Cap.1

Pittori del Seicento napoletano

Dipinti senza autore ed autori senza dipinti

Il ritardo, per motivi editoriali, nella pubblicazione del mio regesto sulla pittura napoletana del

Seicento (2000 foto a colori riguardanti circa 150 artisti tra maggiori e minori) mi ha indotto ha cominciare a rendere noto a studiosi ed appassionati parte del mio lavoro e comincio con un capitolo originale dedicato a quei dipinti che, nonostante l’elevata qualità, attendono ancora dalla critica una giusta attribuzione, con la speranza nel contributo di quanti, napoletanisti o meno, vogliano collaborare in questa ricerca di paternità.

La pittura napoletana seicentesca, il famoso secolo d’oro, è ricco di autori senza opere, per quanto siano stati reperiti i documenti di pagamento e di opere senza autore, come quelle che andremo ad esporre, avanzando quando possibile una nostra ipotesi attributiva.

Cominciamo da un ritratto di Salvator Rosa nella veste di David (01), transitato in asta ed attribuito a

Micco Spadaro senza convincere gli specialisti dell’artista, passiamo poi ad una tela raffigurante lo sbarco dell’infanta Maria d’Austria a Napoli , un episodio famoso ed un’opera di pregio per la quale non mi sento di avanzare alcuna ipotesi, quindi affrontiamo una scena di costume, un Bagno pubblico per uomini che potrebbe oscillare tra il Gargiulo ed il Rosa, quindi una Madonna delle Grazie (02) che mi sentirei, per analogie stilistiche e per collocazione in una sede dove il pittore ha avuto altre commissioni, di assegnare a Giuseppe Marullo, la Negazione di San Pietro (03), di recente avvicinata al catalogo di Ribera giovane, dovrebbe rimanere l’opera di un ignoto caravaggesco nordico attivo a

Napoli intorno al 1620.

Il San Procopio, siglato PB, della pinacoteca D’Errico, per il quale si è speso il nome del misterioso

Beato, probabilmente rimane di un ignoto riberiano, mentre per il Vesuvio in eruzione (04) dobbiamo contentarci di un anonimo nordico attivo sul finire del XVII secolo, il Sansone e Dalila, respinta un’insostenibile attribuzione al genovese Fiasella, potrebbe ragionevolmente entrare nel catalogo di

Onofrio Palumbo, un allievo napoletano della Gentileschi, mentre la Maddalena penitente (05) tradisce ampiamente i modi del Vaccaro.

L’Andata al Calvario, di modesta fattura, attribuita al Piscopo richiede una verifica trattandosi di un pittore citato dalle fonti, ma senza opere certe, mentre il Pescivendolo che pulisce una razza (06) è frutto di una collaborazione tra uno specialista di figura ed un generista eccellente per il quale sono aperte più ipotesi, probabilmente Giovan Battista Recco o Porpora. Il David (07), ha sostenuto più attribuzioni dal Guarino al Vaccaro, senza escludere van Somer.

Il Crocifisso con la Maddalena di grande qualità richiama un prototipo del Ribera e denota lo stile di

Cesare Fracanzano, ma potrebbe riservare una piacevole sorpresa con l’identificazione di una nuova personalità, la S. Maria Egiziaca in estasi e la Santa in preghiera tradiscono lo stesso pennello ed un milieu culturale tra Vaccaro, Vitale e Guarino, la Tunica insanguinata (08) ha suggestionato a lungo la critica, la quale, dopo un’ipotesi iniziale verso Van Baburen, ha virato verso il De Bellis ed infine verso il Falcone giovane.

La languida e sensuale Maddalena (09) di Capodimonte ha richiamato l’attenzione degli specialisti, che hanno evocato firme prestigiose da Sellitto a Vaccaro, per concludere mestamente con la creazione della figura di un maestro dal nome convenzionale derivato dal soggetto del dipinto al quale affiancare altre opere, la Morte di S. Alessio tradisce l’impronta di un ignoto giordanesco suggestionato dai modi riberiani e la Giuditta con la testa di Oloferne ritenuta di un seguace del

Cavallino ha tutti i numeri per entrare nel catalogo di Agostino Beltrano.

La Vanitas (10) possiede una sostenibile attribuzione al De Simone, mentre la Battaglia tra Turchi e

Cristiani (11) rimane nell’alveo di un ignoto battaglista, l’Apollo e Marsia di potente bellezza oscilla tra Giordano e Ribera, arduo trovare un nome certo per il riberiano del San Girolamo penitente (12) e per l’autore del Sansone e Dalila (13).

