I 20 autori disneyani più importanti di sempre

Menzione speciale: (1967-)

Unica persona di sesso femminile, tra gli autori disneyani di ieri e di oggi, ad aver raggiunto una certa fama, la vicentina Silvia Ziche merita, solo per questo, una menzione speciale in questa elaborata classifica. Allieva di , lavora a dal 1991, ed è diventata un simbolo, nel bene e nel male, del “nuovo corso” disneyano; autrice eclettica, pienamente capace di scrivere da sé le sue storie, collabora anche ad altre riviste (Linus, Donna Moderna) per le quali ha creato altri personaggi, il più famoso dei quali è Lucrezia, ragioniera immersa in una normalità molto paperinesca e sempre alla ricerca di un nuovo amore. Silvia Ziche è famosa soprattutto per le due grandi saghe “Papernovela” (181 pagine, 1996) e “Topokolossal” (200 pagine, 1997), dallo spunto classico e non così banale, con Paperi e Topi che si trasformano in attori di “serial” televisivi: i tempi sono cambiati ed è ormai la televisione, non più il cinema, a comparire sempre più spesso nelle storie disneyane, così come vedremo anche in un’altra famosa parodia della stessa autrice, “Paperina di Rivondosa” (2005). Tuttavia la trama delle due saghe è debole, troppo semplice, con personaggi annacquati e poco incisivi, anche se in linea col nuovo

Il “fronte” del volume “a specchio”: Papernovela. Il “retro” del volume a specchio: Topokolossal. corso disneyano, che sempre più, col passare degli anni, mostra una tendenza a semplificare le sceneggiature e a rivolgersi ad un pubblico di lettori sempre più giovani (incurante del fatto che proprio questi giovani leggono sempre di meno, come tutti ormai sanno benissimo). Le due storie, ristampate di recente dalla Panini in uno speciale volume “a specchio” (da un lato si legge la Papernovela, dall’altro il Topokolossal), restano comunque emblematiche di questo nuovo corso disneyano, e delle potenzialità, probabilmente mai sfruttate a dovere, della loro autrice.

Menzione speciale: Alessandro Sisti (1960-)

Nato nei pressi di Pavia ma cresciuto a Genova, Alessandro Sisti fa parte di quella schiera di autori che negli anni ’80 contribuiscono al rilancio della scuola italiana, un po’ in crisi alla fine degli anni ’70 dopo l’addio di Rodolfo Cimino, Pier Lorenzo De Vita e Giampaolo Barosso, il lento declino di , il diradarsi delle storie di mostri sacri come e lo stesso . Sisti, con autori come Bruno Sarda e Massimo De Vita, si mette in luce nel corso degli anni ’80 scrivendo alcune storie di buon livello (per esempio, “Topolino e la guerra dei mondi” (1987), parodia del famoso romanzo di H.G. Wells), ma merita la menzione speciale per essere stato il principale sceneggiatore, a partire dal 1996, delle celebri PKNA (vale a dire “PaperiniK New Adventures”): una serie del tutto scollegata dalle storie principali e che per quasi 10 anni rimodella il personaggio di Paperinik (da tutti ormai chiamato “PK” o “PiKappa”) trasformandolo in un supereroe Prima apparizione della malevola AI chiamata “Due”, tra i “classico” di stampo Marvel, che principali antagonisti della serie (PKNA #2). non ha più nulla a che fare col vecchio Paperino e con i personaggi che lo accompagnavano, ma in compenso deve affrontare nemici ben più pericolosi e organizzati dei “soliti” Rockerduck o Banda Bassotti. Serie tanto innovativa quanto poco disneyana, PKNA rappresenta in ogni caso uno dei tentativi più interessanti – di certo più delle celebrate “grandi parodie” – di immergere un’icona come Paperino/Paperinik in una realtà e in un genere di avventure completamente diverse da quelle alle quali i canoni barksiano prima e martiniano poi avevano abituato i lettori. Esaltata da molti di loro, denigrata da altri (tra cui il grande Massimo De Vita, sicuramente il miglior disegnatore ad essersi occupato di Paperinik, intervistato nel 2020: https://www.ventennipaperoni.com/2020/06/14/massimo-de- vita-intervista ), la serie resta comunque uno dei migliori esempi della fantasia e della bravura degli sceneggiatori che lavorano con i personaggi disneyani. E per quanto Sisti sia stato validamente affiancato da altri “pezzi grossi” come Tito Faraci e Francesco Artibani, e da disegnatori come Claudio Sciarrone e Corrado Mastantuono, il merito del successo di questa serie è principalmente suo.

Menzione speciale: Bruno Sarda (1954-)

Forse il migliore, tra gli sceneggiatori che negli anni ’80 stavano riportando Topolino ai livelli di un tempo, il torinese Bruno Sarda è conosciuto soprattutto per la grandiosa saga della “Pietra Zodiacale” (12 puntate all’inizio del 1990) e per la creazione del personaggio di Indiana Pipps (nel 1988), ultimo di una lunga serie di strampalati cugini di Pippo e chiara parodia di un Indiana Jones allora al massimo della sua fama. Sorretto spesso dai disegni di un Massimo De Vita al meglio delle sue capacità, appassionato di fantaarcheologia (come Martin Mystere, altra ispirazione per Indiana Pipps), Bruno Sarda ha saputo scrivere anche parodie di buon livello, come “I promessi topi” (1989, disegni di Franco Valussi) o “3 paperi e un bebè” (pure 1989, disegni di Massimo De Vita), eccellendo specialmente Topi (con Gambadilegno), Paperi, i professori Marlin e Zapotec: tutti riuniti per ricomporre la Pietra Zodiacale. nelle storie con i Topi. Purtroppo Sarda, autore che eccelle in trame complesse, è fra coloro che hanno maggiormente risentito del nuovo corso disneyano, che a partire dalla metà degli anni ’90 ha reso sempre più banali le sceneggiature, e dopo soli dieci anni di una carriera fra le più brillanti Indiana Pipps e Topolino progettano una spedizione. ha finito per tirare i remi in barca, limitandosi a storie brevi o con protagonista il sempreverde Indiana Pipps, le uniche che ancora incontrano il gradimento indiscusso dei lettori.

Menzione speciale: (1911-1989)

Quando il poeta latino Orazio coniò il termine “aurea mediocritas” non poteva certo immaginare che oltre 2000 anni dopo avrebbe potuto definire, meglio di ogni altro, il lavoro del disegnatore americano Paul Murry, originario del e che, come molti altri della sua epoca ( fra tutti), dopo aver iniziato una carriera come animatore alla dovette adattarsi al meno prestigioso (agli occhi di Walt) e meno pagato lavoro di fumettista, per via dei tagli imposti dalla guerra (e dalla nota tendenza dell’azienda a risparmiare sui compensi elargiti ai suoi dipendenti). “Aurea mediocritas”, nel significato che gli aveva dato Orazio, non è un termine negativo, ma indica piuttosto il buono che viene dalla “via di mezzo”, dalla capacità di accontentarsi senza rischiare troppo nel tentativo di raggiungere l’eccellenza. Murry, disegnatore appena passabile, riesce infatti, in circa 30 anni di carriera tra gli anni ’50 e gli anni ‘80, a ritagliarsi un suo spazio fra gli autori disneyani, grazie alla riconoscibilità del suo tratto e alle trame “noir” di quasi tutte le sue storie (in genere scritte da , anche lui proveniente dall’animazione), in cui Topolino e Pippo affrontano criminali di ogni genere oltre ai “soliti” Gambadilegno e Macchia Nera, in una continua riproposta, sia pure in tono molto minore, del “Topolino detective” che aveva portato ai vertici alla fine degli anni ’30. Su Topolino le storie disegnate da Murry – centinaia – sono state spesso proposte nella parte centrale dell’albo, a far da tramite tra la prima e l’ultima (sempre storie di alto livello, ad opera di autori italiani), sino a diventare, specialmente negli anni ’60, una presenza costante, quasi rassicurante con le sue trame e i suoi cattivi sempre uguali, sempre minacciosi, armati e pericolosi (almeno in apparenza), ma alla fine sempre sconfitti. Mai un capolavoro, ma neanche un passo falso, come nella vera “aurea L’inconfondibile stile di Paul Murry: cattivi dai musi lunghi, barbe folte, pistole spianate. mediocritas”, e come ancora oggi, a quarant’anni dalle sue ultime storie, possono confermare i suoi non pochi estimatori.

20° posto: (1942-)

Quando Internet ancora non era diventato un fenomeno di massa, erano gli “esperti” a dettare legge su qualsiasi cosa avesse un valore artistico: libri, film, canzoni, fumetti. È così che il milanese Marco Rota, direttore artistico della Mondadori dal 1974 al 1988 e copertinista di Topolino, diventa uno dei più importanti autori disneyani, accostato tranquillamente a Carl Barks (del quale imita lo stile, sia narrativo che grafico, pur senza riprendere le sue storie come invece farà in seguito ), e al quale è dedicato un intero paragrafo del celebre volume “I Disney italiani” (del 1990), laddove altri autori di un certo peso (come Giorgio Bordini, Guido Scala, i fratelli Barosso e persino Rodolfo Cimino) non arrivano a tanto. L’importanza di Marco Rota, con l’avvento del nuovo corso disneyano, nonché quello di Internet col conseguente declino degli “esperti”, sostituiti dalla massa dei lettori, sarà molto ridimensionata; né l’autore milanese sarà aiutato dal fatto di aver realizzato poche storie, spesso su sceneggiatura non sua, e in prevalenza per l’Almanacco Topolino o per il mercato danese. Cosa ha nuociuto a Marco Rota? Paradossalmente, proprio l’essersi rifatto allo stile di Barks, le cui storie erano apertamente ispirate dal classico “way of life” all’americana (per esempio: le avversità uniscono le famiglie). Dopo decenni di “canone martiniano” le storie disneyane riflettono ormai il “way of life” all’italiana (per esempio: le avversità dividono le famiglie), e l’autore milanese si trova ad essere “fuori moda”, per trame, dialoghi, ritmo e infine anche per stile grafico, quando alla fine degli anni ’80 il tratto gommoso e dinamico, reso celebre da , ha il sopravvento. Forse anche per questo Rota “emigra” in Danimarca alla fine

Paperi e paesaggi tipicamente barksiani. degli anni ’90, diradando sempre più la sua collaborazione con le riviste italiane; ma questo nulla toglie ai suoi meriti, dato che essere fuori moda non è certo una colpa – anzi, spesso è vero il contrario. E infatti molte delle sue storie, specialmente le prime da lui sceneggiate, sono ancora oggi dei piccoli capolavori (“Zio Paperone e il deposito oceanico (1974), “Paperino pendolare” (1977), “Le avventure di Mac Paperin” (1980)) e resisteranno egregiamente al tempo che passa, diversamente da tante altre che al momento “vanno di moda”. Paperone, ancora tra paesaggi barksiani.

