A T T I DELLA

SOCIETÀ DEI NATURALISTI E MATEMATICI DI

Vol. CXLII 2011 Atti della Società dei Naturalisti e Matematici di Modena è una rivista annuale, fondata nel 1866, che pubblica articoli originali riguardanti discipline scientifiche e ambientali (con particolare riguardo alla Regione Emilia-Romagna e all’Italia) e gli atti sociali. La rivista viene distribuita gratuitamente ai Soci e alle Società e Accade- mie corrispondenti, italiane e straniere, in tutte le parti del mondo. La rivista è indicizzata da: Bibliography and Index of Geology (USA), Biological Abstracts (USA), Chemical Abstracts (USA), Zoological Record (Gran Bretagna) e Referativnyi Zhurnal (Russia). Consiglio Direttivo (2011-2013) Presidente: Prof. Roberto Bertolani Consiglieri: Prof. Ivano Ansaloni, Dott. Fabrizio Buldrini, Prof.ssa Franca Cattelani, Prof. Alessandro Gualtieri, Prof. Giampiero Ottaviani, Prof. Paolo Zannini. Revisori dei Conti: Prof. Gilberto Coppi, Prof.ssa Lucrezia Mola, Dott.ssa Patrizia Tarugi. Norme per l’accettazione degli articoli Le comunicazioni sottomesse agli Atti della Società dei Naturalisti e Matematici di Modena per la pubblicazione, dopo che la Redazione abbia verificato la loro perti- nenza con gli ambiti disciplinari della rivista, saranno sottoposte al giudizio di uno o due referee esterni, che valuteranno i lavori sia sotto l’aspetto dei contenuti sia sotto quello formale ed esprimeranno il loro parere vincolante circa l’accettabilità dei lavo- ri stessi. Gli articoli presentati in inglese e gli Abstract saranno inoltre sottoposti a controllo linguistico da parte di docente madrelingua. Settori disciplinari e relativi revisori scientifici Meteorologia, Climatologia: Prof. Dino Zardi (Università di Trento), Dr. Paolo Fron- tero (ARPA Veneto) Scienze della Terra: Prof. Claudio Tellini (Università di Parma), Dr. Alessandro Pasuto (C.N.R.–IRPI, Padova) Botanica, Agraria: Dr.ssa Claudia Angiolini (Università di ), Dr.ssa Laura Sadori (Sapienza Università di Roma) Zoologia, Ecologia: Prof.ssa Annamaria Volpi Ghirardini (Ca’ Foscari Università di Venezia), Prof. Vincenzo Vomero (Direttore Musei Scientifici di Roma) Matematica: Prof. Sergio Invernizzi (Università di Trieste) Fisica: Prof.ssa Marisa Michelini (Università di Udine) Chimica, Scienze Farmaceutiche: Prof. Gabriele Caviglioli (Università di Genova) Archeologia, Antropologia: Dr. Marco Bettelli (C.N.R.–ICEVO, Roma), Dr. Ales- sandro Vanzetti (Sapienza Università di Roma) Lingua Inglese: Prof.ssa Andrea Mary Lord (Università di Modena e Reggio Emilia)

ISSN 0365 - 7027 Autorizzazione del Tribunale di Modena n. 387 del 10 agosto 1962 Direttore Responsabile: Giovanni Tosatti Redazione: Atti della Società dei Naturalisti e Matematici di Modena Largo S. Eufemia 19, 41121 Modena, Italia sito web: www.socnatmatmo.unimore.it e-mail: [email protected] Atti Soc. Nat. Mat. Modena 142 (2011)

Luca Lombroso*

Annuario delle osservazioni meteoclimatiche del- l’anno 2011 registrate dall’Osservatorio Geofisico di Modena

Riassunto L’articolo illustra i dati meteorologici giornalieri rilevati dall’Osservatorio Geofisico dell’Università di Modena e Reggio Emilia nel 2011. La tradizionale pubblicazione dei dati avviene anche que- st’anno in forma ridotta limitandosi alle sole schede mensili con i dati giornalieri della stazione sto- rica dell’Osservatorio, ubicato sul torrione orientale del Palazzo Ducale di Modena, poiché persi- stono problemi alla dotazione strumentale e di personale dell’Osservatorio.

Abstract The daily meteorological data recorded in 2011 by the Geophysical Observatory of Modena and Reggio Emilia University () are illustrated. Also this year the traditional publication of these data is presented in a concise form owing to persisting problems concerning the instrumental equip- ment and the reduction of funds and staff.

Parole chiave: meteorologia, climatologia, Modena

Key words: meteorology, climatology, Modena, Italy

* Osservatorio Geofisico, Dipartimento di Ingegneria dei Materiali e dell’Ambiente, Università degli Stu- di di Modena e Reggio Emilia, Via Vignolese 905, 41125 MODENA, e-mail: [email protected] 6 L. Lombroso

Presentazione In questo articolo vengono pubblicati i dati meteorologici giornalieri rile- vati dall’Osservatorio Geofisico dell’Università di Modena e Reggio Emilia che dal 1830 raccoglie regolarmente i dati meteoclimatici presso il torrione di levante del Palazzo Ducale di Modena (Fig. 1). Le osservazioni di Modena vantano oltre 180 anni di misure meteoclimatiche e costituiscono una delle serie storiche più lunghe d’Italia. Dal 1896 e fino al 1999 l’Osservatorio Geofisico ha pubblicato i dati in uno specifico “annuario”, da diversi anni ospitato anche dagli “Atti” della Società dei Naturalisti e Matematici di Modena, dove in passato ne veniva pubblicato un riassunto. Anche quest’anno, purtroppo, proseguono gravi problemi alla dotazione stru- mentale e di personale dell’Osservatorio a causa dei tagli economici ministeria- li ai comparti scuola, università e ricerca. Nel 2011 le misure e le osservazioni sono proseguite facendo veramente ogni sforzo e sostenendo, in parte personal- mente dall’autore, alcune spese urgenti per non interrompere la prestigiosa e lunga serie storica in occasione di guasti improvvisi e in attesa che si sopperis- se con l’intervento e il sostegno, finora mai mancato, dell’Ateneo modenese e, in particolare, del Dipartimento di Ingegneria dei Materiali e dell’Ambiente. Tuttavia i tempi degli eventi meteoclimatici sono più veloci dei tempi di reperi- mento dei fondi e dell’attivazione delle sempre più complesse procedure ammi- nistrative e, soprattutto in epoca di cambiamenti climatici, la perdita di dati e l’interruzione di lunghe serie storiche costituirebbe un danno incalcolabile. Negli ultimi mesi la situazione dà segni di miglioramento: è stata installa- ta una nuova, veloce ed efficiente linea a fibre ottiche per collegare l’Osservatorio all’Ateneo e si sta provvedendo alla collocazione di una nuova stazione meteorologica automatica. Già da diversi anni l’Osservatorio è presente in rete (vedi www.ossgeo.unimore.it e www.museoastrogeo.unimore.it), come già era stato auspicato nel lontano 1881 dal famoso meteorologo Domenico Ragona1 (cfr.

1 Domenico Ragona (1820-1892), fisico e meteorologo, studiò all’Università di e privatamente con lo zio, il fisico Domenico Scinà. Dopo avere ottenuto ancora giovanissimo il posto di professore aggiunto di Fisica all’Università di Palermo, assunse nel 1850 la direzione dell’Osservatorio Astronomico di Paler- mo. Fra il 1850 e il 1853 Ragona soggiornò presso l’Osservatorio di Berlino e lì ordinò per l’Osservatorio di Palermo un equatoriale di Merz da 22 cm di diametro ed un cerchio meridiano di Pistor e Martins, rin- novando così completamente la dotazione strumentale dell’osservatorio siciliano, che era rimasta immuta- ta dai tempi dell’astronomo Giuseppe Piazzi (†1826). Nel 1860, a seguito dell’unificazione del Regno d’I- talia, Ragona, che era dichiaratamente borbonico, fu rimosso dall’incarico e per tre anni rimase a disposi- zione del Ministero della Pubblica Istruzione. Nel 1863 fu inviato a dirigere l’Osservatorio di Modena dove trascorse il resto della sua vita. Di Ragona rimangono numerose pubblicazioni di meteorologia. Annuario delle osservazioni meteoclimatiche dell’anno 2011... 7

Ragona, il meteografo elettrico e le previsioni meteo. In: L. Lombroso & S. Quattrocchi “L’Osservatorio di Modena, 180 anni di misure meteoclimatiche”, 2008, pag. 30). Il valore e l’insostituibilità delle serie storiche e delle misure è stato recen- temente ribadito anche da Milly et al. (2008). Guardiamo pertanto con fiducia al futuro continuando ciò che è stato fatto in passato, citando ancora una volta Ragona: “Noi dobbiamo essere ben lieti della nostra contribuzione in vantag- gio della meteorologia, perché trasmetteremo ai nostri posteri ciò che ci hanno trasmetto i nostri antenati, cioè una miriade di osservazioni ed un’im- mensa copia di documenti meteorologici”.

Fig. 1 – Il torrione di levante del Palazzo Ducale di Modena, imbiancato dopo la grande nevica- ta di gennaio-febbraio 2012, visto dalla Torre Ghirlandina. L’intera parte superiore del torrione e altri locali sotto alla balaustra furono assegnati dal duca Francesco IV d’Este, con decreto chirografo del 14 gennaio 1826, all’Università di Modena per quello che allora era l’Osservatorio Astronomico, oggi Osservatorio Geofisico (foto S. Lugli) 8 L. Lombroso

Riepilogo dei principali dati meteorologici dell’anno 2011

2011 Min storico Max storico Media 1971-2000 Temperatura media annua (°C) 15,8 11,8 (1881) 15,9 (2007) 13,8 Media delle temperature minime 12,3 7,1 (1879) 12,2 (2007) 10,3 Media delle temperature massime 19,3 15,9 (1861) 19,5 (2007) 17,2 Giorno più caldo (massimo di 37,4 30,6 38,5 34,3 temperatura massima) (°C) (26/08/2011) (14/07/1912) (29/07/1983) Giorno più freddo (minimo di -2,2 -15,5 -1,0 -5,3 temperatura minima) (°C) (03/02/3011) (11/01/1985) (24/12/2008) Precipitazioni totali (mm) 389,7 305,4 (1834) 1153,3 (1839) 617,2 Giorno più piovoso dell’anno (mm) 33,8 21,1 165,4 48,6 (26/10/2011) (16/11/1837) (05/10/1990) Numero di giorni con precipitazioni 87 57 (1847) 160 (1960) 101 misurabili (prec.>0 mm) cm neve fresca (anno 2011) 11 0 (2007) (1) 252 (1844) 25 cm neve fresca (inv. 2010/11) 26 0 (2006/07) (1) 242 (1844/45) 26 Numero giorni con neve misurabile 3 0 (2007) (1) 23 (1895) 5 (anno 2011) Numero di giorni con neve misurabile 6 0 (2006/07) (1) 25 (1894/95) 5 (inv. 2010/11) Max neve giornaliera (2011) 8 (30/01/2011) 0 (vari) 89 (14/12/1844) – Max neve giorn. (inv. 2010/11) 8 (30/01/2011) 0 (vari) 89 (14/12/1844) – Vento: velocità max in km/h 87 67 (08/10/1988) 112 (24/07/2004) – (29/06/2011) (1) Vari anni: è indicato l’ultimo

Tab. 1 – Riepilogo dei principali dati meteoclimatici del 2011 registrati presso l’Osservatorio Geofisico posto nel torrione di levante del Palazzo Ducale di Modena

Andamento dei principali dati meteorologici nell’anno 2011

Fig. 2 – Andamento annuale delle temperature minime e massime giornaliere nel 2011 e con- fronto con i valori medi giornalieri (periodo 1971-2000) Annuario delle osservazioni meteoclimatiche dell’anno 2011... 9

Fig. 3 – Temperature medie mensili del 2011 a confronto con la media climatologica (1971- 2000) e con la più recente media trentennale 1981-2010

Fig. 4 – Precipitazioni giornaliere cumulate nel corso del siccitoso anno 2011 confrontate con l’andamento annuale climatologico e con l’opposto, piovoso anno 2010 10 L. Lombroso

Fig. 5 – Precipitazioni mensili del 2011 confrontate con il valore medio del periodo 1971-2000

Fig. 6 – Precipitazioni nevose mensili del 2011 confrontate con il valore medio 1971-2000 a.2– Aggiornamento delleprincipalitabelledellibro “L’Osservatorio diModena:180anni – 2 Tab. (2008) “L’Osservatorio diModena:180annimisure meteoclimatiche” Aggiornamento delleprincipalitabelledeivalori mensilidellibro Annuario delleosservazionimeteoclimatiche dell’anno2011... di misure meteoclimatiche”: riepiloghi mensilidell’anno2009

Osservatorio Geofisico di Modena – aggiornamento dei dati del 2011 GEN FEB MAR APR MAG GIU LUG AGO SET OTT NOV DIC Media/somma Data estremo Min Tmin °C -0,8 -2,2 1 7,9 10,2 16,1 16,7 19,2 15,8 6,3 0,7 -1,1 -2,2 -0,8 Max Tmax °C 9,5 13,8 21,1 30 29,3 32 33,8 37,4 31,7 27,9 19,3 12,4 37,4 9,5 Med Tmin °C 2,1 3,8 7,2 12,7 15,6 19,3 20,9 23,4 20,5 11,8 6,8 3,8 12,3 2,1 Med Tmax °C 5,5 9,7 13,6 21,3 25,1 27,2 29,5 32,4 28,1 18,6 11,8 8,3 19,3 5,5 Med Tmed °C 3,8 6,8 10,4 17,0 20,4 23,3 25,2 27,9 24,3 15,2 9,3 6,0 15,8 3,8 N.gg Tmax 0 °C - 0 0 0 0 0 0 0 0 0 0 0 0 0,0 0 N.gg Tmin 0 °C - 2 3 0 0 0 0 0 0 0 0 0 1 6,0 2 Somma P mm mm 29,4 58,3 46,9 12,3 31,7 77,2 11,2 0 12,2 79,6 15,5 15,4 389,7 29,4 Max P mm giorn. mm 12,9 16 14,2 6,1 15,8 24,3 7,6 0 5,3 33,8 7 5,8 33,8 12,9 N.gg Pmm>0 e Pmm<1 - 3 2 3 5 3 1 2 0 0 2 9 3 33,0 3 N.gg Pmm 1mm - 5 6 9 3 2 10 3 0 4 5 3 4 54,0 5 N.gg "pioggia" >0 mm 8 8 12 8 5 11 5 0 4 7 12 7 87,0 8 Somma H neve cm 8 0 3 0 0 0 0 0 0 0 0 0 11,0 8 Massimo H neve cm 8 0 2 0 0 0 0 0 0 0 0 0 8,0 8 N.gg neve - 1 0 2 0 0 0 0 0 0 0 0 0 3,0 1 Somma GG>10 °C - Somma GG<20 °C - Media Pressione hPa 1014,0 1011,3 1014,8 1010,0 1010,9 1008,6 1001,6 1004,8 1007,0 1011,2 1014,0 1008,6 1009,7 1014,0 Radiazione solare MJ/m2 43,3 145,1 292,9 488,3 708,2 602,7 642,3 554,9 332,6 221,7 88,9 29,3 4150,1 43,3 Umidità media % 85,7 78,4 66,9 50,8 46,3 59,9 48,7 42,0 53,1 60,3 82,4 75,7 62,5 85,7 Vento Max km/h 54,4 51,1 54,0 56,2 82,1 86,8 58,7 62,8 53,1 49,9 40,2 59,5 86,8 54,4 Eliofania ore N.gg Temporali N.gg Grandine Giorni sereni Giorni coperti Giorni nebbia N. gg 30 °C 0 0 0 1 0 9 14 27 9 0 0 0 60,0 0 11 12 a.3– Riepilogo dellemedieedestremi delleprincipalitabelledellibro “L’Osservatorio di – Tab. 3

1830-2007) Modena: 180annidimisure meteoclimatiche” (gliestremi sonoriferitiall’intera serie Osservatorio Geofisico di Modena – riepilogo dei dati climatologici 1971-2000 GEN FEB MAR APR MAG GIU LUG AGO SET OTT NOV DIC Media/somma Data estremo Min Tmin (*) °C -15,5 -14 -6,1 -0,7 1,1 6,1 10,2 10,4 4,1 -1,4 -8,5 -14,6 -15,5 11/01/1985 Max Tmax (*) °C 22,4 21,9 25,8 28,6 33,4 36,6 38,5 37,9 34,6 29,9 22,8 21,2 38,5 29/07/1983 Med Tmin °C 0,8 2,4 5,5 8,9 13,7 17,3 20,1 20,1 16,3 11,4 5,7 1,8 10,3 - Med Tmax °C 5,3 7,9 13 16,8 22,1 26,1 29,2 28,6 24 17,4 10,2 6 17,2 - Med Tmed °C 3,0 5,1 9,3 12,8 17,9 21,7 24,7 24,3 20,2 14,4 8 3,9 13,8 - N.gg Tmax 0°C - 1,6 0,3 0,1 0 0 0 0 0 0 0 0 0,9 2,8 - N.gg Tmin 0°C - 11,6 6,4 1,5 0 0 0 0 0 0 0 1,5 8,9 30 - Somma Pmm mm 40,5 36 45,2 56,6 52,9 51,1 37,7 52,3 58,5 79,5 61,9 45,1 617,2 - Max Pmm giorn.(*) mm 44,2 79 80,2 66,8 62,8 84,7 77,7 99,6 78,7 165,4 72,6 92,6 165,4 05/10/1990 N.gg Pmm>0 e Pmm<1 - 2,8 2,3 2,1 2,5 2,5 2,2 1,5 1,7 1,6 2,8 2,7 3,9 28,6 - N.gg Pmm 1mm - 5,8 5,3 5,8 8,3 7,8 5,9 3,9 4,6 5,1 7,3 7 5,4 72,1 - N.gg "pioggia">0 mm 8,6 7,6 7,9 10,8 10,3 8,1 5,4 6,3 6,7 10,1 9,7 9,3 100,7 - Somma H neve cm 10,2 4,3 2,6 0,5 0 0 0 0 0 0 3,1 4,1 24,8 - Massimo H neve (*) cm 80 43 40 15 10 0 0 0 0 0 26 89 89 14/12/1844 N.gg neve - 1,8 0,9 0,5 0 0 0 0 0 0 0 0,5 1 4,8 - Somma GG>10°C - 0,4 2,5 30,4 92,5 245,1 350,4 454,3 443 304,9 140,9 16,4 0,2 2081 - Somma GG<20°C - 526,4 420,4 332,5 214,7 78,5 16,3 1,5 2,9 32,1 175,1 360,5 499,3 2660,1 - Media Pressione hPa 1011,5 1009,6 1007,9 1004,8 1006,2 1006,9 1007,2 1007,3 1008,8 1009,7 1009,6 1010,7 1008,4 - Radiazione solare MJ/m2 120,1 168,8 287,3 357,4 518,7 534,5 594,2 493,4 328,1 229,2 126 109,9 3713,1 - Umidità media % 78,4 70,6 63,1 61,9 58,9 56,1 52,7 56,2 62,6 73,9 78 78,7 65,8 - Vento Max (*) km/h 100 96 106 95 93 105 112 106 92 76 90 82 112 24/07/2004 Eliofania ore 94,8 122,1 169 206,8 252 291,9 336,2 309,1 223,3 161,6 95,2 80,2 2328,8 - N.gg Temporali (**) 0,18 0,29 0,59 1,47 3,18 3,59 4 3,88 2,53 1,47 0,53 0,41 22,12 - N.gg Grandine 0 0 0,07 0,07 0,64 0,5 0,21 0,21 0,07 0,14 0,07 0 1,53 -

Giorni sereni 5,8 5,9 6,3 5 5,7 6,8 12,6 11,9 8,2 6,1 3,9 5 83,2 - L. Lombroso Giorni coperti 14 9,5 6,7 8 6 3,2 1,5 2,2 3,6 8,9 13,2 14,1 91,1 - Annuario delle osservazioni meteoclimatiche dell’anno 2011... 13

Bibliografia

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Dipartimento di Ingegneria dei Materiali e dell'Ambiente Università degli studi di Modena e Reggio Emilia

Osservatorio Geofisico Piazza Roma 22 - Modena - lat.N.44° 38' 50.76'' - long.E 10° 55' 45.50'' gennaio 2011

Neve VelVento VelVento Tmax Tmed2 PressMe Prec Tot Fresca Med DirVento Max Rad.sol Tmin (°C) (°C) (°C) d (hPa) Umed (%) (mm) cm (km/h) domin. (km/h) MJ/m2 1-01-2011 2,6 5,4 4,0 1013,2 85,7 0,0 0,0 0,0 NW 10,4 0,442 2-01-2011 2,7 5,3 4,0 1009,2 91,0 0,0 0,0 0,2 W 20,5 0,136 3-01-2011 2 6,9 4,5 1014,9 67,0 0,0 0,0 9,1 E 27,4 3,899 4-01-2011 0,3 3,4 1,9 1014,7 76,3 0,0 0,0 2,8 E 15,1 2,225 5-01-2011 1,1 2,9 2,0 1015,0 75,0 0,0 0,0 0,0 N 10,8 0,112 6-01-2011 1,6 3,4 2,5 1015,6 81,0 0,0 0,0 5,6 NW 17,6 0,152 7-01-2011 2,2 4,4 3,3 1018,6 87,7 0,0 0,0 0,0 N 7,6 0,151 8-01-2011 2,9 5,6 4,3 1016,7 91,3 0,0 0,0 2,4 NW 22,7 0,730 9-01-2011 2,8 4,3 3,6 1016,3 97,7 0,0 0,0 2,2 E 14,4 0,115 10-01-2011 3,2 6 4,6 1013,7 99,0 3,0 0,0 8,3 NW 23,8 0,121 11-01-2011 5,6 9,1 7,4 1007,8 93,3 1,3 0,0 6,4 W 22,3 0,374 12-01-2011 3,8 6,8 5,3 1014,0 97,7 0,0 0,0 3,0 W 20,5 0,429 13-01-2011 2,4 9,5 6,0 1012,2 93,3 0,0 0,0 3,8 NW 20,5 3,530 14-01-2011 3,8 4,8 4,3 1015,1 100,0 0,0 0,0 2,2 E 12,6 0,115 15-01-2011 4,1 8,5 6,3 1018,7 96,7 0,0 0,0 8,3 N 31,3 0,640 16-01-2011 3,6 6,3 5,0 1024,5 98,7 0,0 0,0 6,7 NW 23,0 0,117 17-01-2011 1,9 4,9 3,4 1022,0 98,0 0,0 0,0 6,6 W 19,1 1,176 18-01-2011 1,1 5,2 3,2 1019,1 97,3 0,0 0,0 2,0 N 13,7 2,629 19-01-2011 0,7 2,8 1,8 1015,3 100,0 0,0 0,0 0,7 E 16,2 0,116 20-01-2011 2,5 5 3,8 1013,5 94,7 9,3 0,0 5,3 0,123 21-01-2011 3 5,1 4,1 1015,1 73,7 0,0 0,0 16,6 NW 54,4 0,117 22-01-2011 1,3 4,8 3,1 1014,1 69,3 0,0 0,0 5,5 W 38,2 1,609 23-01-2011 0,1 5,7 2,9 1013,3 62,3 0,0 0,0 3,4 W 19,8 5,586 24-01-2011 -0,4 6,6 3,1 1012,5 58,7 0,0 0,0 7,7 SW 24,1 5,698 25-01-2011 -0,8 5 2,1 1010,2 74,7 0,0 0,0 4,6 NW 20,5 4,874 26-01-2011 0,8 6,3 3,6 1004,2 78,0 0,0 0,0 3,8 E 25,9 4,747 27-01-2011 3 6 4,5 1007,0 83,0 2,1 0,0 4,6 NW 19,4 0,369 28-01-2011 3,1 6,9 5,0 1010,8 79,3 0,5 0,0 5,0 NE 36,7 1,231 29-01-2011 1,9 4,8 3,4 1013,1 71,0 0,1 0,0 0,0 SW 17,6 0,742 30-01-2011 1,5 2,7 2,1 1010,8 96,0 12,9 8,0 3,0 W 15,8 0,122 31-01-2011 2 5,8 3,9 1013,9 90,3 0,2 0,0 4,3 W 20,9 0,849 1° decade 2,1 4,8 3,5 1014,8 85,2 3,0 0,0 3,1 27,4 8,1 2° decade 3,0 6,3 4,6 1016,2 97,0 10,6 0,0 4,5 31,3 9,2 3° decade 1,4 5,4 3,4 1011,4 76,0 15,8 8,0 5,3 54,4 25,9 MESE 2,1 5,5 3,8 1014,0 85,7 29,4 8,0 4,3 54,4 43,3 Min -0,8 2,7 1,8 1004,2 58,7 0,0 0,0 0,0 7,6 0,1 Max 5,6 9,5 7,4 1024,5 100,0 12,9 8,0 16,6 54,4 5,7 Dev.St. 1,4 1,7 1,3 4,1 12,3 2,8 1,4 3,5 9,3 1,8 Annuario delle osservazioni meteoclimatiche dell’anno 2011... 15

Dipartimento di Ingegneria dei Materiali e dell'Ambiente Università degli studi di Modena e Reggio Emilia

Osservatorio Geofisico Piazza Roma 22 - Modena - lat.N.44° 38' 50.76'' - long.E 10° 55' 45.50'' febbraio 2011

Neve VelVento VelVento Tmed2 PressMed Prec Tot Fresca Med DirVento Max Rad.sol Tmin (°C) Tmax (°C) (°C) (hPa) Umed (%) (mm) cm (km/h) domin. (km/h) MJ/m2 1-02-2011 0,2 4,1 2,2 1016,2 98,0 0,1 0,0 4,3 NW 14,8 1,400 2-02-2011 -1,6 2,5 0,5 1016,7 97,3 0,0 0,0 6,8 NW 23,0 4,122 3-02-2011 -2,2 7,9 2,9 1019,3 86,0 0,0 0,0 5,6 W 18,7 6,315 4-02-2011 0,3 9,4 4,9 1022,5 65,3 0,0 0,0 9,7 W 15,5 7,653 5-02-2011 3,6 13 8,3 1020,8 57,3 0,0 0,0 W 16,9 7,818 6-02-2011 2,5 13 7,8 1020,9 71,0 0,0 0,0 2,5 W 14,0 7,989 7-02-2011 4,5 13,2 8,9 1018,9 66,7 0,0 0,0 1,1 W 16,2 8,217 8-02-2011 4,7 13,1 8,9 1014,2 68,3 0,0 0,0 3,6 W 14,0 7,699 9-02-2011 4,3 11,9 8,1 1015,3 75,3 0,0 0,0 6,7 W 22,0 6,459 10-02-2011 4,7 11,8 8,3 1016,2 75,0 0,0 0,0 1,1 NW 20,9 6,771 11-02-2011 5,4 12,9 9,2 1013,6 67,7 0,0 0,0 6,1 SW 17,3 7,479 12-02-2011 5,8 13,8 9,8 1010,5 70,7 0,0 0,0 6,7 SW 24,8 7,864 13-02-2011 7,3 10,1 8,7 1008,2 88,3 0,0 0,0 5,8 E 17,3 0,454 14-02-2011 7,8 9,8 8,8 1005,2 92,3 0,0 0,0 NE 10,4 0,392 15-02-2011 7,6 11,7 9,7 999,3 87,3 0,0 0,0 12,8 E 36,4 2,694 16-02-2011 7,1 9 8,1 992,8 98,7 12,9 0,0 17,8 E 51,1 0,128 17-02-2011 6,9 10 8,5 997,8 92,7 9,6 0,0 10,3 E 33,5 2,112 18-02-2011 7,3 11,4 9,4 1002,0 91,0 0,8 0,0 9,0 W 22,3 2,605 19-02-2011 6,3 13,1 9,7 1005,7 70,7 0,0 0,0 1,4 W 20,9 9,605 20-02-2011 5 9 7,0 1005,7 94,7 4,9 0,0 13,9 E 32,8 0,705 21-02-2011 4,7 10 7,4 1005,5 84,3 3,5 0,0 5,2 E 24,8 2,796 22-02-2011 2 7,8 4,9 1004,5 84,7 0,0 0,0 12,6 E 25,9 4,753 23-02-2011 2,7 7,1 4,9 1013,8 60,0 0,0 0,0 5,6 E 28,1 8,438 24-02-2011 1,7 8,3 5,0 1018,6 58,0 0,0 0,0 9,0 SE 26,3 10,097 25-02-2011 -0,1 8,8 4,4 1016,9 53,0 0,0 0,0 18,9 E 38,5 10,191 26-02-2011 1,3 8,9 5,1 1014,7 53,0 0,0 0,0 W 21,2 10,061 27-02-2011 2,6 5,9 4,3 1008,7 91,0 10,5 0,0 5,8 W 22,0 0,122 28-02-2011 3,1 5,1 4,1 1012,7 96,0 16,0 0,0 8,0 W 24,1 0,127

1° decade 2,1 10,0 6,0 1018,1 76,0 0,1 0,0 4,6 23,0 64,4 2° decade 6,7 11,1 8,9 1004,1 85,4 28,2 0,0 9,3 51,1 34,0 3° decade 2,3 7,7 5,0 1011,9 72,5 30,0 0,0 9,3 38,5 46,6 MESE 3,8 9,7 6,8 1011,3 78,4 58,3 0,0 7,6 51,1 145,1 Min -2,2 2,5 0,5 992,8 53,0 0,0 0,0 1,1 10,4 0,1 Max 7,8 13,8 9,8 1022,5 98,7 16,0 0,0 18,9 51,1 10,2 Dev.St. 2,8 3,0 2,6 7,7 14,9 4,5 0,0 4,7 8,8 3,6 16 L. Lombroso

Dipartimento di Ingegneria dei Materiali e dell'Ambiente Università degli studi di Modena e Reggio Emilia

Osservatorio Geofisico Piazza Roma 22 - Modena - lat.N.44° 38' 50.76'' - long.E 10° 55' 45.50'' marzo 2011

Neve VelVento VelVento Tmed2 PressMed Prec Tot Fresca Med DirVento Max Rad.sol Tmin (°C) Tmax (°C) (°C) (hPa) Umed (%) (mm) cm (km/h) domin. (km/h) MJ/m2 1-03-2011 4,2 9,1 6,7 1014,4 80,3 4,6 0,0 16,8 NE 50,4 2,264 2-03-2011 1 4,2 2,6 1017,9 99,0 2,6 1,0 12,5 E 51,5 0,214 3-03-2011 1,9 3,4 2,7 1020,4 96,0 3,7 2,0 5,6 W 25,2 0,128 4-03-2011 3,2 6,8 5,0 1021,2 95,0 0,1 0,0 8,6 W 21,6 0,540 5-03-2011 4,5 10,8 7,7 1012,2 78,3 0,0 0,0 2,2 W 18,4 5,661 6-03-2011 6 15,6 10,8 1009,9 61,0 0,0 0,0 7,7 E 51,1 12,916 7-03-2011 3,7 7,8 5,8 1025,5 46,7 0,0 0,0 13,0 E 50,4 11,074 8-03-2011 1,4 7,4 4,4 1027,0 51,7 0,0 0,0 4,4 E 25,2 12,600 9-03-2011 1,9 10,3 6,1 1018,3 50,3 0,0 0,0 0,8 SW 22,3 12,943 10-03-2011 3,5 13,6 8,6 1016,0 51,7 0,0 0,0 2,8 SW 18,0 12,166 11-03-2011 5,8 14,2 10,0 1015,8 60,0 0,0 0,0 4,4 E 21,6 11,798 12-03-2011 7,3 14,3 10,8 1013,6 62,7 0,5 0,0 13,3 E 33,8 9,103 13-03-2011 8,2 10,2 9,2 1008,0 99,0 2,7 0,0 16,4 E 31,7 0,296 14-03-2011 8,6 13,3 11,0 1013,7 86,7 1,7 0,0 4,1 2,489 15-03-2011 10,5 12,6 11,6 1010,7 97,3 11,2 0,0 8,5 E 37,4 0,140 16-03-2011 11,3 13,6 12,5 998,1 100,0 14,2 0,0 14,3 E 49,7 0,452 17-03-2011 9,4 15,9 12,7 999,2 87,0 0,1 0,0 1,7 W 30,6 7,019 18-03-2011 9,8 15,8 12,8 1008,0 82,7 0,0 0,0 5,6 W 20,9 7,412 19-03-2011 9,3 16 12,7 1011,6 73,0 0,0 0,0 11,9 E 42,1 10,439 20-03-2011 8 13,6 10,8 1019,6 50,3 0,0 0,0 4,0 E 36,0 16,034 21-03-2011 5,6 11,8 8,7 1023,8 49,3 0,0 0,0 7,9 E 54,0 14,276 22-03-2011 5,7 13,9 9,8 1027,7 50,0 0,0 0,0 7,9 W 28,1 14,054 23-03-2011 7,4 17,6 12,5 1026,9 41,3 0,0 0,0 3,6 SW 16,204 24-03-2011 9 20 14,5 1025,2 39,0 0,0 0,0 1,4 E 16,705 25-03-2011 10,5 21,1 15,8 1014,6 38,3 0,0 0,0 6,4 W 38,5 15,400 26-03-2011 10,4 19,1 14,8 1008,5 41,3 0,0 0,0 0,7 NW 24,5 16,372 27-03-2011 9,9 18,2 14,1 1009,2 53,7 2,1 0,0 0,7 N 20,9 11,116 28-03-2011 11 13,8 12,4 1005,6 93,0 3,4 0,0 7,4 E 21,6 1,805 29-03-2011 11,8 17,4 14,6 1010,0 71,7 0,0 0,0 4,1 E 23,8 14,611 30-03-2011 9,9 19,1 14,5 1010,9 45,7 0,0 0,0 2,0 E 22,3 18,074 31-03-2011 11,5 20,7 16,1 1015,3 43,0 0,0 0,0 2,4 SW 23,4 18,572 1° decade 3,1 8,9 6,0 1018,3 71,0 11,0 3,0 7,4 51,5 70,5 2° decade 8,8 14,0 11,4 1009,8 79,9 30,4 0,0 8,4 49,7 65,2 3° decade 9,3 17,5 13,4 1016,2 51,5 5,5 0,0 4,1 54,0 157,2 MESE 7,2 13,6 10,4 1014,8 66,9 46,9 3,0 6,6 54,0 292,9 Min 1,0 3,4 2,6 998,1 38,3 0,0 0,0 0,7 18,0 0,1 Max 11,8 21,1 16,1 1027,7 100,0 14,2 2,0 16,8 54,0 18,6 Dev.St. 3,3 4,6 3,8 7,6 21,6 3,3 0,4 4,8 12,0 6,3 Annuario delle osservazioni meteoclimatiche dell’anno 2011... 17

Dipartimento di Ingegneria dei Materiali e dell'Ambiente Università degli studi di Modena e Reggio Emilia

Osservatorio Geofisico Piazza Roma 22 - Modena - lat.N.44° 38' 50.76'' - long.E 10° 55' 45.50'' aprile 2011

Neve VelVento VelVento Tmed2 PressMed Prec Tot Fresca Med DirVento Max Rad.sol Tmin (°C) Tmax (°C) (°C) (hPa) Umed (%) (mm) cm (km/h) domin. (km/h) MJ/m2 1-04-2011 13,3 22,8 18,1 1015,7 45,0 0,0 0,0 3,6 SW 21,2 19,291 2-04-2011 13,5 23,3 18,4 1013,2 47,3 0,0 0,0 14,0 E 26,6 19,115 3-04-2011 14,2 23,9 19,1 1008,0 47,3 0,0 0,0 2,5 N 21,2 19,286 4-04-2011 15,2 23,1 19,2 1007,0 52,3 1,6 0,0 5,6 NW 43,6 14,755 5-04-2011 13,2 19,8 16,5 1018,2 48,3 0,0 0,0 10,8 E 32,0 20,993 6-04-2011 13 22,3 17,7 1020,4 39,3 0,0 0,0 4,7 E 30,2 20,233 7-04-2011 14,8 26,5 20,7 1016,0 42,0 0,0 0,0 6,5 W 23,8 20,113 8-04-2011 17,3 27,1 22,2 1008,4 38,7 0,0 0,0 0,7 W 25,2 19,314 9-04-2011 17,4 30 23,7 1006,5 32,0 0,0 0,0 10,8 NW 37,1 21,102 10-04-2011 14,1 23,8 19,0 1010,0 49,3 0,0 0,0 13,1 E 36,7 20,118 11-04-2011 12 24,3 18,2 1012,6 47,7 0,0 0,0 8,2 E 32,8 19,920 12-04-2011 14,9 25,9 20,4 1004,6 36,7 0,0 0,0 11,2 W 56,2 18,143 13-04-2011 9,7 18,3 14,0 1009,6 41,3 0,0 0,0 13,9 SE 47,5 17,708 14-04-2011 9,3 15,1 12,2 1007,6 57,7 3,4 0,0 NE 27,7 4,210 15-04-2011 8,5 13,8 11,2 1009,8 72,0 6,1 0,0 7,4 E 41,4 7,617 16-04-2011 7,9 16,6 12,3 1012,8 51,0 0,0 0,0 8,5 E 36,0 17,560 17-04-2011 9,5 17,4 13,5 1015,6 42,3 0,0 0,0 13,5 NE 41,8 19,890 18-04-2011 9,4 19 14,2 1014,6 40,3 0,0 0,0 9,7 SE 24,5 10,698 19-04-2011 10,5 20,4 15,5 1010,8 41,0 0,0 0,0 13,0 E 28,1 20,073 20-04-2011 11,1 21,3 16,2 1012,5 37,3 0,0 0,0 11,5 E 34,2 20,967 21-04-2011 12,4 23 17,7 1011,4 39,7 0,0 0,0 11,2 E 28,8 20,281 22-04-2011 12,9 22,8 17,9 1007,8 48,7 0,0 0,0 12,1 E 42,5 19,913 23-04-2011 15,1 19,5 17,3 1010,0 61,3 0,3 0,0 1,1 W 22,7 6,305 24-04-2011 14,2 21,5 17,9 1009,6 62,3 0,0 0,0 9,9 E 27,7 15,748 25-04-2011 12,7 21,3 17,0 1008,0 66,3 0,0 0,0 9,9 E 29,2 15,476 26-04-2011 12,6 20,3 16,5 1005,6 69,7 0,1 0,0 12,6 E 32,8 14,653 27-04-2011 12,4 20,9 16,7 1005,4 61,7 0,0 0,0 8,9 NE 33,5 15,642 28-04-2011 13,1 18,1 15,6 1005,1 64,7 0,5 0,0 12,6 W 22,0 6,711 29-04-2011 12,9 19 16,0 1003,1 66,0 0,1 0,0 12,2 NE 43,2 13,358 30-04-2011 13,3 18,1 15,7 1000,3 75,3 0,2 0,0 11,5 E 30,6 9,071

1° decade 14,6 24,3 19,4 1012,3 44,2 1,6 0,0 7,2 43,6 194,3 2° decade 10,3 19,2 14,7 1011,1 46,7 9,5 0,0 10,7 56,2 156,8 3° decade 13,2 20,5 16,8 1006,6 61,6 1,2 0,0 10,2 43,2 137,2 MESE 12,7 21,3 17,0 1010,0 50,8 12,3 0,0 9,3 56,2 488,3 Min 7,9 13,8 11,2 1000,3 32,0 0,0 0,0 0,7 21,2 4,2 Max 17,4 30,0 23,7 1020,4 75,3 6,1 0,0 14,0 56,2 21,1 Dev.St. 2,4 3,6 2,8 4,6 12,0 1,3 0,0 3,9 8,6 5,0 18 L. Lombroso

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Osservatorio Geofisico Piazza Roma 22 - Modena - lat.N.44° 38' 50.76'' - long.E 10° 55' 45.50'' maggio 2011

Neve VelVento VelVento Tmed2 PressMed Prec Tot Fresca Med DirVento Max Rad.sol Tmin (°C) Tmax (°C) (°C) (hPa) Umed (%) (mm) cm (km/h) domin. (km/h) MJ/m2 1-05-2011 12,8 22,6 17,7 998,4 54,0 0,3 0,0 7,0 NW 24,5 24,179 2-05-2011 14,1 23,1 18,6 999,0 57,0 0,0 0,0 8,9 E 45,7 17,111 3-05-2011 15 23,9 19,5 997,3 57,7 0,0 0,0 0,2 W 22,3 19,818 4-05-2011 12 18 15,0 1007,2 76,7 15,8 0,0 14,3 E 60,8 15,023 5-05-2011 10,9 18,5 14,7 1016,7 54,0 0,0 0,0 16,1 E 40,7 24,965 6-05-2011 10,2 20,4 15,3 1019,3 49,0 0,0 0,0 8,5 E 38,9 24,569 7-05-2011 13,2 24 18,6 1015,6 44,0 0,0 0,0 1,6 N 21,6 23,509 8-05-2011 15,4 26,9 21,2 1009,6 38,0 0,0 0,0 11,2 W 82,1 25,661 9-05-2011 12,3 20,5 16,4 1019,7 36,7 0,0 0,0 8,6 E 47,9 25,695 10-05-2011 12,9 23,9 18,4 1020,0 35,3 0,0 0,0 8,9 W 33,1 24,510 11-05-2011 15,3 27,8 21,6 1013,4 31,0 0,0 0,0 2,5 SW 22,0 24,653 12-05-2011 18,2 28,3 23,3 1009,1 35,3 0,0 0,0 8,4 W 28,8 23,839 13-05-2011 19,2 27,1 23,2 1010,9 53,0 0,0 0,0 7,3 W 24,5 21,672 14-05-2011 17,9 27,3 22,6 1008,2 44,3 0,0 0,0 8,3 W 28,8 21,751 15-05-2011 12,1 21,2 16,7 1008,3 82,3 15,3 0,0 10,9 S 49,7 2,123 16-05-2011 10,7 22,5 16,6 1014,4 35,0 0,0 0,0 7,2 NW 27,4 26,907 17-05-2011 13,7 23 18,4 1014,6 38,3 0,0 0,0 9,4 E 30,2 26,007 18-05-2011 15,8 24,1 20,0 1012,9 43,0 0,0 0,0 4,6 E 35,3 23,624 19-05-2011 15,7 25,7 20,7 1011,6 44,7 0,0 0,0 4,6 E 32,4 25,735 20-05-2011 17,5 27,6 22,6 1012,1 40,7 0,0 0,0 4,8 W 31,3 24,177 21-05-2011 18,6 27,2 22,9 1012,0 42,0 0,0 0,0 1,9 E 29,5 23,881 22-05-2011 18,1 27,9 23,0 1011,5 40,3 0,0 0,0 3,2 N 21,6 25,862 23-05-2011 19,7 28,4 24,1 1014,7 43,7 0,0 0,0 14,6 E 40,7 25,464 24-05-2011 20 29,3 24,7 1013,5 42,7 0,0 0,0 6,6 E 26,6 25,667 25-05-2011 21,1 29,2 25,2 1013,9 48,3 0,0 0,0 10,9 E 40,7 24,561 26-05-2011 19,8 29 24,4 1010,2 47,3 0,0 0,0 14,4 E 31,3 25,922 27-05-2011 17,3 28,6 23,0 1004,0 40,3 0,1 0,0 11,3 SW 73,4 11,127 28-05-2011 16,1 23,4 19,8 1007,3 42,3 0,2 0,0 11,8 E 53,3 27,533 29-05-2011 14,9 24,7 19,8 1012,4 45,3 0,0 0,0 12,7 E 33,1 26,750 30-05-2011 17,7 26,8 22,3 1011,8 43,7 0,0 0,0 9,8 E 32,8 27,038 31-05-2011 16,6 27,3 22,0 1008,0 48,0 0,0 0,0 7,8 NE 36,7 18,889 1° decade 12,9 22,2 17,5 1010,3 50,2 16,1 0,0 8,5 82,1 225,0 2° decade 15,6 25,5 20,5 1011,6 44,8 15,3 0,0 6,8 49,7 220,5 3° decade 18,2 27,4 22,8 1010,8 44,0 0,3 0,0 9,6 73,4 262,7 MESE 15,6 25,1 20,4 1010,9 46,3 31,7 0,0 8,3 82,1 708,2 Min 10,2 18,0 14,7 997,3 31,0 0,0 0,0 0,2 21,6 2,1 Max 21,1 29,3 25,2 1020,0 82,3 15,8 0,0 16,1 82,1 27,5 Dev.St. 3,0 3,2 3,0 5,6 11,0 3,9 0,0 4,1 14,6 5,3 Annuario delle osservazioni meteoclimatiche dell’anno 2011... 19

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Osservatorio Geofisico Piazza Roma 22 - Modena - lat.N.44° 38' 50.76'' - long.E 10° 55' 45.50'' giugno 2011

Neve VelVento VelVento Tmed2 PressMed Prec Tot Fresca Med DirVento Max Rad.sol Tmin (°C) Tmax (°C) (°C) (hPa) Umed (%) (mm) cm (km/h) domin. (km/h) MJ/m2 1-06-2011 18 22,8 20,4 1008,7 78,3 2,6 0,0 0,0 E 30,6 7,829 2-06-2011 16,9 25,6 21,3 1013,5 67,0 0,1 0,0 10,8 NW 25,9 16,429 3-06-2011 19,6 25,7 22,7 1013,8 73,7 8,9 0,0 6,4 NW 55,1 13,930 4-06-2011 19,1 27,1 23,1 1010,0 68,3 3,6 0,0 10,9 W 38,5 19,859 5-06-2011 17,3 25,9 21,6 1005,9 71,3 17,3 0,0 2,4 E 49,7 16,120 6-06-2011 17,1 22,4 19,8 1003,7 82,0 1,9 0,0 11,6 E 26,3 11,856 7-06-2011 16,9 18,6 17,8 1000,3 91,7 24,3 0,0 2,9 NW 19,4 1,497 8-06-2011 16,1 23 19,6 1001,3 79,3 6,6 0,0 5,6 W 42,5 11,266 9-06-2011 17,8 25,3 21,6 1004,4 68,0 2,3 0,0 1,7 NE 24,8 19,012 10-06-2011 17,2 24,6 20,9 1007,0 61,3 0,0 0,0 3,0 N 25,2 22,410 11-06-2011 17,8 23,2 20,5 1007,4 77,7 4,6 0,0 5,4 W 31,7 14,588 12-06-2011 17,8 25,6 21,7 1009,4 61,7 0,0 0,0 13,4 NE 34,9 20,070 13-06-2011 20 23,1 21,6 1009,4 76,0 0,0 0,0 5,4 NE 33,1 11,373 14-06-2011 19 26,8 22,9 1010,1 54,7 0,0 0,0 9,1 NE 24,8 24,310 15-06-2011 19,7 28,3 24,0 1011,4 46,0 0,0 0,0 6,5 E 25,9 26,476 16-06-2011 20,4 30,9 25,7 1009,1 42,7 0,0 0,0 6,2 E 26,6 25,402 17-06-2011 21,6 29,4 25,5 1009,3 45,3 0,0 0,0 4,6 N 20,5 20,511 18-06-2011 21,1 30,1 25,6 1003,0 43,0 0,0 0,0 10,2 S 35,6 19,030 19-06-2011 18,6 28 23,3 1004,6 41,3 0,0 0,0 16,2 NW 38,9 28,121 20-06-2011 17,9 27,5 22,7 1010,5 56,0 0,0 0,0 8,2 E 25,9 24,234 21-06-2011 20,9 30 25,5 1012,6 54,0 0,0 0,0 10,6 E 32,8 24,284 22-06-2011 21,4 31,4 26,4 1010,9 52,7 0,0 0,0 2,9 N 22,0 23,228 23-06-2011 22,4 31,9 27,2 1009,0 46,7 0,0 0,0 10,9 N 37,8 24,751 24-06-2011 21,1 28,5 24,8 1009,2 57,7 0,0 0,0 14,4 E 41,4 22,629 25-06-2011 20,3 27,7 24,0 1015,2 45,3 0,0 0,0 3,1 E 28,4 24,470 26-06-2011 18,7 30,6 24,7 1015,1 41,3 0,0 0,0 8,0 E 31,0 27,707 27-06-2011 19 30,3 24,7 1013,1 53,3 0,0 0,0 12,0 E 30,6 27,034 28-06-2011 22 31,8 26,9 1007,7 49,7 0,0 0,0 8,8 E 36,0 25,841 29-06-2011 21,4 32 26,7 1005,4 54,3 5,0 0,0 12,6 E 86,8 23,538 30-06-2011 21,4 29,1 25,3 1005,6 55,7 0,0 0,0 7,9 W 25,6 24,913

1° decade 17,6 24,1 20,9 1006,9 74,1 67,6 0,0 5,5 55,1 140,2 2° decade 19,4 27,3 23,3 1008,4 54,4 4,6 0,0 8,5 38,9 214,1 3° decade 20,9 30,3 25,6 1010,4 51,1 5,0 0,0 9,1 86,8 248,4 MESE 19,3 27,2 23,3 1008,6 59,9 77,2 0,0 7,7 86,8 602,7 Min 16,1 18,6 17,8 1000,3 41,3 0,0 0,0 0,0 19,4 1,5 Max 22,4 32,0 27,2 1015,2 91,7 24,3 0,0 16,2 86,8 28,1 Dev.St. 1,8 3,4 2,5 3,9 14,0 5,5 0,0 4,2 13,0 6,5 20 L. Lombroso

Dipartimento di Ingegneria dei Materiali e dell'Ambiente Università degli studi di Modena e Reggio Emilia

Osservatorio Geofisico Piazza Roma 22 - Modena - lat.N.44° 38' 50.76'' - long.E 10° 55' 45.50'' luglio 2011

Neve VelVento VelVento Tmed2 PressMed Prec Tot Fresca Med DirVento Max Rad.sol Tmin (°C) Tmax (°C) (°C) (hPa) Umed (%) (mm) cm (km/h) domin. (km/h) MJ/m2 1-07-2011 20,3 26,7 23,5 1003,3 67,7 0,0 0,0 15,0 E 39,2 14,284 2-07-2011 18,3 24,8 21,6 1002,2 50,7 0,3 0,0 10,7 ESE 36,4 19,871 3-07-2011 17,6 28,4 23,0 1001,2 43,7 0,0 0,0 2,7 WSW 10,4 27,502 4-07-2011 20,7 30 25,4 1003,7 48,0 0,0 0,0 3,7 WSW 16,9 18,187 5-07-2011 21,8 27,9 24,9 1002,7 63,3 0,5 0,0 4,3 ESE 15,5 17,076 6-07-2011 19,7 31,4 25,6 1001,6 52,0 0,0 0,0 3,2 E 16,9 23,763 7-07-2011 22,1 32,5 27,3 1003,2 50,0 0,0 0,0 5,4 WNW 12,2 22,674 8-07-2011 23 33,5 28,3 1004,1 50,7 0,0 0,0 5,4 WSW 13,3 22,678 9-07-2011 24,2 31,9 28,1 1008,0 47,3 0,0 0,0 7,5 W 20,9 23,008 10-07-2011 25,1 33,8 29,5 1006,3 49,3 0,0 0,0 8,0 W 21,6 22,825 11-07-2011 24,1 32,8 28,5 1005,4 46,0 0,0 0,0 4,3 NW 16,2 23,337 12-07-2011 25,3 33,7 29,5 1004,7 51,7 0,0 0,0 5,9 E 23,0 22,630 13-07-2011 24,3 33,2 28,8 999,0 61,3 0,0 0,0 8,6 W 20,2 16,308 14-07-2011 25,4 32,9 29,2 1000,8 40,0 0,0 0,0 9,7 NW 23,0 29,928 15-07-2011 23 31,9 27,5 1004,4 38,3 0,0 0,0 9,1 W 23,0 24,232 16-07-2011 21,6 30,7 26,2 1004,0 40,3 0,0 0,0 9,6 W 23,0 20,689 17-07-2011 22,1 31,6 26,9 997,4 38,0 0,0 0,0 8,6 SW 27,7 18,483 18-07-2011 22,4 30,2 26,3 995,4 32,0 0,0 0,0 11,8 W 35,3 24,740 19-07-2011 17,8 29 23,4 996,3 45,3 1,8 0,0 4,8 SW 20,9 13,289 20-07-2011 18,3 28,4 23,4 994,9 44,0 0,0 0,0 18,2 W 58,7 23,792 21-07-2011 19,9 29,4 24,7 996,2 36,7 0,0 0,0 4,8 WSW 24,5 19,475 22-07-2011 20,4 29,6 25,0 997,8 40,3 0,0 0,0 1,6 WSW 12,6 19,723 23-07-2011 19,2 25 22,1 997,4 58,7 1,0 0,0 2,7 NE 15,5 15,562 24-07-2011 17,1 22,4 19,8 997,0 65,7 7,6 0,0 11,8 W 33,1 19,167 25-07-2011 16,7 24,8 20,8 999,1 44,7 0,0 0,0 5,9 ESE 15,1 22,390 26-07-2011 18,1 27,3 22,7 1003,0 43,0 0,0 0,0 4,3 SW 15,1 21,439 27-07-2011 18,2 25,1 21,7 1007,5 58,3 0,0 0,0 3,7 SSE 15,1 8,965 28-07-2011 19,4 27,6 23,5 1005,0 53,3 0,0 0,0 9,6 W 20,9 21,209 29-07-2011 20,9 28,6 24,8 1004,3 49,7 0,0 0,0 7,5 W 25,9 21,049 30-07-2011 20,9 29,9 25,4 1001,6 43,3 0,0 0,0 7,0 W 19,8 23,266 31-07-2011 19,8 28,9 24,4 1001,7 56,7 0,0 0,0 8,6 ESE 18,0 20,766 1° decade 21,3 30,1 25,7 1003,6 52,3 0,8 0,0 6,6 39,2 211,9 2° decade 22,4 31,4 26,9 1000,2 43,7 1,8 0,0 9,1 58,7 217,4 3° decade 19,1 27,1 23,1 1001,0 50,0 8,6 0,0 6,1 33,1 213,0 MESE 20,9 29,5 25,2 1001,6 48,7 11,2 0,0 7,2 58,7 642,3 Min 16,7 22,4 19,8 994,9 32,0 0,0 0,0 1,6 10,4 9,0 Max 25,4 33,8 29,5 1008,0 67,7 7,6 0,0 18,2 58,7 29,9 Dev.St. 2,6 3,0 2,7 3,7 8,8 1,4 0,0 3,8 9,9 4,2 Annuario delle osservazioni meteoclimatiche dell’anno 2011... 21

Dipartimento di Ingegneria dei Materiali e dell'Ambiente Università degli studi di Modena e Reggio Emilia

Osservatorio Geofisico Piazza Roma 22 - Modena - lat.N.44° 38' 50.76'' - long.E 10° 55' 45.50'' agosto 2011

Neve VelVento VelVento Tmed2 PressMed Prec Tot Fresca Med DirVento Max Rad.sol Tmin (°C) Tmax (°C) (°C) (hPa) Umed (%) (mm) cm (km/h) domin. (km/h) MJ/m2 1-08-2011 21,8 30,9 26,4 1003,3 46,0 0,0 0,0 3,2 SSW 25,7 20,283 2-08-2011 21,2 31,4 26,3 1007,1 51,0 0,0 0,0 4,8 NE 22,5 20,999 3-08-2011 23 30,9 27,0 1007,3 47,7 0,0 0,0 3,2 WSW 27,4 12,781 4-08-2011 22,9 31,3 27,1 1004,5 45,0 0,0 0,0 7,0 W 24,1 20,870 5-08-2011 22,3 31,7 27,0 1004,3 58,3 0,0 0,0 11,8 E 33,8 19,635 6-08-2011 22,5 30,3 26,4 1002,1 59,0 0,0 0,0 7,5 NNE 20,9 15,646 7-08-2011 24,2 32,2 28,2 999,5 50,0 0,0 0,0 12,3 W 32,2 13,841 8-08-2011 23,1 33,2 28,2 998,7 42,3 0,0 0,0 13,4 WSW 61,2 16,087 9-08-2011 22,1 26,4 24,3 1005,9 50,7 0,0 0,0 9,6 NE 32,2 14,554 10-08-2011 19,6 28,1 23,9 1011,0 38,3 0,0 0,0 5,9 NE 24,1 20,779 11-08-2011 19,2 29 24,1 1009,1 37,0 0,0 0,0 7,0 E 24,1 22,525 12-08-2011 20,3 30,1 25,2 1003,3 40,3 0,0 0,0 6,4 WSW 25,7 20,905 13-08-2011 22,1 30,9 26,5 1001,2 44,3 0,0 0,0 7,0 WSW 20,9 21,268 14-08-2011 23,1 32,6 27,9 1001,3 44,7 0,0 0,0 6,4 WSW 25,7 20,674 15-08-2011 24,5 30,4 27,5 1002,4 50,7 0,0 0,0 7,0 NW 32,2 15,813 16-08-2011 23,5 31,9 27,7 1006,5 47,0 0,0 0,0 6,4 E 24,1 21,436 17-08-2011 22,5 32,7 27,6 1006,6 44,3 0,0 0,0 6,5 E 27,4 20,285 18-08-2011 24,9 34,4 29,7 1006,9 41,7 0,0 0,0 4,3 NNE 22,5 20,153 19-08-2011 25,9 35,5 30,7 1007,7 37,7 0,0 0,0 5,9 W 29,0 25,099 20-08-2011 26 35,4 30,7 1009,5 43,3 0,0 0,0 4,8 NE 20,9 20,146 21-08-2011 26,2 36,1 31,2 1009,5 43,3 0,0 0,0 4,8 WSW 24,1 20,982 22-08-2011 26,6 36,8 31,7 1008,0 35,7 0,0 0,0 7,0 WSW 29,0 20,480 23-08-2011 26 36,4 31,2 1006,8 32,7 0,0 0,0 5,9 W 20,9 16,755 24-08-2011 26,8 36,5 31,7 1005,5 28,3 0,0 0,0 4,8 WSW 22,5 16,464 25-08-2011 26,4 36,4 31,4 1004,5 31,3 0,0 0,0 7,5 W 29,0 12,933 26-08-2011 25,7 37,4 31,6 1001,8 26,7 0,0 0,0 7,0 WSW 46,7 12,467 27-08-2011 25,4 33,5 29,5 1000,5 23,3 0,0 0,0 20,9 SW 62,8 13,957 28-08-2011 21,8 30,1 26,0 1007,2 39,0 0,0 0,0 9,7 W 29,0 13,403 29-08-2011 21,6 30,9 26,3 1003,2 37,3 0,0 0,0 5,9 WSW 22,5 12,931 30-08-2011 22,2 29,9 26,1 1001,5 40,7 0,0 0,0 7,5 W 24,1 14,200 31-08-2011 22,8 30,4 26,6 1003,1 43,0 0,0 0,0 4,8 W 24,1 16,507 1° decade 22,3 30,6 26,5 1004,4 48,8 0,0 0,0 7,9 61,2 175,5 2° decade 23,2 32,3 27,7 1005,5 43,1 0,0 0,0 6,2 32,2 208,3 3° decade 24,7 34,0 29,4 1004,7 34,7 0,0 0,0 7,8 62,8 171,1 MESE 23,4 32,4 27,9 1004,8 42,0 0,0 0,0 7,3 62,8 554,9 Min 19,2 26,4 23,9 998,7 23,3 0,0 0,0 3,2 20,9 12,5 Max 26,8 37,4 31,7 1011,0 59,0 0,0 0,0 20,9 62,8 25,1 Dev.St. 2,1 2,8 2,4 3,2 8,3 0,0 0,0 3,5 10,3 3,6 22 L. Lombroso

Dipartimento di Ingegneria dei Materiali e dell'Ambiente Università degli studi di Modena e Reggio Emilia

Osservatorio Geofisico Piazza Roma 22 - Modena - lat.N.44° 38' 50.76'' - long.E 10° 55' 45.50'' settembre 2011

Neve VelVento VelVento Tmed2 PressMed Prec Tot Fresca Med DirVento Max Rad.sol Tmin (°C) Tmax (°C) (°C) (hPa) Umed (%) (mm) cm (km/h) domin. (km/h) MJ/m2 1-09-2011 22,5 30,6 26,6 1004,8 44,0 0,0 0,0 6,4 WSW 25,7 13,483 2-09-2011 23,6 30,9 27,3 1005,1 48,0 0,0 0,0 6,9 WSW 20,9 11,182 3-09-2011 23,6 31,7 27,7 1005,1 53,0 0,0 0,0 7,0 E 29,0 10,632 4-09-2011 22,3 29 25,7 1003,7 73,3 1,3 0,0 3,2 W 49,9 7,942 5-09-2011 20,9 27,6 24,3 1005,4 69,7 2,0 0,0 5,3 ENE 24,1 7,449 6-09-2011 20,8 24,1 22,5 1012,0 82,7 3,6 0,0 2,7 W 24,1 2,923 7-09-2011 19,8 27,8 23,8 1003,7 61,3 0,0 0,0 1,1 W 20,9 10,242 8-09-2011 21 28,9 25,0 1001,7 52,3 0,0 0,0 3,7 WSW 20,9 11,149 9-09-2011 21,7 29,3 25,5 1003,6 51,7 0,0 0,0 3,2 WSW 20,9 12,775 10-09-2011 22,3 29,9 26,1 1006,6 65,3 0,0 0,0 3,2 NNW 22,5 10,863 11-09-2011 23,3 30,5 26,9 1006,3 56,3 0,0 0,0 4,8 W 22,5 12,825 12-09-2011 23,9 29,5 26,7 1005,3 54,3 0,0 0,0 8,6 NW 32,2 14,194 13-09-2011 23,1 30,9 27,0 1005,6 52,0 0,0 0,0 1,1 WSW 22,5 12,426 14-09-2011 23,4 31,3 27,4 1004,4 49,0 0,0 0,0 3,8 WSW 25,7 12,327 15-09-2011 22,6 31 26,8 1006,1 43,7 0,0 0,0 1,6 W 19,3 11,893 16-09-2011 22,7 30,2 26,5 1007,0 45,7 0,0 0,0 2,1 W 19,3 10,841 17-09-2011 21,7 30,6 26,2 1004,2 40,7 0,0 0,0 5,9 WSW 33,8 11,939 18-09-2011 20,4 28,8 24,6 996,3 66,0 5,3 0,0 2,1 WSW 46,7 4,542 19-09-2011 16,8 20,4 18,6 995,5 52,7 0,0 0,0 19,3 W 53,1 11,352 20-09-2011 17 23,9 20,5 1008,2 42,3 0,0 0,0 7,0 W 35,4 11,089 21-09-2011 15,8 26,1 21,0 1008,9 42,7 0,0 0,0 6,5 W 27,4 12,229 22-09-2011 19,1 26,6 22,9 1006,7 46,7 0,0 0,0 2,7 WSW 17,7 9,601 23-09-2011 18,8 26,3 22,6 1006,8 55,3 0,0 0,0 5,9 WNW 20,9 10,351 24-09-2011 18,3 26,6 22,5 1007,3 52,7 0,0 0,0 3,2 E 19,3 11,539 25-09-2011 18,7 26,5 22,6 1010,4 54,3 0,0 0,0 2,7 E 22,5 11,878 26-09-2011 18,9 27,1 23,0 1013,7 51,0 0,0 0,0 5,3 WSW 20,9 17,212 27-09-2011 18,4 27,3 22,9 1016,3 47,0 0,0 0,0 4,3 W 27,4 13,163 28-09-2011 18,1 26,8 22,5 1016,6 46,3 0,0 0,0 3,2 WNW 35,4 11,944 29-09-2011 17,8 26,4 22,1 1016,8 47,7 0,0 0,0 4,3 W 24,1 11,545 30-09-2011 17,7 26,5 22,1 1016,5 45,7 0,0 0,0 2,1 NNE 24,1 11,050

1° decade 21,9 29,0 25,4 1005,2 60,1 6,9 0,0 4,3 49,9 98,6 2° decade 21,5 28,7 25,1 1003,9 50,3 5,3 0,0 5,6 53,1 113,4 3° decade 18,2 26,6 22,4 1012,0 48,9 0,0 0,0 4,0 35,4 120,5 MESE 20,5 28,1 24,3 1007,0 53,1 12,2 0,0 4,6 53,1 332,6 Min 15,8 20,4 18,6 995,5 40,7 0,0 0,0 1,1 17,7 2,9 Max 23,9 31,7 27,7 1016,8 82,7 5,3 0,0 19,3 53,1 17,2 Dev.St. 2,4 2,6 2,4 5,2 9,9 1,2 0,0 3,4 9,1 2,7 Annuario delle osservazioni meteoclimatiche dell’anno 2011... 23

Dipartimento di Ingegneria dei Materiali e dell'Ambiente Università degli studi di Modena e Reggio Emilia

Osservatorio Geofisico Piazza Roma 22 - Modena - lat.N.44° 38' 50.76'' - long.E 10° 55' 45.50'' ottobre 2011

Neve VelVento VelVento Tmed2 PressMed Prec Tot Fresca Med DirVento Max Rad.sol Tmin (°C) Tmax (°C) (°C) (hPa) Umed (%) (mm) cm (km/h) domin. (km/h) MJ/m2 1-10-2011 17,8 26,7 22,3 1015,7 46,3 0,0 0,0 1,6 W 22,5 10,701 2-10-2011 18,5 27,6 23,1 1013,5 46,0 0,0 0,0 3,2 WSW 19,3 12,473 3-10-2011 18,5 27,9 23,2 1013,2 41,3 0,0 0,0 5,3 E 17,7 10,853 4-10-2011 18,7 27,8 23,3 1011,9 42,7 0,0 0,0 1,1 N 14,5 10,716 5-10-2011 18,7 27,4 23,1 1011,1 45,7 0,0 0,0 4,8 WSW 19,3 10,688 6-10-2011 18,7 26,7 22,7 1007,2 50,3 0,0 0,0 5,3 W 20,9 10,222 7-10-2011 12,4 21,9 17,2 998,8 61,0 0,0 0,0 3,2 E 49,9 7,002 8-10-2011 12 20 16,0 1001,5 34,3 8,4 0,0 8,6 WSW 35,4 11,097 9-10-2011 11,3 18,4 14,9 1007,6 37,7 0,0 0,0 2,7 W 33,8 10,659 10-10-2011 11 20,1 15,6 1010,7 38,7 0,0 0,0 3,2 WSW 24,1 9,673 11-10-2011 13,4 22,8 18,1 1009,3 52,0 0,0 0,0 2,1 NW 20,9 9,942 12-10-2011 14,6 26,4 20,5 1005,6 45,0 0,0 0,0 4,8 W 19,3 10,347 13-10-2011 16,3 22,1 19,2 1009,0 67,3 0,0 0,0 6,5 NE 24,1 8,680 14-10-2011 11,5 17,2 14,4 1016,1 49,3 0,0 0,0 12,3 ENE 45,1 7,378 15-10-2011 7,8 14,7 11,3 1019,6 48,7 0,0 0,0 5,4 NE 27,4 12,075 16-10-2011 7,9 16,4 12,2 1018,0 51,7 0,0 0,0 5,9 WSW 27,4 11,477 17-10-2011 7,8 15,4 11,6 1015,6 54,0 0,0 0,0 1,6 ENE 16,1 7,815 18-10-2011 8,1 17,4 12,8 1012,8 53,0 0,0 0,0 5,9 WNW 16,1 5,722 19-10-2011 11,9 16,2 14,1 1008,9 72,3 0,0 0,0 4,3 N 17,7 0,551 20-10-2011 9,1 13,1 11,1 1009,1 87,7 0,5 0,0 7,5 WNW 41,8 0,041 21-10-2011 7,8 13,4 10,6 1015,8 63,7 22,4 0,0 7,5 WNW 29,0 8,969 22-10-2011 7,8 12,7 10,3 1014,5 60,0 0,0 0,0 3,8 W 19,3 8,355 23-10-2011 6,3 12,7 9,5 1012,0 64,3 0,0 0,0 2,7 WSW 19,3 7,342 24-10-2011 7,6 10,5 9,1 1008,6 80,7 0,0 0,0 2,1 WSW 16,1 0,105 25-10-2011 9,1 10,6 9,9 1003,0 93,3 1,0 0,0 5,4 W 24,1 0,000 26-10-2011 9,6 13,2 11,4 1006,5 87,3 33,8 0,0 8,6 W 25,7 0,433 27-10-2011 10,9 15,7 13,3 1011,5 80,3 13,2 0,0 0,0 WSW 16,1 2,686 28-10-2011 10,2 16,4 13,3 1017,0 76,0 0,3 0,0 2,7 W 14,5 5,126 29-10-2011 9,6 15,6 12,6 1016,7 78,0 0,0 0,0 5,3 SSW 14,5 5,922 30-10-2011 10,7 15,3 13,0 1014,2 82,0 0,0 0,0 3,2 SW 14,5 2,493 31-10-2011 11,4 15,4 13,4 1012,6 79,0 0,0 0,0 1,6 WNW 16,1 2,174 1° decade 15,8 24,5 20,1 1009,1 44,4 8,4 0,0 3,9 49,9 104,1 2° decade 10,8 18,2 14,5 1012,4 58,1 0,5 0,0 5,6 45,1 74,0 3° decade 9,2 13,8 11,5 1012,0 76,8 70,7 0,0 3,9 29,0 43,6 MESE 11,8 18,6 15,2 1011,2 60,3 79,6 0,0 4,5 49,9 221,7 Min 6,3 10,5 9,1 998,8 34,3 0,0 0,0 0,0 14,5 0,0 Max 18,7 27,9 23,3 1019,6 93,3 33,8 0,0 12,3 49,9 12,5 Dev.St. 4,0 5,6 4,7 4,9 17,1 7,5 0,0 2,6 9,3 4,1 24 L. Lombroso

Dipartimento di Ingegneria dei Materiali e dell'Ambiente Università degli studi di Modena e Reggio Emilia

Osservatorio Geofisico Piazza Roma 22 - Modena - lat.N.44° 38' 50.76'' - long.E 10° 55' 45.50'' novembre 2011

Neve VelVento VelVento Tmed2 PressMed Prec Tot Fresca Med DirVento Max Rad.sol Tmin (°C) Tmax (°C) (°C) (hPa) Umed (%) (mm) cm (km/h) domin. (km/h) MJ/m2 1-11-2011 10,6 14,4 12,5 1011,9 78,3 0,0 0,0 2,7 N 9,7 1,520 2-11-2011 11,4 14,9 13,2 1011,1 76,3 0,0 0,0 2,1 WNW 20,9 2,709 3-11-2011 12 14,8 13,4 1008,2 0,0 0,0 3,7 WNW 16,1 1,130 4-11-2011 12,5 15,2 13,9 1003,8 0,2 0,0 12,3 ENE 33,8 0,124 5-11-2011 14,8 17 15,9 1002,5 0,6 0,0 11,8 E 32,2 0,716 6-11-2011 14,4 16,9 15,7 1002,4 7,0 0,0 10,2 ENE 40,2 1,730 7-11-2011 12,5 14,4 13,5 1010,1 4,2 0,0 7,0 E 19,3 0,365 8-11-2011 13,8 19,3 16,6 1010,7 1,4 0,0 14,5 E 33,8 5,674 9-11-2011 10,4 17,6 14,0 1013,4 0,0 0,0 0,5 WNW 14,5 3,717 10-11-2011 10,9 16,2 13,6 1010,5 0,2 0,0 0,0 WNW 17,7 6,026 11-11-2011 10,5 12,4 11,5 1015,2 0,0 0,0 3,2 NE 19,3 2,357 12-11-2011 7,5 11,9 9,7 1022,9 0,0 0,0 0,5 NE 14,5 7,223 13-11-2011 4,8 14,2 9,5 1023,6 0,0 0,0 2,7 W 17,7 7,212 14-11-2011 5,7 12,1 8,9 1016,9 72,0 0,2 0,0 4,8 WSW 19,3 5,919 15-11-2011 2,6 9,7 6,2 1011,1 86,3 0,3 0,0 2,1 W 16,1 4,704 16-11-2011 2,9 6,7 4,8 1013,2 88,7 0,0 0,0 1,6 W 16,1 3,764 17-11-2011 1,2 9,4 5,3 1016,1 83,0 0,5 0,0 1,1 NW 11,3 4,171 18-11-2011 1,2 9,4 5,3 1016,0 81,7 0,0 0,0 3,2 NW 14,5 4,723 19-11-2011 0,7 7,2 4,0 1015,3 89,0 0,3 0,0 0,0 WNW 9,7 3,115 20-11-2011 1,9 4,2 3,1 1015,3 92,0 0,0 0,0 1,1 NW 11,3 2,406 21-11-2011 1,7 4,2 3,0 1014,3 93,0 0,3 0,0 1,6 NW 11,3 0,033 22-11-2011 4,1 7,5 5,8 1012,3 92,7 0,0 0,0 3,2 WNW 19,3 0,018 23-11-2011 7,5 11,4 9,5 1013,6 79,7 0,3 0,0 5,3 W 22,5 4,389 24-11-2011 5,8 11,8 8,8 1020,5 73,0 0,0 0,0 1,6 W 16,1 3,521 25-11-2011 5,2 11 8,1 1019,5 76,0 0,0 0,0 1,6 W 17,7 3,186 26-11-2011 3,8 10,6 7,2 1019,6 79,7 0,0 0,0 2,1 W 19,3 4,420 27-11-2011 4,5 10,6 7,6 1017,9 77,7 0,0 0,0 1,1 WSW 16,1 1,942 28-11-2011 0,8 8,3 4,6 1017,8 82,0 0,0 0,0 0,5 W 11,3 0,291 29-11-2011 4,8 10 7,4 1016,8 82,3 0,0 0,0 2,7 W 17,7 0,921 30-11-2011 3,4 10,3 6,9 1019,1 81,7 0,0 0,0 2,1 WNW 9,7 0,832

1° decade 12,3 16,1 14,2 1008,4 77,3 13,6 0,0 6,5 40,2 23,7 2° decade 3,9 9,7 6,8 1016,6 84,7 1,3 0,0 2,0 19,3 45,6 3° decade 4,2 9,6 6,9 1017,1 81,8 0,6 0,0 2,2 22,5 19,6 MESE 6,8 11,8 9,3 1014,0 82,4 15,5 0,0 3,6 40,2 88,9 Min 0,7 4,2 3,0 1002,4 72,0 0,0 0,0 0,0 9,7 0,0 Max 14,8 19,3 16,6 1023,6 93,0 7,0 0,0 14,5 40,2 7,2 Dev.St. 4,6 3,9 4,1 5,3 6,4 1,5 0,0 3,8 7,6 2,2 Annuario delle osservazioni meteoclimatiche dell’anno 2011... 25

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Osservatorio Geofisico Piazza Roma 22 - Modena - lat.N.44° 38' 50.76'' - long.E 10° 55' 45.50'' dicembre 2011

Neve VelVento VelVento Tmed2 PressMed Prec Tot Fresca Med DirVento Max Rad.sol Tmin (°C) Tmax (°C) (°C) (hPa) Umed (%) (mm) cm (km/h) domin. (km/h) MJ/m2 1-12-2011 2,1 10,1 6,1 1018,0 82,7 0,0 0,0 3,2 WNW 19,3 1,200 2-12-2011 6,6 9,4 8,0 1012,1 86,3 0,0 0,0 1,1 ENE 16,1 0,267 3-12-2011 6,9 9,1 8,0 1007,9 91,7 3,6 0,0 0,5 NW 14,5 0,002 4-12-2011 6,3 9,7 8,0 1004,3 93,0 0,0 0,0 2,1 WNW 16,1 0,331 5-12-2011 5,9 10,3 8,1 994,8 93,0 0,3 0,0 3,2 W 20,9 0,047 6-12-2011 6 10,1 8,1 1003,6 85,7 0,0 0,0 0,0 WNW 17,7 0,664 7-12-2011 4,3 10,2 7,3 1008,0 79,7 0,0 0,0 0,0 WSW 16,1 0,968 8-12-2011 5,4 12,4 8,9 1011,5 76,7 0,0 0,0 1,6 WSW 33,8 0,710 9-12-2011 3,2 8,9 6,1 1011,3 88,0 0,0 0,0 1,1 WNW 16,1 0,083 10-12-2011 6,3 9,7 8,0 1007,8 79,7 0,0 0,0 2,7 W 17,7 0,153 11-12-2011 6,6 9,8 8,2 1009,8 82,0 0,3 0,0 0,5 WNW 9,7 0,267 12-12-2011 7,1 8,8 8,0 1004,0 90,0 3,3 0,0 7,0 WNW 25,7 0,106 13-12-2011 5,7 9,3 7,5 1007,9 83,3 0,0 0,0 3,2 W 25,7 0,425 14-12-2011 5,7 7,5 6,6 1006,4 91,7 0,0 0,0 3,2 W 19,3 0,000 15-12-2011 5,2 7,6 6,4 1004,1 90,7 0,0 0,0 5,3 W 24,1 0,087 16-12-2011 2,2 8,4 5,3 989,0 93,3 1,8 0,0 9,1 ENE 49,9 0,000 17-12-2011 5,4 11 8,2 991,6 40,0 0,3 0,0 18,2 W 59,5 0,831 18-12-2011 2,1 5,8 4,0 1001,1 62,0 0,0 0,0 4,8 W 24,1 1,312 19-12-2011 2,4 7 4,7 1006,1 59,7 0,0 0,0 9,1 W 32,2 1,907 20-12-2011 1,3 5,8 3,6 1005,0 52,7 0,0 0,0 1,6 WSW 22,5 1,756 21-12-2011 0,7 4,8 2,8 1006,7 58,3 0,0 0,0 0,0 WSW 24,1 0,874 22-12-2011 -1,1 5,6 2,3 1012,4 65,0 0,0 0,0 0,0 WNW 16,1 3,861 23-12-2011 1 6,3 3,7 1014,6 69,0 0,0 0,0 0,0 NNW 16,1 4,748 24-12-2011 1,1 4,1 2,6 1009,3 85,3 5,8 0,0 2,1 W 22,5 0,476 25-12-2011 2,7 8,2 5,5 1021,9 72,7 0,0 0,0 4,8 W 22,5 1,470 26-12-2011 2,1 8,1 5,1 1027,2 65,7 0,0 0,0 1,6 WSW 19,3 1,497 27-12-2011 3,9 8,2 6,1 1027,0 67,0 0,0 0,0 2,1 WNW 16,1 1,424 28-12-2011 2,7 8,9 5,8 1019,7 62,0 0,0 0,0 0,5 W 11,3 1,353 29-12-2011 2,2 5,6 3,9 1012,1 76,7 0,0 0,0 2,7 W 20,9 0,033 30-12-2011 2,4 7,7 5,1 1003,4 74,0 0,0 0,0 2,1 W 20,9 0,889 31-12-2011 2,5 9,2 5,9 1008,8 50,7 0,0 0,0 0,5 W 16,1 1,578 1° decade 5,3 10,0 7,6 1007,9 85,6 3,9 0,0 1,6 33,8 4,4 2° decade 4,4 8,1 6,2 1002,5 74,5 5,7 0,0 6,2 59,5 6,7 3° decade 1,8 7,0 4,4 1014,8 67,8 5,8 0,0 1,5 24,1 18,2 MESE 3,8 8,3 6,0 1008,6 75,7 15,4 0,0 3,0 59,5 29,3 Min -1,1 4,1 2,3 989,0 40,0 0,0 0,0 0,0 9,7 0,0 Max 7,1 12,4 8,9 1027,2 93,3 5,8 0,0 18,2 59,5 4,7 Dev.St. 2,2 1,9 1,9 8,6 14,4 1,3 0,0 3,7 10,2 1,1

Atti Soc. Nat. Mat. Modena 142 (2011)

Emanuele Poli*

Riferimenti teorici della geografia: il rapporto uomo-ambiente

Riassunto La geografia si caratterizza come scienza di sintesi tra le scienze naturali e le scienze umane: sinte- si che in un primo momento si realizzò grazie al ricorso a postulati deterministici secondo i quali un tipo di ambiente naturale consente, favorisce e addirittura determina la costituzione di un certo tipo di civiltà piuttosto che di un altro. Alla fine dell’Ottocento, la geografia era interessata a instaurare uno scambio di idee con le scienze affini e ad assumere una posizione nel rinnovato clima culturale di fine secolo dominato dal positivismo e dall’evoluzionismo darwiniano; i suoi postulati erano il metodo sperimentale, l’osservazione diretta, il ragionamento induttivo. Assunse importanza partico- lare la figura di F. Ratzel, autore di una “Anthropogéographie” (1882-1891) che superava l’impo- stazione etnografica ottocentesca legata alle esplorazioni coloniali e all’interesse per i popoli primi- tivi. Il problema chiave era il rapporto tra l’uomo e l’ambiente: l’uomo era diventato un oggetto da spiegare scientificamente e l’ambiente il motore dell’evoluzione.