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La S. Caterina per la quale si era pensato alla Gentileschi più probabilmente è del Palumbo, per il

Cristo e l’adultera (14) si è pensato ad un maestro di convenzione, misterioso l’artefice del San

Matteo e l’angelo (15), per il Ratto di Elena (16) un potente ed abile giordanesco, per Giunone ed

Argo (17) oltre ad un riberesco si può pensare anche ad un veneto.

Il prode Cavaliere attribuito da Zeri a Gargiulo rimane di ignoto, mentre il Suonatore di violino può ragionevolmente entrare nel corpus del Di Maria e Mosè che calpesta la corona del faraone in quello del De Bellis, ad un ignoto specialista nordico appartiene la Veduta del porto di Napoli (18) e ad un abile generista tra Ruoppolo e Porpora la splendida Natura morta con pesci e rami (19).

Il Nudo disteso emana afrore napoletano ma resta un enigma, mentre la perfida Giuditta è opera in caravaggesco attivo nel secondo decennio.

01 - Ritratto di Salvator Rosa come David 02 - Madonna delle Grazie (Marullo?) Napoli, Londra, Trafalgar Galleries Fondazione Mondragone

04 - Vesuvio in eruzione e lanterna del molo, 03 - Negazione di San Pietro (Ignoto acquerello su carta (Anonimo nordico attivo sul caravaggesco nordico attivo 1620 circa) finire del XVII secolo) Napoli, già Collezione Alisio

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06 - Pescivendolo che pulisce una razza (G.B. Recco? e pittore di figura) Roma, Galleria Nazionale di Arte Antica

05 - Maddalena penitente (Vaccaro?) Napoli, Museo del Banco di Napoli

08 - La tunica insanguinata ( De Bellis, Falcone, Van Baburen?) Matera, Pinacoteca D’Errico

07 - David (Guarino, Vaccaro?)Torino, già Galleria Voena

09 - Maddalena penitente Napoli, Museo di 10 - Vanitas (De Simone?) Napoli, Quadreria del Capodimonte Pio Monte della Misericordia

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11 - Combattimento tra turchi e cristiani (Ignoto 12 - San Girolamo penitente Ajaccio, Musèe Fesch battaglista) Ajaccio, Musèe Fesch

14 - Cristo e l’adultera Semenzato, aprile 1991

13 - Sansone e Dalila Londra, Sotheby’s aprile 1993

15 - San Matteo e l’Angelo Semenzato, dicembre 1990

16 - Il Ratto di Elena (Ignoto giordanesco) Semenzato, ottobre 1990 17 - Giunone ed Argo (Ignoto riberesco, pittore veneto?) Semenzato, dicembre 1996

18 - Veduta del porto di Napoli Napoli, Finarte 19 - Natura morta con pesci e rami Finarte, marzo 1997 2002

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Cap.2

Carlo Sellitto e Filippo Vitale due DOC

Tra i pittori napoletani che tributarono al Merisi l’accoglienza più entusiastica vi è in prima fila Carlo

Sellitto, nato culturalmente in ambito tardo manierista filtrato dall’insegnamento del fiammingo Lois

Croise, per accogliere poi il nuovo messaggio e dar luogo a composizioni drammatiche, animate da un’intensa tensione emotiva e da una spasmodica ricerca di verità, con un dominio della luce che modella le immagini attraverso un sottile gioco di ombre patognomonico del suo stile.

La sua prima opera documentata, unica firmata, è del 1606 e si trova in provincia ad Aliano. Essa raffigura una Madonna in gloria con donatore e nonostante l’impronta manieristica baroccesca presenta in basso un’immagine del committente dalla precisione ottica stupefacente, a lampante dimostrazione dell’abilità dell’artista come ritrattista. Sempre in Basilicata, terra natia del pittore, è conservata a Melfi una Madonna del suffragio con anime purganti, intrisa di naturalismo con la luce che evidenzia le figure ed i gesti, sottolineando la drammaticità della scena.

In ambiente napoletano la sua più importante commissione lo impegnerà dal 1608 al 1612 in

Sant’Anna dei Lombardi nella cappella Cortone, nell’esecuzione di un ciclo su San Pietro, dove ha l’occasione di lavorare al fianco di attivo nella cappella Fenaroli e del Caracciolo operante nella cappella Noris Correggio. Un cataclisma, distruggendo la chiesa nel Settecento, non ci ha permesso un confronto tra le opere in gran parte distrutte. Delle cinque eseguite dal Sellitto se ne sono salvate soltanto due, segnate da un fascio luminoso potente che scandisce i corpi nel ritagliarsi violento delle ombre.

