Lo Sposalizio Della Vergine Di Raffaelo E La Famiglia Lechi Di Brescia

Lo Sposalizio Della Vergine Di Raffaelo E La Famiglia Lechi Di Brescia

Gossett – Conferenza Brera – p. 1 Lo Sposalizio della vergine di Raffaello e la famiglia Lechi di Brescia È un piacere enorme potervi parlare oggi della storia dello Sposalizio della vergine di Raffaello, una delle perle della Pinacoteca di Brera, ed anche per ricordarvi che un quadro quasi sempre ha una storia che non riguarda solo la storia dell’arte, ma può essere la storia di una famiglia, di un momento storico (e non necessariamente quello in cui il quadro fu dipinto), dei rapporti qualche volta inaspettati fra le varie arti. Poter far questo in occasione delle celebrazioni dei duecento anni della Pinacoteca e del restauro del dipinto, mi sembra veramente una cosa splendida. Mi dispiace soltanto un po’ di non potervi far ascoltare la musica come si deve, ma dovrete contentarvi del mio tentativo di canticchiarvi qualche passo, senza dimenticare che sono un musicologo, non sono un cantante e non ho alcuna pretesa di esserlo.1 Come voi tutti sapete, il quadro di Raffaelo fu dipinto nel 1504 originariamente per la cappella di San Giuseppe nella chiesa di San Francesco dei Frati Minori a Città di Castello nel 1504 dove è stato fino al febbraio 1798, quando apparentemente venne offerto ad un generale napoleonico di Brescia, Giuseppe Lechi, arrivato a Città di Castello a capo dell’esercito francese, la Legione Lombarda, per liberare la città dagli Stati Pontefici, e proclamare una Repubblica. La storia di come Giuseppe Lechi sia entrato in possesso del quadro, è sempre stata oggetto di voci contrastanti. Giuseppe Lechi a Città di Castello Giuseppe fu uno dei diciannove figli del Conte Faustino Lechi di Brescia (1730- 1800), di cui è noto l’interesse per le arti: pare che suonasse assai bene il violino, prediligendo compositori come Haydn e Mozart. È anche certo che i Mozart padre e figlio passarono la notte del 20 agosto 1771 a Villa Lechi, durante il loro secondo viaggio in Italia (13 agosto – 15 dicembre 1771), e non è escluso che possano esservisi fermati anche in occasione di altri viaggi. Il Conte Faustino possedeva un’importante raccolta di 1 Questa conferenza deriva in parte da diversi studi che vorrei qui citare: I quadri delle Collezioni Lechi di Brescia, a cura di F. Lechi (Firenze, 1968); Philip Gossett, The Tragic Finale of Tancredi (Pesaro, Fondazione Rossini, 1977); e Ugo Da Como, “Le vicende dello Sposalizio di Raffaello,” in Nuova Antologia (1935). Fra questi studi si troveranno tutti i riferimenti bibliografici per i documenti qui citati. Un sentito ringraziamento a Federica Riva, bibliotecaria del Conservatorio “A. Boito” di Parma, che ha rivisto il testo originale di questa conferenza e ha tentato di rimediare i miei tanti errori linguistici. Gossett – Conferenza Brera – p. 2 strumenti musicale – che comprendeva anche violini di Antonio e Girolamo Amati, Antonio Stradivarius e Giuseppe Guarnieri – ed era presidente dell’”Associazione dei professori di violino” di Brescia. Il Conte amava la musica e Mozart padre amava lui. Infatti, il 26 dicembre 1772 il padre di Mozart scriveva alla moglie, che il Conte Faustino fu “un suonatore di violino eccelente, uno che capiva benissimo la musica e che lo amava tanto.” Più significativo per noi in questo caso è sapere che Conte Faustino ereditò dal padre, Pietro Lechi, una piccola galleria di quadri, che ingrandì con dipinti di grandi artisti come Raffaello, Leonardo, Tiziano, Michelangelo, Veronese, Giovanni Bellini, Rembrandt, Holbein e Rubens. L’amore per le arti e per la musica passò anche a diversi suoi figli, soprattutto ai Conti Giuseppe Lechi (1766-1836), Angelo Lechi (1769-1850), Teodoro Lechi (1778- 1866) e al molto più giovine Luigi Lechi (1788-1867). I nomi più importanti per noi saranno quelli di Giuseppe e di Luigi. Ispirati dalla rivoluzione francese, i figli maggiori di Faustino, fra cui Giuseppe, Angelo e Teodoro, si unirono al movimento di liberazione dal dominio austriaco, diffuso in tutta l’Italia settentrionale, che mirava all’unità nazionale sotto un governo italiano. Tutti e tre i fratelli divennero importanti capi militari durante l’era napoleonica. Giuseppe, che aveva iniziato la sua carriera come ufficiale dell’armata austriaca, nel 1793 aveva già lasciato l’esercito e dato inizio ad un movimento politico contro gli Austriaci a Brescia. Quando nel 1796 Napoleone invase l’Italia, memorabili furono i combattimenti contro gli Austriaci che ebbero luogo nei dintorni di Brescia, che cadeva ora sotto il dominio francese ora sotto quello austriaco. Il 27 maggio 1796 Bonaparte stesso a capo dell’esercito attraversava la città, salutato con entusiasmo dai patrioti bresciani, tra i cui capi vi erano i fratelli Lechi. Un fatto turbava le manovre politiche e militari di Bonaparte nell’Italia settentrionale ed era la fondamentale incompatibilità tra gli ideali della rivoluzione francese, abbracciati dai giovani patrioti italiani, e la realtà della politica del dominio francese che considerava