«Et neuna cosa, Quanto sia minima, può havere comminciamento o fine senza Sapere, senza Potere et senza con Amor volere»

Fra Dionisio da XIII sec.

Associazione Pro Loco Rigomagno

«E ALLORA SI FA REPUBBLICA PER CONTO NOSTRO»

Storia di Rigomagno, tra mito e leggenda, a 715 anni dalla fondazione

testi: Ariano Guastaldi

disegni: Giovanni Beduschi, Marco Fusi, Ariano Guastaldi

Edizioni Luì Edizioni Luì Via G. Galilei, 38 - Chiusi (Siena)

Stampato in Italia - Printed in nello stabilimento Friulstampa Majano

© 2007 Tutti i diritti riservati Vietata la riproduzione anche parziale di testi e disegni senza la preventiva autorizzazione degli autori [Dice fra Celso: “in ogni caso – e a prescindere – non sta bene copiare”] Premessa

Nel progetto iniziale di questo libro non era prevista alcuna forma di prefazione. Lasciare libero il lettore di capire i nostri intendimenti, passo dopo passo, con lo scorrere dei capitoli, ci era sembrato il modo migliore, ed anche l’unico, per as- saporare il racconto. Concedere cioè il gusto della scoperta era, per noi, un fat- to positivo: un elemento qualificante. Però, a lavoro praticamente terminato, il dubbio della incompletezza si è fatto improvvisamente avanti, turbando le nostre notti con angosciose domande alle quali non riuscivamo a dare le giuste risposte, ad iniziare da quella più generale del chi ce lo avesse fatto fare. Nel frattempo una serie di inciampi avevano minato l’entusiasmo di alcuni ed i presupposti non facevano presagire niente di buono. Colti da una improvvisa mania distruttiva, siamo stati fermati appena in tempo (per fortuna o per disgrazia, dipende dai punti di vista) da cestinare il tutto, da un interessamento per così dire “esterno”. Qualcuno, infatti, aveva chiesto agli autori (ci è sembrato con un velato spirito di approvazione, ma forse non era pro- prio così) dove trovassero il tempo per realizzare questi lavori, considerando i rit- mi a cui la vita di tutti i giorni obbliga ciascuno di noi e – soprattutto – quando li pensavano. Gli autori si erano guardati in faccia e poi avevano risposto, quasi in sincrono: «E chi li pensa!» Era evidente che due note di chiarimento si imponevano. È iniziato così un lungo e travagliatissimo cammino di avvicinamento alla pre- fazione, iniziato con l’idea dell’auto presentazione, passato poi per l’abstract (o riassunto) in greco antico, da pubblicarsi in quarta di copertina; fino alla presen- tazione ad opera del noto personaggio il quale, con la sua sola presenza, avrebbe assicurato quel minimo di successo altrimenti irraggiungibile. Abbiamo pensato che sarebbe stato più dignitoso affondare da soli. Ed eccoci quindi alla tanto sofferta “premessa”, che abbiamo deciso di fare in ter- za persona, nel modo più distaccato possibile, a nome dell’Associazione Pro loco Rigomagno, o per meglio dire a nome di coloro che in questo momento hanno la responsabilità dell’indirizzo generale delle attività. Una puntualizzazione neces- saria, non fosse altro per poter dare la possibilità di prendere le distanze dall’ini- ziativa a coloro che non dovessero, nell’immediato o in futuro, riconoscersi nella filosofia che emerge dal presente lavoro. Non diremo della validità degli autori: questi abbiamo. Non diremo neppure del modo con cui è stato trattato l’argomento, né spenderemo parole per asserire o negare i diversi riferimenti storici del volume, perché la gente crede, o non crede, indipendentemente da ciò che si scrive nelle prefazioni. Diremo invece del perché. Avremmo preferito che lo si capisse da soli, ma proba- bilmente un accenno è necessario, non solo per comprendere meglio l’opera ma anche le motivazioni. Visto che ci siamo riteniamo utile un’avvertenza. Che questo libro non ha una forte connotazione scientifica è piuttosto evidente, ed a scanso di equivoci ci affrettiamo a ribadirlo, ma con una precisazione: non ci siamo fin qui vantati, né abbiamo intenzione di farlo ora, ma non vorremmo che questo nostro approccio, così informale e dimesso, così poco distaccato dalla “storia” e così tanto vicino alla vita di tutti i giorni, provocasse un rifiuto del la- voro svolto per “manifesta incapacità”, e la messa al bando del libro con infamia e ridicolo. Perché, in effetti, la ricerca è stata molto seria e l’esposizione contiene molte meno fandonie di libri molto più seri del nostro. Ovviamente si tratta di una storia “secondo noi” (la storia, comunque, è sempre “secondo chi la scrive”), ed è una “storia locale”, vista oltre tutto dalla nostra par- te formata, spesso, da piccoli fatti di vita quotidiana ed episodi microscopici, che un tempo si raccontavano nel dopo cena. Normalmente questa viene conside- rata “storia minore”, di scarsa importanza per “la conoscenza” e di poca “se non punta” necessità. Si usa dire che i grandi eventi cambiano il mondo ed è vero, ma se non ci fosse- ro i piccoli eventi, molto probabilmente non ci sarebbero quelli grandi, o per lo meno – e questo è il punto che ci sta a cuore – non si capirebbero. In virtù di questa convinzione, per quanto siamo capaci, abbiamo cercato di con- testualizzare la nostra “piccola storia”, cercando di spiegare anche le ripercussioni locali di fatti che si stavano sviluppando lontani. Abbiamo cercato di raccontare, nel modo più semplice e vario possibile, un perio- do molto lungo della nostra storia. Probabilmente abbiamo annoiato qualcuno e perso qualcun altro per strada, ma il metodo di indicare più cause per l’evolversi di un dato evento non è affatto sbagliato. Si tratta di una pratica scientifica appli- cata nell’ambito della comunicazione promozionale. E comunque, a prescindere dal conforto del rigore scientifico, riteniamo che nella gran quantità delle cose dette, qualcosa dovremmo essere riusciti a far capire, non fosse altro per sbaglio! Quest’ultimo concetto è anche noto come “legge dei grandi numeri”. Ci auguriamo che altri, molto più bravi e preparati di noi, possano fare di meglio, partendo magari da quel poco che siamo riusciti a fare. Per il momento siamo fe- lici per aver portato a termine l’impresa, e ci chiameremo soddisfatti se solo qual- cuno non guarderà più al vecchio pozzo di piazza come ad un fastidioso ostacolo al parcheggio delle automobili. Abbiamo dato a questo volume anche la caratteristica di contenitore, che poi è sta- to utilizzato per “archiviare” alcuni modi di dire, qualche tradizione ed un po’ di aneddoti “a rischio di estinzione”. La definizione non è particolarmente elegante, ma dovrebbe chiarire con efficacia il nostro punto di vista in proposito. Ma c’è un altro aspetto non meno importante della conoscenza storica di un ter- ritorio: la conoscenza della gente che lo abita. Sicuri di essere nel vero, abbiamo preso la scusa del 715º anniversario dalla fon- dazione di Rigomagno per parlare di noi, o meglio, per far capire il nostro modo di lavorare, il nostro pensiero, ed il perché delle nostre scelte. Se le iniziative che proponiamo sono diverse da quelle presentate da altre associazioni è perché, pro- babilmente, non siamo uguali a loro. Lo diciamo senza alcuna malizia: meno male che siamo tutti diversi. Con la decisione di lavorare per una ricorrenza come questa ci siamo connotati, diciamo, al di fuori dello standard di un’associazione come la nostra. Volendo es- sere più precisi bisognerebbe anche dire che “la ricorrenza” è stata cercata, non è arrivata da sola come la grandine, ma correremmo il rischio di complicare trop- po le cose. Riassumendo: potevamo ricordare l’anniversario con una cena, oppure, potevamo non ricordarlo affatto, invece abbiamo deciso di pubblicare un libro.

Indice

Capitolo 1: Antefatto - Fra Dionisio interviene al Pubblico Consiglio della Repubblica di Siena - Chi era fra Dionisio pag. 11

Capitolo 2: Fra Dionisio e la sua guida fra Celso detto “il Silente” L’epoca etrusca e l’epoca romana » 19

Capitolo 3: Arrivano i barbari - Conti e Duchi - I signori feudali della zona - Montaperti » 53

Capitolo 4: Il convento delle Vallesi » 71

Capitolo 5: Dionisio torna a Rigomagno - La distruzione di Castelvecchio L’incontro con fra Mario - Il progetto di ricostruzione » 85

Capitolo 6: La costruzione di Rigomagno con annessi e connessi » 117

Capitolo i

Antefatto - Fra Dionisio interviene al Pubblico Consiglio della Repubblica di Siena - Chi era fra Dionisio

Quando il caso ci si mette d’impegno riesce a combinar- le di veramente curiose, ma pochi, tra quei duecento e passa uomini, tutti a capo basso per paura di incontrare uno sguardo indesiderato o, peggio, gli occhi di quel frate che da un sacco di tempo, da troppo tempo, stava parlando con voce pacatissima (e quindi peri- colosa), credettero al frutto del caso nel momento in cui, dopo una serie di armoniose parole in latino, che peraltro pochissimi capirono, nella grande sala accadde di tutto. Alle parole in latino si erano sovrapposte parole, anch’esse poco chia- re malgrado fossero in volgare, perché sembravano cadere dall’alto, una ad una: «...or son io qui, prostrato ai vostri piedi, a domandarvi pietà per la mia patria...» Silenzio. Nessuno aveva il coraggio di alzare la testa, anche se la voglia di guar- dare superava quasi la paura. Gli occhi, premendo in alto fino a far male, fecero intravedere, ai più coraggiosi delle prime file, lo svolazzo distorto di un drappo nero che andava a sormontarne uno bianco: era il mantello del frate che lo seguiva lentamente, come per accentuar- ne il gesto, mentre lui si stava inginocchiando ed apriva le braccia in segno di pietà. Tutti gli altri percepirono solo un inquietante e poco chiaro movimento di ombre. Nello stesso momento una finestra si spalancò facendo cadere una cesta di vimini che era stata appoggiata sul ripiano e che, poco pri- ma, uno degli armigeri del Terzo di S. Martino aveva spostato perché gli dava fastidio alla schiena. Un piccione, che si era accovacciato sul

11 davanzale per ripararsi dalla tramontana che soffiava dall’altro lato del palazzo, fu trascinato dentro dal vento. Colto di sorpresa, poco pronto alla reazione, in parte perché infreddolito, in parte perché “piccione”, trovò conveniente appollaiarsi nella lunetta, che divide la sala del Consiglio dalla Cappella di Palazzo, dove la folata di vento lo aveva sbattuto. Le candele della Cappella, che si erano affievolite per il soffio di vento che le aveva raggiunte, tornarono a fare più luce di prima. Ad un armigero del Terzo di Camollia, in servizio dalla sera prima e per questo un po’ sonnecchiante, cadde la picca con un tonfo sordo di vetri rotti, come quando si rompe un fiasco di vino: la picca era caduta sul piede di tale Biagio, il quale ce la fece a non lasciarsi scappare un urlo, ma non il fiasco che teneva in mano. La gente, che fin dalle prime parole del frate aveva quasi smesso di respirare per non far rumore, ora non respirava affatto. Una serie di coincidenze? In altri tempi e luoghi, forse, ma la mattina di quel 3 dicembre del- l’anno del Signore 1291, nella Sala del Gran Consiglio del Palazzo pubblico di Siena, no.

12 La gran quantità di persone che faceva sembrare piccola l’immensa sala del palazzo ancora in costruzione e che si preannunciava tra i più importanti edifici del mondo, era composta dai responsabili del Go- verno di Siena, dai comandanti militari, dai governatori, dai conso- li, da cinquanta uomini «di retta coscienza e di vero senno» per ogni Terzo (Terzo di Camollia, Terzo di San Martino, Terzo di Città; a loro volta i Terzi erano divisi in Contrade), dai rappresentanti di tutte le corporazioni, da un certo numero di curiosi e dagli operai del can- tiere del Palazzo comunale. Tra quest’ultimi c’era anche Martino, un lavoratore specializzato nella preparazione dell’arriccio per gli affre- schi, il quale, assorto in pensieri di ordine pratico, stava valutando il lavoro ancora da fare e scuoteva il capo: «... è inutile che il Podestà si incaponisca con quest’idea della Sala del mappamondo con tutte la mappe... che voi mappare, laggiù in fondo ci sta bene una Maestà a tutta parete. Ci penserà il mi’ figliolo Simone quando sarà grande». Siccome gli ultimi pensieri li fece ad alta voce, prese del bischero da chi gli era vicino e tornò a pensare in silenzio. Chi aveva parlato senza sosta per un’ora, o forse due, era un povero fraticello, come diceva lui, completamente sconosciuto a tutti salvo per il nome, fra Dionisio da Rigomagno, noto ai senesi però solo da qualche ora perché annunciato dal banditore nei rituali di apertura

13 del Consiglio Generale; e per l’abito bianco e nero che ne identifica- vano l’appartenenza all’Ordine dei Domenicani. Essere Domenicano voleva dire avere una cultura nettamente supe- riore alla media, avere facilità di linguaggio, abitudine a parlare con chiunque, in qualsiasi luogo e occasione, senza alcun timore: caso mai dovevano essere gli altri ad averne. A questo punto forse conviene fare un passo indietro per capire me- glio il senso dell’intervento del frate al Grande Consiglio e la portata delle decisioni prese.

Fra Dionisio era nato nella prima metà del Duecento a Rigomagno. Non si conosce la posizione sociale della sua famiglia, né se abbia avuto la possibilità di essere seguito da maestri o precettori, ma pos- siamo dire quasi con certezza che ebbe bravi insegnanti. Così come possiamo essere sicuri che il ragazzo era tra i più “svegli” del paese e sicuramente quello più dotato di intelligenza in tutto il circondario. Le sue scelte e l’attività futura ne sono la prova. All’epoca il castello di Rigomagno sorgeva poco oltre mezza costa, lun- go la piccola valle che si incontra a sinistra, venendo da Siena, prima di giungere all’odierno abitato di Rigomagno Scalo. In quel punto si forma una strettoia per qualche centinaio di metri. Un tempo, con la cura tipica dei Romani per le strade, la via consolare Cassia coesisteva senza problemi con il limaccioso torrente Foenna, poi, con l’impalu- damento della Valdichiana, conseguente alla calata dei barbari, nella strettoia si formò un primo assaggio di pantano, che deve aver con- vinto ad ipotizzare una strada alternativa per fare ingresso nella val- le. Probabilmente tra il ix e il x secolo, verso la sommità della dorsale collinare, in un punto che doveva somigliare ad un valico, si costruì una “Terra murata”, cioè un villaggio munito di mura, porte, torri ed altri ammennicoli per la difesa. Signori e signorotti della zona traevano tutti origine, o quasi, dalla famiglia della Scialenga, o Scialenghi, da cui prenderanno origine le famiglie Cacciaconti, Cacciaguerra, Manenti, ecc., questi, non di rado, erano impegnati in piccole guerre con i loro vicini, durante le quali chi ci rimetteva, di solito, era la povera gente. Ai tempi di Dionisio (chissà se si chiamava così prima di essere fra’ ?),

14 il potere economico e politico era passato quasi completamente di mano. La zona era sotto l’influenza del Comune di Siena, il cui ter- ritorio confinava proprio qui con quello di Arezzo, poi inglobato da Firenze, e con quello di Perugia, poi assorbito dallo Stato della Chiesa. Ora le guerre si facevano un po’ più in grande, ma per la gente nor- male, la vita, se non era peggiorata, non andava certo meglio. Nel 1208 buona parte del castello di Rigomagno fu distrutto dai Fio- rentini. Ne approfittò Siena per acquistare a buon prezzo la parte del cassero ancora di proprietà di un ramo della famiglia Cacciaconti della Scialenga, e per ricostruire le parti distrutte un paio d’anni dopo. Probabilmente fu per sfuggire ai problemi, derivanti dalle piccole cose, se Dionisio pensò di andare a trovare quelli più stimolanti e più grossi che si incontrano in ambito internazionale. E li trovò di sicuro con i Domenicani. L’Ordine dei Predicatori, fondato da san Domenico, da cui successiva- mente prenderà il nome, ricevette l’approvazione ufficiale di papa Ono- rio iii, nel dicembre del 1216. L’ordine ebbe il suo primo insediamento nel sud della Francia, dove, da alcuni anni, una crociata bandita da papa Innocenzo iii contro gli eretici catari della Provenza e della Linguadoca si era trasformata in una guerra che sembrava non avere fine. I catari, dal greco [katharòi], “puri”, detti anche albigesi da Albi, la loro città principale, non rappresentavano un pericolo per

15 la Chiesa di Roma più di quanto non lo rappresentassero altri ereti- ci. Come spesso succede, interessi privati fecero intravedere, a molti signorotti, la possibilità di arricchirsi a scapito del vicino e ciò che avrebbe dovuto essere poco più di una punizione, degenerò in una strage le cui responsabilità si perdono nella colpa di molti. Abbiamo qui accennato all’episodio solo perché è nel suo ambito che fu istituita l’Inquisizione che rese famosi e temuti i Domenicani, ai quali fu affidata fin dall’inizio, e che quindi è collegabile al nostro fra Dioni- sio. La vicenda dell’inquisizione, infatti, è talmente complessa e delicata che non può essere liquidata frettolosamente. Si pensi, per esempio, al fatto che in età medievale la religione era parte integrante della società: attentare all’integrità della fede voleva dire attentare allo Stato. Lo stesso Federico ii, l’imperatore più illuminato di questi secoli, ne codificò il concetto. Si pensi anche ai possibili risvolti ed alle tentazioni che offriva la legge per cui l’eretico condannato perdeva tutti i suoi averi. Anche se aveva figli di comprovata fede cattolica, i beni erano divisi in tre parti che andavano in proprietà in egual misura: agli inquisitori, alla Chiesa e al Comune. Un argomento veramente complesso. Ma torniamo ai Domenicani, i quali, anche in virtù dell’incarico di cui abbiamo detto, ben presto si diffusero in tutta Europa, e princi- palmente nelle città dove stavano sorgendo le prime università, fa- cendo sentire la loro presenza all’esterno e, soprattutto, all’interno degli atenei. Le regole della vita domenicana imponevano la predicazione del Van- gelo, la vita in comune, la liturgia, lo studio ed il rispetto dei voti di obbedienza, povertà e castità. Regole più o meno simili a quelle di tutti gli altri ordini religiosi, dalle quali tuttavia si differenziava- no per “la dispensa”, una geniale intuizione di san Domenico, che consentiva ad un superiore di dispensare temporaneamente un frate dall’osservanza di una qualche regola al fine di favorire una predica- zione più efficace. Riassumendo: per entrare a far parte del mondo domenicano occorre- vano doti intellettuali superiori alla media e, per restarci, continuare a tenerle attive con uno studio incessante. Ma è giunto il momento di fare la conoscenza con fra Dionisio, per- ché sarà lui a raccontarci “di prima mano” le notizie riguardanti i fatti

16 storici e le curiosità di Rigomagno. Non sappiamo com’era fisicamente fra Dionisio (e quindi ognuno potrà figurarselo come vuole), forse di altezza leggermente superiore alla media, aveva sicuramente lo stesso sguardo furbo di quando era ragazzo, ed un portamento austero che gli derivava dall’abito che vestiva e dalla sicurezza della conoscenza. Aveva viaggiato per mezza Europa, era stato ospite di corti e abbazie impor- tanti. Aveva letto libri di cui la maggioranza ignorava perfino l’esisten- za. Poteva parlare, in assoluta normalità, con chi, altri, prima di pro- nunciarne il nome, doveva farsi il segno della croce. Nei primi anni ’80 del Duecento, in missione per papa Martino v nel sud della penisola italiana, fu testimone attento ma non schierato, del- l’inizio della guerra angioino-aragonese. Alla corte di Carlo i d’Angiò, viene a sapere della distruzione della sua Terra di origine ad opera dei Senesi. Ma è lontano, non può fare niente. E poi è impegnato in affari di importanza molto superiore agli episodi di storia locale: esattamente di quel genere che lo avevano fatto partire da ragazzo. Ma la lontananza, in quel momento triste per la sua gente, deve averlo fatto soffrire. Tornerà, forse per una sorta di vacanza premio, di sicuro ad incarico terminato, nel 1291.

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Capitolo 2

Fra Dionisio e la sua guida fra Celso detto “il Silente” L’epoca etrusca e l’epoca romana

La narrazione che segue si avvale dell’espediente di far raccontare al personaggio principale fatti diversi per tempo e luoghi, presentandone gli intrecci in modo, a volte misterioso, altre volte fantasioso, spesso con risvolti inattesi e imprevedibili, con l’intento di creare un minimo di interesse per un argomento non facile. Per dare scorrevolezza e maggior forza al racconto, il narratore è affiancato e coadiuvato da un compa- gno di viaggio. Una tecnica, questa, già usata da altri “colleghi scrittori” (per esempio tale Dante Alighieri da Firenze), per- ché, diciamolo chiaramente, far parlare il personaggio principale con un compagno di viaggio molto dotto, molto noto, molto paziente e, possibilmente, molto morto (in modo da poter scaricare responsabi- lità per teorie non documentabili su chi, successivamente, non potrà lagnarsi), è una tecnica molto comoda. Ad ogni buonconto, visti i precedenti, perché non dovremmo usarla anche noi? Rassicurati da questa premessa proseguiamo nel nostro intento sceglien- do la Guida del nostro narratore: fra Dioniso da Rigomagno. A fra Dionisio sarebbe piaciuto Socrate come compagno di viaggio, ma siccome il grande filosofo aveva fama di essere un gran chiacchierone, decise che nel gruppo bastava lui a parlare e scelse fra Celso il Silente, morto qualche anno prima, e che Dionisio sapeva per certo essere stato il precettore e maestro di Bernardo da Chiaravalle. Fra Celso rispon- deva ai requisiti ideali cercati, come si dice, dal Nostro: a) era un grande, perché era stato il maestro di un grandissimo; b) nessuno sapeva quanto detto al punto precedente e questa era la

19 prova che non era un chiacchierone e poi, mica per caso lo chiama- vano “il Silente”? A dire il vero, Celso parlava poco, ma quando lo faceva era una sen- tenza. Per lo più, preferiva l’ironia alla sopraffazione e raramente si abbassava all’ignoranza. Si dice che un giorno, reagendo a un discor- sone di un abate, che lo stava mettendo in imbarazzo, quando costui disse: «... e, come se non bastasse, è anche di origine partenopea», pare rispondesse: «Sì, e in parte... napoletana». Famoso quell’episodio, riportato nelle cronache del Novellino (che, come suggerisce il nome, non deve essere stato un campione di verità), del pranzo ad Orvieto col vescovo Aldobrandino. Fra Celso, probabil- mente perché non gli capitava tutti i giorni di mangiare bene (a dire il vero, spesso gli capitava di non mangiare affatto), si “fece fuori” – e con gran gusto – tre belle cipolle, una dietro l’altra, attirando l’atten- zione del vescovo, il quale, chiamato un inserviente gli disse: «Donzello, vammi da quello frate, e dilli che volentieri cambierei lo suo stomaco col mio». Lo donzello riferì e fra Celso, senza alzare la testa dal piatto, disse: «Va, e di’ a Monsignor Vescovo che ben credo che cambierebbe lo suo con lo mio stomaco, ma non credo farebbe altrettanto col ve- scovado».

Ed ora immaginiamo la nostra coppia in cammino: fra Dionisio, pensieroso per vocazione e con la mente sempre in movimento per contratto; fra Celso il Silente, in posizione leggermente arretrata e, ovviamente, in silenzio. «Caro Celso, l’Impero, dico: il Sacro Romano Impero, comincia a scricchiolare – era fra Dionisio che parlava – Per ora niente di serio. Diciamo che, al momento, presenta qualche incognita di ordine for- male. Mi riferisco al gran discutere che si fa intorno al problema se l’Imperatore abbia da essere eletto o se la carica debba trasmettersi per successione. Tu concorderai con me: non è cosa importante. L’im- portante è chi decide non chi è il capo. Ora si sta attraversando la fase che in futuro forse chiameranno, vediamo, non mi dispiacerebbe se la definizione fosse “del grande interregno”. Che ne dici, non è male, vero?

20 Per ora sembra tutto piuttosto tranquillo. Il primo imperatore eletto, Rodolfo i d’Asburgo, non so se lo sai, è appena morto. Comunque è durato poco. Il secondo, a quel che si dice, dovrebbe essere Adolfo di Nassua... dovremmo lasciarglielo fare e aspettare, tutto si risolve- rà per il meglio. E poi chissà se ce ne sarà un terzo? Dici di sì? Mah, se lo dici te.» Fra Celso aveva appena scosso il capo. Dionisio lo prese come un se- gno di assenso, ma poteva benissimo essere stato un movimento per scacciare una mosca. «La Francia, invece, la Francia... – proseguì Dionisio rinfrancato dal- la perfetta sintonia con il compagno – dal 1285 vi regna Filippo iv detto “il Bello”... certo: “detto” da chi non lo conosce e dai soliti lec- chini. Quel Filippo lì prima o poi ci darà dei grattacapi, ne sono si- curo, non ci vuole molto a capirlo. Ma il nostro buon Pastore, papa Niccolò iv, se ne sta tranquillo: sì, è vero, più o meno come il suo predecessore Onorio iv... Anche in Terrasanta ora è tutto tranquillo: hai visto? La Crociata è finita con la vittoria dell’Islam. Io c’ero quel 10 settembre 1291, quando è caduta la fortezza di San Giovanni d’Acri. E che tonfo ha fatto! I Templari e gli Ospedalieri rinchiusi nella Cattedrale avevano deciso di resistere anche oltre la dichiarazione della fine della guerra. Ma gli arabi hanno dato fuoco alla chiesa. Sono morti tutti bruciati. E qui fanno un gran parlare di una battagliucola che si è svolta l’11 giugno 1289 in Casentino in un posto chiamato Campaldino: sciocchezze. Che c’entra? Finché in Tuscia continueranno a guardare solo il pro- prio orticello, come pensano di progredire? Che vuol dire “sarà peggio quando entreranno in Europa”? Io intendo dire che non si progredisce con le piccole cose, bisogna guar- dare oltre i confini dello sguardo. I nostri villici campano con l’invidia addosso per il vicino che possiede un maiale e pregano che gli muoia, anziché rimboccarsi le maniche per farsi il maiale anche loro...».

Fra Dionisio e il suo accompagnatore avevano da poco lasciato Luci- gnano quando, svoltata una curva, si aprì la valle sotto di loro. Verso ponente, poco lontano, i poggi di Rigomagno.

