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COMMENTILI Mattioli e Gadda, storia di un'amicizia REGIONED Lo scrittore e il banchiere vastese tra premi letterari e pranzi in villa

di Giacomo D'Angelo

Nell'ottobre 1957 la giuria del premio letterario Marzotto (composta da Carlo Bo, onnipresente demiurgo, , Antonino Pagliaro, l'abruzzese Panfilo Gentile, Raffaele Soprano) assegnò la vittoria ex aequo a e a dopo accese discussioni sul nome di , il cui «Pasticciaccio» era uscito a luglio dello stesso anno.

Lo scrittore milanese, che aveva lasciato la carriera di ingegnere per

affrontare l'incerto destino della letteratura, ci rimase male e ne scrisse al • cugino Piero Gadda Conti il 10 dicembre 1957: «Se non fosse per quei Il banchiere vastese Raffaele quattro soldi che rappresentano l'unica vera medicina di cui ho bisogno Mattioli e nella foto piccola in basso il filosofo ed economista non avrei nemmeno concorso. Prendere un alloro zanelliano da ex- Antonello Gerbi squadristi o da borsaneristi me ne frega un fico secco. Alla mia bocciatura AGTNAj formalmente, ha concorso la seriosità rondistico-accademico-meridionaldecorosa così tipica „Apeginkim dell'anima italiana. I pretesti e le ragioni formali non mancano certo. lo sarei reo di codardo oltraggio nei confronti del defunto mascalzone che ha rovinato l'Italia e ha infamato per sempre il nome italiano». Ma, più di lui, s'adirò Emilio Cecchi, che istituì con polemico intento riparatore (insieme a Bo, Gianfranco Contini, Giuseppe De Robertis, ) un premio degli Editori italiani da assegnare a Gadda. Per finanziare il premio, rimasto un unicum nella storia dei premi letterari italiani, si rivolse al principe dei mecenati: Raffaele Mattioli. Il banchiere-umanista di Vasto, dominus della Comit, promotore di iniziative culturali come pochi nel '900 italiano, era anche il point de repère e l'ancora di salvataggio di imprese artistiche e letterarie in difficoltà. Intervenne più volte per il premio Bagutta su invito di Orio Vergani (che lo ricorda nel suo bellissimo diario postumo), salvò l'editrice Einaudi (ha aiutato più volte a rimettere in sesto la baracca, ricordò Giulio Einaudi a Severino Cesari), Il mondo di Mario Pannunzio, Belfagor di Luigi Russo, La cultura di Cesare De Lollis, La nuova Europa, La rivista trimestrale di Franco Rodano e Claudio Napoleoni. Accolse prontamente la richiesta di Emilio Cecchi, contribuendo in modo decisivo, alla sua maniera rinascimentale, elegante e schiva di clamore. La cerimonia del premio awenne al Grand Hotel di Roma, il 21 dicembre 1957. C'era tutta la Roma letteraria, cui fu offerta una meraviglia di rinfresco, secondo il racconto di Giulio Cattaneo («Il gran lombardo», Einaudi editore). Gadda, timido e impacciato, ringraziò i presenti, mentre intorno a lui fioriva il cicaleccio ostile dei pettegoli che consideravano stravagante la valutazione di un romanzo che era filologia marcescente, ma nessuno o pochi lo avevano letto. Il giorno stesso Gadda inviò una lettera a Mattioli: «La premiazione è riuscita splendida, senza pedanterie, rapida, con il più bello e fine pubblico di Roma. C'erano Schiaffini, Contini, Citati e io, oltre ad alcuni editori. Bo e De Robertis ammalati. Nessuno ha mai fatto segno che lei esistesse; ma nel cuore di alcuni di noi lei era il più presente di tutti. Lei può essere orgoglioso di aver messo in moto una macchina come questa!». Questa e altre lettere di Gadda all'Illustre e caro dottor Mattioli si possono ora