a organização Espaço Aberto da Associação Zé Moniz com um grande apoio da cooperação espanhola particularmente. Desta conferência em Calabaceira surge o compromisso de Parlamento de Ghetto a partir de uma conversa naquele momento que tive com um Mc que me falou que ele tinha escrevido uma letra deputados de Ghuetto. Logo respondi então chamaremos a próxima secção o “parlamento de Guetto”. Logo ficou marcado aquilo que deveria ser considerado o primeiro parlamento de Guetto na Comunidade de Achada Grande Frente a 20 de Janeiro de 2012 com o lema Paz União e Liberdade. Casa Lata, Vila Nova, Achada Grande Trás e Achadinha foram os próximos bairros onde decorreram o parlamento de jovens de ruas, muitas vezes sem expressão da vontade popular. Ou seja não havia uma grande aderência dos moradores. Este comportamento se justifica sobretudo porque os moradores não estão habituados com o exercício de uma cidadania aberta e de uma crítica popular. O parlamento foi um sistema onde os jovens tinham a palavra e podiam desfrutar dela como bem entendessem. Era organizado muitas vezes no meio de uma Praça ou numa escola. Portanto, parlamento de ghetto pode ser também considerado uma das principais influências diretas, para além das experiências anteriores já citadas, para o surgimento do movimento Korrenti di ativista, quando já deixou de ser organizado pelos seus principais fundadores, deixando um espaço vazio entre eles. Os principais fundadores e colaboradores diretos da iniciativa parlamento de Ghetto situava em pelo menos elementos de 3 organizações da sociedade civil: Espaço aberto Safende, projeto Simenti e Afrocentrikus Ritmus y Poesias. Este último aqui pode ser considerado como uma escola onde passaram praticamente a maioria dos ativistas comunitários da cidade da Praia da minha geração. Trata-se de um movimento liderado pelo Jorge Andrade mais conhecido por Jorginhu, com base num afrocentrismo radical e tinha como principal meio de propagação de um programa de rádio com um teor afroocentrista. Também realizavam encontros nas comunidades, formações de MCs, Cinema, debates etc. Retomando o exercício de buscar os fundamentos da Korrenti podemos também afirmar que quando a simenti já não tinha meios financeiros para avançar começamos a pensar novas estratégias de continuidade ao trabalho iniciado. As primeiras reuniões para a formação da Korrenti iniciada já na sede da Simenti e tinha como principal objetivo ocupar o espaço Pilorinhu abandonado por cerca de 15 anos pelos moradores na comunidade de Achada Grande Frente. O espaço pilorinhu foi um espaço contruído para ser um mercado de peixe numa primeira fase onde vinha posteriormente receber mais 3 andares consoante as necessidades. O projeto foi inaugurado mas nunca foi utilizado pelas funções com que o tinham destinado os decisores públicos: a Câmara municipal da altura e o governo.

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mesmo depois da limpeza do espaço meses ainda o lixo estava ao lado demonstrando a falta de atenção da autarquia Mesmo já no projeto Simenti já tínhamos alimentado a ambição de estar no espaço pela proposta verbal e escrita que tinha sido adiantada para a CMP na altura dirigida também pelo MPD. Contudo a resposta era sempre o silêncio, mas sem nenhuma contradição. A intenção demonstrada pelas entidade política da autarquia era claramente a demolição do espaço tendo em conta que esta já estava num estado avançado de abandono, transformado em uma lixeira pública que começava a demandar insatisfação ou descontentamento dos próprios moradores. Em final de 2012 e início de 2013 a organização do Movimento Korrenti di Ativista faz uma acção de justa ocupação de um espaço, que segundo o seu argumento estava abandonado e merecia ser ocupado de forma positiva para o bem da sociedade e continuidade do nosso trabalho. A intenção da ocupação do espaço estava contido na nossa filosofia de criar um espaço independente do partido, um espaço que ganhasse uma representação da própria comunidade, mesmo que trabalhasse com a autarquia e o governo.

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Espaço pilorinhu ocupado

Antes da ocupação se organizou uma marcha em memória do revolucionário Amílcar Cabral para dar o nascimento público da organização e o identificar com as mesmas causas de consciencialização da nova geração não só da daquilo que foi luta pela libertação do país e de outros países africanos mas ainda a necessidade de fazer esta nova luta enquadrada nos desafios que a comunidade enfrenta hoje. Assume-se assim a realização da marcha anualmente e continuar os trabalhos desta luta diariamente. Os elementos líderes comunitários reconhecidos pelos seus trabalhos foram desafiados a participação e colaboração efectiva para erguer esta grande empreitada que era a ocupação e reconstrução do Pilorinhu como um centro social independente com a sua própria politica e filosofia de trabalho. A Marcha Cabral 2013 foi praticamente a abertura oficial do movimento Korrenti di ativista com um apelo a sociedade civil cabo-verdiana para se organizarem no sentido de se posicionar fortemente sobre o seu direito cívico político e participativo.

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1ª Marcha Cabral Convêm relembrar que em 2010 também foi organizado uma marcha em nome do Amílcar Cabral pelo falecido ativista plástico Dudu Araújo e que a mesma também foi uma fonte de inspiração para as sucessivas marchas em memória de Amílcar Cabral que surge a partir de 2013 até hoje. Dúdú é um jovem expoente máximo do ativismo comunitário na sua moderna expressão. Ele suicidou-se e até hoje ninguém sabe as reais razões. A sua curta vida foi cheia de energias no campo de hip hop e do ativismo comunitário.

