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Altri strumenti già esistenti, prima usati di rado e solo in alcune sedi giudiziarie, hanno poi trovato un’applicazione più frequente ed efficace in tutto il territorio nazionale (si pensi alla norma di cui all’articolo 12-quinquies della legge n. 356 del1992 o a quella di cui all’articolo 34 del codice antimafia). È agevole rilevare che tutti questi strumenti vanno in sostanza a colpire, specie se viene contestata anche l’aggravante di cui all’articolo 7 del decreto-legge n. 152 del 1991, (anche) quelle condotte per la cui sanzione si è fin qui spesso fatto ricorso all’ipotesi del concorso esterno e finiscono quindi per incidere proprio sulla cosiddetta “area grigia”, obiettivo primario, come è noto, delle contestazioni di concorso esterno. Anche sotto questo profilo appare dunque necessaria un’ulteriore riflessione sia sui limiti di una eventuale nuova norma incriminatrice sia sulla sua stessa necessità.

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3. Le mafie oggi

3.1 Cosa nostra

Premessa

La Commissione, nel corso dei propri lavori, ha voluto dedicare una particolare attenzione alla siciliana, sia come fenomeno generale che con riferimento a singoli aspetti emersi nel corso dei lavori, tanto che il primo atto di inchiesta dell’organo parlamentare è stato proprio l’incontro, il 26 novembre 2013, con i vertici della direzione distrettuale antimafia di . Da lì si sono succedute una serie di altre missioni in tutta la Sicilia13 nel cui ambito sono stati sentiti i prefetti, i questori, i comandanti provinciali dei carabinieri e della Guardia di finanza, i responsabili locali della DIA, diversi esponenti della magistratura, inquirente e giudicante, ma anche politici locali e appartenenti al mondo del volontariato e della società civile. Si è così ottenuta, per ogni provincia, la fotografia di cosa nostra la quale, sebbene rimanga pur sempre un’associazione unitaria, presenta peculiarità diverse, collegate alla fisionomia dei territori e alla storia del proprio insediamento in determinati contesti storici-ambientali. L’approfondimento è proseguito anche attraverso copiose audizioni in seduta plenaria14 volte a focalizzare alcuni aspetti di rilievo poiché sintomatici dell’attuale modo di essere della mafia siciliana. Cercando di rappresentare l’esito di questi complessi lavori, non si intende ripercorrere né la storia di cosa nostra, né la sua strutturazione e organizzazione, rimanendo, comunque, un’associazione gerarchica suddivisa in “province”, “mandamenti” e “famiglie”, né il contenuto dei numerosi procedimenti penali trattati dalle direzioni distrettuali antimafia siciliane negli ultimi anni. Ciò perché cosa nostra non è un fenomeno nuovo. Dopo l’introduzione, con la legge Rognoni-La Torre del 1982, del reato di associazione mafiosa, dopo le dichiarazioni di Tommaso Buscetta del 1984 e la celebrazione del maxiprocesso, tale associazione segreta ha iniziato ad essere sempre più disvelata, sino ad essere arrivati, nel corso del tempo, a sentire la mafia raccontata dai suoi stessi protagonisti, sia tramite le centinaia di collaborazioni con la giustizia, sia attraverso le numerose intercettazioni che hanno registrato, all’interno dei contesti mafiosi, veri e propri summit o dialoghi tra sodali o anche soltanto singoli sfoghi. Ci si trova di fronte, cioè, a una situazione diversa rispetto a quella della ‘ndrangheta che, sebbene sia anch’essa un’associazione mafiosa secolare, ha una storia giudiziaria più recente15.

13 Ci si è pertanto recati, il 26 novembre 2013 a Palermo, il 2-4 marzo 2014 a Palermo, il 24 marzo 2014 a Catania, il 27-28 ottobre a e Barcellona Pozzo di Gotto, il 4-6 marzo 2015 a Caltanissetta, Ragusa e Siracusa, il 18-20 luglio a Palermo e , il 14-16 novembre 2016 a Palermo, ed Enna, il 19-20 luglio 2017 a Palermo, il 13 ottobre 2017 a Palermo. 14 Si è proceduto, in particolare, alle seguenti audizioni: il 20 gennaio 2014 del procuratore generale della Repubblica presso la corte d’appello di Palermo, Roberto Scarpinato, del procuratore della Repubblica presso il tribunale di Trapani, Marcello Viola, del presidente della sezione misure di prevenzione del tribunale di Trapani; Piero Grillo, resoconto stenografico n. 9; il 17 marzo 2014 del procuratore della Repubblica presso il tribunale di Palermo, Francesco Messineo, resoconto stenografico n. 21; il 1° ottobre 2014 del procuratore generale della Repubblica presso la corte d’appello di Palermo, Roberto Scarpinato, resoconto stenografico n. 56; il 26 novembre 2014 del procuratore della Repubblica f.f. presso il tribunale di Palermo, Leonardo Agueci, resoconto stenografico n. 67; il 4 novembre 2015 del procuratore della Repubblica presso il tribunale di Palermo, Francesco Lo Voi, resoconto stenografico n. 121; il 12 gennaio 2016 del procuratore della Repubblica presso il tribunale di Palermo, Francesco Lo Voi, resoconto stenografico n.128; il 23 novembre 2016 del procuratore aggiunto della Repubblica presso il tribunale di Palermo, Teresa Maria Principato, resoconto stenografico n. 180; l’11 gennaio 2017 del procuratore aggiunto della Repubblica presso il tribunale di Palermo, Teresa Maria Principato, resoconto stenografico n. 183; l’8 marzo 2017 del procuratore generale della Repubblica presso la corte d’appello di Palermo, Roberto Scarpinato, resoconto stenografico n. 194; il 9 maggio 2017 del procuratore della Repubblica presso il tribunale di Catania, Carmelo Zuccaro, resoconto stenografico n. 203; il 14 giugno 2017 del procuratore della Repubblica presso il tribunale di Caltanissetta, Amedeo Bertone, resoconto stenografico n. 211.

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In sostanza, cosa nostra, specie per il particolare allarme sociale che ha suscitato in tutto il Paese nel periodo delle stragi, è un’associazione che è stata più volte descritta e rischiarata dai riflettori degli investigatori e della stampa, e che, anzi, proprio per questo, ha suscitato ferme reazioni da parte della società che, non solo ha sfilato nei cortei per reagire alle vessazioni e alla ferocia dei “viddani”, ma ha dato luogo ad un associazionismo civile con risvolti concreti nelle stesse indagini giudiziarie. Anzi, paradossalmente, uno degli effetti delle stragi è stato l’avvicinamento alle istituzioni anche di una certa parte della popolazione siciliana che, dopo secoli di paura o di consenso nei confronti di cosa nostra o di diffidenza verso lo Stato, ha iniziato a sperimentare la denuncia e lo schieramento accanto alla magistratura e alle forze dell’ordine, sebbene con un percorso lento e ancora non generalizzato. Sul tema mafioso, in Sicilia si è dunque così avanti che si è arrivati, persino, a porre la questione delle deviazioni del movimento civile dell’antimafia, non solo quale strumento utilizzato dalla stessa mafia per accreditarsi con le pubbliche amministrazioni in vista dell’aggiudicazione degli appalti, ma come mezzo per il perseguimento di interessi personali e di avanzamento di carriera di alcuni appartenenti al mondo politico, delle professioni e, talvolta, della stessa magistratura, così come riportato in altre parti di questa Relazione. Non si intende, quindi, raccontare, ancora una volta, cosa nostra come associazione mafiosa, con le sue regole, i suoi affari, le sue famiglie. Sarebbe ripetitivo e sovrabbondante rispetto sia alle ricostruzioni che annualmente compie, con assoluta dovizia di particolari, la Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo la quale, peraltro, ha sempre offerto, nel rispetto dei ruoli istituzionali, il suo prezioso contributo ai lavori della Commissione, sia rispetto a quanto già riportato in migliaia di provvedimenti giudiziari e di studi sul tema, sia rispetto al lavoro svolto dalle precedenti Commissioni parlamentari antimafia. Appare più proficuo, invece, svolgere una riflessione, in base ai dati più recentemente acquisiti, sullo “stato di salute” della mafia siciliana. Infatti, già durante il periodo post-stragi, successivo all’arresto del “”, Totò Riina, in cui l’associazione rimase sotto la guida di , iniziava a parlarsi di una mafia sommersa e silente. Negli anni successivi all’11 aprile 2006, quando a Montagna dei Cavalli, in agro di , si pose fine, dopo quasi 43 anni, alla latitanza dell’ultimo capo corleonese libero, si cominciò, pian piano, a delineare cosa nostra come un’organizzazione in crisi e alla ricerca della sua identità, sì capace di sopravvivere ma con uomini sempre più di scarso spessore e, di conseguenza, con mire di basso profilo. Nel corso dei lavori della Commissione si è poi registrata la scomparsa di Provenzano prima e di Riina poi, entrambi deceduti, in regime di 41-bis dell’ordinamento penitenziario, rispettivamente il 13 luglio 2016 e il 17 novembre 2017 e, a maggior ragione, oggi, dunque, si pongono diversi interrogativi sull’attuale fisionomia della mafia e sulle sue possibili linee evolutive.

