LA TRADIZIONE GNOMICA NELLE LETTERATURE GERMANICHE MEDIEVALI

A cura di M. Cometta, E. Di Venosa, A. Meregalli, P. Spazzali

LA TRADIZIONE GNOMICA NELLE LETTERATURE GERMANICHE MEDIEVALI

A cura di Marina Cometta, Elena Di Venosa, Andrea Meregalli, Paola Spazzali

Dipartimento di Lingue e Letterature Straniere Facoltà di Studi Umanistici Università degli Studi di Milano © 2018 degli autori dei contributi e dei curatori per l’intero volume ISBN 978-88-6705-828-0

illustrazione di copertina: Ólafur Brynjúlfsson: Sæmundar og Snorra Edda (Copenhagen, Royal Danish Library, NKS 1867 4°, f. 94r)

nº 27 Collana sottoposta a double blind peer review ISSN: 2282-2097

Grafica: Raúl Díaz Rosales

Composizione: Ledizioni

Disegno del logo: Paola Turino

STAMPATO A MILANO NEL MESE DI SETTEMBRE 2018

www.ledizioni.it www.ledipublishing.com [email protected] Via Alamanni 11 – 20141 Milano

Tutti i diritti d’autore e connessi sulla presente opera appartengono all’autore. L’opera per volontà dell’autore e dell’editore è rilasciata nei termini della licenza Creative Commons 3.0, il cui testo integrale è disponibile alla pagina web http://creativecommons.org/licenses/by-sa/3.0/it/legalcode Condirettori

Monica Barsi e Danilo Manera

Comitato scientifico

Nicoletta Brazzelli Francesca Orestano Marco Castellari Carlo Pagetti Laura Scarabelli Nicoletta Vallorani Andrea Meregalli Raffaella Vassena Giovanni Iamartino

Comitato scientifico internazionale

Albert Meier Sabine Lardon (Christian-Albrechts-Universität zu Kiel) (Université Jean Moulin Lyon 3) Luis Beltrán Almería Aleksandr Ospovat - Александр Осповат (Universidad de Zaragoza) (Высшая Школа Экономики – Москва) Patrick J. Parrinder (Emeritus, University of Reading, UK)

Comitato di redazione

Sara Sullam Simone Cattaneo Valentina Crestani Elisa Alberani Nataliya Stoyanova Angela Andreani

Indice

Prefazione ...... 9 verio santoro

La fraseologia storica germanica: temi, strumenti, metodi ...... 13 elena di venosa

Immagini letterarie della schiavitù negli indovinelli dell’Exeter Book ...... 29 marusca francini

Riflessioni gnomiche inThe Wife’s Lament ...... 53 concetta sipione

“The Fleeing Foot is the Confessing Hand.” Proverbs in the Laws ...... 79 rolf h. bremmer jr

Gli usi dell’elemento gnomico nel Bruce di John Barbour ...... 101 valeria di clemente

Gli insegnamenti del Leken Spieghel di Jan van Boendale nel contesto cittadino brabantino del XIV secolo ...... 121 davide bertagnolli

Ein meister sprichet. Dicta (Sprüche) come strumento didattico nella mistica tedesca del XIV secolo ...... 137 dagmar gottschall Die Sprichwörter in Hans Vintlers Blumen der Tugend ...... 151 elisabeth de felip-jaud

English Abstracts ...... 165 Gli autori ...... 169 Indice dei nomi ...... 171 Indice delle opere anonime e dei libri della Bibbia ...... 179 Indice dei manoscritti ...... 181 PREFAZIONE

Verio Santoro Università degli stUdi di salerno Presidente dell’associazione italiana di Filologia germanica

Il volume raccoglie la gran parte dei lavori del XLIII convegno dell’Associa- zione Italiana di Filologia Germanica ospitato dall’Università degli Studi di Milano nei giorni 30 maggio-1 giugno 2016 e dedicato alla tradizione gno- mica nelle letterature germaniche medievali. L’ampia tematica del convegno è stata affrontata in saggi puntuali e specifici per quanto riguarda l’area lin- guistico-culturale (anglosassone, altotedesca, frisone, scozzese e fiammin- ga), il periodo (dall’alto al basso medioevo), l’approccio metodologico alle varie tipologie di testi oggetto di studio. La serie dei contributi si apre con uno studio di Elena Di Venosa (La fra- seologia storica germanica: temi, strumenti, metodi) dedicato all’incontro tra paremiologia e fraseologia storica, con un’ampia presentazione dei diversi filoni di ricerca, non sempre omogenei nell’ambito delle varie lingue ger- maniche e principalmente riconducibili alle scuole tedesca (più incline alla paremiologia) e inglese (che predilige invece la fraseologia in senso stretto). Il contributo offre una presentazione dei principali aspetti paremiologici e linguistici di questo ramo della linguistica storica, costituendo così un utile punto di partenza teorico in funzione dello studio dei successivi saggi raccolti nel volume. Il secondo contributo di Marusca Francini (Immagini letterarie della schiavitù negli indovinelli dell’Exeter Book) si concentra sull’immagine del- la schiavitù che emerge da tre indovinelli tramandati dal celebre codice di Exeter; presente in modo particolare nella letteratura anglosassone, il gene- re poetico dei Riddles si dimostra adatto a veicolare riflessioni e contenuti di tipo gnomico. Dopo una generale presentazione della situazione relativa

|9| | verio santoro | alla schiavitù nella Britannia anglosassone dall’adventus Saxonum sino alla conquista normanna, il contributo focalizza la sua attenzione sulla termi- nologia della schiavitù e sull’evoluzione del termine wealh contenuto negli indovinelli 12, 52 e 72. Nel successivo saggio (Riflessioni gnomiche in The Wife’s Lament) Concetta Sipione propone una rilettura gnomica dei versi finali del compo- nimento anglosassone noto come The Wife’s Lament, da sempre al centro di un appassionato dibattito; sostenuta da una ricca analisi delle corrispon- denze con il restante corpus poetico anglosassone, la rivisitazione gnomica dei versi finali del componimento permette all’autrice di ripianare alcune asperità e incongruenze del testo e di legare meglio i vv. 42-47a con i suc- cessivi vv. 47b-52. Il contributo di Rolf H. Bremmer Jr (“The Fleeing Foot is the Confessing Hand.” Proverbs in the Old Frisian Laws) propone un rapido panorama della letteratura d’argomento gnomico, e specificamente dell’elemento proverbia- le, nelle diverse aree germaniche – anglosassone, scandinava (in particolare islandese) e tedesca – e un’utile ricostruzione degli orientamenti degli stu- di relativi ai proverbi antico-frisoni, a partire dal primo pionieristico lavoro dell’umanista George Burmania, attraverso il periodo romantico e sino al XX secolo. Sulla base di una puntuale analisi di alcuni passi di particolare interesse (principalmente dalla raccolta di testi giuridici conosciuta come Jurisprudentia Frisica, tardo sec. XV) e di nuovi traguardi della ricerca (gli studi di Klaus von See), lo studioso passa poi ad analizzare la natura, tipo- logia e funzione dei proverbi nei testi giuridici frisoni, distaccandosi dalla tradizionale interpretazione dei proverbi come relitti di un più antico e co- mune passato germanico. Valeria Di Clemente (Gli usi dell’elemento gnomico nel Bruce di John Barbour) si occupa dell’uso funzionale dell’elemento gnomico da parte di John Barbour nel poema da lui dedicato alla vita e alle imprese di Robert Bruce, riprendendo, ma anche precisando e arricchendo, il precedente lavo- ro del filologo e paremiologo statunitense B.J. Whiting. L’indagine dell’au- trice si sofferma sulla modalità di occorrenza di proverbi, massime e sen- tenze nel poema, sulla loro funzione e sulla presenza di temi e situazioni ricorrenti, analizzandone nell’economia della narrazione le modalità di in- serzione nel testo (come rielaborazione o come citazione estesa); attenzione è anche dedicata a loci particolarmente strategici del componimento dove sono esaltati quei concetti morali e/o sociali che sostengono l’impianto pro- pagandistico del poema. Il contributo di Davide Bertagnolli (Gli insegnamenti del Leken Spieghel di Jan van Boendale nel contesto cittadino brabantino del XIV secolo) prende in esame un testo enciclopedico composto nel secondo decennio del XIV seco- lo da Jan van Boendale (il Leken Spieghel), in particolare concentrandosi su quei passi del terzo libro che possono essere ricondotti al contesto cittadino

10 | prefazione) | e più in generale al Ducato di Brabante, in cui l’autore, poeta e segretario della città di Anversa, aveva operato. Il saggio vuole così favorire la com- prensione di quegli insegnamenti che nel testo insistono sulla centralità del bene comune, contestualizzandoli dal punto di vista storico e riconoscendo l’influenza su di essi esercitata dall’analogo concetto di communis utilitas, già presente in uno scritto di Tommaso d’Aquino (noto come De regimi- ne Judaeorum, ad Ducissam Brabantiae) indirizzato alla duchessa Aleidis di Borgogna, che all’Aquinate aveva richiesto consigli di natura politica dopo aver temporaneamente preso la reggenza del Ducato di Brabante alla morte del marito Hendrik III. Dagmar Gottschall (Ein meister sprichet. Dicta (Sprüche) come strumen- to didattico nella mistica tedesca del XIV secolo) propone una, per molti versi originale, interpretazione del cosiddetto dictum (Spruch), costituente vitale della predica e del trattato, che si fa strada a partire dal XIV secolo con la sempre maggiore diffusione della letteratura religiosa volgare in prosa. Il contributo si sofferma più precisamente sul detto mistico Mystikerspruch( ), raramente oggetto in passato di specifica attenzione; concentrandosi sul contenuto dei detti, sulla loro funzione e sul loro possibile valore didattico, il saggio offre un’interpretazione del detto mistico nella prospettiva della letteratura gnomica. Chiude il volume il saggio di Elisabeth De Felip-Jaud (Die Sprichwörter in Hans Vintlers Blumen der Tugend) dedicato allo studio dell’elemento pro- verbiale nell’opera dello scrittore Hans Vintler Blumen der Tugend, il più ampio componimento poetico in lingua tedesca del tardomedioevo tirolese, basato sull’opera in prosa Fiore di virtù dell’italiano Tommaso Gozzadini. L’elemento proverbiale presente nell’opera di Vintler è attentamente analiz- zato nel suo rapporto con il modello italiano (prendendo come base di con- fronto l’edizione a stampa di Giovanni Bottari del 1740), sia dove esso più fedelmente sembra seguire il testo di partenza (come nella prima parte), sia dove esso sembra con più decisione progressivamente distaccarsene (come nella seconda parte). Come il lettore potrà osservare, gli argomenti e i testi trattati ribadiscono l’ampiezza e la vitalità della ricerca e degli interessi scientifici della comuni- tà dei filologi germanici italiani e confermano il convegno annuale della loro associazione – con il contributo da tempo consolidato di importanti speciali- sti stranieri – come fondamentale luogo di confronto sui diversi aspetti della cultura germanica medievale.

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LA FRASEOLOGIA STORICA GERMANICA: TEMI, STRUMENTI, METODI

Elena Di Venosa Università degli stUdi di milano

Un’indagine sulla tradizione gnomica nei testi germanici antichi non può che fondarsi sulla fraseologia storica abbinata alla paremiologia. Gli aspetti affrontati da queste due discipline sono numerosi e vari. La fraseologia sto- rica in senso stretto presta attenzione soprattutto a come sono costruite le varie locuzioni: individua così ad esempio le formule binarie allitteranti, le enumerazioni sindetiche o asindetiche, i parallelismi o le strutture rimate; gli studi paremiologici invece si occupano del retroscena culturale di tutte le espressioni di carattere erudito o moraleggiante. Si tratta di due facce della stessa medaglia, poiché i testi didascalici più comuni, come sentenze, proverbi e norme di comportamento, vengono enunciati secondo strutture tipiche e fisse, così come le formule o le frasi idiomatiche, per le loro parti- colarità lessicali dal significato più o meno traslato, hanno imprescindibili riferimenti culturali.1 Pur consapevoli dell’impossibilità di esaurire l’argomento, riteniamo co- munque utile proporre in questa sede un inquadramento di questo ramo della linguistica storica e di alcuni dei suoi possibili indirizzi di studio, da quelli più tradizionali a quelli più recenti, per poter affrontare al meglio i contributi qui pubblicati. Nell’ambito delle varie lingue germaniche antiche, i filoni di ricerca non sono omogenei. Con l’eccezione degli studi di area scandinava, che seguono l’impostazione anglosassone o tedesca a seconda dell’oggetto da approfon-

1 Burger (2012, 2) fa notare che la fraseologia storica è una disciplina che ha iniziato a fiorire recentemente, mentre finora era rimasta in secondo piano nell’ambito più generale della storia della lingua.

|13| | elena di venosa | dire,2 si possono individuare due grandi nuclei di ricerca, che hanno arric- chito rispettivamente la paremiologia e la fraseologia storica. La scuola tede- sca tende verso la paremiologia, ovvero mostra più interesse per i contenuti storico-culturali, mai dimentica degli studi filologici dei fratelli Grimm. In Germania infatti è profondamente radicata la passione per i proverbi, come dimostra la secolare tradizione delle raccolte paremiografiche di uso dotto o religioso, soprattutto di ispirazione luterana.3 In area inglese invece gli stu- di paremiologici prendono slancio solo negli anni Trenta del XX secolo, per concentrarsi sull’aspetto folclorico, letterario e antropologico (Norrick 2007, 615).4 La scuola anglosassone predilige la fraseologia in senso stretto, di taglio più tecnico-linguistico, per approfondire lessico e sintassi soprattutto delle collocazioni (Norrick 2007, 615, 617).5 Questo avviene dopo la seconda metà del XX secolo come reazione all’influsso di Noam Chomsky, che aveva frena- to questo tipo di studi, poiché nella linguistica generativa l’idiomaticità era vista solo come un’anomalia del sistema semantico, e la cristallizzazione di molte locuzioni costituiva un ostacolo all’analisi trasformazionale.6 Ancora oggi negli ambienti accademici di lingua inglese, dove sono stati recepiti i più recenti modelli di analisi (soprattutto pragmatica, linguistica dei corpora e linguistica delle costruzioni),7 la fraseologia storica rimane ai margini di una ricerca dominata dalla linguistica contemporanea (Knappe 2012, 183).

1. aspetti paremiologici

La fraseologia storica si può dividere in due rami: quello diacronico, che ri- costruisce l’origine e lo sviluppo delle locuzioni presenti nel lessico odierno,

2 Palm Meister (2007, 673) lamenta lo scarso interesse della nordistica per gli studi fra- seologici, a eccezione dell’impostazione contrastiva per motivi lessicografici. Al contrario, la panoramica di fraseologia storica in area nordica di Lüthi e Naumann (2002, 243) sottolinea che gli studi sui proverbi norreni hanno una lunga tradizione. Per quanto riguarda le attesta- zioni antiche, le raccolte di proverbi sono numerose, mentre non è ancora stato approntato un corpus fraseologico. 3 In area tedesca a partire da Erasmo da Rotterdam e Johannes Agricola. Della storia delle raccolte paremiologiche tratta Seiler 1922 nei capp. V e VI. Fondamentale per ricostruire la circo- lazione dei proverbi in Europa a partire dal medioevo è il Thesaurus Proverbiorum Medii Aevi (1995- 2002), il cui punto di partenza è lo studio di Samuel Singer Sprichwörter des Mittelalters (1944-47). 4 Gli studi sono inaugurati da Taylor 1931 e Whiting 1932. 5 Lo studio delle collocazioni inizia con Firth 1957, ma gli studi fraseologici si diffondono soprattutto dagli anni ’80 grazie alla Corpus Linguistics. Per le collocazioni oggi sono fonda- mentali gli studi sulle funzioni lessicali di Igor Mel’čuk. Per la panoramica della fraseologia storica inglese cfr. Doyle 2007. 6 Norrik (2007, 615-16) cita lo studio di Chafe (1968), nel quale si dimostra appunto che l’idiomaticità è un’anomalia nel paradigma chomskyano. 7 Cfr. soprattutto gli studi impostati sul frame semantico di Jan-Ola Östmann. La Frame Semantics è un nuovo approccio che si sta diffondendo nella linguistica contemporanea, ma il modello può essere applicato anche ai testi del passato; cfr. per es. lo studio di Lambrecht (1984) per le formule binarie.

14 | la fraseologia storica germanica | quindi la loro ricezione nel tempo, e quello sincronico-storico, che studia queste espressioni nei testi del passato. In entrambi i casi la disciplina si avvale dei modelli di analisi fraseologica applicati comunemente alla lingua contemporanea. Per quanto riguarda la prospettiva diacronica, dobbiamo tenere presente prima di tutto che le unità fraseologiche sono tanto più conservative – nel- la forma e nei contenuti – quanto più sono idiomatizzate (Friedrich 2007, 1100). La fraseologia storica cerca quindi di spiegare i fraseologismi oggi non più motivati, come in tedesco il sintagma preposizionale auf gut Glück (“a caso”), sintatticamente cristallizzato8 con l’aggettivo non flesso; o la locuzione jemandem den Laufpass geben (“dare il benservito a qualcuno”), dove Laufpass è un sostantivo ormai obsoleto, che si riferisce a un lasciapassare diffuso nel XVIII sec. per soldati e uomini che dovevano spostarsi per cercare lavoro;9 oppure jemandem einen Korb geben (“tirare un bidone a qualcuno”), espressio- ne di cui oggi pochi conoscono l’origine, essendo sorta nel medioevo, quan- do era diffusa la punizione di appendere in una gabbia di ferro il colpevole di reati minori, affinché tutta la piazza potesse deriderlo.10 Sono oggetto di questo tipo di studi anche alcuni composti moderni che derivano senza dub- bio da locuzioni antiche: si veda per esempio il caso di Süßholzraspler (‘adu- latore’), che deriva dalla locuzione das Süßholz raspeln, “grattare la liquirizia”, quindi “estrarne la sostanza dolce” e di conseguenza “adulare”. In tutti questi casi resta la difficoltà di ricostruirne la genesi (Knappe 2012, 185-87; Burger [1998] 2015, 133),11 mentre una forma particolare di locuzione, la citazione (in tedesco chiamata con una metafora, geflügeltes Wort, “parola alata”), è l’unica di cui si possa rintracciare il percorso dalla fonte a oggi. Tra i casi simili in inglese possiamo citare l’espressione many a mick- le makes a muckle (“tante piccole somme fanno una grande somma”), che ha un’origine in parte oscura (Mieder 2007, 402),12 oppure la collocazione Troyan horse, il cui riferimento dotto al cavallo di Troia è ben attestato nel- le lingue europee; e nel sintagma in brown study (“assorto”) l’aggettivo e il sostantivo conservano il loro significato originario di ‘cupa meditazione’.13

8 A proposito delle frasi cristallizzate (‘fossilizzate’), Burger (2012, 2-3) cita Fleischer ([1982] 1997, 47-49). 9 https://www.dwds.de/wb/Laufpass#wb-1 (consultato l’8 febbraio 2018). 10 http://www.zeno.org/Goetzinger-1885/A/Korb (consultato l’8 febbraio 2018). La simbo- logia dei recipienti aveva valenza giuridica (cfr. Lurati 2002, 25-27). 11 Nel caso di Süßholzraspler, la locuzione risale a Hans Sachs nella variante süßes Holz ins Maul nehmen (Küpper 1987, 819); cfr. https://www.redensarten-index.de/suche.php?such- begriff=S%C3%BC%C3%9Fholz%20raspeln&bool=relevanz&suchspalte%5B%5D=rart_ou (consultato l’8 febbraio 2018). 12 Mentre mickle deriva chiaramente dall’ags. micel ‘grande’, non si conosce la provenien- za del termine muckle né come sia sorto il parallelismo. È la variante di Many a little makes a mickle: https://www.phrases.org.uk/meanings/many-a-little-makes-a-mickle.html (consultato l’8 febbraio 2018). 13 http://www.etymonline.com/index.php?allowed_in_frame=0&search=brown (consul- tato l’8 febbraio 2018).

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Lo stesso vale per l’area nordica. In islandese, ad esempio, sono ancora diffusi alcuni proverbi trasmessi dalle saghe, soprattutto dallaNjáls saga,14 che riporta eigi fellr tré við hit fyrsta hǫgg (“un albero non cade al primo soffio”), oppure eigi skal einn eiðr alla verða (“un singolo giuramento non è valido per tutti i casi”) (Lüthi e Naumann 2002, 243). L’importanza dello studio delle fonti per comprendere pienamente il significato di questi pro- verbi è palese. Sempre partendo dalla situazione contemporanea, merita attenzione la fraseologia dialettale: la diffusione geografica di un’unità fraseologica all’in- terno della stessa lingua è di interesse non solo culturale e folclorico, ma anche storico-linguistico, poiché i dialetti sono conservativi e potrebbero trasmettere varianti arcaiche dei fraseologismi (Moulin e Filatkina 2007, 660). Ad esempio in lussemburghese per descrivere lo stato di indigen- za di qualcuno si dice vun/aus der Hand an den Zant liewen (letteralmente “vivere della mano sul dente”), che corrisponde al tedesco von der Hand in den Mund leben (“vivere della mano in bocca”). La locuzione dialettale, più antica, lascia supporre che la variante con “dente” fosse esistita anche in te- desco. Questo approccio ha preso il via nel XIX secolo per motivi etnologici e antropologici e per dare valore al proprio dialetto nel periodo in cui nasce- vano i nazionalismi (Moulin e Filatikina 2007, 656), mentre oggi l’interesse è puramente storico-culturale. A questo proposito possono essere presi a modello gli studi di Elisabeth Piirainen sulla fraseologia basso tedesca,15 di Harald Burger sugli elvetismi (Burger 1996), di Csaba Földes sugli austria- cismi (Földes 1992)16 e di Natalia Filatkina sul lussemburghese (Filatkina 2005; Moulin e Filatkina 2007). Per le osservazioni di tipo diacronico possono essere utili anche gli studi cognitivi,17 che partono dal presupposto che la semantica sia dinamica e varii in base a come il parlante interpreta i singoli elementi della locuzione. Si tratta dello stesso meccanismo mentale che crea le etimologie popolari; infatti un frasema opacizzato può essere reinterpretato nel mutato contesto sociale e culturale (Feyaerts 2007, 648-49),18 come nel caso della locuzione biblica neerlandese hij is niet van gisteren (“non essere nato ieri”), il cui si- gnificato originario di “non essere informato” non è più riconosciuto ed è passato a quello di “avere più esperienza di quanto si pensi”. Quindi poiché la mente del parlante tende a creare nuove metafore a seconda del contesto culturale, è necessario che in una prospettiva storica le espressioni vengano analizzate tenendo conto della differente epoca della fonte.

14 La Njáls saga è particolarmente ricca di proverbi (cfr. Dopheide 1973, citato da Lüthi e Naumann 2002, 243). 15 A partire da Piirainen 1994, oltre a diversi studi sul dialetto del Westmünsterland. 16 Földes ha studiato anche la fraseologia del tedesco parlato in Ungheria come lingua minoritaria (Földes 1996, 59-61). 17 Il riferimento è Langacker 1987. 18 Feyaerts si rifà alle teorie di Lakoff (1987).

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È in questo caso che un lavoro più prettamente filologico può fare luce sulla nascita e sul consolidamento – in forma scritta – delle frasi idiomati- che: gli studi fraseologici che prediligono la prospettiva sincronico-storica si occupano infatti della presenza, della forma, del significato e della funzione di tali espressioni nei testi antichi. I problemi degli studi storico-linguistici sono ben noti. Le lacune nella tradizione manoscritta e la mancanza di un corpus letterario sufficiente- mente ampio nelle singole aree linguistiche germaniche costituiscono delle difficoltà oggettive a livello ecdotico e più in generale nella ricostruzione e nell’analisi filologica dei testi. Nella ricerca fraseologica storica tali ostaco- li sono ancora più gravi poiché rendono complessa l’individuazione stessa dell’oggetto di studio (Friedrich 2007, 1092-93). Se pensiamo che ancora oggi non c’è unanimità nel definire i microtesti di natura gnomica e in parti- colare i proverbi,19 è ancora più difficile riconoscerli nei testi del passato: non è detto che quelli che oggi consideriamo fraseologismi e proverbi lo fossero già, come è possibile che non fossero ancora riconosciuti come tali all’epoca della loro scrittura. Un indizio che l’espressione idiomatica o didascalica si fosse già consolidata è la formula metalinguistica del tipo “secondo il detto”, “come si dice”, mentre la presenza del modale “dovere” (shall / sollen / skal ecc.) permette di riconoscere il valore gnomico della frase, così come gli av- verbi che esprimono ‘sempre’, ‘spesso’ sono marche grammaticali che indi- cano il valore generalizzante della frase. Le stesse denominazioni antiche di tali unità fraseologiche non sono significative a causa della loro semantica molto ampia: è il caso del termine medio alto tedesco bîspel, che indicava molti più tipi di espressione rispetto all’attuale Sprichwort (Di Venosa 2016, 140).20 Simili problemi terminologici si riscontrano anche in inglese, dove gnome e maxim, ad esempio, sono entrambi equivalenti del latino sententia (Larrington 1993, 5). Questa incertezza della messa a fuoco dell’oggetto di studio riguarda qualsiasi struttura fissa. Essa deve prima di tutto possedere un certo grado di stabilità sintattica o di idiomaticità perché abbia probabi- lità di essere usata in più contesti comunicativi e semantici;21 solo così può diventare ricorrente e quindi lessicalizzarsi. Ma la ricorrenza di tali frasemi non è ancora chiaramente visibile nel periodo antico per diversi motivi: per la già menzionata scarsità di fonti, che non permette di osservare se e quan- te volte la stessa frase ricorre in più contesti; perché le regole della lingua scritta si stanno precisando e la formula che sta sorgendo presenta ancora molte varianti morfo-sintattiche o lessicali; oppure perché essa è inserita nel tessuto narrativo e di conseguenza è poco visibile. Identificare e classificare

19 Cfr. la sintesi di Friedrich 2007, 1094-96. 20 Lo stesso termine moderno Sprichwort non si spiega, se non come composto tautologi- co (cfr. Röhrich e Mieder 1977, 1). 21 Burger ([1998] 2015, 15-17) definisce le frasi idiomatiche come unità costituite da poliles- sicalità, stabilità (sintattica) e idiomaticità (ovvero irregolarità semantica).

17 | elena di venosa | queste unità costituisce un compito difficile dai risultati incerti.22 Le summenzionate lacune sono tuttavia compensate dal fatto che i fraseo- logismi si possono incontrare in qualsiasi genere testuale, a seconda del quale essi possono rientrare in categorie diverse (Friedrich 2007, 1092). Per esempio nella trattatistica quelli con funzione stilistica o retorica sono rari, mentre vi si possono maggiormente incontrare sintagmi nominali che hanno portato a composti moderni, come l’espressione medio alto tedesca diu vallende suht > Fallsucht (‘epilessia’) (Friedrich 2007, 1100). Nei testi giuridici, invece, preval- gono le frasi di tono sentenzioso e le formule binarie sinonimiche, antinomi- che o metonimiche, sorte per ribadire i concetti con immagini concrete, come il calco dal latino habendum et tenendum, in inglese protomoderno to haue and to holde, ancora in uso nel linguaggio giuridico inglese to have and to hold.23 Nei testi narrativi si possono incontrare sia locuzioni fisse che proverbi; questi ul- timi hanno generalmente la funzione di rafforzare la validità di un’affermazio- ne. Infine sia in poesia che in prosa li troviamo a volte inseriti nella narrazione oppure come oggetto stesso del componimento;24 ma in generale non ci sono testi appositi, o raccolte di testi, dedicati a precetti sociali e conoscenza del mon- do, umana o naturale, a parte la raccolta dei quarantasei Proverbi di Durham in latino e la sua traduzione in sassone occidentale risalente all’XI secolo.25 Quindi ogni genere testuale può essere interessante dal punto di vista fraseologico. Il corpus a disposizione in ciascuna lingua offre una diversa casistica di espressioni fisse, a seconda dei tipi di testo diffusi all’epoca e delle singole testimonianze giunte sino a noi. Nell’area tedesca antica pre- domina la prosa, che costituisce una fonte affidabile di queste locuzioni, perché si presume che non sia stata intaccata da esigenze metriche o di rima (Friedrich 2007, 1092), a parte le eventuali scelte autoriali di variazio- ne stilistica e lessicale. Però sappiamo che in questa area i testi prosastici sono di realizzazione dotta: non solo il tedesco è sintatticamente più legato al latino, con conseguente difficoltà a continuare l’impianto germanico e a sviluppare strutture fisse autonome, ma la tradizione paremiografica stessa è più condizionata dalle fonti classiche o bibliche. In area anglosassone e norrena, invece, gli ambienti colti non impediscono il fiorire di una produ- zione testuale più libera e con strutture linguistiche proprie, e permettono che si porti avanti la tradizione didascalica germanica pagana.

22 Per esempio, secondo Burger ([1998] 2015, 55-57), le espressioni binarie e comparative tendono alla fraseologicità, mentre secondo Friedrich (2007, 1093), questo indizio “ist für sich genommen sehr schwach”. La questione dell’inquadramento dei concetti è trattata anche da Watanabe (2004, 245-47). 23 http://www.oed.com/view/Entry/82957?rskey=OPPp2K&result=8&isAdvanced=true# firstMatch (consultato l’8 febbraio 2018); cfr. Gustafsson 1984, Matzinger-Pfister 1972 e Ptashnyk 2012. 24 Un caso particolare, anche se risale al XVI secolo, è il cap. 65 della Historia von D. Johann Fausten (1587), che consiste in un intreccio di proverbi e frasi idiomatiche, non sempre facilmente identificabili (cfr. Di Venosa 2012). 25 Edizione e analisi in Arngart 1981.

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Nel medioevo germanico la letteratura gnomica può essere infatti di ori- gine classica, biblica o avere radici arcaiche che risalgono al proprio passato pagano. La questione se la tradizione gnomica germanica sia più o meno libera da influssi dotti o estranei è dibattuta. Sicuramente era sentito l’inte- resse, indipendentemente dalla cultura latina, di tramandare da una gene- razione all’altra dei precetti di vita, la saggezza e la conoscenza, come si può dedurre anche da formule del tipo “io sentii dire”, “ho saputo che” presenti nei componimenti epici germanici. Tuttavia è inevitabile che la tradizione autoctona si sia arricchita di altri influssi,26 grazie anche al fatto, come ri- corda Carolyne Larrington (1993, 104), che l’elemento gnomico è simile in tutte le società arcaiche che condividono le stesse preoccupazioni di vita. Si veda ad esempio la constatazione in anglosassone Forst sceal freosan, fyr wudu meltan (“il gelo gelerà, il fuoco distruggerà il legno”) in Maxims I, 71, e l’analogo esempio nel Rune Poem, il cui primo verso, Feoh biþ frofur fira gehwylcum (“la ricchezza è un conforto per ognuno”)27 ribadisce sempli- cemente un dato di fatto; qui l’allitterazione quale espediente mnemotec- nico ci ricorda anche l’importanza della trasmissione orale della saggezza popolare. Nelle nostre fonti emergono anche delle specificità della cultura germa- nica come il concetto di vendetta e di faida. Una sentenza che riflette una concezione etica diffusa all’epoca è la formula frisoneMoerd schelma med moerd kela (“l’omicidio si deve raffreddare con l’omicidio”), che ricorda pro- prio l’istituto della vendetta (Singer 1944-47, I, 4),28 mentre il detto trasmes- so dallo Hildebrandslied (vv. 37-38) mit geru scal man geba infahan (“con la lan- cia si deve ricevere un dono”; Köbler 1986, 16; Singer 1944-47, I, 4) indica probabilmente il concetto consuetudinario dello scambio, che in battaglia si realizza, in questo caso, con la lancia che ottiene in cambio una conquista.29 Anche nel Beowulf vi sono delle affermazioni generalmente condivise che oscillano tra la saggezza tradizionale e l’insegnamento morale o etico-guer- riero, come ai vv. 1384-85: selre bið æghwæm, / þæt he his freond wrece, þonne he fela murne (O’Brien O’Keeffe [1991] 2013, 106; “è meglio che ognuno vendichi l’amico piuttosto che piangerlo molto”). Le locuzioni didascaliche di antica tradizione germanica sono ben attesta- te anche in area scandinava: in base alla mitologia nordica il sapere proviene direttamente da Odino, per cui non è insolito, nei carmi eddici, incontrare l’accostamento tra il dio e le espressioni di saggezza. Nella prima parte degli

26 Sprenger 1998; sulla discussione riguardo all’originalità della poesia gnomica germa- nica cfr. in particolare p. 259. 27 Citati da Lendinara [1991] 2013, 299-300. 28 Da Graf e Dietherr 1864, 337, n° 311. 29 A proposito Singer (1944-47, vol. 1, 4-5) fa un confronto con una didascalia sulla Tapisserie di Bayeux, che recita: Hic milites wilhelmi ducis pugnant contra dinantes et cunan claves porrexit, ovvero “I duchi di Guglielmo combattono contro la città di Dinant e ne ottengono [in cambio] le chiavi”.

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Hávamál il finale di ogni strofa costituisce un aforisma (Kristjánsson [1988] 1997, 45) di tipo prevalentemente sentenziale. Ad esempio i versi

Hjarðir þat vitu nær þær heim skulu ok ganga þá af grasi, en ósviðr maðr kann ævagi sín um mál maga (21, 1-6; cit. Kristjánsson [1988] 1997, 46)30 sono un parallelismo che condanna l’ingordigia umana mediante un’imma- gine di pastorizia che era sicuramente familiare a tutti. L’influsso della cultura classica si nota più chiaramente negli indovinelli (per la trasmissione della conoscenza) e nelle massime (per la trasmissio- ne della saggezza): in area anglosassone sono numerose le testimonian- ze di questa wisdom poetry.31 Mentre i poemetti Maxims I e II (Larrington 1993, 120-60, in particolare 130-134) consistono in una lunga successione di luoghi comuni sulla vita, pur in tono sentenzioso (Larrington 1993, 1; Lendinara [1991] 2013, 300), i Riddles, trasmessi soprattutto dall’Exeter Book, mettono alla prova il lettore sulla sua conoscenza della vita.32 In area tedesca la precoce attività traduttiva della trattatistica latina e delle Sacre Scritture porta a un rapido accoglimento di sentenze e proverbi, sia di origine classica che biblica: in questo caso è Notker III di San Gallo il princi- pale ricettore, ma anche continuatore con sentenze di sua formulazione, di questa tradizione nei suoi testi didattici (Di Venosa 2016). Anche la letteratura gnomica colta, tuttavia, può presentarsi con interpo- lazioni di saggezza popolare di origine germanica (Lendinara [1991] 2013, 300). Nel caso ad esempio dei Disticha Catonis, una raccolta di proverbi la- tini a uso scolastico in coppie di esametri, risalente al IV secolo e molto diffusa in tutto il medioevo europeo, sia la versione in prosa anglosassone Dicts of Cato (Cox 1972) sia la versione antico islandese degli Hugsvinnsmál, che potrebbe costituire la fonte degli Hávamál, contengono interpolazioni tra la materia pagana e quella dotta e cristiana (Larrington 1993, 97-119). Altre contaminazioni si incontrano nei dialoghi come Solomon and Saturn, in cui i due interlocutori entrano in competizione per dimostrare chi possiede la conoscenza più vasta (Lendinara [1991] 2013, 300; Larrington 1993, 148-156). Un dialogo di questo tipo si trova anche nei Vafþrúðnismál, in cui Odino, con il nome di Gagnráðr (“colui che dispensa buoni consigli”) e il gigante Vafþrúðnir si sfidano in modo simile (Haugen 1983, 12). Non è dato sapere se questi ‘duelli verbali’ fossero tradizionali per i germani o se

30 “Il gregge sa / quando deve tornare a casa / e allontanarsi dall’erba, / ma un uomo stolto / non ha mai / la misura del suo stomaco.” Cfr. anche gli studi fondamentali sugli Hávamál di Klaus von See (1972) e Larrington (1993, 15-72). 31 Per un approfondimento cfr. Poole 1998 e Lendinara [1991] 2013. 32 Cfr. anche Lendinara 2018.

20 | la fraseologia storica germanica | siano sorti per influsso di dialoghi dotti latini, ma si tratta probabilmente di stilemi comuni a molte culture (Davidson 1983, 39). Lo stesso vale per gli indovinelli, anch’essi presenti nei Vafþrúðnismál e negli Alvíssmál: con que- sti brevi testi viene trasmessa conoscenza (Davidson 1983, 30) in un modo simile a quello noto nella retorica latina. Anche nel poema Heliand entrano in contatto elementi di origine biblica, dotta e tradizionale germanica. Si notino ad esempio i vv. 489b-490a, che trasmettono la frase Thîna kumi sindon / te dôma endi te diurðon (“la tua ve- nuta è / al giudizio e alla gloria”): il semiverso 490a consiste in una formula binaria antitetica allitterante in cui si contrappongono il termine giuridico germanico dôm (‘giudizio [terreno]’) e il termine teologico diur[i]ða (‘gloria [celeste]’) (Bartsch 1876, 31, nota al v. 490). Tutti questi microtesti, altamente espressivi nella loro sinteticità, merita- no un’osservazione da più angolazioni. Può essere interessante comprende- re, ad esempio, quali percorsi abbiano compiuto i proverbi biblici o le sen- tenze latine per raggiungere l’Europa germanica tardo-antica e medievale, oppure in quali testi in volgare, e da quali fonti, queste espressioni abbiano trovato una collocazione o una rielaborazione. La difficoltà di questa ricerca è dovuta al fatto che le locuzioni di carattere didascalico sono per loro natura generiche, per cui è più difficile inserirle in un momento storico-culturale preciso.33 Un aiuto può provenire dallo studio della tradizione testuale e del contesto codicologico, che possono offrire informazioni utili sulla commit- tenza, la circolazione, la ricezione e la finalità di questi generi e temi.

2. aspetti linguistici

I testi gnomici nascono in tutte quelle situazioni in cui è importante il com- portamento sociale dell’individuo, ovvero principalmente in ambito giuridi- co e sacrale: un comportamento che sia non solo giusto dal punto di vista etico, ma che osservi anche determinati rituali, una gestualità simbolica e una corretta formulazione linguistica. La saggezza tradizionale o l’insegna- mento morale, espressi da proverbi, motti e sentenze, così come le formule di giuramento, i riti propiziatori agresti o le semplici convenzioni linguisti- che quotidiane quali il saluto e il ringraziamento devono osservare precise regole poetiche (cioè retoriche, formulaiche) perché i concetti più importan- ti della vita diventino tangibili e riconoscibili anche nella parola e nel suono. Questo non significa che la locuzione si sia fissata subito in una forma definita. Come accennato più sopra, la nascita di un fraseologismo innesca un lungo processo, durante il quale possono emergere, a livello testuale, numerose varianti. Le formule diventano irreversibili nel corso dei seco-

33 Per questo tipo di studi è fondamentale Röhrich 1994; cfr. l’ampia presentazione dell’a- spetto culturale dei proverbi in Mieder 2007.

21 | elena di venosa | li ed è compito delle discipline linguistiche diacroniche stabilire in quale momento una determinata combinazione di elementi abbia dato vita a una struttura stabile (Burger 2012, 9). Un approccio di analisi linguistica tuttora praticato di queste unità fra- seologiche, così come le troviamo attestate nelle varie fonti, è quello tradi- zionale, che misura il piano fonico (allitterazione, assonanza, rima e ritmo), sintattico (strutture ricorrenti come parallelismo, ripetizione, contrasto) o lessicale (sinonimia e antinomia principalmente, ma anche metafore e me- tonimie). Ha fatto scuola a questo proposito la Deutsche Sprichwörterkunde di Friedrich Seiler (1922), che offre un inventario, ancora oggi prezioso, di tutti i tipi di frase didascalica, ampiamente esemplificati.34 Anche se il pun- to di partenza sono i proverbi, la sua presentazione di sentenze, metafore, citazioni e di altre varietà di frasemi, nonché dei loro ambiti lessicali (come quello giuridico, venatorio o lavorativo), così come la dettagliata catalogazio- ne dei loro vari schemi metrici, è fondamentale sia per l’analisi dei proverbi, sia per quella di ogni locuzione in generale. Questo tipo di analisi tuttavia non considera il contesto in cui l’espressio- ne viene formulata. Anche se il repertorio di Seiler è indubbiamente utile, è da considerarsi superato poiché non tiene conto di due aspetti oggi fonda- mentali nella ricerca linguistica: la semantica (concetto più ampio del con- tenuto culturale) e la pragmatica; i modelli di analisi sincronica più recenti permettono infatti di accostarsi alla fraseologia storica in modo diverso, an- dando più in profondità rispetto al semplice piano grammaticale o lessicale. Questo nuovo approccio si impone nel momento in cui si riconosce de- finitivamente che i fraseologismi devono essere trattati come una categoria linguistica a sé stante, in quanto contraddistinti – in modo più importante rispetto al lessico comune – da un inscindibile legame tra forma e contenu- to. Il punto di partenza di questa nuova concezione delle locuzioni può es- sere considerato Adam Makkai (1972), il quale separa gli idioms of encoding, nei quali è l’aspetto grammaticale a caratterizzare la locuzione (Norrick 2007, 616),35 dagli idioms of decoding, collocazioni o vere e proprie frasi idio- matiche, di cui i parlanti devono riconoscere il significato metaforico dato da quell’insieme preciso di elementi. La presa di coscienza che un sistema linguistico comprende non solo le regole per formulare un numero infinito di enunciati a seconda del contesto, ma anche regole che permettono di creare espressioni fisse valide in più contesti è un passo in avanti per lo svi- luppo degli studi di fraseologia, sia contemporanea che storica.36

34 Cfr. Seiler 1922, 149-180 (“Die innere Formgebung”), sugli aspetti lessicali; 180-228 (“Die äußere Formgebung”), sugli aspetti formali. Utili sintesi delle varie classi fraseologiche si trovano in Palm Meister 2007 e Friedrich 2007. 35 Ad esempio, nella frase drive at 50 miles per hour i parlanti devono sapere che in inglese occorre la preposizione at, a differenza di altre lingue, che richiedono il corrispondente di with o altre preposizioni. 36 È da menzionare a riguardo Householder (1959, 231-32), studioso di collocazioni che

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Senza abbandonare l’osservazione della forma, il focus si sposta ancora di più verso la semantica con Matti Kuusi ([1966] 1978), secondo il quale i proverbi si possono analizzare da tre angolazioni: l’idea, la struttura e il nu- cleo. Se due proverbi condividono l’idea e il nucleo – un nucleo metaforico stabile –,37 come fides defectus scientiae / fides nihil aliud est, quam defectus scientiae (“la fede (non) è (altro che) il difetto della scienza”) si può stabilire che si tratta di due varianti dello stesso proverbio; se invece hanno la stessa idea e la stessa struttura, ma un diverso nucleo, come sus docet Minervam / imberbis senes docet (“il suino insegna a Minerva” / “l’imberbe insegna all’anziano”) allora abbiamo due proverbi sinonimici strutturati nello stesso modo. Se la struttura e il nucleo coincidono, ma non l’idea, allora si tratta di proverbi congruenti, per es. das Werk lobt seinen Meister / das Werk lohnt seinen Meister / das Werk gehorcht dem Meister / das Werk zeugt vom Meister (“l’opera loda il / si merita il / ubbidisce al / è creata dal maestro”). Prima di analizzare un proverbio, ma anche una qualsiasi locuzione idiomatica, è necessario allora tenere presenti contemporaneamente sia gli aspetti formali che quelli semantici. Sono interessanti a riguardo le propo- ste di Dobrovol’skij (1992, 119-20), secondo il quale i dizionari fraseologici non dovrebbero seguire l’ordine alfabetico, ma dovrebbero essere strutturati secondo categorie semantiche.38 Oltre all’analisi linguistica, semantica e culturale, la fraseologia storica inizia ad avvalersi, dalla fine degli anni ’70 del XX secolo, di nuovi modelli, soprattutto della pragmatica (Kühn 2007, 626-28; Norrick 2007, 616)39 per capire in quali contesti comunicativi tali frasi vengono utilizzate e con quali funzioni. In questo modo si riesce a definire meglio l’oggetto di studio, e la fraseologia (storica o contemporanea) riesce a stabilizzarsi come disciplina autonoma. Allo stesso tempo si aprono nuovi orizzonti: vengono inclusi nell’analisi nuovi tipi di locuzioni, dalle semplici formule di routine come i saluti, gli auguri e i ringraziamenti – gli unici facilmente riconoscibili anche nei testi del passato –, alle collocazioni e alle costruzioni sintattiche ricor- renti,40 sino a riconsiderare gli stessi proverbi, non più osservati come unità isolate, dal punto di vista puramente contenutistico-folclorico o strutturale, ma anche nelle loro funzioni comunicative orali o dipendenti dal genere testuale che li trasmette. Infatti con la fraseopragmatica cresce l’interesse per la contestualizza- zione dei fraseologismi e per le loro funzioni illocutive ed enfatiche; ma propone di tenere distinta la grammatica degli idioms da quella standard. 37 Diversamente da quanto pensano i cognitivisti, secondo i quali, come visto più sopra, la semantica è dinamica e varia in base ai parlanti. 38 Un valido esempio di dizionario fraseologico (seppure non dell’area germanica) ordina- to non alfabeticamente, ma tematicamente è Tosi 2017. 39 Importanti per la fraseologia sono Sadock 1972, Koller 1977 e soprattutto Coulmas 1981. Si noti che già nel XVI sec. Johannes Agricola, nella sua raccolta di proverbi Sybenhundert und fünff- zig Teütscher Sprichwörter, spiegava in quali situazioni si utilizzavano (cfr. Filatkina 2007, 133-34). 40 È citato spesso a proposito lo studio su let alone di Fillmore, Kay e O’Connor 1988.

23 | elena di venosa | anche se lo studio del contesto comunicativo è più specificamente legato alla lingua attuale, nulla impedisce che si analizzino le situazioni di utilizzo che emergono dai testi antichi, anche se per il passato il contesto comuni- cativo, più tipicamente orale, è mediato dal testo scritto (Filatkina 2007, 151). L’apporto della fraseologia storica è in ogni caso essenziale: le stesse fraseografia, fraseodidattica,41 linguistica contrastiva e interculturale,42 che sono di taglio soprattutto contemporaneo, occupandosi della codificazione delle frasi idiomatiche nei dizionari e di come tradurle e insegnarle, devono comunque riflettere su come queste sono sorte, si sono sviluppate e diffu- se per poterle valutare correttamente. Queste discipline, che si avvalgono della psicolinguistica e tengono in considerazione il ‘dizionario mentale’ di ogni parlante,43 concepiscono le unità fraseologiche come unità mentali che rispecchiano la visione metaforica del mondo di una certa cultura,44 e in questo modo offrono un suggerimento agli storici della lingua e ai filologi perché tengano maggiormente presente la mentalità e capacità metaforica dei parlanti del passato. Fraseologismi e proverbi in ogni loro articolazione si rivelano dunque un oggetto di studio ricco di spunti, sul piano diacronico e sincronico, e chiamano a raccolta esperti di vari settori – filologico, linguistico, folclorico, culturale – per raccontarci in modo a volte sentenzioso, a volte metaforico, ma sempre con la genialità della concisione, della nostra vita.

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41 Se ne è occupato per es. Peters (1977 e 1983). 42 A proposito si vedano i numerosi studi di Gertrud Gréciano e di Dobrovol’skij, oltre a quelli di fraseodialettologia e sui ‘falsi amici’ di Piirainen e le raccolte di saggi di Sabban 1999 e Gläser 1983. 43 Si vedano soprattutto gli studi sul mentales Lexikon di Dobrovol’skij (1995 e 1997). 44 Cfr. Honeck 1980, citato da Norrick 2007, 617.

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28 IMMAGINI LETTERARIE DELLA SCHIAVITÙ NEGLI INDOVINELLI DELL’EXETER BOOK

Marusca Francini Università degli stUdi di Pavia

“Slavery is the permanent, violent domination of natally alienated and ge- nerally dishonored persons” è la definizione di schiavitù data da Orlando Patterson (1982, 13). Nella tradizione anglosassone attestazioni letterarie riguardanti la schiavitù compaiono in rari testi, tra i quali spiccano gli in- dovinelli dell’Exeter Book (Exeter, Cathedral Library, 3501), manoscritto pro- dotto nella seconda metà del X secolo. Il saggio ha per tema l’immagine della schiavitù così come emerge dagli indovinelli 12, 52 e 72, che sfruttano immagini relative al bestiame, presentano riferimenti a vincoli e legami, e contengono il termine wealh ‘celta, gallese’, che aveva sviluppato anche il senso secondario di ‘schiavo’.

1. la schiavitù nell’inghilterra anglosassone

Nell’Inghilterra anglosassone i tre gruppi sociali principali erano rappresentati dall’aristocrazia, dai ceorlas e dagli schiavi. Mentre l’aristocrazia costituisce l’élite dominante, i ceorlas sono per lo più agricoltori con il diritto di sfruttare la terra di proprietà di re o nobili, ai quali corrispondono un tributo chiamato feorm, e sono giuridicamente liberi, in quanto hanno diritto alla protezione della legge per ottenere un indennizzo in caso di torto subito (Pelteret 1995, 31). Nella definizione dello schiavo entrano in gioco la sfera sociale, economi- ca e giuridica. Specifiche caratteristiche definiscono lo schiavo medievale in Europa: non possiede la maggior parte dei diritti riconosciuti ad altri mem- bri della società della stessa età e dello stesso sesso; è un emarginato che

|29| | marusca francini | non appartiene alla comunità; deve lavorare sotto il diretto controllo del pro- prietario; viene visto come membro di un distinto ceto sociale, quello più basso. Inoltre, lo schiavo è caratterizzato da un vero e proprio “stigma so- ciale” (Karras 1988, 11, 38) e, data la sua mancanza di potere, lo schiavo non ha “onore” (Patterson 1982, 14-15). Nelle società europee altomedievali lo schiavismo viene sostituito da altre forme di servaggio a partire dalla secon- da metà del IX secolo, quando nell’Europa occidentale il numero di persone ridotte in schiavitù decresce rapidamente,1 tranne che in Inghilterra, dove il mutamento sociale è visibile solo dall’XI secolo (Pelteret 1995, 16-20). La forza lavoro rappresentata dagli schiavi veniva procacciata da territori confinanti,2 o anche dalla propria zona attraverso la riduzione in schiavitù per debiti, condanne giudiziarie e vendita di bambini (Bonnassie 1991, 36- 37). Il termine polisemico wealh, sia ‘gallese’ sia ‘schiavo’, è un etnonimo che rivela la pratica di ridurre in schiavitù soprattutto degli stranieri; i celti inoltre, anche se cristiani, erano ritenuti eretici dagli anglosassoni3 e consi- derati una legittima preda (Bloch 1975, 25), il che è uno dei principali motivi della lunga durata dello schiavismo in Inghilterra, che ebbe gradualmente fine a partire dalla conquista normanna del 1066 (Pelteret 1995, 15-17). Il Domesday Book (1086) registra come schiavi circa il 10% della popolazione in Inghilterra, ma si arriva al 25% in Cornovaglia, sottoposta più tardi al dominio anglosassone (Pelteret 2007, 423). L’arrivo delle genti germaniche determinò lo sgretolamento della società britannica romanizzata, anche se sulla sua portata non c’è accordo tra gli storici, i quali un tempo postulavano che la conquista anglosassone aves- se avuto come conseguenza lo sterminio dei nativi (Stenton 1971, 314), mentre più di recente si è sostenuto che non si verificò un asservimento di massa della popolazione celtica e che ci fu anche assimilazione (Filippula, Klemola e Pitkänen 2002, 1-26); secondo Higham (1992, 154-236) l’adventus Saxonum non fu una migrazione su larga scala, ma l’arrivo di un numero limitato di guerrieri, che andò a costituire un’élite militare che dominava su una popolazione di origine britannica. Uno degli effetti della conquista fu comunque la riduzione in schiavitù di un certo numero di autoctoni, come attesta Gildas nel De excidio Britanniae: Itaque nonnulli miserarum reliquia- rum in montibus deprehensi aceruatim iugulabantur; alii fame confecti acceden- tes manus hostibus dabant in aeuum seruituri (Winterbottom 1978, 97-98).4

1 Le dinamiche del progressivo decadimento dell’istituzione della schiavitù rappresentano una questione molto complessa e dibattuta; tra le cause di questo decadimento si annoverano il progresso tecnico e l’espansione agraria, che promuovono una maggiore mobilità della forza lavoro (Verhulst 1990, 87-101; Bonnassie 1991, 41, 45). 2 Gli schiavi potevano provenire da altri regni anglosassoni come bottino di guerra: Beda (Historia Ecclesiastica IV, 20; Lapidge 2008-10, II, 259-63) narra che nella battaglia tra merciani e northumbri del 679 il thegn Imma fu catturato, messo in catene e venduto a un trafficante di schiavi. 3 Beda (Historia ecclesiastica I, 17; Lapidge 2008-10, I, 51, 77-79) accusa i celti di seguire l’eresia pelagiana e quella ariana. 4 “Alcuni degli sciagurati sopravvissuti vennero catturati sulle montagne e trucidati; altri,

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2. la terminologia della schiavitù e l’evoluzione di wealh

L’antico inglese possedeva un ampio lessico concernente la schiavitù, dal momento che questa era parte integrante della società anglosassone e di quella mista anglosassone-scandinava del Danelaw, per cui anche alcuni scandinavismi, come þræl (‘schiavo’), entrarono nell’uso. La definizione più diffusa per indicare il componente maschile del gruppo sociale considerato come bene mobile, con il minor numero di diritti e obblighi più onerosi, è þeow, equato dai traduttori a servus. Altri termini sono æht (letteralmente ‘proprietà’), esne (‘servitore’) e man, in cui dal senso primario di ‘uomo’ si sviluppa quello secondario di ‘uomo appartenente a un altro, schiavo’. Il lessico relativo alla schiavitù subì significativi cambiamenti nel corso del periodo anglosassone, a causa dei mutamenti della realtà storica e socia- le (Girsch 1994, 30), e dal momento che gli schiavi erano soprattutto celtici, wealh sviluppa il significato secondario di ‘schiavo’, testimonianza indiretta che la conquista militare comportò la riduzione in schiavitù di parte del- la popolazione. Il termine mostra lo stesso sviluppo semantico di sclavus, che da ‘slavo’ è arrivato a indicare anche ‘schiavo’ (Verlinden 1942, 97-128). Secondo Faull (1975, 27) wealh giunse a denotare ‘schiavo’ senza riferimenti di tipo razziale; ma in inglese moderno il termine è sopravvissuto per indi- care un particolare gruppo di celti e la loro terra, i gallesi e il Galles (Welsh, Welshman, Wales),5 e come secondo elemento in Cornwall ‘Cornovaglia’, a dimostrazione che si era verificata una coalescenza di entrambi i significati, quello denotante status e quello etnico, e che quindi quest’ultimo non è mai andato perso (Banham 1994, 150). Significato originario diwealh è ‘straniero’. Il termine germanico deriva dal nome della tribù celtica continentale dei Volcae, desunto in una zona di contatto tra germani e celti e poi esteso a definire le genti che non parlava- no un idioma germanico, soprattutto latine e poi romanze. Che germanico *walhaz (< volcae) sia un prestito molto antico è testimoniato dal fatto che ha subito fenomeni fonetici quali la I mutazione consonantica (*/k/ > */h/) e il passaggio */o/ > */a/. Nel sassone occidentale wealh si è verificato lo sviluppo */a/ > /æ/, poi franto in , mentre le forme che presentano radicale (wale) sono varianti dialettali angliche. Wīln, femminile, deriva dal maschile tramite il suffisso *-in; la forma femminile anglica wale è attestata solo negli indovinelli 12 (insieme alla forma sassone occidentale del maschi- le, wealas) e 52. Il senso etnico è testimoniato nella Cronaca anglosassone, dove Wealas/ Walas, Brittas/Brettas e Bretwalas vengono usati indistintamente per indicare le popolazioni celtiche, specialmente nel Common Stock (per es. annali 457, piegati dalla fame, si consegnarono al nemico in servitù perenne.” Tutte le traduzioni presenti nel saggio sono opera dell’autore dello stesso. 5 In gallese il termine per ‘Galles’ è Cymru.

