Lorenzo Pezzica Le magnifiche ribelli 1917-1921

elèuthera © 2017 Lorenzo Pezzica ed elèuthera editrice

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INTRODUZIONE Dissidenti nella rivoluzione

CAPITOLO PRIMO Cinquantuno mesi

CAPITOLO SECONDO Nessuna cricca di partito mi avrebbe imbavagliato

CAPITOLO TERZO Oggi ho sparato a Lenin

CAPITOLO QUARTO Sempre dalla parte della rivoluzione

CAPITOLO QUINTO 1921

CAPITOLO SESTO Lettere dalla carceri russe

CAPITOLO SETTIMO Poesie disubbidienti

Appendice

Bibliografia

Indice dei nomi INTRODUZIONE Dissidenti nella rivoluzione

Io sono la vostra voce, il calore del vostro fiato, il riflesso del vostro volto, i vani palpiti di vane ali… fa lo stesso, sino alla fine io sto con voi1. Anna Achmatova

Le vite delle donne narrate in questo libro rimandano a uno straordinario e cruciale evento che ha segnato profondamente la storia mondiale del Novecento: la rivoluzione russa del 19172. La maggior parte di queste donne e le loro storie sono state per lungo tempo «dimenticate». Storie che le hanno viste lanciarsi nell’avventura rivoluzionaria ben prima del 1917 e che hanno significato per loro clandestinità, prigionia, torture, deportazioni ed esilio. La scintilla che accende l’incendio della rivoluzione russa del 19173 ha inizio il giorno della Festa della donna, nel cortile della fabbrica tessile Krasnaja Nit di Pietrogrado. La prima guerra mondiale aveva portato gli uomini al fronte e le donne in fabbrica, nelle scuole, negli uffici e in piazza. A Pietrogrado il 23 febbraio (l’8 marzo secondo il calendario gregoriano)4, particolarmente freddo e affamato, donne, ragazze, anziane, operaie e madri di famiglia scendono in piazza contro la guerra e sfilano sulla Prospettiva Nevskij. Chiedono pace, pane e diritti. Nonostante l’ordine, i cosacchi non le caricano, non alzano i frustini sulle donne in sciopero (a cui si uniscono ben presto anche gli operai), anzi impediscono che la polizia possa caricare i dimostranti. È una rivoluzione spontanea, come è ormai ampiamente riconosciuto dalla storiografia, pur avendo «radici profonde, maturate almeno dall’ultimo decennio, che – dopo la fallita rivoluzione del 1905 – aveva visto crescere l’antagonismo sociale tra proprietari e contadini, non meno che tra operai e industriali»5. Il giorno decisivo è la domenica 26 febbraio, «che diventa tristemente famosa come la seconda Domenica di sangue, dopo quella che aveva […] colpito San Pietroburgo nel gennaio 1905»6. Una settimana ancora e crolla l’Impero russo. Quattro giorni dopo l’abdicazione di Nicola II, un’altra manifestazione spontanea, di quarantamila donne, sfila per le strade di Pietrogrado e tra la folla si mescolano femministe liberali e bolsceviche, anarchiche, socialiste rivoluzionarie e mensceviche, operaie e intellettuali, maestre e mogli di soldati. Otto mesi più tardi il Palazzo d’Inverno, difeso da un battaglione di donne volontarie (chiamato «Battaglione della morte»7), con a capo Marija Bočkarëva, soprannominata Jaška, ultima difesa del governo provvisorio di Kerenskij (già in fuga), sarebbe stato preso d’assalto dalla nuova rivoluzione, quella d’ottobre. Questa irruzione delle donne nella rivoluzione russa andrà di pari passo con un radicale cambiamento politico, sociale, culturale e legislativo, che includerà il diritto di voto e l’eleggibilità a tutte le cariche, il divorzio e il diritto all’aborto: progressi enormi verso la parità della donna che saranno, come tanti altri, calpestati dal regime di Stalin. A seguito di complicate e articolate vicende, che vanno dall’uscita dalla prima guerra mondiale con la pace di Brest-Litovsk alla guerra civile e al Terrore rosso, dal comunismo di guerra alla carestia, dalla crisi economica alla Nuova politica economica (NEP) ecc., il processo rivoluzionario si esaurisce nel corso del 1921. E più precisamente dalla primavera-estate8, quando il governo bolscevico soffoca nel sangue il movimento di protesta esploso in tutto il paese: la rivolta dei marinai e degli operai di Kronštadt e l’insurrezione dei contadini nella provincia di Tambov, che chiedono con forza libertà politica e migliori condizioni di vita, ovvero le parole d’ordine del 1905 e del 1917. A cento anni di distanza da quegli avvenimenti, questo libro nasce con il semplice proposito di narrare le azioni, le riflessioni e le vite travagliate (in alcuni casi violentemente spezzate) di alcune donne rivoluzionarie che non hanno voluto conformarsi alla deriva autoritaria dei nuovi vincitori. Donne, soprattutto anarchiche, ma non solo, le cui vicende sono state relegate per molto tempo in un cono d’ombra. E invece, i destini di militanti come Fanja Baron, Ida Mett, , Emma Goldman, Aleksandra Kollontaj, Dora Kaplan, Marija Spiridonova, Anna Barkòva e molte altre, si rivelano di particolare interesse per ricostruire la parabola intrapresa dalla rivoluzione russa negli anni che vanno dal 1917 al 1921. Pur essendo donne tra loro molto diverse per origine sociale e per percorso politico, culturale ed esistenziale, tutte prendono parte con entusiasmo agli esordi rivoluzionari, spinte da un identico ideale: sovvertire il potere costituito, anche a costo di mettere in gioco la propria vita, i propri affetti e le proprie certezze. Ma ben presto comprendono la deriva autoritaria impressa alla rivoluzione dalla presa di potere da parte dei bolscevichi, diventando dissidenti, oppositrici, testimoni e vittime di questa svolta liberticida, e per questo emarginate, perseguitate, arrestate, costrette ad abbandonare il paese e a fuggire. Oppure inghiottite dalla repressione della Čeka, la polizia segreta creata il 20 dicembre 1917 da Lenin per combattere i nemici del nuovo regime sovietico, dal Terrore rosso e poi, negli anni Trenta, dalle purghe staliniane, disperse nel buio di un manicomio, di una prigione, di un gulag, o più semplicemente relegate all’oblio della storia, al silenzio assordante della memoria rimossa. Sono anarchiche, ribelli, socialiste, bolsceviche dissidenti, rivoluzionarie d’ogni tipo che hanno la capacità di pensare e agire per la rivoluzione senza perdere di vista l’esigenza della lotta per l’emancipazione femminile: donne coscienti della loro alterità e per questo costrette a un percorso tortuoso contro tutto e tutti. Ripercorrendo la loro esperienza negli anni dal 1917 al 1921, e anche oltre, è stato possibile riconoscere una comune disposizione che le ha portate a impegnarsi in prima persona tanto nelle battaglie politiche e sociali quanto nella lotta per l’emancipazione femminile, confrontandosi ogni giorno con la persecuzione messa in atto dalle istituzioni vecchie e nuove e con i persistenti pregiudizi dell’epoca. Un altro aspetto fondamentale che lega la maggior parte di queste donne, a partire dalle anarchiche Fanya Baron, Emma Goldman, Ida Mett e Mollie Steimer9, è il fatto che racchiudono in sé una seconda «alterità»: oltre all’essere donne, anche l’essere ebree. In effetti, sono state numerose le donne ebree impegnate nei movimenti rivoluzionari, in particolare anarchici, a cavallo tra Ottocento e Novecento. Molte di loro provengono dall’Europa orientale, dove gli ebrei hanno sofferto una particolare condizione di oppressione politica, economica, sociale, legata in primo luogo all’antisemitismo. Sono giovani donne nate nell’Impero russo, in special modo nei paesi baltici, che spesso abbandonano la terra d’origine in cerca di una vita migliore negli Stati Uniti o nell’Europa occidentale10. Un concatenarsi di eventi pone queste donne, o quanto meno alcune di loro, di fronte non solo alla rivoluzione russa ma più tardi anche di fronte al fascismo, al nazismo, agli orrori del Novecento, ed è appunto su questo sfondo drammatico che si innestano le loro vite, il loro pensiero e la loro azione. Sono donne che non hanno mai smesso di praticare la dissidenza e che hanno avuto la capacità e la libertà di pensiero di guardare «le cose come sono». Anche se l’ordine dominante cerca sempre di reprimere il dissenso operando affinché non si ricostituisca, restano pervicacemente convinte che non ci sarà mai un potere così pervasivo e capillare da estirpare definitivamente la capacità di resistere, di opporsi, di protestare, di ribellarsi, di «pensare altrimenti», che è già un essere contro11. La loro testimonianza è di una grande onestà intellettuale. Si schierano risolutamente dalla parte della rivoluzione e condividono un modo di percepirla che è largamente diffuso e che sarà poi l’ostacolo maggiore da superare quando esprimeranno ad alta voce il loro dissenso nei confronti del regime bolscevico a causa della piega che questo imprimerà al processo rivoluzionario dopo l’ottobre 1917. La loro azione, il loro pensiero e le loro riflessioni abitano il quotidiano di quel periodo e si concretizzano in pratiche effettive. E questo perché il loro pensiero è il risultato di un corpo e una mente, di un temperamento contraddittorio, passionale e complesso, intriso di una storia singolare e allo stesso tempo plurale. Il «tradimento» della rivoluzione – così è vista la conquista del potere da parte dei bolscevichi – non le porta ad abbandonare il desiderio di un cambiamento sociale radicale, semmai a esasperarlo e renderlo più urgente. La disillusione, accompagnata dalla denuncia di una politica risolta in pura e semplice paura e in delirio di potere, non ne fa delle «controrivoluzionarie», sebbene questo sarà lo scopo della propaganda bolscevica. Attraverso le loro esperienze, spesso drammatiche, si è cercato quindi di restituire dei ritratti inediti di queste «magnifiche ribelli» che sono state protagoniste, anche in nome dell’emancipazione femminile, di un’altra e ben più profonda rivoluzione libertaria. Una caratteristica particolare che emerge dalle loro testimonianze di quegli anni, e anche dei seguenti, è la forte esigenza di raccontare le storie di altre donne. In questo senso Emma Goldman, con la sua vita ricca di fatti, incontri, viaggi, relazioni, risulta essere una fonte preziosa per la conoscenza di molte di loro. Durante il suo soggiorno nella sovietica, infatti, Emma Goldman, come risulta dalla lettura della sua autobiografia12, le cui dense pagine sono state un punto di partenza importante per la stesura di questo libro, dedicherà molto tempo e attenzione alle donne nella rivoluzione. La Goldman non si limita soltanto a incontrare le principali protagoniste di quegli eventi, sia quelle al governo sia, ancor più, quelle all’opposizione, ma leggendo quelle pagine ci si accorge che incontra anche numerose altre donne, più o meno note, che testimoniano quanto ricca fosse la presenza femminile nel movimento rivoluzionario russo, e non solo. Sono tuttavia poche le notizie raccolte dalla Goldman riguardo la presenza sul territorio e nelle città di organizzazioni femminili stabili e attive13. Nei loro racconti, nelle loro memorie, spesso particolarmente intense sia per la drammaticità dell’esperienza vissuta sia per lo stile e la schiettezza utilizzati per raccontarla, emergono forti rapporti di amicizia e solidarietà femminile che permettono loro di sopravvivere, fisicamente e moralmente, alla dura repressione, così come la capacità di reinventarsi la vita quotidiana tanto negli anni dell’impegno rivoluzionario quanto in quelli dell’esilio siberiano. Sono racconti e memorie che in molti casi permettono di ricostruire avvenimenti di quegli anni che oggi sono confermati dai documenti ufficiali conservati negli archivi di Stato russi aperti dopo il 1991. Rimaste sempre dalla parte della rivoluzione, queste donne hanno detto e scritto cose che ben conoscevano perché le avevano vissute. E fin da subito, e con la massima fermezza, hanno detto e scritto verità intollerabili per il regime sovietico, verità difficili da sostenere pubblicamente per molti decenni, schiacciate dal mito, inattaccabile, della rivoluzione bolscevica14. Come ben sappiamo, il mito dell’ottobre 1917 non è sopravvissuto al crollo del comunismo reale, e forse era sbiadito già da tempo, seppur negli anni Settanta del Novecento avesse conosciuto addirittura una seconda giovinezza in Europa, in America latina e in Asia. Lo stesso vale per la narrazione storica, messa in crisi dalla storiografia internazionale già dagli anni Settanta e Ottanta e poi dal crollo del Muro di Berlino. A partire dagli anni Novanta del Novecento una nuova feconda storiografia, utilizzando per la prima volta una ricca documentazione e memorialistica emersa degli archivi russi, ha potuto finalmente ricostruire e raccontare diverse storie prima narrate e ricordate solo dagli «sconfitti». Alla luce dei risultati storiografici più recenti, che hanno permesso di confermarle in gran parte e per molti aspetti, quelle storie risultano ormai difficili da contestare. Desidero ringraziare chi ha avuto la pazienza, la gentilezza e il tempo, seppure di sfuggita, di ascoltare, discutere, tradurre, criticare, consigliare, incoraggiare e leggere, tutto o in parte, il testo e di avermi dato consigli per migliorarlo. Grazie a elèuthera per la cura, la disponibilità e la pazienza. Grazie al Centro studi libertari/Archivio Giuseppe Pinelli di Milano per la preziosa collaborazione e per avermi messo a disposizione la sua meravigliosa biblioteca e archivio. Va da sé che ogni errore, carenza o omissione resta soltanto responsabilità dell’autore.

Note all’Introduzione

1. Anna Achmatova, La corsa del tempo. Liriche e poemi, Einaudi, Torino 1992, p. 113. Io sono la vostra voce, il calore del vostro fiato, / il riflesso del vostro volto, / i vani palpiti di vane ali… / fa lo stesso, sino alla fine io sto con voi. / Ecco perché amate così cúpidi / me, nel mio peccato e nel mio male, / perché affidaste a me ciecamente / il migliore dei vostri figli; / perché nemmeno chiedeste di lui, / mai, e la mia casa vuota per sempre / velaste di fumose lodi. / E dicono: non ci si può fondere più strettamente, / non si può amare più perdutamente… / Come vuole l’ombra staccarsi dal corpo, / come vuole la carne separarsi dall’anima, / così io adesso voglio essere scordata (A molti, inAnno Domini, 1922). 2. Cent’anni fa sono accaduti più avvenimenti che hanno sconvolto il mondo, tra cui appunto la rivoluzione russa. Generalmente per «rivoluzione russa» si intende l’insieme di tre distinti momenti rivoluzionari: quello del 1905, quello del febbraio 1917 e quello dell’ottobre 1917. C’è chi ultimamente ha dilatato il processo rivoluzionario lungo un arco cronologico più amplio, che va dal 1891 fino alla morte di Lenin nel 1924. Sulla rivoluzione esiste ovviamente un’amplissima bibliografia. Qui si rimanda ai titoli principali riportati nella bibliografia inclusa alla fine del presente libro. 3. «La rivoluzione, quella che abbatte un regime detestato e intollerabile, quella che sovverte i modi di pensare e la vita quotidiana, quella che sprigiona energie a lungo represse e mobilita il popolo, quella che infonde speranza e crea forse illusioni, per tutti è stata senza alcun dubbio la Rivoluzione di febbraio». Vedi Marcello Flores, 1917. La Rivoluzione, Einaudi, Torino 2007, p. 15. 4. Fino al 1918 in Russia era in vigore il calendario Giuliano, che anticipava di due settimane il calendario gregoriano in uso nel resto del mondo occidentale. 5. Flores, 1917, cit., p. 19. 6. Flores, 1917, cit., p. 16. 7. Sul Battaglione della morte, cfr. Laurie Stoff, They Fought for the Motherland. Russia’s Women Soldiers in World War I and the Revolution, University Press of Kansas, Lawrence 2006. 8. «Tra le tante possibili periodizzazioni che sono state proposte sulla storia russa del Novecento, la più convincente è quella che identifica l’epoca della rivoluzione tra il febbraio 1917 e il marzo 1921». Vedi Marcello Flores, La forza del mito. La rivoluzione russa e il miraggio del socialismo, Feltrinelli, Milano 2017, p. 60. 9. In particolare su Emma Goldman, Ida Mett e Mollie Steimer, vedi Lorenzo Pezzica, Anarchiche. Donne ribelli del Novecento, Shake, Milano 2013. 10. Rispetto alla loro scelta politica, queste donne, come ha sostenuto Birgit Seemann, si sono dovute confrontare principalmente con la questione «dell’identità ebraica, ovvero di una ‘ebraicità’ non disgiunta da una presa di distanza dall’ebraismo come momento di costruzione del sé, e della questione dell’antisemitismo». Cfr. Birgit Seemann, Femminismo anarchico ed ebraismo, in Amedeo Bertolo (a cura di), L’anarchico e l’ebreo. Storia di un incontro, elèuthera, Milano 2001, pp. 213-220. 11. Sul pensiero «dissidente», vedi Salvo Vaccaro (a cura di), Pensare altrimenti. Anarchismo e filosofia radicale del Novecento, elèuthera, Milano 2011. 12. Emma Goldman, Vivendo la mia vita: autobiografia. 1889-1899, La Salamandra, Milano 1980; Id., Vivendo la mia vita 1917- 1929, Zero in condotta, Milano 1993. Nel 1925 Emma Goldman aveva pubblicato My Disillusionment in Russia (C.W. Daniel, London 1925) dove sono ricostruiti in maniera più dettagliata e ricca di particolari i due anni trascorsi in Russia. L’opera, pubblicata in due volumi, non è mai stata tradotta in italiano, se non alcune pagine dal titolo La mia disillusione in Russia presenti in Paul Avrich, Gli anarchici nella Rivoluzione russa, La Salamandra, Milano 1976, pp. 210-212. Vedi Max Leroy, Emma la Rossa. La vita, le battaglie, la gioia di vivere e le disillusioni di Emma Goldman, la «donna più pericolosa d’America», elèuthera, Milano 2016, pp. 162-169. 13. Va ricordato lo Żenotdel o «Reparto delle donne», l’organizzazione femminile interna della segreteria del Comitato centrale del Partito bolscevico, poi comunista, fondata nel 1919 da Inessa Armand e diretta, dall’anno successivo, da Aleksandra Kollontaj, dopo la morte della stessa Armand. Lo Żenotdel viene chiuso nel 1930 ma, in seguito, sarà ricordato come il movimento ideatore del femminismo sovietico. Cfr. Orlando Figes, La tragedia di un popolo. La rivoluzione russa 1891-1924, Mondadori, Milano 2016, p. 756. 14. Sul tema del mito della rivoluzione russa e su cosa abbia rappresentato in particolare per la storia della sinistra, non solo socialista, cfr. Flores, La forza del mito, cit.

CAPITOLO PRIMO Cinquantuno mesi

Fanny Baron mordeva i suoi carnefici1. Kenneth Rexroth

Ribelle fino all’ultimo […] era stata trascinata nell’eternità mentre il terribile silenzio dei sotterranei della Čeka veniva rotto ancora una volta dalle sue grida al di sopra degli improvvisi colpi di pistola2. Emma Goldman

Nel febbraio 1917, durante le giornate che fanno cadere nella polvere il regime zarista, i principali protagonisti della rivoluzione, comprese alcune importanti figure di anarchici e anarchiche, si trovano ancora in esilio all’estero. Fino al 1917, in Russia è presente un movimento anarchico, poco consistente in termini numerici3, che si rifà a tre filoni principali dell’anarchismo: gli anarco-comunisti, gli anarco-sindacalisti e gli anarchici individualisti. Lo scoppio della rivoluzione innesca alcune conseguenze importanti per i diversi gruppi. Infatti non solo torna, dopo decenni di esilio, Pëtr Kropotkin, il decano dell’anarchismo russo e internazionale, ma in tempi brevi torna anche un consistente gruppo di anarchici e anarchiche tra i quali Alexander Shapiro, Volin (ovvero Vsévolod Eichenbaum)4, Leah Feldman5, Marija Nikiforova, Aaron e Fanja Baron6. Fanya Anisimovna Baron nasce nel 1887 a Vilnius, in Lituania, da una famiglia di origini ebraiche. Come per Emma Goldman e Mollie Steimer, anche il destino di Fanya la porterà nel 1911 a emigrare negli Stati Uniti, dove resterà fino al 1917. Operaia in fabbrica, diventa presto un’attiva militante anarchica. Nel 1912 conosce il panettiere anarchico Aaron Baron, che diventa suo compagno e da cui avrà un figlio, Theodore. Aaron, deportato per aver partecipato alla rivoluzione del 1905, era da poco arrivato negli Stati Uniti dopo essere riuscito a evadere dall’esilio siberiano. I due giovani anarchici partecipano a Chicago alle lotte operaie e allo sviluppo dell’anarchismo statunitense. Il 17 gennaio 1915, Fanya, al fianco di Lucy Parsons7, organizza una marcia dei disoccupati che viene pesantemente caricata dalla polizia. Agli inizi del 1917 conosce Emma Goldman, diventando collaboratrice della rivista «Mother Earth»8, e poi Volin che, per sfuggire a un mandato d’arresto emesso contro di lui dalle autorità francesi per la sua opposizione alla guerra, si è rifugiato illegalmente negli Stati Uniti nel 1916. Nel febbraio 1917 scoppia la rivoluzione in Russia. Fanya e Aaron non hanno dubbi: la loro intenzione è quella di tornare il prima possibile per partecipare al processo rivoluzionario. Quando Fanya arriva a Pietrogrado nel giugno 1917 è una donna di trent’anni. Fin dal primo momento saluta la rivoluzione come quella sollevazione spontanea tanto attesa, quella «passione di distruggere» che è anche «passione creativa»9. E infatti vivrà con intensità e passione la sua stagione rivoluzionaria fino alla fine di settembre del 1921, quando morirà tragicamente. In tutto cinquantuno mesi, vissuti fino all’ultimo istante da ribelle che «morde i suoi carnefici», come la ricorderà il poeta anarchico americano Kenneth Rexroth10. Nei primi giorni di giugno del 1917 la Baron partecipa a una serie di manifestazioni di protesta contro il tentativo da parte del governo provvisorio di Kerenskij di chiudere la «comunità» anarchica insediata nella dacha Durnovo11. Nelle giornate seguite agli eventi di febbraio, gli anarchici di Pietrogrado avevano infatti espropriato la villa di proprietà dell’ex ministro zarista Pëtr Durnovo situata nel quartiere di Vyborg, sul lato nord della Neva, appena oltre la Stazione Finlandia. È una zona in cui gli anarchici hanno un forte seguito tra i lavoratori, ma che in quel momento sta diventando anche una roccaforte dei bolscevichi. La «comunità» di Durnovo resta indisturbata fino al 5 giugno 1917, quando gli anarchici tentano di requisire l’impianto stampa di un quotidiano «borghese». Dopo aver occupato i locali del giornale per alcune ore, vengono sgomberati dall’arrivo di militari inviati dal governo provvisorio, che denuncia, così come farà anche il I Congresso dei Soviet, l’occupazione come un atto criminale. Due giorni dopo Pereverzev, il ministro della Giustizia, darà un ultimatum di ventiquattro ore agli anarchici per abbandonare la dacha. L’8 giugno entrano in sciopero gli operai di ventotto fabbriche della capitale per protestare contro la decisione del governo, mentre cinquanta marinai di Kronštadt arrivano per difendere la comunità12. Le agitazioni continuano anche nei giorni successivi, culminando il 18 giugno con una grande manifestazione di piazza. Ciononostante, la villa è assalita dalle forze governative che uccidono un anarchico e ne arrestano circa sessanta. Durante i giorni della protesta la dacha, ricoperta di bandiere nere e bandiere rosse, viene difesa da lavoratori armati. Si tengono anche numerosi incontri con gli operai e la popolazione del quartiere, che vengono esortati a ignorare gli ordini del governo provvisorio. Secondo una diffusa leggenda, che prende piede proprio in quei giorni, gli anarchici «avevano trasformato la villa in un manicomio in cui si tenevano orge, complotti sinistri e sabba di streghe»13. In realtà la dacha espropriata è stata trasformata in una «casa comune», con sale per la lettura, la discussione e la ricreazione. Un’unione dei panettieri e un’unità della milizia popolare vi hanno aperto la propria sede. Quando arrivano le truppe del governo provvisorio la trovano in perfetto ordine, con una parte del giardino adibita ad asilo infantile per i figli degli operai. Poco dopo lo sgombero violento della Durnovo, la fallita sollevazione del luglio 1917 sembra sancire la sconfitta degli oppositori del governo Kerenskij. La raffica di arresti nei confronti dei bolscevichi, ritenuti i principali responsabili della sollevazione, insieme agli anarchici e ai socialisti rivoluzionari, non riesce comunque a distruggere le opposizioni. Nel giugno 1917 le speranze suscitate dalle giornate di febbraio hanno già lasciato il posto, nel cuore degli anarchici, all’amara delusione. Che cos’è davvero accaduto, si domanda la stampa anarchica russa? «Nulla di particolare. Al posto di Nicola il sanguinario, è salito al trono Kerenskij il sanguinario»14. Negli otto mesi che separano la rivoluzione di febbraio da quella d’ottobre, gli anarchici lottano insieme ai socialisti rivoluzionari [SR] di sinistra e ai bolscevichi per lo stesso obiettivo: la sconfitta e la soppressione del governo provvisorio. Gli anarchici di Pietrogrado riescono comunque a stampare un proprio quotidiano, «Burevestnik», che ha una tiratura di oltre venticinquemila copie. Nello stesso periodo a Mosca si stampa il quotidiano «Anarkhia». Man mano che l’impeto della rivoluzione cresce, il movimento anarchico si estende rapidamente anche in altre città e villaggi15. Entusiasmati dalle dichiarazioni ultra-radicali pronunciate da Lenin al suo ritorno in Russia nelle «Tesi di aprile», diversi anarchici appoggiano i bolscevichi nella preparazione del colpo di Stato di ottobre. È importante però sottolineare che prima del ritorno di Lenin, solo gli anarchici si erano pronunciati in favore del proseguimento della rivoluzione, incitando operai, soldati e contadini ad abbattere il governo provvisorio e realizzare appieno la rivoluzione sociale. Una volta conquistato il potere nell’ottobre 1917, il partito di Lenin affronta di lì a poco la guerra civile scatenata dagli eserciti zaristi e dalle potenze occidentali. Passano così in secondo piano, in nome della eccezionalità degli eventi, i propositi iniziali della rivoluzione, una svolta che porta all’esautoramento del potere dei soviet e all’instaurazione di una dittatura che si dichiara temporanea16. Per la gran maggioranza degli anarchici tutto questo è una conferma dell’ideologia intrinseca al socialismo di Stato, che fin dalla Prima Internazionale, con la polemica tra Marx e Bakunin, combattono senza sosta. Ritengono quindi necessario opporsi all’instaurazione di un nuovo potere che ai loro occhi avrebbe provocato la fine della rivoluzione. Alcune frange del movimento anarchico russo, come gli «anarchici clandestini» fondati e guidati dal poeta Lev Černyj17, iniziano ad agire contro il governo di Mosca con azioni di sabotaggio. La notte dell’11 aprile 1918 la Čeka irrompe nella sede della Federazione dei gruppi anarchici di Mosca, facendo alcuni morti e arrestando numerosi militanti. Anche Černyj, che è il segretario della Federazione, viene arrestato. Tornerà in libertà nel 1919. Il 25 settembre 1919 il gruppo degli «anarchici clandestini» organizza, insieme ad alcuni SR di sinistra, un attentato contro la sede del Partito comunista di Mosca, nella quale è in corso una riunione. L’attentato provoca dodici morti e decine di feriti, tra cui Nikolaj Bucharin18. Dalla seconda metà del 1918 la questione del rapporto con i bolscevichi non è solamente una questione di principio. Gli anarchici si trovano di fronte al dilemma di come affrontare l’emergenza della guerra civile e delle conseguenze politiche, sociali ed economiche che comporta, senza rinunciare alla rivoluzione sociale libertaria19. Una parte di loro si dichiara disposta a collaborare con i bolscevichi in nome della difesa della rivoluzione. Sono i cosiddetti «anarchici bolscevichi», tra cui anche Victor Serge. Un’altra parte, la maggioranza, si dichiara contraria, richiamandosi in modo intransigente ai principi anarchici e alla critica radicale di ogni forma di potere, critica che pretende uno stretto legame mezzi-fini per la realizzazione della rivoluzione sociale libertaria e che esclude nettamente la dittatura di classe o meglio di un partito. Gli anarchici si rendono conto delle difficoltà implicite nell’assunzione di un tale atteggiamento, che si scontra con la profonda suggestione che la rivoluzione esercita su vasti strati della popolazione e che, inoltre, potrebbe apparire sospetto in un momento in cui è in atto una forte campagna denigratoria sulla stampa «borghese» contro i bolscevichi. Nello stesso movimento anarchico internazionale, infatti, la frammentarietà e l’incertezza delle notizie che arrivano, ancora scarse nel 1919, fa sì che la solidarietà degli anarchici prevalga sul dissenso e sulle critiche. Non è quindi una posizione facile da sostenere senza rimanere invischiati nell’accusa di essere controrivoluzionari. Un’accusa che il governo bolscevico utilizzerà non solo nei confronti degli eserciti bianchi e delle potenze occidentali ma anche nei confronti della dissidenza rivoluzionaria di sinistra, i vecchi «amici» diventati «nemici del popolo» e quindi da eliminare. Un’accusa che porterà il Partito bolscevico, poi comunista, a divorare se stesso in una lotta intestina che Marija Spiridonova preannuncerà, come una «Cassandra russa», in una lettera aperta scritta nel novembre 1918 al Comitato centrale del Partito bolscevico20. Fanya Baron aveva sperato che il colpo di Stato dell’ottobre 1917 sarebbe stato l’inizio di una grande rivoluzione sociale. Nonostante ciò non si schiera con gli anarchici bolscevichi. Ben presto gli anarchici critici nei confronti del governo bolscevico, come Fanya, iniziano a essere duramente perseguitati. L’idea di liquidare una volta per tutte gli anarchici è concepita e programmata fin dall’aprile 1918, quando la Čeka lancia il suo primo attacco contro la Federazione dei gruppi anarchici di Mosca. Da quel momento gli anarchici sono visti come un vero e proprio ostacolo da eliminare. Dopo la fallita sollevazione organizzata dai socialisti rivoluzionari di sinistra nell’estate del 1918, che segna anche la fine di quel partito, il governo di Lenin inasprisce ulteriormente lo scontro con gli anarchici, che si concluderà nei primi mesi del 1921 con l’annientamento dell’anarchismo russo. Quando, verso la fine del 1918, la persecuzione diventa insostenibile, gli anarchici di Pietrogrado e Mosca decidono di trasferirsi a sud, cercando rifugio nella regione che, quindici anni prima, era stata la culla del loro movimento: l’Ucraina. La prima conferenza che riunisce tutte le anime del movimento anarchico russo si svolge a Kursk dal 12 al 18 novembre 1918. Fanya, insieme ad Aaron, partecipa con grande entusiasmo al convegno21. La conferenza è organizzata dalla Nabat, la Confederazione anarchica ucraina fondata, insieme al suo omonimo giornale, da Volin, che ne è anche il principale leader22. L’organizzazione nasce con l’intento di dare espressione a un anarchismo unitario che comprenda anarco-sindacalisti, anarco-comunisti e anarco-individualisti, grazie a quello che lo stesso Volin definisce «sintetismo anarchico». È proprio lui, infatti, a essere incaricato dalla conferenza di Kursk di redigere una sintesi anarchica, cioè una dichiarazione comune che riunisca tutte le tendenze in seno al movimento. E Fanya è la prima a credere in questo progetto. Oltre a Volin e a Fanya, i nomi più noti della Nabat sono Aaron Baron, Senya Fleshin, Pëtr Aršinov, Mark Mratchny, Grigorij Gorelik, Nikolaj Dolenko, Efim Yartchouk e Olga Taratuta. Il quartier generale della Nabat è stabilito nella città di Char’kov, che diventa la capitale anarchica, con sezioni a Kiev, Odessa, Ekaterinoslav e in altri centri importanti dell’Ucraina. Il tentativo di unificare l’anarchismo non va però a buon fine. La Nabat si scioglierà formalmente nell’estate del 1919 sia a causa di incomprensioni interne all’organizzazione sia per l’opera esterna dei bolscevichi, anche se il gruppo fondatore della Nabat continuerà la propria attività fino alla fine del 1920, quando una retata della Čeka a Char’kov arresterà tutti i suoi componenti, ponendo fine di fatto all’organizzazione. Per Fanya, quelli della conferenza di Kursk sono giorni di intenso lavoro, giorni importanti di confronto, riflessione, incontri, in cui ha inizio anche una grande amicizia con Olga Taratuta23. Olga, il cui vero nome è Elka Ruvinskaia, ha undici anni più di Fanya. È nata infatti il 21 gennaio 1876 nel villaggio di Novodmitrovka, nei pressi della città ucraina di Cherson, in una famiglia ebrea. Suo padre gestisce un piccolo negozio. Dopo aver completato i suoi studi, lavora come insegnante. Nel 1895 subisce il suo primo arresto. Nel 1897 si unisce a un gruppo socialdemocratico nel quale milita fino al 1901, quando si trasferisce prima in Germania e poi in Svizzera. Durante questo periodo lavora per l’organo del partito, «Iskra», e incontra Plechanov24 e Lenin. Nel 1903, mentre è in Svizzera, la Taratuta diventa anarco-comunista. L’anno successivo torna a Odessa e si unisce agli «intransigenti», un gruppo anarchico seguace dell’anarchico polacco Jan Wacław Machajski. Arrestata in aprile, viene rilasciata alcuni mesi dopo. Arrestata di nuovo nel 1905, viene poco dopo rilasciata, ma nel dicembre dello stesso anno è coinvolta nell’attentato al Café Libman di Odessa25, per il quale viene condannata a diciassette anni di carcere. Fugge un anno dopo e si rifugia a Ginevra. Alla fine del 1907, torna a Odessa, dove prende parte a una serie di atti terroristici, come l’attentato al generale Aleksandr Kaul’bars, comandante della regione militare di Odessa, e l’attentato al generale Tolmachev, governatore di Odessa. È arrestata nel 1908 a Ekaterinoslav e condannata a ventuno anni di reclusione. Esce dalle galere zariste nel marzo 1917, insieme a Marija Spiridonova, Dora Kaplan e a molte altre donne. In un primo momento si mantiene distante dal movimento anarchico, ma dopo l’autunno del 1918 si butta nuovamente nella lotta aderendo alla Nabat. Inoltre fonda, insieme ad Apollon Karelin e altri, la Croce nera anarchica che fornisce aiuto agli anarchici imprigionati. Nel novembre 1920 viene arrestata dal nuovo regime bolscevico. Nel gennaio 1921 è trasferita a Mosca e poi in aprile a Orlov. Nel marzo 1922 viene deportata a Veliky Ustyug per due anni. Al suo rilascio si trasferisce a Kiev. Seguono lunghi anni di continui arresti e rilasci, intervallati da brevi periodi di apparente libertà, nonostante sia continuamente sorvegliata, fino all’ultimo arresto del 27 novembre 1937, con l’accusa di attività anti-sovietica. È condannata a morte l’8 febbraio 1938, condanna eseguita lo stesso giorno. Cinque mesi dopo la conferenza di Kursk, la Nabat tiene a Elizabetgrad, dal 2 al 7 aprile 1919, il I Congresso dell’organizzazione26. Il clima rivoluzionario è cambiato in quei mesi. Il congresso si trova d’accordo, in linea di principio, con la pressante preoccupazione di una parte degli anarchici russi di difendere la rivoluzione dagli attacchi furibondi degli eserciti bianchi, anche se ciò può comportare una temporanea alleanza con i bolscevichi. Nondimeno, l’accentuarsi dell’autoritarismo bolscevico e la soppressione della libertà di stampa alimentano fondati timori sul persistere delle persecuzioni messe in atto contro il movimento anarchico. La Nabat ripone quindi le sue speranze sulla costituzione di un «esercito partigiano» organizzato spontaneamente tra le masse rivoluzionarie e del tutto autonomo. E ovviamente il modello che la Confederazione ha in mente per un simile esercito è il movimento rivoluzionario contadino denominato machnovščina, al comando dell’anarchico Nestor Machno27, che tra il 1918 e il 1921 agisce in una vasta regione dell’Ucraina, a partire da Guljaj Pole, «capitale» del movimento. Il congresso decide quindi di stabilire stretti rapporti con Machno. Molti membri della Nabat saranno infatti attivi nella Commissione per la cultura e l’istruzione del movimento machnovista, in particolare la stessa Fanya, Aaron Baron, Pëtr Aršinov e Volin, che sarà anche nominato responsabile del Consiglio militare insurrezionale. Fanya, Aaron, Volin, Aršinov e gli altri militanti della Nabat raggiungono Machno nell’estate del 1919, dopo che i bolscevichi hanno imposto lo scioglimento della Confederazione obbligandoli a darsi alla macchia. È lo stesso Machno a essere interessato a una stretta collaborazione con gli intellettuali del movimento anarchico russo affinché lo aiutino a istruire i suoi compagni contadini nei principi fondamentali dell’anarchismo. Il gruppo organizza così una Commissione per la cultura e l’istruzione che pubblica materiale di propaganda e tiene conferenze e seminari per le truppe della machnovščina. Nel corso di queste attività, progettano di aprire delle scuole sul modello della Escuela Moderna di Francisco Ferrer, fondano un teatro sperimentale e prendono in considerazione la realizzazione di un piano che fornisca un’istruzione di base a contadini e operai adulti. Dopo il trattato di Brest-Litovsk, firmato il 3 marzo 191828, che sancisce il ritiro della Russia dalla prima guerra mondiale, le truppe tedesche occupano i territori ucraini con l’idea di spazzare via la rivoluzione dei soviet, che ha nel frattempo promosso un vasto processo di redistribuzione delle terre sottratte al latifondo. Dal luglio di quello stesso anno il movimento machnovista, sventolando la bandiera nera dell’anarchia, diventa il protagonista della rivoluzione in quella parte dell’ex Impero russo, incarnando il suo autentico spirito libertario tanto negli esperimenti di autogestione e democrazia diretta, quanto nella guerriglia partigiana che combatterà vittoriosamente contro gli occupanti austro-tedeschi, i nazionalisti ucraini, i revanscisti zaristi e infine contro l’Armata rossa, che dopo un’alleanza tattica, una volta vinta la guerra civile, procede all’annientamento dei machnovisti, ora bollati come «banditi». Nello stesso periodo in cui la machnovščina inizia la sua lotta contro gli eserciti controrivoluzionari bianchi, anche una giovane anarchica, conosciuta con il soprannome di Marusja, sta conducendo la sua lotta rivoluzionaria, giungendo a stringere un’alleanza con lo stesso Machno, interrotta per la prematura morte della donna. Il suo vero nome è Marija Nikiforova. Una recente biografia, tradotta anche in italiano, ne racconta la storia, ancora oggi poco o nulla conosciuta, con il proposito di liberarla dallo stereotipo con cui è rimasta nella memoria collettiva, almeno in Russia e soprattutto in Ucraina, ovvero di essere stata solo una «Atamansha» (comandante militare cosacco), una «Giovanna d’Arco dell’anarchia»29. Forse figlia di un ufficiale, Marija Nikiforova nasce nel 1885 in Ucraina, ad Aleksandrovsk, che lascia a sedici anni per guadagnarsi da vivere in totale indipendenza dalla famiglia. Operaia addetta al lavaggio delle bottiglie in una distilleria di vodka, aderisce al gruppo locale anarchico. A partire dal 1905 partecipa a una serie di azioni terroristiche, finché nel 1908 viene arrestata e condannata a morte, pena poi commutata in venti anni di lavori forzati. Trasferita dapprima nella fortezza di Pietro e Paolo, è poi rinchiusa nella prigione femminile di Novinsky, a Mosca, da dove riesce a fuggire con altre dodici detenute. Nuovamente arrestata nel 1910, viene deportata in Siberia. Anche da lì riesce a scappare, attraversando la taiga fino alla ferrovia transiberiana. Raggiunge Vladivostok, poi il Giappone e infine gli Stati Uniti, dove entra in contatto con il movimento anarchico di New York e Chicago. Qui conosce tra gli altri Fanya e Aaron Baron. Nel 1912 torna in Europa con documenti falsi. Risiede prima a Londra, quindi in Germania, in Svizzera e infine a Parigi. Nella capitale francese frequenta i Café bohémien di Montparnasse e conosce diversi artisti e letterati: Amedeo Modigliani, Oskar Kokoschka, Paul Éluard. Scopre la passione per la pittura e la scultura e conosce il suo futuro marito: l’anarchico polacco Witold Bzhostek. Nel frattempo scoppia la prima guerra mondiale. Nel 1916 la Nikiforova condivide la posizione del gruppo di anarchici che firmano il famoso «Manifesto dei Sedici»30. Quando scoppia la rivoluzione nel 1917, Marija Nikiforova si trova a Salonicco. Decide di tornare immediatamente in Russia. Arriva a Pietrogrado e si lancia nella lotta contro il governo provvisorio a fianco dei bolscevichi. Stringe amicizia con Aleksandra Kollontaj. Dopo la sollevazione del luglio 1917, torna nella sua città natale, ma subito dopo si trasferisce a Kirovograd per organizzare la Guardia nera anarchica, un gruppo di guerriglia che interesserà e in qualche modo affascinerà lo stesso Nestor Machno, con il quale la giovane anarchica si allea a partire dalla metà del 1919. Al contempo intrattiene rapporti anche con i bolscevichi, convinta della necessità di portare avanti una lotta comune contro lo stesso nemico, e infatti già nell’aprile 1918 Antonov-Ovseenko, a capo dell’Armata rossa in Ucraina, rende merito alla Nikiforova e al suo spirito anarchico. Nella seconda metà del 1919, Marusja tenta invano di mettere in atto un piano per liberare alcuni machnovisti detenuti nelle carceri di Char’kov e un altro per uccidere Denikin a Rostov. Catturata, insieme al marito, dalle truppe bianche, viene giustiziata a Sevastopol il 16 settembre 1919. Nell’ottobre 1920 Wrangel, succeduto a Denikin, lancia un’ultima offensiva di vasta portata contro l’esercito bolscevico. Una volta di più l’Armata rossa richiede l’aiuto di Machno e ancora una volta viene stipulata un’alleanza. Il governo di Lenin accorda un’amnistia generale per gli anarchici detenuti e garantisce piena libertà di propaganda per gli anarchici. Quando però la tensione esterna comincia ad allentarsi, grazie anche al contributo degli anarchici e dei partigiani machnovisti, i bolscevichi procedono alla loro sistematica eliminazione, sia politica che fisica. Dopo una serie di successi che le assicurano la vittoria nella guerra civile, l’Armata rossa rompe infatti con Machno, che viene attaccato e sconfitto nell’estate del 1920. La caduta di Machno e del suo movimento, uno tra i più consistenti e significativi della rivoluzione e della guerra civile russa, segna per l’anarchismo russo l’inizio della fine. La valanga di proteste, tra cui quelle della Goldman, di Berkman e della Croce nera anarchica, non riesce a fermare l’Armata rossa di Trockij, che nel novembre 1920 attacca il quartier generale di Machno a Guljaj Pole, mentre la Čeka arresta a Char’kov i militanti della Nabat, spedendoli nelle prigioni moscovite di Taganka31 e Butyrka. Tra gli arrestati c’è naturalmente anche Fanya, che viene reclusa in un primo momento alla Taganka, insieme ad Aaron, e poi subito trasferita alla Butyrka. L’8 febbraio 1921 Fanya, Aaron e altri anarchici reclusi nelle carceri di Mosca ottengono un permesso speciale dal governo di Lenin per poter partecipare ai funerali di Kropotkin. Dopo la cerimonia vengono riportati in carcere. Il 25 aprile 1921, dopo un raid notturno dei čekisti, Fanya viene trasferita dalla Butyrka al campo di concentramento di Rjazan. Pochi giorni dopo, Emma Goldman e Alexander Berkman ricevono una lettera da un’altra delle vittime di quella «spaventosa irruzione notturna», che fa «traboccare l’ira di Sasha, che si era andata accumulando nel corso degli ultimi due mesi». La lettera, che conferma le voci che i due anarchici hanno raccolto il giorno successivo all’aggressione, dice:

