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LE FINESI SI RACCONTANO 8 marzo tutto l’anno

musica teatro Sport PITTURA Ricette Poesia pubblicità ESPERIENZE Progetti La  Abilità Racconti Comune di Fino Mornasco

LE FINESI SI RACCONTANO 8 marzo tutto l’anno

Assessorato Servizi Consulta per le Assessorato alla Persona Pari Opportunità Territorio

Sara Minniti Marisa Reghenzani Comune di Fino Mornasco Comune di Fino Mornasco Assessore Famiglia, Istruzione, Politiche Educative e Servizi Educative Sociali Istruzione, Politiche Famiglia, Assessore Assessore Territorio, Pianifi cazione, Grandi Parchi e Partecipazione cazione, Grandi Parchi Pianifi Territorio, Assessore

Le donne sono le fondamenta della società. Attraverso il loro lavoro di lavoro loro il Attraverso società. della fondamenta le sono donne Le lavoro, del mondo nel capacità la sociale, l’impegno famiglia, della cura al e presente al passato, al guardare possibile è creatività la e studio lo e ottimismo. con sicurezza futuro adeguato è non loro riservato ha storia la che spazio lo nonostante, Ciò elargito. sempre al contributo Persona), alla Servizi ai (Assessore Reghenzani Marisa motivo questo Per Opportunità) per la Consulta per le Elena Pari Merazzi ed (referente io nesi la realizzazione del primo libro di abbiamo proposto alle donne fi femminile. storia Queste costituiscono pagine una testimonianza storica delle donne di che rimarrà nel tempo. Fino Mornasco offerta alle donne di Fino L’opportunità Mornasco di poter pubblicare racconti, esperienze, sentimenti, relazioni cato ha la intensifi rete intrecci tra di le persone. Ognuna liberamente ha scelto di condividere dei ricordi. cassetto nel proprio custodito ciò che teneva Dai testi raccolti e qui pubblicati è nato un in “ricamo” cui le vicende donne, altre da narrate quelle con intersecano si donna una da vissute in un’altalena di rimandi, richiami, quest’avventura, tenuti di insieme li partecipi dai del fi e della memoria. tempo, dello spazio essere voluto hanno che donne alle Dedicato ma soprattutto a tutte coloro che, per i motivi più svariati, non hanno questa opportunità. cogliere o voluto saputo potuto, SOMMARIO 8 marzo tutto l’anno a Fino Mornasco di Tonina Santi ……………………………...... ……………...... 6 L’importanza della memoria di Laura Garavaglia……………………………………………...... ……...... 7

Arrighi Katia, La Curt di Caramadona …………………………………………………………...... 8 Ballerini Rosy, Ultima fermata Fino Mornasco……………………………………………………...... 11 Il mosaico del toro………………………………………………...... ………...... …..12 Com’è diffi cile seguire i fi gli!...... …………………………………………………………..14 Bianchi Paola, Gioia di vivere…………………………………………………………...... 17 Bianchi Patrizia, Ricordi………………………………………………...... …………...... 18 Buono Maria, Equilibrio…………………………………………………………...... 20 Cairoli Maria, La casa del cuore…………………………………………………………...... 23 Cairoli Maria Teresa, Tessitura Bosetti, che nostalgia!.....……………………………………………………...... 25 Cairoli Silvia, Passione……………………………………………………...... 26 Ciaramicoli Simona, La ditta Bosetti - intervista a mia mamma, Mariuccia Negretti…………...... 27 Colombo Piera, Era un giorno di novembre…………………...... 28 Cuteri Maria, Il mio viaggio…………………...... 29 De Colombi Bosetti Viola e Mandaglio Katia, Cambio rotta…………………...... 30 De Filippi Luraschi Rina, All’ultimo mugnaio del …………………...... 33 De Giovanetti Lina, Storie vere…………………...... 34 Ferrari Marina, La @ ieri e oggi……………………………………...... 36 La mia nonna………………… …………………………………………………………………………...... 37 Natale 2017 - Chiesa S.Maria Immacolata di Socco …………………...... 37 Garcia Lorena Guadalupe, Una nuova vita……………………………………………………...... 38 Bermudez Garcia Melissa, La fatina…………………...... 41 Giusa Nunziata (Nancy), Il mio volontariato in Croce Verde…………………...... 42 Grianti Liliana, Cari nipotini vi racconto una storia…………………...... 44 Via Garibaldi 54…………………...... 45 Guarisco Oriana, Ricette di casa…………………...... 47 Guffanti Marisa, La “Sfriza” e le lettere nascoste…………...... …50 Introzzi Nadia, Marilù... una storia vera…………...... ………52 Introzzi Ornella, Pennellate di ricordi…………………...... 54 Malinverno Elisa, Camminando sul fondo di un antico mare…………………...... 58 Medea Marilena, Un po’ di me…………………………………………………………………………...... ……..60 Melli Erminia, Corrispondenza privata di un tempo………………………………………………...... ………..62 Merazzi Elena, Il noce……………………………………………………...... …..63 Merazzi Irma, Scarpette rosse……………………………………………………...... 65 Milazzo Carmela, Il gioco dentro……………………………………………………...... …..67 Monico Vittoria, Soffi a il vento di libeccio...... 69 La gazza ladra ...... 70 Monti Ilenia, Mio nonno, la Polisportiva, le Olimpiadi 2016………………………………...... ………………71 Napoli Monica, La nonna…………………………………………...... ……………..72 Orsenigo Alba Rosa, Schegge di storia………………………...... ………………………………..76 Pistis Cinzia, La festa dei bambini nati nel 2014…………………...... ……………………………………..80 Il doppio lavoro delle donne.....……………………………...... …………..80 Pozzoli Fabrizia, Le donne di Fino……………………………...... …………………………..81 La Mariella del bar ……………………………...... …………………………..81 La mia via Garibaldi…………………………………………………...... ……..83 Il Carnevale degli alberi…………………………………………...... ……………..83 L’uovo di Pasqua……………………………………………………...... …..84 Il primo viaggio…………………………………………………...... ……..84 Radice Stefania, Una biblioteca nella comunità………………………………….……………………...... 85 Ricette della nonna Michelina…………………………...... 86 Reghenzani Marisa, Amicizia………………………………………………………...... 87 Il Bar Milano…………………………………………………...... 90 Riva Giordana, Lettere………………………………………………………...... 92 Riva Gloria, Emigrata………………………………………...... …93 Romanatti Manuela, My story: racconti di gioventù…………………………………………...... 94 Saieva Cristina e Rodigari Alessia, Hair Vanity…………………………………………...... 95 Sempio Mariangela, Ti chiederei una fi aba in più…………………………………...... ………96 Signorini Maria Antonietta, Amici…………………………………...... ……101 Ai miei fi gli………………………………………...... 101 Essenziale…………………………………………...... 101 ...ciao biondina… ……………………………………...... 102 Pace di periferia ………………………………………...... 102 Silva Camilla (Nuccia), Donne…………………………………………...... 103 1943 - Duno e il Monte San Martino..…………………………………………...... 104 Sorbara Carmela, Ricordi d’infanzia…………………………………………...... 107 Sourris Stella, Una stella…………………………………………...... 109 Tettamanzi Luisa, L’allegria del Carnevale…………………………………………...... 110 Topputo Antonella, Cip e Ciop…………………………………………...... 111 Trevisan Rossella, Sapore di ricordi…………………………………...... ………113 Valente Margherita, Papaveri e fi ordalisi………………………………………...... …116 Vullo Elena, Bianco e nero o a colori?…………………………………………...... 117 Zullo Maddalena, Vieni con me…………………………………………...... 119 Se è destinu, sarà!………………………………………...... …120 Marisa (Anonima), Viaggio in Provenza……………………………………...... …121

Una catena infi nita di Elena Merazzi……………………...... …………………124 Ringraziamenti, di Giuseppe Napoli………...... ……...... 125 8 marzo tutto l’anno a Fino Mornasco

Quest’anno l’8 marzo si concentra nella presa di parola delle donne di Fino Mornasco tramite una scrittura di esperienze. “Le Finesi si raccontano” è una raccolta di voci femminili in cui il vissuto, i sentimenti, il sapere, il divenire della vita si intrecciano e rafforzano il legame col territorio in cui vivono. La quotidianità si apre al paese e acquista valore. Attraverso i racconti della memoria, del vivere quotidiano, emerge la consapevolezza del proprio fare e pensare, si riconosce la maestria con cui ci si occupa della vita dal suo nascere e crescere, l’attenzione ai bisogni degli altri. L’arte della cura in cui si affaticano le donne fa parte dell’etica con cui si rapportano nel mondo. Solo partendo da se stesse possono raccontarla, scriverla. E’ nello scorrere della vita, nelle relazioni che si costruisce una comunità.

Elena Merazzi, referente del Comitato Pari Opportunità del comune di Fino Mornasco, ha a cuore il suo paese e la sua gente, le donne della sua comunità. Ogni anno, allo scadere della data dell’8 marzo Elena, col sostegno dell’Amministrazione Comunale, fa della Giornata Internazionale della Donna una festa del paese: donne e uomini, rappresentanti dello sport, della musica, delle associazioni, del fare quotidiano di ciascuno e ciascuna. Oltre alla classica mimosa, un aggregato popolare si ritrova a festeggiare l’8 marzo nel luogo simbolo dell’unità del paese. Ricordare una data storica, darle valore e importanza per tutti, serve a misurare insieme i passi in avanti fatti dal mondo femminile, pur ricordando la grave violenza verso le donne che persiste ancora nella nostra civiltà. Può sembrare tutto semplice, ma non è così: festeggiare la ricorrenza dell’8 marzo insieme a uomini e donne, farla rientrare tra le tante storie che hanno contribuito a costruire la nostra civiltà, ha un importante signifi cato.

Ho accettato con piacere gli inviti di Elena a partecipare agli 8 marzo fi nesi. L’ho ritenuto un riconoscimento verso le donne che hanno lottato per la propria emancipazione, di cui sono stata una protagonista, insieme a tante, tante altre.

Nel mio percorso, in qualità di Consigliera di Parità della provincia di , avevo accumulato molto materiale relativo alla tematica delle pari opportunità. Ho ritenuto di donarlo alla Biblioteca Comunale di Fino Mornasco, sicura che non andranno disperse memorie, pensieri e pratiche positive, utili a rendere possibile la conciliazione tra il mondo del lavoro e la maternità.

E vorrei suggerire alle donne di Fino Mornasco di continuare a scrivere.

Tonina Santi Prima Consigliera di Parità della Provincia di Como dal 1993 al 2006

6 L’importanza della memoria

Ripercorrere il passato, fi ssare tasselli di memoria, mettendo a fuoco i dettagli, nel fl uire incessante e sfumato dei ricordi. Rivivere esperienze, emozioni, tessere il proprio vissuto e fi ssare la vita in una trama di parole. Parole che sono testimonianza di ciò che è stato, degli incontri che ci hanno arricchito, dei luoghi dove abbiamo abitato e che ci hanno abitato, perché ogni luogo diventa paesaggio dell’anima. Siamo ciò che ricordiamo, come ha scritto il poeta Mario Luzi. Per questo la memoria è importante, per la vita. La poesia e la letteratura in generale, la musica, la pittura e ogni forma d’arte sono le massime espressioni dell’animo umano e rappresentano la memoria di ogni civiltà e cultura. Ogni forma di narrazione, scritta o orale, che rievoca il passato ci ricorda che le nostre radici sono importanti e che senza di esse non è possibile alzare lo sguardo alle fronde. Si comprende il presente e si intravede il futuro solo alla luce soffusa del passato.

Donne Noi conosciamo il tempo frammentato abbiamo mille maschere chiuse nel cassetto da indossare per ogni occasione perché non possiamo sbagliare. Noi che la vita diamo ad altra vita i nostri fi gli l’opera più bella. Sappiamo udire la voce del dolore che tutti accompagna sappiamo declinare i mille casi dell’amore. Noi camminiamo sempre in fretta perché non ci vogliamo fermare: ascoltate le nostre parole non abbiate paura, non abbiamo paura. Perché abbiamo imparato a volare.

Laura Garavaglia Presidentessa de La casa della poesia di Como Membro della European Academy of Science Arts and Literature 7 La Curt di Caramadona

Nel centro storico del paese, c’è un antico immobile che un tempo ospitava un convento. Nel tempo è stato modifi cato, ricostruito, ammodernato, ma conserva ancora le tracce di un passato perso nelle nebbie del tempo: LA CURT DI CARAMADONA. I miei nonni vissero li, insieme ai loro genitori, ai parenti, ai fratelli e sorelle, in una famiglia di stampo contadino che ormai appartiene al passato e di cui si sono persi i ricordi e i sapori. Le corti contadine della Lombardia dei secoli scorsi erano mondi differenti dai condomini di oggi. Oggi, molto spesso, non si ha neppure il tempo di conoscere il vicino di casa o se lo si conosce, non si ha il tempo di condividere con lui o lei anche solo un caffè. Lo so questo e lo vivo sulla mia pelle. Avevo chiesto alle mie parenti, a Laura Petrone, Katia Arrighi a Giuditta Arrighi, a Rossana Arrighi che vivono o frequentano la corte in cui vivo, di sederci a bere un caffè per parlare insieme dei ricordi di un tempo, proprio per scrivere questo breve testo. In realtà, per colpa solo a me imputabile, non ci sono riuscita, per mancanza di tempo, perché corro sempre, perché la vita è frenetica e ti porta a girare l’Italia nel tentativo di sopravvivere alla vita stessa, in un turbine di incontri, appuntamenti, lavoro.

Un tempo, all’epoca delle corti lombarde e della civiltà contadina questo non accadeva. Le donne si sedevano accanto al fuoco d’inverno o sotto i portici rinfrescati dall’ombra nelle sere d’estate e parlavano. Si parlava di fi gli, si parlava di campagna e si parlava di Dio. Ho dei ricordi molto nitidi della mia nonna e di sua cognata che parlavano fra di loro in cortile, all’ombra. Fra le mani avevano l’uncinetto, o la maglia, o il rosario e non stavano mai ad oziare, in nessun momento. Ho ancora le coperte fatte con l’uncinetto della mia nonna, i suoi centrini colorati e i suoi guanti. In realtà ho molti guanti singoli, perché guanti e calzini vengono persi nel corso della propria vita. Si mettono a lavare in lavatrice e, non ho mai capito perché, ricompaiono spaiati, quasi la lavatrice fosse una porta su un mondo parallelo che conserva calzini spaiati. Astolfo cercava nell’Orlando Furioso il senno sulla luna, io cerco i calzini nel mondo parallelo che sta al di là dell’oblò della lavatrice. La mia nonna, classe 1912, due guerre alle spalle, fi gli cresciuti da sola perché rimasta vedova in età giovanissima era piccola piccola, una donna dell’Alta Valtellina emigrata nel comasco in giovanissima età. Sposò un Arrighi e iniziò a vivere nella corte in cui gli Arrighi vivevano dall’inizio del secolo scorso. Accanto a lei c’era una cognata, la moglie del fratello, Fiorina, madre di numerosi fi gli, fra cui la stessa Giuditta Arrighi o Candido, il marito di Laura e padre di Rossana: due donne che avevano in comune la dedizione alla famiglia e la vita semplice di ogni giorno. 8 Ho trovato, fra i cassettoni dimenticati dal tempo, foto di parenti ormai morti, di alcuni dei quali non ricordo il nome. C’erano molti fi gli, fra cui il mio papà, mancato di recente, che ha vissuto una intera vita in quella corte e che provava terrore alla sola idea di andarsene. Partivamo per il mare, da piccoli, tutti e 5 in una Cinquecento, senza seggiolini e senza protezioni, e andavamo al mare per le vacanze estive, ma lui voleva sempre tornare a casa, perché lui ha sempre sentito quel cortile casa sua.

Mi raccontava che da piccolo l’intero cortile era pieno di animali e che la nostra famiglia aveva orti da coltivare, fi eno da fare, legna da tagliare, per la sopravvivenza di ogni giorno. Ha trascorso anni a coltivare l’orto in giardino, su terrazzi di giardino che danno a ridosso della vallata del cimitero. Ho sempre immaginato quei giardini molto simili ai giardini pensili di Babilonia, o ai terrazzamenti dei vigneti in Valtellina. E ridevo, da piccola, guardando la mia nonna coltivare l’orto. All’età di quasi 90 anni, portava su e giù dalle scale dei terrazzi del giardino interi contenitori d’acqua per innaffi are l’orto. Ti guardava dicendo “sun straca, a bofi ” che in lingua moderna è traducibile in “sono stanca, sto ansimando”. Nonostante l’età, portava a mano contenitori pieni d’acqua facendo le scale e aveva anche il coraggio di dire “sono stanca”. Io oggi ho la metà degli anni che aveva lei ma ho anche la metà della forza che aveva lei: non ci sono più le donne forti di una volta, questo è innegabile.

Oggi in quel cortile, contrariamente alla globalizzazione e alla società ormai multietnica, viviamo ancora fra parenti. Tante famiglie di fi gli o nipoti del capostipite Arrighi, vivono ancora lì, dopo quasi 100 anni. Come se quel cortile avesse una sorta di attrattiva nei nostri confronti, una sorta di calamita per cui nessuno di noi ha mai avuto il coraggio di andarsene. Abbiamo oggi tutti fi gli e fi glie giovani, e mi auguro che prendano il volo che vadano altrove, che vivano il mondo, sapendo che comunque quella sarà sempre casa loro e avranno sempre un porto in cui tornare. Un porto differente rispetto a passato: niente più animali che circolano nell’aia, niente più gatti in cortile, niente più bambini che corrono a piedi nudi, ma macchine parcheggiate e vita frenetica da vivere. Da casa nostra all’asilo delle suore ci sono circa 300 metri: mio padre andava avanti e indietro da solo, con fratelli o cugini, oggi è impensabile persino questo. Per i pericoli del traffi co e per le probabili denunce di abbandono di minori. Sì, perché la vita è cambiata anche in questo: un tempo gli animali vivevano in centro paese e i bambini scorrazzavano avanti e indietro. Ora arriverebbe il servizio sanitario a erogare multe di ogni tipo e arriverebbero i servizi sociali a prendere i bambini. La vita è cambiata, il mondo è cambiato e noi stessi siamo cambiati. Non trascorriamo più nessun tempo con i parenti vicini, né nelle sere d’estate, né davanti al fuoco a Natale. Corriamo come matti verso qualcosa e ci limitiamo a veloci scambi di messaggi fra uno spostamento e l’altro.

Ho dei bei ricordi della mia infanzia, dei giochi in cortile e dei parenti che non ci sono più perché sono volati altrove, quindi vorrei omaggiare con questo breve scritto gli Arrighi che ancora oggi vivono nella curt di Caramadona, il cui nome deriva dal fatto che un tempo vi era, sopra l’arcata d’ingresso, una Madonna affrescata. Purtroppo l’affresco era fatto con materiale scadente e non è durato nel tempo. Mi piace questa versione della storia perché è poetica e romantica. In realtà sentii dire un giorno che il nome derivava da una leggenda ben meno religiosa: gli Arrighi erano propensi all’uso di imprecazioni di stampo religioso. Non sapremo mai la verità perché la bellezza dei racconti di un tempo è che, passando di bocca in bocca, come nel telefono senza fi li, non si sa mai dove fi niscono. Si conosce la fi ne di una leggenda, ma mai l’inizio, che si perde fra le nebbie del passato e del tempo. Non sapremo mai la verità del perché una antica corte lombarda porta il nome di “curt di Caramadona”, dove la mia famiglia vive da quasi 100 anni. Un omaggio agli Arrighi di oggi e agli Arrighi di un tempo: il bisnonno Carlo, il nonno Emilio, 9 con mia nonna Giovanna che arrivava dall’Alta Valtellina, mio padre Carlo con mia mamma Maria Lucia, i suoi fratelli e le loro mogli ... Il fratello di mio nonno Andrea, anche lui scomparso, con sua moglie Fiorina e i fi gli. Molti purtroppo hanno già attraversato i veli dei mondi e sono già passati oltre, compreso mio padre. Forse saranno di nuovo assieme a giocare in un cortile antico, oppure altrove. Lo sapremo solo quando attraverseremo anche noi i veli dei mondi. Ed infi ne noi, di quinta generazione, se consideriamo il trisnonno Andrea che visse gli inizi della sua vita a e la parte fi nale a Fino Mornasco, che ancora viviamo tutti lì, fi gli e nipoti di quel bisnonno che comprò le case dalla Nobildonna Morosoli Antonietta fu Nicola vedova Isacco. Lo so perché ho ritrovato l’antico atto notarile di provenienza dell’immobile, ancora vergato a mano, con quella bellissima scrittura di un tempo leggermente inclinata a destra. Nell’atto si riporta che la venditrice era una nobildonna, moglie di un cavaliere e madre di un dottore. Accanto si indica che l’acquirente era un contadino. Ho sempre pensato, guardando l’atto notarile, che conservo con orgoglio nel mio uffi cio e vedo tutti i giorni, ai sacrifi ci che i miei trisnonni e bisnonni fecero nella vita, in una vita contadina. Noi oggi non siamo più in grado di sopportare certi sacrifi ci e ci lamentiamo per qualsiasi cosa, dal non avere il telefono ultimo modello a non avere ciò che vogliamo, tutto e subito. Loro avevano ritmi differenti e una vita completamente differente.

Ci hanno lasciato, e questa cosa mi fa sempre sorridere, anche un bosco, sempre a Fino Mornasco. Né io né i miei fratelli ci mettiamo piede da anni e quando passiamo accanto stiamo debitamente attenti a non entrarci. Ci entrò mio padre anni fa e si ammalò di tumore; guarì. Ci ritornò dopo anni e si riammalò di tumore. A Fino Mornasco potrebbe realmente nascere una leggenda: quella di un bosco accanto al cimitero che fa ammalare chi ci entra dentro. Magari fra 300 anni questa cosa che mi sono inventata, diventerà una leggenda del paese. Io nel frattempo sto debitamente lontana da quel posto perché, sempre usando la saggezza contadina, “a pensare male si fa peccato, ma quasi sempre ci si azzecca”. Giro l’Italia per lavoro ma torno sempre nel medesimo cortile dei miei antenati, rimasto pressoché immutato nella conformazione strutturale. Intorno a noi però, è cambiato il mondo ed è cambiato Fino Mornasco: tutto intorno ci sono etnie provenienti da ogni parte del mondo ed è bella questa cosa. I miei trisnonni vissero li. I trisnonni vissero nei luoghi più disparati del pianeta, dalla calda Africa alla Romania, passando per la Moldavia o i paesi del Mediterraneo. Se immaginiamo delle linee che collegano tutti noi, quelle linee portano in una via del centro di Fino Mornasco, dove un tempo c’era solo campagna e spazi aperti. Ora ci sono solo macchine e tante piccole persone che corrono tutto il giorno. Con omaggio a chi non c’è più, a chi c’è ancora e all’unico Arrighi maschio della sesta generazione: Aaron, fi glio di mio fratello. Perché in quinta generazione son tutte donne, tranne lui. Piccolo, bellissimo e dagli splendidi occhi azzurri, come la sua bisnonna Giovanna.

Entrata cortile dei Caramadona

10 Ultima fermata Fino Mornasco

Rosy era davanti alle porte del treno, pochi attimi e sarebbe scesa. Intravide il cartello blu con la scritta bianca: “Fino Mornasco” e un’onda calda le salì verso il volto. Il responsabile di quell’agitazione era il suo cuore che sentiva pulsare alle tempie. Aveva immaginato mille volte questo momento: ora fi nalmente lo avrebbe rivisto. Si erano conosciuti 10 giorni prima e poi lui era ripartito per Vipiteno per essere congedato dal servizio militare. Adesso la aspettava alla fermata del treno… chissà se anche lui era emozionato! Marco abitava a Fino Mornasco e le aveva promesso una passeggiata e una cioccolata alla pasticceria di fronte alla stazione. Volto abbronzato, sorriso luminoso con denti bianchissimi, eccolo. Il treno si fermò, lei appoggiò il piede sul gradino di metallo della Rosy Ballerini carrozza, lui le porse la mano per aiutarla, come un cavaliere di altri tempi. Si sorrisero. Marco le lasciò la mano e nel palmo di lei restò un piccolo portachiavi d’argento con la data 25-05-1981, la data in cui si erano conosciuti.

Da quel giorno non ci siamo più lasciati e ormai sono passati quasi 37 anni. Siamo cambiati fi sicamente e sorvolerei su questo punto doloroso, perché quando ci vedi poco, ci senti piano e ogni giorno scopri una ruga, qualche capello in meno e un nuovo acciacco… non c’è niente di interessante da raccontare!

I caratteri invece non sono cambiati: io cerco di organizzare vacanze, lui si preoccupa di non perdere neanche un giorno di lavoro; lui è precisino, io approssimativa; per lui la raccolta differenziata non ha misteri, per me persino l’umido ha dei punti oscuri: il gheriglio della noce dove lo metto? Come per tutte le coppie e le famiglie in genere, ci si completa a vicenda. A volte si discute, a volte si scende a compromessi ed ora che siamo diversamente giovani stringiamo i denti e speriamo nella pensione per goderci un po’ la vita!

11 Il mosaico del toro

Oggi è il 7 dicembre, Sant’Ambrogio, io e una mia amica decidiamo di andare a Milano al mercatino degli “o Bei o Bei”, e poi shopping in centro! Il marito pensionato ci accompagna alla stazione di Fino Mornasco: prenderemo il biglietto e poi faremo colazione al caffè della stazione. Entriamo e siamo fortunate, non c’è quasi nessuno, ma ops, un attimo di smarrimento, non c’è più il bigliettaio! Noi, donne tecnologiche, che usiamo internet, tablet e cellulari, con la stessa agilità delle pentole antiaderenti, che diffi coltà potremmo avere con una biglietteria automatica?!? Bazzecole, pinzillacchere. Primo tentativo: sul display esce la cifra di 86,50 euro? Abbonamento extraurbano? Va beh, ho cliccato il tasto sbagliato, succede. Annulla operazione, ci consultiamo, ragioniamo, nel frattempo abbiamo alle spalle in attesa qualche persona. Ci osservano e questo non ci aiuta. Non troviamo la possibilità di fare andata e ritorno, non capiamo come digitare 2 persone. Ancora un tasto sbagliato, annulla operazione, annulla, annulla. Nel frattempo si è fornata una discreta coda, con molto nervosismo riusciamo a stampare due biglietti singoli di sola andata. Certo, se le fanno complicate queste macchine, come puoi capire in pochi minuti? Ci spostiamo nel bar a fi anco: due cappucci e due cornetti, dobbiamo tenerci su, abbiamo bisogno di energie. Siamo in coda per lo scontrino e sentiamo che vendono i biglietti del treno!?! Decidiamo di comprare quelli per il ritorno, perché se nel pomeriggio dovessimo arrivare tardi a Cadorna, potremmo fare notte per due biglietti. Arriva il nostro turno, al barista spieghiamo che vorremmo due biglietti per il ritorno, quelli dell’andata li abbiamo già. Mentre ci fa lo scontrino, parla di vacanze con un tizio che prende il caffè al bancone. Saliamo sul treno, siamo comodamente sedute e chiacchieriamo piacevolmente, a dir la verità non abbiamo mai smesso di chiacchierare, mi casca l’occhio sui biglietti appena presi al bar. Oh no, sulla strisciolina stampata in caratteri veramente minuscoli c’è scritto: andata Fino Mornasco/ Milano. Adesso abbiamo 4 biglietti di sola andata per Milano, non ci posso credere! Arriviamo a Milano, ci dirigiamo a piedi fi no al Castello Sforzesco. Visitiamo il mercatino, compriamo regalini per Natale: per i miei colleghi uomini ho preso dei calzini blu con gli abeti rossi, per le colleghe un minuscolo albero di Natale di carta piantato in un ditale. Ci spostiamo verso il centro città. Prima tappa, come da tradizione, il mosaico in Galleria alla ricerca della fortuna: un giro sui tacchi in senso orario sugli attributi del toro. Adesso siamo serene, abbiamo fatto il pieno di fortuna, la giornata passerà liscia come l’olio, l’intoppo dei biglietti è stato un caso. Ci godiamo lo shopping, Rinascente, vetrine, bancarelle e decidiamo di entrare in un grande magazzino di quelli messi su tre piani, pieni zeppi di vestiti e di gente. Un fi ume umano si sposta a ondate, colori ovunque, frastuono di voci. Dopo 10 minuti mi sento già accaldata e con la testa pesante, non sono fatta per le code davanti ai camerini, alle casse, alle scale mobili. Quando usciamo dalla folla del negozio, ci immergiamo in quella dei portici di piazza Duomo e cerchiamo un ristorantino/pizzeria e….coda anche per il pranzo. Finalmente riusciamo a prendere posto. Mettiamo sulla spalliera della seggiola, cappotto, sciarpa e borsa, ma il peso è eccessivo, quando mi alzerò dovrò stare attenta perché rischia di ribaltarsi. 12 Tavolini da due persone sono grandi come un banco di scuola, la distanza fra i tavoli è pari ad una spanna. Siamo una di fronte all’altra. Ordiniamo pizza, grande errore quando non hai spazio di manovra per tagliare! Arrivano due piatti giganti: non ci stanno sul tavolo, sposta la saliera, il vasetto di fi ori fi nti, i bicchieri e le bottigliette sul bordo, il tovagliolo di carta sotto il piatto. Per i 15 minuti successivi diamo prova di grande equilibrismo, i sacchetti dei nostri acquisti bloccati tra i piedi e le gambe della sedia. Noi naturalmente parliamo sempre, le nostre vicine di destra, una signora anziana con una donna più giovane, zitte. A sinistra c’è una coppia di quarantenni che sta fi nendo il pranzo. Sto pensando di andare in bagno, ma rimando, perché dovrei far alzare tutta la fi la. Ridiamo dell’avventura dei biglietti: sbaglio o la vecchietta si è portata la mano alla bocca per coprire un sorriso? Mentre appoggio le posate e prendo il tovagliolo, un’oliva schizza via, speriamo non sia entrata nel sacchetto della camicia bianca. Adesso il tavolo di sinistra è libero, stanno cambiando la tovaglia ma, orrore, si stanno sedendo due uomini con un giro vita gigantesco! Devo alzarmi adesso per andare in bagno, altrimenti non uscirò più dall’incastro delle nostre sedie. Lo scatto muove il tavolino, un bicchiere si rovescia e l’acqua entra nel mio sacchetto di carta. La sedia troppo carica sullo schienale rovina addosso al signore seduto dietro di me.

Mentre ci preparano il conto, penso alla fortuna. Ma che fi ne ha fatto? Funziona o no la tradizione. Scriverò alla Lonely Planet, devono mettere una “errata corrige” nella guida di Milano dedicata al mosaico della Galleria, fare il giro sulle palle del toro ti fa solo consumare i tacchi. È arrivata l’ora di avviarsi per il ritorno. Passiamo da piazza della Scala: c’è una manifestazione. È vero, oggi c’è la Prima al Teatro La Scala: 4 manifestanti, con due bandiere (non abbiamo neanche capito di che movimento/partito/gruppo si tratti) e 200 poliziotti in tenuta antisommossa, casco, scudo, manganelli. Hanno transennato la zona e ci deviano in strade sconosciute. Calma non facciamoci prendere dall’ansia, chiediamo indicazioni! Ci troviamo davanti un “ghisa”. Facilissimo, ci dice, avanti diritto, girate a destra, alla rotonda la prima a sinistra. Camminiamo, dopo 10 minuti non c’è nessuna rotonda nei paraggi. Ci sfreccia accanto una giovane donna che trascina un trolley, dove può andare se non alla stazione? Sguardo d’intesa: la seguiamo. Ha il passo veloce, siamo in affanno, la strada si biforca: o destra o sinistra; la donna si blocca, noi la raggiungiamo, ci guarda e chiede “Sapete indicarmi la stazione Cadorna?” Finalmente una signora peruviana ci raccatta e, impietosita dai nostri sguardi vuoti ci porta fi n davanti ai tornelli. Obliteriamo la strisciolina quasi illeggibile per la tratta Fino/Milano per due persone. Saliamo sul treno con i nostri sacchetti di carta e plastica. Stanche ci accasciamo sui sedili, speriamo non venga il bigliettaio, che all’andata non si è visto. Due sessantenni con un’abbondanza di biglietti di andata, e nessuno per il ritorno. Se ci contesta faremo le tonte: sguardo stupito, smarrimento, ci verrà sicuramente bene!

Tutto fi la liscio, per alcune fermate non parliamo, dobbiamo radunare i neuroni superstiti, guardo con attenzione il display che annuncia le fermate. Ad un certo punto cominciamo a parlare e ridacchiare, ricordando il ristorante, mi distraggo: cavoli, l’altoparlante annuncia Fino Mornasco! Balzo dal sedile, afferro dei sacchetti a caso, la mia amica dietro con i restanti pacchetti: troppo tardi, le porte ci si chiudono in faccia. Restiamo impalate guardando il buio oltre il fi nestrino. Distribuirò volantini in piazza Duomo a Milano: non fate la coda per il toro, non illudetevi, la fortuna si è esaurita!!!! Il marito della mia amica ci aspetta nel parcheggio della stazione di Fino. Cominciamo a ridere fi no alle lacrime, senza fi ato. Siamo ancora in piedi davanti alle porte chiuse del treno. Quando si riaprono scendiamo.

13 La telefonata per farci recuperare è diffi coltosa, ridiamo: dove ti trovi? Fermo al semaforo? Torna indietro siamo a Portichetto! (risata) ma dove ti aspetto? Quale parcheggio? (risata) davanti o dietro? Ma davanti a cosa? Insomma, alla fi ne arriva, ci recupera e noi stiamo ancora ridendo. Come quando da bambini ti prendeva la stupidera, in fondo più si invecchia e più si torna bambini!!!!!

Com’è diffi cile seguire i fi gli!

“Mamma, sono grande, voglio andare a Catechismo a piedi!! E da sola.” La discussione durava ormai da qualche minuto e si ripeteva ogni sabato, giorno di lezione di Catechismo.

La piccola Elisa era seduta sugli scalini fuori dalla porta di casa, in mano un gelato stecco dall’aria fragile, del tipo “Se dò una leccata da una parte sicuramente cadrà un pezzo di gelato dall’altra”. Nessun pericolo, qualcuno era già in agguato nella speranza che un frammento si staccasse dallo stecco e con l’intenzione di non farlo arrivare a terra: Diva, la nostra femmina di pastore tedesco, di corporatura non troppo ingombrante, ma sicuramente alta abbastanza per arrivare al gelato stando ai piedi dei gradini. Ecco un attimo di distrazione, Elisa continua a protestare le sue ragioni e come tutti gli italiani, e i Ballerini in particolare, gesticola. Il gelato arriva pericolosamente davanti al naso del cane e zac: una leccata di troppo e sparisce con il legnetto nelle sue fauci. Un urlo sale dai gradini e anche un tentativo di sganassone che Diva schiva fulminea e parte verso il giardino con il trofeo. A questo punto penso rilassata che ci sarà una tregua: potrò stendere i panni in santa pace e invece nossignore. Borbottando che lei è stufa di essere bassa, parte verso il freezer per prendere un altro gelato, ma questa volta sale sullo scivolo. Guarda trionfante verso il basso, dove si è già appostato l’esemplare di canide più goloso della galassia e gli fa una boccaccia in segno di fi da- Il muso del cane rivolto all’insù è legato da un fi lo invisibile al gelato, che come un burattino si muove nell’aria. Attenta ai movimenti del braccio sembra dire “Se ti agiti ancora un po’, ti frego anche questo”.

Elisa è una bimba sempre contenta, molto vivace, ma anche tanto insistente (tutta suo padre!!). Quando vuole qualcosa anche adesso che è “grandicella” mi prende sempre per stanchezza!

La Chiesa di Fino Mornasco non era molto lontana dalla nostra casa e ormai sfi nita dalle insistenze, pensavo di capitolare e concedere fi nalmente il permesso. “ Va beh ok , però andrai con la tua amica Maura e dovrai stare attenta a……” e via una sfi lza di raccomandazioni.

Abitavamo vicino al vecchio campo sportivo che è sullo stesso lato della Chiesa, quindi si trattava solo di attraversare alcune vie traverse e null’altro. La distanza non era poca ma lineare, anche il semaforo grande di Via Garibaldi non era un pericolo, dovendolo passare senza attraversare la strada. Prendo una decisione: le avrei pedinate! Avviso anche la mamma di Maura: “Non preoccuparti, le seguirò senza farmi vedere”.

Arriva l’ora X. Esce dal cancello e si reca presso la casa dei vicini per chiamare la sua amica , una ragazzina molto timida e tranquilla, l’esatto opposto di mia fi glia. Io sono pronta: impermeabile, occhiali da sole e giornale. Non un giornale qualsiasi, “La Provincia” , uno di quei quotidiani che riesci a sfogliare con diffi coltà anche quando li stendi sul tavolo per tutta la loro larghezza e 14 per girare ogni pagina devi usare tutte e due le mani dando piccoli colpetti. Non so perché ho fatto quella scelta, mi sembrava normale per un pedinamento. Esco anch’ io, i vicini curiosoni mi guardano un po’ stupiti, cosa ci fa con gli occhiali da sole? La giornata marzolina non è soleggiata, anzi il cielo è coperto. “Dove caspita va a piedi vestita così? Di solito se fa una passeggiata è in tuta”. Sorrido, cammino con passo svelto salutando. Non ho tempo di fare conversazione, ho una missione da compiere!

