RASSEGNA STAMPA di martedì 25 giugno 2019

SOMMARIO

Nel tardo pomeriggio di domenica 23 giugno Papa Francesco ha presieduto la Messa e poi la processione eucaristica nella solennità del Corpus Domini nel territorio della parrocchia romana di Santa Maria Consolatrice a Casal Bertone. Ecco la sua omelia: “La Parola di Dio ci aiuta oggi a riscoprire due verbi semplici, due verbi essenziali per la vita di ogni giorno: dire e dare. Dire. Melchisedek, nella prima Lettura, dice: «Sia benedetto Abram dal Dio altissimo, e benedetto sia il Dio altissimo». Il dire di Melchisedek è benedire. Benedice Abramo, nel quale saranno benedette tutte le famiglie della terra. Tutto parte dalla benedizione: le parole di bene generano una storia di bene. Lo stesso accade nel Vangelo: prima di moltiplicare i pani, Gesù li benedice: «Prese i cinque pani, alzò gli occhi al cielo, recitò su di essi la benedizione, li spezzò e li dava ai discepoli». La benedizione fa di cinque pani il cibo per una moltitudine: fa sgorgare una cascata di bene. Perché benedire fa bene? Perché è trasformare la parola in dono. Quando si benedice, non si fa qualcosa per sé, ma per gli altri. Benedire non è dire belle parole, non è usare parole di circostanza: no; è dire bene, dire con amore. Così ha fatto Melchisedek, dicendo spontaneamente bene di Abramo, senza che questi avesse detto o fatto qualcosa per lui. Così ha fatto Gesù, mostrando il significato della benedizione con la distribuzione gratuita dei pani. Quante volte anche noi siamo stati benedetti, in chiesa o nelle nostre case, quante volte abbiamo ricevuto parole che ci hanno fatto bene, o un segno di croce sulla fronte… Siamo diventati benedetti il giorno del Battesimo, e alla fine di ogni Messa veniamo benedetti. L’Eucaristia è una scuola di benedizione. Dio dice bene di noi, suoi figli amati, e così ci incoraggia ad andare avanti. E noi benediciamo Dio nelle nostre assemblee, ritrovando il gusto della lode, che libera e guarisce il cuore. Veniamo a Messa con la certezza di essere benedetti dal Signore, e usciamo per benedire a nostra volta, per essere canali di bene nel mondo. Anche per noi: è importante che noi Pastori ci ricordiamo di benedire il popolo di Dio. Cari sacerdoti, non abbiate paura di bene dire, benedire il popolo di Dio; cari sacerdoti, andate avanti con la benedizione: il Signore desidera dire bene del suo popolo, è contento di far sentire il suo affetto per noi. E solo da benedetti possiamo benedire gli altri con la stessa unzione d’amore. È triste invece vedere con quanta facilità oggi si fa il contrario: si maledice, si disprezza, si insulta. Presi da troppa frenesia, non ci si contiene e si sfoga rabbia su tutto e tutti. Spesso purtroppo chi grida di più e più forte, chi è più arrabbiato sembra avere ragione e raccogliere consenso. Non lasciamoci contagiare dall’arroganza, non lasciamoci invadere dall’amarezza, noi che mangiamo il Pane che porta in sé ogni dolcezza. Il popolo di Dio ama la lode, non vive di lamentele; è fatto per le benedizioni, non per le lamentazioni. Davanti all’Eucaristia, a Gesù fattosi Pane, a questo Pane umile che racchiude il tutto della Chiesa, impariamo a benedire ciò che abbiamo, a lodare Dio, a benedire e a non maledire il nostro passato, a donare parole buone agli altri. Il secondo verbo è dare. Al “dire” segue il “dare”, come per Abramo che, benedetto