Abstract Geography as a science is characterized by a synthesis between natural sciences and the humanities. At first this synthesis was achieved by deterministic assumptions, according to which a type of natu- ral environment allows, encourages and even determines the formation of a certain type of civiliza- tion rather than another. At the end of the 19th century, geography was interested in comparing ideas with natural science and to take a position in the renovated turn of the contemporary cultural clima- te, dominated by positivism and Darwinian evolutionism, that is to say the postulates of the experi- mental method, direct observation, inductive reasoning. In this conjuncture stands out F. Ratzel, the author of “Anthropogéographie” (1882-1891), who exceeded the 19th century ethnographic, tradi- tional setting tied to colonial exploration and primitive peoples. Geography’s main issue was the relationship between man and the environment: man had become an object to be explained scientifi- cally, and the environment the engine of evolution.

Parole chiave: geografia, postulati, rapporto uomo-ambiente.

Key words: geography, the postulates, man-environment relationship.

* Facoltà di Agraria, Università di Bari Aldo Moro, via G. Amendola 165a, 70126 BARI; e-mail: [email protected] 28 E. Poli

1. Introduzione

La scienza, per la cultura moderna, è quel sapere che acquisisce un proprio statuto epistemologico nel quale si identificano: i) gli obiettivi per i quali esso è prodotto; ii) i temi di cui si occupa; iii) le teorie a cui si ispira; iv) i metodi che utilizza; v) la posizione rispetto alle altre scienze. La moderna geografia focalizza il suo campo di indagine in particolare su due punti: lo studio del rapporto tra spazio e tempo, del quale fu protagonista Immanuel Kant nel 1798 con Geografia fisica, e lo studio della relazione uomo-ambiente a cui dedicò i suoi studi Friedrich Ratzel1, al quale si deve l’inizio della costruzione di uno statuto epistemologico della geografia moderna. Nel 1882 con la pubblicazione di un saggio intitolato Anthropogéographie (Geografia dell’uomo), egli dimostrò l’influenza dello spazio fisico sulla for- mazione delle società, sottolineando la dipendenza degli uomini alle variabili naturali. Conoscendo l’ambiente fisico era così possibile prevedere il corso degli eventi storici nonché lo sviluppo dei territori (Gamberoni, 2001). Ciò a cui Ratzel cercò di dare risposte fu quindi se l’uomo sia un prodotto dell’ambiente e se il suo carattere sia influenzato dalle proprietà del luogo fisi- co in cui vive. Il geografo tedesco rispose positivamente a detti quesiti, affer- mando che l’ambiente è causa dei fatti umani e “la natura esercita influenze profonde” (Ratzel, 1899). L’ambiente, esercitando condizionamenti che influi- scono sul comportamento dell’uomo, va ad investire ogni aspetto della vita sia esso individuale, politico, religioso, sociale ed economico. Delinea la realtà costituita da elementi legati tra loro da rapporti di causalità, in quanto tutta la conoscenza viene concepita come un procedimento unidirezionale nel quale un elemento si comporta come causa verso un altro elemento che ne è l’effet- to. “Nel loro insieme gli elementi formano una tessitura ordinata, che costi- tuisce il territorio (…) il principio di causalità doveva essere applicato per spiegare la natura del rapporto esistente tra comunità umane e superficie ter- restre. Così facendo, avrebbe adottato il principio del determinismo ambien- tale, secondo il quale l’ambiente governa il comportamento umano. Se vice- versa alle comunità umane fosse stata attribuita la prerogativa di non essere succubi dell’ambiente naturale ci si sarebbe inoltrati in una direzione oppo- sta, verso una concezione a-determinista del rapporto tra uomo e natura” (Vallega, 2004a).

1 Friedrich Ratzel (1844-1904), geografo ed etnologo tedesco, fondatore della geografia antropica o antro- pogeografia, fu il primo a coniare l’espressione “spazio vitale” (Lebensraum), che ha poi avuto tanto seguito e diffusione in ambito demografico. Riferimenti teorici della geografia: il rapporto uomo-ambiente 29

Verrebbe spontaneo chiedersi allora come mai la natura condizioni anche i comportamenti umani che nuocciono ad essa. Ma nella teoria determinista non esiste la categoria del contro-natura in quanto l’uomo è considerato un effetto e pertanto non può essere una causa. La geografia viene configurata da Ratzel scienza madre e divisa in geogra- fia fisica e geografia umana. In particolare quella umana è considerata una scienza descrittiva che studia la distribuzione dei gruppi umani rispondendo agli interrogativi del dove e del come; cioè le relazioni che si instaurano tra uomo e ambiente naturale. Il paradigma determinista viene scalzato agli inizi del Novecento da quel- lo possibilista ad opera di Paul Vidal de la Blanche2 e, in seguito, da Lucien Feuvre (1980). Il rapporto tra comunità umane e natura in Vidal de la Blanche è concepito come una rete di influenze reciproche che si sviluppano nel corso del tempo, tra la cultura, con il suo corredo di tecnologie, e l’ambiente fisico, con i condizionamenti e le possibilità di uso delle risorse che offre all’uomo (Vidal de la Blanche, 1922). Rispetto alla visione del determinismo, in cui l’ambiente determina il comportamento umano, nel possibilismo l’ambiente offre delle possibilità alle comunità umane. La visione vidaliana essenzialmente asserisce che: • la natura offre delle possibilità all’uomo per sfruttare positivamente il ter- ritorio e utilizzarne le risorse e perciò non esprime solo vincoli; • tra le varie possibilità offerte si effettuano delle scelte, sia pur condizio- nate; • le scelte sono compiute in base alle tecnologie di intervento e alla cultu- ra delle comunità; • la comunità umana è un fattore geografico che influisce sull’evoluzione della natura.

Il possibilismo prevede quindi un impegno nei confronti dell’ambiente, dove gli uomini come fattori geografici hanno la responsabilità assoluta nei confronti dei paesaggi che originano. È proprio il paesaggio l’oggetto di stu- dio del possibilismo che occupandosi in prevalenza di territori poco estesi non riesce a cogliere le relazioni uomo-ambiente che si instaurano in grandi spazi. L’uomo occupa il centro d’indagine della scuola possibilista e non ha nessun interesse a ricercare leggi scientifiche che spieghino ogni realtà.

2 Paul Vidal de la Blanche (1845-1918), geografo francese, è considerato il padre del possibilismo geo- grafico o ecologismo umanista secondo il quale l’uomo è un fattore geografico in grado di modellare e modificare il territorio. 30 E. Poli

Lucien Febvre dedica nel suo saggio (1980) una buona parte alla confuta- zione del principio del causalismo secondo il quale le società umane rispon- dono prevedibilmente alle sollecitazioni del contesto naturale. Le comunità umane operano una scelta tra le molteplici possibili, le società sono libere di organizzarsi tenendo conto dei vincoli e approfittando delle opportunità che la natura propone.

2. Strutturalismo e teoria sistemica

Alla fine degli anni ‘30 del secolo scorso lo strutturalismo propone una sin- tesi fra i due paradigmi precedenti. Secondo il pensiero strutturalista, la real- tà, sia essa sociale o naturale, è costituita da strutture che sono legate tra loro da relazioni. Come nel determinismo la realtà è considerata una macchina in cui le strutture si comportano come cause che producono effetti, ma in più interviene la considerazione del modo con cui esse si comportano nel corso del tempo, presumendo che vadano incontro ad un’evoluzione, cioè a cambia- menti graduali (Vallega, 2004b). Ciò che viene indagato sono i comportamenti della struttura e non solo i singoli elementi e i processi di funzionamento tra gli elementi stessi. Se per i possibilisti l’oggetto di studio era il paesaggio, ora compare il concetto di spa- zio, inteso come territorio con funzioni specifiche. Lo stesso Vallega (1990) per questo periodo parla di “eclisse dell’ambiente”. Il rapporto uomo-ambien- te, è praticamente inesistente nella ricerca geografica di questi anni; Vallega preferisce così studiare le grandi infrastrutture e gli effetti che queste produ- cono. Una reazione all’eclisse dell’ambiente arriva nella seconda metà degli anni ‘70. Davanti ai problemi relativi ai rischi ambientali si ritiene utile intro- durre il concetto di eco-sviluppo, cioè uno sviluppo compatibile con il rispet- to dell’ambiente. Il quadro di riferimento in questo ritorno della geografia al tema del rapporto uomo-ambiente è la General System Theory che prevede una struttura costituita da elementi in relazione tra loro che produce attività ed evolvendosi nel tempo persegue degli obiettivi. Per il paradigma sistemico gli elementi vanno pertanto considerati in rapporto alla struttura. La realtà non è più una macchina banale, questo vuol dire che non si risponde agli stimoli pro- venienti dall’ambiente esterno con azioni predeterminate e prevedibili; ad esempio, a parità di situazioni e di sollecitazioni, ogni città reagisce in modo originale, non configurabile in termini di causalità (Vallega, 2003). I rapporti uomo-ambiente perciò sono più complicati poiché non esiste un’influenza causale ne da parte dell’uomo ne da parte dell’ambiente. Riferimenti teorici della geografia: il rapporto uomo-ambiente 31

3. La prospettiva umanista

La svolta umanista è stata avviata negli anni 1970-80 dal geografo sino- americano Yi-Fu Tuan (1974, 1977). La geografia umanista nasce in opposi- zione allo strutturalismo che riduceva la realtà in termini di causa effetto e cosi facendo non considerava l’individuo. La prospettiva umanista pone il sogget- to al centro di ogni rappresentazione del territorio e concentra la sua attenzio- ne sui luoghi, non definibili solamente secondo categorie geometriche perché importanti essenzialmente come depositari e comunicatori dei valori, dei significati, delle aspirazioni che l’uomo manifesta. Porre l’uomo al centro della rappresentazione del territorio significa partire dalle condizioni esisten- ziali dell’individuo, dal suo modo di percepire il territorio e di attribuirgli valo- ri, in una parola dal modo in cui l’individuo proietta sé stesso nello spazio esterno; considera il territorio come uno spazio che si connota per i suoi valo- ri nei riguardi dell’esistenza delle persone, e lo rappresenta in rapporto ai livel- li di qualità della vita che offre, al modo con cui il paesaggio urbano richiama le radici culturali della popolazione (Vallega, 2004a). Tuan sofferma in particolare la sua attenzione su alcuni concetti chiave: la per- cezione, il valore, l’attitudine e la visione del mondo. La percezione rappresenta la risposta dei sensi agli stimoli esterni e l’attività che consente la registrazione di tali fenomeni; il valore indica l’importanza assegnata ad ogni esperienza vissuta; l’attitudine è una presa di posizione culturale attraverso la quale viene letto il mondo, si forma attraverso la realtà esperita e coni il tempo diviene sempre più stabile, la visione del mondo è una forma di esperienza ormai concettualizzata. L’insieme di queste esperienze esistenziali costituisce la Topofilia cioè il legame affettivo che mette in relazione gli individui con il mondo circostante (Vagaggini, 1982). Per Tuan (1974) spazio e luogo rappresentano il cuore della geografia; dall’esperienza che si fa di essi l’uomo costruisce la sua percezione del mondo e approfondisce la propria conoscenza interiore. Secondo lo stesso geografo, la geografia ha pertanto come scopo principa- le quello di studiare il sentimento e le idee spaziali dell’uomo nell’insieme del- l’esperienza, attraverso sentimenti, sensazioni e percezioni nei confronti di spazi e luoghi. Se da una parte l’interpretazione dello spazio può essere attua- ta attraverso una struttura di pensiero astratta (il linguaggio della matematica e dati quantificabili), dall’altra il concetto di luogo ha diversi significati in base all’approccio utilizzato nell’osservare la realtà; può essere rapportato alla localizzazione ma, a differenza di questa, il luogo è un’entità unica che ha una storia ed un significato: è infine una realtà che va compresa attraverso la visio- ne delle persone che gli hanno attribuito, e gli attribuiscono, un valore. 32 E. Poli

4. Considerazioni conclusive

In base a quanto detto, si può affermare che l’essere umano non è un ele- mento da contrapporre all’ambiente e nemmeno un elemento esterno. È perciò necessario riconoscere che ogni fatto antropico è parte integrante dell’am- biente. Quest’ultimo, inoltre, va considerato un insieme di relazioni dove tutti gli elementi si compenetrano e dove una variazione di uno non può non avere effetti sugli altri, ad esso inevitabilmente collegati. In questa accezione un bosco, una città, un qualsivoglia ecosistema non sono solo la sommatoria di un numero più o meno grande di elementi, ma sono l’insieme delle interazioni mutevoli, spesso non prevedibili, di unità fisico-naturali e antropiche (Gamberoni, 2001). Così l’uomo e l’ambiente instaurano un dialogo in cui il primo è considerato in tutte le sue caratteristiche ed il secondo in tutte le sue manifestazioni. Se gli uomini sono parte integrante dell’ambiente, i loro comportamenti ne determinano le trasformazioni in senso positivo o negativo. Ma ciò non signi- fica che l’uomo possa avere la certezza assoluta delle conseguenze delle pro- prie azioni; egli, infatti, agisce soprattutto in situazioni connotate da comples- sità, incertezza e conflittualità (Gamberoni, 2001). In tali situazioni l’uomo è dunque influenzato dalle sue stesse caratteristi- che e dalla società in cui vive e agisce; in questo modo le azioni dell’uomo si ripercuotono sull’ambiente con conseguenze chiaramente rintracciabili. Riferimenti teorici della geografia: il rapporto uomo-ambiente 33

Opere consultate

BERNARDI R. & POLI E., 2011 – Equilibri dinamici di una realtà complessa. CUEC, Cagliari. BERNARDI R., CONZO F. & POLI E., 2012 – Il mondo come sistema globale. Verso una ecogeografia opera- tiva. Cierre, . FEBVRE L., 1980 – La terra e l’evoluzione umana. Introduzione geografica alla storia. Einaudi, Torino. GAMBERONI E., 2001 – L’ambiente. Geografia, educazione, formazione. Pàtron Editore, . POLI E., 2011 – Un quadro epistemologico sulla dimensione della geografia. “ Geografia”, 3-4, Roma. POLI E., 2012 – La Geografia come scienza positiva e la svolta possibilista. “Geografia”, 1-2, Roma. RAFFESTIN C., 1981 – Per una geografia del potere. Unicopli, Milano. RATZEL F., 1899 – Geografia dell’uomo (Antropogeografia). Principi di applicazione della scienza geogra- fica alla storia, edizione italiana F.lli Bocca, Milano, 1914. TUAN Y.F., 1974 – Topophilia: a study of environmental perception, attitudes and values. Englewood Cliffs, Prentice Hall. TUAN Y.F., 1977 – Space and Place, the perspective of Experience. University of Minnesota Press, Minneapolis. TURCO A., 1988 – Verso una teoria geografia della complessità. Unicopli, Milano. VAGAGGINI V., 1982 – Le nuove geografie. Logica, teorie e metodi della geografia contemporanea. Herodote Edizioni, Genova. VALLEGA A., 1990 – Esistenza, società, ecosistema. Pensiero geografico e questione ambientale. Mursia, Milano. VALLEGA A., 2003 – Geografia culturale: luoghi, spazi, simboli. Utet, Torino. VALLEGA A., 2004a – Geografia umana. Teoria e prassi. Le Monnier Università, Firenze. VALLEGA A., 2004b – Le grammatiche della geografia. Pàtron Editore, Bologna. VIDAL DE LA BLANCHE P., 1913 – Les caractères distinctifs de la géographie. Annales de Géographie, 22, pp. 291-299. VIDAL DE LA BLANCHE P., 1922 – Principes de géographie humaine. Colin, Paris.

Atti Soc. Nat. Mat. Modena 142 (2011)

Luca Ghelfi*

Il giardino romantico**

Riassunto L’articolo descrive l’evoluzione storica del giardino nell’800 in seguito all’affermarsi del Romanti- cismo nella letteratura e nell’arte. Il modello inglese di giardino romantico abbandona l’utilizzo di elementi geometrici per circoscrivere lo spazio, come quinte arboree o prospettive floreali ben defi- nite, basandosi invece sull’accostamento apparentemente casuale di elementi naturali o naturalizza- ti, tra i quali stagni, alberi secolari, cespugli, grotte, pergolati ecc. per trasmettere al visitatore il sen- so di una natura ritrovata. Estetica e immagini letterarie accompagnano nel mondo incantato di que- sti luoghi “naturali”, dove il paesaggio diventa gioco dell’infanzia o luogo di riposo dell’età matu- ra e dove l’ingegno creativo degli artisti trova ispirazione.

Abstract The historical evolution of the garden in the 19th century, following the flowering of Romanticism in literature and the arts, is described. The English model of the Romantic garden abandons geometrical elements as a way to outline spaces, such as curtains of trees or well-defined floral perspectives. Rather, it is based on the apparently accidental combination of natural or naturalized elements, such as ponds, mature trees, bushes, grottoes, pergolas etc., in order to convey the feeling of rediscovered nature. Aesthetics and literary images are blended with these “natural” places, accompanying the visitor in an enchanted world. The landscape thus created becomes an ideal place for children’s games or relaxa- tion and meditation for mature people, and also a place where artists can find inspiration.

Parole chiave: giardino romantico, estetica urbana, verde pubblico, letteratura.

Key words: romantic garden, urban planning, public park, literature.

Entrate in un giardino di piante, d’erbe, di fiori. Sia pur quanto volete ridente. Sia nella più mite stagione dell’anno. Voi non potete volger lo sguardo in nessuna parte che voi non vi troviate del patimento. Tutta quella famiglia di vegetali è in istato di souffrance, qual individuo più, qual meno. (Zibaldone di pensieri di Giacomo Leopardi)

* Luca Ghelfi, Via C. Pisacane 29, 41012 CARPI (MO); e-mail: [email protected] ** Ricerca realizzata nell’ambito del progetto di tesi “Il Paesaggio storico”, Dipartimento di Discipline Sto- riche, Antropologiche e Geografiche, Alma Mater Università di Bologna, Piazza San Giovanni in Mon- te 2, 40124 BOLOGNA 36 L. Ghelfi

1. Introduzione

Il giardino romantico o giardino “all’inglese” è una tipologia di progetta- zione del verde sviluppatasi nella seconda metà del Settecento e nell’Ottocento che abbandona l’utilizzo di elementi geometrici per definire e circoscrivere lo spazio, come quinte arboree o prospettive ben delineate, basandosi invece sull’accostamento e sull’avvicendarsi di elementi naturali o naturalizzati, tra i quali stagni e corsi d’acqua, alberi secolari, cespugli, grot- te, pergole, tempietti e rovine, che chi passeggia scopre senza mai arrivare ad una visione d’insieme, un luogo comunque in cui la natura non è mai incolta, anche quando assume un carattere selvaggio. Il giardino è visto come il luogo in cui l’emozione, suscitata dall’avvicen- darsi delle sorprese, viene temprata dall’armonia che lega le varie parti, attra- verso la contrapposizione degli opposti, come il regolare al selvaggio, il mae- stoso all’elegante, l’ameno al malinconico, in modo da bilanciare le differenti emozioni. L’interesse particolare per il verde pubblico armoniosamente inserito nel- l’estetica urbana nasce dall’incontro con la letteratura ottocentesca, dalle pagi- ne che richiamano le descrizioni di giardini meravigliosi, “romantici”, luoghi di fuga dal mondo esterno che opprime, luoghi per evadere, luoghi dell’av- ventura, luoghi in cui rinchiudersi e riflettere e trarre nuova forza per crescere e affrontare le difficoltà (Anselmi & Ruozzi, 2003; Jacob, 2005). Il giardino romantico è pieno di luoghi segreti, di macchie, di siepi e di cespugli, dove gli spazi chiusi e limitati si contrappongono a quelli aperti dei prati inglesi:

“Allora il mio giardino mi riappare verde e fiorito fino ai ginocchi come alla sera iniziava a dileguare dai vetri della finestra e dai miei occhi. Quasi che lo avessero rinchiuso come un giocattolo al tramonto ora lo vedo splen- dere, confuso dalla luce che illumina me e il mondo. Ogni siepe e ogni aiuo- la, ogni petalo di rosa, ogni pianta a squarciagola con la voce rugiadosa gri- dan tutti: “Ecco il giorno!” E un gran tambureggiare, “Voi bambini qui d’in- torno, riprendete ora a giocare!”

Con queste parole Robert Louis Stevenson (1896) descrive la luce del giar- dino, luogo della felicità, dove non può accadere nulla di spiacevole. Queste sono le prime considerazioni che vengono alla mente analizzando quel tipo di letteratura, soprattutto la letteratura per ragazzi come Peter Pan nei giardini di Kensington (1906) di James Matthew Barrie e Il Giardino segreto (1910) di Frances Hodgson Burnett. Il giardino romantico 37

2. Tendenze colturali nel giardino romantico

Nel visitare oggi un certo numero di giardini romantici si notano due tendenze colturali tanto diverse quanto fondamentali. Una predilige l’edera e il muschio, l’al- tra il grande albero (come la quercia o la sequoia): queste sono infatti le piante che possono essere usate come duplice emblema del giardino romantico. Si vuole il giardino romantico come scenografia di sentimenti esacerbati, profondi e segreti. Lo sguardo romantico penetra nel passato al tempo di una sola bellezza, quando uomo e paesaggio si fondevano in una sola entità divina: la Natura. Giardini romantici intesi dunque come luoghi d’incontro fra uomo e natura, tra desiderio e realtà; specchio della vita interiore, segno e sogno di un’età del- l’oro. Luoghi modellati in concorrenza e in gemellaggio con la natura che diven- tano, di conseguenza, lo specchio della storia, della cultura e della società. Romantico si associa con suggestivo, nostalgico, magico, wistful1. Romantico è l’occhio dello spirito di una realtà senza limiti, diversa da quella visibile. Il giardino ideato dai Romantici è il mondo del desiderio, un piccolo uni- verso derivato dal singolo intimo sentimento; non è un paesaggio in miniatu- ra, ma una parte del paesaggio che cresce da sola, ineffabile. Il giardino è arte, origine e apice del rapporto individuale interscambievole tra Uomo e Natura, spazio dove vive una natura paziente e privata. È un ritorno alla natura attraverso l’arte, come insegna la realtà dell’antica Atene, quando l’uomo scaturì dalla natura “bello di corpo e di anima”; è que- sta la filosofia della storia romantica. Il paesaggio diventa realtà estetica, dove l’uomo trova conforto dopo avere osservato la bellezza del buon tempo antico che credeva perduto. Quindi con- tiene ancora l’antico cielo e l’antica terra, è contemporaneità di presente e pas- sato, diventa la personale isola felice del desiderio. L’ideale è l’antico, quan- do l’uomo era natura e la natura arte. Per A.W. Schlegel2 la libera fantasia si esprime nel modello geometrico, perché impone le proprie leggi alla natura e la trasforma di conseguenza in poesia. La grande differenza concettuale tra romantico e pittoresco è speculare al divario tra poesia e pittura, l’arte del giardinaggio è quindi “un’applicazione modificata di forme architettoniche alla natura reale”. Nei giardini come negli edifici è l’uomo l’elemento principale.

1 Il termine inglese wistful, molto in voga nel periodo romantico, si può tradurre approssimativamente con “malinconico”, “pensieroso”, “assorto” o “nostalgico”. 2 August Wilhelm Schlegel (1767-1845), poeta e critico letterario tedesco, fu una delle principali persona- lità del Romanticismo. 38 L. Ghelfi

“I semi che Dickon e Mary avevano seminati crebbero come se delle fate li avessero curati. Papaveri di ogni colore danzavano nella brezza accanto a una infinità di fiori dai colori vivaci che da anni crescevano nel giardino e che sembravano quasi chiedersi come avessero fatto, quelle persone, a entrare in quel luogo. E le rose... le rose! Spuntavano dall’erba intorno alla meridiana, attorcigliate ai tronchi degli alberi, spioventi dai loro rami; si arrampicavano anche sui muri e li cospargevano di lunghe ghirlande, ricadendo in cascate, e tornavano a vivere giorno per giorno, ora per ora. Fresche foglioline nuove e germogli minuscoli che si stavano gonfiando, lavorando magicamente finché non si chiudevano per diventare coppe di profumi delicati, dai cui orli tra- boccavano le fragranze che riempivano l’aria del giardino.” (Il Giardino segreto di Frances Hodgson Burnett)

Il giardino è anche luogo che ospita essenze esotiche, arrivate nel nostro paese al seguito dei viaggi di esplorazione fatti da botanici e naturalisti tra la fine del Settecento e gli inizi dell’Ottocento; essenze raccolte per amore di col- lezionismo e di cui, tutto sommato, allora si sapeva pochissimo (Grimal, 2000). In ogni modo, i fiori paiono contare poco nel grande schema estetico- progettuale di quel giardino che si era venuto delineando, dalla trasformazio- ne del giardino all’italiana e alla francese in giardino paesaggistico all’inglese e, infine, in giardino romantico, la cui cura richiedeva peraltro l’assidua opera dei giardinieri (Silva, 1813).

“Quando compongo un paesaggio o creo un giardino, ma anche solo quan- do colloco un vaso di fiori su un davanzale, mi pongo, in primo luogo, un problema analogo a quello del pittore, ossia mi preoccupo della relazione tra gli oggetti che compongono il quadro, siano essi boschi, campi o acqua, pietre o alberi, cespugli e arbusti o gruppi di piante.” (L’educazione di un giardiniere di Russell Page)

William Robinson (1838-1935), giardiniere presso il giardino botanico reale di Regent’s Park, fu il primo a riaprire alla natura le porte del giardino. La sua inclinazione per il Romanticismo lo indusse a coltivare piante selva- tiche. Applicò le sue idee sulla coltivazione naturale nel giardino di Gravetye Manor nel Sussex, seguendo la sua creatività personale, e riuscì ad entusia- smare gli appassionati di giardini che leggevano la sua rivista The Garden. Gli scritti di Robinson giunsero anche in America, dove ebbero vasta eco. Tra le sue opere vanno citate The Wild Garden e The English Flower Garden. Il giardino romantico 39

“Un bellissimo ‘incidente’: una colonia di Myrrhis odorata fra gli arbusti, punteggiata qua e là da campanule bianche” (Il Giardino incantato di William Robinson)

Il lungo regno (1837-1901) della Regina Vittoria è caratterizzato da una varietà di tipologie di giardini, nota come “eclettismo vittoriano”, che presen- ta una notevole commistione di generi diversi, ottenuta dalla fantasiosa riela- borazione dei modelli in voga nelle epoche precedenti. I parchi e i giardini creati nel corso dell’Ottocento nel Regno Unito posso- no essere ricondotti schematicamente ai seguenti nuovi stili: il pittoresco e il giardino-cottage, legato al movimento “Arts & Crafts”3 Nel progetto degli spazi verdi si ritorna ad un disegno maggiormente percepibile, ispirato ai modelli rinascimentali e barocchi e alla decorazione attraverso l’uso sapiente della successione botanica: l’orticoltura diventa l’arte che governa la realizza- zione del giardino, supportata da nuove conoscenze scientifiche (Vitta, 2005). Nel dicembre del 1900 Gertrude Jekyll4 aveva 57 anni e nei precedenti diciotto aveva riversato il suo talento e le sue energie nei 15 acri del suo giar- dino di Munstead Wood, nel Surrey, ma abitava la casa progettatale dal suo amico l’architetto Edwin Lutyens solo da tre anni. Crooksbury, sempre nel Surrey, la loro prima opera a due mani, non aveva più di un paio d’anni e il suo primo libro Home and Garden (Casa e Giardino) era stato pubblicato solo da un anno. Quel mese di dicembre 1900, Edward Hudson, fondatore della rivi- sta Country Life, pubblicò un articolo sulla proprietaria di Munstead Wood. Parte dell’articolo era una citazione:

“La regola per ottenere tali effetti è di semplice enunciazione ma di diffici- le esecuzione: Raggruppate audacemente, con un pensiero a tutte le stagioni e a tutti i colori; formatevi nella mente molti quadri successivi, quadri che siano armoniosi in sé stessi e in armonia l’uno con l’altro, e poi realizzateli. Questo è l’inizio e la fine di tutta la faccenda, ma è anche dove entra in campo l’immaginazione dell’artista. Per il resto, le regole auree sono due e facili da rispettare: non essere schiavi della pulizia, e non tentare di far crescere pian- te che non amino il terreno del vostro giardino”.

3 Arts & Crafts (Movimento delle Arti e dell’Artigianato) è stato un movimento artistico per la riforma delle arti applicate, una sorta di reazione colta di artisti ed intellettuali all’industrializzazione galoppan- te del tardo Ottocento. Le radici di pensiero di questo movimento si sviluppano dalle considerazioni di Augustus Pugin (1812-1852) sull’enfatizzazione dello stile gotico, quale unico stile che contiene i prin- cipi della cristianità e, di conseguenza, della purezza e dell’onestà, incapace di nascondere la struttura. 4 Gertrude Jekyll (1843-1932), scrittrice e artista inglese nonché autorevole esperta di giardinaggio, fu pro- gettista di oltre 400 parchi e giardini in Gran Bretagna, in Europa e negli Stati Uniti. 40 L. Ghelfi

Gertrude Jekyll non ebbe successo solo in Inghilterra; il suo modo natura- le e pieno di sentimenti di accostare le piante affascinò un numero sempre maggiore di giardinieri in tutta Europa, che fecero propria questa nuova inter- pretazione della natura, piena di pathos e di sensibilità (Jekyll, 1908). Il pitto- re Claude Monet realizzò, con il suo giardino di Giverny, a nord di Parigi, un’opera d’arte vivente che diventò anche il soggetto di molti suoi quadri; tra gli scorci più famosi vi è lo stagno delle ninfee la cui incantevole bellezza fu più volte immortalata dai suoi pennelli (Fig. 1).

Fig. 1 – Claude Monet, Lo stagno delle ninfee (1899), Musei dell’Ermitage, San Pietroburgo

Attorno alla metà del XIX secolo, la moda imperante è ormai la collezione di particolari specie, spinta fino all’esasperazione, che si accompagna anche all’accrescersi dell’interesse per la pratica del giardinaggio e per la botanica: centinaia di società e circoli orticoli5 sorgono ovunque, diffondendo l’utilizzo, accanto ai florist’s flowers (i fiori del giardiniere come garofani, tulipani, narci- si, giunchiglie, anemoni, giacinti e ranuncoli) tradizionalmente utilizzati nelle aiuole e bordure fiorite, di piante nuove ed esotiche provenienti dalle colonie.

5 Già nel 1804 venne fondata a Londra La Royal Horticoltural Society, volta a promuovere l’eccellenza dell’arte, nella scienza e nella pratica dell’orticoltura, cui fecero seguito numerosi circoli dedicati a spe- cifiche specie botaniche come la Daffodil Society, fondata a Birmingham per la tutela e valorizzazione del genere Narcissus, i cui fiori (narcisi, giunchiglie ecc.) godettero di straordinaria popolarità in perio- do vittoriano, soprattutto tra il pubblico femminile. Il giardino romantico 41

Si fa via via più evidente, in pieno Ottocento, la tendenza ad eliminare la vegetazione nativa nei giardini ed a sostituirla con piante esotiche, dotate di analoghe caratteristiche di crescita. L’altro fenomeno peculiare dell’epoca è l’uso del colore e il suo flusso sul disegno del giardino, accompagnato da una grande attenzione letteraria, determinata dal fatto che molti artisti orticoltori produssero testi scientifici, divulgativi o poetici sulle teorie e la pratica del giardino. E col diffondersi delle opere di Wordsworth, Byron e Shelley si dif- fonderà anche il gusto del paesaggio naturale.

“Poi qualcosa cominciò a spingere le piante fuori dal terreno, e a farle venir fuori dal nulla. Un giorno non c’erano e il giorno dopo spuntavano. Io non avevo visto nulla del genere, e ciò mi rese molto curioso. Gli scienziati sono sempre curiosi e io sarò uno scienziato. Continuo a chiedermi: “Che cos’è? È certamente qualcosa! Non può essere nulla! Non so come si chiami questo feno- meno, perciò lo chiamo magia. [...] Da quando sono venuto nel giardino, ho guardato il cielo attraverso i rami e ho avuto la strana sensazione di essere feli- ce, come se qualcosa si agitasse nel mio petto e mi facesse respirare più velo- cemente. [...] Ogni cosa è creata dalla magia, foglie e alberi, fiori e uccelli, tassi e volpi, scoiattoli e persone. [...] In questo giardino la magia mi ha fatto stare in piedi e mi ha fatto sapere che vivrò e che diventerò uomo.” (Il Giardino segreto di Frances Hodgson Burnett)

Anche il nostro Fogazzaro ci ha lasciato descrizioni poetiche di giardini:

“Quando l’infelice ortolano si sentì predicare dal signor don Franco che il giardinetto era una porcheria, che bisognava cavar tutto, buttar via tutto, rimase sbalordito, avvilito da far pietà; ma poi lavorando agli ordini suoi per riformare le aiuole, per contornarle di tufi, per piantare arbusti e fiori, veden- do come il padrone stesso sapesse lavorar di sua mano e quanti terribili nomi latini e qual portentoso talento avesse in testa per immaginare disposizioni nuove e belle, concepì poco a poco per lui un’ammirazione quasi paurosa e quindi anche, malgrado i molti rabbuffi, una affezione devota. Il giardinetto pensile del (poeta) fu trasformato a immagine e similitudine di Franco. Un’Olea fragrans vi diceva in un angolo la potenza delle cose gentili sul caldo impetuoso spirito del poeta; un cipressino poco accetto a Luisa vi diceva in un altro angolo la sua religiosità; un piccolo parapetto di mattoni a traforo, fra il cipresso e l’olea, con due righe di tufi in testa che contenevano un ridente popolo di verbene, petunie e portulache, accennava alla ingegnosità singola- re dell’autore; le molte rose sparse dappertutto parlavano del suo affetto alla 42 L. Ghelfi bellezza classica; il Ficus repens che vestiva le muraglie verso il lago, i due aranci nel mezzo dei due ripiani, un vigoroso, lucido carrubo rivelavano un temperamento freddoloso, una fantasia volta sempre al mezzogiorno, insensi- bile al fascino del nord.” (Piccolo mondo antico di Antonio Fogazzaro)

In un simile contesto, le piante erbacee e le aiuole fiorite divennero elementi fondamentali e il primo ad utilizzarle sistematicamente fu Shirley James Hibberd6 (1825-1890) che nei suoi numerosi saggi sostenne la possibilità per tutti i cittadi- ni, se dotati di buon gusto, e non soltanto, dunque, per le classi sociali più eleva- te, di creare un giardino, seppure limitato alla piccola aiuola antistante la propria abitazione. Egli incoraggiò l’uso delle bordure perenni progettando rose gardens, giardini con rocce e felci, o angoli di ericacee, con una profusione di rododendri e azalee, piantati in modo da accentuare l’effetto naturale e spontaneo. Nel notissimo libro The Wild Garden (1870), uno studio di botanica per la scelta e l’accostamento scientifico delle varie specie di fiori ed arbusti, ancora oggi riconosciuto come uno dei primi testi veramente innovativi in questo spe- cifico campo, William Robinson consiglia l’utilizzo di fiori a profusione, con particolare cura nella composizione dei colori al fine di ottenere effetti cro- matici il più duraturi possibile. Questa tipologia di giardinaggio naturale ed ecologico, basata sulla ricerca della relazione reciproca di fiori ed arbusti autoctoni delle Isole Britanniche e di specie straniere, raggruppati in base alle caratteristiche del suolo, in modo da poter crescere liberamente senza eccessive cure e costi di mantenimento, fu accolta con grande favore nel Regno Unito. Essa è certamente legata allo sviluppo delle scien- ze naturali e delle ricerche scientifiche: William Robinson fu influenzato dagli scritti di Charles Darwin e Alfred Russel Wallace7 che lo spinsero ad indagare sulle relazioni tra le piante ed il loro ambiente, elaborando, nel suo Natural Garden, la teoria sulla naturalizzazione delle piante esotiche provenienti da differenti aree geografiche, con un clima simile a quello inglese, e restringendo il campo di inda- gine ad un assortimento di piante originarie del Nord America, della Grecia, dell’Italia, della Spagna, delle regioni alpine e dell’Asia Minore. Oltre ad un discreto quantitativo di piante d’alto fusto, la preferenza era rivolta alle piante esotiche (come voleva la moda dell’epoca) ma soprattutto ad

6 Tra i suoi saggi sul giardinaggio: The Fern Garden (1869), The Amateur’s Flower Garden (1871); The Ivy (1879) ed i numerosi contributi al periodico Floral World (dal 1858). 7 Alfred Russel Wallace (1823-1913) naturalista e biogeografo gallese. Formulò una teoria dell’evoluzio- ne per selezione naturale, simile a quella di Charles Darwin nello stesso periodo in cui lo stesso Darwin elaborava la propria. Il giardino romantico 43 essenze arbustive, quali Altea, Agnocastus, Spirea…, e molte altre definite “esotiche”. Accanto ad una certa quantità di essenze indigene, si andava infat- ti introducendo un consistente numero di specie non autoctone, considerate ideali per rispondere alle nuove esigenze estetiche e decorative: fra queste anche piante sempreverdi, come Tuja orientalis, o altre come Celtis australis, Fraxinus pendula, Robinia hispida, Tilia platyphyllos, Cercis siliquastrum ecc. (Vannucchi, 1996).

Il Parco dedicato a Jean-Jacques Rousseau ad Ermenonville (Fig. 2), villag- gio del nord della Francia, appare come il primo giardino francese che rompe con l’ordine classico per ispirarsi al modello inglese. L’idea era quella di creare un “giardino della natura”, e gli enciclopedisti incoraggiavano questa “perver- sione” del gusto. Si tratta di arte, non di natura. John Dixon Hunt chiama “terza natura” quest’arte che consiste nel mescolare l’architettura e l’artificio della natura brada o come direbbe Cicerone “prima natura”. Nell’arte dei giardini dell’800 la seconda natura non è contemplata poiché concerne il paesaggio agra- rio e trae la propria origine dall’addomesticamento utilitaristico della natura. Si potrebbe applicarla agli orti, ai frutteti, ai giardini di piante aromatiche che in ogni stagione corredano il parco e il giardino ornamentale (Dixon Hunt, 1996). Ecco una tipica passeggiata di Rousseau a Ermenonville:

“Quando si vide in pieno possesso della libertà e della campagna cui aspi- rava da tanto tempo, la sua contemplazione per la natura raggiunse tali livel- li che egli vi si abbandonò con un trasporto che somigliava all’ebbrezza. [...] Talvolta passeggiava in fertili pianure; altre volte in prati di mille fiori ognu- no dei quali ai suoi occhi aveva una particolare bellezza, talvolta saliva lungo le dorsali dei colli e percorreva i pascoli cui recavano ombre di alberi da frut- to. Il più delle volte, nelle ore più calde, si sprofondava nella foresta, altre volte passeggiava, fantasticando, lungo un corso d’acqua. [...] In generale era sempre troppo occupato a pensare e a fantasticare per badare al cammino; non vedeva che i fiori degli alberi, dei prati, dei corsi d’acqua, e dimenticava tutti i punti di riferimento della bussola, le ore, anche quelle dei suoi pasti.” (Le fantasticherie del passeggiatore solitario di Jean-Jacques Rousseau)

A quel tempo l’arte del giardinaggio si alimenta di esotismo. Si acclimata- no le piante venute da lontano, si importano paesaggi; le “cineserie” invadono i parchi, dove convivono con le rovine e i pergolati. Gli artisti esercitano il loro talento sull’architettura, sulla grazia di un ponte, sul realismo di una grotta o sul corso di un ruscello. 44 L. Ghelfi

Fig. 2 – Il Parco Rousseau ad Ermenonville, realizzato da René de Girardin8 nel 1776

“Vorrei che nella mente il nostro giardiniere fosse distinto nelle sue varie fasi fondamentali della crescita delle piante rustiche in gruppi, aiuole e bor- dure, per le quali la cultura e il buon gusto possono produrre effetti ben riusci- ti; che fossero distinti da esso il giardino roccioso e le aiuole destinate a un’ampia scelta di fiori rustici; che fosse così pure distinto il momento rigo- glioso del giardino subtropicale, quello in qui crescono le piante rustiche di qualità superiore; che fossero infine distinti il comune giardino primaverile e quelli “spontanei” dei bei fiori nativi dei nostri boschi e campi. Quanto il giardino naturale possa costituire complemento, o accompagnare i diversi altri citati, in aree ridotte, può essere giudicato solo sul posto, caso per caso. Nelle estensioni più ampie, dove sul limitare dei prati, nelle macchie, nei par- chi o lungo le passeggiate sotto gli alberi spesso c’è molto spazio, si possono creare dei giardini e nuove piacevoli combinazioni di vegetali.” (William Robinson, maggio 1881)

“Era il giardino più bello e più misterioso che si potesse immaginare. [...] Il terreno era ricoperto di erba, resa scura dal freddo inverno, dalla quale spuntavano cespugli che erano certamente di rose, se ancora in vita. Numerosi rosai avevano allargato i loro rami al punto che sembravano alberelli. Nel

8 René Louis de Girardin (1735-1808), allievo di Rousseau e paesaggista francese, progettò il grande parco all’inglese di Ermenonville in Piccardia, dove si trova il monumento funebre dello stesso Rousseau. Il giardino romantico 45 giardino c’erano altri alberi, ma una delle cose più strane e più affascinanti era che le rose rampicanti vi si erano attaccate con lunghi viticci, formando intrecci ondeggianti fra un albero e l’altro, quasi come bellissimi ponti sospe- si nell’aria. Quei cespugli non avevano né foglie ne rose [...] I loro rami grigi e bruni sembravano un manto che ricopriva tutto, i muri, gli alberi e persino l’erba, dando un’aria misteriosa al giardino.” (Il Giardino segreto di Frances Hodgson Burnett)

Anche in Italia andò presto diffondendosi la nuova tendenza di realizzare giardini e parchi all’inglese, abbandonando il modello geometrico-ornamenta- le ricco di aiuole fiorite e siepi ben potate e simmetriche, tipico della tradizio- ne floristica italiana. L’attuale Parco storico di Villa Sorra (Fig. 3), in comune di Castelfranco Emilia, è una testimonianza vivente di questo cambiamento di gusto (Armandi, 1983; Tosatti & Fiandri, 1990):

“Fu nell’anno 1827 che alla egregia marchesa Ippolita Livizzani, vedova del conte Cristoforo Sorra-Munarini, piacque di tramutare la vecchia forma di que- sto giardino in quella, assai più sfarzosa, risalita in gran voga ai dì nostri, cui generalmente si appella all’inglese; benché tutta italiana cosa ella sia vera- mente […]. Chiamava essa a ministro della saggia larghezza quel versatile inge- gno del chiarissimo Gio. de’ Brignoli di Brünhoff, professore di botanica e agra- ria nella Università di Modena, e in quella medesima primavera ne tracciava egli i precipui viali tortuosi, contornandoli di gruppi di alberi e di cespugli a boschetto, sempre rattenendosi ne’ limiti dell’antico giardino […]”. (La Villa Sorra-Frósini in Gaggio di Carlo Malmusi, 1851)

Fig. 3 – Rovine romantiche nel Parco di Villa Sorra (Castelfranco E.) 46 L. Ghelfi

3. Il verde pubblico tra la fine del Settecento e l’Ottocento

Fino agli inizi dell’Ottocento i giardini erano privilegio di pochi, appan- naggio della sola aristocrazia. Lo stesso parco paesaggistico britannico rap- presentava i fasti del periodo; tuttavia la sua fruizione non era estesa ai ceti sociali più modesti. Solo in epoca vittoriana lo sviluppo incontrollato delle città evidenzia l’esigenza di salvaguardare il più possibile le aree residue di verde urbano, mettendole a disposizione di tutti i cittadini. La fruizione degli spazi verdi si allarga, di conseguenza, ad un’utenza più ampia e, con il pas- saggio da privato a pubblico, il giardino perde il suo carattere di prerogativa delle classi sociali alte. Attorno alla metà dell’Ottocento la Gran Bretagna comincia a dover fare i conti con gli effetti della rivoluzione industriale e dell’espansione commercia- le, soprattutto in termini di avanzata dell’urbanizzazione9. Essa ha come con- seguenze negative innanzitutto il peggioramento delle condizioni di vita della popolazione urbana: l’igiene pubblica è al collasso e il colera miete decine di migliaia di vittime. La domanda di alloggi, soprattutto nell’area londinese, supera notevolmente l’offerta, determinando un generale sovraffollamento. I nuovi quartieri sorgono senza rete fognaria, con case a schiera addossate le une alle altre e con spazi verdi limitati e scadenti. I giardini pubblici, luoghi di godimento collettivo, cioè a disposizione di tutti i cittadini, ancora presenti nella città di Londra all’inizio dell’Ottocento, sono considerati common fields o greens di retaggio medievale, aree verdi inter- ne o vicine alla città, adibite a pascolo e ad attività agricole, vasti spazi in cui si tenevano anche fiere e mercati, il cui utilizzo era aperto a tutti. Sempre con l’avanzare del processo di industrializzazione, i commons e i greens si riduco- no progressivamente al punto che intellettuali e filantropi, riuniti in circoli e società10, si fanno portatori, insieme al governo inglese, di istanze innovative per il recupero di questi spazi e la creazione del cosiddetto “verde pubblico”. I primi giardini di svago britannici che anticipano, per certi versi, l’allesti- mento dei giardini pubblici vittoriani, ebbero il loro periodo di maggiore splendore in pieno Settecento, essendo, in realtà, ancora riservati a pochi, dal momento che l’accesso era a pagamento. Con funzione stagionale, questi giar-

9 Nei primi tre decenni dell’Ottocento Londra passa da 850.000 a 1.500.000 abitanti e, alla fine dell’Ottocento, il 77% della popolazione britannica vive ormai in città medie o grandi. 10 Le charities vittoriane sono numerosissime; relativamente alla tutela del verde e delle bellezze artistiche ed ambientali, ricordiamo ad esempio, la Commons Preservation Society, fondata a Londra nel 1865 per la difesa dei residui di verde urbano a disposizione della collettività, e il National Trust, istituito nel 1894 per conservare e proteggere il patrimonio storico e ambientale della Gran Bretagna. Il giardino romantico 47 dini ricreativi erano luoghi di ritrovo alla moda in cui vivevano organizzate attività ludiche come fuochi d’artificio, concerti, rappresentazioni teatrali e danze. L’esempio più sono i giardini di Vauxhall a Londra, presi a model- lo in molte capitali europee che si doteranno, nel corso dell’Ottocento, di ana- loghi spazi, progettati secondo lo schema londinese, con ampi viali nel verde, archi di trionfo, esedre per la sosta, padiglioni e tea gardens. All’inizio del XIX secolo, la prima area verde londinese ad essere definita “parco pubblico”, attraverso un’apposita legge che ne delibera la creazione nel 1812, è Regent’s Park, ricavato all’interno di un possedimento della corona. Con un’estensione di 150 ettari e una parte centrale di forma circolare riser- vata alla corte, esso prefigura l’assetto che sarà tipico del parco vittoriano, che comporta la fusione tra naturalità della tradizione paesaggistica e lo schema, più geometrico e rigoroso, dei viali e dei percorsi nel verde.

“La carrozza andava avanti fra gli alberi grandi che crescevano ai due lati del viale e protendevano gli ampi rami frondosi ad arco. Cedric non aveva mai visto alberi simili, erano così grandi e maestosi, e i rami si infittivano sui tron- chi possenti. [... ] Gli piacevano i grossi alberi dai rami folti, con il sole del tardo pomeriggio che filtrava in raggi dorati. [...] Provava un grande, strano piacere per la bellezza che scorgeva tra i rami fitti... le grandi e belle radure del parco dove c’erano ancore altri alberi, a volte isolati e maestosi, a volte in gruppi. Di quando in quando oltrepassavano luoghi dove crescevano alte felci in macchie, e spesso l’erba si tingeva di azzurro per le campanule che dondolavano alla leggera brezza.” (Il piccolo Lord Fauntleroy di Frances Hodgson Burnett)

All’interno dei parchi urbani si diffondono anche importanti giardini bota- nici e zoologici, oltre che per il fine prettamente ludico anche a scopo didatti- co e sociale: riflesso del rinnovato interesse per le scienze naturali a seguito delle pubblicazioni di Darwin sull’evoluzione delle specie attraverso la sele- zione naturale. Nella concezione del giardino di paesaggio si inseriscono per- tanto i nuovi interessi scientifico-botanici che trovano corrispondenza nella ricchezza di esemplari di specie esotiche e rare importate, spesso fatte arriva- re per corrispondenza da vivai specializzati, e che si cerca di acclimatare. Grande rilevanza assumono le serre, indispensabili per poter far crescere alcune delicate specie esotiche: le innovazioni tecnologiche permettono di rea- lizzare edifici molto arditi dal punto di vista architettonico, in ferro e vetro, che vengono presi a modello in tutta Europa, diventando, così come i parchi che li ospitano, luoghi di ritrovo molto frequenti. 48 L. Ghelfi

“ – Nella serra! – esclamò Boka, precipitandosi verso la porta. [...] I tre ragazzi poterono riposare un po’. Si guardarono intorno, in quello strano edi- ficio; dalle pareti e dal tetto di vetro penetrava il pallido chiarore della sera. La grande serra era un luogo eccezionale, interessante: essi si trovavano nel- l’ala sinistra; più in là c’era il corpo centrale dell’edificio e, oltre, l’ala destra. C’erano dappertutto delle specie di tinozze tinte di verde, in cui erano piantati alberi dalle foglie larghe e dai tronchi grossi. In lunghe cassette cre- scevano felci e mimose; sotto la grande cupola che sovrastava il corpo cen- trale si ergevano palme dalle foglie a ventaglio e una vera selva di piante tro- picali. Nel mezzo c’era una vasca per i pesci dorati, con una panca accanto. Poi ancora magnolie, lauri, aranci, felci gigantesche: piante dal profumo intenso, soffocante, che riempivano l’aria di un odore di droghe. Quella enor- me sala di vetro, riscaldata a vapore, era sempre grondante d’acqua. Le gocce tamburellavano sulle grandi foglie grasse e al fruscio di un ramo i ragazzi cre- devano sempre di scorgere qualche strana bestia tropicale vagante per quella foresta fitta, calda e umida, tra le verdi tinozze. Là dentro si sentivano al sicu- ro e già pensavano a come poter uscire.” (I ragazzi della via Pál di Ferenc Molnár)

La Palm House (serra delle palme) dei Royal Botanical Gardens di Kew presso Londra, realizzata tra il 1844 e il 1848 da Decimus Burton e Richard Turner, perfetto connubio di eleganza e funzionalità, è uno dei più noti esem- pi, tuttora ammirabile dopo attenti restauri, di questi “giardini d’inverno”11. Istanze estetiche e pratiche sottendono, dunque, la feconda progettualità del periodo vittoriano. Ma la vera novità di questi parchi, consisteva nella creazione di piste per il transito di carrozze che si estendevano lungo il perimetro del parco, riservan- do esclusivamente ai pedoni la parte più interna, suddivisa in aree specifiche attrezzate per sport e attività ludiche come il cricket o il tiro con l’arco.

“I Giardini sono un posto tremendamente grande con centinaia di alberi. I primi che incontrate sono Magnolie, ma non vi peritate di fermarvi là per- ché quello è un posto per personcine con la puzza sotto il naso cui è proibito mescolarsi al popolino e si chiamano così perché, secondo la leggenda si

11 L’edificio in ferro e vetro più famoso del periodo fu il Crystal Palace di Hyde Park, progettato da Joseph Paxton per la Grande Esposizione Internazionale dei lavori dell’industria del 1851, vera apoteosi della glasshouse vittoriana, utilizzato per molteplici manifestazioni sportive e ricreative. L’edificio, dopo esse- re stato tolto da Hyde Park, trovò una nuova collocazione nel parco di Sydenham, a sud di Londra dove, nel 1936, venne distrutto da un incendio. Il giardino romantico 49 vestono in pompa magna. [...] Pensate che qui il cricket si chiama croscé. [...] Ora siamo nella Passeggiata Grande che è tanto più grande delle altre pas- seggiate, quanto vostro padre è più grande di voi. David si domandava se sul principio era piccola e poi era cresciuta e cresciuta fino a diventare grande, e se le altre passeggiate sono i suoi bambini...” (Peter Pan nei giardini di Kensington di James Matthew Barrie)

4. Considerazioni conclusive

Il giardino romantico si configura come deposito della storia e come indi- catore di sensibilità. Luogo della memoria pubblica e privata; basti pensare quanti poemi e pagine di letteratura sui giardini che si affoltiscono tra Settecento e Ottocento insistono sulla memoria eccitata e resa vigile dai segni offerti dal giardino. L’arte del giardino passa tra le mani del giardiniere-arti- sta. Il giardino pittoresco deve tutto all’idea di quadro. Ora il paesaggismo non è più rivolto solo alla tela, ma al giardino naturalistico, e ha lo scopo di tra- sformare la realtà tramite una copia, con gli stessi canoni della pittura (Zuylen, 1995). La letteratura e la pittura hanno il compito di regolare la fantasia e la formazione del paesaggista, la cosiddetta “arte di disporre la natura”. René de Girardin fa una suddivisione della bellezza: pittoresca: che incanta gli occhi; poetica: che interessa lo spirito e suscita la memoria. “Romantico” non descrive solo la scena ma la particolare emozione susci- tata in chi la contempla. Il giardino, dunque, come combinazione fra arte e cul- tura e luogo di meditative passeggiate, come in diverse occasioni Rousseau descrive ne La nuova Eloisa.

“Gli alberi, gli arboscelli, le piante sono l’ornamento e l’abito della terra” (Giulia o la nuova Eloisa di Jean-Jacques Rousseau)

Ringraziamenti

Ringrazio i Proff. Andrea Mary Lord e Giovanni Tosatti dell’Università di Modena e Reggio Emilia per la revisione critica del manoscritto e le integra- zioni al testo e alle illustrazioni. 50 L. Ghelfi

Opere consultate

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Carlotta Giacobbe*, Alessandro F. Gualtieri*, Alberto Viani* The formation of talc during the dehydroxylation reaction of serpentine minerals

Abstract The occurrence of talc which may form during the dehydroxylation reaction of the serpentine mine- rals antigorite, lizardite and chrysotile has been studied. Several experiments were carried out both ex situ and in situ in order to better understand the conditions of formation of this phase. Talc is observed as a metastable phase only during the dehydroxylation reaction of antigorite and, to a les- ser extent, of lizardite. On the other hand, talc formation was not observed during the dehydroxyla- tion reaction of chrysotile because of its corrugated unstable cylindrical lattice that readily prompts the formation of forsterite.

Riassunto In questo lavoro è stata studiata la formazione di talco durante le reazioni di deossidrilazione dei minerali appartenenti al gruppo dei serpentini. Sono stati condotti diversi esperimenti di diffrazione da polveri, sia in situ che ex situ nel tentativo di osservare la formazione di questa fase metastabile. Si è visto che il talco si forma durante la reazione di deossidrilazione dell’antigorite e della lizardi- te. In quest’ultima, la quantità di talco formata è decisamente inferiore a quella che si osserva per l’antigorite. Il talco non è mai stato osservato durante le reazioni di deossidrilazione del crisotilo. Questo è verosimilmente dovuto alla struttura cilindrica di questo minerale che favorisce la rapida distruzione del reticolo e la formazione di forsterite.

Key-words: talc, metastable phase, dehydroxylation of serpentine minerals, XRPD

Parole chiave: talco, fase metastabile, deossidrilazione dei serpentini, XRPD

* Dipartimento di Scienze della Terra, Università di Modena e Reggio Emilia, Largo S. Eufemia 19, 41121 MODENA, tel. 059 2055810 52 C. Giacobbe, A. F. Gualtieri, A. Viani

1. Introduction

Serpentine minerals antigorite, lizardite and chrysotile are layer silicates, ideally with chemical formula Mg3(OH)4Si2O5, composed to a first approxi- mation of Si-centred tetrahedral (T) sheets in a pseudo-hexagonal network joined to Mg-centred octahedral (O) sheets in units with a 1:1 (TO) ratio (Fig. 1a). Since the TO unit is polar and a misfit exists between the smaller param- eters of the T sheet and the larger ones of the O sheet (Bailey, 1988), a differ- ential strain occurs between the two sides of the layer. In lizardite, the misfit is accommodated within the normal, planar 1:1 layer structure by coupled sub- stitution of Al for Si in the tetrahedral sheet and of Al for Mg in the octahe- dral sheet. In antigorite, the misfit is overcome by the modulation of curved layer fragments alternatively pointing up and down. In chrysotile, the strain is released by rolling the TO layer around the fibril axis. The dehydroxylation reaction of serpentine minerals has been studied using X-ray powder diffraction (XRPD) and SEM-TEM electron microscopy (Gualtieri et al., 2012). These serpentine minerals decompose at different temperatures. Chrysotile is stable up to 750 °C, lizardite up to 775 °C and antigorite up to 800 °C, respectively. The three serpentine minerals show different dehydroxylation apparent activation energies Ea: 184 kJ/mol for chrysotile (Cattaneo et al., 2003), 221 kJ/mol for lizardite and 255 kJ/mol for antigorite (Gualtieri et al., 2012). Talc may form as metastable phase during the dehydroxylation reaction of serpentine minerals. Talc is a TOT layer silicate with ideal chemical formula

Mg3(OH)2Si4O10. An Mg-centred octahedral sheet (O) is sandwiched within two Si-centred tetrahedral (T) sheets (Fig. 1b). Talc has been described in a tri- clinic C-centred unit cell (C⎯1) with cell constants a = 5.290(3) Å, b = 9.173(5) Å, c = 9.460(5) Å and α = 90.46(5)°, β = 98.68(5)° and γ = 90.09(5)° (Perdikatsis & Burzlaff, 1981).

Fig. 1 – The basic TO layer of serpentine minerals (a) and talc (b) with an O sheet sandwiched between two T layers Fig. 1 – L’unità strutturale TO del serpentino e quella TOT del talco, composta da uno strato ottaedrico O a sandwich tra due strati tetraedrici T The formation of talc during the dehydroxylation reaction of serpentine... 53

The occurrence of talc in the high temperature reaction sequence of ser- pentine minerals is still an open issue. The presence of talc as metastable prod- uct formed from antigorite has been reported in the literature: Brindley & Zussman (1957), Miller et al. (2003), Llana-Fúnez et al. (2007) and Rutter et al. (2009). Other studies on the stability field of antigorite report the occur- rence of talc as high temperature product together with forsterite (Wunder & Schreyer, 1997). Talc as metastable phase has already been reported by Brindley & Zussman (1957) for platy antigorite and lizardite at 700 °C but not for chrysotile. Candela et al. (2007) observed that talc forms from long-fibre chrysotile from Jeffrey and Thetford mines between 587 and 700 °C. Talc for- mation is accompanied by forsterite co-crystallization. These authors do not report evidence of this finding in their paper, although they claim that talc was identified by diffraction peaks detected at 9.3, 4.6, and 3.13 Å. Talc formation was not observed in short fibres of chrysotile from New Idria, supporting the proviso that chrysotile short fibres inhibit crystallization of metastable phases, whereas chrysotile long fibres retaining water in the fibre bundle, slow down dehydroxylation kinetics and favour the formation of metastable phases (Candela et al., 2007). Ball & Taylor (1963) observed the hydrothermal for- mation of talc with strong preferred orientation from chrysotile only by the combination of high pressure and high temperature. In this work, the occurrence of talc which may form during the high tem- perature reaction sequence of the major serpentine mineral species antigorite, lizardite and chrysotile has been investigated. To this aim, various experiments were carried out using both ex situ and in situ XRPD to determine talc occur- rence during the dehydroxylation process of these minerals.

2. Experimental procedures

The samples investigated in this study are: (i) lizardite from dark-green, massive veins outcropping in the Monte Fico quarries; (ii) antigorite from pale-green, splintery veins in massive serpentinites from Elba Island, Italy; (iii) standard chrysotile asbestos SRM1866A, from an unspecified mine in Canada, provided by the National Institute for Standards and Technologies (NIST). All the samples are well described in Gualtieri et al. (2012). XRPD patterns were collected using a Panalytical X’Pert Pro, available at the Centro Interdipartimentale Grandi Strumenti of The University of Modena and Reggio Emilia. This instrument, with a θ/θ geometry, Cu Kα radiation, and an RTMS (Real Time Multiple Strip) (Gualtieri & Brignoli, 2004) detec- 54 C. Giacobbe, A. F. Gualtieri, A. Viani tor, permitted both ex situ and in situ data collections. Ex situ data were meas- ured after firing the samples around the decomposition temperature (750 °C for chrysotile, 775 °C for lizardite, and 800 °C for antigorite) in a convention- al kiln. The time to reach the isothermal temperature was 30 min. The cooling time was 30 min. To follow the formation of metastable talc in non-isothermal mode, experiments at high temperature were performed using an Anton Paar HTK16 heating chamber (Fig. 2) mounted on the X-ray diffractometer. The sample powders were placed upon the Pt strip, which is at the same time ther- mocouple, heating element, and sample holder. Temperature calibration was obtained by following the thermal expansion of standard samples such as Si NIST 640c, pure synthetic periclase, and pure α-alumina (corundum NIST 676). The time-resolved isothermal runs were performed in the angle range 4- 35 °2θ to eventually record the crystallization of talc up to 1171 °C with a 0.25° divergence and antiscatter slit, 0.04 rad Soller slits, 10 mm mask, and antiscatter knife positioned above the Pt strip. A supplementary Pt foil was placed between the Pt strip and the sample powder to avoid melting of the sample directly on the precious Pt strip. Isothermal runs were also performed in isothermal mode in the temperature range 625-900 °C, using the same experimental conditions. The slope used was of 200 °C/min. The Rietveld analysis of selected data was performed using the GSAS (Larson & Von Dreele 1994) software and its graphical interface EXPGUI (Toby, 2001).

Fig. 2 – The conduction heater mounted on the X-Ray powder diffractometer used for the in situ experiments Fig. 2 – Particolare della camera calda a conduzione utilizzata per gli studi di diffrazione da polveri in situ The formation of talc during the dehydroxylation reaction of serpentine... 55

3. Results and discussion

An example of in situ XRPD experiment in non-isothermal mode from RT to 1171 °C to follow the dehydroxylation of antigorite is reported in Fig. 3. Identical experiments were conducted for lizardite and chrysotile. Fig. 3 shows that at 878 °C, in correspondence with the earlier stages of decomposi- tion of antigorite, a peak attributed to talc appears in the 9-10 °2θ region. The peak is visible up to 1074 °C. The forsterite peak at about 17 °2θ appears at 903 °C in the powder pattern, just before the complete disappearance of the antigorite peak (903-952 °C). Enstatite crystallization (whose peaks are not visible in the selected region) starts only at higher temperature, when antig- orite is completely decomposed. Enstatite forms at expenses of the talc metastable phase and possibly the amorphous phase. With respect to antigorite, lizardite completely decomposes in the 683-878 °C temperature range with the formation of a small amount of talc. The forsterite peak at about 17 °2θ appears at 878 °C simultaneously with the com- plete decomposition of lizardite. Even for lizardite, enstatite crystallization starts only above 1087 °C. For chrysotile, the high temperature reaction sequence is similar to that of the other two serpentine minerals, with the exception that talc formation is not observed. At 878 °C, the major chrysotile peak has disappeared, in correspon- dence with the formation of the forsterite peak at 17 °2θ. Enstatite forms later at temperatures above 1087 °C. A summary of the results with designation of the stability field of the start- ing serpentine phases, the metastable talc phase and forsterite is plotted in Fig. 4. The antigorite>lizardite>chrysotile stability hierarchy is confirmed. Talc formation is simultaneous with the serpentine phase decomposition and forsterite crystallization in antigorite and lizardite whereas forsterite crystal- lization is direct (coherent) from chrysotile. Ex situ data collected on lizardite and chrysotile under the same experi- mental conditions described above for antigorite, confirm the results of the in situ data: talc is observed in minor amounts during the dehydroxylation reac- tion of lizardite, whereas it is not observed during the high temperature sequence of chrysotile. 56 C. Giacobbe, A. F. Gualtieri, A. Viani

Fig. 3 – In situ XRPD for antigorite from RT to 1171 °C. The zoom highlights the occurrence of the major peak of talc. Legend: Atg = antigorite; Fo = forsterite; Tlc = talc Fig. 3 – Esempio di raccolta in situ XRPD per il campione di antigorite. In basso, viene ripor- tato l’ingrandimento della regione che contiene il picco principale del talco. Legenda: Atg = antigorite; Fo = forsterite; Tlc = talco The formation of talc during the dehydroxylation reaction of serpentine... 57

Fig. 4 – Summary of the results of the in situ non-isothermal XRPD from RT to 1171 °C with the stability fields of the serpentine phases, talc and forsterite. Legend: Atg = antigo- rite; Fo = forsterite; Tlc = talc Fig. 4 – Sommario dei risultati delle analisi XRPD in situ in condizioni non isotermiche con l’indicazione dei campi di esistenza delle fasi del serpentino, talco e forsterite. Legenda: Atg = antigorite; Fo = forsterite; Tlc = talco

Fig. 5 reports the results of in situ data for antigorite collected with a 30 min long heating ramp, 60 min long isotherm at 800 °C, and 30 min long cool- ing ramp back to RT. The formation of talc is observed during the ramping up and is well evident at 800 °C. After cooling, talc is still present (not reported here). Results of the in situ data were confirmed by the ex situ data collected on the same sample using a conventional furnace. Rietveld refinements report- ed in Gualtieri et al. (2012) has proven that the peaks corresponding to the 9- Å phase observed during the decomposition of both antigorite and lizardite can be actually fitted using the structure model of talc. 58 C. Giacobbe, A. F. Gualtieri, A. Viani

Fig. 5 – In situ XRPD using the 30 min-60min-30min ramp for antigorite Fig.5 – In situ XRPD per l’antigorite utilizzando la rampa 30 min-60 min-30 min

Our results confirm that the stability of the investigated serpentine miner- als at high temperatures follows the order atg>liz>chr. These results are in agreement with previous petrological and calorimetric data (Caruso & Chernosky, 1979). In general, there may be exceptions because it is well known that the stability field of these minerals also depends upon their com- position [e.g. Al-lizardite is more stable that the corresponding Al-deficient lizardites: Chernosky (1975); antigorites with a more homogeneous structure such as the m (number of tetrahedra in a single chain) = 17 terms are deemed to be more stable: Ulmer & Trommsdorff (1995)]. Evans et al. (1976) also indicate that antigorite is the stable phase in the serpentine-olivine system and that corresponding serpentine-olivine equilibria, in which chrysotile is the ser- pentine phase, are metastable relative to the antigorite analogues. Antigorite continues to be the serpentine phase which participates in dehydration reac- ↔ tions up to the middle amphibolite facies: atg fo + tlc + H2O (Dungan, 1977). According to Dungan (1977), antigorite is more stable because of its complex crystal structure which acts as nucleation barrier to recrystallization of forsterite, whereas the topotactic nature of intergrowth between chrysotile The formation of talc during the dehydroxylation reaction of serpentine... 59 and forsterite results in a lower activation energy and greater relative ease of nucleation. With this premise, it is very likely that talc, which is actually sta- ble up to 850 °C, appears as metastable phase only in antigorite and to a less- er extent in lizardite, as its occurrence depends upon the stability field of these phases. It can further be speculated that the absence of talc as a metastable phase in the high temperature reaction path of chrysotile is due to the interplay of different factors: (i) the corrugated instable cylindrical lattice, in which bonds are strained, promptly releases hydroxyls, essential components of the talc structure; (ii) the corrugated sheets inhibit the formation of flat talc layers; (iii) the strained bonds (either Mg-O-Si and Si-O-Si bridges) in the corrugated cylindrical lattice are prone to break down easily, forming different stable min- eral assemblages. Talc appears in lizardite as a minor phase because with respect to chrysotile: (i) residual hydroxyls, required to form talc, are retained in lizardite at higher temperatures and well within the stability field of talc; (ii) nucleation and growth, which require the breaking of Mg-O bonds and flip- ping of the tetrahedral, are favoured in the flat layers of lizardite. Talc forma- tion should be inhibited in antigorite as this serpentine species also displays corrugated modules, with curvature radii of 99.4–110.9 Å, similar to those of chrysotile (ideally 88 Å) (Capitani & Mellini, 2004). On the other hand, talc is formed because: (i) the conservation of hydroxyls at higher temperatures prompts its formation; (ii) spontaneous talc nucleation is likely to occur in the portion of the modulated structure where periodic reversal already generates fragments of the TOT sequence. Despite the stability fields, the presence of talc in antigorite dehydroxyla- tion process should also be explained by its stoichiometry which is closer to that of talc compared with chrysotile (Wunder & Schreyer, 1997).

3. Final remarks

The aim of this work was to investigate the occurrence and stability field of talc which may form during the high temperature reaction sequence of the major serpentine mineral species antigorite, lizardite and chrysotile, using using both ex situ and in situ X-ray powder diffraction. In agreement with Gualtieri et al. (2012), the results of the study show that the hierarchy of sta- bility antigorite>lizardite>chrysotile is confirmed. Talc formation occurs simultaneously with the serpentine phase decomposition and forsterite crys- tallization in both antigorite and lizardite. The amount of talc formed in antig- 60 C. Giacobbe, A. F. Gualtieri, A. Viani orite is fairly higher than that formed from lizardite. Talc is not observed dur- ing the dehydroxylation of chrysotile whose amorphous decomposition prod- uct promotes the direct crystallization of forsterite.

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Giuseppe Bettelli*, Filippo Panini*

Che fine hanno fatto le Argille Scagliose dell’Appennino emiliano?

Riassunto La cartografia geologica dell’Appennino emiliano sudorientale prodotta negli ultimi vent’anni ha rap- presentato un forte salto culturale rispetto a quella precedente. Le differenze più significative hanno riguardato il complesso delle rocce caotiche a dominante argillitica riportate in passato nelle carte geologiche con vari termini omnicomprensivi più o meno direttamente derivati da quello ottocentesco e fortunatissimo di “Argille Scagliose” (Bianconi, 1840). Sul significato e la genesi di queste strane rocce, così tipicamente appenniniche, generazioni di geologi si sono interrogati e hanno dato vita ad un lungo ed intenso dibattito scientifico. Molti anni più tardi, un nuovo termine ed un nuovo “concet- to” geologico, ancora tipicamente appenninico, quello di “Olistostroma” (Flores, 1955), si è inserito in modo prepotente e, apparentemente, decisivo in questo dibattito. La ricerca delle motivazioni stori- che e culturali che hanno portato alla nascita del concetto di olistostroma indica infatti uno stretto legame con l’interpretazione che è stata data negli anni ‘50 dell’origine e del significato delle argille scagliose appenniniche. Questo fatto sembra spiegare anche perché soltanto a partire dagli anni ‘80, ossia 25 anni dopo l’introduzione del termine olistostroma nella letteratura geologica, nell’Appenni- no emiliano, area tipo delle argille scagliose, i veri olistostromi siano stati sistematicamente ricono- sciuti e distinti dalle Unità Liguri, Subliguri ed Epiliguri e da altri tipi di rocce caotiche. La rilettura della letteratura geologica prodotta negli ultimi trent’anni sulle rocce caotiche dell’Appennino emi- liano sudorientale indica che questa distinzione ha avuto un ruolo fondamentale non solo per il rico- noscimento delle macrostrutture e per la comprensione dell’evoluzione tettonica di quella specifica area, ma dell’intero Appennino settentrionale. Questo è ben testimoniato dalla recente proposta di un modello evolutivo per il cuneo di accrezione oceanico ligure dell’Appennino settentrionale che fa rife- rimento ad un meccanismo di prevalente erosione tettonica frontale a cui sarebbe andato incontro durante i successivi stadi collisionali. Questo modello permette di attribuire ad un’unica causa l’ori- gine di svariati tipi di rocce caotiche affioranti nell’Appennino emiliano, molto diverse tra loro e che sono state generate sia da processi sedimentari sia tettonici.

Abstract The historical and cultural motivations behind the origin of the olistostrome concept are first explored, showing that this concept is strictly related to the interpretation of the “argille scagliose” which was carried out in Italy during the 1950s. Our attempt is to explain why only during the 1980s, i.e., 25 years

* Dipartimento di Scienze della Terra, Università di Modena e Reggio Emilia, Largo S. Eufemia 19, 41121 MODENA, e-mail: [email protected], [email protected]. 62 G. Bettelli, F. Panini later, true olistostromes in the Emilia Apennines – that is the type area of argille scagliose – were tho- roughly distinguished from the Ligurian/Epiligurian units and other types of chaotic rocks (dis- membered formations, tectonic melanges or melanges of unknown origin). The essential role of this distinction, finally achieved in this region, is strengthened for a more detailed reconstruction of the tectonic evolution of the whole Northern Apennine orogenic belt. This result clearly emerges by reviewing the geological works on the chaotic rocks published during the 1980s and the following more recent papers on this subject, which account for the present-day deeper knowledge on strati- graphy, structure and tectonic evolution of this mountain chain. Finally, the new, recent mountain scale evolutionary tectonic model proposed by Vannucchi et al. (2008) and Remitti et al. (2011) for the Northern Apennines is pinpointed. This seems to have the potential of a powerful tool for lin- king the origin of various kinds of Northern Apennine chaotic rocks to a common primary cause: a dominant mechanism of frontal tectonic erosion affecting a former oceanic accretionary wedge during the subsequent collision processes.