Maura è un po’ più alta di Elisa e ha un contegno nel camminare, mia fi glia sembra invece che stia saltellando, euforica, super contenta della nuova avventura. Io resto indietro lascio una certa distanza, per ora tutto bene. Non è passata neanche una macchina! Percorrendo la via Campo Sportivo arrivano nei pressi del condominio dove c’è il bar Jolly, la strada si restringe spero si mettano in fi la indiana, fi guriamoci. Per fortuna ancora nessun mezzo incrociato. Io resto sempre a distanza di sicurezza pronta a pararmi il giornale davanti se dovessero girarsi. Imboccano la via Garibaldi stando sempre sul lato sinistro, a questo punto per non farmi notare le seguirò ma dall’altra parte della strada. Le strisce pedonali sono troppo distanti, vicino al fruttivendolo “Meneghello” e faccio esattamente il contrario delle mie raccomandazioni : attraverso! Un motorino esce dal distributore “Fina” che a quel tempo era di fronte al “Bar Jolly”, e io inconsapevolmente gli taglio la strada : il ragazzotto mi grida “Si attraversa sulle strisce, stordita!”. Prima umiliazione. Continuo a camminare sul marciapiede opposto alle bambine, ridono, parlano e io comincio ad avere caldo. Arrivano alla prima strada traversa, sembra si girino dalla mia parte! Spalanco il giornale davanti la mia faccia, accidenti, si accartoccia e forse ne ho strappato un pezzo. Che disagio, non potevo prendere un settimanale, un quindicinale, una rivista più maneggevole? Tutta colpa dei fi lm americani. Dalla mia parte di marciapiede non c’è uno straccio di negozio, il pedinamento esige un’andatura lenta, distratta dalle vetrine per non dare nell’occhio, ma cosa guardo alla mia destra? Il nulla. Arrivo nei pressi del Banco Lariano, se indugio osservando le pubblicità esposte, potrei sembrare un tipo sospetto, magari il palo di una banda, mi manca solo di essere presa di mira dalla guardia giurata.

Sono arrivate al semaforo che incrocia la via Garibaldi con la via Risorgimento, tutto bene, devono solo proseguire sempre diritto, ma c’è un adulto che le osserva. Cosa vuole quello? E sì che mi ero raccomandata di non dare confi denza agli estranei, uomini soprattutto. Sono pronta ad intervenire, sfi derò il traffi co del centro di Fino Mornasco e mi fi onderò sullo sconosciuto. Ma perché non ho preso un ombrello invece del giornale? Posso sempre investirlo di parole! Mi faccio scivolare gli occhiali da sole sulla punta del naso e guardo meglio: è il genitore di un compagno di scuola delle bambine, si salutano. Accessori sbagliati? Due su due, però, bella media. Ribadisco: niente più “Signora in Giallo” o “Tenente Sheridan”, solo romanzi di Liala!

15 Sono arrivate al semaforo davanti la Chiesa, a questo punto avrò la prova della loro attenzione per il codice stradale; è verde, la fortuna dei principianti. Ormai le donzelle sono in dirittura di arrivo, l’oratorio è vicinissimo e nessun pericolo in vista, sempre che riesca a vederlo con questi occhiali! Sono ferma vicino al sottopassaggio di fronte al semaforo che loro hanno appena attraversato e io tiro le somme di questa esperienza. Gli occhiali non servono, perché il cielo è coperto, il giornale è semi accartocciato e in parte strappato, un motorino mi ha quasi investito, mi hanno dato della stordita e con ‘sto impermeabile sono anche sudata! Ma la mia coscienza è tranquilla. Elisa è stata brava e fortunata. Una buona dose di fortuna è sempre stata presente fi nora nella sua vita. Le raccomandazioni non sono mai servite molto, ha sempre tratto insegnamento dalle sue esperienze, come quella volta che è fi nita con la bici sotto una macchina, anzi no, sopra il cofano di una panda, ma questa…..è un’altra storia!

Anni ‘50 - Via Garibaldi, Fino Mornasco. (Collezione Renato Reghenzani)

16 Gioia di vivere

Anni fa ho letto un racconto di un’ autrice americana che cercava di descrivere l’esperienza di avere un fi glio con problemi. Diceva che, quando aspetti un bambino, è come pianifi care e organizzare un grande viaggio che desideri da tanto tempo, per esempio in Italia. Nell’attesa cerchi di prepararti al meglio comprando e leggendo molte guide, impari le frasi più importanti in italiano e sogni ad occhi aperti ciò che vedrai. Poi arriva il momento tanto atteso e presa la valigia sali sull’aereo. Ad un certo punto, però, la hostess annuncia che il programma è cambiato, che non si atterrerà in Italia ma in Olanda e non c’è possibilità di cambiare.Non è un posto orribile, è solo un altro posto. Dovrai uscire e comprare altre guide, imparare un’altra lingua e incontrare persone che non avresti mai pensato di incontrare. Ti dicono che anche in Olanda ci sono cose belle, ma tu volevi andare Paola Bianchi in Italia e sarai circondato da gente che non farà che parlarti di quanto è bella l’Italia. Concludeva con questa morale: non serve passare la vita rimpiangendo il viaggio non fatto perché non sarai libero di apprezzare le specialità e le cose carine che offre l’Olanda. Questo racconto mi ha molto colpita perché questa avventura l’ho vissuta anch’io quando è nata la mia bambina. Mi sono trovata ad affrontare una situazione a cui non ero per niente preparata e a vedere gente che non avrei mai voluto vedere. Sono passati anni di angoscia, smarrimento, rabbia, ma poi c’erano i suoi abbracci teneri, i suoi naso-naso per cercare un contatto, i suoi sguardi così espressivi e intelligenti. Quanti sforzi, quanta fatica per raggiungere un traguardo tanto importante: la sua autonomia! Abbiamo fatto tanti progressi, quante soddisfazioni mi ha dato! E tutte le volte la mia mente rievocava la morale di quel racconto. Anche se la vita non è stata molto generosa con lei, non ha mai perso il suo sorriso, la capacità di farsi voler bene ed essere ricordata, l’emozionarsi davanti ad un tramonto e cercare tutte le sere la luna nel cielo. Ora la mia bambina è una Donna che sa far valere la propria personalità, che ha saputo ottenere la sua indipendenza e dimostrare a se stessa e a tutti noi che la disabilità può essere superata per lasciare spazio alla gioia di vivere. 17 Ricordi

La mia è una storia come tante: sono arrivata a Fino all’età di due anni (da Cassina Rizzardi) e ho sempre vissuto qui. Ricordo quando il paese era molto diverso: la piazza con le scalinate, il traffi co che quasi non esisteva, i negozi: la drogheria della signora Rosa dove andavo a comprare le stringhe di liquirizia (che gioia quando entravi e ti avvolgeva il profumo zuccheroso di tutte quelle meravigliose caramelle multicolori!), il panifi cio Pagani… mia mamma mi dava il biglietto della spesa e mille lire(!), la merceria Guffanti, la macelleria Arlati e il fruttivendolo Giuseppe che mi prendeva sempre in giro! Ho frequentato l’asilo sotto la guida della mitica Suor Davidica: quanto l’abbiamo fatta sgolare poverina! Poi, quando ero un po’ più grandicella, durante l’estate andavo a “Scuola di lavoro” ad imparare a Patrizia Bianchi cucire e ricamare. La mia è stata un’infanzia felice, ero una bambina gioiosa e socievole e avevo tante amiche. Abitavamo sopra il negozio da fotografo di mio papà dalle signorine Rossi: adesso la casa è molto segnata dal passare impietoso del tempo, ma in quell’immenso giardino pieno di fi ori bellissimi, di frutti golosi e di avventure da vivere ho passato gli anni più felici della mia vita! Purtroppo mio papà è mancato che ero ancora una bambina (11 anni) e da allora tutto è cambiato. Mia mamma cominciò ad occuparsi del negozio che si trasformò in “Cartolibreria e Giocattoli”: quante ore ho passato là dentro facendo i compiti, leggendo o chiacchierando con la mia amica del cuore che veniva a farmi compagnia! Tutti i ricordi sono legati al paese:le scuole elementari, le medie, le amiche, i pomeriggi all’oratorio… si andava a “Benedizione” da Don Leonardo (e se non ti comportavi bene ti chiamava per nome dall’altare facendoti sprofondare dalla vergogna!) e poi al Cinema Mulino. Le corse sugli schettini durante l’Austerity e, da ragazzine, i pomeriggi al Cinema “3 Stelle” con tutta la compagnia dove guardavamo il fi lm due volte di seguito. Anche il mio primo lavoro è stato in paese, ho cominciato come dattilografa alla USAP. Proprio io che, dopo aver preso l’esame di riparazione di matematica in seconda media, avevo detto “mai nella vita un lavoro che abbia a che fare con i numeri!” ho passato ventanni in uffi cio contabilità! Lì sono cresciuta professionalmente e a livello personale e ho avuto soddisfazioni e riconoscimenti, molti di noi erano più amici che colleghi anche se, si sa, quelli che seminano zizzania non mancano mai! Sempre lì ho conosciuto quello che sarebbe diventato mio marito e ci sposò proprio Don Leonardo. Lui è nato e cresciuto a Valle Mulini e così ho conosciuto un’altra parte del paese: il mulino, la roggia che anticamente faceva girare la ruota, i boschi, il Seveso che scorre al limitare del prato dove lui abitava. Una volta, da ragazzine le suore ci avevano portato a fare una camminata 18 fi n laggiù e ci era sembrato lontanissimo… ora tutto si è avvicinato, rimpicciolito. Ogni volta che vado in paese passo dal Parco Comunale e ripenso a quando era una villa privata (quando ero piccola a mezzogiorno la cuoca suonava la campanella posta su un terrazzino per avvisare che era pronto), durante le scuole medie ci abitava una mia compagna di classe… che gioia quando mi invitava a studiare da lei! Ho potuto conoscere anche Villa Gysler e Villa Tagliaferri e vederne le bellezze grazie alle mie compagne di studi. Potrei andare avanti a scrivere un libro intero e forse un giorno lo farò, per lasciare ai miei fi gli e, se ne avrò nipoti, memorie personali che non si possono trovare sui vari libri o negli archivi, per far vedere loro foto di Fino Mornasco attraverso i miei occhi.

Anni ‘50 - Via Garibaldi, Fino Mornasco. (Collezione Renato Reghenzani)

19 Equilibrio

Sono donna.

Cammino su quella linea sottile che divide l’acqua dall’aria, la terra dal cielo e davanti a me l’Infi nito.

Io rimango in equilibrio.

Sono donna e continuo a rimanere in equilibrio, passo dopo passo su quella linea sottile che mi porta verso l’Infi nito.

Maria Buono L’estasi: donna che legge

Le pagine di un libro raccontano una storia, i pensieri della donna scorrono come un fi ume tra le rocce in equilibrio tra sogno e realtà

20 I quattro volti La dormiente, l’enigmatica, spalle forti e seducenti di una donna ma anche tanto fragili a sostenere il peso di una rosa appassita, donna colpita dalla luce dei suoi occhi e alla fi ne ... il mio urlo!

Pagine d’autunno La mia Africa: monili e musica

I nostri pensieri come foglie d’autunno si accendono di passione e cadono su pagine bianche, scorrono i giorni Un fi lo sospeso nell’aria mosso dal vento, una musica e si susseguono le stagioni, le nostre storie si cercano tribale giunge da lontano e il ritmo crescente di lasciando tracce indelebili nel nostro cuore. tamburi il mio cuore nel petto batte al suo ritmo fi no ad accendere i ricordi scolpiti su pagine sbiadite che Danzatrici di fl amenco raccontano in musica la mia storia. La sabbia si solleva fi no ad avvolgere i miei monili sospesi sul fi lo e che leggeri danzano con il vento. Perle rosse, i miei occhi sognano l’Infi nito …

I corpi si sfi orano dolcemente e le fi amme diffondono nell’aria un magico calore.

21 I miei navigli Tra sogno e realtà

Era una domenica di Aprile quando passeggiando sui Una linea sottile delimita il sogno dalla realtà: Navigli mi sono ritrovata in un angolo di Paradiso. Io, in equilibrio su un fi lo sospeso nell’aria Davanti a me il Naviglio Grande contornato dai suoi ridenti Le mie forme si modellano e si lasciano andare ... palazzi, stretti in un inchino, mi danno il benvenuto. Le pagine di un libro scaldate dal sole, accarezzate dalla leggera brezza primaverile, pagine rimaste bianche e ormai consumate dal tempo. Scorrono i pensieri, le parole come le acque del Naviglio si placano, lasciando segni indelebili che raccontano la nostra storia.

Io e il mio Angelo

Volare in alto fi no al cielo, toccarlo con un dito E afferrare l’Infi nito … Chiudere gli occhi e continuare a sognare.

Questo è il mio cammino su quella linea sottile che divide l’acqua dall’aria, la terra dal cielo Io donna, in equilibrio, ho raggiunto l’Infi nito.

22 La casa del cuore racconto a quattro mani con mia nipote Ilaria Da giovanissima, con mio papà Battista ed i miei tre fratelli Luigino, Francesco ed Enrico, abitavo in un locale presso la corte dei ‘Riveta’, proprio di fronte alla Piazza della Chiesa. Di giorno gestivo la bottega dell’umbrulée al pian terreno e di sera, al primo piano, mi occupavo, con grande sacrifi cio, della mia famiglia. Per anni sono stata un po’ di tutto: l’esperta riparatrice di ombrelli; il papà, occupato come tranviere presso l’Azienda di Trasporti Comasca e la mamma, venuta a mancare prematuramente, con tre fratelli più piccoli da accudire. Ricordo che questa soluzione non ha mai permesso a nessuno di noi di poter considerare quei locali come una vera e propria casa.

C’era il locale adibito al lavoro, nonché la bottega vera e propria, sul cui retro si apriva una piccola cucina; il suo pavimento trasudava umidità Maria Cairoli e, talvolta, anche il passaggio di qualche topolino che i miei fratelli si divertivano a rincorrere. Una scala conduceva al secondo locale, la camera da letto: una e piccola che ci costringeva a dormire tutti e cinque insieme, tre in un letto matrimoniale e due su una brandina. Nel 1949 fu attivato un intervento gestito da INA-Casa volto ad attivare provvedimenti per incrementare l’occupazione operaia, agevolando la costruzione di case per i lavoratori. Inoltre, il piano era stato defi nito anche per favorire le famiglie a basso reddito, come la mia, alle quali furono proprio affi dati i primi appartamenti terminati.

Mi trasferii in Via Roma, dove tuttora abito con mio marito Luigi. Se i miei fratelli ed io eravamo ancora troppo giovani per poter apprezzare questo dono, mio papà ne era perfettamente consapevole. Ricordo tuttora il volto di mio papà: il suo sorriso solare trasmetteva perfettamente quelle parole che non riusciva a pronunciare. Il suo corpo ed il suo viso celebravano le sue emozioni ed il suo desiderio, oppresso per troppi anni, di avere una casa propria. Quella sì che era una vera e propria casa: una casa grande, luminosa, con più locali ed un bagno tutto nostro!

Anni ’60 - Da sinistra: Luigi Cadenazzi, Gabriella Tomasin (moglie di Luigino Cairoli, autore della foto), Cairoli Enrico, Cairoli Francesco, Cadenazzi Eufemia, Cristina Civitillo, Cairoli Maria (Mariuccia), Cairoli Battista 23

Ricordo tuttora l’immensa felicità di mio papà la prima volta che siamo entrati in quei locali che, da lì a poco, sarebbero diventati la nostra casa. In mezzo a tante sfortune che mio papà aveva dovuto affrontare, la consegna delle chiavi di casa ha rappresentato per lui la possibilità di ‘toccare il cielo con un dito’. Quello che più desiderava per la nostra famiglia era una casa del cuore, non più soltanto una casa dove abitare. Un posto non soltanto per dormire, ma anche per sognare. Un posto dove crescere una famiglia con amore. Un posto dove non semplicemente far passare il tempo, ma dove provare gioia con noi. Mi auguro che quella felicità di mio papà possa essere trasmessa ai miei giovani nipoti perché, prima o poi, arriverà anche per loro il momento di “mettere su casa”. Così come lo è stato per noi, li invito a godersi quel momento di gioia assoluta: la casa è il luogo dove risiede l’amore, dove vengono creati i ricordi, dove arrivano gli amici e dove la famiglia è per sempre.

1 – Angela Merazzi 8 – Luigia Novati 16 – Fisarmonicista 2 – Emilio Gaffuri (detto Milieto) 9 – Emilio Bianchi (detto Casnàa) 17 – Carlo Peverelli 3 – Anita (fi danzata di Peppino 10 – Rosalba Coira 18 – Libero Bosetti Bianchi, autore della foto) 11 – Olga Bosetti 19 – Rosalia Amadeo 4 – Pina Merazzi 12 – Luigi Cairoli (detto Bagatt) 20 – Mario Merazzi 5 – Elmina Novati 13 – Mariateresa Cairoli 21 - Esther Bosetti 6 – Ercole Coira 14 – Giulio Luraschi 22 – Gianantonio Cairoli 7 - Guglielmo Gabaglio 15 – Remo Aliverti

24 Tessitura Bosetti, che nostalgia!

Questo è il sentimento che provo ripensando alla ditta nella quale ho passato tanti anni come dipendente e ai colleghi con i quali ho condiviso la mia prima e unica esperienza lavorativa. Lo spunto per queste considerazioni me le ha date una vecchia foto che Elena Merazzi mi ha chiesto di poter inserire, con qualche ricordo, tra i racconti delle Finesi. Scattata a S. Caterina Valfurva nell’ agosto 1951, ritrae un gruppo di persone che, approfi ttando della chiusura della tessitura, avevano deciso di trascorrere insieme alcuni giorni di vacanza, le ferie. Da circa un anno, la ditta si era trasferita, da via Trieste, alla nuova sede di via Risorgimento e Libero Bosetti, forse per festeggiare l’evento, Maria Teresa aveva organizzato questo soggiorno. Per il viaggio di trasferimento da Fino ognuno si era arrangiato in proprio ed i capi telaio (Guglielmo, Emilio, Carlo, Giulio, Emilio detto Cairoli Milieto) avevano deciso di raggiungere Santa Caterina in bicicletta.

In quel periodo io, con la mia famiglia e i miei zii, ero in vacanza a Cepina, nei pressi di Bormio. Utilizzando l’auto di un nostro parente tassista che, ospitandoci in sette sulla sua vettura, ci aveva trasportati da Fino, decidemmo di raggiungere per un giorno il gruppo di Santa Caterina. Per fare festa c’era anche un fi sarmonicista, che si intravede nella foto, ma del quale non ricordo il nome. Seppur con qualche innegabile diffi coltà, ho rammentato i nomi delle altre persone; molte di loro se ne sono già andate e questo non fa che aumentare la mia nostalgia. 25 Passione

Eccomi qui, la mia è una piccola storia, di passione, pura, viva e vera: il PALCOSCENICO.

Fin da piccola amavo fare imitazioni, di ogni genere: cantanti, attori, cartoni animati, cittadini fi nesi (non posso rivelare chi..), con mia sorella inventavamo spettacolini per la gioia del pubblico (quasi sempre parenti o vicini di casa). A 15 anni con un gruppo di amiche abbiamo iniziato a fare sul serio, M. Clotilde ci ha preso sotto la sua ala, come da brava chioccia, ed abbiamo formato una Compagnia Teatrale: I Nuovi del Mulino e da allora non mi sono più fermata. Silvia Cairoli

Amo recitare, mi riempie la vita, mi fa stare bene, allegra, positiva. Di volta in volta mi trasformo in altra gente, gente estranea, che faccio entrare nel mio corpo e parlare con le mie labbra, le luci si spengono, l’adrenalina sale, si apre il sipario e sento il respiro del pubblico davanti a me, ogni volta diverso. E’ un’emozione così forte, diffi cile da spiegare, è gioia vera.

Gioia nel regalare due ore di allegria, divertimento e sorrisi, gioia di sentire una risata, un brava, di ricevere un applauso. Basta poco per essere felici.

26 La ditta Bosetti intervista a mia mamma, Mariuccia Negretti Uno dei ricordi più belli che conservo nel mio cuore di quando ero bambina sono le corse che facevamo per andare nel giardino della “Bosetti”, rigorosamente fuori dalla recinzione, dalla mamma, a bere la cioccolata calda della macchinetta oppure la Fanta! Al giorno d’oggi può apparire come una cosa banale ma per me, anzi noi, era un vero e proprio rituale e fremevamo quando si avvicinava l’ora… Ho scritto noi in quanto non ci lavorava solo la mia mamma alla “Bosetti”, ma anche le mamme di molti miei amici e compagni di scuola. Ho ancora impresse nella mia mente, come se fosse ieri, le emozioni e la magia di quel momento. Simona Per questo motivo ho chiesto alla mamma “Mari” (Mariuccia Negretti) se mi poteva raccontare la sua esperienza in tessitura: Ciaramicoli “Avevo 13 anni quando iniziai a lavorare con le mie sorelle presso la Tessitura Bosetti; eravamo un centinaio, anzi no, direi 150 persone e provenivamo da Fino, Vertemate, Cassina (ma ci si conosceva tutti). Perché si, una volta ci conoscevamo tutti e la ‘fabbrica’ era bella da vivere anche per questo.

Lavoravamo la seta, metri e metri, di questo bellissimo tessuto; dalla Cina arrivavano centinaia di balle di seta che all’interno contenevano il fi lato in matasse. Queste venivano preparate con un derivante dal sapone che serviva per Foto di gruppo dei dipendenti ammorbidirle. Una volta lavate, centrifugate ed asciugate venivano della Bosetti risalente agli anni lavorate per formare le rocche. 1995-2000 circa.

Poi, dopo svariati passaggi tra l’orditoio, i licci e la navetta, prendeva vita Foto di Nadia Giudici, ex il ‘tessuto’ e lo Zio Mario, attentamente, ne controllava l’omogeneità o dipendente. difetti. E’ così che si realizzava il tessuto grezzo. Era sicuramente un lavoro pesante che veniva però alleggerito dall’atmosfera ed armonia che si era creata e che rendeva tutto più ‘facile’”. 27 Era un giorno di novembre

Era un giorno di novembre, di quelli che ti verrebbe voglia di non uscire di casa perché sai che la nebbia che c’è fuori ti sta aspettando per cancellare i tuoi contorni e farti sparire. Ma al telefono una donna dalla voce preoccupata mi chiede di andare a visitare il suo bambino di 5 anni febbricitante e costipato.

Così con la mia 126 parto per la periferia di Fino Mornasco: vengo accolta con cordialità dalla mamma che, mentre saliamo le scale per raggiungere la camera del fi glioletto, mi informa della tosse, della febbre, della… il racconto si interrompe bruscamente perché aperta la porta… la stanza è deserta! Dov’è il bambino? Sorpresa, la mamma incomincia a chiamarlo, io cerco di contenere il mio stupore Piera Colombo e, appoggiata la borsa e tolto il cappotto, presto solidarietà a quella povera donna che inizia ad aprire tutte le porte delle camere, poi, assieme incominciamo a rovistare sotto i letti, dietro le tende, fuori sui balconi, dentro gli armadi. Carponi tutte e due continuiamo la nostra caccia al tesoro. Di Giuliano non c’è la minima ombra!!

Preoccupata più per la situazione imbarazzante che non per la scomparsa dell’“innocente creatura” la Signora mi accompagna in cucina per offrirmi un caffè riparatore e lì troviamo su un divanetto il bimbo con la faccina ironicamente soddisfatta, raggomitolato e quasi rimpicciolito pur di sottrarsi alla visita. Ci aveva entrambe aggirate mentre eravamo con la testa, e non solo, sotto il letto a cercarlo!!

La nebbia al ritorno non mi sembrava così fi tta e fastidiosa: ridevo di me e della scena che sarebbe apparsa ridicola a chiunque avesse visto me e la mamma in quelle pose. Oggi Giuliano è un uomo di 38 anni, non abita più a Fino, ma fortunatamente è ancora mio paziente e aspetto solo che abbia un fi glio per…… .

Anni ‘30 - Dott. Paride Melloni, medico condotto 28 Il mio viaggio

Era il 23 agosto 1967, quando alla stazione di Monasterace, un piccolo paese della costa Ionica in Calabria, presi il treno che, con molta gioia, mi portò a Como. Avevo quindici anni e ad attendermi c’erano i miei fratelli, ma in particolare Carmela, la mia sorella gemella. La prima tappa è stata la nostra casa in via Morazzone 17, piccola ma molto accogliente, composta da due piccole stanze da letto e una cucina. L’unica mia nostalgia era dovuta al fatto di aver lasciato i miei genitori in Calabria, tant’è che quando alla radio davano la canzone “Quando la banda passò”, il mio pensiero era rivolto a loro, perché il mio papà suonava il tamburo nei giorni di festa.

Poi arrivò anche il lavoro; infatti il 10 ottobre 1967 iniziai a lavorare Maria Cuteri presso l’Artsana e lì rimasi per trentotto anni, incontrando tante persone molto gentili nei miei confronti (alcune un po’ meno). Infatti con alcune ho coltivato amicizie vere e durature nel tempo.

Così ogni anno aspettavo il mese di agosto per tornare giù al paese insieme ai miei fratelli e alla mia famiglia, che nel frattempo avevo formato. 29 Cambio rotta

Questa è la storia della mia bisnonna, Guido Maria che fi n da bambina ha dovuto lottare contro una dura realtà, ma che tutto sommato era diffusa per l’epoca, era considerata la normalità per tutte quelle bambine nate negli anni ‘30 nelle campagne di Amantea (CS). Alla tenera età di 3 anni perse la madre, dolore incolmabile che pervase il suo cuore piccino e che ancora oggi, alla tenera età di 84 anni non l’abbandona, tanto che solo a parlarne i suoi occhi si riempiono di lacrime. Viola De Colombi Una volta mia mamma mi raccontò che quando era bambina e girava per casa con il suo “mangiadischi” ascoltando un vecchio disco di sua Bosetti mamma, vide la nonna Maria trasalire, divenire rossa in volto...la canzone era “Mamma” di Robertino ed il suo cuore si aprì, perché lei sa essere e così dolce e autentica, disse che era una canzone che emozionava, perché quella parola “Mamma” era una parola preziosa, che solo chi si Katia Mandaglio è visto negare quell’amore, può comprendere pienamente. Suo padre rimasto solo con 5 fi gli decise di risposarsi con una donna che gli diede altri 4 fi gli. Perdere la madre ancor prima di conoscerla fu la cosa che la segnò per tutta la vita, soprattutto perché la fi gura materna non fu mai minimamente ricoperta dalla matrigna, una donna fredda persino con i propri fi gli, amava isolarsi e non si occupava dei fi gli di suo marito, la classica matrigna “cattiva”.

Un’infanzia rubata dalle circostanze di un’epoca in cui si viveva solo di quello che produceva la terra, le famiglie erano molto numerose e in questa situazione si trattava di uno dei primi casi di famiglia allargata, la mia bisnonna era la quarta di cinque fi gli e con l’arrivo dei fratellastri erano diventate nove le bocche da sfamare. Con una famiglia così numerosa non si faceva altro che lavorare nei campi, coltivando frutta e verdura e allevando mucche e maiali, una realtà completamente opposta a quella che si vive oggi. Fortunatamente la bisnonna Maria incontrò Mario Amore, un ragazzo che poi diventò suo marito ed il padre dei suoi quattro fi gli. Il mio bisnonno era un personaggio particolare per quel periodo, affascinante senza dubbio e non gli piaceva lavorare la terra, dato che era l’unico lavoro che era possibile fare nelle campagne degli anni 50’ capì subito di non aver la minima intenzione di passare la sua vita in Calabria. Quando fece il servizio militare a Bergamo fi nì per passare qualche settimana a Fino Mornasco e rimase colpito positivamente dalla tranquillità che presentava il paesino e soprattutto dalle molteplici possibilità di lavoro che vi erano. Nel paesino di Amantea la realtà era molto diversa, arretrata, ancora completamente rurale.

30 Di ritorno ad Amantea parlò subito di questo paesino alla mia bisnonna, ma dovettero passare molti anni prima che riuscissero a “scappare” da quelle campagne; nel frattempo si sposarono e nacque la sua primogenita, Giovanna, mia nonna. Anni in cui il bisnonno andò all’estero a lavorare per mettere da parte un po’ di soldi per acquistare una casa. Anni in cui lei restò sola a crescere la sua bambina e a lavorare nei campi. Dopo la nascita della bambina decise di intraprendere un lungo viaggio fi no alla chiesa di Santa Marina, che si trovava a 5 ore e mezzo di cammino da casa sua. Fortunatamente si offrirono di accompagnarla due prozie. Prese la decisione di fare questo sacrifi cio perché lei era stata una delle poche donne che aveva avuto la fortuna di aver avuto tanto latte per sfamare sua fi glia fi no a quando non fu più necessario. Fece questo voto, così il 16 luglio, giorno della festa che, per ironia della sorte, fu il giorno in cui mia nonna Giovanna scelse di sposarsi molti anni dopo. Un viaggio estenuante ed ovviamente per tutto il tempo dovette portare in braccio la piccola Giovanna, perché non esistevano i passeggini. A quel tempo c’era una grande propensione al sacrifi cio, parola fi nita in disuso, tanto che io a 13 anni non riesco neppure a comprendere. Successivamente ebbe altri tre fi gli. Diventare madre signifi cò molto per la mia bisnonna, perché così riuscì a donare l’amore che le rimase intrappolato nel cuore. Non voleva che i suoi fi gli passassero tutta la vita a lavorare nei campi e non voleva nemmeno che per avere una minima istruzione dovessero continuare a fare più di due ore di strada al giorno per raggiungere una piccola scuola di paese. Così il mio bisnonno decise che doveva avvenire un cambiamento radicale, dovevano trasferirsi al nord e gli venne in mente che Fino Mornasco era un ottimo paesino dove poter trovare lavoro e una vita più agiata. Quando il bisnonno Mario Amore salì al nord, iniziò a cercare una casa dove potessero starci tutti, perché se sei persone sembravano poche, dobbiamo anche aggiungerne una settima, Aldo che era un cugino di Maria, la mia bisnonna. Anche lui voleva trovare un futuro migliore, così diede una mano al mio bisnonno per la costruzione della casa e in cambio avrebbe trascorso un po’ di anni con loro in attesa di una stabilità economica che gli permettesse di metter su famiglia. Così passarono alcuni anni prima che la casa fosse fi nita e pronta per andare ad abitarci, nel frattempo la mia bisnonna e i suoi quattro fi gli vivevano ancora nelle campagne. Diciamo che la casa non venne comprata già “bella che fi nita” bensì per avere la possibilità di avere un’abitazione pronta in poco tempo l’impresa edile propose al mio bisnonno di andare a lavorare per loro, così da poter riscattare la casa con il proprio lavoro. Dopo pochi anni la maggior parte della casa era stata costruita, certo mancava ancora il riscaldamento, la luce, eppure per loro era come una reggia, rappresentava un futuro migliore. Dopo 12 ore di viaggio in treno, la bisnonna arrivò nella stazione di Milano centrale e come si può immaginare con i mezzi di una volta il viaggio fu tutt’altro che agiato. Ma fi no ad allora non è che la sua vita fosse contornata da comfort, anzi tutt’altro, si occupò dei suoi 4 fi gli da sola, mentre mandava avanti una fattoria, con il raccolto ed accudendo il bestiame. A Fino Mornasco la bisnonna Maria trovò un mondo completamente diverso. Lei arrivò all’età di 37 anni e fu un cambiamento radicale. Nella casa nuova fu sbalordita nel trovare la corrente elettrica e l’acqua, tutte comodità che signifi cavano una fortuna immensa per lei che aveva sempre vissuto dispersa nel nulla. Fu 31 contentissima di poter raggiungere il centro del paese in solo15 minuti, prima ci metteva un’ ora per raggiungere il centro di Amantea.

Purtroppo non fu un cambiamento facile, perché dovette imparare una lingua completamente diversa e per lei che parlava il dialetto stretto fu una sfi da enorme imparare l’italiano moderno, inoltre dovette imparare ad usare i nuovi mezzi tecnologici come la televisione e il telefono, oggetti che vide per la prima volta quando arrivò qui, però non si arrese e con l’aiuto delle persone che conosceva (compaesani trasferiti prima di lei) non ci mise molto ad imparare. Si adeguò subito alle usanze locali, senza dimenticare mai la propria tradizione. Un esempio di senso civico che in molti al giorno d’oggi dovrebbero imparare. Il bisnonno appena fi nì di pagare la casa si licenziò dall’impresa edile e trovò subito lavoro in una rubinetteria che si trovava nei pressi dell’attuale ASL. La mia bisnonna invece trovò lavoro come governante nella Villa Tagliaferri, nella casa della famiglia Solera, dove lavorò per ben 36 anni. Fu una donna intraprendente per quell’epoca, non solo si occupava dei 4 fi gli ma si rimboccò le maniche e trovò lavoro, senza neppure sapere come parlare, perché ricordiamoci che negli anni 60 ognuno parlava il suo dialetto e sicuramente quello di Amantea a Fino Mornasco non era comprensibile. Ma il suo coraggio, la sua caparbietà e la sua determinazione ben presto ebbero la meglio e fu talmente apprezzata da quella famiglia, che divenne parte integrante di quella casa. Continuò a lavorare fi no all’ età di 75 anni, riducendo sempre di più le proprie mansioni e le ore di lavoro. E’ sempre stata una donna moderna, sia di mente che d’impeto. Negli anni 60 voleva fare la patente, ma il bisnonno Mario, uomo austero, non volle ed ancora oggi la bisnonna si rammarica per non essersi imposta. Per ogni avvenimento della giornata ha un proverbio o un vecchio detto che ne spiega l’accaduto ed il bello è che non si ripetono mai, una memoria storica seconda solo alla sua forza d’animo. Una donna che ha dedicato tutta la sua vita a donare amore ai suoi fi gli, quell’amore che la vita le ha negato e che ha ritrovato nel cognome del Marito.

Durante la sua vita ha dovuto affrontare molte sfi de, e adattarsi ad una nuova vita in un paesino “straniero” dove non conosceva nessuno, dove si parlava un’altra lingua, anche se si trovava nella stessa nazione. Non fu facile, perciò lei si defi nisce migrante in uno stesso paese. Adesso se le chiedo se i suoi sacrifi ci sono stati ripagati lei mi risponde “Adesso, sono madre di quattro fi gli, nonna di dieci nipoti e bisnonna di sette pronipoti, questo mi basta”.

32 All’ultimo mugnaio del Seveso

Il Seveso, il nostro fi ume antico Che da Felice passa come amico. Col suo tramonto dal docile colore Invita i poeti a cantar l’Amore. Amore per gli amici e per il fi eno Del cui profumo, il crepuscolo è pieno. Amor per la gran ruota e il tuo mulino E la tua Zepa che ti sta vicino. Felice, tu sei del Seveso il gesto denso Tu sei l’acqua che scorre, ed io in te condenso. Tra la tua valle col fremito del vento Rina De Filippi Che passa tra i rubini, con fruscio lento. Felice, a te io dico ……….. Tu sei la luce del mattino aprico Luraschi Il sole lascia la sua scia Sul tuo mulino, che fu la tua grande gelosia. Gelosia di gente innamorata Gelosia d’una stagion passata Quando di grano al mulinello Rubavi a tutti un bel pugnello. La gioventù passa, ma non muore L’amicizia, la poesia e l’amore. Il Seveso, canzon non conosciuta t’ha cantato Or brindiamo al sole che s’è appena addormentato.

Con affetto al vecchio amico mugnaio e alla fedele Zepa

Anni ‘80 - Mulino Grande (Tabalit) (Collezione Gian Antonio Cairoli)

33 Storie vere

Anno 1950, Fino Mornasco La mia mamma mi ha raccontato che in questo anno a Fino Mornasco veniva assegnato un giovane medico condotto, che arrivava da Trento. Un giovane alpino medico che doveva assumersi le responsabilità di Fino centro e tutte le altre frazioni intorno. A giugno mia mamma deve partorire, ed il nuovo medico dott. Ferdinando Romanelli, volle assistere al primo parto in casa, con una giovane ostetrica che arrivava dalle valli dell’alto lago. Quindi il 7 giugno in casa in via Lazzaretto, nacqui io di soli 2700 grammi, ed il dottor Romanelli mi classifi cò subito bimba vispa e vivace e commentò: “Una bimba forte che affronterà tanti problemi”, e così fu, e tuttora. Lina De Giovanetti Per avere una piccola ricompensa il giovane medico disse a mio papà Mosè che per un anno avrebbe dovuto lavare la sua automobile, con la quale si recava tutti i giorni per la sua mansione di medico, perché era stato un parto diffi cile con problemi di salute per la mamma. Ringrazio il dottor Romanelli con tutta la mia gratitudine.

