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Lo Sposalizio della vergine di Raffaello e la famiglia Lechi di Brescia

È un piacere enorme potervi parlare oggi della storia dello Sposalizio della vergine di Raffaello, una delle perle della Pinacoteca di Brera, ed anche per ricordarvi che un quadro quasi sempre ha una storia che non riguarda solo la storia dell’arte, ma può essere la storia di una famiglia, di un momento storico (e non necessariamente quello in cui il quadro fu dipinto), dei rapporti qualche volta inaspettati fra le varie arti. Poter far questo in occasione delle celebrazioni dei duecento anni della Pinacoteca e del restauro del dipinto, mi sembra veramente una cosa splendida. Mi dispiace soltanto un po’ di non potervi far ascoltare la musica come si deve, ma dovrete contentarvi del mio tentativo di canticchiarvi qualche passo, senza dimenticare che sono un musicologo, non sono un cantante e non ho alcuna pretesa di esserlo.1

Come voi tutti sapete, il quadro di Raffaelo fu dipinto nel 1504 originariamente per la cappella di San Giuseppe nella chiesa di San Francesco dei Frati Minori a Città di Castello nel 1504 dove è stato fino al febbraio 1798, quando apparentemente venne offerto ad un generale napoleonico di Brescia, Giuseppe Lechi, arrivato a Città di Castello a capo dell’esercito francese, la Legione Lombarda, per liberare la città dagli Stati Pontefici, e proclamare una Repubblica. La storia di come Giuseppe Lechi sia entrato in possesso del quadro, è sempre stata oggetto di voci contrastanti.

Giuseppe Lechi a Città di Castello

Giuseppe fu uno dei diciannove figli del Conte Faustino Lechi di Brescia (1730- 1800), di cui è noto l’interesse per le arti: pare che suonasse assai bene il violino, prediligendo compositori come Haydn e Mozart. È anche certo che i Mozart padre e figlio passarono la notte del 20 agosto 1771 a Villa Lechi, durante il loro secondo viaggio in Italia (13 agosto – 15 dicembre 1771), e non è escluso che possano esservisi fermati anche in occasione di altri viaggi. Il Conte Faustino possedeva un’importante raccolta di

1 Questa conferenza deriva in parte da diversi studi che vorrei qui citare: I quadri delle Collezioni Lechi di Brescia, a cura di F. Lechi (Firenze, 1968); Philip Gossett, The Tragic Finale of (Pesaro, Fondazione Rossini, 1977); e Ugo Da Como, “Le vicende dello Sposalizio di Raffaello,” in Nuova Antologia (1935). Fra questi studi si troveranno tutti i riferimenti bibliografici per i documenti qui citati. Un sentito ringraziamento a Federica Riva, bibliotecaria del Conservatorio “A. Boito” di Parma, che ha rivisto il testo originale di questa conferenza e ha tentato di rimediare i miei tanti errori linguistici. Gossett – Conferenza Brera – p. 2 strumenti musicale – che comprendeva anche violini di Antonio e Girolamo Amati, Antonio Stradivarius e Giuseppe Guarnieri – ed era presidente dell’”Associazione dei professori di violino” di Brescia. Il Conte amava la musica e Mozart padre amava lui. Infatti, il 26 dicembre 1772 il padre di Mozart scriveva alla moglie, che il Conte Faustino fu “un suonatore di violino eccelente, uno che capiva benissimo la musica e che lo amava tanto.” Più significativo per noi in questo caso è sapere che Conte Faustino ereditò dal padre, Pietro Lechi, una piccola galleria di quadri, che ingrandì con dipinti di grandi artisti come Raffaello, Leonardo, Tiziano, Michelangelo, Veronese, Giovanni Bellini, Rembrandt, Holbein e Rubens.

L’amore per le arti e per la musica passò anche a diversi suoi figli, soprattutto ai Conti Giuseppe Lechi (1766-1836), Angelo Lechi (1769-1850), Teodoro Lechi (1778- 1866) e al molto più giovine Luigi Lechi (1788-1867). I nomi più importanti per noi saranno quelli di Giuseppe e di Luigi. Ispirati dalla rivoluzione francese, i figli maggiori di Faustino, fra cui Giuseppe, Angelo e Teodoro, si unirono al movimento di liberazione dal dominio austriaco, diffuso in tutta l’Italia settentrionale, che mirava all’unità nazionale sotto un governo italiano. Tutti e tre i fratelli divennero importanti capi militari durante l’era napoleonica. Giuseppe, che aveva iniziato la sua carriera come ufficiale dell’armata austriaca, nel 1793 aveva già lasciato l’esercito e dato inizio ad un movimento politico contro gli Austriaci a Brescia. Quando nel 1796 Napoleone invase l’Italia, memorabili furono i combattimenti contro gli Austriaci che ebbero luogo nei dintorni di Brescia, che cadeva ora sotto il dominio francese ora sotto quello austriaco. Il 27 maggio 1796 Bonaparte stesso a capo dell’esercito attraversava la città, salutato con entusiasmo dai patrioti bresciani, tra i cui capi vi erano i fratelli Lechi.