La notte del 25 aprile siamo stati attaccati da soldati dell’esercito rosso e da uomini armati della Čeka, che ci hanno ordinato di vestirci e di prepararci a lasciare il carcere di Butyrka. Alcuni detenuti politici, temendo di essere condotti all’esecuzione, si sono rifiutati di andare e sono stati picchiati a sangue. Le donne in particolare sono state maltrattate e alcune di loro sono state trascinate giù per le scale per i capelli. Molte sono state ferite gravemente. Io stessa sono stata picchiata con tale violenza che il mio corpo è tutto un livido. Siamo state portate fuori a forza in camicia da notte e gettate in alcuni vagoni. I compagni del nostro gruppo non sanno niente del resto dei detenuti politici, tra cui vi sono menscevichi, socialisti rivoluzionari, anarchici e anarco-sindacalisti. Dieci di noi, tra cui Fanya Baron, sono stati portati qui [nel campo di concentramento di Rjazan]. Le condizioni in questa prigione sono insopportabili. Nessun esercizio fisico, niente aria, il cibo è scarso e ripugnante; dappertutto una sporcizia terribile, cimici e pidocchi. Abbiamo intenzione di dichiarare uno sciopero della fame per ottenere un trattamento migliore. Ci hanno appena detto di preparare le nostre cose. Ci mandano via di nuovo. Non sappiamo dove32.

Secondo la Goldman, il motivo di quella violenta irruzione nella notte del 25 aprile era dovuta al fatto che «la Čeka non poteva tollerare la relativa libertà che [i detenuti politici] erano riusciti a conquistare» con l’obiettivo di migliorare anche le condizioni dei detenuti comuni:

Costantemente rinchiusi in cella, con cibo abominevole, spesso con i buglioli che non venivano vuotati per due giorni, millecinquecento reclusi avevano fatto sciopero. Era stato interamente merito dei detenuti politici se le richieste […] erano state esaudite e i problemi si erano risolti. La Čeka non aveva perdonato la sconfitta subita a causa dell’intervento dei politici, ed era stata questa la causa dell’aggressione nella notte del 25 aprile […]. Ripetute inchieste da parte del soviet di Mosca circa la sorte dei trecento menscevichi, socialisti rivoluzionari e anarchici trasferiti a viva forza dal carcere di Butyrka erano riuscite solamente a strappare l’informazione che i detenuti erano stati distribuiti tra le prigioni di Orlov, Jaroslav e Vladimir33.

All’inizio di luglio del 1921 Fanya riesce a scappare da Rjazan. La sua fuga ha un preciso obiettivo, quello di liberare Aaron, ancora recluso alla Taganka, insieme agli altri della Nabat. Escogita un piano di fuga insieme al fratello di Aaron, Semion, che si è offerto di aiutarla ma che si rivelerà un informatore della Čeka. Il piano quindi fallisce e Fanya viene nuovamente arrestata e reclusa alla Taganka, dove si ricongiunge con Aaron e ritrova Volin, l’amica Olga e tutto il gruppo della Nabat. Insieme a loro, in tutto tredici, Fanya inizia uno sciopero della fame con l’obiettivo di attirare l’attenzione dei delegati sindacali provenienti dall’estero, che tra il 3 e il 19 luglio partecipano al I Congresso mondiale dell’Internazionale sindacale rossa (o Profintern)34, sulla situazione degli anarchici incarcerati. I delegati tentano di farli liberare rivolgendosi, invano, a Trockij. Negli stessi giorni anche la Goldman e Berkman sono a Mosca per partecipare a quel congresso. Sanno dei tredici anarchici rinchiusi nella Taganka e cercano di avere maggiori informazioni sulle loro condizioni. La Goldman, che incontra Olya Maximova, preoccupata per il compagno Grigorij Maximoff 35 anche lui in carcere, è talmente indignata che pensa di compiere un «gesto teatrale» di protesta «incatenandosi a una panca nell’atrio della sala dove si riuniva il III Congresso del Comintern, gridando in faccia ai delegati il proprio sdegno»36. Dopo undici giorni di sciopero della fame il governo si vede obbligato a concedere la loro liberazione, che però avviene soltanto nella seconda metà di settembre del 1921. Una volta rilasciati, solo dieci di loro vengono subito deportati: Volin, Vorobiov, Mratchny, Michailov, Maximoff, Ioudine, Yartchouk, Gorelik, Feldman e Fëdorov. Tra i nomi non c’è quello di Fanya. Scrive la Goldman:

Berkman era riuscito a mettersi in contatto, non si sa bene come, con Fanya […] che lo informava della situazione. Fanya era stata trasferita in un’altra ala della prigione la sera prima37, insieme ad altri detenuti tra cui Lev Černyj38. La nostra cara, splendida Fanja, raggiante di vita e di amore, salda nella sua consacrazione agli ideali, di una femminilità commovente e tuttavia coraggiosa come una leonessa in difesa del suo cucciolo, dotata di una volontà indomita, aveva lottato fino all’ultimo respiro. Non andò incontro al suo destino passivamente. Resistette e dovette essere portata di peso sul luogo dell’esecuzione dai difensori dello Stato comunista. Ribelle fino all’ultimo, Fanja aveva opposto per un attimo al mostro le sue forze indebolite e poi era stata trascinata nell’eternità mentre il terribile silenzio dei sotterranei della Čeka veniva rotto ancora una volta dalle sue grida al di sopra degli improvvisi colpi di pistola. Avevo toccato il fondo; non potevo più resistere. Nell’oscurità cercavo Sasha a tentoni per supplicarlo di lasciare la Russia con qualunque mezzo […]. [Volevo] andare via, lontano dal dolore, dal sangue, dalle lacrime e dalla morte in agguato39.

Fanya è uccisa in uno dei tanti sotterranei della Čeka, insieme ad altre otto vittime, il 29 settembre 1921, dopo essere stata condannata, senza processo, per aver compiuto «atti criminali» (segnatamente per la pretesa fabbricazione di banconote false)40. Scriverà Victor Serge nelle sue memorie: «Da Odessa ci giunse una notizia mostruosa: la Čeka aveva fucilato Fanya Baron […] e Lev Černyj […] (fu una bassa storia di provocazione in provincia)»41. Note al capitolo

1. «Fanny [Fanya] Baron biting her executioners» è un verso del poema August 22, 1939 scritto del poeta anarchico americano Kenneth Rexroth (1905-1982) e dedicato all’anniversario della morte di Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti. Rexroth scrive anche un secondo poema dal titolo Climbing Milestone Mountain, August 22, 1937. 2. Goldman, Vivendo la mia vita 1917-1928, cit., p. 298. 3. Secondo Paul Avrich gli attivisti anarchici erano almeno diecimila. Cfr. Avrich, Gli anarchici, cit., p. 13. 4. Dopo il suo rientro in Russia nell’estate del 1917, Volin, insieme a Shapiro, riprende le pubblicazioni del settimanale sindacalista «Golos Truda». Cfr. Avrich, Gli anarchici, cit., p. 35. Nel 1947, Jacques Doubinsky e l’associazione Les Amis de Voline pubblicano postuma la sua opera dal titolo La Révolution inconnue, la prima ricostruzione della storia del movimento anarchico russo durante la rivoluzione. Cfr. Volin, La rivoluzione sconosciuta, a cura di Ugo Mazzucchelli, Franchini, Carrara 1976; Id., La rivoluzione uccisa. Gli anarchici in Russia 1917-1921, a cura di Giovanna Berneri e Cesare Zaccaria, Res Gestae, Milano 2015. 5. Nata a Varsavia nel 1899, Leah Feldman emigra molto giovane a Londra dove si guadagna da vivere nei cosiddetti sweat-shops (le fabbriche del sudore) dell’East End. Allo scoppio della rivoluzione russa raggiunge Mosca. Ha diciotto anni. Poco dopo si trasferisce in Ucraina dove lotta nel movimento machnovista. Arrestata dai bolscevichi e inviata a Mosca, è una delle detenute che partecipa ai funerali di Kropotkin. Nel 1922 viene liberata e riesce a tornare in Inghilterra, dove muore il 7 gennaio 1993. 6. Gli esuli anarchici di ritorno si riuniscono agli anarchici rimasti in Russia, tra cui Grigorij Maximoff, Olya Maximova, Olga Taratuta. Più tardi, tra il 1919 e il 1920, arriveranno dall’estero anche Victor Serge, Emma Goldman, Alexander Berkman e Mollie Steimer, per citare i più noti. 7. Su Lucy Parsons, vedi Pezzica, Anarchiche, cit., pp. 39-44. 8. La rivista è fondata dalla Goldman e da Berkman nel 1906. 9. Avrich, Gli anarchici, cit., p. 9. «La passione di distruggere è anche una passione creativa» è una frase di Michail Bakunin. 10. Kenneth Rexroth è stato uno dei primi poeti americani a esplorare le tradizioni poetiche giapponesi come l’haiku. Fautore del rinascimento poetico di San Francisco, appartiene anche lui alla Beat Generation, sebbene più tardi la criticherà. 11. Paul Avrich, L’altra anima della rivoluzione. Storia del movimento anarchico russo, Antistato, Milano 1978, pp. 159-161. 12. Orlando Figes, La tragedia di un popolo. La rivoluzione russa 1891-1924, Mondadori, Milano 1997, p. 484. 13. Ibid. 14. Avrich, Gli anarchici, cit., p. 14. 15. Grigorij Petrovič Maximoff, Gli anarco-sindacalisti nella rivoluzione russa, Edizioni del Centro Studi Libertari Camillo Di Sciullo, Chieti 2003, p. 16. 16. Gianfranco Ragona, Anarchismo. Le idee e il movimento, Laterza, Bari-Roma 2013, p. 87. 17. Lev Černyj nasce a Mosca attorno al 1890. Non si sa molto sulla sua infanzia né sui suoi studi. Le prime notizie risalgono al 1907, quando pubblica il libro Associazionismo anarchico, un’opera influenzata dal pensiero di Max Stirner. Per le sue attività rivoluzionarie viene arrestato e spedito in Siberia. Tornato a Mosca nel 1917, si dedica all’insegnamento. Benché segretario della Federazione dei gruppi anarchici di Mosca, è riconosciuto come un esponente di spicco dell’individualismo anarchico russo. 18. Avrich, L’altra anima della rivoluzione, cit., pp. 224-225. 19. Ragona, Anarchismo, cit., p. 88. 20. Isaac Steinberg, Spiridonova, Revolutionary Terrorist, Methuen & Co., London 1935, p. 238. 21. Avrich, L’altra anima della rivoluzione, cit., p. 244. 22. Sulle vicende della Nabat, vedi Avrich, L’altra anima della rivoluzione, cit., pp. 241-274. 23. Avrich, L’altra anima della rivoluzione, cit., p. 244. 24. Georgij Valentinovič Plechanov (1856-1918), teorico del marxismo russo, nel 1903, in occasione della scissione del Partito operaio socialdemocratico russo fra bolscevichi e menscevichi, si schiera con questi ultimi divenendo un esponente di spicco di questa corrente. 25. Avrich, L’altra anima della rivoluzione, cit., p. 244. 26. Ibid., pp. 245-246. 27. Su Nestor Machno e la machnovščina, vedi Pëtr Aršinov, Storia del movimento machnovista, Collana Porro, Edizioni RL, Napoli 1954; Alexander V. Shubin, Nestor Machno: bandiera nera sull’Ucraina. Guerriglia libertaria e rivoluzione contadina (1917- 1921), elèuthera, Milano 2012; Ettore Cinnella, Machno nella rivoluzione ucraina del 1917-1921, «Rivista storica dell’anarchismo», Pisa, a. 7, n. 1 (3), gennaio-giugno 2000, pp. 9-46; Id., Makhno et la révolution ukrainienne, traduit de l’italien par Isabelle Felici, Atelier de création libertaire, Lyon 2003. 28. La pace di Brest-Litovsk, firmata il 3 marzo 1918 fra le potenze centrali e la Russia sovietica guidata da Lenin, sancisce l’uscita di quest’ultima dalla prima guerra mondiale, prevedendo durissime condizioni e la perdita di circa un quarto dei territori europei. Sarà annullata nel 1919 dal Trattato di Versailles. 29. Su Marija Nikiforova, vedi Mila Cotlenko, Marija Nikiforova. La rivoluzione senza attesa. L’epopea di un’anarchica attraverso l’Ucraina (1902-1919), Edizioni El Rùsac, Trento 2016. 30. Redatto nel 1916, in pieno conflitto mondiale, e sottoscritto da alcuni noti esponenti anarchici tra cui Pëtr Kropotkin e Jean Grave, il «Manifesto» auspica la vittoria della Triplice Intesa (Francia, Gran Bretagna, Russia) e la sconfitta degli imperi centrali (Germania, Austria- Ungheria, Impero ottomano, Bulgaria), in quanto capace di ingenerare, secondo i firmatari, un movimento sociale rivoluzionario. Il «Manifesto» provoca la dura risposta di Errico Malatesta, che pur riconoscendo la buona fede dei firmatari, li accusa di tradire i principi dell’anarchismo. A Malatesta, che esprime la convinzione della stragrande maggioranza del movimento anarchico internazionale sulla questione della guerra, si uniscono altri anarchici tra cui Luigi Fabbri, Emma Goldman, Rudolf Rocker, Alexander Shapiro, Gustav Landauer, Erich Mühsam. 31. Il carcere della Taganka era stato costruito a Mosca nel 1804 dallo zar Alessandro I. 32. Goldman, Vivendo la mia vita 1917-1928, cit., p. 268. 33. Ibid., p. 269. 34. Costituita nel 1921 in contrapposizione alla Federazione sindacale internazionale, ritenuta controrivoluzionaria, sarà soppressa nel 1937. Nello stesso periodo si svolgeva, sempre a Mosca, il III Congresso dell’Internazionale comunista (Comintern), precisamente dal 22 giugno al 12 luglio 1921. 35. A Maximoff viene data la possibilità di chiedere asilo politico all’estero, prima a Berlino, poi a Parigi e infine negli Stati Uniti. Una delle sue opere principali è The Guillotine at Work: Twenty Years of Terror in Russia, pubblicata nel 1940 dalla Chicago Section of the Alexander Berkman Fund. In questo libro Maximoff rileva come il carattere repressivo del regime sovietico fosse già evidente nei primissimi anni dello Stato sovietico e non già il risultato della successiva degenerazione stalinista. 36. Avrich, Gli anarchici, cit., p. 29. 37. Goldman, Vivendo la mia vita 1917-1928, cit., p. 297. 38. Lev Černyj sarà giustiziato il 21 settembre. 39. Goldman, Vivendo la mia vita 1917-1928, cit., p. 298. 40. «È stato poi provato che i libertari fucilati non avevano alcun rapporto con i delitti in questione. Ed è stato provato, d’altra parte, che il preteso della fabbricazione di biglietti falsi era stato montato di sana pianta dalla stessa Čeka. Due suoi agenti, il nominato Steiner (detto Kamenny) e un autista della Čeka, si erano introdotti negli ambienti libertari e, nello stesso tempo, in alcuni ambienti criminali, onde poter ‘constatare’ i legami fra i due e combinare ‘l’affare’. Il tutto si compiva sotto la direzione della Čeka e con la stretta complicità dei suoi agenti. Architettate e messe insieme le indispensabili apparenze, ‘l’affare’ fu montato e reso pubblico. Così, per giustificare i suoi altri delitti con uno nuovo, il governo sacrificò ancora alcuni anarchici e tentò di infangarne la memoria». Cfr. Volin, La rivoluzione sconosciuta, cit., p. 358. 41. Victor Serge, Memorie di un rivoluzionario, E/O, Roma 2012, p. 188. CAPITOLO SECONDO Nessuna cricca di partito mi avrebbe imbavagliato

[Ad Angelica Balabanoff] le aprii il mio cuore e le raccontai tutto, le violente emozioni provate, le disillusioni, gli incubi, tutti gli eventi e i pensieri terribili che mi opprimevano fin dal mio arrivo. Qual era la risposta, quale spiegazione si poteva dare? Di chi erano le responsabilità? […] Sentivo di dover sondare le radici nascoste dei mali della Russia, scandagliarne le cause ed esporle a gran voce. Nessuna cricca di partito mi avrebbe imbavagliato1. Emma Goldman

Nel febbraio del 1917 sono ormai trentadue anni che Emma Goldman si trova negli Stati Uniti2. Nello stesso periodo negli Stati Uniti ci sono anche Fanya Baron, che raggiungerà Pietrogrado, insieme al compagno Aaron, prima dell’estate, e Mollie Steimer, che invece giungerà in quella stessa città nel dicembre 1921. A New York, vivono inoltre Aleksandra Kollontaj, che tornerà nella Russia rivoluzionaria nel marzo 1917, Trockij, che lo farà in maggio, e John Reed, che all’inizio di quell’anno ha sposato la giornalista Louise Bryant e con lei sarebbe partito nell’autunno alla volta di Pietrogrado per raccontare I dieci giorni che sconvolsero il mondo3. Quando scoppia la rivoluzione del febbraio 1917, il movimento anarchico internazionale saluta con entusiasmo il rovesciamento del regime zarista. Emma Goldman è tra i pochi che mantiene un atteggiamento più prudente, di attesa. Ma quando nell’ottobre 1917 avviene la presa del potere da parte del Partito bolscevico, la Goldman saluta l’avvenimento come il superamento di una fase di incertezza che rischiava di soffocare la rivoluzione appena nata: «La rivoluzione d’ottobre improvvisamente squarciò le nubi e le sue fiamme raggiunsero gli angoli più remoti della terra, portando con sé il messaggio della realizzazione della suprema promessa che la rivoluzione di febbraio aveva offerto»4. Lo squarcio di luce della rivoluzione viene contrapposto a un clima politico che «si faceva sempre più cupo di giorno in giorno; l’atmosfera era carica di odio e di violenza e in tutti gli Stati Uniti non si intravedeva alcun segnale confortante. Ancora una volta fu la Russia a diffondere il primo raggio di speranza su un mondo altrimenti disperato»5. Se più tardi anche per lei la conquista del potere da parte dei bolscevichi rappresenterà il crollo della speranza di realizzare una vera rivoluzione libertaria, in quei giorni di autunno la Goldman condivide l’entusiasmo per la vittoria di Lenin e del suo partito contro il governo provvisorio di Kerenskij: «La rivoluzione d’ottobre rappresentò il culmine di sogni e di desideri pieni di passione, l’esplosione della rabbia popolare contro il partito [di Kerenskij] in cui le masse avevano riposto la loro fiducia e che aveva fallito il proprio compito»6. Nondimeno, se da una parte identifica in Lenin e nel suo partito l’espressione più avanzata della rivoluzione, dall’altra afferma con forza che la rivoluzione d’ottobre «così come l’abbattimento del governo [zarista] a febbraio, erano opera delle masse, il glorioso risultato della loro azione»7. Quelli della Goldman sono giudizi in parte condizionati dall’evolversi tumultuoso degli avvenimenti russi, in parte influenzati dal desiderio di difendere quella rivoluzione tanto attesa. Un miscuglio di ragionamenti e sentimenti che sono comuni alla maggioranza dei movimenti rivoluzionari di quel periodo, in Europa così come in America. Dalle pagine della sua rivista, «Mother Earth»8, si impegna in una strenua difesa dei bolscevichi «dalle calunnie e dalle infamie»9 mosse dai giornali «borghesi». Nello stesso tempo, lancia una dura campagna di opposizione all’ingresso degli Stati Uniti nella prima guerra mondiale, scoppiata tre anni prima, incitando i giovani americani alla disobbedienza civile, disertando o sottraendosi alla coscrizione obbligatoria. Arrestata e condannata, insieme ad Alexander Berkman, per la sua propaganda contro la guerra, alla fine del 1919 «Red Emma»10 viene espulsa dagli Stati Uniti e deportata in Russia. Il 5 dicembre 1919 la Goldman è trasferita a Ellis Island in attesa dell’imbarco. Lì, insieme ad altre donne, viene condotta «in una cabina, surriscaldata e piena del fumo proveniente da una stufa di ferro. Ci sentivamo soffocare, non c’erano né aria né acqua. Poi sentimmo una forte scossa. Eravamo partiti. Guardai l’orologio: erano le quattro e venti del giorno del Signore 21 dicembre 1919»11. Su una grande nave, la Buford, ribattezzata dalla stampa americana l’Arca dei Soviet, la Goldman, insieme ad altri duecentoquarantanove «stranieri», inizia un lungo viaggio per raggiungere forzatamente la Russia, un viaggio che al contempo la farà entrare nella fase più difficile della sua esistenza. Trascorrerà infatti il resto della vita in esilio. Esausta, si trascina nella sua cuccetta e crolla addormentata. «L’unica speranza a cui poteva aggrapparsi mentre diceva addio all’America», scrive Bruna Bianchi, «era quella di veder realizzato in Russia il sogno per il quale aveva lottato tutta la vita»12. La traversata in mare dura diciannove giorni. Poi il porto di Hanko, in Finlandia. Lì, insieme a Berkman, che lei chiama affettuosamente Sasha, viene consegnata alle autorità locali e rifornita di provviste per tre giorni. Un treno l’aspetta per portarla nella «Russia sovietica! Terra sacra, popolo prodigioso! Voi siete assurti a simbolo della speranza dell’umanità, voi soli siete destinati a redimere la razza umana. Sono venuta a servirti, amata matushka, amata terra madre»13. Durante il suo soggiorno in Russia, che durerà all’incirca due anni, Emma Goldman muterà progressivamente il suo giudizio sul bolscevismo, rivedendo radicalmente la sua posizione, individuando gli errori e le derive del processo rivoluzionario in atto e infine opponendosi fermamente al potere bolscevico. E questo mentre gli eventi della guerra civile e della crisi socio- economica incalzano. La sua capacità di analisi e il suo coraggio, pur sfociando talvolta in atteggiamenti che possono apparire contraddittori, la fanno diventare un’acuta oppositrice del bolscevismo, proprio quando altri radicali americani, come John Reed, rimangono invece succubi del suo fascino. Le attività svolte inizialmente dalla Goldman nella Russia sovietica sono molto intense e condotte con grande entusiasmo, come testimoniano le memorie. A differenza di tanti altri rivoluzionari stranieri, la Goldman non ha bisogno di interpreti e grazie alla collaborazione con il Museo della Rivoluzione di Pietrogrado e al correlato lavoro di raccolta dei documenti sulla rivoluzione, può viaggiare in varie regioni della Russia. Senza cedere a trasfigurazioni romantiche, ha modo di osservare la realtà per quella che è, iniziando a rendersi conto della veridicità dei racconti che aveva ascoltato, soprattutto da parte degli anarchici, e che l’avevano lasciata scettica e incredula:

Le ripugnanti piaghe che devastavano la Russia rivoluzionaria non potevano essere ignorate a lungo. I fatti descritti durante l’incontro degli anarchici di Mosca, l’analisi della situazione fatta dai socialisti rivoluzionari di sinistra e le conversazioni che avevo avuto con persone comuni, prive di affiliazioni politiche, erano tutti elementi che mi permisero di guardare al di là delle scenografiche rappresentazioni della rivoluzione e di guardare in faccia la dittatura quand’era priva del suo belletto di scena14. Eppure, nonostante un’affermazione così netta, la Goldman fa fatica ad accettare quanto sta accadendo e infatti scrive:

Benché il bolscevismo mi apparisse ormai in tutta la sua nudità, non riuscivo ancora a crederci. Ero sbalordita, sconcertata, mi mancava la terra sotto i piedi. E mi ci attaccavo, mi ci attaccavo come un uomo che sta annegando si aggrappa a qualunque corda15.

Una corda che ormai è vicinissima a spezzarsi. Di fronte alle repressioni, alle deportazioni, alle ingiustizie sociali, alla corruzione, alla desolazione dei contadini, alla militarizzazione del lavoro e alla fredda indifferenza per la vita umana, il suo entusiasmo si trasforma prima in amarezza e poi in disillusione. La Goldman si rende sempre più conto dell’involuzione autoritaria della rivoluzione e della dura persecuzione del governo bolscevico nei confronti degli anarchici, e non solo. Come le conferma anche Pëtr Kropotkin durante un colloquio. Inizia allora a partecipare a riunioni e assemblee in cui esprime il suo dissenso, nonostante l’intensa attività repressiva della Čeka. Sottoscrive documenti e proclami che vengono inviati a Lenin e ai dirigenti più influenti del partito per denunciare le dure persecuzioni nei confronti degli anarchici e di tutti gli oppositori di sinistra. Documenti che però restano lettera morta. Da questo punto di vista, le pagine della sua autobiografia sono anche una cronaca amara del clima sempre più oppressivo, persecutorio e dittatoriale del regime bolscevico. La rivolta di Kronštadt nel marzo del 1921 la vede in prima fila a difendere le richieste dei rivoltosi. Ma la condanna di Lenin e Trockij è senza appello. Nonostante la richiesta di una commissione per esaminare la situazione in modo da trovare una soluzione pacifica, la risposta dei bolscevichi è prima negativa. E poi sanguinosa. La successiva reazione contro gli anarchici sarà violenta e definitiva, soprattutto dopo la virulenta denuncia di Bucharin sull’attività «controrivoluzionaria» degli anarchici. Kronštadt spezzerà l’ultimo filo che legava la Goldman ai bolscevichi: «L’insensato macello che avevano commesso parlava contro di essi più eloquentemente di qualunque altra cosa. Quali che fossero le loro pretese in passato, ora i bolscevichi avevano dato prova di essere i più pericolosi nemici della rivoluzione. Non potevo avere più niente a che fare con loro»16. Ma torniamo indietro ai primi giorni della loro permanenza in Russia, quando Emma e Sasha arrivano a Pietrogrado nel febbraio del 1920, accolti da Zorin e Liza, due russi filobolscevichi che li mettono al corrente dell’evolvere della situazione. All’epoca sono passati quasi due anni da quando il governo bolscevico ha varato una serie di provvedimenti economici e sociali che vanno sotto il nome di «comunismo di guerra». Questi provvedimenti, considerati necessari per reagire alla grave situazione in cui versa il paese, dilaniato dalla guerra civile, minacciato dall’intervento straniero e con un’economia disastrata dal conflitto mondiale e dalla stessa rivoluzione, hanno comportato la nazionalizzazione completa delle industrie; il controllo diretto e la requisizione forzata delle derrate alimentari e della produzione industriale; il controllo diretto della produzione agricola; il divieto di ogni compravendita privata; il razionamento del cibo basato su un sistema di tessere annonarie che ha portato alla nascita di un fiorente mercato nero e al sensibile impoverimento della popolazione urbana. Solo nel marzo del 1921 questi provvedimenti saranno abrogati in favore di quella che verrà definita la Nuova Politica Economica (NEP). In compagnia di Zorin, i due anarchici incontrano casualmente una vecchia conoscenza del periodo americano, Bill Shartoff. E non sarà l’unico incontro casuale: quando la Goldman e Berkman arriveranno a Char’kov, in Ucraina, rivedranno tra gli altri anche Fanya e Aaron Baron e Leah Feldman. A Pietrogrado, la Goldman partecipa subito a una riunione anarchica. Non capisce perché la riunione sia clandestina. Forse per una visione troppo romantica della rivoluzione? Non le sono nemmeno ben chiare le differenze sostenute fra la concezione anarchica e quella bolscevica della rivoluzione e racconta della gelida accoglienza riservata ad alcune sue affermazioni che invitano alla collaborazione con i bolscevichi. In quel periodo conosce operai e marinai di Kronštadt che la mettono a parte delle loro amarezze e delusioni dichiarando che i bolscevichi si sono appropriati indebitamente della rivoluzione. Uno di loro è stato addirittura condannato a morte dal nuovo regime per le sue idee anarchiche. È riuscito a evadere e ora vive in clandestinità. La censura colpisce ovunque, i soviet democratici e popolari sono passati sotto la tutela del governo, le prigioni traboccano. Lei rimane comunque scettica, non riesce a credere a quanto le raccontano sulla vera situazione della Russia rivoluzionaria, sulle persecuzioni del governo contro di loro. Le ritiene accuse frettolose che non tengono conto della situazione eccezionale che sta vivendo la rivoluzione. Pensa che siano amareggiati, disincantati e politicamente incoerenti. Gli anarchici russi le suggeriscono di andare a distribuire gli opuscoli di Kropotkin a una riunione bolscevica per verificare i fatti. Da parte sua, Zorin la informa che le prigioni in Russia sono vuote e che la pena di morte è stata abolita. Si recano insieme a una riunione del soviet di Pietrogrado, e lì apprende la parola «controrivoluzionario». È sempre Zorin a spiegare a Emma che «la libertà di parola è una superstizione borghese. In un periodo rivoluzionario non può esservi libertà di parola»17. Nei momenti in cui riesce a stare da sola, senza la presenza di Zorin, Emma cammina per le strade di Pietrogrado, entra negli edifici, nei negozi, ovunque. E nota, pur tra le difficoltà oggettive del periodo come i sabotaggi, gli embarghi, le offensive degli eserciti bianchi, comportamenti e abitudini che reputa contrari a un’etica rivoluzionaria: da una parte i privilegi alimentari per i funzionari di partito e gli ospedali moderni riservati solo a loro; e dall’altra il numero esorbitante di tessere annonarie per una popolazione drammaticamente in difficoltà che non può accedere ai negozi ben forniti riservati ai burocrati del governo. Una visione della quotidianità che nasconde una visione della società. È sempre Zorin che cerca di spiegare razionalmente alla Goldman i motivi oggettivi di una tale situazione. Dopo aver incontrato per ben due volte lo scrittore Maksim Gor’kij, che cerca di convincerla a difendere l’operato dei bolscevichi (lui che ne è stato inizialmente un duro oppositore, a tal punto che Lenin si trova a minacciarlo di morte in una lettera del 191918), Emma, sempre insieme a Sasha, decide di lasciare Pietrogrado e andare a Mosca per scoprire da sola, senza guide, la nuova società rivoluzionaria. Leggendo la sua autobiografia, è facile constatare come la Goldman sia continuamente assalita da dubbi rispetto a quello che sta accadendo in Russia. Diventa impellente per lei parlare direttamente con i bolscevichi, confrontarsi con loro:

Sia Sasha che io continuavamo a credere che i bolscevichi fossero nostri fratelli, impegnati in una comune lotta: su questo convincimento si giocavano la nostra vita e le nostre speranze rivoluzionarie. Lenin, Trockij e i loro collaboratori erano l’anima della rivoluzione e i suoi difensori più accaniti, di questo eravamo certi. Saremmo andati a parlare con loro, con Lunačarskij, con la Kollontaj, con la Balabanoff19.