Questa foto è del fratello della mia povera nonna Bambina, ritratto vestito da militare, e mandata ai genitori. Partito a 18 anni per la guerra del 1915/1918 non fece più ritorno. Dissero che morì dove ci fu il massacro sul ponte Colmino, nella regione settentrionale dell’altopiano della Bainsizza. Arrivò un telegramma dal suo comando con scritto “disperso” e non abbiamo mai potuto nemmeno riavere le sue spoglie. La mamma di Bertino Mascheroni soffrì tanto ed a 53 anni morì di crepacuore per la sofferenza e la perdita del fi glio. Con mia nonna visitarno tutti gli ospedali e anche il Cottolengo di Torino, una scena indescrivibile, mi raccontò la nonna: vide persone mutilate di braccia e gambe, e sopravvissute alla strage della guerra. Dopo anni, con la mostra all’Ottagono, si seppe che morì in un ospedale, dopo la battaglia: ma passarono tanti anni; lui nel reparto faceva il radiotelegrafi sta e su questo ponte vennero attaccati; e nella stessa battaglia morì anche il cugino Angelo Mascheroni che lasciò la moglie ad un mese dal matrimonio per partire al fronte. Lui faceva parte del Genio, la moglie restà vedova a diciotto anni.

Filastrocca che la mia mamma cantava: E mio nonno Caporal di Fanteria stette 5 giorni in posa per mandare a Rosa 34 la fotografi a. Questa è la foto della scuola Elementare Guglielmo Marconi di Fino Mornasco, con le compagne di classe; l’insegnante era Elisa Negretti Salmoiraghi.

Qui ritratto mio nonno Pasquale Negrini, sposatosi con la mia nonna Bambina. Allora faceva di mestiere il panettiere a Fino, nella panetteria Tettamanti, e come passione si recava come pasticcere alla famosa pasticceria Bolla a Como. Purtroppo è deceduto a soli 33 anni, lasciando la nonna vedova a soli 29 anni e tre piccole bimbe.

Questa foto è del mio Bisnonno Pietro Mascheroni, originario della ed allevatore di animali, trasferitosi a Socco di Fino Mornasco e sposato con Giuseppina Longatti, fondatore della Cooperativa di Socco. Erano esperti nella vendita di bestiame ed una sera, sull’imbrunire nei pressi del cimitero di Bulgorello, il fratello face ritorno dopo aver venduto ad acquirenti. Due persone imbavagliate gli intimarono di fermarsi e presero il ricco bottino. Spaventato dall’imboscata morì di crepacuore.

Una fi lastrocca che mi cantavano i miei genitori da piccola:

Bolli bolli pentolino…. Fai la pappa al mio bambino, la rimescola la mamma fi nchè il bimbo fa la nanna, fa la nanna gioia mia che la pappa scappa via, per portarla al cagnolino, il cagnolino tutto contento mangia la pappa e fa bu bu…. 35 La @ ieri e oggi

Anni fa sono stata incaricata di sistemare l’archivio storico della Parrocchia di Socco, lavoro che poi ha dato origine al libro “Socho religiosità e vita di un borgo antico” La chiesa di S. Maria Immacolata a Socco è una delle più antiche della zona, in stile rinascimentale risalente al XVII secolo, ma di origine medioevale. Sul Chronicus, nel 1750, Giò Battista Mossi, cappellano della Chiesa di Socco, scriveva: ...dopo la festa @ 25 settembre dell’anno presente in cui si è portata processionalmente la immagine della M.V. della cintura, in questa chiesa si sono cominciati li fondamenta della nuova chiesa a onor di Dio e della B.V. Maria e delle SS. Liberata e Faustina… Marina Ferrari La @ è scritta anche nei libri contabili prima di ogni “sortita” (spesa) e “cavata” (entrata). La @, nota in lingua italiana come “chiocciola” è un logogramma adoperato soprattutto per la posta elettronica. Già in uso nel VII secolo d.C. presso i mercanti veneziani, la @ era un segno grafi co che rappresentava l’anfora, utilizzata allora come misura di peso e capacità: per indicare un litro di acqua contenuta in una bottiglia di vetro scrivevano ! l. acqua @ 1 bot vetro. Questo signifi cato si può applicare anche negli indirizzi mail: dopo la @ c’è scritto il dominio a signifi care che quell’indirizzo è contenuto in quel dominio. La @ nasce come unione stilizzata delle lettere “a” e “d” minuscole formanti la locuzione latina ad, cioè “verso” nei moti a luogo. I popoli anglofoni modifi carono il suo signifi cato da “ad” a “at”, quindi da “verso” a “presso” curvando l’asta della lettera “d” verso sinistra. E’ quindi un termine del presente, che seppur esistente da secoli e secoli, vede la sua casualissima fortuna realizzarsi solo oggi, col linguaggio informatico.

36 La mia nonna L’8 dicembre, festa dell’Immacolata Nonna Veronica veniva festeggiata. Poche parole, pochi sorrisi, mai una carezza Che esaltasse la sua bellezza Mai un trucco, mai un parrucco i suoi capelli bianchi, lunghi, tirati in una crocchia eran fi ssati Ciao nonna, i ricordi sono tanti Ma le lacrime mi impediscono di andare avanti.

Natale 2017 Chiesa S.Maria Immacolata di Socco Il progresso realizza Grattacieli ricoperti Di giardini verticali Ma a noi piace ricordare Che Gesù ha voluto nascere In una stalla Perché Non c’era posto Per lui Nell’albergo

37 Una nuova vita

Ciao, mi chiamo Lorena Guadalupe e vi racconto un po’ della mia vita. Adesso sono una donna, una moglie e mamma di una bellissima bimba di sei anni. Vengo da un paese povero: chi ha qualcosa in tasca va avanti con la sua vita senza farsi problemi, invece chi non ha niente deve arrangiarsi. Sono nata e cresciuta da genitori umili: la mamma casalinga, papà faceva a volte il muratore, a volte il falegname. Ho tre fratelli, io sono la più piccola. Mi racconta la mamma che quando stavo per nascere il dottore le ha detto: “Signora, lei è in un travaglio ad alto rischio”. La mamma, che è molto credente nella Madonna di Guadalupe, la santa patrona del Messico, le ha promesso che se la Lorena fi glia fosse nata bella e sana le avrebbe dato il suo nome. E così è stato. Comincio a crescere. Prima di compiere un anno, mi sono ammalata Guadalupe di bronchite e sono stata portata al pronto soccorso, perché stavo quasi per morire. Lì mi hanno subito dato l’ossigeno, ma non bastava Garcia e allora mi hanno fatto un’iniezione nella gamba sinistra. Dopo un po’ di giorni, ho cominciato a riprendermi, ma la sorpresa è stata che quell’iniezione mi ha lasciato zoppa per tutta la vita. Avevo già cominciato a fare i primi passi e invece non riuscivo più a camminare. La mamma dice che io mi trascinavo per terra. Piano piano ho ricominciato a fare piccoli passi, ma per la mamma è stato un calvario di sofferenza.

Sono trascorsi gli anni e ho cominciato ad andare all’asilo, per me era bello. Ricordo che la mamma mi preparava la divisa, a volte portavo la merendina, ma a volte no. Però, quando mi capitava di non portarla, non chiedevo alla mamma perché. La maestra invitava le bambine della mia classe a darmene un po’ della loro e dicevano di sì. Che bello essere bambine, non c’è nulla al mondo di più bello. Quando si è bambini si gioca, si dorme. Ricordo che ho fatto quattro anni di asilo invece di tre, perché la mamma non aveva i soldi per prendermi qualcosa di carino per la festa dell’asilo. Anche l’anno successivo è successo lo stesso. Un giorno la maestra chiese alla mamma: “Perché Lupita non verrà alla festa dell’asilo?” La mamma disse che non potevo, però si vergognò di dire il perché. Dopo un po’ di giorni, la maestra parla con la mamma: ”Ho preso questo tessuto, così Lupita potrà venire alla festa”. Tutti mi chiamavano Lupita, un diminutivo di Guadalupe.

Quel giorno la mamma ha pianto, non so se di contentezza o di vergogna. Il giorno della festa io avevo addosso quel 38 vestito rosa con cuoricini e fi orellini. Era così carino che è piaciuto tanto anche alle mie compagne. Io ero molto molto felice e tutte mi dicevano: “Che bello il tuo vestito” L’anno successivo ho iniziato la scuola elementare. Ero felice però non sapevo cosa sarebbe avvenuto. Ho cominciato bene le lezioni, ho fatto tante amicizie. Col passare dei mesi, è iniziata per me una sofferenza: gli altri bambini, più grandi di me, cominciarono a prendermi in giro, a dirmi: “Tu sei zoppa!” e camminavano zoppicando come facevo io. Per me era un’offesa che mi faceva troppo male. Mi nascondevano lo zaino, me ne facevano di tutti i colori... Alla fi ne fi nivo per piangere. Quando la mamma veniva a prendermi, io cercavo il suo amore, la sua protezione e piangendo le raccontavo tutto. Lei mi diceva di non ascoltare: “Non sei così perché lo hai voluto tu, lascia stare, le parole le porta via il vento!” In quel momento ero felice, mi sentivo protetta dalla mamma, però il giorno seguente vivevo la stessa angoscia. E così tutti i giorni. Crescendo i compagni cominciavano a prendermi in giro di meno. La mamma voleva proteggermi e lo ha fatto. Quale mamma non farebbe un sacrifi cio per il proprio fi glio?

La mia infanzia è stata bella e brutta allo stesso tempo. Ricordo che tornavo da scuola, mi toglievo la divisa, la mamma mi portava il cibo sul tavolo, io lo prendevo e andavo di corsa a casa della nonna per guardare la TV, che lei aveva mentre noi no. Mi diceva di non correre perché potevo far cadere il cibo. Invece io correvo per non fare tardi e non saltare una puntata dei cartoni animati che mi piacevano tanto.

Dopo la scuola superiore, avrei voluto continuare a studiare, però non c’erano le possibilità. Ho cominciato a lavorare il sabato e la domenica in un piccolo negozio di elettrodomestici: in settimana studiavo e durante il weekend lavoravo. Ho cominciato a comprare le mie cose e portavo un po’ di spesa a casa. Alla sera giocavamo a nascondino coi miei fratelli e coi miei cugini, eravamo tutti felici. Ogni tanto andavamo al mare. Che belli quei momenti vissuti insieme!

La mia madrina di battesimo mi scriveva ogni tanto. Un giorno mi è arrivata una lettera, in cui mi chiedeva di cominciare a risparmiare, così avrei potuto continuare a studiare e cominciare a viaggiare. Ho letto queste parole alla mamma: chissà cosa volevano signifi care! Un anno dopo, è arrivata una nipote della mia madrina e mi ha chiesto: “Sei tu Lorena?” Le ho risposto di sì. Mi ha dato una busta che conteneva un biglietto aereo. Con quel biglietto sarei dovuta andare dalla mia madrina in Italia. Ero felice al pensiero di viaggiare, la mamma invece era confusa. Aveva gli occhi pieni di lacrime, consapevole che mi sarei allontanata da lei, cosa che non avevo mai fatto fi no ai miei 21 anni. Mi disse: ”Figlia mia, io non posso dirti di sì, non posso dirti di no. Tu sei maggiorenne e saprai fare la scelta giusta”. Capiva che sua fi glia stava aprendo le ali per alzarsi in volo. Il mio papà non ha detto una parola, non so il perché. Arrivato quel giorno, ho abbracciato forte forte i miei genitori, ma la mia decisione era già stata presa. Mia sorella era felice perché la mia scelta era per un futuro migliore. E così sono giunta in Italia, quindici anni fa. Non è stato facile arrivare in un paese straniero, dove c’erano persone che non conoscevo, non sapevo come sarei stata trattata. Ma piano

39 piano ho cominciato ad adattarmi. Sentivo la mancanza e il calore della mia famiglia. Avevo un problema fi sico e quando uscivo per la strada mi sentivo gli occhi addosso, credevo che la gente mi fi ssasse. Pensavo: chissà, se in questo paese i dottori fanno errori come nel mio paese, se mi prenderanno in giro come da noi? Ma alla fi ne ho capito che in tutto il mondo esistono delle persone ignoranti che ti fanno sentire a disagio, che non sanno che la vita è come una roulette che gira...

Ricordo benissimo che un 23 aprile ho dormito con una ragazza per strada. Per me è stato un colpo duro, una caduta, però mi sono rialzata con più forza per andare avanti. Con l’idioma non ho fatto troppa fatica, perché ho avuto l’opportunità di imparare un po’ l’italiano prima di partire.

Ho trovato lavoro presso una famiglia, ho sofferto, ma allo stesso tempo ho imparato tante cose, che poi mi sono servite. Ho lavorato in quella casa per quattro anni e l’ho lasciata quando la signora e il marito sono morti. Ho cercato un altro lavoro e l’ho trovato presso una famiglia che mi ha saputo accogliere come una sua componente e con la quale mi trovo tuttora benissimo. Dal mio paese è arrivato il mio moroso: ero felice! Ci siamo ritrovati e poi ci siamo sposati. Dopo sette anni di matrimonio sono rimasta incinta: è stata e lo è ancora una gioia immensa. Al quarto mese di gravidanza abbiamo saputo che avremmo avuto una femminuccia. Questa bimba ci ha riempito la vita di bei momenti: ci fa ridere, a volte ci fa arrabbiare, però con un suo sguardo fi nisce tutto in allegria. Mi piace passare del tempo con lei, sentirmi dire: “Mamma ti voglio bene” con quella voce dolce che ti fa sciogliere. L’amerò per sempre. Adesso che sono una mamma, capisco i tanti sacrifi ci che mia mamma ha fatto per me, per farmi crescere. Non potrò mai ringraziarla abbastanza.

Dopo quindici anni lontano dalla terra dove sono nata, vi sono tornata in vacanza. E’ stato bello ritornare, ritrovare tutte quelle persone che un giorno hai lasciato. A Fino Mornasco mi trovo bene, ho trovato delle belle persone.

Con questo piccolo racconto della mia vita ho voluto dimostrare che non è tutto oro ciò che luccica; che la vita non è sempre colorata di rosa; che la vita bisogna saperla vivere. La mia vita non è perfetta, però ho avuto anche dei momenti meravigliosi, quando è arrivata mia fi glia, che amo con tutta me stessa e ringrazio Dio per avermi dato una bella fi glia come lei, amore della mamma!

Madonna di Guadalupe

40 La fatina

Melissa Bermudez Garcia

Io sono la Melissa e sono molto contenta perchè ho perso il mio primo dentino. E mi ha fatto visita la fatina.

Io sono la Fatina e ho incontrato una farfalla.

41 Il mio volontariato in Croce

Verde Non è cosa semplice pensare di raccontare un pezzettino della propria vita, uno spaccato che possa rappresentare qualcosa di signifi cativo nella vita normalissima di una persona comune. Ho provato a pensare da dove iniziare, per riuscire a dare un senso alle parole che qualcuno avrà voglia di leggere . Visto che si cercano testimonianze di donne “Finesi” che, vivendo normalmente la loro vita, hanno qualcosa da poter dire che riguarda il loro territorio e la loro appartenenza, ho pensato che è inevitabile fare qualche premessa per poi arrivare alla mia appartenenza. Io sono nata in Sicilia e vi ho vissuto sino alla mia laurea in Giurisprudenza Nunziata conseguita a Catania. Sono fi era delle mie origini, della mia isolanità, e penso che ragionerò sempre da Siciliana verace. (Nancy) Giusa Durante una stagione estiva molto calda, era il 1985, ho conosciuto un giovane comasco, che era in vacanza in Sicilia, ed ho deciso che lo avrei seguito ovunque. Completato il mio percorso di studio, e con una discreta pratica di avvocatura, mi sono trasferita al nord, dove mi sono sposata, e dove vivo da trent’anni, condividendo passioni, interessi ed amore smisurato per i nostri due splendidi ragazzi, due purissimi sicul-comaschi. La condizione di chi lascia alle proprie spalle la vita vissuta in pienezza, con tanti affetti, tanti amici, tante belle e sane abitudini, e con un clima e cibo di cui tutti parlano, richiede un periodo di adattamento ma io, che sento forte il mio essere “isola” sempre in balia delle correnti e prediligo affrontare subito gli eventi, mi sono adattata alla mia nuova vita “in continente” nel giro di pochissimo tempo. Grazie a tante care ed amabili persone, ho potuto consolidare una rete di amici, affetti, interessi che hanno iniziato ad orbitare intorno al mio mondo, al centro del quale, però, posto di privilegio ha sempre avuto la mia famiglia.

Certo, ho iniziato ad amare la mia nuova condizione, ma nel mio cuore, sempre presenti, la mia terra, la mia famiglia di origine e la mia Etna. Ho la fortuna di poter svolgere una professione che mi appaga e, con la mia famiglia, vivo a . A questo punto è lecito porsi la domanda: ma che rapporto c’è con Fino Mornasco? Ecco io a Fino Mornasco trascorro parte del mio tempo libero perche’ coltivo il più importante dei miei interessi: il volontariato. Dal 2004 sono volontaria della Croce Verde, soccorritrice certifi cata 118 e capo-equipaggio; dal dicembre 2016 sono alla guida dell’Associazione, essendone diventata il Presidente . Mi hanno fatto notare, i miei colleghi veterani, che sono il primo 42 presidente donna, nei 40 anni di questa storica Associazione, dove il ruolo è stato ricoperto da uomini. Io devo dire, molto onestamente, che ho focalizzato l’attenzione sul fatto che, con il nuovo ruolo, ho ereditato un bel po’ di responsabilità. L’organizzazione di un gruppo così strutturato e ben consolidato nel territorio, rappresenta una sfi da quotidiana.

Così come è una sfi da quotidiana percorrere chilometri in ambulanza, “in sirena”, per raggiungere prima possibile il posto in cui qualcuno sta male ed ha bisogno di un aiuto. Sovente qualche dubbio si insinua nella mia mente, rispetto al voler continuare questa avventura, ma basta il pensiero di poter rendersi utili, insieme alle tante persone che collaborano in associazione, per fugare le incertezze. Spesso ci chiedono come mai una persona decida, in piena autonomia, di intraprendere una collaborazione volontaria, in una associazione che opera nel settore dell’emergenza, ma non solo, e che spesso propone momenti diffi cili, di stress, di emozioni forti .

Io la risposta non ce l’ho. Però ripenso anche ai momenti di convivialità, di conoscenza, di scambio di relazioni e di grandi amicizie e sono convinta che tutto ciò dia conforto ed aiuti a superare i momenti diffi cili che la nostra attività porta inevitabilmente a vivere. Inoltre il pensiero di poter dare una mano, in un momento di diffi coltà, dà un senso a tutto ciò che si fa, pertanto si superano incertezze, momenti di sconforto, e si va avanti. Inoltre, riuscire a condividere con altri questo forte valore di solidarietà, penso che dia qualità al nostro tempo. Viviamo, purtroppo, in contesti dove la fretta, il vivere frenetico, e soprattutto il vivere con tanti problemi quotidiani personali, portano inevitabilmente a non riuscire a vedere oltre noi stessi. A volte il troppo guardarsi intorno, propone prospettive non semplici, quindi si preferisce non stare tanto a soffermarsi. Si cerca di scardinare questa mentalità, ed è molto impegnativo, ma noi ci proviamo , ci mettiamo in gioco e qualcuno prima o poi magari ci segue. Ho un solo rammarico, con il nuovo incarico e con gli inevitabili impegni, riesco ad essere soccorritrice solo due volte a settimana, e devo fare altro tutte le volte che è necessario. In ogni caso posso dire che vivo la vita che volevo vivere e ne sono felice. Tutte le volte che il 118 al telefono dice : “Dimmi, FINO” (perché è così che ci identifi cano in emergenza), io non ho mai pensato che, in realtà, io di Fino non sono!

43 Cari nipotini vi racconto una

storia C’era una volta un cucciolo senza famiglia di nome Kimba, che abitava in un canile, dove vengono accuditi tutti i cani abbandonati. Il cucciolo era molto ammalato, aveva tanta tosse e non riusciva nemmeno ad abbaiare. Era piccolo ed indifeso perciò i volontari del canile, a cui faceva tanta tenerezza, lo misero in una gabbietta nel locale infermeria per proteggerlo dagli altri cani. In una giornata afosa d’agosto, un papà portò al canile la sua bambina che compiva 10 anni e come regalo per il compleanno desiderava da sempre un amico a 4 zampe. La bambina aveva il desiderio di adottare Liliana Grianti un cagnolino abbandonato e il canile era il luogo più adatto dove trovarlo. Fu accolta subito dal saluto affettuoso di tanti cani di ogni razza e dimensione. Chi abbaiava con insistenza, chi saltava nelle illustrazioni di grandi gabbie, chi uggiolava, tutti si davano da fare per farsi notare. Eleonora Riva La bimba era confusa, non sapeva proprio chi scegliere, quando all’improvviso passando proprio dall’infermeria sentì un grande silenzio e il suo sguardo si incrociò con quello di un piccolo cane muto e timido. Lo sguardo tenero di Kimba entrò subito negli occhi e nel cuore della bambina che fece la sua scelta. Kimba non riusciva ad abbaiare, ma i suoi occhi imploranti chiedevano carezze e ancora carezze. Il linguaggio del cuore funzionò e i desideri di Kimba vennero esauditi.

Kimba pensò di sognare quando i volontari aprirono la gabbietta per fargli conoscere la bimba che, con grande tenerezza, gli stava chiedendo il permesso di coccolarlo. Capì subito che quella bambina era diversa da tutti gli altri bambini che aveva conosciuto e che volevano un cane solo per capriccio, restituendolo al canile il giorno dopo perché già stanchi di accudirlo. Il suo grande fi uto gli suggeriva che lei e solo lei, sarebbe stata la sua padroncina, la sua compagna di giochi e di avventure e… non si sbagliava. I volontari del canile però volevano essere sicuri che il loro cucciolo fosse accolto da una famiglia capace di amarlo senza riserve. Per poter adottare il cane, la bambina doveva superare una prova: il cane dopo qualche giorno di permanenza in famiglia, avrebbe dovuto essere riportato al canile dalla bambina per dimostrare a tutti che Kimba nutriva affetto solo per lei. Se al contrario il cane, rivedendo i volontari così tanto affezionati a lui, fosse corso loro incontro, la bambina avrebbe dovuto restituirlo perché signifi cava che non era stata capace di guadagnarsi la fi ducia e l’amore del cane. Kimba vide subito lo sguardo preoccupato della bimba: la paura di fallire era nei suoi occhi. Lui le si avvicinò teneramente per farsi accarezzare le buffe orecchie e la bambina percepì un magico calore salire dalle sue mani fi no al cuore 44 e si sentì rassicurata. Dopo qualche giorno, quando tornarono al canile, la bimba era terrorizzata all’idea di non superare quella severa prova e di dover restituire il cane. Con grande sorpresa ed enorme sollievo, le sue paure sparirono quando Kimba si fermò davanti al cancello rifi utandosi di varcarne la soglia, riacquistando la forza di abbaiare per il disappunto. Il grande applauso di tutti i volontari rincuorò sia la bimba che il cane e fi nalmente i due tornarono a casa insieme. Iniziò per loro una meravigliosa avventura durata dodici anni, nei quali il cucciolo e la bimba crebbero insieme, diventando lui un vecchio cane brontolone ma sempre fi ero e lei una giovane donna pronta a vivere la sua vita.

Cari nipotini vi ho raccontato questa storia per farvi capire meglio chi sono i vostri amati amici Boss e Nina con i quali trascorrete tante ore liete a casa della nonna. Se quella bimba, che è vostra mamma e vostra zia, e nonno Kimba non si fossero scelti in quel caldo giorno d’agosto, non ci sarebbero nemmeno il vecchio Boss che ulula ogni volta che squilla il telefono e la sua simpatica fi glia Nina, così tenera e materna con voi cuccioli d’uomo. In ciascuno di loro rivive una parte di quel cane del canile che fu sempre riconoscente alla bimba di averlo amato e accolto nella sua vita. Via Garibaldi 54 A Fino Mornasco in Via Garibaldi 54, dove ora si affaccia una vetrina di caldaiette e affi ni, un tempo c’era il negozio di alimentari gestito dai miei genitori tra gli anni ‘70 e ‘90. Per la nostra famiglia il negozio non è stato solo un luogo di lavoro, ma anche di incontro, di ascolto e di integrazione. Rivedendo le foto, il primo ricordo è l’abnegazione totale dei miei nel gestire al meglio quel lavoro che richiedeva grande impegno anche prima della apertura e dopo la chiusura. Si apriva alle 7,30, ma il papà tra le 5,30 e le 6 già aspettava il fornaio che portava il pane da insacchettare per quei clienti che si presentavano prima di recarsi al lavoro. La sera poi quando si abbassava la saracinesca c’era il rituale delle pulizie e del riordino di ogni cosa. Mio padre era maniacale per l’ordine e la pulizia del negozio, dei frigor e delle affettatrici. I prodotti dovevano essere protetti e riposti nelle cellette frigorifere sotto il bancone, ogni cosa pulita e in ordine pronta per il giorno dopo. In famiglia tutti eravamo chiamati a dare una mano in negozio: io e le mie due sorelle più piccole a turno abbiamo sempre collaborato secondo le nostre possibilità di tempo. Secondo mio padre, per stare dietro al banco erano richieste tre abilità: 1° essere veloci a servire i clienti, 2° essere in gamba a fare i conti a mente, 3° essere cordiali e gentili perché “il cliente ha sempre ragione”. 45 In realtà la gente veniva in negozio non solo per fare la spesa, ma anche per fare incontri, scambiare pareri, commentare le novità del giorno e a volte persino chiedeva un aiuto o un consiglio. Si creava giorno per giorno un rapporto così stretto con il cliente che sembrava di appartenere ad una grande famiglia. All’epoca non esistevano i centri commerciali, non si facevano gli acquisti online, a parte qualcuno che osava con Postal Market. La gente si muoveva spesso a piedi e si fermava ad incontrare e ad ascoltare gli altri poiché non esistevano i grandi sistemi di comunicazione che utilizziamo noi ora. Naturalmente c’erano anche momenti di nervosismo in negozio soprattutto negli orari di punta. Il sabato mattina, per esempio, si formava la coda della gente in attesa di essere servita e poiché non esisteva il “numerino”, a volte si rischiavano vere e proprie risse per difendere il proprio turno, mentre ora nei supermercati ognuno fa da sé. Una caratteristica del negozio, molto apprezzato dalle famiglie di allora, era la possibilità di pagare i conti della spesa a fi ne mese, al ricevimento dello stipendio. Questo permetteva a tutti di organizzare oculatamente la propria economia domestica. I conti venivano segnati su un apposito libretto tenuto in copia anche dal cliente. Mi ricordo con ammirazione che c’era tanta elasticità e comprensione da parte dei miei genitori che conoscevano le varie situazioni di diffi coltà delle famiglie. Ho anche sempre molto apprezzato la loro apertura mentale ad introdurre i prodotti di altre regioni per favorire l’integrazione dei nostri immigrati calabresi, siciliani, pugliesi e campani che tra gli anni ‘60 e ‘70 si erano trasferiti a Fino Mornasco per motivi di lavoro. In quel piccolo modo del negozio, specchio di una società in evoluzione, ho colto il valore dello scambio di culture diverse messe a confronto per un arricchimento reciproco. Dalla diffi denza si passava allo scambio di ricette tra nord e sud e devo ammettere che la cucina mediterranea ha conquistato tutti. Grazie all’esempio ricevuto dai miei genitori, lavoro, incontro, ascolto ed integrazione, per me ancora oggi sono i pilastri che sorreggono la nostra unità sociale. Questo mi ha insegnato la mia piccola esperienza di aiutante a tempo perso nel negozio di VIA GARIBALDI 54, quando ero una giovanissima studentessa. Ciò che mi sorprende sempre è incontrare ancora oggi, a distanza di moltissimi anni, tanta gente che ha conservato nel cuore questi ricordi del negozio e dei miei genitori, pregandomi di portare loro i saluti più cari. Io sono sempre stupita da tanto affetto ma non nascondo che mi rende felice sapere che il negozio e i miei genitori sono rimasti nel cuore di tante generazioni, soprattutto ora che in età avanzata la loro memoria non li aiuta più a ricordare quel loro percorso di vita.

46 Ricette di casa

Mi è sempre piaciuto cucinare e, da quando sono in pensione, è una delle mie attività preferite. Siccome sono molto golosa amo soprattutto fare i dolci, ma preparo volentieri anche alcuni impasti di base, come ad esempio quello per il pane, per la pasta sfoglia o per i ravioli.

LA PASTA SFOGLIA Quando ci si riunisce per le feste in famiglia è tradizione che io prepari i salatini per l’aperitivo con la pasta sfoglia fatta in casa. E’ più semplice di quanto si pensi, servono:

200 g di farina forte (300W oppure almeno 12% di proteine) 200g burro Oriana Guarisco 100g acqua fredda

Si mettono nell’impastatrice questi ingredienti fi no a formare un impasto liscio (si può fare a mano con un po’ più di fatica) poi va lasciata in frigorifero, avvolta nella carta forno, per 2 ore. Sulla spianatoia si stende la pasta fi no ad uno spessore di circa mezzo centimetro e si piega in 3 parti ( come fosse una lettera da imbustare) poi si gira mantenendo l’apertura che si è formata verso la cuoca, si ristende lavorando in avanti e allargandola leggermente, si piega in 4 (lembi inferiore e superiore piegati fi no a metà e poi sovrapposti) rimettendola poi in frigorifero per un’ora abbondante. Dopo questo tempo, la pasta dovrebbe essersi rassodata, si tira ancora (sempre con l’apertura verso di sé) e si piega in 4, si gira la pasta per avere l’apertura al posto giusto si torna a tirarla e si ripiega in 4. Dopo un altro passaggio in frigorifero la pasta è pronta all’uso. Sembra un lavoro lungo, ma in realtà sono lunghi i tempi di riposo. La pasta sfoglia così fatta può essere messa in freezer e utilizzata all’occorrenza per preparazioni dolci o salate. Per una migliore riuscita va messa in forno quando è ben fredda.

IL PANE Ho sempre desiderato saper fare il pane e da quando ho più tempo per cucinare ho fatto vari tentativi. Le prime volte con risultati mangiabili, ma discutibili, però siccome “Chi la dura la vince” non mi sono scoraggiata e continuando a provare sono riuscita ad ottenere alcuni tipi di pane che in famiglia piacciono. Per il mio pane di farro occorrono: il poolish fatto con 125 g di farina forte 47 125 g di acqua 2 g di lievito di birra fresco. Per l’impasto 250 g di poolish 150 g di farina manitoba 350 g di farina di farro 300 g di acqua 6 g di lievito di birra 1 cucchiaino di zucchero o miele 14 g di sale.

La sera prima preparo in una ciotola il poolish mischiando farina, acqua e lievito poi la copro con la pellicola. La mattina successiva lo metto in planetaria (o in una ciotola), lo sciolgo con 200 grammi di acqua, aggiungo il lievito, lo zucchero poi i 2/3 delle farine mischiate e comincio a lavorare. Quando la farina è stata assorbita aggiungo il sale sciolto nei restanti 100 g di acqua e continuo ad impastare per almeno 10 minuti o fi no a che la pasta sia liscia. Ungo poi una ciotola di plastica capiente ci verso l’impasto e copro. Per favorire la lievitazione metto la ciotola nel forno con la luce accesa (30° circa). Dopo un paio d’ore l’impasto dovrebbe essere raddoppiato, va messo sulla spianatoia infarinata schiacciato ed allargato ripiegando i lembi prima da destra e da sinistra poi dall’alto verso di sé fi no a riformare una palla, si riposiziona nella ciotola coperta e in forno. Queste piegature favoriscono la formazione del glutine, quindi il pane lieviterà meglio. Non c’è un tempo prefi ssato per la lievitazione possono servire 2 o 3 ore; comunque quando l’impasto sarà lievitato di nuovo si rimette sulla spianatoia e si fanno le forme. Io di solito lo divido in due, lo lascio lievitare ancora coperto con la pellicola unta (se no si attacca) fi no a che il forno è caldo. Lo metto poi nella teglia con carta da forno, spruzzo la superfi cie e la cospargo di semi. Lo cuocio a 220 °, un pentolino con acqua sul fondo del forno, per 20 minuti, poi tolgo il pentolino, abbasso il forno a 210 e continuo per altri 20. Per essere sicura che asciughi bene uso un cucchiaio di legno per tener socchiusa la porta del forno e lascio dentro il pane altri 5 minuti. Solitamente lo taglio a fette e lo conservo in freezer.

LA CASSEOULA (BOTTAGGIO) Quando ero piccola era tradizione che a gennaio, per sant’Antonio, si preparasse la casseoula con le verze gelate dell’orto. Solitamente era il mio papà che si alzava la mattina presto, sbollentava le verze, tostava la carne e preparava un piatto delizioso e anche abbastanza digeribile, Per anni ho solo mangiato senza pormi il problema di come cucinarla e quando purtroppo i miei genitori sono mancati niente più verze gelate e niente più casseoula. Qualche tempo fa la nonna di mia nuora mi raccontava le tradizioni famigliari dei tempi andati e mi sono ricordata di questo piatto che lei ovviamente sa cucinare alla perfezione, così mi sono fatta dare la ricetta e l’ho cucinata. Le verze erano quelle del supermercato, ma il risultato è stato piuttosto buono. Occorrono:

1,5 kg di costine di maiale (4 -5 cm) 3 kg di verze 200 g di cotenne fresche

48 6 verzini 1 bicchiere di vino bianco 2 cipolle medie ½ litro di brodo vegetale Burro, olio, salvia.

Si devono sbollentare le foglie di verza per circa 3 minuti e tagliarle a pezzi non troppo piccoli. Intanto mettere le costine in forno a 190° per 20 minuti a sgrassare. Rosolare la cipolla a pezzetti con olio e burro (fuoco abbastanza basso) e un rametto di salvia, metterci le costine sgrassate e rosolarle bene, salare, poi bagnare con il vino bianco e far evaporare. Aggiungere 1/3 delle verze, le cotenne e far appassire bene a fuoco non alto bagnando con un mestolo di brodo bollente; progressivamente aggiungere le altre verze e il brodo quando serve (deve essere umida ma non brodosa). Quando tutte le verze sono ben appassite regolare di sale, continuare fi nchè la carne non sia ben cotta e buon appetito!

I BISCOTTI A Natale mi piace preparare per amici e parenti alcuni sacchettini di biscotti fatti da me, solitamente sono quattro o cinque tipi di Anni ‘60 - Preparazione della polenta (Collezione Rosalia Introzzi) biscotti che cambio ogni anno. Quelli che però non mancano mai sono i baci di dama:

200 g farina di nocciole 200 g farina bianca 00 150 g burro 150 g zucchero a velo 1 bicchierino di rhum Cioccolato fondente Latte

Impasto tutti gli ingredienti, tranne il cioccolato ed il latte. Metto l’impasto avvolto nella carta da forno a riposare in frigorifero per un’oretta. Lo reimpasto per renderlo lavorabile poi formo dei fi loncini che taglio a pezzetti realizzando poi delle palline (grosse come una nocciola). Le appoggio sulla teglia coperta di carta da forno e metto al fresco per mezz’ora, intanto accendo il forno a 160°. Quanto è in temperatura cuocio i biscotti per 15 – 16 minuti. Li faccio raffreddare intanto sciolgo il cioccolato con poco latte. Unisco i biscotti 2 a 2 con la crema di cioccolato.

In conclusione: “Impara a cucinare, prova nuove ricette, impara dai tuoi errori… Ma soprattutto DIVERTITI!” (Julia Child)

49 La “Sfriza” e le lettere nascoste

La mia nonna paterna, Maria Cattaneo sposata Guffanti, era conosciuta da tutti a Fino, dove possedeva un negozio di tessuti e merceria, con il curioso soprannome di “Sfriza”. Se ben ricordo, suo padre esortava il nuovo cavallo, il cui precedente proprietario si chiamava Fritz, gridandogli: “Sun mi el to Sfriz!” e il nomignolo era poi passato alla fi glia, che lo aiutava in negozio fi n dall’età di nove anni. La nonna infatti aveva frequentato solo le tre classi elementari obbligatorie, poi la quarta e la quinta privatamente, mentre già lavorava. Se penso a lei, me la vedo in negozio, dietro il banco dove misurava e tagliava i tessuti o prendeva gli articoli di merceria dai numerosi scomparti della cassettiera alle sue spalle. Indossava abiti dai colori scuri, le piaceva in particolare il viola, e d’inverno portava sulle spalle Marisa Guffanti l’immancabile scialletto, confezionato da lei a uncinetto. Aveva lunghi capelli sottili, appena ingrigiti in vecchiaia, raccolti in una treccia che annodava con le forcine intorno al capo. Col marito e i fi gli parlava in dialetto, come del resto con la maggior parte della clientela, ma a me e ai miei fratelli si rivolgeva in italiano e lo stesso faceva con nostra madre che, essendo svizzera tedesca, aveva già faticato a imparare l’italiano. La nonna era severa, ma non rigida. Era lei che prendeva le decisioni per il negozio e per la famiglia e il nonno la chiamava affettuosamente “la mia regiura”. Era molto religiosa, ma non bigotta né superstiziosa. Tutte le sere, dopo cena, recitava il rosario con la famiglia, a cui si aggiungeva l’amica vedova vicina di casa e talvolta partecipavano anche gli amici del nonno, che poi si fermavano a giocare a carte con lui. La sua casa era aperta a tutti i parenti: nelle feste principali era invasa da zii e cugini, e spesso, la domenica, qualcuno capitava all’ora di cena e veniva invitato a fermarsi. Sentendosi privilegiata per la sicurezza economica che le dava il negozio, era generosa con tutti, in particolare con la sorella e le cognate, rimaste tutte e tre vedove prematuramente, con fi gli unici ancora bambini. Con i clienti era cordiale e si interessava di loro, senza essere né invadente né pettegola. Vendeva a credito, come si usava allora. Aveva un grosso quaderno con la copertina nera, dove annotava date, cifre, nomi e soprannomi, spesso buffi , che in paese possedevano quasi tutti. Maria Cattaneo, la “Sfriza” Naturalmente aveva le abitudini e le idee del suo tempo, anche se si teneva aggiornata leggendo quotidiani e settimanali. A noi bambini faceva molte raccomandazioni che spesso ci sembravano esagerate. 50 Ricordo che talvolta, vedendomi tornare da scuola di corsa, insieme ai miei compagni, mi rimproverava, sostenendo che le bambine non avrebbero dovuto correre come maschiacci. Posso quindi immaginare che non avesse accettato con entusiasmo il fi danzamento di mio padre con una svizzera tedesca. Lui, dopo l’otto settembre del 1943, era fuggito in Svizzera, come altri soldati di Fino, ed era stato accolto come rifugiato in un paese delle Alpi bernesi. Lì aveva conosciuto mia madre, Esther Hälg, che vi si recava a sciare insieme a una collega nei giorni liberi. Anni fa, sistemando una vecchia scrivania in soffi tta, scoprimmo nell’intercapedine tra il cassetto principale e il ripiano sottostante due lettere. Una era la brutta copia dello scritto che la nonna aveva inviato alla mamma nel 1946, quando mio padre era già rientrato in Italia, mentre lei era ancora in Svizzera. L’altra, era la risposta, in originale, della mamma. Nella brutta copia, scritta senza errori ortografi ci o grammaticali, la nonna metteva in guardia la mamma sull’ambiente completamente diverso dove avrebbe dovuto vivere sposando mio padre. Le confi dava la sua preoccupazione per la differenza religiosa, perché la mamma era protestante. Il tono usato era comunque cordiale, non polemico.