l’Italia terreno di conquista governato da Bonaparte o dai suoi delegati. Tuttavia gli anni 1796-97 furono inebrianti per coloro che credevano vicina l’ora della libertà per l’Italia. Il 18 marzo 1797 a Brescia una rivolta contro il governo veneziano, neutrale solo in apparenza, portò alla formazione della Repubblica Bresciana. Questa rivolta, preparata in casa Lechi, fu guidata proprio da Giuseppe Lechi, la cui sorella Francesca avrebbe comprato il giorno prima in tre diversi negozi della seta di colore rosso, bianco e verde per cucire una bandiera tricolore che doveva servire per la rivolta. I Francesi favorirono la repressione dell’attività anti-rivoluzionaria e la Gossett – Conferenza Brera – p. 3 Repubblica Bresciana fu la realtà di un momento. I Lecchi offrirono la propria partecipazione anche quando il 29 giugno si costituì a Milano la Repubblica Cisalpina, Ma già alla fine dell’ottobre 1797 i patrioti italiani dovrettero ingoiare il primo di molti bocconi amari, quando Napoleone firmò con l’Austria il trattato di Campofòrmido, con cui Brescia veniva tolta al governo veneto per unirla alla Repubblica Cisalpina. La mossa fu approvata da molti, in quanto ampliava la base del futuro stato italiano, ma allo stesso tempo assegnava Venezia all’Austria, mettendo fine all’indipendenza della Repubblica Veneta, una volta potente. Giuseppe Lechi, forte dell’esperienza fatta nell’esercito austriaco, prestò il proprio aiuto per organizzare un esercito a Brescia, divenendo più tardi comandante di una delle due brigate della Repubblica Cisalpina. Con tale grado guidò la colonna della Legione Lombarda a Sud lungo la Costa Adriatica, verso gli Stati Pontifici, alimentando le speranze dei patrioti italiani. La colonna di Lechi, in cui prestavano servizio anche i fratelli Angelo e Teodoro attraversò le Marche ed arrivò a Pesaro, argomento, questo, che riprenderò più tardi. Dopo Pesaro proseguì attraversando Gubbio per arrivare a Città di Castello il 24 gennaio 1798. Questa spedizione della Legione Lombarda è ben documentata. Le lettere conservate ci dicono che durante al campagna militare i fratelli Lechi si interessarono anche di cercare dipinti per la collezione di famiglia. Così scriveva il 23 dicembre 1797 da Pesaro Angelo Lechi al padre a Brescia: Teodoro ed io abbiamo tanto ricercato per Pesaro dei quadri del famoso Simone [forse Simone Cantarini, nato a Pesaro nel 1612], che ci è riescito di ritrovarli. Essi non ammettono dubbi, poiché stampati, cittati dalle pitture di Pesaro. I nostri occhi non s’ingannano sicuro questa volta. Abbiamo spedito questa cassa che ne contiene due a Venezia a Capucci. Voi gli scriverete e ve le farete mandare. Noi andiamo avanti fino in Ancona. Per tutto cercheremo quadri e se ve ne saranno di buoni li spediremo... Il giorno dopo Teodoro aggiunse: Riceverete nella seconda spedizione di quadri un Raffaello ritrattosi da lui medesimo... Spero d’aver fatto in questo momento un altro acquisto d’un bel quadro, ma non ne conosciamo l’autore. Andando avanti non disperiamo di poter Gossett – Conferenza Brera – p. 4 avere un Domenichino, un Barocci, un Giulio Romano, un Rubens. Li abbiamo in vista... In altre lettere, Teodoro scrisse al padre: “La passione dei quadri la sento assai e codeste maniere di dipingere m’incantano,” a cui Teodoro aggiunse: “Per tutto non fo che cercar quadri e passo per un antiquario e tutti dicono che sono vero figlio di mio padre.” Quando Giuseppe Lechi e il suo esercito entrarono il 24 gennaio 1798 in Città di Castello, sembra che il giubilo locale fu tale da concerdergli in regalo la pala di Raffaello, togliendola dalla cappella della chiesa di San Francesco dei Frati Minori. Anche se Città di Castello per molto tempo (e forse ancora oggi) chiese la restituzione del dipinto, vi sono prove evidenti che si trattò di un regalo spontaneamente fatto dalla municipalità a Giuseppe Lechi, come ha già messo in luce Ugo Da Como in un articolo del 1935 apparso nelle pagine della Nuova Antologia, “Le vicende dello Sposalizio di Raffaello.” Altre lettere dei fratelli Lechi al padre sono esplicite al riguardo. Il primo febbraio 1798 Teodoro scriveva al padre: La municipalità di costì ha fatto un regalo a mio fratello d’una pala d’altare larga due braccia e mezzo e alta quattro, di trenta figure tra grandi e piccole; il più bel monumento di tutto il paese, dipinto da Raffaello ma della prima maniera e sul gusto del Perugino. La municipalità ha portata la pala a casa di mio fratello accompagnata di più di cento della città che gridavano: ‘Viva il nostro padre, gli offriamo il più bel monumento della città e vogliamo che lo accetti. E il 6 febbraio aggiungeva: Il regalo che la municipalità ci ha fatto del famoso quadro di Rafaello, opera unica in paese e indubitata, è una prova non equivoca dell’amore che a noi portano questi popoli. V’assicuro che quando vedrete quest’opera resterete stupito poiché al vederla bisogna restare incantati e non si può allontanarsi e sono certo che a voi pure farà lo stesso effetto.

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