La mafia nelle province siciliane

Una prima fondamentale traccia di ciò che cosa nostra è e di ciò che, forse, sarà, la si coglie certamente dall’insieme dei dati che la Commissione ha acquisito nel corso della sua inchiesta parlamentare. In via generale, può affermarsi che, dalla lettura complessiva del materiale raccolto: risulta la presenza di cosa nostra in ciascuna provincia siciliana; che l’associazione mafiosa si muove principalmente nel settore delle estorsioni; prova ad infiltrarsi nell’economia pubblica e privata; va alla ricerca di contatti, diretti o indiretti, con interlocutori istituzionali; ha ampliato i suoi affari nel

15 Come noto, solo nel 2010 è stata introdotta, nel testo dell’art. 416-bis del codice penale, la denominazione di tale organizzazione criminale e che, sempre nel 2010, si è giunti, attraverso il lavoro della magistratura calabrese e milanese, alla delineazione della ‘ndrangheta in termini di associazione unitaria e dotata di organismi di vertice (cfr. par. 3.2 sulla ‘ndrangheta).

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settore più nuovo dell’accoglienza dei migranti e, comunque, laddove vi sia la possibilità di ottenere ingenti ritorni economici. Emerge anche, però, che in tutte le parti dell’isola deve fare i conti con i continui arresti i quali, sebbene compensati, in qualche modo, dalle scarcerazioni di sodali che hanno scontato la pena, riducono il livello, ma non il numero, dei propri “uomini d’onore”. Un’analisi attenta dei singoli contesti fa trasparire anche qualcosa di nuovo che rivela segni di particolare vitalità e che offre ulteriori spunti di ragionamento. In particolare, la direzione distrettuale antimafia di Palermo, che ha competenza anche sulle province di Agrigento e Trapani, e le forze dell’ordine dei diversi territori, sono state più volte sentite da questa Commissione. Dall’insieme di queste dichiarazioni emergono, innanzitutto, taluni dati costanti relativi alle tre province interessate, e cioè la sussistenza: di una serie di operazioni aventi ad oggetto l’arresto di un numero rilevante di indagati per il delitto di cui all’articolo 416-bis del codice penale e/o per altri reati aggravati dall’articolo 7 del decreto-legge, n. 152 del 1991; di nuove collaborazioni con la giustizia, anche se di consistenza diversa rispetto a quelle degli anni Novanta; di continui sequestri, in via penale o di prevenzione, di cospicui patrimoni mafiosi; di mafiosi scarcerati per avere scontato la pena loro inflitta che ritornano a occupare le precedenti posizioni se non, addirittura, ruoli direttivi; della suddivisione mafiosa in mandamenti e famiglie che, tuttavia, specie a Palermo, risente della figura del relativo vertice in base alla cui importanza, almeno recentemente, vengono stabiliti gli ambiti territoriali; del controllo capillare delle attività economiche a cui corrisponde un numero elevato di imprenditori che ancora subisce silenziosamente il ; di omicidi tra mafiosi che, di tanto in tanto, si compiono per rideterminare gli assetti o per finalità punitive; del ruolo di primo piano dei centri più piccoli delle province (quali Corleone, , , Favara) nel mantenere gli aspetti tradizionali della mafia che ne costituiscono la forza e che ne consentono la sopravvivenza nonostante l’intensa azione repressiva. Con specifico riguardo al contesto del palermitano, l’attività criminale per eccellenza, continua ad essere rappresentata dal racket delle estorsioni. Nella città si paga il pizzo, esattamente come avveniva anni fa, in ogni borgata e in ogni quartiere del centro. Anche rinomati esercizi commerciali, come si scopre quasi quotidianamente, sono sottoposti alle imposizioni mafiose a cui soggiacciono nel più rigoroso silenzio. È vero che alcuni commercianti si sono ribellati, è vero che associazioni come “” continuano a svolgere un lavoro straordinario, ma il numero di coloro che sono disposti a denunciare non ha assunto una costante portata crescente. Se il pizzo, anche in un sistema economico moderno, resta al centro degli interessi e si rivolge ancora anche al piccolo artigiano, ciò non significa, tuttavia, che cosa nostra sia rimasta arcaica nei mezzi a cui ricorre. È bene ricordare, infatti, che l’estorsione, certamente fonte di alimentazione delle casse mafiose (bisognose di essere rimpinguate per assicurare il mantenimento delle numerose famiglie dei detenuti mafiosi e il pagamento delle loro spese legali), è però lo strumento primario per il controllo del territorio attraverso il quale l’associazione si manifesta e impone la propria prevalenza sulle leggi dello Stato. Un altro settore che sempre più ha interessato la mafia palermitana è quello del gioco e delle scommesse clandestine. Una volta ritenuto poco onorevole (insieme al racket della prostituzione) e lasciato ai “cugini” americani, oggi è tenuto in grande considerazione e spazia dal controllo delle macchine da gioco collocate nei vari esercizi commerciali ad ambiti di più elevato spessore come dimostrato anche da recentissime indagini della procura di Palermo sull’imprenditore Bacchi. È inoltre ritornato l’interesse verso il traffico degli stupefacenti. I mafiosi palermitani, un tempo leader mondiali per il commercio di eroina, già negli anni Novanta - quando cioè si comprese che tale mercato comportava gravosi costi in termini di rischi, di arresti e di entità di pene inflitte, mentre il settore degli appalti pubblici produceva altrettanti e più sicuri introiti - abbandonarono quei traffici che rimasero nelle mani della ‘ndrangheta. Cosa nostra si limitò a trattare qualche partita di droga e ad operare attraverso investimenti affidati ad altre organizzazioni, anche straniere, specializzate nel traffico internazionale di stupefacenti. Probabilmente per la crisi economica, si è invece registrato qualche segnale che fa ritenere il ritorno dell’interesse alla

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gestione del mercato della droga. Si commerciano quantità certamente lontane dalle tonnellate che si movimentavano ai tempi delle raffinerie e dei rapporti con gli americani, si è ancora dipendenti dalle grandi operazioni gestite dagli ‘ndranghetisti, ma la situazione appare in una fase di sviluppo. Quanto alla forza numerica di cosa nostra palermitana, secondo quanto riferito dall’attuale procuratore della Repubblica presso il tribunale di Palermo, dottor Francesco Lo Voi16, nell’audizione del 12 gennaio 2016, in quel momento, nonostante gli arresti continui, erano sottoposte a indagini per reati di mafia ben 1.658 persone identificate. Anzi, particolarmente importante al riguardo, appariva alla Commissione, un ulteriore passaggio di tali stesse dichiarazioni del procuratore della Repubblica nella parte in cui riferiva di una operazione eseguita lo stesso giorno dell’audizione evidenziando anche il coinvolgimento di professionisti: “gli arresti che sono stati effettuati questa mattina (sono) un’indagine particolarmente importante e significativa, per più aspetti. Non soltanto è stato colpito in maniera piuttosto severa il patrimonio di un gruppo mafioso molto ben consolidato nel territorio palermitano, facente capo alle famiglie dei Graziano e dei Galatolo, (...) ma anche alcuni soggetti appartenenti al mondo delle professioni (...) che si sono prestati (...) a riciclare gli enormi capitali prodotti da quelle famiglie e a intestarsi fittiziamente i beni (...) compiendo una serie di operazioni finanziarie che hanno necessità di essere svolte ed eseguite da persone non note agli ambienti mafiosi né ovviamente alle forze di polizia e agli inquirenti in genere, ma che appartengono al mondo delle professioni. È un settore sul quale personalmente (...) ho ritenuto di dover investire e ho chiesto alle forze di polizia di investire le migliori energie e risorse, perché non siamo più ai tempi in cui il reinvestimento delle ricchezze frutto delle attività illecite della mafia avveniva con l’acquisto di terreni o con la costruzione di qualche fabbricato. È invece un periodo in cui ormai, sia per l’evoluzione della stessa società, sia per l’evoluzione della finanza e dei circuiti finanziari, c’è necessità che determinate attività illecite inevitabilmente vengano svolte col contributo di professionisti, di commercialisti, di ingegneri, di avvocati, di esperti in materia fiscale, di esperti in transazioni anche internazionali, che possano consentire da un lato l’occultamento e dall’altro lato il riciclaggio e il reinvestimento”. Una cosa nostra, dunque, che, per quanto falcidiata dagli arresti, non solo riesce a inglobare il mondo delle professioni e a mantenere la propria vis attractiva anche rispetto a ceti sociali medio- alti, ma che si adegua al cambiamento economico e sociale.