La risposta della mamma era magnifi ca: in un italiano approssimativo, tranquillizzava la nonna dicendole che era perfettamente consapevole delle diffi coltà che l’aspettavano, che sapeva di dover rinunciare a comodità alle quali era abituata, ma che era innamorata di mio padre e questo sentimento le avrebbe permesso di affrontare e superare qualsiasi scoglio. Le faceva sapere che aveva deciso di diventare cattolica, perché le sembrava una confessione più seria della sua. Mi commossi nel leggere quelle lettere, le mostrai alla mia famiglia, ma poi ritenni giusto consegnarle alla mamma, senza pensare di farne una copia. Penso che la nonna le avesse riposte in quell’ottimo nascondiglio, perché né mio padre né gli altri familiari sapevano di quella corrispondenza e avesse voluto conservarle, forse perché anche lei era rimasta colpita dalla risposta coraggiosa di mia madre.

Purtroppo, dopo la morte della mamma le cercai a lungo senza riuscire a scovarle. Mi spiace proprio di non essere riuscita a trovarle: le avrei tenute come preziosa testimonianza di due donne forti e Carlo Guffanti e Esther Hälg determinate.

51 Marilù... una storia vera

Nel lontano 1923, il 6 marzo, vide la luce una bella bambina a cui venne dato il nome di Marilù. Aveva una sorella di dieci anni e Lulù era la maggiore di quattro fratelli maschi. Marilù era la gioia di tutti e anche se a quei tempi non c’era molto da mangiare, la bella famigliola viveva felice di quel poco che la campagna gli donava. Il papà lavorava nei campi e badava alla stalla con le mucche e il pollaio con qualche gallina.

Quando Marilù compì tre anni, la mamma diede alla luce un bambino, Mario, ma purtroppo la povera donna prese un’ infezione durante il parto e in pochi mesi morì, all’età di quarantadue anni. La famiglia sprofondò nello sconforto e dovette decidere come Nadia Introzzi fare per poter crescere quei bambini senza madre. Alcune persone, anche lontane da casa, andarono ad aiutare quella famiglia ma anche quell’aiuto non riuscì a placare la desolazione che regnava in quella casa. Con il dolore nel cuore si decise di mandare Marilù da una cugina del papà che abitava a dieci Km da casa. Mario venne affi dato ad un altro parente.

Una volta la settimana il papà, con la bicicletta, si recava a trovare quei bambini che a lui sembrava di aver abbandonato e ogni ritorno a casa era segnato dalle lacrime. Lulù, fi nite le scuole, cercò lavoro nelle fabbriche tessili che a quel tempo nascevano numerose. In breve tempo trovò occupazione e in casa si iniziò a vedere qualche spicciolo di lira. Passarono gli anni e la vita scorreva come ogni giorno. Lulù aveva il suo lavoro da tessitrice, il papà badava agli animali e al lavoro nei campi. Qualche fratello lavorava come aiuto panettiere. Tutto sembrò tornare alla normalità ma, con l’inizio della guerra, i fratelli partirono per il fronte e per lunghi periodi rimasero lontani da casa.

Marilù, ormai grandicella, tornò a casa per stare vicina al padre rimasto solo, e aiutarlo nei lavori. Le sue giornate trascorrevano cucinando, lavando e tenendo pulita l’umile casa. Alla sera, con le vicine di casa, si radunava nella stalla per stare al caldo e mentre gli anziani raccontavano storie molto fantasiose, le donne rammendavano calze e rattoppavano vestiti. All’età di ventun’anni Marilù si sposa con un bel ragazzo e con lui si ritrova a vivere in un grande cortile con mugnai e contadini. In questa nuova condizione dovette rimboccarsi le maniche e, vivendo nella stessa casa con i suoceri, iniziò presto ad aiutare nei campi e nelle stalle. 52 Nel frattempo, a portare un po’ di gioia, fu la nascita del primo fi glio. La vita si dimostrò molto dura: si mangiava solo polenta e latte, polenta e uova e alla domenica, se andava bene, si poteva gustare un pezzo di pollo con le patate. Marilù tutte le mattine si alzava con il canto del gallo e fi no a sera era occupata da mille lavori. I soldi mancavano, non si potevano comprare vestiti per i bambini, così Marilù ritagliava i suoi abiti e cercava di cucirli per i suoi tre fi gli che a distanza di pochi anni erano nati. Non si lamentava mai perché sapeva che a sera si sarebbe riunita con la sua bella famiglia e questo le bastava per essere contenta.

La vita di Marilù ebbe un po’ di serenità quando il marito trovò lavoro in fabbrica e iniziò a portare a casa uno stipendio per far fronte ai bisogni della famiglia. Nacquero altri due fi gli e i più grandi trovarono un posto di lavoro così, mettendo da parte qualche risparmio, riuscirono a sistemare la vecchia casa dove abitavano. Il papà di Marilù morì ad ottant’anni e col tempo anche i fratelli maschi se ne andarono. E Marilù? Dopo aver perso il marito, un brutto male la obbligò all’età di ottantasei anni a lasciare la sua bella famiglia con cinque fi gli e una nidiata di nipoti e pronipoti. Poche settimane prima di lasciarci, Marilù, MIA MADRE, mi confi dò che la cosa più triste che ricordava nel periodo che passò con quella parente, era un vestitino rosa che le facevano indossare a rovescio durante la settimana e al diritto la domenica. La mia mamma ha passato una vita di sacrifi ci, di sofferenze ma anche di tante gioie. La sua grande forza e la sua vitalità sarà sempre presente nelle nostre case. Grazie mamma!

Anni ’50 – Villa Gysler (attuale Biblioteca comunale)

53 Pennellate di ricordi

Sono nata nella prima metà del secolo scorso! E quindi questo piccolo paese me lo sono goduto quando ancora era costellato di tanti piccoli negozietti “di vicinato” ed era ritenuto dai milanesi “luogo di villeggiatura”. Ed in questo piccolo paese ho sempre e comunque avuto voglia di tornare, nonostante tutto, anche quando, ormai “grande”, “viaggiavo il mondo” ! E’ nella Scuola di Via Trento che ho fatto le elementari, per poi, piccolina di undici anni, prendere il treno ogni mattina alle 7.10 per poter frequentare le Scuole Medie a Rebbio, trascinandomi, per oltre 2 km sia all’andata sia al ritorno, una pesantissima borsa rossa piena di libri (lo zainetto non era ancora in voga). La professoressa ci multava se ne dimenticavamo qualcuno – 10 lire a libro! Ornella Introzzi Superati gli esami di terza media con il massimo dei voti, anziché per il Liceo Classico (avevo già compilato il modulo di iscrizione) optai per l’Istituto Tecnico Commerciale per senso di responsabilità, piuttosto insolito in una ragazzina di 13 anni, perchè non volevo pesare sui miei genitori per troppi anni, ben sapendo che non avrei mai fatto la ragioniera! L’unica cosa di cui ero certa era che sarei riuscita ad “andare in America” per lavoro e non per vacanza. E così è stato!

Andiamo per gradi: allora la Scuola Media Superiore ti preparava alla vita lavorativa come e forse più delle “lauree brevi” di oggi. All’esame di Stato si portavano ben 9 materie degli ultimi 3 anni, senza che ci venissero indicate in anticipo! A quei tempi le aziende andavano a guardare i tabelloni per fare proposte d’impiego agli studenti usciti con i voti migliori. A settembre avevo già ricevuto numerose proposte di lavoro, tutte per il settore amministrativo, tranne una per la posizione di Segretaria del Direttore Marketing della fi liale italiana di una Multinazionale con sede in Inghilterra: mi dissi, perché no? L’importante era non fare la ragioniera! E così accettai e non me ne sono mai pentita perchè è da lì che è cominciata la mia carriera lavorativa e da lì è partito il mio personale “giro del mondo”.

In verità il mio primo viaggio all’estero, per la precisione Parigi e Marsiglia rigorosamente by train, me lo guadagnai in quarta Ragioneria, a 18 anni, con un tema sull’Europa Unita. Ebbene sì, già 50 anni fa si parlava di Europa Unita, proprio come oggi! Come mai il mio tema fu scelto, a livello nazionale, insieme con soli altri nove temi? Sarà perché auspicavo un’Europa Unita che parlasse la stessa lingua, che

54 avesse la stessa moneta, lo stesso sistema fi scale, le stesse leggi e lo stesso Presidente? Forse allora precorrevo i tempi, ma anche oggi, a distanza di tanti anni, forse il tema lo riscriverei tale e quale, con la sola eccezione della moneta unica. Ma torniamo al mio primo impiego : l’impegno che mettevo nel mio lavoro, e non solo in termini di tempo dedicato (allora si lavorava anche di sabato), fece sì che il mio capo mi spedisse a Plymouth per una full immersion di lingua inglese, il che mi permise poi di avvicinarmi con suffi ciente padronanza della lingua al business internazionale, settore che mi attraeva moltissimo e che mi ha dato moltissimo. Sono sempre stata grata al mio primo capo per la fi ducia accordatami anche quando, dopo qualche anno, entrai nell’azienda farmaceutica dove si è svolta tutta la mia carriera lavorativa: da Product Manager fi no ad Amministratore Delegato di una Consociata del Gruppo.

Ed è proprio come Product Manager che ho cominciato a viaggiare per lavoro in Italia. Dopo qualche anno mi fu offerta la posizione di Export Area Manager per alcuni importanti mercati Europei: è inutile dire che accettai con entusiasmo. Non potrò mai dimenticare il mio primo viaggio all’estero, in una gelida giornata di febbraio: munita solo di un “Kodak Carousel“ pieno di diapositive e di tanta voglia di fare, sbarco all’aeroporto di Helsinki, nel buio più pesto anche se erano solo le 3 del pomeriggio. Sola nella mia camera d’albergo, ricordo che, per un attimo, ma solo per un attimo, mi chiesi: “Ma sei sicura che ti piacerà questo lavoro?” E’ stata la prima ed unica volta che mi sono posta la domanda e la risposta è in tutta la mia vita a seguire.

Da Export Area Manager a Export Director il passo è stato breve ed è così che ho cominciato davvero a “viaggiare il mondo”. Una esperienza indimenticabile, ma soprattutto irripetibile, è stata sicuramente volare sul Concorde: indimenticabile, perché partire da Parigi alle 9.00 del mattino e arrivare a New York alle 8.30 sempre del mattino e sempre dello stesso giorno, non è cosa da poco e irripetibile perché il Concorde ha smesso di volare una quindicina di anni fa. Volare a oltre 15.000 metri d’altezza, superare la barriera del suono, guardare da un oblò piccolissimo gli aerei sotto di noi che sembravano volare all’indietro, sono sensazioni ancora vivissime nella mia mente, pur a distanza di anni. Cosa ancor più sorprendente fu quando, arrivata a New York, uno steward di nome Jean Paul mi chiese se volevo uscire sull’ala dell’aereo passeggeri più veloce del mondo: accettai con entusiasmo e così feci una passeggiatina sull’ala del Concorde, esperienza questa più unica che rara! Pensate potersi fare un selfi e sull’ala del Concorde, ma lo smartphone era ancora di là da venire!

Il mio lavoro mi ha portato nelle più belle città del mondo, ma soprattutto mi ha fatto conoscere tante persone e tanti modi di vivere diversi. A Parigi come a New York, a Lisbona come a Istanbul, a Madrid come a Shanghai, a Tel Aviv come ad Atene , a Vienna come a Buenos Aires, la differenza la fanno le persone che incontri. Le mie più grandi soddisfazioni me le sto prendendo ora, perché, pur a distanza di anni, sono rimasta in contatto con molte di loro a testimonianza del fatto che il lato umano è ciò che fa la differenza ed è ciò che fa superare le diversità di ambiente, di lingua, di religione, di modo di pensare e di vivere.

55

Attilio

Bianca

56 E torniamo alla Fino di oggi: non mi ci ritrovo più, ma qui stanno le mie radici e qui voglio comunque restare ! sperando che questo Paesino si risvegli dal torpore e torni ad avere un cuore pulsante, ben sapendo che solo noi, ciascuno di noi , può e DEVE contribuire al suo risveglio! Quali sono le mie radici? Sono le esperienze di vita maturate in questo luogo, i visi delle persone che ho incontrato, amato, perso, ma che sono stampate in modo indelebile nel mio cuore e nella mia mente. In primo luogo gli insegnamenti di chi mi ha messo al mondo, insegnamenti, ma soprattutto esempi di vita, del mio papà Attilio “cesellatore”, un mestiere antico, tipico di Fino Mornasco, ma che ormai non esiste più, e della mia mamma Bianca, un generale in gonnella, dalla mente vivacissima, con cui ho avuto un rapporto quasi simbiotico e che mi ha sostenuta per tutta la vita!

E’ a loro che devo quello che sono oggi, a loro devo il mio essere donna consapevole dei propri limiti, ma anche delle proprie capacità, donna ancora capace di grandi slanci, e soprattutto con ancora la voglia di “sognare” e di “mettersi in gioco”.

E a tutti coloro che avranno voglia di leggere queste poche righe dico: continuate a sognare, continuate a mettervi in gioco, non arrendetevi perché, ciascuno di noi, nel proprio piccolo, può fare tanto! L’importante è crederci.

Anno 1960 – Piazza Odescalchi, raduno “Vespa Club”

57 Camminando sul fondo di un

antico mare Sono una geologa e il mio lavoro mi ha portato spesso in giro per il mondo. “Da dove torni?” è la domanda che mi sento spesso fare da chi non mi vede da un po’. Sono una geologa fi n da quando, da bambina, giocavo al parco con i sassolini della ghiaia scegliendo quelli più belli, tornavo da ogni passeggiata con qualche roccia speciale, andavo alla ricerca di smeraldi nelle valli alpine e di oro lungo i fi umi. E poi sono arrivate le grandi domande: come nascono le montagne? E le rocce, i minerali, come si sono formati? E quando è nata la Terra? E perché ci sono i fossili nelle rocce? E così ho studiato da geologa: cos’altro potevo fare se non quello? Quando ancora ero studentessa mi sono ritrovata a fare ricerche sulle navi oceanografi che, a raccogliere campioni d’acqua per Elisa Malinverno studiare il plancton e a fare buchi sul fondo del mare per raccogliere i sedimenti e ricostruire la storia degli oceani del passato e del clima della Terra. Dopo tanti anni da geologa marina, una serie di fortunate coincidenze mi ha portato poi, nel 2014, nel deserto del Perù come parte di un progetto, fi nanziato dal Ministero dell’Istruzione, Università e Ricerca, per studiare i fossili di cetacei che lì si trovano in grande numero e perfettamente conservati. Cosa ci fanno le balene nel deserto? Bisogna pensare che ciò che adesso è un deserto un tempo era un mare, dove vivevano plancton, sardine, tartarughe, foche, squali, delfi ni e balene. Non che il mare fosse più alto di adesso: era la terra che era più bassa e si trovava sotto il livello del mare e poi lentamente, nell’arco di milioni di anni, si è sollevata insieme alle Ande, a causa delle spinte delle placche tettoniche, ed è Uno scorcio del deserto del Perù e delle colline, “cerros”, arrivata dove è ora. Le rocce sono state erose, si sono formate delle in cui si trovano le balene colline, che nella lingua locale si chiamano cerros, separate da zone fossili. pianeggianti che ora sono ricoperte dalla sabbia del deserto. Camminare nel deserto del Perù è un po’ come camminare sul fondo di questo antico mare, incontrando qua e là i resti di tutti quegli animali marini che un tempo lì nuotavano, mangiavano, si riproducevano. Di balene, delfi ni e foche troviamo gli scheletri, conservati perfettamente nei sedimenti fi ni che si depositavano sul fondo dell’antico mare. Poi troviamo scaglie di sardine, placche della corazza delle tartarughe, denti di squalo e anche le tracce dei loro morsi sulle ossa delle balene. Negli strati di roccia è conservata la storia di questo mare e il nostro progetto ha lo scopo di ricostruirla. Se guardiamo un pezzetto di roccia Lo scheletro perfettamente al microscopio, scopriamo che è formata da minuscoli gusci: sono gli conservato di una balena nel scheletri mineralizzati di alcune specie di plancton, che vivevano ai deserto. tempi delle balene e che una volta morte si sono depositate sul fondo del mare. Il loro guscio vetroso si è conservato nel tempo e ci fornisce informazioni su come erano le condizioni dell’ambiente e anche sul tempo in cui vivevano: le balene delle foto sono vecchie di almeno 8-9 58 milioni di anni. Per studiare i fossili e la storia di questo antico mare, facciamo un campo nel deserto. Ognuno di noi ha la sua tenda, poi c’è la tenda che serve da dispensa e cucina e nelle ultime campagne ci siamo portati anche una tenda grande, dove la sera stiamo seduti a mangiare, a programmare il lavoro da fare, oltre a sistemare e catalogare i campioni raccolti durante il giorno. Il menu non è molto vario: pomodori e cipolle – fi nchè durano sotto il sole – con tonno a pranzo, pasta al sugo alla sera. Le arance e le mele riescono a durare quasi due settimane e sono perfette per la merenda. L’acqua si usa solo per bere e per cucinare: non ci si lava nel deserto. Il deserto è un ambiente ostile, dove ci si trova a doversi confrontare con i propri limiti: il caldo torrido del mezzogiorno, il freddo pungente della sera, i microbi sconosciuti al nostro intestino, che ogni volta ci ricordano quanto siamo fragili. Nel deserto ho ri-imparato a prendermi cura di me stessa soltanto e ho imparato a non dare per scontato il fatto di stare bene. Alla prima campagna, dopo due giorni di febbre e mal di pancia, la mattina mi sono svegliata e… stavo bene: non ero andata in bagno tutta la notte e non avevo mal di testa. Un ritrovamento speciale: un Il solo fatto di svegliarsi e sentirsi bene sembra una cosa meravigliosa dente di megalodon. quando il giorno prima si è fatta tanta fatica solo per alzarsi, per non parlare della fatica a trascinarsi qua e là per il deserto a studiare e misurare rocce, cercando una piccola ombra che non c’è. Però il deserto è meraviglioso: c’è un silenzio, e un paesaggio di colline che emergono dalla sabbia, ci sono i fossili e anche le tracce di antichi popoli che passavano di lì, nel loro viaggio dal mare alla sierra. Le rocce dei cerros lentamente si sgretolano, a causa del vento, e si trasformano in polvere fi nissima che forma un tappeto spesso: sembra di camminare sulla luna. E poi c’è un cielo stellato luminosissimo, con costellazioni a noi sconosciute, la Croce del Sud, il Centauro, le Nubi di Magellano e quelle che invece da noi si vedono, ma rovesciate, come Orione a testa in giù. E il deserto ci Osservando una frattura tra le chiama, ogni volta, rocce. per esplorare aree nuove, per cercare di scoprire qualcosa di più: ogni campagna è un nuovo pezzo del puzzle Il nostro campo nel deserto (Cerro Cadena de Los per arrivare a ricostruire la storia di questo Zanjones) antico mare.

Per i miei bambini invece ogni volta è un altro lungo periodo senza mamma. Col tempo si sono abituati e quasi non ci fanno caso, ma se mi capita di partire per lavoro per un giorno o due, la domanda è sempre “Mamma, ma stai partendo per il Perù?”.

59 Un po’ di me

L’uomo vive male perché non conosce i suoi poteri... Ignorando le proprie origini non può avere chiara visione di quelli che sono le capacità e i limiti della sua natura.

Tao Te King (Lao Tse)

Amo stare all’aria aperta, camminare a lungo sotto gli alberi, spaccare la legna e mettere le mani nella terra. Marilena Medea Sono una signora di mezza età e spesso mi dico che, al prossimo giro su questo pianeta, mi piacerebbe essere una pastora di pecore o una mandriana di mucche. Forse perché sono nata in campagna ed ho avuto il privilegio, da bambina, di arrampicarmi sugli alberi come un gatto, raccogliere mele come un adulto, giocare con la neve per lunghe giornate, nuotare indisturbata nei pomeriggi soleggiati, in montagne enormi di mais, caldo e odoroso, bofonchiare il rosario in latino, con le nonne, sotto il pioppo di casa e parlare, timida ma curiosa, con gli animali del cortile. Consapevole che il mio sarebbe stato sempre solo un monologo, raccontavo e leggevo storie e favole alla mucca dello zio Marino, bianca e nera, con il muso caldissimo. Andavo da lei tutti i giorni, entrando cautamente nella stalla, mi avvicinavo per accarezzarla: ella mi lanciava sguardi languidi e dolcissimi, come a condividere i miei pensieri, poi, placidamente, riprendeva a ruminare. Ricordo con emozione il buon odore del suo vitellino. Ogni anno un piccolo appariva un mattino, come portato dalla befana: la nascita degli animali nella nostra casa è sempre stata un mistero, custodito severamente dagli adulti.

Moreta, l’asinella dell’altro zio, quello sempre arrabbiato col governo, si crogiolava al sole feroce di luglio e con la coda metteva in fuga le mosche, ma sopportava pazientemente tutte le mie chiacchiere. Ella era il cavallino di noi bambini, orgogliosa ci portava in groppa per il campo e il suo sguardo sembrava comunicarci una profonda saggezza. Un enorme gregge di pecore passava una volta alla settimana, nei mesi in cui l’erba cresce in fretta. Le sentivo arrivare perché alcune portavano un campanellino al collo; correvo ad aspettarle sulla strada sopra l’argine e ad alta voce le chiamavo. Esse mi guardavano sospettose, rallentando appena il loro passo, poi riprendevano indifferenti il cammino. “Non sono tutte uguali come sembrano da lontano”, pensavo, “Ogni pecora ha la sua ‘faccia’ ed ognuna ha i suoi pensieri!” 60 Con il gallo ho tentato di giocare molte volte, ma non ha gradito le mie attenzioni, anzi credo proprio di averlo fatto ammattire. Facevo il torero, con un fazzoletto che gli sventolavo davanti agli occhi:” Olè! olè toro! olè!”. Per un po’ mi guardava superbo e immobile, ma io insistevo nel gioco crudele, fi nché un giorno, quando rassegnata gli girai le spalle e feci per andarmene, mi saltò addosso a tradimento, aggrappato con gli artigli alle mie gambe, furioso. Strillava il gallo inferocito e strillavo io terrorizzata, correndo disperata in casa dalla mamma. Ha dovuto strapparmelo di dosso! Gli avvertimenti ripetuti degli adulti erano rimasti inascoltati. La medicazione dei graffi con l’alcol ha aggiunto terrore al mio animo contrito.

Il gallo non mi ha mai perdonato, non potevo più avvicinarmi o attraversare l’enorme recinto se non accompagnata da qualcuno più grande. Da allora mi è rimasto un certo timore dei pennuti in genere. Ma l’essenza della paura, per me, era il passaggio del Toro, (ignoro il suo nome, nascosto nella memoria dei ricordi terrifi ci), enorme, nerissimo, grasso e lento, accompagnato da un signore in camicia bianca, giacca e cappello, munito di un sottile bastone. Andavano in passeggiata! Un toro da riproduzione che veniva portato a camminare per il suo benessere! Alla sua vista mi nascondevo velocemente in un canaletto d’irrigazione e, immobile e angosciata, aspettavo fi no a sentire la voce dell’elegante contadino ormai lontana. Anche lui, come me, parlava con il suo colossale amico, sicuramente si capivano. Nei pomeriggi caldissimi, quando scoppiava un temporale e portava la grandine, noi bambini eravamo eccitatissimi, chiusi tutti gli scuri e le porte, barricati in casa, in attesa frenetica di poter uscire con i bicchieri in mano a raccogliere il ghiaccio per le granatine allo sciroppo di menta. Noi felicissimi e gli anziani dall’espressione molto seria ci dicevano: “ Nella grandine c’è il Diavolo!” Io non ci credevo: “Non può essere così buono e fresco il Diavolo!” Ma un po’ di timore lo sentivo. Soprattutto quando la nonna, nel mezzo di risate e scherzi sfrenati, nel momento di maggior divertimento, ci diceva: ” Ridete, ridete, che poi il riso si trasforma in pianto!” La mia nonna non era sempre così seria, anzi amava farci ridere e raccontarci storie fantastiche. I suoi racconti iniziavano sempre nello stesso modo e questo mi piaceva moltissimo, per poi svilupparsi a ventaglio in maniera sempre inaspettata. Ma si divertiva a farci scherzi e burle che io, immancabilmente, prendevo sul serio! Come quella volta che mi convinse che solo con la cacca di tacchino spalmata sul naso sarei riuscita a far sparire le tanto odiate lentiggini! Mio nonno, vecchio taciturno e fl emmatico, come gli altri ragazzi della sua classe, aveva partecipato alla prima grande guerra; era già anziano quando dovette presentarsi a Redipuglia per ricevere una medaglia. Non voleva andare, credo fosse ancora segnato dal 15 e 18, non parlava mai di quell’esperienza che aveva spezzato la sua gioventù e il suo cuore. Sono una signora di mezza età e lascio arrivare i ricordi. Gli anziani mi insegnano che la vecchiaia aiuta a guardare lontano, coltivando con amore le memorie passate come fi ori di un giardino, a volte sfocando nell’oblio il quotidiano. Li ringrazio. 61 Corrispondenza privata di un

tempo Cara Gemma Ti farà sorpresa questo mio scritto ma mi sento in obbligo. Davanti a tutti ti devo ringraziare. Di tutto quello che fai per me, mio marito e le mie fi glie che tanto le ricordo. Ti ringrazio per il gentile pensiero che hai avuto nel ricordarmi alla Madonna di Caravaggio e spero che con tante preghiere verrà anche il giorno di ritornare a casa mia, perché in questi luoghi per molto tempo si va bene e succede che in pochi giorni si deve ricominciare da capo; così è la vita sanatoriale. Cara Gemma quando penso a quel giorno che sono andata a Como per la visita, da sola, e che il Dott. Salfetti mi ha detto: “Signora,lei deve essere ricoverata”, restai senza parole perché non sapevo che cosa volesse dire ed egli gentilmente mi spiegò tutto. Me ne uscii da Erminia Melli quel luogo che ero come… un automa, ancora oggi non so come feci a reggermi in piedi con quei terribili pensieri che mi rendevano… pazza. Mi sedetti su di una panchina e guardando l’acqua del lago una voce mi diceva “Perché continuare così, che ti serba la vita? Dolore e sacrifi ci. “Cara Gemma” è stata scritta da mia madre Falla fi nita.” Ma in quel momento ho pensato alle mie bambine e Erminia, nel giugno 1953, pensando alla mia vita che ho trascorso senza la mia mamma che non dal sanatorio di ho nemmeno conosciuto non ho saputo cosa volesse dire avere una dove era ricoverata. E’ mamma sino a quando non ne sono stata io una, una forza superiore indirizzata a Gemma, sua a me stessa mi sentii attratta verso il Duomo e appena entrata mi cognata, alla quale io, con le mie sorelle Claudia e Anna, trovai vicino all’altare della Madonna delle Grazie lì ho versato tutte eravamo state affi date da le lacrime che prima non ho potuto fare quanto tempo rimasi così mia madre nei due anni non lo so ero disperata fi nché sentii una voce che mi diceva : “Signora della sua convalescenza ora basta con le lacrime,risponda con me il S. Rosario che le sarà di lontana da casa. aiuto”. Guardai meravigliata chi fosse ed era quell’uomo che sempre Giordana Riva sta ad accendere le candele in quel momento l’avrei fulminato lui mi capì e disse: “Non faccia così,guardi quante Grazie ha qui la S. Vergine; perché vuol disperare?-PREGA E SPERA-“ Con queste due parole mi unii alle sue preghiere e ne fui calmata. Si susseguono ancora giorni tristi, molto tristi ma sempre ricordando le parole di quel caro vecchietto tiro avanti e così son passati giorni e mesi ed anche l’anno e di più ma-PREGO E SPERO-. Cara Gemma ti avrò stancato con queste mie parole ma sono contenta d’avertele dette perché nella vita non bisogna mai disperare e pregare e tirare avanti e pensare “Chissà! Domani sarà un altro giorno”. Con questo ti ringrazio ancora di tutto e guarda le mie care bambine che solo per loro e per mio marito so sopportare questo triste periodo della mia vita che sta passando. Ora ti saluto e salutami tuo marito e la tua mamma mia cognata. Erminia Ciao cara

62 Il noce

Nel 1951 sono stato portato a Fino Mornasco da Rosalia che, quando si è sposata, voleva avere vicino a sé un ricordo del suo paese, Caslino al Piano. Scelse me, una piantina di noce. Così sono cresciuto vicino alla sua famiglia, tenendo d’occhio tutti quanti per mezzo secolo. Alcune delle vicende che state per leggere le ho osservate io stesso, altre le ho sentite raccontare sotto le mie fronde.

Ho osservato quattro generazioni: dai più vecchi, Enrico e Giulia, a Pina e Maria insieme a Mario e la mia Rosalia, le loro fi glie Irma e Elena che sono cresciute insieme a me, i mariti Luigi e Gianmario e l’ultima generazione con Andrea, Simone e Gloria. Col passare degli anni, il giardino dove Rosalia mi aveva piantato è andato modifi candosi. È stata costruita una nuova casa di fi anco a Elena Merazzi quella vecchia ed io sono rimasto proprio al centro di quel bel cortile, quasi collegando le due abitazioni con i miei rami sempre più robusti e larghi. Penso che sia dipeso anche dalla mia bellezza se sotto di me hanno continuato a riunirsi in armonia tutti i membri di questa famiglia.

Durante la bella stagione, guardavo gli anziani chiacchierare degli anni passati, gli adulti sbrigare sempre qualche faccenda, i bambini giocare sotto l’occhio vigile di tutti quanti. Alla sera loro cenavano all’aperto tutti insieme attorno ad un unico tavolone. Io mi divertivo un sacco ad osservarli, a sentire cosa era successo durante la giornata. Non stavano a lungo a tavola, perché poi c’erano i giochi di società, le sfi de ginniche, le gare di canestro, la proiezione delle diapositive sul muro della casa. Tutti erano coinvolti in qualcosa di divertente o interessante. Gli animali non sono mai mancati: gatti che si arrampicavano sul mio tronco a caccia di uccellini; cani che mi giravano intorno rincorrendo i bambini; galline che razzolavano ai miei piedi mangiando i maggiolini che cadevano dalle mie foglie. In estate potevo dormire un po’ poco, ma era decisamente la stagione migliore per tutti noi.

Mi piaceva particolarmente il pomeriggio, perché c’era tanto da ascoltare: storie belle e brutte di vite vissute con forza e coraggio. Erano gli anziani i veri protagonisti di quelle ore passate sotto la mia ombra rinfrescante. Mario con le sue agghiaccianti esperienze durante la seconda guerra mondiale, prima in campo di concentramento a soli diciotto anni, poi prigioniero un anno dei tedeschi ed un anno dei russi. Io ascoltavo e mi chiedevo in che modo fosse riuscito a superare tanto orrore e tali patimenti e sofferenze, ma ho una mia teoria: potrebbe essere stato l’affetto delle persone a lui care che hanno saputo riportarlo a una dimensione umana, circondandolo d’amore. Le sorelle Pina, Maria ed Angelina ricordavano la loro mamma Ernesta, 63 morta in giovane età. Anche dopo così tanti anni, le loro lacrime hanno bagnato la mia terra, trasmettendomi tanta nostalgia e vero dolore. Furono tempi grami, con poco cibo, niente soldi, tanta fatica ed il fratellino Mario da crescere. Nel novecento, tutti i Merazzi hanno lavorato nel campo della seta, in tessitura. Angelina ed il marito Libero avevano una grande tessitura serica. Anche Pina e Mario hanno lavorato in quella ditta, mentre Maria e Rosalia tessevano la seta coi loro telai a domicilio. Quanto rumore hanno fatto quei sei telai! Quella generazione ha lavorato tanto, senza lamentarsi, perché aveva un chiaro obiettivo: migliorare la vita ed assicurare un futuro più sereno ai familiari. C’era un bel rapporto fra loro e, dal mio punto di vista sopra le loro teste, sembravano proprio una squadra, ognuno coi propri ruoli ben defi niti all’interno della famiglia.

Le fi glie di Mario hanno posto fi ne alla “discendenza”: tante donne nella famiglia e quindi il cognome dei Merazzi si è esaurito. Irma ha avuto due bei maschietti vivaci ed io ne so qualcosa, visto che Mario ha attaccato un canestro alla biforcazione del mio tronco per farli giocare a basket. Elena ha aggiunto alla famiglia una fi glia di nome Gloria, che io ho osservato crescere proprio dalla fi nestra della sua cameretta, dove i miei rami si sono allungati fi no a sfi orarla.

I mariti Luigi e Gianmario hanno lavorato tanto e lontano Rosalia e Mario con le fi glie Irma ed Elena da Fino Mornasco, conseguentemente avevano un po’ poco tempo da passare in mia compagnia, ma d’autunno hanno sempre raccolto il mio tappeto di foglie, così tutto era sempre in ordine e mi sentivo rispettato e curato.

Io sono stato il re incontrastato del cortile per tanti anni. Non c’erano macchine da posteggiare sotto i miei rami, al massimo la Lambretta di Mario e le biciclette delle donne e dei bambini, quindi tutto quello spazio era il mio regno. Come tutti quanti, anch’io ho avuto i miei momenti diffi cili. Ricordo con dolore le invasioni di maggiolini che a primavera mi lasciavano spelacchiato, così come la grande nevicata del 1985 che ha messo a dura prova la forza dei miei rami.

Gli anni sono però trascorsi velocemente, gli abitanti sono cresciuti ed invecchiati, alcuni si sono ammalati e hanno abbandonato questo cortile per trasferirsi in quello celeste. Dopo mezzo secolo di convivenza, anch’io mi sono sentito sempre più debole. Attaccato da un fungo, mi sono rinsecchito e so che hanno dovuto sradicarmi con grande dolore e rimpianto. Sono certo che nessuno di loro mi ha mai dimenticato.

64 Scarpette rosse

Sono nata in casa nel 1951 a Fino Mornasco, ma ho trascorso la mia infanzia a Caslino al Piano, accudita dalla mia cara nonna Luisina. Quanti episodi divertenti in compagnia degli amichetti del cortile!

Quando in inverno si ghiacciava la discesa che porta al fi ume Lura, noi, armati di un vecchio catino di plastica rotto a metà e usato come slittino, rischiavamo parecchio slittando sul ghiaccio e il tutto veniva fatto di nascosto dagli adulti. Come eravamo vestiti? Non certo con giacche di piumino, ma con scialletti di lana fatti a mano dalle mamme e dalle nonne, chiusi sul petto con una spilla da balia.

In estate mi divertivo a scalare la montagna di granoturco rovesciato sotto il portico per poi essere sfogliato. Irma Merazzi

Ricordo il pentolone pieno di piccole patate cotte e messe a raffreddare all’aperto per poi essere date in pasto ai maiali. Ricordo bene anche il profumo e Luigi che mi chiedeva di prenderne, se le volevo, ma la mia timidezza mi impediva di farlo e così restavo a fi ssarle in piedi vicino al pentolone.

Da piccola pensavo di avere dei piedini bellissimi, per via di un paio di sandaletti rossi che la mia mamma mi aveva portato. Restavo a lungo seduta per terra per ammirarli, così ancora oggi che ho sessantasei anni penso ancora di avere i piedi belli!

Tutti i pomeriggi aspettavo speranzosa che la mia mamma venisse a prendermi all’uscita dell’asilo, ma questo non succedeva mai, così cominciavo a correre verso casa, inseguita dalla nonna, che aveva paura che andassi a fi nire sotto ad un carretto.

Nel giorno di Sant’Anna, a Caslino arrivavano le bancarelle e una in particolare mi spaventava. Apriva solo alla sera e, per non farmi uscire, la nonna mi diceva che era quella di Barbablù, ma era solo una lotteria che sorteggiava regali.