da Melchisedek, «diede a lui la decima di tutto». Come per Gesù che, dopo aver recitato la benedizione, dava il pane perché fosse distribuito, svelandone così il significato più bello: il pane non è solo prodotto di consumo, è mezzo di condivisione. Infatti, sorprendentemente, nel racconto della moltiplicazione dei pani non si parla mai di moltiplicare. Al contrario, i verbi utilizzati sono “spezzare, dare, distribuire”. Insomma, non si sottolinea la moltiplicazione, ma la con-divisione. È importante: Gesù non fa una magia, non trasforma i cinque pani in cinquemila per poi dire: “Adesso distribuiteli”. No. Gesù prega, benedice quei cinque pani e comincia a spezzarli, fidandosi del Padre. E quei cinque pani non finiscono più. Questa non è magia, è fiducia in Dio e nella sua provvidenza. Nel mondo sempre si cerca di aumentare i guadagni, di far lievitare i fatturati… Sì, ma qual è il fine? È il dare o l’avere? Il condividere o l’accumulare? L’“economia” del Vangelo moltiplica condividendo, nutre distribuendo, non soddisfa la voracità di pochi, ma dà vita al mondo. Non avere, ma dare è il verbo di Gesù. È perentoria la richiesta che Lui fa ai discepoli: «Voi stessi date loro da mangiare». Proviamo a immaginare i ragionamenti che avranno fatto i discepoli: “Non abbiamo pane per noi e dobbiamo pensare agli altri. Perché dobbiamo dare loro da mangiare, se loro sono venuti ad ascoltare il nostro Maestro? Se non hanno portato da mangiare, tornino a casa, è un problema loro, oppure ci diano dei soldi e compreremo”. Non sono ragionamenti sbagliati, ma non sono quelli di Gesù, che non sente ragioni: voi stessi date loro da mangiare. Ciò che abbiamo porta frutto se lo diamo - ecco cosa vuole dire Gesù -; e non importa che sia poco o tanto. Il Signore fa grandi cose con la nostra pochezza, come con i cinque pani. Egli non compie prodigi con azioni spettacolari, non ha la bacchetta magica, ma agisce con cose umili. Quella di Dio è un’onnipotenza umile, fatta solo di amore. E l’amore fa grandi cose con le piccole cose. L’Eucaristia ce lo insegna: lì c’è Dio racchiuso in un pezzetto di pane. Semplice, essenziale, Pane spezzato e condiviso, l’Eucaristia che riceviamo ci trasmette la mentalità di Dio. E ci porta a dare noi stessi agli altri l’antidoto contro il “mi spiace, ma non mi riguarda”, contro il “non ho tempo, non posso, non è affare mio”. Contro il guardare dall’altra parte. Nella nostra città affamata di amore e di cura, che soffre di degrado e abbandono, davanti a tanti anziani soli, a famiglie in difficoltà, a giovani che stentano a guadagnarsi il pane e ad alimentare i sogni, il Signore ti dice: “Tu stesso da’ loro da mangiare”. E tu puoi rispondere: “Ho poco, non sono capace per queste cose”. Non è vero, il tuo poco è tanto agli occhi di Gesù se non lo tieni per te, se lo metti in gioco. Anche tu, mettiti in gioco. E non sei solo: hai l’Eucaristia, il Pane del cammino, il Pane di Gesù. Anche stasera saremo nutriti dal suo Corpo donato. Se lo accogliamo col cuore, questo Pane sprigionerà in noi la forza dell’amore: ci sentiremo benedetti e amati, e vorremo benedire e amare, a cominciare da qui, dalla nostra città, dalle strade che stasera percorreremo. Il Signore viene sulle nostre strade per dire-bene, dire bene di noi e per darci coraggio, dare coraggio a noi. Chiede anche a noi di essere benedizione e dono” (a.p.)