In seguito egli esegue, tra il 1610 ed il 1613, il San Carlo per la chiesa di Sant’Antoniello a Caponapoli e la splendida Santa Cecilia all’organo per la chiesa della Solitaria, entrambe oggi a Capodimonte,

6 l’Adorazione dei pastori per la chiesa degli Incurabili e la Visione di Santa Candida per Sant’Angelo al

Nilo, percorsa da un brivido di luce calda e avvolgente.

Altre opere da aggiungere al suo scarno catalogo sono la Santa Lucia del museo di Messina ed il David e Golia del museo nazionale della Rhodesia.

Un segno tangibile del prestigio raggiunto dal pittore presso la committenza fu l’incarico, nel 1613, di eseguire una Liberazione di San Pietro da collocare su un altare del Pio Monte della Misericordia, ma l’opera per l’improvvisa morte del Sellitto fu poi affidata al Battistello.

Egli lasciò nella sua bottega numerose tele incompiute, tra cui il Crocefisso per la chiesa di Portanova, oggi purtroppo scomparso per un ignobile furto ed il Sant’Antonio da Padova per i governatori di San

Nicola alla Dogana, ricco di un gioco luminoso sui volti ed in cui si può leggere come segno distintivo, quasi una firma nascosta del pittore, il classico tocco di luce sulle fisionomie dei personaggi, che si può apprezzare anche nella famosa tela di Santa Cecilia all’organo.

Nel suo atelier vi erano anche una serie di quadri di natura morta, di paesaggio ed è inoltre noto dai documenti che fu celebre ritrattista, ricercato da nobili e borghesi, una produzione al momento completamente sconosciuta agli studi eccetto poche esempi. Tra questi possiamo segnalare il

Ritratto di gentildonna in vesti di Santa Cecilia, transitato più volte sul mercato, nel quale si avverte un contemperamento dei caratteri caravaggeschi con intenerimenti classicistici e preziosismi cromatici di matrice reniana, consentaneo alla presenza a Napoli nel 1612 del divino Guido.

Il Bacco del museo di Francoforte, variamente attribuito negli anni, è certamente opera del Sellitto, intorno al 1610, per le stringenti affinità nel gioco delle ombre con l’angioletto della Santa Cecilia, clone perfetto che richiama a viva voce lo stesso pennello e per lo splendido brano di natura morta ci conduce agli esordi della pittura di genere in area napoletana.

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Alla fase luministica del caravaggismo appartiene l’attività giovanile di Filippo Vitale, un artista di rilievo, quasi completamente trascurato dalle fonti antiche e la cui personalità è stata ricostruita solo negli ultimi decenni.

Egli è imparentato con Annella e Pacecco De Rosa di cui è patrigno, con Giovanni Do, Agostino

Beltrano ed Aniello Falcone di cui è suocero. Un tipico esempio di quella ragnatela di parentele che lega molti altri pittori napoletani del primo Seicento, i quali abitarono quasi tutti nella zona delimitata tra piazza Carità e lo Spirito Santo, vera Montmartre dell’epoca. Su tanti intrecci ci ha illuminato la ricerca durata un’intera vita di un benemerito erudito, il Prota Giurleo, il quale con certosino lavoro di spulcio di processetti matrimoniali, testamenti, fedi di battesimo, polizze di pagamento ed inventari, ha fornito ai critici una mole enorme di dati e di documenti sulla quale lavorare per ricostruire la personalità di tanti artisti.

Vitale è allievo di Sellitto del quale completa il Crocefisso di Santa Maria in Portanova ed anche lui lavora in Santa Anna dei Lombardi, dove riceve dai Noris Correggio per un San Carlo Borromeo un compenso molto alto di duecento ducati.

Dipinge poi la Liberazione di San Pietro dal carcere del museo di Nantes, il San Sebastiano conservato a Dublino e il Sacrificio di Isacco del museo di Capodimonte Tra il 1617 ed il ’18 è impegnato ad eseguire otto tele per il soffitto dell’Annunziata di Capua, che purtroppo versano oggi in pessimo stato di conservazione.

Successiva è la grande pala dei Santi vescovi, già in San Nicola alle Sacramentine di un intenso naturalismo impregnato dalla lezione caravaggesca, nella quale si possono ipotizzare anche scambi culturali con Tanzio da Varallo dotato di un più intenso senso luministico.

In seguito si avvicina ai modi di Ribera raggiungendo il culmine del suo percorso naturalistico con il

San Sebastiano della chiesa dei Sette dolori e l’Angelo custode della Pietà dei Turchini, il suo capolavoro, uno dei quadri più importanti del Seicento napoletano, dal poderoso impianto

8 compositivo, nel quale al ricordo del valenzano si impongono suggestioni di rigoroso naturalismo, potente creazione in cui è facile leggere nel volto dei personaggi la rabbia e il disappunto, la serenità e la giustizia, il candore e l’innocenza.