Dopo i primi cinque anni d’età, sono tornata a Fino Mornasco e la mia vita è cambiata di nuovo e in modo radicale. Non avevo più amichetti di cortile e il gioco mi è mancato molto. Dopo un anno, è nata mia sorella. Appena è diventata un po’ grandicella, seppure entrambe ancora bambine, l’ho resa complice di qualche marachella. Per esempio, quando eravamo insieme al gabinetto, io volevo provare a fumare. Dato che di sigarette non ce n’erano, arrotolavo dei fogli di giornale e aspiravo l’acre fumo della carta bruciata. 65 Per costringere la mia sorellina al silenzio, ho pensato che anche lei dovesse provare, obbligandola a “fumare”.

Ero gracilina, per cui l’olio di fegato di merluzzo sembrava essere il rimedio adatto ma, dato che non è bastato, hanno cominciato a mandarmi in colonia, sperando così di risolvere la cosa, che comunque non ha funzionato! Quando partivo, il mio papà mi portava con la Lambretta a Milano, mi comperava i Tabù e Topolino per il viaggio. A quel punto, capivo che dovevo proprio partire.

Mario e Rosalia con Irma

E’ stato in colonia che mi sono innamorata della musica e lo sono ancora adesso. Questo è capitato perché, percorrendo la strada per arrivare in spiaggia, c’era un bar col il jukebox ad alto volume, con le canzoni dei Platters. Così scompigliavo tutta la fi la dei bambini per poterli ascoltare il più a lungo possibile, facendo innervosire “la signorina” che ci accompagnava.

A casa, ricordo il vociare del gelataio che veniva da Portichetto, col suo carrettino e il gelato a due gusti: vaniglia e cioccolato. Il mio cono però era sempre piccolo, da quindici lire, perché poi mi veniva la diarrea, mentre gli altri bambini lo prendevano da trenta lire.

Sebbene ci siano stati momenti di solitudine, ricordo con piacere i mille aneddoti vissuti nella mia infanzia.

66 Il gioco dentro

Ho vissuto fi no alla tarda adolescenza nei Campi Flegrei, terra magica dove l’acqua incontra il fuoco. A Como dal 1976, da oltre trent’anni vivo a Fino Mornasco. Irrequieta di natura, esprimo la mia creatività in vari ambiti e sotto diverse forme.

Mi piace rielaborare opere di grandi maestri o immergermi con pennelli e colori nel meraviglioso e variopinto mondo dei fi ori. Amo soprattutto lavorare utilizzando i materiali più disparati. Tessuti, merletti, legno, carta, creta, stucco, semplici oggetti, sono per me una fonte irresistibile di stimoli che mi sollecitano a tagliare, incollare, modellare, disfare e ricomporre in un gioco divertente che mi riporta indietro nel tempo. Carmela Milazzo Raramente parto da un’idea precisa, osservo i materiali raccolti, li rigiro tra le mani, aspetto che “mi parlino”…devo solo ascoltare e lasciarmi guidare.

Rielaborazione “Madonna del Magnifi cat” di BOTTICELLI Rielaborazione “Madonna della melagrana” di cm. 40x50 – Tecnica mista su legno BOTTICELLI cm. 25x35 – Tecnica mista su legno

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“Il giardino di Lina” “Il giardino di Lina: crepuscolo” “Estate” cm. 40x50 - Acrilico su legno cm. 40x50 - Acrilico su legno cm. 57x80 - Acrilico su legno

Il presepe è un soggetto che mi affascina in maniera particolare. Forse è la mia anima napoletana che emerge o semplicemente il gusto di creare ambientazioni nelle quali prendono vita piccoli personaggi che raccontano umili momenti di vita quotidiana.

68 Soffi a il vento di libeccio

Dedicate alla memoria di mia fi glia Pinuccia.

…soffi a il vento di libeccio di ritorni Altissime sono le onde di salvezza Quasi magiche di barche alla deriva Scure come il buio della notte i loro capelli sono bianchi solo i vecchi lo sguardo è penetrante non le temono il mare in tempesta le osservano non dà tregua ai ricordi parlano di coraggio, io bambina anche nella tempesta, vorrei essere Vittoria Monico raccontano come loro di preghiere sommesse fuggire dal rumore vuoto di voti silenziosi della città.

69 La gazza ladra Nella selva nera, in un bosco abbandonato dall’uomo, vivevano felici tanti animali. Un giorno passò di lì un boscaiolo e si guardò attorno: tutto era in armonia, i rami degli alberi si intrecciavano dolcemente tra loro, si assaporava un profumo intenso di more e mirtilli. Ad un tratto Beppe vide qualcosa che si muoveva: erano due scoiattoli che giocavano allegri e spensierati. In quel momento un’idea illuminò la mente del boscaiolo: ”Potrei costruirmi qui una piccola casetta!” Così fece. Passarono i mesi e Beppe andò a vivere nel bosco con la sua sposa. Angela cucinava dolci squisiti e il loro profumo rallegrava la casa, mentre lei preparava il corredino per il bambino che presto sarebbe nato. Questa mamma ogni tanto diventava triste, sentiva la mancanza di Cucciolo, il suo gattino, che una buia notte d’inverno era sparito. Un giorno, dopo il tramonto, tornò a casa Beppe: era molto stanco, aveva sistemato tanta legna, ma sorridendo porse alla sua sposa un uccellino con le piume corte nere e tutte arruffate; raccontò di averlo trovato impaurito e infreddolito, sotto un grosso fungo nato vicino alla più vecchia quercia del bosco. Angela, commossa per il regalo, decise di chiamare l’uccellino Cucciolo; lo curò con pazienza e amore fi no a quando il piccolo diventò un uccello dalle folte piume nere e bianche, con una lunga coda simile ad uno strano ventaglio: era una gazza ladra. Passava il tempo. Angela e Cucciolo si facevano una grande compagnia: l’uccello guardava incuriosito la sua amica mentre fi lava la lana che serviva per il corredino e saltellava felice per la stanza. In primavera nacque Alice e qualcosa cambiò… Beppe e Angela pensavano solo alla piccola, la sua culla era sempre pulita e profumata, mentre il cestino dove riposava Cucciolo diventava ogni giorno più brutto, nessuno cambiava la paglia o rideva quando lui cercava di volare e guai se si posava sulla culla della piccola! Subito veniva cacciato via. Nella testolina di Cucciolo passavano tristi pensieri… si sentiva solo, abbandonato; era diventato geloso di Alice! Un giorno l’uccello trovò il coraggio e la forza per volare via da quella casa dove nessuno gli voleva più bene. Abbandonò il bosco e arrivò in una città. Quanto chiasso! Quanto fumo! Cucciolo non sapeva dove appoggiarsi. Tanti uccelli come lui si lasciavano trasportare dal vento, ma lui aveva paura. Finì su un marciapiede, rischiò di essere calpestato, poi andò a sbattere contro il vetro di una fi nestra e, un po’ stordito, si trovò sul ramo di un grande albero…Quanta nostalgia del passato, dell’aria fresca, pulita, del verde e dei profumi dei luoghi dove era nato e cresciuto! Quanta voglia di rivedere chi lo aveva amato! Cucciolo tornò nel bosco della foresta nera, rivide la casa… i suoi abitanti. Tutto era come prima. Solo Alice era cambiata: ora correva nel prato, aiutava la mamma a stendere i panni, era diventata grande e stava imparando ad essere una donna. Cucciolo capì che una volta cresciuti, tutti devono camminare con le proprie gambe o ali, come nel suo caso e questo non vuol dire non essere amati.

70 Mio nonno, la Polisportiva, le

Olimpiadi 2016 Sono Ilenia Monti, nipote di una persona molto importante per la Polisportiva di Fino Mornasco: Arduino Francescucci. Lui darebbe la vita per le sue ragazze, infatti il 26 agosto 2016 ha organizzato un evento al bar “La Piazzetta” di Fino, per vedere la sua ginnasta ERIKA FASANA. La sala era gremita di ginnaste e persone che volevano far sentire ad Erika l’affetto e la forza di andare avanti. I giornalisti hanno intervistato il nonno che emozionato rispondeva alle domande. Erika, con un esercizio fantastico, si è aggiudicata il sesto posto fra le migliori al mondo. Io, nel vedere l’esercizio di Erika, mi sono sentita agitata e soprattutto felice ed emozionata, per aver visto le olimpiadi di Rio de Janeiro 2016 con le nostre ginnaste. Ilenia Monti

Da sinistra: ERIKA FASANA (olimpionica), LAURA RIZZOLI (allenatrice), MARTINA RIZZELLI (olimpionica)

Mio nonno Arduino

Erika Fasana 71 La nonna

La nonna è nata il 5 gennaio 1930 in un piccolo paesino della Calabria. Adorava la Calabria, le piaceva tornare al suo paese in estate, però solo se le sue fi glie ci andavano. Rinasceva al sud, passava tutte le giornate in giro a chiacchierare e a trovare le persone che con lei avevano condiviso la giovinezza. A 29 anni si era trasferita come molti suoi paesani a Fino Mornasco, dove poi avrebbe vissuto tutta la sua vita fi no alla morte, il 31 marzo 2011. E’ cresciuta orfana, suo padre è morto in guerra a Tripoli e sua madre si è ammalata prestissimo. Lei, la più grande delle fi glie si prendeva cura dei fratelli e cercava di sopperire alle numerose diffi coltà economiche. Quasi tutti erano poveri a quei tempi, mancava il pane, la carne era rara. Si nutrivano di prodotti della terra: patate, fagioli, verdure. Mi raccontava della guerra, di quando suonavano Monica Napoli le sirene per avvisare dei bombardamenti e tutti dovevano andare a nascondersi sotto una grande tettoia. Si dilettava a raccontarmi dei lavori che faceva in campagna, dei tronchi che trasportava in testa: nonostante fosse sempre stata magra era dotata di tanta forza. Mi piaceva ascoltarla, mi sembrava di vivere con lei quei momenti, come in un vecchio fi lm.

La sua vita è stata caratterizzata da molti sacrifi ci e sofferenze, anche quando è migrata qui a Como. Il nonno si è ammalato ed è stato per tanto tempo in ospedale. Lei si prendeva cura di mia mamma e mia zia, lavorava in tessitura e andava a trovare sempre mio nonno in ospedale. Sono convinta tuttavia che chi semina amore in questa vita raccoglierà sicuramente buoni frutti. E la nonna aveva proprio donato amore in modo disinteressato: era una persona buona, non parlava mai male di nessuno e, piuttosto che esprimere un giudizio negativo, si chiudeva in un silenzio carico però di signifi cato. Si ricordava di tutti. Si preoccupava per i parenti e per gli amici. Era orgogliosa dei legami che aveva costruito nella sua vita. Era rispettosa delle scelte che gli altri facevano. Le piaceva stare in compagnia, chiacchierare, conoscere persone nuove, ma le piaceva anche stare da sola. Amava essere indipendente: aveva casa sua, il balcone dal quale si potevano vedere le montagne, le sue piante, le sue bomboniere, i piccoli ricordi di mio nonno. Adorava i suoi luoghi, il Bennet a Cassina, il mercato, il panettiere al semaforo, il cimitero. Le piaceva camminare a piedi, era come se si sentisse viva. La rendeva sicura la quotidianità: i suoi gesti abituali li ripeteva con una serenità e con una cura maniacale, come se si trattasse di azioni nuove, anziché collaudate da anni. Era precisa nelle sue cose. Aveva piccole manie dell’igiene: lavava le mani tantissime volte, utilizzava lo Scottex per coprire ogni cosa, arrotolava le chiavi nella carta. Era grintosa, forte, le piaceva dire la sua, aveva un grande carattere e non usava mezzi termini per esprimere ciò che 72 pensava. Era attaccata alla vita, aveva sempre lottato contro la malattia, l’aveva accettata e aveva accettato anche i limiti che le imponeva senza compiangersi. Lei era abituata così, a combattere in silenzio, rispondeva con i fatti, non con inutili e sterili lamentele o forme di vittimismo. Come la ginestra che non sfi da né pretende di dominare la natura, ma si piega e lascia passare su di sé l’eruzione del vulcano per poi ricrescere sulla lava indurita. Le piaceva cucinare e lo faceva con grande passione e tranquillità. I suoi piatti erano semplici ma molto saporiti. Adoravo, tra tutto ciò che preparava, il baccalà in umido e le frittelle con i fi ori di zucca. Quando cucinava per tutti era sempre abituata a mangiare per ultima, come se lei contasse meno degli altri. Servire però non vuol dire essere servi. Puliva la verdura con cura e precisione. Solitamente apriva un sacchetto di carta del pane sul tavolo, stendeva i broccoletti e li cerniva con pazienza e passione.

Era curiosa, voleva sapere tutto. Quando stava bene era sempre pronta ad andare in giro per trovare le persone ammalate, oppure per fare la spesa. Aveva i suoi programmi preferiti. Da piccola mi ricordo che adorava le telenovelas argentine come “Marilena”, oppure “Il Pranzo è servito” e poi “Passaparola”. Le piaceva tanto Gerry Scotti. Ultimamente voleva sempre vedere chi vinceva all’Eredità (“Vidimu chi vinci..”) o al gioco dei pacchi. Nell’ultimo periodo, la domenica vedeva la messa in televisione, visto che non riusciva più ad andarci fi sicamente. Faceva sempre fi nta che non le interessava guardare la televisione, come se non fosse nobile vederla, non voleva mostrare che ci tenesse a vedere qualcosa, così gli altri Rosina Spanò con Carmela potevano guardare ciò che volevano. Sempre per non essere di peso agli altri e condizionarli. Voleva anche vedere che cosa compravo, sempre. Non mi ha mai detto “Ti voglio bene”, ma quando è tornata a casa dalla rianimazione mi ha detto: ”Sei contenta adesso, Monica mia?”, come se lo facesse solo per me. Mi diceva spesso “ Dassami in pace”, perché la stressavo e le raccomandavo di stare dritta e di non curvarsi. Mi piaceva quando abbassava la voce, si dava un tono serio e mi diceva “Ascolta fi gghia” e iniziava a raccontare tranquilla.

Mi ricordo le sue mani bianche. Dalle sue mani si potevano capire molte cose. La sua mano era bianca e screpolata, segno di una persona che è sempre stata dedita al lavoro, consumata dalla sofferenza, logorata dalla malattia, ma una mano sempre pulita. Mi ha insegnato il valore della parola, rispetto nei confronti della vita, delle persone anziane,

73 malate. Aveva una certa riverenza nei confronti degli uomini, soprattutto con mio padre e mio fratello. Fino alla fi ne aveva lottato con dignità nella malattia. Si lamentava raramente dei suoi dolori, né di quello che non riusciva più a fare. E poi c’era il senso del pudore, del non mostrarsi nuda o in camicia da notte. Il senso del risparmio, l’essere contenuta nelle spese, il non voler mai gettare via qualcosa, soprattutto il cibo.

Ha cresciuto mio fratello, me e le mie cugine: ha cucinato per noi, ci ha curato, ci ha viziato. Ci regalava soldi: non c’era un compleanno o Natale senza regali o una Pasqua senza uova o una Befana senza calza.. amava le sue fi glie e amava noi, più di ogni altra cosa. Quando mia mamma o mia zia non stavano bene era preoccupata per loro, come se stesse male una parte di lei. Offriva a tutti, soprattutto cibo, era molto generosa; insisteva perché le faceva piacere donare cibo in segno di ospitalità. Le piaceva prendersi cura degli altri e mettersi al loro servizio: era abituata così. Mi conosceva, sapeva come era la mia vita e, quando facevo qualcosa per lei, mi diceva sempre “Grazie”, non se lo dimenticava mai. Aveva un grande pregio: sapeva ascoltare, utilizzava poche parole, dirette e essenziali. Non c’era superfi cialità in quello che diceva, piuttosto taceva. Una parola a volte le bastava più di un lungo discorso, di un’analisi dettagliata. Alle feste lasciava spazio agli altri per parlare: era una presenza silenziosa, in un angolo.

A gennaio 2006 ha avuto una broncopolmonite. Da quel momento la sua vita è cambiata. È rimasta a casa di mia zia per un po’ di tempo, prima che si riprendesse. Ha iniziato a utilizzare l’ossigeno la sera a casa. Lei se ne vergognava e molto spesso non lo adoperava. Poi si sono susseguiti vari ricoveri in ospedale, tendenzialmente ogni 4 mesi per ben 5 anni. Una malattia lunga con varie crisi respiratorie che l’hanno segnata. Rosina Spanò con la mamma Maria Stella e i fratelli Giuseppe, Ha subito anche piccole umiliazioni come il Carmela e Michele mostrarsi con i capelli spettinati, l’essere in stanza insieme agli uomini. La sua malattia l’ha resa ancora più forte di quanto non lo fosse prima. Forte, coraggiosa, testarda. Non aveva paura di niente, nemmeno della morte. Il 31 marzo 2011 la nonna peggiora. Il pneumologo scuote la testa e inizia la terapia con la morfi na. Abbraccio mia mamma. Il fi nale è già stato scritto. Il mio cuore è debole e brucia di dolore come se fosse trafi tto da uno spillo. Mi si gela il sangue nelle vene, diventa di ghiaccio.

74 Questo libro della sua vita si sta per chiudere defi nitivamente. È morta dove tutto aveva avuto inizio, in quell’ospedale dove l’avevano salvata varie volte. Come se tutto fosse tornato dove l’avevamo lasciato. Un cerchio che si chiude. Forse non ha più voglia di vivere, di soffrire, di vedere il sole spuntare, le piante germogliare e gli uccellini cantare. Forse non ce la fa più ad assistere passivamente all’arrivo della primavera, senza neanche goderne. Forse è pronta per partire per un nuovo viaggio verso un luogo di pace e serenità e non le interessa più cercare ancora disperatamente di lottare. In questa notte cupa di marzo la tua anima sta andando verso la luce? Ho paura a lasciarti andare, a perdere il ricordo della tua voce. Prima eri i tuoi vestiti semplici, la tua casa, le tue risposte decise e perentorie, il tuo italiano calabrese, i tuoi atteggiamenti combattivi, le tue abitudini, i tuoi racconti. Ora?

È il 1 aprile. Oggi splende un sole meraviglioso, l’aria è fresca e piacevole. Chiudo gli occhi, mi isolo in silenzio e respiro profondamente. Saresti potuta stare in giardino a goderti questo dolce tepore. La natura è sempre generosa, vigorosa ed effi cace nelle sue azioni: i momenti che ci regala sono emozioni uniche ed irripetibili. Albe e tramonti, cieli stellati. Sabato scorso mi hai stressato affi nché andassi a casa tua a prendere dei fazzoletti e vedere se la casa fosse in ordine. Perché? Forse lo sapevi già che ci saresti tornata entro pochi giorni? Sentivi che si sarebbe conclusa la tua vita? Si percepisce quando il nostro viaggio giunge al capolinea? Guarda nonna, la natura, i ciclami sul balcone che curavi con tanto amore. Ascolta tra gli alberi il fruscio del vento che passa tra le foglie, il profumo intenso dei primi fi ori che sbocciano. Senti il pigolio vivace degli uccellini. Questi stessi uccellini che non sapevano nemmeno della tua esistenza e ora sono indifferenti a te e alla tua morte. Non puoi più osservare questo meraviglioso spettacolo della natura, ascoltare questo grande concerto che è la vita. La natura continua il suo corso e le persone riprenderanno la loro vita e si dimenticheranno piano piano di tutto. I ricordi si mischieranno tra loro e si allontaneranno lentamente.. Ci spaventa pensare al momento della nostra morte e il più delle volte cerchiamo di allontanarlo dalla nostra mente. Ci spaventa pensare anche che in un attimo tutto quello a cui siamo attaccati possa scomparire. Mi piacerebbe tornare indietro e annotare qualcosa ancora della nonna, qualche movimento, qualche parola. A dire la verità la maggior parte dei giorni della nostra vita passano senza che accada qualcosa da ricordare, nessuna traccia, come se non fossero stati vissuti. O forse perché quando realizziamo che qualcosa sta per fi nire, come l’esistenza della nonna, capita di chiedersi come sia stato possibile lasciare passare tanti momenti. Solo dopo si apprezza il prima, ma è anche vero che quando qualcosa è nel passato ci si rende meglio conto di quanto siamo stati fortunati ad avere vissuto dei momenti speciali della nostra esistenza con la nonna, che ricorderemo per sempre. La sua esistenza era semplice e i suoi valori erano il buon senso, la correttezza, l’onestà, l’umiltà e la morigeratezza. La semplicità è un enorme aiuto nel fare ordine in questo mondo.

È stata sicuramente una bella lezione di vita: la nonna era indipendente, coraggiosa, soffriva in un angolino, ma non si lamentava ed è morta lottando, soffrendo, fi no alla fi ne.

Tante volte la ginestra era rifi orita in campi sterili e vulcanici. Non ha mai preteso di opporsi alle circostanze avverse della vita, ma mentre rinasceva in silenzio, consolava tutta la campagna intorno e emanava un profumo dolcissimo. Non c’erano sprechi di tempo per compiangersi della sua sorte, ma con umiltà restava fedele alla natura. Il suo rinascere silenzioso e composto per lungo tempo ha rafforzato molto di più i legami delle persone intorno che se stessa.

75 Schegge di storia

Preciso che la racconterò con un occhio di riguardo alle donne che a vario titolo sono venute in contatto con me. Sono nata in casa, a Fino, in via Garibaldi 77, per intenderci dove ora c’è il parrucchiere Casillo. Mia mamma era assistita dalla sua mamma, dal medico condotto e dall’ostetrica comunale. Quello che mi ha sempre colpito nel racconto era che sia il medico che l’ostetrica avessero lasciato i camici da lavare alla puerpera; da questo punto di vista la medicalizzazione delle nascite dei nostri giorni ha indubbiamente portato migliorie signifi cative. Non esistendo ancora i nidi sono stata allevata dalla nonna a dove ho anche frequentato l’asilo Garibaldi, oggi sede del comune. Alba Rosa Indelebile è il ricordo della Suor Gervasina che portava il cappello grandissimo, del suo grembiulone dalle tasche del quale usciva di tutto. I più bravi e disciplinati venivano scelti per accompagnare i funerali al Orsenigo termine dei quali si era premiati con la stringa di liquirizia avvolta in un cerchio con al centro un bon bon colorato. Se il funerale era stato particolarmente impegnativo o per la distanza dalla Chiesa o per la durata della cerimonia venivano aggiunte 2 caramelle mou. Ancora oggi sento il loro dolce sapore.

Per le elementari sono tornata a Fino e ho frequentato in via Trento. In prima e seconda elementare eravamo circa sessanta (60). La giovane maestra Clelia di Torno aveva il suo bel da fare soprattutto quando abbiamo imparato a intingere la penna nel calamaio che stava al centro dei banchi di legno che erano a due posti e anche il calamaio serviva per due. Lascio immaginare le gocce sul pavimento, sui grembiuli, i buchi e i litigi. Una volta il mio compagno sollevò il sedile, caddi e mi feci un taglio in testa curato amorevolmente dalla bidella in portineria. In quest’anno di polemiche sulle vaccinazioni penso al richiamo del vaiolo fatto a scuola, come pure lo “zuccherino” del vaccino Sabin sempre somministrato dal Dottor Romanelli accompagnato dalla fedele Luigia Ecchili. In terza fummo separati, maschi e femmine, a noi toccò la maestra Elisa Salmoiraghi, una maestra certo severa che non dava confi denza ma che aveva come unico obiettivo tirar fuori il meglio dai suoi scolari, la vera funzione dell’educatore. Sono rimasta in amicizia con lei fi no alla sua morte, ho pianto al suo funerale e ancora oggi vado a salutare “la mia maestra” che sembra mi sorrida dalla sua lapide. La cosa migliore delle elementari era la festa del risparmio: veniva il Sindaco, per me prima il Cav. Vera poi il sig. Bianchi, accompagnati dai funzionari della banca, con la signorina Elisa Melloni direttrice i quali premiavano i migliori di ogni classe con un libretto di risparmio del Banco Ambrosiano ma per tutti c’erano le fantastiche veneziane della pasticceria Cairoli e i canti con il maestro Perdonati. Fummo il primo anno che non dovette fare l’esame di ammissione alle 76 medie anche se ci eravamo preparati a sostenerlo sotto la guida del maestro Lingeri. Avevamo già fatto l’iscrizione alla media Badoni di Camerlata quando ci venne comunicato che a Fino si sarebbe iniziato il ciclo delle medie, due sezioni, A e B, una maschile e una femminile nello stesso edifi cio delle elementari, al pomeriggio. Come posso dimenticare la professoressa di Lettere, la signorina Clelia, che ci ha seguite per tre anni in italiano, latino, storia e geografi a. Era animata dal sacro fuoco della cultura, voleva che nessuno alle superiori dicesse in tono compassionevole “vengono da una scuola di paese”. E in effetti mai nessuno mi ha mai fatto notare all’istituto tecnico Caio Plinio Secondo di Como dove mi sono diplomata nel 1969 la mia provenienza come motivo di scarsa preparazione. Ho scritto il nome intero dell’istituto a ricordo del Preside Grandi che teneva moltissimo che non storpiassimo il nome di questo illustre comasco. Devo al prof. Picchi, docente di lettere, maestro di organo del Duomo, le rifl essioni sulla scuola di classe e selettiva perché ci ha fatto conoscere gli scritti di don Milani e alla lungimiranza del vicario Don Leonardo che cominciò una serie di dibattiti all’oratorio su lui e don Mazzolari. Nel frattempo cominciammo ad interessarci della scuola di Valle Mulini frequentata dai bambini immigrati da Giffone e residenti ad Andrate. Scrivemmo un articolo memorabile sul giornalino “Gioventù Finese” dell’oratorio contro un maestro dalla bocciatura facile; quando quello stesso maestro divenne direttore e io assessore all’istruzione pagai con gli interessi le conseguenze di quel pamphlet. Devo anche al Caio Plinio l’amore per il cinema perché veniva organizzato il cineforum. E’ da lì che ho sempre frequentato il cineforum anche all’università nonché al Mulino e mi manca molto questa attività culturale.

Risalgono a quegli anni le frequentazioni di alcuni aderenti alla Fuci di Como che iniziarono il doposcuola ad Andrate nonché i campi estivi nella stessa frazione e i viaggi a Giffone in occasione della festa di San Bartolomeo. Eravamo comunque nel sessantotto e anche Como non fu immune dalla contestazione: la richiesta al ministro Sullo era di modifi care l’esame di maturità. Fummo accontentati con l’esame che restò in vigore circa 40 anni nella sua formulazione, ancora una volta il mio anno fece da cavia a quella che doveva essere una sperimentazione ma all’ultima manifestazione gridammo: la montagna Sullo ha partorito un topolino! Con la maturità conseguita, andai a Lourdes con l’Unitalsi a servizio dei malati. Ancora oggi penso al silenzio che regnava nella zona santa e alla dignità delle persone sofferenti. A noi damine confi davano di chiedere più la rassegnazione, l’accettazione del proprio stato più che un vero miracolo di guarigione. Sono tornata in seguito ma non ho più ritrovato quel clima, forse perché disturbati da un chiacchiericcio di fondo. In parrocchia era arrivato Don Giorgio Quaglia che sempre in quell’anno organizzò un campo di animazione missionaria a Madesimo. Era un bravissimo cuoco e si cimentò per noi nel suo piatto preferito: fegato con cipolle alla veneta. Gli anni di don Giorgio vicario sono coincisi con la mia frequenza all’università di Trento. Molti mi hanno chiesto conto della mia scelta di Trento. In realtà io volevo frequentare una facoltà umanistica e con il diploma di ragioniere l’unica strada accessibile era la facoltà di studi superiori di scienze sociali a Trento ,fondata quattro anni prima Oggi sono disponibili molti saggi sulla facoltà, allora era un po’ tutto pionieristico e ad anno accademico iniziato cambiarono le regole, ogni diplomato avrebbe potuto frequentare qualsiasi facoltà. Non mi sono sentita di trasferirmi a Milano per frequentare scienze politiche, ormai mi piaceva la vita di studente a tempo pieno in una città. Ho avuto la fortuna di conoscere e frequentare i leader del movimento studentesco, su tutti Mauro Rostagno che anni dopo sarà ammazzato dalla mafi a in Sicilia e di aver avuto insegnanti 77 che predicavano e attuavano l’università critica sulle orme della scuola di Adorno di Francoforte nonché sociologi conosciuti dal grande pubblico come Francesco Alberoni, il politologo Enrico Rusconi e come preside il prof. Paolo Prodi. I giornali dell’epoca preferivano però parlare in modo folcloristico della sociologia di Trento, delle occupazioni, del voto politico suscitando comprensibilmente le preoccupazioni dei miei genitori. Un giorno infatti mi trovai mia mamma in bidelleria della facoltà. In realtà vivevo nel collegio universitario femminile gestito da un ordine francese, Les Dames de Sion, suore molto aperte ma poiché la maggior età scattava a 21 anni si sentivano molto responsabili di noi. Per fare un esempio: per poter frequentare il corso di storia contemporanea moderna tenuto dal prof. Carinci dalle 21,00 alle 23,00 avevo dovuto avere il permesso dai genitori. Oggi sarebbe impossibile. In facoltà ho anche incontrato l’amore che mi ha seguito nella decisione di metter su casa a Fino. Don Giorgio mi ha aiutato a tenere i piedi per terra, erano anni di fermenti e di contestazioni fuori e dentro la Chiesa, ma anche gli anni del Concilio, del vento di rinnovamento. Ho sviluppato le amicizie di una vita con le mie compagne Pina e Maria, oggi quasi in pensione da funzionarie delle loro regioni e con l’attuale Arcivescovo di Lucca. Per i casi della vita, Madre Assunta Marchetti, fondatrice delle suore scalabriniane, è di Camaiore, in diocesi di Lucca: nel 2014 ci siamo trovati a San Paolo del Brasile lui, mio marito ed io e abbiamo trascorso una settimana ricordando Il periodo trentino della nostra gioventù. A Fino non era facile trovare lavoro per due sociologi, questi sconosciuti, ma fummo fortunati, io vinsi il concorso al consorzio dell’istruzione tecnica di Como voluto dall’on. Casati di Senna, una grande fi gura di politico illuminato, sue alcune proposte di leggi al Parlamento sulla formazione professionale, e mio marito all’Unione Industriali di Como, oggi Unionindustria di Como. Nel 1975 a maggio si svolsero le elezioni amministrative per comuni, province e regioni e fui candidata per la Democrazia Cristiana nel mio paese. Avevo accettato con molta incoscienza, forte solo dell’insegnamento di Papa Paolo VI “la politica è la più alta forma di carità” e a 24 anni mi ritrovai Assessore all’istruzione e ai Servizi Sociali in una amministrazione monocolore con un forte partito comunista all’opposizione. Ero l’unica donna in giunta, ma sono stati anni molto profi cui. Dal 1975 al 1980 furono aperte la scuola materna di Andrate, la biblioteca comunale, fu avviata l’assistenza domiciliare, furono incoraggiati i soggiorni marini per anziani, fu aperta la scuola a tempo pieno di Socco una delle prime in provincia di Como. Nel 1978 con l’approvazione del Servizio Sanitario Nazionale, Fino diventò capo consorzio di zona con gli impegni conseguenti. Con l’aiuto del partito comunista, in particolare di Gigliola Cattaneo e di Negretti si procedette all’appalto concorso per la costruzione di una scuola materna statale per il capoluogo dopo aver fi rmato una laboriosa convenzione con la scuola Raimondi Mantica. Dolorosa fu la scelta di chiudere la scuola materna a Socco. Nel 1977 nel frattempo erano state assegnate le case di 78 edilizia popolare dietro al cimitero e la tipologia di costruzione con un concentramento in poco spazio di tante famiglie ampliava i problemi di tipo sociale. Nel 1976 la sanguinosa rapina in banca con la morte del comandante della stazione dei carabinieri De Maria aveva fatto pensare di richiedere una caserma più grande cosa che si realizzerà negli anni novanta. La lungimiranza di chi mi aveva preceduto aveva portato all’apertura della Casa Albergo di Lomazzo ed essendo Fino uno dei tre comuni fondatori, fui chiamata ad arredarla con la signorina Grassi di Lomazzo. In anni recenti quando mia mamma ha usufruito della struttura, mi emozionava pensare ai 40 anni della Casa con alcuni oggetti originari risalenti ai miei impegni giovanili. Nel 1980 ci fu l’inaugurazione dell’asilo nido che fu aperto con tre bambini, un servizio sociale per me fondamentale anche se costoso per le casse comunali. Mi ripresentai alle elezioni del 1980, fui rieletta ma non mi impegnai direttamente in giunta in quanto nel frattempo avevo avuto la gioia di diventare mamma di tre fi gli. Mi impegnai comunque come capogruppo in consiglio comunale. L’amministrazione era diventata di coalizione, qualche altra donna si stava affacciando alla politica. Mi ripresentai anche nel 1985, fui eletta come Assessore anziano cioè la più votata, avrei dovuto diventare sindaco, ma i tempi non erano maturi e il mio partito cedette il primo cittadino a un socialista. Fui, comunque, nominata vicesindaco con deleghe all’Istruzione e ai Servizi Sociali e in giunta eravamo quattro democristiani, due socialisti e un socialdemocratico.