Emma non vuole certamente incontrare soltanto leader bolscevichi. Pensa in particolare a Kropotkin. Nonostante la posizione nei confronti della prima guerra mondiale li abbia divisi, il vecchio anarchico resta per Emma un punto di riferimento fondamentale:

Rivedere Pëtr era troppo importante […]: tra tutti era la persona più indicata per aiutarmi a emergere dalla palude del dubbio e della disperazione in cui stavo affondando20.

Rivederlo, però, significa affrontare in pieno inverno un viaggio in treno non agevole per raggiungere Dimitrov, il villaggio dove risiede Kropotkin: pur essendo distante da Mosca solo sessanta chilometri, in quel periodo è molto difficile intraprendere un viaggio del genere. Occorre aspettare la primavera. Dovendo rimandare il viaggio a Dimitrov, la Goldman decide di incontrare Aleksandra Kollontaj e Angelica Balabanoff. Sono decisamente più facili da raggiungere: entrambe vivono a Mosca e alloggiano al National, lo stesso hotel della Goldman. Emma incontra per prima la Kollontaj, che vive in un piccolo appartamento di due stanze arredato con gusto e ingentilito – «nel mezzo del grigiore russo» – da alcune rose poste sullo scrittoio, che sorprendono la Goldman: «Erano le prime che vedevo da quando eravamo stati deportati». La Kollontaj «aveva un aspetto giovanile e radioso nonostante i suoi cinquant’anni e la seria operazione che aveva recentemente subìto. Era una donna alta e maestosa, più una grande dame che un’ardente rivoluzionaria […]. La stretta di mano che mi diede era fiacca e distante, anche se mi disse che era felice di incontrarmi»21. La Goldman le confida immediatamente tutte le sue incertezze e i dubbi che più la turbano rispetto al processo rivoluzionario, che vede pieno di apparenti contraddizioni. «Tutti i nuovi arrivati attraversano una fase del genere» le assicura la Kollontaj, aggiungendo che ben presto ognuno impara a vedere la grandezza della Russia sovietica. I dettagli non contano. Ma per la Goldman non si tratta di dettagli bensì di «questioni vitali […] della massima importanza», e dunque continua a esporre le proprie perplessità, alle quali la Kollontaj risponde così:

Effettivamente c’è qualche macchia scura che compare qua e là nel vivido quadro della rivoluzione […] sono inevitabili in un paese così arretrato, con una popolazione così oscurantista e un esperimento sociale di così larga portata a cui si oppone il mondo intero. Spariranno non appena avremo liquidato i fronti di guerra e avremo innalzato il livello mentale della masse […]. Perché non vi unite a me e non la smettete di rimuginare su qualche punto oscuro? Sono cose che non contano, cara compagna, che non contano affatto22.

Dentro di sé Emma pensa che «gente perseguitata, messa in prigione, uccisa per le proprie idee, vecchi e giovani tenuti in ostaggio, ogni forma di protesta imbavagliata, ingiustizie e favoritismi crescenti, i più alti valori umani traditi, lo stesso spirito della rivoluzione gettato alle ortiche» non siano affatto solo dei «punti oscuri», e si sente «gelare fin nel midollo delle ossa»23. Finisce così un colloquio che la Goldman ricorda «freddo». La Kollontaj in quel periodo ha già rapporti problematici con il partito di Lenin essendosi schierata con l’opposizione guidata da Bucharin. Non a caso poche pagine più avanti la stessa Goldman, accennando al pericolo rappresentato dai «burocrati» della rivoluzione, capaci di «affondare la nave rivoluzionaria», si dice convinta che anche la Kollontaj ne fosse consapevole, «ma agiva da diplomatica e cercava di minimizzare gli aspetti più crudi e spiacevoli»24. Aleksandra Kollontaj25 (1872-1952) torna a Pietrogrado nel marzo del 1917 passando dalla Norvegia. Giornalista scomoda e scrittrice trasgressiva, già dai primi anni del secolo è una delle maggiori esponenti del femminismo socialista e comunista, insieme a Klara Zetkin con la quale condivide amicizia e idee26. Lo scoppio della rivoluzione la convince che le donne sono finalmente entrate nell’epoca della loro definitiva liberazione sia dallo sfruttamento capitalistico sia dalla loro condizione di subordinazione e inferiorità. Ma è proprio negli anni tra il 1917 e il 1921 che il bolscevismo femminista prende forma. Nel 1918 le donne bolsceviche, riunite nel I Congresso delle donne lavoratrici russe, costituiscono una specifica sezione del partito, lo Żenotdel, il cui compito è promuovere la partecipazione delle donne alla vita pubblica e combattere l’analfabetismo. Inizialmente sotto la guida di Inessa Armand27, con il sostegno di Nadežda Krupskaja, la moglie di Lenin, la sezione verrà poi affidata, per un periodo, alla Kollontaj. Tuttavia, le teorie femministe che va elaborando vanno ben oltre le intenzioni del Partito bolscevico. Per lei, la battaglia per l’emancipazione della donna è infatti un momento di profondo rinnovamento che deve toccare anche il costume e la morale sentimentale e sessuale. Curiosamente, nonostante l’impegno di entrambe nella lotta per l’emancipazione femminile, le due donne durante il loro incontro non affrontano la questione, anche se la Goldman è ormai una delle voci più importanti del movimento anarco-femminista internazionale28, insieme a personaggi di spicco come Voltairine de Cleyre29 e Lucy Parsons. D’altronde, l’incontro avviene quando la Kollontaj è già in fase di declino politico proprio per essersi schierata con l’opposizione a Lenin. Il culmine della sua popolarità lo raggiunge quando viene arrestata, per ordine di Kerenskij, durante la rivolta del luglio 1917. È infatti ancora detenuta quando viene eletta all’Assemblea costituente30. Subito dopo la rivoluzione d’ottobre, la Kollontaj è chiamata a far parte del nuovo governo. Quando viene nominata, prima donna nella storia, commissaria del popolo per l’assistenza sociale, la notizia fa il giro del mondo31. Nei giorni successivi alla firma del trattato di Brest-Litovsk, la Kollontaj però si dimette dalla carica di commissaria, allineandosi alle posizioni espresse dai «comunisti di sinistra», una corrente d’opposizione guidata da Bucharin. Nel 1919 fonda, con Alexander Šljapnikov, Sergej Medvedev e Yuri Lutovinov, la frazione Opposizione operaia che al X Congresso, nel marzo 1921, di fronte ai segni evidenti di involuzione burocratica del nuovo regime, rivendica un ritorno al significato originario dei soviet. Tuttavia la Kollontaj non sarà in grado di cogliere appieno l’involuzione del partito tanto che non si batterà contro la repressione sanguinaria scatenata contro Kronštadt. Il suo declino politico diverrà definitivo dopo il 1921. Quando, tra il 1922 e il 1923, la Kollontaj scriverà alcuni dei suoi articoli più importanti sulla nuova morale comunista, sulla famiglia e sull’amore, questi verranno accolti sfavorevolmente, provocando grande scalpore e un’ondata di indignate lettere di protesta. In particolare, Lenin definirà la visione dell’amore proposta dalla Kollontaj come la «teoria del bicchiere d’acqua», cioè del sesso facile e senza complicazioni. Sconfitta politicamente e culturalmente, la Kollontaj ripiega verso la vita privata e verso impegni «politici» minori che la mettono al riparo dalla repressione, riuscendo così a sopravvivere alle persecuzioni staliniane, caso eccezionale tra i dirigenti bolscevichi del 1917. Dal 1923, ancora con Lenin, intraprende la carriera diplomatica: è in Messico dal 1925 al 1927, in Norvegia dal 1927 al 1930 e in Svezia dal 1930 al 1945. Muore a Mosca il 9 marzo 1952. Qualche tempo dopo la conversazione con la Kollontaj, nell’ora del suo crepuscolo, la Goldman incontra una seconda bolscevica «scomoda». È Angelica Balabanoff. Un nome famoso nella storia del movimento operaio e socialista internazionale, in particolare italiano, affiancato spesso a quello di un’altra nota rivoluzionaria russa che troverà anche lei in Italia la sua seconda casa: Anna Kuliscioff. In quel momento la Balabanoff è ancora segretaria del Comitato esecutivo dell’Internazionale comunista, incarico che le è stato affidato direttamente da Lenin, ma che la Balabanoff ha accettato con qualche perplessità dovuta sia ai metodi autoritari e senza scrupoli dei dirigenti bolscevichi nel condurre le battaglie politiche, sia alla presenza di Zinov’ev alla presidenza. Impegnata strenuamente nella propaganda durante la guerra civile, ben presto entra in urto con Zinov’ev, subendo una progressiva e sostanziale emarginazione dai vertici dell’Internazionale, fino a dover rinunciare, nel 1921, a ogni incarico e lasciare la Russia32. Il racconto della conversazione avuta con la Balabanoff si mantiene su toni pacati e in alcuni casi quasi poetici:

La trovai malata, rannicchiata su un divano della piccola stanza dove viveva, ma mi dedicò immediatamente tutto il suo interesse e le sue attenzioni […]. Perché avevo aspettato tanto prima di cercarla? […] Le aprii il mio cuore e le raccontai tutto, le violente emozioni provate, le delusioni, gli incubi, tutti gli eventi e i pensieri terribili che mi opprimevano fin dal mio arrivo33.

La Balabanoff suggerisce alla Goldman di incontrare Lenin in persona, impegnandosi a organizzare l’incontro non appena possibile: «‘Devi parlare con Il’ič’ […] solo lui, Lenin, poteva aiutarmi, perché lui sapeva come andare incontro alle richieste della vita»34. Lo incontrerà, insieme a Sasha, l’8 marzo 1920. Poco dopo Emma riesce a raggiungere Kropotkin, che da Dimitrov ha inviato una lettera a Lenin per manifestare le sue critiche a quella che considera una pericolosa involuzione della rivoluzione:

Una cosa è certa. Anche se la dittatura di un partito fosse un mezzo efficace per rovesciare il sistema capitalista, cosa di cui dubito, sarebbe assolutamente nocivo per l’instaurazione del nuovo regime socialista. È necessario, è essenziale, che la costruzione si faccia localmente, con le forze esistenti su ciascun territorio […]. Se l’attuale situazione si prolunga, la stessa parola socialismo diventerà una maledizione.

La risposta a quella lettera Lenin la darà nel maggio di quello stesso anno quando pubblica L’estremismo, malattia infantile del comunismo. Come ricorda lo storico Max Leroy, Trockij darà a Kropotkin del «vecchio imbecille» e i manuali scolastici sovietici lo qualificheranno come «capo di una banda di terroristi guerrafondai e oggettivamente controrivoluzionari»35. Sbagliavano. Poter viaggiare in lungo e in largo per il territorio russo in modo da conoscere da vicino la realtà della rivoluzione e allo stesso tempo prendere i contatti con il movimento anarchico disperso e perseguitato dal governo bolscevico, ma in verità ancora attivo e combattivo per la rivoluzione: è questo il motivo principale per cui la Goldman e Berkman accettano l’incarico di lavorare per il Museo della Rivoluzione di Pietrogrado. Il progetto viene loro proposto da una giovane donna anarchica che la Goldman trova «molto interessante», Alexandra Shakol, e prevede di raccogliere in tutto il paese gli oggetti di valore legati agli eventi rivoluzionari. Dietro sua richiesta, viene assicurato alla Goldman che non ci sarà nessun commissario a supervisionarla, di conseguenza lei accetta l’incarico di tesoriera e soprintendente. Il 9 ottobre 1919 a Pietrogrado è infatti stato inaugurato, in un luogo simbolico come il Palazzo d’Inverno, il Museo della Rivoluzione, ospitato al secondo piano dell’imponente edificio. I primi visitatori si presentano l’11 gennaio 1920. Nel corso dello stesso anno la direzione del museo decide di organizzare una spedizione che batta tutto il territorio russo per raccogliere i «documenti riguardanti la rivoluzione e il movimento rivoluzionario in Russia fin dalle origini. Il materiale raccolto avrebbe poi costituito un archivio per lo studio della grande sollevazione»36. L’offerta della Shakol è un’occasione unica per poter vedere la Russia «nella sua vita quotidiana in mezzo alla rivoluzione, per apprendere di prima mano ciò che la rivoluzione aveva fatto per le masse e come essa influenzava le loro vite»37. Nello stesso tempo la Goldman non è del tutto convinta dell’incarico. La sua intenzione era quella di partecipare attivamente alla rivoluzione, e invece, ironia della sorte, si vede condannata «a collezionare materiale morto in mezzo al ribollire della vita russa». Tuttavia, il materiale raccolto avrebbe potuto aiutare gli storici del futuro a stabilire il corretto rapporto intercorso tra la rivoluzione e i bolscevichi: «Forse era un tentativo che valeva la pena di compiere»38. Emma e Sasha decidono di provarci e una mattina si dirigono verso il Palazzo d’Inverno, sede del Museo della Rivoluzione. La Shakol si è ammalata di tifo ed è in convalescenza. Vengono dunque accolti dal segretario del museo, M. B. Kaplan. La nuova istituzione ha già del materiale a disposizione, come gli archivi segreti del regime zarista che comprendono «gli atti ufficiali della terza sezione politica documentanti le attività del suo sistema spionistico. Gran parte della sua raccolta era già stata sistemata, catalogata e preparata per essere messa in mostra entro breve tempo. Il lavoro era solo agli inizi. La spedizione era fondamentale per il museo. E non poteva ritardare»39. La prima tappa importante del viaggio è quella che fa a Char’kov, dove la Goldman incontra tutto il gruppo anarchico della Nabat guidato da Volin. Lì conosce Olga Taratuta e Senya Fleshin, e ritrova Leah Goodman e Fanya Baron, con il marito, che aveva già incontrato tre anni prima negli Stati Uniti poco prima della loro partenza per la Russia. Alcuni anarchici propongono a Emma di unirsi a Machno, ma «anche se ammette che Lenin non è il difensore della rivoluzione», scrive Max Leroy, «non vuole però combatterlo a viso aperto mentre la Russia viene assalita da ogni lato»40. L’incontro con il gruppo della Nabat non è ancora sufficiente per convincerla ad abbandonare la speranza riposta nelle scelte politiche operate dei bolscevichi a favore della rivoluzione. È lei stessa a rendersi conto che il gruppo non condivide affatto le sue perplessità sulla situazione del momento. Soltanto «Senya Fleshin e Mark Mratchny […] compresero al volo le mie difficoltà […]. Il resto del gruppo Nabat era insoddisfatto e indignato; rifiutavano di riconoscere l’Emma Goldman della loro immagine americana in questa sua pallida versione attuale»41. Il viaggio continua fino a Kiev, dove due donne la vanno a trovare. Una delle due è Galina Kuz’menko, la moglie di Nestor Machno, che le porta un messaggio di quest’ultimo: Machno la vorrebbe incontrare insieme a Berkman. Le due donne parlano in questo caso di femminismo americano e di controllo delle nascite, e Galina si lamenta con Emma del fatto che in Ucraina le donne siano ancora considerate solo come oggetti sessuali e corpi da riproduzione42. La spedizione prosegue e raggiunge l’Ucraina centrale. La Goldman visita anche la città di Fastiv, dove incontra la comunità ebraica. In quella città, l’Armata bianca di Denikin si era resa responsabile, nel 1919, di una serie di saccheggi, stupri e violenze che erano culminati nel pogrom di Fastiv, avvenuto tra il 2 e l’8 settembre, durante il quale erano stati uccisi tra i mille e i millecinquecento ebrei. Non è l’unica strage. Durante la guerra civile le armate bianche compiono in Ucraina numerosi pogrom che causano centinaia di migliaia di vittime e che cesseranno solo quando i bolscevichi riprenderanno il controllo della zona. L’8 febbraio 1921 la Goldman si precipita nuovamente da Kropotkin. Ictus cerebrale. Il principe anarchico muore. Sono tantissimi i russi, non solo anarchici, che arrivano da tutte le parti del paese per rendere l’ultimo saluto al vecchio rivoluzionario. La vedova e la figlia rifiutano l’offerta dei funerali di Stato. La salma è trasferita con un treno speciale a Mosca ed esposta nella Casa dei sindacati, dove è allestita la camera ardente. Il 13 febbraio 1921 si svolgono i funerali. È l’ultima grande manifestazione pubblica del movimento anarchico russo. Le strade di Mosca, stracolme di bandiere nere, si riempiono di una grande folla. Le note della Patetica di Čajkovskij e della Marcia funebre di Chopin inondano la città. Per l’occasione, dopo una contrattazione non facile con il governo di Lenin, il comitato organizzatore dei funerali insieme alla figlia di Kropotkin, che minaccia di accusare pubblicamente Lenin di non mantenere le promesse, ottiene la liberazione temporanea degli anarchici dalle galere moscovite. Ne vengono rilasciati sette! Sono loro a portare la bara, alla testa di un corteo di centomila persone, lungo nove chilometri43. Gli avvenimenti tragici di Kronštadt del marzo 1921 rappresentano l’ultima tappa della disillusione della Goldman. Durante quei giorni, insieme ad altri anarchici, cerca invano di convincere, con lettere e appelli, il governo di Lenin a trovare una soluzione pacifica della crisi. Il 5 marzo, insieme a Berkman, Perkus e Petrovsky, invia una lettera di protesta a Zinov’ev. La lettera viene completamente ignorata44. Dopo che la rivolta di Kronštadt viene repressa nel sangue dall’Armata rossa di Lev Trockij, la Goldman e Berkman abbandonano definitivamente la Russia il 1° dicembre 1921. L’esperienza russa ha scosso profondamente le certezze di Emma la Rossa e la sua identità di rivoluzionaria: «I miei sogni infranti, la mia fede spezzata, il mio cuore come una pietra […]. Mi aggrappo alla sbarra del finestrino ghiacciato e stringo i denti per soffocare i singhiozzi»45. Lasciata la Russia, la Goldman è assalita dalla depressione, anche per il senso di inutilità che prova dopo una vita dedicata alla rivoluzione. Ritroverà uno scopo nella denuncia della dittatura bolscevica. A partire dal 1922 i suoi scritti, e quelli di Berkman, rappresentano una lucida analisi di un processo rivoluzionario che, nello stesso periodo in cui si sta consolidando, tradisce completamente, secondo i due anarchici, le sue premesse. Un’involuzione autoritaria della rivoluzione che, al di là degli eventi drammatici che ha dovuto affrontare e superare, è insita nella stessa ideologia comunista. Questa dura posizione critica incontrerà resistenze fortissime e in alcuni casi li isolerà dai compagni di un tempo, soprattutto socialisti e radicali, rendendo più amaro il loro esilio. Dopo un breve soggiorno in Svezia, Emma si reca in Germania dove scrive My Disillusionment in Russia46, pubblicato nel 1923, uno dei primi atti di accusa argomentati e documentati nei confronti del regime bolscevico. La diffusa diffidenza e incredulità con cui è accolta negli ambienti della sinistra la sua testimonianza, tanto in Europa quanto negli Stati Uniti, insieme alle accuse che le vengono rivolte da parte di chi nel mito sovietico avrebbe continuato a credere ancora per molto tempo, portano la Goldman a inasprire sempre di più i toni delle sue denunce e a radicalizzare i suoi giudizi. Solo negli anni successivi, di fronte alla cruda realtà del regime di Stalin, le critiche di Emma Goldman, pronunciate negli anni Venti, appariranno profetiche.

Note al capitolo 1. Goldman, Vivendo la mia vita 1917-1928, cit., pp. 136-138. 2. Emma Goldman nasce nel 1869 a Kovno in Lituania, allora provincia dell’Impero russo, in una famiglia di origine ebraica. Per sfuggire all’atmosfera patriarcale, autoritaria e bigotta della famiglia, alla povertà e agli attacchi antisemiti, nell’inverno del 1885, non ancora quindicenne, si imbarca su una nave diretta negli Stati Uniti. 3. Louise Bryant (1885-1936), femminista di idee marxiste e anarchiche, descrive gli eventi seguiti alla rivoluzione d’ottobre nel libro Six Red Months in Russia che pubblica nel 1919. Un libro diverso da quello di John Reed, in cui la Bryant racconta storie di donne, sottolineando il loro ruolo fondamentale nella rivoluzione, tanto da esserne forse le iniziatrici. Insieme ai ritratti di Aleksandra Kollontaj e di Marija Spiridonova, la giornalista americana narra di donne comuni, descrivendo il quadro di una società in cui la parità dei sessi sta diventando realtà. La Goldman conosce bene la Bryant, però non la stima molto. In un passaggio della sua autobiografia scriverà in modo sprezzante: «Louise non è mai stata una comunista, lei dormiva solo con un comunista». Sulla figura di Louise Bryant, cfr. Virginia Gardner, Friend and Lover. The Life of Louise Bryant, Horizon Press, New York 1982; Mary Dearborn, Queen of Bohemia: The Life of Louise Bryant, Houghton Mifflin, New York 1996. Il rapporto tra Louise Bryant e John Reed è narrato nel film del 1981 di Warren Beatty Reds, in cui la Bryant è interpretata da Diane Keaton. 4. Goldman, Vivendo la mia vita 1917-1928, cit., p. 1. 5. Ibid. 6. Ibid., p. 2. 7. Ibid. 8. Fondata nel 1906 insieme a Berkman, la rivista «Mother Earth» si autodefinisce «una rivista mensile dedicata alla scienza sociale e alla letteratura», ma fin dall’inizio si configura come un mensile di agitazione politico-sociale a carattere rivoluzionario. 9. Goldman, Vivendo la mia vita 1917-1928, cit., p. 2. 10. Nel 1894 Emma Goldman è condannata a un anno di carcere per aver «incitato alla sovversione» un gruppo di disoccupati nel corso di un comizio. Da quel momento la stampa americana comincia a occuparsi regolarmente di lei soprannominandola «Red Emma». 11. Goldman, Vivendo la mia vita 1917-1928, cit., pp. 87-88. 12. Bruna Bianchi, Negazione dei diritti civili, deportazione ed esilio negli scritti e nei discorsi pubblici di Emma Goldman (1917- 1934), «DEP. Deportate, esuli, profughe. Rivista telematica di studi sulla memoria femminile», Università Ca’ Foscari, Venezia, n. 8, gennaio 2008, p. 131. 13. Ibid., p. 99. 14. Ibid., p. 129. 15. Max Leroy, Emma la Rossa. La vita, le battaglie, la gioia di vivere e le disillusioni di Emma Goldman, la «donna più pericolosa d’America», elèuthera, Milano 2016, p. 137. 16. Emma Goldman, My Disillusionment in Russia, C. W. Daniel Co., London 1925, p. 200. 17. Leroy, Emma la Rossa, cit., p. 131. 18. Ibid., p. 132. 19. Goldman, Vivendo la mia vita 1917-1928, cit., p. 130. 20. Ibid., p. 131. 21. Ibid. 22. Ibid., p. 132. 23. Ibid. 24. Ibid., p. 135. 25. Aristocratica, la Kollontaj si sposa giovanissima, contro il volere della famiglia, con un marito «borghese» che però abbandona dopo pochi anni di matrimonio. La sua esperienza politica e militante viene descritta nella sua Autobiografia, pubblicata nel 1926, ma apparsa nella sua versione integrale solo nel 1970, quando vengono nuovamente inclusi alcuni passaggi che lei stessa aveva espunto come autocensura per ragioni politiche interne al partito. Su Aleksandra Kollontaj, vedi Claudio Fracassi, Aleksandra Kollontaj e la rivoluzione sessuale. Il dibattito sul rapporto uomo-donna nell’URSS degli anni Venti, Editori Riuniti, Roma 1977; Gabriele Raether, Aleksandra Kollontaj. Libertà sessuale e libertà comunista, Erre emme, Pomezia 1996. 26. È molto amica anche di Rosa Luxemburg. 27. Su Inessa Armand, vedi almeno Nadežda Konstantinovna Krupskaja, La mia vita con Lenin, Editori Riuniti, Roma 1956; Annalisa Paradiso, Inessa Armand. Rivoluzionaria e femminista, «Studi Storici», a. 38, n. 3, 1997, pp. 857-868; Ritanna Armeni, Di questo amore non si deve sapere. La storia di Inessa e Lenin, Ponte alle Grazie, Milano 2015. 28. Cfr. Bruna Bianchi, Il pensiero anarco-femminista di Emma Goldman, prefazione a Emma Goldman, Femminismo e anarchia, BFS, Pisa 2009; Candace Falk, Love, Anarchy, and Emma Goldman, Rinehart and Winston, New York 1984; Alice Wexler, Emma Goldman: An Intimate Life, Pantheon Books, New York 1984; Penny A. Weiss, Loretta Kesinger, Feminist Interpretations of Emma Goldman, Pennsylvania State University Press, Park 2007. Dagli anni Settanta in avanti sono state pubblicate in italiano alcune raccolte di saggi dedicate alla questione femminile e alla Russia: Anarchia, femminismo e altri saggi, La Salamandra, Milano 1976; Amore ed emancipazione, Ipazia, Ragusa 1975 (La Fiaccola, Ragusa 1996); Tre, anzi sei saggi sulla donna apparentemente obsoleti, Malora, Napoli 2000. 29. Su Voltairine de Cleyre, vedi almeno Paul Avrich, An American Anarchist: the life of Voltairine de Cleyre, Princeton University Press, Princeton 1978; Voltairine de Cleyre, Un’anarchica americana, elèuthera, Milano 2017. 30. José Gutiérrez Álvarez, Paul B. Kleiser, Le sovversive, Massari, Bolsena 2005, p. 239. 31. Quando nel tardo pomeriggio del 29 ottobre 1917 la nuova commissaria del popolo arriva nella sede del ministero, si trova di fronte un picchetto di impiegati e «un anziano domestico in livrea» che si rifiuta di farla passare, dicendole che non ha idea di chi sia. La Kollontaj si presenta e pretende di vedere il funzionario di grado più elevato del ministero. L’uomo la informa che «i postulanti sono ammessi solo tra l’una e le tre del pomeriggio», e siccome sono già le cinque è meglio se torna il giorno dopo. La Kollontaj insiste e il domestico le sbatte «la porta in faccia». Cfr. Sebestyen, Lenin, cit., p. 318; Figes, La tragedia di un popolo, cit., pp. 603-604. 32. Su Angelica Balabanoff, cfr. Amedeo La Mattina, Mai sono stata tranquilla. La vita di Angelica Balabanoff, la donna che ruppe con Mussolini e Lenin, Einaudi, Torino 2011. 33. Goldman, Vivendo la mia vita 1917-1928, cit., pp. 135-137. 34. Ibid. 35. Leroy, Emma la Rossa, cit., p. 135. 36. Goldman, Vivendo la mia vita 1917-1928, cit., p. 135. 37. Ibid., p. 158. 38. Ibid., p. 159. 39. Ibid. 40. Leroy, Emma la Rossa, cit., p. 141. 41. Goldman, Vivendo la mia vita 1917-1928, cit., p. 191. 42. Leroy, Emma la Rossa, cit., p. 144. 43. «Davanti alla prigione Butyrka, sulla strada per il cimitero, la folla si ferma e abbassa gli stendardi. Attraverso le sbarre, i detenuti salutano la bara del principe anarchico Pëtr Kropotkin». Cfr. Leroy, Emma la Rossa, cit., p. 145. 44. Goldman, Vivendo la mia vita 1917-1928, cit., pp. 259-260. 45. Goldman, Vivendo la mia vita 1917-1928, cit., p. 304. 46. Il libro della Goldman non è mai stato tradotto in lingua italiana, a eccezione di alcune pagine dal titolo La mia delusione in Russia, pubblicate in Avrich, Gli anarchici, cit., pp. 210-212. Sempre per le edizioni della Salamandra, nel 1977 viene pubblicato il testo Emma Goldman, La sconfitta della rivoluzione russa e le sue cause, La Salamandra, Milano 1977, traduzione dal tedesco del saggio scritto nel 1922 dal titolo Die Ursachen des Niederganges der russischen Revolution e pubblicato a Berlino. CAPITOLO TERZO Oggi ho sparato a Lenin

In Francia c’erano le esecuzioni pubbliche, la ghigliottina. Noi abbiamo i sotterranei. Le esecuzioni segrete […]. Le esecuzioni pubbliche lasciano a parenti e amici un cadavere, una tomba, le ultime volontà, le ultime parole, la data esatta della morte. È come se il giustiziato non venisse annientato completamente. L’esecuzione segreta, in un sotterraneo, senza effetti spettacolari, senza l’annuncio della condanna, improvvisa, ha un effetto deprimente […]. L’enorme, spietata e onnisciente macchina afferra di colpo le sue vittime e le schiaccia, le macina come un tritacarne. Dopo l’esecuzione non si sa più il giorno esatto della morte, non ci sono le ultime parole, non c’è il cadavere, non c’è neppure una tomba. Vuoto. Il nemico è stato completamente annientato1. Vladimir Zazubrin

È la fine di febbraio del 1920. Sul treno notturno partito da Pietrogrado per Mosca, Emma Goldman tenta di addormentarsi e invece si ritrova a pensare a Lenin:

Chi era quest’uomo che aveva il potere di attirare a sé anche coloro che non erano d’accordo con la sua linea di condotta? Trockij, Zinov’ev, Bucharin e altri uomini illustri che avevo incontrato avevano tutti idee diverse su molte questioni, eppure tutti, unanimemente, lodavano Lenin […]. Pensai a Dora Kaplan, la donna che aveva attentato alla sua vita. La storia di Dora, che mi era stata raccontata da un amico di Bill Shartoff del tutto devoto ai bolscevichi e a Lenin, era stata uno dei primi traumi che avevo avuto arrivando a Pietrogrado […]. Questa storia agghiacciante era stata il mio incubo per intere settimane […]. Da allora erano passati due mesi e ora stavo andando a incontrare l’uomo che, un tempo braccato come un criminale e condannato all’esilio, adesso reggeva nelle proprie mani il destino e il futuro della Russia2.

Diciotto mesi prima. Il 30 agosto 1918, alle cinque del pomeriggio, Lenin esce dal Cremlino e, condotto in automobile, si reca alla fabbrica metalmeccanica Mihel’son, in un quartiere popolare di Mosca, per tenere un comizio. Viene accolto da un’ovazione e lui sorride e saluta con la mano. Il comizio dura trentacinque minuti. Al temine si avvia all’uscita e si ferma un momento a parlare con un gruppo di donne, mentre l’auto lo attende fuori dai cancelli dell’edificio. Prima di salire in auto, una giovane donna lo chiama; lui si gira verso di lei e all’improvviso si sentono tre spari, secchi e ben distinti. Lenin cade a terra e nello spazio di un minuto una folla si raduna intorno alla fabbrica. Accorrono subito anche gli operai. Caricato in auto, Lenin viene portato in tutta fretta al Cremlino nel suo appartamento. Temendo altri attentati contro di lui, si rifiuta di lasciare il palazzo per sottoporsi a cure mediche esterne. Vengono così fatti venire due medici per prestargli i primi soccorsi, i quali però non riescono a estrarre i proiettili non avendo a disposizione le necessarie attrezzature chirurgiche. Una pallottola si è conficcata nel collo, provocando una forte emorragia che ha prodotto un’infiltrazione di sangue in un polmone che interferisce con la respirazione. Una seconda ha raggiunto la spalla sinistra. La terza ha bucato il cappotto. La prima è decisamente la più pericolosa. Per alcuni giorni Lenin rimane sospeso tra la vita e la morte, ma alla fine sopravvive. Il 25 settembre si trova già in convalescenza a Gor’kij, una località nei dintorni di Mosca, in una tenuta requisita per suo uso personale3. Secondo la versione ufficiale, la donna è stata immediatamente fermata dagli operai della fabbrica, che l’hanno immobilizzata in attesa dell’arrivo della Čeka. La donna è Dora Kaplan, ventotto anni, attivista del Partito socialista rivoluzionario di sinistra, quello di Marija Spiridonova. Fanya Kaplan, detta anche Dora4, nasce il 10 febbraio 1890 nel governatorato della Volinia in una famiglia ebrea. Figlia di un maestro di scuola, fin dall’adolescenza è un’attivista anarchica. Nel 1906, all’età di sedici anni, è arrestata a Kiev per aver tentato di assassinare un ufficiale zarista con una bomba artigianale che scoppia anticipatamente ferendola. Viene condannata ai lavori forzati a vita e internata dapprima a Maltsev, dove viene spesso bastonata pubblicamente, poi a Orël nella Russia centrale, e infine ad Akatuj, in Siberia, in un bagno penale particolarmente duro con un alto tasso di mortalità fra i prigionieri. In questo periodo inizia a soffrire di gravi disturbi alla vista che la rendono quasi cieca a causa dei continui maltrattamenti subiti. In prigione Dora incontra Marija Spiridonova, una delle più importanti esponenti del Partito socialista rivoluzionario, che la convince ad abbandonare l’anarchismo e ad aderire al suo partito. Nel febbraio 1917 anche la Kaplan usufruisce dell’amnistia. Viene rilasciata il 3 marzo e decide di andare a vivere in Crimea: «Dopo undici anni di prigionia era convinta e fanatica come il giorno in cui l’avevano arrestata»5. Nell’agosto 1918 i conflitti che hanno contrapposto i bolscevichi e i loro avversari politici sfociano nella messa al bando di numerosi partiti politici, incluso quello dei socialisti rivoluzionari, nonostante questi ultimi siano stati i principali alleati dei bolscevichi fino al luglio 1917, quando organizzano la rivolta contro la pace di Brest-Litovsk. La Kaplan si sente disillusa e «tradita» da Lenin e decide di assassinarlo. L’attentato a Lenin è solo l’ultimo in ordine di tempo, e il più significativo, di una serie di attentati a esponenti di spicco del Partito comunista compiuti da esponenti socialisti rivoluzionari6. Il 20 giugno viene ucciso il commissario del popolo per la stampa, la propaganda e l’agitazione del soviet di Pietrogrado Vladimir Volodarskij, mentre quello stesso 30 agosto a Pietrogrado viene ucciso anche Moisej Urickij, capo bolscevico della Čeka locale, per mano del socialista rivoluzionario Leonid Kannegiser. Ancora oggi la storiografia non ha chiarito fino in fondo la dinamica dei tre attentati, specie quello contro Lenin. Gli attentati scatenano una dura reazione del governo bolscevico che si sente minacciato. Non meno di cinquecento «ostaggi» – così Zinov’ev chiama i prigionieri – vengono passati per le armi nella sola Pietrogrado. I giorni seguenti l’attentato la stampa bolscevica invoca la rappresaglia di massa: «Senza tregua metteremo a morte i nostri nemici, a centinaia. Siano pure migliaia, che anneghino nel loro stesso sangue!» si legge il 1° settembre sulla «Krasnaia Gazeta»7, mentre il vicecomandante della Čeka denuncia l’attentato della Kaplan come un’aggressione alla classe operaia, esortando i lavoratori a «schiacciare l’idra della controrivoluzione». È il segnale di inizio del Terrore rosso, ufficializzato dal governo con un decreto emanato poche ore dopo l’esecuzione della Kaplan, avvenuta il 3 settembre 1918, con cui si chiama a raccolta tutto il popolo contro i nemici della rivoluzione8. Due settimane dopo Lenin riceve al Cremlino una lettera di Kropotkin, la cui figlia è stata arrestata nell’agosto 1918 a Jamburg mentre è in procinto di partire per l’Inghilterra, dove ha stabilito contatti con il movimento tradunionista per lanciare una campagna di aiuti alimentari per i bambini russi9. Scrive Kropotkin: «Gettare il paese nel terrore rosso e per di più prendere ostaggi per proteggere la vita dei capi non è degno di un partito che si dice socialista e, anzi, getta discredito sui suoi dirigenti»10. Il tentato omicidio messo in atto dalla Kaplan segna anche l’inizio del «culto di Lenin»11, quella mitizzazione e adorazione quasi religiosa che avrebbero caratterizzato la leadership nel mondo comunista anche nei decenni successivi. Un culto alimentato dai bolscevichi, a quanto pare contro la sua stessa volontà12. Tre giorni dopo l’attentato, Zinov’ev, durante un comizio, chiama Lenin l’«apostolo della rivoluzione», paragonandolo a Gesù e descrivendolo come un «condottiero per grazia di Dio», mentre nei giorni successivi Trockij lo definisce «il più straordinario essere umano della nostra epoca rivoluzionaria»13. Tre settimane dopo l’attentato Lenin torna al lavoro e dopo aver letto la stampa di quei giorni pare abbia detto al suo segretario personale Vladimir Bonč-Brujevič:

Cos’è questa spazzatura? […] guardate cosa hanno scritto. È oltraggioso! Mi chiamano genio, dicono che sono un uomo straordinario. C’è del misticismo in tutto questo, finiranno per mettersi a pregare per la mia salvezza. È terribile. Per tutta la vita abbiamo combattuto contro l’esaltazione degli individui […] e invece eccoci qui di nuovo alla glorificazione della personalità. Non va bene14.