21 «Guarda, guarda, la vedi quella casa laggiù, ai piedi della collina? Ci stava il poro Guido. Già, Guido, è andato in Terrasanta a fa’ il coglio- ne e c’è morto. Ma era un bravo ragazzo. E in quella accanto, la vedi? Ci stava Beppe dello Zoppo. Aveva sem- pre fame. Oddio, chi non aveva fame a quei tempi? Ma il su’ babbo, che era un omino previdente e lavoratore, aveva una cantina fornita di ogni ben di Dio. Quante volte ci sono stato con Beppe, quando tutti erano giù per i campi a lavorare. Si entrava piano piano e si rimaneva in contempla- zione di prosciutti, capocolli e sopressate: era uno spettacolo. Una volta Beppe decise di assaggiare un po’ della sua parte. Facendo due rapidi conti: in famiglia erano sedici, in cantina c’era un monte di roba, moltiplicando... e dividendo..., al padrone gli si diceva che la stagione era andata male, le ghiande poche e balorde: di conseguenza i maiali erano pochi e quei pochi secchi come non s’erano mai visti, tanto che avevano reso un prosciutto, massimo due a maiale. E poi qualche altra scusa si trova: – vai, che si mangia? Allora, il prosciutto no, il rigatino nemmeno: perché, padrone a par- te, il babbo di Beppe se ne sarebbe accorto subito, dal momento che prima di salire in casa, passava per la cantina... ma ecco che, alzan- do gli occhi al cielo... una visione. Si rimase folgorati, come chi tu sai per la via di Damasco: corone di salsiccioli pendevano dalle travi della cantina... “salsicce”, Celso, i salsiccioli sono salsicce, ma da che monte scendi? Per essere precisi si direbbe “salciccioli” che rende meglio l’idea: sal... ciccia... senti come suona bene? Insomma, filze di salsiccioli pendevano dalle travi, o meglio dai travi, perché in Toscana sono più grossi e, quindi, maschi... almeno credo che sia così. Era una visione fantastica, ma non si arrivava a prenderli. Allora a Beppe venne un’idea: acciuffò il gatto che era entrato con noi a cu- riosare e lo lanciò in alto contro le filze di salsiccioli. Il povero gatto, colto di sorpresa, cercò di attaccarsi ai salsiccioli che cominciarono a srotolarsi, ma più si srotolavano e più la povera bestia cercava di ar-

22 rampicarsi, srotolandone di nuovi. Alla fine vennero giù tutti. Che mangiata! Se ne dette un po’ anche al gatto. Celso, non fu un’idea mia, fu del gatto... cioè di Beppe. Perché non mi credi, ti ho mai raccontato balle? Ok, ok, come non detto, lascia stare.» Non si può dire che fra Celso partecipasse alla conversazione, la sua era una presenza, come dire, di appoggio, non attiva insomma, ma era più che sufficiente per Dionisio, anzi! «A proposito di cantine, una volta in paese arrivò un gruppo di te- deschi. Cercavano una ricetta... Das Ricetten, o roba del genere, do- vevano raccontare una storia: nessuno ci capì niente. Facevano de- gli orari strani: quando noi si andava a dormire, loro si svegliavano e viceversa. Erano arrivati con carri stracolmi di birra e di roba tedesca da man- giare. Ben presto però le loro scorte finirono, almeno così dissero loro: secondo me le buttarono dopo aver assaggiato il nostro mangiare.

23 Tanto brava la gente di Rigomagno: tutti a portare roba: – Kosa essere qvesto? – Prosciutto. – E dofe nasce und dofe si trofa et kresce? – Nella cantina del Panfi. – E qvesta befanda? – Ma quale bevanda, Friz, questo è vino, vi-no... gut, anzi very gut! Bono eh? Dove si trova? Sempre nella cantina del Panfi. Sì, bellino, lo dico a te dove si trova la cantina del Panfi, così ci vai coi tuoi amici e la ripulisci eh? Insomma, la cosa andò avanti per un po’, finché una sera qualcuno inchiodò una cartapecora all’uscio dell’osteria, che noi si chiamava “il Circolo”. No, Celso, non era rotondo. Non lo so perché si chiamava così. Tutti lo chiamavano così! In conclusione, nella cartapecora c’era scritto: “stasera la cantina del Panfi resterà aperta dalla mezzanotte all’alba” e sotto una pianta con le indicazioni per raggiungerla. Successe la fine del mondo perché, evidentemente, la trovarono chiusa. Allora i tedeschi cominciarono a reclamare. Perché i tedeschi, brava gente, ma precisi, devi stare attento a quello che dici. Ricordo una volta, il barista del Circolo fece un caffè con tutti i sen- timenti e lo servì a un tedesco del gruppo con l’aria di chi ha fatto una gran cosa. Il tedesco guardò la tazzina, poi il barista e di nuovo

24 la tazzina, quindi, con fare imperioso, alzò un dito, lo puntò sul ba- rista e poi sulla tazzina: – Io pagato per uno caffè et foglio uno caffè, no uno assaggio! E quindi, tornando alla serata in questione, i tedeschi fecero un gran baccano: – I soliti Italiani che promettono... promettono e poi niente! – Rifolere i soldi. – Prossimo anno noi andare in Espagna... Loro a bussare alla porta della cantina mentre il Panfi, alla finestra, non sentiva storie e voleva sapere chi era stato quel delinguente che aveva messo in giro la voce... Ci si divertiva con poco. Ma i tedeschi si trovarono bene e tornarono tante altre volte. Si facevano grandi tavolate in piazza, si mangiava e beveva tutti in- sieme. Spesso portavano botti di birra speciale. La birra tedesca, ra- gazzi, è veramente buona! Brava gente.»

25 Nel frattempo i due viaggiatori erano arrivati al piano. Alla loro destra le colline formavano una muraglia che dava l’impressione di non avere valichi. A sinistra, ciuffi di canne, un po’ di pozzanghere ed uno spec- chio d’acqua che, dalla parte di mezzogiorno, spariva come se fosse il mare; di fronte, verso il tramonto, copriva tutto fino alle colline. «E pensare che al tempo degli Etruschi, questo era uno degli angoli più fertili dell’Agro Chiusino» disse a voce bassa Dionisio, facendo un ampio gesto con il braccio destro. «Già!» approvò il Silente. E Dionisio, spronato da tanto entusiasmo, riprese con vigore: «A quel tempo bastava buttare al vento i semi perché nascesse qual- cosa. C’era di tutto: pane, companatico...» «Tutto per quel seme buttato al vento?» Lo interruppe Celso «o ma- gari perché la gente lavorava sodo per tenere a regime le acque, curava i boschi, passava più tempo nei campi che all’osteria...» «Certo, certo, lo so. Chissà quanta gente abitava in questi luoghi...» «Moltissima» replicò Celso con la sicurezza di chi la sa lunga. «Ti ba-

26 sti pensare che nella collina più alta, quella che si vede laggiù, un po’ a sinistra, la comunità aveva un’area sacra molto ampia. Nei giorni di festa veniva gente da ogni dove. La zona era bellissima, anche ora è molto bella, ma in futuro la sciuperanno. Dolci colline olivate ed un panorama splendido sulla Valdichiana e sui poggi di Trequanda. Se in futuro avessero voglia di fare indagini archeologiche, ci potreb- bero trovare tanti di quei reperti da riempire sette musei... E poi qui c’era un nodo stradale importante. Vi si incontravano le vie prove- nienti da Chiusi, Cortona, Arezzo e Volterra. Questa zona faceva parte del così detto Agro chiusino. Chiusi era una delle città etrusche più importanti, e in certi momenti è stata la più im- portante, come ai tempi del famoso re Porsenna (vi secolo a.C.). La leggenda (tramandataci da Tito Livio e Marco Terenzio Varrone) dice che, in seguito alla cacciata da Roma di Tarquinio “il superbo” (re di origine etrusca), Porsenna corse in aiuto del collega e pose sotto assedio l’urbe ma, in seguito agli atti di valore di Orazio Coclite e di Muzio Scevola, in segno di rispetto e ammirazione per i romani, ab- bandonò l’impresa e tornò a Chiusi. In realtà la leggenda fu creata ad arte dagli storici romani, per nascondere ai posteri una dura sconfitta. Porsenna, infatti, vinse ed occupò Roma.»

27 28 Fra Celso si girò lentamente intorno, tirò un gran sospiro e poi pro- seguì nel racconto: «La campagna era molto abitata. Laggiù, sulla destra, in quella gola, che ora fa paura anche alle volpi, c’erano angoli bellissimi, era il pun- to di incontro di tre o quattro torrentelli che andavano a formare un piccolo laghetto. C’era anche un molino che ricavava una farina senza uguali dal fantastico grano etrusco. I Romani, che in fatto di mangia- re vanno lasciati stare, riservavano questa farina ad un pane specia- le. Dicevano che era un peccato fare dei pani troppo grandi con una farina tanto preziosa e allora ci facevano delle pagnottelle che erano veri e propri boccioli di rosa... che poi col tempo il popolo ignorante è andato a chiamare ‘Rosette’... Il molino di cui dicevo apparteneva all’antica famiglia chiusina dei [Felznei]. Era famoso in tutto l’Impero perché la sua farina non aveva uguali. Poi le cose sono andate come sono andate: la zona, da bella che era, è diventata “una chiavica” – come dicono dalle mie parti – grano da macinare, manco a parlarne e così tutto finì. Però, siccome le cose buone non si scordano, il nome dei Felznei, an- che se un po’ storpiato in Felci e poi Folci è arrivato fino a noi. Fra qualche anno, chissà, a qualcuno verrà in mente di riaprirlo...» «Per macinarci che, le ghiande?» lo interruppe Dionisio. «Quando la palude sarà asciugata...» «A’ voglia te a fa’ foco, per fa’ evaporare tutta quest’acqua...», poi guar- dando la faccia seria del suo compagno aggiunse «o avresti l’intenzio- ne di obbligare la gente a berne una damigiana al giorno?» Ma il Silente non lo stava ascoltando, rivolto verso i colli di Rigomagno, si stava beando la vista con un paesaggio splendido: una trama rego- larissima di olivi si adattava perfettamente alla rotondità dei poggi. Qualche cipresso, messo artisticamente nel punto giusto, per rom- pere la monotonia cromatica, ciuffi di boschi, qualche vigna ed ecco l’opera d’arte. Non c’è un’altra parte del mondo in cui l’intervento dell’uomo abbia prodotto dei cambiamenti sul paesaggio che sembrano fatti dalla na- tura stessa. In altri luoghi ci sono zone bellissime, anche molto parti- colari e certe volte uniche, ma qui è l’intervento dell’uomo che ha reso nel tempo il paesaggio ancora più bello. E per di più l’uomo sembra

29 esserne consapevole. Tuttavia non è possibile che ogni intervento sia stato pianificato. Evidentemente c’è un senso innato della misura e del bello... saranno i cromosomi etruschi che si fanno ancora sentire. Già gli Etruschi: una miscela di medioriente, con una buona dose di Grecia classica solubilizzata in un ceppo italico. Un risultato vera- mente splendido. A dire il vero negli ultimi tempi qualcosa è cambiato. Il paesaggio ha subito e sta subendo notevoli danni, quasi nell’indifferenza generale. Non se ne parla e quando lo si fa è solo per cercare consensi finaliz- zati al tornaconto personale. Si costruisce per apparire e non per ne- cessità. Troppi soldi a troppa gente. Poi fra Celso tornò a rivolgersi direttamente a fra Dionisio: «Dicevamo della bonifica della Valdichiana. Non è poi così difficile da realizzare, le menti geniali ci sono in Italia...» «Certamente, solo che nei posti di responsabilità non ci sono i mi- gliori. Oggi per far carriera bisogna essere ruffiani e non avere riguar- do per nessuno!». Il buon Celso non riuscì a trattenere un piccolo gesto, a metà tra il disappunto e la rassegnazione; piccolo, ma sufficiente, perché Dioni- sio capisse che non era il caso di farsi illusioni per il futuro.

30 I due viaggiatori, in perfetta sincronia, lasciarono cadere il discorso e si diressero verso un piccolo dosso, dal quale li separava una selva di piante acquatiche sulla destra, ed uno stagno che iniziava proprio davanti a loro e che proseguiva sulla sinistra. Fra Celso si diresse verso lo stagno, con l’evidente intenzione di cercare un punto adatto per attraversarlo, ma fra Dionisio lo trattenne. «Fermo, non sai che negli stagni, che da queste parti si chiamano “trosce” (da pronunciare con la ...sce molto strascicata, come quando si ...scia) c’è la Marroca?» Celso, colto di sorpresa, si girò di scatto incrociando gli occhi socchiu- si e sornioni di Dionisio il quale ingrassava a vista d’occhio quando si presentava l’occasione di spiegare qualcosa al suo dottissimo compagno. E quello era indiscutibilmente uno di quei momenti. «Non sai che è la Marroca? – Pausa con piccolo gongolamento del Nostro – Bene! Allora... dicesi Marroca: “bestia malefica che vive nelle trosce della Valdichiana (in particolare nella zona aretina) la quale si nutre dei bambini che non danno retta ai genitori e che, malgrado i tanti avvertimenti, si avventurano da soli nei pressi dello stagno”...» «E capirai! Chissà che mi credevo. È il classico orco cattivo che si fa credere ai bambini perché non si avvicinino ai luoghi pericolosi...» «Eh certo! Il mondo è pieno di orchi... Anche i bambini più coglioni lo sanno che non esistono! Ma la Marroca, no... tanto è vero che te non lo sapevi: – uno a zero».

31 Superato l’ostacolo palustre arrivarono al poggetto. Era molto più grande di quanto sembrava da lontano e non era fatto di sola terra. Spostati con attenzione alcuni rovi che impedivano il passaggio, i due viaggiatori intravidero un grosso arco in mattoni. Niente di partico- larmente interessante se non fosse stato per una bianchissima foglia di acanto che faceva ragionevolmente ipotizzare una decorazione com- plessa di origine romana. Si fecero strada nel fitto della vegetazione. Si graffiarono un po’ le mani, presero in faccia qualche frustata dai vigorosi alberi lacustri che presidiavano la zona. Ma ne valeva la pena. Tre grossi archi in mattoni costruiti con evidente maestria e divisi da colonnette, facevano da ingresso ad un vasto ambiente. Piccoli ar- busti e fogliame non permettevano di vedere con chiarezza tutte le pareti che erano coperte di pesantissime muffe, ma qua e là macchie rosse e gialle facevano ipotizzare vaste pitture. Per terra un grosso ca- pitello bianco ancora perfetto e almeno altri quattro molto interrati e parzialmente rovinati. Parti di un mosaico con scene di caccia af- fioravano dalla fanghiglia. In fondo, molto in ombra, un grosso arco lasciava intravedere un locale con copertura a botte. Erano i resti di un edificio romano di età imperiale: un edificio im- portante, forse una villa di campagna. Sul volto affaticato dei due frati si leggeva una chiarissima soddisfa- zione, ma non sorpresa: sapevano che tutta la zona era stata densa- mente abitata in epoca romana. La campagna offriva prodotti di al- tissima qualità e molte erano le attività di corredo, per cui... molti dovevano essere gli edifici. Quasi simultaneamente i due presero ad arrampicarsi su per il pog- getto. Giunti in cima, Dionisio, con un elegantissimo gesto atletico, balzò su un capitello e allungò il collo girandolo da destra a sinistra, da nord a sud... «Mi sembri il periscopio di un sommergibile» disse Celso. Per sua fortuna Dionisio, intento nella ricerca, non lo stava a sentire, altrimenti lo avrebbe affondato con un siluro nello stomaco... «Andiamo dall’altra parte del lago a scoprire altri resti romani», dis- se Dionisio. «Guarda che l’acqua è profonda e da qualche parte ci dovrebbe essere

32 anche il letto, ormai sommerso ma profondo, del torrente Foenna». «La Provvidenza ci darà una mano...» «Vuoi vedere che ci manda a prendere da un traghettatore?» Disse Celso, e proseguì tutto d’un fiato «La sai quella di quel prete che non sapeva nuotare e che cadde in mare durante una terribile tempesta? Allora, come fu sbalzato in acqua lanciò un accoratissimo appello a san Pietro ricordandogli tutte le candele che ogni giorno accendeva sull’altare a lui dedicato. Non aveva ancora finito la supplica che il Santo gli apparve per ras- sicurarlo: “tranquillo, me ne occupo io”. Dalla nave gli gettarono un salvagente, ma lui lo rifiutò: “no, grazie... [c’è chi pensa a me]”. Allora gli gettarono una grossa fune: “no, grazie... [figuriamoci, mo’ arriva san Pietro, che me ne faccio di una fune?]”. Da una nave militare che incrociava nei paraggi gli tirarono un grosso salvagente quadrato, ma lui lo schivò e fece appena in tempo a rin- graziare prima di essere inghiottito dai flutti. Giunto al cospetto di san Pietro lo trattò di tutti i colori, gli dette del parolaio, del bugiardo... “da Voi, eccellenza, non me lo sarei mai aspettato, sono un Vostro prete...” “O prete – rispose san Pietro – ti ho mandato due salvagente e una fune, se sei fesso mica è colpa mia!” Carina è ’o vero?» «E allora mi porgi il fianco per raccontartela una io – disse Dionisio – ed esattamente quella di quando Gesù, guarda caso, doveva attra- versare un lago e si mise a camminare sulle acque, la sai?» «Certo che la so...» «Ma te mica conosci quella originale? Ora te la racconto. Dunque: erano lì che dovevano attraversare il lago, non c’erano barche, e allora Gesù cominciò a camminare sulle acque: “venite non è difficile, fate come me” disse ai suoi apostoli. Ma quelli non erano molto convin- ti, tanto che Nostro Signore dovette ripetere l’invito più di una volta “non è difficile, fate come me...”. Alla fine gli apostoli ci provarono ma finirono inesorabilmente a fondo. “Signore, ci avevi detto che non era difficile...”

33 “Sì, ma vi avevo anche detto di fare come me... ossia di mettere i pie- di sopra i massi che si trovano a pelo d’acqua...”» «Carina, ma un po’ irriverente e pericolosa» disse Celso. «Guarda che Nostro Signore ha un senso dell’umorismo molto spic- cato...» «Lui sì, ma i tuoi colleghi dell’Inquisizione no...» Probabilmente per togliere entrambi d’impaccio la Provvidenza fece apparire una barca tra le canne lacustri. I due si avvicinarono. «Ecco – disse Celso – mi sono tagliato». «Attento, le canne tagliano...» «Grazie me ne sono accorto da solo. Ma chissà a che serviranno...» «A tantissime cose. Per esempio con le lunghe foglie, che si chiama- no stiancia, o schiancia, ci si riveste i fiaschi...» «Ma io dico – interruppe fra Celso – è mai possibile che la vostra lin- gua sia destinata a sostituire il latino? Che hai detto?» «Ascolta, io non ho idea che cosa tu intenda con la lingua che sosti- tuisce il latino; ma se te ’un n’hai mai visto un fiasco, che è colpa mia? Il fiasco è come una damigiana, ma più piccina... damigiana, sì tral- lerallero! Celso, per tutte le bufale dell’agro pontino, dove lo metti il vino? Prima di metterlo in bocca, oh Celso!» «Il mondo civile lo mette in una bordolese...» «Bordo... che?» «Bordolese... o se preferisci una borgognona...» disse Celso con sguardo serafico. E poi, visto che Dionisio era rimasto a bocca aperta, prima che trovasse il tempo per richiuderla continuò: «Nei paesi con una cultura vitivinicola seria, un giorno, per commer- ciare il loro prodotto, lo metteranno in bottiglie di vetro da 750ml. Le quali bottiglie si chiameranno bordolesi, quelle nate nella zona di Bordeax; e borgognone, quelle provenienti dalla Borgogna...» «Stiamo parlando, di?» «Vino francese» «Cioè?» «Hai presente la Gallia? La terra dei Franchi? Quella. Loro, i Galli, il vino lo venderanno in tutto il mondo... e utilizzeran-

34 no la bottiglia. Perché le bottiglie consentono l’invecchiamento del vino e poi si possono mettere le une sulle altre senza problemi, men- tre i fiaschi... ivostri fiaschi, si impilano male, sono molto delicati, occupano un sacco di spazio, sono troppo grossi, non sono...» «Fermo! Dove si fa il miglior vino del mondo?» «In Toscana» «E chi venderà più vino nel mondo?» «I francesi...» «Ma fammi il piacere! I francesi venderanno il loro... vino... e magari inventeranno anche di invecchiarlo, per venderlo più caro...» «Se è per questo inventeranno anche il vino novello... e poi anche quello barriccato...» «Celso, piantala, non tirare troppo la corda... a proposito di corde, senti questa. Nel porto di Livorno – ok non lo hanno ancora costrui- to, ma lo faranno, me lo sento – arriva una nave e un marinaio dalla nave, rivolto ad un tale sul molo, dice: “Scusa mi tiri quella fune?” e quello niente.

35 “Oh te, mi tiri quella fune?” e niente. “Allora, me la tiri o no?” e quello zitto. “Parlé vu fransé?” – silenzio. “Sprechensi doic?” – silenzio. “Du yu spick inglisch?”. “Yes...” “Dé, o tirami la fune allora!” Questa è meglio della tua barzelletta sul vino francese. ...Non era una barzelletta?».

I due salirono in barca e traghettarono in silenzio. Scendendo, quasi inciamparono su una grossa colonna in gran parte interrata. Alcune grosse lettere in lapidario romano, parzialmente nascoste dal foglia- me, facevano intuire che non si trattava di una colonna comune. Vi si leggeva: “...mpcae... | divinerv...”. Ripulita un po’, la scritta in latino fu letta agevolmente imp. caesar | divin. nerva adriano... “Imperatore Cesare, Divino Nerva... Adriano... ecc.”. Era una colonna miliare posta lungo una via consolare. Vi si leggevano, oltre alle distanze (2 miglia dalla mansio Ad Mensulas e 20 da Clusium), la dedica all’imperatore Adriano per i lavori di ammodernamento del tratto da Chiusi a Firenze. Era la via consolare Cassia che, al tempo, passava per questi luoghi. Quella che molti secoli dopo sarà conosciuta come strada statale nº 2 Cassia, in effetti non sarà la via originale romana. Per buona parte, ossia per tutto il tragitto toscano fino quasi a Montefiascone, ricalcherà un tracciato viario altomedievale noto come Via Francigena: perché di fatto era la strada di collegamento più usata tra Roma e la Francia. I due frati si girarono immediatamente verso sud cercando di im- maginare la zona al tempo dei Romani. Davanti a loro, seguendo con lo sguardo una linea retta immaginaria, ai piedi della collina su cui si ergevano i due castelli di Asinalunga e Ripis, si intravedeva il campanile della veneranda pieve di san Pietro ad Mensulas, costruita sulle basi di quella che fu la Mansio romana ad Mensulas, una sorta di stazione di posta attrezzata per il cambio dei cavalli e per il vitto e l’alloggio dei viaggiatori. Socchiudendo un po’ gli occhi non era difficile immaginare una stra-

36 da trafficatissima, gli incroci congestionati perArretium , Cortona, Pe- rusia, Rosellae, Volterrae, Saena Julia. Una rete fitta e geometrica di strade diritte, caratterizzava tutta la zona (gli ingegneri stradali ro- mani non erano usi a portare rispetto ai piccoli appezzamenti di ter- ra ed a fare quelle curve e controcurve che il loro colleghi del futuro avrebbero fatto). Ville romane si erano sovrapposte a quelle etrusche. E poi tante strut- ture, piccole e grandi, ai bordi delle strade e sulle colline soprastanti, dove ora guardavano, un po’ arcigni, i piccoli castelli di e . Una campagna rigogliosa premiava il lavoro dei campi con grano di primissima qualità, frutta, ortaggi, vino e olio. Proseguendo verso nord, la Cassia puntava diritta verso un grande colle ricoperto di olivi, per poi piegare a sinistra ed immettersi nella stretta valle del torrente Foenna, alla volta di Siena. Lo sguardo dei due si fermò sulla grande collina che la gente del luo- go chiamava, con poca fantasia ma in modo appropriato: Monte de- gli ulivi o Colle degli ulivi: «Mi dovrò ricordare questo nome – disse fra Dionisio – e bisognerà che pensi anche al modo di farlo sapere alla gente del futuro.»

37 Ai piedi della collina si intravedeva un gruppo di povere case, una co- struzione che mostrava ancora i segni di un nobile passato: forse una sub mansio o una semplice osteria con annessa stazione per il cambio dei cavalli, sulla diramazione della Cassia per Arezzo. C’erano poi una serie di strutture che facevano capo ad un corpo uni- co. In epoca etrusca, e ancor più in quella romana, era stato il riferi- mento sicuro per grandi e piccoli olivicoltori e per chi sapeva la dif- ferenza tra mangiare e nutrirsi. Lo sapevano alla corte di re Porsenna, a cui spettava la prima olla della prima spremitura per la bruschetta, e per il brustico (pesce del lago di Chiusi abbrustolito sulle canne dello stesso lago). Lo sapevano a Roma (e figuriamoci se non lo sapevano), tutte le hosterie e tutte le famiglie patrizie. A dire il vero lo sapevano anche quelle plebee, ma era come se non lo avessero saputo perché non potevano permettersi l’olio di prima qualità, e quindi erano co- strette a ripiegare su quello ispanico. L’olio prodotto in questo frantoio era famoso nel mondo e questo non era frutto del caso. Fermo restando la qualità della materia pri- ma, la differenza la faceva il capo frantoio con piccoli accorgimenti e segreti che si tramandavano da padre in figlio, sui quali la gente, probabilmente, ci ricamò un po’ sopra. Si diceva che la famiglia fosse originaria dell’Argolide e che approdasse in questi lidi ai tempi delle prime migrazioni greche. I più informati dicevano di conoscere per certo anche la città di provenienza, Micene, e che da questa derivasse il nome con il quale si erano integrati tra gli etruschi dell’Agro chiusino: Micennini, Maczerrini, o Mazzarrini. Successivamente, in epoca romana, non solo il frantoio, ma anche il tipo di lavorazione e lo stesso olio, finì per essere identificato con il nome del capo frantoio, che rappresentava la più alta e indiscussa garanzia di qualità: Albertus. «Hai mai sentito parlare dell’Extra Oleum Rigus Magnum?» Chiese fra Dionisio a fra Celso. «Come no? L’olio di Albertus era famoso nell’urbe. Si diceva che per non rovinare il prodotto lo si spediva a Roma via acqua, per mezzo di piccole navi fluviali che scendevano il Chiana, si immettevano nel Paglia e quindi nel Tevere. L’ordine era “fare piano”, perché si credeva che l’olio fosse vivo e che, quindi, non dovesse subire traumi, prima

38 di giungere sulle tavole dei patrizi romani. Oltre a ciò l’olio veniva confezionato nelle così dette “anfore oleare da trasporto”. Queste po- tevano contenere circa 25 chilogrammi di olio; erano più affusolate di quelle per il trasporto del vino; avevano una base molto robusta ed un collo molto stretto...» «Certo – interruppe fra Dionisio annuendo – per ridurre al minimo il possibile contatto con l’aria e la luce: due elementi che concorro- no, come tu sai benissimo, al decadimento di alcune caratteristiche organolettiche molto importanti che fanno dell’olio extravergine di oliva un prodotto unico e di grandissimo pregio.» «A proposito della unicità – riprese Celso – occorre rilevare che sotto quello che potremmo definire “il titolo generale di olio di oliva”, sono ravvisabili molti tipi di olio. Già nell’antica Roma l’olio era classifi- cato in sette modi differenti e, tra il primo e l’ultimo, c’èra una dif- ferenza notevolissima, che un buongustaio era in grado di notare fin dalla prima forchettata. Il più pregiato era detto oleum ex albis ulivis. Era l’olio ricavato dalla raccolta di olive, ancora verdi ma prossime alla maturazione, direttamente dalla pianta e lavorate subito dopo: questo era praticamente il segreto dell’olio del nostro Albertus. Nella scala dei valori era seguito dall’oleum viride (olive mature), dall’oleum maturum (olive molto mature), dall’oleum caducum (oli- ve cadute), dall’oleum ispanico (proveviente della Spagna), dall’oleum d’Africa e, in ultimo, dal cibarium, ottenuto dagli scarti. Come avrai notato alla parola cibarium non veniva abbinato il termine oleum, perché, in effetti, quello non era olio, era una fetenzia! Ma tanto era destinato agli schiavi. Un fatto curioso, se mi è permesso, riguarda una legge, che fu detta dal popolo pro Tusci, ossia a favore dei toscani, e che prevedeva l’esonero dagli obblighi di leva a chi avesse piantato olivi, su superficie collinare, per almeno due iugerum. Sai che lo iugerum equivaleva all’area di ter- reno che era possibile arare in una giornata di lavoro con una coppia di buoi uniti dal giogo (iugum, appunto, in latino). Corrispondeva a circa un quarto di ettaro e poiché in Toscana c’erano grandi possibi- lità di colline adatte... il popolo cominciò a spettegolare. Forse non aveva tutti i torti, però bisogna anche dire che i primi depo- sitari della cultura dell’olio nella penisola furono gli Etruschi, i quali lo

40 presero direttamente dai Greci. Oppure, a seconda dei punti di vista, furono i Greci che lo portarono direttamente in Etruria.» Dopo una breve pausa fra Celso continuò il racconto. Tutto ciò che gravitava intorno al mangiare gli piaceva terribilmente: «Come è noto, anche se è certa la nascita in medio oriente, all’origine dell’olivo, in quanto albero nobile e prodigioso, ci sono i Greci. Omero raccontò che Ulisse si era costruito il letto nuziale con il tronco di un grande olivo, anzi, secondo alcuni traduttori l’albero era parte integrante del talamo. E non c’è filosofo degno di tale nome che non faccia riferimento all’olio e all’olivo. Ovviamente, e non potrebbe essere diversamente, anche nella mito- logia l’olivo è presente... ed ai più alti livelli. Si narra che un giorno, Atena e Poseidone, liticassero per il possesso dell’Attica. Il fatto non rappresentava una novità: gli dei liticavano per dovere di contratto; ma questa volta sembrava che la lite non doves- se finire, tanto che fu costretto ad intervenire lo stesso Zeus il quale, probabilmente svegliato nel mezzo del riposino pome- ridiano, tuonò (era tipico di Zeus tuonare): – Decido io, l’Attica spetterà a chi di voi due saprà dare all’umanità intera il dono più utile! Subito Poseidone batté il tridente sulla schiuma del mare ed usci il cavallo: stupore e applausi tra dei e semidei dell’Olimpo... Tu dirai: “ma se quelli vedevano l’animale per la prima volta, come facevano a capirne l’importanza?” Giusta osservazione, vogliamo chiamarlo intuito di- vino? Atena, apparentemente per nulla intimorita dall’exploit del collega, prese a fischiettare. Poi, dopo un po’ (il tem- po degli dei non è misurabile), un turbine di tuniche e mantelli, ciocche di capelli al vento e quindi... “Zac!... Tonf!” Ed una grande nube di polvere dalla quale uscì Atena con un ramoscello di olivo conficcato sulla punta della lancia. Oooh di meraviglia: – Atena ha scoperto l’olio extraver- gine di oliva, è lei che ha vinto, evviva, evviva...»