Un fatto turbava le manovre politiche e militari di Bonaparte nell’Italia settentrionale ed era la fondamentale incompatibilità tra gli ideali della rivoluzione francese, abbracciati dai giovani patrioti italiani, e la realtà della politica del dominio francese che considerava l’Italia terreno di conquista governato da Bonaparte o dai suoi delegati. Tuttavia gli anni 1796-97 furono inebrianti per coloro che credevano vicina l’ora della libertà per l’Italia. Il 18 marzo 1797 a Brescia una rivolta contro il governo veneziano, neutrale solo in apparenza, portò alla formazione della Repubblica Bresciana. Questa rivolta, preparata in casa Lechi, fu guidata proprio da Giuseppe Lechi, la cui sorella Francesca avrebbe comprato il giorno prima in tre diversi negozi della seta di colore rosso, bianco e verde per cucire una bandiera tricolore che doveva servire per la rivolta. I Francesi favorirono la repressione dell’attività anti-rivoluzionaria e la Gossett – Conferenza Brera – p. 3

Repubblica Bresciana fu la realtà di un momento. I Lecchi offrirono la propria partecipazione anche quando il 29 giugno si costituì a Milano la Repubblica Cisalpina, Ma già alla fine dell’ottobre 1797 i patrioti italiani dovrettero ingoiare il primo di molti bocconi amari, quando Napoleone firmò con l’Austria il trattato di Campofòrmido, con cui Brescia veniva tolta al governo veneto per unirla alla Repubblica Cisalpina. La mossa fu approvata da molti, in quanto ampliava la base del futuro stato italiano, ma allo stesso tempo assegnava Venezia all’Austria, mettendo fine all’indipendenza della Repubblica Veneta, una volta potente.

Giuseppe Lechi, forte dell’esperienza fatta nell’esercito austriaco, prestò il proprio aiuto per organizzare un esercito a Brescia, divenendo più tardi comandante di una delle due brigate della Repubblica Cisalpina. Con tale grado guidò la colonna della Legione Lombarda a Sud lungo la Costa Adriatica, verso gli Stati Pontifici, alimentando le speranze dei patrioti italiani. La colonna di Lechi, in cui prestavano servizio anche i fratelli Angelo e Teodoro attraversò le Marche ed arrivò a Pesaro, argomento, questo, che riprenderò più tardi.

Dopo Pesaro proseguì attraversando Gubbio per arrivare a Città di Castello il 24 gennaio 1798. Questa spedizione della Legione Lombarda è ben documentata. Le lettere conservate ci dicono che durante al campagna militare i fratelli Lechi si interessarono anche di cercare dipinti per la collezione di famiglia. Così scriveva il 23 dicembre 1797 da Pesaro Angelo Lechi al padre a Brescia:

Teodoro ed io abbiamo tanto ricercato per Pesaro dei quadri del famoso Simone [forse Simone Cantarini, nato a Pesaro nel 1612], che ci è riescito di ritrovarli. Essi non ammettono dubbi, poiché stampati, cittati dalle pitture di Pesaro. I nostri occhi non s’ingannano sicuro questa volta. Abbiamo spedito questa cassa che ne contiene due a Venezia a Capucci. Voi gli scriverete e ve le farete mandare. Noi andiamo avanti fino in Ancona. Per tutto cercheremo quadri e se ve ne saranno di buoni li spediremo...

Il giorno dopo Teodoro aggiunse:

Riceverete nella seconda spedizione di quadri un Raffaello ritrattosi da lui medesimo... Spero d’aver fatto in questo momento un altro acquisto d’un bel quadro, ma non ne conosciamo l’autore. Andando avanti non disperiamo di poter Gossett – Conferenza Brera – p. 4

avere un Domenichino, un Barocci, un Giulio Romano, un Rubens. Li abbiamo in vista...

In altre lettere, Teodoro scrisse al padre: “La passione dei quadri la sento assai e codeste maniere di dipingere m’incantano,” a cui Teodoro aggiunse: “Per tutto non fo che cercar quadri e passo per un antiquario e tutti dicono che sono vero figlio di mio padre.”