La provincia agrigentina, invece, è stata sempre considerata una zona assai povera dell’isola che sembra attrarre scarso interesse nel panorama criminale mafioso siciliano. Cosa nostra, lì presente, e in combutta con la , altra organizzazione mafiosa minore operante nello stesso territorio, negli ultimi anni sembrava arroccata nel suo interno, intenta a districarsi in piccoli affari, legata alle vecchie tradizioni ormai lontane dal più evoluto mondo dei palermitani. Tuttavia, negli ultimi tempi, sono stati avvertiti numerosi segnali che impongono una seria rivalutazione di quel contesto criminale. Per comprenderne la portata, bisogna partire dai punti di forza di tale associazione che la rendono una impenetrabile roccaforte della mafia tradizionale. È stato, infatti, riferito alla Commissione che “nella provincia di Agrigento ci sono soltanto 43 comuni e 450 mila abitanti. Siamo in una provincia in cui il numero di abitanti è inferiore a quello di una città come Palermo. Questo comporta una familiarità di sangue tra coloro che fanno parte di cosa nostra in questi piccoli centri, il che permette a sua volta una possibilità di controllo da parte dei vertici di cosa nostra sui singoli affiliati. Infatti, è ovvio che parlare di un soggetto che è tuo consanguineo è estremamente difficile. Questo spiega perché in provincia di Agrigento da diversi anni non vi siano collaboratori e spiega anche l’impermeabilità alle indagini”.17 Nella medesima audizione, si è anche sottolineato che la mafia agrigentina gode da tempo di pari dignità rispetto alle mafie delle vicine province di Palermo e Trapani: “il quadro è anche quello

16 Cfr. resoconto stenografico n. 128. 17 Cfr. audizione del dottor Maurizio Scalia, procuratore aggiunto della Repubblica di Palermo, nella missione ad Agrigento del 15 novembre 2016.

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di una non subordinazione a cosa nostra palermitana. Potrei fare l’esempio di una diatriba, che è stata scoperta attraverso i pizzini che vennero trovati a Provenzano, tra il vecchio capo provincia Falsone e . Il rapporto tra Falsone e Matteo Messina Denaro di fronte a Provenzano, che doveva dirimere una questione relativa a una messa a posto, era un rapporto fra pari”. Nell’ambiente così delineato, come emerso attraverso le audizioni, si sono registrati alcuni eventi di rilievo. Intanto, si è appreso che la stidda, dopo la sanguinosa guerra conclusasi nei primi anni Novanta, e dopo un periodo di convivenza pacifica con cosa nostra, è stata parzialmente riassorbita da quest’ultima, il che incide in termini di rafforzamento dell’associazione mafiosa. Si è data, inoltre, una descrizione complessiva di un territorio in cui sono ritornati in libertà storici capimafia, in cui vi è una ripresa degli omicidi con l’avvio di guerre sanguinarie anche verso l’estero, come in Belgio, in cui si dispone di arsenali, in cui rimane invariato il controllo capillare del territorio. Per fare solo un esempio a quest’ultimo proposito, se in un tranquilla cittadina, vocata al turismo, come quella di Sciacca, ben diversa dai contesti di Favara o di , si iscrivono quotidianamente decine di procedimenti per danneggiamenti, e se, anche qui, “è inutile dire e registrare che, quando vengano sentite le persone offese, ovviamente la collaborazione è praticamente nulla e che nessuno avanza mai sospetti. (...) non c’è ancora alcuna forma di apertura da parte della cosiddetta ‘società civile e imprenditoriale’”18 si ha, dunque, l’idea di ciò che accade in altre località con una maggiore densità mafiosa. Tuttavia, pure in questi territori tradizionali si riscontra la continua ricerca di contatti sia con la pubblica amministrazione - che ha portato allo scioglimento di comuni, a condanne per fatti di mafia di sindaci e a procedimenti inerenti l’indirizzamento del consenso elettorale verso prescelti candidati19, alla realizzazione di numerosi atti intimidatori sul territorio della provincia in danno di pubblici amministratori, come segnalato dal prefetto di Agrigento -, sia con il mondo delle professioni e, in particolare, con quello del settore bancario20. Il senso di questa particolare vitalità mafiosa nel territorio agrigentino che, peraltro, è quello in cui fu trucidato barbaramente il giudice Rosario Livatino, già avvertita dalla Commissione nel corso dei propri lavori di approfondimento, si coglie ed è sintetizzato nella recentissima e imponente operazione sul “mandamento della Montagna” che, il 22 gennaio scorso, ha portato all’arresto di oltre una cinquantina di associati mafiosi accusati di voto di scambio, di gestione di appalti pubblici, di imposizione dei propri uomini nelle amministrazioni comunali, di estorsioni ai centri di accoglienza per i migranti, ma anche di affari, più tradizionali, nel settore delle slot machine e del traffico di stupefacenti.

Anche la mafia trapanese si è rivelata, nel panorama mafioso generale, secondo quanto accertato dalla Commissione, di particolare pericolosità e insidia, e ciò proprio perché, al contrario di altri territori, è rimasta sostanzialmente uguale a se stessa e priva di eclatanti novità. Pur essendo un’espressione tradizionale di cosa nostra che, peraltro, ha operato in stretto contatto con la mafia palermitana guidata dai corleonesi, l’associazione presenta aspetti propri che fanno di essa una organizzazione moderna e, per questi aspetti, più assimilabile alla mafia catanese. Tradizione e modernità sono, del resto, le caratteristiche che, parallelamente, contraddistinguono il capo della provincia mafiosa di Trapani, il latitante Matteo Messina Denaro.

18 Cfr. audizione della dottoressa Roberta Buzzolani, procuratore della Repubblica presso il tribunale di Sciacca, nella missione ad Agrigento del 15 novembre 2016. 19 Cfr. audizione cit. del dottor Maurizio Scalia. 20 Cfr. audizione del procuratore della Repubblica presso il tribunale di Agrigento, dottor Luigi Patronaggio, nella missione ad Agrigento del 15 novembre 2016.

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Si tratta, innanzitutto, di un territorio storicamente caratterizzato da una massiccia presenza della massoneria21, e dall’accadimento di eventi difficilmente spiegabili solo in termini di criminalità mafiosa22. Inoltre, si tratta di un territorio dove non si ricorre all’imposizione indiscriminata del pizzo poiché, spesso, è la stessa imprenditoria a essere essa stessa mafiosa ovvero socia in affari della mafia. In particolare, il latitante Matteo Messina Denaro, da almeno un ventennio, gestisce l’associazione mafiosa trapanese secondo regole solidaristiche volte all’acquisizione del potere economico nonché del consenso sia degli associati che della società civile. Anche per questo l’imprenditoria non è vessata ma riceve l’aiuto finanziario e il sostegno mafioso offrendo in cambio, sinallagmaticamente, la titolarità di quote delle imprese. Stando alla quantità e alla qualità dei sequestri, si coglie che gli affari sono in crescita nei settori più moderni, quali quelli del turismo e delle energie alternative, mentre il pizzo, a maggior ragione, rimane confinato nei settori di bassa manovalanza. Inoltre, a parte i contatti con il mondo della politica che, stando ai provvedimenti giudiziari, possono in ipotesi ritenersi sporadici, ma comunque vi sono, particolarmente significativi appaiono sia i numerosi procedimenti penali sui condizionamenti degli appalti dove si evince l’assoggettamento dei pubblici interessi a quelli particolari dell’associazione mafiosa sia, soprattutto, i diversi scioglimenti delle amministrazioni del trapanese ex articolo 143 TUEL (sette enti dal 1992 al 2012) e i molteplici provvedimenti di accesso ispettivo adottati negli anni, sebbene non conclusi con la misura sanzionatoria, fino a giungere, nel giugno 2017, allo scioglimento per infiltrazioni mafiose di Castelvetrano, comune di origine di detto latitante. Probabilmente anche la modernità degli affari della cosa nostra trapanese, che comporta contatti con interlocutori di profilo diverso rispetto al mafioso tradizionale, ha inciso sul fatto, riferito alla Commissione23, che Messina Denaro, sebbene capomafia legato al territorio, non abbia sentito la necessità di permanervi stabilmente e di mantenere comunicazioni continue con la base dell’associazione. A questa mafia imprenditoriale moderna si affianca, però, anche una mafia tradizionale che lo stesso Messina Denaro riesce a incarnare e ad alimentare, coniugandola con il proprio tratto innovativo24. In effetti, anche in questo territorio le operazioni di polizia sono state pressoché costanti, specie per la necessità di giungere alla cattura del latitante. Le relative indagini, che hanno comportato decine di arresti25, hanno tutte avuto un filo comune: la persistenza di una mafia conservatrice ancora legata alla catena dei pizzini che consente al capo provincia di Trapani di gestire l’associazione mafiosa ancorché assente. I sistemi di comunicazione immediati o moderni, che pure sono stati individuati, hanno riguardato invece rapporti diversi, cioè quelli del latitante con la famiglia che, sebbene sia essa stessa, in parte, famiglia mafiosa, gode naturalmente di un canale diretto e più immediato. In tale circuito, vecchi fidati uomini d’onore scarcerati ritrovano presto un posto nel sistema di comunicazione del latitante che, non per questo, perde le sue caratteristiche di