41 «Da come lo dici, non sembri convinto – disse fra Dionisio – forse che i fatti non andarono così?» «E certo che non andarono così! – Rispose fra Celso. – I più vicini, e comunque i meno cecati, ebbero modo di vivere tutto il dramma della fascinosa Atena. Poseidone aveva fatto una grande cosa e lei non sapeva che cosa fare. Questa è la verità. Allora prese a guardare il collega come se lo volesse affogare, ma si rese subito conto che non era cosa: quello era il dio del mare, come lo affoghi? Poi, in un attimo, impugnata la lancia con tutte e due le mani, la sol- levò sopra la testa come si alza un’ascia per spaccare la legna e come un fulmine si scagliò contro Poseidone, ma, nella foga, non vide un masso, inciampò e cadde rovinosamente a terra. Nell’azione distrus- se un groviglio di arbusti che ingabbiava un albero di olivo sul quale, come una mannaia si abbatté la lancia divina che, in quanto tale, gli cambiò fisionomia. Per capirsi: lo potò alla maniera toscana. E quell’albero, che c’era sempre stato e che nessuno aveva mai preso in considerazione, cominciò a dare frutti. Atena li prese in mano e li strinse rabbiosamente... Il resto è tutta una montatura!» «Solo un’obiezione: e allora perché Zeus la fece vincere?» Fra Celso guardò il compagno e poi, dopo una breve pausa, scuoten- do ritmicamente il capo, disse: «Atena era già nervosa di suo: era caduta, aveva spremuto le olive con la mano... conseguentemente: aveva cercato di pulirsi con la tunica, poi con la sabbia e quindi con il mantello... forse che tu avresti avu- to il coraggio di dirle che non aveva vinto?»

Tornando al punto precedente alla digressione generale di fra Celso, osserviamo che nell’ambito della produzione olearia, ma più in ge- nerale tutto intorno ai lavori agricoli, si registrava una quantità estre- mamente varia di altre attività di complemento. Una delle più impor- tanti era quella delle terrecotte perché richiedeva l’apporto, oltre che degli addetti specifici alla lavorazione del manufatto, anche di molti altri addetti alle attività accessorie alla produzione come: cavatori di argilla, tagliaboschi, carbonai, trasportatori, ecc. L’arte della lavorazione della terracotta aveva una tradizione molto

42 antica in questi luoghi. Già nella metà del vi secolo a.C. è attestata la presenza di piccoli laboratori nei quali si producevano le prime, incer- te, imitazioni corinzie. In poco tempo nacquero delle vere e proprie scuole, molto dinamiche, attente ai cambiamenti della moda, e con un pizzico di spregiudicatezza, tanto che, solo alcuni decenni dopo, i nostri laboratori vendevano, in tutta sicurezza, e con una buona dose di faccia tosta, pregevoli vasi attici ai raffinati signori di Chiusi. Al tempo di Roma nella zona operavano molte fornaci per la pro- duzione di vasi in terracotta, la maggior parte delle quali erano in mano agli Umbrici, una famiglia di provenienza aretina presente fin dall’epoca etrusca. Famose e ricercate le produzioni che gli Umbrici realizzavano nelle loro fornaci alla Capacciola, nella zona di Colle- lungo, a Scrofiano, alla Pietra, e nelle colline dell’Amorosa. A Rigaiolo, una loro fabbrica, forse la più famosa, era specializzata nella produzione di anfore ed olle, di tutte le forme e misure, ma spe- cifiche per il trasporto e la conservazione dell’olio di oliva. Di pari importanza per l’economia locale, o forse anche di più, era- no alcune fabbriche di mattoni e coppi per l’edilizia. Difficile dire quante fossero, ma la loro produzione doveva essere notevole se, nel giro di qualche centinaio di anni, consumarono una collina in- tera, tra il torrente Foenna ed il fiumeClanis , per rifornire le for- naci dell’argilla necessaria.

43 Da queste descrizioni emerge un’area lavorativa decisamente vasta e molto attiva in cui l’agricoltura, pur rappresentando il settore più im- portante dell’economia locale, non era la sola occupazione. La fitta rete stradale, per esempio, aveva bisogno di una manutenzione con- tinua, per la quale impegnava una gran quantità di manodopera: ad- detti alle cave di pietra, scalpellini, trasportatori e quindi fabbri fer- rai, costruttori e riparatori di carri, ma anche allevatori di animali da lavoro, produttori di foraggio, ecc. «Sai che Roma non scherzava in fatto di strade – era fra Dionisio che parlava – se non erano in eccellente stato dovevano, come minimo, essere ottime in ogni periodo dell’anno. Per quanto ne so riuscivano nell’intento cominciando a costruirle con tutti i criteri e gli accorgi- menti del caso. Tuttavia un minimo di manutenzione doveva pure essere fatta. Sai come funzionavano le cose da queste parti?» «Sì, le strade più importanti erano sotto la gestione diretta dello Sta- to con l’ANASPQR, una sorta di rifugio per raccomandati, e le altre a carico dei municipium.» «Senza raccomandati...» «Peggio!» «Ma le strade erano curate?» «Sicuro, c’è sempre chi lavora anche per gli altri. In ogni caso, impor- tanti lavori di manutenzione venivano affidati a gruppi di lavoratori autonomi. Da queste parti, se non ricordo male, poco più avanti, c’era un famoso gruppo di Edili Stradali guidato da un tale Orlando, un ex centurione della settima legione che si era fatto le ossa durante il lungo servizio militare come primo aiutante dell’ingegnere alle stra- de. Terminato il servizio, con il bonus di veterano acquisito in Iberia, si era comprato una fattoria nella campagna rigomagnese, dove era nato, ma le strade gli erano rimaste nel cuore e così, per passione più che per necessità, si era messo a coordinare i lavori di costruzione e mantenimento delle vie consolari. Non so esattamente le competenze che Roma gli aveva affidato, ma dovevano essere fondate sulla mas- sima fiducia e ripagate con la massima serietà, perché non sappiamo di critiche, vertenze né, tanto meno, di contestazioni. A lui si affidavano anche i proprietari terrieri, locali e non solo, per la costruzione e la manutenzione delle strade private e vicinali.»

44 45 Attratti da una gran quantità di colorattissime mele che pendeva- no da un albero vicino alla strada, i nostri eroi si avventurarono nel campo, ma non appena si avvicinarono al melo, una voce minaccio- sa li raggiunse: «Brutti delinquenti, ora ve le do’ io!» «Non si preoccupi, le prendiamo da soli...» disse scherzando fra Dio- niso; ma il villico li raggiunse con quattro salti e, se non fosse stato per l’abito che indossavano, avrebbero passato un brutto quarto d’ora. «Ah, padri, vi avevo scambiato per ladri. Che volete qui non si fa pari, chi ci frega le mele, chi i carciofi, chi l’uva...» «A proposito di uva – chiese fra Celso – com’è andata la vendemmia quest’anno?» «Male! Poco ma bono...» «Beh allora, bene...» «No, è bono, e siccome è poco, se lo piglia tutto il padrone. E noi si beve l’acquarello!» «Trattasi – spiegò Dionisio – di una pratica da poveri con la quale, dopo aver spremuto la vinaccia per fare il vino, ciò che rimane, anzi- ché buttarlo, lo si rimette nei tini, si aggiunge acqua e si aspetta qual- che giorno, fino a quando un po’ di colore ed una miseria di sapore si trasferisce nell’acqua facendola somigliare, anche se molto alla lon- tana, al vino. Questa sorta di brodaglia viene detta “acquarello” ed è il “vino” di chi non può permettersi il vino.» «Il mi’ figliolo – proseguì il contadino – dice che bisognerebbe met- tersi tutti insieme e fare un concorsio, come dice lui. Lo sapete come so’ i ragazzi, sognano. Lui dice che bisognerebbe fa’ un concorsio dei produttori senesi insieme a quelli aretini.» «Potrebbe essere un’idea buona» «Macché bona, lui dice di fa’ il concorsio per vendere il vino mica per bevelo. Allora io dico, se devo continua’ a beve l’acquarello, che ’l vino lo dia al padrone o al concorsio, per me che cambia?» Non era facile dare contro ad una teoria tanto lineare. Ma fra Dionisio fu attratto da qualcosa ai bordi della strada. Entrò tra i rovi di un grosso cespuglio e dopo un po’ ne uscì con un maz- zetto di verdure in mano: «Celso, queste sono vitalbe!»

46 «E allora?» «Come sarebbe, allora? Celso, con le vitalbe ci si fa una frittata di quelle da leccarsi i baffi. Nemmeno alla corte del basileo di Costan- tinopoli hanno di meglio... Non ho la più pallida idea di che cosa siano le vitalbe, né, men che meno, a che cosa possano servire, frittata a parte, quindi non stare a chiedermelo. So però, e con assoluta certezza, che con le vitalbe ci si fa, appunto, la frittata più buona del mondo!» Dicendo questo tornò sulla strada con un balzo, nel momento in cui transitava a tutta velocità un carro trainato da due cavalli. «Pirata della strada!» Gli gridò a tutta voce. «Che accidenti era, per andare tanto veloce?» «Era una Deux Chevaux...» «Che era?» «Deux Chevaux – Due Cavalli, un nuovo modello di carro prodotto nelle Gallie. Se non ricordo male da queste parti c’è un tale Catullo che le vende...» «Celso, ma che ti ha fatto male l’acquerello? Catullo era un poeta. Gaio Valerio Catullo: Odi et amo. Quare id faciam, fortasse requiris. Nescio, sed fieri sentio et excrucior. [Odio e amo. Perché io faccia questo, forse domandi. Non lo so. Ma sento che accade e mi tormento.] S’è mai visto un poeta vendere carri della Gallia?»

47 «Questo è un mondo sbagliato, o reverendi padri – disse il simpati- co rurale, il quale nel frattempo si era avvicinato ed aveva distrutto sul nascere una dottissima conversazione –, quelli di sopra scendono giù a consuma’ le strade di quelli sotto, e quelli di sotto vanno in su a consuma’ le strade di quelli di sopra. Ora vi domando, non credete che se ognuno se ne rimanesse a con- suma’ le strade sue, sarebbe meglio per tutti?» «Vieni via Celso, ci mancava solo il filosofo...» «Buon uomo – intervenne fra Celso – avete perfettamente ragione. Il mondo è una palla. Se uno ha la pazienza di aspettare...» «Certo – si intromise fra Dionisio – come disse quel briaco che cad- de con il sedere per terra perché non si reggeva più in piedi “e allora, io mi fermo; tanto, se è vero che il mondo gira, prima o poi casa mia deve passare di qui”...» «Lo vedi che avevo ragione? Io glielo avevo detto a quel tal Redaello, che faceva il coco, lo conoscete? Quello che aveva un’hosteria qui vi- cino? Cheddì ’un lo conoscete! Insomma, lui è voluto anda’ al nord, ma io glielo dissi che prima o poi sarebbe tornato...» «Celso, vieni via!» I due frati ripresero il cammino, ma il villico continuò: «Era bravo! Aveva la sua clientela, stava come un Papa.... Oh ragazzi! Faceva un collo d’ocio ripieno come ’un si mangia nem- meno per tribbiatura...» «Buon uomo – interruppe fra Celso, tornato indietro perché attratto dalle pieghe che stava prendendo la conversazione – come vi chia- mate?» «Gosto della Casina...» «La Casina sarebbe il cognome?» «No, sarebbe il podere dove stò di casa...» «Giusto. E il collo... quello ripieno di cui parlavate...» «Celso – intervenne fra Dionisio – te quando si tratta di mangiare, anche se non capisci la lingua, sei sempre pronto...» «Interesse di studioso...» «Come no?! Con te, come disse quel tale, si spende meno a regalarti un cappotto che invitarti a cena... come studioso, si capisce! Vabbè te lo dico. L’ocio, da queste parte, sarebbe l’oca domestica bian-

48 ca, non saprei dirti perché viene considerata al maschile, forse per dif- ferenziarla dalle anatre, che sono più piccole e che però sono chiamate nane... Per completezza di informazione dobbiamo dire che, nella zona di Chiusi si dice oco, o per meglio dire l’oco; mentre in alcune zone del- la Valdichiana viene chiamato locio. A conferma di ciò gli studiosi ri- portano il fatto di una contadina della bassa Chiana la quale, andata in gita a Marina di Grosseto, e visto per la prima volta il mare, sembra che esclamasse: “Ragazzi, quant’acqua, l’avesse i mi’ loci! ” Per passare alla parte storica che più ci interessa, cioè quella del collo d’ocio ripieno, inizieremo col dire che il volatile, vuoi per la sua mole, vuoi per la qualità della carne, era largamente usato nei pranzi di la- voro... quelli di una volta, dove si lavorava per davvero, per esempio i pranzi della tribbiature del grano. Tra i diversi piatti a base d’ocio, quelli più rimarchevoli erano: la minestra coll’ocio, l’ocio al forno ed il collo d’ocio ripieno... L’ocio nel suo insieme, così grasso, saporito e pesante “faceva molta riuscita” come si usava dire. E poi era facile da allevare, poco costoso nell’ingrasso e nel mantenimento, è stato per secoli il cibo base delle tribbiature toscane.» Un nuovo carro sfrecciò loro accanto impolverandoli. «Tutto il mondo è paese – disse fra Celso tossendo dalla polvere – ognuno per mangiare mette in pratica i trucchi che conosce, ma que- sta era una zona molto fortunata, rispetto ad altre della penisola.» «Effettivamente – annuì fra Dionisio – possiamo parlare con assoluta sicurezza di una zona bella e tranquilla in cui era un piacere vivere, dove la parola carestia era quasi sconosciuta e dove, ogni tanto, ap- prodavano anche gruppi di stranieri attirati dal clima, dal paesaggio e dalla buona cucina. A proposito degli stranieri mi sono inbattuto

49 in documenti dai quali risulta un certo impegno da parte del Tribuno addetto alla propaganda turistica del tempo. Sembra che fosse piutto- sto attivo nel promuovere le bellezze artistiche e culturali della zona, anche se sono convinto che il merito spetti a qualche associazione di volenterosi che operavano a pro del loro loco in modo totalmente di- sinteressato; ma come spesso succede, i meriti se li prendono coloro che ne avrebbero meno diritto. Mi capisci?» «Certo che capisco, e non hai idea di quante ne ho viste! – Rispose prontamente fra Celso – D’altra parte siamo portati, spesso per pi- grizia, a identificare un dato lavoro con colui che se ne è attribuito il merito, senza controllarne la veridicità. In genere chi lavora non ha il tempo di andare a raccontare le cose belle che ha fatto, questo lo sappiamo, per cui, se veramente ci interessasse sapere a chi dobbia- mo gratitudine per una certa cosa, dovremmo, come prima azione, depennare colui che si presenta con il nome scolpito sulla pietra, e poi iniziare le ricerche: ma siamo pigri. Per esempio, poco fa, quando abbiamo scoperto quel cippo stradale romano, abbiamo letto che i lavori di ammodernamento erano stati fatti da Adriano, e ciò ci è bastato. Se fossimo coerenti con noi stessi avremmo dovuto prendere uno scalpello e scrivere sul cippo: “Caro Adriano, non è vero, sei un imbroglione, la strada è stata co- struita dagli operai non da te!” La verità è che siamo pigri...» «No, la verità è che siamo un’altra cosa...» «Calma, fra Dionisio, stai calmo, come dice il saggio “colui che ha più intelligenza, la usi”...» «Certo... e quindi... si diceva, qualcuno si era dato un gran da fare per propagandare la zona sotto il profilo culturale, ma tali azioni non ebbero un riscontro positivo con le comitive in transito, le quali continuarono a preferire, senza esitazione, i Picius col sugo ai capitelli dorici o corinzi... L’unica incertezza riguardava il sugo: taluni prefe- rivano quello di nana (sorta di anatra, ma molto più saporita), altri quello di conigliolo (erroneamente si è portati ad associare il coniglio- lo al coniglio vulgaris, da non fare nel modo più assoluto: l’aspetto è lo stesso, ma il sapore è un’altra cosa). Anche offerte culturalmente più sottili non trovarono riscontri ade-

50 guati. Per esempio, ai vasi in bucchero leggero, tipici della zona, i tu- risti preferivano le scodelle pesanti di pasta e ceci. Ci furono, bisogna sottolinearlo, le dovute eccezioni. Per esempio una comunità del nord-est della Gallia dette prova di grande cultu- ra, che si trasformò ben presto in amicizia vera con la mia gente. Un bellissimo rapporto di cui vado particolarmente fiero. A proposito della nana, a cui ti ho or ora accennato, e che, come ti ho detto, è il nome che noi diamo all’anatra, ricordo il primo incontro conviviale con i Galli che potremmo definire: “bellissimo ma con im- barazzo”. Accadde infatti, lo rammento molto bene, che al momento di servire i pici con la nana tra i Galli si diffuse una certa malcelata agitazione. Fortuna volle che uno di loro chiese subito chiarimenti circa il termine “nana”, ed allora ci si rese conto dell’imbarazzo per- ché, nella loro lingua “nana” vuol dire “ragazza”, “pupa”... Finì tutto in una gran risata e tutti mangiarono con gusto. Veramente bravi quei Galli!».

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Capitolo 3

Arrivano i barbari - Conti e Duchi - I signori feudali della zona - Montaperti

«Con le invasioni barbariche la civiltà sparì dalla faccia della terra. Questa zona, che un tempo era un paradiso, si trasformò in un inferno e tanti poveri diavoli furono costretti a fare i servi della gleba... non ridere Celso, è una cosa seria...». «Lo so, non volevo, ma: “poveri diavoli”, all’inferno... Come non detto. Però lasciami dire che sei un po’ “a modo tuo”, con il vento di traverso, come dicono a Caianello: quando le battu- te le fai tu, tutto bene, quando le faccio io songo ’o fetente... e vabbè. Dunque, a scuola ci insegnano che servo della gleba può essere an- che tradotto come: “contadino in stato di semischiavitù legato ere- ditariamente a un determinato fondo con il quale poteva essere ce- duto”. Vero! Bisogna però guardare l’antefatto. Con le invasioni dei barbari le città di tutto il mondo civile finiscono. A volte proprio in senso letterale. Ora, tu sai che civiltà deriva, e non a caso, da “civitas”, città. E sai anche che Roma aveva costruito città in tutto il mondo, e che, proprio tramite le città, aveva diffuso la sua cultura, la sua lingua, la sua legge, il suo mercato... in ogni dove. Tut- to funzionava perfettamente grazie all’idea stessa di civitas. Ogni città era una piccola Roma con tutti i suoi centri di responsabilità civile e militare. In altre parole, le città non si fondavano: si clonavano...». Dionisio sembrò un po’ perplesso, ma Celso proseguì: «La “clonazione” è una roba di cui parleranno molto in futuro: in biologia, in ambito informatico... comunque sia, la città era un con- centrato di attività, di vita, di consumi... e il contado la riforniva.

53 Sparita la città. Contado in crisi. Ma, attenzione! Con “sparita la cit- tà” non intendo dire che le città furono rase al suolo, questo, alme- no in Italia, non accadde quasi mai; voglio dire, invece, che vennero a mancare le persone in grado di mandarle avanti. Alcuni vennero a mancare nell’immediato perché uccisi o perché se la diedero a gambe levate; altri mancarono con il tempo perché, un po’ alla volta, mori- rono. Nessuno evidentemente era nelle condizioni di programmare i ricambi necessari. Nessuno era nelle condizioni di curare le scuole ed i rozzi invasori non si ponevano il problema dell’insegnamento perché non avevano la più pallida idea di che cosa fosse. Come dire, finché si trattava di rifornire la cucina tutto bene, perché i barbari conoscevano benissimo la caccia e la pesca; ma se dal rubi- netto non usciva più l’acqua non sapevano cosa fare, anche perché ai loro paesi, non solo non avevano gli idraulici, ma ignoravano perfino che cosa fosse un acquedotto. Per non dire poi dei servizi igienici: al massimo andavano dietro il pagliaio, quando c’era. Ovviamente crollarono tutte le istituzioni e, di conseguenza, creb- bero le angherie e la delinquenza, dalle quali, come si sa, non è facile difendersi in modo onesto. Naturalmente il barbaro, finite le cibarie, se ne andò via dalle città ac- casandosi nelle ville di campagna ristrutturandole secondo il proprio bisogno. Forse “ristruttura” è un termine inadeguato, diciamo che but- tarono giù il superfluo: statue, colonne, archi, terrazzi, ecc.; ammas- sando alla bellemeglio grossi pietroni, tronchi ed altro, alle mura più esposte ad eventuali attacchi. E così ogni capo barbaro si fece la sua Villa. Per mangiare andava a raccogliere i frutti della natura: cavoli, sedani, carciofi, galline, maiali... intorno a casa sua o a quella degli altri. Se qualcuno gli urlava qualcosa, non se ne preoccupava perché, essendo barbaro, non capiva bene la lingua. Se l’altro insisteva, gli dava una mazzata in testa e, normalmente, quello si zittava. La libertà non si trova a buon mercato e quindi, chi non poteva per- mettersela si rivolgeva al birbante della Villa più vicina pregandolo di difenderlo dagli altri birbanti e offrendo in cambio la sua terra e il suo lavoro. I barbari, che erano barbari ma mica scemi, si prendevano la terra ed il 50%... pardon, la metà (che ne sapevano del cinquanta per cento?) di ciò che vi si produceva.

54 Ora, dato che il denaro non esisteva praticamente più, nemmeno come concetto, la ricchezza era la terra. O meglio: la terra con il contadino incorporato. Quindi, il barbaro, non aveva convenienza a trattare male il suo bene. Se il contadino, o più correttamente il villano (in quanto parte della Villa), m oriva d i fa me, la t erra chi la la vorava?». Dionisio guardò Celso, e scuotendo un po’ il capo gli disse: «Ora che mi hai fatto questo bel discorso mi sento molto meglio. Sta a vedere che la colpa è del contadino che non ebbe occhio e nacque contadino anziché padrone!» «Come dirà un giorno un mio compaesano: “Signori si nasce, io, mo- destamente, lo nacqui!”» «E poi ti sei fatto frate: complimenti!». Disse Dionisio un po’ sovrap- pensiero. Con più si avvicinava al borgo natio e maggiore era il disagio che sentiva crescere dentro. Sapeva della distruzione di Rigomagno, sperava che non fosse così grave come si diceva, ma era certo che pro- babilmente era anche peggio. E lui non aveva la benché minima idea di che cosa dire ai sui compaesani, i quali, sicuramente, preferivano i fatti ai discorsi, fossero anche quelli di un frate amico. Si rivolse di nuovo al suo compagno di viaggio. «Che mi dici di Rigomagno nel Medioevo?» «Il primo Signore di Rigomagno pare fosse un tal Winigi, di legge sa- lica, che con sua moglie Rachilda...», Dionisio lo interruppe: «Oooh Rachilda, fermo un po’, io questa roba bisogna la racconti alla gente di Rigomagno. Se io racconto ad uno tale Maggio detto Magginus “di un certo Winigi di legge salica”, quello, “mi sala” lui...» «Non è complicato, seguimi. Il termine “legge” in questo caso viene usato per chiarire la provenienza. In seguito assumerà invece la ca- ratteristica di vezzo linguistico distintivo di alcuni “dotti”, al fine di creare una barriera protettiva contro gli scocciatori che vogliono sa- pere. Un po’ come dire: “ma dove credi di poter andare tu, che non sai nemmeno chi è un Salico?” Potrei dirti, per esempio, alla maniera del dotto storico, fine Ottocento, che i primi Signori di Rigomagno erano di nazione Salica, o sia Fran- zese, ovvero Alamannica. Che, in qualche misura è anche vero...». Fra Dionisio sapeva benissimo di che cosa stava parlando fra Celso, non aveva certo bisogno di esempi o riassunti. Prendiamo quindi in

55 mano noi la situazione per spiegare ai moderni, in modo veloce, come si usa oggi, la storia di quei tempi, usando confronti con la geografia ed i riferimenti del nostro secolo.