Quando Giuseppe Lechi e il suo esercito entrarono il 24 gennaio 1798 in Città di Castello, sembra che il giubilo locale fu tale da concerdergli in regalo la pala di Raffaello, togliendola dalla cappella della chiesa di San Francesco dei Frati Minori. Anche se Città di Castello per molto tempo (e forse ancora oggi) chiese la restituzione del dipinto, vi sono prove evidenti che si trattò di un regalo spontaneamente fatto dalla municipalità a Giuseppe Lechi, come ha già messo in luce Ugo Da Como in un articolo del 1935 apparso nelle pagine della Nuova Antologia, “Le vicende dello Sposalizio di Raffaello.” Altre lettere dei fratelli Lechi al padre sono esplicite al riguardo. Il primo febbraio 1798 Teodoro scriveva al padre:

La municipalità di costì ha fatto un regalo a mio fratello d’una pala d’altare larga due braccia e mezzo e alta quattro, di trenta figure tra grandi e piccole; il più bel monumento di tutto il paese, dipinto da Raffaello ma della prima maniera e sul gusto del Perugino. La municipalità ha portata la pala a casa di mio fratello accompagnata di più di cento della città che gridavano: ‘Viva il nostro padre, gli offriamo il più bel monumento della città e vogliamo che lo accetti.

E il 6 febbraio aggiungeva:

Il regalo che la municipalità ci ha fatto del famoso quadro di Rafaello, unica in paese e indubitata, è una prova non equivoca dell’amore che a noi portano questi popoli. V’assicuro che quando vedrete quest’opera resterete stupito poiché al vederla bisogna restare incantati e non si può allontanarsi e sono certo che a voi pure farà lo stesso effetto.

Ricevuto il quadro, il padre rispose:

Il quadro, ma il quadro! sbalordisce, innamora, sorprende e rende estatici tutti quelli che lo riguardano. Non v’è libro che non faccia degli elogi di questo quadro. Io li ho tutti alla mano a quest’ora. Lo visito subito alzato, fo lo stesso prima di andare a letto e passo fra il giorno la maggior parte delle ore col Quadro. Gossett – Conferenza Brera – p. 5

La casa è piena continuamente di persone che vengono a vederlo e che partono meravigliati, e stupefatti. Insomma è un portento, è sovrumano.

Faustino fu particolarmente commosso dall’atto ufficiale di consegna, in cui è scritto: “Carica la Comunità di obbligazioni e piena di viva riconoscenza per lo zelo onde siete animato nel rendere l’ordine a questa città, che tumultuosamente creava la sua libertà, in nome del popolo sovrano vi presenta questo quadro, che è uno dei più preziosi monumenti che noi abbiamo.” In merito Faustino scriveva: “il modo quale v’è stato donato m’ha fatto e mi fa piangere sempre che li leggo a quanti vengono...”

Purtroppo la situazione politica bresciana si dimostrò tutt’altro che stabile. Nell’aprile 1799 la casa Lechi fu saccheggiata dagli oppositori del nuovo regime. Le collezioni di strumenti musicali e di dipinti furono in parte disperse, ma non andò perduto lo Sposalizio della Vergine, forse nascosto. Poco tempo dopo, alla morte del Conte Faustino, cominciò la vendita di una buona parte della quadreria. Stessa sorte toccò nel 1801 anche allo Sposalizio della Vergine, venduto a Giacomo Sannazzaro di Milano. Alla sua morte, nel 1804, il quadro passò all’Ospedale Maggiore di Milano. Poi, il 5 aprile 1806 fu comprato dall’Ospedale, grazie ad un decreto vicereale di Eugenio di Beauharnais, che lo destinò alla nuova Pinacoteca Brera.

Giuseppe Lechi a Pesaro

Se nel caso dello Sposalizio Giuseppe Lechi fu una presenza positiva, almeno per Milano, altrettanto non si può dire del suo arrivo a Pesaro nel dicembre del 1797. La prima incursione dei Francesi a Pesaro era avvenuta il 5 febbraio 1797, sotto il generale Victor Perrin. Il giorno successivo lo stesso Napoleonoe era entrato in città, salutato tra gli altri da Giuseppe Rossini, padre del compositore, detto “Vivazza,” noto anche per le spiccate tendenze repubblicane. Soltanto due settimane dopo Napoleone e il Papa firmarono la pace di Tolentino, deludendo un’altra volta le aspettative dei patriotti italiani. Le clausole del trattato di pace prevedevano infatti la restituzione alle forze pontefice delle antiche fortezze, inclusa Pesaro, e la soppressione del Giacobinismo, pur evitando ogni rappresaglia contro i Giacobini italiani. Quando, pochi mesi dopo, la Legione Lombarda di Lechi, composta da molti soldati italiani, entrò a Pesaro il 22 dicembre 1797, i patrioti, che erano insorti contro il governo pontificio già dalla notte precedente, andarono loro incontro, mentre i soldati pontifici lasciavano il campo senza attaccare i ribelli. Si formò allora un nuovo governo che votò immediatamente l’annessione alla Repubblica Cisalpina. Gossett – Conferenza Brera – p. 6