18° e 19° posto: Tito Faraci (1965-) e Francesco Artibani (1968-)

È tra la fine degli anni ’90 e l’inizio degli anni 2000 che si afferma la coppia di sceneggiatori formata dal milanese Luca (Tito) Faraci e dal romano Francesco Artibani: forse gli unici, tra le “nuove leve” arrivate ad occuparsi dei personaggi disneyani, ad avere realizzato storie di un certo valore nonostante il nuovo corso e i limiti da questo imposti alle sceneggiature. Non è certo un caso che il lavoro più importante dei due autori – citati in coppia proprio per averlo realizzato congiuntamente – è quel “ Mystery Magazine” (MMMM) che si stacca dal resto della produzione disneyana sfuggendo alle troppe censure e cercando il consenso di un parco di lettori – per una volta – veramente maturo. Faraci, autore quanto mai poliedrico, capace anche di scrivere per la Bonelli e persino per la Marvel, è già affermato quando approda alla Disney nel 1996, dove si mette subito in mostra scrivendo qualche storia per le già citate PKNA e arrivando, già nel 2000, a vedere pubblicato un volume speciale, Topolino Noir, che ne raccoglie le storie migliori (tra le quali va almeno segnalata “Topolino e il fiume del tempo” (1998), con disegni di Corrado Mastantuono, e dove già si riscontra la collaborazione con Artibani). Artibani, autore meno poliedrico ma non per questo meno bravo, si afferma nello stesso periodo, spaziando tra storie sia di Topi che di Paperi e anche qualche parodia (“Miseria e Nobiltà” (1993), disegnata da Cavazzano): è forse il solo sceneggiatore ancora capace, al giorno d’oggi, di scrivere storie lunghe e complesse (a volte troppo), con trame non banali e con personaggi ben caratterizzati (per esempio “Zio Paperone e l’ultima avventura” (2013), di ben 126 pagine, con disegni di I due nemici, sempre più spesso in buoni Alessandro Perina). rapporti , in “Topolino e il fiume del tempo”

In “Zio Paperone e l’ultima avventura” tutti i suoi nemici si coalizzano contro di lui. Dopo aver scritto a sua volta qualche episodio delle PKNA, Artibani, insieme a Faraci, dà vita alle già citate MMMM, il tentativo più riuscito, dai tempi di , di rinnovare in qualche modo il Grande Topo. I due autori intuiscono infatti cosa bisogna fare per svecchiare un personaggio che ne ha un gran bisogno, vale a dire immergerlo in situazioni diverse dalle solite cercando di non snaturarlo: la stessa intuizione che aveva avuto Bill Walsh, dall’esito tuttavia non così buono perché l’autore americano aveva anche voluto modificare alcuni aspetti del Topo, trasformandolo da eroe attivo e propositivo in un personaggio esitante e spesso passivo, se non bisognoso di aiuto. Purtroppo analogo errore compiono Faraci e Artibani: se l’ambientazione nuova – la città di Anderville, dove agiscono criminali realistici, spietati e bene organizzati, e dove Topolino non può contare su nessun amico, neanche sul commissario di polizia – funziona alla grande, anche stavolta il Topo perde qualcosa dei suoi tratti distintivi, diventando, in omaggio ai grandi detective del noir americano, un personaggio malinconico e rassegnato, e non più ottimista e risoluto come era sempre stato. Se Topolino fosse rimasto il personaggio classico, non necessariamente quello di e dei suoi sceneggiatori, ma almeno quello di Romano Scarpa, le MMMM avrebbero avuto un successo strepitoso e avrebbero rilanciato il Topo (a fumetti) in Italia e in tutto il mondo; ma col protagonista ridotto a fare la controfigura di Philip Marlowe e Sam Spade la serie annaspa sin dall’inizio, per finire chiusa Ad Anderville: Topolino a cena con Patty Ballestreros . bruscamente dopo 12 numeri, quasi fosse un comune serial televisivo con gli ascolti in calo. Ed è un peccato, perché il Topo, anche reso malinconico, resta pur sempre un bel personaggio: l’ambientazione realistica prende il lettore molto più di quanto possa fare una storia ambientata a Topolinia, e i personaggi, sia i numerosi cattivi, che i pochi buoni (memorabile soprattutto la coraggiosa poliziotta Patty Ballestreros) non fanno rimpiangere gli usati e abusati Pippo, Gambadilegno, Basettoni e così via.

17° posto: Giovan Battista Carpi (1927-1999)

Tra i disegnatori più prolifici del vasto mondo disneyano, il genovese Giovan Battista Carpi fa parte del nucleo storico dei cosiddetti “disney italiani”, quel gruppo di autori che negli anni ’50 diedero nuova vita ai personaggi, a volte seguendo il solco tracciato da Barks e Gottfredson, a volte allontanandosene. Senza di loro, e dopo il declino, iniziato nella seconda metà degli anni ‘50, dei due mostri sacri americani, forse oggi non ci sarebbero più fumetti con protagonisti Topolino e Paperino. Carpi è stato quasi solamente un disegnatore, dal tratto semplice e piacevole anche se meno espressivo rispetto a quello offerto dai vari Scarpa, De Vita o Cavazzano; tuttavia è dalla sua collaborazione con i migliori sceneggiatori – Guido Martina su tutti – che sono nate alcune delle storie più famose mai lette su Topolino. Dal 1953 – quando inizia la sua collaborazione con la rivista – sino alla sua morte, sono state quasi 300 le storie da lui disegnate. Suo è il primissimo Paperinik (“Paperinik il diabolico vendicatore” (1969)), suoi i disegni di buona parte delle due grandi saghe “Storia e gloria della dinastia dei paperi” (1970) e “Il segreto del totem decapitato” (1973), come pure quelli di alcune tra le più celebri parodie, per esempio – per citarne solo due tra le migliori – “Paperino e il vento del Sud” (1982) o “Paperino e il re del fiume Per la prima volta, Paperino diventa Paperinik. d’oro” (1961): tutte storie sceneggiate da Guido Martina, del quale è stato forse il disegnatore preferito. Come se non bastasse, nell’ultima fase della sua carriera Carpi inizia a scriversi da solo le storie, realizzando alcune parodie davvero buone, come “Il mistero dei candelabri” (1989, parodia de I Miserabili) o “Guerra e Pace” (1986). E ancora: Carpi è stato il direttore dell’Accademia Disney, creata nel 1988 allo scopo di formare nuovi autori (non solo disegnatori), è stato colui che ha illustrato tutti i manuali delle Giovani Marmotte usciti in Italia, ed infine è stato uno dei due disegnatori (l’altro Paper Butler e Paperella O’Hara ne “Il vento del Sud”. era Scarpa) presentati al pubblico in una trasmissione televisiva del 1968, quando ancora erano in pochissimi a sapere che non era Walt Disney in persona (peraltro morto da poco) a disegnare le sue storie. Basta e avanza per fare di lui uno dei massimi autori disneyani di tutti i tempi!

15° e 16° posto: Giorgio Pezzin (1949-) e Giorgio Cavazzano (1947-)

Entrambi nati a Venezia, entrambi allievi di Romano Scarpa, del quale inchiostrano i disegni all’inizio della loro carriera, è nel corso degli anni ’70, e poi soprattutto negli anni ’80, quando i fumetti disneyani tornano a grandi livelli, che i due autori si affermano, diventando forse i migliori – con Massimo De Vita – a realizzare in quel periodo storie per “Topolino”. Citati insieme perché le loro storie migliori sono senza dubbio quelle nate dalla loro amicizia e collaborazione, ognuno dei “due Giorgi” ha pure realizzato, insieme ad altri autori, una interminabile serie di capolavori che arriva sino agli anni ’90 e, nel caso di Cavazzano, ancora in attività, sino ai giorni nostri (mentre Pezzin cessa la sua collaborazione con Topolino, forse perché insoddisfatto del nuovo corso disneyano, agli inizi degli anni 2000). Pezzin, dotato di un umorismo raffinato e a volte surreale (non casualmente è il solo autore, a parte il suo creatore Dick Kinney, a saper gestire al meglio il personaggio di Paperoga), è infatti il principale sceneggiatore della serie sulla “macchina del tempo”, disegnata quasi sempre da Massimo De Vita, e che vede in azione Topolino e Pippo, Topolino, Pippo e il professor Zapotec, da “L’Atlantide, inviati nelle epoche più remote dai continente perduto” (disegno di Massimo De Vita). professori Marlin (inventore della macchina) e Zapotec (fantaarcheologo). “Topolino e l’Atlantide, continente perduto” e “Topolino e l’intruso spazio-temporale” (entrambe del 1987) sono due tra le storie migliori del ciclo. Notevole anche la lunghissima “La guarnigione segreta” (1991, sempre con disegni di Massimo De Vita), che fa parte della grande saga de “I signori della galassia”. Tra una storia disneyana e l’altra Pezzin scrive anche per la Bonelli e per il Giornalino, mostrandosi autore completo, sia pure senza mai rinunciare al suo umorismo. Cavazzano, invece, disegna alcune tra le migliori storie Paperino e la sua amata Reginella. di Rodolfo Cimino, delle cui sceneggiature è forse il migliore interprete alla pari con Romano Scarpa (tra le migliori quelle del ciclo di Reginella e la famosa serie dei “Racconti intorno al fuoco”). Realizza la storia di esordio delle già citate MMMM (“Anderville”, 1999), e illustra le storie migliori di autori come Silvano Mezzavilla (“Il mistero “Il mistero della voce spezzata”: lo stile “gommoso” e della voce spezzata”, 1991), Tito dinamico di Giorgio Cavazzano. Faraci (a parte “Anderville”, “La vera storia di Novecento”, 2008), e Casty (“Topolino e il colosso di Rodi”, 2005), prima che questi inizi a disegnare in proprio. Né va scordato che a partire dalla metà degli anni ’70 il suo stile grafico, inizialmente identico a quello del suo mentore Scarpa, diventa progressivamente “gommoso” e iperdinamico, evolvendosi sino al raggiungimento di effetti quasi tridimensionali, e diventando infine lo stile adottato da quasi tutti i nuovi disegnatori che dagli anni ’80 approdano su “Topolino” (fra tutti Corrado Mastantuono e Claudio Sciarrone). Anche Cavazzano non si è limitato a disegnare personaggi disneyani (vanno ricordati Altai e Jonson, su testi di Tiziano Sclavi, pubblicati sul Corriere dei Ragazzi), ma è soprattutto dalla sua collaborazione con Pezzin che, sin dagli anni ’70, è nato un capolavoro dopo l’altro: tra questi si possono citare la lunga storia “Zio Paperone e gli icebergs volanti” (1975), come pure “Zio MMMM: Topolino disegnato da Cavazzano (in alto) , da Paperone e l’acqua concentrata” Sciarrone (al centro) , da Mastantuono (in basso). (1977), oltre a quelle con protagonista il già citato Paperoga, come “Paperoga e il peso della gloria” (1975), o anche “Paperoga e l’isola a motore” (1976). Purtroppo la libertà creativa loro concessa

“Paperoga e il peso della gloria”: a metà degli anni ’70 è già visibi le negli anni ’70 – quando l’evoluzione dello stile grafico di Cavazzano. ancora non si parlava di “politically correct” e una certa dose di violenza veniva tollerata – calerà progressivamente negli anni successivi, ed entrambi gli autori, pur continuando a realizzare insieme storie di alto livello, non riusciranno più a ritrovare gli spunti veramente geniali dei loro inizi.