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465, 473, 552 e 682). Mentre Britwealas si riferisce agli antichi celti dell’isola prima dell’arrivo delle genti germaniche, i composti Norðwealas ‘celti di parte del Galles a nord della Cornovaglia’, Stræcledwealas ‘celti dello Strathclyde’, Westwealas ‘celti della Cornovaglia e del Galles del sud-ovest’ e Cornwealas ‘celti della Cornovaglia’ sono più tardi, contemporanei, o quasi, rispetto alla stesura degli annali che li contengono, e segnalano un mutamento nell’orga- nizzazione sociale e politica, con l’individuazione dei celti di specifiche aree.6 Durante l’espansione a ovest del regno del Wessex, molti celti furono fatti schiavi e inoltre, come tali, venivano importati da trafficanti, anch’essi celtici, dalle aree rimaste in mano agli autoctoni, tra cui soprattutto l’attuale Galles. L’acquisizione della connotazione di ‘schiavo’ di wealh, secondo Pelteret (1995, 34, 70), è un cambiamento semantico avvenuto durante il consoli- damento dell’identità sassone occidentale entro il Wessex, a seguito delle conquiste territoriali ai danni delle popolazioni celtiche dell’ovest, quando i vincitori anglosassoni si definiscono come i padroni dei vinti celtici. Le leggi di Ine, che mostrano i primi accenni di questo sviluppo seman- tico,7 risalgono al periodo della conquista del Devon (fine sec. VII), che ebbe come conseguenza la riduzione in schiavitù dei prigionieri di guerra. Queste leggi testimoniano il sostantivo wealh e l’aggettivo wealisc sia nel senso etnico primario sia, per la prima volta, in quello secondario di ‘schia- vo’, e rivelano una società in cui non tutti i britanni sono ridotti in schiavi- tù, benché, anche quando sono liberi e possidenti terrieri, occupino una posizione sociale inferiore rispetto agli anglosassoni: a parità di estensione di terra posseduta il loro wergeld è circa la metà di quello previsto per un anglosassone, conformemente a una pratica germanica osservabile anche nel regno franco, dove il Romanus homo possessor ha diritto a un guidrigildo dimezzato rispetto a un franco possessore della stessa misura di terra (Faull 1975, 21). Le leggi di Ine formulano una distinzione anche tra gli schiavi stessi, per cui lo schiavo celtico aveva meno valore di uno anglosassone; infatti basta la parola di un uomo che possieda dodici hides di terra per farlo frustare, mentre è necessario il giuramento di un uomo che ne possieda trentaquattro per frustare lo schiavo anglosassone. Una nota enciclopedica riguardante la storia biblica contenuta nel f. 44r del manoscritto London, British Library, Cotton Tiberius A. III (sec. XI) mostra che esisteva uno stretto nesso tra etnia e schiavitù, poiché il testo afferma che i discendenti di Noè si suddividono in tre ceti, corrispondenti a quelli della società anglosassone: aristocrazia (gesiðcund cynn), ceorlas (cyr- lisc cynn) e schiavi, chiamati wælisc cynn, “stirpe celtica”, espressione che si riferisce alla genia di Cam, di cui nella stessa nota si dice che fu consegnata in schiavitù alle altre due (Napier 1889, 2-3).8

6 Cfr. per es. annali 682 e 875 (Plummer 1972, I, 39, 73-74). 7 Ine xxiii, 3; xxiv, 2; xxxii; xlvi, 1; liv, 2; lxxiv (Liebermann 1903, 102). Il manoscritto più antico delle leggi di Ine risale però al 925 c. 8 Il manoscritto, oggi diviso in due volumi, proviene da Canterbury e rappresenta una

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Nella Grammatica di Ælfric, wealh, alternandosi a þeowman, traduce man- cipium “schiavo acquistato per compera” (Zupitza 1880, 100-01, 301). Nelle omelie elfriciane wealh compare solo una volta, nell’affermazione rituali- stica di sottomissione al divino con richiamo implicito al tropo del servus Dei, che implica l’obbedienza estrema incorniciata da una dichiarazione di indegnità: we ðe næron wurðe beon his wealas gecigde (Godden 1979, 181).9 Nell’Eptateuco anglosassone, servi et ancillae è reso con l’espressione allitterante wealas and wilna, dove si trova anche il femminile wiln, in Genesi 20,14 e 21,25, sezioni riconosciute come elfriciane, e in Esodo 14,5 e 20,17, dovute invece al traduttore anonimo; wiln compare da solo in Genesi 16,5- 6; 21,10.13-14, e in Esodo 11,5; 12,29; 23,12 (Crawford 1969, 137, 262, 300). Wiln è frequente soprattutto nelle opere di Ælfric, dove sembra riferirsi alla schiava che lavora nella casa dei padroni (Zupitza 1880, 100-01, 301). Nelle glosse a Prudenzio del manoscritto Boulogne-sur-Mer, Bibliothèque Municipale, 189, vernae ha la doppia glossa latina e anglosassone ignobi- les-wylna. Vernae indica ‘schiavi nati nella casa del padrone’ di entrambi i sessi, ma è significativo che il glossatore opti per il femminilewiln , che denotava in particolare schiave domestiche con un rapporto personale con i proprietari (Pelteret 1995, 327-28), accezione assente nel corrispettivo maschile. La wiln rappresenta, negli estremi dello spettro sociale, il gradino più basso. Nella traduzione di Esodo 12,29 si narra della morte dei primogeni- ti degli egiziani, da quello del faraone fino a quello della captiva quae erat in carcere, che nella versione anglosassone è gehæftan wiln (“wiln imprigio- nata”) avvalorando il rapporto tra celti e prigionia; anche in Natale sancti Swyðuni di Ælfric l’immagine della schiavetta celtica legata, liberata dai cep- pi grazie alle preghiere, permette di dimostrare la misericordia del santo verso gli ultimi degli ultimi: […] wæs sum wyln gehæft to swiglum […] and læg on hæftnedum […]. Þa feollan ða fot-copsas færlice hire fram, and heo arn to cyrcan to þam arwurðan halgan gebundenum handum swa swa se halga wolde (Skeat 1966, I, 452).10 La funzione retorica di mettere in contrasto il gradino sociale più alto con quello più basso possibile è espletata nell’Epifania Domini elfriciana dalla contrapposizione di cwen (‘regina’) e wiln (Clemoes 1997, 236). In Natale sancte Agathe di Ælfric (Skeat 1966, I, 198), l’umiltà di sant’Agata porta il suo persecutore a definirla wiln, in contrasto con il vero status di æðelborenre mægðe (“fanciulla di nobili natali”) della santa, la quale per esprimere il tro- miscellanea contenente omelie, preghiere, pronostici, testi penitenziali, la Regola di san Benedetto, la Regularis Concordia, il Colloquio di Ælfric glossato in volgare e varie note enciclo- pediche, che sono brevi testi su computo, misure e personaggi biblici. 9 “Non siamo degni di essere chiamati suoi servi.” 10 “[…] Una schiava era stata imprigionata per essere frustata […] e languiva in carcere […]. Allora [all’alba, dopo aver pregato il santo] improvvisamente le catene le si sciolsero dai piedi, e lei corse in chiesa dal santo beato, con le mani legate, così come voleva il santo.”

33 | marusca francini | po della ‘serva di Dio’ afferma peròic eom Godes þinen, dove compare þinen e non wiln, mai attestato nel senso spirituale di ancilla Dei (Girsch 1994, 49), a riprova del carattere degradante del termine. L’immagine dell’ancilla Dei ha origine nel Vangelo di Luca, dove la Vergine presenta se stessa con Ecce ancilla Domini (Lc 1,38), e sarà poi utilizzata per denotare donne pie e sante per la loro umiltà e devozione, ma soprattutto per la loro castità (Schulenberg 1991, 204, 215). La lamentosità, manifestazione del comportamento antisociale e sgradevo- le attribuito agli schiavi, è evidenziata nella Vita della santa kentica Mildred, che ascolta stefen cearciendes wænes ceoriendes wales (Pelteret 1995, 321).11 Nella traduzione dei Vangeli in sassone occidentale prodotta nel X secolo in area meridionale, wealh ricorre una sola volta a indicare il malus servus, il “cattivo schiavo” che nella parabola del servo buono e del servo cattivo (Mt 24,49-50) “beve e mangia con gli ubriaconi” in assenza del padrone (yt and drincþ mid druncenum; Liuzza 1994, 51). Termini relati a wealh indicano un linguaggio e un comportamento tra- sgressivi delle regole sociali e morali. Il verbo wealian ‘parlare in modo sco- stumato’ compare in un’omelia di Ælfric in riferimento a un uomo che af- ferma che avrebbe avuto rapporti intimi nei periodi proibiti dalla Chiesa: He cwæð þæt he nolde and wealode mid wordum, and sæde þæt he wolde his wifes brucan on unalyfedum timan (Skeat 1966, I, 264).12 Il composto wealword ‘parola sfacciata’ è attestato in un penitenziale del X secolo, il che indica che tali parole sono peccaminose, se necessitano di essere confessate: Ic eom ondetta ðæt ic onfeng on mine muð wealworda (Logeman 1889, 98).13 Nelle glosse ad Aldelmo protervorum (gen. pl.; “petulanti, lascivi, sfrontati”) viene glossato con walana “celti” (Faull 1975, 34). Quindi wealh mostra sfaccettature di significato che comprendono etnia celtica, stato giuridico di schiavitù, e una generica alterità sia in termini di origini che di comportamento (Robson 2008, 74).

3. indovinello 12

L’indovinello 12 presenta un soggetto che parla in prima persona e dichia- ra la sua origine come essere vivente (quando “spezza la terra”, cioè ara il terreno) prima di indicare i manufatti da lui derivati una volta morto: talora lega gli uomini (sotto forma di corde di cuoio), talora è usato per bere (come

11 “La voce del carro che scricchiola e dello schiavo celtico che si lamenta.” La Vita è con- tenuta nel manoscritto London, Lambeth Palace Library, 427 (sec. XI), scritto da una mano di Exeter anche se il testo è stato originariamente composto nel sud-est dell’Inghilterra. 12 “Disse che non l’avrebbe fatto [andare a messa il Mercoledì delle Ceneri] e parlò in modo scostumato, dicendo che avrebbe avuto rapporti sessuali con sua moglie nel periodo proibito.” 13 “Confesso che ho accolto parole sfacciate sulla mia bocca.”

34 | la schiavitù negli indovinelli dell’exeter book | borraccia), talora è calpestato da una donna orgogliosa (come calzatura) e infine viene maneggiato da una schiava celtica. La soluzione ‘bue’ o ‘pelle di bue’ deve la sua autorità alla presenza di mo- tivi analoghi negli indovinelli anglo-latini, che a differenza di quelli anglo- sassoni forniscono la risposta nel titolo.14 Il soggetto ‘bue che diventa cuoio’ si trova in Aldelmo (De iuvenco), in Eusebio (De vitulo), negli Indovinelli di Lorsch e nei Collectanea dello Pseudo-Beda, che rappresentano solo parzial- mente dei modelli, poiché solo la prima parte dell’indovinello 12 contie- ne immagini simili (Williamson 1977, 166-67; Borysławski 2004, 41-76; Bitterli 2009, 28), mentre i versi dedicati alla schiava non trovano riscontro altrove. Infatti nell’indovinello si distinguono nettamente due parti: la pri- ma (vv. 1-7a) presenta la forma in cui l’oggetto/creatura da indovinare, il bue, parla in prima persona, secondo lo schema retorico della prosopopea, descrivendo come viene utilizzato dagli esseri umani, prima come bestia da tiro poi sotto forma di svariati oggetti di cuoio; mentre i vv. 7b-15b conten- gono la descrizione dell’attività della schiava, che è stata definita “un indovi- nello entro l’indovinello” (Higley 2003, 37). La creatura, da morta, dichiara che “lega strettamente” (binde fæste) swearte wealas (“celti scuri”) e talora sellan men (v. 4; “uomini migliori”). Una relazione tra celti e legami è presente in wealsada “ceppi per schiavi”, composto da wealh e da sada (‘corda, laccio’), attestato nel Salmo 139 del Salterio di Parigi (Paris, Bibliothèque Nationale, Lat. 8824, sec. XII), dove absconderunt superbi laqueum mihi viene glossato forhyddan oferhygde me inwitgyrene wraðan wealsadan wundum rapun (Krapp 1932, 136).15 Il rapporto tra schiavo celtico e legami si riscontra ancora nel Salmo 115 del Salterio Arundel (London, British Library, Arundel 155, ca. 1012-23) nella traduzione interlineare di obsecro Domine quia ego servus tuus ego filius ancillae tuae dis- solvesti vincula mea con eala Drihten forðon ic eom þeow þin and bearn wilne þinre þu toslite bændas mine (Oess 1910, 190).16 L’esegesi cristiana ha inter- pretato il salmo anche come canto profetico e messianico, per cui il Signore spezzerà per mezzo del Cristo risorto le catene della morte e del peccato di ogni uomo; questi è figlio della schiava del Signore, in quanto ogni creatura è soggetta al Creatore. L’espressione ebraica “figlio della tua ancella” indica lo schiavo nato nella casa del padrone e nel contesto del salmo sottolinea l’appartenenza alla casa di Dio e alla famiglia delle creature unite a Lui; il

14 Secondo Dietrich (1859, 463) la creatura parla del cuoio derivato dalla pelle bovina: dapprima la creatura è viva come bue che tira l’aratro (vv. 1-2), dopo la morte funge da cintura o corda per legare gli schiavi (vv. 3-4), da borraccia (vv. 5-6a), da calzatura (vv. 6b-7a), infine da guanto (vv. 11b-13a). Niles (2006, 142) offre la soluzione in anglosassone oxa and oxan-hyd “bue e pelle di bue”. La soluzione alternativa wudu è stata avanzata da Koppinen (2013, 165), che propone ‘bosco’ (quando l’oggetto è ‘vivo’) e ‘legno’ (quando è morto). 15 “I superbi mi nascosero lacci traditori, crudeli ceppi per schiavi, fatti di corde intrec- ciate.” 16 “O Signore, io sono il tuo servo, figlio della tua schiava wiln[ ], tu hai spezzato le mie catene.”

35 | marusca francini | traduttore ha colto questa sfumatura e l’ha convogliata con la scelta di wiln, che denotava proprio la schiava domestica che risiedeva nella dimora del padrone. Il modello di Aldelmo presenta nexibus horrendis homines constringere possum (“posso legare gli uomini con orribili vincoli”), con un generico ho- mines, laddove l’indovinello anglosassone contrappone “celti scuri” a “uo- mini migliori”, mettendo direttamente in contrasto “scuri” con “migliori”. Il confronto implicito tra celti scuri e anglosassoni, biondi, suggerisce che gli “uomini migliori” siano proprio anglosassoni, legati perché catturati in guerra o come schiavi per debiti. Nella contrapposizione tra swearte wealas e sellan men è visibile un primo collegamento tra complessione scura e qualità morali, che ritorna nei versi successivi a proposito della schiava, definita con l’espressione allitterante wonfeax wale (v. 8a; “donna celtica dai capelli scuri”) e con feorran broht (v. 7b; “portata da lontano”), probabilmente dal Galles, spesso teatro di razzie per catturare persone da ridurre in schiavitù (Faull 1975, 30). La sezione relativa alla donna celtica, originale rispetto ai modelli latini, è stata aggiunta al tema tradizionale del bue che ara la terra da vivo e lega gli uomini da morto (che si trova anche nell’indovinello 38) e presenta dei doppi sensi sessuali (vv. 7b-13a):

Fotum ic fere, foldan slite grene wongas þenden ic gæst bere. Gif me feorh losað, fæste binde swearte Wealas, hwilum sellan men. Hwilum ic deorum drincan selle beorne of bosme hwilum mec bryd triedeð felawlonc fotum hwilum feorran broht wonfeax Wale wegeð ond þyð dol druncmennen deorcum nihtum wæteð in wætre wyrmeð hwilum fægre to fyre me on fæðme sticaþ hygegalan hond hwyrfeð geneahhe, swifeð me geond sweartne. Saga hwæt ic hatte þe ic lifgende lond reafige ond æfter deaþe dryhtum þeowige. (Muir 1994, I, 293-94)17

17 “Viaggio con i piedi, lacero la terra, / i verdi prati, finché ho vita. / Se muoio, lego stret- tamente / scuri gallesi, talora uomini migliori. / A volte ai coraggiosi do da bere, / ai guerrieri, dal petto, a volte mi calpesta una donna / orgogliosa con i piedi, a volte, portata da lontano, / una celta dai capelli scuri preme e spinge, / sciocca schiava ubriaca, nelle notti buie, / bagna nell’acqua, scalda a volte / piacevolmente al fuoco; mi inserisce nella profondità / la mano [della] lasciva scuote spesso, / mi fa scorrere attraverso l’oscurità. Dì come mi chiamo, / io che da vivo devasto la terra / e dopo la morte servo i nobili.”

36 | la schiavitù negli indovinelli dell’exeter book |

Un certo numero di enigmi exoniensi ricorre ad allusioni sessuali, secon- do una tipologia che occupa un posto preminente nella tradizione orale in molte culture, ma che non compare nelle raccolte latine (Borysławski 2004, 91); questi indovinelli sono definiti double-entendre, in quanto la descrizione intende portare ad almeno due soluzioni, o più, di cui una è a carattere ses- suale: è il caso degli indovinelli 25 (‘cipolla/pene’), 42 (‘gallo e gallina/atto sessuale’), 44 (‘chiave/pene’), 45 (‘pasta/pene’), 54 (‘fornaio/atto sessuale’), 90 (‘toppa/vagina’).18 Anche se non sempre tali soluzioni sono universal- mente accettate, questi indovinelli e altri ancora presentano comunque dei riferimenti sessuali, e sono stati perciò considerati come un elemento fol- clorico proveniente dai ceti più umili e definiti come prodotti popolari, gros- solani e osceni, estranei all’erudita cultura monastica che aveva prodotto il manoscritto di Exeter (Tupper 1910, li). Eppure, sebbene l’origine della maggior parte degli indovinelli anglosas- soni sia da ricercarsi nella cultura orale popolare, essi sono piuttosto re- sponsi letterari, artisticamente elaborati, a una tradizione complessa e varie- gata (Murphy 2011, 23, 50-51) e la rappresentazione dell’elemento sessuale dei double-entendre ci è giunta attraverso il filtro culturale di una tradizione scritta appannaggio dell’ambiente monastico. La dizione e la complessità poetica degli indovinelli dell’Exeter Book che presentano allusioni sessuali sono il frutto di una cultura letteraria sofisticata, anche se spesso vi si trova- no termini ed espressioni appartenenti a un registro linguistico più basso (Borysławski 2004, 153). L’attività della schiava viene descritta per mezzo di un offuscamento me- taforico simile a quello degli indovinelli popolari; il doppio senso che ne deriva indica da un lato la concia dei pellami,19 dall’altro un atto sessuale. Probabilmente viene descritta la tecnica artigianale della lavorazione del cuoio nota come cuir bouilli (gallese per “cuoio bollito”; Rulon-Miller 2000, 119), ma in termini ambigui e altamente suggestivi dell’attività sessuale (Niles 2006, 124), per cui il soggetto dell’indovinello diviene un simbolo fallico manipolato dalla schiava scura.20 L’insistenza sull’oscurità (swearte wealas, wonfeax wale, deorcum nihtum, geond sweartne) ha anche valore simbolico e rappresenta un riferimento al Male. L’aggettivo sweart ha spesso connotazioni negative: solo per fare degli esempi, nel carme di argomento eroico e profano Frammento di Finnsburh caratterizza il corvo (hræfn […] sweart, vv. 34b-35a; Fry 1974, 34-35), simbolo di morte in battaglia; nella poesia religiosa descrive l’inferno come landa

18 Cfr., rispettivamente, Muir 1994, I, 303, 317-18, 319, 323, 376. 19 Anche la Grammatica di Ælfric con meae ancillae ars / minre wilne cræft (Zupitza 1880, 100-01; “l’abilità della mia schiava”) fa riferimento alla capacità di lavoro specializzato degli schiavi. 20 Gli indovinelli exoniensi che descrivono lavori manuali tipici degli strati sociali in- feriori (arare i campi, fare il burro, lavorare il cuoio) sono quelli che più spesso presentano immagini sessuali.

37 | marusca francini | sweartost (Genesis B, v. 487; Doane 1991, 218; “la più nera tra le terre”) e viene attribuito ai diavoli: Engla and deofla […] hwitra and swearta (Cristo III, vv. 29b, 31a; Muir 1994, I, 80), dove hwitra Engla può significare sia “dei bianchi angeli” sia “dei bianchi angli”, mentre i diavoli sono “neri”. I celti legati sono descritti con un aggettivo che denota l’aspetto fisico, sono “scuri”, e anche la ragazza ha i capelli scuri. Lo hapax wonfeax “scura di capelli” implica un confronto con le chiome bionde, caratteristica stereotipa delle genti germaniche.21 In altri indovinelli (n. 42, v. 3b; n. 79, v. 4a) i capelli biondi (hwit- locced) sono indicazione d’alto rango (Muir 1994, I, 317, 368), come si riscontra anche in ambito scandinavo nella Rígsþula, dove i tre figli del dio Heimdallr rappresentano i ceti sociali: il figlio appartenente al ceto più basso si chiama Þræll “schiavo” ed è svartan “scuro”, l’uomo libero artigiano e agricoltore si chiama Karl (che corrisponde all’ags. ceorl) ed è rosso, mentre il ‘nobile’ Jarl è biondo con la pelle chiara (strofe 7, 21, 35; Dronke 1997, 163, 167, 170). L’aggettivo wonfeax suggerisce dunque basso livello sociale oltre che ap- partenenza etnica, come swearte per i celti maschi. Inoltre la donna è defi- nita con l’espressione allitterante dol druncmennen (v. 9a; “sciocca schiava ubriaca”), variatio di wonfeax wale. Si tratta dell’unico brano della letteratura anglosassone in cui compaia una donna ubriaca (Pelteret 1995, 52). Il composto druncmennen è uno hapax. Il primo elemento significa ‘ubriaco’, mentre il secondo è mennen ‘schiava’, derivato da man ‘uomo’ tra- mite il suffisso femminile *in (> -en) che ha provocato metafonia palatale nella vocale radicale. Il sostantivo ha subito lo stesso sviluppo semantico di man nel suo senso di ‘schiavo’, passando da ‘donna’ a ‘donna di proprietà di una persona, schiava’, ma a differenza di man, ‘schiava’ è l’unico signifi- cato testimoniato nelle fonti (Pelteret 1995, 300-01). Il senso di ‘donna’ si riscontra solo in alcuni composti, come meremennin che glossa sirina: qui il secondo elemento non può indicare uno status giuridico, ma si riferisce al genere femminile; esiste anche il composto þeowmennen, il cui primo elemento significa ‘schiavo’, per cui il secondo componente deve riferirsi al genere sessuale (Pelteret 1995, 301). Dol ‘sciocco’ è invece un aggettivo ben attestato. Gli indovinelli del codice di Exeter presentano spesso un intreccio tra servitù, vincoli, sessualità e stupidità. Nell’indovinello 4 (Muir 1994, I, 289) l’espressione allitterante medwisum men (v. 10a; “uomo sciocco”) varia þegne minum (v. 9b; “il mio servo”), come dol druncmennen varia wonfeax wale. Il servitore sciocco è una metafora per l’organo genitale maschile e l’indovinello contiene inoltre espressioni che denotano il legare, come hringan hæfted (v. 2a; “incatena- to da anelli”) e gebundenne bæg (v. 8a; “legato da ceppi”), che a loro volta ricordano gli swearte wealas avvinti da corde di cuoio dell’indovinello 12. Nell’indovinello 20 (1994, I, 298-300) la spada viene definita anche con

21 Wonfeax è un composto il cui secondo elemento è feax ‘capelli’ mentre il primo, won ‘scuro’ (ingl. wan), è forse un prestito dal celtico.

38 | la schiavitù negli indovinelli dell’exeter book | metafore di tipo sessuale e come dol (v. 32a; “stupida”), mentre nell’indo- vinello 27 (1994, I, 304-05), che ha per soluzione ‘idromele’, la bevanda si proclama bindere (v. 6b; “che lega”) e sulla terra lega come schiavi (esnas; v. 16b) gli sciocchi (dole; v. 17a). È significativo che nel manoscritto l’indovinello che precede il n. 12 abbia la soluzione ‘vino’: nell’indovinello 11 il vino spinge gli sciocchi (dole; v. 3b) sulla cattiva strada, rende pazzi, fa compiere azioni sbagliate (Muir 1994, I, 293). L’indovinello 12 quindi esemplifica nella figura della schiava gallese ciò che viene affermato in quello precedente. Secondo Lindheim (1951, 23, 27) sia l’ideologia cristiana sia quella eroica d’ascendenza germanica evitano il registro della lingua parlata, compresi termini denotanti la vita sessuale e certe parti del corpo. L’elemento collo- quiale sarebbe invece evidente in particolari sfumature semantiche che un dato termine può presentare negli enigmi ‘osceni’: è questo il caso, al v. 11b dell’indovinello 12, dell’espressione on fæðme sticað, dove fæðm (“profondità, abbraccio”) denota il grembo femminile (Stewart 1983, 47), e sticað (“infila”) l’inserimento dell’organo maschile nei genitali femminili (Higley 2003, 45). Altri termini presenti ai vv. 7b-13a sono tipici del linguaggio dell’allusione sessuale: il binomio di verbi wegeð and þyð (“preme e spinge”) si trova anche nell’indovinello 21, che utilizza immagini sessuali per descrivere il funzio- namento dell’aratro (v. 5b), mentre þyð ricorre nell’indovinello 62 (v. 6b), dove indica l’attività sessuale maschile (Muir 1994, I, 300, 360). Swifeð è un verbo intransitivo (“si muove”), ma nell’indovinello 12 sembra avere già il valore transitivo e il significato sviluppati nell’inglese medioswive ‘scopa- re’ (Higley 2003, 29, 50). Nel corpus anglosassone swifan è attestato, come intransitivo, in The Panther dove l’animale “scivola” nel sonno (v. 39a; Muir 1994, I, 267), nell’indovinello 32 dove una nave “scivola” sulle onde (v. 7a; 1994, I, 308), in Metres of Boethius per il cielo che “ruota” su un asse e per il fiume che “scorre” (Metre 28, vv. 17a, 40a; Godden e Irvine 2009, I, 517). Non più attestato tra i secoli XII e XIII, il verbo ricompare, con valenza transitiva e significato ‘osceno’ nel secolo XIV in Chaucer (Baum 1963, 24). Infine il composto hygegal (v. 12a) riferito alla schiava, o alla sua mano (Neville 2012, 523), è uno hapax il cui primo elemento è hyge ‘mente, pen- siero’ e il secondo è gal ‘abile’ oppure ‘lascivo’. Hygegal hond può significa- re “con mano abile”, riferito alla lavorazione del cuoio, ma si presta a un doppio senso come “mano lasciva” oppure “mano di colei che è lasciva” (Rulon-Miller 2000, 121). Nel lessico cristiano della letteratura omiletica gal e i suoi composti e derivati denotano il peccato della lussuria, mentre nell’u- so poetico è di frequente connesso all’abuso di bevande alcoliche.22 Ealu-gal “ubriaco di birra” compare in Genesis A (v. 2410a; Doane 1978, 39), mentre win-gal “ubriaco di vino” in Daniel (v. 116b; Farrell 1974, 54), The Ruin (v. 34a;

22 In Genesis B i sostantivi gal (v. 327) e galscipe (v. 341) “follia, arroganza” sono riferiti alle azioni degli angeli ribelli che suscitano la collera divina.

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Muir 1994, I, 358) e Seafarer (v. 29a; Muir 1994, I, 230). Medu-gal “ubriaco di idromele” è attestato in The Fates of Men (vv. 52a, 57b; Muir 1994, I, 245- 46) e in Daniel (v. 702a; Farrell 1974, 86). In Judith Oloferne è definito al v. 26a medugal (“ubriaco di idromele”), al v. 62a galferhð (“licenzioso”) e al v. 256 se galmoda Oloferne (“il lussurioso Oloferne”) è contrapposto a Iudith seo æðele (“la nobile Giuditta”; Griffith 1997, 96, 99, 104).Gal caratterizza Oloferne come incline alla sensualità e all’ubriachezza, peccato quest’ulti- mo tradizionalmente associato alla lussuria.23 Nell’omelia Dominica in media Quadragesime Ælfric afferma che da galnys (“fornicazione”) derivano modes mægenleast (“debolezza di mente”), higeleas plega (“divertimenti dissennati”) e infinefracodlic spræc (“parlare osceno”; Godden 1979, 124). L’indovinello riflette dunque le connotazioni del verbo wealian ‘parlare in modo scostumato’ e di wealword ‘parola sfacciata’ e rivela atteggiamenti denigratori verso la schiavitù e l’appartenenza etnica soprattutto nel ritratto della serva celtica derisa per il colore dei capelli, per l’ubriachezza e la man- canza di intelligenza, ma costituisce anche una rappresentazione di ses- sualità proibita per mezzo di una figura di emarginata (Robson 2008, 82). L’ambiguità del doppio senso che percorre la seconda parte dell’indovinello esprime disprezzo verso i celti e ancor più verso le loro donne, che ridotte in schiavitù venivano sfruttate sessualmente (Wyatt 2009, 39, 114).24 Le leggi di Canuto (sec. XI) attestano l’abitudine dei padroni di intrattenere rapporti carnali con la propria wiln, la schiava; se sposati, questi uomini dovevano fare penitenza (Liebermann 1903, 348). Nelle parti elfriciane dell’Eptateuco anglosassone quando wiln traduce ancilla si riferisce soprattutto alla concubi- na Hagar (Genesi 16,5; 21,10.13-14; Crawford 1969, 137, 262). L’indovinello 12 rimanda a una visione negativa dei celti e degli schiavi, attribuendo loro qualità inferiori sul piano morale e intellettuale, mentre gli anglosassoni rappresentano l’io privilegiato che viene definito in opposi- zione a un denigrato ‘altro’ (Neville 2012, 522), lo scuro celta schiavizzato e sessualizzato.25 L’idea che gli schiavi fossero costituzionalmente immorali, comune nel pensiero classico (Bradley 1984, 27), continua in quello cri- stiano e anche le fonti germaniche rivelano una concezione dello schiavo come essere abietto e immorale (Pelteret 2002, 75-88). I Padri della Chiesa

23 La connessione tra ubriachezza e lussuria si riscontra anche in enigmi anglo-latini, in Calix vitreus di Aldelmo (enigma 80) e nella giustapposizione dell’enigma 6 De ebrietate seguito subito dopo dall’enigma 7 De luxuria negli indovinelli di Bonifacio; sull’ubriachezza nei testi anglosassoni cfr. Magennis 1999, 103-10. 24 Secondo Wyatt (2009, 60-61) l’abuso sessuale era uno degli scopi centrali dello schia- vismo. Tanke (1994, 33) invece nega l’aspetto della schiavitù sessuale nell’indovinello 12, so- stenendo che la wonfeax wale metta in atto una pratica di autoerotismo, che soddisfi quindi se stessa e non il proprio padrone. 25 Questa interpretazione è condivisa da Tupper (1910, 95), Pelteret (1995, 51-53) e Bitterli (2009, 31). Williams (1990, 137, 141) individua negli indovinelli ‘osceni’ una valutazione po- sitiva della sessualità femminile, con l’eccezione dell’indovinello 12, dove la donna verrebbe spregiata non per la sua sessualità ma per la sua posizione sociale di schiava.

40 | la schiavitù negli indovinelli dell’exeter book | attribuiscono la lascivia soprattutto alle donne e la letteratura agiografica è ricca di aneddoti riguardanti schiave lussuriose e la loro sessualità corrotta e corruttrice. Un esempio dalla tradizione apocrifa del III secolo è rappre- sentato dagli Acta Andreae, dove la nobildonna cristiana Massimilla evita gli amplessi con il marito pagano facendosi sostituire nel talamo coniuga- le dalla bella schiava Eucilia, che poi ricatta la padrona chiedendo denaro, gioielli e libertà dietro minaccia di rivelare lo scambio di persona all’ignaro marito; costui, venuto a conoscenza della verità, punisce non la moglie ma la schiava: Eucilia viene mutilata e gettata in mezzo a una strada a morire di stenti, divorata infine dai cani (Elliott 1993, 250-51). Un esempio più tardo offerto dalla letteratura agiografica è laVita Davidis, scritta in Galles nell’XI secolo, dove la moglie di un principe pagano gallese sfrutta le sue ancelle per provocare i monaci di san David:

Ite et nudatis corporibus ante collegii presentiam ludicra exer- centes, impudicis utimini verbis […]. Ancille obediunt, impudi- cos exercent ludos, concubitus simulant, blandos amoris nexus ostendunt: monachorum mentes quorundam ad libidines per- trahunt, quorundam molestant (James 1967, 10).26

Sulla scorta di sant’Agostino, i teologi medievali associano peccato origi- nale, dissolutezza sessuale e schiavitù (Wyatt 2009, 248-49), mentre l’asti- nenza da attività erotiche contaminanti risulta una prerogativa delle élite, secondo un sistema etico che serve gli interessi dei ceti superiori e special- mente degli uomini di chiesa (Glancy 2002, 22). Il contenuto della seconda parte dell’indovinello manifesta possibili analogie con la forma originaria della poesia islandese del mansǫngskvæði. Anche se mansǫngr è arrivato a denotare ‘canto d’amore’ e come tale compa- re nelle saghe, e nelle tarde rímur (attestate dal XIV secolo) si presenta effet- tivamente come lamento d’amore di un uomo, in realtà il primo elemento man significa ‘schiava’, lasciando intendere che in origine il genere doveva essere espressione poetica dell’uso di intrattenere rapporti sessuali con don- ne dallo status giuridico di non libere (Jochens 1992, 250).

4. indovinello 52 e indovinello 72

La seconda ricorrenza di wale si presenta nell’indovinello 52, una descri- zione in terza persona di quelli che sembrano due buoi aggiogati condotti nella stalla da una “scura donna celtica” (v. 5a): nell’espressione allitterante

26 “Andate, denudate i vostri corpi di fronte alla confraternita, inscenate una pantomima e usate parole impudiche […]. Le schiave obbediscono, inscenano giochi sconci, simulano il coito e mettono in mostra invitanti amplessi amorosi: ispirano alla lussuria la mente di alcuni monaci e disturbano quella di altri.”

41 | marusca francini | wonfah wale, wonfah ‘dal colorito scuro’ è uno hapax. L’indovinello contiene immagini di cattività e di vincoli: le due creature sono ræpingas (v. 1a; “pri- gionieri legati con corde”), nearwum bendum (v. 3b; “in saldi vincoli”), gefe- terade fæste togædre (v. 4; “incatenati strettamente insieme”), bendum fæstra (v. 7b; “strettamente avvinti”). Ræpingas e gefeterade nel corpus anglosassone di solito si riferiscono a esseri umani legati e messi in ceppi, mentre bend ‘legame’ nella terminologia religiosa sta a indicare la prigionia terrena e spirituale dell’uomo (Brady 2014, 240).

Ic seah ræpingas in ræced fergan under hrof sales hearde twegen þa wæron genamnan nearwum bendum gefeterade fæste togædre; þara oþrum wæs an getenge wonfah Wale seo weold hyra bega siþe bendum fæstra. (Muir 1994, I, 322)27

Mentre le soluzioni degli indovinelli 12 e 72 si desumono dai modelli la- tini sui quali, sia pure parzialmente, si basano, il 52 non ha una fonte latina e la soluzione è incerta. La più accreditata è ‘correggiato’, attrezzo agricolo per battere i cereali costituito da due bastoni uniti da una striscia di cuo- io (Brady 2014, 248). Murphy (2011, 200) ha invece proposto la soluzione ‘pene e testicoli’ che si accorda bene con l’altra ricorrenza di wale dell’indo- vinello 12, dove la donna celtica sembra alle prese con un membro virile. Se la supposizione di Murphy fosse corretta, l’indovinello 52 offrirebbe ancora una volta l’associazione tra schiava celtica e sessualità, oltre che con il lavoro connesso all’allevamento dei bovini. Anche la creatura che parla in prima persona nell’indovinello 72 è legata: al v. 13 l’espressione allitterante bunden under beame (“legato sotto il giogo”) è variata da beag hæfde on healse (“avevo un collare al collo”).28

Ic wæs lytel …29 Fo … …te geaf …

27 “Ho visto prigionieri legati portati in una stanza / sotto il tetto della sala, robusti en- trambi, / avevano lo stesso nome, in saldi vincoli, / incatenati strettamente insieme; / vicino ai due stava / una scura donna gallese, che li dominava / ambedue nel viaggio, strettamente avvinti.” 28 Tra i reperti archeologici si contano collari per schiavi come il collare di Lagore (Irlanda, sec. VII); degno di nota è che dal germanico *frī-hals ‘collo libero’ sono derivati gotico freihals ‘libertà’ e alto tedesco antico frihals, anglosassone freols, antico nordico frjáls e longobardo (in forma latinizzata) frealis ‘libero’. 29 L’indovinello si trova sui fogli danneggiati alla fine dell’Exeter Book, per cui l’inizio è parzialmente perduto.

42 | la schiavitù negli indovinelli dell’exeter book |

…pe þe unc gemæne … … sweostor mīn fedde mec … oft ic feower teah swæse broþor þara onsundran gehwylc dægtidum me drincan sealde þurh þyrel þearle. Ic þæh on lust oþþæt ic wæs yldra ond þæt an forlet sweartum hyrde siþade widdor mearcpaþas Walas træd moras pæððe bunden under beame beag hæfde on healse wean on laste weorc þrowade earfoða dæl. Oft mec isern scōd sare on sidan. Ic swigade næfre meldade monna ængum gif me ordstæpe egle wæron. (Muir 1994, I, 364-65)30

La soluzione è ‘bue’, come negli indovinelli 12 e 38. Quest’ultimo ha per oggetto il vitello allattato dalla madre prima di entrare al servizio degli uo- mini (Muir 1994, I, 311). L’indovinello 72 presenta invece il bue aggiogato e maltrattato che rammenta la sua infanzia quando felice si nutriva alle mammelle materne; ricorda poi il distacco dalla sua terra e dalla sua fami- glia per intraprendere il lungo viaggio che lo ha portato alla sua triste vita attuale, e lamenta il suo presente di schiavitù e dolore. Nel viaggio è stato accompagnato da un “mandriano scuro” (sweartum hyrde; v. 11a) attraverso “paludi” (moras; v. 12b) e “sentieri di confine gallesi” mearcpaþas( walas; v. 12a), così che il bue rappresenta uno schiavo che viene dal Galles, controllato da un bovaro anch’egli gallese, “scuro” come i celti degli indovinelli 12 e 52. Williamson (1977, 344) e Muir (1994, I, 368) su basi metriche espungono walas come interpolazione tarda; tuttavia, anche se walas fosse un’aggiunta successiva, il suo inserimento riflette comunque una visione che associa bovini, gallesi, schiavitù e terre di confine. Testimonianze archeologiche dimostrano che nel Galles era praticato l’al- levamento di bestiame, esportato nei mercati delle Midlands (Brady 2014, 247). Sia il commercio del bestiame sia la tratta degli schiavi dal Galles all’Inghilterra spiegano i riferimenti ai bovini e al viaggio nei tre indovinelli: la wonfeax wale è “portata da lontano” (feorran broht; v. 7b), i due prigionieri

30 “Io ero piccolo … / … / … dava … / … che noi insieme … / … mia sorella / mi nutriva … spesso strattonavo quattro / dolci fratelli, che uno a uno / durante il giorno mi davano da bere / attraverso un foro, a volontà. Crebbi felice, / finché divenni più grande e lasciai tutto / con il mandriano scuro, viaggiai a lungo, / attraversai i sentieri di confine dei gallesi, oltrepassai paludi, / legato sotto il giogo, con un collare al collo, / sofferenza sulla mia strada, sopportai il travaglio, / tanti patimenti. Spesso il ferro mi lacerava / aspramente il fianco. Io tacevo, / non ho mai detto niente a nessuno / quando i colpi del pungolo mi facevano male.”

43 | marusca francini | dell’indovinello 52 sono “in viaggio” (on siþe; v. 7a), e la creatura del n. 72 “ha viaggiato a lungo” (siþade widdor; v. 11b). Inoltre l’attività principale degli schiavi era connessa proprio ai bovini: mentre gli uomini erano di solito oc- cupati, in coppia, nell’aratura dei campi con i buoi, le donne erano preposte per lo più alla mungitura delle mucche. La storia tradizionale di come il vitello è cresciuto ed è diventato un ani- male da lavoro diviene nell’indovinello 72 una narrazione commovente che coinvolge perdita di affetti, esilio e sofferenza, dove il tema viene trattato in modo radicalmente diverso rispetto ai parametri consueti dell’indovinello medievale (Bitterli 2009, 27). Gli enigmi latini che ne sono il parziale mo- dello sono infatti molto lontani dal soliloquio sconsolato del nostro bue, il cui linguaggio e stato d’animo ricordano le cosiddette elegie anglosassoni con le loro narrazioni di sventure personali, separazione, esilio e ricordo nostalgico di un passato che è stato più lieto. Nell’indovinello 72 lo sviluppo peculiare del tema del vitello che diventa bue espande e infine cancella i confini tradizionali di genere (Bitterli 2009, 34). La definizione dell’elegia anglosassone è problematica, ma sono comun- que individuabili certi temi chiave (Klinck 1992, 11-12), alcuni dei quali pre- senti nell’indovinello. Come molte elegie, questo è un testo definibile come un ‘lamento’ ed è caratterizzato da motivi quali il viaggio, l’esilio, la perdita dei propri cari, la solitudine e la caducità delle gioie mondane, tutti elementi che, visti in chiave metafisica, possono essere letti come un insegnamento morale. Come in molte elegie, la presentazione è lirico-riflessiva in forma di monologo. Molti indovinelli contengono i temi del passato felice e dell’esilio, espressi sotto forma di lamento: tra gli altri, i nn. 5 (dove l’oggetto da indovi- nare, ‘scudo’, è anhaga, “solitario”, come l’errante di Wanderer), 60, 73, 82, 87 e 92, mentre la creatura dell’indovinello 39 sceal wideferh wreccan laste / hamleas hweorfan (vv. 8-9b; “deve per sempre senza casa percorrere le vie dell’esilio”).31 Il contrasto tra infanzia spensierata e presente doloroso che divide l’indo- vinello 72 in due parti distinte esprime il tema elegiaco della transitorietà, come anche quello del senso di separazione e di distanza, nel tempo e nello spazio, dalla cosa perduta e desiderata. Come il protagonista del Wanderer, che vaga solo e abbandonato dopo la morte del suo signore e dei suoi com- pagni, la creatura ha perduto la madre e i fratelli, e ha camminato a lungo, lasciando per sempre la sua casa, attraverso zone di confine acquitrinose. La menzione di queste ultime, tradizionalmente sedi di emarginati, ricor- da il tema dell’esilio tipico di molte elegie. I riferimenti al mondo naturale sono una tecnica tradizionale della poesia anglosassone per adombrare la condizione umana (Neville 1999, 21); il bue ha percorso i sentieri di confine dei gallesi, il cui paesaggio fisico ma anche simbolico di una natura aspra e inospitale rappresenta un contesto che definisce l’umanità che lo abita, al di là degli insediamenti civilizzati. Nell’indovinello le genti celtiche appaiono

31 Cfr., rispettivamente, Muir 1994, I, 290, 353, 365-66, 369-70, 374-75, 377-78, 312.

44 | la schiavitù negli indovinelli dell’exeter book | quindi associate ai più selvaggi angoli dell’isola, come testimoniano anche Gildas nel De excidio et conquestu Britanniae e Beda nella Historia ecclesia- stica. Gildas narra che i britanni continuarono a ribellarsi e a combattere, avendo montagne, caverne e brughiere come base (Winterbottom 1978, 95), mentre Beda riporta che i celti abitano tra montagne, boschi e rocce a pre- cipizio (Lapidge 2008-10, I, 64, 72). Nel Beowulf gli ‘stranieri’ che occupano simili lande e oltrepassano confini e paludi (frecne fengelad; v. 1359a; Fulk, Bjork e Niles 2008, 47; “pericolosa zona di acquitrini”) per giungere nel- la società umana sono Grendel (definitomearcstapa ; v. 103a; Fulk, Bjork e Niles 2008, 6; “vagabondo della Marca”) e sua madre. Anche il drago viene da on westenne (v. 2298a; Fulk, Bjork e Niles 2008, 79; “terre desolate”). In Maxims II la palude è il luogo dei mostri: þyrs sceal on fenne gewunian / ana innan lande (vv. 42b-43a; Dobbie 1942, 176).32 L’afflizione della creatura deriva anche dal fatto che è legata, e il dolore che lega è un motivo che ricorre nel Wanderer: Ðonne sorg and slæp samod ætgædere / earmne anhogan oft gebindað (vv. 39-40).33 I sudditi di Ermanarico sono sorgum gebunden (v. 24b; “legati dal dolore”) nel Deor, dove seonobende (v. 6a), “deboli legami di tendini” oppure “legami di deboli tendini” che il re Nidhad impone al fabbro Welund, è un termine che può indicare legami fat- ti di tendini oppure applicati ai tendini (Klinck 1992, 159). Il lessico dell’in- dovinello comprende anche termini per ‘sofferenza’ che ricorrono nelle due elegie, come wean (Deor, v. 4b) ed earfoða (Wanderer, v. 6b; Deor, v. 2b).34 La struttura di molte elegie prevede che il dolore sfoci in riflessioni gno- miche o omiletiche: in Wanderer, Seafarer, Riming Poem e Resignation la ten- sione verso un ordine eterno nell’altra vita porta a trascendere infine ogni sentimento di solitudine e mutabilità sperimentato nell’esistenza terrena. Nell’indovinello, al contrario, manca il superamento della sofferenza attra- verso la meditazione che porta a Dio e alla Grazia, e la creatura resta schiava e legata alle sue afflizioni. Negli indovinelli sono spesso adombrati conflitti sociali e situazioni pro- blematiche, trasferiti grazie alla prosopopea dall’ambito umano a quello non umano, dove possono essere osservati con maggior distacco. Nonostante questo procedimento in apparenza giocoso, molti indovinelli, implicita- mente e indirettamente, trattano una contraddizione cruciale presente in tutta la letteratura gnomica, probabilmente acuita dalla sensibilità cristiana in una realtà sociale problematica: la tensione tra affermazione di ordine e giustizia da un lato e l’esperienza del male, della sofferenza e dell’instabilità dall’altro (Hansen 1988, 137), così che gli indovinelli exoniensi hanno molto da dire sugli oppressi della società, quelli che non trovavano posto nel mon- do eroico anglosassone (Niles 2006, 53).

32 “Il gigante deve dimorare nella palude, solo sulla terra.” 33 “Allora dolore e sonno insieme spesso legano il misero solitario.” 34 Cfr. i testi, rispettivamente, in Muir 1994, I, 215-19, 281-83.

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Il lamento della creatura ricorda quello dell’aratore del Colloquio di Ælfric, anch’egli uno schiavo che lavora con dei buoi, figura presente an- che nella Grammatica, dove gli schiavi preposti all’aratura con i buoi sono proprio dei wealas (mine wealas erað / mea mancipia arant; Zupitza 1880, 101). L’aratore è diverso dal fabbro o dal carpentiere, altri rappresentanti dei laboratores, dal momento che ha uno status giuridico differente e affer- ma: Magnus labor est, quia non sum liber (Garmonsway 1947, 21).35 Ælfric è andato oltre la descrizione di un’occupazione e ha permesso all’aratore di manifestare i suoi sentimenti con le sue stesse parole (Pelteret 1995, 65). L’espressione verbale dell’infelicità dell’aratore ridotto in schiavitù ha un parallelo nella letteratura anglosassone solo nell’indovinello 72, con il bue che comunica in prima persona le sue emozioni come essere dolente pri- vato della libertà e degli affetti e sottoposto a un duro lavoro e a patimenti fisici. L’empatia nasce dalla proiezione della condizione dell’esistenza uma- na su quella dell’animale.

5. considerazioni conclusive

Gli aspetti più umili della vita anglosassone, tra cui rientra la schiavitù, in poesia sono confinati quasi esclusivamente agli indovinelli dell’Exeter Book. L’indovinello ebbe ampia diffusione nel medioevo come modalità per rac- cogliere e trasmettere saggezza e conoscenza, ma oltre alla prospettiva gno- mica anche la dimensione ludica ha contribuito alla popolarità del genere. Gli enigmi exoniensi, in maniera indiretta, riflettono i codici sociali della cultura che li ha prodotti e perpetuano canoni e tradizioni attraverso il gio- co con la realtà, che ha il fine di meravigliare, indagare connessioni tra le cose e trasmettere conoscenza circa i valori ritenuti socialmente importanti (Borysławski 2004, 141). La rielaborazione di temi e forme tradizionali nei tre indovinelli qui ana- lizzati porta a innovazioni che hanno la funzione di veicolare messaggi nuo- vi, conformi alla mentalità monastica, circa la sessualità e la sofferenza della vita terrena; emerge innanzitutto che il tema elegiaco della transitorietà, caro all’ideologia monastica, si manifesta anche negli indovinelli e sembra quindi percorrere l’Exeter Book come una sorta di filo rosso, al di là dello specifico genere dei testi. Nel Sermo in Laetania Maiore [De Auguriis] Ælfric afferma che il corpo debba obbedire all’anima attraverso l’immagine della sottomissione della wiln alla padrona (Skeat 1966, I, 365). Questa metafora potrebbe essere una chiave per il simbolismo che sottende ai riferimenti alla schiavitù negli in-

35 “Il lavoro è duro, perché io non sono libero.” Lo stesso concetto viene espresso da Sosia in Anfitrione di Plauto, ma non ci sono tracce di una conoscenza di Plauto nell’Inghilterra anglosassone (cfr. Ogilvy 1967).

46 | la schiavitù negli indovinelli dell’exeter book | dovinelli, che conterrebbero un monito circa i pericoli della carne quando non soggiace al governo dell’anima.36 Il complesso di schiavitù, legami, bestiame, stupidità oppure infelicità dei tre indovinelli potrebbe rappresentare la schiavitù spirituale veicolata attraverso immagini di schiavitù reale e una metafora del corpo non guidato dall’anima, incarnata dallo schiavo celtico e basata sulla distanza culturale tra élite (guerriere e religiose) e schiavi. Alla luce di questo complesso meta- forico, la sessualità della schiava celtica è un’insolente rivolta del corpo che segue la propria inclinazione illogica, secondo la visione monastica del ses- so come espressione dell’irrazionalità umana e secondo la retorica cristiana della schiavitù associata a peccato, disobbedienza e lascivia. Wealh ‘celta, gallese’ negli indovinelli veicola infatti sfumature di signifi- cato quali ‘scuro’, ‘schiavo’, ‘sfrenato’, ‘irrazionale’. I tre indovinelli mettono in relazione schiavi celtici, catene e bovini. I celti sono dipinti come creature al di fuori della società, in stretta contiguità con gli animali da lavoro di cui si occupano ed estranei alle norme morali condivise. La loro identità appare associata a confini e paludi. Sono esseri del limite che incarnano l’alterità etnica, sociale e morale. Anche il bue dell’indovinello 72, pur profferendo un lamento struggente impregnato di rimandi verbali e tematici al genere elegiaco e ai suoi protagonisti, a differenza di questi non si eleva dalla terra al cielo. In conclusione, i celti schiavizzati incarnano l’ideologia monastica della negatività della dimensione terrena e materiale della vita.

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36 Salvador Bello (2003) propone una lettura allegorica degli indovinelli ‘osceni’ come avvertimento implicito a non basarsi sulla dimensione carnale della vita, prendendo in esame i double-entendre 42, 44, 45 e 46, inframmezzati dall’indovinello 43 (‘anima e corpo’), che ha invece un tema cristiano e afferma che il corpo deve servire onestamente l’anima così che entrambi saranno felici, ma se il servo non obbedisce al padrone, ciò che ne scaturirà sarà solo sofferenza. Nell’indovinello 43 il corpo è simbolizzato dallo esne (“schiavo”), l’anima dal frea (“signore”), che è anche indrihtne (“aristocratico”) e æþel (“nobile”).