Priva di rinforzi dal Nord, Pesaro cadde nuovamente sotto il governo ponteficio. Giuseppe Rossini si trovò tra quanti furono arrrestati per attività sovversiva, accusato di aver guidato la sera del 21 dicembre un gruppo di patrioti di porta in porta griadando: “È finito il tempo dei baroni fututi, non è più tempo adesso dei ladri, è finita la vigna dei baroni, fuora, fuora, viva la repubblica!” L’accusa più seria nei suoi confronti, tuttavia, fu quella di aver ricevuto personalmente una lettera dal Generale Lechi in cui gli venivano comunicati il giorno e l’ora dell’arrivo delle truppe di Lechi a Pesaro. Una volta imprigionato, Giuseppe Rossini non si dimostrò molto coraggioso e testimoniò spontaneamente sulle attività rivoluzionarie a Pesaro. Sebbene il sui giacobinismo fosse stato di breve durata, egli fu comunque condannato a quasi un anno di prigione, anno che deve aver molto pesato sul figlio Gioachino, allora di sette anni. Fu quindi tramite i Lechi che Giuseppe Rossini e il figlio furono coinvolti nella lotta per l’indipendenza italiana che doveva accompagnarli per tutta la vita.

Si tratta di un momento molto importante nella vita di . Assente il padre, la madre Anna dovette pensare a guadagnare il pane per la famiglia e comincò a cantare calcando le scene. Si può ben immaginare cosa abbia voluto dire per un giovane di sette – otto anni stare accanto al palcoscenico sul quale la madre deve aver assunto l’aspetto di una creatura magica. Non soprende affatto che Rossini abbia poi scelto come prima moglie proprio una cantante di molti anni più grande di lui. Da quel momento cominciò la carriera teatrale di Gioachino che poi suonò in orchestra, fece il maestro al cembalo e infine compose nuovi pezzi teatrali. Il rapporto fra Rossini e il Risorgimento fu sempre travagliato, e sono sicuro che quanto vissuto in gioventù abbia avuto un’influenza notevole sul suo comportamento politico negli anni successivi.

I ricordi di Rossini sui suoi ideali del periodo napoleonico sono espressi in una interessante lettera all’amico palermitano Filippo Santocanacle scritta da Parigi il 12 giugno 1864:

... nella mia adolescenza artistica musicai con fervore e successo le seguenti parole: Vedi per tutta l’Italia Rinascere gli esempi D’ardire e di valor! Quando valgan gli Italiani Al cimento si vedrà Gossett – Conferenza Brera – p. 7

e poscia nel 1815, venuto il re Murat a Bologna, con sante promesse, composi l’Inno dell’Indipendenza, che fu eseguito colla mia direzione al teatro Contavalli. In quest’Inno si trova la parola Indipendenza, che sebbene poco poetica, ma intuonata da me colla mia canora voce di quell’epoca!, e ripetutta dal popolo, cori, ecc., destò vivo entusiasmo.

Non si conosce ancora la musica di questo Inno dell’Indipendenza, “Sorgi, Italia, venuta è già l’ora,” ma questa storia ha un aspetto interessante. Esiliato Napoleone all’isola d’Elba nel 1814, Murat, Re di Napoli sotto Napoleone, si era alleato con gli Italiani impegnati nella lotta per l’unità e l’indipendenza del Paese. Quando Napoleone fuggì nel marzo 1815, dando così inizio al ‘cento giorni,’ Murat radunò l’esercito, dichiarò di nuovo guerra all’Austria e si diresse al Nord con una marcia che stimolò la sommossa a Bologna ai primi di aprile del 1815, dove, il 15 aprile, fu eseguito l’inno di Rossini, alla presenza dello stesso Murat. Il generale responsabile del terzo corpo d’armata della spedizione di Murat, altri non era che Giuseppe Lechi, colui che aveva guidato la Legione Lombarda fino a Pesaro nel 1797. Non sappiamo se Giuseppe Lechi incontrò Gioachino Rossini o forse suo padre, ma sappiamo che già prima del 15 aprile egli stava proseguendo con la sua colonna per Forlì. Tuttavia, il confronto tra il 1797 e il 1815 eccita l’immaginazione portata a fantasticare.

Il secondo ricordo testimoniato nella lettera di Rossini a Santocanale riguarda un coro e un’aria tratti da L’Italiana in Algeri – rappresentata per la prima volta a Venezia al Teatro San Benedetto il 22 maggio 1813 – che comprende un delizioso omaggio musicale ai Lechi e al periodo napoleonico. A quella data l’Italia settentrionale era ancora sotto il dominio napoleonico, sebbene la sua caduta e il ritorno degli Austriaci fossero imminenti. Angelo Anelli, librettista de L’Italiana in Algeri, fa dire queste note parole a Isabella, che ha appena preparato la fuga degli Italiani dal palazzo di Mustafà:

Pensa alla patria, e intrepido Il tuo dover adempi: Vedi per tutta Italia Rinascere gli esempi D’ardire e di valor.