Os momentos da Korrenti 1. O contato com Movimento Fora do Eixo do Brasil Foi a primeira experiência que tivemos com uma organização estrangeira e sobretudo do Sul. Esta organização de jovens com vários pontos no Brasil e que presta um trabalho notável no ativismo político de movimento sociais no Brasil chegaram a Cabo Verde a convite do Ministro da Cultura com o objetivo de introdução do ativismo digital. Nas palavras do Ministro o objetivo era criar vários pontos de cultura digital que ele chamou epiricentros, espaços que davam os jovens oportunidades de se conetarem livremente com o mundo da cultura digital formar redes de trabalho social e cultural. Por razões práticas não podemos dizer que as intenções do ministro da cultura era genuínas e que ele queria realmente trazer uma revolução digital para dinamitar toda a pólvora do ativismo comunitário

175 acumulado nesta altura. Pois na práticas as suas ideias não se concretizaram menos que 10% por não reunir condições nem técnicas nem financeiras e muito menos da sua vontade. O primeiro objetivo dizia este Ministro era transformar a comunidade Achada Grande Frente na primeira comunidade digital e Pilorinhu num centro digital da cidade da Praia. Para isso, o Cláudio Furtado, que apresentava como consultor do ministério da cultura, um senhor na casa dos seus 70 anos que trabalhou nesta área no governo de Gilberto Gil no Brasil, foi nos encontrar já no projeto Simenti, que já estava na sua fase final mostrando a sua vontade de trabalhar connosco. Falamos ele da ocupação prevista no espaço pilorinhu ele logo queria também participar inclusive convidando o Ministro para presenciar a referida limpeza de ocupação.

Foi o selo entre ocupação do Pilorinhu e o movimento Fora do Eixo. Este movimento participava fortemente na organização do Wold Atlantic Music um evento forte do Ministério da Cultura na cidade da Praia. Este movimento junto com o ministério da cultura nos convidou a conhecer experiências de luta no Brasil onde visitamos 3 cidades: Fortaleza, S. Paulo e Rio de Janeiro. Passando 2 semanas voltamos ao terreno, e o Movimento Fora do Eixo e o Ministérios da Cultura tinham comprometido a continuar a buscar meios para implementarmos a transformação de Pilorinhu numa base da revolução digital em Cabo Verde. Começamos bem com a empresa LTC que durante um ano disponibilizou internet a título gratuito no espaço Pilorinhu até a empresa fechar as portas por falta de apoios. O projeto com o Minstério da cultura não ocorreu conforme foi previsto e muitas das acções não foram concretizadas. Sabemos que o epericentro no platô funcionou como uma base de trocas de experiências de artesões de vários cantos da cidade e que também permitiu vários encontros e coberturas digitais de eventos. O Djumbai por exemplo, um movimento do sociólogo redy Wilson recebeu nos seus vários momentos apoio técnico desta organização, assim como vários outros movimentos, artistas, e eventos políticos e culturais. Mas no que concerne a colaboração efetiva do ministério de cultura para apoio a reabilitação do pilorinhu, para apoio aos jovens artistas, para melhor articulação dos técnicos, financiamentos de projetos enviados pelo Pilorinhu nunca houve resposta concreta por falta de verba segundo as suas versões.

Podemos concluir que o Ministério de Cultura não conseguiu mobilizar profundamente recursos nem apoios que permitissem a sociedade civil Cabo-verdiana a se tornar mais consciente, a ter maior disponibilidade do trabalho ao nível da multimédia, das redes sociais.

2. O projeto de inclusão social das Nações Unidas com o ministério da juventude Basicamente este foi um projeto que surgiu quase no mesmo momento que o nosso encontro com o movimento fora do eixo.

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Foi umas das primeiras parcerias de projetos no degradado espaço Pilorinhu. Três comunidade de que temos vindo a falar desde o início desta narrativa: Achada Grande Frente, Safende e Tira Chapéu com a associação Acrides foram as contempladas pela mesma. Este projeto abriu uma grande esperança para os jovens que faziam parte do nosso movimento. Este projeto permitiu o renascimento do projeto simenti. Como a korrenti não tinha um estatuto a simenti assumiu a parte burocrática através da Fundação Esperança49. Este foi o nosso segundo contato com uma organização Brasileira mas desta vez uma ongs que tem feito trabalhos dentro das favelas de rio de Janeiro. Se no primeiro momento estávamos sobre a influência de um ativismo digital e político, a entrada desta nova organização nos proporcionou o contato direto com uma das maiores organizações de caracter filantrópico do mundo: as Nações Unidas. Através da direção da PNUD em Cabo Verde e junto com o ministério da juventude tivemos vários encontros na sede das nações unidas em Cabo Verde e no prédio do Ministério da Juventude. Presume-se que esta organização pela primeira vez na sua história em Cabo Verde começa a ser confrontada de forma aberta e constestada os seus métodos burocráticos de trabalho de pensar que a partir do seu Gabinete, pessoas a ganhar centenas de dólares podiam controlar os projetos nas comunidade sem ouvir o que estes tinham a dizer. Segundo as informações que tivemos e que pode ser verificado no geogle está orçado em mais de 100 mil contos Cabo-verdianos para o prazo de um ano. Tínhamos uma grande esperança que trabalhando com Afroreggae com a sua primeira vinda para a África depois de percorrer Europa, Ásia e América e com as Nações Unidas constatando em locus tudo o que se passava no pilorinhu, as condições de trabalhos, a alimentação destes jovens e crianças, as suas ambições, a sua história iam se mudar. Acreditávamos que tudo ia mudar e que a finalmente a juventude teria o verdadeiro sentido que merecia na sociedade cabo-verdiana. Acreditamos ainda que este projeto tinha tudo para ser um sucesso porque era materialização de um grande sonho a de trabalhar de forma articulada com as instituições públicas, uma vez que tal era um dos seus principais objetivos. Contudo, logo no inicio alguns dos próprios técnicos de afroreggae começaram a ver que as instituições públicas não tinham a capacidade de trabalharem de forma articulada e que este era um dos melhores desafios, ainda que é reconhecido que os problemas sociais tinham uma transversalidade que cobria todas as áreas da edução, cultura, juventude, justiça entre outros. Portanto, acreditamos que o eco das nossas reivindicações teria o seu fim. Que todas as vidas ceifadas nas guerras urbanas teriam um ponto final. Sonhamos que era aquele momento ideal para tomada da consciencialização das instituições públicas que tanto procurávamos. De fato este projeto facilitou um conjunto de mobilizações, parcerias mas durante um ano da sua operação envolvendo vários ministérios, não foi capaz de alavancar o pilorinhu, de permitir a sua mais completa