21 Cfr. come già rilevato da questa Commissione nella propria relazione sui rapporti tra la mafia siciliana e calabrese e le obbedienze massoniche. 22 Cfr. ad esempio, la sentenza emessa, in data 16 maggio 2014, dalla corte di assise di Trapani, sull’omicidio di Mauro Rostagno, che è stata oggetto di approfondimento da parte di questa Commissione, pur confermando la mano mafiosa del delitto, dà contezza di una pluralità di interessi incrociati sottostanti. Ma si consideri anche la strage alla casermetta di Alkamar del 1976 di cui si è tornato a parlare di recente in seguito alla revisione del processo e all’assoluzione, soltanto nel 2012, dei soggetti allora ingiustamente condannati e alla successiva richiesta di risarcimento avanzata da costoro per l’ingiusta detenzione subita. 23 Cfr. audizioni della dottoressa Teresa Maria Principato, procuratore aggiunto della Repubblica presso il tribunale di Palermo, in data 23 novembre 2016 (resoconto stenografico n. 180) e 11 gennaio 2017 (resoconto stenografico n. 183). 24Ciò si desume, ad esempio, dal testo dei “pizzini” che scriveva a Bernardo Provenzano o dalle posizioni conservatrici da egli assunte in vista del tentativo, nel 2008, di rifondazione della commissione provinciale di cosa nostra in assenza di Totò Riina, di cui si parlerà. 25 Cfr. audizioni cit. della dottoressa Teresa Maria Principato, procuratore aggiunto della Repubblica presso il tribunale di Palermo.

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sicurezza, e comunque, si attivano per mantenere i contatti, per conto del loro capo, tra famiglie, mandamenti e province limitrofe. Scarsissimo pertanto il numero dei collaboratori di giustizia e, anzi, emblematico è apparso alla Commissione il recente caso del dichiarante Lorenzo Cimarosa, cugino di Matteo Messina Denaro e unico soggetto di quell’ambito familiare che ha offerto informazioni agli investigatori minando, per la prima volta, l’intangibilità di quella famiglia. La reazione, rispetto a tali dichiarazioni di apertura, da parte di taluni concittadini, fino a giungere, dopo l’improvvisa morte del Cimarosa, avvenuta nel gennaio del 2017, alla profanazione, nel mese di maggio 2017, della sua tomba, riporta indietro di tanti anni, a quella mafia che si riteneva scomparsa.

Dalle audizioni della direzione distrettuale antimafia di Caltanissetta, competente anche sulla provincia di Enna, e in particolare dalla relazione scritta dall’allora procuratore Sergio Lari, dalle dichiarazioni di quest’ultimo, nonché da quelle del suo successore alla guida della procura, dottor Amedeo Bertone, viene confermata l’esistenza, ancora, della mafia di Piddu Madonia nonché la pacificata convivenza, inizialmente burrascosa, tra cosa nostra e stidda. Anche qui si segnala la pervasiva presenza della mafia sul territorio, il ricorso alle estorsioni come strumento di predominio, l’infiltrazione nei pubblici appalti, il controllo esercitato su talune amministrazioni comunali e, di converso, l’esecuzione di numerosi provvedimenti di carcerazione per delitti di mafia. Emerge anche una certa ripresa. Il mandamento di appare in fase espansionistica, coinvolto, come risulta dalle ultime indagini, in traffici in ogni area della Sicilia (da Catania a Palermo a Trapani), in piazze italiane (Roma e Milano), con interessi anche fuori dai confini nazionali (in Nord Africa), e con contatti e relazioni con la mafia delle altre province quasi a creare una sorta di coordinamento. Accanto ai grandi affari, è tuttavia anche l’aspetto microcriminale che deve far riflettere sulla pericolosità di quella zona e sulle sue potenzialità criminali. La Commissione ha appreso dal procuratore della Repubblica presso il tribunale di Gela26 che in quel territorio si verificano “più che quotidianamente” incendi di autovetture, fino a registrare, nell’ultimo anno, “circa 600 episodi delittuosi di questo genere, quindi circa un episodio o quasi due al giorno sul territorio gelese. L’altra notte, cinque autovetture sono state incendiate nell’arco di quattro ore”. Episodi questi che si affiancano ad un’altra forma di ricorrente intimidazione, quella degli “spari contro esercizi commerciali in orari notturni o contro portoni di abitazioni private”. Di converso, le vittime, che non sono soltanto commercianti e imprenditori ma anche appartenenti al mondo delle professioni, non collaborano, “scatta il famoso muro di omertà”. In sostanza, un controllo militare del territorio, una vessazione a tappeto che ancora genera timore e senso di sopraffazione nella popolazione. Un fatto ancora più allarmante è, inoltre, quello che il territorio di Gela, secondo le dichiarazioni del procuratore, rappresenta una sorta di laboratorio della delinquenza giovanile che si risolve in costanti fenomeni di violenza tanto che “la consistenza quantitativa delle notizie di reato per lesioni personali dolose è, in totale, di circa una lesione personale dolosa al giorno”.

Pure la arroccata provincia di Enna, che respira più l’aria catanese che quella nissena, dà segni di una particolare crescita criminale. E invero, se il procuratore di Caltanissetta, Amedeo Bertone27, dava contezza di collegamenti con ambienti della criminalità organizzata catanese, di efferati omicidi consumati in quel territorio, di atti vandalici, in taluni comuni dell’ennese, in danno di amministratori locali e forze dell’ordine e, da ultimo, dell’uccisione a Pietraperzia, nell’ottobre 2016, di un noto avvocato che aveva appena acquistato un importante fondo agricolo, a sua volta, il procuratore della Repubblica presso il tribunale di Enna, il dottor Massimo Palmeri28, riferiva di

26 Cfr. audizione del dottor Ferdinando Asaro, procuratore della Repubblica presso il tribunale di Gela, missione ad Agrigento del 15 novembre 2016, resoconto stenografico. 27 Cfr. audizione resa nella missione ad Enna del 16 novembre 2016, resoconto stenografico. 28 Cfr. audizione resa nella missione ad Enna del 16 novembre 2016, resoconto stenografico.

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rilevantissime indagini che evidenziavano “cointeressenze tra reati comuni e delinquenza organizzata in un ampio filone di indagine che riguarda le truffe AGEA, l’Agenzia per le erogazioni in agricoltura dei contributi forniti dall’Unione europea, che opera in sede locale con i Centri di assistenza agricola, ai quali vanno presentate per essere istruite le domande per ottenere i contributi (...). Agricoltori ed esponenti della malavita organizzata hanno avuto quindi tutto l’interesse ad apparire nella disponibilità di terreni”. Si descriveva, dunque, un contesto collegato al crescente e ampio fenomeno della cosiddetta mafia dei Nebrodi (che coinvolge i territori di Enna, Messina e Catania), di cui si tratterà più avanti, che assume dimensioni sempre più imponenti e riguarda un lucroso sistema di speculazione.