Parole Chiave: Appennino settentrionale, argille scagliose, rocce caotiche, olistostroma, mélange

Key words: Northern Apennines, argille scagliose, chaotic rocks, olistostrome, melange

1. Introduzione

I geologi, ma anche altri professionisti o semplici appassionati di scienze naturali, che negli anni ‘70 del secolo scorso avessero consultato le carte geo- logiche dell’Appennino reggiano, modenese e bolognese avrebbero avuto a che fare con un “oggetto misterioso” che occupava gran parte dell’area medio- montana e pedemontana. Questo “oggetto” era un particolare corpo roccioso denominato in vario modo (Complesso Caotico pluriformazionale, Alloctono indifferenziato, ecc.) che in larga misura corrispondeva a quell’insieme di rocce altrettanto enigmatico noto in precedenza con il nome di “argille sca- gliose”. Quest’ultimo termine è stato largamente utilizzato dalla metà dell’Ottocento fino agli anni ‘60 del secolo scorso (e da alcuni geologi anche fino ai giorni nostri) per descrivere nel loro complesso rocce a dominante argillitica prive di un apparente ordine stratigrafico, cioè le rocce caotiche appenniniche. I risultati del rilevamento geologico sistematico del versante padano dell’Appennino settentrionale, effettuato negli ultimi trent’anni, hanno porta- to alla scomparsa nella nuova cartografia geologica a varia scala che ne è deri- vata dei vari termini (argille scagliose ed eredi) utilizzati per indicare com- plessivamente queste rocce caotiche. In questa nota si cercherà di ripercorrere il percorso storico, culturale e con- cettuale che ha portato all’abbandono delle antiche denominazioni e di pun- Che fine hanno fatto le Argille Scagliose dell’Appennino emiliano? 63 tualizzare alcuni problemi relativi alle varie nuove suddivisioni proposte per queste particolari ed in un certo senso affascinanti rocce dell’Appennino emi- liano che per lungo tempo sono state al centro del dibattito scientifico geolo- gico, non solo in Italia. Da quando infatti Bianconi (1840) coniò l’originalissimo e fortunatissimo termine argille scagliose, generazioni di geologi appenninici hanno discusso a lungo su che cosa si dovesse intendere con quella denominazione. Lo stesso accadde quando, circa un centinaio d’anni dopo, un altro italiano, Flores (1955), riuscì ad esportare in tutto il mondo un altro italicissimo termine, quel- lo di olistostroma. Si tratta in entrambi i casi di termini che hanno avuto una grande diffusione, ma che hanno avuto destini opposti. L’uno, argille scaglio- se, originariamente coniato come termine litologico/descrittivo, ha subito nel tempo varie trasformazioni per assumere alla fine un significato genetico e paleostrutturale/stratigrafico (C.N.R., 1992) attraverso un dibattito durato oltre un centinaio d’anni. L’altro termine, olistostroma, originariamente invece pen- sato come termine genetico, è stato trascinato nella discussione ancora aperta sull’origine delle argille scagliose appenniniche, determinando la sovrapposi- zione e contaminazione dei due diversi termini e concetti. A oltre mezzo secolo dalla sua invenzione e introduzione nella letteratura geologica, il termine olistostroma gode tuttora di ottima salute, di un grande successo, ed è comunemente impiegato in tutto il mondo. Ciononostante, per- mangono ancora molte incertezze sull’impiego che storicamente ne è stato fatto e ne viene fatto attualmente. Esplorare le motivazioni storiche e culturali che hanno portato alla nascita del concetto di olistostroma richiede di ripercorrere il lungo cammino che ha contrassegnato in Italia la nascita e lo sviluppo del termine e concetto di argil- le scagliose. In questo percorso a ritroso si possono ritrovare anche le ragioni che hanno permesso solo negli anni ‘80 (e hanno impedito in precedenza) di distinguere in modo affidabile nell’Appennino emiliano gli olistostromi da altri tipi di rocce caotiche di diversa origine. Il confronto tra le conoscenze sulla geologia regionale di quell’area precedenti e successive, così come si può desumere dalla letteratura prodotta negli anni, permette di comprendere quale ruolo fondamentale abbia giocato questa essenziale distinzione per giungere ad una più dettagliata ricostruzione dell’evoluzione tettonica non solo dell’Appennino emiliano, ma dell’intera catena nord-appenninica. 64 G. Bettelli, F. Panini

2. Uno sguardo al passato

Il termine olistostroma fu introdotto nella letteratura geologica da Flores nel 1955 (Flores, 1955). Nonostante le iniziali incertezze e perplessità della comunità scientifica italiana il termine era destinato ad una grande diffusio- ne e lunga vita. Infatti, assieme al fortunatissimo argille scagliose coniato da Bianconi (1840), è uno dei pochi termini inventati da un geologo italiano ancora largamente utilizzato nella letteratura geologica mondiale (per esem- pio: Heck, 2000; Peybernes et al., 2001; McConnel et al., 2002; Cartier & Faure, 2004; Kemkin & Taketani, 2004; Medialdea et al., 2004; Aalto, 2006; Barnes et al., 2006; Wajsprych et al., 2006; Yule et al., 2006; Franco-Rubio et al., 2007; Jin et al., 2007; Stǎnoiu, 2008; Kosun et al., 2009; Shu et al., 2010; Okay, 2011). La presentazione e definizione di questo nuovo termine avvenne alla metà del secolo scorso, ma gli oggetti a cui applicarlo erano già stati descritti in precedenza in Sicilia da diversi autori (Ogniben, 1953, 1954; Mezzadri & Rigo de Righi, 1955; Rigo de Righi, 1954, 1955; Tamajo, 1954) ed unanimemente interpretati come depositi detritici dovuti a processi sedi- mentari per frane sottomarine. Ciò nonostante, i geologi italiani iniziarono immediatamente a discutere sia sul significato del termine olistostroma, sia sulle caratteristiche che dovevano possedere le rocce da indicare con questa denominazione (cfr. Beneo, 1956a, 1956b, e discussione in Beneo, 1957). La controversia sulla definizione del termine olistostroma nacque, e potrebbe essere considerata ancora in corso, poiché si tratta di un termine non descrittivo, ma genetico, che designa il risultato di un processo deposi- zionale. Come dimostra la storia della Scienza, la comunità scientifica rara- mente trova un consenso nella definizione di termini genetici, a causa del- l’esistenza contemporanea di diverse interpretazioni dello stesso fenomeno. Inoltre, il loro significato è altamente instabile nel tempo poiché dipende dal progresso delle conoscenze. Un destino comune ebbe anche il termine argil- le scagliose, benché inizialmente ed esplicitamente concepito come termine descrittivo (Bianconi, 1840). L’autore che si fece rigidamente propugnatore dell’applicazione del concetto di olistostroma, così come definito origina- riamente da Flores (1955, 1956, 1957), fu Beneo (1956a, 1956b, 1957). Chiaro era l’intento anche di questo autore di comprendere sotto un’unica denominazione tutti i possibili differenti prodotti della gravità, intesi come il risultato di processi sedimentari. Beneo intravide infatti la possibilità di accomunare sotto un’unica denominazione tutti i possibili differenti tipi di rocce derivanti da “risedimentazione”, dalle facies prossimali (argille sca- gliose, flysch) a quelle distali (torbiditi), accomunati dall’essere stati gene- Che fine hanno fatto le Argille Scagliose dell’Appennino emiliano? 65 rati da un unico agente, la gravità. Un così ampio significato del termine oli- stostroma non poteva non ingenerare discussioni, incomprensioni, errate interpretazioni ed applicazioni. Cosa che accadde puntualmente. Non si può non leggere d’altro canto in questa interpretazione l’influen- za da una parte dell’allora recente scoperta (Migliorini, 1944, 1950; Kuenen & Migliorini, 1950) dell’origine degli “strati gradati” e dei sedimenti gros- solani in ambienti bacinali profondi per opera di correnti di torbida ad alta densità (cfr. Mutti et al., 2009, cum biblio.), e dall’altra l’introduzione nell’Appennino settentrionale del concetto di frane orogeniche da parte di Migliorini (1933, 1945, 1949) come meccanismo di formazione delle argil- le scagliose ed il forte impatto culturale che ne ebbe la sua divulgazione da parte di Merla (1952) a sostegno della loro alloctonia. Non sembra pertanto casuale che il termine olistostroma sia stato inven- tato in Italia nella prima metà degli anni ‘50, quando appunto il problema riguardante l’origine delle argille scagliose sembrava aver finalmente trova- to una soluzione da molti condivisa (per tettonica gravitativa, sotto forma di frane orogeniche). Le argille scagliose appenniniche avevano tormentato i geologi italiani per oltre un secolo e finalmente l’idea di una loro alloctonia attraverso processi tettonici gravitativi, attraverso successive frane orogeni- che, stava ormai ricevendo un consenso quasi generale per merito di Merla (1952). Nell’Appennino settentrionale il rifiuto all’accettazione delle ipotesi fal- diste (cfr. Carmignani & Giglia, 1984; Dal Piaz & Dal Piaz, 1984; Merla, 1984; Trevisan, 1984, cum biblio.) aveva portato inizialmente diversi autori a parlare di fenomeni più o meno locali di “iniezione”, “intrusione” e di “tra- bocco” oppure di tipo diapirico delle argille scagliose (per esempio: Anelli, 1915, 1923a, 1923b; Principi, 1925, 1928, 1929, 1930), ossia di spostamen- ti prevalentemente verticali, secondo idee del tutto simili a quelle già espres- se alla fine dell’Ottocento da Bombicci (1881, 1882, 1889). Il concetto di spostamenti orizzontali attraverso movimenti gravitativi, già proposto a scala regionale dallo stesso Bombicci (1881, 1882) e poi da Bonarelli (1902) (Fig. 1), lentamente si fece strada alla piccola scala (Bonarelli, 1929; Principi, 1929) dove, in alternativa ai famigerati “carreg- giamenti”, si cominciò a parlare di “scivolamenti” (Bonarelli, 1929; Signorini, 1948) e “slittamenti” per arrivare infine alle “colate” (Merla, 1933; Ruggieri, 1957; Signorini, 1935, 1941, 1943, 1944, 1957). Nell’Appennino settentrionale, pertanto, già prima dell’introduzione del concetto di olistostroma la nomenclatura tettonica faceva ricorso ad una ter- minologia analoga a quella impiegata nella descrizione dei processi sedi- 66 G. Bettelli, F. Panini mentari gravitativi superficiali subaerei. Questo fatto spiega sia l’ideazione delle frane orogeniche da parte di Migliorini (1933, 1949) sia la definizione che ne diede il suo inventore (Migliorini, 1949) che le rendeva in pratica indistinguibili, dal punto di vista tessiturale e per dimensioni, dalle frane subaeree se non per il processo che aveva dato origine alla formazione del rilievo topografico da cui si erano formate: di tipo tettonico (cunei compo- sti) o per processi di erosione superficiale (Migliorini, 1949, pag. 77). D’altra parte l’accettazione ed affermazione delle ipotesi alloctoniste nell’Appennino settentrionale, per il succedersi nel tempo e nello spazio di frane orogeniche successive e non secondo falde coerenti traslate dalla gra- vità o da spinte da tergo (Merla, 1933, 1949, 1952), lo si deve proprio anche all’antica necessità di motivare l’insolita struttura delle argille scagliose: al loro aspetto caotico a tutte le scale ed alla loro incoerenza stratigrafica, ovvero alla supposizione che esse rappresentassero una mescolanza di fram- menti di unità tra loro stratigraficamente estranee (per esempio: Capellini, 1883; Uzielli, 1883; Bonarelli, 1946; Merla, 1949, 1950, 1952, 1957; Signorini, 1957). Nei limiti conoscitivi di quegli anni ed in questa sovrap- posizione concettuale e di nomenclatura tra processi tettonici e sedimentari (Merla, 1964) si possono ritrovare, almeno in parte, le radici storiche che hanno per lungo tempo impedito nell’Appennino emiliano una chiara distin- zione tra rocce caotiche derivanti dalla deformazione tettonica (argille sca- gliose) e sicuri olistostromi. Che questa cultura abbia profondamente influenzato per lungo tempo il pensiero di molti geologi che hanno fatto ricerche nell’Appennino settentrionale è ben testimoniato dai numerosi lavo- ri tesi a tentare di meglio definire o ridefinire i termini genetici olistostroma ed olistolite, al fine di renderli utilizzabili nella pratica geologica di terreno. Da questo punto di vista può essere sintomatico il fatto che una discussione terminologica fosse ancora in atto dopo un decennio dall’introduzione di questi termini. Esemplari da questo punto di vista sono i lavori di Jacobacci (1965), Abbate et al. (1970), Broquet (1970a, 1970b, 1973, 1978, 1980), Elter & Trevisan (1973), Hoedemaeker (1973) ed Abbate et al. (1981) i quali ben esemplificano il dibattito in corso sul significato da attribuire al termine olistostroma che spaziava da sicuri depositi clastici per colate sottomarine coesive di fango e detrito (brecce argillose, depositi da debris flows: Tamajo, 1954; Beneo, 1957) ad intere falde (Marchetti, 1957; Ogniben, 1969; Hoedemaeker, 1973). In queste discussioni terminologiche si trovano anche le ragioni della controversia in Italia riguardante la distinzione tra argille scagliose o Complesso caotico (Abbate & Sagri, 1970) e sicuri depositi deri- vanti da frane sottomarine (olistostromi). Che fine hanno fatto le Argille Scagliose dell’Appennino emiliano? 67

Il risultato di questo prolungato dibattito è che nell’intervallo di tempo compreso tra il 1955 ed il 1980 solo pochi veri ed indiscussi olistostromi furono riconosciuti e separati dalle argille scagliose (ossia dalle Unità Liguri e Subliguri). In ampie aree dell’Appennino settentrionale, ed in particolare nell’area tipo delle argille scagliose, ossia nell’Appennino emiliano sudo- rientale (Merla, 1952), le rocce caotiche ivi affioranti continuarono ad esse- re cartografate come un insieme indistinto, anche se ormai il termine argille scagliose era stato soppiantato da nuove denominazioni quali alloctono indifferenziato (Merla, 1957) o Complesso caotico (Abbate & Sagri, 1970). Nell’Appennino settentrionale, nella maggior parte dei casi, gli olisto- stromi individuati riguardarono particolari relazioni anomale, già segnalate dagli autori precedenti (per esempio Anelli, 1915, 1923a, 1923b; Principi, 1930; Losacco, 1951), tra argille scagliose e successioni torbiditiche oligo- mioceniche di avanfossa (per esempio: Elter & Schwab, 1959; Abbate & Bortolotti, 1962; Nardi & Tongiorgi, 1962; Merla, 1964; Nardi, 1964; Sestini, 1968), tra argille scagliose e Successione epiligure (Papani, 1963, 1972; Fazzini & Tacoli, 1964; Losacco, 1967; Gelati et al., 1974), tra argil- le scagliose e formazioni plioceniche del margine appenninico padano (Papani, 1959; Losacco, 1967).

Fig. 1 – Sezione schematica paleogeografica di Bonarelli (1902) attraverso l’Appennino set- tentrionale, dal Tirreno (a sinistra) alla “depressione padana” (a destra), durante il Miocene medio. Le argille scagliose (c nella figura), considerate dall’Autore di età eocenica superiore e collocate alla base stratigrafica del Macigno, sul versante pada- no dell’Appennino (a destra nella figura) rappresenterebbero il risultato di uno sci- volamento gravitativo dovuto al sollevamento dell’area tirrenica. Ciò secondo l’Autore motiverebbe il maggior grado di caoticità ed eterogeneità delle argille sca- gliose dell’Emilia rispetto a quelle affioranti sul versante tirrenico 68 G. Bettelli, F. Panini

Da un punto di vista storico il forte impatto culturale esercitato dal con- cetto di frane orogeniche sembra ben testimoniato dal fatto che ancora nel 1981 (Abbate et al., 1981) si riteneva esistesse una sorta di graduale tran - sizione tra frane orogeniche ed olistostromi (Fig. 2), ossia tra falde tettoniche di gravità e frane, sedimentarie, sottomarine: la sola linea di demarcazione tra i prodotti di questi due diversi tipi di fenomeni (e della loro nomenclatura) era ritenuta, infatti, solo di tipo dimensionale (Migliorini, 1949). Ai forti condi- zionamenti imposti dalle idee e dalla cultura geologica di quegli anni ci sem- bra possa essere imputato il mancato riconoscimento degli estesissimi e poten- ti olistostromi affioranti nell’Appennino emiliano sudorientale, quando questi non rappresentavano un’intercalazione di materiale del tutto estraneo all’in- terno di una regolare successione stratigrafica.

3. Nuove prospettive

A partire dagli anni ‘80 si fece finalmente strada la possibilità di distinguere nell’Appennino emiliano gli olistostromi sia dalle argille scagliose (Merla, 1949, 1952, 1957), argille indifferenziate (Thieme, 1962; Bongiorni, 1962), alloctono indifferenziato, alloctono indifferenziato caotico (Merla, 1957; Losacco, 1966, 1967) o Complesso caotico (Abbate & Sagri, 1970), ossia dalle formazioni smembrate delle Unità Liguri/Subliguri, e sia da altri tipi di rocce caotiche quali i mélanges tettonici ed i mélanges di ignota origine (Bettelli & Panini, 1985a, 1985b, 1987, 1989, 1992a, 1992b; Bettelli et al., 1987a, 1987b, 1987c, 1989a, 1989b, 1989c, 1994, 1996a, 1996b; Castellarin & Pini, 1989; Pini, 1999; Cowan & Pini, 2001; Pini et al., 2004; Vannucchi & Bettelli, 2002; Bettelli & Vannucchi, 2003; Vannucchi & Bettelli, 2010). Che fine hanno fatto le Argille Scagliose dell’Appennino emiliano? 69

Fig. 2 – Mappa concettuale (A) che mostra il legame genetico tra frane orogeniche ed olisto- stromi e (B) diagrammi che illustrano la possibilità di distinguere gli olistostromi e le frane orogeniche sulla base di un criterio di tipo dimensionale, suggerendo implicita- mente una graduale transizione in termini di caratteristiche litologico-tessiturali secondo Abbate et al. (1981) 70 G. Bettelli, F. Panini

Uno degli ostacoli principali che fu necessario rimuovere, prima di poter affrontare in modo nuovo il problema delle rocce caotiche emiliane, fu proprio l’insieme dei disconcetti legati ai termini “argille scagliose” ed “olistostro- ma”. Si trattava di ostacoli di carattere prettamente culturale, rimuovibili sol- tanto se si fosse tornati ad osservare direttamente sul terreno con occhi nuovi e senza pregiudizi gli oggetti che avevano portato all’introduzione di questi termini nella letteratura geologica, come solo possono fare nuove generazioni di ricercatori. Un’occasione storica (e forse irripetibile) che si prestò a questo scopo fu il Progetto Cartografia Geologica alla scala 1:10.000 dell’Appennino Emiliano-Romagnolo, promosso e finanziato all’inizio degli anni ‘80 dalla Regione Emilia-Romagna, i cui risultati confluirono nei decenni successivi nella redazione della nuova Carta Geologica d’Italia alla scala 1:50.000 (Progetto di cartografia geologica nazionale CARG). Giovani geologi, ormai culturalmente estranei alle idee che avevano dominato i decenni precedenti, ma influenzati e formati nelle nuove idee della tettonica globale e dalla risco- perta e reinterpretazione del termine mélange da parte di Hsü (1968, 1974), seppero cogliere quell’occasione. Essi tornarono alla sistematica osservazione direttamente sul terreno di quelle rocce così discusse. I risultati di quell’intenso, lungo e laborioso lavoro, condotto su scala regionale, utilizzando il più classico dei metodi per acquisire nuova conoscen- za da parte del geologo, ossia l’osservazione diretta delle rocce e la cartogra- fia geologica, permisero non solo la distinzione di diversi tipi di rocce caoti- che, ma aprirono finalmente la strada alla possibilità di studiarle, con vari metodi, e di utilizzarle per tentare di migliorare le conoscenze stratigrafiche e strutturali di quelle regioni e dell’intero Appennino settentrionale.

4. Le rocce caotiche dell’Appennino emiliano

L’aggettivo caotico in geologia può assumere significati un po’ diversi a seconda del contesto in cui viene utilizzato (cfr. Bates & Jakson, 1987). Nel linguaggio comune indica un oggetto od evento confuso, disordinato, intrica- to, indistinto, ecc., con tutti i possibili sinonimi di questi termini i quali in ogni caso significano l’esatto contrario di ordinato e chiaro, di intelligibile, di lam- pante e trasparente, ecc. Implicito è quindi il concetto di aver a che fare con un oggetto di aspetto, di forma o geometria, sorprendente e fuori dalla norma. L’aggettivo “caotico” è quello con il quale negli anni ‘70 e ‘80 (terreni caoti- ci eterogenei, complesso argilloso caotico, complesso argilloso caotico indif- ferenziato, alloctono indifferenziato caotico, Complesso caotico, ecc.; cfr., per Che fine hanno fatto le Argille Scagliose dell’Appennino emiliano? 71 esempio, Carta Geologica d’Italia: Foglio 73 “Parma”, 86 “Modena”, Foglio 97 “S. Marcello Pistoiese”, Foglio 98 “Vergato”, Foglio 106 “Firenze”; Abbate & Sagri, 1970; Bruni, 1973; C.N.R., 1982; ecc.) si era cercato di supe- rare la difficoltà nell’uso dei termini argille scagliose, ormai irrimediabilmen- te incrostato da connotazioni stratigrafiche e genetiche (Merla, 1952), ed oli- stostroma il quale invece aveva sempre onestamente proclamato la propria identità di termine genetico, in quanto quest’ultima è esplicitamente contenu- ta nella radice etimologica. La prima sfida che i rilevatori del Progetto Cartografia Geologica dell’Appennino Emiliano-Romagnolo avrebbero dovuto vincere per raggiun- gere l’obiettivo di costruire una nuova e più moderna cartografia fu proprio quella di trovare un modo per superare l’apparente disordine in rocce che, pur essendo tipicamente sedimentarie e non metamorfiche, erano caratterizzate dall’assenza di superfici di stratificazione primaria lateralmente continue, dalla mancanza di forme regolari e contraddistinte da geometrie complesse. Scoprire in queste rocce l’esistenza di un ordine e di una razionale geometria era indispensabile, poiché una carta geologica è per sua natura una rappresen- tazione geometrica ordinata e coerente della forma, delle dimensioni e del- l’assetto spaziale dei corpi che in essa sono rappresentati. La seconda sfida da vincere era rappresentata dalla necessità di classifica- re, ordinare e denominare i corpi rocciosi distinti e cartografati. Molte delle rocce dell’Appennino emiliano erano infatti alquanto insolite e fuori dall’or- dinario ed i principi classici della stratigrafia e della classificazione litostrati- grafica apparivano a volte del tutto inadeguati o insufficienti. La terza sfida da vincere era non solo quella di cercare di scoprire la natu- ra ed origine degli oggetti cartografati, di svelare i processi ed i meccanismi che li avevano generati, ma anche quella di motivare la loro presenza nel qua- dro della geologia appenninica: perché questi oggetti sono proprio qui e que- sti eventi si sono verificati qui ed in un determinato momento? I concetti di argille scagliose e di olistostroma non potevano essere assun- ti a modello nella pratica di rilevamento e di classificazione e nomenclatura delle rocce caotiche emiliane. Per quanto riguarda il primo termine non vi è qui la necessità di motivare in modo approfondito questa affermazione: basti pensare alle discussioni ottocentesche e dei primi anni del Novecento su che cosa si dovesse intendere con argille scagliose; discussioni ancora non con- cluse, né con la nota sintesi di Merla (1952), né con le successive precisazio- ni di questo autore (Merla, 1957, 1964). Basterebbe ricordare a questo propo- sito la conclusione a cui giunse Penta (1950): “Si deve pertanto riconoscere che il termine argilla scagliosa soltanto in senso petrografico ha significato 72 G. Bettelli, F. Panini definito… Nel linguaggio geologico il termine non ha di per sé un significato specifico. Non appare cioè giustificato l’uso che si fa, sic et simpliciter, del ter- mine argilla scagliosa per indicare una formazione geologica, intesa come unità tettonica… Soltanto per convinzione, purché esplicitamente dichiarata ed accettata dalla maggior parte dei petrologi e geologi, il termine formazione di argille scagliose per antonomasia potrebbe indicare la formazione di argil- le scagliose alloctone rimaneggiate fra il Cretaceo Superiore e l’Eomiocene e ricoprenti vaste aree dell’Appennino, il complesso, cioè, argilloso, scaglioso, spesso variegato e con esotici diversi, di varia età (Giura-Miocene) che si trova trasgressivo (o incluso) tettonicamente sulle (o nelle) formazioni autoctone dell’Appennino.” Per quanto riguarda il termine olistostroma, oltre a quanto già detto sopra, crediamo sia sufficiente ricordare che indicando un “accumulo dovuto a slitta- mento” (Flores, 1955, 1957) esso non descrive un prodotto ben definito, rico- noscibile in affioramento sulla base dei caratteri strutturali e tessiturali, ma qualsiasi accumulo generato da meccanismi per frana (Jacobacci, 1965). La pratica di terreno e l’esperienza maturata durante il rilevamento nelle rocce caotiche dell’Appennino emiliano (Bettelli & Panini, 1985a, 1985b, 1987, 1989; Bettelli et al., 1994; 1996a, 1996b) portarono sperimentalmente alla conclusione che è possibile stabilire criteri oggettivi utili soltanto a distin- guere tra loro: • i prodotti della sedimentazione s.s.; • i prodotti della deformazione s.l. (per meccanismi tettonici o gravitativi sedimentari). A questi criteri oggettivi fondamentali, universalmente validi, furono affiancati altri criteri più o meno soggettivi, e si ottenne in questo modo la pos- sibilità di distinguere, con un diverso grado di affidabilità, i seguenti tipi fon- damentali di rocce caotiche cartografabili: • brecce sedimentarie o brecce argillose (depositi di colate di fango e detri- ti, depositi di debris flow); • formazioni smembrate (tettoniti non metamorfiche) senza blocchi eso- tici; • formazioni smembrate (tettoniti non metamorfiche) con blocchi esotici; • formazioni smembrate (tettoniti non metamorfiche) interpretate come dislocate dalla gravità; • associazioni di formazioni smembrate (tettoniti non metamorfiche) e di brecce sedimentarie. Che fine hanno fatto le Argille Scagliose dell’Appennino emiliano? 73

4.1 Le rocce caotiche derivate da sedimentazione s.s. In Sicilia, già all’inizio degli anni ‘50, venivano distinte le argille breccia- te, le brecce argillose, le tessiture puddingoidi e le tessiture brecciate dalle tessi- ture scagliettate (Ogniben, 1953, 1954; Mezzadri & Rigo de Righi, 1953; Rigo de Righi, 1953, 1954, 1957; Beneo, 1956a, 1956b, 1957), ma non vi era la piena consapevolezza che si trattasse di prodotti di meccanismi del tutto differenti da quelli all’origine delle argille scagliose (cfr. Beneo, 1957; Rigo de Righi, 1957). Infatti, i primi olistostromi distinti nell’Appennino emiliano (Papani, 1959, 1963, 1972; Fazzini & Tacoli, 1964; Nardi & Tongiorgi, 1962; Losacco, 1967; ecc.) non furono, come già si è detto, riconosciuti sulla base delle loro caratteristiche tessiturali, ma fondamentalmente per il fatto che si trattava di materiali litologi- camente e stratigraficamente del tutto estranei alla successione all’interno della quale si rinvenivano, in quanto provenienti dalle argille scagliose (Fig. 3).

Fig. 3 – Uno dei primi esempi di olistostroma distinti nell’Appennino emiliano all’interno della Successione epiligure. Depositi di brecce argillose (depositi di debris flow coesivi) sotto- stanti la rupe di Canossa (Formazione di Pantano del Gruppo di Bismantova: Burdigaliano sup.-Langhiano) nell’Appennino reggiano. Questo potente corpo caotico in questa località è intercalato stratigraficamente nei depositi pelitico-marnosi di scarpata della Formazione di Antognola (Oligocene sup.-Aquitaniano). Le masse di forma irrego- lare e di colore biancastro, visibili nella parte alta della foto (ANT), sono degli inclusi marnosi appartenenti alla Formazione di Antognola all’interno delle brecce argillose 74 G. Bettelli, F. Panini

Nell’Appennino emiliano durante gli anni ‘80 fu eseguita quell’operazione che Flores (1955, 1957), nella sua definizione di olistostroma, definì “non pratica”, ossia quella di distinguere cartograficamente le brecce argillose o argille breccia- te dalle “tettoniti argillose o argille scagliose” (Beneo, 1957). In sostanza sul ter- reno il concetto di olistostroma fu ristretto a comprendere soltanto i depositi deri- vanti da colate di fango e detrito (depositi di debris flow), risultato di meccanismi di sedimentazione per flussi gravitativi di materiali coesivi ad alta densità (Rigo de Righi, 1954; Beneo, 1956a, 1957), i soli meccanismi che sono in grado di gene- rare una nuova roccia (un nuovo litotipo) attraverso la disaggregazione e distru- zione completa della roccia madre o delle rocce madri (Bortolotti, 1962a; Jacobacci, 1965). Questi prodotti possono sempre essere oggettivamente ricono- sciuti sul terreno e distinti (Fig. 4) sulla base delle loro proprietà tessiturali e com- posizionali alla scala del campione (Bettelli & Panini, 1985a, 1987, 1989, 1992a, 1992b; Bettelli et al., 1987b, 1989b, 1995, 1996b, 2006) indipendentemente dalla natura dei contatti con le rocce circostanti che possono essere ancora primari, oppure secondari (strutturali o meccanici per deformazione tettonica successiva). Questo approccio sperimentale portò ad un esame comparato dei diversi tipi di masse caotiche affioranti sul versante padano dell’Appennino setten- trionale. Ciò mise in evidenza con chiarezza che sulla base di questo semplice

Fig. 4 – La natura sedimentaria delle brecce a matrice argillosa o brecce argillose è messa in evidenza anche alla scala dell’affioramen- to (A) dalla tipica tessitura clastica (clasti litoidi dispersi in una vera matrice pelitica detritica) meglio osservabile, tuttavia, alla scala del campione (B) ed in sezione sottile (C) Che fine hanno fatto le Argille Scagliose dell’Appennino emiliano? 75 criterio tessiturale era sempre possibile riconoscere i corpi caotici di origine sedimentaria generati da colate sottomarine di fango e detrito. Anche quando questi corpi caotici apparivano interessati da una struttura scagliosa (Fig. 5) con carattere penetrativo (Castellarin et al., 1986) l’originaria tessitura clasti- ca poteva essere ancora riconosciuta attraverso osservazioni a piccola scala, in sezione sottile (Fig. 4C) (Bettelli & Panini, 1987, 1989, 1992a, 1992b; Bettelli et al., 1987a, 1987b, 1989a, 1989b; Castellarin & Pini, 1989; Pini, 1999). Il rilevamento sistematico del Complesso caotico emiliano secondo questi sem- plici criteri (Abbate & Sagri, 1970; Bruni, 1973; De Jager, 1979; C.N.R., 1982) aprì la strada ad una nuova cartografia geologica che da sola si fece cari- co di far emergere l’inconsistenza dell’idea, allora ancora diffusa (Bruni, 1973; Abbate et al., 1981; Castellarin et al., 1986), dell’impossibilità di distin- guere le rocce caotiche di sicura origine sedimentaria da quelle di origine tet- tonica o comunque dovute a deformazione (Fig. 6). Dopo quasi un secolo e mezzo, finalmente il termine argille scagliose poteva essere di nuovo utilizza- to nella sua accezione originaria assegnatole da Bianconi (1840), riproposta poi da Penta (1950) ed Ogniben (1953, 1954, 1969), privata di ogni connota- zione di tipo genetico conferitale dalla letteratura geologica successiva. Il rilevamento geologico sistematico dell’Appennino emiliano, secondo i principi sopra esposti, ha portato a riconoscere che rocce caotiche formate esclu- sivamente da brecce sedimentarie a matrice argillosa sono caratteristiche e tipi- che, anche se non esclusive, della sola Successione epiligure (Ricci Lucchi & Ori, 1985; Bettelli & Panini, 1985a, 1985b, 1987, 1989, 1992a, 1992b; Ricci Lucchi, 1987; Bettelli et al., 1987b, 1989b; Castellarin & Pini, 1989; Pini, 1993, 1999; Pini et al., 2004; Remitti et al., 2011), deposta in discordanza angolare sulle Liguridi a partire dall’Eocene medio. È solo in questa successione strati- grafica che tali depositi possono raggiungere spessori di circa 300 m, mostran- do una continuità laterale ed un’estensione a scala regionale che ha permesso di trattarle come tradizionali unità litostratigrafiche. Questi estesi corpi caotici di origine sedimentaria, originati da colate di fango e detrito provenienti dal rima- neggiamento delle sottostanti Liguridi, mostrano un’impressionante uniformità tessiturale ed occupano tre precise posizioni stratigrafiche distinte: alla base della successione epiligure (Brecce argillose di Baiso, Eocene medio: Bettelli et al., 2002b; Panini et al., 2002a, 2002b; Papani et al., 2002; Gasperi et al., 2005), a formare un’intercalazione di età aquitaniana all’interno della Formazione di Antognola (Thieme, 1961; Pieri, 1961; Papani, 1963, 1972; Bettelli et al., 2002b; Papani et al., 2002; Gasperi et al., 2005; Remitti et al., 2011, cum biblio.) oppure di età tortoniana all’interno della Formazione del Termina (Thieme, 1962; Bettelli et al., 1989b; Fioroni & Panini, 1989; Panini et al., 2002b). 76 G. Bettelli, F. Panini

Fig. 5 – La natura clastica delle brecce argillose (depositi di debris flow coesivi) è sempre ben riconoscibile anche quando sono state interessate dallo sviluppo di un clivaggio sca- glioso più o meno pervasivo per eventi deformativi successivi. Sono sempre presenti volumi indeformati, alla scala centimetrica o millimetrica, all’interno dei quali la natura clastica del deposito è preservata ed ancora ben osservabile, alla scala del campione o della sezione sottile (cfr. Figg. 4B e 4C)

Soprattutto la separazione dell’unità caotica epiligure più antica (le Brecce argillose di Baiso, Eocene medio: Papani et al., 2002) dalle sotto- stanti formazioni smembrate delle Liguridi, anche quando erano assenti le sovrastanti e più recenti formazioni epiliguri eliminate dall’erosione subae- rea dopo la loro emersione, fornì importanti informazioni non solo sull’età della fasi deformative delle Liguridi stesse e sulla posizione relativa occu- pata nell’Eocene medio (Fase tettonica ligure) dalle diverse unità tettoniche che le costituiscono, ma fece emergere per la prima volta anche le macro- strutture dell’area (Bettelli et al., 1987a, 1987b, 1989a, 1989b, 1989d; Bettelli & Panini, 1992b). Risultò con chiarezza che la struttura caotica alla mesoscala delle Liguridi era stata acquisita prima dell’Eocene medio (prima dell’inizio della sedimentazione della Successione epiligure e prima della deposizione delle Brecce argillose di Baiso) e che pertanto questa struttura caotica delle Liguridi non poteva essere il risultato dei supposti meccanismi Che fine hanno fatto le Argille Scagliose dell’Appennino emiliano? 77

Fig. 6 – Panoramica dell’area calanchiva con rocce caotiche di diversa natura a nord di Casola-Canina (Appennino bolognese). Si può apprezzare la netta differenza litologi- ca e morfologica tra gli affioramenti in primo piano (AVV), costituiti da formazioni smembrate liguri (tettoniti liguri non metamorfiche), prive di blocchi esotici, apparte- nenti alle Argille varicolori della Val Samoggia (Cretaceo inf.-sup.) ed i retrostanti affioramenti (parte superiore della foto) costituiti di brecce argillose epiliguri (Br) ad esse stratigraficamente sovrapposte. Quest’ultime sono caratterizzate da una tessitura clastica (piccoli e rari blocchi litoidi in una matrice grigio-nerastra piuttosto omoge- nea). I depositi caotici epiliguri rappresentano una nuova roccia formatasi per colate di fango e detrito nel Terziario e derivano dalle stesse tettoniti liguri sottostanti gravitativi della loro messa in posto sulle unità “autoctone” toscane ed umbro-marchigiane deposte sulla crosta continentale adriatica, fino a rag- giungere l’attuale margine padano (Merla, 1952). Per la prima volta fu dimo- strato con vincoli stratigrafici che la struttura interna, la caoticità, delle argille scagliose, alloctono indifferenziato o Complesso caotico, ora Liguridi, non era il risultato dei meccanismi della loro traslazione sul ver- sante padano dell’Appennino settentrionale, ma di meccanismi ed eventi precedenti alla loro alloctonia: il concetto di frane orogeniche (Migliorini, 1933, 1949; Merla, 1952) a quel punto non serviva più. Questo approccio sperimentale portò anche a stabilire che sicuri olisto- stromi s.s., ossia i depositi di debris flow, possono contenere blocchi isolati di 78 G. Bettelli, F. Panini

“materiali precedentemente stratificati”, cioè, olistoliti (Flores, 1955, 1957), ma che le loro dimensioni sono limitate al massimo a qualche decametro cubo (vedi discussione in: Jacobacci, 1965 ed Abbate et al., 1970). Non vi è dubbio che l’originaria definizione che prevedeva la possibile presenza di enormi inclusi (di parecchi km3) di rocce stratificate all’interno di un olistostroma, cioè di olistoliti (Flores, 1955) abbia determinato problemi nel riconoscimen- to di questi veri olistostromi e nella loro distinzione dagli altri tipi di rocce caotiche emiliane. Non è un caso che gli esempi attualmente ancora molto controversi di presunti olistostromi nell’Appennino settentrionale siano for- mati in prevalenza da estese masse (svariati km2) di rocce che conservano la loro stratificazione originaria o una struttura interna dovuta ad una deforma- zione tettonica preesistente. Questi risultati indicano che la definizione origi- naria di olistostroma, comprendente tutti i possibili tipi di depositi derivanti da processi gravitativi superficiali, era troppo estesa da poter essere di uso prati- co sul terreno, in particolare in una regione, come l’Emilia sudorientale, domi- nata dalla presenza diffusa di rocce caotiche di natura ed origine molto diver- se. Il concetto di olistostroma, invece, si è dimostrato estremamente utile sul terreno una volta ristretta la sua definizione a comprendere soltanto i depositi derivanti da colate coesive di fango e detrito (depositi di debris flow), secon- do l’originaria ed importante limitazione di Flores (1955), poi soppressa in quanto non ritenuta essenziale ai fini terminologici (Flores, 1957), che il mate- riale all’atto della deposizione dovesse trovarsi nello “stato di semifluido”.

4.2 Le rocce caotiche derivate da deformazione s.l. I prodotti della deformazione s.l. comprendono sia i risultati della deforma- zione tettonica pervasiva a livelli strutturali superficiali di multistrato argillosi (formazioni smembrate o tettoniti non metamorfiche: Ogniben, 1953, 1969; Beneo, 1956, 1957; Bettelli et al., 1994, 1995, 1996a, 1996b, 2002b; Bettelli & Panini, 1989, 1992a, 1992b; Castellarin & Pini, 1989; Pini, 1993, 1999; Cowan & Pini, 2001; Vannucchi & Bettelli, 2002; Bettelli & Vannucchi, 2003; Pini et al., 2004; Remitti et al., 2007, 2011), sia i prodotti di tutti quei meccanismi gravita- tivi superficiali (meccanismi sedimentari) che possono trasportare in massa volu- mi variabili (fino a svariati km3) di rocce preesistenti, conservando inalterate le proprietà litologiche e tessiturali della roccia o delle rocce originarie e conser- vando inalterate o modificando parzialmente o completamente soltanto le loro proprietà e caratteristiche strutturali (il loro stato preesistente di deformazione interna). Per questo tipo di prodotti si giunse alla conclusione che non esistevano criteri oggettivi alla scala dell’affioramento che permettessero, sulla base della loro litologia, tessitura o struttura, di giudicare se fossero il risultato di meccani- Che fine hanno fatto le Argille Scagliose dell’Appennino emiliano? 79 smi di trasporto sedimentari (per gravità) o tettonici, ma che questi stessi prodot- ti per litologia, tessitura o struttura potevano essere agevolmente distinti alla scala del campione dai prodotti della sedimentazione (Bettelli & Panini, 1987, 1989; Bettelli et al., 1996a, 1996b, 2006; Vannucchi & Bettelli, 2010). Nell’Appennino emiliano il problema riguardava la possibile esistenza di grandi masse integre dislocate dalla gravità (frane di scivolamento in massa di grandi dimensioni, frane orogeniche di Liguridi: Bruni, 1973; Hoedemaeker, 1973; De Jager, 1979; Abbate et al., 1981) formate da rocce che erano già state molto deformate prima di venire dislocate: il loro stato di deformazione interna era sicuramente di natura tettonica, ma i meccanismi di messa in posto finale di queste rocce potevano essere sia tettonici sia sedimentari. Anche in questo caso la nuova cartografia geologica, realizzata secondo i nuovi princìpi, da sola si fece carico di risolvere il problema. La separazione di queste rocce caotiche su base litologico-tessiturale-strutturale e biostratigrafica fece emergere un quadro coerente di unità litostratigrafiche liguri, già note e distinte da tempo in altre parti dell’Appennino emiliano, distribuite secondo ampie fasce a direzione appenninica: una distribuzione affatto caotica, ma ordi- nata ed armonica (Bettelli et al., 1987a, 1989a, 1989d; Bettelli & Panini, 1992b). Non di frane orogeniche si poteva più parlare a quel punto, ma al massimo di una falda di gravità o di una falda di sovrascorrimento. Prevalentemente alla scala della carta geologica furono distinte formazioni smembrate senza blocchi esotici (tettoniti monoformazionali) e formazioni smembrate con blocchi esotici (tetto- niti pluriformazionali). Questa distinzione, non del tutto oggettiva, in quanto basata sulla conoscenza preventiva della composizione di successioni stratigrafi- che originarie faticosamente ricostruite, si rivelò comunque di grande utilità per- mettendo il riconoscimento dell’esistenza di associazioni stratigraficamente e strutturalmente anomale quali il “mélange di Coscogno” (Bettelli & Panini, 1985a; 1987, 1989, 1992b; Bettelli et al., 1989a, 1989b, 2002a, 2002b; Panini et al., 2002a; Gasperi et al., 2005).

4.2.1 Le tettoniti monoformazionali Le formazioni smembrate (con o senza blocchi esotici) sono unità che alla scala dell’affioramento, ma non a quella del campione (Bettelli & Panini, 1987, 1989; Bettelli et al., 1989a, 1992a, 1992b, 1994, 1996a; 1996b, 2002a, 2002b, 2006; Castellarin & Pini, 1989; Pini, 1993, 1999; Cowan & Pini, 2001; Vannucchi & Bettelli, 2002; Bettelli & Vannucchi, 2003; Remitti et al., 2007, 2011), possiedono una struttura a “blocchi in pelite deformata” e non una tessi- tura clastica a tutte le scale di osservazione: la loro “matrice” altro non è che l’o- riginaria pelite deformata che fungeva da interstrati tra letti relativamente più 80 G. Bettelli, F. Panini competenti (Bettelli & Panini, 1989). Si tratta di tipici multistrato prevalente- mente argillosi ove la deformazione ha prodotto lo sviluppo di un clivaggio sca- glioso, più o meno pervasivo, negli originari litotipi pelitici (Vannucchi et al., 2003) ed un sistematico boudinage e smembramento dei letti litoidi, in genere arenitici, marnosi o calcarei. La caratteristica comune di queste rocce caotiche è la perdita della sequenza e coerenza stratigrafica originaria (Fig. 7), in quanto la deformazione ha causato uno smembramento pervasivo dei letti competenti ad originare blocchi che, alla scala dell’affioramento, appaiono tra loro allineati a formare una foliazione secondaria mesoscopica (Fig. 8) all’interno della quale si rinvengono sistematicamente pieghe mesoscopiche sradicate o cerniere isolate di pieghe isoclinali (Fig. 9A, B) (Bettelli et al., 1994, 1996b, 2002b; Vannucchi & Bettelli, 2002; Bettelli & Vannucchi, 2003; Remitti et al., 2011). Alla catego- ria delle formazioni smembrate senza blocchi esotici risultarono appartenere tutte quelle unità prevalentemente argillose note allora come “complessi di base” dei Flysch liguri cretacei e terziari le quali, sulla base delle loro caratteristiche litologiche e stratigrafiche, furono distinte in diverse unità litostratigrafiche e correlate con le corrispondenti formazioni già descritte in altre parti dell’Appennino emiliano (Bettelli et al., 1987a, 1989a, 1992a, 1992b, 2002a, 2002b; Panini et al., 2002a; Papani et al., 2002; Gasperi et al., 2005).

Fig. 7 – Originaria alternanza preservata di letti competenti ed incompetenti nelle torbiditi cal- careo-argillose delle Argille a Palombini del Cretaceo inferiore dell’Appennino mode- nese. L’affioramento ha caratteristiche eccezionali in quanto l’originario ordine strati- grafico di questa formazione, presente alla base di molte successioni liguri, può essere osservato in pochissimi affioramenti del versante padano dell’Appennino Che fine hanno fatto le Argille Scagliose dell’Appennino emiliano? 81

4.2.2 Le tettoniti pluriformazionali La nuova cartografia geologica fece emergere anche alcune associazioni anomale dal punto di vista stratigrafico e strutturale: aree in cui affioravano solo prodotti della deformazione, ma differenziate sulla base della mescolan- za, alla scala della carta geologica, di volumi litostratigraficamente coerenti (scaglie tettoniche) appartenenti tuttavia a successioni stratigrafiche ritenute differenti. Già a partire dalla metà degli anni ‘80 alcuni autori (Acerbi, 1984; Bettelli & Panini, 1985a, 1987, 1989; Bettelli et al., 1987a, 1989a, 1989d) segnalaro- no la presenza, all’interno della Falda ligure nell’Appennino emiliano sudo- rientale, di tre distinte zone che, benché caratterizzate dall’affiorare di forma- zioni in parte differenti, apparivano legate da un comune significato stratigra- fico e strutturale. In queste zone, infatti, vi affioravano lembi di formazioni ter- ziarie arenitiche appartenenti sicuramente alle Unità Subliguri (correlate con le Arenarie di Petrignacola e le Arenarie di Ponte Bratica: Bettelli et al., 2002b; Gasperi et al., 2005; Panini et al., 2002a) che in tutto l’Appennino set- tentrionale, a NW della Valle del F. Secchia, si rinvengono alla base delle Liguridi a formare un’insolita, sottile ed atipica falda tettonica caratterizzata da “una relativa coerenza stratigrafica” (Elter & Trevisan, 1973). Attualmente queste tre zone di “anomalia” stratigrafica e strutturale sono da noi considera- te tre distinte finestre tettoniche all’interno della Falda ligure nelle quali, sep- pure con caratteristiche differenti, affiorano unità che originariamente, al momento della Fase tettonica ligure (Eocene medio) occupavano nel cuneo di accrezione ligure una posizione esterna, ma che hanno subito fenomeni di sot- toscorrimento alle Liguridi ed una successiva parziale esumazione durante la sedimentazione della Successione epiligure. Queste tre finestre tettoniche for- mano un allineamento in direzione appenninica (NW-SE) ubicato a distanza variabile, fra circa 10 e 20 km, dall’attuale limite di affioramento delle Liguridi lungo il margine appenninico padano. Esse sono rappresentate da NW a SE (dalla Val d’Enza, nell’Appennino reggiano, alla valle del T. Lavino, nell’Appennino bolognese): • dalla finestra tettonica del M. Staffola, nell’Appennino reggiano (Acerbi, 1984; Papani et al., 2002); • dalla finestra tettonica di Coscogno nell’Appennino modenese (Bettelli et al., 1989a; 1989b; 1989c; 2002b; Gasperi et al., 2005); • dalla finestra tettonica di Montepastore nell’Appennino bolognese (Bettelli et al., 1989a; 1989b; 1989c; Panini et al., 2002a). Queste tre finestre tettoniche sono accomunate soltanto dal fatto che vi affiorano lembi isolati, più o meno coerenti, di formazioni subliguri di età 82 G. Bettelli, F. Panini

Fig. 8 – Tipico aspetto delle Argille a Palombini dell’Appennino emiliano caratterizzate dalla perdita dell’originario ordine stratigrafico e dal sistematico boudinage dei letti com- petenti, prevalentemente di natura carbonatica, a causa di un piegamento polifasico (Vannucchi & Bettelli, 2002; Bettelli & Vannucchi, 2003). Alla scala dell’affioramen- to, i singoli boudins appaiono isolati all’interno di argille a struttura scagliosa cau- sata dalla deformazione degli originari interstrati pelitici e tendono ad allinearsi a formare una foliazione secondaria mesoscopica (nella foto immergente con un basso angolo verso sinistra,Valle del F. Panaro, Appennino modenese) post-Eocene medio (Arenarie di Petrignacola ed Arenarie di Ponte Bratica: cfr. Remitti et al., 2011, cum biblio.). Esistono, invece, diverse interpretazioni per quanto riguarda la correlazione stratigrafica dei lembi delle altre formazioni pre- senti in ciascuna delle finestre con unità già note, così come nella finestra tetto- nica del M. Staffola esistono incertezze sulla natura delle loro attuali relazioni, se siano cioè stratigrafiche o strutturali. Delle tre finestre tettoniche all’interno delle Liguridi che lasciano affiorare formazioni appartenenti alle Unità Subliguri, la finestra tettonica di Coscogno è quella che presenta delle caratteristiche molto peculiari, che la rendono piutto- sto diversa dalle altre due finestre. Nell’area di Coscogno (tra il F. Secchia ed il F. Panaro), infatti, i lembi di formazioni appartenenti alle Unità Subliguri (qui rappresentati esclusivamente da Arenarie di Ponte Bratica) sono mescolati tetto- nicamente, alla scala della carta geologica, a formazioni argilloso-calcaree e cal- careo-calcarenitiche di età eocenica, scaglie di formazioni pre-flysch ad Elmintoidi, base stratigrafica del Flysch di M. Cassio (Bettelli & Panini, 1992b; Che fine hanno fatto le Argille Scagliose dell’Appennino emiliano? 83

Bettelli et al., 1989a, 1989b, 1989d, 2002a, 2002b; Gasperi et al., 2005) e masse di unità epiliguri di età pre-aquitaniana. Per questo motivo gli autori che hanno descritto per primi questa particola- re situazione strutturale, ossia Bettelli & Panini (1985a, 1989, 1992b) e Bettelli et al. (1987b, 1989b), distinsero questa zona a scaglie tettoniche, a direzione appen- ninica, con la denominazione di “mélange di Coscogno”. Le formazioni, infor- mali, che gli autori sopracitati hanno identificato come appartenenti alle Unità Subliguri sono quattro ed attualmente sono così denominate nei recenti Fogli alla scala 1:50.000 della Carta Geologica d’Italia (Bettelli et al., 2002b; Panini et al., 2002a; Gasperi et al., 2005): argille e calcari del Torrente Lavinello, formazione di Montepastore, Arenarie di Petrignacola, Arenarie di Ponte Bratica. Le argille e calcari del Torrente Lavinello sono una formazione argillo- so-calcarea di età cretacea superiore-eocenica inferiore che è stata correlata con le Argille e Calcari di Canetolo. La formazione di Montepastore è invece un “flysch” calcarenitico e marnoso di età eocenica inferiore e media con forti

Fig. 9 – Pieghe da chiuse ad isoclinali, pieghe isoclinali ripiegate e cerniere isolate di pieghe da chiuse ad isoclinali allineate secondo la foliazione secondaria si rinvengono comune- mente nelle formazioni smembrate liguri e sub- liguri dell’Appennino emiliano. (A) Affio - ramento di una porzione arenitico-argillitica delle Argille varicolori della Val Samoggia affioranti lungo la valle dell’Idice nell’Ap- pennino bolognese (la freccia indica una cer- niera di piega isoclinale in un sottile spezzone di intervallo arenitico-siltoso). (B) Lembo del- l’unità argilloso-calcarea (Formazione di Sillano) appartenente all’Unità tettonica Se - stola-Vidiciatico affiorante nell’alto Appennino bolognese e (C) stessa unità rappresentata in (B) con pieghe ripiegate coassialmente nell’al- to Appennino modenese 84 G. Bettelli, F. Panini somiglianze litologiche con i flysch terziari liguri esterni (Flysch di Monte Sporno, Formazione di Monte Morello)”, ma a suo tempo correlata con i Calcari di Groppo del Vescovo. La formazione di Montepastore affiorante nella finestra di Coscogno corri- sponde ai “Calcari di Coscogno”, cioè ad una formazione già distinta da Serpagli (1964) e Losacco (1966, 1967) e già correlata al Flysch di Monte Sporno dell’Appennino parmense (Serpagli, 1964). La diversa denominazione litostratigrafica introdotta da Bettelli et al. (2002b), Panini et al. (2002a) e Gasperi et al. (2005) è stata dichiaratamente motivata da questi autori dal fatto che essi ritenevano invece che la formazione di Montepastore non fosse corre- labile con un flysch ligure terziario esterno, ma con i Calcari del Groppo del Vescovo delle Unità Subliguri. Attualmente questa correlazione è da noi stessi ritenuta per nulla convin- cente, non solo per la formazione di Montepastore, ma anche per le argille e calcari del T. Lavinello. Questa diversa interpretazione è basata sulle notevoli differenze litologiche, non tanto tra la formazione di Montepastore ed i Calcari del Groppo del Vescovo, che sono comunque entrambi molto simili alla por- zione eocenica del Flysch di M. Sporno o alla Formazione di M. Morello, ma tra le argille e calcari del T. Lavinello e le Argille e Calcari di Canetolo. Infatti, in nessuna delle classiche aree di affioramento delle Unità Subliguri nelle alte valli di Parma ed Enza affiorano Argille e Calcari di Canetolo con caratteristiche litologiche simili a quelle delle argille e calcari del T. Lavinello. L’ipotesi più probabile, pertanto, è quella che in entrambi i casi si tratti di grandi scaglie tettoniche appartenenti originariamente alle unità dei flysch liguri terziari esterni, in particolare alla porzione terziaria della Formazione di Sillano, base stratigrafica della Formazione di M. Morello (Bortolotti, 1962a, 1962b, 1962c). Nella finestra tettonica di Montepastore (Panini et al., 2002a, cum bibl.) affiorano le stesse unità terziarie descritte nella finestra di Coscogno con alcu- ne sostanziali differenze. La differenza principale, molto importante dal punto di vista strutturale, è che queste unità (argille e calcari del T. Lavinello, for- mazione di Montepastore, Arenarie di Petrignacola, Arenarie di Ponte Bratica) nella zona di Montepastore affiorano lungo un’estesa fascia di taglio sinistra ad andamento antiappenninico (Zona di Taglio del Lavino-Samoggia: Capitani, 1997; Bettelli & Panini, 1992a; Bettelli et al., 2002b; Panini et al., 2002a) formando delle grandi scaglie tettoniche senza interposizione di sca- glie appartenenti alle formazioni cretacee pre-flysch ad Elmintoidi, prevalenti invece nella finestra di Coscogno. Una condizione strutturale simile (zona di taglio antiappenninica) caratterizza anche la finestra della Val Staffola. Essa è Che fine hanno fatto le Argille Scagliose dell’Appennino emiliano? 85 infatti stata attribuita da Papani et al. (2002) all’attività traspressiva destrorsa della “linea della media Val d’Enza”, attiva almeno a partire dall’Aquitaniano. La finestra di Coscogno, al contrario di quelle della Val Staffola e di Montepastore, rappresenta un esempio unico di commistione tettonica di unità, tra loro stratigraficamente e paleogeograficamente estranee da potersi conside- rare, anche se solo alla scala della carta geologica, un vero e proprio mélange tettonico (Bettelli & Panini, 1985a, 1987, 1989, 1992b; Bettelli et al., 1987a, 1989a, 1989b, 2002a, 2002b) o quantomeno una zona a scaglie tettoniche.

4.3 Le associazioni di prodotti della sedimentazione e della deformazione: associazioni di formazioni smembrate (tettoniti non metamorfiche) e di brec- ce sedimentarie Oltre alle rocce caotiche descritte nei precedenti paragrafi la nuova carto- grafia geologica portò al riconoscimento dell’esistenza di estesi e potenti corpi caotici formati in proporzioni variabili sia di prodotti della sedimentazione (brecce sedimentarie a matrice argillosa, depositi di debris flow coesivi) sia della deformazione (formazioni smembrate, tettoniti non metamorfiche) e all’acquisizione di nuovi ed importanti dati di carattere stratigrafico e struttu- rale nell’Appennino emiliano. Da una parte si ottenne una migliore caratteriz- zazione e conoscenza della composizione interna degli estesi e potenti corpi caotici, costituiti in proporzioni variabili da formazioni smembrate e brecce argillose (Fig. 10), che erano già noti e che erano già stati distinti in prece- denza nella cartografia geologica esistente; dall’altra portò alla scoperta di nuove ed estese unità caotiche del tutto simili che erano invece rimaste anco- ra “nascoste” all’interno del Complesso caotico emiliano. Già prima degli anni ‘60 erano state segnalate relazioni anomale tra argil- le scagliose e depositi di avanfossa oligomiocenici (Macigno, Arenarie del M. Modino ed Arenarie del M. Cervarola) nell’alto Appennino modenese (per esempio: Principi, 1930; Losacco, 1951), e reggiano (per esempio: Azzaroli, 1950). Se si esclude la diversa interpretazione fornita inizialmente dagli auto- ri della Scuola di Berlino per quanto riguarda la natura e l’origine del corpo caotico che nell’alto Appennino modenese divide il Macigno dalle sovrastan- ti Arenarie del M. Modino (Amadesi, 1967; Reutter, 1969), questi corpi cao- tici da tutti gli autori italiani e dagli autori stranieri erano già stati separati dalle argille scagliose ed interpretati concordemente (tranne che da Amadesi, 1967 ed Amadesi & Marabini, 1967) come olistostromi (Nardi & Tongiorgi, 1962; Nardi, 1964; Gelmini, 1966; Von Struensee, 1967; Heymann, 1968; Sestini, 1968; Reutter, 1969; Groscurth, 1971; Hemmer, 1971; Rentz, 1971; Sagri, 1975; Abbate et al., 1981), anche se denominati in modo differente: 86 G. Bettelli, F. Panini

Fig. 10 – Alcune unità litologiche che tipica- mente formano l’Unità tettonica Sestola-Vidi - ciatico affiorante nell’Appennino emiliano, caratterizzata dall’associazione tettonica, alla scala della carta geologica, di masse chilome- triche di formazioni liguri smembrate di età cretacica-eocenica media, brecce argillose e depositi di scarpata dell’Eocene sup., Oligo - cene e Miocene inf.-medio. (A) Lembo di for- mazione smembrata ligure (unità argilloso- calcarea in Bettelli et alii, 2002b, 2002c, cor- relabile con la Formazione di Sillano affioran- te in Toscana). (B) Contatto tettonico tra una massa di depositi di scarpata dell’Oligocene sup.-Miocene inf. (Marne di Marmoreto, a sini- stra nella foto, MMA) e brecce argillose poli- geniche (a destra nella foto, Br). (C) Lembo di formazione smembrata ligure (Lig) sovrappo- sta tettonicamente a brecce argillose (Br). argille di Vidiciatico da Ghelardoni et al. (1962), formazione di Ponte della Venturina da Amadesi (1967) ed Amadesi & Marabini (1967), Formazione di Sestola-Vidiciatico da Reutter (1969) e Guenther & Reutter (1985), oppure formazione di Pievepelago da Nardi & Tongiorgi (1962) e Gelmini (1966). L’interpretazione che non si trattasse di olistostromi al tetto stratigrafico delle Arenarie del M. Cervarola, ma di un’unità tettonica indipendente sovrascorsa a questi depositi di avanfossa oligo-miocenici fu avanzata originariamente da Amadesi (1967) ed Amadesi & Marabini (1967) e ripresa da Bettelli et al. (1987c, 1989c) e da Martini & Plesi (1988) e denominata in modi differenti da questi autori e da autori successivi: Unità Sestola-Vidiciatico in Bettelli et al. (1987c, 1989c), Complesso del M. Ventasso in Martini & Plesi (1988), unità argilloso-calcarea in Bettelli et al., (2002b), Unità Modino: Sotto-Unità Ventasso e Sotto-Unità Modino-Pievepelago in Plesi (2002). A quell’epoca, Che fine hanno fatto le Argille Scagliose dell’Appennino emiliano? 87 invece, non era ancora nota la presenza di un’analoga e molto estesa unità cao- tica formata da formazioni smembrate e brecce sedimentarie presente alla base delle Liguridi lungo la cosiddetta “Linea del Sillaro” (Ghelardoni, 1965; Bortolotti, 1966; Bruni, 1973; De Jager, 1979) che la separavano dalla sotto- stante Formazione Marnoso arenacea romagnola. Bettelli & Panini (1992a) distinsero per la prima volta questa unità caotica, la correlarono con l’Unità Sestola-Vidiciatico (intesa come unità tettonica) affio- rante nei settori nordoccidentali e la denominarono “melange di Firenzuola”, lasciando completamente aperte le ipotesi relative ai meccanismi genetici, se sedimentari o tettonici, discutendole entrambe come possibili allo stato dell’arte. Un altro esempio di associazione tra tettoniti non metamorfiche (formazio- ni smembrate) e brecce argillose poligeniche è quello del corpo caotico (Complesso di Rio Cargnone: Bettelli et al., 2002b; Papani et al., 2002) che chiude la sedimentazione della Successione Monte Venere–Monghidoro prima della fase tettonica ligure dell’Eocene medio e che affiora tra il Modenese ed il Reggiano a cavallo della valle del F. Secchia. Il fatto che questo corpo caotico fosse costituito da materiale palesemente estraneo, per età, litologia e facies alla successione stratigrafica sottostante e la presenza di una certa “organizzazione” interna ha, come vedremo, fatto ritenere che la sua messa in posto sia dovuta a meccanismi sedimentari. Per tale motivo le tettoniti monoformazionali che par- zialmente lo costituiscono possono essere anche ritenute appartenenti alla “categoria” delle formazioni smembrate dislocate dalla gravità. Le associazioni di formazioni smembrate e di brecce sedimentarie rappre- sentarono, e tuttora rappresentano, il tipo di associazione di rocce caotiche di diversa origine più problematico e molto discusso per quanto concerne l’in- terpretazione genetica, ma non per quel che riguarda la loro distinzione e rap- presentazione sulla carta geologica dei diversi componenti, benché in alcune aree dell’Appennino emiliano questa separazione sia stata eseguita in modo molto approssimativo o non sia stata affatto effettuata, anche nella recentissi- ma nuova Carta Geologica d’Italia alla scala 1:50.000.

4.4 Formazioni smembrate (tettoniti monoformazionali) interpretate come dislocate dalla gravità Nell’Appennino emiliano la parte inferiore della successione epiligure, soprattutto quando questa giace direttamente sulle formazioni smembrate a dominanza argillosa delle Liguridi (ma in alcuni casi anche quando giace su alcuni Flysch del Cretaceo sup.-Paleocene: Formazione di M. Venere e Forma - zione di Monghidoro: Panini et al., 2002a), è quasi sempre rappresentata da ingenti spessori di brecce argillose (oltre 200 m) formatesi a spese dello stesso 88 G. Bettelli, F. Panini substrato ligure. Questi depositi di colate sottomarine di fango e detrito sono oggi note in tutto l’Appennino emiliano come Brecce argillose di Baiso (Eocene medio). In varie località, tra le sottostanti formazioni liguri smembrate e le strati- graficamente sovrastanti Brecce argillose di Baiso (Bettelli & Panini, 1985b; Bettelli et al., 1996b, 2006) possono essere presenti corpi caotici di spessore molto limitato (al massimo qualche decina di metri) formati da associazioni di blocchi di formazioni smembrate liguri (cfr. Bettelli et al., 2006). Quest’ultime sono distinguibili dal substrato, formato dalle stesse litologie, essenzialmente per il diverso stile strutturale o, in qualche caso, per la presenza al loro interno di pic- cole masse lenticolari (da metriche a decametriche) appartenenti alla prima for- mazione epiligure che si è sedimentata in regolare successione al di sopra dei grandi corpi basali di brecce argillose (cfr. Bettelli et al., 2006), ossia alle Marne di M. Piano (Eocene medio). In alcune località sono stati osservati anche corpi lenticolari, lateralmente discontinui, di spessore metrico formati da brecce argil- lose, alternati in modo più o meno regolare agli altri litotipi citati. L’intero accu- mulo mostra una spiccata tendenza ad una sorta di stratigrafia dovuta alla regola- re sovrapposizione dei diversi tipi di unità litologiche. In questo caso i rapporti esistenti tra i vari componenti (lembi di formazioni smembrate liguri, corpi di brecce argillose e lembi di Marne di M. Piano) indica- no con ogni probabilità una genesi di tipo sedimentario ad opera di piccole frane sottomarine successive e separate nel tempo, derivanti da meccanismi di debris flows, di scivolamento di ridotti blocchi del substrato ligure e di slumps a spese dei sedimenti emipelagici epiliguri in via di deposizione. Tuttavia, nella maggior parte dei casi si tratta di corpi caotici che non sono cartografabili alla scala 1:10.000 e che sono difficilmente riconoscibili in condizioni normali di affiora- mento. Infatti, la maggior parte di questi depositi è stata identificata in tagli arti- ficiali di fronti di cava. Indipendentemente dalle condizioni di esposizione, il rico- noscimento di questa particolare categoria di corpi caotici dipende soprattutto dalle condizioni stratigrafiche e strutturali locali in cui si rinvengono: non è pos- sibile stabilire criteri oggettivi per la loro identificazione, ma è solo possibile fare una rassegna di casi esemplari risolti, elencando gli elementi che appaiono vin- colare l’interpretazione genetica nella situazione locale.

5. I risultati della nuova cartografia geologica: la scomparsa delle Argille Scagliose e del Complesso caotico nell’Appennino emiliano

La sistematica separazione cartografica dei prodotti della sedimentazione e della deformazione, secondo i banali principi sopra descritti, ha storicamente Che fine hanno fatto le Argille Scagliose dell’Appennino emiliano? 89 determinato, di fatto e definitivamente, la fine della necessità di ricorrere alla terminologia “ideologica”, interpretativa e genetica usata in precedenza, ossia ha portato alla scomparsa dalla letteratura (Vannucchi & Bettelli, 2010), salvo rarissime eccezioni (Pini, 1999; Pini et al., 2004; Camerlenghi & Pini, 2009), delle argille scagliose e del Complesso caotico nella letteratura di quelle regioni, in quanto ormai termini non più necessari e privi di significato alla luce delle nuove conoscenze acquisite. Alcuni geologi emiliani, con una nobi- le ragione e finalità, non furono affatto soddisfatti di questo esito, temendo che due dei pochi termini imposti alla letteratura mondiale da un geologo italiano, quello di argille scagliose e di olistostroma, dovessero scomparire definitiva- mente; questo anche davanti alla rassicurazione che almeno la denominazione di argille scagliose la si sarebbe comunque utilizzata, ma nella sua accezione originaria, descrittiva e non genetica, per indicare un tipo di struttura meso- scopica (Bettelli & Panini, 1985a, 1987, 1989; Vannucchi & Bettelli, 2002, 2010; Bettelli & Vannucchi, 2003; Bettelli et al., 2006; Remitti et al., 2007, 2011), secondo la definizione del suo inventore Bianconi (1840). L’abbandono dei termini omnicomprensivi per la definizione delle rocce caotiche appenniniche, se da un lato permise di superare, anche culturalmen- te, un elemento di indiscutibile freno alla comprensione della storia geologica dell’Appennino emiliano, aprì però un nuovo inevitabile problema: come denominare i corpi e le unità litostratigrafiche distinti?

6. Classificazione stratigrafica e nomenclatura dei corpi caotici

Il problema della nomenclatura dei corpi caotici si è posto all’attenzione mondiale a partire dalla seconda metà del ‘900. L’Appennino settentrionale, dove la discussione è iniziata a partire dall’Ottocento, è stato un fondamenta- le punto di riferimento per tutta la letteratura mondiale sull’argomento. Negli anni ‘80 i termini che correntemente venivano usati per definire le rocce che possiedono, almeno alla scala dell’affioramento, una struttura a “blocchi in matrice” (o pelite) erano quelli di olistostroma e mélange (Greenly, 1919; Hsü, 1968, 1974). Nonostante l’iniziale connotazione genetica attribui- ta al termine mélange dal suo riscopritore (Hsü, 1968, 1974), nella letteratura successiva ne fu raccomandato l’impiego con un significato esclusivamente descrittivo e non genetico (Silver & Beutner, 1980; Raymond, 1984) con rife- rimento alla struttura delle rocce e non al supposto meccanismo che le avreb- be generate. Al contrario olistostroma, come ampiamente illustrato, è un ter- mine genetico che non fornisce alcuna informazione sulle caratteristiche tes- 90 G. Bettelli, F. Panini siturali o strutturali del corpo al quale si riferisce, ma che può essere applica- to a qualsiasi deposito generato da meccanismi di risedimentazione per gravi- tà indicando cioè un accumulo, corpo o massa derivante da meccanismi di frana (Flores, 1955, 1957, 1959). La connotazione genetica ne impedisce per- tanto l’impiego nella classificazione litostratigrafica, se non in modo informa- le (C.N.R, 1992). Il termine mélange, nella sua connotazione squisitamente descrittiva di una particolare associazione “litologica” complessa, può invece essere utilizzato nella classificazione litostratigrafica (Salvador, 1987). Estendendo le succinte indicazioni della ISG (1976) a questo riguardo e quel- le successive di Salvador (1987), riteniamo che il termine mélange possa esse- re vantaggiosamente utilizzato (Fig. 11), magari esclusivamente in modo informale (C.N.R., 1992; Plesi, 2002), anche per associazioni esclusivamente, o quasi, costituite da rocce sedimentarie, soprattutto se in parte o totalmente prive dell’originario ordine stratigrafico. Può essere infatti eventualmente necessario disporre di un termine (generico, ma specifico allo stesso tempo) per definire un’associazione di rocce caotiche particolari come le tettoniti plu- riformazionali (con blocchi esotici) e le associazioni di brecce sedimentarie e tettoniti (Fig. 11), qualora nella pratica di rilevamento non sia possibile o non si desideri cartografare singolarmente i vari litosomi. Il lavoro cartografico svolto nell’Appennino emiliano ha tuttavia dimostra- to, come vedremo, che in molti casi non vi è la necessità di ricorrere ad un ter- mine (straniero) come quello di mélange per indicare corpi cartografabili di rocce caotiche.

6.1 Nomenclatura delle rocce caotiche derivate da sedimentazione s.s. e delle tettoniti monoformazionali Un corpo caotico interamente, o quasi, costituito da una breccia sedimen- taria, cartografabile, e che occupa una precisa posizione stratigrafica all’inter- no di una successione, fu trattato come una normale unità litostratigrafica (for- male od informale) e denominata attraverso l’uso di un termine litologico (brecce a matrice argillosa, abbreviato in brecce argillose) seguito da un topo- nimo (Fig. 11). Alle formazioni smembrate senza blocchi esotici (tettoniti monoformazionali), cioè derivanti dalla deformazione di una sola unità lito- stratigrafica, fu assegnata una nomenclatura litostratigrafica tradizionale (lito- tipo prevalente o rango corrispondente: formazione, membro, gruppo seguiti da toponimo) (Fig. 11). Rientrarono in questa categoria tutte le formazioni smembrate liguri delle successioni basali dei Flysch tardocretacei e terziari. Per queste unità si pose il problema se utilizzare una denominazione formale od informale, a causa della quasi totale assenza di contatti primari preservati Che fine hanno fatto le Argille Scagliose dell’Appennino emiliano? 91 con le unità circostanti. Nell’Appennino emiliano si scelse di utilizzare una certa elasticità e sono state così formalizzate unità anche in assenza dei rigo- rosi requisiti necessari: l’alternativa era quella di istituire solo unità informali. Per alcune di queste unità litostratigrafiche inoltre (per esempio: Argille a Palombini, Argille Varicolori, Arenarie di Scabiazza: cfr., per esempio, Bettelli et al., 2002b; Panini et al., 2002a; Papani et al., 2002; Gasperi et al., 2005) l’uso già consolidato in letteratura e la correlazione evidente con unità litostratigrafiche descritte in successioni ove i contatti stratigrafici originari erano in qualche modo stati riconosciuti e definiti, hanno ulteriormente sug- gerito l’utilizzo di termini con un’accezione sostanzialmente formale.

6,2 Nomenclatura delle associazioni di formazioni smembrate (tettoniti non metamorfiche) e di brecce sedimentarie, delle tettoniti pluriformazionali e delle tettoniti dislocate dalla gravità Il ricorso a termini onnicomprensivi poteva, in via teorica, rendersi neces- sario per le formazioni smembrate con blocchi esotici (tettoniti pluriformazio- nali non risolvibili cartograficamente), per quelle dislocate dalla gravità e per le associazioni in proporzioni variabili di brecce sedimentarie e formazioni smembrate qualora la maggior parte almeno dei singoli componenti non fosse cartografabile separatamente (Fig. 11). La possibile nomenclatura prevedeva l’introduzione dei termini mélange o complesso seguiti da un toponimo a seconda dei processi genetici (se incerti, tettonici oppure sedimentari) identi- ficati come responsabili della “commistione” (Fig. 11). In qualche caso, pur ricorrendo ad un termine omnicomprensivo (Complesso di Rio Cargnone: Bettelli et al., 2002b; Papani et al., 2002), graficismi di vario tipo furono uti- lizzati con successo per indicare singole unità interne distinte su base litologi- ca. Il rilevamento del versante padano dell’Appennino ha tuttavia mostrato che, nella quasi totalità dei casi, all’interno di unità caratterizzate da una certa commistione tra tettoniti e lembi o blocchi “esotici” o tra tettoniti e brecce sedimentarie potevano essere agevolmente cartografati separatamente i singo- li litosomi che le costituivano. La commistione si verificava alla scala carto- grafica, ma non a quella dell’affioramento. Rientrano in questa tipologia le unità (tettoniche) Coscogno e Sestola-Vidiciatico delle quali si è già diffusa- mente discusso nelle pagine precedenti. Per la denominazione dei singoli lito- somi distinti al loro interno si fece riferimento alla tradizionale nomenclatura litostratigrafica (formale od informale). Sono stati così utilizzati, quando la correlazione su base litologica era del tutto evidente, in un caso (mélange di Coscogno) gli stessi termini adottati per le tettoniti monoformazionali dei “complessi di base” o nell’altro caso (Unità tettonica Sestola-Vidiciatico) le 92 G. Bettelli, F. Panini

Fig. 11 – Proposta di classificazione e nomenclatura delle rocce caotiche appenniniche avan- zata da Bettelli et al. (1996b, 2006) e Vannucchi & Bettelli (2010) denominazioni relative a formazioni od unità litostratigrafiche presenti alla base di successioni torbiditiche di avanfossa oligo-mioceniche di pertinenza toscana (Arenarie del M. Modino). Dunque il termine omnicomprensivo uti- lizzabile su base stratigrafica per indicare “oggetti” o “insiemi” caratterizzati da una particolare complessità interna (mélange) viene ad acquisire per questi Che fine hanno fatto le Argille Scagliose dell’Appennino emiliano? 93 casi una connotazione spiccatamente strutturale o tettonica ed in tal senso può essere sostituito da quello più generico di “unità tettonica”, al pari delle altre (di vario “rango”) che costituiscono tradizionalmente l’impalcatura di una catena collisionale a falde come quella appenninica. In alcuni casi (F° 252: Bettelli et al., 2002c) è stato mantenuto nella legenda un riferimento esplicito a questo contenitore strutturale o tettonico, in altri, forse con maggiore pru- denza e lungimiranza (F° 236, F° 237, F° 219: Bettelli et al., 2002b; Panini et al., 2002a; Gasperi et al., 2005) fu privilegiato un approccio stratigrafico nel- l’organizzazione della legenda evidenziando le successioni stratigrafiche ori- ginarie (quando ricostruibili), piuttosto che le unità tettoniche conseguenti alla strutturazione successiva, quanto mai complessa ed articolata sia in termini temporali sia spaziali. La scelta di non esplicitare nella carta geologica e nella legenda attraverso un termine omnicomprensivo la presenza di unità costituite da litosomi provenienti o derivati da contesti stratigrafici e strutturali differen- ti ed i cui rapporti reciproci sono per lo più di natura meccanica (non primaria o stratigrafica) è infatti principalmente dovuta alla volontà di mantenere al livello minimo l’interpretazione soggettiva del rilevatore, in particolare per quanto riguarda l’attribuzione di un certo “rango” ai contatti tra i litosomi. L’informazione relativa alla distribuzione areale delle unità tettoniche o strut- turali in quanto tali e la discussione sui rapporti reciproci viene in questi casi comunque demandata agli schemi tettonici o stratigrafico-strutturali allegati ed alle note illustrative di ciascuna carta geologica.

7. I meccanismi ed i processi genetici dei corpi caotici distinti e car- tografati

Le tecniche ed i criteri utilizzati nel rilevamento delle rocce caotiche emi- liane sopra descritti hanno dimostrato una validità generale ed hanno rap- presentato uno strumento fondamentale non solo per migliorare la qualità della rappresentazione cartografica, ma soprattutto per ottenere informazio- ni di carattere stratigrafico e strutturale, indispensabili a descrivere la storia geologica di una regione caratterizzata dalla quasi esclusiva presenza di rocce sedimentarie stratigraficamente incoerenti. In particolare, la nuova cartografia prodotta ha permesso di rendere “studiabile” una regione, quella dell’Appennino emiliano sudorientale, facendo emergere le grandi strutture tettoniche ivi presenti (Bettelli et al., 1989a, 1989b, 1989d, 1992b, 2002a), nuove prospettive di ricerca e nuove interpretazioni con ricadute che riguar- dano la ricostruzione dell’evoluzione geologica non solo di quell’area, ma 94 G. Bettelli, F. Panini dell’intero Appennino settentrionale. Da questo punto di vista, l’importanza dell’intenso lavoro sul terreno e di rilevamento cartografico svolto durante gli anni ‘80 è testimoniato dalla letteratura dell’ultimo decennio volta a defi- nire il significato in termini di processi e meccanismi genetici dei vari tipi di rocce caotiche distinte nei decenni precedenti in quella regione (Cowan & Pini, 2001; Vannucchi & Bettelli, 2002; Bettelli & Vannucchi, 2003; Remitti et al., 2007, 2011; Vannucchi et al., 2008).