14° posto: Rodolfo Cimino (1927-2012)

Anche lui esponente di quella scuola veneziana che fa capo a Romano Scarpa (del quale, come quasi tutti i suoi allievi – Pezzin, Cavazzano, Luciano Capitanio, Luciano Gatto – ha inchiostrato le storie nella prima fase della sua carriera) Rodolfo Cimino sceglie, nel 1961, la via della sceneggiatura, che nel giro di 15 anni lo porta a scrivere circa 300 storie che ruotano quasi tutte intorno a un solo tema: la famiglia dei Paperi a caccia di qualche tesoro. Illustrate principalmente da due mostri sacri come Scarpa e Cavazzano, le storie di Cimino seguono un canovaccio ricorrente, con Paperone che scopre casualmente l’esistenza di un tesoro (o anche di un oggetto, una formula o qualcosa di analogo, purché possa accrescere la sua ricchezza) e quindi, a bordo di strani veicoli, costringe i nipoti ad accompagnarlo in luoghi lontani e misteriosi alla sua ricerca. Nonostante i veicoli si rivelino ben presto inadeguati allo scopo per cui sono stati costruiti (vale a dire superare le molte avversità che si incontreranno nel viaggio), i Paperi raggiungono infine il luogo in cui si trova il tesoro, che risulta però custodito da un popolo indigeno, saggio e poco propenso a privarsene: dopo molte trattative, prove da superare e, se necessario, colpi bassi, Paperone riesce comunque ad impadronirsene, ma alla fine scopre di non poterlo sfruttare come sperava (ci sono sempre delle controindicazioni inaspettate) e deve tornarsene a casa a mani vuote. Per quanto, a prima vista, le storie di Cimino sembrino un’infinita ripetizione della stessa trama, quello che le rende affascinanti è invece l’infinita serie di varianti che l’autore riesce ad introdurvi, rendendole tutte ben distinguibili l’una dall’altra, e ostentando spesso una fantasia mai uguagliata da nessun altro sceneggiatore disneyano: che dire di trovate come “L’elmo del comando” (1973, disegni di Scarpa), che schiaffeggia il suo possessore se costui non legifera facendo il bene del popolo? O delle “Patate autosbuccianti” (1969, ancora disegni di Scarpa), che si sbucciano da sole quando vedono avvicinarsi una lama? Ognuna delle sue storie è un piccolo gioiello, ed è un peccato che l’importanza di Rodolfo Cimino (al quale non è riservato neanche un paragrafo nel già citato libro sui disney italiani) sia stata riconosciuta solo in epoca recente (e non da tutti). Eppure non sono queste le sue storie migliori: lo sono, senza alcun dubbio, quelle che narrano l’impossibile storia d’amore tra Paperino e una graziosa papera aliena chiamata Reginella (soprattutto le prime due, del 1972 e 1974, illustrate da Cavazzano) e la celebre serie di “racconti intorno al fuoco”, anch’essi disegnati spesso da Cavazzano e scritti tra il 1990 e il 1995 durante la sua “seconda vita” disneyana: Cimino tenta infatti, nel 1976, la carriera politica nel PSI dell’allora neosegretario Il mitico “elmo del comando”: sarebbe bello se esistesse davvero! Bettino Craxi, finendo però coinvolto nel “solito” scandalo una decina di anni dopo. Avendo avuto almeno la dignità di abbandonare la politica, diversamente da molti altri suoi colleghi, Cimino viene riaccolto “trionfalmente” dalla Mondadori e ricomincia la sua attività di sceneggiatore; ma, forse amareggiato da quanto gli è accaduto, non riesce più a ritrovare, nelle storie centrate sulle cacce al tesoro, il ritmo e la fantasia di un tempo – pur con qualche notevole eccezione (come “I tapirlonghi fiutatori”, 1988). I già citati “racconti intorno al fuoco”, invece, riflettono probabilmente il suo lato malinconico e disilluso dopo l’esperienza politica, tanto è vero che non hanno sempre un lieto fine (certamente non uno classico), e infatti devono basarsi su personaggi non disneyani, le cui avventure sono narrate da Nonna Papera agli altri componenti della famiglia. Insomma, Cimino non è lo sceneggiatore più bravo, neanche tra gli autori italiani, ma è tuttavia tra quei pochissimi che hanno forgiato il cosiddetto “canone”, rifacendosi a quello di Guido Martina pur smussandone gli aspetti più discutibili. Anzi, si può quasi dire che il “canone”, oggi, almeno per quanto riguarda i Paperi (dei Topi Cimino ha scritto pochissime storie), è quello da lui creato nelle centinaia di storie tutte uguali solo in apparenza, forgiando a

Nonna Papera racconta “Martin il marinaio e le perle nere del Pacifico” poco a poco il carattere dei personaggi, i loro ideali, i loro pregi, i loro difetti, persino i loro amori, il tutto accompagnato da un caratteristico linguaggio colto, a volte astruso – senza mai diventare pedante – ed oggi purtroppo improponibile. Non poco!

12° e 13° posto: (1933-) e Luciano Bottaro (1931-2006)

Trasferitosi negli anni ’40 a Rapallo, il ferrarese Carlo Chendi vi conosce Luciano Bottaro, disegnatore dal talento eccezionale, col quale forma un sodalizio artistico destinato a durare più di 30 anni e che porterà alla creazione di molte tra le più importanti storie disneyane realizzate in Italia. Si parla in particolare delle cosiddette “Grandi Parodie”, inizialmente parodie a fumetti (quasi sempre con protagonisti i Paperi) dei più famosi classici della letteratura, in seguito parodie di celebri film e oggi di serial televisivi e trasmissioni di successo. L’ideatore di queste parodie, nate nel 1949 con “L’Inferno di Topolino”, è indubbiamente Guido Martina, inizialmente il solo a scriverle; ma ben presto viene affiancato da Chendi e da Bottaro, quasi sempre in coppia (motivo per il quale vengono citati insieme), e con risultati ben superiori. I due autori, che fanno parte del nucleo storico degli autori italiani, cioè quelli che hanno iniziato la carriera disneyana negli anni ’50, sono infatti dotati di un umorismo raffinato e talvolta surreale, che manca un po’ nelle storie di Martina, autore che tende a prendersi un po’ troppo sul serio e a trasporre i classici nel fumetto invece di parodiarli, non riuscendo così a sfruttare pienamente la propria Umorismo surreale, quasi jacovittiano, ne “Il dottor Paperus” straordinaria creatività. Ma quegli stessi classici sui quali Martina ha studiato, sono stati invece fonte di divertimento per il più giovane Carlo Chendi, cresciuto durante la guerra e ovviamente privo di ogni altro svago. Chendi riesce quindi a prenderli meno seriamente e a farne delle vere parodie: nascono così “Il dottor Paperus” (1958), “Paperino e l’isola del tesoro” (1959), “Paperino il Paladino” (1960), “Paperin babà” (1961), e ancora “Paperin furioso” (1966), scritta dallo stesso Bottaro, che a sua volta disegna molte parodie ideate da Martina, tra le quali “Paperiade” (1959) e “El Kid Pampeador” (1959), riuscendo ad aggiungervi un pizzico di umorismo “chendiano”. Naturalmente la carriera di Chendi e di Bottaro non si limita ad alcune parodie: insieme i due autori realizzano molti altri Lo “splash panel” della “Paperiade”: gli endecasillabi di capolavori, come “Paperino e il Martina si accomp agna no agli splendidi disegni di Bottaro. razzo interplanetario” (1960, un po’ seguito, un po’ parodia della celebre saga a fumetti – non disneyana – degli anni ’30 “Saturno contro la Terra”), o “Pippo e la fattucchiera” (1960, col recupero del personaggio della strega Nocciola); con i disegni di Carpi Chendi realizza parodie più mirate come “Paperino missione Bob Fingher” (1966, tra le prime cinematografiche), ma ha modo di mostrare il Paperino in “missione Bob Fingher”, parodia di “Goldfinger”, alle suo talento anche in storie prese con una scarpa – non più un cappello – dal bordo tagliente! dalla trama più abituale come “Paperino e il premio di bontà” (1962, disegni di Scarpa), mentre Bottaro, oltre a disegnare anche per altri autori, scrive qualche storia da solo e lavora spesso per altre riviste (Corriere dei Ragazzi, Giornalino) creando molti altri personaggi (fra quelli di maggior successo, i Postorici) e diradando ben presto la sua pur ottima produzione disneyana sino ad abbandonarla del tutto negli anni ’80. Valutandole a posteriori, non c’è dubbio sul fatto che se le Grandi Parodie sono diventate così famose, il merito è proprio della coppia Chendi-Bottaro. Meritano tutta questa fama, le Grandi Parodie? Sono stati scritti molti saggi su queste storie particolari (l’ultimo è del 2014), e non è raro che ne parlino persino i quotidiani, specialmente se la parodia si riferisce a qualcosa che va di moda al momento. Certo, Chendi e Bottaro sarebbero stati tra i grandissimi in ogni caso, ma la loro L’ironia di Chendi e Bottaro in “Pippo e la fattucchiera”. fama è legata a doppio filo a questo genere di storie. Finché saranno considerate dei capolavori (come è ancora oggi) la loro fama non si estinguerà.