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RIFLESSIONI GNOMICHE IN THE WIFE’S LAMENT

Concetta Sipione Università degli stUdi di catania

1. introduzione1

Considerato come uno dei più stimolanti ed enigmatici componimenti poe- tici anglosassoni, The Wife’s Lament2 (WL) ha da sempre esercitato un forte richiamo sugli studiosi e originato una messe considerevole di letteratura critica. Delle numerose questioni ancora aperte vorrei occuparmi in questo contributo del finale (versi 42-52a)3 e proporne una mia interpretazione, innanzitutto concentrandomi sull’analisi delle caratteristiche strutturali e lessicali del passo, che si presta, per la sua sintassi contorta e l’indetermi- natezza di alcune formulazioni, a letture assai discordanti, e poi prenderne in esame il significato per il poema nel suo complesso. Anche se il WL è ben noto agli specialisti, è opportuno esporne qui brevemente il contenuto. In un esordio convenzionale, tipico delle ‘elegie’ anglosassoni,4 un per-

1 Desidero ringraziare Carla Riviello per le sue osservazioni a una precedente redazione di questo contributo e gli/le anonimi/e peer reviewer per i suggerimenti in fase di revisione. 2 Contenuto nel codice di Exeter (Exeter, Cathedral Library, 3501, foll. 115r-v) tra la prima serie di Riddles e il componimento escatologico The Judgement Day I. 3 L’edizione seguita per i testi poetici anglosassoni è Krapp e Dobbie [1931-53] 1961; nella trattazione si farà riferimento alle singole opere con il titolo seguito dall’indicazione dei versi. Le traduzioni dall’anglosassone, ove non diversamente specificato, sono a cura dell’autrice. 4 Questa etichetta, sotto cui sono raggruppati testi poetici piuttosto eterogenei che hanno in comune determinati elementi formali e stilistici, si basa sulla definizione data da Greenfield (1966), poi integrata da Klinck (1984); l’esistenza di tale ‘genere’ è stata tuttavia messa in di- scussione (Mora 1995) anche all’interno del processo di revisione del canone letterario anglo- sassone (Ashurst 2010; Fulk e Cain 2013; Battles 2014).

|53| | concetta sipione | sonaggio femminile, come le desinenze nei primissimi versi dimostrano,5 lamenta le sofferenze provate durante la sua esistenza. Comincia l’enucle- azione di una serie di eventi, apparentemente ordinati, la cui cronologia è però difficile da ricostruire:6 dapprima la partenza del marito, per ragioni non specificate, poi la partenza della donna per andare alla ricerca di un folgað,7 un “seguito” o un “servizio” presso un signore, dovuta forse alle tra- me oscure dei parenti del marito, infine l’esilio della donna in un luogo isolato, una caverna o una dimora sotterranea all’interno di un bosco.8 La protagonista afferma di avere scoperto che l’uomo in realtà dissimulava le sue afflizioni dietro un contegno gioioso e ritiene che le promesse strette un tempo con l’amato siano ormai infrante. Nel suo esilio rimugina sulle sue sofferenze e prova nostalgia e acuto desiderio per l’assenza del marito. Dal breve sunto ho volutamente tralasciato ogni accenno alla parte finale, che sarà oggetto delle mie considerazioni nei paragrafi successivi.

5 Come è noto, i primi editori del WL non riconobbero il genere femminile della voce narrante, che più volte è stato poi messo in dubbio (Schücking 1906; Bambas 1963; Stevens 1968; Mandel 1987, 152-55); le argomentazioni grammaticali di Stevens, insieme con le sue proposte di emendare il testo, sono state confutate da Mitchell (1972; 1985, 494). Si veda per maggiori dettagli Klinck [1992] 2001, 177-78. L’uso di epiteti relativi al mondo del comitatus, che risulterebbero più consoni alla descrizione del rapporto tra þegn ‘seguace, soldato’ e hlaford ‘signore’, e la davvero sporadica trattazione, nel mondo letterario anglosassone, di relazioni d’amore (Magennis 1995) rappresentano alcune delle obiezioni avanzate dai sostenitori del genere maschile della voce narrante. 6 Problematica risulta la lettura del WL anche per la mancanza di una stringente conse- quenzialità nella narrazione, soprattutto nella prima metà del testo (WL 6-29), in cui la presen- za di discontinuità cronologiche e sintattiche ha messo a dura prova le capacità interpretative degli studiosi. Ritornerò sull’argomento alla fine di questo contributo. 7 Diverse ipotesi sull’uso di folgað in questo contesto in Wentersdorf 1981, 496-98; in Deor 38 ricorre l’espressione hatte ic fela wintra folgoð tilne (“ebbi per molti anni un incarico vantaggioso”). Complessa risulta la corretta interpretazione di alcune espressioni, tipiche del linguaggio eroico, ma aventi anche valenza giuridica, come fæhðu dreogan (WL 26; “sopportare l’ostilità”), beotedan (WL 21; “giurammo”), feorres folclondes (WL 47; “in un paese lontano”). Beotedan e fæhðu sono riecheggiati in The Husband’s Message: þu sinchroden / sylf gemunde // on gewitlocan / wordbeotunga (14-15; “tu, adorna di gioielli, dovresti richiamare alla mente le promesse”) e hine fæhþo adraf // of sigeþeode (19b-20a; “una faida lo condusse lontano da questo popolo glorioso”). Qui e nel seguito del contributo mi avvalgo, per la ricostruzione del signifi- cato dei vari lemmi, di BT (= Bosworth e Toller 1972) e, per le lettere A-H, di DOE (= Di Paolo Healey et al. 2008-16). 8 Ispirate anche dall’insolita e tetra collocazione geografica della protagonista sono alcune delle più fantasiose e accattivanti ipotesi sull’identità del personaggio del WL: una donna che parla dall’oltretomba (Lench 1970; Tripp 1972; Johnson 1983); una divinità pagana abbando- nata dal suo sacerdote, convertitosi al cristianesimo (Doane 1966; Orton 1989; Luyster 1998); cui si aggiungono, tra l’altro, la personificazione della Chiesa che implora Cristo per ristabilire la loro precedente unione (Swanton 1964; Bolton 1969; Howlett 1978; Murgia 2013); l’oggetto parlante di un indovinello (Walker-Pelkey 1992).

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2. due ‘scuole di pensiero’ e l’identità del geong mon

Sull’interpretazione dei versi 42-52a del WL esistono opinioni diverse che, semplificando, possono essere ricondotte essenzialmente a due ‘scuole di pensiero’ contrapposte; la prima sostiene una interpretazione ‘rancorosa’, mentre l’altra propone una lettura ‘empatica’ del testo (“the ‘genteel’ versus the ‘vindictive’ school”; Niles 2003, 1115). Riporto qui i versi in questione insieme a una traduzione letterale, ‘provvisoria’, del testo anglosassone (una versione più ‘accurata’ sarà presentata come esito delle mie considerazioni):

A scyle geong mon wesan geomormod, heard heortan geþoht, swylce habban sceal bliþe gebæro, eac þon breostceare, sinsorgna gedreag, sy æt him sylfum gelong eal his worulde wyn, sy ful wide fah feorres folclondes, þæt min freond siteð under stanhliþe storme behrimed, wine werigmod wætre beflowen on dreorsele. Dreogeð se min wine micle modceare; he gemon to oft wynlicran wic. Wa bið þam þe sceal of langoþe leofes abidan. (WL 42-53)9

Nella versione ‘empatica’ i versi finali conterrebbero una prolungata ri- flessione sul comportamento più consono per un geong mon (WL 42a), un “giovane (uomo)”, che deve essere grave e fermo nelle intenzioni, pur mani- festando, nonostante le afflizioni e le preoccupazioni, un contegno lieto. La protagonista rivolgerebbe poi il pensiero al min freond (47b), “il mio amico”, cioè all’uomo amato, che immagina trovarsi in una situazione di isolamento

9 “Sempre un giovane (uomo) deve essere di animo triste, / duro il pensiero del cuore, allo stesso modo deve avere / un aspetto lieto, oltre alla pena del cuore / la ressa di continue pene, sia da lui stesso dipendente / tutta la sua gioia al mondo, sia assai largamente esiliato / in paese lontano, che il mio amico siede / sotto una scogliera, ricoperto dalla tempesta, / amico dall’animo stanco, avvolto dall’acqua, / in una dimora desolata. Sopporta il mio amico / grande pena dell’animo, egli ripensa troppo spesso / a una casa più felice. Che pena per chi deve, / nel desiderio, attendere l’amato.” Di immediata comprensione è però la chiusa gnomica del WL (52b-53), una lapidaria riflessione sulle pene d’amore:Wa bið þam þe sceal / of langoþe leofes abidan (“Che pena per chi deve attendere l’amato nel desiderio!”). Il semiverso formulare Wa bið þam þe sceal (52b) ricorre identico in Beowulf 183b-185a: Wā bið þām þe sceal // þurh slīðne nīð / sāwle bescūfan // in fӯres fæþm, / frōfre ne wēnan, // wihte gewendan (“Che disgrazia per chi, a causa di crudele superbia, deve consegnare l’anima all’abbraccio del fuoco, senza aspettarsi consolazione, o di mutare le cose”). L’edizione seguita del Beowulf è quella di Fulk, Bjork e Niles (2008). La sofferenza dell’attesa della persona amata ritorna in Maxims I 103b-104: Mon se þeah leofes wenan // gebidan þæs he / gebædan ne mæg (“Si deve sempre attendere che l’amato ritorni, aspettare ciò che non può essere forzato”).

55 | concetta sipione | e sofferenza, analoga al suo stato attuale. Secondo la versione ‘rancorosa’, la sezione finale del WL conterrebbe, invece, una maledizione nei confronti dell’uomo responsabile della soffe- renza della donna. Afferma Niles (2003, 1116): “According to the […] ‘vin- dictive’ view, the woman speaks a curse. With bitter but unbroken spirit, she heartily wishes that her husband were just miserable as she is, and she visualizes him suffering thus in some future time.” In realtà, se si analizzano attentamente i versi riportati sopra, la vera e propria maledizione nei confronti del marito può essere individuata ai versi 47b-52a, che esordiscono con l’espressione min freond (47b), generalmente identificato con il marito della donna, al quale ella augurerebbe di trovarsi, in futuro, in condizioni climatiche e sociali avverse, proprio come quelle in cui la protagonista è attualmente costretta a vivere. Mal si conciliano, però, i precedenti versi 42-47a, che contengono una serie di considerazioni incen- trate sulla figura del geong mon, con la maledizione rivolta contro il marito. Solitamente, studiosi e traduttori si sono trovati dinanzi alla difficoltà di -ar monizzare il riferimento al geong mon con il min freond dei versi successivi. Per esemplificare concretamente le mie riserve riporto qui due traduzio- ni moderne dei versi in esame, a cura, rispettivamente, di Sanesi (1975, 103) e Raffel e Olsen (1998, 15), entrambi sostenitori di una lettura ‘rancorosa’ delle parole della donna (corsivo mio):

Sia sempre triste l’animo di quel giovane, e amari i suoi pensieri; per quanto lieto il suo volto, possa provare il peso dell’angoscia, l’atroce tormento di un continuo dolore. E la sua gioia mondana sia disprezzata ovunque, ed egli stesso sia esiliato in paesi lontani; perché il mio amante, il mio sconsolato signore sta sotto dirupi di roccia, e lo copre il nevischio di forti bufere, le acque lo circondano in luoghi dolorosi. Il mio signore soffre, gli affanni lo tormentano, ché troppo spesso ricorda una dimora più lieta. Amare pene pesano su chi inutilmente si strugge per il suo amore lontano.

May that man be always bent with misery, With calloused thoughts; may he have to cling To laughter and smile when sorrow is clamoring Wild for his blood; let him win his pleasures Unfriended, alone; force him out Into distant lands – as my lover dwells In the shade of rocks the storm has frosted, My downhearted lover, in a desolate hall

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Lapped by floods. His suffering drowns him: How can he smother swelling memories Of a better place? There are few things more bitter Then awaiting a love who is lost to hope.

Entrambi i traduttori individuano nel geong mon una persona diversa dal min freond, e le loro interpretazioni alludono così alla presenza di un terzo personaggio, di cui non si ha, tuttavia, alcun riscontro nel testo originale. Molto controversa è l’identità del geong mon: nella maggior parte dei casi gli studiosi vi hanno letto un riferimento di tipo generalizzante (“un gio- vane (uomo) / una persona giovane”) e di carattere universale;10 tale inter- pretazione ha il vantaggio di armonizzarsi con il tono gnomico delle frasi seguenti (si veda infra); Malone (1962, 115), Greenfield (1953, 911; 1966, 168) e Kinch (2006, 145) individuano nel geong mon il marito della donna, mentre Straus (1981, 277) vi legge, anche se non in maniera esclusiva, un possibile riferimento all’uomo che l’ha abbandonata (più in dettaglio di se- guito). Meno probabile risulta l’ipotesi di intendere con geong mon un terzo personaggio, responsabile della separazione della coppia, del quale, come si è detto, non si trova traccia nel plot (Ward 1960, 32).11 Sulla scia di Schücking (1906, 445), che individuava nel geong mon il pro- tagonista maschile (!) del poema, Pope e Fulk (2001, 127-28) lo identificano con il female speaker, dal momento che “the ‘geong mon’ in question can be any young person at all, whether male or female […] the Old English noun mon or mann [sic] is not gender-specific when used in a gnomic sense” (Niles 2003, 1144). Di recente, infine, Lee (2007, 186-87) ha proposto di identifi- care il geong mon con il poeta o con lo scop che ha assunto, nella prima parte della performance, l’identità fittizia del female speaker:

My belief is that the allusions to a third person – ‘geong mon’ […] ‘min freond’ […], ‘min wine’ […], and ‘he’ […] – all refer to that very person who has so far uttered the lament […]. The min- strel, up to the end of line 41, has recited the lament of a fiction- al speaker […] and so far the assumed voice has been that of a woman. But from line 42, which begins with a fresh twang of his harp, the minstrel (or the poet) sings in his own voice: the speaker of the concluding lines (lines 42-53) is not the fictional person in mourning but the poet himself.12

10 Cfr. Lawrence 1908, 389; Greenfield 1953, 911; Wentersdorf 1981, 515; Leslie [1961] 1988, 57; Niles 2003, 1113. 11 Si vedano anche le traduzioni sopra riportate a cura, rispettivamente, di Sanesi, e Raffel e Olsen. 12 Per maggiori dettagli si veda il resoconto, con indicazioni bibliografiche, di Klinck [1992] 2001, 185-86, nonché Niles 2003, 1113, e Geremia 2014, 79-80.

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Particolarmente significative sono le riflessioni di Greenfield (1953, 911) che, in un valido saggio sul WL, pur sostenendo l’interpretazione dei ver- si finali come “a milder form of curse” (1953, 907) da parte della donna contro il marito, è conscio dell’incongruenza generata dall’inconciliabilità tra l’identità indefinita del geong mon e il riferimento, nei versi successivi, al min freond, e tiene a precisare che “the use of the optative in ll. 42-47a is significant, and [I] take this portion as a curse; but it is not a curse on a third party […] the wife here uses an impersonal expression to convey the complex feelings she has about her husband” (Ibid.). Successivamente, in due diverse occasioni, Greenfield (1966, 165-69; Greenfield e Calder 1986, 292-94, 301) rivedrà le sue posizioni, respingendo la versione ‘rancorosa’ in favore di quella ‘empatica’. Per un rapido sommario delle posizioni relative a questa interpretazione del WL rimando a Klinck ([1992] 2001, 185-86) e Niles (2003, 1118-19), mi limiterò qui a presentare solo alcuni dei più recenti e originali contributi alla questione. Per Straus (1981) la donna, descritta generalmente come passiva e rassegnata, attraverso le sue parole e il suo racconto compie atti linguistici che, di fatto, equivalgono ad azioni vere e proprie. Così, anche la parte fina- le del poema, concepita come una maledizione nei confronti del marito che l’ha abbandonata, costituisce una vera e propria vendetta, realizzata tramite il compimento di un atto linguistico.13 La studiosa non pone specificamente la questione della distinzione o meno dell’identità del geong mon, affermando che la vendetta della donna sarebbe rivolta in maniera indifferente all’uomo (il marito) o, più in generale, agli uomini che le hanno inflitto sofferenza (Straus 1981, 227-28). Nell’interpretazione di Chance (1986, 93) la protagoni- sta è una sorta di anti-scop che lancia una maledizione contro il suo ‘signore’ e marito, colpevole di averla lasciata, piuttosto che celebrarlo con un poema di elogio. La studiosa non si sofferma sul problema dell’identità del geong mon. Molto più articolate sono invece le argomentazioni addotte da Niles (2003). Lo studioso ammette che le forme sceal (43) e bið (52) hanno funzio- ne e valore gnomico, mentre per scyle (42), di cui rileva la sostanziale am- biguità, tende a escludere un senso di obbligo morale. In questo caso, con l’espressione a scyle geong mon / wesan geomormod, il female speaker potrebbe benissimo auspicare un destino di sofferenza per quelle persone – essen- zialmente rappresentanti del genere maschile – che si comportano come il marito (Niles 2003, 1113-14). Nella parafrasi proposta i versi 42-43a sono resi: “Ever may a young person [of that treacherous kind] be wretched; ever may the thoughts of his heart be bitter!” (Niles 2003, 1145).14 Questa inter-

13 “If the speaker’s earlier description of her own situation is a series of assertions whose illocutionary point, in Searle’s terms, is an attempt to present words which match her vision of the world, then what we see in the final section of ‘The Lament’ is the speaker’s converse attempt to make the world match her words” (Straus 1981, 278). 14 “The personal pronoun ‘he’ in its various inflected forms in the first sentences of my paraphrase can be understood as referring to any false-hearted lover at all […]” (Niles 2003, 1145).

58 | riflessioni gnomiche in the wife’s lament | pretazione presuppone tuttavia delle congetture che non sono direttamente desumibili dai versi. Resta comunque irrisolto, nella versione ‘rancorosa’, il problema dell’i- dentificazione del geong mon e della sua collocazione logica all’interno del testo, nonché dell’armonizzazione con la figura del marito, cui la protagoni- sta rivolge il suo pensiero nei versi successivi.

3. elementi gnomici in wl 42-47a

Una lettura gnomica dei versi finali delWL , oltre a rendere più lineare l’in- terpretazione del componimento nel suo complesso, elimina le incongruen- ze rilevate, permettendo di legare i versi 42-47a con i successivi 47b-52a. È evidente, a mio avviso, che il sintagma geong mon debba essere inteso in senso universale, in riferimento a una categoria generica di esseri umani (Cavill 1999, 51). Una formulazione analoga ricorre, ad esempio, nella fitt d’esordio del Beowulf:

Swā sceal geong guma gōde gewyrcean, fromum feohgiftum on fæder bearme, þæt hine on ylde eft gewunigen wilgesīþas, þonne wīg cume, lēode gelǣsten. (Beow 20-24a)15

La valenza gnomica dei versi finali delWL era stata già sottolineata da Lawrence (1908, 389) che in proposito affermava: “The main thing to notice at present is that the lines are only a series of reflections of a general character – one of those moralizing incursions into poetry of which the Anglo-Saxons were so fond.” In termini simili si era espressa anche Williams (1914, 50):

[…] the Ā scyle formula […] is the same as that found in Beowulf and the Edda, where universal truths are uttered, suggested by the immediate circumstance, but unquestionably free from it. Moreover, the idea is hardly in keeping with an ancient German- ic curse. On the other hand, as is consistent with Teutonic ide- als, a young man should recognize the seriousness of life […] at the same time bear a steadfast heart and pleasant demeanour to meet it. […] [T]his saying from The Banished Wife’s Lament would be no malediction but an exhortation.

15 “Così deve comportarsi un giovane, con liberalità / e con splendidi regali, finché si trova sotto la protezione del padre, / in modo che poi, da vecchio, a loro volta, lo sostengano / i com- pagni più stretti quando la guerra avanza, / che gli uomini lo servano.”

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La lettura conciliante dei versi finali delWL viene condivisa, con sfuma- ture diverse, da gran parte degli studiosi e degli editori del componimento, tra i quali Leslie ([1961] 1988, 57) e Klinck ([1992] 2001, 186).16 I versi 42-47a, in cui si individuano due proposizioni caratterizzate, ri- spettivamente, dai verbi preterito-presenti scyle (42a; “dovrebbe”) e sceal (43b; “deve”), contengono una verità di carattere universale; prendendo a prestito la definizione empirica elaborata da Cavill (1999, 42-43, 50-51) entrambe le pro- posizioni costituiscono esempi di ‘massime’, cioè di “sententious generalisa- tions”. 17 Da un punto di vista strutturale, le frasi a scyle geong mon / wesan geo- mormod (WL 42; “un giovane deve sempre essere grave nell’animo”) e swylce habban sceal // bliþe gebæro (WL 43b-44a; “allo stesso tempo avere un contegno lieto”), il cui soggetto è parimenti geong mon, presentano delle analogie con il tipo generale mon sceal, diffuso nella poesia gnomica anglosassone, e partico- larmente comune in Maxims I. Si vedano ad esempio:18

Læran sceal mon geongne monnan, trymman ond tyhtan þæt he teala cunne (Max I 45b-46a)19

Ræd sceal mon secgan, rune writan (Max I 138)20

Wel mon sceal wine healdan on wega gehwylcun (Max I 144)21

L’uso di avverbi di frequenza e del modo congiuntivo, in luogo dell’indi- cativo, serve talvolta a intensificare il grado di obbligo morale, come avviene nei versi finali del WL (Cavill 1999, 48). Una struttura affine a WL 42a, ma con soggetto al plurale, si trova in Maxims I:

A scyle þa rincas gerædan lædan ond him ætsomne swefan. (Max I 177-78)22

16 Per una rassegna sintetica delle diverse posizioni, con relativi riferimenti bibliografici, rimando qui, per ragioni di spazio, a Niles 2003, 1116-18, e Geremia 2014, 80-81. 17 Secondo Cavill, la ‘massima’ riguarda il comportamento umano, la morale, l’opportu- nità, le azioni fisiche o magiche, mentre la ‘gnome’ è relativa a proprietà e caratteristiche non solo del genere umano, ma anche di altri esseri, oggetti e fenomeni naturali. 18 La locuzione mon sceal è rinvenibile ancora, fra l’altro, in Maxims I 48, 103b, 114a, 155a; Maxims II 54b; Order of the World, 98a. 19 “Un giovane deve essere istruito, / incoraggiato e stimolato affinché impari a dovere.” 20 “I buoni consigli si dicono a voce alta, i segreti si scrivono.” 21 “È bene avere amici in ogni via.” 22 “I soldati devono sempre portare con sé l’armatura / e dormire insieme l’uno con l’altro.”

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Si esalta qui il valore del male comradeship, che si contrappone alla som- maria disamina (nei versi precedenti di Maxims I) degli svantaggi della so- litudine e delle sofferenze che ne derivano. Secondo Nelson (1981, 114-15) la forma a scyle serve a evidenziare lo stato di cose ideale e introduce una considerazione relativa al comportamento umano giusto e desiderabile. Nel Seafarer 109-12, infine, ricorre la formulazione mon sceal nella sua forma essenziale e nella variante scyle monna gehwylc “ognuno dovrebbe”,23 in cui, analogamente ai versi del WL, sono adoperate forme di sculan all’in- dicativo e al congiuntivo:

Stieran mon sceal strongum mode, and þæt on staþelum [healdan ond gewis werum wisum clæne, scyle monna gehwylc mid gemete healdan with leofne ond with laþne <…> (Seaf 109-12)24

L’uso di modi diversi potrebbe essere ricondotto alla necessità di intro- durre una differenza in relazione al comportamento umano, così sceal po- trebbe essere utilizzato per indicare qualità fondamentali e scyle, invece, per enfatizzare qualità desiderabili in un essere umano (Leslie [1961] 1988, 57), come avviene ad esempio nel passo citato dal Seafarer. Ma è anche possibile che, a causa del senso di necessità o di obbligo insito in sculan, le funzioni di indicativo e congiuntivo tendano a sovrapporsi (Klinck [1992] 2001, 186). Come si evince dagli esempi riportati sopra, la formula mon sceal e le sue varianti hanno valore generale, esprimendo una verità universalmente condivisa, e rappresentano l’introduzione tipica di una massima o di una gnome. Con geong mon si deve intendere, come nel caso di mon, un rap- presentante generico di una classe o gruppo di persone; di conseguenza tale sintagma non ha, nel contesto del WL, alcun riferimento diretto né alla persona che parla, né al hlaford di cui la donna patisce l’assenza, e neppure a un altro eventuale terzo personaggio ipotizzato da alcuni studiosi.

4. wl 42-45a: un ideale di comportamento ‘stoico’?

È opportuno adesso esaminare i versi 42-45a dal punto di vista lessicale e sintattico e scoprire le qualità e l’atteggiamento che un geong mon dovrebbe

23 Anche l’uso di pronomi e aggettivi indefiniti sembra enfatizzare l’idea di obbligo mo- rale (Cavill 1999, 48). 24 “Un uomo deve controllarsi con la forza della mente, e attenersi fermamente a / questo, fedele ai suoi propositi, puro in ogni modo. / Ogni uomo dovrebbe comportarsi con misura / nei confronti degli amici e dei nemici.” Seafarer 109a ricorre quasi identico in Maxims I 50, la cui lezio- ne è servita a emendare il testo corrotto dell’elegia. Su questo passo del Seafarer si veda Isaacs 1967.

61 | concetta sipione | avere nelle parole della protagonista. L’aggettivo geōmormōd è formato da geōmor ‘triste, dolente’, che costitu- isce, sia come simplex che nei composti, il lessema più ripetuto nel WL,25 tanto da assurgere a “cifra lessicale del breve componimento” (Riviello 2011, 296), e mōd, il più comune tra i numerosi termini anglosassoni per desi- gnare ‘animo, mente’ e, in generale, le facoltà mentali e psichiche (Harbus 2002, 29-30).26 Geōmormōd ricorre frequentemente nel corpus poetico an- glosassone, sia in testi di argomento religioso che nel Beowulf, e presenta delle corrispondenze anche con il sassone antico (Riviello 2011, 296). Se il significato più immediato e comune digeōmormōd è ‘triste, dolente nell’ani- mo’ (BT, 425: “sad of mind, sorrowful”; DOE, s.v.: “sad, sorrowful, mourn- ful”) è possibile, in alcune occorrenze di geōmormōd (e di geōmor), supporre un significato leggermente diverso, come ‘serio’ oppure ‘grave’ (Hill 2004, 237 nota 11).27 In relazione al contenuto gnomico dell’intero passaggio, Leslie ([1961] 1988, 57) propone di intendere geōmormōd come “serious of mind”. Questa accezione sembra altresì giustificata, se si considera che l’at- tributo geōmormōd di WL 42a viene variato tramite il sintagma nominale heard heortan geþoht (43a; letteralmente “severo il pensiero del cuore”) che, come geong mon, è soggetto del predicato scyle wesan.28 La locuzione heortan geþoht, rinvenibile in numerose occorrenze nel corpus anglosassone,29 potrebbe essere glossata, con una valenza neutra, come “pensiero segreto, riposto nel cuore”, ma l’aggettivo heard ‘duro, sal- do, rigoroso, inflessibile, severo’ modifica l’espressione, conferendole una maggiore densità semantica; il costrutto nella sua interezza andrebbe inteso come “inflessibile l’intenzione del suo cuore”, oppure “severo il suo recon- dito pensiero”. In questo modo la donna pare faccia riferimento alle due

25 Ricorre come simplex nei costrutti bi me ful geomorre (1; “su di me, assai afflitta”), forþon is min hyge geomor (17; “perciò il mio animo è afflitto”) e, come composto (aggettivale), in hyge- geomorne (19; “d’animo triste”, riferito all’uomo amato), oltre che nel succitato geomormod (42). 26 La polisemia di mōd è rilevata da Ælfric: “Heo [seo sawul] is animus þæt is mod þonne heo wat. Heo is mens þæt is mod þonne heo unterstent. […] It is animus, that is mōd, when it knows. It is mens, that is mōd, when it understands” (Harbus 2002, 35). 27 Mi sembra appropriato citare qui Beowulf 2044-45: onginneð geōmormōd geongum cem- pan […] higes cunnian (“comincerà, con animo grave, a mettere alla prova un giovane soldato”), detto dell’anziano guerriero che spinge un giovane degli Heaþobardi a compiere vendetta, oppure il passo in cui Giuditta si prepara a uccidere Oloferne, Judith 86b-88a: Þearle ys me nu ða // heorte onhæted / ond hige geomor, // swyðe mid sorgum gedrefed (“È terribile per me adesso, il mio cuore è in fiamme e la mente è cupa, grandemente agitata da preoccupazioni”). Delle tre occorrenze di geōmormōd/geōmor nel senso di “serious” o “grave” citate da Hill (2004, 237 nota 11) solo una è corretta, quella relativa a Judith 86; per quanto riguarda le altre due, rispettivamente Beowulf 2041 e 2681, nella prima è errato il verso (recte: 2044), mentre nella seconda (recte: 2863) non compare affatto geōmor/geōmormōd, bensì il composto sarigferð “con animo mesto”. 28 Sulla possibilità di costruire heard heortan geþoht come soggetto del predicato successi- vo habban sceal (43b), lasciando così geong mon soggetto unico di a scyle wesan, si mostra scettico Leslie ([1961] 1988, 57). 29 Nella forma (al plurale) heortan geþohtas: Christ 1047, 1055; Maxims I 3; Seafarer 34.

62 | riflessioni gnomiche in the wife’s lament | facoltà fondamentali della mente umana: mōd, come sede delle emozioni e dei sentimenti, e heorte, come sede del pensiero e delle intenzioni.30 Infine, secondo il dettato della frase gnomica successiva (WL 43b-44a, introdotta da swylce habban sceal), il geong mon deve contemporaneamente mostrare di possedere (almeno esteriormente) un bliþe gebæro cioè un “con- tegno lieto, gioioso”. L’apparente contrasto tra lo stato d’animo grave, l’interiore severità, la fermezza delle intenzioni e un contegno lieto e positivo, che non lasci tra- pelare all’esterno nulla di ciò che si agita davvero nel cuore, rappresenta il vero paradosso di questi versi, specie se si esamina ciò che viene detto di seguito: eac þon breostceare, / sinsorgna gedreag (44b-45a; “nonostante la pena (dell’animo), l’affollarsi di continue afflizioni”.31 Si delinea così, nella mente e nelle parole del female speaker, un ideale di comportamento umano che predica la rinuncia a ogni eccesso, soprattutto nel palesare all’esterno la vera natura delle proprie afflizioni e del dolore. Sembra che una certa gravità possa ritenersi appropriata per un giovane, uomo o donna che sia, specie se di nobile provenienza (Hill 2004, 238). Questo ideale auspicabile di misura e di sobrietà ritorna più volte nella poesia anglosassone, ad esempio nel seguente passo del Wanderer:

Forþon ne mæg wearþan wis wer, ær he age wintra dæl in woruldrice. Wita sceal gedyldig, ne sceal no to hatheort ne to hrædwyrde, ne to wac wiga ne to wanhydig, ne to forht ne to fægen, ne to feohgifre, næfre ne gielpes to georn, ær he geare cunne. (Wan 64-69)32

30 Anche se, come si legge in Ilkow 1968, 299, questa distinzione non deve essere considerata propria del modo di pensare dei germani: “Der Germane trennte nämlich nicht [...] den im menschlichen Körper angenommenen Sitz der Gemütsregungen vom Sitz der Denkkraft. Das Herz bzw. die Brust als Teil des Körpers, der das Herz umschließt, galt ihm als der Sitz aller Geistes-, Gefühls- und Willensregungen […]. Der Germane kannte also eine Art ‘Körperseele’, die er nach dem Sitz, an dem er sie gelegen glaubte, *herton- bzw. *breusta-, *brusti- nannte. Zur Bezeichnung der Kräfte dieser Seele dient ihm u.a. môða aber auch der […] Ausdruck hugi-.” I vari mind-words rinvenibili in anglosassone spesso hanno ambiti semantici che si intersecano, ma una differenza di base sembra esistere, tolte le ovvie necessità dell’al- litterazione, tra quelli che indicano “the physical or methaphysical receptacle of the mind” (brēost, heorte, hreþer) e quelli che connotano “the mind as entity” (mōd, hyge, sefa, mōdsefa); cfr. Harbus 2002, 23. 31 Il termine breostcearu ‘afflizione del cuore’ (ricorre anche in Seafarer 4) è variato e in- tensificato dalla locuzionesinsorgna gedreag, costituita dal genitivo di sinsorg ‘costante preoc- cupazione’ (uno hapax composto dal prefisso sin- ‘continuo, costante’ e sorg ‘dolore’) e gedreag ‘tumulto, moltitudine’; sul lessico del dolore di questi versi ha scritto Riviello (2011, 314-15). Si confronti la locuzione di Precepts 76, tornsorgna ful (“pieno di ansiose preoccupazioni”), per la forma poco comune di genitivo debole (Klinck [1992] 2001, 187). 32 “Perciò non può diventare saggio un uomo, prima che abbia / la sua parte di anni sulla terra. Un saggio deve essere paziente, / non deve essere troppo impulsivo, né troppo

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È esaltato qui, apparentemente, “the value of moderation” (Leslie [1966] 1985, 13; Diekstra 1971, 73). Problematica è la traduzione del lemma fæg- en, che ha come accezione più comune ‘gioioso, lieto’; nel passaggio del Wanderer sopra riportato la qualità indicata da fægen costituisce l’unico ele- mento positivo in una serie di aggettivi (introdotti dalla locuzione ne to) indicanti qualità negative (hatheort “impulsivo”, hrædwyrde “affrettato nel parlare”, wac “debole”, wanhydig “imprudente”, forht “pavido”, feohgifre “avi- do”, gielpes to georn “pronto al vanto”);33 per risolvere la questione di questa apparente incongruenza Dunning e Bliss (1969, 49-50, 116) propongono di tradurre fægen come “servile, fawning”, attribuendo all’aggettivo un si- gnificato negativo, che non ha però alcun supporto convincente, mentre la traduzione “elate”, proposta da BT (s.v.), sembra costruita ad hoc; DOE (s.v.), infine, glossa con “over-confident, exultant”. Per Hill (2004, 236-37) la frase in questione ne to forht ne to fægen “means pretty much what it seems to” ed esprimerebbe un sospetto e addirittura un implicito disprezzo per l’ideale e il concetto di felicità, come parte della cultura letteraria e forse anche della vita sociale degli anglosassoni. affrettato nel parlare, / né troppo debole, né troppo imprudente, / né troppo pavido, né troppo lieto, né troppo avido, / né troppo desideroso di vantarsi, prima che comprenda chiaramente.” Analogo alla formulazione ne to forht ne to fægen è il Proverbio 23 della raccolta di Durham (Arngart 1981, 293), che così recita: Ne sceal man to ær forht ne to ær fægen, Nec cito pauidus nec ilico arrigens qui esse debet (“un uomo non deve essere né troppo presto impaurito, né trop- po rapidamente baldanzoso”; di diversa opinione Hill 2004, 248 nota 24). La successione di espressioni formulari consistenti di ne to seguiti da un aggettivo relativo a una qualità umana ricorre spesso negli scritti omiletici (Dunning e Bliss 1969, 117), tuttavia l’insieme di ammo- nizioni del Wanderer conterrebbe elementi attinenti più alla sfera eroica, che non a quella cristiana, e non avrebbe precise corrispondenze nelle omelie (Leslie [1966] 1985, 13). Secondo Orchard (2002) il Wanderer mostra l’influenza della coeva tradizione omiletica in vernacolo: il lamento sul declino della cultura eroica di un tempo sarebbe svolto adottando i tropi dell’omi- letica. Questo apprezzamento critico non deve stupire poiché, a partire dai saggi di Clemoes (1969) e Diekstra (1971), che individuavano negli scritti dei Padri della Chiesa possibili fonti per il Wanderer, diversi studiosi hanno sostenuto l’idea che questo componimento sia, come d’altronde il Seafarer, fortemente influenzato dalla tradizione cristiano-latina, piuttosto che co- stituire sic et simpliciter l’esito della tradizione secolare e pagana, superficialmente rielaborata con interpolazioni cristiane. Di conseguenza vi si sono di volta in volta individuati l’espressione del genere della consolatio (Cross 1961), il precursore della tradizione meditativa inglese (Selzer 1983), l’influenza della filosofia boeziana (Lumiansky 1950; Horgan 1987; North 1995; ma criti- co Langeslag 2008), l’appartenenza al genere sapienziale (Shippey 1994), il legame con scritti biblici (De Lacy 1998), l’influenza di dottrine del monachesimo orientale (Leneghan 2016). 33 Un’analisi di questo passo in termini di stoicismo è stata condotta da Diekstra (1971), secondo il quale sarebbe espressa qui l’idea che gli affetti e le perturbazioni della mente devo- no essere temperati e guidati, attraverso l’esercizio delle virtù cardinali; solo in questo modo l’uomo saggio riesce a raggiungere la moderazione e la continenza. Di parere opposto è invece Mitchell (1968, 191-98), che analizza il passo specialmente da un punto di vista sintattico, giungendo alla conclusione che le qualità elencate non siano affatto desiderabili e che la serie di affermazioni costituirebbe un esempio di meiosi o understatement. Per Bjork (1989, 119) il passo contiene una serie di espressioni gnomiche convenzionali, delle quali solo la prima si riferisce direttamente al protagonista del poemetto, mentre le altre costituiscono uno sfogo di sapienza tradizionale, frutto dei condizionamenti culturali cui l’errante è sottoposto.

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Nel mondo moderno la ‘felicità’ costituisce una condizione invidiabile, non quantificabile e desiderabile senza riserve, e anche nella dottrina cri- stiana ‘letizia’ e ‘felicità’ sono sentimenti pienamente legittimati, nella pro- spettiva di una futura ricompensa dei fedeli dopo la morte; di conseguenza, l’invito a non essere ‘troppo felice/lieto’ sembra privo di logica (Dunning e Bliss 1969, 49); tuttavia si potrebbe intendere, come fa Hill (2004, 236), che la frase in questione contenga in sé l’idea, tipica dello stoicismo, che la ‘felicità’ non rappresenti un ideale o un bene, ma una perturbazione e un eccesso, che un uomo saggio deve evitare. I versi 65b-72 del Wanderer sembrano attestare un ideale di stoicismo che gli anglosassoni, e più in generale le popolazioni germaniche, avrebbero posseduto ancor prima dell’incontro con il cristianesimo. Così Hill (2004, 236):

[…] both Anglo-Saxon Christian thought and traditional Ger- manic culture, which informed the ideals of the warrior elite, were profoundly influenced by what we may loosely call ‘stoi- cism’: either Greco-Roman stoicism as it was transmitted direct- ly or modified by the Church Fathers on the one hand, or on the other hand by a Germanic stoicism whose origins are hard to discern, but which is clearly recognizable as a local expression of stoic ethical ideals.

Si rinvengono nella Weltanschauung germanica elementi che possono es- sere considerati genericamente affini allo stoicismo di impronta classica. Tali elementi sono parte del modello di comportamento eroico che ci è stato trasmesso, fra gli altri, in poemi come il Beowulf e il Wanderer. Ad essi va ricondotta, ad esempio, la concezione fatalistica (“the outlook on life of the Germanic people was fatalistic”; Timmer [1940-41] 1968, 124)34 e inesorabi- le del destino, come forza che domina e regola la vita degli esseri umani e sulla quale l’uomo non è in grado di esercitare alcun controllo. Tale concetto è espresso in anglosassone con il termine wyrd;35 si vedano ad esempio le famose espressioni gnomiche di Wanderer 5b, Wyrd bið ful aræd (“il destino è completamente determinato”),36 oppure Beowulf 455b, Gǣð ā wyrd swā hīo scel (“il destino va sempre come deve [andare]”). La wyrd può essere perso- nificata, come accade ad esempio in Wanderer 100b, wyrd seo mære (“il fato potente”).

34 Per una diversa opinione sulla questione del fatalismo si rimanda alla bibliografia citata in Griffith 1996, 155 nota 88. 35 Il lemma è attestato, con la medesima accezione, in tutti i dialetti del germanico. Sul concetto di wyrd e la sua evoluzione si rimanda a trattazioni ‘classiche’ come Timmer [1940-41] 1968 e Weber 1969. Sull’uso di wyrd nel Beowulf si vedano, tra gli altri, Payne 1974 e Kasik 1979. 36 Così, ad esempio, Dunning e Bliss 1969, 72; per una lettura diversa: Griffith 1996.

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Inoltre, relativa al modo di agire dell’eroe germanico e alla sua visione esistenziale è la fermezza nell’affrontare i rovesci della fortuna e le sofferen- ze, fisiche e morali; la capacità di sopportare e superare il male, con spirito indomito, è esemplificata, ad esempio, dalle frasi con cui Beowulf ‘consola’ Hroþgar per la perdita del fidato consigliere Æschere:

Ne sorga, snotor guma. Sēlre bið ǣghwǣm þæt hē his frēond wrece þonne hē fela murne. Ūre ǣghwylc sceal ende gebīdan worolde līfes; wyrce sē þe mōte dōmes ǣr dēaþe; þæt bið drihtguman unlifgendum æfter sēlest. (Beow 1384-89)37

In questi versi si può leggere l’idea che il male e il dolore nel mondo van- no accettati come necessari e che le circostanze negative possono addirittu- ra, per certi aspetti, essere considerate in una luce favorevole, poiché spin- gono al superamento della realtà contingente e a perseguire valori, come la fama e la gloria, assai alti e desiderabili. Sconforto e sofferenza caratterizzano l’esilio dell’errante, costretto ad ab- bandonare la sala dopo la morte del signore, esposto alle intemperie e con- dannato alla solitudine:

siþþan geara iu goldwine minne hrusan heolstre biwrah, ond ic hean þonan wod wintercearig ofer waþema gebind, sohte sele dreorig sinces bryttan (Wan 22-25)38

Wat se þe cunnað, hu sliþen bið sorg to geferan, þam þe him lyt hafað leofra geholena. (Wan 29b-31)39

L’errante non esita ad affrontare con fermezza il suo destino di esule, pur sapendo che ne mæg werig mod wyrde wiðstondan (Wan 15; “un cuore stanco

37 “Non addolorarti, saggio, è meglio per ciascuno / che questi vendichi l’amico, piuttosto che piangerlo troppo; / ognuno di noi deve attendere la fine / della vita mortale: ottenga colui che può / la gloria prima della morte; questa è la cosa migliore / che resti a un uomo del seguito quando non è più vivo.” 38 “[…] da quando tanti anni fa il mio generoso principe / ricoprii con l’oscurità della terra, e io da allora, reietto, / vagai, desolato come l’inverno, sullo stretto abbraccio delle onde, / cer- cai, nello sconforto per la mancanza di una dimora, un signore generoso […].” 39 “Sa bene chi lo prova / quale terribile compagno è il dolore, / per colui che non possiede che pochi amici fidati.”

66 | riflessioni gnomiche in the wife’s lament | non può opporsi al corso degli eventi”); dopo la scomparsa dei suoi amici, il dolore, personificato, diventa l’unica compagnia possibile nel corso delle sue faticose peregrinazioni. Un altro elemento tipicamente stoico dell’atteggiamento degli anglosas- soni nei confronti del dolore esistenziale e della sofferenza è oggetto di in- teresse in vari testi poetici e in prosa; si tratta della tendenza a sottolineare la necessità, per un eroe o per una persona saggia, di non farsi dominare dalle passioni e di tenere per sé considerazioni ed emozioni, di mantenere, insomma, una costante sobrietà nella manifestazione dei propri sentimenti. Si vedano i versi 11b-14 del Wanderer:

Ic to soþe wat þæt bið in eorle indryhten þeaw, þæt he his ferðlocan fæste binde, healde his hordcofan, hycge swa he wille. (Wan 11b-14)40

In questo passaggio è presente un ideale di ‘reticenza stoica’ (Hill 2004, 241),41 ideale che l’errante trova difficile da attuare e che contrasta con il contenuto altamente emozionale del componimento. Diversi studiosi hanno rilevato la natura paradossale di affermazioni di questo tipo (Clark e Wasserman 1979, 292; Sheppard 2007, 135; LaPadula 2012, 12), in cui l’errante cerca, da una parte, di aderire all’etica e al costume imposto dal suo milieu culturale, mentre al contempo esprime nel monologo il lamento sulle sue sofferenze, svelando così i più profondi recessi del suo cuore al pubblico presente alla performance. Così commentano Clark e Wasserman (1979, 292):

This paradoxical situation presents the doubleness of the wan- derer as a speaker. Not only does he keep himself closed off in order to prevent what is outside from penetrating inside to the depths of his heart, but he is involved in an even more desperate struggle to keep what is already inside his heart […] from escap-

40 “So per vero / che è nobile costume per un guerriero / chiudere saldamente il suo animo, / e tenere ben serrata la sua mente, qualunque cosa pensi.” 41 Nel Wanderer ricorre, poco dopo, una formulazione analoga, che insiste sulla necessità e sulla desiderabilità di un atteggiamento di riservatezza: Forþon domgeorne / dreorigne oft // in hyra breostcofan / bindað fæste (17-18; “perciò, coloro che aspirano alla fama spesso imprigiona- no saldamente nel loro petto il cuore afflitto”); anche la chiusa gnomica contiene una formu- lazione analoga: Til bið se þe his treowe gehealdeþ, / ne sceal næfre his torn to rycene // beorn of his breostum acyþan, / nemþe he ær þa bote cunne, // eorl mid elne gefremman (112-14a; “È bene per colui che mantiene la sua fede, né mai un uomo deve troppo prontamente svelare il dolore del suo cuore, a meno che non ne conosca prima il rimedio, un uomo deve agire con coraggio”). Sulla diversa valenza di queste immagini che, nel Wanderer, invitano al silenzio, ha commen- tato ampiamente Bjork (1989, 122-23).

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ing or being expressed to the outside world, and thus contradict- ing the heroic exterior which he tries to maintain.

Si ripropone, nei versi 11b-14 del Wanderer, analogamente a WL 42-45b, la questione di un determinato autocontrollo delle proprie passioni;42 nel WL si aggiunge anche l’idea di nascondere la gravità e la fermezza tramite un contegno gioioso e lieto, una sorta di mascheramento stoico o di ‘dissimula- zione eroica’ del proprio sé.43 I versi finali delWL non devono essere intesi come una maledizione o un cattivo augurio nei confronti dell’amato marito, bensì come una riflessione sulle qualità che ogni essere umano, e anche il marito lontano, dovrebbe possedere: “resolute, determined and geōmormōd, as a young man should be” (Hill 2004, 240). In quest’ottica, cioè come prolungamento della rifles- sione gnomica (Lawrence 1908, 402-03 nota 2), è da intendere inoltre il pas- so WL 45b-47a; il congiuntivo sy (45b, 46a; “sia che…”)44 introduce di fatto le due ipotesi alternative, relativamente alle condizioni in cui il geong mon (WL 42a) potrebbe venire a trovarsi, cioè in una situazione favorevole, oppure di estrema miseria e sofferenza: sy æt him sylfum gelong // eal his worulde wyn, / sy ful wide fah // feorres folclondes (“che da lui dipenda tutta la sua gioia nel mondo, o che sia esiliato assai lontano in un paese distante”).45 In quest’ultima ipotesi, l’esilio, la lontananza dalla patria e il distacco dai cari e dal seguito, è sostanziato il massimo di infelicità e di esclusione socia- le. L’immagine dell’esilio richiama alla mente della donna, per associazione, quella dell’uomo amato, che ella descrive ‘empaticamente’ in una situazione analoga alla sua: immerso nella solitudine, circondato da un ambiente osti- le, mentre rimpiange la vita precedente in una dimora accogliente, sofferen- te e afflitto, esattamente come la donna che recita il canto. L’immagine della sala, così cara alla società germanica e ben vivida nella rappresentazione poetica anglosassone, è di fatto presente nel WL tramite il

42 Formulazioni analoghe compaiono diffusamente nel corpus poetico anglosassone, in particolare in testi gnomici e didattici: Wærwyrde sceal / wisfæst hæle // breostum hycgan, / nalles breahtme hlud (Precepts 57-58; “Un uomo saggio deve essere attento con le parole e meditare sulle cose nel suo animo, mai rumoroso e garrulo”); Hyge sceal gehealdan […] snyttro in breostum (Maxims I 121-22; “La mente deve essere custodita […] la saggezza appartiene al cuore”); heald hordlocan, / hyge fæste bind, // mid modsefan (Homiletic Fragment II 3-4a; “tieni saldo il tesoro dei tuoi pensieri, custodisci saldamente la mente, insieme con il tuo animo”). 43 Secondo Kinch (2006, 147) “[t]he ironic deployment of the phrase ‘bliþe gebæro’ […] so trenchantly re-reads the Anglo-Saxon heroic tradition of male emotional control […]”. 44 “The verb sӯ in lines 45 and 46 may be taken […] as optatives containing an alternative hypothesis as Modern High German sei… sei…, ‘whether… or…’” (Leslie [1961] 1988, 57-58); si veda la discussione in Klinck [1992] 2001, 186. 45 Gelong ‘appartenente, dipendente’ è usato altrove in un’accezione simile: Nū is se rǣd gelang // eft æt þe ānum (Beowulf 1376b-77a; “adesso la soluzione dipende da te solo”); ðær is help gelong (Juliana 645b, “l’aiuto proviene da lì”); þær is lif gelong / in lufan dryhtnes (Seafarer 121; “dove la vita è propria nel pieno dell’amore del Signore”); Nis me wiht æt eow // leofes gelong (Guþlac 312b-13a; “la mia vita non dipende affatto da voi”).

68 | riflessioni gnomiche in the wife’s lament | suo rovesciamento ‘ironico’, una sorta di anti-hall che richiama alla mente, per contrasto, il ricordo di dimore assai più felici (Hume 1974, 70): nelle pa- role della protagonista, la caverna, in cui è costretta a dimorare, diviene un eorðsele (WL 28; “sala sotterranea”), un wic wynna leas (WL 32; “dimora priva di gioie”), mentre immagina il compagno lontano in un dreorsele (WL 50; “sala desolata”), in cui troppo spesso è costretto a ricordare un wynlicran wic (WL 52; “abitazione più piacevole”). Alla luce delle considerazioni esposte, ecco, infine, la mia proposta di traduzione diWL 42-53:

Un giovane deve sempre essere grave nell’animo, severo il suo pensiero, e allo stesso tempo avere un contegno lieto, nonostante l’afflizione del cuore, il tumulto delle pene continue, sia che dipenda da lui l’intera sua gioia nel mondo, sia che sia esiliato assai lontano, in un paese remoto; poiché il mio amico siede sotto una rupe battuta dalla tempesta, il compagno dall’animo esausto, circondato dall’acqua, in una sala tetra; il mio amato sopporta una grande pena; egli troppo spesso ripensa a una dimora più gioiosa. Che sofferenza per chi deve attendere l’amato nel desiderio!

5. una riabilitazione del marito?

Cercherò adesso di interpretare la parte finale delWL in relazione al resto del poema e, in particolare, ai versi 17b-21a. L’idea di una corrispondenza tra queste due parti del componimento era stata suggerita, anche se non sviluppata, da Lawrence (1908, 389).

Forþon is min hyge geomor, ða ic me ful gemæcne monnan funde, heardsæligne, hygegeomorne, mod miþendne, morþor hycgendne, bliþe gebæro. (WL 17b-21a) 46

La segmentazione di questi versi è in parte diversa da quella proposta in varie edizioni. Io collego la frase forþon is min hyge geomor (WL 17b; “per-

46 “Perciò il mio animo è afflitto, / poiché mi accorsi che l’uomo, a me assai affine, / era avvezzo alla malasorte, cupo d’indole, / celava il suo animo e meditava sulle sue pene, / pur dietro un aspetto lieto.” Gemæc ‘ben assortito, adatto, uguale’; si veda gemæcca ‘compagno, consorte’ (BT, 412), come in Maxims I 23b-25b: Tu beoð gemæccan; // sceal wif ond wer / in woruld cennan // bearn mid gebyrdum (“Due sono marito e moglie; donna e uomo genereranno un figlio con il parto”).