Sembrerebbe che l’aneddoto sia vero. Nel 1920, tuttavia, le celebrazioni per il suo cinquantesimo compleanno saranno faraoniche. Lenin muore il 21 gennaio 1924, dopo essere rimasto paralizzato da una serie di ictus molto probabilmente causati dal proiettile esploso dalla rivoltella della Kaplan che gli è rimasto conficcato nel collo. Pietrogrado viene ribattezzata Leningrado. La sua salma viene esposta per cinque giorni a Mosca e visitata da quasi un milione di persone che sfidano il gelido inverno russo per l’ultimo saluto al capo della rivoluzione. Subito dopo comincia l’imbalsamazione del suo corpo. L’eco della sua scomparsa raggiunge il mondo intero. A Roma, Errico Malatesta, dalle colonne della sua rivista «Pensiero e Volontà», che potrà uscire ancora per poco15, così commenta la morte del grande leader bolscevico:

Lenin è morto. Noi non possiamo avere per lui quella specie di ammirazione forzata che strappano alle folle gli uomini forti, anche se allucinati, anche se malvagi, che riescono a lasciare nella storia una traccia profonda del loro passaggio […]. Ma egli, sia pure colle migliori intenzioni, fu un tiranno, fu lo strangolatore della Rivoluzione russa – e noi che non potemmo amarlo da vivo, non possiamo piangerlo da morto. Lenin è morto. Viva la libertà!16

Da parte sua, lo storico Max Leroy aggiunge questo commento: «Ecco quella che si può definire una partecipazione al lutto di stampo libertario… e Stalin è già pronto ad affacciarsi sulla scena»17. Una volta arrestata, la Kaplan viene trasferita alla Lubjanka, dove rimane, per poco tempo, in cella con Robert Bruce Lockhart, un agente dell’intelligence britannica che la Čeka ha arrestato perché sospettato, erroneamente, di essere coinvolto negli attentati di quella giornata. Ricorderà Lockhart nel suo diario:

Era vestita di nero. Aveva i capelli neri, e gli occhi, che guardavano fisso davanti a sé, erano cerchiati da profonde ombre scure […]. Senza dubbio i bolscevichi speravano che ci rivolgesse un segnale di riconoscimento. La sua compostezza era innaturale. Andò alla finestra, si posò il mento sulla mano e guardò fuori nella luce del giorno. E lì rimase, immobile, in silenzio, apparentemente rassegnata al suo destino18.

Trasferita in un’altra cella, dopo due giorni viene portata al Cremlino e messa in isolamento. Nel comunicato ufficiale sul tentativo di assassinio di Lenin, Dora Kaplan viene definita «una SR di destra». Fin dal primo momento viene ripetutamente interrogata, e certamente torturata, da diversi funzionari e alti dirigenti della Čeka:

«Chi sei? Dicci come ti chiami!». «Il mio nome è Fanya Kaplan e oggi ho sparato a Lenin». «Perché hai sparato al compagno Lenin?». «Lo considero un traditore. Più a lungo vivrà, più a lungo allontanerà l’idea del socialismo […]. Se sopravviverà, la realizzazione degli ideali socialisti sarà rinviata di decenni». «Chi ti ha incaricata di commettere questo crimine?». «L’ho tentato di mia iniziativa». Le viene chiesto di chiarire quali siano i suoi legami con i socialisti rivoluzionari di sinistra e quali membri di questo partito conosca. «Cosa pensi della rivoluzione d’ottobre?». «Ero a Char’kov, in ospedale, quand’è successo. Non mi è piaciuta. Ne ho avuto un’opinione negativa. Ero a favore dell’Assemblea costituente e lo sono ancora». «Dicci perché hai sparato a Lenin. Chi ti ha detto di farlo?». «Ho deciso per conto mio di uccidere Lenin, molto tempo fa. Sono stata io a sparare. Ho preso la decisione a febbraio. L’idea ha preso corpo nella mia mente a Simferopol’ [in Crimea] e da allora mi preparavo a farlo»19.

Nonostante continui a rivendicare l’individualità del gesto, la Čeka è convinta che la Kaplan faccia parte di una congiura più vasta ordita dai socialisti rivoluzionari e dalle potenze occidentali, la cui rivolta è stata sventata poche settimane prima. Quello a cui mira è dunque di far ammettere alla Kaplan i suoi legami con i socialisti rivoluzionari e di fare i nomi dei suoi complici nell’attentato. Ma lei, pur ammettendo di avere avuto modo di conoscere alcuni esponenti SR di sinistra, nega il loro coinvolgimento nell’attentato. Ancora oggi alcuni storici sostengono che la Kaplan avesse sì stretti legami con vari attivisti SR, ma non fosse connessa ad alcuna «cellula combattente» terrorista20. Altri sono invece convinti del contrario, basandosi sulla documentazione relativa al processo del 1922 contro i socialisti rivoluzionari, dove risulterebbe che la donna fosse stata effettivamente reclutata dall’Organizzazione di combattimento del partito, una formazione clandestina non ufficialmente collegata al Comitato centrale, che dall’agosto 1918 si era trasferito a Samara. Questa Organizzazione era sostenuta a Mosca dai pochi esponenti SR rimasti, e in particolare dalla Spiridonova. Era stata in effetti l’Organizzazione ad assassinare il commissario bolscevico Volodarskij ed era opera sua anche il mancato attentato contro Trockij, fallito perché quest’ultimo, che stava partendo per raggiungere il fronte orientale, cambiò treno all’ultimo istante21. In molti comunque hanno dubitato, nei decenni successivi, che il tentato omicidio fosse opera di un’attentatrice solitaria, oltretutto con problemi alla vista come la Kaplan, mettendo di conseguenza in forse la veridicità della versione ufficiale diffusa dal regime e dalla Čeka. Una prima ipotesi sostiene che, appostata vicino ai cancelli della fabbrica, ci fosse anche un’altra attentatrice, affiliata a una cellula combattente di SR di sinistra. La Kaplan avrebbe accettato di addossarsi la responsabilità dell’attentato lasciandola così fuggire. Le principali argomentazioni a favore di questa tesi sarebbero la quasi completa cecità della donna all’epoca dell’attentato e le contraddizioni tra il rapporto ufficiale del governo, secondo il quale gli stessi operai catturano immediatamente la Kaplan, e un radiogramma, dunque anch’esso una fonte ufficiale, che riferisce dell’arresto di diversi sospettati. Una seconda ipotesi sostiene che la Čeka fosse al corrente che a sparare sarebbe stata un’altra persona, ma che avrebbe deciso di usare la Kaplan come capro espiatorio per poter scatenare una dura rappresaglia contro ogni forma di opposizione. Ma sono soltanto ipotesi. Negli anni non emergeranno prove convincenti del coinvolgimento di altre persone. Resta il fatto che dalla browning della Kaplan, ritrovata sulla scena del crimine, mancavano tre pallottole. Un delatore dei socialisti rivoluzionari di sinistra affermerà più tardi che la vera colpevole era Lidija Konopleva, mai rintracciata. Quando diventa chiaro che la Kaplan non avrebbe fatto il nome di eventuali complici, il comandante delle guardie del Cremlino, Pavel Malkov, nella tarda serata del 3 settembre 1918 viene convocato alla Lubjanka, e lì Varlam Avanesov, un assistente di Feliks Dzeržinskij, gli riferisce che è stato deciso di condannare a morte la Kaplan22 e che lui, Malkov, deve eseguire la sentenza. Alla domanda: «Quando?», gli viene risposto: «Oggi, immediatamente». La decisione è stata presa da Jakov Sverdlov, lo stesso che, solo sei settimane prima, ha ordinato l’uccisione dello zar Nicola II e della sua famiglia. Le istruzioni sono di spararle alla nuca nel garage di uno dei cortili del Cremlino, tenendo acceso il motore di un’auto per coprire il rumore dello sparo. La Kaplan è uccisa alle quattro del mattino del 4 settembre, il suo cadavere viene cremato. Eseguita la sentenza, Malkov presenta regolare rapporto a Sverdlov. Quarant’anni dopo lo stesso Malkov scriverà un resoconto dell’esecuzione in cui dichiara:

Circolava una storiella fantasiosa secondo cui la Kaplan sarebbe sopravvissuta, perché all’ultimo minuto Vladimir Il’ič avrebbe chiesto di risparmiarla. Ci sono presunti testimoni oculari che l’avrebbero vista in un campo sulle isole Solovki o nella Kolyma, nel 1932 o nel 1938, per dimostrare che Lenin era un uomo generoso che sapeva perdonare le malefatte dei nemici. Ma nessuno revocò la condanna a morte della Kaplan. Non erano altro che favole23.

A questa «storiella fantasiosa» non ci crede neanche la Goldman quando le riportano la vicenda Kaplan:

Dato che la tortura non era riuscita a indurre Dora Kaplan a coinvolgere altre persone, una mano più ferma della sua aveva posto fine alle sue sofferenze. Lenin, che ovunque si era conquistato l’amore e l’adulazione di milioni di persone, non mosse un dito per aiutare la sventurata.

Ma poi fa un’affermazione apparentemente contraddittoria che rivela al contempo sia il consolidarsi del mito di Lenin nell’immaginario collettivo dei rivoluzionari, sia la difficoltà, in quella «ridda» di dichiarazioni rilasciate dal governo e dall’opposizione, a farsi un’idea chiara di cosa stia realmente accadendo, e questo anche da parte di personaggi come la Goldman che seguono da vicino le vicende di quel periodo. Scrive infatti: «Mi sentii un poco più sollevata e più fiduciosa nell’umanità di Lenin solo quando seppi che aveva salvato Bill Shartoff dalla […] Čeka». Shartoff fa parte di quel gruppo di anarco-bolscevichi che, come Victor Serge, hanno deciso di appoggiare, in nome della rivoluzione, la politica del governo di Lenin. «Pensai che in fin dei conti», conclude la Goldman, «anche lui sapeva essere generoso; forse stava troppo male quando si era trattato di intercedere per Dora, forse non era stato neppure informato delle torture che la donna aveva subìto»24. Il giorno dell’esecuzione di Dora Kaplan, oltre a Malkov è presente anche il poeta «proletario» Dem’jan Bednij, «notissimo quanto mediocre e servile poeta», affinché possa trarre dall’evento «ispirazione rivoluzionaria»25.

Note al capitolo

1. Vladimir Zazubrin, La scheggia, Adelphi, Milano 1990. Scritto nel 1923, è stato pubblicato in Russia solo nel 1989, dissepolto nella Sezione Manoscritti della Biblioteca Lenin dopo sessantatré anni di censura. Scrittore di origine contadina, Zazubrin (1895-1938) diventa celebre con Due mondi, considerato il primo romanzo ufficiale del realismo sovietico. Ma il regime non apprezza affatto il racconto successivo, un’involontaria testimonianza del Terrore rosso, vietandone la pubblicazione. 2. Goldman, Vivendo la mia vita 1917-1928, cit., pp. 119-120. Sarebbe stata poi Angelica Balabanoff a suggerire e organizzare l’incontro di Emma Goldman e Alexander Berkman con Lenin. 3. Figes, La tragedia di un popolo, cit., pp. 752-753. 4. Fanya Yefimovna Kaplan è lo pseudonimo di Feiga Haimovna Roytblat. Sussiste un po’ di confusione circa l’esatto nome di nascita della Kaplan. Vera Figner, nelle sue memorie At Women’s Katorga, la cita come Feiga Khaimovna Roytblat-Kaplan. Altre fonti invece indicano come nome di famiglia Roytman, ovvero la versione yiddish del cognome tedesco Reutemann. Alcune volte viene infine chiamata Dora. 5. Victor Sebestyen, Lenin. La vita e la rivoluzione, Rizzoli, Milano 2017, p. 369. 6. Sulla ripresa del terrorismo anche da parte di piccoli gruppi anarchici, ecco quanto scrive Paul Avrich: «Nel corso dell’estate [del 1918] il governo bolscevico si trovò coinvolto in una lotta per la vita o la morte con i suoi nemici, interni ed esterni […]. Il terrorismo risollevò la testa in ogni angolo del paese. I socialrivoluzionari di sinistra lanciarono una campagna di assassinii contro i più importanti uomini di governo, così come avevano fatto ai tempi di Nicola II […]. L’attentato alla vita di Lenin impressionò alcuni anarchici […] la Kaplan, sottolinearono con simpatia, aveva cercato di ammazzare Lenin prima che lui ammazzasse la rivoluzione. Anche gli anarchici, una volta di più, ritornarono sulla via del terrorismo. Si costituirono nuovamente dei gruppi […] riuniti in piccole bande […] pronte a tutto […]. Come negli anni successivi all’insurrezione del 1905, il meridione si dimostrò un terreno particolarmente fertile per le azioni di forza anarchiche […]. Gli anarchici di Rostov, Ekaterinoslav e Bryansk irruppero nelle carceri cittadine e liberarono i detenuti. Manifesti infuocati incitavano la gente a ribellarsi ai nuovi padroni […]. Il meridione si dimostrò un terreno particolarmente fertile anche per generare e ospitare i ‘reparti di combattimento’ anarchici risorti sulla scia di quelli del periodo del 1905 […]. Nei due anni successivi [agli attentati del 1918] ci fu anche a Mosca un’ondata di violenza anarchica». Avrich, L’altra anima della rivoluzione, cit., pp. 221-224. 7. Figes, La tragedia di un popolo, cit., p. 755. 8. Sulla feroce reazione del governo, scrive per esempio lo storico Cinnella: «In tutta la Russia, le persone fucilate, imprigionate, rinchiuse nei campi di concentramento o trattenute come ostaggi in quei giorni di isterico furore furono diverse migliaia». Ettore Cinnella, 1917. La Russia verso l’abisso, Della Porta, Pisa 2017, p. 169. 9. Figes, La tragedia di un popolo, cit., p. 777. 10. Ibid. 11. Per strano che possa sembrare, come ha scritto lo storico Figes, Lenin acquista «diffusa notorietà tra la gente comune, come nome e come figura, non prima del settembre 1918 e soltanto a causa dell’attentato subìto». Figes, La tragedia di un popolo, cit., p. 752. 12. Sebestyen, Lenin, cit., p. 373. 13. Ibid. 14. Ibid., p. 429. 15. «Pensiero e Volontà», Roma, 1924-1926. Sulla rivista, cfr. Leonardo Bettini, Bibliografia dell’anarchismo. Periodici e numeri unici anarchici in lingua italiana pubblicati in Italia (1872-1971), Crescita politica, Firenze 1972, vol. 1, t. 1, pp. 318-319. La rivista riesce a sopravvivere fino al 1926, quando la promulgazione delle «leggi fascistissime» segna la definitiva instaurazione della dittatura fascista in Italia, con lo scioglimento dei partiti e la soppressione della superstite stampa di opposizione. 16. Leroy, Emma la Rossa, cit., pp. 159-160. 17. Ibid., p. 160. Non era certo facile scrivere queste parole nel 1924 sull’onda della commozione che la morte di Lenin aveva suscitato nella sinistra rivoluzionaria occidentale. Bisogna essere Malatesta per poterlo fare, lui che al suo rientro in Italia, nel 1919, durante il Biennio rosso, era stato acclamato come il «Lenin d’Italia», suo malgrado. Sulla figura del rivoluzionario anarchico campano, vedi Giampietro Berti, Errico Malatesta e il movimento anarchico italiano e internazionale, 1872-1932, Franco Angeli, Milano 2003; Paolo Finzi, La nota persona. Errico Malatesta in Italia, dicembre 1919-luglio 1920, La Fiaccola, Noto 2008; Vittorio Giacopini, Non ho bisogno di stare tranquillo. Errico Malatesta, vita straordinaria del rivoluzionario più temuto da tutti i governi e le questure del regno, elèuthera, Milano 2012. 18. Sebestyen, Lenin, cit., p. 369. 19. Ibid., pp. 369-370. 20. Ibid., p. 370. 21. Figes, La tragedia di un popolo, cit., p. 755. 22. Ibid. «Secondo Angelica Balabanoff […] la Krupskaja [la moglie di Lenin] scoppiò in lacrime al pensiero che la Kaplan fosse la prima donna condannata a morte dal governo rivoluzionario». 23. Sebestyen, Lenin, cit., p. 371. 24. Goldman, Vivendo la mia vita 1917-1928, cit., p. 120. 25. Sebestyen, Lenin, cit., p. 371. Dem’jan Bednij, pseudonimo di Efim Alekseevič Pridvorov (1883-1945), è stato un poeta molto popolare, a partire dall’ottobre 1917, per le sue celebrazioni del bolscevismo e della rivoluzione. Verso la fine degli anni Trenta la sua fama cala, ma negli anni Sessanta sarà riabilitato da Nikita Chruščëv, che lo considerava il suo poeta preferito.

CAPITOLO QUARTO Sempre dalla parte della rivoluzione

Ma verrà un tempo, forse non troppo lontano, in cui sorgerà all’interno del vostro partito un moto di protesta contro questa politica che soffoca lo spirito della rivoluzione. Una dura battaglia scuoterà il partito; i suoi leader corrotti, ebbri di potere, saranno deposti; ci sarà un’epurazione […]. Io dunque non prenderò parte al vostro processo farsa. Voi potete eliminare me e il mio partito dalla rivoluzione soltanto uccidendoci!1 Marija Spiridonova

Alla fine di giugno del 1920 Emma Goldman lascia Pietrogrado con un treno notturno diretto a Mosca. Dovrebbe fermarsi solo pochi giorni per sbrigare al Dipartimento dei Musei, presso il Commissariato del popolo per l’istruzione, alcune formalità relative a una spedizione destinata al Museo della Rivoluzione. Ma la capitale in quei giorni è in continuo fermento, anche perché sta arrivando un nutrito numero di delegati stranieri da Spagna, Francia, Italia, Inghilterra, Germania e Scandinavia, per partecipare al II Congresso della Terza Internazionale2. Emma decide di restare a Mosca più a lungo e si attiva per poter incontrare anche Marija Spiridonova, che insieme a Boris Kamkov è la leader indiscussa dei socialisti rivoluzionari di sinistra3. Negli Stati Uniti la Goldman ha già avuto modo di sentire molte storie su di lei:

Di tutti gli oppositori del bolscevismo che ho incontrato Marija Spiridonova mi ha impressionato come la più sincera e convincente. Il suo eroico passato, il rifiuto di accettare compromessi che svilissero le sue idee rivoluzionarie, sotto lo zar come sotto il bolscevismo, erano una garanzia sufficiente della sua integrità rivoluzionaria4.

L’incontro con la Spiridonova la colpirà profondamente, e infatti nei suoi scritti successivi la ricorderà spesso. In My Disillusionment in Russia dedica un intero capitolo alla rivoluzionaria russa e nell’autobiografia pubblicata nei primi anni Trenta dedicherà diverse pagine all’incontro dell’estate 1920. D’altronde, fino al 1921 la Spiridonova, prima donna in Russia leader di un partito politico, è tra le rivoluzionarie più famose a livello internazionale. La sua fama risale agli anni del terrorismo contro il regime zarista, che aveva raggiunto il suo picco all’inizio del Novecento5. La storiografia sulla rivoluzione russa non è mai stata tenera con lei. Molti stereotipi, nati proprio nel periodo della rivoluzione, soprattutto a opera dei bolscevichi, l’hanno condannata a un’immagine di donna rivoluzionaria «isterica», politicamente sprovveduta, eccessivamente violenta e troppo visionaria. Lo stesso Partito dei socialisti rivoluzionari di sinistra (PLSR) non ha mai goduto di grande considerazione storica, neppure oggi6, se non per alcuni ricercatori che hanno dedicato un’analisi più approfondita alle vicende di questo partito, in particolare da quando si sono resi accessibili gli archivi sovietici7. Considerati politicamente ingenui, una sorta di «poeti anarchici», sono stati accusati di non aver saputo agire da «vincenti» nei confronti dei loro ex alleati politici, i bolscevichi, che li avrebbero facilmente manipolati nonostante gli SR potessero contare su un grande seguito, soprattutto nelle campagne, storica roccaforte del partito. Nelle ricostruzioni più recenti emergono in verità aspetti più complessi e interessanti, e non così scontati. La breve storia dei socialisti rivoluzionari di sinistra nella rivoluzione russa, dal febbraio 1917 al luglio 1918, ha visto come indiscussa protagonista Marija Spiridonova, maltrattata non solo dalla storiografia ma anche dai «vincitori» della rivoluzione russa, che non smisero mai di perseguitarla, fino all’ultimo suo giorno di vita. Marija Aleksandrovna Spiridonova nasce a Tambov il 16 ottobre 1884. Figlia di un funzionario di banca, Aleksandr Spiridonov, Marija cresce con un’indole romantica. Nel 1900, sedicenne, aderisce al Partito socialista rivoluzionario, entrando subito nella sua formazione combattente clandestina. Studentessa di odontoiatria, viene arrestata per la prima volta il 24 marzo 1905, per aver partecipato a una manifestazione antizarista, ma è presto rilasciata dalla polizia per mancanza di prove. Durante la rivoluzione del 1905 e poi nel 1906, i contadini della provincia di Tambov, esasperati dalla tassazione eccessiva e dalla brutalità dei funzionari, si ribellano organizzando diversi scioperi agrari. Il governatore di Tambov, Gavril Luženovskij, noto per la sua natura violenta, reprime brutalmente la rivolta. Mezzi nudi, i rivoltosi sono costretti a stare in ginocchio per ore nella neve, mentre altri, incolonnati, sono spietatamente massacrati dai cosacchi. Marija Spiridonova si offre per uccidere Luženovskij e così vendicare la barbarie subita dai contadini. Travestita da contadina, diventa l’ombra del governatore. L’attentato viene compiuto il 16 gennaio 1906. Scrive la Goldman nel ricordare l’episodio: L’attentato al generale Luženovskij, governatore della provincia di Tambov, era stato un’impresa straordinaria per una ragazza di diciotto anni [in realtà la Spiridonova ne aveva ventuno]. Marija lo aveva pedinato per settimane, attendendo pazientemente l’occasione per colpire il notorio carnefice dei contadini. Quando il treno su cui viaggiava Luženovskij era entrato sbuffando nella stazione, Marija era saltata sul predellino e gli aveva sparato a morte prima che le guardie si rendessero conto di quanto stava avvenendo8. La Spiridonova è subito catturata dalle guardie cosacche di Luženovskij e trascinata nella sala d’attesa della stazione, dove viene colpita con brutalità. Arrestata, viene ancora picchiata, spogliata dei suoi vestiti e chiusa in una cella. Interrogata per conoscere i nomi dei suoi complici, si rifiuta di parlare e viene allora torturata. Come riporta la Goldman9, benché «trascinata per i capelli, con gli abiti strappati via, le sigarette spente sulla carne nuda e il viso ridotto in poltiglia, Marija Spiridonova non aprì bocca, conservando un atteggiamento sprezzante nei confronti dei suoi torturatori». Per due notti, incosciente e senza difesa, viene violentata dai cosacchi e dai gendarmi. Rimane a lungo tra la vita e la morte. Una volta ripresasi, trascorre gran parte del tempo, in attesa del processo, leggendo e studiando l’inglese e il francese. Infine, l’11 marzo 1906, compare davanti ai giudici del Tribunale di Mosca che, trasferitisi a Tambov, esaminano il suo caso nel corso di una sessione a porte chiuse. La Spiridonova viene condannata a morte tramite pubblica impiccagione. L’eco delle notizie sulle torture subite e sulla condanna capitale solleva in tutto il mondo un’ondata formidabile di proteste. Per sedici giorni resta in attesa dell’esecuzione della condanna, finché non le viene comunicato che la pena è stata commutata in esilio e lavori forzati a vita. Viene così trasferita nel bagno penale di Akatuj, in Siberia, il più duro di tutti, dove trascorre undici anni. Ma all’improvviso:

Le tavole della storia si rovesciarono, lo zar Nicola fu scacciato dal trono e le vittime dell’assolutismo, che ammontavano a migliaia e migliaia, furono strappate dalle celle e dall’esilio e portate in trionfo. Tra di loro c’era anche Marija Spiridonova, il cui calvario era ben noto a tutti i radicali di ogni paese10.

Incontrare la Spiridonova nell’estate del 1920 non è impresa facile. Da tempo ormai è in clandestinità, sotto falso nome, sempre vestita da contadina. Vive al sesto piano di un grande edificio popolare alla periferia di Mosca. Una piccola stanza con un letto, un tavolo pieno di carte e lettere, una libreria e una poltrona. Sono necessarie molte precauzioni per evitare che la Čeka la possa individuare e nuovamente arrestare. Scrive la Goldman:

Davvero la Storia si ripete. Sotto lo zar, la Spiridonova, sempre travestita da ragazza di campagna, aveva pedinato il governatore di Tambov Luženovskij, noto persecutore di contadini, e gli aveva sparato […]. Ora, in una Repubblica socialista, doveva nuovamente vivere sotto falso nome dopo essere evasa dalla prigione del Cremlino11.

Una delle prime regole della clandestinità è quella di cambiare identità. La Spiridonova diventa, tra il 1919 e il 1920, una certa Onufrieva, una donna modesta arrivata dalla campagna. Ma per chi vive in clandestinità i problemi sono ben altri: l’alloggio e il cibo12. Mosca in quel periodo è sovraffollata. Ottenere una stanza non è facile per chi è costretto a nascondersi. Le camere sono assegnate sotto la stretta supervisione del Comitato per la casa, attraverso il quale la Čeka riesce a tenere sotto controllo tutti gli abitanti urbani. Così, in ogni momento del giorno e della notte, la Čeka può fare irruzione negli alloggi dei rivoluzionari. Nessuno si può considerare al sicuro. Il secondo problema è rappresentato dal cibo. È difficile procurarsi pane e latte, ma anche legna e carbone, senza tessere annonarie (di trentaquattro tipologie diverse, come riporta la Goldman), e le tessere sono distribuite sempre dal Comitato per la casa e per ottenerle occorre fare molte ore di coda. Il rivoluzionario clandestino che non può mandare nessuno al suo posto è obbligato ad attendere il proprio turno sotto migliaia di sguardi. La Spiridonova vive diciotto mesi in clandestinità. Insieme ad Alexandra Ismailovič, detta Sanja, una socialista rivoluzionaria di lungo corso che le è molto vicina, è una dei capi della rete clandestina che coordina le organizzazioni illegali moscovite. La vita per lei diventa sempre più difficile, soprattutto dopo che anche la Ismailovič viene fermata e arrestata per strada. La cerchia dei suoi sostenitori si restringe ogni giorno di più. Nonostante le difficoltà, la Spiridonova riesce a compiere brevi viaggi in provincia per partecipare ad alcune riunioni con le organizzazioni contadine. Nel frattempo continua a pubblicare articoli sulla stampa clandestina e a tenere una fitta corrispondenza: «Dobbiamo fare tutto il possibile per farci conoscere e perché le nostre opere vengano tradotte in altre lingue», scrive con la sua grafia minuta a una compagna all’estero, «se solo gli operai stranieri potessero sapere le differenze fondamentali tra noi e i reazionari e i bolscevichi»13. La Goldman è ansiosa di conoscere la Spiridonova, sulle cui condizioni di salute ha sentito versioni contrastanti. Fin dal primo momento del suo arrivo in Russia le è stato infatti riferito che la Spiridonova è seriamente malata, che soffre di una grave depressione, e che per questo il governo la sta cercando così da poterla portare in un sanatorio e curarla: «Zorin e Jack Reed mi avevano detto che aveva avuto un crollo nervoso, ed era stata [portata] in sanatorio. Soffriva, a loro dire, di nevrastenia e isteria acuta»14. Ma dal sanatorio la Spiridonova era fuggita. Quando finalmente avviene l’incontro, la Goldman non nota nessuna traccia dell’isteria e dell’esaurimento nervoso che le autorità bolsceviche, ma non solo, le attribuiscono. È invece calma, determinata, lucida, intelligente e puntuale su ogni argomento, anche se debole e smunta, con i suoi lunghi capelli neri, che porta in modo poco convenzionale sciolti sulle spalle, e i suoi intensi occhi azzurri:

Sebbene avesse soltanto trentatré anni, il suo corpo era avvizzito e un rossore febbrile le accendeva il viso emaciato; anche gli occhi brillavano per la febbre, ma il suo spirito rimaneva immutato e indomito, sempre pronto ad ascendere verso le vette della sua fede incrollabile […]. Mi avevano completamente ingannata. Ciò non mi ha sorpreso per quanto riguarda Zorin: gran parte di ciò che mi diceva era del tutto falso, ho scoperto. Quanto a Reed, poco pratico della lingua e completamente sotto l’influenza della nuova fede, prendeva tutto per buono15.

Fin dal suo primo arresto dopo l’insurrezione socialista rivoluzionaria del luglio 1918, che ha messo in seria difficoltà il giovanissimo governo bolscevico, ma che si è risolta con la disfatta del PLSR, le autorità sovietiche si affrettano a dichiararla isterica e inferma di mente. Una nomea che circola già da tempo. Sono infatti molti gli esponenti politici che «tendevano a definirla ‘isterica’, anche se aveva una mente acuta, era un’oratrice trascinante e non aveva paura di niente. Perseguiva i suoi obiettivi con ferocia e non si tirava indietro quando era necessario ricorrere alla violenza»16. Quella costruita dai bolscevichi è un’immagine stereotipata che ancora oggi resiste nelle pagine di alcuni storici, che a proposito dell’insurrezione dell’estate 1918 scrivono: «Invece di marciare sul Cremlino, i dirigenti SR di sinistra si recarono in deputazione solenne al teatro Bolšoj dove era riunito il Congresso dei Soviet e dove la Spiridonova pronunciò un discorso, isterico come al solito, attaccando violentemente il regime»17. Altri storici, invece, definiscono «ardenti» gli interventi della Spiridonova, come nel caso di quello tenuto a nome del PLSR il 15 novembre 1917 per salutare l’ingresso dei deputati contadini nella sede del Comitato esecutivo centrale panrusso dei soviet (VCIK). Un discorso nel quale risuonano «temi e accenti religiosi, estranei alla dottrina bolscevica e riconducibili alla tradizione ideale del populismo russo»18. Dichiara infatti la Spiridonova:

Realizzeremo i nostri ideali, non soltanto con l’odio, ma anche con la pietà per tutti quelli che soffrono e con l’amore per tutti quelli che sono oppressi. Per i nostri ideali daremo tutto, la vita e forse anche l’onore. Dobbiamo scacciare le ultime tracce di schiavitù dalla nostra mentalità. Dobbiamo eliminare l’odio tra di noi e rivolgere la nostra ostilità soltanto verso i nemici. Dobbiamo sviluppare sentimenti di reciproco rispetto e di tolleranza nei riguardi dei nostri compagni di lotte. Dobbiamo purificare le nostre anime man mano che ci avviciniamo al grande regno del socialismo che ci attende. Dobbiamo diventare migliori, più puri, più sinceri, in modo che nessuno osi dire che la nostra insurrezione genera odio e male. Sulle rovine della vecchia società sta nascendo, celata ai nostri occhi, una nuova società di giustizia e di amore19.

Un intervento che per certi aspetti mette in evidenza quella «dimensione utopistica e palingenetica»20 sottolineata da Marcello Flores, la quale incarna «un modo di sentire e percepire la rivoluzione che è largamente diffuso soprattutto tra febbraio e ottobre, e per molti aspetti si prolungherà anche dopo la vittoria bolscevica»21. Una dimensione «religiosa» e simbolica molto diffusa in un paese contadino, che tuttavia «non è prevista dai partiti marxisti e stupisce perfino i socialisti rivoluzionari, che pure sono maggiormente radicati nella realtà rurale»22 della Russia. Non stupisce invece la Spiridonova, che dimostra una particolare sintonia con il mondo contadino fin dall’inizio della sua militanza rivoluzionaria. La versione calunniosa fatta circolare dal governo bolscevico, dagli apparati della Čeka e addirittura dallo stesso Dzeržinskij, che bolla la Spiridonova come un’isterica particolarmente violenta, come un’inferma di mente bisognosa di cure psichiatriche, fa di Marija Spiridonova la prima vittima, donna, del ricorso a diagnosi psichiatriche per perseguire e internare gli avversari politici. Il manicomio diventa l’arma per controllare e reprimere il dissenso, e la concezione della malattia psichiatrica viene modificata in modo da trasformare il dissenso politico radicale nel sintomo di una grave disfunzione psicologica, di una vera e propria patologia. La Spiridonova viene così rinchiusa nell’ospedale psichiatrico di Kazan’, la capitale del Tatarstan, uno dei primi in cui vengono «trattenuti» i prigionieri politici «malati di mente»23. La Goldman trascorre due giorni con la Spiridonova, intrecciando una lunga conversazione, interrotta e ripresa più volte. L’anarchica russo-americana ascolta con molta attenzione il racconto della militante socialista rivoluzionaria relativo agli avvenimenti che si sono susseguiti a partire dall’ottobre 1917. La Spiridonova le parla dell’entusiasmo e dell’impegno spontaneo delle masse, delle speranze suscitate dai bolscevichi e dalla loro ascesa al potere, della pace di Brest-Litovsk e delle requisizioni forzate che stanno devastando il paese e screditando tutto ciò per cui la rivoluzione ha combattuto. Le parla del Terrore rosso e della nuova burocrazia di partito. In sostanza, formula «una violenta accusa al bolscevismo, alle sue teorie e ai suoi metodi»24. La Goldman si dimostra prudente nell’accettare come verità assolute le dichiarazioni della Spiridonova. Durante la loro conversazione avanza più volte l’idea che «forse i bolscevichi erano stati costretti» a determinate scelte, imposte dall’eccezionalità degli eventi, come il ricorso «al metodo della razverstka [le requisizioni forzate] a causa del rifiuto dei contadini di fornire cibo alle città»25. La Spiridonova le spiega che nelle fasi iniziali della rivoluzione, quando nelle campagne erano ancora attivi i soviet, i contadini collaboravano volentieri, ma quando «il governo bolscevico ha cominciato a sciogliere quei soviet, arrestando cinquecento delegati delle campagne, i contadini sono diventati loro antagonisti»26. Nonostante queste rivelazioni, in diversi punti del racconto la Goldman non nasconde i suoi dubbi su quello che ascolta dalla leader dei socialisti rivoluzionari di sinistra:

L’enormità delle accuse sfidava la credibilità. Dopo tutto, i bolscevichi erano dei rivoluzionari. Come potevano essere colpevoli delle cose tremende di cui erano accusati? […]. C’era stata la pace di Brest-Litovsk, per esempio […]. Non vedendo alternative alla situazione, io ero favorevole alla pace di Brest-Litovsk. In Russia, però, ho sentito versioni contrastanti. Quasi tutti, tranne i comunisti, consideravano l’accordo di Brest-Litovsk un tradimento della rivoluzione […]. I comunisti, invece, erano unanimi nel difendere la pace e denunciare come controrivoluzionario chiunque mettesse in discussione la saggezza e la giustificazione rivoluzionaria dell’accordo27.