11° posto: Bill Walsh (1913-1975)

Topolino è tra i personaggi (non solo disneyani) che più hanno risentito dello scoppio della seconda guerra mondiale: l’arrivo dei nazisti, capaci di pianificare e realizzare genocidi, l’uso massiccio dei bombardamenti a tappeto, le continue stragi di militari e civili e infine l’uso delle armi atomiche, tutto questo rende ben presto obsolete, persino ridicole, le avventure del Topo in un mondo dove i cattivi sono pochi, ed essenzialmente limitati a personaggi come Gambadilegno e Macchia Nera (anche se ancora non annacquati come le loro versioni odierne), e i “buoni” vincono con relativa facilità e senza spargimenti di sangue. I problemi del Topo, già evidenti nelle ultime storie (tra il 1940 e il 1942) del grande Merrill De Maris, si accentuano quando quest’ultimo, per motivi di salute, cede il compito di scrivere nuove storie al neo assunto Bill Walsh, nato a New York ma trasferitosi in per fare l’addetto stampa dei divi di Hollywood. La capacità di Walsh di improvvisare battute gli procura il posto di sceneggiatore delle strisce di Topolino all’inizio del 1943, e già l’anno successivo sono evidenti i cambiamenti apportati alle sue avventure. Walsh, infatti, comprende che non è più possibile immergere il Topo in ambientazioni tipiche degli anni ’30, come giungle esotiche o regni da operetta, né sono più credibili i “cattivi gentili”, come Giuseppe Tubi o lo stesso Gambadilegno. Elementi da thriller, poi da gotico/horror (“La casa misteriosa”),

“Le meraviglie del domani”: il momento in cui Topolino abbandona per sempre i calzoncini corti . quindi fantascientifici (“Le meraviglie del domani” e l’intero ciclo con Eta Beta), entrano progressivamente nelle avventure di Topolino, alle quali Walsh aggiunge anche un umorismo sottile e vagamente surreale (evidente ogni volta che viene coinvolto Eta Beta, ma presente anche in seguito – per esempio in “Pippo a Hollywood” o nella storia successiva, “Lo spettro fallito” (entrambe del 1951). Riesce, il tentativo di svecchiare il Topo? Di solito si preferisce non sbilanciarsi con una risposta precisa a una domanda così difficile, evidenziando invece come Bill Walsh sia colui che ha inventato lo straordinario Eta Beta, personaggio dal La spia poeta, che parla sempre in rima (ben tradott o da Guido Martina) . valore indiscusso, e sul quale tutti concordano: le avventure in cui compare rappresentano il punto più alto delle storie scritte da Walsh. Sono anzi in molti a rimpiangere la scomparsa di questo personaggio folle ma simpatico e dotato di strani poteri, nel luglio del 1950 – fortunatamente ci penserà Guido Martina a recuperarlo cinque anni dopo – dopo una serie di avventure tra le quali si fatica a scegliere la migliore (forse “Eta Beta e la spia poeta”, del 1948, eccezionale per suspence, colpi di scena, umorismo nero e soprattutto per la presenza di un cattivo (la “spia poeta”, appunto) enormemente carismatico che – caso rarissimo nei fumetti disneyani – fa davvero una brutta fine). Ma se davvero si volesse rispondere alla domanda iniziale difficilmente la risposta sarebbe positiva. Walsh, pur avendo capito che il segreto per far ritrovare il successo a Topolino consisteva nel cambiare le situazioni che si trovava ad affrontare, commette l’errore di modificarne il carattere,

Il primo (1947) e l’ultimo (1950) Eta Beta. trasformandolo da eroe ottimista e propositivo in spettatore passivo e spesso bisognoso di aiuto, che gli viene dato da quelli che dovrebbero essere i suoi comprimari e che invece gli rubano la scena (Pippo e soprattutto Eta Beta). Quando si vede Topolino in grave pericolo che – spesso e volentieri – chiama disperatamente in suo aiuto Eta Beta non si può non rimpiangere il vecchio personaggio, che sarebbe riuscito, sempre e comunque, a trovare una via d’uscita da ogni situazione, per quanto disperata. Ed è Walsh che sostituisce i famosi pantaloncini corti con normali vestiti (ne “Le meraviglie del domani”, 1944) imborghesendo il Topo anche nell’aspetto esteriore. Insomma Walsh, pur essendo riuscito a rilanciare il personaggio in una fase di declino, è anche colui che ne causa una crisi irreversibile (soprattutto dopo averlo fatto diventare la spalla di Eta Beta) e alla quale nessun autore venuto dopo di lui riuscirà più a rimediare completamente: Scarpa, Casty, anche De Vita e Martina, dovranno accettare un Topolino imborghesito, un personaggio che, anche se tornato stabilmente al centro delle sue avventure, è ormai troppo lontano da quello che, negli anni ’30, era probabilmente il miglior personaggio di tutto l’universo fumettistico (e non solo disneyano). Sarebbe cambiato qualcosa se le avventure di Topolino fossero continuate dopo il 1955 quando, con una delle decisioni più stupide e odiose del mondo fumettistico, fu deciso di far diventare “autoconclusive” le sue strisce? Non lo sapremo mai. Bill Walsh, comunque, riuscì brillantemente a riciclarsi, rispolverando i suoi trascorsi nel mondo del cinema e diventando tra i maggiori produttori dei lungometraggi disneyani non animati (tra i quali “”) e di molti serial televisivi.

10° posto: Guido Martina (1906-1991)

Se poca è l’importanza avuta da Guido Martina nel mondo dei Topi, esclusa la prima Grande Parodia, “L’inferno di Topolino” e la celebre “Il ritorno di Macchia Nera” (1955, disegni di Scarpa), col recupero di ben due personaggi ormai dimenticati come Eta Beta e Macchia Nera, enorme è quella che ha avuto nel mondo dei Paperi, del quale ha riscritto il “canone” dopo Carl Barks e prima di Rodolfo Cimino, tra i pochissimi autori ad averlo fatto. In altre parole, se noi oggi leggiamo un certo tipo di storie con Paperino, Zio Paperone eccetera, parte del merito è anche sua, ancora oggi a 30 anni dalla morte. Tanto per essere chiari, il “canone”, sempre ideato da un autore “maggiore”, stabilisce quali siano le principali caratteristiche di un personaggio, inducendo così gli autori “minori” ad adeguarvisi, ed evitando in questo modo che nascano contraddizioni. Può essere interessante mettere a confronto i canoni, sia quello di Paperino che quello di Zio Paperone, per capire come si siano evoluti nei quattro autori più importanti: PAPERINO Taliaferro Barks (Scarpa) Martina Cimino Irascibilità Alta Bassa Media Medio-bassa Rapporto con i parenti Mediocre Buono Pessimo Discreto Spirito avventuroso Basso Discreto Basso Accettabile Intelligenza Medio-bassa Media Media Media Coraggio Basso Medio Basso Medio Ottimismo Discreto Buono Basso Passabile ZIO PAPERONE Barks (Scarpa) Martina Cimino Rosa Avarizia Media Alta Alta Medio-bassa Rapporto con i parenti Buono Pessimo Discreto Buono Spirito avventuroso Alto Medio-alto Alto Medio-alto Intelligenza Media Media Media Alta Altruismo Alto Basso Medio-basso Medio-alto Ottimismo Alto Medio-alto Medio Medio-basso Come si può vedere, Guido Martina modifica drasticamente il “canone” barksiano, specialmente per quanto riguarda Paperino, che diventa quasi un personaggio negativo; analoga trasformazione subisce Paperone, anche se già con Barks mostrava talvolta aspetti discutibili. Martina ne accentua però, in maniera esasperata, l’avarizia e l’egoismo, finendo per renderlo spesso una figura odiosa, senza che per questo atteggiamenti analoghi da parte del nipote, e talvolta persino dei tre nipotini, vengano giustificati. Martina, piemontese, primo e più anziano tra gli autori italiani, è infatti cresciuto in epoca fascista e ha vissuto pienamente la dittatura e poi la guerra. Questo, se da un lato ne ha fatto un uomo “d’altri tempi”, colto, brillante, in grado di scrivere qualunque cosa su qualunque argomento, anche in versi, dall’altro lo ha reso un autore cinico e disilluso, che vede nel mondo solo individui in feroce competizione tra di loro. Se Rockerduck è un vero criminale, se Paperone pensa solo a truffare il prossimo, se Qui, Quo e Qua sono saccenti, Gastone insopportabile e Paperino collerico e divorato dal rancore, questo è Martina. Ben diverso il punto di vista di un Cimino, autore nato 22 anni dopo, e che vede nel mondo la continua ricerca di un equilibrio tra gli egoismi individuali e i bisogni collettivi. Questo non significa, tuttavia, che il “canone” ciminiano sia migliore di quello martiniano: i Topolino, Eta Beta e Flip ne “Il ritorno di Macchia Nera” . due autori si limitano a trasporre nei Paperi le loro diverse visioni del mondo, ed entrambe sono pienamente valide, almeno se espresse in modo convincente. E quella di Martina lo è a tal punto che Cimino, come ben si vede dalle tabelle precedenti, non è riuscito – o non ha voluto – tornare al “canone” barksiano, limitandosi a un compromesso tra due punti di vista fra loro quasi inconciliabili: quello solare di Carl Barks, spinto dall’ottimismo e dal “way of life” americano, e quello di Guido Martina, pessimista e sarcastico all’estremo, a volte palesemente “italiano”. I rapporti tra Paperino e zio Paperone ai minimi storici, anche grazie a un linguaggio molto ricercato ma suggestivo. Martina, detto il “professore” perché, dopo aver conseguito la laurea in Lettere, lo era diventato per davvero, è stato un autore poliedrico, instancabile, autore di centinaia di sceneggiature, inventore delle “Grandi Parodie”, attivo sui Paperi come sui Topi (ma, come già si era accennato, senza riuscire a scrivere su di loro storie altrettanto buone), ideatore di Paperinik, creatore anche di personaggi non disneyani (Pecos Bill, versione a fumetti, su tutti), ancora in attività pochi giorni prima di morire. Senza la sua sterminata mole di sceneggiature forse “Topolino” non uscirebbe, ancora oggi, nelle edicole. Ognuna di queste sceneggiature brilla per una struttura rigorosa e sempre pregevole, priva di cedimenti e di punti morti, per i frequenti colpi di scena e per la caratterizzazione dei personaggi e dell’ambientazione (che sia o no una parodia), al punto che trovare un autore in grado di imitarne lo stile non è facile. Anche se l’interpretazione che lui ha dato dei Paperi, così negativa e così particolare, può non piacere, non si può negare che ancora oggi sia quella più conosciuta e più seguita, e questo a dispetto della censura sempre crescente che a partire dagli anni ’80 ha finito per stroncare la creatività di questo autore (peraltro ormai anziano), accusato di inserire troppa violenza, troppo cinismo, persino troppa crudeltà nelle sue storie. Accuse fondate: ma che meraviglia, ancora oggi, nel rendersi conto di quanto la cultura “alta” di un professore di Lettere possa andare d’accordo con quella, in apparenza “bassa”, di una storia a fumetti destinata ai più giovani!