69 | concetta sipione | ciò il mio animo è afflitto”) ai versi successivi e non ai precedenti, come fanno Krapp e Dobbie ([1931-53] 1961, III 210) e Klinck ([1992] 2001, 181); mentre altri editori, come Hamer ([1970] 1972, 72), Leslie ([1961] 1988, 54), Treharne ([2000] 2004, 76), mettono in relazione il semiverso 21a con le frasi che precedono. Entrambe le soluzioni sono plausibili: forþon is min hyge geomor è un costrutto apò koinoȗ, la cui appartenenza sintattica e semantica è ambigua, e oggetto di valutazioni contrastanti (Klinck [1992] 2001, 181- 82). Se forþon, come alcuni intendono, si riferisse ai versi precedenti, la ragione della tristezza della donna sarebbe la circostanza di trovarsi, sola, in un luogo in cui non ha amici (ahte ic leofra lyt / on þissum londstede, // holdra freonda; WL 16-17a; “avevo ben pochi amici cari in questa terra, pochi compagni fedeli”). Secondo la segmentazione qui proposta, dalla frase che inizia con forþon, “perciò il mio animo è afflitto”, dipende la subordinata successiva, introdot- ta da ða con valore causale, che esplicita le ragioni dello stato d’animo della donna.47 Con un salto temporale rispetto al verbo al presente is (17b), la protagonista si riferisce al passato, descrivendo il momento in cui è venuta a conoscenza della reale disposizione d’animo del marito.48 La locuzione bliþe gebæro (21a; “con aspetto lieto”) si colloca a conclusione della serie di costrutti aggettivali con i quali la donna descrive l’amato, nonostante alcuni editori e traduttori facciano cominciare con essa una nuova frase (Krapp e Dobbie [1931-53] 1961, III, 210; Kennedy 1939, 80).49 È possibile leggere nelle affermazioni della protagonista la delusione per avere scoperto la vera attitudine del marito, la sua reale personalità, nascosta dietro un contegno lieto. Egli dissimulava la sua cupezza, i suoi pensieri segreti, le pene e le afflizioni che provava:50 tra i vari costrutti apposti di seguito e riferiti al ful gemæcne monnan si trova anche mod miðendne (“che dissimulava il suo animo”). Da questa delusione derivano anche la tristezza e l’afflizione attuali della protagonistaforþon ( is min hyge geomor).51

47 Leslie ([1961] 1988, 54), ad esempio, considera la frase che inizia con ða come principa- le, mentre Klinck ([1992] 2001, 181) rileva che l’ordine è proprio quello di una frase subordina- ta, con i pronomi che seguono immediatamente la congiunzione e il verbo in posizione finale. 48 Nella mia traduzione accolgo l’interpretazione di Klinck ([1992] 2001, 181), che glossa funde (preterito indicativo di findan) con “realized (that he was), found to be”. Oltre al significa- to di ‘incontrare, trovare’ findan può avere anche il senso di “to determine, to devise” (BT, 287); Toller nel Supplement (s.v.) riporta anche i traducenti “to ascertain, to come to the knowledge of a fact, to learn”. 49 Apparentemente si tratta di un altro costrutto apò koinoȗ; si vedano in merito le artico- late considerazioni di Pope e Fulk 2001, 125-26; Klinck [1992] 2001, 181-82. 50 Morþor hycgend[n]e è tradotto generalmente come “che meditava un delitto”, indivi- duando così in morþor il corrispondente anglosassone di murder; in realtà morþor può anche significare “torment, deadly injury, great misery” (BT, 698). 51 Al disinganno per la scoperta della vera natura dell’amato segue la rievocazione della promessa che nient’altro, oltre la morte, avrebbe diviso i due sposi. Da questa affermazione è possibile desumere, da una parte, che i due sono attualmente separati e che, dopo la partenza del marito, non si sono più ricongiunti, e dall’altra, invece, che entrambi, o perlomeno la don-

70 | riflessioni gnomiche in the wife’s lament |

I versi 17-21 presentano indubbie analogie con i versi di tono gnomico (particolarmente WL 42-44a) discussi in precedenza. Si nota il ricorrere, in entrambi i passi, del medesimo costrutto formulare bliþe gebæro, seppure con funzione sintattica diversa,52 a cui si deve aggiungere anche la somi- glianza tra geomormod / heard heortan geþoht (WL 42b-43a) e heardsæligne, / hygegeomorne (WL 19); geōmormōd e hygegeōmor, composti entrambi di geō- mor e un mind-word, hyge oppure mōd, a seconda delle necessità dell’allitte- razione, possono essere considerati praticamente alla stregua di sinonimi. Le corrispondenze evidenziate sembrano suggerire una certa intenzionalità nella strutturazione dei due brevi passaggi.53 Il costrutto aggettivale mod miþendne (20b; “che dissimulava il suo ani- mo”) ha una connotazione certamente negativa nel contesto dei versi 17-21, poiché esprime un giudizio tutt’altro che lusinghiero sul comportamento dell’uomo. Tuttavia, prendendo in considerazione le riflessioni fatte sui ver- si 42-45a, dove secondo l’interpretazione proposta, e tenendo conto anche dei passi citati dal Wanderer, sembra chiaro che il modello di comportamen- to reticente, che non manifesta apertamente passioni e sentimenti, venga visto sotto una luce positiva, ritengo di potere affermare che nella donna siano avvenuti una rielaborazione della precedente esperienza e un ripensa- mento del giudizio negativo sul marito.54 Questa diversa valutazione del comportamento del hlaford, e della sua ca- pacità di dissimulare le grandi pene e le afflizioni che lo tormentano, avvie- ne a distanza di tempo ed è frutto della meditazione della donna sulle condi- zioni estremamente infelici della sua esistenza; si vedano ad esempio i versi 39b-41: forþon ic æfre ne mæg // þære modceare / minre gerestan, // ne ealles þæs longaþes / þe mec on þissum life begeat (“perciò non riuscirò mai ad avere pace in questa vita dalla pena del cuore, né dal desiderio che si è impossessato di me”); nella lontananza temporale e geografica la donna, probabilmente, vede il marito in una luce più favorevole e ne rianalizza il comportamento,

na, sono ancora in vita. 52 Si vedano in proposito le considerazioni di Leslie [1961] 1988, 55; Klinck [1992] 2001, 181-82. 53 Così Klinck [1992] 2001, 182: “[…] the recurrence of the same phrase in line 44 [bliþe gebæro] makes it probable that a parallel is intended between the two passages, especially in view of the additional resemblance between geomormod / heard heortan geþoht (lines 42b-43a) and heardsæligne, hygegeomorne.” Così commenta Lawrence (1908, 391) relativamente ai versi 42-45: “It will be noticed that the parallelism to ll. 17 ff. is striking. […] The same phraseblīþe gebǣro occurs in each passage, and hygegeōmor is much like geōmormōd.” 54 Anche Hall (2002, 18) rileva un parallelismo tra i versi 18-21a (!) e 42-45a del WL, ma giunge a conclusioni diverse dalle mie: “Comparing these passages suggests that the speaker means lines 42-45a to apply particularly to the ‘ful gemæcne monnan’, and gives an insight into his character: the speaker’s demands in 42-45a, compared with the description earlier in 18- 21a, imply a fairly subtle distinction between how the mon is and how he should be. Given that the mon is gemæcne, that 42 is gnomic, and that the descriptions resonate with the speaker’s description of herself as gemorre, they must apply to her as well as her mon”.

71 | concetta sipione | un tempo odioso, in una forma generalizzante,55 adottando lo stile e il lessi- co della gnome. In questo modo, la voce poetica riesce ad astrarre, dalla sua esperienza personale e dall’osservazione dell’atteggiamento dell’uomo, una norma di condotta valida universalmente, un ideale di umanità che scatu- risce dalla consapevolezza dell’inevitabilità della sofferenza. Al contempo, prendendo a prestito un’immagine utilizzata da Lawrence (1908, 388), la donna opera una ‘riabilitazione’ del marito.

6. conclusioni

La corrispondenza istituita tra i due passi del componimento (versi 17b-21a e 42-44a) è verosimile, ed è ragionevole ipotizzare, come si è cercato di di- mostrare in questo contributo, che i versi finali delWL rappresentino una rielaborazione di tono e contenuto gnomico, da parte della voce poetica, del giudizio, inizialmente negativo, sull’atteggiamento dissimulatore del marito. Queste osservazioni sono tanto più giustificate se si analizza una peculiarità del WL, cioè la mancanza di linearità cronologica e di coerenza narrativa. Il componimento suggerisce l’immagine di una mente “circling over past events, unable to find a position of rest” (Shippey 1972, 72). No- nostante il tentativo di alcuni studiosi e traduttori di suddividere schema- ticamente il componimento in una sezione essenzialmente incentrata sul passato (6-26) e una dedicata agli eventi presenti (27-41),56 non mancano passaggi in cui la donna ritorna alla memoria del passato in maniera emo- zionalmente appassionata, come ai versi 32b-33a (ful oft mec her wraþe begeat / fromsiþ frean; “assai spesso mi colpì qui, con violenza, la mancanza del mio signore”) oppure ai succitati versi 39b-41, in cui compare ancora il ver- bo begeat, fortemente connotato da un punto di vista semantico.57 La mancanza di una stringente coerenza degli eventi narrati si eviden- zia anche nella giustapposizione di verbi al presente e al passato ai versi 21b-25a, dove al riferimento alla sofferenza attuale forþ( on is min hyge geo- mor) la donna contrappone la delusione per l’atteggiamento ambiguo del marito e la memoria della felicità passata. Poi il female speaker ritorna al presente e alla sua situazione attuale, in cui prende atto con dolore che la sua relazione con l’amato (25a; freondscipe uncer) è cambiata, come se non fosse mai stata (24b; swa hit no wære). Nonostante la presenza di numerosi marcatori temporali e di forme verbali che sembrano comporre una succes-

55 Ovviamente non identifico, come fa invece Klinck ([1992] 2001, 182), il geong mon con il ful gemæcne monnan (18). 56 Come ad esempio Hamer [1970] 1972, 72-75. Diverse proposte di suddivisione in Leslie [1961] 1988, 5-8; Johnson 1971, 500-01; Howlett 1978, 7; Wentersdorf 1981, 494-95. 57 Sulle ripetizioni e i parallelismi nel testo del WL, sui quali è impossibile soffermarsi qui, si vedano, tra gli altri, Curry 1966, 194-97; Renoir 1977; Leslie [1961] 1988, 11-12.

72 | riflessioni gnomiche in the wife’s lament | sione cronologica,58 il WL “defies attempts to reconstruct the chronology of events” e il tracollo del senso del tempo lineare, scandito da una serie di eventi separati, segna la transizione verso quello che kristevianamente è definito il ‘tempo delle donne’, ciclico e mai lineare (Bennett 1994, 52). Secondo Green (1983, 128), “what seems important is not the sequence but the emotive weight of the events as they are juxtaposed in the memory of the speaker”. A differenza di quanto avviene nelWanderer , però, il ricordo del passato nel WL non rappresenta un momento di sollievo dallo stato di afflizione presente, bensì un’ulteriore sofferenza per la donna, in quanto rivela il fallimento e l’illusorietà della sua vita precedente.

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58 Interessanti le osservazioni di Johnson (1971, 498): “[…] that the speaker intends a chronological relation of events at the beginning of the poem cannot be doubted […]. However, with line 17b dislocation of thought occurs: the abrupt change in tense […] marks the beginning fusion of objective with subjective elements, of time past with time present, which continues throughout the poem […].” Wentersdorf (1981, 493-94) propone una ricostruzione plausibile dell’apparentemente sconnessa cronologia del componimento.

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78 “THE FLEEING FOOT IS THE CONFESSING HAND.” PROVERBS IN THE OLD FRISIAN LAWS

Rolf H. Bremmer Jr Universiteit leiden

0. introduction*

Proverbs are very much a component of traditional culture; often used and patterned for “retention and ready recall” by balance, rhythm, alliteration, assonance, or rhyme, they have become a constituent part of common memory (Ong 2012, 34). They are “storehouses of wisdom” and in them- selves often resemble legal rules (Brink 2005, 96-97); note, for example, the use of the compelling auxiliary verb mot (‘must’) in morth mot ma mith morthe kela (“murder must be cooled [i.e., placated] with murder”). Proverbs also transmit communal norms and values to posterity, they give advice or warn, articulate desired behaviour or unwanted conduct (Brink 2005, 91; Sumner 1999, 22). Their presence in medieval Frisian laws has long been recognized, and they were gratefully collected and included in the first col- lection of German/Germanic legal proverbs.1 Conrad Borchling (1908, 32) praised the “beautiful, old, alliterative formulas” in which proverbs had fre- quently been cast. Sympathetic, yet romantic, is a brief discussion by Man- fred Szadrowsky (1959-61, 155-56), who qualified the Frisian proverbs as

* Versions of this paper were also read at the 50th International Congress on Medieval Studies, Kalamazoo, May 2015, and as a guest lecture at the Deutsches Seminar, Universität Zürich, December 2015. I have profited from the ensuing discussions. My gratitude is further- more due to Oebele Vries for critically reading a draft of this paper and to Jenneka Janzen for improving the text stylistically. 1 For example, morth mot ma mith morth kela is discussed in the section on “Talion” (“Retaliation”) in Graf and Dietherr 1864, 336-40, no. 311.

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“urgermanisch” in nature. Wybren Jan Buma (1961, 74-83) also devoted due attention to their occurrence in the First Rüstring Manuscript (Oldenburg, Niedersächsisches Staatsarchiv, Bestand 24-1, Ab. Nr. 1), but his treatment is little more than an enumeration and lacks any contextualization. More recently, critics have been less generous with praise. Klaus von See (1967, 1), for example, opined that alliterative legal verse, especially in the Frisian legal texts, and alliterative proverbs should not be completely neglected in a study of Germanic poetics, but in view of the continuing presence of al- literation in proverbs and formulas one should be careful not to assume Germanic, pre-Christian traditional matter whenever alliteration emerges in a text. With the above in mind, this paper begins with a brief survey of proverbial literature in the various so as to provide a proper backdrop against which to view the medieval Frisian tradition. Next, the nature of proverbs and their function in Old Frisian legal texts will be subjected to a close consideration in the light of recent scholarship.2

1. proverbial literatures in medieval england, scandinavia, and germany

Proverbs are collectables and have been so for a long time. My first expe- rience with a collection of proverbs no doubt was the Old Testament Prov- erbs of Solomon, itself an assemblage made up from six smaller collections. Pericopes of Solomon’s proverbs regularly concluded an evening meal in my parental home, as was the tradition, thus passing onto yet another gen- eration wisdom from over three thousand years ago. And when as kids we were lying in too long in my father’s opinion, he would wake us up by loudly quoting Proverbs 26:16, saying: “As the door turneth upon his hinges, so doth the slothful upon his bed” (in Dutch, of course).3 In the course of his life, my father had gathered his own florilegium from Solomon’s proverbs, from which he could quote at will, and always pertinent to the situation. An interest in proverbial wisdom, similar to that of the Old Testament Israelites, is also attested for the various medieval Germanic peoples. Collections of proverbs and sentential sayings, often cast in verse, were writ- ten down with an eye to the propagation and furtherance of traditional lore. The poet of the Old English Maxims I, for example, invites his audience to exchange wise sayings with him:

Frige mec frodum wordum. Ne læt þinne ferð onhælne, degol þæt þu deopost cunne. Nelle ic þe min dyrne gesecgan

2 This paragraph is much indebted to an earlier published study of mine (Bremmer 2014, 31). 3 “Een deur keert om op haar herre, alzo de luiaard op zijn bed.”

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gif þu me þinne hygecræft hylest ond þine heortan geþohtas. Gleawe men sceolon gieddum wrixlan. (Maxims I 1-4a; Shippey 1976, 64)4

Wise sayings, according to the poet, should not be kept to oneself, but must be shared. They should be communal. Communality is indeed an im- portant aspect of the power of proverbs and one of their side effects in pre- literate cultures is that they promote social cohesion (Honeck 1997, 120). Less artful than Maxims I and II are the Durham Proverbs (Arngart 1981), an anthology of some forty proverbs in prose, copied within a collection of Latin liturgical hymns and a copy of Ælfric’s Latin-Old English Grammar and Colloquy. Such a location suggests that proverbs were also taught and discussed in the classroom.5 Proverbs, after all, convey knowledge acquired through generations of experience. Probably the most popular collection of proverbial sayings throughout the Western world at the time were the late antique Dicts of Cato. Five manuscripts with Cato’s distichs have survived from Anglo-Saxon England, including one with an Old English translation (Gneuss and Lapidge 2014: nos. 12, 182 [in Old English], 190, 389, 664). An indication of the interrelatedness of these texts is that the Durham Proverbs and the Dicts of Cato have one proverb in common, which also testifies to their function as vehicles of social mores and wisdom (Treharne 2003). For the early Middle English period The Proverbs of Alfred and The Proverbs of Hendyng can be mentioned as suitable representatives of proverb collec- tions. Both of these compilations are named after persons to whom wisdom was popularly attributed, much like the Old Testament Proverbs were as- cribed to King Solomon (Louis 1998). Alfred, of course, is King Alfred the Great (849-99), but Hendyng has remained unidentified thus far, although in the poem he is introduced as the son of Marcolf. Of Marcolf we know that he figures in wisdom literature, if not very posi- tively (Griese 1999). Again, the two collections have a number of proverbs in common and, remarkably, because reaching back to pre-Conquest times, The Proverbs of Hendyng includes two proverbs that are also found in the Durham collection. Apparently, anyone fishing in the pool of English prov- erbs at the time would catch the same fish, every now and then. Both texts are indebted, too, to the Dicts of Cato, a text that remained popular also in the Middle English period and, as testimony to its being in high demand, was printed four times by William Caxton (Brunner 1968). In Scandinavia, particularly in Iceland, the Eddic Hávamál is exemplary

4 “Question me with wise words. Do not let your mind remain hidden or keep secret what you know most profoundly. I will not tell you my secret [knowledge], if you hide the power of your mind and your heart’s thoughts from me. Wise men must exchange wise sayings/prov- erbs/gnomes.” All translations are mine, unless stated otherwise. 5 On the role of Cato’s Distichs in the monastic classroom, see, e.g., O’Brien O’Keeffe 2012, 123-28.

81 | rolf h. bremmer jr | of the well-nigh irrepressibly medieval tendency to collect proverbial wis- dom. The link between this Eddic poem and Hugsvinnsmál has been hotly debated, the latter being a free translation of the Disticha Catonis (von See 1981). Quite differently, the unknown poet of theMálsháttakvæði applied his vast knowledge of proverbs to turn it into a medicine for easing the pain of his lovesickness (Frank 2004). Finally, in the German-speaking world, there was a similar interest, if not often given shape in new, original compositions. The Dicts of Cato, for example, were translated for the first time into German in the middle of the thirteenth century and enjoyed a wide circulation thereafter (Baldzuhn 2007, 137-41, and passim). Another example, closely related to the wisdom genre, is Freidank’s Bescheidenheit, a long thirteenth-century composition of sentential sayings in verse amounting to about 4,700 lines, which enjoyed a wide popularity throughout the later Middle Ages into the Early Modern period (Heiser 2006). Turning to medieval Frisia, the cultural space of this paper, there is noth- ing like the rich English or Scandinavian proverb literary tradition, neither as far as primary nor as secondary literature is concerned. Even the relative- ly poor medieval German tradition is rich in comparison to what has come down to us from Frisia. Moreover, hardly any attention has been paid to the proverbs that are scattered throughout the corpus of Old Frisian texts, which is a good reason to subject them to renewed discussion. In itself, this poor attention need not be surprising, because the field of Old Frisian studies is not by half as crowded with scholars as are those of medieval English, Scandinavian, or . Consequently, what I present here is more of an exploration than a definitive treatment. For a better con- textual understanding of my subject, I think it proves helpful first to offer a short historical survey of the study of Frisian proverbs; next I zoom in on the form and content of Old Frisian proverbs, to end with a discussion of a select number of pertinent cases.

2. collecting and studying frisian proverbs

The first to occupy himself with Frisian proverbs was the humanist George Burmania (ca. 1570-1634). In true Renaissance fashion, he completed an alphabetically arranged handwritten collection of about 1,400 proverbs, which was published posthumously in 1641. The alphabetical order of the Burmania Proverbs is indicative of the purpose of this collection. It demon- strates a nascent awareness of the need for codifying the Frisian language (van der Kuip 2006). But interest in Frisian proverbs really took off only around 1800, when the Romantic period kindled a vivid interest in folk wisdom. An early sign of curiosity was given by the professor of Greek at

82 | proverbs in the old frisian laws | the University of Franeker, Everwinus Wassenbergh, who published a series of studies on the Frisian language, including a commentary on the Bur- mania Proverbs, in 1774 (Wassenbergh 1774). In 1812, the same proverbs received an edition with a philological commentary, independently from that by Wassenbergh, by the classicist Jacob Hoeufft, and was soon after reprinted with an extended index (cf. Hoeufft [1812] 1815). Meanwhile, the Frisian notary Jacobus Scheltema had collected no fewer than 4,000 prov- erbs, as he proudly reported in 1815 (Breuker 2014, 223). Selections of these were published in the years to follow, no doubt inspired by similar activities in Germany. Among the propagators of collecting proverbs at the time, the Brothers Grimm figured prominently (Mieder 1986; Bluhm 1991). Jacob Grimm himself had demonstrated a lively interest in proverbs, including medieval Frisian legal proverbs, even in his early publications, such as in Von der Poesie im Recht, published in 1816 (cf. von See 1964, 1). Hoeufft’s edition of Frisian proverbs had been sent to Grimm from Friesland by Hendrik Tydeman in 1812, together with an eighteenth-century edition of Old Frisian laws (Breuker 2014, 101; Martin 1884, 172). Grimm was also convinced that there was much more proverbial material available than he was aware of, so in 1815, while he was attending the Congress of Vienna as a secretary of Hesse’s Minister of War, he published an open letter (“Zirkular wegen Aufsammlung der Volkspoesie”). In it he called upon friends and colleagues from all over Europe to, amongst other things, start assembling from past and present: “Rechtsgewohnheiten, sonderbare Zinsen, Abga- ben, Landeserwerb, Grenzberichtigung [...]. Sprichwörter, auffallende Re- densarten, Gleichnisse, Wortzusammensetzungen” (Grimm and Grimm 1985, 44-47; cf. Breuker 1999, 156, 160-61; van der Zijpe 1968). Grimm did not make his appeal in vain, and from all corners of Germanic-speak- ing Europe he received exciting and useful material. His call was typically a case of scholarly crowd-sourcing avant la lettre, which proved to be a very successful initiative. His brother Wilhelm was as much charmed by proverbs as was Jacob. Wilhelm’s interest appears, for example, from a collection he made of Middle High German proverbs; he was also the first to publish a modern edition of the previously mentioned Freidank’s Bescheidenheit (Wilcke and Bluhm 1987). Wilhelm saw proverbs as expressions of popular wisdom or even popular philosophy. His love of proverbs also emerges in Deutsche Kinder- und Hausmärchen; at each reprint, Wilhelm enriched the text with rhymes, alliterative phrases, and proverbs to make them look even folksier (Mieder 1988). Specialization in collecting and studying proverbs in Germany soon fol- lowed the example set by the Grimm Brothers, and in 1864 Eduard Graf and Mathias Dietherr published a hefty volume of Deutsche Rechtssprichwörter, which also included a fair number of medieval Frisian items. Their col-

83 | rolf h. bremmer jr | lection was plundered in turn by Karl Wander for the compilation of his five-volume Deutsches Sprichwörter-Lexicon (1867-80). Since Wander’s col- lection is digitized, we can conveniently establish that Wander included over two hundred quotations from the Old Frisian laws. All of them, it turns out upon inspection, are also to be found in Graf and Dietherr’s collection, which therefore in all likelihood served as his immediate source. Finally, to round off this survey, the most recent collection, Ruth Schmidt-Wiegand’s Deutsche Rechtsregeln und Rechtssprichwörter. Ein Lexikon (1996) appears to have relied almost entirely on Graf and Dietherr and Wander, respective- ly, at least when it comes to references to the Frisian laws. Nowhere does she show her having consulted the Frisian primary sources herself in order to verify whether what her predecessors had qualified as Frisian proverbs could really be considered as such. By way of an analogue, anyone working with, for example, etymologies has to rely to a certain extent on the work of others without having the time and expertise to check how trustworthy a word or a form is. The same apparently goes for editors of collections of proverbs. They rely on older such lexicons, but do not always appear to have the knowledge to ascertain the correctness of their sources. As a result of such uncritically assembled compilations, the medieval Frisians have been attributed with far more proverbs than is actually warranted.

3. the study of old frisian proverbs in the twentieth century

This is not to say, though, that the study of Old Frisian proverbs was com- pletely neglected in the twentieth century.6 One of the very few scholars – perhaps the only one – to have paid some detailed attention to the presence of proverbs in the Frisian laws in more recent years was my teacher Wybren Jan Buma. In several of his diplomatic text editions of manuscripts with Frisian law texts he listed what he took for proverbs. What is striking in his treatment is the absence of any definition of what a proverb is. Actually, Buma, it seemed, employed two criteria for including a phrase as a proverb into his lists: if Graf and Dietherr had included a sententious phrase in their 1864 collection of Deutsche Rechtssprichwörter, he would usually follow their authority.7 A second criterion that Buma applied was that, if a sententious phrase was introduced by a conjunction of reason, such as ‘because’ or ‘for’, he deemed it to be almost certainly a proverb (e.g., Buma 1961, 76-81). Buma’s approach, rooted in a late nineteenth-century theoretical para- digm, appears most clearly in his discussion in the introductory matter to his edition of the First Rüstring Manuscript. Scholars have in the past quite

6 Brouwer (1964), in a popular survey of Frisian proverbs, only briefly touches upon Old Frisian proverbs. 7 But also see Buma 1961, 81-83, for a more critical stance vis-à-vis Graf and Dietherr.

84 | proverbs in the old frisian laws | rightly drawn attention to the use of legal proverbs, Buma stated, because proverbs clearly reflect the legal life of the people of Rüstringen, who of- ten had the knack of phrasing their juridical opinions concisely and to the point. In this respect, according to Buma, Frisian law was no different from the other Germanic legal codes. Indeed, Buma (1961, 76) claimed, the cus- tom to summarize legal stipulations in proverbs or verses is very ancient and their form facilitated easy memorization. At the same time as when Buma phrased his opinions, the Swiss Manfred Szadrowsky published a long, two-part on the style and syntax of Old Frisian legal language in the prestigious journal Beiträge zur Geschichte der deutschen Sprache und Literatur. Szadrowsky (1959-61, 158), in agreement with earlier scholars such as Borchling (1908, 32), mentions proverbs particularly in connection with alliteration: “Altererbte Zwillingsformeln, stabende besonders dauer- haft neben stablosen, wie auch landläufige Sprichwörter mit Rhythmus, Stab, Endreim, wuchsen ins Rechtsleben hinein, in die Rechtsprechung und Rechtssprache […].” Elsewhere in his essay, Szadrowsky (155) com- ments: “Der Art nach ist [das Sprichwort] urgermanisches oder noch äl- teres Erbe, wohl auch ein Einzelspruch aus Urtümlichem ererbt, anderes den Vorbildern nachgebildet, frisch geschaffen aus Freude an Bildkraft, Knappheit, Wucht.” Both Buma and Szadrowsky stress the Germanic origin of the Frisian legal proverbs and their antiquity: the older they can make them, it would seem, the better they are.

4. a new analysis

Since Buma and other scholars of Old Frisian proverbs in the past did not deem it necessary to explicitize what they understood by the term ‘proverb’, this is where my analysis must begin. However, providing a definition of a proverb has proven to be particularly difficult, and many attempts have been made.8 A simple solution was offered by the American proverb scholar B.J. Whiting (1952, 331), who in an article on the nature of the proverb conclud- ed: “Happily, no definition is really necessary, since all of us know what a proverb is.” Still, further attempts can be made and I here give one defini- tion, provided by Susanne Schmarje (1973, 31): “Das Sprichwort ist ein kur- zer, volkstümlicher, grammatikalisch in sich geschlossener und sinngemäß unabhängiger Satz oder Satzkomplex, der eine Lehre ausspricht, welche aus sich heraus den Anspruch auf absolute Gültigkeit erhebt.” However, the following definition presented by Wolfgang Mieder (2008, 11) is just as viable: “A proverb is a short, generally known sentence of the folk which contains wisdom, truth, morals, and traditional views in a metaphorical,

8 For a discussion of the problem of definition with an extensive bibliography, see, most recently, Norrick 2014.

85 | rolf h. bremmer jr | fixed, and memorizable form and which is handed down from generation to generation.” This definition could be preferred to that presented by Schmar- je because it foregrounds the didactic element, gives credit to tradition, and signals the metaphorical aspect of proverbs. Ruth Schmidt-Wiegand has frequently published on legal proverbs, an activity that culminated in her compiling a lexicon of such proverbs (1996; cf. Schmidt-Wiegand 2003). She would have it that legal proverbs are different from common proverbs to the extent that the latter are volksläufig, i.e., they circulate among the peo- ple in general. Legal proverbs, on the other hand, are confined to a narrower group of specialists who have occupied themselves on a regular basis with the law. When it comes to formulating essential criteria by which the subcate- gory of legal proverbs can be isolated, Schmidt-Wiegand (1993, 264) lists the following: they should be unambiguous and complete. To give an Old Frisian example: thio nede brecht tha ewa, “necessity breaks the law”; that is, when in need, laws lose their power and can be transgressed. Furthermore, as Schmidt-Wiegand (261) stipulates, proverbs usually follow at the end of a sometimes complex legal rule and once more summarize its essence. The following passage may serve to illustrate her stipulation: Theth is londriucht: Sa huetsa thi mon otherum a hond rekth, thet [hi’t] him witherieue, huande hond scel hond wera (Buma and Ebel 1967, V.5).9 Sometimes, according to Schmidt-Wiegand (261), a proverb opens a legal rule, after which an expla- nation follows, but to date I have not found any such examples in the Frisian corpus. Schmidt-Wiegand (261) also points out that proverbs frequently contain a modal auxiliary, such as ‘shall’, ‘must’, ‘may’, and ‘can’, often in conjunction with the indefinite pronoun ‘one’ (261). The proverb hond scel hond wera nicely illustrates this modal auxiliary condition; at the same time it exhibits other features of proverbs. First of all there is alliteration, if only here as the result of repeating the same word, viz. hond. Alliteration, as shall be seen, is a commonly acknowledged characteristic of proverbs, and like rhyme, supports memorization. It should be noted, moreover, that alliter- ation as the result of repetition is avoided in alliterative poetry, so the con- clusion that proverbs are poetic on this account appears to be unwarranted (cf. Sonderegger 1962-63, 267; Bremmer 2011). Furthermore, the proverb is not meant to be taken literally but must be understood metonymically. The two hands refer to the two parties involved in the act of handing over and receiving a moveable good. The proverb signifies that only the two par- ties involved in the temporary shift of ownership are accountable. If, for example, the property entrusted had moved on to a third party, still only the receiver of the article could be held accountable; this rests in opposition to Roman law which allowed a man to demand his property from a third man

9 “This is landlaw: whatever one man hands over to another man [i.e., to keep in custody], he must give it back, for hand must guard hand”; cf. Graf and Dietherr 1864, 114.

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(Schmidt-Wiegand 1996, s.vv. “Hand”, “Glaube”). As a matter of fact, the proverb “hand must guard hand” is not confined to the Frisian laws but can be found throughout the area of Northern Germany (Korte 1981; Anners 1952). While with hond scel hond wera the figure of speech called metonymy can be seen in action, my next example offers an instance of metaphor. The proverb in question concludes a long rule stating that all Frisians have the right to compensate a violent deed with money. In no way should they be subjected to corporal punishments or even capital punishment, unless a man is caught red-handed committing nightly arson or another heinous secret deed. However, execution of a perpetrator is permitted if he has no money to pay the compensation, for morth mot ma mith morthe kela (Buma and Ebel 1963, III.16). First of all, it must be noted that alliteration is in operation again, while the proverb also contains both a modal auxiliary and an indefinite pronoun. The metaphor is contained in the verbkela ‘to cool’. Cooling presupposes heat and hence it should be asked where the heat is. The answer must be that the heat is generated by anger (cf. Lakoff 1987, 381). In other words, the aggrieved party has become angry because their honour is being injured as long as compensation has not been delivered. The only way open to satisfaction, and thus to cooling down the anger, is the activation of the law of retaliation. This proverb furthermore demonstrates another characteristic, viz. that of minor variation. The following variants are all couched in depending clauses and hence somewhat lack the straight- forwardness typical of proverbs:

… and ach ma thet morth mith morthe to ieldane; … sa skel ma thet morth mith morthe ielda; … sa skel ma thet morth efter morthe felle. (Buma and Ebel 1967, A VIII.11, A VIII.35, C II.2)10

No doubt the audience of these variants will have caught the allusion to the proverb. Evidence for my assumption is a regulation included in a rather late medieval collection of legal texts. The largest of these is known as the Jurisprudentia Frisica, a kind of summa or systematic exposition, written in Frisian, of canon law, Roman law, and native customary law, assembled and ordered by an unknown lawyer in the last quarter of the fifteenth century (cf. Gerbenzon 1989). Its learned character appears not only from the many quotations from Roman and canon law in Latin, but also from the mise-en- page of the manuscript: in true scholastic fashion, the Frisian main text is placed at the centre, surrounded by commentary in both Frisian and Latin,

10 “Murder must be compensated with murder”, “murder must be paid according to mur- der”; cf. Graf and Dietherr 1864, 337, no. 310.

87 | rolf h. bremmer jr | for which the scribe carefully designed the necessary spaces (see Fig. 1).11 In Titulus 59, called De restitucione spoliatorum (“On the restoration of stolen property”), the following rule is given:

Dat riucht spreckt aldus: Hweerso een man syn gued naet crygya mey myt riucht, so mey hy’t myt oerleff dis riuchtis aldeer om stri- da jeffta tijeflick nyma. Hwant ma seyt to een byspil-wird: “Moerd schelma mey moeerd kela” ende “graet onriucht moetma mey macht kera” ende “hwaso dat riucht wrsmayt ende breckt, dam so aegh dat riucht naet to helpen” (Hettema 1834-35, II, 176, Tit. 59.8).12

Quite strikingly, this probably unwanted situation of a man being forced to resort to violence now that the peaceful road appears to be blocked requires not just the support of tradition in the jurist-author’s eyes, but also a further back-up of a second and a third proverb. That the author is conscious of what he is doing appears from his using the term byspil-wird ‘proverb’. It is the only occurrence of this term in the Old Frisian corpus. The proverbial force of the second statement is expressed in the modal auxiliary and the indefinite pro- noun. The modal auxiliary aegh also features in the third sententious saying, the proverbial character of which can be supported by referring to similar German proverbs, such as “He who does not want to grant justice to another should not enjoy justice” or “He who does not want to undergo justice, should not complain about violence” (Schmidt-Wiegand 1996, 271). Why would a man steeped in both university-taught legal systems, Roman and canon law, have invoked traditional wisdom to legitimize the rule that justice may be obtained violently if attempts to solve the problem peacefully have foundered? Is it because he felt uneasy with this violent aspect of Frisian society? Until the close of the Middle Ages, in the absence of princely rulers who, more or less successfully, had elsewhere monopolized legal violence, the Frisians continued the right to feuding. Any Frisian who went abroad to study law, and there were many, must have become aware of this exception- al situation.13 Perhaps the author was just showing off the vast repertory of proverbs he had collected over the years. More likely, though, he was imitat- ing, consciously or unconsciously, a typical trait in discussions of Roman and

11 This paper manuscript is digitally available at Leeuwarden, Tresoar, Codex Roorda, von Richthofen-collectie, nr. 6, http://digicollectie.tresoar.nl/object.php?object=271 (accessed October 2, 2017). 12 “The law speaks as follows: if a man cannot get [back] his property legally, he can, with the judge’s permission, fight a duel for it or take it furtively. For it is proverbially said that ‘mur- der must be cooled with murder’ and ‘great injustice must be averted with force’ and ‘whoever despises the law and breaks it, him the law must not help’”; for the second and third proverbs, see Graf and Dietherr 1864, 338, nos. 328 and 338, respectively. 13 The first of these was Emo of Huizinge (ca. 1175-1233), who, together with his brother, for about ten years studied law at the universities of Paris, Orléans, and Oxford. On Emo, see, e.g., Rieken 2007.

88 | proverbs in the old frisian laws | canon law to support legal provisions with sententious sayings and axioms, known alternatively as regulae iuris, maxims or brocards (cf. Hyams 2011, 55- 56). Originally, they were a kind of summaries of Roman law, collected in the Digest as a compendium to the Corpus iuris civilis, the corpus of civil law is- sued under Emperor Justinian (530-33 AD). With the flourishing of the study and composition of canon law in the twelfth century, they attracted renewed attention. Eleven such maxims were added by Pope Gregory IX (1227-41) at the end of Liber Extra or Book V of the Decretals, while Boniface VIII (1294- 1303) concluded Liber Sextus with a collection of no fewer than eighty-eight regulae (Stein 1966). Some of these maxims are still current as proverbs to- day, such as Boniface’s rule 43: Qui tacet consentire videtur.14 If my hypothesis is right, the author’s generous use of proverbs in the Jurisprudentia Frisica would be a sign of his applying Latinate legal learning rather than tapping into popular proverbial wisdom. Unfortunately, Hettema only published the Frisian part of the Jurisprudentia from Codex Roorda, ignoring the many Latin comments and quotations from Roman and canon law surrounding it in the manuscript (see Fig. 1). A check of a new transcript made of Codex Roorda by Dr Bram Jagersma, which he kindly placed at my disposal, revealed that the author refers more than seventy times to the last chapter of Liber Sextus, De regulis iuris. For example, rule 43, cited above, is referred to five times.15 On one such occasion the Frisian paraphrase is given too: Hwaso swiget, dam is’t byhaeglyk, ende mitter swigha consenteert hy (Hettema 1834-35, I, 74, Tit.12.24). A thorough analysis of all such references to the regulae would be rewarding, but exceeds the frame of this article. We have already seen that previous generations of critics praised the Frisian proverbs for their antiquity. They were held to date back to the tru- ly Germanic period or even beyond. Few scholars today would endorse this opinion, which started to crumble when Klaus von See, now more than fifty years ago, published an important and influential book on Old Norse legal words with the subtitle Philologische Studien zur Rechtsauffassung und Rechtsgesinnung der Germanen (von See 1964). In it, von See made short shrift with many of the theories, ideas, and interpretations of the then academic establishment of the discipline. His book is therefore an eloquent and perfect example of Entmythologisierung, the epistemological trend that also dominat- ed German theology in the first decades after World War II. An important and almost sacrosanct idea that von See attacked was the assumption that the Nordic laws were almost purely Germanic. One of the arguments that pre- vious generations had adduced to underscore this opinion was the presence of proverbs. Proverbs, it was held, belonged to the people and were precious remainders of the time when the laws were passed on orally. Their being truly

14 “He who is silent is assumed to agree”, or, more currently today, “silence gives consent”. 15 In the comments following Tit. 2.30 [p. 27], Tit. 12.24 [p. 52], Tit. 12.26 (2 x) [p. 53], Tit. 31.5 [p. 141].

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Germanic was often measured by the presence of alliteration and metre (e.g., Seiler 1922, 67). A proverb was considered truly Germanic, not only when it featured alliteration, but when it also formed a complete long verse-line with four lifts. If we apply this opinion to Frisian proverbs, very few will pass this test of ‘Germanicness’. Morth mot ma mith morthe kela, despite its use of allit- eration, would not qualify because it has only three lifts. On the other hand, the following phrase would conform to this condition:

/ x / x x x x x / x x / x Lif and lemethe skel ma mith londe bisetta.16

The phrase has four lifts (indicated by ‘/’), the first three of which allit- erate. However, there are a fair number of unstressed (indicated by ‘x’) which prevent it from turning into a proper verse line. But are we dealing here with a proverb in the first place, as Graf and Dietherr (1864, 300) and other scholars (e.g., Buma 1949, 82*, 86*) up to and including Schmidt-Wiegand (1996, 226) in their footsteps have claimed? Let us take a closer look at the context in which it occurs:

Alla inruesza deda, thet is breynsima and lungensyma, ther invrne wach kemen send, tha skel ma biweria mit’tha redia, ther thenna weldech is, and skel ma bisetta etta mena scrifta and stonda ier and dei and talia fon tha dei, ther thiu dede erist den is; nimth ma tha bota, sa skarie ma se anda thet ield, and tha lamethe skel ma ac bisetta, wara thi redia ne thur naut reda. Lif and lemethe skel ma mith londe bisetta (Buma and Ebel 1965, §216).17

The problem regulated here concerns the paying of compensations for se- rious wounds that might even prove lethal in the end. The culprit was given a year and a day to pay the compensation that had been fixed by the judge. If the compensation was for a wound that afterwards proved to be mortal, the guilty party did not have to pay for the wound first and for the life later, but the compensation for the wound was to be deducted from the full wergild. To make sure that the compensation would be paid for such deeds, the culprit had to pledge a surety. The entire regulation is then summed up with the

16 “Life and laming shall one with land beset”, i.e., “wergeld and (fines for) mutilation must be given security with land”. 17 “All penetrating wounds that have pierced the wall [of the body], that have resulted in discharge from the brain and discharge from the lungs, must be proven with the judge who is then in office, and they [i.e., the wounds] must be recorded in the common register [of wounds], and they may remain unpaid for a year and a day, to be counted from the day that the wound was first inflicted; if the compensation is accepted, it must be passed on in the wergild [to be paid if the wounded man dies]; and the fine for mutilation must also be secured with a pawn, but the judge need not give a declaration. Wergild and (fines for) mutilation must be given security with land”; cf. Graf and Dietherr 1864, 300, nos. 118 and 305.

90 | proverbs in the old frisian laws | phrase “Wergild and fines for mutilation must be given security with land”. In favour of taking this phrase as a proverb are the following elements: it functions as a conclusion of a regulation, it features formal aspects such as alliteration and rhythm, and it has the presence of an indefinite pronoun and a modal auxiliary expressing obligation. Against interpreting the phrase as a proverb is the lack of metaphor or metonymy. Most importantly, however, the phrase lacks a figurative and, consequently, a generalizing aspect that would make it applicable outside its specific situation. In so far as I can see, the phrase can only be taken literally. Schmidt-Wiegand (1996, 226) also explains this proverb literally: “Bei kleineren Verbrechen konnte der Straftäter sich in der Regel von der Haft befreien, indem er einen Bürgen stellte. Bei schweren Verbrechen (Körperverletzungen etc.) forderte man Bürgschaften oftmals in Form von liegendem Gut”. Let me clarify what I mean. When saying: “Do not look a gift horse in the mouth”, very few, if anyone at all, would be referring to an actual horse. Instead, the statement would be decoded as advice not to crit- icize presents that one receives. Now, such metaphorical encoding is missing from the Frisian phrase in question. Admittedly, the alliteration and rhythm employed may in effect have turned the phrase into metrical line according to Germanic poetic principles, but this does not in turn make it a proverb. At best, the way the conclusion is phrased morphed it into a useful mnemonic device that helped legal experts memorize the principle that wergild and fines for mutilations required a surety in land until they had been paid. Returning to von See (1964), he also exposed the way scholars had pre- viously explained the scarcity of proverbs in Anglo-Saxon laws, even though these are the oldest vernacular Germanic laws we have and should therefore have abounded with proverbial sayings.18 The few proverbs present, it was claimed, were the last traces of what once must have been a much richer tradi- tion. Von See, however, showed that likewise proverbs are completely absent from the oldest of Icelandic law books, the Grágás. Rather, the reverse applied: proverbs were especially to be found in the late medieval Scandinavian legal texts. Moreover, von See pointed out that the nature of the proverbs in these late laws rather reflected the daily experiences of rural life than those of legal practice. As a consequence, he denied the existence of a special category of legal proverbs for medieval Scandinavia (von See 1964, 87-90). Von See’s observations also seem to be largely applicable to the Old Frisian legal texts. No text contains more proverbs than the late fifteenth-century Jurisprudentia Frisica from which I have already quoted a number of times. The anonymous lawyer who compiled this learned text cast his net widely when it came to proverbs. Sometimes the Bible is his source, as is the case when he enumerates the rules concerning slander, gossip, false rumour, and insult (cf. Bremmer 1998, 96). If a man brings forward convincing evidence that his reputation has been wrongfully damaged, he may himself set the

18 On proverbs in Anglo-Saxon laws, see most recently Bremmer forthcoming.

91 | rolf h. bremmer jr | amount of compensation to be paid, a rule which is underpinned with the con- clusion: Hwant een gued nama is bettera dan goud ende seluir (Hettema 1834-35, II, 202, Tit. 63.1), which neatly summarizes the wisdom held up in Proverbs 22:1.19 Another proverb, which at first sight refers to what must have been a not uncommon event in a peasant’s life, turns out to be problematic: Hweerso een man een misdeda deth so schel hy anderde fander misdeda inda selle riucht deer hy da misdeda deen haet, hwant “deer dy baem falt, aldeer schel me’n weer opriuchta” (Hettema 1834-35, I, 150, Tit. 20.7).20 The usual characteristics for a proverb are present: a conjunction of reason (‘for, because’), a modal auxiliary expressing obligation, and a metaphorical way of comparison: the tree repre- sents the crime. However, the wisdom expressed by the Frisian proverb also alludes to the superior wisdom of Ecclesiastes (11:3), where it is claimed that in whatever place a tree falls, there it will remain. How can this be? Almost certainly, at least some among the intended audience of Jurisprudentia Frisica would immediately have thought of the biblical text, if only based on my own gut reaction when I read the passage for the first time. In other words, is the author of our text pulling his colleagues’ proverbial legs? For how can a tree that has been felled be erected again? So far I have not found any other attesta- tion or analogue of this proverb, which causes me to think that we are indeed dealing here with a witty allusion to the Bible. Sometimes the Bible and Roman law come together in a proverb, as Clausdieter Schott (1977) has shown. According to Mosaic Law (Deut. 19:15) and repeated in both the Gospels (Matt. 18:16) and in the Apostolic epistles (2 Cor. 13:1), in order to bring forward a valid testimony at least two witnesses must have been present at the occasion. A similar notion was expressed in a maxim in Roman law: vox unius, vox nullius (“the voice [i.e., testimony] of one person is the voice of no one”). Now, the author of the Jurisprudentia Frisica has placed the two notions together here to give weight to the rule he has just given, concerning issuing summonses: Hweersoma een man noeglick laya schel, so schelma hem laya jn gueder lyoda andert to da riucht, hwant “een man steet neen wird to lyowen” ende “een stemme is so folle so neen”, al weer hy al swern riuchter (Hettema 1834-35, I, 28, Tit. 3.9).21 Not even the single voice of a judge

19 “For a good name is better than gold and silver”; cf. Graf and Dietherr 1864, 351, no. 401. Cf. Prov. 22:1: Melius est nomen bonum quam divitiae multae; super argentum et aurum gratia bona (Weber 1975; all further references to the Vulgate, with some punctuation added, are from this edition). 20 “If a man commits a crime, he must respond to an accusation of the crime in the court of the same district as where he has committed the crime, for ‘where the tree falls down, there it must be erected’”; cf. Graf and Dietherr 1864, 437, no. 312. Cf. Eccles. 11:3b: si ceciderit lignum ad austrum aut ad aquilonem, in quocumque loco ceciderit, ibi erit (“If the tree fall to the south, or to the north, in what place soever it shall fall, there shall it be”; trans. Douay-Rheims, online version at http://www.drbo.org/. Accessed March 18, 2018). 21 “If a man must be properly summoned [before the court], he must be summoned to the court in the presence of good [i.e., honourable] people, for ‘one need not believe the truth [on account of the witness] of one man’ and ‘one voice is as much as none’, even though he were a fully sworn judge.” The former was apparently overlooked by Graf and Dietherr 1864, for the latter see 455, no. 487.

92 | proverbs in the old frisian laws | solemnly sworn into office could annul the rule summed up in the proverb. That people of authority have to give way to this wisdom is also expressed elsewhere in the Jurisprudentia Frisica: “Aenis mannis orkenscip dagh naet”, al weer hit een biscop (Hettema 1834-35, I, 114, Tit. 15.50).22 The same wisdom is expressed with explicit reference to the Bible in a Frisian adaptation of the treatise Processus iudicii, composed by Johannes Andreae (Giovanni d’Andrea, 1270/75-1348), one of the most famous canonists of the period: Dit is gastlic riucht, detter noech is in twam nogelika thiugum, als det evangelium seit: “‘In ore duorum vel trium stat omne verbum’; in da werda twira iefta thrira so steeth alle thiu werde, hwant ‘enes monnis thiuch daecht naet’” (Buma and Ebel 1967, D 29a).23 All these variants are indicative of how a biblical injunction was adopt- ed and fashioned into a proverb to function in the procedure of law. I have come to my last point. Proverbs, to be effective, should have a wide circulation, and even though the Old Frisian text corpus is rather limited, it is possible to find evidence of this aspect. Consider the following two regu- lations, which both deal with succession:

Ic forbonne alle falsche wilkeren, ther thet sibbiste lif vnerwiat fon then goude, hwant thi wilkere sprecht ien tha ewa ende ien alle gastlike riucht, warvm “dat neste blod is sibbiste ende nest to then gode”, alsa fir thet hi se freybern ... (Buma and Ebel 1972, XIX.14).24

Thi fiarda dom is, thet alle lawa agen fort to gungane, alsa se deden fon Abraham and fon Ysaac and fon alle hiara iungerum alhvnt in thine hiudelika dey: “thet sibbiste blod js sibbiste and nest tho then goud” (Buma and Ebel 1972, VII.4).25

In the former regulation a proverb is invoked to support the rule that for- bids the validity of statutes – that is, recent, written legal decisions – when they run counter to secular and ecclesiastical tradition. The same proverb

22 “‘One man’s witness does not avail’, even though he were a bishop”; cf. Graf and Dietherr 1864, 455, no. 486. 23 “This is spiritual [i.e. canon] law, that two witnesses suffice, as the Gospel [Matt. 18:16] says: ‘In ore duorum vel trium stat omne verbum’; in the word of two or three all truth may stand, for ‘one man’s witness does not avail’”; cf. Graf and Dietherr 1864, no. 484. The Frisian adapta- tion of Johannes Andreae’s treatise survives in five manuscripts, thus testifying to its popularity. 24 “I forbid all false statutes that deprive the next of kin of their hereditary title to a prop- erty, because such a statute contradicts the [traditional, secular] law and all spiritual [i.e., canon] law, because ‘the nearest blood is nearest of kin and nearest to the estate’, in so far as he [the claimant] is a freeborn man”; cf. Graf and Dietherr 1864, 200, no. 110. On the legal concept of ‘closer, near’, see Deutsches Rechtswörterbuch, s.v. näher, https://www.rzuser.uni-heidelberg. de/~cd2/drw/e/na/naher.htm (accessed October 2, 2017). 25 “The fourth doom is that all estates must be divided as they have been since Abraham and Isaac and all their progeny until the present day, [for] ‘the closest blood is nearest of kin and nearest to the estate’.” For variants of this proverb, cf. Hettema 1834-35, II, 102, Tit. 50.3; II, 112, Tit. 50.21; II, 154, Tit. 57.3.

93 | rolf h. bremmer jr | is used in a similar case concerning succession, but now the rule is stated assertively and the proverb only follows a respectable appeal to the tradition that reaches back as far as the primeval patriarchs. In other words, the rule is backed up by a double certificate of validity: the one branded with sacred authority, the other with popular wisdom. To illustrate the occurrence of rhyme in Frisian proverbs, finally, I have chosen two examples, one with end rhyme and one, much rarer, with internal rhyme. The former is found in a treaty concluded in 1449, which intended to establish a permanent peace between feuding factions within the land of Westergo. In the final part of the document a long list of stipulations and con- ditions are enumerated for both parties, which concludes with a stiff warning: Item, hwa disse fors[criouwen] punten naet bitallie mitta guede, dy schil bitallie mitta bloede (Sipma 1927-41, II.27.33/21-2).26 A proverb with internal rhyme is the following: Item: Dy flechtiga foet is dyo jechtiga hand (Hettema 1834-35, I, 74, Tit. 12.23).27 This practical wisdom makes up a separate entry in the Jurisprudentia Frisica in a long list of regulations concerning possible ways of confessing guilt or asserting innocence. In addition to internal rhyme, further stylistic aspects attest to its being a proverb: it is balanced, features allitera- tion, employs the rhetorical figure of synecdoche (also known aspars pro toto), and, of course, it is not meant to be taken literally. The proverb succinctly says that “he who runs away from the crime scene confesses guilt (i.e., as though he testifies to it with his hands on the relics in court)”. Popular experience has turned here into a binding rule of law (cf. Bremmer 2014, 32). As if to make sure the appropriateness of the proverb, the author added in the right-hand margin: “‘Qui male agit odit lucem’ juxta ewangelium” (“‘He that doth evil hateth the light’, according to the Gospel”; cf. John 3:20). Again, two worlds meet here within the space of one line: a proverb that is form-wise rooted in traditional, communal wisdom, buttressed by an apodictic statement that de- rives its authority from Christ himself as recorded in the Vulgate.

5. conclusion

I hope to have shown that a closer investigation into the nature and func- tion of the proverb in the medieval Frisian laws has proved to be fruitful.

26 “Also: whoever will not pay with property, he must pay with blood.” It was a popular proverb frequently used in similar peace settlements, cf. Sipma 1927-41, II, nos. 41, 45, 46, 67, 73, 91, and III, no. 8. Compare the Dutch and German proverbs: “Wie niet horen wil, moet voelen” / “Wer nicht hören will, muß fühlen” (Wander 1867-80, II, 779). 27 “Furthermore: The fleeing foot is the confessing hand.” The alliterative combination of flechtige foet occurs elsewhere in Frisian laws and is an example of aggregation in Ong’s terminology (cf. Bremmer 2014, 9). It makes one wonder whether the collocation elsewhere alludes to the proverb, or whether the proverbial saying in Jurisprudentia Frisica was coined with the help of an existing idiom; see Buma and Ebel 1975, XVIII.12c; Buma, Gerbenzon and Tragter-Schubert 1993, I.25.

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Much better than previous generations of scholars of Frisian law, we can now equip ourselves with the results of similar investigations in adjacent fields and disciplines and pose new questions to the old and familiar laws. For one, it has appeared that the proverb is not a precious Germanic relic that has survived into the laws of the thirteenth-century Frisians, as was commonly held. Nevertheless, proverbs do belong to a method of thinking and arguing that is typical for oral and semi-literate cultures. Remarkably, the legal text in which proverbs most often occur is Jurisprudentia Frisica, composed by a lawyer who was as comfortable in Latin as in his own ver- nacular and perfectly at home in both Roman and canon law, in the Bible as well as in his native Frisian traditions. Seemingly without effort he has suc- ceeded in bringing all these four different authorities together in an organic handbook for late medieval Frisian lawyers. New research questions require new methods, or to sum up this require- ment with yet another proverb: Hwant hwerso nye ponten op riset, deerma eer naet fan weet, so aeghma dat nyes to foerandrien. Ende eelck man is dyr oen byhaldene riuchtis. Reden: “hwant nye syuckten byhowet nye ersedie” (Hettema 1834-35, I, 256, Tit. 32.25).28 Perhaps, the applicability of the proverb in this context is somewhat forced, for if anything, I would be the last to compare the study of proverbs in Old Frisian law texts to a new malady. But beware, studying proverbs in these laws is an intellectual activity that may prove contagious, nonetheless!

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28 “For where new issues emerge, of which people formerly did not know, then they must be accounted for over and again. And each man is legally obliged to comply with this. The reason why: ‘new diseases require new medicines’”; cf. Graf and Dietherr 1864, 445, no. 405.

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Fig. 1. Leeuwarden, Tresoar, Codex Roorda, von Richthofen-col- lectie, nr. 6, p. 18 (p. 6 in old numbering). Reproduced with kind permission from Tresoar.