Questi versi sono preceduti da un coro: Gossett – Conferenza Brera – p. 8

Pronti abbiamo e ferri e mani Per fuggir con voi di qua: Quanto vaglian gl’Italiani Al cimento si vedrà.

Nel 1813 Rossini poté usare questi versi che, musicati, divennero popolarissimi. Proprio quewsti versi Rossini stessa cita nella lettera a Santocanale.

Il pezzo fu cantato persino dopo la Restaurazione, sebbene all’epoca debba aver chiaramente suscitato sentimenti di inquietudine. Quando Rossini andò a Napoli per la prima volta nell’autunno del 1815 per presentare Elisabetta, regina d’Inghilterra al Teatro San Carlo, egli diresse anche una ripresa de L’Italiana in Algeri al Teatro dei Fiorentini. L’unico cambiamento significativo in quella ripresa fu la sostituzione di “Pensa alla patria” con una nuova aria per Isabella, “Sullo stil de’ viaggiatori,” un pezzo la cui evidente ed essenziale differenza con “Pensa alla patria’ è la totale assenza in essa di qualsiasi riferimento a sentimenti patriottici. In giugno Re Ferdinando aveva infatti appena soppiantato Murat sul trono di Napoli, divenendo Re delle Due Sicilie: qualsiasi cosa, quindi, sapesse di patriottismo italiano doveva essere severamente repressa.

Un’altra fonte testimonia la reazione ambivalente a questo passo, una fonte che all’apparenza sembra sconcertante. Si tratta di un manoscritto dell ‘intera opera, datato 1814, conservato nella biblioteca del Conservatorio di Venezia, in cui il coro che precede “Pensa alla Patria” è sostituito da un pezzo che conserva il testo originale ma con musica del tutto nuova, mentre intatto resta anche “Pensa alla Patria.” Ci si può chiedere perché mai sia stata cambiata la musica di un Coro mantenendone il testo dai sentimenti sovversivi a mala pena celati? Per comprendere appieno il senso di questa modifica basta ascoltare attentamente il coro, avendo in mente la rivoluzione francese, i suoi ideali, i suoi simboli.

La frase finale del coro, con i noti versi, “Quanto vaglian gli Italiani / Al cimento si vedrà” è accompagnata da una frase dei violini e del flauto. La melodia del coro ha questo profilo:

Cantare “Quanto vaglian gli Italiani”

Ma contemporaneamente nella melodia dell’orchestra, si sente in contrappunto una citazione della Marseillaise: Gossett – Conferenza Brera – p. 9

Cantare la melodia dei violini

Cantare la melodia della Marseillaise

Il valore degli Italiani al “cimento” si può misurare dai richiami della Marseillaise. Non posso fare a meno di pensare che Rossini abbia fatto un uso vagamente ironico della nota melodia, di un umorismo malizioso verso i francesi che, nel 1813, non erano più ospiti molto graditi in Italia. Chiaramente i responsabili della versione conservatasi grazie al manoscritto veneziano del 1814 furono senz’altro consapevoli della somiglianza. Ironia o meno, si tratta in ogni caso di un riferimento musicale al declinante periodo napoleonico ed al ruolo giocato in esso dalle famiglie Rossini e Lechi.

Il seguito della storia dei fratelli Lechi al servizio di Napoleone è affascinante, perché Giuseppe e Teodoro furono comandanti nelle campagne di Russia e Spagna. Al ritorno delle forze reazionarie a Brescia, la famiglia Lechi fu oggetto di rappresaglie per la sua partecipazione alla vita politica. Quando gli Austriaci, nell’aprile 1799, tolsero Brescia ai Francesi condussero con sé i fuoriusciti politici, fuggiti all’arrivo dei Francesi. Furono costoro, come prima accennato, ad assalire e saccheggiare le case dei Lechi, simbolo dell’ideologia liberale. Faustino, prevedendo la piega che avrebbero preso gli avvenimenti, lasciò Brescia con la famiglia, prima per Milano, poi per Genova. Lì doveva morire, come abbiamo visto, il 4 marzo 1800. Alcuni mesi dopo, in giugno, dopo una nuova vittoria francese nell’Italia settentrionale, i familari rimasti si ristabilirono a Brescia liberata dagli Austriaci dalla Legione Italica, comandata da Giuseppe Lechi, ch avrebbe continuato a prestare servizio nelle file napoleoniche fino al 1815.

È ora il momento di lasciare le guerre napoleoniche e volgere il nostro interesse per un po’ a uno dei più giovani figli di Faustino Lechi, Luigi, che ebbe un ruolo completamente diverso, nella vita di Gioachino Rossini.