1 – IL PATRIARCA

IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag XIII Anche il Patriarca alla presentazione a Mira del libro di Muolo “I soldi della Chiesa” di L.Gia.

LA NUOVA Pag 33 Moraglia alla mostra su Giotto Festa del patrono a Jesolo

2 – DIOCESI E PARROCCHIE

LA NUOVA Pag 30 Gambarare, in centinaia per il patrono

3 – VITA DELLA CHIESA

L’OSSERVATORE ROMANO Nella logica della condivisione All’Angelus il Papa ricorda che l’Eucaristia è la sintesi di tutta la vita di Gesù

Pane spezzato per una città che soffre di degrado e abbandono Il Papa celebra la messa del Corpus Domini nella parrocchia di Santa Maria Consolatrice a Casal Bertone

CORRIERE DEL VENETO Pag 7 Mancano preti, sempre più donne nelle parrocchie di Michela Nicolussi Moro “La Chiesa valorizza la figura femminile”

5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO

LA NUOVA Pag 18 La via degli Istituti tecnici superiori, come trovare lavoro senza laurearsi di Silvia Oliva Il 90% dei frequentanti trova un’occupazione, ma anche nel Veneto imprese e studenti non conoscono questa opportunità

7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA

ITALIA OGGI I preparati dei monaci vanno online di Carlo Valentini In catalogo, oltre ai fitoterapici, il vino prodotto a Venezia

IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag XVII Andrea, tradito dal cuore a 21 anni di Giuseppe Babbo Un’intera comunità piange il giovane che, nonostante i problemi di salute, si è sempre prodigato in parrocchia e nei campi scuola

LA NUOVA Pag 33 Tradito dal suo cuore malato, muore a 21 anni di Giovanni Cagnassi Andrea Momentè trovato a letto dai genitori. Era una colonna della parrocchia di Eraclea e accudiva gli anziani

8 – VENETO / NORDEST

CORRIERE DEL VENETO Pag 1 La corona sta sulle dolomiti di Alessandro Russello

Pag 2 Zaia: “All’inizio ero solo contro tutti, le Olimpiadi cambieranno il Veneto” di Marco Bonet I retroscena

LA NUOVA Pag 11 Una pio ggia di soldi per tutto il Nordest, 14mila posti di lavoro e un miliardo di spese di Jan van der Borg L’impatto economico delle Olimpiadi

… ed inoltre oggi segnaliamo…

CORRIERE DELLA SERA Pag 1 Il senso di una sfida di Venanzio Postiglione La vittoria di Milano e Cortina

Pag 1 Stare zitti (in politica) è un errore di Sabino Cassese Le opposizioni

AVVENIRE Pag 1 Non si morde la mano tesa di Marco Tarquinio Carità cristiana e polemiche salviniane

Pag 3 Cinque punti sull’immigrazione, così si potrebbe cambiare rotta di Corrado Giustiniani Azioni concrete, sul fronte eur opeo e su quello italiano, per tutte le formazioni responsabili. Per costruire ponti

Pag 3 Successo e responsabilità, è l’ora di fare tutti sul serio di Massimiliano Castellani Giochi 2026: Milano traina la montagna e mette fretta al Paese

Pag 3 E il Leviatano cominciò a perdere le sue forze di Giorgio Ferrari Voci e voti di libertà, non soltanto in Turchia

IL FOGLIO Pag 1 La croce non si tocca di Matteo Matzuzzi La Corte suprema americana salva un monumento in Maryland: “E’ un simbolo religioso e non si demolisce”

IL GAZZETTINO Pag 1 Una vittoria (meritata) e tre lezioni di Ario Gervasutti

Pagg 2 – 3 I Giochi sono fatti di Alda Vanzan Milano e Cortina conquistano 13 voti più di Stoccolma e ottengono le Olimpiadi 2026. Il rigore “nordico” dell’Italia. Zaia: “Il dossier è stata la nostra forza”

Pag 23 Costringiamo i progressisti a unirsi per un governo ombra di Stefano Tigani

LA NUOVA Pag 2 Scelte le montagne più belle del mondo, giusto così di Ferdinando Camon

Pag 12 La vera partita che si gioca sulla scacchiera europea di Renzo Guolo

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1 – IL PATRIARCA

IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag XIII Anche il Patriarca alla presentazione a Mira del libro di Muolo “I soldi della Chiesa” di L.Gia.