I Salii erano una tribù di ceppo germanico che, in un certo momento della loro esisten- za, si trovarono a vivere nei pressi della spon- da orientale del fiume Sala, nel nord dell’Eu- ropa, grosso modo dove ora è l’Olanda. Loro dirimpettai, dall’altra parte del fiume, un nutrito e variegato gruppo di tribù provenienti dalla Germa- nia, tutte insieme si chiamavano Franchi e davano segno di volersi accomodare in quel territorio, che fino ad allora era conosciuto con il nome di Gallia e che tra un po’ di tempo, finiti i Galli, si sarebbe chiamato Francia. Non fosse altro per dovere di vicinato, quelli del versante occiden- tale cercarono di socializzare con quelli “di là dal fosso”, anche per- ché qualcuno sosteneva di averli già visti e che forse erano anche un po’ parenti. Alla domanda: “da dove venite?” Quelli non risposero. Alla domanda: “ma come vi chiamate?” Risposero: “a fischi, o ad urli, secondo la distanza”. Così, visto che pascolavano nei pressi del fiume Sala, parve cosa buona battezzarli Salii. La decisione non fu presa sottogamba, anzi, fu molto ponderata, anche se apparentemente sembra mancare di fantasia. Il fatto è che da questa parte del fiume non c’erano gli accademici della Crusca in viaggio di piacere, c’era gente che per mangiare saliva sugli alberi a cogliere le ghiande – e non scendeva per cuocerle. I Salii, o come diavolo si chiamassero, erano però dei guerrieri formi- dabili. Forzuti, villosi e insensibili a qualsiasi cosa. Gli altri pensarono “meglio farseli amici che litigarci”. Così fu, ma nel giro di pochi anni il gruppo dei Salii, che facevano pendent con quello dei Ripuarii, anch’essi selvatici come un cinghiale maremmano, decisero di spartirsi i beni del- la congrega. I Ripuarii si stabilirono nella Mosella e i Salii in una vasta area compresa tra la Piccardia e l’Artois, e di lì, fino al mare.

56 Il primo dei capi, a cui qualcuno un giorno decise che valesse la pena risalire, per l’identificazione delcapostipite , pare fosse un tal Mero- veo da cui, quindi, prese nome la dinastia dei Merovingi. Il nipote di cotanto nonno fu il biondo Clodoveo, il quale, resosi conto del momento propizio, decise di farsi un regno per conto suo. Dilagò per tutto il nord sderenando Alemanni, Visigoti, Burgundi e i vecchi amici Ripuarii. Quindi si convertì al Cattolicesimo e si proclamò Re dei Franchi nella cattedrale di Reims. Questo non è il modo di raccontare la storia, ma questa è la storia ripulita dai fronzoli e dalle enfatizzazioni. Nello stesso periodo, verso est, nubi di polvere si spostavano in con- tinuazione. Sotto la polvere c’erano i Longobardi (immaginatevi in che condizioni). Di questo popolo non si conosce un gran che, salvo la probabile provenienza scandinava, il fatto che erano nomadi per vocazione, e che girovagarono un bel po’ per la grandi pianure tra il Danubio ed il Volga, prima di dirigersi verso le Alpi. Adoravano il Sole, la Terra e le capre... e non necessariamente in quest’ordine. Era- no divisi in litigiosissimi gruppi, chiamati fare, guidati da un capo branco, detto Duca. Non c’è altro di sostanziale da dire. Nella seconda metà del vi secolo d.C. calarono in Italia, ci si trova- rono bene e ci restarono. Ogni fara si prese un territorio, e siccome come abbiamo detto il capo della fara era detto Duca, ecco che nac- quero i ducati. Quando nel 773 arrivarono i Franchi, chiamati da papa Adriano i per- ché cacciassero i Longobardi, tutti si aspettavano il cambio della guar- dia nei posti di potere; ma siccome tra cani non si mordevano nem- meno a quei tempi, in linea di massima i duchi furono lasciati al loro posto, e nei territori liberi, che ce n’erano in abbondanza, andarono ad insediarsi i fidi comandanti di Carlo, re dei Franchi, non ancora “magno”, ma discendente dei Merovingi. Nel senso che un suo avo, tale Pipino, proveniente dall’Austrasia (regione della valle del Reno), fu nominato Maestro di palazzo (il Maestro di palazzo era una sorta di Gran ciambellano che nei fatti aveva la responsabilità del Governo da quando, un paio di generazioni prima, il legittimo re merovingio era stato detronizzato). Con Pipino la carica di Maestro di palazzo diven-

57 ne ereditaria e così, lentamente, i suoi successori acquisirono il titolo di Re e, visto che c’erano, anche la discendenza merovingia. Tra i più famosi re della famiglia dei Pipinidi ricordiamo: Carlo Mar- tello, che fermò, in modo definitivo, la valanga musulmana a Poitiers, nel sud della Francia; e Carlo Magno, rifondatore del Sacro Roma- no Impero. Tornando alla spartizione franca del territorio italiano, nelle zone in- terne furono create le contee, con mansioni essenzialmente di carattere amministrativo, alla guida delle quali furono nominati i Conti. Men- tre nelle zone di particolare importanza strategica o di confine, furono create le marche, alla guida delle quali furono nominati i Marchesi. In un primo tempo i titoli di conte, marchese e duca furono perso- nali e decadevano o con la revoca dell’incarico o con la morte; con il tempo però il titolo e la carica diventarono ereditabili. La società di questi tempi aveva una forma fortemente piramidale: in cima l’Imperatore padrone di tutto. Sotto: conti, marchesi e du- chi affidatari dei beni della corona. Sotto ancora tutti gli altri che avevano un benamato niente. Non ci volle molto però a rendersi conto che per tenere ferma una base in continua crescita, e man-

58 tenerla lontana “dall’osso”, era necessaria la creazione di una zona cuscinetto controllata da una forza di dissuasione. Fu così che si inventarono i Vassalli, ai quali non fu data una proprietà trasmissi- bile, ma un feudo, ossia il godimento di un bene che restava della classe superiore. Il vassallo garantiva una presenza attiva nel territorio, giacché doveva provvedere a che la corte imperiale e il ceto sopra di lui, avessero le loro giuste spettanze e, in genere, svolgeva il compito con teutonico impegno. Ma l’impegno era ancora maggiore quando doveva pensa- re a che ne rimanesse per lui e i sui armigeri, di cui non poteva pri- varsi; nonché per gli acquartieramenti e per il castello. Infine doveva pensare alla propria famiglia ed alla propria vecchiaia. Andando ancora avanti per schemi dobbiamo annotare, in questi tempi, l’inizio di un’istituzione che caratterizzerà l’Europa per molti secoli: la nobiltà. Tutte le cariche diventarono trasmissibili e i detentori si dichiararono Nobili, per differenziarsi da tutti gli altri che non avevano alcuna respon- sabilità. I nobili si erano dati l’incombenza di difendere i loro sudditi e, per assolvere bene questo compito, non facevano altro. Il nobile era un uomo d’armi. Imparava prima a cavalcare che a cam- minare. Suo padre lo metteva in groppa al cavallo già in tenera età e, appena dimostrava di sapersi tenere in equilibrio, gli metteva in mano una spada. Non si preoccupava della sua istruzione perché non sape- va che cosa fosse e, quando lo sapeva, era ben certo che non servisse a niente. “Non sa leggere e scrivere, perché è nobile”, si diceva; e questo sarà un modo di dire diffuso in ogni dove e per molti secoli. Alla maggiore età i figli dei nobili erano “armati cavalieri”. Con ciò ricevevano i relativi segni distintivi (che il villano non poteva permet- tersi per definizione): il cavallo, l’armatura e lo scudiero; ed entravano a far parte dell’esercito con cui si identificavano in modo del tutto na- turale, perché la nobiltà non faceva parte dell’esercito: era l’esercito. In effetti sarebbe più corretto parlare di gruppi di armati perché un esercito prevede delle omogeneità che al tempo erano completamen- te ignorate. Non c’erano divise, non c’erano insegne, non c’erano ri- ferimenti comuni. Ci si agghindava mettendosi addosso le cose più

59 diverse, in modo molto casual, rendendo difficile il riconoscimento immediato nel campo di battaglia. Ogni condottiero aveva il suo drappello di armati, diverso per nu- mero, armamento e modo di urlare. Tutti insieme erano il caos. Oc- correva qualcosa per distinguerli, in modo semplice e immediato: uno svolazzo applicato al cimiero, un mantello dal colore deciso, un segno dipinto nello scudo, furono i primi segni distintivi dei ca- valieri. Poiché, tra questi, lo scudo era quello che si prestava meglio ad essere disegnato e colorato, divenne ben presto il segno distinti- vo per eccellenza. E quindi, per ragioni di ordinaria praticità, nac- quero gli stemmi cavallereschi; in un primo tempo legati al cavaliere e, successivamente, allargati alla di lui famiglia. Poco tempo dopo, dall’ambito militare, gli stemmi si diffusero a quello economico, an- dando a coronare portoni ed a recintare proprietà di vario genere. Non è nostra intenzione di infognarci nella disciplina araldica, ma non possiamo fare a meno di rilevare la più totale e deprimente as- senza di stemmi nella nostra zona. Ciò significa la presenza di pochi cavalieri e non particolarmente importanti, giacché, se fossero sta- ti molti e attivi, se avessero partecipato a guerre e tornei, avrebbe-

60 ro avuto necessariamente uno stemma per distinguersi e le loro fa- miglie lo avrebbero murato sopra la porta dei castelli. Ciò significa, soprattutto, oltre alla poca nobiltà d’animo, molta ignoranza e una quantità spropositata di povertà, che si tramanderà per diversi secoli da padre a figlio. Quando nei primi anni del xiii secolo i borghi della nostra zona co- minceranno ad affrancarsi dai vecchi padroni ed avranno la neces- sità di dotarsi di uno stemma identificativo, non avranno niente di più glorioso da mettere negli scudi, se non un asino ad Asinalunga, una scrofa a Scrofiano, un albero di farnia a Farnetella, un... niente a Rigomagno (perché veniva distrutto continuamente)...

Per tornare alle origini delle Leggi, come ebbe a dire l’abate di Fonte- bona: «dopo Carlo Magno ciascun popolo barbaro si recasse ad onore di vivere in Italia, serbava con orgoglio e con amore la qualità della propria cittadinanza: ciascuno godeva di chiamarsi Ripuario, Salico, Bavaro, Alemanno, ecc...». Le famiglie che si insediarono nei nostri territori furono di Legge Sa- lica, Ripuaria e Longobarda. Uno dei capostipiti di riferimento fu un certo Ranieri o Ranghieri, di legge salica, vissuto nella prima metà dell’800; mentre il primo conte, signore del territorio senese, fu il fi- glio Winigi i, sposo della contessa Richilda di probabile discenden- za longobarda. Di seguito si riportano, per innocente curiosità, i nomi più comuni dei discendenti della casata. La rosa è molto vasta e presenta asso- nanze nordiche di provenienza diversa. Tra i nomi maschili più co- muni che si tramanderanno per un paio di secoli almeno: Berardo, Walfredo, Winigildo, Manente, Rimbotto, Farolfo, Ildebrando, Pe- pone... Invece, tra le donne, i nomi più diffusi furono: Willa, Berta, Ermengarda, Teodora. L’insediamento delle famiglie feudali trovava terreno fertile lontano dalle città, nelle quali grandi masse di persone organizzate dal potere comunale e protette dal vescovo, non lasciavano molti spazi di ma- novra. Normalmente ogni potere civile si sovrapponeva perfettamen- te con quello religioso, traendone forza. Nella nostra zona invece, a causa di una disputa tra i vescovi di Arezzo e Siena per il controllo di

61 numerose pievi del contado, un vasto territorio di confine, si presen- tava quasi senza controllo. Fu qui che proliferarono numerose fami- glie: Berardenghi, Scialenghi, Cacciaconti, Manenti, Cacciaguerra... i cui probabili inizi furono per tutti riconducibili al tempo del primo conte di Siena, Winigi il Salico. Intorno all’anno Mille i documenti ci mostrano una zona non parti- colarmente ricca. Inizia la progressiva perdita di importanza delle fa- miglie feudali a vantaggio delle comunità locali e delle città di Arez- zo e, soprattutto, Siena. Nel 1040, con un atto rogato a Rigomagno, il Conte Walfredo ii dona alla cattedrale di Arezzo molti beni che possedeva in Asciano, Asina- lunga, Fojano, , Torrita e La Fratta. Nel 1053 Ermengarda, vedova del conte Ranieri ii, dona al Capito- lo di Arezzo la chiesa dei santi Niccolò e Martino nel distretto di Rigomagno. Seguono atti di solenne riconoscimento e poi sottomissione al potere comunale di Siena, con il quale Rigomagno diventava castello di con- fine. La qualifica non prevedeva vantaggi di sorta, ma in compenso creava non pochi problemi; perché da quel momento, oltre a doversi difendersi dai nemici di sempre, vicini prepotenti e malfattori, ora c’erano anche i nemici dello Stato di Siena e dei suoi alleati. Per cui poteva anche accadere di subire un attacco da parte di truppe mai vi- ste e conosciute, per il fatto che queste, per esempio, erano nemiche di Re Manfredi di Sicilia, in quel momento amico di Siena. I mezzi di difesa, intendendo con ciò mura, torri ed armamenti, era- no veramente poca cosa. Per non dire dei soldati, che altri non era- no se non gli stessi abitanti, i quali normalmente usavano la zappa e la falce, e che non di rado si presentavano sulle mura per difendere l’onore della Patria, con gli stessi attrezzi, perché di meglio non ave- vano trovato. Tutto era all’insegna dell’improvvisazione. Anche i loro comandanti normalmente non avevano esperienze militari. Ma meglio di tanti discorsi varrà un esempio per capire come, in real- tà, si svolgevano gli assedi dei piccoli castelli di confine. Nel giugno del 1207 i fiorentini, in una delle tante scaramucce, espu- gnarono Rigomagno “aiutati da un improvviso temporale con grandine”. La frase è riportata nel verbale del Gran Consiglio di Siena senza ul-

62 teriori commenti perché, evidentemente, doveva essere normale per- dere un castello per una grandinata. Ora, siccome le condizioni del tempo erano uguali, per tutti e due i contendenti, viene da pensare che se i difensori abbandonarono le mura, fu perché era necessario difendere qualcosa di ancora più pre- zioso. Visto il periodo potrebbe essere stato il fieno steso nei campi ad asciugare. Certamente un’ipotesi, ma molto meno fantasiosa di quanto si possa pensare. Il primo nemico contro cui ci si doveva di- fendere, infatti, era la fame. Probabilmente altri sono i motivi, ma è anche per questa realtà del quotidiano che noi non abbiamo avuto una chanson de geste con ca- valieri, senza macchia e senza paura...

63 Il buon Celso si accorse della tristezza di fra Dionisio e per distrarlo un po’ gli chiese notizie fresche sulla Repubblica di Siena. «Che vuoi che ti dica, dopo la battaglia di Colle di Val d’Elsa (mi pare l’11 giugno 1269, non sono molto forte con le date), con la sconfitta dei ghibellini cadde il Governo dei Ventiquattro, che non aveva fatto tanto male in passato. Con il partito guelfo al potere, la ricca borghesia, fortemente com- patta, si inventò il “Monte dei Nove”, una sorta di congrega, aperta solo ai grandi borghesi, e che decideva per tutti. In poco tempo ebbe in mano il potere assoluto. Figurati che costrinse, è il caso di dirlo, il Consiglio della Campana (massima istituzione senese) a deliberare, il 28 di maggio del 1277, che solamente “i buoni mercanti di parte guelfa” potevano governare la Repubblica entrando a far parte del Consiglio dei Trentasei. Così fu e così ora è! L’ideale di questa oligarchia di mercanti, come tu sai, fu immortalato da Ambrogio Lorenzetti sulle pareti della Sala della pace nel Palazzo pubblico. “Gli effetti del buongoverno”, un’opera stupenda nella for- ma, ma non certo nella sostanza, visto che fu commissionata e pagata dal potere allo scopo di educare il popolo. Un’auto celebrazione del Governo, che forse in futuro...» «È sempre stato e sempre lo sarà. Cambieranno solo i metodi con il mutare delle possibilità – disse fra Celso –; un tale Douglas, britan- no dei primi del Novecento, prendendo come spunto l’affresco del “Buongoverno” un giorno scriverà: “È impossibile uguagliar la virtù e nobiltà d’animo di cui il buon ca- pitalista si crede rivestito, o come lo rappresentano i suoi adulatori e parassiti”». «Hai ragione ma l’uomo, ogni tanto, dovrebbe essere uomo». «Perché, quelli che c’erano prima, i ghibellini, erano meglio? O vuoi che ti ricordi il patto del 31 luglio 1255 tra Siena ghibellina e Firen- ze guelfa, con il quale “Siena non avrebbe dato ricetto a qualsivoglia persona che per cagione di misfatto, o per sedizione o congiura, fosse stata bandita dal Comune di Firenze”...» «Lo so, nel 1251 Siena aveva firmato un patto con i ghibellini di Firen- ze con il quale si impegnava ad aiutarli nel caso fossero insorti contro i guelfi... e questo patto rimase in vigore nonostante quello del ’55...

64 così tre anni dopo i ghibellini esiliati da Firenze trovarono ricetto a Siena... Però contro Firenze ogni arma è buona!» Celso socchiuse un po’ gli occhi e guardò Dionisio: «Non ti sono molto simpatici i fiorentini, vero?» «No, di certo!» «Nemmeno Dante...» «Quello poi, ruffiano mangiauffo. Ghiotto dell’olio di Rigomagno che non ti dico. Aveva messo in giro la voce che faceva il corrispon- dente per “La Nazione” e allora se volevi che pubblicassero qualco- sa in “Cronaca di Siena”, bisognava ungere. Ma poi scriveva poco e male. Figurati che un anno non gli si mandò il solito ziro d’olio: mica storie, gli si mandava uno ziro d’olio all’anno e lui che scriveva? Due sciocchezze o poco più. Dicevo che un anno non gli si mandò l’olio, allora lui, con la scusa del ghibellin fuggiasco, venne a Gargonza, che era un castello fiorenti- no vicino a Rigomagno, e di notte mandò un servo a prendere l’olio. Dice: “La mi manda il mi’ padrone, l’è per l’olio, l’ha da fare la fet- tunta...”. Sto’ mangiauffo, si vergognava a venire lui... “...lo strazio e il grande scempio / che fece l’Arbia co- lorata in rosso”... ’mbecille, ma mica lo ha scritto che i fiorenti- ni sotto le mura di Siena dissero: “O voi vu’ v’arrendete o vi s’ammazza tutti, e comunque la città verrà distrut- ta e le mura diroccate in diversi punti, sicché si possa entracci come e donde ci parrà”; ’mbecille un’altra volta, il fat- to è che a Montaperti persero e persero di brutto. Loro erano 35 mila, noi a malapena 20 mila, ma quel venerdì 4 settembre del 1260 si vinse noi... “campioni del mond...”, volevo dire che si vinse noi». «Però, stando a quello che si dice, la vostra vittoria non fu, diciamo, molto sportiva. Si racconta di finti mercanti, che con la scusa di vendere stoffe... entrarono nel campo fiorentino per spiare...»

65 «Che stoffe! Panforte e ricciarelli, i fiorentini so’ golosi. Ma se so’ ’mbecilli ’un è mica colpa di nessuno! Come si fa a non ammoscarsi di fronte ad uno che viene dalla città che stai assediando, a venderti roba da mangiare? Bisogna essere ’mbecilli, o no?!» «E quelle donzelle introdotte nel campo per carpire facilmente... viste le “armi in dotazione”, i segreti e i piani di battaglia?» «Torno a dire: se so’ ’mbecilli... Come si fa a non capire al volo cer- te cose? Stai a vedere che le donne senesi non aspettavano altro che andare a divertirsi con quelli che minacciavano di ammazzare i loro uomini! So’ arrivati i superomini, donne, venite che vi si fa divertireee... eppoi vi s’ammazza il marito gratisse! Super eroi... super imbecilli, semmai! Quello era lavoro di intelligence... ciò che mancava ai fiorentini. In futuro sarà ampiamente usato, mio caro». «Però ho sentito dire che ai soldati, riuniti in piazza del Campo per le istruzioni generali, in attesa di partire per Montaperti, fu detto: “an- date e fate carne fredda del nemico”, questo non è fair play». «È solo un modo di dire delle nostre campagne, specialmente quelle aretine... Ricordo una volta, in una taverna di Asinalunga, un carret- tiere aretino, più propriamente del Casentino, disse a un tale che lo

66 infastidiva: “se seguiti a ragionare te prendo pel collo e finché ’un sei ghiaccio non te lascio”». «Ma a Montaperti gli aretini non erano dalla parte dei fiorentini?» «Sì, ma è gente simpatica, alla bona... glie’ piace la compagnia... Ti ho mai raccontato dell’invasione di cavallette nei poggi della bassa Chiana? Allora, devi sapere, che un’estate di qualche tempo fa, ci fu un’invasione di cavallette e locuste giganti: documentata dai cronisti dell’epoca, mica uno scherzo. Visto il pericolo incombente, la gente di un paesino si armò di lance, spade e forconi, oltre che di coraggio, e andò incontro all’invasore. Come si trovarono faccia a faccia, av- venne che una cavalletta saltò sul capo di un villico. Quello che era più vicino non intese a sordo, alzò la scure e... tonfa nel capo. Quando tornarono in paese alla gente che chiedeva, con evidente cu- riosità, come era andata, risposero: “non ci si può lamentare, ’un de loro e ’un de noi”. Celso, queste non sono barzellette, sono cose vere. A volte la realtà supera la fantasia.

67 Te ne racconto un’altra, e questa è vera, doventassi ceco, come dicono i vecchi che ormai non ci vedono più. Dunque, qualche tempo fa, rubarono le chiavi del castello di Ciliano, un piccolo borgo fortifica- to vicino a Torrita. Un detto popolare sostiene, forse a torto ma chissà... che “a Torrita non è buono nemmeno il vento”. Figurati... tanto per dire il conte- sto nel quale ci moviamo, ma questo non c’entra. Dunque, si diceva, che un signorotto, o dei bravi per suo conto, non si sa con precisione ma la sostanza non cambia, rubarono le chiavi del castello di Ciliano. La cosa era seria, non lo discuto, forse poteva essere risolta in quattro e quattrotto, con un po’ d’iniziativa, ma non te la racconto per questo. Il fatto è vero ed è riportato nel verbale del Consiglio generale della Repubblica di Siena del 28 settembre 1251. Ben due sono le cose curiose che sembrano inventate. La prima è il rapporto dell’ufficiale inviato da Siena che riferisce il timore espresso dagli abitanti di Ciliano e che viene trascritto senza commenti: “...Quelli di Montepulciano quando avranno finito di vendemmiare ci faranno guerra”. Ma ti rendi conto?... Dice: “c’è da fare la guerra!” “A sì, bene, ma prima si vendemmia!” O dimmi se non sembra una barzelletta. Ma senti il resto. Perché due, come ti ho detto, sono le cose che sem- brano inventate. E tutte e due nello stesso documento. Il secondo fatto curioso, infatti, è la decisione sul cosa si dovesse fare per risolvere il problema della chiave rubata. Bene, il Consiglio ge- nerale decide di accogliere la proposta di tale Tancredi Passalacqua, di cui niente altro è dato sapere, il quale, dopo una grande pensata, è scritto a verbale, non è roba di mia fantasia: “Il tale [ecc. ecc. come detto, non si sa chi sia...] consiglia di mandare un fabbro con una toppa e una chiave nuova”... Non ho parole... Ti rendi conto che per questa idiozia? E se a questo aggiungi che il fabbro, non solo partì da Siena con la chia- ve e la toppa nuova, ma fu anche scortato da 50 uomini armati... siamo

68 nel ridicolo più puro, al limite della barzelletta. Non ti pare?» «A me pare che sei uscito un po’ fuori dal seminato, oppure, se prefe- risci, ne hai fatta di strada: da Montaperti sei arrivato in Valdichiana – protestò fra Celso – e se ora ti dicessi che, dopo una lunga serie di battaglie, alla fine la guerra la vincerà Firenze, che diresti?» «Che non è vero!» «E invece è proprio vero. La gloriosa Repubblica di Siena un giorno non esisterà più...» Fra Dionisio si fermò di colpo. Poi riprese a camminare con maggior lena e alzando il braccio destro verso il cielo disse: «E allora a Rigomagno si farà Repubblica per conto nostro!»

69

Capitolo 4

Il convento delle Vallesi

Dioniso e Celso giunsero in prossimità del Col- le degli ulivi. Dall’altra parte del torrente Foen- na si vedeva un gran movimento, in particolare nella zona del frantoio dei Mazzarrini un gruppo di carrettieri, in attesa di caricare l’olio, faceva un cer- to baccano. Non c’erano ponti se non una traballante pas- serella che non riscosse la fiducia dei nostri viaggiatori. I due quindi proseguirono verso Siena, tenendosi sulla destra il torrente. Supera- rono un molino ad acqua che mostrava evidenti segni di saccheggio. Ora la valle si era improvvisamente ristretta e la strada, in cattivissi- mo stato di conservazione, sembrava svanire poco oltre, tra la vege- tazione fittissima. «Posti da lupi! – Disse Celso – Bisogna essere forti per vivere qui...» «Forti e con carattere...»; fece eco Dionisio. «Ricordo il racconto di un prete, qualche tempo fa. Mi disse che era accorso al capezzale di un signorotto morente... mi sembra fosse tale Giovenale o Giovagnolo... forse degli Aldobrandeschi, se non erro... in ogni caso non ha impor- tanza. Il fatto fu che il signorotto, giunto in punto di morte, si rifiutò di “abbassarsi” a pregare Dio. Alle insistenze del sacerdote, chiarì il suo pensiero: “dubito – disse il moribondo – che Dio si affiderebbe alla mia misericordia, perché dovrei io confidar nella sua?” Certo un birbone, ma di sicuro con un gran carattere». Un imprevedibile rintocco di campane fece fermare i due fraticelli guidando il loro sguardo in direzione del tramonto. Nel punto più stretto della valle, dove il torrente sembrava sparire, nel poggio di si- 71 nistra, ricoperto da una fitta vegetazione, intravidero la punta di un campanile. «È il monastero degli Agostiniani Romitani delle Vallesi – disse Dio- nisio con voce gioiosa – quando ero ragazzo ricordo di averlo frequen- tato per via di un frate celliere tanto bravo. Si chiamava Donato, ma tutti lo chiamavano “il Curi” per il fatto che, quando stavi male, lui ti curava con un bel bicchiere di vino. Alla sua porta c’era sempre la fila di gente che stava male. Anch’io ogni tanto accusavo qualche doloretto... alla gola. Era un bel convento, conosciuto da tutti, per la sua bella posizione prossima alla grande strada e per la cordialità dei frati. Un fatto curioso per quei tempi: pur essendo nel territorio della dio- cesi di Arezzo, il convento delle Vallesi dipendeva dagli Agostiniani di Siena. Questo non andava troppo a genio al vescovo di Arezzo, ma gli Agostiniani non se ne curarono mai troppo, forti com’erano per il pos- sesso di alcune bolle speciali rilasciate loro da papa Innocenzo iii, grazie alle quali godevano della più ampia libertà territoriale. Si diceva che l’Ordine degli Agostiniani fosse stato istituito dallo stesso Pontefice di propria iniziativa “per evitare – sembra abbia detto – che gli ere- miti vagassero come pecore senza pastore”. Una ventina di anni fa, ma forse saranno anche trenta, il tempo pas- sa in fretta... ricordo che mi trovavo in Laterano a Roma per via di certi...» «Intrallazzi...» Disse sottovoce Celso. «Documenti importanti! – rimarcò Dionisio – e per caso...» «Questo sì che è umorismo vero...» «Per caso... se dico “per caso”, significa che... evidentemente... Dicevo! Intercettai una supplica dei frati delle Vallesi per la ricostruzio- ne del convento e dell’annessa chiesa di Santa Maria alle Vallesi, che il tempo aveva reso pericolante. Parlai con papa Alessandro iv e lo convinsi ad emettere una bolla con la quale si accordavano 40 giorni di indulgenza a coloro che avessero fatto un’elemosina per la ricostruzione...» «E la cosa funzionò?» «Se funzionò? Caro il mio buon Celso, giusto perché tu sappia con chi stai parlando, ti informo che, oltre alla corsa a fare le offerte dei pri-

72 vati di tutte le classi sociali, cosa peraltro non difficile da ottenere a quei tempi; credo meriti una menzione particolare l’adesione ufficiale della Repubblica di Siena al progetto, con l’assegnazione di una co- spicua elemosina la quale, non vorrei vantarmi troppo, continua ad essere elargita a lavori ormai da tempo terminati: almeno a giudicare dallo scampanare. Ma senti quante campane? E che bel suono! Sono contento: segno di buona salute!»

