MORAND WIRTH.

DA DON BOSCO AI NOSTRI GIORNI.

Tra storia e nuove sfide (1815-2000).

2000, by Libreria Ateneo Salesiano, Roma.

AR gennaio 2011. Libro della Comunità di Valdocco.

PRESENTAZIONE.

Sono trascorsi quasi quarant’anni da quando si pubblicò per la prima volta il materiale che costituiva il nucleo originale di questo volume. Dopo alcuni anni il testo venne rielaborato e pubblicato in lingua francese. Ben presto uscirono anche le edizioni in italiano, spagnolo, portoghese, inglese ed altre ancora. L'accoglienza positiva dimostrò che il volume offriva un apprezzato servizio per la formazione dei giovani confratelli, e per tutti i membri della Famiglia salesiana. Presentava infatti un quadro completo, anche se essenziale e sommario, della storia salesiana da don Bosco al Concilio Vaticano II, servendosi degli studi che incominciavano a prodursi con metodologia più rigorosa a partire dall'inizio degli anni sessanta. In seguito al Concilio Vaticano II già il Capitolo generale XIX nel 1965 e soprattutto il Capitolo generale speciale dei Salesiani del

1971-1972 avviarono una impegnativa riflessione sulla missione salesiana, sulle sue implicanze e sul conseguente impegno di rinnovamento. Un influsso positivo notevole in tal senso esercitarono anche le celebrazioni del centenario delle missioni salesiane nel 1975 e, più tardi, del centenario della morte di don Bosco attraverso le molteplici iniziative attorno al 1988. Similmente aumentavano le ricerche presso le Figlie di Maria Ausiliatrice in occasione dei centenari della fondazione dell'Istituto nel 1972 e della morte di madre Mazzarello nel 1981, in particolare presso la Facoltà di Scienze dell'Educazione Auxilium. Ampio riscontro di rinnovamento e di rilancio si ebbe anche presso i Cooperatori salesiani, gli Ex allievi, le Ex allieve, le Volontarie di Don Bosco ed altri Istituti, assecondando e promovendo la riflessione attinente la Famiglia salesiana. Tutto questo faceva si che da più parti venisse rivolto a don Morand Wirth l'invito a riprendere in mano l'opera per l'opportuno aggiornamento. L'occasione propizia si presentò finalmente con la cooptazione dell'Autore da parte dell'Università Pontificia Salesiana per affidargli l'insegnamento di storia dell'opera salesiana nel biennio di studi coordinato dall'Istituto di Spiritualità della Facoltà di Teologia, per cui si giustifica pure l'inserimento del volume nella collana di Studi di Spiritualità promossa dall'Istituto. Non mancavano perciò ragioni per intraprendere un rifacimento totale del libro, ma l'Autore ha preferito mantenere lo stile semplice e lineare, senza perciò sacrificare le esigenze di un approccio metodologicamente corretto e rigoroso. D'altra parte chi cerca materiale di dettaglio scientificamente elaborato lo può trovare oggi facilmente nelle numerose pubblicazioni periodiche e monografiche che via via sono venute alla luce in questi anni e mediante la documentazione in microschede o digitalizzata, in CD-Rom o direttamente in rete. Fra le novità assolute del volume il lettore troverà soprattutto una rassegna introduttiva delle pubblicazioni che hanno contrassegnato la ricerca nell'ultimo trentennio. È stata inoltre aggiornata la documentazione delle note a pie di pagina ed accresciuta la bibliografia riportata alla fine del volume. L'aggiunta più rilevante è costituita dai capitoli che trattano del periodo recente, dal Vaticano II ad oggi, e da una serie di appendici.

Si propone così una storia che ha avuto un vasto sviluppo. Con l'intento di far tesoro di questa memoria ricca e promettente, l'Autore ridisegna un panorama del cammino percorso, evidenziando anche difficoltà e scommesse di futuro. Le nuove sfide caratterizzano soprattutto la terza parte del volume. Man mano che l'opera salesiana si andava sviluppando, la realtà si allargava dai Salesiani alle Figlie di Maria Ausiliatrice, ai Cooperatori, agli Ex allievi e alle Ex allieve, alle Volontarie di Don Bosco e ad altri ancora. Ringraziando l'Autore di questo volume che ci offre il frutto maturo delle sue fatiche, auguriamo che esso possa trovare una accoglienza altrettanto fortunata come i precedenti, prolungando un prezioso servizio soprattutto a favore della rigogliosa Famiglia salesiana.

Roma, 24 maggio 2000. Memoria liturgica di Maria Ausiliatrice.

Juan Picca. Direttore dell'Istituto di Spiritualità della Facoltà di Teologia dell'UPS.

INTRODUZIONE STORIOGRAFICA.

Dalla metà dell'Ottocento circa fino ad oggi, la storiografia salesiana ha percorso ormai un arco di quasi centocinquant'anni. Invero, il desiderio di conservare la memoria dei fatti e di tramandarla ai posteri, già presente nel Fondatore e nei suoi primi collaboratori, si concretizzò in vari modi dalle origini fino ai giorni nostri, anche se con scopi e criteri diversi. Prima di iniziare il nostro percorso, non sarà inutile dare un rapido sguardo d'insieme ai periodi e al modo con cui si è cercato di scrivere la storia salesiana.

Cronache, memorie e prime biografie (1858-1888).

Don Bosco aveva una predisposizione per la storia. Gli piacevano i libri di storia. Ai suoi ragazzi e ai primi Salesiani raccontava, sia per utilità sia per divertimento, fatti e avvenimenti della storia o della propria vita. Egli stesso poi scrisse vari libri di questo tipo ad uso del popolo e della gioventù. Con gli anni e le iniziative da lui promosse, crebbe anche l'interesse dei testimoni per i fatti e i gesti della sua vita. Nel 1858, il chierico Giovanni Bonetti cominciò a fissare su quaderni scolastici eventi recenti e passati degni di nota. Nel 1861, sotto l'impulso di don Rua, un gruppo di giovani collaboratori creò una «commissione», impegnata a raccogliere e a controllare collegialmente quanto don Bosco diceva e faceva. Persuasi di avvertire in lui «doti grandi e luminose», anzi «qualche cosa di sovrannaturale», i membri del gruppo sentivano «uno stretto dovere di gratitudine, un obbligo di impedire che nulla di quel che s'appartiene (sic) a D. Bosco cada in oblio, e di fare quanto è in nostro potere per conservarne memoria». Sorsero così con il passar degli anni numerose

cronache, cronachette, memorie, annali e testimonianze, che costituiscono una ricca fonte di dati, informazioni e valutazioni. La maggior parte di questi preziosi contributi, sebbene già utilizzati da studi di prima mano, resta tuttora inedita. Un'altra fonte, ricca di dati concreti e di realtà quotidiane, è costituita dai diari e dai verbali delle prime conferenze e adunanze. Di questi sono stati pubblicati il diario dell'Oratorio di Valdocco (1875-1888), i verbali delle «conferenze capitolari» (1866-1877), quelli delle «adunanze del capitolo della casa» (1877-1884) e delle «conferenze mensili» (1871-1884), e le testimonianze riguardanti un indagine fatta nel 1884 a Valdocco. A questa documentazione bisogna naturalmente aggiungere tutta quella lasciata dallo stesso don Bosco: la copiosa mole di libri stampati (saranno riuniti in 37 volumi di oltre 500 pagine ciascuno) e i manoscritti. Tra questi vanno ricordate anzitutto, oltre alle numerose lettere, le preziose Memorie dell'Oratorio di S. Francesco di Sales dal 1815 al 1855, redatte tra il 1873 e il 1875. In forma di racconto, queste Memorie ci rivelano l'interpretazione che il vecchio don Bosco dava alla preistoria e agli inizi dell'Opera salesiana. Infatti, lo scopo principale dell'autore era di tipo istruttivo e edificante: «Il mio lavoro - scriveva - servirà di norma a superare le difficoltà future, prendendo lezione dal passato», e «a far conoscere come Dio abbia egli stesso guidato ogni cosa in ogni tempo». Nel 1876, durante le conferenze tenute in occasione della festa di S.

Francesco di Sales, fu fatta per la prima volta la proposta di stabilire uno storiografo della Congregazione, e fu chiesto ai direttori di scrivere o far scrivere la storia del proprio collegio, la cronaca degli eventi più importanti, e di mandarne una copia a Torino. La stessa proposta venne ribadita durante le successive conferenze e nei primi Capitoli generali della Congregazione. Nell'agosto del 1877 usciva il primo numero del Bollettino salesiano, che dava regolarmente numerose informazioni sull'Opera salesiana, specialmente nelle missioni. È una fonte importante, anche se si deve tener conto del suo carattere divulgativo e celebrativo. Tra il 1879 e il 1886, il direttore del Bollettino, don Giovanni Bonetti, pubblicò la prima storia dell'Oratorio di S. Francesco di Sales, basandosi sulle Memorie dell'Oratorio di don Bosco. Negli anni successivi appariranno le prime pubblicazioni elogiative e pubblicitarie sul fondatore dei Salesiani e la sua opera. Tra esse spiccano quelle del sacerdote Louis Mendre (1879), del dottore Charles d'Espiney (1881), del conte romano Costantino Leonori (1881), del prelato Marcelo Spinola (1884), del magistrato Albert Du Boys (1884) e del giornalista Jacques-Melchior Villefranche (1888).

Finalmente, nel 1883, fu chiamato da don Bosco come segretario l'uomo che diventerà il primo storiografo ufficiale della Società salesiana: don Giovanni Battista Lemoyne. Egli iniziò subito la monumentale raccolta di Documenti per scrivere la storia di D. Giovanni Bosco, dell'Oratorio di S. Francesco di Sales e della Congregatone Salesiana, una compilazione di ben 45 faldoni di bozze di stampa, che saranno alla base delle future Memorie biografiche di don Giovanni Bosco.

Storiografia agiografica classica (1888-1965).

Due anni dopo la sua morte, iniziava a Torino il processo di canonizzazione di don Bosco. Le deposizioni dei testimoni rilasciate durante il processo costituiranno una nuova fonte importante sulla vita e le virtù del Fondatore. Altrettanto si dovrà dire in seguito per i processi di canonizzazione di Maria Domenica Mazzarello e di Domenico Savio. Nel 1898, decimo anniversario della morte di don Bosco, usciva dalla scuola tipografica libraria salesiana di S. Benigno Canavese il pri

mo volume delle Memorie biografiche di Don Giovanni Bosco, raccolte dal sacerdote salesiano Giovanni Battista Lemoyne. L'opera comporterà 19 volumi. Don Lemoyne curò la pubblicazione dei primi nove volumi tra il 1898 e il 1916. Don Eugenio Ceria pubblicò, tra il 1930 e il 1939, i volumi XI-XIX, mentre il volume X uscì soltanto nel 1939 per opera di don Angelo Amadei. Il lavoro di don Lemoyne, come quello dei suoi successori, non è frutto di uno storico di professione, ma di un testimone onesto e di un ammiratore convinto, spinto dall'urgenza di dare ai Salesiani pagine riservate di documentazione. Va segnalata inoltre la data importante del 1920, anno in cui comincia la pubblicazione periodica degli Atti del Capitolo Superiore, voce ufficiale del centro della Congregazione. Negli anni della beatificazione (1929) e della canonizzazione di don Bosco (1934) inizia un nuovo ciclo di biografie, arricchite dai contributi dei processi canonici. Tra le più conosciute sono quelle di mons. Carlo Salotti, di Augustin Auffray, di Angelo Amadei e di Eugenio Ceria. Intanto si pensava anche ad una edizione completa degli scritti di don Bosco. Il progetto ebbe una prima risposta quando, a cominciare dal 1929, don Alberto Caviglia pubblicò sei volumi della sezione storica delle opere e scritti di don Bosco. L'edizione di Caviglia, ancora par

ziale e fatta con criteri non del tutto soddisfacenti, era accompagnata da alcuni studi di spiritualità di valore. Ma la prima narrazione ordinata e sistematica sull'Opera salesiana è dovuta a don Eugenio Ceria, che pubblicò tra il 1941 e il 1951 quattro volumi di Annali della Società Salesiana. Il primo era dedicato al tempo di don Bosco, il secondo e il terzo al rettorato di don , suo primo successore, e il quarto al rettorato di don . È un lavoro di tipo classico, anche dal punto di vista letterario, sostenuto da una documentazione attinta solamente alle fonti centrali della Società salesiana. Gli Annali purtroppo si fermano al 1921 e non sono mai stati continuati. Lo stesso don Ceria pubblicherà ancora quattro volumi di lettere di don Bosco tra il 1955 e il 1959.

Storiografia scientifica dopo il 1965

Il Concilio Vaticano II (1962-1965) aveva chiesto agli istituti religiosi di tornare alle fonti del loro carisma, in modo da poter rinnovarlo e adattarlo alla situazione odierna. Tale richiesta ebbe risvolti notevoli sullo studio e la ricerca circa don Bosco e l'Opera salesiana. Il lavoro scientifico su don Bosco fu avviato a Lione da Francis Desramaut, il quale aveva pubblicato già nel 1962 uno studio critico sulle fonti del primo volume delle Memorie biografiche. Nel 1968 apparve Don Bosco nel

la storia della religiosità cattolica, volume primo, di Pietro Stella. È stato considerato la prima opera scientifica sulla storia di don Bosco. Seguirà più tardi uno studio dello stesso autore intitolato Don Bosco nella storia economica e sociale. Nello stesso anno 1968 fu tenuto a Lione il primo incontro dei «Colloqui internazionali sulla vita salesiana» i quali diedero origine a una lunga serie di pubblicazioni. Nel 1971-1972, il Capitolo generale speciale rilevò l'esigenza di pianificare lo studio scientifico su don Bosco e sulla storia salesiana. Intanto, con il trasferimento della direzione generale delle Opere di don Bosco da Torino a Roma, veniva trasferito anche l'Archivio salesiano centrale, fonte primaria per la storia dell'Opera salesiana. Durante gli anni successivi, per facilitare la consultazione e la ricerche, furono riprodotti su microschede i documenti del fondo don Bosco dell'Archivio. Inoltre, presso l'Università Pontificia Salesiana, furono istituiti due centri di studio. Il «Centro Studi Don Bosco» (CSDB), creato nel 1973 come Istituto di ricerche scientifiche su don Bosco e la sua opera, si proponeva l'edizione critica degli scritti di don Bosco e delle fonti a lui relative e ricerche di storia salesiana. Nel 1976, questo Centro iniziava

la pubblicazione, in ristampa anastatica, degli scritti editi di don Bosco, o a lui in qualche modo attribuibili. Nel giro di un anno si giunse a pubblicare i volumi I-XXXVII della prima serie, comprendente la prima e l'ultima edizione di libri ed opuscoli. Nel 1987 apparirà il volume XXXVIII della collezione, unico della seconda serie, che contiene una raccolta di estratti di giornali. Per quanto riguarda il «Centro Studi di Storia delle Missioni Salesiane» (CSSMS), esso iniziò le sue attività nel 1975, in occasione del centenario delle missioni salesiane, con una serie di pubblicazioni riunite nelle seguenti collane: diari e memorie, studi e ricerche, biografie, sussidi bibliografici e storia delle missioni. Nel 1977-1978, il Capitolo generale XXI auspicò la fondazione dell'Istituto Storico Salesiano, il quale sarà ufficialmente eretto nel 1981. L'Istituto intende mettere a disposizione di studiosi e operatori, in forme scientificamente e tecnicamente valide, i documenti del patrimonio lasciato da don Bosco e sviluppato dai suoi continuatori. In secondo luogo, ha come scopo di promuovere, secondo i metodi della ricerca storica, l'illustrazione e l'approfondimento dell'esperienza educativa e sociale che ne è sorta con irraggiamento mondiale. La produzione scientifica realizzata nell'ambito dell'Istituto viene resa di pubblica ragione mediante quattro serie di pubblicazioni: «Fonti», «Studi», «Bibliografie» e una «Piccola biblioteca». L'Istituto ha iniziato nel 1982 la pubblicazione della rivista «Ricerche storiche salesiane», che appare due volte all'anno. Nel 1991 l'Istituto ha pubblicato in edizione critica le Memorie dell'Oratorio e il primo volume dell'epistolario di don Bosco.

Sono apparse anche le prime bibliografie su don Bosco, quella in lingua italiana, e quella in lingua tedesca. D'altra parte, la dimensione internazionale della Famiglia salesiana richiedeva una maggior apertura alle altre lingue e culture. Nel 1990, i Salesiani di Berkeley, negli Stati Uniti, lanciavano la rivista «Journal of Salesian Studies», aprendo al mondo anglofono nuovi spazi di salesianità. In Spagna, gli studiosi salesiani hanno costituito un gruppo di ricerche storiche. Nel 1996 è stata pubblicata in lingua francese da Francis Desramaut una nuova biografia critica di don Bosco, basata su un'accurata analisi delle fonti. Intanto si moltiplicavano le monografie dedicate a opere singole, tra cui alcune di alto valore storico. Infine, è stata creata nel 1996 anche l'Associazione dei cultori di storia salesiana (ACSSA), che ha per scopo di «promuovere gli studi sulla storia salesiana, favorendo la ricerca, l'aggiornamento e la collaborazione fra i membri, animando la Famiglia salesiana sotto il profilo storiografico, divulgando le conoscenze su don Bosco e sui movimenti che da lui hanno avuto origine, in dialogo con analoghe istituzioni civili e religiose». Uno degli impegni più sentiti dagli storici salesiani riguarda evidentemente la conservazione e la cura degli archivi, dei beni culturali e delle biblioteche.

L'Istituto delle Figlie di Maria Ausiliatrice e gli altri gruppi.

L'Istituto femminile fondato da don Bosco e da Maria Domenica Mazzarello non ebbe all'inizio la stessa cura delle fonti e della documentazione. L'idea di redigere una cronistoria dell'Istituto risale al primo Capitolo generale del 1884. Nell'Archivio generale delle Figlie di Maria Ausiliatrice esistono contributi parziali alla stesura della storia dell'Istituto, redatti nei primi decenni da suor Rosalia Pestarino e madre Emilia Mosca, che poi confluirono nella Cronistoria. Nel 1913, don Ferdinando Maccono, vice-postulatore della causa di beatificazione di madre Mazzarello, scrisse la biografia della Confondatrice, mentre madre Clelia Genghini iniziava un attento lavoro di raccolta e di organizzazione di memorie, che le consentì la redazione della Cronistoria dell'Istituto in tre volumi, dalle origini fino all'anno 1881. Lo stimolo venne, anche qui, dal Concilio Vaticano II. Nel 1974, suor Giselda Capetti riprese il lavoro di madre Clelia, continuò e integrò il materiale documentario disponibile, pervenendo alla pubblicazione in cinque volumi della Cronistoria dell'Istituto, che va dalla preparazione lontana (1828) fino alla morte di don Bosco (1888). Nello stesso tempo, suor Capetti redigeva Il cammino dell'Istituto nel corso di un secolo, una storia annalistica dell'Istituto che va dalle origini del carisma fino al primo cinquantennio nel 1922. Si tratta di una esposizione rapida e sobria del veloce sviluppo dell'Istituto, in cui vengono menzio

nate le fondazioni che segnano l'entrata in nuovi paesi o si distinguono per particolari caratteristiche. Per completare questo quadro storiografico, a intenzionalità prevalentemente formativa e edificante, bisogna aggiungere le varie biografie della Confondatrice, delle Superiore generali e di altre Suore, il «Notiziario» delle FMA (dal 1921), e altre pubblicazioni. Intanto si avvertiva sempre più la necessità di un approccio scientifico con la pubblicazione di documenti di prima mano, soprattutto sulle origini dell'Istituto. Nel 1975, furono pubblicate per la prima volta in edizione critica le lettere di madre Mazzarello. Nel 1983 usciva uno studio critico sull'evoluzione del testo delle Costituzioni. Più recentemente, sono state edite fonti e testimonianze sulla prima comunità di Mornese e Nizza Monferrato (1870-1881). Non va dimenticata l'importanza dei vari archivi dell'Istituto, specialmente dell'Archivio generale di Roma. Per quanto riguarda la storia dei Cooperatori salesiani, fondati da don Bosco nel 1876, basta dire che è strettamente legata a quella della Congregazione salesiana e dell'Istituto delle Figlie di Maria Ausiliatrice. Per questo le fonti e i documenti più antichi sono da ricercare nel fondo centrale comune. Ma con l'affermarsi delle strutture proprie, e anche dell'autonomia dell'Associazione in seno alla Famiglia salesiana, si sono costituiti archivi propri dove sono conservati i documenti che l'interessano. Manca ancora una storia vera e propria dei Cooperatori. Quanto è stato detto per l'Associazione dei Cooperatori vale anche per la storia degli Exallievi e delle Exallieve, dell'Istituto delle Volontarie di don Bosco, e degli altri istituti o gruppi aggregati alla Famiglia salesiana.

Storia ed esperienza vissuta.

Oltre ai documenti scritti, serve a «fare storia» anche l'esperienza vissuta, soprattutto se si tratta di don Bosco e di vita salesiana. Infatti, nella vita del Fondatore e della sua Opera, è di primaria importanza l'aspetto pratico e operativo. Don Bosco è apparso universalmente uomo di azione, più che teoretico. Lui stesso citava volentieri l'esempio di Gesù Cristo, il quale, secondo un'interpretazione abituale, «cominciò a fare e (poi) a insegnare». Questo procedimento vale anche per la storia salesiana in genere, che, di fatto, è prevalentemente una storia dell'Opera salesiana. Per questo motivo, una visione sintetica e unitaria della storia salesiana dovrebbe prendere in conto, non solo i libri di storia, ma anche il «libro dell'esperienza», vale a dire tutto ciò che documenta uno stile di vita e d'azione, gli esempi, le tradizioni, e tutte le manifestazioni del quotidiano. Vale perciò per tutta la storia salesiana ciò che è stato detto giustamente del Fondatore: «Il vero Don Bosco è quello che risulta da una considerazione globale, unitaria e vitale, di tutti i suoi scritti, di tutte le sue realizzazioni e scelte operative, e di tutta la sua vita». Di qui risulta anche che una storia dell'Opera salesiana si presenta anzitutto come la manifestazione di un dinamismo interno, che cerca di dare una risposta operativa a domande e bisogni educativi e pastorali. Certo, idee e teorie hanno la loro parte nella formazione del personale e nella definizione delle scelte operative; ma la storia salesiana, di fatto, registra prevalentemente le fondazioni e l'andamento delle opere, delle istituzioni e delle iniziative. Soltanto dopo il Concilio Vaticano II si è assistito ad un maggior sforzo di formulazione, o meglio di riformulazione dei criteri e dei fondamenti dell'agire salesiano.

La storia salesiana nella storia più vasta.

Ovviamente, la storia salesiana va inserita nella storia della società, delle nazioni e delle culture. Parlando solo della storia del Piemonte e dell'Italia, bisogna distinguere, a partire dal 1815, alcuni grandi periodi: la Restaurazione (1815-1848), il Risorgimento e la formazione dell'unità d'Italia (1848-1870), la monarchia costituzionale (1870-1922), il fascismo (1922-1945), e la Repubblica (dal 1946 in poi). Allo stesso modo, si deve prendere in considerazione il contesto in cui l'Opera salesiana si è inserita in altre nazioni, e non solo il contesto politico, ma anche le condizioni economiche, sociali e culturali di un paese o di un continente. Per quanto riguarda la storia della Chiesa, ricordiamo soltanto alcuni dati, che permettono di situare il nostro lavoro nella trama della storia della Chiesa, sia del Piemonte, sia dell'Italia, come pure di quella della Chiesa universale. Giovanni Bosco è nato, è cresciuto e ha ricevuto la sua formazione al tempo della Restaurazione cattolica, in forte contrasto con i principi della rivoluzione francese e dell'era napoleonica. L'Opera salesiana fu fondata al tempo della rivoluzione liberale e della questione romana. Don Bosco ebbe frequenti e cordiali contatti con il

Papa Pio IX (1846-1878), che lo appoggiò in ogni modo, anche durante il conflitto con l'arcivescovo di Torino. L'Opera si è consolidata ed è cresciuta nel mondo alla fine dell'Ottocento, sulla scia dell'enciclica sociale Rerum novarum di Leone XIII (1878-1903), e nella prima metà del Novecento. In particolare Pio XI (1922-1939), Papa delle missioni e «Papa di don Bosco», favorì la Famiglia salesiana. Un nuovo periodo della storia della Chiesa e dell'Opera comincia con il Concilio ecumenico Vaticano II (1962-1965), che continua ad esercitare un influsso decisivo sulla Chiesa e la Famiglia di don Bosco.

Grandi divisioni della storia salesiana.

Per descrivere in modo chiaro questa storia, occorre individuare i periodi principali che la segnarono. Tra varie possibilità, abbiamo scelto il modo più semplice, dividendo tutta la materia in tre parti: 1) Il tempo del Fondatore (1815-1888); 2) L'espansione dell'Opera salesiana nel mondo (1888-1965); 3) Di fronte alle nuove sfide (1965-2000). La prima parte mette in rilievo il ruolo del Fondatore, Giovanni Bosco, nato nel 1815 a Castelnuovo d'Asti, morto a Torino nel 1888. Egli ha piantato i tre primi pilastri che sostengono l'Opera salesiana: la Società di S. Francesco di Sales (1859), l'Istituto delle Figlie di Maria Ausiliatrice (1872) e l'Associazione dei Cooperatori Salesiani (1876), ai quali si aggregarono poi altri gruppi. La preoccupazione principale di don Bosco fu quella di venire in aiuto alla gioventù povera, di «salvare» questa «porzione più preziosa della società», formando «buoni cristiani e onesti cittadini». Ma il suo apostolato personale è stato molteplice ed esteso: diffusione di una letteratura popolare, mediazioni tra la Santa Sede e il Governo italiano, costruzione di chiese, organizzazione di missioni all'estero, ecc. Come fondatore e santo (canonizzato nel 1934), don Bosco avrà sempre un posto primario nella storia dell'Opera salesiana. Ci si riferirà sempre a lui per definirne lo spirito autentico, l'identità propria, la natura del progetto che ha lanciato. Don Bosco poi ha avuto il tempo e la possi

bilità di formare i suoi primi discepoli, di redigere le loro regole e di prevedere la sua successione. Il secondo periodo è quello dell'espansione dell'Opera salesiana nel mondo (1888- 1965). Alla morte del Fondatore, la Congregazione salesiana, anziché affondare secondo le previsioni di alcuni, proseguì con alacrità il suo sviluppo in personale e nelle opere, sotto i rettorati di don Rua (1888-1910), di don Albera (1910-1921), di don Rinaldi (19221931), di don Ricaldone (1932-1951) e di don Ziggiotti (1952-1965), e ciò, nonostante le due guerre mondiali e le persecuzioni in alcuni paesi. Lo stesso movimento d'espansione si osserva anche nell'Istituto delle Figlie di Maria Ausiliatrice, durante il superiorato di madre Daghero (1881- 1924), di madre Vaschetti (1924-1943), di madre Lucotti (1943-1957) e di madre Vespa (1958-1969). Va notata però l'importante svolta del 1906, in cui l'Istituto divenne giuridicamente indipendente dai Salesiani. Per quanto riguarda i Cooperatori, sono da ricordare i grandi congressi internazionali, il primo dei quali fu quello di Bologna nel 1895. Gli Exallievi e le Exallieve si organizzarono in quel periodo, partendo dal livello locale e nazionale fino al livello mondiale. Nel 1917 nasceva pure a Torino il futuro Istituto secolare delle Volontarie di don Bosco. Dopo l'era carismatica della fondazione, questo secondo periodo fu l'epoca dei costruttori e dei missionari, che coincideva con l'espansione occidentale, il successo delle missioni, la popolarizzazione della figura di don Bosco. L'anno 1965 segnò una svolta, inaugurando il tempo delle nuove sfide. Era la fine del Concilio Vaticano II. Il Capitolo generale XIX eleggeva come Rettor maggiore don Ricceri, (1965-1977), al quale sarebbe successo don Viganò (1977-1995) e poi, a partire dal 1996, don Vecchi. Era il tempo della crisi in Occidente, caratterizzata dalla contestazione giovanile del 1968 e dal calo delle vocazioni religiose, ma anche di uno sforzo coraggioso d'adeguamento alle nuove richieste emerse nella società e nella Chiesa. La promozione delle culture, quella dei laici e della donna, cominciava a rivestire un ruolo sempre crescente. Per quanto riguarda le Figlie di Maria Ausiliatrice, quest'epoca corrisponde ai mandati di madre Canta (1969-1981), di madre Marchese

(1981-1984), di madre Castagno (1984-1996) e di madre Colombo (dal 1996 in poi). I Cooperatori e gli Exallievi si sentivano carichi di una nuova responsabilità laicale nella società e nella Chiesa. Le Volontarie di don Bosco ricevevano il loro riconoscimento ufficiale come Istituto secolare. Nuovi gruppi si univano alla Famiglia salesiana.

L'umano e il divino nella storia salesiana.

«Sono andato avanti come il Signore mi ispirava e come le circostanze esigevano», diceva don Bosco. E in una conversazione serale del 2 febbraio 1876, durante le annuali conferenze di S. Francesco di Sales, egli affermava che «le altre congregazioni ed ordini religiosi ebbero nei loro inizi qualche ispirazione, qualche visione, qualche fatto soprannaturale che diede la spinta alla fondazione e rassicurò lo stabilimento; ma per lo più la cosa si fermò ad uno od a pochi di questi fatti; invece qui tra noi la cosa procede ben diversamente; si può dire che non vi è cosa che non sia stata conosciuta prima; non diede passo la Congregazione senza che qualche fatto soprannaturale non lo consigliasse; non mutamento o perfezionamento, o ingrandimento, che non sia stato preceduto da un ordine del Signore». Tale convinzione sul carattere provvidenziale dell'Opera salesiana si è radicata nell'animo dei primi collaboratori e continuatori di don Bosco, e fino ad oggi si potrebbe forse rintracciare l'influsso dei sogni di don Bosco sull'espansione missionaria salesiana. Essendo l'Opera salesiana un'opera inserita nella storia degli uomini, ma anche nella storia della salvezza, un'ultima osservazione viene in mente per caratterizzarla. Se da una parte, i protagonisti di quest'Opera sono coinvolti in tutti i problemi dell'esistenza umana, quali le relazioni

umane, le preoccupazioni economiche, l'organizzazione del lavoro, con i successi e i fallimenti, gli errori e le mancanze, cose in cui spesso si avverte la distanza «tra il reale e l'ideale», dall'altra parte, sono manifesti i motivi di fede e di carità attiva dei figli e delle figlie di don Bosco, la loro fiducia nella Provvidenza e nell'aiuto di Maria Ausiliatrice, il loro spirito di sacrificio e le loro devozioni, in breve, la loro spiritualità, e talvolta la loro santità. Come nella storia della Chiesa, l'umano e il divino s'intrecciano nella storia dell'Opera salesiana.

Parte Prima.

IL TEMPO DEL FONDATORE. (1815-1888).

Capitolo I.

GLI ANNI DELLA GIOVINEZZA DI GIOVANNI BOSCO (1815-1841).

Come don Bosco stesso aveva fatto scrivendo le sue Memorie dell'Oratorio di San Francesco di Sales, e per le medesime ragioni, noi pure incominceremo la storia dell'opera salesiana con il periodo della giovinezza e della formazione del suo fondatore. Infatti, le esperienze del piccolo contadino che sognava di diventare educatore e pastore della gioventù, sono state decisive per l'orientamento della sua vita e della sua opera. Il seme salesiano accumulava in quel tempo energie meravigliose nel suolo di una campagna e di una città di provincia.

L'Italia nel 1815.

L'anno che vide nascere - il 16 agosto 1815 - Giovanni Melchiore Bosco, inaugurava un nuovo periodo nella storia d'Italia e d'Europa. Il 18 giugno, la battaglia di Waterloo aveva definitivamente posto termine all'avventura napoleonica. Scomparso l'imperatore, l'Italia ritornava ad essere, per volere delle grandi potenze che dettavano legge al Congresso di Vienna, una semplice «espressione geografica», controllata da un potente protettore, l'. L'impero di Francesco II si estendeva infatti al regno Lombardo-Veneto; si rendeva presente per interposte persone ai ducati di Parma e di Modena e al granducato di Toscana; imponeva la propria tutela al regno delle Due Sicilie e allo Stato Pontificio, di cui Pio VII ritornava in possesso dopo un lungo

periodo di prigionia. L'unico stato italiano veramente indipendente era il regno Sardo, che comprendeva non più soltanto il Piemonte, la Savoia e la Sardegna, ma anche la Liguria e Nizza. Indubbiamente, l'anno 1815 segna la fine di un'epoca e l'inizio di un regime che aspirava unicamente a restaurare l'ordine passato, quello esistente prima della rivoluzione francese. Per consolidare i loro troni, le grandi potenze si univano in una Santa alleanza, destinata ad opporsi ai «funesti principi» del 1789 ed agli uomini che li avevano incarnati. Logicamente, si vedeva nel re, alleato con la Chiesa, «il caposaldo per l'opera della ricostruzione, di cui appariva urgente il bisogno ai suoi fautori». Ma un'altra ideologia si sarebbe opposta a questa con forza sempre maggiore. Del resto, la presenza francese in Italia, nonostante i soprusi di cui era stata cagione, non aveva avuto soltanto inconvenienti, almeno per un certo numero di Italiani. Sotto Napoleone, il paese aveva conosciuto un sentimento temporaneo di sicurezza e di grandezza. Le idee di libertà e di difesa dei diritti dell'uomo, non l'avevano lasciato insensibile. Infine, l'unità nazionale che lo straniero era già riuscito ad imporgli, aveva destato il patriottismo italiano. Possiamo affermare che dal 1815, l'evoluzione futura della penisola era in germe nelle due grandi direttrici: il liberalismo ed il patriottismo. Gli ambienti più sensibili alle nuove idee appartenevano alla classe borghese, che aspirava ora alla libertà politica ed economica, ed agli intellettuali imbevuti di tradizione rivoluzionaria. Per conseguire il «risorgimento» dell'Italia, essi si ripromettevano di scuotere il giogo austriaco, riformare o rovesciare i governi assoluti e ricostruire l'unità politica della penisola. Ma per sfuggire alle vessazioni di una polizia onnipotente, i loro piani erano spesso architettati in seno a società segrete: massoneria, cenacoli di carbonari e di cospiratori di ogni tinta, che diventavano sempre più repubblicani, anticlericali e rivoluzionari.

Il Piemonte.

È anche vero che nel 1815, in nessun luogo queste idee erano accettate sul piano politico. In Piemonte, in particolare, la monarchia era ancora ben lontana dal liberalismo. D'altronde, Casa Savoia disponeva di un certo numero di vantaggi, che lasciavano presagire il ruolo di primo piano che avrebbe assolto nell'unificazione di tutto il paese. In definitiva, pare che il ritorno nella capitale Torino, nel 1814, della vecchia dinastia sia stato salutato con entusiasmo dalla maggior parte del popolo. Per governare, Vittorio Emanuele I poteva contare sui pilastri tradizionali della monarchia: la nobiltà, il clero e l'esercito. Il clero, da parte sua, era naturalmente orientato sulla strada di una stretta collaborazione con un regime, le cui prime misure non potevano non soddisfarlo: ristabilimento delle feste religiose, punizione della bestemmia, ricomposizione del patrimonio della Chiesa, ristabilimento degli ordini religiosi, restrizione della libertà di pensare e di scrivere. È vero che nel 1821 Vittorio Emanuele sarà costretto ad abdicare sotto la pressione di elementi liberali, tuttavia bisognerà attendere il 1848 per assistere a mutamenti sostanziali nel sistema di governo. Tradizionalmente, i Piemontesi erano ritenuti gente di buon senso, tenace, operosa, più portata ai fatti che alle parole, dotata anche di arguzia bonaria. Con tutto ciò, possedevano il senso religioso della vita e il senso del dovere.

Nascita di Giovanni Bosco (16 agosto 1815).

In questo Piemonte, nel periodo della Restaurazione, è nato ed è cresciuto Giovanni Bosco. Egli nacque il 16 agosto 1815 nella piccola borgata di Morialdo, e più precisamente nella località chiamata «I Becchi», minuscolo agglomerato di case di campagna del Monferrato. Il

giorno dopo fu battezzato nella chiesa parrocchiale di Castelnuovo d'Asti con i nomi di Giovanni e Melchiore. Torino è ad una trentina di chilometri ad ovest, ma in quel tempo non erano molto stretti i rapporti tra la campagna piemontese ed il mondo della capitale. Il padre, Francesco (1784-1817), da un precedente matrimonio aveva avuto un figlio, Antonio (1808-1849) ed una figlia, Teresa, che non sopravvisse a lungo. Risposatosi con (17881856), ebbe da lei altri due figli: Giuseppe (1813-1862) ed il nostro Giovanni (1815-1888). Per completare il quadro della famiglia, dobbiamo aggiungere la nonna, Margherita Zucca, madre di Francesco, che conservò fino alla morte, avvenuta nel 1826, molta lucidità ed autorità, ed inoltre due servitori di campagna. Senza essere miserabili, i Bosco erano una modesta famiglia di contadini. Benché possedesse una casetta e qualche appezzamento di terreno, per far vivere la sua famiglia il padre era obbligato a prestare la sua opera presso un vicino proprietario più benestante.

Orfano (1817).

«Io non toccava ancora i due anni, quando Dio misericordioso ci colpì con grave sciagura». Con queste parole don Bosco commenterà la morte del padre, avvenuta l'11 maggio del 1817. Ritornando dal lavoro madido di sudore, Francesco aveva commesso l'imprudenza d'entrare in cantina. Colpito da polmonite fulminante, cessò di vivere qualche giorno dopo. Aveva trentatré anni. Per tutta la vita Giovanni sentirà risuonare al suo orecchio le parole della madre quando lo portò fuori della camera del defunto: «Povero figlio, vieni meco, tu non hai più padre». Fortunatamente per la famiglia, Margherita era una donna di testa e di cuore. Sono state ampiamente decantate le grandi qualità della madre di don Bosco, la sua finezza, il suo buon senso, il suo equilibrio, la sua pietà. Forse, ciò che colpisce di più in questa contadina è l'energia del

carattere. Ancora ragazzina, era riuscita un giorno, stando a ciò che ci viene raccontato, ad allontanare i cavalli che alcuni soldati austriaci lasciavano pascolare nel suo granoturco. Rimasta vedova all'età di ventinove anni, seppe far fronte con molto coraggio ad una situazione difficile. In educazione, la giudicheremmo molto severa: insegnava ai suoi figli a non rimanere mai inattivi, anzi ad abbreviare le ore dedicate al riposo. Tuttavia, a più riprese saprà dar prova di un'estrema pazienza con il difficile Antonio. Per Giovanni, fu un'educatrice vigile e piena di tatto. Illetterata, ma profonda nella conoscenza del catechismo, formata da una saggezza tutta tradizionale, Margherita non si opporrà alle iniziative del figlio più giovane. Scomparso il padre, la famiglia conobbe momenti delicati e talvolta critici. Durante i primi anni della Restaurazione, una carestia eccezionale portò in Piemonte la desolazione. D'altra parte, l'unità e la pace della famiglia erano messe in pericolo dal primogenito, che si ribellava all'autorità della matrigna e tiranneggiava i due fratellastri molto più giovani di lui. Violento, grossolano, chiuso, forse Antonio era soltanto un ragazzo ipersensibile, traumatizzato dalla morte della madre e del padre. Ciò non toglie che con il passar degli anni, i suoi rapporti con il più giovane si tendessero al punto da rendere impossibile la loro coabitazione. Il secondo, Giuseppe, giudizioso e molto conciliante, creava apparentemente meno problemi.

I primi anni.

Giovanni crebbe nell'atmosfera molto semplice dei Becchi. Ancora in tenerissima età, imparò a rendersi utile in casa e in campagna. Stigliava la canapa e ben presto la sua occupazione principale fu di portare al pascolo la mucca e i tacchini. Unendosi ai ragazzi della borgata, tra cui Giovanni Filippello e Secondo Matta, partecipava ai loro giochi, alle loro preoccupazioni, alle loro prodezze. Non aveva rivali nel prendere uccelli con la trappola o nel nido. Agile e robusto, cercava d'imitare i giocolieri ed i saltimbanchi

che correva ad ammirare nelle fiere dei dintorni. Racconta egli stesso che riuscì così ad avere un grande ascendente sui suoi coetanei, e perfino sui ragazzi più grandi di lui. Fin d'allora si delineano alcuni tratti distintivi del suo carattere. Giovanni era un ragazzo sveglio, dall'immaginazione fervida, sempre pronto ad afferrare il lato pittoresco o ameno delle cose e delle situazioni. Sensibile, al punto da non potersi consolare per la morte di un merlo, egli era anche soggetto a scatti di collera. «Di carattere piuttosto serio - nota il Lemoyne -, parlava poco, osservava tutto, pesava le altrui parole, e cercava di conoscere le diverse indoli e indovinare i pensieri per sapersi regolare con prudenza». In questo ragazzo, il sentimento della propria vocazione si manifestò precocemente. Fin dall'età di cinque anni, avrebbe pensato che lo scopo della sua vita doveva essere quello di radunare i giovani per far loro il catechismo. Grazie ai suoi molti talenti, egli riusciva già a realizzarlo con discreto successo ripetendo ingenuamente ai suoi compagni le cose intese dal parroco o dalla mamma.

Un sogno.

Verso i nove o dieci anni fece un sogno che gli rimase impresso nella memoria per tutta la vita. Il fondatore dei Salesiani lo metterà per scritto per la prima volta quasi cinquant'anni più tardi nelle sue Memorie dell'Oratorio. Sembra un tipico racconto di vocazione come ne troviamo tanti nella Bibbia. Gli parve di essere vicino a casa in un vasto cortile, dove stava raccolta una moltitudine di fanciulli, che si trastullavano. Alcuni ridevano, altri giocavano, non pochi bestemmiavano. All'udire le bestemmie Giovannino si lanciò in mezzo a loro adoperando pugni e parole per

farli tacere. Allora egli vide un «uomo venerando in virile età nobilmente vestito», che gli disse: «Non colle percosse ma colla mansuetudine e colla carità dovrai guadagnare questi tuoi amici». In seguito, vide anche una «donna di maestoso aspetto», vestita di un manto risplendente da tutte le parti, che lo prese con bontà per mano e gli disse di guardare ciò che stava per succedere. Giovannino guardò e si accorse che i fanciulli erano tutti fuggiti, ed in loro vece c'erano una moltitudine di capretti, cani, gatti, orsi ed altri animali. La donna gli disse: «Ecco il tuo campo, ecco dove devi lavorare. Renditi umile, forte e robusto; e ciò che in questo momento vedi succedere di questi animali, tu dovrai farlo pei figli miei». Allora egli volse lo sguardo ed ecco invece d'animali feroci apparvero altrettanti «mansueti agnelli, che tutti saltellando correvano attorno belando come per fare festa a quell'uomo e a quella signora». Il racconto si conclude con queste parole della signora: «A suo tempo tutto comprenderai». Era necessario evocare questo primo sogno di don Bosco, che lo fece molto pensare per tutta la vita. Il ragazzino d'allora si sarebbe forse accontentato delle parole definitive della nonna che non bisognava badare ai sogni, se non avesse sentito che quest'episodio, senza alcun'importanza apparente, poteva essere un invito di Cristo e della Madre sua ad assumere la responsabilità dei fanciulli abbandonati. Immediatamente dopo questo racconto, l'autore delle Memorie narra per la prima volta le sue esperienze di giovane educatore ed apostolo: (Ascoltate: Era ancora piccolino assai e studiava già il carattere dei compagni miei. E fissando taluno in faccia per lo più ne scorgeva i progetti che quello aveva in cuore. Per questo in mezzo a' miei coetanei era molto amato e molto temuto. Ognuno mi voleva per giudice o per amico. Dal mio canto faceva del bene a chi poteva, ma del male a nissuno». Indubbiamente, don Bosco sessagenario si compiaceva di raccontare nei minimi particolari i suoi primi successi, tanto più che, all'età di dieci o undici anni, erano diventati abbastanza spettacolari. Il giovane eroe riusciva allora a raccogliere attorno a sé un centinaio di persone ed anche più. Durante le lunghe veglie invernali, in una fattoria vicina, Giovannino leggeva davanti ad un uditorio attento la storia dei Reali di Francia. Nella bella stagione, attirava il suo pubblico in

un prato e lo incantava con giochi di bussolotti, giochi di destrezza, ed esibizioni acrobatiche. Tutto ciò non lo distoglieva però dalla sua preoccupazione religiosa: ai suoi occhi nulla contava più delle preghiere (poteva essere un rosario) che iniziavano e concludevano le sedute ricreative. Coincidenza da segnalare: nel 1826, Giovanni faceva una prima comunione ricca di fervore, e possiamo pensare che proprio in questo periodo abbia espresso, probabilmente alla mamma, il desiderio di diventare sacerdote.

Tentativi scolastici (1824-1830).

Se Giovannino ebbe prestissimo la passione dell'animazione e dell'apostolato, coloro che gli furono vicini durante l'infanzia gliene scoprirono un'altra: la lettura. Entrava anch'essa nella prospettiva della sua vocazione, che gli comandava di dedicarsi senza indugio a studi seri. La cosa, in quel tempo, non era senza difficoltà. Castelnuovo, con la sua scuola comunale, distava cinque chilometri dai Becchi. Nel 1824, Margherita lo fece accettare a Capriglio, un paese più vicino ai Becchi, nella scuola del sacerdote Lacqua. Soltanto per poco tempo, poiché l'ostilità di Antonio cresceva ogni giorno di più. Egli tollerava sempre meno quel «signorino» che vedeva continuamente con un libro in mano ed intento a ruminare grandi progetti per l'avvenire. I successi del giovane saltimbanco inoltre non facevano che accrescere la sua gelosia. Il disaccordo si approfondì tanto, che la madre credette opportuno separarli, allontanando di casa il più giovane. Nel mese di febbraio del 1828, Giovanni emigrò nel villaggio di Moncucco, presso i Moglia, una famiglia di contadini. Episodio doloroso, di cui - forse per delicatezza verso sua madre o per evitare altre domande - non fece alcuna menzione nelle sue Memorie. Alla cascina dei Moglia, egli faceva il garzone per guadagnarsi la vita, ma gli era consentito di seguire le lezioni del parroco e di studiare nel tempo libero. Ai Santi del 1829, suo zio, Michele Occhiena, lo portò via di là, ma i soprusi del fratello maggiore non erano per questo terminati.

Alcuni giorni più tardi, ritornando da una missione predicata nel villaggio di Buttigliera, fece conoscenza con il nuovo cappellano di Morialdo, Giuseppe Calosso. Il vecchio sacerdote comprese immediatamente questo ragazzo così riccamente dotato, capace di sciorinargli lunghi brani della predica dei missionari. Lo iniziò al latino nel 1829-30. Purtroppo, mentre Giovanni incominciava a godere un po' di sicurezza accanto a questo sacerdote semplice e buono, così diverso dai sacerdoti preoccupati della loro rispettabilità dell'epoca della Restaurazione, don Calosso moriva improvvisamente il 21 novembre 1830. Tuttavia l'anno 1830 doveva concludersi con una bella schiarita. Poiché Margherita, per farla finita, aveva deciso di addivenire alla divisione dei beni paterni, Antonio prese ciò che gli spettava e andò a vivere per conto suo. Giovanni era finalmente libero di frequentare la scuola pubblica di Castelnuovo, nell'attesa d'andare al collegio municipale di Chieri. Verso i quindici, sedici anni, la sua vita prendeva finalmente la direzione desiderata. Molte esperienze l'avevano temprato ed istruito. Orfano di padre, bersaglio dell'ostilità di un fratello che contrariava i suoi desideri più cari, allevato in un ambiente materialmente e culturalmente molto modesto, Giovanni aveva però vissuto anni ricchissimi sotto altri aspetti: educazione umana e cristiana per opera di una donna di valore, esperienza di una vita dura, primi successi «apostolici», prima presa di coscienza di una vocazione personale. La vita di Giovanni Bosco non è stata priva di ostacoli né d'incertezze, ma si ha l'impressione che essi provenissero principalmente dai condizionamenti esterni.

Nel collegio di Chieri (1831-1835).

Giovanni non rimase molto tempo nella scuola pubblica di Castelnuovo, in cui gli studi non erano buoni: giusto il tempo di iniziarsi al mestiere di sarto presso un certo Roberto, suo affittacamere, e di circondarsi di un gruppo di amici che l'amavano e gli obbedivano come quelli di Morialdo. «Dopo la perdita di tanto tempo - scriverà egli nelle Memorie - finalmente fu presa la risoluzione di recarmi a Chieri ove applicarmi seriamente allo studio». Il trasferimento si fece ai primi di novembre del 1831. Situata a circa mezza strada tra i Becchi e Torino, quella che era

chiamata una volta «Chieri dalle cento torri» a causa dei castelli di cui era disseminata, non era più che «la città dei conventi, degli studenti e dei telai per tessere, sfondo un po' stemperato della capitale vicinissima». Eppure poteva ancora far sgranare gli occhi ad un adolescente venuto dalla campagna, dotato di spirito d'osservazione e curioso di tutto. «Per chi è allevato tra boschi - così noterà nelle sue Memorie - e appena ha veduto qualche paesello di provincia, prova grande impressione di ogni piccola novità». In quell'anno 1831, gravi avvenimenti agitavano una parte d'Italia. Il ricordo dei successi riportati a Parigi l'anno precedente dalla rivoluzione contro l'assolutismo continuava ad assillare gli spiriti. Un'insurrezione scosse l'Italia centrale, provocando immediatamente l'intervento austriaco. Il Papa Gregorio XVI, appena salito al pontificato, era pregato d'introdurre riforme, se voleva rimanere al potere. A poco a poco, le idee di libertà politica, d'indipendenza e d'unità nazionale, guadagnavano terreno in tutta la penisola. In Piemonte, nonostante alcune velleità liberali del nuovo sovrano Carlo Alberto, ufficialmente niente era mutato. La tolleranza non era ammessa nelle scuole, meno che in altri campi; un regolamento minuzioso, promulgato nel 1822 dal re Carlo Felice, dirigeva gli studi e la disciplina degli alunni. Esso prevedeva precisi obblighi religiosi: preghiera prima e dopo la scuola, messa quotidiana, biglietti di confessione, attestati di buona condotta, obbligo di possedere un libro di preghiere e di farne uso durante la messa. Nulla dunque di più religioso, anzi di più clericale, del collegio di Chieri! Pertanto Bosco non si lamentava che la religione costituisse la «parte fondamentale dell'educazione». GÈ studi andarono bene. Il primo anno (1831-1832), ricuperò quasi completamente il ritardo che aveva, superando successivamente le tre classi inferiori dell'istruzione secondaria. Il resto seguì regolarmente: classe di grammatica nel 1832-1833, umanità nel 1833-1834, retorica nel 1834-1835. Bosco era un allievo eccellente, dotato di memoria felicissima. Appassionato di studi letterari classici, divorava - preferibil

mente di notte - gli autori italiani e latini di una «Biblioteca popolare». Tra i suoi professori, la sua ammirazione si orientava verso Pietro Banaudi, «un vero modello degli insegnanti», che «senza mai infliggere alcun castigo, era riuscito a farsi temere ed amare da tutti i suoi allievi».

Le occupazioni di un esterno.

A Chieri, Giovanni, in un primo tempo, prese pensione presso una compatriota, Lucia Matta, sdebitandosi con il disbrigo dei lavori di casa. Poi, su invito del fratello di Lucia, Giovanni Pianta, che teneva un caffè, non esitò a venire ad abitare da lui, benché quella pensione fosse «assai pericolosa». Là egli imparò a preparare «ogni genere di confetti, di liquori, di gelati e di rinfreschi». Abitò pure in casa di un sarto di nome Tommaso Cumino. Scrive don Lemoyne che esercitava anche i mestieri di fabbro e di falegname. Generalmente la sua abilità manuale era sufficiente a pagargli la pensione; per guadagnare un po' di denaro, si prestava per ripetizioni. Eppure, né gli studi, né le necessità materiali riuscivano ad assorbirlo completamente. Leggendo il racconto di quegli anni, si ha l'impressione di trovarlo preso in un vortice d'attività culturali e ricreative. Con che soddisfazione egli rievoca i ricordi di un periodo in cui era stato successivamente, cantore, giocatore, saltimbanco, poeta improvvisato, mago accusato di poteri diabolici! Grazie a tutto questo, era diventato il «capitano di un piccolo esercito». Il suo prestigio gli permise di fondare una «società dell'allegria», circolo di allegri compagni, ma che non mancavano mai d'incontrarsi a casa dell'uno o dell'altro dei membri per «parlare di religione».

Problemi di vocazione.

Verso la fine degli studi secondari, quando gli studenti decidevano del loro avvenire, Bosco si trovò piuttosto perplesso. Il fatto merita d'essere sottolineato, perché egli corse il rischio allora di prendere una strada che evidentemente non era la sua. Sentiva propensione verso lo

stato ecclesiastico, che i suoi sogni sembravano consigliargli, ma non voleva prestar fede ai sogni. D'altra parte, rievocando i suoi anni di collegio, giudicò senza compiacenza la sua maniera di vivere e certe abitudini del suo cuore. Soprattutto «la mancanza assoluta delle virtù necessarie a questo stato» rendeva «dubbiosa e assai difficile quella deliberazione». Dopo una profonda riflessione prese la decisione d'entrare nell'Ordine francescano. Giovanni Bosco fu ricevuto come postulante tra i figli di san Francesco nel mese d'aprile del 1834. L'anno seguente si preparava ad entrare nel convento di Chieri. Ma un nuovo sogno o un «caso» - ignoriamo quale - fece naufragare il suo progetto. Arrendendosi al parere dei suoi consiglieri, si preparò ad entrare nel seminario maggiore.

Nel seminario di Chieri (1835-1841).

Fondato nel 1829 dall'arcivescovo Chiaveroti in una cittadina tranquilla, nella quale i pericoli del mondo ed il contagio delle idee liberali sarebbero stati meno da temere che nella capitale, il seminario di Chieri portava le speranze della diocesi di Torino. Il 30 ottobre 1835, dopo aver indossato l'abito ecclesiastico, il chierico Bosco, munito di severi propositi e accompagnato dalle fervide raccomandazioni della madre, varcava la soglia dell'istituzione. «La vita fino allora tenuta doveva essere radicalmente riformata. Negli anni addietro non era stato uno scellerato, ma dissipato, vanaglorioso, occupato in partite, giuochi, salti, trastulli ed altre cose simili». Il suo stato di spirito in quel tempo doveva armonizzarsi con la mentalità dell'ambiente del seminario, «piuttosto rigorista, se non giansenista, più portato, nei suoi elementi migliori, alla pietà che alla scienza», che doveva dargli la prima formazione clericale. Durante i sei anni trascorsi nel seminario di Chieri (due anni di filosofia dal 1835 al 1837, e quattro di teologia dal 1837 al 1841), Giovanni Bosco ebbe tuttavia molti motivi per non essere pienamente felice.

Trovava i professori poco accessibili, la dottrina severa - gli era insegnato che ben pochi si salvavano - e l'insegnamento astruso e senz'anima. Doveva inoltre guardarsi da certi seminaristi, che pensavano unicamente a far carriera. Malgrado alcune sue affermazioni, si può pensare che il chierico Bosco conobbe allora un «tempo di inibizione affettiva, che si rifletté sulle sue condizioni fisiche e che, per reazione, lo spinse sulla via dell'autocontrollo, sulla via dell'impegno ascetico accentuato». S'imponeva dunque di camminare con posatezza, d'evitare i giochi e i divertimenti che gli piacevano. Aperto a tutti, egli si limitava a frequentare ora una ristretta cerchia di intimi; tra loro, il suo amico di collegio occupava un posto di tutto privilegio. Di carattere molto diverso dal suo, Luigi s'imponeva a lui per la calma, la pietà, la fedeltà scrupolosa al dovere. Bosco si sforzò di imitare in tutto, tranne nei digiuni e nell'ascetismo, un seminarista così perfetto. Tra i modelli di santi cominciava ad essere attirato dalla figura mite e zelante di san Francesco di Sales. La morte di Luigi - 2 aprile 1839 - lo colpì profondamente. Alcuni anni dopo, racconterà in un volume le virtù dell'amico ed i fatti strani che avevano seguito la sua scomparsa. Egli continuava a leggere molto, ma le sue letture erano diventate molto più serie. Si rimproverava, infatti, d'avere avuto gusto unicamente per le opere forbitissime dei classici pagani. Un giorno, per caso, gli venne tra le mani l'Imitazione di Gesù Cristo: questo libro si accordava perfettamente con le sue nuove disposizioni. Bosco s'interessava con passione della Bibbia e della storia della Chiesa. Spesso le sue letture egli se n'accorse più tardi - lo orientavano verso opinioni teologiche piuttosto rigide nella direzione delle anime e, su un altro piano, alquanto gallicane, quindi meno favorevoli di altre alla centralizzazione romana. Nello studio della morale conobbe il probabiliorismo, dottrina più severa del probabilismo.

Ordinazione sacerdotale (1841).

Il chierico Bosco aveva ricevuto la tonsura e gli ordini minori il 29 marzo 1840, verso la fine del terzo anno di teologia. Durante le vacanze estive che seguirono, studiò i trattati del quarto anno e, nell'autunno seguente, per dispensa speciale, fu direttamente ammesso a frequentare il quinto anno. Suddiacono il 19 settembre 1840, diacono il 27 marzo 1841, egli si preparò all'ordinazione sacerdotale a Torino, dai Preti della Missione di san Vincenzo de' Paoli, nell'antica chiesa della Visitazione. Tra le risoluzioni prese durante gli esercizi spirituali, la quarta menzionava il futuro Patrono: «La carità e la dolcezza di S. Francesco di Sales mi guidino in ogni cosa». Don Bosco fu ordinato sacerdote dall'arcivescovo di Torino, Luigi Fransoni, il 5 giugno 1841. Come per tutte le grandi tappe della sua giovinezza, anche in quest'occasione fu la madre che, qualche tempo dopo l'ordinazione, gli tracciò con poche parole profonde un programma di vita sacerdotale fondato sul lavoro, la sofferenza e l'apostolato. Queste parole riassumono abbastanza bene ciò che era stata fino a quel momento la vita di Giovanni Bosco: il lavoro era stato suo compagno da sempre, le difficoltà e le prove l'avevano formato alla loro scuola, e l'apostolato era stato sempre la molla del suo agire. Maturato dalle esperienze successive di contadinello laborioso e inventivo, di collegiale entusiasta, di chierico fervoroso, don Bosco non avrebbe tardato a lanciare la sua opera. Certo, per tre anni continuerà a frequentare la scuola; ma, dalla fine del 1841, la storia della sua vita non può più essere disgiunta da quella della sua opera.

Capitolo II.

GLI INIZI DELL'ORATORIO S. FRANCESCO DI SALES A TORINO (1841-1847).

L'anno 1841 è stato considerato da don Bosco come l'anno di nascita dell'Oratorio e quindi dell'Opera salesiana. Giovane sacerdote appena uscito dal seminario di Chieri, egli sentiva più che mai il desiderio di occuparsi di giovani. Fortunatamente, una serie di avvenimenti orientarono presto il suo apostolato nel senso desiderato. Fu decisivo a questo riguardo il suo stabilirsi a Torino qualche mese appena dopo l'ordinazione.

Don Bosco a Torino (1841).

Docile ai consigli di don Cafasso, un sacerdote che da vari anni era divenuto la sua «guida nelle cose spirituali e temporali», e dopo aver respinto alcune proposte pervenutegli nell'autunno del 1841 (precettore a Genova, cappellano di Morialdo, viceparroco a Castelnuovo), don Bosco accettò con piacere di frequentare il Convitto ecclesiastico di Torino, dove Cafasso era ripetitore. Vi entrò il 3 novembre 1841. Aperto nel 1817 nell'ex convento di S. Francesco d'Assisi dal teologo Luigi Guala, il quale ne era ancora rettore, il Convitto offriva ai gio

vani sacerdoti un completamento di formazione pastorale. «Qui s'impara ad essere preti», scriverà don Bosco nelle Memorie. Egli aggiungeva che quell'istituto era stato di grande utilità alla Chiesa strappando «alcune radici di giansenismo, che tuttora si conservava tra noi». Infatti, sotto la protezione di san Francesco di Sales e di san Carlo Borromeo, e seguendo la dottrina di sant'Alfonso de' Liguori, i professori del Convitto difendevano la tesi della preminenza dell'amore sulla legge, incoraggiavano una devozione «tenera e sincera» al Sacro Cuore, alla Madonna e al Papa, e raccomandavano l'assidua frequenza ai sacramenti. Con questi influssi per tre anni, il giovane don Bosco passò dal rigorismo del seminario di Chieri ad una forma di vita spirituale più aperta e attraente. Non solo quest'evoluzione era conforme alle tendenze del suo temperamento, ma avrebbe favorito, com'è facile immaginare, gli inizi della sua opera verso i giovani della capitale piemontese. I sacerdoti del Convitto non si dedicavano unicamente allo studio ed alla meditazione, ma i loro maestri li iniziavano anche al ministero pastorale. Don Bosco si lanciò dunque nella predicazione, nelle confessioni, nei corsi di religione in vari istituti religiosi della città. Nello stesso tempo, il suo istinto lo spingeva verso qualcosa di diverso. «Fin dalle prime domeniche - riferisce Michele Rua - andò per la città per farsi idea della condizione morale, in cui si trovava la gioventù». Il bilancio delle sue investigazioni si rivelò presto assolutamente negativo: ovunque, aveva visto «un gran numero di giovani d'ogni età, che andavano vagando per le vie e piazze, specialmente nei dintorni della città, giocando, rissando, bestemmiando e facendo anche peggio».

La condizione giovanile a Torino.

Di deplorevole non vi era soltanto la «condizione morale» di questi giovani: le condizioni di vita, di alloggio, di lavoro lo erano altrettanto,

quando non erano causa di tutto il resto. Nelle Memorie biografiche, don Lemoyne ne ha abbozzato un quadro che, nonostante le tinte romantiche e «miserabilistiche», non pare troppo lontano dalla verità. L'autore ha visto in questa situazione la conseguenza dell'esodo dalle campagne agli albori della prima industrializzazione. Torino, capitale con cento- trentamila abitanti, dedita essenzialmente al commercio (vi si trovano appena alcuni stabilimenti tessili), ma presa dalla febbre dell'ampliamento e dello sviluppo edilizio, attirava migliaia di lavoratori, specialmente giovani, dai dintorni di Biella e dalla Lombardia; la maggior parte di loro trovavano lavoro nei cantieri come muratori, scalpellini, selciatori, stuccatori. Don Lemoyne descrive in termini commoventi la misera sorte di tutti questi emigrati, le catapecchie, la promiscuità, l'affollamento nei quartieri periferici lontano da ogni contatto con la Chiesa. Guidato e consigliato dal Guala e dal Cafasso, don Bosco vide questa miseria da vicino e ne soffrì. La miseria dei giovani lo commuoveva più di tutto. Di fatto, s'incontravano sui cantieri di costruzione fanciulli dagli otto ai dodici anni, lontani dal proprio paese, «servire i muratori, passare le loro giornate su e giù per i ponti mal sicuri, al sole, al vento, alla pioggia, salire le ripide scale a piuoli carichi di calce, di mattoni e ai altri pesi, e senza altro aiuto educativo, fuorché villani rabbuffi o percosse». Bambini in tenera età, spinti dai genitori, mendicavano per le strade. Bande di giovani gironzolavano, soprattutto la domenica, in periferia, lungo le rive del Po, nei terreni incolti.

Nelle carceri.

«L'idea degli oratori nacque dalla frequenza delle carceri di questa città», affermerà don Bosco più tardi in uno scritto del 1862. Infatti,

Subito dopo l'ordinazione, il Cafasso pensò d'iniziarlo al ministero nelle carceri. Fu un'esperienza sconvolgente: «In questi luoghi di miseria spirituale e temporale trovavansi molti giovanetti sull'età fiorente, d'ingegno svegliato, di cuore buono, capaci di formare la consolazione delle famiglie e l'onore della patria; e pure erano colà rinchiusi, avviliti, fatti l'obbrobrio della società». Nella rievocazione tardiva delle Memorie dell'Oratorio, il tono diventerà ancora più drammatico: «Vedere turbe di giovanetti, sull'età dei 12 ai 18 anni, tutti sani, robusti, d'ingegno svegliato, ma vederli là inoperosi, rosicchiati dagli insetti, stentar di pane spirituale e temporale, fu cosa che mi fece inorridire». E quali erano le cause di tale situazione? «Ponderando attentamente le cagioni di quella sventuram - scrive egli - si potè conoscere che per lo più costoro erano infelici piuttosto per mancanza di educazione che per malvagità». E aggiunse precisando il modo d'intendere l'educazione: «Allora si confermò col fatto che questi giovanetti erano divenuti infelici per difetto d'istruzione morale e religiosa, e che questi due mezzi educativi erano quei che potevano efficacemente cooperare a conservare buoni quando lo fossero ancora, e di ridurre a far senno i discoli quando fossero usciti da quei luoghi di punizione». Fu proprio nelle carceri che don Bosco sperimentò l'efficacia di ciò che chiamerà più tardi il sistema preventivo, basato sulla ragione, la religione e l'amorevolezza. Osservava, infatti, «che di mano in mano facevasi loro sentire la dignità dell'uomo, che è ragionevole e deve procacciarsi il pane della vita con oneste fatiche e non col ladroneccio; appena insomma facevasi risuonare il principio morale e religioso alla loro mente, provavano in cuore un piacere di cui non sapevansi dare ragione, ma che loro faceva desiderare di essere più buoni. Di fatto, molti cangiavano condotta nel carcere stesso, altri usciti vivevano in modo da non doverci più essere tradotti». Già allora egli pensava: ciò che mancava a loro era «un amico», che s'interessi di loro. Don Bosco frequentò pure gli ospedali, soprattutto la vicina «Pic

cola casa della divina Provvidenza» del canonico Giuseppe Cottolengo, che tra i suoi milleottocento pensionanti contava molti giovani ed orfani. Tutte queste prime esperienze l'orientarono seriamente verso la «gioventù povera e abbandonata». Soltanto mancava ancora il modo di radunare i giovani per iniziare un vero lavoro educativo a favore di quelli che ne avevano più bisogno.

Origine dell'Oratorio (1841).

Secondo le Memorie dell'Oratorio, fu un «lepido incidente» dell'8 dicembre 1841 che diede origine a tutta l'opera di don Bosco per i giovani. «Il giorno solenne all'Immacolata Concezione di Maria» - così inizia il suo racconto - egli si preparava a celebrare la messa nella chiesa di S. Francesco d'Assisi. Mentre in sacrestia indossava i paramenti, qualcuno era entrato furtivamente: un adolescente, certo incuriosito dall'aspetto insolito del luogo, che se ne stava tranquillo in un angolo. Ma ecco giungere il sacrestano. Credendo di aver trovato il serviente che cercava, subito lo chiama. Probabilmente anche don Bosco stava per rivolgergli la parola, ma non ne ebbe il tempo. In un batter d'occhio, il sacrestano aveva afferrato la pertica dello spolverino per mettere alla porta quel «bestione», che non sapeva servire messa. Il giovane sacerdote interviene allora con energia: «Che fate? È un mio amico! Chiamatelo sull'istante, ho bisogno di parlare con lui». Il ragazzo si avvicina tremante. Rassicurato da don Bosco, accetta di aspettare il termine della messa per parlare di «un affare» che gli farà piacere. Dopo il ringraziamento, la conversazione riprende in un clima di fiducia. Il giovane si chiamava Bartolomeo Garelli. Orfano di padre e di madre, senza istruzione né scolastica né religiosa, il giovane lavoratore sedicenne doveva apparire a don Bosco «come il grido d'implorazione di tutta l'infanzia povera e abbandonata». Quel mattino dell'8 dicembre, l'incontro si prolungò con una po' di catechismo. Don Bosco conclude l'episodio con un'affermazione ben pesata: «Questo è il primordio del nostro Oratorio, che benedetto dal Signore prese quell'incremento, che certamente non avrei potuto allora immaginare».

L'aneddoto dell'8 dicembre 1841 si presenta chiaramente come un classico «racconto di fondazione». In uno scritto ben anteriore di vent'anni, don Bosco non faceva riferimento all'incontro con Bartolomeo Garelli, diventato poi il capostipite dei giovani oratoriani, ma a «due giovani adulti, gravemente bisognosi di religiosa istruzione». Appare certo ad ogni modo che l'inizio del suo apostolato giovanile si iscriva nel quadro dei catechismi che si facevano a S. Francesco d'Assisi sotto la guida di don Cafasso. Nel Cenno storico del 1868 sulle origini della Società salesiana, don Bosco potrà giustamente affermare che «questa Società nel suo principio era un semplice catechismo», e che il suo scopo era di «raccogliere i giovanetti più poveri ed abbandonati e trattenerli nei giorni festivi», non soltanto in esercizi religiosi, ma anche in «piacevoli ricreazioni».

Le prime riunioni a S. Francesco d'Assisi (1841-1844).

Verso la fine del 1841, alcuni ragazzi cominciarono a raggrupparsi intorno al giovane sacerdote, presso il quale essi trovavano un'accoglienza amichevole e una formazione adatta alle loro possibilità. Il numero dei partecipanti cresceva ad ogni riunione. Nel decorso del 1842, si giunse a venti e talora venticinque. Durante il 1843, i giovani che intervenivano al catechismo erano una cinquantina. Nell'estate del 1844, essendogli stato accordato un locale più spazioso, don Bosco si trovò circondato da circa ottanta giovani. Questi ragazzi erano in gran parte muratori e provenivano da paesi lontani. Al sopraggiungere dell'inverno, ritornavano alle loro case, a meno che vi rinunciassero, come Giuseppe Buzzetti, che preferiva restare con don Bosco. Alcuni erano privi di tutto, tanto che il giovane sacerdote doveva industriarsi a trovare loro vestiti o a dar loro il pane «per parecchie settimane». Ben presto, don Bosco aveva dato alle riunioni giovanili il nome di «oratorio festivo». Questa denominazione dimostrava che, secondo il suo modo di vedere, lo scopo primordiale era d'ordine spirituale e a

questo scopo erano subordinate le altre attività. Si dava perciò un posto centrale alla Parola di Dio, al catechismo e ai sacramenti (confessione, messa e comunione). L'ispirazione evangelica era per lui evidente, perché considerava l'oratorio un mezzo per «radunare i dispersi», continuando la missione di Gesù Cristo nel tempo. Scriverà infatti testualmente: «Le parole del santo Vangelo che ci fanno conoscere essere il divin Salvatore venuto dal cielo in terra per radunare insieme tutti i figliuoli di Dio, dispersi nelle varie parti della terra, parmi che si possano letteralmente applicare alla gioventù dei nostri giorni». D'altra parte, occorre tener presente che egli si riferiva volentieri a san Filippo Neri, l'apostolo di Roma nel secolo XVI, il fondatore d'oratori con preghiere, canti, prediche e divertimenti per i giovani. Esistevano anche a Milano oratori fiorenti, di cui avrà potuto sentir parlare. Nella stessa Torino, un altro giovane prete, don Cocchi, aveva iniziato un oratorio nel 1840. Per don Bosco, l'oratorio consisteva in «radunanze in cui si trattiene la gioventù in piacevole ed onesta ricreazione, dopo di aver assistito alle sacre funzioni di chiesa». Poco a poco, il termine si estenderà ad ogni tipo d'attività per i giovani.

Alla ricerca di una sistemazione (1844-1846).

Nel 1844, don Bosco aveva terminato il suo triennio al Convitto e nuovamente gli si presentava la scelta di un ministero ufficiale. Nel suo spirito egli vagheggiava una grande idea: «In questo momento mi pare di trovarmi in mezzo ad una moltitudine di fanciulli, che mi dimandano aiuto». I suoi amici temevano che l'arcivescovo lo allontanasse da Torino. Nulla di tutto questo accadde. Fu mandato a servizio del «Rifugio», un istituto fondato dalla marchesa Barolo per le giovani pericolanti nella zona di Valdocco, a nord della città. Vi erano già direttori spirituali il teologo Giovanni Borel e don Sebastiano Pacchiotti. Don Bosco si aggiunse a loro, in attesa di diventare direttore spirituale dell'Ospedaletto di S. Filomena, per bambine inferme, che si sarebbe aperto dopo alcuni mesi. Quest'ufficio, non molto di suo gusto, fortunatamente gli lasciava la possibilità di continuare il suo apostolato tra i ragazzi, nel quale il Borei diventò il suo aiutante più efficace. Con l'autorizzazione della marchesa, le riunioni, a partire dall'ottobre del 1844, poterono aver luogo presso il Rifugio e una piccola cappella fu sistemata in due camere e benedetta l'8 dicembre dello stesso anno. La cappella e l'oratorio cominciarono a chiamarsi di S. Francesco di Sales perché la marchesa aveva fatto eseguire il dipinto di questo santo all'entrata del locale. Il patrocinio del vescovo savoiardo piaceva a don Bosco, che voleva imitarlo «nella sua straordinaria mansue

tudine e nel guadagno delle anime», aggiungendo come un'altra ragione quella di chiedere il suo aiuto per «combattere gli errori contro alla religione specialmente il protestantesimo, che cominciava insidioso ad insinuarsi nei nostri paesi e segnatamente nella città di Torino». Dopo alcuni mesi di stabilità in un luogo dove egli credeva di aver trovato il «paradiso terrestre», la marchesa finì con lo stancarsi di quei discoli; nell'attesa di congedarlo definitivamente, ella chiese a don Bosco di allontanare una clientela ritenuta pericolosa e sempre più numerosa. L'oratorio iniziava allora la sua vita errante. La domenica 25 maggio dei 1845, l'oratorio si trasferì nel cortile e nella chiesa presso il cimitero di S. Pietro in Vincoli, ma il cappellano, spinto da una governante collerica, cacciò via la chiassosa truppa il giorno stesso. Dopo quest'incidente, il municipio di Torino, su raccomandazione dell'arcivescovo Fransoni, permise a don Bosco di radunare le sue turbe di ragazzi presso la cappella di S. Martino, non lontano dai mulini che costeggiano la Dora. Ma i vicini protestavano presso le autorità e s'incominciava a diffondere la voce che quelle riunioni potevano essere pericolose per l'ordine pubblico. Nel mese di novembre del 1845, all'avvicinarsi dell'inverno, il catechismo si fece in tre stanze prese in affitto nella casa di don Giovanni Moretta, a pochi passi dal Rifugio. Intanto, la situazione diventava critica. Accusato dai parroci di Torino di allontanare i giovanetti dalle parrocchie, don Bosco rispondeva che essi non conoscevano né parroco né parrocchia, essendo in gran parte savoiardi, svizzeri, valdostani, biellesi, novaresi o lombardi. Nella primavera del 1846, gli inquilini di casa Moretta lo fecero di nuovo sloggiare. Nel mese di marzo di quell'anno, egli affittò un prato vicino, appartenente ai fratelli Filippi. Erano circa trecento i giovanotti che frequentavano quell'oratorio, «la cui volta, le cui pareti erano la medesima volta del cielo». Ma anche là, le cose si misero male assai presto. Fortunatamente, l'8 marzo don Bosco fece la conoscenza di un certo Pancrazio Soave, che gli indicò una «tettoia», addossata a una casa appartenente a un immigrato lombardo, Francesco Pinardi. Il 13

marzo, scrisse al marchese Michele Benso di Cavour, capo dell'amministrazione comunale, chiedendo l'autorizzazione di installare l'oratorio nel locale di Pinardi. Il 30 marzo, fu ricevuto dal marchese, il quale, mentre l'incoraggiava nel suo lavoro, faceva tuttavia riserve sul suo modo di fare e insisteva sui pericoli di quelle riunioni. Appena tornato dall'udienza, i fratelli Filippi gli chiesero di lasciare il loro prato entro quindici giorni. Il 1 aprile, venne firmato un contratto di locazione della tettoia Pinardi per tre anni. Il 5 aprile, domenica delle Palme, fu l'ultima domenica sul prato Filippi. Il trasferimento dell'oratorio in una sede fissa ebbe luogo la domenica seguente.

L'Oratorio nella tettoia Pinardi a Valdocco (1846).

«La domenica seguente, solennità di Pasqua nel giorno 12 di aprile, si trasportarono colà tutti gli attrezzi di chiesa e di ricreazione, e andammo a prendere possesso della nuova località». Benché di costruzione recente, quella tettoia era stata fino allora una «semplice e povera rimessa», che serviva da deposito ad alcune lavandaie del sobborgo ancora poco abitato di Valdocco. Con alcuni adattamenti indispensabili, il grande vano di quindici metri per sei e le due stanze sarebbero stati utilizzati come cappella e luogo di riunione. Accanto, una striscia di terreno poteva servire da luogo di ricreazione. L'insieme era nulla di straordinario, ma il fatto d'aver trovato un posto fisso costituiva per l'oratorio un vantaggio altamente apprezzabile. Don Bosco non tardava a raccogliere i frutti dell'operazione. «Il sito stabile, i segni d'approvazione dell'Arcivescovo, le solenni funzioni, la musica, il rumore di un giardino di ricreazione, attraevano fanciulli da tutte le parti. Parecchi ecclesiastici presero a ritornare». È vero che il marchese di Cavour persisteva nelle sue diffide, tanto che gli impose per sei mesi la presenza d'alcune guardie civiche, ma ciò non gli fu af

fatto sgradito perché gli servivano tanto bene per l'assistenza dei giovani. Proprio allora la salute di don Bosco cedette. Nel mese di luglio di quell'anno, cadde gravemente ammalato. Questa grave prova servì almeno ai suoi ragazzi per manifestargli con esuberanza il loro profondo attaccamento. Guarì. Dopo parecchie settimane di convalescenza ai Becchi, ritornò a Torino, ma accompagnato dalla madre Margherita. Il 3 novembre 1846, entrambi si stabilirono molto poveramente in due camere della casa Pinardi, che don Bosco aveva potuto prendere in affitto. Dopo qualche tempo, gli sarà possibile affittarne altre tre.

Primi tentativi di scuola.

Oltre all'istruzione religiosa, don Bosco aveva potuto costatare fin da principio la necessità di dare un po' d'istruzione generale ai suoi ragazzi, in gran parte analfabeti. A questo scopo aveva iniziato al Rifugio scuole domenicali, ed altrettanto aveva fatto con maggior regolarità in casa Moretta. S'imparava soltanto a leggere e scrivere, a fare le quattro prime operazioni dell'aritmetica, a capire i rudimenti del sistema metrico e della grammatica italiana. Non era sufficiente: accadeva che da una domenica all'altra dimenticassero tutto. Egli istituì allora, probabilmente durante l'inverno del 1846-1847, scuole quotidiane serali per l'insegnamento della lettura, della scrittura, dell'aritmetica, della musica, e poi anche del disegno e della lingua francese. Quando l'Oratorio fu stabilito nella casa Pinardi, queste scuole assunsero un funzionamento più regolare e ordinato. Don Bosco reclutava e formava lui stesso i maestri, generalmente giovanissimi, che chiamava i suoi «maestrini». I primi risultati parevano incoraggianti. «Le scuole serali producevano due buoni effetti: animavano i giovanetti ad intervenire per istruirsi nella letteratura, di cui sentivano grave bisogno; nel tempo stesso davano grande opportunità per istruirli nella religione, che formava lo scopo delle nostre sollecitudini».

Volendo dare ai suoi alunni libri adatti, scrisse - a prezzo d'un lavoro sfibrante - una Storia ecclesiastica, una Storia sacra, un «metodo cristiano di vita», e perfino una commediola per imparare in modo piacevole il sistema metrico decimale.

Una domenica all'Oratorio.

Nelle domeniche e giorni festivi, il programma della giornata era divenuto classico. Al mattino, di buon'ora, don Bosco accoglieva i ragazzi sulla porta della tettoia-cappella. Immediatamente iniziavano le confessioni che si prolungavano fino al momento della messa, fissata di regola alle otto, ma spesso ritardata fino alle nove ed anche oltre per il prolungarsi delle confessioni. Prima di uscire don Bosco rivolgeva loro la parola su un tema tratto dal vangelo o, più spesso, utilizzando un episodio della storia sacra o della storia della Chiesa, ma sempre «ridotti a forma semplice e popolare». Dopo qualche minuto di ricreazione, aveva inizio la scuola festiva, che durava fino a mezzogiorno.

Nel pomeriggio, si riprendeva a giocare dall'una fino alle due e mezzo. C'erano poi i corsi di catechismo, la recita del rosario, il sermoncino, il tutto concluso dalla benedizione. Il tempo rimanente era occupato a giocare con don Bosco, rimasto molto agile e lesto, che non disdegnava di mettere a profitto le sue antiche doti di saltimbanco. Si continuava fino al cadere della notte. Dopo le preghiere della sera, accompagnava talvolta i giovani per un tratto di strada, tanto rincresceva loro accomiatarsi da lui. Quelle giornate, iniziate alle quattro del mattino, lo lasciavano alle dieci di sera «mezzo morto per la stanchezza». Durante la settimana, don Bosco continuava ad occuparsi dei suoi giovani. «Andava - testi-monierà don Rua - in cerca di giovani, che stavano vagando per le vie della città, andava eziandio visitando le fabbriche, ove trovavansi numerosi apprendisti, e tutti li invitava al suo Oratorio, indirizzando specialmente le sue esortazioni ai giovani forestieri, come quelli provenienti dal Biellese, dalla Lombardia, per lavorare da muratore. Quando poi qualcuno rimaneva senza lavoro, s'industriava per cercare loro occupazione presso qualche buon padrone, affinché non perdesse nell'ozio quanto di bene imparava nei giorni festivi».

Consolidamento (1847).

Preoccupato di rendere stabile la sua opera attraverso «l'unità di spirito, di disciplina e di amministrazione», incominciò, forse già dal 1847, a stendere un regolamento dell'Oratorio, in cui esponeva «il modo uniforme con cui le cose dovevano essere fatte». Questo regolamento sarà continuamente ritoccato negli anni seguenti. Per inquadrare e animare la massa enorme di cui si occupava, fu organizzata tra gli oratoriani un'associazione, il cui fine era di unire tutti coloro che avevano desiderio di buona condotta e di una vita cristiana più autentica. Sotto il titolo di «Compagnia di S. Luigi», fu debitamente approvata dall'arcivescovo di Torino il 12 aprile 1847. Così, a poco a poco, l'Oratorio di Valdocco si consolidava. Alcune

opposizioni si calmavano. Nel giugno del 1847 vi fu perfino una specie di consacrazione, quando mons. Fransoni venne per la prima volta per dare la cresima a novantasette oratoriani. L'Oratorio che, secondo l'espressione di don Bosco, era nato e cresciuto «sotto le bastonate», era diventato nel 1847 sufficientemente solido per attraversare la grande crisi politica che stava covando.

Capitolo III.

LA CASA DELL'ORATORIO E I PRIMI LABORATORI (1847-1862).

Un clima politico burrascoso (1847-1849).

A partire dal 1847, il Piemonte avrebbe vissuto gli anni più frenetici della sua storia. Con l'aria di libertà che ora soffiava violenta sugli stati di Carlo Alberto, i giorni della Restaurazione e del regime assolutista parevano contati. L'elezione, un anno prima, di Pio IX che era considerato un liberale, l'eco suscitata in Italia dalle innovazioni del nuovo Papa, i moti rivoluzionari che non avrebbero tardato a scoppiare a Parigi, a Vienna e a Berlino, tutto contribuiva a creare un nuovo clima politico. In Piemonte, fu il re stesso che - per amore o per forza - prese l'iniziativa dei mutamenti. Nell'ottobre 1847, Carlo Alberto promulgava una prima serie di riforme, specialmente l'abolizione della censura della stampa, che suscitarono immediatamente immenso giubilo da parte dei liberali. «Quasi ogni giorno battimani, serenate, inni a Pio IX, al Re e alla Risorta Italia», scriveva un testimone. L'anno seguente 1848 fu decisivo. Nel febbraio furono concessi ai Valdesi, minoranza protestante, tutti i diritti politici e civili e venne loro garantita la libertà di culto. Nel mese di marzo, in un clima parossistico d'entusiasmo, Carlo Alberto concesse lo Statuto e una legge elettorale. Con questo passo, si cambiava regime, passando dalla monarchia as

soluta alla monarchia costituzionale. Poco dopo venivano riconosciuti anche agli Ebrei i diritti civili. Il movimento liberale sosteneva il movimento nazionale. Si parlava continuamente di cacciare una buona volta gli Austriaci per realizzare l'unità del paese. Il romantico Carlo Alberto, che appariva a molti l'unico che potesse liberare l'Italia, si gettò in una guerra almeno prematura. Entrato in Lombardia nell'aprile del 1848, dopo alcuni successi iniziali fu sconfitto a Custoza e a Novara ed abdicò nel marzo 1849 in favore del figlio, Vittorio Emanuele II. A Roma intanto, Pio IX aveva annunciato nell'aprile 1848 che la sua missione universale non gli permetteva di entrare in guerra contro i suoi figli dell'impero austro- ungarico. Le conseguenze furono drammatiche: venne ucciso il suo primo ministro e lui stesso fuggì di notte da Roma alla fortezza di Gaeta. Fu proclamata la repubblica romana e dichiarato decaduto il potere temporale del Papa. Soltanto nel luglio del 1849, la repubblica sarà sconfitta dalle truppe francesi e Pio IX potrà tornare a Roma.

La crisi degli oratori a Torino.

Com'è facile immaginare, i contraccolpi della situazione si fecero sentire anche all'Oratorio. Don Bosco reagì creando nell'ottobre del 1848 un giornale, che chiamò L'Amico della gioventù con lo scopo «d'illuminare e premunire la gioventù contro a tutto ciò che potesse per avventura oscurare le verità della fede, corrompere il buon costume o traviare il popolo per tenebrosi e fallaci sentieri». L'esperienza tuttavia durò soltanto alcuni mesi, fino a maggio dell'anno seguente. Secondo il Lemoyne, «i giorni del 1848 e del 1849 furono terribili per don Bosco». Nel clero si erano formate delle divisioni. L'arcivescovo di Torino, mons. Fransoni, che non era incline ad accettare le novità, fu pregato di lasciare il paese; imprigionato per qualche tempo, si esiliò nel 1850 a Lione, in Francia. Un gran numero di seminaristi e di sacerdoti esal

tavano invece l'alleanza della religione con la libertà e con il patriottismo. Prudente, e tutto preso dal suo lavoro a favore della gioventù povera e dalla sua fedeltà all'arcivescovo e al Papa, don Bosco ebbe da subire una violenta reazione di una parte dei suoi collaboratori. Questi, non contenti di lasciarlo solo ancora una volta, riuscirono per un po' di tempo a strappargli il grosso delle sue truppe. Per diverse domeniche, il numero dei partecipanti cadde da alcune centinaia a trenta o quaranta. Per trattenere i ragazzi, egli si adattava per necessità al loro spirito bellicoso e li riforniva di fucili e di spade di legno. Tuttavia, egli rimaneva diffidente, e non accettava di lasciarsi trascinare nel vortice degli entusiasmi popolari. Ben presto essi si sarebbero rivolti contro il clero, mentre i rapporti tra Pio IX ed il grande movimento che agitava l'Italia si avvelenavano sempre di più. Nonostante tutto, l'Oratorio sopravvisse agli anni difficili, anzi riuscì a sciamare verso due nuovi centri. Nel 1847, fu presa a pigione una piccola casa con una tettoia e un cortile a sud della città, nel quartiere di Porta Nuova. La casetta era occupata da lavandaie, «le quali credevano dover succedere la fine del mondo qualora avessero dovuto abbandonare l'antica loro dimora». L'oratorio, intitolato a S. Luigi, fu inaugurato l'8 dicembre e affidato al teologo Carpano, al quale succederà don Ponte. Due anni dopo, anche l'oratorio dell'Angelo Custode, fondato da don Cocchi nel quartiere malfamato di Vanchiglia, all'est della città, passò sotto la responsabilità di don Bosco. Infatti, era andato in crisi dopo che l'intrepido direttore aveva preso il partito della lotta politica. La direzione fu assunta dal teologo Giovanni Vola, e in seguito dal teologo Roberto Murialdo, validamente aiutato dal cugino Leonardo. Nel gruppo dirigente degli oratori torinesi, si manifestarono presto le diversità di carattere e d'opinioni. Per favorire la coesione si cercò di creare una specie di confederazione. Ma don Bosco rifiutò di farne parte adducendo come motivo le differenze di orientamenti educativi. In questo contesto, l'arcivescovo in esilio decise di intervenire nel 1852 e lo fece in favore di don Bosco. Il 31 marzo 1852, egli firmò una lettera, con la quale nominava don Bosco ufficialmente «direttore capo spirituale» dell'Oratorio di S. Francesco di Sales e superiore di quelli di S.

Luigi e dell'Angelo Custode, che dovevano essere formalmente «uniti e dipendenti» da quello di S. Francesco.

Origine di una nuova fondazione (1847).

Nel frattempo, era sorta una nuova iniziativa, che si situava nella logica dell'azione intrapresa a favore della «gioventù povera e abbandonata». «Fra i giovani che frequentano questi oratori - scriverà don Bosco - se ne trovarono di quelli talmente poveri ed abbandonati che per loro riusciva quasi inutile ogni sollecitudine senza un sito dove possano essere provveduti di alloggio, vitto e vestito». Per rispondere a questa nuova necessità, nel 1847 don Bosco apriva nelle stanze libere della casa Pinardi un piccolo ospizio per i giovani più bisognosi. Quale fu l'origine di questa casa lo illustra don Bosco in un episodio narrato nelle Memorie dell'Oratorio, che presenta tutte le caratteristiche di un racconto di fondazione. Una sera del mese di maggio di quell'anno, un ragazzo di una quindicina d'anni bussò alla sua porta, con gli abiti completamente inzuppati per la pioggia che scrosciava. Aveva fame e supplicava di essere alloggiato per la notte. La madre di don Bosco l'accolse in cucina, lo fece sedere accanto al fuoco e gli servì la minestra e del pane, mentre suo figlio lo interrogava sulla sua situazione. Non era rosea: orfano, straniero, senza denaro, senza lavoro, quella sera non sapeva veramente dove andare. In attesa di meglio, il ragazzo venne sistemato su un pagliericcio, in cucina. Per precauzione, la stanza fu chiusa a chiave, poiché una prima esperienza di questo genere si era risolta con un furto di lenzuola e di coperte. Il giorno seguente, don Bosco percorse la città per cercare lavoro al suo ospite. Quel ragazzo - così conclude il racconto - fu il primo interno della prima casa salesiana, che don Bosco per qualche tempo chiamò la «casa annessa all'Oratorio di S. Francesco di Sales». Titolo significativo in quanto mostra che, nel pensiero del fondatore, l'Oratorio festivo per

gli esterni conservò nonostante tutto, il suo carattere di privilegio. Nel corso dell'anno 1847, altri giovani furono, bene o male, alloggiati. Per qualche tempo, il numero fu limitato ad alcune unità, poiché mancava il posto. Nel 1850 i convittori potevano essere una decina. Dopo la costruzione di un edificio a due piani nel 1852-1853, la «casa annessa» poteva accogliere da ottanta a cento ragazzi. Con la demolizione della vecchia casa Pinardi e le nuove costruzioni nel 1856-1857, il numero saliva progressivamente verso duecento. Più tardi, l'anagrafe della casa registrerà 257 giovani accettati nel 1864 e 412 nel 1867. Il piccolo ospizio primitivo era diventato allora un grande internato per giovani studenti e artigiani. A cominciare dal 1851, don Bosco si era lanciato anche nella costruzione di una chiesa, destinata a sostituire la tettoia divenuta inutilizzabile. Fu solennemente inaugurata il 20 giugno 1852 e dedicata a san Francesco di Sales. Inizialmente, la «casa dell'Oratorio» accolse principalmente «artigianelli» o giovani lavoratori, spesso orfani, mentre gli studenti sarebbero in maggioranza solo a partire dal 1855. La ragione va ricercata nel fatto che don Bosco era rimasto immediatamente colpito dalle precarie condizioni della gioventù operaia di Torino.

La questione sociale a Torino nel 1848.

Con il progresso dell'industrializzazione che, dopo le grandi nazioni industriali d'Europa, incominciava a farsi sentire in Piemonte, le condizioni dei lavoratori diventavano spesso disastrose. E del 1848 il manifesto del partito comunista di Marx e Engels, che propugnavano una trasformazione rivoluzionaria della società. A Torino, due ragioni principali potevano spiegare il decadimento della classe operaia: il trionfo del liberalismo e l'indifferenza degli uomini politici. Il liberalismo in materia economica conduceva direttamente alla soppressione delle associazioni di lavoratori. Infatti, gli editti reali del 1844 avevano semplicemente soppresso le antiche «università» o cor

porazioni. Ma questa nuova legislazione lasciava l'operaio isolato e senza mezzi di difesa. Su richiesta dei lavoratori di Torino, Carlo Alberto concesse loro a stento il diritto di formare unicamente società di assistenza, prive di ogni portata sociale. Ma neppur queste furono risparmiate dai liberali. L'indifferenza degli uomini politici sorprende meno se si pensa che i loro progetti erano tutti orientati verso i problemi dell'indipendenza e dell'unità nazionale. Le voci isolate che si levavano - quella di un Gustavo Cavour o di un Rosmini - non potevano incidere profondamente sull'opinione pubblica, senza contare che in clima liberale, esse non potevano non essere tacciate di reazionarie. Se don Bosco «non amava le rivoluzioni», è certo tuttavia che egli aveva coscienza del male di cui soffriva la società. Con una certa enfasi, don Lemoyne affermava che «egli fu tra quei pochi che avevan capito fin da principio, e lo disse mille volte, che il movimento rivoluzionario non era un turbine passeggero, perché non tutte le promesse fatte al popolo erano disoneste, e molte rispondevano alle aspirazioni universali, vive dei proletari. Desideravano d'ottenere eguaglianza comune a tutti, senza distinzione di classi, maggior giustizia e miglioramento delle proprie sorti. Per altra parte egli vedeva come le ricchezze incominciassero a divenire monopolio di capitalisti senza viscere di pietà, e i padroni, all'operaio isolato e senza difesa, imponessero patti ingiusti sia riguardo al salario sia rispetto alla durata di lavoro; e la santificazione delle feste sovente fosse brutalmente impedita, e come queste cause dovessero produrre tristi effetti; la perdita della fede negli operai, la miseria delle loro famiglie, e l'adesione alle massime sovversive». Al male che deplorava don Bosco s'industriava di portare rimedio con i metodi e i mezzi che aveva a disposizione. Secondo lui, la carità doveva farsi attiva. Per venire incontro ai bisogni del tempo, specialmente della gioventù, serviva un «progetto operativo». La sua azione però non era rivolta a cambiare le strutture della società, ma a fornire

l'educazione, il pane e l'alloggio alla gioventù povera, abbandonata, pericolante. Nonostante una sua reale nostalgia della «società cristiana» del passato, egli s'impegnò con slancio e flessibilità nel suo tempo, cercando di realizzare anche nel futuro la sua «utopia». Tra le azioni più significative, notiamo la preoccupazione di collocare il giovane presso un «padrone onesto». Stipulava con questi e firmava contratti di locazione d'opera, di cui esigeva la rigorosa osservanza delle clausole. Ne rimangono alcuni esemplari, non privi d'interesse, che recano la data del 1851 e del 1852. In essi venivano garantiti i diritti fondamentali del giovane operaio: la salute, il giusto salario, il riposo domenicale e negli altri giorni festivi, l'esatto apprendimento del mestiere e la previdenza in caso di malattia. L'apprendista, da parte sua, s'impegnava a fornire un lavoro serio. Quanto al direttore dell'Oratorio, egli prometteva d'interessarsi della buona condotta del ragazzo. Se il padrone veniva meno ai suoi impegni, sfruttava il suo dipendente o si mostrava brutale, don Bosco non esitava a ritirarglielo. Un'altra iniziativa fu l'organizzazione di una «Società di mutuo soccorso» tra i giovani esterni dell'Oratorio. Nel regolamento da lui pubblicato nel 1850, l'articolo 1 recitava: «Lo scopo di questa società è di prestare soccorso a quei compagni che cadessero infermi, o si trovassero nel bisogno, perché involontariamente privi di lavoro». Per questo, i soci s'impegnavano a versare un soldo ogni domenica. Tale società dimostrava così un senso di solidarietà, in reazione contro lo spirito individualistico del tempo.

Origine dei primi laboratori (1853).

Per circa sei anni, la vita nella casa dell'Oratorio si svolse senza notevoli mutamenti. Ma nel 1853, terminata la costruzione del nuovo edificio, don Bosco decise di fare un passo avanti sistemando stabilmente nella sua casa i primi laboratori.

Spiegando le ragioni che l'avevano spinto a questo, il suo biografo metteva in primo piano i pericoli che minacciavano i giovani in città: «il malcostume e l'irreligione», con una menzione speciale per l'«eresia» protestante. Effettivamente, Torino stava vivendo allora un periodo molto agitato della sua vita e i Valdesi, dopo la loro emancipazione, conducevano un'attiva campagna di proselitismo nel paese. Don Bosco stesso subì in quegli anni alcuni attentati, che furono attribuiti senz'altro a loro. D'altra parte, è facile immaginare anche che il direttore dell'Oratorio avesse un suo piano in testa e che tra l'altro volesse i laboratori per calzare, vestire ed alloggiare i suoi pensionanti. Nell'autunno del 1853, si iniziò con due rudimentali laboratori per calzolai e per sarti. I primi furono sistemati in un corridoio di casa Pinardi e i sarti si assicurarono l'antica cucina. Nell'attesa di trovare per loro dei capi laboratorio, don Bosco fu il loro primo maestro. Queste due esperienze gli sembrarono altamente vantaggiose, sia sotto l'aspetto materiale, sia sotto quello morale. Senza indugiare, cominciò a stendere un regolamento, fissando le responsabilità di ognuno, spiegando che quelle dei maestri d'arte non si limitavano all'insegnamento del mestiere ma si estendevano anche alla condotta morale degli alunni. A mano a mano che un bisogno nuovo si farà sentire, nascerà un nuovo laboratorio, nei limiti del possibile. Nel 1854, iniziò il laboratorio dei legatori (non dimentichiamo che don Bosco pubblicava molto), nel 1856 quello dei falegnami (utilissimi per le costruzioni), e nel 1861 quello degli stampatori (che avrebbero liberato questo scrittore fecondo da una molesta servitù). Finalmente nel 1862, don Bosco aprirà un laboratorio per fabbri, precursore degli attuali laboratori di meccanica. Appena lanciato il primo laboratorio, ecco nascere il problema di come inquadrare i giovani apprendisti. Il direttore dell'Oratorio dovette superare, a questo proposito, alcune difficoltà e l'esperienza gli fecero tentare successivamente diverse formule. All'inizio, ricorse a capi laboratorio che considerava salariati ordinari. Accorgendosi poi che non si preoccupavano né del progresso degli allievi, né del buon andamento del laboratorio, in un secondo tempo affidò loro l'intera responsabilità, con la briga di trovarsi il lavoro come

se fossero loro stessi i padroni. Ma allora, i ragazzi si videro trattati da manovali e sottratti all'autorità del direttore, senza contare che l'orario della casa era sempre preso di mira e che i capi badavano innanzi tutto al proprio vantaggio personale. Quando don Bosco prese in mano l'organizzazione materiale dei laboratori - il capo doveva portare i propri utensili, mentre quelli degli apprendisti erano forniti dall'Oratorio - le noie continuarono: l'attrezzatura degli allievi più che a loro serviva al maestro. Allora don Bosco assunse la completa responsabilità morale e amministrativa dei laboratori, lasciando ai capi unicamente la formazione professionale degli apprendisti. Tra gli inconvenienti di questa nuova formula, uno era particolarmente grave: i capi, temendo di essere soppiantati dai loro allievi migliori, erano inclini a lasciarli vegetare. Alla fine, don Bosco troverà la formula dei capi laboratorio che fossero nello stesso tempo dei religiosi: i «Coadiutori salesiani».

I primi anni nella casa dell'Oratorio

La vita nella casa dell'Oratorio, nei primi anni della sua esistenza, offriva uno spettacolo tra i più pittoreschi. Mancava tutto, soprattutto lo spazio necessario. I giovani dormivano a piccoli gruppi nelle camere. A mano a mano che la casa Pinardi passava a don Bosco, ogni angolo disponibile era immediatamente occupato da un letto. Quando faceva bello, i pasti si consumavano fuori, nel cortile, altrimenti si trovava posto sui gradini della scala e nei pressi della cucina. Margherita Bosco, che tutti chiamavano mamma Margherita, preparava la polenta e la minestra, suo figlio l'aiutava attorno al fornello e faceva la distribuzione. Per dissetarsi, l'acqua fresca e ab

bondante della pompa. Prima di partire per il lavoro, ciascuno riceveva venticinque centesimi per procurarsi il pane in città. Praticamente, all'inizio tutte le spese e tutto il lavoro gravavano su don Bosco e sua madre. Oltre alla cucina, vi era da fare il bucato e da rattoppare gli abiti. Per buona sorte, il direttore non aveva dimenticato i vecchi mestieri esercitati in gioventù. In seguito, mamma Margherita fu aiutata anche dalla sorella Marianna e da altre donne. Dopo la sua morte nel 1856, fu sostituita dalla mamma di don Rua. Nei momenti di maggior necessità, don Bosco non esitava a bussare alla porta di qualche ricca famiglia. Era un gesto che gli costava molto - come confessava egli stesso - benché si proclamasse pronto a qualunque sacrificio per provvedere alle necessità dei suoi «merlotti». Per ottenere i mezzi necessari per vivere, scriveva anche al re, ai ministri, al municipio. Organizzò grandi lotterie di beneficenza, nel 1852, nel 1854, nel 1855, nel 1857, nel 1862 ed altre più tardi. Ed in realtà, nessun ragazzo venne mai allontanato per mancanza del necessario. Il convitto dell'Oratorio, aperto nel 1847, acquistò a poco a poco solide basi in tutti i campi. Se don Bosco desiderava innanzi tutto conservarne al massimo il carattere familiare, egli lavorava nello stesso tempo a dargli il funzionamento di una vera casa di educazione. Un primo regolamento ampio entrò in vigore durante l'anno scolastico 1854-1855. È interessante notare che allora lo scopo dell'opera non era formalmente mutato. Nel capitolo primo che tratta dell'ammissione nella casa, il regolamento contemplava unicamente il caso del giovane dai dodici ai diciotto anni, a condizione che fosse «orfano di padre e di madre e totalmente povero e abbandonato. Se ha fratelli o zii che possano assumerne l'educazione, è fuori dello scopo di nostra Casa». In pratica, don Bosco riceveva soprattutto orfani, predelinquenti o anche ragazzi che si trovavano male in famiglia. L'appendice a questo regolamento, che trattava degli studenti, non supponeva uguali «esigenze».

Orario e formazione dei giovani artigiani.

La giornata di un artigiano verso il 1853 aveva inizio di primo mattino. Dopo la levata, i giovani potevano assistere alla messa celebrata da don Bosco. Facevano quindi colazione e poi ciascuno se n'andava al lavoro, in città o all'Oratorio, mentre gli studenti si avviavano a scuola. A mezzogiorno, tutti si ritrovavano attorno alla medesima mensa. Un'ora circa di ricreazione e poi ciascuno ritornava alle proprie occupazioni fino all'ora di cena. In serata erano previsti alcuni esercizi scolastici. Le preghiere della sera erano recitate alle nove, generalmente nel cortile, ed erano seguite da brevi parole di don Bosco. Questa «buona notte», che egli augurava alla sua «famiglia» al termine d'ogni giornata, era secondo lui un mezzo eccellente d'educazione. Si rimproverava a don Bosco di esigere troppo dai suoi giovani operai nel campo religioso. Essi erano anche meno docili degli studenti. In realtà, egli si mostrava a loro riguardo meno esigente. Tuttavia le pratiche di pietà dell'Oratorio erano numerose e varie: messa, rosario, preghiere, visita al Santissimo Sacramento, buona notte. Oltre a queste pratiche quotidiane, egli teneva molto al ritiro mensile, chiamato esercizio della buona morte, ed ogni anno agli esercizi spirituali di più giorni. La sua prima esperienza, che risaliva al 1848, fu sufficientemente incoraggiante per spingerlo a ricominciare periodicamente. Inoltre, sul modello della «Compagnia di S. Luigi», nel 1859 sorgerà una «Compagnia di S. Giuseppe» per la formazione cristiana degli artigiani. Nell'educazione dei giovani lavoratori, le feste e gli svaghi non erano dimenticati. La domenica, gli interni partecipavano alle attività dell'oratorio esterno ed ai suoi giochi. Lungo la settimana, nei momenti liberi coltivavano il canto e la musica, e questo consentiva loro di esibirsi fuori dell'Oratorio. A partire dal 1848, le loro prestazioni furono ri

chieste nelle chiese di Torino ed in quelle dei paesi vicini. Anche la musica strumentale ed il teatro fecero la loro apparizione tra gli artigiani. Don Bosco si adattava così ai ragazzi molto semplici, talvolta rozzi che accoglieva in casa sua, e di cui voleva fare, secondo un'espressione che gli diventerà abituale, «buoni cristiani e onesti cittadini».

Capitolo IV.

LE PRIME SCUOLE DELL'ORATORIO (1847-1862).

Don Bosco e gli «studenti».

Mentre si dedicava con forte slancio ai giovani operai, don Bosco non trascurava la categoria degli studenti. Anzi, non attese il 1847 per interessarsi di loro. Già nei primi tempi dell'Oratorio, aveva reclutato alcuni ragazzi più istruiti in grado di aiutarlo nell’istruzione degli altri. Di fatto, i «maestrini» da lui formati costituivano i primi elementi di ciò che sarebbe diventata la sezione degli studenti. Altro segno del suo interesse per gli studenti: il giovedì, l'Oratorio era invaso da gruppi di collegiali della città che avevano piacere di trascorrere una giornata di distensione in sua compagnia. Provenienti da famiglie agiate, erano felici di conversare con lui di mille argomenti. Per divertirli, metteva a loro disposizione i giochi e gli attrezzi di ginnastica inutilizzati lungo la settimana. Spesso la giornata si concludeva a sera inoltrata. Ma già nel mese di ottobre del 1847, don Bosco fece un passo di più ricevendo in pensione nella casa Pinardi il primo studente. Si chiamava Alessandro Pescarmona. Suo padre, un «ricco possidente», ex sindaco di Castelnuovo, si era impegnato mediante una convenzione scritta a pagare una retta mensile. «Non è giusto, pensava don Bosco, che colui il quale poco o molto possiede di beni suoi o di sua famiglia, volendo essere ammesso fra noi, si profitti delle elemosine che sono elargite per gli altri». Facendo vita comune con don Bosco e con i primi artigiani, Pescarmona avrebbe seguito in città dei corsi di latino.

Un problema di reclutamento sacerdotale.

Accettando studenti nella casa dell'Oratorio, dove il posto era già scarso per gli artigiani, don Bosco era guidato da uno scopo ben preciso: formare futuri sacerdoti e collaboratori. In cuor suo egli vagheggiava un grande disegno che dei «sogni» periodici venivano a precisare: preparare gli innumerevoli collaboratori di domani, sacerdoti e chierici, che l'avrebbero aiutato nella sua impresa. D'altra parte, egli era preoccupato per la scarsità dei candidati al sacerdozio, fenomeno nuovo in Piemonte e conseguenza dei mutamenti politici. «In quell'anno (1848) - scriverà più tardi - uno spirito di vertigine si levò contro agli ordini religiosi, e contro alle congregazioni ecclesiastiche; di poi in generale contro al clero e a tutte le autorità della Chiesa». Infatti, il clero favorito sotto la Restaurazione, non poteva più sperare i medesimi privilegi con un governo liberale. Inoltre, esistevano tendenze diverse e talvolta opposizioni tra clero patriota e liberale da una parte, e clero intransigente dall'altra. Nel 1848, dopo la partecipazione di buona parte dei chierici universitari a manifestazioni patriottiche, mons. Fransoni aveva chiuso il seminario di Torino. Egli stesso fu arrestato e andò in esilio a Lione, in Francia, nel 1850. Nonostante il vento contrario - l'Oratorio: «una fabbrica di preti e di bigotti», dicevano con disprezzo i suoi avversari - don Bosco si lanciò risolutamente in questo difficile compito rivolgendosi di preferenza al ceto popolare. Spiegava infatti in quello stesso scritto che «in quel tempo Dio fece in maniera chiara conoscere un nuovo genere di milizia, che egli si voleva scegliere: non già fra le famiglie agiate, perché esse per lo più mandando la loro figliuolanza alle scuole pubbliche o ne' grandi collegi, ogni idea, ogni tendenza a questo stato veniva presto soffocata. Quelli che maneggiavano la zappa od il martello dovevano

essere scelti a prendere posto glorioso tra quelli ed avviarsi allo stato sacerdotale». Per questo egli si era deciso a raccogliere «alcuni contadini dalle campagne», ai quali associò «alcuni artigianelli dell'Oratorio».

Primi tentativi di vocazioni (1849).

Il primo tentativo serio di formazione dei futuri sacerdoti può essere situato nel 1849. Durante gli esercizi spirituali, che egli aveva organizzato nella casa di ritiri a S. Ignazio presso Lanzo, scelse quattro giovanotti, che gli sembrava avessero le doti necessarie, tra cui il più istruito aveva terminato le classi elementari, mentre i suoi compagni sapevano appena leggere e fare la firma. Ai quattro venne proposto una specie di contratto. Prima chiedeva loro: «Accettereste voi di essere i miei aiutanti?». Poi proseguiva: «Incomincierò a farvi un po' di scuola elementare, vi insegnerò i primi rudimenti della lingua latina, e se tale fosse la volontà di Dio, chi sa che a suo tempo possiate essere suoi sacerdoti». L'offerta fu di loro gradimento. Senza indugio, si misero con ardore allo studio. Nel febbraio 1851, tutti e quattro vestivano l'abito ecclesiastico. Due di loro diventarono effettivamente sacerdoti, ma nel clero diocesano, mentre gli altri due dovettero interrompere gli studi. Don Bosco aveva motivo di essere un po' deluso. Nel frattempo però, reclutava ragazzi più giovani. Nel 1850, fece impartire i primi corsi di latino a Michele Rua, un ragazzo di tredici anni che frequentava la scuola dei Fratelli delle Scuole Cristiane. Poiché abitava a due passi dell'Oratorio, divenne interno soltanto due anni dopo. In compagnia di Angelo Savio e di alcuni altri, frequentava in città i corsi ginnasiali. Ben presto vennero ad aggiungersi a loro Rocchietti, Cagliero, Francesia, Turchi ed altri. Il convitto per studenti era lanciato.

La scuola in città (1851).

Inizialmente, il direttore dell'Oratorio faceva anche da maestro di scuola. A partire dall'anno 1851-1852, egli ricorse a due professori che davano lezioni private in città. Il professor Carlo Bonzanino riceveva

gli alunni dei primi tre anni di latino, mentre il sacerdote Matteo Picco completava la formazione secondaria nelle classi d'umanità e di retorica. Questi corsi privati godevano a Torino di grande considerazione e numerosi erano i «signori» delle grandi famiglie a seguirli. Essendo legati da vincoli d'amicizia con don Bosco, i due professori accolsero gratuitamente i giovani dell'Oratorio per vari anni. Ogni mattina, gli allievi dell'Oratorio lasciavano la casa Pinardi, divisi in due gruppi che seguivano ciascuno un itinerario fissato da don Bosco. Erano riconoscibili da lontano, soprattutto nei giorni di cattivo tempo, perché indossavano vecchi cappotti militari, dono del ministero della Guerra. Mentre li proteggevano dalle intemperie, nota scherzosamente don Lemoyne, essi conferivano loro un'aria di contrabbando o di caricatura. Rua era incaricato della sorveglianza lungo il tragitto, ed ebbe a superare non poche difficoltà con il turbolento Cagliero, futuro principe della Chiesa. Prima di entrare in classe, il professore faceva loro deporre il cappotto, il che era l'unica concessione fatta alla raffinatezza dei loro condiscepoli. Recò comunque gran meraviglia che «figli di buona famiglia» e «poverelli» fossero seduti vicini negli stessi banchi. I professori, dal canto loro, si rallegravano dello spirito di emulazione che ne risultava.

La sezione secondaria nell'Oratorio (1855).

La soluzione non era ideale. Come per gli artigiani, don Bosco non era contento di questo continuo va e vieni attraverso la città. D'altra parte, i corsi dei due professori incominciavano ad essere affollati da una clientela sempre più numerosa e meno raccomandabile. Appena potè disporre di un personale in embrione, don Bosco decise di creare delle classi a domicilio. Giovanni Battista Francesia, un giovane seminarista di diciassette anni, che aveva appena terminato brillantemente i suoi studi di latino, fu messo immediatamente a capo di una terza ginnasiale, che cominciò a funzionare nel novembre del 1855 in uno dei vani di casa Pinardi. L'anno seguente, fu la volta delle due classi inferiori (prima e seconda ginnasiale), riunite sotto la responsabilità del professore laico Francesco Blanch. All'inizio dell'anno scolastico 1859-1860, la sezione ginnasiale funzionava al completo all'Oratorio. E nel 1861, don Bosco poteva presentare un corpo insegnante di

sette professori, tra cui i giovani chierici Francesia, Provera, Durando e Cerniti. La scuola di Valdocco si sviluppò in un momento storico in cui il ministero della Pubblica Istruzione, costituito nel 1848, emanò nuove leggi che revocarono i privilegi della Chiesa in questo campo. Lo Stato riduceva le opportunità di creare nuove scuole senza le dovute autorizzazioni e i titoli d'insegnamento. Gli studi secondari furono suddivisi in tre anni di grammatica, un anno di umanità, uno di retorica e due di filosofia. Una nuova legge del 1859 riordinerà l'indirizzo umanistico in ginnasio, di cinque classi, e in liceo, di tre classi. Don Bosco dovette per forza adattarsi alla nuova situazione, molto diversa di quella che aveva conosciuto al tempo della Restaurazione, senza cedere però sui principi essenziali dell'educazione.

Gli alunni.

In generale gli «studenti», benché di famiglie modeste in gran parte, provenivano da condizioni meno disagiate che non gli artigiani. Poteva anche accadere che qualche artigiano passasse alla sezione degli studenti. «L'occhio di don Bosco sapeva discernere fra ricoverati e ricoverati, spiegava don Ceria. We n'erano di famiglie un tempo agiate, ma poi decadute, quindi non fatti per lavori manuali, altri apparivano dotati di si bell'ingegno, che sembrava disdicevole condannarli a rudi mestieri. Egli quindi coltivava a parte questi tali, applicandoli allo studio». Nell'ammissione degli studenti, la preoccupazione di trovare vocazioni rimaneva predominante. Per questo, stando al primo regolamento della casa dell'Oratorio, si accettava uno studente unicamente se dimostrava una «speciale attitudine allo studio», una «eminente pietà», e precisando che «niuno è ammesso a studiare il latino se non ha volontà di abbracciare lo stato ecclesiastico, lasciandosi però libero di seguire la sua vocazione compiuto il corso di latinità». Il suo comportamento verso i propri nipoti, Francesco e Luigi, è significativo: quando si rese conto che non avevano le condizioni richieste, decise di rimandarli a casa loro.

Una scuola originale.