La Deposizione della chiesa di Regina Coeli, firmata e databile intorno al 1635 apre una fase di crescente inclinazione prima in senso pittoricistico e poi decisamente classicista, che sfocerà nell’ultimo decennio in una fase pacecchiana, dopo un lungo periodo di collaborazione col figliastro.

La sua tavolozza divenne sempre più smaltata e ricca di colori luminosi e vivaci come si avverte nella

Fuga di Loth da Sodoma, firmato e datato 1650, di collezione privata pendant di un Rachele e

Giacobbe realizzato dal De Rosa.

Numerose sono le tele a quattro mani che la critica, progredite le cognizioni sui due artisti, ha identificato, dalla Madonna e San Carlo di San Domenico Maggiore alla Gloria di Sant’Antonio conservato nell’eponima arciconfraternita in San Lorenzo, mentre molti dipinti risentono ancora di scambi nella paternità tra i due parenti e necessitano di percorrere un arduo sentiero attributivo avvolto ancora più da ombre che da luce.

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Cap.3

Scipione Compagno un elegante petit maître

Scipione Compagno nasce secondo lo Zani nel 1624 e muore dopo il 1680, è documentato tra il 1638 ed il 1664. Il De Dominici lo cita come pittore di paesaggi e di marine, una veste nella quale ci è ancora sconosciuto. Egli è influenzato dai modi del Corenzio e di Filippo D’Angeli e mostra inoltre il marchio delle architetture fantastiche del De Nomè, oltre a risentire dell’impronta del Brill e di pittori olandesi come Breenbergh e Polenburgh. Il Causa, dal carattere arcaico delle sue scenografie, aveva ipotizzato che egli appartenesse alla generazione precedente a Micco Spadaro, ma i documenti ed i dati anagrafici scoperti di recente hanno dimostrato che trattasi di pittori coevi.

Ignazio Compagno lavorava nella bottega del fratello Scipione ed era specializzato nelle repliche di soggetti richiesti dalla committenza e, secondo il De Dominici, era particolarmente versato nell’esecuzione delle figure grandi.

Il Salerno ha ipotizzato una sua partecipazione nei quadri del fratello, perché nel catalogo di questi sono presenti quadri di impostazione ed esecuzione diversa, che, se non dipendono da un’evoluzione stilistica dell’artista, possono presupporre l’intervento di un collaboratore.

Anche per il Compagno la massa anonima diventa la protagonista dei suoi quadri nei quali è abile a collocare gran popolo in poco spazio e ad immergere gli avvenimenti in un’atmosfera fantastica e surreale.

Fino agli anni Settanta gli erano riconosciute poche opere, poi il Salerno ritenne di aggiungere al suo corpus tutto il gruppo di dipinti che il Longhi, riconoscendone la stessa mano, aveva attribuito a

Filippo Napoletano, di cui allora poco si conosceva. Il folto gruppo di tele fu raccolto intorno ad un grande dipinto firmato e datato”Compagno 1658”.

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Nel suo catalogo così ampliato, con l’aggiunta di varie tele firmate, si possono distinguere chiaramente due tendenze, che come abbiamo detto in precedenza hanno fatto ipotizzare la mano di due diversi pittori, una caratterizzata dai colori chiari e dall’esecuzione più accurata, l’altra da un fare sciolto e compendiarlo, con impasti cromatici più sostanziosi e con una tavolozza di colori più scuri, dominata dai toni bruni e terrosi.

Di recente qualche sua tela è stata trasferita nel corpus di Cornelio Brusco, un artista risorto da un oblio secolare grazie alle ricerche della Nappi.

Pochi i documenti di pagamento, pubblicati dal D’Addosio e riferiti al 1641, rare le citazioni inventariali.

Le sue opere di maggior successo furono più volte replicate, spesso su rame ed alcune sono molto suggestive come l’Eruzione del Vesuvio del 1631 (fig. 1) del Kunsthistoriches di Vienna, firmata, nella quale oltre all’interesse documentario per un luogo famoso della città di Napoli oggi scomparso, molto ben rappresentata è la folla formicolante in preda al panico, espressa con una vivacità di tocco rara a vedersi negli altri specialisti del genere, come possiamo osservare anche in una replica (fig. 2) su tela con numerose varianti, di maggiori dimensioni, conservata nella collezione Costantini a Roma, imperniata sulla famosa processione con in testa San Gennaro per intercedere sulla fine dell’eruzione del 1631 ed eseguita con una pennellata sciolta e sommaria e colori più cupi, al punto che qualche studioso ha ipotizzato il pennello del fratello Ignazio.