73 In effetti fra Dionisio era contento e si vedeva, anzi: lo faceva vedere e non nascose un leggerissimo gesto di stizza quando il suo accom- pagnatore, con evidente scopo di smorzarne gli entusiasmi, gli chiese della famosa “Fiera alle Vallesi”. «Oh che ne sai te della fiera alle Vallesi che sei quasi ostrogoto?» E Celso, facendo finta di niente: «Le cose belle e ancor più quelle buone, come si sa, fanno alla svelta a diven- tare famose. Ricordo i viaggiatori di ritorno dalla fiera, narravano di una valle piena di splendidi bovini di razza Chianina e di maiali della famosa razza Cinta senese. Si fa- voleggiava per mesi di costole alla brace e di salsicce con le... purezze delle rape, mi pare...» «Ma che voi “impurezzare”: pulezze, si dice pulezze... testa di “rapa”». Lo riprese fra Dionisio, sorridendo – e continuò: «Qui occorre colmare una lacuna. Primo: da queste parti non si producono le rape ma “i rapi”, è una differenza da niente, ma ha la sua importanza. Secondo: le foglie, finché sono nel campo a maturare le puoi chiama- re come vuoi, ma non pulezze. In questa fase è ammesso l’uso impro- prio del termine solo da parte di chi conosce perfettamente il tema. La massaia che comanda: “vai a cogliere le pulezze”, vuol dire che le foglie dei rapi hanno preso una bella gelata notturna, e quindi sono pronte per diventare pulezze. Se le pulezze non hanno preso la gelata, di norma, sono gattive, ossia: molto peggio di cattive. Dopo averle colte, vanno messe nell’acqua bollente per il tempo ne- cessario. Si scolano e se ne fanno, strizzandole ben bene con le mani, delle palle grosse, diciamo, quanto basta. A questo punto si può correttamente parlare di pulezze, che puoi mangiare calde o fredde. Io le mangio fredde, sopra il pane, con un pizzico di sale e un giro d’olio d’oliva... sono una poesia, anche se “la morte loro” è con il maiale alla brace, e qui non si discute! Ricapitolando le pulezze non nascono nei campi, bensì nella pento- la. Punto secondo si vendono esclusivamente “a palle”. Per esempio: se vai dall’ortolano a comprare le pulezze, lui non ti chiede quante foglie, ma quante palle?» Fra Dioniso guardò la sua guida con aria soddisfatta, richiuse e ab-

74 bassò la mano sinistra che gli era servita per tenere all’altezza giusta una bella palla di pulezze virtuali, e proseguì: «C’era un’altra delicatezza alla fiera, ma non te ne parlo ora, perché non si accosta bene alle pulezze. Dimmi invece della fiera... orsù!» Ci fu un momento di silenzio perché fra Celso, rimasto travolto da tanta foga, si trovò costretto a scavare tra i ricordi per pescare qual- che notizia interessante da contrapporre alle... pulezze. Quindi iniziò il racconto: «La fiera delle Vallesi era nata in modo spontaneo, senza seguire le normali trafile delle domande e delle concessioni, perché, come giu- stamente dicevi tu, il convento e di conseguenza la zona, godevano di particolari privilegi, diciamo, di tipo “extra territoriale”. Inizialmente la fiera si teneva nel periodo pasquale ed il suo punto di forza era il mercato del bestiame, che si svolgeva nella valle sotto il con- vento, mentre le altre mercanzie di contorno, insieme a giullari, indo- vini e mariuoli di varia natura, si dislocavano intorno ad un edificio, che presentava grossissimi resti di sicura provenienza romana. A motivo dell’imponenza, tale struttura era detta popolarmente il Baraccone. Nei giorni di fiera, al suo interno trovavano posto i punti di ristoro.

75 Detto fra parentesi, come si dice, perché l’argomento dovrebbe es- sere presentato in altro modo, in prossimità dell’edificio, in dire- zione della Valdichiana, c’era un torrentello con un nome che la dice lunga, o quanto meno lascia pensare a ciò che un tempo dove- va esse stata questa zona... il fosso, infatti, era chiamato borro degli Ori, o come dite voi “dell’Ori”... Vedo che non ti fa ne caldo ne freddo. Torniamo quindi all’argomento di cui stavamo dicendo. La festa durava dall’alba al tramonto, tra affari e divertimenti, senza un attimo di tregua. Naturalmente si trovava il tempo anche per lo spirito, perché la fiera, come tutte le fiere dell’epoca, aveva un carat- tere religioso, anche se era conosciuta semplicemente per il nome del luogo e non, come sarebbe stato corretto, per quello di “Santa Maria alle Vallesi”. In ogni caso con il tempo, per una serie di fatti che si susseguirono, divenne la “Fiera di san Bartolomeo”. La storia inizia dalla chiesa del convento: una chiesa piccola ben strut- turata, con alcune opere molto interessanti. Una di queste era il coro ligneo, che si adattava perfettamente alle pareti irregolari dell’abside e che creava un corpo unico con l’Altare. Era una meraviglia di in- tarsio totale. Impossibile capire dove finiva la venatura del legno e dove iniziava l’intarsio. Era difficile perfino capire dove finiva il le- gno di ciliegio ed iniziava quello di olivo, e dove il cipresso lasciava il posto al rovere. La più classica delle opere indice di competenza ma, soprattutto, di grande amore per il proprio lavoro. Gli autori appartenevano ad una bottega locale. La maggior parte de- gli addetti era di Rigomagno, uno era di Scrofiano e tutti si volevano bene. Firmavano le proprie opere con la sigla “INT”, che solo molto tempo dopo alcuni studiosi germanici riuscirono a sciogliere con si- curezza. La sigla voleva semplicemente dire “i nostri tarsi”. Oltre alla sigla, talvolta si firmavano con un piccolo fregio a forma di fiore aperto: una sorta di civetteria che si può anche perdonare, dal momento che veniva apposta solo sulle opere perfette. Con il passare del tempo il fiore subì una ulteriore stilizzazione, la si- gla divenne “inTarsie” e tutti e due andarono a formare il logotipo di una bottega conosciuta e molto apprezzata, in particolare nell’ambi- to monastico. Molti abati importanti offrirono loro la possibilità di

76 77 entrare in prestigiosi ordini religiosi senza fare la trafila necessaria, con il patto che poi sarebbero diventati i mastri intarsiatori del con- vento, in nome e per il prestigio del quale, avrebbero girato per tutti i monasteri del mondo. Alcuni di loro però non erano adatti alla vita monastica, altri forse sa- rebbero stati pronti, se solo fosse stata fatta loro la richiesta nel modo giusto... Forse mancò l’occasione!

Ma nel nostro racconto dobbiamo occuparci dell’affresco che si trovava sopra al detto coro. Un pregevole dipinto di scuola senese raffigurante la Madonna col Bambino tra i santi Francesco e Bartolomeo. Con il passare degli anni, non ti saprei dire la causa precisa, il dipin- to andò quasi completamente perduto, salvo per alcuni particolari e la figura intera di san Bartolomeo, ritratto, come di consueto, con la barba nera ricciuta, scalzo, con indosso un pesantissimo mantello bianco ed i sui attributi caratteristici, che come tu sai sono: il libro, il rotolo delle Scritture, la bandiera, il coltello per scuoiare ed il ba- stone da pellegrino. Oltre a ciò recava in mano, quale segno distinti- vo del suo martirio (san Bartolomeo fu scorticato vivo), la pelle che gli fu tolta. A causa delle guerre, delle pestilenze, delle carestie ed altre piacevo- lezze simili tipiche di quei secoli, per molti anni la fiera non si tenne e, in breve, passò nel dimenticatoio. Quando, molto tempo dopo, fu deciso di riprenderla, i ricordi erano pochi ma, in compenso, molto confusi. Per quanto riguarda l’affresco, il tempo lo aveva ancor più rovinato. Di san Bartolomeo era rimasto il volto e una parte della pelle che te- neva in mano, di tutto il resto si intravedeva a malapena il marrone di un probabile saio francescano. Noi sappiamo che effettivamente era la veste di san Francesco, ma la gente di allora, viste le condizioni del dipinto, non lo poteva neppure intuire, tanto è vero, come vedremo, fu ritenuto pertinente alla figura di san Bartolomeo. La pelle, invece, fu associata ad un ricordo di mercato di bestiame, che qualcuno aveva raccontato ad un altro e questo ad un altro anco- ra.... Come sai bene, non è difficile per il popolo passare dalla leggen- da alla storia e così, con una serie di associazioni di idee, la figura di

78 san Bartolomeo, fu scambiata con quella del venerabile Bartolomeo Agricola dei frati Minori Conventuali, il quale, tra i tanti meriti, era famoso per ripetere spesso la giaculatoria:

“Lodato sempre sia il nome di Gesù e di Maria e san Francesco in compagnia. Ogni cosa lascia andare se tu l’alma vuoi salvare”.

Tu mi dirai: “che c’entra questa giaculatoria con la fiera?” Ed io ti rispondo subito: “niente!” Ma nemmeno il venerabile c’entrava niente: era solo per ribadire il concetto delle associazioni di idee che a volte portano lontano. Per esempio: se a questa serie di indizi aggiungiamo la derivazione del nome Bartolomeo dall’aramaico “bar”, che vuol dire figlio e “tal- mai”, che significa agricoltore; sembrerebbe logico ipotizzare che i fautori della ripresa della fiera di bestiame, scegliessero di intitolarla al venerabile Bartolomeo. Invece, siccome per il popolo ignorante tra “venerabile” e “santo” non ci sono differenze, fu scelta la “versione” santo perché, evidentemente, “suonava meglio”. Così fu ripresa la “fiera di san Bartolomeo”, provocando un intreccio di date che sarebbe continuato per secoli: la fiera si teneva ancora nel periodo pasquale, però i festeggiamenti per san Bartolomeo apostolo cadono il 24 agosto, mentre quelli per il venerabile Bartolomeo Agri- cola, il 23 maggio, giorno della sua tumulazione».

Dopo questa dottissima dissertazione a carattere fieristico, fra Dionisio pensò che il momento era propizio per tirare fuori la chicca, promessa in precedenza e per chiudere degnamente l’argomento. «A proposito delle cose buone di cui dicevamo prima – cominciò – ri- cordo un dolce che i frati del convento facevano nell’occasione della fiera: il ciambellino: ne hai mai sentito parlare?» «Come no? L’ho visto in Internet... no, scherzavo, volevo dire di no, non ho mai avuto il piacere... perché suppongo, cioè...» «Il ciambellino – proseguì Dionisio come se niente fosse – è un dol-

79 ce a forma di ciambella, non particolarmente grande, che potremmo associare, se mi passi il termine improprio, alla famiglia dei biscotti. Nella zona è conosciuto da sempre come dolce di Pasqua, perché ri- chiama alla primavera e, quindi, al risveglio della natura, alla fertili- tà, al ritorno alla vita, ecc. Ma il ciambellino di cui ti voglio parlare, e che nacque tanto tempo fa nelle splendide cucine del convento delle Vallesi, ad opera dei frati Agostiniani, è un’altra cosa. Le differenze iniziavano già nell’impasto, in cui i fraticelli mettevano ingredienti specialissimi e segreti. Si narrava di frati che, mesi prima, cominciavano a battere luoghi sperduti alla ricerca di radici, bacche e chissà cos’altro, e che successivamente trattavano in modi diversi, con bolliture o essiccazioni, e che custodivano personalmente fino al giorno del loro utilizzo. Altre differenze importanti erano date dalla manipolazione e dai tem- pi di riposo dell’impasto. Importantissima era la temperatura del for- no di cottura e, legata a questa, la struttura stessa del forno: un buon forno doveva mantenere la temperatura costante per il tempo neces- sario alla cottura di tre infornate di ciambellini. Una serie di fattori ben definiti, quindi, facevano sì che il ciambelli- no delle Vallesi fosse una spanna sopra tutti gli altri. E per questo, se non hai obiezioni, quando ci riferiamo a questo ciam- bellino, lo dobbiamo pensare con la “C” maiuscola. Ovviamente, lo ripeto, limitatamente a quello originale preparato nel convento delle Vallesi in terra di Rigomagno, e non per le numerose imitazioni! Concordato ciò possiamo andare avanti, perché c’è di più. Il Ciambellino delle Vallesi di Rigomagno, infatti, ad un certo punto della storia, non accontentandosi, per così dire, del primato raggiun- to, decide di surclassare tutti gli altri. Come nelle più belle favole, succede che un giorno, mentre in cucina gli addetti all’impasto stavano sistemando i Ciambellini nelle teglie... La teglia, caro Celso, è un grande vassoio rettangolare in metallo, la cui misura è di circa sessanta centimetri per un metro, e che è fatto per essere messo in forno. Chiaro? Bene, mentre in cucina tutti erano affaccendati nella preparazione dei Ciambellini, accadde che un frate, in arrivo dal pollaio del convento

80 con un cesto pieno zeppo di uova, inciampasse nell’unico gradino di accesso alla cucina... Panico! Quindi la catastrofe e poi il silenzio... I frati sgranarono gli occhi: erano in periodo di digiuno. Sgomento!!! Uno dei frati cucinieri prese un pennello e, chinandosi, prima tentò di rimettere i tuorli e gli albumi dentro i pezzi più grossi dei gusci; poi prese ad intingere il pennello e ad agitarlo, all’inizio molto deli- catamente, poi sempre più freneticamente. Con la faccia un po’ inebetita si girò verso i confratelli, quasi cercasse consenso, ma nel passare da un volto all’altro, incontrò quello severis- simo del Padre Guardiano, il quale era in evidentissima posizione di sparo. E stava proprio per sparare, quando il frate cuciniere si scosse, si rialzò, e con fare distaccato, come se fosse una cosa che aveva sem- pre fatto negli ultimi trent’anni, si diresse verso i vassoi di Ciambellini pronti per la cottura, e dopo averli ben squadrati, con l’aria di chi la sa lunga, sembrò fare due conti e poi li spennellò ben bene. Quindi fece cenno con la mano che potevano passare alla cottura, come a dire: “Ragazzo, inforna!” Lampo di genio, disperazione, ispirazione? Non si sa.

81 82 Fatto è che, quando i Ciambellini furono sfornati, si presentarono con una doratura mai vista; ed il sapore poi... senza paragone!» «È proprio il caso di dire “l’uovo di Colombo”!» Disse fra Celso. «Non si sa, come, quando e perché – aggiunse Dionisio, ignorando la battuta che, peraltro, non avrebbe potuto capire – ma ad un certo punto, in una data che non ti saprei dire, tutti i segreti del Ciambel- lino delle Vallesi, passarono nelle mani delle donne di Rigomagno. Con il tempo si sono fatte tante supposizioni, sono state raccontate tante storie. Documenti, ovviamente, non si sono trovati, testimo- nianze dirette men che meno. Niente di certo si può dire se non che ad un certo punto, nelle case di Rigomagno, nel periodo pasquale, appare il Ciambellino “alla maniera delle Vallesi”. Con gli anni alcuni ingredienti segreti furono sostituiti, probabil- mente a causa della perdita dei cercatori di radici, bacche e fiori, non rimpiazzati in tempo, o forse perché certe piante non crescevano più. In ogni caso, i Ciambellini che si facevano nella zona di Rigomagno, erano ancora di gran lunga i migliori di tutti. Come andrà a finire non lo so – e francamente non lo voglio sapere! Il mondo cambia, ed è giusto che cambi. Tuttavia, se in futuro, a qualche mio paesano venisse in mente di ri- scoprirlo... purché fosse rimasta memoria della ricetta originale... sa- rei molto contento!»

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Capitolo 5

Dionisio torna a Rigomagno - La distruzione di Castelvecchio L’incontro con fra Mario - Il progetto di ricostruzione

Tra un racconto e l’altro i due viaggiatori erano giun- ti fin sotto il poggio delle Vallesi. Sulla sinistra la strada che conduceva al convento e sul margine, come a voler preparare il pellegrino alla salita, un crocefisso ligneo scolpito con rara perizia: su una crepa che si era creata appena sotto i piedi di Gesù, qualcuno aveva deposto un piccolo mazzo di poveri fiori autunnali ravvivati da un rametto di bacche rosse. Sulla destra la strada proseguiva in direzione della Foenna. Un ponte un po’ ma- landato consentiva l’attraversamento. In realtà, a ben guardare, non si trattava di un vero e proprio ponte, ma di una serie di tavole legate a grossi tronchi poggianti su una struttura in mattoni, a cui erano stati aggregati i materiali più diversi che il flusso continuo dell’acqua aveva ormai praticamente amalgamato. Con buona probabilità la maggior parte dei materiali proveniva dal Baraccone, il grosso edificio di ori- gine romana che si trovava a qualche decina di metri. Da quel poco che si vedeva era difficile stabilire la natura della strut- tura. Era evidente che la parte in acqua era stata costruita apposita- mente, tuttavia non sembrava un ponte quanto, piuttosto, una sorta di regolatore di argine o di corrente. Il torrente in quel punto, dopo un lunghissimo rettilineo, segue una prima curva stretta e subisce an- che un repentino salto di livello. In quel punto prende il via anche la deviazione per la gora del molino, non è quindi improbabile che tut- ta la struttura fosse stata realizzata per la regimazione delle corrente. D’altra parte l’ipotesi del ponte non è totalmente scartabile. È vero che

85 la via Cassia transitava sulla sponda opposta, e quindi viene meno la motivazione più ovvia, però la grossa struttura romana potrebbe avere qualche motivazione per giustificarla. Superato il ponte i due viaggiatori tornarono sulla via di Siena, che avevano lasciato dall’altra parte della collina per andare a caccia di ruderi archeologici. La deviazione, oltre ad essere stata molto interes- sante, consentiva ora di giungere a Rigomagno dal lato più suggesti- vo: per non dire della soddisfazione di camminare su un bellissimo selciato romano, ancora presente per lunghi tratti, e in ottimo stato di conservazione, su quel versante. La zona era molto alberata e l’autunno ormai avanzato aveva colorato di giallo e di rosso tutta la valle che ora, con il sole alle spalle, sem- brava completamente diversa da quella che avevano percorso pochi minuti prima in senso inverso. Era un vero piacere camminare nella storia, circondati da una natu- ra dipinta con colori caldi e allegri. Ma, dopo aver superato il grosso complesso del mulino delle Folci, i nostri viaggiatori furono costretti a lasciare la storica via perché si perdeva sotto una fitta vegetazione che nascondeva una grossa frana, staccatasi dal colle chissà quando, e le cui dimensioni erano tali da aver fatto preferire agli abitanti del luogo la ricerca di un nuovo passaggio a nord, tra i monti, alla rimo- zione dei massi sulla Cassia che proseguiva, invece, in pianura, ac- canto agli argini del torrente Foenna. A dire il vero anche la nuova strada sembrava perdersi nel fitto del bosco e dei rovi; e il termine strada forse era un po’ troppo ottimisti- co per definire quel misero tracciato, ma in epoca medievale il con- cetto di via era piuttosto flessibile: era più che sufficiente il calpestio mensile di quattro somari e sette viandanti, per fare di un semplice sentiero una strada importante. I due viaggiatori si fermarono. Erano circondati da un ambiente sel- vaggio ma di indubbia suggestione. Fra Dionisio girò la testa verso sinistra, in direzione di Rigomagno, e sospirò rumorosamente. Fra Celso, invece, allargò le braccia e fece un giro completo su se stesso, molto velocemente e in senso orario, poi ne fece un altro, cambiando senso di rotazione, rallentando il movimento e sottolineando ciò che gli passava sotto gli occhi: «...la Cassia, la Foenna il convento delle

86 Vallesi, il mulino delle Folci, il borro degli ori... probabile villa roma- na!... il poggio di Farnetella, la gora del mulino di Palazzuolo...». Poi, tornato con la faccia in direzione del Colle degli ulivi, fu attratto da una sorta di edicola, che sembrava fare tutt’uno con una grande querce, sul limitare del bosco, tra la vecchia e la nuova strada. Si avvi- cinò incuriosito. La base era quella di una grossa colonna scanalata: «Lo dicevo io che c’era una villa romana nei dintorni...» Sopra la colonna era sistemato, a mo’ di pulvino, un grosso blocco di travertino con un bassorilievo molto consunto. Si intravedeva una figura, forse un cavallo, con sopra un probabile cavaliere, che però sembrava inciso, così come la croce, anzi era una tau, su cui si inter- secava. A coronamento, una lastra a forma di tetto, anch’essa in tra- vertino, ma diversa per grandezza e lavorazione, presentava evidenti tracce di scrittura etrusca sopra a fregi geometrici ed a disegni di non facile identificazione: «Questa poi! Sembra uno scarabeo egizio...» Farfugliò il buon Celso. L’insieme cominciava a complicarsi.

87 Fra Celso si grattò il mento e stava per dire qualcosa, quando una fragorosa risata lo fermò: «Lascia stare – era fra Dionisio che parlava e rideva – l’ho fatto io da ragazzo mettendo insieme un po’ di sassi trovati qui intorno... e quel- lo non è uno scarabeo, è un gazzilloro...» Fra Celso, visibilmente imbarazzato per la quasi figuraccia fatta, lo guardò con aria interrogativa. «Non ho idea se abbia o no un nome scientifico e se viva anche al di fuori dello Stato senese; da queste parti si chiama gazzilloro una spe- cie di calabrone, tutto verde ma con riflessi metallici, diciamo verde changiant. I ragazzi lo catturano vivo, gli legano una cordicella leggera, lunga un paio di metri, ad una gamba e poi lo fanno volare tenendo in mano l’altro capo della corda. Il gazzilloro vola in circolo per ore senza rendersi conto dell’inutilità del suo volare: “sei un gazzilloro” si usa dire a chi si comporta in modo palesemente stupido.» Fatti pochi passi lungo il nuovo tracciato, un cipresso maestoso aveva il duplice compito di segnalare l’incrocio con la strada per e l’approssimarsi del fosso Sesoli che doveva essere passato a guado. Niente di particolarmente impegnativo in quel periodo, ma da non sottovalutare in pieno inverno o durante i grossi temporali. I due viaggiatori iniziarono la non facile salita. In cima c’era il castel- lo di Rigomagno. Fra Dionisio se lo stava figurando. La strada era piena di buche ed i primi acquazzoni autunnali avevano

88 creato alcuni smottamenti che costringevano a passare per il bosco per aggirarli. La giornata era chiara, voltandosi si potevano vedere poggi di fronte e la valle di mezzo. Erano passati più di trent’anni dall’ultima volta che Dionisio aveva scorrazzato con gli amici intorno a Rigomagno. «Si facevano delle gran corse partendo dai boschi a nord del castel- lo. Si prendeva giù per il borro delle Fate, si attraversavano i campi, senza tenere conto delle minacce dei contadini, e giù a capofitto lun- go il rio Cavaglione fino alla confluenza con il Sesoli. Si attraversava senza porsi il problema di sciupare le scarpe, perché non le avevamo. Poi su verso il monte, fino alla caverna del vecchio Romito, dove la corsa si esauriva, un po’ per la stanchezza, e molto perché c’era qual- cosa in quel vecchio che incuteva timore. Un giorno gli fregai, cioè presi in prestito il mantello e, come se fossi stato un cavaliere, comin- ciai a correre per i boschi in cerca di cattivi da punire e di brava gen- te da premiare...» «Come Zorro...» Disse fra Celso. Ma fra Dionisio era immerso nei ricordi. I due frati erano ormai arrivati a metà del colle. Guardando verso nord avrebbero dovuto vedere il castello di Rigomagno, qualche filo di fumo indicatore di una cucina in funzione, ragazzi con i maiali al pascolo. Avrebbero dovuto sentire un po’ di schiamazzi. E invece, niente.

89 Giunti a Rigomagno i due frati trovarono solo macerie e dispera- zione. Non c’era una sola casa ancora in piedi, non c’era un riparo degno di tale nome, non c’era niente salvo la miseria più nera. La gente, sentendo arrivare estranei, si era nascosta, ma non appena vi- dero che si trattava di due religiosi uscirono tutti dalle tane, con la mano tesa ma senza dire niente: non avevano più nemmeno il fiato per chiedere la carità. Fra Dionisio domandò se fosse stata in corso qualche azione e se fosse stato fatto qualche tentativo per risolvere la questione. Venne a sapere di una supplica presentata a Siena al- l’indomani della battaglia, nella quale tutta la gente di Rigomagno, nel ribadire la fedeltà alla Repubblica, si dichiarava incolpevole per quanto avvenuto e chiedeva aiuto perché non potesse più accadere. Nella deliberazione del 6 settembre 1281 del Consiglio Generale del Comune e Popolo di Siena “con l’aggiunta dei 15 Signori difensori e governatori del popolo e dei Consoli dei mercanti, il magnifico e sapien- te messer Matteo Rosso dei figliuoli d’Orso, onorevole Potestà del Comu- ne di Siena, propose e chiese che la degna petizione fatta dagli Homini di Rigomagno fedeli al Comune di Siena venisse allegata alla delibera e che venisse fatto il meglio per l’onore del Comune di Siena e per lo stato degli Homini di Rigomagno”. Ma il Consiglio e i Giudici chiamati a deliberare, pur facendo met- tere a verbale che anche a loro piaceva la petizione degli “Homini di Rigomagno”, ordinarono che prima si abbattesse il castello “e far così vendetta dei traditori di quel luogo” e che poi si pensasse a ricostruirlo e quindi a prendere in considerazione la supplica di coloro che aves- sero giurato fedeltà. La delibera trovò immediata ma parziale esecuzione, nel senso che il castello fu completamente distrutto subito, nel giro di pochissimi giorni, mentre la promessa di ricostruzione finì nel dimenticatoio. Erano passati dieci anni e fra Dionisio pensò che era l’ora di ricorda- re a Siena gli impegni presi.