La vita degli studenti dell'Oratorio era regolate dal tempo consacrato alla preghiera, allo studio ed alla ricreazione Normalmente tutte le mattine, dopo la levata, assistevano alla messa, durante la quale si soleva recitare le preghiere, seguite dal rosario. Al termine, un quarto d'ora di meditazione o di lettura. Si trascorreva poi la mattinata in classe. Dopo il pranzo, in cui studenti e artigiani si trovavano riuniti, la ricreazione si prolungava per un'ora. Seguivano le ore pomeridiane di scuola. Alle quattro, si veniva a far merenda (mentre gli artigiani ordinariamente la portavano con sé). Nuova ricreazione e, alle cinque, gli alunni del ginnasio si raccoglievano nella sala di studio normalmente fino all'ora della cena. Ma poiché due ore e mezza di lavoro intellettuale apparivano eccessive, si soleva dedicare gli ultimi venti minuti alla lettura, fatta da uno degli alunni, «di qualche bel racconto edificante». Dopo cena, canto per tutti, e alle nove, preghiere seguite dalla tradizionale «buona notte». La vita degli alunni dell'Oratorio aveva una caratteristica di familiarità alla buona, già evocata a proposito degli artigiani. «Fino al 1858, riferisce il suo biografo, don Bosco governò e diresse l'oratorio come un padre regola la propria famiglia, e i giovani non sentivano che vi fosse differenza tra l'Oratorio e la loro casa paterna. Non si andava in file ordinate da un luogo all'altro, non rigore di assistenti, non coercizione di regole minute. Basti dire che al mattino, per conoscere chi non si fosse alzato da letto, nell'entrare in chiesa ciascuno doveva mettere nella tabella, posta vicino alla porta, un piccolo cavicchio di legno in un foro a fianco del proprio nome». L'autore concludeva che «la co-scienza era la prima regola» di quei giovani. Don Bosco si trovava in mezzo ai suoi «figli» ogni volta che gli era possibile. Se pensiamo che per alcuni anni egli era l'unico sacerdote della casa e che i suoi principali aiutanti furono giovani seminaristi, è facile comprendere che egli doveva rendersi onnipresente. Soltanto nel 1854 ebbe come collaboratore don Vittorio Alasonatti, un sacerdote di 42 anni, il quale come prefetto fu incaricato della disciplina e dell'amministrazione. Egli stesso desiderava essere sempre in mezzo ai suoi ragazzi, «senza i quali non poteva stare», per poter avvicinarli e conoscerli in vista di una migliore educazione. Soprattutto il tempo della ri

creazione gli pareva di capitale importanza: soltanto un motivo grave poteva impedirgli di venire a conversare o a partecipare a qualche gioco con i giovani. Un suo exallievo lo ricordava «dolce e ridente in mezzo ai suoi figli, o sotto i portici, o nel cortile, seduto anche per terra con sette od otto giri di giovani, tutti a lui d'attorno, come fiori rivolti al sole, per vederlo e per udirlo». Inoltre per molto tempo si recò con loro nello studio, per scrivere o meditare il suo prossimo libro. La fiducia che regnava tra don Bosco ed i suoi provocava ogni giorno uno «spettacolo fra i più commoventi) che sarebbe scomparso solo verso il 1870. Al termine dei pasti, soprattutto della cena, una fiumana di ragazzi faceva irruzione nella sala in cui don Bosco finiva di mangiare. Si va a gara per essere vicini a lui, per vederlo, interrogarlo, ascoltarlo, ridere alle sue battute spiritose. Si prende posto, chi attorno a lui, chi sulle tavole di fronte, seduto, in ginocchio o in piedi, chi incuneato tra le banche e le tavole. Evidentemente, a don Bosco piaceva molto questa manifestazione spontanea, «il miglior condimento del suo magro desinare».

Lo studio.

Fedele alla tradizione umanistica del suo paese, la scuola dell'Oratorio coltivava gli studi classici, specialmente la letteratura latina. Lo stesso don Bosco non disprezzava i classici profani, ritenendo però importante che si studiassero anche i classici cristiani. Quanto alla didattica,

si insisteva sulla necessità di spiegare bene la lezione, di farla ripetere, di adattarsi alla comprensione degli alunni e di interrogarli sovente. Una bielle raccomandazioni più costanti del direttore riguardava l'amore allo studio e la fuga dell'ozioL Don Bosco non parlava a vanvera. Egli stesso era un accanito lavoratore ed il suo esempio doveva servire a trascinare gli allievi. Si capisce anche che, moltiplicando i richiami al lavoro, egli prendeva a cuore la buona fama degli studi che si facevano nella casa. Se realmente fu fatta, dovette sentirsi felice per la riflessione di un professore d'Università nel 1863: «Sappiate che da don Bosco si studia e si studia davvero». Si noti invece che la curia diocesana gli rimproverava la mancanza di preparazione intellettuale dei suoi chierici, il che egli negava. I biografi ci hanno tracciato dell'applicazione degli alunni un quadro estremamente suggestivo. Certo, essi ci riportano alcuni rimproveri rivolti a coloro che consideravano la scuola una «gran seccatura». Ma preferiscono insistere sul clima di lavoro che regnava a Valdocco. Come esempio del loro «entusiasmo per lo studio», don Lemoyne cita il caso di quegli alunni che, nel 1864, chiesero il permesso di potersi alzare più presto al mattino per studiare. Esso fu loro accordato, ma ad una condizione: che non si alzassero prima delle quattro! Si dice che la sala di studio fosse considerata quasi come un luogo sacro. Se prestiamo fede a don Lemoyne, vi regnava continuamente un «solenne, religioso silenzio». Testimone dell'ardore al lavoro non era soltanto la sala studio; tutti gli angoli della casa erano buoni per ripassare una lezione o leggere un autore del programma: il refettorio, il cortile e il dormitorio, quando si aveva la fortuna di trovarsi vicino alla luce. Dicono che spesso doveva intervenire l'autorità per eliminare alcuni eccessi pericolosi per la salute degli alunni. Nonostante il carattere un po' idillico di alcune descrizioni, dobbiamo ammettere che all'Oratorio molti studiavano con passione. I motivi su cui si basava quest'intensa attività venivano inculcati con grande convinzione e frequenza. Don Bosco giustificava lo studio, come ogni lavoro, con la legge del dovere del proprio stato e con i suoi

effetti purificatori ed energici sull'anima: esso combatte l'ozio, aiuta lo sviluppo della volontà. Inoltre, il lavoro contribuiva a formare dei cittadini utili alla società e degli aiutanti competenti per la Congregazione che stava progettando. Oltretutto, il lavoro serviva a «fare del bene all'anima». Tra gli studenti e i chierici non mancavano poi alcuni di buon ingegno, che don Bosco non esitò a spingere negli studi. Nel 1856, fece iscrivere il chierico Francesia alla Facoltà di Lettere dell'Università di Torino. Successivamente andarono anche all'Università i chierici Michele Rua, Celestino Durando, Francesco Cerniti ed altri ancora.

La «pietà».

All'Oratorio si metteva l'accento soprattutto sulla vita spirituale e sulla formazione morale degli alunni. Se ciò era vero per gli artigiani, è comprensibile che questa preoccupazione diventasse primordiale per gli studenti, che erano possibili vocazioni. A dire il vero, la scuola secondaria dell'Oratorio poteva essere considerata come una sorta di piccolo seminario. In materia di pratiche di pietà e di devozioni, don Bosco non temeva né il numero né la varietà Eppure, generalmente, gli studenti le compivano volentieri, a giudicare dall'atmosfera religiosa che impregnava quella casa di educazione. Innanzitutto, don Bosco raccomandava la ricezione frequente e fruttuosa dei sacramenti, specialmente della confessione e della comunione. Ogni giorno, confessava per due o tre ore e, in prossimità delle feste, il suo confessionale era assiepato per ore. Nelle biografie dei sui migliori alunni, quali Domenico Savio, Michele Magone e Francesco Besucco, egli diceva «che un adolescente di valore, diretto da lui si confessava tutte le settimane, al minimo ogni quindici giorni». Per quanto riguarda la comunione, egli finirà col rac

comandarne la pratica quotidiana a tutti, anche ai mediocri che avevano il desiderio di «crescere nell'amor di Dio». .Nella pedagogia religiosa che vigeva all'Oratorio, la devozione a Maria era un altro fattore molto importante. Gli alunni dell'Oratorio onoravano la Madre di Dio nel suo immacolato concepimento, di cui Pio IX aveva definito il dogma l'8 dicembre 1854, e a partire dal 1863 circa, sotto il titolo di Ausiliatrice. La loro devozione poteva esprimersi in un complesso di pratiche, come il rosario, il piccolo ufficio della Madonna, il mese di Maria o le novene preparatorie alle feste. Infine si coltivava una pietà ecclesiale che si concretizzava soprattutto nella «devozione» verso il Papa. Trascinati dal loro direttore, gli alunni dell'Oratorio pregavano per il Papa, pastore universale, capo e padre di tutti i cristiani. Quando nel 1858 don Bosco tornò da Roma, dove era stato accolto per la prima volta da Pio IX, il suo entusiasmo diventava comunicativo. Sempre preoccupato della formazione spirituale dei suoi studenti, don Bosco aveva istituito per loro una «conferenza» settimanale che si teneva il mercoledì sera per i giovani studenti. Consisteva in una specie di catechismo superiore sulla fede e le virtù o in una spiegazione dei testi della Chiesa, «perché progredendo nello studio, non trascurassero gli altri doveri». Esisteva anche una scuola regolare di buona creanza, dove s'imparava a comportarsi con garbo in società. Per coltivare in mezzo a loro lo spirito di vocazione», faceva molto affidamento sulle associazioni di giovani o «Compagnie», che funzionavano nella casa dell'Oratorio.

Il problema delle vacanze.

Quando la casa annessa all'Oratorio, da piccolo ospizio fu diventata un internato di scuola, don Bosco fu preoccupato dal problema delle vacanze dei suoi alunni. Su questo tema egli aveva idee molto precise, che avrebbero sorpreso gli educatori del secolo seguente. Il suo modo di fare si spiega in buona parte dalla sua cura delle vocazioni. Il suo biografo riferisce per l'anno 1855 che don Bosco «faceva loro intendere che gli avrebbero fatto piacere col non andare in vacanza, o col ritornare presto all'Oratorio», spiegando poi che egli «aveva già

tolte le vacanze natalizie e carnevalesche, che nei primissimi anni era stato costretto a concedere a qualcuno perché ciò usavasi in tutti i collegi; ed ora, e per più anni poi, tollerava le vacanze pasquali». Quanto alle vacanze estive, egli cercava di abbreviarle. A metà agosto e per un mese organizzava dei corsi estivi, ai quali tutti erano tenuti a partecipare. Gli allievi che senza motivo legittimo li disertavano non erano più accettati all'inizio dell'anno scolastico. Prima del ritorno in famiglia, il direttore di Valdocco moltiplicava le raccomandazioni, insistendo in particolare sui pericoli che minacciavano «la virtù e la vocazione» dei giovani. Li invitava anche a comunicare con lui per lettera. Egli stesso chiedeva ai loro parroci o viceparroci di vigilare sulla condotta dei suoi alunni. Non si accontentava però di questo atteggiamento puramente restrittivo; egli stesso si fece promotore di vacanze per i giovani, organizzando ogni anno in autunno delle lunghe passeggiate ai Becchi, nel Monferrato ed altrove.

Risultati

Grazie agli sforzi incessanti che don Bosco moltiplicava in tutti i campi, il convitto degli studenti, che aveva avuto i suoi timidi inizi nel 1847, vantava dopo qualche anno risultati apprezzabili. Nella cura delle vocazioni, che gli stava tanto a cuore, si potevano citare delle cifre che attestavano il successo dell'impresa. Soltanto nell'anno 1861, la sezione degli studenti aveva fornito trentaquattro soggetti che avevano intenzione di abbracciare lo stato ecclesiastico. Queste vocazioni erano destinate sia al clero secolare sia alla Società salesiana, che allora muoveva i primi passi. Anzi, l'Oratorio era diventato un importante fornitore dei seminari piemontesi. Gli altri studenti, per «guadagnarsi il pane della vita», potevano scegliere una carriera civile grazie agli studi fatti a Valdocco. La cura delle vocazioni ecclesiastiche diventerà uno degli scopi della Società salesiana. Nel 1860, don Bosco scriveva per la prima volta in un testo costituzionale: «In vista poi dei gravi pericoli che corre la gio

ventù desiderosa di abbracciare lo stato ecclesiastico, questa Congregazione si darà cura di coltivare nella pietà e nella vocazione coloro che mostrano speciale attitudine allo studio ed eminente disposizione alla pietà». Fedele poi alla sua visione sul reclutamento sacerdotale, egli continuava precisando: «Trattandosi di ricoverare giovani per lo studio saranno di preferenza accolti i più poveri, perché mancanti di mezzi onde fare altrove i loro studi».

Capitolo V.

LE ASSOCIAZIONI GIOVANILI NELL'ORATORIO DI VALDOCCO.

La famiglia dell'Oratorio non era una famiglia indifferenziata o fondata soltanto su rapporti verticali di un padre con la numerosa schiera dei «figliuoli». Nella sua composizione essa era articolata in gruppi distinti: gli oratoriani esterni, la scuola elementare diurna per ragazzi esterni, la sezione degli artigiani con i diversi laboratori, quella degli studenti composti dai grandi e dai piccoli, più tardi il gruppo dei novizi e dei giovani Salesiani in formazione. E poi ognuna di tali sezioni era ulteriormente articolata e animata da gruppi o associazioni più piccole: i cantori (per il canto sacro e profano), la banda musicale, la filodrammatica, la società di mutuo soccorso, e diverse associazioni di tipo religioso. La struttura dell'Oratorio comportava quindi anche rapporti orizzontali di partecipazione, di solidarietà e di amicizia dei giovani tra loro. A più riprese abbiamo accennato a queste associazioni di giovani che si erano andate creando, con il titolo di «Compagnie», sia tra gli esterni sia tra gli interni dell'Oratorio. Un abbozzo dell'opera educativa di don Bosco sarebbe incompleto, se si trascurasse di vedere ciò che esse furono in realtà, cioè un valido strumento di collaborazione tra alunni e educatori, e quindi un fattore essenziale e indispensabile del suo sistema educativo.

La Società dell'allegria.

Una cosa è certa: da giovane ragazzo e studente, Giovanni Bosco ebbe sèmpre un gusto spiccato per le associazioni giovanili e le riunioni che raccoglievano un gruppo di amici. Lo attesta il ruolo che ebbe nella fondazione nel 1832 della Società dell'allegria nel collegio di Chieri. Egli stesso ha raccontato nelle sue Memorie dell'Oratorio l'origine di questa «società», il suo spirito e le sue regole. Infatti, un'autentica allegria doveva caratterizzare le riunioni del gruppo, poiché «era obbligo stretto a ciascuno di cercare que' libri, introdurre que' discorsi e trastulli che avessero potuto contribuire a stare allegri; pel contrario era proibito ogni cosa che cagionasse malinconia, specialmente le cose contrarie alla legge del Signore». Per questo due regole stavano alla base della «disciplina» del gruppo: «1° Ogni membro della Società dell'allegria deve evitare ogni discorso, ogni azione che disdica ad un buon cristiano; 2° Esattezza nell'adempimento dei doveri scolastici e dei doveri religiosi». Il funzionamento e il programma delle riunioni richiama da vicino quello delle future Compagnie: «Ci trattenevamo alquanto in amena ricreazione, in pie conferenze, letture religiose, in preghiere, nel darci buoni consigli e nel notarci quei difetti personali, che taluno avesse osservato, o ne avesse udito a parlare. Senza che per allora il sapessi, mettevamo in pratica quel sublime avviso: Beato chi ha un monitore». Ma nonostante il fatto che si possano scoprire punti di somiglianza nella giovinezza di don Bosco e anche in associazioni affini, antiche e contemporanee, come quelle dei Gesuiti, le Compagnie devono essere situate nel quadro dell'Oratorio di Valdocco. Si è potuto affermare che «la nascita delle Compagnie religiose è inscindibilmente e vitalmente connessa con la nascita dell'Opera di S. Giovanni Bosco». Esse, infatti, sono nate in un ambiente determinato e come risposta a necessità spirituali ben precise. È sufficiente seguire la storia della loro fondazione per convincersene.

Compagnia di S. Luigi (1847).

Come abbiamo visto, la prima Compagnia fu quella di S. Luigi Gonzaga. Essa nacque tra gli oratoriani (esterni) nel 1847. Don Bosco si era appena stabilito in casa Pinardi e, dopo gli anni difficili dell'«oratorio volante», sentiva la necessità di fare qualcosa di solido, soprattutto nel campo della formazione religiosa. Come animare spiritualmente, si domandava il giovane apostolo, le centinaia di ragazzi che accorrevano a Valdocco le domeniche e i giorni festivi? Cercava perciò «qualche pratica stabile ed uniforme che collegasse insieme i più virtuosi, destasse fra di loro una santa emulazione, ed essendo in molti, li rendesse forti contro il rispetto umano». La Compagnia di S. Luigi fu la risposta a queste preoccupazioni. La scelta di questo santo come patrono dell'associazione stava ad indicare in quale stima doveva essere tenuta «la vita morigerata e pia». D'altra parte, com'era prevedibile, don Bosco non voleva proporre ai suoi ragazzi un modello di vita cristiana di tipo individualistico, poiché ciascuno dei soci doveva diventare, in termini evangelici, «sale e luce in mezzo alla moltitudine dei compagni». Questi due aspetti complementari sono messi in risalto nel piccolo regolamento da lui composto e presentato all'arcivescovo di Torino, che lo approvò il 12 aprile 1847. Don Bosco chiedeva ai membri della Compagnia cose semplici e impegnative in rapporto al loro stato. Insisteva in particolare sull'osservanza dei doveri di un buon cristiano (art. 1), sulla frequenza ai sacramenti (art. 2), sulla fuga dei cattivi compagni (art. 3), sulla carità e il perdono delle offese (art. 4), sulla diligenza nel lavoro e l'obbedienza (art. 6). A questo regolamento (che comprendeva unicamente sette brevi articoli), egli aggiunse otto norme destinate a precisare il funzionamento dell'associazione. La quarta è interessante: «Questa Compagnia è diretta da un sacerdote col titolo di direttore spirituale e da un priore il quale non dev'essere sacerdote».

Appena nata, la Compagnia suscitò «grande entusiasmo». Di fronte all'afflusso delle domande d'iscrizione, don Bosco impose un mese di «prova». La prima accettazione fu fatta il 21 maggio 1847. Alla presenza di una folla di oratoriani venuti ad assistere a quella «novità», i postulanti promisero pubblicamente di «fuggire i cattivi compagni, di evitare i discorsi osceni, di animare gli altri alla virtù colle parole e col buon esempio, tanto in chiesa come fuori di chiesa». La festa di S. Luigi, celebrata il 29 giugno seguente, rimase indimenticabile per la prima visita dell'arcivescovo e le prime cresime all'Oratorio. Negli anni seguenti, la Compagnia si sviluppò molto. Ne facevano parte i migliori ragazzi di Valdocco, ma anche, almeno nel 1851, tutti gli interni. Ogni mese, don Bosco presiedeva le riunioni. Una volta l'anno, invitava alcuni membri scelti a pranzare alla sua tavola. Frattanto, il movimento si era trapiantato negli altri oratori della città. Notiamo inoltre che don Bosco era riuscito a raccogliere alcune firme molto illustri nella lista dei «membri onorari»: Pio IX, il cardinale Antonelli, il nunzio apostolico a Torino e varie personalità della capitale piemontese. Ad una processione di S. Luigi, fu visto perfino il grande Cavour con un cero in mano ed intento a cantare l'inno liturgico in onore del santo patrono. Durante l'epidemia di colera che infierì a Torino nell'estate del 1854, i soci della Compagnia scrissero una «pagina d'oro nella storia dell'Oratorio». Elettrizzati da don Bosco che aveva promesso loro che avrebbero avuto salva la vita se avessero evitato il peccato, erano partiti a curare gli ammalati ed i moribondi negli ospedali e nelle famiglie. Il coraggio di quei ragazzi di quindici o sedici anni, tutti poveri, fu oggetto di commenti pieni d'ammirazione tra la popolazione ed il giornale L'Armonia elogiò quei volontari che «si offrirono a rendere ogni sorta di servigio a' colerosi tanto ne' lazzaretti, quanto nelle case private». Effettivamente, nessun lutto colpì l'Oratorio, mentre nella città di Torino si dovettero lamentare 2.456 decessi, e una quarantina nelle case vicine. La Compagnia di S. Luigi fu chiamata la prima primaria delle Compagnie salesiane. Fondata per prima, servirà da modello nella creazione delle altre.

Compagnia dell'Immacolata (1856).

La seconda Compagnia sorse parecchi anni dopo, e questa volta nel quadro del convitto dell'Oratorio, che si trasformava progressivamente in internato per studenti e artigiani, quando il numero dei pensionanti si avvicinava al centinaio. Da qualche tempo, scrive don Lemoyne, la diligenza negli studi e nella pietà vi si era raffreddata alquanto. Un mattino, durante la messa, nessuno si era presentato per fare la santa comunione. Alcuni allievi decisero di reagire, tra cui Durando, Bongiovanni, Bonetti e Rua. Ma la nascita della Compagnia dell'Immacolata è legata in modo particolare al nome e all'opera di Domenico Savio. Nonostante alcune testimonianze contraddittorie circa l'identità del «fondatore», pare accertato che l'azione di questo futuro santo nel lancio della nuova associazione sia stata decisiva. Nella biografia del suo alunno, don Bosco spiega che la proclamazione del dogma dell'immacolata concezione nel 1854 ispirò a Domenico l'idea di «fare qualcosa in onore di Maria». Scelse dunque, continua egli, alcuni dei suoi compagni migliori e li invitò a unirsi a lui per costituire una Compagnia detta dell'Immacolata Concezione. Sempre secondo don Bosco, Domenico «d'accordo coi suoi più fidi amici» compilò un regolamento, che presentò al suo direttore e fu da lui approvato. L'8 giugno 1856, dinanzi all'altare della Vergine, i membri del gruppo lessero il regolamento e promisero di osservarlo. La spiritualità che emerge dalla lista dei ventuno articoli è basata sull'adempimento del dovere quotidiano, il che significava in particolare obbedienza e «illimitata confidenza» nei superiori (art. 1), e «esatta os

servanza delle regole della casa» (art. 17). Un'altra caratteristica era l'impegno caritativo: amore senza distinzioni e ammonimento dei discoli con dolcezza (art. 3), pazienza con i compagni e le persone moleste (art. 6), contegno edificante (art. 11). Per quanto riguarda la pratica sacramentale e la preghiera, erano previste: la comunione eucaristica le domeniche, le feste e il giovedì (art. 8), il rosario quotidiano (art. 9), il sabato in onore di Maria (art. 10), l'ascolto della parola di Dio (art. 12), la confessione (art. 19), e infine una «sincera, filiale, illimitata fiducia in Maria; una tenerezza singolare verso di lei» (art. 21). La nuova associazione si distingueva per la qualità dei membri e per i metodi d'azione. Mentre la Compagnia di S. Luigi poteva essere considerata la Compagnia della massa, quella dell'Immacolata era riservata, secondo l'espressione di don Ceria, agli «sceltissimi fra i scelti». Inoltre, essa s'interessava di un certo numero di ragazzi dell'Oratorio, che avevano maggior bisogno di assistenza morale; a ciascuno dei membri era affidato un «cliente» che egli doveva sforzarsi gentilmente di «eccitare al bene». Forse per questo, le riunioni che si tenevano ogni giovedì erano circondate dal segreto. Non senza ragione si è potuto affermare che questa Compagnia dell'elite abbia avuto un ruolo di primo piano sulla costituzione della Società salesiana. Di fatto, una gran parte dei primi Salesiani era uscita dalle sue file. Don Bosco la considerava come la sua «guardia imperiale» per «sbaragliare i nemici delle anime e conservare nella casa il trono del Signore».

Altre Compagnie.

Lo sviluppo delle due sezioni di interni provocò la nascita di tre nuovi gruppi.

Su consiglio di don Bosco, il chierico ventenne Giuseppe Bongioanni nel 1857 gettò le basi di una Compagnia del SS. Sacramento tra gli studenti. Essa s'indirizzava principalmente ai più adulti delle due classi superiori. Don Bosco stesso ha descritto l'origine dell'associazione: «Dopo aver aiutato Savio Domenico, con cui era unito in santa amicizia, ad istituire la Compagnia dell'Immacolata, essendo allora solamente chierico, [Bongioanni] fondò col permesso del Superiore un'altra Compagnia ad onore del SS. Sacramento che aveva per iscopo di promuovere il culto fra la gioventù». Secondo il regolamento, i soci si impegnavano a promuovere l'adorazione verso la Santissima Eucaristia, la comunione frequente, il servizio della S. Messa e altre svariate iniziative di apostolato eucaristico. Al principio del 1858, poco dopo l'inaugurazione della Compagnia del SS. Sacramento, il medesimo chierico, molto intraprendente, «ne ideò una seconda, come appendice della prima, ossia il Piccolo clero». Il regolaménto, preparato da Bongioanni, aveva soltanto un indirizzo pratico e disciplinare, per addestrare i soci nel servizio delle sacre funzioni. Don Bosco voleva che i giovani cantori facessero parte dell'associazione. Il Piccolo clero prestava anche il suo aiuto a varie parrocchie e istituti di Torino per le loro feste. Don Bosco affermò che l'iniziativa di Bongioanni diede ottimi risultati dal punto di vista delle vocazioni. Ma ben presto ci si accorse di avere un po' trascurato la sezione degli artigiani. Infatti, le Compagnie esistenti erano o riservate ai soli studenti, o poco adatte alla mentalità ed alle capacità degli artigiani. Don Bosco decise che essi avrebbero avuto un'associazione riservata unicamente a loro. Questa volta fu il chierico ventenne Giovanni Bonetti che, venuto a conoscenza del suo progetto, s'incaricò di lanciare nel marzo 1859 una Compagnia di S. Giuseppe, che ebbe immediatamente molti seguaci. Nel regolamento, redatto con la collaborazione dei pri

mi volontari, i soci si dicevano «desiderosi di farci ognor più buoni e di animare col nostro esempio e con le parole i nostri compagni sulla strada della virtù». Come già quelli che appartenevano alla Compagnia di S. Luigi, si proponevano un «grande impegno per il buon andamento dell'Oratorio». Ma l'art. 10 faceva questa precisazione per gli artigiani: «Sul lavoro o in conversazione, presentandosi propizia occasione con un buon consiglio o con un atto di disapprovazione di impedire qualche peccato, non la lasceremo sfuggire». Più tardi fu steso un secondo regolamento, più adatto alle nuove condizioni e più esplicito circa l'organizzazione della Compagnia. Si può ancora inserire tra le Compagnie un sesto gruppo, la Conferenza di S. Vincenzo de' Paoli, piccola cellula della famiglia delle «Conferenze» fondate a Parigi nel 1833 da Frédéric Ozanam. La loro azione e spiritualità si ispiravano in particolare alla figura di S. Vincenzo de' Paoli. Don Bosco favorì molto la Conferenza di Torino e, nel 1854 o nel 1855, ne aveva creato egli stesso una a Valdocco. I soci, che si reclutavano piuttosto tra i giovanotti, esterni e interni, artigiani, studenti e chierici, si proponevano un duplice scopo: fare il catechismo ai ragazzi dell'oratorio festivo ed aiutare quelli tra loro che avessero più bisogno di assistenza materiale o morale.

Formazione di una élite spirituale.

Nel lanciare queste associazioni religiose, prima tra i giovani esterni dell'oratorio festivo, poi tra gli interni della casa, don Bosco aveva trovato lo strumento per formare una élite spirituale. Infatti, le Compagnie non erano aperte a tutti i ragazzi indistintamente. Anche la Compagnia di S. Luigi, che pur era la più aperta alla massa, imponeva a coloro che desideravano farne parte due condizioni preliminari che dimostravano la serietà della selezione: obbligo di fare un mese di «postula

to» osservando il regolamento e dando il buon esempio; inoltre, fuga dei cattivi discorsi e frequenza ai sacramenti. I soci delle diverse Compagnie dovevano impegnarsi ad un tenor di vita esemplare, centrato innanzi tutto sull'acquisto delle «virtù». Gli stessi membri della conferenza di S. Vincenzo de' Paoli erano tenuti a perfezionarsi spiritualmente; a maggior ragione gli altri, che non erano affiliati ad un gruppo così apertamente addetto ad un lavoro sociale. I mezzi di formazione personale, anzi di santità, proposti ai singoli sono noti. Sono quelli che l'apostolo di Torino proponeva a tutti: pratica del dovere di stato e del buon esempio, cameratismo, obbedienza, vigilanza nella purità, frequenza assidua e diligente della confessione e della comunione, devozioni. Tuttavia, ai membri della Compagnia dell'Immacolata, erano proposti esercizi speciali come la lettura spirituale, la direzione di coscienza, la correzione fraterna. Inoltre, sull'esempio di don Bosco che vedeva nei santi «dei modelli da imitarsi dai cristiani preoccupati dei loro progressi nella perfezione», gl'iscritti optavano per un modello adatto «alla loro età e condizione»: Luigi Comollo, condiscepolo di Giovanni Bosco in seminario, era quello della Compagnia dell'Immacolata; san Giuseppe, quello della Compagnia che ne portava il nome; san Vincenzo de' Paoli, quello della conferenza; san Luigi Gonzaga, quello degli altri tre gruppi. Sempre nel campo della formazione personale, un aspetto merita di essere posto in risalto: l'educazione alle responsabilità ed all'iniziativa. Questo problema stava a cuore a don Bosco il quale voleva che le Compagnie fossero «opera dei giovani». Certo, esse avevano generalmente un direttore spirituale nella persona di un sacerdote; ma il resto era opera dei membri. Toccava a loro occupare le varie cariche nel gruppo, organizzare le riunioni, prendere le decisioni che sembravano opportune. La vita di un'associazione di questo tipo comporta un complesso di attività e di obblighi che, pur limitandosi ad una cerchia abbastanza ristretta, presentavano taluni vantaggi in educazione: procedere alle elezioni, scegliere i temi di discussione, sentire la necessità di praticare ciò che si raccomanda agli altri, e quella di attenersi a ciò che è stato deciso e di attuarlo. Assumendo delle responsabilità, i soci sviluppavano la loro personalità umana e cristiana.

Formazione all'azione.

Praticamente don Bosco non ha mai usato con i suoi ragazzi il termine «apostolato», ma è chiaro che, nel suo spirito, la formazione personale doveva condurre necessariamente al servizio degli altri sul piano umano e cristiano. Per «guadagnar anime a Dio», ai membri della Compagnia erano i proposte due serie di pratiche. La prima comprendeva ogni sorta di servizi resi ai compagni: Savio e Magone, che erano due soci esemplari, facevano il letto dei colleghi, lucidavano loro le scarpe, spazzolavano i loro vestiti, li curavano quando erano ammalati. In secondo luogo, questa «carità industriosa» doveva in definitiva avere di mira l'anima degli altri. Perciò le Compagnie incoraggiavano i loro membri a «fare del bene» agli altri, a stimolarli alla pratica delle virtù ed alla frequenza dei sacramenti, a prevenire i disordini, soprattutto morali. Il socio doveva sforzarsi innanzitutto di praticare quell'apostolato reale, benché un po' restrittivo, che consiste nel dare il buon esempio. Il vero membro della Compagnia era «un modello per i suoi compagni». Doveva inoltre vincere il rispetto umano, ripetutamente preso di mira, cioè il timore delle opinioni altrui, che impediva di agire o esprimersi liberamente da vero cristiano. Normalmente, la sua azione era tanto più profonda quanto più la Compagnia apparteneva ad un rango elevato. Esisteva, diceva don Rua, «come una gradazione per far salire a poco a poco i suoi giovani alla via della perfezione. Così [don Bosco] incominciava ad iscriverli, dopo qualche mese di prova, alla Compagnia di S. Luigi per gli studenti, ed a quella di S. Giuseppe per gli artigiani; poi alla Compagnia del SS. Sacramento e del Piccolo clero, in cui venivano ammessi dopo, quindi alla Compagnia dell'Immacolata Concezione in cui secondo il regolamento, i giovani più buoni e assennati venivano incaricati a prendersi cura del bene spirituale dei loro compagni più bisognosi, e specialmente dei neoarrivati». Con molta abilità dunque, don Bosco conduceva il ragazzo da una «piccola» Compagnia ad una Compagnia di grado superiore, poi di là,

insensibilmente, fino alla soglia del noviziato salesiano, in maniera che la proposta di salire ancora un gradino sembrasse la cosa più naturale del mondo.

Trasformazione dell'ambiente.

Per l'educatore di Valdocco, che fu sempre preoccupato dell'atmosfera spirituale della casa, questi gruppi costituivano una leva incomparabile. I soci delle diverse associazioni volevano opporsi al male, al peccato, a tutto ciò che era contrario alla dignità dell'uomo e del cristiano. Positivamente, cercavano di creare e di conservare un clima di carità, di pietà, di buoni costumi, nelle loro sezioni e classi con l'esempio, i consigli e le iniziative. Pochi sono i documenti che ci permettono di giudicare i frutti della loro opera a Valdocco. Però un brano delle Memorie biografiche concernente l'anno 1865 ci consente di farcene un'idea. Sotto la terminologia militare di don Lemoyne, è possibile intravedere il ruolo delle Compagnie all'interno di una casa che contava alcune centinaia di alunni: «In mezzo a loro eravi (e come no!) una minoranza di qualche decina e anche meno che non soffriva di essere corretta, che non voleva uniformarsi alle istruzioni che le venivano impartite e cercava di seminare segretamente la zizzania e lo scandalo». Per scongiurare i pericoli, non si fa menzione dei superiori o educatori, ma dei soci delle diverse associazioni di giovani: «Stretti fra loro come falange nelle varie Compagnie, studiavano di trarre sulla strada della vita quanti potevano degli sconsigliati, premunivano ed allontanavano gli incauti dalle loro insidie». Malgrado ciò, accadeva talvolta che il direttore dell'Oratorio fosse obbligato a far valere la sua autorità per difendere or l'una or l'altra delle Compagnie, come quando, nel 1866, si era formata una cricca contro il Piccolo clero di don Bongioanni e i suoi «Bongioannisti», vituperati da alcuni come spie. Si capisce che le associazioni potevano portare con frutto il loro contributo in tale ambiente soltanto in un clima di confidenza tra educatori ed educandi. È difficile invece valutare l'influsso delle Compagnie al di fuori delle istituzioni. L'azione di molti soci durante il colera del 1854 fu cer

tamente esemplare ed efficace. Il Piccolo clero animava le feste liturgiche in città. Inoltre, per parecchi anni la sezione della Conferenza di S. Vincenzo de' Paoli, aperta ai giovani adulti dell'Oratorio, estendeva la sua azione caritativa e assistenziale al vicino quartiere.

La diffusione delle Compagnie.

Le Compagnie, spuntate nell'Oratorio di Torino, nel pensiero di don Bosco, non erano destinate a rimanervi rinchiuse. A più riprese egli si è espresso sulla necessità di impiantarle nelle case salesiane che si fondavano a partire dagli anni 1860. Nel 1863, egli chiederà a don Rua, da lui nominato direttore del primo collegio salesiano fuori di Torino: «Inizia la società dell'Immacolata Concezione: ma tu ne sarai soltanto promotore e non direttore; considera tal cosa come opera de' giovani». Nell'importante circolare ai Salesiani del 12 gennaio 1876, insisterà perché «in ogni casa ciascuno diasi la massima sollecitudine di promuovere le piccole associazioni», aggiungendo: «Niuno abbia timore di parlarne, di raccomandarle», e concludendo con una certa solennità: «Io credo che tali associazioni si possono chiamare chiave della pietà, conservatorio della moralità, sostegno delle vocazioni ecclesiastiche e religiose». Infine, negli importanti «ricordi confidenziali», indirizzati nel 1886 a tutti i direttori di case, ritornerà con insistenza sul suo desiderio che siano raccomandate e promosse le quattro principali Compagnie in ciascuna delle nuove case della Congregazione. Verrà un tempo in cui le antiche Compagnie salesiane non corrisponderanno più alla mentalità e alle aspirazioni dei giovani e degli educatori. Rimarrà però la domanda e il gusto per l'associazionismo giovanile nello spirito di don Bosco.

Capitolo VI.

DOMENICO SAVIO (1842-1857).

Primo incontro (1854)

Il 2 ottobre 1854 fu una giornata importante nella vita dell'apostolo di Torino. Don Bosco si trovava, come ogni anno in quel periodo di tempo, nella borgata natale dei Becchi con un gruppo di ragazzi che alloggiava nel solaio del fratello Giuseppe. Quel mattino, di buon'ora, si vide apparire alla svolta del sentiero che si arrampica sulla collina un ragazzino accompagnato da suo padre. Veniva dal vicino paese di Mondonio per parlare con don Bosco. Tra il fanciullo di dodici anni ed il sacerdote di trentanove si stabilì immediatamente una confidenza totale e vicendevole («egli con me, io con lui»). Il dialogo che seguì e bello: «Ebbene che glie ne pare? mi condurrà a Torino per istudiare? - Eh! mi pare che ci sia buona stoffa. - A che può servire questa stoffa? - A fare un bell'abito da regalare al Signore. - Dunque io sono la stof

fa: ella ne sia il sarto; dunque mi prenda con lei e farà un bell'abito pel Signore». Sotto la penna di don Bosco, il racconto del primo incontro con Domenico Savio colpisce per il calore del tono. Si sente affiorare forse innanzi tutto l'ammirazione: «Conobbi in lui - scrive - un animo tutto secondo lo spirito del Signore, e rimasi non poco stupito considerando i lavori che la Grazia divina aveva già operato in quel tenero cuore». A questo proposito, don Caviglia osava parlare di «rivelazione». A differenza di molti ragazzi dell'Oratorio, soprattutto nei primi anni, Savio entrò a Valdocco con un bagaglio educativo già considerevole. Nel suo caso, l'azione di don Bosco, che nessuno pensa a sottovalutare, è stata preceduta da un profondo influsso della famiglia e della prima formazione.

Un ragazzo «nato virtuoso» (1842-1854).

Domenico era nato il 2 aprile 1842 a Riva, presso Chieri, dal fabbro-ferraio Carlo Savio e da Brigida Agagliate, sarta. I suoi genitori non "erano ricchi, ma erano buoni cristiani. Per vivere, si fissarono nel 1844 a Morialdo, borgata natale di don Bosco. Fin da piccolo, fu un ragazzo obbediente, affabile, intelligente e d'una pietà precoce. Lo sappiamo dai suoi genitori. «Il nostro Domenico, affermavano, non ci diede mai il minimo dispiacere» e «studiava di prevenire le cose, che egli scorgeva tornar a noi di gradimento». Hanno ricordato la loro meraviglia dinanzi alle manifestazioni della sua pietà. Un giorno, narrò sua sorella minore Teresa, il ragazzo aveva protestato perché una persona venuta a pranzo a casa, si era seduta a tavola senza fare il segno della croce. Lo sappiamo pure dai suoi tre maestri successivi, le cui testimonianze hanno fornito a don Bosco la materia principale per il racconto dell'infanzia.

Il primo, Giovanni Zucca, cappellano di Morialdo, ammirava la sua perfetta educazione, la sua «assiduità, docilità e diligenza» a scuola, il suo «amore per le sacre cerimonie». Sotto la direzione di questo sacerdote, Domenico fece, l'8 aprile 1849, all'età inconsueta di sette anni, una prima comunione molto fervorosa. In quella occasione, prese quattro propositi, tra cui i due ultimi sono i più caratteristici: «I miei amici saranno Gesù e Maria» e «La morte ma non peccati». A partire dal giugno 1852, frequentò la scuola comunale di Castelnuovo ed il suo nuovo maestro, Alessandro Allora, non faceva che ripetere i medesimi elogi, con una particolare menzione per la resistenza di questo fanciullo di dieci anni, piuttosto gracile, che percorreva sedici chilometri al giorno per venire a scuola. Ci dice inoltre che Domenico, «si meritò costantemente il primo posto di suo periodo» e che adempiva «i più minuti doveri di scolaro cristiano». Ma avrebbe frequentato la scuola di Castelnuovo soltanto per qualche mese; infatti, alla fine dello stesso anno (e forse all'inizio del 1853) la famiglia traslocava ancora una volta ed andava a stabilirsi a Mondonio. Là, egli frequentò la scuola di don Giuseppe Cugliero di cui attirò particolarmente l'attenzione un giorno in cui, per evitare una punizione ai suoi compagni, preferì essere ingiustamente punito. Convinto dall'intelligenza e dalla pietà del suo alunno, il maestro pensò che la cosa migliore da farsi era di raccomandarlo a don Bosco. Domenico, da parte sua, desiderava andare all'Oratorio per una ragione precisa: «Desidero, diceva a un suo amico, farmi prete per poter più facilmente salvare l'anima mia e far del bene a molti altri». L'incontro del 2 ottobre 1854 segna una svolta nella sua vita. Condurrà il contadinello in un ambiente nuovo, vicino ad un maestro nell'arte di educare e di formare alla santità.

Domenico all'Oratorio (1854-1857).

Lo troviamo nell'Oratorio di Valdocco a Torino alla fine del mese di ottobre 1854. Domenico metteva piede in una casa un po' speciale

in cui si pigiavano artigiani e studenti. I primi laboratori interni avevano cominciato a funzionare, ma le classi erano ancora tutte in città. Domenico andò a frequentare con i suoi compagni le lezioni del professore Bonzanino. Avrebbe svolto in un anno il programma dei primi due anni di latino. «Il suo tenor di vita per qualche tempo fu tutto ordinario, scriveva don Bosco. Né altro in esso ammiravasi che un'esatta osservanza delle regole della casa. Si applicò con impegno allo studio. Attendeva con ardore a tutti i suoi doveri». Ma a partire dall'8 dicembre 1854, don Bosco credette opportuno d'incominciare a prendere nota degli «atti di virtù» di cui era testimone. Domenico si era entusiasmato come nessun altro per la definizione del dogma dell'immacolata concezione e si era consacrato a Maria rinnovando le promesse della sua prima comunione. La sua vita diventò allora sempre più «edificante». Tre mesi più tardi, forse nel marzo del 1855, in occasione di una predica sul tema della santità - «è volontà di Dio che ci facciamo tutti santi», spiegava il predicatore partendo dalla lettera di san Paolo - Domenico decise di «farsi santo». Quella parola di Dio era stata «una scintilla che gl'infiammò tutto il cuore d'amor di Dio». Non perdeva per questo il contatto con la vita quotidiana, in ciò aiutato dai consigli di don Bosco. Partecipava alla vita della casa, non solo con la puntualità e l'accuratezza nel suo lavoro, ma con un crescente interesse per i suoi compagni. Durante quel primo anno di soggiorno all'Oratorio, riuscì perfino a sventare una rissa pericolosa tra due studenti che già avevano le pietre in mano: si avvicinò da quello più infuriato con il crocifisso in mano e gli disse: «Fa il primo colpo sopra di me». Domenico passò l'anno scolastico seguente (1855-1856) interamente all'Oratorio, nella classe diretta dal giovane chierico Francesia. La sua salute cominciò allora a destare «qualche timore». Ciò non gl'impe-dì di lavorare con un gruppo di amici (tra i quali Rua e Bongioanni) a creare la Compagnia dell'Immacolata. Egli stesso redasse, se non alla lettera almeno nelle grandi linee, il regolamento della nuova associazione. «Dopo molte sollecitudini», poteva leggerlo solennemente con i suoi amici dinanzi all'altare della Madonna l'8 giugno 1856. Ma intanto

la sua salute cominciava a declinare. Rua ci dice che fu colpito da una «malattia un po' seria» durante l'estate del 1856. Nonostante il suo desiderio di rimanere con don Bosco durante le vacanze, questi lo mandò a riposarsi a Mondonio presso i suoi genitori. Quando ritornò, la sua salute pareva rinfrancata. All'inizio del nuovo anno scolastico 1856-1857, Domenico riprendeva la scuola in città, nell'istituto privato del professore Matteo Picco, che lo ammise gratuitamente nella classe di umanità. L'inverno seguente fu duro per lui: colpito da una «ostinata tosse», soffrì anche di grossi geloni alle mani e ai piedi. Con maggiore o minore regolarità, continuò tuttavia a frequentare la scuola fino all'inizio della primavera. La perfetta lucidità sulla gravità del suo stato lo spingeva a raddoppiare gli sforzi ed il fervore, a moltiplicare le «buone azioni», soprattutto verso gli altri ammalati della casa. Il primo marzo 1857, su parere del medico, don Bosco decise di separarsi da lui. Partì per Mondonio, persuaso di non rivedere più l'Oratorio. Dopo un breve miglioramento, dovette mettersi a letto il 4 marzo. Il suo medico aveva diagnosticato una «infiammazione» (si trattava probabilmente di polmonite), e per combatterla fece uso di salassi. Questo rimedio del tempo servì unicamente ad affrettare la conclusione. Domenico morì il 9 marzo «colla tranquillità dell'anima innocente». Non aveva ancora quindici anni.

L'anima di Domenico Savio.

Dinanzi ad una vita così breve e così modesta, vari testimoni hanno dichiarato di non aver riscontrato in lui nulla di straordinario. Era il caso di don Francesia: «Io posso solamente dire che vedevo in lui un giovane compito e virtuoso senza poter dire quale fosse speciale argomento del suo studio, e quale praticasse in grado eroico». Don Bosco, nella biografia da lui tracciata del suo giovane eroe, si mostra molto più affermativo. Nella prefazione alla biografia di un seguace di Domenico, egli ricorda, parlando di Savio, la «virtù nata con lui, e coltivata fino all'eroismo in tutto il corso della vita sua mortale».

Indubbiamente egli aveva delle buone ragioni di crederlo; essendo stato suo «direttore spirituale» per circa due anni e mezzo, aveva potuto penetrare meglio di chiunque altro nell'anima di questo ragazzo. Di questa «virtù» diventata «eroica», è stato possibile ritenere di preferenza alcuni aspetti: il coraggio tranquillo, la pietà, la preoccupazione apostolica. Essi hanno contribuito a dare a Domenico la sua particolare fisionomia spirituale.

Un «grande sforzo umano coadiuvato dalla grazia».

Il coraggio tranquillo di questo giovane era evidente. In tenera età, si adattava volentieri ad atti difficili: assistenza alla messa in pieno inverno e di buon mattino, lunghe marce a piedi per andare a scuola, accettazione silenziosa di un rimprovero immeritato. A Valdocco, la sua forza d'animo ebbe svariate occasioni di manifestarsi. Sopportò senza scomporsi «la vita piuttosto dura dell'Oratorio, non solo riguardo al vitto, ma anche per i disagi della stagione invernale, mancando affatto il riscaldamento». Con i suoi compagni, nonostante la sua grande cortesia e affabilità, gli accadeva talvolta di dover subire «insolenze e minacce», anzi insulti di questo genere: «Tisicone che sei!». Egli arrossiva violentemente ma rimaneva calmo, pronto a perdonare. La forza nella sofferenza dimostrata in occasione dell'ultima malattia fece di lui, sono parole di don Bosco, «un vero modello di santità». Questa forza d'animo non era soltanto accettazione passiva. Si manifestava nel compimento esatto di tutti i suoi doveri e, se necessario, in iniziative che i testimoni hanno tramandato perché li avevano colpiti: l'intervento coraggioso già menzionato per impedire a due studenti di battersi in duello a colpi di pietra, con il rischio di ricevere lui la prima; o l'osservazione fatta ad un soldato che ricusava d'inginocchiarsi al passaggio del SS. Sacramento, gesto considerato in quell'ambiente come molto offensivo; oppure ancora i rimproveri rivolti a don Bosco stesso a proposito di uno scandalo da allontanare. Domenico aveva volontà. Don Bosco diceva di avere constatato in lui un «grande sforzo umano coadiuvato dalla grazia». Tutta la sua

volontà era tesa verso un grande ideale: «farsi santo», ma per raggiungerlo egli metteva al suo servizio tutte le risorse della sua energia. «Io voglio assolutamente, diceva, ed ho assolutamente bisogno di farmi santo». La parola tenacia illustra bene quest'atteggiamento. Avendo imparato da don Bosco che la penitenza era necessaria ad un ragazzo che voleva «conservare l'innocenza», praticava volontariamente ogni sorta di mortificazioni, nel cibo, nel riposo, nella conversazione ed una stretta vigilanza su tutti i sensi al punto da patire grave mal di capo. Ad un certo momento, il direttore dovette intervenire per controllare e moderare la sua sete di penitenza. Gli raccomandò un'allegria ordinaria che egli era sul punto di perdere. Domenico ne fece tesoro. Quest'entusiasta di Cristo in croce lasciò il ricordo di un ragazzo sorridente, dolce e calmo. La sua inflessibilità scompariva sotto il sorriso.

Il dono del «fervore nella preghiera».

Domenico aveva l'anima di un contemplativo. «Fra i doni di cui Dio lo arricchì - così si legge nella Vita - era eminente quello del fervore nella preghiera». Senza sforzo apparente, la sua anima si trovava in sintonia con il mondo di Dio. Il suo atteggiamento nella preghiera colpi visibilmente quelli che lo conobbero. Don Bosco lo paragonava ad un nuovo san Luigi. A scuola, il suo contegno durante le brevi preghiere che si recitavano prima e dopo le lezioni aveva impressionato don Picco. Questa devozione innata venne orientata da don Bosco verso Maria e verso l'Eucaristia. Maria era stata il suo «secondo incontro» dell'anno 1854. In lei vedeva soprattutto l'Immacolata ed a questa devozione si devono collegare i suoi sforzi nella lotta contro il peccato e il suo ardente desiderio di purezza. La cura che metteva nella custodia degli occhi si fondava sull'aspirazione a «guardar la faccia della nostra madre celeste». Ad

onore della Madonna, s'imponeva volentieri sforzi o preghiere supplementari, soprattutto durante il mese di maggio. La sua devozione verso l'Eucaristia si manifestava in maniera privilegiata al momento della comunione, che lo lasciava talvolta «come rapito», ed in occasione delle visite al SS. Sacramento. Davanti al tabernacolo, «parmi di vedere cose tanto belle, diceva, che le ore fuggono come un momento». Un giorno rimase così per quasi cinque ore nella chiesa di S. Francesco di Sales.

«Guadagnare a Dio tutti i miei compagni».

Domenico era naturalmente riservato. Probabilmente si sarebbe chiuso nel suo guscio, se don Bosco non l'avesse incitato, per «farsi santo», a donarsi agli altri. Senza alcun dubbio, fu don Bosco che gli insegnò a coniugare santità e apostolato. Don Caviglia, a questo proposito, si meravigliava che non si fosse dato più peso a questa frase tratta dalla sua biografia: «La prima cosa che gli venne consigliata per farsi santo fu di adoperarsi per guadagnare anime a Dio; infatti, non c'è cosa più santa al mondo che cooperare al bene delle anime, per la cui salvezza Gesù Cristo sparse fino all'ultima goccia del suo prezioso san-jjue». Una volta riconosciuta «l'importanza di tale pratica», la preoccupazione apostolica non lo abbandonò più. «Se io potessi guadagnare a Dio tutti i miei compagni, quanto sarei felice!». Nell'ambiente, soprattutto scolastico, in cui si svolgeva la sua attività, egli si rendeva utile agli altri nella misura del possibile. S'interessò efficacemente ai meno favoriti: i nuovi della casa, i malati, quelli che stentavano nello studio. Era «l'anima della ricreazione». Seppe rendersi simpatico: lo testimonia la «costernazione» suscitata tra i suoi compagni dalla notizia della sua morte. La carità che testimoniava al prossimo, chiunque fosse, aveva un fine soprannaturale: «fare del bene all'anima», «guadagnare anime a Dio». Per raggiungere l'intento, usava i metodi semplici, adatti alla sua età ed al suo ambiente: avvertire un bestemmiatore, condurre dei compagni a

pregare ed a confessarsi, fare il catechismo, ecc. La fantasia e le buone maniere usate in queste occasioni rendevano «spesso» i suoi «pii inviti» più efficaci di una predica. Cagliero, che l'ha conosciuto bene, parlava di «conversioni subitanee» ottenute da compagni, anzi perfino da adulti incontrati per caso. Ma la sua grande trovata in questo campo fu la Compagnia dell'Immacolata. Anche se inizialmente lo scopo di essa fu soprattutto di ordine devozionale («fare qualche cosa in onore di Maria»), sappiamo che esercitò un apostolato efficace all'Oratorio soprattutto tra i più «recalcitranti». Benché fosse uno dei più giovani, Domenico n'era uno dei membri più attivi e il suo esempio influì certamente sui suoi amici Giovanni Massaglia, Camillo Gavio, Michele Rua, Angelo Savio ed altri. Il suo spirito apostolico lo portò anche a rivolgere il suo interesse alla Chiesa e al Papa, come glieli presentava don Bosco. «Parlava assai volentieri del romano pontefice» e si entusiasmava per i progressi del cattolicesimo in Inghilterra. Pregava per le missioni ed affermava di voler diventare missionario per «guadagnare molte anime al Signore».

Un modello per i giovani.

Don Bosco ha conosciuto «parecchi modelli di virtù», ma è certo che ebbe una predilezione per Domenico Savio, «il cui tenor di vita fu notoriamente meraviglioso». Sono state poste in rilievo le affinità che legavano il giovane santo al santo adulto. «Perfetto alunno a scuola, dotato di grande memoria, d'intelligenza facile, di cuore tenero, di fede ardente, Domenico possedeva - affermava Henri Bosco - qualcosa che

ricordava il fanciullo Giovanni Bosco, a prescindere naturalmente dalla vivacità, dalla naturale irruenza e dalla robustezza». Soprattutto, don Bosco vedeva realizzato in Domenico «l'ideale di santità che portava in sé». Nulla gli stette più a cuore quanto di proporre questo modello all'imitazione dei giovani, innanzi tutto dei suoi giovani. Per loro scrisse la vita del suo discepolo. Essa apparve fin dal gennaio del 1859 ed ebbe altre cinque edizioni mentre egli era ancora in vita. Don Caviglia la considerava un «capolavoro» nel suo genere. Essa contribuì a far conoscere ed ammirare Domenico Savio dovunque giungevano i Salesiani. La Chiesa a sua volta credette opportuno proporre alla gioventù la figura di questo ragazzo, che Pio XI ha definito un «piccolo ma grande Apostolo». Fu beatificato da Pio XII il 5 marzo 1950 e canonizzato il 12 giugno 1954.

I primi emuli di Domenico.

Dopo la scomparsa di Savio, all'Oratorio non mancarono i ragazzi decisi a seguirne le tracce. I più noti si chiamavano Michele Magone (1845-1859) e Francesco Besucco (1850- 1864). Questi due ragazzi non si rassomigliavano affatto, benché identica fosse la loro buona volontà. Il primo, vivace e perfino focoso, spesse volte espulso da scuola, diventato capo-banda, aveva fatto casualmente la conoscenza di don Bosco un giorno in cui questi aspettava il treno alla stazione di Carmagnola. Entrato all'Oratorio nell'autunno dei 1857, Magone non tardò ad attuare la sua «conversione» senza nulla perdere del carattere franco e risoluto. Morì all'età di tredici anni e mezzo il 21 gennaio 1859.

Il secondo era più tranquillo. Francesco Besucco, il «pastorello delle Alpi», ebbe un'infanzia virtuosa in seno alla sua famiglia ed accanto al proprio parroco. Le sue ottime disposizioni si svilupparono a Valdocco dove entrò nell'agosto del 1863. Vi rimase solo cinque mesi poiché morì il 9 gennaio 1864. Aveva soltanto tredici anni e nove mesi. Anche questi due ragazzi saranno proposti come modelli, benché in maniera meno clamorosa di Domenico Savio, nelle biografie pedagogiche scritte da don Bosco.

Capitolo VII.

SVAGHI E FESTE ALL'ORATORIO.

Educatore di giovani, don Bosco non poteva fare a meno di porsi il problema del tempo libero. L'ha fatto tenendo conto delle esperienze della propria giovinezza. D'altra parte, nel suo «grande programma» in tre punti (allegria, studio, pietà), l'allegria teneva il primo posto. Egli era quindi naturalmente portato a dare alla ricreazione e agli svaghi una grande importanza. Non solo ha compreso la necessità del gioco e del divertimento nella vita del giovane, ma ha cercato di promuoverli, anzi vi prendeva parte personalmente. Don Bosco aveva modo di manifestare quest'atteggiamento eminentemente positivo verso ciò che, in quel tempo, costituiva la proposta ricreativa dei giovani dell'Oratorio: i giochi, la musica, il teatro, le passeggiate e le feste.

Giovanni Bosco aveva esperienza del gioco.

Giovanni Bosco aveva esperienza, anzi vera passione per il gioco e per l'esercizio fisico. La natura l'aveva magnificamente dotato a questo riguardo; anzi, possiamo affermare che pochi educatori sono stati favoriti come lui di qualità fisiche eccezionali.

La sua forza muscolare e la sua agilità destavano l'ammirazione. Giovane ginnasta, moltiplicava i salti pericolosi, faceva la ruota, camminava con i piedi in alto. Saltimbanco, egli saltava, correva, danzava sulla nuda corda. Al tempo della Società dell'allegria, i suoi talenti gli permisero di trionfare di un saltimbanco di professione. Nel 1868, don Lemoyne fu testimone di una scena che lasciò tutti a bocca aperta: don Bosco sfidava alla corsa ottocento giovani allineati nel cortile dell'Oratorio e, a cinquantatre anni, giungeva ancora nettamente primo! E nel 1883, a Parigi, divertiva i suoi ospiti rompendo le noci con due dita tra lo stupore dei commensali. Diventato, secondo la formula da lui stesso usata, «capo di birichini» a Valdocco, animava e spesso organizzava egli stesso i loro giochi. La ricreazione dell'oratorio primitivo si faceva «colle bocce, stampelle, coi fucili, colle spade di legno, e coi primi attrezzi di ginnastica». I ragazzi s'impegnavano in ogni sorta di giochi: corse, salti, partite movimentate. Don Bosco era il re della festa: insegnava loro i «ritrovati» imparati in gioventù «pei salti, corse, bussolotti, Corde, bastoni». Quando prendeva parte al gioco della barrarotta, l'entusiasmo raggiungeva il vertice: «Da un lato si voleva la gloria di vincere don Bosco, dall'altro si faceva festa per la sicurezza della vittoria». Nell'internato, il cortile era uno dei luoghi preferiti. Egli stesso s'interessava della buona riuscita dei momenti di distensione. Si possono leggere a questo proposito alcune frasi nostalgiche di don Lemoyne: «Chi non ha visto, difficilmente si fa un'idea del chiasso, dell'ingenua spensieratezza, dei giuochi, della gioia di quelle ricreazioni. Il cortile era battuto a palmo a palmo nelle corse sfrenate, e don Bosco era l'anima di tutti quei divertimenti, da lui voluti e promossi, ne godeva con immenso piacere. E i giovanetti che sapevano come tutte le volte che egli poteva prendesse parte alle loro ricreazioni e conversazioni, tratto tratto alzavano gli occhi alla camera del buon padre; e allorché egli compariva sul poggiuolo, levavasi da ogni parte un grido di contentezza».

I giochi come mezzi d'educazione.

Se don Bosco aveva esperienza del gioco, ne conosceva anche il valore pedagogico. Come educatore, egli ha visto nella distensione fisica una necessità ed un beneficio. I giochi sono un mezzo di distensione indispensabile nella vita del giovane, e particolarmente in quella dello studente. Egli preferiva quindi i giochi movimentati, quelli che esigevano un grande dispendio di energie fisiche, a quelli che assorbivano lo spirito, come «le carte, la dama, la tela, gli scacchi». «La mente ha bisogno del suo riposo», ripeteva. All'oratorio, non c'erano panche nel cortile. Inoltre, era necessario che la ricreazione fosse «piacevole», e quindi caratterizzata da un clima di gioia e di libertà. Ai giovani bisognava lasciare «ampia libertà» nella scelta e nell'organizzazione dei loro svaghi. Se necessario, toccava agli educatori piegarsi ai gusti dei loro alunni. L'unica restrizione riguardava i giochi che potevano implicare «pericolo di offendere Dio, recare danno al prossimo, e cagionare male a se stesso». Il gioco era anche un mezzo di formazione fisica e morale. A suo parere, la salute del corpo e dell'anima ne traeva beneficio. Tra gli altri vantaggi, egli pensava che il gioco avesse quello di «purificare la mente». Non fa dunque meraviglia sentirlo ripetere che esiste uno stretto vincolo tra l'ardore nel gioco e le virtù morali. L'esperienza gli aveva insegnato che là dove non si gioca, regna la noia, che è una cattiva consigliera, mentre la gioia che regna nel gioco, mantiene e sviluppa la rettitudine, la fiducia, requilibrio. Una delle sue espressioni favorite con cui si rivolgeva ai giovani: «sta allegro», era spesso anche un invito a giocare. Per don Bosco, poi, la dimensione spirituale non era mai assente. In primo luogo, negativamente, faceva suo il motto di san Filippo Neri: «Quando è tempo correte, saltate, divertitevi finché volete, ma per carità non fate peccati». Ma il suo pensiero andava oltre, come appare da numerosi suoi interventi, con cui inculcava che la gioia è un segno e un mezzo di santificazione. Lo ripeteva Domenico Savio nell'incontro con Camillo Gavio: «Sappi che noi qui facciamo consistere la santità

nello star molto allegri». Lo stesso pensiero affiora esplicitamente in una frase pronunciata davanti ai ragazzi dell'oratorio S. Luigi: «Io sono contento che vi divertiate, che giochiate, che siate allegri; è questo un metodo per farvi santi come S. Luigi». È stato detto giustamente che l'apostolo di Torino ha «santificato la gioia di vivere. In questa prospettiva, bisogna comprendere anche i richiami che rivolgeva agli educatori salesiani affinché partecipassero ai giochi il più attivamente possibile, per essere presenti alla «vita del cortile». Infatti, con la partecipazione alla ricreazione e al gioco, commentava don Ricaldone, l'educatore si rende padrone del cuore dell'educando. In un'importante lettera del maggio 1884, don Bosco spiegherà i motivi di "questo modo di agire: perché i giovani corrispondano al lavoro educativo, è necessario «che essendo amati in quelle cose che loro piacciono, col partecipare alle loro inclinazioni infantili, imparino a veder l'amore in quelle cose che naturalmente loro piacciono poco».

Musica e canto.

La musica fu un'altra passione di Giovanni Bosco, e nello stesso tempo un mezzo di educazione, particolarmente atto alla creazione di un'atmosfera serena e festiva. Del suo gusto innato per la musica e per il canto, possediamo numerose testimonianze, come il racconto di molti dei suoi sogni, in cui si parla di «belle voci», di «cori melodiosi», di «armonie celestiali». Ha sempre amato il canto e possedeva anche una bella voce da tenore.

Giovane studente a Castelnuovo, aveva imparato a suonare il violino, il pianoforte e l'organo. Ne sapeva a sufficienza per essere in grado di comporre qualche lode per i primi ragazzi del suo oratorio. Don Bosco passava per precursore quando, verso il 1845, lanciò una scuola di canto e di musica vocale. Prima di lui, l'insegnamento musicale era generalmente individuale. Con l'aiuto di due sacerdoti musici e organisti, inaugurò un metodo collettivo per l'insegnamento della musica vocale e del canto fermo. Destò tanta curiosità che anche «maestri famosi» venivano ad assistere alle sue dimostrazioni. Riuscì a creare un coro di canto, le cui prestazioni erano molto apprezzate. In quel tempo era una novità, perché le chiese del Piemonte conoscevano unicamente le voci virili, e quasi sempre i solisti. Con le sue voci bianche, la corale di Valdocco era molto richiesta e si esibì con successo a Torino, a Moncalieri, a Chieri ed altrove. Nel campo della musica religiosa, egli reagì con forza alle abitudini del tempo. Nauseato del carattere profano e degli effetti teatrali della musica di chiesa allora in voga, cercava di promuovere uno stile più semplice e più degno. Ecco il perché dei suoi sforzi per rimettere in onore il canto gregoriano così screditato.

Musica strumentale.

La musica strumentale divenne, con il canto, una delle caratteristiche dell'Oratorio di Torino, poi di molte case salesiane. Quando i primi oratoriani si divertivano ancora nel prato Filippi, un rullo di tamburo ed uno squillo di tromba erano un buon aiuto per farsi sentire dalla massa. Durante le passeggiate nei dintorni di Torino, la fanfara aveva tre strumenti: un tamburo, una tromba e una chitarra. «Era tutto un disaccordo, ma servendo a fare rumore, colle voci dei giovani bastava per fare una meravigliosa armonia». Nel 1855 fece la sua apparizione una banda musicale in piena regola. Don Bosco l'aveva organizzata tra gli artigiani. Per alcuni anni, avevano soltanto dodici strumenti, ma nel 1864 se ne conteranno

trenta. Don Bosco esigeva dal gruppo un buon comportamento e non esitò nel 1859 a scioglierlo momentaneamente perché faceva a modo suo. Per la banda, esibirsi fuori dell'Oratorio rappresentava un avvenimento apprezzato da tutti. Nel 1876, sarà invitata a partecipare all'inaugurazione della ferrovia a Lanzo: grande festa per un piccolo paese, onore inatteso per un'opera clericale nell'Italia di quel tempo! Una bella fotografia del 1879 ci permette di ricostruire l'atmosfera della fanfara dell'Oratorio: possiamo ammirare don Bosco sorridente, circondato dai musici orgogliosi dei loro strumenti e del loro berretto.

Musica ed educazione.

Verso il 1859, il direttore dell'Oratorio aveva fatto scrivere sulla porta della sala di musica questa frase della Scrittura: «Ne impedias musicami (Non ostacolate la musica)! Non solo egli non frapponeva ostacoli al canto e alla musica, ma ne era il promotore entusiasta. Certo, i motivi, come generalmente ci vengono presentati, possono sembrarci utilitaristici o moralizzanti. La musica, si dice, era un «mezzo per attirare i giovani»; essa doveva permettere loro di aiutare i parroci; era «un potente mezzo di preservazione» per i giovani, soprattutto perché riusciva a tenerli «sempre occupati»; rompeva l'inevitabile monotonia dei giorni di collegio, ecc. Ma d'altra parte, don Ceria non ha mancato di mettere in risalto l'aspetto direttamente educativo della musica: «La ragione precipua va ricercata nella salutare efficacia che egli le attribuiva sul cuore e sull'immaginazione dei giovani allo scopo d'ingentilirli, elevarli e renderli migliori». Per don Bosco, «un oratorio senza musica è un corpo senz'anima», come diceva un giorno ad un religioso di Marsiglia. Anzi, egli vedeva nella musica uno dei segreti della riuscita nell'educazione. Questa convinzione lo spinse in particolare ad interessarsi della formazione di maestri di canto e di musica. Inoltre, egli ebbe il merito non solo di scoprire talenti, ma anche quello di coltivarli e farli valere. Il primo fu Giovanni Cagliero, «il corifeo della tradizione musicale salesiana». Maestro di musica e di canto all'Oratorio, fu anche compositore

di valore, tanto da meritare qualche elogio dal Verdi. Dopo la sua partenza per l'America nel 1875, sarà degnamente sostituito nella persona del coadiutore Giuseppe Dogliani, come direttore della Schola cantorum e della banda dell'Oratorio e anche come compositore.

Il teatro.

Insieme alla musica, il teatro (che don Bosco si ostinava a chiamare con il diminutivo teatrino), costituiva un altro elemento quasi indispensabile nelle feste dell'Oratorio. È possibile far risalire le sue origini alla giornata del 29 giugno 1847 in cui gli oratoriani recitarono, davanti a mons. Fransoni estasiato, una commediola intitolata Un caporale di Napoleone. In pratica, il nuovo divertimento prese consistenza soltanto due anni dopo. Per occupare gli interni della casa la domenica mattina, mentr'egli confessava gli esterni, don Bosco incoraggiò il giovane Carlo Tomatis a distrarli con i suoi talenti di comico. Tomatis organizzò un piccolo spettacolo di marionette dove compariva il popolare personaggio di Gianduia. L'uso delle rappresentazioni teatrali si sviluppò sempre più, come anche quello delle «accademie» a carattere poetico e musicale, tanto da diventare un elemento essenziale delle grandi feste dell'Oratorio. Nel 1849, don Bosco scrisse e mise in scena una commediola in tre atti intitolata Il sistema metrico decimale. Questo fu considerato un mezzo molto efficace per rendere popolare il nuovo sistema che doveva sostituire i pesi e le misure sino allora usate. Negli anni successivi, scrisse operette apologetiche in forma di dialogo (Una disputa tra un avvocato ed

un ministro protestante, Dialogo tra un barbiere ed un teologo}. Per la festa di S. Cecilia del 1864, compose La casa della fortuna, una «rappresentazione drammatica». Don Cagliero, da parte sua, faceva delle romanze (Lo spazzacamino, Il figlio dell'esule, L'orfanello, Il marinaro), mentre don Lemoyne si lanciò nei drammi a sfondo biblico o storico (David unto re, Cristoforo Colombo) e anche nelle commedie (Chi fa bene ben trova). Don Francesia scriveva perfino dei drammi in lingua latina (De sancto Aurelio Augustino, Leo I pontifex maximus), che attiravano all'Oratorio alcuni letterati di Torino. Dal 1858 al 1866, il teatrino si faceva in refettorio sotto la chiesa di S. Francesco di Sales. Venne poi utilizzata a questo fine la sala di studio. Il desiderio di don Bosco di avere a Valdocco una vera e propria. sala di teatro si realizzerà soltanto nel 1895, sotto il successore don Rua.

Distrarre, istruire, educare.

Le Regole pel teatrino tracciate da don Bosco nel 1871 fissavano alle rappresentazioni questi tre scopi: «rallegrare, educare, istruire i giovani più che si può, moralmente». Don Bosco aveva una preferenza per le opere allegre, quelle «che fanno ridere». Non voleva le rappresentazioni troppo tragiche, i drammi sentimentali e violenti, e tutto ciò che sapeva di volgare. L'atmosfera di curiosità e di allegria suscitata dal teatro, prima, durante e dopo le rappresentazioni, era per lui un importante fattore educativo. Il teatro, inoltre, poteva diventare istruttivo. Il pedagogo Ferrante Aporti, dopo la rappresentazione de Il sistema metrico decimale diceva che «don Bosco non poteva immaginare un mezzo più efficace per rendere popolare il sistema metrico decimale; qui lo si impara ridendo». Ne La casa della fortuna, si imparava tra l'altro che esisteva «una Provvidenza la quale veglia sul destino degli uomini; e spesso permette che cadano sopra l'uomo quei mali stessi che egli fa, o vorrebbe fare ad altri». Dal punto di vista didattico, il teatro era un buon mezzo per imparare an

che a declamare, e a leggere con senso. Tra due atti si solevano fare delle declamazioni di composizioni di prosa o di poesie, ben preparate e ricavate da buoni autori, il che era una delle «specialità» del teatrino dell'Oratorio. Come mezzo d'educazione, il teatro faceva parte integrante del suo metodo d'insieme, anche se in alcuni casi dava l'impressione soltanto di tollerarlo. Lo prova il fatto che egli vedeva in esso una scuola di moralità, di buon vivere sociale e talora di santità, purché le commedie fossero ben scelte. Su questo punto, si mostrava molto vigilante, tanto più che istintivamente avvertiva quali pericoli potessero introdursi. Bisognava dunque moralizzare ad ogni costo? Si trattava piuttosto, faceva egli osservare al troppo moralizzatore don Lemoyne, di fare in modo che la moralità fosse «impastata» nel racconto e non trattata come «materia separata». In tutti i casi, egli condannava sia le cattive esecuzioni che gli argomenti di cattivo gusto. Atteggiamento vigilante, ma positivo, caratteristico del suo modo di agire.

Passeggiate ed escursioni.

Oltre ai benefici ben conosciuti del camminare per la salute del corpo e dello spirito, don Bosco volle anche utilizzare le passeggiate e le escursioni come strumenti di educazione e di formazione. Per molto tempo, fu fedele alle passeggiate ed ai pellegrinaggi dei primi tempi dell'Oratorio. La passeggiata a Superga, sulla collina che domina la città di Torino, è rimasta tradizionale fino al 1864. Il racconto che ne fanno le Memorie dell'Oratorio è pittoresco e ricco di particolari divertenti: lo spuntino che si portava con sé, la salita verso la basilica in compagnia di don Bosco che cavalcava un cavallo ansimante, la cacofonia degli strumenti, la gioia dei ragazzi «stanchi dal ridere, scherzare, cantare e, direi, di urlare», e il «vorace loro appetito» all'arrivo. Altre passeggiate li conducevano al Monte dei Cappuccini, a Sassi, ai Becchi, all'abbazia benedettina della Sacra di San Michele o in altri luoghi interessanti. Quella che don Bosco organizzò nella primavera del 1855 per i giovani carcerati del correzionale «La Generala» rimase un episodio cir

condato da un alone di leggenda. Aveva ottenuto dal ministro dell'Interno di condurre i giovani prigionieri a Stupinigi per una giornata di distensione. Privilegio fuori dal comune, che lasciò i custodi dell'ordine piuttosto inquieti. Tanto più che il sacerdote aveva rifiutato l'aiuto dei carabinieri anche in borghese, affermando che non gli sarebbe piaciuto che la forza pubblica fosse «sulle sue tracce». Avrebbe preso la cosa tutta a suo rischio. Fortunatamente l'affetto che tutti portavano a don Bosco era tale che nessuno ebbe l'idea di fargliene correre. Quando la guida era stanca, la facevano salire sopra un mulo, e portavano essi stessi a spalle le provvigioni. All'appello serale, erano tutti presenti senza eccezione. Queste escursioni a piedi suscitavano molto entusiasmo tra i giovani. Don Bosco era il primo a rallegrarsi della loro felicità. Durante il percorso, partecipava al buon umore generale. Me egli era pure una guida molto interessante. Era difficile trovarlo impreparato sulla storia, la geografia o il folclore dei luoghi visitati. Anche allora, la sua preoccupazione d'istruire e di edificare non lo abbandonava.

Le passeggiate autunnali.

Dobbiamo riservare un posto a parte alle passeggiate autunnali. Scaglionate su tre o quattro settimane dei mesi di settembre e di ottobre, erano veri campi di vacanze. Ne facevano parte i cantori e i premiati. Già alcune settimane prima si preparava tutto: vettovagliamento, alloggio, ma anche musica, canto, teatro che erano fattori indispensabili di questo grande giro. I parroci, prevenuti da don Bosco, pensavano all'alloggio. L'aspetto spirituale non era accantonato, poiché si trattava di «edificare» le popolazioni che si sarebbero incontrate. Queste passeggiate si ripeterono ogni anno, dal 1847 al 1864, incominciando generalmente con un giro tra le colline del Monferrato. Per la festa della Madonna del Rosario, era tradizione che la truppa facesse tappa ai Becchi, dove il fratello Giuseppe metteva a disposizione dei ragazzi la sua casa ed il granaio. Negli ultimi anni, si ottenne perfino dalla direzione delle ferrovie due vagoni completi e ciò permise di av

venturarsi gratuitamente fino a Genova, fino al mare! Questi vagoni, che potevano essere attaccati al convoglio prescelto, in caso di necessità gli servivano da «quartier generale». Il programma metteva insieme, a bella posta, le manifestazioni di pietà e la gioia più espansiva. Generalmente il corteo entrava nel paese o nella città in mezzo ad un gran frastuono, la musica in testa. Si andava direttamente in chiesa, dove i giovani erano seguiti dalla buona gente del posto un po' sconcertata. Dopo una breve funzione, accompagnata dalla predica, si cercava l'alloggio per trascorrere la notte. Il giorno seguente, messa, poi durante la giornata, distrazioni varie e concerti. A sera, dopo la benedizione con il SS. Sacramento, rappresentazione teatrale in una sala o sulla piazza principale. Queste varie scene si ripetevano lungo tutto il percorso e spesso con grande concorso di gente. Nel pensiero di don Bosco, queste escursioni attraenti erano destinate a sottrarre i ragazzi ai «pericoli delle vacanze». Permettevano inoltre di aprire i giovani all'apostolato. Egli voleva insomma, dice il suo biografo, far loro «toccar con mano che il servire a Dio può andare bellamente unito coll'onesta allegria».

Le feste.

La sintesi di quanto è stato detto finora si può scoprire nel senso della festa che si manifestava concretamente durante le numerose feste dell'Oratorio. L'Oratorio era nato appunto come oratorio festivo e le sue caratteristiche inseparabili erano la pratica dei «doveri di un buon cristiano» e la ricreazione sotto tutte le forme possibili. Con lo sviluppo dell'opera primitiva, questo carattere festivo e gioioso non si è perso. Oltre le domeniche ordinarie e le grandi solennità liturgiche (Natale, Epifania, Settimana Santa, Pasqua, Ascensione, Pentecoste, Corpus Domini), erano sottolineate le celebrazioni mariane (Natività, Immacolata Concezione, Maria Ausiliatrice) e varie ricorrenze di santi specialmente cari: san Francesco di Sales, san Giuseppe, san Luigi Gonzaga,

san Giovanni Battista (onomastico di don Bosco), san Pietro e santa Cecilia. Le feste importanti venivano preparate da tridui o novene. _,. Altre manifestazioni, che rompevano la routine e il pericolo di noia nella vita soprattutto dell'internato, erano i ricevimenti ad autorità religiose e civili, le distribuzioni dei premi, la festa dell'uva e delle castagne, il triduo d'introduzione all'anno scolastico, il carnevale, il ritiro mensile (chiamato austeramente «esercizio della buona morte») e gli esercizi spirituali annuali. Ogni festa o manifestazione, anche la più seria, aveva un duplice volto: religioso e profano, essendo la serietà mai disgiunta dall'allegria e da qualche forma di distensione e di divertimento: giochi, musica, teatro, passeggiate, lotteria, o semplicemente qualche vitto speciale. Nell'Oratorio, insomma, e per volontà deliberata del direttore, si andava «di festa in festa». «Lo studio - osservava don Ceria - di offrire alle menti e alle fantasie dei giovani un pascolo svariato che li stornasse dal pensare a cose men buone, era costante nel santo Educatore. Come le rappresentazioni drammatiche, così indirizzava al medesimo scopo le feste in chiesa e fuori di chiesa, le quali ebbe cura di far celebrare non solo con pompa e allegria, ma anche a intervalli tali, che, quando l'impressione di una svaniva, tosto sorgesse l'aspettazione dell'altra».

Capitolo VIII.

NASCITA DELLA SOCIETÀ SALESIANA (1850-1864).

I consigli del ministro Rattazzi.

Un giorno del 1857, don Bosco fu ricevuto dal ministro Urbano Rattazzi. La conversazione cadde sull'opera degli oratori e sul modo di assicurarne la continuità. Rattazzi gli tenne, a quanto si dice, il discorso seguente: «A mio avviso, Lei dovrebbe scegliere alcuni tra laici ed ecclesiastici di sua confidenza, formarne una Società sotto certe norme, imbeverli del suo spirito, ammaestrarli nel suo sistema, affinché fossero non solo aiutanti, ma continuatori dell'opera sua dopo la sua dipartita». Consiglio inatteso che fece sorridere don Bosco. Il ministro, che due anni prima - il 29 maggio 1855 - aveva fatto votare la famosa legge sui conventi per cui cessavano di esistere, quali enti morali riconosciuti dalla legge civile, le case degli Ordini religiosi, i quali non attendevano alla predicazione, all'educazione, o all'assistenza degli infermi, questo stesso uomo che preparava forse altri colpi contro le comunità religiose ancora esistenti, gli consigliava ora semplicemente di crearne una nuova. Don Bosco aveva motivo di essere sorpreso di questo di

scorso, ma ciò che importa è che le parole di Rattazzi furono per lui «uno sprazzo di luce». Egli comprese che era possibile fondare una società religiosa che, agli occhi dello Stato, sarebbe stata unicamente una «associazione di liberi cittadini, i quali si uniscono e vivono insieme allo scopo di beneficenza». Rassicurato sulle intenzioni del governo, prese congedo dal suo ospite dopo averlo «caldamente» ringraziato. In realtà, Rattazzi si era limitato a ribadire le idee e preoccupazioni di don Bosco circa «l'opera degli oratori». Dobbiamo infatti risalire parecchi anni indietro per comprendere gli inizi di una Società a favore della gioventù povera.

Situazione nel 1850.

Nel 1850 la situazione poteva riassumersi semplicemente così. Don Bosco era un sacerdote diocesano di Torino come tutti gli altri. È vero che si trovava a capo di tre opere di un genere un po' particolare che chiamava «oratori»: l'oratorio di Valdocco, quello di Porta Nuova e quello di Vanchiglia. All'oratorio di Valdocco si era aggiunta una casa, che aveva incominciato a raccogliere i ragazzi senza tetto e qualche studente. Egli governava queste opere sotto l'autorità dell'arcivescovo, mons. Luigi Fransoni. Era aiutato, nel suo lavoro, da sacerdoti e da laici. Insieme costituivano una cosiddetta «congregazione», dai vincoli abbastanza larghi è vero, che si poteva qualificare come società diocesana degli oratori. Infatti, egli scriverà più tardi che «il Superiore di questi Oratorii in certo modo fu sempre l'Arcivescovo, dal cui parere e consiglio ogni cosa dipendeva. Per altro i sacerdoti che occupavano di tutto proposito il sacro loro ministero negli Oratorii, solevano riconoscere il sacerdote Bosco per loro superiore, senza legami di voti, ma colla semplice promessa di occuparsi in quelle cose che egli avesse giudicato a maggior gloria di Dio». Nell'impostazione del lavoro, il direttore di Valdocco intendeva salvaguardare la sua libertà e autonomia. Già nel 1848, un episodio testi

monia in maniera significativa questa «testardaggine» che gli fu spesso rimproverata. Un suo amico, il canonico Lorenzo Gastaldi, futuro arcivescovo di Torino, aveva lanciato l'idea di una specie di federazione di tutti gli oratori alle dipendenze di una «assemblea direttiva». Don Bosco rifiutò recisamente. Egli aveva compreso, al dire di don Ceria, che «la sua adesione avrebbe avuto per effetto di ridurlo a dirigere in sott'ordine e in perpetuo il solo Oratorio di Valdocco». Egli voleva già allora avere «mano libera ed individui interamente dipendenti». La federazione non ebbe seguito. È anche probabile che nel 1850, don Bosco avesse già la convinzione che l'associazione da lui progettata non si sarebbe fatta con i collaboratori adulti, sacerdoti e laici, che lo circondavano. Di fatto, le sue posizioni lo isolavano, perché «non era d'accordo né con l'esplosione liberale del governo sardo né con l'impeto nazionalista di alcuni chierici, patrioti». Di conseguenza, le defezioni erano numerose tra loro; alcuni, per motivi politici e personali, gli serbavano un rancore tenace. La maggior parte erano di spirito poco docile. Che fare? Per qualche tempo si mise alla ricerca di un Istituto già esistente a cui unirsi, chiedendo soltanto che gli venissero forniti i mezzi ed i collaboratori necessari al suo lavoro. In questa prospettiva, mantenne contatti con gli Oblati di Maria Vergine del padre Bruno Lanteri e con l'Istituto della Carità dell'abate Antonio Rosmini. Fu fatica sprecata. Gli rimaneva una speranza, che i suoi sogni di tanto in tanto contribuivano ad alimentare, cioè che i futuri «pastorelli» uscissero dal «gregge» dei suoi ragazzi. Già nel 1849 aveva cominciato un tentativo con quattro giovani, destinati a diventare i suoi aiutanti, ma senza successo. Egli comunque vi pensava seriamente, poiché proprio in quel tempo accoglieva nella casa dell'Oratorio i primi studenti interni con questa idea in testa. Ma nel 1850 tutto era ancora soltanto allo stadio di ipotesi. Dal suo esilio lionese l'arcivescovo Fransoni incoraggiava don Bosco. Nel 1852 volle fare di più. Per assicurare una solida base all'opera degli oratori (e per proteggere don Bosco dai suoi detrattori), lo nomi

nò «direttore capo spirituale» con lettera ufficiale del 31 marzo. In essa faceva voti perché l'opera «progredisca e si amplifichi» dichiarandosi pronto a concedere «tutte le facoltà necessarie». D'altra parte, mons. Fransoni insisteva presso don Bosco perché facesse parte ad altri delle sue esperienze, che li iniziasse allo spirito che l'aveva fino allora animato e li preparasse a raccogliere la sua eredità. In ultima analisi, secondo don Ceria, l'arcivescovo voleva persuaderlo a creare una Congregazione. Certo, nella mente dell'arcivescovo, poteva trattarsi unicamente di una Congregazione diocesana.

La formazione dei giovani quadri (1852).

L'impresa era ardua, ma nel 1852, era già abbozzata. Don Bosco incominciava a volgersi verso i giovani allievi che gli ispiravano fiducia: Rua, Francesia, Cagliero, Angelo Savio, Rocchietti, Turchi ed altri. Evidentemente la sua prudenza era grande. Le congregazioni ed i frati non erano proprio di moda in quel tempo. Ci viene riferito che i ragazzi erano portati a ridere di tutto ciò che sapeva di frati e di conventi. La sua tattica si adattava alla mentalità dell'ambiente. Con maggiore o minore successo, teneva loro questo semplice discorso: «Vuoi bene tu a don Bosco? Ti piacerebbe stare con lui? Vorresti farti chierico qui nell'Oratorio? Ameresti col tempo aiutare don Bosco a lavorare per i giovani? Vedi, se ci fossero cento preti e cento chierici, avrei del lavoro da dare a tutti». Ugual prudenza usava nel tenore di vita che esigeva dai primi volontari: «Nulla che avesse apparenza di costumanze religiose: non meditazioni regolari, non lunghe preghiere, non osservanze austere». Era loro richiesta all'inizio soltanto la pratica dei doveri del «buon cristiano». Fortunatamente, don Bosco aveva molte frecce al suo arco. In primo luogo, l'affetto, da cui era circondata la sua persona e la sua casa gli consentiva di superare gli ostacoli più grossi. Sarà l'affetto che farà dire a Cagliero al momento della scelta decisiva: «Frate o no, io rimango con don Bosco». Oltre all'affetto, essi provavano sentimenti di ammirazione e di venerazione verso un padre e un amico di cui si era persuasi che fosse un uomo di Dio, capace di fare miracoli, di vedere

l'avvenire per mezzo di sogni e di leggere nelle coscienze. Tutto questo gli attirava spesso una fiducia illimitata e incoraggiava i giovani a rimanere con lui. Don Bosco riuniva regolarmente in «conferenze» i giovani che gli sembravano meglio disposti, per prepararli senza strepito alla società religiosa a cui pensava. Nel 1852 - stando a quello che ricordava venti anni più tardi - «si era riuscito a formare un nucleo di parecchi giovanetti, che in pubblico ed in privato prestandosi a molte opere di carità erano ben veduti da ogni classe di persone». Michele Rua, che l'aveva incontrato la prima volta nel 1845, fu ben presto uno dei membri più in vista del gruppo. È lui che ci ha tramandato un breve resoconto sulla conferenza del 5 giugno 1852, durante la quale don Bosco chiese loro delle preghiere il cui scopo, non svelato, riguardava il grande progetto che egli vagheggiava.

L'associazione religiosa privata (1854-1859).

Circa due anni dopo, questo progetto incominciò a prendere forma. In una piccola nota di don Rua, si legge: «La sera del 26 gennaio 1854 ci radunammo nella stanza di D. Bosco: esso Don Bosco, Rocchietti, Artiglia, Cagliero e Rua; e ci venne proposto di fare coll'aiuto del Signore e di S. Francesco di Sales una prova di esercizio pratico della carità verso il prossimo, per venire poi ad una promessa; e quindi, se parrà possibile e conveniente di farne un voto al Signore. Da tal sera fu posto il nome di Salesiani a coloro che si proponessero e si proporranno tale esercizio». La prudenza di don Bosco spiega l'uso di una terminologia non ben chiara. Per evitare il termine sospetto di noviziato (benché proprio di questo si trattasse), credette più opportuno proporre loro «una prova di esercizio pratico della carità verso il prossimo». Il nome di Salesiani, invece, non destò probabilmente alcuna sorpresa. Tutti conoscevano il culto che don Bosco professava verso il santo vescovo di Ginevra. Da

molto tempo aveva posto l'Oratorio sotto la protezione di san Francesco di Sales e si era appena ultimata una chiesa in suo onore. Forse l'appellativo era già in uso da qualche tempo semplicemente per designare la gente dell'Oratorio di S. Francesco di Sales. Al termine di un anno di noviziato, che nessuno chiamò con il suo vero nome, don Bosco pensò che fosse giunto il momento di dare inizio ad una nuova fase. Durante le conferenze, incominciò a parlare dei you religiosi, ma in maniera quasi «accademica». Nel mese di marzo del 1855, invitò apertamente Rua a pronunciare i tre voti. Questi accettò. Ma la cerimonia fu circondata dalla più grande discrezione. Inginocchiato nella camera di don Bosco, davanti ad un semplice crocifisso, senz'altro testimone che il suo direttore e padre spirituale, Rua fece la professione per un anno. Era il 25 marzo. Cerimonia senza sfarzo, ma, diceva don Auffray a cui piacevano le immagini, «tra quelle quattro mura, nasceva qualche cosa di grande, un ordine religioso incominciava a battere le ali». In realtà, il giovane chierico di diciott'anni, allievo del secondo anno di filosofia, non ne aveva minimamente coscienza. Egli pensava unicamente ad aiutare don Bosco nell'«opera degli oratori». Alcuni mesi dopo, stessa cerimonia, con la stessa semplicità, ma questa volta per un sacerdote. Si chiamava Vittorio Alasonatti. Vecchio amico di don Bosco, egli aveva abbandonato il suo impiego di maestro ad Avigliana vicino a Torino ed era giunto all'Oratorio il 14 agosto 1854. Come prefetto della casa, incaricato in quanto tale della disciplina e dell'amministrazione, fu per don Bosco un uomo estremamente prezioso. Quando, all'età di quarantadue anni, emetteva i voti, forse aveva ricevuto dal suo direttore confidenze più precise circa le sue intenzioni. Nel 1856 fu la volta di Giovanni Battista Francesia, il quale, dopo brillanti studi letterari, nel 1855 era stato nominato professore della prima classe creata a Valdocco. Quando s'impegnò con i voti, aveva soltanto diciott'anni. A poco a poco, attorno al nucleo primitivo, si andavano raggruppando altri volontari. Quando trovava in qualcuno le disposizioni richieste, don Bosco lo invitava a professare per un anno, oppure si accontentava di una semplice promessa di «lavorare con lui». Durante le frequenti conferenze che gli permettevano d'intrattenersi familiarmente con i suoi, li preparava gradualmente ad un impegno sempre più espli

cito in seno ad una Congregazione. L'atmosfera d'intimità che caratterizzava questo genere di riunioni favoriva la coesione del gruppo a cui il maestro inculcava il proprio spirito ed i propri metodi.

L'associazione religiosa aperta (1859).

Fino al 1859 nulla autorizzava a fare di don Bosco il capo di una Congregazione religiosa. I suoi discepoli non ci pensavano affatto. Indubbiamente il direttore di Valdocco era circondato da un buon numero di chierici a lui devoti. Anzi, dalle sue mani essi ricevevano l'abito ecclesiastico. Tuttavia, tutto questo era possibile solo perché l'autorità diocesana ne ammetteva la necessità per «l'opera degli oratori». D'altronde, questi chierici dovevano subire un esame preliminare presso la curia. Inoltre, seguivano con gli altri le lezioni del seminario, fatta eccezione per i pochi che ne erano dispensati per il loro lavoro all'Oratorio. Tutto ciò non impediva assolutamente a don Bosco di maturare il suo piano. Egli preparava in silenzio un progetto di regole per la Congregazione che meditava. Ora, dopo aver ricevuto il segnale di via libera da Rattazzi, incoraggiato anche da mons. Fransoni e da alcuni suoi amici, don Bosco decise un grande passo avanti. All'inizio del 1858, s'imbarcò per Roma in compagnia del chierico Michele Rua. Il 9 marzo 1858 fu ricevuto da Pio IX. Durante l'udienza il Papa gli fece esporre l'inizio e gli sviluppi dell'Oratorio. Dopo una settimana, almeno secondo uno scritto di don Bosco del 1873-1874, fu ricevuto una seconda volta dal Papa, il quale gli diede consigli e incoraggiamenti: «Il vostro progetto può procacciare assai bene alla povera gioventù, disse Pio IX. Una Associazione, una Società, o Congregazione religiosa sembra necessaria in mezzo a questi tempi luttuosi. Essa deve fondarsi sopra queste basi: Una società di voti semplici, perché senza voti non vi sarebbero gli opportuni legami tra soci e tra superiori ed inferiori. La foggia di vestire, le pratiche di pietà non la facciano segnalare in mezzo al secolo. Le regole siano miti e di facile osservanza. Si studi il modo che ogni membro in faccia alla Chiesa sia un religioso e nella civile società sia un libero cittadino. Forse sarebbe meglio chiamarla Società

anzi che Congregazione; perché sotto a questo nome esisterebbe meno osservata». Quando i due viaggiatori tornarono a Torino in aprile, si sentivano pieni di speranza e di progetti. Eppure, ci vorranno ancora lunghi mesi prima che don Bosco potesse attuare il suo progetto. Soltanto il 9 dicembre 1859 egli pensò che fosse giunto il momento di parlare apertamente di Congregazione religiosa. Ai «Salesiani» riuniti nella sua camera, parlò pressappoco in questi termini: «Da molto tempo io meditava di istituire una di queste Congregazioni e tale è stato da parecchi anni l'oggetto principale delle mie cure. Ecco giunto oggi il momento di venire all'atto. Il Santo Padre Pio IX m'incoraggiò e lodò il mio proposito. Veramente questa Congregazione non nasce adesso, ma esisteva già per quel complesso di Regole, che voi siete venuti osservando così per tradizione, benché esse non obbligassero e non obblighino ancora in coscienza, non essendo finora dichiarate obbligatorie da chi ha l'autorità di farlo. Perciò possiamo dire che voi appartenete già in spirito a questa Congregazione; alcuni anzi vi appartengono più strettamente per via di promessa o voto temporaneo. Si tratta dunque ora di procedere oltre, cioè di costituire formalmente la Congregazione, di darvi il nome e di accettarne le Regole. Però sappiate che vi saranno ascritti soltanto coloro che dopo matura riflessione vorranno emettere a suo tempo i voti di povertà, castità e obbedienza. Voi che frequentavate le nostre conferenze, siete stati scelti da me, perché vi giudicava atti a divenire un giorno membri effettivi della Pia Società che prenderà o meglio conserverà il nome di Salesiana, messa cioè sotto la protezione di S. Francesco di Sales. Siamo dunque intesi: chi non avesse voglia di ascrivervisi, è pregato di non intervenire più alle conferenze che io terrò in seguito: il non comparirvi più sarà di per sé indizio che non s'intende di dare la propria adesione. Vi lascio una settimana di tempo per pensarci sopra. Pregate il Signore che v'illumini». All'uscita dalla riunione, vi fu un silenzio insolito. Ben presto, quando le lingue si sciolsero, si ebbe modo di costatare quanto don Bosco avesse avuto ragione di procedere con lentezza e prudenza. Alcuni mormoravano che don Bosco voleva fare di loro dei frati. Cagliero misurava a grandi passi il cortile in preda a sentimenti contraddittori.

Ma il desiderio di «rimanere con don Bosco» ebbe il sopravvento nella maggioranza. Alla «conferenza di adesione» che si tenne la sera del 18 dicembre, una settimana dopo, mancarono soltanto due tra quelli che avevano partecipato alla conferenza precedente. Risposero all'invito don Vittorio Alasonatti (di anni 47), quindici chierici (tra 15 e 25 anni) e un giovane di 16 anni. In questa occasione venne redatto un documento, che è il primo atto ufficiale della Società salesiana. Lo scopo che tutti intendevano perseguire «in uno spirito» era quello di «promuovere e conservare lo spirito di vera carità che richiedesi nell'opera degli oratorii per la gioventù abbandonata e pericolante». Il documento continuava così: «Piacque pertanto ai medesimi Congregati di erigersi in Società o Congregazione, che avendo di mira la santificazione propria, si proponesse di promuovere la gloria di Dio e la salute delle anime, specialmente delle più bisognose d'istruzione e di educazione». Fu immediatamente designato un «Capitolo» (o Consiglio) superiore. All'unanimità don Bosco fu pregato di accettare la carica di Superiore. Egli si riservò il diritto di scegliere come «prefetto» Vittorio Alasonatti, che d'altronde aveva già questo titolo all'Oratorio. Il suddiacono Michele Rua fu eletto all'unanimità «direttore spirituale»; ed il chierico Angelo Savio, economo. Rimanevano da eleggere tre consiglieri. La scelta cadde su Giovanni Cagliero, Giovanni Bonetti e Carlo Ghivarello.

Primi atti ufficiali (1860).

Meno di tre mesi più tardi il «Capitolo della Società di S. Francesco di Sales» ebbe occasione di fare il suo primo atto di autorità. Il 2 febbraio 1860 si riunì infatti per esaminare la candidatura di Giuseppe Rossi. Decise di ammetterlo, secondo una formula che diventerà abituale, «alla pratica delle Regole della Società». Come salesiano laico o coadiutore, Rossi diventerà l'uomo di fiducia di don Bosco e provveditore generale. Stessa decisione il primo maggio 1860 per quattro giovani, tra cui

Paolo Albera (futuro Superiore generale). Due giorni dopo il Capitolo si riuniva nuovamente per l’ammissione del chierico Domenico Ruffino e di due compagni. La maggior parte di questi primi Salesiani erano molto giovani. Don Bosco, infatti, non esitava ad ammettere nella Società semplici studenti dei corsi secondari. Inoltre, provenivano quasi tutti da famiglie modeste della campagna o della città. Il 14 maggio 1862 segnò una nuova tappa nel consolidamento del gruppo. Riuniti nella medesima stanzetta che era stata testimone di tutti gli atti importanti, i «confratelli della Società di S. Francesco di Sales», rispondendo all'invito di don Bosco, «promisero a Dio di osservare le Regole facendo voto di povertà, di castità e di obbedienza per tre anni». Don Rua, ordinato sacerdote da due anni, leggeva ad alta voce la formula dei voti, che tutti ripetevano frase per frase. Erano ventidue, non compreso il fondatore, il quale dichiarò di averli emessi pure lui: «Mentre voi facevate a me questi voti, io li facevo a questo Crocifisso per tutta la mia vita, offrendomi in sacrificio al Signore, pronto ad ogni cosa, affine di procurare la sua maggior gloria e la salute delle anime, specialmente pel bene della gioventù». Pronunciate le ultime parole della professione, don Bosco rivolse loro parole piene d'incoraggiamento e di fiducia per l'avvenire: «Chi sa, disse loro commosso, che il Signore non voglia servirsi di questa nostra Società per fare molto bene nella sua Chiesa! Da qui a venticinque o trent'anni, se il Signore continua ad aiutarci, come fece finora, la nostra Società sparsa per diverse parti del mondo potrà anche ascendere al numero di mille soci. Di questi alcuni intenti colle prediche ad istruire il basso popolo, altri all'educazione dei ragazzi abbandonati, taluni a fare scuola, tal'altri a scrivere e diffondere buoni libri, tutti insomma a sostenere, come generosi cristiani, la dignità del Romano Pontefice e dei ministri della Chiesa». La predizione, come il seguito mostrerà, non era certo tanto malvagia. Essa tuttavia dovette sembrare straordinaria a quei primi Salesiani, per quanto fossero disposti, d'altronde, a prestarvi fede.

La situazione canonica dei primi Salesiani.

Pensando al lungo cammino già percorso, ai pregiudizi diffusi contro le congregazioni religiose, don Bosco aveva motivo di rallegrarsi dei risultati ottenuti e di sperarne dei maggiori per l'avvenire. Malgrado ciò, tutto non era ancora in regola. Se all'interno, la situazione poteva sembrare chiara e piena di promesse, i rapporti con l'esterno rimanevano precari. Nel 1860 l'Oratorio aveva dovuto subire una perquisizione ordinata dalla questura di Torino e pesanti ispezioni scolastiche. Periodicamente nascevano anche conflitti con la curia a motivo dei seminaristi dell'Oratorio. Ci si domandava come potevano conciliare le svariate occupazioni in cui li impegnava don Bosco nella casa e negli oratori con lo studio serio della filosofia e della teologia. Inoltre, per assicurare l'avvenire delle sue scuole, don Bosco aveva chiesto ai migliori di iscriversi alle Facoltà di lettere, di filosofia e di matematica dell'Università di Torino per ottenere, se possibile, dei diplomi ufficiali in queste materie profane. Questa innovazione sollevò molte opposizioni. Sotto l'aspetto strettamente canonico, nulla vi era ancora di definito. In base al diritto vigente, per creare una Congregazione religiosa sarebbe stato sufficiente, strettamente parlando, un'approvazione, anche soltanto orale, dell'Ordinario del luogo. L'11 giugno 1860 era stato fatto un passo in questo senso presso l'arcivescovo in esilio. Personalmente, mons. Fransoni era favorevole alla nuova Società, ma i suoi consiglieri lo erano molto meno. L'approvazione si fece attendere e, alla morte dell'arcivescovo il 26 marzo 1862, non era ancora arrivata. I suoi successori si mostreranno poco inclini a favorire un progetto, che aveva tutta l'apparenza di un tentativo di emancipazione.

Il primo riconoscimento ufficiale della Chiesa (1864).

Per essere riconosciuta da Roma, cioè dalla S. Congregazione dei Vescovi e Regolari, una Congregazione doveva fornire «lettere commendatizie», cioè raccomandazioni da parte dei vescovi. Quella del

vescovo di Cuneo arrivò per prima, seguita da quelle dei vescovi di Acqui e di Susa. Poi vennero anche quelle di Casale e di Mondovì. Finalmente anche la curia torinese mandò la sua, ma senza far menzione delle Regole. Il 12 febbraio 1864 don Bosco mandava a Roma le lettere dei vescovi con una supplica a Pio IX: «Santissimo Padre, coll'unico scopo e soltanto col desiderio di promuovere la gloria di Dio e il bene delle anime, umile, mi prostro ai piedi di V. S. per dimandare l'approvazione della Società di S. Francesco di Sales. È questo un progetto da me molto meditato e lungo tempo desiderato. L'anno 1858, quando io aveva la felice ventura di potermi presentare a V. S., all'intendere gli sforzi che l'eresia e l'incredulità faceva per insinuarsi nei popoli e soprattutto fra la povera ed inesperta gioventù, accoglieva con segno di gradimento l'idea di una Società, che di questa pericolante porzione del gregge di Gesù Cristo si prendesse cura particolare». Il 23 luglio dello stesso anno, la Congregazione romana emanò un decreto di lode e di raccomandazione della Società salesiana (decretum laudis), in cui veniva riconosciuto come Superiore generale a vita (Rettor maggiore) il sacerdote Giovanni Bosco. Benché non si trattasse ancora di una approvazione formale della Società, questo primo atto ufficiale di riconoscimento della Chiesa dava speranza per il futuro. Il decreto di approvazione della Società salesiana sarà firmato soltanto il 1 marzo del 1869. Nel 1864 i Salesiani riuniti- attorno a don Bosco costituivano dunque una Società religiosa di fatto, ma che godeva del gradimento delle autorità della Chiesa. Nell'attesa che la situazione canonica fosse definitivamente regolata, don Bosco vedeva almeno realizzarsi una parte del suo piano: aveva trovato collaboratori, che avrebbero potuto un giorno diventare dei continuatori.

Capitolo IX.

I COADIUTORI SALESIANI.

I collaboratori laici nell'Oratorio.

Nella complessa opera dell'Oratorio, che don Bosco concepiva come una famiglia, tutte le energie erano ben accette, sia nel lavoro educativo in quanto tale che nei molteplici servizi richiesti per il funzionamento della casa. Non vi è quindi da meravigliarsi, se i primi a ricevere la qualifica di «coadiutori» furono giovani che prestavano il loro «aiuto» per la pulizia della casa e per la cucina. Il primo coadiutore in questo senso sarebbe stato un certo Alessio Peano entrato all'Oratorio nel 1854. Due altri entrarono nel 1855 con la stessa qualifica. Nel 1857 entrò anche un cuoco di 21 anni. In seguito, il loro numero andò aumentando, perché cresceva anche il bisogno di personale di servizio e di professionisti nei laboratori di arti e mestieri aperti all'Oratorio. I più di loro non furono, né si fecero Salesiani. Pagavano una mensilità alla casa, ma venivano retribuiti per il loro lavoro. Da questa categoria di coadiutori cominciarono a differenziarsi i coadiutori salesiani a partire dagli anni 1860. Alcuni laici si dicevano pronti a rimanere con don Bosco per aiutarlo ed era naturale che egli cercasse di integrarli nella sua Società. Il testo più antico delle Costituzioni salesiane giunto fino a noi, probabilmente del 1858, prevedeva già esplicitamente questa possibilità: «Lo scopo di questa congregazione si

è di riunire insieme i suoi membri ecclesiastici, chierici ed anche laici a fine di perfezionare se medesimi imitando per quanto è possibile le virtù del nostro divin Salvatore». D'altra parte, don Bosco avvertiva la necessità di una mobilitazione dei laici, fossero essi cristiani nel mondo o veri religiosi con voti. Egli aveva attinto questo interesse per i laici negli insegnamenti del Convitto ed in particolare in quelli di Giuseppe Cafasso. Per molto tempo fu fedele agli esercizi spirituali organizzati per i laici a S. Ignazio sopra Lanzo. La sua esperienza ed i contatti che ebbe con ogni categoria di cristiani lo persuasero che tutti possono e devono giungere alla «perfezione della virtù». Resta tuttavia difficile precisare se la figura del coadiutore sia nata nel suo spirito contemporaneamente all'idea di Congregazione o se essa sia stata frutto della sua esperienza. Nella elaborazione dell'idea del Salesiano laico, s'incontrano infatti in don Bosco incertezze, anzi alcune contraddizioni, forse anche volute per non dare troppo all'occhio ai detrattori dei frati. Ad ogni modo, non sembra falso affermare che la necessità di uomini qualificati sul piano professionale abbia avuto un ruolo non indifferente in questa iniziativa. Basti ricordare le difficoltà e le delusioni nel lanciare i primi laboratori all'interno dell'Oratorio. Dalle varie esperienze che furono successivamente tentate, risultavano sempre molti inconvenienti. O si dava carta bianca ai maestri d'arte civili e questi pensavano soltanto ad approfittare della loro indipendenza dal direttore, oppure si limitava la loro opera ad un compito ben determinato ed allora il laboratorio andava a rotoli per mancanza d'interesse e di responsabilità del capo. In entrambi i casi, il risultato era deplorevole: veniva a mancare l'insegnamento esatto del mestiere, la disciplina si rilassava, i disordini si moltiplicavano. Anche gli esperimenti circa gli utensili erano ugualmente deludenti. Un giorno vennero tirate le conclusioni. Se la competenza professionale era indispensabile

al capo laboratorio, essa non poteva bastare. Finché non si trovavano maestri che unissero alla competenza le qualità dell'educatore, don Bosco pensava che non si potesse fare qualcosa di buono nell'educazione degli artigiani. Il Salesiano coadiutore forniva una risposta ideale alle sue preoccupazioni. Avrebbe indubbiamente trovato il senso della responsabilità e dell'educazione in religiosi legati dai voti. Quanto alla competenza, egli s'impegnava a valorizzare il più possibile le attitudini di ciascuno e a procurare la formazione necessaria. Gli rimaneva soltanto da trovare laici che volessero accettare l'invito. La cosa non era facile, meno ancora che per i sacerdoti. D'altra parte, conviene anche notare - come apparirà in avvenire - che non tutti i coadiutori erano destinati a diventare capi laboratorio.

I primi Salesiani laici (1860).

Come abbiamo visto, il primo candidato laico non destinato allo stato ecclesiastico ad essere ammesso «alla pratica delle Regole della Società» si chiamava Giuseppe Rossi. Era il 2 febbraio 1860. Nativo della provincia di Pavia, questo giovane di ventiquattro anni aveva conosciuto don Bosco qualche mese prima attraverso uno dei suoi libri. La parola «Coadiutore» fa la sua apparizione ufficiale nel vocabolario religioso della Società salesiana nella lettera dell'11 giugno 1860, indirizzata all'arcivescovo per sollecitare l'approvazione delle Regole. Alla fine del documento appaiono tra le altre le firme autografe di due «Coadiutori», quella appunto di Rossi Giuseppe e quella di un altro laico, chiamato Gaia Giuseppe. In occasione della prima emissione comunitaria dei voti, il 14 maggio 1862, Rossi mancava all'appello (egli emetterà i voti soltanto due anni dopo), ma del gruppo dei ventidue facevano parte due laici, tra loro molto dissimili per cultura e mansioni. Il primo, Gaia, già menzionato, sarebbe stato per vari anni cuoco all'Oratorio. Il secondo, il cavaliere Federico Oreglia di S. Stefano, era un personaggio dell'aristocrazia torinese. Dopo aver avuto, dice don Ceria, «varie avventure di vita galante», si lasciò convincere, nel 1860, a fare un ritiro a S. Ignazio. Là,

don Bosco gl'ispirò un cambiamento di vita che doveva condurlo a diventare Salesiano laico. Nella ricerca delle vocazioni di Coadiutori, don Bosco usò naturalmente grande prudenza e discrezione. Per molto tempo evitò di pronunciare e di spiegare questa parola dinanzi agli alunni. Se ne parlava, lo faceva indirettamente, come già aveva fatto per i religiosi sacerdoti. Soltanto nel 1876, a quanto pare, egli oserà trattare pubblicamente l'argomento. Approfittando dell'entusiasmo che seguì la partenza dei primi missionari per l'America del sud, egli spiegò ai giovani che i laici, che lavoravano in nel gruppo di don Cagliero, meritavano quanto i sacerdoti il titolo di missionari. Il 19 marzo di quello stesso anno, durante una conferenza a cui partecipavano tra gli altri un gruppo di artigiani più grandi, egli dichiarò che data l'immensità del lavoro, il sacerdote aveva bisogno di essere «coadiuvato» e che tutti, studenti e artigiani, potevano essere «veri operai evangelici». E il 31 marzo, in una «buona notte» riservata agli artigiani, indicò in che cosa consistesse la vocazione particolare dei religiosi laici e come questa vocazione potesse svilupparsi nella Società salesiana. In termini volutamente molto semplici, espose ai suoi ascoltatori che la nuova Congregazione era fatta «non solamente per i preti o per gli studenti, ma ancora per gli artigiani», che essa era «una radunanza di preti, chierici, laici, specialmente artigiani, i quali desiderano di unirsi insieme, cercando così di farsi del bene tra loro e anche di fare del bene agli altri». Aggiunse poi con il suo tipico modo concreto di parlare: «Notate eziandio che tra i soci della Congregazione non vi è distinzione alcuna; sono trattati tutti allo stesso modo, siano artigiani, siano chierici, siano preti; noi ci consideriamo tutti come fratelli e la minestra che mangio io l'hanno anche gli altri e la stessa pietanza, lo stesso vino che serve per don Bosco, per don Lazzero, per don Chiala, vostro direttore, si dà a chiunque faccia parte della Congregazione». Non mancò nemmeno di esaltare l'attività spiegata in America dai quattro coadiutori Gioia, Scavini, Belmonte e Molinari, che erano stati loro compagni di laboratorio e che erano diventati laggiù persone importanti. Queste spiegazioni date con prudenza furono sufficienti a vincere le prevenzioni contro i frati, prevenzioni tanto più tenaci in quanto questa volta si trattava di laici? Leggiamo la risposta nelle statistiche. Benché meno eloquenti che per i Salesiani chierici, esse rivelano tuttavia

una netta parabola ascendente: 2 Coadiutori nel 1860, 23 nel 1870 (mentre i sacerdoti erano 26). Tra il 1870 e il 1880, passano a 182 tra professi e novizi, il che rappresentava il 33 per cento dei soci, punta massima da loro raggiunta, e a 284 alla morte di don Bosco.

Provenienza.

Molte di queste vocazioni provenivano dall'ambiente degli artigiani dell'Oratorio. I giovani si decidevano ad entrare nella Congregazione perché don Bosco ne faceva loro la proposta e perché vedevano diversi Coadiutori vivere sotto i loro occhi. La maggior parte di loro apparteneva a famiglie rurali e urbane attaccate alla pratica religiosa. Ma le vocazioni giungevano pure dall'esterno. Il caso di Federico Oreglia dimostra che fu così fin dall'inizio. Giuseppe Rossi veniva dalla Lombardia e fu ammesso dopo due mesi all'Oratorio. La fama di don Bosco, la diffusione dei suoi collegi e della sua stampa attiravano verso di lui giovani e perfino adulti di una certa età. Nel gennaio 1880, in un, periodo in cui le nuove fondazioni esigevano un personale sempre più i numeroso, egli spedì a vari parroci una circolare, in cui chiedeva loro di dirigere verso l'Oratorio giovani dai venti ai trentacinque anni desiderosi di «abbandonare il mondo», a condizione che fossero «disposti ad occuparsi in qualunque lavoro». Si conoscono alcuni casi di Salesiani che hanno esitato tra la vocazione di religioso sacerdote e quella di religioso laico. Alcuni diventarono Coadiutori dopo aver pensato al sacerdozio. Fu il caso di Giuseppe Buzzetti: messo a studiare latino, aveva indossato l'abito ecclesiastico nel 1851, ma un incidente che doveva costargli l'indice della mano sinistra gli impedì di proseguire fino al sacerdozio. Egli diventò ufficialmente Coadiutore solo nel 1877. Altri seguirono il cammino inverso. Don Angelo Lago, che sarà poi segretario particolare di don Rua, era stato Coadiutore. In occasione del primo Capitolo generale, si discusse parecchio dell'opportunità di questo procedimento. Venne fatto notare che le altre congregazioni erano ostili a questi cambiamenti. Don Bosco, da parte sua, era piuttosto favorevole, purché il soggetto possedesse la «moralità» e Inattitudine» richieste dal sacerdozio. La differenza di provenienza e di capacità creava naturalmente qual

che difficoltà nelle file dei Coadiutori. Era umano che quelli tra di loro che possedevano conoscenze od una professione più «elevate» trovassero difficile fondersi con gli altri, e viceversa.

Mansioni.