Luigi Lechi, Adelaide Malanotte e il Finale tragico di Tancredi

Luigi Lechi era troppo giovane per partecipare alle guerre napoleoniche alla fine del diciottesimo secolo. Quando Faustino Lechi fuggì da Brescia per andare a Genova nel 1799, portò con se il figlio Luigi. Dopo la morte di Faustino e il ritorno della famiglia a Brescia, Luigi fu mandato a Milano per continuare la sua istruzione al Collegio dei Nobili. Tra i suoi compagni di scuola vi erano Alessandro Manzoni e il patriota Federico Confalonieri. Sebbene avesse studiato letteratura e filosofia a Milano, la laurea da lui conseguita all’Università di Pavia nel 1809 fu in medicina; inoltre studiò scienze durante Gossett – Conferenza Brera – p. 10 un soggiorno a Parigi dal 1810 al 1811. Ma i suoi interessi principali durante questo periodo, di relativa stabilità politica sotto il dominio napoleonico, furono letterari. Probabilmente incontrò il grande poeta Ugo Foscolo, durante il soggiorno di quest’ultimo a Brescia nel 1807. La loro amicizia crebbe durante gli studi di Lechi all’Università di Pavia dove Foscolo era stato nominato professore di retorica italiana nel 1808. Tra i primi lavori letterari di Lechi c’erano due traduzioni di autori classici: i Dialoghi delle cortigiane di Luciano (Brescia, 1810) e Le avventure di Ero e Leandro di Museo Grammatico (Brescia, 1811). Entrambi i lavori furono accolti bene dal Foscolo e dalle personalità letterarie bresciane che si ragguppavano intorno a lui, inclusi i poeti Vincenzo Monti e Cesare Arici. Questi uomini costituivano l’anima del movimento poetico neo-classico, così importante nell’Italia settentrionale. Lechi fu un membro del loro circolo, sebbene non fosse poeta della loro levatura.

In questo periodo Luigi Lechi incontrò per la prima volta la cantante Adelaide Malanotte, prima interprete del Tancredi di Gioachino Rossini. Non sappiamo come si conobbero, tuttavia già Foscolo la conosceva ed era restato molto colpito da “una bella Veronese cara alle Grazie ed alle Muse,” come si espresse scrivendo della Malanotte a Giuseppe Manigli il 2 marzo 1809. Nata a Verona nel 1785, si dice avesse origini borghesi. Sposò un francese, Montrésor, e gli diede due bambini, uno dei quali, Giovan Battista, divenne egli stesso un tenore. Fétis, con molto riserbo, nota che “Des malheur domestiques l’obligèrent tout à coup à chercher des ressources dans le talent qui n’avait été jusqu’alors pour elle qu’un amusement.” Avrebbe iniziato così la pubblica carriera di cantante. Il suo debutto avvenne a Verona nel 1806, forse in consequenza dei dissapori familari. Nel marzo del 1809, comunque, sembra che ella vivesse ancora con il marito poiché il Foscolo in una lettera del 2 marzo alla Malanotte scrisse: “Salutate gli amici vostri, e vostro marito in mio nome...”

I sentimenti di Foscolo verso la Malanotte sono espressi in una lettera a Giuseppe Grassi, uno studioso torinese famoso per le sue ricerche sulla lingua italiana e traduttore del Werther di Goethe. Nella lettera, scritta da Milano il 4 dicembre 1809, per presentare Grassi alla Malanotte, il poeta così scriveva della Malanotte che doveva cantare a Torino durante il seguente Carnevale:

Mio caro Grassi – Se noi talvolta non incontrassimo le Grazie e le Muse nel nostro mortale pellegrinaggio, e se le Grazie e le Muse non ci aprissero la porta della Cortesia e dell’Amore, io non troverei più né motivi né interesse a continuare il viaggio della vita tra tante noie, e tra tanti pericoli. E perch’io credo Gossett – Conferenza Brera – p. 11

che tu e tutte le gentili anime siano nel caso mio, io ti mando questa lettera che ti farà incontrare le Grazie e le Muse. Visiterai con essa la signora Malanotte, e saluterai per amor mio e per amor tuo que’ suoi grandi occhi nerissimi. Né io la raccomando a te; né raccomando te a lei: sarete cari l’uno all’altro perch’ella è bella, ed è maestra di canto, e perché tu sei cortese, ed amabile letterato. Bada solo di non innarmorarti. E viviti lieto.

La risposta del 14 dicembre di Grassi al poeta così descrive il fascino della cantante:

Ottimo Foscolo! Parlare di voi, e parlarne colla gentile Malanotte, è piacere soavissimo, ed io l’ho gustato ieri. Buon per me, che la bella cantatrice è di allegro umore; altrimenti cadrei innamorato a’ suoi piedi: ma quella allegria mi ha salvato. I grandi occhi nerissimi scintillavano al vostro nome; ed io, presentato a nome vostro, fui accolto caramente. Foscolo, io so per prova, che l’amore è la sola cosa che in compagnia dei dolci studii sparga di qualche rosa il cammino della vita, e so che quelle rose costano delle lagrime.... ma basta così.