100 GLI USI DELL’ELEMENTO GNOMICO NEL BRUCE DI JOHN BARBOUR

Valeria Di Clemente Università di catania, sede di ragUsa

A litill stane oft, as men sayis, may ger weltyr a mekyll wayn (The Bruce, libro XI, vv. 24-25)

1. il poema

Il Bruce è la prima opera letteraria conosciuta redatta nel dialetto di origine inglese media settentrionale parlato in Scozia presumibilmente dal XII se- colo e designato a partire dalla fine del XV secolo col nome diScots .1 Si tratta

1 Secondo Macafee e Aitken (2002) è difficile stabilire se il cosiddettoScots discenda dal dialetto inglese antico parlato dagli angli stabilitisi nella Scozia meridionale a partire dal VII sec. d.C. (che comunque ha lasciato pochissime tracce riconoscibili: l’iscrizione runica contenente un frammen- to del poema Il sogno della croce, elementi della toponomastica) o dall’inglese medio del Nord, ricco di scandinavismi e francesismi, introdotto nel corso del XII secolo da feudatari e coloni di origine inglese, o da una sovrapposizione dei due strati. Questo dialetto, a partire dalla prima metà del XII secolo, fu la lingua franca con cui, specialmente nelle città, comunicavano i sudditi del re degli scozzesi, che appartenevano a lingue e culture differenti, e gli immigrati inglesi, francesi, tedeschi e fiamminghi che si erano stabiliti in Scozia per motivi commerciali; è testimoniato inizialmente sotto forma di toponimi, appellativi isolati e parole latinizzate nei testi redatti in latino, mentre una prima consistente testimonianza lessicale è data dalle glosse allo Scone Lease (c. 1350-60) e la prima opera letteraria è proprio il Bruce. Per un’introduzione alla storia dello Scots, oltre ai contributi in Jones 1997 e al dettagliato Macafee e Aitken 2002, si vedano anche CSD (= Robinson 2005), vi-xvi (testo di A.J. Aitken), e Corbett, McClure e Stuart-Smith 2003, 1-16; sul plurilinguismo nella Scozia medievale e la diffusione delloScots , il classico Murison 1974; sulle denominazioni usate per questa lingua, McClure 1995. Un’ottima storia testuale dell’Older Scots (c. 1375-1700), con testi raggruppati secondo il criterio tipologico, è Smith 2012.

|101| | valeria di clemente | di un lungo poema storico-cavalleresco, che ha per argomento le impre- se del re degli scozzesi Robert I Bruce (1274-1329) e del suo luogotenente James Douglas, protagonisti delle lotte per l’emancipazione del regno scoz- zese dalla signoria feudale del re d’Inghilterra nel primo trentennio del XIV secolo.2 L’autore, John Barbour (c. 1319/20-13 marzo 1395), al tempo della stesu- ra del poema era arcidiacono della cattedrale di san Macario ad Aberdeen. Secondo le fonti assunse questa carica intorno al 1356; aveva studiato a Oxford e Parigi (Duncan 1997, 2). Negli anni ’70-’80 del XIV secolo era as- siduo presso la corte di Robert II Stewart: nel 1378 il re gli concesse una pen- sione di una lira all’anno, tratta dai pagamenti dovuti dalla città di Aberdeen alla Corona, mentre nel 1388 gli venne assegnata una rendita vitalizia di die- ci lire, forse proprio in ricompensa delle opere da lui scritte per celebrare la famiglia Stewart (Duncan 1997, 3, 10). Secondo quanto scrive il cronachista quattrocentesco Andrew di Wyntoun, Robert II incaricò Barbour di com- porre diverse opere allo scopo di esaltare la grandezza della sua famiglia: un Brut, una Stewartis Orygynalle e una Stewartis Genealogy, che non ci sono pervenuti, e i cui titoli fanno forse riferimento a un’unica opera (Duncan 1997, 3) in cui si tracciavano le presunte origini leggendarie degli Stewart (Boardman 1996, 59; Mackenzie 1909, xix; Skeat 1894, vol. 1, xxxvi-lxiii, in particolare xliii-xliv).

2 Le circostanze politiche delle guerre anglo-scozzesi del 1296-1328 possono essere som- mariamente riassunte in questi termini: nel 1286 era morto improvvisamente il re Alessandro III, il quale non aveva eredi viventi se non la nipote Margherita di Norvegia, all’epoca una bam- bina di pochi anni. Tra il 1286 e il 1290 la Scozia fu governata da un collegio di reggenti, ma alla morte di Margherita nel 1290 il problema della successione si riaprì drammaticamente, poiché numerosi candidati avanzarono la loro pretesa al trono sulla base della loro discendenza dalla casa di Dunkeld. I candidati più qualificati erano il conte di Galloway, John Balliol, nipote della prima figlia del conte David di Huntingdon, fratello minore del re Guglielmo I (‘il Leone’, 1143-1214), e Robert V Bruce di Annandale, figlio della seconda figlia del conte. I reggenti -fu rono costretti a istruire una causa giudiziaria per l’assegnazione del trono e chiamarono quale giudice supremo Edoardo I d’Inghilterra, il quale ne approfittò per portare a compimento il suo scopo di stabilire la propria signoria feudale sulla Scozia. Nel novembre 1292 la causa si chiuse con l’assegnazione del trono a John Balliol (per un’introduzione alle vicende della cosiddetta Great Cause, si vedano Penman 2006 e Reid 2007). Robert Bruce, nipote del candidato perden- te nella causa del 1290-92, venne alla ribalta sulla scena politica scozzese circa dieci anni dopo, in un contesto in cui re Balliol era stato catturato e deposto dagli inglesi in seguito all’invasione della primavera-estate 1296 e la Scozia per un decennio aveva dovuto sottostare alla signoria feudale di Edoardo I. Bruce fu autore di un vero e proprio colpo di mano nel febbraio-marzo 1306: dopo l’assassinio, probabilmente non pianificato, del suo grande rivale John Comyn pres- so la chiesa dei frati minori di Dumfries (6 febbraio 1306), fu inaugurato re degli scozzesi con l’appoggio dei rappresentanti della Chiesa. Negli anni successivi, 1306-14, grazie anche a una strategia militare non convenzionale, Bruce riuscì a piegare i nemici interni e neutralizzare l’esercizio dell’autorità dei governanti inglesi, fino alla decisiva battaglia di Bannockburn (1314), dopo la quale perseguì una intensa attività diplomatica a livello internazionale per vedere se stesso e i suoi discendenti riconosciuti come legittimi re degli scozzesi. Sulla vita e l’azione po- litico-militare di Bruce, un testo fondamentale di riferimento e orientamento è Barrow 2005; un dettagliato confronto tra le informazioni sulla vita e la carriera di Douglas così come com- paiono nelle fonti storiche e quelle fornite nel poema di John Barbour è in Väthjunker 1992.

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Il nucleo principale del Bruce venne redatto nei primi anni di regno di Robert II, entro il 1375, come Barbour stesso afferma nel libro XIII ai vv. 709-17. Con questa narrazione si intendeva esaltare Robert, nipote di Bruce, allo scopo di sottolineare la legittimità della sua successione.3 Il poema è indirizzato a un lettore/ascoltatore ‘ideale’ che viene identificato nell’espres- sione textual community of the realm: la definizione riprende la formula giu- ridica communitas regni Scotiae, con la quale nel medioevo si identificavano teoricamente tutte le forze sociali componenti il regno scozzese, nella prati- ca soprattutto le forze coinvolte nell’amministrazione e nell’attività politica ed economica. La textual community of the realm è un gruppo di riceventi accomunati dalla loro partecipazione a un ambiente nel quale significa- ti specifici di testi scritti e iconici, di segni e simboli erano condivisi (van Heijnsbergen 2015). Nel caso particolare, questa comunità testuale ideale era anche reale e si trattava delle classi dominanti della società scozzese della fine del XIV secolo, che condividevano una precisa eredità culturale, storica e politica. A questa comunità Barbour doveva trasmettere un mes- saggio propagandistico volto a rafforzare la posizione della dinastia Stewart appena ascesa al trono, sottolineandone la legittimità e insistendo su una serie di valori morali, sociali e politici. Il poema, che gli editori moderni, a partire dalla fine del XVIII secolo, han- no suddiviso in venti libri (si veda Pinkerton 1790), consta di circa 14.000 ot- tosillabi in distici a rima baciata, il metro per eccellenza dei romanzi narrativi di origine francese. Si tratta di un’opera complessa che, per la sua origine, e data la sua committenza, rappresenta l’esito di un intreccio tra sfondo storico, invenzione, rielaborazione letteraria e intento propagandistico, in particolare nell’ottica di una celebrazione della dinastia Stewart recentemente ascesa al trono, nonché dei valori cortesi e cavallereschi espressi dalla classe aristocra- tica. Nel corso del XIX e XX secolo, al poema è stata attribuita un’importanza più come fonte storica che come testo letterario;4 soltanto nel corso del XX secolo si è approfondita l’analisi del Bruce come opera di poesia portatrice di specifiche istanze culturali, studiandone le premesse politiche, sociali, ideolo- giche e la fisionomia più propriamente letteraria.5 La tradizione del Bruce è affidata principalmente a due codici della fine del XV secolo, il manoscritto Cambridge, St John’s College, G.23 (olim 191), e Edimburgo, National Library of Scotland, Advocates’ Library, 19.2.2. Il pri-

3 Robert II Stewart (1316-90), figlio della figlia di Bruce, Marjorie, e di Walter VI Stewart, succedette a David II Bruce (1324-71), fratello consanguineo di sua madre, morto senza discen- denza. 4 Recentemente James H. Taggart ha confrontato le informazioni fornite nel poema con quelle riportate in fonti storiche e documentarie coeve, costituendo una scala graduale di at- tendibilità (fatto “non plausibile”, “plausibile”, “altamente plausibile”, “non supportato”, “sup- portato debolmente”, “supportato”, “confermato”, “fortemente confermato”) e dimostrando la storicità del poema (Taggart 2004, 67). 5 Si vedano, tra gli altri, Ebin 1972; Goldstein 1986; Boardman e Foran 2015b; e gli altri contributi in Boardman e Foran 2015a.

103 | valeria di clemente | mo è composto da 143 fogli e manca della parte iniziale; dal colofone in lati- no risulta che la copiatura fu terminata il 28 agosto 1487 da un J. de R. capel- lanus (Wingfield 2015, 34-35); il codice edimburghese, che presenta il testo completo, fu redatto nel 1489 dallo scriba John (Iohannes) Ramsay dietro incarico del vicario Simon Lochmalony di Ouchtirmunsye, come viene spie- gato nel lungo colofone finale (Wingfield 2015, 37-38). L’analisi paleografica dei due manoscritti fa pensare che J. de R. capellanus e Iohannes Ramsay si- ano la stessa persona (Wingfield 2015, 4-42). Una prima edizione a stampa, basata su un manoscritto ormai perduto e licenziata da Robert Lekpreuik per lo stampatore e libraio edimburghese Henry Charteris, risale al 1571 (ne sopravvive una sola copia conservata a New York, presso la Pierpont Morgan Library, W.1.B.15586) ed è alla base dell’edizione di Andrew Hart del 1616 (Bitterling 1970, 23-25; Duncan 1997, 32; Wingfield 2015, 43-46).

2. gli usi dell’elemento gnomico

2.1. L’elemento gnomico nel poema

Nei seguenti paragrafi si descriverà l’uso che Barbour fa nel poema dell’‘ele- mento gnomico’, includendo in questa definizione proverbi,6 massime7 ed enunciazioni anche occasionali di tono sentenzioso. L’elemento gnomico nel poema barbouriano trova a oggi la sua trattazio- ne più approfondita e sistematica nello studio del filologo e paremiologo statunitense B.J. Whiting, Proverbs and Proverbial Sayings in Scottish Texts before 1600 (1949 e 1951), che raccoglie, oltre alle espressioni gnomiche vere e proprie, anche fraseologismi ed espressioni idiomatiche. Prima ancora, al- cuni dei proverbi studiati da Whiting erano stati inseriti nel dizionario stori- co dei proverbi inglesi di G.L. Apperson del 1929 (confluito poi in Apperson e Manser [1993] 2006) e/o sono riportati anche nel DOST (= Craigie et al. 1937-2002) alle singole voci. I dati sono stati ricavati da un’accurata lettura del testo e quindi verificati sulla lista tematico-alfabetica di Whiting. Non viene esaminato per intero il materiale risultante dallo spoglio di Whiting; di contro, alcune massime

6 Per una definizione di ‘proverbio’, si veda Mieder 2004, 2-9. Mieder sottolinea come ca- ratteristiche del proverbio 1) la brevità; 2) la diffusione; 3) l’argomento, che riguarda soprattutto massime di saggezza, verità generali e contenuti morali; 4) la forma, spesso metaforica o figurata, fissa, memorizzabile in quanto per lo più breve e costruita tramite ben precise procedure retori- che; 5) il fatto che sia trasmesso di generazione in generazione. Nello studio dei proverbi antichi e medievali, testimoniati esclusivamente attraverso fonti scritte più o meno ampie, l’analisi dei fattori diffusione e trasmissione nel tempo non può essere condotta in modo soddisfacente, ben- ché un approccio storico-comparativo (confronto con proverbi di altre aree linguistico-culturali o della stessa area in diversi periodi storici) possa contribuire a ricostruirne le vicende. 7 Per ‘massima’ si intenderà una enunciazione breve, di carattere generale e astratto, che esprime un giudizio tratto dall’esperienza pratica.

104 | l’elemento gnomico nel bruce di john barbour | incluse nella presente analisi non compaiono nello studio del paremiologo americano. L’elemento gnomico, inoltre, non viene presentato secondo un ordine progressivo o tematico o alfabetico; l’indagine si sofferma piutto- sto sulla modalità di occorrenza di proverbi, massime e sentenze nel po- ema, sulla loro funzione e sulla presenza di temi e situazioni ricorrenti. Un confronto di tipo diacronico, sia pure sintetico, è stato condotto sulle raccolte di proverbi scozzesi di Cheviot (1896), Fergusson (Beveridge 1924), Henderson ([1832] 1876), Hislop ([1862] 1868) e Kelly (1818), che riportano proverbi e detti in o in inglese standard. L’edizione di riferimento del poema barbouriano è normalmente McDiarmid e Stevenson (1980-85); le citazioni nel presente lavoro seguono la più agile e pratica edizione Duncan (1997). La traduzione dei brani è a opera dell’estensore dell’articolo.

2.2. Modalità di inserzione nel testo 2.2.1. Come rielaborazione L’elemento gnomico ricorre talvolta come rielaborazione di un ipotesto la cui conoscenza è ritenuta, implicitamente, parte del patrimonio culturale e linguistico del pubblico. È il caso dell’episodio narrato nel libro III, in cui si racconta come il conte di Lennox vada incontro a Bruce dopo la disfatta di Methven (giugno 1306), portando vettovaglie che sono assai gradite ai reduci della battaglia perduta, dispersi e in fuga:

And thai eyt it with full gud will thar soucht na other sals thar-till bot appetyt, that oft men takys, for rycht weill scowryt war thar stomakys. (III, 539-42; Whiting 1949, 132; Apperson e Manser [1993] 2006, 295)8

Il poeta rielabora il detto appetyt is the best sals (“l’appetito è il miglior condimento”), esemplificato concretamente dalla drammatica situazione descritta. Allo stesso modo, nella descrizione dello scontro presso Old Meldrum in cui Bruce infligge una dura sconfitta ai nemici, Barbour commenta, con una certa ironia, la fortuna di chi riesce a cavarsela: quha had gud hors, gat best away (IX, 280; Whiting 1949, 191).9 Si tratta di una regola generale

8 “Ed essi lo mangiarono [il cibo] davvero molto volentieri, / e per esso non cercarono altro condimento / se non l’appetito, come spesso prende le persone, / poiché i loro stomaci erano proprio vuoti.” Si vedano le varianti registrate in Hislop [1862] 1868, 158: Hunger’s gude kitchen, e Henderson [1832] 1876, 34: Hunger is good kitchen-meat. 9 “Chi aveva buoni cavalli ne uscì meglio.”

105 | valeria di clemente | incontrovertibile: normalmente chi ha buoni mezzi a disposizione riesce a ottenere i migliori risultati (*quha has gud hors, gettis best away), ma in que- sto caso il valore figurato del detto si associa in senso letterale ai fatti contin- genti, facendo riferimento alla realtà quotidiana del medioevo, nella quale un buon cavallo, per la sua robustezza o rapidità, poteva fare la differenza (nel caso specifico, in caso di fuga dalla battaglia). Infine, un esempio usato dal protagonista e riportato al discorso diretto indica la capacità di Bruce di usare i proverbi in maniera ironica o sarcastica: nel libro XI, in cui si descrive la fase iniziale della battaglia di Bannockburn, Bruce e James Douglas sono presentati mentre osservano la compagnia di Thomas Randolph, che a causa dell’avventatezza del suo comandante si tro- va impegnata in uno scontro difficile. Douglas propone di andare in aiuto del suo collega, ma il re lo ferma dicendogli:

[…] Sa our Lord me se, a fute till him thou sall nocht ga, giff he weile dois lat him weile ta (XI, 648-50; Whiting 1949, 159)10 adattando al contesto un proverbio chiaramente legato ai concetti di causa/ef- fetto. Il proverbio scozzese antico doveva suonare quha weile dois, weile tais, “chi fa bene riceve il bene”, oppure do weile and ta weile, “fa’ bene e ricevi il bene”.11

2.2.2. Come citazione estesa

Talora massime e proverbi sono citati per esteso e servono a commentare determinate situazioni narrative. È quanto accade nel libro II, laddove si racconta la fuga di Bruce e dei suoi nel Nord dopo il disastroso scontro di Methven; Barbour afferma che la compagnia dei fuggiaschi si nasconde e dispera talmente della propria sicurezza da essere restia a farsi vedere dalla gente del luogo per timore del tradimento: sa fayris it ay commounly: / in commownys may nane affy (II, 504; Whiting 1949, 150-51).12 Nel libro IV si racconta come nell’estate 1306 gli inglesi riescano a forzare l’assedio al castello di Kildrummy grazie a un traditore, tale Osbern, che fa scoppiare un incendio all’interno del castello. L’incendio non tarda a essere scoperto, perché

10 “Nostro Signore mi sia testimone [letteralmente: così mi veda Nostro Signore], / non muoverai un passo verso di lui: / se fa bene, lascia che gliene venga bene [letteralmente: che prenda, riceva bene].” 11 Beveridge (1924, 28) riporta la variante moderna Do weill & have weill (do well and have well in Kelly 1818, 56). 12 “Di solito succede sempre così: / non ci si può fidare della gente del popolo.” Whiting rileva che detti simili sono attestati in Scozia nel XVI secolo e si riscontrano in inglese medio tardo ad es. in Lydgate (The Fall of Princes: In trust off comouns is no perseuerance, “nell’affidabili- tà della gente del popolo non vi è costanza”, si veda Bergen 1921-24, III, 390).

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[…] men sayis oft that fyr na prid but discovering may na man hid, for the pomp oft the prid furth schawis or ellis the gret boist that it blawis, na thar may na man fyr sa covyr than low or rek sall it discovyr. (IV, 119-24; Whiting 1949, 167; Apperson e Manser [1993] 2006, 201, 534)13

L’occasione è illustrata per mezzo di un detto che ha per tema proprio il fuoco e che Harold Cordry (2005, 35, 163) associa ai campi concettuali di causa ed effetto e celamento/svelamento. Dopo la citazione del proverbio, introdotto dalla formula men sayis oft che lo identifica come tale, Barbour si dilunga a spiegarne analiticamente il contenuto e a illustrare le ragioni per cui sia l’orgoglio che il fuoco sono impossibili da nascondere. Nel libro V, mentre Bruce è nella contea di Carrick, il cavaliere scozzese Ingram di Umfraville, che combatte dalla parte degli inglesi, spinge un pa- rente del re a cercare di avvicinarlo per poterlo tradire, confidando nel fatto che Bruce non nutrirà sospetti nei confronti di una persona a lui vicina. Barbour nota che sono proprio coloro di cui ci si fida quelli più portati a tradire, poiché nane may betreys tyttar than he / that man in trowis leawte (V, 531-32; Whiting 1951, 144).14 Nel libro VII, invece, viene descritto un momento assai pericoloso per il protagonista in fuga. Bruce è in compagnia del suo fostir-brothir e incontra tre tipi che gli paiono sospetti; uno dei tre porta un montone ucciso sulle spalle. I tre uomini chiedono al re di potersi unire a lui, e Bruce acconsente, sia pure con una certa prudenza. Alla sera, il gruppo si accampa presso una fattoria, il montone viene arrostito e Bruce, che non mangia da molto tem- po, ha la possibilità di rifocillarsi, ma ciò lo pone in difficoltà:

quhen the vanys fillyt ar men worthys hevy evermar and to slepe drawys hevynes. (VII, 173-75; Whiting 1951, 148)15

13 “[...] spesso si dice / che né fuoco né orgoglio / si possono nascondere senza che siano scoperti: / perché spesso la pompa mostra l’orgoglio / o altrimenti l’arroganza che si presenta pomposamente; / né nessuno può celare il fuoco / senza che la fiamma o il fumo lo rivelino.” 14 “Nessuno è più pronto a tradire / di un uomo nella cui lealtà si confida.” 15 “Quando le vene sono piene / ci si appesantisce, / e la pesantezza spinge al sonno.” Si confronta con Modern Scots When the wame’s fu’ the banes wad be at rest “quando la pancia è piena le ossa vorrebbero riposare” (Henderson [1832] 1876, 92; Cheviot 1896, 396) e con il proverbio latino Venter plenus somnum parit “la pancia piena genera il sonno”. È probabile che la vicinanza fonetica e l’appartenenza a uno stesso campo concettuale di wan(e), van(e) ‘vena’ (DOST, s.v. “van(e, vain(e, wan(e, vayn(e, waine, wayn(e, vene, vein, veyne, wen-”), e wam(e) ‘stomaco, pancia’ (DOST, s.v. “wam(e, vam(e, wamb(e, waym(e, waymb, vaime, womb(e, voy-

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La pancia piena rende sonnolenti, Bruce invece vorrebbe evitare di dor- mire perché sospetta dei tre occasionali compagni di viaggio, ma sente co- munque la necessità di un sonnellino, perciò prega il suo fostir-brothir di vegliare mentre egli riposa. I tre approfittano della situazione e attaccano Bruce e il suo compagno, riuscendo a uccidere quest’ultimo ma non il re, che anche durante il sonno era rimasto tanto vigile da reagire immediata- mente al loro assalto. La citazione di una massima, sentenza o proverbio non ha solo la fun- zione di commento, ma contemporaneamente può valere come prolessi e/o riassunto di quanto avverrà. Ad esempio, nel libro I, il poeta espone le am- bizioni di Edoardo I riguardo alla Scozia, ma annuncia che a questo mondo […] unfayr thingis may fall perfay / als weill to-morn as yhisterday (I, 123-24; Whiting 1951, 143).16 Poco più avanti, al momento di accingersi alla narrazione della lotta per la libertà di Robert Bruce e dei suoi, Barbour premette che la Scozia si tro- vava in una situazione disperata, ma quhar God helpys quhat may withstand (I, 456; Whiting 1949, 179);17 osservazione plausibilissima da parte di un poeta-ecclesiastico il cui compito era mostrare al pubblico che l’impresa di Bruce, per quanto senza speranza, era stata voluta e favorita da Dio; e cer- tamente dietro a questo detto risuona la celebre espressione paolina si Deus nobiscum, quis contra nos (Rm 8,31). Sempre nel libro I, quando il re d’Inghilterra scopre, a causa del tradi- mento di John Comyn, il ‘patto’ stipulato tra Bruce e Comyn stesso per la conquista del trono scozzese e mette alle strette Bruce ingiungendogli di mostrargli il suo sigillo per verificare se coincide con l’impressione presen- te sulla lettera incriminata, quest’ultimo, con un colpo d’ingegno, riesce a escogitare un pretesto per allontanarsi momentaneamente e poi scappa- re. Nel momento in cui il protagonista corre il pericolo di essere arrestato, Barbour commenta, di fatto anticipando quanto poi verrà narrato, cioè la rocambolesca fuga di Bruce:

But oft failyeis the fulis thocht, and wys mennys etlyng cummys nocht ay to that ending that thai think it sall cum to (I, 582-85; Whiting 1951, 156)18 me, vomb(e, voym(e, vom(b)e, uombe, wemb, weym(e, veym, weeme, wime, wimb(e, wyme, wymb, vym(b)e”) abbiano dato origine a due varianti del proverbio. 16 “[…] in fede mia, fatti spiacevoli possono accadere / domani come ieri.” 17 “Se Dio aiuta, che cosa può opporsi?” Whiting, Apperson e Manser ([1993] 2006, 235) citano una serie di occorrenze di questo detto anche in inglese medio (ad esempio in Havelok il danese I, 648: Þer god wile helpen, nouth no dereth “laddove Dio aiuterà, niente potrà nuocere [letteralmente: niente nuoce]”, Skeat 1868, 20). 18 “[…] spesso il giudizio degli sconsiderati è difettoso, / e tuttavia i piani dei saggi / non sempre vanno a finire / così come essi pensano che debba andare.”

108 | l’elemento gnomico nel bruce di john barbour | aggiungendo poi una coda molto eloquente, for God wate weill quhat is to do (II, 586).19 Lo stesso concetto è ripetuto, più o meno con le stesse parole, all’ini- zio del libro XI, nel quale prende avvio la narrazione della battaglia di Bannockburn. Il poeta espone le premesse del grande scontro campale: quando Edward Bruce, fratello minore del re, promette al comandante del forte di Stirling, Philip Mowbray, di sospendere l’assedio fino al giorno di san Giovanni (24 giugno) del 1314, sir Mowbray riferisce i termini della tre- gua al re d’Inghilterra; Edoardo II e i suoi consiglieri ritengono tale pro- messa completamente folle, perché consente agli inglesi di organizzare per tempo il salvataggio della fortezza. Tuttavia, anticipa Barbour, non è detto che le cose vadano come ci si aspetta:

[…] oft faillys the fulis thocht and yeit wys mennys ay cummys nocht to sic end as thai wene all-wayis. (XI, 21-23; Whiting 1951, 156)20

A dispetto delle probabilità, infatti, può accadere che si verifichi la possi- bilità più remota, ovvero a litill stane oft, as men sayis, / may ger weltyr a mekyll wayn (XI, 24-25; Whiting 1951, 132; Apperson e Manser [1993] 2006: 345).21 Il proverbio è usato con funzione prolettica: Barbour suggerisce al suo lettore/ ascoltatore l’esito della battaglia, ‘scavalcando’ la narrazione particolareggiata che ne verrà fatta nei libri XI-XIII in circa duemila versi: due forze impari si scontreranno, e il litill stane, cioè la piccola armata di Bruce, riuscirà a rove- sciare il mekyll wayn, ovvero il poderoso esercito inglese. Il detto viene elucida- to, nella sua natura di patrimonio comune della saggezza popolare, dall’inciso as men sayis. L’esito dello scontro di Bannockburn era ben noto all’uditorio di Barbour (la battaglia era avvenuta solo sessant’anni prima della stesura del poema): la prolessi ha la funzione di spezzare la tensione narrativa ma funge anche da commento sulla tattica impiegata nella battaglia (il piccolo eserci- to scozzese, traendo vantaggio dal terreno dello scontro, determinò la rotta dell’armata di Edoardo II, la cui possente forza d’impatto in quel determinato frangente si rivelò inutilizzabile, anzi dannosa). Sempre a proposito di intelligenza militare, nel libro V si descrive un’im- presa del giovane James Douglas, il quale si reca in incognito presso il suo villaggio e insieme al fedele Tom Dickson mette insieme un piccolo gruppo di seguaci allo scopo di attaccare il castello tenuto dagli inglesi. Barbour commenta che l’impresa non era facile, ma venne ben concepita e gestita da

19 “Perché Iddio sa bene quel che bisogna fare.” 20 “[…] spesso il giudizio degli sconsiderati è difettoso, / e nondimeno i saggi non sempre giungono alla conclusione / che hanno concepito [letteralmente: così come essi pensano].” 21 “Spesso, come si dice, una piccola pietra / può far ribaltare un gran carro”; si confronta quasi alla lettera con il proverbio inglese moderno “A little stone overturns (may overturn) a great cart”.

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James. Segue una vera e propria lode della capacità organizzativa, esplicitata per mezzo di un proverbio poi spiegato nel dettaglio:

gud help is in gud begynnyng for gud begynnyng and hardy gyff it be folowit wittily may ger oftsys unlikly thing cum to full conabill ending. (V, 262-66; Whiting 1949, 137)22

Una variazione sul tema è presente nel libro IX, allorché il poeta com- menta a posteriori alcune notevoli imprese militari di Edward Bruce:

Lo! how hardyment tane sa sudandly and drevyn to the end scharply may ger oftsys unlikly thingis cum to rycht fayr and gud endingis. (IX, 637-40; Whiting 1949, 185)23

Nel libro XV, durante il racconto della campagna irlandese di Edward Bruce, si parla delle fasi dell’assedio del castello di Carrickfergus nell’Irlan- da nord-orientale. Qui, durante la settimana di Pasqua, viene proclamata una tregua, ma alcune navi cercano proditoriamente di forzare il blocco all’insaputa di Edward. La situazione si presenta assai pericolosa, ma il poe- ta lascia capire al lettore/ascoltatore che l’attacco non riuscirà, perché I trow falsat euirmar / sall haue vnfair and euill ending (XV, 122-23; Whiting 1949, 169).24 Il commento, oltre ad anticipare il fallimento dell’attacco, stigmatizza la scorrettezza e la slealtà: azioni che nascano viziate dalla falsità non possono concludersi bene. Poco più avanti il poeta, dopo aver raccontato della resa del castello di Carrickfergus a Edward Bruce, ripeterà il concetto usando parole più o meno identiche: sekyrly falset and gyle / sall allwayis haif ane ivill ending (XV, 244-45; Whiting 1949, 185).25

22 “Un buon inizio aiuta sempre, / perché un inizio buono e risoluto, / se lo si segue sagacemente, / fa sì che spesso imprese con poca speranza di successo / giungano a giusta conclusione.” Henderson ([1832] 1876, 95) e Hislop ([1862] 1868, 24) registrano il detto A gude beginning maks a gude ending (anche in Kelly 1818, 31, ma in inglese). 23 “Ah! Quanto spesso un’impresa ardita, compiuta senza preparazione / e portata a ter- mine risolutamente, / può far sì che imprese improbabili / giungano a una veramente giusta e buona conclusione [letteralmente: giuste e buone conclusioni]!” 24 “Io ritengo che la falsità / avrà sempre una conclusione sfavorevole e cattiva.” Il pro- verbio è attestato più volte anche in Middle Scots, e nella sua forma in Modern Scots è citato in Beveridge 1924, 32; Cheviot 1896, 103; Hislop [1862] 1868, 95: falshood made never a fair hinder end; faus(e)hood maks ne’er a fair hinder-end. 25 “Certamente la falsità e l’inganno / faranno sempre una brutta fine.”

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2.3. Robert Bruce e il ‘parlar sentenzioso’ 2.3.1. Caratterizzazione psicologica del protagonista Robert Bruce viene presentato come un abile stratega e un valoroso combat- tente, ma soprattutto come un uomo in sintonia col sentire del suo popolo. In quanto tale, egli esprime spesso saggezza pratica e buon senso, e ha l’a- bitudine di parlare in maniera sentenziosa, attraverso formule di carattere generale e frasi fatte, proiettando sul piano contingente verità o supposte ve- rità universali. È significativo che egli parli così soprattutto in momenti par- ticolarmente difficili o decisivi o in difesa della sua azione politico-militare. Prima dello scontro presso Methven, il protagonista tiene un discorso ai suoi uomini, in cui li esorta a non fidarsi del nemico:Now I persave he that will trew / His fa, it sall hym sum-time rew (II, 329-30; Whiting 1949, 171).26 Subito dopo, valutando la sproporzione tra le forze in campo, egli sentenzia: multitud na mais victory (II, 333; Whiting 1951, 102).27 Nel corso delle prime battaglie perdute, esorta i suoi uomini a non la- sciarsi andare:

for disconford […] is the werst thing that may be for throu mekill discomforting men fallis into disparing and fra a man disparyt be then utraly vencusyt is he and fra the hart is discumfyt the body is nocht worth a myt (III, 191-98; Whiting 1949, 187).28

Bruce dunque non solo mostra notevoli doti di empatia, ma si rivela an- che un ottimo motivatore, facendo leva sul coraggio e sulle risorse morali dei suoi uomini.29

26 “Ora, io penso che chi si fida / del suo nemico un giorno se ne pentirà.” Si veda Henderson [1832] 1876, 7: Ne’er trust muckle to an auld enemy, nor to a new friend; anglicizzato in Kelly 1818, 165. 27 “Non è il numero che fa la vittoria.” L’affermazione è un’eco di 1 Mac 3,19: non in mul- titudine exercitus victoria belli. 28 “Poiché scoraggiarsi […] / è la cosa peggiore che vi possa essere; / se lo scoraggiamento è grande / si cade nella disperazione / e quando un uomo è disperato, / allora è definitivamente sconfitto; / e quando il cuore è sconfortato / il corpo non vale un soldo bucato [letteralmente: non vale un myt].” 29 Nel detto fra the hart is discumfyt / the body is nocht worth a myt si inserisce anche il modo di dire to be nocht worth a myt “non valere un myt”. Il myt(e) o mite (si veda DOST s.v.) era una monetina di rame del valore di un terzo di soldo, originariamente fiamminga ma il cui impiego si era diffuso nel corso del XIV secolo anche nelle Isole Britanniche e nella Germania del Nord, assai frequentate dagli artigiani e dai mercanti provenienti dalle Fiandre. L’uso figu- rato, già noto nel nederlandese medio niet ene mite “un bel niente” (MNW online [= Verwijs e

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2.3.2. Il tema del rycht Nella caratterizzazione del personaggio di Bruce e nel racconto delle sue imprese si invocano spesso il diritto e la ragione. In effetti, nella verità stori- ca, Bruce, che aveva preso il potere in maniera decisamente poco ortodossa, insistette fin dall’inizio sul diritto e legalità della sua pretesa,30 che Barbour riconferma nel poema, poiché la legittimità della pretesa di Bruce era anche alla base della legittimità della successione della famiglia Stewart. Il tema del rycht, perciò, è ricorrente e diventa l’oggetto di alcune enunciazioni sen- tenziose in momenti significativi. Nel primo libro si narra dell’accordo tra Bruce e John Comyn, nel quale si decide che uno dei due diventerà re con l’aiuto dell’altro, il quale a sua volta riceverà per ricompensa le proprietà di colui che sarà riuscito a diventare re. Bruce dice:

I will blythly apon me ta the state, for I wate that I have rycht, and rycht mayis oft the feble wycht. (I, 508-10; Whiting 1951, 117)31

Nel discorso motivazionale tenuto all’esercito prima dello scontro a Bannockburn, invece, illustrando le ragioni per cui è giusto battersi, il pri- mo motivo addotto da Bruce è che Dio starà dalla parte degli scozzesi perché la ragione è dalla loro parte:

We haff three gret avantagys the fyrst is that we hayff the rycht and for the rycht ay God will fycht […] (XII, 234-36)32

Il re continua affermando che gli altri due motivi per cui è giusto com- battere sono la prospettiva di conquistarsi le ricchezze portate dall’esercito inglese e la difesa della propria libertà. Quest’ultimo tema in particolare doveva essere molto sentito nella politica estera dei primi anni di regno di Robert II, caratterizzata da maggiore aggressività verso l’Inghilterra rispet-

Verdam 1885-1941], s.v. “mite III”), è attestato dalla fine del XIV secolo anche nell’inglese me- dio, in una serie di espressioni come not worth a mite, not worth two mites “non valere un soldo bucato”, availen not a mite “non servire a un bel niente”, counten not at a mite “non considerare minimamente” (MED [= Kurath et al. 1954-2001], s.v. “mīte n. 2”). 30 Si veda supra, nota 2. 31 “Io prenderò lietamente su di me questa condizione, / perché so che ne ho diritto, / e il diritto rende i deboli forti.” Il passo è ripreso nella Cronykill di Andrew di Wyntoun (vv. 2797- 98; Amours 1903-14, V, 355). 32 “Abbiamo tre grandi vantaggi: / il primo è che abbiamo ragione, / e Dio sarà [letteral- mente: combatterà] sempre dalla parte della ragione.”

112 | l’elemento gnomico nel bruce di john barbour | to all’atteggiamento pacifico e conciliante dell’ultimo periodo del regno di David II (Boardman 2015, 196).

2.4. Bruce nella lode dei nemici

Nel poema diversi nemici esprimono nei loro discorsi una sincera ammira- zione per Bruce. Un personaggio che nel testo assume un ruolo particolare è il cavaliere scozzese Ingram di Umfraville, che è schierato con gli inglesi e compare spesso come loro consigliere e interprete della mentalità e del- le intenzioni dei suoi compatrioti scozzesi. Nel libro VI, commentando il fatto che Bruce, pur essendo inseguito e circondato da traditori, riesce co- stantemente a sfuggire a reiterati tentativi di cattura, Umfraville sentenzia: ure helpys hardy men (VI, 17; Whiting 1949, 172-73).33 La sua lode sottolinea apertamente una qualità umana e militare del protagonista annunciata fin dal prologo del poema, nel quale Barbour, esponendo i fatti e i personaggi di cui parlerà, dice di Bruce che wes hardy off hart and hand (I, 28).34 Nel libro VII, invece, è il governatore inglese della Scozia, Aymer de Valence, che prende la parola per commentare la forza e la resistenza anche morale di Bruce:

Now we may clearly se that nobill hart quharever it be it is hard till ourcum throu maystri, for quhane ane hart is rycht worthy agayne stoutnes it is ay stoute. (VII, 359-63; Whiting 1949, 187)35

2.5. James Douglas, Roberto III d’Artois e i Disticha Catonis

Nel libro I, imbastendo la biografia di James Douglas, Barbour racconta

33 “La sorte aiuta gli uomini audaci.” Il proverbio si confronta col (deriva dal?) celebre esametro virgiliano incompleto Audentis fortuna iuvat (Eneide, X, 284). Apperson e Manser ([1993] 2006, 216) rilevano che varianti di questo detto sono presenti in inglese medio (p. es. in Chaucer, Legend of Good Women, Lucretia, v. 94: hap helpeth hardy man alday, “la sorte aiuta sempre l’uomo audace”); Alexander Montgomerie (XVI sec.) testimonia la variante in Middle Scots fortune helps the hardie ay, and pultrones plaine repellis “la fortuna aiuta sempre gli audaci e respinge semplicemente i vili” (DOST, s.v. “pultroun”), che prosegue nel Modern Scots fortune helps the hardy (Hislop [1862] 1868, 99) e fortune helps the hardy(s) ay (and [the] pultroon[s] ay repels) (Henderson [1832] 1876, 8; Kelly 1818, 63). 34 “Fu audace nello spirito e nelle azioni [letteralmente: nel cuore e nella mano].” 35 “Ora possiamo vedere chiaramente / che un cuore nobile, dovunque sia, / è difficile da sottomettere per mezzo della forza; / poiché, quando un cuore è davvero valente, / è sempre forte contro la forza.”

113 | valeria di clemente | che il futuro comandante, da ragazzo, dopo che suo padre era stato impri- gionato dagli inglesi ed era morto, e le sue terre erano state espropriate e donate da Edoardo I al fedele Robert Clifford, si era recato a Parigi, dove aveva vissuto molto semplicemente; la sua disposizione al divertimento a volte lo aveva fatto mescolare a compagnie non proprio raccomandabili, ma così facendo aveva imparato come muoversi in ambienti diversi e (è sottinteso) a dissimulare.36 Lo stesso atteggiamento, afferma Barbour, che aveva tenuto il conte Roberto d’Artois. Il poeta non si sofferma a spiegare che cosa abbia fatto Roberto d’Artois poiché si trattava di una figura famosa della storia francese e inglese tra gli anni ’30 e ’40 del XIV secolo: Roberto, figlio di Filippo d’Artois e Bianca di Bretagna, rimase orfano di padre nel 1298, e alla morte del nonno, il conte Roberto II, deceduto nel 1302, non riuscì a ereditare la contea d’Artois che, secondo le leggi regionali correnti, era passata a Mahaut (Matilda), figlia maggiore del conte e zia di Roberto. Il giovane aristocratico fu ricompensato con possedimenti minori, ma cercò per tutta la vita di far valere le sue pretese. Ben tre processi gli diedero torto; al terzo, istruito dopo la morte della zia, Roberto produsse dei documenti che attestavano la legittimità della sua successione, ma che furono ben pre- sto rivelati come falsi; questa scoperta comportò la condanna a morte del falsario, l’esproprio di tutti i beni e possedimenti di Roberto e l’espulsione di lui dal regno di Francia (1332), nonostante la parentela col re Filippo VI di Valois, di cui Roberto era cognato e per la cui successione si era schierato, diventandone per diverso tempo ascoltato consigliere. Dopo due anni di esi- lio, nel 1334 Roberto raggiunse l’Inghilterra, dove spinse il giovane Edoardo III a rivendicare la sua eredità riguardo al regno francese, dando così l’avvio alla guerra dei Cent’anni.37 Barbour sembra assimilare la situazione di Douglas e quella di Roberto e riassume il loro modo di agire ricorrendo a una massima dei Disticha Catonis: [...] Catone sayis us in hys wryt / that to fenhye foly quhile is wyt (I, 343- 44; Whiting 1949, 171).38 La citazione traduce il secondo esametro della massima 18, libro II:

36 Poco più avanti nel poema Barbour presenta la scena in cui il vescovo di St Andrews, divenuto protettore del giovane Douglas, chiede al re d’Inghilterra di restituire al suo pupillo le terre espropriate; Edoardo I risponde con un terribile scoppio d’ira e si rifiuta di restituire proprietà tolte a un suo irriducibile nemico. 37 Per un inquadramento del personaggio e della situazione storica, si vedano Déprez 1902 e Favier 1980. Al re di Francia Filippo IV il Bello (1285-1314) succedettero sul trono i figli Luigi X il Litigioso (1314-16) (il cui figlio, Giovanni I il Postumo, nato dopo la morte del padre, visse e fu re di Francia per cinque giorni soltanto), quindi Filippo V (1316-22) e Carlo IV (1322- 28), che a loro volta non lasciarono figli maschi. Pertanto, alla morte di Carlo IV, il trono fu offerto al cugino di Filippo il Bello, Filippo VI di Valois. Qualche anno più tardi, tuttavia, il re d’Inghilterra Edoardo III Plantageneto (1327-77), in quanto figlio di Isabella, figlia di Filippo il Bello e sorella di Luigi X, Filippo V e Carlo IV, avanzò le sue pretese sul trono francese, so- billato anche da Roberto d’Artois, che dopo essere stato esiliato dalla Francia cercava vendetta contro Filippo VI. 38 “Catone nella sua opera ci dice / che a volte fingere d’essere stupidi è cosa intelligente.”

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Insipiens esto, cum tempus postulat ipsum: / stultitiam simulare loco prudentia summa est (Boas 1952, 120);39 e non si può escludere che sottolineando il comportamento apparentemente frivolo di James Douglas e Roberto d’Ar- tois, Barbour si sia preso la libertà di fornire, allusivamente, un’interpreta- zione politica della storia dei due personaggi e di ammonire i re in generale, e forse Robert II Stewart in particolare, riguardo ai rapporti tra il sovrano e i suoi vassalli, segnatamente in merito al riconoscimento di un’eredità considerata legittima. Douglas e Roberto infatti sono accomunati dall’espe- rienza del mancato riconoscimento della loro eredità e dalla conseguente ribellione nei confronti dei sovrani responsabili di aver negato loro quanto richiesto.

2.6. Poesia gnomica autonoma? Un esempio: la lode della leawté

In loci particolarmente strategici del Bruce vengono esaltati quei concetti morali e/o sociali che costituiscono l’ossatura propagandistica e ideologica del poema, ovvero si elaborano versi o brani di contenuto gnomico dove il contesto lo richiede; nel libro I, ad esempio, illustrando la soggezione della Scozia al regno inglese, è espressa la celebre lode della libertà che esordisce col verso A! Fredome is a noble thing (I, 225);40 poco più avanti si stigmatizza lo stato di servitù, di cui si dice che thryldome is weill weir than deid (I, 269).41 Un altro esempio, meno noto ma significativo, è rappresentato dalla lode della lealtà, la più alta delle virtù secondo Barbour, così come viene for- mulata nel libro I, nella descrizione delle qualità umane e morali di James Douglas. Il poeta piega il versatile ottosillabo alla lapidaria astrattezza della gnome:

With vertu and leawté a man may yeit sufficiand be, and but leawté may nane haiff price quhether he be wycht or he be wys for quhar it failyeis na vertu may be off price na off valu to mak a man sa gud that he may symply callyt gud man be. (I, 367-74)42

39 “Sii stupido, quando le circostanze lo richiedono: / a volte fingere d’essere stupidi è atto di somma intelligenza.” 40 “Ah! La libertà è nobil cosa.” 41 “La servitù è molto peggio della morte.” 42 “Con la virtù e la lealtà / un uomo può ancora avere qualità sufficienti, / ma senza lealtà nessuno ha pregio, / quand’anche sia valoroso o saggio, / perché laddove venga meno la lealtà, nessuna virtù / può essere stimata e considerata / tale da rendere un uomo degno di tal

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Come la lode sulla libertà indica uno dei punti chiave della politica stewartiana, ovvero l’indipendenza territoriale, l’insistenza sulla lealtà, che nel poema è incarnata nel personaggio di Douglas, non è casuale, ma rien- tra in quella serie di valori sociali e/o morali che Barbour intendeva trasmet- tere, nell’ottica del rinsaldamento dei rapporti tra la corona e l’aristocrazia scozzese promossa da Robert II, proprio perché tali rapporti erano stati al- quanto agitati sia durante il regno di David II sia nei primissimi momenti di regno degli Stewart, e in particolare i Douglas avevano avuto un ruolo di primo piano nelle contestazioni a Robert II dei primi mesi del 1371 (si veda Boardman 1996, 40-45).

3. osservazioni finali

Nell’economia della narrazione gli usi dell’elemento gnomico sono diversifi- cati: come rielaborazione mirata di un ipotesto nel tessuto narrativo, ma an- che come citazione estesa che serve a commentare i fatti, spesso con effetti di prolessi, riassunto, esempio, allo scopo, di volta in volta, di distendere o interrompere la tensione narrativa o di veicolare un messaggio. Il caso della citazione-traduzione del distico catoniano è più complesso, giacché la massima paragona e riassume la storia di due figure eminenti nella po- litica nazionale e internazionale della prima metà del XIV secolo (la textual community of the realm doveva conoscere bene i due casi). Barbour indulge a riflessioni di carattere generale anche nei momenti di pausa e inserisce caratteristicamente l’elemento gnomico, oltre che nel flusso del racconto e nelle pause meditative, nei discorsi di alcuni personaggi, in particolare quelli del protagonista. L’enfasi è posta sulla protezione divina che aiuta chi porta avanti una causa giusta benché disperata, sulla forza del diritto, sull’imprevedibilità della sorte, sul fatto che spesso neanche i saggi sappiano prevedere tutte le conseguenze e che l’audacia e una buona strategia spesso riescano a volgere in proprio favore anche situazioni non facili e a sconfiggere un nemico ben più potente: elementi che sottolineano strategicamente la legittimità e la grandezza dell’impresa di Bruce e dei suoi. Non mancano poi l’esaltazione della forza d’animo, della libertà, della lealtà, del valor militare, l’orrore per lo stato di servitù e la condanna della slealtà e della scorrettezza, che sem- brano chiamare (in)direttamente in causa la textual community of the realm degli anni ’70 del XIV secolo, a cui il poema era indirizzato. Le formulazioni sono per lo più di carattere generale e astratto ma, in nome [letteralmente: nessuna virtù può essere di pregio e valore tanto da rendere un uomo così buono che possa essere chiamato semplicemente un uomo buono].” Gud non fa riferimento semplicemente alla bontà morale, ma esprime il pieno possesso di una serie di qualità che rendono un uomo tale e che sono elencate nel passo: la lealtà innanzitutto, la virtù, il valore e la saggezza.

116 | l’elemento gnomico nel bruce di john barbour | forma figurata, possono richiamarsi all’esperienza della realtà quotidiana (quha had gud hors gat best away, a litill stane […] may ger weltyr a mekyll wayn). In alcuni casi è possibile ipotizzare un’origine da o interferenza di ci- tazioni o espressioni proverbiali dell’antichità classica e post-classica o delle Sacre Scritture, che l’autore, ecclesiastico e uomo di cultura universitaria, sicuramente aveva familiari. Tale interferenza diventa esplicita nell’occasio- ne in cui il poeta traduce, alludendo alla sua fonte, la massima II.18 dei Disticha Catonis, il che implica forse un occasionale intento didascalico da parte di Barbour.

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GLI INSEGNAMENTI DEL LEKEN SPIEGHEL DI JAN VAN BOENDALE NEL CONTESTO CITTADINO BRABANTINO DEL XIV SECOLO

Davide Bertagnolli Universität innsbrUck

Il carattere generale che spesso contraddistingue le istruzioni e i consi- gli di natura morale-comportamentale contenuti nelle opere didascaliche medievali è sicuramente una delle peculiarità che ne garantiva successo e diffusione, permettendone l’utilizzo in contesti e situazioni differenti. A ti- tolo di esempio è sufficiente prendere in considerazione quei passi della Bescheidenheit di Freidank, con tutta probabilità la raccolta di versi gnomici più celebre del medioevo tedesco, scritta agli inizi del XIII secolo, in cui il poeta mette in guardia dall’abuso di alcool, quelli in cui parla del valore dell’amicizia oppure quelli in cui elenca i rischi derivanti dall’eccesso d’ira.1 Si tratta di consigli validi per tutti, dal signore al contadino, dal mercante al chierico. Istruzioni simili si ritrovano anche nell’opera oggetto di que- sto lavoro, il Leken Spieghel, un testo enciclopedico composto da Jan van Boendale nel secondo decennio del XIV secolo: in poco meno di 22.000 versi suddivisi in quattro libri, ognuno con tematiche differenti,2 l’autore brabantino raccoglie tutto quello che un lettore del tempo che non era in grado di comprendere il latino avrebbe dovuto sapere sia in campo religioso

1 Si vedano i capitoli 28, 35 e 36 della seconda edizione della Bescheidenheit di Wilhelm Grimm (1860). 2 Le tematiche dei quattro libri si susseguono in ordine cronologico: si inizia con la cre- azione del mondo, la presentazione dei personaggi biblici principali e la storia di Roma; nel secondo libro vengono raccontate la storia di Maria e quella di Gesù, vengono tradotte alcune preghiere, vengono riassunte le storie dei papi fino a Leone III e di imperatori considerati importanti per la cristianità come Costantino il Grande e Carlo Magno; il terzo libro presenta prevalentemente consigli morali e pratici per i contemporanei, mentre il quarto ha per tema la fine del mondo, con la venuta dell’Anticristo e il Giudizio universale.

|121| | davide bertagnolli | che profano.3 Agli insegnamenti morali e pratici è dedicato il terzo libro, il più lungo dei quattro, nel quale si spiega, tra le altre cose, come resistere a determinate inclinazioni (gelosia, rabbia, lussuria), si elencano le virtù che chi governa dovrebbe avere, si considerano aspetti della vita familiare, come l’educazione dei figli o il rapporto uomo-donna, e ci si sofferma anche sulle qualità di un buon poeta.4 Se ci si pone l’obiettivo di risalire al contesto nel quale queste opere ve- nivano composte e recepite partendo dagli insegnamenti in esse contenuti, si possono incontrare delle difficoltà. Il tono generale che viene impiegato e il conseguente vasto pubblico possibile rappresentano, da questo punto di vista, un ostacolo. Per aggirarlo si devono necessariamente combinare informazioni diverse, reperibili da opere letterarie ed extraletterarie: notizie biografiche, cenni storici e nomi di committenti, ad esempio. Nel caso di Freidank anche questo procedimento non conduce a risultati significativi. Nei versi della Bescheidenheit, l’unica sua opera tramandata, il poeta non dà mai informazioni inequivocabili sulla sua vita o sulla realtà nella quale operava;5 lo stesso vale per gli altri testi nei quali compare il suo nome.6 Diversa è invece la situazione riguardante Jan van Boendale. Il poeta bra- bantino scrive infatti numerosi testi, non solo di carattere didattico, ma an- che storiografico, dai quali si possono trarre numerose informazioni.7 Nelle Brabantsche Yeesten, ad esempio, una cronaca in rima del Ducato di Brabante alla quale Jan lavorò dal 1316 fino al 1350, viene scritto molto sulla situazione politica contemporanea all’autore. Jan van Boendale, inoltre, fornisce qual-

3 Lo specchio è quindi dedicato ai “laici” in quanto illitterati, a differenza degli ecclesiastici che il latino lo sapevano, come spiega Jan van Boendale nei versi introduttivi dell’opera: Clerke en hebbens ghenen noot / Dat sijt lesen groot of smal, / Want si connent buten al. / Ende want dat leke is die zake, / Daer omme ic dit boecskijn make, / So sal dit boecskijn sijn wel / Ghenaemt: den Leken Spieghel (vv. 18-24; de Vries 1844, 4; “Gli ecclesiastici non hanno bisogno di leggerlo né completamente né in parte perché conoscono tutto. E visto che i laici sono il motivo per cui scrivo questo libretto, esso si chiamerà così: lo Specchio dei Laici”). Le citazioni del Leken Spieghel sono tratte dall’edizione di Matthias de Vries (1844-48). Tutte le traduzioni dei passi in neerlandese medio sono mie. 4 Hoemen jalosie wederstaen sal, VI (“Come combattere la gelosia”); Hoemen gramscap we- derstaen sal, VII (“Come combattere l’ira”); Hoemen luxurie wederstaen sal, VIII (“Come combat- tere la lussuria”); Van zeven pointen die heren hebben zellen, XII (“Sulle sette caratteristiche che i signori devono avere”); Hoemen kindre houden sal, ende wies jonghe liede pleghen sullen, X (“Come si devono educare i bambini e come devono comportarsi i giovani”); Hoe man ende wijf hem houden sellen, IX (“Come devono comportarsi tra loro uomo e donna”); Hoe dichteren dichten sullen ende wat si hantieren sullen, XV (“Come devono scrivere i poeti e cosa devono tenere in considerazione”). I numeri romani indicano i capitoli – 27 in totale – in cui è suddiviso il terzo libro nell’edizione de Vries (1846). 5 Nella Bescheidenheit Freidank si limita a nominarsi nella formula di modestia che apre l’opera: Ich bin genant BESCHEIDENHEIT, / diu aller tugende krône treit. / mich hât berihtet Frîdanc / ein teil von sinnen die sint kranc (vv. 1-4; Grimm 1860, 1; “Mi chiamo Bescheidenheit, porto la corona di tutte le virtù. Mi ha composto Freidank che può non avere compreso tutto bene”). 6 Per una panoramica delle notizie su Freidank si veda Bertagnolli 2013, 11-26. 7 Per un elenco delle opere di Jan van Boendale si veda van Anrooij 2002, 13.