Le mansioni dei primi Coadiutori, come la loro origine e le loro capacità, erano molto varie. Un buon numero era impegnato nei laboratori e nella direzione degli artigiani. Il cavaliere Oreglia di S. Stefano fu messo a capo della tipografia e della libreria. Don Bosco lo mandava anche fuori a sbrigare pratiche di carattere amministrativo o contenzioso, e lo incaricò delle lotterie. Inoltre egli faceva da legame fra don Bosco e l'aristocrazia torinese, fiorentina e romana. Altri invece vigilavano sulla disciplina dei laboratori diretti da capi esterni e si preoccupavano che nulla mancasse. Era il caso di Giuseppe Rossi, faccendiere sui mercati e nelle botteghe, prima di diventare «provveditore generale» della Congregazione in Italia e all'estero. A Giuseppe Buzzetti don Bosco affidò la responsabilità dei laboratori. Andrea Pelazza diventò il capo della tipografia, Giuseppe Gambino quello della libreria. Pietro Cenci e Francesco Borghi erano maestri dei sarti. Non tutti erano necessariamente addetti ad un settore professionale determinato. Uno dei più popolari, Marcello Rossi, fu portinaio per quarantotto anni. Luigi Falco, Francesco Mascheroni e Giuseppe Ruffato erano cuochi. Don Bosco affermava sorridendo che per il buon andamento di una casa salesiana, era necessario che almeno tre persone fossero all'altezza del loro compito: il direttore, il portinaio e il cuoco. Sagrestani furono Domenico Palestrino e Antonio Lanteri, mentre Cipriano Audisio fu guardarobiere dell'Oratorio per tutta la vita. Giuseppe Dogliani, che aveva cominciato come falegname, diventò famoso come maestro e compositore di musica. Alcuni facevano un po' di tutto, come Pietro Enria, che era, di volta in volta, fabbro, magazziniere, maestro di musica e incaricato del teatro, cuoco, pittore, animatore delle passeggiate autunnali, insomma un vero factotum, tanto che don Bonetti scherzando gli disse un giorno:

«Tu sei una persona di tanta importanza, che spesso non solo sei utile, ma anche necessario per noi». Fu Enria a servire da infermiere a don Bosco prima che morisse. Anche Luigi Nasi fu infermiere e provveditore, cuoco e barbiere e in seguito applicato ai lavori di campagna. Camillo Quirino fece il campanaro della chiesa di Maria Ausiliatrice e il correttore della tipografia. Ma le mansioni dei primi coadiutori di don Bosco non si limitavano alle loro occupazioni strettamente professionali. Il portinaio Marcello Rossi, per esempio, la domenica si occupava di una classe di catechismo all'oratorio festivo. Oltre al lavoro ordinario, Giuseppe Buzzetti prestava la sua opera per l'assistenza e il catechismo. Il guardarobiere Alessio Murra s'impegnava presso i ragazzi poveri dell'Oratorio. Vi era pure qualche eccentrico come Giovanni Garbellone, che animava le masse giovanili con i suoi talenti di «gonfianuvoli».

I Coadiutori nella Società salesiana.

Quando si trattano le questioni di principio concernenti il posto dei laici nella Congregazione salesiana, non si può fare a meno di essere un po' sorpresi. «La figura del coadiutore - scrive Pietro Braido - quale appare a noi oggi dopo una storia secolare e una progressiva chiarificazione dottrinale, non sorge di colpo come una "creazione" tutta nuova ed originale, ma emerge gradualmente, tra oscillazioni e incertezze». Ci si meraviglia quindi nel costatare che il termine «coadiutore» per un dato tempo servirà ancora ad indicare sia i Salesiani laici sia le persone di servizio. Nel 1867, un manoscritto del regolamento per la casa annessa dell'Oratorio dice testualmente: «I coadiutori sono tre: cuoco, cameriere, portinaio». L'ambiguità nei termini doveva un poco rispecchiarsi nella realtà, se è vero che periodicamente alcuni coadiutori si lamentavano di essere trattati da «servi». Ma non meno significative sono le reazioni periodiche di don Bosco contro un deprezzamento possibile dell'elemento laico all'internò della Congregazione. Queste reazioni sono diventate sempre più precise e circostanziate verso la fine della sua vita. Per quanto ci è dato di

sapere, le messe a punto più chiare avvennero in due occasioni principali: in una conferenza fatta ai novizi di S. Benigno nel 1883 e in un intervento durante il Capitolo generale del 1886. È là, a quanto pare, che bisogna cercare il pensiero definitivo di don Bosco. Il discorso del 1883, stimato classico sull'argomento, insiste fortemente sulla «dignità» del Coadiutore, senza peraltro preoccuparsi di definizioni precise e ancor meno giuridiche: «Voi adunque siete radunati qui - disse don Bosco rivolgendosi ai novizi artigiani - ad imparare l'arte e ammaestrarvi nella religione e pietà. Perché? Perché io ho bisogno di aiutanti. Vi sono delle cose che i preti e i chierici non possono fare e le farete voi. Io ho bisogno di poter prendere qualcuno di voi e mandarvi in una tipografia e dirvi: tu pensaci e falla andar avanti bene; mandarne un altro in una libreria e dirgli: tu dirigi che tutto riesca bene; mandarne uno in una casa e dirgli: tu avrai cura che quel laboratorio o quei laboratori camminino con ordine, non manchi nulla, provveda quanto occorre perché i lavori riescano come devono riuscire. In altre parole, voi non dovete essere chi lavora direttamente o affatica, ma bensì chi dirige. Voi dovete essere come padroni sugli altri operai, non come servi. Tutto però con regola e nei limiti necessari; ma tutto dovete fare voi alla direzione, come padroni voi stessi delle cose dei laboratorii. Questa è l'idea del Coadiutore salesiano. Io ho tanto bisogno di avere molti che mi vengano ad aiutare in questo modo! Sono perciò contento che abbiate abiti adattati e puliti; che abbiate letti e celle convenienti, perché non dovete essere servi ma padroni, non sudditi, ma superiori». In queste espressioni, si percepisce chiaramente la volontà di reagire alla tentazione certo facile di considerare i Coadiutori come Salesiani di second'ordine. Infatti, se questa tentazione doveva essere forte per le persone esterne, noi sappiamo che anche alcuni confratelli sacerdoti ne sono stati vittime. In occasione del terzo Capitolo generale nel 1883, vennero fatte le seguenti proposte: «Bisogna i Coadiutori tenerli bassi, formar per essi una categoria distinta, ecc.». Don Bosco, visibilmente accalorato, protestò: «No, no, no: i confratelli Coadiutori sono come tutti gli altri». Ancora nel settembre 1884, don Rua propose di creare due categorie distinte. A suo avviso, non era conveniente che «un avvocato, un

medico, un farmacista, un professore dovesse trovarsi a fianco di un bonomo qualunque». Don Bosco ricusò categoricamente: «Non pos-so ammettere due classi di Coadiutori», aggiungendo pero che gli individui rozzi ed un po' sempliciotti non avrebbero potuto far parte della Congregazione. Ritornando alla carica, don Rua domandò se non si poteva istituire una classe simile a quella dei terziari tra i Francescani, ma non riuscì a fargli mutare parere. Durante il Capitolo generale del 1886, don Bosco trovò delle formule abbastanza felici per precisare l'apporto specifico dei laici e quindi dei Coadiutori: «Ai nostri tempi più che in ogni altro le opere cattoliche e tra queste la nostra Congregazione possono dai laici avere efficacissimo aiuto; che anzi in certe occasioni possono fare maggiormente e più liberamente il bene i laici, che non i sacerdoti». La tradizione salesiana posteriore ritornerà spesso su queste affermazioni per commentarle e per definire meglio il posto e il ruolo dei Coadiutori nella Società salesiana, l'uguaglianza e la complementarità di tutti i religiosi nella stessa Congregazione.

Un educatore e un apostolo.

Nel leggere alcuni interventi del Fondatore, saremmo indotti a credere che egli chiedesse loro unicamente una collaborazione materiale nella conduzione degli istituti. La lettera del 1880 ai parroci, per esempio, non parla di un eventuale impegno apostolico o educativo dei candidati alla vita salesiana. Egli cercava soltanto uomini pronti «a quella vita di sacrificio, quale si conviene ad un religioso», disposti a rendersi utili «nella campagna, nell'orto, in cucina, in panetteria, tener refettori, far la pulizia della casa; e se sono abbastanza istruiti saranno messi negli uffici in qualità di segretari. Quando poi fossero addestrati in un'arte o mestiere di quei che esercitiamo nei nostri Istituti, potrebbero continuare la loro arte nei rispettivi laboratori». Ma, come diceva don Ceria, don Bosco si può spiegare soltanto con don Bosco, il quale voleva che i Coadiutori diventassero «veri operai

evangelici». La loro presenza in una casa, tra i giovani, non può mai essere una presenza puramente «arnministrativa». La cosa era talmente ovvia che non si era minimamente preoccupato di insistervi formalmente. Tuttavia, il Regolamento per gli oratori, discusso durante il terzo (1883) e il quarto (1885) Capitolo generale, metteva in risalto per incidenza il compito apostolico dei coadiutori in questo genere d'istituzioni: «Tutti i soci Salesiani così ecclesiastici come laici si stimino fortunati di prestarvi l'opera loro, persuadendosi essere questo un apostolato di somma importanza». Gli esempi più sopra citati di Coadiutori catechisti confermano che questo apostolato era esercitato da uomini già impegnati nelle varie mansioni materiali. Le intuizioni del Fondatore concernenti la missione apostolica e educativa del Coadiutore erano destinate poi ad essere esplicitate e sviluppate.

Un religioso.

Il Salesiano laico è un religioso nel senso pieno della parola. Don Bosco, dirà più tardi don Rinaldi, ha voluto fare di lui «un religioso completo, anche se non rivestito della dignità sacerdotale, perché la perfezione evangelica non è monopolio di nessuna dignità». Questa qualità di religioso imponeva particolari esigenze. «In ogni luogo e circostanza - raccomandava il quarto Capitolo generale - in casa e fuori casa, nelle parole e nelle azioni mostrino sempre di essere buoni religiosi, perché non è già l'abito che fa il religioso, ma la pratica delle religiose virtù». Si deve osservare a questo proposito che don

Bosco voleva che il loro abito non si distinguesse da quello delle persone ordinarie per l'esempio che potevano dare e per facilitare loro i contatti con il mondo. Don Ceria, autore dei Profili di trentatre coadiutori salesiani, parlava con ammirazione di quella «bella schiera di uomini, che quanto all'esteriore non differivano punto dai secolari, ma che edificavano chiunque li vedesse con la dignità del contegno e con una religiosità semplice, disinvolta e illuminata». Poiché erano religiosi, don Bosco li seguiva e li incoraggiava nella loro vocazione. Li sosteneva nelle difficoltà. Bartolomeo Scavini, stanco della vita di missionario in America e pronto ad abbandonare la Congregazione, si ravvide dopo aver ricevuto un breve biglietto scritto di suo pugno. Un altro, chiamato Rezzaghi, aveva abbandonato la casa in cui si trovava. Quando decise di ritornare dopo qualche tempo di vita errante, don Bosco lo accolse di nuovo paternamente. Senza pretendere di fare di don Bosco un precursore delle future concezioni sull'apostolato dei laici, non abbiamo difficoltà a riconoscere che le sue vedute sui religiosi laici erano equilibrate e adatte ad una società civile ed ecclesiastica in via di trasformazione e di sviluppo.

Capitolo X.

LE COSTITUZIONI SALESIANE FINO AL 1874.

La strada percorsa da don Bosco, dalla prima redazione delle Costituzioni verso il 1855 fino alla loro definitiva approvazione nel 1874, ricalca quella che dovette seguire per reclutare i primi Salesiani e fonda* re la Congregazione. Fu cioè lunga e difficile, causando un lavoro e delle preoccupazioni che si prolungarono per circa vent'anni. Ricerche, studi, redazioni minuziose del testo, modifiche continue volute dall'esperienza e dall'autorità ecclesiastica, brutti tiri degli oppositori, tutto questo sarebbe stato sufficiente a dissuadere più d'uno dall'accingersi ad un'opera simile e dal tentare di condurla in porto felicemente. Egli stesso ha confessato però che, se avesse saputo prima ciò che gli sarebbe costato, forse il coraggio gli sarebbe venuto meno.

Preparazione.

Il punto di partenza è forse da collocare nel 1855, l'anno della prima professione privata di Michele Rua e l'anno della legge sulla soppressione dei conventi. Secondo don Ceria, don Bosco avrebbe cominciato allora a tracciare un primo abbozzo delle regole di una futura Congregazione. Per realizzare il progetto, egli poteva attingere dalla propria esperienza di direttore di opere giovanili, per le quali aveva già redatto un

regolamento dell'Oratorio e un regolamento della casa annessa all'Oratorio. Di fatto, un paragone tra questi testi e le future Costituzioni dimostra parecchi contatti, soprattutto a livello di terminologia e di spiritualità. Poi, egli s'informava e chiedeva consiglio, facendo il suo «apprendistato religioso». Nella storia della Chiesa cercava ciò che riguardava gli ordini religiosi, la loro nascita, forma ed evoluzione. Tra le congregazioni sorte a partire dal secolo XVI, il suo interesse andava specialmente verso i Gesuiti di sant'Ignazio di Loyola, i Preti della Missione (o Lazzaristi) di san Vincenzo de' Paoli, e i Redentoristi di sant'Alfonso de Liguori. Ma d'altra parte, egli si documentava anche con cura sulle congregazioni contemporanee come l'Istituto della Carità, fondato dall'abate Rosmini, gli Oblati di Maria Vergine del padre Lanteri, le Scuole di Carità fondate a Venezia dai fratelli Cavanis, e la Società di Maria del padre Colin. Nel 1857, l'incontro avuto con il ministro Rattazzi lo convinse che, senza toccare l'essenza della vita religiosa, era necessario adattare questa alle nuove condizioni della Chiesa nella società. La legge di soppressione dei conventi, applicata drasticamente dopo il 1855, s'incaricava di ricordargli questa condizione indispensabile. Evidentemente, bisognava tener conto dei mutamenti avvenuti in Piemonte e cercare d'inserire in qualche modo la nuova Congregazione nel contesto del tempo, dominato dal liberalismo anticlericale. In questa prospettiva, vedremo il fondatore dei Salesiani difendere mordicus lo statuto civile dei suoi religiosi, che dovevano essere considerati cittadini come tutti gli altri di fronte allo Stato. Lo vedremo inoltre insistere sul carattere di beneficenza della sua Società, in modo da sfuggire alla legge di soppressione. Nell'anno 1858, l'udienza avuta con Pio IX si rivelò decisiva. Il Papa lo stimolò fortemente ad attuare l'idea di una Congregazione a voti semplici, che non desse all'occhio ai detrattori dei frati e ai soppressori

di conventi. Il socio della nuova Congregazione doveva quindi essere considerato un vero religioso nella Chiesa, e nello stesso tempo un libero cittadino di fronte allo Stato, cioè, secondo l'ideale liberale del tempo, un proprietario che disponeva liberamente dei propri beni.

Il testo più antico delle Regole (1858).

Il manoscritto più antico delle Regole o Costituzioni che possediamo è una copia dovuta alla penna di Michele Rua. Don Ceria la chiamava la redazione «romana» perché risaliva probabilmente all'epoca del primo viaggio a Roma (1858). Tuttavia, non si può affermare che Pio IX l'abbia avuto tra le mani o che l'abbia corretto di propria mano. Intitolato semplicemente «Congregazione di S. Francesco di Sales» e preceduto da una piccola introduzione sul servizio evangelico della gioventù, questo primo regolamento contava soltanto 58 articoli, divisi in nove brevi capitoli: «Origine di questa Congregazione», «Scopo di questa Congregazione», «Forma della Congregazione», «Del voto di obbedienza», «Del voto di povertà», «Del voto di castità», «Governo interno della Congregazione», «Degli altri superiori», e in fine «Accettazione». Il capitolo primo, di natura storica, faceva risalire l'origine della Congregazione all'anno 1841 e sottolineava il fatto che «fin dall'anno 1844 alcuni ecclesiastici si radunarono a formare una specie di Congregazione aiutandosi a vicenda e coll'esempio e coll'istruzione». Le regole non comportavano nulla di apertamente «monastico», né apparentemente di complicato. La Congregazione auspicata sarebbe composta di ecclesiastici e di laici, uniti dai voti, desiderosi di consacrarsi al bene della gioventù povera, e di «sostenere la religione cattolica» nei ceti popolari «colla voce e cogli scritti». Niente che potesse urtare un gover

no, anche ostile alle congregazioni tradizionali: i Salesiani sarebbero cittadini come gli altri. Infatti, veniva stipulato che «ognuno nell'entrare in Congregazione non perderà il diritto civile anche dopo fatti i voti, perciò conserva la proprietà delle cose sue», ma naturalmente, «il frutto di tali beni per tutto il tempo che rimarrà in Congregazione, deve cedersi o a favore della Congregazione o dei propri parenti, o di qualche altra persona». La spiritualità che emergeva da quel primo testo costituzionale era semplice e radicata nel Vangelo. I soci che volevano unirsi in Congregazione erano motivati innanzi tutto dall'imitazione di Cristo, il «divin Salvatore» che «cominciò fare ed insegnare». Poi, la loro missione consisteva nell'esercizio della virtù cristiana della carità, di fronte all'urgenza di rinnovare la società rivolgendosi ai giovani, specialmente più poveri, e al «basso popolo».

Le Regole inviate all'arcivescovo (1860).

Mentre il nucleo dei primi Salesiani ingrossava di mese in mese, dopo la nascita ufficiale della Congregazione nel dicembre del 1859, don Bosco ritoccava il testo primitivo per farlo approvare, prima di tutto dall'autorità diocesana. Nel giugno del 1860, lo mandò a mons. Fransoni, arcivescovo di Torino, in esilio a Lione, chiedendo «l'approvazione delle Regole della Società di S. Francesco di Sales». Nella lettera di petizione, sottoscritta da lui insieme a venticinque soci, di cui due «coadiutori», gli chiedeva di «cangiare, togliere, aggiungere, correggere» quanto credesse meglio nel Signore. Rispetto alla redazione precedente, il testo appare arricchito da quattro titoli: «Pratiche di pietà», «Abito», «Esterni» e «Formula della

professione dei voti». Al posto del termine «Congregazione» era subentrato quello di «Società». I 58 articoli iniziali erano diventati 87, senza contare i due primi capitoli e la formula finale della professione. Nel capitolo dedicato «ai membri esterni» della Società, veniva specificato che «qualunque persona anche vivendo nel secolo, nella propria casa, in seno alla propria famiglia può appartenere alla nostra Società». Mons. Fransoni rispose che era rimasto piuttosto soddisfatto del «progetto di regolamento per l'opera di D. Bosco» sottopostogli. In seguito, fece soltanto qualche piccola osservazione, ma con il passare del tempo, divenne più critico, probabilmente sotto l'impressione delle reazioni dei suoi rappresentanti a Torino, e soprattutto del padre Marcantonio Durando, superiore dei Preti della Missione, incaricato da lui per esaminarlo. Dopo la morte dell'arcivescovo nel 1862, nessuna approvazione era pervenuta dalla curia diocesana. Soltanto l'11 febbraio del 1864, l'amministratore della sede vacante di Torino scrisse, ma in termini molto generici, la lettera commendatizia necessaria per inoltrare a Roma la richiesta di approvazione pontificia.

Le Costituzioni inviate a Roma (1864).

Immediatamente, tutta la pratica (l'ultimo testo delle Costituzioni e le lettere commendatizie di alcuni vescovi) fu trasmessa a Roma tramite una persona di fiducia. Prevedendo qualche difficoltà, don Bosco vi aveva allegato un foglio di «cose da notarsi» che miravano a dissipare dubbi e a chiarire alcuni punti particolari. In particolare, voleva giustificare il fatto che non si parlava esplicitamente del Sommo Pontefice per motivo di prudenza e anche spiegare le ragioni per cui si chiedeva la piena giurisdizione del Superiore sui membri della Società. Una rapida lettura delle Costituzioni inviate a Roma nel 1864 mette

in luce nuovi e importanti sviluppi e modifiche rispetto alla redazione precedente. I capitoli erano passati da 13 a 17 e gli articoli da 87 alla cifra di 107. Il capitolo sul governo interno della Società è stato diviso in tre: «Governo religioso della Società» (cap. 8), «Governo interno della Società» (cap. 9) e «Elezione del Rettor maggiore» (cap. 10). Un nuovo capitolo, intitolato «Delle case particolari», stava ad attestare che la Congregazione aveva cominciato ad aprire le prime case fuori di Torino. Il 23 luglio, come abbiamo visto, la S. Congregazione dei Vescovi e Regolari emanò il decretum laudis a favore della Società salesiana, ma al decreto di lode vennero allegate tredici Animadversiones, ossia osservazioni critiche del pro-segretario Stanislao Svegliati, molto importanti per la futura evoluzione delle Costituzioni. Si chiedeva tra l'altro di ridurre il mandato del Rettor maggiore a dodici anni, di riservare alcuni procedimenti alla Santa Sede, di aumentare il tempo dedicato alla preghiera, di cancellare l'affiliazione di persone esterne, e di tradurre le Regole in latino. Ma le due osservazioni più pungenti riguardavano la personalità civile dei Salesiani e la loro ammissione alle ordinazioni. A proposito di quest'ultimo punto, non si voleva concedere al Superiore della Società salesiana il permesso di rilasciare le lettere dimissorie per i membri del suo Istituto.

La prima edizione stampata in latino (1867).

Le Animadversiones spinsero don Bosco a rimaneggiare in parte il suo testo. Non fece difficoltà ad accettare alcune osservazioni, ma non potè risolversi a modificare o a sopprimere vari articoli sulle «lettere dimissorie», sui membri esterni e sullo statuto civile dei Salesiani. Una nota spiegò le sue esitazioni. In quel periodo, don Bosco consacrò la maggior parte dei propri sforzi a rivendicare per il Superiore della Congregazione da lui fondata

il diritto di dare le lettere dimissorie, cioè di presentare al vescovo i propri candidati alle sacre ordinazioni. Ma il suo intento poteva sembrare un tentativo per sottrarre la sua Società alla giurisdizione episcopale. Difficoltà quasi insormontabili si accumularono sulla sua strada. Proprio in quel periodo, si andava creando a Roma una corrente molto forte a favore della giurisdizione dei vescovi sui religiosi. A Torino, il nuovo arcivescovo, mons. Alessandro Riccardi di Netto, cadde dalle nuvole quando conobbe le intenzioni di don Bosco. Reagì immediatamente facendo sapere che d'ora in poi egli avrebbe conferito gli ordini unicamente ai seminaristi del seminario maggiore. Questo provvedimento, secondo don Ceria, «sembrò agli uomini di poca fede il principio della fine». Tuttavia l'arcivescovo non volle che «l'opera degli oratori» corresse il rischio di crollare; per questo fece in seguito una concessione per i chierici che avevano intenzione di far parte della Società di S. Francesco di Sales. Era tempo, perché gli stessi professi s'interrogavano già sul proprio avvenire. Il fondatore continuava a moltiplicare i passi per ottenere l'approvazione definitiva dell'opera. Nel 1867, in ossequio alle Animadversiones, faceva tradurre e stampare per la prima volta le Costituzioni in latino, raccoglieva un nuovo dossier di raccomandazioni episcopali e decise di partire per Roma per tentarvi l'impossibile. Si mise in viaggio l'8 gennaio 1869. Molti gli avevano sconsigliato il viaggio. Passo inutile, gli dicevano. Ma don Bosco, doveva scrivere don Rua nella sua cronaca, «confidato in Maria Ausiliatrice, rispettando i loro consigli, non tralasciò di fare quanto parevagli dal Signore suggerito». Giunto a Roma, riuscì quasi insperatamente a capovolgere la situazione, ottenendo l'appoggio degli «avversari». Il primo marzo 1869, un decreto della Congregazione dei Vescovi e Regolari approvava ufficialmente la Società salesiana. Per l'approvazione delle Costituzioni, però, bisognava ancora aspettare. Contemporaneamente, si dava alla questione delle dimissorie un principio di soluzione, dal momento che il Rettor maggiore otteneva l'autorizzazione di fare ordinare i seminari

sti entrati nelle case salesiane prima dei quattordici anni. Era già molto. Quando don Bosco riapparve all'Oratorio, ricevette festose accoglienze.

La seconda edizione in latino (1873).

Intanto le Costituzioni continuavano ad essere oggetto di critiche e di contestazioni. Le tredici osservazioni di mons. Svegliati ritornarono a don Bosco. E nel 1871 fu promosso alla sede vescovile di Torino mons. Lorenzo Gastaldi, il quale dimostrò subito una forte coscienza della propria autorità episcopale. Nonostante i lunghi rapporti di amicizia e di collaborazione avuti con don Bosco ai primi tempi dell'Oratorio, la sua nomina coincise con l'inizio di un periodo di forti contrasti. Ai primi del 1873, don Bosco procedette ad una nuova edizione latina delle Regole da presentare alle autorità romane. Partì di nuovo per Roma il 18 febbraio 1873, dove apprese che era stato preceduto da una lettera di mons. Gastaldi. Come il suo predecessore, questi era fermamente deciso a tenere la nuova Congregazione nella sua diocesi e sotto la sua autorità. Uno dei punti più discussi concerneva gli studi e il noviziato. Mons. Gastaldi rimproverava continuamente i Salesiani della mancanza di serietà in questo campo e chiedeva inoltre un noviziato vero e proprio, regolarmente costituito e segregato. Questa volta, l'esame delle Regole fu affidato ad un nuovo consultore, il domenicano Raimondo Bianchi. Un nuovo elenco di 38 osservazioni uscirà il 9 maggio 1873 dal raffronto, da lui stabilito, tra le Regole del 1873, le osservazioni Svegliati, i chiarimenti di don Bosco e le proteste dell'arcivescovo di Torino. Tra i punti più contestati, venivano elencati: l'omissione delle tredici Animadversiones del 1864, il problema del diritto civile dei Salesiani, l'assenza di noviziato in piena regola e la debolezza degli studi ecclesiastici. Queste osservazioni furono trasmesse a don Bosco e ridotte in 28 punti dal nuovo segretario della S. Congregazione, mons. Vitelleschi. Don Bosco rispose puntualmente con le «Osservazioni sulle Costituzioni», in cui si difendeva al meglio,

appoggiandosi sulle parole del Papa, specialmente quando si trattava dello stato civile dei Salesiani e della loro formazione. Inoltre compose e fece stampare a Roma un «Cenno isterico sulla Congregazione», ancor una volta per informare sulla storia e sulla fisionomia particolare della Società salesiana.

Le Costituzioni definitivamente approvate (1874).

Il 30 dicembre 1873, don Bosco partì ancor una volta per Roma con la speranza di strappare l'approvazione. In ossequio alle osservazioni del padre Bianchi, rivide ancor una volta il testo delle Costituzioni, di cui fece stampare una nuova edizione latina, pubblicata a Roma all'inizio del 1874. Due titoli nuovi vi erano destinati ad appianare le richieste: uno sul maestro dei novizi e sulla loro formazione, e un altro sugli studi nella Società. I primi capitoli d'introduzione spirituale e storica erano diventati un semplice prooemium, mentre quello sui membri esterni vi figurava soltanto come un'appendice alla fine. Tuttavia, venivano ancora ribaditi da don Bosco due punti per lui irrinunciabili: la proprietà di beni da parte dei soci salesiani e la possibilità per il Rettor maggiore di concedere le lettere dimissorie. Quando mons. Vitelleschi prese conoscenza dell'ultimo progetto stampato, egli consigliò probabilmente a don Bosco di adeguarlo alle osservazioni ricevute. Di fatto, uscì poco dopo un'altra versione delle Costituzioni, con la soppressione dell'appendice e alcune modifiche stilistiche. Intanto, veniva preparata la Positio, cioè l'insieme della documentazione necessaria per ottenere l'approvazione. Don Bosco faceva il giro dei cardinali e dei monsignori per guadagnarne il più possibile alla sua causa. Una commissione di quattro cardinali fu nominata dal Papa per pronunciarsi sulla questione dell'approvazione. Avvicinandosi il

momento decisivo, i Salesiani di Torino s'imposero un triduo di digiuno ed i ragazzi pregavano per il successo finale. I quattro cardinali si riunirono una prima volta il 24 marzo. Riunione favorevole, ma non decisiva. Ultime varianti e aggiunte furono fatte quel giorno, in seguito alla seduta dei quattro cardinali. Una seconda ed ultima riunione doveva tenersi il 31. Giunse la riunione attesa e temuta. Le discussioni si prolungarono per quattro ore. Inizialmente, i cardinali erano favorevoli ad un'approvazione provvisoria di dieci anni, ma vista l'esplicita dichiarazione del Papa, si orientarono verso una votazione per l'approvazione definitiva. Risultato: tre cardinali favorevoli, mentre il quarto si pronunciò a favore di un'approvazione provvisoria di dieci anni. Il 3 aprile, Pio IX, venendo a sapere che mancava un voto a risolvere definitivamente il dibattito, esclamò: «Ebbene, questo ce lo metto io!» La sera di quel giorno memorabile, don Bosco ebbe un incontro con mons. Vitelleschi, il quale appena lo vide, gli disse: «Don Bosco, metta i lanternoni! Le Costituzioni della sua Congregazione definitivamente approvate e dimissorie assolute ad decennium». E don Bosco, tirato fuori un grosso confetto di zucchero candito, gli rispose sorridendo: «Prenda questa caramella!» Il giorno di Pasqua, 5 aprile, un telegramma annunziava a tutte le case della Congregazione: «Affari ottimamente terminati. Ringraziate Padrone». Chi fosse il «Padrone» che si doveva ringraziare, non era chiaro: Dio, il Papa, oppure don Bosco stesso, che aveva lottato per molti anni per giungere a questa conclusione? Per l'ultima volta, egli aveva dovuto accettare che il testo fosse ritoccato in molti punti, di cui i principali erano la soppressione del proemium storico-spirituale, il silenzio sui «diritti civili» dei Salesiani, la «normalizzazione» del noviziato e degli studi. Era il prezzo da pagare per giungere alla meta desiderata. L'8 aprile, don Bosco fu ricevuto da Pio IX, il quale gli concesse vivae vocis oraculo qualche mitigazione nell'esecuzione delle norme. Il 13 aprile 1874, fu firmato il decreto della Congregazione dei Vescovi e Re

golari, che metteva il punto finale ad una lunga serie di pratiche. E un importante Rescritto papale rinnovava il privilegio di concedere le dimissorie, ai soci perpetui, per un decennio. Quando don Bosco tornò a Torino dopo tre mesi di assenza, l'approvazione definitiva delle Costituzioni fu festeggiata con gioiosa solennità il 19 aprile. Le Costituzioni approvate furono stampate in latino nello stesso anno 1874. Don Bosco non aveva la superstizione del testo approvato. In una nota, non aveva esitato a reintrodurre la sua idea sul noviziato, ricorrendo nel caso ad una concessione orale di Pio IX. Nel 1875, le Costituzioni salesiane furono stampate in lingua italiana ad uso dei religiosi. Di nuovo si osserva che sono state ritoccate in alcuni punti, come appare tra l'altro dalla soppressione di diversi articoli del capitolo sul noviziato. Inoltre, don Bosco aveva fatto precedere il testo costituzionale da una lunga lettera «Ai Soci Salesiani», in cui si riflette la sua concezione della vita religiosa. La prima traduzione in francese sarà stampata a Torino presso la tipografia salesiana nel 1880, e quella in spagnolo nel 1882.

Evoluzione del testo delle Costituzioni.

È evidente che, dal 1858 al 1874, il contenuto delle Regole della Società di S. Francesco di Sales ha subito una notevole evoluzione, dovuta anzitutto al peso delle osservazioni provenienti dalla S. Congregazione dei Vescovi e Regolari. Infatti, le varianti che si riscontrano fino al 1864 non avevano la stessa importanza. Le aggiunte apparse tra il 1858 e il 1864 erano richieste dallo sviluppo di una Congregazione che doveva prevedere la successione del Rettor maggiore e la vita delle case particolari; a questa Congregazione inoltre, don Bosco aveva pensato di poter aggiungere dei membri esterni non tenuti alla vita comune. Ma a partire dal 1864, sotto la spinta delle Animadversiones di mons. Svegliati e delle osservazioni di padre Bianchi, appaiono modifiche di rilievo, rese evidenti da un confronto tra il testo del 1864 e quello del 1874. Riguardano in particolare il governo della Società, i rapporti con l'autorità gerarchica, la vita religiosa dei Salesiani e la loro formazione. La forma di governo del 1864 era patriarcale, mentre nel 1874, i poteri del Rettor maggiore e del Capitolo della casa madre erano diminuiti a favore di Roma, del vescovo locale, del Capitolo superiore, in un primo tempo inesistente, e del Capitolo generale. Il Rettore doveva essere eletto per dodici anni e non più a vita. Il Capitolo generale si sarebbe riunito ogni tre anni. Roma si riservava il diritto di sciogliere dai voti, anche da quelli temporanei. Il Vescovo designava i confessori dei Salesiani. I loro rendiconti al Superiore non si estendevano più a tutti i «segreti del cuore». Per quanto concerne il governo della Congregazione, si può affermare che la Santa Sede, riducendo l'autorità del Rettore, aveva imposto una certa forma di decentramento. Il tenore di vita dei membri della Società salesiana invece non aveva subito grandi modifiche, però si avvicinava un po' più al tipo tradizionale. L'affermazione che «il Salesiano non perde i diritti civili» era scomparsa. I religiosi non dovevano più essere almeno due per casa, ma almeno sei. Quanto alle pratiche di pietà, esse non erano veramente aumentate, nonostante un'osservazione del documento Svegliati. La durata degli esercizi spirituali annuali non era molto precisa: sarebbero stati di dieci o almeno di sei giorni. La cosa più importante era la soppressione dei membri esterni: ogni salesiano sarebbe stato tenuto alla vita comune. I «Cooperatori salesiani», creati nel 1876, prenderanno il

posto di questi «Salesiani nel mondo», che don Bosco avrebbe voluto istituire. Infine, la formazione dei Salesiani nel 1874 si avvicinava di più alla formazione tradizionale dei religiosi. Il noviziato «ascetico», benché non sarebbe durato due anni come chiedeva una delle osservazioni, doveva ormai essere organizzato in maniera autonoma. Gli studenti ecclesiastici, poi, non avrebbero più potuto dedicarsi ad occupazioni estranee, tranne, diceva un inciso, in caso di necessità. Da queste brevi annotazioni sull'evoluzione delle Costituzioni salesiane, risulta evidente che l'intervento di Roma ha avuto come effetto di smussare alcuni tra gli spigoli più originali del testo primitivo. La Società salesiana, con i tre voti semplici di povertà, castità e obbedienza, con l'obbligo della vita comune, stava per inserirsi negli organismi ecclesiastici come una Congregazione clericale esente, sul modello classico delle congregazioni dell'epoca. In molti campi don Bosco aveva piuttosto subito quest'evoluzione. Ma poiché Roma aveva dato il suo consenso, egli era convinto che l'opera cui aveva dato mano era fatta per durare.

Capitolo XI.

L'APOSTOLATO IN ITALIA DAL 1863 AL 1875.

Mentre moltiplicava le pratiche per ottenere l'approvazione della Società salesiana e delle sue Costituzioni, don Bosco proseguiva ed intensificava la sua azione, innanzi tutto in Piemonte, prima di estenderla ad altre regioni d'Italia. Ora, in quel tempo il paese viveva avvenimenti decisivi. Il Piemonte di Vittorio Emanuele II e di Cavour aveva preso in mano la causa dell'unità nazionale e si accingeva a portarla a compimento. Dopo i successi franco-sardi del 1859 a Magenta e a Solferino contro l'Austria, seguiti dalla riunione della Lombardia con il Piemonte, altre regioni d'ItaRa insorgevano votando la loro annessione allo Stato sardo. Nel 1860, la famosa spedizione dei Mille, guidata da Giuseppe Garibaldi nel sud della penisola, si concluse con l'abbattimento del regno delle Due Sicilie e la sua annessione al Piemonte. Quando, nel 1861, il primo parlamento italiano proclamò Vittorio Emanuele II re d'Italia, al raggiungimento dell'unità non mancava più che il Veneto, che restava all'Austria, e Roma, protetta dalle truppe di Napoleone III. Nel 1865 la capitale del Regno fu trasferita da Torino a Firenze. L'Italia riceverà il Veneto nel 1866, grazie alla vittoria della Prussia sull'Austria, ma bisognerà attendere il 1870 perché l'esercito italiano, approfittando della guerra franco-tedesca, occupi Roma, che diventerà così la capitale dell'Italia unificata. Dietro questi avvenimenti, è facile indovinare il dramma di coscienza dei cattolici, divisi tra la lealtà verso uno Stato diventato anticlericale per forza di cose, e il loro attaccamento alla Chiesa e al Papa. Per quanto fosse un fautore convinto del potere temporale dei papi, don Bosco non propugnava la lotta contro il nuovo Stato italiano. Anzi, aveva la fiducia di alcuni ministri liberali, così che egli diventò spesso un me

diatore fra Santa Sede e Governo. Quest'atteggiamento realistico, non privo di diplomazia, gli permise di continuare ad andare avanti nonostante tutti gli ostacoli. Negli anni che vanno dal 1863 al 1875, la sua azione si rivelò particolarmente incisiva in tre campi: la costruzione della chiesa Maria Ausiliatrice, le prime fondazioni fuori di Torino e l'apostolato della stampa.

La chiesa Maria Ausiliatrice a Torino (1863-1868).

La costruzione di questa chiesa occupa un posto a parte nella storia salesiana. Certo, don Bosco pensava di sostituire la chiesa di S. Francesco di Sales divenuta troppo angusta. Ma nello stesso tempo desiderava erigere un monumento che fosse un santuario di diffusione del "culto mariano e un centro di coesione mistica per la sua famiglia spirituale. La sua convinzione interiore circa il significato del culto che voleva promuovere era molto forte: «La Madonna - disse - vuole che la onoriamo sotto il titolo di Maria Ausiliatrice: i tempi corrono così tristi che abbiamo proprio bisogno che la Vergine SS. ci aiuti a conservare e difendere la fede cristiana». A detta del santo - se interpretiamo bene le sue Memorie dell'Oratorio - Maria stessa gli aveva precedentemente mostrato la chiesa che doveva costruire in suo onore. Durante un sogno che risaliva all'anno 1844, la Madonna, sotto le sembianze di una pastora, gli aveva indicato a Valdocco un campo seminato da erbaggi, sul quale vide sorgere a un tratto una «stupenda ed alta chiesa». Poi «nell'interno della chiesa era una fascia bianca, in cui a caratteri cubitali era scritto: Hic domus mea, inde gloria meo. Il luogo scelto sarebbe stato proprio il posto dove i mar

tiri di Torino, Solutore, Avventore e Ottavio, avevano sacrificato la loro vita per Cristo. Don Bosco parlò esplicitamente del suo progetto una sera di dicembre del 1862 a Paolo Albera, che ne ricevette la confidenza: «La nostra chiesa (S. Francesco di Sales) è troppo piccola; non capisce tutti i giovani o pure vi stanno addossati l'uno all'altro. Quindi ne fabbricheremo un'altra più bella, più grande, che sia magnifica. Le daremo il titolo: Chiesa di Maria SS. Ausiliatrice». La decisione era presa, ma come fare? I soldi mancavano e il terreno non c'era più. Il «campo dei sogni», acquistato da don Bosco nel 1850, era stato da lui rivenduto nel 1854 per motivi facili da immaginarsi. Per fortuna, egli ne riprese il possesso nel 1863. I progetti si moltiplicarono. Il costruttore, che voleva qualche cosa di grande, si accontentò in definitiva del disegno dell'architetto Antonio Spezia. Ciò non impedì a molti di considerare temeraria l'impresa, date le strettezze di denaro. Da parte sua, il consiglio municipale di Torino sollevò difficoltà di un altro genere. Mentre approvava l'erezione di una chiesa nel quartiere di Valdocco, non gradiva assolutamente il titolo che le sarebbe stato dato. Fece conoscere che l'appellativo Maria Ausiliatrice era impopolare e inopportuno; negli uni avrebbe destato un'idea di bigottismo, per gli altri avrebbe sonato come una sfida. Don Bosco non mutò parere per questo. Si limitò a non parlarne più apertamente per qualche tempo, e potè così ottenere le necessarie autorizzazioni. Nel febbraio 1863 lanciò nel pubblico la prima circolare, esternando il suo progetto e chiedendo la cooperazione degli amici e benefattori. L'edificio, scriveva allora, sarà «scevro di ogni eleganza, ma di capacità sufficiente per accogliere i giovanetti che volessero intervenire, con bastante spazio per gli adulti del vicinato». I lavori, iniziati durante la pri

mavera seguente, sarebbero durati cinque anni. Per cominciare, si dovettero fissare delle palafitte ad una profondità molto rilevante, e questo fu causa di spese impreviste. Nel mese d'aprile 1864, in occasione della posa della prima pietra, don Bosco fece un gesto simbolico. Rivolgendosi al capo mastro Carlo Buzzetti, disse di volergli dare un «acconto» per il lavoro già compiuto e, tratto di tasca il suo portamonete, gliene versò il contenuto nelle mani: quaranta centesimi in tutto! Intanto, l'immaginazione del costruttore gli fornì una gamma vastissima di espedienti per forzare la carità pubblica. Inondò Torino e il Piemonte di lettere e di circolari, aprì sottoscrizioni, sollecitò l'aiuto dei grandi di questo mondo a Torino, Firenze, Milano, Roma e in altre città, e con l'aiuto del cavaliere Oreglia di S. Stefano, organizzò una lotteria impressionante. Le offerte affluivano, ma non sempre in quantità sufficiente. Giunse un momento in cui, per mancanza di mezzi, si pensò di rinunciare alla cupola che doveva coronare l'edificio. Se, nonostante tutto, il «povero don Bosco» riuscì a superare tutte le difficoltà, lo doveva - era sua intima persuasione - all'aiuto della Vergine Ausiliatrice, ad onore della quale innalzava quel monumento. Secondo una delle sue espressioni, era lei a fare le questue più fruttuose. D'altronde, molte persone erano convinte dell'efficacia della «Madonna di don Bosco». Si parlava di miracoli e si citava il caso del banchiere Giuseppe Cotta, che aveva riacquistato la salute dopo aver promesso alla Vergine di venire in aiuto al costruttore indebitato. In questi casi, la fiducia soprannaturale del santa si alleava ad una tranquilla audacia, unita ad un fino umorismo che non perdeva mai i suoi diritti. Così, a forza di applicare il proverbio: «Aiutati che il Ciel t'aiuta», l'apostolo di Valdocco vedeva il suo progetto in via di realizzazione. La benedizione della pietra angolare ebbe luogo il 27 aprile 1865 con una cerimonia imponente cui partecipò il principe Amedeo, figlio del re Vittorio Emanuele. Al termine dello stesso anno, l'edificio era già coperto. Il 23 settembre 1866, un'altra festa fu organizzata per il compimento della cupola. La chiesa di Maria Ausiliatrice fu finalmente consacrata il 9 giugno 1868 con feste che si prolungarono fino al 16 giugno. D'ora innanzi si festeggerà ogni anno la solennità di Maria Ausi

liatrice il 24 maggio. Già nel 1869 furono poste le basi di una «Associazione dei divoti di Maria Ausiliatrice», che contribuirà alla diffusione del suo culto.

Fondazioni salesiane in Piemonte e in Liguria (1863-1875).

Il periodo contrassegnato dalla costruzione della chiesa di Maria Ausiliatrice vide pure il lancio delle prime opere fuori Torino. Mentre la fama di don Bosco e dell'Oratorio si diffondeva in Piemonte e altrove, richieste incominciavano a giungere a Valdocco da parte di alcune autorità ecclesiastiche o civili per la direzione di piccoli seminari o di collegi. Nuovi orizzonti si aprivano allora per la giovane Congregazione, in particolare nel lavoro a favore delle vocazioni ecclesiastiche. D'altra parte don Bosco era anche un uomo che vedeva naturalmente grande, e che si sentiva investito di una missione. Tutto quindi lo spingeva a diffondersi ed a sciamare. Già nel 1860, un anno dopo la nascita della Società salesiana, si era fatto un primo esperimento a favore del piccolo seminario di Giaveno, nella diocesi di Torino, minacciato di chiusura. Non avendo ancora alcun Salesiano in grado di dirigerlo, don Bosco si rivolse ad un sacerdote suo amico, al quale aggiunse un prete, alcuni chierici e un gruppo di ragazzi dell'Oratorio. Inizialmente tutto andò bene, ma ben presto il direttore cercò di prendere le sue distanze da don Bosco e dal suo sistema educativo. In capo a due anni, don Bosco ritirava da un'istituzione che non poteva più controllare tutti i suoi chierici, di cui alcuni lasciarono la Congregazione. Dopo l'esperienza fallita di Giaveno, la prima fondazione salesiana vera e propria fuori di Torino fu attuata nel 1863 a Mirabello, nella diocesi di Casale Monferrato. Il vescovo desiderava da tempo un piccolo seminario, mentre il comune sarebbe stato fiero di possedere un collegio. Questa volta, fu costruito un edificio di tutto punto, dove i Sale

siani sarebbero stati padroni in casa. Mirabello, per di più, ricevette il fior fiore del personale salesiano: don Rua, direttore, i chierici Provera, Bonetti, Cerniti, Albera, Dalmazzo e Cuffia, con alcuni giovani insegnanti. Al ventiseienne Rua don Bosco fece pervenire «alcuni avvisi», che costituiranno più tardi una specie di codice del direttore salesiano. Tra gli alunni furono inseriti di nuovo alcuni degli elementi migliori dell'Oratorio di Torino, perché «facessero da buon lievito». Nonostante alcune difficoltà con le autorità accademiche, i Salesiani ottennero buoni risultati, anche nel suscitare vocazioni ecclesiastiche. Una cronaca riferiva in tono di elogio che don Rua a Mirabello si comportava come don Bosco a Torino. Tra le prime fondazioni salesiane, il collegio-convitto aperto a Lanzo un anno dopo Mirabello, occupa nella storia salesiana un posto del tutto particolare. Don Bosco conosceva bene la cittadina con il santuario di S. Ignazio, che era diventato sin dal 1842 il luogo dei suoi esercizi spirituali annuali. Dodici Salesiani arrivarono a Lanzo nell'ottobre 1864 in un ex convento cappuccino dove mancava tutto, mentre i ragazzi del paese lanciavano sassi all'interno. Come Mirabello, Lanzo diventò un campo sperimentale per tutte le altre case salesiane. Il primo direttore fu il ventiquattrenne don Domenico Ruffino, ben presto scomparso dopo alcuni mesi e sostituito da don Giovanni Battista Lemoyne. Nel 1868 il collegio, che all'apertura aveva accolto soltanto 28 ragazzi, ne contava già 124 interni e oltre 200 esterni. Tra il 1870 e il 1872 fu costruito un grande edificio a tre piani, che servirà anche per ospitare i confratelli durante i loro esercizi spirituali e i capitolari dei primi due Capitoli generali della Congregazione. Va segnalato anche l'acquisto nel 1865 di una piccola villa a Trofarello, nei dintorni di Torino. Tra il 1866 e il 1870 vi si fecero ogni anno i primi esercizi spirituali regolari della Società salesiana. Un predicato

re esterno dava le meditazioni, mentre don Bosco faceva personalmente le istruzioni. A Trofarello furono delineate le principali caratteristiche della spiritualità del religioso salesiano, fortemente influenzata dalle idee di sant'Alfonso de' Liguori. Dopo il collegio di Lanzo, altri municipi del Piemonte avviarono trattative con don Bosco. Nel 1869 questi accettò la proposta proveniente dal comune di Cherasco, nella provincia di Cuneo, di riaprire le scuole pubbliche nell'ex convento dei Somaschi. Il giovane don Francesia ne fu il direttore. Un anno dopo, il piccolo seminario di Mirabello, dove l'isolamento e l'insalubrità avevano fatto cadere il numero degli allievi, fu trasferito a Borgo S. Martino, vicino a Casale Monferrato, nel palazzo del marchese Scarampi. L'anno 1870 segna l'ingresso dei Salesiani in Liguria, ad Alassio. Là, don Bosco avrebbe voluto un ospizio per fanciulli poveri, ma dietro pressione pubblica fu invece dato inizio ad un «collegio-convitto municipale», il quale dopo un anno accoglieva anche le classi liceali. Don Francesco Cerniti ne fu il primo direttore. La seconda opera ligure, aperta nel 1871 a Marassi su richiesta della Conferenza di S. Vincenzo de' Paoli, fu invece un ospizio per i «figli del popolo» con alcuni piccoli laboratori. Ma per la ristrettezza dei locali, due anni dopo l'opera fu trasferita a Sampierdarena in un ex convento dei Teatini. Fu l'inizio di una casa fiorente, una piccola Valdocco alle porte di Genova, con i suoi laboratori e il suo oratorio. Il direttore, il giovane don Albera, vi rimase in carica quasi quindici anni. Sempre nel 1871, una nuova fondazione fu resa possibile sulla Riviera ligure, nella cittadina di Va- razze, grazie al trasferimento del personale di Cherasco che aveva chiuso le porte. Si trattava di nuovo di un collegio-convitto municipale, il quale in pochi anni superò il centinaio di alunni. Ritorniamo in Piemonte per segnalare l'apertura nel 1872 di un collegio a Valsalice, presso Torino, che merita un cenno particolare, per

che era l'unico nel suo genere. Un giorno dei 1864, durante una discussione in cui si trattava dell'eventuale apertura di collegi per giovani nobili, don Bosco aveva esclamato: «Questo no, non sarà mai finché vivrò io!». Poi avrebbe aggiunto: «Questa sarebbe la nostra rovina». Si comprendono quindi le sue esitazioni quando nel 1872, mons. Gastaldi lo pregò con insistenza di accettare a Valsalice (Torino) un collegio per giovani aristocratici che stava decadendo. Accettò per timore di affliggere il suo arcivescovo in un momento in cui le loro relazioni erano già molto tese. Sotto la direzione di don Dalmazzo, il collegio rifiorì al punto che il numero degli alunni raggiunse in poco tempo il centinaio.

Orientamenti generali.

Osservando questa prima ondata di fondazioni fuori dell'Oratorio di Valdocco si nota subito che alcune non ebbero seguito, anche perché situate in paesi piccoli e difficili da raggiungere. Perciò, all'inizio del decennio 1870, si delineava chiaramente la propensione di andare verso le periferie delle grandi città (come Genova), o verso i centri di provincia di medie proporzioni. Si può costatare inoltre che la gioventù educata nei collegi Salesiani proveniva da ambienti un po' più agiati. Soltanto l'ospizio iniziato a Marassi, e continuato poi a Sampierdarena, conservò la fisionomia di un ospizio per la gioventù «povera e abbandonata». Infatti, sotto la pressione liberale e nazionale, si cercava un po' ovunque un'elevazione culturale del popolo e tra i cattolici una migliore educazione cristiana. S'imponeva anche la constatazione che le nuove fondazioni, tranne l'oratorio di Sampierdarena e qualche attività parrocchiale a Cherasco, Varazze e Sampierdarena, erano collegi-convitti per interni. In un periodo, in cui il clima generale della società non offriva più condizioni sufficienti per la vita morale e religiosa dei giovani, pare che don Bosco

abbia scelto decisamente la soluzione della segregazione dalle possibili influenze cattive. D'altra parte, egli sapeva valutare realisticamente le garanzie di solidità date da questo tipo di opera e le possibilità di ricavarne buone vocazioni ecclesiastiche. Viste in funzione dell'avvenire, le prime fondazioni hanno avuto naturalmente una grande importanza, contribuendo a fissare per molto tempo un certo numero di caratteristiche e di tradizioni. D'ora innanzi, il regolamento della casa madre di Valdocco serviva di norma per tutti i collegi e gli ospizi che si aprivano. Quanto all'aspetto direttivo e amministrativo, dopo qualche esperienza negativa, come quella di Giaveno, si cercò sempre di più di rivendicare per l'autorità salesiana la massima autonomia. Per l'animazione religiosa e educativa di una «famiglia» ormai dispersa in vari luoghi, sempre più lontani dal centro, don Bosco ricorreva a due mezzi principali: le visite e la corrispondenza epistolare. Gli piaceva prendere un contatto diretto con i singoli confratelli, ma anche con i giovani delle diverse case di cui si sentiva egli stesso il «padre». Scriveva lettere non solo ai Salesiani, ma a tutti i suoi «cari figliuoli», sollecitando in qualche maniera la reciprocità. Nel 1867 cominciò a inviare ai Salesiani la sua prima lettera circolare. «Io avrei bisogno - così scriveva - di parlare ai miei amati figli con frequenza; la qual cosa non potendo fare sempre in persona procurerò di farla almeno per lettera». In questi suoi primi interventi, raccomandava ai Salesiani in particolare la fedeltà alla vocazione e alle regole, nonché l'unità di spirito e di amministrazione.

L'apostolato della stampa.

Mentre don Bosco iniziava le prime fondazioni piemontesi, egli realizzò un progetto da tempo desiderato: l'impianto a Valdocco di una tipografia, che fosse allo stesso tempo una scuola per i giovani artigiani e un centro editoriale per i suoi scritti e per quelli di altri autori. Le pratiche furono condotte alla fine del 1861, così che nel 1862 poterono

uscire i primi libretti dalla «Tipografia dell'Oratorio di S. Francesco di Sales». Infatti, la gamma di attività apostoliche di don Bosco sarebbe incompleta se si dimenticasse la stampa come mezzo di comunicazione sociale più importante del tempo. Si rimane sbalorditi dinanzi al numero e alla mole delle pubblicazioni dell'apostolo di Torino, soprattutto se si pensa che questo grande attivo mandava avanti contemporaneamente molti altri lavori. Conoscendo però il valore da lui attribuito a questa forma di apostolato, di cui san Francesco di Sales era già considerato patrono e modello, non ci meraviglieremo che per esercitarla si sia imposto un simile sovrappiù di lavoro. «La diffusione dei buoni libri - così scriverà verso la fine della sua vita - è uno dei fini principali della nostra Congregazione», assicurando che era uno dei compiti essenziali affidatigli dalla Provvidenza. La sua attività ininterrotta in questo campo non smentisce queste parole. A ventinove anni, aveva già pubblicato il suo primo libro, la vita del condiscepolo Luigi Comollo, stampata nel 1844. Poi, per più di quarant'anni la sua penna instancabile compirà un lavoro enorme. Da un conteggio degli scritti a stampa, attribuiti o attribuibili a don Bosco, se si tiene conto delle varie edizioni e traduzioni, risulta la cifra impressionante di 1.174 titoli, tra cui 403 libri e opuscoli, 565 lettere circolari, programmi, appelli, attestati, pagelline e cartelloni, e 204 articoli sul Bollettino Salesiano apparsi in varie lingue. Le caratteristiche di questa produzione sono quelle di un autore popolare: semplicità, chiarezza, carattere aneddotico, senso del concre

to. Come scrittore, don Bosco rimaneva fedele al suo ideale apostolico e educativo. Il pubblico cui si rivolgevano erano gli artigiani, i contadini e i giovani delle città e delle campagne. Componeva opere scolastiche e libri di devozione, scritti ameni e azioni sceniche, biografie e racconti edificanti, opere in difesa della religione e della Chiesa cattolica. Se la scarsità della documentazione e della cultura teologica o ancora il carattere moralizzatore di molti brani ci possono oggi urtare, si deve ammettere che l'arte del narratore ha potuto assicurare ad alcune sue opere un grandissimo successo. Basti ricordare le venti edizioni della Storia Sacra, le diciotto della Storia d'Italia e le dieci della Storia Ecclesiastica. Il record però appartiene a Il giovane provveduto (1847), che ha ottenuto una diffusione eccezionale: 118 edizioni durante la vita di don Bosco, numerose traduzioni in francese, spagnolo e portoghese, e la più alta tiratura della penisola negli ultimi trent'anni del secolo XIX.

Le iniziative editoriali.

Oltre all'attività di scrittore, non si possono trascurare le iniziative in campo editoriale. Tra le collane o pubblicazioni periodiche, le Letture cattoliche, sorte nel 1853 per iniziativa congiunta con mons. Moreno, vescovo d'Ivrea, occuparono sempre un posto a parte di primo piano. Il loro scopo era di «diffondere libri di stile semplice e di dicitura popolare» e le pubblicazioni dovevano essere «istruzioni morali, ameni racconti, storie edificanti, ma che riguardavano esclusivamente la cattolica religione». Gli argomenti trattati evitavano quindi gli argomenti di tipo politico, mentre si concentravano sulla difesa polemica della religione e della Chiesa cattolica. La forma prescelta era spesso quella del dialogo tra un padre e i suoi «figliuoli». Per la diffusione, don Bosco si diede molto da fare per cercare dei corrispondenti e trovare per mezzo loro molti «associati» (o abbonati). Con questo metodo si riuscì a creare una fitta rete di distribuzione in quasi tutto il Piemonte, poi anche qua e là in tutta Italia. Dal 1853 al 1888, furono pubblicati ben 432 fascicoli, tra cui circa settanta erano nati dalla sua penna. Le Letture cattoliche conobbero un successo duraturo, con una tiratura mensile di oltre die

cimila copie a partire dagli anni 1860. Pare che in cinquant’anni esse abbiano raggiunto in totale almeno un milione di copie. Il loro successo era così evidente in Piemonte, e nell'Italia stessa, che suscitarono forti reazioni da parte dei Valdesi, ai quali don Bosco attribuiva alcuni attentati che misero a repentaglio la sua vita. Poi vennero altre collane. La Biblioteca della gioventù italiana, diretta da don Durando, pubblicò dal 1869 al 1885 in 204 volumetti i testi migliori dei classici italiani. Nel 1872, la «Salesiana» si accinse alla stampa di testi greci. Nel 1875 nacque una collana di autori latini, curata da don Francesia (Selecta ex latinis scriptoribus), e che raggiungerà 41 volumi alla morte di don Bosco. Nel 1877 inizierà ancora una collana di Padri della Chiesa {Latini christiani scriptores) a cura di don Tamietti. Nello stesso anno fu dato l'avvio alla pubblicazione mensile del Bollettino salesiano, organo di comunicazione e di propaganda dell'Opera salesiana. Don Bosco ha pure il merito d'aver saputo formare e di aver lanciato numerosi collaboratori e autori, come Bonetti, Lemoyne, Francesia, Barberis ed altri. Don Bonetti diventò redattore del Bollettino salesiano ed è l'autore di una Storia dell'Oratorio che costituisce, diceva don Cena, un «prezioso monumento da lui eretto a don Bosco». Facile alla polemica, egli ricevette dal suo «principale» molti richiami alla calma ed alla serenità. Don Lemoyne, più a suo agio nelle composizioni narrative e poetiche, è conosciuto soprattutto come biografo di don Bosco e della Società salesiana e autore dei primi nove volumi della Memorie biografiche. Il sorridente e candido don Francesia fu un latinista di valore, amico ed emulo del celebre Vallauri di Torino. Saranno anche figli di don Bosco quelli che lanceranno altre collane prima della morte del padre: le Letture ascetiche per la spiritualità, le Letture drammatiche per il teatro giovanile, le Letture amene e la Bibliotechina dell'operaio. Fino alla fine della vita, don Bosco ebbe a cuore l'apostolato della stampa. Per questo motivo, la stamperia-libreria salesiana di Valdocco, creata nel 1861, ebbe seguaci a Sampierdarena e a S. Benigno Canavese, poi anche all'estero, a Nizza, a Marsiglia, a Lilla, a Barcellona, a Buenos Aires. È facile indovinare il loro influsso, anche sotto l'aspetto dell'espansione salesiana. Nel 1881 don Bosco inizierà ancora la costruzione nell'Oratorio di una nuova e grandiosa tipografia. Conversando un giorno di essa con il futuro Pio XI, avrebbe esclamato: «In questo don Bosco vuole essere sempre all'avanguardia del progresso».

Capitolo XII.

GLI INIZI DELL'OPERA SALESIANA IN EUROPA (1875-1888).

Nel 1875 era giunto il momento in cui la Società salesiana, definitivamente approvata dalla Santa Sede l'anno precedente, forte di circa duecentocinquanta membri e circondata da una fama crescente, si accinse ad estendere il suo campo d'azione, non solo in Italia, ma anche in alcuni paesi d'Europa. Durante gli ultimi tredici anni della sua vita, don Bosco si vide sollecitato da ogni parte, senza che gli fosse possibile soddisfare le numerose richieste. Per molti cattolici era chiaro che la sua opera rispondeva alle necessità del tempo ed il favore di cui erano circondati generalmente i Salesiani n'era per lui una commovente testimonianza.

Fondazioni italiane (1875-1888).

Nell'Italia finalmente unificata, l'espansione continuerà a ritmo regolare. Dal 1875 al 1888, il numero delle nuove fondazioni cresceva con una media di due all'anno. Alcune, però, ebbero un'esistenza piuttosto breve. In un primo tempo, l'opera salesiana si sviluppò in Liguria. Dopo Alassio, Varazze e Sampierdarena, nel 1876 venne fondata una nuova

casa a Vallecrosia, presso Ventimiglia. Lo scopo palese dei Salesiani e del vescovo che li chiamava era di far fronte ai Valdesi estremamente attivi nella regione. È noto che lo scopo fu pienamente raggiunto con l'apertura prima dell'oratorio, poi di una scuola elementare. Nel 1877, a La Spezia, gli inizi furono irti di difficoltà, dato il forte vento d'anticlericalismo che vi soffiava: «I corvi sono arrivati, scriveva un giornale, ma speriamo che non troveranno da cibarsi». Anche qui essi seppero affermarsi ed attirare gente nella loro chiesa e nelle loro scuole. Frattanto, la Congregazione era discesa nella penisola. Don Bosco desiderava una casa a Roma, ma, non potendo trovare ciò che faceva al caso suo nella capitale, accettò le proposte provenienti da due località vicine, Ariccia e Albano. Nella prima si trattava di una chiesa e di una scuola elementare, e nella seconda di un ginnasio o piccolo seminario. Sventuratamente i Salesiani furono ben presto vittime di «pettegolezzi e maldicenze di sacrestia», senza contare che molti non perdonavano loro di essere Piemontesi. Giunti nel novembre del 1876, sloggiarono meno di due anni dopo. Nello stesso periodo di tempo, don Bosco mandava alcuni religiosi nel seminario di Magliano Sabino, nella provincia di Rieti; il loro lavoro iniziò sotto i migliori auspici, ma i contrasti con il clero locale li costringeranno dopo alcuni anni ad abbandonare il luogo. Contemporaneamente però, non veniva dimenticato il Piemonte. Nel 1876, una comunità, diretta da don Luigi Guanella, si stabiliva a Trinità presso Mondovì. La scuola dei Salesiani accoglieva centoventi ragazzi, tra i più poveri del paese, e, per la scuola serale, un centinaio di adulti dai sedici ai cinquantanni, mentre l'oratorio era frequentato da più di duecento ragazzi. Tre anni dopo, i rapporti con la vedova del benefattore si avvelenarono a tal punto che si dovette lasciare. Fondazione curiosa, poi, quella di Mathi, dove, per rifornire di carta le sue stamperie di Valdocco e di Sampierdarena, don Bosco acquistò una cartiera, affidandone la direzione al coadiutore Andrea Pelazza. Negli anni 1878 e 1879, i Salesiani scesero in Toscana, entrarono nel Veneto, si spinsero fino in Sicilia, e aprirono la prima casa regolare di noviziato. A Lucca, per richiesta del vescovo, e malgrado pesanti op

posizioni anticlericali, fu aperto un oratorio festivo, poi un ospizio, ma le condizioni materiali e le diffidenze dei parroci non permisero che avessero lunga vita. Ad Este, nel Veneto, un parroco preoccupato dal laicismo scolastico si rivolse a don Bosco, che diede l'avvio ad un collegio che avrà una lunga carriera. Anche dalla Sicilia arrivavano richieste di opere educative, tra cui la prima doveva concretizzarsi a Randazzo, dove i Salesiani fondarono un collegio in un antico monastero e lanciarono un oratorio festivo. In Piemonte, poi, si presentò l'opportunità di trasferire gli «ascritti» o novizi della Società salesiana, che si formavano fino allora nell'Oratorio di Valdocco, nell'antica abbazia di S. Benigno Canavese. La casa, di cui il direttore e maestro dei novizi fu don Giulio Barberis, ospitava anche laboratori per giovani artigiani, di modo che la casa non aveva un aspetto troppo «chiesastico». Il vigore dell'espansione salesiana non si smentiva. Ne era prova sia il costante sviluppo delle case esistenti, sia le fondazioni che si succedevano ininterrottamente. Nel 1880, a Penango, nel Monferrato, fu comprata una palazzina che servì come convitto per i giovanetti delle classi elementari del vicino collegio di Borgo S. Martino. L'anno seguente, i Salesiani furono chiamati a Firenze, soprattutto - secondo la formula di un annalista - per «opporre un argine alla nefasta propaganda» dei protestanti. Inizialmente, essi crearono un oratorio che raggiunse rapidamente duecento iscritti, poi un ospizio che fungeva da piccolo seminario. Un altro oratorio fu inaugurato lo stesso anno a Faenza in Romagna, nonostante i tentativi per spaventare i religiosi. La fondazione nel 1882 di una piccola «colonia agricola» e di un collegio a Mogliano Veneto suscitò inquietudini molto minori grazie alla benevolenza del Vicario capitolare di Treviso, Giuseppe Sarto, futuro Pio X. Altre realizzazioni parlano dell'intensa attività del Fondatore in Italia, fino alla sua morte nel 1888: un grande oratorio a Catania in Sicilia, con scuole serali e chiesa pubblica, un orfanotrofio a Trento, città che faceva ancora parte dell'impero austro-ungarico, e un collegio a Parma

installato in un ex monastero benedettino.8 Nel 1886, i novizi chierici furono trasferiti da San Benigno Canavese in una nuova casa, nel paese vicino di Foglizzo, sotto la direzione di don Eugenio Bianchi. L'anno successivo, il collegio di Valsalice fu trasformato in studentato filosofico dei chierici sotto la guida di don Barberis. Per non suscitare domande pericolose, don Bosco lo fece chiamare «Seminario delle Missioni Estere». A quest'elenco di fondazioni italiane, mancano soltanto due realizzazioni molto significative. Dal 1878 al 1882, don Bosco costruì a Torino un'altra chiesa, dedicata a S. Giovanni Evangelista in omaggio a Pio IX, di cui non esitò a collocare la statua nell'ingresso. L'ospizio per la gioventù, destinato inizialmente ad affiancarla, servì invece ad ospitare i «Figli di Maria», di cui il primo direttore fu don . L'altra fondazione fu la prima opera salesiana in Roma. Dopo vari tentativi falliti per insediarsi nella città del Papa (una casa di correzione "a Vigna Pia, la chiesa del Santo Sudario, S. Caio al Quirinale, S. Giovanni della Pigna, l'Istituto dei Concettini presso l'ospedale di Santo Spirito, e l'ospizio di S. Michele a Ripa), un semplice pied-à-terre a Roma fu trovato nel 1877 in un appartamento a Tor de' Specchi. Finalmente nel 1880, don Bosco accettò la proposta tanto onorifica quanto gravosa di Leone XIII di portar a termine la costruzione della basilica del S. Cuore. Finché non l'avrà terminata, ciò che avverrà solo nel 1887, questa chiesa peserà molto sulle sue spalle. Accanto alla basilica sorse per volontà sua l'ospizio del S. Cuore, che avrà un notevole sviluppo come scuola professionale.

Gli inizi in Francia (1875).

Mentre i Salesiani si diffondevano in nuove regioni d'Italia, la loro Congregazione muoveva i primi passi in altri paesi europei, a cominciare dalla Francia.

Invitato a recarsi a Nizza, città dei confini passata alla Francia nel 1860, dall'avvocato Ernest Michel, presidente della Conferenza di S. Vincenzo de' Paoli e dal vescovo Pietro Sola, don Bosco vi fece la sua prima visita nel dicembre del 1874, per esaminare le proposte che gli venivano fatte. Era accompagnato da don Giuseppe Ronchail, un Italiano che parlava bene il francese. Un accordo fu concluso, e il 9 novembre 1875, una comunità di quattro Salesiani si stabili per la prima volta in Francia. L'opera, che comprendeva all'inizio un oratorio e un convitto per artigiani, si chiamò Patronage Saint-Pierre, come le iniziative simili delle Conferenze di S. Vincenzo de' Paoli e in onore del vescovo della città. Durante l'anno 1876- 1877 furono avviati i primi laboratori per calzolai, sarti e falegnami. Il 12 marzo 1877 fu inaugurata con solennità la nuova sede dell'opera. Nel 1878-1879, si dava principio al laboratorio dei fabbri, e nello stesso tempo aveva inizio la scuola secondaria per gli studenti. Intanto, don Bosco era attirato da Marsiglia, città sul Mediterraneo e porto aperto verso il largo. Tre anni dopo Nizza, il primo luglio 1878, arrivavano i due primi Salesiani, don Giuseppe Bologna e il coadiutore Luigi Nasi, per prendere la direzione di una piccola opera parrocchiale tenuta dai Fratelli delle Scuole Cristiane. Iniziato con una scuola elementare e un modesto convitto per artigiani, l'Oratorie Saint Leon, così chiamato in onore del Papa Leone XIII, s'ingrandì col volgere degli anni, circondato dalla personale sollecitudine di don Bosco. Altre due fondazioni furono di breve durata: quella di Cannes, a po

ca distanza da Nizza, e quella di Challonges, nella diocesi di Annecy. A Parigi intanto, si voleva indurre don Bosco ad accettare la direzione di un grande orfanotrofio fondato dal sacerdote Roussel nella periferia di Auteuil, ma l'affare tramontò subito. Invece, le trattative per la direzione dell'opera fondata dal sacerdote Vincent a La Navarre, presso Tolone, ebbero un buon esito. La comunità, guidata dal giovane don Pietro Perrot, giunse sul posto nel luglio del 1878. Per la prima volta i Salesiani prendevano la direzione di una «colonia agricola», in cui giovani orfani erano avviati ai lavori dei campi. Fu un sogno dell'anno precedente, diceva don Bosco, che lo aveva deciso ad accettare questa prima opera a favore della gioventù rurale. Un altro sogno gli indicò la casa che cercava con l'intenzione di stabilire il primo noviziato all'estero. La descrizione corrispondeva ad una villa, che una certa signora Pastré gli offriva a Sainte-Marguerite, nella periferia di Marsiglia. Là, nell'autunno del 1883 ebbe inizio il noviziato francese, che ospiterà dopo due anni già ben sedici novizi. Il 29 gennaio 1884, un gruppo di Salesiani prendeva possesso dell'orfanotrofio Saint- Gabriel a Lilla. Il direttore si mise subito all'opera per creare dei laboratori in casa per formare sarti, calzolai, falegnami, legatori e stampatori. L'opera era sostenuta da Claire Louvet, grande benefattrice e corrispondente di don Bosco. Nel 1883, durante il suo viaggio in Francia fino a Parigi, don Bosco alludendo forse al fallito tentativo di Auteuil, aveva dichiarato dall'alto del pulpito di Saint-Augustin a Parigi: «Non ci sarà modo di fondare a Parigi un istituto come quelli di Nizza, di Marsiglia e di Torino? Io credo che una casa di questo genere sarebbe qui necessarissima e che bisogna aprirla». Delle varie proposte che gli vennero fatte, scelse quella dal sacerdote Paul Pisani che desiderava cedergli il Patronage Saint-Pierre, da lui fondato nel quartiere di Ménilmontant. Fu concluso

un accordo ed i Salesiani giunsero a Parigi nel 1884, guidati da don Charles Bellamy, un sacerdote diocesano che si era fatto salesiano un anno prima.

Nella Spagna (1881).

Dopo la Francia, la Spagna. Don Bosco pensava a questo paese, ed attendeva l'occasione propizia. Questa giunse dall'Andalusia nel 1879 per iniziativa del marchese de Casa Ulloa, e per interessamento dell'arcivescovo di Siviglia, che aveva conosciuto i Salesiani di Lucca. Il marchese desiderava dotare la propria città natale di Utrera d'una scuola per ragazzi poveri. In gennaio 1880 giunsero sul posto due inviati di don Bosco, don Giovanni Cagliero e il coadiutore Giuseppe Rossi, per vedere i luoghi e le persone. Essi prepararono il terreno per la prima opera salesiana in terra spagnola. La comunità, diretta da don Giovanni Branda, iniziò nel febbraio del 1881 il suo apostolato, che non si limitava alla scuola, ma si estendeva alla parrocchia del Carmelo. Intanto, la fama dell'apostolo di Torino si diffondeva nel paese. Nella sua rivista diocesana, l'arcivescovo di Siviglia pubblicava sull'opera di don Bosco articoli laudativi, che erano riprodotti dalle riviste di Barcellona, di Madrid e di altre città. A Barcellona, città industriale e commerciale, viveva una vedova facoltosa e pia, Dorotea de Chopitea de Serra, che ardeva dal desiderio di fare qualcosa a favore della gioventù povera. Un giorno, le cadde tra le mani un numero del Bollettino salesiano. Conobbe chi fosse don Bosco ed incominciò ad informarsi sulle opere salesiane. Non contenta di rivolgersi al fondatore dei Salesiani, nel settembre del 1882 ricorse anche al Papa per affrettare la realizzazione del suo desiderio. Grazie all'interessamento di don Cagliero e del direttore di Utrera, l'affare andò presto in porto. Dona Chopitea acquistò a Sarrià presso Barcellona una villa che fu trasformata in scuola di arti e mestieri. Don Branda, sostituito a Utrera da don Oberti, aprì la casa il 15 febbraio 1884. Come i

primi laboratori di Valdocco, anche i Talleres di Barcellona, dopo umilissimi inizi, avrebbero conosciuto un crescente sviluppo. Di un altro progetto correva voce nella capitale Madrid: una commissione di ragguardevoli personaggi pensava di affidare ai Salesiani una casa di «correzione» per giovani delinquenti. Sfortunatamente per loro, il titolo della scuola ed i metodi che esso lasciava sottintendere non piacevano a don Bosco, il quale voleva fare di questa scuola una scuola come tutte le altre. Per questo le trattative rimasero sospese per molti anni. L'anno 1886 fu segnato da un avvenimento degno di nota: lo storico viaggio di don Bosco a Barcellona. Nel dicembre del 1885, don Branda gli aveva scritto in questi termini: «Qui si pensa e si parla di continuo del nostro Padre don Bosco e del vivo desiderio di vederlo in un giorno non lontano. Oh, se fosse possibile tale viaggio!». Senza badare ai consigli di prudenza che avrebbero dovuto trattenerlo a Torino, don Bosco giunse a Barcellona nel mese di aprile del 1886. Il suo passaggio suscitò ovunque ondate d'entusiasmo. Come dono, gli venne offerta la collina del Tibidabo che domina la città, perché costruisse sul culmine un nuovo tempio al Sacro Cuore. Era naturale che questo gesto lo meravigliasse: durante il viaggio, infatti, aveva sentito una voce interiore che gli ripeteva: «Tibi dabo, tibi dabo, ti darò, ti darò ».

Approdo in Inghilterra (1887) e progetti in altri paesi.

Verso la fine della sua vita, don Bosco realizzò un altro suo desiderio inviando i Salesiani in Inghilterra. La fondazione fu resa possibile per il fatto che egli era riuscito ad attirare all'Oratorio di Torino anche alcuni studenti di lingua inglese. Una favorevole occasione si presentò nel 1884, quando la conferenza di S. Vincenzo de' Paoli di Londra decise di chiedere il suo concorso a favore della gioventù povera e abbandonata del quartiere popolare di

Battersea. Le trattative, nelle quali la contessa di Stacpoole ebbe una parte non indifferente, si protrassero fino al 1887. Era inteso che i Salesiani avrebbero amministrato la parrocchia e si sarebbero occupati della gioventù del quartiere. Il 14 novembre 1887, un gruppo di tre Salesiani lasciava Torino per l'Inghilterra: due sacerdoti, l'irlandese Edward MacKiernan, parroco e direttore; l'inglese Charles Macey, viceparroco e catechista, e il coadiutore Rossaro. La povertà e le contrarietà non mancarono ai pionieri dell'opera salesiana in Inghilterra. Non furono in grado di stabilire un oratorio o scuole professionali. Tuttavia le cose migliorarono a poco a poco, così che furono create le condizioni per un futuro sviluppo. Benché non abbiano avuto fondazioni salesiane mentre era in vita don Bosco, alcuni paesi europei sono stati toccati in qualche modo dall'irradiamento dell'opera salesiana e del suo fondatore. A questo proposito, conviene segnalare il ruolo e l'influsso della stampa, specialmente di lingua francese: il Bulletin salésien e le prime biografie su don Bosco, come quelle di Mendre, di d'Espiney, o di Du Boys. In Portogallo, per esempio, don Bosco era tutt'altro che sconosciuto. Richieste insistenti gli erano rivolte perché inviasse Salesiani in quel paese. A Oporto, il sacerdote Sebastiào Leite de Vasconcelos, preoccupato di sottrarre la gioventù povera agli «allettamenti» dei protestanti, si mostrava particolarmente pressante. Nel 1881, don Cagliero fu mandato da lui per salutarlo farlo pazientare. Consigliato da don Bosco nel 1882 durante il suo viaggio a Torino, egli stesso aprì l'anno dopo la Oficina de S. José a favore dei ragazzi abbandonati, nell'attesa che i Salesiani n'assumessero la direzione il più presto possibile. Anche il patriarca di Lisbona si faceva portavoce di quanti, nella capitale, richiedevano con insistenza un'opera salesiana. Per mancanza di personale, nessuna di queste richieste potè essere soddisfatta al tempo di don Bosco. La prima fondazione in Belgio venne decisa mentre era in vita il Fondatore, ma diventerà effettiva soltanto tre anni dopo la sua morte. Il merito principale va al vescovo di Liegi, mons. Doutreloux, il quale

incontrò due volte don Bosco all'Oratorio. Egli voleva vedere edificata nella sua città un'opera simile a quella di Torino. La prima casa salesiana nel Belgio, decisa da don Bosco stesso l'8 dicembre 1887, sarà realizzata dal suo successore don Rua.

Significato delle ultime fondazioni di don Bosco.

Una breve riflessione sul significato di queste fondazioni consente di cogliere alcune caratteristiche dell'opera salesiana in quel tempo. È importante notare che spesso le fondazioni italiane, per esempio quelle della Liguria e della regione romana, avevano come scopo di controbilanciare con scuole cattoliche l'influsso dei protestanti. A Vallecrosia i Salesiani accorrevano all'invito del vescovo, che li supplicava di venire ad opporsi agli intrighi degli «eretici». Stessa prontezza a La Spezia, dove era necessario opporre una diga ai flutti dei protestanti. I figli di don Bosco erano molto fieri di far vedere che con mezzi talora irrisori, erano in grado di sostenere la concorrenza della Società biblica protestante. Nelle rivalità che nel secolo diciannovesimo opponevano le confessioni cristiane le une alle altre, i figli di don Bosco non erano i meno ardenti. Si noti tuttavia che a Londra-Battersea, essi accoglievano nella loro scuola ragazzi sia cattolici che protestanti. Il tipo di opere create dai Salesiani era ormai diventato classico. Si trattava spesso di scuole, sia elementari che secondarie o professionali, e queste scuole assumevano generalmente la forma dell'internato. D'altra parte, si constata che i Salesiani si occupavano anche di alcune parrocchie. A cominciare dal 1875, si nota una svolta a favore dell'oratorio. Fino a quella data, gli oratori erano soltanto due: quello di Torino e quello di Sampierdarena. Dopo si moltiplicheranno, senza giungere tuttavia a mettere in pericolo una specie di primato effettivo conquistato dagli internati. In Francia, i patronages di Nizza, di Marsiglia e di Parigi, conobbero un ragguardevole sviluppo. Se osserviamo le creazioni salesiane nel loro insieme, ma più specialmente quelle di Francia, di Spagna e d'Inghilterra, appare chiaro che

i religiosi erano inviati da don Bosco perché si prendessero cura della gioventù popolare o più bisognosa (ma non ancora necessariamente dei delinquenti). Gli orfanotrofi, gli oratori aperti a tutti, i laboratori, e le scuole di arti e mestieri, come quelle che i Salesiani creavano a Nizza, a Marsiglia e a Barcellona, sembravano particolarmente in grado di rispondere alle necessità del territorio. Infine, mentre creava scuole, don Bosco non poteva fare a meno di pensare alle vocazioni ecclesiastiche e ai futuri collaboratori. Per questo, accanto alle sezioni professionali non tardarono a svilupparsi sezioni di scuola secondaria, destinate ad assicurare il reclutamento, che l'espansione in atto nella Congregazione richiedeva.

Espansione e adattamento.

L'espansione dell'opera salesiana fuori del Piemonte e già in tre paesi europei comportava anche problemi nuovi. Nella stessa Italia unita dopo il 1870, la questione politica era aperta: lavorare o no in un contesto dominato dai liberali. Saldo nei suoi principi intransigenti, don Bosco non attaccava la politica del governo. Anzi, nell'agosto 1876, accolse nel collegio di Lanzo il presidente del Consiglio dei ministri e due ministri in occasione dell'inaugurazione della ferrovia Torino-Lanzo. E nel 1879, disse a proposito delle condizioni fatte dal governo al Papa e alla religione: «Che vale rimpiangere tanto i mali? È meglio che ci adoperiamo con tutte le nostre forze ad alleviarli». Ma il suo pensiero di fondo venne espresso forse con più chiarezza durante un suo intervento ufficiale nel 1883: «Bisogna che cerchiamo di conoscere e di adattarci ai nostri tempi, rispettare cioè gli uomini, e quindi delle autorità, dove si può, parlar bene, e se non si può, tacere. Se c'è qualche buona ragione, la si faccia valere in privato. E quello che si dice delle autorità civili, si dica assai più delle autorità ecclesiastiche. Si cerchi di rispettarla e di farla rispettare; anche con sacrificio la si sostenga. Questi sacrifici saranno col tempo e con la pazienza ricompensati da Dio». In Francia, i Salesiani si presentarono in un momento di cambiamento al governo: la Terza Repubblica si avviava verso una politica av

versa alle congregazioni religiose, soprattutto a quelle straniere. La linea di difesa di don Bosco era questa: noi cerchiamo di rispettare le leggi, non siamo una Congregazione, ma un'opera di beneficenza sociale. Oltre ciò, a Nizza, la città di Garibaldi diventata francese soltanto nel 1860, bisognava stare attenti per non apparire a favore dei separatisti. A Marsiglia, era assolutamente necessario poter presentare una «facciata» francese. In tutti i casi, don Bosco spiegava che i Salesiani erano venuti in Francia per richiesta dei Francesi. In Spagna, invece, l'insediamento dei Salesiani fu agevolato anche sul piano politico, dopo la restaurazione dei Borboni nel 1875. Sul piano ecclesiale, il fatto di aver creato la prima scuola professionale della Chiesa in Barcellona, costituì un fattore positivo per un futuro sviluppo. In Inghilterra per contro, i Salesiani dovettero affrontare per la prima volta una società industriale e una cultura europea diversa da quella "mediterranea. Per questo, le difficoltà iniziali furono più grandi di quelle incontrate in altri paesi. Inoltre per il mondo cattolico italiano, l'Inghilterra della regina Vittoria rappresentava la più grande potenza protestante del mondo, anche se con alcuni segni di risveglio cattolico. In ogni caso, la strada da percorrere non poteva essere che quella di una fedeltà creativa, che sapesse adattarsi ai luoghi e alle persone senza rinnegare il carisma d'origine.

Capitolo XIII.

I REGOLAMENTI SALESIANI FINO AL 1888.

Spontaneità e metodo.

Don Bosco era l'uomo della spontaneità, della fiducia, della libertà. «Don Bosco!» esclamava il poeta francese Paul Claudel, «bastava guardarlo: egli ha un aspetto simpatico, come si dice. Si capisce subito che con lui si può avere confidenza, e allora tutto è chiaro. Non c'era bisogno di inventare la confessione con un volto come il suo!». Educatore di giovani, dava a loro dei consigli di massima libertà, che potrebbero risultare pieni di pericoli: «Fate tutto quello che volete, diceva il grande amico della gioventù S. Filippo Neri, a me basta che non facciate peccati». Eppure sarebbe un grave errore immaginarlo arruffone, temerario, pieno d'iniziative ma incapace di portarne una sola a buon fine. Del contadino piemontese aveva anche la pazienza e la tenacia. Aveva pure «metodo». La preoccupazione dell'organizzazione esatta l'ha indotto a scrivere vari regolamenti. Forse non sono numerosi i santi che hanno tracciato tanti regolamenti quanto lui. Ecco la strada seguita da questo creatore entusiasta. Con un'audacia mai smentita, lanciava un'opera nuova. Appena superata la fase dei primi tentativi e delle prime incertezze, metteva per scritto alcune norme «suggerite dall'esperienza» e destinate a servire da guida per l'azione. Poi, a mano a mano che l'opera si sviluppava, riprendeva il primo «re

golamento», lo correggeva, lo precisava, ma sempre sotto il pungolo degli avvenimenti. Questo modo di agire è caratteristico di uno spirito pratico, che diffida delle costruzioni di un'intelligenza disincarnata. Esso esprime pure una preoccupazione d'efficacia da cui, a parer suo, gli affari del Regno di Dio non dovevano andare esenti. Oltre alle Costituzioni salesiane, che sono le regole «costitutive» della Congregazione, si possono distinguere tre categorie di regolamenti che furono in uso presso i Salesiani: il Regolamento dell'Oratorio (per "gli esterni), il Regolamento della casa dell'Oratorio, diventato poi il Regolamento delle case salesiane, e le Deliberazioni dei Capitoli generali.

Il Regolamento dell'Oratorio festivo (1847-1852).

Il primo regolamento scritto da don Bosco era per il suo incipiente oratorio. Si legge infatti nelle Memorie dell'Oratorio: «Stabilita così regolare dimora in Valdocco mi sono messo con tutto l'animo a promuovere le cose che potevano contribuire a conservare l'unità di spirito, di disciplina e di amministrazione. Per prima cosa ho compilato un regolamento, in cui ho semplicemente esposto quanto si praticava nell'Oratorio, e il modo uniforme con cui le cose dovevano essere fatte». Benché sia difficile sapere fino a che punto questo regolamento sia stato conosciuto e applicato nel primo oratorio, esso ci dà interessanti informazioni sui metodi e sulle intenzioni dell'autore. Di questo primo regolamentò salesiano si conserva un manoscritto autografo di don Bosco intitolato: «Piano di Regolamento dell'Oratorio di S. Francesco di Sales in Valdocco», che può risalire agli anni 18471_852, anche se la copia è posteriore. Don Lemoyne lo ha stampato nelle Memorie biografiche, ma il testo venne da lui smembrato in vari pezzi e non è completo. È diviso in due parti. La prima, destinata ai responsabili, tratta dello scopo dell'Oratorio e delle svariate cariche che

vi sono esercitate: direttore, prefetto, direttore spirituale, assistente, sacrestani, monitore, invigilatoti, catechisti, archivista o cancelliere, pacificatori, cantori, regolatori della ricreazione, patroni e protettori. La seconda parte invece, che riguarda i giovani, contiene varie norme circa le condizioni d'accettazione, il contegno dei ragazzi in ricreazione, in chiesa e fuori dell'Oratorio, le pratiche religiose, specialmente la confessione e la comunione, le prediche, alcune pratiche di pietà, e infine la Compagnia di S. Luigi. Nel 1862, don Bosco aggiungerà non solo un capitolo sulle «pratiche particolari di pietà cristiana», ma anche una terza parte sulle scuole elementari dell'Oratorio con i seguenti capi: 1) classi e condizioni di accettazione; 2) del portinaio; 3) delle scuole serali di commercio e di musica; 4) dei maestri; 5) del bibliotecario. Solo nel 1877 si giungerà all'edizione stampata del Regolamento dell'Oratorio di S Francesco di Sales per gli esterni, punto finale della sua storia sotto don Bosco. Nel redigere il Regolamento dell'Oratorio, don Bosco si è lasciato guidare dalla sua personale esperienza, ma non ha trascurato quella degli altri. «Si ritenga che il regolamento di questi oratori - così scriverà nel 1877 - non è altro che una raccolta di osservazioni, precetti e massime che parecchi anni di studio ed esperienza (1841-1855) hanno suggerito. Si fecero viaggi, si visitarono parecchi collegi, istituti, penitenziari, ricoveri di carità, di mendicità, si studiarono le loro costituzioni, si tennero conferenze coi più accreditati educatori. Tutto si raccolse e si fece tesoro di quanto poteva giovare allo scopo». Don Lemoyne affermava di aver trovato tra le sue cose le regole di un oratorio milanese dedicato a san Luigi e di un altro della Sacra Famiglia. A Torino, conosceva l'oratorio di don Cocchi, fondato nel 1840, e di cui l'arcivescovo aveva approvato il regolamento nel 1847. Erano, questi, oratori popolari, di massa, senza presentazione del ragazzo da parte dei genitori, senza tassa d'iscrizione o d'ingresso. Un confronto tra questi regolamenti e quello di don Bosco non è privo d'interesse. "Rivela anzitutto concordanze notevoli, e probabili dipendenze. La coincidenza più vistosa riguarda la molteplicità e l'ap

pellazione delle diverse cariche: assistenti, sacrestani, archivista (o cancelliere), pacificatori, protettori, ecc. Lo scopo preventivo e formativo viene espresso in termini molto simili: tenere i giovanetti lontani dall'ozio e dalle cattive compagnie nei giorni festivi, soprattutto i più poveri e abbandonati, formare buoni cittadini. L'aspetto religioso, molto sottolineato negli oratori milanesi, comportava alcune pratiche comuni: la frequenza dei sacramenti, il catechismo, l'Ufficio della Beata Vergine, il rosario, le sei domeniche di S. Luigi ed altre. Anche all'aspetto ricreativo veniva dato nei diversi regolamenti un posto rilevante: non bastava la preghiera, bisognava attirare i giovani con i divertimenti, il canto, il teatro, i giochi. Erano proibiti però alcuni giochi, come quelli delle carte con il rischio di perdita di danaro. I doveri dei responsabili erano principalmente la vigilanza, l'istruzione e la correzione. D'altra parte, si raccomandava anche lo spirito di famiglia, di paternità e d'amicizia nel trattare con i giovani. Non mancano però alcune differenze nel vocabolario e nel pensiero. Mentre per don Bosco l'«assistente» era un secolare cui incombeva di «assistere a tutte le funzioni dell'oratorio, e vegliare che non succedano scompigli in tempo di esse», la stessa parola a Milano designava il direttore. A Milano, poi, si praticava tradizionalmente il controllo per la ricezione dei sacramenti e le comunioni generali, mentre il regolamento dell'Oratorio di S. Francesco di Sales propugnava la massima libertà in questo campo. «Fra di noi, vi si poteva leggere, non vi è comando di accostarsi a questi santi Sacramenti; e ciò per lasciare che ognuno vi si accosti liberamente per amore e non mai per timore». Don Bosco ha abolito pure i castighi pubblici, e quelli che consistevano a mettere il ragazzo in ginocchio. L'importanza poi del catechismo a Valdocco si deduce dal fatto che don Bosco, cambiando lo stile normativo nel capo VIII, rivolgeva direttamente ai catechisti questo caloroso appello: «Voi, o catechisti, insegnando il catechismo, fate un'opera di gran merito dinanzi a Dio, perché cooperate alla salute delle anime redente col prezioso sangue di Gesù Cristo; additando i mezzi atti a seguire quella via che li conduce all'eterna salvezza: un gran merito ancora dinanzi agli uomini, e gli uditori benediranno mai sempre le vostre parole, con cui loro additaste la via per divenire buoni cittadini, utili alla propria famiglia, ed alla me

desima civile società». Come si vede, l'apostolo di Torino insisteva soprattutto sull'«eterna salute», sottolineando allo stesso tempo l'utilità sociale dell'opera dei catechisti. Le prediche, poi, non dovevano essere troppo lunghe, «perché il nostro S. Francesco di Sales dice essere meglio che il predicatore lasci desiderio di essere udito e non mai noia». Nel campo della spiritualità si rileva l'insistenza sulle virtù della carità, della dolcezza e della pazienza. Fin dalla prima pagina del Regolamento, il tono salesiano appare esplicitamente: «Questo Oratorio è posto sotto la protezione di S. Francesco di Sales, perché coloro che intendono dedicarsi a questo genere di occupazione devono proporsi questo Santo per modello nella carità, nelle buone maniere, che sono le fonti da cui derivano i frutti che si sperano dall'Opera degli Oratori». Veniva specificata inoltre una proibizione significativa: «Durante la ricreazione ed in ogni altro tempo è proibito di parlare di politica, introdurre giornali di qualsiasi genere, leggere o ritenere libri senza l'approvazione del direttore». Il divieto della «politica» all'Oratorio S. Francesco di Sales era in netto contrasto con l'atteggiamento «patriottico» di don Cocchi nel suo oratorio di Vanchiglia. Primo in data dei regolamenti salesiani, il Regolamento dell'Oratorio contiene un certo numero di elementi che entreranno nell'organizzazione della Società salesiana. La sua conoscenza è dunque preziosa. Va segnalato per esempio che i titoli dei responsabili dell'Oratorio saranno dati tali quali ai superiori della Congregazione: colui che detiene l'autorità viene chiamato rettore (poi direttore); il suo braccio destro è il prefetto, e il direttore spirituale è chiamato catechista. Soprattutto, lo spirito che caratterizza questo primo Regolamento è identico a quello che doveva informare la stessa Congregazione. Non vi è da meravigliarsi, poiché essa affonda le sue radici nel primo Oratorio di don Bosco.

Il Regolamento della casa dell'Oratorio (1852-1854).

Dopo le prime regole per l'Oratorio festivo, lo sviluppo ulteriore dell'opera di Valdocco richiedeva sempre norme nuove. Abbiamo visto che accanto all'oratorio degli esterni si sviluppò ben presto un convitto

per giovani lavoratori e studenti: la casa dell'Oratorio. Inizialmente, in questa fondazione non si conosceva, secondo la formula di don Lemoyne, «altra regola fuori di quella che lega naturalmente insieme i membri di una famiglia». Con il tempo ed il costante aumento degli effettivi, si resero necessarie alcune norme per conservare l'ordine tra i convittori. Nel 1852, don Bosco stilò un piccolo Regolamento del dormitorio, destinato ad essere affisso in ogni camerata, e letto «a chiara voce» la prima domenica di ogni mese a tutti quelli del dormitorio. Il titolo può indurre in errore: in realtà esso riguardava tutta la vita degli interni. Non solo fissava le norme del buon comportamento in dormitorio (sottomissione all'assistente, proibizione di andare nei dormitori altrui, di tenere denaro presso di sé, pulizia, silenzio la sera e il mattino, condotta morale), ma faceva anche raccomandazioni più generali sul dovere del buon esempio, sulla frequenza ai sacramenti, sulla carità fraterna e la sopportazione paziente dei difetti dei compagni. Si trattava insomma di un piccolo decalogo, essendo l'undecimo ed ultimo articolo piuttosto un'esortazione conclusiva sul tema: «Chi osserverà queste regole sia dal Signore benedetto». A mano a mano che il convitto aumentava, e soprattutto quando don Bosco cominciò a sistemare in casa laboratori e scuole, questo primo abbozzo diventò insufficiente e s'impose l'idea di un nuovo regolamento. Per scriverlo, egli adattò il regolamento dell'oratorio esterno ed alcuni altri che si cerca di identificare. D'altra parte, egli codificò la propria esperienza personale. Così, tra il 1852 e il 1854, riuscì ad elaborare un primo piano di Regolamento per la casa annessa all'Oratorio di S. Francesco di Sales. Il testo manoscritto, riportato da don Lemoyne, è diviso in due parti. La prima definisce lo scopo della casa dell'Oratorio e le condizioni d'ammissione, poi presenta le varie cariche, tra le quali appaiono i capi di camerata, la servitù e i maestri d'arte. Agli studenti, ancora in minoranza nell'internato, era dedicata un'appendice sulla loro ammissione, e con diverse norme e esortazioni circa la loro condotta religiosa e lo studio. La seconda parte, intitolata: «Della disciplina della casa», è una trattazione ad uso degli alunni sulla pietà, il lavoro, il contegno verso i superiori e verso i compagni, la modestia, il contegno in casa e fuori

casa. Come conclusione venivano elencati tre mali sommamente da fuggirsi (la bestemmia, la disonestà e il furto), e quattro cose proibite con rigore nella casa (ritenere danaro, fare giochi pericolosi, fumare tabacco e uscire di casa con parenti o amici). Sembra che questo Regolamento sia entrato pienamente in vigore per la prima volta nel corso dell'anno scolastico 1854-1855. Perché le giovani menti potessero esserne impregnate, don Bosco lo faceva leggere per intero all'inizio del nuovo anno, ed ogni domenica ne era ripreso un capitolo. Ma, alla prova dell'esperienza si rivelò insufficiente. Ciò appare evidente dal fatto che l'autore ricusò di farlo stampare, poiché era necessario correggerlo continuamente, precisarlo, e completarlo. Oltre di ciò, l'evoluzione della casa richiedeva la redazione di alcuni regolamenti speciali per i laboratori, per il teatrino, per il parlatorio e per l'infermeria.

Il Regolamento delle Case salesiane (1877).

A partire dal 1863, anzi dal 1860 se si tiene conto dell'esperienza fallita di Giaveno, la casa dell'Oratorio aveva sciamato e, con essa, il suo regolamento. Il collegio di Mirabello, aperto nel 1863, fu dotato di un regolamento che s'ispirava letteralmente a quello di Valdocco, omettendo, ovviamente, tutto ciò che riguardava gli artigiani. Le altre case, a loro volta, copiavano quello di Mirabello. È naturale che, col tempo, si sentisse il bisogno di un regolamento uniforme e completo. Don Bosco si mise all'opera soltanto nell'estate del 1877 e, dopo averlo sottoposto all'esame dei suoi collaboratori, lo fece stampare nell'autunno dello stesso anno con il titolo Regolamento per le Case della Società di S. Francesco di Sales. Esso fu letto pubblicamente a Valdocco il 5 e 6 novembre 1877 e inviato contemporaneamente alle varie case sale

Al Regolamento stesso furono premessi due importanti scritti di don Bosco, di cui il primo è la dissertazione sul sistema preventivo, composta quello stesso anno in occasione dell'inaugurazione del Patronage Saint-Pierre a Nizza. Il secondo è una specie di decalogo per educatori, vale a dire un compendio in dieci «articoli generali» sull'amore e il timore nel processo educativo, sull'assistenza e sulle diverse indoli dei giovani. Il Regolamento per le Case riflette una situazione segnata dall'aumento dei collegi-convitti. Nella prima parte, che dettaglia le diverse cariche della casa, appare la figura del consigliere scolastico e quelle dei vari assistenti di scuola e di studio. Sono state integrate le regole per il teatrino e l'infermeria. La seconda parte, che si apre sullo scopo delle case salesiane e sull'accettazione, è destinata ai giovani, ai quali vengono rivolte esortazioni premurose e prescrizioni precise sul modo di comportarsi nei vari ambienti, come faceva già il Regolamento dell'Oratorio. Si nota però un lungo capitolo sul «contegno nella scuola e nello studio» e un'inaspettata appendice «sul modo di scrivere lettere» seguendo il modello di san Francesco di Sales. Questo testo, maturato durante un ventennio e destinato ad essere meditato dai Salesiani e dai loro alunni, è uno dei più importanti che don Bosco abbia lasciato ai suoi figli. Facendolo leggere in seduta solenne all'inizio di ogni anno scolastico, egli voleva mostrare a tutti l'importanza che gli attribuiva. La parte riservata alle cariche e ai doveri dei superiori era letta davanti a tutti, come il resto, perché gli alunni non ignorassero alcuna delle regole a cui erano sottomessi i loro educatori. Questa disposizione, pensava' don Bosco, favoriva negli educati un'obbedienza ragionata ed in tutti una vicendevole fiducia.

Le Deliberazioni dei Capitoli generali (1877-1887).

Un'altra categoria giuridica è costituita dalle Deliberazioni. Per i Salesiani questo termine ha preso il significato di decisioni ufficiali dei superiori della Congregazione riuniti in assemblee legislative. Due categorie d'assemblee erano autorizzate a prendere questo genere di decisioni:

prima di tutto le cosiddette conferenze annuali del Capitolo superiore e dei direttori convocate da don Bosco, poi, a cominciare dal 1877, i Capitoli generali. Era consuetudine che don Bosco riunisse i Salesiani ogni anno, di norma in occasione della festa di san Francesco di Sales. A partire dal 1865, questa conferenza mutava aspetto: diventava un'assemblea ufficiale del Capitolo superiore e dei direttori delle case ed aveva lo scopo, secondo le Costituzioni del 1864, di «conoscere e provvedere ai bisogni della società, dare quelle provvidenze che secondo i tempi, i luoghi e le persone si giudicheranno opportune». Per la prima volta quindi, nel 1865, i direttori delle due recenti fondazioni di Mirabello e di Lanzo furono invitati a parlare dell'andamento del loro collegio. L'anno seguente, assente don Bosco, la conferenza fu presieduta da don Rua. Non ci sono rimaste deliberazioni precise per le conferenze anteriori al 1871. In quell'anno la conferenza confermò le «Regole pel teatrino», che don Bosco consegnò a tutte le case. Le conferenze dal 1873 al 1876 hanno lasciato molte deliberazioni concernenti gli argomenti più vari: l'orario, i voti degli alunni, il personale di servizio, la stoffa degli abiti, la contabilità, le ordinazioni. Era necessario mettere un po' d'ordine in tutto questo. Se ne assunse l'incarico don Giulio Barberis, maestro dei novizi. Sotto la direzione di don Bosco e di don Rua, ne fece una raccolta intitolata «Deliberazioni prese nelle conferenze generali della Società di S. Francesco di Sales, o Note spiegative delle nostre Regole». Questo documento qualificato come importantissimo da don Amadei porta la data, a parer suo, del 1875. La materia delle decisioni era raccolta in cinque «articoli»: 1) regole generali; 2) regole d'amministrazione; 3) regole economiche; 4) regole per la moralità; 5) regole scolastiche. Le raccolte future di Deliberazioni s'ispireranno per molto tempo a questa distribuzione delle tematiche. L'ultima conferenza dei direttori si tenne nel 1877, in occasione della festa del santo Patrono, dopo furono sostituite dai Capitoli genera

li, i quali, secondo le Costituzioni approvate nel 1874, dovevano riunirsi ogni tre anni. Il primo di questi Capitoli fu tenuto a Lanzo nell'autunno dello stesso anno 1877. L'essenziale delle deliberazioni che in esso furono prese venne pubblicato nel 1878 in una raccolta che comprendeva cinque «distinzioni» o parti: 1) studio (tra gli allievi); 2) vita comune (caratterizzata dall'«uniformità» nella direzione, nell'orario, negli abiti, nel vitto, nelle abitazioni, ecc.); 3) moralità (tra i Salesiani e tra gli allievi, con il regolamento del teatrino in appendice); 4) economia; 5) regolamento per l'ispettore. In appendice si trovano inoltre un piccolo regolamento per i direttori, un altro per i Capitoli generali, e diverse deliberazioni circa l'annalista di ogni casa, il costumiere, le associazioni da promuovere e le Suore. Si dovette attendere il 1882, cioè due anni dopo il Capitolo generale del 1880, per avere una raccolta più completa e più elaborata. Essa comprendeva, infatti, tutte le decisioni anteriori, quelle delle conferenze di direttori, nella misura in cui si era creduto opportuno mantenerle, e quelle del primo e del secondo Capitolo generale. L'insieme delle materie era nuovamente diviso in cinque «distinzioni», ma in ordine diverso: 1) regolamenti speciali (del Capitolo generale, dei membri del Capitolo superiore, dell'ispettore, del direttore, e della direzione generale delle Suore); 2) vita comune; 3) pietà e moralità; 4) studi; 5) economia. Le norme più nuove riguardavano gli uffici dei membri del Capitolo superiore e la formazione dei Salesiani negli studi ecclesiastici, filosofici e letterari. Dopo i Capitoli generali del 1883 e del 1887, venne pubblicata una nuova raccolta di Deliberazioni. Il volumetto di trenta pagine non aveva l'ampiezza del precedente; in compenso però, sviluppava alcuni punti fino a quel momento rimasti in ombra. Degno d'interesse innanzitutto è un regolamento dettagliato per le parrocchie affidate alla

Congregazione salesiana; vi sono precisate le condizioni per l'accettazione di una parrocchia e stabilite alcune norme riguardanti la comunità parrocchiale salesiana e le sue relazioni con le autorità, quella ecclesiastica e quella civile, e con il popolo. Il medesimo fascicolo ha raccolto anche le deliberazioni relative alle sacre ordinazioni, ai coadiutori, alla formazione dei giovani artigiani, agli oratori festivi (da impiantare presso ogni casa salesiana), al Bollettino salesiano (da considerare come l'organo della Società salesiana), e al modo di provvedere all'esenzione dalla leva militare. Nello spirito del Fondatore, le Deliberazioni erano come una «spiegazione» delle Costituzioni, oppure come «l'applicazione pratica» di ciò che prescrivevano le Costituzioni. Nell'introduzione alla raccolta del 1882, egli dichiarava che il progresso della Società dipendeva dall'esatta osservanza delle Costituzioni e delle Deliberazioni. «Le Deliberazioni hanno grande importanza, ripeteva don Bosco nella presentazione dell'ultimo volume, ed aiutano efficacemente a praticare le nostre sante Regole». Fino al 1888, erano dunque quattro i testi normativi, i quali, insieme alle Costituzioni, regolavano la vita e l'opera della Società di S. Francesco di Sales: il Regolamento dell'Oratorio, il Regolamento delle Case salesiane (entrambi del 1877), il volume delle Deliberazioni dei due primi Capitoli generali del 1882, e il volumetto delle Deliberazioni dei due ultimi Capitoli generali del 1887. La morte del Fondatore nel 1888 certo non porrà termine all'attività legislatrice di una Congregazione in via di rapida espansione, perché le regole dovranno ancora adattarsi alla diversità dei tempi, dei luoghi e delle mentalità.

Capitolo XIV.

MARIA DOMENICA MAZZARELLO E LA FONDAZIONE DELL'ISTITUTO DELLE FIGLIE DI MARIA AUSILIATRICE (1837-1872).

Nel 1864, durante la tradizionale passeggiata autunnale, la truppa di Valdocco risalendo da Genova fece sosta in una piccola borgata dell’Alto Monferrato chiamata Mornese. Già da qualche tempo, un sacerdote del luogo, don Domenico Pestarino, insisteva presso l'apostolo di Torino perché gli facesse visita. Don Bosco giungeva finalmente, ma con una scorta di novanta allegri bontemponi ed al suono della banda. L'accoglienza di tutta la popolazione fu calorosa, splendida. Il giorno seguente - era l'8 ottobre 1864 - don Pestarino presentò al suo ospite un gruppo di ragazze che, sotto la sua guida, si dedicavano insieme alla preghiera e all'apostolato. L'anima di questo gruppo era Maria Domenica Mazzarello. Ogni sera, al momento della «buona notte» sbrigava in fretta tutte le faccende e volava a sentire il sermoncino che don Bosco faceva ai suoi ragazzi, e non voleva perderne neppure una parola. Si cacciava avanti più che poteva e non si può descrivere l'atteggiamento del suo volto e l'attenzione con cui ascoltava. Diceva: «Don Bosco è un santo, ed io lo sento!»

A questo punto i biografi della futura santa si fermano per ricordare un altro incontro storico. Si racconta, infatti, che Giovanna di Chantal si spingeva fino a i piedi del pulpito di mons. Francesco di Sales e non poteva staccare da lui i suoi occhi, stimando di non essere fortuna paragonabile a quella di star vicino a lui e di udire le sue parole di sapienza. E quasi con le stesse parole si dichiarava certa della santità del Vescovo di Ginevra: «Io lo chiamavo santo dal fondo del cuore e lo ritenevo tale». Certo non è arbitrario un parallelo tra queste due vocazioni. Entrambe, sotto la direzione di due santi, diventarono lo strumento di un'opera importante nella Chiesa. Ma inizialmente, chi avrebbe osato predire un simile destino alla baronessa di Chantal ed alla contadina di Mornese?

Primi anni (1837-1850).

Maria Domenica Mazzarello era nata il 9 maggio 1837 in una frazione di Mornese chiamata «I Mazzarelli», nella diocesi di Acqui, a nordovest di Genova. Era la primogenita di dieci figli. Suo padre Giuseppe, un contadino onesto e robusto, era di un cristianesimo profondo e un po' austero. Sua madre, Maddalena Calcagno, aveva molto da fare per allevare la numerosa famiglia. L'infanzia della contadinella fu molto semplice. Maria - così era chiamata abitualmente oppure familiarmente Main - cresceva buona sotto lo sguardo dei genitori. Durante questi primi anni che non hanno nulla di straordinario, conviene soltanto segnalare un piccolo avvenimento locale, che doveva suscitare commenti da parte dei biografi della futura confondatrice delle Figlie di Maria Ausiliatrice. Accanto alla casa Mazzarello esisteva da qualche tempo una cappella la cui costruzione era stata decisa per tener fede ad un voto fatto nel 1836 in occasione di un'epidemia di colera. Ora, il 24 maggio del 1843 - Maria aveva allora sei anni - la cappella fu aperta al pubblico e dedicata a Maria Ausiliatrice. Don Ceria fa notare che in quel tempo, la devozione a Maria «aiuto dei cristiani» era ancora poco diffusa e ricorda che don Bosco avrà qualche difficoltà a far adottare questo titolo per la sua chiesa di Torino vent'anni dopo.

Verso la fine dell'anno 1843, per una divisione di beni nella famiglia del padre, i Mazzarello andarono a stabilirsi nella fattoria della Valponasca, in mezzo ai campi e alle vigne, a tre quarti d'ora di cammino dal paese. Maria vivrà là fino all'età di vent'anni nella semplicità e un certo isolamento. Ancora in tenerissima età, ricevette dalla mamma le prime lezioni di catechismo. Dalla finestra della sua camera poteva vedere in lontananza il campanile della chiesa. Ben presto, sua madre l'abituò alla messa mattutina, la conduceva con sé o la faceva accompagnare dalla cugina Domenica, maggiore di lei di sei anni. Mentre cresceva, Main cominciava ad aiutare la mamma, occupandosi dei numerosi fratelli e sorelle minori.

L'arrivo a Mornese di don Pestarino (1847).

Nel 1847, arrivò a Mornese don Domenico Pestarino, un sacerdote che, accanto al parroco del villaggio, eserciterà un grande influsso sul paese e sulla formazione di Maria Domenica. Nato in Mornese stesso nel 1817 in un'agiata famiglia, Domenico Pestarino aveva frequentato il seminario di Acqui e poi quello di Genova. Dopo l'ordinazione sacerdotale, rimase per dodici anni come prefetto nel seminario e cappellano nel sobborgo della città. Era legato da vincoli d'amicizia e di lavoro al clero colto e zelante e in particolare diventò discepolo del noto teologo don Giuseppe Frassinetti, un avversario del rigorismo giansenista nella pratica sacramentaria. Verso la fine dell'anno scolastico 1846-1847, don Pestarino, caduto in sospetto dei «rivoluzionari», fu costretto a lasciare cappellania, seminario e Genova. Ritornato al paese nel 1847, vi attuò in breve un'autentica rivoluzione antigiansenistica. Venne un tempo in cui nei giorni feriali ogni

mattina vi erano più di cento comunioni, specialmente d'inverno. Intraprendente e zelante, creò la Conferenza di S. Vincenzo de' Paoli per gli uomini e la Compagnia delle madri cristiane per le donne. Ebbe cura particolare della gioventù. Si occupava dei catechismi e delle confessioni. Per la stima che godeva sarà più volte nominato consigliere municipale. Il padre di Maria si iscrisse alla conferenza di S. Vincenzo de' Paoli e fu uno dei primi uomini ad avere il coraggio di accostarsi alla comunione la domenica. Lasciò in lei un'impronta profonda con la sua fede robusta e la condotta irreprensibile. «Oh, quanto devo all'industria di mio padre! - dirà ella più tardi -. Se in me vi è qualche poco di virtù, lo debbo a lui». Maria frequentò il catechismo dove, pur non manifestandosi molto, si faceva notare per la viva attenzione e l'impeccabile recita della lezione. Don Pestarino la citava come esempio agli altri: «Voi del paese non sapete neppure le orazioni; vedete questa (che abita fuori) come le sa cantare!» Ogni settimana si faceva una specie di gara sulle domande del catechismo. In questa prova, che opponeva a turno un fanciullo ad una fanciulla, Main metteva il suo «punto d'onore» - ed era precisamente questo il nome della prova - a trionfare del suo avversario. «I ragazzi non mi fanno paura, esclamava fieramente, e li voglio vincere tutti». Poiché Mornese non aveva una scuola femminile, le fanciulle meno agiate rischiavano di rimanere analfabete. Maria imparò a leggere con l'aiuto del padre, ma non sapeva,scrivere, nemmeno il proprio nome. Per contro, era abilissima a compiere operazioni aritmetiche sulla punta delle dita.

Maria Domenica adolescente (1850-1855).

Maria ricevette la cresima il 30 settembre 1849 e fece la prima comunione a tredici anni nel mese di aprile del 1850. Da quel momento, diventava più profondo in lei il desiderio di condurre una vita cristiana

esemplare nel suo ambiente. Cominciò anche a lavorare in campagna con il padre e nella vigna. «Quella ragazza ha un braccio di ferro, ed è fatica enorme starle a pari», dicevano gli uomini. Nel 1852 fece una confessione generale e si strinse ancor più a Dio col voto perpetuo di castità. Contemporaneamente sentiva il desiderio d'intensificare la sua vita spirituale e, per cominciare, di correggere i difetti di cui si rimproverava. Don Pestarino s'interessò di questa ragazza che era coraggiosa e voleva progredire. La direzione esigente di questo sacerdote, invece di scoraggiarla, sembrava fatta su misura per il suo temperamento volitivo ed il suo desiderio di perfezione. Egli le raccomandava specialmente la mortificazione, la lotta contro l'amor proprio, la carità con tutti, la moderazione del carattere, la fuga dal peccato. Su alcuni punti, Maria Domenica dovette farsi violenza, senza che la vittoria le arridesse immediatamente. Dalla madre, a quanto ci dicono, aveva ereditato un temperamento pronto ad infiammarsi. Le accadeva d'impazientirsi al punto che il sangue le saliva alla testa; e quando le amiche le dicevano: «Come diventi rossa!», le riusciva difficile dominare i nervi. Possedeva del padre la solidità del giudizio e l'equilibrio, ma anche un esagerato attaccamento alle proprie opinioni di cui difficilmente riusciva a disfarsi. Il suo direttore non temeva di rimproverarla quando lo credeva opportuno. Un giorno in cui lavorava nella vigna, invece di legare i tralci al ceppo della vite, impaziente, li tagliò di netto. Non pensava di aver fatto un gran male, ma il suo confessore le fece sapere che non era dello stesso parere. Non si mostrava meno severo per le piccole manifestazioni di vanità femminile della sua penitente, tanto più che, per il suo nobile portamento, le compagne la chiamavano la bulaì Tutti erano d'accordo nell'attribuirle un grande amore alla pietà, che non diminuì quando diventò signorina. Lo alimentava con l'assistenza quotidiana alla messa. Né il lavoro assillante della giornata, né il levarsi prima dell'alba, né la rigidità del clima, la distoglievano dal suo proposito. Un giorno, per errore, le accadde di lasciare la casa alle due dopo mezzanotte. Benché avesse una grande devozione verso l'Eucaristia, evitava le manifestazioni esterne di pietà.

Figlia dell'Immacolata (1855).