La sua produzione anche se inferiore qualitativamente e quantitativamente a quella del Gargiulo, a cui può essere paragonato, esercitò ad ogni modo un influsso su altri pittori tra cui Nicola Viso ed il tedesco Franz Joachim Beich, presente a Napoli all’inizio del Settecento.

Il pittore era affezionato a poche iconografie molto richieste dal mercato, che replicava numerose volte, spesso con significative varianti.

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Un esempio calzante è rappresentato, nel campo della pittura raffigurante scene di martiri, che tanto successo ebbe a Napoli a metà secolo, dalle numerose varianti del Martirio di S. Orsola e le sue compagne. Si tratta di un soggetto citato anche negli archivi sotto il nome dell’artista, infatti il Perez

Sanchez segnala un suo quadro, datato 1647, in Spagna nella collezione dell’Almirante de Castilla.

Noi abbiamo raccolto circa dieci composizioni e ci limitiamo a segnalare quella (fig.3) in collezione

Lemme a Roma, pendant della Strage degli innocenti della Galleria Nazionale d’arte di Roma, firmata per esteso e datata 1642 e dell’Entrata di Cristo in Gerusalemme (fig. 4) di collezione della Ragione, firmata “compagno” e datata 164…(facciamo notare nelle tele l’identica disposizione allineata delle teste dei personaggi) e quella (fig. 5), transitata sul mercato internazionale e talmente influenzata dal

De Nomè da far presupporre una collaborazione, che raffigura il martirio della santa e delle sue

11.000 compagne vergini avvenuto fuori delle mura di Colonia.

Anche per la Decollazione di San Gennaro esistono svariate versioni, tutte molto differenti, caratterizzate da consistenti prelievi, negli sfondi, dall’architettura surreale e visionaria del De Nomè

Noi proponiamo quella (fig. 6) del museo di Nantes, la più famosa, che dimostra l’elevato grado di maturità raggiunta nell’assemblare il gruppo di personaggi in primo piano, pregni di una carica dinamica che dà movimento e carattere alla scena, mentre si delinea l’ampio paesaggio sullo sfondo.

Ricordiamo poi quelle conservate a Vienna, Pèrigueux ed in collezione napoletana, presentata nel

2006 alla mostra sui Campi Flegrei e proveniente dalla vendita in asta nei mesi precedenti di un lotto di ben sei quadri di Scipione. Questa serie comprendeva anche una Resurrezione di Lazzaro, un’Adorazione del vitello d’oro, una Strage degli innocenti, un Martirio di S. Orsola ed un’Entrata di

Cristo in Gerusalemme (fig. 7), replica autografa, di dimensioni leggermente maggiori(raffrontare la scena sui margini), di quella in collezione della Ragione a Napoli. Tutti dipinti nei quali è fitta la folla di figurine la cui massa indistinta vive in paesaggi e vedute definiti da alcuni elementi architettonici e strutturali ricorrenti, sempre giocati con una tavolozza dove predominano colori bruni e marroni.

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L’iconografia della Strage degli innocenti ebbe un successo notevole e il Compagno ne realizzò numerose redazioni. Oltre a quella celebre della Galleria d’arte antica di Roma, proponiamo un tondo

(fig. 8) dai colori accesi in collezione Alisio a Napoli, una (fig. 9) in collezione Romano, firmata e datata 1649, ed un’altra transita a Firenze sul mercato antiquariale.

Tra i soggetti biblici segnaliamo un Mosè fa scaturire l’acqua dalla rupe (fig. 10), firmato “Sc. ne compagno” del museo Camon Aznar di Saragozza ed un Tripudio del popolo ebraico intorno al vitello d’oro (fig. 11) , esitato in un’asta Semenzato del 1992, entrambi caratterizzati da colori caldi e vivaci; il cielo costellato di cupe nubi di chiara ispirazione spadariana e la folla che diventa la vera protagonista del racconto sono una costante precipua dello stile pittorico del Compagno, che in queste due tele è abile nel raccogliere tante figure in poco spazio, curando di dare un gradevole cromatismo alle vesti dei personaggi. Inoltre una Moltiplicazione dei pani e dei pesci (fig. 12) passata sul mercato della capitale ed un’Adorazione del vitello d’oro (fig. 13), firmata e datata 1649, in collezione privata romana.

Di fondamentale importanza nello scandire il percorso dell’artista è La Cacciata di Adamo ed Eva dal

Paradiso terrestre (fig. 14) già in collezione Rosa, firmata e datata 1658, la quale rinvia, per impaginazione della composizione al Giudizio universale (fig. 15) in vendita negli anni Cinquanta presso un antiquario a L’Aquila.