7.1 Genesi delle brecce sedimentarie a matrice argillosa della Successione epiligure Sulle brecce sedimentarie a matrice argillosa della Successione epiligure dell’Appennino emiliano non sono mai stati fatti studi sedimentologici di det- taglio, ma i processi ed i meccanismi di trasporto e di deposizione sono ben noti in letteratura. Tutti gli autori che si sono occupati di questo tipo di depo- siti concordano nel ritenere che si tratta del risultato finale di colate miste, coesive, sottomarine, di fango e detrito provenienti dalle sottostanti Liguridi già diagenizzate ed ampiamente deformate. Per questi depositi, tuttavia, non sono state sufficientemente indagate le condizioni paleogeografiche e paleo- strutturali che hanno permesso la formazione di depositi così estesi regional- mente e così spessi. Nella Successione epiligure del versante padano dell’Appennino setten- trionale sono presenti due importanti orizzonti formati da brecce sedimentarie a matrice argillosa: le Brecce argillose di Baiso e le Brecce argillose della Val Tiepido-Canossa. Le Brecce argillose di Baiso (Papani et al., 2002), di età eocenica media, rappresentano i primi depositi sedimentati in discordanza sulle Unità Liguri dopo la Fase tettonica ligure (Eocene medio), contemporaneamente ai livelli più antichi delle Marne di Monte Piano (parte superiore dell’Eocene medio) che in varie località possono essere presenti sotto forma di inclusi all’interno di queste brecce. L’estrema variabilità litologica di questa unità, la cui com- posizione è direttamente determinata dalla natura litologica del substrato su cui insistono, indica che si tratta di depositi legati a processi sottomarini di rimodellamento della topografia del fondo marino al fine di raggiungere un riequilibrio tra le strutture tettoniche del substrato appena formatesi, od anco- ra in via di evoluzione (pieghe e faglie nelle Liguridi originate dalla fase tet- tonica ligure dell’Eocene medio), e stabilità del pendio sottomarino. In termini diversi si pone invece il problema per quel che riguarda le aquita- niane Brecce argillose della Val Tiepido-Canossa (Papani et al., 2002; Gasperi et al., 2005; Remitti et al., 2011). Questa unità caotica sedimentaria (olistostro- Che fine hanno fatto le Argille Scagliose dell’Appennino emiliano? 95 ma di Canossa in Papani, 1972) è uno dei primi e veri olistostromi riconosciuti nell’Appennino emiliano (Papani, 1963, 1972; Fazzini & Tacoli, 1964), ma sol- tanto in ridotte aree ove rappresentava un’intercalazione stratigrafica di materia- le proveniente dalle sottostanti Liguridi (argille scagliose di Papani, 1963, 1972) all’interno della Successione epiligure (Fazzini & Tacoli, 1964) a formare una tale anomalia stratigrafica da essere già stata segnalata nei primi decenni del Novecento da Anelli (1923a, 1923b, 1923c, 1929). Oggi è noto che questa spes- sa pila di depositi di debris flow è presente lungo tutto il versante padano dell’Appennino settentrionale, dal Pavese (Panini et al., 2002b) alla Val Marecchia (Bettelli et al., 1995), ma esclusivamente in una posizione esterna (nordorientale), lungo una fascia ristretta a ridosso del margine appenninico padano, dove quasi ovunque riposa direttamente in discordanza angolare sulle Liguridi (Remitti et al., 2011). In quest’area le unità epiliguri pre-aquitaniane sono completamente assenti o sono ridotte a blocchi discontinui e stratigrafica- mente incoerenti. Questa particolare giacitura rese impossibile in precedenza il suo riconoscimento in quelle aree, in quanto l’identificazione di questo tipo di depositi era basata prevalentemente su criteri di tipo stratigrafico, anche se Papani (1972) descrisse con estrema chiarezza la particolare tessitura clastica posseduta dall’olistostroma di Canossa nell’area tipo del Reggiano. Sia nei primi lavori (Bettelli & Panini, 1985a, 1989, 1992b; Bettelli et al., 1989b) sia in quelli più recenti (Pini, 1999; Cowan & Pini, 2001; Bettelli et al., 2002b; Papani et al., 2002; Pini et al., 2004; Gasperi et al., 2005; Martelli et al., 2009a, 2009b; Benini et al., 2009) non è mai stato affrontato il problema rap- presentato dal fatto che le Brecce argillose della Val Tiepido-Canossa per vaste aree giacciono direttamente sul substrato ligure o su blocchi sparsi e disarticola- ti della Successione epiligure pre-aquitaniana e perché, pur trattandosi di un corpo caotico presente a scala regionale, le aree fonte del materiale che lo costi- tuiscono sono state identificate in cause locali: alti strutturali intrabacinali lega- ti a faglie inverse o trascorrenti attive (Bettelli & Panini, 1989; Bettelli et al., 1989b; Papani et al., 2002) oppure in diapiri-vulcani di fango (Pini, 1999; Camerlenghi & Pini, 2009; Festa et al., 2010a, 2010b), ossia tutte ipotesi che implicano aree sorgenti del materiale molto limitate per la loro estensione. Queste cause locali appaiono del tutto inadeguate a spiegare la deposizio- ne contemporanea, nell’Aquitaniano, di un così vasto corpo caotico all’inter- no della Successione epiligure più esterna, affiorante a ridosso del margine appenninico padano. Secondo Bettelli & Panini (1989), Bettelli et al. (1989b, 2002b), Panini et al. (2002a, 2002b), Cerrina Feroni et al. (2002), Papani et al. (2002) e Benini et al. (2008) questa unità caotica chiaramente rappresentereb- be la risposta sedimentaria ad un’estesa riorganizzazione tettonica della parte 96 G. Bettelli, F. Panini più esterna del cuneo di accrezione ligure, ma cosa abbia determinato questa riorganizzazione è rimasta una domanda che non ha ricevuto risposta. Lo studio di un esempio recente (bacino di Radicofani, Pliocene: Liotta, 1996; Bettelli et al., 2001), in cui l’area sorgente è ancora ben identificabile e preserva- ta, ha mostrato che ingenti depositi di questo tipo possono formarsi anche dal- l’instabilità morfologica di scarpate sottomarine costiere generate da faglie nor- mali listriche al margine di un bacino estensionale e che per raggiungere la matu- rità tessiturale questi depositi non hanno bisogno di subire trasporti elevati o di riciclare preesistenti depositi dello stesso tipo (Camerlenghi & Pini, 2009), a causa della loro intrinseca debolezza dovuta all’elevata frazione argillosa ed allo stato di deformazione pervasiva già presente nelle rocce madri rappresentate da formazioni prevalentemente argillitiche, tettonicamente smembrate e già diage- nizzate. Alle stesse conclusioni porta anche l’osservazione della struttura interna delle attuali frane subaeree per colata che si formano oggigiorno lungo i versanti emiliani in cui affiorano le stesse formazioni liguri smembrate dalle quali deriva- rono quelle epiliguri durante l’Aquitaniano: la tessitura del deposito, a parte il diverso grado di compattazione, è del tutto analoga a quella delle antiche colate sottomarine, come già aveva osservato Papani (1972). Una nuova e recentissima interpretazione in termini di meccanismi all’origi- ne delle aquitaniane Brecce argillose della Val Tiepido-Canossa, coerentemente con la loro presenza esclusiva lungo una fascia che occupa una posizione ester- na, prossima al margine appenninico padano, è stata proposta di recente da Remitti et al. (2011). Si tratta della prima ipotesi secondo la quale la genesi di questa unità caotica non viene più attribuita a cause locali, ma a fenomeni tetto- nici che hanno interessato l’intero Appennino settentrionale nell’Aquitaniano.

7.2 Genesi delle formazioni smembrate senza blocchi esotici (tettoniti mono- formazionali) Si tratta del tipo di unità caotiche più studiate in assoluto negli ultimi ven- t’anni, ed oggi meglio conosciute, che formano la massa principale di ciò che veniva in precedenza denominato argille scagliose o complesso caotico. Appurato che l’elevato stato di deformazione di queste unità smembrate non poteva essere ricondotto ai meccanismi della loro messa in posto sul versante padano dell’Appennino settentrionale, poiché la nuova stratigrafia indicava che erano state deformate prima dell’Eocene medio-superiore (prima dell’ini- zio della sedimentazione della Successione epiligure), il loro stato di defor- mazione attuale poteva essere attribuito soltanto a meccanismi conseguenti alla chiusura dell’oceano ligure, precedenti quindi alla collisione. Le ricerche mesostrutturali effettuate negli ultimi vent’anni hanno portato a formulare per Che fine hanno fatto le Argille Scagliose dell’Appennino emiliano? 97 la prima volta ipotesi riguardanti i meccanismi di deformazione che possono spiegare la complessa struttura mesoscopica mostrata da queste formazioni smembrate senza ricorrere a fenomeni gravitativi (sedimentari o tettonici) o a meccanismi tettonici particolari ed insoliti. In letteratura sono state proposte due ipotesi differenti per quanto riguarda i meccanismi deformativi: • una deformazione prevalentemente per taglio semplice con thrusts a scala metrica su unità a stratificazione primaria ancora orizzontale, ma già in pre- cedenza sottoposte ad un intenso boudinage. Almeno così ci sembra di poter interpretare il pensiero di Pini (1999) e Cowan & Pini (2001) rias- sunto nel diagramma della Fig. 12.6 in Cowan & Pini (2001) (Fig. 12); • una deformazione progressiva con pieghe isoclinali non cilindriche a tutte le scale, ripiegate coassialmente, associate a faglie inverse (thrusts) a grande scala (decine di chilometri), per raschiamento di sedimenti ocea- nici formati da multistrato con caratteristiche reologiche molto differenti e caratterizzati (Fig. 13) da un diverso grado di competenza in funzione della loro litologia e stato di diagenesi (Bettelli et al., 1994, 1996b, 2002b; Bettelli & Vannucchi, 2003; Vannucchi & Bettelli, 2002; Remitti et al., 2011). Il boudinage pervasivo dei letti competenti osservabile in queste formazioni smembrate sarebbe il risultato del piegamento stesso e non di un evento deformativo precedente.

Fig. 12 – Schema mostrante la possibile origine secondo Cowan & Pini (2001) della struttura interna e della trasposizione della stratificazione delle formazioni smembrate delle Liguridi emiliane, denominate da questi autori “tectonosomes”. (1) stratificazione originaria indeformata, (2) boudinage, (3) appilamento dei diversi boudins tramite faglie inverse a scala metrica e superfici di scorrimento interne ai volumi da queste delimitati (da Cowan & Pini, 2001) 98 G. Bettelli, F. Panini

La seconda ipotesi appare meglio conciliare le strutture deformative meso- scopiche osservabili, ivi compresa la costante presenza in affioramento di pie- ghe isoclinali o cerniere isolate di pieghe isoclinali e pieghe ripiegate (Figg. 9 e 11A) dalla scala centimetrica a quella ettometrica, la giustapposizione di boudins che condividono la medesima orientazione, ma con polarità stratigra- fica diritta e rovesciata e la scagliosità pervasiva, che interessa spessori enor- mi (l’intero spessore della Falda ligure dell’Appennino emiliano sudorientale: spessa da 3 a 5 km). Il clivaggio scaglioso penetrativo (Vannucchi & Bettelli, 2002; Bettelli & Vannucchi, 2003) che interessa queste unità appare infatti del tutto compatibile con la deformazione pervasiva da taglio che si sviluppa sui fianchi di pieghe isoclinali a tutte le scale originate da meccanismi di piega- mento per flessione e scorrimento interstratale. Questo stile di deformazione, inoltre, è tipico, se non proprio esclusivo, delle unità a dominanza argillosa delle Liguridi esterne e delle Unità Subliguri (Remitti et al., 2011), le quali, in riferimento ad un modello attualistico di un prisma di accrescimento oceanico, possono essere interpretate come il risulta- to della raschiatura ed accrescimento dei sedimenti oceanici deposti sulla plac- ca sottoscorrente (Vannucchi & Bettelli, 2002; Bettelli & Vannucchi, 2003), avvenuta attraverso grandi faglie inverse (thrusts) e pieghe associate. La docu- mentata presenza di grandi pieghe cartografabili di dimensioni plurichilome- triche nell’Appennino modenese e reggiano segnalata da Bettelli et al. (2002b), Papani et al. (2002) e Vannucchi & Bettelli (2002) sembra rafforza- re ulteriormente questa ipotesi.

7.3 Genesi delle formazioni smembrate con blocchi “esotici” (tettoniti pluri- formazionali) Come descritto in precedenza, sul versante padano dell’Appennino setten- trionale associazioni di prevalenti rocce caotiche a dominante argillitica, carat- terizzate dalla mescolanza alla scala della carta geologica di unità litostrati- grafiche appartenenti in origine a successioni stratigrafiche ritenute differenti, affiorano (con caratteristiche diverse) in tre aree geograficamente distinte, cor- rispondenti ad altrettante finestre tettoniche: M. Staffola (Appennino reggia- no), Coscogno (Appennino modenese) e Montepastore (Appennino bologne- se). La maggior parte dei corpi rocciosi che costituiscono questa “unità strut- turale” (Unità o Mélange di Coscogno), virtualmente sottostante od incorpo- rata nelle Liguridi s.s., sono rappresentati da tettoniti o formazioni smembra- te liguri esterne o “subliguri”, prive della coerenza stratigrafica a causa dei meccanismi e dei processi precedentemente descritti e attivi durante la fase deformativa mesoalpina o ligure. Ad esse, come già riportato, si aggiungono Che fine hanno fatto le Argille Scagliose dell’Appennino emiliano? 99 lembi e scaglie di formazioni subliguri ed epiliguri pre-aquitaniane che gene- ralmente, pur se molto deformate, conservano una relativa coerenza ed ordine stratigrafico.

Fig. 13 – Schema illustrante l’origine della struttura a blocchi in pelite deformata e della tra- sposizione della stratificazione primaria nelle formazioni smembrate delle Liguridi dell’Appennino emiliano secondo Vannucchi & Bettelli (2002) e Bettelli & Vannucchi (2003). Il boudinage e la trasposizione della stratificazione primaria sono interpreta- te come dovute al ripiegamento coassiale di originarie pieghe isoclinali non cilindri- che, da metriche a chilometriche, associate a grandi faglie inverse, formatesi in segui- to a meccanismi di raschiamento ed appilamento frontale di sedimenti oceanici depo- sti su una placca in subduzione ad originare un prisma di accrezione (da Vannucchi & Bettelli, 2002)

Le problematiche relative a queste particolari associazioni di rocce caoti- che (e non) sono principalmente rappresentate dalla definizione: i) dell’età del sottoscorrimento delle Unità Subliguri che vi compaiono, ii) dell’età di inizio dell’esumazione, e iii) dei meccanismi di esumazione. Per comprendere l’ori- gine e l’evoluzione della finestra tettonica di Coscogno un problema aggiunti- vo, tutt’altro che trascurabile, è rappresentato dalla necessità di definire anche il meccanismo responsabile della commistione di unità tra loro considerate estranee dal punto di vista stratigrafico e paleogeografico, cioè i meccanismi responsabili della formazione del mélange. Le ipotesi avanzate in letteratura indicano che si tratta di unità che originaria- mente formavano il piede del cuneo ligure (Falda ligure) nell’Oligocene sup.- Aquitaniano le quali hanno subito un meccanismo di sottoscorrimento (erosione tettonica frontale: Vannucchi et al., 2008; Remitti et al., 2011) ed una successiva esumazione. Nel caso delle finestre tettoniche del M. Staffola e di Montepastore, l’esumazione si sarebbe verificata lungo ampie zone di trascorrenza all’interno della Falda ligure (Bettelli & Panini, 1989; Bettelli et al., 2002b; Papani et al., 2002) attive durante la sedimentazione della Successione epiligure. 100 G. Bettelli, F. Panini

La parziale mescolanza delle diverse unità litostratigrafiche attualmente osser- vabile potrebbe essersi verificata sia durante il sottoscorrimento stesso sia duran- te la successiva esumazione. I tempi di questi due eventi risultano estremamente ravvicinati e riferibili all’Aquitaniano sulla base dell’età dei più recenti elementi coinvolti e sulla base del fatto che nell’area di Cereglio (zona di Rodiano, Appennino bolognese) al di sopra dei terreni appartenenti alla finestra tettonica si rinviene la parte alta, post-Canossa, della Formazione di Antognola ricoperta dal Gruppo di Bismantova. Per la zona di Montepastore un meccanismo di esumazione alternativo preve- de invece la presenza, al di sotto delle Liguridi, di una vera e propria falda subli- gure portata a giorno da una tettonica sottrattiva estensionale a basso angolo atti- va tra il Miocene inferiore ed il Pliocene inferiore (Cerrina Feroni et al., 2002). Come già peraltro sottolineato dagli stessi autori, l’elisione di un così elevato spessore di materiale attraverso superfici tettoniche a basso angolo mal si giusti- fica con la presenza al di sotto delle unità epiliguri mioceniche, a pochissimi chi- lometri di distanza (nella Valle del F. Reno), di un substrato stratigrafico costitui- to da unità liguri di considerevole spessore e da altrettanto potenti depositi epili- guri pre-miocenici. Per quel che riguarda invece la finestra tettonica di Coscogno, la mescolanza lì osservata di unità tra loro stratigraficamente estranee si sarebbe generata lungo la superficie di scollamento basale del cuneo ligure (Falda ligure): il sottoscorri- mento stesso e l’eventuale formazione di strutture di duplicazione tettonica (duplexes) avrebbero permesso (Bettelli & Panini, 1989; Bettelli et al., 2002b) la commistione tettonica di lembi (scaglie tettoniche) di formazioni appartenenti a successioni stratigrafiche diverse (Liguridi esterne terziarie, Subliguridi ed anche unità epiliguri). Per questa finestra restano ancora enigmatici i meccanismi che hanno determinato l’esumazione delle rocce che vi affiorano. Le ipotesi di una esumazione attraverso faglie inverse fuori sequenza o piuttosto attraverso mecca- nismi estensionali avanzate da Bettelli et al. (2002b) potrebbero non essere le uni- che interpretazioni possibili. In tutti i casi, il sollevamento associato all’esumazione di queste unità sotto- scorse appare aver fornito un contributo fondamentale alla produzione delle cola- te sottomarine che nell’Aquitaniano hanno dato origine, alla scala dell’intero ver- sante padano dell’Appennino emiliano, alle Brecce argillose della Val Tiepido- Canossa (Bettelli et al., 2002b; Papani et al., 2002; Remitti et al., 2011). Questo esempio indica che olistostromi di estensione regionale rappresentano la testimo- nianza di importanti eventi tettonici in un orogene. Le Brecce argillose della Val Tiepido-Canossa sono il risultato diretto ed indiretto sia di un esteso meccanismo di erosione tettonica frontale (Vannucchi et al., 2008) a cui è andato incontro il Che fine hanno fatto le Argille Scagliose dell’Appennino emiliano? 101 cuneo di accrezione ligure durante il Miocene inferiore (Remitti et al., 2011), sia dei meccanismi di esumazione sinsedimentaria di una parte del materiale sotto- scorso ad opera di questo processo di erosione tettonica frontale.

7.4 Genesi delle formazioni smembrate (tettoniti) dislocate dalla gravità Si tratta di accumuli caotici di spessore ed estensione molto limitati e di difficile riconoscimento. Infatti, i rari esempi segnalati nell’Appennino emi- liano sono stati individuati più sulla base di incongruenze di carattere strati- grafico, piuttosto che su osservazioni oggettive relative allo stile di deforma- zione interno, poiché in tutti i casi si tratta di materiali provenienti dalle Liguridi, già ampiamente deformate prima di essere state dislocate dalla gra- vità. Questi depositi di scivolamento in massa, nel caso della Successione epi- ligure, sono stati riconosciuti per lo più per la presenza di blocchi di materia- li stratigraficamente incompatibili (presenza di inclusi appartenenti alle epili- guri Marne di M. Piano); invece, nell’unico caso noto appartenente alle Liguridi (Complesso di Rio Cargnone: Bettelli et al., 2002b; Papani et al., 2002), perché si trattava, come già accennato, di materiale “esotico” rispetto alla successione stratigrafica sottostante. In alcune località le caratteristiche mesostrutturali di queste masse disloca- te dalla gravità indicano che il franamento ha determinato una parziale, ma significativa ristrutturazione interna del corpo franato (comunque già molto deformato in precedenza) messa in evidenza dal diverso stile delle strutture tettoniche rispetto a quelle preesistenti, osservabili nelle corrispondenti unità non dislocate dalla gravità dalle quali esse derivano (Bettelli et al., 2006). Fino ad ora non si è andato oltre a queste osservazioni di carattere essenzialmente qualitativo. Queste differenze di stile deformativo, dovuto alla sovrapposizio- ne di strutture da deformazione gravitativa su strutture di deformazione tetto- nica, potrebbero forse essere meglio specificate e quantificate al fine di otte- nere, se mai fosse possibile, dei criteri di distinzione oggettivi. Tutti gli esempi individuati mostrano che queste possibili masse dislocate dalla gravità si rinvengono sistematicamente alla base di spessi depositi di brecce sedi- mentarie sia nel caso della Successione epiligure, sia nel caso delle Liguridi (Complesso di Rio Cargnone, Appennino modenese: Bettelli et al., 2002b; Papani et al., 2002) e che sono a contatto con questi depositi tramite nette superfici.

7.5 Genesi delle associazioni di formazioni smembrate (tettoniti) e brecce sedimentarie Le associazioni alla scala della carta geologica di formazioni smembrate e di brecce sedimentarie, individuate nell’Appennino emiliano, sono rappresen- 102 G. Bettelli, F. Panini tate solo da due esempi molto differenti. Uno di questi esempi, il Complesso di Rio Cargnone (Bettelli et al., 2002b; Papani et al., 2002) possiede un inte- resse apparentemente solo locale (almeno allo stato attuale delle conoscenze), l’altro esempio, l’Unità tettonica Sestola-Vidiciatico (Remitti et al., 2007; Vannucchi et al., 2008), riveste invece un’importanza regionale anche se i suoi affioramenti attualmente si rinvengono quasi esclusivamente in un ampio set- tore a SE del F. Secchia (ma ricompaiono nel Piacentino, nella finestra tetto- nica di Bobbio: Labaume et al., 1991; Labaume, 1992; Labaume & Rio, 1994; Elter et al., 2005). Molto significativo è il fatto che gli esempi più importanti di questa tipologia di rocce caotiche, che noi continuiamo a ritenere la più pro- blematica dal punto di vista dei meccanismi genetici, siano stati interpretati, già a partire dall’inizio degli anni ‘60, come olistostromi e siano ancora oggi- giorno considerati tali da alcuni autori (Abbate & Bruni, 1989; Lucente & Pini, 2008; Dellisanti et al., 2010; Festa et al., 2010a, 2010b), sebbene siano gli esempi più discussi e problematici. Il Complesso di Rio Cargnone, al tetto della successione ligure cretaceo sup.- paleocenica sup.-eocenica inf. (?) della Val Rossenna (Bettelli et al., 2002b; Papani et al., 2002) è stato complessivamente interpretato, con qualche dubbio, come il risultato di diversi meccanismi gravitativi sedimentari (da qui il nome formale di complesso), e quindi come un olistostroma sulla base esclusiva delle relazioni stratigrafiche con le sottostanti unità “regolarmente stratificate” e per la presenza di ingenti depositi di frane per colata (brecce argillose, depositi di debris flow). Nel Complesso di Rio Cargnone le brecce argillose e le masse inte- gre di formazioni smembrate a dominanza argillosa appartenenti alle Liguridi non si rinvengono mescolate alla scala della carta geologica, ma o in sovrappo- sizione verticale (stesso luogo, ma deposte in tempi differenti), oppure adiacen- ti le une alle altre (stesso tempo, luoghi differenti). Le grandi masse integre di Liguridi possono raggiungere spessori di centinaia di metri ed estensioni di sva- riati chilometri. Se si tratta di masse dislocate dalla gravità, questa masse integre di Liguridi non possono essere che il risultato di meccanismi di frana (per sci- volamento in massa) nettamente differenti da quelli che hanno dato origine alle brecce argillose (colate coesive di fango e detrito). Frane per colate coesive di fango e detrito non possono formarsi contemporaneamente a frane per scivola- mento di enormi dimensioni e dare origine alla fine ad un unico corpo caotico ove i rispettivi depositi sono tra loro mescolati, senza alcuna possibilità di rin- venirvi un qualsiasi ordine (olistostroma “caotico”). L’Unità tettonica Sestola-Vidiciatico ricopre tutte le unità di avanfossa oligo-mioceniche (Macigno, Modino, Cervarola, Marnoso arenacea), in un caso simula un’intercalazione (interposta tra il Macigno e le Arenarie del M. Che fine hanno fatto le Argille Scagliose dell’Appennino emiliano? 103

Modino) ed è tettonicamente sovrascorsa ovunque dalla Falda ligure. La strut- tura e la composizione interna di questo estesissimo, ma sottilissimo, corpo caotico (al massimo 500-600 m circa), è molto articolata (cfr. Remitti et al., 2007, cum biblio.) e ciò che appare abbastanza chiaro, al contrario dell’esem- pio del Complesso di Rio Cargnone sopradescritto, è la mancanza di una qual- siasi disposizione ordinata (verticale od orizzontale) tra le brecce argillose e le enormi masse integre di dimensioni plurichilometriche (formate da Liguridi, da depositi di scarpata eocenici, oligocenici e miocenici, ivi compreso l’inte- ro riempimento di piccoli bacini di base scarpata della stessa età, per esempio la Successione Porretta dell’Appennino bolognese: Bettelli et al., 2002c). Secondo Remitti et al. (2007) e Vannucchi et al. (2008) non si tratterrebbe attualmente di un semplice “olistostromal carpet” formato da una serie di oli- stostromi (Lucente & Pini, 2008; Festa et al., 2010a, 2010b) o di un mélange tettono-sedimentario (Dellisanti et al., 2010; Festa et al., 2010a, 2010b), ma di un complicato mélange tettonico formato da grandi masse integre e da depo- siti di debris flow provenienti prevalentemente dall’erosione tettonica frontale (Vannucchi et al., 2008; Remitti et al., 2011; vedi anche modello di Fig. 4 in Bettelli & Panini, 1992a) del sovrastante cuneo di accrezione ligure (Falda ligure), con una componente più o meno importante derivante anche dai depo- siti di scarpata marnosi e silicoclastici sedimentati sul piede del prisma ligure stesso (depositi di wedge-top). Quanto di queste varie masse integre possa essere attribuito ad originari e possibili meccanismi per frane di scivolamento in massa al piede della scarpata interna delle avanfosse oligo-mioceniche (Bettelli & Panini, 1992a) non è possibile stabilirlo attualmente e, temiamo, sarà difficilmente possibile in futuro. Ciò che deve apparire chiaro, però, è che in tutti i casi il sottoscorrimento di queste diverse rocce alla Falda ligure deve aver necessariamente profondamente modificato le eventuali relazioni strati- grafiche primarie esistenti tra le ipotetiche masse derivanti da frane di scivola- mento in massa, i depositi di debris flow e le masse derivanti da erosione tet- tonica frontale e basale del cuneo ligure (Bettelli & Panini, 1992a). L’esistenza nell’Appennino settentrionale di intere “falde” (Unità Subliguri: Remitti et al., 2011) sottoscorse alla Falda ligure e delle tre finestre tettoniche descritte in precedenza (finestre tettoniche del M. Staffola, di Coscogno e di Montepastore), in cui affiorano Unità Liguri esterne e subliguri che hanno subito lo stesso meccanismo di sottoscorrimento e che sono prive di una com- ponente caotica sedimentaria (brecce argillose, depositi di debris flow), con- valida l’ipotesi che il cuneo ligure durante il Miocene sia andato incontro ad estesi processi di erosione tettonica prevalentemente frontale e non a genera- lizzati collassi gravitativi sedimentari. Pertanto, una buona parte di queste 104 G. Bettelli, F. Panini masse integre che si rinvengono nelle associazioni di formazioni smembrate e brecce argillose devono sicuramente la loro origine a questi processi tettonici di erosione, mentre è solo ipotizzabile che alcune di esse siano frutto di pro- cessi gravitativi sedimentari. L’ipotesi che l’Unità tettonica Sestola-Vidiciatico sia attualmente un mélange tettonico da sottoscorrimento (Remitti et al., 2007) formatosi preva- lentemente attraverso processi di erosione tettonica frontale (e basale) del cuneo ligure e della sua copertura sedimentaria ad originare un canale di sub- duzione (Vannucchi et al., 2008) o una zona di taglio interplacca (Remitti et al., 2012; Vannucchi et al., 2012) permette di trovare un’unica causa comune per differenti situazioni tettoniche anomale e per la genesi di altre unità caoti- che, con caratteristiche anche molto diverse, affioranti nell’Appennino emilia- no. Queste situazioni sono rappresentate da: i) l’anomala posizione e struttura interna della “falda subligure” (Elter & Trevisan, 1973) che occupa la stessa posizione geometrica dell’Unità tettonica Sestola-Vidiciatico (Remitti et al., 2007, 2011), ii) l’origine e la composizione di quest’ultima unità tettonica (Vannucchi et al., 2008), iii) la mancanza della successione epiligure pre-aqui- taniana nelle zone più esterne a ridosso del margine appenninico padano (Remitti et al., 2011), iv) la presenza in queste stesse aree delle Brecce argil- lose della Val Tiepido-Canossa (Remitti et al., 2011) e v) l’origine ed il ruolo svolto dal mélange di Coscogno nel Miocene basale in relazione alla forma- zione di questa unità caotica sedimentaria (Bettelli et al., 2002b; Papani et al., 2002). L’elenco di altri problemi irrisolti, che in questo nuovo schema sareb- bero suscettibili di trovare una nuova e migliore spiegazione, potrebbe essere ulteriormente esteso a comprendere situazioni o fenomeni diversi da quelli che hanno suggerito il modello stesso ed essere ben inquadrati nell’evoluzione tet- tonica di un cuneo ligure che dopo l’Eocene medio è andato incontro ad un esteso fenomeno di erosione tettonica frontale (e basale). Le future ricerche si incaricheranno sicuramente di fare questo.

8. Conclusioni

L’introduzione del termine olistostroma da parte di Flores (1955) nella let- teratura geologica ha radicalmente modificato la discussione in atto in Italia negli anni ‘50 sull’origine delle rocce caotiche, fino a quel momento tutte desi- gnate sotto la denominazione generale di argille scagliose ed interpretate come il risultato di processi tettonici, anche se gravitativi. Benché la defini- zione originaria si sia prestata e si presti ancora ad eccessi interpretativi e ad Che fine hanno fatto le Argille Scagliose dell’Appennino emiliano? 105 errate o non sufficientemente documentate applicazioni, l’idea dell’esistenza di esclusivi meccanismi sedimentari all’origine di una parte delle argille sca- gliose appenniniche ha portato ad un drastico progresso nella geologia regio- nale dell’Appennino settentrionale ed in particolare nel settore sudorientale dell’Appennino emiliano dove predominano differenti tipi di rocce caotiche. La completa differenziazione del Complesso caotico emiliano e la sua scom- parsa dalla cartografia geologica di quella regione si deve al fatto che nel lavoro sul terreno il concetto di olistostroma fu ristretto a comprendere solo quelle rocce caotiche che mostravano un’evidente tessitura di tipo clastico a tutte le scale di osservazione. Questo criterio ha permesso di distinguere le rocce caoti- che derivanti da sicuri ed incontrovertibili processi sedimentari da quelle che dovevano la loro caoticità a generici meccanismi deformativi i quali potevano essere di natura tettonica, per gravità o spinte tangenziali, oppure di natura sedi- mentaria per frane di scivolamento in massa. La combinazione di questo criterio di base con altri princìpi più o meno oggettivi ha reso così possibile distinguere svariati tipi differenti di rocce caotiche cartografabili: brecce sedimentarie o brecce argillose (depositi di debris flow), formazioni smembrate (tettoniti) senza blocchi esotici, formazioni smembrate (tettoniti) con blocchi esotici, formazioni smembrate (tettoniti) interpretate come dislocate dalla gravità ed associazioni di formazioni smembrate (tettoniti) e di brecce sedimentarie. La nuova cartografia geologica di dettaglio prodotta secondo questi criteri da sola si fece carico di far emergere un nuovo e coerente quadro stratigrafico e strutturale il quale indicava che la quasi totalità delle rocce caotiche con struttura dovuta a meccanismi deformativi apparteneva alle formazioni smem- brate liguri (Liguridi) o Subliguridi, mentre la quasi totalità di quelle con tes- situra clastica dovuta a meccanismi sedimentari (brecce argillose, depositi di debris flow), apparteneva invece alla sovrastante e discordante Successione epiligure. Questo fatto ha permesso di identificare e definire lo stile di defor- mazione acquisito dalle formazioni smembrate liguri e subliguri prima della deposizione della Successione epiligure stessa (prima dell’Eocene medio- superiore), ossia prima della messa in posto delle Liguridi/Subliguridi sul ver- sante padano dell’Appennino. Emerse così che la struttura caotica di queste unità telealloctone non era il risultato della loro messa in posto, ma il risulta- to di una storia tettonica precedente e più antica, e che esse erano state trasla- te essenzialmente come una falda che aveva mantenuto la sua coerenza ed uni- tarietà (anche se suddivisa da grandi faglie regionali inverse, trascorrenti e nor- mali: Bettelli et al., 2002a), rendendo con ciò inutile il ricorso a meccanismi gravitativi sedimentari o tettonici per spiegare l’attuale struttura interna caoti- ca delle rocce che la formano. 106 G. Bettelli, F. Panini

Questi stessi criteri hanno permesso di individuare anche aree in cui affio- rano associazioni anomale di rocce caotiche ascrivibili o ad appilamenti di scaglie tettoniche (mélange di Coscogno s.l.) originate dal sottoscorrimento alle Liguridi, oppure formate dalla commistione in proporzioni variabili di prodotti della sedimentazione e della deformazione. Nel settore sudorientale dell’Appennino emiliano l’esempio più caratteristico di quest’ultimo tipo di associazione di rocce caotiche si rinviene alla base della Falda ligure a forma- re un sottile orizzonte (spesso al massimo 500-600 m) che la separa ovunque dai sottostanti depositi torbiditici silicoclastici delle avanfosse oligo-mioceni- che (Macigno, Arenarie del M. Cervarola o Gruppo del Cervarola e Formazione Marnoso arenacea). Tale orizzonte caotico partecipa alle strutture che interessano il Macigno e le Arenarie del M. Cervarola, ma non a quelle che coinvolgono la Formazione Marnoso-arenacea, se non in forma limitatissima. Gli studi effettuati negli ultimi trent’anni sulle rocce caotiche dell’Emilia sudorientale, l’area tipo delle argille scagliose e del Complesso caotico degli anni ‘50 e ‘70, hanno permesso non solo di acquisire una nuova e moderna car- tografia che ha fatto emergere le grandi strutture tettoniche dell’area e di descri- verne l’evoluzione geologica, ma hanno permesso di acquisire nuove ed impor- tanti informazioni stratigrafiche e strutturali con profonde ricadute sull’inter- pretazione dell’evoluzione tettonica dell’intero Appennino settentrionale.

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Atti Soc. Nat. Mat. Modena 142 (2011)

Paolo Balocchi*

Deformation bands in litologie arenacee della Formazione di Ranzano e loro significato geologi- co strutturale (Appennino emiliano)

Riassunto Lo studio riguarda l’analisi strutturale della deformazione fragile di alcune bande di deformazione (deformation bands) ritrovate all’interno delle unità litologiche arenacee della Formazione di Ran- zano dell’Appennino emiliano. Lo studio di due affioramenti ha mostrato la presenza di due set: il primo set a direzione e inclinazione N310°-30° e il secondo set a direzione e inclinazione N270°-60°. Vengono poi studiate le strutture secondarie associate alle deformation bands, che sono costituite da: i) strutture a cucchiaio rappresentate da superfici di scollamento basale raccordate a rampe fronta- li (faglie di thrust listriche); ii) strutture da clay-smearing rappresentate da strutture da foliazione associate a strutture di taglio (S-C Fabric). Lo studio delle singole deformation bands e delle strut- ture secondarie ha permesso di definire l’orientazione dell’ellissoide della deformazione che ha pro- dotto le strutture studiate.

Abstract A structural analysis of the brittle deformation of some deformation bands found within the sandsto- ne lithological units of the Ranzano Formation in the Emilia Apennines (northern Italy), was carried out. The study of two outcrops showed the presence of two sets: the first set with strike and dip N310°- 30° and the second one with strike and dip N270°-60°. The secondary structures associated with deformation bands were also studied; they are: i) spoon structures represented by the basal detach- ment surfaces connected with frontal ramps (listric thrust faults), ii) clay-smearing structures repre- sented by foliation associated with shear surfaces (S-C Fabric). The study of individual deformation bands and the secondary structures allowed the orientation of the deformation ellipsoid, that produ- ced the structure studied, to be defined.

Parole chiave: Deformation bands, strutture secondarie, analisi strutturale, Formazione di Ran- zano, Appennino settentrionale

Key words: Deformation bands, secondary structures, structural analysis, Ranzano Formation, Northern Apennines

* Geologo, GeoResearch Center Italy – sito Internet: www.georcit.blogspot.com; e-mail: geor- [email protected] 118 P. Balocchi

1. Introduzione

Lo studio riguarda l’analisi strutturale della deformazione fragile di alcu- ne strutture ritrovate all’interno delle unità litologiche arenacee della Formazione di Ranzano dell’Appennino emiliano, in prossimità di Castellarano (RE), e riconducibili a bande di deformazione (deformation bands). Tali strutture sono descritte in letteratura da diversi Autori (Aydin, 1978; Aydin & Reches, 1982; Aydin & Johnson, 1983; Antonellini et al., 1994; Capitani, 2002; Tondi et al., 2006) come piccole faglie con spessore millimetrico, in cui i singoli grani si fratturano per taglio, con spostamenti dell’ordine del millimetro o centimetro. Esse sono riconoscibili come bande sottili, a tonalità cromatica differente da quella della roccia sana circostante e, generalmente, risaltano in rilievo positivo o negativo (a seconda della microstruttura interna) sulla superficie affiorante. L’obiettivo dello studio è quello di descrivere la geometria delle defor- mation bands e delle strutture secondarie ad esse associate e, tramite l’ana- lisi strutturale, descrivere l’orientazione dell’ellissoide della deformazione che ha prodotto le bande e le strutture secondarie.

2. Inquadramento geologico

Gli affioramenti studiati sono all’interno di un’area che è caratterizzata dalle litologie della Formazione di Ranzano appartenente alla Successione Epiligure (Bettelli et al., 1987). Tale formazione è rappresentata da corpi sedi- mentari di origine torbiditica con geometria da tabulare a lenticolare e con lito- logie e facies molto variabili, da conglomeratiche ad arenacee, arenaceo-peli- tiche e pelitiche (Martelli et al., 1998; Papani et al., 2002a; Gasperi et al., 2005a). L’ambiente deposizionale è quello di scarpata e di bacino. Al suo interno si ritrovano a diversi livelli dei corpi di frana sottomarina. L’età della formazione è variabile dall’Eocene superiore all’Oligocene inferiore (Priaboniano sup.-Rupeliano sup.). Sulla base di differenze di facies, stratigrafiche e della composizione petrografica dei litotipi arenitici, la Formazione di Ranzano viene distinta in vari membri (Martelli et al., 1998; Papani et al., 2002a; Gasperi et al., 2005a). Gli affioramenti studiati (Fig. 1) sono stati attribuiti alla facies arenaceo-con- glomeratica del Membro della Val Pessola, caratterizzata da banchi arenacei a grana grossolana e conglomeratici e che in quest’area costituisce la parte infe- riore della formazione (Martelli et al., 1998; Gasperi et al., 2005a). Deformation bands in litologie arenacee della Formazione di Ranzano... 119

Dal punto di vista tettonico (Fig. 1) i due affioramenti studiati sono collo- cati all’interno della Sinclinale di Viano (Papani, 1971; Papani et al., 1987; De Nardo et al., 1991), una struttura plicativa alla scala cartografica che può esse- re imputata a fasi tettoniche anteriori al Burdigaliano e che coinvolge le unità liguri cretaceo-eoceniche (Cassio e Viano) e la parte inferiore pre-burdigalia- na della Successione epiligure. Essa presenta un asse suborizzontale a dire- zione appenninica (NW-SE) e si estende ampiamente dalla valle dell’Enza fino a quella del Secchia. La sinclinale è limitata verso nord dalla Linea Pecorile – Monte dell’Evangelo e verso sud dalla Linea Canossa – San Romano (Papani, 1971; Papani et al., 2002a; 2002 b; Gasperi et al., 2005a; 2005b). In corri- spondenza del F. Secchia la Sinclinale di Viano subisce una verticalizzazione ed una sensibile rotazione in senso antiorario (Gasperi et al., 2005a), da impu- tare a fasi tettoniche post-messiniane.

Fig. 1 – Schema strutturale. Legenda: 1 = traccia delle principali strutture di accavallamen- to; 2 = traccia delle superfici di accavallamento riutilizzate con meccanismo esten- sionale; 3 = traccia delle principali faglie trascorrenti; 4 = traccia assiale della Sinclinale di Viano. a = Fronte appenninico; b = Linea dei Gessi; c = Linea Pecorile – Monte dell’Evangelo; d = Linea Canossa – San Romano; Aff. = Affioramenti stu- diati (modificato da De Nardo et al., 1991 e da Gasperi et al., 2005) Fig. 1 – Structural scheme. Legend: 1 = Traces of main thrust surfaces; 2 = Traces of formed thrust surfaces later reactivated as extension faults; 3 = Traces of main strike-slip faults; 4 = Axial traces of Viano syncline. a = Apennine Front; b = Gypsum Line; c = Pecorile – Monte dell’Evangelo Line; d = Canossa – San Romano Line; Aff. = out- crops studied (modified after De Nardo et al., 1991 and Gasperi et al., 2005) 120 P. Balocchi

Le principali lineazioni tettoniche del basso appennino reggiano sono rap- presentate da sistemi di faglie a direzione appenninica (Papani, 1971; Papani et al., 2002a; 2002 b; Gasperi et al., 2005a; 2005b): Linea dei gessi: coincide quasi con il margine appenninico ed è interpretata come allineamento di faglie inverse prodotte da una tettonica compressiva post- messiniana che ha verticalizzato la Formazione gessoso-solfifera affiorante nel blocco settentrionale. Linea Canossa – San Romano: corrisponde ad un allineamento di faglie ad alto angolo (se non subverticali) che si sviluppa tra la valle dell’Enza (zona di Canossa) e la Valle del Tresinaro e del Secchia (San Romano) e che delimita a sud la strut- tura di Viano. La linea mette a contatto aree caratterizzate da una Successione epi- ligure che presenta forti differenze stratigrafiche e una differente tipologia di sub- strato ligure. Per tale motivo viene interpretato come thrust-front (De Nardo et al., 1991) attivo durante la sedimentazione della Successione epiligure neogenica e riutilizzata in tempi successivi come faglia diretta con l’abbassamento del blocco di tetto. La linea è dislocata da altre dislocazioni a direzione antiappenninica, inter- pretabili come tear-faults a rigetto trascorrente sinistro. Linea Pecorile – Monte dell’Evangelo: anch’essa interpretata come sistema di faglie inverse ad alto angolo ed immersione verso sud, costituisce il limite setten- trionale della struttura di Viano. Localmente si hanno variazioni delle immersioni dei piani di faglia nei diversi segmenti dovuti a movimenti di back-thrust (ad alto angolo) di Unità liguri su quelle epiliguri. La linea ha giocato un ruolo complessi- vamente distensivo mettendo a contatto le unità liguri tardo cretacee e quelle epi- liguri della struttura di Viano con quelle liguri più antiche affioranti a nord lungo il margine appenninico. Tale linea poteva essere già presente a partire dall’Eocene o dal Miocene basale, ed essere interpretata come struttura tettonica che separava due aree caratterizzate da ambienti sedimentari differenti (Gasperi et al., 2005a).

3. Descrizione delle deformation bands

Le deformation bands sono descritte in letteratura come piccole faglie con spessore millimetrico, in cui i singoli grani si fratturano per taglio, con spo- stamenti dell’ordine del millimetro o centimetro, pertanto la deformazione è localizzata entro una stretta fascia denominata banda. Il loro spessore è varia- bile dal millimetro al decimetro (Aydin, 1978; Aydin & Reches, 1982; Aydin & Johnson, 1983; Antonellini, et al., 1994; Capitani, 2002; Tondi et al., 2006). Una zone of deformation bands è rappresentata dall’accostamento di due o più deformation bands, che mostrano la stessa direzione e inclinazione. Lo Deformation bands in litologie arenacee della Formazione di Ranzano... 121 spessore di una zona dipende dal numero e dalla spaziatura tra le singole deformation bands. A sua volta, una zone of deformation bands è limitata da due superfici di scivolamento denominate slip-surfaces. Le relazioni spaziali tra le deformation bands, zone of deformation bands e le slip-surfaces, indicano che queste tre strutture si formano in sequenza (Aydin & Johnson, 1983). Una singola banda di deformazione si forma per prima durante il processo e, per accrescimento di nuove bande adiacenti ad una preesistente, si formano delle zones of deformation bands. Attraverso que- sto processo si ha un aumento dello spessore della zona che corrisponde ad un aumento del rigetto effettivo (Aydin & Johnson, 1983; Tondi et al., 2006).

4. Le deformation bands e le strutture secondarie

Durante la campagna di rilevamento su alcuni affioramenti della facies arenaceo-conglomeratica del Membro della Val Pessola (Formazione di Ranzano), sono stati individuati due set principali di deformation bands, e in associazione ad esse sono state documentate delle strutture secondarie. Il primo set è rappresentato da più deformation bands singole con uno spes- sore dell’ordine del centimetro e spaziatura decimetrica, a formare una zone of deformation bands (Fig. 2a) con direzione e inclinazione media di N310°-30° (Fig. 3). La litologia della roccia ospitante e la stessa di quella delle bande, ed è rappresentata da arenarie microconglomeratiche di colore grigio e media- mente friabili. Le singole bande si presentano in rilievo rispetto la roccia ospi- tante (Fig. 2a). Questo è dovuto ad una maggiore resistenza agli agenti atmo- sferici, i quali erodono maggiormente la roccia circostante più friabile rispet- to alle deformation bands più compatte e resistenti. Il processo di erosione selettiva viene controllato anche dalla diminuzione della porosità del sedi- mento in corrispondenza della singola banda, che gli conferisce una maggiore resistenza (Aydin & Johnson, 1983; Antonellini et al., 1994). Strutture associate a questo set sono quelle a cucchiaio rappresentate da superfici di scollamento basale raccordate a rampe frontali. La forma si presenta come superficie concava verso l’alto (Fig. 2a). Tali superfici sono descrivibili come delle faglie listriche di sovrascorrimento, le quali mostrano diverse fasi di deformazione tettonica (Fig. 2b) dovute ad una fase di raccorciamento dell’area. Il set può essere classificato sulla base dell’osservazione alla scala mesoscopica, come bande di deformazione da compattazione con componente di taglio (Compaction bands with shear) (Antonellini et al., 1994; Schultz et al., 2005). 122 P. Balocchi

Fig. 2 – Deformation bands: a) in affioramento; b) interpretazione geometrica e cinematica: 1) primo sovrascorrimento; 2) secondo sovrascorrimento; 3) terzo sovrascorrimento; R) Rampe frontali; in pianta sono visibili le forme ad arco; x) direzione di massimo allunga- mento, z) direzione di massimo raccorciamento relativo all’ellissoide della deformazione Fig. 2 – Deformation bands: a) at the outcrop, b) kinematic and geometric interpretation: 1) first thrust, 2) second thrust, 3) third thrust; R) Frontal ramps; the arc-shaped structures are visible in plan; x) direction of maximum stretching axis, z) direction of maximum shorten- ing axis

Fig. 3 – Distribuzione spaziale delle deformation bands del set 1; proiezione equiareale, emi- sfero inferiore Fig. 3 – Spatial distribution of deformation bands of set 1; equal-area projection, lower hemisphere Deformation bands in litologie arenacee della Formazione di Ranzano... 123

Fig. 4 – Deformation bands: a) struttura clay-smearing con S-C fabric; b) sezione lungo la traccia N-S ed interpretazione geometrica e cinematica: S = foliazione; C = superfi- ci di taglio; x) direzione di massimo allungamento, z) direzione di massimo raccor- ciamento relativo all’ellissoide della deformazione Fig. 4 – Deformation bands: a) clay-smearing structure with S-C fabric b) N-S section along the track and kinematic and geometric interpretation: S = foliation, C = shear surfaces, x ) direction of maximum stretching axis, z) direction of maximum shortening axis

Il secondo set è rappresentato da singole deformation bands con uno spes- sore dell’ordine da centimetrico a decimetrico a formare una zone of deforma- tion bands con direzione e inclinazione media N270°-60° (Figg. 4a e 5). La litologia della roccia ospitante è rappresentata da arenarie da microconglome- ratiche a conglomeratiche di colore grigio, compatte, mentre le bande sono caratterizzate dalla medesima litologia ma a granulometria generalmente più fine (arenarie fini), maggiormente friabili e con una struttura secondaria deno- minata clay-smearing (Fig. 4). In sezione, le strutture di clay-smearing si pos- sono descrivere come strutture tipo S-C Fabric (Fig. 4b)(Lister, 1984; Lin, 2001) caratterizzate dalla presenza delle S-surface che rappresentano una foliazione con direzione e inclinazione N270°-40° (Figg. 4b e 5) e con le C- surface che rappresentano delle slip-surface o superfici di scivolamento per 124 P. Balocchi taglio, che limitano lateralmente la singola deformation band (N270°-60°) dalla roccia ospitante. La roccia circostante alle deformation bands si presenta in rilievo e più com- patta rispetto a quella delle singole bande, probabilmente a causa di un maggiore grado di erosione del sedimento in corrispondenza delle deformation bands. Tale set può essere classificato alla scala mesoscopica come deformation band with clay-smearing (Antonellini et al., 1994; Schultz et al., 2005).

Fig. 5 – Distribuzione spaziale delle deformation bands del set 2; proiezione equiareale, emi- sfero inferiore Fig. 5 – Spatial distribution of deformation bands of set 2; equal-area projection, lower hemi- sphere

5. Analisi delle deformation bands e strutture secondarie

Dall’analisi geometrica delle deformation bands congiuntamente allo stu- dio delle strutture secondarie associate alle bande, è stato possibile ricavare delle considerazioni sull’orientamento dell’ellissoide della deformazione e quindi sulla direzione dei suoi principali assi. Attraverso le relazioni di intersezione tra i due set di deformation bands, in cui il secondo set taglia il primo, è stato possibile definire la loro cronologia: infatti il primo set si è formato per primo e solo successivamente si è formato il secondo, che ha tagliato il precedente. I due set delle deformation bands e le strutture secondarie ad essi associati, rappresentano dunque le strutture for- mate in due eventi deformativi distinti. Il primo set di deformation bands si è generato durante una fase tettonica di raccorciamento dell’area. Tale fase è messa in evidenza da diversi dati, sia Deformation bands in litologie arenacee della Formazione di Ranzano... 125 di tipo geometrico come la bassa inclinazione del piano (30°) delle singole deformation bands, sia dalla disposizione delle strutture secondarie a cuc- chiaio, le quali mostrano una geometria riconducibile ad una struttura di sovra- scorrimento, con una superficie di scollamento basale da cui possono diparti- re dei thrust listrici e relative rampe frontali. Nel caso specifico è possibile definire i thrust successivi (Fig. 2b) che hanno portato ad un raccorciamento progressivo dell’area. Il modello deformativo alla mesoscala viene rappresen- tato da un avanzamento per overstep dei thrust listrici. Tali strutture si forma- no con inclinazione del piano a basso angolo rispetto alla direzione di massi- mo raccorciamento dell’ellissoide della deformazione (Fig. 2b). Per il secondo set, l’analisi della geometria delle singole slip-surface con inclinazione di 60° (Figg. 4b e 5) e le strutture secondarie di clay-smearing interpretabili come strutture tipo S-C fabric (Fig. 4b), fanno classificare il set come faglie normali formate durante una fase deformativa distensiva successi- va alla precedente. In relazione all’ellissoide della deformazione le S-surface si formerebbero ortogonali all’asse di massimo raccorciamento, mentre le C-surface si forme- rebbero con un angolo variabile di 30°-45° rispetto l’asse di massimo raccor- ciamento (Fig. 4b). Attraverso l’interpretazione delle S-C fabric è possibile determinare il senso di taglio delle C-surface; nel caso in questione la zone of deformation bands rappresenta un set di faglie sistematiche a cinematica nor- male. Considerando l’assetto geometrico delle deformation bands e delle struttu- re secondarie ad esse associate, è possibile fare delle ipotesi sulla direzione dell’ellissoide della deformazione per entrambi i set. Il primo set di deforma- tion bands è compatibile con una direzione di massimo raccorciamento oriz- zontale NE-SW, mentre il secondo set è compatibile con una direzione di mas- sima estensione orizzontale N-S.

6. Considerazioni conclusive

Lo studio definisce la geometria delle deformation bands e delle strutture secondarie ad esse associate. Sono stati individuati due set principali, il cui rapporto geometrico di intersezione, ha messo in evidenza l’esistenza di due eventi deformativi successivi e indipendenti. Inoltre attraverso l’analisi strut- turale delle deformation bands e delle strutture associate si è ricavata l’orien- tazione dell’ellissoide della deformazione definendo la direzione di massimo accorciamento e la direzione di massima estensione. 126 P. Balocchi

Il primo evento deformativo evidenzia un raccorciamento in direzione NE- SW, che ha prodotto diversi piani di sovrascorrimento rappresentate da defor- mation bands e strutture minori associate a direzione e inclinazione media N310°-30°, rappresentate da superfici di scollamento basali da cui possono dipartire dei thrust listrici e relative rampe frontali (strutture a cucchiaio). Il secondo evento evidenzia una estensione orizzontale in direzione N-S produ- cendo diversi piani di faglie normali rappresentate da deformation bands e strutture minori associate a direzione e inclinazione media N270°-60°, rappre- sentate da strutture di clay-smearing. Sulla base di queste ultime considerazioni, è possibile descrivere queste strutture all’interno del contesto tettonico dell’area. Infatti gli affioramenti stu- diati si trovano in prossimità della Linea Pecorile – Monte dell’Evangelo che definisce il limite settentrionale della Sinclinale di Viano (Papani, 1971; Papani et al., 2002a; 2002 b; Gasperi et al., 2005a; 2005b). Lo studio delle deformation bands mette in evidenza come tale struttura abbia effettivamente giocato un doppio ruolo deformativo durante l’evoluzione tettonica della Sinclinale di Viano. Durante una prima fase tettonica compressiva, la Linea Pecorile – Monte dell’Evangelo si è formata come faglia di sovrascorrimento e, successivamente, è stata riattivata come faglia normale durante una fase dis- tensiva (Papani, 1971; Papani et al., 2002a; 2002 b; Gasperi et al., 2005a, 2005b).

Ringraziamenti

Desidero ringraziare i Proff. Filippo Panini e Francesca Remitti del Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Modena e Reggio Emilia per la revisione critica del manoscritto e per i preziosi suggerimenti. Deformation bands in litologie arenacee della Formazione di Ranzano... 127

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Atti Soc. Nat. Mat. Modena 142 (2011)

Giovanni Tosatti*

La pendenza della Torre Ghirlandina di Modena: un problema geotecnico sotto controllo

Riassunto La torre civica di Modena, detta Ghirlandina, è da oltre sette secoli l’illustre simbolo della città ma, al pari di tante torri costruite nel Medioevo, presenta un’accentuata pendenza che comporta eccen- tricità nella distribuzione dei carichi sui terreni di fondazione. Il presente articolo esamina le cause, passate e presenti, che hanno portato all’attuale inclinazione della torre alla luce dei risultati delle indagini geotecniche e degli interventi di consolidazione e restauro recentemente portati a termine sul monumento.

Abstract For over seven centuries the civic tower of Modena (northern Italy), named “Ghirlandina”, has been the glorious symbol of the city. Like many other towers built in the Middle Ages, it leans considerably, implying an uneven distribution of its load on the foundation soil. Past and present causes which have led to the inclination of the tower are examined in the light of the results of geotechnical investiga- tions and consolidation and restoration interventions recently carried out on this monument.

Parole chiave: Geotecnica, subsidenza, Ghirlandina, Modena

Key words: Soil Mechanics, subsidence, Ghirlandina tower, Modena, Italy

* Dipartimento di Scienze della Terra, Università di Modena e Reggio Emilia, Largo S. Eufemia 19, 41121 MODENA, e-mail: [email protected] 130 G. Tosatti

1. Introduzione

Molti campanili e torri costruiti nei secoli passati sono andati soggetti a cedi- menti differenziali del terreno di fondazione che hanno causato una loro più o meno accentuata inclinazione. Basterà ricordare la Torre di Pisa, recentemente messa in sicurezza grazie ad un’efficace serie di interventi di stabilizzazione e di parziale “raddrizzamento” (AA.VV., 2005), che deve gran parte della sua fama internazionale proprio alla sua forte pendenza. Le torri Garisenda e degli Asinelli a Bologna e numerosi campanili di Venezia e della laguna veneta sono visibilmente inclinati, così come tanti altri edifici snelli in muratura in molte città italiane. Anche il simbolo della città di Modena, la Torre Ghirlandina, adia- cente al Duomo romanico, è caratterizzata da un’inclinazione che è andata pro- gressivamente aumentando nel corso dei secoli e che da alcuni anni è oggetto di un monitoraggio continuo per garantire la futura conservazione del monumento. Tutti gli edifici che presentano una marcata eccentricità sono soggetti a tensioni disuniformi con notevoli sollecitazioni delle strutture portanti che, con il passa- re del tempo, subiscono un inevitabile degrado. I rischi di crollo per una costruzione eccentrica come la Ghirlandina (Fig. 1) non derivano soltanto dal possibile ribaltamento dell’opera al graduale aumento dell’inclinazione. Esiste un altro rischio dovuto al progressivo dete- rioramento delle strutture murarie che potrebbe determinare la rottura per compressione e il collasso strutturale della costruzione ben prima che si rag- giungano condizioni critiche di stabilità, come è successo in passato ad altri edifici pendenti famosi. – La Torre civica di Parma era probabilmente l’edificio più alto d’Italia, con i suoi oltre 110 m d’altezza. Costruita a partire dal 1287, sorgeva a fianco dell’antico palazzo del Capitano del Popolo nella Piazza Grande (ora Piazza Garibaldi). All’inizio del XVII secolo la stabilità della torre risultava sensibilmente compromessa da una forte pendenza e dalla pre- senza diffusa di lesioni e dissesti, tanto che il 27 gennaio 1606 crollò improvvisamente per collasso strutturale, distruggendo i palazzi contigui e causando la morte di decine di persone. – Nel mattino del 14 luglio 1902 il Campanile di San Marco a Venezia, alto 98,6 m, edificato a partire dal IX secolo e completato nel Cinquecento, subì un repentino collasso che lo ridusse a un cumulo di macerie senza tuttavia causare danni alle persone dato che le condizio- ni dell’edificio erano notoriamente precarie e l’intera zona era già transennata da alcuni giorni. Poco tempo prima, sulla parete nord della costruzione, si era aperta una fenditura che si era progressiva- La pendenza della Torre Ghirlandina di Modena 131

mente allargata fino al crollo del monumento. L’attuale campanile, anch’esso pendente, è una fedele ricostruzione del 1912 voluta “a gran richiesta del popolo”. – Il crollo più recente di edifici a torre nel nostro Paese risale al 17 marzo 1989, quando la Torre civica di , alta 72 m e costruita fra il XIV e il XVI secolo, implose su sé stessa causando la morte di quat- tro persone e il ferimento di altre quindici. In un censimento di pochi anni precedente al crollo le sue condizioni di staticità erano state giu- dicate “buone”; invece, senza segni premonitori e senza cause appa- renti, la torre rovinò al suolo, molto probabilmente per collasso delle sue strutture portanti.

Fig. 1 – La Torre Ghirlandina vista da ovest (foto G. Tosatti) Fig. 1 – View of the Ghirlandina Tower from the west (photo by G. Tosatti) 132 G. Tosatti

Fu proprio per scongiurare simile sorte ad uno dei monumenti più famo- si del mondo che nel 1990 il Governo italiano nominò un comitato scienti- fico di esperti a livello internazionale per arrestare il moto di rotazione della Torre di Pisa e porla in condizioni di piena sicurezza. Gli interventi che seguirono, e che si conclusero nel 2001, portarono all’arresto definitivo del fenomeno, instauratosi già durante la costruzione del monumento nel Medioevo, e ad un decremento guidato dell’inclinazione di 0,5° (AA.VV., 2005). Si prevede che da ora in poi la Torre di Pisa rimarrà sostanzialmen- te ferma, a meno dei piccoli movimenti ciclici dovuti alle variazioni stagio- nali della temperatura e del regime delle falde acquifere. Al pari della Torre di Pisa, anche la Ghirlandina è considerata una “pazien- te illustre” da tenere sotto stretto controllo, per impedire un suo ulteriore degrado e garantirne la sopravvivenza per le generazioni future, anche perché il complesso monumentale di Modena, costituito dal Duomo, dalla Torre Ghirlandina e dalla Piazza Grande, è dal 1997 iscritto a buon diritto nella lista del Patrimonio Mondiale dell’Umanità (UNESCO World Heritage List).

2. I dissesti della Ghirlandina

La costruzione della Torre Ghirlandina cominciò quasi contemporanea- mente all’edificazione del Duomo di Modena, all’inizio del XII secolo. Per entrambi gli edifici venne utilizzato lo stesso tipo di materiale, vale a dire mattoni antichi rivestiti di “marmi” di diversa provenienza (Lugli et al., 2009a), per lo più recuperati dagli scavi delle rovine dell’antica Mutina romana. Più problematiche sono invece le notizie riguardanti la conclusio- ne della prima fase dei lavori che, presumibilmente, avvenne entro l’anno 1160, con il completamento del quinto piano. Seguì un periodo di interru- zione e la successiva ripresa dei lavori – la seconda fase – portò al comple- tamento del sesto piano nel 1220. La terza fase iniziò nel 1261 e si conclu- se soltanto nel 1319 con la realizzazione della guglia a forma di prisma a base ottagonale con copertura a cuspide, che raggiunse l’altezza definitiva di 86,12 m (Quintavalle, 1964-65; Salvini, 1966; Orlandini & Ceccarelli, 1975; Montorsi, 1976; Labate, 2010). Già durante la prima fase della costruzione si manifestarono dei cedimenti differenziali accompagnati da moto di rotazione e di torsione della torre che si protrassero anche nelle fasi successive. I costruttori cercarono di contenere il fenomeno, compensando di volta in volta la pendenza del monumento, ma tale espediente non ha impedito alla torre di continuare ad inclinarsi (Fig. 2). La pendenza della Torre Ghirlandina di Modena 133

Fig. 2 – I principali cedimenti differenziali subiti dalla Ghirlandina (amplificati nella grafica) durante e dopo la sua edificazione, visti rispettivamente da sud e da ovest: si può nota- re come i costruttori abbiano cercato di correggere le pendenze della torre durante le varie fasi della costruzione (da Alfieri et al., 2009) Fig. 2 – The main differential settlements of the Ghirlandina tower (graphically exaggerated) during and after building, as seen from the south and west, respectively. It can be noticed that the builders tried to correct the inclination during the various phases of construction (after Alfieri et al., 2009)

La Ghirlandina ha subito fino al 2010 un cedimento massimo di 2,30 m, come si può dedurre dal riferimento alla quota dell’adiacente cattedrale, com- pletata nel 1184, la quale anch’essa si è notevolmente abbassata, consolidan- do maggiormente il sottosuolo del lato sud della torre e influenzandone il cedi- mento, sia differenziale che totale. Attualmente l’inclinazione della torre ha raggiunto uno scostamento dalla verticale di oltre 1270 mm. Per un peso teo- rico complessivo di 92 MN (= 9381 t), le corrispondenti tensioni medie sul ter- reno risultano di 0,086 MPa, mentre la tensione massima di compressione è pari a 1,2 MPa in corrispondenza dello spigolo sud-ovest della torre (Di Tommaso et al., 2009). All’inizio di questo secolo si osservarono diversi segnali di deterioramento delle coperture lapidee della Ghirlandina e di ulteriore diffusione di lesioni nelle murature, accompagnate dalla caduta di frammenti di pietra. Questa situazione di evidente degrado e la mancanza di conoscenze aggiornate sul sot- tosuolo e sulle condizioni di staticità della torre indussero nel 2006 il Comune di Modena a nominare un comitato tecnico-scientifico di esperti per porre rimedio al problema. Il progetto di conservazione in seguito attuato era artico- lato in diversi punti: i) mappatura dei fenomeni di degrado delle pietre; ii) ana- lisi strutturale statica e dinamica della torre; iii) ricostruzione stratigrafica e 134 G. Tosatti analisi geotecnica dei terreni del sottosuolo; iv) valutazione dei dati del moni- toraggio automatico per la comprensione dei movimenti ai quali è soggetta la torre; v) interventi di pulitura, di restauro, di consolidazione e di controllo alla luce delle nuove conoscenze acquisite. Fra questi, particolare rilevanza hanno avuto le indagini geotecniche del sottosuolo, volte a una migliore comprensione delle caratteristiche meccani- che dei terreni di fondazione e delle cause della progressiva inclinazione della torre. Durante le varie fasi della sua edificazione, la Ghirlandina ha superato momenti che acquisivano carattere di criticità ogni qualvolta che il carico uni- tario trasmesso al terreno di fondazione risultava prossimo alla capacità por- tante del sistema fondazione-terreno. Le fortunate circostanze che hanno garantito la sopravvivenza della torre vanno essenzialmente identificate nelle interruzioni (probabilmente non programmate dagli architetti medievali ignari dei principi della geotecnica) che hanno consentito al terreno di consolidarsi sotto i carichi ad esso trasmessi, con conseguente miglioramento delle carat- teristiche meccaniche e possibilità quindi di resistere agli ulteriori incrementi di sollecitazione prodotti dalle successive fasi di accrescimento della struttura (Lancellotta, 2009). Se infatti la torre fosse stata interamente costruita senza periodi di stasi, l’alta deformabilità del terreno di fondazione non avrebbe con- sentito la sua sopravvivenza fino ai giorni nostri. Dato che il moto di rotazio- ne della Ghirlandina non si è ancora arrestato, è stato indispensabile condurre un accurato studio dei terreni che costituiscono il sottosuolo di Piazza Grande per meglio comprendere la loro natura.

3. Litologia del sottosuolo di Piazza Grande

Le formazioni di ambiente alluvionale del sottosuolo modenese (e più in generale dell’alta e media pianura dell’Emilia centrale) hanno spessori varia- bili fra 200 e 300 m e sono il risultato di diversi cicli deposizionali, sviluppa- tisi a partire dal Pleistocene medio (0,8 Ma BP), su una superficie di disconti- nuità stratigrafica che le separa dai più antichi depositi di ambiente litorale e marino. In particolare, sulla base delle ricostruzioni stratigrafiche ottenute dai son- daggi e dalle analisi di laboratorio (Di Tommaso et al., 2010), è risultato che i terreni in corrispondenza di Piazza Grande sono così costituiti: – per i primi 7,5 m di profondità si hanno alternanze di livelli alluvionali post-romani e terreni di riporto medievali; nell’intervallo tra 6,6 e 7,4 m La pendenza della Torre Ghirlandina di Modena 135

si ritrova il basolato dell’antica Via Emilia romana e riporti antropici anch’essi di epoca romana. Si ritiene che i livelli alluvionali più superfi- ciali, indicati come “Unità di Modena”, siano il prodotto di esondazioni altomedievali del torrente Fossa-Cerca (Cremaschi & Gasperi, 1989; Fazzini & Gasperi, 1996; Lugli et al., 2004). – da 7,5 m a 22 m argille limose grigio-azzurre con livelli di torba; – da 22 m a circa 34 m ghiaie e sabbie di colore ocra; – da 34 m a circa 55 m argille limose e limi con livelli sabbiosi; – da 55 m a 64 m ghiaie e sabbie di colore grigio con un livello di argilla compatta tra 58,2 m e 59 m; – da 64 m a circa 80 m argille consistenti grigio-azzurre con marcata pre- senza di lamine sabbiose.

4. Le cause dei cedimenti

4.1 La consolidazione dei terreni di fondazione Gli aggregati terrosi, vale a dire i terreni costituiti da particelle sciolte e dai loro vuoti interstiziali, sono soggetti al fenomeno della consolidazione, determi- nato dal peso dei depositi sovrastanti o da carichi aggiunti in seguito dall’uomo. La consolidazione comporta la dissipazione delle sovrapressioni interstiziali, l’addensamento del terreno e, di conseguenza, un suo calo volumetrico. Tale processo è particolarmente accentuato in presenza di depositi argillosi nei quali la perdita di volume conseguente all’applicazione di carichi può determinare col tempo notevoli cedimenti. Pertanto, dato che il sottosuolo di Piazza Grande è costituito prevalentemente da argille limose con livelli di torba fino a 22 m di profondità, i cedimenti subiti dalla Ghirlandina e dal Duomo nel corso dei seco- li sono stati rilevanti, come dimostra lo sprofondamento della parte absidale della cattedrale modenese e l’evidente inclinazione della torre. I cedimenti ai quali è andata soggetta la Ghirlandina sono stati sia assoluti (vale a dire uniformi) sia differenziali. Ovviamente sono questi ultimi che pos- sono causare notevoli problemi di staticità (fino al crollo) dal momento che impartiscono alle strutture dell’opera e al terreno di fondazione sollecitazioni disuniformi che aumentano progressivamente nel tempo all’incrementare del- l’inclinazione. I cedimenti differenziali sono molto diffusi fra gli edifici monu- mentali, in particolare le torri e i campanili, dato il loro elevato carico unitario. Le fondazioni della Ghirlandina non sono molto profonde in quanto si spingono fino a 5 m dal piano campagna, dei quali 2 m sono però di spro- fondamento (cedimento assoluto). La torre aveva pertanto una fondazione 136 G. Tosatti interrata di soli 3 m e poggiava su un terreno già alterato dall’uomo (il piano romano), anche se ricoperto da successive alluvioni altomedievali (Lancellotta, 2009). Desta sorpresa il fatto che per una torre di queste dimensioni edificata in zona alluvionale, costituita cioè da terreni “deboli” dal punto di vista geo- tecnico, non sia stata realizzata una palificata di sottofondazione, come è stato constatato nella maggior parte di torri simili di epoca romana e bizan- tina. Evidentemente in epoca medievale si era persa la memoria del buon costruire secondo i canoni dell’antichità classica (Alfieri et al., 2009). L’avere adottato una fondazione poco profonda, decisamente inadatta a sostenere un forte carico, ha così determinato la formazione di dissesti nel terreno che si sono manifestati sin dalle prime fasi costruttive con cedimen- ti differenziali accompagnati da lesioni nelle murature. In passato si riteneva che i cedimenti del monumento fossero imputabili all’assestamento del solo terreno superficiale di riporto su cui poggia la fon- dazione della Ghirlandina. In realtà, le indagini geognostiche hanno confer- mato che l’aliquota principale dei cedimenti deve ricercarsi nelle deforma- zioni plastico-viscose a carico dei terreni argillosi sottostanti al piano di fon- dazione, sui quali gravano le percentuali più importanti del peso della torre e del Duomo. I profili delle prove penetrometriche statiche, i dati relativi alle analisi di laboratorio geotecnico e, in particolare, i risultati delle prove di compressio- ne edometrica eseguite su campioni indisturbati di terreno hanno inoltre evi- denziato, nell’ambito del primo orizzonte argilloso che sostiene gran parte del carico indotto dalla Ghirlandina e dal Duomo, la presenza di livelli carat- terizzati da diverso grado di consolidazione. Le alternanze di livelli normal- consolidati e sovraconsolidati sono imputabili ad una fase di temporanea emersione dello strato superficiale, e quindi di essiccamento, seguita da copertura di nuovi sedimenti (Lancellotta, 2009). Le indagini nel sottosuolo hanno inoltre confermato che lo sprofonda- mento totale e il cedimento differenziale subiti dalla Ghirlandina dal tempo della sua costruzione ad oggi sono in gran parte ascrivibili alla reciproca influenza delle fondazioni della torre e del Duomo che, data la loro vicinan- za, determinano una parziale sovrapposizione dei rispettivi bulbi di pressio- ne. Ciò ha comportato un effetto di trascinamento con conseguente rotazio- ne dell’asse della torre verso la fabbrica del Duomo, dove il sottosuolo ha subito una più accentuata consolidazione (Fig. 3). La pendenza della Torre Ghirlandina di Modena 137

Fig. 3 – Schema dei dissesti convergenti della torre e del Duomo e del relativo effetto di spro- fondamento (da Alfieri et al., 2009) Fig. 3 – Sketch of the converging settlements of the tower and cathedral with the resulting sink- ing effect of the foundation soil (after Alfieri et al., 2009)

Nell’ambito di questa forte relazione di reciprocità tensionale tra torre e Duomo, una funzione importante è svolta dalle arcate di collegamento (Fig. 4), ricostruite all’inizio del XX secolo dopo le demolizioni tardo-ottocentesche per liberare il fianco nord della cattedrale da varie costruzioni che vi erano addossate e aprire Via Lanfranco al transito pedonale (Acidini Luchinat et al., 1984). Questi archi svolgono infatti un ruolo attivo nella statica del complesso Ghirlandina-Duomo, rallentando il processo di avvicinamento reciproco dei due edifici e ostacolando l’ulteriore sprofondamento del lato sud della torre (Alfieri et al., 2009).

4.2 La subsidenza Il decorso dei cedimenti e delle lesioni che hanno interessato la Ghirlandina e il Duomo, al pari di altri edifici monumentali del centro storico di Modena, non è imputabile soltanto ai processi di consolidazione dei terreni in seguito 138 G. Tosatti

Fig. 4 – Gli archi ricostruiti all’inizio del XX secolo fra Ghirlandina e Duomo. Pur presen- tando delle lesioni dovute a sforzi di compressione, essi continuano a svolgere un ruolo importante nel rallentare il processo di avvicinamento reciproco fra i due monumenti (foto G. Tosatti) Fig. 4 – The arches reconstructed early in the 20th century between the tower and cathedral. Although affected by cracks, they play a major role in reducing the movement of recip- rocal convergence between the two monuments (photo by G. Tosatti) all’applicazione di carichi elevati ma anche alla subsidenza, vale a dire a un fenomeno caratterizzato da abbassamenti generalizzati della superficie del ter- reno riconducibile sia a cause geologiche sia a cause antropiche o, in diversi casi, dovuto ad un’interazione fra le due. Le campagne di livellazione geodetica condotte a Modena nella seconda metà del secolo scorso hanno evidenziato che nel periodo 1950-1980 il centro La pendenza della Torre Ghirlandina di Modena 139 storico di Modena ha subito un abbassamento compreso tra 30 e 80 cm. Valori di tale entità in un periodo di osservazione di 30 anni possono essere dovuti solo a cause antropiche, considerando anche gli andamenti anomali con i quali si sono manifestati. Questo fenomeno negativo, che in Piazza Grande ha prodotto un abbassamento di oltre 50 cm, è stato instaurato dagli alti tassi di emungimento delle acque di falda da parte di industrie idroesigenti (acciaierie e fonderie) localizzate a quel tempo nella parte nord della città. La subsiden- za “artificiale” è frequente in terreni argillosi per eccessivo sfruttamento di acquiferi sabbioso-ghiaiosi ad essi intercalati.

Fig. 5 – Andamento delle quote di abbassamento relativo al caposaldo del Palazzo Comunale di Modena nel periodo di osservazione 1981-1999 (ARPA, 1999) Fig. 5 – Trend of subsidence settlements (metres a.s.l.) with time as recorded at the benchmark of the Modena Town Hall in the 1981-1999 period (after ARPA, 1999)

Gli effetti negativi della subsidenza sul territorio comunale di Modena si sono manifestati con lesioni a molti edifici storici, fra i quali, in particolare, il Palazzo Ducale, il Duomo, la Ghirlandina e il Palazzo Comunale, e perdite di pendenza significative sia nella rete acquedottistica che in quella fognaria (Pellegrini & Tosatti, 1992; Paltrinieri & Annovi, 2003). Poiché una delle principali cause del fenomeno è rappresentata dal defi- cit idrico, negli anni ‘80 del secolo scorso fu realizzata una rete di controllo comunale per la determinazione delle fluttuazioni piezometriche delle acque sotterranee, provvedendo contemporaneamente all’emanazione di ordinanze volte a ridurre i consumi idrici. Tali misure hanno comportato una progres- siva attenuazione del fenomeno. Al fine di ottenere maggiori informazioni sulla reale entità e distribuzione territoriale degli abbassamenti del suolo, nello stesso periodo è stata istituita da 140 G. Tosatti

ARPA regionale una rete di capisaldi per livellazioni topografiche di precisione (Fig. 5). All’interno del centro urbano è stata infine realizzata una microrete per livellazioni di alta precisione nell’area monumentale della città, coordinata con indagini sul terreno e con l’installazione di strumentazione geotecnica ad acqui- sizione automatica dei dati.