9° posto: (1900-1968)

I primi anni delle strisce di Topolino, sino al 1932, sono abbastanza caotici: il disegno di Floyd Gottfredson non è ancora maturo, le sue sceneggiature, che spesso si rifanno a qualche “cartoon” del Topo, alternano storie buone (per esempio, quella col Bel Gagà, 1930) ad altre meno buone o addirittura che si limitano ad una serie di gag in rapida successione (per esempio “Topolino nell’alta società”, 1931). I rari interventi dello stesso Walt Disney (i primi tempi) o dell’animatore Webb Smith (gli ultimi tempi) sono poco incisivi. La situazione cambia con l’arrivo di Ted Osborne, anche lui emigrato (come Walsh) dall’Oklahoma in California per lavorare in qualche stazione radiofonica: assunto da Walt Disney per scrivere i testi di una trasmissione dedicata al Topo, diventa, nel 1933, lo sceneggiatore delle strisce disegnate da Gottfredson. Il salto di qualità è enorme, immediato, e Topolino diventa una leggenda anche nel mondo del fumetto, grazie all’abilità di Osborne che lo trasforma da “piccoletto alle prese col mondo”, come era stato nei cartoon, a Grande Eroe in grado di affrontare e risolvere ogni problema e di cavarsela nelle situazioni più difficili. L’America, infatti, in piena Depressione, ha un disperato bisogno di eroi, e sono quelli gli anni in cui, nel mondo a fumetti, spuntano come funghi: nel 1929 nasce Buck Rogers, nel 1931 Dick Tracy, nel 1933 Brick Bradford, nel 1934 l’agente segreto X9, Terry, Mandrake, Flash Gordon, nel 1936 L’Ombra. Il Topo avventuroso nasce, tra il 1933 e il 1934, con storie come “Topolino eroe dell’aria” (1933) o “Il bandito Pipistrello” (1934); il talento di Osborne, già notevole in partenza, si affina sempre più col passare degli anni, andando di pari passo con l’evoluzione del disegno di Gottfredson, e le avventure del Topo finiscono per spaziare in ogni campo: gangsterismo (“Topolino giornalista”, 1935), giungle esotiche (“Topolino e i pirati”, 1937), pirati (“Il misterioso S, flagello dei mari”, 1935), fantascienza (“Il mistero dell’uomo nuvola”, 1936), regni da operetta (“Topolino sosia di Re Sorcio”, 1937), fantasmi (“Nella casa dei fantasmi”, 1936). A partire dal 1935

La famosa scena in cui Topolino e Minni, tornando a casa dopo l’avventura con Re Sorcio, sostano in albergo: i poco attenti Piero Zanotto e Franco Fossati, nel saggio del 1980 “Topolino”, si convinsero che questa fosse la stanza della coppia con tanto di “lettone”, e non della sola Minni! i capolavori si succedono uno dietro l’altro, senza interruzioni o cedimenti, in una serie senza eguali nel mondo del fumetto: i migliori sono probabilmente “Topolino sosia di re Sorcio”, ultima storia scritta da Osborne, e “Il mistero dell’uomo nuvola”, famosa, oltre che per aver introdotto il personaggio del professor Enigm, per aver previsto, con molti anni di anticipo, i pericoli delle armi atomiche. Poi la serie termina: all’inizio del 1938 Osborne, diventato troppo bravo, viene chiamato a occuparsi della sceneggiatura di , lascia Topolino in mano ad altri e, una volta terminato il lavoro per l’animazione, non ritrova più il suo posto, ormai stabilmente occupato dal suo successore Merrill De Maris. Lascia così la Walt Disney per dedicarsi alla fotografia mentre il Topo continua senza di lui, e così anche Paperino… Topolino, Pippo e il dottor Enigm. ma questa è un’altra storia.

8° posto: Merrill De Maris (1898-1948)

Uno dei motivi per cui la Walt Disney ha raggiunto un successo planetario sta anche nell’abilità dello stesso Walt nello scegliersi i collaboratori (peraltro sempre sottopagati). Solo così si spiega come mai Topolino, dopo l’abbandono di Ted Osborne e l’arrivo del nuovo sceneggiatore, sia riuscito a prolungare almeno sino allo scoppio della guerra la sua incredibile serie di capolavori. Merrill De Maris, ennesimo immigrato in California in cerca di fortuna, era uno scrittore che aveva già lavorato saltuariamente, nel 1933, alle strisce del Topo, anche se alla fine gli venne preferito Osborne. Particolarmente bravo a scrivere i testi delle strisce quotidiane (vi traspone anche molte Silly Symphonies, e i lungometraggi

Due componenti della banda dei piombatori (vale a dire idraulici) alle prese con l’ignaro Topolino. Biancaneve, Pinocchio e Bambi), De Maris cambia nuovamente le caratteristiche del Topo, forse intuendo che il tempo delle Grandi Avventure volge al termine, e che dopo la migliore di tutte, quella con Re Sorcio, non si potrà più migliorare. È così che Topolino, pur restando lo stesso di prima, diventa un detective coinvolto nei misteri più strani e spesso inquietanti. Arriva così un’altra serie di capolavori, con la creazione di “cattivi” come Giuseppe Tubi (“La banda dei piombatori”, 1938), lo Splendente (“Il mistero delle collane”, 1942) e soprattutto Macchia Nera (“Il mistero di Macchia

La famosa, terrificante prima apparizione di Macchia Nera. Nera”, 1939), di gran lunga l’avversario più temibile mai incontrato dal Topo, al punto che la storia in cui compare è considerata il punto più alto mai raggiunto dalle strisce quotidiane disegnate da Floyd Gottfredson: questo significa, per buona parte degli “esperti” e degli stessi lettori, che questa avventura con Macchia Nera potrebbe essere la migliore storia a fumetti di tutti i tempi.

Il confronto decisiv o fra Pippo e lo Splendente, ne “Il mistero delle collane” . Sarà davvero così? Impossibile rispondere. Ma la storia con Macchia Nera è indubbiamente la migliore storia in assoluto con protagonista il Topo, talmente in grado di terrorizzare i lettori anche a distanza di molti anni dalla sua prima pubblicazione, da venire continuamente censurata nelle ristampe successive; il personaggio di Macchia Nera, con la sua crudeltà raffinata e la sua spietatezza fece una tale impressione da venire abbandonato per sempre, ed è solo grazie all’intuizione di Guido Martina che poté essere ripreso a distanza di 16 anni (per finire purtroppo annacquato una storia dopo l’altra, non essendo certo un “cattivo” facile da utilizzare nella sua versione originale). Oppure si può dar credito alla versione “buonista”, che sdrammatizza la questione e sostiene che l’abbandono del personaggio fu dovuto alla sua somiglianza (voluta) con lo stesso Walt Disney. Nel già citato saggio del 1980 Franco Fossati critica Da un fandom disneyano: aspramente la trasformazione di Topolino da “avventuriero” a un accostamento tra Walt Disney e Macchia Nera. “detective”. Ma nel 1980 non era semplice distinguere fra di loro i molti sceneggiatori e disegnatori, tanto più che Fossati, pur lavorando già alla Mondadori, non era ancora entrato a far parte della redazione dei periodici Disney: il risultato fu quello di fare di tutte le erbe il classico fascio, avendo sott’occhio solo la massa di storie prodotte nel dopoguerra da tutti gli autori disneyani, italiani e americani, che invariabilmente proponevano sempre e solo un Topolino detective, assistito da un Pippo sempre più stupido e dai soliti Basettoni e Manetta, un Topolino in perenne lotta con Gambadilegno e lo stesso Macchia Nera, e questo in decine, centinaia di storie tutte uguali e spesso monotone e prevedibili. Il punto è che i tempi di Bill Walsh erano ormai lontani (le sue storie terminano nel 1955) e così pure quelli di Romano Scarpa (che dopo il 1964 scrive poche storie col Topo), e leggere una storia in cui Topolino non facesse il detective, al limite anche una vecchia storia, era allora più difficile che vincere al Totocalcio, e l’idea sbagliata che si era fatto Fossati poteva essere giustificata. Nel corso della sua purtroppo breve carriera di sceneggiatore, Merrill De Maris ha anche creato (ne “La banda dei piombatori”) i personaggi del commissario Basettoni e dell’ispettore Manetta (in realtà è un “detective”, carica che da noi non esiste), come pure del “cattivo gentile” Giuseppe Tubi; in seguito crea anche Bubbo (rivale in amore di Topolino, nella storia “Topolino e l’illusionista”, 1941) e il professor Ossivecchi (nella magnifica storia, stavolta nuovamente di stampo avventuroso, “Topolino all’età della pietra”, 1940). Sinché alla fine del 1942, per motivi di salute, De Maris lascia la Walt Disney: morirà pochi anni dopo, dimenticato da tutti, il più grande e allo stesso tempo il meno conosciuto tra gli sceneggiatori delle strisce quotidiane di Topolino. E stavolta, per il Topo, il declino inizierà davvero.

7° posto: Casty (1967-)

Dopo una decina di anni passati a sceneggiare Lupo Alberto, e poi (dal 2003) anche Topolino, Andrea Castellani detto Casty, friulano, scopre nel 2005 di saper disegnare, e di saperlo fare come il suo idolo Romano Scarpa: è come se il maestro veneziano, morto pochi mesi prima, nel mese di aprile, si fosse reincarnato nel suo collega, dal momento che ogni storia scritta e disegnata da Casty sembra, in tutto e per tutto, una storia scarpiana di medio livello. Come un simile miracolo sia stato possibile rimarrà probabilmente un mistero; sta di fatto che ad oggi Casty è ormai la “punta di diamante” degli autori disneyani, ultimo e unico superstite di una serie iniziata nel lontano 1930 con Walt

“Topolino e l’impero sottozero”: Topolino Disney e Ub Iwerks, e che ha prodotto insegna ad Atomino Bip -Bip a… pattinare! un’infinità di capolavori, buona parte dei

“Tutto questo accadrà ieri”: un cast di tutto rispetto e un Gambadilegno minaccioso come un tempo. quali realizzata da autori italiani. Unico ad avere il talento per sfuggire al nuovo corso disneyano, alle censure sempre in agguato e al politically correct ormai imperante, Casty (che a differenza di Scarpa si dedica solo ai Topi) costruisce ognuna delle sue storie con la stessa struttura usata dal maestro veneziano, le stesse pause, gli stessi colpi di scena, lo stesso tipo di dialoghi (magari rimodernati), usando spesso gli stessi comprimari (Atomino Bip-Bip su tutti) pur non disdegnando di servirsi anche di quelli altrui (Zapotec, per esempio) e talvolta creandone di suoi. Non si possono non ricordare storie come “Topolino e l’impero sottozero” (2015), “Tutto questo accadrà ieri” (2015) e soprattutto “Topolino e il mondo che verrà” (2008), che segna il memorabile ritorno della Spia Poeta a 60 anni dalla sua prima apparizione. Anche se una quindicina di anni di attività, con un centinaio di store al suo attivo, non sono ancora sufficienti né per poter esprimere un giudizio definitivo su questo autore, né per valutarne l’importanza nel mondo Eta Beta e Topolino incontrano nuovamente la Spia Poeta : anche fumettistico, è probabile Casty sa scrivere in versi, sia pure non ai livelli di Walsh e Martina. che il solo fatto di essere riuscito ad affermarsi e aver trovato un suo stile, oggi, nel momento di massima crisi delle pubblicazioni disneyane, basterà ampiamente per fare di lui un maestro per le generazioni future. Persino nei lontani anni ’50 o ’60, quando la Mondadori e Mario Gentilini davano massima libertà creativa a tutti, e i “maestri” abbondavano, Casty avrebbe occupato un posto al sole, forse secondo al solo Scarpa. Purtroppo proprio il fatto di imitare troppo l’autore veneziano costituisce il suo limite più grande: nessuna imitazione, come tutti sanno, vale quanto l’originale, e non solo nei fumetti. Scarpa è stato grandissimo, Casty è indubbiamente grande, ma riuscirà ad andare oltre? Potrebbe ancora trovare una sua strada? Il talento c’è, quello che manca è un parco di lettori disposto a seguirlo sino in fondo, e che l’editore non fa nulla per ampliare, preferendo ritardare il più possibile quella che a molti sembra una fine inevitabile.