Di argomento diverso e molto vicino ai modi di Filippo D’Angeli il paesaggio fluviale con soldati(fig.

16), di collezione bolognese, mentre il Trionfo di un imperatore romano (fig. 17), esitato presso

Christie’s a Roma lascia qualche dubbio sull’autografia, alla pari dei Mangiatori di maccheroni (fig. 18) della galleria d’arte antica di Roma, assegnato sul Lessico della Treccani addirittura al Gargiulo e la

Costruzione della Croce (fig. 19) ad ubicazione sconosciuta, che siamo tentati di attribuire ad un anonimo napoletano, vicino al Coppola più che al Compagno.

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Cap.4

Una superba Madonna di Costantinopoli a Cetara

Cetara è una ridente cittadina sulla costiera amalfitana, lambita dal mare e prescelta da numerosi turisti per trascorrere ore liete tra bagni, sole e romantiche passeggiate.

A pochi passi dal centro vi è la chiesa di S. Maria di Costantinopoli, edificata nel 1867, come si evince chiaramente dalla data di apertura al culto posta sul pavimento e negli affreschi della cupola, anche se i lavori di costruzione cominciarono nei primi anni dell'Ottocento.

Essa andò a sostituire una piccola chiesetta, anche essa dedicata alla Madonna di Costantinopoli, costruita intorno al 1550 e della quale oggi residuano pochi e malconci ruderi.

Nella nuova chiesa troneggia una pala d'altare (figg. 1 - 2), raffigurante la Madonna col Bambino e santi, forse proveniente dalla cappella cinquecentesca, sulla base di una visita pastorale del 1550 eseguita per conto della diocesi di Amalfi, nella quale si accenna ad un'antica e preziosa icona mariana.

L'autore del dipinto va ricercato nella bottega dei D'Amato, la quale per decenni, prima col padre

Giovann'Angelo e poi con il figlio Giovanni Antonio, dominò la scena artistica locale, monopolizzando la committenza ecclesiastica.

Giovanni Angelo D'Amato, è originario di Maiori (Salerno) ignoriamo le date di nascita e di morte, ma la sua attività è ampiamente documentata nell'ultimo quarto del secolo XVI e agli inizi del XVII. La più antica data finora nota che lo riguardi è il 1576, anno in cui il pittore dipinse per la collegiata di

Atrani, per il prezzo di 120 ducati, "una gran cona di legno", tuttora esistente ma smembrata. L'anno successivo promise, insieme con Girolamo Imparato, di dipingere e indorare una "cona", ora perduta, per Marcantonio Dulcetto. Nel 1583 il pittore firmò e datò la tavola del duomo di Ravello con S.

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Michele Arcangelo "Io: Angelus de amato maioresis me pinxit A.D. MDLXXXIII". Dopo tale anno, a parte una "icona magna" con la Madonna del Rosario e Misteri firmata e datata 1588, ricordata a

Ravello nella sacra visita del 1617 e oggi dispersa, nessuna notizia ci è pervenuta sull'artista fino al

1595, data da cui inizia invece una fitta serie di documenti che si susseguono, quasi ad annum, fino al

1615. Dal loro esame emerge che egli collaborò più volte con Girolamo Imparato e dovette appartenere alla sua stessa generazione anche se nelle opere ritrovate - quasi tutte a Napoli, sulla costiera amalfitana e sorrentina e in Calabria - appare spesso in connessione col più giovane

Francesco Curia.

Le conoscenze acquisite permettono soprattutto di delinearne il percorso artistico la cui fase iniziale

è documentata dal ricordato polittico di Atrani del 1576: le tre tavole del registro inferiore con la

Maddalena fra i ss. Sebastiano e Andrea sono attualmente sistemate nell'abside della chiesa, mentre quelle del registro superiore con la Resurrezione fra i ss. Pietro e Paolo si trovano nella sagrestia.

Nell'opera, che stando ai documenti è la più antica del pittore, il D'Amato sembra essere agli esordi debitore di Giovan Bernardo Lama anche se già se ne distacca caratterizzandosi per certe libertà disegnative e per personali scelte coloristiche di tinte acide e fredde.

Giovanni Antonio D'Amato nasce come pittore devozionale ma per una parte del suo percorso artistico sarà attirato dal naturalismo dei primi caravaggeschi napoletani, a tal punto da confondersi a loro in alcune opere come nel Mosè fa scaturire l’acqua dalla roccia della collezione Pellegrini a

Cosenza, attribuito in passato a Beltrano o a Vitale. I suoi quadri naturalisti sono però sempre intrisi da una garbata punta di devozione familiare e dal dolce impasto cromatico proprio delle sue origini baroccesche.