5. Considerazioni conclusive

Per approfondire le conoscenze relative ai movimenti della torre, a partire dal 2003 l’inclinazione della Ghirlandina è misurata con continuità tramite un pendolo in lega di Invar (Fe+Ni) della lunghezza di 23 m, ancorato superior- mente in corrispondenza del sesto piano. Il moto di rotazione della torre com- porta attualmente un incremento di circa 0,5 mm/anno in direzione sud-ovest (Blasi et al., 2009). Le letture sono effettuate tramite strumentazione elettro- nica in grado di apprezzare il centesimo di millimetro. Oltre al pendolo sono stati installati altri sensori di misura dei cedimenti, quali assestimetri, fessuri- metri, distanziometri, termometri e un gonioanemometro di precisione per valutare l’effetto delle variazioni termiche stagionali e dei venti sulle muratu- re. La stabilità di Duomo e Ghirlandina viene inoltre verificata attraverso misure periodiche di livellazione per il controllo degli effetti della subsidenza mentre un sistema di monitoraggio geomatico e geotecnico è sempre in fun- zione per garantire questo controllo in tempo reale tramite laser scanner terre- stre (Blasi et al., 2009). La correlazione tra le variazioni di ampiezza delle lesioni, le variazioni ter- miche, le fluttuazioni piezometriche e altri movimenti rilevati denuncia un com- portamento complesso del sistema Duomo-torre, confermando la stretta intera- zione tensionale esistente tra i due monumenti che necessita di ulteriori appro- fondimenti. In particolare, i dissesti e le diffuse lesioni presenti nella parte absi- dale del Duomo sono recentemente stati oggetto di rilevazioni tecniche di detta- glio per attivare in tempi brevi congrui interventi di restauro e di consolidazione anche per la cattedrale geminiana. Per quanto riguarda la Torre Ghirlandina, si può affermare che le indagini multidisciplinari condotte sulle sue strutture murarie e sui terreni di fondazione hanno prodotto dati abbastanza confortanti sulle sue attuali condizioni di statici- tà. Nonostante ciò, persistendo il moto di rotazione della torre, sarà in futuro necessario, per arrestarlo definitivamente, intervenire anche sul sottosuolo di Piazza Grande, analogamente a quanto è stato fatto un decennio fa sui terreni di fondazione della Torre di Pisa. La pendenza della Torre Ghirlandina di Modena 141

Gli interventi finora effettuati sulla Ghirlandina hanno riguardato la pulitura e il restauro delle pietre, esposte a processi di alterazione fisico-chimica e di degradazione differenziale da parte degli inquinanti aerei e di agenti biodeterio- geni (alghe, muschi, licheni ecc.), e il consolidamento delle lesioni mediante stuccature con apposite miscele cementizie (Lugli et al., 2009b; Cadignani et al., 2010). Le zone più fragili, sulle quali gravano gli sforzi compressivi maggiori, sono state inoltre rinforzate tramite l’applicazione di tiranti metallici e di cer- chiature di acciaio (Fig. 6). Queste ultime sono state installate alla base del sesto piano e all’interno della balconata, a 60 m di altezza, ed esercitano un’azione antisismica fondamentale per la stabilità della torre. Il sistema di monitoraggio di alta precisione consentirà di tenere sotto costan- te osservazione le deformazioni alle quali è soggetta la torre nel tempo, permet- tendo di adottare eventuali ulteriori misure di salvaguardia e di stabilizzazione per la tutela e la conservazione del simbolo della città di Modena.

Fig. 6 – Inserimento di cerchiature di acciaio per il rinforzo delle strutture portanti della Ghirlandina (foto Comune di Modena, 2011) Fig. 6 – Insertion of reinforcement steel rings for strengthening the load bearing walls of the tower (photo by Modena Town Council, 2011) 142 G. Tosatti

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Stefano Lugli*, Rossella Cadignani**

La Torre Ghirlandina, il restauro e il terremoto

Riassunto A meno di un anno dal completamento del restauro che l’ha restituita alla città nel pieno splendore, la torre simbolo di Modena è stata duramente colpita dagli eventi sismici del 20 e 29 maggio 2012. Tutto sommato il monumento ha retto bene alle forti scosse; la torre è rimasta stabile anche grazie agli interventi antisismici di cerchiatura realizzati nel 2011. Il danno principale è stata la frattura- zione della lastra decorata di “Sansone che smascella il leone”. Questa breve nota illustra i risulta- ti principali del restauro e i danni prodotti alla torre dalla crisi sismica del maggio 2012.

Abstract Less than one year after its restoration, the medieval Ghirlandina Tower, the symbol of the city of Modena (Italy), was severely struck by the earthquakes of 20th (M 5.9) and 29th May 2012 (M 5.8 and 5.3). The monument reacted relatively well to the seismic shocks also because two new steel encir- cling ties were emplaced in 2011. The main results of the restoration project and the damage receiv - ed by the tower, which was mostly limited to the fracturation of the limestone sculpture “Samson with the lion”, are illustrated.

Parole chiave: Torre Ghirlandina, terremoto, restauro, Modena

Key words: Ghirlandina Tower, earthquake, restoration, Modena, Italy

* Dipartimento di Scienze della Terra, Università di Modena e Reggio Emilia, Largo S. Eufemia 19, 41121 MODENA, e-mail: [email protected]. ** Servizio Edilizia Storica, Comune di Modena. 144 S. Lugli , R. Cadignani

1. Introduzione

Le perdite di vite umane e gli ingenti danni al patrimonio storico-artistico causati dai forti eventi sismici che hanno colpito la pianura emiliana tra Modena, Reggio Emilia, e Mantova nel maggio 2012 hanno avuto una forte risonanza a livello internazionale. Al di fuori dell’area più fortemente danneggiata, grande apprensione hanno destato le condizioni del sito UNE- SCO di Modena che comprende la cattedrale, la Torre Ghirlandina e gli edifi- ci attorno alla Piazza Grande. Oltre al sito patrimonio dell’umanità, numerosi altri edifici storici di Modena hanno subito danni: il Palazzo Comunale, il Palazzo dei Musei, il Tempio dei Caduti, le chiese di San Biagio, San Barnaba, Sant’Agostino, San Carlo, San Domenico, San Giorgio, San Giovanni, la chie- sa del Voto e il Teatro Pavarotti. Speciali attenzioni sono state subito rivolte alla Torre Ghirlandina, soprat- tutto a causa della sensibile inclinazione che caratterizza da sempre il monu- mento simbolo della città.

2. Prima del terremoto: il restauro della torre

Nel novembre 2011 la città ha festeggiato la “liberazione” della Ghirlandina dal ponteggio che l’aveva avvolta a partire dal gennaio 2008 per consentire, in un primo momento, il completamento degli studi scientifici e, successivamente, le operazioni di restauro. Le fasi di studio scientifico e il restauro stesso sono stati complicati dal fatto che la torre è alta quasi 90 m ed è rivestita da oltre 10.000 lastre costituite da ben 21 tipi diversi di pietre natu- rali (Lugli et al., 2009b). I risultati principali degli studi scientifici e del restauro sono molteplici: a) il rilievo completo e di dettaglio della torre sia attraverso fotogramme- tria sia attraverso tecniche laser-scan (Giandebiaggi et al., 2009); tutte le sculture sono state catalogate (Lugli et al., 2010c) e sottoposte a rilie- vo laser-scan; b) la mappatura completa dei diversi litotipi che rivestono la torre (Lugli et al., 2009b), dei fenomeni di degrado (Lugli et al., 2009a), delle lesioni (Alfieri et al., 2009); c) l’esecuzione di numerosi sondaggi geognostici, sia inclinati per defini- re le caratteristiche delle fondazioni della torre, che verticali, spinti fino alla profondità di 80 m, per indagare le caratteristiche geotecniche e sismiche dei terreni di fondazione (Lancellotta, 2009); La Torre Ghirlandina, il restauro e il terremoto 145

d) l’installazione di numerosi strumenti di monitoraggio automatico (Blasi et al., 2010), tra cui alcuni piezometri, estensimetri e un assestimetro, che si sono aggiunti al pendolo già presente all’interno della torre e a cui seguiranno nel prossimo futuro alcuni accelerometri; la campagna di raccolta dei dati strumentali coinvolge anche la vicina cattedrale e rap- presenta il fondamentale contributo per la comprensione dell’origine e dell’evoluzione dell’inclinazione e delle lesioni nei due monumenti; e) la elaborazione di modelli matematici del comportamento sismico della torre (Di Tommaso et al., 2009; 2010); f) la pulitura, il consolidamento e la protezione della superficie lapidea della torre (Cadignani et al., 2010; Lugli et al., 2010a); g) il recupero della parte interna della cuspide (Cadignani et al., 2010) compresa la pregevole e suggestiva scala elicoidale lignea secentesca che permette di raggiungere le due balconate a 60 e 78 m di altezza (Manvati, 2010); le altre parti interne della torre verranno restaurate in futuro; h) la posa in opera di due nuove cerchiature in acciaio alla base del sesto piano a 44 m di altezza e all’interno della balconata inferiore della cuspide a 60 m di altezza (Coïsson & Alfieri, 2010) (Fig. 1); questi interventi, come discusso in seguito, esercitano un’azione antisismica fondamentale per la stabilità della torre. i) la scoperta di antiche decorazioni negli archi della prima cornice mar- capiano di cui si ignorava l’esistenza; j) la possibilità per oltre 4000 cittadini di visitare il cantiere di restauro; un risultato senza precedenti, frutto di un notevole sforzo organizzativo da parte del Comune di Modena e del Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Modena e Reggio Emilia al quale hanno collaborato numerosi studenti. 146 S. Lugli , R. Cadignani

Fig. 1 – La Torre Ghirlandina restaurata, sono indicate le tracce delle nuove cerchiature installate nel 2010 e 2011. Si tratta di piastre di acciaio collegate da tiranti in acciaio prefabbricati. La cerchiatura superiore non risulta visibile da terra in quanto inseri- ta all’interno della balconata, mentre la cerchiatura inferiore si può scorgere appena al di sopra della quinta cornice marcapiano Fig. 1 – The Ghirlandina Tower after the restoration works, the new encircling ties installed in 2010 and 2011 are shown. They are bent steel plates connected with prefabricated ties. The upper one is not visible from the ground because inserted between the spire and the balcony, the lower one is visible just above the fifth cornice

3. Il terremoto e l’inclinazione della torre

La prima preoccupazione è stata quella di verificare se gli eventi sismici del 20 maggio (magnitudo 5,9, provincia di MO; catalogo INGV) e 29 maggio 2012 (M 5,8 e 5,3, provincia MO) avessero indotto un aumento della inclina- zione della Ghirlandina. I dati del monitoraggio continuo effettuato con il pen- dolo di 28 m di altezza presente all’interno della torre e le nuove strumenta- zioni recentemente sistemate hanno dimostrato che la torre ha retto bene. Le misurazioni del pendolo hanno registrato uno spostamento di pochi millimetri dell’asse, che presenta attualmente un fuori piombo di 1,27 m tra 15 e 85 m di La Torre Ghirlandina, il restauro e il terremoto 147 altezza (Giandebiaggi et al., 2009), ma poi la Ghirlandina ha ripreso la posi- zione iniziale, quindi senza deformazioni permanenti del terreno di fondazio- ne e senza variazioni della pendenza. Ricordiamo che oggi la torre presenta un aumento della pendenza di circa 0,5 mm/anno nel piano di via Lanfranco (Blasi et al., 2009). Lo spostamento temporaneo dell’asse della torre si è veri- ficato anche in seguito a terremoti di minore intensità registrati precedente- mente a Modena il 23 dicembre 2008 (M 5,2, provincia PR) e 25 gennaio 2012 (M 4,9, provincia RE), ancora una volta seguito dal ritorno alle condizioni di pendenza iniziali. La stabilità della Ghirlandina non è quindi variata in modo significativo in conseguenza dei recenti forti eventi sismici.

Fig. 2 – La scultura di “Sansone che smascella il leone” fratturata durante gli eventi sismici. Il grande arco di collegamento con la cattedrale si trova a destra dell’immagine. La scultura si trova a 9 m di altezza ma è ben visibile da via Lanfranco Fig. 2 – The sculpture of “Samson and the lion” broken during the earthquake. The large arch connecting the tower to the cathedral is located to the right hand of the image. The sculpture is at 9 m from the ground but is visible from the street below (via Lanfranco) 148 S. Lugli , R. Cadignani

4. Il terremoto e le lesioni della torre

Il secondo impegno è stato quello di controllare accuratamente la struttura stessa della torre per verificare la presenza di eventuale nuove lesioni causate dalle scosse. I sopralluoghi da noi effettuati all’interno e sulle balconate fino a 78 m di altezza il giorno 8/6/2012 non hanno evidenziato particolari situazioni critiche nell’ambito del quadro fessurativo già noto. La torre presenta infatti lesioni lega- te alla naturale tendenza ad aprirsi mostrata dagli edifici a tipologia scatolare (Alfieri et al., 2009), spesso proprio in seguito ad eventi sismici, come attestato per il terremoto del 1501. Tali lesioni non hanno subito sensibili variazioni in seguito agli ultimi eventi sismici. Il danno più importante si è verificato in seguito alle scosse del 29 maggio e riguarda una scultura in pietra di della prima cornice marcapiano sul lato ovest a 9 m di altezza, di fronte alla Porta della Pescheria (Lugli et al., 2010c). Si tratta di “Sansone che smascella il leone”, raffigurazione iconografica e simboli- ca di un episodio biblico tipica della scultura romanica. La scultura si è spezzata lungo la diagonale con distacco di piccoli frammenti nella parte piana del bloc- co, ma si presenta integra nella parte plastica in rilievo (Fig. 2). Una analoga frat- tura preesistente sulla scultura era stata risarcita con resina durante i lavori di restauro del 1973 (Cadignani et al., 2009) e rappresenta probabilmente il risulta- to di precedenti terremoti. Una lastra di Rosso Ammonitico non decorata sul lato opposto della torre ha subito danni del tutto simili. Causa probabile delle frattu- razioni sono stati i movimenti di oscillazione e di vibrazione della torre che hanno determinato l’urto delle lastre contro i grandi archi di congiunzione con la catte- drale. Per proteggere la scultura è stata programmata l’esecuzione di tagli sulle pietre dell’arco per impedirne il contatto diretto in caso di vibrazioni e oscilla- zioni indotte dai sismi. La rottura della lastra di Sansone dovuta alla violenta oscillazione della torre sembra richiamare una situazione simile a quella tramandataci dalle cronache di Tommasino de’ Bianchi che descrisse i movimenti della Ghirlandina durante il terremoto del 1501 paragonandoli a quelli di un pioppo agitato dal vento. I com- plessi movimenti deformativi che la torre può subire in seguito ai terremoti sono stati descritti da Di Tommaso et al. (2009) e, come illustrato in Fig. 3, sono par- ticolarmente spettacolari. In seguito ai carotaggi appositamente eseguiti in Piazza Grande nel 2009 per indagare le proprietà sismiche del sottosuolo di Modena, si sa che le onde sismiche di taglio nei primi 30 m al di sotto della torre e della cattedrale si muovono ad una velocità di 192 m/s (Di Tommaso et al., 2010), corrispondente a oltre 691 km/h. La Torre Ghirlandina, il restauro e il terremoto 149

Le misurazioni e i modelli elaborati hanno permesso di individuare le cri- ticità della struttura in caso di sollecitazioni sismiche e di progettare l’inter- vento di protezione effettuato attraverso l’inserimento delle cerchiature in acciaio descritte in precedenza (Coïsson & Alfieri, 2010) (Fig. 1). Tali inter- venti rappresentano un contributo fondamentale alla stabilità della torre.

Fig. 3 – I possibili modi di vibrare e le relative frequenze della torre in seguito a ter- remoti secondo due diversi modelli (da Di Tommaso et al., 2009) Fig. 3 – Modal shapes and corresponding natural frequencies for two different models (after Di Tommaso et al., 2009) 150 S. Lugli , R. Cadignani

5. Considerazioni conclusive

La progettazione delle operazioni di restauro della Torre Ghirlandina ha premesso di effettuare una raccolta di dati scientifici e storico-artistici senza precedenti. La profonda conoscenza del monumento e delle caratteristiche del terreno di fondazione e lo studio delle interazioni con la cattedrale si sono coagulati nella realizzazione di interventi di protezione antisismica fondamen- tali per la stabilità della torre. I drammatici eventi sismici che hanno coinvolto la nostra regione hanno riproposto con forza l’assoluta indispensabilità della rete di strumentazione scientifica di monitoraggio automatico che dovrà essere mantenuta in effi- cienza senza interruzioni.

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Atti Soc. Nat. Mat. Modena 142 (2011)

Claudio Santini*, Fabrizio Buldrini**

Le siepi del sistema Resega-Bellaria-Foresto (Novi di Modena)

Riassunto Le siepi del sistema Resega-Bellaria-Foresto, site nella bassa pianura modenese, sono uno dei pochissimi esempi superstiti di siepi poste sui confini poderali, com’era prassi nell’agricoltura tra- dizionale emiliana. In questo articolo sono studiate le loro caratteristiche floristiche ed ecologiche, ponendo attenzione alla presenza di specie protette dalle Liste Rosse regionali e nazionali. Ne emer- ge un quadro di non trascurabile ricchezza biologica e paesaggistica: la presenza di fasce ecotonali genera un grande incremento della diversità dell’area rispetto alle circostanti zone agricole, cui con- seguono indubbi benefici per la stabilità ecologica e un certo pregio naturalistico di queste fasce alberate, rappresentanti inoltre la memoria storica dell’antico paesaggio agrario.

Abstract The hedgerows of the Resega-Bellaria-Foresto complex (Modena plain, northern Italy) are one of the last examples of hedges cultivated on the margins of estates, as was customary in traditional agri- culture. Their floristic and ecological characteristics are investigated, with particular attention given to the presence of species protected by national or regional Red Lists. An appreciable biological and landscape variety has been observed: the presence of arboreal vegetation and ecotones provides the study area with higher biodiversity compared with neighbouring farming zones. Undoubted benefits for ecological stability and considerable naturalistic value of these hedges can be appreciated, as they represent the historical memory of our ancient rural landscape.

Parole chiave: siepe, pianura modenese, paesaggio, flora, ecologia

Key-words: hedge, Modena plain, landscape, flora, ecology

* Via S. Orsola 7, 41121 MODENA ** Orto Botanico – Dipartimento di Biologia, Università di Modena e Reggio Emilia, Viale Caduti in Guer- ra 127, 41121 MODENA. 154 C. Santini, F. Buldrini

1. Introduzione

1.1 Scopo dello studio La ricerca si è svolta nel corso del 2010, nell’ambito delle iniziative dedi- cate alla biodiversità promosse dal Circolo Naturalistico Novese (C.N.N.), con lo scopo di fornire conoscenze utili alla conservazione delle siepi poste a nord dell’abitato di Novi di Modena e in gran parte ricadenti nel SIC IT4040016 – Siepi e canali di Resega Foresto (Fig. 1).

1.2 Inquadramento geografico L’area studiata ricade nel comune di Novi di Modena, nella parte nord- occidentale della pianura modenese, ai confini con le province di Reggio Emilia (comune di Rolo) e di Mantova (comune di Moglia). Il sistema è com- posto da due aree disgiunte: la Resega, confinata a ovest dalla fossa Raso, a nord dal Collettore delle Acque Basse Reggiane, a est dalla strada statale per Mantova e a sud dai campi coltivati della Boccalina, e il Foresto, a ovest della fossa Raso, delimitato dal Canalazzo e dal Collettore delle Acque Basse Reggiane. Complessivamente, il sistema delle siepi raggiunge la lunghezza di oltre 12 km, con una copertura arboreo-arbustiva stimabile in circa 18 ha (Figg. 2 e 3).

1.3 I suoli dell’area Resega-Bellaria e Foresto Nell’area sono presenti due tipi di suoli (AA.VV., 1993): argillo limosi (Consociazione Galisano argillo-limosa) e franco argillosi limosi (Consociazione Pradoni franca argillosa limosa). I primi, propri della Bellaria, della Boccalina e di parte del Foresto, hanno tessitura moderatamente fine, sono molto calcarei e moderatamente alcalini, con imperfetta disponibilità di ossigeno per le radici delle piante. Sono i suoli tipici di aree depresse della pianura a copertura alluvionale periodicamente allagate in epoca recente, ad elevato contenuto d’argilla (40-50%), caratteriz- zati da eccessi idrici prolungati in primavera, riscaldamento tardivo e crepac- ciature ampie in estate. I secondi, rinvenuti alla Resega e all’Ardita, sono più profondi, a tessitura moderatamente fine in superficie e media in profondità, molto calcarei e moderatamente alcalini. Appartengono alle unità a copertura alluvionale rela- tivamente rilevate della pianura, a raccordo fra argini naturali e valli, periodi- camente sommerse in epoca recente; sono caratterizzati da una moderata per- meabilità, dovuta alla maggior presenza di limo e al tenore d’argilla intorno al 25-30%, pertanto è possibile coltivarvi anche vigneti e frutteti. Le siepi del sistema Resega-Bellaria-Foresto (Novi di Modena) 155

1.4 Il paesaggio agrario L’analisi dei documenti storici riguardanti l’area di studio, realizzata dal Gruppo Storico Novese (2010) col contributo del C.N.N., ha evidenziato una lenta evoluzione agronomica e paesaggistica legata innanzi tutto alla sua dif- ficoltà di drenaggio. Le prime mappe del Cinque-Seicento indicano una grande presenza di prati umidi e boschi nelle zone depresse, filari di alberi e coltivi nelle terre alte; a fine Settecento è interessante la dettagliata descrizione degli alberi (roveri, oppi, moroni, salici, olmi, cerase e brugne), con viti maritate in prossimità degli argini dove i suoli erano più sciolti. A metà Ottocento, nei terreni depressi, si diffuse la risicoltura, forse a scapito dei prati più umidi, grazie soprattutto alle acque di scolo locali, movimentate con macchine a vapore. La crisi cerealicola di fine secolo e la meccanizzazione già rilevante in quest’area favorì di nuovo l’allevamento del bestiame da latte e della vite. Tutto ciò è rilevato dalle cartine IGM 1888 (Fig. 4), che rivelano già una notevole diffusione della piantata, mentre ancora permanevano forti ristagni d’acqua alla Bellaria e all’Ardita. Solo alla fine della bonifica del territorio novese, pertanto, le aziende poterono avviare grandi trasformazioni agrarie e inserire anche il vigneto maritato all’olmo, oltre a colture industriali come bietola e cereali. Non dimentichiamo che l’olmo, in questo caso, aveva anche la funzione di drenare la vite, garantendole uno sviluppo più equili- brato e una produzione di qualità superiore (Draghetti, 1948). È il momento della massima specializzazione della piantata, con l’inserimento del doppio filare tipico dell’agricoltura modenese del Novecento. Le fotografie aeree degli anni Cinquanta (Volo GAI 1954), ad esempio in località Bellaria-Resega, mostrano ancora questa situazione, con fossi e canali efficienti e soltanto pioppi capitozzati sulle sponde. Poche erano le siepi presenti e solo le farnie erano lasciate a chioma libera, soprattutto sui confini. Indiscutibile, nella prima metà del secolo, il predominio dei filari di olmo con vite maritata, insieme con le altre colture costituenti la piantata (prati, erba medica, cereali), a conferma dei dati riferiti da Sereni (1976): l’Italia settentrionale aveva nel 1929 un paesaggio alberato esteso a oltre 3 milioni di ettari, pari a 860 milioni di piante legnose. Si calcola che nel modenese fosse presente una superficie alberata pari a 1/5 della superficie coltivata. Gli anni Sessanta segnano la fine della mezzadria e di questo paesaggio agrario, ricco ancora di diversità: l’ulteriore sviluppo della meccanizzazione agricola e l’uso sempre più massiccio di concimi industriali e diserbanti por- tano al paesaggio delle monocolture, definito anche steppa di cereali 156 C. Santini, F. Buldrini

(Giacomini, 1958). Anche i prati stabili, tipici delle aree a zootecnia da latte, lasciano il posto ai più produttivi medicai. Il decennio forse più povero di emergenze naturali, stando ai voli aerei, sono stati gli anni Settanta del seco- lo scorso. Nel nostro caso, pertanto, il paesaggio complesso a mosaico, con piantate e siepi, ebbe una vita abbastanza breve (presumibilmente un centi- naio d’anni), a differenza di altre aree di pianura dove la sistemazione a pian- tata dalle origini antiche, forse preromane, perdurò con tutte le sue varianti per secoli. L’abbandono delle colture irrigue e il conseguente calo della manuten- zione di fossi e canali secondari, ha favorito negli ultimi decenni un aumen- to di vegetazione e di naturalità nell’area: alla Bellaria e alla Resega, per esempio, i canali e fossi ora abbandonati sono interessati da siepi alte o da boschi a galleria di pioppi o platani; i filari di farnie invece sono boschi lineari abbastanza complessi con mantelli esterni di arbusti. Confrontando la Carta Tecnica Regionale del 1976 con lo stato attuale, emerge poi la scomparsa del vigneto sia antico (maritato all’olmo) sia moderno (sistema a raggi, spalliera ecc.) e del frutteto. In alcuni casi, per favorire le colture estensive, sono state poi completamente abbattute le albe- rate (di olmo, ma non solo), com’è ben evidente per esempio a nord di via Resega. L’abbandono delle alberate associate ai fossati, probabilmente irri- gui, ha favorito una rapida colonizzazione degli alvei e delle sponde da parte di Ulmus minor, specie colonizzatrice dei suoli umidi e con scarsa propen- sione al drenaggio. Anche una parte dell’ex sedime della ferrovia e alcune cavedagne abbandonate hanno visto un diffondersi di alberi ed arbusti. Le specie arboree più presenti sono, in ordine di presenza: Ulmus minor, Acer campestre, Quercus robur, Morus alba, Prunus avium, Populus nigra, Juglans regia e Salix alba; poco diffuso Ulmus laevis e quasi sempre da impianto Fraxinus angustifolia subsp. oxycarpa. La parte arbustiva è ancora dominata da U. minor, insieme con Cornus sanguinea e Prunus spinosa; inoltre sono state rilevate come specie comuni Rosa canina, Rubus caesius, R. ulmifolius, Sambucus nigra e A. campestre, mentre Euonymus europaeus è sempre risultato da impianto. Le siepi del sistema Resega-Bellaria-Foresto (Novi di Modena) 157

Fig. 1 – Paesaggio del Foresto (aprile 2010)

Fig. 2 – Siepi della Resega-Bellaria (modificato da C.T.R. Emilia-Romagna) 158 C. Santini, F. Buldrini

Fig. 3 – Siepi del Foresto (modificato da C.T.R. Emilia-Romagna)

Fig. 4 – Zona della Resega-Bellaria alla fine dell’800 (modificato dai tipi I.G.M. 1888) Le siepi del sistema Resega-Bellaria-Foresto (Novi di Modena) 159

2. Metodi di studio

2.1 Analisi floristica e vegetazionale L’analisi floristica è stata eseguita mediante censimento della flora vascolare presente all’interno e ai margini delle siepi. In particolare, è stato eseguito un cen- simento completo della parte arboreo-arbustiva e del sottobosco, quest’ultimo for- mato dalle piante erbacee e dal rinnovo delle specie legnose presenti sotto chioma. Per ciascuna specie sono state indicate la famiglia di appartenenza, la classe fitosociologica, la forma biologica, il tipo corologico e i valori degl’indici eco- logici. Sono state calcolate la ricchezza floristica, il grado d’inquinamento flori- stico, lo spettro biologico, lo spettro corologico, lo spettro tassonomico e lo spet- tro delle valenze socio-ecologiche, infine è stato stilato l’elenco delle specie pro- tette o interessanti ai fini della conservazione biologica. Per la nomenclatura si è fatto riferimento a Conti et al. (2005) e Oberdorfer (1994). I diversi corotipi sono stati raggruppati secondo lo schema proposto da Pignatti (1982) e modificato da Poldini (1991) e Tomaselli & Gualmini (2000). Le grandi categorie corologiche utilizzate per questa ricerca sono: - eurasiatiche (eurasiatiche, europee e sottotipi, paleotemperate), - mediterranee (eurimediterranee e sottotipi, stenomediterranee e sottotipi), - boreali (eurosiberiane e circumboreali), - orofite sud-europee (mediterraneo-montane e sottotipi), - cosmopolite, - avventizie. Per elaborare lo spettro delle valenze socio-ecologiche è stata attribuita, secondo Oberdorfer (1994), la classe fitosociologica di appartenza (vedi Tab. 1) in cui essa risulta più frequente ed abbondante. Le classi utilizzate più significa- tive sono: 1) Querco-fagetea (QF), comunità di boschi decidui e formazioni cespu- gliose di boschi degradati; 2) Festuco-Brometea (FB), praterie aride e semiaride; 3) Phragmitetea (PH), comunità palustri a elofite e carici; 4) Molinio-Arrhenatheretea (MA), prati coltivati da foraggio, prati inondati e comunità igrofile; 5) Artemisietea (AR), erbe nitrofile annuali e perenni di ambienti ruderali; 6) Chenopodietea (CH), erbe ruderali annuali e bienni di ambienti urbani e dei coltivi). Alte classi meno significative sono Agropyretea intermedii-repentis (AI), Agrostietea stoloniferae (AS), Bidentetea (BI), Salicetalia purpurae (SP). 160 C. Santini, F. Buldrini

2.2 Analisi ecologica Per queste indagini ci si è avvalsi degl’indici di bioindicazione di Ellenberg adattati per la flora d’Italia da Pignatti et al. (2005). Il metodo, proposto da Ellenberg (1974) per la flora tedesca, è basato sulle esigenze delle specie rispet- to a sei fattori ecologici essenziali per la vita delle piante, espresse mediante una scala numerica (3 fattori fisici interessanti il clima: L, T, C; 3 fattori riguardanti la chimica del suolo: U, R, N). A questi se ne aggiungono altri due, facoltativi, e cioè salinità (S) e adattamento ai metalli pesanti (da noi non considerato). L: radiazione luminosa (1-12) T: calore (1-12) C: continentalità del clima (1-9) U: umidità o disponibilità d’acqua (1-12) R: pH del suolo (1-9) N: nutrienti del suolo (1-9) S: salinità del suolo (1-3) La caratterizzazione ecologica dell’area di studio si basa sulle medie degl’indici di bioindicazione delle specie censite, con particolare riguardo a luce, temperatura, umidità e trofismo del suolo.

3. Risultati e discussione

Sono state accertate 114 specie (Tab. 1), di cui il 31,2% di fanerofite; seguo- no emicriptofite (30,4%), terofite (17%), geofite (16%) e camefite (5,4%). Il limi- tato sviluppo fenologico di 4 entità ha permesso di riconoscerle solo al livello di genere. Delle 110 determinate, il 9% non appartiene alla flora spontanea italiana e va considerato esotico: nel dettaglio, sono le arboree Ailanthus altissima, Juglans regia, Ligustrum ovalifolium, Mahonia aquifolium, Morus alba, Prunus cerasifera e Robinia pseudoacacia, e le erbacee Amaranthus deflexus, Artemisia verlotiorum e Veronica persica. Raggiungono invece il 7,2% le coltivate e natu- ralizzate: Acer pseudoplatanus, Celtis australis, Malus domestica, Prunus arme- niaca, P. avium, P. cerasifera var. atropurpurea, Ulmus laevis e Vitis labrusca, tutte specie non appartenenti alla flora spontanea della pianura modenese. Sommando le due percentuali otteniamo un grado d’inquinamento floristico pari al 16,2%, abbastanza notevole, ma compatibile appieno coll’ambiente di colture intensive tipico della bassa pianura emiliana. Il nucleo più consistente della flora delle siepi è costituito da piante erbacee, provenienti soprattutto dagli ambienti più disturbati e, in minor misura, dai prati da sfalcio. Importante anche la flora igrofila collegata ai fossati, sempre presenti ai margini delle siepi indagate. Specie Famiglia Classe fitosociol. Forma biol. Corotipo L T C U R N S PRESENZA Abutilon theophrasti Medik. Malvaceae BI T SCAP 530 S-EUROP.-SUDSIB. 8 9 6 7540S1 Acer campestre L. Aceraceae QF P SCAP 540 EUROP.-CAUCAS. 5 7 4 5760sempre salvo S4, S16 Acer pseudoplatanus L. Aceraceae QF PSCAP 540 EUROP.-CAUCAS. 4 x 4 6x70S18 Achillea collina Becker ex Rchb. Asteraceae FB H SCAP 580 SE-EUROP. 9 6 6 2720S7 Agrimonia eupatoria L. Rosaceae FB H SCAP 940 SUBCOSMOP. 7 6 5 4840S17 Ailanthus altissima (Mill.) Swingle Simaroubaceae P SCAP 980 AVV. NATURALIZZ. 6 7 5 5550S12 Ajuga reptans L. Lamiaceae MA CH REPT 540 EUROP.-CAUCAS. 6 X 4 6 X 6 0 S17 Allium sp. Alliaceae G BULB S7, S10 Althaea officinalis L. Malvaceae MA H SCAP 580 SE-EUROP. 7 6 6 7760S17, S16 Amaranthus deflexus L. Amaranthaceae CH T SCAP 980 AVV. NATURALIZZ. 8 8 5 4690S10 Arctium lappa L. Asteraceae AR H BIENNE 520 EURASIAT. 9 5 5 5790S3, S11 Aristolochia clematitis L. Aristolochiaceae QF G RAD 310 EURIMEDIT. 6 7 5 4880S17 Aristolochia rotunda L. Aristolochiaceae QF G BULB 310 EURIMEDIT. 6 7 5 4630F1 Artemisia verlotiorum Lamotte Asteraceae AR H SCAP 980 AVV. NATURALIZZ. 7 7 6 7550S1, S7 Arum italicum Mill. Araceae QF G RHIZ 210 STENOMEDIT. 6 8 4 4550S11, S18 Bellevalia romana (L.) Sweet Hyacinthaceae MA G BULB 312 CENTRO-EURIMEDIT. 8 7 5 3640F2 Borago officinalis L. Boraginaceae CH T SCAP 310 EURIMEDIT. 7 8 5 3550S10 Brachypodium sylvaticum (Huds.) Beauv. Poaceae QF H CAESP 510 PALEOTEMP. 4 5 5 5660S10, S17, F1 Bromus erectus Hudson Poaceae FB H CAESP 510 PALEOTEMP. 8 5 7 3830S1, S7 Bryonia dioica Jacq. Cucurbitaceae AR G RHIZ 310 EURIMEDIT. 8755860S3, S4, S5, S6, S7, S10, F1, F2 Calystegia sepium (L.) Br. subsp.sepium Convolvulaceae AR H SCAND 510 PALEOTEMP. 8 6 5 6790S16 Capsella bursa-pastoris (L.) Medik. subsp. bursa-pastoris Brassicaceae CH H BIENNE 950 COSMOPOL. 7 X 5 5540S7 Carex riparia Curtis Cyperaceae PH G RHIZ 520 EURASIAT. 7 5 5 10 6 5 0 S17 Celtis australis L. Cannabaceae PSCAP 310 EURIMEDIT.(avv) 7 8 5 3740S18 Cerastium semidecandrum L. Caryophyllaceae FB T SCAP 520 EURASIAT. 8754XX0S6 Cerinthe minor L. s.l. Boraginaceae CH T SCAP 580 SE-EUROP. 7 8 6 4590S6 Cirsium arvense (L.) Scop. Asteraceae AR G RAD 520 EURASIAT. 8 X X 4 X 7 0 S7, F1 Cirsium vulgare (Savi) Ten. Asteraceae AR H BIENNE 510 PALEOTEMP. 8555X80S3 Clematis viticella L. Ranunculaceae SP P LIAN 530 S-EUROP.-SUDSIB. 7 7 7 4630S4, S6, F1 Colchicum lusitanum Brot. Colchicaceae MA G BULB 450 W-MEDIT.-MONT. 6 7 4 3670F1 Conium maculatum L. subsp. maculatum Apiaceae AR H SCAP 510 PALEOTEMP. 7 8 5 4570S1, S7 Convolvulus arvensis L. Convolvulaceae AI G RHIZ 510 PALEOTEMP. 7 7 5 4550S6 Cornus sanguinea L. Cornaceae QF P CAESP 520 EURASIAT. 7 5578X0sempre presente Corylus avellana L. Betulaceae QF P CAESP 540 EUROP.-CAUCAS. 6 5 4 5580S16 Crataegus monogyna Jacq. Rosaceae QF P CAESP 510 PALEOTEMP. 6 7 5 4630S12, S14, S15, F1 Dactylis glomerata L. s.l. Poaceae MA H CAESP 510 PALEOTEMP. 7 6 5 4560F1 Daucus carota L. s.l. Apiaceae AR H BIENNE 510 PALEOTEMP. 8 6 5 4540S1, S7, S8 Dipsacus fullonum L. Dipsacaceae AR H BIENNE 310 EURIMEDIT. 6 8 5 7550S3 Equisetum arvense L. s.l. Equisetaceae AS G RHIZ 810 CIRCUMBOR. 5 7 4 8850S5, F1 Euonymus europaeus L. Celastraceae QF P CAESP 520 EURASIAT. 6 5 5 5850S (da impianto), S12 (anche da impianto) Euphorbia palustris L. Euphorbiaceae MA G RHIZ 820 EUROSIB. 7 6 6 7550S1, S4, S7, S8, S9, S13, S14, S15, S16, S17 Euphorbia platyphyllos L. s.l. Euphorbiaceae CH T SCAP 310 EURIMEDIT. 6 7 5 5560F1 Frangula alnus Mill. subsp. alnus Rhamnaceae QF P CAESP 540 EUROP.-CAUCAS. 6 5 4 7550S (da impianto), S3, S5, S12 (da impianto), S16 Fraxinus angustifolia Vahl subsp. oxycarpa (Wild.) Franco et Rocha Afonso Oleaceae QF P SCAP 530 S-EUROP.-SUDSIB. 4 8 6 7780S, S12, F (sempre da impianto) Galium aparine L. Rubiaceae AR T SCAP 520 EURASIAT. 6 X 5 4550S1, S10, F1, F2 Galium verum L. s.l. Rubiaceae FB T SCAP 540 EUROP.-CAUCAS. 7 6 6 4730S1, S7 Geranium dissectum L. Geraniaceae CH T SCAP 520 EURASIAT. 7 8 5 2520S7, S8 Glechoma hederacea L. Lamiaceae AR CH REPT 810 CIRCUMBOR. 6 7 4 4530S1, S5, S7, S9 Hedera helix L. s.l. Araliaceae QF P LIAN 310 EURIMEDIT. 4545XX0S10, F2 Hordeum murinum L. s.l. Poaceae CH T SCAP 810 CIRCUMBOR. 8 8 4 5530F1 Inula britannica L. Asteraceae AS H SCAP 540 EUROP.-CAUCAS. 8 6 5 7830S17 Iris pseudacorus L. Iridaceae PH G RHIZ 520 EURASIAT. 7 7 5 10 6 7 0 S1, S6, S10, S13, F1, F2 Juglans regia L. Juglandaceae P SCAP 980 AVV. NATURALIZZ. 6 6 6 5660S1, S4, S5, S7, S8, S12, S13, S14, S16, S17, F Lamium purpureum L. Lamiaceae CH T SCAP 520 EURASIAT. 7 7 5 4550S5, S7, F1 Lepidium sp. Brassicaceae S1 Leucojum aestivum L. subsp. aestivum Amaryllidaceae PH G BULB 540 EUROP.-CAUCAS. 6 5 4 7770S3 Ligustrum ovalifolium Hassk. Oleaceae NP Coltivata naturalizzata S18 Lycopus exaltatus Ehrh. Lamiaceae PH H SCAP 820 EUROSIB. 7 6 5 9540S17 Lysimachia nummularia L. Myrsinaceae MA H SCAP 540 EUROP.-CAUCAS. 4646XX0S7, S17, F2 Lysimachia vulgaris L. Myrsinaceae CH H SCAP 520 EURASIAT. 7 X 7 9 X X 0 S13 Mahonia aquifolium Nutt. Berberidaceae PCAESP Coltivata naturalizzata S18 Malus domestica (Borkh.) Borkh. Rosaceae P SCAP Coltivata naturalizzata 7 7 5 5550S5, F, F1 Morus alba L. Moraceae P SCAP 980 AVV. NATURALIZZ. 8 7 5 5550S4, S5, S6, S7, S12, S13, S14, S15, S16, F2 (anche arborea) Ornithogalum umbellatum L. Hyacinthaceae AR G BULB 310 EURIMEDIT. 5 6 5 5750S2, F2 Papaver rhoeas L. subsp. rhoeas Papaveraceae CH T SCAP 430 E-MEDIT.-MONT. 6 6557X0S1 Parietaria officinalis L. Urticaceae AR H SCAP 540 EUROP.-CAUCAS. 4 8 4 5770F2 Phleum pratense L. Poaceae MA H CAESP 810 CIRCUMBOR. 7 6 5 5660S6 p Phragmites australis (Cav.) Trin.ex Steud. Poaceae PH G RHIZ 940 SUBCOSMOP. 7 5 X 10 7 5 1 S4, S7, F1 Plantago lanceolata L. Plantaginaceae MA H ROS 520 EURASIAT. 6 7 5 X X X 0 S7 Platanus hispanica Mill. ex Munchh. Platanaceae P SCAP 310 EURIMEDIT. 9758X60S3, S6, S9, S13 (ceppaia), S16 (ceppaia) Poa sp. Poaceae H CAESP F1 Populus alba L. Salicaceae QF P SCAP 510 PALEOTEMP. 5 8 7 5860F Populus nigra L. Salicaceae QF P SCAP 510 PALEOTEMP. 5 7 6 8770S2, S5, S7, S8, S10, S15, F (anche forma cipressina), F1, F2 Potentilla reptans L. Rosaceae AS H ROS 510 PALEOTEMP. 6 6 5 6750S1, S7 Prunus armeniaca L. Rosaceae P SCAP Coltivata naturalizzata S11 Prunus avium L. subsp. avium Rosaceae QF P SCAP 542 PONTICA 4 5 6 5750S, S1, S3, S4, S5, S7, S10, S12 Prunus cerasifera L. Rosaceae P CAESP 980 AVV. NATURALIZZ. 9 7 5 5550S7, S8, S10, F (var. atropurpurea) Prunus domestica L. Rosaceae P SCAP Coltivata naturalizzata S12, Prunus spinosa L. subsp. spinosa Rosaceae QF P CAESP 540 EUROP.-CAUCAS. 7 5 5 X X X 0 sempre salvo S, S1, S8, S10, S13, S17 Quercus robur L. subsp. robur Fagaceae QF P SCAP 540 EUROP.-CAUCAS. 7 6 6 6560sempre salvo S17, F2, Ranunculus bulbosus L. Ranunculaceae FB G BULB 520 EURASIAT. 4 5 5 6770S3, S6 Ranunculus ficaria L. subsp. ficaria Ranunculaceae QF CH REPT 510 PALEOTEMP. 6 X X 7 X 7 0 S1, S10 Ranunculus repens L. Ranunculaceae MA H SCAP 520 EURASIAT. 8 6 5 3730S6, S8, S9 Ranunculus velutinus Ten. Ranunculaceae MA H SCAP 320 N-EURIMEDIT. 6 8 5 5650S7 Rhamnus cathartica L. Rhamnaceae QF P CAESP 530 S-EUROP.-SUDSIB. 7 5548X0S (da impianto); S2, S6, S12 (da impianto) Robinia pseudoacacia L. Fabaceae P CAESP 980 AVV. NATURALIZZ. 5754X80S15 Rorippa amphibia (L.) Besser Brassicaceae PH H SCAP 820 EUROSIB. 7 5 7 10 7 8 0 S2 Rosa canina L. Rosaceae QF NP 510 PALEOTEMP. 8554XX0S1, S2, S3, S4, S5, S8, S9, S10, S11, S18, S19, F1 Rubus caesius L. Rosaceae QF NP 520 EURASIAT. 7 5 5 7790S1, S2, S3, S7, S10, S13, S16 Rubus ulmifolius Schott Rosaceae QF NP 310 EURIMEDIT. 5 8 5 4580F1 Rumex sp. Polygonaceae H SCAP S3, S6, S7, F1 Salix alba L. Salicaceae SP P SCAP 510 PALEOTEMP. 5 6 6 7870S1, S2, S3, S4, S5, S8, S12, S14, S17 Salvia pratensis L. subsp. pratensis Lamiaceae FB H SCAP 310 EURIMEDIT. 8 6 6 4840F1 Sambucus nigra L. Caprifoliaceae QF P CAESP 540 EUROP.-CAUCAS. 7545X90manca in S11, S12, S15 Scrophularia nodosa L. Scrophulariaceae QF H SCAP 810 CIRCUMBOR. 4 5 4 6670S6 Senecio vulgaris L. Asteraceae CH T SCAP 310 EURIMEDIT. 7 X X 5 X 8 0 S7, S9 Silene latifolia Poir. subsp. alba (Mill.) Caryophyllaceae AR H BIENNE 510 PALEOTEMP. 8 X X 4 X 7 0 S7, F1 Sinapis arvensis L. subsp. arvensis Brassicaceae CH T SCAP 210 STENOMEDIT. 7 5 4 X 8 6 0 F1 Sonchus asper (L.) Hill Asteraceae CH T SCAP 520 EURASIAT. 7 5 X 4770S1, S2 Stellaria media (L.) Vill. subsp. media Caryophyllaceae QF T REPT 950 COSMOPOL. 6 X X 4780S7, S6, F1 Taraxacum officinale L. Asteraceae MA H ROS 810 CIRCUMBOR. 7 X X 5 X 7 0 S7, S9, S10 Trifolium pratense L. subsp. pratense Fabaceae MA CH PULV 820 EUROSIB. 7 X 4 X X X 0 S6, S7, F1 Trifolium repens L. subsp. repens Fabaceae MA CH REPT 510 PALEOTEMP. 8 X X X X 7 0 S7 Tulipa sylvestris L. Liliaceae CH G BULB 310 EURIMEDIT. 7 7 5 X 7 5 0 S5 Ulmus laevis Pall. Ulmaceae QF P CAESP 560 CENTRO-EUROP. 4 6 5 8770F1 Ulmus minor Mill. subsp. minor Ulmaceae QF P CAESP 540 EUROP.-CAUCAS. 5 7 5 X 8 X 0 sempre presente Urtica dioica L. subsp. dioica Urticaceae AR H SCAP 940 SUBCOSMOP. X X X 6 X 8 0 S3, S4, S5, S6, S7, S8, S9 Veronica arvensis L. Scrophulariaceae FB T SCAP 510 PALEOTEMP. 5 5556X0F1 Veronica hederifolia L. subsp. hederifolia Scrophulariaceae CH T SCAP 520 EURASIAT. 6 6 5 5370S7, F2 Veronica persica Poir. Scrophulariaceae CH T SCAP 980 AVV. NATURALIZZ. 8 7 5 5560S2, S7, S8, S9, S10, F1 Vicia cracca L. Fabaceae MA H SCAP 520 EURASIAT. 7 X X 5 X X 0 S6, S7 Vinca major L. subsp. major Apocynaceae AR CH REPT 310 EURIMEDIT. 6 7 5 4530S11 Viola odorata L. Violaceae AR H ROS 310 EURIMEDIT. 5655X80S6, S7, S10, S17, F2 Vitis labrusca L. Vitaceae P LIAN Coltivata naturalizzata comune, ma certa solo in S6, S8, F1

Tab. 1 – Censimento floristico delle siepi del complesso Resega-Bellaria-Foresto Le siepi del sistema Resega-Bellaria-Foresto (Novi di Modena) 163

Il calcolo dello spettro tassonomico, eseguito sulle sole specie autoctone, ha evi- denziato che sono presenti 40 famiglie, tutte con frequenze inferiori al 10% (Tab. 2); altre quattro (Apocynaceae, Cannabaceae, Moraceae, Vitaceae) sono rappre- sentate solo da specie autoctone estranee alla flora di pianura, naturalizzate perché sfuggite a coltivazioni. Le famiglie più presenti, con frequenze del 5% almeno, sono Rosaceae, Asteraceae, Poaceae, Ranunculaceae. L’alto numero di famiglie presen- ti indica un buon livello di biodiversità tassonomica, conseguente all’abbandono di queste zone non coltivate, come rilevato anche da Tomaselli & Gardi (1998).

Famiglia % Famiglia % Aceraceae 2,2 Fagaceae 1,1 Amaryllidaceae 1,1 Geraniaceae 1,1 Apiaceae 2,2 Hyacinthaceae 2,2 Araceae 1,1 Iridaceae 1,1 Araliaceae 1,1 Lamiaceae 4,3 Aristolochiaceae 2,2 Liliaceae 1,1 Asteraceae 8,7 Malvaceae 2,2 Betulaceae 1,1 Myrsinaceae 2,2 Boraginaceae 2,2 Oleaceae 1,1 Brassicaceae 4,3 Papaveraceae 1,1 Caprifoliaceae 1,1 Poaceae 7,6 Caryophyllaceae 3,3 Ranunculaceae 5,4 Celastraceae 1,1 Rhamnaceae 2,2 Convolvulaceae 2,2 Rosaceae 8,7 Cornaceae 1,1 Rubiaceae 1,1 Cucurbitaceae 1,1 Salicaceae 3,3 Cyperaceae 1,1 Scrophulariaceae 4,3 Dipsacaceae 1,1 Urticaceae 2,2 Euphorbiaceae 2,2 Ulmaceae 2,2 Fabaceae 4,3 Violaceae 1,1

Tab. 2 – Spettro tassonomico 164 C. Santini, F. Buldrini

3.1 Analisi delle forme biologiche I risultati sono esposti in Fig. 5 e Tab. 3.

35,0 30,0 25,0 20,0 15,0 10,0 5,0 0,0 Fanerofite Terofite Emicriptofite Camefite Geofite

Fig. 5 – Spettro biologico

Manzini Alessandrini Novi (1989) et al. (2010) Fanerofite 31,2 30 11 Camefite 5,4 2 3 Emicriptofite 30,4 41 31 Geofite 16 7 12 Terofite 17 16 37 Idrofite e Geofite 6

Tab. 3 – Spettri biologici a confronto. I valori sono espressi in percentuale

Per le piante legnose (fanerofite) e per le annuali (terofite), i risultati con- cordano con quanto descritto da Manzini (1989), ma anche le erbacee perenni (emicriptofite e geofite), se calcolate insieme, risultano pressoché simili (Tab. 3). Le suffruticose invece sono in entrambe le indagini poco significative. Difficile un confronto con flore di aree vaste come la pianura modenese, dove netto è il divario con le annuali (Alessandrini et al., 2010): queste, infatti, com- poste in gran parte di avventizie, sono dominanti nel Modenese, al contrario delle province limitrofe, a causa del maggior disturbo antropico dovuto alla più intensa urbanizzazione del territorio. Simili invece sono i valori delle emi- Le siepi del sistema Resega-Bellaria-Foresto (Novi di Modena) 165 criptofite, la cui alta percentuale è in armonia coi dati fitoclimatici della Pianura Padana, dove prevale tale forma biologica. Risulta chiaro, inoltre, il ruolo benefico svolto dalle siepi: la minor percen- tuale di terofite, sia rispetto alla media della pianura sia rispetto alla media provinciale (24,1%), dimostra che la presenza di fasce boscate ha effetti posi- tivi sul mantenimento di una flora autoctona, tipica di ambienti a maggiore naturalità (Müller et al., 1979).

3.2 Analisi dei corotipi I risultati sono esposti in Fig. 6 e Tab. 4.

60,0

50,0

40,0

30,0

20,0

10,0

0,0 Eurasiatiche Mediterranee Boreali Orofite Cosmopolite Avventizie sudeuropee

Fig. 6 – Spettro corologico

Manzini Novi (1989) Eur as i ati c he 52,7 65 Mediterranee 19,1 17 Boreali 9,1 12 Orofite sudeuropee 1,8 Cosmopolite 4,5 6 Avventizie 12,7

Tab. 4 – Spettri corologici a confronto. I valori sono espressi in percentuale

Si rileva l’assoluta dominanza delle specie a distribuzione eurasiatica, che da sole costituiscono più di metà dello spettro (suddivise in 35% di paleotem- perate e 65% di eurasiatiche, europeo-caucasiche e loro sottotipi); seguono le 166 C. Santini, F. Buldrini mediterranee sensu lato (19%) e le boreali (9%). Il confronto con Manzini (1989) evidenzia una sostanziale diversità per le eurasiatiche e le avventizie, mentre le mediterranee e le boreali sono abbastanza simili: ne emerge un evi- dente aumento della flora alloctona negli ultimi decenni. Il 4,5% di specie cosmopolite, così come il 2% di orofite sudeuropee, è compatibile appieno con l’ambiente agricolo dell’area studiata, ma si ribadisce, anche in questo caso, l’azione benefica esercitata dalle siepi sul territorio e sulla sua flora (Rabacchi, 1999), essendo la media provinciale di specie cosmopolite pari al 7,2%. La discreta presenza di avventizie (12,7%), limitata alle siepi più esterne del complesso, palesa l’importante ruolo di filtro di questi sistemi nei riguar- di delle parti interne più pregiate.

3.3 Analisi delle valenze socio-ecologiche Lo spettro delle valenze socio-ecologiche è stato calcolato sulle 97 specie autoctone accertate (Tab. 5).

% Agropyretea intermedii-repentis 1,0 Agrostietea stoloniferae 3,1 Artemisietea 17,5 Bidentetea 1,0 Chenopodietea 16,5 Festuco-Brometea 8,2 Molinio-Arrhenatheretea 15,5 Phragmitetea 6,2 Querco-Fagetea 28,9 Salicetalia purpureae 2,1

Tab. 5 – Spettro delle valenze socio-ecologiche delle specie autoctone rilevate

Il contingente più importante, pari al 28,9%, è costituito dalle specie dei boschi di latifoglie decidue (classe Querco-Fagetea): per la maggior parte si tratta di specie legnose, alcune delle quali diffuse negli arbusteti derivanti dalla degradazione di boschi e siepi di pianura, oltre ad un piccolo gruppo di erba- cee nemorali. La rimanente flora si distribuisce in nove ulteriori classi fitoso- ciologiche; di queste la più rappresentata è l’Artemisietea (17,5%), formata da comunità nitrofile bienni-perenni dei bordi stradali e boschivi; segue (16,5%) la vegetazione annua-bienne delle colture sarchiate e degli ambienti ruderali (classe Chenopodietea). Importante anche il contingente derivante dai prati coltivati e sfalciati e dai prati umidi allagati e comunità igrofile (classe Le siepi del sistema Resega-Bellaria-Foresto (Novi di Modena) 167

Molinio-Arrhenatheretea), che copre il 15,5% del totale. L’incidenza delle rimanenti (Festuco-Brometea 8,2%, Phragmitetea 6,2%, Agrostietea, Agropyretea intermedii-repentis, Bidentetea) raggiunge complessivamente il 19,5%. Sommando le frequenze delle specie provenienti dalle comunità natu- rali e seminaturali (Querco-Fagetea, Festuco-Brometea, Phragmitetea e Salicetalia purpureae) si ottiene un 45,4%; se aggiungiamo la percentuale derivante da prati umidi e ambienti simili (classe Molinio-Arrhenatheretea), vegetazione più artificiale, mantenente però legami floristici con quella origi- naria, si raggiunge il 60,9%. Il restante 39,1% è costituito dalle specie sinan- tropiche, che non hanno più nulla in comune con la vegetazione originaria: piante ruderali nitrofile (Artemisietea) e di post-coltura (Chenopodietea) e, in minor misura, di sponda dei corpi idrici eutrofizzati (Agrostietea stoloniferae), poi specie semiruderali di post-coltura (Agropyretea intermedii-repentis) e dei luoghi umidi nitrofili (Bidentetea).

3.4 Analisi ecologica I risultati dell’analisi ecologica sono mostrati in Fig. 7. L 10 8 T 6 S 4 2 0 C N

UR Fig. 7 – Ecogramma delle siepi del complesso Resega-Bellaria-Foresto

È qui rappresentata la tipica situazione di un’area di pianura interna dal clima continentale: i valori di continentalità e di temperatura, rispettivamente pari a 5,06 e 6,38, indicano appunto le condizioni medie della flora di clima temperato (Pignatti et al., 2005), comune nella Pianura Padana, mentre l’indi- ce di pH del substrato (6,22) ben si adatta alle specie mesofile tipiche della bassa pianura, i cui suoli sono in media debolmente alcalini. Il drenaggio dif- ficile della zona è poi palesato dall’indice di umidità del suolo (5,28), testi- 168 C. Santini, F. Buldrini mone di terreni ben provvisti d’acqua, mentre l’indice di luce (6,54), interme- dio fra le condizioni di mezz’ombra e il pieno sole, rileva la diffusa presenza di vegetazione arborea; non stupisce poi il valore di nutrienti del suolo, pari a 5,81, stante l’intensivo sfruttamento agricolo dell’area e la naturale eutrofia dei terreni alluvionali della bassa pianura. Mancano completamente piante alofile: solo Phragmites australis tollera una bassa salinità. La rarità di Crataegus monogyna nei siti indagati sarebbe da imputare prin- cipalmente all’alta concentrazione dei nutrienti dei suoli e all’eccesso di umi- dità dei suoli stessi; l’assenza di Euonymus europaeus allo stato spontaneo sembra invece legata solo alla scarsa umificazione dei terreni. Rhamnus cathartica, anch’essa propria di substrati alcalini, forse soffre a sua volta del- l’eccessiva umidità dei suoli. Frangula alnus e Corylus avellana, ancora, sono abbastanza rari, soprattutto quest’ultimo, a causa dei suoli alcalini e ancora poco umificati. Non ci sono indi- ci sfavorevoli alla presenza di Fraxinus angustifolia subsp. oxycarpa, specie tipi- ca dei boschi planiziali: forse la sua assenza è da ricercare nell’antica distruzione dei boschi originari e nella mancanza di matricine mature in prossimità dell’area. La ridotta presenza di Robinia pseudoacacia è probabilmente dovuta all’u- midità dei substrati, non gradita dalla specie; mentre una conferma dell’alca- linità dei terreni è data dalla buona presenza di piante calcifile quali Agrimonia eupatoria, Bryonia dioica, Equisetum arvense. L’alto tenore di nutrienti dovu- to a frequenti concimazioni dei coltivi è confermato poi dalla presenza di numerosi taxa nitrofili (Urtica dioica, Rubus caesius, Arctium lappa, Calystegia sepium ecc.) lungo i fossati e ai margini delle colture.

3.5 Specie rare e interessanti per la conservazione Si nota una discreta presenza di specie rare a livello provinciale o regionale legate agli ambienti umidi, elencate nella Lista di attenzione provinciale stilata dagli autori della recente Flora del Modenese (Alessandrini et al., 2010): citia- mo innanzi tutto Leucojum aestivum subsp. aestivum (Fig. 8), descritta anche nella liste rosse regionali delle piante d’Italia (Conti et al., 1997), tutelata dalla L.R.2/77, confermata quale specie minacciata nella lista rossa regionale (Ferrari et al., 2010); Euphorbia palustris, a sua volta minacciata e descritta nella sud- detta lista rossa; e Rorippa amphibia, di recente inserita nella lista rossa regio- nale, rinvenuta in un fossato a margine di una siepe. La popolazione modenese di L. aestivum al momento è stata accertata in tre piccoli nuclei (Alessandrini et al., 2010), due dei quali nell’area novese; uno di questi non è stato confermato dal presente studio. Trattandosi di una specie minacciata e in contrazione a causa della scomparsa o alterazione delle zone Le siepi del sistema Resega-Bellaria-Foresto (Novi di Modena) 169 umide di pianura, andrà valutata in tempi rapidi l’opportunità di un consolida- mento delle popolazioni originarie con interventi ex situ/in situ. Segnaliamo inoltre Althaea officinalis e Lycopus exaltatus, infrequenti, esclusive di ambien- ti vallivi planiziali, Cerinthe minor subsp. minor, non comune, propria degl’in- colti, forse un tempo legata alle colture agrarie; e Aristolochia rotunda, non molto diffusa, meglio nota perché pianta nutrice delle larve di Zerynthia polyxe- na Denis et Schiffermüller, lepidottero protetto a livello europeo, elencato nell’Allegato IV della Direttiva Habitat 92/43. Per quanto riguarda le piante legnose, due sono le specie abbastanza rare per la pianura, Frangula alnus e Rhamnus cathartica, ritrovate in pochi esemplari; altra specie interessante è la lianosa Clematis viticella, in genere sporadica lungo siepi e fossati di pianura, ma piuttosto frequente nell’area di studio.

4. Conclusioni

Pur non essendo riferibili con certezza ad antiche situazioni ecologiche, le siepi di Novi, vista la loro complessità, sono di certo collegabili al nostro passa- to recente e rivestono senza dubbio un ruolo ecologico rilevante per una molte- plice varietà di specie animali e vegetali. Poiché la vegetazione dipende assolutamente dalle condizioni d’irradiazione solare, molte specie eliofile s’insediano di preferenza ai margini dei boschi e delle siepi: queste condizioni ecologiche attirano numerose specie animali a sfruttare le risorse messe a disposizione da piante, funghi e licheni e dall’ab- bondante materiale in decomposizione, perciò la siepe è un micro-habitat ecoto- nale per eccellenza. Proprio nelle fasce di transizione e di contatto fra gli ecosi- stemi forestali e le praterie, note appunto come fasce ecotonali o ecotoni, si arri- va alla massima biodiversità negli ecosistemi terrestri (Fohmann-Ritter, 1991). La complessità di alcune siepi rilevate, composte anche di 12-15 diverse spe- cie legnose, può indicare un’età importante. Alla luce dell’analisi compiuta le siepi indicate come S3, S5 e S16 appaiono le più antiche e interessanti, merite- voli in futuro di monitoraggi e approfondimenti. Dal punto di vista strutturale, esse hanno raggiunto l’assetto di boschi a galleria (Fig. 9): già negli anni ‘50 erano infatti presenti filari alberati (Quercus robur, Populus nigra, Platanus hispanica, Ulmus minor), come rilevato dai voli aerei del 1954. In questi casi è presente una modesta flora nemorale e vi si concentra gran parte delle specie più interessanti. Le siepi di minor complessità sono sovente costituite da fila- ri monospecifici a U. minor, con una vegetazione erbacea annuale o bienne quasi sempre derivata dai coltivi o dai fossati, ivi sempre presenti. 170 C. Santini, F. Buldrini

In particolare poi in S3 è presente Leucojum aestivum: tale stazione, già descritta nell’Atlante della flora protetta della Regione Emilia-Romagna (Alessandrini & Bonafede, 1996) è una delle poche conosciute a livello regio- nale. L’atlante consigliava, per ridurre le minacce alla persistenza della specie, di non pulire drasticamente le rive di fossi e canali; nel nostro caso, la principa- le minaccia è dovuta all’eccessivo ombreggiamento della stazione da parte di platani e olmi presenti in loco: occorre urgentemente accordarsi con le proprie- tà e coi responsabili della gestione per provvedere a un taglio programmato invernale delle chiome più folte, cercando nel contempo di non danneggiare i pochi cespi di L. aestivum ancora presenti. In seguito, la stazione andrà control- lata a cadenza stagionale e rafforzata con opportuni incrementi in situ, da con- certarsi con gli enti scientifici e territoriali competenti. Stesso discorso volto al taglio programmato vale anche per Euphorbia palu- stris, che nonostante la buona presenza accertata rischia di soccombere in qual- che caso per l’eccessivo ombreggiamento. Quanto alla presenza d’importanti esemplari secolari di Quercus robur, è da citare la più longeva, sita alla Bellaria nella formazione S11, dal diametro di oltre 150 cm: non si può escludere che tale esemplare abbia raggiunto i 150 anni di vita. Interessanti anche i 3 esemplari in S6, di oltre 1 m di diametro, e l’inte- ro filare S3, formato da 19 individui coetanei, i cui tronchi sono di poco inferio- ri al metro di diametro. Da un esame veloce si è notata una popolazione ben identificabile di Q. robur con caratteri tipici (uniformità nella morfologia fogliare e nei frutti), forse a indi- care l’isolamento dell’area novese utile come base per un futuro bosco da seme. Le siepi del sistema Resega-Bellaria-Foresto (Novi di Modena) 171

Fig. 8 – Leucojum aestivum subsp. aestivum. Da notare la scarsa fioritura dovuta all’eccessivo ombreggiamento (aprile 2010) 172 C. Santini, F. Buldrini

Fig. 9 – Esempio di bosco a galleria (siepe S10, aprile 2010) Le siepi del sistema Resega-Bellaria-Foresto (Novi di Modena) 173

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Atti Soc. Nat. Mat. Modena 142 (2011)

Assunta Florenzano*, Silvia Benassi*, Anna Maria Mercuri* Pioggia pollinica e qualità dell’aria: polline di Olea negli uliveti dal caso studio della Basilicata

Riassunto Gli uliveti sono un elemento fondamentale del paesaggio dell’Italia meridionale. In queste regioni, il polline di Olea è uno dei principali elementi biologici diffusi in aria e ha un notevole impatto sulla salute dell’uomo, poiché è stato riconosciuto tra le principali cause di allergia respiratoria nell’area mediterranea. Il lavoro presenta lo studio palinologico di uliveti della Basilicata, regione nella qua- le l’olivicoltura è ampiamente diffusa. Sono stati analizzati campioni di suoli superficiali prelevati al centro (IN) e a diverse distanze (OUT) dagli uliveti per valutare la rappresentatività del polline di Olea nell’area interessata dagli impianti. Pur essendo influenzate da diversi fattori (estensione del- l’uliveto, età degli alberi, stadio al quale si trova il periodo di fioritura, presenza di polline da spe- cie sovrarappresentate, lavorazione del terreno, distribuzione di altri uliveti nelle aree circostanti), le quantità di Olea rinvenute nei campioni sono strettamente legate alla distanza dall’uliveto. In generale, le percentuali di questo polline sono molto elevate al centro dell’uliveto (ca. 55% in media per gli uliveti più estesi) e decrescono fortemente a 500 m (ca. 6%, con un abbattimento di ca. 90%), per rimanere pressoché costanti a 1000 m. Il confronto con i dati aerobiologici dell’area (biennio 2005-2006, stazione ARPAB di ) conferma che il polline di Olea aerodiffuso (7-11%) è meno abbondante ma in proporzione comparabile a quello al suolo (13%). I dati raccolti forniscono un’ul- teriore prova dell’importanza del polline di Olea in Basilicata, suggerendo inoltre un elevato rischio allergenico per i soggetti atopici nel raggio di 1000 m intorno agli uliveti.

Abstract Pollen rain and air quality: Olea pollen in the olive groves of a case study in Basilicata, southern Italy - Olive trees are key elements of the cultural landscape of southern Italy. Olea pollen is there- fore one of the main component in the biological aerosol and it is known to have an important impact on human health for pollinosis in Mediterranean countries. The paper reports pollen analyses from olive groves distributed in Basilicata, a region facing the Ionian Sea, where agriculture is still largely spread. The aim of the study is to evaluate the representativeness of Olea pollen in soil samples, taken at different distances from sources. Five olive groves (A-E) have been selected along a SE/NW trans- ect along the River Bradano, taking into account that they were at a significant distance from other olive groves of the same area. Six samples per each olive grove have been taken in the following way: a) two IN samples, including one surface sample, and one sample collected by pinches; b) four OUT

* Laboratorio di Palinologia e Paleobotanica, Dipartimento di Biologia, Università di Modena e Reggio Emilia, Viale Caduti in Guerra 127, 41121 Modena. http://www.palinopaleobot.unimo.it 176 A. Florenzano, S. Benassi, A. M. Mercuri samples, including two samples taken 500 m away from the centre of the olive grove, at N and W directions and two samples taken at 1000 m, at N and W directions. Olea pollen was found in good amount in all samples but its percentages were very variable depending on several factors: olive gro- ve extension, age of the trees, gap between period of sampling and start of pollination (April), abun- dance of pollen from overrepresented taxa in the spectra (Pinus), occurrence of particular agricultu- ral practices (ploughing), spread of several olive groves or presence of wild olive specimens in the same area. In addition, the distance of the point of sampling from the trees plays an important role in olive pollen representativeness. As expected, the highest percentages of this pollen were found at the centre of the olive groves, and then dramatically fell at 500 m, and remained fairly constant at 1000 m. The more extended olive groves (A, D) show the highest values of Olea pollen at the centre (ca. 55% on average). This high value sharply drops to ca. 5% at 500 m. Therefore, the decrease of this pollen may be estimated of about 87-92% in the first few hundred metres from the sources. Compari- son with airborne pollen captured by spore-traps (years 2005-2006, ARPAB monitoring station of Matera) confirms that this pollen is generally less abundant in the air than in the soil layers. In our case study the pollen of Olea was about 7-11% in the annual pollen rain whereas it was about 13% in the surface soil samples collected in and around the olive groves. Data are a further proof of the importance of this pollen in the Mediterranean region, also suggesting a higher risk for atopic peo- ple in a radius of 1000 m around the olive groves.

Parole chiave: palinologia, qualità dell’aria, pioggia pollinica, Olea europaea L., Basilicata, Mediterraneo

Key words: palynology, air quality, pollen rain, Olea europaea L., Basilicata, Mediterranean basin

1. Introduzione

La relazione tra pioggia pollinica e qualità dell’aria è strettamente dipen- dente dalla stagione, dalla flora, dalla vegetazione e dalla produttività polli- nica delle specie presenti in una determinata area. Comunemente, è possibi- le investigare la pioggia pollinica attraverso il monitoraggio aerobiologico, che è tra gli strumenti principali per la conoscenza della qualità dell’aria (Frenguelli, 1998; Mercuri et al., 1992). Altro metodo assai pratico, e che non richiede l’impiego di catturatori artificiali, è lo studio di suoli superfi- ciali e cuscinetti di muschio, nei quali la pioggia pollinica resta intrappolata dopo la sua caduta a terra (Heim, 1971; Mazier, 2007; Ejarque et al., 2011). Pioggia pollinica e qualità dell’aria: polline di Olea negli uliveti... 177

Il polline aerodiffuso è uno degli elementi biologici più importanti da considerare quando si valuti la qualità dell’aria poiché esso può avere note- vole impatto sulla salute dell’uomo. Tra le specie più diffuse in area medi- terranea, ad esempio, il polline di olivo ha un elevato potere allergenico ed è stato riconosciuto tra le principali cause di allergia respiratoria stagionale (D’Amato, 2007; D’Amato & Spieksma, 1991; García et al., 2011; Quiralte et al., 2002; Rodríguez-Rajo et al., 2004). Le pollinosi sono, naturalmente, più diffuse nel periodo di fioritura che, nel complesso, va da metà Aprile a Giugno (Macchia et al., 1991; Romano & Castellano, 1992). Si è stimato che quasi il 40% della popolazione che vive nelle aree con una diffusa olivicol- tura può risultare sensibile al polline di questi alberi (ad esempio, per la Spagna meridionale: Fernando Florido et al., 1999). Poiché è stato osserva- to che la pollinosi da olivo è un fenomeno in crescita in alcune aree dell’Italia meridionale, è importante svolgere una capillare prevenzione attraverso la quantificazione del polline di Olea in aria (Díaz de la Guardia et al., 2003; Riera et al., 2002). Considerando sia il notevole interesse economico di questa specie, che ne favorisce la piantumazione, sia il potere allergenico del suo polline, lo stu- dio della pioggia pollinica dentro e in prossimità degli impianti agricoli, dove è plausibile che il rischio allergenico per soggetti atopici sia maggiore, risulta di particolare interesse. La conoscenza dell’entità della pioggia polli- nica di questa specie, elemento fondamentale del paesaggio culturale italia- no, permette inoltre di ottenere più dettagliate ricostruzioni archeoambienta- li. In questo come in altri casi, gli studi sull’attuale offrono infatti l’oppor- tunità di raccogliere dati da analoghi moderni e fare confronti con i paesag- gi che hanno interessato la stessa area in tempi passati. Si stima che il 92% della superficie totale dedicata all’olivicoltura nel mondo si trovi oggi nel bacino del Mediterraneo (FAOSTAT, 2004). In Italia la coltivazione è principalmente diffusa nelle regioni meridionali e insulari, in cui le condizioni pedo-climatiche ne favoriscono l’espansione. In questo lavoro sono presentati i risultati dell’analisi palinologica di campioni di suoli superficiali provenienti da cinque uliveti ubicati nella Basilicata orientale, territorio di bassa collina a forte vocazione olivicola (Fig. 1). Lo studio della pioggia pollinica deposta a terra permette di osser- vare la sua composizione media (si ritiene possa rappresentare il dato medio di circa cinque anni), ed è quindi un utile strumento per la conoscenza della qualità dell’aria a scala locale. L’analisi dei suoli di uliveti in quest’area può fornire dunque dati utili a quantificare la diffusione del polline di olivo in questo territorio. 178 A. Florenzano, S. Benassi, A. M. Mercuri

Fig. 1 – Ulveti in Basilicata: a) ubicazione sul territorio regionale in relazione all’altimetria (da Caliandro & Stelluti, 2005, modificata); b) uliveto; c) paesaggio della Valle del Bradano nel Materano Fig. 1 – Olive groves in Basilicata: a) location with altimetric values in the region (modified after Caliandro & Stelluti, 2005); b) olive grove; c) landscape of the Bradano Valley, province of Matera

2. Materiali e Metodi

Area di studio La Valle del Bradano, nel materano, è caratterizzata da un sistema collina- re che degrada da basse colline di Matera verso il Mar Ionio. La piana meta- pontina è la sola area pianeggiante nella regione e si affaccia sul mare. La flora e la vegetazione di questa area non sono ancora completamente studiate (Scoppola & Blasi, 2005; Iamonico, 2006; Nava et al., 2007). I ver- santi collinari affetti da erosione calanchiva sono coperti da arbusteti mediter- ranei associati a coperture erbacee. Nei settori meno colpiti da erosione, cre- scono preferenzialmente la macchia mediterranea, lembi di querceti e associa- zioni a sclerofille (Corbetta, 1974; Fascetti, 1996). Pinus halepensis Mill. è distribuito sui versanti assolati. Solo in alcuni punti di fascia costiera soprav- vive la vegetazione di duna. Nella media-bassa collina, si trovano diffusi campi di cereali, vigneti e uli- veti. La piana è fortemente antropizzata, interessata da agricoltura intensiva Pioggia pollinica e qualità dell’aria: polline di Olea negli uliveti... 179 che include soprattutto colture di frutta e ortaggi, con agrumeti, vigneti e uli- veti (De Capua et al., 2005).

Ricerca palinologica Campionamento – Nell’aprile 2010, lungo un transetto sud-est/nord-ovest, è stato eseguito il campionamento del suolo superficiale da 5 uliveti (A-E; Fig. 2a). Ogni uliveto è stato scelto in modo da essere, per quanto possibile, a distanza da altri impianti. Gli uliveti erano caratterizzati da estensioni diverse (Tab. 1), e costituiti da esemplari coevi tra loro ma di età diverse (i più giova- ni nel C, e più vecchi nel D). Per ogni uliveto, il campionamento ha previsto 2 prelievi centrali (IN), e 4 periferici (OUT) a distanza di 500 m e a distanza di 1000 m dal centro, rispet- tivamente in direzione nord e in direzione ovest (Fig. 2b). A causa della parti- colare situazione geomorfologica, il campionamento dell’uliveto C è stato ese- guito a distanze circa dimezzate (270 m e 500 m; Tab. 1).

Fig. 2 – a) Localizzazione geografica dei cinque uliveti studiati nella Valle del Bradano; b) modello di campionamento degli uliveti Fig. 2 – a) Location of the five studied olive groves in the Bradano Valley; b) olive grove sam- pling model 180 A. Florenzano, S. Benassi, A. M. Mercuri

Tab. 1 – Elenco dei campioni pollinici analizzati. L’estensione degli uliveti è calcolata sulle 2 dimensioni massime (a e b). IN = campioni centrali; OUT = campioni periferici Tab. 1 – List of the pollen samples. The size of the olive groves is calculated on the maximum lengths (a and b). IN = central samples; OUT = peripheral samples

Sono stati prelevati in totale 30 campioni, per lo più raccolti “per taglio”, ovvero asportando una zolla di suolo superficiale dello spessore di ca. 2 cm in corrispondenza di un punto del terreno non coperto dal manto erboso (Tab. 1). Inoltre, nel caso del campionamento al centro di ogni uliveto, uno dei due campioni è stato prelevato secondo la modalità di prelievo ‘per pizzichi’ (ad es. usata in criminopalinologia; Bryant & Jones, 2006; Horrocks et al., 1998). Pioggia pollinica e qualità dell’aria: polline di Olea negli uliveti... 181

Si tratta di piccoli prelievi di terreno in più punti, distribuiti su un’area di ca. 1 m, mescolati in un unico sacchetto. Mentre con il prelievo “per taglio” il campione rappresenta la pioggia pollinica deposta nel punto campionato, nel prelievo “per pizzichi” il materiale prelevato è relativo alla deposizione polli- nica media sulla superficie complessiva di campionamento. I campioni sono stati prelevati subito prima o all’inizio della fioritura sta- gionale di olivo (inizio aprile). Al momento del prelievo, il terreno degli uli- veti A-D non era stato ancora lavorato dall’anno precedente, mentre quello dell’uliveto E aveva subito l’aratura.

Estrazione pollinica – In laboratorio i 30 campioni sono stati sottoposti a estrazione del polline. Una quantità variabile tra 2 g e 5 g di peso umido per campione è stata trattata secondo il metodo di estrazione / concentrazione in uso nel laboratorio di Modena (Florenzano et al., 2012). Spore di Lycopodium sono state aggiunte per il calcolo della concentrazione pollinica (espressa in granuli pollinici per grammo = p/g). Il metodo prevede deflocculazione con Na-pirofosfato 10%, setacciatura con filtro di nylon a maglie di 7 µm, disso- luzione dei carbonati con HCl 10%, acetolisi (Erdtman, 1960) per eliminare parte della sostanza organica, arricchimento con liquido pesante (Na-meta- tungstato idrato) per concentrare il polline per galleggiamento, dissoluzione dei silicati con HF 40%. I residui sono stati in parte utilizzati per allestire vetri- ni fissi in gelatina glicerinata, lutati con paraffina.

Analisi microscopica – L’identificazione pollinica è stata condotta a 400x con microscopio ottico e ha riguardato esclusivamente Olea e Pinus, e il con- teggio di tutti i granuli trovati. Il polline di Olea è stato osservato in prevalen- za ben conservato, singolo o in piccoli gruppi, e i suoi caratteri tipici sono risultati ben riconoscibili (granuli trizonocolpati / colporati con sculturazione esinica reticolata, e diametro di ca. 20 µm; Fig. 3). Pur incontrando in preva- lenza granuli integri, nel caso di frammenti, essi sono stati sommati a formare l’unità. In ogni campione, sono stati contati in media ca. 500 granuli. 182 A. Florenzano, S. Benassi, A. M. Mercuri

Fig. 3 – Polline di Olea in visione polare (a-b; diam. max. 22 µm); gruppo di granuli pollinici di Olea (c) Fig. 3 – Olea pollen in polar view (a-b; max. diam. 22 µm); Olea pollen clump (c)

Dati aerobiologici – Per l’area sono disponibili dati aerobiologici del bien- nio 2005-2006 registrati dalla stazione di monitoraggio dell’ARPAB di Matera (referente: M. Corona), catturati con spore-trap di tipo Hirst e trattati secondo le metodologie aerobiologiche classiche.