È comprensibile che l'idea di appartenere soltanto a Dio sia nata spontaneamente in Maria Domenica. Mostrava di fatto stima dello stato religioso, ma diventare religiosa le sembrava quasi impossibile, specialmente per mancanza di dote. Ma ecco presentarsi un'occasione che le permise di realizzare in parte il suo ideale. C'era a Mornese un gruppetto di ragazze che, come lei, aspiravano ad una vita di preghiera e d'apostolato. Fossero impedite di entrare in convento, o avessero il desiderio di santificarsi nel mondo, esse decisero di formare sul posto una specie di comunità i cui membri avrebbero continuato a vivere in seno alla propria famiglia. L'iniziativa di questo progetto spettava ad Angela Maccagno, la più adulta del gruppo e la più istruita. Ella concepì l'idea di una Pia Unione sotto il titolo di «Figlie di Maria SS. Immacolata», e compilò un regolamento, che apparirà in seguito molto vicino alla regola delle Orsoline fondate da S. Angela Merici. Poi lo sottopose nel 1853 a don Pestarino. Il testo prevedeva che le compagne dovessero «essere unite in Gesù Cristo, di cuore, di spirito e di volontà, nell'obbedienza in tutto e per tutto al loro padre spirituale e confessore». Avrebbero fatto voto di castità per un tempo determinato, un anno al massimo. Vivendo nel mondo, avrebbero praticato un distacco da esso maggiore di quelle che vivono nei conventi e si sarebbero impegnate a «cooperare alla gloria di Dio e della religione», e ciò «col buon esempio, con la frequenza dei SS. Sacramenti, la devozione alla Passione di Nostro Signore Gesù Cristo ed alla Vergine». Ad imitazione di ciò che facevano i «cattivi», la loro società doveva rimanere segreta ed esse si sarebbero sforzate di suscitarne di simili nei paesi e nelle città. Don Pestarino trovò il progetto molto interessante; ma, prima di approvarlo, lo portò a Genova al suo maestro e amico Frassinetti perché lo esaminasse e gli desse la forma definitiva. Il teologo aspettò due anni a rispondergli. Infine, nell'autunno del 1855, sulle tracce dell'abbozzo che gli era stato rimesso, compilò un «Regolamento della Pia Unione delle Figlie di Maria Immacolata», la cui diffusione doveva conoscere in Italia un inatteso successo. Don Pestarino fu naturalmente il primo a stabilire il gruppo nella parrocchia di Mornese. Come previsto, tutto si svolse nel massimo se

greto la domenica 9 dicembre 1855, alla presenza delle prime cinque Figlie dell'Immacolata, tra cui vi erano Angela Maccagno e Maria Mazzarello ormai diciottenne. L'esistenza della Pia Unione fu conosciuta da tutti soltanto nel mese di maggio del 1857 in occasione di una visita pastorale del vescovo di Acqui. Il 20 maggio il vescovo firmava il decreto di approvazione, e il 31 dello stesso mese riceveva la loro promessa pubblica nella chiesa di Mornese. Le adunanze si tenevano ogni domenica in casa della Maccagno. Per la loro formazione, le Figlie leggevano alcune pagine della Monaca in casa di Giuseppe Frassinetti, o della Perfezione cristiana del Rodriguez, oppure della vita di santa Teresa d'Avila. Si animavano tra di loro alla pratica delle virtù cristiane e all'apostolato presso le ragazze, le mamme e i malati del paese. Maria era la più giovane del gruppo, ma anche, a quanto si diceva, la più fervorosa e la più fedele. Pur facendosi un dovere di obbedire strettamente alla «superiora» Maccagno, dal carattere più bonario, acquistava ascendente sulle compagne grazie al suo tatto ed alla sua energia. Ogni quindici giorni, sapeva animare il piccolo gruppo delle mamme e dare consigli per i loro figli. Una testimone racconta che sapeva anche attirare le ragazze come la calamita attira il ferro. Nel 1858, un furto rilevante venne compiuto nella casa dei Mazzarello mentre erano nella vigna. Il padre decise di abbandonare la Valponasca troppo isolata e di stabilirsi a Mornese, via Valgelata. Maria ne ebbe qualche vantaggio, poiché era più vicina alla chiesa ed al suo campo di apostolato.

La svolta (1860).

Nel 1860, un'epidemia di tifo si abbatté sulla regione, facendo molte vittime. Chiamata in casa dallo zio, che era stato colpito dal male, Maria si prodigò giorno e notte per un mese intero al servizio dei malati. Poi, quando questi furono fuori pericolo, venne colpita a sua volta. Per

un momento si temette il peggio. Si rimise molto lentamente, senza mai guarire del tutto. La ragazza «dalle braccia di ferro» non ritrovò più il vigore di un tempo. Durante la malattia, però, aveva avuto il tempo di riflettere. Leggeva l'opuscolo Industrie spirituali del Frassinetti per animarsi a divenire un'ape ingegnosa, appena la salute le permettesse di muoversi fuori casa. Sarebbe diventata sarta. Ciò le avrebbe permesso di guadagnarsi da vivere senza essere di peso a nessuno. Riflettendo bene, qualcosa di più importante germogliava nella sua testa: con questo mestiere - così pensava - avrebbe potuto attirare le ragazze, formarle, far loro del bene. Svelò il proprio progetto ai genitori, i quali, dopo qualche momento di perplessità, finirono col cedere alle sue ragioni. Una delle sue migliori amiche, Petronilla Mazzarello, una Figlia dell'Immacolata come lei, accettò di lavorare con Maria e di condividere la sua vita. Don Pestarino, consultato, diede il suo assenso. Il Cielo stesso pareva incoraggiare il pio disegno. Madre Mazzarello racconterà più tardi un fatto strano, che le era capitato in quel periodo della sua vita. Un giorno, mentre passava su una collina di Mornese, vide come in sogno una grande casa e, in quella casa, delle Suore e le loro alunne, mentre una voce pareva le dicesse: «A te le affido!» A partire dall'autunno del 1860, troviamo le due amiche Maria e Petronilla nella bottega del sarto e l'anno dopo da una sarta, per perfezionarsi nel mestiere. Poi si stabilirono in proprio. La cosa più difficile era trovare un locale per mettervi il loro piccolo laboratorio di cucito. Dopo parecchi traslochi affittarono una stanza abbastanza spaziosa, vicino alla chiesa. Il loro progetto incominciava a realizzarsi con l'arrivo delle prime alunne. Un bel giorno venne loro proposto di prendere a pensione due orfanelle. Esse affittarono allora una seconda camera accanto al laboratorio e ve le sistemarono. Di notte, era Petronilla che le sorvegliava, nell'attesa che i genitori di Maria autorizzassero anche lei a rimanere nel laboratorio giorno e notte. Ben presto si aggiunse una terza interna, poi una quarta, poi altre tre. Per alloggiarle, erano state affittate altre stanze accanto al laboratorio. Si assisteva quindi alla nascita di un piccolo convitto.

Maria desiderava però far del bene non solamente a quelle che andavano da lei per imparare a cucire, ma a tutte quelle del paese. Fu questa l'origine di una specie d'oratorio. La domenica, le due amiche raccoglievano le ragazze, le accompagnavano in chiesa, facevano catechismo e le distraevano con giochi e passeggiate. Maria dirigeva il piccolo gruppo di interne e di esterne meglio che poteva, senza regole fisse, la sua esperienza delle persone e delle cose servendole da guida. Sapeva rimproverare le alunne quando era necessario, senza alzare il tono della voce. Purtroppo, l'opera delle due amiche non era ben vista da alcune Figlie dell'Immacolata. Si ritenevano queste novità come «abusi di testa indipendente, come desideri di Maria di farsi notare, di farsi avanti». Dicevano che tutto questo non era compreso nel regolamento, che Maria si avventurava su una strada sbagliata. Don Pestarino le incoraggiava dicendo: «Non ci badate. Voi non mancate in nessun modo al vostro regolamento; perciò fate il bene come meglio potete; e lasciate che dicano».

Primi contatti con don Bosco (1862).

Le due amiche intanto sentivano parlare con ammirazione del sacerdote di Torino. Nel 1862, don Pestarino s'incontrò con don Bosco, il quale lo invitò a visitare l'Oratorio di Valdocco. Andato là nel mese di novembre, egli fu talmente incantato dello spirito che vi regnava che espresse al suo ospite il desiderio di far parte della Società di S. Francesco di Sales. Di fatto, don Pestarino divenne salesiano nel 1863 e gli fu concesso di restare a Mornese per continuare la sua opera pastorale. Don Bosco lo considerava come un direttore e, come tale, lo invitava a partecipare alle conferenze annuali di S. Francesco di Sales. Un principio di collaborazione si stabilì così tra Torino e Mornese, e una grande corrente di simpatia. Don Pestarino ritornava spesso a Torino. Per mezzo suo, don Bosco seguiva - da lontano, ma con interesse - l'attività di Maria e delle sue compagne. Un giorno, fece consegnare loro un biglietto in cui si potevano leggere queste parole significative: «Pregate pure, ma fate del bene più che potete, specialmente alla gioventù».

Quando don Bosco venne a Mornese la prima volta nel 1864, Maria intuì subito in lui l'uomo di Dio. Don Bosco, da parte sua, era meravigliato di quello che vedeva. «Io mi trovo in Mornese, diocesi di Acqui - così scriveva il 9 ottobre - dove sono testimonio di un paese che per pietà, carità e zelo sembra un vero chiostro di persone consacrate a Dio. Questa mattina ho fatto la comunione, e nella sola messa ho comunicato circa mille fedeli». Tuttavia, Maria era ben lontana dal pensare che dalla sua opera sarebbe nata una congregazione religiosa. Abbiamo motivo di credere che in quel tempo neppure don Bosco vi pensasse. L'unica decisione importante presa durante il suo passaggio fu la costruzione di un collegio per ragazzi, di cui don Pestarino si assunse l'incarico. L'iniziativa suscitò un grande entusiasmo e la popolazione generosamente offrì la sua collaborazione.

La casa dell'Immacolata (1867).

Nel 1867, la costruzione del collegio era già ben avviata. D'accordo con don Bosco, don Pestarino andò ad occupare la parte terminata e propose alle Figlie della Pia Unione di abitare in comunità nella casa che egli lasciava a loro disposizione. Maria accettò con gioia, ma dovette prima vincere le difficoltà sollevate dai genitori che pensavano ad accasarla al più presto. L'amica Petronilla e due altre Figlie, Giovanna Ferrettino e Teresa Pampuro, la seguirono nell'ottobre del 1867. Cominciò così la vita comune. Alcune interne completavano inizialmente il quadro di quella che si chiamò la «casa dell'Immacolata». Le Figlie riunite nella casa facevano funzionare il loro piccolo laboratorio, si occupavano delle ragazze la domenica e assistevano qualche ammalato del paese. La loro forma di vita era semplice, popolana. Le pratiche di pietà non venivano fatte in comunità, ma in parrocchia, dove si recavano per la messa e il rosario. Il 13 dicembre di quell'anno 1867, don Bosco venne di nuovo a Mornese per la benedizione della cappella del futuro collegio e s'incontrò con le Figlie. Col crescere della famiglia, si sentì la necessità di avere una tra loro a cui riferirsi. Così fu scelta Maria a capo della casa. Aveva ormai trent'anni. A poco a poco, la vigilanza di don Bosco sul gruppo di Mornese si faceva più efficace, senza per altro che si possa dire in

che momento egli abbia progettato di servirsene per gettare le basi di una congregazione. Nel mese d'aprile del 1869, don Bosco inviò loro un orario o regolamento per il buon andamento della casa e per l'educazione delle ragazze. Quest'orario prevedeva la messa giornaliera, ma senza fermarsi troppo in chiesa, un po' di lettura spirituale e il rosario verso sera. I consigli di don Bosco riguardavano l'esercizio della presenza di Dio, l'amore al lavoro, un carattere lieto e amabile, lo zelo per la salvezza delle anime. Per quanto riguardava l'educazione, don Bosco dava alcune raccomandazioni: «farsi amare più che temere dalle fanciulle», vigilanza continua e amorosa, tener le ragazze occupate fra la preghiera, il lavoro e la ricreazione, combattere la menzogna, la vanità e la leggerezza. L'8 maggio 1870, don Bosco ritornava a Mornese per la prima messa del nipote di don Pestarino e per intrattenersi con le Figlie. Il 10 luglio 1870 scriveva a don Pestarino per invitarlo a Torino per parlargli «dei nostri affari». L'anno 1871 fu decisivo. Alla fine del mese d'aprile, venne a Mornese per occuparsi del nuovo collegio, destinato ormai per le Figlie dell'Immacolata. Nel mese di giugno, in una conferenza privata tenuta con don Pestarino all'Oratorio, don Bosco gli dichiarò «il suo desiderio di pensare per l'educazione cristiana delle fanciulle del popolo», precisando che «Mornese sarebbe stato il luogo che conosceva più adatto per tale Istituto». Risoluto a dar principio ad un Istituto di Suore per l'educazione cristiana della gioventù femminile, don Bosco incaricò don Pestarino di cercare a Mornese le prime vocazioni alla vita religiosa e a consegnare loro la Regola. Fu per tutte una grossa sorpresa. Da molto tempo Maria aveva rinunciato a quest'idea da lei giudicata irrealizzabile. Tuttavia si dichiarò subito contenta ed esortò le altre a seguirla, a cominciare dalla sorella Felicina e dall'amica Petronilla. Il 29 gennaio 1872, giorno dedicato a san Francesco di Sales, don Pestarino riunì tutte le Figlie per le prime elezioni previste dalle Regole. Maria Domenica fu eletta superiora con una quasi unanimità di voti. La vigilia del 24 maggio dello stesso anno, come previsto, la comunità lasciò la casa dell'Immacolata e si trasferì nel collegio. Il 5 agosto 1872, Maria Domenica prese l'abito delle Figlie di Maria Ausiliatrice e fece la

professione religiosa insieme con dieci compagne, alla presenza del vescovo d'Acqui e di don Bosco. La sua storia si confonderà ormai con quella del nuovo Istituto.

Capitolo XV.

L'ISTITUTO DELLE FIGLIE DI MARIA AUSILIATRICE FINO ALLA MORTE DI DON BOSCO (1872-1888).

Progetti di don Bosco.

Senza che sia possibile determinare con esattezza quando e come gli sia venuta l'idea di fondare un Istituto femminile, è certo che fin dagli anni 1860 don Bosco sognava di fare qualcosa per la gioventù femminile. Eppure esitava. La sua vocazione era proprio quella d'impegnarsi in un'opera verso la quale sentiva poca inclinazione? Per deciderlo furono necessarie le richieste insistenti di alcuni vescovi e di altre autorevoli persone. «I Salesiani riescono così bene con i ragazzi. Si sarebbe don Bosco accontentato di questo, trascurando l'altra parte di gioventù?». Ecco in sintesi i discorsi che gli erano fatti. Tra il 1860 e il 1862 don Bosco ebbe vari incontri e contatti con persone e opere che potevano aiutarlo a realizzare il progetto, in particolare con l'opera femminile di suor Maria Luisa Angelica Clarac, direttrice di un'importante opera sociale a Torino, e con Benedetta Savio, direttrice di un asilo infantile a Castelnuovo d'Asti. Nel 1862 venne anche a conoscere don Pestarino e il suo ministero nella parrocchia di Mornese. Inoltre, come accadeva spesso nei momenti di perplessità, alcuni sogni venivano a farlo riflettere. Essi ci permettono di conoscere lo stato

d'animo del momento. Nella notte dal 5 al 6 luglio 1862, gli pareva di conversare con la marchesa Barolo. Al termine del colloquio, egli stesso aveva pronunciato le seguenti parole: «Ebbene; io debbo procurare che il sangue di Gesù Cristo non sia sparso inutilmente, tanto pei giovani quanto per le fanciulle». Un'altra volta, secondo don Francesia, vide in sogno un numero immenso di ragazze che giocavano su una piazza di Torino, abbandonate a se stesse. Appena lo scorsero, si precipitarono verso di lui supplicandolo di volersi occupare di loro. «Io cercava di allontanarmi da loro - raccontava egli stesso - dicendo che non poteva, che altri sarebbero venuti in loro salute, perché era diversa la mia missione». Allora vide comparire una nobile signora che, tutta risplendente in viso, con bella parola, lo incoraggiava ad appagare il loro desiderio. E mentre pareva che scomparisse in mezzo a loro, gli ripeteva: «Abbine cura, sono mie figlie». Nel maggio del 1868, alla fine della costruzione della chiesa Maria Ausiliatrice a Torino, egli manifestò a don Giovanni Cagliero «il divisamento d'istituire una Congregazione di zitelle, con abito religioso e voti semplici, la quale avesse come noi Salesiani lo scopo di educare le figlie del popolo e nello stesso tempo prendesse cura dei vestiti e della biancheria dei giovanetti ricoverati nelle nostre case». Un intervento molto significativo fu la consegna nel 1869 di un orario-programma per le Figlie che facevano vita comune nella casa dell'Immacolata. Stessa confidenza a don Francesia, al quale disse nel 1870 che era tempo di stabilire una Congregazione che faccia per le ragazze quello che i Salesiani fanno per i giovanetti. «Ma, caro don Bosco, aveva replicato Francesia, non si riposa mai dal mettere mano a cose nuove?». Fino a quel momento le cose avevano dato l'impressione di andare a rilento. Ma una volta presa la decisione, si poteva esser certi che egli avrebbe bruciato le tappe.

Nascita dell'Istituto delle Figlie di Maria Ausiliatrice (1872).

La decisione fu realizzata nel giro di un anno o poco più, tra il 1871 e il 1872. Secondo don Amadei, don Bosco avrebbe parlato apertamente della sua intenzione ai membri del Capitolo superiore il 24 aprile 1871. La data resta discutibile, ma don Bosco avrà certamente consultato i suoi consiglieri. Sicuro invece è il fatto che, il 24 aprile 1871, don Bosco scrisse una lettera a madre Enrichetta Dominici, superiora delle Suore di Sant'Anna di Torino, fondate dalla marchesa Barolo, per chiederle una collaborazione nella stesura delle Costituzioni dell'Istituto femminile che intendeva fondare. Da quella lettera risulta chiaramente per la prima volta che don Bosco aveva l'intenzione di fondare un Istituto religioso femminile con le «Figlie dell'Immacolata» di Mornese. Veniva precisato inoltre che le future religiose dovranno avere caratteristiche simili ai Salesiani: «In faccia alla Chiesa siano vere religiose, ma in faccia alla civile società siano altrettante libere cittadine». Le future Costituzioni dunque sarebbero modellate su quelle dei Salesiani e su quelle delle Suore di S. Anna. Nel mese di giugno 1871, don Pestarino ebbe un incontro decisivo a Torino con don Bosco. L'Istituto, detto delle Figlie di Maria Ausiliatrice, si farà con il gruppo delle Figlie dell'Immacolata di Mornese per «l'educazione cristiana delle fanciulle del popolo». Quando poi don Bosco fu ricevuto in udienza da Pio IX alla fine dello stesso mese di giugno, il Papa lo incoraggiò a proseguire. Avrebbe inoltre dichiarato a proposito della direzione delle future religiose: «Dipendano esse da voi e dai vostri successori a quella guisa che le Figlie della Carità di san Vincenzo de' Paoli, dipendono dai Lazzaristi. In questo senso formulate le loro Costituzioni e cominciate la prova. Il resto verrà in appresso». Così venne fatto. Verso la fine del 1871, un primo abbozzo di Regole per le «Figlie di Maria Ausiliatrice» era da lui consegnato a don Pestarino. La malattia che in quel tempo lo colpì, costringendolo a letto

per cinquanta giorni a Varazze, fu causa di qualche ritardo. Tuttavia, egli fece procedere all'elezione della Superiora e del Capitolo, e ciò fu fatto il 29 gennaio del 1872, il giorno della festa di san Francesco di Sales. Su ventisette voti, ventuno andarono a Maria Mazzarello. Dopo la sua elezione, ella non volle essere chiamata superiora, ma accettò soltanto il titolo di prima assistente o vicaria. L'amica Petronilla diventò «seconda assistente»; sua sorella Felicina, maestra delle novizie e Giovanna Ferrettino, economa. Un problema rimaneva insoluto, quella della casa madre del nuovo Istituto. Poiché la curia diocesana si era opposta all'apertura di un collegio per ragazzi che avrebbe danneggiato il piccolo seminario della diocesi, don Bosco decise di insediarvi le religiose e le loro alunne, incaricando don Pestarino di fare quanto era necessario. Davanti a tale cambiamento, gli abitanti di Mornese gridarono apertamente al tradimento. Il trasloco fu fatto il 23 maggio 1872, ma le Figlie di Maria Ausiliatrice mossero i primi passi nella vita religiosa in un clima d'incomprensione, anzi di ostilità. Si aggiunse a questo la povertà e le privazioni, che erano grandi. Il 5 agosto 1872, festa della Madonna della neve, fu un grande giorno per la comunità, nonché la data ufficiale della fondazione dell'Istituto. Alla presenza di don Bosco, il vescovo della diocesi, mons. Sciandra, presiedeva la cerimonia della prima vestizione e della prima professione religiosa. Erano in quindici a ricevere l'abito delle Figlie di Maria Ausiliatrice, delle quali undici emisero i loro primi voti triennali. Al termine don Bosco prese la parola: «Voi siete in pena, ed io lo veggo con gli occhi miei, perché tutti vi perseguitano e vi deridono, e i vostri parenti stessi vi voltano le spalle; non vi dovete stupire. E voi vi farete sante, e col tempo potrete far del bene a tante altre anime, se vi manterrete umili». Le Suore assunsero allora ufficialmente il nome di Figlie di Maria Ausiliatrice. Don Bosco aveva scelto questo titolo perché il nuovo Istituto doveva essere «il monumento vivo della sua gratitudine alla Vergine santa sotto il titolo di Aiuto dei cristiani». Prima di lasciare Morne

se la sera di quel giorno, don Bosco confermò suor Maria Mazzarello nel suo ruolo di superiora: «Non posso aggiungere altro alla comune esultanza - egli disse - se non che si continui ad essere dipendenti da lei, che vogliate riconoscere come vostra superiora suor Maria Mazzarello e come tale ascoltarla e ubbidirla».

I primi passi dell'Istituto (1872-1876).

Dopo questi avvenimenti, la comunità si mise all'opera con rinnovato ardore. Madre Mazzarello infondeva al nascente Istituto uno spirito originale, caratterizzato da una grande semplicità di vita, da una povertà allegra, dal lavoro unito alla preghiera. Un grosso punto oscuro era costituito dalla mancanza d'istruzione della maggior parte delle Suore. Da Torino, don Bosco inviò delle maestre che facessero loro un po' di scuola. Madre Mazzarello imparò allora a scrivere. Contemporaneamente, il loro direttore le obbligò a lasciare il dialetto per l'italiano, suscitando commenti tra la gente del paese. Nel mese di febbraio del 1873, due religiose della Congregazione di S. Anna, su richiesta di don Bosco, vennero da Torino per iniziarle al tenore di vita di una comunità regolare. Intanto, a Mornese giungevano delle postulanti, spesso inviate da don Bosco. Il 5 agosto 1873, nove nuove reclute vestirono l'abito religioso e tre novizie pronunciavano i voti triennali. Si racconta che uno dei predicatori degli esercizi non era rimasto affatto incantato della co

munita di Mornese e non nascose al Fondatore i difetti che aveva riscontrati: ignoranza, incapacità, disordine. «Bene, bene, rispose semplicemente don Bosco, vedremo, vedremo», aggiungendo che se le sue case nascevano nel disordine, finivano sempre col rientrare nell'ordine. Ritornato a predicare tre anni dopo, il prelato avrebbe affermato che era stato costretto a mutare completamente parere. Se don Bosco e don Pestarino provvedevano al reclutamento, il discernimento e la formazione delle vocazioni spettavano a suor Maria. Sfortunatamente, nel gregge delle nuove venute vi era sempre qualche pecora pazzerella, priva di buon senso o di misura. Una giovane vedova di Torino, mandata da don Bosco, poco mancò che mettesse tutto sossopra con la sua mania di dettar legge a tutti e di attuare riforme secondo il modello di convento che essa si era formato. Alcuni spiriti ribelli provocarono nella comunità qualche agitazione, che fu causa dell'uscita dall'Istituto di alcune novizie. Una postulante dalle apparenze di santa finì male dopo aver dato origine nella casa a manifestazioni sospette e, secondo alcuni, perfino diaboliche. Troppo modesta per imporsi con forza, suor Mazzarello aveva un dono d'intuizione che in questi casi le era di grande aiuto. Nonostante questi fenomeni che agitavano alcuni spiriti irrequieti, il nuovo Istituto progrediva nel suo consolidamento interno. Sotto questo aspetto l'anno 1874 fu importante. Don Bosco, mentre faceva approvare le Costituzioni dei Salesiani, otteneva che l'Istituto delle Figlie di Maria Ausiliatrice fosse innestato sul tronco della Società salesiana, «incastrato nella Congregazione». Per la prima volta usò allora l'espressione «le nostre Suore». Il superiore dei Salesiani diventava di diritto quello delle Figlie di Maria Ausiliatrice, secondo il pensiero espresso da Pio IX tre anni prima. Un altro avvenimento importante fu la nomina di don Giovanni Cagliero a «direttore generale», con l'incarico di guidare l'Istituto a nome del Rettor maggiore, mentre era inteso che Mornese avrebbe conservato il suo «direttore particolare». Questo sta ad indicare quanto a Torino si pensasse seriamente all'avvenire del gruppo femminile. Infine, nelle elezioni del 15 giugno 1874, suor Mazzarello fu ufficialmente designata dal voto unanime delle professe alla carica di Superiora generale. Questa volta dovette rassegnarsi ad abbandonare il titolo di «vicaria», che fino a quel momento le aveva permesso di illudersi. Il 15 maggio 1874 era morto don Pestarino. Con la sua scomparsa

così riferiva un teste - Madre Mazzarello ebbe l'impressione di vedere crollare tutto l'Istituto. Il defunto fu sostituito da don Giuseppe Cagliero, cugino del direttore generale. Ma qualche mese dopo decedeva anche lui. Giunse allora a Mornese don Giacomo Costamagna il quale, in pochi anni, con la sua forte personalità lascerà una traccia profonda nella casa. Attivo, musico e dal carattere forte, questo grande salesiano, che morrà vescovo in America, per tre anni incarnerà in essa il dinamismo dello spirito salesiano. Mentre l'Istituto si sviluppava e si organizzava nel miglior modo possibile a Mornese, si assisteva alla prima fondazione. La fama del Fondatore, l'aiuto dei loro fratelli in religione e la saggezza del governo di madre Mazzarello contribuirono largamente all'espansione piuttosto sorprendente delle Figlie di Maria Ausiliatrice. La prima partenza da Mornese avvenne l'8 ottobre 1874. Su richiesta di don Bosco, un piccolo gruppo guidato da suor Felicina Mazzarello andava a stabilirsi presso il collegio salesiano di Borgo S. Martino con il compito di attendere alla cucina ed alla biancheria dei convittori. Si racconta che la prima reazione delle Suore all'annuncio di questa partenza non fu di gioia, ma di sgomento, poiché entrando a Mornese ciascuna aveva pensato di rimanervi fino alla morte. Il 28 agosto 1875, alla presenza di don Bosco, madre Mazzarello e dodici sue consorelle facevano la professione perpetua, mentre quindici postulanti erano ammesse al noviziato. Nell'ottobre dell'anno successivo furono ammesse nel consiglio due assistenti, che avranno un ruolo eminente nell'Istituto: suor Emilia Mosca e suor Enrichetta Sorbone.

Le Costituzioni approvate dal vescovo diocesano (1876).

Il 23 gennaio 1876, le Regole dell'Istituto furono approvate da I mons. Sciandra, vescovo di Acqui. Prima di stamparle, don Bosco volle sottoporle per qualche tempo alla prova dell'esperienza. Soltanto nel 1878 sarà edito il volumetto e consegnato alle religiose. Conviene qui notare che don Bosco non cercò mai di fare approvare l'Istituto dalle autorità romane. È questa una specie di anomalia nella vita del Fondatore, tanto più sorprendente quanto più si conoscono i suoi sforzi per sottrarre la Società salesiana all'autorità diocesana. Tra le ragioni che hanno potuto guidarlo in questo modo di agire, certamente vi era il timore che la Curia romana trovasse inaccettabile una dipendenza così stretta delle Suore rispetto ai Salesiani. Le prime Costituzioni delle Figlie di Maria Ausiliatrice, che rispecchiano spesso quelle delle Suore di S. Anna e quelle dei Salesiani, erano divise in sedici «titoli». Lo scopo dell'Istituto era di «attendere alla propria perfezione e di coadiuvare alla salute del prossimo, specialmente col dare alle fanciulle del popolo una cristiana educazione». Sarà loro cura speciale «assumere la direzione di scuole, educatori, asili infantili, oratori festivi, ed anche aprire laboratori a vantaggio delle zitelle più povere nelle città e villaggi» (titolo I). L'Istituto era «sotto l’immediata dipendenza del Superiore generale della Società di S. Francesco di Sales», che nomina un «direttore generale» e si fa rappresentare da un «direttore locale», ma per ciò che riguarda il regime interno dell'Istituto, esso è governato dalla Superiora generale (titolo III). Le virtù che facevano l'oggetto di un'attenzione particolare erano la carità paziente e zelante, la semplicità e modestia, lo spirito di mortificazione interna ed esterna, la rigorosa osservanza della povertà, l'obbedienza di volontà e di giudizio, e uno spirito d'orazione tale che andasse «di pari passo la vita attiva e contemplativa» (titolo IX). Madre Mazzarello professava grande rispetto per le Regole che considerava come «date da Dio per mezzo di don Bosco». Si sforzava quindi continuamente di osservarle con la maggior esattezza possibile e di farle osservare dalle Suore.

prima espansione dell'Istituto (1876-1879).

L'anno 1876 fu particolarmente ricco di sviluppi imprevisti. Si assistette alla partenza da Mornese di trentasei Figlie di Maria Ausiliatrice in sette direzioni diverse. Nel mese di febbraio, le prime si diressero verso Bordighera, in Liguria, dove, accanto ai Salesiani, aprirono ben presto un oratorio ed una scuola per ragazze. Il 29 marzo, un secondo gruppo giungeva a Torino «vicino a don Bosco» e dava inizio ad un'opera analoga nel quartiere di Valdocco. Nuova partenza il 7 settembre per Biella, dove il vescovo affidava loro le mansioni materiali nel suo seminario. Un altro gruppo, partito il 12 ottobre, assunse il medesimo lavoro ad Alassio nel collegio salesiano. L'8 novembre, un gruppo si dirigeva a Lu Monferrato, dove apriva un asilo e un oratorio. Nel mese di dicembre, due Suore andavano a mettersi a disposizione del collegio salesiano di Lanzo. Due anni dopo andarono anche a Chieri e a Quargnento. L'anno 1877 vide le prime fondazioni in Francia. Le Figlie di Maria Ausiliatrice andarono a Nizza Marittima (Nice), accanto ai Salesiani. Un'altra fondazione doveva seguire a La Navarre, presso Tolone, nel 1878. Nel 1877, si era aperta anche l'era delle fondazioni lontane e dell'entusiasmo per le missioni. Dal momento che i Salesiani si erano stabiliti nell'America del Sud nel 1875, era comprensibile che avessero provato il bisogno di farsi aiutare dalle Suore. Madre Mazzarello accompagnò il primo gruppo di sei giovani missionarie prima a Roma, dove furono ricevute da Pio IX il 9 novembre, poi fino al porto di Genova, da dove partirono con la terza spedizione dei Salesiani il 14 novembre. Guidate da don Costamagna, esse sbarcarono a Montevideo il 17 dicembre ed andarono a stabilirsi a Villa Colon, non lontano dalla capitale uruguayana, dove i Salesiani avevano un collegio. Là dove arrivavano, le Figlie di Maria Ausiliatrice praticavano un apostolato dalle forme molteplici. Mentre in alcuni posti attendevano alla cucina e alla lavanderia presso le opere dei Salesiani, le Suore si dedicavano ai bambini e alle ragazze negli oratori, asili infantili, scuole elementari, laboratori, e catechismi. Le difficili condizioni di vita e la povertà provocarono nei primi anni un numero eccessivamente alto di decessi, ma la nuova Congregazione aveva il vento in poppa: le alunne, le case, le vocazioni si moltiplicavano.

Ultimi anni di madre Mazzarello a Nizza Monferrato (1879-1881).

Nel 1877, don Bosco aveva acquistato a Nizza Monferrato un ex convento cappuccino ed una chiesa sconsacrata. Voleva mettervi la casa madre delle Figlie di Maria Ausiliatrice. La casa di Mornese, infatti, era divenuta troppo piccola, le comunicazioni difficili, senza contare che alcune ostilità non si erano placate. Il trasloco avvenne il 4 febbraio 1879. Nella nuova sede furono aperte una scuola elementare, una scuola professionale di cucito e una scuola normale per la formazione delle future maestre. Nuove fondazioni furono realizzate in Piemonte: a Cascinette, a Borgomasino, a Melazzo e a Penango. Nel Veneto si ebbe una prima presenza nel 1880, presso il collegio salesiano d'Este. In quello stesso anno 1880, scendevano in Sicilia, per prendere la direzione di un orfanotrofio a Catania e di un'opera a Bronte, e aprivano una nuova opera in Francia, assumendo la direzione di un orfanotrofio agricolo femminile a Saint-Cyr, presso Tolone. Grazie ad una seconda spedizione di dieci missionarie nel 1879, le Figlie di Maria Ausiliatrice poterono metter piede in Argentina. Ad Ai- magro, un sobborgo di Buenos Aires, s'insediarono in un povero ranchito, vicino al collegio salesiano, e aprirono le prime scuole per gli emigrati. Alcuni mesi dopo, tre di loro si avventurarono nel famoso quartiere di La Boca. Intanto si era aperta una nuova casa in , a Las Piedras, dove lanciarono le scuole, l'oratorio e i catechismi. Nel mese di gennaio del 1880, le prime Figlie di Maria Ausiliatrice, guidate da suor Angela Vallese, arrivarono in vera terra di missione, a Carmen de Patagones, dove cominciarono a lavorare tra gli immigrati e tra gli Indi araucani e patagoni. Furono le prime religiose che calpestavano quelle terre australi. Nella terza spedizione missionaria del 1881 partirono di nuovo dieci Suore, di cui sei per l'Argentina e quattro per l'Uruguay. A Nizza si tenne nel 1880 l'assemblea che doveva procedere a nuove elezioni. Nonostante i suoi sforzi per fare eleggere un'altra Superiora generale, tutti i voti si orientarono su madre Mazzarello. Come vicaria fu scelta suor Caterina Daghero.

Ma la salute della Madre era già scossa. Mentre accompagnava a Marsiglia il terzo gruppo di missionarie, cadde gravemente ammalata nel mese di febbraio del 1881. Venne curata per più di un mese nella casa di Saint-Cyr, dopodiché si mise in viaggio per il ritorno. Durante una sua visita, don Bosco le raccontò l'apologo della Morte, la quale, quando venne a bussare alla porta del convento e vide che nessuna era ' disposta a seguire il suo invito, dovette rivolgersi alla superiora. La Madre comprese l'accenno, tanto più che aveva offerto la sua vita per l'Istituto. Ritornata a Nizza, morì il 14 maggio 1881 all'età di 44 anni. Lasciava una bella eredità: 166 Suore professe, 48 novizie e 26 case, tra cui ve n'erano 17 in Italia, 3 in Francia, 2 in Uruguay e 4 in Argentina.

Madre Caterina Daghero, Superiora generale (1881).

Dopo la morte di madre Mazzarello, le responsabili dell'Istituto riunite a Nizza il 12 agosto, elessero come Superiora generale la sua vicaria, la venticinquenne suor Caterina Daghero. Nata a Cumiana, nelle vicinanze di Torino, il 7 maggio 1856, era entrata a diciotto anni nell'incipiente Istituto. I suoi primi anni a Mornese furono duri. Pur essendo donna di temperamento attivo, aveva sognato una vita di silenzio e di solitudine che non trovava nella casa. Orfana di madre, e molto attaccata al padre e alla famiglia, soffriva di nostalgia. Madre Mazzarello l'aiutò a superare le sue difficoltà. Dopo i primi voti, emessi il 28 agosto 1875, suor Caterina non tardava ad avere mansioni di responsabilità. L'anno seguente, partecipava alla fondazione di Torino, come vicaria di suor Elisa Roncallo, poi, a cominciare dal 1879, come direttrice. Incoraggiata dalla vicinanza di don Bosco, si mostrava molto intraprendente nell'oratorio e nella scuola, senza trascurare i propri studi. Nel mese di marzo del 1880, la troviamo a capo dell'orfanotrofio di Saint-Cyr, in Francia. Compito delicato, poiché si trattava di sottentrare ad un'altra direzione, ma che ella assolse felicemente. Suor Daghero era decisamente molto quotata. Infatti, alcuni mesi dopo, alle elezioni fu designata vicaria della Superiora generale. Con le

sue qualità di grande equilibrio e bontà, ella fu posta alla guida della Congregazione il 12 agosto 1881. Data la sua giovane età, fu necessario chiedere una dispensa al Rettor maggiore. Sotto l'impulso di madre Daghero, l'Istituto continuò ad espandersi grazie all'incremento continuo di vocazioni. Tra il 1881 e il 1888, una ventina di nuove case furono aperte in Italia, soprattutto in Piemonte, in Liguria (Sampierdarena), e in Sicilia (Trecastagni, Nunziata, Cesarò). Notiamo subito che in Sicilia l'opera delle Figlie di Maria Ausiliatrice era destinata ad un grande sviluppo sotto l'impulso di una superiora eccezionale, suor Maddalena Morano. Alcune case tuttavia ebbero un'esistenza breve. In Francia, le Figlie di Maria Ausiliatrice giunsero a Marsiglia e a Guines. Nel 1886, a Sarrià (Barcellona), fu aperta la prima casa in Spagna. Nell'America del sud, le Suore cominciarono a lavorare a Paysandù, nell'Uruguay, a Morón, nella provincia di Buenos Aires, e a Viedma, nella Patagonia. Nel 1886, la Madre poteva scrivere: «Le Suore e le case vanno ogni anno moltiplicandosi, e il Signore pietoso si compiace di servirsi anche di noi poverette, per fare del bene a più migliaia di fanciulle». Seguendo l'esempio di colei che l'aveva preceduta, si metteva in viaggio per prendere contatto sul posto con le sue figlie, in Piemonte, in Liguria, in Sicilia, in Francia e in Spagna. I due primi Capitoli generali dell'Istituto furono celebrati a Nizza Monferrato nel 1884 e nel 1886. Compito specifico del primo fu la revisione delle Costituzioni, di cui si pubblicò un anno dopo il testo «definitivo». Il secondo fu all'origine di un importante volumetto di Deliberazioni, che seguono da vicino quelle dei Salesiani. Tutta la materia infatti era divisa in cinque parti: 1) Regolamenti speciali (per i Capitoli generali, per il Capitolo superiore, per l'ispettrice, per la direttrice, per gli oratori festivi); 2) Vita comune; 3) Moralità e pietà; 4) Studi; 5) Economia.

Alla morte di don Bosco, l'Istituto delle Figlie di Maria Ausiliatrice poteva rallegrarsi di aver fatto in pochi anni molta strada, con cinquanta case, un centinaio di novizie e 390 Suore. Sotto la direzione dinamica e saggia di madre Daghero, allora appena agli inizi, erano da aspettarsi nuovi sviluppi.

Capitolo XVI.

LE ORIGINI DELL'UNIONE DEI COOPERATORI SALESIANI (1876).

Si aspettava il «Salesiano nel mondo», giunse invece il «Cooperatore salesiano». Così si potrebbe definire lo smacco subito da don Bosco in un progetto che gli era caro. Effettivamente, nel tentativo di creare dei Salesiani che appartenessero di pieno diritto alla Congregazione, ma che non fossero legati da voti né tenuti alla vita comune, don Bosco ha subito, diciamo, un mezzo insuccesso. Forse il suo piano era veramente irrealizzabile, almeno in quel tempo. L'Unione dei Cooperatori Salesiani nacque ufficialmente nel 1876, poco dopo l'approvazione definitiva della Società salesiana e quando l'Istituto delle Figlie di Maria Ausiliatrice era già avviato. Era il punto d'arrivo di una lunga storia incominciata agl'inizi dell'Oratorio.

I primi aiutanti di don Bosco.

Come per la Società salesiana, don Bosco amava far risalire l'origine dei Cooperatori agl'inizi dell'Oratorio. Ad aiutarlo nell'assistere decine e poi centinaia di ragazzi vi erano, in effetti, non solo ecclesiastici, ma anche laici. «La storia dei Cooperatori Salesiani - scriverà più tardi - rimonta al 1841, quando si cominciò a raccogliere i ragazzi poveri e abbandonati della città di Torino», spiegando poi che «al disimpegno dei molti e svariati uffizi unironsi parecchi signori che coll'opera personale e colla loro beneficenza sostenevano la così detta opera degli Oratori festivi. Essi prendevano il nome dall'uffizio che coprivano, ma in generale erano detti benefattori, promotori ed anche cooperatori». Già nel 1845, in una supplica alla Santa Sede, chiedeva favori spirituali per cinquanta persone dell'Oratorio. In una nuova supplica nel 1850, «il sacerdote torinese Giovanni Bosco» esponeva al Papa «essere stata legittimamente eretta in quella città una Congregazione», che si occupava di «istruire nella religione e nella pietà la gioventù abbandonata». Nel senso largo della parola, la «Congregazione» per la quale si chiedevano favori spirituali non poteva essere altro che una specie d'associazione che raggruppava tutti gli aiutanti, «promotori» o cooperatori degli oratori. Tra i primi ecclesiastici che lo aiutarono nei diversi compiti del ministero e dell'assistenza presso i ragazzi, don Bosco amava ricordare specialmente il teologo Giovanni Borel e don Giuseppe Cafasso. Tra i laici che prestarono i loro servizi per fare catechismo e scuola o per trovare un lavoro ai disoccupati figuravano alcuni nomi illustri dell'aristocrazia e della borghesia torinese: Gonella, Cotta, Dupré, di Camburzano, Cays di Giletta, de Maistre, Viancino, Callori, Fassati ed altri. Vi erano anche aiutanti di più umile condizione, come il chincagliere Giuseppe Gagliardi, che consacrava ai giovani dell'Oratorio il suo tempo libero ed i suoi risparmi. Con il passare degli anni, don Bosco potrà citare liste intere di nomi celebri ed oscuri, di cui conservava fedelmente il ricordo.

Ma non vi erano solo uomini. Insieme con mamma Margherita, arrivata alla casa Pinardi sin dal 1846, si affaccendavano altre donne, alcune della più alta società, che si occupavano della biancheria e dei vestiti della casa. Ve n'era bisogno, diceva don Bosco, poiché tra quei «poveri ragazzi», «ve ne erano di quelli che non potevano mai cambiarsi quello straccio di camicia che avevano indosso o erano così sporchi che nessun padrone consentiva ad accoglierli nel suo laboratorio». Tra le donne che si distinsero in questa mansione modesta e spesso ripugnante, si citava in prima fila, con la marchesa Fassati, la madre del futuro arcivescovo Gastaldi. Aveva assunto lei l'incarico di far lavare la biancheria e di distribuirla ogni sabato. La domenica, ella stessa passava in rivista i letti dei convittori, poi, «come un generale d'armata», riuniva le sue truppe e ispezionava minuziosamente gli abiti e la pulizia di ognuno. Molti di questi benevoli aiutanti, sia ecclesiastici sia laici, si assumevano le spese. Un sacerdote dava per i ragazzi di don Bosco tutto il denaro che riceveva dai genitori benestanti; un banchiere versava una pensione regolare; i risparmi di un artigiano erano messi a servizio di quelli più poveri di lui. Più tardi, nel 1862, generalizzando un po' le cose per ottenere approvazione e aiuto, don Bosco scriverà che «in tutto il personale di questa casa e di tutti gli oratori comprese le persone di servizio non v'è alcuno stipendiato, ma ognuno presta gratuitamente l'opera sua». L'esperienza quotidiana della dedizione di questi uomini e di queste donne farà scaturire dalla mente di don Bosco idee nuove.

Un tentativo senza seguito (1850).

E del 1850 un'iniziativa alquanto velata di mistero. In un momento in cui la libertà dei culti e della stampa proclamata dopo il 1848 appariva a molti come una grave minaccia per la religione cattolica, don Bosco avrebbe deciso di lanciare un contrattacco con un piccolo gruppo di laici decisi.

Stando a quanto riferisce la «copia di deliberazione costitutiva» pubblicata dall'autore delle Memorie biografiche, si radunarono, la sera del 17 novembre 1850, sette uomini di fiducia «tutti cattolici e laici». Di fronte agli «abusi della libera stampa in materie religiose», alla «sacrilega guerra dichiarata da molti cattivi cristiani contro la Chiesa ed i suoi ministri», e al «pericolo di vedere in Piemonte la religione vera soppiantata dal protestantesimo», decisero di costituirsi in «Pia Unione provvisoria sotto la protezione di S. Francesco di Sales». La scelta del Patrono si giustificava «per ragione di analogia tra le circostanze attuali del nostro paese e quelle della Savoia ai tempi di detto Santo, il quale col suo zelo illuminato, predicazione prudente e carità illimitata l'ha liberato dagli errori del protestantesimo». Questo primo gruppo sarebbe stato «il principio di un consorzio in grande». Suo scopo era di attendere a «tutte quelle opere di beneficenza istruttiva, morale e materiale che si ravviseranno le più adatte e speditive ad impedire all'empietà di fare ulteriori progressi, e se è possibile, sradicarla dove già fosse radicata». Nonostante il tono battagliero, si costata che le armi da utilizzare erano le opere di beneficenza, come quelle cui si dedicava don Bosco. La Pia Unione doveva essere una «istituzione laicale», senza escludere eventualmente gli ecclesiastici. I sette uomini presenti si divisero tra loro per reciproco consenso le incombenze della società, prendendo il titolo di «promotori». Promisero poi di impegnarsi per trovare nuovi membri, usando però le necessarie cautele per non introdurre «ipocriti o fratelli di equivoca cattolicità o di zelo esagerato». Si precisava inoltre che «le persone che consentiranno soltanto a condizione di segreto sul loro nome, resteranno conosciute dal solo promotore che le avrà iscritte». Come si vede, la Pia Unione provvisoria rassomigliava ad una specie di massoneria cattolica. Se don Bosco ne fu l'ispiratore, il suo nome comunque non vi compare, probabilmente per non dare pretesto all'anticlericalismo e per attirare il maggior numero possibile di laici. Il tentativo non ebbe seguito. Secondo don Ceria, il quale ravvisava qui in embrione lontani elementi della futura Unione dei Cooperatori, il motivo dell'insuccesso stava nel fatto che «laici ordinati così in falangi a fiancheggiare la gerarchia ispiravano allora diffidenze e timori».

Una Società salesiana con due categorie (1858-1874).

Intanto, durante gli anni cinquanta, don Bosco cominciava a rivolgersi a giovani per avere futuri collaboratori, legati insieme prima con promesse, poi con voti. La futura Società salesiana prendeva forma, ma non per questo don Bosco abbandonava l'idea di riunire anche gli altri collaboratori, creando un solo consorzio con due rami. «Dal 1852 al 1858 - scrive nella sua memoria - furono concessi varii favori e grazie spirituali; ma in quell'anno la Congregazione fu divisa in due categorie o piuttosto in due famiglie. Coloro che erano liberi di se stessi e ne sentivano vocazione, si raccolsero in vita comune», mentre «gli altri ovvero gli esterni continuarono a vivere in mezzo al secolo in seno alle proprie famiglie, ma proseguirono a promuovere l'opera degli Oratori conservando tuttora il nome di Unione o Congregazione di S. Francesco di Sales, di promotori o cooperatori». In altri termini, l'unico gran consorzio, posto sotto la protezione di san Francesco di Sales, doveva essere composto da religiosi «interni» e da membri esterni, ecclesiastici e laici. Di fatto, nel 1861 fu ammesso nella Società salesiana don Giovanni Ciattino, un parroco della diocesi d'Asti, il quale essendo un membro esterno fu accettato come «terziario». Effettivamente, a partire dal 1860, le Costituzioni salesiane contenevano un capitolo intitolato «Esterni». Questo capitolo fu ampliato negli anni successivi e presentato a Roma, sotto il titolo 16, per l'approvazione della Società nel 1864. I primi due articoli dicevano esplicitamente: «1° Qualunque persona anche vivendo nel secolo, nella propria casa, in seno alla propria famiglia può appartenere alla nostra Società. 2° Egli non fa alcun voto; ma procurerà di mettere in pratica quella parte del regolamento, che è compatibile colla sua età, stato e condizione, come sarebbe fare o promuovere catechismi a favore dei poveri fanciulli, procurare la diffusione di buoni libri; dare opera perché abbiano luogo tridui, novene, esercizi spirituali ed altre simili opere di carità, che siano specialmente dirette al bene spirituale della gioventù o del basso popolo». L'articolo 3° prevedeva che si facesse «almeno una promessa al Rettore d'impiegarsi in quelle cose che egli giudicherà tor

nare a maggior gloria di Dio». L'articolo 5° era sorprendente, perché prevedeva che ogni membro interno della Società, che per qualche ragionevole motivo uscisse dalla medesima, sarebbe considerato come membro esterno. Che cosa penserà Roma di tutto questo? Nella sua relazione del 6 aprile 1864, il consultore della Congregazione dei Vescovi e Regolari scriveva chiaramente a questo proposito: «Crederei ben fatto cancellata tutti gli articoli di questo numero 16, come quelli che presentano una novità nelle affiliazioni all'Istituto di persone estranee, ed un vero pericolo, fatta ragione dei tempi che corrono e dei luoghi poco sicuri». Le osservazioni del pro-segretario Svegliati rincaravano la dose: «Non si può ammettere che persone estranee al pio Istituto vi siano iscritte per affiliazione». Don Bosco si difese. Ci teneva a salvare il «suo» capitolo, ma accondiscese a metterlo in appendice. Promosse alcuni cambiamenti (tra cui l'abolizione dell'articolo 5), e sottopose ancora una volta il tutto alle autorità romane. Infine, per ottenere l'approvazione definitiva delle Costituzioni nel 1874, dovette rassegnarsi a sopprimere gli articoli contestati. Fallì quindi il progetto iniziale di don Bosco.

Una specie di terz'ordine (1874-1876).

Un uomo come don Bosco non si scoraggia. Benché il suo piano fosse stato radiato dalle Costituzioni, egli era deciso a realizzarlo, a costo di fargli subire una metamorfosi. Pensò quindi di creare un'associazione separata, ma non senza vincoli con i Salesiani, cioè una specie di terz'ordine salesiano. Ma prima di trovare, nel 1876, la formula definitiva, egli tentò vari abbozzi successivi. Appena ritornato da Roma nel 1874, dopo l'approvazione delle Costituzioni, tracciava le grandi linee di una «Unione di S. Francesco di Sales». Si dice che i membri del Capitolo superiore e i direttori interrogati a questo proposito si dimostrassero poco entusiasti. Essi temevano di trovarsi di fronte ad una delle tante confraternite o associazioni di devoti. Per disingannarli, don Bosco fece loro vedere in seguito il pro

gramma che aveva elaborato sotto il titolo: (Associati alla Congregazione di S. Francesco di Sales». Lo scopo di questa «associazione salesiana» era di «unire i buoni cattolici in un sol pensiero e un solo lavoro per promuovere la propria e l'altrui salvezza secondo le regole della Società di S. Francesco di Sales». Su consiglio di qualche Salesiano, che trovava il progetto troppo complicato, don Bosco lo riprendeva, lo semplificava e lo fece stampare dandogli il titolo più generale di Unione cristiana. Si proponeva «alle persone che vivono nel secolo un tenore di vita, il quale in certo modo si avvicini a quello di chi vive di fatto in Congregazione religiosa», ed era precisato che si trattava di una specie di «terz'ordine degli antichi, con questa diversità, che in quelli si proponeva la perfezione cristiana nell'esercizio della pietà; qui si ha per fine principale la vita attiva specialmente in favore della gioventù pericolante». Questo regolamento fu ritoccato ancora una volta e stampato nel 1875 con il titolo: Associazione di opere buone. Soltanto nel 1876 don Bosco trovò la formulazione definitiva: Cooperatori Salesiani ossia modo pratico per giovare al buon costume ed alla civile società. Senza indugio, si accinse a procurarsi l'approvazione diocesana. Di fronte all'opposizione di mons. Gastaldi, che organizzava nello stesso tempo le forze cattoliche della diocesi, don Bosco si rivolse a vescovi benevoli come quelli di Albenga e di Genova e fece stampare il nuovo Regolamento con la loro approvazione. Il 9 maggio 1876, otteneva dal Papa Pio IX un breve, che equivaleva per lui ad un'approvazione da parte della Chiesa della «Pia Unione dei Cooperatori Salesiani». Con la sanzione pontificia del 1876, si realizzava un vecchio progetto di don Bosco, sebbene sotto una forma che egli avrebbe voluto diversa.

Il Regolamento del 1876.

Prima di considerare lo sviluppo che don Bosco seppe subito dare alla nuova associazione, è utile fermarsi sullo strumento di questo successo: il Regolamento del 1876. Era diviso in otto brevi capitoli con i seguenti titoli: I. Unione cristiana nel bene operare; II. La Congregazione salesiana vincolo di unione; III. Scopo dei Cooperatori Salesiani; IV. Maniera di cooperazione; V. Costituzione e governo dell'associazione; VI. Obblighi particolari; VII. Vantaggi; Vili. Pratiche religiose. In questo Regolamento pare che siano confluiti i diversi progetti e intuizioni di don Bosco per quasi trent'anni. Innanzitutto, anche se non viene esplicitato, è presente il richiamo a quelle prime forme di collaborazione o cooperazione che si praticavano all'inizio dell'Oratorio. Infatti, viene raccomandata ai Cooperatori «la carità verso i fanciulli pericolanti, raccoglierli, istruirli nella fede, avviarli alle sacre funzioni, consigliarli nei pericoli, condurli dove possono essere istruiti nella religione» (IV. 4). Scrivendo poi nel 1876, don Bosco descrive con linguaggio alquanto iperbolico il grave bisogno di Cooperatori per le «quotidiane richieste, che si fanno in vari paesi d'Italia e d'Europa, della Cina, dell', dell'America e segnatamente della Repubblica Argentina» (II). Dell'«Unione provvisoria» del 1850 ritroviamo invece il tono combattivo, poiché lo scopo dei Cooperatori è di lottare contro il male, seguendo l'esempio dei primi cristiani i quali, grazie alla loro unione fraterna, riuscivano a vincere «gli incessanti assalti da cui erano minacciati». Anche se non si parla più dell'eresia protestante da combattere o delle insidie dell'anticlericalismo, viene indicata tuttavia una maniera di cooperazione che consiste nell'«opporre la buona stampa alla stampa irreligiosa, mercé la diffusione di buoni libri, di pagelle, foglietti stam

pati di qualunque genere in quei luoghi e fra quelle famiglie, cui paia prudente di farlo» (IV. 3). Possiamo anche trovarvi vari ricordi dell'ex capitolo sui membri esterni della Società salesiana: «Perciocché molti andrebbero volentieri in un chiostro, ma chi per età, chi per sanità o condizione, moltissimi per difetto di opportunità ne sono assolutamente impediti. Costoro anche in mezzo alle loro ordinarie occupazioni, in seno alle proprie famiglie, possono farsi Cooperatori e vivere come se di fatto fossero in Congregazione» (III). A loro, come ai religiosi, viene proposta la ricerca della «perfezione cristiana», mediante «l'esercizio della carità verso il prossimo e specialmente verso la gioventù pericolante». Del primitivo progetto di una Congregazione unica comprendente membri interni ed esterni, pare che si possa percepire un'altra eco in un bel passo del capitolo sesto: «I membri della Congregazione salesiana considerano tutti i Cooperatori come altrettanti fratelli in Gesù Cristo, e a loro si indirizzano ogni volta che l'opera di essi può giovare in cose che siano della maggior gloria di Dio e vantaggio delle anime. Colla medesima libertà, essendone il caso, i Cooperatori si rivolgeranno ai membri della Congregazione salesiana» (VI. 1). Non potendosi chiamare confratelli, i religiosi di professione e i Cooperatori che vivono fuori delle comunità, saranno comunque fratelli gli uni per gli altri. L'aspetto materiale e di beneficenza a favore delle opere salesiane non poteva essere assente, anche se la domanda restava discreta. Per esempio, vi è un accenno ai luoghi dove «si manca di mezzi materiali» (IV. 1); si dice che si può cooperare «col somministrare mezzi materiali dove ne fosse mestieri, ad esempio dei fedeli primitivi che portavano le loro sostanze ai piedi degli apostoli» (IV. 4). Il capitolo sesto è più esplicito: «Ogni socio coi mezzi materiali suoi propri, o con beneficenze raccolte presso a persone caritatevoli, farà quanto può per promuovere e sostenere le opere dell'associazione» (VI. 2). Immediatamente, alcuni ridurranno la cooperazione all'aiuto pecuniario ai Salesiani. «Bisogna comprendere bene lo scopo della pia Unione», dirà don Bosco a Tolone nel 1882 spiegando che «i Cooperatori Salesiani non debbono solamente raccogliere limosine per i nostri ospizi, ma anche adoprarsi con ogni mezzo possibile per cooperare alla salvezza dei loro fratelli e in particolare modo della gioventù».

Per quanto riguarda il modo di affiliazione all'associazione, si potrà costatare una evoluzione verso una più grande facilità. Nel Regolamento del 1876, il candidato dice: «Io sottoscritto ho letto le regole dei Cooperatori Salesiani e colla divina grazia spero di osservarle fedelmente», mentre in quello stampato un anno dopo, sarà il superiore che dichiarerà che un tale «fu annoverato tra i Cooperatori Salesiani» e che potrà godere di tutte le grazie spirituali concesse a coloro che fanno parte di questa associazione e ne osservano le regole. Nella stesura del Regolamento, don Bosco dovette anche chiarire il ruolo dei Cooperatori all'interno della Chiesa e quindi prendere in considerazione l'autorità della gerarchia, specialmente dei vescovi. Di fatto l'associazione «avrà assoluta dipendenza» dal Sommo Pontefice, dai vescovi e dai parroci «in tutte le cose che si riferiscono alla religione» (V. 2). Conviene mettere in risalto questo punto, poiché non appariva nei primi progetti dell'associazione. Più tardi dirà addirittura che «il loro vero scopo diretto non è quello di coadiuvare i Salesiani, ma di prestare aiuto alla Chiesa, ai vescovi, ai parroci, sotto l'alta direzione dei Salesiani». Come si vede, il Regolamento dei Cooperatori del 1876 è un testo complesso, frutto di ideali e di necessità concrete, a volte con possibili interpretazioni diverse. Ma era un testo aperto, capace di suscitare adesioni ed entusiasmi.

I Cooperatori in Italia e all'estero.

Immediatamente dopo l'approvazione, don Bosco si mette al lavoro. Parla, viaggia, recluta. Aveva previsto che sarebbero stati necessari due anni per lanciare l'associazione. I termini saranno rispettati. Il metodo varia, ma i risultati sono eloquenti. Spesso, quando è certo che non vi sarà alcuna resistenza, si limita ad inviare al futuro Cooperatore il Regolamento con il diploma d'iscrizione. Per le alte personalità aggiunge una lettera personale. Ci tiene ad avere dei grandi e bei nomi che diano lustro ai suoi elenchi, a cominciare dal Papa Pio IX, che gli diceva di voler essere non soltanto Cooperatore, ma il primo dei

Cooperatori. Con semplicità, fece la medesima proposta all'austero Leone XIII, il quale dichiarò che voleva essere non solo Cooperatore, ma «operatore». In occasione di viaggi e di spostamenti in Italia, in Francia, in Spagna, egli accresce notevolmente il numero degli associati. A Roma, conquista alla sua causa molte grandi famiglie e numerosi prelati. Genova e la Liguria gli forniscono grossi contingenti. In Francia, Nizza diventa un centro importante a causa del carattere cosmopolita della città. A Marsiglia, i Cooperatori sono così ferventi che con loro don Bosco ha l'impressione di trovarsi in famiglia. Nel 1880, in una conferenza ai Cooperatori di S. Benigno Canavese, annunciava che i Cooperatori e le Cooperatrici erano cresciuti sino al numero di trentamila e che andavano aumentando ogni giorno. In Spagna, è doveroso citare il nome della grande dama di Barcellona, Dorotea de Chopitea, vera «madre delle opere salesiane», intorno alla quale si moltiplicavano le iniziative e le adesioni. Uno dei mezzi per conservare l'unità di spirito ed accrescere il numero dei Cooperatori erano le conferenze, che si facevano normalmente per le feste di S. Francesco di Sales e di Maria Ausiliatrice. La prima fu tenuta a Roma il 27 gennaio 1878. Dopo la lettura di un capitolo sull'amore del santo Patrono verso i poveri, don Bosco fece il suo discorso sulle opere a favore della gioventù, «opere che non possono non essere rispettate, anzi desiderate da qualsiasi governo, da qualsiasi politica». Si concludeva con canti e preghiere. Le Memorie biografiche ci tramandano la cronaca di una cinquantina di conferenze tenute da don Bosco in varie città d'Italia, di Francia e in Barcellona di Spagna. Ai Cooperatori don Bosco voleva dare inoltre uno strumento di comunicazione, che servisse a tenerli uniti al centro della Congregazione e tra loro, senza dimenticare lo scopo propagandistico e di ricerca di fondi. Nel gennaio del 1878, il «Bibliofilo cattolico», un periodico destinato prima a far conoscere le pubblicazioni dell'Oratorio S. Francesco di Sales, fu cambiato in Bollettino salesiano, periodico mensile che veniva mandato gratuitamente ai Cooperatori e a tutti quelli che s'interes

savano da vicino o da lontano della sua opera. La diffusione di questo periodico aumenterà d'anno in anno, fino a raggiungere nel 1887 una tiratura di quarantamila copie. Un'edizione francese apparve fin dal 1879, una argentina nel 1880 e una spagnola nel 1886. Quando un gruppo di Cooperatori si formava in un luogo, si cercava di trovare i decurioni, in genere sacerdoti che si assumevano la cura di dieci o più Cooperatori o Cooperatrici. Per questi fu preparata una lista di «norme generali» per aiutarli nel loro incarico. Per coordinare i gruppi di una diocesi si chiedeva a qualche personaggio ecclesiastico di accettare il titolo di direttore diocesano. D'altra parte, don Bosco non cessava di spronare i Salesiani, specialmente i direttori, perché si prendessero cura dell'associazione. Prima di morire, don Bosco nel suo «testamento spirituale» stese una lista di Cooperatori e «benefattori insigni», verso cui si dovrà avere «perpetua riconoscenza davanti a Dio e davanti agli uomini». Sono nomi di persone che hanno sostenuto in modo straordinario la nascita e lo sviluppo dell'Opera salesiana, quali la famiglia di origine savoiarda de Maistre, le famiglie piemontesi Fassati, Callori e Corsi, la principessa Odescalchi di Roma, le famiglie genovesi Ghiglini, Cataldi e Dufour, i Visconti, Héraud, Levrot e Daprotis di Nice, de La Fléchière di Hyères, Colle di Tolone, Prat, Jacques, Broquier e Pastré di Marsiglia, Quisard, de La Réserve e Desvernay di Lione, de Saint-Seine e Parque di Digione, de Cessac di Parigi, e Clara Louvet di Aire-sur-la-Lys. Ma questa lista prestigiosa dell'elite npn deve occultare la massa degli umili Cooperatori della «base». Alla morte di don Bosco nel 1888, una cosa era evidente: la forza apostolica della modesta Congregazione salesiana era stata decuplicata grazie all'aiuto «fraterno» dei suoi Cooperatori. È forse significativo a questo riguardo il fatto che, almeno una volta sotto la penna di don Bosco, al posto dell'espressione «Cooperatori salesiani» apparve quella di «Salesiani cooperatori». Molti di essi potevano comunque essere considerati di fatto, se non canonicamente, veri «Salesiani nel mondo».

Capitolo XVII.

LE PRIME MISSIONI IN AMERICA (1875-1888).

L'ideale missionario di don Bosco

L'ideale missionario di don Bosco s'inserisce nel gran movimento cominciato sotto Gregorio XVI (1831-1846), continuato da Pio IX e rafforzato dagli incontri di vescovi durante il concilio Vaticano I (18691870). Numerose furono le opere di cooperazione missionaria e le congregazioni missionarie fondate in quel periodo. Per tutta la vita, don Bosco sognò d'essere missionario. Vi pensava già mentre era giovane studente a Chieri, dice il suo biografo. Diventato sacerdote, avrebbe preso la decisione di partire, se il suo direttore, Giuseppe Cafasso, non si fosse opposto a questo progetto. Quando creò la Società salesiana, il pensiero delle missioni continuava ad assillarlo. Avrebbe voluto mandarvi senza indugio alcuni religiosi, ma allora gli mancavano assolutamente i mezzi. Per molto tempo, racconta don Lemoyne, dovette accontentarsi di contemplare sospirando un mappamondo, o di parlare ai giovani dell'Oratorio del lavoro dei missionari, del martirio subito da alcuni di loro o dei pagani da loro convertiti al Vangelo. Verso il 1871-1872, un sogno, ancora una volta, venne ad incoraggiarlo. Egli si vide trasportato in una pianura immensa, popolata da

uomini primitivi che si dedicavano alla caccia oppure lottavano tra loro o contro soldati vestiti all'europea. Ma ecco avanzare una schiera di missionari. Ahimè! Tutti sterminati ed orrendamente massacrati. Giunge la seconda schiera. Questi hanno l'aria allegra e sono preceduti da un gruppo di fanciulli. Don Bosco li riconosce: sono Salesiani. Meravigliato, assiste ad un'inattesa metamorfosi: tutte quelle orde feroci depongono le armi, ascoltano la parola dei missionari e cantano una lode a Maria.

Preparativi.

Per tre anni egli cercò informazioni e documenti sulle contrade che aveva visto in sogno. In un primo momento, credette che si trattasse dell'Etiopia, poi della regione di , poi dell'Australia, poi dell'. Finalmente un giorno, una domanda che proveniva dalla Repubblica Argentina lo orientò verso gli Indi della Patagonia, persuadendolo che il paese e gli abitanti corrispondevano a quelli del sogno. Cogliendo al volo ciò che egli interpretava come un segno della Provvidenza, intraprese la realizzazione di un progetto a lungo accarezzato. La scelta dell'Argentina si spiega anche per il fatto che questo paese accoglieva ogni anno migliaia d'immigrati italiani in condizioni precarie e senza assistenza religiosa. Adottò immediatamente una strategia particolare per l'evangelizzazione. I suoi non si sarebbero subito lanciati tra le tribù lontane da ogni civiltà, ma avrebbero aperto delle case d'educazione nei paesi confinanti con le terre degli Indi, per accogliervi figli di «selvaggi» e avvicinare per mezzo loro gli adulti. L'obiettivo finale sarebbe di preparare missionari tra questi alunni, e così «i selvaggi diventerebbero evangelizzatori dei medesimi selvaggi».

Le domande che arrivavano dall'Argentina gli parevano andare nel senso desiderato. Verso la fine del 1874, alcune lettere gli avevano proposto di accettare una parrocchia italiana a Buenos Aires ed un collegio di ragazzi a San Nicolas de los Arroyos. Dietro a quest'iniziativa era il console d'Argentina a Savona, Giovanni Battista Gazzolo, che seguiva con interesse il lavoro dei Salesiani in Liguria, con la speranza di farne godere il proprio paese. Da lui informato, l'arcivescovo di Buenos Aires, mons. Aneiros, gli aveva fatto sapere che li avrebbe visti «molto volentieri». I negoziati ebbero presto esito positivo, grazie soprattutto ai buoni uffici del parroco italiano di San Nicolas, Pietro Ceccarelli, amico del Gazzolo, corrispondente e uomo di fiducia di don Bosco. Il 29 gennaio 1875, in occasione della festa annuale di S. Francesco di Sales, don Bosco poteva dare la grande notizia all'Oratorio. Lo fece, alla presenza del Gazzolo, con una messa in scena che impressionò tutti. Il 5 febbraio, lo annunciava con una circolare a tutti i Salesiani, pregando i volontari di presentare domanda scritta. La prima partenza di missionari sarebbe avvenuta, in linea di massima, nel mese d'ottobre. Quest'annuncio suscitò ovunque grande entusiasmo, in tal modo che molti Salesiani si offrirono candidati per le missioni. Certamente si apriva una nuova era per l'Oratorio e per la giovane Società salesiana.

Le prime spedizioni missionarie (1875-1887).

Mentre ancora era in vita don Bosco, furono ben dodici le spedizioni missionarie, tutte dirette nell'America del sud. La prima, che fu naturalmente la più famosa, venne preparata nei minimi particolari. Perché i suoi figli fossero accolti «come amici fra amici», don Bosco organizzò da lontano il loro insediamento all'estero mettendosi in contatto con personalità del luogo. Per fornire loro il necessario in denaro ed oggetti d'ogni genere, si rivolse ai primi Cooperatori: egli stesso fu sorpreso della loro generosità. Il personale doveva essere all'altezza delle ambizioni della piccola

Società salesiana. Tra i candidati che risposero in massa al suo invito, fissò la sua scelta su sei sacerdoti e quattro coadiutori. Il capo della spedizione sarebbe stato don Giovanni Cagliero. A trentasette anni, questo sacerdote robusto, gioviale, intelligente e di un'attività esuberante, si preparava a diventare in America l'uomo della situazione come lo era sempre stato accanto al suo maestro. Un'altra personalità di valore era don Giuseppe Fagnano, anima di pioniere, ex soldato di Garibaldi. Venivano poi don Domenico Tomatis, professore, e i maestri elementari don Valentino Cassini, don Giovanni Battista Baccino e don Giacomo Allavena. Vi erano poi quattro coadiutori ai quali don Bosco diede il titolo ufficiale di catechisti: Bartolomeo Scavini, falegname, Vincenzo Gioia, calzolaio e cuciniere, Bartolomeo Molinari, maestro di musica vocale e strumentale, Stefano Belmonte, intendente di musica e di economia domestica. La partenza avvenne piamente e con la massima solennità. Don Bosco mandò i suoi missionari a Roma a ricevere la benedizione del Papa. A Torino, l'il novembre nella chiesa di Maria Ausiliatrice, si svolse una cerimonia commovente, durante la quale don Bosco tracciò agli uomini che stavano per partire il programma della loro azione futura: in un primo tempo, occuparsi dei loro compatrioti emigrati in Argentina, poi intraprendere l'evangelizzazione della Patagonia. Poi aggiunse: «In questo modo noi diamo principio ad una grand'opera, non perché si abbiano pretensioni o si creda di convertire l'universo intero in pochi giorni, no; ma chi sa, che non sia questa partenza e questo poco come un seme da cui abbia a sorgere una grande pianta? Chi sa che non sia come un granellino di miglio o di senapa, che a poco a poco vada estendendosi e non sia per fare un gran bene?» Alla fine della cerimonia, dopo l'abbraccio paterno, don Bosco consegnò ai missionari alcuni «ricordi», una sintesi della spiritualità e strategia missionaria salesiana. Lo stesso giorno, egli li accompagnò fino a Genova, dove s'im

barcarono il 14 novembre. Un mese dopo, il 14 dicembre, sbarcarono a Buenos Aires. Dopo questi pionieri, altri gruppi di missionari partirono ad intervalli quasi regolari. Il 7 novembre del 1876, si ripetè nella chiesa di Maria Ausiliatrice la cerimonia dell'addio ai missionari, e nei giorni seguenti un gruppo di tredici Salesiani guidato da don Bodrato si imbarcò a Genova per Buenos Aires, mentre un altro gruppo guidato da don Luigi Lasagna, con otto Salesiani e con il Cooperatore laico Giovanni Battista Adamo, prendeva la nave a Bordeaux per Montevideo in Uruguay. Il 7 novembre dell'anno successivo ebbe luogo per la terza volta la festa dell'addio; la spedizione si divise in tre gruppi: il primo, con don Giacomo Costamagna, dodici Salesiani e sei Figlie di Maria Ausiliatrice guidate da suor Angela Vallese, prese la nave a Genova per Buenos Aires; il secondo con don Giuseppe Vespignani e due confratelli partì da Lisbona per la stessa destinazione, mentre altri due Salesiani salparono da Le Havre per Montevideo. La quarta spedizione fu celebrata l'8 dicembre del 1878. Nei giorni successivi partirono da Genova per Buenos Aires il chierico Borghino con cinque compagni e ai primi del 1879 don Beauvoir con due compagni e un altro gruppo di dieci Suore guidate da suor Maddalena Martini. Nel gennaio del 1879 altri due confratelli presero la nave a Marsiglia per la stessa destinazione. Verso la fine gennaio del 1880 partirono allo stesso modo due Salesiani e un novizio. Nel 1881 la festa dell'addio si fece il 20 gennaio e nei giorni successivi quattro Salesiani e sei Figlie di Maria Ausiliatrice si imbarcarono per Montevideo, mentre un secondo gruppo di due Salesiani e quattro Suore partiva per Buenos Aires. Altre partenze missionarie si susseguirono nel dicembre 1881, nel novembre 1883, nel febbraio 1885, nell'aprile e nel dicembre 1886 e infine nel dicembre 1887. Dal 1875 al 1888, si sarebbero imbarcati per l'America quasi centocinquanta Salesiani e una cinquantina di Figlie di Maria Ausiliatrice.

Sogni missionari.

Indipendentemente dal grado di credibilità che si vuol loro riconoscere, rimane pur vero che le visioni notturne di don Bosco hanno

avuto un ruolo non trascurabile nell'espansione missionaria della sua opera. Il primo sogno missionario, già evocato, che pareva annunciare l'evangelizzazione della Patagonia, ha influito sull'orientamento iniziale e sulla scelta del paese. Noi possediamo le relazioni di quattro altri sogni, i quali facevano presentire l'apostolato universale della Congregazione. Il sogno che don Bosco fece nella notte del 30 agosto 1883, festa di S. Rosa da Lima, lo condusse in spirito attraverso tutta l'America del sud, da Cartagena in , lungo la Cordigliera delle Ande, fino a Punta Arenas, sullo stretto di Magellano. Gli sembrò che la guida del viaggio fosse il figlio dell'insigne benefattore di Tolone, il giovane Louis Colle, morto due anni prima. Mentre insieme percorrevano l'America latina in tutti i sensi in un vagone ferroviario, Louis gli faceva una descrizione entusiasta dei progressi futuri di questo continente, sia nel campo dell'industria che in quello dell'evangelizzazione. Durante un altro sogno, fatto nella notte dal 31 gennaio al primo febbraio 1885, gli parve di sorvolare quelle stesse regioni a bordo di un veicolo misterioso. Dall'alto, poteva contemplare a piacimento i Salesiani al lavoro, quelli del tempo e quelli del futuro. Con meraviglia, veniva a conoscenza della messe rigogliosa che attendeva i suoi figli. «Vidi che ora i Salesiani seminano soltanto, ma i nostri posteri raccoglieranno. Uomini e donne ci rinforzeranno e diverranno predicatori». I due ultimi sogni, uno del 1885 senza data, l'altro dal 9 al 10 maggio 1886, annunciavano il lavoro salesiano nel mondo, e non più soltanto nell'America del sud. Don Bosco visitò in sogno l'Asia, l'Africa e l'Australia. La visione prediceva ai Salesiani un avvenire radioso «da qui a centocinquanta o duecento anni», purché non si lascino prendere «dall'amore delle comodità». È noto che i Salesiani tenevano in gran conto questi sogni, o se si voglia queste predizioni. Erano commentati, si cercava d'interpretarli. Don Ceria si schierava in loro favore, citando anche alcuni dati geografici la cui esattezza sarebbe stata debitamente verificata. Rimane certo in ogni modo che il loro messaggio esaltante stimolava le energie dei

Salesiani e dava fiducia ai missionari bersagliati da mille difficoltà nel compimento della loro missione.

In Argentina (1875) e nell'Uruguay (1876).

Quando la prima schiera di Salesiani sbarcò a Buenos Aires il 14 dicembre 1875, videro con i propri occhi che la sollecitudine di don Bosco li aveva preceduti. Furono accolti «da amici». Dopo alcuni giorni trascorsi in un alloggio provvisorio si divisero in due gruppi. Cagliero ed altri due missionari si occuparono nella capitale, come previsto, della parrocchia italiana Mater misericordiae, che comprendeva circa trentamila loro compatrioti, completamente abbandonati e ignoranti di religione. Si misero all'opera senza indugio e con successo. Le prediche, le cerimonie della chiesa e l'oratorio fecero buona impressione sulla popolazione. Un mese dopo il loro arrivo, l'arcivescovo si felicitava già del «bene grandissimo» che essi stavano facendo nella capitale. Due anni appena dopo l'arrivo morirà don Baccino, primo missionario vittima del suo zelo. Il resto della spedizione, cioè don Fagnano ed altri sei religiosi, si era diretto a San Nicolas de los Arroyos. Là, l'energico direttore riusciva a trasformare una casetta in collegio, ad aggiungervi un oratorio e ad organizzare missioni per le estancias disseminate nella campagna. Anche qui i Salesiani amministravano una parrocchia. In una lettera a don Bosco del 10 giugno 1876, il loro protettore Ceccarelli li diceva «stimatissimi in città» e, lirico, aggiungeva che il loro nome risuonava già in tutta l'America del sud. Una cosa era certa: le domande di fondazione si moltiplicavano. Cagliero aveva i suoi piani, ma gli occorreva personale. Con una parte dei membri della seconda spedizione, aprì a Buenos Aires, a due chilometri dalla chiesa, una «scuola di arti e mestieri», che fu affidata alla direzione di don Bodrato. Come nell'Oratorio di Torino, vi si forma

vano sarti, calzolai, falegnami, legatori. Ma la casa era scomoda. Nel 1878, i suoi ospiti traslocavano in un edificio più spazioso ad Almagro, nei sobborghi della capitale. Intitolata a Pio IX, l'opera di Almagro diventerà la casa madre dei Salesiani in America. Ai Salesiani venne affidata anche la parrocchia di S. Giovanni Evangelista nel quartiere portuale di La Boca, che aveva fama di esser in mano alla massoneria. Alla prima fondazione uruguayana era destinata una parte della terza-, spedizione, capeggiata da don Luigi Lasagna. Sostenuti dal delegato apostolico, mons. Vera, unico vescovo di quel paese, i Salesiani iniziarono il loro apostolato a Villa Colon, non lontano da Montevideo, dove era stata loro affidata la parrocchia di S. Rosa da Lima. Vi fondarono il collegio Pio IX, che in un mese raggiunse un centinaio d'alunni Si noti che là, come un po' dovunque sul continente, i massoni e i protestanti cercavano di opporsi con tutti i mezzi ai nuovi venuti. Ma agli attacchi degli avversari, don Lasagna rispondeva con non minor energia. Quest'uomo intrepido ebbe anche molte idee originali che onorano la ampiezza del suo ingegno. Appena giunto in Uruguay, tentò la coltivazione della vite e riuscì a generalizzarla, nonostante vecchi pregiudizi. Sotto il suo impulso, il collegio Pio IX fu dotato di una rara collezione di coleotteri e di fossili. Ma il suo successo più bello è quello di avervi installato nel 1882, con l'aiuto di un dotto barnabita italiano, un osservatorio meteorologico molto ben ideato, che doveva raccogliere informazioni da tutta l'America del sud. Si giunse così a prevedere l'arrivo di cicloni e di uragani, con grande 'utilità per la navigazione, l'agricoltura e la scienza. Più tardi, nel 1885, quando sarà votata una legge che proi

biva le congregazioni religiose in Uruguay, la fama dell'osservatorio di Villa Colon era tale che il governo rinunciò a molestare i Salesiani. Alla morte di don Bosco, varie case e parrocchie si sarebbero aggiunte alle prime fondazioni, sia in Argentina che in Uruguay. Fin dal 1885, un nuovo collegio funzionava nel centro di Buenos Aires. Nel 1887, un collegio era stato creato a La Piata, dove gl'Italiani erano numerosi ma, almeno in un primo tempo, ribelli alla missione. In Uruguay, i Salesiani si trovavano dal 1880 a Las Piedras, a venti chilometri dalla capitale, e, dal 1881, a Paysandù, nella parte ovest del paese. In entrambi i casi, avevano cominciato con una parrocchia completando la loro opera con un collegio. Accanto ai Salesiani, anche le Figlie di Maria Ausiliatrice, dopo il loro arrivo nel 1877, si erano insediate ad Almagro, a La Boca, a Las Piedras, a Morón ed altrove.

La Patagonia (1879).

L'apostolato dei Salesiani non doveva limitarsi alle popolazioni d'origine europea, benché la loro assistenza religiosa fosse apparsa più imperiosamente necessaria di quanto si credesse. Nessuno ignorava l'obiettivo lontano: la Patagonia. Nome d'epopea e di mistero, che evocava grandi spazi inesplorati, un clima inospitale, tribù di Indi selvaggi i quali, secondo quanto si affermava a Buenos Aires, non disdegnavano di mangiare i prigionieri di guerra ed avevano anzi una predilezione particolare per la carne dei bianchi. Stabilirsi in quelle terre immense e piene di pericoli non fu facile.

Ritorniamo indietro. Ben presto, don Costamagna, don Fagnano e don Lasagna avevano spinto le loro cavalcate lontano dai centri dove si trovavano, ma senza incontrare neppure l'ombra di un Indio. Allora, dietro suggerimento di don Bosco, una spedizione, composta dal vicario generale Espinosa, da don Costamagna e da don Evasio Rabagliati, fece un primo tentativo nella primavera del 1878. Loro scopo era di raggiungere Bahia Bianca per mare, e di proseguire poi per Carmen de Patagones, piccola città sul Rio Negro. Purtroppo, dopo una navigazione tragica durante la quale il pampero, che soffiava con violenza dall'interno, minacciò di gettarli in mare, dovettero ritornare indietro. Un anno dopo il fallito tentativo, si presentava un'occasione più sicura di prendere contatto con quelle regioni, questa volta per via di terra. Il governo argentino, o più precisamente ri generale Roca, ministro della Guerra, stanco delle incursioni degl'Indi, che mettevano continuamente in pericolo le frontiere ovest e sud, aveva deciso una spedizione militare il cui obiettivo doveva essere la «conquista del deserto». Mons. Espinosa e i Salesiani Costamagna e Botta poterono accompagnare l'esercito come cappellani. Durante le interminabili cavalcate, i missionari ebbero la gioia di poter finalmente prendere contatto con gl'Indi. Approfittando di una sosta a Carhué, posto avanzato nel cuore della Pampa, si misero subito al lavoro tra le tribù pacifiche Tripailao e Manuel Grande. Un primo distaccamento, accompagnato da Costamagna, giungeva sulle rive del Rio Negro, alle frontiere della Patagonia, il 24 maggio 1879. Dopo una cavalcata di settimane, in cui avevano crudelmente sofferto per la fatica, il freddo e lo spettacolo delle brutalità dei soldati verso gl'Indi, i missionari furono presi da profonda commozione. Ricevendo le notizie entusiastiche di don Costamagna, anche don Bosco esultava: «Le porte dell'immensa Patagonia sono aperte ai Salesiani!». In seguito a questa spedizione, la missione salesiana della Patagonia poteva finalmente essere avviata. Si decise di creare due centri: uno a Carmen de Patagones, sulla riva sinistra del Rio Negro, l'altro sulla riva opposta, a Viedma. Tre robusti missionari fin dal 1880 vi stabilirono il loro quartier generale: don Fagnano, promosso parroco di Patagones e di tutte le colonie e tribù tra il Rio Negro e il Rio Colorado; don Milanesio, parroco di Viedma, ben presto sostituito da don Beauvoir per consentirgli di consacrarsi interamente alle grandi cavalcate apostoliche

in cui eccelleva. Don Milanesio era il tipo del missionario come allora si amava immaginarlo: con la barba, infaticabile, pronto a superare immense distanze per raggiungere le regioni e le anime da conquistare a Cristo, amico e difensore degl'Indi, di cui riuscì a parlare la lingua. Di fatto, il problema degli Indi rimaneva preoccupante. Temendo per la loro indipendenza, si stringevano attorno ad uno dei loro grandi capi, il cacicco Namuncurà. Da parte sua, l'esercito voleva farla finita. Una rivolta scoppiò nel 1883. Furono commesse atrocità, di cui i cosiddetti selvaggi non avevano certamente il monopolio. Come evangelizzare in queste condizioni? In una lettera a don Bosco, Fagnano non mancò di stigmatizzare quei soldati totalmente corrotti ed i loro ufficiali più corrotti ancora. La pace ritornò soltanto quando Namuncurà, diventato invalido, decise di por fine alle sofferenze dei suoi e di negoziare con le forze armate. Don Milanesio fu scelto come mediatore tra le due parti e garante della parola data. Namuncurà fu promosso colonnello nell'esercito nazionale e uno dei suoi figli, Cefirino, diverrà alunno dei Salesiani. La missione si sviluppava, in tal modo che già nel 1883, i Salesiani potevano vantarsi di avere amministrato circa cinquemila battesimi e di aver costruito una chiesa, due cappelle e due scuole, di cui una tenuta dalle Figlie di Maria Ausiliatrice. Secondo don Bosco, per perfezionare l'organizzazione, conveniva che la missione fosse eretta in vicariato apostolico, indipendente da Buenos Aires, la cui giurisdizione in questa regione era puramente teorica. Impresa delicata, per le suscettibilità che erano in giuoco, ma che don Bosco seppe condurre a termine. Don Cagliero fu nominato vicario apostolico della Patagonia settentrionale e centrale e ricevette la consacrazione episcopale il 7 dicembre 1884. L'elezione del primo vescovo salesiano segnava una tappa importante nell'organizzazione ecclesiastica e nell'evangelizzazione di questo grande territorio missionario.

La Terra del Fuoco (1886).

Oltre al vicariato, la Santa Sede erigeva nello stesso tempo una prefettura apostolica nominando a questo posto don Fagnano. Il suo territorio comprendeva la Patagonia meridionale e la Terra del Fuoco, ma in quest'ultima soprattutto egli avrebbe esercitato il suo apostolato! Eletto nel 1883, mons. Fagnano potrà prendere contatto con il suo campo d'azione solo nel 1886, approfittando di una missione esplorativa'nell'Isola Grande. Partita da Buenos Aires il 31 ottobre, la spedizione discese per mare lungo le due coste fermandosi a Patagones, a Santa Cruz (dove si trovavano don Savio e don Beauvoir), a Rio Gallegos, e sbarcò finalmente nella baia San Sebastiàn il 21 novembre. Alcuni giorni dopo, un malinteso tra la truppa e gli Indi portò al massacro degli aborigeni. Eroicamente, Fagnano s'interpose, con pericolo della vita. La spedizione gli permise almeno di percorrere l'Isola Grande in tutta la sua lunghezza e di formarsi un'idea della regione e degli abitanti. In particolare, si convinse che la futura missione cattolica doveva avere come centro Punta Arenas, nodo di comunicazione tra la Terra del Fuoco, il Cile e le Isole Malvine (o Falkland). Nel luglio del 1887, mons. Fagnano si stabilì definitivamente _a Punta Arenas con tre Salesiani. Si misero senza indugio al lavoro: costruzioni, formazione religiosa degli immigrati, primi tentativi con gl'Indi, ed esplorazione dell'isola Dawson. Per opposizione a tanti altri, ben diversi da lui, mons. Fagnano era diventato per gli autoctoni «il capitano buono».

Brasile (1883), Cile (1887), (1888).

Mentre era ancora in vita don Bosco, altri tre paesi d'America videro gli inizi dell'opera salesiana: il Brasile, il Cile e l'Ecuador. Nel 1877, il vescovo di Rio de Janeiro, mons. Lacerda, era venuto personalmente a Torino per convincerlo a mandargli alcuni missionari.

La situazione religiosa della diocesi e del paese giustificava questo passo: scarsità di clero locale, abbandono della gioventù soprattutto dopo la legge emancipazione dei figli degli schiavi, urgenza della missione tra le tribù delle foreste equatoriali. Don Lasagna, già molto occupato in Uruguay, fu l'uomo scelto da don Bosco per andare a trattare sul posto. Partì per Rio de Janeiro all'inizio del 1882, con il cuore «in preda alla trepidazione ed a grandi timori, ma nello stesso tempo animato da speranze ancor più grandi». Promise l'apertura di una casa sulle colline di Niterói, vicino alla capitale. Durante un'udienza, l'imperatore Pedro II in persona l'incoraggiò a sviluppare l'opera salesiana nel paese. Percorse vari stati, ascoltò le lamentele dei vescovi che imploravano aiuto ed entrò in contatto con le Conferenze di S. Vincenzo de' Paoli. A Sào Paulo, dove gl'Italiani erano numerosi, promise una parrocchia ed un collegio, mentre il suo pensiero correva già agli Indi del Mato Grosso, «la terra più centrale e più sconosciuta d'America». Intanto, la casa di Niterói fu aperta nel 1883, sotto la direzione di don Borghino, e quella di Sào Paulo nel 1885, sotto quella di don Giordano. Il primo salesiano a calpestare il suolo del Cile fu don Milanesio. Era il 1886. Durante uno dei suoi giri che hanno dello straordinario, attraversò la Cordigliera delle Ande in direzione di Concepción, dove il vicario generale della diocesi Domingo Cruz faceva di tutto per ottenere del personale salesiano. Concluso un accordo, sei Salesiani, tra cui don Rabagliati, fecero il loro ingresso nella città il 6 marzo 1887 tra gran concorso di popolo. L'opera iniziò senza indugio con l'oratorio e si sviluppò a poco a poco con scuole e laboratori. In Ecuador, il presidente della Repubblica s'interessò personalmente della venuta dei Salesiani a Quito. D'accordo con l'arcivescovo,

intervenne nel 1885 presso don Bosco. Dopo qualche esitazione per mancanza di personale, fu costituito un gruppo con a capo don Calcagno. Alla cerimonia d'addio, il 6 dicembre 1887, si vide un don Bosco ammalato, sorretto da due segretari. Era l'ultima volta che assisteva alla partenza di missionari. Questi arrivarono a Quito il 28 gennaio 1888 e telegrafarono immediatamente a Torino. Il telegramma fu letto a don Bosco il 30 mattino. Egli fece cenno di aver capito. Era la vigilia della sua morte. In tredici anni, i Salesiani si erano insediati in cinque stati dell'America Latina. Erano stati loro assegnati due vasti territori di missione, uno dei quali aveva a capo un vescovo, mons. Cagliero, il quale, dal 1885 faceva anche funzione di vicario generale di don Bosco per l'America.

Capitolo XVIII.

LA CONGREGAZIONE STABILIZZATA (1874-1888).

Con l'approvazione definitiva delle Costituzioni, raggiunta nell'aprile del 1874, si apriva l'ultimo periodo della vita del Fondatore. Certo, alcune difficoltà permanevano. I rapporti con la curia diocesana di Torino erano sempre molto tesi, tanto che l'arcivescovo giungerà a contestare il carattere definitivo dell'approvazione romana. In vari luoghi, l'opposizione antireligiosa, per non dire la persecuzione, non risparmiava le case della giovane Società. Si doveva ammettere però che la piccola Congregazione acquistava sempre maggior sicurezza. Le vocazioni affluivano. Le fondazioni si moltiplicavano. Il nome di don Bosco e dei Salesiani si diffondeva un po' ovunque, in Italia e fuori. È l'epoca in cui pellegrini stranieri partiti per Roma facevano una puntata a Torino. Sentendo il vento in poppa, don Bosco farà di tutto per organizzare e per consolidare l'opera salesiana, in modo da assicurarne l'avvenire.

Il problema del noviziato.

In un Istituto, nulla è più importante della formazione dei candidati alla vita religiosa. Don Bosco ne era cosciente e si sforzava di accontentare le autorità che lo aspettano al varco.

Per anni, infatti, il suo noviziato era stato preso di mira, specialmente da parte di mons. Gastaldi. In una lettera del 9 novembre 1872, l'arcivescovo di Torino deplorava la mancanza di un noviziato vero e proprio e di una seria formazione ascetica. In particolare, la scarsa umiltà dei giovani chierici dell'Oratorio lo rendeva pessimista circa l'avvenire. La sua conclusione era un invito rivolto allo stesso Fondatore a «pregare ed umiliarsi coram Deo et hominibus». In un «promemoria» rivolto a Roma nel marzo del 1874, don Bosco aveva tentato di respingere ancora una volta alcuni rimproveri che gli venivano fatti con insistenza. Spinto ad istituire un noviziato di due anni, durante i quali i candidati alla vita salesiana si sarebbero dedicati unicamente ad «occupazioni ascetiche», aveva spiegato con franchezza che «questo poteva praticarsi in altri tempi, ma non più in nostri paesi presentemente, che anzi si distruggerebbe l'Istituto salesiano, perciocché l'autorità civile avvedendosi dell'esistenza di un noviziato, lo scioglierebbe sull'istante disperdendone i novizi. Inoltre questo noviziato non potrebbe accomodarsi alle Costituzioni salesiane che hanno per base la vita attiva». Ora è noto che, per ottenere l'approvazione, don Bosco dovette piegarsi sulla questione del noviziato, come su alcune altre. Il testo approvato delle Regole prevedeva, infatti, un noviziato di tipo tradizionale, la cui durata però era ridotta ad un anno. Se dunque aveva ragione di essere deluso, che linea di condotta avrebbe adottato in pratica? In primo luogo, nominò un maestro di novizi. Fino a quel momento, don Rua aveva assunto in linea di massima questo incarico, ma ora era importante affidarlo ad un uomo libero da ogni altra funzione. Per questo posto delicato scelse don Giulio Barberis, che gli pareva incarnasse lo spirito salesiano. «Don Barberis ha capito don Bosco», disse un giorno di lui. Avvalendosi però di un permesso orale di Pio IX,

non smise di affidare ai novizi il catechismo, la scuola e l'assistenza, ciò che non tarderà a suscitare nuove recriminazioni da parte dell'arcivescovo. Soltanto progressivamente lo si vide orientarsi verso la costituzione di un gruppo di novizi separato all'interno dell'Oratorio di Valdocco. Un passo decisivo fu fatto nel 1879 nel senso desiderato dalle Regole, con la sistemazione dei novizi insieme agli studenti di filosofia in un ex convento benedettino a S. Benigno Canavese. Finalmente, nel 1886, veniva effettuato un nuovo trasloco dei soli novizi in una proprietà acquistata a Foglizzo. Fu il punto d'arrivo della lenta evoluzione del noviziato, che passò dal tipo attivo al tipo ascetico, desiderato dalle Costituzioni approvate. Don Bosco vi aveva contribuito, a quanto pare, più per necessità che per convinzione.

Nuova azione a favore delle vocazioni (1875).

Una nuova iniziativa a favore delle vocazioni attirò la sua attenzione dal 1875. Mentre consultava un giorno i registri degli alunni dell'Oratorio, ebbe la certezza che le probabilità di buon esito delle vocazioni erano molto più alte nei giovani adulti che nei fanciulli in più tenera età. Quest'idea gli ispirò senza indugio un'azione a favore delle vocazioni che si soleva chiamare tardive. A Roma, dove si recò nel febbraio del 1875, espose le sue intenzioni a Pio IX, il quale incoraggiò il progetto. Anche vescovi, messi al corrente, si mostrarono favorevoli. Egli faceva quindi stampare un opuscoletto intitolato Opera di Maria Ausiliatrice per le vocazioni allo stato ecclesiastico. Nella sua mente, si trattava appunto di un'opera, che doveva essere sostenuta moralmente e materialmente dai cattolici. Egli prevedeva, infatti, che molti candidati non avrebbero potuto pagare gli studi e non voleva che la povertà fosse un ostacolo insormontabile.

Nell'autunno del 1875, si era già passati dal progetto alla realizzazione. Una sezione di vocazioni tardive - i «Figli di Maria» - trovava pp. sto nella casa di Sampierdarena, sotto la direzione di don Albera. Un altro gruppo fu ospitato nell'Oratorio di Torino. Già fin dal termine del primo anno scolastico, l'esperienza giustificava in parte le «speranze straordinarie» di don Bosco: su trentacinque uscenti, otto abbracciarono lo stato religioso, ventuno entrarono nel clero diocesano e sei si orientarono verso le missioni. Anche a Sampierdarena, l'avvenire poteva sembrare assicurato, perché non mancavano le domande d'iscrizione.

Primo Capitolo generale (1877).

Nel lavoro d'organizzazione della Società che in questo periodo si andava intensificando, ovviamente si deve attribuire un ruolo di prima importanza ai Capitoli generali. In base alle prescrizioni delle Costituzioni, questi dovevano riunirsi ogni tre anni «per trattare delle cose di maggior momento, e per provvedere a quanto i bisogni della Società,i tempi, i luoghi richieggono». Il primo Capitolo generale si aprì il 5 settembre 1877 nei locali del collegio di Lanzo. Vi presero parte innanzi tutto il membro del Capitolo superiore della Congregazione, cioè don Bosco, Rettor maggiore, don Rua, prefetto generale, don Cagliero, catechista generale, ispettore e rappresentante delle case d'America e dei loro direttori, don Ghivarello, economo generale, don Durando, consigliere scolastico, don Lazzero e don Sala, consiglieri. Intervennero poi i direttori delle case: don Bonetti (Borgo S. Martino), don Francesia (Varazze), don Cerniti (Alassio), don Lemoyne (Lanzo), don Albera (S. Pier d'Arena), don Dalmazzo (Valsalice), don Ronchail (Nizza), don Cibrario (Vallecrosia), don Guanella (Trinità), don Monateri (Albano Laziale) e don Costamagna (Mornese). Tra i prefetti delle case, anch'essi invitati, parteciparono a tempo pieno solo don Leveratto (Borgo S. Martino) e don Bologna (Valdocco). Erano presenti il segretario del Capitolo, don Barberis, maestro dei novizi, e don Berto, segretario personale di don Bo

sco. Tra gli invitati aveva un posto speciale di consultore il padre Secondo Franco, superiore dei Gesuiti di Torino. Nelle parole d'introduzione, don Bosco cercò di far comprendere a tutti la portata delle loro deliberazioni per il presente e per il futuro della Congregazione. Fino a quel momento, facevano notare i biografi, accadeva spesso che contemporanei, specialmente a Torino e a Roma, vedevano nei Salesiani unicamente «un'accolta di brava gente, ma poco istruita e buona soltanto a fare del chiasso». Era quindi necessario che l'assemblea, nonostante la giovane età della maggior parte dei suoi membri, mostrasse di quale maturità fosse dotata. Otto commissioni si misero al lavoro, avendo ognuna l'incarico di studiare un aspetto importante della vita della Congregazione come la formazione del Salesiano, i problemi della vita comune, le questioni materiali, i rapporti con l'Istituto delle Figlie di Maria Ausiliatrice o la costituzione delle ispettorie. Vi furono ventisei «conferenze generali», tutte presiedute da don Bosco. Si andava avanti con spigliatezza, ma senza precipitazione, in conformità al desiderio del Superiore. Notiamo alcuni punti scelti nella massa delle discussioni. Fu deciso per esempio di evitare i termini come «provincia» e «provinciale», che potevano urtare orecchie troppo laiche, e di sostituirli con «ispettoria» e «ispettore». Riguardo all'ispettore, don Bosco voleva che fosse «un padre il quale ha per ufficio di aiutare i suoi figliuoli a far andar bene i loro negozi, e quindi li consiglia, li soccorre, insegna loro il modo di trarsi d'imbarazzo nelle circostanze critiche». Si venne poi a parlare dei poteri del Rettor maggiore, e questo permise a don Bosco d'insistere sulla posizione centrale e sull'autorità del Superiore generale della Congregazione. Lasciando in disparte il caso suo particolare, egli aggiunse: «Io devo badare a quelli che verranno dopo di me». Nella ventiquattresima conferenza, fece delle dichiarazioni, che non saranno più dimenticate, sulla situazione dei Salesiani nel difficile contesto politico in cui si viveva: «Noi cercheremo in tutte le cose la legalità. Se ci vengono imposte taglie, le pagheremo; se non si ammettono più le proprietà collettive, noi le terremo individuali; se richiedono esami, questi si subiscano; se patenti o diplomi, si farà il possibile per ottenerli; e così s'andrà avanti».

Il primo Capitolo generale della Società salesiana si concluse il 5 ottobre, un mese esatto dalla sua apertura. Un anno dopo, fu pubblicato un volumetto d'un centinaio di pagine, che conteneva la maggior parte delle sue deliberazioni.

Prime ispettorie (1879).

Al tempo del primo Capitolo generale, gli ispettori esistevano soltanto in pectore. Fino al 1876, le case non avevano tra loro alcun vincolo, ma dipendevano direttamente dal Capitolo superiore della Congregazione. Nel 1877 appaiono nell'Annuario pontificio un'ispettoria romana e una americana, ma soltanto quest'ultima ha il proprio «ispettore» nella persona di don Cagliero. L'anno seguente, l'Elenco generale della Società di S. Francesco di Sales riportava la divisione della Società in quattro ispettorie: piemontese, ligure, romana e americana. Ma solo nel 1879 incomincia realmente il regime ispettoriale con l'erezione ufficiale, fatta dal Capitolo superiore, di quattro ispettorie e la nomina di quattro ispettori. L'ispettoria piemontese, affidata a don Francesia, direttore del collegio di Varazze, comprendeva le case del Piemonte e quella di Este. L'ispettoria ligure, di cui l'ispettore era don Cerniti, allo stesso tempo direttore di Alassio, si estendeva da Lucca a Marsiglia. Don Monateri fungeva da ispettore per l'ispettoria romana, che contava soltanto le case di Magliano, di Albano e di Ariccia. Infine, don Bodrato, parroco della Boca in Buenos Aires, reggeva l'ispettoria americana.

Relazione canonica alla Santa Sede (1879).

Com'era di regola per le congregazioni religiose, le Costituzioni salesiane prescrivevano che ogni tre anni fosse inviata alla Santa Sede una relazione sullo stato morale e materiale della Società. Quella del marzo

1879 merita una breve analisi. Don Bosco la preparò accuratamente, popò aver tracciato un quadro storico della Congregazione che faceva risalire al 1841, seguiva una presentazione delle singole case e di tutte le attività dei Salesiani in Italia, in Francia e in America. Nell'ultima parte, riservata al rendiconto morale dell'Istituto, don Bosco si felicitava soprattutto della cura con cui i Salesiani osservavano le Costituzioni e del loro ardore nel lavoro, ardore così grande che alcuni ne erano già stati vittime. Alla Sacra Congregazione dei Vescovi e Regolari, di cui il Prefetto era il cardinale Innocenzo Ferrieri, il documento fu oggetto di minuzioso esame. Furono consegnate a don Bosco sette osservazioni riguardanti soprattutto la mancanza di un rendiconto finanziario, il silenzio sul noviziato, la creazione delle «ispettorie» senza l'autorizzazione della Santa Sede, e la situazione canonica delle Figlie di Maria Ausiliatrice. L'ultimo punto biasimava don Bosco per aver fatto stampare la sua relazione, mentre avrebbe dovuto consegnarla manoscritta. L'autore tentò di giustificarsi come meglio potè, ma in ottobre gli giungeva una nuova serie di nove osservazioni. A proposito delle questioni finanziarie era accusato tra le righe di preoccuparsi delle leggi civili per eludere quelle ecclesiastiche. All'inizio del 1880, egli intraprese quindi nuove pratiche. Dopo qualche tempo, le difficoltà parvero superate. Tutta questa procedura l'aveva obbligato ad una messa a punto più precisa sotto l'aspetto giuridico, ciò che potrà facilitare le cose più tardi. Inoltre, a partire dal marzo 1879, la Congregazione godeva a Roma dell'appoggio di un cardinale protettore, nella persona del Segretario di Stato Lorenzo Nina. In occasione della prima relazione canonica alla Santa Sede, don Bosco inviò un procuratore generale della Congregazione a Roma. È un ingranaggio importante per una Congregazione di diritto pontificio, in quanto il procuratore è il rappresentante ufficiale del Superiore religioso e funge da intermediario tra le autorità centrali della Chiesa e la Congregazione. Secondo l’Annuario pontificio, don Rua portava questo titolo dal 1877. Ma il Prefetto generale accumulava altri incarichi e non poteva risiedere a Roma. All'inizio del 1880, la funzione fu attribuita

effettivamente a don Francesco Dalmazzo, il quale prese alloggio con un chierico e un novizio coadiutore presso il convento delle Oblate di Tor de' Specchi. Fu la prima piccola comunità salesiana in Roma. Poco tempo dopo, lo stesso don Dalmazzo fu anche incaricato dei lavori per la chiesa e l'ospizio del Sacro Cuore, che si dovevano costruire nel nuovo quartiere di Castro Pretorio.

Secondo Capitolo generale (1880).

Col 1880 si doveva riunire il secondo Capitolo generale. Don Bosco, lo convocò a Lanzo per i primi di settembre. Era compito dell'assemblea eleggere i membri del Capitolo superiore i quali, ad eccezione del Rettor maggiore, giungevano al termine dei loro mandato. I posti-chiave conservarono i loro titolari: Rua rimaneva prefetto e Cagliero direttore spirituale, benché fosse missionario in America. Delle discussioni non sappiamo molto, anche perché furono meno importanti di quelle del Capitolo del 1877. Ci si limitò a rivede; re e a completare le decisioni anteriori, stando a quanto affermava don Bosco nella presentazione del volumetto delle Deliberazioni stampato nel 1882: «Durante questo (Capitolo) sono state nuovamente esaminate le decisioni prese nel 1877 e introdotte le modifiche suggerite dall'esperienza; sono state aggiunte alcune nuove decisioni». Le aggiunte,, più significative riguardavano la formazione intellettuale dei Salesiani ed occupavano due capitoli, uno sugli studi ecclesiastici e l'altro sugli studi filosofici e letterari. Vi si trovano pure nuove precisazioni concernenti l'elezione dei membri del Capitolo superiore e le attribuzioni di ciascuno di essi. Poco prima del Capitolo generale, era morto a Buenos Aires l'ispettore don Bodrato, il che provocò un nuovo ordinamento delle ispettorie nel 1881. L'ispettoria americana, passata nelle mani di don Costa- magna, prendeva il nome d'ispettoria argentina, mentre si creava un'ispettoria uruguayana che fu affidata a don Lasagna, direttore a Monte

video - Villa Colon. D'altra parte, le case francesi, che facevano parte fin dall'inizio dell'ispettoria ligure, costituivano ormai un'ispettoria francese. Per governarla, don Bosco si rivolse a don Albera, direttore di Sampierdarena (Genova), che andò a stabilirsi come direttore dell'Oratorio San Leone a Marsiglia. Nello stesso tempo, l'ispettoria romana riceveva un delegato nella persona di don Durando, che sostituiva don Monateri. Notiamo anche che essa comprendeva non solo le case di Tor de' Specchi, di Magliano e di Faenza, ma anche quelle di Randazzo in Sicilia e di Utrera in Spagna.

Terzo Capitolo generale (1883).

I trentacinque membri del terzo Capitolo generale furono convocati questa volta nel collegio di Valsalice. La sua durata fu brevissima: aperto il primo settembre 1883, era chiuso sette giorni dopo. Dalle scarse notizie che ci sono pervenute, sappiamo che le discussioni riguardarono tra l'altro il Bollettino salesiano, il noviziato, gli esercizi spirituali e la moralità. A proposito del noviziato, l'ispettore di Francia fece notare che vi erano inconvenienti a mandare i candidati in Italia. Don Bosco rispose che aveva in mente di fondare una casa di noviziato nei dintorni di Marsiglia. Si decise inoltre di separare i novizi coadiutori dagli altri, misura immediatamente applicata a San Benigno. Durante l'ultima seduta di questo Capitolo, don Bosco concluse con raccomandazioni varie, come quella di conoscere bene il tempo in cui si vive e adattarvisi, di evitare ai fanciulli punizioni umilianti e guardarsi dagli affetti troppo sensibili, e di usare carità verso tutti. Aggiungiamo che verso la fine dell'anno 1883 don Bosco pensò di dotare il Capitolo superiore di Torino ed anche i Capitoli generali futuri di un segretario stabile, il quale sarebbe diventato nello stesso tempo suo confidente e suo futuro biografo. La scelta cadde su don Giovanni Battista Lemoyne, finora direttore spirituale dell'Istituto delle Figlie di Maria Ausiliatrice a Nizza Monferrato. Don Bosco aveva tanta confidenza nel suo segretario che gli avrebbe detto fin dai primi giorni della sua entrata in carica: «Io non avrò segreti per te, né quelli del mio cuore, né quelli della Congregazione».

«Comunicazione dei privilegi» (1884).

Per mettere la sua Società alla pari con le altre famiglie religiose, già da diversi anni don Bosco lavorava per ottenerle dei «privilegi». Questo termine sta ad indicare non solo favori spirituali tradizionalmente concessi alle congregazioni di diritto pontificio, ma anche «facilitazioni» canoniche di reale importanza per la vita di una Congregazione destinata ad un grande sviluppo. Chiedendo questi privilegi, voleva premunirsi contro il moltiplicarsi dei ricorsi a Roma e, inversamente, contro le difficoltà che insorgevano per la diversità dei regimi da una diocesi all'altra. In generale, Roma «comunicava» alla nuova Congregazione, se lo credeva opportuno, i privilegi di cui godeva un Ordine antico. Don, Bosco propendeva per i privilegi dei Redentoristi, ma prima che il suo desiderio fosse realizzato, avrebbe dovuto percorrere una lunga strada. A questo scopo si era recato a Roma fin dal 1875. Ma la commissione incaricata dal Papa per esaminare il caso si pronunciò negativamente. Si rivolse perfino a Leone XIII, eletto Papa nel 1878, ma senza ottenere nulla di sostanziale. L'opposizione del cardinale Ferrieri era tenace, tanto che per tutta la vita fu persuaso che la Congregazione salesiana fosse un'accolta posticcia e provvisoria di persone. Nel 1882 nuovo piano d'azione, viaggio a Roma ed udienza da Leone XIII che nominò in segreto una nuova commissione cardinalizia. Medesima risposta evasiva: «Avete nemici, gli disse il Papa, e bisogna che camminiate coi calzari di piombo, perché in Roma si dà corpo anche alle ombre». Ma due anni dopo, lo stesso Papa si mostrò invece pronto ad accordare a don Bosco tutto quello che voleva. Alludendo alla morte di mons. Gastaldi, avrebbe aggiunto: «Ora non c'è più il vostro avversario». Effettivamente, grazie all'intervento personale di Leone XLTI, la Congregazione salesiana ottenne, col decreto del 28 giugno 1884, comunicazione di tutti i privilegi dei Redentoristi. Le peripezie erano durate nove anni. Don Bosco era contento, non avendo - com'egli diceva - più altro da desiderare. Gli ultimi tre anni e mezzo di vita, benché turbati da sofferenze fisiche, furono anni di se

renità. D'altronde, il Papa gli aveva fatto un regalo nominando alla sede di Torino un suo amico, il cardinale Gaetano Alimonda.

Don Rua «vicario generale» (1884).

Con il deperimento della salute del Fondatore si poneva più chiaramente il problema dell'avvenire della Congregazione. Leone XIII se ne occupò personalmente. Dietro suo ordine, nell'ottobre del 1884 venne chiesto a don Bosco di designare un successore o un vicario con diritto di successione. Domanda un po' singolare a prima vista, poiché le Costituzioni prevedevano la procedura da seguire per l'elezione di un Rettor maggiore. Non importa! L'interesse del Papa per la Congregazione e per la sua persona lo commosse profondamente. Il 24 ottobre, ne riferisce al Capitolo superiore, che lo prega di designare l'uomo di sua scelta, senza voto preliminare. Minuto emozionante! Forse mai come in quell'istante essi avevano pensato che don Bosco potesse abbandonarli un giorno. Egli scrive la propria risposta, proponendo il nome di don Rua, e la fa consegnare al Papa, che se ne dimostra soddisfatto. Un decreto di Roma viene ad approvare questa scelta. Ma don Bosco non vuol rendere subito di pubblico dominio la decisione. Fedele al proprio metodo sperimentale, incominciò a preparare il suo successore alla futura missione allargando gradualmente la sfera delle sue responsabilità. Soltanto il 24 settembre 1885 egli dichiarò davanti al Capitolo superiore: «Mio vicario generale nella Congregazione sarà don Michele Rua», precisando poi che aveva scelto don Rua «perché è uno dei primi anche in ordine di tempo nella Congregazione, perché già da molti anni esercita questo ufficio, perché questa nomina avrebbe incontrato il gradimento di tutti i confratelli». I Salesiani furono informati di quest'importante notizia mediante una circolare che porta la data dell'8 dicembre 1885. Se giudichiamo dalle lettere di felicitazioni che giunsero all'Oratorio, le loro reazioni furono favorevolissime alla scelta fatta.

Quarto Capitolo generale (1886).

Il Capitolo generale riunito a Valsalice nel mese di settembre 1886 sarebbe stato l'ultimo presieduto da don Bosco. Fu un'assemblea imT ponente, che comprendeva questa volta i membri del Capitolo superiore, gli ispettori, il procuratore generale, i direttori delle case come pure i delegati, eletti dalle comunità. Si procedette senza indugio all'elezione dei membri del Capitolo superiore. Evidentemente, quest'elezione non riguardava don Bosco né don Rua diventato suo vicario, e neppure mons. Cagliero e mons. Fagnano chiamati ad altri compiti. In questa occasione, il corpo dirigente subiva notevoli modifiche: don Domenico Belmonte diventava prefetto al posto di don Rua; mons. Cagliero, proclamato catechista onorario, lasciava il posto a don Bonetti; don Sala rimaneva economo, mentre don Cerniti diventava consigliere scolastico. Durante le deliberazioni che seguirono, si prese la decisione di man; dare alcuni Salesiani a studiare presso le Università romane. L'assemblea affrontò anche il problema delle parrocchie, dopo aver ascoltato su quest'argomento don Lasagna il quale, in quanto Salesiano d'America, aveva più familiarità con queste questioni. Si riparlò dei novizi (che don Bosco insisteva a chiamare «ascritti») e della loro ammissione ai voti. Per conformarsi ad un decreto della Santa Sede, si formò una commissione incaricata di esaminare ciascuna delle domande alla professione. Una discussione, già iniziata durante il Capitolo precedente, si portò sul modo di migliorare la formazione degli artigiani, o «parte operaia» nelle case salesiane. Le altre questioni trattate riguardavano tra l'altro, il Bollettino salesiano, le «visite» dei superiori alle case, e la creazione di studentati nelle varie ispettorie. Come nei Capitoli precedenti, erano stati dati a don Bosco pieni poteri per rivedere, ordinare e completare le decisioni prese. Le Deliberazioni del quarto Capitolo generale saranno pubblicate nel 1887, insieme a quelle del Capitolo precedente.

Morte di don Bosco (31 gennaio 1888).

Durante gli ultimi anni di vita, don Bosco non era più che l'ombra di se stesso. Le preoccupazioni ed i lavori lasciavano su di lui un segno profondo. Ma egli continuava a badare a tutto ed a trascinarsi di città in città, in Italia e all'estero. La sua fama di fondatore e di santo si diffondeva. Nel 1883 si recò a Parigi ed in Austria, e nel 1886 a Barcelona, predicando con l'esempio più che con la parola, ingegnandosi a trovare denaro per sostenere le svariate attività delle due Congregazioni. Per l'ultima volta andò a Roma nel 1887, stanco e quasi cieco, per la consacrazione del santuario dedicato al Sacro Cuore di Gesù. L'ora di Dio, per questo lavoratore instancabile, suonò il 31 gennaio 1888. Don Bosco spirò a Torino, nella sua stanza dell'Oratorio di Valdocco, alle prime ore del giorno. Aveva settantadue anni e cinque mesi. Don Rua, che ignorava il decreto del 1884, si preoccupò della successione. Si rivolse a Roma. Con un nuovo decreto, fu nominato Rettor maggiore per dodici anni, a partire dall'11 febbraio 1888. Una settimana prima di morire, don Bosco aveva dichiarato: «La Congregazione non ha nulla da temere: ha uomini formati». L'avvenire avrebbe ben presto dimostrato l'infondatezza di alcuni cattivi presagi.