49 http://www.afroreggae.org/tag/africa/

177 reabilitação e integração dos jovens e crianças que a frequentam, não permitiu nem dos jovens artistas formados na área de batucada, circo e grafite quanto mais a união dos jovens desta comunidade e muito menos ainda a união e articulação dos próprios ministérios para apoiar o projeto. Podemos afirmar que apesar de ser um projeto que teve uma enorme quantidade de recursos financeiros e técnicos não foi capaz de permitir a articulação entre a sociedade civil e os organismos dos estados e com os organismos internacionais e pior ainda não conseguiu integrar uma única criança em situação de grave risco social, no caso concreto da comunidade de Achada Grande Frente dos cerca de 4 casos críticos encaminhados. De novo a caminhada estava nas nossas mãos de um lado ganhamos mais conhecimentos mas automaticamente perdemos mais uma vez a confiança nas comunidades. Estes projetos vem com muito barulho a Ministra da Juventude disse que o projeto abrangeria cerca de 1500 pessoas por comunidade. Sempre assim quando vem os projetos internacionais muitas vezes ficamos com a culpa de ter todo o dinheiro do projeto quando na verdade não mais que menos de 1% do financiamento do projeto. Uma parte do objetivo sim. Mas ficaram desilusões, esperanças que não foram saciadas. O projeto não avançou nesta parte, não houve a integração escolar e profissional e familiar no trabalho desenvolvidos por todos os técnicos do ministério da juventude, da educação, da cultura, da nossa organização, do afroreggae e da própria representação da ONU em simultâneo Uma destas crianças acabou por completar os seus 18 anos na cadeia que foi por duas vezes durante um ano. Todas estas crianças tem marcas de revoltas e vivem a esperança de um dia ser integrados. Os jovens do Pilorinhu: lucas e o michel continuam a fazer o seu trabalho de circo e de palhaçaria uma profissão que apanharam já no projeto simenti, o Pilorinhu continua como um barco a navegar em águas turvas do oceano. É na base das dificuldades que termina oficialmente projeto de inclusão social em agosto de 2016 e que nos leva a tecer duras criticas aos organismos públicos caboverdianos lançado no jornal intitulado: lá onde as políticas públicas falham50.

3. Associação Pilorinhu A Associação Pilorinhu nasce formalmente nos inícios do ano 2014 no quadro das demandas de institucionalização política das organizações da sociedade civil, pois se não estás legitimado estás muitas vezes condenado a não receber financiamentos e a morrer pouco tempo depois. Após a ocupação do espaço Pilorinhu, da nossa participação em vários projetos, entre as quais citamos apenas as mais importantes, havia já uma necessidade de estreitar laços de parceiras com organizações públicas como ministério, mas concretamente entendemos que a Câmara Municipal detentora legal daquele espaço tinha por dever nos ajudar a reabilitar o espaço e mobilizar parceiros e melhorar as condições do nosso trabalho.

50 http://www.expressodasilhas.sapo.cv/sociedade/item/42961-pilorinhu-la-onde-as-politicas-publicas-falham

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Após várias tentativas e várias insistência o presidente da Camara, Hoje 1º Ministro de Cabo Verde mostrou a disponibilidade de avançar com este processo onde trabalhamos juntos nos termos legais daquele documento. Apesar da nossa vontade de prevalecer a determinação e da autonomia da decisão dos termos o protocolo veio a ser assinado sem respeito profundo da visão que tínhamos do espaço e do desenvolvimento das nossas competência da integração e inclusão social.

Segundo as palavras do ex-presidente da Associação Pilorinhu Ulisses Correia e Silva hoje primeiro ministro durante uma entrevista na televisão de cabo verde no ato da assinatura do protocolo com a associação Pilorinhu ele diz claramente: “ este grupo pegou neste lugar e o transformou de tal modo que aquilo que era um lixo, que era uma problemática passou a ser um lugar de inclusão social. Eles fizeram todo o trabalho de limpeza e de remodelação dentro das condições do projeto dando mais dignidade para o espaço onde qualquer pessoa que lá voltar vê uma realidade diferente. Foi tudo isso que nos deu mais ânimo de assinar este protocolo… queremos até que cresça mais. Este é um exemplo de apropriação da parte da sociedade civil, uma intervenção útil para a comunidade”51. Tanto em termos financeiros, como profissionais o protocolo não foi muito bem alinhado com as nossas aspirações. Quando falamos do protocolo, o fizemos porque era uma condição para a assinatura do protocolo da cedência do espaço e continuar a exercer minimamente a nossa missão. O subsidio da Camara Municipal 50 mil escudos mensais era o mínimo que tínhamos para poder garantir a nossa alimentação, e continuar a fazer atividades mais básicas como a manutenção do espaço, acolhimento dos voluntários internacionais e nacionais, realização de colonias de férias escolares, acolhimento de crianças no seu tempos livres, atendimento da comunidade, limpeza comunitária etc etc. Não vamos debruçar muito neste capítulo na avaliação do protocolo porque faz parte do segundo momento deste documento da análise autocritica dos momentos do nosso trabalho. Criamos um corpo diretivo com o objetivo de apresentar o nosso plano que já estava muito bem concebido para as organizações públicas colaborarem. O plano estava dividido em 7 frentes de Trabalho: 1. Biblioteca Comunitária. 2. Horta Comunitária . 3. Alojamento Comunitário 4. Restaurante Comunitário. 5. Observatório de direito Comunitário. 6 Multimédia e Comunicação e 7. Reabilitação e Dinamização do espaço Mandamos o projeto para quase todos os ministério com 2014/2015. As resposta foram menos de 5% do total do projeto solicitado, o que nos deu a entender que elas não queriam de fato interessados profundamente no empoderamento da sociedade civil.