Ad inizio secolo sono collocabili la Vergine Lauretana della chiesa di Santa Maria del Popolo agli

Incurabili e la Visione di San Romualdo sulla volta del coro dell’Eremo dei Camaldoli. In anni successivi realizza il caravaggesco Santi Nicola, Domenico e Gennaro, oggi nel museo civico. Celebri

20 alcune sue opere conservate nella quadreria dei Gerolamini: la Deposizione e la Sacra Famiglia, un soggetto che replicherà in una tela già nella chiesa delle Crocelle ai Mannesi ed oggi al Divino Amore.

La sua attività proseguirà fino agli inoltrati anni Quaranta non solo a Napoli ed in costiera amalfitana, ma si irradierà anche verso la Calabria e la Puglia, fino a quando i tempi dell’ultima Maniera, anche se aggiornati al lume caravaggesco, non saranno esauriti definitivamente.

Il filone devozionale d’ispirazione toscana comprende autori importanti: Fabrizio Santafede, uno

Stanzione ante litteram, campione incontrastato della nuova pittura, Giovanni Balducci, fautore di un pacato realismo domestico e Giovan Bernardo Azzolino, suocero del Ribera, il più seicentesco tra i tardo manieristi napoletani. Essi si limiteranno unicamente ad un viraggio di colore verso lo scuro nelle loro composizioni sacre dopo il 1608. A questi autori può essere affiancato Ippolito Borghese dal linguaggio intriso di pietismo e dallo stile aneddotico e devozionale.

Ritornando alla pala in esame un convincente raffronto (figg. 3-4) tra alcune opere documentate dei due artisti e la parte alta, raffigurante la Madonna col Bambino non lascia alcun dubbio sull'autografia, per cui riferiamo solo come curiosità una sorta di firma che in fase di restauro era comparsa, anche se poco leggibile:"Tanga", la quale ci avrebbe portato a scoprire la prima opera di uno dei numerosi pittori napoletani, citati tra i documenti di pagamento presenti negli archivi, ma ancora in attesa che gli studiosi gli riferiscano uno o più dipinti.

Nel caso specifico si poteva trattare di Francesco o di Paolo Tanga, ancora sospesi nel limbo dei pittori dei quali nulla sappiamo, se non le scarne notizie contenute nelle bancali di pagamento.

Un argomento affascinante e per chi volesse approfondirlo consiglio di consultare in rete un mio articolo: Pittori del Seicento napoletano,dipinti senza autore ed autori senza dipinti.

Si ringrazia l'architetto Giuseppe Liguori per le preziose informazioni che hanno permesso la stesura dell'articolo.

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Foto di Matteo Giordano

fig. 1 - D'Amato - Madonna con Bambino e santi - Cetara fig. 2 - D'Amato - Madonna con Bambino e santi (particolare)

fig. 3 - D'Amato -Madonne Costantinopoli e Carmine

fig. 4 D'Amato - confronto quadri

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Cap.5

Un San Bartolomeo firmato di Francesco Manzini

Francesco Manzini, attivo nella seconda metà del Seicento e nel primo quarto del secolo successivo, morto nel 1733, è ricordato dal De Dominici come abile copista di .

Egli è allievo di Giacomo Farelli e sono state identificate alcuni suoi dipinti firmati e datati, tra cui ora aggiungiamo al suo catalogo uno splendido San Bartolomeo (fig. 01), firmato e datato 1720, in collezione Fernandes.

Nel museo civico di Castel Nuovo è esposta una grande pala rappresentante La decollazione di San

Paolo, copia dell'omonima opera del Preti conservata a Houston, nella quale il Manzini si esprime con tale abilità che anche il Causa fu tratto in inganno e ritenne il dipinto autografo. Solo il restauro del quadro e la scoperta della firma dell'autore valse a ristabilire la verità.

Un altro suo dipinto, La toletta di Venere (fig. 02), firmato F. Manzini e datato 1699, già nella raccolta

D'Avalos, è stato da me pubblicato nel 6° tomo del Secolo d'oro della pittura napoletana (pagg. 400 -

409). In questa tela di grandi dimensioni (292 x 216) egli ricalca una composizione di Guido Reni, della quale esistono più versioni. L'esecuzione di "quattro figure muliebri a grandezza del naturale", pur ricalcando il modello del grande maestro emiliano, mostra in alcuni personaggi, come il Cupido e l'ancella di centro, caratteri stilistici propri dell'educazione artistica del Manzini, che fortemente risentiva degli esempi del Solimena.