Parte Seconda.

L'ESPANSIONE DELL'OPERA SALESIANA NEL MONDO, (1888-1965).

Capitolo XIX.

DON MICHELE RUA, PRIMO SUCCESSORE DI DON BOSCO (1837-1910).

Ancor giovanissimo, Michele Rua aveva motivo d'essere colpito da un sacerdote originale, che suscitava l'ammirazione o lo scandalo quando passava per le strade di Torino con la sua clientela di giovani vagabondi. Alcune persone che egli rispettava, come il cappellano cui serviva messa, gli dicevano con convinzione che quel don Bosco era «ammalato di una malattia, di cui difficilmente si guarisce». Si racconta che riflessioni di questo genere lo facessero piangere. Poteva avere allora otto o nove anni. Diventato più adulto, un piccolo mistero tra don Bosco e lui stuzzicava la sua curiosità. Infatti, quando lo incontrava andando a scuola, questi, invece di dargli un'immagine come agli altri, tendeva la mano sinistra aperta e con l'altra faceva il gesto di tagliarla in due, dicendogli: «Prendi, Michelino, prendi!». Egli si farà spiegare qualche anno dopo il significato del gesto: don Bosco e lui avrebbero fatto a metà.

Infanzia (1837-1850).

Michele era nato il 9 giugno 1837 a Torino, nella zona di Valdocco, non lontano dal luogo dove sarebbe sorto il futuro Oratorio. Il padre,

Giovanni Battista, era «controllore» nella manifattura d'armi. Questi aveva avuto cinque figli da un precedente matrimonio, poi, risposatosi con Giovanna Maria Ferrerò, ne ebbe altri quattro, tra cui Michele, che era l'ultimo. Erano tutti di salute delicata, tanto che quando Michele venne al mondo, non aveva più che quattro fratelli. Neppure lui era robusto, ma ciò non gli impedirà di sopravvivere a lungo a tutti gli altri. Era un ragazzo fine e riservato, di portamento quasi elegante. Proprio quando raggiunse gli otto anni perse suo padre. Ma non tardava a trovare un altro Giovanni, che gli avrebbe fatto da padre per tutta la vita. Egli stesso potrà deporre al processo di beatificazione di don Bosco che l'aveva conosciuto nel settembre del 1845. Condotto da un compagno, cominciò a frequentare l'Oratorio, che allora si trovava al Rifugio della marchesa Barolo. Da allora, se avesse dato ascolto al desiderio, non avrebbe disertato alcuna delle attività dell'Oratorio. Ma sua madre esitava. Aveva forse paura di permettere al suo beniamino di unirsi a ragazzi poco raccomandabili? Don Ceria si poneva almeno la domanda. Nel 1847, fu comunque ammesso a far parte della Compagnia di S. Luigi, ciò che gli consentiva ogni mese di stare vicino a don Bosco. Nel 1848, e per due anni, egli diventava alunno dei Fratelli delle Scuole Cristiane. Era intenzione della madre prepararlo al mestiere che aveva esercitato suo padre. La scuola non avrebbe separato il ragazzino da don Bosco, poiché questi era uno dei cappellani. Michele, inoltre, lo incontrava per la strada e ben presto lo incontrerà più regolarmente all'Oratorio. Terminata la scuola nel 1850, Rua pensava di entrare alla manifattura per guadagnarsi da vivere e aiutare la madre. Ma don Bosco, che non l'aveva perso di vista, gli domandò se voleva «studiare il latino». Il ragazzo capì al volo e si dichiarò pronto a fare gli studi necessari per diventare sacerdote.

Scuola secondaria (1850).

Fin dall'agosto del 1850 Michele incominciò a masticare le prime nozioni di latino con alcuni compagni. Ma senza convinzione, tanto che i suoi biografi si trovano imbarazzati nel dover parlare di questa negligenza. Ma il pensiero di aver rattristato il suo «amico» bastò a correggerlo per tutta la durata degli studi. Diventato successivamente allievo dei professori Merla, Bonzanino e Picco, egli non avrebbe meritato che lodi per la scrupolosa applicazione e gli ottimi risultati. Per questo Rua, stimato il migliore, fu nominato responsabile del gruppo degli studenti durante i percorsi in città. Pur continuando ancora per qualche tempo ad alloggiare a casa, egli si trovava al fianco di don Bosco, anche a tavola, ogni volta che gli era possibile. Questa figura assumeva ai suoi occhi un'importanza sempre più straordinaria. «Mi faceva più impressione - dirà più tardi - osservare don Bosco nelle sue azioni anche minute, che leggere e meditare qualsiasi libro divoto». Dall'autunno del 1852, diventò interno all'Oratorio, e il 3 ottobre dello stesso anno, durante la gita autunnale dei giovani oratoriani ai Becchi, vestì l'abito ecclesiastico. Nel 1853 terminò gli studi secondari e s'iscrisse al seminario di Torino per i corsi di filosofia.

Il primo «Salesiano» di don Bosco (1854).

Intanto don Bosco progettava il suo piano di Congregazione. In occasione di «conferenze» frequentate da alcuni ragazzi tra i più fedeli, preparava lentamente i loro spiriti con una progressione ben calcolata. Il 26 gennaio 1854, avvicinandosi la festa di S. Francesco di Sales, Rua, Cagliero ed altri due giovani dell'Oratorio furono invitati a fare una «prova di esercizio pratico della carità verso il prossimo». D'ora in poi, i quattro amici presero il nome di «Salesiani». Senza dubbio, Rua fu considerato il primo di essi. All'Oratorio, infatti, Rua era già ritenuto il collaboratore preferito del direttore. A lui, e non ad altri, don Bosco affidava l'assistenza gene- tale degli alunni, il catechismo settimanale, la responsabilità della bi

blioteca, e quand'era necessario, il proprio ufficio. Nessuno se ne meravigliava oltre misura, a quanto pare, poiché la pietà di Rua, il suo senso del dovere, l'attaccamento a don Bosco, erano ben noti a tutti. Amico di Domenico Savio, fu il primo presidente della Compagnia dell'Immacolata. Il 25 marzo 1855, fu il primo Salesiano a pronunciare i voti privati. I suoi studi di teologia durarono dal 1855 al 1860. Mentre frequentava la scuola in seminario - dove dimostrò, come don Bosco, una tendenza più spiccata per la morale e per le lingue sacre che per la teologia speculativa - continuava ad assecondarlo con accresciuta efficacia, sia nel lavoro educativo, sia in quello di autore e editore di libri. Nel 1856, venne incaricato dell'oratorio di Porta Nuova, e l'anno seguente, di quello di Vanchiglia. Nel novembre del 1856, dopo la morte di mamma Margherita, la madre del chierico Rua si trasferì all'Oratorio per sostituirla. Per il suo primo viaggio a Roma del 1858, don Bosco lo scelse come compagno. Quando, nel dicembre del 1859, don Bosco propose a quelli che lo desideravano d'iscriversi alla Società di S. Francesco di Sales, Rua fu evidentemente del numero. L'unanimità dei voti lo designò, il 18 dicembre, all'incarico di direttore spirituale della Congregazione salesiana. Allora, egli non era che suddiacono.

Un crescendo di responsabilità (1860-1888).

L'ordinazione sacerdotale si avvicinava. Durante gli esercizi spirituali preparatori, don Bosco gli fece recapitare un «ricordo» che terminava con queste parole: «Spera in Dio, e, se posso qualche cosa, io sarò tutto per te». L'ordinazione ebbe luogo il 29 luglio 1860 a Caselle Torinese, e fu seguita da festeggiamenti nell'Oratorio la domenica seguente. Diventato sacerdote, don Rua, come il suo maestro, fu oppresso da una moltitudine di occupazioni. Già direttore spirituale, diventò anche responsabile della disciplina degli studenti. Si dice che riuscisse a conciliare questi due generi di occupazioni molto diverse. Inoltre, egli continuava ad occuparsi dell'oratorio dell'Angelo Custode a Vanchiglia. Nel 1863, don Bosco trovò il modo di formarlo a maggiori responsabilità, nominandolo a ventisei anni direttore del collegio salesiano di Mirabello. Riusciva bene nel nuovo incarico, tanto che cedeva a qual

che sentimento di orgoglio, e di ciò si accusava scrupolosamente. La cronaca dell'Oratorio, sotto la penna di don Ruffino, faceva il suo elogio: «Don Rua a Mirabello si diporta come don Bosco a Torino. È sempre attorniato dai giovani, attratti dalla sua amabilità, e anche perché loro racconta sempre cose nuove. Sul principio dell'anno scolastico, raccomandò ai maestri che non fossero per allora troppo esigenti». L'esperienza di Mirabello servì a sviluppare il suo spirito d'iniziativa personale, che forse sarebbe rimasto un po' riservato se non si fosse mai allontanato da don Bosco. Ma pare che Torino non potesse fare a meno della sua presenza. Nell'estate del 1865 fu richiamato per succedere al prefetto Alasonatti morente. L'aspettava un lavoro considerevole: tutta la disciplina e la gestione materiale di una casa di settecento alunni, la sorveglianza dei lavori della chiesa di Maria Ausiliatrice, la preoccupazione dell'amministrazione delle Letture cattoliche, l'aiuto a don Bosco nella sua enorme corrispondenza. Nel luglio del 1868, la sua salute, sempre delicata, cedette sotto il peso del lavoro. Al capezzale del malato, il dottore aveva perso, si dice, ogni speranza, mentre don Bosco, invece, rimandava indietro gli oli santi con queste parole: «Vedi, ora tu non morresti nemmeno se dalla finestra cadessi sul selciato». Effettivamente si rimise in salute e riprese le sue responsabilità. Accanto e all'ombra di don Bosco, Rua era sempre più l'uomo di fiducia e pronto a qualsiasi lavoro. Durante le sue assenze, che si prolungavano talvolta per qualche mese, a lui era affidato il buon andamento dell'Oratorio. Nello stesso tempo, don Bosco lo preparava visibilmente, benché in maniera progressiva, ad essere un giorno il suo continuatore. Nel 1869, per esempio, lo incaricava della formazione dei candidati salesiani, senza peraltro dargli il titolo di maestro dei novizi, perché sarebbe stata allora un'imprudenza. Nel 1872, fu ancora don Rua che, in qualità di prefetto generale della Società, dovette dividere il personale tra le varie case. Un po' più tardi, il Fondatore lo mandò a fare la visita regolare delle case, lo incaricò di studiare le richieste di nuove fondazioni, gli affidò la direzione generale delle Figlie di Maria

Ausiliatrice, posto rimasto vacante per la partenza di Giovanni Cagliero per l'America. Lo troviamo a Parigi nel 1878 per trattare l'apertura di una casa, a Marsiglia nel 1880 per presiedere gli esercizi spirituali annuali dei Salesiani, in Sicilia nel 1885 come visitatore. È notato a fianco del santo a Roma nel 1881, a Parigi nel 1883 e, lo stesso anno, a Frohsdorf in Austria, ed anche a Barcellona nel 1886. Quando, su invito del Papa, don Bosco dovette pensare alla scelta di un vicario con diritto di successione, chi altri poteva scegliere se non colui che da anni era diventato il suo alter ego? La decisione gli venne notificata durante la riunione del capitolo superiore il 24 settembre 1885. Abbandonata la funzione di prefetto, esercitata per vent'anni, egli appariva ora agli occhi di tutti come colui che avrebbe raccolto l'eredità quando il Padre non fosse più tra loro. Si diceva allora che don Bosco stesso voleva tenersi in disparte fino a dipendere dal parere del suo vicario generale. Dopo circa trentasei anni vissuti accanto a don Bosco, la morte di quest'ultimo lo colpì profondamente nell'intimo del suo essere.

Rettor maggiore (1888-1910).

Quando il fondatore dei Salesiani scomparve, alcune ottime persone e lo stesso Leone XIII, nutrivano dubbi circa l'avvenire della Congregazione, anzi ne prevedevano, il crollo a breve scadenza. Voci inquietanti circolavano a Roma: si parlava apertamente di fonderla con una Congregazione che avesse fini analoghi, ma anche, si diceva, una base più sicura e più antica, come quella degli Scolopi, fondata all'inizio del secolo XVII da san Giuseppe Calasanzio. Questo progetto fu sventato grazie all'intervento risoluto di un grande amico dei Salesiani, mons. Emiliano Manacorda, vescovo di Fossano. Don Rua fu allora nominato Rettor maggiore per un periodo di dodici anni. Egli si mise immediatamente all'opera. Il programma, da lui tracciato il 19 marzo 1888 nella prima lettera ufficiale ai Salesiani, era tutto basato sulla persona e sull'opera del grande scomparso: «Noi dobbiamo stimarci ben fortunati di essere figli di un tal Padre. Perciò nostra sollecitudine dev'essere di sostenere e a suo tempo sviluppare ognora più le opere da lui iniziate, seguire fedelmente i metodi da lui praticati ed insegnati, e nel nostro modo di parlare e di operare cercare di imita

re il modello che il Signore nella sua bontà ci ha in lui somministrato». Era il programma che, secondo lui, doveva diventare «la mira e lo studio di ciascuno dei Salesiani». Per parte sua, egli cercherà di realizzarlo nei ventidue anni in cui rimarrà a capo della Società salesiana. per cominciare, pensò che la natura della sua missione gli comandava di imitare don Bosco anche nel comportamento esterno. D'altronde, il Fondatore gli aveva sussurrato un'ultima consegna prima di spirare: «Fatti amare». Certo, don Rua sarà sempre molto diverso dal suo modello, sia nel fisico che nel morale. Come ha notato don Auffray, il contrasto tra i due temperamenti balzava agli occhi: «Se il volto, il sorriso, l'atteggiamento dicevano nell'uno la bontà paterna; tutta la persona dell'altro esprimeva la gravità dolce, l'attività raccolta, con una punta di austerità. In mezzo ai fanciulli, nel cortile, quello appariva gaio, espansivo, cordiale; questo, invece, affabile come il Padre, ma più misurato, meno effusivo». Ad ogni modo, le testimonianze sono generalmente concordi nell'affermare che da quel momento don Rua diventò molto buono, «mostrandosi padre, più che superiore». Alcuni, che ricordavano il prefetto di disciplina di un tempo, esprimevano la loro meraviglia per il cambiamento.

Attività.

Diventato Rettor maggiore, l'attività di don Rua s'intensificò più che mai. Era assolutamente necessario poiché, appena insediato nel nuovo ufficio, dovette far fronte a tutte le richieste di una Congregazione in rapido sviluppo, alle esigenze della formazione del personale, senza dimenticare la ricerca di fondi. Benché non avesse il genio di chiedere che possedeva don Bosco, imparò abbastanza bene a destreggiarsi nel trovare i fondi necessari. Scrisse molto, non solo lettere circolari, ma anche moltissime lettere individuali, perché era suo principio non lasciar mai una lettera senza risposta. Ma don Rua, che immagineremmo più volentieri uomo di ufficio e ritirato, diventò anche un grande viaggiatore. Sommando le tappe da lui percorse, un suo biografo avanzò la cifra di centomila chilometri:

era molto, tenuto conto dei mezzi di trasporto del tempo. Evidentemente, non girava il mondo per piacere personale. Aveva degli scopi precisi: conservare vivo ovunque lo spirito di don Bosco, trattare affari riguardanti la Congregazione, prendere personalmente contatto coi Salesiani, le Figlie di Maria Ausiliatrice, i Cooperatori e i benefattori. Generalmente si muoveva all'approssimarsi della primavera ed il viaggio poteva durare vari mesi, soprattutto a causa dei soggiorni relativamente lunghi nelle residenze salesiane. Lasciamo da parte i frequenti spostamenti in Italia, per seguirlo nel primo grande viaggio all'estero, da febbraio a maggio 1890. Incomincia con la Francia. Rimane nove giorni a Nizza, dove raccomanda ai Salesiani di non dimenticare l'oratorio; va a La Navarre, visita i Cooperatori salesiani di Tolone, gli amici di Cannes, le Figlie di Maria Ausiliatrice di Saint-Cyr. A Marsiglia è assalito dai visitatori. Si reca tra i novizi di Sainte-Marguerite. Partito per la Spagna, è preso d'assalto dalla folla a Barcellona. Via Madrid, arriva a Utrera, dove gli alunni gli rubano degli oggetti per farne reliquie. Ritorna in Italia per la settimana santa, e riparte subito in direzione di Lione, poi di Parigi. Di qui, si reca a Londra a visitare i Salesiani di Battersea; ritorna in Francia, a Lilla, dove prende parte agli esercizi spirituali dei ragazzi, visita le Suore di Guines, passa in Belgio dove prepara la fondazione di Liegi e fa un giro delle principali città del paese. Rientrato in Francia, si ferma di nuovo a Parigi-Ménilmontant, fa una puntata a Paray-le-Monial, città del Sacro Cuore, e rivede l'Oratorio di Torino alla fine del mese di maggio. In una lettera circolare ai Salesiani, don Rua fece il bilancio di questo viaggio. Le sue consolazioni maggiori, diceva, le aveva avute nel vedere ovunque la venerazione di cui era circondato don Bosco e nel costatare il buon andamento delle case dove era passato. Ciò non gli impediva di segnalare alcune mancanze: irregolarità negli studi di teologia, canto gregoriano trascurato, e abusi nelle passeggiate in ferrovia per gli alunni. Avrebbe ancora intrapreso molti altri viaggi più lunghi di questo. Nel 1894, andò in Svizzera, poi attraversò l'Alsazia fino a Strasburgo, dove si vide circondato da un gran numero di amici; passando quindi per Metz si recò a Liegi in Belgio per la consacrazione della chiesa di

Maria Ausiliatrice. Poi si spinse in Olanda, a Maastricht, a Utrecht e fino a Rotterdam. Durante gli anni seguenti realizzò progetti più vasti. Nel 1895 volle recarsi in Terra Santa. Imbarcatosi a Marsiglia, fece scalo ad Alessandria d'Egitto e, da Giaffa, entrò in Palestina per visitare le fondazioni salesiane e pregare sui Luoghi santi. Nel 1899, rivide la Francia meridionale, poi la Spagna che visitò in compagnia dell'ispettore don Rinaldi. Dopo un giro a Braga e a Lisbona in Portogallo, s'imbarcò in direzione dell'Africa settentrionale, dove era stata fondata la prima casa salesiana nella città di Orano. Nel 1900, don Rua era desiderato in America per il 25° anniversario della prima spedizione missionaria. In quell'occasione, si fece rappresentare da don Paolo Albera, il quale visitò tutte le opere americane per quasi tre anni. Nello stesso anno 1900, don Rua fu a Napoli e in Sicilia, e poi di li anche in Tunisia. Nel 1901 si recò pure nelle terre polacche dell'impero, a Oswiecim per l'inaugurazione dell'istituto e a Cracovia. Andò pure in Europa centrale nel 1904, a Vienna, a Daszawa, a Ljubljana; poi un'altra volta in Belgio, attraversando l'Alsazia e la Lorena. Nel 1906, nuovo viaggio in Francia, a Guernesey, in Inghilterra e in Spagna. Infine, certamente per sciogliere un voto fatto in un momento difficile, si trascinò ancora una volta in Terra Santa nel 1908, due anni prima di morire, ma questa volta via Trieste, Zagabria, Istanbul, Smirne, Efeso e Damasco. I viaggi di don Rua hanno certamente contribuito a mantenere unita la Famiglia salesiana dopo la morte di don Bosco. D'altronde, a giudicare dalle manifestazioni di simpatia e di stima che si moltiplicavano attorno al suo successore, esaltato come un «nuovo don Bosco», era evidente che la linfa dell'albero salesiano era ben viva. Effettivamente, lo sviluppo, quasi insperato, della Congregazione e della Famiglia salesiana tra il 1888 e il 1910, è un dato certo di questo rettorato. Don Rua metteva un ardore febbrile nell'aumentare il numero delle fondazioni,

e di questo alcuni gli muovevano rimprovero. Egli ribatteva che tutti i confratelli avrebbero dovuto impegnarsi a trovare nuove vocazioni, e non esitava, quando lo riteneva opportuno, a biasimare quelle ispettorie «che non diedero neppure un novizio». Ad ogni modo, aveva molti motivi di essere soddisfatto e lo diceva. La Società salesiana, «ben lungi dal disparire, come alcuni avrebbero profetizzato - così scriveva un anno prima di morire - continua il suo fruttuoso apostolato su tutta la faccia della terra, va ognor più dilatando la sua azione provvidenziale, acquista ogni giorno maggior favore e stima».

Tre grandi prove.

All'opposto, durante il suo mandato, don Rua fu torturato da casi di coscienza e da prove che ferirono sul vivo la sua sensibilità. Il problema delle confessioni lo tormentò tra il 1899 e il 1901. Fino a quel periodo, i superiori e direttori Salesiani, fedeli all'esempio di don Bosco, vedevano grandi vantaggi nel confessare loro stessi sia i religiosi che gli alunni della loro casa. Don Rua ci teneva a confessare all'Oratorio e altrove, tanto più che era convinto che questa tradizione fosse uno dei cardini del metodo salesiano. Per questo, fu dolorosamente sorpreso quando un decreto del 5 luglio 1899 proibì ai direttori delle case di Roma di confessare gli alunni. Secondo il Sant'Uffizio, questa norma mirava a salvaguardare la libertà dei penitenti e ad evitare eventuali sospetti circa il governo del superiore. Temendo, giustamente, che si giungesse a disposizioni più estese, don Rua cercò di temporeggiare. Ma un secondo decreto, del 24 aprile 1901, proibiva esplicitamente a tutti i superiori salesiani di ascoltare in confessione qualsiasi persona da loro dipendente. Allora, trovandosi preso tra due fedeltà, tentò qualche passo, che gli fruttò una convocazione a Roma, dove dovette subire un biasimo personale del Sant'Uffizio; gli fu poi intimato di lasciare immediatamente la città eterna. Egli si sottomise senza esitazione, ma con l'animo profondamente addolorato. Nel 1906, venne un'altra decisione romana che lo costrinse a intaccare l'eredità ricevuta da don Bosco. Questa volta si trattava di realizzare la totale separazione giuridica e amministrativa della Società

salesiana e dell'Istituto delle Figlie di Maria Ausiliatrice. Soprattutto, don Rua fu sconvolto da quelli che furono detti «i fatti di Varazze». Il collegio salesiano di quella città viveva giorni tranquilli quando un uragano si scatenò contro di esso nel luglio 1907. Si era agl'inizi delle vacanze e gli ultimi alunni si preparavano a partire per le loro case. Nella mattinata del 29 luglio, alcuni gendarmi e poliziotti irrompono brutalmente in casa. I Salesiani sono accusati di aver commesso delle nefandezze e perfino di aver celebrato delle messe nere. Secondo le autorità inquirenti, i capi d'accusa erano schiaccianti e sufficientemente provati dalle dicerie e dal diario personale di un alunno del collegio. Due religiosi furono messi in carcere a Savona, mentre tutta una certa stampa vilipendeva i Salesiani e il clero, e la folla si abbandonava ad atti di violenza a Savona, a La Spezia e a Sampierdarena. Si disse che l'affare fosse stato montato per ottenere l'abolizione dei collegi tenuti in Italia dai religiosi. Durante questa terribile prova, alcuni testimoni hanno raccontato che don Rua era depresso, irriconoscibile. Ritrovò la pace soltanto quando la situazione tornò tranquilla. In seguito a questa bufera, fece un secondo pellegrinaggio penitenziale in Terra Santa nel 1908. Tra gli avvenimenti tristi del suo rettorato, dovremmo aggiungere la chiusura delle case dell'Ecuador nel 1896, di quelle francesi dal 1901 in poi, e il terremoto di Messina nel 1908 che costò la vita a nove Salesiani e trentanove alunni. Infine, a cominciare dal 1909, don Rua andò soggetto a malattie dolorose: piaghe varicose alle gambe e infiammazioni agli occhi. Tuttavia, fino alla fine conservò un'energia straordinaria.

Spiritualità di don Rua.

Don Rua trovò la sua strada spirituale nella contemplazione di don Bosco, che gli ispirò l'amore alla Regola, il tipo di ascesi e la devozione a Cristo e alla Madre sua.

Nutriva un vero culto per la Regola, grande eredità di don Bosco, e si preoccupava di osservarla con straordinaria esattezza. La «regolarità» di don Rua era proverbiale. Don Bosco stesso scherzò un giorno sul rigoroso don Rua, dicendo che avrebbe avuto paura di confessarsi da lui. Non per nulla era stato ben presto battezzato la «Regola vivente». Come Rettor maggiore, non cessò di raccomandare ai Salesiani la fedeltà alle usanze, alle tradizioni ed alle Costituzioni lasciate dal Fondatore. Il rispetto della Regola, che egli cercava di inculcare negli altri, era in lui così grande solo perché la collegava direttamente alla volontà di Dio. La Regola, dirà un giorno citando il santo Patrono Francesco di Sales, non è forse «il libro della vita, il midollo del Vangelo, la speranza di nostra salvezza, la misura della nostra perfezione, la chiave del Paradiso?» Don Rua fu un asceta. La fisionomia, il comportamento esterno, la magrezza, l'amore alla povertà potevano ricordare il santo Curato d'Ars. Però, seguendo l'esempio del suo maestro, abitualmente egli faceva consistere la mortificazione religiosa nel lavoro e nell'attività incessante. Si diceva di lui che aveva fatto voto di non perdere un minuto. Una storiella amena circolava a questo proposito: don Rua arriva in paradiso, e per prima cosa va a salutare don Bosco e a chiedergli un po' di lavoro. Infine, la sua pietà e devozione era grande. Il 28 dicembre 1900, alla fine del secolo XIX, consacrò la Congregazione salesiana al Sacro Cuore di Gesù e, in quell'occasione, fece giungere a tutte le case una «istruzione» su questa devozione. Come don Bosco, egli non separava Cristo da sua Madre. Con immensa gioia fece procedere, nel 1903, all'incoronazione della statua di Maria Ausiliatrice sul santuario di Valdocco. Don Rua morì il 6 aprile 1910, quasi alla medesima età di don Bosco. Dodici anni dopo la sua morte, nel 1922, fu aperto il suo processo di beatificazione, e il 29 ottobre 1972 Paolo VI lo dichiarò beato.

Capitolo XX.

L'OPERA SALESIANA IN EUROPA SOTTO DON RUA (1888-1910).

Verso la fine del secolo XIX e all'inizio del XX il clima politico e sociale stava cambiando in molti paesi d'Europa. Il fenomeno dell'industrializzazione acuiva dappertutto il problema sociale e la questione operaia. Le diverse dottrine socialiste, spesso avverse al fattore religioso, proponevano soluzioni radicali o utopistiche. Nel 1891 Leone XIII pubblicava la famosa enciclica Rerum novarum, che ebbe subito una vasta risonanza nel mondo cattolico e spinse anche i Salesiani ad intensificare la loro azione. Fin dai primi anni del rettorato di don Rua, si dovette ammettere, infatti, che la giovane Congregazione andava col vento in poppa. Mentre era in vita, la personalità del Fondatore aveva affascinato cattolici e uomini di ogni classe. Alla sua morte, la stampa aveva ancora ingrandito l'eco delle sue realizzazioni sociali. Gli avversari rendevano testimonianza a modo loro della vitalità dei figli di don Bosco, i quali, secondo il relatore di una commissione del Senato francese, formavano «un aggregato di creazione recente, ma che oggi s'irradia sul mondo intero». Le richieste di fondazioni arrivavano così numerose che, secondo don Ceria, appena la centesima parte di esse poterono essere soddisfatte.

I Salesiani in nuovi paesi d'Europa.

La Svizzera, in primo luogo. Tentativi incominciati fin dal 1877 portarono all'accettazione, nel 1889, del collegio cantonale di Mendrisio, nel Canton Ticino. Don Bosco stesso era intervenuto per vincere le prevenzioni del Capitolo superiore contro il personale laico e l'abito secolare dei chierici che si disponeva a mandare. Nel 1893, cambiato governo, i Salesiani furono costretti ad andarsene. Dopo un altro tentativo fallito a Balerna, si stabilirono finalmente a Maroggia. Nella vicina città di Lugano, iniziarono con un oratorio. Nella Svizzera tedesca, sarà loro affidata una scuola professionale e agricola a Muri, dove don Méderlet, futuro arcivescovo di Madras, vi mosse i primi passi come direttore nel 1897. Vanno segnalate infine anche iniziative a favore degli emigranti. La presenza agli operai italiani che lavoravano al traforo della galleria del Sempione fu molto lodata, non solo dai cattolici, ma anche dai socialisti del tempo. A Briga furono creati non soltanto una parrocchia ma anche vari servizi sociali. Il «Circolo operaio italiano» fu ammirato da un deputato piuttosto anticlericale, venuto là per fare un'ispezione ed obbligato a concludere che «i preti erano sempre i primi ad agire, ad aiutare e a sollevare le sofferenze altrui». Anche a Zurigo i Salesiani diedero un impulso notevole alla missione cattolica italiana. Due anni dopo la Svizzera, una prima schiera di Salesiani giunse in Belgio, a Liegi. L'iniziativa di questa fondazione era partita da mons.

Doutreloux, vescovo di quella città e ammiratore di don Bosco, a cui aveva saputo strappare la decisione poco tempo prima che morisse. Nel 1895, una seconda opera, destinata anch'essa ad un grande sviluppo, fu insediata a Tournai. Veniva poi aperta una casa di noviziato nel villaggio di Hechtel, nelle Fiandre. Dal 1902, le case del Belgio facevano già parte di un'ispettoria autonoma con a capo don Francesco Scaloni. Quest'ispettoria doveva essere una delle prime ad avere un istituto teologico, aperto nel 1904 a Grand-Bigard (Groot Bijgaarden). Nel 1894, don Rinaldi, ispettore di Spagna, rendeva conto in questi termini di un viaggio esplorativo in Portogallo: «In Portogallo, senza cercarle trovai sei case che vogliono essere salesiane». Quello stesso anno, alcuni Salesiani si diressero verso Braga, dov'era stato loro offerta la direzione di un orfanotrofio. Nel 1896 fecero la loro entrata nella capitale Lisbona, dove assunsero la direzione delle Oficinas S. José. Con l'arrivo poi delle prime vocazioni portoghesi si aprì nel 1897 una casa di formazione a Pinheiro de Cima. Nel 1903, i figli di don Bosco s'insediarono anche nell'arcipelago delle Azzorre, essendo loro stato affidato un orfanotrofio ad Angra do Heroismo. Altre due scuole di arti e mestieri furono affidate ai Salesiani, una nel 1904 a Viana do Castelo e l'altra nel 1909 a Oporto. La loro opera si estese anche ben presto ai territori d'oltremare, aprendo loro la porta dell'India, della Cina e del Mozambico in Africa. Nel 1902, il Portogallo formava già un'ispettoria affidata a don Cogliolo, e nello stesso anno fu lanciato il Bollettino salesiano in lingua portoghese. Però, con la rivoluzione del 1910, l'opera salesiana in Portogallo subì una brusca interruzione, che si prolungò fino al 1920. Gli inizi tra i Polacchi dell'impero austro-ungarico furono molto movimentati. Don Bronislaw Markiewicz, diventato salesiano dopo

molte peripezie, era stato nominato, d'accordo con don Rua, parroco di Miejsce Piastowe nella diocesi di Przemysl. Raggiunta la sua residenza nel 1892, non tardava ad aprire, di propria autorità, una casa di educazione e si mise a reclutare nel proprio paese dei Salesiani «di stretta osservanza», con i quali darà inizio ad una nuova Congregazione. In realtà, l'opera salesiana ebbe origine nel 1898 ad Oswiecim, dove don Manassero sviluppò scuole ginnasiali e laboratori. Data l'abbondanza delle vocazioni, una casa di noviziato fu stabilita nel 1904 a Daszawa, sotto la direzione di don Pietro Tirone. Nel 1905, la casa d'Oswiecim diventò anche sede ispettoriale, quando don Manassero fu nominato a capo dell'ispettoria austro-ungarica. Nel 1907, fu aperto a Przemysl un oratorio festivo, campo di lavoro di don August Hlond, futuro primate di Polonia. Già fin dal 1897 veniva diffuso in lingua polacca il Bollettino salesiano, che raggiunse due anni dopo la cifra di 55 mila copie. Anche tra gli Sloveni dell'impero austro-ungarico, don Bosco era conosciuto e i Salesiani desiderati da tempo. Essi iniziarono la loro presenza nel 1901 a Rakovnik, vicino a Ljubljana. Si trattava di una casa di

correzione, che per questo motivo fu accettata all'inizio con qualche riluttanza. Nel 1903 i primi Salesiani arrivarono a Vienna, la capitale dell'impero allora in piena esplosione demografica. L'insediamento risultò difficoltoso, perché dipendevano da un'associazione locale. La situazione migliorò notevolmente nel 1909, quando fu nominato don Hlond alla guida dell'istituto.

Espansione in Italia.

Nei paesi europei dove la Congregazione era già penetrata, si nota un forte sviluppo delle fondazioni durante il rettorato di don Rua. L'Italia, in particolare, fu coperta da una rete di opere salesiane sempre più fitta. La maggior parte delle grandi città ne fu provvista. Tracciare la storia delle fondazioni italiane tra il 1888 e il 1910 richiederebbe molte pagine. Ci limiteremo ad enumerarne le principali. Potremo così afferrare con un rapido sguardo la crescita della Società nel paese che le ha dato i natali. Dopo una breve esperienza a Terracina nel 1888, non meno di undici furono dal 1890 al 1892 le nuove fondazioni, di cui cinque in Piemonte: Trino, con collegio e oratorio; Fossano, dove il vescovo Manacorda aveva diritto alla riconoscenza di una Società da lui efficacemente sostenuta; Piova, casa per gli studenti di filosofia; Ivrea, centro internazionale di reclutamento e di formazione; infine, Chieri. In Alta Italia, citiamo ancora Treviglio e . Scendendo la penisola, in

contriamo la fondazione di Lugo, in Romagna, dove i religiosi poteròno rimanere e prosperare applicando il motto di don Bosco: «Bisognai che non si parli mai di politica né pro né contro: il nostro programmai sia fare del bene ai poveri fanciulli». L'opera fondata a Macerata fece ' rapidi progressi, mentre il collegio di Loreto, invece, non ebbe uguale fortuna e dovette chiudere nel 1910. A Roma veniva completato l'ospizio del S. Cuore. Passiamo in Sicilia. A Catania, dove funzionava già un oratorio, si costruì un collegio, che divenne sede ispettoriale. Anche la città di Messina ebbe un collegio, che avrebbe avuto una sorte ben triste durante il terremoto del 1908. Altre opere sorsero in All Marina, Bronte, Marsala, e San Gregorio, sede del noviziato. Negli anni 1893-1895, sorgono nuovi centri di vita salesiana. In Liguria, si nota quello di Savona, che venne ad aggiungersi ai cinque ereditati da don Bosco. In Piemonte la rete diventa ancora più fitta con sette nuove case, tra cui il collegio di Novara, l'aspirantato per i Polacchi di Lombriasco, e la scuola per vocazioni adulte di Avigliana. Avvenimento importante, i Salesiani giungevano a Milano, dove l'arcivescovo ed un attivissimo comitato di Cooperatori da molto tempo avevano preparato il terreno. Essi si stabilirono pure a Trento e a Gorizia, città allora incluse nell'impero austro-ungarico. Più a sud, ebbero inizio le case di Orvieto, di Trevi e di Gualdo Tadino, in Umbria; e nel Meridione, la casa di Castellammare di Stabia e il seminario di Catanzaro in Calabria. Negli anni seguenti, l'ondata continuò ad estendersi, in tal modo che, a due riprese, don Rua fu costretto ad arrestarla per consentirne il

consolidamento. Nel 1896 furono aperte nove case: Canelli, Cuorgnè, Intra, Legnago, Genzano, Frascati, Ferrara, Modena e Bologna. Durante i due anni successivi i Salesiani arrivarono a Alessandria, Pavia, Sondrio, Pisa, Iesi, Terranova-Gela, Pedara, Caserta, Desenzano, Castelnuovo, Perosa Argentina, Biella, Bova e Lanusei. Prima della chiusura del secolo XIX furono fondate nuove case a Fossano, Conciliano, Chioggia, Comacchio, Forlì, Palanzano, Livorno, Figline, Artena Alvito e Siracusa. Non tutte ebbero la stessa importanza e parecchie sono soltanto ricordi storici. Tra le case sorte all'inizio del secolo XX ci limitiamo a citare alcuni nomi: una colonia agricola a Corigliano d'Otranto, una chiesa con oratorio a Napoli, un oratorio ad Ancona, un altro oratorio a Schio, un collegio a Palermo, un oratorio a Portici, un seminario a Potenza, oratorio e scuole elementari a Soverato, un ospizio a Bari, un oratorio a Casale, un oratorio a Modica, una scuola per artigiani a Ravenna, una parrocchia a Gioia dei Marsi, e una casa per sordomuti a Napoli. Infine, sono da segnalare due nuove presenze a Roma. Ai Salesiani venne affidata la chiesa di San Giovanni della Pigna, che divenne anche la sede del procuratore della Congregazione, don Marenco; nel quartiere popolare del Testacelo essi iniziarono un oratorio e scuole, poi costruirono una chiesa dedicata a Santa Maria Liberatrice

Sviluppi in Spagna.

Senza raggiungere le stesse proporzioni, l'attività salesiana in Spagna progrediva con ritmo regolare. Nel 1888, vi erano solo due case: Utrera e Barcellona. Nel 1910, ve ne saranno trenta. Uno dei grandi artefici di quest'espansione fu don Rinaldi. Eletto

nel 1890 direttore della casa di Sarrià e, l'anno seguente, ispettore della nuova ispettoria iberica, quest'uomo ponderato e diligente s'impegnò a sostenere ed a moltiplicare le fondazioni spagnole. Il lavoro dei Salesiani era apprezzato, anche dal governo. Un decreto del 1893 li elogiava mettendo in risalto il contributo dato da loro alla soluzione della questione operaia. Identici elogi si udirono l'anno seguente, al quarto congresso internazionale cattolico di Tarragona. Le fondazioni in questo paese erano riprese nel 1890, anno in cui s'inaugurava a Barcellona, alla presenza di don Rua, l'opera di Rocafort. Seguiva nel 1891 una scuola agraria a Gerona (Girona). L'anno seguente, Santander era dotata tra l'altro di un oratorio che assunse rapidamente dimensioni considerevoli. All'estremità opposta della penisola, vide la luce un altro oratorio per la gioventù abbandonata di Siviglia. Ma il moltiplicarsi delle vocazioni rendeva necessaria l'apertura di un noviziato, a Sant Vicenc dels Horts, presso Barcellona. Tra le altre località toccate dall'apostolato dei figli di don Bosco, possiamo citare Rialp, Vigo, Bejar, Ecija, Carmona, Baracaldo, Salamanca, Valencia, Ciudadela, Montilla, Madrid, Cordoba, Campello, Carabanchel Alto, Ronda, Huesca e San José del Valle. Già nel 1901, l'ispettoria iberica fu divisa in tre parti, affidate a tre valenti ispettori: don Aime a Barcellona, don Oberti a Madrid e don Ricaldone a Siviglia, mentre don Rinaldi era chiamato a Torino per più alti incarichi.

Vicissitudini delle case di Francia.

In Francia, l'opera salesiana visse sotto don Rua due periodi contrastati. In un primo tempo, parve che le fosse riservato l'avvenire più promettente. Le fondazioni ereditate dal santo si sviluppavano regolarmente sotto l'impulso dell'ispettore, don Albera, e dei suoi successori, Nuove case venivano ad aggiungersi. Fu aperta prima una casa agricola a Gevigney, trasferita poi a Rossignol, e un oratorio con alcuni laboratori a Dinan. Nel 1893, mons. de Cabrières, vescovo di Montpellier, chiamava i Salesiani nella sua città. Nello stesso anno, essi aprivano un oratorio a Tolone. Altrettanto facevano a Romans nel 1896, coadiuvati nella loro azione da un gruppo di attivi Cooperatori. Quello stesso anno, l'opera francese era sufficientemente sviluppata per cui si credette opportuno erigere una seconda ispettoria. Essa comprendeva le case del nord e a dirigerla fu chiamato don Giuseppe Ronchail che si stabilì a Parigi. Egli aprì un noviziato a Rueil nel 1896 ed una scuola per vocazioni adulte a Rueil (1899). In occasione dell'Esposizione universale di Parigi nel 1900, i Salesiani si vedevano attribuire due medaglie per le loro realizzazioni sociali. Ma poco tempo dopo, con la legge del 1901 sulle associazioni si abbatteva un uragano sulle congregazioni. Ai religiosi rimaneva una sola alternativa piena di rischi: chiedere di essere riconosciuti dallo Stato o secolarizzarsi. L'ispettoria del nord scelse la prima soluzione e fu completamente dissolta, mentre quella del sud, che aveva optato per la secolarizzazione, condusse una vita precaria nella clandestinità. Molti Salesiani partirono per l'estero, in Inghilterra, nel Belgio, in Svizzera, in Italia o per le missioni. Le vocazioni francesi furono mandate a Avi

gliana e a Ivrea. Esonerati dalla loro carica i due ispettori precedenti don Paul Virion cercò di salvare ciò che poteva essere salvato. L'operai sarebbe rinata in Francia solo dopo la prima guerra mondiale.

In Inghilterra.

Fondata sotto don Bosco, la casa di Battersea ebbe un discreto sviluppo negli anni successivi, sia come parrocchia, sia come scuola elementare e secondaria. Una chiesa in onore del Sacro Cuore fu costruita nel 1893. Le vocazioni aumentavano tanto che il direttore, don Macey, scriveva a don Rua nel 1894: «Ci dia una casa e in dieci anni i Salesiani saranno più numerosi in Inghilterra che in qualunque paese fuori d'Italia». Nel 1897, con l'appoggio di mons. Bourne, i Salesiani poterono stabilire una seconda presenza a Burwash, dove fu organizzato il noviziato. Nello stesso anno essi contribuirono anche alla fondazione della prima casa nell'Africa australe, a Città del Capo. Negli anni successivi iniziarono una presenza missionaria a Chertsey, una parrocchia a East Hill, un orfanotrofio a Farnborough (1901) e un convitto per giovani operai a Southwark. Nel 1903, il padre O'Grady, irlandese, fu mandato come direttore della prima casa salesiana nell'isola di Malta, dove la Congregazione aveva accettato di dirigere un istituto per giovani delinquenti a Sliema. Nel 1904 fu creata anche una missione cattolica polacca a Londra diretta dai Salesiani. La presenza salesiana in Inghilterra era sottoposta a grandi sfide, provenienti soprattutto dalla grande diversità del contesto generale ri

spetto a quello in cui era nata l'opera salesiana. Si nota per esempio che nessun oratorio fu aperto in quegli anni nel paese. Don Rua seguiva da vicino i primi passi dei Salesiani, sia con le frequenti lettere, sia con le sue varie visite negli anni 1890, 1893, 1902 e 1906. Nel 1902 fu deciso di creare l'ispettoria inglese e don Macey fu nominato primo ispettore. Negli anni seguenti, si notò una sconcertante crisi di crescita. Durante la sua visita straordinaria fatta nel 1908 in nome del Rettor maggiore, don Virion, ispettore di Francia, osservò nella sua relazione varie deficienze nel personale e nella formazione. Si cercò in seguito di dare una risposta ai problemi più urgenti con la nomina di don Scaloni, già ispettore delle case del Belgio e ora incaricato anche di quelle dell'Inghilterra.

Dimensione sociale delle opere.

Le fondazioni nate sotto don Rua presentano tutta la gamma abituale delle opere salesiane. Non mancano i collegi umanistici per l'elevazione culturale dei giovani provenienti dal ceto medio e per la cura delle vocazioni ecclesiastiche. Tuttavia, si assiste ad una fioritura di opere a carattere sociale: orfanotrofi, collegi-convitti, scuole professionali e agricole, parrocchie di periferia, oratori. Di tutte queste istituzioni, quella che occupa il primo posto, forse non in pratica, ma almeno nella stima e nelle preoccupazioni dei Salesiani e dei superiori, è indubbiamente l'oratorio. L'opera tenace del Rettor maggiore in suo favore non fu mai smentita. Nella prima delle sue «lettere edificanti», don Rua esaltava questa forma di apostolato sociale che «diede occasione a tutte le opere salesiane ed alla stessa nostra Pia Società», ammonendo poi i confratelli dubbiosi: «Non crediate, o carissimi figli in Gesù Cristo, che solamente quando D. Bosco die principio alla sua missione provvidenziale fosse opportuno occuparsi degli oratori festivi». Nel 1899, invitava gli ispettori a rendergli conto del loro interessamento verso gli oratori. A parer suo, ogni casa doveva avere il proprio. I grandi oratori non lo spaventavano e si felicitava di averne visti alcuni di trecento, cinquecento, mille ragazzi, in occasione dei suoi viaggi. Quanto importava ai suoi occhi era che i religiosi non perdessero mai di vista lo scopo primo, cioè l'educazione cristiana. Nel

1902, incaricò don Stefano Trionea di organizzare un grande convegno ' a Torino per rilanciare l'attività salesiana negli oratori. '' Un altro servizio alla gioventù offerto dai Salesiani era la formazione dei giovani ad un mestiere. Alcuni però si meravigliavano, considerando questo lavoro incompatibile con la missione sacerdotale. In Francia, il presidente del Consiglio, Emile Combes, chiedeva «come si poteva ammettere delle ordinazioni fatte per uno scopo diverso dal servizio delle parrocchie e soprattutto per un fine così completamente estraneo alla missione sacerdotale come la creazione di scuole professionali». In genere, le scuole professionali salesiane erano ritenute come una creazione originale atta a risolvere molti problemi del tempo. Sul piano della qualificazione professionale e sociale, si notava un'evoluzione. Gli antichi laboratori diventavano progressivamente vere scuole di arti e mestieri con appositi programmi di studio. Per stimolare gli apprendisti furono incoraggiate le esposizioni dei loro lavori, tra cui vanno menzionate le Esposizioni generali che ebbero luogo a Torino nel 1901, nel 1904 e nel 1910. Nel 1903, il consigliere professionale, don Giuseppe Bertello, cominciò a stabilire programmi didattici e professionali, in cui non mancavano nozioni di sociologia sul capitale e il lavoro, sulle relazioni tra padroni e operai, sulla remunerazione e sul socialismo. Per conoscere la dottrina sociale cattolica si poteva consultare i manuali di Cerniti, Baratta, Munerati o Scaloni. Va segnalato anche lo sviluppo delle colonie e scuole agrarie. Mentre don Bosco aveva accettato con riluttanza la colonia di La Navarre in Francia, i problemi dell'esodo rurale decisero i superiori a favorire

questo tipo di opera sociale. Così nacquero in Italia le scuole o colore agricole di Ivrea (1892), Lombriasco (1894), Canelli (1896), Corigliano d'Otranto (1901); in Francia quelle di Gevigney (1888), Rossignol (1889), Ruitz (1891), Nizas (1894), Montmorot (1897), e Saint- Genis de Saintonge; in Spagna quella di Girona (1891). Sul Bollettino salesiano del 1902, don Rua scriveva ai Cooperatori: «Permettetemi che io, assecondando il nuovo e salutare risveglio di ritorno ai campi, cotanto caldeggiato dal venerando clero, richiami l'attenzione vostra sulle nostre colonie agricole». Nel 1903, la casa di Parma, per iniziativa del suo direttore, don Baratta, pubblicava la «Rivista di agricoltura» per la diffusione di un metodo di coltura più razionale, ispirato alle teorie di Stanislao Solari. Anche a Siviglia, don Ricaldone lanciava nello stesso tempo una «Biblioteca Solariana». Il nuovo interesse dei Salesiani per l'agricoltura ebbe anche notevoli riscontri in America del sud, in Palestina ed altrove.

Alcuni aspetti di quest'espansione.

L'espansione rapida delle opere in Europa durante il rettorato di don Rua è un fatto innegabile. Le statistiche lo confermano: da 57 nel 1888, gli insediamenti salesiani sono saliti a 345 nel 1910. In Europa, l'opera si diffondeva nella maggior parte dei paesi dove lavoravano già i Salesiani e raggiungeva nuovi paesi dell'Europa occidentale e centrale. Il moltiplicarsi delle fondazioni tra il 1888 e il 1910 fu reso possibile da un grande afflusso di vocazioni verso la Società salesiana. In questo periodo, infatti, il numero dei novizi salì vertiginosamente. Nell'anno 1900 erano 803. Gli ultimi anni furono meno fecondi, infatti le statistiche del 1910 ne mostrano soltanto 371. Le statistiche globali, però, rivelano un importante aumento di religiosi, che passarono da 774 alla morte di don Bosco a 4.001 alla morte di don Rua. Le cifre riguardano tutto il mondo, in cui però l'Italia e l'Europa occupavano un posto preponderante. Vicinissimi ai Salesiani, i Cooperatori e gli Exallievi furono agenti efficaci dell'espansione.

Per quanto interessa il governo generale della Congregazione notano anche l'aumento e l'organizzazione delle ispettorie. Alla mortai di don Rua ve n'erano già dodici in Europa: cinque in Italia (Subalpina Ligure, Lombardo-Veneta, Romana, Sicula), tre in Spagna (Betica, Tarragonese, Celtica), e quattro altre (Austro-Ungarica, Francese, Belga e Inglese). Durante le discussioni del Capitolo generale X (1904), don Rua si preoccupò di spiegare che le ispettorie nel pensiero di don Bosco non corrispondevano alle province degli altri istituti religiosi, poiché la Congregazione salesiana doveva formare una sola famiglia e non tanti frammenti di famiglia quante erano le province. Insomma, secondo Eugenio Ceria, don Rua temeva che i Salesiani cedessero alla tentazione e che essi «si provincializzassero». Era questo forse uno dei motivi per cui don Rua aveva chiesto e ottenuto soltanto nel 1902 l'erezione canonica delle ispettorie. Infine, vi è da tener conto della qualità degli uomini formati da don Bosco per essere i quadri della Congregazione, tra cui un posto a parte spetta a don Rua. «L'ascendente morale di don Rua - scriveva don Ceria - già grande in vita di don Bosco, toccò il vertice durante il suo rettorato». Era chiamato il più grande miracolo di don Bosco. Lo si paragonava enfaticamente ad Eliseo coperto dal mantello di Elia. Alle sue virtù non mancavano però i talenti dell'amministratore metodico e dell'animatore spirituale.

Capitolo XXI.

PROGRESSI IN AMERICA, PRIMI PASSI IN AFRICA E IN ASIA (1888-1910).

La fine del secolo XIX e i primi anni del secolo XX furono segnati dalla massima espansione delle nazioni europee. Le grandi potenze si spartivano il globo e conquistavano colonie nelle altre parti del mondo per una popolazione in rapida crescita. Le loro motivazioni erano prevalentemente d'ordine economico ed industriale, ma anche ideologico e morale. D'altra parte il forte nazionalismo creava tensioni tra i colonizzatori e suscitava ostilità nei paesi conquistati. Anche l'Italia faceva i suoi primi tentativi in Africa, mentre la povertà in molte zone del paese e la pressione demografica determinavano milioni d'Italiani a emigrare in America o in alcuni paesi dell'Africa. Questi fenomeni di massa non potevano non influire in qualche modo sull'espansione missionaria della Società salesiana, che agiva principalmente per motivi religiosi, ma anche a favore della «civiltà». Alla morte di don Bosco, la Congregazione comprendeva nell'America del sud due ispettorie: Argentina-Cile e Uruguay-Brasile. L'attività missionaria propriamente detta veniva esercitata in due territori ecclesiastici recentemente eretti dalla Santa Sede: un vicariato apostolico, che comprendeva il nord e il centro della Patagonia, ed una prefettura apostolica che abbracciava la Patagonia meridionale e la Terra del Fuoco. Nel periodo successivo, l'America sostiene il paragone con l'Europa per quanto riguarda l'espansione dell'opera salesiana. Non contenti di ampliare le istituzioni esistenti, i figli e le figlie di don Bosco andavano a stabilirsi in quasi tutti i principali paesi delle due Americhe, e si vedevano affidare nuovi territori di missione. Fuori dell'America, muovevano i primi passi in alcuni paesi dell'Asia e dell'Africa.

Presenza in nuovi paesi dell'America del sud (1890-1896).

Durante il rettorato di don Rua, i Salesiani entrarono in sei nuovi paesi d'America: Colombia, (1890), Perù (1891), Messico (1892), (1894), e (1896). La Colombia si trova in testa a quest'elenco grazie alle richieste reiterate rivolte a Torino, e poi a Roma, dal governo di questo paese e dall'arcivescovo di Bogotà. L'intervento di Leone XIII ebbe il potere di convincere don Rua a riprendere la catena delle fondazioni, teoricamente interrotta dalla morte di don Bosco. Un primo gruppo si mise al lavoro nella capitale colombiana nel 1890. Sotto la direzione di don Rabagliati, venne fondata una scuola professionale, denominata «collegio Leone XIII». Nel 1893 si apriva già una casa di noviziato a Fontibón, che sarà poi trapiantata a Mosquera. Ben presto fu iniziata una coraggiosa missione negli immensi Llanos de San Martin, nelle regioni amazzoniche all'est del paese, ma la rivoluzione dei 1895 e la scarsezza del personale non consentirono il proseguimento dei primi tentativi. L'ispettoria di Colombia fu creata nel 1896. A Barranquilla, importante porto sul mare delle Antille, i figli di don Bosco ricevettero nel 1902 la cura di una parrocchia e nel 1905 nacque una scuola agricola a Ibagué. L'opera condotta dai Salesiani in questo paese a favore dei lebbrosi, merita una trattazione a parte. Dopo la Colombia, il Perù. La venuta dei Salesiani in questo paese fu preparata da don Angelo Savio, che prese contatto a Lima con una Società di beneficenza. Tre Salesiani e nove Figlie di Maria Ausiliatrice arrivarono nella capitale verso la fine del 1891. Dall'Argentina venne don Antonio Riccardi che sarebbe diventato il primo direttore in terra peruviana. Alle Suore la Società di beneficenza della capitale affidò una scuola professionale, mentre i Salesiani aprivano un oratorio festivo. A poco a poco aprirono anche i laboratori di arti e mestieri della scuola S. Francesco di Sales. Nel 1896 il Senato peruviano approvò la creazione

delle scuole salesiane. La rivoluzione nell'Ecuador, che aveva reso disponibili alcuni Salesiani, permise l'apertura di nuove case, tra cui una scuola agricola ad Arequipa nel 1897, e un collegio a Callao l'anno seguente. Le città indie di Cusco e di Piura ricevettero pure alcuni Salesiani nel 1905 e nel 1906. «Non sarò io che manderò a Messico i Salesiani; farà il mio successore quello che io non posso fare», aveva detto don Bosco nel 1887 dinanzi agli alunni dei Collegio latino- americano di Roma. La predizione si avverò nel 1892, quando don Rua mandò i primi Salesiani per assumere la direzione di un asilo fondato nella capitale due anni prima da un gruppo di Cooperatori. Senza perdere tempo, don Piperni e don Piccono cercarono un posto più adatto per costruire un grande collegio con due sezioni per studenti e artigiani (tipografi, falegnami, sarti, calzolai, fabbri-ferrai e legatori). Il collegio salesiano «Santa Julia» diventò la casa madre del Messico e prima casa di formazione. Le richieste di fondazioni piovevano da varie parti della Repubblica. Nel 1894 si costruì a Puebla un secondo collegio per studenti e per artigiani. Nel 1901, si cominciò a Morelia con una scuola di mestieri e una scuola agricola. Nel 1902, l'ispettoria salesiana del Messico fu affidata a don Grandis. I Salesiani arrivarono anche a Guadalajara, dove aprirono nel 1905 prima un asilo, poi una scuola con laboratori. L'anno seguente fu accettata anche la chiesa di Santa Ines nel centro della capitale. Anche il Venezuela figurava da molti anni sugli elenchi di don Bosco e di don Rua. Precursore dell'opera salesiana in questo paese furono alcune personalità del clero e un folto gruppo di Cooperatori. Questi avrebbero facilitato molto la missione dei Salesiani dopo il loro sbarco in questo paese nel 1894. A Caracas, il governo cedeva loro una scuola di arti e mestieri già esistente, di cui il primo direttore fu il padre Riva. Un altro gruppo, guidato dal padre Bergeretti, aprì a Valencia una scuola elementare. Dopo grandi incertezze all'inizio, le due case prese

ro rapidamente un notevole sviluppo. Quando, nel 1898, una grave epidemia scoppiò a Valencia durante la guerra civile, i religiosi si prodigarono fino all'eroismo a beneficio della popolazione. Un piccolo collegio fu aperto nel 1902 a San Rafael, poi trasferito nel 1906 a Maracaibo. Don Costamagna fu il primo Salesiano a calcare il suolo della Bolivia, dove il presidente della Repubblica offriva nel 1890 il suo personale interessamento per la fondazione di opere a favore della gioventù. I primi sette Salesiani arrivarono nel paese soltanto nel 1896. Fecero il loro ingresso a La Paz il 17 febbraio dopo un viaggio piuttosto singolare attraverso le Ande e gli altopiani della Bolivia. L'accoglienza fu entusiastica, sia da parte delle autorità che della popolazione. Furono aperti due collegi simultaneamente a La Paz e nell'altra capitale, Sucre. In questo paese, dove gli Indi costituivano la maggioranza della popolazione, i Salesiani non potevano rassegnarsi a dimenticarli; per loro crearono, quando la necessità lo richiedeva, sezioni speciali nelle loro case. In tutta l'America del Sud, un solo paese doveva ancora essere servito: il Paraguay. Dopo le prime trattative fallite durante la vita di don Bosco, un accordo fu concluso nel 1894 con il governo da mons. Lasagna. Don Allavena, poi don Savio, vi avevano soggiornato qualche tempo, ma soltanto nel 1896 il primo gruppo stabile si fissava ad Asunción, poco dopo gli inizi in Bolivia. Come accadeva spesso negli altri paesi, anche qui l'insegnamento professionale ebbe la precedenza con la creazione di una scuola di arti e mestieri. Quattro anni dopo, Concepción ebbe un oratorio, pqi un collegio per l'insegnamento elementare e secondario. Fin da principio, i religiosi avevano pensato agli indigeni del Chaco, ma si dovette aspettare a lungo prima che una missione regolare potesse esservi organizzata.

In America centrale e negli Stati Uniti (1897).

Nell'America centrale, i primi Salesiani cominciarono a lavorare nella piccola Repubblica del Salvador verso la fine del 1897. Accettarono una scuola di agricoltura offerta dal governo ed organizzarono l'insegnamento professionale ed un oratorio. Ricordiamo qui di passaggio l'apertura di un orfanotrofio a Curacao, nelle Antille olandesi, nel mare Caribico. Una fondazione difficilissima si fece anche nell'isola di Giamaica nel 1901. Negli Stati Uniti, l'opera salesiana nacque tra gli emigrati italiani, già molto numerosi alla fine del secolo scorso. Così, nel 1897, per richiesta dell'arcivescovo, i Salesiani presero possesso della parrocchia SS. Pietro e Paolo a San Francisco. Fu loro affidata una seconda parrocchia in un altro quartiere della città, e anche una parrocchia ad Oakland per immigranti portoghesi. A New York, dove vivevano allora quasi 400 mila Italiani, si stabilirono nella parrocchia Santa Brigida nel 1898 e alla Trasfigurazione nel 1902. Oltre alle attività religiose, i Salesiani riuscirono ad organizzare corsi serali per l'insegnamento dell'inglese, a lanciare il settimanale «L'Italiano in America», e a creare un «segretariato del popolo» con lo scopo di cercare lavoro ai nuovi arrivati, di trovare un ricovero agli orfani, di comporre i litigi. Don Coppo riuscì benissimo in queste molteplici mansioni, mentre don Borghino dal 1902 assumeva la direzione dell'ispettoria salesiana degli Stati Uniti. Il primo noviziato fu inaugurato a Troy nel 1904.

Progressi in Argentina, Uruguay, Brasile, Cile ed Ecuador

Nei paesi già toccati dai Salesiani, il movimento continuò, anzi diventò più celere. Ed al primo posto di questo sviluppo troviamo naturalmente l'Argentina. Il collegio Pio IX di Almagro (Buenos Aires) era diventato in qualche modo la casa madre, il Valdocco degli Americani. Provenienti dall'Europa, là sbarcavano i rinforzi pronti a lanciare nuove fondazioni. Tra queste, la prima nel periodo che ci interessa, è quella di Rosario, nella provincia di Santa Fé. In questa regione, dove abbondavano gli Italiani espatriati, si ebbe la sorpresa di assistere ad un autentico risveglio della fede e della pratica religiosa. Mendoza, ai piedi della Cordigliera, vide i figli di don Bosco iniziare nel 1892 in estrema povertà. Lavorando con tenacia, essi crearono una scuola e un oratorio molto frequentati e costruirono una chiesa. Nel 1893, i Salesiani stavano costruendo sei chiese in questo paese. Nel 1894, fu loro offerto un terreno immenso ad Uribelarrea, perché vi creassero una scuola agricola. L'anno seguente, il noviziato lasciava Almagro per una località più raccolta, Bernal. In quello stesso anno 1895, don Costamagna, ispettore dell'Argentina, era nominato vescovo e lasciava il posto a don Giuseppe Vespignani. Nel 1900, fu accettata una nuova parrocchia ad Ensenada, presso La Piata, dove il lavoro si rivelò molto duro ed anche pericoloso. Contemporaneamente si apriva un'altra scuola agricola a Rodeo del Medio. Nel 1900 erano trascorsi venticinque anni dall'arrivo della prima spedizione a Buenos Aires. Per celebrare degnamente questo giubileo d'argento, il collegio Pio IX di Almagro avrebbe accolto un grande congresso internazionale analogo a quello di Bologna. Don Rua, la cui presenza era unanimemente desiderata, si tirò indietro. Per sostituirlo designò un rappresentante straordinario nella persona di don Albera. Dopo le solennità, questi intraprese il giro di 250 località dell'America dove lavoravano Salesiani o Figlie di Maria Ausiliatrice. Il viaggio sarebbe durato tre anni.

Il secondo paese toccato dai Salesiani era stato l'Uruguay. Là, il collegio di Villa Colon, creato da don Lasagna che vi risiedeva ora come ispettore, godeva di gran prestigio ed il suo osservatorio, diretto da don Morandi, era conosciuto in tutta l'America. In un primo tempo, vennero fondati tre nuovi istituti: un collegio con oratorio a Paysandù; un altro collegio a Mercedes, dedicato a S. Michele, in omaggio a don Rua; e una scuola professionale intitolata «Talleres Don Bosco» nella capitale Montevideo. Il 12 marzo 1893, don Lasagna riceveva a Roma la consacrazione episcopale. Egli continuò tuttavia a dirigere l'ispettoria Uruguay- Brasile fino al 1895, quando morì in un incidente ferroviario. L'ispettoria fu affidata allora a don Gamba, direttore a Montevideo, il quale creò una casa di noviziato a Manga, vicino alla capitale. In Brasile, nel 1889, una rivoluzione aveva rovesciato Pedro II dopo cinquant'anni di regno e proclamato la repubblica. I Salesiani di Niterói e di Sào Paulo non ebbero a soffrire del cambiamento di regime perché il loro lavoro godeva dell'appoggio della popolazione. Nel 1890, l'intrepido don Lasagna diede principio ad una nuova fondazione a Lorena. Quattro anni dopo, l'opera salesiana iniziava nel nordest, a Recife, dove un collegio salesiano accoglieva gli alunni nell'antica residenza dei governatori portoghesi. L'ultimo viaggio di mons. Lasagna avrebbe dovuto condurlo in un villaggio del Minas Gerais, Cachoeira do Campo. Un anno dopo la sua morte, i Salesiani vi fondavano una scuola. Campinas, seconda città dello Stato di Sào Paulo, vide arrivare i figli di

don Bosco nel 1897. Altre case sorgevano a Salvador de Bahia, a Jaboatào, a Rio Grande do Sul, a Bagé. Già nel 1902, le case del Brasile erano raggruppate in due ispettorie salesiane, quella del sud affidata a don Peretto e quella del nord a don Giordano, senza contare l'ispettoria del Mato Grosso che ha una storia particolare. In Cile, i Salesiani di Concepción e di Talea vissero giorni tragici in occasione della guerra civile dei 1891, durante la quale essi aprirono le loro case agli sventurati che cercavano un rifugio, e assunsero l'opera «Asilo de la Patria» nella capitale Santiago. Protagonista maggiore durante questi eventi fu il direttore, don Domenico Tomatis. Nell'anno 1894 furono aperte quattro nuove case: un collegio nella capitale, una scuola d'agricoltura a Melipilla, una scuola professionale a Valparaiso e un noviziato a Macul. Altre fondazioni si fecero a Iquique, a La Serena, a Linares, a Valdivia, mentre a Santiago nuove istituzioni venivano ad aggiungersi alla prima. Nel 1909, la capitale diventò anche la sede del VI Congresso internazionale dei Cooperatori. Da quando i Salesiani erano entrati in Ecuador, le loro opere prosperavano. La casa di Quito contava quattordici laboratori in piena efficienza. Essa fu oggetto di sollecitudini da parte di due presidenti della Repubblica. Alcune opere furono create a Cuenca e a Riobamba, un noviziato fu aperto a Sangolquì. Fin dal 1894, don Rua decideva di creare un'ispettoria ecuadoriana affidandola a don Calcagno. Le difficoltà incominciarono con la rivoluzione liberale del 1895. Nel 1896, vi fu la catastrofe. Accusati di manovre antigovernative, i Salesiani furono arrestati, le loro case requisite. Nove religiosi, tra cui l'ispettore, furono costretti ad un terribile viaggio fino alla frontiera peruviana. La loro odissea durò quaranta giorni e li lasciò distrutti. Però l'opera salesiana, soffocata per qualche tempo, riprese poi rigogliosa.

Motivi e caratteristiche di quest'espansione

Questi rapidi processi d'espansione avevano cause diverse: da una parte, gli inviti incalzanti delle gerarchie locali preoccupate della miseria religiosa delle popolazioni, soprattutto dei giovani; dall'altra, le pressioni dei governanti, desiderosi di favorire, con la formazione delle nuove generazioni, lo sviluppo industriale ed agricolo dei loro paesi. Ma lo slancio veniva anche dall'interno della Famiglia salesiana. In quegli anni essa era attraversata da una forte corrente apostolica, di cui fa fede il numero di partenze verso le missioni. La spedizione missionaria del 1891 comprendeva 72 missionari; 92 partirono nel 1895, 126 nel 1898. Nel 1891 partirono anche 20 Figlie di Maria Ausiliatrice, 26 nel 1892, 30 nel 1893, 32 nel 1897. Accanto ai Salesiani, le Suore avevano un ruolo insostituibile, specialmente nelle missioni propriamente dette. Anche i Cooperatori assolsero il loro compito, preparando il terreno, e talvolta dando inizio essi stessi alle fondazioni, come accadde per esempio in Messico. Le opere in America - se si eccettuano le colonie indigene - non differivano nella loro struttura da quelle che abbiamo visto funzionare in Europa. Tuttavia, per richiesta di molti vescovi, privi di sacerdoti, molti Salesiani si dedicarono a un ministero parrocchiale. L'importanza dell'immigrazione italiana (per esempio negli Stati Uniti) li orientava in questo senso. Per gusto e per necessità, diventarono entusiastici costruttori di chiese. Come in Europa nello stesso periodo, una reale priorità fu data alle scuole professionali e agricole, che rispondevano ad una necessità profondamente sentita. Le «scuole di arti e mestieri» erano spesso insistentemente richieste dagli stessi governi. Approfittando di elargizioni pubbliche e private, i Salesiani hanno creato anche enormi zone di coltura: 400 ettari a Uribelarrea in Argentina, 1800 ettari a Cachoeira in Brasile. Notiamo che a Manga, in Uruguay, essi hanno migliorato e diffuso la coltura del grano, ancora poco praticata. A Lorena, in Brasile, don Badariotti si rese celebre per la sua conoscenza degli insetti, della geologia e della mineralogia del paese. Per quanto concerne il contributo salesiano all'osservazione meteorologica, sappiamo già che fu molto apprezzata. Sul piano politico, l'instabilità dei governi in vari paesi d'America non poteva non influire sul lavoro dei religiosi. Il fatto che le scuole fossero governative facilitava molto le cose, ma le metteva in balia di ogni cambiamento di regime, come avvenne in modo drammatico in Ecuador.

In Colombia, l'opera a favore dei lebbrosi godette, in quel tempo, di fama considerevole. Ebbe inizio nel 1891 nel villaggio di Agua de Dios, dove vivevano centinaia di lebbrosi in un isolamento materiale e morale quasi totale. Don Michele Unia, della casa di Bogotà, lo sapeva e ne soffriva. Ora, leggendo un giorno il racconto evangelico dei dieci lebbrosi guariti da Cristo, sentì che la sua vocazione era di andare a mettersi al servizio di quegli sventurati. Messosi all'opera, si prodigò senza risparmio, incoraggiato da don Rua, che scriveva di suo pugno ai «cari lebbrosi». Eresse un asilo infantile, lanciò una pubblica sottoscrizione per costruire un grande ospedale, restaurò la chiesa; fece portare l'acqua potabile da una vicina collina; organizzò feste religiose e coltivò la musica. Quattro anni di un lavoro sfibrante bastarono a consumarlo. Morì nel 1895 in Italia, dove era tornato per curarsi. Il ricordo di don Unia fu circondato da onori eccezionali, non lontani da quelli tributati a don Bosco. I suoi aiutanti e successori furono don Crippa e don Variara, il quale fondò una Congregazione femminile tra le stesse lebbrose per la cura dei malati. Quanto a don Rabagliati, con l'appoggio delle autorità locali, condusse un'azione vigorosa a favore dei lebbrosi, si recò in Norvegia dal celebre lebbrologo Hansen, fu eletto presidente della commissione governativa per la costruzione di lebbrosari. Ai Salesiani fu affidata anche la direzione di un altro gran lebbrosario a Contratación e di un terzo a Cario de Loro.

Nelle missioni dell'estremo sud del continente americano.

Nell'estremo sud del continente americano, la prima missione salesiana fu in qualche modo vittima del proprio successo dopo la morte di don Bosco. Da una parte, si registra uno sviluppo importante delle presenze su tutto il vasto territorio; d'altra parte una diminuzione, e quasi una sparizione della missione come tale. Durante il rettorato di don Rua, il vicariato apostolico, che comprendeva il cuore della Patagonia, si organizzava sempre meglio sotto

la direzione di mons. Cagliero. Il prelato aveva scelto di fissare la propria residenza prima a Patagones, poi a Viedma, due cittadine che si trovavano di fronte sulle opposte rive del Rio Negro. I missionari si lanciavano in lunghe scorribande a cavallo, che il vento, il freddo, la fatica, rendevano particolarmente dure, catechizzando, battezzando, celebrando o regolarizzando matrimoni. Tuttavia, queste missioni nomadi non bastavano. Nel 1888, don Milanesio, trattenuto a Chosmalal, ai piedi della Cordigliera per ordine del governatore, decise di occupare il tempo costruendo una cappella e una casetta, piccolo inizio di una stazione missionaria molto ben situata alla confluenza del Neuquén e del Curileo. L'anno seguente, i Salesiani si stabilivano a Pringles, sulla riva sinistra del Rio Negro. Essendo il sito favorevole, mons. Cagliero vi fece costruire due scuole che si rivelarono un buon mezzo di cristianizzazione. Un'altra residenza nacque a Roca, non lontano dalla confluenza del Limay e del Neuquén. A questo stesso periodo, appartiene la costruzione di un ospedale a Viedma: una buon'idea di mons. Cagliero, che contribuì a far cadere molti pregiudizi contro i Padri, spesso accusati d'essere sfruttatori del popolo. Tra il 1890 e il 1895, il vicariato apostolico allargò il proprio campo d'azione, sia verso il nord che verso il sud. Al nord, al di là del Rio Colorado, assorbiva la Pampa, cominciando dalla città di Bahia Bianca. Più a nord si estendeva la grande Pampa o Pampa centrale, che occupa il centro dell'Argentina. In quel tempo, contava appena 25 mila abitanti: indigeni, governati fino a qualche tempo prima dal cacico Namuncurà, gauchos discendenti dagli antichi spagnoli ed emigrati più recenti venuti dalla Spagna, dalla Germania, dalla Russia o dal Piemonte. Furono fondati per loro centri missionari a General Acha, a Santa Rosa, a Victorica. Partendo di là, i Salesiani galoppavano in tutte le direzioni. A sud, il vicariato s'ingrandì annettendo la regione del Chubut, molto vasta, ma, anch'essa, poco abitata. Nel 1892, venne stabilita una residenza a Rawson, capitale di mille abitanti. Gli indigeni della regione, appartenenti alla razza dei Tehuelches, furono evangelizzati da don Milanesio. Sfidando i protestanti, fino allora padroni del campo, i mis

sionari misero in piedi in poco tempo una chiesa, una scuola, un oratorio e un ospedale. Là, come in altre località, il contributo delle Figlie di Maria Ausiliatrice era molto apprezzato, sia dai Salesiani che dalla popolazione. Ogni anno, i religiosi si addentravano un po' più in quell'immenso territorio. Tuttavia, i giorni del vicariato erano contati. Il volto della Patagonia cambiava in fretta: sempre meno indigeni e sempre più coloni. Una nuova organizzazione ecclesiastica si imponeva. Quando nel 1904, mons. Cagliero lasciò la Patagonia per raggiungere il nuovo posto di delegato apostolico a Costarica, egli fu sostituito da due provicari, uno per la Patagonia settentrionale e l'altro per il Chubut, tutti e due dipendenti dall'arcivescovo di Buenos Aires. Con questo provvedimento, si era giunti ormai al tramonto del vicariato apostolico. Gli stessi fenomeni stavano per verificarsi nella prefettura apostolica di mons. Fagnano, sebbene con minore velocità. La prefettura abbracciava non solo la Terra del Fuoco, ma anche il sud della Patagonia e le Isole Malvine. Da quando, nel 1887, il prelato si era stabilito a Punta Arenas, la missione aveva messo buone basi di partenza. Nella Patagonia meridionale, don Beauvoir faceva un buon lavoro a Santa Cruz e a Rio Gallegos. Nelle Isole Malvine, don Diamond svolgeva la propria attività a Port Stanley, dove ebbe anche la fortuna di assistere a conversioni di protestanti. Le cure di mons. Fagnano andavano alla Terra del Fuoco. Egli continuava i viaggi di esplorazione con una goletta che aveva acquistata. I rischi erano grandi, se si pensa all'odio mortale che gli indigeni nutrivano verso i bianchi. Tuttavia, egli riusciva ad avvicinarli portando loro doni e viveri. Per evangelizzarli, pensò che sarebbe stato utile riunirli in villaggi. Così fece per gli Alakalufi a San Rafael nell'isola di Dawson, impegnandosi a farvi trasportare tutto il materiale necessario, compreso il bestiame. Nel 1893, creò la missione de «La Candelaria» nella parte orientale dell'Isola Grande, che egli destinò a diventare luogo di raduno degli indigeni Onas. Nel 1899, i Salesiani assunsero anche la responsabilità della «parrocchia» di Porvenir, nella parte cilena del

l'Isola Grande. Nel 1904 venne loro affidata, non molto lontano dal Capo Horn, anche quella di Ushuaia. Intanto, le cose cambiavano anche nell'estremo sud. Gli indigeni, già decimati dai massacri, morivano di tubercolosi. Le autorità governative diventavano più restie al lavoro dei missionari, mentre quelle ecclesiastiche auspicavano la «normalizzazione» della Chiesa in queste zone. Quando mons. Fagnano morirà nel 1916, la parte argentina della prefettura farà parte della nuova organizzazione della Chiesa nel sud, mentre la parte cilena formerà un vicariato apostolico di Magallanes, nel quadro della diocesi di Ancud. Primo vicario apostolico e primo vescovo salesiano cileno sarà mons. Abraham Aguilera.

Una nuova missione nel Mato Grosso in Brasile (1894).

Mentre tramontava il «mito» della Patagonia e della Terra del Fuoco, la Santa Sede decideva di affidare all'ispettore salesiano Luigi Lasagna l'evangelizzazione degli indigeni del Brasile. Consacrato vescovo nel 1893, si mise subito al lavoro. Stava per iniziare una nuova epopea missionaria. Attraversando ripetutamente il paese, mons. Lasagna giungeva alla conclusione che i Salesiani dovevano muovere i primi passi nello Stato del Mato Grosso, nel cuore del Brasile, e più precisamente a Cuiabà. Partendo da questa città, popolata da coloni bianchi, essi avrebbero tentato di raggiungere le tribù indigene. Nel 1894 vi portò i primi Salesiani, i quali si occuparono della parrocchia e aprirono un collegio con laboratori e scuola agricola. L'anno seguente arrivarono anche le prime Figlie di Maria Ausiliatrice. A sei ore di cavallo all'est di Cuiabà, alcuni indigeni appartenenti alla razza dei Bororos erano stati riuniti in una colonia militare denominata Teresa Cristina. Dato però che il regime vigente non otteneva alcun ri

sultato, il governo decise semplicemente di affidarla ai religiosi. Mons. Lasagna vi mandò un piccolo gruppo di missionari. Il 6 novembre 1895, un tremendo incidente ferroviario, avvenuto nelle vicinanze di Juiz de Fora nello Stato di Minas Gerais, costò la vita a mons. Lasagna, al suo segretario ed a quattro Figlie di Maria Ausiliatrice. La Congregazione e le missioni d'America perdevano con mons. Lasagna un uomo di prim'ordine. Fortunatamente egli fu sostituito da altri grandi missionari. Don Malan, direttore della casa di Cuiabà, e don Balzola, capo della residenza missionaria, erano uomini temprati. Nel 1899 fu aperta la casa di Corumbà, che diventò il punto d'appoggio per i missionari in viaggio. Quando i Salesiani furono costretti ad abbandonare Teresa Cristina, cercarono di creare nuove colonie in proprio a Meruri e a Sangradouro. Nel 1900 don Malan fu fatto ispettore del Mato Grosso. Dovunque i progressi erano molto lenti e sempre precari, ma intanto i religiosi avevano il tempo di perfezionare le loro conoscenze in quest'universo particolare.

Una terza missione in Ecuador (1895).

Nel 1893, un accordo tra il governo ecuadoriano e la Santa Sede portò alla creazione di un vicariato apostolico, affidato ai Salesiani, sul territorio degli indigeni Jivaros. Don Costamagna che doveva assumerne il governo fu consacrato vescovo il 23 maggio 1895, diventando così il terzo vescovo salesiano, dopo Cagliero e Lasagna. Un primo centro venne fissato a Gualaquiza, che era l'ultimo lembo di mondo civilizzato. Le difficoltà si rivelarono subito eccezionali. I Jivaros, noti per la forza, l'intelligenza, ma anche per la ferocia, non indugiavano a mettere a fuoco le loro costruzioni. D'altra parte, mons. Costamagna, a causa della rivoluzione ecuadoriana, si vedeva proibire l'accesso al vicariato di cui aveva la responsabilità. Nonostante tutto, don Mattana, capo della residenza, ed i suoi collaboratori non rimanevano inattivi. Costruirono una cappella e riuscirono perfino a calmare un poco l'umore bellicoso di alcuni indigeni. Con gioia accolsero nel 1902 don Albera che, per visitarli, si era sottoposto ad un viaggio massacrante. Nel luglio di quel medesimo anno giungeva anche mons. Costamagna, ma con un permesso di soggiorno soltanto per tre mesi.

Analoga autorizzazione gli venne concessa di nuovo nel 1903, ma poi dovette aspettare dieci anni. Nonostante i sacrifici enormi, ancora per molto tempo i risultati saranno scarsi. L'indipendenza di cui i Jivaros erano gelosi, la pratica inveterata della poligamia e della vendetta erano grossi ostacoli all'opera dei missionari. Com'era loro abitudine, questi fondavano sulle nuove generazioni le loro speranze.

I Salesiani in Palestina (1891).

Per quanto importanti e talvolta eroiche possano apparire le realizzazioni salesiane nel continente americano - realizzazioni amplificate in Europa da diverse pubblicazioni e in particolare dal Bollettino salesiano non possiamo trascurare i primi passi in altre regioni del mondo. L'insediamento dei Salesiani in Palestina si scostò dal normale modo di procedere. Esisteva in Terra Santa un'opera per la gioventù, il cui fondatore era don Antonio Belloni. Ancora giovane professore e direttore spirituale nel seminario di Betgiala presso Gerusalemme, era rimasto colpito dalla miseria in cui vivevano i fanciulli che incontrava sulla strada. Egli decise di alloggiarli e di educarli. Innanzi tutto, nel 1874, aprì a Betlemme un orfanotrofio, che accoglieva 45 ragazzi. Lo stesso anno, progettò di fondare una Congregazione diocesana, i Fratelli della Sacra Famiglia. Con il passare degli anni, alcuni collaboratori si aggiunsero effettivamente a lui, in modo che, nel 1878, poteva inaugurare una scuola agricola a Beitgemal, mentre la casa di Betlemme si arricchiva di un esternato che avrebbe raggiunto 150 alunni. Una terza casa fu aperta nel 1886 a Cremisan. Preoccupato di assicurare continuità all'opera grazie ai Salesiani, don Belloni si era rivolto a don Bosco stesso due volte, nel 1875 e nel 1887. La seconda volta, il santo aveva risposto laconicamente: «Ora no, dopo sì». Ritornò quindi alla carica nel 1890, proponendo a don Rua d'incorporare la sua opera nella Congregazione salesiana. L'accordo fu concluso. L'anno seguente, l'8 ottobre 1891, giungevano a Betlemme

sette Salesiani e cinque Figlie di Maria Ausiliatrice. Non mancarono le difficoltà. Alcuni Fratelli della Sacra Famiglia se n'andarono; altri invece si fecero Salesiani, a cominciare da don Belloni, che rimase alla direzione della casa di Betlemme. La visita di don Rua ai Luoghi Santi nel 1895 permise di appianare gli ostacoli che rimanevano. Nel 1896, sorse una nuova casa a Nazareth, ad opera di don Athanase Prun, un ex allievo di don Belloni. Venne dedicata a Gesù Adolescente. Nel 1904 una scuola fu aperta a Gerusalemme, e nel 1906 un'altra a Giaffa. L'ispettoria del Medio Oriente, creata nel 1902, comprendeva anche le scuole italiane aperte a Istanbul e a Smirne.

Prime presenze in Africa (1891), Cina e India (1906).

Il rettorato di don Rua vide infine la partenza di alcuni Salesiani e Figlie di Maria Ausiliatrice verso l'Africa e l'Estremo Oriente. Il loro arrivo in quei paesi lontani fu facilitato dalla presenza di colonie europee, che chiedevano educazione e formazione cristiana per i loro figli. Nel 1883, a Parigi, don Bosco aveva promesso al cardinale Lavigerie, arcivescovo di Cartagine, di «compiere in Africa tutto quello che la Provvidenza divina domanderà». Toccò al suo successore mandare i primi Salesiani in Algeria e in Tunisia. A Orano, «città di 60 mila abitanti di varia nazionalità, specialmente spagnoli», dove molti fanciulli erravano per le strade «come bestiole», i sette primi Salesiani, capeggiati da don Charles Bellamy, sbarcarono il 24 agosto 1891 e aprirono scuole e oratorio festivo. Due anni dopo, P8 dicembre 1893, le tre prime Figlie di Maria Ausiliatrice fecero il loro ingresso nel vicino villaggio di pescatori italiani di Mers-el-Kebir. Nel 1894 i figli di don Bosco arrivarono in Tunisia per assumere la direzione di un orfanotrofio agricolo a La Marsa, presso Tunisi. Anche in Egitto, nella città di Alessandria, dove vivevano circa 30 mila Italiani, si potè iniziare nel 1896 una scuola professionale, mentre nello stesso tempo, i primi figli di don Bosco venuti dall'Inghilterra si stabilivano nel Sud Africa, a Città del Capo. E nel 1907, un gruppo partito da Lisbona arrivava nel Mozam

bico, nell'Africa sud-orientale, per dirigere uno stabilimento di arti e mestieri a Ilha de Mocambique e poi una colonia agricola a Lunga. Il progetto di don Bosco di mandare missionari in India si realizzò sotto il suo successore, su richiesta del vescovo portoghese di Meliapor (Mylapore), presso Madras. Cinque Salesiani e un aspirante, guidati da don Giorgio Tomatis, sbarcarono a Bombay il 5 gennaio 1906 e arrivarono il 14 gennaio a Tanjore (Thanjavur), sulla costa sud-orientale. Vi assunsero la responsabilità di un orfanotrofio e di una scuola parrocchiale, e crearono una scuola industriale che fu riconosciuta dal governo inglese. L'anno seguente, don Eugène Méderlet fu mandato da don Rua per sostituire il primo confratello morto in India. Nel 1909, una seconda opera per ragazzi eurasiatici fu accettata a Mylapore. In Cina, il primo insediamento salesiano avvenne nella città portoghese di Macao. Le negoziazioni furono facilitate da un ex superiore gesuita del seminario locale. Il primo gruppo di Salesiani, capeggiato da don , sbarcò a Hong Kong il 13 febbraio 1906 e arrivò a Macao la sera dello stesso giorno. Assunsero la direzione di un orfanotrofio con scuole e laboratori. Ben presto, i Salesiani sognavano una missione vera e propria. Intanto, i padri Ludovic Olive e Giovanni Fergnani prestavano i loro servizi in quella di Shiu Hing. In questi ultimi paesi, evidentemente si trattava soltanto di timidi inizi e prevalentemente in un contesto di colonie europee. Tuttavia, la storia posteriore mostrerà che questo periodo sarà seguito da importanti sviluppi.

Capitolo XXII.

IL RETTORATO DI DON PAOLO ALBERA (1910-1921) E DI DON FILIPPO RINALDI (1922-1931).

Dopo don Rua, tra il 1910 e il 1931, a capo della Società salesiana si sono succeduti due Rettori maggiori. L'uno e l'altro possono essere considerati eredi diretti del Fondatore che hanno personalmente conosciuto e di cui, per anni, sono stati anche collaboratori. Don Albera, che fu Rettor maggiore dal 1910 al 1921, riuscì, a prezzo di un momentaneo rallentamento e di sacrifici tremendi, a superare la tormenta della prima guerra mondiale (1914-1918). Le fondazioni ripresero con maggior lena e le missioni, in modo particolare, conobbero un nuovo sviluppo sotto il rettorato di don Rinaldi (1922-1931). Entrambi lasciarono un'impressione di santità, che, soprattutto per don Rinaldi, si accentuò ancora dopo la sua morte.

1. PAOLO ALBERA (1845-1921).

Un fanciullo affabile e studioso.

Paolo Albera nacque a None il 6 giugno 1845, in una famiglia di contadini relativamente agiati. Era l'ultimo di sette figli. I biografi lo

dipingono come un fanciullo buono, piuttosto delicato, amante della scuola e delle cerimonie di chiesa, e mettono in risalto la sua «squisita gentilezza» che fu, a loro giudizio, uno dei tratti caratteristici di don Albera per tutta la vita. Il suo primo incontro con don Bosco avvenne nel mese di ottobre del 1858. Il sacerdote di Torino, accompagnato dal chierico Rua, era allora ospite del parroco di None, che approfittò dell'occasione per raccomandargli quel ragazzo di tredici anni dicendo: «Prendilo con te!». Don Bosco si rivolse a Rua dicendo: «Prenditi questo caro amico e dagli un po' di esame». Dopo un rapido esame di ammissione, l'accettazione di Paolo Albera all'Oratorio di Valdocco fu decisa seduta stante. Il 18 ottobre, Albera fece il suo ingresso all'Oratorio. Nulla di straordinario distinguerà il nuovo venuto dai suoi compagni. Albera si dimostrava calmo, sorridente, studioso. L'ambiente della casa pareva fatto su misura per lui. Il ricordo di Domenico Savio, morto l'anno precedente, stimolava i migliori a seguirne le tracce. Ben presto egli si unì a loro. Stringeva amicizia con Michele Magone, suo vicino di camera. Ma per breve tempo. Michele, infatti, moriva quasi improvvisamente il 21 maggio 1859. Don Bosco ne aveva predetto la morte, e questo fatto l'impressionò vivamente. Di quei primi anni dell'Oratorio, riteniamo questo giudizio di Giulio Barberis che fu suo condiscepolo dal 1861: «Amantissimo del gioco, io ero continuamente in moto; egli, abbastanza quieto, preferiva passeggiare o star ritirato nell'ufficio "di don Alasonatti che aiutava in piccole cose. Albera era assai studioso e primeggiava nella scuola, rivelandosi di molto ingegno e di grande volontà; ma spiccava altresì per la sua pietà, per cui era molto amato da don Bosco». Questo affetto speciale di don Bosco per il suo alunno doveva essere di pubblico dominio all'Oratorio: dicono infatti, che fosse chiamato - apparentemente senza cattiveria - il «beniamino di don Bosco». Circa sessant'anni più tardi, don Albera si commuoveva ancora a quel ricordo: «Ancor adesso mi sembra di provare tutta la soavità di questa predilezione verso di me giovinetto: mi sentivo come fatto prigioniero da una potenza affettiva che mi alimentava i pensieri, le parole e le azioni». Un giorno del 1861, fu scelto proprio lui da don Bosco per posare

davanti all'obiettivo al suo fianco: questi in atteggiamento di confessore e quello di penitente.

Il Salesiano (1862).

Fin dal primo maggio 1860, lo studente Albera era stato ammesso «alla pratica delle Regole della Società». Aveva appena quindici anni e doveva mostrarne qualcuno di meno. Il 27 ottobre 1861, vestiva l'abito talare e, il 14 maggio 1862, fu uno dei ventidue primi Salesiani che pronunciarono i voti pubblici. Fin da quel tempo, la sua fede in don Bosco e nell'opera sua era totale. L'autunno del 1863 segnò un primo cambiamento nella sua vita di giovane salesiano. Lasciava l'Oratorio e partiva alla volta del collegio di Mirabello, la cui apertura era stata appena decisa. Là, esercitò mansioni di insegnante e di assistente. Durante l'anno scolastico 1865-1866, ebbe tra i suoi alunni un ragazzo vivace, dai capelli rossi, che si chiamava Luigi Lasagna: ricorderà questo volto quando, nel 1910, scriverà la biografia del vescovo salesiano del Brasile. Mentre faceva scuola, riusciva ad ottenere diplomi d'insegnamento e ad attendere agli studi di teologia in vista del sacerdozio. Fu ordinato a Casale il 2 agosto 1868. La vigilia, era andato a trovare don Bosco per chiedergli, com'era consuetudine, un consiglio o un ricordo: «Quando avrai la felicità di dire la prima messa - gli disse chiedi a Dio la grazia di non scoraggiarti mai». Don Albera ammetterà di aver compreso l'importanza di queste parole soltanto più tardi, alla luce, certamente, delle prove legate alle future responsabilità.

Direttore in Liguria e primo ispettore in Francia (1881).

Nello stesso anno 1868, don Albera fu richiamato a Torino, dove il superiore gli affidava l'incarico di prefetto, incaricato dei rapporti con

l'esterno e dall'accettazione dei nuovi alunni. Felice di trovarsi nuovamente accanto a don Bosco, all'Oratorio o nei viaggi che faceva, Albera si persuase - sono parole sue - che «l'unica cosa necessaria per diventare suo degno figlio era d'imitarlo in tutto». Si sforzò quindi di riprodurre in sé la maniera di pensare, di parlare e di agire di colui che egli chiamava, con affetto e rispetto ugualmente grandi, padre suo. A cominciare dal 1871, quando aveva soltanto ventisei anni, accedeva a cariche importanti. Prima fu nominato direttore a Marassi, poi, nel 1872, dopo il trasloco di questa casa, a Sampierdarena presso Genova. Sotto la sua direzione, l'istituto ebbe ottimi inizi. In un primo tempo scuola professionale, ben presto estese il suo campo d'azione aprendo alcune classi di scuola secondaria e, nel 1875, accolse tra le sue mura un'opera di «Figli di Maria» o vocazioni tardive. Nel 1877, gli alunni erano trecento. Le doti di don Albera gli conquistarono molte simpatie, tra gli alunni, presso famiglie di Genova e in arcivescovado. Nel 1881, la notizia di un suo trasferimento lo gettò nell'inquietudine. Doveva essere inviato come ispettore in Francia. Nel mese di ottobre giunse a Marsiglia, dove la gente lo chiamò affettuosamente de petit don Bosco». Per undici anni, dal 1881 al 1892, si adoperò a sviluppare la giovane ispettoria francese. Fu un periodo attivo e fecondo, poiché il numero di fondazioni passerà da tre a tredici. Per far fronte a questi impegni, don Albera percorreva il paese in lungo e in largo. Lo si vedeva in particolare a Parigi, Lilla e Dinan, dove nascevano nuovi istituti. Lo sviluppo dell'opera salesiana si attuò nonostante serie difficoltà, dovute all'ostilità sempre latente del governo francese ed alla mancanza di mezzi, mancanza sentita talvolta in maniera ossessionante. «Uomo di azione, soprattutto di azione interiore», diceva di lui don Louis Carrier di Nizza, don Albera badava in primo luogo al progresso spirituale delle persone che avvicinava, in particolare dei ragazzi, dei Salesiani, delle Figlie di Maria Ausiliatrice e dei Cooperatori. La partenza da Marsiglia fu per lui un vero distacco. Richiamato a Torino nel 1892, per occupare il posto di catechista generale della Congregazione, lasciato vacante dalla morte di don Bonetti, trovò molta difficoltà ad abituarsi al nuovo tenore di vita. Se prestiamo fede alle sue «note confidenziali» che incominciò a scrivere dal 1893, il fatto di non

poter più esercitare un ministero diretto diventava per lui fonte di malinconia. La sua salute gli dava ora qualche preoccupazione. La sua carica però lo portava a predicare numerosi esercizi spirituali e a spostarsi sovente in Italia, in Francia e in Belgio. Il fatto più importante di questo periodo fu il viaggio, già menzionato, come rappresentante straordinario di don Rua in America dal 1900 al 1903. Per tre anni, percorse con il segretario, don Calogero Gusmano, migliaia di chilometri in condizioni che avrebbero dovuto essere fatali per la sua resistenza. I resoconti del suo lungo giro attraverso le case d'America furono pieni di entusiasmo. Al ritorno, lo ripresero malesseri di ogni genere ed il pensiero della morte lo assillava.

Rettor maggiore (1910-1921).

Il 16 agosto 1910, i membri dell'undicesimo Capitolo generale facevano di lui il successore di don Rua. Sembra che abbia superato di stretta misura don Rinaldi, allora prefetto della Congregazione. Pensando al suo cattivo stato di salute, l'eletto avrebbe dichiarato tremando: «Temo che presto dovrete fare un'altra elezione!» «Sebbene non l'abbia mai dichiarato espressamente, don Albera dovette considerare come mandato precipuo del suo rettorato fare dei Salesiani uomini di pietà e di preghiera». Questo giudizio, espresso da

don Ceria, può essere corroborato da numerose testimonianze sullo spirito meditativo di don Albera e dall'esame dei suoi scritti. Nelle lettere circolari ai Salesiani, vediamo affiorare spesso questa preoccupazione dominante. In una delle prime lettere appunto su «lo spirito di pietà», il nuovo Rettor maggiore esprimeva il timore che l'attività «così vantata» dei Salesiani, il loro zelo «apparentemente inaccessibile ad ogni scoraggiamento», il loro entusiasmo «sostenuto fino allora da continui successi», potesse un giorno venir meno, per non essere stati «fecondati, purificati e santificati da una vera e soda pietà». Spirito fine, familiare degli autori spirituali che amava in modo particolare, don Albera ha scritto un anno dopo l'altro una serie di piccoli trattati sulla pietà, sulla disciplina religiosa, sul sacerdote, sulla vita di fede, sull'obbedienza, sulla castità, sulla dolcezza, che fanno di lui il teorico delle virtù salesiane. Inoltre fece comporre e stampare un libro di Pratiche di pietà e un Manuale del direttore. Benché don Albera non sia stato durante il suo rettorato un grande viaggiatore come il suo predecessore, tuttavia anche lui sentì il bisogno di prendere direttamente contatto con i membri della Famiglia salesiana. Percorse l'Italia da nord a sud. Nel 1913, compì in Spagna un viaggio di cinque mesi, viaggio che il Bollettino salesiano presentò come un «trionfo grandioso e solenne». A Roma, fu accolto con cordialità dal Papa Pio X e poi da Benedetto XV, il quale, nel 1915, volle onorare la Famiglia salesiana elevando mons. Cagliero al cardinalato. Andò in Austria, in Polonia, in Jugoslavia, in Inghilterra e nel Belgio. Il suo ultimo passaggio a Marsiglia nel 1921 suscitò grandiose manifestazioni di simpatia verso la sua persona. Si racconta che un po' dovunque i suoi ascoltatori fossero particolarmente felici di sentirlo parlare di don Bosco, di cui riproduceva a modo suo il sorriso e la semplicità. La prima guerra mondiale (1914-1918) mise a dura prova la Congregazione e, con essa, il Superiore generale. Quasi la metà della Con

gregazione fu chiamata sotto le armi e si veniva ben presto a conoscenza di casi dolorosi in cui alcuni confratelli erano stati obbligati ad andare all'assalto gli uni contro gli altri. Molti collegi furono requisiti per essere trasformati in caserme o in ospedali. Una delle conseguenze della guerra fu che durante il suo rettorato non si potè tenere alcun Capitolo generale. Don Albera fece tutto il possibile per rimanere all'altezza della situazione, raccomandando per esempio ai responsabili di aiutare moralmente e materialmente i confratelli militari, insistendo perché fossero mantenute le opere esistenti, intervenendo personalmente in favore dei rifugiati e degli orfani di guerra. A partire dal 1916 e fino al mese di dicembre del 1918, scriveva ogni mese una lettera collettiva ai Salesiani chiamati alle armi, lettera che si leggeva con avidità nelle caserme e al fronte. Infine, nonostante le perdite e il rallentamento causato dalla guerra, con delle ripercussioni notevoli anche in America e nelle missioni, la Congregazione riprese il cammino in salita appena cessate le ostilità. Durante il rettorato di don Albera non mancano le iniziative che dimostrano lo sviluppo dell'opera salesiana. Si accettarono, a richiesta della Santa Sede, cinque nuovi territori di missione: Katanga (Africa centrale) nel 1911, Rio Negro (Brasile) nel 1914, Shiu-Chow (Cina) nel 1917, Gran Chaco (Paraguay) nel 1920 e Assam (India) nel 1921. I Salesiani mossero pure i primi passi in tre nuovi paesi europei: Ungheria (Szentkereszt nel 1913 e Budapest nel 1920), Germania (Wùrzburg nel 1916, noviziato di Ensdorf nel 1920, Essen nel 1921), e Irlanda (istituto agricolo di Pallaskenry nel 1919). In America centrale, dove mons. Cagliero era delegato apostolico e internunzio, tre furono le fondazioni: un collegio a Comayaguela, che fu il primo collegio cattolico del Honduras, una scuola a Granada, nel Nicaragua, e un aspirantato a Ayagualo, nel Salvador. A Cuba, l'arcivescovo salesiano di Santiago, mons. Felice Guerra, chiamò i Salesiani nel 1917 ed essi fecero il loro ingresso nell'isola, prima nella sua città episcopale, poi a Camagiiey e a L'Avana,

con scuole, oratori e parrocchia. Per rafforzare i vincoli di tutte le comunità disperse nel mondo con il centro della Congregazione, fu iniziata il 24 giugno 1920 la pubblicazione periodica degli «Atti del Capitolo Superiore della Pia Società Salesiana». Da molto tempo la salute di don Albera era cagionevole; ciò non gl'impedì tuttavia di raggiungere i settantasei anni. Morì il 29 ottobre 1921. Il secondo successore di don Bosco lasciò il ricordo di un uomo di Dio dall'anima limpida, mite e sapiente.

2. FILIPPO RINALDI (1856-1931), Una vocazione adulta.

Per quelli che l'hanno conosciuto da vivo e più ancora per quelli che costatarono l'efficacia della sua azione dopo la morte, don Rinaldi fu un uomo sorprendente. Da giovane, esitò a lungo prima di riconoscere la chiamata di Dio e raggiunse il sacerdozio soltanto perché spinto in qualche modo da don Bosco. Diventato salesiano e finalmente Rettor maggiore, seppe nascondere, sotto un'apparenza di estrema semplicità, grandi qualità naturali e virtù straordinarie. Era nato il 28 maggio 1856 a Lu, un paese del Monferrato, dove i suoi genitori coltivavano un bel podere. A cinque anni, il giovane Filippo vide per la prima volta don Bosco. Era il mese di ottobre 1861. Con la sua scorta di giovani villeggianti, l'apostolo di Torino aveva fatto a Lu un ingresso così clamoroso che il ragazzo avrebbe esclamato: «Quel prete conta più di un vescovo!»

Non lontano da Lu, a Mirabello, dal 1863 funzionava un collegio salesiano. I genitori, cristiani di antico stampo, che intravedevano nel figlio una vocazione possibile, lo mandarono là a fare i suoi studi nel 1866. Sfortunatamente, non ne rimase entusiasta. Si urtò con un assistente e il lavoro scolastico gli era causa di emicrania. Ritornato a casa ancor prima della fine dell'anno regolare, rimase però in contatto con don Bosco che aveva avvicinato due volte in collegio. Questi, da parte sua, teneva molto a lui e si sforzava di persuaderlo a tentare un nuovo esperimento. Per ben nove anni, Filippo non lo ascoltò ripetendo che non era fatto per essere sacerdote. Del resto, la vita religiosa gli piaceva ancor meno. Riguardo ai Salesiani, aveva perso, pare, ogni fiducia. Giunse un momento in cui pensò al matrimonio. Ma il 22 giugno 1876, in casa Rinaldi arrivò inatteso don Bosco. Durante la conversazione che Filippo, allora ventenne, ebbe con lui, nel suo spirito si operò un profondo mutamento: «Aveva risposto a tutte le mie obiezioni, m'aveva guadagnato a poco a poco», scriverà più tardi don Rinaldi in un quadernetto di ricordi. È vero che tutte le incertezze non erano scomparse, ma da quell'istante si sentì legato alla persona di don Bosco. Durante un altro incontro l'anno successivo, a Borgo S. Martino, Filippo promise a don Bosco di andare a Sampierdarena. Infatti, il 26 novembre 1877 lo troviamo nella sezione dei «Figli di Maria» o vocazioni tardive a Sampierdarena. Ebbe ancora momenti di dubbio, anzi di crisi; sarà riconoscente al suo direttore Albera di averlo aiutato a superarli. Rinaldi incominciava ad imporsi. Di temperamento robusto, amico di tutti, prendendo seriamente le cose, riusciva perfino - che l'avrebbe pensato? - a classificarsi tra i primi della classe. Deciso a farsi salesiano, andò in noviziato l'8 settembre 1879 a S. Benigno Canavese, dove il maestro dei novizi Giulio Barberis lo scelse come assistente. Al termine dell'anno di noviziato, venne subito ammesso alla professione perpetua. Rimase ancora due anni a S. Benigno per attendere allo studio della filosofia e della teologia e dare tutti gli esami prescritti. In tre mesi, dal settembre al dicembre 1882, don Bosco gli fece conferire tutti gli ordini sacri fino al presbiterato. «Io non avevo nessuna intenzione di farmi prete, confiderà più tardi. Religioso

sì, ma sacerdote no. Mi feci tutta la mia carriera sacerdotale, diedi gli esami di teologia, presi gli ordini e la messa proprio soltanto per obbedienza. Don Bosco mi diceva: In tal giorno darai il tal esame, prenderai il tal ordine. Io obbedivo di volta in volta». Don Ceria commenta che una simile insistenza da parte di don Bosco era del tutto inconsueta; egli stesso non conosceva un altro caso simile. L'ordinazione sacerdotale di Filippo Rinaldi ebbe luogo il 23 dicembre 1882. La sua personale esperienza venne immediatamente sfruttata. Fin dal 1883, fu nominato direttore dell'opera dei «Figli di Maria», prima a Mathi, poi, dopo il trasloco, a Torino, presso la nuova chiesa dedicata a S. Giovanni Evangelista. Benché diffidasse sempre di se stesso, riusciva molto bene nell'incarico affidatogli. Don Bosco non era lontano: ogni settimana andava ad informarlo dell'andamento della casa e si confessava da lui. Talvolta - onore abbastanza eccezionale - don Bosco lo ammetteva alle deliberazioni del Capitolo superiore.

L'apostolato in Spagna (1889-1901).

Nel 1889, don Rua gli chiese un duro sacrificio inviandolo in Spagna, dove la casa di Sarrià attraversava un periodo difficile. Il nuovo direttore si vide assalito dalle difficoltà, a cominciare da quella della lingua. Riuscì tuttavia a ristabilire la disciplina, a ripopolare la casa ed a conquistare i Cooperatori alla sua causa. Suscitava vocazioni, come quella di José Calasanz, futuro Ispettore salesiano. I successi ottenuti da Rinaldi ebbero come conseguenza inattesa di farlo considerare il capo dei Salesiani in Spagna, così che sul suo tavolo piovevano le domande di fondazioni. Semplice direttore, con il consenso dei superiori, aprì le case di Girona e di Santander. Quando, nel 1892, fu deciso di creare un'ispettoria per le case di Spagna e di Portogallo, non fu necessario cercare lontano il nome del futuro ispettore. Dal 1892 al 1901, don Rinaldi dispiegò nel nuovo incarico un'attività particolarmente feconda. Le cifre lo dimostrano: in nove anni, fondò non meno di sedici case salesiane. Per far fronte alle necessità di personale che una simile espansione implicava, si fece egli stesso zelatore di vocazioni. Si può affermare che per suo specialissimo merito, l'opera

di don Bosco ha messo radici profonde e durature in questo paese. Convinto dell'importanza della stampa, nel 1895 lanciava le «Lecturas católicas», che avrebbero avuto, come le pubblicazioni italiane dello stesso nome, un successo duraturo. Contribuì anche all'espansione delle Figlie di Maria Ausiliatrice nella Spagna.

Prefetto generale e animatore della Famiglia salesiana (1901).

Nel 1901 moriva don Belmonte, prefetto generale della Società. Don Rua, che aveva avuto occasione di venire ad apprezzare sul posto l'abilità dell'ispettore di Spagna, fissò la sua scelta su don Rinaldi. Questi, obbediente, partì per Torino dove entrava in carica il primo aprile 1901. Per vent'anni, fu, come prefetto, il braccio destro di due Rettori maggiori successivi, don Rua e don Albera. Tenendosi volontariamente all'ombra dei successori di don Bosco, il prefetto fu un collaboratore coscienzioso ed efficace. Era apprezzato per il suo modo di risolvere i problemi spinosi. Vi metteva un insieme di bonomia e di spirito pratico per cui tutto procedeva, a detta di don Barberis, «senza sbalzi». Del resto, lo spirito d'iniziativa non gli mancava. In occasione dei fatti di Varazze, da lui sarebbe partito il contrattacco. S'interessava molto dei Cooperatori, promuovendo congressi, organizzando riunioni. Fu sua l'idea di creare una grande organizzazione di Exallievi, e di organizzare il Congresso internazionale del 1911, il quale decise di erigere un monumento a don Bosco sulla piazza prospiciente la chiesa di Maria Ausiliatrice. L'inaugurazione fu fatta nel 1920 con la celebrazione contemporanea di tre congressi, che riunivano Cooperatori, Exallievi ed Exallieve. Si dice che, in occasione di questa grande manifestazione, don Rinaldi, che ne era stato l'artefice, scomparisse tra la folla come un semplice spettatore. Oltre alle occupazioni della sua carica, egli attendeva contemporaneamente ad altre attività. Era molto ricercato come confessore e direttore di coscienza. Non ricusava di predicare, nonostante lo sforzo di memoria richiestogli da questo esercizio. Fu per alcuni anni conferenziere apprezzato nello studentato teologico di Foglizzo. Svolse anche un ministero importante presso le Figlie di Maria Ausiliatrice e la gio

ventù femminile. Nell'oratorio delle ragazze di Valdocco si apprezzavano la sua bontà e la sua apertura ai problemi sociali e familiari. Nel 1917, iniziò le riunioni con alcune giovani che cercavano una vita consacrata nel mondo.

Rettor maggiore (1922-1931).

Dopo la morte di don Albera, la sua designazione come Rettor maggiore avvenne al primo scrutinio, il 24 aprile 1922, nonostante che alcuni Salesiani, si dice, non gradissero un uomo apparentemente troppo appartato, la cui cultura poteva avere qualche lacuna. Durante i nove anni del suo rettorato, don Rinaldi pagò di persona mettendosi al servizio della Congregazione. Dopo i disastri causati dalla guerra, ebbe la gioia di vederla riprendere una strada in netta ascesa. A Roma, Pio XI si mostrava assai favorevole ai Salesiani, ai quali regalò nel 1927 il secondo cardinale, mons. August Hlond, Primate di Polonia. Mentre era in vita, il numero dei Salesiani ricominciò a salire rapidamente e si aprirono più di duecentocinquanta nuove case.

Per incoraggiare la grande famiglia di cui si sentiva responsabile, anch'egli si mise a viaggiare. Nel 1925, fece un lungo viaggio attraverso l'Europa centrale. Visitò la Polonia dove trovò dodici comunità fiorenti, Cooperatori numerosi e ben organizzati. Attraverso Vienna entrò in Ungheria, dove i Salesiani avevano già sei case. A Szentkereszt fece la vestizione di sedici novizi prima di giungere a Budapest. Ritornato a Vienna, partiva per la Germania. Nel noviziato di Ensdorf, fece la vestizione di un gruppo di sessantatre giovani Salesiani. Nel 1926, si recò in Francia, dove visitò in particolare Marsiglia ed il noviziato delle Suore di Sainte-Marguerite. Continuò verso la Spagna, già in pieno sviluppo con le sue quarantadue case, dove ricevette secondo la tradizione un'accoglienza particolarmente entusiasta. A Madrid, Alfonso XIII volle intrattenersi con lui. Come i suoi predecessori, don Rinaldi ereditò lo spirito apostolico di don Bosco. Validamente assecondato dal prefetto, don Ricaldone, diede alla Congregazione grande slancio missionario, in un'epoca in cui il pontificato di Pio XI spingeva l'apostolato della Chiesa verso i paesi lontani. Le realizzazioni salesiane in questo campo furono numerose. Nel 1922, per la formazione dei futuri missionari si aprì ad Ivrea l'Istituto Cardinal Cagherò, che nel secondo anno di vita contava già centosessanta candidati. Seguirono altri istituti di questo tipo, non solo in Italia (Penango, Foglizzo, Gaeta, Bagnolo, Cumiana, Torino-Rebaudengo), ma anche in Spagna (Astudillo), in Inghilterra (Shrigley) e in Francia (Coat-an-Doc'h). Si assisteva infatti ad una fioritura di vocazioni missionarie, incoraggiate dalla rivista Gioventù missionaria, lanciata nel 1923, dalle associazioni missionarie della gioventù salesiana, e dalle esposizioni missionarie, come quelle che si tennero nel 1925 in Vaticano e l'anno seguente a Valdocco. In queste condizioni, non desta meraviglia la costatazione che le missioni salesiane abbiano avuto un nuovo sviluppo. Il personale di

sponibile permetteva di destinare loro dei rinforzi e di assumersi l'incarico di nuovi territori: Porto Velho in Brasile nel 1926, Madras e Krishnagar in India nel 1928, Miyazaki in Giappone nel 1928, Ratburi nel Siam (Thailandia) nel 1930. Diventato Rettor maggiore, don Rinaldi non allentò il proprio interesse per i Cooperatori e per gli Exallievi. I primi si radunarono in grandi congressi a Buenos Aires nel 1924, a Torino nel 1926, ed in innumerevoli incontri. Dopo essere stato l'iniziatore della Federazione internazionale degli Exallievi e di quella delle Exallieve, continuò ad incoraggiarne i membri chiedendo loro di esercitare un apostolato fondato sulla vita di fede. In particolare, rimase molto vicino all'Istituto delle Figlie di Maria Ausiliatrice, alle quali indirizzava ogni anno una «strenna» spirituale con un apposito commento. Don Rinaldi partecipò attivamente alle feste del cinquantenario del loro Istituto ed al Capitolo generale del 1922. Incoraggiò anche l'espansione missionaria delle Suore salesiane. Uomo eminentemente pratico, dotato di grande buon senso e di temperamento calmo, quando l'occasione si presentava don Rinaldi non disprezzava le idee originali. Si è debitori a lui, per esempio, di una «Unione Don Bosco», specie di Azione cattolica tra gli insegnanti, la quale aveva come scopo, secondo il regolamento redatto da lui, «la formazione morale e religiosa degli associati, in modo particolare con la conoscenza e soprattutto con la pratica del sistema preventivo». Quest'associazione si diffuse in varie città italiane. Fu pure il primo a proporre d'ingrandire la chiesa di Maria Ausiliatrice a Torino, un'idea inizialmente un po' temeraria, che venne censurata dal vecchio cardinal Cagherò. L'apice del suo rettorato, o almeno il momento più commovente per il Superiore generale, è stato indubbiamente la beatificazione di don Bosco. Dopo essersi fatto attendere per qualche tempo, l'avvenimento si realizzò il 2 giugno 1929. Il successo di affluenza e di fervore a Roma superò le stesse previsioni del Rettor maggiore. A molti sembrava che il nuovo Beato volesse sancire la «conciliazione» tra la Chiesa e lo Stato italiano, ratificata nel febbraio precedente con i Patti lateranensi. Don Rinaldi sarebbe sopravvissuto soltanto due anni a queste stori

che giornate. Lasciò questo mondo discretamente. Fu trovato morto nella sua poltrona, nella mattinata del 5 dicembre 1931. Durante la vita, don Rinaldi non aveva apparentemente raggiunto grande popolarità. Per gusto e per volontà, si tirava il più possibile in disparte. Ma la sua bontà e la sua semplicità facevano la gioia di quelli che lo conoscevano. Si amava quel volto paterno, che tanto da vicino ricordava quello di don Bosco. «In don Rinaldi - così fu detto nel suo elogio funebre - la luce dell'autorità prendeva colore di paternità. Della paternità egli aveva l'aspetto, il gesto, la parola e specialmente il cuore». Era nota anche la sua devozione molto semplice verso Maria Ausiliatrice ed il Sacro Cuore. Dopo la morte, la fama delle sue virtù crebbe al punto che venne aperto, nel 1947, il processo diocesano in vista della canonizzazione. Il 29 aprile 1990, don Rinaldi fu dichiarato beato da Giovanni Paolo II.

Capitolo XXIII.

IL RETTORATO DI DON (1932-1951), E DI DON (1952-1965).