Sono stati anni molto diffi cili, spesso in giunta volavano parole e discorsi sessisti come si direbbe oggi, gli orari delle riunioni erano a misura di uomo, se provavo a lamentarmi la frase migliore era “che le donne devono stare a casa a fare la calza”. Mi presentai, infatti, una volta in Consiglio comunale con i ferri e la lana. Tante volte provai la voglia di cedere, resistetti grazie all’aiuto di mio marito e mia mamma, e all’amicizia e alla collaborazione di alcune vere donne. Maria Luisa Anselmi, in primis, socialista, di idee non sempre collimanti con le mie, ma cui il rispetto e l’intelligenza non vennero mai a mancare e che quando fu impegnata a sua volta mi ringraziò pubblicamente ‘per aver tracciato la strada’. La cara Liliana, bibliotecaria e vicina di casa, morta prematuramente per un tumore al seno che fi no all’ultimo mi disse di stringere i denti e non mollare come lei che stava combattendo ben altra battaglia. La cara insostituibile Manuela Roncoroni sempre al mio fi anco, Carmela e Alba ancora oggi funzionarie in comune, che assistevano alle prevaricazioni che anche dalle persone del mio partito arrivavano. Sono gli anni dell’acquisto della villa comunale, della costruzione della palestra, delle case popolari di via Trieste e nella sede del vecchio comune, della farmacia comunale, del distretto sociosanitario, dell’utilizzo della scuola di disegno, ente disciolto, a favore dei disabili, della riserva di un appartamento, dopo molte resistenze, per una futura casa famiglia che sarà la Perla. Altri hanno avuto poi onori al momento delle inaugurazioni, ma resto tuttora convinta anche a distanza di tanti anni che la fase più complicata sia quella della progettazione, del pensare in grande e al futuro non solo all’immediato e al contingente. Dopo 15 anni di, spero, onorato servizio ho lasciato la politica attiva, ho lasciato la Regione Lombardia nei cui organici ero arruolata dopo lo scioglimento dei consorzi provinciali, e ho cambiato via dopo i miei primi 40 anni. Mi sono dedicata all’insegnamento della sociologia per più di 20 anni alla Scuola Infermieri dell’ospedale Sant’Anna e di altre materie nelle scuole professionali regionali. Ciò di cui vado però fi era è l’aver utilizzato il mio essere sociologa a favore dei disabili, all’Associazione I Tuoi Amici e d’aver fatto parte per dodici anni del Consiglio di amministrazione della Casa Albergo di Lomazzo. Ora che sono anziana, non mancano le occasioni di volontariato in vari ambiti. Rileggendo la mia storia, penso di essermi fatta anche tanti nemici in ambito pubblico, infatti non sono ancora cittadina benemerita, ma forse per consolarmi o per avere un obiettivo di miglioramento, penso che “tanti nemici tanti onori”. 79 La festa dei bambini

nati nel 2014 Sono quasi 5 anni che vivo a Socco, e mi rendo conto solo adesso di non conoscere quasi nessuno, eccetto i miei vicini. L’idea di abbandonare la mia amata Bulgorello mi faceva quasi stare male ed è forse questo il motivo che mi ha spinta inconsapevolmente “all’anti socialità”. Ma ho subito scoperto che Mondello non si scostava tanto dal mio vecchio paese, dalla casa dei miei genitori; via tranquilla, zona silenziosa, circondata da campi e boschi…era come se non fossi mai andata via. Non ho quindi molto da raccontare, ma c’è un episodio che mi porterò sempre nel cuore: la mattinata dedicata ai nati 2014, l’anno di mio fi glio. È stata una splendida iniziativa comunale, un’occasione per conoscere Cinzia Pistis altre famiglie come la nostra, durante la quale i bambini hanno ricevuto in dono un piccolo libro e un albero, che è stato piantato qualche giorno dopo. Crescerà insieme a loro, ricordando per sempre la loro nascita e quel bellissimo momento! Il doppio lavoro delle donne “Ah, sei part time?!”, “Fai solo quattro ore???”, “Beata te che hai già fi nito!”. Ogni qualvolta mi sento dire una di queste frasi, giuro, vorrei scagliare in faccia una padella ardente o sprofondare per la vergogna che provo verso di loro, dipende dal momento e dal contesto! E noto sempre e comunque la stessa identica cosa: se i commenti provengono dal genere maschile è quasi inutile intavolare un discorso, perché spesso non ci si rende conto che il turno di una moglie, e di una madre soprattutto, non fi nisce mai. Dura 24h su 24h, 7 giorni su 7, festività incluse! Una volta arrivata a casa ti aspetta un tour de force tra cucina, pulizie, spesa, bambini, asilo, compiti, lavare, stirare…non aggiungo altro perché immagino ci siano moooolte persone che percorrono quotidianamente un cammino identico al mio. Ma se queste frasi provengono dal genere femminile, mi viene da dubitate sempre di più sulla cosiddetta “solidarietà femminile”. Una cosa però è certa: io faccio felicemente un part time! E credo che ogni donna, a meno che non sia lei a richiederlo, debba poter lavorare mezza giornata. Siamo sempre tormentate dalla mancanza del tempo, e quando lo abbiamo molte volte lo impieghiamo a “portarci avanti”, o a pensare come ottenere dell’altro tempo, incastrando mille impegni. Ma noi siamo qui, adesso, i nostri bambini non saranno piccoli per sempre. Cerchiamo di assaporarci ogni istante che la vita ci riserva, solo così potremo guardarci indietro un giorno senza avere troppi 80 rimpianti. Le donne di Fino

Le ho viste tutte indistintamente, le donne di Fino. Io piccola e loro già “grandi”. Io adolescente e loro ancora “grandi”. Io un po’ grande e loro “grandi”. Le ho viste scorrere davanti ai miei occhi con i loro sguardi e i loro sorrisi, le loro storie a volte a braccetto con la mia. Le amiche di asilo, di collegio, le vicine di casa, le amiche di mia mamma, la maestra , le prof, le compagne di scuola, le colleghe di lavoro. Le amiche che restano amiche anche da adulte. Tanti visi, tanti ricordi, tanti incontri. Anche dopo, quando sono cresciuta per loro ero ancora la Fabri che aveva 5 anni e per me sono ancora la Vanda, Margherita, la sig.ra Pinuccia, la maestra Franca, la zia Giuditta, l’Amalia e tante altre, anche se qualcuna di loro non c’è più. Il ricordo nitido dei loro visi giovani e poi meno giovani, delle loro storie, dei loro modi di dire, la cadenza del loro dialetto potrebbe essere motivo per scrivere pagine Fabrizia Pozzoli e pagine. Ma dei propri ricordi si è anche un po’ gelosi e poi sarà giusto raccontare così pezzi della nostra vita e della vita degli altri? Non lo so, ma incontrando qualcuna di loro, guardandole adesso che hanno passato le 80 primavere ripenso a quanto ogni persona è unica con la sua storia, il suo bagaglio di avvenimenti fortunati e sfortunati, a cosa la vita ci ha riservato, compresa la longevità. La Mariella del bar Nata a da famiglia valtellinese con antenati provenienti dalla Turchia, la “Mariella” si era trasferita con la famiglia alla fi ne degli anni 50 da Cantù, acquistando un’attività di bar tabacchi da quelli che per me erano i signori Anna e Oreste, mentre per il resto del paese erano “la rossa de cavei e il so marì”. Questa attività tutto prometteva fuorché il futuro che avrebbe avuto. Dopo 2 mesi di apertura le uniche persone che avevano avuto il coraggio di entrate erano state le pattuglie della polizia stradale. D’altra parte aveva deciso questo: avrebbe gestito un’attività in proprio, basta padroni. Dopo anni faticosi l’attività era ben avviata, diventando una piccola piazza movimentata per fi nesi e avventori di passaggio. Tante sono le storie raccolte dalle orecchie della barista, dai muri del bar affumicati dalle sigarette in inverno, dal giardinetto esterno estivo con lato strada sul traffi co della SS 35, che già allora scorreva con le sue code domenicali preannunciando il futuro disastroso che conosciamo oggi. Le chiacchiere d’osteria con i vari ricami facevano il giro di bocca in bocca. Tante le confi denze al di là del bancone, cose belle e meno belle, cose vere e grandi bufale. Tutti davanti al caffè o al bicchierino di rosso esternavano i loro pensieri, la gioia per un nuovo lavoro, l’arrivo di un fi glio, la preoccupazione per l’affi tto da pagare e via via i problemi dei fi gli che crescono, le frequentazioni, forse

81 fumano, devono sposarsi… Un confessionale aperto e un’anteprima della più famosa terapia di gruppo. Tutti ascoltavano, commentavano, consigliavano nei modi più svariati e la Mariella, unica donna, dava il suo giudizio lapidario ed indiscutibile, che per diplomazia abitualmente si concludeva con un ”si dice il peccato e non il peccatore” poi in realtà lo sapeva tutto il paese. Sì, perché a quei tempi non esisteva la privacy. Vigeva però una sorta di codice d’onore, di rispetto e di segreto nel sussurrare i pettegolezzi che tutti conoscevano. E’ per questo che pur sapendo, come si dice in gergo “vita morte e miracoli” di questa comunità, ho scelto un episodio neutro che ha coinvolto come attore principale Lei, la Mariella in tutto il suo stile.

Strani traffi ci dalla Svizzera

E’ il 1979. Il bar è ancora al n.162 di via Garibaldi, di fronte alla famiglia D’Auria, cari amici da sempre. Da poco rimasta vedova, alla sera prima della chiusura del negozio è diventata sempre più sospettosa. Ha già subito diversi furti ed è anche stata minacciata, ma nella sua autorevolezza ha gestito bene gli imprevisti. Adesso però, si coglie che è preoccupata e impaurita. Ha paura di essere rapinata e di non sapersi difendere. Qui entrano in gioco i suoi più affezionati avventori, Marino, Federico, Sabino, Carmelino e Gerardo. Tutte le sere aspettano che chiuda la serranda, faccia il giro di controllo del cortile e spenga le luci. Ma la sua preoccupazione non diminuisce e non si confi da; non si capisce da cosa sia alimentata questa paura. Poi scatta la scintilla. Pasquale agente della pattuglia stradale, uno dei primissimi frequentatori della sua attività, le fa visita con la famiglia e lei fi nalmente si lascia andare e si confi da. Da circa 2 mesi tutte le sere tra le 21 e le 22.30 un tipo stranissimo entra puntualmente ad acquistare le sigarette. Barba lunga, capelli in disordine, abiti sgualciti e macchiati dal menù settimanale, racimola sempre con diffi coltà le monetine nelle varie tasche per il pacchetto di sigarette, non ha le mani da fumatore, si guarda attorno con fare smarrito, ma in realtà sta osservando le persone che sono nel negozio e le loro uscite. Lei ne è sicura. Inoltre, aggiunge, lo ha tenuto d’occhio: fi no alle 3 del mattino la vecchia fi at 127 verde, scassata, con a bordo lui e un’altra persona è parcheggiata sul marciapiede immancabilmente in prossimità della stazione di servizio Agip. L’investigatrice trae subito le sue conclusioni: vogliono rapinare lei o il Carlo lattaio. Pasquale la tranquillizza, conoscendola da sempre sa che è affi dabile, in passato lo aveva aiutato ad identifi care dei rapinatori dalle foto segnaletiche, ma ha comunque il sospetto che l’amica sia un po’ stressata e cerca di sdrammatizzare. Poi ha un’idea. Lui sarà di turno notturno durante la settimana successiva e si accordano: “Se la 127 con il tipaccio stazionerà ancora qui, mi avvisi ed uscirà una pattuglia per verifi care”. Detto fatto. Il tipaccio con l’impermeabile era un ispettore della Digos. Seguiva un’indagine relativa ad un traffi co illecito con corriere che transitava dalla Svizzera verso il milanese. Dopo mesi, l’operazione aveva dato i suoi primi frutti ma adesso che non era ancora conclusa ci mancava questa qui con il suo spirito di osservazione … L’ispettore ci ha fatto visita, abbiamo preso un caffè insieme, ci ha rassicurati, si è complimentato con la novella Sherlock Holmes, ci siamo salutati cordialmente e dalla sera dopo ha trovato un altro posto dove stazionare. Storie del genere possono sembrare divertenti e buffe, però la vita del bar era fatta anche di questo. …Bei tempi andati!

82 La mia via Garibaldi Quando penso alla mia infanzia, oltre ad avere una visone lontana, sono passati ormai 50 anni, non posso non vedere con tutte le sue trasformazioni il luogo dove ho passato la maggior parte del mio tempo, dove ho avuto i miei primi incontri ed amicizie, le prime relazioni sociali e dove sono diventata grande. La Via Garibaldi. Nella mia memoria tante le immagini di persone, case, giardini, animali lungo la carreggiata che per 60 anni è rimasta immutata. Alcune case storiche con i loro giardini e le vetrine di quelle che una volta erano attività commerciali ci sono ancora, le persone beh, di loro, viventi o no, conservo con gelosia ricordi unici. Ho frequentato l’asilo fi nese “delle suore” quando si andava a piedi, con il cestino rosa per le femmine ed azzurro per i maschi. Nel mio ricordo andare all’asilo era un viaggio lunghissimo che spesso si svolgeva a piedi e qualche rara fortunata volta sulla 600 azzurra della famiglia Volonté. Più piccolo di me, ma solo di età, il Danilo è stato il primo compagno di giochi. Per la verità c’era anche suo fratello Edoardo, ma non so per quale motivo, lo escludevamo spesso ed i nostri giochi si svolgevano principalmente a tre: io, lui e Dick, il cane meticcio di proprietà della sua famiglia. Agli occhi di 2 bambini di 4 e 5 anni, Dick era un compagno di giochi unico. Si prestava ad ogni gioco: la palla, le scatole, la sartoria con la carta, la slitta ed il divano davanti ai primi cartoni animati. Ed è stato anche il primo amico che abbiamo perso: portato dal veterinario non è più tornato a casa. Ho delle vecchie foto di me, Danilo e Dick, quando le guardo, a quasi 60 anni ancora mi commuovo.

Il Carnevale degli alberi Eccoli lì tutti al lavoro. Ognuno con il suo compito assegnato. Alla domenica, nell’azienda dove lavorava, Antonio ha avuto accesso ad un telaio ed al materiale necessario per creare il tessuto. “Sviluppa tu il tuo progetto, prendi quello che ti serve e mettici il tuo tempo” sono state le parole del suo burbero principale. Elena e Fabrizia hanno elaborato il modello, misurato, tagliato e cucito. Carlo ha preparato i nidi con gli uccellini di carta. I ragazzi Gloria e Luca eccitatissimi per la partecipazione al progetto, hanno collaborato con la loro giovane fantasia: ogni momento avevano un’idea nuova. Gianmario con la sua agitazione ci ha dato la scossa giusta, oltre al supporto psicologico per continuare in questa impresa. Allo zio Giorgio il compito di recuperare le gocce in cristallo dai lampadari di casa per ornare l’albero dell’inverno con il ghiaccio. Sì, perché il progetto prevedeva gli alberi come ciclo della vita, quindi estate, autunno, inverno, primavera e un alberello piccolo che poi sarebbe cresciuto: il tempo che passa, insomma. L’entusiasmo è stato il fi lo conduttore, tanto il lavoro per dei dilettanti, ma anche il divertimento. Il risultato, beh, modestia a parte, eccellente! Eravamo tutti soddisfatti gongolandoci nelle nostre creazioni. Abbiamo avuto anche un premio: secondi classifi cati. La soddisfazione più grande è stata partire dalla casa di Elena a piedi, percorrere tutta la via Garibaldi fi no al piazzale del mercato, così addobbati con lo strombazzamento dei clacson delle auto di passanti sconosciuti, divertente, troppo divertente. Queste meraviglie sono rimaste nella mia soffi tta per qualche anno, poi indossate per l’ultima volta ad un carnevale a Bosisio Parini, lì sono rimaste, dove un docente ed i ragazzi in stage hanno ulteriormente apprezzato la creazione del gruppo di amici.

83 L’uovo di Pasqua I miei genitori gestivano un’attività di bar tabacchi mentre quelli di Danilo di generi alimentari. Da piccoli eravamo sempre insieme, asilo e tempo libero. Ricordo quando andavamo all’asilo a piedi. Il genitore che ci accompagnava a volte ci lasciava all’ingresso del cancello e, con una concessione di grande responsabilità e di sentirsi grandi, potevamo fare gli ultimi metri soli. Quell’anno le nostre mamme avevano pensato di mandare alle suore un pensierino augurale e si erano accordate per un piccolo uovo di cioccolato che ci avevano consegnato sul cancello prima di fare gli ultimi metri, con le dovute raccomandazioni. Avremmo avuto anche noi il nostro uovo di Pasqua ma si sa l’erba del vicino… così nei pochi metri che ci separavano dall’ingresso sotto ad un cespuglio si è consumato il fattaccio. Non ricordo cosa ci fosse di sorpresa, ricordo che le 2 genitrici si sono accorte subito che la commissione non era stata eseguita e ricordo che l’anno successivo quando io frequentavo la 1° elementare e Danilo l’ultimo anno di asilo la Pinuccia ha mandato alle suore come pensierino di Pasqua un pacchetto di caffè.

Il primo viaggio Nel 1963 si giocava in cortile e con le prime biciclette ci si azzardava a qualche viaggio più lungo sul marciapiede. Di uno di questi viaggi ho un ricordo nitido: Danilo aveva un “triciclo con rimorchio” così abbiamo pensato di fare un viaggio. Lui alla guida ed io più piccola (di costituzione fi sica, perché di età ero la maggiore) nel carrettino rimorchio. Destinazione Briccoletta. Siamo partiti da casa mia (abitavo a 10 metri dalla sua) dopo aver chiesto alla sua mamma la signora Pinuccia di potere andare a giocare a casa mia. Ci siamo fermati un po’ nel mio cortile ed al momento giusto… cancello aperto via a tutta velocità verso la libertà del marciapiede alla Briccoletta.

La meta era quasi raggiunta quando la sfortuna ci incontrò. Lavori in corso. Un tombino aperto e il triciclo pilotato dal Danilo fi nisce rovinosamente impennato e lui dentro al buco. Il rimorchio si sgancia, lui piange, si è fatto male. Io, illesa, prendo la mia prima decisione importante che non sarà priva di conseguenze. Vado a chiamare la Pinuccia. Arrivano i soccorsi, le nostre mamme. Gli zii di Danilo, il Felice e il Sergio, ci salvano da un sonoro meritato passamano. Conseguenze: triciclo distrutto, Danilo con bernoccolo sulla fronte. Ce l’ho ancora davanti agli occhi, seduto sul tavolo della cucina, con il pezzo di burro in fronte. Sgridata infi nita per la sottoscritta che era la più grande dei due e castigo con divieto assoluto di uscire dal cortile!

84 Una biblioteca nella comunità

Non sono una fi nese. E’ la risposta che ho dato a chi mi chiedeva di scrivere la mia testimonianza per il progetto Le fi nesi si raccontano; ma dopo molti anni passati a Fino Mornasco per lavoro sento che qualcosa mi lega a questo paese. Sono arrivata a Fino Mornasco 33 anni fa, per lavorare in biblioteca. Mi ha aperto la porta Liliana, la bibliotecaria che mi ha preceduto, e mi ha presentato la sua creazione: un servizio all’avanguardia, già attivo all’inizio degli anni ‘80 per la programmazione di attività culturali e l’aggregazione delle biblioteche in un unico sistema. La biblioteca in tutti questi anni ha continuato a crescere ed è entrata nel sistema bibliotecario provinciale, diventando parte integrante di una rete che offre un migliore servizio alla popolazione. Anche da parte degli amministratori c’è sempre stata un’attenzione Stefania Radice particolare; non sono mancati fi nanziamenti per gli acquisti, per le iniziative di promozione della lettura, l’incremento del personale, fi no alla ristrutturazione della sede storica, motivo di vanto e fi ore all’occhiello del Comune.

Molte fi gure femminili si sono susseguite negli oltre 40 anni di vita: dalle fondatrici e amministratrici, alle prime bibliotecarie, Lucilla e Liliana, alle diverse presidenti della commissione che si sono prodigate per far conoscere alla popolazione l’importanza di questa istituzione. E di persone, ed anche personaggi, ne sono girate molte in biblioteca, a cominciare dai ragazzi che la frequentano per la scuola, agli adulti che trovano un posto tranquillo dove rifugiarsi a leggere per qualche ora e agli anziani che trovano ancora qualche libro di autori ormai dimenticati. Ma il pubblico della biblioteca è composto in prevalenza da donne che sono delle grandi lettrici (divoratrici) e hanno bisogno di una gran quantità di libri per sfamarsi. Sembra che non bastino mai le centinaia di romanzi che si acquistano ogni anno. Ma c’è anche chi predilige la saggistica ed è interessata ad approfondire le tematiche attuali. A questo proposito voglio citare una donazione ricevuta da Tonina Santi, una cospicua collezione di opere che tratta di pari opportunità e di diritti delle donne. Questi documenti sono andati ad arricchire il patrimonio della biblioteca, che da sempre ha prestato attenzione alle tematiche sociali.

Ogni giorno un gran numero di persone entrano in biblioteca: voglio ringraziare tutti gli utenti che la rendono viva e vivace e le molte signore che portano dolci e fi ori alle bibliotecarie. Questi piccoli doni ci gratifi cano e ci commuovono sempre.

85

Anni ’50 – Villa Gysler – Portineria (attuale Biblioteca comunale)

Ricette della nonna Michelina

Rustida de scigull Ingredienti per 4 persone: 4 cipolle, interiora di pollo o gallina, pomodoro o salsa, olio, salvia, sale e pepe. Rosolare le interiora con un po’ di olio, spruzzare di vino bianco, aggiungere sale, pepe e qualche foglia di salvia; quindi mettere le cipolle tagliate a fette, un pomodoro o un cucchiaio di salsa. Cuocere a fuoco lento per 1 ora.

Pancott Mettere a bagno nell’acqua il pane secco, tagliato a pezzi. Cuocere in una pentola con burro e dado (oppure brodo). Frullare il tutto e servire. Aggiungere un tuorlo d’uovo, un po’ d’olio e grana.

86 Amicizia

Rosanna, ho scritto per te questi pensieri che mi si affollavano nella mente il giorno del tuo compleanno, consapevole che stavi combattendo strenuamente una battaglia che, ahimè, di lì a pochi giorni ti avrebbe vista soccombere, ma volevo che tu potessi sorridere ancora. L’amicizia profondamente radicata è una delle esperienze più signifi cative che la vita ci permette di assaporare ed io ti sarò per sempre grata per avere avuto l’opportunità di vivere una grande amicizia. Molti i ricordi che si rincorrono nella mente, nelle diverse età del nostro esistere. Marisa Ne riporto alcuni.

23 aprile 2017 Reghenzani Grazie, Amica mia cara per tutti gli anni di amicizia condivisi. Grazie a te ho scoperto, quando ancora eravamo bambine, l’importanza di avere un’amica. Ricordo i giochi insieme, prima nella casa di via Raimondi: tu abitavi nelle case dei Sempio e la mia famiglia gestiva il bar, ristorante, albergo Milano. Se tu venivi a giocare da me, ci rifugiavamo in soffi tta, nel sottotetto, dove c’erano bauli che non abbiamo mai aperto, perché ne avevo il divieto e ci divertivamo, non senza qualche timore, ad inventare storie di fate e di principesse con misteriosi mostri e streghe che credevamo potessero uscire da quelle misteriose casse. A volte mio fratello Renato ed il suo amico Mario (Riva) si divertivano a farci impaurire, con scherzi e dispetti… allora tu te ne tornavi a casa imbronciata e, di lì a poco ti raggiungevo con le bambole che avevamo abbandonato in soffi tta e continuavamo a fantasticare con i nostri giochi. Quando venivo da te, specialmente d’estate, ricordo le serate a giocare a nascondino nel campo di granturco, con altri bambini di cui ho perso le tracce. Chiasso, schiamazzi e urla di bimbi, quando si veniva scovati da chi era “sotto” e doveva scoprire l’identità di chi era stato trovato e le corse a perdifi ato per raggiungere la “tana” ed urlare “Topoli ……….” se arrivava prima chi era “sotto”, oppure “Libero per me!” e, se si era l’ultimo a non essere scovato, e si era in fase di generosità, “Liberi tutti!” 87 All’imbrunire tutti a casa! La tua famiglia si è poi trasferita nella casa di via Garibaldi, alle case Notari, poco distante da dove i miei genitori abitavano. Ogni occasione era buona per incontrarci. In quegli anni io vivevo con mia nonna e mia zia nel mio paese natio, vicino a Gallarate, ma appena possibile i miei genitori mi facevano trascorrere periodi di vacanza con loro, anche se ritenevano poco “educativo” per una bambina trascorrere le giornate nel bar, che era la casa in cui vivevano. Poi sono tornata a vivere con la mia famiglia e siamo state compagne di scuola dai 9 ai 13 anni, con le prime confi denze, i primi batticuore, le prime emozioni adolescenziali. Sei stata la prima persona che ho considerato Amica. Al mattino, per andare a scuola si costituiva un gruppo, che mano a mano si ampliava. Dalla parte più in alto della via Garibaldi, partiva Ines (Taborelli), poi ti aggiungevi tu, passavate davanti al bar Milano ed uscivo io, poi oltre la chiesa si univa Pieralda (Cattaneo). A volte era necessaria una sosta alla cartoleria della famiglia di Pieralda per i pennini che si rompevano spesso e per i fogli di carta assorbente che erano parte indispensabile del corredo scolastico di quegli anni. Poi i miei genitori hanno lasciato l’attività del bar ristorante e si sono trasferiti a Rapallo a gestire una pensione. Il loro impegno era per i mesi estivi (da aprile - Pasqua ad ottobre). Questo ha reso necessario che io dai 14 ai 18 vivessi la separazione forzata dei miei anni di studio in collegio a Milano. Intanto tu diventavi una bellissima ragazza. Ogni volta, appena tornavo per le vacanze, dopo qualche momento con la mia famiglia, venivo a cercarti, e nella tua nuova casa di via Papa Innocenzo, ore e ore di confi denze, sogni, speranze: aprivamo gli occhi sul mondo. Poi la vita ti ha presentato il volto suo atroce: l’improvvisa ed inattesa perdita del tuo papà. E lì, aspettative, sogni e speranze si sono dovuti riprogettare a causa di questo triste evento. Di ciò ho un ricordo che ancora oggi mi crea fastidio. Ero in collegio, a Milano, Istituto di suore. Lì rimanevo dall’inizio della scuola, ad ottobre, fi no a giugno, con due brevi rientri in famiglia, per le vacanze di Natale e per la Pasqua. I miei genitori non avevano molte possibilità di venirmi a trovare, poiché solo di domenica si potevano ricevere le visite dei parenti, e si davano il turno, appena potevano. Una volta il papà, una volta la mamma. Quel pomeriggio si sono presentati insieme. La mia incontenibile gioia fu immediatamente spenta quando seppi il motivo dell’inaspettata visita: “Dobbiamo dirti che il papà della tua amica Rosanna ha avuto un improvviso malore e…non c’è più!” Era il mio primo sperimentare la perdita di una persona conosciuta e frequentata, ma soprattutto era il primo grande dolore da condividere con la mia amica. “Vengo a casa, almeno per il funerale!” I miei genitori d’accordo, parlano con la direttrice del collegio che mi nega la possibilità di andare a casa per due giorni, perché “questo la distrarrebbe dallo studio, che è il motivo per cui voi l’avete messa in collegio!” Mi accordano il permesso di scrivere un biglietto alla mia amica, assicurando le preghiere di tutta la comunità per l’anima di suo padre! Un tumulto di sentimenti indicibili mi è esploso dentro e salutando i miei genitori mi sono ripromessa di ricordare per la vita, questo episodio. La vita che continua nonostante tutto … Tu mi davi anche consigli pratici, su come curare il proprio corpo! Ricordo il giorno in cui abbiamo deciso che tu mi facessi la ceretta alle gambe!!!!! Un’impresa che dopo urla e gemiti (mi strappavi un pelo alla volta, staccandomi una crosta di cera puzzolente e calda) ti ha vista 88 costretta ad accompagnarmi da un’estetista, a Como, avvolta in un telo di spugna……. Quante risate da parte tua, mentre irritata e dolorante, ti coprivo di “benevoli” insulti!!! Sono arrivati i tempi dei primi amori… i ragazzi (pochi, in verità)… di alcuni ricordo solo il nome. Finalmente poi il grande amore della tua vita… il padre dei tuoi fi gli. E mentre lui espletava il servizio militare, noi (tu ed io e le nostre mamme) talvolta ci prendevamo delle libertà: andavamo oltre confi ne a fare il pieno alla tua auto e poi….pizza in pizzeria! Oggi è banale, quasi usuale, ma nel 1972/73 era un evento. E come ci divertivamo! Mi risuonano nella memoria le risate schiette e liberatorie che ci uscivano, durante quelle fantastiche serate, con la mia mamma e la tua che, pur tentando di non mostrarlo, si divertivano con noi! Esperienze amorose, persone che hanno intersecato le loro vite con le nostre. Ricordi, rimpianti, ….nel 1974: i nostri matrimoni si sono “consacrati con le nostre rispettive testimonianze”: io a luglio e tu ad ottobre. Ognuna a fi rmare sul registro dell’altra per confermare e sancire la sacralità del rito. Vicissitudini varie ci hanno tenute vicine per alcuni periodi e separate per altri. Io abitavo a Lucino e tu a Cantù: tu presto una bimba, Cristiana, poi nell’anno ‘78 io il mio Mauro e tu, Lorenzo e, l’ultimo, Alessandro. Tre fi gli per te! Un bell’impegno. Ci vedevamo saltuariamente, non c’erano i cellulari ed io non avevo il telefono in casa (incredibile!), ma appena si presentava l’occasione era come se ci fossimo viste il giorno prima, ogni fi lo si riallacciava, ogni argomento riprendeva il proprio percorso! Sono arrivati poi i periodi pesanti, grigi, diffi cili… sia per te che per me. E lì ci siamo ritrovate con l’amicizia che non si sfalda, ma che con tenacia aiuta e sostiene. Ricordo le nostre domeniche pomeriggio passate a raccontarci i nostri reciproci guai e le nostre diffi coltà del momento, ma sempre con una speranza che le cose non potessero continuare per lungo tempo così. E allora salivamo in macchina e… un gelato, una cioccolata, un giro a vuoto, pur di “cambiare aria” e rigenerarci per affrontare la nuova settimana. Intanto i ragazzi crescevano e noi vedevamo in loro la realizzazione delle nostre vite. L’esistenza ci presentava conti diffi cili: lutti per la perdita dei genitori, di altre persone care, ma contemporaneamente ci donava nuove vite, nuove famiglie. Nelle nostre rispettive esistenze, nuove vite che cambiano la vita: siamo diventate nonne! Infi ne i compagni dell’ultimo tratto (forse). Tu con un uomo che certamente ha fatto della tua felicità la sua ragione di vita. Di questo io lo ringrazio. Meritavi un tratto di cammino più leggero e sereno. Io con un uomo che vive per me e mi vede con gli occhi del cuore. Mille pensieri si affollano alla mente e in ogni pensiero c’è il tuo bel viso ed il tuo sorriso dolcissimo. Ed ecco che la tua esistenza viene minata da una forma di malattia di cui ignoro persino il nome (non lo voglio sapere!) che ti costringe a sottoporti a cure, terapie e restrizioni. Nonostante questo ti ho sempre letto sul viso un grande coraggio ed un cenno di sorriso che non hai mai perso. Ora stai combattendo, ma io voglio sperare, sì sperare, che tu possa essere più grande, più forte, più determinata nel combattere e che tu possa uscire vincente da questa battaglia. Ti voglio bene Rosanna carissima, dolce Amica Mia. Con affetto, amicizia e stima incondizionati. Marisa

Rosanna ci ha lasciati il 27 aprile 2017. Con lei se n’è andato un pezzo di cuore, ma non il ricordo dei momenti condivisi e della grande amicizia vissuta.

89 Il Bar Milano

Nel 1954 mio padre, Gino, e mia mamma Ines, si sono trasferiti da Gallarate, dove gestivano un “dopolavoro aziendale” (in pratica un bar legato ad un’azienda - in quegli anni non c’erano i distributori automatici di bibite, bevande calde, snack, giornali, …- dove si organizzavano anche pranzi e cene) e sono arrivati a Fino Mornasco. Hanno gestito il bar, ristorante, albergo per circa 10 anni: il Milano, lungo la statale dei Giovi, all’incrocio con la via Raimondi, proprio di fronte alla torretta della Villa Tagliaferri. Mio papà al bar e in cucina (a detta di tutti era un cuoco “stellato”), mentre mia mamma serviva in tavola e si occupava delle camere dell’albergo. Io, bambina, vivevo vicino a Gallarate con mia nonna e una zia. Quando però mi portavano a Fino, e potevo trascorrere un po’ di tempo con la mia famiglia, per me era una grande festa. Ricordo, con la memoria di una bambina, le persone che frequentavano il locale: gli abitué del bar, persone di Fino che sovente, se non ogni giorno, si ritrovavano per il “bianchino”, il caffè, per la partita a carte tra amici, per parlare di calcio, di ciclismo, di Coppi o Bartali…. Tante persone, tante vite… di alcune ricordo il nome, con altre si è conservata una lunga amicizia con la mia famiglia… il Fulvio elettricista, i fratelli Cairoli “trumbè”, tra cui il Vincenzo, caro amico, il Giuliano, “ul Muci”, i “Sempio carbunatt”, i Bionda, il sciùr Cicogna, … e tanti, tanti, tanti altri. La mia postazione preferita era dietro il bancone del bar: c’era una pedana e mi sentivo “più grande”, da lì osservavo mio fratello Renato e mio papà preparare i caffè per i clienti, o riempire calici, bicchieri, bicchierini di liquidi dalle svariate gradazioni di colore e… gradazioni alcoliche! E guardavo gli avventori che scambiavano cordialità, battute, opinioni con il Gino. Il giovedì sera poi, molte persone venivano a vedere “Lascia o raddoppia”: si riunivano nella sala del ristorante, in cui c’era il televisore e seguivano quello che era il “quiz nazionale”. La sala da pranzo del locale mi sembrava molto grande: i tavoli, quando si organizzavano banchetti per gruppi o per occasioni particolari, erano disposti a formare un ferro di cavallo, generalmente però erano disposti singolarmente, apparecchiati per quattro o sei commensali. In quegli anni la Statale dei Giovi che attraversa il paese, era pattugliata da agenti della polizia stradale che percorrevano in moto, ogni giorno, il tratto Milano-Como e Como-Milano. Gli agenti di turno non erano sempre gli stessi, ma quando era in servizio una certa “formazione”, i due si fermavano con le loro potenti moto, che parcheggiavano dopo la torretta, sotto il muraglione della villa Tagliaferri, e con passo sicuro entravano nel locale ed uno dei due agenti, regolarmente chiedeva a mio padre “Gino, che sse magna???”. Non conoscevamo il suo nome, per noi è sempre stato il simpatico poliziotto Chessemagna. Un altro personaggio che arrivava con regolarità era “ul sciur Pavia” identifi cato per la sua 90 provenienza; di lui ricordo che si occupava di denti, ma non ho mai saputo se facesse il dentista, l’odontotecnico o il fabbricante di dentiere! Le materie prime erano ovviamente acquistate, per la maggior parte, nei negozi del paese. Il pane dal Renato “marendò”, la verdura dal “Cesare” (Cairoli) e dall’Angioleto Ruèll, ambulante che una o due volte la settimana arrivava da Rovello con il suo camion. La carne era rigorosamente quella del Pini macelàr e le torte quelle del sciùr Ettore e della sciura Irma, le bibite erano fornite dal Flavio (Corti) “gazusatt” Più raramente passava l’acciuàtt: di lui non ricordo le sembianze, né il nome, ma le sue latte di metallo in cui erano stipate le alici sotto sale e l’odore penetrante di quella merce. Talvolta all’imbrunire passava dal bar il murnè che, dopo una lunga giornata, rientrava con il carretto dal giro delle sue consegne: un bicchiere e poi … a casa. E la domenica all’ora di pranzo c’era la fi la di chi aveva ordinato il pranzo da asporto, tra di loro anche alcune famiglie milanesi che per il fi ne settimana venivano nelle loro dimore all’interno della villa Tagliaferri: le lasagne del Gino e i suoi arrosti erano prenotati da coloro che, per il pranzo della festa, si affi davano alla bravura del cuoco.

Mentre riaffi orano alla mente i ricordi di oltre mezzo secolo fa, ritornano anche i profumi delle squisite pietanze cucinate ed ora so che io sono stata una bambina fortunata… avevo il privilegio di poterle assaggiare per prima! Marisa con papà Gino

Anno 1964 - Bar Milano, Fondazione “Inter Club” 91 Lettere

“Cara Claudia” l’ho scritta nell’ottobre 2013 a mia sorella Claudia, venuta a mancare nel gennaio 2017. Sono cari ricordi che mi sono serviti a darmi coraggio per affrontare i duri percorsi della vita.

Cara Claudia, ti ricordi il bacio che ti ho dato nella cappella al cimitero a ? Tu mi hai chiesto il perché! Io ti ho detto “così”. In quel momento non ho avuto il coraggio di esporre il mio sentimento in parole, ero turbata, rifl ettevo su ciò che ancora stai passando. Io vorrei tornare in quella cappella, con te, come tante altre volte e uscirne assieme per camminare nei boschi (a noi piace tanto vero?). Giordana Riva Noi abbiamo litigato una vita; io vedevo rosso e tu bianco, mai d’accordo, ma sempre unite. Ci piace lo shopping, il cinema, le montagne e il nostro lago. Sono piccole gioie che abbiamo condiviso insieme, ricordi che ci appartengono e che ci saranno per sempre. Siamo tre sorelle, abbiamo trascorso una vita, parlato, litigato, riso ma non ci siamo mai dette ti voglio bene. Io e Anna ti siamo tanto vicine e ogni tua sofferenza ci fa capire quanto ci vogliamo bene e quanto sia importante la tua presenza. Giorda

Claudia, Giordana e Anna 92 Emigrata

Sono nata nel 1987 e cresciuta a Fino Mornasco, dove la mia famiglia ha vissuto per generazioni. Come per tante altre persone, i limiti di un piccolo paese di provincia mi hanno spesso portata lontano, tanto che ora mi trovo a oltre 1800 Km di distanza, in Scozia. Vivere in una grande città ha i suoi innegabili pregi, gli stimoli sono tanti e le opportunità non mancano. Girando per le vie del centro puoi trovare qualsiasi cosa, dai locali pubblici, alle scuole ai negozi ed ai ristoranti, in città ogni servizio è raggiungibile a piedi. Per molte cose in realtà non serve nemmeno uscire di casa dato che una gran parte degli esercizi commerciali offrono la consegna a domicilio. Passeggiando per la città si ascoltano una miriade di lingue diverse Gloria Riva e i volti delle persone sono talmente eterogenei che a volte si ha l’impressione di trovarsi in un luogo indefi nito che potrebbe essere una qualsiasi città del mondo. Ogni volta che torno a Fino Mornasco ed imbocco la via Garibaldi, vengo pervasa da un senso di serenità. Sono molti gli angoli ed i luoghi legati a ricordi dell’infanzia: il grande pino del parco comunale dove giocavamo ad arrampicarci, le scuole medie dove correvamo ogni mattina per non arrivare in ritardo con i nostri zaini, cartellette di disegno tecnico e chitarre, la banchina del treno alle 7.20, con i nostri visi mezzi addormentati e i libri in mano per ripassare. Ovunque sia il posto che chiamiamo casa, i luoghi della nostra infanzia occupano sempre una posizione privilegiata nel nostro cuore.

Questa foto storica mi ricorda la mia nonna Rosalia e la zia Maria che tessevano la seta coi telai a domicilio.

Anni ‘60 - Tessitrice a domicilio Collezione famiglia Cairoli

93 My story: racconti di gioventù

Nata nel 1965 ho vissuto in Via Trento fi no a quando avevo 10 anni, in seguito in una bellissima casa in Via Mascagni 2, che mio padre ha fatto costruire lavorando duramente.

I ricordi scorrono velocemente nella memoria... dai banchetti delle caramelle all’uscita da messa tutte le domeniche, a Suor Davidica, alle feste di compleanno con amici di scuola dove giocavamo e correvamo felici.

E come dimenticare il negozio alimentari dove c’era Anna, la pasticceria Manuela Clara che faceva torte e dolci fantastici, la mitica cartoleria dove c’era Cleofe, l’ autoscuola Giulia dove ho preso la patente, la macelleria Romanatti Peverelli con il signor Mario e la Pia. La lista è infi nita. Poi un giorno a trent’anni il destino mi ha portata in Inghilterra. Ho conosciuto un uomo di cui mi sono innamorata e vivo tuttora nella bellissima campagna inglese dove ho una bellissima famiglia e due fi gli, ma quei primi anni di vita e l’adolescenza vissuta a Fino Mornasco resteranno una memoria indelebile nel mio cuore.

Fabrizia, Ester, Dino e Manuela

94 Hair Vanity

Hair Vanity è stato un desiderio, una voglia di mettermi in gioco ed affrontare la crisi che, purtroppo, il nostro paese stava affrontando. Dall’apertura sono passati 6 anni e sono sempre più fi era ed orgogliosa di quello che ho costruito.