Se si passa alla provincia di Messina, un tempo considerata zona in cui le varie mafie catanesi e calabresi transitavano ma non si fermavano, invece, secondo gli accertamenti della Commissione, pare meno innocua di come era stata rappresentata nel passato. Il dottor Guido Lo Forte, allora procuratore della Repubblica presso il tribunale di Messina, sentito il 27 ottobre 2014, infatti, offriva una prospettiva che portava a rivalutare la cosa nostra della provincia messinese come una mafia autoctona e strutturata e a comprendere le rilevanti trasformazioni avvenute nel capoluogo. Spiegava, innanzitutto, che “nel passato si alimentò una tendenza leggermente fuorviante (...), nel senso di indurre l’opinione che la provincia di Messina come tale non fosse produttiva di una criminalità organizzata strutturale autoctona, ma fosse, piuttosto, il terreno di passaggio e di influenza di altre criminalità organizzate come quella calabrese o quella catanese. Tuttavia così non era e così non è. In effetti, le indagini degli ultimi anni hanno evidenziato, in sintesi, che la provincia di Messina ha una sua criminalità organizzata di tipo mafioso strutturata (quando dico ‘strutturata’ intendo con controllo sistematico del territorio e organizzazione gerarchica tendenzialmente piramidale) (...). Inoltre, questa provincia dialoga secondo le regole tradizionali di cosa nostra, a pari livello con le altre province”. Tale mafia strutturata, inoltre, almeno nell’ultimo decennio, ha installato il suo epicentro di comando nella città di Barcellona Pozzo di Gotto (prima era invece a Mistretta) che, sebbene colpita da numerosi arresti, rimane attualmente la roccaforte della cosa nostra tradizionale (come più di recente dimostrato dagli arresti eseguiti in tale contesto dalla procura di Messina, ora guidata dal dottor Maurizio de Lucia). Particolarmente interessante, appare la situazione della città di Messina che, secondo, il procuratore Lo Forte, “fa un po’ eccezione nel senso che, per motivi storici, (...) è rimasta per un certo periodo zona franca perché i ricorrenti disegni ora di cosa nostra palermitana, ora della ‘ndrangheta di insediarsi a Messina (...) non ebbero esito. Quindi, si è sviluppata una criminalità organizzata che, a differenza di quella barcellonese, non è organicamente inserita in quello che definiamo ‘cosa nostra’, anche se ne svolge tutte le attività (...). Questa criminalità (...) è molto simile a quella che era la realtà criminale di Catania prima dell’insediamento di una famiglia di cosa nostra a opera di Giuseppe Calderone. (...) Anche lì c’erano gruppi criminali territoriali organizzati che non erano cosa nostra. Poi, a metà degli anni Settanta si è insediata la famiglia di cosa nostra – quindi a Catania c’è, mentre a Messina non si è insediata – ma anche dopo questo insediamento cosa nostra non ha totalizzato il controllo della realtà catanese perché ha continuato a coesistere con diversi gruppi criminali che non appartengono a cosa nostra e che nel panorama criminale sono, talvolta, più noti e più famosi della stessa cosa nostra. Quindi, a Messina c’è stata e continua registrarsi una sorta di evoluzione simile a quella dei gruppi criminali catanesi, che, però, ha avuto notevoli progressi”. Si è evidenziata, dunque, una certa tendenza alla modernità della mafia messinese “nel senso che negli ultimi anni si è passati (...) dalla mera predazione del territorio basato sulle estorsioni e sul controllo del traffico di stupefacenti al riciclaggio del denaro, sotto forma di creazione di un’imprenditoria mafiosa. Abbiamo, quindi, il mafioso che fa direttamente l’imprenditore e non più

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il mafioso collegato con l’imprenditore (...) e la tendenza a investire il denaro non più nei tradizionali acquisti immobiliari, ma in forme di attività commerciale, imprenditoriale e così via”. Per questo motivo la cosa nostra barcellonese “non ha proiettato direttamente i suoi uomini d’onore nel territorio messinese, bensì i suoi imprenditori. Questo attualizza un fenomeno antico. (...) Quando cosa nostra palermitana (e in misura minore la ‘ndrangheta) a un certo punto, anziché perseguire l’obiettivo che le avrebbe creato dei problemi sia con Catania sia con Reggio Calabria di insediare una sua famiglia mafiosa direttamente qui, ha preferito esportare a Messina non uomini d’onore, ma la borghesia mafiosa per fare affari”. Concludeva, quindi, il procuratore, che l’inclinazione della mafia messinese e della città di Messina “è quella a farsi imprenditori. Infatti, quasi tutti i collaboratori che abbiamo avuto prima facevano i piccoli o medi imprenditori. I vertici dell’organizzazione mafiosa barcellonese (...) erano tutti imprenditori anche medio-grandi in tutti i settori. Insomma, la vocazione all’imprenditoria è una caratteristica tipica della provincia di Messina, per cui studiando bene gli imprenditori si arriva anche ad altro”. A ciò si aggiunga, come si accennava, che negli ultimi tempi anche nel territorio messinese opera, quale espressione di cosa nostra, la cosiddetta mafia dei Nebrodi che potrebbe apparire una mafia rurale dei pascoli in controtendenza rispetto alla finora descritta evoluzione imprenditoriale. In realtà, essa ha ben poco di antico se non nei metodi. Si sta facendo luce, infatti, su un fenomeno sempre più cruento che conta, anche nei territori di Catania ed Enna, numerosi gravi episodi di violenza, minaccia, danneggiamento, ma anche attentati e omicidi, con l’obiettivo di entrare in possesso dei fondi agricoli dell’area e di ottenere gli ingenti contributi economici concessi dall’Europa. Si tratta di un campo molto remunerativo, per questo oggetto di svariati interessi criminali, al cui ambito la stampa ha ricondotto anche il preoccupante, anche per le sue modalità, attentato del 17 maggio 2016 a Giuseppe Antoci, presidente del Parco dei Nebrodi, oggetto di indagini in corso, bloccato da un commando armato mentre viaggiava a bordo della sua auto sulla statale che collega San Fratello a Cesarò, forse perché promotore di un protocollo che ha dato luogo alla revoca dei contributi per migliaia di ettari di terreni ricadenti nelle aree di riserva naturale del Parco dei Nebrodi.

Una situazione estremamente interessante si registra nella Sicilia orientale, storicamente zona di influenza delle famiglie Santapaola-Ercolano di Catania. Nonostante il capo Benedetto Santapaola - ormai ottantenne - sia in carcere dagli anni immediatamente successivi alle stragi, la cosa nostra catanese continua a rivelarsi la mafia imprenditoriale per eccellenza. Considerata una mafia inferiore rispetto a quella palermitana, al contrario, si è rivelata più capace di infiltrarsi nel tessuto economico e politico rispetto alle altre fazioni siciliane di cosa nostra. Chiara, sul punto, è l’analisi del dottor Giovanni Salvi, allora procuratore della Repubblica presso il tribunale di Catania, secondo il quale “Catania in qualche maniera possa dirsi un luogo dove si è sperimentato in passato quello che poi oggi vediamo diffondersi anche altrove, cioè un legame tra alcuni settori dell’imprenditoria e alcuni settori della politica e organizzazioni criminali, nelle quali il rapporto è diverso rispetto a quello che conosciamo, per esempio, a Palermo”29. Precisava, al riguardo, anche che “Catania è stato, negli anni, un laboratorio di nuove forme di criminalità organizzata (...). I capi di cosa nostra palermitana sono i mafiosi ‘con la coppola’. A Catania i capi di cosa nostra non sono gli imprenditori collusi o che chiamiamo mafiosi, ma sono imprenditori. Sono i Santapaola, i Mangion, gli Ercolano. Questo avrà un significato. Questa non è una cosa nostra più debole. Santapaola uccide o fa uccidere. (…). È una mafia imprenditrice, ma spara. Adesso ci ritroviamo tutto questo con una maggiore difficoltà di distinguere il bianco dal nero, con una zona grigia più vasta”.

29 Cfr. seduta del 15 gennaio 2015 audizione del procuratore della Repubblica presso il tribunale di Catania, Giovanni Salvi, resoconto stenografico n. 77.