Non abbiamo prove che Luigi Lechi abbia conosciuto Adelaide Malanotte tramite Foscolo, ma la cosa è verosimile. Se Foscolo, però, gli offrì lo stesso consiglio che aveva dato a Grassi (“Bada solo di non innamorarti”), Lechi non lo ascoltò poiché, come vedremo, verso la fine del 1812, tra loro era cominciata quella relazione che li tenne uniti fino alla morte della cantante avvenuta nel 1832.

Della Malaontte sappiamo che cantò moltissimo per tutti gli anni che vanno dal 1810 al 1820. I suoi ruoli rossiniani includevano, oltre al personaggio di Tancredi, Ciro nel Ciro in Babilonia, Arsace nell’Aureliano in Palmira e Clarice ne La pietra del paragone. Quando nel 1817 Luigi Lechi comprò l’Isola di Garda, nel Lago di Garda, ribattezzandola Isola Lechi, la Malanotte andò a vivere con lui. In principio continuò la sua carriera, ma dal 1821 dimorò in permanenza sull’isola. Il loro rifugio, la loro “feconda isoletta,” fu descritta da Cesare Arici, amico dei Lechi, nel suo poema Sirmione del 1822, racconto di un viaggio sul Lago di Garda:

isola bella Che albergo di conigli e di romiti Un tempo, or delle Muse e di Sofia E dell’arti ospitali il pregio accolse, Tu meco, inclita Donna, a la novella Gossett – Conferenza Brera – p. 12

Deliaca terra il cielo e l’aure e l’acque Prega benigne, e d’un fedele amico Gli operosi e ridenti ozj saluta.

Nell’Isola Lechi le arti, infatti, in questi anni, trovarono ospitalità. La giovane cantante Giuditta Pasta, che divenne l’altra grande interprete del Tancredi nel diciannovesimo secolo, visitò Lechi e la Malanotte nel 1819. Sappiamo poco di questa visita, anche se è molto probabile che la parte di Tancredi abbia potuto essere argomento di conversazione tra le due prime donne. L’unico ricordo è un’iscrizione di Luigi Lechi che un tempo si trovava realmente sull’isola, il cui testo fu pubblicato da Lechi nel 1866 in una raccolta delle sue Iscrizioni. È intiolata “Sulla tomba di un passero”:

Qui la salma accarezzata Passerino che fu già Di Giuditta abbandonò. Giace qui. Qui la bella sospirò. Qui Giuditta forse un dì Co’l pensier ritornerà Isoletta fortunata. 1819.

Più significativa è la visita che Gaetano Donizetti fece all’Isola Lechi nel febbraio 1821. Dedicò “alla buona Adelaide” un’aria da camera inedita scritta “la sera della partenza,” che si trova ancora tra le carte di Luigi Lechi.

L’idillo della coppia fu crudelmente interrotto quando Luigi Lechi fu imprigionato per sedici mesi dalle autorità austriache nel 1823 e 1824 a causa del suo attivismo politico per l’indipendenza italiana. Quando fu rilasciato ritornò sulla sua isola dove visse con la Malanotte fino alla morte di lei, dovuta ad un infarto, nel 1832. Egli allora vendette l’isola a suo fratello Teodoro e ritornò a Brescia. Ma ancora nel 1854, in una nota del suo volume sulla tipografia bresciana del quindicesimo secolo, nella quale è menzionata la storia dell’isola nel Rinascimento, Lechi accennò ai suoi anni trascorsi lì con queste parole: Gossett – Conferenza Brera – p. 13

Rida cui piace se qui ricordo una gloria... serafica della nostra famiglia e dell’isoletta di sua pertinenza, ma siami concesso di mandare, non senza lagrime, un saluto a quest’Eden, ove tanti anni vissi felice...