Il Patriarca di Venezia, mons. Francesco Moraglia, torna a Mira Taglio, nella parrocchia di San Nicolò, per la presentazione del libro “I soldi della Chiesa: ricchezze favolose e povertà evangelica”. Il libro di Mimmo Muolo, vaticanista di “Avvenire” e autore della pubblicazione, sarà presentato oggi, martedì, alle 20.45, nel cortile della parrocchia di San Nicolò. La ricerca di Muolo affronta uno dei temi maggiormente in discussione di questi tempi tra credenti e non, ovvero se la Chiesa è ricca o povera. E, se è ricca, come impieghi i denari. Nel corso dell’incontro si cercherà di rispondere agli interrogativi su quale sia la differenza tra Stato del Vaticano e Santa Sede, da dove arrivano le risorse e come vengono impiegate. All’iniziativa, organizzata dal Patriarcato di Venezia e dal Vicariato di Gambarare, parteciperà anche il vescovo Moraglia. La cittadinanza è invitata a partecipare.

LA NUOVA Pag 33 Moraglia alla mostra su Giotto Festa del patrono a Jesolo

I festeggiamenti di San Giovanni Battista, patrono di Jesolo, con il Patriarca di Venezia Moraglia. Ha visitato la mostra su Giotto al PalaInvent, poi al corteo acqueo sul Sile fino alla chiesa di San Giovanni per la messa. La festa è proseguita con lo stand, il concerto dei BaccoxBacco e i fuochi sul Sile.

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2 – DIOCESI E PARROCCHIE

LA NUOVA Pag 30 Gambarare, in centinaia per il patrono

Centinaia di persone ieri sera hanno affollato la chiesa di San Giovanni Battista a Gambarare dove monsignor Dino Pistolato ha celebrato la messa e guidato una processione molto partecipata in occasione della natività del santo patrono.

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3 – VITA DELLA CHIESA

L’OSSERVATORE ROMANO Nella logica della condivisione All’Angelus il Papa ricorda che l’Eucaristia è la sintesi di tutta la vita di Gesù

«Gesù invita i suoi discepoli a compiere una vera conversione dalla logica del “ciascuno per sé” a quella della condivisione, incominciando da quel poco che la Provvidenza ci mette a disposizione». Così Papa Francesco ha spiegato l’episodio del miracolo dei pani, commentando il vangelo domenicale di Luca (9, 11-17) all’Angelus recitato con i fedeli presenti in piazza San Pietro a mezzogiorno del 23 giugno.