A mano a mano che ci allontaniamo dalle origini dell'opera salesiana, scompaiano le figure che avevano tenuto compagnia al Fondatore. Il cardinale Cagherò morì nel 1926. Unico sopravvissuto della prima generazione, l'incantevole don Francesia riuscì nell'impresa di perpetuare il ricordo di don Bosco, con la parola e con gli scritti, in prosa e in versi, fino al 1930, anno in cui scompare all'età di novantun anni. Vengono alla ribalta Salesiani che non possono più vantarsi di essere stati direttamente alla scuola del maestro. È il caso dei Rettori maggiori che succedono a don Rinaldi. È vero che don Ricaldone ha visto don Bosco quando era in vita, ma don Ziggiotti, eletto nel 1952, è il simbolo di una nuova generazione. Tuttavia, sotto il quarto e quinto successore di don Bosco, la vitalità salesiana continua a colpire gli osservatori: «I Salesiani - scherzava un vescovo - mi ricordano la moltiplicazione dei pani e dei pesci». L'impulso, come spesso accade, viene dagli stessi Rettori maggiori. La loro storia, pur sommaria, ci consente d'intravedere il ruolo importante che essi hanno avuto alla guida della Congregazione e della Famiglia salesiana tra il 1932 e il 1965.

1. PIETRO RICALDONE (1870-1951). Un Salesiano zelante e intraprendente.

Pietro Ricaldone nacque il 27 luglio 1870 a Mirabello dove, sette anni prima, don Rua aveva assunto la direzione di un collegio salesiano. Suo padre, uomo di carattere e d'equilibrio, agiato agricoltore, diventerà sindaco del paese. La vivacità del giovane Pietro faceva talvolta tremare sua madre: non vi era olmo attorno alla casa su cui il ragazzino non si fosse arrampicato fino in punta! Per compiere gli studi, venne mandato nel collegio salesiano di Alassio, poi in quello di Borgo S. Martino. Qui, un giorno, Pietro potè conversare da solo a solo con don Bosco, che rivedrà una seconda volta a Torino. Dopo qualche esitazione, che lo condusse al seminario di Casale fino alle soglie della teologia, fece ritorno dai Salesiani. Nel 1888, andò a Valsalice, prima come aspirante, poi come novizio e, il 23 agosto 1890, emise subito i voti perpetui. Un mese dopo lo troviamo in Spagna, insegnante nel collegio di Utrera e studente di teologia a Siviglia. Nel 1892 don Pedro lanciò con successo l'oratorio festivo nel difficile sobborgo della Trinidad. Diventato sacerdote il 27 maggio 1893, dopo un anno fu nominato direttore dell'opera. Il suo ispettore, don Rinaldi, lo stimava: «Don Ricaldone è proprio un uomo ed è molto amato», scrisse a don Rua. Il giovane direttore di Siviglia lanciò i «Talleres Don Bosco» sul modello dei laboratori di Sarrià, fondò la tipografia e la libreria salesiana, curò la Schola cantorum e la banda musicale. Nel 1902, a trentadue anni, fu fatto ispettore della nuova ispettoria «betica» di Siviglia. Si accinse subito alla nuova missione «con quel fervore e con quello spirito di organizzazione che furono la caratteristica del suo zelo». Grazie all'aumento del numero dei Salesiani della sua

ispettoria, che durante il suo governo salirono da ottantasei a centottantaquattro, gli fu possibile aprire nuove case. S'impegnò molto nel campo della stampa. Nel 1903, lanciò tra l'altro una collana d'opere destinate a diffondere le nuove tecniche in materia d'agricoltura. Chiamata, dal nome di un agronomo italiano, «Biblioteca agraria solariana», ebbe una larga diffusione in Spagna e in America del sud. Don Ricaldone si occupò anche di musica e fu uno dei primi della sua regione ad attuare la riforma del canto liturgico auspicata da Pio X. Nel 1908, don Rua lo mandò a visitare a suo nome le case dell'America del sud. Il lungo viaggio durò più di un anno e si concluse nella Terra del Fuoco.

Consigliere professionale generale (1911).

Qualche tempo dopo il suo ritorno, il nuovo Rettor maggiore, don Albera, lo chiamò a Torino per incaricarlo delle scuole professionali come consigliere al Capitolo superiore. Dal 1911 al 1922 occupò questa carica mostrandosi particolarmente intraprendente. Adattò i programmi delle scuole professionali alle nuove esigenze e scrisse, solo o in collaborazione con specialisti, alcuni manuali teorici e pratici. Perfezionò le disposizioni per le arti del legno, del libro e dell'abbigliamento, e le estese al ramo della meccanica e dell'elettronica, e organizzò le scuole agrarie. Si occupò della formazione del personale salesiano, assicurando in particolare ai coadiutori un insegnamento di valore. Per promuovere lo sviluppo delle scuole e per farne conoscere le realizzazioni, furono allestite ogni anno delle mostre didattico-professionali. Stimolati dal dinamico consigliere, i Salesiani parteciparono con crescente successo alle mostre regionali e perfino internazionali. Alla mostra internazionale del libro, tenuta a Lipsia nel 1914, erano rappresentate cinquantatre scuole salesiane di tipografia e quarantadue librerie, senza contare i laboratori di legatura, di fusione dei caratteri e di litografia. Le loro realizzazioni furono coronate da un diploma d'onore. Dopo la guerra, nel 1920 fu inaugurata una grande mostra professionale all'Oratorio. Tra i visitatori furono anche Gramsci e Togliatti, ai quali don Ricaldone spiegò che per realizzare il vero comunismo ci volevano tre cose essenziali: povertà, castità e obbedienza.

Intanto, nuovi viaggi venivano a completare la sua conoscenza del mondo salesiano. Nel 1911, don Albera l'aveva inviato come visitatore straordinario nell'America del nord e nell'America centrale. Nel 1919, lo incontriamo nell'Oriente mediterraneo, in Egitto e in Palestina. Inoltre, svariate missioni di fiducia lo condussero in vari Stati europei.

Prefetto generale (1922).

Eletto prefetto generale dal Capitolo Generale del 1922, diventò il braccio destro di don Rinaldi. Lo sarà per tutta la durata di quel rettorato. A proposito di questo periodo, don Ceria faceva risaltare «il suo naturale spirito d'iniziativa non pago di eseguire, ma portato a trovare vie nuove». È nel campo delle missioni che don Ricaldone, d'accordo con il Rettor maggiore, potè meglio esplicare i propri talenti. Don Rinaldi era l'animatore, il prefetto, il realizzatore. Per esempio, è opera sua la mostra missionaria di Valdocco nel 1926. Nominato visitatore straordinario in Estremo Oriente, raggiunse nel 1926-27 i Salesiani dell'India, del Giappone, della Thailandia, della Birmania e della Cina. Di ritorno da questa missione, che restò memorabile per i pericoli superati, il prefetto lanciò una «crociata missionaria» di vaste proporzioni, destinata in particolare a raccogliere delle borse per la formazione dei futuri missionari concentrati allora in istituti specializzati. Per dare un successore a don Rinaldi, il Capitolo Generale del 1932 scelse con votazione plebiscitaria don Ricaldone, mettendo così al governo della Congregazione un uomo pratico dei suoi affari ed in possesso di una seria conoscenza delle principali regioni del mondo in cui essa era presente.

L'opera del Superiore generale (1932-1951).

Il nuovo rettorato sarebbe stato lungo, quasi quanto quello di don Rua, poiché durò diciannove anni. Come quello di don Albera, fu attraversato da una guerra spaventosa (1939- 1945), che mise a dura prova la coesione della Congregazione mondiale da lui governata. Tuttavia,

s'impone alla nostra attenzione per numerose iniziative di rilievo e per un nuovo aumento degli effettivi. L'alba di questo rettorato fu illuminata dalla canonizzazione di don Bosco. Pio XI, grande ammiratore dell'apostolo di Torino, aveva voluto conferire ad essa un carattere grandioso. La fece coincidere con la festa di Pasqua del 1934, che segnava pure la chiusura del giubileo della Redenzione. Una folla, nella quale i giovani si mostrarono i più entusiasti, accorse da tutto il mondo. Nei giorni seguenti, onori insoliti furono resi a S. Giovanni Bosco dal Papa, dal governo italiano e dal popolo romano. Torino lo acclamò il giorno 8 aprile, durante una processione delle sue reliquie per le vie della città. Feste si svolsero in diversi luoghi nel mondo. A Londra, si cercò invano una chiesa sufficientemente grande per accogliere i devoti di S. Giovanni Bosco; a Gerusalemme si dovette ripiegare sulla chiesa del patriarcato; un triduo in suo onore fu celebrato in quaranta parrocchie di Vienna, e in sessantaquattro parrocchie di Milano. In questo periodo, furono scritte numerose biografie del santo e le statistiche fanno rilevare un nuovo incremento di vocazioni. È facile indovinare che la parte di don Ricaldone nella preparazione e nell'organizzazione di questo grande avvenimento non fu certo trascurabile. Furono condotte a termine anche altre glorificazioni salesiane. La causa di Domenico Savio, lenta e difficile, s'incamminava verso la beatificazione, che avvenne il 5 marzo 1950. Negli ultimi mesi di rettorato vi fu la canonizzazione di Maria Domenica Mazzarello, proclamata santa il 24 giugno 1951. A differenza dei suoi predecessori, l'ex visitatore straordinario diventato superiore generale viaggiò poco. Lasciò quest'incarico a don Pietro Berruti, prefetto generale della Congregazione. Lancinanti dolori di capo ed il cattivo funzionamento del cuore lo dissuasero dall'intraprendere egli stesso lunghi viaggi. Durante la guerra, non era possibile pensarvi. Fissò quindi a Torino la sua dimora, ma le sue direttive e le sue iniziative irradiavano in tutti i sensi, soprattutto in Italia.

L'insegnamento religioso e la formazione salesiana.

Nel 1938, il quindicesimo Capitolo generale della Società salesiana segnò la data di nascita di una «crociata catechistica». A preparazione del centenario dell'opera di don Bosco (1841-1941), fu deciso di dare incremento agli oratori festivi e all'organizzazione perfetta dell'insegnamento catechistico. Due commissioni furono subito costituite per studiare il modo migliore d'impartire l'insegnamento del catechismo e per diffondere e approfondire l'istruzione religiosa. Nel 1939, il Rettor maggiore mandò alle case un'ampia circolare con il titolo: «Oratorio festivo, catechismo, formazione religiosa». Nello stesso anno creò l'Ufficio Catechistico Centrale Salesiano sotto la sua diretta dipendenza. Si diede inizio allora alla realizzazione di sussidi didattici, testi e filmine, e si organizzarono giornate del catechismo, convegni, conferenze, mostre, gare e dispute catechistiche, non solo nelle case della Congregazione e dell'Istituto delle Figlie di Maria Ausiliatrice, ma anche in numerose diocesi d'Italia. Per volere del Rettor maggiore, la rivista «Catechesi» diventò l'organo di questo rifiorire catechistico. L'8 dicembre 1941, durante la guerra che impediva ogni manifestazione esterna, don Ricaldone si recò con i superiori del Capitolo nella cameretta di don Bosco. Fecero insieme la promessa di fondare sul Colle dei Becchi una libreria catechistica e di industriarsi a far sorgere in tutte le ispettorie un nuovo orfanotrofio per raccogliere i giovinetti poveri e abbandonati. Intanto, sul Colle sorgeva l'imponente edificio dell'Istituto salesiano di arti grafiche, il quale diventò la sede della «Libreria della Dottrina Cristiana». Questa editrice si lanciò subito nella produzione di testi di catechismo, di sussidi di formazione per gli insegnanti di religione e i maestri di catechismo, e di vari materiali audiovi

sivi. Impressionante risulta il frutto dell'impresa durante il rettorato di don Ricaldone, se si pensa per esempio agli ottanta volumetti della collana «Lux», stampati con una tiratura globale, pare, di sei a sette milioni di copie, e ai cinque milioni di foglietti «Lux» seminati nelle strade e nelle case. Per accrescere il suo irradiamento, l'editrice del Colle si appoggiò alle librerie salesiane già esistenti in Italia, promosse la fondazione di altre, in particolare a Verona, Ancona, Cagliari e Messina, e nello stesso tempo prese contatti editoriali con l'estero, principalmente in Spagna, Argentina, Brasile, Stati Uniti, India, Cina e Giappone. Mentre don Ricaldone si dedicava con entusiasmo comunicativo all'opera a favore dei giovani e del popolo, non dimenticava la formazione dei Salesiani. In questo campo, la sua opera fu tenace e talvolta imperiosa. Lo spirito che l'animava, e che egli voleva da tutti condiviso, era indicato nel titolo della lettera circolare del 1936: «Fedeltà a don Bosco santo». Appena eletto, egli aveva dichiarato: «Io vi dico che se cambiassi una virgola di quello che ha fatto o detto don Bosco, guasterei tutto», aggiungendo poi: «Conserviamo gelosamente lo spirito e le tradizioni di don Bosco». Per don Ricaldone, i problemi di metodo e di organizzazione assumevano una grande importanza, specialmente nella formazione del giovane salesiano. Si videro allora partire da Torino voluminose circolari, piene di direttive e di norme per tutte le tappe di questa formazione: le vocazioni (1936), il noviziato (1939), gli studentati di filosofia e di teologia (1945), il complemento della formazione sacerdotale (1946). Grazie a lui, gli istituti di Cumiana, di Rebaudengo e del Colle Don Bosco diventarono scuole superiori per coadiutori. Si deve a lui il riconoscimento, nel 1940, della Facoltà di teologia della Crocetta a Torino come «Pontificio Ateneo Salesiano». Diede inizio alla rivista «Salesianum», organo di quest'Ateneo. Ebbe inoltre l'idea di iniziare una nuova edizione dei Padri della Chiesa, che si chiamò «Corona Patrum Salesiana». Un altro punto d'applicazione di questo spirito ordinato era il funzionamento regolare delle case e delle ispettorie. Una lettera del 1939, dedicata alla visita canonica delle case, è una perfetta illustrazione di questa preoccupazione del superiore. Vi è promulgata tutta una serie di norme con straordinaria abbondanza di particolari. Ogni cosa, fino alle biblioteche ed agli archivi, è stata oggetto di precisazioni minuziose ed anche tecniche.

L'abbondanza delle opere scritte da don Ricaldone è notevole per un Rettor maggiore. «Si legò per così dire al suo tavolo di lavoro», disse di lui il suo successore. La collana «Formazione salesiana» comprende ben tredici volumetti di don Ricaldone, tutti consacrati ad argomenti di spiritualità e di pedagogia salesiana quali i voti, le virtù teologali e cardinali, l'umiltà, la vita di pietà con le sue caratteristiche salesiane (l'Eucaristia, il Sacro Cuore, Maria Ausiliatrice e il Papa), il rendiconto e la visita canonica. Poco prima della morte, dava l'ultima mano al suo «Don Bosco educatore».

Durante e dopo la guerra.

Don Ricaldone ebbe la sua parte di tribolazioni. La persecuzione religiosa colpiva duramente i Salesiani nei paesi in cui infieriva, a cominciare dalla Spagna, dove la Famiglia salesiana subì un colpo terribile. Lo scoppio, poi, della seconda guerra mondiale fu all'origine di ingenti disastri. Il primo giugno 1940, don Ricaldone esprimeva il proprio dolore e la propria costernazione di fronte alle rovine della guerra: «Assistiamo col cuore straziato al rovinio di centinaia di case, al crollo di opere ch'erano costate immensi sacrifizi, alla dispersione ed anche alla morte di tanti e tanti confratelli travolti dall'immane bufera». Il 20 novembre 1942, mentre la guerra, che aveva danneggiato l'Oratorio di Torino, infuriava più che mai fece voto di edificare appena possibile un tempio a don Bosco sulla collina dei Becchi. Nell'ottobre del 1943, per rompere l'isolamento di Torino, egli mandò a Roma quale suo rappresentante ufficiale con pieni poteri il prefetto generale, don Berruti, al quale assegnò due membri del Capitolo superiore, il catechista generale, don Pietro Tirane, e il consigliere don Antonio Candela. All'inizio del 1945, seguendo un invito di Pio XII, fu lanciata una campagna a favore dei ragazzi della strada, i cosiddetti sciuscià a Roma e in parecchie città d'Italia.

Dopo la guerra, si saprà anche di numerosi atti di solidarietà umana e di sacrifici talvolta eroici compiuti durante quel periodo. Seguiranno le persecuzioni nei paesi comunisti dell'Europa orientale e in Cina. Nell'ultima sua lettera nel 1951, don Ricaldone citava la cifra di 1.900 religiosi deportati, in esilio o in carcere. Nonostante le prove, la Società salesiana continuava a progredire. Il Capitolo generale del 1947 confermò la ripresa generale. Nel 1950, i Salesiani si avvicinavano già ai quindicimila ed il numero delle case aveva superato il migliaio. Quando don Ricaldone morì nel 1951, dopo diciannove anni di governo, furono molti a pensare che la Congregazione avesse perso con lui un grande superiore, verso il quale aveva contratto un forte debito di riconoscenza. È stato detto: «Don Rua, la Regola; don Albera, la pietà; don Rinaldi, la paternità; don Ricaldone, il lavoro». Quest'ultimo possedeva effettivamente l'energia, l'intelligenza, il senso dell'organizzazione che caratterizzano gli uomini d'azione. Governò, diceva un testimone, «con mano ferma e mente serena». Piuttosto portato dal suo temperamento all'intransigenza, si dimostrava cordiale in privato e molto accogliente. Come superiore cosciente delle proprie responsabilità e come Salesiano fervoroso, sapeva inoltre mostrare una grandezza d'animo, che il suo successore don Ziggiotti si compiaceva di rilevare.

2. RENATO ZIGGIOTTI (1892-1983). Venuto dal Veneto.

A don Ricaldone succedette colui che egli si era scelto come prefetto un anno prima di morire. Don Ziggiotti, diventato il quinto successore di don Bosco, avrebbe diretto la Congregazione salesiana per tredici anni. Non era piemontese, piccolo fatto che testimonia anch'esso l'espansione raggiunta dalla modesta Società torinese. Renato Ziggiotti nacque infatti nel Veneto, a Campodoro, nella provincia di Padova, il 9 ottobre 1892. Suo padre lo collocò ben presto presso i Salesiani di Este. Aveva allora solo sette anni. Questo gli farà esclamare più tardi: «Posso dire di essere salesiano dal primo uso della ragione!». Nonostante gli sforzi del suo parroco che gli consigliava di entrare nel seminario di Vicenza, non potè risolversi ad abbandonare il collegio. La vita religiosa ed il lavoro scolastico del luogo dove si trovava gli si confacevano. D'altra parte, poteva soddisfare i suoi gusti per la musica e per il teatro e dedicarsi, non senza successo, agli esercizi ginnici. Nel corso dell'anno 1908, si decise ed entrò nel noviziato di Foglizzo. Il 15 settembre 1909, alla presenza di don Rua, faceva la professione religiosa. Gli anni seguenti lo condussero prima a Valsalice, dove continuò gli studi dedicando la domenica ai ragazzi dell'Oratorio di Valdocco. Nel 1912, fu destinato alla casa di Verona per il tirocinio pratico. Intanto scoppiava la guerra. Ziggiotti fu richiamato nel giugno del 1915. Diventato tenente d'artiglieria, fu ferito al braccio nel 1917 ed approfittò dei mesi passati in ospedale per continuare lo studio della teologia. Ritornato in trincea, sarebbe stato smobilitato soltanto nell'aprile del 1919, con il grado di capitano. Riprese allora gli studi ecclesiastici e fu ordinato sacerdote l'8 dicembre 1920. L'anno seguente conseguì la laurea in lettere all'Università di Padova. L'ascesa di don Ziggiotti fu rapida. Consigliere scolastico ad Este,

fu mandato a Pordenone nel 1924, a trentadue anni, per essere il primo direttore salesiano del collegio «Don Bosco». La sua permanenza alla direzione fu caratterizzata dalla costruzione di un grande corpo di fabbricato che permise all'opera un bello sviluppo. Più volte, la vita del giovane sacerdote fu sul punto di seguire un altro corso. Poiché desiderava essere missionario, aveva fatto la domanda una prima volta nel 1917, durante la guerra; l'aveva poi rinnovata ogni anno alla fine delle ostilità. Effettivamente, fu messo tre volte nella lista dei partenti: nel 1921, avrebbe dovuto raggiungere l'Ecuador; nel 1923, Kimberley in Australia; nel 1924, il Giappone. Ma ogni volta, un qualche motivo veniva ad impedirglielo.

Ispettore (1931), consigliere (1937) e prefetto generale (1950).

Nel 1931, don Rinaldi lo mise a capo dell'ispettoria chiamata «centrale», composta in gran parte di case di formazione per i candidati alla vita salesiana e missionaria. Sede dell'ispettoria centrale era l'istituto internazionale di Torino-Crocetta. Don Ziggiotti si prodigò in particolare presso le case missionarie di Ivrea, Penango, Bagnolo, Cumiana e Torino- Rebaudengo. Nel 1935, dopo quattro anni a Torino, don Ricaldone lo mandò come ispettore in Sicilia. Vi rimase soltanto due anni, poiché fu chiamato dal Rettor maggiore nel 1937 a far parte del Capitolo superiore in qualità di consigliere scolastico generale. Successivamente, il quindicesimo ed il sedicesimo Capitolo generale lo confermarono in quest'incarico. Sotto la direzione di don Ricaldone, don Ziggiotti lavorò all'organizzazione degli studi filosofici e teologici ed allo sviluppo delle scuole della Congregazione. Con la guerra del 1939-1945, gli sarebbero state affidate mansioni di un genere particolare. Durante i bombardamenti di Torino, dal 1942 alla fine della guerra, diede prova di coraggio a capo del servizio di soccorso, pronto ad intervenire sui luoghi colpiti dalle bombe e dagli spezzoni incendiari. Una notte del dicembre 1942, entrò nella sala in fiamme della vecchia biblioteca, riuscì ad aprire una finestra ed a salvare insieme ai libri anche le pericolanti camerette di don Bosco.

Il primo maggio 1950, scompariva don Berruti, prefetto generale e salesiano eminente che alcuni vedevano già alla guida della Società salesiana. Per succedergli, don Ricaldone si rivolse al consigliere scolastico. Questi potè così completare per qualche tempo la propria conoscenza della Congregazione. Quando il Capitolo generale si riunì il 1 agosto 1952 per dare un successore a don Ricaldone, l'accordo fu presto raggiunto sul suo nome: fin dal primo scrutinio, la maggioranza assoluta dei voti andò a don Ziggiotti.

I grandi viaggi di don Ziggiotti (1952-1965).

Rifacendosi alla tradizione di don Rua, il nuovo superiore generale, appena eletto, intraprese una serie di grandi viaggi. Per la prima volta, fu visto un Rettor maggiore in America ed in Estremo Oriente. Talvolta le condizioni in cui il viaggio si svolse, erano tali che si aveva l'impressione di assistere alla realizzazione dei sogni più audaci di don Bosco. Naturalmente le prime visite furono riservate all'Italia salesiana, ma le sue preferenze andavano alle case di formazione. Dal novembre 1952 al gennaio 1953, tutte le case di noviziato e di studentato dell'Alta Italia lo videro. Fu poi la volta di quelle del centro e del sud. Fin dai primi viaggi, si sentì circondato da molta esuberanza salesiana. Egli la spiegava nel modo seguente che diventerà un leitmotiv: «È la figura di don Bosco che continua a vivere 'e che grandeggia sempre più nel mondo per opera dei Salesiani e delle Figlie di Maria Ausiliatrice e per la propaganda che ne fanno dappertutto gli allievi ed ex-allievi, i cooperatori e gli amici innumerevoli». Nel 1953, prendendo come occasione una festa o un anniversario salesiano, don Ziggiotti visitò la Francia, la Germania, l'Austria, la Spagna e il Portogallo. «Vi posso dire che da queste prime visite, ho tratto un proposito», scriveva già nell'ottobre del 1953, spiegando così la propria intenzione: «Farò tutto il possibile per andare a visitare anche le Ispettorie e le Case più lontane». Lo si vide attraversare l'Europa nel 1954, in particolare l'Italia, la

Spagna, il Portogallo, la Francia, la Germania, l'Austria, il Belgio, l'Olanda, l'Inghilterra, l'Irlanda. Ma alla fine di quello stesso anno, progettò un giro del mondo. Prima di partire, invitò la Famiglia salesiana ad accompagnarlo con il pensiero e con la preghiera, proponendole una specie di pellegrinaggio collettivo. Dirigendosi verso est, raggiunse prima l'Egitto, dove si fermò nelle case di Alessandria e del Cairo; proseguì per la Terra Santa, poi si recò a Damasco, ad Aleppo, a Beirut, a Teheran. In questi paesi del Medio Oriente, fu testimone della complessità delle situazioni in cui erano impegnati i religiosi. La seconda grande tappa fu l'India, che percorse, disse egli stesso, «da Karachi a Bombay, da Goa a Vellore e a Madras, da Calcutta a Krishnagar, da Shillong a Dibrugarh, da Sonada ai piedi dell'Everest, al Brahmaputra e al Gange». A Madras fu accolto da mons. Mathias, pioniere dell'opera salesiana in quel paese, dove l'abbondanza delle vocazioni aperse il visitatore all'ottimismo per l'avvenire. Riprendeva l'aereo a Calcutta per Rangoon e Mandalay in Birmania, dove l'opera dei religiosi era seguita con simpatia; per Bangkok e Ban-Pong in Thailandia, dove il loro metodo di educazione suscitava emuli nel paese. Importanti manifestazioni salutarono il suo arrivo a Hong Kong e a Macao, dove i non- cristiani non erano i meno fervorosi. Purtroppo, non era possibile recarsi nella Cina continentale. Si recò invece nelle Filippine. In Giappone festeggiò il giubileo sacerdotale di mons. Cimatti, pioniere dell'opera salesiana, e la sua voce fu trasmessa dalla radio nazionale. Le ultime tappe di questo giro straordinario furono l'Australia, gli Stati Uniti e il . Di ritorno a Torino dopo un'assenza di sette mesi, don Ziggiotti intraprese un nuovo periplo fin dal gennaio 1956. Questa volta ne beneficiarono l'America centrale, le Antille, il Messico e l'Argentina. L'Argentina in particolare, «terra dei sogni di don Bosco e sua seconda patria», ebbe diritto a tutte le sue attenzioni. Impiegò quattro mesi abbondanti a percorrerla in qualità di ospite ufficiale del governo argentino. Gli Indi Onas non vollero essere meno gentili: gli conferirono il titolo di cacicco onorario. Al suo ritorno, egli confesserà: «La somma di tutte queste visioni e di tante emozioni provate ha raggiunto un vertice tale che mi è impossibile esprimerlo a parole». Altri due viaggi condurranno don Ziggiotti in quell'America Latina,

verso la quale precisamente Pio XII e poi Giovanni XXIII orientavano gli sguardi dei cattolici. Da febbraio a ottobre 1957 visiterà le case di vari paesi: il Venezuela, la Colombia, l'Ecuador e il Brasile. Nel 1960 farà altrettanto per il Cile, il Perù, la Bolivia, il Paraguay e l'Uruguay. Durante i tre pellegrinaggi sudamericani aveva visitato in tutto cinquecento case di Salesiani e quasi altrettante delle Figlie di Maria Ausiliatrice. Uno degli ultimi ricordi che porterà con sé da questo continente sarà l'inaugurazione di un istituto salesiano nella capitale futurista, Brasilia. Questi viaggi ebbero effetti immediati. Giunti dopo la scossa provocata dalla guerra, cementarono l'unità salesiana attorno al successore di don Bosco e suscitarono al suo passaggio grandi simpatie. L'accoglienza fu calorosa, entusiastica, talvolta delirante.

Spiritualità e «trionfi».

A Torino don Ziggiotti continuò l'opera organizzatrice di don Ricaldone. Basandosi sulle raccomandazioni del diciassettesimo Capitolo generale, si preoccupò del buon andamento delle case di formazione. Un motivo particolare lo spingeva ad occuparsene: la necessità di un personale salesianamente qualificato, di cui afferrava l'urgenza durante le sue visite. Nel campo dell'educazione della gioventù, incoraggiò le iniziative delle Compagnie, di cui diceva che costituivano una «parte vitale del sistema preventivo». Se necessario, interveniva nei suoi scritti contro coloro che le giudicavano superate, e ricordava che aveva lo scopo di preparare i giovani all'Azione Cattolica, di cui non potevano essere un doppione. Il rifiorire delle Compagnie, che si manifestava con congressi, incontri, riviste di formazione, trovò uno stimolo efficace nella canonizzazione di Domenico Savio, il 12 giugno 1954. Nel periodo che seguì, si moltiplicarono le feste in onore del giovane santo, sia in Italia che all'estero. Si assistette al sorgere tra i giovani dei «Clubs Domenico Savio» e degli «Amici di Domenico Savio». I Pueri cantores» lo scelsero come Patrono. Svariate solennità e realizzazioni completano il quadro di questo rettorato. Il 3 maggio del 1959, nel quartiere periferico di Cinecittà a Roma, Giovanni XXIII visitò il nuovo tempio monumentale dedicato a

san Giovanni Bosco, e il 11 maggio l'urna contenente il suo corpo fu portata per le vie della città. Nello stesso tempo, don Ziggiotti incominciò ad attuare il voto fatto dal suo predecessore di innalzare un tempio a don Bosco sulla collina dei Becchi. Nel 1962, Giovanni XXIII faceva dell'arcivescovo di Santiago del Cile, mons. Raul Silva Henriquez, il terzo cardinale salesiano. Durante il rettorato di don Ziggiotti, fu portato anche a termine il trasferimento a Roma del Pontificio Ateneo Salesiano. Oltre alle Facoltà già in funzione, esso avrebbe ospitato un Istituto di Latinità, che la Santa Sede aveva voluto affidare ai Salesiani. Infine, «onore e gioia suprema», come lui stesso ebbe a dire, il Rettor maggiore fu invitato a partecipare, dal 1962, alle prime tre sessioni del concilio Vaticano II. Nonostante una leggera flessione verso la fine, la Congregazione raggiunse, tra il 1952 ed il 1965, la punta più alta della propria crescita numerica. I Salesiani (professi e novizi) da 16.900 superarono i 22.000, le ispettorie passarono a 73, le case da 1.000 a circa 1.400. L'ottimismo del Rettor maggiore e gli incoraggiamenti da lui prodigati in tutti i paesi diedero frutti abbondanti. Da uomo di Dio, egli si sforzò di promuovere la vita spirituale dei Salesiani, con le parole e con gli scritti. Anche per questo, diede un notevole impulso alle cause di canonizzazione dei santi della Famiglia salesiana.

Gli ultimi anni di don Ziggiotti.

Gli ultimi atti ufficiali di don Ziggiotti furono la convocazione e l'apertura del diciannovesimo Capitolo generale, riunito nella nuova sede del Pontificio Ateneo Salesiano in Roma nel mese di aprile del 1965. Si profilavano allora tempi nuovi alla fine del Concilio Vaticano II, e don Ziggiotti ritenne utile per la Congregazione di ritirarsi. Con una semplicità che meravigliò i presenti, chiese di non essere riconfermato nell'ufficio e pregò gli elettori di dare il voto a qualcuno più giovane di lui.

Dopo il 1965, don Ziggiotti, primo Rettor maggiore emerito della Congregazione, divenne rettore del nuovo tempio appena edificato sul Colle natale di don Bosco. Nel 1971, si ritirò nella casa di Albarè di Costermano, nel suo Veneto. Nel 1980 ebbe la gioia di celebrare la messa di diamante al collegio di Este, di cui era l'exallievo più illustre. Morì ad Albarè il 19 aprile 1983, a 91 anni.

Capitolo XXIV.

L'ATTIVITÀ LEGISLATIVA DELLA CONGREGAZIONE DAL 1888 AL 1965.

Fedeltà e adattamento.

Durante i cinque rettorati che si sono seguiti tra il 1888 e il 1965, i diversi Capitoli generali hanno compiuto un importante lavoro di legislazione e di regolamentazione, lavoro che non è mai cessato nella Società salesiana. Alcuni - soprattutto in passato - si sono meravigliati che i Regolamenti Salesiani e le stesse Costituzioni abbiano potuto subire modifiche dopo la scomparsa di don Bosco e che abbiano quindi, in parte, una storia indipendente dal loro autore. Osar toccare ciò che era considerato come il testamento del Fondatore poteva sembrare ai loro occhi almeno mancanza di rispetto. Noi vediamo quindi nel 1924 un don Rinaldi ricorrere a precauzioni oratorie, farsi forte su ritocchi anteriori, prima di presentare le ultime modifiche. Il medesimo, pur non dimenticando il consiglio di Pio IX di praticare le Regole senza cercare di migliorarle, non ometteva di ricordare la «larghezza di vedute e d'interpretazione» vigente sotto don Bosco ed i suoi immediati successori. Gli adattamenti attuati nei testi dopo il 1888 sono dovuti a motivi comprensibilissimi. Generalmente, essi miravano soltanto a precisare e a rafforzare l'organizzazione della Società: non vi era dunque pericolo che venisse toccato l'essenziale. Possiamo attribuirli alla situazione di

una Congregazione che si sviluppava in numero e in estensione, che affrontava paesi e tempi nuovi, e creava nuove istituzioni. Talvolta, come accadde nel 1917 con la promulgazione del nuovo Codice di diritto canonico, essi erano voluti dalle direttive della Santa Sede. In altri casi, i testi seguivano semplicemente la loro normale evoluzione.

Il quinto Capitolo generale (1889).

Quando don Rua succedette a don Bosco, l'apparato legislativo della Congregazione era costituito dai seguenti organi: il testo delle Costituzioni approvate nel 1874, documento essenziale di cui gli altri vogliono essere soltanto l'interpretazione fedele; il Regolamento dell'Oratorio e quello delle Case salesiane, pubblicati entrambi nel 1877; infine, due raccolte di Deliberazioni dei Capitoli generali, pubblicate nel 1882 e nel 1887. Com'è facile prevedere, saranno queste ultime ad essere alla base delle trasformazioni e degli sviluppi più importanti. Dal 1889 al 1904, i Capitoli generali si susseguirono regolarmente ogni tre anni. Dal 2 al 6 settembre 1889, si riunì a Valsalice, presso la tomba di don Bosco, il quinto Capitolo generale, il primo dopo la morte di don Bosco. Ci si mise al lavoro secondo i metodi precedentemente adottati. Si formarono alcune commissioni come in passato per studiare gli argomenti all'ordine del giorno. Uno dei problemi più sentiti dall'assemblea fu la formazione dei giovani Salesiani. Ci si preoccupò del buon andamento delle case di formazione esistenti e si auspicò la creazione di studentati teologici. Vi fu qualche discussione a proposito della scelta dei testi di teologia. I pareri dei capitolari, invece, furono divergenti quando venne affrontata la questione delle parrocchie salesiane e dei loro rapporti con le case. Si doveva dare la preminenza al parroco o al direttore? Alla fine, stanchi di discutere, si decise di lasciare la soluzione della controversia al Capitolo superiore, il quale in un regolamento per le parrocchie nuovo tipo, deciderà a favore del direttore. Prima di sciogliersi, l'assemblea emanò la dichiarazione tradizio

nale in cui si affidava al Rettor maggiore il compito di aggiungere o di correggere quanto sembrasse opportuno. I risultati di questo Capitolo furono pubblicati in un nuovo volumetto di Deliberazioni, stampato nel 1890.

Le Deliberazioni dei sei primi Capitoli (1894).

Di fronte al moltiplicarsi dei regolamenti, il sesto Capitolo generale, convocato a Valsalice nel 1892, volle prendere una misura di semplificazione. Fin dall'inizio venne affidato ad una commissione il compito di rivedere e coordinare in un solo volume le varie deliberazioni dei Capitoli generali. Numerosi infatti erano i difetti delle precedenti edizioni che essa doveva sforzarsi di eliminare: alcune deliberazioni erano confuse mentre sarebbe stato opportuno distinguerle; molti articoli inseriti nelle deliberazioni erano soltanto ripetizioni delle Costituzioni; la disposizione della materia era diversa da quella delle Costituzioni; infine, alcune deliberazioni, valide in sé, peccavano di scarso realismo. La commissione assolse il suo difficile compito nel termine prescritto di un anno. Nel 1894 uscì il volume delle Deliberazioni dei sei primi capitoli generali. Il nuovo documento si presentava sotto forma di un'abbondante raccolta di 712 articoli. Le deliberazioni erano raggruppate seguendo un piano diventato classico dopo il 1882, ma a cui stentano talvolta ad adattarsi alcune istruzioni necessariamente disparate contenute in questo libro. Comprendeva appunto sei grandi «distinzioni»: I. Regolamenti speciali (per i Capitoli generali, per l'elezione dei membri del Capitolo superiore, per gli ispettori, per i direttori, per le relazioni colle Figlie di Maria Ausiliatrice, per le parrocchie e gli oratori festivi); II. Vita comune (articoli generali, direzione, rispetto ai superiori, amministrazione, patrimoni, abiti e biancheria, vitto e camera, libri, sanità e riguardi, ospitalità, abitudini, trasferimento di personale, monografie e «costumiere»); III. Pietà (in generale, pratiche, esercizio della buona morte e rendiconti, usanze religiose, settimana santa, canto fermo e musica, ap

pendice sulle preghiere e pratiche di pietà in comune); IV. Moralità (tra i soci salesiani, spirito religioso fra i coadiutori, segregazione delle persone non appartenenti alla Congregazione, assistenza dei confratelli obbligati al servizio militare, vacanze autunnali, noviziati e studentati moralità fra gli allievi, direzione dei giovani artigiani, mezzi per coltivare le vocazioni, associazioni varie e Bollettino salesiano); V. Studi (fra gli allievi, libri di testo e premi, diffusione dei buoni libri, stampa, studi filosofico-letterari, studi teologici, ordinazioni, norme pei sacerdoti); VI. Economia (articoli generali, provviste, il provveditore ispettoriale, economia nei viaggi, nei lavori e nelle costruzioni, il capo ufficio della direzione dei laboratori, economia nella cucina, nei lumi, e nella carta). Per la prima volta tutti i 712 articoli erano presentati con numerazione progressiva. È chiaro che questa raccolta ha beneficiato degli apporti del quinto e sesto Capitolo generale, soprattutto per quanto riguarda i Salesiani sotto le armi, gli studentati, il provveditore ispettoriale e il capo ufficio. Prima e importante sistematizzazione del diritto salesiano, la raccolta del 1894 sarà però sottoposta presto a nuovi adattamenti.

L'opera del decimo Capitolo generale (1904).

Benché i tre Capitoli generali che seguirono (il settimo nel 1895, l'ottavo nel 1898 e il nono nel 1901) non portino grandi innovazioni, tuttavia essi continuano a precisare punti lasciati in ombra, a curare nei minimi particolari determinati articoli, e a proporre nuovi regolamenti, almeno ad experimentum. Gli argomenti trattati furono vari ed i capitolari pare talvolta si abbandonino alle gioie della regolamentazione. Il capitolo del 1895, per esempio, discusse i rapporti dell'ispettore con il direttore delle case ispettoriali, propose un regolamento per i capi d'aziende agricole, e perfino un regolamento per il refettorio (degli alunni nelle case). Quello del 1898 si occupò degli oratori, dei laboratori, delle relazioni con l'Istituto delle Figlie di Maria Ausiliatrice, benché i compiti di maggior rilievo fossero state l'elezione dei membri del Capitolo superiore e la rielezione di don Rua. Nel 1901, si espresse ancora una volta il deside

rio che le deliberazioni più recenti fossero integrate alle più antiche in un unico testo. Una nuova commissione permanente fu nominata a questo scopo dal Rettor maggiore, su proposta dei membri del Capitolo. Il suo lavoro tarderà ad essere portato a compimento. Notiamo d'altra parte che quest'ultimo capitolo introdusse un'innovazione istituendo un tirocinio pratico di tre anni per i giovani Salesiani. Il decimo Capitolo generale, tenuto nel 1904, dev'essere considerato come un punto di riferimento capitale nella storia del diritto salesiano. I lavori durarono ventidue giorni. Erano rappresentate trentadue ispettorie, di cui alcune di recente erezione. Venne preparato un regolamento per gli ispettori e un altro per i noviziati. Ma la grande preoccupazione di quest'assemblea fu di adattare e di rifondere tutta la legislazione anteriore, sia quella che riguardava il testo delle Costituzioni come quella dei Regolamenti. Le sue deliberazioni avrebbero condotto, da una parte, alla redazione di 110 articoli detti «organici», di cui riparleremo, e dall'altra, alla formazione del corpus dei Regolamenti della Pia Società di S. Francesco di Sales, che verrà pubblicato nel 1906 in sei volumetti. Per la prima volta, un'unica e vasta raccolta di 1.406 articoli comprendeva tutti i regolamenti esistenti e tutte le decisioni dei precedenti Capitoli generali. Non è inutile indicarne rapidamente i contenuti generali. Il primo volume contiene il Regolamento per le case. È il più fondamentale poiché riguarda tutti i Salesiani di tutte le case. La prima parte tratta della vita religiosa nei vari aspetti: vita comune e carità fraterna, i tre voti, occupazioni e vacanze, raccomandazioni per le diverse categorie (sacerdoti, chierici, coadiutori), pietà, suffragi per i defunti, confratelli fuori della propria casa, relazioni fra le case, difetti da evitare, economia, e abitudini. È la più originale di tutta la raccolta. È stata redatta alla luce non soltanto delle decisioni dei Capitoli generali, ma anche delle lettere di don Bosco, di quelle del suo successore e delle circolari degli altri superiori maggiori. La seconda e la terza parte hanno come base il

Regolamento per le Case di don Bosco, arricchito però di alcuni capitoli sull'educazione nei suoi diversi aspetti: educazione morale, educazione religiosa, vocazione, educazione intellettuale e educazione fisica. Gli altri volumetti di Regolamenti del 1906 sono dedicati a materie più specifiche. Il secondo è il Regolamento per le case di noviziato. Questo regolamento ha beneficiato di numerosi riesami della questione, resi necessari dal moltiplicarsi dei noviziati sotto don Rua. Contrariamente al Capitolo del 1901, quello del 1904 aveva definitivamente rinunciato a creare noviziati separati per chierici e coadiutori. Alla fine vi è un'appendice dedicata allo studentato filosofico, che dovrebbe essere eretto in ogni ispettoria «per quanto lo permettono le circostanze», anche se unito al noviziato. Poi viene il Regolamento per gli ispettori, frutto anch'esso dello sviluppo accelerato della Congregazione, che legifera per la prima volta sul Capitolo ispettoriale e sui consiglieri. Il quarto fascicolo contiene il Regolamento per le parrocchie, dove sono riprese sostanzialmente le decisioni già pubblicate. Il quinto è dedicato al Regolamento per gli oratori festivi. Si tratta del regolamento di don Bosco, preceduto però da 18 articoli generali secondo le esigenze del tempo. L'ultimo fascicolo contiene il Regolamento ad uso dei Soci salesiani relativo alla Pia Unione dei Cooperatori. Come si vede, quest'ampia regolamentazione non trascurava alcuno degli aspetti della vita salesiana. Mancava soltanto la questione spesso dibattuta delle relazioni con l'Istituto delle Figlie di Maria Ausiliatrice. Il 21 novembre 1906, infatti, don Rua spiegava ai Salesiani che l'Istituto avrebbe costituito dal quel momento una Congregazione totalmente autonoma.

Le Costituzioni con le Deliberazioni «organiche» (1905).

Torniamo al capitolo del 1904 per seguire, questa volta, le vicende del testo delle Costituzioni. Infatti, il decimo Capitolo generale prese allora un'importante decisione riguardante le Costituzioni del 1874. Il

timore di don Rua d'introdurvi delle trasformazioni fu bilanciato dalla necessità di tener conto della situazione della Congregazione all'inizio del secolo ventesimo. Mentre alcuni articoli furono modificati, 110 nuovi articoli, qualificati come «organici», furono aggiunti al testo delle Costituzioni. Per distinguere questi ultimi dal testo primitivo di don Bosco, furono messi in nota nell'edizione del 1905. Non mancano le novità in questa raccolta. A proposito del «fine della Società salesiana» (capo I), tra le «opere di carità verso la gioventù specialmente povera ed abbandonata» vengono aggiunti gli «istituti di interni ed esterni per studenti di scuole primarie o secondarie», e anche le «missioni estere», mentre le parrocchie non potevano essere accettate «in via ordinaria». Per quanto riguarda la «forma di questa Società» (capo II), si avverte un maggior sforzo d'uniformità e di separazione dagli «estranei». Nel capo VI sul «governo religioso della Società», si nota uno spirito centralizzatore. I Capitoli generali non si riuniranno più che ogni sei anni (a causa delle accresciute difficoltà di organizzazione) e lo svolgimento di queste grandi assise era ormai sottoposto ad un preciso regolamento. Inoltre, le ispettorie e gli ispettori, sconosciuti nel 1874, occupavano nel governo della Società il posto che loro competeva. Altre aggiunte o precisazioni riguardavano l'orientamento da dare alle case salesiane, il contenuto del rendiconto al superiore, la maniera di fare l'esercizio mensile della buona morte. Roma aveva approvato queste aggiunte e modifiche il primo settembre 1905.

Le Costituzioni secondo il nuovo Codice (1921 e 1923).

Nel 1917 la Santa Sede pubblicava il nuovo Codice di diritto canonico ed il 26 giugno 1918 la S. Congregazione dei Religiosi pregava i superiori religiosi di rivedere le Costituzioni per conformarle alle leggi della Chiesa. I giuristi salesiani si misero all'opera, approfittando allo stesso tempo dell'occasione per inserire gli articoli organici nel testo stesso.

Paragonando l'edizione del 1921, frutto dei loro lavori, con le precedenti, si è colpiti innanzi tutto dalla presentazione: sono scomparse le note, vi è un unico testo di 240 articoli numerati progressivamente e i nuovi articoli si distinguono dagli altri mediante un asterisco. Quanto al contenuto, le modifiche riguardano, tra l'altro, il capitolo sulla povertà (il novizio, per esempio, è tenuto a redigere un testamento prima della prima professione), l'età del Rettor maggiore (il cui limite inferiore passa da trentacinque a quarant'anni), l'apertura delle nuove case (per cui si esige ormai un permesso scritto della curia diocesana), e l'ammissione nella Congregazione (che spetta all'ispettore e al suo consiglio). I revisori però non erano soddisfatti del proprio lavoro. L'inserimento degli articoli organici nella trama del testo comportava una spiacevole diminuzione di coordinamento e di logica, e molte ripetizioni. Si pensò quindi ad un nuovo adattamento. La questione fu deferita al dodicesimo Capitolo generale, convocato nel 1922 da don Rinaldi. L'opera fu portata a termine. Nacque un nuovo testo che ricevette l'approvazione di Roma il 19 giugno 1923. Oltre alle correzioni stilistiche, agli adattamenti, alle soppressioni e inversioni di articoli, ormai ridotti a 201, si notavano modifiche anche nei titoli dei capitoli. Così, il capitolo nono tratta ora delle ispettorie e l'undicesimo del Capitolo generale, e il sesto ha assorbito i due vecchi titoli sei e sette. Particolare importante, gli articoli organici non si distinguono più dagli altri. Queste importanti trasformazioni saranno seguite da una calma quasi assoluta. Si nota appena che il capitolo del 1938 sopprimerà un inciso concernente la partecipazione ai Capitoli generali dei vicari e prefetti apostolici. Una misura più appariscente sarà presa nel 1947, quando il numero dei consiglieri del Capitolo superiore sarà portato da tre a cinque. Nonostante la perplessità di alcuni di fronte a questo nuovo intervento, i capitolari lo approvarono in massa per ragioni facili ad indovinare. Nel 1954 verrà stampata una nuova edizione delle Co

stituzioni, che riproduceva quella del 1923, fatta eccezione per le modifiche citate e per alcune altre di scarsa importanza.

I Regolamenti secondo il nuovo Codice (1924).

Torniamo ora alle vicende dei Regolamenti. Dopo la pubblicazione, nel 1906, dei «Regolamenti della Pia Società Salesiana», ci si era resi conto ben presto della necessità di una riforma di questo volume. Si criticava soprattutto la lunghezza dei suoi 1.406 articoli. L'operazione non fu facile né rapida. L'undicesimo Capitolo generale, che si tenne nel 1910 sotto la presidenza di don Albera, consacrò la parte più importante delle sue discussioni a quest'argomento. Nominò ancora delle commissioni, una per ciascuno dei sei Regolamenti che componevano la raccolta, ma senza giungere ad alcuna conclusione. Finalmente, com'era di regola in casi del genere, si demandò il tutto al Capitolo superiore, che nominò una commissione permanente. Vennero indicati alcuni criteri per facilitarle il compito, chiedendo in particolare di non toccare lo spirito di don Bosco, di rispettare gli articoli scritti di sua mano, e di eliminare dai Regolamenti tutto ciò che era pura esortazione. La commissione lavorò per dodici lunghi anni. A sua difesa, bisogna dire che, durante tutto il periodo della guerra, non fu possibile tenere alcun Capitolo generale, e che l'attesa del nuovo Codice di diritto canonico si prolungò fino al 1917. L'impulso finale sarebbe venuto dal dodicesimo Capitolo generale (1922). Parallelamente alla revisione delle Costituzioni, il Capitolo revisionò il testo dei Regolamenti. Lo fece tenendo conto delle nuove disposizioni canoniche, della nuova edizione delle Costituzioni e delle deliberazioni in corso. Prima della redazione definitiva, fu deciso d'inviare le bozze del testo alle ispettorie per studio ed eventuali osservazioni. I nuovi Regolamenti della Società salesiana poterono essere stampati nel 1924. La presentazione generale era identica a quella del 1906, ma le forbici dei revisori non erano state inoperose. Il numero degli articoli era sceso a 416. Tutto ciò che era sembrato accidentale, provvisorio o

troppo legato ad una data regione, era stato eliminato. Alcune sezioni furono ridotte in maniera più che sensibile. Il Regolamento per gli alunni era scomparso: sarebbe stato stampato a parte. Dal Regolamento degli oratori era stata soppressa la parte dedicata alle varie cariche, per il cui mantenimento don Rinaldi si era battuto con successo nel 1910. Quest'ultimo regolamento rimaneva quindi incredibilmente abbreviato, passando da 287 articoli a 29.

I Regolamenti del 1954.

Come per le Costituzioni, la raccolta dei Regolamenti del 1924 avrà una notevole stabilità. In alcuni campi, però, continuerà il lavoro di codificazione che porterà a ritocchi o ad aggiunte. Fu il caso dei problemi di formazione, che attirarono in particolare l'attenzione di don Ricaldone. Il quindicesimo Capitolo generale, da lui presieduto nel 1938, propose a questo riguardo sei nuovi regolamenti ad experimentum, destinati a tutti i periodi della formazione del Salesiano: aspirantato, noviziato, studentato filosofico, triennio pratico, corso di perfezionamento dei coadiutori e studentato teologico. Questi regolamenti furono discussi e definitivamente approvati durante il diciassettesimo Capitolo generale, riunito nel 1952, all'inizio del mandato di don Ziggiotti. Due anni dopo, nel 1954, sarà pubblicata, parallelamente alle Costituzioni, una nuova edizione dei Regolamenti della Società salesiana con le aggiunte riguardanti l'intero curricolo della formazione. Come si è potuto costatare, la storia delle Costituzioni e dei Regolamenti della Società salesiana riflette la storia della riflessione su se stessa al suo più alto livello legislativo. Le questioni introdotte, le soluzioni date, le formulazioni preferite, la natura giuridica o spirituale di esse, sono significative di stati d'animo successivi e di una volontà permanente di adattamento alla realtà, nella fedeltà scrupolosa al pensiero del Fondatore. Un'era veramente nuova nell'opera legislativa della Società salesiana si aprirà soltanto dopo il concilio Vaticano II.

Capitolo XXV.

LA FORMAZIONE DEI SALESIANI DAL 1888 AL 1965.

In una Congregazione religiosa, soprattutto se consacrata all'educazione come la Società salesiana, i problemi di formazione assumono naturalmente grande importanza. È sufficiente uno sguardo alle lettere circolari dei Rettori maggiori ed alle deliberazioni dei Capitoli generali per persuadersi che i superiori salesiani ne hanno avuto perfettamente coscienza. Formare, nei singoli candidati che si presentano, il religioso, l'educatore, il sacerdote, è compito lungo e delicato ed è comprensibile che abbia richiesto direttive e raccomandazioni abbastanza frequenti e talvolta molto particolareggiate. Due serie di constatazioni ci possono essere di guida in questo campo. Si assiste, infatti, da una parte, alla permanenza sotto i rettorati successivi dei metodi tradizionali ereditati da don Bosco, e dall'altra, a particolari evoluzioni accompagnate da un forte sviluppo delle istituzioni di formazione.

Metodi tradizionali ed evoluzioni.

Durante il Capitolo generale del 1901, don Rua rievocava non per caso il metodo usato dal Fondatore nella formazione del suo personale: «Non tralasciava mai le prediche dei giorni festivi né i sermoncini serali; oltre a ciò moltiplicava le conferenze speciali; faceva ogni settimana una lezione sul testo del Nuovo Testamento; riceveva regolarmente i

rendiconti, dei quali erano così contenti i buoni confratelli di allora, che s'andava dicendo valere più una passeggiata fatta con don Bosco che una muta d'esercizi». Altro testimone qualificato, don Albera rivelava nel 1911 particolari interessanti: «Soleva radunarci di quando in quando nell'umile sua cameretta, dopo le orazioni della sera, quando già tutti gli altri erano a riposo, e là ci teneva una breve ma interessantissima conferenza. Eravamo pochi a udirlo, ma appunto per questo ci riputavamo felici di avere le confidenze, di essere messi a parte dei grandiosi disegni del nostro dolcissimo maestro. Non ci fu difficile a comprendere che egli era chiamato a compiere una provvidenziale missione a favore della gioventù ed era per noi una non piccola gloria vedere che ci sceglieva quali strumenti per eseguire i suoi meravigliosi ideali. Così a poco a poco ci andammo formando alla sua scuola». Alcuni di questi mezzi di formazione hanno resistito al tempo. La «buona notte» ne è uno, anche se, in quanto tale, è rivolta più abitualmente o in maniera più immediata agli alunni. Il breve sermoncino fatto dal direttore o dal suo sostituto è diventato una specie di simbolo del clima di famiglia che deve regnare in ogni casa di don Bosco. Esemplare in tutto, don Rua, in occasione della sua ultima malattia, lo esigeva ogni sera dal suo direttore spirituale. Nel 1936, don Ricaldone ricordava alcune modalità, piccoli atteggiamenti e forme speciali, «che ad altri potrebbero parere di scarsa entità, quali risultano, dai sermoncini, dagli avvisi, dagli esempi, da speciali consuetudini che non trovarono posto nell'organico delle Costituzioni e dei Regolamenti». Altro mezzo di formazione tradizionalmente tenuto in onore, il «rendiconto» al superiore era già prescritto dalle Costituzioni redatte dal Fondatore. Ma il Capitolo del 1904 decise d'introdurvi un articolo che ne precisasse il contenuto. Secondo il detto articolo, questa pratica

consisteva nel «rendere conto» almeno una volta al mese di un certo numero di punti: salute, lavoro, vita spirituale, osservanza religiosa, carità fraterna, disordini eventualmente notati. Leggendo le raccomandazioni di un don Rua o di un don Ricaldone a questo riguardo, si comprende l'importanza da loro attribuita al rendiconto, ma anche le difficoltà che esso poteva presentare nella pratica. Il decreto romano del 1901 che vietò ai superiori di confessare i sudditi fu considerato, secondo il modo di vedere salesiano, come un provvedimento che limitava la «somma confidenza nel superiore» desiderata dalle Costituzioni salesiane. Con il tempo e l'espansione della Società, si delineavano anche evoluzioni non irrilevanti. Già don Rua dovette rinunciare con grande rincrescimento a trattare direttamente con i singoli confratelli e con gli stessi ispettori. «Quanto volentieri vorremmo continuare il metodo tradizionale nella formazione del personale fino ad ora tenuto, scriveva nel 1906, soprattutto perché offre modo di vederci, trattare insieme delle nostre cose e dividere pure insieme gioie e dolori. Ma anche a questo bisogna rinunziare con gran pena mia e degli altri membri del Capitolo superiore. Non è burocrazia che a ciò ci spinge bensì dovere di regolarizzazione». I successori di don Bosco ricorsero quindi ad istruzioni scritte, lettere circolari o «lettere edificanti». In quest'ultimo genere si distinsero soprattutto don Rua, don Albera e don Ricaldone. Nel 1920 si diede inizio alla pubblicazione periodica degli Atti del Capitolo superiore, grazie ai quali il Rettor maggiore e i membri del suo Consiglio potevano comunicare con tutti i Salesiani dispersi nel mondo. I superiori si sono serviti di questi mezzi di contatto per trattare questioni riguardanti la formazione dei Salesiani, non solo nel campo religioso, ma anche educativo e umanistico.

Lo sviluppo degli istituti di formazione.

Nei primi tempi di don Bosco, tutta la formazione si faceva all'Oratorio di Valdocco sotto il suo sguardo. Tra tante altre cose, don Rua lo aiutava o lo sostituiva anche nell'assistenza dei futuri candidati alla vita salesiana.

Un primo passo verso la sistematizzazione era stato fatto nel 1874 quando don Giulio Barberis fu eletto primo maestro degli «ascritti» (novizi), carica che egli tenne per venticinque anni. Poi, nel 1879 si aprì la prima casa di noviziato a S. Benigno Canavese. Nel 1885, don Bosco fece di don Francesco Cerniti il suo consigliere scolastico, incaricato degli studi nella Società salesiana. Nel 1886, i novizi che si destinavano al sacerdozio (chierici) furono trasferiti a Foglizzo, mentre i novizi artigiani rimanevano a S. Benigno. Nel 1887, don Barberis fu inviato a Valsalice, dove fu stabilito il primo studentato filosofico della Congregazione. Dopo la morte di don Bosco, alcune istituzioni come i noviziati e gli studentati di filosofia esigevano soltanto di essere perfezionate e trapiantate là dove ancora mancavano. Altre, invece, furono create sotto la pressione delle autorità romane o di nuove necessità, quali gli aspirantati, i centri di perfezionamento per i coadiutori, il tirocinio, e gli studentati di teologia.

Gli aspiranti e la loro formazione.

Siamo privi d'informazioni globali sulla provenienza delle vocazioni, ma pare che la maggior parte di esse sia stata formata direttamente nelle case salesiane, senza l'aiuto di un'istituzione specifica. La casa poteva essere una scuola secondaria o un oratorio aperto a tutti. Ciò non impediva che le «vocazioni» che maturavano in quest'ambiente non specializzato potessero essere considerate «aspiranti». Era questa l'opinione di don Rua, il quale dichiarava nel Capitolo del 1892: «Si possono annoverare tra gli aspiranti quei giovani, che desiderano formarsi un tal tenore di vita cristiana da poter essere ammessi fra i chierici o fra i coadiutori». Pensando a questa categoria di giovani particolarmente curati, aggiungeva alcune raccomandazioni, come quella di riunirli due volte al mese per una conferenza, di non parlare con essi di Congregazione né

di voti ma soltanto di vita «cristiana», e di scegliere unicamente soggetti di moralità certa. Se la creazione degli aspirantati propriamente detti è relativamente recente, l'idea era vecchia. Fin dal 1884, assicurava don Ricaldone, don Bosco avrebbe voluto fare dell'Oratorio di Valdocco una casa di aspiranti. Dopo la sua morte, i bisogni in personale salesiano diventarono tali che furono create a poco a poco case per aspiranti, cioè «istituti nei quali vengono accolti giovanetti, in generale dai 12 ai 16 anni, desiderosi di appartenere alla nostra Società». Nel 1936, si contava già un bel numero di aspirantati, generalmente chiamati missionari: l'istituto Cardinal Cagherò di Ivrea, l'istituto Pio V di Penango Monferrato, la scuola agricola missionaria di Cumiana, l'istituto per allievi missionari studenti di Bagnolo Piemonte, l'istituto Conti Rebaudengo in Torino per gli artigiani, quello di Gaeta per aspiranti dell'Italia meridionale, l'istituto missionario di Castelnuovo Don Bosco, quello di Astudillo per la Spagna, di Shrigley per l'Inghilterra, di Coat-an-Doc'h per la Francia, e l'Istituto per missionari catechisti ai Becchi. Don Ricaldone ne voleva almeno uno per ispettoria. La durata degli studi varierà. Il Capitolo del 1929 esigeva quattro anni per i ragazzi usciti dalla scuola elementare. Nel 1936 e nel 1947, don Ricaldone reclamava cinque anni. Questo superiore fece inoltre dell'aspirantato salesiano un'istituzione ben definita e regolata nei dettagli. Nel 1954, un capitolo dei Regolamenti coronava questo sforzo di assestamento. Vi si proclamava la necessità che l'aspirantato fosse una «casa modello con personale scelto e formativo». I candidati alla vita salesiana dovevano essere educati ad una «pietà semplice e spontanea, ma nello stesso tempo profonda e fervente, come la voleva S. Giovanni Bosco», come anche alla «confidenza verso il direttore».

Sistemazione dei noviziati

Con l'incremento rapido del numero dei novizi dopo la morte di don Bosco, i responsabili della Congregazione hanno dovuto intervenire spesso su questo tema. Il Capitolo generale se ne preoccupò fin dal 1889. Quello del 1898 riuscì a stendere un primo regolamento. Quello del 1901 rielaborò il regolamento e fece l'elezione di 17 maestri dei novizi.

Ricordiamo che don Bosco si era piegato mal volentieri all'idea un noviziato puramente ascetico, con esclusione d'ogni attività estranea. Dopo di lui, l'evoluzione nel senso voluto dalle autorità fu accelerata. Legati in un primo tempo ad opere giovanili, i noviziati se ne staccarono uno dopo l'altro. I novizi argentini abbandonarono il collegio d| Almagro per Bernal nel 1895, i cileni lasciarono Concepción per Macul lo stesso anno, i belgi Liegi per Hechtel nel 1896, gli inglesi Battersea per Burwash nel 1897. Nel 1896, esistevano 22 noviziati. Un certo numero di novizi però continuava a formarsi nelle case. Vi fu un periodo in cui, almeno in alcuni centri, i novizi seguirono jl corsi di filosofia; ma il Capitolo del 1929 richiamò all'applicazione I stretta del nuovo Codice di diritto canonico, che proibiva ogni studio profano durante il noviziato. Tuttavia si permetteva al novizio di rinfrescare alcune nozioni precedentemente acquisite. D'altra parte, si raccomandava l'insegnamento della lingua italiana ai novizi d'altre lingue. Le direttive che trattano della formazione dei novizi ricalcano generalmente le prescrizioni canoniche e costituzionali, ed i consigli di don Bosco. S'insisteva in genere sulla formazione ascetica, ma con qualche differenza di accentuazione, se si confronta per esempio il pensiero di don Rua con quello di don Ricaldone. Il primo voleva che s'inculcasse nell'animo dei novizi «quei principii di pietà, di zelo, di umiltà, di mortificazione» e che venissero ad avere «quell'impronta di religiosità» che dovrebbe, a parer suo, caratterizzare la figura del Salesiano fin dal periodo della formazione. Il secondo invece, autore di un vero «trattato» sul noviziato, non mancava di sottolineare che «l'ascetica salesiana non è fine a se stessa, ma addestramento alla redenzione delle anime». I testi più utilizzati nei noviziati erano quelli di don Barberis, primo maestro dei novizi, in particolare il suo Vade Mecum, che si può ritenere il primo libro dedicato alla spiritualità salesiana di don Bosco. Si leg

gevano anche l'Esercito di perfezione del gesuita Alfonso Rodriguez e le opere di san Luigi M. Grignion de Montfort. Per la formazione pedagogica, che non doveva essere assente durante il noviziato, don Barberis compose i suoi Appunti di pedagogia sacra. Ricordiamo che dopo esitazioni ed esperienze contrastanti, il principio del noviziato unico, dove si trovavano uniti futuri sacerdoti e salesiani laici, fu definitivamente approvato dal Capitolo del 1904. Secondo don Ricaldone, questo modo di agire favoriva l'uguaglianza tra i membri della Congregazione, l'affratellamento di tutti fin dal noviziato e la comunione nello stesso ideale apostolico.

Studi e studentati di filosofia.

La formazione propriamente intellettuale del futuro sacerdote comprende innanzi tutto lo studio della filosofia e della teologia. Lo studentato di filosofia esisteva nella Congregazione salesiana prima del rettorato di don Rua. Nel 1887, don Bosco aveva fatto dell'ex collegio di Valsalice una casa di questo tipo. Normalmente, ogni ispettoria doveva impegnarsi ad organizzare il proprio studentato. Ma in pratica, non fu così facile. Durante il Capitolo generale del 1904, don Cerniti si lamentava: «Lo studentato filosofico regolare fu stabilito dalle nostre deliberazioni; ma purtroppo si fa raramente: in Inghilterra non esiste, in Spagna poco. Si ha in Valsalice, ad Ivrea, a Genzano ed a S. Gregorio. Certamente i due terzi non seguono lo studentato filosofico regolare quale sancito». Soltanto ai tempi di don Ricaldone, le cose saranno sistemate secondo le norme. La durata degli studi filosofici fu soggetta a variazioni. Leggiamo che il Capitolo del 1901 ridusse il numero di anni da tre a due, rima

nendo così fedele alle prescrizioni delle Costituzioni. Era relativamente poco, se si pensa che gli studi degli aspiranti duravano allora quattro anni. Il terzo anno, incoraggiato nel 1929, diventato obbligatorio nel 1939, fu conservato nel 1954. A più riprese, i Capitoli generali si sono interessati degli autori di filosofia. Quello del 1889 stimò preferibile che gli studenti potessero servirsi di libri di testo scritti da autori salesiani. Quello del 1901 si felicitava che si fosse risposto a questo desiderio con i manuali di Varvello e di Conelli. I Regolamenti del 1924 stabilivano che i testi dovessero avere l'approvazione del Rettor maggiore. Oltre allo studio della filosofia, gli studentati dovevano promuovere l'insieme della formazione del giovane salesiano, in particolare nel campo della pedagogia. Questa esigenza era chiaramente messa in luce dai Regolamenti del 1924, i quali dichiaravano che «scopo degli studentati non è solamente la cultura intellettuale dei chierici, ma in modo particolare la formazione ecclesiastica e salesiana». Ecco perché i Programmi e norme per gli studentati, pubblicati nel 1946, prevedevano, accanto alle materie come l'ontologia e l'etica, un numero impressionante di studi di ogni genere, come la catechesi, la matematica, le lingue, la storia, l'educazione estetica e fisica. Ed era ancora il motivo per cui, fin dal 1901, fu chiesto a Roma che i giovani chierici potessero frequentare l'Università fin da questo periodo della loro formazione. Un punto merita di essere messo in risalto riguardante il metodo d'insegnamento. All'inizio del proprio rettorato, don Rua credette opportuno reagire contro la tendenza di coloro che decantavano le lezioni «cattedratiche», cioè i «corsi magistrali». Ricordava per questo, nella lettera del 27 dicembre 1889, il metodo salesiano tradizionale, valido, precisava, per tutte le tappe della formazione: «Anche nei corsi di filosofia e di teologia - così scriveva - non credano i professori di abbassarsi o perder tempo coll'interrogare gli allievi per assicurarsi se tutti hanno inteso, o col fare recitare la lezione per accertarsi se hanno studiato. Chi si contenta di fare lezioni per quanto belle e sublimi, ma non riesce

a far imparare e far studiare i proprii allievi, potrà essere dotto, ma non sarà un valente insegnante». I Programmi e norme si auguravano, da parte loro, «che i professori procurino non solo di insegnare, ma anche di educare, infondendo negli alunni con l'esempio e con la parola, l'amore e la pratica del sistema educativo salesiano».

Formazione dei Coadiutori.

Dopo l'adozione del noviziato unico, destinato, nel pensiero del Capitolo del 1904, ad assicurare a tutti i giovani salesiani la medesima formazione religiosa di base, rimaneva da pensare alla formazione ulteriore dei Coadiutori, come si faceva per i chierici. Questo problema non era passato inavvertito, come dimostra un articolo dei Regolamenti del 1906, i quali auspicavano «possibilmente due anni o almeno uno di scuola professionale di perfezionamento nell'arte loro, nel qual tempo siano anche consolidati nelle virtù e nello spirito della loro vocazione». Era poco e, tutto sommato, piuttosto vago. Gli anni passarono, apparentemente, senza alcuna iniziativa particolare. Il 15 maggio 1921, don Albera chiedeva che i Coadiutori si rendessero atti ad «esercitare in mezzo alla gioventù l'identico apostolato dei sacerdoti eccettuate soltanto le mansioni sacerdotali», ma senza poter indicare i mezzi concreti che essi avrebbero avuto a disposizione. Il rettorato di don Rinaldi fu un periodo fecondo per la formazione e la valorizzazione dei Coadiutori, grazie all'opera concertata del consigliere professionale don Vespignani e del prefetto generale don Ricaldone. Ormai era giunto il tempo della trasformazione degli antichi laboratori in vere scuole professionali, con la richiesta di personale qualificato. La spinta venne dal dodicesimo Capitolo generale (1922), che trattò dei mezzi per migliorare la cultura religiosa e la qualificazione

professionale dei Coadiutori. Le decisioni pratiche si possono leggere nei Regolamenti del 1924, i quali prescrivevano per i Salesiani laici un corso di perfezionamento di due anni, invitando anche gli ispettori a creare case di formazione a questo scopo. Alcuni centri di perfezionamento sorsero effettivamente in Piemonte, a S. Benigno, a Cumiana, a Torino- Rebaudengo, e ai Becchi. Il Capitolo del 1929 precisò che il perfezionamento doveva applicarsi non solo alla vita professionale, ma a tutta la formazione umana e religiosa. Nel 1939, don Ricaldone pubblicò il Regolamento per il corso di perfezionamento per i Coadiutori, il quale recitava all'articolo 2: «Da ora innanzi, tutti i confratelli Coadiutori, artigiani o agricoltori, finito il noviziato, dovranno fare almeno un biennio di perfezionamento nella casa a tal uopo destinata». I Regolamenti del 1954 accentuarono quest'esigenza: essi prevedevano un periodo di perfezionamento di tre anni per coloro che esercitavano una professione e di due anni per gli altri. In questa medesima prospettiva di formazione iniziava anche in quegli anni la pubblicazione periodica de «Il Salesiano Coadiutore».

Il triennio o tirocinio pratico (1901).

Il Capitolo del 1901 prese una decisione importante concernente la formazione del personale. Decretò che i futuri sacerdoti avrebbero compiuto un tirocinio di vita pratica in una casa salesiana. Questo tirocinio sarebbe durato tre anni e sarebbe stato inserito tra la filosofia e la teologia. La decisione non era totalmente nuova, poiché già nelle Deliberazioni del 1890 si leggeva: «Terminato lo studio della filosofia, si procurerà che i chierici passino un anno intiero nell'Oratorio di Torino, od in una casa ispettoriale, oppure in un'altra casa designata dal Rettore maggiore, durante il quale si abilitino praticamente agli uffizi di maestro o di assistente». Il medesimo articolo si ritrova quasi immutato nelle Deliberazioni del 1894, senza che ci sia possibile sapere con esattezza quali circostanze l'abbiano ispirato.

Possediamo invece maggiori particolari sulle discussioni durante il nono Capitolo generale del 1901, che condurranno alla creazione del triennio pratico. Secondo gli autori del progetto, non conveniva privare le case di un certo numero di forze giovani, proprio nel momento in cui si cercava d'istituire per i chierici case di studi regolari. Nello stesso tempo il tirocinio poteva apparire come un buon mezzo per provare la solidità delle vocazioni e le loro attitudini alla vita salesiana. A questi motivi si potrebbe aggiungere il ricordo di ciò che era stata la formazione dei primi Salesiani sotto don Bosco e l'importanza da lui attribuita alla pratica e all'esperienza. Don Rua approvò in pieno questa innovazione, insistendo anzi sul dovere di non abbreviare senza motivo questo periodo di tre anni. Nella sua lettera circolare del 19 marzo 1901, mise a fuoco la «importanza al tutto eccezionale» del tirocinio, «essendo in questo tempo specialmente che si formano i nostri chierici alla vera vita pratica salesiana», e raccomandò che i direttori facessero «proprio da padri» dei tirocinanti.

Studi e studentati di teologia.

Il secondo tipo di studi richiesti al candidato al sacerdozio comprendeva gli anni di teologia. In conformità alle Costituzioni, e fin dagli inizi, i chierici salesiani dovettero sempre consacrare almeno quattro anni allo studio delle materie ecclesiastiche. Fino all'inizio del secolo ventesimo, non esistevano case specializzate. Nel 1880, il secondo Capitolo generale aveva certamente sopravvalutato le possibilità reali chiedendo che fosse creato uno studentato teologico in ogni ispettoria. Nel 1901, si dovette costatare che in ventun anni quasi nulla si era fatto in questo campo. Il quadro delle ispettorie era troppo ridotto per un'istituzione così onerosa. Nell'attesa, i futuri sacerdoti continuarono a seguire i corsi dei seminari diocesani, oppure ricevevano bene o male la loro formazione nel quadro di una casa salesiana.

Don Rua, per primo, lanciò l'idea, da molti giudicata temeraria, di creare a Foglizzo uno studentato teologico internazionale. Un primo passo fu compiuto verso il 1904 con la trasformazione della casa in studentato teologico e la fondazione degli studentati di S. Gregorio in Sicilia, di Grand-Bigard (Groot-Bijgaarden) nel Belgio, e di Manga nell'Uruguay. Nello stesso anno fu promulgato un regolamento-programma per gli studentati destinato ad organizzare gli studi teologici. Le norme precisavano le materie obbligatorie (teologia dogmatica e morale, sacra scrittura, storia ecclesiastica, diritto canonico, principi dell'eloquenza sacra) e quelle facoltative (lingua ebraica e greca). Al professore di morale si raccomandava di esporre le principali questioni moderne di sociologia e d'economia politica. Per ogni materia veniva ordinato la quantità di tempo e per quanti anni le lezioni dovevano essere impartite. Per l'intera Società salesiana il libro di testo doveva essere unico e in latino per la teologia dogmatica e morale e per il diritto canonico, mentre una limitata libertà di scelta della lingua del libro di testo era consentita per le altre materie. Ciononostante la situazione della maggior parte degli studenti non era sistemata secondo le norme. Nel 1905, don Cerniti deplorava anche il fatto che «dei teologi, ne abbiamo appena 18 a Foglizzo, 10 a S. Gregorio di Catania e 9 a Grand-Bigard. Non sono neanche un terzo di quanto dovrebbe essere, notando che adesso le condizioni degli studenti- teologi fuori dello studentato è peggiorata: han quasi nessuno che loro faccia scuola; e tutto questo perché abbiamo preso molti impegni nell'Antico Continente e si son mandati molti missionari nel Nuovo». Cinque anni dopo, durante il Capitolo generale del 1910, lo stesso Cerniti faceva notare che nonostante l'apertura degli studentati, soltanto 71 teologi erano a Foglizzo e 18 a S. Gregorio, mentre 105 rimanevano nelle case. Dopo la prima guerra mondiale, i responsabili presero delle disposizioni affinché s'adempisse quanto aveva deliberato il Capitolo del 1922 per la regolarità degli studi di teologia, dopo il dissesto provocato dalla guerra. Nel 1928 il Rettor maggiore col suo Capitolo decisero di non

accettare fondazioni durante il quadriennio 1929-1932 per poter permettere «il regolare compimento degli studi dei nostri chierici». Nel 1938, don Ricaldone presentò il suo Regolamento per le case di formazione. Dopo la guerra, nel 1945, lo stesso superiore mandò una lunga circolare sulla formazione negli studentati. Nella sistemazione degli studentati di teologia, i Programmi e norme del 1946 costituiscono, ancora una volta, un punto fisso importante. Quanto agli autori e ai libri di teologia da utilizzare negli studentati salesiani, nel 1889 si era discusso dei meriti rispettivi di Perrone, Del Vecchio, Sala, Schouppe e Hùrter. Nel 1904, la preferenza andò ai manuali degli autori salesiani Francesco Paglia per la teologia dogmatica, Luigi Piscetta per la teologia morale e Dante Munerati per il diritto canonico e la teologia sacramentaria.

Origini dell'Ateneo Salesiano (1936-1940).

Oltre a ciò, la volontà tenace dei responsabili ha dotato la Congregazione di un istituto di studi superiori per la formazione dei suoi quadri. Nel 1911 furono iniziate le pratiche per ottenere da Roma che lo studentato di Foglizzo potesse «erigersi a Facoltà». Delle difficoltà inaspettate furono sollevate dal consultore della Congregazione romana degli Studi, il quale riteneva «che la costituzione di una facoltà teologica nella Congregazione salesiana sia fuori scopo e contro l'intenzione del venerabile Fondatore. La Pia Società Salesiana fu istituita per l'educazione della gioventù povera e abbandonata; sarebbe quindi uno snaturarne il fine distrarre i Salesiani in altri studi».

Il problema fu rimesso alla Congregazione dei Religiosi, affinché giudicasse se la Facoltà richiesta fosse «secondo lo spirito della Pia Società salesiana». La risposta fu positiva, poiché nel 1915 fu emanato un rescritto pontificio con cui si concedeva allo studentato internazionale di conferire i gradi di baccalaureato e licenza. Tuttavia, il rescritto non fu attuato a causa della guerra. Si aspettavano tempi migliori. L'Istituto teologico rimase a Foglizzo fino al 1923, data in cui fu trasferito nei locali più adatti di Torino-Crocetta. Intanto si moltiplica il numero degli studenti salesiani nelle Università romane. Nel 1934, anno della canonizzazione di don Bosco, erano circa centocinquanta. Tale situazione, insieme al desiderio di unire la preparazione accademica con la specifica formazione salesiana, suscitò il progetto di realizzare al più presto una Facoltà di teologia gestita dalla Congregazione. Don Ricaldone, in un'udienza nel 1936, fu incoraggiato in tal senso da Pio XI, mentre la S. Congregazione per i Seminari e le Università degli Studi gli suggerì di non limitarsi alla Facoltà teologica, ma di istituire anche quella di Diritto canonico e di Filosofia. Queste tre strutture accademiche cominciarono a funzionare fin dal 1937. Tre anni dopo, il 3 maggio 1940, la Sacra Congregazione emanò il decreto con il quale si erigeva a Torino l'Ateneo Pontificio Salesiano. Primo Rettor magnifico dell'Ateneo salesiano divenne il teologo moralista don Andrea Gennaro. Un anno prima era stato nominato primo direttore della rivista «Salesianum». Don Eusebio Vismara, uno dei protagonisti del movimento liturgico in Italia, fu il primo decano della Facoltà di teologia. Avrà come successori don Nazareno Camilleri, uomo di singolare vigore speculativo, e don Giuseppe Quadrio, venerato per la profondità e limpidezza dell'insegnamento. La Facoltà di filosofia fece i suoi primi passi nel 1937 con don Giuseppe Gemmellaro, che ne fu il primo decano. Pres

so questa Facoltà, don Ricaldone aveva voluto fin dall'inizio un Istituto di pedagogia, sotto la guida di don Carlos Leoncio da Silva; essa diventerà più tardi la Facoltà di Scienze dell'Educazione. Nel 1954 l'Istituto lanciò la rivista «Orientamenti pedagogici». Nel 1956 fu approvato e gli venne data l'autorità di conferire i gradi accademici. La Facoltà di Diritto canonico ebbe il suo inizio anche nel 1937 e il suo primo decano fu don Agostino Pugliese. Nel 1962, la Santa Sede affidò all'Ateneo anche i corsi del «Pontificio Istituto di Alta Latinità», il quale fu eretto canonicamente nel 1964. Nel 1965, l'Ateneo salesiano fu trasferito a Roma, anche con lo scopo di riunire in un'unica sede le diverse Facoltà e Istituti. Si concluderà in questo modo una tappa significativa del cammino formativo della Congregazione.

Capitolo XXVI.

LE MISSIONI SALESIANE DAL 1910 AL 1965.

Tra il 1910 e il 1965, l'attività missionaria salesiana si sviluppò sia nelle missioni loro affidate direttamente dalla Santa Sede (prefetture e vicariati apostolici, prelature nullius e anche diocesi dipendenti dalla S. Congregazione de Propaganda Ride), sia nei paesi lontani, tradizionalmente chiamati paesi di missione fino al concilio Vaticano II. Ne sono prova le numerose spedizioni missionarie che si succedettero in quel periodo. Soltanto durante le due guerre mondiali vi fu un'eclissi ben comprensibile. Le forze impegnate dalla Società salesiana nelle missioni aumentarono in tal modo che essa diventò la seconda Congregazione missionaria della Chiesa. Anche l'Istituto delle Figlie di Maria Ausiliatrice compì, nello stesso tempo, uno sforzo impressionante. Nelle due congregazioni, il reclutamento, inizialmente del tutto italiano, è diventato sempre più internazionale.

Intanto, l'ideale missionario si orientava verso nuovi terre da evangelizzare. L'estremo sud del continente americano, infatti, con la diminuzione rapida degli Indi e l'arrivo di nuovi immigranti, perdeva a poco a poco la propria attrattiva missionaria. La Patagonia e la Terra del Fuoco cessavano anzi di essere «missioni» per diventare totalmente diocesi argentine e cilene: Viedma nel 1934, Punta Arenas nel 1947 e Rio Gallegos nel 1961. D'ora innanzi, l'ideale apostolico della Famiglia salesiana si portava verso nuovi orizzonti in America, in Africa e nell'Oriente.

Missioni indigene nel Brasile.

In Brasile, i quattro territori di missione affidati in quel periodo dalla Santa Sede alla Società salesiana erano situati nelle vaste zone dell'«inferno verde»: Mato Grosso e bacino dell'Amazzonia. Nel Mato Grosso, la Santa Sede innalzava alla dignità episcopale l'ispettore salesiano, Antonio Malan, e gli affidava nel 1914 la prelatura di Registro do Araguaia. Quando, nel 1924, mons. Malan fu fatto vescovo di Pettorina, la prelatura ebbe come amministratore apostolico, dal 1925 al 1936, mons. Jean-Baptiste Couturon. Non mancarono le crisi né gli atti di violenza. Il primo novembre 1934, furono massacrati due missionari salesiani, lo svizzero Johann Fuchs ed il brasiliano Pedro Sacilotti. Nel campo scientifico, alcuni studiosi salesiani del Mato Grosso hanno creato a Campo Grande un ricco museo etnografico e pubblicato varie opere di valore, in particolare sulla lingua e la cultura dei Bororos e dei Xavantes. A partire dal 1956, la sede della prelatura veniva spostata a Guiratinga.

La prima missione salesiana nell'Amazzonia brasiliana fu quella del Rio Negro, situata ai confini della Colombia e del Venezuela. Fu affidata ai figli di don Bosco nel 1914, su richiesta del vescovo di Manaus, dalla S. Congregazione della Propaganda, che nominò primo prefetto apostolico mons. Giordano. Don Balzola, un veterano del Mato Grosso, fu incaricato di andare ad esplorare il terreno. Il suo arrivo a Sào Gabriel de Uaupés, centro della regione, nel maggio 1915, segnava l'inizio dell'attività missionaria. Sotto la direzione di mons. Massa, superiore della missione a partire dal 1921, si aprirono vari centri di civiltà cristiana. Nel 1925, la prefettura veniva elevata al grado di prelatura nullius. Nel 1962, essa contava 17 collegi o patronati, 8 ospedali e 16 dispensari, 8 chiese parrocchiali e un centinaio di cappelle. Circa 300 catechisti aiutavano i missionari. I centri missionari erano collegati tra loro e con Manaus da un servizio fluviale e da due linee aeree. Nel 1926, i Salesiani accettarono anche la missione di Porto Velho, sull'alto Madeira, tra gli Stati Amazonas e Mato Grosso. Primo incaricato della prelatura fu mons. Massa, già prelato del Rio Negro. Grande come l'Italia, questa regione è stata definita la zona più malsana del mondo. Una delle prime preoccupazioni dei missionari, specialmente di don Nicoletti, fu di costruire un ospedale a Porto Velho, oltre che la cattedrale, e due collegi per ragazzi e ragazze. Nel 1946 mons. Costa fu nominato primo prelato di Porto Velho. Tra le realizzazioni più influenti è da ritenere la «Radio Caiari». Nel 1961, la Santa Sede staccava dalla prelatura di Porto Velho una regione vasta come un terzo dell'Italia, erigendo la prelatura di Humaità, sul rio Madeira. Era costituita all'inizio soltanto da due parrocchie. Al primo prelato, mons. Domitrovitsch, che ne prese possesso nel 1961, succedette un anno dopo mons. D'Aversa.

Missioni indigene in altri paesi dell'America.

Nell'Ecuador, per molti anni, il vicariato apostolico di Méndez e Gualaquiza aveva dato l'impressione di ristagnare, tanto più che il suo titolare, mons. Costamagna, si era trovato nell'impossibilità di assumerne la responsabilità. Soltanto nel 1914 egli ottenne dal governo il permesso di entrare in Ecuador. Dopo una breve sosta a Cuenca, fissò la propria residenza a Sigsig, andò a visitare Gualaquiza e aprì una nuova missione a Indanza. Nel 1918 lasciò il posto al suo successore, mons. Comin. L'arrivo nel 1925 di un gruppetto di Figlie di Maria Ausiliatrice con a capo suor Maria Troncarti, segnò l'inizio di un nuovo periodo, specialmente nell'educazione delle ragazze e la cura dei malati. Nel 1951 furono cambiati i confini del vicariato, che conservò soltanto il nome di Méndez. Quando morì mons. Comin nel 1963, la missione contava 12 centri, un centinaio di piccole scuole elementari, piccole cooperative agricole, strade, campi di aviazione, piccole centrali elettriche. Un prezioso materiale etnografico era raccolto nel museo della casa di Cuenca. Nel Paraguay, mons. Bogarin, vescovo di Asunción, pensò di affidare la missione del Chaco ai Salesiani nel 1917. L'anno seguente, la Santa Sede approvò l'iniziativa del vescovo. La spedizione salesiana, guidata dal padre Sosa, stabilì la prima residenza nell'isola di Napegue sul Paraguay. Quando don Sosa fu nominato primo vescovo di Concepción nel 1931, rimase sul posto don Farina, che svolse il suo apostolato nei centri situati lungo l'alto Paraguay. Nel 1943, il primo congresso eucaristico del Chaco fu organizzato a Pinasco. Nel 1948, la missione fu elevata a vicariato apostolico e affidata a mons. Muzzolon. I primi contatti con gli Indi Moros ebbero luogo solo nel 1960. Anche in Venezuela, i Salesiani accettarono nel 1932 la prefettura apostolica dell'alto Orinoco, il cui centro è Puerto Ayacucho. I figli di don Bosco arrivarono sul posto nel 1933, con il primo prefetto, mons. De

Ferrari, già ispettore del Venezuela. Le Figlie di Maria Ausiliatrice seguirono nel 1940. Nel 1953, la prefettura diventò un vicariato apostolico, con a capo mons. Garda, ri quale sviluppò i centri missionari e le scuole. Nel 1958 organizzò una spedizione all'alto Orinoco per stabilire nuovi centri tra le tribù indie, in particolare tra quelle dei Guaicas (o Yanomami). Il lavoro salesiano tra la popolazione Kekchi al nord del Guatemala, nel dipartimento di Alta Verapaz, cominciò nel 1935, quando il P. Schmitz prese possesso della parrocchia centrale di San Pedro Cardia. Nel 1939, don Ricaldone firmava il decreto di erezione dell'opera salesiana di Carchà, di cui il nuovo parroco era don Dini. Nel Messico, i Salesiani arrivarono nella regione dei Mixes nel 1962. La loro prima parrocchia fu Tlahuitoltepec. Nel 1964, la missione fu elevata a prelatura e il primo amministratore sarà nel 1966 il Salesiano mons. Braulio Sànchez. Nel 1964 fu creata anche la prefettura apostolica di Ariari in Colombia e il primo prefetto fu mons. Jesus Coronado, già direttore dell'istituto tecnico di Bucaramanga. Il centro della missione era fissato a Granada. La prima sollecitudine del prefetto fu quella di sistemare le parrocchie e di costruire scuole per la gioventù.

Nelle Antille.

La prima presenza salesiana nelle Antille fu iniziata nel 1897 nell'isola olandese di Curacao, seguita nel 1901 da un'altra nell'isola di Giamaica, ma queste fondazioni non durarono molto. Nel 1917, i Salesiani arrivarono nell'isola di Cuba, nella parrocchia di Camaguey. Nel 1921 iniziarono un'opera a Santiago e nel 1934 furono insediati nella capitale L'Avana.

Nel 1934 fu don Pittini a recarsi per la prima volta nella Repubblica Dominicana per la fondazione di un collegio nella capitale Santo Domingo. Alla fine dell'anno seguente, il collegio Don Bosco era pronto e cominciò a funzionare, prima con i corsi inferiori, poi con una scuola professionale. Sorsero anche un oratorio e una grande chiesa. Nel 1940, fu iniziata una scuola agricola a Moca, e accanto eretto il tempio nazionale al Sacro Cuore di Gesù. Nel 1945 si acquistò in Jarabacoa un terreno per costruirvi un aspirantato. A Haiti, fu il P. Gimbert, ex ispettore di Lione, ad essere chiamato a fondare un'opera nella capitale Port-au-Prince nel 1935. Un aspirantato fu fondato nel 1950 a Pétionville. A Porto Rico, l'opera salesiana iniziò nel 1947 a Santurce, con parrocchia, oratorio e scuola elementare.

Presenze e missione in Africa.

«Che bel giorno sarà, quando i missionari Salesiani del Congo daranno la mano a quelli dell'Africa del nord!». Quest'esclamazione attribuita a don Bosco non è molto lontana dalla realtà, quale poteva essere contemplata dai suoi successori. Nelle colonie francesi dell'Africa del nord, l'attività salesiana, esercitata con successo tra la popolazione europea con scuole, oratori e parrocchie, rimase bloccata all'inizio del Novecento dopo la soppressione delle congregazioni in Francia. Il lavoro riprenderà negli anni venti, tanto che nel 1926 si istituiva una «visitatoria» (quasi ispettoria) per la Tunisia, con le case di Algeri, La Manouba, La Marsa, Orano e Tunisi. Nel 1929 si poteva anche iniziare una prima presenza a Casablanca, nel Marocco. A cominciare dal 1960, gli avvenimenti della decolonizzazione furono fatali a queste opere e si tentò allora di sviluppare nuove forme di presenze. Nell'Africa centrale, la prima presenza missionaria salesiana fu nella provincia del Katanga, a sud del Congo, nel 1911. Nel piccolo centro di provincia che era allora Elisabethville, futura Lubumbashi, i primi missionari, venuti dal Belgio, crearono un embrione di scuola profes

sionale. Il P. Sak, loro direttore, visitava i villaggi dei dintorni, in cerca di eventuali alunni. Nuovi centri spuntavano a Kiniama e a La Kafubu. A cominciare dal 1925, data dell'erezione della prefettura apostolica dell’Alto Luapula, la missione si organizzava con metodo sotto l'impulso di mons. Sak. Innalzata al rango di vicariato apostolico nel 1939, diventava vent'anni dopo la diocesi di Sakania. Partiti dal Katanga, alcuni missionari sono entrati anche nei paesi vicini del Rwanda e del Burundi. Nel Rwanda, aprirono una scuola professionale a Kigali. Il loro ingresso nel Burundi è contemporaneo alla fondazione, nel 1962, di un collegio a Ngozi. Nel 1959 poteva nascere la prima ispettoria salesiana d'Africa, la quale comprendeva già una ventina di opere. Un anno dopo, essa apriva già a Kansebula una casa di noviziato e di studi filosofici. Nell'Africa equatoriale, i primi Salesiani, venuti dalla Francia, hanno assunto nel 1959 la responsabilità di una scuola professionale a Pointe-Noire, nel Congo-Brazzaville, e nel 1964 di un seminario e di una parrocchia a Sindara, nel Gabon. Al sud del continente, i Salesiani dell'ispettoria anglo-irlandese avevano trasformato la lontana e difficile fondazione del Capo in una delle migliori scuole professionali del paese. Oltre ai centri di educazione per Europei aperti a Lansdowne (1932), a Daleside (1949), e a Johannesburg (1952) nell'Africa del sud, essi iniziarono una scuola per Africani a Bremersdorp, nello Swaziland. Nel 1959, l'apertura di un noviziato a Daleside era un buon auspicio per il futuro.

Presenze nel Medio Oriente.

Passiamo in Asia, fermandoci prima nella straordinaria ispettoria del Medio Oriente, già costituita nel 1902. Dopo le prime fondazioni del periodo di don Rua, nuovi insediamenti si sparsero su tre continenti, tra cui Cairo (Rod el Farag) in Egitto (1925), Teheran in (1937), Aleppo in Siria (1948), e El Houssoun in Libano (1957). I problemi erano incredibilmente complessi, data la diversità di lingua, di religione, di riti, senza parlare dei contrasti politici. Inizialmente, alcune di queste opere erano scuole per le colonie italiane residenti nel Medio Oriente. A poco a poco esse si sono aperte ad altri gruppi ed anche ad altre religioni. In occasione della sua visita nel dicembre del 1954, don Ziggiotti si felicitava del carattere «ecumenico» delle istituzioni salesiane. Nella casa di Teheran, poteva contare non meno di dodici religioni o riti diversi, mentre i cattolici erano in minoranza.

Missioni in India, Birmania e Sri Lanka.

Dopo l'America del Sud, fu presto l'India a detenere il primato nel numero di missioni salesiane. Quindici anni dopo aver iniziato, nel 1906, sulla costa sudorientale, l'attività salesiana si spostò in una regione totalmente diversa, situata ai confini del Tibet e della Birmania, l'Assam. Fino al 1915, la prefettura apostolica dell’Assam era nelle mani di Salvatoriani tedeschi, che ne erano i veri fondatori. Quando essi furono allontanati durante la guerra per motivi politici, la S. Congregazione de Propaganda Ride pensò di rivolgersi ai Salesiani. Nonostante le gravi difficoltà di personale, nel 1921 don Albera cedette alle insistenze. L'anno seguente, il giorno dell'Epifania, undici Salesiani sbarcavano a Bombay, guidati da don Louis Mathias, un grande realizzatore, futuro «Cagherò dell'India». Si stabilirono a Shillong ed incominciarono il loro apostolato tra i Khasi, di cui si conquistarono rapidamente la simpatia. Mons. Mathias, diventato prefetto apostolico nel 1923, moltiplicava i centri di missione. Fedele al suo motto Aude et spera, creava senza indugio un noviziato, facendo venire delle reclute dall'Italia per unirle ai primi Salesiani indiani. L'attività dei missionari non si limitava a Shillong e all'Assam. Grazie alla benevolenza manifestata verso di loro dall'arcivescovo gesuita di Calcutta, mons. Périer, essi poterono fare il loro ingresso nella metropoli del Bengala, dove assumevano la cura della parrocchia della cattedrale ed ereditavano l'ex tipografia dei Gesuiti. Il 1928 fu un anno importante, quando a Bombay, «porta dell'India», i Salesiani presero la direzione di un istituto fondato da un sacerdote goanese. Nuove prospettive si aprivano ancora con la decisione romana di affidare a ve

scovi salesiani la diocesi di Krishnagar e l'archidiocesi di Madras. Don Bars fu nominato amministratore apostolico della prima, mentre l'importante sede di Madras fu occupata da don Méderlet. Intanto in Assam, tra le popolazioni Khasi, Naga, Garo, Megir e Adibasi, ben disposte verso il cristianesimo, la situazione migliorava, al punto che si parlava di una «nuova Pentecoste» in quella regione. Nuovi sviluppi si profilarono dal 1934. Di ritorno dalle feste per la canonizzazione di don Bosco, mons. Mathias fu eletto vescovo di Shillong, ormai eretta in diocesi, mentre alla diocesi di Krishnagar era destinato uno dei suoi collaboratori, mons. Ferrando. Un anno dopo, essendo la sede di Madras divenuta vacante per la morte inattesa di mons. Méderlet, mons. Mathias fu nominato arcivescovo di quella città. Negli anni seguenti, nuovi mutamenti stavano per interessare l'organizzazione ecclesiastica delle regioni affidate ai Salesiani. La diocesi di Shillong, troppo vasta, presentava inoltre un aumento così sensibile del numero dei cattolici che Roma decideva di scinderla in due. Nel 1951, fu eretta la nuova diocesi di Dibrugarh, che comprendeva la parte orientale dell'Assam, di cui il primo vescovo fu mons. Marengo. Anche a Madras, un anno dopo, l'archidiocesi subiva una riorganizzazione: mentre l'antica sede di Mylapore era unita a quella di Madras, ne veniva staccata Vellore, dove fu insediato il primo vescovo salesiano d'origine indiana, mons. Mariaselvam. In capo ad un periodo di tempo relativamente breve, era la quinta diocesi missionaria affidata ai Salesiani in India. Intanto, si creavano le prime ispettorie indiane: nel 1926 quella di Calcutta per il nord, nel 1934 quella di Madras per il sud, e quella di Gauhati (Guwahati) nel 1959 per il nord-est. Il numero delle vocazioni indiane era un fenomeno particolarmente incoraggiante per il futuro. A Guwahati, mons. Ferrando fondò anche la Congregazione locale delle «Suore missionarie di Maria Ausiliatrice». Dall'India, l'opera salesiana raggiunse paesi vicini. Don Pianazzi, ispettore di Madras, chiese al P. Rémery di portare l'opera di don Bosco nell'isola di Ceylon (Sri Lanka). Dopo un breve inizio in Colombo, una scuola tecnica fu insediata nel 1962 a Negombo. Da parte sua,

l'ispettoria di Calcutta si allargava verso la Birmania, dove i Salesiani erano giunti nel 1937 per occuparsi di un orfanotrofio a Mandalay. Essi si prodigarono poi con zelo per trovarvi vocazioni, creando a questo scopo un aspirantato a Anisakan nel 1957. In precedenza, erano giunti anche nella capitale Rangoon.

Cina, Filippine, Vietnam e Timor.

In contrasto con l'espansione quasi regolare delle missioni in India, l'attività dei Salesiani in Cina ebbe una storia agitata. Gli avvenimenti politici di cui questo paese è stato teatro dall'inizio del secolo, non potevano non ripercuotersi sul lavoro dei missionari. Dopo il loro arrivo nella città portoghese di Macao nel 1906, un primo contrattempo si ebbe con la rivoluzione portoghese del 1910, che li allontanò per qualche tempo dal loro primo campo di lavoro. Tuttavia, grazie a questa contrarietà, era stato possibile stabilirsi in territorio cinese, nella regione di Heung-Shan, tra Macao e Canton. Là, don Luigi Versiglia e don Ludovic Olive si prodigarono al limite delle loro possibilità, sforzandosi di creare piccole comunità di cristiani in alcuni luoghi. Curavano attentamente la formazione di catechisti e tentavano di suscitare nel paese una specie di Azione Cattolica. I Salesiani lavorarono nella missione di Heung-Shan fino al 1928, data in cui furono sostituiti dai Gesuiti. Ma fin dal 1917, la Santa Sede aveva affidato alla Congregazione la nuova missione di Shiu-Chow, a nord di Canton. Eretta in vicariato apostolico nel 1920, venne affidata al suo primo vescovo, mons. Versiglia. Su questo nuovo territorio, videro la luce molte realizzazioni: residenze missionarie, chiese e cappelle, scuole maschili e femminili, e in particolare, due scuole magistrali ben attrezzate e un seminario per vocazioni. Ma il 25 febbraio 1930,

durante un giro nei dintorni di Sui-Pin, mons. Versiglia fu assalito da una banda di pirati e assassinato, insieme al suo compagno, don Callisto Caravario. La successione fu assicurata da mons. Canazei. Per aiutare l'opera di evangelizzazione, questi fondò nel 1936 l'istituto delle «Suore annunziatrici del Signore». Lo scoppio della guerra cino-giapponese nel 1937 segnò l'inizio di un periodo molto difficile per le missioni. Tali difficoltà si protrassero fino al 1945, anno in cui l'attività missionaria riprese con maggior vigore in tutta la Chiesa cinese. Il vicariato di Shiu-Chow, eretto in diocesi, riceveva nel 1948 il nuovo vescovo, mons. Arduino. Intanto, nell'ottobre del 1946, entusiasmati per la realizzazione di un sogno di don Bosco, i primi Salesiani erano giunti a Pechino. L'ottimismo fu di breve durata. Le truppe comuniste s'impadronirono a poco a poco di tutto il territorio. Nel 1949, la proclamazione della Repubblica popolare annunciava la fine delle missioni in questo paese. Si assistette alla paralisi progressiva di tutte le istituzioni cattoliche e ad una persecuzione religiosa spesso spietata. Nel 1954, nella Cina comunista rimanevano soltanto ventun salesiani, tra cui nessuno straniero. Una parte dei Salesiani si ripiegò su Hong Kong, dove si potè assistere ad una fioritura di opere salesiane. Venendo dalla Cina, alcuni missionari furono mandati dall'ispettore don Braga nelle isole Filippine. Nel 1951, essi iniziarono in una scuola esistente a Tarlac. Nell'arco di pochi anni, sorsero anche le scuole di Victorias, Mandaluyong, Cebu, Makati e Pampanga. Altri Salesiani entrarono nel nord del Vietnam, ma l'opera salesiana dovette presto essere trapiantata nel sud dopo la rivoluzione comunista del 1954. Già nel 1955 funzionava una buona scuola professionale a Go-Vap. I Salesiani ottenevano rapidamente risultati sul piano delle vo

cazioni grazie all'aspirantato di Thu-Duc, aperto nel 1955, e al noviziato di Tram-Hanh, sorto nel 1962. Citiamo qui ancora le prime fondazioni nell'isola portoghese di Timor. Un primo tentativo, fatto a Dili nel 1927 con una scuola di arti e mestieri, fu di breve durata. I Salesiani ritornarono a Dili nel 1946 e aprirono in seguito altri centri di educazione.

La missione thailandese (1927).

I primi Salesiani giunsero nel antico Siam (poi Thailandia) nel 1927 da Macao, guidati da don Ricaldone, allora prefetto generale in visita nell'Estremo Oriente. Due anni dopo, don Pasotti diventava il superiore della missione di Ratburi. Si trattava di un'immensa striscia di territorio lunga 1.435 chilometri, che correva verso sud-ovest lungo tutta la penisola. Gli oratori e le scuole attiravano senza distinzione buddisti e cristiani. Nel 1934, la Santa Sede elevava la missione a prefettura apostolica sotto la giurisdizione di mons. Pasotti. Il suo centro, fissato per qualche tempo a Ratburi, fu trasferito poi a Bang-Nok-Khuek. Per aiutare l'opera d'evangelizzazione, mons. Pasotti fondò la Congregazione delle «Suore ancelle del Cuore immacolato di Maria». Nel 1937, i Salesiani avevano raggiunto il numero di 90, di cui 12 Siamesi. In quello stesso anno fu creata l'ispettoria siamese e fu eletto ispettore don Casetta. Il collegio di Ban-Pong contava 400 alunni. In linea generale, la scuola doveva rivelarsi l'opera più adatta al paese e la più stimata. Lo scoppio della guerra portò difficoltà, persecuzioni, arresto dell'attività. Nel 1941, in segreto, mons. Pasotti fu ordinato vescovo, riunendo in sé gli incarichi di vicario apostolico di Ratburi, di delegato apostolico per la Thailandia e di amministratore apostolico per il Laos. Dopo l'uragano della guerra, l'opera riprese con vigore, anche nella ca

pitale Bangkok, dove nel 1947 fu iniziata una grande scuola tecnica. Nel 1951, il vicariato venne affidato ad un nuovo pastore nella persona di mons. Pietro Carretto. E nel 1954, don Carlo Della Torre fondò a Bangkok l'istituto secolare delle «Figlie della Regalità di Maria Immacolata» per la pastorale giovanile.

Inizi in Giappone (1926) e in Korea (1955).

I primi Salesiani giunsero in Giappone nel 1926 ed il loro apostolato ebbe inizio nell'isola di Kyushu, a Miyazaki, Nakatsu e Oita. A capo del gruppo si trovava don Vincenzo Cimatti, figura attraente di missionario, che don Ziggiotti considerava come il tipo più completo di Salesiano che gli fosse stato concesso di conoscere. Semplice, gioviale, attivo, don Cimatti era anche un musico di valore che sapeva servirsi della sua arte per l'apostolato. Nel 1928, le provincie civili di Miyazaki e Oita furono erette in territorio di missione e affidate ai Salesiani. La nuova missione diventava nel 1935 una prefettura apostolica, alla cui direzione fu nominato don Cimatti. Nel 1937, don Antonio Cavoli fondò le «Suore della Carità di Miyazaki». Durante la guerra, che vide tutti i superiori di missione stranieri sostituiti da Giapponesi, egli lasciava il suo posto e consacrava tutte le sue cure all'ispettoria S. Francesco Saverio, creata nel 1937. L'opera salesiana, che era nata a Kyushu, saliva verso il nord. Dal 1933 era presente a Tokyo, ed entrava in Osaka nel 1949. L'attività dei Salesiani si esercitava soprattutto negli oratori, nelle parrocchie (grandi chiese sono state costruite a Beppu, Oita e Tokyo) e nelle scuole. Si aggiunga a questo un interessante sforzo nel campo della stampa cristiana, culminato, nel 1965, con la traduzione della Bibbia nella lingua parlata, ad opera di don Barbaro. Vocazioni salesiane sono state accolte nel noviziato e nello studentato aperti a Tokyo-Chofu. I Salesiani dell'impero del Sol levante si sono lasciati tentare, nel 1955, dal paese del «mattino calmo», la Korea. Invitati e aiutati da mons. Henry, vicario apostolico nella Korea del sud, poterono creare una

scuola a Kwang-Ju. In pochi anni, essa raggiunse vaste proporzioni, con 1.400 alunni, quasi tutti non cristiani. Aderendo alle insistenze di mons. To, arcivescovo di Seoul, i Salesiani accettarono inoltre una parrocchia popolare nei sobborghi della capitale.

Australia (1922).

È doveroso accennare infine alle opere d'Australia iniziate dopo la prima guerra mondiale. Dal 1922 al 1927, i Salesiani amministrarono, nella persona di mons. Coppo, il vicariato apostolico di Kimberley, nella parte ovest del continente, sostituendo per qualche tempo i missionari di nazionalità tedesca. Grazie ai rinforzi di Salesiani giunti dagli Stati Uniti, nel 1927 poteva essere fondata una scuola agricola a Sunbury. Nel 1940, nasceva a Melbourne un Don Bosco Boys' Club and Hostel, e nel 1943 una Boys' Town ad Adelaide ed una ad Engadine nel 1952. Il centro dell'opera australiana era stato fissato a Chadstone, dove risiedeva dal 1958 un ispettore d'Australia.

Conclusione.

Il periodo che va dal 1910 al 1965 può essere considerato il periodo classico dell'espansione missionaria salesiana. L'ideale missionario, che non ha mai cessato di animare la Famiglia salesiana, ha conosciuto una vitalità particolarmente forte negli anni 1923-1939. Classico rimase anche il metodo di evangelizzazione. Fedeli alle consegne di don Bosco, i Salesiani e le Figlie di Maria Ausiliatrice, secondo un'espressione di don Auffray, «hanno puntato dritti sulla gioventù». Questo indirizzo si può verificare non soltanto negli oratori, nelle scuole, negli ospizi, ma anche nelle parrocchie e nelle residenze missionarie. Per entrare in contatto con i ragazzi e i giovani, facevano leva sulle relazioni d'amicizia, i giochi, gli svaghi, la musica. Si occupavano anche della formazione scolastica, professionale ed agricola, contribuendo così all'opera di progresso iniziata nei paesi in via di sviluppo. Dopo pochi anni, erano generalmente circondati da una popola

zione che li amava ed in cui si era creato un nucleo di giovani cristiani che costituiva una promessa per il futuro. Pratici più che teorici, abili e fervorosi, i missionari salesiani si sono lanciati nell'azione educativa, religiosa e sociale, cercando secondo le loro possibilità di adattare alle condizioni delle nuove popolazioni che incontravano i principi imparati in Europa. In alcuni paesi è stato rilevante il contributo che essi hanno dato anche nel campo della cultura scientifica e religiosa. Don Alessandro Stefanelli fu il fondatore in Patagonia di una rete di osservatori meteorologici, costruttore di un canale idrico a Patagones, di una centrifuga per l'irrigazione e di macchine agricole a General Roca, mentre don Alberto De Agostini allo stesso tempo missionario, si distinse come geografo, esploratore e fotografo della Terra del Fuoco e delle Ande Magellaniche. Con l'avvento di una coscienza più universale e di una riflessione teologica approfondita alla luce del concilio Vaticano II, si aprirà poi un nuovo periodo nella storia dell'evangelizzazione dei popoli.

Capitolo XXVII.

PERSECUZIONI E MARTIRIO.

Nel 1896, i Salesiani furono espulsi dall'Ecuador. All'inizio del ventesimo secolo, subirono gravi danni in Francia. Nel 1910, il Portogallo li allontanò da tutti i propri territori. Non si può quindi affermare che le persecuzioni siano un fatto nuovo nella storia salesiana. È vero però che i totalitarismi, le guerre ed i torbidi che si sono succeduti a partire dagli anni 1930 hanno avuto ripercussioni ben più drammatiche. In molti paesi del globo, si sono accesi focolai di guerra, di violenze inumane e di settarismo antireligioso, che hanno inflitto all'opera salesiana perdite rilevanti e causato numerose vittime nella famiglia di don Bosco. Alcune di esse hanno subito un vero martirio.

In Cina, un calice pieno di sangue (1930).

Nel 1930, la missione di Shiu-Chow, affidata ai Salesiani nel 1918, aveva fatto progressi notevoli sotto la guida di mons. Luigi Versiglia. Al centro della missione erano sorti un orfanotrofio con annessa chiesa, una casa per la formazione delle catechiste diretta dalle Figlie di Maria Ausiliatrice, una scuola professionale e magistrale con l'annessa chiesa del Sacro Cuore che fungeva da cattedrale, un istituto Maria Ausiliatrice, una scuola per catechisti e diverse opere sociali. Il Vicariato apostolico contava 15 stazioni missionarie con residenza fissa del missionario e 40 stazioni secondarie, 11 chiese e 23 scuole. Il personale della missione era costituito da 19 sacerdoti esteri e due cinesi, 10 Suore estere e 15 cinesi, 25 seminaristi e un certo numero di catechisti e catechiste. I cattolici erano circa tre mila.

La provincia di Shiu-Chow viveva in quegli anni eventi caotici. L'infiltrazione comunista sostenuta da Stalin aveva persuaso il governo cinese a dichiarare i comunisti fuori legge. La guerra civile e il brigantaggio rendevano tutta la zona insicura. Gli Europei erano odiati per il loro passato coloniale, ma la povera gente amava i missionari che offrivano loro aiuto e rifugio nei momenti di emergenza. I nemici più temibili erano i pirati e i soldati comunisti, per i quali la distruzione del cristianesimo faceva parte del programma. Il 24 febbraio 1930, mons. Versiglia partiva da Shiu-Chow con don Callisto Caravario per visitare la missione di Lin-Chow, la più lontana dal centro. Con i due missionari viaggiavano due giovani maestri, le loro due sorelle, e un'altra giovane catechista. Passata la notte seguente nella missione di Lin-Kong-How, dove si aggiunsero alla comitiva un ragazzo e un'anziana catechista, tutti salirono su una barca cinese. A mezzogiorno del 25 febbraio la barca fu arrestata da una decina di uomini decisi a portar via le giovani. Alcuni pirati salirono sulla barca, percossero i missionari sulle braccia, protese in atto di difesa, sul petto e sulle spalle, per aprirsi un varco ed entrare nella barca. Poi li fecero scendere a terra, li legarono insieme e li portarono in un bosco di bambù. A un ordine dei pirati, mons. Versiglia e don Caravario furono condotti lungo il corso di un fiumicello fino a Li Tau Tsui, dove furono uccisi con cinque colpi di fucile. La morte violenta di questi due missionari fu immediatamente messa in relazione con una parola attribuita a don Bosco a proposito della Cina. Infatti, quando don Versiglia era partito per la Cina il 20 giugno 1918 con un gruppo di missionari, don Albera aveva consegnato loro in dono un prezioso calice. Appena arrivato in Cina, don Versiglia scrisse una lettera al Rettor maggiore, in cui diceva tra l'altro: «Il Venerabile nostro padre don Bosco quando sognò della Cina vide due calici pieni di sudore e di sangue dei suoi figli. Faccia il Signore che io possa restituire ai miei Superiori e alla nostra Pia Società il calice offertomi, ma che sia ripieno, se non del mio sangue, almeno del mio sudore!» In realtà, dodici anni dopo si potè costatare che i due fatti si erano verificati nella vita e nella morte dei due «protomartiri salesiani».

Durante la guerra civile in Spagna (1936-1939).