Questa storia, già bella in sé stessa, lo diviene ancora di più per la sua importanza nella cultura musicale italiana dell’epoca. Luigi Lechi accompagnò Adelaide Malanotte a Venezia per le prime rappresentazioni di Tancredi, che cominciarano al Teatro il 6 febbraio 1813. E poi proseguì con lei, con Rossini e con la maggior parte dei membri del cast originale a Ferrara, dove presentarono un rifacimento dell’opera verso la fine della Quaresima. I cambiamenti più importanti riguardarono le scene finali, con l’introduzione di un finale tragico, seguendo le tracce del dramma di Voltaire dal quale derivava il libretto, al posto del finale lieto presente nella vergione originale veneziana, Luigi Lechi non soltanto accompagnò la Malanotte a Venezia e a Ferrara, ma preparò egli stesso il testo del nuovo finale tragico, il cui autografo rossiniano – dato per perso tra il 1817 e il 1977 – è stato rinvenuto a Brescia, negli archivi di Luigi Lechi. La reazione degli spettatori a questo tragico finale è descritta da un giornalista dell’epoca, che scriveva nel Giornale Dipartimentale dell’Adriatico: “La morte di Tancredi, che vi si è introdotta e a cui non vuole adattarsi questo pubblico.... non piacque.” Rossini dovette allora comprendere che questo finale non sarebbe mai più stato rappresentato in quel mondo lirico italiano che egli conosceva così bene, e decise di regalare il suo autografo alla Malanotte, oppure a Lechi.

Verso la fine della vita di Rossini molte persone in possesso dei suoi manoscritti autografi visitarono il compositore a Parigi e gli chiesero di attestarne la l’autenticità. Tali autenticazioni si trovano, tra l’alstro, sugli autografi de L’occasione fa il ladro, Il Signor Bruschino e Semiramide. Poco tempo prima della morte di Luigi Lechi, avvenuta il 13 dicembre 1867, il manoscritto del finale tragico fu portato a Parigi dal Conte Faustino Lechi, figlio del fratello di Luigi, Teodoro, ed unico erede di Luigi Lechi. Rossini aggiunse la seguente deliziosa autenticazione, scritta con la grafia caratteristica dell’età tarda del compositore:

Dichiaro (e non senza Rossore) essere questo un mio autografo del 1813!!!! A Venezia fu vergato, che tempi!!!!! Aujourd’hui c’est autre chose. G. Rossini (Paris, 22 Novembre 1867).

Sull’ultima pagina del manoscritto c’è una descrizione scritta e firmata da Luigi Lechi stesso: Gossett – Conferenza Brera – p. 14

Autografo di un altro finale del Tancredi scritto dal M.ro Rossini per Ferrara sulle mie parole ecc. Sono mie anche le parole della nuova Scena, sostituita alla prima di Venezia, che non piacque.—L. Lechi.

Che il nuovo finale non piacesse, non sorpende. Il pezzo, che probabilmente avete tutti sentito in questi anni, in cui è uso rappresentare Tancredi con il finale tragico, è tanto diverso da ciò che normalmente si associa al nome di Rossini. Il recitativo, accompagnato soltanto dagli archi, asseconda ogni inflessione del testo, adottando uno stile più cromatico quando serve e uno più semplice, diatonico o seguendo le note di un accordo per i toni più vicini alla conversazione. La “cavatina finale” per l’eroe morente si apre con una magica introduzione orchestrale, in cui gli archi seguono un ritmo caratteristico mentre i clarinetti prolungano una nota dell’accordo durante le pause degli archi. L’accompagnamento musicale di Rossini non tenta di seguire la struttura poetica del testo; la sua musica, infatti, ha poco in comune con la sintassi dei versi.

È questa una conclusione audace, molto più audace del finale tragico dell’Otello che Rossini sperimentò qualche anno dopo e che doveva provocare una così grande controversia. Si può soltanto immaginare quale sarebbe stato lo sviluppo di Rossini se il pubblico ferrarese avesse approvato questo finale tragico, se il compositore avesse trovato questa vena musicale congeniale ed avesse dedicato il suo enorme talento alla creazione di scene drammatico-musicali dipendenti quanto questa della verità drammatica. Ciò non per sminuire in alcun modo la validità dello stile rossiniano più tipico che trasforma ed esalta il dramma per mezzo del canto. In questa composizione, però, ci si sente in presenza dell’ideale gluckiano adattato persino in questa musica quasi-declamatoria alla bellezza della melodia italiana e alla semplicità dell’armonia italiana. Può darsi che quell’ideale lo si debba a Luigi Lechi e alla sua visione dell’arte, una visione che appartiene alla tradizione neo-classica. Tuttavia in questo pezzo, per lo meno, Rossini fece sua quella visione.

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Abbiamo tracciato un cammino abbastanza lungo dallo Sposalizio della vergine di Raffaello al finale tragico di Tancredi, attraverso la famiglia Lechi di Brescia. Ma non dovremmo sorprendercene. Nel momento in cui ciascuno di noi esce deal proprio campo di competenza, oramai troppo “compartimentalizzato,” può capire fino a che punto l’arte, la cultura, la storia siano più complesse di quanto lo sguardo dato da un solo punto di vista della storia e della critica possa far pensare. Sono veramente grato alla Gossett – Conferenza Brera – p. 15

Pinacotcca Brera e alla sua Soprintendente. la dottoressa Sandrina Bandera, per avermi offerto l’opportunità di rifare questo cammino insieme a voi.

Grazie.