3. Risultati

In tutti i campioni si registrano concentrazioni polliniche decisamente buone (Tab. 2), comprese tra min. 10,5 x 103 p/g (uliveto D – 500 m ovest) e max. 89 x 103 p/g (uliveto B – 1000 m ovest). In media, i valori sono abba- stanza costanti: i campioni IN presentano concentrazione di 38 x 103 p/g e quelli OUT di 41 x 103 p/g.

Tab. 2 – Concentrazioni e percentuali medie di Olea negli uliveti analizzati Tab. 2 – Mean concentrations and percentages of Olea from analyzed olive groves

I campioni IN negli uliveti hanno percentuali significative di polline di Olea (29%; min.: 8% - uliveto E; max.: 58% - uliveto A; Figg. 4, 5, 6). Gli uliveti A e D mostrano i valori più alti, che si attestano sul 58-51%, Pioggia pollinica e qualità dell’aria: polline di Olea negli uliveti... 183 rispettivamente mentre negli altri tre sono state osservate percentuali assai minori, sempre < 25%. Tali valori, però, si portano a ca. 30-40% se il polline di Pinus è escluso dalle conte. La presenza di Olea decresce fortemente a 500 m (4%) dal centro dell’uli- veto, e spesso resta uguale a 1000 m di distanza. In alcuni casi (uliveti B ed E), le percentuali di Olea crescono nei campioni a 1000 m, risentendo della pioggia pollinica di altre piante di ulivo / uliveti presenti nella zona.

4. Discussione

La rappresentatività del polline di Olea negli uliveti studiati è sempre signi- ficativa, anche se i primi dati mostrano una notevole variabilità nella percen- tuale osservata. Molte variabili influenzano, infatti, questi valori: estensione dell’uliveto, età degli esemplari nell’impianto, stadio al quale si trova il perio- do di fioritura (pollinazione), abbondanza di polline da taxa sovrarappresenta- ti negli spettri (Pinus), presenza di pratiche agricole (lavorazione del terreno), distribuzione di altri uliveti o singoli olivi nelle aree circostanti. Di seguito, sono illustrati i principali risultati emersi dai cinque uliveti, secondo la loro posizione lungo il transetto di campionamento (Fig. 2a).

Uliveto A (Olea 24%, in media; Fig. 4a) – La percentuale di Olea nel cen- tro dell’uliveto (58%, media dei due prelievi IN) supera quella degli altri taxa negli spettri pollinici (42%). In questo uliveto si registra la percentuale più alta di Olea. Ciò potrebbe essere almeno in parte dovuto alla ampia estensione dell’impianto, la seconda tra i campionamenti effettuati (Tab. 1). A 500 m di distanza, Olea si riduce notevolmente, passando a 5% in direzione ovest e a 10% in direzione nord. A 1000 m, il campione in direzione nord mostra un’ulteriore diminuzione (Olea 4%), mentre quello a ovest non ha variazioni significative del valore percen- tuale (Olea 5%). Non si assiste, pertanto, a un calo della presenza di polline di olivo con l’allontanarsi dall’uliveto verso ovest. Questo potrebbe essere impu- tabile alla vicinanza di un altro uliveto che ha influenzato con la sua pioggia pollinica la rappresentatività di Olea negli spettri OUT a 1000 m. 184 A. Florenzano, S. Benassi, A. M. Mercuri

Fig. 4 – Risultati delle analisi polliniche dei suoli superficiali – a) uliveto A; b) uliveto B Fig. 4 – Pollen analysis results from surface soil samples – a) olive grove A; b) olive grove B Pioggia pollinica e qualità dell’aria: polline di Olea negli uliveti... 185

Fig. 5 – Risultati delle analisi polliniche dei suoli superficiali: a) uliveto C; b) uliveto E Fig. 5 – Results of pollen analysis from surface soil samples: a) olive grove C; b) olive grove E 186 A. Florenzano, S. Benassi, A. M. Mercuri

Fig. 6 – Risultati delle analisi polliniche dei suoli superficiali: uliveto D Fig. 6 – Results of pollen analysis from surface soil samples: olive grove D

Uliveto B (Olea 6%, in media; Fig. 4b) – Al centro dell’uliveto Olea ha un valore relativamente basso (11%). Spostandosi alla distanza di 500 m, si regi- stra un forte calo in entrambe le direzioni (Olea 2%). A 1000 m, si osserva una sensibile differenza tra il campione OUT ovest (costante a 1%) e quello OUT nord (12%). Quest’ultimo dato suggerisce che il campione raccolto a 1000 m nord sia influenzato da un forte apporto di polline di olivo da altri uliveti o, considerando la vicinanza di macchia mediterranea all’area del campiona- mento, dalla presenza di esemplari di olivo in prossimità. Proprio la vegetazione circostante, inoltre, che include pinete con preva- lenza di pino d’Aleppo sui rilievi, a nord e a ovest del sito, è probabilmente responsabile dei bassi valori di Olea registrati. È noto, infatti, che il polline di Pinus è sovrarappresentato e di conseguenza maschera le percentuali di taxa pollinici normalmente rappresentati. In questo caso, esso ha dunque abbassa- to notevolmente la rappresentatività del polline di Olea. Se quest’ultimo è con- teggiato eliminando Pinus dalle conte si ha infatti una presenza di Olea mag- giore nei campioni IN (ca. 40%). Pioggia pollinica e qualità dell’aria: polline di Olea negli uliveti... 187

Uliveto C (Olea 9%, in media; Fig. 5a) – Olea al centro dell’uliveto ha valo- ri relativamente bassi (19%). La modesta estensione e il suo recente impianto potrebbero aver condizionato i bassi valori osservati in questo uliveto. Poiché i punti di prelievo sono più vicini al centro (vedi sopra), le percentuali osservate in queste aree periferiche sono, come atteso, più elevate: 6% a 270 m (5% - nord; 7% - ovest). Alla distanza di 500 m, Olea decresce a 2% a nord, e 4% a ovest, valori comparabili a quelli osservati alla stessa distanza negli altri uliveti. Il pro- gressivo calo dell’olivo nei campioni presi a distanze crescenti conferma scarso o nullo apporto pollinico a 500 m da uliveti limitrofi. Come nel caso dell’uliveto B, inoltre, l’apporto di polline di pino è signifi- cativo e maschera la presenza di olivo (Olea 18%, media di tutti i campioni su somma pollinica che esclude Pinus).

Uliveto E (Olea 5%, in media; Fig. 5b) – Gli spettri pollinici IN presenta- no Olea 8%, il minimo riscontrato nei 5 uliveti. Nonostante la possibile influenza di scarse quantità di polline di pino, in questo caso la bassa presen- za di Olea può essere meglio spiegata da pratiche di aratura che, al momento del prelievo, erano state da poco attuate in questo uliveto. Evidentemente tali pratiche hanno comportato un sollevamento / rivoltamento delle zolle, con abbassamento percentuale di Olea, pur nell’aumento complessivo della con- centrazione pollinica totale (Tab. 2). A 500 m, Olea si riduce a 2%; a 1000 m, solo il suolo superficiale preso a nord continua ad avere un decremento di olivo (1%), mentre quello prelevato a ovest mostra un sensibile incremento (7%). Anche in questo caso è possibile ipotizzare che il campione abbia risentito della vicinanza di altri olivi / uliveti.

Uliveto D (Olea 19%, in media; Fig. 6) – È il più esteso tra quelli campionati (Tab. 1) e, come nel caso dell’uliveto A, la percentuale IN di Olea (51%) supe- ra la somma degli altri taxa negli spettri pollinici (49%). Nei campioni OUT raccolti in direzione ovest, le percentuali di olivo decre- scono progressivamente a 6% (500 m) e 3% (1000 m). In direzione nord, inve- ce, dopo una forte riduzione al 3% (500 m), il valore rimane costante (1000 m).

5. Conclusioni

In generale, il modello di deposizione pollinica che è possibile ricostruire con i dati emersi dallo studio dei 5 uliveti esaminati indica una riduzione pro- gressiva del polline di Olea a distanze crescenti dalla sorgente pollinica. 188 A. Florenzano, S. Benassi, A. M. Mercuri

Negli uliveti più estesi (A, D), Olea raggiunge i valori più alti, attorno al 55%, al centro dell’uliveto. Il calo di questo polline è assai elevato già nei primi 500 m, dove si attesta attorno al 5% con una stima di abbattimento di ca. 87% (A) e 92% (D). Negli altri uliveti, meno estesi, i valori al centro e in periferia sono in gene- rale più bassi, ma diverse variabili entrano in gioco nell’influenzare le percen- tuali di Olea. Tra queste soprattutto la vicinanza di altri uliveti, che può innal- zare i valori di campioni OUT più distanti, e la presenza di pini nelle stesse aree (uliveti B e C). Infine, pratiche di aratura modificano sensibilmente gli spettri, e nel nostro caso (uliveto E) hanno di molto ridotto la presenza di pol- line di olivo a terra. Eventuali incrementi dei valori di olivo negli spettri registrati alla massima distanza dall’uliveto sono imputabili all’apporto della pioggia pollinica da altre piante di ulivo o uliveti presenti nell’area circostante. In un territorio così fortemente interessato dall’olivicoltura è dunque pressoché impossibile trova- re delle aree in cui non ci sia polline di Olea, che si conferma una delle prin- cipali specie aerodiffuse in quest’area della Basilicata. I dati aerobiologici della stazione di Matera documentano una presenza di polline di olivo in aria concentrata nei mesi maggio-giugno, con picchi di 261 pollini/m3 d’aria (19 maggio 2005), e 347 pollini/m3 d’aria (22 maggio 2006). Si tratta di valori elevati che arrivano a costituire mediamente 7-11% della pioggia pollinica annuale. Queste percentuali sono abbastanza simili al valore ottenuto dalla media di tutti i campioni esaminati in questo studio. Infatti, combinando tutti i dati IN e OUT, la rappresentatività di Olea nella pioggia pollinica a terra dell’area di studio è in media 13%. Come atteso, inoltre, la pioggia a terra, raccolta in stretta prossimità delle sorgenti pollinifere, è più alta di quella diffusa in aria, confermando un maggiore fattore di rischio per queste pollinosi al centro degli uliveti e, nonostante il drastico calo della quan- tità di questo polline già a 500 m, anche attorno ad essi.

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Atti Soc. Nat. Mat. Modena 142 (2011)

Maria Chiara Montecchi*, Eleonora Rattighieri*, Gianluca Pellacaniº, Andrea Cardarelliª, Anna Maria Mercuri* Inferenze archeoambientali dalle sequenze pollini- che della Terramara di Baggiovara – Modena (XVII-XVI sec. a.C.) Riassunto Il lavoro presenta i primi dati ottenuti da analisi palinologiche effettuate nel sito della Terramara di Baggiovara presso Modena. L’analisi palinologica è stata finalizzata alla ricostruzione del paesag- gio vegetale precedente, coevo e successivo alle fasi di vita dell’abitato e ha permesso di ottenere pri- me indicazioni sull’attività produttiva al suo interno. In particolare, emerge un paesaggio decisa- mente aperto con copertura forestale confinata lontano dall’abitato. Gli spettri pollinici sono carat- terizzati da una forte presenza di indicatori di pascolo, cereali e altre specie sinantropiche. Ne emer- ge, dunque, un paesaggio culturale con caratteri di antropizzazione che erano già evidenti in Pianu- ra Padana durante il bronzo medio.

Abstract The study reports data obtained by the palynological analyses of samples taken from the Terramara of Baggiovara (17th-16th century BCE), located in the municipality of Modena (northern Italy). Pollen allows the plant landscape that existed before, during and after the terramara to be reconstructed. Data suggest that the economy of the site was mainly based on animal breeding rather than on crop cultivation. In particular, the landscape was open and the forest cover was low. Pollen spectra show a strong presence of pastoral indicators, cerealia and other synanthropic indicators. They are impor- tant characters of anthropization of these lands testifying how a cultural landscape had already deve- loped in the Middle Bronze age in the Po Plain.

Parole chiave: Polline, paesaggio culturale, terramare, età del bronzo, Baggiovara

Key words: Pollen, cultural landscape, Terramara, Bronze Age, Baggiovara, Italy

* Laboratorio di Palinologia e Paleobotanica, Dipartimento di Biologia, Università di Modena e Reggio Emilia, www.palinopaleobot.unimore.it º Museo Civico Archeologico Etnologico di Modena. ª Dipartimento di Scienze dell’Antichità, Sapienza Università di Roma. 192 M.C. Montecchi, E. Rattighieri, G. Pellacani, A. Cardarelli, A. M. Mercuri

1. Introduzione

In anni recenti, la costruzione delle opere di urbanizzazione relative al Nuovo Ospedale di Modena ha portato alla luce un’area archeologica di cui si aveva notizia già dal 1996 (Cattani & Labate, 1997; Cardarelli, 2009), con strutture databili dall’età del bronzo fino al periodo romano. Per quanto riguar- da il periodo più antico, la Terramara di Baggiovara – Stradello Opera Pia Bianchi (34 m s.l.m.; 44°36’26”N, 10°52’18”E) si inserisce nel sistema socio- economico terramaricolo già nel bronzo medio. In particolare, l’attribuzione cronologica pone questo insediamento già nelle Fasi 1 e 2 della media età del bronzo, ovvero fra 1650 e 1500 a.C. Le terramare erano villaggi fortificati con palizzate lignee costruiti vicino a corsi d’acqua, circondati da un fossato e un argine e costituiti da case ordi- nate ortogonalmente. Esse rappresentano un sistema insediativo capillare e un importante fenomeno demografico, economico e sociale della Pianura Padana nell’età del bronzo (Bernabò Brea et al., 1997; Cardarelli, 2010). Lo studio archeobotanico integrato ha già permesso di ricostruire il paesaggio vegetale, già paesaggio culturale, in alcune terramare (cfr. Mercuri et al., 2006, e relati- va bibliografia). L’archeopalinologia, attraverso lo studio del polline da contesti archeologi- ci, permette di ricostruire il paesaggio culturale e l‘impatto antropico (Faegri & Iversen, 1989; Mercuri et al., 2010b; Sadori et al., 2010) e fornisce infor- mazioni sia sulla flora e vegetazione naturale sia sull’economia e le attività delle culture antiche (Mercuri, 2008). Inoltre, lo studio di campioni raccolti in sequenze stratigrafiche permette di studiare sia le fasi di trasformazione di un ambiente naturale in culturale, sia le fasi di evoluzione e cambiamento del pae- saggio culturale. Lo studio dei macroresti (semi, frutti, carboni) aggiunge, poi, informazioni sulle risorse vegetali disponibili nel territorio e su eventuali cam- biamenti culturali legati al loro uso (Bandini Mazzanti & Taroni, 1988a, 1988b; Forlani, 1988; Montecchi et al. in stampa). Polline, microcarboni e altri palinomorfi non pollinici studiati nei siti archeologici sono uno strumen- to indispensabile per seguire la successione diacronica degli eventi e per stu- diare la nascita e l‘evoluzione del paesaggio culturale (Mercuri et al., 2012). Questo lavoro presenta le analisi polliniche delle prime serie della Terramara di Baggiovara, studiate con lo scopo di porre in evidenza i tratti del paesaggio vegetale con particolare riguardo agli aspetti modellati nel territorio dalle attività antropiche. Lo studio del polline conservato in questi strati archeologici è volto a ottenere una ricostruzione del paesaggio vegetale e del- l’economia del sito. Inferenze archeoambientali dalle sequenze polliniche della Terramara... 193

2. Materiali e Metodi

L’area archeologica è stata interessata da scavi effettuati a partire dal 2005. Le indagini sono state dirette dalla Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Emilia Romagna nel 2005, 2009 e 2011. Nel 2009 lo scavo è stato ese- guito sotto la direzione di A. Cardarelli e G. Steffé, mentre nel 2011, a segui- to di concessione di scavo, è stato effettuato dal Museo Civico Archeologico Etnologico di Modena sotto la direzione scientifica di Cardarelli e con il coor- dinamento scientifico di G. Pellacani e C. Iaia. La datazione della Terramara di Baggiovara – in Stradello Opera Pia Bianchi – si colloca, come detto, tra ca. 1650 e ca. 1500 a.C. ed è stata otte- nuta in base ai materiali archeologici finora rinvenuti e a date 14C. In partico- lare due date ricavate da ossa animali sono relative alle serie polliniche: 1) serie 1: US 7B, strato di scarico, LTL5167A: 3300±45 BP, 1630-1510 BC (68,2%), 1690-1450 BC (95,4%); 2) serie 2: US 55, strato di abitato; LTL5166A: 3299±45 BP, 1630-1510 BC (68,2%), 1690-1450 BC (95,4%).

Fig. 1 – Ubicazione della Terramara di Baggiovara (Stradello Opera Pia Bianchi), con indi- cazione delle sei serie campionate 194 M.C. Montecchi, E. Rattighieri, G. Pellacani, A. Cardarelli, A. M. Mercuri

Sono state campionate sei serie polliniche in tre diversi punti dell’area archeologica (Fig. 1), secondo un modello messo a punto per il campiona- mento eseguito nella Terramara di Montale: - serie 1 → in-sito, è localizzata nell’angolo nord-ovest dello scavo, parte dal suolo sterile precedente l’abitato (US 50) e arriva fino allo strato di abbandono del villaggio (US 4); - serie 2 → in-sito, è localizzata lungo la sezione est dello scavo, parte dal suolo sterile precedente l’abitato (US 50) e arriva fino allo strato di abbandono del villaggio (US 4), documentando in modo più specifico la stratigrafia della terramara. Sono state distinte 4 fasi, di cui la prima cor- risponde allo strato sterile precedente l’età del bronzo e le successive tre si riferiscono al periodo di vita dell’abitato; - serie 6-7 → in-sito (costituita da due serie vicine e consecutive, delle quali la 6 comprende gli strati più profondi). Comprende tre alluvioni precedenti l’età del bronzo (UUSS 114, 113 e 112); livelli dell’età del bronzo (UUSS 110, 109, 108, 107, 106 e 105), interrotti da un’alluvione (US 104), e un ulteriore livello antropico del bronzo (US 103); seguono a chiudere la serie due alluvioni, una posteriore al bronzo (US 102) e una posteriore all’età romana (US 101); - serie 8 → sponda ovest del fossato della terramara, va da fasi precedenti l’età del bronzo al periodo romano; - serie 9 → all’esterno del villaggio, va anch’essa da fasi precedenti l’età del bronzo al periodo romano. Le analisi preliminari delle serie 8 e 9 sono state eseguite nel corso di una tesi triennale in palinologia svolta presso il Laboratorio di Palinologia e Paleobotanica (Malavasi, 2011). Dopo un primo resoconto preliminare (Florenzano et al. in stampa), questo articolo presenta invece i risultati palino- logici ottenuti dalle analisi delle serie 2 e 6-7. Le serie qui studiate comprendono complessivamente 21 campioni. Essi sono stati sottoposti al trattamento di estrazione e concentrazione di palinomorfi in uso presso il laboratorio sopracitato (Florenzano et al., 2012a). La concentra- zione pollinica è stata calcolata per conteggio di spore di Lycopodium ed è espressa in polline per grammo (p/g). Per l’identificazione dei granuli pollinici si è fatto riferimento alla Palinoteca del laboratorio e ad atlanti e chiavi (Moore et al., 1991; Punt 1976, e seguenti; Reille, 1992, 1995, 1999). La terminologia pollinica segue Berglund (1986), mentre quella botanica segue APG III (Angiosperm Phylogeny Group – www.mobot.org/mobot/research/apweb). Il nome della famiglia Chenopodiaceae (nom. cons., APW) è preferito a quello di Amaranthaceae. Inferenze archeoambientali dalle sequenze polliniche della Terramara... 195

3. Risultati e discussione

In totale 20 campioni sono risultati polliniferi e, in media, sono stati con- tati 300 granuli di polline per campione. Solo il campione basale della serie 6-7 è risultato sterile. Lo stato di conservazione del materiale non è risultato buono, tranne rari casi, ma nel complesso ha permesso di ottenere spettri pollinici attendibili. Sono stati osservati granuli con esina piegata, rotta o assottigliata, verosimil- mente a causa di disturbi post-deposizionali. Sono stati osservati anche gra- nuli di deposizione secondaria e alcuni molto antichi, spesso presenti nei depositi della Pianura Padana e tipicamente riconducibili ad apporti alluvio- nali (Mercuri et al., 2012).

Fig. 2 – Diagramma pollinico percentuale della serie 2 (elaborato con Tilia TGView – Grimm, 1991) - taxa e categorie scelte

La concentrazione pollinica ha valori molto variabili fra i campioni, con una media di 8054 p/g nella serie 2 (Fig. 2) e una media più che raddoppiata a 17436 p/g nella serie 6-7 (Fig. 3). Sono stati identificati in media 40 (serie 2) e 47 (serie 6-7) taxa per cam- pione, con maggiore ricchezza floristica per le piante erbacee, sempre più numerose in tutti gli spettri pollinici. 196 M.C. Montecchi, E. Rattighieri, G. Pellacani, A. Cardarelli, A. M. Mercuri

Fig. 3 - Diagramma pollinico percentuale della serie 6-7 (elaborato con Tilia TGView – Grimm, 1991) - taxa e categorie scelte

La copertura forestale è molto bassa, testimoniando una situazione locale assai aperta e con scarsa/assente presenza di piante legnose in vicinanza e nei dintorni del sito. La percentuale di alberi/arbusti presenta, però, una interes- sante differenza nelle serie: a) nella serie 2 è in media 12% (e mantiene lo stes- so valore anche se si considerano solo i campioni attribuibili al bronzo); b) nella serie 6-7, tale valore è oltre il doppio, cioè 28% (26% nei campioni del bronzo). La rilevante differenza tra le serie durante l’età del bronzo potrebbe rispecchiare una maggiore esposizione alla pioggia pollinica dell’area per la serie 6-7 rispetto alla 2. La percentuale di specie arboree ha andamento alterno, ma tendenzialmen- te cala con l’insediarsi del villaggio, per poi risalire leggermente dopo il suo abbandono, prima di calare nuovamente (Fig. 3). In particolare, la serie 6-7 mostra che il calo delle legnose al momento dell’insediamento della terrama- ra è dovuto soprattutto alle conifere (pini-Pinus e abeti-Abies, appartenenti a fasce vegetazionali più elevate) e ad alcuni alberi del querceto misto planizia- le come il carpino-Carpinus betulus, querce-Quercus e tigli-Tilia. Nella serie 2, però, più dettagliata sul breve periodo rispetto alle serie 6-7, si nota che querce e tigli, e forse anche carpini, tendono ad aumentare di nuovo durante la fase di insediamento del bronzo medio. Inferenze archeoambientali dalle sequenze polliniche della Terramara... 197

Per quanto riguarda le piante legate ad ambienti umidi, in media 9% (serie 2) e 12% (serie 6 -7), esse sono rappresentate sia da piante legnose come onta- ni-Alnus e salici-Salix, sia da piante erbacee tra cui Ciperacee, che possono vivere sulle sponde, sia da vere acquatiche quali sagittaria-Sagittaria e ninfea- Nymphaea. La presenza di cereali (avena/grano-Avena/Triticum gruppo, orzo-Hordeum gruppo, segale-Secale e altri cereali indifferenziati) è significativa – in media 1,2% e 1,6%, rispettivamente, nelle serie 2 e 6-7. Essa può essere considerata buona indicatrice di presenza di campi nelle aree limitrofe. È interessante che i cereali presentino una percentuale più alta durante le fasi di frequentazione della terramara. Infatti, mentre si registrano in media 1,4%-serie 2 e 1,7%- serie 6-7 nei campioni del bronzo (max 3% in un campione della Fase 3 della serie 2), i valori negli altri campioni sono 0,5%-serie 2 e 1,4%-serie 6/7. Si noti, comunque, che le attestazioni di cereali sono presenti sia prima dell’im- pianto del sito, sia dopo il suo abbandono, in entrambe le serie e ciò suggeri- sce che i campi di cereali siano stati una presenza costante in questo luogo, da tempi precedenti a successivi la terramara. Le specie con frutti eduli (nocciolo-Corylus, castagno-Castanea sativa, pruni-Prunus, corniolo-Cornus mas, querce-Quercus, noce-Juglans, fico- Ficus, cappero-Capparis, olivo-Olea) sono in media 5% (serie 2) e 8% (serie 6-7). Esse rappresentano la disponibilità di risorse alimentari da raccolta sullo spontaneo, offerte dai frutti eduli di piante legnose. Gli spettri pollinici sono però caratterizzati dalle Cichorieae, che risultano dominanti: oltre quadruple nella serie 2 (47%) rispetto alla serie 6-7 (17%). Si tratta di polline considerato indicatore di pascolo e pratiche di allevamento (Behre, 1986; Florenzano et al., 2012b). Esso rappresenta in generale gli ambienti xerici che si diffondono a seguito della presenza umana continua in un ambiente (Mercuri et al., 2010a, 2012). Quindi, alternate ai campi, ampie aree del territorio circostante dovevano essere destinate a pascolo, o lasciate incolte e libere alla frequentazione di erbivori durante fasi di riposo dei campi, o destinate a seminativi (ma questa ipotesi non sembrerebbe la più probabile perché le evidenze di foraggere sono scarse nei campioni studiati). Infine, il quadro ambientale è completato dalle specie sinantropiche. Si tratta di taxa pollinici che si diffondono spontaneamente al seguito dell’uomo e che testimoniano la sua presenza e le sue attività (Faegri et al., 1989). In que- sto sito esse si attestano su una media di circa 10%, un valore assai indicativo di ambienti ruderali (Chenopodiacee), ricchi di sostanza organica (ortiche quali ortica comune-Urtica dioica tipo e ortica a campanelli-Urtica cf. piluli- fera), soggetti a calpestio e a circolazione di animali (piantaggini-Plantago, 198 M.C. Montecchi, E. Rattighieri, G. Pellacani, A. Cardarelli, A. M. Mercuri cardo-Carduus), di aree incolte e luoghi antropizzati in genere (fiordaliso scuro-Centaurea nigra tipo, papavero comune-Papaver rhoeas tipo, canapa- Cannabis sativa, vilucchio-Convolvulus, assenzio-Artemisia; Behre, 1986).

4. Conclusioni

Nei campioni pollinici qui esaminati ricorrono alcuni caratteri distintivi che permettono di trarre da un lato conclusioni archeoambientali sulla Terramara di Baggiovara, dall’altro alcune inferenze sui tratti principali del paesaggio culturale di questa regione nell’età del bronzo medio. Innanzitutto, la somiglianza degli spettri pollinici di strati che precedono la terramara con quelli di vita dell’abitato, spettri che ad esempio includono sempre i cereali, suggerisce che la terramara fu impiantata in un territorio già trasformato dall’uomo, con bassa copertura forestale e presenza di aree umide, costituite da acquitrini e boschi igrofili, in parte poi anche legati alla presenza del fossato che circondava il villaggio. Durante le fasi di vita del sito, l’ambiente circostante era caratterizzato da impianti agricoli che mantenevano a distanza boschi e habitat naturali, mentre attorno all’insediamento dovevano essere assai estesi prati-pascoli aridi alter- nati, e forse anche rotati, a campi di cereali. Il quadro è in sintonia con quello emerso dagli studi pollinici della terramara di Montale (Mercuri et al., 2006). Lo studio delle altre sequenze della terramara di Baggiovara permetterà di det- tagliare meglio questo quadro, e l’integrazione con i dati archeologici e geo- morfologici consentirà la ricostruzione della evoluzione nel tempo e delle peculiarità locali di questo paesaggio. Inferenze archeoambientali dalle sequenze polliniche della Terramara... 199

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Alessandra Benatti1, Giovanna Bosi1, Rossella Rinaldi1, Donato Labate2, Francesco Benassi3, Claudio Santini4, Marta Bandini Mazzanti1

Testimonianze archeocarpologiche dallo spazio verde del Palazzo Vescovile di Modena (XII secolo) e confronto con la flora modenese attuale

Riassunto Lo scavo archeologico nel Palazzo Vescovile di Modena ha portato alla luce un canale risalente al XII sec. d.C. riempito con materiale vegetale. I semi e i frutti, conservati prevalentemente per som- mersione e in buon stato di conservazione, sono oltre 50.000 e la lista floristica include 156 taxa. Le analisi archeobotaniche mostrano che il canale si è riempito in parte naturalmente e in parte antro- picamente, ma fu usato raramente per scarico di immondizia e rifiuti di latrina. Probabilmente il canale, ricco di piante di ambienti umidi, era prossimo ad un giardino e ad un piccolo frutteto con frutti, verdure, piante aromatiche /medicinali, piante ruderali e piante ornamentali. La revisione del- la Flora della Provincia di Modena ha permesso di confrontare il passato col presente; molti taxa trovati nella documentazione archeobotanica sono oggi rari, scomparsi, o hanno trovato rifugio nel- le colline dell’Emilia-Romagna. Abstract The archaeological excavations at the Bishop’s Palace of Modena (Italy) brought to light a canal dating from the 12th century AD, filled with plant material. Seeds and fruits, above all waterlogged and in a good state of preservation, are more than 50,000 and the floristic list includes 156 taxa. Archaeobotanical analyses show that the canal was filled up partly naturally, partly with man’s refu- se, but it was rarely used as a dumping site or sewage. This canal, rich of ground wet plants, was probably next to a kitchen garden and a little orchard with fruits, vegetables, aromatic, medicinal and ornamental plants. The revision of the Flora of the Province of Modena allows past and present plants to be compared. Many taxa found in the archaeobotanical record are today rare or disappea- red. Some of them have taken cover in the hills of Emilia-Romagna.

Parole chiave: Modena, Vescovado, Medioevo, Carpologia, Flora

Key words: Modena, Bishop’s Palace, Middle Ages, Carpology, Flora

1 Laboratorio di Palinologia e Paleobotanica, Orto Botanico, Università di Modena e Reggio Emilia. 2 Soprintendenza ai Beni Archeologici dell’Emilia-Romagna. 3 Ditta ArcheoModena. 4 Gruppo Flora del Modenese. 202 A. Benatti, G. Bosi, R. Rinaldi, D. Labate, F. Benassi, C. Santini, M. Bandini Mazzanti

1. Introduzione

Gli studi archeocarpologici si occupano sia dei reperti strettamente lega- ti al rapporto uomo-piante sia di quelli legati agli ambienti naturali o sub- naturali con i quali l’uomo è venuto a contatto (Bosi et al., 2011). Quest’ultimo aspetto può essere studiato in particolare quando il deposito del sito archeologico in esame presenta uno spiccato carattere di paleobio- cenosi, ovvero quando il contenuto in semi e frutti degli assemblaggi carpo- logici deriva in massima parte dall’ambiente naturale circostante il sito come “pioggia dei semi”. Le analisi archeocarpologiche possono così essere deter- minanti per le ricostruzioni archeoambientali e per lo studio della biodiver- sità vegetale del passato (Bosi et al., 2010). Questa prospettiva è molto importante per comprendere e tentare di salvaguardare la biodiversità attua- le, a rischio e fortemente compromessa. Le ricerche archeocarpologiche inoltre rappresentano un mezzo, forse l’unico, per riempire l’assenza d’informazioni floristiche fino al XVIII sec., quando si svilupparono le ricerche floristico-vegetazionali e le raccolte di erbario sul territorio (Wolters et al., 2005; Preston et al, 2004). Un ottimo esempio delle potenzialità informative di queste ricerche è offerto dall’analisi carpologica di un canale del Palazzo Vescovile di Modena (XII sec.) (Benatti, 2008/2009), analisi che ha interessato sia reper- ti legati all’uomo sia quelli testimoni dell’ambiente naturale del canale e cir- costante ad esso; questi ultimi reperti, grazie ad una recente revisione della Flora della Provincia di Modena (Alessandrini et al., 2010), hanno permes- so un confronto fra la flora della città medievale e quella attuale.

2. Contesto archeologico e storico del sito

Nel gennaio 2009, sotto la supervisione della Soprintendenza ai Beni Archeologici dell’Emilia-Romagna, è stata svolta un’indagine archeologica nel seminterrato del Palazzo Arcivescovile di Modena, situato nel pieno cen- tro storico della città a sud-ovest del Duomo (Figg. 1 e 2). Testimonianze archeocarpologiche dallo spazio verde... 203

Tav. 1 – Fig. 1: Palazzo del Vescovado a Modena oggi (foto A. Benatti); Fig. 2: Localizzazione del Vescovado (e) rispetto al Duomo (b) nel XIV sec. (particolare modificato da Guidoni & Zolla, 1999); Fig. 3: Stratigrafia della trincea di scavo nel vano B del seminterrato (foto F. Benassi) Plate 1 – Fig. 1: Bishop’s Palace today in Modena (photo by A. Benatti); Fig. 2: Location of the Bishop’s Palace (e) compared with the Duomo (b) in the 14th century (detail mod- ified from Guidoni & Zolla, 1999); Fig. 3: Stratigraphy from the excavation in room B of basement (photo by F. Benassi) 204 A. Benatti, G. Bosi, R. Rinaldi, D. Labate, F. Benassi, C. Santini, M. Bandini Mazzanti

Lo scavo ha permesso di individuare la stratigrafia del sottosuolo e ha messo completamente in luce le fondazioni murarie pertinenti all’età basso e alto-medie- vale. I campioni per le analisi botaniche sono stati prelevati da un’unica unità stra- tigrafica, US 17, che rappresenta l’ultimo livello rinvenuto in fase di scavo, uno strato nero, torboso a consistenza soffice, formato quasi esclusivamente da ele- menti vegetali riconducibili a canne palustri, rametti e cortecce formanti un intri- co di livelli orizzontali compressi (Fig. 3). Questo strato è stato interpretato come il risultato di una bonifica di un canale avvenuta con materiale vegetale ed è archeologicamente databile al XII secolo. Per quanto riguarda il Palazzo Vescovile, situato nei pressi della Cattedrale, i documenti parlano fin dal 796 (con il vescovo Gisone, 796-812) di una “domus S. Geminiani in Mutina”, che doveva indicare insieme la Cattedrale e la residen- za del vescovo, residenza che viene designata invece nel X sec. con “episcopium” (non sappiamo se quest’ultimo comprendesse anche la casa dei canonici). È sicu- ro che a partire dal vescovo Eriberto (1056-1095) si comincia a parlare di un vero e proprio palazzo del vescovo, addirittura di una camera del palazzo vescovile dove si tenevano i rogiti e di una torre del palazzo vescovile. Questo palazzo era all’interno del castrum cittadino, come si legge chiaramente da documenti del periodo del vescovo Dodone (1100-1134), probabilmente sul luogo dove si trova anche attualmente, a sud-ovest del Duomo. Nel 1878, durante l’abbattimento di un volto sottostante al primo piano del vescovado, nell’angolo nord-ovest, di fronte al sagrato della cattedrale, vi fu il rinvenimento di un ambone di epoca lon- gobarda, che fece ipotizzare una ricostruzione del palazzo arcivescovile in occa- sione del rifacimento del Duomo del 1106, con reimpiego di materiali della cat- tedrale precedente. Dal 1165 è documentata anche una “domus canonicorum”, casa dei canonici, distinta dal palazzo vescovile (Golinelli, 1990). Nel Medioevo Modena era provvista di un sistema di canalizzazioni che per- metteva, oltre alla raccolta delle acque ed alla bonifica dei terreni, anche le comu- nicazioni fluviali. La rete idrica modenese era soggetta ad un rigido regime di regolamentazione e manutenzione, ampiamente testimoniato e documentato negli Statuti delle Acque (Guidoni & Zolla, 2004). La città di Modena è quindi poggiata sopra molti canali, che nel Medioevo scorrevano per la maggior parte scoperti. Numerosi sono tuttora gli idronomi che sono rimasti a testimoniare l’e- sistenza di una fitta rete di canali urbani e corsi d’acqua che a cielo aperto attra- versavano tutta la città, come ad esempio corso Canalgrande, Canalchiaro, via Fonte d’Abisso ecc. Il canale della Modenella entrava in città sdoppiandosi in due rami, il Canalino ed il Canale d’Abisso (che scorreva al di sotto del palazzo arci- vescovile, Frison, 1990), i quali confluivano rispettivamente nel Canal Grande e nel Canal Chiaro (Guidoni & Zolla, 2004). Testimonianze archeocarpologiche dallo spazio verde... 205

3. Materiali e metodi

I reperti botanici studiati sono stati ottenuti tramite setacciatura in acqua (setacci con maglie di 10, 0,5 e 0,2 mm) di 60 litri di terreno provenienti dall’US 17. L’isolamento e l’identificazione dei reperti carpologici sono avve- nute allo stereomicroscopio con ingrandimenti fino a 80-100x, con l’ausilio di atlanti/chiavi carpologiche e della carpoteca di confronto. Per ogni taxon iden- tificato sono stati conteggiati tutti i reperti rinvenuti (Tab. 1). I reperti meglio conservati e più significativi sono stati fotografati riportando la dimensione maggiore; alcuni esempi sono riportati in Tav. 2 (Figg. 4-11), affiancando alla foto del reperto la foto della pianta attuale censita nella revisione della Flora del Modenese (Alessandrini et al., 2010).

ARCIVESCOVADO (Modena) US 17 (XII sec.) - reperti carpologici taxon nome comune tipo reperto n°/60 l Frutta (coltivata e spontanea) Castanea sativa Miller* castagno comune pericarpo 1 Cornus mas L. corniolo maschio endocarpo 1 Cornus sanguinea L. corniolo sanguinello endocarpo 1 Corylus avellana L. nocciolo comune noce 6 Ficus carica L. fico comune achenio 3851 Fragaria vesca L. fragola comune achenio 6 Juglans regia L. noce comune endocarpo 12 Mespilus germanica L. nespolo volgare pirene 11 Physalis alkekengi L. alchechengi comune seme 14 Prunoideae indeterminate \ endocarpo 2 Prunus avium L. ciliegio endocarpo 2 Prunus domestica L. subsp. insititia susino endocarpo 4 Prunus persica (L.) Batsch pesco endocarpo 1 Prunus spinosa L. pruno selvatico endocarpo 31 Pyrus communis L. pero comune seme 1 Quercus sp. quercia cicatrice 33 Rubus caesius L. rovo bluastro endocarpo 29 Rubus fruticosus s.l. rovo endocarpo 144 Rubus idaeus L. lampone endocarpo 12 vinacciolo 159 Vitis vinifera L. subsp. vinifera vite coltivata pedicelli 3 Cereali Hordeum vulgare L.* orzo cariosside 1 Panicum miliaceum L. panico coltivato cariosside 7 Sorghum bicolor (L.) Moench sorgo coltivato cariosside 4 Triticum aestivum/durum/turgidum* grano nudo cariosside 2 Triticum dicoccum Schubl* farro cariosside 1 Triticum monococcum L.* farro cariosside 2 Ortive s.l. Anethum graveolens L. aneto puzzolente mericarpo 13 Atriplex cf. hortensis L. atriplice degli orti achenio 5 Beta vulgaris L. bietola comune achenio 1 Brassica rapa L. subsp. rapa rapa seme 5 206 A. Benatti, G. Bosi, R. Rinaldi, D. Labate, F. Benassi, C. Santini, M. Bandini Mazzanti

Cichorium intybus L. cicoria comune achenio 473 Daucus carota L. carota selvatica mericarpo 6 Hyssopus officinalis L. issopo mericarpo 12 Petroselinum sativum Hoffm. prezzemolo comune mericarpo 7 Portulaca oleracea L. porcellana comune seme 2231 Sinapis alba L. senape bianca seme 1 Valerianella cf. locusta (L.) Laterrade gallinella comune nucola 1 Verbena officinalis L. verbena comune mericarpo 1658 Ornamentali Aquilegia vulgaris/atrata aquilegia comune/scura seme 348 Prunella vulgaris L. prunella comune mericarpo 437 Ruderali s.l. Agropyron repens (L.) Beauv. gramigna comune cariosside 2 Agrostemma githago L. gittaione comune seme 15 Ajuga chamaepitys (L.) Schreber iva artritica mericarpo 1 Amaranthus graecizans/lividus amaranto blito-minore/livido achenio 30 Ammi majus L. visnaga maggiore mericarpo 6 Anagallis arvensis L. centonchio dei campi seme 6 Anthemis cotula L. camomilla fetida achenio 12 Brassica rapa L. subsp. sylvestris rapa selvatica seme 1 Bromus secalinus L.* forasacco delle messi cariosside 1 Buglossoides arvensis (L.) Johnston erba-perla minore mericarpo 14 Chenopodium album L. farinello comune achenio 169 Chenopodium ficifolium Sm. farinello con foglie di fico achenio 36 Chenopodium polyspermum L. farinello polisporo achenio 24 Chenopodium sp. farinello achenio 25 Cirsium arvense (L.) Scop. cardo campestre achenio 7 Convolvulus arvensis L. vilucchio comune seme 2 Corrigiola litoralis L. cf. corrigiola litorale nucola 1 Crepis cf. tectorum L. radicchiella dei tetti achenio 12 Euphorbia exigua L. euforbia sottile seme 18 Fallopia convolvolus (L.) Holub poligono convolvolo achenio 7 Galeopsis tetrahit/speciosa canapetta comune/screziata mericarpo 7 Heliotropium europaeum L. eliotropio selvatico mericarpo 3 Hyoscyamus niger L. giusquiamo nero seme 18 Hypericum perforatum L. erba di San Giovanni comune seme 6 Lamium purpureum L. falsa-ortica purpurea mericarpo 12 Medicago arabica (L.) Hudson erba medica araba legume 4 Medicago cf. hispida Gaertner erba medica polimorfa legume 1 Mentha arvensis L. menta campestre mericarpo 30 Neslia paniculata (L.) Desv. neslia comune siliquetta 1 Papaver rhoeas/dubium papavero comune/a clava seme 6 Picris hieracioides L. aspraggine comune achenio 31 Polygonum aviculare L. poligono centinodia achenio 70 Polygonum lapathifolium L. poligono nodoso achenio 7 Polygonum persicaria L. poligono persicaria achenio 26 Potentilla reptans L. cinquefoglia comune achenio 557 Ranunculus acris L. ranuncolo comune achenio 10 Ranunculus arvensis L. ranuncolo dei campi achenio 2 Ranunculus bulbosus/lanuginosus ranuncolo bulboso/lanuto achenio 88 siliquetta 84 Rapistrum rugosum (L.) All miagro peloso articolo basale siliquetta 1 Rumex acetosella L. romice acetosella achenio 6 Rumex crispus/obtusifolius romice crespo/comune achenio 108 Testimonianze archeocarpologiche dallo spazio verde... 207

Sambucus ebulus L. ebbio endocarpo 10 Setaria glauca/ambigua pabbio rossastro/intermedio lemna/palea 6 Setaria viridis/verticillata pabbio comune/verticillato lemna/palea 6 Silene vulgaris (Moench) Garcke silene rigonfia seme 14 Solanum nigrum L. morella comune seme 8 Stellaria media (L.) Vill. centocchio comune seme 18 Thymelaea passerina (L.) Cosson et Germ. timelea annuale achenio 8 Urtica dioica L. ortica comune achenio 13 Valerianella dentata (L.) Pollich gallinella dentata nucola 7 Veronica hederifolia L. veronica con foglie d' edera seme 1 Piante ambienti umidi Alisma plantago-aquatica L. mestolaccia comune achenio 6 Bolboschoenus maritimus (L.) Palla palla-lisca marittima achenio 11 Calystegia sepium (L.) R. Br. vilucchio bianco seme 1 Carex cf. divisa Hudson carice scirpina achenio 8 Carex elata All. carice spondicola achenio 3 Carex flacca Schreb. carice glauca achenio 64 Carex flava L. carice gialla achenio 58 Carex hirta L. carice villosa achenio 776 Carex otrubaae Podp. carice volpina achenio 64 Carex spicata/divulsa carice contigua/separata achenio 2 Carex tomentosa L. carice canuta achenio 67 Carex vesicaria L. carice vescicosa achenio 54 Carex sp. carice achenio 406 Cicuta virosa L. cicuta acquatica mericarpo 1472 Cirsium cf. oleraceum (L.) Scop. cardo giallastro achenio 1 Cladium mariscus (L.) Pohl falasco achenio 10 Cyperus cf. longus L. zigolo comune achenio 32000 Eleocharis multicaulis (Sm.) Sm giunchina cespugliosa achenio 42 Eleocharis palustris/uniglumis giunchina comune/con una brattea achenio 580 Epilobium tetragonum L. garofanino quadrelletto seme 36 Equisetum cf. hyemale L. equiseto invernale segmenti nodali 8 Hydrocotyle vulgaris L. soldinella acquatica mericarpo 6 Juncus compressus/effusus giunco compresso/comune seme 3 Juncus sp. giunco seme 13 Lycopus europaeus L. erba-sega comune mericarpo 2719 Mentha aquatica L. menta d'acqua mericarpo 412 Oenanthe cf. lachenalii Gmelin finocchio acquatico di Lachenal mericarpo 11 Oenanthe fistulosa L. finocchio acquatico tubuloso mericarpo 3 Pedicularis cf. palustris L. pedicolare palustre seme 1 Persicaria cf. dubia (Stein.) Fourr. poligono mite achenio 1 Polygonum amphibium L. poligono anfibio achenio 1 Polygonum minus Hudson poligono minore achenio 6 Potamogeton sp. brasca achenio 7 Ranunculus flammula L. ranuncolo delle passere achenio 39 Ranunculus repens L. ranuncolo strisciante achenio 19 Ranunculus sardous Crantz ranuncolo sardo achenio 77 Ranunculus sceleratus L. ranuncolo tossico achenio 12 Rhynchospora alba (L.) Vahl rincospora chiara achenio 30 Rumex sanguineus/conglomeratus romice sanguineo/conglomerato achenio 32 Salix viminalis L. salice da vimini seme 6 Scutellaria galericulata L. scutellaria palustre mericarpo 2 Schoenoplectus lacustris (L.) Palla palla-lisca lacustre achenio 7 208 A. Benatti, G. Bosi, R. Rinaldi, D. Labate, F. Benassi, C. Santini, M. Bandini Mazzanti

Schoenoplectus tabernaemontani (C.C. Gmel.) Palla palla-lisca del tabernemontano achenio 528 Schonoplectus lacustris/tabernaemontani palla-lisca lacustre/del tabernemontano achenio 438 Sparganium erectum L. coltellaccio maggiore achenio 99 Sparganium sp. coltellaccio achenio 3 Altre Atriplex sp. atriplice achenio 51 Boraginaceae indeterminate \ mericarpo 12 Carex caryophyllea La Tourr. carice primaticcia achenio 15 Caryophyllaceae indeterminate \ seme 6 Cerastium sp. peverina seme 18 Asteraceae indeterminate \ achenio 1 Galium sp. caglio mericarpo 4 Humulus lupulus L. luppolo comune achenio 13 Hypericum cf. montanum L. erba di San Giovanni montana seme 1 Lamiaceae indeterminate \ mericarpo 6 Linum cf. catharticum L. lino purgativo seme 40 Mentha sp. menta mericarpo 12 Polygonaceae indeterminate \ achenio 23 Polygonum sp. poligono achenio 4 Ranunculus sp. ranuncolo achenio 52 Rumex sp. romice achenio 1 Scutellaria sp. scutellaria mericarpo 6 Stachys sp. betonica, stregona mericarpo 6 Apiaceae indeterminate \ mericarpo 579 indeterminati 83 TOTALE 52174 frammenti di gametofito di Sphagnales 346 * reperti carbonizzati

Tab. 1 – Reperti carpologici da US 17 Tab. 1 – Carpological remains from US 17

4. Risultati e discussione

Lo stato di conservazione dei reperti è ottimo. Per la maggior parte dei reperti la conservazione è avvenuta per sommersione mentre per pochi è avvenuta per carbonizzazione. La concentrazione dei reperti è alta, con oltre 50.000 sf/60 l, e la lista floristica, assai ricca, comprende 156 taxa raggrup- pati in sette categorie: 1) Frutta (coltivata e spontanea), 2) Cereali, 3) Ortive s.l., 4) Ornamentali, 5) Ruderali s.l., 6) Piante di ambienti umidi, 7) Altre. Frutta (coltivata e spontanea) – 20 taxa, 4324 sf, 8,3% - I reperti di que- sta categoria possono derivare in modo diretto dalle attività dell’uomo (ad es. eliminazione nel canale di scarti di mensa) o indirettamente da esse. Nel nostro caso, considerata la quantità dei reperti non troppo abbondante, parte delle presenze potrebbe essere legata alle piante messe a coltura o mantenu- te nell’ambito degli spazi verdi del vescovado. Questa categoria è dominata da fico (Ficus carica) e vite coltivata (Vitis vinifera subsp. vinifera). Testimonianze archeocarpologiche dallo spazio verde... 209

Cereali – 6 taxa, 17 sf, 0,03% - Come di solito si verifica in questa tipolo- gia di depositi, le concentrazioni di gruppo sono molto basse e vari reperti sono carbonizzati, probabilmente perché sfuggiti ai focolari durante la pre- parazione dei pasti (van der Veen, 2007). Tra essi abbiamo cereali comuni come l’orzo (Hordeum vulgare) e frumenti nudi e vestiti (Triticum aesti- vum/durum/turgidum, Triticum dicoccum e Triticum monococcum); sono presenti inoltre cereali minori come il panico coltivato (Panicum miliaceum) e il sorgo coltivato (Sorghum bicolor). Ortive s.l. – 12 taxa, 4413 sf, 8,47% - Fra le piante di questo gruppo le spe- cie più ricche di reperti sono la porcellana (Portulaca oleracea), la verbena (Verbena officinalis) e la cicoria comune (Cichorium intybus). Ornamentali – 2 taxa, 785 sf, 1,51%- Questa categoria comprende aquile- gia (Aquilegia vulgaris/atrata) e prunella comune (Prunella vulgaris). Ruderali s.l. - 51 taxa, 1558 sf, 2,99% - Questo gruppo presenta una gran- de varietà di taxa. Fra i più rappresentati abbiamo la cinquefoglia (Potentilla reptans) e il farinello comune (Chenopodium album). Piante di ambienti umidi – 46 taxa, 40144 sf, 77,07% - Questa categoria, che comprende idrofite, elofite e igrofite, presenta una grande varietà di taxa e una altissima quantità di reperti. Il taxon più ricco di reperti è lo zigolo (Cyperus longus), seguito da erba-sega comune (Lycopus europaeus) e la cicuta acquatica (Cicuta virosa). Altre – 19 taxa, 850 sf, 1,63% - Questo gruppo comprende taxa che a causa del cattivo stato di conservazione dei reperti hanno avuto un’identificazione a livelli tassonomici più alti della specie o taxa che non si è ritenuto oppor- tuno inserire nei gruppi precedenti in quanto possono occupare ambienti assai diversificati. 210 A. Benatti, G. Bosi, R. Rinaldi, D. Labate, F. Benassi, C. Santini, M. Bandini Mazzanti

Tav. 2 – Flora della Provincia di Modena - reperti carpologici dal Vescovado (XII sec.) e pian- te del medesimo taxa attualmente presenti nel territorio - 4 e a - Medicago arabica (legume 4,8 mm); 5 e b - Agrostemma githago (seme 3,8 mm); 6 e c - Aquilegia vul- garis/atrata (seme 1,2 mm) e A. vulgaris; 7 e d - Scutellaria galericulata (mericarpo 1,5 mm); 8 ed e - Sinapis alba (seme 1,2 mm); 9 e f - Cladium mariscus (achenio 2,1 mm); 10 e g - Thymelaea passerina (achenio 2,5 mm); 11 e h - Veronica hederifolia (seme 1,2 mm) (foto 4-11 - A. Benatti, R. Rinaldi, G. Bosi; foto a-h - P. Ferrari) Plate 2 – Flora of the Province of Modena - carpological remains from the Bishop’s Palace (12th cent.) and plants of the same taxa currently living in the territory - 4 and a - Medicago arabica (legume 4.8 mm); 5 and b - Agrostemma githago (seed 3.8 mm); 6 and c - Aquilegia vulgaris/atrata (seed 1.2 mm) and A. vulgaris; 7 and d - Scutellaria galericulata (mericarp 1.5 mm); 8 and e - Sinapis alba (seed 1.2 mm); 9 and f - Cladium mariscus (achene 2.1 mm); 10 and g - Thymelaea passerina (achene 2.5 mm); 11 and h - Veronica hederifolia (seed 1.2 mm) (photos 4-11 – by A. Benatti, R. Rinaldi, G. Bosi; photos a-h – by P. Ferrari) Testimonianze archeocarpologiche dallo spazio verde... 211

5. Tafonomia del deposito

Dal complesso e tipologia dei reperti rinvenuti possiamo dire che il cana- le/fossato è un deposito di tipo misto, ampiamente dominato dai reperti deri- vanti dalla naturale “pioggia dei semi” prodotta dalle piante che vivevano ai margini e dentro il canale (oltre 40.000, 4/5 del totale) e da quelle specie spon- tanee che vegetavano nell’area ortiva prossima al corpo d’acqua. L’immissione volontaria di scarti vegetali, derivanti dal consumo degli stessi, e la possibile dispersione nel canale di residui di latrina appaiono quasi trascurabili in quan- to noccioli di prunoidee, residui di gusci, acheni di fico, vinaccioli di vite ecc. non toccano quantitativi elevati. Il deposito sembra così configurarsi più come una biocenosi piuttosto che una tanatocenosi.

6. Ricostruzione ambientale

Il canale/fossato con tutto il corredo delle piante legato strettamente ad esso era probabilmente inserito in una situazione di orto-giardino come attesta la buona presenza di resti di ortive coltivate e resti di piante di possibile mante- nimento antropico nell’ambito dell’orto. Queste piante sono accompagnate da infestanti/commensali delle colture fra le quali sono comprese piante nitrofile che vegetano bene in presenza di suoli concimati come farinelli, romici, orti- che, ecc. A quel tempo, infatti, il concime era un bene prezioso destinato prin- cipalmente all’orto-frutteto ma non al campo aperto (Montanari, 1979). Nell’orto-giardino era presente anche qualche pianta ornamentale come ad esempio l’aquilegia, carica di significati religiosi. L’orto era probabilmente delimitato da siepi le quali potevano essere costituite da qualche quercia, rovi, prugnoli e cornioli.

7. Colture e dieta vegetale

I reperti ritrovati documentano le colture che erano probabilmente attuate in prossimità del canale. Piante che potevano essere coltivate nell’orto-giardi- no sono rappresentate da fruttiferi come vite, fico, susino damasceno, pero, nespolo, ciliegio, noce e da varie ortive, fra le quali verdure come l’atriplice degli orti, la rapa, la porcellana, la bietola e la cicoria, qualche aromatica come l’aneto, il prezzemolo e la senape bianca e alcune piante medicamentose come l’issopo e la verbena. Erano inoltre presenti piante spontanee commestibili, di 212 A. Benatti, G. Bosi, R. Rinaldi, D. Labate, F. Benassi, C. Santini, M. Bandini Mazzanti uso documentato al medioevo come ingredienti di zuppe e/o misticanze come il farinello comune, la menta campestre, il luppolo e l’acetosella. Per quanto riguarda i cereali maggiori, questi non erano coltivati nell’orto ma in campo aperto (le cariossidi carbonizzate, infatti, sono probabili resti della pulizia di focolari domestici). Interessante è la continuità della coltura di grani vestiti, il monococco e il farro, che, già largamente coltivati all’Età del Bronzo nella pia- nura modenese (Bandini Mazzanti & Taroni, 1988; Mercuri et al., 2006) insie- me ai grani nudi, più redditizi dal punto di vista della resa e della “pulizia” delle cariossidi, continuano ad interessare l’uomo probabilmente destinati sia alla panificazione che alla realizzazione di zuppe e panizze. Il reperto di castagno ritrovato rappresenta una coltura non locale; il pericarpo rinvenuto, infatti, rap- presenta uno scarto del consumo di un frutto di probabile provenienza dai casta- gneti collinari/submontani, anche se durante il Medioevo il castagno ha attesta- zioni di coltivazione in aree planiziali (Montanari, 1979; Rottoli, 2001).

8. L’ambiente vegetale naturale/semi-naturale e la flora al XII sec.: un confronto con l’assetto attuale dell’area modenese

Grazie alla recente pubblicazione della Flora del Modenese (Alessandrini et al., 2010), uno studio-censimento che riporta lo stato attuale della flora e tutte le informazioni inerenti studi floristici pregressi in particolare del XIX e XX seco- lo, siamo in grado di mettere in evidenza alcuni tratti importanti sulla flora e ambiente vegetale del passato, raffrontati alla situazione attuale. Le specie coltivate: fra le piante coltivate al XII sec., alcune rappresentano ancora oggi importanti e tradizionali colture del territorio planiziale modenese come la vite, il pesco, il ciliegio dolce, il noce, il grano tenero, l’orzo, il sorgo, la bietola (ora la forma da zucchero, al Medioevo quella da foglia) e, assai meno diffusa la rapa. Altre specie non sono attualmente colture importanti e intensive, ma si possono trovare presso le case e, talora, allo stato sub-spontaneo, come ad esempio il nespolo e il fico. Altre colture, scomparse dalla pianura, sono attuate in modo sporadico nelle zone collinari-submontane del nostro Appennino, come nel caso del farro e piccolo farro (meno diffuso), tornati di moda in cucina. Di altre specie resta la presenza sporadica di qualche individuo nella forma rinsel- vatichita, residuo delle antiche colture, individui che spesso si sono rifugiati in ambienti poco frequentati e/o collocati a quote più elevate rispetto al piano, dove il forte impatto antropico non le ha risparmiate: ad esempio la senape bianca, ritrovata alle Casse del Panaro e vicino al Secchia a Sassuolo, e l’atriplice da orto, rinvenuta a Serramazzoni. Infine, di altre piante coltivate si è persa qual- Testimonianze archeocarpologiche dallo spazio verde... 213 siasi traccia come l’aneto, l’issopo e il panico, totalmente scomparse sia dalla pianura che a quote più elevate del territorio modenese. Le ruderali s.l.: quando si parla della biodiversità raramente si pensa alle “malerbe” ovvero le antropofile che seguono l’uomo, vegetando negli incolti, sui substrati nitrofili, nelle discariche, nelle massicciate ferroviarie, ai margini dei campi, ecc. Queste piante sono fra le più colpite dalle attività antropiche; 11 su 51 taxa rinvenuti (quindi più di 1/5) sono rari, stanno scomparendo o hanno solo segnalazioni storiche (risalenti per lo più al XIX e XX sec.). In alcuni casi la loro sparizione risale a tempi ancora precedenti, in quanto non sono neppure citate dagli autori storici: è il caso di Corrigiola litoralis, Chenopodium ficifolium e Crepis tectorum. Per alcuni le segnalazioni storiche non riguardano la pianura, ma l’area collinare, ad esempio Neslia paniculata e Veronica hederifolia. Alcune di queste piante oggi così rarefatte sono tipiche commensali delle colture, come Agrostemma githago, che un tempo accompagnava i campi di cereali, o tipiche degli incolti, come Thymelaea passerina e Anthemis cotula. Piante di ambienti umidi: 16 su 46 taxa (circa 1/3 del totale) sono oggi pian- te rare, in via di estinzione o già scomparse. La perdita di biodiversità in questo caso è molto grave ed è dovuta principalmente alla scomparsa degli ambienti umidi, distrutti dalle bonifiche (come nel caso del canale del Vescovado, elimi- nato per ampliare l’edificazione), minando il fragile equilibrio di questi ambien- ti. Fra le specie più significative, non ricordate neppure dagli autori storici, citia- mo Cicuta virosa, la quale in questo sito potrebbe rivestire anche il ruolo di pian- ta coltivata/mantenuta dall’uomo per le sue virtù medicamentose, ed Eleocharis multicaulis, una ciperacea di margine, tipica delle depressioni delle torbiere aci- dofile che ha oggi pochissime stazioni in Italia. Alcune di queste piante, come ad esempio Hydrocotyle vulgaris e Pedicularis palustris, sono ancora presenti nel mantovano, dove si sono conservati maggiormente gli ambienti umidi. Alcuni taxa permangono poi soltanto in pochissime località della Provincia di Modena, come Persicaria minor e Cladium mariscus, segnalato in una sola loca- lità in collina.

9. Conclusioni

Lo studio carpologico del canale del Vescovado ha portato informazioni di vario tipo: 1) il canale si è interrato in parte naturalmente, in parte con l’immissione di residui vegetali costituiti principalmente da fusti e legni, mentre fu utilizza- to solo in minima parte per scarico di rifiuti vegetali domestici o per scarico di 214 A. Benatti, G. Bosi, R. Rinaldi, D. Labate, F. Benassi, C. Santini, M. Bandini Mazzanti liquami; 2) il canale era quasi certamente prossimo ad un orto-frutteto, area che necessitava sicuramente di pratiche irrigue. In esso erano presenti fruttiferi e ortive coltivate e alcune piante in condizione di mantenimento antropico. Nell’orto erano presenti anche specie ornamentali come l’aquilegia e la pru- nella, ambedue con significati religiosi che potevano quindi collegarsi alla sacralità del luogo; 3) tuttavia, l’aspetto più interessante che emerge da questo lavoro è la lunga lista floristica delle piante spontanee ruderali s.l. e di quelle di ambiente umido, che comprende in totale ben 27 specie oggi rare, in via d’estinzione o scomparse nel territorio modenese; 4) alcune di esse, oggi non più presenti in pianura, hanno trovato aree di rifugio soprattutto in collina o in aree meno frequentate dall’uomo. Se un’area ristretta, come quella qui esaminata, per di più un’area già sottoposta a urba- nizzazione, mostra a paragone con l’oggi le chiare evidenze della sopravvenu- ta riduzione della biodiversità, possiamo immaginare quale ricchezza floristi- ca fosse in realtà presente a livello planiziale del territorio modenese; 5) le informazioni ottenute possono rappresentare un monito per l’uomo di oggi e un incentivo a proteggere ciò che ancora rimane della nostra flora.

Ringraziamenti

Si ringrazia Patrizia Ferrari per le splendide foto delle piante in natura. Testimonianze archeocarpologiche dallo spazio verde... 215

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Atti Soc. Nat. Mat. Modena 142 (2011)

Milena Bertacchini1, Paolo Serventi1, Giovanna Barbieri2, Fabrizio Buldrini2, Luigi Sala2, Luca Malagoli3, Maurizio Salvarani3, Chiara Bortoli4, Lorenzo Tosatti5 Itinerari Musei e Territorio: il Parco della Resistenza a Modena

Riassunto Il Parco della Resistenza di Modena è uno spazio verde della città dedicato alla Lotta di Liberazio- ne contro il Nazifascismo (1943-45) e alla ricostruzione del paesaggio agrario della campagna modenese andato oramai perduto. Il Gruppo Natura e Scienza del Sistema Museale della Provincia di Modena ha scelto questo parco-campagna come luogo per iniziare una prima sperimentazione di diffusione scientifica integrata e di valorizzazione del patrimonio naturale e museale presente sul ter- ritorio provinciale, in un’ottica di attrazione culturale e turistica. L’esperienza al Parco della Resi- stenza ha coinvolto un pubblico di tutte le età, in un percorso di conoscenza per scoprire la com- plessità ambientale che caratterizza questo grande parco. Abstract The Park of The Resistance in the city of Modena (Italy) is a vast open space commemorating the fight against Nazism and Fascism (1943-45). It has also reconstructed the traditional farming land- scape typical of the countryside around Modena, which has largely disappeared. The “Nature and Science” Group of the Museum network of the Province of Modena has chosen this particular park for the first experiment in integrated scientific popularization. This initiative is part of a project aiming to appraise the museums and places of natural interest present in the Province’s territory in order to improve cultural tourism. The experience at the Park of The Resistance has attracted peo- ple of all ages and guided tours are offered to illustrate the environmental complexity characterizing this public park.

Parole chiave: Museo, divulgazione scientifica, escursione didattica, Modena

Key words: Museum, scientific popularization, educational excursion, Modena

1 Dipartimento di Scienze della Terra, Università di Modena e Reggio Emilia. 2 Dipartimento di Biologia, Università di Modena e Reggio Emilia. 3 Museo della Bilancia, Campogalliano (MO). 4 Dottore in Scienze per l’Ambiente e il Territorio, Università di Modena e Reggio Emilia. 5 Ornitologo amatoriale, e-mail: [email protected]. 218 M. Bertacchini, P. Serventi, G. Barbieri, F. Buldrini, L. Sala, L. Malagoli, M. Salvarani, C. Bortoli, L. Tosatti

1. Introduzione al progetto1

I Musei Scientifici Universitari dei Dipartimenti di Biologia e di Scienze della Terra dell’Ateneo modenese, insieme con il Museo della Bilancia di Campogalliano (Modena), la Provincia di Modena e il Gruppo Modenese di Scienze Naturali, sono stati i promotori dell’evento “Paesaggi e passaggi... nel parco” tenutosi al Parco della Resistenza di Modena nell’ottobre 2011 (Fig. 1). Questa iniziativa, che ha aderito alla XXI Settimana della Cultura Scientifica ed alla II edizione del Festival dell’Ecologia “Biodiversamente”, si è sviluppata all’interno di un progetto di diffusione scientifica e di valorizza- zione del patrimonio naturale e museale presente sul territorio locale dal tito- lo “Itinerari Musei e Territorio”. Il progetto è nato all’interno del gruppo di lavoro “Natura e Scienza”2 del Sistema Museale della Provincia di Modena, al fine di realizzare itinerari tematici per incentivare, promuovere e valorizzare il rapporto fra musei e realtà territoriale e ricomporre la complessità ambientale che un tempo caratterizzava l’area modenese e di cui oggi rimane traccia solo nelle collezioni storiche, spesso uniche e importantissime, di questi musei. “Paesaggi e passaggi... nel parco” rappresenta la prima esperienza che il gruppo di lavoro ha inteso realizzare quale chiara espressione di un messaggio condiviso e integrato tra i diversi linguaggi scientifici, allo scopo di coniugare il piacere di una passeggiata nel parco con gli aspetti culturali e identitari di uno spazio pubblico creato per ricostituire e conservare il paesaggio agrario tradizionale della pianura emiliana nei suoi aspetti più salienti di elementi naturali e antropici. Il percorso ha visto la partecipazione di un pubblico vario (purché curioso), sia scolastico sia di cittadini, che è stato coinvolto in attività ludico-sperimen- tali di citizen education animate dalla percezione multisensoriale e interattiva che, a vari livelli di approfondimento, l’approccio scientifico ha indotto, come sarà illustrato dai contributi che compongono il presente articolo.

1 A cura di Milena Bertacchini 2 Il gruppo di lavoro “Natura e Scienza” si è formato per impulso della stessa Provincia di Modena in rispo- sta alle indicazioni riportate dalla legge regionale 18/2000, con l’intento di costituire un sistema di coope- razione fra i musei naturalistici e scientifici della rete dei musei provinciali ed i soggetti, pubblici e pri- vati, operanti nell’ambito dei temi considerati. Itinerari Musei e Territorio: il Parco della Resistenza a Modena 219

Fig. 1 – Il Parco della Resistenza di Modena è un esempio di parco-campagna incuneato all’interno dell’area cittadina. Il profilo della città ne è il suo coronamento.

2. Il Parco della Resistenza3

Il Parco della Resistenza è uno spazio urbano che il progetto “Paesaggi e passaggi... nel parco” ha elevato da semplice area di ricreazione e svago a luogo di aggregazione narrativa e sperimentale, nel quale creare l’opportunità di immergersi in sentimenti culturali personalizzati animati dalla Natura e dalla Scienza. Il parco sorge in un’area cittadina a sud della stazione delle Ferrovie Provinciali che già nell’immediato dopoguerra era stata scelta dal Comune di Modena quale luogo da preservare dall’urbanizzazione per essere destinata alla realizzazione di un “parco di campagna dedicato alla Resistenza”, come proposto dal comandante partigiano Umberto Bisi (Comune di Modena, 2006; Desco et al., 2006). Una zona verde dove conservare i segni della storia cultu- rale locale e fare emergere i valori del paesaggio rurale e agrario. Il progetto generale del Parco (Comune di Modena, 1995) fu approvato con l’intento di

3 A cura di Milena Bertacchini e Fabrizio Buldrini 220 M. Bertacchini, P. Serventi, G. Barbieri, F. Buldrini, L. Sala, L. Malagoli, M. Salvarani, C. Bortoli, L. Tosatti ricomporre il paesaggio agricolo modenese esistente all’epoca della lotta di Liberazione: s’intendeva fornire alla città un parco ove gli aspetti paesaggistici allora presenti (siepi, filari d’alberi, campi coltivati, fontanili, boschetti di ville padronali ecc.) si sommassero ai temi civili e sociali del movimento partigiano. L’area verde consta di un ripristino dell’antico assetto agrario, con la formazio- ne di siepi, filari alberati (anche con vite maritata all’olmo) e recupero dei prati stabili, in gran parte già esistenti all’inizio del Novecento. Non mancano inoltre aree boscate e macchie, con inserimento di specie sempreverdi anche esotiche, in rappresentazione del giardino padronale di campagna di fine Ottocento, in grado di creare nel tempo una quinta in grado di nascondere gli edifici circo- stanti. Alcune macchie sono articolate secondo un tema stagionale e perciò costruite con specie diverse secondo il momento di fioritura. Il disegno paesaggistico del parco-campagna si integra inoltre con un siste- ma dedicato all’acqua (Fig. 2), scandito da tre pozze ed una vasca, a memoria dei fontanili e del macero usato un tempo per la lavorazione della canapa; e di un altro dedicato alla pietra. In particolare, in quest’ultimo sistema trova un interessante impiego un materiale litico proveniente dall’Appennino modene- se: si tratta di una roccia calcarenitica della cava di Varana (in comune di Serramazzoni) nota ai geologi come Flysch di Monte Cassio, usata come ele- mento evocativo del carattere della Resistenza nel “percorso della memoria”, dove la roccia è sinonimo di forza, tenacia, durezza (Fig. 3).

Fig. 2 – Il “sistema acqua” realizzato al Parco della Resistenza di Modena ha inteso ricosti- tuire gli ambienti dei fontanili (in foto) e del macero usato un tempo per la lavorazio- ne della canapa Itinerari Musei e Territorio: il Parco della Resistenza a Modena 221

3. Il parco per costruire un’esperienza con la Natura

3.1 Aspetti geologico-paesaggistici del parco-campagna Le osservazioni naturalistiche e le riflessioni scientifiche che hanno ani- mato le passeggiate nel “verde” hanno messo in evidenza i processi fisici e naturali e le trasformazioni antropiche che hanno contribuito alla formazione del paesaggio contemporaneo della città di Modena. Guidare il pubblico ad osservare da un punto di vista geologico l’area del Parco della Resistenza e la morfologia pianeggiante che lo caratterizza, ha por- tato necessariamente a ricomporre il quadro geologico evolutivo del territorio sul quale sorge e si è sviluppata la città. La storia di questo territorio si lega alle tante e diverse cause, spesso correlate fra loro, che ne hanno contribuito e condizionato la formazione, il modellamento e la trasformazione: dinamica fluviale, subsidenza naturale, geologia del sottosuolo, variazioni climatiche, variazioni del livello del mare e, soprattutto nei periodi più recenti, attività antropiche.

Fig. 3 – La torre dell’acquedotto costituisce una sorta di faro del parco. I monoliti di roccia presenti vogliono evocare il carattere della Resistenza all’interno del “percorso della memoria” 222 M. Bertacchini, P. Serventi, G. Barbieri, F. Buldrini, L. Sala, L. Malagoli, M. Salvarani, C. Bortoli, L. Tosatti

La dinamica fluviale è, tra le varie cause, quella che riveste un ruolo deter- minante con il divagare del tracciato dei corsi d’acqua e l’azione di trasporto, deposito ed accumulo dei sedimenti che incessantemente si ripete da migliaia di anni, da monte verso la foce, in entrambi i bacini del Secchia e del Panaro. La graduale diminuzione granulometrica che i materiali alluvionali presentano dal piede dei rilievi (alta pianura), dove sono costituiti prevalentemente da ghiaia e ciottoli, passando alla bassa pianura dominata da sabbia e limo, fin verso la foce dove è presente essenzialmente argilla, giustifica e motiva le caratteristiche e le proprietà dei terreni che caratterizzano il territorio modenese insieme all’abbon- dante presenza di acque nel sottosuolo. Le acque sotterranee derivano da serbatoi naturali (gli acquiferi), che sono in grado di immagazzinare acqua nei pori o nelle fessure delle rocce, e sono resti- tuite in superficie attraverso le sorgenti e i fontanili (Fig. 2) oppure sono solle- vate artificialmente in superficie attraverso pozzi (Panizza et al., 2004). Il siste- ma acquifero modenese, e in generale quello padano, è riconducibile ad una serie di strati (o lenti) di sabbie e ghiaie, depositati dai corsi d’acqua in epoche passate (negli ultimi 300.000 anni circa, Pleistocene sup. ed Olocene), permea- bili per porosità, all’interno dei quali l’acqua può essere accumulata (funzione di serbatoio dell’acquifero) ed anche estratta, come ad esempio mediante pozzi (Regione Emilia-Romagna, ENI-AGIP, 1998). I Modenesi furono maestri nel- l’arte di scavare pozzi sin dal Medioevo, come testimoniato dalle due trivelle incrociate inserite nell’araldica municipale. Nel 1926, la perforazione dei primi pozzi a Cognento avviò la costruzione del moderno acquedotto cittadino di cui rimane traccia anche all’interno del Parco della Resistenza con la torre dell’acquedotto che domina ad ovest l’area verde pubblica come una sorta di faro (Fig. 3). Il progressivo aumento del prelievo di acqua dal sottosuolo, che avvenne nella nostra regione in risposta ad un incremento degli usi idropotabili, agricoli e industriali, provocò un deficit idrico molto marcato con conseguente abbassa- mento dei livelli di falda soprattutto nel ventennio compreso all’incirca tra il 1970 ed il 1990. Fino agli anni ‘30 del XX secolo, erano i fontanili a rappresentare le princi- pali emergenze del sistema acquifero sotterraneo nell’alta pianura emiliana dove formavano importanti ed interessanti aree umide caratterizzate da un particolare ecosistema. I fontanili, anche noti come risorgive o, in modo più popolare, come “fontanazzi”, possono essere assimilati a sorgenti di pianura che si manifestano nella zona di passaggio fra l’alta e la media pianura, per uno “sbarramento” alla circolazione delle acque sotterranee dovuto ad una diminuzione della permeabi- lità del terreno. Questo limite di permeabilità si sviluppa all’incirca lungo il trac- Itinerari Musei e Territorio: il Parco della Resistenza a Modena 223 ciato della via Emilia, dove si chiudono i conoidi alluvionali del Secchia, del Panaro e dei torrenti minori, e iniziano a prevalere sedimenti limo-argillosi a bassa permeabilità (Panizza et al., 2004). I principali fontanili modenesi si tro- vavano un tempo in località Bosco Fontana, al confine tra i territori di Campogalliano e Rubiera, presso Cognento e nel comune di Castelfranco Emilia. Da ciascuno di questi gruppi di fontanili, sino agli anni ‘30, fuoriusci- vano portate comprese tra 0,0050 e 0,350 m3/s (AA.VV., 1999). La zona a sud- ovest di Modena all’inizio del XIX secolo era indicata con il toponimo “I Paduli” e ancora all’inizio del XX secolo aveva acquitrini dovuti alla straordi- naria ricchezza delle risorgive (Consorzio della Bonifica Burana Leo Scoltenna Panaro, 1992). La fascia di risorgive dell’area a sud di Modena alimentava gli scolatori i cui nomi sono tuttora legati alla toponomastica della città: Canalchiaro, Canalino, Cerca, Archirola ed altri ancora. Alcuni fontanili si rinvengono ancora nel territorio fra San Cesario e Castelfranco Emilia (Biancani & Neri, 2000) e a SE di Montale. Il suolo che si può osservare all’interno del Parco della Resistenza, in corri- spondenza delle zone coltivate e dell’aree prative, deriva dall’alterazione e dalla disgregazione dei depositi alluvionali per effetto della pedogenesi e del rimaneg- giamento antropico (pratiche agricole). Il suolo costituisce un ottimo esempio di ecosistema che un approccio scientifico integrato può sfruttare come valido esem- pio per svolgere attività di laboratorio all’aperto con partecipanti di qualunque età.

Fig. 4 – L’area verde del parco-campagna si sviluppa fino a margine della “Stazione piccola” 224 M. Bertacchini, P. Serventi, G. Barbieri, F. Buldrini, L. Sala, L. Malagoli, M. Salvarani, C. Bortoli, L. Tosatti

Rivolgendo un ulteriore sguardo al paesaggio che caratterizza il Parco della Resistenza, con particolare attenzione allo skyline che la città di Modena offre verso nord, si può cogliere molto distintamente la stratificazione temporale dei segni che l’attività dell’uomo ha lasciato nel tempo: dal pregevole edificio della stazione delle ferrovie provinciali, nota come “Stazione piccola”, ad una delle tante antenne di trasmissione di telefonia mobile che sono state dissemi- nate per la città. La “Stazione piccola” (Fig. 4) fu aperta nel 1932 come seconda stazione di Modena e capolinea delle quattro ferrovie provinciali che collegavano il capo- luogo rispettivamente a Mirandola e Finale Emilia, Vignola e Sassuolo. La sua importanza cominciò a diminuire con la chiusura delle linee per Mirandola (1964) e Vignola (1969). Il tratto Modena-Sassuolo, il solo tuttora in eserci- zio, fu inaugurato nel 1883 dalla Società Anonima Ferrovia Sassuolo- Modena-Mirandola e Finale (FSMMF). Inizialmente, questa linea ferroviaria era chiamata dai Modenesi “al treno dal cócc”: “cuccio”, nel dialetto locale, indicava la spinta iniziale che veniva impressa ai treni in partenza da Sassuolo che, sfruttando la lieve e regolare pendenza del terreno fino a Modena (pari al 5‰ circa), congiungevano in modo “ecologico” i due centri raggiungendo velocità comprese fra 20 e 30 km/h, senza ricorrere al traino di una locomoti- va (Cerioli et al., 1994).