6° posto: (1905-1969)

La ricostruzione dei primi anni di Paperino, diviso tra animazione e fumetto, non è semplice; ancora meno semplice è capire, dato il continuo intrecciarsi dei ruoli che alla Disney dell’epoca era prassi comune, chi abbia creato quale personaggio, chi vi abbia lavorato, e quando. Ad ogni modo, la storia di Paperino, almeno sino al dopoguerra, si può dividere in quattro fasi, considerando la sua prima apparizione, nel celebre cartoon “La gallinella saggia” del giugno 1934, del tutto scollegata dalle altre: - prima fase: cartoon in cui Paperino fa da spalla a Topolino, da “Una serata di beneficenza” dell’agosto 1934 sino all’estate del 1936, quando assume l’aspetto definitivo, col becco più corto; in qualche occasione compare anche nelle strisce giornaliere di Topolino, sempre come spalla del protagonista; - seconda fase, dall’estate del 1936 a dicembre del 1937: Paperino, col suo aspetto definitivo, si afferma nei fumetti, diventando il protagonista delle strisce dedicate alle Silly Symphonies, mentre la sua importanza nei cartoon aumenta, e nel corso del 1937 ne compaiono tre nei quali è il solo protagonista. - terza fase: dal febbraio 1938 sino all’avvento di Carl Barks nel 1942: Paperino, dopo aver lasciato due mesi prima le strisce delle Silly Symphonies (verrà rimpiazzato da Biancaneve) ottiene finalmente una sua serie, che andrà avanti sino agli anni ’90, sempre proponendo brevi gag giornaliere (mai storie lunghe, com’era invece negli stessi anni per Topolino); contemporaneamente spopola nell’animazione, superando rapidamente Topolino per numero di cartoon (più del doppio in questo periodo), e comparendo sempre di meno in quelli con protagonista il Topo. - quarta fase: nell’ottobre 1942 Carl Barks disegna la prima storia lunga con Paperino (“Paperino e l’oro del pirata”), non nelle strisce quotidiane, ma in un albo mensile (dapprima “Four Color”, in seguito “Walt Disney's Comics and Stories”, l’equivalente americano del nostro “Topolino”); da questo momento le strisce perdono importanza e Paperino diventa il personaggio che conosciamo tuttora, protagonista di storie lunghe. Il Paperino delle storie brevi e delle gag giornaliere si ritrova ancora nei cartoon sino a metà degli anni ’50, sia pure meno nevrotico e meno in conflitto coi nipotini. A questo punto diventa possibile rispondere alla domanda principale: chi ha portato Paperino nei fumetti? La risposta è: Alfred (detto Al) Taliaferro, il solito emigrato in California che negli anni ’30 aveva iniziato la carriera inchiostrando le strisce di Topolino e che, avendo intuito le potenzialità di Paperino nel mondo dei fumetti, riuscì dapprima a farlo diventare protagonista delle Silly Symphonies e poi convinse i fratelli Disney (non senza fatica) a fargli avere una sua striscia.

L’esordio di Paperino, ancora col becco lungo , nel mondo dei fumetti: “Topolino giornalista” (1935). È ancora di Taliaferro il merito di avere ideato i personaggi di Qui, Quo e Qua, subito ripresi dall’animazione (e nello specifico proprio da Barks, che allora vi lavorava) e sviluppati nelle strisce da quel Ted Osborne che nello stesso periodo stava dando il meglio di sé in quelle di Topolino: anche per questo motivo Paperino vi aveva già fatto diverse apparizioni, tutte brevi ma memorabili, per esempio in “Topolino Giornalista” (1935) e “Topolino nella casa dei fantasmi” (1936); al ritiro di Osborne prima e infine diventeranno gli autori dei testi, con Taliaferro che,

Paperino disegnato da Taliaferro in una delle sue prime strisce (1938). giorno dopo giorno, darà vita al personaggio, caratterialmente e graficamente, e questo sino agli anni ’60. Sempre al lavoro di Taliaferro e Bob Karp si devono la creazione di personaggi come Ciccio, il pigrissimo cugino di Paperino (1938, subito ripreso da Barks in un cartoon) e di Nonna Papera (1943), mentre è l’animazione a precedere i fumetti sviluppando nel 1940 il personaggio di Paperina (a sua volta ripreso da Taliaferro). Certo, il Paperino di Taliaferro è un po’ diverso da quello che conosciamo oggi, e che è essenzialmente quello di Barks (sia pure rielaborato da Martina e Cimino), ma le sue caratteristiche principali vengono delineate in questa fase, soprattutto negli anni tra il 1936 e il 1938, dove l’influenza di Osborne è più forte: l’irascibilità, per esempio, che rimarrà per sempre un suo tratto distintivo, magari poco utilizzata in seguito (Barks, che non amava le situazioni conflittuali, se ne serviva solo per qualche gag), oppure il rapporto non sempre facile col trio di nipotini (poi migliorato da Barks e in seguito nuovamente peggiorato da Martina). Anche le caratteristiche non-eroiche, che lo rendono così diverso dall’eroe per antonomasia, Topolino, vale a dire una certa pigrizia, la goffaggine, una buona dose di sfortuna, vengono messe a punto in questa fase e in futuro riprese (chi più, chi meno) da tutti gli altri autori: il lavoro di Taliaferro si svolge sempre e comunque in stretta sinergia col reparto animazione, che a volte precede (per esempio nell’aspetto esteriore di Paperino) e a volte segue (per esempio nell’ideazione dei tre nipotini) le innovazioni del settore fumettistico. Non è poco, e forse l’immenso universo dei Paperi non sarebbe mai esistito senza il lavoro, purtroppo non così conosciuto (è solo da pochi anni che ne è iniziata la riscoperta) di Al Taliaferro, colui che ha traghettato il Papero dal mondo dei cartoon a quello dei fumetti.

5° posto: Massimo De Vita (1941-)

Il milanese Massimo De Vita, figlio di quel Pier Lorenzo che ha fatto parte del primo nucleo dei “disney italiani”, viene introdotto dal padre, alla fine degli anni ’50, nella redazione di Topolino e, dopo qualche anno passato a farsi le ossa impaginando, ritoccando, realizzando copertine, inizia a disegnare qualche storia tra il 1962 e il 1963, differenziando a poco il suo stile da quello del padre, peraltro molto caratteristico. Dopo una decina di anni in cui il suo disegno ricorda quello dei due colleghi più attivi in quel periodo, vale a dire i mostri sacri Scarpa e Carpi, inizia farsi sentire l’influenza di Giorgio Cavazzano. De Vita, mostrando un talento sopraffino, riesce a migliorare il suo tratto, prendendo dallo stile del collega il dinamismo fluido e piacevole al tratto, ma evitandone la gommosità (vale a dire la tendenza a deformare i corpi per aumentarne il dinamismo): nella seconda metà degli anni ’70 il suo disegno migliora, storia dopo storia, sino a raggiungere una perfezione stilistica che lo farà diventare, negli anni ’80, il miglior disegnatore disneyano in attività, superiore anche ad uno Scarpa in fase un po’ calante. Solo Floyd Gottfredson, e forse lo Scarpa dei primi anni ’60 sono riusciti a disegnare Topolino meglio di Massimo De Vita, e non è un caso che ad un certo punto questo autore abbia abbandonato il mondo dei Paperi per dedicarsi esclusivamente al mondo dei Topi, e questo nonostante sia stato lui a disegnare il miglior Paperinik, personaggio tra i suoi preferiti e che ha saputo rendere molto meglio del pur bravo Carpi, che lo aveva disegnato agli esordi.

Evoluzione dello stile grafico di Massimo De Vita: i Paperi (1968 , a sinistra), 1978 (a destra). Non contento di aver raggiunto livelli altissimi nel disegno, alla fine degli anni ’70 De Vita inizia a sceneggiare da solo le proprie storie, e sino agli anni ’90, quando il nuovo corso disneyano lo indurrà a deporre prima la penna e infine anche la matita, riuscirà a scrivere una serie impressionante di capolavori, diventando anche uno dei migliori sceneggiatori in circolazione. Nascono così “L’enigma di Mu” (1979) in cui De Vita inventa il personaggio del professor Zapotec, la cui importanza nelle storie col Topo

Evoluzione dello stile grafico di Massimo De Vita: Topolino e Pippo (1968, a sinistra), 1978 (destra). andrà sempre crescendo, “Topolino e il ritorno al passato” (1987), ancora con Zapotec, tra le migliori storie della serie “macchina del tempo”, “Il matrimonio di Zio Paperone” (con Brigitta), del 1984, ma soprattutto la cosiddetta “Trilogia della Spada di Ghiaccio”, pubblicata nei tre Natali del 1982, 1983 e 1984, capolavoro assoluto come

“Paperinik e la banda dei dodici”, disegnato da un De Vita al suo meglio. non se ne vedevano dai tempi del miglior Romano Scarpa, se non addirittura del miglior Bill Walsh. De Vita intuisce correttamente che il Topo va immerso in situazioni nuove e imprevedibili, come già aveva fatto Walsh, e come in futuro faranno Faraci e Artibani con le MMMM, e dunque crea un’ambientazione fantasy di tutto rispetto (ispirato da “La spada di Shannara” e da “Guerre Stellari”) dove le sfide da superare e i nemici da sconfiggere non mancano: ma a differenza degli altri autori De Vita lascia

Topolino e Pippo nella saga della Spada di Ghiaccio, forse la storia migliore di Massimo De Vita. il Topo inalterato, riuscendo dove gli altri hanno fallito e recuperando per strada anche il personaggio di Pippo, un tempo geniale e tutt’altro che stupido, ma col tempo diventato un mezzo idiota a volte patetico, inutile spalla di un Topolino sempre più borghese; neanche Scarpa era riuscito a far ritrovare a Pippo la folle genialità delle origini, che autori eccezionali come De Maris e Walsh avevano saputo valorizzare. Tuttavia, come già si era accennato, questo periodo felice dura poco; il nuovo corso disneyano e l’apparire di personaggi come PK, che stravolge completamente il “suo” Paperinik, non piacciono all’autore milanese, che dapprima smette di scrivere le sue storie – non più di quattro o cinque dal 2000 ad oggi – e in seguito dirada lentamente la sua produzione come disegnatore, finendo per ritirarsi, ormai anziano, una volta resosi conto di non andare più di moda. Sarà rimpianto da tutti i lettori cresciuti negli anni ’80 con le sue storie.