Ma la Spiridonova insiste dicendole che non c’è «neanche una parola di verità nelle tesi dei bolscevichi». Il problema con loro è che «non hanno alcuna fiducia nelle masse. Si proclamano un partito proletario, ma non credono nei lavoratori»28. Le fa inoltre presente che i socialisti rivoluzionari di sinistra avevano avvertito i bolscevichi dei pericoli conseguenti alla firma del trattato di pace. Per esempio consideravano la presenza dell’ambasciatore tedesco Wilhelm von Mirbach- Harff nella Russia rivoluzionaria un «oltraggio alla rivoluzione e un’atroce ingiustizia verso l’eroico popolo russo che tanto aveva sacrificato e sofferto nella lotta contro l’imperialismo e il capitalismo»29. Per questo decidono di compiere un attentato contro l’ambasciatore tedesco, un’esecuzione che scatena un’ondata di arresti e persecuzioni da parte dei bolscevichi, che in questo modo, commenta la Spiridonova, «hanno reso un servizio al Kaiser tedesco, riempiendo le prigioni di rivoluzionari russi»30. In quei due giorni intensi di parole, ragionamenti, discussioni ed emozioni, oltre alle due donne sono presenti nel piccolo alloggio anche Berkman e Kamkov, stretto collaboratore della Spiridonova e lui stesso personaggio di spicco dei socialisti rivoluzionari di sinistra. Nel ricordo della Goldman, Kamkov e la Spiridonova non sembrano soltanto compagni di lotta; pur senza dirlo esplicitamente, la sua sensazione è che tra i due ci sia anche un legame amoroso. Kamkov si sta preparando per una non meglio precisata «missione pericolosa». La Goldman riesce a fermare in poche righe il momento dei saluti tra i due, cogliendo un aspetto intimo inatteso:

Era in piedi accanto a lui […]. Non disse nulla, lo guardò soltanto negli occhi e gli accarezzò lievemente la manica con la mano bianca e sottile, appoggiandosi impercettibilmente a lui […]. Nessun poeta è mai riuscito ad esprimere l’intensità e la profondità dell’amore più di quanto fece Marija con quel semplice gesto: era meraviglioso e commovente al di là delle parole e illuminava come in un lampo la ricchezza del suo animo31.

Marija Spiridonova è la leader di un partito che può contare su un ampio sostegno popolare nelle campagne. I socialisti rivoluzionari, eredi della tradizione populista del socialismo agrario, sono infatti molto ben radicati nei villaggi contadini. Nelle elezioni per l’Assemblea costituente, che si svolgono a suffragio universale a metà novembre e che durano parecchi giorni data l’immensità del paese, ottengono venti milioni di voti in più dei bolscevichi, nonostante un forte astensionismo. Con la rivoluzione d’ottobre, la Spiridonova e il suo partito si schierano a fianco dei bolscevichi, partecipando al governo dei soviet. Dopo gli eventi di ottobre, però, i socialisti rivoluzionari si dividono in due fazioni: la sinistra, guidata da Marija Spiridonova, si allea con Lenin, ottenendo alcuni incarichi nel Consiglio dei commissari del popolo (Sovnarkom) e nella Čeka, mentre la destra, come i menscevichi, va all’opposizione essendo nettamente contraria al nuovo governo di Lenin. Il fatto che quest’ultimo abbia riconosciuto che il Decreto sulla terra del 26 ottobre 1917, approvato dal II Congresso panrusso dei soviet, sia in effetti il progetto di riforma agraria avanzato dai socialisti rivoluzionari di sinistra, è bastato per convincere la Spiridonova che è possibile trovare un accordo con i bolscevichi32. Agli inizi di novembre, dopo aver persuaso il Soviet dei contadini a fondersi con il Comitato esecutivo panrusso dei soviet, la Spiridonova inizia le trattative per l’ingresso del partito nel Sovnarkom. Gli SR di sinistra entrano nel governo il 12 dicembre 1917. Sono fermamente convinti che entrando nel Sovnarkom, avrebbero potuto arginare gli eccessi di potere dei bolscevichi e della Čeka33. Andrej Kalegaev è nominato commissario del popolo per l’agricoltura e Isaac Steinberg, il futuro biografo della Spiridonova, commissario del popolo per la giustizia34. In seguito avranno altri incarichi. I posti chiave restano comunque ben saldi nelle mani dei bolscevichi, e ben presto i socialisti rivoluzionari si accorgeranno di essere solo delle «foglie di fico», di essere «assolutamente impotenti a moderare le punte estreme del despotismo leniniano»35. L’insediamento dell’Assemblea costituente, che praticamente coincide con la sua immediata dissoluzione, avviene il 5 gennaio 1918 (il 18 per il calendario gregoriano) nel Palazzo di Tauride a Pietrogrado, in un’atmosfera tutt’altro che serena. I candidati alla carica di presidente sono due socialisti rivoluzionari: Viktor Černov, SR di destra, e Marija Spiridonova, candidata dei socialisti rivoluzionari di sinistra e dei bolscevichi. È Černov a essere eletto presidente con 246 voti contro i 151 della Spiridonova, che viene comunque nominata alla guida della Sezione contadina del VCIK. Nonostante l’alleanza di governo, resta una lunga serie di divergenze, anche ideali, con i bolscevichi. Gli obiettivi di Marija Spiridonova e del suo partito sono del tutto incompatibili con il programma bolscevico. I militanti SR di sinistra sono favorevoli a un sistema «semi anarchico di soviet decentrati, […] alla ‘comune’ dei contadini, alla strutturazione delle fabbriche secondo criteri anarco-sindacalisti e all’autonomia politica delle minoranze nazionali». Incompatibile è anche l’impegno sulle libertà civili. I socialisti rivoluzionari di sinistra auspicano per esempio che la fortezza di Pietro e Paolo, tristemente famosa, venga rasa al suolo in quanto simbolo di uno Stato di polizia36. La Spiridonova capisce presto di aver commesso un errore a entrare nel governo bolscevico e dal marzo 1918 inizia a prendere le distanze dalla coalizione. A causa della pace di Brest-Litovsk del 3 marzo 1918, entra in conflitto aperto con Lenin, che peraltro incontra una volta sola37. I socialisti rivoluzionari si rifiutano di accettare la pace di Brest-Litovsk, che giudicano umiliante per la Russia e la rivoluzione. In particolare ritengono un affronto e una minaccia imperialista la presenza dell’ambasciatore tedesco Mirbach-Harff. Non solo ne chiedono pubblicamente l’esecuzione, ma lanciano un appello a sollevarsi contro l’invasore tedesco perché vedono la rivoluzione in pericolo. Ai primi di luglio del 1918 l’alleanza si rompe. Il 6 luglio Mirbach-Harff viene assassinato da due SR di sinistra, membri della Čeka, per ritorsione al trattato di Brest-Litovsk. La mandante dell’omicidio è la Spiridonova. Il 7 luglio 1918 i socialisti rivoluzionari di sinistra tentano un’insurrezione contro il governo bolscevico, arrivando ad arrestare per poche ore Dzeržinskij, il capo della Čeka. L’anima della rivolta è sempre lei, che si presenta al teatro Bolšoj, dove si sta svolgendo il Congresso dei Soviet, per pronunciare un discorso di attacco al regime bolscevico e di difesa della creatività rivoluzionaria delle masse. «Mentre parlava», scrive Figes, «le guardie del servizio d’ordine circondarono l’edificio e bloccarono tutte le uscite, lasciando sfollare i delegati bolscevichi e arrestando tutti gli altri», compresa ovviamente la Spiridonova38. La sollevazione, che non era stata pensata con lo scopo di rovesciare il governo, bensì di difendere la rivoluzione, come sosterranno tanto la Spiridonova quanto Steinberg, nel giro di poco tempo viene repressa. Oltre alla retata di arresti che ne consegue, vengono anche fucilati seduta stante i tredici membri SR della Čeka che hanno sequestrato Dzeržinskij. Marija viene condannata a un anno di carcere, ma dopo poco tempo è amnistiata. Nel febbraio 1919 è nuovamente arrestata, dichiarata «inferma di mente» e rinchiusa in una caserma-ospedale del Cremlino da dove sarebbe di lì a poco scappata, iniziando la fase della clandestinità. Nella tarda serata del 28 febbraio 1920, nella sede clandestina degli SR di sinistra a Mosca squilla il telefono. È Michail Chukov, uno studente, che parla in maniera concitata dalla stazione dove si trova insieme a Irina Kakhovskaya, ammalatasi di tifo. La sua vita è in pericolo, anche perché gli agenti della Čeka la stanno cercando. Irina Kakhovskaya (1888-1960), detta Ira, è un membro importante dell’organizzazione terroristica parallela degli SR. Ha organizzato l’assassinio di Hermann von Eichhorn39 e ha combattuto contro i generali bianchi Denikin e Kolčak. Intorno alla metà del 1919 il pericolo costituito dall’armata controrivoluzionaria del generale Denikin raggiunge lo zenith. I socialisti rivoluzionari di sinistra decidono di ricorrere nuovamente all’arma dell’assassinio politico, e il generale Denikin è la vittima prescelta. La Kakhovskaya si offre volontaria per organizzare l’attentato, progettato prima a Kiev e poi a Rostov, dove una volta a settimana Denikin presenzia alla seduta del Consiglio supremo, muovendosi in incognito dalla stazione al luogo di riunione in un’auto chiusa in mezzo a un corteo di auto simili. Il racconto della preparazione dell’attentato, e di come miseramente fallisce, è narrato sia da Steinberg nella biografia della Spiridonova sia dalla stessa Kakhovskaya nelle sua memorie, pubblicate nel 1926 a Parigi40. Dopo il fallito attentato, la Kakhovskaya riesce a tornare a Mosca. Ammalatasi, grazie all’aiuto dei pochi militanti SR ancora in circolazione nella capitale viene ricoverata in una casa di cura privata. «Delirava e i suoi vaneggiamenti avevano un unico tema», scriverà Isaac Steinberg nel 1925, «si sentiva colpevole nei confronti del suo partito e della Rivoluzione per non essere riuscita a portare a termine l’incarico che le era stato assegnato […]. Gradualmente, grazie alla robustezza della sua costituzione, guarì»41. Il desiderio della Kakhovskaya è di poter incontrare la Spiridonova, per giustificarsi, e quest’ultima nel cuore della notte corre il rischio di farle visita, pur sapendo che la Čeka è sulle sue tracce e che il suo arresto è solo una questione di tempo. E infatti, la notte del 26 ottobre 1920, circa tre mesi dopo l’incontro con la Goldman, Marija Spiridonova, ammalatasi anche lei di tifo, viene arrestata per la terza volta, insieme a Kamkov, e portata alla Butyrka. In quel momento, nella stessa prigione c’è anche Alexandra Ismailovič, che il giorno successivo viene trasferita nella stanza dell’infermeria in cui hanno ricoverato la Spiridonova. Così la Ismailovič ne racconta l’arresto: Apparentemente [gli agenti della Čeka] non sapevano con certezza a quale piano vivesse la Spiridonova. Prima di trovarla, fecero irruzione in diversi appartamenti, strapparono dai loro letti diverse donne terrorizzate, urlando ‘Sei tu la Spiridonova?’. Erano armati con bombe a mano e pistole, come se dovessero attaccare una banda di gangster42. Una volta migliorate le condizioni di salute, le diagnosticano una grave forma di isteria e la trasferiscono in un istituto psichiatrico dove Marija inizia uno sciopero della fame. Sono i giorni del Congresso internazionale della donna a Mosca. La Spiridonova è ancora una figura popolare e il Congresso intercede per lei chiedendo a Trockij di consentirle di lasciare la Russia. Richiesta che viene negata. Ironia della sorte, questo la rende ancora più popolare tra le donne rivoluzionarie del suo tempo. Una commissione speciale a Parigi pubblica cartoline con il suo ritratto reclamando il trasferimento di Marija in Francia o in Germania. Nel febbraio 1921 il suo rilascio sembra effettivamente imminente. Kamkov viene convocato dalla Čeka, che gli mostra una disposizione che ne annuncia il rilascio, insieme alla Ismailovič, per motivi di salute. Manca soltanto la firma del funzionario responsabile, che al momento è indisposto. Febbraio passa e a marzo accade qualcosa che spinge in tutt’altra direzione: scoppia la rivolta di Kronštadt, il cui sanguinoso esito è funesto per la Spiridonova. La Čeka dà infatti avvio a una nuova campagna di arresti e persecuzioni contro anarchici, socialisti rivoluzionari di sinistra e «controrivoluzionari» in genere. Anche Kamkov e la Kakhovskaya vengono nuovamente arrestati e per la Spiridonova non si parla più di rilascio. Poco tempo dopo il governo decide di farla uscire dall’ospedale psichiatrico «a condizione di non svolgere più attività politica»43. Pur attenendosi ai patti e conducendo una vita ai margini, lontana dalla politica, agli inizi del 1925 Marija Spiridonova, insieme ad Alexandra Ismailovič e più tardi anche a Irina Kakhovskaya, viene esiliata a Samarcanda, dove rimarrà fino alla fine del 1928. Nella neo capitale44 della Repubblica socialista sovietica uzbeka Marija vive apparentemente in libertà, anche se le è vietata qualsiasi attività politica. Come tutti i prigionieri politici in esilio, riceve dal governo un sussidio di 6,25 rubli al mese, del tutto insufficiente per sopravvivere, per cui è sempre alla ricerca di un lavoro, di quelli che gli esuli riescono a ottenere dalle autorità locali. La Ismailovič per esempio dà lezione ai bambini del posto. È costretta a percorrere molte miglia al giorno, sotto il sole di Samarcanda e per un misero compenso, ma il contatto con i bambini le procura gioia. In un primo tempo alla Spiridonova viene assegnato un lavoro d’ufficio che però può svolgere a casa. Lavora fino a tredici ore al giorno per una paga molto bassa, sufficiente per i fabbisogni minimi ma lontana dal soddisfare le necessità dei molti compagni che intende aiutare. Successivamente le viene assegnato un piccolo impiego nell’ufficio del soviet che la tiene occupata per tutto il giorno. Il suo tempo è riempito dal lavoro e da innumerevoli piccole faccende di casa. Sono molti i socialisti rivoluzionari di sinistra e gli anarchici che vivono esiliati a Samarcanda, ma la Čeka fa in modo che non ci siano molti contatti tra loro e soprattutto con il ristretto gruppo intorno alla Spiridonova, che in questo isolamento forzato può fare affidamento soltanto sulle sue risorse interne. La corrispondenza della Spiridonova, così come quella degli altri esuli politici, è in gran parte censurata, ma ugualmente vi si trovano interessanti descrizioni di ciò che la circonda. Scrive per esempio in una lettera del luglio 1925:

Ci sono molti luoghi di interesse turistico a Samarcanda, ma la città è piena di sudiciume e le strade sono invase da cani randagi affamati. Nondimeno, tra le bancarelle dell’animato mercato, con le loro immangiabili specialità asiatiche, tra la polvere e il rumore e l’incessante mercanteggiare, strette in mezzo a cammelli e asini e splendidi cavalli aggraziati, improvvisamente compaiono le rovine di una gigantesca moschea, che si ergono in un impressionante silenzio. A fatica potresti chiamarle rovine, poiché tutte le linee e i contorni dell’edificio restano ben distinti, così come continua a brillare la meravigliosa copertura di smalto blu. Uomini anziani, alti e magri, con facce bibliche, barbe bianche e occhi fieri, vestiti in abiti colorati, camminano nelle strade […]. Le donne, coperte di veli, scivolano via come ombre. Sotto il velo i loro volti sono truccati e incipriati come le torte al miele che si vendono nelle fiere. Conducono una vita abietta fatta di harem e assoggettamento, una vita da «addomesticate». Il vento caldo della rivoluzione non le ha ancora toccate. I Kishlachniki, i contadini locali, sono diversi dai contadini russi in quanto molto più arretrati. Il loro vocabolario è ristretto e il loro senso di possesso radicato. Per tale motivo sarà molto più difficile realizzare il socialismo qui rispetto alla Russia centrale45.

Nella stessa lettera, la Spiridonova descrive anche alcuni momenti di vita quotidiana degli esiliati:

Sanja [Ismailovič] si è procurata una ferita al dito che le ha infettato il sangue, tanto che è dovuta ricorrere al medico. Ora è distesa a letto, pallida e smunta. Nonostante le nostre proteste continua a dare lezioni stesa a letto […]. La nostra vita si svolge entro confini molto artificiali. Le questioni materiali e familiari smettono di essere questioni di interesse secondario. Kakhovskaya ha avuto una trombosi a seguito del tifo. È una malattia dolorosa e complicata, ma non seria, ci sono buone speranze di guarigione. Anche se in questo luogo desolato è difficile migliorare. Non ci sono buoni medici né buoni ospedali […]. Di recente abbiamo ricevuto una lettera da vecchi amici che sono stati sballottati da un luogo all’altro per circa tre anni. Li avevamo quasi dimenticati46.

Dopo Samarcanda, la Spiridonova, insieme al suo gruppo, viene trasferita in esilio a Ufa, dove continua a condurre un’esistenza muta lontana da tutto e tutti. Nonostante ciò non riuscirà a sopravvivere alle grandi purghe staliniane. Nel 1937 Stalin ordina di arrestarla insieme ad altri dodici vecchi socialisti rivoluzionari di sinistra. È accusata di aver tentato di organizzare una rivolta contadina. Senza prove e senza processo, viene condannata a venticinque anni e inviata nella prigione di Orël. Dopo uno sciopero della fame, portato avanti insieme agli altri dodici arrestati, è messa in isolamento. Tre mesi dopo l’invasione nazista dell’URSS, Stalin decide di eliminare gli ultimi oppositori di sinistra ancora in vita. Così, la mattina dell’11 settembre 1941 la Spiridonova, insieme ad altri centocinquanta prigionieri politici di rilievo, tra cui Christian Rakovsky47 e Olga Kameneva48, viene giustiziata dagli agenti del Commissariato del popolo per gli affari interni (NKVD) nella foresta di Medvedev, non lontano dalla prigione di Orël. L’accusa è di essere nemici del popolo49.

Note al capitolo

1. Steinberg, Spiridonova, cit., pp. 237-238. Vedi anche Appendice: Lettera aperta di Marija Spiridonova al Comitato centrale del Partito bolscevico, p. 165. 2. Emma Goldman nella sua autobiografia si confonde e cita il II Congresso dell’Internazionale sindacale rossa che però si svolgerà nel 1922. Il II Congresso della Terza Internazionale si svolge nel luglio-agosto del 1920, una prima parte a Pietrogrado e poi a Mosca. Goldman, Vivendo la mia vita 1917-1928, cit., p. 176. 3. Anche Volin ne La rivoluzione sconosciuta ricorda di un suo incontro con la Spiridonova nel 1919 (o 1920) a Mosca: «Al momento della nostra discussione, ella affermò che i socialisti rivoluzionari di sinistra concepivano il potere sotto una forma ristrettissima; un potere ridotto al minimo, perciò debolissimo, assai umano e soprattutto molto provvisorio, da durare appena per un tempo strettamente necessario e suscettibile di essere, il più rapidamente possibile, indebolito fino all’esaurimento. ‘Non vi fate illusioni’, le dissi, ‘il potere non è mai come una palla di sabbia che, a forza di rotolare, si disgrega, ma è sempre come una palla di neve, che più rotola e più aumenta di volume. Una volta al potere, voi farete come gli altri’. E anche gli anarchici, avrei potuto aggiungere». Volin, La rivoluzione sconosciuta, cit., p. 181. Sulla figura di Marija Spiridonova, cfr. Steinberg, Spiridonova, cit.; Alexander Rabinowitch, Marija Spiridonova’s «Last Testament», «Russian Review», vol. 54, n. 3 (luglio 1995), pp. 424-446 e le pagine a lei dedicate in Figes, La tragedia di un popolo, cit.; Cinnella, 1917. La Russia verso l’abisso, cit.; Sebestyen, Lenin, cit. 4. Vedi Appendice: Marija Spiridonova nei ricordi di Emma Goldman, p. 181. 5. Il 13 marzo del 1881 viene assassinato lo zar Alessandro II da alcuni membri dell’organizzazione rivoluzionaria terroristica Narodnaja Volja, guidati da Sof’ja Perovskaja. Da allora, in Russia il terrorismo rivoluzionario contro il regime zarista non conoscerà più tregua sino alla rivoluzione del 1917. 6. Un giudizio tranchant è espresso per esempio dallo storico Orlando Figes che riferendosi alla fallita insurrezione dei socialisti rivoluzionari di sinistra del luglio 1918, che segna la disfatta del loro partito, scrive: «La sollevazione dei socialisti rivoluzionari di sinistra costituì uno degli episodi più farseschi della storia della rivoluzione. L’epitome dell’ingenuità della parte politica che ne fu promotrice. La cosa straordinaria è che proprio in quei momenti la sinistra SR avrebbe davvero potuto abbattere il regime bolscevico. Non fu un tentativo di colpo di Stato, come la sollevazione del luglio 1917, bensì un atto suicida di pubblica protesta per galvanizzare le masse contro il regime. Mai e poi mai insomma gli SR di sinistra avrebbero davvero pensato di potersi impadronire del potere: ‘giocavano’ semplicemente alla rivoluzione». Figes, La tragedia di un popolo, cit., p. 758. 7. Cfr. per esempio Cinnella, 1917. La Russia verso l’abisso, cit. 8. Goldman, Vivendo la mia vita 1917-1928, cit., p. 178. 9. Ibid. 10. Ibid. 11. Vedi Appendice: Marija Spiridonova nei ricordi di Emma Goldman, p. 175. 12. Steinberg, Spiridonova, cit., p. 249. 13. Ibid. 14. Goldman, Vivendo la mia vita 1917-1928, cit., p. 179. 15. Ibid. 16. Sebestyen, Lenin, cit., p. 356. 17. Figes, La tragedia di un popolo, cit., p. 761. 18. Cinnella, 1917. La Russia verso l’abisso, cit., pp. 193-194. 19. Ibid. 20. Flores, 1917, cit., p. 11. 21. Ibid., p. 10. 22. Ibid. 23. Giorgio Antonucci, Il pregiudizio psichiatrico, elèuthera, Milano 1989 (III ed. 1998), in particolare il capitolo «L’uso della psichiatria nelle persecuzioni». 24. Vedi Appendice: Marija Spiridonova nei ricordi di Emma Goldman, p. 176. 25. Ibid. 26. Ibid. 27. Ibid. 28. Ibid. 29. Ibid. 30. Ibid. 31. Goldman, Vivendo la mia vita 1917-1928, cit., p. 181. 32. Figes, La tragedia di un popolo, cit., pp. 617-618. 33. Ibid., p. 617. 34. Goldman, Vivendo la mia vita 1917-1928, cit., pp. 178-179. 35. Figes, La tragedia di un popolo, cit., p. 618. 36. Ibid. 37. Sebestyen, Lenin, cit., p. 353. 38. Figes, La tragedia di un popolo, cit., p. 761. 39. Nella primavera del 1918, subito dopo la pace di Brest-Litovsk, Irina Kakhovskaya insieme a Boris Donskoy (1894-1918) raggiunge l’Ucraina per combattere l’occupazione tedesca. A Kiev prepara l’attentato contro Hermann von Eichhorn, governatore militare dell’Ucraina. Il 30 luglio 1918 sarà Donskoy a lanciare la bomba contro il feldmaresciallo, che muore insieme al suo aiutante di campo. La Kakhovskaya riesce a scappare, mentre Donskoy è subito catturato e condannato a morte da un tribunale militare tramite pubblica impiccagione. La sentenza è eseguita il 10 agosto 1918. 40. Irina Kakhovskaya, Souvenirs d’une révolutionnaire, F. Rieder, Paris 1926. 41. Steinberg, Spiridonova, cit., p. 258. 42. Ibid. 43. Sebestyen, Lenin, cit., p. 358. 44. Samarcanda resta capitale dal 1925 al 1930. 45. Steinberg, Spiridonova, cit., pp. 284-285. 46. Ibid. 47. Christjan Rakovskij (1873-1941) è stato presidente del Consiglio dei commissari del popolo dell’Ucraina dal 1919 al 1923. Nel marzo 1938 è imputato al terzo grande processo di Mosca contro i dirigenti comunisti. A differenza di molti imputati, tra cui Bucharin e Rykov, uccisi poco dopo il processo, Rakovskij è condannato a una lunga pena detentiva. 48. Olga Davidovna Bronštejn Kameneva (1883-1941), sorella di Trockij e prima moglie di Kamenev, svolge vari ruoli di rilievo nel governo bolscevico. Viene arrestata negli anni Trenta, dopo l’esecuzione dell’ex marito, e condannata a una lunga pena detentiva nella prigione di Orël. 49. Marija Spiridonova è stata ufficialmente riabilitata e assolta da ogni tipo di accusa nel 1992. CAPITOLO QUINTO 1921

Il primo lager sovietico fu quello di Cholmogory, patria di Lomonosov. Cholmogory venne inaugurato nel 1924. Vi rinchiusero quello che restava dei marinai di Kronštadt che avevano preso parte alla sommossa. Sedata l’insurrezione, gli insorti vennero fatti allineare lungo il molo. «Contarsi!» fu l’ordine – i numeri dispari fecero un passo avanti e vennero fucilati sul posto, i pari si presero dieci anni e restarono chiusi in carcere fino al 1924, quando ottennero l’«aria aperta» e venne inaugurato il lager di Cholmogory. Là il cibo era scadente, li picchiavano e c’era lo scorbuto. I marinai evasero e si precipitarono a Mosca. E da Mosca venne mandata a Cholmogory un’unità militare. I soldati dell’Armata rossa circondarono il lager e il direttore, il lettone Ope, si sparò. Cholmogory venne chiuso e i marinai scampati furono trasferiti alle Solovki1. Varlam Šalamov

Nel febbraio 1917 Ida Mett, il cui vero nome è Ida Gilman, non ha ancora compiuto sedici anni. Pur essendo giovanissima, è già anarchica, e gli avvenimenti dal 1917 al 1923, quando sarà costretta ad abbandonare il suo paese, l’accompagneranno per il resto della sua esistenza. Il suo entusiasmo per gli eventi di febbraio lo esprime da Smarhon’ (Smorgon), una piccola città della Bielorussia, dove è nata il 20 luglio 1901 in una famiglia ebrea di commercianti di stoffe2. Ma è il 1921 l’anno importante per la vita di Ida. È l’anno in cui si concretizza il suo impegno di militante anarco-comunista e in cui termina gli studi superiori trasferendosi a Char’kov per iscriversi alla facoltà di medicina. Ma poco dopo decide di trasferirsi a Mosca per sfuggire alle «attenzioni» dei bolscevichi3, convinta che la grande metropoli possa proteggerla meglio. Naturalmente è solo un’illusione. A Mosca entra subito in contatto con gli ambienti anarchici superstiti, dando inizio a una relazione personale con David Tennenbaum, e contemporaneamente riprende gli studi all’università. Alcune settimane prima del conseguimento della laurea, siamo ormai nel 1923, è arrestata, insieme a David, per attività «antisovietiche». Una volta liberata, decide di lasciare clandestinamente il paese, passando il confine grazie all’aiuto di contrabbandieri ebrei, e si rifugia in Polonia, dove rimane a vivere per due anni e dove termina la relazione con Tennenbaum. Il 1921 è un anno cruciale per la storia di tutto l’anarchismo russo. In quell’anno il regime bolscevico stronca in modo irreversibile la resistenza di anarchici e libertari. Tre sono i momenti cruciali che segnano simbolicamente questo passaggio: la morte di Kropotkin, la sconfitta militare della machnovščina in Ucraina e l’annientamento della rivolta dei marinai di Kronštadt4. Ida Mett è tra la folla che accompagna il feretro di Kropotkin lungo le strade di Mosca. Lì apprende dagli anarchici locali anche delle detenzioni nelle carceri di Taganka e Butyrka del gruppo della Nabat, della sconfitta di Machno e degli sviluppi della rivolta di Kronštadt. L’inverno 1920-21 è terribile per tutta la Russia, specialmente nelle grandi città come Mosca, ma soprattutto a Pietrogrado. La sua popolazione, allo stremo delle forze, è letteralmente alla fame. La situazione sanitaria, sociale, economica e alimentare è drammatica. Gli esiti del comunismo di guerra hanno corrotto in modo sostanziale il consenso popolare a favore dei bolscevichi, e gli imponenti scioperi operai di Pietrogrado e Mosca, nel febbraio 1921, sono il segnale inequivocabile della gravità della situazione5. Scioperare in quel momento è un vero e proprio «atto di coraggio» perché si traduce in licenziamento immediato, fermo, incarcerazione e perfino morte6. Il 23 febbraio, quando per le strade di Mosca sfilano diecimila operai, nella capitale viene imposta la legge marziale. Negli stessi giorni gli scioperi si estendono anche a Pietrogrado. Le proteste rappresentano una seria minaccia per il governo di Lenin perché non si limitano a chiedere maggiori razioni e libertà di commercio, ma sbandierano parole d’ordine politiche antibolsceviche. Nuove votazioni per i soviet, libertà di parola e di stampa, legalizzazione di tutti i partiti socialisti, amnistia politica7. Quando alla base navale di Kronštadt arriva la notizia degli scioperi in corso a Pietrogrado, i marinai delle corazzate Sevastopol e Petropavlovsk decidono di inviare una delegazione sulla terraferma per informarsi meglio. Kronštadt è una città-fortificata, a circa venti miglia da Pietrogrado, situata sull’isola di Kotlin, all’estremità orientale del Golfo di Finlandia. Era stata concepita dagli zar come una sorta di fortezza difensiva contro un possibile attacco dal mare a quella che era la capitale dell’Impero russo. La rivolta dei marinai di Kronštadt del marzo 1921 assume subito un valore simbolico forte in quanto quei marinai sono stati tra i maggiori protagonisti della rivoluzione del 1917. Prima di abbattere a cannonate la fortezza, Trockij aveva definito i suoi marinai come «orgoglio e gloria della rivoluzione russa». In effetti, questi non solo erano stati in prima fila già nella rivoluzione del 1905, ma nel febbraio 1917 erano stati i primi a rivendicare il potere per i soviet. Non a caso il primo soviet degli operai e dei soldati era nato proprio a Kronštadt il 26 maggio 1917. Ed erano stati sempre loro a svolgere un ruolo decisivo nei fatti dell’ottobre, tale da permettere e assicurare la vittoria politica dei bolscevichi8. Il 27 febbraio 1921 per le strade di Pietrogrado appare affisso sui muri il seguente volantino clandestino che suona come l’appello a una nuova rivoluzione: Innanzitutto ciò di cui hanno bisogno gli operai e i contadini è la libertà. Essi non vogliono vivere per decreto dei bolscevichi. Essi vogliono avere il controllo sul proprio destino. Noi esigiamo la liberazione di tutti i socialisti e di tutti i lavoratori senza partito arrestati; l’abolizione della legge marziale; la libertà di parola, di stampa e di riunione per tutti coloro che lavorano; libere elezioni dei comitati di fabbrica, dei sindacati e dei soviet9. Il 28 la delegazione rientra a Kronštadt e nello stesso giorno gli equipaggi delle navi da guerra Petropavlovsk e Sevastopol, capita la situazione, alzano la bandiera della rivolta ed emanano una risoluzione in quindici punti con cui gli insorti chiedono:

1. Immediate nuove elezioni, non rispecchiando più i soviet le volontà degli operai e dei contadini. Le nuove elezioni dovranno avvenire a voto segreto ed essere precedute da una libera campagna elettorale. 2. Libertà di parola e di stampa per operai e contadini, per gli anarchici e per i partiti della sinistra socialista. 3. Libertà di riunirsi in assemblea per i sindacati e le organizzazioni contadine. 4. Convocazione, non più tardi del 10 marzo 1921, di una Conferenza degli operai non affiliati ai partiti, dei soldati e dei marinai di Pietrogrado, di Kronštadt e del distretto di Pietrogrado. 5. Liberazione dei prigionieri politici socialisti e di tutti gli operai e contadini, soldati e marinai, appartenenti alla classe lavoratrice e alle organizzazioni contadine. 6. Elezione di una commissione d’indagine che verifichi tutti i dossier dei prigionieri detenuti nelle carceri o nei campi di concentramento. 7. Abolizione di tutte le sezioni partitiche all’interno delle forze armate. A nessun partito politico devono essere riconosciuti privilegi per la diffusione delle proprie idee o sussidi statali a tal fine. In sostituzione delle sezioni partitiche saranno costituite commissioni per la cultura sovvenzionate dallo Stato. 8. Abolizione immediata dei posti di blocco militari disposti tra città e campagna. 9. Parificazione delle razioni di tutti i lavoratori, fatta eccezione per quelli impegnati in lavori pericolosi o nocivi per la salute. 10. Abolizione delle milizie di partito all’interno dei gruppi armati. Soppressione delle guardie di partito nelle fabbriche e negli uffici. Qualora fossero necessarie delle guardie, queste saranno nominate tenendo conto delle volontà dei lavoratori. 11. Garanzia per i contadini della piena libertà di azione sulle terre di loro proprietà e del diritto di allevare bestiame, a patto che essi lavorino con le proprie forze senza impiegare manodopera salariata. 12. Chiediamo a tutte le unità militari e ai gruppi di addestramento ufficiali di associarsi alla presente risoluzione. 13. Chiediamo che la stampa garantisca la giusta pubblicità alla presente risoluzione. 14. Chiediamo l’istituzione di postazioni mobili di controllo operaio. 15. Chiediamo che la produzione artigiana sia autorizzata se non fa ricorso al lavoro salariato10.