122 | gli insegnamenti del leken spieghel di jan van boendale | che notizia su di sé. Nel prologo del Jans Teesteye (“La convinzione di Jan”), un’opera didascalica scritta poco dopo il Leken Spieghel, l’autore riferisce il suo nome, il luogo di nascita, quello di residenza e l’attività che ha svolto: si chiama Jan Clerc, è nato a Tervueren nelle Fiandre e risiede ad Anversa, una città dove per molti anni ha ricoperto la carica di segretario cittadino.8 Quest’ultima informazione è particolarmente importante ed è stata spesso oggetto dell’attenzione della critica. Se Jan van Boendale aveva svolto questa mansione significa che era stato direttamente coinvolto nell’amministrazio- ne di Anversa e che, di conseguenza, ne conosceva molto bene la situazione politica e sociale, oltre che il funzionamento.9 Questo assunto rappresenta il punto di partenza del presente lavoro, nel quale verranno messi in evidenza quei passi del terzo libro del Leken Spieghel che possono essere ricondotti alla realtà cittadina nella quale Jan operava. Non si tratta di versi dichiaratamente riferiti a una determinata situazione o a persone specifiche: Jan mantiene infatti in maniera costante il tono ge- nerico che caratterizza gli insegnamenti di tutta l’opera. Il fatto che alcune sezioni siano riferibili a un ambiente cittadino non implica, d’altro canto, che tale ambiente dovesse essere per forza quello in cui l’autore scriveva, ovvero la città di Anversa.10 Non è inoltre certo che Jan van Boendale fosse

8 Alle die ghene die dit werc / Sien lesen ende horen / Die gruetic Ian gheheten Clerc / Vander Vueren gheboren / Boendale heetmen mi daer / Ende wone te Andwerpen nu / Daer ic ghescreven heb- be menech iaer / Der scepenen brieve dat segghic u (vv. 1-8; Snellaerts 1869, 137). Secondo Ursula Peters (1983, 255), Clerc potrebbe essere un appellativo riferito all’attività dello scrittore (in neerlandese medio scepenclerc) – Jan il Segretario, quindi –, mentre van Boendale sarebbe una sorta di denominazione di origine, dal nome di un luogo nei dintorni di Bruxelles: “Der Autor führt offensichtlich zwei Namen: Jan van Boendale, vielleicht eine Herkunftsbezeichnung nach einem Ort in der Nähe von Brüssel, und Jan de Clerk, eine Art Berufsbezeichnung, die wahrscheinlich auf seine Tätigkeit als Schreiber und Jurist zurückgeht.” Il termine scepenclerc tradotto correttamente significa “segretario degli scabini”; preferisco tuttavia tradurre “segre- tario cittadino” seguendo un’osservazione di Piet Avonds (1994, 166), che ritiene la prima denominazione troppo riduttiva e propone quindi la seconda, pur conscio che la funzione di segretario cittadino non esisteva ufficialmente: “Men zou hem postuum onrecht aandoen door hem gewoon ‘schepenklerk’ te noemen. ‘Stadssecretaris’ is een veel betere term, alhoewel die functie officieel niet bestond.” 9 Cfr. Avonds 1994, 166: “Boendale was een vat vol politieke kennis, op de hoogte van alle politieke aangelegenheden, vertrouwelijke en minder vertrouwelijke.” 10 Nel capitolo XXXVIII del primo libro del Leken Spieghel, Van onsen vadren, ende wat telken dusent jaren ghesciede (“Sui nostri padri e quello che successe intorno all’anno mille”), Jan van Boendale riferisce di avere scritto i suoi insegnamenti nella città di Anversa 226 anni dopo la conquista di Gerusalemme (anno 1099) da parte di Goffredo di Buglione: Ende van Godevaert sijn leden, / Tote dat ic te deser stede / Dichte dese selve lesse, / Twee hondert jaer twin- tich ende sesse; / Al tAntwerpen in die stadt: / Over waer zeg ic u dat (vv. 85-90; 1844, 152). In due (Brussel, Koninklijke Bibliotheek, 15.658 – ms. H nell’edizione di de Vries – e Den Haag, Koninklijke Bibliotheek, KA XXIII – ms. I) dei quattro manoscritti (gli altri due sono: Den Haag, Koninklijke Bibliotheek, 75 E 62 – rimane senza sigla perché scoperto quando l’edizione era già andata in stampa, cfr. de Vries 1844, CXXVII – e Den Haag, Koninklijke Bibliotheek, 75 E 63 – ms. E, sul quale è basata l’edizione) che tramandano l’opera nella sua interezza è inoltre presente un epilogo dove si legge che il testo è stato completato un sabato del 1330 ad Anversa: Dese boec was volmaect al, / Doe dcarnatioen was int ghetal / Dertien hondert ende dertich mede, /

123 | davide bertagnolli | ancora attivo come segretario della città quando compose il testo.11 L’unico dato a questo riguardo è che dopo il 1330, pur vivendo nella città sulle foci della Schelda, non ricopriva più la carica, come lascia supporre il tempo verbale al passato nel prologo del Jans Teesteye. Senza dimenticare questi potenziali limiti all’interpretazione, è comunque innegabile che, così come qualsiasi testo letterario, anche gli insegnamenti che Jan van Boendale pro- pone non furono redatti in un vuoto storico e culturale, bensì sullo sfondo di una precisa realtà e con particolari problematiche in mente. Combinando le informazioni presenti nel Leken Spieghel con quelle di altri testi dell’au- tore brabantino e considerando anche alcuni dati extratestuali, come le in- formazioni riguardanti il contesto storico del tempo, si cercherà dunque di presentare i passi inerenti alla sfera cittadina e, più generalmente, al Ducato di Brabante, in modo da favorire la comprensione degli insegnamenti e del possibile motivo per cui furono inseriti nel testo. I primi versi del terzo libro apertamente riconducibili all’ambiente citta- dino si trovano nel capitolo Van hovesscheden ende van andren goeden zeden (“Sulle buone maniere e su altri bei modi di fare”), nel quale, tra i più sva- riati consigli – si ricorda, ad esempio, di salutare sempre per primi quando si incontra qualcuno, anche se non è un proprio pari,12 o di non bere quando si ha ancora del cibo in bocca13 – uno è dedicato ai consiglieri di una città:

Raetsmanne oec, wet wel dat, Die toe behoren ere stat, Selen eendrachtech sijn mede, Oft si verderven hoer stede;

Al tAntwerpen in die stede, / Recht opten sesteu dach / Die in dOeghstmaent ghelach (vv. 9-14; 1847, 277). Grazie a queste informazioni testuali il Leken Spieghel viene datato tra il 1325 e il 1330. Nel prologo delle Brabantsche Yeesten viene ricordato che il testo fu iniziato Al te Antwerpen, in die stede (v. 62; Willems 1839, 4). Anche nell’epilogo della prima versione della Korte kroniek van Brabant, un altro testo storiografico attribuito a Jan van Boendale, viene scritto che la com- posizione è avvenuta ad Anversa: Dat wart gesmaict in die port / TAntwerpen, na Gods gebort / xiijc. ende xxij mede. / God geve ons allen sinen vrede (vv. 371-74; Willems 1839, 599). Van Anrooij (2002, 12) definisce l’esplicito riferimento al luogo di composizione dei testi un memorabile fatto storico-letterario perché per la prima volta nella storia della letteratura in neerlandese me- dio l’origine di un testo viene localizzata in una città: “Opmerkelijk is dat Boendale in zijn twee vroegste werken expliciet de plaats noemt waar de tekst is ontstaan. [...] Op zich is dit ook al weer een memorabel literair-historisch feit: het is immers voor het eerst in de geschiedenis van de Middelnederlandse letterkunde dat het ontstaan van een tekst in een stad wordt gesitueerd.” 11 Questo punto è già stato accennato da Ursula Peters nello studio Literatur in der Stadt (1983, 259): “Damit bleibt uns auch eine mögliche Verbindung von literarischem Werk und Stadtschreiberamt weitgehend verschlossen. Denn wir wissen noch nicht einmal, ob Jan van Boendale auch während der Arbeit an seinen größeren literarischen Werken in städtischen Diensten gewesen ist.” 12 Alse ghi yemene ontmoet, / Siet dat ghine teerst groet, / Al ware hi minder dan ghi zijt: / Dats u eerlijc talre tijt (vv. 97-100; 85). D’ora in avanti il numero di pagina che segue i versi si riferisce alla parte III dell’edizione di Matthias de Vries (1846), ove non diversamente indicato. 13 En drinct oec niet die stont / Dat ghi broet hebt inden mont (vv. 311-12; 94).

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Want discoert doet, zonder waen, Groete dinghe te nieute gaen. Raetsmanne zonderlinghe Behoren toe twee dinghe: Eendrachtecheit es deen, Dander es datmen ghemeen Orboer altoes sette voert: Dit es dat recht van ere poert; Ende daermen deser twee niene pliet, En mach die stat ghedien niet. (vv. 343-56; 95-96)14

Nel monito dell’autore a chi svolge la funzione di consigliere viene sotto- lineata l’importanza del bene comune. Si tratta di un concetto centrale nel Leken Spieghel perché rappresenta il fondamento ideologico alla base di di- versi insegnamenti. La necessità di anteporre il bene della comunità ai pro- pri interessi personali viene evidenziata a più riprese, soprattutto quando sono trattate tematiche inerenti alla vita politica. Nel breve capitolo Hoemen ene stat regeren sal (“Come si deve governare una città”),15 un’ulteriore sezio- ne evidentemente inerente al contesto cittadino, il concetto si ripresenta:

Die ene stat willen regeren, Selen dese poente hanteren: Eendrachtech sijn met trouwen, Ghemene orbore anscouwen, Hoer vriheit niet laten breken, Om ghemeen dinc dicke spreken, Dstat bevelen den vroeden, Tghemeene ghelt nauwe hoeden Ende keren te meester baten, Te vriende houden domsaten, Te rechte houden ghelike Als wel darme als de rike, Vaste houden hoer statute, Die quade altoes werpen ute,

14 “Anche i consiglieri, sappilo bene, / che appartengono a una città, / devono essere concordi gli uni con gli altri, / altrimenti mandano in rovina la loro città; / perché la discordia può, senza dubbio, / distruggere grandi cose. / I consiglieri, nello specifico, / devono prestare attenzione a due cose: / l’armonia è la prima, / l’altra è che il bene / comune venga sempre anteposto a tutto: / questa è la legge della città; / se non si presta attenzione a queste due cose / la città non può prosperare.” 15 Il capitolo è tramandato dal solo manoscritto H, Brussel, Koninklijke Bibliotheek, 15.658; Matthias de Vries (1846, 43) ricorda che il titolo Hoemen ene stat regeren sal non è elen- cato nell’indice dei capitoli di nessuno dei tre manoscritti considerati per l’edizione (E, I, H) e ipotizza quindi che il copista lo abbia trascritto da un’altra fonte.

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Ghetrouwe sijn den here. Dits der oudere wisere lere; Ende waer een ghebrect van desen, Daer staet die stat in vresen. (vv. 1-18; 143)16

Bene comune, cose comuni, denaro comune: in questi versi emerge in maniera netta la centralità che Jan van Boendale riserva alla comunità. A suo avviso chi vuole governare in maniera giusta deve sempre agire per il bene della collettività. L’insistenza sul bene comune offre il nesso ideale per presentare la realtà nella quale l’autore operava. Spostandosi dal livello letterario a quello sto- rico, si nota infatti che il concetto era ben conosciuto nella politica braban- tina del tempo. Già alla fine del XIII secolo, tra il 1270 e il 1271, Tommaso d’Aquino parla di bene comune rispondendo a una lettera scrittagli anni prima dalla duchessa Aleidis di Borgogna, vedova di Hendrik III, che chie- deva consigli di natura politica dopo avere preso temporaneamente la reg- genza del Ducato di Brabante alla morte del marito.17 Nel testo, conosciuto come De regimine Judaeorum, ad Ducissam Brabantiae, Tommaso sostiene che ogni decisione debba essere dettata dalla communis utilitas. Il fatto che in uno scritto indirizzato alla duchessa del Brabante venga posto l’accen- to sull’importanza del bene comune come presupposto dell’attività politica non può di per sé rappresentare la prova inconfutabile della successiva dif- fusione del concetto nell’area. L’ipotesi non è comunque da escludere, vista

16 “Coloro che vogliono governare una città / devono considerare questi punti: / essere concordi con lealtà, / tenere presente il bene comune, / non porre fine alla loro libertà, / parlare molto di cose comuni, / affidare la città a uomini saggi, / custodire il denaro comune con cura / e utilizzarlo per il vantaggio più grande, / mantenersi amici i vicini, / trattare equamente / sia i poveri che i ricchi, / attenersi ai propri statuti, / scacciare sempre i criminali, / essere fedeli al signore. / Questo è l’insegnamento dei vecchi saggi; / e là dove uno di questi punti non venga rispettato / la città è in pericolo.” Concetti analoghi vengono espressi già nel capitolo XXXIV del primo libro Hoemen een stat ofte een lantscap regieren sal (1844, 132; “Come si deve gover- nare una città o un paese”), nel quale l’autore sottolinea l’importanza del bene comune. Egli ricorda come i romani fossero riusciti a dominare il mondo fino a quando avevano lasciato gli interessi personali da parte e avevano accumulato ricchezze per il bene comune; quando però gli interessi personali sostituirono quelli per la comunità essi caddero rapidamente in rovina. La situazione romana viene poi accostata a quella delle città delle Fiandre, nelle quali i signori curano solo i loro interessi. Jan van Boendale spiega infine che chi vuole governare una città deve prestare attenzione a due cose: non deve mai dimenticare il bene comune e deve custodire e gestire bene il denaro per poi utilizzarlo per la comunità. 17 Il legittimo successore, Hendrik IV, aveva infatti solo dieci anni al momento della morte del padre, oltre ad essere affetto da turbe mentali. La madre Aleidis di Borgogna (1233-73) resse quindi di fatto il Ducato di Brabante dal 1261 al 1267, anno in cui convinse il figlio a rinunciare alla carica a favore di suo fratello, che divenne Jan I di Brabante. Aleidis scrisse a Tommaso d’Aquino per sapere come affrontare alcuni problemi di natura politica ed economica. In par- ticolare, chiedeva consiglio su come comportarsi con gli ebrei del ducato, i quali, stando alle disposizioni testamentarie di suo marito, avrebbero dovuto essere esiliati nel caso avessero richiesto interessi o praticato l’usura.

126 | gli insegnamenti del leken spieghel di jan van boendale | la centralità del bene comune nel dibattito politico interno al ducato agli inizi del XIV secolo. Questa discussione trova poi un’eco nell’opera di Jan van Boendale, il quale ripropone il concetto sostanzialmente negli stessi termini di Tommaso. Nella sfera politica la rilevanza del bene comune viene sottolineata, ad esempio, nella Carta di Kortenberg,18 un documento datato 27 settembre 1312 mediante il quale il duca Jan II conferma alcuni privilegi alle città del Brabante e istituisce il cosiddetto Consiglio di Kortenberg, un organismo volto al controllo dell’effettiva osservanza di quanto concesso. Una breve panoramica del contesto nel quale fu sottoscritta questa costituzione è necessaria per comprenderne il contenuto, che presenta interessanti paral- leli con quanto espresso nel Leken Spieghel. La conoscenza della situazione storico-politica può inoltre spiegare il possibile motivo per cui la temati- ca del bene comune fosse così sentita (cfr. van Uytven e Blockmans 1969, 402-06). La Carta di Kortenberg19 non è la prima costituzione vigente nel Brabante: già nel 1248, con il potere delle città in forte crescita, Hendrik II pensò che fosse una buona idea concedere o confermare particolari privilegi fiscali e giuridici al ducato nella sua interezza. Con questa scelta sperava di spianare la strada alla successione del figlio Hendrik III e di garantirgli la lealtà dei suoi sudditi, speranze che divennero poi realtà. Nel 1261 Hendrik III, a sua volta, rinnovò ed estese quanto concesso dal padre.20 Entrambi non manten- nero però le loro promesse: dopo tutto non c’era un organismo che permet- tesse ai sudditi di controllare che quanto garantito venisse di fatto mante- nuto. Poco dopo la morte di Hendrik, al quale successe il figlio Jan I, le città del Brabante, nonostante l’affronto subito, si unirono in una lega non ostile al duca. Questo blocco molto forte economicamente rappresentò negli anni a venire un sostegno indispensabile affinché il ducato potesse continuare a mantenere la sua autorità, che stava vacillando soprattutto a causa della politica espansionistica di Jan I. Essa, pur portando a grandi successi mili- tari, come ad esempio la conquista del Limburgo nel 1288,21 causò tuttavia lo svuotamento delle casse ducali, costringendo Jan I a contrarre numerosi debiti, il cui peso avrebbe gravato anche sui posteri e avrebbe condizionato in negativo la vita politica. Proprio a questi debiti, che sotto la gestione di Jan II aumentarono, e alla cattiva gestione politica dei duchi, viene imputata la disastrosa situazione del Brabante nel 1312.22 Nel settembre di quell’anno

18 L’abbazia di Kortenberg, dove fu sottoscritto il documento, è situata a metà strada tra Bruxelles e Lovanio. 19 Per studi approfonditi sulla Carta e sul Consiglio di Kortenberg si vedano van der Straeten 1952 e Gorissen 1956. 20 Si vedano Boland e Lousse 1939 e Boland 1942. 21 Battaglia di Woeringen (oggi Worringen, sobborgo settentrionale di Colonia), 12 giugno 1288. 22 La situazione era così precaria che Jan II nel 1308 dovette chiedere un prestito per un viaggio in Inghilterra (cfr. Avonds 1984, 39-40).

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Jan II, gravemente malato di calcoli renali, seguì le orme dei suoi predeces- sori e firmò la Carta di Kortenberg. Si trattava di una scelta obbligata per garantire la successione al figlioletto ancora dodicenne, il futuro Jan III. Il duca, inoltre, scelse tra i membri del Consiglio Ducale dei rappresentanti che avrebbero dovuto assumere il governo dopo la sua morte fino a quando Jan III, rimasto in Francia dopo il matrimonio nel 1311 con Maria d’Évreux, sarebbe tornato nel Brabante. La situazione del ducato era però critica e il Consiglio Ducale, insieme alle città e ai cavalieri, stabilì che il giovane Jan III non sarebbe stato in grado di gestirla. Vennero così nominati due reggenti temporanei e il Brabante fu affidato alle mani di Gerard V, conte di Gulik, e di Floris Berthout, signore di Mechelen, entrambi personaggi di spicco alla corte di Jan II. Il loro compito primario avrebbe dovuto essere la risoluzione del problema riguardante i debiti del ducato, ma essi, in quanto grandi feudatari, si preoccuparono soprattutto di trarre un vantaggio per- sonale dalla carica che ricoprivano (cfr. Avonds 1984, 25-27). Ciò contrariò molto le città, i cui affari venivano danneggiati dai debiti ducali, visto che i paesi creditori continuavano ad arrestare i mercanti brabantini e a confi- scare la loro merce per recuperare il denaro dovuto. Le città decisero quindi di porre fine a questa situazione di stallo: appena due mesi dopo la nomina dei contestati reggenti strinsero un patto (28 luglio 1313), nel quale afferma- vano la loro unità e la fedeltà al duca. Esse non erano quindi ostili a Jan III, quanto piuttosto all’ambiente che lo circondava. Le città si impegnarono poi ad alleggerire il carico di debiti del ducato, il che permise loro, grazie anche ai nuovi privilegi concessi dal duca (Vlaams Charter, Waals Charter)23, di accentrare il potere nelle loro mani e di arrivare all’effettivo controllo del Brabante. I reggenti della nobiltà vicina a Jan III vennero quindi sostituiti da un Consiglio di Reggenza che era controllato dalle città, le quali prolungaro- no anche il termine per la maggiore età del duca di sei anni, fino al 1320. Le città si presero dunque in carico il bene comune che forse, come suggerisce Piet Avonds, non corrispondeva ad altro che al loro bene particolare.24 Questo breve riassunto è sufficiente a dimostrare come gli inviti all’uni- tà, quelli a un’oculata gestione del denaro e la centralità del bene comune

23 Entrambe le disposizioni risalgono al 1314. 24 Cfr. Avonds 1984, 76: “Tijdens deze eerste krisis uit de regering van hertog Jan III wordt reeds één van de belangrijkste kenmerken duidelijk van het fundamenteel ideologisch konflikt dat in deze periode de verhouding tussen de hertog en de steden kenmerkt. Het is een botsing tussen dynastiek-patrimoniaal denken enerzijds en een opvatting van de politieke samenleving waarbij het Algemeen Belang ten allen tijden centraal dient te staan, anderzijds. Voor de verdediging van dat Algemene Belang dient alles te wijken. Is de hertog niet in staat het ten volle te dienen, dan moet hij opzij worden geschoven en moet hij de plaats ruimen ten voordele van anderen die pretenderen precies te weten hoe het Algemeen Belang het best gedient wordt. Dat gebeurde in 1313 en 1314 toen Jan III vervangen werd door twee adellijke regenten en, vervolgens, door eein stedelijke regentieraad. Dat dit Algemeen Belang, zoals het door de steden begrepen werd, in feite niets anders was dan hun gemaskerd eigenbelang, doet niets af aan de kracht van dit argument dat hier voor het eerst in de Brabantse politiek zo sterk op de voorgrond treedt.”

128 | gli insegnamenti del leken spieghel di jan van boendale | nei passi riconducibili al contesto cittadino finora considerati, oltre a essere universalmente validi, siano giustificabili anche dal punto di vista storico e possano essere messi in relazione con la situazione contemporanea a Jan van Boendale. Nella Carta di Kortenberg, il cui testo è riportato di seguito,25 insieme al bene comune, che viene presentato nell’ottavo articolo come fine al quale i membri del Consiglio ambiranno, si trova un’ulteriore tematica cara all’au- tore del Leken Spieghel: la necessità di uguaglianza tra ricchi e poveri, che emerge nel secondo articolo.

Noi, Duca Jan II di Brabante, accettiamo quanto segue. 1) Non richiedere ulteriori tasse oltre a quelle conosciute come tre servizi feudali: nel caso della nomina a cavaliere di mio figlio, del matrimonio di mia figlia e di un mio eventuale arresto. Le tassazioni saranno ragionevoli. 2) Garantire sentenze oneste a ricchi e poveri. 3) Riconoscere la libertà delle nostre città. 4) Istituire un consiglio che sarà composto da: - 4 cavalieri o membri onorari - 10 rappresentanti delle città più importanti così suddivisi: 3 Lovanio 3 Bruxelles 1 Anversa 1 Den Bosch 1 Tienen 1 Zoutleeuw 5) Il consiglio si riunirà a Kortenberg presso l’abbazia una volta ogni tre settimane per controllare che tutte le disposizioni sopra citate vengano rispettate. 6) In futuro verranno apportate migliorie riguardanti l’ammini- strazione del paese attraverso questo consiglio. 7) Alla morte dei membri del Consiglio di Kortenberg ne saran- no scelti di nuovi. 8) I membri del consiglio prestano il giuramento sul sacro Van- gelo e ambiranno al bene comune. 9) Il popolo ha il diritto di resistenza ogni qual volta il duca o i suoi discendenti si rifiuteranno di rispettare la Carta di Korten- berg.

25 Si tratta della traduzione italiana di parte di una versione semplificata in neerlandese presente sul sito dell’abbazia di Kortenberg: http://www.oudeabdijkortenberg.be/nl/Over%20 ons/charter.htm (consultato il 18 marzo 2018). Per il testo completo della Carta così come tramandato dalla pergamena conservata nell’Archivio di Stato di Lovanio si veda l’edizione di David (1841-42, 539-50).

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Nell’ottica del bene comune, l’uguaglianza tra le varie classi sociali non può essere ignorata. Jan van Boendale pare particolarmente sensibile a que- sto aspetto e lo mette molto spesso in rilievo26 anche nei passi che non han- no a che fare con la sfera politico-amministrativa, come nel capitolo Hoemen kindre houden sal, ende wies jonghe liede pleghen sullen (“Come si devono edu- care i bambini e come si devono comportare i giovani”).27 L’importanza del bene comune, a sua volta, non viene enfatizzata solamente nei versi riguar- danti l’attività politica, ma diventa centrale come fine dell’attività poetica.28 Nel terzo libro del Leken Spieghel Jan van Boendale, accanto ai passi dedi-

26 Già nel primo capitolo del terzo libro, Van Gode te dienen voor al (“Sul servire Dio pri- ma di tutto”), viene sottolineato come ricchi e poveri debbano essere trattati allo stesso modo. Quando si è a tavola e si prega, ad esempio, non si devono dimenticare i poveri, perché an- ch’essi sono compagni del Signore, che si vendicherà di certo, in questo mondo o nell’aldilà, se dovessero morire di stenti: Om die arme suldi dincken mede, / Want dat sijn die Gods lede, / U arme broedre, dien ghi / Sculdich sijt te stane bi; / Want sterven si van breken, / God die sout aen u wreken, / Hier of ghinder, sijt zeker das, / Op dat u sijn breke kenlijc was (vv. 107-14; 19-20). Nello stesso capitolo viene poi scritto che se si fa qualcosa di sbagliato nel corso della giornata si deve essere certi di pentirsene e di essere pronti a rimediare, sia nei confronti dei ricchi che dei po- veri: Ende ofte u des daghes yet / Van misgripe is gheschiet / In woorden ofte in daden, / Dat ghi also sijt beraden / Dat u dat van herten si leet, / Ende te beteren dat sijt ghereet, / Also wel den armen als den riken (vv. 149-55; 21). Nel capitolo riguardante il comportamento che la persona deve avere nella società, Hoe hem die mensche houden sal onder die liede, ende alrehande wijshede (“Come si deve comportare l’uomo con le altre persone e molti altri insegnamenti”), viene ricordato che quando ci si trova in mezzo ad altre persone, ricche o povere che siano, bisogna comportarsi cortesemente: Alse die mensche, des sijt vroet, / Onder die menschen wandelen moet, / Sal hi hem houden hoveschlike / Onder arme ende onder rike (vv. 1-4; 31). Più avanti viene ricordato che non si devono disprezzare i consigli di chi è povero perché la natura ha dotato di ugual ragione tutti gli uomini: Want nature gheeft den wisen zin, / Ende si en gheefter meer noch min / Den armen dan den riken, / Want si en can smeken noch wiken: / Daer bi hout die wijshede / Onder die arme also wel haer stede / Als onder die rike, na minen zin (vv. 1167-73; 78). Nell’undicesimo capitolo, Wat rechterscape ende herien toe hoert (“Quello che giudici e signori devono sapere”), si raccomanda ai giudici di prestare orecchio a tutti senza fare distinzioni di classe o patrimonio: Alse die rechtre, wildijt weten, / Tien ghedinghe es gheseten, / Soe sal hi alsoe wel horen dan / Den armen alse den riken man (vv. 45-48; 133). 27 In questa sezione, considerata il primo trattato pedagogico in neerlandese (“Het is de eerste expliciete pedagogische adviesleer in het Nederlands”; van Oostrom 1989, 24), l’autore sostiene che bisogna insegnare ai bambini a salutare educatamente sia i ricchi che i poveri (vv. 41-42; 122) e procede poi suddividendo le cose da insegnare ai giovani a seconda delle possi- bilità economiche della famiglia: ai bambini dei nobili che un giorno svolgeranno mansioni di governo, ad esempio, si deve insegnare a cavalcare e a maneggiare le armi; chi non potrà governare dovrà essere mandato a scuola o gli dovrà essere insegnato a fare il mercante; se anche questo non dovesse essere nelle possibilità del genitore, si dovrà insegnare al bambino un mestiere da artigiano, cosicché possa provvedere al suo sostentamento e non sia costretto a rubare (vv. 47-79; 123-24). 28 Cfr. Peters 1983, 262: “Diese Konzeption des ghemenen oorbaer betrifft aber nicht nur den gesellschaftspolitischen Bereich der Ausübung von Herrschaft, vor allem des Stadtregiments. Sie wird von Jan van Boendale auch auf die Dichtungspraxis übertragen.” Si veda anche Corbellini 2012, 82: “Nel suo caso [quello di Jan van Boendale, N.d.A.], il servizio al bene comune consiste anche nello spiegare ai lettori che il ricoprire la posizione di scrittore o di poeta, proprio per le responsabilità collegate all’esercizio di questa funzione, non è alla por- tata di tutti.” Lo stesso autore spiega nel prologo (vv. 13-14; 1844, 3) di scrivere il Leken Spieghel in primo luogo per il bene comune: Want om ghemenen oorbaer zoe / Leidic dit wercskijn eerst toe.

130 | gli insegnamenti del leken spieghel di jan van boendale | cati specificatamente all’attività di governo di una città, considera più in ge- nerale le qualità che un principe, sia esso un re, un duca o un conte,29 deve possedere. Nel capitolo Van seven poenten die heren hebben selen (“Sulle sette caratteristiche che i governanti devono avere”) l’autore sostiene che essere signori non è cosa da poco30 ed elenca i seguenti requisiti:

Dit es dierste poent der ave: Die heileghe kerke sal hi minnen Ende hoer recht hare altoes kinnen Ende hoer onrecht wederstaen; Dander poent es, sonder waen, Gherecht sijn in werken ende spreken Ende gherecht ordeel niet breken; Terde, vorsienech ende vroet; Tfierde, hoefsch ende wel ghemoet; Tfijfte, vrome ende coene van live; Dat seste, melde ende rive; Tsevende, hert ende fel den quaden, Elken na sine mesdaden. (vv. 12-24; 135-36)31

Non sorprende che l’elenco inizi con il monito ad amare e a rispettare la Chiesa: già nel primo capitolo del terzo libro, Van Gode te dienen voor al (“Sul servire Dio prima di tutto”), infatti, viene sottolineata la necessità di amare Dio sopra ogni cosa e posto l’accento sulla transitorietà della vita terrena. Ogni insegnamento del Leken Spieghel quindi, anche quello più pratico, si inserisce in un quadro prettamente cristiano. L’elenco delle qualità di un signore è seguito da un commento in cui viene considerato ognuno dei sette punti. Ai fini della nostra discussione la spiegazione riguardante l’obbligo di essere lungimiranti e saggi è senza dubbio la più interessante perché contiene il passo che più di ogni altro permette di stabilire un nesso tra testo e realtà extratestuale, dimostrando quale situazione Jan van Boendale avesse in mente mentre scriveva i suoi versi. Dopo avere ricordato che il signore necessita di molta saggezza e di buoni consiglieri perché “svariate sono le cose che possono avvenire in un paese”,32 scrive infatti:

29 Waer [hi] coninc, hertoghe oft grave (v. 11; 135). 30 Here te sine en es gheen spel (v. 1; 135). 31 “Questo è il primo punto della lista: / egli deve amare la sacra Chiesa / e riconoscerne i diritti / e difenderla dalle ingiustizie; / l’altro punto è, senza dubbio, / essere giusti nei fatti e nelle parole / e non annullare un giudizio giusto; / il terzo, essere lungimirante e saggio; / il quarto, essere educato e amichevole; / il quinto, essere robusto e coraggioso; / il sesto, essere caritatevole e indulgente; / il settimo, essere duro e veemente contro i malvagi, / a seconda dei loro crimini.” 32 Want die zaken sijn menegherande, / Die ghevallen achter lande (vv. 63-64; 137).

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Een wijs man seeght: Wee den lande Dat staet in eens kints hande! Een ander wise doet ons oec weten: Wee den lande wies prinche vroech eten! (vv. 67-70; 137)33

Anche senza che vengano fatti nomi, il contesto è inequivocabile: Jan, usando un espediente comune in letteratura quando le affermazioni pos- sono essere sconvenienti, esprime il suo pensiero per bocca di due saggi, che fanno riferimento alla situazione brabantina dopo la morte di Jan II, quando il ducato passò nelle mani del dodicenne Jan III.34 Dalle afferma- zioni, entrambe enfatizzate – nonostante la giovane età Jan era infatti già sposato e non molto lontano dalla maggiore età, a quei tempi fissata intorno ai quattordici anni –,35 emerge la perplessità dell’autore riguardo al governo di un bambino, che non può essere in grado di governare un paese, vista la saggezza che il ruolo presuppone.36 Grazie a questi versi molto specifici, anche il precedente invito a circondarsi di consiglieri capaci lascia intendere che Jan van Boendale non approvasse le persone intorno al giovane duca, condividendo in ciò, forse a causa del ruolo che ricopriva o che aveva rico- perto ad Anversa, il punto di vista delle città del Brabante.37 Nei passi finora considerati il nesso con l’universo urbano è dato in pri- mo luogo dal ruolo svolto dalle persone alle quali gli insegnamenti vengono rivolti; l’analisi dei contenuti permette poi di correlare con una buona dose di certezza quanto scritto con la situazione storica contemporanea all’auto- re. Nel terzo libro del Leken Spieghel ci sono inoltre altri versi che si inseri- scono in un contesto cittadino, senza però fornire chiari collegamenti con la

33 “Un uomo saggio dice: guai al paese / che è nelle mani di un bambino! / Un altro saggio ci fa sapere: / guai al paese nel quale il principe mangia presto!” 34 Già nelle Brabantsche Yeesten (vv. 935-38, 981-84, 1085-88, 1257-58, 1303-98; Willems 1839, 447, 449, 452, 458, 461-65) Jan van Boendale esprime apertamente il suo dissenso e, nel raccontare la situazione brabantina, definisce più volte Jan III un bambino. 35 Cfr. Avonds 1984, 25: “In de Nederlanden lag deze leeftijd [la maggiore età, N.d.A.] rond 14-15 jaar.” 36 Cfr. cap. II Van des menschen zeden (“Sulla natura degli uomini”): Die joghet heeft zelden in / Wijsheit ofte subtilen zin (vv. 19-20; 24; “I giovani conoscono raramente la saggezza o la perspicacia”). 37 I versi che seguono il rammarico dei due saggi riguardante un paese governato da un bambino sono piuttosto inspiegabili. Dovrebbero essere un commento a quanto appena detto, ma in realtà il nesso causale manca, perché viene ricordato che i signori devono prestare at- tenzione a essere sempre sobri e a non esagerare col vino, affinché la loro ragione non venga deviata dal giusto giudizio; non c’è niente di peggio, infatti, di un signore che si comporta come un maleducato. Da qui la necessità di essere saggi e ben consigliati (Dats te verstane, dat die heren / Hen daer toe selen keren, / Dat si nuchter ende sober sijn / Ende altoes sparen den wijn, / Dat hi hoer sinne niet en leide / Ute rechter bescheedenheide; / Want danxtelecste dinc dat es, / Dats een landshere, sijds ghewes, / Die haestech es ende onbescheeden man / Ende uut hem selven wilt werken dan. / Daeromme selensi leiden / Met groeter bescheedenheiden / Al hoer dinghen ende met rade, / Ende daer in bliven vroech ende spade; vv. 71-84; 137-38).

132 | gli insegnamenti del leken spieghel di jan van boendale | realtà brabantina dell’inizio del XIV secolo. In questo caso il nesso è fornito dal luogo in cui i consigli dati devono essere messi in atto: il tribunale, che viene considerato in due occasioni diverse. Nella prima si sottolinea l’im- portanza dell’eloquio e di un buon avvocato:

Alse ghi voor u recht sult spreken Ofte uwes vrients woort vertreken, So suldi u te voren versinnen, Hoe ghi u redene sult beghinnen Ende tuwen scoonsten leiden voort: Want te sprekene wijsheit hoort. Ghine sult niet spreken weekelike, Maer onvervaert ende vromelike. Een man mach met vervaerder tale Sijn recht verliesen herde wale; Alse hi hem te barenteert Ende scaemt, wert hi dicke ghekeert Buten zinne, also dat hi Sine zake verliest daer bi: Dit is menichwerf gheschiet. En condi ooc wel spreken niet, Noch des lants recht niet en kint, So doet den raet dat ghi ghewint Enen man die uwe recht toont, Waer bi dat ghi niet en sijt ghehoont, Ende dan spreke mids ripen rade: Onraet brinct in menighen scade. (vv. 57-78; 33-34)38

Nel secondo breve passo l’autore consiglia di andare in tribunale per capire quali sono le regole vigenti nel paese e potersi poi comportare di conseguenza:

Ghi selt ten ghedinghe gaen, Ende nauwe horen ende verstaen Watmen daer zeeght ende doet:

38 “Se devi parlare davanti a un tribunale / o devi prendere la parola per un amico / devi prima pensare / a come cominciare il discorso / e a come parlare nel migliore dei modi: / perché alla parola si accompagna la saggezza. / Non devi parlare flebilmente, / ma senza paura e in modo deciso. / Con un linguaggio timoroso un uomo / può perdere i suoi diritti; / se qualcuno lo attacca / e infama egli viene così / tanto disorientato che poi / perde la sua causa: / ciò è successo spesso. / E se non sai parlare bene / né conosci la legge del paese / allora è consigliabile che tu trovi / un uomo che ti rappresenti / affinché tu non venga attaccato / e possa parlare dopo essere stato ben consigliato: / il cattivo consiglio porta infatti molti danni.”

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Soe moeghdi te bat wesen vroet Vanden rechten rechte vanden lande; Want die zaken sijn menegherande Diemen hoert te diere stat, Ende soe moeghdi weten te bat Wat u goet si ende quaet, Als u te dinghene staet. (vv. 939-48; 69)39

Tra tutti i consigli pratici presenti nel lungo capitolo (oltre 1200 versi) è significativo che l’autore si soffermi per ben due volte sul comportamento da tenere in un tribunale, rivolgendosi evidentemente a un pubblico av- vezzo alle attività di questo organo, radicato nella realtà urbana. È naturale quindi supporre che Jan van Boendale trovasse la tematica particolarmente rilevante e fosse in grado di dare consigli al riguardo a causa del suo mestie- re: scepenclerc, che qui è stato tradotto come “segretario cittadino” (si veda nota 8) per non risultare troppo riduttivo, letteralmente significa infatti “se- gretario degli scabini”.40 L’autore aveva dunque lavorato quotidianamente accanto a esperti di diritto e, di conseguenza, doveva conoscere molto bene tutto l’ambiente giudiziario. Una conoscenza che ha forse contribuito all’in- clusione dei versi appena considerati tra i suoi insegnamenti. L’ultima sezione del Leken Spieghel che verrà presa in considerazione costituisce un’eccezione perché non rientra propriamente nel quadro degli insegnamenti che vengono impartiti. Si tratta infatti della dedica, nel pro- logo dell’opera, che rafforza la correlazione tra testo e storia confermando sostanzialmente il quadro delineato dall’analisi dei passi analizzati:

Ic hope het sal ghenoeghen wale Minen heer van Levedale, Minen heer Rogier ende mijnre vrouwen, Die goede dinghe gherne scouwen, Ende in die scrifture hebben jolijt. (vv. 47-51; 1844, 5)41

39 “Devi andare in tribunale, / ascoltare accuratamente e capire / cosa viene detto e fatto: / così potrai essere meglio informato / sulle leggi e sulle regole del paese; / perché molte sono le cose / che lì si possono ascoltare, / così potrai sapere meglio / quel che è bene e quel che è male / quando dovrai apparire di fronte alla legge.” 40 “‘Scabino’, s. m. [lat. mediev. scabinus, adattam. del francone *skapins «colui che opera, che agisce»]. – Nel medioevo, uomo libero, di buona condotta e istruito nelle leggi, che, nomi- nato dall’imperatore o dal re, e, per delega, dai conti con la partecipazione del popolo, faceva parte di un corpo di giudici permanenti il cui giudizio, richiesto dal conte o da chi presiedeva il tribunale, diveniva esecutivo per il tramite della sentenza pronunciata dal conte stesso” (http://www.treccani.it/vocabolario/scabino/. Consultato il 18 marzo 2018). 41 “Spero che possa soddisfare / il mio signore van Leefdael, / il mio signore Rogier e la mia signora, / che guardano volentieri belle cose / e hanno gioia nella letteratura.”

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Rogier van Leefdael era uno degli uomini più potenti alla corte di Jan II e in seguito anche di suo figlio Jan III; la signora è Agnes van Kleef- Hülchrath, sua moglie.42 La dedica apre interessanti possibilità interpreta- tive riguardanti il pubblico dell’opera: se Rogier fosse stato il committente, sarebbe lecito pensare a una fruizione del Leken Spieghel in un contesto di corte; se invece, come più probabile, Jan van Boendale fosse stato in cerca soprattutto di finanziamenti, allora è verosimile pensare a un pubblico più vasto, come gli insegnamenti stessi d’altronde suggeriscono (cfr. Sleiderink 2003, 119). Nella presente discussione la dedica è comunque di rilievo so- prattutto perché dimostra come Jan fosse in contatto con persone che pren- devano parte attivamente alla vita politica del tempo. In conclusione si può quindi affermare che, nonostante le difficoltà dovu- te al modo generico in cui molti insegnamenti vengono formulati, l’analisi di alcuni passi del terzo libro del Leken Spieghel condotta alla luce del conte- sto storico in cui l’opera fu composta, permette di comprendere meglio non solo gli insegnamenti stessi, ma anche il possibile motivo per cui l’autore decise di includerli nel suo testo didattico. L’insistenza sull’importanza del bene comune è sicuramente giustificata dalla difficile situazione politica in cui versava il Ducato di Brabante agli inizi del XIV secolo e fu probabil- mente ispirata anche da quanto scritto da Tommaso d’Aquino alla duchessa Aleidis di Borgogna dopo la morte di Hendrik III. La conoscenza del mondo politico e giuridico-amministrativo, oltre agli insegnamenti apertamente ri- volti ai signori, lasciano inoltre pochi dubbi sull’influenza avuta dall’attività di Jan van Boendale, segretario cittadino di Anversa, nel comporre la sua opera più importante.

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42 Ad entrambi è dedicato anche il Jans Teesteye (vv. 9-47; Snellaerts 1869, 137-38).

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Boland, Gustav, ed Émile Lousse. 1939. “Le Testament d’Henri II, duc de Brabant (22 janvier 1248).” Revue du droit français et étranger XVIII: 348-85. Corbellini, Sabrina. 2012. “Jacob van Maerlant, Jan van Boendale, Dirc Potter. La letteratura didattica nel tardo Medioevo.” In Harba Lori Fa! Percorsi di letteratura fiamminga e olandese, a cura di Jeanette E. Koch et al., 81-98. Napoli: Università degli Studi di Napoli “L’Orientale”. David, Jan Baptist. 1841-42. “Het Charter van Kortenberg.” De Middelaer of Bydragen ter bevordering van tael, onderwys en geschiedenis 2: 539-50. de Vries, Matthias, a cura di. 1844-48. Der leken spieghel. Leerdicht van den jare 1330. 5 voll. Leiden: Du Mortier en Zoon. Gorissen, Pieter. 1956. Het Parlement en de Raad van Kortenberg. Leuven: Nauwelaerts. Grimm, Wilhelm. 1860. Freidank. Göttingen: Verlag der Dieterichschen Buchhandlung. Peters, Ursula. 1983. Literatur in der Stadt. Studien zu den sozialen Voraussetzungen und kulturellen Organisationsformen städtischer Literatur im 13. und 14. Jahrhundert. Tübingen: Niemeyer. Sleiderink, Remco. 2003. De stem van de meester. De hertogen van Brabant en hun rol in het literaire leven (1106-1430). Amsterdam: Prometheus. Snellaerts, Ferdinand Augustijn, a cura di. 1869. Nederlandsche gedichten uit de veertiende eeuw van Jan van Boendale, Hein van Aken e.a. Brussel: Hayez. van Anrooij, Wim. 2002. “Literatuur in Antwerpen in der Periode ca. 1315-1350, een inleiding.” In Al t’Antwerpen in die stad. Jan van Boendale en de literaire cultuur van zijn tijd, a cura di Wim van Anrooij et al., 9-16. Amsterdam: Prometheus. van der Straeten, Jos. 1952. Het charter en de raad van Kortenberg. Leuven: Universiteitsbibliotheek / Universitaire Uitgaven. van Oostrom, Frits Pieter. 1989. “Lezen, leren en luisteren in klooster, stad en hof. Kinderboeken in de middeleeuwen?” In De hele Bibelebontse berg. De geschiedenis van het kinderboek in Nederland & Vlaanderen van de middeleeuwen tot heden, a cura di Nettie Heimeriks e Willem van Toorn, 15-40. Amsterdam: Querido. van Uytven, Raymond, e Wim Blockmans. 1969. “Constitutions and Their Application in the Netherlands during the Middle Ages.” Revue belge de philologie et d’historie 47, 2: 399-424. Willems, Jan Frans, a cura di. 1839. Brabantsche Yeesten, of Rymkronyk van Braband, door Jan de Klerk, van Antwerpen, vol. I. Brussel: Hayez.

136 EIN MEISTER SPRICHET. DICTA (SPRÜCHE) COME STRUMENTO DIDATTICO NELLA MISTICA TEDESCA DEL XIV SECOLO

Dagmar Gottschall Università del salento

Affermazioni gnomiche sono ben radicate nelle antiche letterature germa- niche (Sprenger 1998, 254-59).1 Versi gnomici, indovinelli, incantesimi e proverbi si trovano nelle fasi più antiche dell’area anglosassone e, soprattut- to, nordica. Sono, invece, rari in area tedesca antica e spariscono quasi com- pletamente nel tardo medioevo tedesco. Solo la Bescheidenheit di Freidank presenta una cospicua raccolta di versi gnomici nel XIII secolo con ricca tradizione manoscritta (Cammarota 2011, 13-39; cfr. Eikelmann 1997, 733). Con la sempre più ampia diffusione della letteratura religiosa volgare in prosa appare, però, il fenomeno del cosiddetto dictum (Spruch) come costituente vitale della predica e del trattato, che fiorisce a partire dal XIV secolo. Al contrario dei versi gnomici, si tratta di affermazioni in prosa di contenuti vari in forma di citazione. Il richiamo di un’autorità sembra qui essenziale, anche se queste citazioni, nella maggior parte dei casi, non sono identificabili nelle opere degli autori a cui sono attribuite, oppure l’autore si nasconde dietro una forma anonimizzata, cioè nel pronome indefinitoman (sprichet) (“si dice”)2 –che corrisponderebbe a un lat. dicitur – oppure, più spesso, dietro un soggetto generalizzato: ein meister (sprichet) (“un maestro dice”), locuzione che, per quanto ne so, non trova nessuna corrispondenza in prediche e trattati latini del periodo.3 Il detto corrisponderebbe alla sen-

1 Sulla discussione riguardo all’originalità della poesia gnomica germanica cfr. in parti- colare p. 259: “[...] ist anzunehmen, dass es trotz verschiedener fremder Einflüsse gnomische Dichtung in der Germania überhaupt gab.” 2 Le traduzioni sono dell’autrice. 3 La formula introduttiva (“si dice”) come contrassegno formale di una citazione all’interno

|137| | dagmar gottschall | tenza, antica forma vicina al proverbio, con la differenza che il proverbio risale a una tradizione orale, mentre la sentenza tramanda affermazioni generalizzanti in forma scritta e legate ad autori noti oppure a opere lette- rarie note, senza menzionarli esplicitamente. Come anche il proverbio, la sentenza trasporta un sapere che ha trovato il consenso di una comunità e rappresenta, quindi, una specie di archivio di sapere culturale che si nutre nell’alto medioevo del patrimonio antico, raccolte e florilegi della latinità (Eikelmann e Reuvekamp 2012, 5*-13*). Nel presente contributo si pone la domanda se il detto della letteratura spirituale in volgare, più precisamente il detto mistico (Mystikerspruch), in fioritura nel XIV secolo, corrisponda alla suddetta categoria letteraria e me- riti quindi, a buon diritto, di essere assunto fra sentenza e proverbio. Già i primi editori di testi spirituali in lingua volgare utilizzarono la cate- goria Mystikerspruch (‘detto mistico’) o Spruch (‘detto’) per denominare brevi statements di carattere generale e citazioni. Così Franz Pfeiffer, nel 1858, pubblicò una grande raccolta di testi brevi, cioè estratti, citazioni, preghiere e dicta da un manoscritto del XIV secolo, oggi conservato nella biblioteca di Berlino, sotto il titolo: Sprüche deutscher Mystiker4 (Pfeiffer 1858, 226-41). Un anno prima, nel 1857, era uscita la sua edizione delle prediche e dei trattati di Meister Eckhart, ai quali Pfeiffer aggiunse una sezione diSprüche con 70 testi brevi del tipo sopra descritto (Pfeiffer [1857] 1962, parte III, 595-627). Questo uso di chiamare Sprüche brevi citazioni, circolanti nei grandi mano- scritti miscellanei della mistica tedesca, fu mantenuto dai bibliotecari nella stesura dei cataloghi di manoscritti fino a oggi e si trasferì addirittura persi- no nello studio della storia della letteratura, come risulta dall’introduzione di Burghart Wachinger al genere letterario delle ‘forme minimali’ a cui ap- partengono, infatti, anche i ‘detti’ (Wachinger 1994, 8, 16). Il detto mistico non ha ricevuto molta attenzione. È considerato sotto un aspetto puramente formale come l’unità minima del trattato e della predica e ha trovato l’inte- resse degli studiosi solo in quanto identificabile o meno nelle opere di uno degli autori mistici noti (Ruh 1996, 355; McGinn 2005, 299-365).5 Prendendo le distanze da questo orientamento della ricerca, vorrei invece concentrarmi sul contenuto dei detti, sulla loro funzione e il possibile valore di un testo più complesso può mancare nelle raccolte di detti, dove l’unica separazione di un detto dall’altro sono segnali metatestuali da parte del copista (per es. iniziali, rubriche, paragrafi). 4 Si tratta del manoscritto Berlin, Staatsbibliothek zu Berlin - Preußischer Kulturbesitz, mgq 191, foll. 352r-391v. 5 È comprensibile che Kurt Ruh, nel III volume della sua grande Geschichte der abend- ländischen Mystik dedicato alla mistica dei domenicani tedeschi, non si sia occupato di detti anonimi: “Ich muß [...] hier [...] vollends auf das weite Umfeld kleiner Texte verzichten” (1996, 355), perché l’opera è organizzata secondo uno sviluppo dottrinale di teologia e filosofia. Ma anche Bernard McGinn, che tratta la diffusione della mistica volgare nel tardo medioevo se- guendo i singoli generi letterari, trascura completamente il fenomeno del detto (cfr. capitolo 7, “Spreading the Message: The Diffusion of Mysticism in Late Medieval Germany”; 2005, 299-365). McGinn prende in considerazione i generi della poesia mistica, del sermone, dell’e- pistola, del dialogo, del testo agiografico e della visione.

138 | dicta nella mistica tedesca del xiv secolo | didattico, e, quindi, tentare di interpretare il detto mistico in una nuova pro- spettiva, cioè quella della letteratura gnomica, ponendo la seguente domanda: sono queste citazioni veramente ‘detti’ (Sprüche) nel senso di una categoria letteraria, oppure si tratta piuttosto di una denominazione superficiale che risale al semplice fatto che il testo è messo in bocca a qualcuno che “lo dice” (sprichet)? A questo proposito sarà utile ricordare che il proverbio e la sentenza sono identificabili perché marcati esplicitamente tramite determinate formu- le introduttive e finali, contesti specifici e segnali metatestuali (Eikelmann e Reuvekamp 2012, 64-65). Inizierò dalle difficoltà che la categoriaSpruch crea nella letteratura scien- tifica moderna (1), proseguirò esaminando l’uso della citazione nei mano- scritti medievali (2) per rintracciare, poi, la presenza di detti nelle prediche tedesche di Eckhart (3) e nei testi di Tauler e Seuse (4). Concluderò con l’analisi di due detti attribuiti a Meister Eckhart (5).

1. Comincio con due esempi basati sulla descrizione moderna del mano- scritto che li conserva. Per registrare un qualsiasi testo breve di poche righe in prosa, anonimo o attribuito a una autorità, e non identificabile come frammento di un testo più complesso, si usa di solito la categoria Spruch o Dictum, come è il caso del codice München, Bayerische Staatsbibliothek, cgm 133, uno, o forse il più antico manoscritto di testi eckhartiani, scritto da una mano nella pri- ma metà del XIV secolo (Schneider 2011, 165-76). La descrizione di Karin Schneider annuncia due luoghi per noi interessanti:

5. 63r-64v Zwei Sprüche, Albertus Magnus zugeschrieben. 12. 93v-96v Dicta über Armut. (Schneider 2011, 168-69)

Il contenuto di cgm 133 consiste di 12 unità, due delle quali contengono i nostri detti. Il primo gruppo di detti porta come titolo, aggiunto da una seconda mano: Daz sint bischolf Albrechtes sprFch (fol. 63r).6 Inizia con una prima serie di dodici affermazioni, Iz sint .xii. guter stuke. Daz erste ist [...],7 e va avanti fino al dodicesimo “pezzo” al fol. 64r dove ha inizio una seconda serie di dodici affermazioni:Zwelf sache sint die ain gaistlichen mensch hindern van aim geistlichen leben. Daz erste ist [...],8 e va avanti fino al dodicesimo impedi- mento al fol. 64v, ove il testo finisce.9

6 “Questi sono i detti del vescovo Alberto”. 7 “Esistono 12 buoni pezzi. Il primo è [...]”. 8 “Vi sono 12 cose che impediscono all’uomo spirituale di condurre una vita spirituale. La prima è [...]”. 9 Cgm 133 è consultabile online: http://daten.digitale-sammlungen.de/bsb00094778/ image_1 (consultato il 10 maggio 2018).