4° posto: Don Rosa (1951-)

Figlio di immigrati italiani, il kentuckiano Gioachino Dante (ossia Keno Don) Rosa è prima di tutto un grande estimatore del lavoro di Carl Barks, il suo autore preferito sin dall’infanzia e del quale ha collezionato tutte le storie in età adulta. Dopo molti anni passati a lavorare nell’azienda di famiglia (nel ramo edile) e a disegnare una striscia senza infamia e senza lode per un giornale locale, Don Rosa apprende dell’esistenza della Gladstone Comics, una casa editrice americana specializzata in ristampe di pregio dei fumetti disneyani (Barks, Gottfredson, Scarpa, Rota) e riesce a farsi accettare come autore “freelance” nella produzione di nuove storie in puro stile barksiano: inizia così, nel 1987, la carriera di un autore assolutamente unico nel suo genere, capace non tanto di imitare lo stile di Carl Barks (come aveva fatto Marco Rota), ma di riprenderne l’universo fumettistico ignorando completamente il lavoro di ogni altro autore, fosse anche uno Scarpa o un Martina. Ogni storia scritta e disegnata da questo autore fa uno stranissimo effetto, quando viene letta: nonostante né il disegno né lo stile narrativo assomiglino a quelli di Barks, si ha l’impressione di leggere una storia delle sue, ma narrata da un altro punto di vista. Non mancano seguiti diretti di molte storie barksiane (per esempio “Zio Paperone e il ritorno a Xanadu” (1991) o “Zio Paperone e il ritorno a Testaquadra” (1989), ma nella maggior parte dei casi gli spunti sono originali, e tuttavia sempre legati in qualche modo a quel particolare universo di cui Rosa è il più famoso ammiratore. Talmente forte è questo legame che tutte le sue storie, come ammette tranquillamente lo stesso autore, sono ambientate nell’epoca in cui Barks ha scritto le sue migliori, grossomodo a cavallo della metà degli anni ’50, e non contengono il minimo riferimento al mondo contemporaneo, neanche sotto forma di satira (pure spesso presente nel mondo barksiano). “L’ultima slitta per Dawson”, tra le prime storie di Rosa: Paperone ricorda sé stesso da giovane. L’effetto che ogni storia di Don Rosa fa sul lettore è talmente particolare che col tempo si è formata una minoranza, piccola ma rumorosa, di dis-estimatori, convinta che l’autore del Kentucky si sia in qualche modo “appropriato”, plagiandolo, di un universo fumettistico non suo; nonostante la palese assurdità di questa ipotesi – l’universo fumettistico non appartiene, per il momento, né a Barks, né a Rosa, né ad altri autori, ma solo alla Walt Disney – Rosa se n’è risentito, cosa che – fra molte altre – ha contribuito alla fine prematura della sua carriera.

“La prigioniera del fosso dell’Agonia Bianca”, ultima storia di Don Rosa, la cui immaginazione non sembra avere limiti: Paperone e la “stella del Polo” (ripresa da Barks) trovano un mammut congelato. Sta di fatto che, minoranza rumorosa a parte, il successo ottenuto da Rosa ha superato le aspettative dello stesso autore, che non si considera un buon disegnatore e neanche un grande sceneggiatore. È invece vero il contrario: il suo disegno, pur se meno pulito rispetto a quello di altri autori, è incredibilmente espressivo e ricco di dettagli, e le sue sceneggiature sono capaci di toccare corde molto profonde e sensibili senza scadere nel melodramma. Incoraggiato dalla maggioranza entusiasta nel vedere rifiorire l’universo fumettistico barksiano, Rosa si è lanciato, tra il 1992 e il 1994, in una saga colossale in 12 puntate, “Saga di Paperon de’ Paperoni”, in cui narra l’intera vita del “Papero più ricco del mondo”, dalla sua infanzia sino alla sua prima apparizione “ufficiale” (“Il Natale di Paperino sul Monte Orso”, 1947), aggiungendovi date, parentele, amori, morti, sfruttando ogni minimo dettaglio apparso nelle storie di Barks o persino del tutto inedito (come il suo albero genealogico, mai pubblicato, in cui si accenna all’esistenza delle sorelle di Paperone). L’immensa libertà creativa concessagli dalla Gladstone gli permette di scrivere storie in cui l’umorismo è solo funzionale alla trama, sempre seria, complessa e pienamente coerente, dalla prima all’ultima pagina, con sé stessa e con le storie di Barks: tale è il successo della “Saga” (più volte ristampata) che negli anni seguenti, sino al 2001, Rosa continuerà ad aggiungervi capitoli su capitoli, tutti di ottimo livello, senza mai contraddirsi o scendere a compromessi. Ma ben presto i tempi cambiano. Passato dalla Gladstone (che chiude nel 1990) alla Egmont (una delle succursali europee della Walt Disney, simile alla nostra Panini) Rosa inizia a subire progressivamente pressioni e censure, spesso assurde (per esempio gli viene proibito di usare Pico de’ Paperis – da lui scelto come cognato di Paperone – nelle sue storie); questo atteggiamento, unito al mancato riconoscimento ufficiale del suo Paperino e i nipotini disegnati da Rosa. lavoro, che viene spesso ristampato senza che a lui spetti alcun compenso (trattamento comunque riservato a tutti gli autori disneyani), lo amareggia a poco a poco e, dopo un primo “sciopero” nel 2002, lo porta a concludere anzitempo la sua carriera di fumettista nel 2006, anche perché afflitto da problemi alla vista che ne rallentano il lavoro. Oggi, Don Rosa si gode la sua “pensione” e gira per il mondo visitando fiere e convegni: se non altro è il primo grande autore disneyano a vedersi riconosciuti i suoi meriti, almeno dai lettori.

3° posto: Floyd Gottfredson (1905-1986)

Dopo l’apparizione di Romano Scarpa e Giovan Battista Carpi in televisione, nel 1968, i nomi dei veri autori disneyani cominciano ad essere conosciuti tra gli “addetti ai lavori”. È solo nella seconda metà degli anni ’70 che questi nomi diventano noti a tutti i lettori: si veda per esempio la parabola di Barks, citato di sfuggita nell’Oscar Mondadori del 1968 “Vita e dollari di Paperon de’ Paperoni” (che pure contiene solo storie barksiane), nominato più volte nell’introduzione all’Oscar Mondadori “Le disavventure di Paperino” (1976) e citato esplicitamente nel titolo dell’altro Oscar “Noi Paperi – 18 storie di Carl Barks” (1978). Ancora 10 anni, e i nomi degli autori vengono infine indicati vicino alle storie da loro realizzate; è a questo punto, all’inizio degli anni ’90, che iniziano i saggi, le mostre, le conferenze, gli inviti, le sessioni con dediche e autografi. Floyd Gottfredson, il più grande disegnatore disneyano mai esistito, muore nel 1986, e fa appena in tempo a godersi uno spicciolo di fama e qualche intervista. Ma Gottfredson, come tanti altri americani emigrato in California in cerca di fortuna (alla fine del 1928), non è sempre stato così bravo: assunto un anno dopo alla Walt Disney come animatore, viene presto mandato a disegnare le strisce di Topolino, lavoro allora poco ambito. In principio il suo disegno è rozzo, simile a quello dei primi cartoon; ci vorranno anni perché le linee diventino morbide, i movimenti fluidi e gli sfondi si riempiano di dettagli, dando vita, tra gli anni 1935 e 1938, al miglior Topolino di sempre, da tutti imitato

Topolino nel 1930, ancora in via di sviluppo. e portato ad esempio.

“Topolino e il mistero dell’uomo nuvola”: la famosa sequenza “cinematografica” del combattimento tra Topolino e Gambadilegno, ritenuta da molti il punto più alto raggiunto dal disegno di Gottfredson. In quel periodo, con Ted Osborne ai testi, i capolavori si succedono uno dopo l’altro, come già si era accennato; inutile tornare sulle storie migliori, che ogni appassionato conosce a memoria. Difficile capire quanto Gottfredson abbia contribuito alle sceneggiature (di solito viene accreditato per la sola “trama”), ma il suo lavoro come disegnatore basta e avanza per farne uno dei massimi autori di ogni tempo. Vale invece la pena notare che, quando già è arrivato De Maris alle sceneggiature, qualcosa di inatteso succede verso il Natale del 1938: gli occhi di Topolino, in vista della sua apparizione in Fantasia, vengono modificati, comparendo da allora con le pupille al posto dei classici cerchietti neri. Si dice che questo servisse a rendere il Topo più espressivo; ma una cosa è l’animazione, altra cosa la vignetta che fissa un momento preciso Il Topolino degli anni ’50, ormai completamente diverso dell’azione. Gottfredson, che come dall’originale. ogni bravo impiegato recepisce subito il cambiamento, si trova palesemente in difficoltà, e il suo Topo diventa, viceversa, meno espressivo. Il problema si ripete nel 1941, quando l’animazione, di nuovo, cambia l’aspetto di Topolino rendendolo più affusolato, e di nuovo Gottfredson vi si adatta con fatica, a partire dalla storia “Topolino e l’illusionista”. Quando anche questo cambiamento è stato assorbito, Bill Walsh cambia il guardaroba del Topo, eliminando i pantaloncini corti, e siamo da capo.

Per la prima volta Topolino con le pupille e Gottfredson in difficoltà con la sua espressione. È solo nel dopoguerra che Gottfredson riesce a tornare sui livelli di un tempo, anche se il suo personaggio ha ormai assunto un aspetto del tutto diverso e ha perso qualcosa rispetto all’originale, più dinamico ed espressivo: ma di tanto in tanto, soprattutto nel periodo con Eta Beta e poi in alcune storie degli anni ’50, i capolavori, anche per quanto riguarda il disegno, tornano a farsi vedere. Poi le storie lunghe vengono soppresse, nel 1955, e da allora in poi, per altri vent’anni, Floyd Gottfredson vive sugli allori, disegnando con sempre meno entusiasmo un Topolino ormai uguale a Topolino di nuovo espressivo ma “dimagrito”. sé stesso e privo di quella vitalità che rendeva ogni vignetta un piccolo capolavoro. Per fortuna, ancora per una decina di anni, sarà Scarpa a rimediare al problema. Poi il declino, le critiche di Fossati, le storie tutte uguali nella trama e nei disegni. Quando Casty non sarà più attivo, arriverà qualcun altro a salvare il Topo?

2° posto: Romano Scarpa (1927-2005)

Le ultime storie lunghe realizzate da Floyd Gottfredson sono state “Pippo Cosmico (pubblicata su “Topolino” a novembre 1955) e “Il ritorno di ” (pubblicata in Italia a febbraio 1956). Dopo di che, sul Topo è calato il sipario. Questo, però, oltreoceano. Come è possibile, allora, che nel luglio del 1956 sia stata pubblicata su “Topolino” “Il mistero di Tapioco Sesto”, storia che sembra opera del solito binomio Walsh/Gottfredson? Un autore italiano, allora completamente ignoto, il veneziano

A sinistra: i Paperi di Barks; al centro: i Paperi di Scarpa (1960); a destra: i Paperi di Scarpa (1970). Romano Scarpa, aveva deciso di continuare le storie lunghe del grande Topo, seguendo la falsariga di quelle ideate da Walsh sino a pochi mesi prima: anche il suo disegno sembrava proprio quello di Gottfredson, e nessuno si accorse della differenza (del resto, che in America Topolino venisse pubblicato sui quotidiani in strisce giornaliere era una cosa che non sapeva quasi nessuno).