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Di pari passo, nella relazione della Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo per l’anno 2016, si dava atto, altresì, della compenetrazione di questa mafia imprenditoriale con “taluni esponenti politici e amministratori locali, come emerso in vari processi in cui sono stati accertati episodi di patto di scambio politico mafioso e il condizionamento di competizioni elettorali da parte dei sodalizi criminali, che hanno procurato pacchetti di voti consistenti a candidati che ne facevano richiesta e quale contropartita hanno ottenuto l’aggiudicazione di pubblici appalti in favore di imprese colluse o infiltrate dalle stesse cosche”. Anche in questi territori si registra l’espansione di interesse verso nuovi settori, quali quelli dell’accoglienza dei migranti, quelli del - sempre in crescita - mercato ortofrutticolo del ragusano e quelli delle sovvenzioni della comunità europea. Il fatto, inoltre, segnalato dal procuratore Salvi, che anche questa mafia “spara” veniva ulteriormente avvalorato dalle sue dichiarazioni rese sia il 24 marzo 2014, nel corso della missione a Catania, sia durante l’audizione del 15 gennaio 2015, in cui riferiva di gravi e recenti episodi omicidiari nel Calatino e a Biancavilla, ma anche a Vittoria, evidenziando, peraltro, che e “a Librino è stato recentemente sequestrato uno dei più potenti arsenali nella storia recente delle organizzazioni criminali: vi erano vari kalashnikov, varie mitragliette di immediata portabilità, una ventina di pistole nuove di zecca e alcuni fucili a pompa”.

Lo stato attuale e le prospettive di cosa nostra

Gli ultimi anni sono stati caratterizzati, come è noto, da una percezione diffusa di avanzamento criminale della ‘ndrangheta, definita ormai l’associazione mafiosa italiana più pericolosa, a cui ha corrisposto, di converso, nel sentire comune, una valutazione della mafia siciliana quale quella di un’organizzazione che, ferita e decimata dall’azione repressiva dello Stato, vive inabissata e, comunque, stenta a sopravvivere. Si muoverebbe, dunque, in un ristretto circuito in cui uomini d’onore sempre meno autorevoli si limitano alla realizzazione di delitti di second’ordine per far fronte ai bisogni essenziali dell’associazione, senza né capacità né mire espansionistiche che possano riportare cosa nostra alla potenza del passato. Il quadro complessivo che emerge dai lavori della Commissione impone, tuttavia, un altro genere di riflessioni, certamente non di natura allarmistica, ma che tendono a puntualizzare alcuni passaggi, talora superficiali, della lettura quasi trionfalistica spesso offerta nelle riflessioni sullo “stato di salute” della mafia siciliana. Deve preliminarmente e doverosamente darsi atto, prima di ogni altra considerazione, dell’incessante impegno della magistratura e delle forze dell’ordine le quali, nel corso del tempo, si sono instancabilmente profuse per arginare la potenzialità di cosa nostra, ottenendo, in tal senso, risultati così importanti tanto da porre oggi, appunto, la questione della sopravvivenza della mafia. Indubbiamente, tale organizzazione criminale, ha subìto alcuni cambiamenti epocali che hanno inciso sulla sua connotazione di mafia eversiva che sfidava il sistema democratico e che, di conseguenza, si avvaleva di forme di efferata violenza dinamitarda e indiscriminata. È certamente scomparsa, dalla fine del 1994 e fino a questo momento, la mafia stragista di area corleonese che, con una progressiva escalation, giunse ad essere la protagonista, ma non da sola, di una stagione di terrorismo politico-mafioso. Del resto, gli attori di quell’epoca, almeno quelli individuati dalla parte mafiosa, sono stati tratti in arresto, compresi quanti svolsero funzioni di promozione della strategia sanguinaria, quali Riina e Provenzano che, anzi, sono recentemente deceduti. In status libertatis è rimasto soltanto Matteo Messina Denaro al quale, tuttavia, al di là di aspetti di natura formale mafiosa, non viene riconosciuto l’interesse a intraprendere nuove campagne di violenza essendosi dedicato, invece, oltre che a garantirsi la latitanza, alla pacifica gestione di imperi economici. In ogni caso, non sono stati finora registrati episodi significativi che lascino presagire né la volontà né la capacità di cosa nostra di un ritorno alla guerra alle istituzioni democratiche, fermo

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restando, ovviamente, che, trattandosi di un’organizzazione segreta, peraltro soggetta a continue trasformazioni, è impossibile effettuare qualunque genere di prognosi in termini di assoluta affidabilità. A parte, dunque, questo straordinario risultato su cui ormai converge la gran parte delle opinioni, un altro cambiamento che si ritiene provato è quello secondo cui, nel periodo successivo alle stragi e all’arresto, nel 1993, di Totò Riina, cosa nostra abbia optato per la cosiddetta “strategia della sommersione”. In sostanza, l’associazione mafiosa, dopo avere patito pesantemente la mano ferma dello Stato con tutte le relative conseguenze in termini di detenzione, anche in regime di 41- bis dell’ordinamento penitenziario, e di sequestri di patrimoni, avrebbe preferito, sotto la guida di Provenzano, rimasto libero fino all’11 aprile 2006, agire sottotraccia rendendosi quasi invisibile sì da non suscitare allarme sociale e da sfuggire alla morsa delle investigazioni. Bisogna tuttavia riflettere sul significato della ipotizzata “sommersione” che potrebbe erroneamente evocare un cambiamento strutturale di cosa nostra. Innanzitutto va sottolineato che la “sommersione” era una strada necessitata non potendo la mafia, in quel momento, secondo le proprie regole, compiere azioni straordinarie di violenza che non fossero già state deliberate da Riina quale capo formale dell’associazione mafiosa o che, comunque, richiedessero la delibera delle commissioni - provinciali o regionale - di cosa nostra, rimaste inattive per lo stato di detenzione del suddetto corleonese. Invero, durante il periodo della sua lunga reggenza, Provenzano, così come ricostruibile anche attraverso i pizzini sequestrati nel suo covo di Montagna dei Cavalli di Corleone, non aveva il potere formale di assumere un tal genere di decisioni. Basti ricordare la questione del ritorno dei cosiddetti “scappati”, rispetto alla quale lo stesso Provenzano dichiarava di non essere in grado di adottare da solo eventuali determinazioni diverse rispetto a quelle originariamente assunte sotto la direzione di Riina. D’altra parte, che la regola fosse questa veniva più tardi confermato da una serie di intercettazioni registrate nel 2008, nell’ambito della nota operazione “Perseo” della direzione distrettuale antimafia di Palermo, in cui i vari capi mandamento del palermitano, da un lato, ricordavano che, in ossequio ai precetti di cosa nostra, Binnu Provenzano, durante la sua reggenza e prima della sua cattura, si limitava formalmente a esprimere consigli più che ordini, e dall’altro, evidenziavano che non era possibile procedere alla rifondazione della commissione provinciale di cosa nostra non potendo conoscere le determinazioni del capo Riina ristretto in regime di 41-bis. Alla questione formale va aggiunto che, in ogni caso, nel periodo post-stragi, l’interesse dell’associazione mafiosa palermitana non era più quello della guerra allo Stato che, non solo non aveva prodotto, almeno per la popolazione di cosa nostra, i risultati sperati, ma aveva causato, all’organizzazione e ai suoi singoli aderenti, danni incommensurabili. Allora, stando alle inchieste giudiziarie di quegli anni che continuavano a dimostrare comunque l’operatività affaristica dell’associazione mafiosa, ma anche il ricorso alla violenza, omicidi compresi, quando ciò si rendeva necessario, deve affermarsi che la “sommersione” non era né invisibilità né mutamento fisionomico di cosa nostra, ma semmai un ritorno al passato, a ciò che essa era prima dell’avvento corleonese, riappropriandosi dei suoi ambiti tradizionali. Lo storico Salvatore Lupo ha efficacemente evidenziato alla Commissione che “in prospettiva storica, questa vicenda cosiddetta corleonese sembrerà un’enclave, perché la mafia è nascosta di sua natura, la mafia si nasconde nelle pieghe delle relazioni sociali, e si è inflitta da sola la più grossa sconfitta in quanto non ha più reso possibile che qualcuno dicesse che la mafia non esiste, perché la mafia si è palesata da sé nella sua esistenza indubitabile”30. Forse è proprio ad opera dello stesso Provenzano che finisce, dunque, la lunga epoca corleonese di cosa nostra per ritornare a quella della tradizionale convivenza con lo Stato. Un altro rilevante, ma successivo, cambiamento della mafia siciliana è quello dell’assenza, a partire dall’11 aprile del 2006, di un vertice unitario. Con la cattura di Bernardo Provenzano, cosa

30 Cfr. seduta del 1° dicembre 2015, audizione di Salvatore Lupo, professore ordinario di storia contemporanea presso l’università di Palermo, resoconto stenografico n. 124.

