Presentazione
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Presentazione Con il secondo volume della collana Architettura e Potere. Lo Stato Sabaudo e la costruzione dell’immagine in una corte europea continua il progetto di ricerca – frutto della cooperazione della Bibliotheca Hertziana di Roma (Isti- tuto Max-Planck per la Storia dell’Arte), del Consorzio «La Venaria Reale» e del Politecnico di Torino (Dipartimento di Architettura e Design e Diparti- mento Interateneo di Scienze, Progetto e Politiche del Territorio) – orientato ad approfondire e specificare il ruolo degli architetti di corte dei Savoia nel- l’ottica delle relazioni internazionali, sia sotto l’aspetto biografico, sia negli in- terventi progettuali ex novo e di completamento su diverse scale a livello ur- banistico per i sovrani, per la nobiltà e il clero, anche in centri italiani e non. Il convegno sistematizza gli studi finora condotti e fornisce nuove letture della figura di Benedetto Alfieri e della sua opera di architetto in un contesto che vede operanti e intrecciate la tradizione tardobarocca e rococò e la rinno- vata attenzione al linguaggio classico. I saggi, presentati da studiosi di livello internazionale, permettono innanzitutto di inquadrare in un sistema più orga- nico i contributi e le ricerche sin qui svolte, ma anche di riflettere sull’effettivo profilo di Alfieri attivo tra Asti, Torino, Vercelli e Ginevra. Anche con questo volume si vuole sottolineare l’importanza della coopera- zione della comunità scientifica internazionale e confermare il lavoro delle istituzioni coinvolte, accresciuto dalla possibilità di ospitare i convegni nei luoghi degli eventi, permettendo il contatto diretto con le opere discusse nelle giornate di studi. L’auspicio che si rinnova è quello che le ricerche finora con- dotte possano incentivare un’apertura del mondo accademico e scientifico nel processo interdisciplinare di aggiornamento, sistematizzazione e avanzamento della ricerca. Il comitato scientifico Architettura e architetti di corte in Europa tra Tardobarocco, Rococò e Classicismo 1 Paolo Cornaglia, Elisabeth Kieven, Costanza Roggero Benedetto Alfieri (1699-1767), architetto, avvocato e titolare delle cariche pubbliche di consigliere e sindaco di Asti, nel 1739 succedette a Filippo Juvar- ra (1678-1736) come Primo Architetto civile del re di Sardegna: una ponderosa eredità che seppe gestire magistralmente con un’attività ininterrotta presso Carlo Emanuele III (1701-1773), la sua corte e la città di Torino. A distanza di oltre trent’anni dalla prima monografia sull’artista 2 e a un ventennio dalla mostra sull’opera astigiana del Nostro 3 – gli unici lavori che affrontino coeren- temente il tema –, da un convegno su Benedetto Alfieri ci si attende una serie di risultati che specifichino e gettino nuova luce su quegli aspetti dell’attività del Primo Architetto Regio rimasti ancora insoluti. Questi sono stati elencati nel saggio di Amedeo Bellini: la sua formazione scolastica e culturale, la prima attività, ossia «le basi di una carriera che lo conduce [...] non più giovanissimo dilettante di provincia [...] alla carica di Architetto Regio», la verifica del - l’affermazione che non si trattava di un architetto dilettante, ma di un perso- naggio con un profilo professionale esperto e con una «preparazione architet- tonica di duplice valenza», il suo apporto nel funzionamento dello Studio Re- gio di Architettura, la continuazione dei progetti juvarriani, il suo eclettismo e la questione delle opere non realizzate, nonché della continuazione di quelle da lui improntate. Nel suo bilancio Bellini riconosce il persistere di condizioni ineludibili che ancora continuano a ostacolare un totale scioglimento dei punti rimasti irrisolti. Pur tuttavia sono significativi gli apporti di natura storico-biografica con- fluiti nel contributo di Carla Forno che aiutano a meglio comprendere la figu- ra alfieriana inserendola in un articolato reseau genealogico, nel quale per pri- ma cosa non va dimenticato il celebre Vittorio Alfieri e l’immagine che egli ha trasmesso dello zio nel complesso rapporto fra i due artisti – il poeta e l’ar- chitetto – accomunati dall’appartenenza a un’antica nobiltà di origini medioe- vali, oltre che dal vincolo familiare e dai legami di parentela che li univano a personaggi di spicco nella Torino settecentesca. Pur evitando di redigere un profilo ufficiale del «semi-zio» Vittorio, nella sua autobiografia, ci rende parte- cipi di ricordi e di giudizi in merito all’attività di Benedetto, aiutandoci a in- quadrare attitudini professionali e talvolta risvolti psicologici del nostro ar- chitetto. Oltre alle fonti scritte, per le quali mancano quasi totalmente testimo- nianze d’archivio che attestino, anche da parte di terzi, contatti di natura pri- 12 PAOLO