3.2 Osservazioni paleontologiche nel parco-campagna4 Il “percorso della memoria”, allestito presso la torre dell’acquedotto, si compone di una ventina di monoliti squadrati di pietra usati per evocare il carattere forte e tenace della Resistenza. La pietra usata è una roccia calcareo- arenitica proveniente dalla cava di Varana, una delle poche cave di pietra da taglio dell’Appennino modenese ancora attive (AA.VV., 1999). Dal punto di vista geologico, questa roccia è attribuita al Flysch di Monte Cassio, forma- zione depostasi in un bacino di mare profondo durante il Cretaceo superiore (99-65 milioni di anni fa). Il termine flysch, coniato sulle Alpi (voce dialettale della Svizzera tedesca che significa “china scivolosa”), indica una successione regolare e ripetuta di strati di calcari, marne ed arenarie, che può raggiungere spessori totali di migliaia di metri. Queste tipiche alternanze (note anche come torbiditi) si for- mano per un fenomeno di rideposizione di materiale terrigeno messo in posto attraverso meccanismi di frane sottomarine e di correnti di torbida. Gli strati che si osservano all’interno del Parco della Resistenza sono formati da un

4 A cura di Paolo Serventi Itinerari Musei e Territorio: il Parco della Resistenza a Modena 225 intervallo calcareo-arenitico basale, leggermente gradato, giallastro o marrone chiaro, ed una porzione sommitale granulometricamente più fine e meno com- patta, costituita da calcilutiti e calcari marnosi di colore grigio chiaro (Fig. 5).

Fig. 5 – La roccia calcareo-arenitica che costituisce i monoliti del “percorso della memoria” del parco può contenere tracce fossili note con il nome di “elmintoidi”. Le frecce nel riquadro indicano alcune delle tracce fossili osservate e attribuite ad attività di pasco- lo di un organismo detritivoro

All’interno dei depositi flyschioidi è possibile rinvenire fossili. Si pos- sono osservare sia organismi fossili “rimaneggiati”, perché provenienti dai materiali coinvolti nei processi di risedimentazione, sia vere e proprie trac- ce fossili o icnofossili (Raffi & Serpagli, 1996) originate da organismi atti- vi durante il processo di deposizione del flysch. Si tratta di tracce lasciate da organismi prevalentemente invertebrati (vermi, artropodi, molluschi) sotto forma di piste di locomozione e di gallerie scavate nelle rocce o all’interno di sedimenti non ancora consolidati (Serpagli & Serventi, 2006). Le tracce fossili possono dare utili indicazioni nella ricostruzione degli ambienti del passato (paleoecologia). Note fin dal Precambriano termina- le (ca. 570 M.a.), sono molto frequenti nelle sequenze flyschioidi calcareo- marnose appenniniche e alpine del Mesozoico e del Terziario (Parea, 1961; Raffi & Serpagli, 1996). Nel 1953 e nel 1964, il tedesco Seilacher, per primo, ha provato a classificare le tracce istituendo delle categorie etolo- giche. Tra le più ricorrenti troviamo: Cubichnia: tracce di riposo; 226 M. Bertacchini, P. Serventi, G. Barbieri, F. Buldrini, L. Sala, L. Malagoli, M. Salvarani, C. Bortoli, L. Tosatti

Domichnia: strutture di abitazione; Repichnia: tracce di spostamento/reptazione; Pascichnia: tracce di “pascolo”; Fodinichnia: strutture di nutrizione; Agrichnia: strutture di “coltivazione”. La traccia rinvenuta sulla superficie di uno dei monoliti in pietra del parco si può attribuire alla categoria etologica detta Pascichinia, prodotta dall’attivi- tà di “pascolo” di un organismo che si spostava sulla superficie e/o all’interno del sedimento secondo piste ad andamento meandriforme. L’esposizione della roccia agli agenti atmosferici rende difficoltoso il riconoscimento di questa traccia, che con buona probabilità si può classificare come icnogenere Helminthoidea (Fig. 5). Le tracce fossili da “pascolo” non si incrociano mai perchè prodotte da animali detritivori che “sfruttano in modo ottimale le risor- se trofiche cercando di ottenere la maggior quantità di sostanza organica coprendo la distanza minore” (Raffi & Serpagli, 1996). Per fare un confronto con l’attività dell’uomo, l’organismo, probabilmente un anellide, segue uno schema razionale simile a quello attuato nello sfruttamento minerario.

3.3 Aspetti botanici del parco-campagna5 Per farsi un’idea delle profondissime trasformazioni del paesaggio agrario padano nel periodo fra le due guerre mondiali, basti sapere che nel 1929 l’Italia settentrionale vantava un paesaggio alberato di 3.094.000 ha, pari a 860.000.000 di piante legnose su oltre 2.665.000 ha di colture promiscue, con una densità media di 323 alberi/ha. Si calcola che nel Modenese fosse presen- te una superficie alberata pari a 1/5 della superficie coltivata (Sereni, 1976). Una delle possibili chiavi di lettura del parco è di condurre i visitatori all’e- same degli aspetti più salienti del nostro paesaggio agrario tradizionale: siepi, fontanili e piantate. Il percorso botanico proposto illustra pertanto, dapprima, un esempio di siepe della pianura padana (Fig. 6), con specie quali Rosa canina L., Euonymus europaeus L., Crataegus monogyna Jacq., Prunus spinosa L., Cornus sanguinea L., Sambucus nigra L. Queste formazioni, se lasciate indisturbate per un certo tempo, possono avvicinarsi a boschi lineari, con una parte superiore arborea o arbustiva e una inferiore erbacea ospitante specie tipiche degli ambienti boschivi e specie caratteristiche dei campi (Fohmann-Ritter, 1991; Angle, 1992). È noto che l’utilità ecologica e ambien- tale delle siepi si esplica in molteplici aspetti, quali il mantenimento di specie arboree proprie della zona (Quercus robur L., Carpinus betulus L., Salix sp.,

5 A cura di Fabrizio Buldrini e Giovanna Barbieri Itinerari Musei e Territorio: il Parco della Resistenza a Modena 227

Fig. 6 – Un momento della visita al Parco della Resistenza di Modena lungo un sentiero deli- mitato da siepi

Fraxinus sp. ecc. nello strato dominante) la cui presenza è grandemente dimi- nuita per la coltura dei terreni, l’azione di rottura del vento, preziosa per la tute- la del raccolto in caso di perturbazioni atmosferiche, la stabilizzazione del suolo e delle rive di fiumi e canali, la possibilità di rifugio per molte specie di uccelli e piccoli mammiferi, il cui ruolo ecologico è fondamentale per la cam- pagna in termini di disseminazione delle specie legnose e di contenimento di fauna dannosa per le colture. Le siepi infatti, come anche i boschetti frammisti ai campi, i luoghi incolti, le sponde dei corsi d’acqua, costituiscono stazioni di rifugio per una grande varietà di specie animali e vegetali: proprio nelle zone di contatto fra gli ecosistemi forestali e le praterie, note anche come fasce ecoto- nali, si arriva alla massima biodiversità negli ecosistemi terrestri. Molto diffuse fino agli anni del grande sviluppo economico, anche perché nell’economia rurale tradizionale fornivano piccoli frutti, piante medicinali, pali e legna da ardere (il governo delle siepi prevedeva infatti periodiche pota- ture), l’agricoltura meccanizzata ne ha sancito la scomparsa da quasi tutto il territorio padano: oggigiorno ne rimangono solo pochissimi esempi isolati, uno dei quali, molto esteso e ben conservato, si trova in comune di Novi di Modena (SIC IT4040016 – Siepi e canali di Resega-Foresto; cfr. Santini & Buldrini, questo volume). Il percorso passa poi alla visita dei fontanili (Fig. 2), ricostruiti sotto forma di vasche circolari di qualche metro di diametro, come di fatto venivano sca- vate le teste di fontanile. Purtroppo l’odierna carenza d’acqua sorgiva, imputabi- 228 M. Bertacchini, P. Serventi, G. Barbieri, F. Buldrini, L. Sala, L. Malagoli, M. Salvarani, C. Bortoli, L. Tosatti le al massiccio prelievo per usi domestici, agricoli e industriali, non ha permesso una vera e propria attivazione del sistema in un’area dov’erano presenti in tempi storici. I fontanili, un tempo assai diffusi intorno alla città, specie ai prati di San Faustino e ai campi di Cognento, si caratterizzavano per le loro acque a tempera- tura costante di circa 13 °C (Bertolani Marchetti, 1959). L’acqua, spinta dalla sua stessa pressione, s’infiltrava nel sottosuolo dove incontrava minor resistenza, sgorgando in superficie: si trattava infatti di acque salienti, appartenenti a falde idriche. Queste risorgive, tradizionalmente impiegate per l’irrigazione, già dall’XI-XII secolo erano scavate dai monaci benedettini per la bonifica delle zone ricche d’acqua (Ferri et al., 2009). I fontanili erano ambienti particolarissimi, fra le poche aree scarsamente rimaneggiate dall’uomo, perché le immediate adia- cenze erano in pratica incoltivabili. Essendo stazioni fresche, molto umide, con escursione termica ridotta e racchiusa fra limiti non molto elevati, nella loro zona d’influenza vi allignavano diverse specie microterme, grazie a un microclima ben differenziato dal clima attuale della regione, che determinava condizioni favore- voli al permanere di relitti di formazioni vegetali il cui carattere coincideva con quello montano (Bertolani Marchetti, 1959). Specie tipiche, in tal senso, erano appunto Cirsium canum (L.) All., Molinia caerulea (L.) Moench, Carex leporina L., C. stolonifera Hoppe, C. hirta L., Ornithogalum pyrenaicum L., Prunella grandiflora Jacq., Stachys silvatica L., tutte proprie di ambienti freschi e umidi o addirittura montani (Bertolani Marchetti, 1959).

Fig. 7 – Il Parco della Resistenza di Modena è un parco-campagna caratterizzato dalla pre- senza della “piantata” Itinerari Musei e Territorio: il Parco della Resistenza a Modena 229

Si passa infine a esaminare la “piantata”, che dà la più precisa connotazione alla parte agricola del Parco stesso (Fig. 7). La consociazione permanente di viti maritate all’olmo (Ulmus minor Miller), secondo una prassi colturale nota già nell’antichità (i Romani la chiamavano arbustum gallicum, piantata alla maniera gallica, cfr. Santini et al., 2009), era un elemento distintivo della pianura padano- veneta, di cui la versione modenese era solo una delle molte varianti possibili. Abbastanza frequente era pure la “piantata” con acero campestre (Acer campe- stre L.) specie in bassa collina; di rado, in montagna, il tutore della vite era il tiglio (Tilia cordata Miller). Tale sistema di allevamento della vite giunse pressoché intatto fino agli anni Sessanta, quando venne rapidamente soppiantato dalle pian- tagioni a filari retti da pali di legno o cemento: nell’economia rurale tradizionale, se la vite forniva uva e vino, l’olmo o l’acero, potati a capitozza e regolarmente defogliati, garantivano foraggio per il bestiame e legname da opera. Nel Parco sono presenti due esempi di “piantata” (Desco et al., 2006): quella vecchia, con barbatelle di viti da lambrusco, trebbiano e altre varietà antiche maritate all’olmo che fa da tutore vivo, e quella nuova, con filari di acero campestre e vitigni di lam- brusco Salamino, Sorbara e Grasparossa. La successiva costruzione della palifi- cata ne ha impostato l’impianto a spalliera. Per il rifacimento dei filari d’olmo è stato necessario ricorrere a piante resistenti alla grafiosi, una gravissima malattia causata da Ophiostoma ulmi (Buisman) Nannf., fungo parassita il cui sviluppo delle ife occlude il lume dei vasi conduttori dell’albero, che ha colpito gli olmi europei dagli anni ‘30 del secolo scorso fino a cancellarne quasi del tutto la pre- senza. Ci si è dunque avvalsi di incroci, selezionati nel 1995 da Lorenzo Mittempergher del C.N.R. di Firenze, fra le specie europee e alcune asiatiche (U. pumila L., U. parvifolia Jacq., U. japonica (Rehder) Sarg., U. wallichiana Planch.), così da ottenere piante con buona resistenza, interessanti come orna- mentali e di rapido accrescimento (Desco et al., 2006). Per i piccoli visitatori, in particolare per gli alunni delle scuole, l’itinera- rio così proposto, che riguarda gli aspetti più salienti del paesaggio agrario tradizionale (siepi, fontanili e piantate), necessita di un “aggiustamento metodologico” che, pur basato su una divulgazione scientificamente corret- ta, privilegi l’apprendimento significativo, interattivo e per scoperta. Questa impostazione trova fondamento nella più moderna psicopedagogia, secondo la quale le informazioni acquisite in maniera significativa vengono ricorda- te più a lungo. A tal fine, la visita al Parco della Resistenza si prefigge di favorire la creazione di situazioni di apprendimento particolarmente coin- volgenti, grazie anche alla prevalenza dell’interattività (la pratica cosiddetta hands on) e utilizzando modalità motivanti e ricche di senso, che producono un apprendimento duraturo e significativo. 230 M. Bertacchini, P. Serventi, G. Barbieri, F. Buldrini, L. Sala, L. Malagoli, M. Salvarani, C. Bortoli, L. Tosatti

Nelle attività con gli alunni della scuola dell’infanzia viene privilegiata l’e- sperienza sensoriale come mezzo per avvicinare i bambini al “mondo delle pian- te”. Per gli alunni dei primi due anni della scuola primaria, oltre alle attività lega- te allo sviluppo della percezione sensoriale, come per la scuola dell’infanzia, la visita al Parco propone approfondimenti scientifici più mirati alla conoscenza del mondo vegetale e potenziati per gli alunni più grandi. Nelle proposte per la scuola secondaria viene privilegiato l’aspetto scientifico, senza però tralasciare il coinvolgimento attivo degli studenti. Oltre alla tutela dei prati stabili da foraggio, con reintroduzione di antiche rotazioni agrarie nei campi coltivati, i progettisti hanno cercato di ricostruire alcuni scorci del nostro paesaggio rurale, non solo in funzione storico-didattica, ma anche in grado anche di mitigare il circostante paesaggio edificato. Tutta l’a- rea del Parco della Resistenza è stata interessata dalla riconversione dei terreni per produzioni biologiche, cosí come stabilito dalle norme comunitarie.

3.4 Gli animali nel Parco della Resistenza6 Oltre alle funzioni estetiche di “arredo” e sociali (luogo di svago, incontro, educazione), un parco urbano come quello della Resistenza svolge un ruolo importante nel miglioramento ambientale (produzione di ossigeno, filtro antin- quinamento e antirumore, mitigazione del microclima locale, barriera frangi- vento ecc.) e costituisce uno spazio insostituibile per la conservazione di vita selvatica all’interno di un ambito territoriale quasi totalmente urbanizzato. Mantenere o ricreare un frammento di campagna in città, infatti, offre una vasta gamma di habitat, quali laghetti, pozze d’acqua, fossati, prati con gestio- ni diversificate, macchie di arbusti, siepi, boschetti, filari di alberi, rilievi e ter- rapieni, muretti a secco e viottoli, pergolati e rampicanti, cumuli di rami e foglie secche ecc., che costituiscono nicchie ecologiche per l’insediamento ex novo di svariate specie di piante e di animali selvatici o, ancor più importante, per la sopravvivenza di quelle tipiche delle campagne locali, che già erano pre- senti nell’area del parco precedentemente all’espansione urbana circostante. Il ricco insieme di animali selvatici che si adattano alle aree urbane e le vivono come un proprio habitat naturale accettando il continuo contatto con l’uomo, assume oggi una propria connotazione di fauna urbana. Particolarmente vocati a colonizzare l’ambiente urbano sono gli uccelli, rappresentati sia da numerose specie legate alla vegetazione arborea ed arbu- stiva sia da altre associate agli spazi aperti o alle aree urbane. Le coltivazioni di erba medica e vigneti e la presenza di numerosi filari di

6 A cura di Chiara Bortoli, Luigi Sala e Lorenzo Tosatti Itinerari Musei e Territorio: il Parco della Resistenza a Modena 231 siepi miste hanno incoraggiato la presenza di uccelli particolarmente legati ai siti campestri ed agricoli come, tra i Passeriformi, la passera d’Italia (Passer italiae) e la passera mattugia (Passer montanus), di cui vi è una consistente presenza. Nel periodo primaverile si nota l’averla piccola (Lanius collurio), il luì piccolo (Phylloscopus collibyta) e la capinera (Sylvia atricapilla), il car- dellino (Carduelis carduelis), il fringuello (Fringilla coelebs), lo storno (Sturnus vulgaris), la rondine (Hirundo rustica) e il balestruccio (Delichon urbica) e, nel periodo invernale, anche la pispola (Anthus pratensis). Si segna- lano inoltre il picchio verde (Picus viridis) e il picchio rosso maggiore (Dendrocopus major). Grazie alla presenza dei piccoli mammiferi di cui si cibano, si possono osservare diverse specie di predatori: lo sparviere (Accipiter nisus), il gheppio (Falco tinnunculus) e, occasionalmente, il falco pellegrino (Falco peregrinus). Tra i rapaci notturni sono abbastanza comuni la civetta (Athene noctua) e l’assiolo (Otus scops).

Fig. 8 – Esemplare di scricciolo (Troglodytes troglodytes) 232 M. Bertacchini, P. Serventi, G. Barbieri, F. Buldrini, L. Sala, L. Malagoli, M. Salvarani, C. Bortoli, L. Tosatti

Il parco è situato all’interno di un’area suburbana; ciò favorisce le presenze di specie caratteristiche sia delle zone insediate dall’uomo sia di quelle sopra descritte. Comuni sono il merlo (Turdus merula), il pettirosso (Erithacus rube- cula), lo scricciolo (Troglodytes troglodytes) (Fig. 8), il verzellino (Serinus serinus), il verdone (Carduelis chloris), la tortora dal collare (Streptopelia decaocto), il piccione (Columba livia) ma anche la cinciallegra (Parus major), la cinciarella (Parus caeruleus), il codibugnolo (Aegithalos caudatus), il codi- rosso (Phoenicurus phoenicurus) e il codirosso spazzacamino (Phoenicurus ochrurus). I Corvidi sono rappresentati dalla gazza (Pica pica), la cornacchia grigia (Corvus corone cornix), la ghiandaia (Garrulus glandarius) e, occasio- nalmente, la taccola (Corvus monedula). Nel periodo primaverile è frequente il rondone (Apus apus).

Fig. 9 – Esemplare di toporagno eurasiatico (Sorex araneus)

Alcuni mammiferi tipici delle campagne, quali il riccio (Erinaceus europaeus), la talpa (Talpa europaea) e il toporagno (Sorex araneus) (Fig. 9) fra gli insettivori, e il topo selvatico (Apodemus sylvaticus) fra i roditori, si ritrovano normalmente nelle maggiori aree verdi urbane insieme con altri che vivono quasi esclusivamente associati all’uomo (il topo domestico Mus domesticus e il ratto delle chiaviche Rattus norvegicus). Importante è la presenza dei Chirotteri (pipistrelli), cacciatori aerei d’insetti sempre più rari nelle campagne italiane ed europee. Itinerari Musei e Territorio: il Parco della Resistenza a Modena 233

Solitamente rari in ambiente urbano sono gli Anfibi, rappresentati in gene- re dal solo rospo smeraldino (Bufo viridis) (Fig. 10) che deposita le uova negli stagni e nelle vasche ornamentali e in piccole piscine private creando talvolta grandi assembramenti di girini.

Fig. 10 – Coppia di rospi smeraldini (Bufo viridis) in copula

Fra i Rettili, la lucertola muraiola (Podarcis muralis) si è ben adattata a vivere sui muri nelle cascine e in città ma nel Parco della Resistenza, come in altre aree con aperte estensioni prative; non manca anche l’affine e più rara lucertola campestre (Podarcis sicula) (Fig. 11). Fra i serpenti, la fauna urbana locale comprende solo l’innocuo biacco (Hierophis viridiflavus) che, come tutti gli altri rettili e anfibi, è specie protetta da una specifica legge regionale. Il ruolo di un grande parco agricolo-urbano come quello della Resistenza per la conservazione della vita selvatica a Modena emerge anche in seguito ad un recente rapporto sulle modificazioni subite dalla fauna locale nel corso del- l’ultimo secolo (Sala, 2009), secondo il quale, delle 53 specie indigene pre- senti all’inizio del Novecento, nel giro di pochi decenni se n’è estinto circa 1/5 e di quelle sopravissute addirittura la metà è minacciata o molto vulnerabile (incluse nella Lista Rossa locale), mentre solo 1/3 non è a rischio. Quasi tutte le specie scomparse sono legate ad ambienti acquatici: l’insieme di Pesci e Anfibi estinti e di quelli a rischio, infatti, supera addirittura l’85% delle specie presenti all’inizio del secolo. 234 M. Bertacchini, P. Serventi, G. Barbieri, F. Buldrini, L. Sala, L. Malagoli, M. Salvarani, C. Bortoli, L. Tosatti

Fig. 11 – Esemplare di lucertola campestre (Podarcis sicula)

Contemporaneamente, soprattutto dal secondo dopoguerra ad oggi, si è invece assistito ad un incremento nell’ingresso di nuove specie estranee che talvolta sostituiscono quelle indigene. Si osserva infatti che le raccolte d’acqua dei parchi urbani di Modena sono generalmente infestate da svariate specie di pesci esotici più o meno invadenti e da testuggini palustri americane (Trachemys scripta). Perché il Parco della Resistenza possa davvero essere un’oasi per la sopravvivenza delle specie non più così comuni nelle aree urbane, è però necessaria anche un’adeguata gestione e una maggiore sensibilità dei cittadini nel rispetto di questo ambiente: alleggerire le lavorazioni e rispettare le fiori- ture e le fruttificazioni di erbe spontanee, i tempi di nidificazione e riprodu- zione della fauna, programmando e diradando gli interventi di sfalcio nelle aree meritevoli di tutela. Anche la pulizia di vasche o fontane dovrebbe evita- re il periodo primaverile, al fine di non distruggere uova e girini di anfibi. Per i cittadini frequentatori del parco è auspicabile un minor passaggio in certe aree, limitando cioè il disturbo e i danni da calpestio e un più stretto controllo dei cani che, se lasciati liberamente vaganti, possono uccidere gli animali sel- vatici. Andrebbe infine promossa una maggiore informazione ed educazione sulle conseguenze dovute al rilascio allo stato libero di animali esotici che, oltre ad essere vietato da leggi sia nazionali sia regionali, crea gravi danni alle popolazioni locali delle specie indigene e all’ecosistema più in generale. Itinerari Musei e Territorio: il Parco della Resistenza a Modena 235

4. Il parco per costruire un’esperienza con la scienza

4.1 Misure al parco7 Il constante aumento della complessità della società in cui ci muoviamo richiede una sempre maggiore capacità di orientamento e di valutazione. Una società complessa come quella moderna richiede la definizione di molti parame- tri necessari per garantire la corretta gestione della complessità. E la complessità sociale, essendo inevitabilmente destinata a crescere nel tempo, richiede di esse- re compresa e gestita. Ma l’unico modo obiettivo per valutare gli effetti causati sulla società dall’aumentata complessità passa attraverso la capacità di effettuare misure e leggere i dati relativi. Effettuare una misura è un’operazione certamen- te nota a molti, ma compiere una misura in modo corretto e completo nasconde una serie di difficoltà non trascurabili; per questo e altri motivi è molto importante che ogni persona sia in grado di capire il significato profondo di effettuare una misura corredata da risultato (Fig. 12). Utilizzare uno strumento di misura in modo appropriato richiede una preparazione specifica importante, completata da alcune conoscenze imprescindibili, prima tra tutte il concetto di errore associato, ossia intrinseco, ad ogni misura. Anche la “semplice” lettura dei dati per essere corretta richiede una conoscenza della teoria della misura, anche solo in minima parte. Ma la fisica non è solo laboratori di altissima specializzazione; dalla com- parsa sulla scena mondiale di Galileo Galilei, la fisica, e la scienza in generale, sono strettamente connesse alla verifica sperimentale delle ipotesi teoriche. O meglio, la fisica (e le altre scienze della natura) trovano il loro completamento nell’esecuzione dell’esperimento, deputato a falsificare8 la teoria in esame. E l’e- sperimento per essere eseguito necessita di capacità sperimentali individuali, in realtà possedute da ogni persona, anche se spesso in modo inconsapevole. Inoltre la fisica, anche se da tempo fuori da un paradigma classico (ovvero legato alla quotidianità in modo evidente), rimane strettamente presente nella vita di tutti i giorni, anche se in forme non osservabili ad occhio nudo. Anzi paradossalmente la realtà che ci circonda pullula di applicazioni scientifiche “nascoste” (basti cita- re il fatto che tecnologie come il telefono cellulare o le trasmissioni satellitari

7 A cura di Luca Malagoli e Maurizio Salvarani. 8 Il concetto di falsificazione si deve all’opera del filosofo della scienza Karl Popper (Vienna, 1902- Londra, 1994); egli affermò che la scienza non può procedere per verifiche “in positivo” della teoria sotto esame, ma deve procedere per falsificazioni. In altre parole, se il risultato di un esperimento è conforme alle ipotesi allora la tesi è “non falsificata”; e rimane in tale condizione per ogni successivo esperimento con identico risultato. Nel momento in cui, invece, un esperimento eseguito rispettando tutti i dettami della teoria produce un risultato in contrasto con la teoria stessa, allora la teoria si dice falsificata, per- dendo la sua validità. Ogni teoria scientifica è valida fino a quando i risultati di un esperimento non la contraddicono. 236 M. Bertacchini, P. Serventi, G. Barbieri, F. Buldrini, L. Sala, L. Malagoli, M. Salvarani, C. Bortoli, L. Tosatti

“funzionano” perché seguono la teoria della relatività di Einstein!). I motivi indi- cati in precedenza, assieme a molti altri non indicati ma facilmente intuibili, sono alla base dell’idea di realizzazione delle misure all’aperto, fuori da un laboratorio inteso in senso tradizionale, ossia misurazioni all’interno di un laboratorio molto particolare: la natura e l’ambiente in cui siamo immersi in modo costante. Questi laboratori all’aperto permettono di unire due aspetti fondamentali al processo di avvicinamento alla scienza a cui ogni istituzione deputata alla diffusione della cultura o della conoscenza deve tendere: • avvicinare l’utente alla misura e alla corretta indicazione dei risultati della stessa; • imparare ad individuare la scienza che ci circonda. Per imparare ad effettuare una misura strumentale, leggere e scrivere i risul- tati ottenuti, si è pensato di prendere parte all’iniziativa promossa dal Gruppo “Natura e Scienza” del Sistema Museale della Provincia di Modena svoltasi al Parco della Resistenza della città. Per portare le misure fuori dal laboratorio, per dimostrare come sia possibile misurare ogni cosa, per evidenziare come basta poco per poter eseguire una misura. E per imparare ad effettuare e scrivere una misura in modo scientificamente corretto. Le persone presenti all’iniziativa hanno potuto apprendere come realizzare una misura su grandi distanze con misuratori laser, ovvero valutare la quantità di radiazione ultravioletta in arrivo sulla superficie terrestre (nel luogo in cui si misura), ovvero determinare quale sia il peso di un masso di grandi dimensioni. E quindi la sua pressione.

Fig. 12 – Un momento della visita al Parco della Resistenza di Modena durante lo svolgimen- to delle attività di misura guidate dallo staff del Museo della Bilancia di Campogalliano Itinerari Musei e Territorio: il Parco della Resistenza a Modena 237

Nel concreto le esperienze di misura svolte nella cornice del Parco della Resistenza di Modena a fine ottobre 2011 si sono inquadrate in una serie di attività di altri ambiti: il Parco è stato indagato con sguardi differenti per rico- struire un’immagine unica, anche se con numerosissime sfaccettature. Le esperienze di misura proposte hanno riguardato grandezze differenti, alcune percepite come comuni, altre viste come “strane”. In ogni caso le atti- vità erano volte a suscitare curiosità ed interesse sfruttando strumenti ignoti ai più o aspetti nascosti di oggetti dati per scontati. I partecipanti hanno prima di tutto analizzato l’aspetto dimensionale di un elemento del parco, il laghetto artificiale. Partendo da una prima stima della lunghezza dei suoi lati, seguita da una misura “a passi”, sono state confronta- te le risposte con le misurazioni effettuate in concreto utilizzando differenti strumenti: una cordella metrica ed un metro laser. Ovviamente i risultati emer- si erano differenti, pretesto per ragionare sulla differenza tra misura “ad occhio” e misura strumentale, oltre che sul legame tra tipologia dello stru- mento e risultato fornito. Da queste semplici osservazioni è breve il passo per arrivare a definire nel dettaglio due caratteristiche fondamentali degli stru- menti di misura, la portata e la sensibilità (ossia i valori massimo e minimo rilevabili dallo strumento). Altro argomento facilmente collegabile è quello dell’evoluzione tecnologica che, tra le altre cose, ha portato all’esigenza e alla disponibilità di una maggiore precisione. Un’ulteriore occasione di misura, stavolta collegata ad una sorta di “edu- cazione alla salute”, ha preso in considerazione il Sole. Armati di un misura- tore di raggi UV-A e B abbiamo potuto mostrare che le creme solari proteg- gono davvero (ed accennato alla natura della radiazione luminosa)! L’esposizione ai raggi luminosi del sensore dello strumento mostra su di un display un valore della radiazione luminosa, che sappiamo essere dannosa per la nostra salute. Grazie all’utilizzo di una serie di vetrini anteposti al sensore è stato immediato notare come lo spalmarci la crema solare riduca drastica- mente il valore registrato. Dando per scontata la possibile dannosità per la pelle di una eccessiva esposizione solare, la conclusione ai partecipanti è parsa abbastanza ovvia: la crema solare conviene spalmarsela addosso! È stato poi proposto di valutare, utilizzando i propri sensi, la temperatura di uno degli alberi del parco, invitando a confrontarla con quella di un sasso posto ai suoi piedi e con quella del suolo. Ovviamente la percezione inganna e, a causa della differente conducibilità termica dei diversi materiali presi in considerazione, sasso e terreno appaiono ai nostri sensi ben più freddi del legno. Procedendo poi alla misurazione della temperatura tramite un termo- metro laser (il cui principio di funzionamento rappresenta un possibile inte- 238 M. Bertacchini, P. Serventi, G. Barbieri, F. Buldrini, L. Sala, L. Malagoli, M. Salvarani, C. Bortoli, L. Tosatti ressante approfondimento) suscita sempre grande stupore il rilevare che in realtà le temperature sono pressoché identiche! Ancora una volta lo strumen- to di misura ci viene in aiuto nel rilevare le caratteristiche indagate in manie- ra oggettiva, consentendone un utilizzo di tipo scientifico. Ultima esperienza dedicata al ragionamento, alla misura determinata in base ad una serie di rilevazioni e di calcoli. Abbiamo giocato con i partecipanti facendoli avvicinare ad uno dei monoliti monumentali in pietra del parco, domandando come fosse possibile determinarne il peso9. Ovviamente la misu- ra diretta dell’oggetto risultava una strada impossibile da seguire, sia per la mancanza dello strumento adatto, sia per evitare di rovinare un allestimento monumentale. Grazie ad un piccolo campione dello stesso materiale però abbiamo ricavato il dato richiesto: prima abbiamo determinato il volume del campione e determinato la massa, poi abbiamo misurato in modo diretto il monolite calcolandone il volume e da lì, tramite una proporzione abbastanza semplice, abbiamo ricavato il valore desiderato. Il risultato ha suscitato note- vole interesse; infatti il nostro blocco di pietra, alto circa 150 cm e con un base all’incirca quadrata con lato di 70 cm, arriva a pesare oltre 1,5 t! Attraverso l’avvicinamento a misura di grandezze particolari, come il peso di una roccia, i presenti hanno contemporaneamente, anche se in modo forse inconsapevole, partecipato ad un altro aspetto fondamentale dell’arte della misura: la capacità di valutare, stimare, prevedere quale può essere il risultato atteso. Prima di iniziare una misura, qualunque sia, dalla più complessa che si può immaginare come può essere la determinazione dell’energia liberata in uno scontro tra particelle come avviene al CERN di Ginevra, alla più sempli- ce come può essere la misura della quantità di farina da utilizzare per fare la pizza, è determinante, per la buona riuscita dell’impresa, essere nelle condi- zioni adatte per determinare qual è lo strumento di misura idoneo all’opera- zione. È una scelta fondamentale e legata al valore atteso della misura. Quindi, per essere bravi misuratori, prima di tutto bisogna essere in grado di stimare il valore atteso. È un’operazione difficile, ma abbiamo predecessori illustri la cui opera può essere di esempio per chi si avvicina alla misura. Fra tutti va ricor- dato Enrico Fermi, il fisico italiano fondatore del Gruppo di via Panisperna, un insieme di ragazzi poco più che ventenni capaci di cambiare la fisica del XX secolo con scoperte e invenzioni ancora oggi utilizzate. Fermi aveva una vera

9 In realtà si tratta della misura di una massa, ma nel corso dell’attività non abbiamo troppo sottilizzato, badando soprattutto all’aspetto di contenuto e tralasciando (anche se a malincuore) di affrontare questo fraintendimento che porta nel lessico quotidiano a confondere due grandezze che sono ben differenti tra loro: la massa (M, grandezza fondamentale della meccanica) e il peso (W=Mg, forza alla quale un corpo è soggetto per effetto della gravità g). Itinerari Musei e Territorio: il Parco della Resistenza a Modena 239 e propria passione, oltre che notevole capacità, come del resto in tutti i settori della fisica, per la valutazione del risultato atteso nelle misure. Passione colti- vata nel tempo, fino al riconoscimento avvenuto con la redazione delle stime oggi note con il nome di Fermi questions. Così, proprio partendo da qualche piccolo esercizio, abituandoci ad affron- tare le domande con cui dobbiamo necessariamente confrontarci giorno per giorno possiamo fondatamente sperare di arricchire il nostro bagaglio di cono- scenze e competenze, anche dal punto di vista scientifico; punto di vista sem- pre più importante in una società pervasa dalla tecnologia, derivata ultima della ricerca scientifica di base.

5. Considerazioni finali

L’iniziativa “Paesaggi e passaggi... nel parco” è stata organizzata nel 2011 al Parco della Resistenza di Modena dal gruppo di lavoro “Natura e Scienza”, isti- tuito nello stesso anno all’interno del Sistema Museale della Provincia di Modena. L’esperienza ha fornito l’occasione per valorizzare uno spazio verde pubblico, unico esempio di parco-campagna, che rappresenta al contempo un luogo di natura, di scienza e di cultura. Le attività proposte, che sono state decli- nate in narrazioni e in percorsi ludico-sperimentali, hanno guidato il pubblico alla (ri)scoperta del nostro territorio e della sua storia ed alla conoscenza consa- pevole di quanto la scienza sia applicata nel comune vivere quotidiano. La narrazione “a più voci” degli esperti ha evidenziato la capacità del luogo di essere declinato e raccontato da diversi punti di vista attraverso un dialogo tra le discipline scientifiche che ha restituito un’immagine unica e integrata del parco. La proposta ha inoltre permesso a tutti i musei scientifici e naturalistici coinvolti nel progetto di rafforzare il proprio legame con la realtà territoriale in cui operano, entrando in contatto con diversi target di pubblico, ascoltan- done le esigenze e i desideri spesso rivolti a ricercare una più profonda iden- tità e qualità nel proprio vivere quotidiano.

Ringraziamenti

Si ringraziano il socio Dott. Claudio Santini per la preziosa collaborazio- ne e la Provincia di Modena per il supporto dato al progetto. 240 M. Bertacchini, P. Serventi, G. Barbieri, F. Buldrini, L. Sala, L. Malagoli, M. Salvarani, C. Bortoli, L. Tosatti

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Giovanna Barbieri1, Giovanna Bosi1, Liliana Ronconi2, Daniela Dallari3, Marta Bandini Mazzanti1 Itinerari e Laboratori all’Orto Botanico: 5. Le imprese della clorofilla – il Laboratorio Fotosintesi

Riassunto Il Gruppo Guide Orto Botanico dell’Università di Modena e Reggio Emilia continua nell’esposizio- ne delle attività didattiche rivolte alle scuole. In questo contributo è preso in esame il laboratorio dedicato alla fotosintesi clorofilliana. Abstract The Guide Group of the Botanical Garden of Modena and Reggio Emilia University continues the pre- sentation of its educational activities for schools. The workshop about photosynthesis is illustrated.

Parole chiave: fotosintesi clorofilliana, didattica, approccio interattivo Key words: photosynthesis, education, hands-on method

Il grandioso ciclo che conserva la vita sulla terra, che trasforma la luce solare in energia chimica, che ci fornisce una tavola imbandita inesauribile e un’atmosfera ricca di ossigeno.

Isaac Asimov

1 Orto Botanico – Dipartimento di Biologia, Università di Modena e Reggio Emilia. 2 Provincia di Modena. 3 Istituto Superiore d’Arte Adolfo Venturi, Modena. 242 G. Barbieri, G. Bosi, L. Ronconi, D. Dallari, M. Bandini Mazzanti

1. Introduzione

Il presente contributo prosegue l’illustrazione, iniziata alcuni anni fa e pro- seguita con una certa continuità (Bosi et al., 2005, 2006; Barbieri et al., 2007; Grimaudo et al., 2007), dei Percorsi Didattici rivolti alle scuole di ogni ordine e grado, ideati e attuati all’Orto Botanico di Modena a cura del Gruppo Guide Orto Botanico. In questa sede viene presentato il percorso-laboratorio che riguarda la fotosintesi clorofilliana.

2. La fotosintesi clorofilliana

“L’atomo di carbonio di cui parliamo, accompagnato dai suoi due satel- liti che lo mantenevano allo stato di gas, fu dunque condotto dal vento, nel- l’anno 1848, lungo un filare di viti. Ebbe la fortuna di rasentare una foglia, di penetrarvi e di essere inchiodato da un raggio di sole. Entra nella foglia, collidendo con altre innumerevoli molecole di azoto e ossigeno. Aderisce a una grossa e complicata molecola che lo attiva e simultaneamente riceve un pacchetto di luce solare: in un istante viene separato dal suo ossigeno, com- binato con idrogeno e inserito in una lunga catena, quella della vita. Tutto questo avviene rapidamente, in silenzio, alla temperatura e pressione atmo- sferica, e gratis: quando anche noi impareremo a fare altrettanto avremo anche risolto il problema della fame nel mondo. Infatti, l’anidride carboni- ca, il gas che costituisce la materia prima della vita, non è uno dei compo- nenti principali dell’aria che ne contiene solo lo 0,03 per cento. Ora il nostro atomo è inserito in una struttura ad anello, un esagono quasi regola- re, che sta sciolto nell’acqua, anzi, nella linfa della vite. È entrato a far parte di una molecola di glucosio: viaggiò dalla foglia per il picciolo e per il tralcio fino al tronco e di qui discese fino a un grappolo quasi maturo” (Levi, 1975). La fotosintesi clorofilliana (dal greco ϕώτο = “luce” e σύνθεσις = “costruzione”) è considerata da chi indaga la vita “il più importante proces- so che avviene sulla Terra” (Raven et al., 2002). È un processo altamente complesso, mediante il quale, a partire da anidride carbonica e acqua e con il sole quale fonte di energia, vengono prodotti zuccheri e liberato ossigeno. Limitandoci alle piante terrestri, avviene nelle parti verdi e principalmente nelle foglie. A livello cellulare la reazione fotosintetica si compie nei cloro- plasti ed è mediata da pigmenti di colore verde, le clorofille, e da altri pig- menti accessori (carotenoidi). Gli scambi gassosi tra l’atmosfera esterna e le Itinerari e Laboratori all’Orto Botanico: 5. Le imprese della clorofilla... 243 cellule vegetali avvengono grazie a piccole aperture presenti nell’epidermi- de fogliare, gli stomi. Per una conoscenza approfondita del processo fotosin- tetico si rimanda a Taiz & Zeiger (2008).

3. L’importanza della fotosintesi clorofilliana

La comparsa dei primi organismi fotosintetici (organismi procarioti come i cianobatteri, probabilmente oltre 3 miliardi di anni fa, cfr. Taylor et al., 2009) determinò la modificazione dell’atmosfera primordiale (costituita principal- mente da zolfo, anidride carbonica e metano), arricchendola di ossigeno. Prima dell’evoluzione della fotosintesi, le particolari condizioni ambientali presenti sulla Terra, quali l’elevata temperatura del pianeta e la composizione chimica dell’atmosfera, erano i principali fattori che regolavano il corso della selezione naturale. Con l’evoluzione della fotosintesi, gli organismi comincia- rono a cambiare l’aspetto del nostro pianeta e a determinare un diverso equi- librio fra fattori biotici e abiotici. Dal punto di vista ecologico, l’importanza della fotosintesi è riconducibile essenzialmente a due aspetti: 1. il processo fotosintetico converte l’energia solare, direttamente utilizza- bile solo dai vegetali in senso lato, in una forma di energia utilizzabile da tutti gli altri organismi viventi. Gli organismi fotosintetici, i produt- tori, formano il primo anello della catena alimentare e costituiscono circa il 90% della biomassa; gli animali erbivori che se ne nutrono sono detti consumatori primari, mentre i carnivori, parassiti e agenti di decomposizione possono essere consumatori secondari o terziari (Marinelli, 2005). 2. dalla fotosintesi abbiamo come sottoprodotto l’ossigeno che viene uti- lizzato da quasi tutti gli organismi viventi per i processi di respirazione.

“Grazie alla clorofilla gli alberi vivono, crescono e danno vita a nuove piante senza bisogno di cibarsi di altri esseri viventi. Ciò avviene perché la clorofilla riesce a fare una cosa di cui nessuna altra sostanza è capace, cioè trasformare la luce del sole in energia elettrica e ricavare in questo modo zuc- cheri dall’aria e dall’acqua. (…). Le piante producono ossigeno ricavandolo dall’acqua durante la fotosintesi come una specie di materiale di scarto, e lo liberano nell’aria” (Huber, 2005). 244 G. Barbieri, G. Bosi, L. Ronconi, D. Dallari, M. Bandini Mazzanti

4. Fotosintesi clorofilliana: questa sconosciuta!

La fotosintesi, pur essendo l’argomento “verde” più importante, presenta delle difficoltà oggettive di comprensione, non solo per i bambini della scuo- la dell’obbligo, ma anche per i ragazzi delle scuole superiori (e per render- sene conto, basta frequentare blog e forum studenteschi in rete!). Da una ricerca effettuata su alcuni testi scolastici attualmente in dotazione, emerge in questi la presenza di numerose imprecisioni sull’argomento. Spesso, inol- tre, i metodi, anche sperimentali (es. starch tests), con i quali si cerca di spie- gare il processo fotosintetico ai ragazzi delle scuole superiori, hanno mecca- nismi troppo complessi e risultati non soddisfacenti, come rilevato da Barker & Carr (1989). Così nel corso degli anni si sono cercate vie alternative di maggior impatto (cfr. Eldridge, 2004), che comunque rimangono ad un livel- lo inadatto per le classi scolastiche inferiori.

5. Il Laboratorio Fotosintesi

Nato circa una decina di anni fa e in continuo aggiornamento, il Laboratorio (della durata di due ore) gode di un buon successo, testimonia- to dalle sempre numerose richieste, ed è destinato a Scuola Primaria (3a, 4a, 5a classe) e Scuola Secondaria (I grado), differenziato e adeguato in base al target. Viene realizzato nell’Aula Storica dell’Orto Botanico e si avvale di supporti multimediali, quali presentazione tramite videoproiettore, filmati e animazioni. Il laboratorio prevede un’impostazione di tipo operativo, grazie a numerose esperienze pratiche e osservazioni al microscopio ottico (pas- sando quindi dal macro al micro), privilegiando un approccio interattivo e per scoperta, approccio che produce un apprendimento duraturo e significa- tivo; in questo modo viene infatti favorita nei ragazzi una costruzione auto- noma ed attiva delle conoscenze che vengono integrate con quelle preesi- stenti. Questa modalità è in linea con la moderna pedagogia (cfr. Mortari, 2009), che sostiene che i bambini e i pre-adolescenti sono ancora legati al pensiero concreto e all’esperienza e manifestano una forte resistenza agli apprendimenti di cui non comprendono motivazione e significato.

Obiettivi del laboratorio 1) fornire le basi per comprendere l’essenza del processo fotosintetico; 2) evidenziare i rapporti esistenti tra esseri viventi e componenti abioti- che dell’ecosistema Terra; Itinerari e Laboratori all’Orto Botanico: 5. Le imprese della clorofilla.. 245

3) stimolare la curiosità verso il mondo vegetale; 4) far toccare con mano la metodologia sperimentale nel processo scien- tifico.

Cosa c’entro io con la fotosintesi? Il laboratorio inizia con questa domanda posta alla classe come sugge- stione iniziale per stimolare la discussione (nella modalità di brainstorming) sull’importanza delle piante nella vita dell’uomo. Vengono poi fornite alcu- ne precisazioni relative ad alcuni casi particolari (es. le piante oloparassite, come Cuscuta sp. e Orobanche sp., che non svolgono la fotosintesi; le pian- te cosiddette “carnivore”, che invece svolgono la fotosintesi e non «si nutro- no solo di insetti», come spesso affermano i ragazzi). Il percorso prosegue con la descrizione dei fattori ed elementi che intervengono nella fotosintesi.

La “ricetta” della fotosintesi Che cosa “mangia” una pianta? Come prepara il suo cibo? Per rendere il processo più comprensibile, la fotosintesi viene spiegata tramite una simili- tudine: gli zuccheri prodotti dalla fotosintesi sono paragonati ad una torta e gli elementi di partenza (acqua e anidride carbonica) agli ingredienti per rea- lizzarla dentro ad una particolare cucina, la foglia, dove abbiamo un forno (il cloroplasto); la fotosintesi rappresenta quindi la realizzazione, grazie al calore del forno (la luce solare), reso disponibile da un trasformatore (la clo- rofilla), della ricetta, realizzazione che prevede, come ogni preparazione culinaria, uno scarto (ossigeno) (Fig. 1). In sintesi, il motto delle piante potrebbe essere “Food from the Sun!” (Johnson, 2009). Solo al termine viene presentata ai ragazzi la equazione globale e bilan- ciata della fotosintesi, soprattutto per evidenziare l’equilibrio quantitativo tra gli elementi di partenza e quelli finali. Inoltre si citano casi di “ricette alter- native” (per le piante C4 e CAM, con meccanismi fotosintetici particolari). L’ultima parte del laboratorio è dedicata ad una illustrazione sintetica e semplificata del processo fotosintetico (con particolare attenzione ai fattori ecologici, al ciclo del carbonio e alla catena alimentare) e alla riflessione sull’esistenza di un legame tra tutti gli esseri viventi e sull’importanza di questo processo che rende possibile la vita (così come noi la conosciamo) sulla Terra. 246 G. Barbieri, G. Bosi, L. Ronconi, D. Dallari, M. Bandini Mazzanti

Fig. 1 – La “ricetta” della fotosintesi clorofilliana

Esperienze effettuate con i ragazzi Le varie parti del Laboratorio prevedono spiegazioni frontali accompagna- te da esperienze pratiche che cercano di far toccare con mano, o perlomeno di visualizzare, gli elementi e i processi di base della fotosintesi. Quando servo- no tempi lunghi le esperienze vengono preparate all’inizio del Laboratorio, per poi riprenderle nel momento in cui servono per la spiegazione. Luce solare = Calore del forno – Di che colore è la luce? In realtà, la luce che appare bianca è formata da tante componenti colorate, che vanno dal rosso al violetto. La pianta non utilizza tutte le componenti della luce; ogni colore ha la sua energia (come le diverse temperature del forno) e la pianta sceglie la più adatta. Esperienze di scomposizione e ricomposizione della luce utilizzando un cd (per l’iridescenza sul retro del supporto), un prisma e un disco di Newton. Acqua = Ingrediente 1 – Da dove viene assorbita? In che modo? Esperienze per comprendere i meccanismi di osmosi/diffusione e capillarità; a) Osmo - Itinerari e Laboratori all’Orto Botanico: 5. Le imprese della clorofilla.. 247 si/Diffusione – Si versa acqua distillata in due bicchieri e in uno di essi si aggiunge un cucchiaino di sale da cucina mescolando; s’immergono pezzi di carota (Daucus carota – botanicamente una radice) in entrambi i bicchieri e dopo circa due ore si verifica la consistenza dei pezzi di carota schiacciandoli con un dito e si ragiona sul perché abbiano consistenze diverse: infatti nel- l’acqua dolce le carote si sono indurite (hanno assorbito acqua), mentre nel- l’acqua salata si sono ammorbidite (hanno rilasciato acqua). Per spiegare il meccanismo della diffusione può essere utilizzata una zolletta di zucchero messa a contatto con acqua + colorante alimentare; b) Capillarità – In un bic- chiere si aggiungono acqua e colorante per alimenti; s’immerge un gambo di sedano (Apium graveolens – botanicamente parti della foglia: guaina e piccio- lo) o un garofano bianco (Dianthus sp.) e, trascorso un certo lasso di tempo, si evidenzia la risalita del liquido. Alla fine si ragiona anche sul meccanismo della traspirazione e sulla presenza dei sali minerali disciolti nell’acqua e necessari per la “costruzione” dell’organismo vegetale. Anidride carbonica = Ingrediente 2 - È un gas; l’avete mai visto? Si ricor- da l’acqua minerale e le bevande gassate, dove è presente la dicitura: “con aggiunta di anidride carbonica”. Esperienza per “vedere” l’anidride carbonica; partendo da due becher da 50 ml, in ognuno si versano 20 ml di acqua distil- lata e si aggiungono con una pipetta Pasteur 2 gocce di blu di bromotimolo per colorare l’acqua. Con la cannuccia di vetro si soffia in uno dei due becher e, per reazione con l’anidride carbonica insufflata, il colore della soluzione vira verso il verde, mentre il contenuto del becher di confronto resta blu. Foglia e Cloroplasto = Cucina e Forno – Dopo una descrizione macrosco- pica, a occhio nudo o con una lente, per osservare la diversità di forme e le ner- vature (importanti per il trasporto dell’acqua), vengono fatte alcune esperien- ze per osservare al microscopio ottico a livello della lamina fogliare gli stomi (spellatura di foglie di radicchio rosso, una cultivar di Cichorium intybus, la cicoria) e a livello cellulare i cloroplasti (in foglie di Elodea sp., la nota e gra- ziosa peste d’acqua, con foglie di scarso spessore e cloroplasti grandi e ben visibili). Clorofilla = Trasformatore del forno – La fotosintesi non potrebbe avveni- re senza i pigmenti responsabili dell’assorbimento della luce, in particolare la clorofilla (o meglio le clorofille). Esperienza di estrazione della clorofilla da foglie di colore verde intenso (es. spinaci – Spinacia oleracea): si pestano le foglie in un mortaio di ceramica insieme ad etanolo. Dopo alcuni minuti si svuota il contenuto del mortaio in un becher di vetro e si ragiona sul colore verde intenso assunto dall’etanolo (Tav. 1). 248 G. Barbieri, G. Bosi, L. Ronconi, D. Dallari, M. Bandini Mazzanti

Materiali consegnati al termine dell’attività a) istruzioni per realizzare il disco di Newton in cartoncino; b) scheda di approfondimento “Fotosintesi ed effetto serra”; c) scheda “Latro-lamp, la lam- pada a fotosintesi”; d) test di verifica; d) testo di “Storia di un atomo di car- bonio” (es. Levi, 1975); e) schede-gioco e “Labirinto della clorofilla” (solo per Scuola Primaria).

6. Conclusioni

Dopo anni di sperimentazione, possiamo affermare che il Laboratorio Fotosintesi qui presentato può essere una buona base di partenza per dare ai bambini le nozioni basiche per comprendere più avanti nel loro percorso sco- lastico il complicato processo fotosintetico in tutte le sue sfaccettature. Considerando l’importanza che riveste la fotosintesi clorofilliana, sembra più che mai urgente rilanciare la sua conoscenza, utilizzando all’inizio metodi empirici e semplici che possano rimanere a lungo nella memoria dei ragazzi.

Ringraziamenti

Si ringraziano le Proff. Piera Bonatti, Roberta Baroni ed Elisabetta Sgarbi per i preziosi consigli forniti durante l’ideazione di questo laboratorio.

Opere consultate (A= per adulti; R = per ragazzi)

AA.VV., 1991 – La natura al lavoro. Introduzione all’ecologia. Editori Riuniti/Cambridge University Press, Roma. R AA.VV., 1998 – Le piante - Enciclopedia delle piante. Fabbri Larousse, Milano. R AA.VV., 2002 – Le piante. De Agostini Ragazzi, Novara. R AA.VV., 2002 – L’origine della vita. Editoriale Scienza, Trieste. R ARNOLD N. & DE SAULLES T., 2001 – Muffe, peponidi, tartufi e altri vergognosi vegetali. Salani, Milano. R ASIMOV I., 1971 – Il miracolo delle foglie. La fotosintesi. Bollati Boringhieri, Torino. A BARBIERI G., BOSI G. & BANDINI MAZZANTI M., 2007 – Itinerari e Laboratori all’Orto Botanico: 4. Piante, polline & C. e Laboratorio Polline: due attività per far conoscere il microscopico mondo del polline. Atti Soc. Nat. Mat. di Modena, 137 (2006), pp. 69-76. A BARKER M. & CARR M., 1989 – Photosynthesis – can our pupils see the wood for the trees? Journal of Biological Education, 23, pp. 41-44. A BATES J., 1992 – Dal seme alla pianta. Editoriale Scienza, Trieste. R BOSI G., BARBIERI G., MASSAMBA I., RONCONI L., STORCI C. & BANDINI MAZZANTI M., 2005 – Itinerari e Laboratori all’Orto Botanico: 1. Officina Botanica Inverno. Atti Soc. Nat. Mat. di Modena, 135 (2004), pp. 109-119. A BOSI G., BARBIERI G., RONCONI R., SERVENTI P. & BANDINI MAZZANTI M., 2006 – Itinerari e Laboratori Itinerari e Laboratori all’Orto Botanico: 5. Le imprese della clorofilla.. 249

all’Orto Botanico: 2. Le piante narrate: tre Itinerari (Storie di piante del Piccolo Popolo - Le piante raccontano – Le Erbe magiche). Atti Soc. Nat. Mat. di Modena, 136 (2005), pp. 53-66. A DIHEN G. & KRAUTWURST T., 2003 – L’Officina Verde. Editoriale Scienza, Trieste. R ELDREDGE N. (a cura di), 2004 – La vita sulla Terra. Codice Edizioni, Torino. A ELDRIDGE D., 2004 – A novel approach to photosynthesis praticals. School Science Review, 85(312), pp. 37-45. A GIONO J., 1998 – L’uomo che piantava gli alberi. Salani, Firenze. R GRIMAUDO M., BOSI G., MASSAMBA I., BARBIERI B., SGARBI E., BARONI FORNASIERO R. & BANDINI MAZZANTI M., 2007 – Itinerari e Laboratori all’Orto Botanico: 3. Le piante, gli adattamenti e le dife- se. Atti Soc. Nat. Mat. di Modena, 137 (2006), pp. 57-68. A HELMS D.H., 1990 – Laboratorio di Biologia. Zanichelli, Bologna. A HUBER R., 2005 – Perché le foglie degli alberi sono verdi? In: B. Stiekel (a cura di) “Spiegami il mondo: i premi Nobel rispondono alle domande dei bambini”, Mondadori, Milano. R JOHNSON R.L., 2009 – Powerful Plant Cells. Lerner, London. R KAUFMAN J. (1976) – Lo sai come siamo fatti? Arnoldo Mondadori Editore, Verona. R KNAPP B., 1993 – Cos’è la luce? Editoriale Scienza, Trieste. R LEVI P., 1975 – Il sistema periodico. Einaudi, Torino. A MANNING M. & GRANSTRÖM B., 1998 – A scuola di Natura. Editoriale Scienza, Trieste. R MARINIELLI J., 2005 – Piante. Mondadori Electa, Milano. A MAROTTI M., 1997 – Le piante coloranti. Edagricole, Bologna. A MASTRODONATO M., 2001 - Dai una mano a salvare il pianeta con l’ecologia attiva - Educare all’ambien- te. Giunti Junior, Verona. R MICHELINI F. & CAVAZZANO G., 1983 – Zio Paperone e l’Operazione Foglia. “Topolino”, 1455, Mondadori, Milano, pp. 155-209. R MORTARI L. (a cura di), 2009 – La ricerca per i bambini. Mondadori Università, Milano. A PONS M.M. & THEINHARDT V., 2000 – L’alimentazione a piccoli passi. Mottajunior, Milano. R RAV E N P.H., EVERT R.F. & EICHHORN S.E., 2002 – Biologia delle piante. Zanichelli, Bologna. A STRADA A. & SPINI G., 2000 – La vita segreta degli alberi. Demetra, Verona. A TAIZ L. & ZEIGER E., 2008 – Fisiologia vegetale. Piccin, Padova. A TAYLOR B., 1997 – Le piante. Mondadori, Milano. R TAYLOR T.N., TAYLOR E.L. & KRINGS M., 2009 – Paleobotany. Academic Press, New York. A VOLLMAR K., 2003 – Colori - Come utilizzare pienamente il loro straordinario potere terapeutico. Red Edizioni, Novara. A

Siti internet consultati e/o utilizzati durante il laboratorio http://www.lmarconi.pr.it/Museo/schede/m500/discoDiNewton.html http://www.maniacworld.com/venus-fly-trap-vs-fly.html http://www.saps.org.uk/ 250 G. Barbieri, G. Bosi, L. Ronconi, D. Dallari, M. Bandini Mazzanti

Tav. 1 – Estrazione della clorofilla dalle foglie di spinaci; 2) reazione chimica tra anidride car- bonica e blu di bromotimolo; 3) esperienza diffusione; 4) stomi del radicchio rosso al MO; 5) cloroplasti della peste d’acqua al MO (foto G. Barbieri) Atti Soc. Nat. Mat. Modena 142 (2011)

Marisa Mari*, Ivano Ansaloni**

“Cioni”, il cavallo di Giuseppe Garibaldi

Riassunto Nel 1859 Giuseppe Garibaldi soggiornò a Modena per circa tre mesi allo scopo di organizzare le truppe della Lega dell’Italia Centrale. Alla sua partenza regalò il suo cavallo “Cioni” alla marche- sa Desirée Menafoglio per il tredicenne figlio Paolo. Dell’animale vennero conservati tre “cimeli”: la testa e la pelle, tuttora al Museo del Risorgimento di Modena, e lo scheletro di cui si ignora la col- locazione attuale. Abstract In 1859 Giuseppe Garibaldi sojourned in Modena for about three months in order to organize the troops of the League of . At his departure he presented his horse, named “Cioni”, to Paolo Menafoglio, the thirteen-year old son of marquise Desirée Menafoglio. Three parts of the ani- mal have been preserved. They are his stuffed head, his hide and his skeleton. Whereas the head and hide are displayed in the Museum of Risorgimento in Modena, the present location of the skeleton is not known.

Parole chiave: Garibaldi a Modena, cavallo di Garibaldi, Marchesi Menafoglio

Key words: Garibaldi in Modena, Garibaldi’s horse, Marquises Menafoglio

* Via Nazario Sauro 35, 41121 MODENA ** Dipartimento di Biologia, Università di Modena e Reggio Emilia, Via G. Campi 213/D, 41125 MODE- NA, e-mail: [email protected] 252 M. Mari, I. Ansaloni

1. Introduzione

Nel 150° anniversario dell’Unità d’Italia numerose sono state le iniziative per riportare alla memoria degli Italiani, particolarmente dei più giovani, il lungo cammino percorso dai primi moti insurrezionali, alle guerre di indipen- denza ed infine all’unità dell’intera Nazione. Accanto a mostre che si propone- vano di dare una visione generale delle complesse vicende risorgimentali, in altre si è preferito illustrare situazioni locali ricordando anche episodi minori o curiosità sulla vita di personaggi famosi. A chiusura delle celebrazioni modene- si il Museo Civico d’Arte ha allestito la mostra “Eroiche visioni, storie di duchi e patrioti” mettendo a confronto nella realtà modenese da un lato la corte trop- po legata al passato e incapace di comprendere la necessità di cambiamenti che la nuova mentalità che si andava formando richiedeva, dall’altro le figure più significative del risorgimento modenese e italiano. La mostra è stata divisa in tre sezioni: nel Museo Civico d’Arte i personaggi più significativi tra fedelissimi del duca, liberali e patrioti; nel palazzo comunale opere del pittore Adeodato Malatesta che, come messo in luce da recenti studi, aveva avuto opinioni libera- li. Infine, a ricordo del soggiorno a Modena di Giuseppe Garibaldi nel 1859, in una sala del Palazzo Molza erano esposti divise, oggetti personali, la testa (Fig. 1) e la pelle (Fig. 2) del cavallo “Cioni”1 (Lorenzini & Stefani, 2011).

Fig. 1 – Testa imbalsamata di “Cioni”. Modena, Museo Civico del Risorgimento di Modena, Archivio fotografico del Museo Civico d’Arte® (foto Sergio Orselli)

1 La testa e la pelle del cavallo Cioni erano già state esposte nel 2009 nel Museo Civico d’Arte nell’alle- stimento “La stanza dell’Eroe”. “Cioni”, il cavallo di Giuseppe Garibaldi 253

2. L’uomo e il cavallo

La domesticazione degli animali ha cambiato la vita dell’uomo che ha così potuto procurarsi cibo senza dover affrontare i pericoli e l’incertezza della cac- cia, pellicce, lana e un aiuto nel lavoro dei campi e nel trasporto di merci e per- sone. Il cavallo è stato tra gli ultimi ungulati ad essere domesticato non tanto per la carne quanto, visti i buoni risultati ottenuti con l’asino, per avere un ulte- riore aiuto. Nelle pitture del Paleolitico superiore dell’Europa occidentale il cavallo compare tra gli animali da cacciare. In passato si riteneva che la domestica- zione fosse iniziata nelle steppe dell’Europa orientale tra il corso inferiore del Dniepr e il Volga; è più probabile invece che intorno alla metà del III millen- nio a.C. vi siano stati più centri distinti nei Balcani, in Anatolia, in Transcaucasia ed anche nella penisola iberica (Masseti, 2002). Il cavallo fu utilizzato prima come bestia da soma e per il traino e solo molto più tardi come cavalcatura, probabilmente non prima del 1000 a.C., senza utilizzare però sella e staffe. Il carro da guerra trainato da cavalli nel II millennio a.C. cambiò l’arte militare (Masseti, 2002); Sumeri e Babilonesi lo usavano e gli Hyksos lo introdussero dalla Siria in Egitto. Nel capitolo XXIII dell’Iliade Omero descrive i tornei coi carri organizzati da Achille nella pianura davanti a Troia in onore dell’amico Patroclo, caduto in battaglia. In Grecia il cavallo era ammirato per la sua bellezza e per il carattere che metteva in risalto l’abilità del cavaliere nel riuscire a montarlo. Nella mitologia i cavalli erano sacri a Poseidone e trainavano il suo carro; vi erano cavalli alati come Pegaso nato dalla testa di Medusa ed altri in grado di parlare e addirittura dotati di spirito profetico come Balios e Xanthos, i cavalli di Achille, dono di Poseidone a suo padre Peleo (Morus, 1973). Alessandro Magno, alla morte del suo leggendario cavallo Bucefalo, diede il suo nome ad una città. Il rapporto uomo e cavallo non è stato motivato esclu- sivamente da ragioni di necessità ma anche dal prestigio che questo elegante animale conferiva al cavaliere. A partire da Marco Aurelio fino alla metà del secolo scorso innumerevoli sono le statue equestri ed i ritratti di personaggi storici a cavallo: condottieri, nobili, regnanti. Nell’iconografia risorgimentale più volte Garibaldi è raffigurato a cavallo come, ad esempio, nel monumento di via Indipendenza a Bologna. 254 M. Mari, I. Ansaloni

Fig. 2 – Pelle conciata di “Cioni”. Modena, Museo Civico del Risorgimento di Modena, Archivio fotografico del Museo Civico d’Arte® (foto Sergio Orselli)

3. Garibaldi a Modena

Garibaldi nelle sue memorie autobiografiche (1888) ricorda con amarezza, anche dopo la gloriosa spedizione dei Mille, il 1859. In ogni località dove si recava veniva accolto con manifestazioni di entusiasmo ma gli sembrava che il suo nome venisse usato per attirare volontari mentre si cercava di tenerlo in “Cioni”, il cavallo di Giuseppe Garibaldi 255 posizione defilata e di affidargli incarichi di fatto non troppo importanti; anche i “dittatori” non amavano avere al loro fianco un uomo troppo popolare. Con l’armistizio di Villafranca (11 luglio 1859) e i susseguenti patti si ritor- nava alla statu quo col rientro dei legittimi sovrani nei propri stati. Francesco V che aveva mantenuto un piccolo esercito, sufficiente però a vincere la resi- stenza delle forze cittadine, poteva tentare di rientrare a Modena. Il governa- tore Luigi Carlo Farini si trovò ufficialmente abbandonato dal Piemonte ma con grande abilità riuscì a far fermare a Modena le truppe toscane che rientra- vano dalla guerra. Proclamato dittatore per acclamazione popolare, il 28 luglio dichiarò di accettare la carica temporaneamente per poter convocare i comizi elettorali; anche Parma e Piacenza lo proclamarono dittatore. A Modena il 10 agosto fu costituita ufficialmente la Lega dell’Italia Centrale che doveva avere un esercito per impedire tentativi di restaurazione. Il comando supremo fu affi- dato al generale Manfredo Fanti e a Garibaldi il compito di organizzare le trup- pe (Righi, 1982). Annunciato dalla Gazzetta di Modena (n. 57) Garibaldi entrò in città il 16 agosto e si recò da Farini al Palazzo Nazionale (ex Palazzo Ducale). Il popolo radunatosi in piazza lo acclamò ripetutamente tanto che dovette per ben quat- tro volte affacciarsi al balcone (GM n. 58). Per poter alloggiare conveniente- mente gli ufficiali – Modena era diventata il quartiere generale della Lega dell’Italia Centrale – era stato preparato un piano di suddivisione in diverse case; a Garibaldi venne assegnato Palazzo Molza2 in via Ganaceto, dove fu ospitato con molta cordialità (Righi, 1982). Il 17 agosto visitò le caserme e gli ospedali militari e il giorno successivo, alle 5:30 del mattino iniziò la giorna- ta passando in rassegna, al Campo di Marte fuori porta S. Agostino, parte delle truppe dell’XI Divisione (GM n. 59). Dopo circa un mese la riorganizzazione delle truppe era in fase avanzata. Garibaldi si recò per qualche tempo a Bologna e a Rimini per occuparsi dell’armamento con cannoni di navi mer- cantili; ritornò a Modena i primi di novembre e ripartì definitivamente il 15 novembre (Righi, 1982). Ebbe occasione di conoscere i marchesi Menafoglio3,

2 Sulla facciata di Palazzo Molza, in via Ganaceto, nel primo anniversario della morte di Garibaldi, il Comune di Modena fece porre l’epigrafe: In questa casa / abitò / dalli 17 di agosto alli 13 di novembre del 1859 / Giuseppe Garibaldi quando ai popoli dell’Emilia e della Toscana / restituiti in libertà / colle- gati a comune difesa / porse soccorso / del braccio invitto e del nome / per decreto del Comune li 2 giu- gno 1883. 3 Il Palazzo Menafoglio in via Ganaceto (già via delle Stimate) al numero 113 pur presentando un’unica sobria facciata progettata da Lorenzo Toschi, era costituito da due case preesistenti acquistate nel 1776 dal marchese Antonio Menafoglio, ciascuna con un proprio ingresso e cortile interno, ambedue di un sol piano oltre l’ammezzato (Bertuzzi, 1999). Notevoli furono i lavori di risanamento e di abbellimento per trasformarle in un’abitazione signorile. L’edificio fu danneggiato nel bombardamento del 22 giugno 1944 in cui una trentina di edifici vennero distrutti e un centinaio danneggiati (Rolando, 1982; Bellei, 2011). 256 M. Mari, I. Ansaloni il cui palazzo era di fronte a quello dei Molza, in particolare Desirée Ruelle e il figlio Paolo, detto Paolino. Per più ampie notizie sulle sue attività durante il soggiorno modenese si rimanda alla Gazzetta di Modena (16 agosto-25 novembre). Garibaldi era solito montare ogni giorno un piccolo cavallo sardo, di nome Cioni, con la testa allungata, una macchia bianca sul muso e mantello sauro. Di carattere ribelle e testardo, era difficile da cavalcare ma quand’era montato da Paolino si mostrava più arrendevole. Alla sua partenza Garibaldi lo regalò alla marchesa per il figlio4. Il cavallo venne allevato con cura e alla sua morte la testa e la pelle vennero imbalsamate5 (Figg. 1, 2), per le anomalie anche lo scheletro venne conservato presso la Scuola Superiore di Veterinaria dell’Università (Canevazzi, 1928). Quando l’Istituto di Zooiatria venne sop- presso, nel 1924, le raccolte furono inviate all’Università di Messina dove si apriva la nuova Scuola Veterinaria (Mor & Di Pietro, 1975). La testa e la pelle furono date ai Menafoglio che, in seguito, le donarono al Museo del Risorgimento del Comune di Modena, dove sono tuttora conservate (Canevazzi, 1928; Lorenzini, 2011; Righi Guerzoni, 2011). Al momento inve- ce non è stato possibile individuare la collocazione dello scheletro.

Fu poi venduto dai Menafoglio nel 1947. In occasione del dono di Cioni, Garibaldi e la marchesa Menafoglio si scambiarono lettere che vennero conservate nel Palazzo e andarono distrutte nello stesso bombardamento. La marchesa Desirée Menafoglio, nata Ruelle, livornese, professò sentimenti patriotti- ci e col marito Antonio aderì alla sottoscrizione nazionale per l’acquisto di fucili voluta da Garibaldi (GM nn. 105, 110), offrendo 150,00 lire come appare negli elenchi dei sottoscrittori pubblicati dalla Gazzetta di Modena (GM n. 129). Il figlio Paolo (Modena 1-10-1846/Genova 1-6-1907) ebbe una parte importan- te nella vita pubblica modenese ricoprendo diverse cariche politico-amministrative: consigliere comuna- le, assessore, prosindaco e sindaco del comune di Modena; fu eletto deputato di Modena per tre legisla- ture a partire dal 1895 ed in seguito, dal 1905, senatore. Decorato della medaglia d’argento al valore civi- le per la sua condotta durante l’inondazione del fiume Po nel 1872, fu anche presidente e membro di parecchi istituti cittadini tra cui la Società Operaia di Mutuo Soccorso (presidente 1875-1881) (FM 75, Senato della Repubblica). 4 Il carattere di Cioni era ben noto al colonnello garibaldino Giuseppe Deinery, che era stato a Modena con Garibaldi nel 1859, tanto che scrisse alla marchesa Menafoglio di farlo lavorare “essendo Cioni avvez- zato molto alla fatica”, forse temendo che non sottoposto ad una rigida disciplina peggiorasse (Canevazzi, 1928). 5 Nell’800 per ricordare un personaggio importante o una persona cara era usuale conservare ritratti, cor- rispondenza e oggetti personali, “meglio ancora se in grado di attestarne la fisicità tramite tracce di mate- ria organica come sangue, lacrime, sudore e capelli” (Lorenzini, 2011, pag. 97). Molti di questi “cime- li”, sulla cui autenticità non sempre vi è certezza ma che comunque testimoniano affetto e rispetto, sono conservati nei Musei. A Modena tra gli altri vi è la camicia di Ciro Menotti con tracce di sangue e una ciocca di capelli tagliati dal cadavere di Francesco V. Nelle case si tenevano per ornamento rametti con uccellini naturalizzati sotto campane di vetro, trofei di caccia ma anche animali imbalsamati a cui si era stati particolarmente affezionati. Ricordiamo il cane Bendicò conservato per molti anni nella propria camera da Concetta ne “Il Gattopardo” di Tomasi di Lampedusa (1959). “Cioni”, il cavallo di Giuseppe Garibaldi 257

4. Il cavallo sardo

Il cavallo sardo è frutto di una serie di incroci che lo hanno profondamen- te modificato rispetto alla forma originale. Si ritiene che i primi cavalli siano stati introdotti in Sardegna dai Greci nel VI-V a.C. In seguito cartaginesi, romani e saraceni proseguirono gli allevamenti contribuendo al formarsi di popolazioni abbastanza apprezzate. È probabile che durante l’occupazione saracena vi siano stati incroci tra i cavalli locali e quelli degli invasori ritenuti di razza molto pregevole. Successivamente sotto il dominio spagnolo sia con Ferdinando il Cattolico (1479-1516) che con Filippo II (1556-1598) si cercò di migliorarne le caratteristiche incrociando cavalle sarde con stalloni andalu- si. Per evitare che i migliori esemplari venissero venduti fuori dall’isola, depauperando gli allevamenti degli esemplari migliori, Filippo IV (1621- 1665) vietò l’esportazione dei cavalli di pregio. Con il passaggio dell’isola alla Casa Savoia l’allevamento decadde al punto che Carlo Alberto dopo aver visi- tato nel 1829 la Regia Tanca di Pauli-Latino ne decretò la chiusura che avven- ne definitivamente nel 1868. La scarsa attenzione e l’insalubrità del terreno erano state le principali cause della decadenza (Marchi & Mascheroni, 1925). La legge del 15/04/1851, che aboliva la proprietà collettiva, ebbe come conseguenza la riduzione dell’allevamento equino a vantaggio di quello bovi- no. Con aiuti statali si cercò di aumentare la taglia del cavallo non tenendo conto di altre qualità. Infine nel primo ventennio del ‘900 furono create delle stazioni ippiche per la selezione in cui le migliori fattrici erano suddivise in gruppi, ciascuno con uno stallone orientale. Negli anni venti i migliori cavalli provenivano dalla parte settentrionale dell’isola per la maggior cura nella scel- ta dei riproduttori e per la qualità dei pascoli. Nella parte meridionale l’alle- vamento era più trascurato per la scarsità delle stazioni di monta, governative e private, e per l’esportazione dei soggetti migliori. Incroci continuati con stal- loni orientali e talvolta con purosangue inglesi hanno cambiato la struttura del cavallo rispetto al precedente tipo spagnolo aumentandone la statura e ren- dendo più snella e allungata la sagoma. Alimenti (1915) fornisce una serie di caratteri zootecnici per identificare i diversi “tipi” del cavallo sardo; ricordia- mo i “rettilinei” derivati dal cavallo arabo o con influenza del purosangue inglese e i “convessilinei” derivati dal cavallo africano o dall’andaluso a sua volta di origine africana, di questi ultimi fa parte il sardo antico comune. Il cavallo sardo, allevato per lo più allo stato brado, durante le stagioni avverse raramente riceveva alimentazione integrativa e questo spiega la taglia ridotta e le malformazioni in alcuni esemplari dopo lo slattamento. Anche l’addestra- mento per fargli accettare morso e briglia era rapido ma brutale. Attualmente 258 M. Mari, I. Ansaloni non è più utilizzato per lavori agricoli come la trebbiatura del frumento e viene impiegato nello sport (salto e corsa) e come cavallo da sella e da tiro leggero.

5. Lo scheletro di Cioni

Sul n. 11 della Gazzetta dell’Emilia, pubblicato in data 13-14 gennaio 1928, il prof. Canevazzi, direttore del Museo del Risorgimento, ricordava alcuni reperti peculiari delle raccolte tra cui la pelle e la testa naturalizzata di Cioni. Lo stesso Canevazzi, socio dell’Accademia di Scienze Lettere Arti di Modena, nell’Adunanza del 5 febbraio dello stesso anno lesse una nota del prof. Zannini, docente di Anatomia descrittiva presso la Regia Scuola Veterinaria di Parma, che illustrava minuziosamente le anomalie dello sche- letro di Cioni conservato presso il Museo dell’Istituto Sperimentale di Zootecnia della Università di Modena. La forma dei denti incisivi e la man- canza di 11 molari, i cui alveoli erano riempiti da sostanza ossea spugnosa, indicavano che era vissuto fino a 35-40 anni. La colonna vertebrale presen- tava diverse anomalie a partire dalla IX vertebra dorsale alla IV lombare quali ad esempio anchilosi completa dalla IX alla XIII vertebra dorsale con le facce ventrali e laterali dei corpi vertebrali che apparivano “come rivesti- ti di un manicotto osseo lamellare, il quale passa insensibilmente da un corpo vertebrale all’altro”. Sul lato destro vi era una costa, la diciannovesima, soprannumeraria lunga 20 cm. Lo scheletro presentava inoltre tre “tare di notevole volume e defor- manti”: sulla mandibola, sullo stinco anteriore destro e nella faccia interna della regione tarsica sinistra, quest’ultima provocava nel cavallo una “intensa e cronica zoppia”. Le caratteristiche dello scheletro permettono di comprendere il comporta- mento irrequieto del cavallo che doveva sentire dolore ogni volta che il cava- liere montava in sella: “di qui la caparbietà di Cioni quando il Generale lo cavalcava e la sua indole più docile allorché il giovinetto Menafoglio saliva in arcione” per il minor peso del ragazzo rispetto al Generale (Zannini, 1929).