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Abbiamo a che fare, dunque, con due serie di dodici affermazioni cia- scuna, che sono attribuite, almeno nel caso della prima serie, ad Alberto Magno. La seconda serie non ha, per quanto ne so, dei paralleli. La pri- ma, invece, è nota. Si tratta della cosiddetta Neun-Punkte-Lehre, attribuita ad Alberto, e ampiamente diffusa nel medioevo in redazioni varie,10 in area linguistica tedesca, francese, inglese e latina, che risale probabilmente al XIII secolo (Gottschall 2013, 755-57). Dal punto di vista contenutistico, la Neun-Punkte-Lehre rappresenta un esem- pio di letteratura gnomica. Ciascun punto è costruito secondo lo schema: ‘me- glio fare questo che quello’. La tendenza didattica di queste raccomandazioni è chiara. Invece di dedicarsi a visioni mistiche e prassi ascetiche della Chiesa, si consiglia l’analisi attenta della propria coscienza e la vita attiva con responsa- bilità sociale, per es. “meglio dare un centesimo di elemosina in vita che una montagna d’oro dopo la morte” (1); “meglio accettare con pazienza tutto ciò che Dio manda che essere rapito fino al terzo cielo come san Paolo” (8).11 Questi nove punti evidenziano le caratteristiche del detto gnomico. Non sono testi narrativi, ma mostrano brevità e pregnanza e una struttura d’ar- gomentazione fissa che non può essere né abbreviata né ampliata. Sotto l’a- spetto comunicativo sono affermazioni che ribadiscono una regola. Il con- tenuto è espresso per intero e il testo è completo (Wachinger 1994, 3-10).12 Può essere accettato o meno dal destinatario. I nostri detti si distinguono anche dalla tipologia del proverbio per la loro intenzione comunicativa: l’intenzione del proverbio non è di carattere dida- scalico. Non è usato per fornire un insegnamento o un consiglio, ma “per riassumere e concludere l’esperienza già vissuta” (Di Venosa 2008, 84). Anche la seconda serie di dodici affermazioni segue uno schema fisso: “chi (ovvero: il fatto che uno) si comporta così, con questo comportamento (da mite) si rivolta contro Dio”, per es. “chi si occupa troppo di cose esteriori distrugge, con questo comportamento, la grazia interiore” (1); “giudicando troppo la gente, con questo comportamento uno spezza l’unità con Dio” (5). Quindi, anche questi dodici ostacoli a una vita spirituale mostrano una dizione gnomica. Ma mentre i nove punti si rivolgono a qualsiasi cristiano, i dodici ostacoli sono rivolti a un pubblico più ‘specializzato’ di religiosi praticanti e, in questo senso, la categoria Mystikersprüche è a questi meglio applicabile. Lo sconosciuto copista aveva quindi ragione a chiamare queste due serie di testi brevi sprFch, – se avesse anche ragione ad attribuirli ad Alberto Magno è, naturalmente, cosa più che dubbia. Consideriamo ora il secondo gruppo di detti del cgm 133, che rappresenta una raccolta chiamata Dicta nel catalogo, riguardante il tema della povertà. Il testo si trova alla fine del codice e consiste in una serie di citazioni, introdotte

10 Nella tradizione tedesca esistono serie da 4 fino a 19 punti e in ordini diversi. 11 I tre punti aggiunti sul margine nel cgm 133 seguono sempre il medesimo schema. 12 Diversa è l’intenzione comunicativa nel caso dell’indovinello o della questione, che assegnano un compito al destinatario (Wachinger 1994, 11-12).

140 | dicta nella mistica tedesca del xiv secolo | dalla formula “si dice”. Anche in questo caso, un titolo fu aggiunto da una seconda mano: Minor regula paupertatis, che annuncia il tema comune a una serie di citazioni da Seneca, S. Bernardo, S. Gregorio, Beda, S. Agostino, di un filosofo ein( philosophus) e del profeta (der propheta) (Schneider 2011, 169). La prima citazione – “povertà è un bene che si odia” – è attribuita a Seneca e definisce, in 11 righe, la povertà da vari punti di vista. Questi punti di vi- sta sono ripresi nella citazione successiva che è attribuita a S. Bernardo e porta alla presentazione della povertà volontaria (willige armMte) e dell’uomo volontariamente povero che è anche il più libero. Questi non si occupa più di nulla e troverà Dio che è il guadagno più alto. A questo punto prende la parola S. Gregorio con un lungo discorso sui vantaggi della povertà, che rag- giungono il vertice nella parola del Signore: “Perciò dice il nostro Signore nel Vangelo: ‘Beati sono i poveri dello spirito poiché è loro il regno dei cieli [...]’” (cfr. Mt 5,3). Come si vede facilmente, la classificazionedicta in que- sto caso è sbagliata. Si tratta piuttosto di un trattato anonimo sulla povertà, arricchito, come solito, con citazioni di autorità. A differenza di detti messi insieme, il nostro testo manifesta una struttura argomentativa dall’inizio alla fine, da una povertà secolare negativa a una povertà spirituale positiva che è la povertà del distacco in senso eckhartiano. L’ultimo esempio dimostra bene come trattati o prediche letterarie del XIV secolo non raramente si basano su semplici compilazioni di estratti da pre-te- sti e, sotto la pretesa di citazioni, si presentano in forma di raccolte di detti.13

2. Vorrei aggiungere un altro esempio, cioè l’uso della citazione fatto dal copista medievale. In questo caso si tratta di una raccolta di materiale in forma di citazioni, ma presentata come predica legata alla persona di Meis- ter Eckhart. Si tratta del testo conclusivo in un’ampia raccolta di prediche (Steer 2002, 255-57) di Meister Eckhart, tramandato nel manoscritto Stras- bourg, Bibliothèque Nationale et Universitaire, MS 2795 (Str3)14 pubblicato da Auguste Jundt, nel 1875, sotto il titolo Sermons et pièces diverses de Maître Eckhart (Jundt [1875] 1964, 276-78). Il testo in questione è il numero 16 di questa edizione, abbreviato d’ora in poi con Jundt 16.15 L’incipit, marcato da un’iniziale rossa alta due righe, ricorda il topos iniziale della predica, quando il predicatore implora l’aiuto divino per le proprie paro- le. Quello che segue è una serie di citazioni che inizia con l’autorità più alta in

13 A prescindere dall’autenticità di queste citazioni o meno, non si sa dove finiscono. Considerando l’argomentazione fluida, è chiaro che abbiamo a che fare con la mano sistema- tizzatrice di un autore/redattore. 14 Strasbourg, Bibliothèque Nationale et Universitaire, MS 2795 (già L germ. 662), Pap., 4°, 334 foll., terminato il 24 febbraio del 1440, proveniente probabilmente da Augsburg, suc- cessivamente conservato a Inzigkofen. Indicazioni codicologiche in Klimanek 2005. 15 Jundt 16, originariamente ultimo testo, dopo il quale sta il colofone in rosso. Poi, qualcu- no si accorse che il testo precedente, Jundt 4, un dialogo fra S. Paolo e il suo discepolo Timoteo, era rimasto incompleto, e aggiunse sul resto del fol. 326v l’inizio della continuazione di Jundt 4 che fu completato aggiungendo un altro fascicolo al volume.

141 | dagmar gottschall | assoluto, cioè con Cristo. Subito dopo parla Alberto Magno. In questo modo segue citazione su citazione, ogni tanto concatenata tramite parole chiave alla precedente, ma senza che si possa scoprire un’argomentazione logica. Chi parla sono l’apostolo Paolo, i due Giovanni (l’Evangelista e il Battista), i Padri della Chiesa come S. Agostino, S. Gregorio, Origene, S. Bernardo, ma anche i maestri (es sprechent die maister; “i maestri dicono”). Questi ultimi spiegano la percezione esteriore e il processo della conoscenza. Ciò che dicono questi maestri-filosofi, sicuramente non sono semplici detti, ma un discorso com- plesso, basato sulla letteratura aristotelica di psicologia. Nell’ultimo paragrafo parlano un pagano, un santo, un “pagano sagace” (ain subtiler haiden), un maestro pagano e Boezio. L’anonimo autore/com- pilatore di Jundt 16 prese la citazione di Boezio dalla predica 69 di Meister Eckhart,16 e anche il detto del pagano sagace deriva da Eckhart, che lo uti- lizza nella sua predica 83, sempre come citazione di un maestro pagano.17 Certo, non si tratta di letteratura gnomica, e il detto è solo pretesto per una discussione teologico-filosofica di un livello assai alto. Secondo illayout del codice questi detti, o meglio riflessioni, messi insieme, sono presi co- munque come un testo, e non solo un testo qualsiasi, ma addirittura come un testo eckhartiano. Esempi di questo tipo di predica, cioè una pura compilazione di citazioni, si trovano numerosi nei manoscritti miscellanei della letteratura spirituale, e si trovano soprattutto nei manoscritti cosiddetti eckhartiani.18 Anzi, sembra che addirittura Eckhart stesso fosse legato a questo tipo di testo, come dimo- stra l’esempio di Jundt 16 che un redattore anonimo del XV secolo ha inserito

16 Eckhart, Pr. 69: Boethius sprichet: “wilt dû die wârheit lûterlîche bekennen, sô lege abe vröude und pîne, vorhte und zuoversiht oder hoffenunge”. Vröude und pîne ist ein mittel, vorhte und zuoversiht: ez ist allez ein mittel (DW III [= Quint 1976], 166, 2-167, 1; “Boezio dice: ‘Se vuoi conoscere la verità in modo puro, deponi gioia e pena, angoscia e fiducia o speranza’. Gioia e pena sono un medio, angoscia e fiducia: è tutto un medio”). La citazione sta nel contesto della discussione tra due ma- estri sul problema del vedere immediatamente oppure attraverso un medio, tratto da De anima. Che il nostro autore si serva della Pr. 69 e non di un florilegio è dimostrato dal fatto che va oltre la pura citazione (Boethius, De consolatione philosophiae, I m. VII; Moreschini 2000, 26, 20-28) e menziona anche il problema del medio (mittel). Eckhart, Pr. 69 è contenuta per intero in Str3, foll. 165r-170v [163r-168v]. Interessante è che la citazione di Boezio appare una seconda volta in una predica di Eckhart, ma questa volta in bocca a un maestro anonimo: Ein meister sprichet: wiltû got mit einem lûtern herzen enpfâhen und bekennen, sô vertrîp von dir vröude, vorhte, hoffenunge (Eckhart, Pr. 89; DW IV/1 [= Steer 2003], 42, 31-32; “Un maestro dice: ‘se vuoi ricevere Dio con un cuore puro e riconoscere, allora caccia via gioia, angoscia, speranza’”). La possibilità di identificare una citazione, per Eckhart, ovviamente, non era importante. 17 Eckhart, Pr. 83: [Nû merket! Got ist namelôs, wan von im enkan nieman niht gesprechen noch verstân.] Her umbe sprichet ein heidenisch(er) meister: “Swaz wir verstân oder sprechen von der êrsten sache, daz sîn wir mê selber, dan ez diu êrste sache sî, wan si ist über allez sprechen und verstân” (DW III, 441, 2-4; “[Allora sentite! Dio è senza nome, perché nessuno può dire di Lui nulla né comprendere.] Perciò un maestro pagano dice: ‘Qualsiasi cosa che comprendiamo o diciamo della prima causa siamo più noi stessi che la prima causa perché essa è sopra qualsiasi dire e qualsiasi comprensione’”). 18 Come ‘manoscritto eckhartiano’ viene considerato ogni codice che contiene almeno un testo autentico di Eckhart o a lui attribuito.

142 | dicta nella mistica tedesca del xiv secolo | alla fine della sua raccolta di prediche e trattati di Eckhart ovviamente perché credeva che questa compilazione risalisse in qualche modo a Meister Eckhart. Ci sono anche altri collezionisti e ammiratori di Eckhart che collega- no il suo nome a dicta. Lienhart Peuger (c. 1390-1455), frate laico del con- vento benedettino di Melk, ammiratore e raccoglitore di scritti di Eckhart, creò una raccolta di detti provenienti da testi del maestro, nel codice Melk, Stiftsbibliothek, Cod. 235, scritto da Peuger intorno al 1440. Sul fol. 331rb si legge una sua notizia marginale evidenziata in colore rosso: “Nota. I detti se- guenti sono presi dalla dottrina di Meister Eckhart di Parigi.” In questa rac- colta Peuger mise insieme estratti da testi che credeva essere testi di Meister Eckhart. Correttamente, li chiama non “detti di Meister Eckhart” ma “detti presi dalla dottrina di Meister Eckhart”. Questi estratti appartengono a vari generi letterari: brevi racconti, esempi, dialoghi, ma anche citazioni, intro- dotte dalla formula “si dice”. Nemmeno una volta si legge “Meister Eckhart dice”, e nondimeno tutto questo materiale deriva da testi eckhartiani. Penso che sia lecito trarre la conclusione che Eckhart abbia utilizzato in modo particolare la citazione, autentica o immaginaria, per l’esplicazione della sua propria dottrina. Questa sua caratteristica stilistica era evidente- mente ben nota ai contemporanei che consideravano Eckhart una fonte di detti (Sprüche).

3. In effetti, chi esamina le prediche tedesche di Eckhart trova un numero molto alto di citazioni, soprattutto generiche, attribuite ai “maestri”. La for- mula introduttiva ein meister sprichet sembra quasi una segnatura personale nello stile di Eckhart. Fra le prime 58 prediche in ordine liturgico, solo 14 non contengono alcun riferimento a un maestro, tutte le altre citano i meis- ter almeno una volta, in media si trovano cinque ricorrenze di questa figura per predica. Questi maestri, nella maggior parte dei casi, rimangono anoni- mi e senza una specificazione. Un’unica volta ho trovato un nome proprio per un maestro, cioè Meister Thomas (Tommaso d’Aquino).19 I maestri stanno ovviamente per il mondo dotto della teologia e filoso- fia, rappresentato dallo studio generale dei domenicani e dall’università di Parigi. Il loro mondo è il mondo della disputazione, delle questioni in senso tecnico, che si rispecchia in formule come ez ist ein frâg (quaeritur; “vi è una questione”) e rimanda alla letteratura latina dei quodlibet. I maestri, quindi, discutono le sottigliezze, die hôhen frâgen (“le questioni alte”), gli argomenti visti con sospetto dalla curia papale, almeno quando vengono presentati in volgare davanti a un pubblico di semplici e illetterati. L’autore Eckhart si serve di loro per discutere la propria dottrina in forma di dialogo, sviluppan-

19 Eckhart, Pr. 90: Meister Thomas sprichet: “er [scil. Cristo] hâte ein zuonemen von den kreften der sinne” (DW IV/1, 65, 127-29; “Maestro Tommaso dice: ‘egli aveva un incremento quanto alle facoltà dei sensi’”). Nella redazione secondaria B si legge: Daz sprichet ein hôher meister, Thomas […] (Ibid.; “Questo dice un grande maestro, Tommaso […]”). Cfr. Tommaso d’Aquino, III Sent. d. 14 a. 3 q. 6 sol. 5 (Moos 1933, 461).

143 | dagmar gottschall | do pro e contra davanti a un terzo, cioè il lettore/ascoltatore ideale che, per parte sua, porta avanti il processo dell’apprendimento con le sue doman- de. L’ultima parola l’ha sempre Eckhart. La sua tecnica retorica ricorda, in un certo senso, il dialogo platonico, solo che non abbiamo a che fare con Socrate e uno dei suoi interlocutori, ma con Eckhart e i suoi maestri. Appare ovvio che le parole dei maestri sono ‘detti’ solo in senso formale, in quanto sono introdotte dalla formula ein meister sprichet. Difficilmente si tratta di detti in senso di genere letterario, cioè forme minime testuali che offrono una affermazione breve e precisa, che esprime una regola di vita, quindi detti di tipo gnomico; troppo sofisticati sono gli argomenti. Nonostante la forte presenza della formula ein meister sprichet nelle sue pre- diche tedesche, Eckhart non tematizza il detto come strumento didattico e educativo. Anzi, non ne parla proprio. Il lessema spruch, “Spruch, Sangspruch, Sprichwort, Ausspruch” (Hennig 2001, 308; cfr. Lexer 1872-78, II, 1120),20 nell’o- pera tedesca di Eckhart è riservato esclusivamente per il verbum divinum e la sua manifestazione all’interno della Trinità. Spruch è il risultato dell’atto generativo di Dio il cui generare è nient’altro che sprechen, ed esiste solo nel singolare.21 Naturalmente, anche Eckhart utilizzava il detto, pure quello gnomico in forma di proverbio, nelle varie situazioni comunicative di ogni giorno. Un caso si trova nelle sue prediche: ma non è stato marcato con chiarezza dall’autore e così è pure sfuggito all’attenzione degli editori. Nella predica 104, Eckhart cita un verso gnomico in funzione di proverbio per illustrare la difficoltà che l’uomo ha nel separarsi dalle cose esteriori:Wan sô der ge- lust ze ûzern dingen ie grœzer wære, sô daz vonkêren ie swærer wære, wan sô ie grœzer liep, ie grœzer leit, sô ez an ein scheiden geit (DW IV/1, 603, A 35-37).22 Nell’edizione critica, che normalizza l’alto tedesco medio, il verbo finale ap- pare nella forma gât e la rima è distrutta. Dobbiamo la visualizzazione del proverbio a una osservazione di Freimut Löser (2014, 255-56). Chissà quanti proverbi si nascondono ancora nelle prediche tedesche di Meister Eckhart.

4. Com’è la situazione nei testi di Johannes Tauler e Heinrich Seuse, gli altri due grandi mistici dopo Eckhart? La ricorrenza del lessema meister, nelle opere di entrambi, è abbastanza ripetuta, però manca quasi completamente la formula ein meister sprichet. La figura del maestro, nei testi di Tauler e Seuse, ha evidentemente una funzione diversa. Questi maestri non parlano, ma fanno parte dell’elaborazione narrativa. Cominciamo da Johannes Tauler (c. 1300-61). Nelle prediche di Tauler, meister è soprattutto un titolo che denomina un’autorità nella gerarchia ec-

20 Secondo i dizionari dell’alto tedesco medio, il lessema è utilizzato solo in senso lettera- rio-poetico e tecnico in quanto sentenza giuridica; cfr. anche Lexer 1872-78, II, 1120. 21 Documentazione del lessema spruch in Eckhart: Pr. 30 (DW II [= Quint 1971], 98, 3); Pr. 36 a (DW II, 189, 6), Pr. 43 (DW II, 321, 6; 322, 3), Pr. 53 (DW II, 530, 1; 539, 10, 11). 22 “Quindi, più grande è il godimento delle cose esteriori, tanto più difficile è il distacco, perché tanto più grande l’amore, tanto più grande il dolore quando tocca separarci.”

144 | dicta nella mistica tedesca del xiv secolo | clesiastica o nell’ordine. Il maestro supremo è Cristo.23 Meister è la traduzio- ne per gli anziani sacerdoti della comunità ebraica nei Vangeli24 e sta anche per il teologo contemporaneo a Tauler.25 A fianco di questi stanno ikúnsten richen meister oppure meister von Paris con una connotazione chiaramente negativa. Si tratta degli studiosi esperti di filosofia e teologia, e attivi nell’u- niversità, cioè a Parigi.26 Nelle prediche di Tauler, questo gruppo rappresen- ta il tipo del lesemeister (maestro di teoria, di sapere libresco) che viene con- frontato con la figura positiva dellebemeister (maestro di pratica, di vita).27 Certamente, in tutti questi contesti non si può parlare di detti gnomici. Il lessema spruch non esiste nelle prediche di Tauler e la sua funzione non è tematizzata da nessuna parte. Nonostante ciò, qua e là, fra gli esempi illu- strativi, si trovano locuzioni gnomiche, messe in bocca ai Padri del deserto, cioè eremiti e maestri, modelli nel vivere la propria fede e le proprie convin- zioni. Nella predica 6, Tauler parla della necessità di liberarsi da qualsiasi immagine e proprietà (eigenschaft) e conclude con una sentenza gnomica: Wis one eigenschaft und bildelos und has wes du bedarft an allen dingen (Pr. 6; Vetter [1968] 2000, 27, 1-3).28 Tauler illustra questa affermazione con un breve racconto esemplare di un santo padre che era così distaccato da non poter più memorizzare nulla. Dopo la terza richiesta di un suo compagno di portargli una certa cosa, il santo padre rispose: kum und nim selber, ich enkan des bildes also lange in mir nit enthalten, also blos ist min gemFte aller bilde (Pr. 6; Vetter [1968] 2000, 27, 9-10).29 Ci troviamo qui nell’ambiente dei Padri del deserto, anche se Tauler non lo mette molto in evidenza, ma se uno è interessato a detti gnomici, queste sono le fonti alle quali si deve ricorrere. È Heinrich Seuse (1295-1366), forse l’allievo più promettente di Eckhart, che riscopre la spiritualità antica dei Padri del deserto e, con questo, l’alto valore didattico del detto.

23 Tauler, Pr. 24: daz heilge pater noster, daz leret uns der oberste meister Cristus und sprach selber […] (Vetter [1968] 2000, 101, 23-24; “Cristo, il maestro supremo, ci insegnava il sacro Paternoster e disse lui stesso […]”). 24 Tauler, Pr. 45: Do kam ein meister von der e und wolt unsern herren versuochen [...] (Vetter [1968] 2000, 195, 7; “Venne un maestro della legge e voleva tentare il nostro Signore […]”). 25 Tauler, Pr. 60a: Ein meister der heiligen geschrift wart gefraget [...]. Do sprach diser meister [...] (Vetter [1968] 2000, 283, 18-20; “Fu chiesto un maestro della Sacra Scrittura […]. Allora, questo maestro disse […]”). La questione ruota intorno alla frequenza della comunione eucaristica. 26 Tauler, Pr. 81: [...] und aller kúnsten richen meistere zuo Paris mit alle ire behendikeit en- kúnnen nút her bi komen [...] (Vetter [1968] 2000, 432, 2-3; “[…] e tutti i maestri esperti delle arti di Parigi con tutta la loro astuzia non possono giungervi […]”). Si tratta dell’amore nell’unione con Dio che è indicibile e solo comprensibile all’uomo semplice e distaccato. 27 Tauler, Pr. 78: Die grossen meister von Paris die lesent die grossen buocher und kerent die bletter umb; es ist wol guot, aber dise [scil. die edeln lebenden lúte] lesent das lebende buoch [...] (Vetter [1968] 2000, 421, 1-2; “I grandi maestri di Parigi leggono i grandi libri e girano le pagine; questo è cer- tamente buono, ma questi [scil. gli uomini che vivono nobilmente] leggono il libro vivente […]”). 28 “Sii senza nessuna proprietà e senza immagine e avrai ciò di cui hai bisogno in tutte le cose.” 29 “Vieni e prendi tu stesso, non posso ritenere un’immagine in me così a lungo, così pura è la mia mente da tutte le immagini.”

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Seuse, diversamente del suo maestro, è interessato al detto (Spruch). Tuttavia, non sono i meister che si servono di questo strumento nel loro inse- gnamento. La ricorrenza del lessema nelle opere di Seuse coincide in quantità e in funzione con quella di Tauler. Anche per Seuse, il meister rappresenta l’autorità della gerarchia ecclesiastica e dell’ordine, e appare nel contesto nar- rativo. Perciò questi maestri non insegnano in modo diretto al lettore e la for- mula eckhartiana ein meister sprichet è assai rara. Tuttavia, Seuse riconosce nel dictum uno strumento didattico utile e se ne serve. A questo scopo sviluppa una tipologia del detto, rintraccia la sua origine e riflette su uso ed efficacia. Spruch come termine tecnico di una ben definita forma comunicativa appare tredici volte nell’opera di Seuse, e cioè nella prima parte della Vita che è dedi- cata all’apprendistato spirituale, e nelle sue Lettere (Briefbuch). Seuse descrive nella sua Vita l’ascesa graduale verso la spiritualità inte- riore. A questo scopo raccomanda la segregazione personale dalla comunità e la meditazione che si svolge con l’aiuto dei detti dei santi Padri antichi.30 Seuse offre nel cap. XXXV della Vita il contenuto di questi detti in una lista di 40 verba seniorum presi dalle Vitas patrum in traduzione tedesca (Bihlmeyer [1907] 1961, 104, 1). Ciascun detto porta il nome del suo autore (sant Arsenius, Theodorus, abbas Moyses, abbas Johannes e così via). In questo contesto, la dottrina dell’anacoreta Arsenio, chiamato summus philosophus, rappresenta il nucleus totius perfectionis (cfr. Ruh 1990, 118). I 40 detti del cap. XXXV insegnano le virtù pratiche della vita spirituale. L’ultimo detto è attribuito a Cassiano: Ellú vollkomenheit endet da, wenn dú sele mit allen iren kreften ist ingenomen in daz einig ein, daz got ist (Bihlmeyer [1907] 1961, 106, 34-35).31 Quindi, la meta più alta è la cosiddetta unio mystica (cfr. Williams 1994, 174-75; Williams e Hoffmann 1999, 463).32 I 40 detti dai Verba seniorum erano destinati ai principianti e ai loro primi passi verso una vita spirituale. Su un livello più alto, cioè sul grado dei pro- gredientes che hanno già imparato il distacco e l’autoconoscenza, Seuse offre nel capitolo IL della Vita di nuovo una raccolta, adesso di quasi 100 detti suoi, più astratti e formulati nella dizione della mistica. Ma anche questa se- rie suona per lo più come una riformulazione dei detti dei Padri. L’altissimo valore che Seuse attribuisce al detto, lo conferma la sua raccomandazione in una delle sue Lettere: Ein bewerter gotesfrúnd sol alle zit etwas gůter bilde ald sprúch haben in der sele mund ze kúwene, da von sin herz enzúndet werde

30 Seuse, Vita, c. XX: [...] do frumt er von einem maler, daz er im entwarf die heiligen alten veter und ire sprúch und etleich ander andehtig materien, die einen lidenten menschen reizent zu gedultekeit in widerwertikeit (Bihlmeyer [1907] 1961, 60, 12-14; “[…] allora ottenne da un pittore che gli disegnasse i santi Padri antichi e i loro detti e qualche altra materia devota che sollecita- no un uomo sofferente verso la pazienza nella tribolazione”). 31 “Tutta la perfezione trova la sua conclusione quando l’anima, con tutte le sue virtù, è portata dentro nell’unico Uno che è Dio.” 32 È significativo che la raccolta di detti di Seuse sia stata trasmessa separatamente dalla sua Vita in una serie di manoscritti, per lo più sotto il titolo Sprüche der Altväter (Williams 1994, 175 nota 3).

146 | dicta nella mistica tedesca del xiv secolo | zuo gote (Briefbüchlein, Brief XI; Bihlmeyer [1907] 1961, 391, 20-22).33 Certo, questi Sprüche non sono detti dei maestri.

5. Possiamo dunque trarre la conclusione che la formula ein meister sprichet è una segnatura stilistica di Eckhart, imitata e diffusa ampiamente nei te- sti pseudo-eckhartiani. Le affermazioni di questi maestri sono detti solo da un punto di vista formale, in quanto sono pronunciati da qualcuno. Il loro contenuto non è di carattere gnomico. Sono invece riflessioni filosofiche; e come tali esistono anche nei testi di Tauler e Seuse, solo in forma meno evidente, visto che manca la marcatura ein meister sprichet. Per la denomina- zione di questi fenomeni sarebbe, quindi, raccomandabile parlare piuttosto di ‘citazioni’. Il detto gnomico, invece, sembra essere riservato alla dottrina dei Padri del deserto, raccolta nelle Vitas patrum, più precisamente nella sezione dei Verba seniorum. Questo tesoro di letteratura gnomica fu riscoperto e rivivifi- cato da Heinrich Seuse per la mistica moderna del XIV secolo, nell’ambien- te dell’ordine domenicano, favorevole a questa rinascita. Tutto ciò non vuol dire che il detto mistico non esista; ma è assai raro e richiede un’attenzione e un’analisi dettagliata. Concludo con un esempio di un detto vero e proprio, attribuito a Meister Eckhart, di cui si sono conserva- te due versioni e che mi sembra particolarmente ben riuscito. Si tratta degli Sprüche 4 e 10 dalla raccolta di Pfeiffer ([1857] 1962, 598, 600).34

Spruch 4 Spruch 10 Meister Eckehart sprichet: Meister Eckhart sprichet: der in allen steten ist dâ heime, der ist gotes swer alle zît alleine ist, der ist gotes wirdic wirdic, und der in allen zîten blîbet eine, dem ist und swer alle zît dâ heime ist, dem ist got got gegenwürtic, gegenwürtic, unt swer alle zît stât in einer gegenwürti- und in dem sint geswigen alle crêatûre, in gen nû, in dem gebirt got der vater sînen deme gebirt got sînen einbornen sun. sun âne underlâz.

Entrambi i testi risalgono al XIV secolo.35 Entrambi mostrano la struttura

33 “Un amico di Dio confermato deve avere sempre qualche buona immagine o detto da masticare nella bocca dell’anima, tramite il quale il suo cuore sia acceso verso Dio.” Tali materiali sono messi nell’appendice: Von heiligen bilden und gůten sprúchen, die einen menschen reizent und wisent zů got (Zusätze zum Briefbüchlein; Bihlmeyer [1907] 1961, 396). 34 Spruch 4: “Meister Eckhart dice: ‘Chi è a casa ovunque, costui è degno di Dio e chi rima- ne sempre solo, a costui Dio è presente, e in chi tacciono tutte le creature, in costui Dio genera il suo unico figlio’.”Spruch 10: “Meister Eckhart dice: ‘Chi è sempre solo, costui è degno di Dio e chi sempre è a casa, a costui Dio è presente, e chi sta sempre in un attimo presente, in costui Dio Padre genera il suo figlio continuamente’.” 35 Pfeiffer prese il n. 4 dal manoscritto Wien, Österreichische Nationalbibliothek, cod. 2757, XIV sec. (W5), e il n. 10 da Basel, Universitätsbibliothek, cod. B IX 15, XIV sec. (Ba2).

147 | dagmar gottschall | sintattica tipica per il detto gnomico (Wachinger 1994, 27), cioè una pro- posizione subordinata introdotta da un pronome relativo indefinito s( )wer (“chiunque”) che è seguita dalla reggente che nel tedesco mette il corrispon- dente pronome dimostrativo der (“questo”, che ho tradotto con il pronome dimostrativo personale “costui”). Entrambi i testi mostrano tracce di rima, addirittura rime interne. La vicinanza col verso gnomico è evidente. Entrambi i detti sono composti da tre affermazioni che formano uncli- max delle proposizioni reggenti. Chiunque si comporta come descritto, ini- zia con l’essere degno di Dio, prosegue con l’avere Dio presente e finisce con il vivere la nascita di Dio nella propria anima. I presupposti, formulati nelle relative, però, sono diversi. Sembra che Spr. 4 conservi una versione più vicina all’originale: “chi è a casa ovunque, è degno di Dio” è dottrina di Eckhart, mentre l’affermazione di Spr. 10, cioè “chi è sempre a casa, è degno di Dio” suona più una dottri- na dei Padri del deserto che Eckhart, sicuramente, non avrebbe condiviso. Difficile dire se Eckhart sostenesse l’idea di dover stare segregato (alleine) per godere la presenza di Dio. Anche questo è più un ideale monastico, dal quale Eckhart prende ripetutamente ed esplicitamente le distanze, ad esempio nei Discorsi di Erfurt. Ma sia il distacco dal mondo creato (Spr. 4) che lo “stare nell’attimo presente” (Spr. 10) come condizioni per la nascita di Dio nell’ani- ma sono dottrine eckhartiane. L’anonimo autore ha fatto un buon lavoro ed è riuscito a estrarre dalla sua lettura di Eckhart un insegnamento ben preciso e facilmente memorizzabile, ben adatto per la meditazione privata.

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150 DIE SPRICHWÖRTER IN HANS VINTLERS BLUMEN DER TUGEND

Elisabeth De Felip-Jaud Universität innsbrUck

Im Jahre 1411 vollendete Hans Vintler1 aus Bozen sein gereimtes Lehrbuch Die Blumen der Tugend (Zingerle 1874).2 Als Vorlage diente ihm dabei eine ältere italienische Quelle, Il fiore di virtù, die er übersetzte, veränderte und ergänzte. Der Fiore di virtù wird dem Benediktiner Tommaso Gozzadini zugeschrieben und ist vermutlich um das Jahr 1320 entstanden. Im Zent- rum der auf über 10.000 Verse erweiterten deutschen Dichtung steht die Auseinandersetzung mit den Tugenden und Lastern vor dem Hintergrund einer von großen Umbrüchen geprägten Zeit um 1400. Dieses Werk ist das umfangreichste deutschsprachige Gedicht des Tiroler Spätmittelalters. Vintler selbst interpretierte sein Opus als nützliche Unterhaltung und als sinnvollen Zeitvertreib, der eine Belehrung und Besserung des Lesers nach sich ziehen sollte. Streckenweise setzt sich das Werk aber auch auf zuweilen emotionale Art und Weise mit der Zeit um 1400 auseinander, die ein Moment des Umbruchs vom Spätmittelalter zur Neuzeit war, und schil- dert Ereignisse des frühen 15. Jahrhunderts in Tirol, von denen die Familie Vintler direkt betroffen war.

1. zum autor

Die Vintler3 von Bozen haben der Nachwelt zwei bedeutende Zeugnisse spätmittelalterlicher Kunst und Kultur hinterlassen: Auf Schloss Runkel-

1 Zu Hans Vintler vergleiche man u.a.: Müller 1999; Knapp 2004. 2 In der Folge als BT mit Verszahl im Text zitiert. 3 Zu Herkunft und Genealogie der Familie Vintler vergleiche man: Siller 1997; Wetzel 2015.

|151| | elisabeth de felip-jaud | stein entstand ab 1388 unter Niklaus Vintler der größte profane Freskenzy- klus des Mittelalters und 1411 vollendete Hans Vintler seine Übersetzung und Ergänzung des italienischen Lehrgedichts Blumen der Tugend. Die Vintler stammen aus dem Dorf Vintl im Pustertal. Seit dem 13. Jh. sind sie in Bozen nachweisbar. Bereits im Jahre 1273 wird in verschiedenen Quellen vom „Vintlertor“ gesprochen. Die Familie Vintler war durch den florierenden Handel zu einer reichen Bozner Kaufmannsfamilie aufgestie- gen. Die Brüder Franz und Niklaus Vintler kaufen 1385 die Burg Runkelstein bei Bozen, welche sie durch den Zubau des Sommerhauses erweitern und durch die Ausmalung mit weltlichen Fresken schmücken lassen. Der Dichter Hans Vintler (†1419) war ein Neffe des kunstsinni- gen Kaufherrn und landesfürstlichen Finanzbeamten Niklaus Vintler von Runkelstein. Er folgte seinem Onkel als Amtmann im Dienste des Habsburgers Friedrich IV. mit der leeren Tasche und diente zudem dem Herzog auch als Botschafter im oberitalienischen Raum, etwa in Venedig. Nicht nur aus dieser Tatsache lässt sich konstatieren, dass er mit der italie- nischen Sprache und Kultur vertraut war.

2. hans vintler und seine blumen der tugend

Vintlers Werk Die Blumen der Tugend4 gliedert sich in zwei große Hauptteile, die sich wesentlich voneinander unterscheiden: zum einen eine Reihe von Schilderungen von je einer Tugend und dem ihr entsprechenden Laster, zum anderen eine Häufung verschiedener Abschnitte über verschiedenste Themen wie Geiz, Lebensregeln, Rhetorik, Jüngstes Gericht, Aberglauben und anderes mehr. Im ersten Teil seines Werkes beschreibt Hans Vintler in 34 Kapiteln Tugenden und Laster in kontrastiver Reihung; so folgt beispielsweise in der Beschreibung der lieb die des neides, auf die freude lässt er die traurickait, auf die weishait die torhait oder auf die keuschait die uncheusch folgen. Der erste Hauptteil des Werkes schließt mit einem Kapitel über die Mäßigkeit, die temperantia, die von Vintler als die Haupttugend dargestellt wird, der es nachzustreben gilt und die deshalb auch mit keiner Untugend gepaart wird. Eine stets gleiche und stets beibehaltene strukturelle Anordnung findet sich auch innerhalb der einzelnen Kapitel dieses ersten Teils. Man kann jeweils eine Vierteilung erkennen: Zunächst wird in einer beschrei- benden Einleitung die jeweilige Tugend vorgestellt, dann kontrastiv dazu die entsprechende Untugend (z.B. Die geitichait ist ain widerpart / gen der

4 Das Lehrgedicht Hans Vintlers ist in einem Inkunabeldruck aus dem Jahr 1486 sowie in sieben Handschriften überliefert, die teils sehr detailreiche und unterhaltsame Illustrationen aufweisen: Zwei Kodizes befinden sich in Wien, jeweils einer in Stockholm, Gotha und Melk; einen Textzeugen verwahrt die Universitäts- und Landesbibliothek Tirol in Innsbruck und eine besonders schöne Ausgabe das Tiroler Landesmuseum Ferdinandeum, ebenfalls in Innsbruck.

152 | die sprichwörter in hans vintlers blumen der tugend | milte; BT 2120-21). Es folgt der Vergleich mit einem Tier – so wird etwa die Traurigkeit mit einem Raben, der Friede mit einem Biber, die Beständigkeit mit dem Phönix oder der Zorn mit einem Bären verglichen. Den dritten Abschnitt eines jeweiligen Kapitels bilden Sentenzen und Zitate aus anti- ken Autoren, italienischen Dichtern, aus der deutschen Literatur, der Bibel, den Kirchenvätern, Salomonischen Sprüchen, Lobliedern und ähnlichem mehr. Den vierten und letzten Teil bilden Historien, Erzählungen, die das Vorhergehende durch Beispiele noch anschaulicher machen und auch zur Abwechslung und Unterhaltung dienen sollen. Der zweite Teil der Blumen der Tugend scheint eine eher planlose und schwer durchschaubare Anordnung verschiedenster Themen zu sein (Zarncke 1853, 98). Er beginnt mit einem Kapitel über die Melancholie (BT 7028-30), das zu den vorhergehenden in keinerlei Zusammenhang und Anschluss steht, es folgen Abschnitte über die Gebrechen im Alter, den Geiz, die Sanftmütigkeit, das Schweigen, über Unglauben, Aberglauben, über Hoffart, Eitelkeit und Putzsucht der Frauen. Das letzte Kapitel spricht vom Jüngsten Gericht, den Strafen und Qualen in der Hölle und den un- endlichen Freuden im Himmel. Das Werk endet mit einem Gebet, einem Bescheidenheitstopos, dem genauen Datum der Fertigstellung und zualler- letzt einem Lob Gottes.

3. zur vorlage

Hans Vintlers Blumen der Tugend sind – wie bereits erwähnt – eine Überset- zung aus dem Italienischen:

Also han ich Hans Vintler die red geklaubt aus manigen puechen, und die ich alle muest durchsuechen, ee das ich die red pracht zu einer summ. ich han durchsuechet flores virtutum, das do ain wälsches puech ist. das han ich gemachet ze diser frist, das es teutsch zung vernimpt, wann es der rechten tugent zimpt. (BT 122-30)

Die Vorlage, der Fiore di virtù, war ein weitverbreitetes Erbauungsbuch scholastischer Tradition, das etwa hundert Jahre vorher der Dominikaner Tommaso Gozzadini aus Bologna in italienischer Sprache verfasst hat- te (Schweitzer 1993, 27–32).5 Das italienische Prosawerk wird für das

5 In der im Jahre 1740 in Rom bei Antonio de’ Rossi im Druck erschienenen Ausgabe des

153 | elisabeth de felip-jaud |

Lehrgedicht in Reimpaarverse umgeformt.6 Das ist schon die erste und auffälligste Unterscheidung zwischen den beiden Texten. Bei Vintler liegt eine völlig andere Textsorte vor, poetisch geformte versifizierte Didaktik. Schon bei einem ersten, unbefangenen Vergleich fällt auf, dass sich die Übersetzung Vintlers in seiner Makrostruktur, der formalen Gliederung wie Textaufbau, Textabschnitten und inhaltlichen Strukturen anfangs ei- nigermaßen eng an die italienische Vorlage hält, mehr noch, dass Vintler besonders in den ersten Kapiteln genau dem Wortlaut des Fiore folgt. Im Verlauf der Übersetzung macht sich jedoch eine Loslösung vom italieni- schen Text bemerkbar, wobei die Zusätze Vintlers in den Lasterkapiteln häufiger und zahlreicher vorkommen als in den Tugendkapiteln, und es wird deutlich, dass Vintler zunehmend Eigenes einfügt und gerade etwa im letzten Kapitel (moderanza – aber von der mässichait) eine besondere Möglichkeit der Erweiterung sieht. Dass Vintler die italienische Sprache beherrschte, geht aus seiner beruf- lichen Tätigkeit hinlänglich hervor. Auch ist anzunehmen, dass in Bozen um 1400 sowohl Italienisch als auch Deutsch gesprochen wurde.

4. die sprichwörter in den blumen der tugend

Um die Frage zu beantworten, welche überhaupt die Sprichwörter in den Blumen der Tugend sind, dienten Friedrich Wanders Sprichwort-Merkmale (Wander [1836] 1983) als Beantwortungshilfe und ergaben damit zugleich die Ausscheidungskriterien. Die Bildhaftigkeit spielt eine zentrale Rolle, sie steht als Merkmal bei Wander an allererster Stelle (Wander [1836] 1983, 176). Durch Bilder und Metaphern wird das Eigentliche betont und hervorgehoben, wird es ein- prägsamer und leichter memorierbar. So führt auch Hans Vintler zum ei- nen den Ausdruck pös gedänk geben pösen lon (BT 3751) an, zum andern den viel bildlicheren wer das pech rüeret an / der selber wirt beflecket davon (BT 6164-65); neben unmass wüestet alle spiel (BT 5785, u.a.m.) auch das ungleich ausdrucksstarke wenn der pogen stat gespannen / ze aller zeit, so wirt er lamen (BT 9566-67), oder um wie viel aussagestärker wird Unmäßigkeit ausgedrückt durch: wenn die muck will legen ain ai / als die henn, so pricht si entzwai (BT 7174-75). „Kürze ist dem Sprichwort wesentlich; und je größer diese ist, desto frei- er kann sich die Wahrheit bewegen“ (Wander [1836] 1983, 179). Zahlreiche

Fiore di virtù heißt es in der Einleitung: „Dell’autore di questo libro non se ne sa niente né di certo, né di probabile, né pure se ne può far conghiettura. Io bensì m’immagino, che chiunque il compilasse, il compilasse assai più breve, e che altri dipoi vi sieno andati aggiungendo chi una sentenza e chi un’altra.” (Bottari 1740, XIX). 6 Zur Frage, ob sich Vintler in der Wahl der damals bereits veraltenden Form des Reimpaarverses an Dante orientiert hat, vgl. man Reisinger 2015.

154 | die sprichwörter in hans vintlers blumen der tugend |

Beispiele aus den Blumen der Tugend lassen diesen primären Wesenszug erkennen. Die Analyse der Sprichwörter lehrt und zeigt, dass einem be- trächtlichen Teil davon die gleiche Satzstruktur, nämlich der einfache Aussagesatz mit Subjekt-Prädikat-Objekt-Reihung, meistens in dieser Reihenfolge, zugrunde liegt. Manchmal fügt sich eine Negation ein, manch- mal ein Attribut. Diese Konstruktion mit Verben in Mittelstellung sei an ei- nigen Beispielen verdeutlicht: alte sund macht newe schant (BT 6529); süesse antwort pringt süesse wort (BT 8974); die lieb nicht hat augen (BT 605); der zorn nicht hat augen (BT 1423); pöse werch machen pöse end (BT 7407). Die Beispielreihe mit Verben in Mittelstellung ließe sich beliebig fortsetzen. An Beispielen wie etwa alte sund macht newe schant (BT 6529) oder süesse ant- wort pringt süesse wort (BT 8974) wird zudem deutlich, dass hier die Verben nichts zur inhaltlichen Ausgestaltung der semantischen Grundbeziehung beitragen. Sie haben hier nur die Aufgabe, die beiden Glieder in ein ge- dankliches Verhältnis zu bringen. Die Kernaussage des Spruches wäre auch bei Auslassung des Verbs (‚geben‘, ‚machen‘, ,bringen‘, ,haben‘, ,kommen‘, ,werden‘, ,sein‘) leicht erkennbar: pös gedänk – pöser lon, alte sund – newe schant, süesse wort – süesse antwort. Eine Erweiterung von Einfachsätzen erfolgt etwa durch die Verwendung mehrwertiger Verben: nicht mer das pöse mit dem pösen (BT 791); under dem süessen honig vacht man das pöse gift (BT 2441); under des lemlein vel verpirgt sich oft des wolfes chel (BT 3728-29) usw. Eine geschlossene Form weisen zahlreiche Sprichwörter auf, deren Wirkung auf der Relation ‚wer–der‘, ‚wenn–dann‘ basiert und die damit Gleichstellung, Entgegensetzung oder ein Folgeverhältnis aufzeigen: wenn der herr des hauses milt sei, / so sol der chnecht nicht karchait haben (BT 1980- 81); wer ain grueb dem andern macht, / der vellet selber darein unbedacht (BT 3412-13); wer das pech rüeret an, / der selbe wirt beflecket davon (BT 6164-65); wer do ze palde lauft, / der auch dester öfter straucht (BT 6510-11); wer vil waiss, der zweivelt vil (BT 7153); wer sich geren zue dem fewer menget, / der selb wirt gern besenget (BT 7456-57); wenn der abt die würfel trait, / so spilen die münich alle geren (BT 9099-100). Ein wichtiges, wenn auch fakultatives Merkmal der Sprichwörter sind Reim und Rhythmus. Gerade bei den Sprichwörtern, die sich auf den ein- fachen Aussagesatz beschränken – wie z.B. alte sund macht newe schant (BT 6529) – lässt sich zeigen, wie stark der Rhythmus des Sprichwortes eben von der syntaktischen Beziehung bestimmt wird. So liegt etwa beim ge- nannten Beispiel die syntaktisch-dynamische Pause in der Mitte der beiden syntaktischen Glieder. Die zweigliedrigen Sprichwörter mit Relativsatz ha- ben indessen die rhythmisch-syntaktische Pause vor dem Relativpronomen und dem Relativsatz. Auch Alliteration dient der Untermauerung des Rhythmus. Zur Exemplifizierung mögen zwei Beispiele aus denBlumen der Tugend genü-

155 | elisabeth de felip-jaud | gen: das alter sol haben weis und wort (BT 6573); wer vil waiss, der zweivelt vil (BT 7153). Das Alternieren von betonten und unbetonten Silben und daktylischen Formen macht die Sprichwörter melodischer und von daher leichter zu merken: beispielsweise unart chopppet in sein art (BT 6754); alte sund macht newe schant (BT 6529). Reim, Alliteration, Assonanz und Rhythmus dienen dazu, die Formulierung dem Gedächtnis einzuprägen und ihr Dauer zu verleihen. Stilistische Kriterien bei Sprichwörtern sind nach Friedrich Wander ([1836] 1983, 182) auch die „leichten und kurzen Gegensätze“. Um der Einprägsamkeit Nachhaltigkeit zu gewähren, arbeiten nahezu alle Sprichwörter in den Blumen mit einer Gegensatztechnik. Dies äußert sich in der Wahl von Gegensatzpaaren: • so bei den Substantiven: Krieg–Frieden (BT 1310-12), Toren–Weisen (BT 1404-06), Herr–Knecht (BT 1980-82), Honig–Gift (BT 2441), Anfang– Ende (BT 2603), Lamm–Wolf (BT 3728-30), Tod–Leben (BT 6554-56), • oder den Adjektiven: übel–gut (BT 3665-67), alt–neu (BT 6529), jung–alt (BT 7147-49), arm–reich (BT 9569-71) etc. • oder den Verben: brennen–löschen (BT 1930), schmeicheln–hecken (BT 2464-66), laufen–fallen (BT 6510-12), wissen–zweifeln (BT 7173) und vie- le andere mehr. Diese Gegenüberstellung bringt Spannung in das Sprichwort; der eine Teil des Zitates wird durch die Aussage des zweiten, kontrastiven Teiles verstärkt. So enthält oft der erste Teil eine mahnende Feststellung, der an- dere die belehrende Aufforderung nach dem Rechten; ein Teil enthält die Ursache, der andere die Wirkung. Die Kontrastierung wird zusätzlich noch durch einen formelhaften Komparativ unterstützt – nach dem Schema ‚bes- ser A als B‘ – wie beispielsweise es ist pesser der tot an wan, / wan das man lebet ane scham (BT 6554-55) – auf der negativen Seite wird hier das kleine Übel dem größeren vorgezogen. Opposition und Gegenüberstellung werden bisweilen auch durch eine bei Sprichwörtern beliebte Satzstruktur betont: den Parallelismus, wie etwa in der mund ist hie, das herz ist dort (BT 6929). Oft werden heterogene Dinge gekoppelt, z.B. in den Sprichwörtern als das wasser erleschet das prinnent feuer / also chumpt das almusen der sund ze steur (BT 1930) oder die helle und das uncheusch weib, / die erfüllet man nicht ze chainer zeit (BT 6266-67). Andere Phraseologismen leben von der Übertreibung, der Drastik, der Hyperbolik: das selb sein esel mit kurzen oren (BT 9074) oder wenn die muck will legen ain ai, / als die henn, so pricht si ent- zwai (BT 9566-67). Neben all den erwähnten Merkmalen markieren bei Hans Vintler zwei Indikatoren Sprichwörter und sprichwortartige Texte: Wernfried Hofmeister (1990, 45) nennt sie „Kommentare“ und/oder „Einleitungsformeln“. Zum

156 | die sprichwörter in hans vintlers blumen der tugend | einen bettet Vintler die Sprichwörter in eine allgemein-gültige Aussage, betont das oft Gesagte, Dagewesene, Zitierte, das menschlich seit jeher Verbindliche und Gültige durch allgemeine Kommentare wie z.B. wann in der Natur bewärt es sich (BT 641); davon spricht der weis man (BT 1404); auch hört man das von den weisen jehen (BT 5243); also geschriben stat (BT 6163), wann doch ain offen wort ist (BT 6509); wann man das hat oft gehort (BT 6572); doch haben die alten war gesait (BT 9098) – sie geben bei Vintler Hinweis auf das Vorliegen von Sprichwörtern, von Weisheiten aus dem Volksmunde eben. Zum anderen streut der Dichter – wie bereits erwähnt, auch seiner Vorlage folgend – immer wieder Sentenzen und Sprüche aus der Bibel, den Kirchenvätern oder antiken Autoren in seine Übersetzung ein. Wortfolgen wie Salomon spricht, Aristoteles spricht, als Seneca spricht oder darumb lert uns Cato gar recht „stellen autoritätsstiftende Register-/Quellenverweise dar“ (Hofmeister 1990, 50–51). Es ist aber letztlich schwierig, eine untrüg- liche Trennlinie zwischen dem volkstümlich gewordenen und als solchem auch erkennbaren Zitat oder Erfahrungsschatz eines Dichters und dem Sprichworte im Sinne eines Gemeingutes des Volkes zu ziehen. Zu sehr sind sie miteinander verwoben, einander bedingt. Neben diesen Kommentaren sind es gleichermaßen die Einleitungswörter wann, als, gleich als, also und andere mehr, die auf Sprichwörter und sprich- wortartige Vergleiche hinweisen. Was ihre Distribution betrifft, so stehen die meisten Sprichwörter in den Blumen der Tugend an markanten Passagen, an einleitenden oder ab- schließenden Stellen. Vintler beendet – dabei häufig von seiner Vorlage ab- weichend – meistens eine Beschreibung einer Tugend oder eines Lasters mit einem Sprichwort, um seine Ausführungen noch kraftvoller, noch bildlicher zu unterstreichen. Die Wirkstrategie ist klar: höchste Akzeptanz beim Publikum, das die Sprichwörter kennt, sie auch in ihrer umgeform- ten Gestalt wiedererkennt und durch Vergleiche angesprochen wird. Durch die ‚Wahrheit‘ der Sprichwörter wird die ‚Wahrheit‘ des ganzen Werkes gewährleistet.