Il giorno seguente, 1° marzo, l’assemblea tenuta nella famosa piazza dell’Ancora, che vede partecipare migliaia di marinai e soldati, approva il documento di rivendicazioni in quindici punti e chiede la rielezione del soviet. I marinai gridano: «Viva i soviet senza i comunisti», «Viva la Terza rivoluzione». Gli emissari del Partito comunista inviati da Pietrogrado vengono arrestati. Al posto del soviet locale, viene creato un Comitato rivoluzionario che prende in mano il potere e ordina il disarmo immediato di tutti i bolscevichi presenti sull’isola. La macchina della propaganda bolscevica si mette subito in moto per convincere i lavoratori che i marinai di Kronštadt sono dei controrivoluzionari, dei burattini in mano a un ex generale zarista, Aleksandr Kozlovskij: menzogne della propaganda, come dimostra anche la storiografia più recente. La Goldman sarà tra le prime a denunciarle. Il 2 marzo l’isola è già circondata dall’Armata rossa e a tutta la provincia di Pietrogrado viene imposta la legge marziale. Il 3 marzo il maresciallo Michail Tuchačevskij è nominato dal governo responsabile delle operazioni militari per la riconquista della piazzaforte. Deve organizzare l’assalto in fretta, prima che i ghiacci si sciolgano. Il 5 marzo Trockij ordina ai rivoltosi di arrendersi immediatamente e, con un ultimatum, li avverte che «sarebbero stati presi a fucilate come pernici» se non si fossero arresi entro ventiquattro ore11. Nello stesso giorno Emma Goldman, Alexander Berkman e altri due anarchici, chiedono un incontro urgente a Trockij per risolvere pacificamente il conflitto. L’incontro non ha luogo e i due anarchici scrivono allora un appello indirizzato a Zinov’ev, perché «restare silenziosi in questo frangente è non solo impossibile ma anche criminale»12. Non ottengono risposta13. La riconquista bolscevica dell’isola e il bagno di sangue che l’accompagna sono vicende abbastanza note. Il 7 marzo vengono sparate le prime cannonate da alcune postazioni sulla terraferma. L’attacco di fanteria scatta l’8 marzo, il giorno di apertura del X Congresso del Partito comunista, dopo che Lenin non solo dà l’ordine per la spietata repressione della rivolta, definita una «controrivoluzione piccolo-borghese», ma condanna al contempo le deviazioni sindacaliste e «anarchiche» interne ed esterne al partito, accusate, in modo infondato, di aver favorito e guidato la rivolta. In verità la rivolta non è egemonizzata da alcuna organizzazione politica. In quei giorni, infatti, l’opposizione di sinistra interna al Partito bolscevico, guidata da Alexandra Kollontaj e Alexander Šljapnikov, presenta un documento L’Opposizione operaia, in cui denuncia l’involuzione autoritaria e burocratica del governo sovietico e propone di abbandonare la gestione centralistica e verticistica della produzione economica a favore di una gestione sindacale, diretta democraticamente dal basso. Kronštadt serve a Lenin per far piazza pulita anche di questa opposizione interna. Ma assieme al bastone Lenin brandisce anche la carota. Fa infatti votare un provvedimento che consente ai contadini di vendere le proprie eccedenze di grano e così di aumentare le razioni di cibo in città. In sostanza, vara la NEP. Gli scontri durano dieci giorni. L’assalto finale scatta nella notte tra il 16 e il 17 marzo. Il 18 marzo la cittadella di Kronštadt alza la bandiera bianca. Tra i morti in combattimento e le successive fucilazioni di massa degli insorti si compie una carneficina. Alcuni sono condannati ai lavori forzati. Altri riescono a fuggire in Finlandia. Dopo essere stata repressa nel sangue, la rivolta di Kronštadt viene immediatamente inghiottita dall’oblio della storia. Il X Congresso mette una pietra tombale sopra la vicenda, la cui memoria sarà mantenuta viva soltanto dagli anarchici e da pochi altri. Nondimeno, per la dissidenza rivoluzionaria di sinistra Kronštadt rappresenta la cartina tornasole della degenerazione del bolscevismo. Ma se Kronštadt scompare dalla storia russa, non è però possibile cancellarla del tutto. Il dibattito su Kronštadt, scansato in Unione Sovietica, si svolge in Occidente. Nel 1925 Ida Mett attraversa la Polonia e la Germania e raggiunge Parigi. Dopo mille peripezie, inseguito dai bolscevichi, nello stesso anno anche Nestor Machno arriva nella capitale francese14. Qui Ida entra in contatto, oltre che con Machno, anche con gli altri esuli anarchici russi sfuggiti alla persecuzione sovietica: Pëtr Aršinov, Volin, Valesvsky, Linsky e Nicolas Lazarévitch, che diventerà il suo nuovo compagno di vita e di ideali. Il gruppo inizia a pubblicare il giornale «Dielo Truda». Fino al 1928 Ida svolge il ruolo di redattrice del giornale ma soprattutto di segretaria personale di Nestor Machno, un’esperienza fondamentale per la sua formazione militante e umana. Nel novembre 1926 il Gruppo degli anarchici russi all’estero pubblica sulle pagine di «Dielo Truda» un documento dal titolo Piattaforma d’organizzazione dell’Unione generale degli anarchici, noto come «Piattaforma». Tradotto in francese durante l’inverno seguente da Volin, che in seguito ne diventerà uno dei principali critici, il documento, per i toni considerati eccessivamente dirigisti, provoca un terremoto tra le fila del movimento anarchico internazionale, che accuserà gli estensori della Piattaforma di introdurre germi bolscevichi nell’ambito del pensiero anarchico, dando origine a una dura polemica e a un dibattito molto acceso15. Ida Mett è l’unica donna del gruppo che partecipa alla stesura del famoso documento. Nel 1928, dopo un’intensa campagna di denuncia della condizione operaia in Russia, Ida e Nicolas vengono espulsi dalla Francia. Si trasferiscono a Liegi, in Belgio, paese natale di Nicolas. Lì frequentano i circoli anarchici locali, nei quali incontrano numerosi rifugiati, soprattutto spagnoli, tra cui Lola Iturbe, Francisco Ascaso, Buenaventura Durruti e la sua compagna Émilienne Morin. Quando in Spagna viene proclamata la seconda repubblica, Ida e Nicolas, insieme a Durruti, Ascaso e la Morin, entrano clandestinamente nel paese per realizzare un reportage sulle condizioni del movimento operaio iberico per conto del giornale «La Révolution Prolétarienne». Nel 1936 Ida e Nicolas decidono di rientrare clandestinamente in Francia. La naturalizzazione francese viene loro sistematicamente rifiutata, ma ottengono permessi di soggiorno limitati, anche se Boris Souvarine riesce a regolarizzare la loro situazione dal punto di vista amministrativo16. A Parigi, Ida Mett scrive nel 1938 un testo che ricostruisce la storia di Machno, ma all’inizio della seconda guerra mondiale smarrisce il dattiloscritto e non lo ritroverà mai più. Tornerà sulla biografia di Machno nel secondo dopoguerra, dopo l’uscita del libro di Volin La rivoluzione sconosciuta. Riscrive la storia di Machno e nel 1948 finalmente pubblica Souvenirs sur Nestor Machno, dove insieme al racconto della sua amicizia con l’anarchico ucraino, ripercorrerà la sua vita e le lotte del movimento machnovista. Nel libro, scritto in francese anche se lei abitualmente scrive in russo, Ida scagiona in particolare Machno dalle accuse infamanti e del tutto infondate di antisemitismo cadute su di lui. Sempre nel 1938, sollecitata da Boris Souvarine, scrive un altro piccolo ma denso libro dove racconta la rivolta di Kronštadt, La Commune de Cronstadt, crépuscule sanglant des soviets, e la dura repressione portata a termine dall’Armata rossa. Ida Mett, anarchica, avrebbe voluto pubblicare il saggio nella rivista «La Révolution Prolétarienne», ma Pierre Monatte, sindacalista e amico di Trockij, ne impedisce la pubblicazione17. Va ricordato che negli anni Trenta Parigi è il terreno fertile in cui germoglia il trozkismo. Il libro uscirà in Francia solo nel 1948, mentre in Italia la prima edizione apparirà nel 1962, con un titolo ben diverso18. Sono cento pagine fitte che vorrebbero inserirsi nella polemica che proprio nel 1938 vede Victor Serge, Boris Souvarine, Max Eastman, Emma Goldman19, Ante Ciliga20 dibattere sul ruolo svolto da Trockij nella sanguinosa repressione della rivolta di Kronštadt21. Il motivo? Scoprire dove e quando esattamente il bolscevismo aveva dato origine allo stalinismo. La Mett infatti pone subito un interrogativo polemico e drammatico allo stesso tempo: Quella che dobbiamo avanzare è una domanda assillante: «Da quando la Russia è caduta in preda a questa sete di dominio? Esisteva già sotto Lenin? Oppure è una caratteristica della fase staliniana della dittatura bolscevica?». Ogni volta che si cerca di intravedere il punto di partenza di questa involuzione, a ragione ci si ricorda di Kronštadt. L’insurrezione dei marinai del 1921 infatti segna il limite tra due epoche: da un lato conclude la fase spontanea, popolare, la fase delle speranze nella rivoluzione; dall’altro annuncia tutto ciò che si è compiuto successivamente sotto il segno della coercizione autoritaria22. Fin dal 1921 Trockij cercherà di minimizzare l’episodio di Kronštadt. Non gli sarà mai facile parlare di quel che è successo nel marzo di quell’anno e scriverà sempre con imbarazzo di quegli eventi. Dal 1921 fino al 1940, anno della sua morte, Trockij manterrà sostanzialmente la stessa analisi sull’insurrezione di Kronštadt. Nel 1929, ne La mia vita, Trockij dedica a Kronštadt meno di mezza riga. La nomina appena senza aggiungere altro. Nel 1938 si meraviglia dell’importanza concessa all’insurrezione di Kronštadt, ai suoi occhi una rivolta tra le altre, e si irrita molto della polemica sollevata, perché a suo giudizio favorisce soltanto Stalin nello scontro politico, e non solo, contro di lui. Si rifiuta di essere considerato il responsabile del massacro di Kronštadt. Il 6 luglio 1938, due anni prima del suo assassinio, afferma ancora di non avere toccato la questione non perché abbia qualche cosa da nascondere ma, al contrario, perché non ha nulla da dire: La verità è che io personalmente non ho partecipato minimamente alla soppressione della ribellione di Kronštadt, e neanche alla repressione che ha seguito questa soppressione. Ai miei occhi questo fatto non ha nessun significato politico. Facevo parte del governo, e consideravo la soppressione della ribellione come necessaria e quindi ne porto la responsabilità23. L’affermazione per cui Kronštadt non ha avuto «nessun significato politico» è evidentemente strumentale al momento politico che sta vivendo quando scrive queste righe. In risposta alle dure critiche che Victor Serge, per esempio, muove fin dal settembre 1937, Trockij cerca di delegittimarle definendole «di terza mano» e dunque «senza alcun valore». E conclude:

Sono però pronto a riconoscere che la guerra civile non è una scuola di umanesimo […]. Chi vuole può su questa base rifiutare (scrivendo qualche articolo) la rivoluzione in generale. Io non lo faccio. In questo senso mi assumo piena e completa responsabilità per la soppressione della ribellione di Kronštadt24.

Affermazioni che si commentano da sole. Nell’agosto 1940 Trockij scriverà nella biografia dedicata a Stalin che la soppressione di Kronštadt era stata «una tragica necessità»25. Sulla rivolta di Kronštadt è stato scritto molto, soprattutto dopo l’apertura degli archivi russi che hanno consentito di chiarire meglio sia la natura sia gli obiettivi politici dell’insurrezione. Anche se gli archivi da soli non sono in grado di rispondere a tutti i quesiti a cui gli storici cercano di rispondere, molti degli aspetti chiariti hanno confermato le interpretazioni dei fatti sostenute a suo tempo dalla dissidenza rivoluzionaria di sinistra, a partire soprattutto da quella anarchica; interpretazioni soffocate dalla propaganda e dalle dichiarazioni ideologiche dei vincitori. Un primo aspetto riguarda i riscontri documentali che sconfessano una falsità sostenuta in quei giorni, e per i decenni successivi, dal governo comunista, ovvero che il moto fosse orchestrato dall’emigrazione controrivoluzionaria26. Già nel 1939 Ida Mett scrive:

In Occidente masse di operai avevano una fiducia assoluta nel governo bolscevico che era riuscito a dirigere l’immenso sforzo dei lavoratori nella lotta contro la reazione feudal-zarista e che ai loro occhi personificava la rivoluzione socialista. Gli animi si rifiutavano di credere che quel governo fosse stato capace di reprimere in modo crudele una rivolta proletaria e proprio per ciò i bolscevichi ebbero la possibilità di presentare il movimento di Kronštadt come reazionario, di denunciarlo come organizzato e sostenuto dalla borghesia russa ed europea27.

Sulla collaborazione tra i marinai ribelli e gli ufficiali controrivoluzionari si favoleggia molto in quei giorni, specie da parte dei bolscevichi che conducono una propaganda martellante tra gli operai di Pietrogrado accusando il movimento insurrezionale di essere fomentato e orchestrato dal generale zarista Kozlovskij. La verità è un’altra. Ed è quella sostenuta da Ida Mett. La rivolta non è guidata da nessuna organizzazione politica ma è nata spontaneamente e sinceramente rivoluzionaria. Scrive ancora la Mett:

Senza dubbio, Lenin e Trockij, come d’altra parte tutta la direzione del partito, sapevano perfettamente che non si trattava di una rivolta di generali. Perché allora inventare la leggenda del generale Kozlovskij a capo dell’insurrezione? Possiamo trovare una risposta nella morale caratteristica dei bolscevichi, morale spesso cieca e soprattutto ignorante del fatto che una menzogna può rendere facilmente sia un cattivo che un buon servizio. La leggenda del generale Kozlovskij ha aperto la via a quella dell’ufficiale Wrangel in combutta con Trockij negli anni 1928-1929, come a tutta la gamma di infamie che oggi Stalin riversa sul mondo28.

Per Ida Mett quindi la rivolta di Kronštadt, fin dall’inizio, diventa un paradigma di quello che è stato definito il ruolo della menzogna nel processo storico. Del resto Trockij, in La loro morale e la nostra del 1938, scrive che «una guerra senza menzogne è altrettanto inconcepibile di un meccanismo non lubrificato», una considerazione che vale per ogni scontro politico29. Un secondo aspetto riguarda un’altra tesi che i bolscevichi cercano di far passare, ovvero che i marinai di Kronštadt del 1921 non siano gli stessi del 1917 e che dunque non siano più l’«orgoglio e gloria della rivoluzione russa». I migliori di loro sono caduti nel corso della guerra civile e sono stati rimpiazzati da «contadinacci in panni di marinaio» che si portano dietro dai villaggi atteggiamenti «anarchici» e «piccolo-borghesi»30. Tesi che viene ribadita da Trockij fin dal 16 marzo 1921, quando in un’intervista uscita sulla «Pravda» afferma che i marinai del 1917 sono stati in gran parte sostituiti da «Lettoni, Estoni e Finlandesi, che consideravano il loro servizio come un’occupazione provvisoria e che, in maggioranza, non avevano preso parte alla rivoluzione»31. Ida Mett, che dedica alcune pagine alle «accuse di Trockij», le stesse mosse dal sovietico Pukhov nel suo libro del 1931 dal titolo Kronštadt al potere dei nemici della rivoluzione, respinge decisamente questa ipotesi. Non nega che nel periodo tra il 1917 e il 1921 una buona parte dei marinai siano stati sostituiti, cosa a suo avviso inevitabile data la dura guerra civile in corso, ma sostiene che questa sorta di scrematura di alcuni degli elementi migliori sia avvenuta in tutta la Russia, e anche all’interno del Partito bolscevico32. Nella prefazione del 1948, la Mett dichiara che al momento della stesura del libro considerava Trockij «l’unico rappresentante autorizzato del bolscevismo». È a lui che avrebbe voluto rivolgere le domande che pone riguardo la tragedia di Kronštadt. E aggiunge: «Se per caso questo testo pervenisse un giorno tra le mani di qualche vecchio bolscevico ancora vivo in Russia, lo inviteremmo a rendersi conto che nel porre questi due interrogativi noi pensavamo proprio ai superstiti della rivoluzione di ottobre»33.

Note al capitolo

1. Varlam Šalamov, Višera, Adelphi, Milano 2010, p. 63. 2. Su Ida Mett, cfr. Pezzica, Anarchiche, cit., pp. 135-146. 3. Alla fine di novembre del 1920 proprio a Char’kov i Čekisti avevano arrestato tutti i componenti del gruppo della Nabat. 4. Su Kronštadt, cfr. Paul Avrich, Kronštadt 1921. La sanguinosa repressione della rivolta dei marinai di Kronštadt contro la dittatura bolscevica nel quadro dello sviluppo e del rafforzamento dello Stato sovietico, Mondadori, Milano 1971; Alexandre Skirda, Kronštadt 1921: prolétariat contre bolchévisme, Tête de feuille, Paris 1971; Israel Getzler, L’epopea di Kronštadt 1917-1921, Einaudi, Torino 1982; Jean-Jacques Marie, Kronštadt 1921. Il Soviet dei marinai contro il governo sovietico, UTET, Torino 2007; Tomasz Parczewski, Kronštadt nella rivoluzione russa, Colibrì, Milano 2013. 5. Avrich, L’altra anima della rivoluzione, cit., p. 268. 6. Figes, La tragedia di un popolo, cit., p. 911. 7. Cinnella, 1917. La Russia verso l’abisso, cit., p. 418. 8. Figes, La tragedia di un popolo, cit., p. 913. 9. Ibid. 10. I quindici punti della risoluzione sono pubblicati in Ida Mett, La rivolta di Kronštadt: il ruolo della marina nella rivoluzione russa, Azione comune, Milano 1962, pp. 40-41. 11. La frase delle «pernici» pare sia stata pronunciata da Zinov’ev e non da Trockij. Cfr. Leroy, Emma la Rossa, cit., p. 148. 12. Cfr. Goldman, Vivendo la mia vita 1917-1928, cit., pp. 259-260. L’appello è pubblicato in Appendice: Lettera di Berkman, Goldman, Perkus e Petrovsky al Soviet di Pietrogrado, p. 170. 13. Victor Serge, e non solo lui, riterrà Lenin e Trockij responsabili della repressione di Kronštadt soprattutto per il loro spietato rifiuto di negoziare. Cfr. Leroy, Emma la Rossa, cit., p. 151. 14. Cfr. http://fdca.it/storico/piattaformanuova.htm; http://ita.anarchopedia.org/Piattaforma_dei_Comunisti_Anarchici_(1926). Il testo propone la creazione di un’organizzazione anarchica più centralizzata fondata sulla responsabilità collettiva. La proposta si articola a partire dalle esperienze dell’anarchismo russo durante la rivoluzione, in particolare nell’Ucraina libertaria, tenendo conto anche dei suoi fallimenti, attribuiti, secondo il documento erroneamente, alla repressione bolscevica, ma in realtà dovuti alla carenza di capacità organizzative e tattiche. Il testo non si limita alla risoluzione dei problemi organizzativi, ma intende anche essere una risposta globale ai problemi che l’anarchismo deve affrontare prima, durante e dopo la rivoluzione. Per i piattaformisti, l’unica tendenza anarchica autentica è quella anarco-comunista, mentre tutte le altre vanno rifiutate perché lontane dalla concezione originale dell’anarchismo. 15. In Francia, Nestor Machno conduce un’esistenza materialmente difficile, anche a causa della tubercolosi che lo affligge. Durante il periodo francese stringe rapporti epistolari con molti esponenti dell’anarchismo europeo, tra i quali gli italiani Errico Malatesta e Pio Turroni, che lo conosce personalmente. Muore nel 1934 all’ospedale Ténon. Le sue ceneri riposano nel cimitero di Père Lachaise. 16. Nel giugno 1940 Ida Mett è fermata dalle autorità francesi e rinchiusa, insieme al figlio Marc, nel campo di internamento di Rieucros. Nell’aprile dell’anno seguente Ida e suo figlio vengono liberati. Con l’aiuto di Boris Souvarine, nel gennaio 1942 raggiungono La Garde-Freinet, dove ritrovano Nicolas Lazarévitch. Tutti e tre si spostano infine a Draguignan, dove rimangono fino alla primavera del 1946, quando decidono di tornare a Parigi. Negli anni Cinquanta e Sessanta Ida collabora con la rivista «Est et Ouest», dove scrive diversi articoli sulla condizione dei contadini in URSS. Tema che poi sviluppa in Le Paysan russe en URSS et la post-révolution. Nel 1957, insieme a Boris Souvarine, Lucien Laurat, Branko Lazitch, Ronald Wright e altri, collabora al numero speciale della rivista «Est et Ouest» dedicato al comunismo europeo dopo la morte di Stalin. Ida Mett muore a Parigi il 27 giugno 1973. 17. «La Révolution Prolétarienne» è una rivista sindacalista fondata da Pierre Monatte nel gennaio 1925, che diventa ben presto il luogo di incontro di differenti correnti del movimento operaio francese – marxiste eterodosse, sindacaliste e anarchiche – unite nella lotta contro lo stalinismo. Tra i collaboratori della rivista troviamo, negli anni Trenta, Daniel Guérin, Simone Weil, Victor Serge, Jean Maitron, Maurice Paz, Pierre Aubery e appunto Ida Mett. 18. Ida Mett, La rivolta di Kronštadt: il ruolo della marina nella rivoluzione russa, Azione comune, Milano 1962. 19. «In quello stesso anno, Emma Goldman pubblicherà un articolo corrosivo intitolato Trockij esagera [Trockij protests too much], nel quale attacca ‘l’arcinoto egocentrismo di Trockij’ e gli rinfaccia a muso duro il suo ruolo nel massacro dei marinai». Cfr. Leroy, Emma la Rossa, cit., p. 152. 20. Ante Ciliga nel 1938 pubblica a Parigi, aiutato da Boris Souvarine, un libro, tra i primi, che racconta dall’interno i gulag staliniani: Au pays du grand mensonge. Quattro anni dopo pubblicherà un libro sulla rivolta di Kronštadt, molto critico nei confronti di Trockij: L’Insurrection de Cronstadt et la destinée de la Révolution russe. 21. Sulla polemica, sull’atteggiamento e sulle risposte di Trockij, cfr. almeno Marie, Kronštadt 1921, cit., pp. 315-323. 22. Mett, La rivolta di Kronštadt, cit., pp. 11-12. 23. Lev Trockij, Ancora su Kronštadt, 1938. Cfr. https://www.marxists.org/italiano/Trockij/1938/7/Kronštadt.htm 24. Ibid. 25. Marie, Kronštadt 1921, cit., p. 320. 26. In questo senso è sufficiente leggere la lunga relazione scritta all’inizio di aprile del 1921 da un funzionario della Čeka che aveva preso parte attiva alla repressione e all’interrogatorio dei ribelli catturati. Nella relazione è scritto esplicitamente che «l’insurrezione controrivoluzionaria della guarnigione e degli operai di Kronštadt (1-17 marzo 1921) è stato il conseguente sviluppo logico delle agitazioni e degli scioperi in alcune fabbriche di Pietroburgo, scoppiati nell’ultima decade di febbraio». Cfr. Cinnella, 1917. La Russia verso l’abisso, cit., p. 418. 27. Mett, La rivolta di Kronštadt, cit., p. 9. 28. Ibid., p. 49. 29. Marie, Kronštadt 1921, cit., p. 6. 30. Figes, La tragedia di un popolo, cit., p. 915. 31. Marie, Kronštadt 1921, cit., p. 151. «Invece, come ha dimostrato Israel Getzler, si trattò di un caso di abbandono dei bolscevichi da parte dei loro figli preferiti. I marinai ribelli del 1921 erano sostanzialmente gli stessi del 1917». Cfr. Figes, La tragedia di un popolo, cit., p. 915. 32. Secondo Jean-Jacques Marie, «questo parallelo inganna, dal momento che un partito e una guarnigione non hanno la stessa natura». Cfr. Marie, Kronštadt 1921, cit., p. 152. 33. Mett, La rivolta di Kronštadt, cit., p. 12. CAPITOLO SESTO Lettere dalle carceri russe

Mollie era piccola di statura e aveva dei lineamenti singolari, una giapponesina fatta e finita sia per l’altezza che per l’aspetto, eppure aveva dimostrato una forza eccezionale, e la serietà del carattere, nonché la severità degli abiti che indossava, la rendevano molto simile alle rivoluzionarie russe […]. Era davvero dello stesso stampo dei giovani idealisti russi dei tempi dello zar, pronti a sacrificare la propria vita quando avevano a malapena iniziato a viverla1.

Emma Goldman

Nel pieno della notte del 9 luglio 1923 Mollie Steimer viene svegliata da voci maschili provenienti dal corridoio del piano dove si trova la sua stanza in coabitazione2. Prima ancora di rendersi conto di cosa stia accadendo, bussano alla porta. Chiedono di lei e di Senya Fleshin, il suo compagno. Sono agenti della GPU3. Quando Mollie apre, sette uomini in divisa puntano le loro pistole contro i due anarchici. La stanza viene perquisita. Vengono sequestrati libri e pamphlet, in gran parte legalmente venduti nelle librerie sovietiche. Poi gli agenti leggono l’ordine di arresto e portano entrambi nella sede della GPU di Pietrogrado. Due giorni dopo Mollie viene interrogata per la prima volta:

«Sei un’anarchica?». «Sì». «Come conosci Marija Veger?». «…». «Marija Veger legge testi sull’anarchismo a gruppi di studenti, ti risulta?». «…».

Non risponde, e resta in cella per quattro giorni. Come lei stessa ricorda: Furono giorni e notti terribili. Questi buchi neri stretti e bui chiamati celle erano pieni di pidocchi, cimici e scarafaggi. Per tutto il tempo eravamo costretti a schiacciarli e tentare di tenerli lontano. Mi sembrava di impazzire. Non riuscii mai a dormire durante i quattro giorni e le quattro notti passate lì. Alla fine noi (dico noi perché eravamo in quarantuno anarchici arrestati e chiusi nelle celle della prigione interna) decidemmo di utilizzare qualunque mezzo di protesta possibile per poter uscire da lì4. I quarantuno chiedono di essere trasferiti e iniziano uno sciopero della fame. Poco dopo vengono trasferiti in un’altra prigione di Pietrogrado, nella quale i detenuti politici sono separati dai criminali comuni e godono di condizioni diverse. I pochi miglioramenti nelle condizioni detentive i prigionieri politici li avevano ottenuti nel 1921 dopo uno sciopero della fame durato undici giorni. Tali miglioramenti consistevano in due ore d’aria; il diritto a ricevere visite; l’utilizzo della biblioteca del carcere due volte la settimana; il diritto a nominare un proprio rappresentante presso la GPU; una migliore qualità del cibo. Privilegi che però saranno presto disattesi. È quello che capita a Mollie una volta arrivata in carcere. Senza un’apparente spiegazione viene trasferita nel braccio dei criminali comuni, sottostando alle loro stesse condizioni: Alle otto del mattino, una tazza d’acqua calda e una libbra di pane secco; alle dieci del mattino, quindici minuti d’aria; alle dodici, una scodella di zuppa acquosa, grigiastra e puzzolente e un pezzo di carne così dura e dall’odore così disgustoso da non poterla mangiare; alle sei del pomeriggio, lo stesso pasto del mezzogiorno. Le visite, della durata di quindici minuti, potevano essere ottenute solo con dei permessi speciali5. Il 21 luglio 1923 Mollie viene convocata per un secondo interrogatorio in cui le comunicano che il capo d’accusa è propaganda di idee anarchiche in violazione degli articoli 60 e 63 del Codice penale sovietico. Le viene presentato un verbale da sottoscrivere, ma Mollie si rifiuta di firmarlo e chiede chiarimenti. L’interrogatorio allora prosegue:

«Partecipi a riunioni con lavoratori e studenti in cui promuovi le idee anarchiche?». «Hai prove per sostenere quanto mi stai chiedendo?». «No, non esattamente, ma abbiamo elementi sufficienti per sospettarlo». «Avrò un processo?». «Niente del genere. Il vostro caso è esaminato a Mosca. E questo è tutto». «Perché mi trovo nel braccio dei criminali comuni?». «Perché abbiamo ricevuto ordini da Mosca di abolire i privilegi dei prigionieri politici rispetto ai prigionieri comuni. E tu comunque sei ritenuta una criminale. Inoltre devi essere isolata dagli altri tuoi compagni»6.

Mollie protesta e invia una richiesta alla GPU per avere il trattamento dei politici, che però le viene rifiutato. Durante il quarto d’ora d’aria nel cortile della prigione, Mollie nota un volto familiare dietro una finestra dell’edificio. È Marija Veger, anche lei nel braccio dei prigionieri comuni. Per uno scambio di poche parole, Mollie viene subito riportata in cella e minacciata di essere messa in isolamento se avesse nuovamente parlato con le altre detenute:

Mi erano negati i più elementari diritti della prigione e venivo trattata in modo umiliante sia dall’amministrazione penitenziaria sia dalle più alte autorità. Solo per aver parlato con Marija attraverso un vetro, avevano minacciato di rinchiudermi nelle loro segrete. Non potendo sopportare ancora una tale esistenza, essendoci negato un processo e dovendo sottostare al regime dei criminali comuni, decidemmo di dichiarare lo sciopero della fame7.

Così il 27 luglio inizia uno sciopero della fame con il quale chiede di ripristinare le condizioni a suo tempo concesse ai detenuti politici. A lei si unisce anche la Veger, Lida Surkova, Senya Fleshin e vari altri detenuti. Il terzo giorno di sciopero viene concesso a Mollie e a tutti gli altri detenuti il diritto alle visite e a migliori condizioni. Con l’eccezione tuttavia di Marija Veger. Subito la Steimer chiede spiegazioni: «Perché questo diverso trattamento? Siamo entrambe qui con la medesima accusa». La risposta è sempre la stessa: «Perché lei è una criminale». Scrive la Steimer nelle sue memorie:

Naturalmente mi indignai molto nell’ascoltare una dichiarazione così ridicola fatta da un rappresentante del governo bolscevico e gli ricordai gli innumerevoli ribelli che erano scappati dalle prigioni e dall’esilio, e quanto fossero felici e ottimisti gli uomini e le donne che erano riusciti a fuggire con successo. Citai i nomi dei più alti leader bolscevichi che erano scappati, evasi da diverse prigioni, e gli dissi che se lei, Marija Veger, è una criminale perché fuggita dall’esilio, certamente la maggior parte dei comunisti idolatrati a capo del governo sono tutti criminali […]. Venni rinchiusa nella cella di isolamento senza alcun contatto con l’esterno. Ogni giorno la guardiana del carcere passava, dava un’occhiata dal buco della serratura e mi chiedeva come andava8.

Mollie Steimer, pseudonimo di Marthe Alperine, è originaria di Dunaevtsky, nel sud-est della Russia, dove è nata il 21 dicembre 1897 in una modesta famiglia di origine ebraica. A causa delle difficoltà economiche, nel 1913 emigra, insieme al padre e ai cinque fratelli, negli Stati Uniti. Raggiunto il ghetto di New York, nel Lower East Side, Mollie inizia subito a lavorare in una fabbrica di confezioni, entrando così in contatto con la dura realtà degli sweat-shop9. In quel periodo diventa anarchica e non ancora ventenne conosce Jacob Abrams e gli altri militanti del gruppo anarchico yiddish Frayhait10, che pubblica un giornale con lo stesso nome il cui motto è «yene regirung iz di beste» (il miglior governo è quello che non governa)11. Quando vengono inviate le prime truppe statunitensi in Russia nella primavera-estate del 1918, il gruppo stampa e diffonde in inglese e yiddish due volantini, tirati in diecimila copie, con i quali incita allo sciopero generale. Mollie è la prima a essere arrestata. Interrogata, viene accusata di cospirazione e di violazione dello Espionage Act. Il processo a Mollie e agli anarchici del gruppo Frayhait inizia il 10 ottobre 1918 e si trasforma nel procedimento giudiziario più importante legato allo Espionage Act: noto come il «caso Abrams», da allora viene menzionato nei testi di giurisprudenza come prova della più flagrante violazione dei diritti costituzionali durante la Red scare12 che segue la prima guerra mondiale. Mollie è condannata a quindici anni di carcere. In attesa del giudizio in appello, viene scarcerata sotto cauzione. Riprende subito l’attività politica. Ma l’11 marzo 1919, accusata di istigazione alla sovversione, è nuovamente detenuta per otto giorni nella prigione di Tombs. Liberata ancora una volta su cauzione, viene arrestata una terza volta e condotta a Ellis Island per essere deportata. Mollie inizia uno sciopero della fame per far riconoscere i suoi diritti. «Era stato impiegato l’intero armamentario del governo degli Stati Uniti per schiacciare una ragazza che non arrivava a pesare nemmeno cinquanta chili»13, denuncia Emma Goldman. Grazie all’abile difesa messa in campo dall’avvocato Harry Weinberger, Mollie alla fine evita i quindici anni di reclusione, a condizione però di lasciare definitivamente gli Stati Uniti. Il 24 novembre 1921, Mollie Steimer, Hyman Lachowsky, Samuel Lipman, Jacob Abrams e sua moglie Marie si imbarcano sul vapore Estonia con destinazione Pietrogrado. Vittime della Red scare in America, diventeranno vittime del Terrore rosso in Russia. Quando arriva a Pietrogrado il 15 dicembre 1921, Mollie non trova più la Goldman e Berkman, che sono già ripartiti alla volta dell’Occidente, profondamente delusi dalla svolta che sta prendendo la rivoluzione. Kropotkin è morto a febbraio di quell’anno e la rivolta di Kronštadt è stata soffocata nel sangue in marzo. L’esercito di Nestor Machno è stato disperso e centinaia di anarchici e di anarchiche languono nelle prigioni, mentre i soviet dei lavoratori e dei contadini sono diventati semplici «timbri» di una nuova e potente burocrazia. In questa tenebre, tuttavia, Mollie trova alcuni punti luminosi. Intanto conosce, poco dopo il suo arrivo, l’anarchico Senya Fleshin. I due si innamorano e formano una coppia fissa che resisterà per il resto della loro vita. Poi, insieme ad altri anarchici conosciuti soprattutto a Pietrogrado, costituiscono un’associazione a sostegno degli anarchici imprigionati dal potere sovietico e cominciano a percorrere tutto il paese per aiutarli e sostenerli. Tre anni più anziano di Mollie, Senya è nato a Kiev il 19 dicembre 1894. Emigrato negli Stati Uniti all’età di sedici anni, anche lui entra presto nell’ambiente anarchico. Lì conosce la Goldman, iniziando a collaborare con la sua rivista «Mother Earth», e molti altri esponenti di punta del movimento americano, che poi ritroverà in Russia negli anni della rivoluzione. Nel 1917 è infatti tra i primi, insieme a Fanya e Aaron Baron, a rientrare in Russia. Diventa immediatamente attivo nel gruppo che pubblica il giornale «Golos Truda» a Pietrogrado, e successivamente aderisce alla Nabat. Nel novembre 1920 Senya, insieme a Volin, Mark Mratchny, Aaron e Fanya Baron, viene arrestato e trasferito in una prigione di Mosca. Rilasciato poco dopo, torna a Pietrogrado per lavorare al Museo della Rivoluzione. Ed è qui che incontra Mollie appena arrivata dall’America. Il 1° novembre 1922 Mollie tornando a casa trova la sua stanza aperta e presidiata da due soldati. Un agente in borghese della Čeka le chiede il nome e poi le comunica che è in arresto e che deve seguirlo al quartier generale della Čeka. In tutta la casa le persone presenti vengono trattenute e poi portate via nonostante siano solo pazienti del medico nella cui casa Mollie ha affittato una stanza. Il giorno seguente Mollie viene interrogata. Si rifiuta di rispondere alle domande e chiede di sapere il motivo del suo arresto. «Sei accusata di far parte di un’organizzazione clandestina che aiuta gli anarchici imprigionati», le rispondono, «e di avere collegamenti con l’Europa e l’America»14. Al che Mollie ribatte:

Come ha chiamato l’organizzazione che aiuta i prigionieri anarchici… un’organizzazione clandestina? Soltanto pochi giorni fa mi sono presentata qui per conto del compagno Nicolaev, insieme a Tatyana Polosova, collaboratrice di «Golos Truda», e Senya Fleshin, membro dell’associazione, e così è avvenuto anche altre volte. Ci avete sempre considerati delegati di un’organizzazione riconosciuta dal governo. Perché improvvisamente la chiamate clandestina e la considerate controrivoluzionaria?15

Domande che non ricevono risposta, mentre l’interrogatorio continua chiedendo a Mollie se ha rapporti con i «controrivoluzionari» Alexander Berkman e Emma Goldman. La Steimer ricorda a questo proposito una lunga discussione che nasce proprio in merito alla parola «controrivoluzionario», che alla fine risulta inutile visto che «Shmitkov [l’agente della Čeka] è così ottuso e sleale che non aveva alcun senso parlarne». Mollie lascia la stanza degli interrogatori16. Il giorno dopo viene trasferita nella sede della Čeka di Pietrogrado. Insieme a lei ci sono altri ventinove anarchici. Sono tutti convinti che li abbiano arrestati solo per tenerli lontano dalle celebrazioni del «7 novembre» e che dunque li rilasceranno a breve. Passano tre settimane prima che a Senya e Mollie venga comunicata la condanna comminata: due anni di esilio a Obdorsk, esattamente sul circolo polare artico, nell’estremo nord della Russia. Iniziano subito uno sciopero della fame, e il 27 novembre i due vengono finalmente rilasciati, a condizione di non lasciare Pietrogrado e di riferire ogni quarantotto ore i loro spostamenti alle autorità di polizia; condizioni che rimarranno valide fino al settembre dell’anno seguente quando dovranno lasciare il paese. La liberazione di Mollie e Senya avviene anche grazie alle proteste di alcuni anarco-sindacalisti francesi, tra cui May Picqueray17, presenti in quei giorni a Mosca come delegati al II Congresso dell’Internazionale sindacale rossa (19 novembre-2 dicembre 1922). Questi chiedono spiegazioni a Solomon Lozovski sui motivi che hanno portato all’arresto degli anarchici e scrivono una lettera di protesta a Trockij chiedendone la liberazione. Una volta liberati riprendono, per alcuni mesi, la loro attività nell’associazione a sostegno dei detenuti politici, e Mollie più volte trasgredisce le condizioni imposte facendo diversi viaggi a Mosca. Fino a quel fatidico 9 luglio 1923, quando vengono arrestati per la seconda volta. Anche in questo caso sono presto liberati ma costretti all’espatrio obbligato. Nell’attesa del giorno dell’espulsione, che avverrà a novembre di quello stesso anno, Mollie riesce a ottenere un incontro con Marija Veger. Quando è uscita dal carcere, ha lasciato Marija in uno stato di salute precario che peggiora di giorno in giorno. Poco dopo la Veger riceve la condanna definitiva a tre anni di esilio nelle isole Solovki, dove viene trasferita il 16 settembre 1923. Una settimana dopo, però, viene inaspettatamente riportata a Pietrogrado. La Steimer ottiene, «dopo due giorni di dura trattativa con gli ufficiali dellaGPU», il permesso di incontrarla. È il loro ultimo incontro:

Con la febbre altissima e incapace di reggersi sulle proprie gambe, Marija mi raccontò la storia del suo viaggio […]: una volta condotta nella prigione di Vologda, che si trova a metà strada tra Pietrogrado e Archangel’sk, la GPU locale dichiarò che Marija non sarebbe stata più spostata, poiché tutte le prigioni e i campi di concentramento […] compreso il monastero [di Solovki] erano talmente sovraffollati che le autorità locali avevano deciso di non accettare altri prigionieri […]. Marija […] non si lamentava della sua misera condizione, ma parlò di ciò che si sarebbe dovuto fare per quei prigionieri che erano stati fatti tornare indietro a Pietrogrado. Era particolarmente ansiosa per il destino di una donna cui era stata negata la visita del suo bambino di sette anni, e chiese di fare il possibile per lei, dal momento che la donna si trovava in uno stato di salute troppo debole per affrontare le sofferenze cui sarebbe stata sottoposta […]. La compagna Veger si separò da me con le seguenti parole: di’ a tutti i compagni di coordinare e unire le forze. Non si lascino scoraggiare dalla situazione in Russia. Al contrario, di’ loro di fare uso della nostra esperienza e di prepararsi per l’arrivo della rivoluzione mondiale. La lasciai col cuore in mano18.