51 http://www.expressodasilhas.sapo.cv/sociedade/item/43585-cmp-disponibiliza-espaco-para-associacao-pilorinhu http://www.rtc.cv/index.php?paginas=13&id_cod=37390

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A nossa sorte para o ano 2014 é marcado fortemente pelo intercâmbio que tivemos com Jovens de Costa Rica, 5 voluntários daqueles país, um contato através de uma voluntária de nacionalidade Portuguesa, a Inês52. Deste intercâmbio resultou a construção de 3 alojamento, a melhoria da horta comunitária e o nascimento de uma biblioteca no Finka Pe- comunidade de Lêm Ferreira.

4. Finka Pé a fase crucial Finka Pé é um projeto que nasce na comunidade de Lêm Ferreira com a participação de jovens daquela comunidade para fazer “viver” um antigo espaço balnear público abandonado e materializar a união dos dois bairros que já antes viveram o terrível fenómeno de gangs juvenil. Aquele espaço foi construído através de Djunta Mom de várias pessoas com apoio da cooperação estrangeira nos anos 1980, que alguns moradores consideram que foi apoio austríaco. Foi um dos primeiros espaços de cariz comunitário que começaram a ser construída na cidade da Praia, em seguida das escolas e cooperativas. Finka Pé pode ser considerado a nossa primeira tentativa de expansão e influência direta da nossa forma de trabalhar em uma outra comunidade. Já há muito tempo que tínhamos aquela ambição de trabalhar juntos com jovens de outra comunidade de partilhar a nossa experiência, expandindo a nossa visão, mas como é obvio precisávamos de nos preparar primeiro antes de avançar e o que veio a acontecer nos dá talvez a razão para acreditar que devíamos preparar mais. Estávamos consciente que era este o caminho e determinados a tornar o Finka num modelo de intervenção social e político de formação de lideranças. Por outro lado, a grande importância dada ao Finka Pé estava inserido na vontade de unir os dois bairros por meio de projetos sociais comunitários. Tínhamos como principal ambição quebrar a fronteira simbólica da violência que separava estes dois bairros há mais de 15 anos, por conflitos e rivalidades juvenis. Este tipo de problema já está entranhado no modo de pensar de muitos jovens, influenciando mesmo as crianças que havia uma passagem proibida naquele bairro. Dezenas e dezenas de jovens caíram em confrontos rivais nos bairros da cidade da Praia, entre as quais temos o exemplo de jovens residentes nestas duas comunidade, muitos abandonaram a escola, ficaram com ferimentos de balas e outros morreram ou foram aprisionados. Foi a primeira vez que acontece que jovens que eram rivais começaram a trabalhar no mesmo projeto e com a mesma ambição e com caracter de militância social. Este fenómeno que se chamou Thug, é uma influência direta de jovens que foram deportados dos Estados Unidos a partir dos anos 2000 para Cabo Verde. Este tipo de comportamento surge imediatamente como resposta as fracas condições de integração que muitos deles encontraram na sociedade Cabo-verdiana, obrigados a viver em condições de vidas a que não estavam habituados como nos EUA.

52 http://www.rtc.cv/index.php?paginas=13&id_cod=41919

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Cartaz do crowdfundig Finka Pé 3DUDHVWHGHVDILRWtQKDPRVGHWHUUHFXUVRV $ILQDOHVWiYDPRVHP DSHQDVXPDQRGHWUDEDOKRQDTXHOHHVSDoR)RLDVVLPTXHVXUJLXD LGHLDGHRUJDQL]DUXPFURZGIXQGLQJ8PVLVWHPDGHILQDQFLDPHQWRFROHWLYRDOWHUQDWLYRDWUDYpVGHXPD SODWDIRUPDGLJLWDO  7tQKDPRVDPLVVmRGHFULDUFRORFDURSURMHWRQHVWDSODWDIRUPDHPRELOL]DUGRDGRUHVGXUDQWHGLDV 1DDOWXUDWtQKDPRVDRQRVVRVHUYLoRXPYROXQWiULRYLQGRGH,VUDHOTXHWLQKDQRVHXSHUFXUVRFRQKHFHUD iIULFDHID]HUDVXDSDVVDJHPSRU&DER9HUGH YHUDUHSRUWDJHPGRVXIDRSURMHFWR TXHWLQKDH[SHULrQFLD

  nesta matéria e nos ajudou a elaborar e mobilizar pessoas. A campanha foi um sucesso porque também já tínhamos uma rede internacional de pessoas particulares que reconhecia o nosso trabalho e que tinham trabalhado diretamente connosco53: Contudo e infelizmente o projeto não foi aplicado conforme estava previsto. A ideia de unir comunidades e trabalhar juntos foi alterada. Os jovens com quem trabalhavam consideraram que queriam criar uma associação nova, que podiam caminhar com os seus próprios pés, desligado da mãe pilorinhu que já agora com os seus recursos económicos adiquiridos e alguma experiência acumulado que podiam fazer sozinhos. Este foi o principal argumento apresentado. Mas sabemos que vários fatores interferiram para o insucesso do nosso projeto. O projeto Finka Pé tinha para além da ambição de trabalhar questões sensíveis e culturais como a desunião entre as comunidade, já enraizada no meio da representações coletivas, também tinha ambições politicas muito fortes. É o exemplo da ocupação do Ilhêu de Santa Maria, indo contra a decisão da construção de um casino e hotéis por um empresário estrangeiro. Portanto, este não era visto com bons olhos para muito quadros da comunidade que não gostavam das influências ativista revolucionarias que estávamos a trazer para a comunidade. Pois, a nossa dinâmica de trabalho incluía um trabalho multifacetado: associativismo formal e militância social portanto trabalhamos com crianças, biblioteca comunitária, arte, recepção de voluntários estrangeiros através de coachsurfing etc etc Logo de forma indireta haviam grupos que tentavam sempre desviar a atenção daqueles jovens da comunidade que estavam connosco. Para evitar conflitos decidimos os deixar trabalhar livremente, e criar a associação para continuar e repensar os trabalhos no espaço e na Associação Pilorinhu comprometendo os ajudar quando precisarem, inclusive os deixando com quase todos os materiais e equipamentos e ¾ do recurso arrecadado do crowdfounding para avançarem conforme o projeto.