Abbreviazioni utilizzate: GM = Gazzetta di Modena FM = Ferrari-Moreni, Famiglie Modenesi “Cioni”, il cavallo di Giuseppe Garibaldi 259

Ringraziamenti

Ringraziamo vivamente il Dott. Lorenzo Lorenzini e la Dott.ssa Cristina Stefani del Museo Civico d’Arte di Modena per la collaborazione, il persona- le della Biblioteca Estense Universitaria e dell’Archivio Storico del Comune di Modena per la loro gentilezza e competenza. Un particolare ringraziamen- to alla dott.ssa Francesca Piccinini, direttrice del Museo Civico d’Arte di Modena, per averci fornito le fotografie del cavallo e concesso l’autorizzazio- ne a pubblicarle.

Bibliografia

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È stato inoltre consultato il sito del Senato della Repubblica (www.senato.it).

Atti Soc. Nat. Mat. Modena 142 (2011)

Ricordo di PERICLE DI PIETRO di Ferdinando Taddei

Il professor Pericle Di Pietro è deceduto a Modena il 2 gennaio 2010 all’età di 94 anni. Era nato a Modena nel 1915 ed in questa città aveva svolto la sua lunga attività professionale di medico, storico della scienza e, in particolare, sto- rico della medicina. Di storia della medicina era libero docente presso l’ateneo modenese dove tenne corsi su questa disciplina. Dagli anni sessanta fu membro della Commissione per la Storia dell’Università di Modena. Nella sua ricerca storica, alla quale si è dedicato negli anni della seconda metà del secolo scorso, ha spaziato dagli Etruschi e dai Romani, passando attra- verso il Medioevo, fino al XX secolo. La sua bibliografia conta più di 170 pub- blicazioni, tra le quali emergono per consistenza ed estensione ricerche sui prin- cipali scienziati ed istituti modenesi. Insieme al giurista e storico Carlo Guido Mor, rettore dell’Università di Modena negli anni quaranta, ha redatto una storia dell’Università modenese dalle sue origini fino agli anni settanta del secolo scorso; ancora oggi l’unica sto- ria completa dell’ateneo modenese, oggetto di continua consultazione. Quest’opera fu preceduta nel 1970 dalla storia dello Studio Pubblico di San Carlo (1682-1772), l’istituto che precedette la fondazione dell’ateneo modenese di età moderna. Sulla scienza e sui maggiori scienziati del territorio modenese nelle varie epoche si è occupato portando alla luce documenti e notizie presenti negli archi- vi e nelle biblioteche, specialmente della nostra città, scrivendo saggi dotati di rilevante originalità e punti di partenza per l’approfondimento della cultura nei secoli, particolarmente di quella che ha caratterizzato quel territorio che gravita- va su Modena e Reggio, ricco di protagonisti del progresso scientifico del pas- sato. Di Gabriele Falloppia, Francesco Torti, Bernardino Ramazzini, Lazzaro Spallanzani, Antonio Scarpa, Bonaventura Corti, Giambattista Amici, Michele Araldi, Francesco Selmi e altri ancora ha scritto Pericle Di Pietro e dei risultati di queste sue fatiche innumerevoli volte è stato chiamato a parlarne in confe- renze, convegni, congressi nazionali ed internazionali, fino a quando la natura ha sorretto il suo infaticabile temperamento. 262 Ricordo di PERICLE DI PIETRO

Ciò che colpiva in modo particolare era l’entusiasmo con il quale affrontava i nuovi argomenti di studio e di ricerca, entusiasmo che sapeva comunicare a chi si rivolgeva per richiedere la collaborazione e per intraprendere nuove strade di stu- dio nate dal suo inesauribile desiderio di esplorare, di conoscere e di far conoscere. Nel 1984 propose all’Università di Modena di intraprendere la colossale ini- ziativa di avviare una edizione nazionale, quella delle opere di Lazzaro Spallanzani. Il Consiglio di Amministrazione dell’Università, interpellati noti studiosi della Scienza per un parere, approvò l’iniziativa e l’edizione fu accetta- ta dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali. Fino ad oggi sono stati pub- blicati trenta volumi, dei quali i primi dodici di mano di Pericle Di Pietro e l’in- tera opera è giunta a due volumi dal termine. Un’opera destinata a rimanere nel tempo come pietra miliare per la storia della Scienza. È stato socio della Società dei Naturalisti e Matematici di Modena fin dal 1959. Con il professor Di Pietro scompare una delle figure più significative di sto- rico della Scienza, appassionato e scrupoloso, assai noto fra i cultori di questa disciplina a livello nazionale ed internazionale con i quali mantenne serrati e continui contatti, facendo di Modena un punto di riferimento per gli studi sui protagonisti del rinnovo culturale e del progresso scientifico.

Pericle Di Pietro (1915-2010) Atti Soc. Nat. Mat. Modena 142 (2011)

Ricordo di RENATA ZUNARELLI di Anna Maria Pagliai

Renata Zunarelli era nata a Modena il 12 agosto 1934 ed è deceduta, dopo lunga malattia, il 18 febbraio 2011. Ho conosciuto Renata nel 1958 sui banchi dell’aula di Mineralogia, allora in Corso Canalgrande, alle lezioni del professor Paolo Gallitelli. Io frequentavo il secondo anno di Scienze Naturali, Renata e altre quattro-cinque compagne di corso, il quarto anno: avevano atteso il ritorno del prof. Gallitelli da un suo soggiorno in America. Alla fine dello stesso anno ritrovai Renata, fresca di laurea, dall’altra parte della cattedra, nel corso di esercitazioni di Zoologia e fu in quella occasio- ne che per la prima volta rimasi colpita dalla sua straordinaria capacità didattica nel trasmettere le conoscenze con l’entusiasmo e la disponibilità che hanno caratterizzato tutta la sua carriera di docente e di ricercatrice. Alla fine del 1961, appena due settimane dopo la laurea, anch’io entrai a far parte, come Assistente straordinaria, della “squadra” dell’Istituto di Zoologia di via Università, dove ritrovai Renata che, dopo una breve espe- rienza nella scuola, era rientrata all’Università con la qualifica di Tecnico laureato incaricato. Dopo pochi mesi, nella primavera del 1962, avemmo insieme l’opportu- nità di partecipare ad un concorso per Assistente di ruolo alla Cattedra di Zoologia, allora coperta dal prof. Guido Bacci. A quel tempo i concorsi universitari prevedevano una terna di vincitori per ogni concorso. Normalmente il posto a concorso era uno solo e il primo in graduatoria entrava di ruolo, mentre il secondo e il terzo potevano rico- prire un posto di ruolo che venisse a disposizione entro tre anni. Nel 1963 il prof. Bacci si trasferì a Torino e chiamò con sé anche il dott. Umberto Parenti, vincitore del nostro concorso. A quel punto si trattava di scegliere tra noi due chi sarebbe andata a coprire il posto di ruolo rimasto vacante. Poiché il mensile degli Assistenti straordinari era “da fame”(50.000 lire) e per Renata si profilava un prossimo concorso per entrare in ruolo, la scelta cadde su di me. Contrariamente alle previsioni, però, per una serie di eventi negativi, 264 Ricordo di RENATA ZUNARELLI

Renata restò per parecchi anni senza il posto di ruolo, ma non per questo si lamentò mai della congiuntura che l’aveva svantaggiata. Ho voluto ripercorrere i primi anni trascorsi fianco a fianco con Renata, proprio per delineare la sua straordinaria personalità nell’affrontare i casi della vita sia familiari che di carriera senza mai lamentarsi o recriminare quando si è trovata in situazioni di svantaggio rispetto ad altri colleghi (in primis la sottoscritta). Poi, per oltre un trentennio abbiamo lavorato fianco a fianco, condivi- dendo soddisfazioni e delusioni, gioie familiari e dolorosi lutti sempre all’insegna dell’amicizia e dell’affetto fraterno. La sua attività didattica nei corsi di Idrobiologia e Pescicoltura e di Ecologia delle acque interne ha sempre evidenziato le sue capacità di docente brillante e sempre aggiornata, ed in particolare la sua grandissima attitudine a seguire gli studenti interni nella crescita intellettuale, nell’ad- destramento tecnico e nella preparazione delle tesi sperimentali, sempre pronta a portarli sul campo, senza risparmiarsi mai. Altrettanto si può dire della sua preparazione scientifica che le ha per- messo di raggiungere, sempre sul campo, livelli di preparazione che, sem- pre generosamente, come era nel suo stile, ha messo a disposizione, oltre che dell’Università, anche degli Enti Locali, che in ambito ambientale ricorrevano costantemente a lei, non solo per pareri, ma anche per la pro- gettazione di programmi di protezione e di prevenzione ambientale. Sempre attiva sul territorio, quando, per motivi familiari, ha scelto di andare in pensione all’apice della carriera e quando la sua attività di con- sulente privilegiata di Comuni, Province di Modena e Reggio Emilia e Associazioni ambientaliste era particolarmente apprezzata, ha lasciato un vuoto nella comunità scientifica modenese, che non è stato più completa- mente colmato. Renata Zunarelli era socia della Società dei Naturalisti e Matematici di Modena fin dal 1968. La sua attività di ricerca si è concretizzata in circa un centinaio di pub- blicazioni scientifiche nell’ambito della biologia ed ecologia marina e del- l’ecologia delle acque interne. Ricordo di RENATA ZUNARELLI 265

Renata Zunarelli (1934-2011)

Atti Soc. Nat. Mat. Modena 142 (2011)

Ricordo di ANTONIO ROSSI di Ermanno Galli

Antonio Rossi era uno dei soci più anziani e conosciuti della Società dei Naturalisti e Matematici di Modena a cui aveva aderito fin dal 1966, anno nel quale aveva conseguito la laurea in Scienze Geologiche presso l’allora Università degli Studi di Modena con il massimo dei voti, discutendo la tesi “Le rocce di tipo granulitico e charnockitico della Valmala (Valsesia)”. Nato a Modena il 15 giugno 1942 ci ha lasciati prematuramente il 2 agosto 2011, stroncato da un male incurabile i cui sintomi si erano manifestati solo pochi mesi prima. Senza ombra di dubbio la nostra Società perde un socio autore- vole, un ricercatore la cui notorietà ha varcato i confini nazionali. Antonio Rossi era professore associato di Petrografia del Sedimentario presso il Dipartimento di Scienze della Terra della Facoltà di Scienze Matematiche, Fisiche e Naturali dell’Università di Modena e Reggio Emilia, ateneo presso il quale ha percorso tutta la sua carriera accademica, impre- ziosita dalle numerose spedizioni scientifiche che lo hanno visto in giro per il mondo, dalla Groenlandia al Sud America, dalla Grecia al Nuovo Messico, all’Antartide. Ricercatore eclettico, naturalista vero, dal suo maestro, il pro- fessor Mario Bertolani, per il quale nutriva grande affetto e sincera ricono- scenza, aveva appreso la passione dell’andare per montagna ma soprattutto per la speleologia. Antonio era sicuramente uno dei maggiori esperti della geologia, e non solo, dell’Appennino modenese e reggiano di cui conosceva ogni anfratto, affioramento e cavità, e dove aveva portato tante volte gli stu- denti per le sue magistrali lezioni sui geositi. Nella primavera/estate 2006, anche sotto il solleone (e pensare che Antonio non sopportava il caldo!) abbiamo percorso l’Appennino in lungo ed in largo per raccogliere campioni di rocce da esporre nel Museo Naturalistico del Frignano “Ferruccio Minghelli”, ora sapientemente allesti- to nella prestigiosa sede del castello di Montecuccolo a Pavullo (MO) dove, sempre insieme, ci siamo recati tante volte per illustrare la storia del loro ter- 268 Ricordo di ANTONIO ROSSI ritorio ai ragazzi delle scuole di Pavullo e dintorni. I musei erano infatti un’altra delle sue passioni. Da un paio di anni stava lavorando alacremente, prima con la raccolta di campioni sul terreno e poi con lo studio delle sezio- ni sottili in laboratorio, per la realizzazione di un analogo Museo Naturalistico a Sambughetto di Valstrona (VB), territorio a lui caro e ben conosciuto confinando con la Valsesia che era stata la zona della sua tesi di laurea. Aveva un sogno: vedere un giorno gemellati tra loro il CENS (Centro Escursionistico Naturalistico Speleologico) di Costacciaro (PG), diretto dal- l’amico fraterno professor Francesco Salvatori, il Museo Naturalistico del Frignano e quello nascente di Sambughetto. Purtroppo la morte non gli ha concesso questa soddisfazione. Tra i tanti interessi che nutriva, senza alcun dubbio la Speleologia – che aveva iniziato a praticare sin dal 1962 – ricopriva una posizione centrale: per lui non significava solo ricerca ed esplorazione di nuove grotte, ma uno stu- dio completo dal rilevamento topografico alla caratterizzazione dei materia- li di riempimento o degli speleotemi presenti. Da rilevare il suo fondamen- tale apporto al lavoro di accatastamento delle grotte emiliane, a cui ha con- tribuito con la stesura dei rilievi di alcuni dei principali complessi carsici della Regione. E a questo punto permettetemi di ricordare l’ultima sua fati- ca, completata nel mese di maggio, quando il male stava portandosi via le sue ultime forze, ed uscita fresca di stampa pochi giorni prima della sua scomparsa, dal titolo “Speleologia e geositi carsici in Emilia-Romagna”. Si tratta di un volume pubblicato dalla Regione Emilia-Romagna per conto della Federazione Speleologica Regionale, di cui Antonio è stato curatore assieme a Piero Lucci, oltre che autore e co-autore di due capitoli. “Lo splendido libro che vi preparate a leggere” – si legge nella presentazione del- l’assessore regionale Paola Gazzolo – “documenta con grande passione, la bellezza del patrimonio carsico dell’Emilia-Romagna …”. Già… la passio- ne! Quella che si percepiva netta nel tono della voce che saliva, negli occhi che brillavano, nelle mani che disegnavano forme ed esaltavano un concet- to. E tale era la passione di Antonio per la ricerca in Speleologia che nel 1999 riuscì a convincere anche il sottoscritto – io che avevo già superato i sessant’anni e che non avevo alcuna confidenza con le lampade a carburo, le scalette di corda o i discensori – ad andare in grotta per raccogliere perso- nalmente i campioni da studiare. Socio per oltre trent’anni della Sezione C.A.I. di Modena, che a lungo in qualità di consigliere delegato aveva rappresentato all’Assemblea delle Sezioni, negli anni ‘80 aveva scalato tutte le cariche della Speleologia nazio- nale del C.A.I. raggiungendone l’apice: componente della Sottocom mis sio ne Ricordo di ANTONIO ROSSI 269

Centrale dal 1971, diventata poi Organo Tecnico Centrale nel 1976, ne è diventato vicepresidente nel 1982 e presidente dal 1988 fino al giugno 1996. Va anche ricordato che nei primi anni ‘70 aveva preso parte, come respon- sabile ed organizzatore, a numerose spedizioni speleologiche nella Grecia centrale dove il Gruppo Speleologico Emiliano, di cui faceva parte, scoprì ed esplorò più di 70 cavità ipogee, all’interno delle quali furono effettuati importantissimi ritrovamenti archeologici. Proprio per la sua esperienza di grotta, per molti anni fu un apprezzato volontario del Corpo Nazionale Soccorso Alpino e Speleologico del C.A.I. I principali campi di interesse scientifico nella ricerca, come ha lasciato scritto nel suo curriculum, erano: 1) la mineralogia, petrografia e geochimi- ca sia di rocce sedimentarie di origine detritica ed evaporitica che di rocce magmatiche e metamorfiche; 2) lo studio degli speleotemi secondari pre- senti in ambienti carsici ipogei legati alla presenza di depositi organici inte- ressati da fluidi profondi a bassa-media termalità. La sua attività di ricerca si è concretizzata in 197 tra pubblicazioni a stampa e/o comunicazioni a congressi. La parte più consistente dei suoi lavori riguarda ricerche sui fenomeni legati al carsismo ed alla minerogene- si in ambiente ipogeo di numerose località sia italiane che estere, dalla Grecia all’Argentina, dalle Filippine al Brasile, al Messico. Altre indagini importanti hanno riguardato i caratteri petrografici e mineralogici di sequen- ze sedimentarie di natura clastica, evaporitica e vulcanica in Italia, nel baci- no del Rio delle Amazzoni e nella regione della Terra Vittoria (Mare di Ross, Antartide). Ma furono i risultati ottenuti durante le tre spedizioni in Antartide (1990/91, 1999/2000 e 2004/05), con la scoperta di tre zeoliti nuove, la raccolta di 264 meteoriti ed il ritrovamento di un giacimento di tronchi fossili che gli hanno procurato una notorietà che ha varcato i confi- ni nazionali, notorietà confermata anche dalla responsabilità di progetti MIUR di collaborazione culturale e tecnico-scientifica tra il nostro Ateneo e l’Università dell’Amazzonia (Manaus, Brasile) e l’Università Federale di Goiás (Goiânia, Brasile). Notevole e qualificato il suo impegno anche nella programmazione territoria- le, urbanistica e fruizione dell’ambiente da parte dell’uomo, che lo vide per molti anni partecipare in veste di geologo alle commissioni edilizie di diversi comuni delle province di Modena e Reggio Emilia, quali Frassinoro, Palagano, Polinago, Serramazzoni e Toano. Oltre a quelli già ricordati, contribuì alla pianificazione ter- ritoriale dei comuni di Fiorano, Maranello, Montefiorino e Sassuolo. A lui va il merito della realizzazione del primo P.S.C. (Piano Strutturale Comunale) della Provincia di Modena, quello realizzato per il comune di Polinago. 270 Ricordo di ANTONIO ROSSI

Ma dove Antonio aveva “una marcia in più” era la didattica. Viveva il ruolo di docente come una vera missione. La sua capacità di trasmettere il sapere scientifico agli studenti è stata sicuramente una delle sue doti migliori. “I ragazzi innanzitutto” era la sua premessa per ogni program- mazione didattica, quei ragazzi che, studenti, laureandi o già laureati, dotto- randi o già dottorati, erano presenti in gran numero il giorno delle esequie, increduli e commossi intorno alla bara a rendere omaggio alla salma del loro Professore. Nonostante il suo fare burbero e intransigente che, a volte, lo rendeva inviso a quelli che si fermavano alle apparenze, Antonio era un docente di grande umanità e coerenza morale, sempre disponibile a dare consigli a chi glieli chiedeva ed a collaborare con i colleghi. La sua capaci- tà di trasmettere emozioni nell’illustrare un evento geologico e di catturare l’attenzione di chi lo ascoltava sui particolari di un affioramento, trasforma- vano le sue lezioni in uno spettacolo avvincente. Nessuno di quanti vi hanno assistito potrà dimenticare le sue conferenze sulla genesi delle evaporiti del Messiniano o di quella delle ofioliti del nostro Appennino. Oltre all’insegnamento ufficiale di Petrografia del Sedimentario che rico- priva dal 1972, Antonio ha tenuto per periodi più brevi gli insegnamenti di Giacimenti Minerari, Laboratorio di Petrografia, Petrografia per Scienze Naturali, Petrografia Applicata all’Ambiente, Museologia Petrografica, Petrografia dei Geositi e Petrografia Regionale. Scrive Paolo Forti nel suo ricordo di Antonio “… Con la sua morte la Federazione Speleologica dell’Emilia-Romagna ha perso un pilastro fondamentale, la Speleologia nazionale un appassionato ed integerrimo dirigente, la ricerca scientifica un vero e proprio rullo compressore. Ma quelli che, come me, lo hanno davve- ro conosciuto e frequentato, hanno perso molto di più: un vero grande amico”. Associandomi completamente a queste parole, mi piace pensare che il suo spirito, ora scevro da ogni impedimento materiale, potrà spaziare libera- mente per tutto l’Appennino, balzando da Montespecchio a Sasso Puzzino, da Sasso Tignoso ai Cinghi di Boccassuolo e, quando qui incomincerà a far caldo, potrà raggiungere i ghiacciai perenni dell’Antartide, a lui ben noti, forse anche per andare a ritrovare lo “skua” (Catharacta maccormicki, uccello antartico della famiglia degli Stercoraridi) che ogni sera lo aspetta- va tra le rocce per ricevere il biscotto che Antonio regolarmente gli lanciava a dispetto della “voce di Dio” (quella del comandante della base, l’ingegne- re Mario Zucchelli) che puntualmente lo rimproverava con l’ausilio del megafono. Ricordo di ANTONIO ROSSI 271

Antonio Rossi (1942-2011)

Atti Soc. Nat. Mat. Modena 142 (2011)

Relazione sulle attività svolte dalla Società nel 2011

Nel 2011 la Società dei Naturalisti e Matematici di Modena ha proseguito nella realizzazione del suo scopo statutario di promozione e conoscenza delle scienze naturali e matematiche, nonché nell’attività di promozione della Società stessa.

È innanzitutto continuata regolarmente la pubblicazione degli “Atti” della Società con il presente volume, il CXLII, segno del grande interesse dei Soci ad offrire un contributo divulgando i risultati originali delle proprie ricerche scientifiche. La validità della rivista e dei suoi contributi è confermata dal rico- noscimento che il Ministero dei Beni Culturali dà alla rivista stessa, giudican- dola pubblicazione periodica di elevato livello culturale, e dalle numerosissi- me richieste che vengono da oltre 170 società o istituzioni internazionali che offrono in cambio le loro riviste, arricchendo e qualificando oltretutto in tal modo il nostro patrimonio librario.

È stato completamente rinnovato il sito internet della Società , rendendolo molto più immediato, moderno e informativo, oltre che di facile accesso, per una migliore fruizione da parte di Soci, appassionati e persone interessate in genere.

È continuata la collaborazione con l’Accademia Nazionale di Scienze, Lettere e Arti di Modena con l’organizzazione di eventi culturali condivisi, in particolare conferenze, e con la disponibilità da parte dell’Accademia ad offri- re l’utilizzo della Sala dei Presidenti per le nostre iniziative culturali e per le Assemblee Generali dei Soci di aprile e dicembre 2011. È stato così possibile nel corso dell’anno tenere in questa sala diverse conferenze (sul problema del- l’amianto, su quello delle meduse nell’Adriatico, sugli esploratori dell’ ‘800, sulla simmetria nelle leggi della Fisica) organizzate dalla nostra Società, con- ferenze che hanno suscitato vivo interesse ed ottenuto notevole partecipazione di pubblico.

Da parte della Società è stato concesso il patrocinio ad iniziative scientifi- co-culturali ed in particolare al congresso nazionale dell’Associazione Italiana di Archeometria (AIAr), previsto per il febbraio 2012. 274 Relazione sull’attività sociale svolta nell’anno 2011

Anche nel 2011 la Società Naturalisti e Matematici di Modena ha parteci- pato all’iniziativa Libri-a-MO ed alla rassegna internazionale Entomodena, nell’ambito delle quali è stata presente con alcuni Soci che hanno illustrato le iniziative, i prodotti culturali, in particolare i CD sull’evoluzione realizzati in occasione della mostra sui 200 anni di Darwin, e le finalità della Società.

Diversi pannelli allestiti per la mostra su Darwin sono stati riproposti in un’esposizione serale presso il Museo di Zoologia dell’Università in occasio- ne delle Notti Bianche organizzate dal Comune di Modena.

La Società, attraverso alcuni suoi rappresentanti, ha inoltre partecipato assiduamente alle sedute ed alle iniziative dell’Unione Società Centenarie di Modena e della Consulta della Cultura del Comune di Modena.

Sono state intraprese iniziative per gite, anche in accordo con il CAI di Modena e con l’Unione Società Centenarie, ma purtroppo, bisogna dire, con pochi risultati. Sarà quindi importante reimpostare questo tipo di attività, adat- tandola a quelle che sono le esigenze attuali; la possibilità di visitare e condi- videre tra i Soci luoghi di interesse naturalistico è infatti un aspetto culturale, oltre che ricreativo, assolutamente da non trascurare.

Ha, invece, ottenuto notevole successo la ormai tradizionale “Festa di ini- zio estate” tenutasi il 17 giugno 2011 presso il castello di Montecuccolo, nei pressi di Pavullo (Modena), dove è stato possibile visitare sotto la guida di esperti sia il castello, con dettagliate informazioni sulla sua storia e quella dei suoi abitanti, che il Museo Naturalistico locale, appena rimodernato. Il momento conviviale ha concluso degnamente la giornata, anche se alla fine bagnata da una leggera pioggia.

È stata infine intrapresa un’iniziativa editoriale che prevede la pubblicazio- ne di un volume sulla simmetria, un argomento di grande interesse e sempre attuale. Quest’opera, oltre che a fornire a molte persone un arricchimento cul- turale, potrebbe servire da supporto per insegnanti; un altro scopo è quello di far conoscere la nostra Società, qualificandola, ad una cerchia sempre più ampia di persone. Atti Soc. Nat. Mat. Modena 142 (2011)

Rendiconto Economico e Finanziario anno 2011 (approvato dall’Assemblea Generale dei Soci il 29 aprile 2011)

Rendiconto Economico e Finanziario anno 2011 ENTRATE (€) Residuo 2010 11306,84 Quote Sociali 4513,11 Offerte 370,00 Interessi da patrimonio, ccb, ccp 1488,40 Giro con bancomat 250,00 Convenzione Università MO-RE 8000,00 Contributo Ministero Beni Culturali 1242,19 Da Dipart. Fisica - Prof. Ottaviani 2000,00 Contributo Attività Sociali 529,50 Rimborso Titoli 44810,72

Totale (€) 74510,76

Entrate nell’anno (€): 74510,76 – 11306,84 = 63203,92 276 Rendiconto Economico e Finanziario anno 2011

Rendiconto Economico e Finanziario anno 2011 USCITE (€) Iscriz. ord. giornalisti, USPI, USCM 406,00 Cancelleria e mat. tecnico-informatico 2558,95 Francobolli e spese postali 1753,62 Assicurazione 619,00 Competenze ccb 187,53 Competenze ccp 156,24 Giro bancomat 250,00 Attività sociali 525,00 Acquisto titoli 44138,59 Iniziative culturali (Conferenze, Agende “Al Rezdor”, Volume simmetria) 2726,20 Stampa “Atti” vol. 141 4890,05 Libri-Amo 102,05 Commercialista e Ritenute acconto 700,00

Totale (€) 59013,23

Residuo nell’anno (€): 63203,92 – 59013,23 = 4190,69

Residuo complessivo(€): 74510,76 – 59013,23 = 15497,53

Residuo: contante (€ 64,01) + ccp (€ 1161,27) + ccb (€ 14272,25) = € 15497,53 Rendiconto Economico e Finanziario anno 2011 277

Bilancio di Previsione per l’anno 2012 (approvato dall’Assemblea Generale dei Soci il 13 dicembre 2011)

Entrate (€) Avanzo di gestione 10000,00 Contributi attività sociali 5000,00 Quote sociali 6000,00 Interessi da patrimonio 1500,00 Convenzione Università MO-RE∗ 8000,00 Contributo Ministero Beni Culturali∗ 1200,00

Totale 31700,00

* Queste entrate sono state indicate solo sulla base di quanto avvenuto nel 2011, non potendo in alcun modo preventivarne l’entità.

Uscite (€) Iscriz. ord. giornalisti, USPI, USCM 700,00 Spese postali 3000,00 Cancelleria e mat. tecnico 2000,00 Assicurazione 700,00 Spese bancarie e cc postale 700,00 Attività sociali 7500,00 Iniziative culturali (Conferenze e altro) 8100,00 Stampa volume “Atti” 6000,00 Spese di gestione 3000,00

Totale 31700,00

Atti Soc. Nat. Mat. Modena 142 (2011)

Elenco Soci anno 2011 1981. ACCORSI Prof.ssa Carla Alberta, versità di Modena e Reggio Emilia via Marco Emilio Lepido 62, 40132 1994. BARBIERI Dott.ssa Maria Adelai- Bologna de, piazza Matteotti 30, 41121 Modena 1963. ALBASINI Prof. Albano, lungadige 1993. BARLOCCO Prof.ssa Daniela, Dip. Matteotti 15, 37126 Verona di Scienze Farmaceutiche, Università di 2003. ALDROVANDI Dott.ssa Elena, via Milano Mameli 16, 41037 Mirandola (MO) 1989. BARONI Prof.ssa Roberta, via Leo- 1994. ANDREOLI Sig. Giovanni, via pardi 13, 41043 Casinalbo (MO) Fonda 111, 41053 Maranello (MO) 1974. BAROZZI Dott. Giancarlo, via del- 2005. ANGELONE Sig. Giovanni, Dip. di l’Olivo 29, 41012 Fossoli (MO) Fisica, Università di Modena e Reggio 2009. BARTOLOTTI Sig.ra Gabriella, via Emilia Donati 95, 41122 Modena 2009. ANGIOLLI Sig. Giancarlo, via 1990. BASCHIERI Sig. Leonardo, via Lagrange 9, 41126 Modena Boccaletti 15, 41012 Carpi (MO) 1988. ANSALONI Dott. Ivano, Dip. di 2000. BATTISTUZZI Dott. Gianantonio, Biologia, Università di Modena e Reggio Dip. di Chimica, Università di Modena e Emilia Reggio Emilia 1979. BEDINI Sig. Giorgio, via Ascani 1994. BACCHILEGA Sig.ra Diana, via 94, 41126 Modena Segantini 60, 41124 Modena 2006. BELLEI Sig.ra Kinda, via Puccini 1982. BAGNI Dott. Giuseppe, via Cara- 21, 41049 Sassuolo (MO) vaggio 19/2, 41124 Modena 1976. BELLEI Dott.ssa Silvia, via Marza- 1983. BALBONI Dott. Sergio, corso botto 116, 41125 Modena Libertà 8, 41029 Sestola (MO) 1974. BELLESIA Prof. Franco, Dip. di 2005. BALESTRAZZI Dott.ssa Brunella, Chimica, Università di Modena e Reggio via Monfalcone 7, 41125 Modena Emilia 2009. BALOCCHI Dott. Paolo, via Strin- 2008. BELLINI Dott.ssa Alessia, via del ga 55, 41124 Modena Perugino 65, 41125 Modena 1968. BARALDI Dott. Fulvio, via Ban- 1979. BENASSI M.llo Mario, via M. diera 33, 46100 Mantova Curie 9, 41126 Modena 1970. BARALDI Prof. Pietro, Dip. di Chi- 1974. BENASSI Prof. Rois, Dip. di Chi- mica, Università di Modena e Reggio mica, Università di Modena e Reggio Emilia Emilia 2007. BARBARINI Prof.ssa Elisetta, via 2011. BENASSI Sig.na Silvia, via Rossini Emilia Est 133, 41121 Modena 210, 41121 Modena 1997. BARBIERI Dott.ssa Giovanna, Orto 1999. BENATTI Prof.ssa Rosarita, v.le Botanico-Dipartimento di Biologia, Uni- Gramsci 372, 41122 Modena 280 Elenco Soci anno 2011

1986. BENEDUSI Dott. Alessandro, via 1965. BONAZZI Prof. Ugo, v.le Crispi 10, Roma 14, 41037 Mirandola (MO) 41121 Modena 1986. BENVENUTI Dott.ssa Stefania, 2007. BORGONGINO Sig. Michele, via Dip. di Scienze Farmaceutiche, Univer- Tortona 35, 80045 Pompei (NA) sità di Modena e Reggio Emilia 2000. BORSARI Dott. Marco, Dip. di 1982. BERNARDI Prof. Roberto, via Chimica, Università di Modena e Reggio Sigonio 92, 41124 Modena Emilia 1983. BERTACCHINI Dott.ssa Milena, 1992. BORTOLANI Dott.ssa Caterina, rua Dip. di Scienze della Terra, Università di Pioppa 94, 41121 Modena Modena e Reggio Emilia 2009. BORTOLI Sig.ra Chiara, via Cana- 2001. BERTELLI Dott. Davide, Dip. di letto 710/5, 41122 Modena Scienze Farmaceutiche, Università di 1998. BOSI Dott.ssa Giovanna, Orto Modena e Reggio Emilia Botanico-Dipartimento di Biologia, Uni- 1996. BERTOLANI Prof. Roberto, Dip. di versità di Modena e Reggio Emilia Biologia, Università di Modena e Reggio 2010. BOTTICELLI Sig.ra Laura, strada Emilia Morane 76/4, 41125 Modena 1993. BETTELLI Prof. Giuseppe, Dip. di 2008. BRAGA Dott.ssa Maura, via Bru- Scienze della Terra, Università di Mode- natti 22, 41037 Mirandola (MO) na e Reggio Emilia 2009. BRANDOLI Dott.ssa Maria Teresa, 1976. BIANCHI Prof. Alberto, via Zarotto via degli Schiocchi 71, 41125 Modena 1, 43123 Parma 1998. BRUNACCI Col. Luigi, via Baden 2009. BIANCHI Dott. Mario, via Baraldi Powell 1, 41126 Modena 51, 41124 Modena 2009. BRUNI Sig. Ermanno, via Bologna 2000. BIBLIOTECA SCIENTIFICA 6, 41015 Nonantola (MO) INTERDIPARTIMENTALE (BSI), Uni- 2001. BULDRINI Dott. Fabrizio, via Pie- versità di Modena e Reggio Emilia, via ro della Francesca 71/1, 41124 Modena Campi 213/c , 41125 Modena 1992. BULGARELLI Dott.ssa Elisabetta, 1997. BINI Dott.ssa Anna Maria, via per v.le Indipendenza 58, 41122 Modena Vignola 136, 41053 Maranello (MO) 1997. BURANI Dott. Aldo, via Nardi 8, 2009. BISANTI Dott. Matteo, via Monte 41121 Modena Grappa 50, 41121 Modena 1997. BURSI Arch. Lucia, via Crociale 1974. BOGGIA Dott. Giorgio, via Monte- 33, 41053 Maranello (MO) sole 16, 41053 Maranello (MO) 1994. BONACCORSI Dott. Primo, via 1998. C.A.I. – Sez. di Modena, via IV Risorgimento 23, 41040 Spezzano (MO) Novembre 40/c, 41123 Modena 1992. BONACINI Dott. Pierpaolo, via 2009. CAIUMI Dott.ssa Loredana, via Toti 77, 41125 Modena Cividale 181, 41125 Modena 1990. BONATTI Prof.ssa Piera, v.le Verdi 1996. CALANDRA Prof. Sebastiano, Dip. 106, 41121 Modena di Scienze Biomediche – Sez. Patologia Elenco Soci anno 2011 281

Generale, Università di Modena e Reg- 1994. CENNAMO Dott.ssa Chiara, via gio Emilia Lepanto 97, 80125 Napoli 1975. CAMPI Dott.ssa Luisa, c.so Adriano 1990. CERCHIARI Dott. Claudio, via 9, 41121 Modena Pratomavore 8/1, 41058 Vignola (MO) 2001. CAMPISI Dott. Alessio, via Quarti 1973. CERVI Arch. Giuliano, via Frank 8/1, 42023 Cadelbosco di Sotto (RE) 11/a, 42122 Reggio Emilia 1990. CAPITANI Dott. Marco, via Milano 2009. CHAMSI BACHA Sig.na Nura, via 286, 41058 Vignola (MO) Giardini 207, 41124 Modena 1973. CARDACI Dott. Giuseppe, via San 1967. CHIESSI Dott. Eugenio, via Lazzaro 1A, 46100 Mantova Togliatti 52, 42122 Reggio Emilia 2003. CARDARELLI Prof. Andrea, Dip. 1993. CHINCA Prof.ssa Gabriella, via di Scienze dell’Antichità, Sapienza Uni- Polo 19, 41050 Montale Rangone (MO) versità di Roma 1959. CIGARINI BERTOCCHI Dott.ssa 1992. CARNEVALI Ing. Gianfranco, via Tiziana, via Gaddi 40, 41124 Modena Pretorio 59, 41049 Sassuolo (MO) 1973. COLTELLACCI Sig. Marco Maria, 2005. CASELLI Prof.ssa Monica, Dip. di Dip. di Scienze della Terra, Università di Chimica, Università di Modena e Reggio Modena e Reggio Emilia Emilia 2011. CONZO Dott. Francesco, strada 1996. CASSAI Dott.ssa Carlotta, via Gua- Panni 184/5, 41125 Modena rini 4, 41124 Modena 1973. COPPI Prof. Gilberto, Dip. di Scien- 1980. CASTALDINI Prof. Doriano, Dip. ze Farmaceutiche, Università di Modena di Scienze della Terra, Università di e Reggio Emilia Modena e Reggio Emilia 2002. COPPI Sig.ra Giovanna, v.le New- 1989. CATTELANI Prof.ssa Franca, Dip. ton 35, 41126 Modena di Matematica Pura e Applicata, Univer- 2002. COPPI Sig.ra Lucia, via Gadaldino sità di Modena e Reggio Emilia 3, 41124 Modena 2003. CAVALLINI Dott. Fabrizio, via della 1987. CORATZA Dott. Carlo, via Campa- Partecipanza 77, 41015 Nonantola (MO) nia 6, 42123 Reggio Emilia 2002. CAVAZZUTI Sig.ra Margherita, via 2000. CORATZA Dott.ssa Paola, Dip. di Puccini 94, 41121 Modena Scienze della Terra, Università di Mode- 2000. CAVEDONI Sig.ra Franca, via Alle- na e Reggio Emilia gretti 43, 41125 Modena 2009. CORRADINI Dott.ssa Elena, Dip. 1996. CAVICCHIOLI Prof. Alberto, Dip. di Ingegneria Meccanica e Civile, Uni- di Matematica Pura ed Applicata, Uni- versità di Modena e Reggio Emilia versità di Modena e Reggio Emilia 1993. CORRADINI Ing. Brenno, via 1967. CECCHI Prof. Rodolfo, Dip. di Keplero 9/2, 41126 Modena Scienze dell’Ingegneria – Osservatorio 1967. CORRADINI Prof. Domenico, Geofisico, Università di Modena e Reg- piazza Martiri 36, 41049 Sassuolo gio Emilia (MO) 282 Elenco Soci anno 2011

2009. CORRADINI Dott.ssa Elena, Dip. 2009. DALL’ARNO Sig.na Chiara, via Giu- di Ingegneria Meccanica e Civile, Uni- liano da Maiano 22, 48018 Faenza (RA) versità di Modena e Reggio Emilia 1997. DALLOLIO Sig.ra Mascia, via 1993. CORRADINI Sig. Livio, v.le Rivi Panaria Bassa 84/c, 41030 Solara (MO) 17, 41049 San Michele dei Mucchietti – 2001. DAL ZOTTO Dott. Matteo, via Bel- Sassuolo (MO) lini 58, 41121 Modena 1990. CORSINOTTI Dott. Paolo, via 2000. DAVOLI Prof. Paolo, Dip. di Chimi- Franklin 52, 41124 Modena ca, Università di Modena e Reggio Emilia 1993. COSCI Dott. Ferruccio, Ca’ del Pel- 2009. DAVOLIO Prof. Giovanni, via Por- la 8, 41047 Piandelagotti (MO) tofino 58, 41125 Modena 1987. COSTANTINO Prof. Luca, Dip. di 2001. DELFINI Sig. Luciano, via Scapi- Scienze Farmaceutiche, Università di nelli 5, 41125 Modena Modena e Reggio Emilia 1981. DEL PENNINO Prof. Umberto, 1990. COSTI Dott.ssa Maria Paola, Dip. Dip. di Fisica, Università di Modena e di Scienze Farmaceutiche, Università di Reggio Emilia Modena e Reggio Emilia 1993. DEL PRETE Prof. Carlo, via degli 2007. C.R.A. – Unità di Ricerca per la Sui- Allori 17, 56128 Tirrenia (PI) nicoltura, via Beccastecca 345, 41018 1957. DIECI Prof. Giovanni, v.le Moreali San Cesario sul Panaro (MO) 214, 41124 Modena 2003. CRAMAROSSA Prof.ssa Maria 1997. DINI Prof.ssa Paola, via Venturi 13, Rita, Dip. di Chimica, Università di 41124 Modena Modena e Reggio Emilia 1905. DIPARTIMENTO DI SCIENZE 1997. CUOGHI Dott.ssa Barbara, via DELLA TERRA, Università di Modena Tagliazucchi 46, 41121 Modena e Reggio Emilia, l.go Sant’Eufemia 19, 2006. CUOGHI Sig. Gianluca, via Roma- 41121 Modena no 15/F, 41043 Formigine (MO) 1997. DOMENICHINI Sig. Alberto, via 2009. CURTI Sig.ra Maria, via Goldoni Carmelitane Scalze 7, 41121 Modena 49, 41049 Sassuolo (MO) 1995. DOMENICHINI Sig. Massimo, via D’Annunzio 20, 42123 Reggio Emilia 1994. DALLA FIORA Dott.ssa Gianfran- 2007. DUCHICH Sig.ra Rosana, ARE- ca, via Emilia Ovest 124, 43016 Parma STUD Modena, via Vignolese 671/1C, 2003. DALLAGLIO Sig.ra Mariella, via 41125 Modena Avanzini 17, 41126 Modena 1990. DALLAI Dott. Daniele, Orto Bota- 2006. FACCHETTI Sig.ra Chiara, via nico-Dip. di Biologia, Università di Tonini 115, 41126 Modena Modena e Reggio Emilia 2009. FAGHERAZZI COLÒ Sig. Filippo, 1997. DALLARI Prof.ssa Giovanna, str. via Puccini 71, 41126 Modena Campogalliano Lesignana 166, 41123 1991. FANTIN Prof.ssa Anna Maria, via Modena Pagani 50, 41124 Modena Elenco Soci anno 2011 283

2001. FAZZINI Dott.ssa Alessandra, via Cavazza 50/2, 41124 Modena Vignolese 565, 41125 Modena 2009. FORTI Dott. Luca, Dip. di Chimica, 2002. FERRARI Ing. Gianni, via Valdri- Università di Modena e Reggio Emilia ghi 135, 41124 Modena 1976. FRANCHINI Prof. Giancarlo, via 1974. FERRARI Dott. Massimo, v.le Bergianti 9, 42019 Arceto (RE) Gramsci 285, 41122 Modena 2009. FRANCHINI Dott.ssa Silvia, Dip. 1994. FERRARI Sig.ra Monica, via Bor- di Scienze Farmaceutiche, Università di sara 11, 41030 Bastiglia (MO) Modena e Reggio Emilia 2008. FERRARI Dott.ssa Patrizia, l.go 1976. FRANCHINI Prof. Walter, via Nobel 145, 41126 Modena Costa 51, 41027 Pievepelago (MO) 2009. FERRARI Sig. Renzo, via Tre Olmi 1974. FRATELLO Prof. Bernardo, v.le 109, 41123 Modena Vittorio Veneto 59, 41100 Modena 1996. FERRI Dott. Mauro, via San Remo 1993. FREGNI Dott.ssa Elena, v.le Baroz- 140, 41125 Modena zi 264/1, 41124 Modena 1990. FIANDRI Dott. Filiberto, via Giar- 1974. FREGNI Prof.ssa Paola, Dip. di dini 10, 41124 Modena Scienze della Terra, Università di Mode- 2007. FIOCCHI Prof.ssa Cristina, rua na e Reggio Emilia Muro 80, 41121 Modena 2004. FRIGIERI ADANI Sig.ra Marta, via 1997. FIORI Prof.ssa Carla, Dip. di Mate- Venturi 70, 41124 Modena matica Pura ed Applicata, Università di Modena e Reggio Emilia 2001. GALLI Dott.ssa Elisabetta, Dip. di 1986. FIORONI Dott.ssa Chiara, Dip. di Scienze Ginecologiche Ostetriche, Scienze della Terra, Università di Mode- Pediatriche – Sez. di Pediatria, Universi- na e Reggio Emilia tà di Modena e Reggio Emilia 2009. FLORENZANO Dott.ssa Assunta, 2011. GALLI Prof. Ermanno, Dip. di viale Monastero 141, 85040 Rivello (PZ) Scienze della Terra, Università di Mode- 1970. FONDELLI Prof. Mario, via Nardi na e Reggio Emilia 50, 50132 Firenze 1983. GALLI Prof. Maurizio, v.le Vittorio 1976. FONTANA Prof. Armeno, via M. Veneto 290, 41058 Vignola (MO) Curie 8, 41126 Modena 2009. GAMBARELLI Dott. Andrea, 1976. FONTANA Prof.ssa Daniela, Dip. Museo di Zoologia, Università di Mode- di Scienze della Terra, Università di na e Reggio Emilia Modena e Reggio Emilia 1998. GANASSI Dott.ssa Sonia, Dip. di 2011. FONTANA Sig. Luciano, via Pello- Biologia, Università di Modena e Reggio ni 49, 41125 Modena Emilia 1999. FONTANESI Prof. Claudio, Dip. di 2009. GARUTI Sig. Giancarlo, via Ruffi- Chimica, Università di Modena e Reggio ni 92/1, 41124 Modena Emilia 1998. GASPARINI Dott.ssa Elisabetta, via 2009. FORESTI Sig.ra Alessandra, via Bulgarelli 33, 41012 Carpi (MO) 284 Elenco Soci anno 2011

1999. GASPARINI Dott. Giorgio, via San 1996. GRUPPO NATURALISTICO Martino 4, 41030 Bastiglia (MO) MODENESE c/o Polisportiva San Fau- 1994. GASPARINI Prof.ssa Mirca, via stino, via Wiligelmo 72, 41124 Modena Morgagni 15/2, 41124 Modena 2002. GRUPPO R616 c/o Pietro Rompia- 1965. GASPERI Prof. Gianfranco, via San nesi, via Camaiore 107, 41125 Modena Zeno 10/1, 41050 Montale Rangone 2002. GUAITOLI Sig. Gianluca, via Sau- (MO) ro 28, 41121 Modena 2009. GATTI Dott. Enrico, via 2 Giugno 2010. GUALTIERI Prof. Alessandro, Dip. 3, 41011 Campogalliano (MO) di Scienze della Terra, Università di 2001. GATTI Prof.ssa Maria Angela, via Modena e Reggio Emilia Pretorio 17, 41049 Sassuolo (MO) 1995. GUANDALINI Arch. Emilio, v.le 2009. GHELFI Sig. Luca, via Pisacane 29, Menotti 80, 41121 Modena 41012 Carpi (MO) 2008. GUARDASONI Sig.ra Giovanna, 2010. GHINOI Dott. Alessandro, via Cor- v.le Menotti 114, 41121 Modena tina d’Ampezzo 17, 41125 Modena 2003. GUBERTINI Dott.ssa Arianna, via 1999. GIGANTE Dott. Massimo, via Giardini 502, 41028 Serramazzoni (MO) Cascino 8, 42122 Reggio Emilia 1997. GUERRIERI Sig.ra Elisa, via San 1976. GIUSTI Dott. Arrigo, via Cesari 18, Giacomo 24, 41121 Modena 42019 Scandiano (RE) 2009. GUERZONI Dott.ssa Margherita, 1974. GNOLI Prof. Maurizio, via Togliat- via San Zeno 43, 41051 Castelnuovo ti 16, 41043 Casinalbo (MO) Rangone (MO) 2004. GOVI Sig. Renato, via Lagrange 10, 2009. GUERZONI Prof. Pietro, via Solia- 41126 Modena ni 19, 41121 Modena 2007. GOZZI Dott.ssa Franca, via Basti- 2004. GUIDETTI Dott. Roberto, Dip. Bio- glia 14, 41052 Campogalliano (MO) logia, Università di Modena e Reggio 2008. GRANDI Sig. Mauro, v.le Monte Emilia Kosica 11, 41121 Modena 2000. GRANI Dott.ssa Paola, via Refice 9, 1990. IANNUCCELLI Dott.ssa Valentina, 41049 Sassuolo (MO) Dip. di Scienze Farmaceutiche, Univer- 1992. GRAZIOSI Prof. Gianni, via Fosco- sità di Modena e Reggio Emilia lo 136, 41058 Vignola (MO) 1993. IMPERIALE Dott. Aldo, via Della 2004. GRIMAUDO Dott.ssa Maddalena, Cella 89, 41124 Modena via Sibelius 7, 41122 Modena 2008. INVERNIZZI Prof. Sergio, Dip. di 1997. GRUPPO CULTURALE “AL Scienze della Vita, Università di Trieste PALESI”, Piazza Carducci 9, 41058 2009. IORI Dott.ssa Enrica, via Ferrovia Vignola (MO) 33, 42013 Veggia di Casalgrande (RE) 2006. GRUPPO MODENESE SCIENZE 1995. IOTTI Sig. Mirco, via Belloni 10, NATURALI, via Barchetta 240, 41123 42025 Cavriago (RE) Modena Elenco Soci anno 2011 285

2002. KRUTA Dott.ssa Isabella, via Gior - 1990. MACCAFERRI Dott. Alessandro, dano 11, 41050 Montale Rangone (MO) v.le Montegrappa 78, 41121 Modena 2004. MAFFETTONE Dott. Luigi, Orto 1977. LAGHI Prof. Gianfranco, via Zuc- Botanico-Dip. di Biologia, Università di chi 224, 41123 Modena Modena e Reggio Emilia 1998. LANCELLOTTI Dott.ssa Emanue- 1997. MALAGUTI Dott.ssa Lorella, via la, via Nardi 8, 41121 Modena Guercino 13, 41034 Finale Emilia (MO) 1990. LENZI Dott. Giuseppe, via Roma 2007. MALMUSI Sig. Mauro, via Albare- 14, 53100 Siena to 222/8, 41122 Albareto (MO) 1997. LEO Prof.ssa Eliana Grazia, Dip. di 1998. MANDRIOLI Dott. Mauro, Dip. di Scienze Farmaceutiche, Università di Biologia, Università di Modena e Reggio Modena e Reggio Emilia Emilia 1997. LEONARDI Prof.ssa Brunella, v.le 2004. MANFREDI Dott.ssa Giovanna, via Taormina 17/c, 41049 Sassuolo (MO) Guagnellina 1/A, 41037 Mirandola 1976. LEURATTI Dott. Enrico, via Ron- (MO) chetti 1358, 41038 San Felice sul Panaro 1996. MANICARDI Dott. Giancarlo, Dip. (MO) di Biologia, Università di Modena e Reg- 2000. LIBERTINI Prof.ssa Emanuela, gio Emilia Dip. di Chimica, Università di Modena e 2002. MANTOVANI Sig.ra Gabriella, via Reggio Emilia Biondo 2, 41051 Castelnuovo Rangone 1996. LODESANI Sig. Umberto, via Tas- (MO) so 57, 41049 Sassuolo (MO) 1996. MANZINI Sig.ra Eleonora, via Bel- 1998. LOMBROSO Dott. Luca, Dip. di laria 55/1, 41124 Modena Scienze dell’Ingegneria – Osservatorio 1973. MANZINI Dott.ssa Maria Luisa, Geofisico, Università di Modena e Reg- p.le Risorgimento 57, 41124 Modena gio Emilia 1993. MARAMALDO Dott.ssa Rita, 2010. LORICI Dott. Gianni, via Bocchetti Musei Anatomici, Università di Modena 1, 41015 Castelnuovo Rangone (MO) e Reggio Emilia 2009. LOSI Sig. Franco, via Etna 17, 1998. MARANI Sig. Federico, via Lenin 41012 Carpi (MO) 40, 41012 Carpi (MO) 2001. LUGLI Prof. Mario Umberto, rua 2004. MARCHETTI Prof. Andrea, Dip. di Muro 88, 41121 Modena Chimica, Università di Modena e Reggio 2011. LUGLI Prof. Stefano, Dip. di Scien- Emilia ze della Terra, Università di Modena e 2011. MARGHERITA Dott. Lucio, 195 - Reggio Emilia Bv Malesherbes, 75017 Parigi (F) 2006. LUPPOLINI Dott. Alex, via Man- 1970. MARI Prof.ssa Marisa, via Sauro drio 2, 42015 Correggio (RE) 35, 41121 Modena 2001. LUZZARA Dott. Mirko, via Confa- 1996. MARINI Prof.ssa Milena, via lonieri 45, 41125 Modena Baden Powell 1, 41126 Modena 286 Elenco Soci anno 2011

1998. MARTELLI BRUNACCI Dott.ssa 2005. MONDINI Dott. Ettore, via San Rita, via Baden Powell 1, 41126 Modena Martino 37, 46010 Curtatone (MN) 1994. MARZULLO Dott. Fausto, v.le 1993. MONTAGUTI Sig. Bruno, via Gramsci 32, 41049 Sassuolo (MO) Casella Gatta 4, 41058 Vignola (MO) 2007. MASSAMBA N’SIALA Dott.ssa 1994. MONTANARI Sig. Mauro, via San- Gloria, via Jacopone da Todi 46, 41123 ta Lucia 17, 41045 Sassuolo (MO) Modena 2009. MONTANARI Sig. Silvano, via 2004. MASSAMBA N’SIALA Dott.ssa Grandi 68, 41122 Modena Isabella, via Jacopone da Todi 46, 41123 1998. MONTORSI Sig.ra Elisabetta, via Modena Chiesa 19/13, 41050 Montale Rangone 1995. MAURI Prof.ssa Marina, Dip. di (MO) Biologia, Università di Modena e Reggio 1986. MORDINI Dott. Luca, via Roma Emilia 145, 41027 Pievepelago (MO) 1993. MAZZANTI Prof.ssa Marta, Orto 1970. MORSELLI Prof. Ivano, via San Botanico-Dip. di Biologia, Università di Giovanni 46, 41057 Spilamberto (MO) Modena e Reggio Emilia 2008. MUNICIPIO DI VIGNOLA, via 1998. MAZZARELLA Dott.ssa Bianca Bellucci 1, 41058 Vignola (MO) Serena, via Pelusia 32, 41121 Modena 1990. MURANO Dott. Gennaro, via Bar- 2010. MAZZI Sig.ra Liliana, via Ugo da chetta 416 (loc. Tre Olmi), 41123 Modena Carpi 26, 41124 Modena 2005. MUSCATELLO Prof. Umberto, 1964. MELEGARI Prof. Michele, via M. Dip. di Scienze Biomediche, Università Curie 8, 41126 Modena di Modena e Reggio Emilia 1997. MELETTI Dott. Eros, Dip. di Scien- 1928. MUSEI CIVICI DI REGGIO EMI- ze Biomediche – Sez. Patologia Generale, LIA, via Spallanzani 1, 42121 Reggio Università di Modena e Reggio Emilia Emilia 1979. MELOTTI Prof.ssa Paola, via 2007. MUSEO CIVICO ARCHEOLOGI- Catellani 22, 41121 Modena CO ETNOLOGICO, v.le Vittorio Veneto 2009. MENZIANI Dott.ssa Giovanna, via 5, 41124 Modena Rangoni 99, 41124 Modena 1996. MUSEO CIVICO DI STORIA 1990. MERCURI Dott.ssa Anna Maria, NATURALE DI FINALE EMILIA, via Orto Botanico-Dip. di Biologia, Univer- Trento Trieste 4, 41034 Finale Emilia sità di Modena e Reggio Emilia (MO) 1990. MEZZACQUI Rag. Costantino, via 1996. MUSEO CIVICO DI VIGNOLA, Giardini 10/1, 41124 Modena piazza Selmi, 41058 Vignola (MO) 2009. MINARELLI Dott. Stefano, via Costa 45, 41012 Carpi (MO) 2011. NERI Sig. Mirco, via Pellegrini 1993. MOLA Prof.ssa Lucrezia, Dip. di 2/20, 41058 Vignola (MO) Biologia, Università di Modena e Reggio 1974. NORA Dott. Eriuccio, via Anzio 70, Emilia 41125 Modena Elenco Soci anno 2011 287

2009. NOVARA Dott.ssa Patrizia, via 1967. PANIZZA Prof. Mario, Dip. di Giardini 150, 41124 Modena Scienze della Terra, Università di Mode- na e Reggio Emilia 2007. OLMI Dott.ssa Linda, Orto Botani- 1974. PANTIGLIONI Dott. Ettore, via co-Dip. di Biologia, Università di Mode- Valsesia 17, 46100 Mantova na e Reggio Emilia 2008. PANZANI Dott.ssa Nicoletta, v.le 2005. ONESTI Ing. Nicola, via Serafini 2, della Pace 111, 41124 Modena 41125 Modena 2000. PAPAZZONI Dott. Cesare Andrea, 2009. ONGARI Sig. Mauro Vittorio, via Dip. di Scienze della Terra, Università di Baluardo Partigiani 2, 28100 Novara Modena e Reggio Emilia 1986. ORI Geom. Danilo, via Bixio 6, 2007. PARADISI Sig.ra Carmen, via 42013 Casalgrande (RE) Bonaccini 24, 41052 Campogalliano 1995. ORI Dott. Roberto, Provincia di (MO) Modena, Settore Difesa del Suolo e Tute- 1964. PAREA Prof. Gianclemente, via la dell’Ambiente, v.le Barozzi 340, Lungolago 32, 23826 Mandello del Lario 41124 Modena (LC) 1905. ORTO BOTANICO, Dip. di Biologia, 1976. PARENTI Prof. Carlo, Dip. di Università di Modena e Reggio Emilia Scienze Farmaceutiche, Università di 2000. OTTAVIANI Prof. Giampiero, Dip. Modena e Reggio Emilia di Fisica, Università di Modena e Reggio 1994. PASUTO Dott. Alessandro, IRPI – Emilia CNR, c.so Stati Uniti 4, 35127 Padova 1964. PECORARI Prof. Piergiorgio, Dip. 2007. PACCHIAROTTI Prof.ssa Nicolet- di Scienze Farmaceutiche, Università di ta, Dip. di Matematica Pura ed Applica- Modena e Reggio Emilia ta, Università di Modena e Reggio Emi- 2008. PEDERZANI Sig. Fernando, via lia Landoni 35, 48121 2007. PADOVANI Sig. Luciano, str. Bat- 1995. PEDERZOLI Prof.ssa Aurora, Dip. taglia 123, 41122 Modena di Biologia, Università di Modena e Reg- 1967. PAGLIAI Prof.ssa Anna Maria, via gio Emilia Genova 5, 41126 Modena 2011. PELLACANI Sig. Alderigi, via 2011. PAGLIAI Dott. Davide, loc. Ghiare Giorgi 42, 41124 Modena 10, 19015 Levanto (SP) 2008. PELLACANI Dott. Andrea, via 1977. PALMIERI Dott. Daniele, via Cana- degli Inventori 48, 41122 Modena letto 35, 41030 San Prospero (MO) 1963. PELLACANI Prof. Giancarlo, Dip. 2000. PALYI Prof. Gyula, Dip. di Chimica, di Chimica, Università di Modena e Reg- Università di Modena e Reggio Emilia gio Emilia 1982. PANINI Prof. Filippo, Dip. di 2004. PELLATI Dott.ssa Federica, Dip. di Scienze della Terra, Università di Mode- Scienze Farmaceutiche, Università di na e Reggio Emilia Modena e Reggio Emilia 288 Elenco Soci anno 2011

2004. PETRUCCI Dott.ssa Raffaella, via 1997. PRO NATURA VAL D’ENZA, via Emilia Est 305, 41121 Modena Carso 8, 42021 Bibbiano (RE) 1982. PEZZUOLI Prof.ssa Filiberta, via 2006. PULINI Dott.ssa Ilaria, Museo Civi- Sigonio 410/6, 41124 Modena co Archeologico Etnologico di Modena, 2003. PIACENTINI Dott.ssa Daniela, via v.le Vittorio Veneto 5, 41124 Modena Montegrappa 46, 41026 Pavullo (MO) 1997. PIAGGI Prof.ssa Vilma, via Bonaci- 1989. QUATTROCCHI Prof. Pasquale, ni 304/1, 41121 Modena via Firenze 31, 41126 Modena 1997. PINETTI Prof. Adriano, Dip. di 2001. QUATTROCCHI Dott. Salvatore, Chimica, Università di Modena e Reggio via Pelloni 91, 41125 Modena Emilia 2004. PIVA Dott.ssa Carlotta, via Giaco- 1993. RAIMONDI Dott. Claudio, via bazzi 17, 41049 Sassuolo (MO) Indipendenza 95, 41049 Sassuolo (MO) 1976. PLESSI Dott.ssa Maria, Dip. di 2009. RAIMONDI Sig. Mauro, via Baco- Scienze Farmaceutiche, Università di ne 33, 41126 Modena Modena e Reggio Emilia 2009. RATTIGHIERI Dott.ssa Eleonora, 1997. PO BIANCANI Prof.ssa Maria Leti- via Motta 140, 41012 Carpi (MO) zia, via Giardini 250, 41124 Modena 2011. REBECCHI Sig. Christian, via Spa- 1993. PO Dott.ssa Marilena, v.le Muratori gna 11, 41014 Castelvetro (MO) 137, 41121 Modena 1996. REBECCHI Dott.ssa Lorena, Dip. 2011. POLI Dott. Emanuele, via Pasubio di Biologia, Università di Modena e Reg- 13, 37057 San Giovanni Lupatoto (VR) gio Emilia 1986. PONZANA Dott. Luigi, via Zurlini 2007. REBUCCI Sig. Franco, via Leopar- 127, 41125 Modena di 67/1, 41123 Modena 2009. POPPI Sig. Ivano, via Marenzio 52, 2004. REGGIANI Dott. Alberto, via Mae- 41121 Modena stra Rubbiara 1, 41015 Nonantola (MO) 1992. POZZI Arch. Fabio Massimo, corso 2007. REMAGGI Prof.ssa Francesca, via Canal Chiaro 26, 41121 Modena Mascagni 28/2, 41121 Modena 2000. PRATI Dott. Fabio, Dip. di Chimica, 1997. RINALDI Dott.ssa Gloria, via Bar- Università di Modena e Reggio Emilia di 16, 42121 Reggio Emilia 1993. PREITE Dott. Francesco, via 1967. RINALDI Prof.ssa Marcella, Dip. di Moscati 10, 41049 Sassuolo (MO) Scienze Farmaceutiche, Università di 1974. PRETI Prof. Carlo, via Emilia Est Modena e Reggio Emilia 15/9, 42048 Rubiera (RE) 2012. RINALDI Dott.ssa Rossella, via 1996. PRETI Dott. G. Gaetano, via Gale- San Faustino 155/4, 41125 Modena no 78, 41126 Modena 1958. ROMPIANESI Sig. Pietro, via 1996. PREVEDELLI Prof.ssa Daniela, Camaiore 107, 41125 Modena Dip. di Biologia, Università di Modena e 2005. RONCHI Dott. Stefano, via Mosca Reggio Emilia 142, 41043 Formigine (MO) Elenco Soci anno 2011 289

1983. ROSSI Dott. Giuliano, v.le di Mez- 1963. SCAGLIONI Dott. Antonio, via zo 17, 46100 Mantova Pietrasanta 15, 41125 Modena 2010. ROSSI Dott. Giuseppe, v.le Fabrizi 2004. SCAGLIONI Dott.ssa Giulia, via 45, 41121 Modena Giardini Nord 9189, 41020 Serramazzo- 1996. ROTTEGLIA Prof. Antonio, via ni (MO) Mantegna 133, 41125 Modena 2007. SCARAVELLI Sig.ra Maria Grazia, 1992. ROVERSI Dott.ssa Maria Teresa, via Labriola 11, 41012 Carpi (MO) via Ascari 66, 41038 San Felice sul 1998. SCAVAZZA Dott. Antonio, via Panaro (MO) Wagner 138, 41122 Modena 1964. RUSSO Prof. Antonio, v.le Murato- 2010. SELMI Sig. Enrico, via Cesane 7, ri 225, 41124 Modena 41125 Modena 1975. SERAFINI Rag. Pier Luigi, via 1993. SABATINI Prof.ssa Maria Agnese, Monte Rondinara 37, 41029 Roncosca- Dip. di Biologia, Università di Modena e glia (MO) Reggio Emilia 1981. SERGI Sig. Santo, Dip. di Scienze 1998. SALA Dott.ssa Giovanna, via Nievo Farmaceutiche, Università di Modena e 6, 41124 Modena Reggio Emilia 1996. SALA Dott. Luigi, Dip. di Biologia, 1959. SERPAGLI Prof. Enrico, v.le Mon- Università di Modena e Reggio Emilia teverdi 67/B, 41049 Sassuolo (MO) 2004. SALA Dott.ssa Nicoletta, via Mon- 2002. SERVENTI Dott. Paolo, Dip. di chio 2, 41012 Carpi (MO) Scienze della Terra, Università di Mode- 2007. SALTINI Geom. Lucio, via Livatino na e Reggio Emilia 6, 41123 Cittanova (MO) 2007. SETTI Dott.ssa Sara, via Villa Infe- 2008. SALVIOLI Dott. Paolo, v.le Menot- riore, 46029 Suzzara (MN) ti 114, 41121 Modena 1993. SGARBI Prof.ssa Elisabetta, Dip. di 1993. SANTI Prof. Luigi, via Matteotti 3, Scienze Agrarie e degli Alimenti, Uni- 41058 Vignola (MO) versità di Modena e Reggio Emilia 1997. SANTINI Dott. Claudio, via San- 1963. SIGHINOLFI Prof. Giampaolo, t’Orsola 7, 41121 Modena Dip. di Scienze della Terra, Università di 2009. SARACENO Dott. Michele, via Melo- Modena e Reggio Emilia ni di Quartirolo 41, 41012 Carpi (MO) 2007. SILINGARDI Sig. Giancarlo, via 1990. SARGENTI Dott. Daniele, via San- Luosi 156, 41124 Modena ta Croce 485, 41021 Fanano (MO) 2006. SIMONCELLI Dott.ssa Antinisca, 1996. SARTO Dott.ssa Manuela, v.le San- v.le Asiago 10, 46100 Mantova ta Chiara 5, 41049 Sassuolo (MO) 1996. SIMONINI Sig. Fausto, via Tavoni 1991. SASSO Dott. Franco, via Stadio 2, 13/1, 41058 Vignola (MO) 41029 Sestola (MO) 1997. SIMONINI Sig. Roberto, via Vival- 2011. SAVIOZZI Sig. Enrico, via Galletta di 6/1, 41057 Spilamberto (MO) 50, 40068 San Lazzaro (BO) 2005. SITTA Dott. Nicola Giovanni, loc. 290 Elenco Soci anno 2011

Farnè 39, 40042 Lizzano in Belvedere 2002. TAVERNI Dott.ssa Ivana, via Sca- (BO) naroli 34/1, 41124 Modena 1997. SOCIETÀ REGGIANA DI SCIEN- 1983. TAZIOLI Prof. Giulio Sergio, via ZE NATURALI “C. IACCHETTI”, c/o Ginelli 9, 60131 Ancona Maurizio Scacchetti, via Tosti 1, 42124 2009. TEPEDINO Dott. Ciro, Musei Ana- Reggio Emilia tomici, Università di Modena e Reggio 1987. SOLDATI Prof. Mauro, Dip. di Emilia Scienze della Terra, Università di Mode- 1992. TERMANINI Ing. Dezio, via Mon- na e Reggio Emilia teverdi 12, 41049 Sassuolo (MO) 2009. SOLIERI Dott.ssa Marinella, via 2005. TIOZZO Prof.ssa Roberta, Dip. di Lagrange 29, 41125 Modena Scienze Biomediche, Università di 1996. SONETTI Prof. Dario, Dip. di Bio- Modena e Reggio Emilia logia, Università di Modena e Reggio 1997. TORRI Dott.ssa Paola, Orto Botani- Emilia co-Dip. di Biologia, Università di Mode- 1970. SORAGNI Dott. Ercole, Dip. di na e Reggio Emilia Chimica, Università di Modena e Reggio 1981. TOSATTI Prof. Giovanni, Dip. di Emilia Scienze della Terra, Università di Mode- 2002. SPAGGIARI Dott. Alberto, via Gaz- na e Reggio Emilia zadi 17, 41122 Modena 1990. TREVISAN Dott.ssa Giuliana, via 1997. SPAGGIARI Prof. Marga, via Cadu- Giardini 378, 41124 Modena ti sul Lavoro 16, 41049 Sassuolo (MO) 1998. STORCHI Geom. Luciano, via 2008. VACCARI Sig. Luciano, via Giusti Bonacini 70, 41121 Modena 23, 41043 Formigine (MO) 1972. VAMPA Prof.ssa Gabriella, via 1970. TADDEI Prof. Ferdinando, Dip. di Curie 8, 41126 Modena Chimica, Università di Modena e Reggio 1991. VANDELLI Prof.ssa Maria Angela, Emilia Dip. di Scienze Farmaceutiche, Univer- 1997. TAGLIATI Rag. Tosca, via del sità di Modena e Reggio Emilia Casone 8, 41010 Magreta (MO) 2000. VECCHI Dott. Fabrizio, via Isonzo 2003. TAIT Prof.ssa Annalisa, Dip. di 270, 41028 Serramazzoni (MO) Scienze Farmaceutiche, Università di 1963. VECCHI Dott.ssa Tiziana, via Emi- Modena e Reggio Emilia lia Est 18/1, 41124 Modena 1996. TARUGI Dott.ssa Patrizia, Dip. di 2009. VENTURELLI Dott. Alberto, Dip. Scienze Biomediche – Sez. Patologia di Scienze Farmaceutiche, Università di Generale, Università di Modena e Reg- Modena e Reggio Emilia gio Emilia 2001. VERONESI Rag. Pietro, v.le Mura- 2000. TASSI Prof. Lorenzo, Dip. di Chi- tori 185, 41121 Modena mica, Università di Modena e Reggio 2009. VIANI Sig.ra Fiorella, viale Meda- Emilia glie d’Oro 45, 41124 Modena Elenco Soci anno 2011 291

2007. VIOTTI Dott.ssa Giulia, via Boito 2008. ZANINI Sig. Mauro, via del Carret- 48, 41121 Modena to 3, 25127 1975. VISCO Sig. Luigi, Dip. di Ingegne- 1996. ZANNINI Prof. Paolo, Dip. di Chi- ria dei Materiali e dell’Ambiente, Uni- mica, Università di Modena e Reggio versità di Modena e Reggio Emilia Emilia 2002. VOLPI Sig.ra Giorgia, via Sobrero 1968. ZAVATTI Dott. Adriano, c.so Canal 10/1, 41126 Modena Grande 90, 41121 Modena 2009. ZINI Sig.ra Silvana, via San Gio- 1996. ZAMPIGHI GIROTTI Dott.ssa vanni Bosco 78, 41121 Modena Giuliana, via Ganaceto 115/C, 41121 2002. ZUCCHI Dott.ssa Claudia, Dip. di Modena Chimica, Università di Modena e Reggio Emilia

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Indice

Luca Lombroso Annuario delle osservazioni meteoclimatiche dell’anno 2011 registrate dall’Osservatorio Geofisico di Modena pag. 5

Emanuele Poli Riferimenti teorici della geografia: il rapporto uomo-ambiente pag. 27

Luca Ghelfi Il giardino romantico pag. 35

Carlotta Giacobbe, Alessandro F. Gualtieri, Alberto Viani The formation of talc during the dehydroxylation reaction of serpentine minerals pag. 51

Giuseppe Bettelli, Filippo Panini Che fine hanno fatto le Argille Scagliose dell’Appennino emiliano? pag. 61

Paolo Balocchi Deformation bands in litologie arenacee della Formazione di Ranzano e loro significato geologico strutturale (Appennino emiliano) pag. 117

Giovanni Tosatti La pendenza della Torre Ghirlandina di Modena: un problema geotecnico sotto controllo pag. 129

Stefano Lugli, Rossella Cadignani La Torre Ghirlandina, il restauro e il terremoto pag. 143

Claudio Santini, Fabrizio Buldrini Le siepi del sistema Resega-Bellaria-Foresto (Novi di Modena) pag. 153

Assunta Florenzano, Silvia Benassi, Anna Maria Mercuri Pioggia pollinica e qualità dell’aria: polline di Olea negli uliveti dal caso studio della Basilicata pag. 175 294

Maria Chiara Montecchi, Eleonora Rattighieri, Gianluca Pellacani, Andrea Cardarelli, Anna Maria Mercuri Inferenze archeoambientali dalle sequenze polliniche della Terramara di Baggiovara – Modena (XVII-XVI sec. a.C.) pag. 191

Alessandra Benatti, Giovanna Bosi, Rossella Rinaldi, Donato Labate, Francesco Benassi, Claudio Santini, Marta Bandini Mazzanti Testimonianze archeocarpologiche dallo spazio verde del Palazzo Vescovile di Modena (XII secolo) e confronto con la flora modenese attuale pag. 201

Milena Bertacchini, Paolo Serventi, Giovanna Barbieri, Fabrizio Buldrini, Luigi Sala, Luca Malagoli, Maurizio Salvarani, Chiara Bortoli, Lorenzo Tosatti Itinerari Musei e Territorio: il Parco della Resistenza a Modena pag. 217

Giovanna Barbieri, Giovanna Bosi, Liliana Ronconi, Daniela Dallari, Marta Bandini Mazzanti Itinerari e Laboratori all’Orto Botanico: 5. Le imprese della clorofilla – il Laboratorio Fotosintesi pag. 241

Marisa Mari, Ivano Ansaloni “Cioni”, il cavallo di Giuseppe Garibaldi pag. 251

Ricordo di PERICLE DI PIETRO pag. 261 di Ferdinando Taddei

Ricordo di RENATA ZUNARELLI pag. 263 di Anna Maria Pagliai

Ricordo di ANTONIO ROSSI pag. 267 di Ermanno Galli

Relazione sull’attività sociale svolta nell’anno 2011 pag. 273

Rendiconto Economico e Finanziario anno 2011 pag. 275

Elenco Soci anno 2011 pag. 279

I periodici posseduti dalla Società dei Naturalisti e Matematici di Modena sono presenti nel “Catalogo automatizzato dell’Università di Modena e Reggio Emilia” e in Internet all’indirizzo: www.unimo.it/cisab/catalog.htm selezionando “il catalogo dell’Università” e inoltre nel “Catalogo Nazionale dei periodici delle scienze matematiche, fisiche, informatiche e tecnologiche”, gestito dall’Università del Salento (Lecce) e consultabile all’indirizzo: siba2.unile.it al “CatalogoDSM” o “Catalogo Nazionale dei periodici delle Scienze Matematiche”

Il posseduto della Società è indicato in corrispondenza della Sigla MO026 che è il codice C.N.R. assegnato alla nostra Biblioteca.

Per qualsiasi informazione o problema relativi a tali collegamenti è possibile rivolgersi a: CISAB, Università di Modena e Reggio Emilia.

Istruzioni per gli Autori – I contributi scientifici devono essere inviati direttamente alla Società, indirizzandoli alla sede di redazione di Largo S. Eufemia 19, 41121 Modena. L’accettazione degli articoli sarà subordinata al parere favorevole del Consiglio Direttivo e da parte dei Revisori scientifici che eventualmente proporranno all’Autore le opportune modifiche. La responsabilità scientifica dei contributi resta comunque a carico degli Autori. Le spese di stampa sono a parziale carico degli Autori o Enti Finanziatori; solo in casi particolari la rivista potrà concedere la stampa gratuita del lavoro.

Manoscritti – I lavori presentati per la pubblicazione devono essere scritti in italiano o in ingle- se, inviati tramite posta elettronica o consegnati su CD-R in formato “.doc” modificabile (siste- ma scrittura “Word” per Windows, scritto con carattere Times New Roman), accompagnati da accluse tabelle, tavole e figure in b/n o a colori in formato “.jpg” o “.tif” (no “.pdf” o “power point”). Soltanto i lavori dove compaiono molte formule matematiche o figure geometriche complesse possono essere inviati in formato “.pdf” (spazio pagina utile: 12x18 cm). I testi e le figure restano di proprietà della rivista. Le espressioni latine e i termini stranieri devono essere scritti in corsivo. Non sono ammesse le sottolineature né l’inserimento di inter- ruzioni di pagina o di sezione.

Modello prescritto - Autore: in alto a sinistra; nome e cognome (corpo 14 pt. in grassetto, in maiuscolo solo le lette- re iniziali). Il Dipartimento o Ente di appartenenza, completo di indirizzo, viene riportato come nota a piè pagina. - Titolo: conciso; scritto in grassetto; in maiuscolo solo la lettera iniziale (corpo 18 pt.). - Riassunto/Abstract: in italiano e in inglese (corpo 10 pt.). - Parole chiave/Key words: massimo 5, in italiano e in inglese (corpo 10 pt.). - Testo: Le memorie di una certa lunghezza devono essere suddivise in capitoli (corpo 11 pt.). - Paragrafo: interlinea multipla = 1,2. Le Citazioni bibliografiche vanno inserite tra parentesi, indicando il cognome dell’Autore e l’an- no di pubblicazione (es. Neri & Verdi, 2007); nel caso in cui gli Autori siano più di due, al nome del primo seguirà l’abbreviazione in corsivo “et al.” (es. Bianchi et al., 2009). Le Tabelle (con righe verticali ridotte a quelle essenziali), Figure, Fotografie, esenti da copyright, devono essere numerate e complete di didascalie nella lingua del testo oppure sia in italiano sia in inglese. Si consiglia di indicare con chiarezza dove si desidera siano posizionate nel testo. Nei limiti del possibile il Comitato di Redazione terrà conto dei desideri degli Autori. - Eventuali Ringraziamenti. - Bibliografia: limitata ai soli lavori citati nel testo e redatta in ordine alfabetico d’autore secondo il seguente schema (corpo 10 pt.): ROSSI G. (in maiuscoletto), 2003 – Titolo (in corsivo). In: D. Neri “Titolo del volume”, pp. 321- 336, Editore, Luogo di Edizione. BIANCHI F., ROSSI G. & VERDI T. (in maiuscoletto), 2009 – Titolo della Monografia (in corsivo). Nome della Rivista, Numero del volume (in grassetto), Numero pagg., (Editore), Luogo di Edizione. Esempio: ALESSI P., GIGLIOLI F.E. & PARENTI F., 2010 – I tunnel di lava della Valle del Bove (CT). Geologica Romana, 39, pp. 127-146, Roma. ATTI DELLA SOCIETÀ DEI NATURALISTI E MATEMATICI DI MODENA Finito di stampare nel mese di ottobre 2012 presso MC Offset - Modena - Italia