Essendo una nuova attività, è stato diffi cile crearsi il proprio pacchetto clienti. I primi 3 anni li ho passati con l’aiuto di mia mamma, negli anni seguenti ho assunto la mia collaboratrice Alessia. Insieme abbiamo saputo creare nuove iniziative e nuove idee ed il nostro giro di clienti è notevolmente cresciuto; in aggiunta alle gioie del negozio nel 2014 è nato anche il mio piccolo Lorenzo, cresciuto anche lui insieme a noi, dato che ho lavorato fi no alla sera prima di metterlo al mondo. Cristina Saieva A metà 2015 purtroppo, io e Alessia abbiamo dovuto affrontare un gran problema: avevo subito una truffa. Sono stati momenti diffi cili e e di grande sconforto, momenti in cui dovevamo correre, affrontare persone con cui non avremmo mai pensato di averci a che fare. Non ci Alessia Rodigari siamo mai arrese, e questa volta possiamo dire che la giustizia ha fatto il suo corso, ma questa è tutta un’altra storia…

Tornando a noi, da Hair Vanity si può trovare un’ambiente familiare, due persone solari con una gran voglia di fare e dare sempre il meglio! Questo negozio per noi due signifi ca solo una cosa: CASA! 95 Ti chiederei una fi aba in più

Lo sferragliare del treno, il verde ancora stentato dei prati a primavera, l’orizzonte che sfumava nell’arancio del tramonto, non bastavano a quietare il groviglio dei suoi pensieri. Lui le teneva la mano, non gliel’aveva mai lasciata da quando erano saliti e si erano sistemati nei loro sedili. Eppure le lacrime di tanto in tanto le salivano agli occhi e le rotolavano lungo le guance. E allora lui la guardava, sereno, e le stringeva le spalle in un abbraccio stretto. “Luigia, non piangere più. Adesso sei mia moglie e non devi aver paura di niente. Siamo io e te e abbiamo una vita davanti. Pensa a questi giorni a Roma e a quando saremo fi nalmente soli. Sei felice, vero?” Mariangela Lei fi ssò quegli occhi vivaci e scuri e poi lo sguardo andò sulla fede nuziale. “Tanto, Giovanni”. Sorrise, fi nalmente, e aggiunse “Ho una fame! Chissà tu”. Sempio Giovanni portò la sua mano alle labbra e la sfi orò con un bacio. “Bionda, sei bellissima. Oggi non te l’avevo ancora detto. Il nostro matrimonio è stato meraviglioso, ma quel che è venuto dopo è stato triste, lo so. Un pranzo di nozze in due ristoranti diversi: da una parte la mia famiglia e da una parte la tua. E noi che partiamo senza aver mangiato nulla, per non fare torto a nessuno. Del nostro pranzo di nozze, abbiamo soltanto la manciata di confetti che mi son messo in tasca nel fazzoletto, guarda! A Milano per fortuna tuo fratello ci ha comprato il pane e un po’ di formaggio e, arrivati a Roma, qualcosa nella pancia l’avremo. Bionda, noi ci vogliamo bene e conta soltanto questo. Questo è il nostro viaggio di nozze e sarà indimenticabile. Da oggi in poi questa battaglia è fi nita: siamo sposati e noi due decidiamo delle nostre vite. Non ci importa più nulla degli altri. Ce l’abbiamo fatta, Luigia!”.

Non so dire come si incontrarono i miei nonni paterni e ignoro molti fatti, ma mi piace pensare che tra loro ci sia stato un colpo di fulmine e che si siano amati nonostante tutto e tutti. E l’ho immaginato così l’inizio del loro viaggio, che durerà trentaquattro anni e che si realizzerà con la nascita di quattro fi gli, tutti maschi. Le battaglie che loro due hanno combattuto sono state parecchie, anche durissime. Quella del loro fi danzamento, osteggiato dalla famiglia di lui, impallidisce, al confronto, perché alla fi ne i dissidi tra le due famiglie un po’ si stemperarono. A Vertemate i Sempio erano arrivati attorno al 1910 dalla Lomellina, dove la famiglia del suocero Pietro aveva una pileria per il riso ed un mulino. Giovanni era il secondo dei fi gli, dopo Sandra, che Marianna Barone aveva partorito in mezzo alla campagna e all’acqua di Ferrera Erbognone. Italo e la bellissima Irene, l’ultima arrivata, erano nati invece a Vertemate in Abbadia. Angela Luigia era una Rasarivo di Vertemate, fi glia di Giovanni Battista, 96 infermiere al S. Martino di Como, e di Maria Benzoni. Nata nel 1909, dopo aver frequentato la Scuola elementare, aveva imparato un buon mestiere: cuciva ed era piuttosto brava, tanto da specializzarsi come camiciaia e ricamatrice e da dedicarsi poi ai corredi da sposa. Era tanto brava da aprire un piccolo laboratorio in paese. I suoi due fratelli, Nino e Cirillo, da adulti apriranno un negozio d’alimentari ed un bar in centro a Como. Luigia era minuta e d’altezza contenuta, con bellissimi ricci biondi che le erano valsi il soprannome di Bionda. Una “camiciaia”, non era il massimo che la famiglia di Giovanni aveva immaginato per lui. Pietro Sempio si era trasferito a Vertemate per assumere la carica di economo dell’Abbadia, alle dipendenze del signor Antonio Tittoni. Con la famiglia abitava in quel luogo antico e imponente, dove lui sovrintendeva agli affari del possedimento, ne teneva i registri, gestiva i rapporti con gli affi ttuari del proprietario, in particolare con i mugnai della Valle Mulini. Ogni settimana, a cavallo e con un fucile in spalla, percorreva le strade e i sentieri della valle e ne visitava i mulini, controllando anche l’esatto utilizzo delle acque delle rogge del Seveso. Il suo era un lavoro gravoso, sia perché i mulini dell’Abbazia erano ben più di una decina, sparsi nella valle tra Casnate, Fino Mornasco, e Vertemate, sia perché erano frequenti i dissapori per l’utilizzo delle acque, sia più tardi quando la Grande Guerra raggiunse e sconvolse anche gli equilibri e le vite di quel territorio.

In famiglia ancora si tramandano storie ed episodi della vita dei Sempio in Abbadia, in quel luogo sospeso nel tempo. La storia predominante era che su quegli edifi ci ci fosse una profezia, quella che in Abbadia non sarebbe mai entrato il fuoco, l’acqua non sarebbe mai mancata e gli animali non avrebbero mai morso o provocato male ad alcuno. E Giovanni, in effetti, ricordava che là ogni mattina doveva scuotere le scarpe per assicurarsi di liberarle dagli scorpioni, numerosissimi, ma innocui. Raccontava anche che nell’archivio era conservato un prezioso e bellissimo manoscritto antico contenente la storia dell’Abbadia e che per troppa fi ducia il padre l’avesse prestato ad un alto prelato, intimo del padrone, che non l’aveva più restituito. Giovanni rammentava che nello spiazzo antistante la chiesa bastava affondare la vanga per imbattersi nelle ossa di defunti, che si diceva fossero stati sepolti lì dopo un’epidemia di peste. Giovanni descriveva un antico crocifi sso d’oro che stava appeso su una parete della loro abitazione, un oggetto apparentemente di nessun valore, del quale soltanto loro conoscevano la preziosità. Suo padre, quando aveva deciso di abbandonare l’incarico per screzi con il nuovo proprietario, aveva lasciato dov’era quel prezioso manufatto, perché sarebbe stato disonorevole e sacrilego asportare dall’Abbadia anche un minuscolo oggetto. In famiglia si ricordava che negli anni Venti l’antica chiesa di S. Giovanni Battista era ormai utilizzata come fi enile e granaio e che a Pietro la cosa sembrava immorale. Gli screzi con il nuovo padrone, Carlo Gerli (subentrato al Tittoni nel 1927), sembra fossero iniziati per il troppo interesse che costui dimostrava per mamma Marianna. E, in effetti, il personaggio era piuttosto discutibile e di pochi scrupoli, tanto da riportare due condanne per bancarotta. Per questi motivi Pietro Sempio a malincuore aveva dato le dimissioni e aveva lasciato l’Abbadia. Era rimasto però per qualche tempo a Vertemate, dove aveva aperto una merceria alla Pioda e dove se lo ricordarono a lungo per le iniziative e le innovazioni nell’allevamento dei bovini. Attorno al 1930 i Sempio acquistarono una licenza per vendita granaglie e combustibili e si trasferirono a Fino Mornasco, in un’ala dello Stabilimento Erba sull’attuale Via Trieste. Detta licenza di commercio passò poi a Giovanni, che con il matrimonio spostò abitazione e magazzino in Via De Amicis n. 2. Pietro e Marianna Sempio tornarono in Lomellina, a Palestro. La fi glia Sandrina si sposò e visse 97 a Mede, Italo traslocò a Milano dove conobbe la futura moglie Luciana e Irene convolò a nozze con il macellaio Pierino Verga di . Dunque per Giovanni e Luigia il paese di Fino Mornasco coincise con una nuova vita. La ditta, ubicata nei pressi della Stazione FNM dove arrivavano i treni merci con il carbone, fi orì velocemente. Luigia lavorava sodo e diventava madre nel 1933 di Piervittorio. Grazie a Giovanni, ricreò il suo laboratorio di camiceria e corredi, che a metà degli anni Trenta contava dieci lavoranti e del quale era unica intestataria. Contemporaneamente la famiglia cresceva con l’arrivo di Alberto nel 1937 e di Fernando nel 1941. Un anno prima l’Italia era entrata in guerra e anche a Fino la vita si era fatta più dura: col maggio 1940 per legge iniziò il razionamento dei consumi e con l’introduzione della carta annonaria la burocrazia e i registri divennero un capitolo importante, da seguire con grande meticolosità. Giovanni non era un aderente al Fascismo, ma per mantenere in piedi quel che aveva realizzato dovette farci i conti, soprattutto ogni volta che qualcuno del Partito pretendeva più del dovuto e chiedeva di deviare dal razionamento e dalle quantità previste dal tesseramento. In quel periodo diffi cile Giovanni qualche inimicizia se la fece.

C’era Fernando piccolo quando Luigia cadde malata e il responso del dr. Melloni fece temere il peggio: si era ammalata di tifo. Fu costretta al ricovero e a dividersi dal marito e dai suoi tre bambini, che Giovanni portò a Vertemate e affi dò ad una zia Rasarivo, la mitica zia Ida. Il decorso della malattia fu positivo e dopo qualche mese Luigia guarì del tutto. Proprio a causa del tifo fu costretta a rinunciare al suo laboratorio e fi nì per dedicarsi alla ditta. I tempi si fecero via via più diffi cili, anche se a loro non mancò mai il cibo, visto che Giovanni aveva messo in piedi anche un allevamento di maiali. Tuttavia le paure erano tante, soprattutto quando il marito andava col camion dai parenti in Lomellina per rifornirsi di riso, accompagnato da un aiutante e qualche volta da un fi glio, o quando risaliva le strade del Lago e raggiungeva la Valle d’Intelvi per la legna. Proprio durante uno di questi viaggi, sulla strada del ritorno nei pressi di , egli fece un bruttissimo incontro. Quel giorno del 1944 aveva portato con sé un aiutante e Alberto, che amava accompagnare suo padre ovunque. Tre o quattro repubblichini fecero fermare il camion e ordinarono che tutti scendessero a terra. Un tipo piccoletto in divisa chiese a Giovanni la documentazione del carico e lo informò che lo requisiva. Di fronte alle sue rimostranze, gridò l’ordine di stendersi a terra, a faccia in giù, a tutti e tre, anche ad Alberto (un bambino di sette anni). La legna fu requisita e i tre riuscirono a tornare a casa. Quel giorno sulla strada di Giovanni c’era Domenico Saletta, il capo dell’uffi cio politico della Questura repubblicana di Como. Dopo qualche tempo, in una notte d’inverno, la famiglia fu svegliata da un carabiniere di stanza a Fino Mornasco, amico di Giovanni. Tutto trafelato, l’uomo gli consigliò di scappare velocemente perché di lì a qualche ora sarebbero arrivati i repubblichini ad arrestarlo. Terrorizzata, Luigia preparò un piccolo bagaglio per il marito e lo vide partire in bicicletta. Giovanni pedalò tutta la notte fi no alla Valle d’Intelvi e il giorno dopo raggiunse la casa di un fornitore di legname, con cui aveva stretto amicizia da anni.

Egli rimase sulle montagne per qualche tempo, cambiando alloggio ogni tre o quattro giorni. A Fino aveva lasciato Luigia con l’ultimo nato (Angelo) e con Vittorio, Alberto e Fernando, che erano per lui un pensiero costante. La sua Bionda non si perse d’animo e continuò a lavorare, più di prima, e a sovrintendere come poteva alla ditta. Imparò a tenere i conti, un’incombenza cui si era sempre dedicato suo marito, diplomato alle Commerciali. Ogni giorno Luigia temeva che arrivasse la notizia dell’arresto del marito, che talvolta riusciva a farle avere notizie. Tra le mille incombenze, le toccava anche quella di andare in Villa Tagliaferri al Comando Tedesco 98 con il conto mensile delle forniture. E lì non ci andava mai sola, ma portava per mano Vittorio e Alberto, perché la paura era tanta. A distanza di anni Alberto conservava il ricordo della morsa della mano di sua madre, delle divise dei Tedeschi, di un’enorme cassaforte e soprattutto dei bassotti di un uffi ciale che avevano morso il fratello. Sul periodo di suo padre “in montagna”, Alberto non ricordava nulla, se non la sua dolorosa assenza, ma rammentava, invece, i nomi dei fi nesi ferventi fascisti, dei probabili delatori di suo padre. Poi fi nalmente a Fino passò la lunghissima colonna dei Tedeschi in fuga verso la Svizzera, non senza lasciare dietro di sé sventagliate di mitra e un morto. E fi nalmente Giovanni tornò a casa. Nel maggio del 1945 il CNL di Fino Mornasco lo dichiarò uffi cialmente unico ed esclusivo fornitore autorizzato di legna e combustibili per la popolazione di Fino Mornasco, specifi cando che “così vengono esclusi tutti gli altri abituali fornitori fuori Comune”. Dal 1963 la storia della famiglia continuò in Via Raimondi n. 4, nel condominio tutto cemento armato costruito dall’amico Lino Bianchi. Sulla nuova sede della ditta si era discusso a lungo in famiglia e l’aveva vinta Luigia, che convinse il marito ad abbandonare l’idea di acquistare la Villa Aurelia a Bregnano, per una vasta area di proprietà della Parrocchia. Un progetto che costò la demolizione di un vecchio edifi cio della Contrada del Sü, una pratica edilizia che a quell’epoca era una prassi. Rimodernato il vecchio cortile, dotato di una pesa pubblica, costruiti i depositi, il lavoro ricominciò e crebbe. Il lavoro per Giovanni e Luigia era sacro e fi nì soltanto con la loro ultima devastante malattia, a sei anni di distanza l’una dall’altro. Angela Luigia Rasarivo Sempio (1909-1974) Giovanni se n’era andato nel freddo novembre del 1968, a sessantatré anni; Luigia lo seguì nel 1974 a sessantacinque anni. Di mio nonno Giovanni ricordo l’altezza, i baffi e la parola “tucina” (bambina) del suo dialetto lomellino. Di mia nonna Luigia molte più cose, perché per dieci anni ci avevano separato soltanto due rampe di scale. La ricordo piccola e miope, molto religiosa, quasi sempre vestita di scuro, ma soprattutto sempre indaffarata, sempre con l’occhio al continuo andirivieni quotidiano dei clienti, dei fornitori, dei fi gli. Per noi nipoti il tempo era poco, però avevamo dei riti. Quello del venerdì, ad esempio, dove la merenda si faceva da lei con le frittelle di mele; quello del campanello che suonavo ogni volta che arrivavo da scuola prima di salire a casa e ogni volta che ne avevo voglia. Il rito più bello era però quello delle fi abe; poche, troppo poche, a ripensarci adesso. Non accadeva spesso che i miei genitori uscissero la sera, ma quando lo facevano, io, mio fratello Giorgio e mia sorella Elisa scendevamo le scale e Giovanni Sempio restavamo con nonna Luigia fi no alla mattina. Ci coricavamo (1905 -1968) tutti e quattro nel suo enorme lettone e a luci spente arrivavano i racconti della nonna. Questi iniziavano immancabilmente con 99 le marachelle di papà Alberto da piccolo: il principio d’incendio di un fi enile in Via De Amicis durante le prove d’accensione di una scatola di fi ammiferi fatte da lui e dallo zio Vittorio; una rovinosa e dolorosa caduta dal carro sulla discesa di Cassina Rizzardi; i pianti per l’uccisione di un asino malato ad un occhio (decisa irrevocabilmente dal veterinario Sala), etc, etc.. E poi noi le chiedevamo le fi abe. La più paurosa era quella del Faré Pipeta, un falegname furbissimo che vinceva una sfi da con i diavoli e con Belzebù in persona; ma quelle che ancora oggi ascolterei con piacere erano una serie di avventure di Gesù che, con San Pietro e gli altri apostoli, percorreva in modo avventuroso le strade e i villaggi di una terra lontana. In quelle fi abe Pietro era il personaggio saggio e Gesù il più furbo, in una sorta di gara tra i due, che si trovavano a fronteggiare ladri e cattivi, dentro avventure che richiamavano lontanamente il Vangelo. Oggi sono convinta che le fi abe di mia nonna, un po’ condite dalla sua fantasia, fossero i prodotti di una tradizione antica, la tradizione orale di chi per secoli aveva passato le sere nelle stalle coi Anno 1915 - Da sinistra: Sempio Giovanni, Pietro, vecchi e con le grandi famiglie allargate. Irene, Sandra, Italo e Marianna Barone Sempio

L’ultimo rito che condivisi con nonna Luigia fu quello della spesa ai tempi della sua malattia. Per lei andavo in farmacia dalla vecchia dottoressa Pinelli, per lei facevo il giro degli alimentari - e quanti ce n’erano in quegli anni in paese! - a cercare ogni volta un tipo di pastina sempre più piccolo, sempre più leggero, per uno stomaco minato dal cancro. Ma io questo lo ignoravo, perché credevo che lei fosse eterna e che quella di nonna Luigia fosse soltanto una mania. Avrebbe dovuto diventare un rito anche quello del pezö per imparare a cucire e a ricamare, ed era una promessa di mia nonna Luigia, ma questa passione non me l’aveva trasmessa o forse non ne ha avuto il tempo.

Via Raimondi, Fino Mornasco 100 Amici

Sono nata nelle Marche, esattamente a Fano, dove ho vissuto fi no all’età di anni cinque e mezzo; il periodo è stato breve ma il ricordo e l’amore per la mia terra sono indelebili. Nella vita tanti fattori concorrono a farci intraprendere strade diverse e proprio nel percorrerle infatti, da Fano sono giunta a Fino Mornasco. Quante cose sono cambiate per una sola vocale... anche se, come dice il proverbio, tutto il mondo è paese! Tutti noi, secondo le origini, abbiamo mentalità, caratteri, abitudini e tradizioni diverse ma tutto ciò non impedisce, nel rispetto reciproco, di sentirsi a proprio agio in ogni situazione. Interessante è vivere la vita della comunità: a volte si fa in maniera attiva apportando il proprio contributo altre in maniera passiva, certamente Maria Antonietta secondo la propria disponibilità. Personalmente non ritengo di avere doti o capacità particolari ma mi Signorini diletto con estrema umiltà a scrivere le “Sensazioni” che provo in alcuni momenti o situazioni. Ed è proprio a causa di questo diletto che Vi prego di perdonarmi: ho avuto il coraggio di partecipare indegnamente a questa bella iniziativa. Ai miei fi gli Basta uno sguardo, un sorriso, una piega sul viso. E fra noi c’è un’intesa. Essenziale Essenziale è crescere guardando il mondo con occhi di fanciullo, senza sottrarsi ai “rumori” della vita, senza spegnere i desideri del sapere.

Essenziale è vedere il bicchiere mezzo pieno per dar valore a ciò che si possiede e appalesar rispetto e gratitudine ai generosi doni del Creato.

Essenziale è esser tolleranti, condividere gli spazi e le risorse, dire grazie, scusa, perdonare e poi sorridere senza portar rancore. 101 ...ciao biondina... Pace di periferia Fano, via Fanella Socco, un pomeriggio d’agosto

“Ciao biondina, garibaldina trullalà, Socco, un pomeriggio d’agosto tu sei la stella di noi soldà”... “Pace di periferia” marciavano e cantavano i soldati Di Maria Antonietta Signorini ed io bimbetta, aggrappata al cancelletto, stupita, gioivo allegramente. Angolo di casa, scorcio di verde, A ritroso torno sui miei passi, leggiadria di passeri ai momenti che il tempo non cancella, e rumoreggianti tortorelle, a quel pesco dai frutti rossi e gialli, miagola un gatto sornione a quei fi lari d’uva dai grappoli succosi, e la natura narra le note quando la fanciullezza era serena di un magico fl auto. se pur vissuta con semplicità. Il gallo che cantava la mattina Sordo vociare di case, era la sveglia allegra di ogni dì echeggi gaudiosi e le galline, fi ere e ruspanti, e libere grida di bimbi. parevano felici di annunciare che le uova erano fresche di giornata. Un bianco ombrellone, La scala ripida portava ad un solaio una panchina al sole che aveva un non so che di misterioso: e prataiole screziate per noi bambini era un bel gioco a rompere il verde tappeto. fare scompiglio in quei vecchi bauli cercando....chissà quale sorpresa! Pace di periferia. E quella panca piena di frutta secca che la vicina, cui quasi ogni giorno facevo visita con piccole bugie, apriva con amore, appagando le mie golosità... Oh, casetta di periferia i cui ricordi di famiglia fanno sognare quel bel tempo che fu: ma sono oggi come raggi di sole che ormai purtroppo non scaldano più. E come poter dimenticare quei profumi di pane fatto in casa, di pesci cotti sulla brace, di allegre tavolate con gli affetti al cui appello rispondono i silenzi, e quel campo di grano dove, bambini, raccoglievamo fi ordalisi, papaveri e pannocchie aspettando la rumorosa mietitrice... Oggi, nemmeno questo...solo cemento.

102 Donne

Ho risposto con slancio a questa iniziativa di un incontro - seppur virtuale - che attraverso lo scritto ci offre l’occasione di dialogare per conoscerci meglio, per raccontare le nostre piccole o grandi storie, scambiarci consigli, dividere sogni e pensieri che altrimenti sarebbero rimasti chiusi in un cassetto o semplicemente affi dati allo scrigno della memoria di ognuna di noi. Le donne, proprio per l’importante ruolo che svolgono nella società, hanno sempre avuto molto da raccontare fi n da tempi immemori, ma la loro voce, vuoi per il pudore, vuoi per l’educazione, vuoi per i tempi e le opportunità è rimasta a lungo spenta o inascoltata. Passi enormi sono stati fatti per riscattarne il suono e per risvegliare, Camilla (Nuccia) delle donne, lo spirito ed il carattere, per spingerle a conquistare gli ormai inalienabili ed improcrastinabili DIRITTI, conseguendolo, a cominciare dal Diritto al VOTO nel lontano 1946. Silva Riandando indietro nel tempo mi piace ricordare qui, con Voi, le importanti e faticose tappe raggiunte che hanno rivalutato e migliorato, in parte, la vita delle donne. E’ soltanto molti anni dopo la prima conquista - siamo nel 1963 - che viene abolita la possibilità per i datori di lavoro di licenziare una donna per Matrimonio o Maternità. Nel 1970, in notevole ritardo su altri Stati, verrà promulgata la Legge sul Divorzio e nel ’75 la Riforma del Diritto di Famiglia; la contrastata e combattuta 194 riconoscerà nel 1978, oltre ad importanti tutele della maternità anche il diritto all’interruzione volontaria della gravidanza. Si metterà fi ne nel 1981 all’aberrante e medievale ‘delitto d’onore’ e al ‘matrimonio riparatore’, retaggio ancestrale di alcune zone del nostro Paese. Al riconoscimento delle Pari Opportunità sul lavoro (sic!) giunto dopo inspiegabili slittamenti fi no al 2010 farà seguito, nel 2011, la Legge che ammette le Quote Rosa (brutta defi nizione!) anche ai vertici aziendali, nonostante sia stato dimostrato in maniera evidente e tangibile che in ogni campo in cui sono presenti: politico, sociale, culturale, economico ecc., le donne hanno fatto e fanno la differenza. Gli ormai troppo numerosi fatti di cronaca in cui le vittime sono quasi sempre donne, ha condotto il legislatore a varare nel 2013 la Legge n.119 contro la violenza di genere, sia essa fi sica, sessuale o psicologica (art. 1 della Dichiarazione ONU) importante seguito al decreto tradotto in legge nel 2009 contro gli Atti Persecutori (stalking). Accogliere questa opportunità che ci viene data mi è sembrato il mezzo migliore per rendere omaggio a ‘quelle donne’ che attraversando i tempi, fi n dai giorni avversi degli inizi, hanno dato vita al percorso che ci permette oggi di contare con tali importanti conquiste: un semplice e doveroso esercizio di memoria. 103 Ci sono, in una donna, caratteristiche che la contraddistinguono: intelligenza, coraggio, volontà, spirito di sacrifi cio, pazienza e determinazione, doti che rendono ognuna di noi speciale ed unica.

1943 - Duno e il Monte San Martino (da Lettere a mia fi glia) “La memoria, per fedele che sia, deforma i fatti lontani” Monelli, citato da Rumiz in La Repubblica

… tuttavia, ho scavato nelle pieghe della mia memoria per narrarti cose realmente accadute molti anni fa, tanti che a volte il racconto pare confondersi con la fantasia. Ma non v’è fantasia se a riportare in vita il ricordo è la sofferenza, sono le paure vissute e che, seppur incolpevolmente magnifi cate o ‘deformate’ dal tempo, ti ricollocano in quei luoghi. “Dopo il viaggio in treno Saronno-Milano-Cittiglio, raggiungiamo ed affrontiamo la ‘Brevissima’, ripida mulattiera che sbuca sulla piazza del paese da cui si dipartono le viuzze che conducono alla Chiesa sulla sinistra, all’Albergo Duno sulla destra e, là in alto, alla casa dei nostri ospiti, il signor Battista Malcotti e sua sorella Giuseppina (Pepina): una casa a più piani adagiata in parte sulla costa del monte. Sul retro della casa, all’ultimo piano, un lungo granaio le cui aperture di mattoni posati a rete danno direttamente sul pendio che conduce al Monte San Martino, iscritto a pieno titolo nella Storia della Resistenza. Salendo ed oltrepassando il paese si va verso la malga dell’Alpe di Bis dove il signor Battista tiene le mucche al pascolo, curate da un esperto montanaro che produce col loro latte quei deliziosi formaggi che ci offre quando noi bimbe lo raggiungiamo, camminando sui sentieri che abbiamo imparato a conoscere. E’ estate, la scuola è chiusa per le vacanze estive così, con Chiara e Luisa, due lontane cugine più grandi di me e la Nonna Maria Filomena, impossibilitata a raggiungere il rifugio durante gli allarmi antiaerei a causa di una lieve diffi coltà motoria, siamo state portate fi n lì, sfollate. Laggiù nella pianura, nelle giornate più luminose, si scorgono i profi li delle città che emergono dalle nebbie che le ingoiano al primo nascere del giorno. Milano è soltanto una linea scura ed immaginata all’orizzonte; nel buio della notte, in quell’anno, le molte incursioni aeree illuminano con lampi sinistri quella zona, da noi appena percepita. Lontana per la prima volta dai mei genitori cui sono molto legata, mi duole l’assenza, un dolore quasi fi sico soprattutto quando sul calar della sera, dall’altoparlante del campanile il Parroco don Antonio Gatto diffonde, cantate da Gigli, le struggenti note di Mamma e dell’ Ave Maria di Schubert.

104 Il cuore si gonfi a e ti soffoca, la gola asciutta si nutre delle lagrime che scorrono senza rumore al pensiero che a casa, forse in pericolo, ci sono i miei genitori ed il nonno, il centro del mio mondo. Il resto è angoscia che dura e perdura fi no al mattino in cui veniamo chiamati all’unico telefono, quello della Trattoria Modoni, per rassicurarci: ‘Stiamo tutti bene’. Sopra di noi, sempre più spesso, spuntano da dietro il San Martino, minacciosi e quasi a sfi orarlo, gli aerei che semineranno distruzione e morte nelle nostre città. L’odio è un sentimento che i bambini non conoscono, ma l’avversione ed il rifi uto si annidano in fondo al loro piccolo cuore. Anche nel mio. Per distrarci, la Nonna - appassionata melomane - ci racconta ogni sera un’opera diversa: le conosce tutte! Così diventa prima Aida poi Radames e per mostrarci la scena della partenza di questi per la guerra, accennando il Ritorna vincitor, si arrampica aiutata da noi su una sedia che diventerà – nel palcoscenico da lei descritto - il balcone dal quale la principessa/schiava saluta il suo prode; oppure, intonando con la sua voce, ora non molto sicura, il Caro nome, ci parla di quell’infi do (e malmostoso, lo chiama lei) del Duca di Mantova/Gualtiero Maldé che inganna Gilda, la bella ed ignara fi glia di Rigoletto … E’ dopo l’8 settembre 1943 che i miei ricordi diventano vaghi e disordinati: i grandi parlano tra loro con voci sommesse di cose e fatti di cui non capisco bene il signifi cato; mi stupisce l’arrivo dello zio Gianni, caporale carrista 21enne e di uno dei fratelli Monti, che hanno disertato i rispettivi reparti allo sbando dopo l’ Armistizio. Il signor Battista, noto antifascista, li ha accolti e nascosti nel granaio nonostante i rischi che egli stesso corre se scoperto. Tolti alcuni mattoni della parete a monte, poi riposizionati affi nché non si noti, era stato aperto un varco dal quale in caso di pericolo avrebbero potuto fuggire. La loro idea iniziale di unirsi ai partigiani arroccati sul San Martino risulta non facilmente realizzabile dato che coppie di soldati tedeschi pattugliano ad ogni ora e a sorpresa i dintorni. Dal loro arrivo noi bambine vigilavamo a turno l’arrivo dei pochi mezzi che, giungendo al paese dalla carrabile, avevano la sola possibilità di sosta nel piazzale interno dell’Albergo, perfettamente visibile dalla nostra ringhiera/postazione del terzo piano. Così, appena vedevamo arrivare quelli con militari tedeschi, avvisavamo i nostri ‘ragazzi’ che si davano alla macchia. Gli adulti poi chiudevano il pertugio mascherandolo con alcune assi che venivano tolte al 105 momento del rientro. Nel gran fermento che seguì l’Armistizio, avvenne un fatto che mi ritorna di tanto in tanto in mente con una precisione quasi fotografi ca. Il Parroco aveva riunito con urgenza la scarsa popolazione (Duno era e pare sia ancora il paese meno popolato della Provincia di Varese) informandola che alcuni graduati tedeschi, dopo un sopralluogo, avevano deciso di occupare un locale prospicente la piazza dove depositare munizioni ed equipaggiamenti per farne una base operativa, forse per attaccare i partigiani del San Martino. (Cosa che avverrà dal 13 al 15 novembre 1943 in quella che viene chiamata appunto ‘la Battaglia del San Martino di Duno’).

La popolazione tutta si oppose. Così, quando le ‘sentinelle’ appostate lungo il percorso avvisarono che la colonna militare si era incamminata verso il paese, scesero tutti sulla piccola piazza. Capeggiato dal Parroco si formò un corteo, una processione di donne, bambini ed anziani e tutti insieme marciammo loro incontro per bloccarli. Li fermammo. Si fermarono. Ci furono voci concitate, uno scambio acceso tra i due gruppi fi nché, non so per quale miracolo del Cielo, si ritirarono… fortunatamente senza rappresaglie immediate.(*) C’ero anch’io lì davanti con i bambini del posto e nonostante i miei nove anni, avevo capito che qualcosa importante era accaduto e che qualcosa di ancor più importante stava per accadere. (In quel mentre le truppe alleate stavano risalendo la penisola dalla Sicilia verso il Nord). Mi è molto caro il ricordo di quello sparuto drappello di incoscienti che, con quel piccolo e coraggioso gesto sconosciuto ai più, era entrato nelle pagine mai scritte della Storia della Liberazione. La fi ne del confl itto avrà luogo il 25 aprile 1945.”

NOTE : (*) 18 novembre 1943 - le SS, per intimorire la popolazione insorta, distruggerà con tre potenti cariche di tritolo altrettanti edifi ci emblematici, fra questi l’antica Chiesa in cima al monte.

RINGRAZIAMENTI: Per confutare la realtà dei fatti narrati ed inserire i nomi di alcune persone e luoghi da me dimenticati nei 74 anni trascorsi da allora, ho potuto contare con il fortunato ‘incontro’ con la signora Francesca Boldrini, ricercatrice e storiografa ‘dunese’, alla quale esprimo la mia sicura riconoscenza.

106 Ricordi d’infanzia

Arrivai a Fino Mornasco a marzo 1960, avevo quasi cinque anni, in compagnia di mia nonna e mia zia, che erano venute per assistere i miei zii che avevano avuto un incidente in moto. Mia mamma e mia sorella più piccola ci avrebbero raggiunto qualche mese più tardi.

Mio padre, suo fratello e i fratelli di mia mamma vivevano già a Fino Mornasco, in zona Monti. Allora si viveva tutti insieme in una grande famiglia, soprattutto per dividere le spese. Ricordo che frequentai per qualche mese l’asilo, dove conobbi la mitica Suor Davidica. Poi alla scuola elementare ebbi come insegnante la sig.ra Salmoiraghi Elisabetta, una maestra severa ma molto scrupolosa e precisa. Rammento che a volte volava anche qualche buffetto, ma all’epoca era la normalità: la maestra lo faceva in modo affettuoso, perché ci Carmela Sorbara teneva tanto alle nostra educazione e alla nostra cultura. Serbo dei bei ricordi delle scuole elementari, anche delle mie compagne di allora, in particolare di una, perché andavo spesso a casa sua e mi piaceva ammirare i suoi bei libri. Molte volte me li prestava per leggerli. Ricordo che d’inverno il nostro passatempo preferito era quello di farci scivolare sulla neve con un bel piattone che si utilizzava per dare da mangiare alle galline e noi lo usavamo come slitta. A quei tempi nevicava tantissimo e le strade della nostra zona non erano asfaltate e rimanevano coperte di neve e ghiaccio per quasi tutto l’inverno. Spesso la domenica pomeriggio ci si ritrovava tra noi bambini per andare al cinema Mulino a vedere qualche cartone animato o fi lm per bambini.

Ricordo che quando ero in terza elementare, trascorsi un brutto periodo, perché mio papà si ammalò e passò un lunghissimo periodo in ospedale: la mia cara mamma fi nito di lavorare (in tessitura a Como), tutti i giorni andava a trovarlo in Villa Aprica. Per questo motivo mia sorella ed io eravamo sempre a casa con la nonna e gli zii. Quando iniziai la scuola media, percepii un gran cambiamento, anche perché persi gran parte delle mia compagne (tutte femmine) delle elementari. Fui inserita in una classe frequentata da ragazze provenienti da e Cassina Rizzardi. In quegli anni soffrii un po’ perché noi ragazze meridionali eravamo prese di mira, da parte di qualche alunna proveniente da fuori comune, eravamo le “terrone”. In compenso però ebbi dei bravi insegnanti. In particolare ricordo l’insegnante d’italiano prof. Teresa Confalonieri , fu molto più che un’insegnante per noi, si preoccupava dei nostri problemi ed era sempre disponibile. Ricordo che spesso mi invitava ad andare a casa sua a giocare con i suoi bimbi che quei tempi erano piccoli.

107 Frequentavo la seconda e terza media quando furono uccisi Martin Luther King e Robert Kennedy, ed io ne rimasi profondamente colpita. Di quel periodo mi è rimasta impressa la poesia “JIM CROW”. Ricordo che in Via Bisbino, Via Adamello c’erano poche case e tanti grandi prati e noi ragazzi amavamo scorazzare in bicicletta.

A quei tempi a casa mia non avevamo ancora la televisione, mia sorella ed io andavamo spesso a vederla dalla nostra padrona di casa , che ci preparava anche delle ottime patatine fritte. La prima volta che sono tornata in Calabria avevo tredici anni e i miei genitori mi avevano mandata a trascorrere le vacanze dai miei nonni paterni. E’ stata una bella vacanza mi sono sentita grande.

108 Una stella

Ciao, io sono Stella. Mi piace il ritmo della musica, TUM-TUM-CHA. Ogni anno a scuola noi facciamo uno spettacolo di musica alla fi ne dell’anno scolastico, ma quest’anno è molto speciale: faremo uno spettacolo di teatro. E soprattutto faccio anche teatro come “sport”! Lo spettacolo che stiamo preparando parla di un viaggio nel 1932, come si viveva senza telefono e come era la moda a quel tempo e si dava del “lei” a tutte le persone che non si conoscevano. Ma non voglio svelarvi tutto lo spettacolo, sennò che gusto c’è? Comunque torniamo alla musica: sto componendo un “ritmo in codice”, ci sono dei simboli a cui equivalgono degli strumenti e farò uno spettacolino a casa con lo “spartito” davanti. Uso dei tamburelli africani, la scatola delle pringles e le maracas. In quanto alla scuola, la maestra ci ha fatto ripassare sul foglio dell’album la nostra mano. La Stella Sourris maggior parte dei bambini ha colorato la mano con i colori caldi e fuori con i colori freddi (vedete il disegno). Io ho fatto come la maggioranza.

