Parte Ii Scritture E Libri Nell'antica Mesopotamia 3

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Parte Ii Scritture E Libri Nell'antica Mesopotamia 3 PARTE II SCRITTURE E LIBRI NELL’ANTICA MESOPOTAMIA 3 7 - I primi tentativi di decifrazione La lettura delle scritture cuneiformi passò attraverso tre successive fasi, determinate dalla disponibilità dei documenti. Anche le antiche civiltà mesopotamiche, come quella egizia, erano state cancellate dal tempo, senza lasciare traccia. In mancanza di una spedizione napoleonica, le scoperte archeologiche presero avvio relativamente tardi, dopo il 1840. Si conoscevano invece in Europa, sin dal Seicento, alcune sparse testimonianze della scrittura cuneiforme. Come si è visto, la storia degli antichi Imperi orientali abbraccia circa 3.500 anni, periodo lungo il quale si spiega anche l’impiego delle scritture cuneiformi. In questo ambito l’Impero achemenide è un episodio di breve durata; la scrittura persepolitana a sua volta è una scrittura artificiale, strettamente legata a quell’Impero, e ne condivise il destino. Eppure la riscoperta delle civiltà mesopotamiche partì proprio da Persepoli e dalla sua scrittura. La ragione è evidente: le città più antiche, in Mesopotamia, erano state sommerse dalla terra e dalla sabbia, per formare strane collline a forma di tumulo, dette Tell, che sorgevano qua e là nella pianura del Tigri e dell’Eufrate e dalle quali spesso i locali attingevano mattoni per le proprie costruzioni. Le monumentali rovine di Persepoli, in Iran, rimasero invece scoperte, quindi visibili a tutti, anche se nessuno sapeva identificarle correttamente. Ma anche se le rovine delle città mesopotamiche fossero rimaste visibili, ben poche iscrizioni sarebbe stato possibile trovare su di esse: a differenza degli Egizi, Assiri e Babilonesi non avevano infatti l’abitudine di ricoprire di scritte le pareti degli edifici. Le prime descrizioni di Persepoli da parte di viaggiatori occidentali si devono a due diplomatici al servizio di Filippo III di Spagna. Antonio de Gouvea fu a Persepoli nel 1602, e notò delle strane scritture, incomprensibili, perchè “i segni non sono né Persiani, né Arabi né Armeni, né Ebraici, le lingue che si usano nella zona”. Garcia Silva Figueroa, ambasciatore in Persia, fu a Persepoli nel 1618 e ci ha lasciato un breve resoconto del suo viaggio.1 La Persia in genere non gli piaceva, ma le rovine di Persepoli, che egli identificò grazie alle testimonianze di Plutarco, Diodoro Siculo e Quinto Curzio, lo colpirono molto per la loro bellezza, e per l’eccellente stato di conservazione. In particolare Figueroa descrive un’iscrizione su diaspro nero, da lui osservata, con lettere “integrae et venustae”, diverse da tutte le altre lettere conosciute, triangolari, a forma di piramide o di piccolo obelisco, identiche, ma sempre disposte in modo diverso. Per rappresentare questa scrittura lo stampatore fiammingo impiegò la lettera greca delta D, che ha appunto la forma di triangolo. I primi anni del Seicento videro un notevole afflusso di viaggiatori europei in Persia. Nel 1621 vi giunse Pietro della Valle, che il 13 e il 14 ottobre visitò Persepoli, descrivendola in una lettera di poco posteriore da Shiraz.2 Della Valle notò che esistevano due tipi di segni, uno a forma di piramide, l’altro a forma di angolo (il segno di separazione tra le parole), sempre uguali, ma diversi nella posizione. Egli intuì anche che la scrittura andava probabilmente da sinistra a destra. Cinque anni dopo, nel 1626, Persepoli fu visitata da un inglese, Thomas Herbert, che non mancò di notare le iscrizioni cuneiformi, “above a dozen lynes of strange characters, very faire and apparent to the eye, but so mysticall, so 1 FIGUEROA GARCIAE SILVA, De rebus Persarum epistula, Antwerp, 1620 2 P. DELLA VALLE, Viaggi di Pietro della Valle .... 1650. odly framed, as no Hieroglyphick, no other deep conceit can be more difficultly fancied, more adverse to the intellect”.1 Nel libro di Herbert si trova un’illustrazione delle rovine di Persepoli, ma nessuna riproduzione delle scritture cuneiformi, che quindi furono illustrate per la prima volte in Europa dal libro di Pietro della Valle nel 1657. Una seconda illustrazione fu pubblicata nelle “Philosophical Transactions” del giugno 1693, da disegni realizzati a Persepoli nel 1667 da Samuel Flower, agente dell’East India Company: nella tavola non compare tuttavia un’intera iscrizione, o un frammento, ma una scelta di ventitré segni, presi a caso da varie iscrizioni, e separati da un punto. Chi studiò in seguito questa illustrazione (ad esempio Hyde) ritenne invece che essa riproducesse fedelmente un’iscrizione reale e cercò di decifrarla. Si spiegano così le madornali cantonate in cui incapparono parecchi eruditi negli anni successivi. Nel 1700 Thomas Hyde, professore a Oxford,2 mise addirittura in dubbio che i segni trovati da Herbert appartenessero a una scrittura. Il libro di Hyde è pieno di errori e di assurdità: egli afferma persino che la sopravvivenza delle iscrizioni persiane è deplorabile, perché farà perdere tempo agli uomini che cercheranno di decifrarle. A suo avviso le iscrizioni cuneiformi