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Il tedesco dagli occhi di ghiaccio che inventò il calcio nuovo di Redazione 14 Dicembre 2018 – 10:49

Nella sua amatissima Monza si sono presentanti davvero in tanti per congedarsi da chi ha portato i biancorossi in ed i granata in paradiso. Una folla immensa e commossa ha partecipato lunedì pomeriggio ai funerali diGigi Radice, l’ex allenatore di calcio scomparso venerdì, all’età di 83 anni, alla residenza San Pietro di Monza, dove era ricoverato da qualche tempo.

La malattia “maledetta” che ha spento pian piano Gigi non ha affatto sbiadito il vivo ricordo di una persona per bene, di altri tempi. Erano presenti, tra gli altri, oltre al sindaco del capoluogo lombardo Dario Allevi, amico di famiglia, moltissini dei giocatori che Radice aveva allenato nel corso della sua lunga e vittoriosa carriera. Alle esequie, celebrate nella residenza San Pietro, erano in prima fila i “ragazzi” del suo Toro, quello che aveva portato alla conquista dello scudetto nel 1976:Castellini, Santin, , Salvadori, Pecci, Pulici e il capitano (il ‘poeta del gol’ fattosi portavoce) che lo ha ricordato con parole piene di gratitudine: “Caro Gigi, consentimi di darti del tu per la prima volta: sei stato un grande maestro per noi che, con te, abbiamo vissuto gli anni più belli della nostra carriera. In quel Toro eravamo sei o sette brianzoli, più che un club di calcio era una famiglia, insieme ci siamo divertiti”. , distrutto dal dolore,

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non se l’è sentita di partecipare preferendo tornare a casa.

Nell’omelia don Luca Parolari ha ricordato l’uomo Radice, uno« che ha combattuto tanto, non solo nella malattia, ma anche in campo e nella famiglia.La sua vita è stata una lunga battaglia e ha sempre avuto al fianco amici, prima i compagni, poi i suoi giocatori e quindi i familiari. Adesso combatte con la morte, ma anche qui non è solo, ha l’affetto delle persone che gli hanno voluto bene”. In rappresentanza del Torino di oggi anche il presidente Urbano Cairo, e numerosi campioni del passato, tra cui Aldo Serena, , , Filippo Galli, Daniele Massaro.

Radice era nato a Cesano Maderno il 15 gennaio 1935. Giocatore di Milan, Triestina e Padova, dal 1966 al 1997 guidò diversi club (tra cui Inter, Milan, Fiorentina, Bologna e Roma). Portò il Monza in serie B nel 1966-67 e, nove anni dopo, conquistò con i granata lo scudetto che gli valse il “Seminatore d’oro”, il più prestigioso premio riservato agli allenatori.

La chiesetta della Residenza dove Radice ha passato l’ultimo lustro prima di addormentarsi è diventata all’improvviso troppo piccola per contenere tutti e alcuni si sono visti cosi’ costretti a seguire da fuori, grazie all’ausilio degli altoparlanti. In prima fila c’è il dolore composto della moglie Nerina, dei tre figli, Elisabetta, Cristina e Ruggero (che cita il padre “basta chiacchiere e pedalare” per chiudere la cerimonia funebre), e dei quatto nipoti. Dietro la famiglia, il mondo del calcio ha reso omaggio all’ultimo allenatore della vecchia scuola di , con cui da giocatore ha vinto la prima Coppa dei Campioni “italiana”, e al primo tecnico dell’innovazione, del calcio totale all’olandese, condottiero dell’unico Torino tricolore dopo Superga.

Sono arrivate di seguito le delegazioni e i gonfaloni granata, del Milan, della Fiorentina, del Bologna e del Monza. La Curva Maratona ha esposto uno striscione (“Addio Sergente di Ferro”) e intonato cori per uno degli emblemi del “Tremendismo Granata”. Un annus horribilis per il popolo del Toro, costretto a salutare in pochi mesi tre dei più amati, Mondonico, Giagnoni e ora, Radice. Gigi se ne è andato dopo una lunga camminata faticosa. Era tanto che non stava bene. Soffriva di un male balordo, quello capace di cancellare la memoria di ciò che hai fatto in gioventù, e che purtroppo nel corpo dell’allenatore degli occhi di ghiaccio andava a sommarsi alla qualche magagna di vita che già si portava appresso.

Quel che è certo, è che da un po’ di stagioni i suoi “ragazzi”, quelli del secondo “grande Torino”, i granata degli anni settanta che si trovavano nella sua villa di Monza per il solito pranzo dove si mischiavano gli umori dell’amicizia, del passato e della memoria, non riuscivano più a portarlo fuori. E’ che, nella vita reale, non funziona quello che dice Francesco Guccini del ferroviere, che cioè tutti gli eroi rimangono giovani e belli. Perché anche le persone famose, gli innovatori di gioventù, prima o poi invecchiano. E la sua parabola, ahimè, ne è stato simbolo.

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