Il 27 novembre 1923 Mollie e Senya vengono imbarcati su una nave con destinazione Germania e lasciano per sempre la Russia. Una volta raggiunta Berlino, senza soldi e senza documenti, Mollie e Senya trovano ad attenderli Emma Goldman e Alexander Berkman. I nuovi arrivati entrano subito a far parte del Comitato di difesa dei rivoluzionari imprigionati in Russia e poi, a fianco di Volin, Mark Mratchny e Alexander Shapiro, tutti già espatriati, del Fondo pro vittime politiche dell’Associazione internazionale dei lavoratori (AIT), che pubblica un bollettino informativo in cui si denunciano le condizioni carcerarie in terra sovietica. Nelle memorie che scrive a partire dal 1924 sul periodo trascorso nella Russia sovietica, sparse in articoli e lettere, Mollie Steimer presta sempre particolare attenzione alle storie delle donne che incontra nelle carceri e che – come lei – stanno subendo un medesimo crudele destino, che per alcune sarà anche tragico. In particolare i suoi ricordi riguardano due donne: Marija Korshunova e Marija Veger, entrambe anarchiche19. Marija Korshunova, nota tra i lavoratori di Pietrogrado con il soprannome di «Perovskaja»20, è una giovane anarchica arrestata per la prima volta nel 1921, nella retata effettuata dalla Čeka dopo l’annientamento della rivolta di Kronštadt. Da quel momento viene continuamente trasferita da un carcere all’altro in attesa di ricevere la condanna definitiva, che arriva alla fine del 1922: dieci anni di reclusione, oltretutto in isolamento. Viene quindi trasferita da Pietrogrado alla prigione della Butyrka21, situata a nord di Mosca, dove avrebbe dovuto scontare la sua pena. Ma dopo circa un mese viene invece improvvisamente trasferita a Čheljabinsk, in Siberia, e poi a Vjatka (l’odierna Kirov), una delle peggiori prigioni russe. Una volta lì, di lei non si avrà più notizia. Marija Veger è un’anarchica di lungo corso, anche lei arrestata per la prima volta nel 1921. L’accusa a suo carico è di essere una pericolosa controrivoluzionaria in quanto legge ai suoi studenti – è insegnante – testi di propaganda anarchica, trovati nella sua stanza dopo una veloce perquisizione. In quell’occasione vengono ritrovati dagli agenti della Čeka numerosi volumi sull’anarchismo e diverso materiale di propaganda, oltre che varie copie dei giornali «Freedom»22 e «Arbeiter Freind» di Londra e della testata «Freie Arbeiter Stimme» di New York23. La Veger passa tre mesi alla Butyrka, dove si ammala di scorbuto. Condannata a due anni di esilio, viene trasferita ad Archangel’sk, città che sorge sulle rive della Dvina settentrionale nel punto in cui sfocia nel Mar Bianco, dove trascorre sei mesi. Riesce a fuggire, ma poco dopo viene catturata e internata nella prigione di Pietrogrado, dove è detenuta anche Mollie. Nel 1923 il destino di Marija Veger è ormai segnato. Viene trasferita dapprima nelle isole Solovki, poi in un carcere duro ad Alta- Uralsk e infine, nel 1927, di nuovo in esilio ad Archangel’sk. Sono le ultime notizie che la riguardano, raccolte dal Fondo pro vittime politiche dell’AIT. Nel novembre di quello stesso anno, in occasione del decennale della rivoluzione d’ottobre, Mollie pubblica un appello per la liberazione dei prigionieri politici anarchici arrestati tra il 1920 e il 1926, e fornisce un elenco di novantaquattro persone, tra uomini e donne, recluse nelle carceri e nei campi di concentramento del regime sovietico24. Le Solovki, isole del Mar Bianco costantemente presenti nella geografia penitenziaria sovietica, distano centosessanta chilometri dal circolo polare artico, duecentocinquanta dal confine con la Finlandia, settecento da San Pietroburgo e milleduecento da Mosca. Per secoli erano state sede di un monastero potente e prospero. Dopo l’ottobre 1917, il governo bolscevico confisca la proprietà dell’arcipelago e già nel 1920 insedia in una delle isole un primo campo di lavoro forzato destinato ai prigionieri della guerra civile. Ma nel 1923 riconverte tutti gli edifici espropriati del monastero in un grande campo di concentramento, noto come Lager a Destinazione Speciale delle Solovki (SLON). Il primo contingente di cinquecento oppositori politici arriva nel giugno del 1923. Queste isole remote sono scelte come luogo di detenzione per i prigionieri politici in seguito a un avvenimento accaduto quello stesso anno in una prigione di Vjatka. Qui alcuni prigionieri hanno inscenato una clamorosa protesta dandosi fuoco, e il fatto provoca una profonda emozione in tutta la società russa. Il governo decide allora di trasferire i prigionieri politici in luoghi di detenzione il più possibile lontani dalle città. Subito dopo la rivoluzione del febbraio 1917, il governo provvisorio aveva emanato una sorta di amnistia generale e le prigioni si erano svuotate. Benché tra il marzo e l’ottobre di quell’anno le prigioni si fossero nuovamente riempite di detenuti, lo smantellamento dell’impianto penitenziario zarista procedeva pur se lentamente. Ma dopo l’ottobre e soprattutto con la guerra civile, i bolscevichi interrompono questo processo e procedono a ridisegnare, ampliandolo, un nuovo sistema carcerario. Nel 1918 all’interno del Commissariato del popolo per la giustizia è istituita una Sezione punitiva centrale che controlla tutti i luoghi di detenzione. Viene organizzata una vasta rete di campi di concentramento e di campi di lavoro per gli oppositori politici, utilizzando in molti casi gli ex monasteri. Nell’aprile 1919, all’interno del Commissariato del popolo per gli affari interni viene creata la Sezione lavori forzati. Nel luglio 1923, per lottare contro i «nemici del popolo», viene istituita la Direzione politica statale unificata subordinata direttamente al Sovnarkom. Il sistema penitenziario bolscevico impostato dopo l’ottobre 1917 resta senza sostanziali cambiamenti fino al 192925. Nel dicembre 1924, Mollie e Senya si trasferiscono a Parigi26. La loro battaglia per far sapere a tutti i rivoluzionari cosa stia realmente succedendo nella Russia bolscevica continua senza sosta. Scrive la Steimer:

La Russia di oggi è una grande prigione in cui ogni individuo non in pieno accordo con i comunisti viene spiato e schedato dalla GPU (Čeka) come un nemico del governo. Nessuno può ricevere libri o giornali e neppure una lettera integra dai suoi familiari senza il controllo della censura. L’istituzione che mantiene la gente nell’assoluta ignoranza di tutte le notizie dannose per gli interessi dei bolscevichi è ora meglio organizzata e più severa di quanto lo fosse il Gabinetto Nero sotto lo zar Nicola II. Le prigioni e i campi di concentramento di Mosca, Pietrogrado, Char’kov, Odessa, Taškent, Vologda, Archangel’sk, Solovki e Siberia sono pieni di rivoluzionari che non concordano con il regime tirannico mantenuto dai bolscevichi27.

Nel 1925 viene pubblicato dall’International Committee of Political Prisoners un corposo libro di denuncia delle persecuzioni politiche in atto nella Russia sovietica dal titolo Letters from Russian Prisons28. È un libro che apre qualche squarcio sulla realtà concentrazionaria degli anni della rivoluzione e di quelli immediatamente successivi; una realtà, va ricordato, comunque distante dalle caratteristiche che la contraddistingueranno negli anni Trenta. Nell’introduzione, scritta dal presidente del Committee, Roger N. Baldwin, si legge che l’intento del libro è quello «di raccontare la storia dei prigionieri politici rivoluzionari, soprattutto con le loro parole»29. Sono poi presenti alcune testimonianze di intellettuali celebri, tra cui Arnold Bennett, Georg Brandes, Albert Einstein, Thomas Mann, Romain Rolland, Bertrand Russell, Arthur Schnitzler e Rebecca West. Il libro è composto da sei sezioni. Le prime tre raccolgono le lettere scritte da anarchici, sindacalisti e socialisti rivoluzionari di sinistra, esiliati, imprigionati o internati nei campi di lavoro. La quarta sezione è dedicata ai documenti sulle libertà civili e sull’amministrazione della giustizia, prigioni comprese, con particolare riferimento all’uso dello sciopero della fame come protesta, al diritto dei prigionieri a scegliere i propri difensori d’ufficio, alla detenzione senza processo, alla repressione politica degli avversari. Segue una raccolta delle risposte date da quarantaquattro prigionieri a un questionario distribuito con l’obiettivo di conoscere appartenenza politica, età, sesso, arresti subiti e altre informazioni dello stesso tenore. Dei quarantaquattro «intervistati», dodici erano menscevichi, sedici socialisti-sionisti, sette anarchici, quattro socialisti rivoluzionari, tre socialisti rivoluzionari di sinistra, due senza appartenenza politica. L’ultima sezione, infine, pubblica alcuni estratti delle leggi sovietiche sulla carcerazione. Mollie Steimer è una delle anarchiche che collabora, con le sue lettere e memorie, alla compilazione del volume dell’International Committee of Political Prisoners, convinta che ogni canale di comunicazione, anche al di fuori del circuito anarchico internazionale in senso stretto, sia fondamentale per far conoscere la sua storia e quella delle donne anarchiche che si sono trovate nella sua stessa condizione di prigionia. Nel 1937 è invece Victor Serge a pubblicare Da Lenin a Stalin30. Questo testo «segna un prima e un dopo»31. Quando arriva in Russia nel 1919, Serge è pieno di passione rivoluzionaria. Sono «i grandi anni», come lui stesso li definisce, «in cui si alternano disperazione ed entusiasmo»32. Decide di collaborare con i bolscevichi, scegliendo però di non fare il funzionario di partito: «Non sarei stato né contro i bolscevichi né neutrale, sarei stato con loro, ma liberamente, senza abdicare al pensiero né al senso critico»33. In un breve arco di anni, e soprattutto nel «passaggio di consegne» da Lenin a Stalin, il sogno rivoluzionario diventerà un incubo. Il saggio si presenta come una ricostruzione sintetica di vent’anni di storia della rivoluzione russa, dal 1917 al 1937, storia che diventa «cronaca di una rivoluzione tradita». Più o meno a due terzi del libro, il capitolo «Fuori legge» punta dritto «alla questione della repressione»34. Scrive l’autore:

C’è poco da dire a proposito della libertà di parola e di pensiero. Tutti i socialisti, di qualsiasi tendenza, sono deportati o imprigionati, senza eccezioni. Lo stesso accade agli anarchici e ai sindacalisti. E così anche ai comunisti dell’Opposizione. Il pensiero ufficiale non tollera la minima ombra o sospetto di critica. Dopo il 1930 basta essere sospettato per essere perseguito35.

E senza troppo girarci intorno, Serge aggiunge che la repressione «si basa sulla provocazione»36. Anche se in verità la pratica repressiva basata sulla provocazione era iniziata molti anni prima dello stalinismo, come dimostra la storia della Steimer e non solo. Le pagine proseguono con una serie di lettere e documenti che Serge pubblica per dimostrare quanto sta denunciando, fino al paragrafo «Ricordi», in cui narra la sua diretta esperienza di reclusione in una prigione della GPU, durata ottantacinque giorni. Anche lui è sottoposto a un interrogatorio basato su menzogna e delazione, inclusa la lettura di un documento che proverebbe le accuse mosse nei suoi confronti, «in cui neanche una parola corrispondeva a verità»37. Per incastrarlo, vengono utilizzate anche false dichiarazioni di Anita Russakova, sua cognata. Serge viene infine liberato, e così Anita. Anni dopo apprende che la donna è stata di nuovo arrestata: «Per quale ragione? Non aveva mai fatto parte di raggruppamenti politici […]. È stata condannata, senza motivazione, a una pena pazzesca di cinque anni di deportazione a Vjatka: una misura di natura amministrativa». E denuncia che «non si pubblica mai nulla su queste cose. Non c’è nessuno che venga in nostra difesa o che ci aiuti. Siamo semplicemente strangolati nell’oscurità»38. A questo punto della scrittura segue un brevissimo capitolo intitolato significativamente «La persecuzione delle donne»39. Questa volta il riflettore è puntato su un aspetto specifico della rivoluzione, quello della persecuzione delle donne dissidenti che, come abbiamo visto, era stato raccontato, scandagliato e denunciato fin dagli anni Venti, ma solo nelle memorie femminili. E lo fa attraverso il racconto di due donne: Marija Mikhailovna Joffe e Eva Broido. La prima è la moglie del diplomatico bolscevico Adolf Joffe, già firmatario della pace di Brest-Litovsk, che allineatosi alle tesi trotzkiste muore suicida il 16 novembre 1927. Pochi mesi dopo la morte del marito, la donna, solo per aver espresso opinioni ritenute pericolose, viene arrestata e deportata prima ad Alma Ata, poi a Bokhara. In seguito sarà arrestata e deportata altre due volte, fino al 20 agosto 193640, quando anche lei muore suicida. La seconda donna è una menscevica, attiva nelle file rivoluzionarie sin dal 1890, che ha passato molti anni nelle galere zariste e ai lavori forzati. Liberata nel marzo 1917, è poi fuggita in esilio volontario dopo l’ottobre. Rientrata illegalmente in Russia nel 1927, viene denunciata da un agente provocatore, quindi reclusa per tre anni a Suzdal’ e infine deportata nel Taškent. La breve narrazione si chiude con un grido d’allarme lanciato da Serge, che avrà l’effetto di un sasso lanciato in uno stagno:

In molti paesi esistono organizzazioni […] che si occupano del socialismo, della pace e di altri ideali generosi […]. È possibile che essi ignorino la sorte di Marija Joffe, Eva Broido, Irina Kakhavskaja, Marija Spiridonova, Marija Ivanova, Dora Zak, Alexandra Bronštejn, Zensl Mühsam [la moglie di Erich Mühsam, il poeta anarchico assassinato dai nazisti nel campo di concentramento di Oranienburg]. Ma se conoscono il caso di queste donne, che cosa dobbiamo pensare del loro silenzio?41 Un silenzio che durerà ancora decenni.

Note al capitolo

1. Goldman, Vivendo la mia vita 1917-1928, cit., pp. 68-69. 2. «Uno degli aspetti più terribili del Terrore [rosso] era la sua casualità. Praticamente poteva capitare a chiunque di essere svegliato da una scampanellata nel cuore della notte». Figes, La tragedia di un popolo, cit., p. 770. 3. Il 6 febbraio 1922, alla fine della guerra civile, la Čeka cambia il nome in GPU (Gosudarstvennoe političeskoe upravlenie, ovvero Direttorato politico dello Stato), una sezione del Commissariato del popolo per gli affari interni della Repubblica socialista federativa sovietica russa. 4. Abe Bluestein, Fighters for . Mollie Steimer and Senya Fleshin, Libertarian Publications Group, USA 1983, p. 31. 5. Ibid., p. 32. 6. Ibid. 7. Mollie Steimer, Dentro le celle bolsceviche, in Dietro le sbarre. Repliche anarchiche alle carceri e al crimine, Zero in condotta, Milano 2011, p. 95. 8. Bluestein, Fighters for anarchism, cit., p. 33. 9. Cfr. Furio Biagini, Nati altrove. Il movimento anarchico ebraico tra Mosca e New York, BFS, Pisa 1997. 10. Tra i diversi movimenti anarchici nati a partire dalla seconda metà dell’Ottocento, quello di lingua yiddish assume una valenza tutta particolare. I componenti del movimento anarchico yiddish hanno abitato quella che è stata definita la «Yiddishlandia libertaria», un arcipelago etnico-geografico costituito dalle aree a forte presenza ebraica askhenazita. Questo paese immaginario comprendeva la zona di insediamento ebraico nell’ex Impero russo e poi con l’emigrazione, a partire dal 1880, anche città come Parigi o Londra, e più in generale paesi come gli Stati Uniti o l’Argentina. Sul movimento anarchico di lingua yiddish, vedi Biagini, Nati altrove, cit. 11. Il giornale uscirà per cinque numeri dal gennaio al marzo del 1918. Nessuna copia del giornale è stata mai conservata. Biagini, Nati altrove, cit., p. 131. 12. Il termine Red scare, «paura rossa», viene utilizzato per descrivere il clima politico che contraddistingue gli Stati Uniti negli anni dal 1917 al 1920, un periodo segnato da persecuzioni politiche interne e violazioni dei diritti civili. 13. Goldman, Vivendo la mia vita 1917-1928, cit., p. 73. 14. Bluestein, Fighters for anarchism, cit., pp. 29-30. 15. Ibid. 16. Ibid. 17. Sulla figura di May Marie-Jeanne Picqueray (1898-1983), vedi Pezzica, Anarchiche, cit., pp. 125-133. Nei giorni del II Congresso May Picqueray intona in segno di protesta L’Hymne à l’anarchie e rifiuta di stringere la mano a Trockij, per le persecuzioni antianarchiche di cui è ritenuto responsabile. 18. Steimer, Dentro le celle bolsceviche, cit., pp. 98-99. 19. Steimer, Dentro le celle bolsceviche, cit., pp. 95-97. 20. Sof’ja L’vovna Perovskaja (1853-1881) attraversa tutte le fasi del movimento populista russo, dal Circolo Čajkovskij a Zemlja i Volja, fino a Narodnaja Volja, organizzazione della quale è una degli esponenti più attivi e influenti. Nel marzo del 1881 prende parte all’attentato allo zar Alessandro II. Arrestata, viene giustiziata il mese dopo con quattro suoi compagni. 21. Fondata nel 1771, diventa una prigione di «passaggio» verso altri penitenziari o verso l’esilio. Gli esuli in marcia dalla Butyrka verso la stazione centrale di Mosca sono narrati da Lev Tolstoj nel romanzo Resurrezione. Nel 1917, Feliks Dzeržinskij, il futuro capo della Čeka, è detenuto in questo carcere. Fino al 27 febbraio, tagliato fuori dal mondo esterno, non sa nulla della rivoluzione in corso. 22. Sul famoso giornale anarchico londinese «Freedom», vedi Selva Varengo, Pagine anarchiche. Pëtr Kropotkin e il mensile Freedom (1886-1914), Biblion, Milano 2015. 23. «Freie Arbeiter Stimme», controparte americana della rivista londinese «Arbeiter Freind» pubblicata da Rudolf Rocker, è stata la più longeva rivista anarchica in lingua yiddish. Sulle testate in yiddish e sulla figura di Rudolf Rocker, vedi David Bernardini, Contro le ombre della notte. Storia e pensiero dell’anarchico tedesco Rudolf Rocker, Zero in condotta, Milano 2014. 24. «Bulletin of the Relief Fund of the International Workingmen’s Association for Anarchists and Anarcho-Syndicalists Imprisoned or Exiled in Russia», n. 4, novembre 1927. Il bollettino contiene un elenco di novantaquattro detenuti, di cui diciassette donne tra operaie, studentesse e insegnanti: Anna Golubeva, E. Ganshina, Leah Gottman, S. Isebskaja, N. Kurganskaia, Vera Kevrik, Ekaterina Liakh, Ekaterina Markova, Tatyana Polosova, Marija Poliakova, E. Pisarevskaja, E. Solntzev, K. Sturmer, Marija Veger, Tamara Veger, M. Verkhovskaja, Ekaterina Voronina. Cfr. https://gulaganarchists.wordpress.com/2014/06/06/anarchist-victims-of-bolshevik-persecution/. 25. Marcello Flores, Francesca Gori, Gulag. Il sistema dei lager in URSS, Mazzotta, Milano 2003. La bibliografia più completa sulle carceri e i lager sovietici si trova in Libushe Zorin, Soviet Prisons and Concentration Camps. An Annotated Bibliography 1917-1918, Oriental Research Partners, Newtonville 1980. Sulle memorie femminili, vedi anche Veronica Shapovalov, Remembering the Darkness: Women in Soviet Prisons, Rowman & Littlefield, Boulder 2001. Elena Dundovich, Francesca Gori, Emanuela Guercetti (a cura di), Gulag. Storia e memoria, Feltrinelli, Milano 2004. Il più importante luogo di conservazione delle memorie di carcere e gulag è l’associazione Memorial a Mosca e a San Pietroburgo. 26. A Parigi, insieme a Jacques Doubinsky, Volin e Berkman, fondano un Comitato di mutuo appoggio in sostegno degli anarchici di ogni nazionalità che si trovino in difficoltà. Nel 1929 Mollie e Senya ritornano a Berlino dove aprono uno studio fotografico, ma quando Hitler sale al potere i due capiscono che è meglio lasciare la Germania e ritornare a Parigi. Lì Mollie, il 18 maggio 1940, viene internata in un campo di concentramento, mentre Senya riesce a passare nella zona libera con l’aiuto di alcuni anarchici francesi. Si potranno riabbracciare l’anno seguente a Marsiglia, da dove si imbarcano per il Messico. Nel paese centro-americano, Senya riapre lo studio fotografico Semo. In contatto con il gruppo messicano Tierra y Libertad, Mollie e Senya mantengono stretti rapporti con tutto il movimento anarchico internazionale. Nel 1963 la coppia si ritira a Cuernavaca, dove Mollie morirà per una crisi cardiaca il 23 luglio 1980 all’età di ottantadue anni. 27. Steimer, Dentro le celle bolsceviche, cit., p. 95. 28. The International Committee for Political Prisoners, Letters from Russian Prisons: Consisting of Reprints of Documents by Political Prisoners in Soviet Prisons, Prison Camps and Exile, and Reprints of Affidavits Concerning Political Persecution in Soviet Russia, Official Statements by Soviet Authorities, Excerpts from Soviet Laws Pertaining to Civil Liberties, and Other Documents, C.W. Daniel Co., London 1925 e Albert and Charles Boni, New York 1925. 29. The International Committee for Political Prisoners, Letters from Russian Prisons…, cit., p. XIII. 30. Victor Serge, Da Lenin a Stalin, 1917-1937. Cronaca di una rivoluzione tradita, Bollati Boringhieri, Torino 2017. 31. David Bidussa, Victor Serge perduto e (forse) ritrovato, in Serge, Da Lenin a Stalin, cit., p. XII. 32. Serge, Da Lenin a Stalin, cit., p. 39. 33. Victor Serge, Memorie di un rivoluzionario (1901-1941), E/O, Roma 2006, p. 88. 34. Serge, Da Lenin a Stalin, cit., p. 109. 35. Ibid. 36. Ibid., p. 111. 37. Ibid., p. 123. 38. Ibid., p. 124. 39. Ibid., pp. 125-127. 40. È il giorno dopo l’apertura del primo processo pubblico, conosciuto come il «processo dei sedici», che inaugura le grandi purghe staliniane e che si svolge a Mosca dal 19 al 28 agosto 1936. Tra gli imputati più famosi Kamenev e Zinov’ev, tutti condannati a morte per fucilazione. 41. Serge, Da Lenin a Stalin, cit., p. 127. CAPITOLO SETTIMO Poesie disubbidienti

Sta di là, da quella parte, coi nemici, il mio amico di un tempo. O morte, vola a me, da care mani! Io sto in cordoglio, sulla collina, mentre da loro brillano fuochi. Di me che mi tormento qui nel buio, amico mio, ricordati! Sento un fruscio nell’erba: non saranno i suoi passi? No, non è lui, indietro lui non torna. Perché siamo nemici. Oggi non prendo sonno, amico caro… Ma domani ti mando uno sguardo d’amore, e poi premo il grilletto. Adesso dormi, è l’ora, e tu sei così stanco! Ti bacerà sul petto la mia palla, io sulla bocca.

Chi è l’amico di un tempo che ora è diventato un nemico? La poesia Caro nemico1 è stata scritta nel 1921 da una poeta rivoluzionaria «disubbidiente» russa. Il suo nome è Anna Barkòva e i suoi versi, in parte scritti nei gulag sovietici, hanno avuto una notorietà solo postuma2. L’attuale Ivanovo, città della Russia centrale europea a nordest di Mosca, nasce dalla fusione, risalente al 1871, di due villaggi industriali: Ivanovo e Voznesenskij Posad. Considerata la capitale dell’industria tessile russa e per questo soprannominata la «Manchester rossa», mantiene fino al 1932 il nome di Ivanovo-Voznesensk, diventando famosa anche per essere la «città delle spose», dato che la maggioranza dei lavoratori occupati negli opifici sono appunto donne. Sottoposte a dure condizioni di vita, sono proprio queste lavoratrici a scendere massicciamente in sciopero nel 1917, contribuendo così ad accendere la scintilla della rivoluzione. Ivanovo-Voznesensk è la città dove nel 1901 nasce, da genitori anziani e poveri, Anna Barkòva, ultima di cinque figli, tutti morti prima della sua nascita. Il padre fa il custode di un ginnasio privato della città. Anna è diversa dal padre e dalla madre, e lo è così tanto che inizia a pensare di non esserne la figlia. È una bambina silenziosa. In compenso legge tantissimo e anche da adulta sarà un’insonne lettrice dei classici e dei contemporanei. Tra le sue prime letture quella che più la affascina è Il principe e il povero di Mark Twain. Ha la fortuna di entrare al Ginnasio e terminare gli studi. La Barkòva ha talento per la poesia e lo scoppio della rivoluzione rappresenta per lei una forza liberatoria, e libertaria, che accende le sue speranze, perché sembra che tutte le donne possano finalmente accedere a ogni tipo di istruzione superiore e di carriera. E infatti alcune donne di talento, di estrazione proletaria o contadina, riescono a raggiungere notorietà e riconoscimento in quanto scrittrici3. Anna Barkòva si ritiene da sempre una poeta. Sedotta dall’incendio della rivoluzione, aderisce con entusiasmo al Gruppo di autentici poeti proletari, fondato nella sua città dal noto critico letterario Aleksandr Voronskij4, e collabora al giornale «Rabočij kraj» dal 1919 al 1922, anno in cui avviene il suo trasferimento a Mosca e l’esordio letterario con la pubblicazione del suo primo e ultimo volume di versi, Donna, una viva testimonianza dell’iniziale entusiasmo rivoluzionario. La prefazione del libro è di Anatolij Lunačarskij, il commissario del popolo all’istruzione, entusiasta per la giovanissima poeta che ha nel frattempo assunto come segretaria al Cremlino. I versi di Anna sono comunque già apparsi su alcune riviste letterarie, e non sono passati inosservati: vengono infatti notati da famosi poeti come Aleksandr Blok, Valerij Brjusov e Boris Pasternak. Il lavoro presso il Commissariato del popolo per l’istruzione è però anche l’inizio del suo cammino di imprudente dissidente libertaria, che trapela dai suoi nuovi versi, dai quali emerge una forte delusione nei confronti del governo bolscevico. Già nel 1922, durante una serata di lettura poetica, Anna viene accusata di misticismo, estetismo e individualismo dai poeti del Proletkult5. Solo Pasternak, quella sera, parla in sua difesa. Nel 1924 la GPU mostra a Lunačarskij una lettera della Barkòva a una sua amica che contiene un’aspra critica alla moralità dei «nuovi padroni» del Cremlino. Ne consegue il suo immediato licenziamento6. Vittima di successive denunce e delazioni, isolata ed esclusa dal mondo letterario in cui si era da poco introdotta, pagherà la sua dissidenza «poetica» con trent’anni di prigione, domicilio coatto e gulag.

Il benessere dello schiavo: Lo stambugio delle lettere di delazione, uno spazio per tre. Il fumaiolo che fischia con l’asma della bufera di neve. Che aspetta lo schiavo? Da tempo tutto svanito, i suoi pensieri come una baldracca si infilano nel letto statale. Non importa, ma che raccapriccio a volte!… L’uomo che ama con l’anima sdoppiata, e nello stambugio ne attende un altro. Lo stambugio di lavoro. Il tavolo è grande, il gancio chiude la porta dalla serratura inutile. La vergogna pesa tanto ad ogni passo, le radici della viltà si rafforzano nel cuore. Per ogni sorta di male sono passata, ma il più malvagio e infame è questo7.

Pur nelle difficoltà della sua vita, dopo il licenziamento, Anna Barkòva continua a scrivere poesie, anche se non le è più permesso pubblicare. Il 23 aprile 1932 il Comitato centrale del Partito comunista russo istituisce l’Unione degli scrittori, sciogliendo tutti i gruppi letterari fino a quel momento esistenti e imponendo il dogma del realismo socialista agli scrittori che, se vogliono restare tali, devono aderire all’unica organizzazione riconosciuta dallo Stato. La neonata Unione degli scrittori, con il sostegno della GPU, si impegna a controllare direttamente le arti, la letteratura e lo stesso immaginario collettivo. Nonostante ciò, nel 1934 la Barkòva, che non aderisce all’Unione, riesce a portare a termine quello che sarebbe dovuto essere il suo secondo libro, ma la stampa del volume viene interrotta bruscamente e la stessa Barkòva è arrestata il 25 dicembre 1934 nel raid seguito all’assassinio di Sergej Kirov. Il regime ritiene i suoi versi nocivi e pericolosi per la società sovietica. Trascorrerà i successivi trent’anni tra prigione ed esilio, senza mai rinunciare alla sua vocazione di poeta. Sarà arrestata tre volte, tre volte condannata e tre volte deportata, rispettivamente negli anni 1934-1939, 1947-1956, 1957-1965. Tra il primo e il secondo arresto, Anna vive sette anni a Kaluga, una città a centottanta chilometri a sudovest di Mosca, in esilio «perenne», con l’obbligo di stare lontana dalla capitale. Nessuno vuole darle un impiego e lei riesce a sopravvivere solo facendo l’indovina, leggendo la mano e le carte e predicendo, in quella sperduta provincia, il futuro a migliaia di donne. Dopo il secondo arresto, ritorna a Mosca, ma non riesce a ottenere il diritto alla residenza. Nella capitale nessuno le dà lavoro e senza lavoro non è possibile ottenere il permesso di residenza. Vive di ospitalità fino all’inizio del 1957, quando per i preparativi del Festival mondiale della gioventù, tutte le persone senza il permesso di residenza sono obbligate a lasciare la città. Anna si trasferisce in Ucraina, dove viene arrestata per la terza volta su delazione di una vicina di casa. Viene infine liberata e «riabilitata» nel 1965, anche grazie al poeta Aleksandr Tvardovskij e allo scrittore Konstantin Fedin. Tuttavia, senza un’apparente ragione, la sua popolarità di poeta, legata in particolare alla tradizione orale del gulag, diminuisce. Nel 1967 le è concesso di tornare a Mosca, dove passa gli ultimi anni di vita. Morirà il 30 aprile 1976 nella stanza semivuota di un appartamento in coabitazione, in totale isolamento sociale e anonimato.

Chissà, forse tra cinque generazioni dopo il terribile straripare del tempo, il mondo ricorderà l’epoca dei turbamenti e il mio nome fra gli altri8.

Negli anni Settanta i suoi scritti comunque circolano in samizdat, la diffusione clandestina di scritti illegali perché censurati dalle autorità o in qualche modo ostili al regime sovietico. Solo nel 1989, in piena perestrojka, le sue opere possono essere nuovamente pubblicate in Russia, mentre una rinnovata notorietà arriverà solo nel 2002, con la pubblicazione di un volume antologico dei suoi componimenti, seguito dalla pubblicazione nel 2009 di Otto capitoli di follia, racconti e diari che prendono il titolo da una sua opera degli anni Cinquanta, sequestrata come documento antisovietico. «È ancora oggi difficile stabilire l’entità della sua opera», scrive Giovanna Spendel, «molti scritti sono andati perduti nei vari gulag del suo percorso, mentre altri sono stati salvati da sue ex compagne di prigionia […]. In questo senso, Anna Barkòva può essere definita la rappresentante di una letteratura doppiamente nascosta: quella femminile ‘diversa’ e quella nata nell’illegalità del lager», proponendosi «come poeta dell’umiliazione femminile, della distruzione fisica e psichica della donna nelle condizioni di detenzione»9.

La voce roca e brutale, non dai dolci sussurri, né dal canto. Labbra lievemente livide, una rete di rughe bizzarre. Il corpo – pelle e ossa da poter far male, abbracciando. Non dubitate però che tutto questo non possa essere amato! Come la vodka forte, schifosa, ma di fuoco ardente brucia cervello e gola e trasforma servi in zar, come nel mostruoso anno dalla fame si ama la putrida crosta di pane, amano e baciano così la mia bocca livida di pietra10. Nel contesto della letteratura femminile del gulag, l’opera di Anna Barkòva si distingue non solo per la sua incisività aforistica e per l’assoluta mancanza di autocommiserazione, ma anche per una coscienza lirica che la pone in posizione di originalità nella poesia russa del Novecento, molto al di là della ristretta tematica carceraria e del suo destino personale.