non possono essere una scrittura, perché non corrispondono a quanto è noto dell’antica lingua persiana: sono invece una decorazione inventata dall’architetto di Persepoli, il quale voleva vedere quanti diversi motivi si potevano ottenere ripetendo sempre lo stesso segno. E’ curioso che proprio a Hyde si debba il nome con cui si indica questa scrittura: egli parla di “ductuli pyramidales seu cuneiformes”, e il termine “cuneiforme” ebbe la fortuna che conosciamo3. Negli stessi anni si recarono in Persia anche Chardin e Kaempfer. J. Chardin visitò due volte la Persia, nel 1664-70 e nel 1671-77, e riferì dei suoi viaggi in un’opera riccamente illustrata, nel 1711. Kaempfer visitò Persepoli nel 1686 e pubblicò il suo libro nel 1712, con illustrazioni di qualità inferiore. Entrambi considerarono con attenzione le iscrizioni con i cunei e le riprodussero in modo abbastanza fedele, certo molto meglio dei loro predecessori: Chardin circa cento segni e Kaempfer circa cinquecento; entrambi dedicano circa venti tavole ciascuno a Persepoli. Kaempfer ebbe per primo l’intuizione che le iscrizioni potessero appartenere a diverse tipologie, dato che certi segni erano presenti solo in alcune iscrizioni. Quanto al meccanismo della scrittura, Chardin suppose che fosse alfabetica, Kaempfer che fosse ideografica, come la cinese. Molto più ricca è l’opera di un altro viaggiatore, l’olandese Cornelis de Bruin, pubblicata nel 1714. De Bruin viaggiò in Oriente dal 1701 al 1708, e visse per due anni in Persia. A Persepoli dedicò non i due giorni di Pietro della Valle, ma ben tre mesi, durante i quali fece molti disegni delle rovine. Nella sua opera ben sessanta tavole raffigurano Persepoli, e in esse sono riprodotte cinque iscrizioni, con circa duemila segni. Anche se i suoi disegni sono spesso imprecisi, la qualità delle tavole e il gran numero di riproduzioni misero per la prima volta a disposizione dei filologi un materiale su cui lavorare. Il maggior contributo alla conoscenza, in Europa, delle scritture di Persepoli fu dato però da Karsten Niebhur, di cui parleremo più a lungo nei capitoli sulla scrittura geroglifica. Nel corso del suo pluriennale viaggio egli visitò anche Persepoli, e studiò con grande pazienza le iscrizioni. Per leggerle interamente, anche nelle parti più basse, egli fece alcuni scavi, e trascrisse i testi con precisione, per la prima volta secondo un metodo che poteva dirsi scientifico. Niebhur capì anche che i segni cuneiformi appartenevano a tre tipi diversi di scrittura, e riuscì a identificare alcuni gruppi di segni come singoli caratteri. Dimostrò anche in modo sicuro che la scrittura procedeva da sinistra a destra. Altri documenti, in originale o in copia raggiunsero l’Europa e i suoi musei attraverso le vie più svariate, considerati per lo più curiosità da collezionisti: l’idea che quei segni misteriosi e un po’ cabalistici fossero delle scritture leggibili era ancora assai remota. 1 T. HERBERT, A Description of the Persian Monarchy and other Parts of the greater Asia and Africa, London, 1634, cit. da M. POPE, The Story of Decipherment. From Egyptian hieroglyphs to Maya script, London, Thames and Hudson, 2a ed. riveduta, 1999, p. 86. 2 THOMAS HYDE, Historia religionis veterum Persarum, Oxford, 1770. 3 Secondo altri il primo uso del termine cuneiforme serebbe da ricondurre a Kaempfer. 2 La decifrazione della scrittura palmirena da parte dell’abbé Barthélemy nel 1754 e delle iscrizioni sassanidi di Naqs-i-Rustam ad opera di Sacy1 nel 1787 dimostrarono concretamente che era possibile riscoprire testi scritti in lingue dimenticate, e ridare vita alle testimonianze del passato. Le iscrizioni palmirene e sassanidi erano bilingui: Barthélemy e Sacy avevano quindi decifrato dei testi di cui già conoscevano il contenuto, come accadrà per la stele di Rosetta. Nel case delle scritture persepolitane il problema era più complesso, perché le iscrizioni erano sì trilingui, ma in tre lingue tutte sconosciute. Il problema era quindi trovare il punto di partenza, il bandolo della matassa. Un suggerimento prezioso era stato da Leibnitz in una lettera del 1714: se in un’iscrizione bilingue, egli scriveva, noi incontriamo dei nomi propri, è probabile che la pronuncia di questi nomi sia identica nei due testi. I nomi propri si rivelarono in effetti preziosissimi nella decifrazione di tutte le scritture antiche. Il merito di aver affrontato per primo2 l’impresa va al danese Friedrich Münter, che nel 1800 lesse all’Accademia delle Scienze danese due comunicazioni sulle scritture di Persepoli, pubblicate lo stesso anno e in traduzione tedesca due anni dopo.3 In questi studi, insieme con molti errori, erano contenute alcune supposizioni che si rivelarono esatte: Münter si rese conto che il singolo cuneo obliquo indicava separazione tra le parole, che molte iscrizioni riportavano lo stesso testo in tre lingue diverse (la prima più semplice alfabetica, le altre più complesse: egli pensò all’Avesta, al Pahlavi e al Parsi), che le iscrizioni appartenevano alla dinastia achemenide, la cui lingua doveva essere simile a quella dell’Avesta.
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