Ma di chi era la colpa per quanto era successo? Non è facile dare una risposta a questa domanda perché presuppor- rebbe una lunga e noiosa premessa. Cercheremo di farlo nel modo più semplice anche se, probabilmente, non risulterà molto preciso. Non

90 affronteremo quindi le complicate vicende politiche di quei tempi, né ci addentreremo nel “ginepraio” di guelfi, ghibellini, imperatori, re e papi. Però da qualche parte dovremo cominciare e ignorare le pre- messe della divisione tra guelfi e ghibellini, potrebbe essere un inizio promettente. D’altra parte ci siamo prefissi di raccontare la storia di Rigomagno dalla parte della gente comune e la gente comune non aveva la più pallida idea di chi fossero i guelfi ed i ghibellini. Da sempre, la partecipazione del popolo ad una qualsiasi impresa, quando non è forzata, è guidata dall’appartenenza ad un gruppo il cui capo un giorno decide di andare da una parte, piuttosto che da un’altra. A scuola ci hanno insegnato che chi parteggiava per l’Imperatore era ghibellino e chi parteggiava per il Papa era guelfo, ma nella pratica non era affatto così: in generale si parteggiava per i propri interessi. Un esempio per tutti: il Papa si serviva dei banchieri di Siena ghibel- lina e non di quelli di Firenze guelfa. L’episodio che segue, riguardante nello specifico Rigomagno, dovreb- be aiutare nella riflessione... o a confondere irrimediabilmente quelle poche conoscenze acquisite con fatica. Leggendo i documenti, c’è un momento della storia in cui sembra che il popolo di Rigomagno parteggi per i guelfi. Intorno alla metà del Duecento, infatti, è attestata la presenza di uo- mini di Rigomagno (in varie battaglie in giro per la Toscana) a fianco di Firenze, all’epoca guelfa, e nemica di Siena, all’epoca ghibellina. Incredibile ma vero, alcuni rigomagnesi sono inquadrati nella fila della grande coalizione fiorentina nella battaglia di Montaperti. Andando però ad approfondire l’argomento, si trova che, all’epoca, il signore di Rigomagno era tale Ubertino degli Ubertini della Berar- denga, noto attivista di incrollabile fede guelfa, il quale non si perde- va una sola battaglia, o una zuffa, quando queste andavano contro ad una qualsiasi parte ghibellina della regione, a prescindere dal motivo. In altre parole se c’era da picchiare un ghibellino, lui ci stava. Premesso che è solo un’ipotesi, non è tuttavia scorretto immaginare che si portasse nei campi di battaglia servitori e, forse (anzi, è molto probabile), anche la gente comune che lo seguiva solo perché era il padrone, il condottiero del paese, ossia: il punto di riferimento.

91 Rigomagno incorse più volte nelle condanne della Repubblica perché “dava ricetto” ai guelfi. Ma il signore di Rigomagno era guelfo, come potevano i suoi sudditi non farlo entrare nel proprio castello? E come facevano a sapere che Siena, in quanto amica e protetta da re Manfredi, era ghibellina? E soprattutto, da ciò: che vantaggio ne traeva la gente di Rigomagno? Ed ancora. Nel 1265 a papa Urbano iv successe Clemente iv il qua- le (detto in modo decisamente semplicistico), non sopportando gli Svevi, contrappose loro gli Angioini... Chi lo disse ai rigomagnesi che sarebbe stato il caso di lasciare lo sve- vo Manfredi per Carlo d’Angiò? E comunque, a prescindere dai dettagli: lo avrebbero potuto fare sen- za il permesso di Siena? Ed ancora: sarebbe stato alto tradimento, oppure quando si segue il consiglio del Papa è un’altra cosa? La storia è sempre stata complicata per il popolo. Fatto è che cinque anni dopo, cambiate le alleanze in ambito nazio- nale, l’esercito senese venne preso a sonore bastonate nella battaglia di Colle Val d’Elsa. Il governo ghibellino cadde (ed anche piuttosto rumorosamente) e Siena divenne guelfa. Per chi, a Rigomagno, la mattina si alzava al levar del sole per andare a zappare nei campi, ammesso che fosse stato informato, non cam- biò niente.

92 Poco tempo dopo, e precisamente nel 1277, salì al Pontificato Nic- colò iii il quale, come primo atto, privò Carlo d’Angiò dell’influenza sulla Toscana. Una decisione apparentemente di poco conto, la cui conseguenza nel territorio senese, invece, fu l’immediata riorganiz- zazione di quei ghibellini che si erano dati alla macchia, per sfuggire alle rappresaglie dei guelfi. Le prime scorribande ghibelline (in combutta con le stesse Compa- gnie di ventura che prima erano legate ai guelfi), si verificarono nel giro di poche settimane. Siena reagì diffidando i castelli di confine dal concedere aiuto ai nemici. Richiesta sacrosanta ma di non faci- le attuazione, se non in senso squisitamente teorico, dal momento che un gruppo di cavalieri, debitamente armati e decisi, non aveva grosse difficoltà ad impossessarsi di un castello di campagna difeso da poveri contadini. Rigomagno, segnalò più volte al Gran Consiglio della Repubblica di non essere in grado di difendere adeguatamente il castello, ma fu sempre ignorato, fino al 1279, quando Siena accusò ufficialmente Rigomagno di tradimento perché i capitani di ventura Chiaramon- te ed Accattapane “colle loro masnade ghibelline” dimoravano, come e quando volevano, nel castello. Era sicuramente vero, ma che cosa poteva fare la gente di Rigomagno? Alla richiesta di aiuto sembra voler dare una risposta, nell’ottobre del- l’anno seguente, la Repubblica, comandando l’invio a Rigomagno di un gruppo imprecisato di soldati, i quali dovevano essere mantenuti e pagati dalla comunità rigomagnese. Sicuramente opinabile nella forma, la decisione era però di quelle storiche. Fino ad allora i rapporti erano stati a senso unico: Siena chiedeva le tasse ed i castelli pagavano. Ora Siena inviava soldati in aiuto ai castelli in difficoltà. Sicuramente la guarnigione raggiunse Rigomagno e, viste le co- municazioni del tempo, non doveva essere molto distante quando Neri di Belmonte, dopo aver tentato inutilmente di assalire Siena ed essere poi passato per Roccastrada, dove fu rifornito di uomi- ni e mezzi dal conte di Santa Fiora, bussò alle porte del castello di Rigomagno. Non si sa se a difendere le mura c’erano solo gli abitanti di Rigomagno o se c’erano anche i soldati senesi, è certo però che ci fu una forte re-

93 sistenza, perché normalmente, quando la battaglia si svolgeva entro i parametri “normali” del combattimento, le cronache del tempo si limitavano a riportare la presa, o la perdita, di un castello senza alcun commento. Nel caso della caduta di Rigomagno, invece, i cronisti annotarono alcuni particolari: “[...] i Ghibellini usciti da Siena si partiro da Rocca Strada d’agosto 1281 e andaro a Rigomagno, e per battaglia quelli di dentro s’arrendero. “[...] la battaglia durò dall’alba a notte. Il ricetto accordato dai Rigomagnesi ai Ghibellini non fu per tradimento verso la Repubblica Senese, ma sibbene per impotenza a difendersi [...]” Se la storia si sviluppasse con un andamento lineare, e se ogni fatto venisse preso per quello che in realtà rappresenta, probabilmente i rigomagnesi avrebbero ricevuto un encomio solenne per l’eroica di- fesa, e l’esenzione dalle tasse per chissà quanto tempo: invece le cose andarono diversamente. Come si sa i fatti che fanno la storia dell’uomo, buoni o cattivi che siano, sono spesso la conseguenza di una serie di avvenimenti. Pur- troppo gli avvenimenti, in quei primi giorni di agosto del 1281, non furono buoni per la Repubblica di Siena e lo furono ancora meno per Rigomagno. In ordine cronologico accadde che un buon numero di castelli della Berardenga, dalla zona di Castelnuovo alla Val d’Ambra, passò dalla parte dei ghibellini approfittando della benedizione (e della protezio- ne) del vescovo di Arezzo. Nello stesso tempo la munitissima rocca di Campagnatico fu occupata in pochissimi giorni da un vero e proprio esercito ghibellino guidato da Neri da Sticciano, mentre altre bande della stessa organizzazione, integrate da compagnie di ventura, sol- dati sbandati e qualche brigante, si gettarono nella Valdichiana fa- cendo danni notevoli e occupando, come abbiamo visto, il castello di Rigomagno. Il governo guelfo di Siena era in evidente difficoltà: doveva dare a tutti un forte segno ed in tempi brevissimi, per dimostrare di avere in pugno la situazione e cercare, in una fase successiva, di rimettere a posto le cose. L’operazione, per risultare efficace, doveva essere por- tata a termine entro settembre, se non nello stesso mese di agosto. Il Senato senese doveva quindi individuare un obiettivo a poche ore di

94 marcia dalla città, che non fosse particolarmente grosso e che, possi- bilmente, non fosse troppo difficile da espugnare. I dati a disposizione indicavano Rigomagno. E Rigomagno fu.

Fra Celso, a cui fra Dionisio aveva chiesto come si erano svolti gli av- venimenti, rispose con una descrizione dell’antefatto e dei momenti più rilevanti dell’episodio. Riepilogando, fra Celso disse che già dagli inizi dell’estate a Siena si respirava un’aria molto pesante, e la colpa non era del caldo ma dei tantissimi gruppi di ghibellini che scorrazzavano per tutto il territo- rio della Repubblica. I soldati senesi furono impegnati in una serie continua e snervante di interventi che non produssero grandi risul- tati, tanto che, non appena giunsero in città le notizie delle imprese ghibelline dei primi di agosto, fu sentito il bisogno generale di sfo- garsi con qualcuno... possibilmente più debole. L’obiettivo fu scelto sicuramente con molta attenzione, anche se, come vedremo, con troppa fretta. Il clima era tale che il Governo della città non poteva permettersi in alcun modo di fallire. Fu deciso di affidare l’incarico ai soldati del Terzo di San Martino perché, dati alla mano, erano quelli che avevano corso a vuoto più di tutti negli ultimi mesi e quindi, a ragione, erano anche i più biso- gnosi di una vittoria per tirarsi su di morale. In virtù di queste considerazioni furono inviati in battaglia senza ulte- riori disposizioni se non: “andate e tornate vincitori”. I giornalisti dei

95 nostri tempi direbbero che furono inviati in battaglia senza specifi- care “le regole d’ingaggio”. L’avvicinamento a Rigomagno fu estremamente rapido. I ghibelli- ni occupanti non si aspettavano una reazione così pronta, tanto che una buona parte di loro se ne era andata ad aiutare i compagni im- pegnati in altri assedi. Tuttavia erano stati molto bravi e veloci nella risistemazione delle opere di difesa, tanto che l’assedio non fu quella passeggiata che i comandanti senesi credevano. A Siena si aspettavano che i ghibellini se la sarebbero data a gambe le- vate alla vista di un esercito molto numeroso; invece, fieri, sprezzanti e galvanizzati dalle tante piccole vittorie quei “figli di gran dame” come li chiamavano i senesi, si eressero a grandi difensori del castello. Qualcuno, salito impavidamente sulle mura, come se fossero state le Termopili, prese a sbeffeggiare gli assedianti. La bravata ebbe un duplice effetto sui soldati senesi: fece aumenta- re il loro rancore, di cui peraltro ne avevano anche troppo; e fecero apparire uomini e mura come una sola entità nemica, senza alcuna distinzione tra ribelli e abitanti. L’assedio durò sei giorni e fu durissimo.

96 Secondo i dati ufficiali dei senesi ci furono molti morti, quasi tutti fra “quelli dentro le mura”, ma non fu così: le perdite maggiori le su- birono i senesi. D’altra parte, viste le premesse di cui abbiamo detto, Siena non poteva ammettere perdite pesanti. La prova della veridicità di questa tesi, in un certo senso, è data dal fatto che nei resoconti non è riportato il numero dei componenti del corpo di spedizione, quando di norma veniva annotato in modo dettagliato e diviso tra uomini a cavallo e uomini a piedi. Una scioc- chezza, se si vuole, ma in quei momenti di grande concitazione, il popolo avrebbe trovato qualche difficoltà nel calcolare quanti ci ave- vano rimesso la pelle e avrebbe potuto festeggiare, senza troppi rim- pianti, la vittoria. Nella fretta della preparazione, come abbiamo detto, furono com- messi errori di valutazione che pesarono sull’andamento di tutta la spedizione. Nessuno, per esempio, pensò di portare armi pesanti e macchine da assedio. E siccome c’era la convinzione che sarebbe sta- ta una passeggiata, non solo non furono portati i materiali per l’ac- quartieramento, ma neppure le scorte di cibo. Così, quando i soldati del Terzo di San Martino arrivarono nei pressi del castello, sfiniti per i 40 chilometri fatti quasi di corsa, ed i ribelli, anziché scappare, chiusero le porte, ci fu un momento di sconcerto in cui le convinzioni di tutti cominciarono a sgretolarsi e se non fosse stato per quei quattro imbecilli che si misero a sbeffeggiarli dall’alto delle mura, forse si sarebbe cercato un accordo e le cose sarebbero andate diversamente. Era già successo in passato, e sarebbe accaduto ancora in futuro, che soldati malpagati e ancor meno motivati (e non necessariamente sol- dati di ventura), lasciassero il presidio in cambio di denaro. Non si trattava di alto tradimento. In un mondo che vedeva cambiare le alleanze ogni cinque minuti, anche quando si voleva restare fedeli ad un ideale, era un problema identificarlo. E non si trattava neppure di avidità, almeno in generale, perché per la maggior parte della gente coinvolta, spesso anche contro la propria volontà, gli interessi in gioco erano poca cosa. Per esempio, un caporale lucchese che comandava un piccolo presi- dio lasciato a guardia del castello di Asinalunga, consegnò pacifica-

97 mente le chiavi della porta principale, al primo esercito nemico di passaggio, in cambio di 20 lire: più o meno la paga che i suoi uomini aspettavano da alcuni mesi. Sicuramente la maggior parte dei “ribelli” che erano rimasti a guardia di Rigomagno erano nelle stesse condizioni morali ed economiche. Forse non sarebbe stato difficile un accordo, se solo qualcuno avesse avuto il tempo di cercarlo. Purtroppo tutto precipitò. Alla situazione inattesa ed alle offese, i senesi reagirono prendendo d’assalto le mura. L’attacco fu portato con furia e senza una minima pianificazione; se a questo si aggiungono, come abbiamo detto, la stanchezza per la marcia di avvicinamento e l’armamento poco adat- to, oltre alla rabbia che non li faceva ragionare, si capisce meglio il ri- sultato, che fu disastroso sotto tutti i punti di vista, compreso quello morale: tutta colpa degli alti strateghi che commisero un grossolano errore di valutazione. Il Castello era piccolo, ma la sua posizione era tale da non concedere spazi di manovra né, tanto meno, coperture a chi avesse avuto inten- zione di attaccarlo in modo un po’ troppo estemporaneo. Dal lato ovest, quello che dava sulla valle verso Siena, il pendio non permetteva un attacco sicuro. Gli stessi problemi si rilevavano anche per buona parte del lato di nord-ovest. Qui, oltre tutto, il rio Cava- glione correva proprio sotto le mura del castello: tentare di superarlo voleva dire esporsi per troppo tempo ad un facile tiro di massi, frec- ce ed altro.

98 L’altra parte del castello, da nord a sud, non presentava ostacoli na- turali ma neppure posizioni favorevoli all’attacco. La gran parte del terreno intorno era coltivata per cui, se da una parte permetteva l’av- vicinamento agevole al castello, dall’altra non consentiva di farlo di nascosto. Fu da questo lato che i senesi impiantarono un rudimentale accam- pamento. Gli ufficiali sparsero la voce che non avevano portato le tende e tutto il resto, perché era agosto e si stava bene all’aria aperta, ed i soldati fecero finta di crederci per non affondare ancora di più nello sconforto. Sembrava tutto tranquillo quando i soliti gazzillori sulle mura, mostrando fiaschi di vino, ripresero a sbeffeggiare i sene- si, intonando canti sguaiati del tipo: “Questo vino è bono e sa di pappardelle è scemo il soldato che dorme sotto le stelle” E poi ancora, sul tono dei canti del Palio: “Nella piazza del Campo, ci nasce la Verbena, che scemi che so’ a Siena, che scemi che so’ a Siena...” Ai senesi gli puoi dire di tutto, ma non gli devi toccare il Palio. Salta- ti in piedi come un sol uomo ripresero l’attacco con maggior furore. Raccolsero tutto il fieno e la paglia che trovarono nei campi, fecero una grande catasta sotto le mura e appiccarono il fuoco. Poi aggiun- sero sterpaglie e legna secca provocando una grande fiammata, tatti- camente di scarsa importanza ma che servì egregiamente per la rica- rica morale degli assedianti. Gli attacchi proseguirono sanguinosi per alcuni giorni, finché alcune brecce sulle mura permisero agli assedianti di entrare. Che cosa succes- se dopo non si sa, le cronache della Repubblica di Siena riportano solo dell’uccisione, con relativa decapitazione, del comandante ghibellino, Neri (o Ranieri) di Belmonte, per vendetta di uno degli ufficiali senesi a cui era stato ucciso il padre dai ghibellini, nella battaglia di Montau- to, pare allo stesso modo: “[...] gli fu mozza la testa dai figlioli di Ridolfo per vendetta di loro pa- dre che gli fu mozza la testa a Montauto”. Non si sa di prigionieri, perché forse non c’era rimasto nessuno che

99 valesse la pena di portare a Siena. E non si sa neppure di saccheggi, perché, terminata la battaglia, non c’era alcunché da saccheggiare. Il Terzo di San Martino, radunate le proprie cose, tornò in città se- guito praticamente a ruota da un gruppo di rigomagnesi a cui non era rimasto assolutamente niente, se non – forse – la segreta speranza di essere imprigionati. Un desiderio solo apparentemente insensato; lo stato di Prigionieri, infatti, avrebbe dato loro, se non altro, la cer- tezza di essere in vita. Non è detto che questa ipotesi sia attendibile, ma è certamente molto più probabile di altre, se la si esamina alla luce delle date certe: l’as- sedio comincia non prima del 20 agosto, dura sei giorni, un paio di giorni per riorganizzare l’esercito e tornare a Siena ed eccoci arrivati al 6 di settembre quando, il Consiglio Generale, delibera di non pren- dere in considerazione la supplica dei rappresentanti di Rigomagno e di distruggere il castello.

Nei giorni che seguirono al loro arrivo a Rigomagno, Dionisio e Cel- so furono ospiti di un frate eremita che si era sistemato sulle colline a nord di Rigomagno. La zona era detta dell’Alto Lupaio, per distin- guerla da quella sottostante detta del Basso Lupaio: una zona “da lupi”

100 insomma, adatta ad un eremita che non voleva essere disturbato, e adattissima a Dionisio il quale, dopo ciò che aveva visto, sentiva il bisogno di restare solo con il mondo. A dispetto del nome però la zona era splendida. I monti non erano particolarmente impervi, i boschi non troppo fitti ed anche il luo- go in cui si trovava il romitorio, chiamato, con poca fantasia, “Bor- ro del Romitorio”, in effetti non era così inaccessibile, come il nome faceva supporre. L’incontro con l’eremita fu piuttosto singolare e, siccome la sua in- fluenza sul morale dei nostri due fraticelli, sceso terribilmente in basso nelle ultime ore, fu notevole e servì alquanto a risollevarlo, si può rite- nere che la piega che presero gli sviluppi successivi, sia da ricondurre a questo primo incontro. Merita quindi di essere raccontato. Quando fra Celso e fra Dionisio giunsero davanti al romitorio, dopo aver percorso un piccolo sentiero in mezzo ad un bosco particolar- mente rigoglioso, furono sorpresi di trovare, in fondo ad una radura, una struttura così... come dire, multiculturale, internazionale... «Inconsueta» disse piano fra Celso. Ecco, la parola giusta era “inconsueta”. Come primo impatto sembrava un’abbazia, di quelle con un grosso influsso d’oltralpe, ma in miniatura. Sul fianco però, bene integrata nella struttura, c’era un’abside romanica perfettamente esposta ver- so est, ed anche questa in forma molto ridotta. Poi alcuni archi, ed una sorta di colombaio, facevano sembrare il lato destro il frontale di una fattoria toscana (quest’ultima sensazione era rafforzata da una moltitudine di animali da cortile che si diresse verso di loro chiasso- samente). Sul retro una serie di strutture, o forse rami intrecciati in un fitto di piante rampicanti, non si capiva bene. Infine una capanna con dentro un paio di asinelli e sul tetto una capra, facevano pensare, chissà perché, visto l’ambiente, ad una Santa Capanna. A bocca aperta ed in silenzio i nostri frati furono scossi dal rombo di un tuono: «Pentitevi!» I due aprirono ancora di più la bocca e si guardarono. «Homini, pentitevi! – Ci fu una pausa durante la quale una serie di eco si rincorsero per le valli circostanti – Cristianucci, dico a voi. Oh!

101 102 Quassù, nello alboro». Era il romita appollaiato su una grossa querce: si chiamava Mario (il romita non la querce). Scese in un baleno e si piantò davanti a loro con la maestosità di un tribuno romano. «Me chiamo Mario perché so’ nato a Roccasecca del Volsci, mi’ pa- dre era de’ Casamari, che se chiama così perché c’era nato il console Caio Mario, quello nemico de Silla. A mi’ padre Silla ’nun piaceva, così me chiamò Mario». «Ah ecco, sei ciociaro...» «No, so’ Mario!» «Di dove sei?» «De Roccasecca...» «Quindi sei ciociaro...» «Sarà una voce che hanno messo in giro!» E con ciò l’eremita Mario mise fine alla discussione. Risalì sull’albero e in men che non si dica ridiscese con due ciotolone colme di latte, un grosso pezzo di pane e due giganteschi agli. Dionisio ed il compagno accettarono con piacere l’invito. Presero il latte ed il pane e cercarono di allontanarsi, in modo da poter gettare via l’aglio appena fossero stati sicuri di non essere visti, ma il romita Mario li raggiunse con un balzo: «Magnate prima l’aglio che ammaz- za li bachi!» – Disse, e non era un consiglio. Mario era un torello selvatico di un metro e ottanta per un metro e venti di circonferenza, per un totale di circa 120 chili; un insieme che non invogliava a contraddirlo, anche perché, oltre tutto, aveva un aspetto decisamente burbero. Tuttavia, come ebbero a scoprire in seguito i nostri frati, era un tipo “de còre bono”. A dimostrazione di ciò: siccome quando dormiva russava e la sua capra aveva il sonno leggero, per non disturbarla era andato a vivere sull’albero. «Scusa ma perché lasci salire la capra sul tetto? Così te lo rovina! «Nun è che ce la lascio andà, essa, la crapa, ce va da sola. Ho provato a legarla ma essa, la crapa, me magna la corda, allora è meglio che vadi a magnamme ’l tetto!» «Vabbèh, ma il tetto...» «Aoh, mica sarete più scemi della crapa, quello mica è il tetto, è il

103 bosco! Ho costruito la capanna sotto una grotta, poi ho messo sopra dei tronchi per farli sembrare i travi del tetto... ma il tetto ’nun cell’ha! Quella stupida crapa è convinta de fammi dispetto, magnandome ’l tetto, e ’nvece se magna ’l bosco». Poi Mario raccontò che, a causa del nome che suo padre gli aveva im- posto, fu costretto ad entrare nel convento di Casamari. «Ma allora sei un cistercense!» «Te l’avevo detto che ’nun ero un ciociaro...» «Scusa, ma nell’abbazia di Casamari, non ci sono i cistercensi?» «Boh, io sapevo che prima ci stavano i Monaci Neri, e che poi arriva- rono quelli bianchi... Lo Priore ce diceva: “Le cronache dicheno che nel 1143 li Monaci Neri erano diventati tanto indisciplinati, disonesti e dimentichi della salvezza dell’anima loro, che il grande Euggenio iii trovò il monastero di Casamari dai sopraddetti Monaci Neri ridotto all’indisciplina, dilapidato nelle sostanze e fatiscente nei fabbricati, cominciò allora a prenderne cura e vi introdusse i Monaci dell’Ordine Cistercense, correva – me pare – l’anno de Nostro Signore 1152...» «Lo vedi allora che lo sai dei Cistercensi...» «No, me l’ha detto lo Priore». «L’origine dell’Ordine dei Cistercensi – intervenne fra Celso – si deve a san Roberto, abate di Molesme, quando nel 1098, con un gruppo di monaci pensò di fondare un nuovo monastero in una località imper- via nel sud-est della Francia chiamata Citeaux (in latino Cistercium, da cui il nome Cistercensi), per applicare nella sua integrità originale la regola di san Benedetto. Roberto, era nato verso il 1028 in un pae- sino ancora non identificato della Champagne...» «Sarà stato Aÿ...» «Vabbé, non ve ne frega niente, io facevo per alzare un po’ il livello culturale...» «Sei molto gentile – disse fra Dionisio – ma io la storia dei cistercensi la conosco ed a lui – indicò Mario con un cenno degli occhi – dirla o non dirla, non è che faccia molta differenza. A proposito, fra Mario, perché hai lasciato Casamari?» «Io non l’ho lasciata, m’hanno cacciato! Fatte conto che, un giorno, m’hanno detto di anda’ a dare una mano ad altri fratelli che stavano a costrui’ un’abbazia come la nostra in un posto dove si diceva che un

104 tale aveva piantato una spada nella roccia: te rendi conto? Dico: ma dove che devo anna’? Dice: in un posto nella valle che perse... Dico: chi? Dice: non so’ chi. Me pare nei pressi di Chiusino... Cammina che ti cammino, so’ arrivato a Chiusi ma nessuno sapeva gnente, so’ andato avanti un altro pochetto, e lì mi hanno detto che forse era l’abbazia de sant’Antémo. Ce so’ ito, ma non era quella giusta. Però c’èra una cappelletta di fian- co che era un amore. Io l’ho ricostruita, l’hai vista?» «Ora capisco la costruzione del tuo eremo: in mezzo c’è l’abbazia di Casamari, a sinistra la cappella di Carlo Magno a Sant’Antimo... e quella costruzione sulla destra?» Chiese fra Dioniso. «Caruccia vero? Sta a significa’ le case de questi luoghi. Mi piaceva e ce l’ho messa... E così, come ti dicevo, gira, gira so’ arrivato da que- ste parti, la gente me piaceva, il posto me piaceva: te che avresti fat- to? Io me so’ fermato... Ma me lo potevano di’ che me ne dovevo da anda’ via, te pare?» «No, volevo dire sì, cioè, scusa: non ti volevano cacciare, il fatto è che non vi siete capiti. Il posto non è nella valle che perse, ma in Val di Merse, ed il paese non è Chiusino, ma Chiusdino, e l’abbazia è quella cistercense di S. Galgano...» «Comunque, me lo potevano di’!»