Disegno della mia mano con i colori caldi e freddi

109 L’allegria del carnevale Il gruppo folcloristico “Donne di Fino Mornasco” (di cui ho fatto parte per più di 20 anni) ha fatto sorridere i fi nesi durate le sfi late del locale carnevale. E’ nato da una idea della Clo (M. Clotilde Volpi) negli anni ’80 dello scorso secolo e si è protratto fi no ai giorni nostri. Ricordo tutto l’impegno gioioso dei mesi precedenti per l’allestimento: in dicembre nasceva l’idea del costume e subito dopo Natale ci si dava da fare per reperire l’occorrente, poi ci si riuniva alcune sere a settimana per preparare i costumi che venivano confezionati da noi tutte insieme. Tanti sono stati i temi, per citarne alcuni:

1985 “Le Brasiliane” - 1988 “Le Odalische” - 1992 “Le Sirenette” - 1993 “Le Negrette” - 1994 “I Diavoli” - 1995 “Le Streghe” - 1996 “Le Farfalle” - 1998 “Le Romane” – 2001 “Anonime Veneziane” - 2003 “Donnine del Luisa Tettamanzi Can-Can” - 2004 “I Pirati” e altri.

Infi ne la sfi lata concludeva con allegria un intenso periodo conviviale di lavoro, di amicizia e di divertimento.

Le Brasiliane, 1985 Anonime Veneziane, 2001

Le Porcelline, 2005 Can Can, 2008 110 Cip e Ciop

Era una bella mattinata di sole di 3 anni fa, quando mio marito tornò a casa con una cassettina di legno... non capii subito cosa ci fosse dentro, ma poi vidi due scriccioli piccolissimi. Lui mi disse solo “Me li hanno dati i Vigili, li hanno trovati in piazza Mercato e non sapevano a chi affi darli. Cosa dovevo fare?” Ed io risposi “Ok... non so se ce la faremo, non è facile”. Erano due gattini di pochi giorni. In certi casi internet è utile: mi misi a cercare siti che dessero consigli su come curare dei mici così piccoli e fortunatamente trovai una pagina con molti dettagli. Poi andai su facebook per contattare delle volontarie in zona, disponibili ad aiutarmi. La disponibilità è stata tanta, addirittura una di loro venne a casa nostra per portarmi un biberon e il latte adatto e a spiegarmi come lavarli e far fare loro i bisogni (cosa Antonella Topputo che di norma fa mamma micia). Il pomeriggio, corsa dalla veterinaria. Ci disse che avevano dieci giorni, che avevano gli occhietti malati e che bisognava curarli. Così iniziò la nostra avventura. Mio marito si occupò di metter loro la pomata negli occhi (io sono impressionabile) e mi portò il forno a microonde in garage per poter scaldare il latte; lui è una persona speciale e ci teneva, quanto me, che stessero bene. Non fu semplice! È come curare dei neonati: vanno allattati spesso perché il loro stomaco è piccolo, poppando devono stare in piedi perché potrebbe andar loro il latte di traverso. Vanno stimolati nei bisogni, dopo la pappa, e poi lavati e asciugati bene, inoltre devono stare al caldo, come fossero abbracciati alla loro mamma. Dovevo dar loro da mangiare ogni due o tre ore, anche di notte e ci volevano quasi tre quarti d’ora per fare tutto per bene… poi andavano pesati. I primi tempi abbiamo dovuto tenerli separati dalla mia banda (si, perché in casa abbiamo altri 4 gatti), perché potevano prendere o trasmettere qualche malattia, ma quando ci Ciop accorgemmo che le nostre attenzioni davano i loro frutti perché mangiavano di gusto e crescevano, decidemmo di portarli in casa e tenerli in bagno. Sarebbe stato più semplice fare tutto. Le prime due settimane furono faticose; ero stanca ed impegnata tutto il giorno accanto a loro, ma piano piano le poppate diminuirono, e 111 arrivammo al momento dello svezzamento. Devo dire che questi cosini così piccoli erano veramente svegli, quando misi loro la cassettina con la lettiera vicino la prima volta, entrarono subito e fecero pipì come l’avessero sempre fatto. Poi toccò alla pappa. Iniziai con un paté apposta per i cuccioli, e anche se entrarono nella ciotola, mangiarono volentieri. Era andata bene...i piccoli dormivano molto, ma quando si svegliavano si scatenavano, Cip facendo la lotta tra di loro, e quando io entravo in bagno per farli mangiare o per coccolarli, si arrampicavano sulle mie gambe per poi sdraiarsi uno sopra l’altro in cerca di carezze: era tutto un rumore di fusa! A quel punto mancava loro solo una mamma...qualcuno che se ne prendesse cura e li amasse e curasse. Con Ciop fummo subito fortunati. Infatti, portandolo per un controllo dal veterinario, incontrammo una ragazza a cui, di recente, era morto il gatto e quando lo vide se ne innamorò…. Il piccolo aveva trovato casa.

Con Cip, a cui era rimasto un occhietto velato, seguimmo un’altra strada . Misi annunci su facebook, e funzionò: ci contattò una ragazza tedesca che la voleva. Cominciammo a sentirci regolarmente per conoscerci e ci piacque subito. Quando i due gattini ebbero due mesi, dopo un ultimo controllo dalla veterinaria, li portammo nelle loro nuove case. Ciop è andato a vivere a Cantù, Cip si è trasferita a . Abbiamo avuto ancora occasione di vederli, siamo andati a trovarli. Cip ha altri fratellini, è diventata una bella gattona ed è amata e viziata; lo stesso per Ciop... i primi tempi era solo, ora ha un fratellino ed in casa è arrivato anche un cagnolino. Grazie a questa esperienza, decisi di aprire un gruppo su facebook per agevolare le adozioni di gatti persiani (io adoro questa razza) perché spesso, anche se comprati, questi mici vengono abbandonati e da soli morirebbero. Riusciamo ad aiutarne molti, pur con fatica: solo nel mese di dicembre abbiamo avuto sette adozioni; sette persone che ameranno e cureranno delle creature che avevano bisogno di loro. Poche? Io non credo, anche solo un’adozione è sempre una grande gioia perché si salva la vita ad un animale. Ho notato con piacere che ultimamente sono sempre più numerose le persone che manifestano il loro amore per gli animali. Anche a Fino ci sono molti cagnolini portati a spasso dai loro padroni. Non dimentichiamoci che loro avranno bisogno di noi per tutta la vita, nel bene e nel male. Non abbandonateli, sapranno ricambiarvi con tanto amore. E se poi avete vicino un marito speciale come il mio, che condivide l’amore che ho per queste creature, tutto sarà più semplice, anche aiutare due scriccioli così piccoli.

112 Sapore di ricordi

Agnese sulla poltrona del soggiorno sferruzzava serenamente un completino rosa per la sua nipotina in arrivo. Non aveva mai pensato che potesse essere così piacevole ora la vita dopo tanta sofferenza. Adesso si sentiva perfettamente a suo agio, suo marito CARLO era di fuori a lavorare nell’orto. Gli piaceva farlo molto bene. Lei sospirò sollevata, quante ne avevano passate lei e suo marito, ma ora si godevano i sacrifi ci di una vita intera. Nella sua mente suonò un campanello perché nella tranquillità era bello ricordare come si erano conosciuti lei e il Carlo. Dirigendosi verso la cucina preparò un buon caffè. Che bello essere soddisfatti! E’ comodo ora essere una nonna in attesa di una nipotina. Da quando era cominciata la gravidanza, lei non aveva alzato un dito, perché Rossella Trevisan Simone suo marito la coccolava e la viziava come non aveva mai fatto prima. Versò il caffè e ne porse uno al Carlo. Fuori faceva ancora freddo e una tazzina di caffè bello caldo era proprio quello che ci voleva. Velocemente la bevve tutta in un sorso e corse fuori a fi nire il suo lavoro. Lei era stata un’ottima moglie e nel corso di quattro anni la famiglia si era allargata e avevano avuto due fi glie: Daniela e Elena. Due brave ragazze che crescendo le avevano dato grandi gioie e soddisfazioni. Erano tutte e due impiegate a Como e grandi lavoratrici, non mancavano mai sul lavoro, erano sempre puntuali e lavoravano bene.

Come fu l’incontro con il Carlo? Un giorno con la sua motoretta entrò in un cortile a a cercare l’Ambrogio, un suo amico. Entrando vide una ragazza che stava bagnando i fi ori. Lui le si avvicinò e la salutò: “Buongiorno signorina bella!” Al che, lei alzò lo sguardo e nei suoi occhi c’era un’espressione sognante che la donna non aveva mai visto. Fu un colpo di fulmine, tanto che lui si dimenticò dell’amico e cominciò a parlarle. Le chiese come si chiamava e lei timidamente: “Agnese”. “Vedo che le piacciono i fi ori!” Lei: “Sì, sono la mia passione”. Dopo di che le chiese se la domenica le sarebbe piaciuto fare un giro con la sua motoretta. Lei felice disse di sì. Proprio non c’era mai salita sulla moto e vedendole passare per strada aveva provato un forte senso di curiosità. La domenica raggiante lo aspettò lì nel cortile. Nel giro di due mesi convolarono a nozze. Lui rise, imperturbabile. Oltrepassò la cancellata e si fermò: “Eccoci arrivati qui, questa è la nostra casa”. “Che bella!!”. “Mi fa piacere che ti piace”. La mia vita? Diffi cile defi nirla. Non sono nulla di speciale ma un uomo così chi se lo aspettava: onesto, lavoratore. Ha avuto l’ardire di aver coinvolto gran parte della mia esistenza determinando la via da seguire. Gli piaceva dopo il lavoro sedersi sotto il portico della casa. 113 Gli piaceva vedere il tramonto, specie dopo una giornata di lavoro. Era un modo perfetto per rilassarsi un po’. SAM, il suo labrador, gli si avvicinò sfregando il naso contro la mano prima di accasciarsi ai suoi piedi. ”Ehi bello, come va?” chiese Carlo accarezzandogli la testa. Uggiolò piano fi ssandolo con gli occhi rotondi. Sorrise tra sé: “Te’ sei un cane felice!” E lui con la lingua di fuori gli rispondeva così la sua contentezza.

E’ proprio vero ai cani gli manca la parola ma con gli occhi ti sanno dire tutto. Poi si passò le mani tra i capelli e guardò l’orologio. Erano le sette, ora di cena. Si alzò ed entrò in casa Quando lui entrò in cucina, Agnese era impegnata a preparare la tavola. Si voltò verso di lui asciugandosi le mani e incontrò il suo sguardo. “Sei stanco? Hai lavorato molto anche oggi! La cena è pronta” disse con calma. Aveva proprio la faccia stanca. Dopo essersi lavato ben bene, si accomodò. C’era un profumo invitante di stufato. Divorò lo stufato con le patate arrosto insieme ad Agnese. Bevve del buon vino e spazzò via con piacere il dolce alla crema che aveva preparato. Lui aveva una fame da lupi. Era proprio quello che ci voleva dopo una giornata di lavoro. “Sai, oggi sono andato a trovare il Paolo nella sua fattoria. Ci aspetta domani che lo andiamo a trovare. Vieni con me sulla motoretta?” Le disse e lei era felice.

Tagliarono con la motoretta in una via secondaria e girarono in un’altra strada, passando di fronte alla fattoria del Paolo. Quest’ultimo se ne stava in piedi appoggiato alla cancellata e fi ssava il suo terreno con una sigaretta fra le labbra. Dopo circa un’ora di strada sterrata erano arrivati. Lei era tranquilla. Il Paolo stava raccontando al Carlo che, dato l’alluvione che c’era stata, Anni ‘50 - Via Garibaldi, Fino Mornasco aveva dovuto ristrutturare la vecchia cascina. Ma ora l’aveva trasformata in una bella fattoria. “E’ stato un disastro, ma mi sono rimboccato le maniche e l’ho rimessa a nuovo”. Li invitò in casa per uno spuntino. Per tutto il tempo lei rimase in silenzio. Ascoltando quei due uomini che si raccontavano com’era andata . Entrambi provavano un forte senso di amarezza per la perdita che c’era stata, ma entrambi fecero i complimenti al Paolo perché non si era arreso e aveva ricominciato da capo, ristrutturando la cascina facendola diventare una bella fattoria. “Sai, l’inondazione aveva causato molti danni, non solo alla cascina ma anche al raccolto. L’altra sera l’avevo trovato al bar ad affogare i suoi dispiaceri nell’alcool, così ho pensato che una nostra visita l’avrebbe confortato”. Ricordando gli anni diffi cili del loro matrimonio, le mani di Agnese tremarono nel reggere la tazzina che aveva preso a sorseggiare nervosamente. La amava perché era legata a venti anni di ricordi, per lo più felici. Ora viveva qui nella casa lasciatale dai suoi genitori.

Quando si era trasferita a Fino Mornasco, lì erano nati e cresciuti i suoi fi gli, li aveva visti giocare, sotto quegli alberi e fare le prime corse in bicicletta. In quel quartiere era bello vivere perché 114 c’erano tanti bambini con cui giocare. La via Garibaldi era silenziosa e alberata, non era traffi cata come oggi da macchine e camion, ma solo ogni tanto era percorsa da qualche camion o da auto. Agnese lo aspettava sulla piazza del mercato che dominava il centro del paesino. Entrambi scesero lungo un vicolo stretto che si insinuava tra le case. Attraversarono la chiesa, in mattoni e selce, solida e senza pretese, poi andarono oltre, giungendo a una casa color crema che si ergeva squadrata su un prato ben curato. “Che casa incantevole!” convenne Agnese.

Molto elegante: era la nostra casa. Un giorno venne a trovarci un nostro cugino di Varese che si chiamava Ernesto. Dopo averlo fatto entrare e accomodare ci si mise a parlare un po’ di tutta la parentela che c’era. Dopo aver fatto quattro chiacchiere, gli preparai un caffè. Ma dopo il caffè cominciò a dire che gli faceva male il pollice della mano. Doveva aver fatto degli sforzi e quel dito non riusciva a muoverlo. Allora l’Agnese, che era brava a fare i massaggi, piano piano gli fece dei massaggi per farlo guarire. Pazientemente si cimentò a rimetterglielo a posto. Ma un velo di sofferenza gli velò lo sguardo. “Allora ti darò un bel grappino”. L’Ernesto non se lo fece dire due volte. Bevve il grappino e si vide la sua faccia trasformata. Era proprio quello che ci voleva. Il caffè era buono, ma quel grappino ancora di più. E allora l’Agnese gli disse: “Se ti succede ancora vieni qui che facciamo il bis”. Nello stesso tempo pensava anche all’altra fi glia, sempre attiva e diligente sul lavoro. L’episodio successe sul lavoro. Era un uffi cio con molti impiegati, un giorno sua fi glia ebbe il coraggio di chiedere al direttore cosa avrebbe pensato se tra tutti gli impiegati si fosse organizzato un corso di ballo. Al che il signor Bianchi disse: “Mmmh, signorina, un corso di ballo, non mi sembra proprio il caso! Se fosse un corso d’inglese sì, ma un corso di ballo proprio non mi sembra il caso”. Lei non si fece scoraggiare e fece una petizione tra tutti gli impiegati su chi avrebbe voluto partecipare: aderirono tutti! Cosicché la sera due volte la settimana ebbero l’entusiasmo di ballare, erano balli di tutti i tipi. E così tutti gli impiegati vi poterono partecipare e ballando il ballo che più piaceva a loro. Era stato un bel divertimento ma anche una bella rivincita. Anche il direttore vi prese parte! Non se lo sarebbe mai immaginato. La fi glia era entusiasta di averci provato: c’era riuscita.

La serata danzante portò felicità a tutti gli impiegati. I ricordi cominciarono ad affl uire nella sua mente, immagini felici che la memoria ingigantiva come tanti ciottoli colorati visti attraverso la limpida acqua di un fi ume. Grata con sé stessa di quei pensieri. Adesso la sua vita stava per farla diventare nonna ed era tutta emozionata al pensiero di avere la sua prima nipotina. Dopo aver visto sua fi glia nascere e crescere, ora si sarebbe trovata la sua nipotina tra le braccia da coccolare. Che bello sarà!!! Lanciò un ‘occhiata fuori dalla fi nestra che occupava tutta una parete del soggiorno. Adesso, dopo tanti anni, guardava i risultarti ottenuti e ne era gratifi cata. “Ho fatto bene la mia parte sia di madre che di moglie e ora farò la nonna. Che soddisfazione. E grazie al cielo stanno tutti bene!” Più il tempo passava, più sentiva che la pressione della guerra si attenuava e ora si godeva gli anni nella sua casetta. L’Ernesto dopo il massaggio fu felice di constatare che il pollice era andato a posto. “Ho un paio di commissioni da fare poi rientro a casa”. A casa, pensò lei tornando, ho Daniela, Elena e mio marito.

Agnese stava guardando fuori dalla fi nestra un ramo di magnolia in fi ore che oscillava alla brezza della primavera. Uno scoiattolo vi si stava arrampicando con agilità. Ogni tanto si fermava a osservare con sospetto ogni foglia che si muoveva. Poi riprendeva la sua corsa dopo essersi pulito con cura le zampine.

115 Papaveri e fi ordalisi

Correva l’anno 1970 quando arrivai all’età di 12 anni nel comune di Fino Mornasco, precisamente nella periferia: Andrate.

Ricordo ancora con amarezza quei primi giorni in questa campagna sperduta (allora lo era), poche case, alcune distanti, altre vicine, messe insieme a far fi nta di essere un quartiere. Per Margherita me che arrivavo da molto lontano e abituata ad avere a pochi passi da casa una piccola scuola, dei negozietti, la Valente Chiesa, gli amici… mi sono ritrovata qui ad Andrate, nient’altro che prati immensi. A volte seminavano granturco, a volte quello che a me sembrava grano... bellissimo spettacolo da vedere in estate quando i papaveri e i fi ordalisi spiccavano tra le spighe gialle del grano maturo, quasi più alte di me che ero, e sono, piccola di statura. Ricordi bellissimi, le spighe che ondeggiavano al vento d’estate, prima della mietitura. E poi… ecco che arriva l’inverno! La neve copriva tutto ed era un mare bianco che accecava la vista. E il freddo che arrivava nelle ossa a farmi sentire fuori luogo, un’estranea. Adesso tutto è cambiato. I campi non ci sono più, ci sono tante case, non ci sono negozi, e non c’è più il disagio di quegli anni. C’è solo rassegnazione e senso di appartenenza. Sì, perché ora, quando vado fuori per una gita o per una vacanza, mi sento a casa solo quando ritorno ad Andrate.

Anno 1979 - Andrate Margherita con la sorella Elisabetta (Collezione Enrico Orsengio)

116 Bianco e nero o a colori?

Mi chiamo Elena Vullo e questo voglio raccontare. Verso gli inizi degli anni 90 la mia famiglia si trasferisce a Fino Mornasco. Eravamo papà, mamma, due sorelle e un fratello. Una famiglia come tante altre, fatta da persone umili, che lavorano e le diffi coltà erano tante. Nel frattempo nasce nostra sorella e diventiamo quella che ai giorni nostri chiamano “famiglia numerosa”. Pochi soldi, ma io non me ne accorgo perché a me, bambina che mi affaccio alla vita, non manca nulla.

Andavamo a scuola, i miei lavoravano, si rideva, si scherzava, si litigava tra fratelli e si giocava con niente, anzi con tanto: gli amici del cortile e poi la sera si mangiava a quel tavolo, che ricordo grande, tutti assieme. Elena Vullo Ricordo le voci, quella sana confusione, sembrava “rumore” ma che oggi, con nostalgia, riascolto come musica nella mia mente. Ero felice e spensierata come una bimba di 10 anni.

Poi quel giorno…anzi quella notte che cambiò per sempre la mia vita! Mia mamma ebbe un malore, un dolore fi ttissimo che partiva dal suo petto e arrivava sino al mio cuore, l’ambulanza, lei sdraiata sul lettino e non immaginavo certo che quella fosse l’ultima volta che i nostri sguardi si incrociavano. E poi quel desiderio strano, dettato da una voce misteriosa, ma che una bambina non poteva comprendere, di darle un bacio, quella bambina non aveva però la forza e il coraggio di fermare i grandi mentre spingevano la lettiga dentro l’ambulanza. Che se ne andò con la sua sirena.

La mia vita e quella dei miei fratelli cambiò per sempre. Allora avevo12 anni, mia sorella quasi 14, mio fratello 7 e la più piccola 1 anno. Cambiò anche mio padre che non superò quel dolore e smise di fare il nostro bene.

Se ne accorsero tutti: i vicini, i parenti, gli assistenti sociali che iniziarono quello che per loro era un aiuto, ma che invece cominciarono a farmi vedere la vita in bianco e nero, sentire sempre freddo, perché quel calore che loro dicevano di dare non lo sentivo, neppure quando andavo in istituto il sabato e la domenica a trovare i miei fratelli più piccoli. 117 Continuavo a domandarmi il perché di tutto questo. Sono cresciuta troppo in fretta e non era più tempo di essere una bambina, nonostante avessi l’età di una adolescente. Ma diventando una donna sentivo il bisogno di avere una famiglia tutta mia, dei fi gli che litigano come fratelli e fanno tanto rumore a tavola con le loro voci. L’amore che non ho potuto avere da mia madre lo do a loro.

Adesso abito ancora a Fino Mornasco e, anche se il dolore non è vinto, riesco tutte le sere a darle quel bacio e a rivedere ancora una vita a colori.

Anni ‘80 - Villa Raimondi, Fino Mornasco

118 Vieni con me

La mia bambina col cuore leggero Corre sulla sabbia col mare dietro

Con la sua vocina è musica pia Da ballar con il vento e con la zia

E con parol tra le sue dita è fi aba Da scriver col papà strada facendo

La mia bambina si ferma incantata Se una canzon le canto anche stonata

Quando mi dice: “Mamma vieni con me!” Maddalena Zullo Stretta la mano mi conduce con sé

Sale i gradini e sforza i piedini Traballa, barcolla, al muro si tiene

Si siede, chiude gli occhi e poi sorride: “Cuccù, settetè”

Allora penso alla bellezza e al senso: dare al mondo la mia gioia più grande.

Seconda classifi cata al concorso di poesia “L’avventura di essere donna “ – Contursi Terme 2014

“Earth - fi re - light” - olio su tela

“Autoritratto”- Pastelli a olio su carta

“L’abbraccio” - olio su tela

119 Se è destinu, sarà! Questa poesia vuole raccontare e ricordare, con delle semplici pennellate vernacolari, una piccola grande donna che, inconsapevolmente, vivendo in maniera semplice ma esemplare, ha lasciato ai suoi fi gli e alle sue adorate nipoti, un grande insegnamento di vita. Se è destinu, sarà! Traduzione:

Quannu nònnema s’ascèta la matìna, Quando mia nonna si sveglia la mattina, S’aggira pe’ fore comm’ na gliaglìna. esce fuori dalla casa aggirandosi e vagabondando come una gallina. “Che vuo’, m’e’ giro e me voto e nu’ mme fi r’e’ “Che posso farci, mi giro e mi rigiro e non stà!” riesco a stare ferma!” Po’ dritta dritta ‘nda cucina se ne va. Poi dritta dritta se ne va in cucina. E sale un tale odore di frittura che solo lei è E s’aìza n’addore de frittura che sul’essa sàpe capace di fare fa’ O e il profumo della pizza che ha infornato O è l’addore d’a pizza ‘nfurnata rientu llà. dentro al suo grande forno. E ti passa la malinconia o il dolore E passa ‘a malincunia e ‘o relòre Di questi miei amari pensieri e d’amore. Di ‘sti peszieri amari e d’ammore. Capisci allora quello che resta e quello che serve veramente Capisci chell che resta e chell ch’abbasta Nella mia vita e in questa stanza. Rient’a vita mia e rient’a ‘sta stanza. E se mi vede con un viso scuro e triste, mi dice: E se cca’ faccia longa me ver’a me: “Che hai Maddalena? Che c’è, paperella?” “Che tieni Maddalè? Che è paparè?” “Lo vuoi un decotto o un tè?” “U vuo’ ‘nu recuotto o ‘nu ttè?” “Non ti amareggiare, se è destino che sia così, “Nu’ t’avvelenà, se è destinu, sarà!” così sarà!” Mi ricordo che mia nonna non sempre aveva a disposizione le radici o l’alloro. Va benissimo anche senza, tuttavia “più ci metti, più ti trovi” ossia se ci sono tutti gli ingredienti ti ritrovi un decotto delizioso ed effi cace! Ed ecco la ricetta del decotto della mia amata nonna Maria, vero balsamo per il corpo, la mente e il cuore. Decotto Mettere l’acqua in una pentola, aggiungervi 2/3 litri d’acqua tutti gli ingredienti e portare a bollore. Lasciar Un’arancia sbucciata bollire 20 minuti/mezz’ora, quindi spegnere il Un limone tagliato a fettine sottili fuoco e lasciar riposare una decina di minuti, Una mela tagliata a fette (con buccia) infi ne fi ltrare. Va sorseggiato lentamente, ben Qualche radice di malva caldo, con l’aggiunta di miele. Ha proprietà Qualche radice di bietola decongestionanti, allevia dal raffreddore Qualche foglia di alloro e dai sintomi infl uenzali o dalla tosse o, semplicemente, è una coccola per gli amanti del tè e delle tisane. Ottimo anche freddo, per chi, come me, non ne può più fare a meno.

120 Viaggio in Provenza

Maggio 2009

Partiamo all’alba. E l’attesa si stempera dolcemente all’inizio di un sogno. Si percorre la Riviera, che, pure assolata dopo tanti giorni di pioggia non è paragonabile a quell’immaginario fatto di sole e di cielo stracciato dal Mistral, di aria dorata, di mare dai tre colori, azzurro, verde, turchino che attendo di scorgere. Ed ecco il mare ed il cielo di Nizza che si contendono i colori e lo splendore. Siamo in Francia. Marisa Di nuovo in Francia e l’emozione si risveglia immutata. Lentamente appare quella Provenza incantata e immaginaria con la sua polvere d’oro, attraversata dai fi umi o sprofondata nelle rocce, (anonima) generosa ed ironica, sfrontata e pudica, abbagliante ed ombrosa investita dal vento, fi ltrata dal sole. Terra miraggio nella quale si collocano irresistibilmente i sogni sopra i connotati reali. Il primo impatto è con Aix en Provence. E’ una giornata di bel sole, intessuta d’oro e di seta. Un doppio fi lare di maestosi platani sembra inoltrarsi in un ambiente misterioso, senza tempo, veri guardiani di un santuario delle emozioni. Comincia il gioco dell’immaginare ben oltre ciò che si può vedere. Il mormorio dell’acqua delle fontane di Aix, lo stormire dei passeri sulla sommità della torre, il palazzo del Comune ed il suo cortile di sassi ben disposti che evoca immagini infantili. Il corso animato, i tavolini, le tende e le tovaglie sollevate dal vento, i colori, gli odori, un misto di spezie, di lavanda, di glicine, di lillà, di erbe profumate confusi insieme agli odori del cibo. La sera scende attraverso i canneti e le paludi della selvaggia Camargue. Si è colti dalla sensazione magica di far parte del gioco e di poter lasciar riempire gli spazi liberi con la fantasia. Attraverso distese d’acqua, vigneti, campagne fi orite di giallo, spiccano accesi i rossi dei grandi papaveri selvatici. Non c’è traccia umana - silenzio, acqua, vigneti e campagna - sulle rive mazzi di giaggioli selvatici gialli. Il vento e il mare, padroni del grande stagno dove le acque dei due rami del Rodano vanno a mescolarsi in mare. Giungiamo a la Grande Motte, un prodigio di modernità architettonica, con questi edifi ci candidi di grande e serena eleganza sparsi armoniosamente tra il verde degli alberi. Palme, pini marittimi, tamerici, ulivi, platani e fi ori che profumano l’aria che sa di mare. 121 Ecco il nostro bianco albergo sommerso nel verde che ci accoglie in quest’ora bleu come in un ritorno a casa. Dalla nostra camera si scorge la piscina, lo stagno ed un grande giardino alberato. E domani? Abbiamo cenato in una vasta sala aperta sul giardino e dopo cena ci siamo sentiti tra amici - c’è tra noi Alfredo! Siamo proprio in Provenza! “Di Provenza il mare e il suol” forse il canto libero sgorgato spontaneamente durante il viaggio veniva da qui? E domani … Arles. Strade lastricate che catturano la luce del sole e la restituiscono in giochi di chiaroscuri sorprendenti. Fontane a zampillo e balconi con ringhiere a merletto che adornano le facciate, pergolati e fi ori, glicini e rose, vasi di origano, basilico e timo. Erbe di Provenza dal profumo antico. E ci appare l’Arena su un promontorio a dominare la città. C’è sapore di Roma, di gladiatori, di lotta. C’è l’ombra dei tori dalle corna erette verso il cielo carezzate da fi occhi variopinti in una corrida provenzale fatta di grazia e di destrezza. Il toro qui non muore e le coccarde catturate ai giovani toreri vengono offerte in dono alla più bella. E all’improvviso uno scalpitare di cavalli che muovono dalla salita all’Arena. In groppa cavalcano i butteri della palude del Rodano con i larghi cappelli di feltro e le giacche di velluto sulla camicia candida. Al collo hanno fazzoletti colorati. Portano con sé le bastidiane, le belle giovani Arlesiane dalla fresca risata i cui candidi pizzi, i nastri di velluto, gli abiti dai tessuti variopinti e i deliziosi cappellini di paglia infi orati narrano la storia di usanze gentili con semplicità ed estrema raffi natezza. Uomini giovani, storditi da una bellezza quasi sconcertante sembra che vedano la vita con un misto di orgoglio, saggezza e rassegnazione. Il chiostro di Saint Traphime schiude per noi un angolo fi abesco nell’intreccio di capitelli diversi uno dall’altro, archi austeri, mura in pietra e all’interno un orto di lavanda, rosmarino, rose, timo, basilico, salvia e gelsomino. Scendendo si scoprono le rovine del Teatro Augusteo e l’Anfi teatro. Poi, un giro sul trenino ci svela le terme e la città vecchia. Nel pomeriggio minicrociera sul Rodano. Nel verde spiccano i cavalli bianchi al pascolo frammisti ai giovani tori neri. Un fenicottero rosa emerge dalle paludi sulle sue lunghe ed esili zampe come una canna mossa dal vento. Il sole abbaglia i grandi specchi di acqua salmastra. Qui si sente il battito d’ali del tempo che vola via, senza più stordirsi con il baccano delle nostre attività. Guardando questa campagna immersa nel silenzio delle acque riesce ad affi orare ciò che sta nel più profondo dei nostri cuori. E allora credo di vedere un volo di fenicotteri rosa nel terso cielo di Provenza. Che sconfi nate libertà ha il pensiero in questo spazio selvaggio! La corsa sfrenata dei cavalli bradi fra gli arbusti della pianura lacustre spazzata dal vento, regno delle acque e del silenzio Giungiamo a Saint Marie de la Mer. La leggenda delle Tre Marie. La chiesa. Il suono del grande organo dal colore verde e la cripta infuocata dai ceri. Le porte lignee scolpite. Il villaggio sospeso sull’acqua. Ritorno. Un orizzonte puro e un’aria trasparente esaltano i colori fi ammeggianti del tramonto al quale assistono, allineati sulla riva, stormi di gabbiani. 122 La sera cena Chez Tatal tra motociclisti, pentole sbattute sui tavoli, richiami e battimani e cozze gratinate. Ritorno sul Petit Train. E domani? Domani Les Baux, straordinario nido d’aquila arroccato su uno sprone roccioso nel paesaggio lunare delle Alpilles. Olivi che sembrano aprire un sentiero di luce argentata, castagni ai piedi delle cime dove nascono i temporali e dove si stendono gli arcobaleni. Uno è comparso anche nel nostro cielo, peraltro sereno. Rocce sparse di iris turchesi, viola, carminio. Siepi di lillà dal profumo dolcissimo. Questa Provenza viva, aspra e umana è il luogo immaginario dove ho messo al riparo i miei ricordi d’infanzia, è quella dei miei giochi infantili e dei loro inevitabili affanni, dell’adolescenza e delle sue pene d’amore ben presto dimenticate. E’ la capitale dei miei sogni, la mia torre di controllo emotiva. La sera, quando i tetti si tingono di rosa ho la sensazione di appartenere a queste case dalle persiane e dalle porte color pastello e di avervi vissuto moglie e madre felice. E Avignone: quando i rifl essi del crepuscolo danzano sulle acque del Rodano avvolgono le fortifi cazioni in una calda luce d’oro. E allora ecco la magia. Il canto delle cicale mentre il Mistral turbina fra i tendoni e le foglie dei platani ed invade la grande piazza al suono delle chitarre dei moderni trovatori. Gira la ruota del Carrousel illuminato ed inizia lo spettacolo dei mangiafuoco e degli acrobati. Riappare il piccolo Charlot e scende dalla sua antica scala laterale. Le grandi mura allora chiudono in un potente abbraccio quest’infi nità di sogni che racchiude questa terra alla quale non potremo mai dire addio. Porto nella mia casa un tessuto di Souleiado (nome provenzale che signifi ca raggio di sole che fi ltra da una nube dopo la pioggia) perché mi doni la ventata di allegria, la gioia di vivere, l’esuberanza, la fantasia e il calore di quest’angolo di Francia. Saint Tropez: opportuna ultima tappa che dopo un tuffo nelle rosse rocce dell’Esterel ci ha permesso di tornare a riva.

123 Una catena infi nita

Carissime Finesi, nella mia famiglia generazioni prevalentemente femminili hanno tramandato racconti appassionanti, sinceri ed affettuosi che custodisco nel mio cuore e nella mia mente come se fossero preziosissimi gioielli in uno scrigno.

L’idea di questo libro nasce quindi dal mio vissuto personale, unito al desiderio di condividere ed allargare a tutta la nostra comunità il tesoro delle nostre storie, di quelle che abbiamo ereditato da altre donne e che a nostra volta lasceremo alle giovani.

LE FINESI SI RACCONTANO è un’originale memoria storica e sociologica femminile, che rappresenta esperienze di sorellanza, amicizia e parentela lunghe più di un secolo. Sulle sue pagine abbiamo condiviso storie di vita vera, duro lavoro, infanzie felici o dolorose, culture diverse, amore, sacrifi ci e grandi sfi de. Le nostre pioniere hanno dato il meglio di sé nei campi, nelle fabbriche, nell’arte in tutte le sue forme, nello studio, nelle istituzioni, in casa e in famiglia, ovunque.

Noi tutte siamo anche ciò che altre donne ci hanno insegnato col loro esempio e la loro intelligenza. Quello che abbiamo di più caro, per cui è valsa la pena lottare e faticare, lo stiamo regalando alle nostre giovani, anche attraverso questo libro speciale. Le donne di domani porteranno nel mondo un po’ di noi, che siamo anelli di una catena che nessuno potrà spezzare.

Ringrazio di tutto cuore le autrici di questo libro e chi lo leggerà. Sono particolarmente grata alle assessore Marisa Reghenzani e Sara Minniti che tanto impegno hanno profuso per la realizzazione di questa antologia. Dedico questo progetto alla mia mamma e alle mie zie.

Elena Merazzi Consulta Pari opportunità di Fino Mornasco

124 Ringraziamenti

“Non vive ei forse anche sotterra, quando gli sarà muta l’armonia del giorno, se può destarla con soavi cure nella mente de’ suoi? Celeste è questa corrispondenza d’amorosi sensi, celeste dote è negli umani; e spesso per lei si vive con l’amico estinto e l’estinto con noi […] Sol chi non lascia eredità d’affetti poca gioia ha dell’urna; e se pur mira dopo l’esequie, errar vede il suo spirto fra ‘l compianto de’ templi acherontei”. Da I Sepolcri di Ugo Foscolo

Il valore del ricordo conservato nelle pagine di questo libro, realizzato grazie al contributo di molte donne fi nesi, rappresenta un dono prezioso per la nostra Comunità, oltre che un modo unico e originale con cui celebrare quest’anno la Giornata Internazionale della Donna. I ricordi che, come ci ricorda il Foscolo, rappresentano il mezzo di trasmissione di un vasto patrimonio di ideali e valori, sopravvivono al tempo grazie alle persone care di cui ci circondiamo solo se siamo in grado di lasciare un’eredità di affetti e di insegnamenti al prossimo, creando dei legami che neppure la morte può strappare. Di tutto questo patrimonio le donne sono portatrici infaticabili e costanti: con le loro doti di accudimento e di educazione, con la forza e l’equilibrio che le contraddistinguono, contribuiscono in modo talvolta silenzioso, ma sempre determinante, alla crescita e allo sviluppo del nostro Paese. Oltre che il compiacimento mio e dell’Amministrazione che rappresento per il patrocinio concesso a quest’iniziativa, esprimo il mio più profondo e sentito ringraziamento a chi si è occupato di raccogliere le testimonianze contenute in questo volume e, in primis, alla cara Elena Merazzi, referente per la Consulta delle Pari Opportunità del Comune di Fino Mornasco; alle bibliotecarie Stefania e Giovanna; ai componenti del Club Finese Fotoamatori e naturalmente a tutte coloro che hanno contribuito con i loro racconti a impreziosire questa pubblicazione.

Fino Mornasco, lì 8 Marzo 2018

Giuseppe Napoli Sindaco di Fino Mornasco

125 Finito di stampare a marzo 2018 da Tipografi a Caregnato - Gerenzano Elaborazioni grafi che e fotografi a a cura del Club Finese Fotoamatori Art director: Sara Minniti