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nostra rimane senza un capo libero, universalmente riconosciuto, mentre i tentativi espansionisti del latitante , qualora avessero mai potuto dar luogo ad una sua ascesa nella gerarchia mafiosa complessiva, vennero comunque stroncati il 5 novembre del 2007 con il suo arresto. L’assenza di un capo attivo si è tradotta, ovviamente, anche in assenza di strategia unitaria e, dunque, di crescita delle potenzialità criminali. A ciò ha altresì corrisposto, grazie ai continui arresti, un generale abbassamento del livello degli uomini d’onore spesso posti a capo di famiglie o mandamenti come scelta obbligata, in assenza di figure di esperienza e di rilievo. Tutto questo, tuttavia, non può leggersi in termini ottimistici di decadimento assoluto di cosa nostra, minata tanto al vertice che alla base, dato che le indagini giudiziarie dimostrano il contrario. Con una certa frequenza vengono eseguite, in tutti i distretti siciliani, misure cautelari per il delitto di cui all’articolo 416-bis del codice penale e per i relativi reati-fine, quali le estorsioni che, essendo di norma indirizzate a commercianti e accompagnate da danneggiamenti e atti intimidatori, continuano a manifestare, sui territori, la presenza invasiva e condizionante della mafia. Al contempo, la continua esecuzione di sequestri patrimoniali, in sede penale o di prevenzione, testimonia, a sua volta, che cosa nostra ha proseguito, comunque, nella sua attività di arricchimento. Inoltre, e soprattutto, l’elevato numero di scioglimenti di comuni siciliani per infiltrazione mafiosa, ma anche di amministrazioni ex articolo 34 del codice antimafia (che hanno riguardato banche e società di rilevante interesse), comprovano, qualora ve ne fosse bisogno dopo che due presidenti della Regione siciliana hanno subìto processi per fatti di mafia, che è proseguita imperterrita l’attività propria dell’associazione mafiosa di infiltrazione nei settori della pubblica amministrazione, della politica, dell’economia. L’assenza di un vertice unitario e di una base autorevole probabilmente ha fatto sì che cosa nostra non fosse più un interlocutore tale da potere dialogare, alla pari, con la politica. Tuttavia, il controllo delle amministrazioni comunali è proprio quello che consente, attraverso gli appalti di piccola o media entità e quelli in via d’urgenza, di rimpinguare non solo le casse ma anche le mire di supremazia dell’associazione mafiosa. Né può dirsi che l’attuale cosa nostra abbia rinunciato tanto all’idea di ricostituire i suoi organi deliberativi quanto alla sua vocazione violenta. Come si accennava, alla fine del 2008 i capi mandamento del palermitano davano luogo ad una serie di riunioni per ricostituire la commissione provinciale di cosa nostra anche perché ciò, come affermavano testualmente mentre erano intercettati, avrebbe consentito loro di ritornare a fare le “cose gravi”. Progetto questo che, insieme ad altri tentativi di ridarsi organi di vertice, registrati dalle forze dell’ordine negli anni successivi, venne interrotto a causa dell’arresto dei soggetti coinvolti. Se da quanto finora evidenziato emerge un’associazione dinamica ma in crisi come organismo unitario, devono tuttavia considerarsi anche i punti di forza sui quali cosa nostra riesce ancora a contare. Nell’affrontare questa analisi non bisogna dimenticare, innanzitutto, che già più di mezzo secolo fa, subito dopo la strage di Ciaculli, nel giugno del 1963, la mafia era stata data per sconfitta, e anzi alcuni stessi uomini d’onore avevano proposto di sciogliere per sempre l’organizzazione, ma che, soltanto qualche anno dopo, iniziò l’inarrestabile scalata dei corleonesi. È vero che il panorama generale di oggi è profondamente mutato, tanto nella società che nel sistema di prevenzione e repressione, ma non bisogna sottovalutare che ci si trova di fronte comunque a una associazione criminale segreta con più di due secoli di storia. Deve dunque considerarsi, in primo luogo, che la mafia siciliana è un’organizzazione fondata su regole precise che le consentono di superare i momenti difficili e di sopravvivere anche in assenza dei vertici. Così si afferma, in proposito, nella relazione della Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo per l’anno 2016: “L’organizzazione mafiosa continua in questa fase storica particolare a fare ricorso al suo patrimonio ‘costituzionale’ e, dunque, alle regole circa la

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propria struttura tradizionale di governo che - anche a prescindere dalla presenza sul territorio di capi liberi muniti di particolare carisma - le consente di affrontare e, purtroppo spesso, di superare momenti di crisi quale quello che indubbiamente sta ora attraversando. Va ribadito ancora una volta anche in questa sede come cosa nostra appaia dotata di una sorta di ‘costituzione formale’ e di una sua ‘costituzione materiale’. In alcuni momenti storici ha contato di più la sua costituzione materiale, nel senso che il governo dell’organizzazione è stato retto secondo le scelte dei capi e a prescindere dal rispetto delle regole. Nel momento in cui l’azione investigativa dello Stato ha portato alla cattura di tali capi, se la cosiddetta costituzione materiale dell’organizzazione è entrata in crisi, la costituzione formale di cosa nostra ha ripreso importanza e tuttora consente alla struttura di sopravvivere anche in assenza di importanti capi riconosciuti in stato di libertà”. Altro punto di forza, segnalato alla Commissione dalle autorità giudiziarie che indagano sul fenomeno, è che l’associazione mafiosa ha dimostrato, negli ultimi anni, una impressionante “capacità di rigenerazione”31, nel senso che, ai continui arresti di mafiosi di ogni livello, l’organizzazione criminale ha puntualmente risposto con la sostituzione immediata del sodale detenuto, dimostrando così non solo una operatività incessante ma anche di potere contare su un numero, sempre vasto, di affiliati talvolta, peraltro, di strato culturale medio-alto. Anche per questo, nonostante tutto, la mafia, come visto nelle pagine precedenti, ha mantenuto il controllo del territorio nelle città e nei paesi siciliani, gode ancora di ampio consenso ed esercita tuttora largamente la sua capacità di intimidazione alla quale ancora corrisponde, di converso, il silenzio delle vittime. Il mutamento di livello degli attuali uomini d’onore, meno esperti e meno carismatici rispetto a quelli del passato, a sua volta, può essere letto in un’altra ottica. Il procuratore Lo Voi affermava, infatti, che: “è vero che cosa nostra ha subìto dei colpi rilevanti nel corso degli ultimi due decenni, ma è altrettanto vero che registriamo quotidianamente la sua capacità di autorigenerazione, che magari non raggiunge più i livelli qualitativi rappresentati dagli importanti uomini d'onore di una volta, ma che non per questo cessano di essere pericolosi o sono meno pericolosi; anzi, in mancanza di un rigido controllo nella procedura di selezione degli uomini d'onore e degli affiliati alla mafia, rischiano di essere addirittura più pericolosi. Bisogna quindi stare attenti ai momenti di apparente silenzio sotto il profilo della sicurezza in generale, che riguardi gli uomini delle istituzioni come i semplici cittadini vittime delle varie attività illecite tipiche di cosa nostra”32. Sempre a proposito dello spessore dei mafiosi siciliani, deve anche considerarsi con molta attenzione ciò che di cosa nostra ancora non si conosce. Bisognerebbe comprendere che fine abbiano fatto quei rapporti e quegli interlocutori della stagione dei delitti politico-mafiosi. Sarebbe, infatti, molto importante sapere se quei complici eccellenti ci siano ancora e con chi si confrontino; se interloquissero allora, direttamente o indirettamente, con i “viddani”, sicché, dopo l’uscita di scena di questi ultimi, i pregressi rapporti siano caduti nel nulla, o se ci fosse un sistema di contatto a un livello diverso che tuttora è capace di funzionare. Occorre inoltre domandarsi che fine abbiano fatto quegli ingenti patrimoni che la vecchia mafia era riuscita ad accumulare e che non sono stati ancora del tutto individuati. Per fare un mero esempio, le indagini volte alla cattura di Provenzano hanno dimostrato che questi, insieme agli altri due storici corleonesi, e , avevano acquistato beni, negli anni Settanta, che spaziavano nei settori turistici e farmaceutici oltre quelli, più tradizionali, dell’edilizia. Si ricorderà che al latitante Provenzano venivano inviati i ritagli dei giornali contenenti l’andamento delle borse e che, negli anni Novanta, secondo quanto appreso dalle

31 Cfr. seduta del 4 novembre 2015, audizione del procuratore della Repubblica presso il tribunale di Palermo, Francesco Lo Voi, resoconto stenografico n. 121. 32 Cfr. seduta del 4 novembre 2015, audizione del procuratore della Repubblica presso il tribunale di Palermo, Francesco Lo Voi, resoconto stenografico n. 121.