Note al capitolo

1. Vedi I tradotti. Anna Barkòva tradotta da Anna Maria Carpi, «L’Ulisse. Rivista di poesia, arti e scritture», n. 16, Nuove metriche. Ritmi, versi e vincoli nella poesia contemporanea, 2014, p. 322 (http://www.lietocolle.com/2014/02/lulisse-numero-16-nuove-metriche- ritmi-versi-e-vincoli-nella-poesia-contemporanea/). Esiste il formato pdf della rivista: http://www.lietocolle.com/cms/img_old/ulisse_16.pdf. L’opera completa della Barkòva è stata pubblicata in russo nel 1992: Anna Barkòva, Večno ne ta, a cura di Leonid N. Taganov, O. K. Pereverzev, Mosca 2002. 2. Anna Barkòva è stata riscoperta negli anni Novanta del Novecento, nella Russia postcomunista, da Leonid N. Taganov, che si è adoperato per la sua riabilitazione pubblicando nel 1990 una prima raccolta di poesie e poi nel 1993 la prima biografia della poeta. Vedi Leonid N. Taganov, Anna Barkòva. Sud’ba i stichi, in A. Barkòva. Vozvraščenie. Stichotvorenija, Rabočij kraj, Ivanovo 1990. Oltre alla Barkòva, molte sono state le poete russe dissidenti fortemente deluse dalla rivoluzione, alcune famose ben prima del 1917. Ricordiamo in particolare Zinaida Gippius, Marina Cvetaeva e Anna Achmatova, tra le voci più alte della lirica russa del Novecento. Sulla Barkòva vedi anche: S. Lunau, Anna Barkòva – verhinderte Weiblichkeit, in Russland aus der Feder seiner Frauen, a cura di F. Göpfert, München, Sagner Verlag, 1992; Anna Maria Carpi, Il mio nome era un altro – Due bambini dell’Est, Giulio Perrone, Roma 2013; Giovanna Spendel, Letteratura sovietica degli anni Trenta: donne, storia e verità, in Piero de Gennaro (a cura di), La ricerca della verità, Università degli Studi di Torino, Trauben, Torino 2010, pp. 177-186; Catherine Brémeau, Anna Barkòva: la voix surgie des glaces, Préface d’Olga Sedakova, tesi universitaria, Paris 2010; Claudia Pieralli, La lirica nella «zona»: poesia femminile nei gulag staliniani e nelle carceri, in Linee di confine. Separazioni e processi di integrazione nello spazio culturale slavo, a cura di Giovanna Moracci, Alberto Alberti, University Press, Firenze 2013 (https://www.academia.edu/27856445/La_lirica_nella_zona_poesia_femminile_nei_gulag_staliniani_e_nelle_carceri); Massimo Maurizio,Poesia non ufficiale del periodo staliniano: le premesse del samizdat letterario in Unione Sovietica, «eSamizdat, Rivista di culture dei paesi slavi», Il samizdat tra memoria e utopia. L’editoria clandestina in Cecoslovacchia e Unione Sovietica nella seconda metà del XX secolo, 2010-2011 (VIII), pp. 73-84 (http://www.esamizdat.it/rivista/2010-2011/index.htm). 3. L’auspicata liberazione della donna da parte del regime bolscevico ben presto si rivela un’illusione difficile da realizzare. Appena il paese riesce a risollevarsi dalla guerra civile, la vita diventa improvvisamente più difficile per le donne scrittrici. 4. Aleksandr Voronskij (1884-1937), critico letterario e membro del Partito comunista, dirige dal 1921 al 1927 la rivista letteraria «Krasnaja Nov’». Nel 1929 comincia a essere perseguitato per le sue posizioni critiche. Arrestato a Mosca nel 1935, muore in carcere due anni dopo. 5. Proletkult è l’abbreviazione dell’Organizzazione culturale-educativa proletaria fondata nel 1917 con lo scopo, secondo Aleksandr Bogdanov (1873-1928), di creare un’arte autenticamente proletaria, priva di ogni influenza borghese. Oltre alle attività più propriamente artistiche e letterarie, la Proletkult promuove l’alfabetizzazione tra gli operai incoraggiandoli a scrivere drammi teatrali, romanzi e poesie. L’organizzazione viene sciolta nel 1923 in seguito alla condanna di Lenin del cosiddetto «bogdanovismo». 6. Scrive Giovanna Spendel: «I nuovi materiali d’archivio che sono stati ritrovati dopo la sua morte hanno permesso di sapere che Anna Barkòva, andando via da Lunačarskij e separandosi dalla letteratura ufficiale per scegliere la strada di scrittrice indipendente, compie un passo ben meditato». Spendel, Letteratura sovietica, cit., p. 185. 7. https://resistenzaoraesempre.wordpress.com/2015/10/07/anna-barkova-il-benessere-dello-schiavo/. 8. Pieralli, La lirica nella «zona», cit. p. 229. 9. Spendel, Letteratura sovietica, cit., p. 185. 10. https://resistenzaoraesempre.wordpress.com/2015/10/07/anna-barkova-la-voce-roca-e-brutale/. Appendice

Lettera aperta di Marija Spiridonova al Comitato centrale del Partito bolscevico1

Il 6 luglio [1918] mi sono presentata da voi volontariamente in modo che poteste avere un membro del nostro Comitato centrale in vostro potere, sul quale sfogare la vostra rabbia e da offrire come capro espiatorio alla Germania, […] per caso, per vostra scelta o per qualunque altra ragione, le cose sono andate in maniera diversa da come mi ero immaginata. La mia speranza era infatti di utilizzare come tribuna l’aula di tribunale in cui supponevo sarei stata condotta. Nemmeno nei parlamenti più corrotti, nemmeno sui fogli più beceri della società capitalista, gli oppositori sono trattati con un cinismo pari al vostro. E questo vostro odio è diretto verso un gruppo di socialisti, tra i vostri più stretti compagni e alleati, che se hanno indubbiamente mancato di lealtà verso l’imperialismo della Germania, di certo non hanno mancato di lealtà nei confronti della Rivoluzione e dell’Internazionale. La Čeka ha ucciso alcuni militanti SR perché essi non intendevano tradire i propri compagni. Per esempio a Kotel’niki, dove sono stati uccisi due compagni, Machnov e Missuno, due membri del Comitato esecutivo centrale dei soviet. Questi uomini erano talmente votati alla rivoluzione che erano già nate leggende intorno ai loro nomi: erano eroi sulle cui spalle noi abbiamo portato avanti, insieme a voi, la rivoluzione d’ottobre. Missuno ha pagato a caro prezzo il rifiuto di scavarsi la fossa. Machnov ha accettato a condizione che gli fosse concesso di parlare prima della sua esecuzione. Ha parlato e le sue ultime parole sono state: «Lunga vita alla rivoluzione socialista mondiale!». Quanti Missuno e quanti Machnov ci sono oggi nella Russia sovietica – eroi sconosciuti e senza nome! Il vostro partito si è assunto compiti importanti e ha iniziato ad assolverli con grande dedizione. La rivoluzione d’ottobre, durante la quale abbiamo marciato fianco a fianco, è destinata a vincere perché le sue basi e le sue parole d’ordine sono radicate nella realtà storica e sono solidamente sostenute dalle masse lavoratrici. Ma la politica che avete poi attuato si è risolta in un tradimento delle classi lavoratrici. Invece della socializzazione dell’industria, voi avete introdotto il capitalismo di Stato – uno Stato capitalista. Un sistema di sfruttamento coercitivo rimane in forza, con una minima differenza rispetto alla precedente ripartizione dei profitti. Dico «minima» perché i vostri innumerevoli funzionari si divoreranno tutto in maniera ben superiore a quanto faceva la borghesia. Quello che voi offrite ai contadini, con una combinazione di forza e astuzia, è la nazionalizzazione della terra anziché la socializzazione della terra, che era stata decretata con soddisfazione generale al III Congresso dei soviet. E ora gli operai, per non morire di fame, marciano contro i contadini per toglierli anche l’ultimo pezzo di pane. Sono stati così gettati i semi di un lacerante dissenso che contrapporrà due gruppi di fratelli una volta inseparabili, i contadini e gli operai, e che non scomparirà molto presto […]. E ora parliamo della vostra Čeka. In nome del proletariato avete spazzato via tutti i principi morali della nostra rivoluzione. Azioni che gridano vendetta sono state perpetrate dalle Čeka provinciali, dalle Čeka di tutta la Russia: un disprezzo assetato di sangue che ha colpito le anime e i corpi degli uomini, che ha inflitto tortura e tradimento, inganno e uccisioni, uccisioni senza fine, commesse senza un’indagine, solo sulla base di una denuncia, senza aspettare nessuna prova di colpevolezza […]. Finché il potere dei soviet si è retto sul coinvolgimento delle masse, Dzeržinskij si è concesso solo poche, demoniache uccisioni – e solo dopo molte esitazioni e molti scrupoli morali. Ma quando Lenin è stato ferito da un colpo di arma da fuoco, migliaia di persone, arrestate alla cieca, sono state condannate a morte. In preda all’isteria, si è ucciso a destra e a manca, senza alcun criterio, senza una parvenza d’indagine, senza la minima ombra di giustificazione, e soprattutto senza alcuna considerazione per i principi morali. Lenin si è salvato, e nessuna mano fanatica si potrà più alzare su di lui. Ma in questa catacomba di sacrifici espiatori lo spirito vitale ha abbandonato la Rivoluzione. Come sarebbe stato meglio per Lenin vivere nell’insicurezza ma preservare quello spirito vitale! E non sarebbe stato meglio se voi, Vladimir Il’ič, con la vostra grande intelligenza e la vostra abnegazione, aveste mostrato pietà per Dora Kaplan? Una pietà che si sarebbe rivelata incalcolabile in questo tempo di delirio e rabbia, in cui non si percepisce altro che digrignare di denti, in cui si è circondati da astio e paura, in cui non si coglie nemmeno il più piccolo accenno all’amore. Questi assassinii notturni di persone incatenate, disarmate, indifese, questi spari segreti alla nuca, queste sepolture irriguardose di corpi privi di ogni indumento, queste esecuzioni frettolose talvolta accompagnate da lamenti che si alzano da una fossa comune – che tipo di terrorismo è questo? In verità, tutto ciò non può essere chiamato terrorismo. Nel corso della storia rivoluzionaria della Russia il termine terrorismo non connotava meramente la rivincita e l’intimidazione (che erano anzi aspetti secondari). No, gli obiettivi principali del terrorismo erano protestare contro la tirannia, risvegliare negli animi degli oppressi il senso del proprio valore, fortificare la coscienza di coloro che restavano in silenzio davanti alla sottomissione. Inoltre il terrorista accompagnava le sue azioni con il sacrificio volontario della sua libertà o della sua stessa vita. Soltanto in questo modo a me sembra che gli atti del terrorista rivoluzionario possano essere giustificati. Ma dove si possono trovare tali attitudini nella Čeka vigliacca, nella incredibile miseria morale dei suoi leader? [...] Le classi lavoratrici hanno sin qui portato avanti la rivoluzione sotto una incontaminata bandiera rossa, rossa del loro sangue. La loro autorità morale poggia sulle sofferenze patite per conseguire un più alto ideale di umanità. Credere nel socialismo vuol dire credere al contempo in un futuro migliore per l’umanità, vuol dire credere nella generosità, nella verità, nella bellezza, nel rifiuto di qualunque atto di sopraffazione, nella fratellanza mondiale. Ma ora voi avete corroso questo credo, che aveva infiammato gli animi fin nel profondo come mai era accaduto prima. Avete sì mostrato e dato al popolo un po’ di giustizia. Ma avete preso per voi un potere mostruoso e al pari del Gran Inquisitore avete assunto l’autorità assoluta sui corpi e le anime dei lavoratori. E quando il popolo ha iniziato a respingervi, l’avete messo in catene per contrastare una sedicente «controrivoluzione» in atto. Così ora mettete all’ordine del giorno della rivoluzione un processo contro di me e contro il Comitato centrale dei socialisti rivoluzionari. Ma io rifiuto la vostra giurisdizione, non vi accetto come tribunale che si arroga il diritto di giudicare le nostre idee. Non riconosco il vostro potere giuridico sui miei compagni o su di me. Se deve esserci un tribunale per giudicarci, io faccio appello all’Internazionale e al verdetto della Storia. Il tribunale che voi avete istituito è invece composto da membri del vostro stesso partito. E in nome della disciplina interna, un tale tribunale non potrà che applicare qualsiasi decisione venga presa dal partito. Ma verrà un tempo, forse non troppo lontano, in cui sorgerà all’interno del vostro partito un moto di protesta contro questa politica che soffoca lo spirito della rivoluzione. Una dura battaglia scuoterà il partito; i suoi leader corrotti, ebbri di potere, saranno deposti; ci sarà un’epurazione […]. Io non prenderò dunque parte al vostro processo farsa. Voi potete eliminare me e il mio partito dalla rivoluzione soltanto uccidendoci […]. Marija Spiridonova novembre 1918

Lettera di Berkman, Goldman, Perkus e Petrovsky al Soviet di Pietrogrado2

Presidente Zinov’ev Restare silenziosi in questo frangente è non solo impossibile ma anche criminale. Gli avvenimenti recenti obbligano noi anarchici a farci sentire per rendere pubblico il nostro atteggiamento nella situazione presente. Il fermento e l’insoddisfazione tra lavoratori e marinai sono il prodotto di cause che richiedono la nostra seria attenzione. Il freddo e la fame hanno generato l’insoddisfazione, e l’assenza di qualunque possibilità di discussione e critica sta costringendo lavoratori e marinai a esprimere apertamente le proprie lagnanze. Gruppi di Guardie Bianche desiderano sfruttare (e cercano di farlo) questa insoddisfazione nel loro interesse di classe. Nascondendosi dietro operai e marinai mettono in giro slogan a favore dell’Assemblea costituente, del libero mercato e richieste simili. Noi anarchici abbiamo da tempo denunciato la falsità di questi slogan, e dichiariamo al mondo intero che lotteremo in armi contro qualunque tentativo controrivoluzionario, in collaborazione con tutti gli amici della Rivoluzione Sociale e mano nella mano con i bolscevichi. Per quanto riguarda il conflitto tra Governo dei soviet e operai e marinai, riteniamo che esso vada composto non con la forza delle armi ma attraverso un fraterno accordo rivoluzionario. Il ricorso a spargimento di sangue da parte del Governo sovietico, stante l’attuale situazione, non potrà intimidire o acquietare i lavoratori. Al contrario, servirà solo ad aggravare le cose rafforzando i partigiani dell’Intesa e della controrivoluzione interna. Ancora più importante, l’uso della forza da parte del Governo operaio e contadino contro operai e marinai avrà un effetto reazionario sul movimento rivoluzionario internazionale e produrrà ovunque danni incalcolabili alla Rivoluzione Sociale. Compagni bolscevichi, ripensateci, prima che sia troppo tardi. Non giocate col fuoco: state per compiere un passo assai serio e decisivo. Noi vi sottoponiamo qui la nostra proposta: accettate che sia selezionata una commissione di cinque persone, di cui due anarchici. Tale commissione andrà a Kronštadt a comporre la disputa con mezzi pacifici. Nella presente situazione questo è il metodo più radicale. Sarà di importanza rivoluzionaria a livello internazionale. Berkman, Goldman, Perkus, Petrovsky 5 marzo 1921

Lettera di Lucien Chevalier a Lev Trockij3

Compagno Trockij, ho sollecitato un colloquio con te di pochi minuti per sottoporti un caso che mi ha profondamente colpito. Dopo aver ricevuto il tuo brusco rifiuto di ricevermi, senza nemmeno sapere l’oggetto della mia richiesta o la sua importanza, mi permetto di indirizzarti queste poche righe che, spero, non ti rifiuterai di leggere prima di buttarle nel cestino dei rifiuti. Il caso è il seguente: una compagna russa, una ragazza di ventidue anni il cui nome è Mollie Steimer, è stata condannata da un tribunale americano a quindici anni di prigione per aver fatto propaganda a favore della rivoluzione russa. Si è parlato molto di questo caso; sono stati diffusi numerosi volantini, in molte lingue, per denunciare una tale mostruosità. Dopo tre anni di detenzione, questa ragazza è stata finalmente rilasciata grazie a uno scambio di prigionieri americani detenuti in Russia. La sua gioia è stata grande nell’apprendere che avrebbe potuto rivedere il paese dove, grazie al potere del proletariato, la libertà ha trionfato. È dunque tornata in Russia, ma apprendo ora, non senza stupore, che è alla vigilia – dopo essere stata imprigionata per qualche tempo – della sua espulsione verso la Germania. Non riesco a credere che ciò sia possibile, in quanto non vedo alcun motivo che possa provocare un simile trattamento. Speravo dunque, nel colloquio che ti avevo chiesto, di far luce su questo caso. Se la decisione presa verrà portata avanti, equivarrà a una sentenza di morte per questa ragazza. La sua famiglia è in America, lei non conosce il tedesco e il suo stato di salute, dopo il soggiorno nelle prigioni americane e russe, è precario. Soltanto un fatto di eccezionale gravità, come un’azione di banditismo, avrebbe potuto provocare un tale trattamento. Desidero perciò informarti di questi fatti prima del mio ritorno in Francia, dove sono noti, per poterti fare un resoconto veritiero del caso. Continuo a credere che tu non sospettavi l’importanza della questione che intendevo sottoporti, la quale non ha niente a che fare con il desiderio di un delegato di essere ricevuto, per proprio orgoglio personale, da Trockij in persona. Non è così, non è nel mio stile. Spero che ora, avendo preso in considerazione l’esposizione del caso per quello che è, tu faccia del tuo meglio per ottenere le informazioni necessarie affinché venga fatta luce su di esso prima della mia partenza. Spero di non averti sottratto troppi minuti del tuo prezioso tempo e mi scuso se questa richiesta possa averti causato disturbo, ma considero mio dovere non lasciare Mosca senza aver fatto questo passo. Accetta compagno Trockij i miei sinceri saluti. Lucien Chevalier segretario della Confédération générale du travail unitaire 16 dicembre 1922

Marija Spiridonova nei ricordi di Emma Goldman4

Il Dipartimento dei musei faceva parte del Commissariato del popolo per l’istruzione. Il Museo della Rivoluzione, a Pietrogrado, aveva due direttori, uno dei quali era Lunačarskij. Era necessario avere anche la sua firma sulle nostre credenziali, che erano già state firmate dal secondo direttore, Zinov’ev. Ho avuto io l’incarico di incontrare [a Mosca] Lunačarskij. Mi sentivo piuttosto in colpa con lui. Avevo lasciato Mosca in marzo, promettendo che sarei tornata nel giro di una settimana per collaborare al suo lavoro. Adesso, quattro mesi dopo, andavo a chiedere il suo aiuto in un campo completamente differente. Sono arrivata al Cremlino decisa a parlargli del mio stato d’animo sulla situazione in Russia, ma la presenza di un certo numero di persone nel suo ufficio me l’ha impedito; non c’è stato tempo per trattare l’argomento. Ho potuto semplicemente informarlo circa lo scopo della nostra spedizione e chiedere il suo supporto. Ho avuto la sua approvazione. Ha firmato le nostre credenziali e mi ha anche dato alcune lettere di presentazione per facilitare i nostri sforzi a favore del Museo. Mentre la commissione faceva i preparativi necessari per il nostro viaggio in Ucraina, ho trovato un po’ di tempo per visitare diverse istituzioni moscovite e incontrare varie persone interessanti. Tra queste c’erano alcuni noti socialisti rivoluzionari di sinistra che avevo già incontrato in una mia precedente visita. Ho detto loro che ero ansiosa di conoscere Marija Spiridonova, sulla cui condizione avevo udito storie contrastanti. Ma al momento non era stato possibile organizzare l’incontro, perché questo avrebbe potuto esporla a pericoli in quanto viveva sotto falso nome, travestita da contadina. Davvero la Storia si ripete. Sotto lo zar, la Spiridonova, sempre travestita da ragazza di campagna, aveva pedinato il governatore di Tambov Luženovskij, noto persecutore di contadini, e gli aveva sparato. Era stata arrestata, torturata e in seguito condannata a morte. Il mondo occidentale era insorto e grazie a queste proteste la sentenza era stata commutata nell’esilio a vita in Siberia. Ha passato laggiù undici anni; la rivoluzione di febbraio le ha ridato la libertà e così è potuta tornare in Russia, dove si è immediatamente gettata nell’attività rivoluzionaria. Ora, in una Repubblica socialista, doveva nuovamente vivere sotto falso nome dopo essere evasa dalla prigione del Cremlino. Alla fine sono riuscita a farmi organizzare un incontro con la Spiridonova, a condizione però di prestare molta attenzione a non essere seguita dagli agenti della Čeka. Mi sono incontrata con alcuni suoi amici in un certo posto, e di là abbiamo zigzagato per varie strade, entrando infine in un cortile e salendo al piano alto di una casa. Sono stata introdotta in una stanzetta, dove c’era un letto, uno scrittoio, una libreria e diverse sedie. Al tavolo, ricoperto di carte e lettere, stava una fragile donnina, Marija Spiridonova, una dei grandi martiri della Russia, colei che aveva resistito alle torture inflitte al suo corpo dagli sgherri dello zar. Zorin e Jack Reed mi avevano detto che aveva avuto un crollo nervoso ed era stata in sanatorio. Soffriva, a loro dire, di nevrastenia e isteria acuta. Ebbene, quando mi sono trovata faccia a faccia con lei, ho immediatamente capito che quegli uomini mi avevano completamente ingannata. Il che non mi ha sorpreso per quanto riguarda Zorin: gran parte di ciò che mi diceva era del tutto falso, ho poi scoperto. Quanto a Reed, poco pratico della lingua e completamente soggiogato dalla nuova fede, prendeva tutto per buono. Al suo ritorno da Mosca, era venuto a informarmi che l’esecuzione di massa di prigionieri, avvenuta poco prima che la pena capitale fosse abolita, era una storia vera, però mi ha assicurato che la colpa era solo di un certo funzionario della Čeka, che per quello aveva già pagato con la vita. Avevo indagato sulla faccenda, scoprendo che anche Jack era stato ingannato. L’esecuzione di massa non era responsabilità di un singolo individuo, ma faceva parte del modo di essere e agire della Čeka. Ho passato due giorni con Marija Spiridonova, ascoltando il suo racconto sui fatti occorsi dall’ottobre 1917. Ha parlato a lungo dell’entusiasmo e dell’impegno delle masse, delle speranze accese dai bolscevichi e della loro ascesa al potere con un graduale spostamento a destra. Mi ha parlato della pace di Brest-Litovsk, che considerava il primo anello della catena che ha poi imprigionato la Russia. Si è soffermata sulla razverstka, il sistema di requisizioni forzate che stava devastando il paese e screditando tutto ciò per cui la rivoluzione aveva combattuto. Mi ha parlato del terrorismo praticato dai bolscevichi contro ogni forma di critica rivoluzionaria, della nuova burocrazia e dell’inefficienza comunista, dicendo che l’intera situazione era totalmente senza speranza. Era una violenta accusa al bolscevismo, alle sue teorie e ai suoi metodi. Se la Spiridonova aveva davvero avuto un crollo nervoso, come mi era stato assicurato, ed era davvero isterica e mentalmente instabile, doveva avere un autocontrollo straordinario. Era infatti calma, misurata e lucida su ogni argomento. Aveva il pieno controllo del suo materiale e delle sue informazioni. Se durante il racconto mi ha visto dubbiosa, a più riprese mi ha detto: «Temo che tu non mi creda del tutto. Ebbene, ecco quello che alcuni contadini mi hanno scritto», e selezionando dalla pila sul tavolo le lettere che cercava, mi leggeva passi contro i bolscevichi strazianti per sofferenza e amarezza. Con grafia incerta, a volte quasi illeggibile, i contadini ucraini e siberiani descrivevano gli orrori della razverstka e quanto era stato fatto a loro e alla loro terra: «Si sono portati via tutto, anche i semi per l’imminente aratura»; «i commissari ci hanno derubato di ogni cosa». Così dicevano quelle lettere. Spesso i contadini volevano accertarsi che la Spiridonova non fosse passata ai bolscevichi. «Se anche tu ci abbandoni, matushka, non abbiamo più nessuno a cui rivolgerci», aveva scritto un contadino. L’enormità delle accuse sfidava la credibilità. Dopo tutto, i bolscevichi erano dei rivoluzionari. Come potevano essere colpevoli delle cose tremende di cui erano accusati? Forse non erano responsabili della situazione che si era venuta a creare, d’altronde avevano il mondo intero contro. C’era stata la pace di Brest-Litovsk, per esempio. Quando le notizie che era stata ratificata sono arrivate in America, mi trovavo in prigione. Ho lungamente e attentamente riflettuto se la Russia sovietica fosse o no giustificata a negoziare con l’imperialismo tedesco. Non vedendo alternative alla situazione, io ero favorevole alla pace di Brest-Litovsk. In Russia, però, ho sentito versioni contrastanti. Quasi tutti, tranne i comunisti, consideravano l’accordo di Brest-Litovsk un tradimento della rivoluzione, e il ruolo dei socialisti tedeschi nella guerra un tradimento dell’internazionalismo. I comunisti, invece, erano unanimi nel difendere la pace e denunciare come controrivoluzionario chiunque mettesse in discussione la saggezza e la giustificazione rivoluzionaria dell’accordo. Non si poteva fare altrimenti, dicevano; la Germania aveva un esercito formidabile, noi nessuno. Se non avessimo firmato il trattato di Brest-Litovsk, avremmo messo a repentaglio il destino della rivoluzione. Brest-Litovsk è stato un compromesso, è vero, ma sapevamo che i lavoratori della Russia e del resto del mondo avrebbero capito che vi eravamo stati costretti. Il nostro è stato un compromesso simile a quello dei lavoratori obbligati ad accettare le condizioni dei loro padroni dopo uno sciopero fallito. Ma Spiridonova non era convinta. «Non c’era neanche una parola di verità nelle tesi dei bolscevichi», ha detto. È vero che la Russia non aveva un esercito disciplinato per far fronte all’avanzata tedesca, ma aveva qualcosa di infinitamente più efficace: aveva un popolo coscientemente rivoluzionario che avrebbe risposto all’attacco degli invasori fino all’ultima goccia di sangue. In effetti, il popolo aveva bloccato tutti i tentativi militari controrivoluzionari contro la Russia. Chi, se non il popolo, i contadini e gli operai, aveva impedito all’esercito austro-tedesco di restare in Ucraina? Chi aveva sconfitto Denikin e gli altri generali controrivoluzionari? Chi aveva trionfato su Kolčak e Judenič? Lenin e Trockij dicono che è stata l’Armata rossa. Ma la verità storica è che sono state le milizie volontarie di contadini e operai, le povstantsi, in Siberia come nel sud della Russia, a sopportare l’impatto dei combattimenti su ogni fronte. L’Armata rossa si limitava a completare le vittorie di quelle formazioni. Trockij sapeva che il trattato di Brest-Litovsk doveva essere accettato, ma lui stesso all’inizio ha rifiutato di firmarlo; anche Radek, Joffe e altri dirigenti comunisti erano contrari. Si dice adesso che abbiano accettato quelle vergognose condizioni perché si rendevano conto che non c’era alcuna speranza che i lavoratori tedeschi impedissero agli Junker di marciare contro la Russia rivoluzionaria. Non è il vero motivo. È stata la frusta della disciplina di partito che ha costretto Trockij e gli altri a sottomettersi. «Il problema con i bolscevichi», sosteneva la Spiridonova, «è che non hanno alcuna fiducia nelle masse. Si proclamano un partito proletario, ma non credono nei lavoratori». È stata questa mancanza di fiducia, rilevava Marija, che ha indotto i comunisti a piegarsi all’imperialismo tedesco. E per quanto riguarda la rivoluzione stessa, è stata proprio la pace di Brest-Litovsk a darle il colpo fatale. Oltre al tradimento ai danni di Finlandia, Bielorussia, Lettonia e Ucraina (lasciate alla mercé degli Junker tedeschi dalla pace di Brest-Litovsk), i contadini hanno visto uccidere migliaia di loro fratelli, hanno dovuto patire ruberie e saccheggi. La semplice mentalità contadina non riusciva a capire il rovesciamento dei precedenti slogan bolscevichi che incitavano a non accettare «né indennità né annessioni». Ma anche il più semplice dei contadini capiva che era il suo sangue e il suo lavoro a pagare le indennità imposte dalle condizioni di Brest-Litovsk. Così i contadini sono divenuti ostili al regime sovietico. Avviliti e scoraggiati, si sono allontanati dalla rivoluzione. Quanto all’effetto della pace di Brest-Litovsk sui lavoratori tedeschi, come potevano questi continuare ad avere fiducia nella Rivoluzione russa di fronte al fatto che i bolscevichi avevano negoziato con i padroni tedeschi e accettato le loro condizioni della pace sulla testa del proletariato? Che la pace di Brest-Litovsk sia stata l’inizio della fine per la Rivoluzione russa è ormai un fatto storico. Senza dubbio altri fattori hanno contribuito alla débâcle, ma Brest-Litovsk è stato il più letale di tutti. Marija Spiridonova affermava che alcuni membri dei socialisti rivoluzionari di sinistra avevano avvertito i bolscevichi dei pericoli della pace, e l’avevano disperatamente combattuta. Rifiutavano di accettarla anche dopo che era stata firmata. Consideravano la presenza di Mirbach nella Russia rivoluzionaria un oltraggio alla rivoluzione, un’atroce ingiustizia verso l’eroico popolo russo che tanto aveva sacrificato e sofferto nella lotta contro l’imperialismo e il capitalismo. Il partito della Spiridonova decideva di conseguenza che Mirbach non potesse più essere tollerato in Russia: doveva essere tolto di mezzo. Arresti e persecuzioni hanno fatto seguito alla sua esecuzione. E così i bolscevichi hanno reso un servizio al Kaiser tedesco, riempiendo le prigioni di rivoluzionari russi. Durante le nostre conversazioni, ho avanzato l’idea che forse i bolscevichi erano stati costretti a ricorrere al metodo della razverstka a causa del rifiuto dei contadini di fornire cibo alle città. Ma la Spiridonova mi ha spiegato che all’inizio del periodo rivoluzionario, finché nelle campagne c’erano i soviet, i contadini contribuivano volentieri e generosamente. Quando il governo bolscevico ha cominciato a sciogliere quei soviet, arrestando cinquecento delegati delle campagne, i contadini sono diventati loro antagonisti. Inoltre, assistevano quotidianamente all’inefficienza del regime comunista: vedevano i propri prodotti lasciati marcire nelle stazioni oppure venduti nei mercati dagli speculatori. È naturale che in tali condizioni non volessero più contribuire. Il fatto che i contadini non abbiano mai rifiutato di provvedere ai rifornimenti dell’Armata rossa prova che si potevano usare metodi diversi da quelli dei bolscevichi. Le azioni di razverstka sono servite solo ad acuire la frattura tra città e campagna. I bolscevichi facevano oltretutto ricorso a spedizioni punitive che erano il terrore delle campagne. Lasciavano morte e devastazione ovunque passassero. I contadini, spinti alla disperazione, alla fine hanno cominciato a sollevarsi contro il regime. In varie parti della Russia, nel Sud, negli Urali e in Siberia, si sono verificate insurrezioni contadine, sempre soffocate con il pugno di ferro, con le armi. La Spiridonova non mi ha mai parlato delle proprie sofferenze dopo la rottura con i bolscevichi. Sono venuta a sapere da altri che era stata arrestata due volte e che era rimasta a lungo in prigione. E anche quando veniva liberata, era comunque tenuta sotto stretta sorveglianza, come ai tempi dello zar. Spesso la torturavano prelevandola di notte e dicendole che doveva essere fucilata, uno dei metodi preferiti dalla Čeka. Ho menzionato l’argomento alla Spiridonova. Non ha negato i fatti, ma era riluttante a parlare di se stessa. Era totalmente presa dal destino della Rivoluzione e dei suoi amati contadini. Non pensava a sé, voleva che il mondo e il proletariato internazionale conoscessero qual era la reale situazione nella Russia bolscevica. Di tutti gli oppositori del bolscevismo che ho incontrato, Marija Spiridonova mi ha impressionato come la più sincera e convincente. Il suo eroico passato, il rifiuto di accettare compromessi che svilissero le sue idee rivoluzionarie, sotto lo zar come sotto il bolscevismo, erano una garanzia sufficiente della sua integrità rivoluzionaria.

Note all'appendice

1. Lettera tratta da Isaac Steinberg, Spiridonova Revolutionary Terrorist, Methuen & Co., London 1935, pp. 234-238. 2. Lettera tratta da Emma Goldman, Vivendo la mia vita 1917-1929, Zero in condotta, Milano 1993, pp. 259-260. 3. Tratta da Abe Bluestein, Fighters for anarchism. Mollie Steimer and Senya Fleshin, Libertarian Publications Group, USA 1983, pp. 47- 48. 4. Capitolo tratto da Emma Goldman, My Disillusionment in Russia, C.W. Daniel, London 1925. Bibliografia

Per la stesura del libro ho consultato una massa eterogenea di monografie, saggi, articoli, fonti e risorse web. Mi limiterò qui a citare testi e materiali verso i quali sono maggiormente debitore.

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Abrams Jacob Abrams Marie Achmatova Anna Andreevna Alberti Alberto Alessandro I (zar), Aleksandr Pavlo-vič Romanov Alessandro II (zar), Aleksandr Nikolaevič Romanov Alpern Engel Barbara Antonucci Giorgio Armand Inessa Armeni Ritanna Aršinov Pëtr Andreevič Ascaso Abadía Francisco Aubery Pierre Avanesov Varlam Aleksandrovič Avrich Paul

Bakunin Michail Aleksandrovič Balabanoff Angelica [Anželika Isaakovna Balabanova] Baldwin Roger N. Barkòva Anna Alexandrovna Baron Aaron Baron Fanja, detta Fanny Baron Semion Baron Theodore Beatty Warren Bednij Dem’jan, pseud. di Efim Alekseevič Pridvorov Bennett Arnold Berkman Alexander, detto Sasha Bernardini David Berneri Caleffi Giovanna Berti Giampietro N. Bertolo Amedeo Bettini Leonardo Biagini Furio Bianchi Bruna Bidussa David Blok Aleksandr Aleksandrovič Bluestein Abe Bočkarëva Marija Leont’evna, detta Jaška Bogdanov Aleksandr Aleksan-drovič Bonč-Brujevič Vladimir Dmi-trijevič Borbroff Anne Boulouque Sylvain Brandes Georg Branko Lazitch Brémeau Catherine Brjusov Valerij Jakovlevič Broido Eva Bronštejn Alexandra Bryant Louise Bucharin Nikolaj Ivanovič Bzhostek Witold

Čajkovskij Pëtr Il’ič Candace Falk Carpi Anna Maria Carpinelli Cristina Černov Viktor Michajlovič Černyj Lev, pseud. di Pavel Dmitrievič Turčaninov Chevalier Lucien Chitarin Attilio Chopin Fryderyk Franciszek Christopher Andrew Chruščëv Nikita Sergeevič Chukov Michail Ciliga Ante Cinnella Ettore Cotlenko Mila Cvetaeva Marina Ivanovna

Daskalova Krassimira Dearborn Mary de Cleyre Voltairine de Gennaro Piero De Haan Francisca Denikin Anton Ivanovič Di Sciullo Camillo Dolenko Nikolaj Donskoy Boris Michajlovič Doubinsky Jacques [Iakov] Drinnon Richard Dundovich Elena Durnovo Pëtr Nikolaevič Durruti Buenaventura Dzeržinskij Feliks Ėdmundovič

Eastman Max Eichhorn Hermann von Einstein Albert Éluard Paul Evans Clements Barbara

Fabbri Luigi Fedin Konstantin Aleksandrovič Fëdorov Feldman Leah Felici Isabelle Ferrer y Guardia Francisco Figner Vera Nikolaevna Figes Orlando Finzi Paolo Fleshin Senya Flores Marcello Fracassi Claudio Ganshina E. Gardner Virginia Getzler Israel Giacopini Vittorio Gippius Zinaida Nikolaevna Goldberg Rochelle Ruthchild Goldman Emma Goldman Wendy Z. Golubeva Anna Gomolinski Olivia Goodman Leah Gordievskij Oleg Antonovič Gorelik Grigorij Gori Francesca Gor’kij Maksim, pseud. di Aleksej Maksimovič Peškov Gottman Leah Grave Jean Graziosi Andrea Guercetti Emanuela Guérin Daniel Gutiérrez Álvarez José

Haupt Georges Hitler Adolf Hobsbawm Eric Holmgren Beth

Ioudine Isebskaja S. Ismailovič Alexandra Adolfovna, detta Sanja Iturbe Lola Ivanova Marija

Joffe Adolf Abramovič Joffe Marija Mikhailovna Judenič Nikolaj Nikolaevič

Kakhovskaya Irina, detta Ira Kalegaev Andrej Kamenev Lev Borisovič Kameneva Olga Davidovna, nata Bronštejn Kamkov Boris Kannegiser Leonid Ioakimovič Kaplan Fanya, detta Dora, pseud. di Feiga Haimovna Roytblat Kaplan M. B. Karelin Apollon Kaul’bars Aleksandr Keaton Diane Kerenskij Aleksandr Fëdorovič Kesinger Loretta Kevrik Vera Kirov Sergej Mironovič Kleiser Paul Bernhard Kokoschka Oskar Kolčak Aleksandr Vasil’evič Kollontaj Aleksandra Michajlovna Konopleva Lidija Korshunova Marija Kozlovskij Aleksandr Kropotkin Pëtr Alekseevič Krupskaja Nadežda Konstantinovna Kuliscioff Anna, pseud. di Anna Moiseevna Rozenštejn Kurganskaia N. Kuz’menko Galina Andreyevna

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Sacco Nicola Said Edward Wadie Šalamov Varlam Tichonovič Santi Fedele Schnitzler Arthur Sebestyen Victor Seemann Birgit Serge Victor, pseud. di Viktor L’vovič Kibal’čič Shakol Timofeeva Alexandra Shapiro Alexander Shapovalov V. Shartoff Bill Shmitkov Shubin Alexander Vladlenovič Skirda Alexandre Šljapnikov Alexander Gavrilovič Solntzev E. Souvarine Boris Spendel Giovanna Spiridonov Aleksandr Spiridonova Marija Aleksandrovna, detta Onufrieva Stalin, pseud. di Iosif Vissa-rionovič Džugašvili Steinberg Isaac Nachman Steiner, detto Kamenny Stirner Max, pseud. di Johann Caspar Schmidt Stoff Laurie Strada Vittorio Sturmer K. Surkova Lida Sverdlov Jakov Michajlovič Taganov Leonid Nikolaevič Taratuta Olga, pseud. di Elka Ruvinskaia Tennenbaum David Thiriot Franck Tolmachev Tolstoj Lev Nikolaevič Traverso Enzo Trockij, pseud. di Lev Davidovič Bronštejn Tuchačevskij Michail Nikolaevič Turroni Pio Tvardovskij Aleksandr Trifonovič Twain Mark

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