A sinistra: Pippo e Topolino di Go tt fredson ; al centro: di Scarpa (195 8); a destra ; di Scarpa (1975). Romano Scarpa, autore di questo vero e proprio miracolo, lavora alla Mondadori dal 1953, in quanto disegna molto bene (in origine voleva dedicarsi all’animazione). Dopo qualche storia con Biancaneve viene introdotto da Guido Martina nel mondo di Topolino con la memorabile “Topolino e il doppio segreto di Macchia Nera” (1955) e subito dopo inizia a scriversi da solo le storie, riuscendo, sia con i Topi che con i Paperi, a inserirsi nel solco di Walsh, con i primi, e di Barks, con i secondi. Sia come sceneggiatura che come disegno Scarpa si rivela subito all’altezza del compito, anche se per quanto riguarda i Paperi qualche piccola differenza con lo stile di Barks (del resto ancora in attività) si nota: i suoi personaggi hanno più cuore e più sentimento rispetto a quelli barksiani, pur restando sostanzialmente gli stessi. Il suo disegno, comunque, è eccezionale, con un tratto che ricorda sia quello di Gottfredson che quello di Barks, nonostante abbia conservato un suo proprio stile. Nascono così storie come “Paperino e la leggenda dello “scozzese volante” (1957), capace di commuovere i lettori come solo Barks era riuscito a fare, e poi la straordinaria “Paperino e le lenticchie di Babilonia” (1960), una delle prime storie a mostrare Paperone ridotto in L’arrivo di Atomino Bip -Bip dalla “dimensione Delta” (1959). miseria. Ma probabilmente Scarpa dà il meglio di sé con Topolino, realizzando storie come “Topolino e la dimensione Delta” (1959, torna il professor Enigm e viene creato il personaggio di Atomino Bip-Bip), “Topolino e la collana Chirikawa” (1960, vi viene creato il personaggio di Trudy) e soprattutto “Topolino e l’unghia di Kalì” (1958), che ricorda molto la prima storia con Macchia Nera ed è di livello quasi uguale. Passano circa dieci anni, nel corso dei quali nascono una ventina di capolavori e molti nuovi personaggi, tra i quali va ricordata Brigitta (che riscuote l’approvazione dello stesso Barks!), ma alla fine il maestro veneziano si stanca e tira un po’ i remi in barca, limitandosi ad illustrare quasi “La farfalla di Colombo” (1962): Paperone e Brigitta. soltanto sceneggiature altrui, anche se con qualche lodevole eccezione, e perdendo qualcosa anche a livello di disegno, che diventa meno elaborato pur restando sempre piacevole a vedersi. Le storie disegnate per Guido Martina e Rodolfo Cimino si contano a decine (per ciascuno dei due), e sono tutte notevoli (per esempio “Paperinik alla riscossa” per Martina, o il già citato “Zio Paperone e l’elmo del comando” per Cimino), ma sarà solo alla fine degli anni ’80, quando ormai tutti gli esperti parlano di lui, ricoprendolo di elogi e arrivando a metterlo sullo stesso livello dei due maestri americani, che Scarpa, lusingato, tornerà ad impegnarsi a fondo nelle sceneggiature, con storie come la lunghissima ”Paperolimpiadi” (1988) e soprattutto riuscendo infine a coronare il sogno di scrivere delle vere storie a strisce: ne pubblicherà ben quattro, una all’anno, tra il 1989 e il 1992,

Le strisce di Romano Scarpa: Topolino, Pippo, Minni e Zenobia in “Ciao, Minnotchka” (1992). con le classiche quattro vignette pubblicate di traverso su due pagine. Dopo l’ultima, “Minnotchka” (parodia del film “Ninotchka”), tirerà nuovamente i remi in barca, trasferendosi in Spagna per passarvi la vecchiaia e diradando a poco a poco la sua produzione: alla sua morte lascerà quasi cinquecento storie lunghe, disegnate in oltre cinquant’anni di carriera: quasi centocinquanta quelle da lui sceneggiate, tra cui decine di capolavori indiscussi. Autore davvero completo, ugualmente bravo coi Paperi come coi Topi, ugualmente bravo nelle sceneggiature come nei disegni, sarebbe stato probabilmente il più grande di tutti se non fosse stato per un certo Carl Barks.

1° posto: Carl Barks (1901-2000)

L’uomo dei Paperi – come veniva chiamato Carl Barks – sembrava immortale come i suoi personaggi: pochi sono arrivati, come lui, alla soglia dei cento anni di vita in piena forma fisica e intellettuale, tanto più dopo aver girato tutta l’Europa (Italia compresa) a 93 anni, ed essere stato ricoperto di gloria e onori come mai gli era successo prima. Purtroppo una leucemia ci ricordò, nell’estate del 2000, che la vera immortalità non è quella terrena, ma quella che viene dall’aver lasciato qualcosa ai posteri. E Barks ha lasciato molto: anche lui emigrato in California in cerca di quella fortuna che il suo nativo Oregon non sembrava potergli offrire, entra alla Disney come animatore nel 1935 (non più giovanissimo, dopo molti anni passati cambiando molti lavori diversi, esperienza che trasferirà nelle sue storie) e per diversi anni lavora ai cartoon di Paperino, imparando a conoscere ed apprezzare i Paperi (allora meno numerosi di oggi, con i soli nipotini e, a volte, Paperina, ad affiancare il protagonista). Quando scoppia la guerra Walt Disney, da bravo capitalista, riduce i costi tagliando gli stipendi (già bassi) dei suoi collaboratori, e Barks lascia l’azienda. Vi tornerà pochi mesi dopo accettando una soluzione di compromesso: lavorare ai fumetti standosene a casa, così da poter ridurre a sua volta i costi. Da allora passano 25 anni: le ultime storie disegnate da Barks compaiono infatti nel 1967, mentre il suo esordio risale al 1942. In questi 25 anni l’universo dei Paperi viene riscritto da cima a fondo, sia pure mantenendo le caratteristiche principali dei personaggi, e diventa quello “Paperino nel tempo che fu”, in pieno ‘800 (1951). che oggi è conosciuto in tutto il mondo. In particolare Barks trasforma il personaggio di Paperino da fannullone nervoso e irascibile – in sostanza un personaggio negativo, buono solo a far ridere gli altri – a “piccolo eroe” pieno di buona volontà, che non si scoraggia facilmente di fronte alle avversità pur non riuscendo a sconfiggerle. Paperino, che già nei cartoon aveva riscosso un successo strepitoso, si afferma anche nei fumetti, con i lettori che si identificano in lui ben più che in Topolino (il Topo è come vorremmo essere; il Papero è quello che siamo).

Paperone e la “Stella del Polo” (1952): per la prima volta il vecchio papero è in preda ai rimorsi. Dopo cinque anni passati a rimodellare Paperino, Barks ne espande l’universo: nascono così Zio Paperone (di gran lunga la sua creazione più riuscita e che finirà per diventare il vero protagonista di tutte le sue storie), Gastone, i Bassotti, Archimede, Amelia e altri meno importanti: quello dei Paperi diventa così una sorta di mondo parallelo al nostro, nel quale va in onda quella che Balzac chiamerebbe “la commedia umana” e che coinvolge i lettori come nessun altro autore riesce a fare. Non sono pochi, soprattutto fra gli “esperti”, quelli che preferiscono le storie di Gottfredson a quelle di Barks, per via di un disegno più pulito e più dinamico (almeno al suo meglio) e per sceneggiature più rigorose, con più suspence, più azione e un occhio alla “continuity” (di cui poco importava a Barks); ma solo l’uomo dei Paperi riesce a toccare le corde più profonde e l’animo dei lettori, in un modo che nessuna storia col Topo – troppo eroico – è mai riuscita a fare, che fosse di Gottfredson o di Scarpa. Il giudizio dei lettori, infatti, non lascia dubbi, e chi si divertisse a vedere come stanno le cose nel celeberrimo database “”, che raccoglie tutte le storie disneyane mai pubblicate, scoprirebbe che ai primi 19 posti, per gradimento, ci sono solo storie di Barks (seguite da una storia di Scarpa), e che l’uomo dei Paperi ne ha quasi la metà tra le prime 100.

“Zio Paperone e le sette città di Cibola” (1954): l’inizio della prima caccia al tesoro. Come non ricordare, fra queste decine e decine di storie, “Zio Paperone e la Stella del Polo” (1952), che ha fatto piangere molti lettori? O “la disfida dei dollari” (1952), prima storia in assoluto a vedere Paperone ridotto in miseria dopo un epico scontro coi Bassotti? O anche “Paperino nel tempo che fu” (1951), che vede i Paperi trasportati nella California dell’800, tra le storie preferite dallo stesso Barks? O, solo per citarne un’altra, “Zio Paperone e le sette città di Cibola” (1954), prima storia centrata su una caccia al tesoro, infinitamente superiore a tutte le altre che sono venute dopo? Purtroppo la fine del 1955 vedrà l’arrivo di una serie di decisioni grottesche, che azzoppano il mondo dei fumetti disneyano: si era già fatto cenno alla soppressione delle storie lunghe del grande Topo, oltretutto richiesta non dalla Disney stessa, ma Barks ancora al suo meglio, ne “I misteri della Cattedrale” (1965). dal loro distributore sui quotidiani, convinto che disegno umoristico e storie lunghe non potessero più andare d’accordo dopo l’avvento della televisione (cosa avranno bevuto?). Ma anche i Paperi si vedono ridimensionati, dal momento che viene imposto che ogni albo a fumetti debba contenere almeno due storie, ognuna con personaggi diversi, così da ottenere una riduzione sui costi di spedizione postali (cosa avranno fumato?). Questo implica che dall’inizio del 1956 Barks deve ridurre la lunghezza massima delle sue storie da 32 a 28 pagine: anche se in apparenza non è molto, la frustrazione del genio imbrigliato da regole insensate si avverte chiaramente in tutte le storie realizzate da allora in poi, che perdono qualcosa, sia come trama (che diventa un po’ meno rigorosa e meno attenta ai particolari) che come disegno (che inizia a semplificarsi). Poiché si parla di Barks, anche le sue ultime storie restano a livelli altissimi, che nessun altro autore al mondo può raggiungere (tranne forse il miglior Scarpa): basti pensare a “Zio Paperone e i misteri della Cattedrale” (1965), che a dispetto di sole 24 pagine è ancora capace di commuovere il lettore. Poi l’agognata pensione, e una seconda vita passata a dipingere quadri disneyani (dopo l’iniziale proibizione della Disney, terrorizzata all’idea che Barks riuscisse infine a guadagnare qualcosa) e a ricevere, sin dagli anni ’70, quei riconoscimenti che gli erano sempre mancati. L’uomo dei Paperi si godrà una lunga e piacevole vecchiaia per poi raggiungere la vera immortalità.