Finalmente o projeto Finka Pé não conseguiu avançar como tínhamos previstos. Era a primeira vez que se via um projeto desta natureza estávamos quase a conseguir a sustentabilidade a palavra mágicas das organizações da sociedade civil. Tínhamos tudo para dar certo. Tínhamos pela primeira vez um caso de sucesso uma organização sem compromisso político partidário como Pilorinhu conseguir erguer um projeto fora da sua comunidade apenas com a força da motivação com prática da sua teoria que juntos somos mais fortes.

53https://www.kisskissbankbank.com/en/projects/finka-pe-a-community-center-inside-the- ghetto/comments

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Biblioteca infantil Finka Pé

Os jovens começaram lentamente a progredir, crianças das duas comunidades se reuniam, jovens de várias comunidades tinham partilhados naquele espaço novas ideias. O centro finka pé recebia semanalmente jovens de vários países no mundo através de Coachsurfing, onde para além de dormirem deixavam as suas contribuições artistas ou financeiras e contatos.

Como todo o bom sonho tem o seu fim Finka Pé houve um momento decisivo para travar este sucesso. A traição conseguiu falar mais alto, o egoísmo dominou a cena e o Pilorinhu foi obrigada a se retirar do espaço sem concluir o projeto conforme o Crowdfunding.

A esperança de que as 80 pessoas que fizeram o financiamento colectivo iriam ver o projeto aplicado conforme apresentado a ele não chegou a acontecer. O projeto foi aplicado em separado o Finka Pé seguiu com uma nova dinâmica e o Pilorinhu prosseguiu a sua marcha lenta. Regrediu para recomeçar um largo tempo que só não foi perdido porque no trabalho social também a experiência conta. Talvez pensamos que o trabalho do finka pé foi interrompido por falta de experiências e maturidades de membros que estavam associados tanto ao pilorinhu como do Finka Pe. Era necessário que a força, responsabilidade e engajamento dos membros fossem superiores a arrogância e egoísmos tal não veio a acontecer conforme esperado.

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Mas uma coisa positiva podemos aceitar finka pé continuou ainda que de forma diferente, deixando a esperança em aberto de continuarmos talvez um dia a trabalhar juntos. As aulas conjuntas de capoeira, ainda que com menos intensidade e atividades nunca pararam. Pode ser que isso abra a possibilidade de um dias estas crianças jovens e futuros de amanha continuarem a nossa luta inicial.

5. Ocupação do Ilhéu de Santa Maria No dia o3 de Agosto de 2015 em nome do Movimento Korrenti di ativita decidimos a ocupação do Ilhéu de Santa Maria como forma de protestar contra a decisão arbitrária do Governo e da Câmara Municipal da Praia de fazer aquele que eles denominam de o maior investimento jamais feito em Cabo Verde. Nesta altura ainda o Finka Pé fazia parte intergrante do Pilorinhu e aí se justifica a força desta ocupação. Para o nosso movimento da sociedade civil a implementação deste mega-investimento em pleno cidade da Praia seria uma grande contradição com as zonas periféricas pobres e estigmatizadas da cidade da Praia e ao mesmo tempo uma verdadeira força e influência do estado em querer atrair o capital estrangeiro para alavancar a economia do País sem ouvir minimamente a população. As zonas comunitárias que circundam o projeto são muito pobres e sem condições para receber o grande projeto capitalista. São sobretudos as áreas mais críticas quando se fala de incidências de práticas criminais entre os jovens, são áreas com muita vulnerabilidade social. As pessoas enquanto cidadãos não foram incluídas no processo da tomada da decisão para conceção deste espaço, que é o ilhéu de Santa Maria. Esta decisão marca o início e o fim de uma nova relação com a instituição governamental. Foi o momento mais radical da nossa organização. Para muitos o momento é visto como o nosso fim, e para nós era o nosso melhor momento, embora não tínhamos conseguido travar o projeto, mas pelo menos colocamos aquilo na agenda pública abrimos o debate do contra e a favor. Naquele momentos Finka Pé e o Pilorinhu estavam unidos e como dois bairros geográfica e historicamente perto do Ilhéu estavam unidos nesta manifestação. Os moradores não apoiaram esta mobilização porque não tem uma consciência crítica e isso nos abalou profundamente. Consideravam como nas palavras transmitidas pelo governo que ia trazer mais emprego e riqueza para o país. O projeto do Ilheu de Santa Maria faz parte do ambição do governo de Cabo- Verde e da maioria do Lideres africanos em querer cumprir programas do desenvolvimento colocado pelos países do ocidente. Estes tipos de projetos tem empobrecidos cada vez mais o continente africano. Vendo de forma

Projeto Djeu realística para o projeto se vê que ela destrói uma das principais zonas de respiração ambiental, cultural e social da cidade da Praia.

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Ela coloca basicamente uma bomba relógio no centro da nossa cidade na vez de uma esperança ao povo Africano ao tentar transformar a praia como a capital dos jogos de Casino.

Crianças do brasil perto do Djeu

Pouco a pouco quando as construções começaram começamos a ouvir as vozes do contra a se levantar de forma quase que em silêncio.