leggere nel corposo primo numero di studi gaddiani, «I quaderni dell'Ingegnere» (Riccardo Ricciardi Editore, 2001), ordinato in varie sezioni - testi, documenti e bibliografie - a cura di Dante !sella, Liliano Orlando, Andrea Cortellessa, Claudio Vela. Godibilissimo il racconto inedito, «Villa in Brianza», a cura di Emilio Manzotti. Con Gadda ingegnere, Mattioli aveva avuto un rapporto di collaborazione Emilio Manzotti. Con Gadda ingegnere, Mattioli aveva avuto un rapporto di collaborazione professionale, mutatosi in cordiale amicizia, quando lo scrittore fu ospite più volte nella fattoria di don Raffaele a Nozzole (in Toscana), dove si potevano incontrare , Curzio Malaparte, Piero Sraffa, o nei quartieri romani, il grande filologo Gianfranco Contini, divertito fino alle lacrime dinanzi allo spettacolo di Mattioli che si era accercinato in capo una sciarpa e raccontava la sua avventura di Fiume con D'Annunzio, tutta in dialetto abruzzese. A Nozzole, Gadda assaporava l'olio e il vino che Mattioli produceva, ma anche le ghiottonerie che il banchiere si faceva inviare da suoi fidi corrispondenti, come le lenticchie di Santo Stefano di Sessanio - le più buone del mondo - la pastiera napoletana e i peperoncini, lisci come maioliche, che un congiunto di Gaetano Afeltra (ne ha parlato in elzeviri, libri e interviste) gli preparava con cura meticolosa ad Amalfi. Il libro, «Le novelle dal Ducato in fiamme», conteneva questa dedica dello scrittore al suo amico: A Raffaele Mattioli, despota dei numeri veri, editore dei numeri e dei pensieri splendidi in segno di ammirata gratitudine. Ma il suo sentimento verso Mattioli, Gadda lo riversò nell'aulica dedica di «Verso la Certosa», in cui si abbandona al rimpianto delle ore trascorse nella casa di Chiocchio, profugo da cameretta nella immite primavera del '44 e ricorda l'episodio del premio: «Ben rammento che la sua liberale speranza e l'umanità di Emilio Cecchi vollero un giorno sovvenire al mio tormentato gribouillage quasi che il breve gioco del dolore fosse da reputarsi indizio d'una facoltà che non è mia». Rimpianti e ricordi nitidi, nella stima che si accresce con il tempo: «Devo a Lei conforto, ed esempio se pure inimitabile, minime agli anni in cui era difficile credere a un futuro e nemmeno riuscivami riguardare avanti al dipoi: esempio d'alacrità, di lucidità, d'impulso infaticato verso il lavoro "In fronte huius libelli" ho ardito scrivere il Suo nome, conscio che negli atti cioè nelle opere Sue proprie esso è ben altramente inscritto di quanto neppur potrebbe nella prima pagina della mia gratitudine». Nello gliommero - difficile de sberrutà - dei suoi incubi ciclici (la vergogna di essere caduto prigioniero a Caporetto, la congiura nei suoi riguardi di tutta la società letteraria, il terrore di essere assassinato), delle ricorrenti ossessioni (le tasse, gli editori, le telefonate, i parenti che lo spiavano e attentavano al suo stato di célibataire, i governi di centro-sinistra per via dei risparmi, che temeva di perdere come il tremebondo Céline), Carlo Emilio Gadda, bipede finito, donabbondico e furente, bisognoso di vecchi amici che però teneva lontani, conservava questo filamento di amicizia verso quel genius loci abruzzese, un paterno Galiani redivivo, alla cui ombra manzonianamente protettiva medicava il tormento della cognizione del dolore. Povero e grande Gadda, il migliore dei romanzieri italiani dopo Manzoni (secondo Ungaretti), sfortunata e infelice creatura, secondo se stesso.