La spaventosa guerra civile che insanguinò la Spagna dal 1936 al 1939, e che si sarebbe ripercossa in tutta l'Europa, fu accompagnata da una persecuzione religiosa estremamente violenta. Infatti dopo la caduta della monarchia nel 1931, si manifestò un'ostilità sempre più aperta contro la Chiesa, accusata di essere nemica del popolo. Già nel maggio di quell'anno, durante la «quema de los conventos», rimasero preda delle fiamme 107 edifici religiosi, tra cui le case salesiane di Alicante e di Campello. Poi la guerra civile che scoppiò il 17 luglio 1936 provocò innumerevoli massacri che decimarono le file del clero e delle congregazioni religiose. Il solo numero delle vittime dà un'idea dell'orrore di ciò che è avvenuto: in tre anni, la Chiesa di Spagna perse circa 4.200 membri del clero secolare, tra cui 12 vescovi, 2.300 religiosi, 280 religiose e migliaia di fedeli laici impegnati. Si aggiungano a questo la distruzione e la profanazione di moltissimi edifici religiosi. Anche la Famiglia salesiana pagò un tributo di sangue. Una statistica pubblicata nel 1964 faceva salire a 97 le vittime salesiane, tra cui 39 sacerdoti, 22 chierici, 26 coadiutori, 2 Figlie di Maria Ausiliatrice, 3 aspiranti, 3 Cooperatori e 2 impiegati. Circa 350 religiosi furono gettati in carcere. La sorte toccata alle case fu varia, ma molte furono o incendiate, o saccheggiate, o trasformate in caserme, in ospedali oppure in prigioni. Di solito, gli elementi rivoluzionari fondavano la legittimità dei loro attacchi contro le congregazioni su due grandi capi d'accusa: i religiosi fanno politica e nascondono armi nei loro conventi. L'idea dei con

venti-arsenali era piuttosto ridicola, soprattutto nel caso specifico degli istituti salesiani aperti a tutti. Eppure, aveva credito. È vero che ad Alicante, gli assalitori avevano scoperto una specie di cannone che serviva all'oratorio da distributore automatico di caramelle. All'accusa lanciata contro di loro di essere nemici del popolo e della classe operaia, i Salesiani replicavano talvolta con fierezza. Sono noti, a questo proposito, alcuni scambi di frasi significative: «Voi conoscete il nostro collegio, diceva ai rivoluzionari il direttore della casa di Valencia, e sapete quanti sono i ragazzi poveri che qui ricevono un'istruzione gratuita. Avete certamente un ideale.» La risposta fu soltanto: «Noi facciamo ciò che ci viene detto di fare». Il direttore salesiano di Sant Vicenc dels Horts ebbe una conversazione analoga con il giovane capo della pattuglia venuta a «visitare» la casa. Costui chiese di vedere gli alunni. Era l'ora del riposo ed essi erano in camera. L'irruzione dei miliziani armati fu causa di comprensibile panico. La visita ebbe però un effetto benefico. L'attaccamento evidente degli alunni ai loro maestri e la povertà che regnava nella casa impressionarono favorevolmente i rivoluzionari. Quel giorno, niente accadde. I Salesiani ricevettero soltanto l'ordine di far scomparire tutti gli oggetti di culto e fu loro vietato di parlare di religione. Non mancano le testimonianze che dimostrano l'esistenza di una parvenza di simpatia tra i Salesiani e i «rossi». Il coadiutore Jaime Ortiz di Barcellona, ammettendo la propria condizione di religioso, spiegò che la sua missione era quella di educare la gioventù operaia. Gli fu risposto, in un tono che tradiva l'imbarazzo, che faceva molto bene. A Cadice, risparmiarono il collegio salesiano perché ospitava i figli di molti di loro. La casa di Utrera, la più antica delle case di Spagna, sfuggì al brutto destino che le era riservato grazie ad un'idea molto democratica del suo direttore che invitò a tavola persone di tutte le tinte, compresi i malintenzionati. Non si deve però esagerare l'importanza di questi fatti. In linea di massima, il religioso salesiano conobbe il trattamento riservato ad ogni cura spagnolo. Nel migliore dei casi, si aveva la clandestinità o la fuga. Durante i primi giorni della rivoluzione, molti Salesiani si videro costretti ad abbandonare le loro case o scuole per sfuggire al pericolo che

li minacciava. A Villena, si salvarono salendo di notte sui tetti delle case per rifugiarsi infine nell'abitazione di un Cooperatore. Molti riuscirono in questo modo a nascondersi presso amici che li ospitavano con pericolo della propria vita. Alcuni ruggirono all'estero, soprattutto in Francia, da dove facevano pervenire aiuti ai loro confratelli. Quanto ai religiosi di origine straniera, in gran parte italiani, essi poterono ritornare nel proprio paese. Quelli che non trovavano asilo erano da compiangere. Soli, senza amici, senza mezzi di sussistenza, erravano in mezzo ad una folla scatenata o spaventata. In qualsiasi momento, una pattuglia poteva esigere, pistola in pugno, dei documenti che essi non avevano, il libretto sindacale o un salvacondotto firmato da qualche «comitato locale». «Le case chiudevano loro le porte in faccia; i treni li respingevano; la strada li denunciava». A meno di trovare amici che accettassero di dividere con loro «il pericolo, il pane e il tetto», essi erano ridotti a passare le notti sulle panche dei giardini pubblici. Infine, vi sono quelli che Pio XI avrebbe definito «martiri veri in tutto il sacro e glorioso significato della parola». Ciascuna delle ispettorie salesiane ne ha fornito un certo numero: 33 l'ispettoria di Barcellona, 21 quella di Siviglia e 42 quella di Madrid. Primo di questo lungo elenco, è doveroso collocare l'ispettore di Barcellona, don José Calasanz. Riconosciuto come sacerdote in occasione di un controllo perché portava una veste talare nella valigia, fu invitato un giorno con altri Salesiani a salire su un camion per andare a «fare un giro» verso Valencia. Ad un certo momento, fu udita una detonazione. L'ispettore si era accasciato sulle spalle di un confratello coadiutore inondandolo del suo sangue. Una pallottola, tirata a bruciapelo, gli aveva fracassato il cranio. Neppure le Suore furono risparmiate dall'odio antireligioso. Suor Carmela Moreno e suor Amparo Carbonell, rimaste per curare un'altra suora inferma mentre potevano sfuggire, furono anch'esse massacrate. Il gruppo più numeroso fu quello di Madrid. Dei 42 inclusi nel processo diocesano, 10 erano sacerdoti, 14 religiosi laici, 14 chierici, 2 postulanti, 1 aspirante e 1 operaio. Molti di loro soccombettero nella capitale o nei dintorni; per alcuni non è stato possibile accertare il luogo e il giorno del martirio. La figura più nota era don Enrique Sàiz Aparicio, direttore dello studentato teologico, assassinato il 23 ottobre 1936.

Il gruppo di Siviglia era formato di 21 Salesiani con a capo don Antonio Torrero, direttore del collegio salesiano di Ronda (Malaga). Il 23 luglio del 1936, una turba irruppe violentemente nel collegio, maltrattando i religiosi, profanando e strappando tutto ciò che potevano. Il giorno dopo, questi furono espulsi dalla casa e cominciò il loro martirio, che fu consumato il 28 luglio. A Malaga, il più anziano aveva 69 anni, il più giovane 22. Furono uccisi, quasi tutti per fucilazione, nel periodo che va dal luglio all'ottobre del 1936. Per la maggior parte delle vittime, ignoriamo quasi tutto delle circostanze della morte. Al massimo, quando si aveva la fortuna di ritrovarne il cadavere, si poteva indovinare ciò che era avvenuto. Non era raro il caso in cui si potessero leggere tracce di torture subite prima del colpo finale. Le diagnosi dicevano in generale: emorragia interna, emorragia cerebrale, choc traumatico. Ecco com'è stato possibile immaginare gli ultimi istanti delle vittime salesiane: «Si dava loro la caccia in piena via, o nella casa che serviva loro da rifugio, e di là, senz'altra formalità, erano condotte provvisoriamente nei locali di qualche comitato di quartiere, dove spesso erano torturate. Poi, in una di quelle tragiche «auto della morte», erano condotte fuori città. Là, erano crivellate di pallottole ed abbandonate sul ciglio di un fosso in attesa che le ambulanze venissero il giorno dopo a raccogliere il loro macabro carico». Le rare volte in cui possediamo qualche particolare sul loro comportamento di fronte alla morte, una parola sfuggita dalle loro labbra prima dell'esecuzione, non possiamo non essere colpiti dal coraggio e dal senso cristiano di questi religiosi nel momento supremo. Si racconta di don Sergio Cid che essendo stato pregato di dire chi fosse, rispose con una specie di enfasi: «Sono un sacerdote salesiano». E quando stava per essere fucilato, si diresse verso gli uomini del plotone d'esecuzione per dir loro: «Dio vi perdoni, come io vi perdono di cuore!». I Salesiani spagnoli hanno voluto ottenere la glorificazione dei loro confratelli martirizzati. Dal 1953 al 1957 i tre processi informativi furono costituiti nelle rispettive sedi diocesane, dopodiché la causa dei martiri spagnoli fu introdotta a Roma. Nel 1999, la Congregazione

per le Cause dei Santi pubblicò il decreto sul martirio di 32 martiri salesiani della Spagna.

In Polonia durante la seconda guerra mondiale (1939-1944).

L'invasione della Polonia nel settembre del 1939 fu catastrofica sotto tutti gli aspetti. Essa comportò in breve lo sfacelo del paese e fu anche il punto di partenza di una persecuzione sistematica, diretta in particolare contro gli Ebrei e contro il clero cattolico. Dal 1939 al 1944, le due ispettorie salesiane di Polonia persero quasi novanta religiosi. Sul loro atto di decesso figura generalmente il nome di un campo di concentramento: Dachau, Mauthausen, Auschwitz, Dzialdów, Buchenwald. Là, avevano terminato la loro esistenza nella camera a gas e nel forno crematorio. Talvolta, i mezzi usati dai nazisti furono di diversa natura. Nel mese di ottobre 1939, essi arrestarono, con tutti i sacerdoti del distretto, cinque Salesiani della casa di Aleksandrów Kujawski. Gettati prima in prigione, essi furono poi condotti a piedi fino ad una foresta. Là, nella notte del 17 novembre, i loro guardiani li lasciarono liberi, prima di abbatterli come selvaggina. Nella maggior parte dei casi, non si sa quasi nulla delle circostanze che circondarono la loro morte, se non che questo o quello era scomparso in una data località. Possediamo però testimonianze apparentemente indubitabili sulla morte d'alcuni Salesiani. Sono atroci. Don Giovanni Swierc giunse nel campo di Auschwitz nel giugno del 1941. Fu subito destinato, con un gruppo d'Israeliti, alla famosa compagnia disciplinare, incaricata di torturare le vittime prima di farle morire. Appena arrivato, fu interrogato da parte del comandante del

«blocco della morte», il quale gli chiese la sua professione. «Sono un sacerdote cattolico», rispose. A queste parole, il comandante gli assesta due calci nel ventre e gli flagella il volto con la frusta, tanto che il sangue si mette a colare. Il giorno dopo, Swierc lavora alla fossa dietro la cucina. Là, i colpi gli piovono sul capo e sulle spalle. Un colpo più terribile degli altri gli fa schizzare un occhio fuori dell'orbita. Un altro gli rompe i denti. Deboli gemiti sfuggono dalle sue labbra: «Gesù, misericordia!». Finalmente il carnefice lo afferra e lo scaglia con tutte le sue forze contro la carriola di pietre che spingeva. Lo finisce schiacciandogli la testa con una di queste, mentre un gruppo di guardie sghignazzava contemplando la scena. Il 23 maggio 1940, la Gestapo penetrava nella casa ispettoriale di Cracovia e nello studentato teologico. Furono arrestati dodici Salesiani. Il 27 giugno, quattro di loro furono giustiziati, mentre venivano internati nel campo di eliminazione di Auschwitz gli altri arrestati, tra cui don Józef Kowalski, giovane sacerdote di trent'anni, nominato poco prima segretario dell'ispettore di Cracovia. Vero cappellano del campo, egli riusciva a radunare un gruppo di cristiani, che s'incontravano per la preghiera in un luogo nascosto alle quattro e mezza del mattino. D'altronde, si sapeva che il sacerdote celebrava la messa, confessava e predicava clandestinamente. Si conservano di lui diciannove lettere scritte da lui tra i fili spinati. Un giorno, per divertirsi, i guardiani gettarono i prigionieri nel pozzo nero per annegarli. Kowalski riuscì per caso a risalire di là. Per scherno, gli venne chiesto di benedire gli annegati. Allora, lentamente, pubblicamente, recitò il Pater e l'atto di dolore. Il 4 luglio 1942, un nazista scoprì il suo rosario. «Calpestalo» gli gridò rabbioso. Il sacerdote s'inginocchiò, raccolse il rosario avvicinandolo alle labbra con devozione. Il carnefice n'approfittò per assestargli un terribile calcio in faccia e infierì su di lui finché non sopraggiunse la morte. Il suo corpo, prima gettato nel contenitore degli escrementi, fu poi bruciato nel crematorio del campo. Oltre ai religiosi, persecuzioni e morte toccarono in sorte anche a giovani allievi dei Salesiani. È noto il caso di cinque allievi dell'oratorio di Poznan, arrestati nel settembre 1940 e accusati di far parte di un'organizzazione illegale. Dopo quasi due anni di carcere furono ghigliottinati a Dresda il 24 agosto 1942. Avevano tra 20 e 23 anni. Nel carcere

e fino alla morte avevano mostrato una serenità, umanamente parlando, inspiegabile.

In altri paesi dell'Europa durante la «guerra fredda».

Nell'ex Jugoslavia, occupata durante la guerra dalle truppe naziste e fasciste, le comunità salesiane della Slovenia e della Croazia vissero ore talvolta drammatiche senza interrompere però del tutto l'opera apostolica ed educativa. In alcuni casi furono imprigionati non solo confratelli, ma anche ragazzi ospiti degli istituti. A Ljubljana, suor Luisa Domajnko, direttrice delle Figlie di Maria Ausiliatrice, faceva fronte ai propri impegni con grande coraggio e spirito di fede. Dopo la guerra, cominciarono le perquisizioni, poi le requisizioni e le espropriazioni ordinate dal nuovo governo comunista. Alla fine del 1948 suor Luisa fu incarcerata, sottoposta a interrogatori prolungati, accusata di corrispondenza illegale. Dopo la sua liberazione trovò un lavoro in un ente elettro-industriale, poi in una scuola della città, infine come infermiera, cercando in ogni modo a restare in contatto con le consorelle, che si trovavano in maggior parte presso le rispettive famiglie. In Lituania, nel 1944, i Salesiani erano venticinque, suddivisi in cinque centri. Alcuni furono deportati in Siberia, altri fucilati. Quelli che potevano lasciarono il paese per mettersi a disposizione dei loro compatrioti emigrati, circa un milione dispersi in una quindicina di paesi. I Salesiani lituani aprirono un aspirantato in Venezuela. Un istituto per i figli d'emigrati vide la luce a Castelnuovo Don Bosco, dove si stampava anche il Bollettino salesiano nella loro lingua. Nella ex Cecoslovacchia, la situazione era fiorente prima della guerra. L'ispettoria di Boemia-Moravia e quella di Slovacchia compren

devano allora ventisette case e circa 450 religiosi. In Boemia è noto soprattutto il caso di don Trochta. Fondatore e direttore della casa salesiana di Praga, fu arrestato il 1 giugno 1942, preso come ostaggio dai nazisti, internato prima nel campo di concentramento di Terezin, poi nel campo di sterminio di Mauthausen. Quasi per miracolo e per la solidarietà di qualche medico e di un sacerdote tedesco, sfuggì più volte alla morte. Nel dicembre del 1944 era a Dachau, da dove spediva una lettera il 25 febbraio 1945 in cui ringraziava i confratelli e i parenti e li salutava tutti nel presentimento della morte. Dopo la liberazione del campo, don Trochta tornò a Praga il 23 maggio 1945. Nel 1947, mentre partecipava al Capitolo generale a Torino-Valsalice, gli giunse la notizia della nomina a vescovo di Litomerice. Pochi mesi dopo l'ingresso di mons. Trochta nella sua diocesi, con l'arrivo al potere del partito comunista iniziò una nuova era di persecuzioni. Nel 1950, la sua residenza fu occupata dalla polizia segreta e il vescovo sequestrato in due stanze. Nel 1953 fu arrestato, interrogato e condannato a venticinque anni di prigione per alto tradimento e spionaggio a favore del Vaticano. Nel 1960 fu amnistiato con la condizione di inserirsi nel «processo produttivo del lavoro» e di diventare «un membro utile della società umana». Per qualche tempo lavora in una fabbrica metallurgica a Praga, poi deve sottoporsi a cure per la salute, il che non gli impedisce di fare alcune ordinazioni clandestine in un appartamento privato. Soltanto nel 1968 mons. Trochta potrà tornare a lavorare nella sua diocesi. L'anno seguente Paolo VI lo creerà cardinale in pectore. In Slovacchia, la vita salesiana fu stroncata di colpo. Nella notte dal 13 al 14 aprile 1950, i trecento religiosi, i trenta novizi ed i postulanti furono diretti verso un campo di concentramento. In seguito, un centinaio di loro potè scappare all'estero o nelle missioni. A Roma fu fondato nel 1963 l'Istituto slovacco dei santi Cirillo e Metodio, con la collaborazione di sacerdoti diocesani e religiosi, specialmente per la formazione dei candidati al sacerdozio. Sotto l'egida dell'Istituto fu pubblicato un gran numero di libri religiosi che venivano spediti, per via clandestina, ai fedeli della Slovacchia. Inoltre nel Belgio, i Salesiani aprirono una scuola professionale per i figli degli emigrati.

Stabilitisi in Ungheria dal 1913, i Salesiani erano in quel paese circa duecento e dirigevano una diecina di case. Nel 1950, il nuovo regime cominciò a confiscare le case mandando molti religiosi nei campi profughi. Tra quelli rimasti liberi, alcuni poterono esercitare il ministero sotto severo controllo, altri andarono a lavorare come operai nelle fabbriche. Nel 1956, durante il breve periodo di libertà, alcuni uscirono dal paese per poter aiutare dall'estero, inviando clandestinamente libri proibiti. In Ungheria come negli altri paesi del blocco comunista, le difficoltà più sentite erano la dispersione, l'isolamento e la mancanza di informazione.

I tormenti dell'ispettoria cinese (1945-1953).

In Cina, nonostante le difficoltà e le privazioni di ogni sorta, il periodo della seconda guerra mondiale non impedì un certo lavoro nelle opere salesiane. Le cose cambiarono nel 1949, quando la lotta tra i nazionalisti e i comunisti si concluse con la vittoria di questi ultimi. In quell'anno, l'ispettoria contava 300 salesiani, tra cui un centinaio di Cinesi. Il loro apostolato si estendeva soprattutto alla diocesi di Shiu-Chow dove uno di loro, mons. Arduino, era stato fatto vescovo un anno prima, ma erano presenti, oltre a Macao e a Hong Kong, anche a Shanghai, a Kunming e a Pechino. Proprio quell'anno, vi erano una ventina di novizi e più di 200 candidati pensavano alla vita salesiana negli aspirantati di Shanghai, di Pechino e di Macao. Nei primi mesi, il nuovo regime diede l'illusione della tolleranza. Ma a cominciare dal 1950, e soprattutto dal 1951, si assistette ad un crescendo di perquisizioni, di interrogatori e di vessazioni d'ogni genere. Così si dovette assistere, nel 1953, all'asfissia dell'opera salesiana su tutto il territorio della Cina popolare. I comunisti erano entrati nella missione salesiana di Shiu-Chow nell'ottobre 1949. L'anno 1950 trascorse senza incidenti. Ma l'approssimarsi del pericolo rendeva i cristiani più fervorosi; la Legio Mariae, fondata nelle principali residenze della diocesi, si sviluppava molto e gli

organismi di mutuo soccorso funzionavano meglio che in passato. Dal 1951, la situazione incominciò a peggiorare con l'insediamento del quartier generale dell'esercito a Shiu-Chow. Nella notte del 28 marzo 1951, i soldati invasero il vescovado. Mentre il vescovo era chiuso in una stanza con altri tre missionari, i soldati procedevano ad una severa perquisizione che non risparmiò l'altare della chiesa. Giunse poi l'interrogatorio, punteggiato da una frase che diventerà un rito: «Se tu avessi lo spirito cristiano, se fossi umile, riconosceresti subito il tuo errore e noi ti lasceremmo in pace». I giudici esigevano dal vescovo che questi ammettesse di essere una spia al servizio dei nemici della Cina o ancora un controrivoluzionario. Mons. Arduino fu tenuto prigioniero in una stanza del vescovado, dove ebbe a soffrire per il calore, l'immobilità e le vessazioni dei guardiani. Alla fine del 1952, il governo lo fece condurre sotto buona scorta fino a Canton e lo espulse dalla Cina. Altrove, il modo di procedere era analogo. Nel collegio industriale di Shanghai- Yangtsepo, i poliziotti misero tutto a soqquadro per trovare, dicevano, le armi che vi erano nascoste ed individuare le camere sotterranee dove si tenevano i conciliaboli dei reazionari. Essi riesumarono dal guardaroba del teatro due fucili di legno, unica loro preda. A Shanghai, fatto più grave, alcuni sobillatori tentarono di sollevare gli alunni contro i «traditori». Il più accanito in quest'opera era un ex seminarista, che si pentirà più tardi. In linea di massima, i Salesiani ebbero soltanto a felicitarsi del comportamento dei loro alunni e dei maestri esterni cinesi. Oltre alle accuse che colpivano indistintamente tutti i missionari, ve ne erano alcune particolari contro i Salesiani. Si rimproverava loro con forza, per esempio, di incitare i giovani a farsi sacerdoti e di obbligare i fanciulli a frequentare il catechismo. Quanto alle Suore salesiane, esse erano accusate - scherzo macabro? - di uccidere i bambini per mandarne gli occhi in Europa allo scopo di ricavarne medicinali. Le persecuzioni provocarono la morte di alcuni Salesiani. Il 3 giugno 1952, moriva in prigione il primo salesiano, il chierico Pietro Yeh. Era stato condannato per la sua opposizione alla Chiesa nazionale cinese e la sua fedeltà al Papa. Vi fu anche il caso del sacerdote Leong

Shu Tchi. Invitato a prendere la parola durante un meeting destinato a fomentare l'odio contro gli imperialisti e contro gli «sfruttatori del popolo», questi aveva voluto parlare soltanto d'amore. La cosa non gli fu perdonata. Un giorno, mentre celebrava la messa, fu brutalmente interrotto, poi pubblicamente umiliato e battuto. Questa volta venne accusato di aver osato creare la Legio Mariae e di aver spinto i ragazzi a farsi sacerdoti. Per questo fu gettato in carcere. Da quel momento non si ebbero più notizie di lui, ma nei primi mesi del 1956, fu trovato e riconosciuto il suo cadavere alla porta del carcere di Lienhsien. Dell'opera salesiana nella Cina continentale, praticamente niente rimaneva. I Salesiani europei erano stati espulsi. Ad una ad una le case erano passate in mano allo Stato. L'ultima a sopravvivere qualche tempo fu quella di Pechino, che era stata esaltata come un «baluardo dell'ortodossia» in mezzo allo scisma della Chiesa cinese. Allontanati dalla Cina comunista, i Salesiani diedero nuovo impulso alle case di Hong-Kong e di Macao. Attraversando il mare Cinese, essi andarono a stabilirsi nelle isole Filippine. Nel Vietnam, l'ispettoria cinese aveva accettato nel 1941 un'istituzione per orfani franco-vietnamiti a Hanoi. Con l'affermarsi delle forze comuniste e indipendentistiche, la situazione divenne pericolosa. Nel 1945 fu assassinato il P. Francisque Dupont e la casa fu chiusa. Nel 1952 fu aperto nel Vietnam del Nord un nuovo orfanotrofio, ma poco dopo tutta la casa fu costretta di sloggiare per stabilirsi a Saigon nel sud. Altri figli e figlie di don Bosco hanno scritto pagine sanguinose della storia salesiana. Per regnare con Cristo, aveva detto il loro fondatore, è necessario saper affrontare su questa terra grandi lotte e la morte stessa. La forza evangelica e la fedeltà religiosa di molti sono anche un indice della solidità dell'istituzione salesiana durante il secolo ventesimo.

Capitolo XXVIII.

L'ISTITUTO DELLE FIGLIE DI MARIA AUSILIATRICE DAL 1888 AL 1965.

Il 31 gennaio 1888, madre Daghero si trovava a Marsiglia. Aveva visitato le case di Spagna e si preparava a visitare quelle di Francia. Là fu raggiunta dal telegramma che le annunciava la morte di don Bosco. Si racconta che fu per lei un colpo terribile, simile a quello che colpì madre Mazzarello alla morte di don Pestarino. Ma, per le Suore come per i Salesiani, la vita della Congregazione non si sarebbe arrestata con la scomparsa del Fondatore. Fino al 1924, l'Istituto delle Figlie di Maria Ausiliatrice sarà governato da madre Daghero, alla quale succederà madre Luisa Vaschetti dal 1924 al 1943. Madre Linda Lucotti fu eletta superiora generale nel 1943. Quando nel 1958 madre Angela Vespa ricevette il governo dell'Istituto, questi era diventato una delle prime congregazioni femminili per il numero delle religiose e delle case.

Madre Daghero, una donna d'azione (1888-1924).

La lunga permanenza di madre Daghero a capo dell'Istituto, dal 1881 quando raccolse l'eredità di madre Mazzarello, fino alla morte nel 1924, è stata caratterizzata da un grande sforzo di consolidamento e di sviluppo. È stato possibile affermare che grazie a lei la Congregazione ha assunto una fisionomia definitiva. Donna attiva e favorevole ai contatti personali, pensò che il modo migliore per assolvere il suo compito fosse quello di rendersi conto sul

posto della vita delle Suore. «Dobbiamo vedere coi nostri occhi, toccare con mano», era uno dei suoi motti. Nella sua lunga carriera, sono numerose le regioni del globo da lei percorse. Senza contare i molti viaggi in Italia, visitò una trentina di volte l'ispettoria francese. Andò anche in Belgio, in Inghilterra, nella Spagna, nell'Africa del nord. Dal febbraio al maggio del 1895, visitò le case della Palestina (Gerusalemme, Betlemme, Beitgemal). Sette mesi dopo faceva un lungo viaggio attraverso i paesi dell'America del sud: Argentina, Patagonia, Uruguay, Brasile, poi Terra del Fuoco, Cile, Perù. Un voluminoso giornale di viaggio, opera della sua segretaria, parla dei ricordi edificanti, delle peripezie e delle difficoltà di un percorso che, dal novembre 1895 al settembre 1897, era durato quasi due anni. Vediamo la madre entrare nei toldos degli Indi della lontana Terra del Fuoco, distribuire piccoli regali ai Bororos del Mato Grosso, commuoversi fino alle lacrime per le condizioni di vita di alcune delle sue Figlie, meravigliarsi della loro allegria in mezzo alle privazioni, portare ovunque la sua gioia ed il suo dinamismo. Analoga attività dispiegava anche a Nizza Monferrato, centro dell'Istituto. Aiutata da collaboratrici di valore, quali madre Emilia Mosca, madre Elisa Roncarlo, e madre Enrichetta Sorbone, sua vicaria, portava avanti l'opera di organizzazione dell'Istituto e la sua crescita non solo in Europa e in America, ma anche in Asia ed in Africa. L'Istituto, con madre Daghero, celebrò otto Capitoli generali e mise a posto il sistema delle ispettorie. Alla morte di don Bosco, esistevano soltanto alcune case chiamate centrali, attorno alle quali gravitavano le altre: Nizza per l'Italia del nord, la Francia e la Spagna; Trecastagni per la Sicilia, Almagro (Buenos Aires) per l'Argentina, Villa Colon per l'Uruguay. A poco a poco, la terminologia e l'organizzazione in uso tra i Sa

lesiani s'imposero anche tra le Suore. Le prime ispettorie, canonicamente erette per la prima volta nel 1908, si chiamavano: Monferrina, Piemontese, Lombarda, Romana, Sicula, Francese, Spagnola, Argentina, Brasiliana e Uruguayana. Madre Daghero ebbe a cuore la formazione delle sue figlie. Ogni mese inviava le sue lettere circolari. Per gli studi, si valeva delle direttive di don Cerniti (a cui le due congregazioni devono molto sotto quest'aspetto) ed ebbe fiducia nell'abilità della sua assistente, madre Mosca. La prima scuola per la formazione delle future maestre fu aperta nella casa madre di Nizza ed ottenne il riconoscimento ufficiale dal Governo nel 1900. Alcune Suore cominciarono a frequentare i corsi universitari per conseguire i diplomi richiesti. Al termine della sua vita, la superiora ebbe la gioia di assistere alla realizzazione di uno dei suoi sogni: una scuola per preparare le future missionarie, creata a Torino-Borgo S. Paolo ed intitolata Casa Madre Mazzarello. Generalmente, la Madre non disprezzava le nuove formule. Per fronteggiare le domande di varie regioni in via d'industrializzazione, l'Istituto accettò la direzione di pensionati per giovani operaie, prima a Cannerò nel 1897, poi in altre località. Mentre era superiora, le Figlie di Maria Ausiliatrice si lanciarono anche in missioni abbastanza pericolose tra i Bororos (1895) e tra i Jivaros (1902). Un anno prima di morire, la Madre mandò le prime Suore in Cina ed in Assam. È facile indovinare che, durante questo lungo periodo, ella dovette attraversare momenti difficili. Poteva essere l'annuncio di un'aggressione nelle missioni o di una catastrofe, come l'incidente di Juiz de Fora che nel 1895 costò la vita a quattro Suore, o il terremoto di Gioia dei Marsi nel 1915, dove ne perirono altre tre. Vi furono i torbidi in Francia e la secolarizzazione che arrestò lo sviluppo in questo paese. Durante la guerra del 1914- 1918, mobilitò l'Istituto al servizio degli orfani e dei rifugiati. Alcune scuole furono trasformate in ospedali, e alcune Suore in infermiere; vennero organizzati centri di distribuzione per far fronte alle prime necessità. Il dopoguerra le riservò motivi di soddisfazione. Durante il Congresso di Torino del 1920, fu testimone della fedeltà di moltissime ex

allieve. Nell'agosto del 1922, l'Istituto festeggiava nella gioia il cinquantesimo anniversario della fondazione, mentre volgeva lo sguardo verso l'India, Cuba, Panama, la Germania e la Polonia. Il mese seguente, la Madre partecipava ancora attivamente ai lavori dell'ottavo Capitolo generale che la rieleggeva ancora una volta. Prima di morire ebbe la gioia di mandare le prime missionarie in Polonia (1922), in India (1922) e in Cina (1923). Morì il 26 febbraio 1924. Madre Daghero fu una grande superiora, eccezionalmente attiva. Don Rinaldi, che dovette trattare con lei per ventitré anni, non nascondeva l'ammirazione per le sue qualità, come don Ricaldone che diceva a questo proposito: «Cuore di donna e polso di uomo. Una grande donna e santa religiosa». Uno dei leitmotiv di questa Superiora era salesiano al cento per cento: «Mani al lavoro e cuore a Dio». Sotto il suo governo, l'Istituto fece un vero salto in avanti. Se si prendono come riferimento gli anni 1888 e 1924, si deve costatare che il numero delle Figlie di Maria Ausiliatrice si è decuplicato, poiché alla sua morte erano già circa quattro mila. Notiamo che nel 1913, una Congregazione di Orsoline della diocesi di Acqui si era unita a loro. Ovviamente, le Suore italiane e le fondazioni in Italia erano in netta maggioranza in seno all'Istituto. Nel 1924, tutta una rete di opere copriva già la penisola, suddivisa ora in dieci ispettorie: Piemonte, Vercelli, Monferrato, Lombardia, Roma, Sicilia, Novara, Veneto, Toscana e Napoli. All'estero, vi erano pure l'ispettoria francese, spagnola, quelle dell'Argentina, del Brasile e dell'Uruguay. Le Figlie di Maria Ausiliatrice erano inoltre presenti in nuovi paesi dell'Europa occidentale (Belgio, Inghilterra, Germania), nella maggior parte dei paesi dell'America del sud, negli Stati Uniti, nell'Africa del nord (Algeria e Tunisia), nel Medio Oriente (Palestina, Egitto, Siria), in Cina e in India. Di fronte ad una carriera così attiva e così feconda, è pieno di signi

ficato il giudizio di una delle sue biografe, quando scrisse che madre Daghero «operò quasi come può operare una Fondatrice, più che una Superiora generale».

L'autonomia giuridica dell'Istituto (1906).

Durante il mandato di madre Daghero, è avvenuto nel governo dell'Istituto un cambiamento che suscitò allora grandi timori. Per decisione della Santa Sede, infatti, questi dovette passare dalla forma di «aggregazione» alla Società salesiana all'autonomia giuridica. Inizialmente, l'unione delle due congregazioni maschile e femminile era assicurata da una direzione comune. L'Istituto, dicevano le loro Regole, è sotto l'alta e immediata dipendenza del superiore generale della Società di S. Francesco di Sales, cui danno il nome di superiore maggiore. Concretamente, questo superiore delegava i suoi poteri ad un sacerdote salesiano, che aveva il titolo di direttore generale dell'Istituto. Sul piano locale, egli si faceva rappresentare dagli ispettori. Il governo interno dell'Istituto invece era nelle mani della Superiora generale e del suo Capitolo. Don Bosco, che era attaccato a questo regime, non sollecitò l'approvazione romana per l'Istituto femminile, probabilmente perché prevedeva un rifiuto. Il 28 giugno 1901 veniva pubblicato il decreto Normae secundum quas della Congregazione dei Vescovi e Regolari, destinato a mettere ordine negli istituti a voti semplici che proliferavano dall'inizio del secolo diciannovesimo. L'articolo 202 diceva che una Congregazione femminile a voti semplici non doveva dipendere in alcun modo da una Congregazione maschile della stessa natura. La cosa non poteva essere più chiara. Don Rua non precipitò le cose. Le superiore da parte loro moltiplicavano i passi e le pratiche per conservare il modo tradizionale. Fu necessario però arrendersi all'evidenza: Roma non si sarebbe piegata. Quando il Capitolo generale delle Suore venne a conoscenza, nel 1905, dell'inevitabile rottura, scrive don Ceria, fu come un fulmine a del se

reno. L'emozione era comprensibile. L'Istituto aveva raggiunto, sotto la direzione di don Bosco e del suo successore, un inatteso sviluppo. Ai Salesiani avevano fatto ricorso ogni volta che erano sorte difficoltà o che si erano resi necessari contatti con le autorità civili o religiose. Spezzando questo vincolo vitale, non si sarebbe provocato una disgregazione? Il 17 luglio 1906, la S. Congregazione dei Vescovi e Regolari trasmise a don Rua il testo modificato delle Costituzioni delle Figlie di Maria Ausiliatrice ordinando che tali Costituzioni fossero esattamente osservate nell'Istituto. Don Rua ne riferì nella circolare agli ispettori del 21 novembre 1906, citando loro la disposizione fondamentale concernente la totale indipendenza delle due Congregazioni, sia quanto al governo sia quanto all'amministrazione ed alla contabilità. I Salesiani si sarebbero occupati delle Suore - limitatamente al campo religioso - unicamente se di questo richiesti dai vescovi. Tale cambiamento fu reso noto nel 1907 al Capitolo straordinario delle Figlie di Maria Ausiliatrice, che si riunì allora per la prima volta sotto la presidenza del delegato del vescovo di Acqui. In questo modo, l'Istituto conseguì l'approvazione pontificia il 7 settembre 1911. Intanto, le relazioni di famiglia tra le due congregazioni non erano interrotte. Anzi, con un decreto del 19 giugno 1917, il Rettor maggiore dei Salesiani diventava Delegato apostolico presso le Figlie di Maria Ausiliatrice. L'amministrazione rimaneva autonoma e indipendente ed i diritti dei vescovi erano salvaguardati. Ma ogni due anni, il Rettor maggiore o il suo delegato doveva visitare le loro case paterno Consilio. Durante l'udienza del 14 gennaio 1919, Benedetto XV domandò a madre Daghero che cosa ne pensasse di quest'ultimo accomodamento. È facile indovinare la risposta. Intanto, l'autonomia giuridica dell'Istituto lo spingeva verso un maggiore sforzo organizzativo e una formazione più qualificata del suo personale.

Una maestra di spiritualità, madre Luisa Vaschetti (1924-1943).

A madre Daghero successe la sua segretaria particolare, madre Vaschetti. Nata ad Aglié Canavese, in provincia di Torino, il 9 luglio 1858, Luisa Vaschetti, ancor giovane, perse la mamma e non tardò a diventare il cardine della famiglia. Il 21 gennaio 1883, don Bosco in persona l'ammise nell'Istituto. «Mi basta la perla», avrebbe detto al padre della ragazza, che vedeva con dolore questa separazione. Missionaria di spirito, ottenne di partire per l'Argentina come novizia. In quel paese, nella casa di Buenos Aires, fece la professione il 29 gennaio 1884. L'anno seguente era già vicaria della direttrice a Morón, e dopo due anni direttrice a sua volta. Ritornata nella capitale nel 1892, si vide affidare la giovane ispettoria argentina, con il sostegno prima di mons. Costamagna, poi dell'ispettore salesiano don Vespignani. Sotto la sua direzione energica e calma, nacquero nuove fondazioni: Rosario nel 1893, Uribelarrea l'anno seguente, Mendoza e Buenos Aires nel 1895, un noviziato a Bernal ed un collegio a La Piata nel 1898, Maldonado nel 1901 e Rodeo del Medio nel 1902. Riuscì inoltre a creare una scuola magistrale ad Almagro. Nel 1903 fu richiamata in Italia per diventare, a Nizza, la segretaria di madre Daghero. Posto di fiducia ma di grande monotonia, soprattutto per chi aveva conosciuto più vasti orizzonti. Per vent'anni, non volle essere che la collaboratrice fedele di madre Daghero. Ne diventò l'alter ego. Quando la Superiora morì nel 1924, un decreto pontificio designò madre Vaschetti a succederle, nell'attesa delle elezioni del Capitolo generale. È superfluo dire che le sue consorelle rinnovarono in quell'occasione la scelta di Roma. Diventata Superiora generale dell'Istituto, madre Vaschetti non manifestò la stessa esuberanza di colei che l'aveva preceduta, né la stessa propensione per i lunghi viaggi. Si limitò a visitare i principali centri in Italia e, da marzo a maggio 1927, le case di Spagna. Lasciava alle sue delegate la cura di percorrere l'Europa, il Medio Oriente, l'Africa del nord e le due Americhe. Ella preferì dirigere rimanendo nella casa madre a Nizza Monferrato, poi a partire dal 1929 a Torino. Si notava nella nuova superiora un'energia concentrata, un'intelligenza intuitiva e, sotto un'aria un po' imponente ed austera, una sensibilità delicata. Queste

qualità facevano in modo che con lei gli incontri non fossero mai pura convenzione. Il modo più ordinario di assolvere la sua missione consisteva nel mandare ogni mese alle sue figlie una lettera circolare. Messe insieme, queste lettere sono sembrate così preziose che se n'è potuto trarre un interessante florilegio. Vi si scopre una superiora preoccupata della vita interiore delle religiose, della loro fedeltà ai voti, alla vocazione ed alla Regola, spiacente che nell'Istituto siano troppe Marte e troppo poche Marie. Predicava inoltre la «continuità tra la messa e la vita», esaltava l'apostolato missionario, raccomandava l'insegnamento del catechismo, «il primo di tutti gli insegnamenti», e l'oratorio, «base e principio di tutto il bene che l'Istituto è tenuto a fare». Ad una grande franchezza di tono, la madre univa richiami continui alla carità fraterna. È stata compiuta anche una raccolta delle lettere di madre Vaschetti, dove abbondano i tratti di «salesianità». Una delle grandi preoccupazioni della Madre fu la formazione delle Suore. Nel 1925, riunì un'assemblea delle principali responsabili della Congregazione per sottoporre loro il problema del noviziato. Don Rinaldi, come avverrà per ogni occasione importante, era venuto a portar loro il proprio contributo. Tra i punti del programma discussi in quell'occasione notiamo la formazione allo spirito religioso e l'educazione delle novizie al senso di responsabilità. Ma era anche necessario pensare alla fondazione di nuovi noviziati. Sotto quest'aspetto, l'epoca di madre Vaschetti fu feconda. Sette noviziati furono aperti in Italia, cinque in altri paesi europei ed otto in America. Per sensibilizzare le consorelle a questi problemi, ne parlava durante gli esercizi spirituali, si prodigava in conferenze, oppure organizzava incontri sul tema della formazione con le ispettrici, le direttrici e le maestre delle novizie. Le missioni erano un altro dei suoi temi favoriti, un'altra preoccupazione costante. Per la formazione delle future missionarie fu aperto un aspirantato ad Arignano e una casa per neo-professe a Torino nel 1924, poi nel 1929 un noviziato a Casanova (Carmagnola). Durante il suo mandato partirono per le missioni estere ben 400 Suore, e più di 300, anch'esse definite «missionarie», furono suddivise tra i paesi del Vecchio Continente. Per la prima volta, le Figlie di Maria Ausiliatrice si stabilirono nel Congo (1926), in Giappone (1929), nel Siam (1931), ad

Haiti (1935) e nella missione dell'Alto Orinoco (1940). Si provavano sorpresa e gioia nell'apprendere che Indiane, Siamesi, Cinesi, Giapponesi, chiedevano di entrare nell'Istituto. Anche in Europa, l'Istituto faceva i suoi primi passi in Lituania (1924), in Jugoslavia (1936), in Ungheria (1937), e infine in Cecoslovacchia e nel Portogallo (1940). Purtroppo, la seconda guerra mondiale impedì altre iniziative nel Vecchio Continente. Il superiorato di madre Vaschetti fu caratterizzato da avvenimenti importanti, tristi o lieti. Nel 1926, la rivoluzione messicana riduceva a nulla le opere salesiane di quel paese. Nel 1928, il Capitolo prese misure di grande portata. In primo luogo, venne rieletta la Madre generale e tutto il consiglio. Si preparò una nuova edizione dei Regolamenti dell'Istituto. Si discusse la proposta di don Rinaldi per trasferire la casa madre a Torino. La Madre superò le difficoltà con la sua energia abituale, ed il trasferimento potè essere effettuato per l'anno della beatificazione di don Bosco. Nel 1936, cominciarono a giungere notizie inquietanti dalla Spagna, dove le case di Madrid furono le prime ad essere distrutte o incendiate. Quelle di Valencia subirono la stessa sorte, mentre quelle della Catalogna erano requisite. Fortunatamente si riuscì a far imbarcare un buon numero di Suore ed è un caso che tra esse non si siano lamentate più di due vittime. Il 20 novembre 1938, si registrano invece le gioie della beatificazione di Madre Mazzarello. Ma le prove riprendevano a ritmo serrato con la guerra mondiale. La Madre tremava per le figlie disperse ai quattro angoli dell'Europa. Alcune avevano perso ogni contatto con il centro della Congregazione. Attraverso la Croce Rossa e l'ufficio ricerche del Vaticano, si fece il possibile per ritrovare le loro tracce e rincuorarle. In quel tempo, l'età avanzata della Superiora e la sua cecità le permettevano soltanto un'attività molto ridotta. Fin dal 1938, la vicaria generale, madre Lucotti, aveva dovuto assumere molte responsabilità nella direzione dell'Istituto. Madre Vaschetti morì il 28 giugno 1943. Sotto il suo governo «paternamente materno», secondo un'espressione del superiore generale dei Salesiani don Ricaldone, l'Istituto delle Figlie di Maria Ausiliatrice aveva ancora raddoppiato i propri effettivi.

Una madre buona e intelligente, Linda Lucotti (1943-1957)

Com'era da aspettarsi, madre Linda Lucotti fu eletta Superiora generale alla morte di madre Vaschetti. Nativa di Mede Lomellina, nella provincia di Pavia, dov'era nata il 30 ottobre 1879, Linda Lucotti era entrata tra le salesiane di Nizza a ventitré anni. Fece la vestizione il 13 aprile 1903 e la professione il 25 aprile 1905. Fu orientata verso gli studi. Dopo aver ottenuto un diploma d'insegnamento a Nizza, andò a frequentare l'Università a Roma, dove si laureò in lettere nel 1910 ed in pedagogia l'anno seguente. Nel 1912, era già a capo della casa ispettoriale di Roma. Tre anni dopo, fu inviata in Sicilia per prendersi cura di una scuola magistrale, fondata a Catania da madre Maddalena Morano, e trasferita ad Alì Terme. Ne diventò direttrice nel 1918 e lasciò quest'incarico nel 1922 per assumere quello d'ispettrice della Sicilia, con sede a Catania. Si dice che, in queste svariate mansioni, la sua delicatezza ed il suo buon cuore creassero l'unanimità attorno a lei. Non è difficile immaginare che fu un duro colpo, come afferma lei stessa, quando il Capitolo del 1928 la strappò al suo mondo familiare nominandola consigliera generale per gli studi. Nel 1938, la Congregazione dei Religiosi le affidò il governo effettivo dell'Istituto, mentre madre Vaschetti avrebbe conservato il titolo di Madre generale. Ed è ancora Roma che, mentre infuriava la seconda guerra mondiale, la collocava d'autorità al posto della superiora defunta. I Capitoli generali del 1947 e del 1953 la confermarono nelle sue funzioni con voto unanime. Fu questo un avvenimento «più unico che raro», è stato detto. La nuova superiora prendeva il timone in un momento tragico. La guerra, limitando le comunicazioni tra il centro e la periferia dell'Istituto, riduceva l'attività della Madre, i viaggi ed i contatti per lettera. Per questo motivo la vicaria generale, madre Elvira Rizzi, si trasferiva a Roma con la consigliera scolastica, madre Angela Vespa, mentre il resto del Consiglio generale sfollava a Casanova. Oltre alle distruzioni, vi furono anche vittime tra le Suore e le loro allieve, a Palermo, a Catania, a Massa Apuania, a Briancon e ad Alessandria. Benché talune notizie le

spezzassero il cuore, non le venne mai meno il coraggio. Quando le fu possibile, si mise in viaggio per andare a rianimare il coraggio delle figlie là dove si trovavano, nelle case in parte occupate, nelle case di ripiego, o negli ospedali militari. Le incoraggiò a rimanere al loro posto ovunque fosse possibile ed a prestare assistenza agli sventurati nella misura dei mezzi a loro disposizione. Terminata la guerra, la Madre provò il bisogno di ristabilire ovunque i contatti con le residenze delle Figlie di Maria Ausiliatrice sparse nel mondo. Visitò, quasi ad una ad una, le case europee. Come madre Daghero, intraprese nel 1948 un grande viaggio oltre l'Atlantico e, in un anno, fece il giro delle principali fondazioni del continente sudamericano. Questi viaggi non erano inutili. Attorno ad una madre così semplice e buona, s'intrecciò una rete di vincoli affettuosi e l'unità della Congregazione ne risultò consolidata. Era anche l'epoca di un avvenimento di grande portata per tutto l'Istituto e per la Chiesa: la canonizzazione di madre Mazzarello, il 24 giugno 1951. Numerosi festeggiamenti ebbero luogo in tutto il mondo, a Valdocco furono grandiose, a Mornese commoventi. Nello stesso tempo purtroppo, la Madre vedeva con dolore spegnersi molti focolai di vita salesiana, in particolare nei paesi dell'Europa orientale e nella Cina popolare. In Jugoslavia, in Albania, in Ungheria, in Polonia, in Lituania, in Cecoslovacchia, la maggior parte delle comunità furono costrette a cessare le loro attività peculiari. Generalmente, le religiose erano disperse o secolarizzate, quando non erano inviate nei campi di lavoro oppure, come accadde per una salesiana lituana, mandate in Siberia. In Cina, furono sottoposte a sedute d'indottrinamento per «lavaggio di cervello». D'altra parte, non mancarono le iniziative protese verso il futuro, specialmente nel campo della formazione. A questo riguardo, il Capitolo generale undicesimo del 1947, presieduto da don Ricaldone, ebbe alcune aperture audaci che furono attuate durante il governo di madre Lucotti. Innanzi tutto, nacque l'idea di lanciare per le ragazze delle scuole e degli oratori una rivista «bella, attraente, formativa». Tre anni dopo usciva il primo numero di Primavera. Un'idea ancora più ardita era di fondare un istituto specializzato per dare una formazione pedagogica e catechistica alle giovani religiose. Così nacque a Torino negli

anni 1952-1954 l'Istituto internazionale «Sacro Cuore», una scuola superiore di pedagogia, di scienze religiose e di servizio sociale, che ricevette nel 1956 l'approvazione romana. Durante il superiorato di madre Lucotti, l'Istituto non cessò di progredire. Dal 1943 al 1957, data della sua morte, vennero a rafforzare le sue file non meno di sei mila nuove religiose. Con una media di 420 reclute per anno, le fondazioni si erano moltiplicate. Per citare soltanto i paesi d'oltre mare, si rileva che le Figlie di Maria Ausiliatrice iniziarono la loro opera in Mozambico nel 1952, nel Libano ed in Australia nel 1954, nelle isole Filippine nel 1955 ed in Korea nel 1957.

L'Istituto guidato da madre Angela Vespa (1958).

Dopo essere stata per due anni vicaria di madre Lucotti, madre Angela Vespa le successe il 15 settembre 1958. Nata il 1 ottobre 1887 ad Agliano d'Asti, frequentò come educanda la scuola di Nizza Monferrato e chiese di entrare nell'Istituto come postulante nel 1906. Dopo la professione religiosa nel 1909, frequentò l'Università di Roma, dove si laureò in lettere e in pedagogia nel 1915. Quando iniziò poi la sua attività educativa ad All Terme in Sicilia, trovò un'ottima guida in madre Linda Lucotti. Fu inviata poi a Vallecrosia in Liguria, dove per circa un decennio fu insegnante, vicaria e direttrice della scuola magistrale. Da Vallecrosia fu chiamata nel 1927 per essere direttrice a Nizza Monferrato fino al 1933, poi a Torino dal 1933 al 1936. Dopo un breve periodo come ispettrice a Torino, sostituì nel 1938 madre Lucotti nella carica di consigliera generale per gli studi. In questa carica manifestò spirito di iniziativa, specialmente a favore delle neo

professe per le quali stese nel 1940 un Regolamento apposito che dava loro norme sicure per la loro formazione catechistica, salesiana e professionale. Con madre Linda, portò a compimento l'Istituto internazionale di pedagogia e scienze religiose con l'annessa Scuola internazionale di servizio sociale. Anche la rivista Primavera fu da lei diretta e curata fino al 1955. Nominata vicaria di madre Linda nel 1955, era naturalmente chiamata a succederle tre anni dopo. Diventata superiora generale, madre Vespa si recò in pochi paesi europei, ma non intraprese lunghi viaggi. Prese a cuore soprattutto quanto riguardava la formazione e la catechesi. Quale donna di comando e di dialogo personale, ella si accinse subito alle realizzazioni. Sotto il suo impulso, l'Istituto si mise a vivere «all'ora catechistica». Per una formazione adeguata, le principali responsabili erano spesso invitate a riunioni di studio e d'informazione. Dal 18 al 24 settembre 1960, un congresso internazionale per gli oratori consacrava una parte importante dei suoi lavori ai problemi catechistici. Nell'aprile del 1961, la Madre riunì a Torino le maestre di noviziato e le assistenti incaricate della formazione delle giovani Suore, e, nel mese di settembre, quasi seicento direttrici ed assistenti di case di educazione. Il tema essenziale si riassumeva così: come promuovere oggi l'insegnamento religioso tra le Suore e le loro alunne? Nell'autunno 1962 nasceva a Torino, nella sede della casa generalizia, il Centro catechistico internazionale. Nel 1963 fu convocato un convegno catechistico internazionale, in cui si studiò il modo di adattare la catechesi alle esigenze del mondo moderno, secondo le direttive e le aspettative della Chiesa. Fu studiato l'aiuto che potevano fornire la metodologia e le scienze psicologiche e pedagogiche nell'insegnamento tradizionale del catechismo. Tradurre in pratica queste idee era ancor più importante che formularle. Ci si mise all'opera sotto la spinta del concilio Vaticano II allora in atto. Il Centro catechistico internazionale di Torino forniva le direttive e gli strumenti di lavoro necessari all'attuazione desiderata. In ogni ispettoria doveva essere designata una delegata per l'animazione catechistica. Per permettere alle Suore di perfezionare le proprie conoscenze, erano organizzate sessioni di studio durante le vacanze. Queste

iniziative erano apprezzate soprattutto nell'America Latina dove scarseggiavano i sacerdoti. L'idea di base della Madre era che non solo le Suore diventassero catechiste competenti, ma che formassero a loro volta altre catechiste. A questo scopo furono aperti corsi anche per catechiste laiche. L'istruzione catechista fornì al Capitolo generale del 1964 il proprio tema, perché ritenuta come base di ogni formazione umana, cristiana e religiosa. Anche il convegno sui mezzi di comunicazione sociale, tenuto nel mese di novembre dello stesso anno, non era molto lontano da queste preoccupazioni. Intanto, il Centro catechistico sviluppava le iniziative, diffondendo come organo ufficiale la rivista Da mihi animas, nata dieci anni prima come foglio di collegamento tra gli oratori delle ispettorie lombarde. All'interno del Centro nacque pure la sezione per gli strumenti della comunicazione sociale che aveva come finalità specifica la preparazione di Figlie di Maria Ausiliatrice specializzate in questo ambito. Sotto l'impulso di madre Vespa, le Figlie di Maria Ausiliatrice iniziarono anche opere nuove a favore della gioventù, quali le scuole professionali aziendali per la formazione professionale delle ragazze, le opere di assistenza alle operaie, e la costruzione nei dintorni di Torino del grande Centro sportivo giovanile «Laura Vicuna». Durante il suo governo, le Figlie di Maria Ausiliatrice entrarono in nuovi paesi come la Birmania, la Repubblica Sudafricana e l'Olanda. Quelle che dovettero lasciare Cuba nel 1961 ripresero il lavoro a Porto Rico ed in Messico. Gli ultimi anni di madre Vespa furono dedicati alla preparazione del Capitolo generale speciale, voluto dalla Chiesa per dare vita agli orientamenti del concilio Vaticano II. Per l'Istituto delle Figlie di Maria Ausiliatrice cominciava un nuovo periodo di storia quasi centenaria.

Capitolo XXIX.

I COOPERATORI SALESIANI DAL 1888 AL 1965.

In una lettera testamento, indirizzata ai Cooperatori salesiani ed attribuita a don Bosco, si legge questo appello: «Se avete aiutato me con tanta bontà e perseveranza, ora vi prego che continuiate ad aiutare il mio Successore dopo la mia morte. Le opere che col vostro appoggio io ho cominciate non hanno più bisogno di me, ma continuano ad avere bisogno di voi e di tutti quelli che come voi amano di promuovere il bene su questa terra». Quest'ultima consegna ai suoi «cari» Cooperatori non rimase lettera morta: don Ceria ne era certo e lo provava semplicemente con la storia dei rettorati che da allora si sono succeduti. Effettivamente il «terz'ordine salesiano», che fin dal 1876 don Bosco vedeva chiamato ad un grande sviluppo, non cessò di affermarsi nella propria organizzazione ed influsso, anche se nei novant'anni che seguirono, conobbe periodi di minore vitalità.

Organizzazione ed espansione sotto don Rua.

All'inizio del rettorato di don Rua, e per il suo personale interessamento, apparve un Manuale teorico-pratico, più volte ristampato e migliorato, che aveva lo scopo di fornire ai responsabili locali della Pia Unio

ne una «guida sul modo di cooperare alle Opere Salesiane». La prima parte precisava i compiti del decurione (capo di dieci o più Cooperatori o Cooperatrici), del direttore diocesano (un ecclesiastico, centro del movimento salesiano della diocesi), del con-direttore (nelle città più importanti), del comitato salesiano, del sotto-comitato di Cooperatrici, degli zelatori e delle zelatrici. Seguivano consigli sul modo di tenere le conferenze salesiane. La seconda parte del volumetto, interamente dedicata alle «opere di zelo», conteneva i capi seguenti: azione e preghiera, l'opera dei catechismi («ogni Cooperatore dovrebbe essere un catechista»), le vocazioni ecclesiastiche (nelle famiglie, nelle scuole), la stampa (da diffondere tra il popolo, nelle scuole, nei catechismi, negli oratori, nelle officine, negli ospedali), la gioventù abbandonata (cooperare alle opere giovanili e affiancare le opere salesiane), e infine una grande potenza (il danaro) e obbligo di bene impiegarla. In Italia don Rua riuscì ad attuare questo dispositivo. Ogni volta che in una diocesi si costituiva un gruppo abbastanza importante di Cooperatori, egli pregava il vescovo di voler nominare un direttore diocesano. Questo direttore, generalmente un parroco o un vicario generale, doveva proporre al superiore la nomina di decurioni, cioè responsabili di un gruppo locale. Nel 1893, fu deciso di riunire a Valsalice, sulla tomba di don Bosco, la prima assemblea dei quadri del movimento. Inizio promettente, poiché rappresentanti di ventisei diocesi d'Italia risposero all'invito. Incontro fruttuoso, inoltre, poiché da questa specie di «Capitolo generale dei direttori diocesani della Pia Unione», come lo chiamava curiosamente il resoconto ufficiale, sarebbe scaturita l'idea del primo grande congresso internazionale dei Cooperatori. Da allora, l'organizzazione ebbe rapidi progressi e al raduno di Torino del 1898 erano già rappresentate quaranta diocesi. Vicinissimi ai Salesiani, i Cooperatori diventavano agenti molto efficaci dell'espansione salesiana. Si trovarono spesso all'origine di nuove fondazioni, che essi sostenevano poi con il loro contributo materiale e personale diffondendo la conoscenza del lavoro dei religiosi. Durante i viaggi, con il suo esempio personale, don Rua mostrava quale importanza attribuisse alla «cooperazione» salesiana. Inoltre, don Rua si preoccupò di convincere i propri religiosi delle loro responsabilità verso la Pia Unione. Durante il Capitolo generale

del 1895, su una sua esplicita richiesta, una commissione speciale si fece un dovere di studiare i rapporti dei Cooperatori con le case salesiane, ed i rapporti delle singole case con Torino. Nei Capitoli del 1901 e del 1904, egli stesso propose di nominare in ogni ispettoria un «corrispondente ispettoriale» che si occupasse del movimento, ed in ogni casa un «incaricato dei Cooperatori». Gli undici articoli che si trovavano al termine dei Regolamenti della Società salesiana, con il titolo significativo di «Norme ai Salesiani per la Pia Unione dei Cooperatori», provenivano nella sostanza, se non nella forma, dalle deliberazioni di quel tempo. Troviamo là anche un'altra innovazione di questo rettorato: la creazione di un Ufficio Centrale dei Cooperatori, composto di un presidente, che era il Prefetto generale della Società, di tre consiglieri (il redattore capo del Bollettino salesiano, il propagandista ed il capo della corrispondenza) e di uno o più segretari. Don Rua aveva saputo infine trovare l'uomo adatto per realizzare i vari progetti. Incaricando don Stefano Trione della «propaganda» e nominandolo primo segretario generale dell'Unione, apriva un periodo fecondo di «cooperazione» attiva.

I primi grandi Congressi (1895-1909).

Nella vita di questa vasta organizzazione i congressi internazionali occupano un posto importante. Corrispondevano a quell'esigenza di unione così spesso sottolineata da don Bosco, ed in primo luogo nel regolamento dei Cooperatori. Trattando dei primi congressi tenuti sotto don Rua, don Ceria si affrettava a rispondere ad obiezioni non immaginarie: «Questi granai convegni non si presero a fare con iscopi propagandistici in favore della Società salesiana, ma miravano alla diffusione dello spirito di don Bosco nel mondo in conformità al programma e per mezzo dei Cooperatori, che erano da moltiplicarsi quanto più fosse possibile». Lo svolgimento di queste grandi assise avveniva secondo un programma ben sperimentato. Inquadrata da solenni sedute di apertura e di chiusura, la parte «seria» del congresso era dedicata allo studio, sotto forma di esposizioni o di discussioni, di alcuni grandi temi: natura della cooperazione, formazione personale, gioventù ed educazione, vocazioni, azione sociale, stampa, missioni. Si aggiunga che l'intervento di alte personalità religiose e civili, la presenza e le testimonianze delle

delegazioni straniere, la lettura di numerose «adesioni» e, soprattutto, del messaggio pontificio, contribuivano a creare nei partecipanti un clima di fervore, che si voleva tradurre alla fine in voti o in risoluzioni. Nel mese di aprile 1895 si tenne a Bologna il primo congresso dei Cooperatori. Voluto dall'arcivescovo locale, il cardinale Svampa, grande ammiratore di don Bosco, questo raduno dalle dimensioni internazionali fu organizzato da don Trione, segretario generale dell'associazione. Duemila circa furono i partecipanti, tra cui una buona trentina di prelati, vescovi e cardinali. Don Rua era presente in qualità di presidente effettivo. La magrezza ascetica del personaggio, la sua modestia ed affabilità, impressionarono la folla. Vi furono imponenti cerimonie religiose, concerti spirituali, discorsi. Per tre giorni, l'opera di don Bosco, nel campo dell'educazione, dell'azione sociale, delle missioni o della stampa, raccolse ogni sorta di elogi. Fu un successo. E questo successo si ripercosse in molti paesi attraverso i rappresentanti di 58 giornali italiani e stranieri. Cinque giorni dopo la chiusura del congresso, in una lettera piena d'entusiasmo, don Rua ricordava ai Salesiani una predizione di don Bosco concernente l'avvenire della Congregazione: «Circa il 1895, gran trionfo!» Sulla scia del primo congresso di Bologna, altri grandi congressi furono celebrati prima della guerra in occasioni significative per l'insieme della Famiglia salesiana, come quello che ebbe luogo nel 1900 a Buenos Aires per il 25° anniversario della prima casa salesiana in America. Gli ideatori del congresso avevano di mira due punti: diffondere la conoscenza dell'opera di don Bosco e rendere conto ai Cooperatori di tutto ciò che la loro beneficenza aveva potuto realizzare in venticinque anni. Alla presidenza effettiva sedeva l'ex deputato Santiago O'Farrell, mentre don Albera, rappresentante di don Rua, presiedeva la commissione direttiva, formata dagli ispettori e avente la direzione dei lavori. Erano presenti anche Cooperatori del Brasile, del Cile e della Bolivia. L'avvocato Emilio Lamarca, parlando di don Bosco, ebbe queste espressioni: «La vita di don Bosco impressiona quale pratica del Vangelo, e la sua

Opera quale pagina degli Atti degli Apostoli; il suo ritratto è nella lettera ai Corinti, perché era paziente e benigno». Dopo di lui l'ispettore Giuseppe Vespignani sviluppò nel suo discorso i due segreti della cooperazione salesiana: la pietà e la carità. I temi più impegnativi riguardavano l'educazione della gioventù operaia, l'utilità delle scuole professionali e di quelle agricole, le missioni, gli emigrati e la stampa. Il terzo congresso internazionale doveva coincidere con l'incoronazione dell'immagine di Maria Ausiliatrice a Torino nel 1903. Fu presieduto dal cardinale Agostino Richelmy, arcivescovo di Torino, presidente d'onore, e da don Rua, presidente effettivo. Don Albera tenne una relazione entusiasta della visita in America. Fu invitato a parlare Giovanni Grosoli, presidente dell'Opera dei Congressi e dei Comitati cattolici d'Italia, che trattò del ritorno della fede nella famiglia e della restaurazione cristiana della società sulla base delle forze popolari. Il congresso si concluse su una serie di deliberazioni e di voti, quasi come interpretazione pratica del Regolamento dei Cooperatori. La solenne incoronazione di Maria Ausiliatrice ebbe luogo il 17 maggio, ultimo giorno del congresso. Vi furono anche un quarto e un quinto congresso nel 1906, il primo a Lima e il secondo a Milano. Quello di Lima, più modesto, in occasione dell'anniversario del santo vescovo Turibio, fu illustrato da una esposizione organizzata dalle case salesiane del Perù e della Bolivia, con saggi di diversi mestieri, prodotti e campionari delle scuole di agricoltura, testi e programmi scolastici compilati dai Salesiani. L'opera di don Bosco venne presentata come un'opera di previsione, di vera convenienza sociale, di patriottismo, popolare e democratica. I Cooperatori furono incoraggiati a prodigarsi per l'educazione della gioventù e a sostenere generosamente i Salesiani nella loro azione. L'ultimo giorno fu collocata la prima pietra di una grande chiesa in onore di Maria Ausiliatrice. L'altro congresso di Milano, contemporaneo dell'Esposizione internazionale, si aprì con la benedizione del piedicroce della grande chiesa dedicata a sant'Agostino. Nella città del lavoro fu proclamata la benemerenza delle scuole professionali salesiane. Tra i temi principali, è doveroso ricordare almeno quello dell'assistenza agli emigranti, delle società cattoliche sportive, e dei comitati femminili di azione salesiana.

Vi fu ancora un congresso a Santiago del Cile nel 1909, in omaggio al giubileo di ordinazione di don Rua. Quattro commissioni di studio si misero al lavoro in quattro città distinte: Santiago, Concepción, Valparaiso e Talea. Il congresso servì per dare un impulso all'opera dei Cooperatori in quel paese.

La prima guerra mondiale e il dopoguerra.

Dopo don Rua, il rettorato di don Albera coincise con un'era di sconvolgimenti poco favorevoli a questo genere di organizzazione. I raduni previsti per il centenario della nascita di don Bosco non poterono aver luogo, poiché l'Europa era in fiamme. Invece, importanti assise si tennero nell'America meridionale, tra cui un settimo congresso internazionale a Sào Paulo del Brasile nel 1915, per il centenario della nascita di don Bosco e dell'istituzione della festa di Maria Ausiliatrice. Si svolse dal 28 al 31 ottobre nel collegio salesiano e nel santuario del Sacro Cuore. Fu deliberata l'erezione di un nuovo istituto intitolato a don Bosco e di una chiesa parrocchiale dedicata a Maria Ausiliatrice in Sào Paulo. Dal 1915, veniva pubblicata sul Bollettino salesiano una serie di articoli che tendevano a correggere alcuni errori concernenti il fine dell'Unione, poiché, come diceva l'articolo introduttivo, era necessario riconoscere «francamente» che molti non ne erano informati. Erano richiamate verità antiche, quando si dichiarava che i Cooperatori non sono solamente il sostegno naturale delle opere salesiane. Don Rinaldi fece allora rifiorire la pratica del ritiro mensile - ammesso che in passato essa fosse stata in vigore - ed insistette sull'azione personale del Cooperatore nel suo ambiente. Dopo la prima guerra mondiale ripresero le manifestazioni ufficiali. Organizzato e animato da don Rinaldi, un grande congresso dei Cooperatori si svolse a Torino nel 1920, contemporaneamente a quello degli Exallievi e delle Exallieve e culminò con l'inaugurazione del monu

mento a don Bosco, eretto davanti al santuario di Maria Ausiliatrice. Fu un segno di ripresa dopo la bufera della guerra e una testimonianza di un'autentica amicizia fraterna tra gente che proveniva da paesi prima nemici. Frutto di questo congresso fu una serie di «Norme direttive», che costituiscono quasi un nuovo regolamento dei Cooperatori. Dal punto di vista organizzativo si faceva un passo avanti con l'istituzione di un ufficio centrale, di direttori nazionali e di comitati d'azione salesiana. L'ultima assemblea generale riunì ben tre mila persone. Il tempo del rettorato di don Rinaldi è stato considerato l'età d'oro dei Cooperatori. Avendo da molto tempo familiare il problema e conoscendo bene il pensiero di don Bosco, il nuovo Rettor maggiore manifestava grande interesse a loro riguardo. Prese personalmente contatto con molti dirigenti. In un'epoca in cui le missioni erano all'ordine del giorno nella Chiesa, mise l'accento sulla cooperazione missionaria, in armonia con le direttive di Pio XI. In occasione della celebrazione del cinquantenario delle missioni salesiane, i Cooperatori organizzarono congressi e riunioni di ogni dimensione per esaltare e sostenere l'apostolato delle missioni. Un congresso internazionale si tenne di nuovo a Buenos Aires nel 1924, sotto la presidenza di don Vespignani Favorito da numerosissime adesioni, questo grande raduno fu allargato ad assemblee regionali tenute in Tucumàn, Cordoba, Rosario, Mendoza, La Piata, Santa Rosa ed altre città dell'Argentina. Spettacolare fu la sfilata di dodici mila allievi provenienti da tutte le case salesiane della nazione. Tra i temi nuovi si notava quello dell'azione sociale e del ruolo della donna. Frutto del congresso fu nella capitale un nuovo istituto salesiano per gli orfani. Il congresso di Torino del 1926, che coincideva anche con il cinquantenario della Pia Unione, riunì 1.500 partecipanti, tra cui numerose delegazioni internazionali. Il tema dominante fu quello delle missioni, illustrato anche da una grande esposizione missionaria salesiana. Presidente del comitato esecutore del congresso fu il conte Rebaudengo, il quale finanziò l'erezione dell'istituto missionario destinato alla formazione dei maestri d'arte per le missioni.

Instancabile, don Rinaldi s'ingegnava a moltiplicare il numero degli associati. Un'altra statistica dell'epoca c'informa che in meno di due anni, si era riusciti a riunire in incontri vari circa 300 direttori diocesani e più di 4.500 decurioni. Non esitava a scrivere a un ispettore d'America: «Sono contento che lavoriate per dare vita alla cooperazione salesiana. Sono la terza opera di don Bosco e dobbiamo farla prosperare dovunque. Don Bosco diceva che Cooperatore è sinonimo di buon cristiano. Dunque tutti i buoni cristiani del mondo diventino Cooperatori». Anche agli Exallievi dava come consegna all'inizio del 1927 di «diffondere l'idea della cooperazione salesiana». Per suo desiderio, il Bollettino salesiano svolgeva un'attiva campagna in questo senso. Nel 1930 si celebrò a Bogotà l'undicesimo congresso internazionale, un anno dopo la beatificazione di don Bosco. Si erano associate all'evento le case salesiane di Ibagué, Agua de Dios, Medellin, Tunja, Mosquera, Contratación e Barranquilla. Esso mirava a sviluppare i Cooperatori in vari Stati dell'America meridionale. Il cardinal Gasparri scriveva a nome del Papa: «Un congresso internazionale di Cooperatori Salesiani è sempre un avvenimento di prim'ordine, non solo nel campo dell'azione salesiana, ma anche cattolica, in quanto mira specialmente all'apostolato della gioventù, la buona stampa per le scuole e il popolo, le missioni». Il congresso di Bogotà fu l'ultimo della serie; passeranno ventidue anni prima che si organizzi un convegno di ordine internazionale.

Prima e dopo la seconda guerra

Durante i primi anni di don Ricaldone l'associazione continuò a prosperare, si moltiplicavano i Cooperatori e i benefattori, soprattutto dopo la canonizzazione di don Bosco nel 1934. Nel 1938, per esempio, in Polonia, ventimila di loro andarono in pellegrinaggio alla Madonna di Czestochowa. Nello stesso anno, per il cinquantesimo dell'arrivo dei

Salesiani in Inghilterra, le celebrazioni furono coronate dall'inaugurazione di una chiesa dedicata a S. Giovanni Bosco a Shrigley. La seconda guerra mondiale impedì le grandi riunioni. Nel 1941 non si potè celebrare, come si voleva, il centenario della nascita dell'opera salesiana. I tempi erano torbidi ed altre preoccupazioni assillavano don Ricaldone. Si aggiunga a questo la morte di don Trione, avvenuta nel 1935. La «cooperazione salesiana» ne soffrì ovunque. Tuttavia, vi furono anche alcuni raduni significativi, come quello dell'Aia in Olanda nel 1940 o quello di Calcutta il medesimo anno. Dopo gli anni di sconvolgimento generale, il risveglio giunse nel 1947, favorito dal primo Capitolo generale del dopoguerra. In questa occasione, don Ricaldone volle un consigliere supplementare nel Capitolo superiore che fosse incaricato della direzione generale dell'Unione. Nel 1950 riprendeva un progetto di don Rua chiedendo ad ogni ispettore di nominare un delegato ispettoriale per i Cooperatori e delegati locali in ogni casa. Nel 1950 nominava un nuovo segretario generale, don Guido Favini, a cui diede questa semplice consegna: «To devi fare quello che faceva una volta don Trione». Ricevuto in udienza da Pio XII il 23 giugno 1951, don Favini destò l'interesse del Papa per il terz'ordine salesiano e si mise subito al lavoro per la preparazione di un grande congresso. In occasione del 75° anniversario della fondazione. Il «solenne convegno» di Roma, dall'11 al 13 settembre 1952, segnò la ripresa dei grandi incontri internazionali e fu onorato da un discorso molto atteso di Pio XII a Castelgandolfo. I Cooperatori venivano definiti dal Papa ausiliari efficacissimi dell'Azione cattolica. Il Papa ricordava che, se l'Associazione dei Cooperatori era «innestata sul prolifico ceppo della Famiglia religiosa di S. Giovanni Bosco», il suo fine immediato era di essere a disposizione della gerarchia. Pietà e fervore dell'apostolato dovevano caratterizzare il Cooperatore. A tale titolo, la Chiesa si aspettava molto da questo «nuovo provvidenziale movimento del laicato cattolico». Nel 1953, il nuovo Rettor maggiore don Ziggiotti nominò alla direzione generale dei Cooperatori don Luigi Ricceri, fino a quel momento ispettore dell'ispettoria Lombarda. Fece pubblicare negli «Atti del Capitolo superiore» di settembre-ottobre 1955 un testo di orientamento, che era nello stesso tempo un appello a tutti i Salesiani in favore del

l'Unione dei Cooperatori. In un importante documento del 1955, don Ziggiotti affermava che «la missione propria dei Cooperatori è l'apostolato secondo lo spirito salesiano» e ricordava la definizione che aveva dato Pio XI del loro movimento: «notevole primo abbozzo di Azione Cattolica». Infatti, erano chiamati a «partecipare in pieno all'apostolato dei laici». Don Ricceri, dal canto suo, promosse incontri annuali con i dirigenti, per i quali creò un Bollettino speciale (che esce il quindici di ogni mese), provvide un manuale adattato, e riorganizzò l'Ufficio centrale dei Cooperatori. Don Ceria fu incaricato di comporre per loro un manuale di pietà. Tra le grandi manifestazioni di quel periodo preconciliare, citiamo i pellegrinaggi di Lourdes nel 1958, di Monaco di Baviera nel 1960, e quello di Roma-Pompei nel 1962. Ripresero anche i congressi internazionali, a Bruxelles in occasione dell'Esposizione del 1958, a Roma nel 1959, a Madrid nel 1960, a Barcellona nel 1961. L'orientamento apostolico ed ecclesiale del movimento appariva sempre più esplicitamente nei vari interventi. I Cooperatori erano invitati, all'alba del concilio Vaticano II, a «vivere la Chiesa».

La risposta dei Cooperatori.

La risposta dei Cooperatori si può indovinare nel fenomeno dell'espansione dell'opera salesiana nel mondo, che ha caratterizzato il periodo tra il 1888 e il 1965. Si può affermare con certezza che senza l'aiuto materiale e morale dei Cooperatori e benefattori, grandi e umili, ben poco si sarebbe potuto fare. Basta ricordare la figura esemplare di Dorotea di Chopitea a Barcellona.

Anche se la beneficenza a favore delle opere salesiane non costituisce un criterio assoluto, i doni e le offerte erano già di per sé i segni di una partecipazione responsabile alla missione salesiana. Ma vi erano anche altre forme di cooperazione. La vita di una Cooperatrice portoghese, Alexandrina Maria da Costa (morta nel 1955) è straordinaria per il suo apostolato di preghiera e di sofferenza, in comunione spirituale con i novizi salesiani. Sotto l'aspetto quantitativo, nel 1962 don Favini poteva valutare a un migliaio i centri di Cooperatori, che gravitavano attorno alle case salesiane. D'altra parte, la diffusione del Bollettino salesiano, organo dei Cooperatori, rappresentava anche un criterio esterno non trascurabile. Ora, dopo la morte di don Bosco, le edizioni si erano moltiplicate. Alle edizioni italiana, francese e spagnola, il rettorato di don Rua aveva aggiunto l'inglese (1892), la tedesca (1895), la polacca (1897), la portoghese (1901), l'ungherese (1903) e la slovena (1907). La stampa e la spedizione si fece nelle scuole professionali dell'Oratorio, finché l'accresciuto numero di copie consigliò la creazione a tale scopo di una Società per azioni, la «Società internazionale per la diffusione della buona stampa», istituita a Torino nel 1908 con succursali a Nizza Marittima, Barcellona, Liegi, Londra e Vienna. Nuove edizioni si aggiunsero dopo il 1910. Una statistica del 1964 enumerava trenta edizioni ufficiali. Tra le ultime in ordine di tempo, citiamo le edizioni indiana (Madras), thailandese, cinese (Hong Kong), lituana, maltese, birmana e peruviana. Mentre don Rua annunciava che 300.000 persone ricevevano il Bollettino, nel 1964, facendo il totale delle edizioni, non si era più molto lontani dal milione. A cominciare dalla seconda metà del secolo XX, e grazie al loro movimento che si era affermato nella Chiesa, i Cooperatori salesiani approfondivano sempre di più le esigenze apostoliche della loro associazione. Nel 1951 e nel 1957 essi furono anche invitati ad inviare una delegazione ai congressi mondiali dell'apostolato dei laici. Un nuovo impulso verrà dal concilio Vaticano II e dai suoi insegnamenti sull'identità e sulla missione dei laici nella Chiesa.

Capitolo XXX.

L'ORGANIZZAZIONE MONDIALE DEGLI EXALLIEVI E DELLE EXALLIEVE (1908-1965).

Si potrebbe affermare anche per gli Exallievi di don Bosco che sono «salesiani». Almeno così don Bosco qualificava, il 17 luglio 1884, quelli dell'Oratorio S. Francesco di Sales di Valdocco: «Col nome di salesiano io intendo significare tutti coloro che furono educati colle massime di questo gran santo. Quindi pur voi siete tutti salesiani!» Questa affermazione faceva eco alle parole pronunciate quattro anni prima, quando esortava i suoi exallievi a dimostrarsi ovunque «buoni salesiani». Ovviamente, il titolo di salesiano non implica qui alcuno statuto giuridico definito. E neppure è paragonabile a quello di Cooperatore salesiano. Soltanto quando diventa Cooperatore, l'exallievo entra a far parte di un organismo ufficiale dell'apostolato salesiano. Esiste invece una specie di segreto dell'exallievo, che consiste nel vincolo vitale e familiare che sussiste tra ex educatori ed ex educandi. Per don Bosco, infatti, i ragazzi usciti dall'Oratorio rimanevano figli ed egli stesso non voleva cessare di considerarsi loro padre. Dopo di lui, gli alunni usciti dalle case salesiane si chiamarono a loro volta figli ed exallievi «di don Bosco». La loro storia è quella di una famiglia che ha continuato a crescere e la cui organizzazione si è affermata nel corso degli anni fino a raggiungere un livello internazionale e mondiale. Altrettanto si deve dire delle exallieve delle Figlie di Maria Ausiliatrice.

Don Bosco e gli exallievi dell'Oratorio

All'origine, era don Bosco, la sua personalità e il suo metodo di educazione fondato sulla ragione, la religione e l'amorevolezza, e praticato nell'Oratorio in un clima che si voleva familiare. Questo metodo, come spiegava il Fondatore nel trattatello sul sistema preventivo, comportava un elemento di educazione permanente che «rende affezionato l'allievo in modo che l'educatore potrà tuttora parlare col linguaggio del cuore sia in tempo dell'educazione, sia dopo di essa. L'educatore, guadagnato il cuore del suo protetto, potrà esercitare sopra di lui un grande impero, avvisarlo, consigliarlo ed anche correggerlo allora che si troverà negli impieghi, negli uffizi civili e nel commercio». Non mancano le testimonianze, che provano che questa pedagogia dava buoni frutti. Da parte sua, don Bosco riceveva con gioia gli exallievi, corrispondeva con loro, provocava incontri con l'uno o con l'altro, invitandoli talvolta alle feste dell'Oratorio di Torino. Egli s'interessava della loro famiglia, dei loro affari e della loro vita cristiana. Gli accadeva di aiutare finanziariamente quelli che si trovavano in difficoltà. Usò pazienza e bontà verso coloro - ve ne furono anche di questi che erano diventati suoi avversari dopo aver approfittato della sua generosità. Alcuni dei suoi exallievi erano diventati sacerdoti, come Felice Reviglio, parroco di S. Agostino a Torino. Egli si felicitava con loro nel vederli consacrati al servizio delle diocesi, benché avesse voluto accoglierli in gran numero nella Società salesiana. La maggior parte erano laici, presenti in tutti i settori della vita civile e professionale. Fin dal 1855, dice don Lemoyne, si annoverava tra loro un «gran numero di operai, industriali, maestri, impiegati civili, graduati nella milizia, esercenti arti liberali», tutti usciti dall'Oratorio di Valdocco. Tra essi, uno dei più affezionati a don Bosco era Carlo Gastini. Accolto dal santo un giorno del lontano 1847, aveva lasciato l'Oratorio nel 1856, ma continuava a

considerarlo come la sua seconda casa e cercava di rendersi utile ogni volta che gli era possibile. Evidentemente, gli exallievi di Valdocco desideravano manifestare i loro sentimenti a don Bosco soprattutto in occasione del suo giorno onomastico, celebrato ogni anno con solennità il 24 giugno. Si vedevano allora ammucchiarsi sul suo tavolo lettere di auguri e di riconoscenza. Con il tempo, questo non bastò più. «Quella festa - scrive don Ceria - era il trionfo della riconoscenza per quelli che vivevano all'Oratorio; ma non poteva tardare molto la partecipazione anche dei tanti che, sebbene lontani di persona, vi si sentivano ognora vicini in spirito».

Le origini (1870).

Giustamente, è stato possibile far risalire il movimento degli Exallievi al 24 giugno del 1870. Quel giorno, infatti, una dozzina di artigiani ed operai di Torino - pare che, tra gli exallievi, fossero proprio gli operai i più affezionati - decisero di associarsi agli alunni interni nel festeggiare l'onomastico di don Bosco. Scelsero Carlo Gastini come rappresentante del gruppo e lo incaricarono di offrire a don Bosco i loro auguri ed un servizio da caffè. Per il santo, fu una gradita sorpresa. Venuti a conoscenza dell'iniziativa dei loro compagni, altri «antichi allievi», in numero sempre maggiore, si unirono ad essi. Fu costituito un comitato, il cui compito principale era quello di dar vita ad una seduta annuale di auguri. Nel 1871, i partecipanti erano quarantacinque. Nel 1874, don Bosco volle ricambiare l'omaggio del 24 giugno con un invito a pranzo che ebbe luogo il 13 luglio. Il momento più importante di questi banchetti era il brindisi di don Bosco, allegro, familiare, delicato. I buoni consigli - per esempio quello di rimanere degni figli di don Bosco - non mancavano mai. Nel 1875, alcuni di loro fondarono una banda musicale che, per suggerimento di Gastini, diede il primo concerto in onore di don Bosco. Nel 1878, in occasione di uno dei banchetti, fu decisa anche la fondazione di una cassa di mutuo soccorso per i giovani che, uscendo dall'Oratorio, fossero bisognosi di aiuto o di coloro che cadessero ammalati.

Nel 1880 si diedero nuove disposizioni. Considerato il crescente numero dei partecipanti, don Bosco propose loro due «ricevimenti» distinti, uno riservato ai laici, l'altro agli ecclesiastici. Così fu fatto fino alla sua morte ed oltre. Durante una di queste riunioni, tenuta il 13 luglio 1884, egli pronunciò parole significative per l'avvenire del movimento: «Voi eravate un piccolo gregge: questo è cresciuto, cresciuto molto, ma si moltiplicherà ancora. Voi sarete la luce che risplende in mezzo al mondo».

La prima Unione locale di exallievi (1894).

Il medesimo fenomeno di ritorno spontaneo degli exallievi si verificava in altre case fondate in Italia e altrove. Nel 1888, dopo la morte di don Bosco, gli exallievi ritornarono numerosi nelle case salesiane per rievocare con i loro educatori la sua figura. Ogni anno continuava ad essere celebrata da quelli di Valdocco la festa del mese di giugno. Intitolata «Dimostrazione filiale alla memoria di don Bosco», essa voleva associare nel medesimo omaggio di riconoscenza il fondatore dei Salesiani ed il suo successore. Un oratore scelto pronunciava il discorso previsto per la circostanza. Nel 1889, presero la parola il professore Alessandro Fabre e il teologo Felice Reviglio, in occasione dell'inaugurazione di una lapide commemorativa ai Becchi. Poco a poco si sentì il desiderio di un'organizzazione più compatta. Pare che la prima Unione locale di exallievi, di cui si conserva il regolamento, sia stata fondata nel 1894 tra gli antichi allievi del primo Oratorio festivo di Valdocco. Nel 1898, questa Unione partecipò all'inaugurazione del monumento innalzato in onore del fondatore dei Salesiani a Castelnuovo d'Asti. Fuori Torino, sappiamo che un'associazione analoga era stata fondata nel 1896 a Parma, attorno a don Baratta e sotto la presidenza di Giuseppe Micheli, deputato al parlamento italiano. Il loro esempio fu imitato a Faenza, a Milano, in Francia, Spagna, Belgio, Algeria, Argentina, e altrove. Nel 1898, don Rua se ne rallegra

va, chiedendo che si coltivasse ovunque fosse possibile l'associazione degli antichi allievi. Riferisce don Ceria che allora «in parecchie città d'Europa, d'America e anche d'Africa le Case Salesiane, aderendo al suo desiderio, indissero adunanze, formarono circoli, stesero regolamenti, diedero principio a frequenti corrispondenze».

Verso una Federazione internazionale Exallievi (1908).

Un altro passo avanti fu fatto nel periodo di congiunzione dei rettorati di don Rua e di don Albera. Fino a quella data, l'attaccamento a don Bosco ed all'opera salesiana serviva da vincolo tra le varie associazioni. Perché, si incominciava a pensare, non creare tra esse un vincolo organico? Perché non mettere in piedi federazioni regionali, nazionali e internazionali? Riunioni, come il congresso di Buenos Aires nel 1900, in cui si erano incontrati exallievi di varie case d'America, iniziative come la creazione nel 1906 di una società di exallievi della Lombardia, lasciavano presagire la formazione di gruppi più vasti. L'impulso decisivo sarebbe venuto da Torino e da un uomo decisamente onnipresente, don Rinaldi. Nel 1906, il collaboratore di don Rua promosse a Torino un «Circolo Giovanni Bosco» composto da exallievi che provenivano da diversi istituti. Scopo dei membri era condurre un'azione cristiana e sociale. Tra le loro attività avevano costituito anche una compagnia teatrale che ebbe un certo successo. Da questo Circolo torinese venne nel 1908 l'idea di una Federazione tanto vasta da legare insieme tutte le associazioni sparse nel mondo. Tale idea non pareva irrealizzabile, tanto più che in vari paesi si andava formando una corrente favorevole ad una organizzazione sul piano nazionale. Era il caso principalmente dell'Argentina, ma anche della Francia, del Belgio, del Brasile. Nel mese di luglio del 1909, il «Circolo Giovanni Bosco» poteva proporre uno statuto di Federazione internazionale, che sarebbe stato accettato ed a cui avrebbero aderito in breve un centinaio di gruppi. Di là all'idea di tenere un congresso internazionale degli Exallievi, il passo sarà breve.

Nascita dell'associazione Exallieve (1908).

Per quanto riguarda le exallieve delle Figlie di Maria Ausiliatrice, si può registrare un'evoluzione analoga nella progressiva evoluzione delle idee e dell'organizzazione. La prima manifestazione delle exallieve, a quanto pare, risale al 1881, quando le exallieve di Mornese parteciparono alla S. Messa funebre di trigesima per la morte di Madre Mazzarello. Il primo «Comitato exallieve» fu organizzato nel 1897 a Nizza Monferrato per il venticinquesimo anno di fondazione dell'Istituto delle Figlie di Maria Ausiliatrice. Ma la nascita dell'associazione delle Exallieve ebbe luogo nel marzo del 1908 con un gruppo di «antiche allieve» dell'Oratorio femminile di Torino-Valdocco guidate da don Filippo Rinaldi e da suor Caterina Arrighi. Dopo aver abbozzato il primo regolamento l'8 marzo di quell'anno, esso fu approvato il 19 marzo e si costituì subito la prima associazione. Stando a questo piccolo regolamento, fini dell'associazione erano: «1) tener desta la memoria degli anni passati nell'Oratorio incoraggiandosi vicendevolmente a perseverare ne' buoni principii, anche nella condizione di donne di famiglie; 2) assistere moralmente le compagne che prendono stato, nel difficile indirizzo di una nuova famiglia; 3) visitare le antiche compagne quando cadono ammalate, e prestar loro quell'appoggio di cui abbisognano, per quanto sarà possibile». Un anno dopo, fu fondata la «Sezione mutuo» per il vicendevole aiuto. Da allora in poi l'associazione cominciò a crescere dal centro di Torino verso cerchi periferici sempre più larghi.

I primi Congressi internazionali (1911 e 1920).

Previsto per il 1910, quale omaggio filiale per il giubileo sacerdotale di don Rua, ritardato di un anno a causa del suo improvviso decesso, il primo Congresso internazionale degli Exallievi di Don Bosco si riunì a Torino dall'8 al 10 settembre 1911. Due mesi prima, un giornale di

tendenza liberale aveva dato il tono: «Questo congresso rappresenta un fatto nuovo nella storia della pedagogia», spiegando poi che era la prima volta negli annali di questa scienza che aveva luogo una manifestazione di questo tipo, così vasta e così solenne. Effettivamente, vi furono circa mille partecipanti, e, tra essi, rappresentanti di 22 nazioni. Si disse che l'unità di spirito e di sentimento di quella grande assemblea, in cui si trovavano insieme uomini provenienti da paesi e da ambienti sociali molto diversi, non fosse un fenomeno comune. Riguardo alle realizzazioni concrete, vanno segnalate alcune iniziative per il futuro: approvazione degli statuti della Federazione internazionale, lancio del giornale degli Exallievi Federazione, e nomina del professore Pietro Gribaudi, consigliere comunale di Torino, alla carica di presidente internazionale. Promotore e anima del Congresso, don Rinaldi era lieto di constatare che l'organizzazione era ormai nelle mani degli Exallievi. Lo stesso anno ebbe luogo a Torino il primo Congresso internazionale delle Exallieve. Come tema aveva scelto di riflettere sul modo di diffondere nella famiglia e nella società lo spirito di don Bosco, specialmente per quanto riguardava l'educazione della gioventù. Il Congresso doveva inoltre procedere alla stesura del primo Statuto, all'elezione del primo Consiglio della Federazione italiana e alla formazione del «Comitato direttivo centrale Exallieve». Fu deciso anche la pubblicazione del primo numero del periodico associativo L'Eco dell'Exallieva. Un secondo congresso internazionale era previsto nel 1915 per il centenario della nascita di don Bosco e dell'istituzione della festa di Maria Ausiliatrice, ma la guerra troncò l'iniziativa. Terminata la guerra mondiale, il secondo Congresso internazionale fu convocato a Torino nel 1920 insieme a quello delle Exallieve delle Figlie di Maria Ausiliatrice e a quello dei Cooperatori, tutti riuniti a Torino per l'inaugurazione del grande monumento a don Bosco, davanti al santuario di Maria Ausiliatrice. I partecipanti furono più di un migliaio. In quell'occasione fu fissata come segue la composizione dell'ufficio di presidenza: due exallievi italiani, un francese, uno spagnolo e un tedesco. Inoltre, le strutture della Federazione si sarebbero modellate su quelle dell'organismo salesiano: attorno ad ogni casa, una unione o associazione locale; a

livello dell'ispettoria, un'associazione regionale; a livello di paese, un'associazione nazionale, legata alla Federazione internazionale. Si decideva anche la creazione, presso la casa madre, di un segretariato, al tempo stesso organo esecutivo e centro motore di tutto il movimento. Il giornale Federazione, sospeso durante la guerra, fu sostituito dalla rivista mensile Voci fraterne. Entrò in funzione un nuovo presidente internazionale che succedeva a Gribaudi, l'avvocato Felice Masera, exallievo di Fossano.

Ulteriori sviluppi.

In tutto questo lavoro, si avvertiva l'intervento discreto di don Rinaldi, che venne salutato col titolo di «fondatore della Federazione internazionale». Diventato Rettor maggiore nel 1922, egli continuò a prenderne cura nei limiti del possibile. Nel 1929, incaricò don Candela di occuparsene direttamente. Alle feste della beatificazione di don Bosco, ricordava «le balde falangi dei nostri ex allievi, dalle fronti serene, aperte, gioiose, e del portamento risplendente della familiarità salesiana, che li faceva distinguere fra mille». Lo stesso anno, alla presenza degli ispettori e direttori d'Italia, insisteva perché si affrontasse il tema degli Exallievi approfonditamente. Dopo di lui, don Ricaldone fece venire dall'Argentina don Serie, un esperto in materia, la cui attività al servizio della federazione del suo paese non era passata inosservata. Alla morte di Masera, avvenuta nel 1938, fu chiamato a succedergli Arturo Poesio, già allievo dell'Oratorio al tempo di don Bosco. Questi sarà protagonista infaticabile del movimento per mezzo secolo. Quando s'impose una nuova interruzione, negli anni 1939-1945, è già possibile un bilancio provvisorio? Indubbiamente, il movimento si è esteso, le associazioni ed unioni locali si sono moltiplicate un po' ovunque, seguendo l'espansione dei Salesiani: 61 nel 1920, 89 nel 1928, 110 nel 1940. Gli Exallievi, regolarmente iscritti alla Federazione, si contavano già a migliaia. Erano stati tenuti due importanti congressi internazionali. Essi avevano elaborato degli statuti che, nonostante il loro carattere embrionale, servivano da filo conduttore alle associazioni

locali. Bilancio apprezzabile in complesso, ma a questo movimento mancava ancora, pare, il ritmo e l'efficienza che fanno di un grande corpo un organismo vivente. Anche da parte delle Exallieve si costatava un forte incremento. Nel 1921 si celebrava il primo Congresso regionale piemontese e usciva il primo numero del periodico associativo Unione. L'anno seguente, per il cinquantesimo anno di fondazione dell'Istituto delle Figlie di Maria Ausiliatrice ebbe luogo a Torino il terzo Congresso internazionale. Un Convegno nazionale si riunì ancora nel 1933 per il venticinquesimo anno della fondazione dell'Unione, ma la situazione politica e la guerra provocarono un lungo periodo di stasi.

Nascita delle due Confederazioni mondiali (1953-1956).

Il dopoguerra coincide con un periodo brillante nella storia degli Exallievi di don Bosco. Gli sforzi di don Serie e del suo valido collaboratore, il dinamico segretario generale don Umberto Bastasi, cominciarono allora a dare i loro frutti, mentre il presidente Poesio manteneva il contatto con tutte le federazioni del mondo. Dal 10 al 13 settembre 1953, per la prima volta, i dirigenti del movimento in Italia si riunirono in assemblea nazionale alla presenza di don Ziggiotti. Il loro primo obiettivo fu di consolidare e sviluppare l'organizzazione nel paese. A questo scopo, essi elaborarono il regolamento delle Unioni locali, quello delle Federazioni regionali e quello della Federazione nazionale italiana. Ma il compito dell'assemblea non si arrestò qui. Da autentica assemblea costituente, affrontò un nuovo progetto di statuto generale, poiché quello del 1920 era giudicato inattuale e troppo rudimentale. Si decise quindi di sostituire la vecchia Federazione internazionale con una Confederazione mondiale, destinata a raggruppare tutte le Federazioni nazionali ormai giudicate sufficientemente consistenti e mature. Dal 21 al 23 novembre 1954, si riunì il 1° Convegno mondiale dei

presidenti nazionali in occasione della glorificazione di san Domenico Savio. Erano presenti 36 presidenti di Federazioni nazionali, altri 21 erano rappresentati. Fu esaminato il progetto di statuto generale elaborato l'anno precedente. Dopo una discussione serrata, era pronto un testo, che sarebbe stato adottato ad experimentum per un anno. Nel frattempo, la presidenza della Confederazione era incaricata di studiare le eventuali proposte e preparare un testo definitivo. Un anno dopo l'incontro - che fu definito storico - dei presidenti nazionali, la presidenza confederale si radunò dall'11 al 13 novembre 1955. Fu approvato, con il consenso di don Ziggiotti, il testo definitivo dello Statuto-base della Confederazione mondiale, testo che fu promulgato nel 1956 a Buenos Aires in occasione di un Congresso interamericano degli Exallievi. Era il coronamento ed il termine di ottantacinque anni di lavoro organizzativo. Nel 1957 venne celebrato il cinquantesimo anniversario della Federazione internazionale, divenuta Confederazione mondiale, con un Congresso a Roma, che radunò i dirigenti e 200 delegati di tutto il mondo. Nello stesso anno fu anche pubblicato un manuale di pietà e di vita cristiana per nutrire la vita spirituale dell'exallievo. Nel 1964 venne eletto alla presidenza uno Spagnolo, José Maria Taboada Lago. Se ci riferiamo alle statistiche pubblicate in quell'anno da don Bastasi, segretario generale della Confederazione, soltanto l'Italia contava allora 170.000 iscritti. Esistevano in tutto 59 Federazioni nazionali. Le Unioni locali erano 639, suddivise come segue: 377 in Europa (di cui 217 in Italia, 74 in Spagna e 41 in Francia), 17 in Africa, 5 nel Medio Oriente, 36 nell'Estremo Oriente (di cui 11 in India), 20 nell'America del nord, 15 nell'America centrale (di cui 10 nel Messico e 9 negli Stati Uniti), e 169 nell'America del sud (tra cui 61 in Argentina e 42 in Brasile). Il periodico Voci fraterne continuava a servire da organo internazionale, ma altre quindici pubblicazioni erano sorte al suo fianco, in spagnolo, francese, tedesco, portoghese, olandese, ed anche in assamese e in cinese. Le Exallieve, da parte loro, revisionarono il primo Statuto nel 1953

e stesero i regolamenti delle Federazioni ispettoriali. Nel 1958, per il cinquantesimo anniversario della fondazione, l'Unione celebrò il suo quarto Congresso internazionale.

La testimonianza della vita.

Don Bosco desiderava che i suoi exallievi, membri della sua famiglia, conservassero lo spirito dell'Oratorio, continuando e prolungando l'educazione ricevuta a favore degli altri. Essi dovevano provare a tutti che era possibile vivere «da buoni cristiani e da onesti cittadini». Ai suoi tempi, egli si mostrava ottimista: «Una cosa però della quale fin d'ora dobbiamo ringraziare grandemente il Signore - così si esprimeva egli nel 1884 - e che forma la mia più grande consolazione si è che dovunque io vado, ascolto sempre buone notizie di voi: da tutte le parti si parla bene dei miei antichi figlioli». I Rettori maggiori, dopo di lui, hanno chiesto agli exallievi di fare onore al loro titolo. Li hanno invitati a vivere nello spirito di don Bosco ed a diffonderlo attorno a sé, nel loro ambiente familiare, professionale o sociale. Don Rua li chiamava «i miei diletti fratelli». Don Albera, che era stato testimone del loro attaccamento a don Bosco in occasione dell'erezione del monumento al grande educatore, affermava che gli Exallievi costituivano «il più bello e vero monumento di don Bosco». Per don Rinaldi, gli Exallievi erano «coloro che furono educati ai più alti sensi di fede e civiltà» e «formano e costituiscono un'unica grande famiglia». Don Ricaldone ricordava che «nel concetto di don Bosco, gli Exallievi sono i Salesiani in mezzo al mondo» e raccomandava a ciascuno addirittura di considerarsi, ovunque si trovasse, e in particolare nella propria famiglia, come il «direttore di una piccola casa salesiana». Per don Ziggiotti, essi costituivano l'avanguardia attiva del movimento salesiano. È difficile valutare in che misura gli Exallievi e le Exallieve rispondessero nella vita concreta agl'ideali dell'educazione ricevuta nelle case salesiane. Si potrebbe dire che vi sono sempre state diverse categorie di persone: quelle «fedeli» che si felicitavano dell'educazione ricevuta nelle

case salesiane e quelle che, per un motivo o per l'altro, ne ricordavano anche le deficienze. Pare tuttavia che la riconoscenza e l'affetto verso i loro educatori e le loro educatrici - anche se non possedevano tutti i carismi di don Bosco e di madre Mazzarello - fossero gli elementi predominanti nella maggioranza. È stato affermato che un exallievo su cinque era affiliato al movimento: è poco se si tien conto soltanto della percentuale, ma è molto, se si guarda alla natura di questo tipo di associazione. Don Serie ha potuto fornire alcuni esempi concreti dell'opera cristiana e salesiana degli Exallievi. Egli citava un exallievo che dedicava i suoi svaghi domenicali ai giovani del suo quartiere; un altro che, conscio dell'importanza delle vocazioni, era riuscito a mandare ad Ivrea quaranta aspiranti. Ricordava le figure eroiche di Spagna, del Messico, della Cina, che avevano rischiato la propria vita per salvare quella dei Salesiani ricercati. Da conoscitore, egli sottolineava il disinteresse dei dirigenti, impegnati ad aiutare i loro compagni, ad organizzare attività, incontri, ritiri. E non dimenticava quelli che erano affiliati a movimenti di Azione Cattolica. Nel decorso di un secolo, il movimento degli Exallievi e delle Exallieve è cresciuto con l'espansione delle opere salesiane, fino a diventare la presenza salesiana più numerosa e più diffusa nel mondo. Attraverso innumerevoli canali più vivi di quanto si possa comunemente credere, ma spesso sconosciuti, l'azione degli Exallievi, in fedeltà dinamica all'educazione ricevuta, avrebbe contribuito anch'essa a «fare storia salesiana». Nuove sfide e nuovi impulsi si presenteranno, come a tutte le organizzazioni, a partire dagli anni 1960, caratterizzati dalle mutazioni nella società e dal rinnovamento conciliare.

Parte Terza.

DI FRONTE ALLE NUOVE SFIDE, (1965-2000).

Capitolo XXXI.

PRIMI APPUNTAMENTI CONCILIARI (1965).

15 agosto 1965. Nella borgata dei Becchi, diventata Colle Don Bosco, nella cripta del grande tempio che i Salesiani avevano deciso d'innalzare in onore del loro Fondatore durante le ore buie della guerra, una messa solenne raccoglieva attorno a don Luigi Ricceri, nuovo Rettor maggiore, rappresentanti di tutti i rami della Famiglia salesiana. Il luogo ed il momento erano in piena sintonia con l'oggetto della celebrazione. Poco lontano di là, infatti, era nato centocinquant'anni prima, il santo che era all'origine di tutto: Giovanni Bosco. Per coloro che, direttamente o grazie alla televisione, partecipavano alla celebrazione, il contrasto tra l'umiltà della casetta dei Becchi e l'espansione dell'Opera salesiana nel mondo appariva come una realtà che destava stupore. Più discretamente, sei anni prima, la Società salesiana era entrata con il 1959 nel suo secondo secolo di vita. All'inizio di quell'anno, il nuovo Papa Giovanni XXIII aveva dato l'annuncio di un Concilio ecumenico, che avrebbe segnato una nuova tappa nella storia della Chiesa e della Famiglia salesiana.

Prima e durante il Concilio Vaticano II (1959-1965).

Don Ziggiotti fu ricevuto per la prima volta in udienza da Giovanni XXIII il 15 gennaio 1959. L'incontro con questo Papa, così vicino allo spirito di semplicità popolare e di amorevolezza salesiana, suscitò subito grandi simpatie nei figli di don Bosco. Dopo una nuova udienza

papale il 29 febbraio 1960, don Ziggiotti accennò per la prima volta negli «Atti del Capitolo Superiore» al Concilio ecumenico, chiedendo preghiere «per il Papa, per le sue sante intenzioni, e specialmente per il futuro Concilio ecumenico, che è in cima a tutte le sue aspirazioni, e al quale ha detto che vuol consacrare tutta la sua vita». Dopo la terza udienza il 13 settembre dello stesso anno, il Rettor maggiore invitava ufficialmente i Salesiani alla preparazione al Concilio ecumenico mediante l'offerta della propria vita e la preghiera quotidiana. Dal 31 maggio al 2 giugno 1962, circa quattromila Cooperatori si recarono in pellegrinaggio a Roma e a Pompei per implorare la benedizione di Dio sul Concilio, che doveva aprirsi poi l'11 ottobre. Don Ziggiotti fu invitato a partecipare alla prima sessione (dall'11 ottobre all'8 dicembre 1962), essendo stato scelto dal Papa quale membro della commissione dei religiosi. Nella sua valutazione, la prima sessione fu della massima importanza, in quanto «utilissimo esperimento delle difficoltà che presenta un'assemblea così numerosa e così varia», ma anche «scuola mirabile» e «responsabilità per noi sacerdoti, religiosi, laici chiamati all'apostolato, di corrispondere più e meglio alla nostra vocazione». Il Rettor maggiore partecipò anche alla seconda sessione dal 29 settembre al 4 dicembre del 1963. All'inizio del 1964, don Ziggiotti comunicava ai Salesiani che «nella speranza di poter celebrare il nostro XIX Capitolo generale a Roma, nella nuova sede del Pontificio Ateneo Salesiano, d'accordo col Capitolo, ho chiesto alla Santa Sede l'autorizzazione a spostare la data della celebrazione, che avrebbe dovuto essere per i primi di agosto». Così la data del Capitolo generale fu fissata per il 1965, tra la terza e la quarta sessione del Concilio.

Don Luigi Ricceri, nuovo Rettor maggiore.

Il Capitolo fu aperto l'8 aprile 1965 a Roma per la prima volta, nella nuova sede dell'Ateneo salesiano, in pieno clima conciliare. Uno dei primi atti fu di eleggere un nuovo Rettor maggiore. La sera precedente l'elezione, infatti, dice la cronistoria, don Ziggiotti «aveva espresso con definitiva chiarezza quello che più volte aveva già accennato, cioè la sua

intenzione di non accettare una eventuale rielezione». Era la prima volta che un successore di don Bosco faceva tale dichiarazione. Rapidamente i voti si concentrarono sul nome di don Luigi Ricceri, finora incaricato dei Cooperatori e della stampa. Il sesto successore di don Bosco era nato a Mineo, presso Catania in Sicilia, l'8 maggio 1901. Ordinato sacerdote nel 1925, a ventiquattro anni, non tardò ad assumere importanti responsabilità. Nel 1935, fu chiamato a dirigere l'opera salesiana di Palermo, mentre don Ziggiotti era ispettore nell'Isola. Cinque anni dopo, fu mandato a Messina come direttore dell'Istituto Domenico Savio. Nel frattempo, a Torino, le sue qualità di organizzatore dinamico e ingegnoso non passavano inosservate, così che nel 1942, in piena guerra, don Ricaldone lo chiamò a guidare l'ispettoria subalpina. Nel 1952 fu nominato ispettore di Milano, ma dopo un anno don Ziggiotti lo chiamò a far parte del Capitolo superiore, affidandogli due settori importanti dell'apostolato moderno: quello del laicato cristiano, attraverso i Cooperatori, e quello della stampa. Avrebbe dedicato ad entrambi dodici anni di lavoro intenso. Don Ricceri s'impegnò ad accrescere non solo il numero, ma anche la qualità spirituale ed apostolica dei membri dell'Unione dei Cooperatori, grazie ad uno sforzo di formazione e di selezione. La loro organizzazione fu consolidata e resa più efficace dalla ricerca di attività nuove più adatte ai cristiani del tempo. Spiegando ai propri confratelli la posizione precisa dei Cooperatori nel complesso della Famiglia salesiana, don Ricceri riusciva a ridare importanza ed attualità alla loro missione. Nel campo della stampa, le sue realizzazioni rivelavano una concezione moderna del giornalismo e dell'informazione: adattamento del Bollettino salesiano che fu stampato in offset ed illustrato abbondantemente, creazione a Torino dell'«Agenzia Notizie Salesiane» (ANS), organizzazione dell'Ufficio Stampa, e lancio di Meridiano 12, rivista mensile che nel 1955 raccolse l'eredità delle Letture cattoliche fondate da don Bosco circa cento anni prima. Si può pensare che questa grande attività, con i viaggi ed i contatti che esse supponevano, avesse dato a don Ricceri una visione aperta dei compiti della Chiesa e della Congregazione nel loro tempo. Indubbiamente, queste considerazioni non furono estranee al voto del 27 aprile 1965. Scegliendo don Ricceri come Superiore generale, i

membri del Capitolo generale mettevano a capo della Società salesiana un uomo che ne conosceva bene gli affari interni e che sapeva, inoltre, mostrarsi aperto ai problemi del mondo. Il suo programma veniva di fatto espresso senza indugio in questo motto: «Con don Bosco vivo, oggi, di fronte alle esigenze del nostro tempo e alle attese della Chiesa». In altre parole, la Società di S. Francesco di Sales stava per iniziare con don Ricceri il processo di aggiornamento voluto da Giovanni XXIII quando decise di convocare un Concilio ecumenico.

Il Capitolo generale XIX (1965)

Le preoccupazioni e le aspettative che avevano presieduto alle elezioni si manifestarono anche durante tutto il diciannovesimo Capitolo generale, il primo indubbiamente di una nuova epoca della storia salesiana. L'impatto del Concilio fu determinante sulla conduzione dei lavori. «Durante i lavori capitolari - scriverà don Ricceri un anno dopo - si è avuta netta la sensazione che tutti i presenti guardavano ansiosamente al Concilio ecumenico Vaticano II. L'atmosfera di Roma ha evidentemente alimentato questo clima di tensione primaverile, colma di promesse». Dalle parole di Giovanni XXIII nel discorso di apertura della prima sessione si coglieva l'idea che anche il Capitolo avrebbe un carattere «preminentemente pastorale». Tra i documenti del Concilio già promulgati, i capitolari utilizzarono soprattutto la costituzione Sacrosanctum Concilium sulla sacra liturgia, il decreto Inter mirifica sui mezzi di comunicazione sociale e la costituzione dogmatica Lumen gentium sulla Chiesa, ma anche gli altri documenti erano già sostanzialmente noti perché già preparati e discussi nelle sessioni conciliari precedenti. Per la prima volta il numero dei capitolari superava i centocinquanta. Mancavano all'appello per ragioni politiche un ispettore di Polonia, ed i rappresentanti delle ispettorie ungherese, boema e slovacca. Sull'esempio del Concilio, furono invitati al Capitolo generale una ventina di esperti, tra cui due coadiutori. I lavori propriamente detti, iniziati il 19 aprile 1965, si prolungarono fino al 10 giugno, stabilendo così un primo record. Condotte in un clima di libertà, le discussioni furono

spesso vivaci. Su vari punti si manifestavano delle divergenze, poiché gli uni mettevano l'accento soprattutto sulla necessità di un «adattamento», mentre altri insistevano piuttosto sulla «fedeltà». Don Ricceri intervenne spesso, sia per garantire la libertà d'espressione dell'assemblea, quale detentrice dell'autorità suprema sulla Congregazione, sia per chiedere un approfondimento di alcune tematiche sensibili. Riconoscendo in tutti un'identica «passione sacerdotale e salesiana», egli contribuì a facilitare la continuazione dei lavori. Sul piano del lavoro compiuto, si costata che il Capitolo generale XIX è stato molto impegnativo. Pare che, per registrare tutti i dibattiti, fossero stati necessari venticinque chilometri di nastro magnetico. Vennero alla luce ventidue documenti, che toccavano i temi tradizionali della vita salesiana, ma con un certo numero di orientamenti nuovi ovviamente ispirati dal Concilio. Il primo era dedicato alle strutture della Congregazione. Poi venivano sette documenti riguardanti la pastorale delle vocazioni, gli aspirantati, la formazione del personale in genere, e del coadiutore in particolare, la vita religiosa, la vita liturgica e di pietà, e infine la direzione spirituale dei confratelli. Seguivano i documenti che concernevano l'apostolato, non solo l'apostolato giovanile, le scuole professionali, le parrocchie e gli oratori, ma anche altre forme di apostolato sociale come la catechesi degli adulti, delle famiglie, degli insegnanti non salesiani e dei lavoratori. I documenti seguenti precisavano vari impegni specificamente salesiani: l'assistenza ai Cooperatori salesiani, agli Exallievi e alle Figlie di Maria Ausiliatrice, la gestione di case per esercizi spirituali, l'uso degli strumenti di comunicazione sociale e il lavoro nelle missioni. Il documento XIX sulla formazione dei giovani toccava alcuni temi d'attualità, come il problema della messa quotidiana, l'educazione all'amore, le vacanze, le associazioni giovanili. I tre ultimi documenti riportavano il Regolamento del Capitolo generale riveduto e aggiornato, le modifiche alle Costituzioni e ai Regolamenti della Società salesiana.

Riesame delle strutture della Congregazione.

In primo luogo, il Capitolo generale XIX si distinse per alcune importanti norme riguardanti il funzionamento stesso dell'organismo salesiano ai diversi livelli.

Al livello del «Consiglio superiore» (prima chiamato Capitolo superiore), si voleva accrescere la funzionalità e l'efficacia del governo centrale, favorendo nello stesso tempo la partecipazione di tutti e una certa forma di decentramento. Il numero dei consiglieri fu portato da cinque a nove. Fu istituito, accanto al direttore spirituale generale, un nuovo consigliere incaricato di tutto il personale in formazione, dalla prima professione fino al completamento del ciclo formativo. Appare per la prima volta anche un consigliere per la pastorale giovanile e parrocchiale, dato lo stretto rapporto tra i due aspetti. Ad un altro consigliere fu affidato l'apostolato tra gli adulti, il quale doveva occuparsi di vari settori: i Cooperatori, gli Exallievi, la propaganda, l'informazione salesiana e gli strumenti di comunicazione sociale. A ciascuno degli altri sei consiglieri venne affidato un gruppo di ispettorie di una determinata regione geografica, e che possedevano tra loro un insieme di affinità naturali. Ciascuno di questi gruppi di ispettorie formava una «conferenza ispettoriale» presieduta dal consigliere incaricato (o consigliere regionale). Al livello di ogni ispettoria, si cercò il potenziamento del consiglio ispettoriale con la creazione, accanto all'ispettore, di un vicario ispettoriale, con l'aumento del numero dei consiglieri, e con l'istituzione di vari delegati ispettoriali e di commissioni di esperti. Infine, al livello di ogni casa e comunità, i religiosi furono invitati a partecipare più attivamente all'opera comune esercitando le loro responsabilità in maniera collegiale. Al direttore, che rimaneva sempre il «centro di unificazione e di propulsione» della comunità, veniva ricordato che la parte essenziale della sua missione era di ordine spirituale e educativo, più che amministrativo e disciplinare. Per aiutarlo ad assolvere il compito suo peculiare, furono previsti corsi di preparazione per futuri direttori e corsi di perfezionamento per direttori in carica. Il consiglio della casa fu aperto anche ai coadiutori, quando questo trattava i problemi correnti dell'attività salesiana.

Aggiornamento della formazione.

Subito dopo le strutture, la riflessione si concentrava sulla formazione. Trattando della vita religiosa e dei voti, il Capitolo del 1965 si persuase che fosse giunto il momento di un «serio approfondimento dottrinale e vitale». Sul piano della dottrina, diede l'esempio elaborando una breve sintesi teologica e salesiana dei tre voti e della vita di comunità, primo abbozzo di quella «Regola spirituale» da esso desiderata. Infatti, mentre le Costituzioni ed i Regolamenti rispecchiavano soprattutto l'aspetto canonico della vita religiosa, si auspicava qualcosa che fosse «l'espressione condensata della missione, dello spirito e della vita religiosa dei Salesiani, in termini di teologia e di spiritualità, sulla traccia di testi della tradizione salesiana e alla luce del rinnovamento spirituale della Chiesa e del Concilio». Per favorire il rinnovamento della vita spirituale, furono prese misure pratiche, come quelle di adattare alla riforma liturgica le pratiche di pietà in uso, di rivalorizzare la direzione spirituale, di rinnovare le formule delle preghiere tradizionali. Oltre a questo, fu studiata l'idea di organizzare un secondo noviziato di almeno sei mesi, dopo dieci anni circa di sacerdozio per i sacerdoti e dieci anni di attività apostolica per i coadiutori. Ad un periodo in cui si esaltava l'attività in continua effervescenza, non esente dal rischio di superficialità o di esaurimento, succedeva un periodo in cui l'approfondimento della vita spirituale e quindi della vocazione apostolica dei religiosi veniva tenuto in altissima stima. «Ormai - scriveva don Ricceri - ogni manifestazione della nostra attività reclama gente qualificata in campo teologico, liturgico, filosofico, pedagogico, scientifico, tecnico, scolastico, artistico, ricreativo, amministrativo». Si aggiungevano vari motivi perché quest'esigenza di qualificazione fosse profondamente sentita da molti religiosi. Si trattava in primo luogo dell'armonico sviluppo del Salesiano in tutte le sue dimensioni umane e spirituali. Questa prospettiva umanistica, che non era nuova, diventava più esplicita nella misura in cui la persona del religioso veniva posta in primo piano: la persona, si diceva, passa prima delle opere, il Salesiano è «al centro di tutto». Inoltre, secondo l'esempio del Concilio,

occorreva saper rispondere alle attese e ai bisogni degli uomini del tempo. Per assolvere la missione come si doveva, diventava necessario essere competenti e don Ricceri non aveva timore di denunciare la «candida illusione» di coloro che s'immaginavano che fosse sufficiente soltanto un po' di buona volontà.

Piano di ridimensionamento delle opere.