6. O Projeto Dreamers com a Embaixada dos EUA

Este foi um projeto proposto já no tempo da Simenti e depois de quase 3 anos saiu o resultado do projeto pelo que não encontrou esta estrutura organizativa o que levou a Associação Pilorinhu e o Movimento Korrenti di Ativista a assumir o projeto por meio da Fundação Esperança. Na verdade foi o terceiro projeto feito através desta fundação. O primeiro a Simenti, o segundo com as Nações unidas e o ministério da juventude e agora este projeto com a embaixada dos EUA. Segundo a nossa filosofia este projeto já muito bem estava encaminhado muito antes de sair o resultado do seu financiamento em concreto. Normalmente todos os projetos surgem com uma dada missão enquadrada num dado contexto. Esta é uma das grandes preocupações para quem faz o trabalho do terreno, ter de fazer um enorme esforço para gerir um projeto concebido num tempo e financiado num outro tempo. Na maioria das vezes ele sente obrigado a mudar a própria estrutura do projeto e foi o que fizemos.

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Nesta altura a nossa consciência panafricana já se emergia fortemente. Podemos dizer que quando o projeto é financiado ele já estava realizado. Como dizíamos o projeto Dreamer foi o resultado de um concurso da Embaixada, apresentado pelos coordenadores do Pilorinhu com o nome da Fundação Esperança. De principio encontramos algumas resistências em fazer avançar o projeto, considerando que a fundação esperança já tinha fechado um ciclo de trabalho com a nossa comunidade e a nossa organização. Pela informação que tivemos através da Fundação Esperança, e a impressão que ficou marcado na nossa consciência o projeto e a colaboração da fundação foi aceite mais pelo respeito que esta organização tem pelo governo dos EUA e menos pelo nosso próprio trabalho desenvolvido no terreno durante todo este tempo.

A fundação esperança sempre mostrou que acreditava no nosso trabalho, mas a verdade é que nunca se engajou completamente fora dos procedimentos burocráticos em cada um dos projetos que fizemos a partir dela. É claro para nós que trabalhamos sobre a pressão da comunidade, das dificuldades de emprego, de condições muitas vezes todas as condições de financiamento são nos boa na medida que sempre esperamos que vamos conseguir consciencializar ou mobilizar os nossos parceiros mais pertos e mais longe.

Este projeto tinha como objetivo principal fomentar a democracia local, formar lideranças para acções de cidadania. Tudo isso era coisas que fazíamos a tempo inteiro. Enquanto fazíamos o nosso trabalho íamos fazendo pressão para desbloquearam as verbas através da fundação esperança. Fazíamos pressão tanto para a fundação esperança ou muitas vezes íamos diretamente para a embaixada falando com a coordenadora. Chegamos mesmo a falar com a assistente do embaixador que a pouco tempo tinha visitado a nossa Associação e viu com os próprios olhos a situação de trabalho do Pilorinhu. Como este projeto era basicamente aquilo que fazíamos diariamente e com o atraso resolvemos adequa- los as nossas condições de trabalho. Fizemos vários encontros e decidimos dividir o orçamento geral do projeto em duas partes iguais sendo uma parte para beneficiários do projeto e outros para os organizadores ou formadores do projeto. Como estávamos no Finka Pé este projeto nos permitiu de uma certa forma ter recursos financeiros para melhorar o trabalho de reforço do ativismo entre Pilorinhu e Finka Pé. Sempre adequávamos os orçamentos a nossa realidade, as nossas dificuldades. Nunca tivemos a supervisão do projeto por qualquer entidade da embaixada e muito menos pela Fundação. Para nós isso era bom até porque era uma forma de sentirmos livres e aplicarmos os financiamentos a nossa realidade. Pois, antes de recebermos as duas tranches, com grande atraso tínhamos de apresentar uma série de faturas proformas do que iriamos fazer com o dinheiro e depois fazer os relatórios finais. Cumprimos todos os procedimentos e não tivemos nenhuma crítica em relação a isso.

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Contudo, este projeto para nós foi uma nova desilusão porque pensávamos que a embaixada iria nos ajudar, e que mesmo a visita do embaixador seria um comprovativo que precisávamos certas condições de trabalho para avançar. Convêm realçar que a visita do embaixador dos eua no nosso espaço Pilorinhu com todo um aparato de segurança, foi na sequência de um convite no âmbito de um trabalho voluntariado de 1 semana realçizada por um grupos de jovens soldados americanos no espaço. Pensávamos mais uma vez que trabalhando diretamente com o governo dos EUA através da sua Embaixada seria suficiente para eles se comprometerem mais a sério com o fenómeno Thug que eles criaram no nosso país. De novo tal como as nações unidas com todos os ministérios tal não veio a acontecer.

7. Assembleia geral e constituição de novos membros da Associação Pilorinhu. A Associação Pilorinhu passa por um dos seus momentos mais críticos com a sua separação do Finka pé. A ideia era aguardar a constituição de uma nova assembleia de Pilorinhu mas que reunia membros das duas organizações, ideia totalmente rejeitada posteriormente pelos elementos que vieram formar o Finka Pé. Inicialmente não tínhamos nenhuma divisão. Este comportamento obrigou Pilorinhu a dissolver a assembleia que já estava muito delibitada e que aguardava com grande esperança a reorganização a partir dos elementos do projeto Finka Pé. Assim o Pilorinhu criou uma nova direção, com elementos que embora já faziam parte da direção anterior mas que se esperava que todo o problema que surgiu seria uma experiência uma aprendizagem para evitar os futuros problemas.. Se inicialmente tínhamos vários membros pouco a pouco ficamos a conhecer os mais resistentes. Muitos lá estavam apenas por seu interesse e não pela comunidade. A nova direcção constituída tinha como principal missão suster a organização da queda a partir do Finka pé. Tinham um papel amortecedor. Deveria ser experimentada uma nova liderança, um sucessor. Precisávamos de um amortecedor de um arrefecedor da luta naquela fase de separação. Esta fase de desilusão tinha de ser superada só através do tempo. As ambições eram muitas. Já no finka pé se preparavam a biblioteca panafricana, que situava exatamente num quarto onde antes nos tempos antigos se organizavam os planos da vida gangster life. A nossa visão era sim de reformar a liderança mas com uma movimentação dentro da nossa região africana a começar pela costa ocidental concretamente a partir do senegal. E isso já era quase impossível depois do desgaste. Tentamos mas não conseguimos . talvez com o tempo….