CORNAGLIA, ELISABETH KIEVEN, COSTANZA ROGGERO vata o rapporti di carattere professionale e dove solo la tardiva biografia di Paroletti (1803) rimane l’unico punto di riferimento, scarseggiano anche quelle visive. Sono unicamente tre le tracce iconografiche che ci consentono di ri- costruire l’aspetto fisico di Benedetto Alfieri, che tuttavia risultano quanto mai problematiche per la loro autenticità. Andrea Merlotti le analizza nei suoi aspet ti più importanti, sottolineando quelli incongruenti con la conoscenza che abbiamo dell’Alfieri uomo e architetto. E nuovamente viene confermata la natura sfuggente di questo personaggio, favorita dalla situazione in parte la- cunosa degli archivi, quelli romani ad esempio, che pur permettendo di speci- ficare alcuni momenti dell’infanzia romana di Alfieri non consentono di verifi- care una sua frequentazione del collegio gesuita, venendo a mancare i registri di classe. Ciò nonostante Elisabeth Kieven delinea l’esuberante situazione cul- turale e artistica degli anni sotto il pontificato clementino (1700-1721), la forza motrice esercitata dall’Accademia di San Luca, la presenza di Juvarra a Roma e i dibattiti intellettuali presso la corte pontificia, ma anche nei circoli di nobili eruditi. Pur non disponendo di informazioni precise sull’insegnamento ricevu- to dal promettente architetto, certo è che nella città papalina egli aveva avuto la possibilità di sfruttare un fertilissimo terreno intellettuale. Con questo bagaglio di esperienze Alfieri fece dapprima ritorno a Torino, dove studiò legge presso il Collegio dei Nobili, trascorse successivamente un periodo ad Asti dove esercitò tra l’altro l’arte forense prima di entrare a contatto con la corte sabauda e diventarne il principale artefice in campo architettonico. Ma prima di affrontare questi aspetti va delineato il contesto internazionale. Grazie a studi specifici su figure contemporanee al Nostro, attive presso corti italiane ed europee, una campionatura ha reso possibile un confronto sulla po- sizione, l’attività, la competenza e le responsabilità di un architetto di corte: Vanvitelli (1700-1773) per i Borbone a Napoli, Jean-Nicolas Jadot (1710-1761) per i Lorena nel Granducato di Toscana, Ennemond-Alexandre Petitot (1727- 1801) per i Borbone a Parma, Ange-Jacques Gabriel (1698-1782) alla corte francese e Ventura Rodríguez (1717-1785) uno dei massimi esponenti dell’ar- chitettura tardobarocca spagnola. Dai singoli studi emerge che la figura dell’architetto di corte non ha un pro- filo preciso e definito, ma che varia a seconda delle esigenze e in virtù del- l’eterogeneità delle corti, seppur nel comune intento di una loro massima cele- brazione. Così i temi della chiamata a corte, il conferimento della carica, i compiti e le competenze vanno affrontati di volta in volta singolarmente. Tro- viamo Luigi Vanvitelli, nell’analisi di Jörg Garms, al seguito dei Borbone a Caserta, il quale pur non essendo per natura ‘uomo di corte’, ben si inserisce e adatta alla situazione, soprattutto cercando di sfruttare la sua posizione, oltre che a fini personali, anche per garantire un futuro ai figli. Spesso tuttavia le chiamate non dipendono da una fama consolidata, ma piuttosto da un talento che spesso si manifesta più nella forza persuasiva dei progetti e nelle compe- tenze tecniche che nelle architetture realizzate. Le doti di Vanvitelli – per il quale, contrariamente all’Alfieri, si dispone di innumerevoli lettere – sono la «prontezza lodata dal re [...], i disegni e le grandiose prospettive [...], la con- ARCHITETTURA E ARCHITETTI DI CORTE IN EUROPA 13 duttura delle acque, il traforo del monte e l’acquedotto» – che furono soste nu - te dalle ottime raccomandazioni. Pur tuttavia la fiducia va conquistata e con- fermata presso i sovrani e per Vanvitelli sono puntualità, precisione, onestà, «servizio con amore e assiduità» a fornirgli il giusto apprezzamento, ma solo finché serve: cambiano le situazioni, il sistema si trasforma e l’architetto può presagire il suo declino a corte e l’abbandono del cantiere con importanti opere ancora da ultimare; quelle che prima erano raccomandazioni possono diventare screditamenti: dall’ascesa alla caduta. Anche la personalità artistica di Jadot, affrontata da Oronzo Brunetti, è dif- ficilmente definibile e ugualmente per lui sono lacunosi gli anni della for- mazione, non si hanno testimonianze di un’appartenenza a un’accademia, le opere eseguite sono modeste (tra l’altro quasi tutte di natura effimera) e molteplici sono le manifestazioni di ostilità da parte dei fiorentini nei confron- ti dell’architetto lorenese. Anche in questo caso rimane imperscrutabile il mo- tivo per cui il granduca Francesco Stefano (1708-1765) abbia tanto sostenuto la carriera del giovane Jadot, che a Firenze aveva eseguito unicamente un arco di trionfo, e lo abbia