5. sprichwörter in den blumen der tugend und ihr verhältnis zum italienischen fiore di virtù

Wiederholt wurde darauf hingewiesen, dass Hans Vintler im Zuge seiner Übersetzung sich mehr und mehr von seiner italienischen Vorlage löst. Ge- rade im zweiten Teil seines Werkes fügt er zunehmend Eigenes bei, dichtet um und – was uns hier am meisten interessiert – webt eigene Sprichwör- ter und sprichwörtliche Redensarten in die Übersetzung ein. Dieses Phä- nomen der nachlassenden Genauigkeit der Übersetzung im Laufe eines längeren Textes ist nichts Unbekanntes. Den Gründen dafür – Finden des

157 | elisabeth de felip-jaud | eigenen Übertragungsstils, die zunehmende Vertrautheit mit dem Stoff und dadurch Emanzipation vom Stoff und Stil der Vorlage oder aber Er- müdung des Übersetzers, Zeitdruck oder Textmissverständnisse – sei hier nicht nachgegangen. Der Sprichwortbestand in den Blumen der Tugend soll unter folgenden Fragestellungen beleuchtet werden: Welche Sprichwörter sind beiden Texten gemeinsam und wie überträgt der deutsche Dichter die vorgegebenen Sprüche? Welche finden sich nur bei Vintler? Welcher Status kommt dem Sprichwort im Text Vintlers zu und welche Funktion hat es in der Struktur seines Werkes? So einfach die Fragestellung erscheint, so problematisch wird sie bei einer genaueren Analyse. Denn das Hauptproblem bei der Beschäftigung mit Vintlers Blumen der Tugend ist das Fehlen der italienischen Vorlage, die Vintler verwendet hat. Wir wissen nicht, welche Vorlage der Vintlerschen Übersetzung zugrunde liegt. Und so muss zu späteren Drucken gegriffen werden. Meinen Analysen liegt eine Ausgabe aus dem Jahr 1740 zugrunde, die herausgegeben von Giovanni Bottari in Rom in der stamperia Antonio de’ Rossi (via del Seminario) im Jahre 1740 erschienen ist. Hypothesen müssen also erstellt werden, wenn man die Sprüche aus dem Vintlerschen Opus mit denen aus dem Fiore von 1740 vergleicht: Finden sich Sprichwörter sowohl bei Vintler wie auch in der Ausgabe von 1740, so kann man vermuten, dass diese auch in der nicht vorhandenen Vorlage zu finden wären. Bei den Sprüchen, die zwar bei Vintler, nicht aber in der Edition von 1740 belegt sind, kann man zwei Vermutungen aufstellen: Zum einen könn- ten sie Übersetzung aus der italienischen Vorlage sein oder aber es sind ei- gene Ergänzungen Vintlers, die das italienische Original und somit auch die Ausgabe von 1740 nicht enthalten. Weiters könnte auch der Fall eintreten, dass es Sprüche im Fiore von 1740 gibt, die sich aber bei Vintler nicht finden. Es ergibt sich die Frage, ob sie im Original auch nicht standen und es somit spätere Ergänzungen des Herausgebers Bottari waren – das würde erklären, warum Vintler sie nicht übersetzt hat. Es könnte aber sein, dass die italieni- schen Sprichwörter sowohl in der von Vintler verwendeten Vorlage als auch in der Edition des 18. Jahrhunderts vorhanden sind, Vintler sie aber, aus welchen Gründen auch immer, nicht übernommen und nicht übersetzt hat. Auf Grund all dieser Hypothesen, die die crux der Überlieferungsge- schichte mit sich bringt, müsste ich meine Fragen nach dem Sprichwörtervergleich in den beiden Texten – wenn überhaupt – eigentlich nur im Konjunktiv stellen. Ich versuche die vergleichende Analyse dennoch. Vintler übernimmt gerade im ersten Teil seiner Blumen der Tugend na- hezu alle Sprichwörter des Fiore di virtù (Bottari 1740).7 Das Italienische und das Deutsche verfügen ja über eine relativ kongruente Metaphorik, die nicht zuletzt auf ähnliche kulturgeschichtliche oder religiöse Grundlagen zurückzuführen ist. Viele sprichwörtliche oder metaphorische Konzepte der

7 In der Folge als Fiore mit Seitenzahl im Text zitiert.

158 | die sprichwörter in hans vintlers blumen der tugend | beiden Sprachen wurzeln zudem auf universellen, kulturübergreifenden Erscheinungen. Dies lässt sich bei Sprüchen oder zu Sprichwörtern gewor- denen Sentenzen aus der Bibel, den Kirchenvätern oder antiken Autoren aufzeigen. Nur einige wenige seien hier herausgegriffen und analysiert, da sich das für einen Spruch Gesagte auf mehrere andere Sprichwörter über- tragen lässt. So wird im ersten Kapitel des Fiore über amore e benvolenza unter anderem Plato zitiert Amore non ha occhi (Fiore 12) – Vintler formt die- sen Aussagesatz in eine indirekte Rede um und übersetzt: Plato hat es euch pedacht / und spricht, das die lieb nicht hab augen (BT 605-06). Der Spruch Salomons chi dà al povero, non sarà mendico (Fiore 54) lautet bei Vintler: wer dem armen geit, der pettelt nicht (BT 1654) oder der des Sokrates gli amici si conoscono nella nicisità (Fiore 54) findet sich wörtlich bei Vintlerdie freunt erchennet man in nöten (BT 2012-13). Lo scarpione lusinga colla faccia, e colla coda punge (Fiore 67) übersetzt Vintler mit der tarant smaicht mit den augen ser / und mit swanz so hecket er (BT 2464-65). Das Adverb ser fehlt im Fiore und dürfte wohl aus Reimgründen ser–er im Deutschen zusätzlich eingefügt worden sein. Vintler ändert die italienische Spruch-Version: Der Tarant, der Skorpion schmeichelt mit den Augen, nicht mit der faccia, dem Gesicht. Aus heutiger Sicht lässt sich nicht mehr feststellen, ob diese Änderungen aus Gründen der Präzisierung (schmeicheln mit den Augen und nicht mit dem ganzen Gesicht) vorge- nommen wurde oder weil der Spruch zu Vintlers Zeit, in Vintlers Kontext nur mehr in dieser Form verbreitet und bekannt war. Das bekannte Sprichwort „Wer andern eine Grube gräbt, fällt selbst hi- nein“ lautet im Fiore: chi cava la fossa, si vi cade dentro (Fiore 89; „wer eine Grube gräbt, fällt selbst hinein“). Während hier nicht näher angegeben wird, wem die Grube gegraben wird, erfährt man bei Vintler, dass diese für einen anderen bzw. für andere bestimmt ist: wer ain grueb dem andern macht, / der vellet selber darein unbedacht (BT 3412-13). Durch die Umformung des Spruches wird die Aussage desselben intensiviert, die Hinterhältigkeit des Handelns besonders hervorgehoben. Im Italienischen könnte das Sprichwort auch der Aussage dienen: Wer sich selbst in Gefahr begibt, ist an einem negativen Ausgang selber Schuld. Wie auch in vielen anderen Fällen lässt sich auch hier nicht genau nachweisen, ob die Erweiterung durch das Dativobjekt dem andern nur aus versrhythmischer Stringenz erfolgte oder ob das Sprichwort Vintler nur in dieser Form bekannt war. Die Melodie und der Satzrhythmus sind es, die das Sprichwort Vintlers wer den stain will umbe cheren, / so velt er auf in selber geren (BT 3414-15) viel einprägsamer machen als etwa das entsprechende im Fiore: chi volge la pie- tra, ella gli cade addosso (Fiore 89). Es sind sicherlich wieder versrhythmische Gründe, die den Dichter dazu veranlassen, das einfache Verb volge mit ei- nem Modalgefüge will cheren wiederzugeben. Ebenso lässt sich der Zusatz geren erklären, der auf cheren reimen soll.

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Reimzwang war ausschlaggebend bei der Umformung des folgenden Spruches Varros: sotto la pelle dello agnello si nasconde lo lupo (Fiore 95). Bei Vintler findet man:under des lemlein vel / verpirget sich oft des wolfes chel (BT 3728-29). Um den Reim vel/chel zu erhalten, hat Vintler das Genitivobjekt des lemlein im Gegensatz zum Italienischen vorangezogen. Im Kapitel über die moderanza, die Mäßigkeit, wird ein Spruch Senecas zitiert: chi troppe corre, ispesso incappa (Fiore 154). Dieser lautet im selben Kapitel bei Vintler: wan doch ain offens wort ist: / wer do ze palde lauft, / das der auch dester öfter straucht (BT 6510-11). Während die italienische Ausgabe Seneca als Gewährsmann angibt, bleibt die deutsche Einleitung zum Spruch sehr allgemein gehalten, wan doch ain offens wort ist. Ein Sprichwort fällt im ersten Teil besonders auf. Im Kapitel über die Mildtätigkeit heißt es, man solle seine Gaben nicht an Wohlhabende ver- schwenden, denn das sei geleich als der do wasser trüeg in den Rein (BT 1889). Im Umfeld wörtlichster Übertragung sticht dieser sprichwortähnliche Vergleich, der als Zusatz Vintlers eingefügt wird, durch seinen Inhalt her- vor. In der Übertragung eines italienischen Textes ist plötzlich vom Rhein die Rede, obwohl bereits in damaliger Zeit das allgemeinere Du tregst wasser ins meer (Wander [1867-80] 2007, 1826, Nr. 635)8 bekannt gewesen wäre, oder aber die Sinnlosigkeit des Tuns auch mit einem Vergleich wie „Wasser in den Tiber tragen“ oder, für Vintler naheliegender, „Wasser in die Talfer bringen“ ausgedrückt hätte werden können. Im Laufe all der Kapitel hat sich Vintler zunehmend von der Vorlage emanzipiert. Besonders im zweiten Teil seines Werkes lassen sich kaum noch gemeinsame Sprichwörter und sprichwörtliche Redensarten fest- stellen. Obwohl dem deutschen Dichter auch hier durchaus zahlreiche Sentenzen und Redewendungen im italienischen Text zur Verfügung ge- standen wären, ergänzt und erweitert er mit eigenen Wendungen. Auffallend sind hierbei besonders die Einleitungsfloskeln: waren es im ersten Teil Sentenzen aus der Bibel, den Kirchenvätern und antiken Autoren, so ver- wendet Vintler jetzt wohl allgemein bekannte und verbreitete Sprüche, die er mit den sehr allgemein gehaltenen Formulierungen einleitet: so ist das auch wol bechant (BT 6528); wann man hat das oft gehort (BT 6572); hör ich sagen (BT 6649); auch das geschriben stat (BT 7326); als man list (BT 8606); man spricht (BT 8953) etc. Von den vielen, in der italienischen Vorlage nicht nachzuweisenden Wendungen seien hier nur wenige aufgezeigt. Neben bis heute geläufigen Sprichwörtern wie den deub macht den stat (BT 5974; „Gelegenheit macht den Dieb“), wer das pech rüeret an / der selbe wirt beflecket davon (BT 6164- 65; „Wer mit dem Pech spielt, wird selbst beschmutzt“), der munt ist hie, / das herz ist dort (BT 6929; „Der Mund ist hier, das Herz ist dort“), finden sich Sprichwörter, die Friedrich Wander als typisch für das Mittelalter und

8 Vgl. auch Ibid., 1805, Nr. 148; 1811, Nr. 267.

160 | die sprichwörter in hans vintlers blumen der tugend | die Frühe Neuzeit ausweist. So heißt es im Kapitel über die „Mäßigkeit“, man solle im Leben nie übertreiben oder zu viel verlangen, denn wenn der pogen stat gespannen / ze aller zeit, so wirt er lamen (BT 7174-75; „ein zu lang gespannter Bogen zerbricht leicht“) oder wenn der paum nimmer pluet, / so pringt er auch chain frucht nuet (BT 7179-80; „Die Bäume müssen erst blü- hen, ehe sie Früchte tragen“). Ein im Mittelalter gängiger Spruch zur Habgier und zum Geiz des Klerus lautet:

der pfenning ist also gestalt, und wär der winter noch so chalt, so singt der paff an underwint, die weil man ihm das opfer bringt. (BT 7268-70)

Wander belegt ihn in seinem Sprichwörterlexikon als weit verbreitet: „Kein Pfaff zu alt, kein Winter zu kalt / wo der Pfennig klingt, mit Freuden er singt“ (Wander [1867-80] 2007, 1230, Nr. 136). In klerikalem Milieu ist auch der Spruch wenn der abt die Würfel trait, / so spielen die münich geren (BT 9099-100; „Wenn der Abt die Würfel gibt, spielen die Mönche“) angesiedelt. Dieses Sprichwort, das verdeutlichen soll, wie wichtig ein gutes Vorbild wäre, war im Mittelalter weitest verbreitet und in deutschen Texten sehr gängig; so finden wir es auch bei Vintlers Zeitgenossen Oswald von Wolkenstein (Klein 1987, 112, 132-34) belegt. Neid und Bosheit zeigt Vintler als zerstörerische Triebfedern menschli- chen Handelns auf; er warnt davor, denn wer sich geren zue dem fewer menget, / der selb wirt gern besenget (BT 7456-57; „Wer dem Feuer zu nahe kommt, verbrennt sich selbst“) oder wer sich geren mischet under die cleien, / den essent die säu mit den preien (BT 7458-59; „Wer sich unter die Kleien mischt, den fressen die Säue mit den Stacheln“). Zu Vintlers Sondergut zählt auch ein Vergleich, der in ähnlicher Form vom Dichter in einem anderen Kapitel aus dem Italienischen genommen wurde. Nun im Abschnitt, in dem die Fehler aufgelistet werden, die bei einer guten Rede vermieden werden sollten, wird vor der Doppelzüngigkeit gewarnt, man sei sonst gleich als die chatz, / die voren leckt und hinden chratzt (BT 8796-97). Auch Flüche und Schelten oder das gegenseitige Beschimpfen sind keine rühmlichen Merkmale einer guten Rede. Besonders der unan- genehme Schlagabtausch sei zu vermeiden, denn das komme – so Vintler – nur unter Frauen, besonders nur unter Schwägerinnen vor: zwo gellen / wurden oft guet gesellen, / aber zwaier brüeder weib / beleiben selten ane streit (BT 8954-57; „Zwei Nebenbuhler wurden oft gute Freunde, aber zweier Brüder Frauen bleiben selten ohne Streit“).

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Im Epilog seiner Blumen kreidet Vintler nochmals die Eitelkeit und die Hoffart der Frauen an. Sie plustern sich mit teuren und kostbaren Gewändern auf, glauben, mit Schmuck und Edelsteinen Adel zu erlangen, und müssen doch zu Hause Wasser statt Wein trinken. Vintler warnt die Frauen eindringlich vor so einem Verhalten, denn wenn die muck will legen ain ai, / als die henn, so pricht si entzwai (BT 9566-67; „Wenn die Mücke ein Hühnerei legen will, so ist es ihr Tod“). Adel und rechte Gesinnung kann man nicht mit übertreibenden Äußerlichkeiten erlangen. Adel fließe auch nicht im Blut, Adel zeige sich einzig und allein in der Gesinnung eines Menschen, in seinem rechten, maßvollen Handeln: Adel sitzt im gemüte und nicht im geblüte (BT 6798-99).

6. zusammenfassende schlussbemerkung

Hans Vintler, einer der bedeutendsten Tiroler Dichter der Frühen Neuzeit, übersetzt seine Blumen der Tugend 1411 aus dem Italienischen ins Deutsche. Im ersten Teil, der bis Kap. 34 geht, überträgt Vintler auch die Sprichwör- ter des italienischen Textes nahezu wörtlich und übernimmt dabei sowohl Wortfolge wie auch Satzstruktur. Die Versifizierung erzwang bei einigen Sprichwörtern allerdings auch die Umformung der Satzstruktur. So wur- den unter anderem Relativsätze zu attributiv verwendeten Partizipien oder Aussagesätze zu indirekten Reden umgegossen. Aus Reimzwang und des dadurch erforderlichen oder vielleicht nur gewünschten Satzrhythmus we- gen ergänzt Vintler so manch einen Spruch durch Adverbien, Modalparti- kel oder Adjektive. Auch semantische Unterschiede ergeben sich aus den leichten Abänderungen. Ganz anders sind die zahlreichen Sprichwörter oder Sentenzen im zweiten Teil der Blumen der Tugend zu bewerten, die ja keine Übersetzungsleistung darstellen, sondern Erweiterung, also Vintler- sches Sondergut sind. Vintler schreibt für ein Lesepublikum seiner Zeit, seines Sprach- und seines Kulturraumes. Er will die Hinbewegung des Textes zum Leser, die Adaption des Ausgangstextes an die Kultur der Zielsprache. Welche Gründe der markanten zunehmenden Entfernung vom Ausgangstext im Laufe der Übertragung zugrunde liegen – Finden des eigenen Übertragungsstils, zu- nehmende Vertrautheit Vintlers mit dem Stoff und dadurch Emanzipation von Stoff und Stil der Vorlage oder aber Ermüdung, Zeitmangel oder Textmissverständnisse –, lässt sich nicht mit Bestimmtheit sagen. Mit all den Ergänzungen und Erweiterungen, aber insbesondere durch die Verwendung eigener Sprichwörter verfolgt Vintler jedoch sicher auch das Ziel, einen in sich homogenen deutschen und eigenständigen Text zu schaffen, der den Rezipienten besonders durch einen bekannten Sprichwortschatz erreichen soll.

162 | die sprichwörter in hans vintlers blumen der tugend |

Letztlich führt Vintlers Übersetzung aber wieder zusammen, denn Tommaso Gozzadini, ein italienischer Geistlicher um 1300, und Hans Vintler, ein deutscher Adeliger um 1400, aufgewachsen in zwei verschie- denen Welten, in zwei verschiedenen Traditionen, mit durchaus verschie- denen Lebensauffassungen, begegnen einander in ihrer schöpferischen Produktivität, in dem Willen, durch ihre Dichtung nützliche Unterhaltung zu bieten und die Menschheit zu belehren und zu bessern, sie treffen ein- ander im Schnittpunkt zwischen ausgehendem Mittelalter und beginnen- der Neuzeit, zwischen italienischer und deutscher Geisteswelt und sie be- gegnen einander ganz besonders in ihrer Vorliebe für Sprichwörter.

Literaturverzeichnis

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163 | elisabeth de felip-jaud |

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164 English Abstracts

E. Di Venosa: Germanic Historical Phraseology: Themes, Tools, and Methods (13-28) Gnomic tradition in medieval Germanic texts can be studied from differ- ent points of view. Maxims, proverbs, wise sayings, and various rules of life and behaviour pertain both to phraseology and paremiology, since they can display particular syntactic features as well as a reflection of the social and cultural environment in which they were transmitted. The analysis of these phrases and of their context leads to interesting results enriching our knowledge of past traditions, archaic words and constructions, and it allows to observe the development of meaning and form of ancient idioms still in use. The present contribution aims to focus on this particular branch of his- torical linguistics, which brings philology closer to other disciplines ranging from language history to pragmatics.

M. Francini: Literary Images of Slavery in the Riddles of the Exeter Book (29-51) The essay examines the themes, poetic diction, metaphors, and rhetorical devices of the Exeter Book riddles 12, 52, and 72, selected because they as- sociate Welsh servitude to oxen and because they include images of captivity and bondage, showing a connection between slavery, ethnicity, and conduct through the multifaceted term wealh, which relates to slavery, Celtic origin and transgressive behaviour. The noun came to signify both racial and social difference; the analysis reveals that it conveyed moral otherness as well. The cultural equivalence of ‘slave’ and ‘beast’ gives Celtic slaves a status as ethnic, social, and moral ‘other’, so that the figures of the riddles embody the cultural distance between labourers and aristocratic elite, illuminating the opposition between ‘self/other’, ‘English/Welsh’, ‘free/bound’. The subjugated condition of the Welsh is exploited with the didactic aim to convey monastic concerns such as the transience of wordly joys and the loathing of earthly life.

C. Sipione: Gnomic Reflections in The Wife’s Lament (53-78) As it is now widely recognised, The Wife’s Lament, one of the most intrigu- ing and enigmatic Old English poems, is based on a female speaker uttering

|165| | english abstracts | her grief for the absence of her loved one. Partly due to its grammatical ambiguities and the unclear chronology of events, many passages of the poem remain obscure and defy a shared understanding. The interpretation of the final lines (42-53) has frequently been a matter of passionate debate: some scholars believe they contain a curse against the man who deserted the woman; but they should rather be considered as a series of gnomic re- flections on the need to endure distress and unhappiness with stoic resig- nation. The essay examines the structural and lexical features of the con- cluding lines of the poem, comparing them with analogues from other Old English texts; the final considerations show the coherence of those lines in relation to the poem as a whole.

R.H. Bremmer Jr: “The Fleeing Foot is the Confessing Hand.” Proverbs in the Old Frisian Laws (79-100) Proverbs in the medieval Frisian laws have been studied ever since Jacob Grimm called them to his readers’ attention in 1816. Most energy was there- upon placed in spotting and collecting them for inclusion in large collections of German proverbs which were fashionable in the nineteenth century. Also in the twentieth century, scholarly activity focused on signalling their stylis- tic ‘Germanic’ beauty or lifting them out of their context and placing them in lists and anthologies. In this contribution, the proverbs in the Old Frisian law texts are analysed in the light of recent paremiology with an eye to both their form and the function they have in their immediate context.

V. Di Clemente: Uses of the Gnomic Element in John Barbour’s Bruce (101-19) In his poem about Robert Bruce’s life and enterprises, John Barbour (1319- 95) uses the gnomic element in a variety of ways. Proverbs, maxims, and occasional gnomic utterances or verses are employed to shape the text, as commentary, prolexis, summary, example, and comparison, in order to give an insight into the personality of important characters (especially the pro- tagonist), and highlight propagandistic and ideological themes that are an essential part of the poem’s complex frame.

D. Bertagnolli: The Teachings of Jan van Boendale’s Leken Spieghel in the Urban Context of Fourteenth-century Brabant (121-36) The generic tone in which practical instructions and moral advice are for- mulated in medieval didactic texts is one of the features which guaranteed them success and broad diffusion as it permitted their use in different con- texts. This assumption applies also to the Leken Spieghel, a didactic treatise written by Jan van Boendale in the second decade of the fourteenth centu- ry. This essay presents the sections connected to the urban sphere and, in more general terms, to the Duchy of Brabant, by comparing the information contained in the Leken Spieghel with the author’s other texts and by taking

166 | english abstracts | into account also some historical events. The aim is to provide a better un- derstanding of the Leken Spieghel teachings and of the possible reason for their inclusion in this text.

D. Gottschall: Ein meister sprichet. Dicta (Sprüche) as Didactic Tools in Fourteenth-century German Mysticism (137-50) The present essay raises the question whether the so-called ‘mystical say- ing’ (Mystikerspruch), a widespread phenomenon in spiritual German litera- ture and flourishing in the fourteenth century, is the minimum unit of the treatise and the sermon from a purely formal aspect – i.e., a quotation attrib- uted to various authorities who reportedly pronounced it – or if the saying corresponds, for its content, to the literary genre of the dictum (Spruch) and therefore deserves, with good reason, to be considered part of gnomic liter- ature together with sentences and proverbs. The essay first challenges the category of the ‘saying’ in modern scientific literature, then examines the use of the quotation in medieval manuscripts, and finally traces the pres- ence of sayings in Eckhart’s German sermons and in texts by Tauler and Seuse. It ends with the analysis of two sayings attributed to Meister Eckhart.

E. De Felip-Jaud: Proverbs in Hans Vintler’s Blumen der Tugend (151-64) Hans Vintler, one of the most significant Tyrolean poets of the early modern period, completes in 1411 his Blumen der Tugend, a translation of the Italian didactic poem Fiore di virtù by Tommaso Gozzadini (ca. 1320), and expands it, with his own additions, to more than 10,000 lines. In his translation, Vintler discusses virtues and vices as well as his own times. In the first part of Blumen der Tugend, which ends at chapter 34, Vintler follows the Italian text and the proverbs occurring in it almost word by word, and adopts their word order as well as their sentence structure. However, the versification of the German text not only requires a transformation of the sentence struc- ture of many proverbs but also introduces semantic differences. Numerous proverbs and aphorisms of the second part of Blumen der Tugend, which are not a translation but Vintler’s addition, need to be assessed differently. By using proverbs, Vintler pursues the goal of creating a homogeneous Ger- man text, which should reach the recipient by exerting common paremio- logical vocabulary.

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Gli autori

Davide Bertagnolli ha conseguito il titolo di dottore di ricerca in Studi Lette- rari, Linguistici e Filologici presso l’Università di Trento. Dopo esperienze di ricerca e didattica in Italia (Trento, Venezia), Germania (Berlino, Müns- ter), Paesi Bassi (Groninga) e Austria (Innsbruck), insegna attualmente Fi- lologia Germanica all’Università di Bologna. È autore di pubblicazioni su vari temi delle letterature del medioevo germanico, come il poema anglo- sassone Beowulf, la raccolta di fiabeEsopet e il trattato didascalico Der Leken Spieghel in neerlandese medio, il poema cavalleresco Valentin und Namelos e il racconto in versi De deif van Brugghe in basso tedesco medio. Il suo volume Freidank. Die Sprüche über Rom und den Papst (Kümmerle 2013) ha vinto il Premio Scardigli (2015), assegnato annualmente dall’Associazione Italiana di Filologia Germanica (AIFG).

Rolf H. Bremmer Jr è professore emerito di Filologia Inglese e professore emerito di Lingua e Letteratura Frisone all’Università di Leida, nonché mem- bro onorario dell’Accademia Frisone di Leeuwarden. È autore di numerose pubblicazioni in entrambi gli ambiti. Insieme a Patrizia Lendinara (Palermo) e Kees Dekker (Groninga) ha diretto il progetto di ricerca internazionale Store- houses of Wholesome Learning. The Transmission od Encyclopaedic Knowledge in the Early Middle Ages, i cui risultati sono apparsi in quattro ampi volumi sull’apprendimento sano pubblicati da Peeters (Lovanio). È membro onora- rio a vita della International Society of Anglo-Saxonists.

Elisabeth De Felip-Jaud, nata a Bolzano (Italia), ha studiato Germanistica e Filologia Classica all’Università di Innsbruck. È stata insegnante in un liceo di Innsbruck ed è oggi assistente universitaria all’Istituto di Germanistica dell’Università di Innsbruck nel settore della Germanistica medievale. È at- tualmente anche coordinatrice didattica del medesimo Dipartimento. I suoi principali ambiti di ricerca sono la storia della ricezione, i contatti linguistici in prospettiva diacronica, la paremiologia.

|169| | gli autori |

Valeria Di Clemente è ricercatrice a tempo determinato di Filologia Ger- manica all’Università degli Studi di Catania, Struttura didattica speciale di lingue e letterature straniere di Ragusa. I suoi principali interessi di ricerca riguardano la letteratura medico-farmaceutica nelle lingue germaniche me- dievali, l’onomastica germanica e l’eredità linguistica e culturale germanica nella Scozia del medioevo.

Elena Di Venosa è professore associato di Filologia Germanica all’Universi- tà degli Studi di Milano. I suoi ambiti di ricerca principali riguardano la lin- gua e la letteratura tedesca tardomedievale e protomoderna. Ha pubblicato lavori sui lapidari medievali e sulla trasmissione dei proverbi dal medioevo all’età di Lutero.

Marusca Francini è professore associato di Filologia Germanica all’Univer- sità degli Studi di Pavia. I suoi interessi di ricerca includono la traduzione della Bibbia nelle letterature germaniche medievali, le saghe norrene, la po- esia inglese antica e l’onomastica longobarda.

Dagmar Gottschall è professore associato di Filologia Germanica all’Univer- sità del Salento, Dipartimento di Studi Umanistici. È autrice di pubblicazio- ni sulla letteratura scientifica e religiosa medio alto tedesca del XIV secolo. I suoi interessi si concentrano sulle relazioni fra latino e volgare.

Concetta Sipione è ricercatrice di Filologia Germanica presso il Dipartimen- to di Scienze Umanistiche dell’Università degli Studi di Catania. Ha pub- blicato articoli sulla poesia biblica in alto tedesco antico (Liber Evangeliorum di Otfrid di Weißenburg) e in sassone antico (Heliand) e sulla poesia in alto tedesco medio (Gregorius di Hartmann von Aue, ciclo teodericiano). I suoi interessi più recenti si concentrano sull’analisi testuale e sui problemi tra- duttologici relativi a testi poetici in inglese antico (Beowulf, elegie). Ha fatto parte del progetto multidisciplinare FIR Corpi Plurali/Plural Bodies dell’U- niversità di Catania, in cui si intersecano le biopolitiche relative ai corpi e i gender studies.

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Indice dei nomi

Abramo 93 Barrow, Geoffrey W.S. 102, 117 Ælfric di Eynsham 33-34, 37, 40, 46, Bartsch, Karl 21, 24 62, 81 Battles, Paul 53, 73 Æschere 66 Baum, Paull 39, 47 Agar 40 Beda il Venerabile 30, 45, 141 Agata, santa 33 Bennett, Helen T. 73 Agnese di Kleef-Hülchrath 135 Bergen, Henry 106, 117 Agostino d’Ippona 41, 141-42 Bernardo di Chiaravalle 141-42 Agricola, Johannes 14, 23 Bertagnolli, Davide 10, 121-22, 135 Aitken, Adam J. 101, 118 Berthout, Floris 128 Alberto Magno 139-40, 142 Beveridge, Erskine 105-06, 110, 117 Aldelmo di Malmesbury 34-36, 40 Bianca di Bretagna 114 Alessandro III, re degli Scozzesi 102 Bihlmeyer, Karl 146-48 Alfredo il Grande, re del Wessex 81 Bitterli, Dieter 35, 40, 44, 47 Alice di Borgogna 11, 126, 135 Bitterling, Klaus 104, 117 Alighieri, Dante 154 Bjork, Robert E. 45, 48, 55, 64, 67, Amours, François Joseph 112, 117 73-74 Andrew di Wyntoun 102, 112 Bliss, Alan J. 64-65, 74 Anners, Erik 87, 95 Bloch, Marc 30, 48 Apperson, George L. 104-05, 107-09, Blockmans, Wim 127, 136 113, 117 Bluhm, Lothar 83, 95, 99 Aristotele 157 Boardman, Stephen 102-03, 113, 116-17 Arngart, Olof S. 18, 24, 64, 73, 81, 95 Boas, Mark 115, 117 Arsenio, santo 146 Boezio 142 Ashurst, David 53, 73 Boland, Gustav 127, 135-36 Avonds, Piet 123, 127-28, 132, 135 Bolton, Whitney 54, 73 Aymer de Valence 113 Bonifacio VIII, papa 89 Bonifacio, santo 40 Baldzuhn, Michael 82, 95 Bonnassie, Pierre 30, 48 Bambas, Rudolf C. 54, 73 Borchling, Conrad 79, 85, 95 Banham, Debby 31, 47 Borysławski, Rafal 35, 37, 46, 48 Barbour, John 10, 101-09, 112-17 Bosworth, Joseph 54, 73

|171| | indice dei nomi |

Bottari, Giovanni 11, 154, 158, 163 David di Menevia, santo 41 Bradley, Keith R. 40, 48 David, conte di Huntingdon 102 Brady, Lindy 42-43, 48 David, Jan Baptist 129, 136 Bremmer, Rolf H. Jr 10, 79-80, 86, Davide II, re degli Scozzesi 103, 113, 91, 94, 96 116 Breuker, Philippus H. 83, 96 Davidson, Hilda R. Ellis 21, 25 Brink, Stefan 79, 96 De Felip-Jaud, Elisabeth 11, 151 Brouwer, Jelle H. 84, 96 De Lacy, Paul 64, 74 Bruce, Edward 109-10 de Vries, Matthias 122-25, 136 Bruce, Marjorie 103 de’ Rossi, Antonio 153, 158 Brunner, Ingrid A. 81, 96 Déprez, Eugène 114, 118 Buma, Wybren Jan 80, 84-87, 90, 93- Di Clemente, Valeria 10, 101 94, 96 Di Paolo Healey, Antonette 54, 74 Burger, Harald 13, 15-18, 22, 24 Di Venosa, Elena 9, 13, 17-18, 20, 25, Burmania, George 10, 82 140, 148 Diekstra, Frans N.M. 64, 74 Cain, Christopher M. 53, 74 Dietherr, Mathias 19, 26, 79, 83-84, Calder, Daniel G. 58, 74 86-88, 90, 92-93, 95, 97 Cam 32 Dietrich, Franz 35, 48 Cammarota, Maria Grazia 137, 148 Doane, Alger Nicolaus 38-39, 48, 54, 74 Canuto il Grande, re d’Inghilterra 40 Dobbie, Elliot van Kirk 45, 48, 53, 70, 75 Carlo IV, re di Francia 114 Dobrovol’skij, Dmitrij 23-25 Carlo Magno 121 Dopheide, Maria 16, 25 Cassiano 146 Douglas, James 102, 106, 109-10, Catone 81, 114, 157 113-16 Cavill, Paul 59-61, 74 Doyle, Charles Clay 14, 25 Caxton, William 81 Dronke, Ursula 38, 48 Chafe, Wallace 14, 25 Duncan, Archibald A.M. 102, 104- Chance, Jane 58, 74 05, 118 Charteris, Henry 104 Dunning, Thomas P. 64-65, 74 Chaucer, Geoffrey 39, 113 Cheviot, Andrew 105, 107, 110, 117 Ebel, Wilhelm 86-87, 90, 93-94, 96 Chomsky, Noam 14 Ebin, Lois A. 103, 118 Clark, Susan L. 67, 74 Eckhart von Hochheim (Meister Clemoes, Peter 33, 48, 64, 74 Eckhart) 138-39, 141-45, 147-48 Clifford, Robert 114 Edoardo I, re d’Inghilterra 102, 108, Comyn, John 102, 108, 112 114 Corbellini, Sabrina 130, 136 Edoardo II, re d’Inghilterra 109 Corbett, John 101, 118 Edoardo III, re d’Inghilterra 114 Cordry, Harold V. 107, 118 Eikelmann, Manfred 137-39, 148-49 Costantino I, imperatore romano 121 Elliott, James Keith 41, 48 Coulmas, Florian 23, 25 Emo di Huizinge 88 Cox, Robert S. 20, 25 Enrico II, duca di Brabante 127 Craigie, William A. 104, 118 Enrico III, duca di Brabante 11, 126- Crawford, Samuel 33, 40, 48 27, 135 Cross, James E. 64, 74 Enrico IV, duca di Brabante 126 Curry, Jane L. 72, 74 Erasmo da Rotterdam 14

172 | indice dei nomi |

Ermanarico 45 Giustiniano I, imperatore romano 89 Eucilia 41 Glancy, Jennifer A. 41, 49 Eusebio di Cesarea 35 Gläser, Rosemarie 24, 26 Gneuss, Helmut 81, 97 Farrell, Robert T. 39-40, 48 Godden, Malcolm 33, 39-40, 49 Faull, Margaret Lindsay 31-32, 34, 36, 48 Goffredo di Buglione 123 Favier, Jean 114, 118 Goldstein, R. James 103, 118 Federico IV, duca d’Austria 152 Gorissen, Pieter 127, 136 Feyaerts, Kurt 16, 25 Gottschall, Dagmar 11, 137, 140, 149 Filatkina, Natalia 16, 23-25, 27 Gozzadini, Tommaso 11, 151, 153, 163 Filippo d’Artois 114 Graf, Eduard 19, 26, 79, 83-84, 86-88, Filippo IV il Bello, re di Francia 114 90, 92-93, 95, 97 Filippo V, re di Francia 114 Gréciano, Gertrud 24 Filippo VI, re di Francia 114 Green, Martin 73-74 Filippula, Markku 30, 48 Greenfield, Stanley B. 53, 57-58, 74 Fillmore, Charles J. 23, 25 Gregorio, santo 141-42 Firth, John Rupert 14, 25 Gregorio IX, papa 89 Fleischer, Wolfgang 15, 25 Grendel 45 Földes, Csaba 16, 26 Griese, Sabrina 81, 97 Foran, Susan 103, 117 Griffith, Mark S. 40, 49, 65, 74 Francini, Marusca 9, 29 Grimm, Jacob 14, 83, 97 Frank, Roberta 82, 97 Grimm, Wilhelm 14, 83, 97, 121-22, 136 Freidank 82-83, 121-22, 137 Guglielmo I il Conquistatore, re d’In- Friedrich, Jesko 15, 17-18, 22, 26 ghilterra 19 Fry, Donald K. 37, 48 Guglielmo I, re degli Scozzesi 102 Fulk, Robert D. 45, 48, 53, 55, 57, 70, Gustafsson, Marita 18, 26 74, 77 Hall, Alaric 71, 75 Garmonsway, George Norman 46, 48 Hamer, Richard 70, 72, 75 Gerardo V, conte di Jülich 128 Hansen, Elaine Tuttle 45, 49 Gerbenzon, Pieter 87, 94, 96-97 Harbus, Antonina 62-63, 75 Geremia, Silvia 57, 60, 74 Hart, Andrew 104 Gesù Cristo 35, 54, 94, 121, 142-43, 145 Haugen, Einar 20, 26 Gildas di Rhuys 30, 45 Heimdallr 38 Giovanni (John Balliol), re degli Scozzesi Heiser, Ines 82, 97 102 Henderson, Andrew 105, 107, 110-11, Giovanni Battista, santo 142 113, 118 Giovanni d’Andrea 93 Hendyng 81 Giovanni Evangelista, santo 142 Hennig, Beate 144, 149 Giovanni I, re di Francia 114 Hettema, Montanus 88-89, 92-95, 97 Giovanni I, duca di Brabante 126-27 Higham, Nick 30, 49 Giovanni II, duca di Brabante 127-29, Higley, Sarah Lynn 35, 39, 49 132, 135 Hill, Thomas D. 62-65, 67-68, 75 Giovanni III, duca di Brabante 128, Hislop, Alexander 105, 110, 113, 118 132, 135 Hoeufft, Jacob Henrik 83, 97 Giovanni, abate 146 Hoffmann, Werner J. 146, 150 Girsch, Elizabeth Stevens 31, 34, 48 Hofmeister, Wernfried 156-57, 163 Giuditta 40, 62 Honeck, Richard P. 24, 26, 81, 97

173 | indice dei nomi |

Horgan, A. Dennis 64, 75 Kühn, Peter 23, 26 Householder, Fred W. Jr 22, 26 Küpper, Heinz 15, 26 Howlett, David R. 54, 72, 75 Kurath, Hans 112, 118 Hroþgar 66 Kuusi, Matti 23, 26 Hume, Kathryn 69, 75 Hyams, Paul 89, 97 Lakoff, George 16, 26, 87, 97 Lambrecht, Knud 14, 26 Ilkow, Peter 63, 75 Langacker, Ronald 16, 26 Imma 30 Langeslag, Paul S. 64, 75 Ine, re del Wessex 32 LaPadula, Brent 67, 75 Ingram di Umfraville 107, 113 Lapidge, Michael 30, 45, 49, 81, 97 Irvine, Susan 39, 49 Larrington, Carolyne 17, 19-20, 27 Isaacs, Neil D. 61, 75 Lawrence, William Witherley 57, 59, Isabella di Francia 114 68-69, 71-72, 75 Isacco 93 Lee, Sung-Il 57, 76 Lekpreuik, Robert 104 Jagersma, Bram 89 Lench, Elinor 54, 76 James, John Williams 41, 49 Lendinara, Patrizia 19-20, 27 Jan van Boendale 10, 121-24, 126-27, Leneghan, Francis 64, 76 129-32, 134-35 Leone III, papa 121 Janzen, Jenneka 79 Leslie, Roy F. 57, 60-62, 64, 68, 70- Jarl 38 72, 76 Jochens, Jenny 41, 49 Lexer, Matthias 144, 149 Johnson, Lee Anne 72-73, 75 Liebermann, Felix 32, 40, 49 Johnson, William C. 54, 75 Lindheim, Bogislav von 39, 49 Jones, Charles 101, 118 Liuzza, Roy Michael 34, 49 Jundt, Auguste 141, 149 Lochmalony, Simon 104 Logeman, Henri 34, 49 Karl 38 Löser, Freimut 144, 149 Karras, Ruth Mazo 30, 49 Louis, Cameron 81, 97 Kasik, Jon C. 65, 75 Lousse, Émile 127, 136 Kay, Paul 23, 25 Luigi X, re di Francia 114 Kelly, James 105-06, 110-11, 113, 118 Lumiansky, Robert M. 64, 76 Kennedy, Charles W. 70, 75 Lurati, Ottavio 15, 27 Kinch, Ashby 57, 68, 75 Lüthi, Katrin 14, 16, 27 Klein, Karl K. 161, 163 Luyster, Robert 54, 76 Klemola, Juhani 30, 48 Lydgate, John 106 Klimanek, Wolfgang 141, 149 Klinck, Anne Lingard 44-45, 49, 53- Macafee, Caroline 101, 118 54, 57-58, 60-61, 63, 68, 70-72, 75 Mackenzie, William MacRae 102, 118 Knapp, Fritz Peter 151, 163 Magennis, Hugh 40, 49, 54, 76 Knappe, Gabriele 14-15, 26 Makkai, Adam 22, 27 Köbler, Gerhard 19, 26 Malone, Kemp 57, 76 Koller, Werner 23, 26 Mandel, Jerome 54, 76 Koppinen, Pirkko Anneli 35, 49 Manser, Martin H. 104-05, 107-09, Korte, Andrea 87, 97 113, 117 Krapp, George Philip 35, 49, 53, 70, 75 Marcolfo 81 Kristjánsson, Jónas 20, 26 Margherita di Norvegia 102

174 | indice dei nomi |

Maria d’Évreux 128 Origene d’Alessandria 142 Maria, madre di Gesù 121 Orton, Peter R. 54, 76 Martin, Ernst 83, 97 Östmann, Jan-Ola 14 Massimilla 41 Oswald von Wolkenstein 161 Matilda, contessa d’Artois 114 Matzinger-Pfister, Regula 18, 27 Palm Meister, Christine 14, 22, 27 McClure, J. Derrick 101, 118 Paolo di Tarso, santo 140-42 McDiarmid, Matthew P. 105, 118 Patterson, Orlando 29-30, 50 McGinn, Bernard 138, 149 Payne, F. Anne 65, 77 Mel’čuk, Igor 14 Pelteret, David Anthony Edgell 29-30, Mieder, Wolfgang 15, 17, 21, 27-28, 83, 32-34, 38, 40, 46, 50 85, 97, 104, 118 Penman, Michael A. 102, 119 Mildred, santa 34 Peters, Ann M. 24, 27 Minerva 23 Peters, Ursula 123-24, 130, 136 Mitchell, Bruce 54, 64, 76 Peuger, Lienhart 143 Montgomerie, Alexander 113 Pfeiffer, Franz 138, 147, 149 Mora, Maria José 53, 76 Piirainen, Elisabeth 16, 24, 27 Mosé, abate 146 Pinkerton, John 103, 119 Moulin, Claudine 16, 27 Pitkänen, Heli 30, 48 Mowbray, Philip 109 Platone 159 Muir, Bernard James 36-40, 42-45, 49 Plauto 46 Müller, Jan-Dirk 151, 163 Plummer, Charles 32, 50 Murgia, Raimondo 54, 76 Poole, Russell 20, 27 Murison, David D. 101, 118 Pope, John C. 57, 70, 77 Murphy, Patrick J. 37, 42, 50 Prudenzio 33 Ptashnyk, Stefaniya 18, 27 Napier, Arthur 32, 50 Naumann, Hans-Peter 14, 16, 27 Quint, Josef 142, 144, 149 Nelson, Marie 61, 76 Neville, Jennifer 39-40, 44, 50 Raffel, Burton 56-57, 77 Nidhad 45 Ramsay, John 104 Niles, John D. 35, 37, 45, 48, 50, 55-58, Randolph, Thomas 106 60, 74, 76 Reid, Norman 102, 119 Noè 32 Reisinger, Roman 154, 163 Norrick, Neal R. 14, 22-24, 27, 85, 98 Renoir, Alain 72, 77 North, Richard 64, 76 Reuvekamp, Silvia 138-39, 149 Notker III di San Gallo 20 Rieken, Bernd 88, 98 Riviello, Carla 53, 62-63, 77 O’Brien O’Keeffe, Katherine 19, 27, Roberto I (Robert Bruce), re degli Scoz- 81, 98 zesi 10, 102, 108, 111 O’Connor, Mary Catherine 23, 25 Roberto II, re degli Scozzesi 102-03, Odino 19-20 112, 115-16 Oess, Guido 35, 50 Roberto II, conte d’Artois 114 Ogilvy, Jack David Angus 46, 50 Roberto III d’Artois 113-15 Oloferne 40, 62 Roberto V, signore di Annandale 102 Olsen, Alexandra H. 56-57 Robinson, Mairi 101, 119 Ong, Walter 79, 94, 98 Robson, Peter 34, 40, 50 Orchard, Andy 64, 76 Röhrich, Lutz 17, 21, 28

175 | indice dei nomi |

Ruggero di Leefdael 134-35 Sumner, Claude 79, 98 Ruh, Kurt 138, 146, 149 Swanton, Michael J. 54, 77 Rulon-Miller, Nina 37, 39, 50 Szadrowsky, Manfred 79, 85, 98

Sabban, Annette 24, 28 Taggart, James H. 103, 119 Sachs, Hans 15 Tanke, John W. 40, 50 Sadock, Jerrold 23, 28 Tauler, Johannes 139, 144-47 Salomone 80-81, 157, 159 Taylor, Archer 14, 28 Salvador Bello, Mercedes 47, 50 Teodoro il Siceota 146 Sanesi, Roberto 56-57, 77 Timmer, Benno J. 65, 77 Santoro, Verio 9 Timoteo 141 Scheltema, Jacobus 83 Toller, Thomas Northcote 54, 70, 73 Schmarje, Suzanne 85-86, 98 Tommaso d’Aquino 11, 126-27, 135, 143 Schmidt-Wiegand, Ruth 84, 86-88, Tosi, Renzo 23, 28 90-91, 98 Tragter-Schubert, Martina 94, 96 Schneider, Karin 139, 141, 149 Treharne, Elaine 70, 77, 81, 98 Schott, Clausdieter 92, 98 Tripp, Raymond P. 54, 77 Schücking, Levin L. 54, 57, 77 Tupper, Frederick 37, 40, 51 Schulenberg, Jane Tibbets 34, 50 Tydeman, Hendrik 83 Schweitzer, Franz-Josef 153, 163 Searle, John 58 Þræll 38 Seiler, Friedrich 14, 22, 28, 90, 98 Selzer, John L. 64, 77 Vafþrúðnir 20 Seneca 141, 157, 160 van Anrooij, Wim 122, 124, 136 Seuse, Heinrich 139, 144-47 van der Kuip, Frits 82, 98 Sheppard, Alice 67, 77 van der Straeten, Jos 127, 136 Shippey, Thomas A. 64, 72, 77, 81, 98 van der Zijpe, René 83, 98 Siller, Max 151, 163 van Heijnsbergen, Theo 103, 119 Singer, Samuel 14, 19, 28 van Oostrom, Frits Pieter 130, 136 Sipione, Concetta 10, 53 van Uytven, Raymond 127, 136 Sipma, Pieter 94, 98 Varrone 160 Skeat, Walter William 33-34, 46, 50, Väthjunker, Sonja 102, 119 102, 108, 119 Verdam, Jacob 112, 119 Sleiderink, Remco 135-36 Verhulst, Adrian 30, 51 Smith, Jeremy J. 101, 119 Verlinden, Charles 31, 51 Snellaerts, Ferdinand Augustijn 123, Verwijs, Eelco 111, 119 135-36 Vetter, Ferdinand 145, 150 Socrate 144, 159 Vintler, Franz 152 Sonderegger, Stefan 86, 98 Vintler, Hans 11, 151-54, 156-63 Sprenger, Ulrike 19, 28, 137, 150 Vintler, Niklaus 152 Steer, Georg 141-42, 150 von See, Klaus 10, 20, 28, 80, 82-83, Stein, Peter 89, 98 89, 91, 98 Stenton, Frank Merry 30, 50 Vries, Oebele 79 Stevens, Martin 54, 77 Stevenson, James A.C. 105, 118 Wachinger, Burghart 138, 140, 148, Stewart, Ann Harleman 39, 50 150 Straus, Barrie Ruth 57-58, 77 Walker-Pelkey, Faye 54, 77 Stuart-Smith, Jane 101, 118 Walter VI Stewart 103

176 | indice dei nomi |

Wander, Karl Friedrich Wilhelm 84, Wilcke, Karin 83, 99 94, 99, 154, 156, 160-61, 164 Willems, Jan Frans 124, 132, 136 Ward, J.A. 57, 77 Williams, Blanche Colton 59, 78 Wassenbergh, Everwinus 83, 99 Williams, Edith Whitehurst 40, 51 Wasserman, Julian N. 67, 74 Williams, Ulla 146, 150 Watanabe, Manabu 18, 28 Williamson, Craig 35, 43, 51 Weber, Gerd W. 65, 78 Wingfield, Emily 104, 119 Weber, Robert 92, 99 Winterbottom, Michael 30, 45, 51 Welund 45 Wyatt, David 40-41, 51 Wentersdorf, Karl P. 54, 57, 72-73, 78 Wetzel, René 151, 164 Zarncke, Friedrich 153, 164 Whiting, Bartlett Jere 10, 14, 28, 85, Zingerle, Ignaz Vincenz 151, 164 99, 104-14, 119 Zupitza, Julius 33, 37, 46, 51

177

Indice delle opere anonime e dei libri della Bibbia

Acta Andreae 41 Hávamál 20, 81 Aenigmata Anglica (Indovinelli di Lorsch) Havelok the Dane 108 35 Heliand 21 Alvíssmál 21 Hildebrandslied 19 Anglo-Saxon Chronicle 31 Historia von D. Johann Fausten 18 Homiletic Fragment II 68 Beowulf 19, 45, 55, 59, 62, 65, 68 Hugsvinnsmál 20, 82 Bibbia 91-93, 95 Husband’s Message, The 54

Christ III 38, 62 Judgement Day I 53 Corpus iuris civilis 89 Judith 40, 62 Juliana 68 Daniel 39-40 Jurisprudentia Frisica 10, 87, 89, 91-95 Deor 45, 54 Deuteronomio 92 Lettera ai Romani 108 Dicts of Cato 20, 81-82 Digesto 89 Málsháttakvæði 82 Disticha Catonis 20, 82, 113-14, 117 Maxims I 19-20, 55, 60-62, 68-69, Dream oft he Rood, The 101 80-81 Durham Proverbs 18, 64, 81 Maxims II 20, 45, 60, 81 Metres of Boethius 39 Edda poetica 59 Esodo 33 Njáls saga 16

Fates of Men, The 40 Old English Rune Poem, The 19 Finnsburh Fragment 37 Order of the World, The 60

Genesi 33, 40 Panther, The 39 Genesis A 39 Precepts 63, 68 Genesis B 38-39 Proverbi 80-81, 92 Grágás 91 Proverbs of Alfred, The 81 Guthlac A 68 Proverbs of Hendyng, The 81

|179| | indice delle opere anonime e dei libri della bibbia |

Qoelet (olim Ecclesiaste) 92 Thesaurus Proverbiorum Medii Aevi 14

Regularis Concordia 33 Vafþrúðnismál 20-21 Resignation 45 Vangeli 34, 92-94, 129, 141, 145 Riddles (Exeter Book) 9-10, 20, 29, 31, Vangelo secondo Giovanni 94 34-47, 53 Vangelo secondo Luca 34 Rígsþula 38 Vangelo secondo Matteo 34, 92-93, 141 Riming Poem, The 45 Vita Davidis 41 Ruin, The 39 Vitas patrum 146-47

Salmi 35 Wanderer, The 44-45, 63-65, 67-68, Seafarer, The 40, 45, 61-64, 68 71, 73 Seconda Lettera ai Corinzi 92 Wife’s Lament, The 10, 53-56, 58-63, Solomon and Saturn 20 68-73

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Indice dei manoscritti

Basel, Universitätsbibliothek, cod. B IX Leeuwarden, Tresoar, Codex Roorda, von 15: 147 Richthofen-collectie, nr. 6: 88-89, 100 Berlin, Staatsbibliothek zu Berlin – London, British Library, Arundel 155 Preußischer Kulturbesitz, mgq 191: (“Arundel Psalter”): 35 138 London, British Library, Cotton Tiberi- Boulogne-sur-Mer, Bibliothèque Muni- us A. III: 32 cipale 189: 33 London, Lambeth Palace Library, 427: 34 Bruxelles/Brussel, Koninklijke Biblio- theek, 15.658: 123, 125 Melk, Stiftsbibliothek, Cod. 235: 143 München, Bayerische Staatsbibliothek, Cambridge, St. John’s College, G.23 cgm 133: 139 (olim 191): 103 Oldenburg, Niedersächsisches Staats- Den Haag, Koninklijke Bibliotheek, 75 archiv, Bestand 24-1, Ab. Nr. 1 (“First E 62: 123 Rüstring Manuscript”): 80, 84 Den Haag, Koninklijke Bibliotheek, 75 E 63: 123 Paris, Bibliothèque Nationale, Lat. Den Haag, Koninklijke Bibliotheek, KA 8824: 35 XXIII: 123 Strasbourg, Bibliothèque Nationale et Edinburgh, National Library of Scot- Universitaire, MS 2795: 141 land, Advocates’ Library, 19.2.2: 103 Exeter, Cathedral Library, 3501 (“Exeter Wien, Österreichische Nationalbiblio- Book”): 9, 20, 29, 37-38, 42, 46, 53 thek, cod. 2757: 147

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TITOLI DELLA COLLANA

| 1 |

Liana Nissim Vieillir selon Flaubert

| 2 |

Simone Cattaneo La ‘cultura X’. Mercato, pop e tradizione. Juan Bonilla, Ray Loriga e Juan Manuel de Prada

| 3 |

Oleg Rumyantsev and Giovanna Brogi Bercoff (eds.) The Battle of Konotop 1659: Exploring Alternatives in East European History

| 4 |

Irina Bajini, Luisa Campuzano y Emilia Perassi (eds.) Mujeres y emancipación de la América Latina y el Caribe en los siglos XIX y XX

| 5 |

Claire Davison, Béatrice Laurent, Caroline Patey and Nathalie Vanfasse (eds.) Provence and the British Imagination

| 6 |

Vincenzo Russo (a cura di) Tabucchi o Del Novecento | 7 |

Lidia De Michelis, Giuliana Iannaccaro e Alessandro Vescovi (a cura di) Il fascino inquieto dell’utopia. Percorsi storici e letterari in onore di Marialuisa Bignami

| 8 |

Marco Castellari (a cura di) Formula e metafora. Figure di scienziati nelle letterature e culture contemporanee

| 9 |

Damiano Rebecchini and Raffaella Vassena (eds.) Reading in Russia. Practices of reading and literary communication, 1760-1930

| 10 |

Marco Modenesi, Maria Benedetta Collini, Francesca Paraboschi (a cura di) La grâce de montrer son âme dans le vêtement. Scrivere di tessuti, abiti, accessori. Studi in onore di Liana Nissim (Tomo I)

| 11 |

Marco Modenesi, Maria Benedetta Collini, Francesca Paraboschi (a cura di) La grâce de montrer son âme dans le vêtement. Scrivere di tessuti, abiti, accessori. Studi in onore di Liana Nissim (Tomo II)

| 12 |

Marco Modenesi, Maria Benedetta Collini, Francesca Paraboschi (a cura di) La grâce de montrer son âme dans le vêtement. Scrivere di tessuti, abiti, accessori. Studi in onore di Liana Nissim (Tomo III) | 13 |

Nicoletta Brazzelli L’Antartide nell’immaginario inglese. Spazio geografico e rappresentazione letteraria

| 14 |

Valerio Bini, Marina Vitale Ney (eds.) Alimentazione, cultura e società in Africa. Crisi globali, risorse locali

| 15 |

Andrea Meregalli, Camilla Storskog (eds.) Bridges to Scandinavia

| 16 |

Paolo Caponi, Mariacristina Cavecchi, Margaret Rose (eds.) ExpoShakespeare. Il Sommo gourmet, il cibo e i cannibali

| 17 |

Giuliana Calabrese La conseguenza di una metamorfosi Topoi postmoderni nella poesia di Luis García Montero

| 18 |

Anna Pasolini Bodies That Bleed Metamorphosis in Angela Carter’s Fairy Tales

| 19 |

Fabio Rodríguez Amaya La Política de la mirada. Felisberto Hernández hoy | 20 |

Elisabetta Lonati Communicating Medicine. British Medical Discourse in Eighteenth-Century Reference Works

| 21 |

Marzia Rosti y Valentina Paleari (eds.) Donde no habite el olvido. Herencia y transmisión del testimonio. Perspectivas socio-jurídicas

| 22 |

Ana María González Luna y Ana Sagi-Vela (eds.) Donde no habite el olvido. Herencia y transmisión del testimonio en México y Centroamérica

| 23 |

Laura Scarabelli y Serena Cappellini (eds.) Donde no habite el olvido. Herencia y transmisión del testimonio en Chile

| 24 |

Emilia Perassi y Giuliana Calabrese (eds.) Donde no habite el Olvido. Herencia y transmisión del testimonio en Argentina

| 25 |

Camilla Storskog Literary Impressionisms. Resonances of Impressionism in Swedish and Finland-Swedish Prose 1880-1900 | 26 |

Maurizio Pirro (a cura di) «La densità meravigliosa del sapere» Cultura tedesca in Italia fra Settecento e Novecento

| 27 |

Marina Cometta, Elena Di Venosa, Andrea Meregalli, Paola Spazzali (a cura di) La tradizione gnomica nelle letterature germaniche medievali