Ora che tutto era chiaro fu più semplice accettare quella serie di stra- nezze. Convivere poi con fra Mario era piacevole, tra l’altro era bra- vissimo ai fornelli, in particolare con un piatto inventato da lui, con il quale era riuscito a sfamare la gente di Rigomagno dopo la tragedia della guerra: è una storia che merita di essere raccontata. Fra Mario era arrivato da queste parti qualche tempo dopo la distru- zione del castello di Rigomagno. Non è vero che si era fermato perché il posto gli piaceva, si era fermato per dare una mano a quella gente che viveva negli stenti. Dopo essersi guardato in giro e dopo una più ampia ricognizione, in- dividuò sette molini in un raggio di dieci chilometri: due nella valle sotto Rigomagno, due nella zona del Calcione, uno a Modanella e

105 due intorno a Lucignano. Si procurò quattordici grossi sacchi su cui, a caratterri cubitali, scrisse “PC”, a significare “per carità” poi fece il giro dei molini. In ognuno lasciò un sacco con la preghiera che, ogni tanto, ci mettessero una manciata di farina per i fratelli poveri. Lui sarebbe passato un giorno fisso della settimana a ritirare il sacco pie- no ed a portarne uno vuoto. Non siamo in grado di dire come, né tanto meno il perché, la raccolta ebbe un esito tanto positivo, ma così fu: quando fra Mario passava il sacco era pieno ed essendo di una misura molto grande, tutti crede- vano che il frate non ce l’avrebbe fatta e che, dopo quella volta, non sarebbe più passato. Ma fra Mario non incontrava nessuna difficoltà e, preciso come una clessidra, il giorno addetto, acqua o vento, esta- te o inverno, passò e ripassò. Per la domenica si era lasciato “il giro” per il molino della Pieve di Lucignano, perché era diventato amico dei frati del vicino conven- to; così ne approfittava per partecipare alla Santa Messa e dopo per mangiare qualcosa alla loro mensa e fare due chiacchiere. Poi si ri- caricava il sacco sulle spalle e tornava a Rigomagno. Quando usciva dal convento però il contenuto del sacco non era esattamente quello con cui era entrato. Il fatto è che aveva fatto un accordo con i frati di Lucignano: ogni set- timana lui lasciava un sacco di farina al convento ed i frati, in cambio, gli davano pari volume di pezzi di pane secco avanzato. In realtà non avanzava niente, quello era semplicemente un modo per dare loro un po’ di farina, di cui avevano bisogno ed essi, attraverso questue pres- so i fornai e le famiglie ricche, lo rifornivano di una materia prima importante per la preparazione del suo “piatto tipico”. Grazie alla curiosità di fra Celso, il quale chiese di poter partecipare ai corsi di cucina di fra Mario, per fini puramente scientifici, come ebbe a rimarcare, possiamo narrarne lo svolgimento. Fra Mario rivolto alle donne partecipanti (gli uomini non partecipa- vano perché ritenevano di non... come dire? Non si sentivano “por- tati” per l’arte culinaria... almeno in questa prima fase): «Donne, dovete impastare la farina con la bona acqua di questi posti, mi raccomando, non ci mettete altro. Quando l’impasto è bello con- sistente, ne prendete una piccola parte e la affusolate in modo unifor-

106 me fino a farla diventare una cordicella. Poi fate un’altra cordicella, e poi un’altra, e così via fino a terminare tutto l’impasto. Poi, mettete tutte le cordicelle ad asciugare per almeno un’oretta. Tanto che c’avete da fa’? Poi prendete il pane secco – mi raccomando, questo pane secco che vi porto io, perché questo è un pane secco che viene fatto apposta per voi dai frati di Lucignano, con un segreto che nessuno conosce... e che io ’nun ve posso di’. Se vi dovessero porta’ un altro pane, che sò, fosse anche di Francia, voi dite: no! Capito? Sbriciolatelo ben, bene, e gettatelo nella padella calda – senza niente! Aoh! Te laggiù in fondo, bella fata, hai capito? Non ci dovete mette’ niente altro!» Inutile dire, come ebbe a prendere nota fra Celso, che fra Mario esal- tava gli ingredienti che portava, e si raccomandava di non aggiun- gere altro, perché, anche volendo, non c’era assolutamente altro da aggiungere. E le apprendiste cuoche, che se ne rendessero conto o meno, la presero effettivamente come una regola sulla quale non si doveva transigere. «Nel frattempo avrete messo la pentola al foco e fatto bolli’ l’acqua. Qui, vi dirò, un pochetto di sale nun ce sta male, ma se po’ fa’ anche senza. E tornamo alla padella... Vedete donne? Quando che le briciole di pane si sono ben dorate, vuol dire che sono croccanti al punto giusto, allora scolate la pasta e gettatela nella padella. Siccome la pasta è speciale, l’acqua è speciale e le briciole – di pane speciale – sono croccanti, saporite e... speciali, si attaccheranno che è un piacere... Li vostri mariti mangeranno con appetito e vi daranno anche un ba- cetto». «Scusa fra Mario – disse una giovane fanciulla – come si chiama que- sto piatto?» «Questo ’nun se chiama, se magna. Se cominci a chiama’ vengheno tutti e a te nun te rimane gnente!» «Ma io intendevo...»

107 108 «Lo so! Stavo a scherza’. È scritto nel sacco, nun sai legge?» «Veramente, no...» rispose la ragazza arrossendo un po’. «Allora te lo dio io figlia bella, vedi? Sul sacco c’è scritto “p c”». E così nacquero i Pici con le briciole. Come spesso succede la storia è fatta di cose semplici, sono poi gli uomini a complicarla.

L’ospitalità, come si sarà capito, era buona, e l’ambiente non era da meno. Lungo il crinale della dorsale collinare, poco sopra al romi- torio, una via piuttosto stretta, a cui si collegavano tutti i “viotto- li” delle case sparse tra i boschi, collegava Rigomagno alla zona del Calcione. La strada aveva la curiosa caratteristica di cambiare nome “strada fecendo”; così, nello spazio di poche miglia, all’inizio era “la via di Rigomagno per il Mulino del Calcione”, subito dopo diventa- va “la via della pieve di S. Lucia”, poi si trasformava ne “la strada del Cavaglione”, quindi in “strada di Poggio al Vento”, infine in “la via che viene dal Mulino del Calcione”. Ma l’aspetto più bizzarro di questo turbine di nomi era il fatto che la strada non arrivava al Calcione (raggiungibile solo dalla valle ad est dei monti per la “strada detta di Lucignano o del Calcione”), ma al Mulino Alto. Da qui si poteva raggiungere il Mulino del Calcione se- guendo un piccolo e non agevole sentiero, che si trovava, non senza difficoltà, seguendo la gora che alimentava la pala ad acqua del -mo lino. La gora era collegata ad una piccola diga che regolava il flusso dell’acqua per tutti e due i molini della zona. Più o meno a metà strada, nella parte più alta della collina, sulla de- stra venendo da Rigomagno, a ridosso del bosco, era ubicata una pic- cola pieve, della quale si conosce ben poco se non che le sue origini si perdono, come si usa dire, nella notte dei tempi, anche se alcuni indizi farebbero supporre un’origine franca. La prima notizia certa riguardante la chiesa, infatti, è quell’atto di donazione, di cui abbiamo già detto, con il quale Ermengarda, ve- dova del conte Ranieri ii, dona al Capitolo di Arezzo la chiesetta. La dinastia era francese e, visti gli usi dei tempi, non è improbabi- le che fosse stata la stessa famiglia a commissionarne la costruzione (della quale purtroppo non sappiamo niente), ed a scegliere i santi a

109 cui intitolarla. A partire dalla fine del xiv secolo la pieve verrà iden- tificata come chiesa di Santa Lucia, ma, prima di allora, era la pieve dei santi Niccolò e Martino: il primo nativo della Borgogna, il se- condo era il vescovo di Tours.

Nei pressi dell’antica pieve, per un buon tratto, la collina era, ed è anche oggi, pressoché pianeggiante. Quando il tempo è bello da qui si può godere di una vista senza pari. Dopo un’estate piovosa, quell’autunno del 1292 era tra i più miti e limpidi che si ricordassero. Non che facesse molta differenza per fra Dionisio il quale, quando aveva bisogno di pensare non badava al tempo o al luogo. A chi gliene domandava il motivo rispondeva che, probabilmente, il suo organismo aveva bisogno di un ambiente aper- to, con molto ossigeno a disposizione, per rifornire il cervello sotto sforzo. Ma diceva anche: «noi uomini costruiamo le chiese e poi le doniamo al Signore dicendogli: “Ecco Signore, questa è la tua casa”; Lui la accetta e la abita perché è buono e non vuole darci dispiace- ri, ma quando può esce di casa per andare a passeggiare nei boschi». La verità quindi era che fra Dionisio, quando doveva pensare sul se- rio, aveva bisogno di sentire accanto il Signore, ecco perché se ne an- dava nei boschi. Si rendeva però conto che la sua era una forma cro- nica di egoismo – cercare un luogo lontano, nel quale non ci fosse anima viva, per stare solo con Dio, era egoismo bello e buono – ma non ci poteva fare niente. D’altra parte lui sosteneva che il Creatore lo sapeva benissimo come era fatto, lo aveva fatto lui. Se non gli fosse stato bene lo avrebbe po- tuto far nascere con un altro carattere. In ogni caso, dicevamo, acqua o vento che fosse, fra Dionisio, quan- do doveva pensare, o anche semplicemente riflettere su argomenti diversi, se ne andava per boschi e per valli e ci rimaneva fino a che non aveva risolto il problema. Naturalmente quando tutto era bello e tranquillo gli riusciva meglio e più in fretta. E quella volta ci mise meno del solito a raccogliere le idee, tanto che sorprese anche fra Celso il quale, avendo calcolato un certo numero di giorni di “ritiro”, si era preparato un programma di lavoro intenso e molto proficuo, sia per il corpo che per lo spirito.

110 Ridotto ad una fin troppo arida scaletta riassuntiva, il programma prevedeva alcune attività che dovevano essere alternate: in modo ca- suale, secondo chi lo avesse visto all’opera senza conoscerlo a fondo; invece, con rigoroso metodo scientifico, secondo lui. Concettualmente l’idea era quella di fondere la ricerca dei frutti della terra con la meditazione ed il colloquio con la Provvidenza, la qua- le, nella sua infinita bontà, non avrebbe esitato a rivelare l’ubicazio- ne dei frutti cercati, consentendo così una raccolta rapida di funghi, tartufi, corbezzoli, bacche e quant’altro, con evidente risparmio di tempo ed energie. Non possiamo non riconoscere che l’idea, nel suo enunciato teori- co, era di una semplicità disarmante: lo era, però, un po’ meno nella pratica, in particolare per quanto atteneva alla parte interpretativa del colloquio con la Santa Provvidenza che, ai più, risultava alquanto im- perscrutabile, silenziosa e, soprattutto, non facile da tradurre in pra- tica. Questo, ovviamente, non valeva per fra Celso il quale, dopo un rapidissimo colloquio con la Provvidenza, non andava a cercare fun- ghi, li andava a raccogliere. Così come veniva a conoscenza del luogo esatto (al millimetro, non grosso modo) dove si celavano i tartufi e tutte le altre prelibatezze che, di norma, stanno sotto terra. Detto questo bisogna chiarire che il tempo risparmiato non doveva però essere sprecato nell’ozio, sul quale peraltro fra Celso non era di- sposto a transigere in quanto riteneva che l’ozio dovesse essere pre- parato, perché, diceva: «Un ozio deve essere goduto, se non te lo godi, tanto vale che lavori!» Tutti i minuti risparmiati dovevano essere utilizzati – e nel modo migliore – per il lavoro di trasformazione di quanto la natura e la Provvidenza avevano regalato. E di lavoro da fare ce n’era molto, per chiudere il cerchio in modo perfetto. C’era da pulire, pelare, sbuc- ciare, bollire, tagliare... senza perdere tempo, altrimenti: addio fre- schezza, addio qualità. Quando è tempo di lavorare, si lavora, o come diceva spesso il buon Celso: «Il lavoro, in quanto tale, deve rispondere a caratteristiche precise: ha da essere continuo, massacrante e, possibilmente, scomodo!» Mentre, come dicevamo, per quanto riguarda nello specifico l’ozio,

111 sosteneva che dovesse essere preparato e seguito, in modo ancora più meticoloso del lavoro: «Non puoi iniziare un ozio – fu sentito dire una volta – senza prima aver fatto la pipì! Che ozio è se dopo un po’ ti devi alzare per farla?»

Fra Celso aveva calcolato che in un paio di settimane avrebbe po- tuto preparare un buon numero di cose buone per la povera gente di Rigomagno, ma ora fra Dionisio sembrava intralciare i suoi pia- ni. Lo vide che si stava dirigendo con passo spedito verso valle. Gli era passato accanto senza fargli neppure un cenno di saluto, come se non lo avesse visto. E prima che si riavesse dallo stupore, il suo compagno, lasciato il sentiero e preso per il bosco, era scomparso tra gli alberi. Un attimo dopo il buon Celso lo inseguiva trotterellando, tenendo in alto il mestolo gocciolante con il quale stava girando una gustosis- sima marmellata di corbezzoli, a fuoco lento, in un grosso paiolo di rame. Il lettore si domanderà “ma dove diavolo (con tutto il rispetto per il fraticello, ovviamente), aveva trovato lo zucchero?” In effetti non lo aveva trovato, ma aveva “raccolto” una radice dalla quale aveva estratto il glucosio, che come il lettore sa perfettamente, è il componente base dello zucchero! Visto che c’era, il nostro fraticello, dal mosto zuccherino prodotto, aveva estratto, per distillazione, un po’ di alcol etilico per uso medi- cinale. Il processo però non deve essere stato quello giusto, perché, dopo pochi giorni, una buona metà di quanto aveva ricavato dalla distillazione, per cause inspiegabili, era come svapato, svapito, svapo- rito..., insomma, detto in termini terra, terra: non c’era più! Dice che sono cose che succedono. Chiusa la parentesi. Celso raggiunse fra Dionisio alla fine del bosco, dove iniziava il pia- noro sulla cui destra sorgeva (...un tempo) Rigomagno. «Fai uscire tutta le gente dalle tane e radunala sul Colle degli ulivi, lassù in cima!» Fra Celso prese a camminare verso i ruderi. Ora il mestolo lo teneva basso, orizzontale, quasi fosse un bastone di comando. Quando fu a metà strada lo raggiunse di nuovo la voce di fra Dioniso, ora molto lontana: «...per piacere!»

112 Si fermò, rimase un attimo immobile e poi, senza voltarsi, riprese il cammino. Radunare la gente e convincerla a seguirlo, fu più facile che portare un gregge di pecore al pascolo. Solo lungo il viaggio, mentre il gruppo procedeva serpeggiando tra gli olivi, si rese conto di quanto fosse stata brutta, perché sconforte- volmente vera, la similitudine con le pecore. Tentò più volte di dire qualcosa, ma ogni volta che apriva bocca la doveva subito richiudere perché gli si seccava la gola. Un po’ per il disagio, un po’ per la grande quantità di sterpi tra un oli- vo e l’altro, la salita era stata alquanto pesante e Celso provò un certo sollievo quando arrivati in cima, una leggera brezza, proveniente dalla valle sottostante, gli accarezzò la faccia. Cercò in giro fra Dionisio, ma non lo vide. C’erano solo olivi, un mare leggermente mosso di olivi, con il profilo di una terra lontana, laggiù in fondo verso il Trasimeno. «Da questa parte, venite gente... Celso, dirigili verso me!» Era fra Dionisio che li stava chiamando. Gambe divaricate, braccia alzate; la mano destra aperta con il palmo rivolto verso di loro, la si- nistra stretta intorno ad un nodoso e un po’ inquietante bastone, il mantello al vento. «Ohì, sembra Mosè che divide le acque!» Disse fra Celso a bassa voce. Poi cominciò a camminare verso destra alla ricerca di un posto un po’ più elevato, che gli permettesse di gode- re della scena e, visto che c’era, di un tronco di olivo con l’inclinazione giusta per appoggiarsi. Li trovò entrambi e si accomodò. Il colpo d’oc- chio era eccezionale. Fra Dionisio si era riservato uno spazio di venti, forse trenta metri completamente liberi. Alle sue spalle la grande vallata, appena offuscata da una leggera fo- schia, si presentava come un tenue acquerello monocromatico. Le fronde degli olivi, mosse da un venticello leggero, formavano una delicatissima macchia. Un appiattimento generale dal quale schiz- zava fuori, con forza ed eleganza, la figura in bianco-nero del frate. L’atteggiamento era imperioso, ma le ampie e lentissime onde che il mantello nero formava, mitigava il tutto dando all’insieme un rassi- curante e rilassantissimo senso di pace. Ad una certa distanza, certamente non superiore ai dieci, quindi-

113 ci metri, da quella sorta di palcoscenico, che nessuna transenna, o indicazione aveva fissato, si era andato a posizionare il pubblico. Il terreno in quel punto prendeva a salire e formava una sorta di arco... sembrava un anfiteatro greco! Fra Celso stava per fare un fischio di ammirazione, ma riuscì a control- larsi e se ne uscì solamente, poco più che sottovoce, con un pacato: «E mica si frigge coll’acqua! Come dicono da queste parti...» La predica di fra Dionisio fu una delle cose più belle a cui fra Celso avesse mai avuto la fortuna di assistere. La gente piangeva o rideva apparentemente senza motivo. Era evidente che non tutto ciò che fra Dionisio diceva era capito da tutti e allo stesso modo. Ognuno capiva quelle parti che erano state “scritte” apposta per lui: parole, punteggiatura e gesti. Si racconta che quando fra Dionisio imboccò la via di Siena, seguito a ruota da fra Celso, tutti trovarono qualcosa da fare. Un gruppo comin- ciò a ripulire l’oliveto che lo stato di depressione generale aveva ridotto ad un immenso sterpaio, altri si dedicarono alle strade, altri ai fossi e così via. Quella che prima appariva come una comunità di vecchi e di ammalati, ora sembrava giovanissima ed in perfetta forma. Qualcuno cominciò a delimitare il posto dove fra Dionisio li aveva esortati a riprendere la vita con gioia e con brio: «Io so benissimo che, ognuno di voi, se potesse, se non fosse timorato di Dio, vorrebbe farla finita con questa vita... altro che riprenderla con gioia o, addirittura, con “brio”! Perché so benissimo che non c’è di che gioire! Ma so anche che – tutti insieme e aiutandoci l’un l’altro – potremo ritro- vare la gioia di vivere e lo spirito battagliero e dinamico di un tempo. Sono sicuro che ritroveremo il brio necessario... anzi sono sicuro che ritroveremo un “brione”! E poi ritroveremo anche la gioia... Come dicevano i nostri vecchi “faremo coppiola”!»

Nessuno sa dire se il fatto si svolse veramente in questo modo, ma in quel luogo, in una data che sfugge alle cronache, fu eretta una pic- cola edicola che il tempo trasformò in chiesetta. Negli atti ufficiali sarà successivamente indicata come “Maestà delle Coppiole”, men-

114 tre dal popolo sarà conosciuta, per secoli, col nomignolo di “Cap- pella del Brione”. I più giovani tra i partecipanti a quella memorabile giornata, furono i più “tartassati” dalle incitazioni di fra Dionisio, i più galvanizzati dagli scenari immaginati, i più stimolati a reagire con tutte le forze. Alla fine i più ottimisti si ritrovarono sulle spalle il peso di chi, una volta tracciata la via, verso un grande, fertilissimo terreno, deve tirarsi appresso tutti coloro i quali, ricevuto in dono un piccolo orticello, ci restano seduti tutto il giorno per paura di perderlo. Qualcuno allora obiettò: «Ma come si fa a pensare ad una nuova strada, quando il castello di Rigomagno è in queste condizioni?...» «Quel Rigomagno appartiene al passato – rispose fra Dionisio. Anzi, facciamo una cosa, così non ci si pensa più: Quello che voi chiamate Rigomagno non esiste. Quei ruderi laggiù, d’ora in poi, li chiameremo “Castelvecchio”!» E quando allora qualcuno, piagnucolando, disse: «Ma se la Repubblica ci abbandona?» Fra Dionisio tuonò: «Vorrà dire che si farà Repubblica per conto nostro!»

115

Capitolo 6

La costruzione di Rigomagno con annessi e connessi

I due fraticelli giunsero a Siena con la ferma intenzione di dare uno scossone alle Istituzioni. Nella Repubblica, ora in mano ai guelfi, una gran quantità di associazioni, corporazioni, con- trade, terzieri e comitati vari, erano chiamati a partecipare e ad esprimersi alle assemblee di ogni genere, in una sorta di governo allargato. Una grande democrazia popolare, anche se poi, a ben vedere, il potere era esercitato da pochissime persone. In teoria quindi sarebbe bastato “sbattere nel muro” (azione figurata con la quale si intende far capire qualcosa a qualcuno che non la vuole ca- pire affatto), per ottenere quelle due o tre cose che i nostri eroi an- davano cercando. Ma in effetti i due religiosi, a dispetto dell’abito che indossavano (o forse proprio in virtù di questo), andarono a Siena con l’intenzione di alzare un gran polverone e mettere paura a tanta gente, nella spe- ranza di far capire la differenza tra il bene e il male. A dire il vero erano abbastanza navigati per non sapere che l’essere umano è facile da impaurire, ma è anche di memoria estremamente corta, per cui erano coscienti del fatto che tutti sarebbero stati di nuovo felici e contenti in capo a pochi giorni. Quindi la decisione di calca- re la mano era solo per far ricordare un po’ più a lungo il male fatto, nella speranza che a qualcuno nel frattempo restasse attaccata un po’ di bontà; anche se, per dirla tutta, il motivo principale era quello di approfittare del timore collettivo per ottenere qualche piccolo vantag- gio per chi aveva sofferto a lungo senza averne colpa. Naturalmente questo senza infierire e senza provocare danni irreversibili. 117 I due frati, attraverso le loro conoscenze, dirette e indirette, che for- se potremmo definire in modo più appropriato “canali privilegiati”, fecero arrivare alla popolazione quelle parti del loro curriculum vitae, per così dire, “più interessanti”. Non avevano certo bisogno di in- ventare niente e, di certo, non lo fecero, ma qualche piccola enfatiz- zazione, probabilmente, ci fu. D’altra parte, come ebbe a dire suc- cessivamente, in proposito, fra Celso ad una sorta di cronista del- l’epoca: «la comunicazione per essere efficace “abbisogna” di qualche piccola licenza». In breve, nel giro di qualche giorno, con un passa parola studiato nei minimi particolari, tutta Siena venne a sapere ciò che loro volevano sapesse. Poi lasciarono cuocere tutti nel proprio brodo, per il tempo che reputarono necessario, senza intervenire. Nei giorni precedenti si erano fatti vedere, per poco tempo ed in al- cuni punti strategicamente studiati, poi erano spariti. I loro canali di comunicazione si erano spenti, ma alcune voci, di provenienza igno- ta e praticamente incontrollabili, ad un certo punto presero a sten- dere veli sempre più cupi sulla città, provocando una spasmodica ed inquietante attesa tra la gente. Quando, dopo alcuni giorni di questa situazione, giunse, per rigoro- sa via gerarchica, l’ossequiosa richiesta di poter parlare al Consiglio Generale della Repubblica, da parte di un rispettosissimo “fra Dioni- sio da Rigomagno”, calò un silenzio: un silenzio di piombo. Nessuno ebbe il coraggio di aprire bocca, neppure chi avrebbe dovuto farlo, se non altro per dire ai banditori che avvisassero i cittadini della convo- cazione immediata del Consiglio straordinario. Tuttavia, malgrado il silenzio generale, lo vennero a sapere tutti per- ché quel giorno tutta Siena era in piazza del Campo: e non perché si correva il Palio. All’interno del Palazzo Pubblico non c’era un posto libero. Il corti- le era pieno all’inverosimile, e così anche le scale ed i corridoi. I più fortunati erano in quella Sala del Mappamondo, di cui abbiamo det- to all’inizio, in merito alle vicende di costruzione e di abbellimento, e di cui il lettore avrà sicuramente ricordo, così come non avrà certo dimenticato l’intervento di fra Dionisio. In quel frangente non dicemmo di fra Celso, perché lo dovevamo ancora

118 presentare e “scenicamente” non era il momento. Ora però possiamo dire che fra Celso, anche se non interpretava un ruolo di primissimo piano c’era: lui era, per così dire, addetto agli “effetti speciali”. Ricordate la finestra che si aprì al momento giusto?... Ecco! Riteniamo di non dover dire altro in proposito per non alimentare pettegolezzi che potrebbero gettare discredito su chi non se lo me- rita. Diremo invece, più proficuamente, dei risultati dell’intervento di fra Dionisio, sulla cui durata però abbiamo qualche difficoltà di quantificazione. L’unico modo per uscirne fuori, ma non siamo sicuri sulla sua effica- cia, è quello di citare ad esempio ciò che Einstein disse per tentare di spiegare la sua teoria della “Relatività” in un ambiente non precisa- mente addentro alle problematiche scientifiche. Il grande scienziato, appunto, sembra abbia detto: «Gente, io vi dico che un minuto passato comodamente seduti in poltrona, con in mano un bicchiere di vinsanto ed avendo a portata di mano un vassoio di ciambellini, non è lo stesso tempo di un mi- nuto passato a sedere sul piano di una stufa accesa!» Il grande genio intendeva dire che è tutto “relativo”, da cui, appun- to, il nome... Sicuramente, ora che abbiamo spiegato l’enunciato, tutti quanti di- ranno: «Bella scoperta! E ci voleva un “genio” per scoprirlo?» Evidentemente sì! Se così non fosse, lo avrebbe scoperto un “rompi- scatole” qualunque secoli prima.

119 Mulino del Calcione

Mulino Alto

Foenna Poggiolunghino Poggiolungo

Borro delle Bandite Borro delle Lame S Borro T R del Salcio Borro delle Poggio al Vento A Bandite Vecchie D A

D Borro I

P delle Tracce O G G I Borro STRADA DI MODANELLA O AL V delle Regaie Vertege ENTO Gagnoni Altolupaio Cavaglione di Sopra

Casina di il Fossatone Gagnoni Cavaglione di Sotto Borro delle Rocchette Chiesa di S. Lucia Casella di Bassolupaio Montefregoli

Capanne Martinello Borro delle Fate Mulinello

Giustina Borro del Castello E CAVAGLION Cannello Vertege E A Borro della Corgnoleta I La Balorda C

U L .

S

CASTELVECCHIO I

D Le Cave

Borro A I

di Sesoli V Casa Micheli Casina Elci Masserizia VIA DI LUCIGNANOColombaiolo

Vitarete Le Banche Borro della Castagneta Borro di Sesoli Casalta Fosso della Doccia STRADA DI MODANELLAMaglioli Cugnale

Caprioli Borro Gamberoni della Piaggia Mont’Albano Cappella di sopra Borro del Brione della Fornace Casina Il Pino Gamberoni S.Martino di sotto La Viena Casina della Cieca STRADA DI SIENAFoenna Carrarete Veligna Fornace Vertege STRADA DI SIENA Mulino Borro de delle Folci Gamberoni gorello delle Folci Foenna EX VIA CASSIA

VIA DI LUCIGNANO Baraccone gorello di Palazzuolo OSTERIA VIA DI ASINALUNGA Borro Le Vallesi Borro 120 Borro degli Ori della Spinaja della Costarella Mulino dei Palazzuolo

Foenna Mulino del Calcione

Il territorio di Rigomagno nel secolo immediatamente successivo alla ricostruzione sul Colle degli ulivi.

Mulino Alto

Foenna Poggiolunghino Poggiolungo

Borro delle Bandite Borro delle Lame S Borro T R del Salcio Borro delle Poggio al Vento A Bandite Vecchie D A

D Borro I

P delle Tracce O G G I Borro STRADA DI MODANELLA O AL V delle Regaie Vertege ENTO Gagnoni Altolupaio Cavaglione di Sopra

Casina di il Fossatone Gagnoni Cavaglione di Sotto Borro delle Rocchette Chiesa di S. Lucia Casella di Bassolupaio Montefregoli

Capanne Martinello Borro delle Fate Mulinello

Giustina Borro del Castello E CAVAGLION Cannello Vertege E A Borro della Corgnoleta I La Balorda C

U L .