Il San Bartolomeo in esame (128 x 101), recante sul retro della tela firma e data (fig. 03), è copia di qualità eccellente dal Martirio di San Bartolomeo (fig. 04) collocato cronologicamente nella fase matura dell'attività del Preti e di cui esistono altre formulazioni del prototipo, tra cui la più nota nel coro della chiesa di San Silvestro al Quirinale a Roma, mentre a Cagliari nella chiesa di San Sepolcro è sito un San Nicola in preghiera davanti alla Madonna (fig. 05), eseguito nel 1707.

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Dal Preti Manzini derivò i caratteri precipui del suo stile, caratterizzato da eleganza e classicità della forma.

La scoperta del San Bartolomeo è una conferma di un alunnato del Manzini presso il Preti, per una stesura identica a quella delle opere tarde del Cavaliere calabrese e costituisce un importante tassello per la ricostruzione del suo catalogo

fig. 01

fig. 02

fig. 03

fig. 04

fig. 05

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Cap.6

Un disegno inedito di Aniello Falcone

Per il Falcone la pratica del disegno costituisce un proficuo esercizio che lo impegna quotidianamente, sia per studi preliminari ai suoi dipinti ed ai suoi affreschi, sia per realizzare fogli, spesso a sanguigna, destinati ad essere commerciati. A differenza dei dipinti, raramente firmati o siglati, la produzione su carta è quasi costantemente accompagnata dalla firma per esteso, segno che, dopo essere serviti allo studio preliminare, i fogli passavano sul mercato. I soggetti rappresentati erano i più vari, dalle accademie alle battaglie ed anche disegni di paesaggio, molti dei quali vennero acquistati da don Gasparo De Haroy Guzman, meglio conosciuto come marchese del Carpio, vicerè a

Napoli al tempo di Carlo II re di Spagna; sicuramente di sua proprietà era un Paesaggio con un mulino, una sanguigna oggi in collezione privata a Somerset, che oltre alla firma ”A. falcone” porta iscritto sulla montatura “del marchese del Carpio”, mentre soggetti simili sono costituiti dalla Casa sul mare e Scogli in riva al mare entrambi conservati nel Gabinetto dei disegni agli Uffizi. Il nobile possedeva ben trenta volumi di grafica antica e contemporanea, dei quali quattro album sono presso la Biblioteca Nazionale di Madrid, mentre gran parte è andata dispersa, come un prezioso taccuino esitato nel 1964 alla Christie’s di Londra, dal quale proveniva il disegno precedentemente descritto. Il materiale conservato in Spagna è quasi tutto inedito e dovrebbe costituire il punto di partenza per un avanzamento degli studi sull’artista, perché soltanto dall’esame dei disegni e da una più attenta lettura degli affreschi si può ricavare una bussola per identificare dipinti di Falcone non battaglista.

Il De Dominici mostra di conoscere e di apprezzare i disegni di Falcone quando afferma che “aggiunge alla forza di Ribera la dolcezza di Guido”. Alcuni esiti della sua applicazione possiedono uno straordinario vigore ed uno stupefacente impatto visivo come il famoso Ritratto di Masaniello di cui parleremo più avanti, conservato alla Pierpont Morgan Library, secondo il Saxl un adattamento di un disegno di Leonardo da Vinci, eseguito in vista della realizzazione della Battaglia di Anghiari.

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Alla figura del Falcone va strettamente riferita quella di Andrea Di Lione, anch’egli valente battaglista, interessato alla grafica nella stessa ottica ed a sua volta proprietario, come si evince dal suo testamento di numerosi disegni dei suoi colleghi. E’ difficile, come vedremo, la distinzione delle battaglie dei due pittori, analoga difficoltà si incontra nell’attribuire i disegni, tenendo conto, come ha sottolineato la Causa Picone, che la linea di demarcazione tra gli elaborati grafici del Falcone e del

Di Lione si presenta più evidente e sensibile negli studi per i dipinti, impercettibile invece nelle accademie di nudo. Tale sottile distinguo non è stato ancora affrontato dalla critica, anche se si può affermare che i disegni del Falcone sono più dinamici ed impregnati di vigore naturalistico, mentre il

Di Lione appare più compendiario e con un’eco più flebile.

Una importante aggiunta al già cospicuo catalogo dell'artista è costituito da un disegno(fig. 01) delle

Galerie De Bayser di Parigi, firmato "An. Falcone", il quale rappresenta lo studio di un pittore, con un artista intento al cavalletto, un personaggio che ammira il suo lavoro ed un avventore, elegantemente vestito, pronto ad acquistare una nuova opera. La grafia è quella che caratterizza lo stile dell'Oracolo delle battaglie, il quale, oltre a studi preparatori per i suoi dipinti, eseguiva disegni autonomi molto richiesti dalla committenza.

fig. 01

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