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intercettazioni, la alienazione di un ignoto immobile dei tre corleonesi avrebbe comportato, soltanto per gli oneri notarili, una spesa per oltre 200 milioni di lire. Oppure, si consideri il cosiddetto tesoro di Ciancimino, solo in parte ricostruito, i cui proventi sono stati investiti nel territorio nazionale ma, soprattutto, all’estero. Si pensi, ancora, al più giovane Matteo Messina Denaro inserito nelle catene di distribuzione alimentare e, più di recente, nel sistema delle energie alternative. Occorre pertanto chiedersi se, accanto alla manovalanza mafiosa che si accontenta degli spiccioli o solo dell’onore dell’appartenenza, vi sia ancora, come del resto è sempre avvenuto, un grado superiore, una élite mafiosa che gestisce questi enormi e sconosciuti patrimoni che, ripuliti nel tempo da investimenti su investimenti, hanno prodotto, nel frattempo, posti di lavoro e, dunque, consenso, e, soprattutto, legami con il mondo delle professioni, della politica, della grande imprenditoria e, dunque, l’ingresso a pieno titolo nel sistema democratico. Una tale riflessione si rivela ancora più opportuna se si guarda al contesto della mafia trapanese, catanese, messinese, dove il connubio con l’imprenditoria ha finito per rendere la stessa cosa nostra imprenditrice, e al modo di essere capo di Matteo Messina Denaro, esempio di modello evolutivo in cui i vertici si allontanano dagli affari della base per avvicinarsi a quelli dell’apice. Altro elemento di forza dell’associazione mafiosa siciliana è attualmente rappresentata proprio dalla morte di Totò Riina e dalla definitiva chiusura dell’ingombrante stagione corleonese. Cosa nostra, cioè è libera di ridarsi un organismo decisionale centrale, e quindi una strategia comune, finora ostacolata dall’esistenza di un capo che, ristretto al 41-bis, né poteva comandare né poteva essere sostituito. In questo peculiare contesto si considerino anche sia la recente scarcerazione di soggetti di particolare spessore e storia criminale sia il rientro, a Palermo, dei cosiddetti “scappati”, cioè i sopravvissuti dell’aristocrazia mafiosa alla guerra di mafia dei primi anni Ottanta, che possono vantare importanti legami dall’altra parte dell’Atlantico. Non si dimentichi inoltre la coesistenza delle due anime di cosa nostra. Innanzitutto, quella conservatrice dei paesi della provincia che assicurano la forza della tradizione (e, del resto, il primo tentativo di rifondare la commissione provinciale veniva mediato proprio dagli uomini d’onore di Bagheria e di Corleone). Inoltre, quella più “moderna”, delle città come Catania, Trapani e Messina che rappresentano un modello più avanzato in linea con le mafie moderne. Due anime, dunque, che consentono il ritorno al rassicurante e solido passato per stare al passo con il futuro. Certamente qualunque cosa accadrà è e sarà una cosa nostra diversa da quella che abbiamo conosciuto negli ultimi decenni.

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3.2 'Ndrangheta

Premessa

La Commissione, fin dal suo insediamento, ha dedicato specifica attenzione alle dinamiche che caratterizzano l’evoluzione della ‘ndrangheta sia in Calabria che nelle altre regioni d’Italia, nonché all’estero. Non a caso, le prime sedute plenarie della Commissione si sono svolte a Reggio Calabria dal 9 al 10 dicembre 2013, dando inizio a un intenso programma di periodiche audizioni (in missione e in sede) con i vertici delle autorità giudiziarie e delle forze dell’ordine dei distretti di Reggio Calabria e Catanzaro33. Ma gli approfondimenti si sono sviluppati anche nel corso delle missioni svolte nelle regioni dove la ‘ndrangheta si è insediata e all’estero34. La Commissione ha potuto registrare, anche alla luce delle imponenti attività d’indagine degli ultimi anni, il profondo radicamento, la potenza finanziaria delle cosche calabresi e la loro capacità di essere anti-Stato senza sfidarlo apertamente, ma infiltrandosi nei suoi gangli vitali. La consapevolezza della forza e della pericolosità della ‘ndrangheta è comunque un dato recente. Per molto tempo è stata descritta come mafia secondaria, subalterna e arretrata. Questa immagine deformata ha proiettato un cono d’ombra che le ha permesso di crescere e di espandersi sotto traccia, oltre i confini della Calabria35. L’ascesa criminale della ‘ndrangheta, di cui si sono in parte già analizzate le ragioni all’inizio di questa Relazione, avviene dopo le stragi di Falcone e Borsellino, quando, sfruttando le difficoltà di cosa nostra, divenuta il bersaglio principale delle attività di contrasto dello Stato, le cosche calabresi investono i profitti dei sequestri di persona nella droga, inviando i loro uomini in Sudamerica. La ‘ndrangheta diventa il principale broker del traffico internazionale degli stupefacenti, che in quel periodo stava realizzando il passaggio dall’eroina alla cocaina, e conquista un rapporto privilegiato con i grandi fornitori centro e sudamericani grazie alla sua affidabilità economica, all’assenza fino a tempi recenti36 di collaboratori di giustizia di un certo spessore che invece ora cominciano a fornire importanti elementi investigativi, e a un rapporto con gli uomini delle istituzioni decisamente meno conflittuale, rispetto alla mafia dei corleonesi37.

33 Missioni a Vibo Valentia 8 aprile 2014; a Reggio Calabria, 28-29 aprile 2014, 31 marzo - 1° aprile 2016; a Catanzaro 23 febbraio, 2015; a Cosenza 26 e 27 ottobre 2015. 34 Per l’elenco completo delle audizioni e delle missioni si vedano gli allegati 1, 3 e 4. 35 Al riguardo si veda altresì quanto osservato dal procuratore distrettuale di Roma, Giuseppe Pignatone, già procuratore distrettuale di Reggio Calabria: “Un ruolo preminente che la 'ndrangheta ha conquistato proprio grazie a quelle caratteristiche che cosa nostra non ha più saputo garantire, a cominciare dall'assoluta affidabilità economica e dalla sicurezza, per l'assenza di ‘traditori’, ovvero di collaboratori di giustizia di un certo spessore... La ndrangheta ha una storia secolare e non è certo una novità degli ultimi anni. Mi pare tuttavia che tutti concordino sul fatto che le cosche calabresi abbiano soppiantato cosa nostra quale principale broker nel traffico mondiale degli stupefacenti, nel rapporto privilegiato con i grandi fornitori sudamericani e messicani di cocaina, rafforzando ulteriormente il ruolo significativo che già, peraltro, ricopriva”. La citazione è tratta da “La fine di un'epoca”, in Diritto penale contemporaneo, 2017. 36 Le recenti inchieste della DDA di Reggio Calabria si sono avvalse di collaboratori che hanno dato, negli ultimi anni, un contributo decisivo nella ricostruzione della struttura della ‘ndrangheta e sulle vicende oggetto dei procedimenti penali e che hanno consentito di ricostruire struttura, nomenclatura, competenze, gradi e mansioni della ndrangheta Si pensi ad esempio a Paolo Iannò, Giuseppe Costa, Consolato Villani, Belnome Antonino, oltre a Roberto Moio, Nino Fiume e altri, tutti collaboratori di accertata ed elevata caratura criminale la cui attendibilità è stata riconosciuta da plurime sentenze definitive. 37 Seduta del 14 aprile 2014, audizione del procuratore aggiunto della Repubblica di Reggio Calabria, Nicola Gratteri, Resoconto stenografico n. 27: “Antonio Macrì era il capo di Siderno, che discuteva alla pari con cosa nostra americana. Totò Riina veniva a trovarlo in Calabria vestito da prete. Totò Riina veniva ad Africo a trovare don Stilo vestito da prete. Brusca, quello che ha schiacciato il telecomando, veniva in Calabria a trovare don Stilo per chiedere raccomandazioni per aggiustare i processi in Cassazione. Questa era la ’ndrangheta di allora, che nessuno ha capito e che tutti hanno sottovalutato, considerandola una mafia stracciona. La filosofia della ‘ndrangheta è sempre stata quella di presentarsi come una mafia contadina, che cercava sempre l’abbraccio con gli uomini delle istituzioni e mai lo scontro”.