8. O Pilorinhu Ganha Prêmio Operation Day Work

Através de um dos fundadores projeto simenti residente em Itália propôs o pilorinhu ao Prémio internacional dos Direitos Humanos na italia concebido pela organização juvenil Operation Day Work. Esta é uma organização alemã mais com sede em vários países da Europa. O Pilorinhu foi vencedor do Prémio. Este é um prémio que se dá anualmente a organizações em todo o mundo que trabalham no domínio de direitos humanos, voluntariado e fomento da democracia.

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Este acontecimento foi uma bola de ar fresco no clima tóxico que vivíamos no momento. Foi uma grande alegria e as expetativas começaram a se levantar pela nova direção.

A causas e as consequências da desagregação do associativismo em Cabo Verde e uma crítica a comunidade

Comunidade, onde está a comunidade posso gritar no microfone mais alto que posso ninguém vai responder este apelo. Contudo toda a nossa luta sempre foi feita para ela. Mas é ela a primeira que sempre nos negou. Mas porquê? Como vimos nas linhas anteriores passamos por diversas fazes ao longo destes 8 anos de trabalho no terreno que começou a partir de meados de 2009 praticamente. Em cada fase a mobilização se aumentava e consequentemente demandava novas estratégias nos desafios e novas conquistas. Verificamos que a nossa organização aos poucos começa a se desintegrar do modelo associativista formal concebida pelas organizações legais e confundir com modelos de militância. Quando começamos a lutar para conter a violência juvenil a comunidade começava a ser confrontado por uma nova visão de um trabalho social de militância a partir da integração de jovens em situação de risco. Esta fase, foi a primeira chamada de atenção da nossa presença. Ao chegar ao projeto Simenti as coisas começam a se consolidar através de um projecto mais concreto, com uma sede e com uma certa organização. É neste momento que se denota uma certa participação da comunidade uma vez que os recursos disponíveis tinham uma abrangência sobre um determinado número de beneficiário, crianças, jovens e famílias e sobretudo porque tínhamos mais capacidade organizativa com mais recursos humanos capacitados tecnicamente para o efeito. Simenti era somente um projecto e não uma associação pelo que necessitava de um certo tempo para ser digerido pela comunidade desconfiada. Também por este motivo não mereceu a segunda chance do governo ainda que com a insistência do antigo e falecido presidente Mascarenhas. Para avançar podemos dizer que o modelo formal de associativismo concebido pela lei toma uma dimensão estritamente assistencialista com muito mais intensidade a partir dos anos 1990. Ano da transição pela democracia liberal e desagregação radical do projeção socialista do nosso estado. Pois, no período pós independência, ainda que as organizações da sociedade civil dependiam dos subsídios do governo através de organizações e cooperações estrangeira davam mais espaços para criação de sustentabilidade e participação da comunidade. A participação popular era evidente. É o exemplo das cooperativas de consumo, do djunta mom, das organizações das mulheres, das crianças e dos jovens ainda que com cunho politico visavam uma tentativa de reconstrução nacional uma independência gradual das nossas economias.

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Já a tabanka que situava fora da politica mesmo antes e depois da independência era uma associação dos primeiros socorros que funcionava lindamente. Aos poucos a ideia de comunidade no sentido lato começa a se desaparecer. O sentimento do projecto de trabalho para a comunidade a participação popular degenera-se completamente ao serviço do partido para mobilização de campanhas e votos. As organizações políticas começam a apoiar as famílias na construção das suas casas, apoio a alimentação a educação tudo numa base estritamente partidária, contaminando o grande poço da transformação social, da igualdade, d da capacitação, da educação da sensibilização de um projeto para a vida comunitária autónoma. Esta ações foram os principais causadores da morte lenta do associativismo, do sentido da solidariedade comunitária, o sentimento nacionalista e do reconhecimento da identidade africana. Com o aumento da pobreza, a diminuição do poder de compra das famílias, com a vaga das privatizações a partir dos anos 1990 e consequente aumento das disputas pelo poder entre os maiores partidos no poder, a elitização do associativismo com aparecimento de fundações à serviços das organizações internacionais, a consciência do associativismo agravaram definitivamente: desapareceram através de forte uma machada na árvore que dava os frutos com elementos cooperativos na dinâmica social , cultural identitária e política de uma comunidade. Começa-se a partidarizar tudo incluindo a própria cultura. Portanto, esta contaminação no trabalho social pela nova política elitista e capitalista criou basicamente uma crise geral da consciência comunitária e da participação espontânea consciente. Por exemplo quando convocamos uma limpeza comunitária para uma comunidade de 4500 pessoas, aparecem somente o grupo da associação. Realizamos reuniões para debater problemas da comunidade mas ninguém vai participar. Pelo contrário fazemos um aviso de uma doação qualquer roupa, comida, brinquedos para as crianças aparecem primeiro os que tem melhores condições para reivindicar o seu direito. De um momento para outro centenas de pessoas a gritar. Um dia tínhamos conseguido 100 sacos de arroz, mal anunciamos a doação a sede de associação estava repleta de pessoas e em menos de uma hora já não havia nada. Mas quando convocamos reuniões, formações gratuitas, praticamente não há nenhuma participação. Para conseguir algum resultado de participação temos de insistir muito ir a casa deles mesmo assim sem resultados. Pessoas da comunidade com uma certa formação recusam partilhar as suas experiências, consagram totalmente ao individualismo, preferindo passar os fins de semana nos bares e nas discotecas do que fazer valer a filosofia de Cabral de que os que sabem devem fazer aprender os que não sabem. Fizemos um crowdfunding divulgamos para todos os Cabo-verdianos a nossa intenção. Ninguém daquelas duas comunidade contempladas deram 100 escudos que seja. Será motivo para dizer que ninguém acreditou no nosso trabalho? Ou melhor dizendo que ninguém da classe média teve a coragem de apoiar? Infelizmente para o lado deles saímos vitoriosos tivemos 117% do resultado.