S

CASTELVECCHIO I

D Le Cave

Borro A I di Sesoli V Casa Micheli Casina Elci Masserizia VIA DI LUCIGNANOColombaiolo

Vitarete Le Banche Borro della Castagneta Borro di Sesoli Casalta Fosso della Doccia STRADA DI MODANELLAMaglioli Cugnale

Caprioli Borro Gamberoni della Piaggia Mont’Albano Cappella di sopra Borro del Brione della Fornace Casina Il Pino Gamberoni S.Martino di sotto La Viena Casina della Cieca STRADA DI SIENAFoenna Carrarete Veligna Fornace Vertege STRADA DI SIENA Mulino Borro de delle Folci Gamberoni gorello delle Folci Foenna EX VIA CASSIA

VIA DI LUCIGNANO Baraccone gorello di Palazzuolo OSTERIA VIA DI ASINALUNGA Borro Le Vallesi Borro Borro degli Ori 121 della Spinaja della Costarella Mulino dei Palazzuolo

Foenna In ogni caso, prescindendo dalla durata dell’intervento, il risultato fu che nello stesso giorno il Consiglio della Repubblica, non solo appro- vò in via definitiva la costruzioneex-novo del castello di Rigomagno, ma anche tutti i dettagli ed i regolamenti accessori: affidamento del- l’incarico di progetto; scelta dei quadri di comando e di controllo; reperimento e stanziamento delle somme necessarie per il pagamen- to dei salari e dei materiali da costruzione; individuazione del luogo ed infine un regolamento di legge che prevedesse sgravi fiscali per la popolazione. «Si costruisca bene et bellu – fu detto e scritto – per lo decoro della Repubblica, sul Monte Oliveto il castrum de Rigomagno. Per gli Homini che lo andronno ad abitare: – Immunitatem et indulgentiam 5 annorum; – Nissuna cabella per panis et vini ne datiorum et taxturum.» Siena A.D. 3 decembris 1291 Che sarebbe come dire: quando le cose si vogliono fare, si fanno; se poi, dietro, c’è qualcuno che spinge, si fanno anche più alla svelta. È da notare come nel documento si scriva di “costruire” il castrum di Rigomagno e non di “ricostruire”, come sarebbe stato più logico, più rapido e molto meno dispendioso. Evidentemente una scelta tanto impegnativa, non poteva essere stata decisa in una mezza giornata, se qualcun’altro non l’avesse studiata in precedenza, per giorni, se non per settimane, in ogni più piccolo dettaglio e variante. Per chiudere l’argomento, come semplice nota di curiosità e non per tessere lodi o per cercare di trarne chissà quale morale, occorre dire che un’operazione come quella fatta per la gente di Rigomagno la Repubblica di Siena non la fece, né la farà mai più, per nessun altro.

Nello stesso mese di dicembre furono effettuate le prime ricogni- zioni sul Colle degli ulivi. L’incarico della progettazione e della conduzione dei lavori fu affidato agli ingegneri militari. Anche gli operai specializzati e i mastri carpentieri provenivano dall’esercito. La scelta del completo ambito militare, fatta eccezione per la ma- novalanza reclutata in loco, fu ritenuta la più idonea per un lavoro che tutti sapevano molto impegnativo, e che, dovendo essere fatto

122 nel più breve tempo possibile, non si poteva perdere tempo a gestire i contrattempi, che una gestione non rigida, come quella militare, avrebbe inevitabilmente avuto. Non si hanno resoconti dettagliati dei lavori. La sensazione è quella di trovarci di fronte ad una sorta di emergenza, per gestire la quale era stata concessa la più ampia libertà di manovra. Non si conosce, quindi, il numero di quanti lavorarono all’impresa, così come non si conosce il totale della spesa. Non si conosce neppure il progetto, che sicuramente fu fatto in una forma, per così dire, aperta ed elastica, che permetteva cioè di assorbire eventuali modifiche “strada facendo” senza provocare “inciampi” o danni sostanziali. Se si fosse atteso il progetto definitivo e dettagliato per iniziare i la- vori, l’intera opera non sarebbe stata terminata nell’anno successivo, così come richiesto dalla Repubblica in modo tanto esplicito. Alla fine di dicembre buona parte del colle non aveva più quegli “ulivi” di cui si fregiava nel nome. Nella parte alta erano iniziati i lavori di livellatura e, tutto intorno, si lavorava per costruire i cantieri. Alla gente del posto era stato concesso appena il tempo di raccogliere le ultime olive e di salvare quelle poche verdure piantate sotto le grotte al riparo dalla tramontana. Non sappiamo quando iniziarono i lavori di costruzione. Non sap- piamo neppure di inaugurazioni, messe solenni, processioni, o altre esternazioni che in qualche modo ci avrebbero potuto far intuire lo stato dei lavori del nuovo castello; tuttavia si sa per certo che, sul fi- nire dell’autunno del 1292, molta gente di Rigomagno abitava in una casa nuova. Tre anni dopo dovevano essere stati ultimati tutti gli elementi acces- sori, di decoro e di sicurezza, perché le strade principali risultano la- stricate; tutto intorno alle mura è pulito per più di 20 passi, tutte e tre le porte, infine, si aprono e si chiudono con regolare normalità. Sappiamo che per il materiale da costruzione di rifinitura, furono utilizzate le fabbriche di laterizi della zona di , per la calce le fornaci di Collalto e per la rena il torrente Foenna. Per quanto riguarda il pietrame, largamente usato, per buona parte fu utilizzato il versante ovest della stessa collina, con il duplice vantag- gio di avere il materiale a portata di mano e di creare, con lo scavo,

123 una ripida scarpata a difesa di un lungo tratto di mura. Altre pietre furono raccolte e “cavate” dai monti vicini. Altre ancora recuperate dai ruderi di Castelvecchio. La planimetria del nuovo castello ricordava molto quella di un ac- campamento militare. Il progetto, infatti, seguiva i criteri più classici che gli ingegneri romani applicavano, indifferentemente nella costru- zione degli accampamenti e delle città. La regola, in breve, prevedeva la costruzione di due strade principali: il cardo, secondo la direttrice nord-sud, ed il decumano, sulla direttrice est-ovest. Successivamente si tracciavano le altre strade, in modo parallelo, a quelle principali. Nel punto di incontro del cardo con il decumano veniva lasciato uno spazio libero, normalmente a forma rettangolare, che sarebbe poi di- ventato il Foro: cioè il luogo adibito ad incontro per tutta la comu- nità, senza il quale la città, o l’accampamento non raggiungevano la completezza. Per praticità di esposizione useremo queste due direttrici come se fos- sero centrate nei rispettivi punti cardinali. Definiremo cioè il cardo, la via centrale, che va da una porta all’altra, come se fosse orientata da sud a nord, anche se, in effetti, facendo centro sulla piazza, l’insieme risulta ruotato di 33˚ verso ovest. Ovviamente l’esempio vale anche per il decumano. Anche la strada di accesso al nuovo borgo fu costruita su un proget- to nuovo: il colle non presentava vecchi tracciati e così non si per- se tempo nel riadattare curve e pendenze. La strada per Rigomagno prendeva inizio dalla via che da Siena portava a Lucignano, ultimo castello senese sul confine con il territorio fiorentino, nel punto in cui superava il valico tra il massiccio collinare del Calcione e la colli- na su cui sorgeva il nuovo abitato: più o meno nei pressi dell’ormai vecchio sentiero per Castelvecchio.

124 La strada saliva diritta, in leggera salita, verso la sommità del Colle degli ulivi. L’impatto era fortemente scenico. Già dall’incrocio si ve- deva un torrione al centro di mura che si perdevano nella rotondità del monte. Nella prospettiva dal basso l’insieme somigliava più ad un grosso monumento piuttosto che ad un borgo fortificato. Mano a mano che ci si avvicinava però, la scena assumeva caratteri più precisi e molto più forti: la torre sembrava elevarsi e, dopo un po’, mostrava di essere una porta; mentre le mura, che ora lasciava- no vedere una merlatura guelfa, erano lisce e molto più massicce di quanto non sembrassero da lontano. La porta, non si sa per quale motivo, era detta “Maestra”. Sulla cinta muraria si aprivano altre due porte: Porta a Sole, dirim- pettaia della Porta Maestra, nel versante sud; e Porta Senese, nella propaggine ad ovest in direzione, appunto, di Siena. Le due porte sul cardo: Porta Maestra e Porta a Sole, furono costrui- te con lo stesso criterio e si presentavano perciò in forma, per così dire, speculare. La terza porta invece, avendo come corrispondente, sul lato opposto, una torre circolare, fu costruita con un criterio più scenografico che pratico: un arco ribassato molto ampio, sormonta- to da un torrione con uno sviluppo orizzontale accentuato, una torre

125 cilindrica a sinistra ed una quadrata a destra, collegate alla porta da mura diritte, essenziali, con una merlatura di tipo guelfo. Breve nota per trarre dall’imbarazzo quelle due o tre persone che non conosco il problema: – Nella merlatura guelfa il merlo, cioè l’elemen- to architettonico che si alza dalle mura, ha il lato superiore piano; mentre in quello ghibellino è a coda di rondine. Qualcuno avrà da obiettare che quelle due o tre persone erano vissute bene finora... e quindi non c’era tutto questo bisogno di erudizione. Vero: ma ormai il danno è fatto. Tornando, più concretamente, alla Porta Senese, potremmo dire che il risultato era: Porta Pispini in miniatura [Nota per gli stranieri: Porta Pispini è la porta di Siena posta sul versante che dà verso la Valdichia- na]. Il richiamo a Siena era ancora più evidente se si guardava l’in- sieme da una certa distanza. Dalla porta aperta si vedeva una strada lastricata che tendeva a sparire verso l’alto (perché in leggera salita), mentre da sopra il bastione spuntava una torre in lontananza: non era proprio la torre del Mangia, ma un po’ di somiglianza ce l’aveva. Le tre porte, pur costruite seguendo un serio studio architettonico, pro- babilmente non furono progettate per un utilizzo viario programma- to. La costruzione di una strada che uscisse dalla porta a sud, infatti, presentava grossi problemi dovuti ad una notevole variazione di livello in poche centinaia di metri, oltretutto per andare diritti verso l’inizio della palude della Chiana: l’idea non aveva molto di razionale. Per la strada della porta ad ovest, poi, il dislivello era più o meno lo stesso, per una distanza lineare ancora più breve. Così è logico pensare che forse, oltre ad un normale uso di servizio, furono costruite solo perché è sempre bene pensare un po’ più in grande del necessario, secondo il concetto “domani potrebbero far comodo”. L’intera progettazione rispondeva a criteri lineari e di assoluta sempli- cità. Le strutture di pubblico utilizzo (magazzini, cantine, oliviere), erano dislocate nei punti più facilmente controllabili. Nelle zone più sicure si trovavano il forno, l’ospedale e la scuola. Ampie zone erano

126 127 adibite alle coltivazioni di emergenza nelle quali si cercava di far cre- scere di tutto. In caso di assedio, non era di salute uscire dalle mura ed allora si tirava avanti a minestre fatte con gli ingredienti coltivati negli orti comuni, all’interno del castello. Per un gioco molto ben studiato di terrapieni, il livello del terreno all’interno del castello era tale da consentire l’accesso agli spalti senza gradini o scale, per un buon tratto della cinta muraria. Inoltre tutte le costruzioni si trovavano ad una distanza generalmente non inferiore ai dieci metri. Qualsiasi punto delle mura, in caso di assedio, poteva perciò essere percorso velocemente, senza incontrare ostacoli. A completamento delle opere di difesa, le mura erano rinforzate da tre torri circolari e quattro quadrangolari, oltre alle tre porte a torre. Nel punto di intersezione delle vie principali fu costruita “la Piazza”. Il termine “costruire” non è fuori luogo perché, essendo il luogo di incontro per definizione, occorreva prevedere che fosse munita delle strutture necessarie per tutte le esigenze. Doveva essere grande ab- bastanza per contenere tutta la gente nei casi di riunione generale; doveva avere uno spazio coperto dove poter discutere anche in caso di pioggia; e poi non dovevano mancare i luoghi di svago (osterie, taverne, ecc). Naturalmente non si poteva parlare di Piazza senza il Palazzo pubblico (il Comune), la chiesa ed il pozzo.

128 La Piazza di Rigomagno rivelò ben presto caratteristiche di adattabi- lità non comuni. Lunga e stretta e con un gruppo di alti edifici che la riparavano dai venti di tramontana, si prestava egregiamente agli intrattenimenti di lunga durata (cene, spettacoli, balli, ecc.), ed a quelli più complessi di ordine post-propiziatorio, a cui apparteneva la famosa Benfinita, una sorta di lunghissima cerimonia, durante la quale venivano richiesti sacrifici al limite della sopportabilità umana. Paesani e buon vicinato vi prendevano parte, con molto ardore e di buon grado, per il bene della comunità. Antiche ed incomprensibili litanie si alternavano a cori sguaiati (pro- babile ricordo di ancestrali formule propiziatorie), che si eseguivano scrupolosamente in piedi e con un bicchiere di vino in mano. Incom- prensibile il significato delle parole: “Brindisino, la-là, la-là, la-là! – Brindisino, la-là, la-là, la-là!” La cerimonia andava avanti fino a notte fonda in un crescendo di confusione, rotto spesso da spari di colubrina e fuochi pirici che fa- cevano sobbalzare nel letto la gente dei castelli vicini.

129 La Benfinita non aveva avuto origine a Rigomagno, ma fu sul “Colle degli Ulivi” che raggiunse la notorietà internazionale e gli apprezza- menti di tutti; tanto che l’usanza fu ben presto copiata da quelle co- munità che in un modo o in un altro ne erano venute a conoscenza, dando così inizio ad una pratica che da allora si perpetua per tutto ciò (o quasi) che viene inventato a Rigomagno. Francamente ne ignoriamo il motivo!

Ma la Piazza era anche il biglietto da visita che la comunità offriva al visitatore e quindi, accanto ad elementi utili per i cittadini, presen- tava edifici, spazi, immagini, o comunque particolari in genere, poco importanti per la vita pratica ma qualificanti per l’aspetto formale. L’ospite che entrava a Rigomagno dalla porta Maestra, per esempio, si trovava a dover percorrere una lunga e diritta strada in leggera salita, in fondo alla quale spiccava la sagoma scura della torre del Palazzo Preto- rio. A causa del repentino dislivello tra la piazza e la porta sud, la torre si stagliava contro il cielo, apparendo più scura di quanto non fosse.

130 Nell’ultimo tratto gli edifici, essendo tra i più alti, davano la sensazione di un restringimento della strada, così, non appena si faceva l’ingresso in piazza, lo spazio appariva più grande di quello che era. L’effetto che si presentava era di notevole suggestione. Di fronte al visitatore, il torrione della Porta a Sole e le mura di fianco si presen- tavano più in basso, fungendo praticamente da palcoscenico, per uno spettacolo in cui la parte di attore era affidata allo scenario di fondo: il panorama sulla Valdichiana. Facendo una panoramica verso destra, l’occhio del visitatore incon- trava per prima la cappella di Piazza; una struttura di proprietà della comunità ed utilizzata dai sui rappresentanti per le cerimonie di rin- graziamento per scampati pericoli collettivi: liberazioni da invasioni di locuste, da siccità, alluvioni, terremoti, epidemie e via dicendo. Era fatta a somiglianza di quella in piazza del Campo a Siena, ma con molto meno sfarzo. Niente marmi pregiati, solo pietre, matto- ni e qualche pezzo di travertino, fregato nottetempo dalle cave del- le . Aveva due lati aperti verso l’esterno con gran- di archi, chiusi solo da piccoli cancelletti. Un terzo arco divideva la cappella dalla loggia.

131 Subito accanto alla cappella si trovava, appunto, una loggia pubbli- ca. Era questa una specie di piazza coperta utilizzata per discussioni, incontri, ecc., quando le condizioni del tempo non permettevano di stare all’aperto. Era dotata di panchine di travertino e di sostegni per le torce per quando le discussioni andavano avanti oltre le ore del giorno. Proseguendo si incontrava la taverna e, subito dopo, la locanda. Quin- di iniziava la strada verso porta Senese. Sull’altro lato si affacciava la chiesa principale, con orientamento ovest-est. La struttura della chiesa era ad una sola navata, si presen- tava molto solida e con caratteri ancora più essenziali di quanto non fossero quelli in uso del romanico, dal quale prendeva spunti molto evidenti nella parte absidale. Il campanile era a vela, aveva una sola campana, ed era posto sul lato lungo dalla parte della piazza, con lo stesso orientamento. Il portale d’ingresso era sul lato ovest. A seguire c’era la canonica, posta su due piani e poi il Palazzo pre- torio, con torre munita di campana per gli avvisi di pericolo, per le convocazioni, per le feste e forse anche per comunicare quando era l’ora di andare a letto. Più o meno al centro di questo lato della piazza, c’era il Pozzo pubbli- co e poi la chiesa di san Marcellino. Sul lato destro della chiesa c’era il cimitero e di nuovo la strada verso la porta. Per quanto riguarda gli edifici di culto, dobbiamo premettere che, non abbiamo alcun genere di notizia circa la chiesa, o le chiese ubi- cate nel vecchio castello, ma ora, in occasione della costruzione di quello nuovo, appare molto probabile lo spostamento del Fonte battesimale e dei titoli dalle vecchie alle nuove chiese. Non abbia- mo però documenti in proposito, se non un indizio incrociato dal quale possiamo supporre lo spostamento del Fonte battesimale e del nome, dalla pieve dei santi Niccolò e Martino, lungo la via del Calcione, alla chiesa di fianco al Palazzo pretorio. In breve tempo, infatti, la chiesa all’interno del nuovo castello prese il nome di Pie- ve ed il titolo dei santi Niccolò e Martino, mentre la vecchia pieve diventò la chiesetta di Santa Lucia. All’interno delle mura trovava- no posto anche due monasteri di frati Agostiniani, ed un ospedale con ospizio gestito dai frati Riformati di Asinalunga.

132 Infine occorre segnalare, in un periodo immediatamente successivo, la presenza di un’altra chiesa, o comunque un edificio a carattere re- ligioso, nella zona a ridosso di Porta Senese. L’insieme della struttura urbanistica del nuovo borgo, quindi, somi- gliava più ad una piccola città che non ad un paese del contado. La popolazione, anche se non abbiamo i dati reali, era sicuramente ridotta a poche decine di unità. La sensazione è che si fosse progettato sovra stimando le esigenze; e forse non è solo una sensazione perché nei primi tempi è segnalato un forte flusso di immigrati. A tal proposito occorre rilevare, tra le diverse tipologie di immigrati, che un certo numero di soldati, probabilmente gli stessi che avevano lavorato alla costruzione di Rigomagno, “misero casa” nel nuovo ca- stello. Non si sa però se per libera scelta o per ordini ricevuti. È segnalata, infine, la presenza di famiglie della media borghesia provenienti da Siena, altre di braccianti provenienti dalla Valdi- chiana ed altra gente venuta da fuori, di norma non singoli indi- vidui dei quali, tuttavia, mancano notizie certe sulle motivazioni dell’immigrazione.

133 I lavori di costruzione del castello di Rigomagno erano praticamen- te finiti. Come ultimo atto (non ne siamo sicuri, ma se anche così non fosse, non siamo disposti a cambiare idea su un dettaglio che, in ogni caso, non modifica la sostanza della storia), venne dipinto, all’interno della cappella di Piazza, lo Stemma della comunità, detto anche Scudo, o Arme. Lo stemma era una necessità che si cominciava a sentire, non fosse altro perché uno “straccio” di sigillo con un fregio qualsiasi era indi- spensabile in un mondo che ricominciava ad usare i documenti e la scrittura. Rigomagno non aveva mai avuto né stemmi, né colori, al pari di molti altri piccoli e grandi castelli della zona. Non abbiamo alcun documento che lo provi, ma siamo certi che fra Dionisio da Rigomagno non fu del tutto estraneo alla sua ideazione. Prima di tutto perché ci fa piacere pensarlo e poi perché è il primo stemma, in un raggio di molti chilometri, riconducibile a quegli stes- si anni, che contiene segni chiaramente valutati, concreti, ponderati e con un minimo di complicazione o, come la potremmo definire modernamente, “ideazione grafica”. La scelta dei simboli denota una conoscenza precisa dei fatti e dei luoghi, che riconducono, inevitabilmente, a fra Dionisio. Lo scudo che avrebbe contenuto lo stemma fu scelto con la forma “alla francese” ed i colori decisi per identificare la comunità furono il rosso ed il bianco. Il colore rosso per tutta la parte di fondo dello scudo, a simboleg-

134 giare, pienamente e con forza: – Virtù spirituale, verecondia (ossia la virtù di chi rifugge da ciò che è moralmente sconveniente o che of- fende il pudore), amore ardente verso Dio, ma anche amore verso il prossimo e la giustizia. Per la parte figurata furono scelti cinque monti a ricordare le colline di Rigomagno. Tra i due monti più alti, punto ideale di unione tra il vecchio ed il nuovo castello, una croce bianca. Dai monti, due rametti di olivo, contrapposti, si ergono verso il cie- lo, in segno di pace e di ulteriore richiamo al tipico paesaggio oliva- to rigomagnese. Ai lati e sopra la croce, quattro candidi fiori di giglio, simbolo di san Domenico, fondatore dell’Ordine a cui apparteneva fra Dionisio, composti in modo da formare il proseguimento della croce stessa, come a voler allargare, con la bontà, il messaggio di fede. Sui fiori di giglio occorre fare una precisazione. Non avevano sicura- mente la forma alla francese, perché all’epoca non c’era alcun motivo di legame da sotto intendere. Non erano neppure di foggia fiorentina, perché Siena non lo avrebbe gradito (oltre al fatto che il primo a non gradire era proprio fra Dionisio). Erano solo, modesti, gigli bianchi di campo. Almeno così crediamo noi.

135 Nelle pareti interne della cappella, oltre allo stemma della comunità, era dipinto un ciclo di affreschi. Non ci sono documenti dai quali si possa capire il soggetto, ma è molto probabile che si trattasse di un ciclo riguardante la storia di Rigomagno in generale o, forse, le fasi della costruzione. Tra la fine del 1400 e gli inizi del ’500 fu effettuato un intervento di ridipintura parziale a cura di un grande artista della pittura senese, Giovanni Bazzi detto il Sodoma. Un evidente segno dell’alta consi- derazione che la comunità, o qualcuno per essa, aveva nei confronti della cappella di Piazza. Purtroppo non abbiamo notizie dei soggetti dipinti neppure in questo caso. Non sappiamo se il Sodoma si limi- tò a restaurare le vecchie figure o se ne fece di nuove; però abbiamo la conferma della persistenza, in una parete non meglio precisata, del primo stemma voluto da fra Dionisio. Con molta probabilità l’intervento di restauro degli affreschi fu ef- fettuato in conseguenza o nell’ambito di un riammodernamento più

136 ampio, che interessò anche l’esterno della cappella, e che era inizia- to, sicuramente, alcuni decenni prima, come sembrerebbe attestate la presenza di uno stemma della comunità, realizzato in pietra serena e datato 1432, che si trova inglobato nella costruzione, sopra l’arcata rivolta verso la piazza. Non sappiamo se per motivi di praticità, per chiarezza, o per sempli- ce iniziativa dello scalpellino, lo stemma araldico fu drasticamente “potato” di foglie, croce e fiori. Tra le modifiche più sostanziali, che emergono dal confronto, sono la croce sulla sommità, ridotta notevolmente per lasciare il posto ad un più canonico monte; la partizione tra terra e cielo, sbilanciata verso l’alto; la scomparsa dei gigli domenicani, riassunti in un fiore solo, molto stilizzato e collocato in terra. All’esterno dello stemma, agli angoli della riquadratura, sono presenti quattro figure ad anello (uguali due a due in senso orizzontale, quelli alla base hanno un diametro maggiore) che sembrerebbero però ave- re solo una funzione decorativa. All’epoca Rigomagno non aveva molte occasioni nelle quali poter

137 far sfoggio dei propri colori e ancor meno del proprio stemma, così come, per la verità, non ne aveva avute in passato. Sicuramente un sigillo pubblico ci deve essere pur stato, ma ne ignoriamo la forma e le figure. Con il tempo le cose non migliorarono, anzi, le occasioni per identi- ficare la comunità con un simbolo calarono ulteriormente perché il piccolo borgo andò impoverendosi, i periodi di guerra diventarono sempre più frequenti, le feste erano sempre meno e sempre più po- vere, e comunque non avevano certo necessità di stemmi o loghi per identificarsi o per fare la pubblicità. Per cui quello dipinto all’interno della cappella è anche l’unico emblema di cui abbiamo memoria. Come abbiamo detto la cappella aveva un tetto ma era aperta su due lati e quindi gli affreschi al suo interno, scarsamente protetti, anda- rono progressivamente svanendo, e con essi il più antico simbolo di Rigomagno. Così quando lo storico senese Giovanni Antonio Pecci, agli inizi del ’700, iniziò a raccogliere gli stemmi delle Terre e Castelli dell’antico Stato senese, si trovò a dover decidere su due stemmi: quello esterno in pietra, molto nitido ma che riportava in modo evidente i soli monti, e quello interno dipinto, molto più articolato, ma sicuramente molto meno leggibile a causa dei danni provocati dal tempo. Non conosciamo le motivazioni della scelta, e non è importante, sappiamo solo che il Pecci, in pratica, non scelse: disegnò un terzo stemma. Aumentò i monti, portandoli da cinque a dieci. Stilizzò molto i ra- moscelli di olivo, per riempire lo spazio e caratterizzare uno stemma che altrimenti sarebbe stato troppo simile ai tanti altri che avevano gli stessi monti; e per finire fece sparire i fiori di giglio e la croce, ri- tenendoli, con molta probabilità, delle aggiunte “di fede”, non valide nel linguaggio araldico. Un piccolo pasticcio, la cui colpa non crediamo possa imputarsi alla scomparsa dello stemma dipinto nella cappella. Il Pecci, o chi per lui (il Pecci si servì di corrispondenti, perché al tempo non era molto agevole viaggiare), vide sicuramente lo stemma perché altrimenti non si spiega la forzatura dei monti bianchi. Con l’eliminazione dallo stemma della grossa croce bianca e dei fio- ri di giglio, erano venuti a mancare gli elementi bianco e rosso della

138 bicromia: per recuperarla fu attuata, appunto, la forzatura dei mon- ti bianchi. Forzatura resa ancora più evidente dall’indicazione di un terzo colore, il verde, steso sulle foglie. Occorre anche dire che suc- cessivamente qualche incertezza il Pecci la deve pur avere avuta, dal momento che nei suoi “Appunti di storia...”, lo stemma viene trat- tato nel modo detto, mentre in quelli di “Arme delle Città Terre e Castelli...”, uscito qualche tempo dopo, i monti riprendono il nero canonico ed i colori vengono limitati al solo rosso. Se fu un errore oppure una svista non si può dire, e comunque il fat- to non sarebbe importante se non fosse che, per una serie di motivi, la raccolta degli stemmi del Pecci (anche perché unica), con il tem- po ha assunto la qualifica di fonte e quindi, come tale, ha fatto testo fino ai giorni nostri per storici, pittori e scalpellini. Forse non ha molto senso cercare di porre rimedio all’incidente grafi- co, perché sarebbe una faticaccia e, probabilmente, non se ne accor- gerebbe nessuno; tuttavia non ci stiamo a far finta di niente. Nel nostro piccolo cercheremo di fare qualcosa. Per cominciare ag- giungeremo un giglio nello stemma della Pro loco, un solo giglio, a ricordare quanti hanno fatto qualcosa per Rigomagno... e quanti lo faranno ancora.

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