Per quanto riguardava le opere dell'apostolato salesiano, una parola ha fatto fortuna nel Capitolo generale del 1965: «ridimensionamento». In altri termini, si prospettava uno «sviluppo regolato delle nostre opere». Anche la parola di Paolo VI nell'udienza concessa ai capitolari sembrò andare nello stesso senso: «Occorrerà distinguere - diceva il Papa - le forme essenziali da quelle contingenti; le forme interiori, animatrici del vostro sistema pedagogico e della vostra arte di educatori, da quelle esteriori, di per sé suscettibili di perfezionamento e di diverso esperimento; le forme valide sempre da quelle che le mutate condizioni dei tempi rendessero stanche o inefficaci». Il ridimensionamento rispondeva infatti ad un desiderio largamente diffuso tra i Salesiani, i quali, se avevano motivo di rallegrarsi per una espansione quasi continua durante un secolo, erano preoccupati del rendimento spirituale ed educativo delle loro molteplice attività. Si auspicava dunque una «nuova epoca» nella storia della Congregazione, quella del rafforzamento interiore ed esteriore delle opere. In concreto, si voleva una semplificazione delle case troppo grandi e una riduzione delle opere troppo piccole. Agli ispettori fu chiesto di tracciare un «piano preciso di ridimensionamento tenendo conto del numero dei confratelli, delle particolari condizioni dei luoghi e dei tempi, delle possibilità del futuro, della gerarchia e dell'attualità delle opere stesse». Tra le opere in qualche modo rivalorizzate dal Capitolo generale XIX vi fu la parrocchia, nella quale s'intravedeva «ampi orizzonti di

apostolato ecclesiale» e possibilità di un «lavoro pastorale permeato di stile e di spirito salesiano». Proponendo una nuova interpretazione di un articolo piuttosto restrittivo delle Costituzioni, il Capitolo dichiarava che la Società salesiana «non ricusa che le siano affidate parrocchie». D'altra parte, il Capitolo generale si mostrò risoluto a rimettere in onore l'antico oratorio, opera aperta e popolare. Si disse convinto che la diminuzione di simpatia di cui aveva sofferto, soprattutto a beneficio dei collegi, non doveva occultare il ruolo che poteva assolvere ai nostri giorni, purché diventasse un autentico «centro giovanile», provvisto di qualificato personale educativo e inserito nella vita della Chiesa. Venivano anche incoraggiati i pensionati, che sembravano rispondere ad una necessità reale dei giovani lavoratori e studenti, obbligati ad un regime di «migrazione interna». Quanto alle scuole professionali, che avevano avuto recentemente un forte aumento di allievi, godettero di un ritorno d'interesse, grazie alla sensibilità della Chiesa conciliare per il mondo del lavoro, per i poveri e i paesi in via di sviluppo. Ma d'altra parte, esse dovevano tener conto dei progressi della tecnologia in quegli anni, in cui molti laboratori di tipo artigianale dovevano per forza chiudere o ridimensionarsi.

Pastorale giovanile.

Durante il Capitolo generale XIX si cominciò anche sulla scia del Concilio a designare le diverse attività dei figli di don Bosco in termini di pastorale. Don Ricceri, in un'intervista rilasciata ad un giornale nel settembre del 1965, riassumerà la loro missione specifica nella Chiesa con una parola: la pastorale giovanile. Occorreva anzi tutto conoscere e rispettare il giovane di oggi, diceva il documento sulla formazione dei giovani. Più che nel passato, infatti, il giovane aveva acquistato un vivo senso della libertà, un vivo senso sociale e un vivo senso di aderenza al mondo di oggi. In educa

zione, un certo protezionismo, tollerato nella società patriarcale del secolo XIX, sembrava per molti superato. L'educatore salesiano era chiamato ad assecondare tutto ciò che di positivo era in questi nuovi atteggiamenti e ad aiutare i giovani a dare il loro contributo alla costruzione del mondo e della Chiesa. Lo scopo da raggiungere, secondo la Lumen gentium, era di formare un membro vivo del Corpo di Cristo e del popolo di Dio, attento a «cercare il regno di Dio attraverso il governo delle realtà temporali», e consapevole di essere chiamato alla santità. Nel campo dell'azione pastorale, fu ribadita l'urgenza della catechesi e della formazione dei confratelli all'apostolato catechistico. Una discussione vivace accadde sull'obbligo della messa quotidiana nelle case salesiane. Dopo aver ricordato, con riferimento alla costituzione Sacrosanctum Concilium, che la liturgia è «il culmine verso cui tende l'azione della Chiesa», e sentito l'intervento di don Ricceri, il Capitolo generale volle confermare la validità della tradizione salesiana, riconoscendo tuttavia che esistevano situazioni particolari da seguire attentamente. Un punto delicato della formazione era quello di proporre un'educazione all'amore e alla purezza tenendo conto di nuovi ambienti che si aprivano alla mixité. Sul tema del tempo libero, al quale la società dava un valore nuovo, il Salesiano era chiamato ad educare i giovani alla vera libertà dei figli di Dio, mentre sul tema delle vacanze degli interni si profilava una più grande possibilità per loro di passare qualche festa e domenica in famiglia. A proposito delle associazioni della gioventù salesiana, si doveva curare il loro inserimento nelle organizzazioni di Azione Cattolica e di apostolato dei laici. Per dare vita agli orientamenti di questo primo Capitolo «pastorale», fu decisa la costituzione di un Centro di pastorale giovanile che avesse come scopo «di promuovere e di coordinare tutti gli aspetti essenziali della formazione giovanile salesiana, e cioè la catechesi, la liturgia, la formazione spirituale e morale, la formazione sociale, l'associazionismo vocazionale, la cultura e il tempo libero». Lo schema strutturale della

pastorale giovanile doveva ripetersi a livello nazionale e ispettoriale fino alla comunità educativa, in modo tale che tutta l'attività educativa fosse impregnata dalla pastorale.

L'apostolato degli adulti.

Mentre si discuteva della pastorale giovanile, una corrente importante del Capitolo insisteva sull'importanza del lavoro con gli adulti e della formazione di cristiani adulti. Senza voler negare la priorità che i Salesiani davano ai giovani, tuttavia, in nome di una tradizione ininterrotta, essi pensavano che la loro presenza in altri settori fosse giustificata e corrispondeva all'attesa della Chiesa. Sotto vari aspetti, questo lavoro era complementare all'altro. Infatti, come occuparsi validamente dell'educazione dei giovani se si trascurano i contatti con i genitori, la società civile e la Chiesa? Il Capitolo generale XIX ha enumerato non meno di nove settori di apostolato a favore degli adulti. Alcuni erano tradizionali, come l'assistenza ai Cooperatori, agli Exallievi, il servizio sacerdotale presso le Figlie di Maria Ausiliatrice, o le missioni. Gli altri, pur non essendo veramente nuovi, hanno beneficiato di una maggior pubblicità che in altri tempi. La parrocchia offriva molte possibilità nell'apostolato degli adulti, ad esempio nella preparazione di laici militanti, o nell'evangelizzazione dei poveri e dei lontani. Gli apostolati cosiddetti sociali ebbero una larga risonanza nel Capitolo, dato il loro carattere di integrazione e sviluppo dell'apostolato giovanile e popolare. Furono promossi in particolare la catechesi per gli adulti, l'apostolato familiare e la formazione dei professori e insegnanti laici. L'apostolato tra i lavoratori o pastorale operaia era all'ordine del giorno dopo l'enciclica Mater et magistra sulla questione sociale (1961), e dopo la Pacem in terris (1963) in cui Giovanni XXIII aveva indicato tra i «segni dei tempi» la promozione del mondo del lavoro. La promulgazione recente del decreto Inter mirifica offriva inoltre una speciale attualità al tema degli strumenti di comunicazione sociale, data la loro «enorme importanza per la formazione dell'opinione pubblica e della coscienza cristiana». Oltre alla stampa, strumento tanto caro a don Bosco, il Salesiano era ormai invitato a preoccuparsi degli altri strumenti moderni di comunicazione, dallo spettacolo al cinema,

dalla radio alla televisione. In linea generale, l'apostolato tra gli adulti era ritenuto molto utile, perché metteva chi lo compiva in contatto con l'azione viva della Chiesa, negli ambienti naturali cui il Vangelo è destinato.

La Congregazione ad una svolta.

Presentando ai confratelli gli Atti del Capitolo generale XIX, don Ricceri riconosceva apertamente che la Congregazione era giunta a una svolta, precisando che «per svolta s'intendeva camminare sulla stessa via pur con orientamenti, impulsi e strumenti nuovi». All'alba del secondo secolo della sua storia, la famiglia di don Bosco appariva agli occhi dei contemporanei in dimensioni così vaste da alimentare un ottimismo fiducioso tra i suoi membri. Ma le nuove situazioni nel mondo e nella Chiesa provocarono in seno ad essa anche interrogativi nuovi, di cui il Capitolo generale XIX, sulla scia del Concilio Vaticano II, fu il primo rivelatore. Da allora, sarebbero apparsi orientamenti parzialmente originali, al fine di adattare la Società salesiana alle attese e ai bisogni del mondo contemporaneo. Testimoniando ad essa la fiducia rinnovata della Chiesa in occasione dell'udienza del 21 maggio 1965, il Papa Paolo VI l'incoraggiò a progredire, utilizzando parole che, per quanto lusinghiere, comportavano però un invito al superamento: «I Salesiani rappresentano uno dei fatti più notevoli, più benefici, più esemplari, più promettenti del cattolicesimo nel secolo scorso e nel nostro; e voglia Iddio che così sia in quelli futuri». Indubbiamente, il Capitolo generale XIX segnò l'inizio di un cammino nuovo, anche se non tutti ebbero la possibilità di cogliere subito il profondo rinnovamento del Vaticano II. In parte, fu anche un Capitolo di transizione. Infatti, un anno dopo la chiusura arrivò l'indizione, con il motu proprio Ecclesiae sanctae, di un Capitolo generale speciale per tutti gli istituti religiosi. Così si spostò ben presto l'attenzione dal presente al futuro, distraendo, secondo il giudizio di don Viganò, dall'applicazione di non pochi «orientamenti anticipatori» del Capitolo del 1965.

Capitolo XXXII.

IL DOPO CONCILIO (1965-1977).

L'anno 1965 segnava la fine del Concilio Vaticano II e l'inizio del periodo postconciliare. Nella Congregazione salesiana era l'inizio del rettorato di don Luigi Ricceri, eletto superiore generale dal Capitolo generale XIX. In tutti i campi fu un periodo di profonde e rapide mutazioni, sia nella società civile e nel mondo, sia nella Chiesa di Paolo VI e nella Famiglia salesiana. A metà strada si collocava il Capitolo generale speciale delle Figlie di Maria Ausiliatrice (1969) e quello dei Salesiani (1971-1972). A partire dall'anno 1978 comincerà un nuovo pontificato e un nuovo rettorato.

La crisi.

A partire degli anni 60, profonde trasformazioni scossero il mondo, facendo emergere una nuova cultura, che i mezzi moderni di comunicazione sociale cominciavano a diffondere nell'intero pianeta. La conquista dello spazio, le nuove tecnologie e lo sviluppo delle scienze umane aprivano all'uomo della seconda parte del secolo XX orizzonti nuovi, dandogli un senso di potenza. Nello stesso tempo si accentuavano le fratture ideologiche di fronte ai problemi sociali e a quelli del terzo mondo. I più vulnerabili di fronte a questi cambiamenti erano i giovani, «questa porzione la più delicata e la più preziosa dell'umana società», come diceva già don Bosco a suo tempo.

L'anno 1968 fu l'anno simbolo della contestazione giovanile e delle grandi manifestazioni studentesche nei paesi occidentali. Si assisteva intanto all'emergenza di un fenomeno gioventù, in parte dovuto all'allungamento del tempo della scolarità e caratterizzato da una mentalità e da atteggiamenti largamente diffusi: rifiuto del passato, critica alle istituzioni, desiderio di libertà, nuove mode nel vestire, gusti musicali comuni, ecc. Nello stesso tempo si potevano osservare nella gioventù alcuni comportamenti inquietanti, come l'emarginazione volontaria, il mutare dei costumi, la tossicodipendenza e la delinquenza. Nella Chiesa, il dopoconcilio era caratterizzato da uno straordinario gorgoglio di idee e di iniziative. L'apertura al mondo, l'impegno per la giustizia, il dialogo con tutti gli uomini provocavano grandi speranze, mentre per alcuni perturbavano il senso dell'appartenenza ecclesiale e per altri la stessa identità cristiana. La «contestazione», parola d'ordine di questo periodo, si faceva strada nella Chiesa, provocando tensioni e irrigidimenti tra «integristi» e «progressisti». Incamminata sulla strada del rinnovamento voluto dal Concilio, la Società salesiana era entrata anch'essa in crisi, come riconosceva apertamente don Ricceri in una lettera circolare del 1970. Per la prima volta nella sua storia, il numero globale dei membri della Società salesiana accusava un notevole calo, che si poteva ricondurre facilmente a due cause: la diminuzione del numero delle entrate e l'aumento del numero delle uscite dalla Congregazione. Mentre si contavano circa 22.000 salesiani nel 1965, essi non erano più che 17.000 nel 1977, ciò che significa una diminuzione di circa un quinto. Conviene precisare tuttavia che questo fenomeno non si era verificato allo stesso modo nelle diverse ispettorie della Congregazione e che non era limitato ai Salesiani.

Malgrado la crisi e i suoi effetti negativi, la famiglia di don Bosco ha cercato di attuare i grandi orientamenti conciliari, precisando e rilanciando la sua missione nella Chiesa.

L'azione di don Ricceri.

Durante i dodici anni del suo rettorato, don Ricceri, uomo attivo e pratico, si dedicò a tradurre nei fatti i nuovi orientamenti. Avendo partecipato all'ultima sessione del Concilio e a due sinodi dei vescovi, essendo anche membro della Congregazione dei Religiosi e consigliere dell'Unione dei Superiori generali, il Rettor maggiore poteva misurare le sfide che dovevano affrontare la Chiesa e la vita religiosa nella cultura emergente. Seguendo l'esempio del suo predecessore, don Ricceri compì frequenti e lunghi viaggi, non solo per visitare la Famiglia salesiana sparsa nel mondo e presiedere le sue feste e celebrazioni, ma anche per partecipare con i membri del suo Consiglio a riunioni di lavoro e di concertazioni con i responsabili locali, come le grandi riunioni interispettoriali di Como per l'Europa (aprile 1968), di Bangalore per l'Asia (luglio 1968), e di Caracas per l'America latina (maggio 1969). Inoltre, don Ricceri ha parlato e scritto molto. Le sue lettere ai Salesiani e il testo dei suoi interventi orali ci consentono di conoscere le preoccupazioni del Superiore durante questo periodo di mutazioni. Accanto ai temi classici sulla vita religiosa salesiana, appaiono temi nuovi o trattati in modo nuovo, come il dialogo, il rinnovamento, l'anno della fede, la povertà, la crisi delle vocazioni, il sottosviluppo, l'imborghesimento, o la politica. Di fronte al «disorientamento delle idee» e ad alcuni atteggiamenti estremisti e pericolosi, il Rettor maggiore insisteva su un'apertura coraggiosa ed equilibrata, in sintonia con le direttive del Vaticano II e di Paolo VI. La beatificazione, il 29 ottobre 1972, di don Rua, fedele continuatore di don Bosco, gli diede l'occasione di ricordare le esigenze e i benefici di una «fedeltà completa, integrale e feconda». Verso la fine del suo mandato, egli scriverà una lettera sul

l'ottimismo, dimostrando in tal modo che i motivi di fiducia superavano comunque le reali inquietudini.

L'opera del Capitolo generale speciale (1971-1972).

Nella serie dei Capitoli generali, di cui è il ventesimo, il Capitolo generale speciale (CGS) occupa un posto a parte, non solo a causa della sua durata eccezionale di sette mesi, ma soprattutto per l'ampiezza e la novità del compito che doveva assolvere. Il suo scopo, infatti, era di promuovere la «accommodata renovatio», prescritta dal decreto conciliare Perfectae caritatis, e che consisteva principalmente in due esigenze: tornare al carisma primitivo dell'Istituto e adattarlo ai bisogni del tempo. Sei anni dopo il Capitolo generale XIX, che aveva avviato la Società salesiana sulla strada del rinnovamento conciliare, il CGS doveva assolvere il compito di definire in termini attuali la sua identità nella Chiesa e per il mondo di questi tempi. Dato l'annuncio ufficiale da parte del Rettor maggiore nell'ottobre del 1968, la preparazione del CGS fu metodica e intensa. Una commissione tecnica preparatoria avviò subito i lavori su quattro temi principali: natura e fine della Congregazione salesiana, la vita consacrata a Dio nella Congregazione, la formazione e, infine, le strutture e il governo della Congregazione. L'obiettivo concreto da raggiungere era un testo rinnovato delle Costituzioni e Regolamenti, conforme agli orientamenti conciliari. All'inizio del 1969, tutte le ispettorie dovevano riunire un capitolo ispettoriale speciale per studiare i quattro temi. Il frutto di tutto questo lavoro venne condensato in due grossi documenti: uno intitolato «Radiografia», e l'altro «Problemi e prospettive». Questi documenti servirono poi da strumenti di lavoro per un secondo capi

tolo speciale, che ogni ispettoria doveva riunire nell'autunno del 1970. Finalmente, tutte le riflessioni e le proposte delle ispettorie furono studiate durante l'inverno seguente dalle commissioni centrali, le quali stesero tre «studi previ» e diciannove «schemi» da offrire ai capitolari come base per le loro discussioni. Fu realizzata inoltre un'operazione censimento che preparò i dati statistici aggiornati e sicuri su confratelli, case e ispettorie. Il Capitolo generale speciale fu aperto il 10 giugno 1971 nella nuova casa generalizia a Roma. Composta da 202 membri, che rappresentavano 73 ispettorie, l'assemblea contava anche 12 osservatori e 4 esperti. Mancavano all'appello i rappresentanti dell'Ungheria e della Cecoslovacchia, impediti dal regime comunista. All'inizio dei lavori, in ossequio ad una deliberazione del Capitolo precedente, il Rettor maggiore tenne per la prima volta una «Relazione sullo stato della Congregazione». I lavori si prolungarono per sette mesi in un clima vivace e, talvolta, teso tra i protagonisti della tradizione e quelli del cambiamento, tra le esigenze dell'unità e quelle del decentramento, o anche tra quelle dell'autorità centrale e quelle della corresponsabilità.

Se si vuol avere un'idea del lavoro compiuto da questo Capitolo che fu concluso il 5 gennaio 1972, occorre riferirsi in primo luogo ai 22 documenti di orientamenti dottrinali e operativi, divisi in cinque parti che ha prodotto. Una semplice occhiata all'indice mostra che la prima preoccupazione dei capitolari concerneva la «missione apostolica» dei Salesiani nella Chiesa. L'oratorio viene definito paradigma di rinnovamento. Vengono messe in luce le aree della missione salesiana: l'evangelizzazione e la catechesi, la pastorale giovanile e la pastorale parrocchiale, le comunicazioni sociali e le missioni. Nella seconda parte, si osserva una forte accentuazione della dimensione comunitaria e partecipativa della vita religiosa, sia a livello locale che ispettoriale e mondiale. Sotto la parola «consacrazione», la terza parte pone una presentazione dei voti secondo l'ottica dei testi conciliari. Nella quarta parte, il documento capitolare indica i principi generali della formazione e alcuni orientamenti pratici. Quanto all'ultima parte, essa formula come principi e criteri per l'organizzazione della Congregazione, l'unità e il decentramento, la sussidiarietà, la partecipazione e la corresponsabilità. Ma questi documenti del CGS venivano in qualche modo condensati nel testo interamente rifuso delle Costituzioni e Regolamenti della Società salesiana. Tutta la sostanza è stata divisa in cinque parti: missione, comunione, consacrazione, formazione e organizzazione. Nel loro contenuto e nel loro stile, esse appaiono come una Regola di vita, meno giuridica che spirituale, la quale non solo formulava delle prescrizioni, ma ne dava le motivazioni evangeliche, teologiche e salesiane. La parte più giuridica era affidata ai Regolamenti generali. La nuova Regola doveva entrare in vigore ad experimentum durante i sei anni successivi.

La strada difficile del rinnovamento.

Tradurre nei fatti gli orientamenti e le norme, sia conciliari che capitolari, non riusciva cosa facile. Vale la pena dare un rapido sguardo su tre settori più sensibili: la formazione, la vita comunitaria e le opere. Il settore della formazione, così delicato in un periodo di cambia

menti, è stato molto significativo per le difficoltà e le iniziative promosse. Va ricordato anzitutto che alcune case di formazione, noviziati e studentati, hanno dovuto chiudere per mancanza di vocazioni, o a causa di grandi difficoltà e tensioni interne. Don Ricceri deplorava tra l'altro la dimenticanza del carisma salesiano nella formazione, varie deviazioni dottrinali, la «contestazione» delle istituzioni, e la mancanza del senso della responsabilità da parte di alcuni formatori. Ma, allo stesso tempo, nascevano nuove proposte formative. Nel 1967 cominciarono a Lione i «Colloqui internazionali sulla vita salesiana». A Roma, nel Salesianum, presso la casa generalizia, iniziava nel 1973 la prima sessione di formazione permanente di quattro mesi, formula poi imitata in America latina e nell'India. Sempre nel 1973, la Facoltà di teologia dell'Ateneo salesiano, elevato quell'anno al grado di Università pontificia, creava nel suo seno un istituto di spiritualità, indirizzato specialmente ai futuri responsabili della formazione. Nel 1974 ebbe luogo un convegno europeo sul sistema preventivo, e nel 1975 un convegno mondiale sul Salesiano coadiutore. Se osserviamo ora gli effetti della accomodata renovatio della vita religiosa all'interno delle comunità, grandi evoluzioni si sono verificate tra il 1965 e il 1978. I rapporti tra superiori e confratelli sono diventati più semplici, più diretti, mentre la funzione di governo si accostava a quella di animazione. È cresciuto anche il senso comunitario, specialmente della comunità ispettoriale, come anche quello della corresponsabilità e della partecipazione, in occasione per esempio delle consultazioni per la designazione dei superiori e altri responsabili. La presenza nel Consiglio superiore della Congregazione di consiglieri regionali, in

caricati di gruppi di ispettorie di una regione, facilitava i contatti tra il centro e la periferia, mentre il decentramento rendeva più agevole l'adattamento alle situazioni e alle culture locali. Quanto alle opere, si poteva costatare che il loro ridimensionamento, voluto dal Capitolo generale XIX per accrescere la loro efficacia apostolica, riusciva difficilmente a dare gli effetti auspicati. Molti oratori e scuole salesiane facevano l'esperienza della crisi delle istituzioni cristiane in atto in alcuni paesi. Con la diminuzione del numero dei religiosi, si notava anche un aumento dei collaboratori laici, di cui bisognava curare la scelta e la formazione. Un'altra novità notevole era l'introduzione della mixité in molti ambienti. Per rispondere alle nuove sfide, le iniziative non mancarono. Per obbedire ad una deliberazione del Capitolo generale XIX, cominciò a funzionare a Torino nel 1967 il Centro internazionale di pastorale giovanile, cambiato poi in «Servizio di pastorale giovanile». Furono promossi anche centri ispettoriali di pastorale giovanile, animati da delegati che organizzavano l'animazione, i convegni, le pubblicazioni, ecc. Alcuni Salesiani tentarono anche esperienze d'inserzione nei quartieri difficili, lavoro sociale per i giovani emarginati o tossicodipendenti, e diverse forme di collaborazione con istituzioni civili e secolari.

Crisi e iniziative nelle missioni.

Mentre il Capitolo generale XIX aveva ribadito con forza la vocazione missionaria della Congregazione, il CGS diagnosticava una crisi missionaria nella Chiesa e nella Società salesiana, con una diminuzione delle vocazioni missionarie e un calo dell'entusiasmo per l'evangelizzazione dei popoli. Ci si interrogava, infatti, sulla fondatezza delle missioni di tipo classico; ci si chiedeva se i problemi del sottosviluppo e della fame nel mondo non fossero da trattare per primi. Di fronte agli interrogativi e alle difficoltà, una riflessione di fondo, ispirata al Concilio, fu avviata. La crisi, diceva il CGS, esigeva atteggiamenti e orientamenti nuovi. Occorreva collegare meglio l'evangelizzazione con lo sviluppo dei popoli, rispettare e promuovere le diverse

culture locali, stimolare la partecipazione dei laici e far nascere la Chiesa partendo dalle realtà del posto. Per far passare nella pratica il rinnovamento auspicato, bisognava attendere alla formazione e all'aggiornamento del personale missionario. Per questo furono organizzati corsi speciali a Roma e in parecchi centri dell'Asia e dell'America. Nel 1973 fu istituito presso l'Università salesiana un «Centro Studi di Storia delle Missioni Salesiane», che ha pubblicato varie opere di valore. Va segnalato anche lo sviluppo, specialmente in America latina, di musei missionari o etnologici che mostrano l'interesse dei Salesiani per la cultura dei popoli. Nello stesso tempo, le autorità responsabili della Famiglia salesiana si sono dedicate al rilancio del fervore missionario, che il Rettor maggiore indicava come la «strada del rinnovamento». A partire dal 1972, un consigliere fu specialmente incaricato delle missioni al consiglio superiore. Per sostenere economicamente il lavoro di evangelizzazione e di promozione umana, una campagna annuale di solidarietà fraterna funzionava già a partire dal 1968. Se guardiamo la mappa delle missioni, vediamo che l'America latina restava la preoccupazione maggiore in questo periodo. Per rispondere alle preoccupazioni del Papa, don Ricceri lanciò un appello ai sacerdoti per l'America latina, che suscitò non poche risposte positive. Nell'Asia, le ispettorie dell'India e delle Filippine conoscevano un ragguardevole sviluppo grazie all'afflusso di vocazioni locali. Le diocesi di Kohima-Imphal e di Tura, nel nordest dell'India, furono affidate a due vescovi salesiani. Così accadde anche in Thailandia, per la nuova diocesi di Surat Thani, e per la prefettura apostolica di Lashio, in Birmania. Nel Vietnam invece, dopo l'espulsione di tutti i missionari stranieri nel 1975, il futuro salesiano rimase nelle mani dei confratelli vietnamiti di fronte ad un regime spietato. Nell'isola di Timor, le scosse politiche dell'indipendenza tagliarono le comunicazioni con i Salesiani della zona orientale. In Africa, le missioni salesiane ebbero momenti difficili con l'aprirsi dei popoli all'indipendenza. Nel Mozambico, i religiosi furono costretti a lasciare il paese. Al contrario, il Burundi, il Gabon, la Guinea Equatoriale e l'Etiopia accolsero per la prima volta i figli e le figlie di don Bosco.

Nel 1975, fu celebrato il centenario delle missioni salesiane. Dopo la prima spedizione del 1875, definita da don Bosco stesso «la più grande impresa della Congregazione», più di cento spedizioni avevano fatto della famiglia di don Bosco una delle più numerose e più attive in questo campo. Malgrado la crisi e le difficoltà, don Ricceri notava che le prospettive restavano incoraggianti, grazie soprattutto all'aumento delle vocazioni e dei catechisti autoctoni, e alla partecipazione allargata anche ai giovani volontari per il terzo mondo.

Emergenza della Famiglia salesiana.

Come in altri campi, fu il CGS a rilanciare il tema della Famiglia salesiana, in fedeltà al progetto apostolico di don Bosco, il quale volle affidare la messe evangelica non solo ai religiosi e alle religiose, ma anche a tutti i cristiani sensibilizzati al suo appello. «Uniamoci in una sola famiglia - così esortava già il Bollettino salesiano nel 1878 - con i legami della carità fraterna che ci spinge ad aiutarci e a sostenerci a vicenda al beneficio del nostro prossimo». In seno a questa Famiglia, una e differenziata, diversi gruppi sono legati insieme da una comunione di spirito e d'indirizzi. Secondo il CGS fanno parte della Famiglia in senso stretto, oltre ai Salesiani e alle Figlie di Maria Ausiliatrice, i Cooperatori, le Volontarie di Don Bosco e altri gruppi organizzati. Ne fanno parte, in senso largo gli allievi e exallievi delle case salesiane, i simpatizzanti e i benefattori dell'opera salesiana. Il centro d'unità della Famiglia è il Rettor maggiore, successore di don Bosco, e i Salesiani vi assumono funzioni di continuità, di animazione e di unione tra i gruppi, nel rispetto dell'autonomia di ciascuno.

Madre Ersilia Canta (1969) e l'Istituto delle Figlie di Maria Ausiliatrice.

Nel periodo del dopoconcilio, le Figlie di Maria Ausiliatrice conobbero un'evoluzione analoga a quella dei Salesiani. Infatti, l'Istituto delle Figlie di Maria Ausiliatrice era entrato in una fase delicata, segnata dalla crisi delle vocazioni nei paesi occidentali, ma anche da un grande sforzo di rinnovamento nella riscoperta dello spirito delle origini e della propria identità nella Chiesa. Gli ultimi anni del governo di madre Angela Vespa furono orientati verso la preparazione del Capitolo generale speciale, che doveva riunirsi nel 1969 per la prima volta a Roma, nella nuova sede della casa generalizia. Subito all'apertura dei lavori, madre Angela rese nota all'assemblea la propria volontà di rinunciare alla carica. Fu eletta Superiora generale madre Ersilia Canta, alla quale toccò la sorte di presiedere questo importante Capitolo e di guidare l'Istituto sulle vie della fedeltà al Concilio e alle fonti della sua spiritualità. Nata a S. Damiano d'Asti il 25 marzo 1908, Ersilia Canta aveva frequentato la scuola di Mornese e quella di Nizza Monferrato, dove ebbe la fortuna di conoscere madre Daghero ed altre figure significative di Figlie di Maria Ausiliatrice e di Salesiani. Nel 1926 entrò in noviziato e fece la professione religiosa nel 1928. Munita dell'abilitazione all'insegnamento di Lettere e Storia, fu insegnante a Varazze e a Livorno, poi direttrice a Livorno, Nizza Monferrato, Conegliano Veneto, Padova, quindi ispettrice a Padova e a Milano. Nel 1965 entrò nel Consiglio generale come consigliera e poi vicaria. Di lei si è potuto dire che le sue scelte come Superiora generale furono segnate da una triplice fedeltà: fedeltà alla tradizione dell'Istituto, fedeltà all'ora del Concilio e fedeltà al futuro della Chiesa e dell'umanità. Il tema principale del Capitolo fu appunto il rinnovamento e l'adattamento della vita interiore e della vita apostolica, aggiungendo quello della formazione del personale e della gioventù. Il frutto principale dei

lavori capitolari fu un nuovo testo delle Costituzioni, presentato secondo l'ottica del Concilio e promulgato ad experimentum. Durante i dodici anni del suo governo, segnati da profonde e rapide trasformazioni, madre Canta ebbe come preoccupazione di congiungere il carisma primitivo dell'Istituto con l'apertura alle nuove esigenze della Chiesa e della società. Desiderosa di ricondurre le Figlie di Maria Ausiliatrice alle fonti della loro spiritualità, promosse la pubblicazione delle Lettere di madre Mazzarello, della Cronistoria, del Cammino dell'Istituto e di altri studi di spiritualità salesiana. Le sue circolari alle Suore costituiscono una piccola somma magistrale su tutti gli aspetti della vita religiosa e salesiana dell'Istituto. Le raccomandazioni più frequenti riguardano l'interiorità semplice e profonda che caratterizzava la prima comunità di Mornese, la sintesi tra azione e contemplazione, l'attenzione allo Spirito Santo. Nel suo sforzo di animazione Madre Canta potè approfittare delle varie celebrazioni centenarie, in particolare di quella del 1972, in cui l'Istituto festeggiava il centenario della fondazione. Nel discorso che Paolo VI rivolse alle Suore in quell'occasione, anche il Papa chiedeva loro a più riprese: «Saprà rispondere la vostra Congregazione alle attese della Chiesa in quest'ora di tormento?». Nel campo della formazione e della cultura, va segnalata l'erezione nel 1970 dell'Istituto superiore di pedagogia a Pontificia Facoltà di Scienze dell'Educazione. Prima istituzione affidata dalla Chiesa ad una Congregazione femminile, questa Facoltà che sarà intitolata Auxilium, si dedica in particolare a tutti gli studi che riguardano l'educazione e la promozione della donna. Il Capitolo generale riunito nel 1975 doveva trattare due argomenti principali: la formazione e le Costituzioni rinnovate. Per quanto riguardava il primo, si studiò la formazione della Figlia di Maria Ausilia

trice tenendo presenti tre presupposti irrinunciabili: la presa di coscienza di un mondo in mutazione, l'esigenza di una vita religiosa radicata nella fede e la fedeltà al carisma del Fondatore. Fu elaborato in questo senso un «Piano per la formazione» aggiornato. Il lavoro sulle Costituzioni rinnovate fu molto impegnativo. Dopo una vasta consultazione mondiale delle Suore, che fecero pervenire venti mila emendamenti, il testo delle Costituzioni e dei Regolamenti del 1969 fu ritoccato su alcuni punti di rilievo, come l'insistenza sul carisma proprio dell'Istituto, l'inserzione nella pastorale d'insieme della Chiesa, il rilancio della Famiglia salesiana e la ristrutturazione del governo centrale. Per rafforzare il dialogo tra il centro e le ispettorie, fu istituito un organismo intermedio chiamato «Conferenza interispettoriale», concepito come «organo consultivo costituito da un gruppo di ispettorie che hanno un denominatore comune di cultura, di situazioni, di problemi». Un fatto singolare del governo di madre Canta è che ella fu la prima Superiora generale che visitò personalmente tutto l'Istituto.

Cooperatori, Exallievi, Exallieve e Volontarie di Don Bosco.

Nella linea del rinnovamento voluto dal Concilio, anche la figura del Cooperatore salesiano acquistò una nuova statura, nella prospettiva del laicato impegnato. Il CGS chiese ai Salesiani un radicale cambiamento di mentalità nei confronti dei Cooperatori, che non devono più essere confusi con i benefattori né considerati come semplici esecutori, ma come fratelli che condividono con i religiosi la responsabilità della missione salesiana. La loro azione d'ora innanzi doveva inserirsi nell'apostolato dei laici, secondo gli orientamenti del concilio Vaticano II. Nel 1974 fu promulgato un nuovo Regolamento ad experimentum, più aderente allo spirito e al linguaggio del Concilio, e frutto di una collaborazione tra i tre gruppi primari della Famiglia salesiana. Un anno dopo, una convenzione fu stabilita tra la Società salesiana e l'Istituto delle Figlie di Maria Ausiliatrice per l'animazione dei Cooperatori. Nel

1976, anno del centenario della fondazione, un congresso mondiale radunò a Roma 241 delegati e osservatori provenienti da quaranta nazioni, sul tema dell'impegno del Cooperatore nella Chiesa, nella famiglia e nella società. Frutto di questo congresso fu il lancio di un ramo giovanile dell'associazione, che riunì poi il suo primo congresso europeo. Nel 1977 fu costituita una Consulta mondiale, un nuovo organismo formato per un terzo di Salesiani e Figlie di Maria Ausiliatrice e per due terzi di Cooperatori, avente il compito di assistere il Rettor maggiore nel governo e nell'animazione mondiale dell'Associazione. Anche gli Exallievi di don Bosco, che formano il ramo più numeroso della Famiglia, hanno avuto in quel periodo, momenti e avvenimenti importanti. Nel 1970, anno centenario delle loro origini, si è tenuto a Torino e a Roma un congresso mondiale, al quale hanno preso parte i rappresentanti di sessanta federazioni nazionali. In seguito furono organizzati congressi a livello continentale: il quarto Congresso latinoamericano a Città del Messico sul tema dell'impegno dell'exallievo per la giustizia in America latina; il secondo Congresso europeo a Lovanio nel 1975 dedicato alla costruzione dell'Europa (chiamato perciò «Eurobosco»), e il primo Congresso dell'Asia e dell'Australia, che raggruppava exallievi cristiani e non cristiani, tutti ugualmente attaccati a don Bosco e alla sua famiglia. Nel 1976, la Giunta Confederale approvava e pubblicava il nuovo Statuto della Confederazione mondiale, rielaborato nello spirito del Concilio. Tra gli elementi innovatori, vanno notati lo spirito di giusta autonomia e di responsabilità dei dirigenti, e anche il carattere laicale dell'organizzazione. Pertanto si è voluto conservare il tradizionale spirito salesiano di famiglia, con la nomina del presidente confederale da parte del Rettor maggiore. Le Exallieve delle Figlie di Maria Ausiliatrice hanno riunito nel 1966 un Convegno-studio per le dirigenti dell'Europa e del Medio Oriente, e negli anni seguenti convegni nazionali ed internazionali in America. Nel 1971 fu promulgato il nuovo Statuto. L'anno seguente, in occasione del primo centenario dell'Istituto delle Figlie di Maria Ausiliatrice si celebrò il 5° Congresso internazionale.

Va segnalato infine lo sbocciare di un nuovo ramo originale della Famiglia salesiana: l'Istituto secolare delle «Volontarie di don Bosco». Gli inizi risalgono al 1917, anno in cui tre ragazze dell'oratorio delle Figlie di Maria Ausiliatrice di Torino, Luigina Carpanera, Francesca Riccardi e Maria Verzotti, decisero di consacrarsi a Dio restando nel mondo per esercitarvi un apostolato nello spirito di don Bosco. Don Rinaldi le incoraggiò e curò la loro formazione con l'aiuto delle Suore, in modo tale che nel 1919 sette di loro pronunciavano i primi voti. Si chiamavano allora «Zelatrici di Maria Ausiliatrice» e si consideravano come religiose nel mondo. Alla morte di don Rinaldi, nel 1931, erano una ventina. Dopo alcuni anni di stasi, nel 1956 il gruppo iniziò un rapido sviluppo, sostenuto anche dall'approvazione del nuovo Regolamento da parte di don Ziggiotti e della Madre generale. Cambiarono il loro nome primitivo per diventare le «Cooperatrici oblate di san Giovanni Bosco». Nel 1957 esistevano in Italia undici gruppi costituiti e uno in Francia. Nel 1959 presero il nome di «Volontarie di don Bosco». Nel 1965, l'arcivescovo di Torino le riconobbe come Associazione diocesana e, sei anni dopo, come Istituto secolare di diritto diocesano. Il CGS considerò l'Istituto come membro della Famiglia salesiana in senso stretto, con le sue tre caratteristiche di secolarità, di consacrazione e di salesianità. A quella data, le Volontarie erano già 560, divise in 50 gruppi, tra cui alcuni anche in America e in Asia. Periodo di crisi, come abbiamo visto, il dopoconcilio si è rivelato anche nella Famiglia salesiana l'epoca delle mutazioni e del rinnovamento.

Capitolo XXXIII.

VERIFICA E PROSPETTIVE (1977-1988).

L'anno 1977 corrisponde, nella Congregazione salesiana, alla celebrazione del Capitolo generale XXI e all'inizio del rettorato di don Egidio Viganò. Nell'Istituto delle Figlie di Maria Ausiliatrice, dopo la fine del mandato di madre Ersilia Canta nel 1981, venne eletta madre Rosetta Marchese, che guidò l'Istituto per un breve ma intenso triennio e alla quale succederà nel 1984 madre Marinella Castagno. Dopo la crisi del dopoconcilio, che faceva però ancora sentire i propri effetti, si assisteva ad un consolidamento delle strutture determinate dal Concilio e ad uno sforzo della Famiglia salesiana per rispondere alle nuove sfide, in sintonia con la Chiesa universale e l'azione pastorale di Giovanni Paolo II eletto nel 1978. Al termine del decennio, quasi quale momento culminante vi fu «l'anno di grazia» 1988, per il centenario della morte di don Bosco.

Un Capitolo di verifica e di prospettive (1977-1978).

Convocato da don Luigi Ricceri nel luglio 1976, il Capitolo generale XXI fu aperto nell'ottobre 1977 con una relazione del Rettor maggiore sullo stato della Congregazione, in cui non mancavano né le ombre né le luci. Una delle prime questioni da risolvere riguardava le Costituzioni e Regolamenti, che il Capitolo generale speciale aveva approvato ad experimentum per sei anni. Considerando che i Salesiani non avevano avuto la possibilità di assimilarne tutti i contenuti, si decise di prolungare

l'esperimento per un altro sessennio. Si proposero alcune modifiche e aggiunte sul tema della corresponsabilità dei laici, sul ruolo del superiore e sulle comunità di formazione. I capitolari si dedicarono anche ad altri lavori, che approdarono ad alcuni documenti di valore. Il primo, ovviamente ispirato dall'esortazione apostolica Evangelii nuntiandi di Paolo VI, forma un vero trattato sui «Salesiani evangelizzatori dei giovani». Vi si percepisce la convinzione che i religiosi, non essendo più gli unici operai del Vangelo, erano invece chiamati a diventare gli animatori di una «comunità educativo-pastorale». S'insisteva inoltre sull'elaborazione di un «progetto educativo-pastorale», che fosse la traduzione, adattata ai tempi e ai luoghi, del sistema preventivo di don Bosco. Tra i mezzi e gli ambienti di evangelizzazione, l'oratorio e il centro giovanile venivano al primo posto, seguiti dalla scuola, la parrocchia, le missioni, la comunicazione sociale e anche le «nuove presenze», termine che designava sia il rinnovamento della presenza dei Salesiani nelle opere tradizionali, sia la ricerca di altri tipi di servizio ai giovani, soprattutto più poveri. Il Capitolo trattò di nuovo del Salesiano coadiutore, del suo ruolo nella comunità salesiana, della sua vocazione e missione specifica. Una grave questione era stata sollevata a questo proposito: occorreva, nella logica della promozione del religioso laico, autorizzare i confratelli laici ad esercitare la funzione di superiore di una comunità salesiana? Impressionati da una lettera del Papa, trasmessa dal cardinale Villot, e dagli argomenti del Rettor maggiore, i capitolari non hanno voluto fare questo passo. In un altro documento dedicato alla formazione, era fatta richiesta al Rettor maggiore di preparare una Ratio per la formazione e gli studi nella Congregazione. Infine, il Capitolo generale si occupò della nuova Università Pontificia Salesiana. Nel discorso di chiusura, il nuovo Rettor maggiore, dopo aver ricordato i punti sui quali aveva portato la verifica, sintetizzò i tre obiettivi apparsi durante i lavori: il Vangelo ai giovani, lo spirito religioso e l'animazione salesiana. Ritroveremo senza difficoltà questi punti nella riflessione e nell'azione di don Viganò.

Don Egidio Viganò, settimo successore di don Bosco.

Il nuovo Superiore generale aveva la caratteristica di essere un Italiano della Lombardia che aveva esercitato trentadue anni di apostolato salesiano nell'America latina. Nato a Sondrio nel 1920, Egidio Viganò frequentò l'oratorio del paese, poi l'aspirantato di Chiari (Brescia). Entrato in noviziato, fece la prima professione nel 1936 e studiò la filosofia all'Istituto Rebaudengo a Torino e poi a Foglizzo. Nel 1939 viene inviato nel Cile, dove rimarrà fino al 1972. Ordinato sacerdote nel 1947, diventò professore di teologia, prima nello studentato salesiano, poi all'Università cattolica di Santiago. Quando iniziò il Concilio, don Viganò fu scelto quale esperto dell'episcopato cileno e partecipò in particolare alla riflessione intorno alla costituzione dogmatica Lumen gentium sulla Chiesa e alla costituzione pastorale Gaudium et spes dedicata alla Chiesa nel mondo contemporaneo. Secondo alcune espressioni che userà più tardi, il Concilio Vaticano II fu «l'avvenimento ecclesiale del secolo, una visita dello Spirito Santo alla Chiesa, la grande profezia per il terzo millennio del cristianesimo». Dopo il Concilio don Viganò si vide sempre più sollecitato da varie parti. Nel 1968 fu invitato all'incontro di Medellin, dove l'episcopato latino-americano cercava di tradurre gli orientamenti conciliari nelle realtà del continente. Lo stesso anno, l'Università cattolica di Santiago pensò a lui come rettore, ma nel frattempo egli era stato designato per guidare l'ispettoria del Cile. Durante il Capitolo generale speciale fu chiamato a far parte del Consiglio superiore e incaricato della formazione. Con l'aiuto di un'equipe, il nuovo consigliere lanciò i corsi quadrimestrali di formazione permanente, diede inizio alle «Settimane di spiritualità per la Famiglia Salesiana», lavorò per la promozione dell'Università Pontificia Salesiana e dei Centri di formazione salesiana sparsi nel mondo. La sua elezione a capo della Congregazione salesiana da parte del Capitolo generale del 1977-1978 si fece senza difficoltà. Il cammino percorso dal nuovo Superiore generale lo aveva preparato ad una visione chiara della missione salesiana nel mondo e ad una grande apertura alla Chiesa universale.

Al servizio della Congregazione e della Chiesa.

Tenendo conto della sua esperienza e della sua formazione, don Viganò manifestò nell'esercizio del proprio ministero uno stile e delle preoccupazioni proprie. In una delle sue prime lettere ai Salesiani scriveva: «Vorrei avere lo stile spontaneo e penetrante di don Bosco e l'immediatezza nella comunione che possedevano gli altri suoi successori; ma in mancanza di piacevolezza e di semplicità ci sia almeno sincerità e solidità». La formazione di don Viganò come teologo e la sua esperienza di docente conferivano ai suoi interventi e alle sue lettere un tono magisteriale, che ricordava lo stile di don Albera o di don Ricaldone. Alcune delle sue lettere sono piccoli trattati su temi salesiani: il progetto educativo salesiano (1978), la componente laicale della comunità salesiana (1980), lo spirito di Mornese (1981), la Famiglia salesiana (1982), la fedeltà al Successore di Pietro (1985), i Cooperatori salesiani (1986), gli Exallievi (1987). Il pensiero del Rettor maggiore tornava sovente su temi centrali, come l'uomo, la cultura, il mistero pasquale di Cristo, la Chiesa, o la vita nello Spirito. Mentre denunciava la superficialità spirituale, don Viganò inculcava senza sosta ai Salesiani «l'interiorità apostolica», frutto della «grazia d'unità», che spinge il cristiano e il religioso a vivere in un unico movimento l'amore verso Dio e verso i fratelli. Una delle preoccupazioni maggiori del Superiore era quella di confermare e di consolidare l'opera compiuta dal Concilio in poi. Nel 1980 pubblicò due lettere dal titolo significativo: «Dar forza ai fratelli» e «Più chiarezza di Vangelo». Infatti, dopo le travagliate ricerche del periodo precedente, sembrava venuto il tempo per i Salesiani di una maggiore fermezza nel pensiero e nell'azione. D'altra parte, le nuove strutture di governo e di animazione cominciavano ad essere ben rodate. Testi normativi stabili, se non definitivi, stavano per essere adottati. Malgrado la persistenza della crisi vocazionale, specialmente nell'Occidente, si notava un clima più favorevole e più sereno. Don Viganò, da parte sua, faceva appello, non solo alla fedeltà, ma anche al coraggio e all'entusiasmo come risposte alle sfide dell'ora presente. Nello stesso tempo, si notava una crescente partecipazione della Congregazione e, in primo luogo, del Rettor maggiore ai grandi eventi

ecclesiali. Appena eletto, don Viganò fu designato dal Papa quale membro della terza Conferenza dei vescovi dell'America latina a Puebla (1979). In seguito, partecipò a tutti i sinodi dei vescovi e portò anche il personale contributo come membro e consultore di vari organismi e commissioni della Chiesa. Nel 1983 fu eletto presidente dell'Unione dei Superiori generali dei religiosi. Intanto, il carattere internazionale della Congregazione e la sua dimensione pastorale venivano riconosciuti con la nomina nel 1985 di tre cardinali salesiani: il nicaraguense Miguel O- bando, arcivescovo di Managua, il venezuelano Rosalio Castillo Lara, presidente della Commissione pontificia per l'interpretazione del Codice di diritto canonico, e l'austriaco Alfons Stickler, bibliotecario e archivista della Chiesa, al quale succederà nel 1988 un quarto cardinale salesiano, lo spagnolo Antonio Javierre Ortas, già segretario della Congregazione per l'Educazione cattolica. Nel 1986, don Viganò fu anche chiamato dal Papa a predicare gli esercizi spirituali in Vaticano.

La nuova Regola di vita dei Salesiani (1984).

Sei anni dopo il Capitolo del 1977-1978, il compito storico del nuovo Capitolo generale XXII del 1984 fu quello di rifinire ed approvare il testo postconciliare definitivo delle Costituzioni e Regolamenti della Società salesiana. Preparato da una consultazione approfondita di tutte le comunità e di tutte le ispettorie, e da vari contributi di studi sulle Costituzioni e sui Regolamenti, introdotto dalla relazione del Rettor maggiore sullo stato della Congregazione, il lavoro capitolare fu affidato a sei commissioni, che corrispondevano pressappoco alle grandi divisioni del testo del 1972: 1) i Salesiani di don Bosco nella Chiesa; 2) la loro missio

ne apostolica; 3) la vita di comunione; 4) la consacrazione; 5) formazione e fedeltà; 6) l'organizzazione della Società salesiana. Dopo alcune settimane di lavoro in commissione e in assemblea generale, l'accordo si realizzò in favore di alcune modifiche e spostamenti significativi nella struttura del testo. Nella prima parte sull'identità e il ruolo dei Salesiani nella Chiesa, furono collocati due capitoli sullo spirito salesiano e sulla professione religiosa. Si decise poi di riversare in una complessa seconda parte i tre elementi inscindibili della vocazione salesiana, vale a dire la missione, la vita di comunione e la pratica dei consigli evangelici o consacrazione. Si voleva evitare in tal modo l'insistenza unilaterale su un elemento a scapito degli altri. Questa lunga seconda parte si chiudeva ormai con il capitolo sulla vita di preghiera. Per contro, la terza parte, dedicata alla formazione, e la quarta, sul servizio dell'autorità, conservarono la loro struttura d'insieme. Dopo la discussione e la votazione, articolo dopo articolo, del testo definitivo, don Viganò, che i capitolari avevano riconfermato nella sua carica, poteva dichiarare nel discorso di chiusura: «È un testo organico, profondo, migliorato, permeato di Vangelo, ricco della genuinità delle origini, aperto all'universalità e proteso al futuro, sobrio e dignitoso, denso di equilibrato realismo e di assimilazione dei principi conciliari. È un testo ripensato comunitariamente in fedeltà a don Bosco e in risposta alle sfide dei tempi». Dopo le ultime modifiche, specialmente in vista dell'adattamento al nuovo Codice di diritto canonico promulgato nel 1983, il testo definitivo fu approvato dalla Santa Sede il 25 novembre 1984 e promulgato dal Rettor maggiore l'8 dicembre dello stesso anno. Così si chiudeva un lungo periodo di ricerca e di verifica, aperto all'indomani del Concilio. Una nuova fase poteva cominciare, quella auspicata del passaggio «dalla carta alla vita».

Formazione e cultura.

Se la redazione definitiva della Regola costituiva senza dubbio un passo capitale per la vita della Congregazione, vanno prese in considerazione anche altre iniziative al servizio della formazione e della cultura.

Richiesta dal Capitolo generale XXI, la Ratio per la formazione e per gli studi dei Salesiani fu pubblicata per la prima volta nel 1981, ma l'edizione definitiva, che doveva tener conto del nuovo Codice di diritto canonico e delle nuove Costituzioni, apparve nel 1985. Mentre da una parte manteneva la tradizione spirituale e apostolica dei figli di don Bosco, il documento integrava anche le intuizioni nuove circa la formazione e teneva conto del contributo delle scienze umane. L'idea centrale era che tutta la formazione dei Salesiani dovesse essere pensata in funzione della loro vocazione e della loro missione specifica di educatori e di pastori. Altri due documenti, anch'essi voluti dal Capitolo del 1977-1978, meritano di essere menzionati. Il primo, che si può definire un manuale per il direttore salesiano, intendeva «ridare alla figura del direttore la dignità carismatica pensata da don Bosco, e ai confratelli la fiducia di una relazione e di una obbedienza attiva e corresponsabile». Il secondo manuale, pubblicato nel 1987, concerneva invece l'ispettore salesiano, per aiutarlo nel suo «ministero di animazione e di governo» della comunità ispettoriale. Diverse manifestazioni e convegni furono organizzati durante il decennio con lo scopo di verificare e di progettare una formazione adatta. Tali furono, per esempio, il simposio del 1982 sulla Famiglia salesiana, l'incontro di Roma sull'inculturazione, quello europeo di docenti ed esperti di liturgia e musica del 1983, o quello sui rapporti tra la spiritualità di san Francesco di Sales e quella di don Bosco, senza dimenticare la serie delle Settimane di spiritualità a Roma e i Colloqui internazionali sulla vita salesiana.

Tra le istituzioni salesiane dedicate alla formazione e alla cultura, l'Università pontificia salesiana occupava indubbiamente un posto privilegiato. Dopo le scosse del dopoconcilio, una fase di riorganizzazione e di modernizzazione fu avviata. I nuovi statuti furono definitivamente approvati nel 1986 dalla Congregazione per l'Educazione Cattolica. Con le sue cinque Facoltà (Teologia, Scienze dell'educazione, Filosofia, Diritto canonico e Lettere cristiane e classiche), alle quali verrà aggiunto in seguito un Istituto ad instar facultatis delle Scienze della comunicazione sociale, l'Università si era dotata delle strutture di cui aveva bisogno per svolgere la sua missione specifica di «Università di don Bosco per i giovani». Nel 1986, grazie alla collaborazione tra la Facoltà di Teologia e quella delle Scienze dell'educazione, fu creato un Dipartimento di pastorale giovanile e catechetica. Lo stesso anno, venne eretto un Istituto superiore di Scienze religiose, per la formazione dei futuri insegnanti di religione nelle scuole di grado inferiore e superiore. Nella stessa linea di formazione e di cultura va collocato anche l'Istituto storico salesiano, voluto dal Capitolo generale XXI, ufficialmente eretto nel 1981 presso la casa generalizia. Le sue ricerche si orientavano in tre direzioni: don Bosco, la storia salesiana e le missioni. L'Istituto cominciò a pubblicare importanti edizioni critiche di fonti, studi di storia salesiana, e due volte all'anno la rivista «Ricerche storiche salesiane». Nel 1982, in occasione del Convegno mondiale dei biblisti salesiani in Terra Santa, fu costituita una Associazione biblica salesiana, il cui statuto fu approvato ad experimentum nel 1983, e definitivamente nel 1989. L'Associazione, che contava più di cento membri, aveva tra gli obiettivi l'animazione biblica nella Congregazione e lo scambio di esperienze nella Famiglia salesiana.

I Salesiani, apostoli e missionari dei giovani.

Durante questo periodo, in cui l'indirizzo formativo e culturale si era accentuato, si sono fatti passi importanti per pensare e organizzare la pastorale giovanile. Dal centro della Congregazione sono partite numerose iniziative: pubblicazione di documenti di riflessione e programmi di azione, organizzazione di convegni e di seminari su temi di attualità, scambi di esperienze di vario genere. Se risulta difficile valutare il loro impatto sulle realtà locali, si può tuttavia fare qualche rilievo sulle nuove tendenze e sulle proposte educative al riguardo. Dopo la «rivoluzione culturale» degli anni Sessanta e Settanta, i cambiamenti che investivano il mondo giovanile e dell'educazione distoglievano da un facile ottimismo. I fenomeni derivanti dalla crescente secolarizzazione della società, come anche l'indifferenza religiosa, l'ateismo pratico o le sette, la povertà persistente del terzo mondo e l'apparizione di nuove forme di povertà, dovute spesso a cause strutturali, come la disoccupazione, l'emarginazione, la disintegrazione della famiglia, la diffusione dell'erotismo e delle droghe, costituivano ciò che i Salesiani chiamavano «le sfide del nostro tempo». Il primo passo da fare era conoscere meglio il mondo attuale dei giovani e di acquistare una maggiore competenza educativa e pastorale. A questo scopo, il Capitolo generale XXI aveva raccomandato allo stesso tempo uno sforzo di analisi e il contatto diretto con i giovani. Tra le categorie di giovani, si attirava l'attenzione specialmente su quelli del lavoro, sugli emarginati e quelli a rischio, ma anche sui giovani universitari e sui giovani animatori. Si avvertiva sempre di più il bisogno di conoscere il contesto particolare, in cui opera la pastorale.

Malgrado le difficoltà, numerose iniziative sorsero in molti paesi: centri per dropout a Los Angeles, «città dei ragazzi» in America latina e in Africa centrale, opere di ricupero in India, aiuto ai rifugiati nel sudest asiatico, corsi di alfabetizzazione in Haiti, comunità di accoglienza e di ascolto in diversi punti in Italia, ecc. Si è verificata anche una progressione delle associazioni giovanili, tra cui anche un Movimento giovanile salesiano, e una moltiplicazione di campiscuola, di pellegrinaggi e di diverse celebrazioni per i giovani. In occasione dei grandi incontri di massa con Giovanni Paolo II, la gioventù salesiana non era assente. In alcuni gruppi, si sentiva una nuova ricerca di spiritualità, che faceva sperare anche nuove vocazioni.

Il progetto Africa

Nel campo missionario, va segnalato innanzi tutto ciò che venne chiamato il «Progetto Africa» della Congregazione. L'idea di intensificare la presenza salesiana in quel continente (e nel Madagascar) era germinata nel 1975, durante l'anno centenario delle missioni salesiane, e poi durante il Capitolo generale XXI. Cento anni dopo l'America, cinquant'anni dopo l'Asia, sembrava che fosse scoccata l'ora dell'Africa, un continente in cui don Bosco nei suoi sogni aveva visto i ragazzi che aspettavano i suoi figli. Di fatto, dopo il Capitolo del 1977-1978, una ventina di ispettorie si sono mobilitate per mandare personale e mezzi e cominciare nuove presenze. Così, nel 1979, l'opera salesiana potè fare il primo passo nel Camerun e nella Liberia; nel 1980, nel Kenya, Lesotho, Senegal e Tanzania; nel 1981, in Angola, Benin, Costa d'Avorio, Madagascar e Mali; l'anno seguente, in Nigeria, Togo e Sudan; nel 1983, in Zambia; nel 1986, nella Guinea Conakry e nella Sierra Leon; nel 1988, in Uganda. In pochi anni, grazie ai nuovi missionari venuti non solo dall'Europa, ma anche dall'Asia e dall'America, una trentina di paesi ospitarono opere salesiane, soprattutto oratori, scuole professionali, parrocchie e missioni propriamente dette. Sebbene non esistesse ancora che una sola ispettoria, quella dell'Africa centrale (Zaire, Rwanda e Burundi), una serie di circoscrizioni provvisorie cominciarono a formarsi: Africa dell'Est, Guinea, Mozambico, Rwanda, Zambia, e Madagascar. L'apertura di alcuni noviziati e postnoviziati, e di due teologati, uno anglofono a Nairobi e l'altro francofono a Lubumbashi, rappresentava una incoraggiante promessa per il futuro.

Oltre al progetto Africa, altre iniziative missionarie meritano di essere segnalate. Nell'America del sud, sull'altopiano della Cordigliera delle Ande, la pastorale degli Indi dell'Ecuador, del Perù e della Colombia, prese un nuovo slancio, grazie all'intervento di 40 salesiani e di 600 catechisti autoctoni in 700 centri abitati. Per i paesi dell'Islam, una conferenza al Cairo nel 1988 ha voluto fare il punto sulla pastorale salesiana in contesto musulmano. Si prospettava inoltre una nuova frontiera in Indonesia, a Jakarta e a Timor Est. Vi fu anche un inizio di attività nell'Oceania, nelle isole Samoa (Polinesia), e in Papuasia Nuova Guinea. Il 15 maggio 1983 Giovanni Paolo II rese omaggio alle missioni salesiane beatificando i due figli di don Bosco, martiri in Cina: il vescovo Luigi Versiglia e il sacerdote Callisto Caravario. Questo lieto avvenimento, se da una parte, apriva la strada ad una riflessione approfondita sulla spiritualità missionaria, dall'altra fece anche sognare don Viganò a un futuro «progetto Cina».

L'Istituto FMA con madre Rosetta Marchese (1981) e madre Marinella Castagno (1984).

Durante il periodo 1978-1988, la Società di san Francesco di Sales e l'Istituto delle Figlie di Maria Ausiliatrice seguirono ancora una volta un cammino molto vicino di verifica e di prospettiva. Per succedere a madre Canta, i membri del Capitolo generale diciassettesimo del 1981 elessero madre Rosetta Marchese. Nata ad Aosta nel 1922, la nuova superiora generale aveva frequentato da bambina la scuola e l'oratorio delle Figlie di Maria Ausiliatrice della città. Nel 1938 entrò a Torino quale aspirante e iniziò il noviziato a Torre Bairo l'anno

seguente. Nel 1941 fece la professione e concluse gli studi magistrali. Fu inviata poi a Vercelli quale assistente. Dal 1943 al 1947, fu studente di materie letterarie all'Università, poi inviata alla Casa Madre Mazzarello a Torino per essere insegnante e assistente. In seguito fu direttrice a Caltagirone e a Roma, ispettrice a Roma, direttrice a Lecco, ispettrice a Milano. Nel 1975 entrò nel Consiglio generale quale consigliera visitatrice. Il primo compito di madre Rosetta fu l'attuazione dell'opera del Capitolo generale del 1981-1982: trasmissione vitale del testo rinnovato delle Costituzioni (che sarà approvato il 24 giugno 1982), rilancio vocazionale in tutto l'Istituto, ringiovanimento dell'azione pastorale, attuazione del progetto missionario in Africa, animazione e formazione delle persone e delle comunità. Purtroppo, madre Rosetta non ebbe il tempo sufficiente per compiere il primo incarico. Ben presto gliene fu riservato un altro, quello di offrire la propria vita per il bene dell'Istituto. Colpita da un male inesorabile a cominciare dal mese di maggio del 1982, madre Rosetta passò quasi due anni tra ricoveri ospedalieri e speranze, mentre un grande slancio di preghiera e di solidarietà percorreva tutto l'Istituto. Quando giunse la morte l’8 marzo 1984, madre Rosetta lasciò dietro di sé una traccia luminosa. Un nuovo Capitolo fu convocato lo stesso anno per eleggere una nuova Superiora. La scelta cadde su madre Marinella Castagno, finora consigliera generale per la pastorale giovanile. Nata a Bagnolo Piemonte nel 1921, Marinella Castagno aveva frequentato la scuola media presso le Figlie di Maria Ausiliatrice a Giaveno e l'Istituto magistrale a Torino. Fece la professione religiosa a Pessione nel 1948. Conseguita la laurea in scienze naturali e il diploma di specializzazione in psicologia, fu inviata nella casa «Maria Ausiliatrice » a Torino quale insegnante e preside fino al 1965. In seguito fu chiamata a Milano, per diventare prima direttrice, poi ispettrice. Nel 1973 entrò nel Consiglio generale in qualità di visitatrice, e nel 1975 di consigliera per la pastorale giovanile. Diventata Superiora generale, madre Marinella ricordava così le Superiore che l'avevano precedute: «Non posso dimenticare la fermezza, e insieme il delicato amore preveniente di madre Angela in molte circostanze della mia vita. Ho vissuto gli anni di governo di madre Ersilia Canta quando già mi erano stati affidati incarichi di responsabilità; la sua sapienza e intuizione mi sono state sempre luce e sostegno. Con madre Rosetta, poi, i rapporti stabiliti dal 1971, quando era direttrice nella ispettoria lombarda che mi era affidata, furono improntati a grande fraternità; e continuarono così, in maggior profondità, dopo la sua

elezione a Madre generale e fino agli ultimi incontri nella cameretta dell'ospedale». Le circolari di madre Castagno sono caratterizzate da un forte radicamento nella memoria storica dell'Istituto e da un costante richiamo agli avvenimenti ecclesiali e ai documenti del magistero. Nel 1985 fu nominata «uditrice» al Sinodo straordinario dei vescovi e nel 1987 membro del Comitato centrale per l'anno mariano. Nonostante una diminuzione del personale, dovuta all'accresciuto numero dei decessi e alla leggera flessione delle nuove candidate, l'Istituto manteneva vivo lo spirito missionario e l'impegno di rispondere alle attese delle giovani più povere. Diventava necessario comunque un saggio ridimensionamento delle opere, non inteso soltanto come riduzione o soppressione di case, ma come adattamento delle opere esistenti ai veri bisogni pastorali. I problemi più urgenti erano relativi alla formazione del personale e alla sua qualificazione. La Madre desiderava nell'Istituto un rinnovamento che portasse ad una vera mentalità di fede e a un nuovo stile di vita religiosa capace di integrare i valori perenni con le nuove situazioni socio-culturali. Nel 1987, anno in cui ricorreva il 150° anniversario della nascita di madre Mazzarello, la Superiora generale disse: «La Vergine Ausiliatrice continui ad essere l'unica Superiora. In Lei la nostra fiducia: ci è Madre. Alla sua scuola impariamo, come don Bosco, a spendere totalmente la nostra vita per Cristo nell'evangelizzazione dei giovani. Avanti con coraggio e nella gioia!».

Un «vasto movimento di persone».

Tra il 1978 e il 1988 anche gli altri rami della Famiglia salesiana fecero un lavoro di verifica e di prospettiva.

Anzitutto, l'associazione dei Cooperatori salesiani acquistò una nuova maturità istituzionale e carismatica. Dopo il periodo ad experimentum del Regolamento del 1974, il testo definitivo fu l'opera del secondo Congresso mondiale radunato a Roma nel 1985. Il numero dei Cooperatori, membri riconosciuti dell'associazione, era allora di circa 32.000, divisi in 1.120 centri nel mondo. Il Regolamento di vita apostolica fu approvato dalla Sede Apostolica e promulgato da don Viganò nel maggio del 1986. In conformità col nuovo Codice di diritto canonico, l'associazione dei Cooperatori Salesiani venne riconosciuta come associazione pubblica di fedeli, simile ad un terz'ordine, che partecipa al patrimonio spirituale della Società di S. Francesco di Sales e che si dedica all'apostolato presso la gioventù e gli ambienti popolari. Anche gli Exallievi hanno riunito nel 1983 i presidenti e i delegati di 69 federazioni nazionali per approfondire l'identità dell'exallievo di don Bosco. Grandi congressi continentali ebbero luogo per l'Europa, l'America latina e l'Asia-Australia. Come per i Cooperatori, un ramo di giovani exallievi stava spuntando, prima in Europa, poi negli altri continenti. Va segnalata inoltre la revisione dello statuto della Confederazione mondiale. Le Exallieve lavorarono nel 1980 all'aggiornamento dello Statuto e dei regolamenti ispettoriali, pubblicando una Guida per le dirigenti e organizzando convegni e incontri in Australia, Cina, Thailandia e Zaire. Nel 1983 fu celebrato a Roma il 75° di fondazione con un Convegno internazionale, congressi interispettoriali, nazionali ed internazionali. Nel 1988 ebbero la conferma ufficiale da parte del Rettor maggiore della loro appartenenza alla Famiglia salesiana. Quanto all'Istituto delle Volontarie di Don Bosco, esso potè riunire a Roma nel 1977 la prima assemblea generale, con il compito di redigere le Costituzioni rinnovate secondo lo spirito del Concilio. Un anno

dopo, diventò ufficialmente Istituto secolare di diritto pontificio. Nel 1979, don Viganò mandò alle Volontarie una lettera in cui condensò i tratti salienti di questa forma attuale di vita salesiana nel mondo. L'Istituto si sentiva ormai strettamente legata alla Famiglia salesiana con i tratti particolari della propria vocazione. Nel 1883, la seconda Assemblea generale dedicò i suoi lavori ai temi della salesianità e della formazione nell'Istituto. Per completare il panorama della Famiglia salesiana, conviene segnalare alcune congregazioni e associazioni, sorte nell'orbita salesiana e che hanno chiesto il riconoscimento ufficiale di appartenenza alla Famiglia salesiana da parte del successore di don Bosco. Il primo Istituto ufficialmente riconosciuto nel 1981 fu quello delle «Figlie dei Sacri Cuori di Gesù e di Maria», fondato da don Luigi Variara tra i lebbrosi di Agua de Dios in Colombia nel 1905. Nel 1983, fu la volta delle «Salesiane Oblate del Sacro Cuore», fondate nel 1933 da un vescovo salesiano, mons. Giuseppe Cognata, a Pellaro (Bova Marina) in Calabria. Un anno dopo, ottennero il riconoscimento le «Apostole della Sacra Famiglia», fondate a Messina nel 1889 da un Cooperatore salesiano, il cardinale Giuseppe Guarino, per l'educazione civile e religiosa dei figli del popolo. Nel 1986 furono riconosciute due Istituti: le «Suore della Carità di Miyazaki», fondate da don Antonio Cavoli a Miyazaki (Giappone) nel 1937 per le opere assistenziali, e le «Suore Missionarie di Maria Ausiliatrice », Congregazione fondata in India da mons. Stefano Ferrando a Gauhati (Guwahati) nel 1942 per il lavoro

missionario. Nel 1987 ottennero la loro appartenenza ufficiale alla Famiglia due Istituti: le «Figlie del Divin Salvatore», fondate da mons. Pedro Arnoldo Aparicio a San Vicente (El Salvador) nel 1956 per la formazione di maestre e di catechiste, e le «Suore Ancelle del Cuore immacolato di Maria», congregazione fondata da mons. Gaetano Pasotti a Bang Nok Khuek in Thailandia nel 1937 per l'aiuto ai centri di missione. Nel 1988 furono riconosciute inoltre le «Suore di Gesù Adolescente» fondate da mons. Vicente Priante a Corumbà (Brasile) nel 1938, per aiutare la Chiesa locale. Nello stesso anno figurano ancora le «Damas Salesianas», un'originale associazione laicale di donne sposate, nubili e vedove. Sotto l'impulso del padre Miguel Gonzàlez, il loro primo gruppo era nato negli anni 1963-1969 attorno al Tempio nazionale di S. Giovanni Bosco a Caracas, dalla consapevolezza che l'edificio religioso andava completato con opere sociali.

La comunicazione sociale.

Nel 1978 il Capitolo generale dei Salesiani aveva deciso la creazione di un segretariato per la comunicazione sociale, presso il dicastero della Famiglia salesiana. Era il segno di una nuova presa di coscienza di una realtà onnipresente, suscettibile di diventare un potente mezzo di educazione e di evangelizzazione. I Salesiani sentivano sempre di più l'urgenza di rispondere, con adeguata formazione e iniziative, alle sfide dei mass media. La lettera del 1981 di don Viganò su questo tema li spingeva in questa direzione.

Sulla scia delle intuizioni di don Bosco, si è voluto dare tutta la loro dimensione educativa alle varie opere e attività in questo campo, come le case editrici, le librerie, i centri di produzioni audiovisive, la radio, la televisione e i centri di formazione in comunicazione sociale. Riguardo al settore editoriale, il primo Congresso internazionale di Caracas del 1978 fissò le basi di un rilancio delle case editrici salesiane. Tre seminari sono stati organizzati per gli editori, uno a Torino nel 1980, l'altro a Barcellona nel 1982 e il terzo a Città del Messico l'anno seguente. L'incontro internazionale degli editori salesiani a New York nel 1985 aveva come tema le nuove tecnologie, e quello di Torino nel 1988 le sfide culturali per l'editoria salesiana. A quella data, la Famiglia salesiana gestiva in tutto il mondo circa 40 case editrici e 90 librerie. In Italia, non si può omettere di segnalare il ruolo di primo piano che continuano a svolgere la Società editrice internazionale (SEI), soprattutto nel campo della scuola e della cultura, e la Libreria della dottrina cristiana (LDC) in quello della catechesi e della spiritualità A Calcutta, in India, ha iniziato nel 1977 un «Don Bosco catechetical and multimedia centre», che funziona al servizio non solo dell'opera salesiana, ma di tutta la Chiesa. Tra le altre iniziative, si noterà anche il rinnovamento degli organi di informazione dei Salesiani (ANS, Bollettino salesiano nelle varie lingue) e delle Figlie di Maria Ausiliatrice (DMA, News), lo sviluppo delle radio salesiane (soprattutto in America latina), gli incontri di musici salesiani, le pubblicazioni e i corsi di formazione sulla comunicazione sociale e i mass media, la realizzazione di un film su don Bosco per l'anno del centenario della sua morte, ecc. Come segno di una crescita in questo campo, un Istituto della Comunicazione Sociale sorse presso l'Università salesiana nel 1988. Il suo compito principale era di formare degli specialisti cristiani della comunicazione con particolare attenzione all'ambito dell'educazione e della pastorale.

L'anno centenario della morte di don Bosco (1988).

In occasione del centenario della morte di don Bosco, la Famiglia salesiana ha voluto mobilitare tutte le sue forze, non solo per ricordare

un momento del passato, ma anzitutto per trarne un nuovo impulso verso il futuro. Preparato da una Lettera di Giovanni Paolo II al Rettor maggiore, l'anno centenario ha suscitato una grande varietà di manifestazioni e di attività religiose e culturali. Il Papa stesso ha voluto farsi pellegrino per onorare il santo della gioventù. Sul colle nativo dei Becchi, diventato «colle delle beatitudini giovanili», ha visitato la casetta familiare, e davanti a una gran folla di giovani, ha beatificato la giovane cilena Laura Vicuna, ex allieva delle Figlie di Maria Ausiliatrice di Junin de los Andes, in Argentina. In Italia e in alcuni paesi, come il Brasile, il Portogallo, l'Austria, l'Argentina, l'Uruguay e l'India, anche le autorità pubbliche della nazione hanno voluto associarsi all'omaggio reso al Fondatore della Famiglia salesiana, sottolineando gli aspetti umanitari e sociali della sua opera, specialmente nel campo dell'educazione. Una sessione solenne ha aperto l'anno centenario nel Teatro Regio di Torino e la chiusura si è tenuta sul Campidoglio a Roma. Per quanto riguarda gli studi e le pubblicazioni su don Bosco, l'anno 1988 fu particolarmente fecondo. Tra le varie iniziative in questo settore conviene segnalare anzitutto il primo congresso internazionale dedicato agli studi su don Bosco, il convegno internazionale promosso dalla Pontificia Facoltà di Scienze dell'Educazione «Auxilium» sull'educazione della donna, il simposio su don Bosco fondatore della Famiglia salesiana, i seminari e i convegni di studio sulla sua esperienza pedagogica. Ma si dovrebbero menzionare molti altri studi su vari

aspetti in relazione con la personalità e l'opera del santo: la pastorale giovanile, la dimensione biblica, la psicologia, la musica, la formazione professionale, la fotografia, la filosofia, la storia, le missioni, le culture, le relazioni di don Bosco con Chieri, Valsalice, Torino, e la sua opera nel mondo. La vitalità della Famiglia salesiana si è manifestata in diversi modi durante il centenario. I Cooperatori hanno organizzato congressi regionali e nazionali. Gli Exallievi e le Exallieve hanno celebrato a Roma il loro primo Congresso mondiale insieme nella prospettiva di una maggiore comunione delle due Confederazioni. Le Volontarie di don Bo

sco e gli Istituti aggregati alla Famiglia salesiana hanno approfondito la propria vocazione alla luce del carisma ereditato da don Bosco e dai suoi discepoli. Secondo il Rettor maggiore, l'anno 1988 fu davvero un «anno di grazia», che ha confermato l'attualità di don Bosco e del suo carisma nella Chiesa e nella società. A partire da quella data, si auspicava il passaggio da un tempo di ricerca e di crisi ad una nuova epoca, in cui il consolidamento della vocazione salesiana doveva condurre i discepoli di don Bosco a coraggiose scelte pastorali e missionarie.

Capitolo XXXIV.

LA NUOVA EVANGELIZZAZIONE, ALLE PORTE DEL TERZO MILLENNIO (1989-2000).

L'anno 1989 fu l'anno di eventi che sembrarono imprevedibili. Il crollo del muro di Berlino, simbolo della divisione dell'Europa in due blocchi contrapposti, segnava la fine dell'impero sovietico, mentre in America latina e in Africa si dava l'avvio a regimi più democratici. Con la sensazione di un'unità ritrovata si accesero grandi speranze di hbertà, di solidarietà, di spiritualità. Ma a distanza di pochi anni, si è percepita anche la sensazione opposta di un'unità minacciata da un muro invisibile di nuove paure, di nuove insicurezze sociali e politiche, di nazionalismi e di fondamentalismi religiosi. Continuava il flusso migratorio dei poveri verso i paesi del benessere. Conflitti etnici scoppiarono in alcune aree dell'Est europeo e in vari paesi africani. Non mancavano neanche i numerosi segnali di una tragica «cultura di morte». In questi anni si è consumata la crisi delle ideologie e delle idee forti e trainanti. Al loro posto è apparso il pensiero debole della post-modernità, caratterizzato sia dal rispetto e dall'apertura a tutte le correnti delle culture, sia dal relativismo etico, dal soggettivismo e dalla frammentazione sociale. Grazie alle reti telematiche ed informatiche, la comunicazione e gli scambi a livello planetario hanno contribuito al fenomeno della globalizzazione. Per i giovani diventavano più preoccupanti la disoccupazione, la disgregazione di molte famiglie, il fenome

no diffuso del secolarismo, dell'indifferenza religiosa, come anche quello di una nuova religiosità alla moda del new age. Intanto, da parte della Chiesa, l'attenzione di tutti si rivolgeva verso il 2000, anno del grande giubileo indetto da Giovanni Paolo II. Nello stesso tempo si faceva sempre più vivo il bisogno di una «nuova evangelizzazione»: «nuova nel suo ardore, nel suo metodo, nelle sue espressioni». I Sinodi continentali dei Vescovi hanno scandito le fasi della preparazione: quello dell'Europa (1991), dell'Africa (1994), dell'America (1997), dell'Asia e dell'Oceania (1998) e il secondo dell'Europa (1999). In questa prospettiva, la Famiglia salesiana non poteva sottrarsi alle sfide della «nuova evangelizzazione» e della «nuova educazione».

La nuova evangelizzazione e i laici.

Alla fine dell'anno centenario, Giovanni Paolo II proclamò S. Giovanni Bosco «padre e maestro della gioventù», stabilendo che con tale titolo sia onorato e invocato in tutta la Chiesa, non solo dai membri della Famiglia salesiana, ma da quanti hanno a cuore la causa dell'educazione dei giovani. Don Viganò vide in ciò non solo il collaudo del Sistema preventivo, ma anche uno sprone per la nuova evangelizzazione della gioventù. Nel 1990, i Salesiani celebrarono appunto il Capitolo generale XXIII per trattare il tema dell'educazione dei giovani alla fede. Fu un Capitolo ordinario, perché si considerava ormai conclusa l'opera di revisione globale dell'identità salesiana nel senso voluto dal concilio Vati

cano II. Si trattava ormai di affrontare un aspetto vitale della missione permanente. Partendo dalle sfide della realtà giovanile nei loro vari contesti, i capitolari tracciarono un cammino di educazione alla fede per i giovani, offrendo loro una proposta di vita cristiana significativa e di spiritualità giovanile salesiana. Il Rettore maggiore, don Egidio Viganò, fu riconfermato per un terzo sessennio. Durante il Capitolo, Giovanni Paolo II beatificò don Filippo Rinaldi, terzo successore di don Bosco, e poco dopo, il 1° maggio, egli stesso volle fare una visita al Capitolo nella sua sede. Sei anni dopo, nell'anno 1996 che ricordava il 150° anniversario dell'arrivo di don Bosco a Valdocco, il tema discusso durante il Capitolo generale XXIV s'intitolava: «Salesiani e laici, comunione e condivisione nello spirito e nella missione di don Bosco». Per la prima volta, un gruppo di ventun laici parteciparono per una settimana al Capitolo generale. Si radicava sempre di più, infatti, la convinzione che la nuova evangelizzazione non poteva aver luogo senza la collaborazione organica ed entusiasta dei laici. Quanto alle comunità salesiane, esse dovevano ormai qualificarsi sempre di più come «nucleo animatore» di una comunità educativa pastorale (CEP), dove religiosi e laici si scambiavano i valori e la missione. Durante l'udienza dal Papa, Giovanni Paolo II esortò i Salesiani ad aiutare i laici a formarsi come educatori.

Don Juan Vecchi, primo Rettor maggiore argentino (1996)

Ai capitolari del 1996 toccava anche eleggere il nuovo Rettor maggiore e i membri del Consiglio generale. Infatti, don Viganò era morto il 23 giugno 1995. Il 20 marzo 1996, venne eletto Rettor maggiore al primo turno don , il quale, in quanto Vicario, sostituiva già il Superiore defunto.

L'ottavo successore di don Bosco è nato a Viedma, in Argentina, il 23 giugno 1931, ultimo figlio di emigranti italiani. Juan Edmundo andò a scuola nel collegio salesiano della città, e a sedici anni chiese l'ammissione al noviziato di Fortin Mercedes, seguendo così le tracce dello zio, il coadiutore Artemide Zatti. Compì i suoi studi di teologia presso l'Ateneo salesiano di Torino e fu ordinato sacerdote nel 1958. Tornato in Argentina, studiò ancora lettere e scienze dell'educazione, si dedicò all'insegnamento tra i giovani liceisti di Bahia Bianca e tra gli studenti salesiani di filosofia. Dopo varie cariche di responsabilità nel suo paese, partecipò al Capitolo generale speciale come delegato e poi fu nominato da don Ricceri consigliere regionale per l'America latina. Dal 1978 al 1990 fu consigliere generale per la pastorale giovanile, un incarico in cui don Vecchi sviluppò la riflessione sul progetto educativo salesiano, grazie ad un lavoro di équipe che fruttificò in varie pubblicazioni sul progetto educativo-pastorale (1978), sull'animazione pastorale dell'ispettoria (1979), sulla pastorale vocazionale (1981), sui gruppi e movimenti giovanili (1979), sulla proposta associativa salesiana (1985). Durante il Capitolo generale XXIII, don Vecchi fu eletto Vicario del Rettor maggiore. Dopo la morte di don Viganò, egli esercitò la funzione di Superiore, fino alla sua elezione come Rettor maggiore il 20 marzo 1996. Nel 1997 fu invitato a partecipare al Sinodo dei vescovi per l'America, dove fece un intervento sulla gioventù. Uno dei primi atti del nuovo Rettor maggiore fu di stabilire con il suo Consiglio una programmazione per il governo e l'animazione della Congregazione nel sessennio 1996-2002, definendo le quattro aree principali di attenzione e di intervento: i rapporti con i laici, la significatività della presenza salesiana, la comunità come nucleo animatore e la qualità della formazione.

Le Figlie di Maria Ausiliatrice con madre Antonia Colombo (1996).

Nel 1990, le Figlie di Maria Ausiliatrice scelsero come tema per il loro Capitolo generale XIX: «Educare le giovani: apporto delle Figlie di Maria Ausiliatrice ad una nuova evangelizzazione nei diversi contesti socio-culturali». Gli orientamenti operativi che ne seguirono prospettavano nuove presenze educative tra i giovani più poveri, una nuova presenza della donna nella società e nella Chiesa, uno sforzo di inculturazione della fede e una crescita in qualità della comunicazione. «La Chiesa ci chiede - scriveva madre Marinella Castagno alle sue sorelle di continuare con fiducia nella linea educativa tracciataci dai Fondatori, tenendo presente però che essa esige oggi ricchezza di inventiva e audacia di realizzazione perché possiamo divenire risposta efficace alle nuove situazioni». In questi anni maturò una notevole crescita della coscienza missionaria nell'Istituto: nuove partenze di Suore, formazione di gruppi giovanili in prospettiva di solidarietà missionaria e consolidamento del volontariato per i Paesi in via di sviluppo. Durante il mandato di madre Marinella vi furono dodici spedizioni missionarie con 224 Suore. Nel campo della santità, un evento significativo è stato la glorificazione di madre Maddalena Morano, pioniera dell'Istituto in Sicilia, proclamata beata da Giovanni Paolo II a Catania il 5 novembre 1994. Il Capitolo generale XX, celebrato nel 1996, concentrò la riflessione sull'identità delle Figlie di Maria Ausiliatrice in quanto «comunità di donne radicate in Cristo, chiamate ad una missione educativa inculturata verso il terzo millennio». Le capitolari hanno voluto riascoltare l'appello misterioso, già udito a Mornese da Maria Mazzarello: «A te le affido!». Il Capitolo è stato vissuto come «una lunga conversazione» o dialogo con la prima comunità cristiana e con quella delle origini carismatiche. Con esse le comunità attuali sono state chiamate a confrontarsi per attingervi criteri di lettura nell'affrontare problemi quali la vita umana e la sua difesa, l'interdipendenza dei popoli, le povertà antiche e

nuove, la reciprocità, la solidarietà e la corresponsabilità, il dialogo interculturale. La «profezia dell'insieme» è una felice espressione in cui il Capitolo ha voluto sintetizzare la necessità di un'azione educativa convergente e della testimonianza vitale delle comunità educanti. Tra le novità vi fu anche la nomina di una consigliera generale per la Famiglia salesiana. Durante il Capitolo, concludendosi il mandato di madre Marinella, fu scelta a succederle madre Antonia Colombo quale Superiora generale dell'Istituto. Nata nel 1935 a Lecco, in Lombardia, compì la sua prima formazione salesiana a Contra di Missaglia, dove attese contemporaneamente al completamento degli studi, coronati dalla laurea in giurisprudenza. Successivamente, a Lovanio, conseguiva la laurea in psicologia applicata. In qualità di docente, e poi di preside della Facoltà di Scienze dell'Educazione Auxilium, promosse varie iniziative sulla questione femminile. Nell'anno 1989-90 fu ispettrice a Taranto e nel sessennio 1990-96 consigliera visitatrice. Eletta Superiora generale, madre Antonia manifestava una precisa concezione della missione dell'Istituto dichiarando: «È un compito che da sempre sento chiaro dentro di me, quello di rispondere all'impegno particolare a cui Giovanni Paolo II, in molteplici occasioni, richiama la donna: essere educatrice e testimone d'un servizio alla società improntato a una specificità femminile». Una delle prime iniziative da lei realizzate con il suo Consiglio fu quella di elaborare la programmazione del sessennio al fine di tradurre in orientamenti e linee di azione le indicazioni del Capitolo generale. Per conoscere da vicino la realtà dell'Istituto, presente in 86 nazioni, madre Antonia ha intrapreso numerosi viaggi visitando un buon numero di ispettorie nei vari continenti. Dappertutto ha ribadito la scelta salesiana dell'educazione quale via dello sviluppo e dell'evangelizzazione, focalizzando l'impegno delle FMA per una cultura della vita e della reciprocità. La missione delle Figlie di Maria Ausiliatrice, particolarmente nell'ambito della promozione della giovane donna, viene esprimendosi in

diverse iniziative, convegni e seminari anche a carattere internazionale, e soprattutto nella qualificazione o creazione di presenze mirate a favorirne l'elevazione culturale e la corresponsabilità con l'uomo nelle decisioni. In molte ispettorie esistono reti di intervento educativo specifico che raggiungono migliaia di bambine, ragazze e giovani. In questi anni prosegue l'iniziativa del «Progetto Mornese», felicemente avviato nel periodo precedente. I luoghi delle origini diventano sempre più un punto di riferimento centrale non solo per le Figlie di Maria Ausiliatrice, ma anche per i giovani e i gruppi della Famiglia salesiana, che raggiungono il paesino del Monferrato per svolgervi esercizi spirituali, corsi, convegni, pellegrinaggi immergendosi nel clima di santità proprio della Mazzarello e degli inizi carismatici, facendo così di Mornese un vero e proprio centro di spiritualità.

La Famiglia salesiana con nuovi rami.

Per i Cooperatori salesiani l'anno 1995 coincideva con il centenario del primo congresso di Bologna del 1895. Per questo essi celebrarono di nuovo a Bologna il Congresso centenario mondiale sul tema: «Educare come don Bosco». Le Exallieve delle Figlie di Maria Ausiliatrice hanno riunito nel 1997 la loro seconda Assemblea confederale elettiva. Le Volontarie di don Bosco tennero nel 1989 la loro terza Assem

blea generale per preparare le Costituzioni definitive, mentre l'Assemblea successiva del 1995 approfondì la secolarità consacrata. Durante l'ultimo periodo, va segnalato anche il riconoscimento di appartenenza di nuovi rami della Famiglia salesiana. Nel 1989, l'«Associazione di Maria Ausiliatrice » (ADMA) ottenne questo riconoscimento, che d'altra parte veniva soltanto a rendere ufficiale una realtà già vissuta da molto tempo, poiché don Bosco l'aveva istituita dopo la costruzione del Santuario di Maria Ausiliatrice e l'arcivescovo di Torino l'aveva approvata nel 1869. Da Torino l'Associazione si era estesa in varie parti del mondo, ma ogni associazione locale rimaneva sempre aggregata a quella primaria di Valdocco. L'Associazione è chiamata a testimoniare e a diffondere una devozione a Maria che accresca, purifichi e difenda la fede cristiana tra la gente. Il testo rinnovato del regolamento dell'Associazione fu approvato da don Vecchi nel 1997. Nel 1992, furono riconosciute le «Suore Catechiste di Maria Immacolata Ausiliatrice », fondate nel 1948 da mons. Louis Laravoire Morrow a Krishnagar. La loro originalità sta nel fatto che hanno ricevuto dal fondatore la spiritualità della «piccola via» di santa Teresa di Lisieux e lo spirito apostolico di don Bosco. Nel 1996 fu riconosciuto anche l'Istituto delle «Figlie della Regalità di Maria Immacolata», fondato da don Carlo della Torre a Bangkok nel 1952. Si tratta di un Istituto secolare, che si impegna verso i giovani in collaborazione con la Chiesa locale. Accanto all'Istituto delle Volontarie di don Bosco cominciò anche a spuntare dal 1992 un ramo maschile: i «Volontari con don Bosco». Don Viganò ufficializzò la loro prima esperienza nel 1994. Nel 1999 ebbero il primo riconoscimento da parte della Chiesa. Infatti, l'arcivescovo salesiano di Caracas, mons. Ignacio Velasco Garda, conferiva al nuovo Istituto il titolo di associazione pubblica di fedeli laici nella sua Chiesa particolare, mentre don Vecchi dava esecuzione al decreto dell'arcivescovo.

Nel 1999 fu riconosciuto il gruppo dei «Testimoni del Risorto verso il 2000», fondati a Roma nel 1984 da don Sabino Palumbieri. Sono laici impegnati, animati dalla spiritualità pasquale, che si esprime particolarmente nella pratica celebrativa della Via lucis L'ultimo gruppo di cui si è riconosciuto l'appartenenza alla Famiglia salesiana è stato quello della Congregazione S. Michele Arcangelo, iniziata in Polonia da don Bronislaw Markiewicz nei primi anni della presenza dei figli di don Bosco. Nel 1995 era stata firmata dal Rettor maggiore una «Carta di comunione nella Famiglia salesiana di don Bosco», destinata ad unire tutti i gruppi nello spirito comune e spingerli verso una realizzazione operativa di questo spirito. Cinque anni dopo era abbozzata inoltre una Carta della missione della Famiglia salesiana, che doveva essere esaminata nel «Convegno 2000» dei Consigli generali dei gruppi della Famiglia salesiana ufficialmente riconosciuti.

L'Opera salesiana in Europa.

Intanto, la geografia salesiana stava cambiando durante gli ultimi anni del secondo millennio. Il mondo occidentale accusava un certo squilibrio tra gli impegni ereditati e il personale in diminuzione. Diminuivano specialmente i coadiutori e si registrava un notevole invecchiamento. Così si spiegano alcuni provvedimenti presi negli ultimi anni come la riunione, nel 1993, di tutte le case del Piemonte e della Valle d'Aosta in una sola circoscrizione speciale, con sede a Torino-Valdocco. Anche le due ispettorie della Francia furono riunite nel 1999 in una sola, con sede a Parigi. Progetti simili di fusioni erano anche in atto presso le Figlie di Maria Ausiliatrice, specialmente per l'Italia e l'Europa. Per contro, dopo la caduta dei regimi comunisti nell'Est dell'Europa, nuove presenze salesiane potevano essere avviate in quei paesi, do

ve talvolta esistevano già presenze informali. Nel 1990, si cominciò ufficialmente in Bielorussia, in Georgia, in Russia e in Ucraina; nel 1994 in Bulgaria e nel 1995 in Bosnia- Erzegovina. Già l'8 dicembre 1993 fu creata una circoscrizione speciale per raggruppare le nuove comunità fondate nei paesi dell'ex Unione Sovietica. La sede fu stabilita a Mosca. Nel 1995 i Salesiani aprivano un noviziato a Oktiabrskij, nei dintorni della capitale russa, dove l'anno seguente il Rettor maggiore riceveva le prime professioni di dodici giovani provenienti da questi paesi. I Salesiani in questa immensa area erano già centoquaranta circa. Per quanto riguarda la storia, le sensibilità religiose e i riti, l'Europa dell'est è stata definita un vero «laboratorio di ecumenismo». Le presenze in Albania avevano ancora bisogno di appoggio, mentre in Romania si procedeva ad un primo insediamento con il coinvolgimento delle ispettorie di Venezia e dell'Austria. Da parte loro, le Figlie di Maria Ausiliatrice aprivano nel 1991 una casa a Smorgon in Bielorussia e un'altra a Mosca.

In America

Nell'America del sud, si è costatato una differenza tra regioni. Mentre i paesi del versante Atlantico accusavano un certo calo, meno forte però che in Europa, il numero dei confratelli e delle presenze stava aumentando in modo significativo sul versante del Pacifico e nelle Caribe. L'attività missionaria dell'America del sud si è estesa anche all'Africa, in particolare nella Guinea Conakry e in Angola. Il Sinodo dei Vescovi per l'America ha coinvolto per la prima volta tutto il continente americano, in cui si voleva affermare di più la solidarietà tra il Nord e le Sud. Anche la Famiglia salesiana era impegnata in questa prospettiva. Intanto, nuove presenze erano progettate tra gli emigranti ispanici degli Stati Uniti, mentre a Cuba si riaprivano le possibilità di vocazioni e di impegno. D'altra parte, era sempre in atto il lavoro tra gli indigeni all'interno delle diverse nazioni americane ed era in cantiere qualche progetto per i numerosi gruppi afro-americani. Nel Brasile, le Figlie di Maria Ausiliatrice sviluppavano la loro presenza costituendo nel 1993 una nuova ispettoria nel Mato Grosso, con

sede a Cuiabà, e una «visitatoria» (quasi ispettoria) nell'Amazzonia nel 1998, con sede a Manaus. Nel 1992, le condizioni particolari della Repubblica di Haiti e lo sviluppo dell'opera salesiana consigliarono una struttura giuridica propria. Le case, finora riunite con quelle dell'ispettoria delle Antille, furono costituite in visitatoria, con sede nella capitale Port-au- Prince. Da parte loro, le Figlie di Maria Ausiliatrice, che avevano già eretto la visitatoria nel 1991, creavano l'ispettoria haitiana nel 1997.

Africa e Madagascar

Dopo la prima tappa di lancio, il progetto Africa era entrato nella fase del consolidamento mediante la creazione di strutture di coordinamento. Ancora alla fine dell'anno centenario fu eretta la visitatoria dell'Africa Meridionale, con sede a Johannesburg, che raggruppava le case salesiane della Repubblica del Sud Africa, del Lesotho e dello Swaziland. Un grande sforzo di consolidamento e di coordinamento delle presenze africane si notava da parte delle Figlie di Maria Ausiliatrice. Nel 1992, l'Istituto eresse la prima visitatoria dell'Africa occidentale fissando la sede a Lomé. Essa era destinata a riunire le case di otto paesi: Costa d'Avorio, Mali, Togo, Benin, Camerun, Guinea Equatoriale, Gabon, Congo Brazzaville. Nello stesso tempo, fu costituita la prima ispettoria dell'Istituto nell'Africa dell'Est con sede a Nairobi, che doveva riunire le presenze del Kenya, Tanzania, Rwanda, Etiopia e Sudan. Sempre lo stesso anno veniva eretta l'ispettoria del Mozambico con sede a Maputo, che raggruppava anche le presenze dell'Angola. Tre anni dopo, nel 1995, nasceva anche l'ispettoria dell'Africa meridionale, con sede a Walkerville, per raggruppare le case del Sud Africa, Lesotho e Zambia. Da parte loro, i Salesiani costituirono nel 1993 una circoscrizione a statuto speciale destinata a riunire le case, ormai staccate dall'ispettoria madre di Varsavia, dello Zambia, del Malawi e dello Zimbabwe. Nel 1999, con l'aggiunta di una nuova presenza in Namibia, questa circoscrizione sarà trasformata in visitatoria.

L'anno 1998 vide il consolidamento dell'opera salesiana in quattro regioni dell'Africa. Nei paesi dell'Africa occidentale francofona, i Salesiani eressero anch'essi una visitatoria con sede a Abidjan per raggruppare le case del Benin, della Costa d'Avorio, della Guinea-Conakry, del Mali, del Senegal e del Togo. La stessa deliberazione fu presa per l'Africa tropicale equatoriale, con sede a Yaoundé, per le case del Camerun, del Ciad, del Congo-Brazzaville, del Gabon, della Guinea Equatoriale e della Repubblica Centroafricana. Quanto all'Africa Est, la visitatoria fu trasformata in ispettoria con sede a Nairobi, per le case situate sul territorio del Kenya, del Sudan, della Tanzania e dell'Uganda. Fu costituita inoltre la nuova visitatoria dell'Etiopia ed Eritrea con le case staccate dalle ispettorie del Medio-Oriente e della Lombardia. La sede fu fissata a Addis Abeba. In Angola, nazione travagliata dalla guerra e dalla violazione dei diritti umani, uno degli ultimi provvedimenti era di riunire in una visitatoria le nove case salesiane, di cui quattro nella capitale Luanda. Nel 1993, il Madagascar, che contava già otto case salesiane, diventava una circoscrizione a statuto speciale con sede a Ivato, e nel 1999 fu costituita visitatoria. Dal canto loro, le Figlie di Maria Ausiliatrice avevano già la loro visitatoria dal 1997. In Africa e nel Madagascar crescevano le vocazioni e di conseguenza il numero delle case di formazione. Soltanto per i Salesiani si contavano già nel 1995 otto noviziati, sette postnoviziati e quattro teologati. Nel 1994 furono celebrati anche quattro congressi di Cooperatori salesiani, a Addis Abeba (Etiopia), a Libreville (Gabon), a Maputo (Mozambico) e a Madagascar. «Non c'è dubbio - riferiva don Vecchi al Capitolo generale del 1996 - che nell'insieme il Progetto Africa è stato uno dei progetti missionari più significativi nella storia della nostra Congregazione».

L'Asia.

Lo sviluppo dell'opera salesiana in India richiedeva nuovi provvedimenti organizzativi. Nel 1992, furono staccate una quindicina di case e presenze dell'ispettoria di Bangalore per formare la nuova ispettoria dell'Andhra Pradesh con sede a Hyderabad. Lo stesso anno, un interessante seminario di studio fu tenuto a Bangalore per analizzare le condizioni dei giovani in India e determinare nuove proposte per un miglior servizio della gioventù. Nel 1997 furono staccate dall'ispettoria di Calcutta sette case e sette presenze non ancora erette per costituire una nuova ispettoria con sede nella capitale New Delhi. Nel 1999 nasceva una nuova ispettoria nel sud dello Stato di Tamil Nadu, mediante la suddivisione del territorio dell'ispettoria di Madras. La nuova sede fu fissata a Tiruchirapalli (Tiruchy). Le case erano otto, senza contare nove presenze salesiane non ancora canonicamente erette. Da parte delle Figlie di Maria Ausiliatrice, si registrava anche l'erezione dell'ispettoria di Bangalore nel 1993. Nelle Filippine, lo sviluppo della missione salesiana e l'estensione territoriale dell'unica ispettoria portarono nel 1992 alla creazione di una nuova circoscrizione giuridica. Le case del sud delle Filippine e quelle dell'Indonesia e di Timor furono staccate dell'ispettoria di Manila per formare la nuova ispettoria con sede a Cebu. Sei anni dopo, nel 1998, le case dell'Indonesia e di Timor Est furono staccate dalle Filippine Sud per formare a loro volta una visitatoria propria, con sede a Dili. A Timor, «una piccola mezza isola lontana da tutti», il vescovo salesiano Carlos Filipe Ximenes Belo aveva ricevuto nel 1996 il premio Nobel per aver promosso il dialogo e contribuito a migliorare le condizioni di vita sia fisiche che spirituali della popolazione. Nel 1998, il Rettor maggiore firmava il decreto di erezione della nuova ispettoria di Korea, con sede a Seoul. Nel 1999, dato lo svilup

po dei soci e delle opere nel Vietnam, fu eretta anche l'ispettoria vietnamita con sede a Xuan-Hiep (Ho-Chi-Minh). Oltre a ciò, si iniziava una prima presenza a Phnom Penh, capitale della Cambogia con un importante centro di formazione professionale. Una seconda opera si stava avviando, mentre si esploravano le possibilità che offriva il Laos. Il futuro della Cina vacillava ancora tra interrogativi e speranze. Il lavoro si svolgeva per il momento in forme atipiche e si accoglievano già domande di candidati alla vita salesiana. L'Asia diventava ormai missionaria. Dalla Korea del Sud è partito un gruppo di confratelli per la Manciuria, dal Giappone per le Isole Salomone, dalla Thailandia per la Cambogia. L'ispettoria di Guwahati cominciava nuove presenze missionarie negli Stati di Mizoram e Tripura, e quella di Calcutta nello Stato del Punjab, nel Sikkim e nel Nepal. Un certo numero di confratelli partivano dall'India per le missioni dell'Est Africa. Nuove frontiere missionarie in Asia si aprivano anche alle Figlie di Maria Ausiliatrice. Nel 1997 fu eretta la nuova visitatoria per l'Asia del Sud Est con sede a Phnom Penh, che raggruppava le presenze di Cambogia, Vietnam, , Indonesia e Timor. Il 24 febbraio 2000 veniva eretta la nuova ispettoria di Guwahati, nell'India del nordest.

Nella regione del Pacifico.

Nella regione del Pacifico, i Salesiani dell'Australia, già presenti in Samoa occidentale, aprirono un postnoviziato a Suva, capitale delle isole Fiji nel 1998. Da parte sua, l'Istituto delle Figlie di Maria Ausiliatrice creava nel 1999 la nuova ispettoria del Pacifico Sud, con sede a Scoresby (Australia), destinata a raggruppare le case dell'Australia e di Samoa occidentale.

Il grande giubileo del 2000.

Intanto, la Famiglia salesiana si preparava ad entrare nel terzo millennio. Una nuova spedizione missionaria straordinaria doveva testi moniare la fede di quanti celebravano la partenza dei primi missionari centoventicinque anni prima. Per vivere la grazia del giubileo, don Juan Vecchi e Madre Antonia Colombo hanno voluto firmare nel 1998 una comunicazione comune «per un cammino di collaborazione». Questo cammino si estendeva ormai a un numero che andava crescendo di gruppi e membri della Famiglia salesiana. Dal 1815 al 2000 sono passati 185 anni. I sogni del Fondatore si sono in parte verificati, ma il lavoro per il Regno di Dio non è mai finito. Le ultime prospettive di fondazione si chiamavano Azerbaigian, Iraq, Kuwait, Isola Mauritius e Mongolia. In una lettera del 1998, dedicata all'impegno missionario, l'ottavo successore di don Bosco invitava al coraggio e alla fede con le parole evangeliche: «Levate i vostri occhi e guardate i campi che già biondeggiano per la mietitura».

CONCLUSIONE.

Al termine di un libro che ha preso in considerazione centottanta- cinque anni di storia salesiana, non è inutile rivederne brevemente le principali tappe, trarre alcune conclusioni e aprire qualche pista per ulteriori indagini.

Le opere e le attività.

Come è stato detto fin dall'inizio, la storia salesiana è prevalentemente la storia di un'opera. Il panorama che abbiamo abbozzato ci ha messo innanzi tutto di fronte alla grande, sebbene umile, figura di don Giovanni Bosco. Per questo il tempo del Fondatore (1815-1888) ha richiesto uno spazio rilevante, anche perché abbiamo potuto valorizzare i numerosi studi apparsi negli ultimi anni sulla sua figura e sul suo tempo. Si è potuto seguire i primi passi dell'Oratorio di S. Francesco di Sales a Torino, con i primi laboratori e le prime scuole. La parte più importante del lavoro è stata dedicata alla fondazione della Società salesiana, di cui abbiamo seguito gli sviluppi in Italia e all'estero, e alla creazione di due altri rami: l'Istituto delle Figlie di Maria Ausiliatrice e i Cooperatori salesiani. Il secondo periodo, che va dal 1888 al 1965, ha comportato alcune difficoltà peculiari, perché non è stato ancora studiato come il precedente. In un organismo centralizzato come quello fondato da don Bosco, è parso conveniente considerare le figure dei successivi Rettori maggiori e anche delle Superiore generali delle Figlie di Maria Ausiliatrice. Scarseggiano ancora gli studi su altre figure importanti e sulle opere e attività promosse in tanti paesi diversi. Sarebbero utili alcuni capitoli, già suggeriti da Francis Desramaut nella prefazione alla prima edizione di questo volume, su certi settori poco conosciuti, quali la vita quotidiana di un salesiano d'Europa o d'oltre mare nel suo ambiente, le pubblicazioni che i figli e le figlie di don Bosco ricevevano o diffondevano, la loro filosofia della vita, lo stile delle loro scuole, opere e chiese, nonché le risorse dei loro istituti. Due temi particolari però non potevano essere tralasciati, quello delle missioni e quello della formazione. Oltre ai tre rami della Famiglia salesiana già evocati, abbiamo presentato l'organizzazione mondiale degli Exallievi e delle Exallieve. Le difficoltà per la trattazione della terza parte (1965-2000) provenivano dal fatto che il periodo dopo il concilio era ancora troppo recente. D'altra parte non si poteva trascurare una visione della crisi e del rinnovamento dal 1965 in poi. Benché ridotto per numero di anni e di pagine ad esso dedicate, l'ultimo periodo segna indubbiamente una nuova tappa, che si riflette anche nei titoli dei capitoli: «primi appuntamenti conciliari», «il dopoconcilio», «verifica e prospettive», «la nuova evangelizzazione alle porte del terzo millennio». Era necessario prendere coscienza delle mutazioni intervenute in quegli anni e seguire gli sforzi di rielaborazione del «carisma» salesiano di fronte alle nuove sfide. Per forza di cose si è tralasciata alquanto la storia dell'opera a beneficio di quella della riflessione che si manifestava specialmente durante i Capitoli generali, nei Colloqui internazionali e nelle varie assemblee, come pure nelle pubblicazioni di superiori e di studiosi.

Il pensiero e le idee.

Nel campo del pensiero e delle idee, la Famiglia salesiana non possiede una tradizione antica come i Benedettini, i Domenicani, i Francescani o i Gesuiti. La fondazione è ancora troppo recente e lo stile salesiano, sull'esempio del Fondatore, è più pratico che teorico. Sappiamo che in teologia il maestro doveva essere san Tommaso d'Aquino, nella morale sant'Alfonso de' Liguori. Del Patrono san Francesco di Sales don Bosco e i suoi discepoli hanno ritenuto soprattutto la centralità della carità, traducendola in termini educativi e pastorali. Infatti, è nel campo educativo che la Famiglia di don Bosco rivendica una «scuola» originale che si appoggia sulla personalità e l'esperienza di don Bosco. In questo campo non si tratta tanto delle «idee di don Bosco sull'educazione», di cui ha trattato don Cerniti a proposito dell'insegnamento degli autori classici e cristiani, quanto del suo metodo educativo chiamato «sistema preventivo», basato sulla ragione, la religione e l'amorevolezza. Il nostro panorama storico non ha potuto dedicare molto spazio a questo tema, nonostante la convinzione che que

sto sistema, situato tra il sistema repressivo specialmente in uso nel passato e il sistema che possiamo chiamare «permissivo» di oggi, costituisca una base sicura di riflessione e di azione. Sul piano sociale, don Bosco non fu l'apostolo di cambiamenti radicali delle strutture esistenti. Egli predicò instancabilmente la necessità della carità operosa, dell'elemosina, del date et dabitur vobis. Secondo lui, il miglior modo di rendersi utile alla società era di educare bene la gioventù, formando «buoni cristiani e onesti cittadini». Dopo di lui, l'azione salesiana si dedicò con grande slancio alla moltiplicazione delle opere di educazione e di assistenza. Quanto alla riflessione e all'azione sui problemi sociali, le abbiamo trovate presso alcuni personaggi fuori del comune, quali don Baratta a Parma, don Scaloni nel Belgio, o il coadiutore Carlo Conci in Argentina. Si potrebbe anche indagare di più sulla posizione dei Salesiani di fronte all'azione politica. Don Bosco, lo sappiamo, fin dal 1848 non amava le rivoluzioni e diffidava della «politica». Tuttavia, essendo impegnato in opere educative e pastorali con forti risvolti nella società, non poteva sottrarsi alle leggi vigenti, ai contatti con le autorità e alla ricerca del bene comune. La sua prudenza lo indusse a vietare ai Salesiani di «parlare di politica», ma la sua flessibilità e diplomazia lo fecero considerare qualche volta nel suo paese come un simbolo della «conciliazione» tra la Chiesa e lo Stato. Dopo di lui i Salesiani cercarono di adottare una posizione simile nei vari paesi dove s'insediarono. La loro apoliticità dichiarata non ebbe tuttavia un riscontro sempre positivo da parte delle autorità governative. Ulteriori ricerche sarebbero necessarie per valutare l'influsso dei vari nazionalismi all'interno delle due congregazioni fondate da don Bosco. Basta pensare al dramma delle due guerre mondiali con Salesiani arruolati in campi opposti. Nel nostro lavoro abbiamo soltanto accennato ai problemi nati dal contatto con altre culture e altre religioni. Risulta chiaramente che i primi missionari salesiani del secolo XIX erano convinti di portare ai popoli pagani, insieme alla fede cristiana, anche «la» cultura, «la» civilizzazione. Anche i primi Salesiani inviati in altri paesi cristiani portavano molte usanze e mentalità italiane o piemontesi, senza interrogarsi molto sulla convenienza o meno del loro trapianto in altri contesti. Il problema dell'inculturazione ha già fatto l'oggetto di alcuni buoni studi, ma potrebbe ancora essere approfondito nello spazio e nel tempo.

Un carisma che continua ad operare.

La trattazione che abbiamo conclusa potrebbe sembrare a prima vista la storia felice di un'idea generosa di un uomo che ha saputo, pur con tante difficoltà, lanciare un'opera che dura ancora centocinquant'anni dopo. In questo caso potremmo paragonare don Bosco con tanti pionieri che nel secolo XIX hanno lanciato con successo un'opera duratura nel campo dell'industria, dell'economia, della politica, della scienza o delle arti. Ma l'opera di cui don Bosco è riconosciuto il fondatore ha delle caratteristiche proprie. Certo egli apparve nella società come l'iniziatore di attività educative, sociali e «civilizzatrici» che da Torino irradiarono in molti paesi del mondo, a favore soprattutto della gioventù bisognosa di aiuto e di educazione. Tuttavia l'ispirazione che lo guidò non si esauriva nella dimensione sociologica dell'agire, seppure utile e quanto mai nobile. Egli stesso riteneva di essere stato «guidato» nei progetti e nelle realizzazioni. Le qualità umane di cui era fornito, compresa una buona dose di furbizia, non bastano per spiegare il suo «successo». A lui stesso la sua «vocazione» appariva più come un dono e una missione che come un progetto personale o una realizzazione di se stesso. La conoscenza della letteratura agiografica classica ha questo di utile, che ci richiama cioè ad una visione della storia che non la appiattisca. Esiste, infatti, la possibilità di una lettura «profetica», «teologica» o se dir si voglia «carismatica» della storia salesiana. È vero che non si può dimostrare a partire dagli studi che fu proprio lo Spirito Santo a suscitare, con l'aiuto materno di Maria, san Giovanni Bosco per la salvezza della gioventù, come lo affermano le attuali Costituzioni della Società di S. Francesco di Sales e dell'Istituto delle Figlie di Maria Ausiliatrice. Ma non si può neppure negarlo in base agli studi. È nella prospettiva della fede che si può arrivare a tale conclusione. Risulta comunque evidente che di queste convinzioni vivevano don Bosco e i suoi primi seguaci. Ancora oggi, senza la fiducia nel carattere «provvidenziale» dell'opera salesiana, pochi sarebbero in grado di dedicarvisi con impegno come lo fanno tuttora.

Le nuove sfide.

In conclusione, vogliamo notare che le sfide non sono mai mancate nel passato. Di per sé, era abbastanza improbabile che un piccolo con

tadino quale Giovanni Bosco diventasse il fondatore di un'opera così estesa come quella che vediamo oggi. Tra i grandi fondatori di congregazioni nella Chiesa sembra che egli fosse stato uno dei più modesti quanto alla nascita e alle origini. Tra le sfide poi che ha dovuto affrontare durante la vita potremmo menzionare almeno l'inadeguatezza dei mezzi, le difficoltà del contesto politico ed ecclesiastico, la formazione di un personale giovane ed inesperto, l'insediamento in contesti culturali così lontani e diversi. Dopo di lui, la fedeltà al Fondatore sempre ribadita venne sfidata in particolare da alcuni provvedimenti ecclesiali che sembrarono intaccare lo spirito genuino: l'interdizione fatta ai superiori nel 1901 di essere confessori dei loro sudditi, l'autonomia giuridica dell'Istituto delle Figlie di Maria Ausiliatrice nel 1906, i cambiamenti richiesti dal nuovo Codice di diritto canonico del 1917. Altre sfide di tipo esistenziale e talvolta sanguinose furono le diverse persecuzioni, guerre e rivoluzioni. Tuttavia, abbiamo parlato di «nuove sfide» perché ci è sembrato che dal 1965 in poi sono interventi cambiamenti tali da segnare l'inizio di un nuovo periodo. Certamente il concilio Vaticano II ha inciso molto sulla vita e la missione salesiana come sulla storia di tutta la Chiesa. Ma nello stesso tempo erano già in atto delle mutazioni profonde nel campo della società, della cultura, delle scienze e delle tecnologie, con particolare incidenza sulla gioventù, specialmente in Occidente. Tutto questo ha influito sulla missione salesiana creando nuove sfide che sussistono tuttora. Ricapitoliamone alcune: la crisi vocazionale in Occidente, gli spostamenti della geografia salesiana, l'inculturazione del carisma salesiano, la costruzione della Famiglia salesiana, la comunicazione di massa nel mondo della globalizzazione, l'evangelizzazione dei giovani del terzo millennio divisi tra povertà estreme e sazietà prive di senso, tra indifferentismo e forme deviami della nuova religiosità. Di fronte alle sfide del 2000, i discepoli di don Bosco possono sentirsi un po' sconcertati, incerti, insomma più insicuri di Giovannino Bosco quando camminava, saltava e danzava sulla fune attaccata a due alberi del prato dei Becchi. La storia, che è «maestra di vita», ci insegna però a saper distinguere tra impressioni e realtà oggettive, tra fenomeni passeggeri e linee di fondo, tra motivi esterni e motivazioni profonde, tra fenomeni locali e visione d'insieme. Per superare le difficoltà e vincere la sfida, sappiamo di dover camminare dritti sulla fune, assicurandoci un buon punto d'appoggio per i piedi ma con lo sguardo rivolto in avanti e piuttosto in alto.