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As crianças das famílias mais vulneráveis da comunidade são os únicos que nos seguem nos nossos trabalhos. Realizamos colonias de férias durante os 2 meses. Chegando o dia de enceramento uma relativa participação dos próprios encarregados de educação. Por variadíssimas vezes a associação é alvo de roubo dos seus equipamentos indo dum simples pá ou enxada ao computador ou um material eletrónico que é fundamental à organização. Ficamos a perguntar a todo o momento mas porquê o que está a falhar na nossa comunidade. Já sabemos que não somos os únicos que é uma situação generalizada. Sempre críticas por mais que o grupo se esforce se denota claramente uma atitude de indiferença de receio de falta de confiança. Vamos ficar a seguindo esta tradição ou vamos levantar e resolver os nossos problemas. Vamos continuar a esperar ou vamos juntos? Como a nossa organização começa a se avançar para a conscientização e para ideias panafricanistas a situação se complica ainda mais porque não só reduzem os apoios materiais que encaminhávamos para comunidade como também as nossas mensagens são longe de vista sequer uma possibilidade. Em relação as empresas e as politicas de responsabilidade social estamos cansamos e desgastados. É sempre a mesma resposta vai e volta depois, o governo aumentou imposto. Mas quando vem um partido ele dá uma tonelada de coisas para fazer campanha porque sabe que vai ter retorno. Verificamos que as atividades que ganham maior participação das pessoas eram eventos que promoviam o álcool, a dança, e o futebol algo que não estava inscrito na nossa estratégia de trabalho. Os filmes conscientes, as palestras sobre as lideranças africanas, os projetos que não contemplavam o assistencialismo não interessava a comunidade. A única saída que nos restou para nos que não queríamos enveredar para outros meios era continuar a resistir insistir e a trabalhar com aquelas crianças acreditando que serão jovens e futuro de amanhã. Como Cabral disse eles são as flores da revolução e a razão da nossa luta. Um jovem que termina os seus estudos universitário na área de ciência sociais e quer trabalhar na comunidade tem uma única solução ou alinhar fortemente com a política ao vai cair no desespero do desemprego. Nós ariscamos estar desempregados acreditando que vamos jogando com todos os organismos estatais, internacionais com a própria comunidade até atingir a nossa própria sustentabilidade e independência económica mas para isso a comunidade deve se consciencializar que é ela o principal ganhador desta luta que fizemos para ela. Trabalhamos para deixar um subsidio de resistência para as próximas gerações é a única herança de dar ela a capacidade de vir a poder resistir contra as imposições da sociedade elitista que deseja perpetuar no Poder. Os instrumentos e as ferramentas que facilitem esta luta vamos lhes deixar. Esta é a nossa missão. A árvore foi cortada mas a raiz permanece se continuarmos a regar a raiz bai brotar rebentos. Esta árvore é como a moringa que no dakar chamamos “never die” porque mesmo os ramos quando fixados no chão vão se rebentar, se não lhes plantares os vento vai espalhar as suas sementes e vão crescer espontaneamente. Porque a sua finalidade é a cura tal é o fenómeno associativo numa comunidade. Que portas como e porque devemos a abrir?

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Conclusão

Para não repetir tudo o que foi dito o importante a reter é saber que o nosso propósito é passar as pessoas mais curiosas informações da nossa trajectória, mas mais do que isso tudo é fazer com que as pessoas que querem engajar neste projetos conhecer a nossa história, qual foi a nossa principal ambição e como continuar esta luta sobre um novo contexto e uma nova dinâmica. É muito difícil fazer o trabalho social em cabo verde e podemos dizer em africa. Os trabalhadores sociais são obrigados a seguir um único caminho se quiserem exercer a sua profissão que escolheu: o de trabalhar alienado a um projeto político partidário caso contrário será obviamente confinado ao desemprego e abandonar a sua careira profissional para assumir uma outra atividade, quiçá vender pasteis e sopa como disse muito claro a nossa antiga ministra da juventude. Podemos dizer que ainda lhe resta uma opção. A da resistência. Esta é uma das mais difícil porque te obriga a abandonar muitas vezes tudo incluindo a sua própria família e constituir uma família nova que é a sua associação. Esta é a via que pilorinhu escolheu. Chegamos a conclusão ainda que quanto mais financiamentos internacionais recebemos numa comunidade por uma organização mais distante ela fica da comunidade e mais difícil será uma luta. Infelizmente é isso que estamos a ver até ao momento. O projecto associativo está incluído numa filosofia progressista revolucionária. Portanto com o tempo esta vem sendo corrompida pelos sistemas partidários e organizações internacionais de apoio. Pode ser que haja sempre manobras para trazer beneficio para uma parte da comunidade mas esta nunca é suficiente. O verdadeiro projecto de transformação deve partir da própria comunidade como no princípio, quando era os moradores a juntarem todos a participarem com uma consciência revolucionária envolvendo todos. Hoje em dia isso falta muito. Pode ser que um dia lá chegaremos mas o caminho será muito longe e terá de ser muito bem trabalhado. É por este motivo que resolvemos contar um pouco da nossa história que influenciou toda uma sociedade.

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