Cari fratelli e sorelle, buongiorno! Oggi, in Italia e in altre Nazioni, si celebra la solennità del Corpo e Sangue di Cristo, il Corpus Domini. Il Vangelo ci presenta l’episodio del miracolo dei pani (cfr. Lc 9, 11-17) che si svolge sulla riva del lago di Galilea. Gesù è intento a parlare a migliaia di persone, operando guarigioni. Sul far della sera, i discepoli si avvicinano al Signore e Gli dicono: «Congeda la folla perché vada nei villaggi e nelle campagne dei dintorni, per alloggiare e trovare cibo» (v. 12). Anche i discepoli erano stanchi. Infatti erano in un luogo isolato, e la gente per comprare il cibo doveva camminare e andare nei villaggi. E Gesù vede questo e risponde: «Voi stessi date loro da mangiare» (v. 13). Queste parole provocano lo stupore dei discepoli. Non capivano, forse si sono anche arrabbiati, e rispondono: «Non abbiamo che cinque pani e due pesci, a meno che non andiamo noi a comprare viveri per tutta questa gente» (ibid.). Invece, Gesù invita i suoi discepoli a compiere una vera conversione dalla logica del “ciascuno per sé” a quella della condivisione, incominciando da quel poco che la Provvidenza ci mette a disposizione. E subito mostra di aver bene chiaro quello che vuole fare. Dice loro: «Fateli sedere a gruppi di cinquanta circa» (v. 14). Poi prende nelle sue mani i cinque pani e i due pesci, si rivolge al Padre celeste e pronuncia la preghiera di benedizione. Quindi, comincia a spezzare i pani, a dividere i pesci, e a darli ai discepoli, i quali li distribuiscono alla folla. E quel cibo non finisce, finché tutti ne hanno ricevuto a sazietà. Questo miracolo - molto importante, tant’è vero che viene raccontato da tutti gli Evangelisti - manifesta la potenza del Messia e, nello stesso tempo, la sua compassione: Gesù ha compassione della gente. Quel gesto prodigioso non solo rimane come uno dei grandi segni della vita pubblica di Gesù, ma anticipa quello che sarà poi, alla fine, il memoriale del suo sacrificio, cioè l’Eucaristia, sacramento del suo Corpo e del suo Sangue donati per la salvezza del mondo. L’Eucaristia è la sintesi di tutta l’esistenza di Gesù, che è stata un unico atto di amore al Padre e ai fratelli. Anche lì, come nel miracolo della moltiplicazione dei pani, Gesù prese il pane nelle sue mani, elevò al Padre la preghiera di benedizione, spezzò il pane e lo diede ai discepoli; e lo stesso fece con il calice del vino. Ma in quel momento, alla vigilia della sua Passione, Egli volle lasciare in quel gesto il Testamento della nuova ed eterna Alleanza, memoriale perpetuo della sua Pasqua di morte e risurrezione. La festa del Corpus Domini ci invita ogni anno a rinnovare lo stupore e la gioia per questo dono stupendo del Signore, che è l’Eucaristia. Accogliamolo con gratitudine, non in modo passivo, abitudinario. Non dobbiamo abituarci all’Eucaristia e andare a comunicarci come per abitudine: no! Ogni volta che noi ci accostiamo all’altare per ricevere l’Eucaristia, dobbiamo rinnovare davvero il nostro “amen” al Corpo di Cristo. Quando il sacerdote ci dice “il Corpo di Cristo”, noi diciamo “amen”: ma che sia un “amen” che viene dal cuore, convinto. È Gesù, è Gesù che mi ha salvato, è Gesù che viene a darmi la forza per vivere. È Gesù, Gesù vivo. Ma non dobbiamo abituarci: ogni volta come se fosse la prima comunione. Espressione della fede eucaristica del popolo santo di Dio, sono le processioni con il Santissimo Sacramento, che in questa Solennità si svolgono dappertutto nella Chiesa Cattolica. Anch’io questa sera, nel quartiere romano di Casal Bertone, celebrerò la Messa, a cui seguirà la processione. Invito tutti a partecipare, anche spiritualmente, mediante la radio e la televisione. La Madonna ci aiuti a seguire con fede e amore Gesù che adoriamo nell’Eucaristia.

Al termine della preghiera mariana il Papa ha salutato i vari gruppi presenti e ricordato la beatificazione, avvenuta il giorno precedente a , di María Carmen Lacaba Andía e 13 consorelle dell’ordine francescano dell’Immacolata Concezione, uccise in odio alla fede durante la persecuzione religiosa in Spagna negli anni Trenta del secolo scorso.

Cari fratelli e sorelle, ieri, a Madrid, sono state proclamate Beate María Carmen Lacaba Andía e 13 consorelle dell’Ordine francescano dell’Immacolata Concezione, uccise in odio alla fede durante la persecuzione religiosa avvenuta tra il 1936 e il 1939. Queste monache di clausura, come le Vergini prudenti, attesero con fede eroica l’arrivo dello Sposo divino. Il loro martirio è un invito per tutti noi ad essere forti e perseveranti specialmente nell’ora della prova. Salutiamo queste nuove Beate con un applauso! Rivolgo il mio saluto a tutti voi, romani e pellegrini. In particolare, a quelli venuti dal Brasile, dall’Isola di Guam (Stati Uniti d’America) e al pellegrinaggio di Liverpool promosso dalle Suore di Nostra Signora di Namur. Saluto i fedeli di Salerno, Crotone e Lanciano. Auguro a tutti voi una buona domenica. Per favore, non dimenticatevi di pregare per me. Buon pranzo e arrivederci!

Pane spezzato per una città che soffre di degrado e abbandono Il Papa celebra la messa del Corpus Domini nella parrocchia di Santa Maria Consolatrice a Casal Bertone

Nel tardo pomeriggio di domenica 23 giugno, Papa Francesco ha raggiunto in automobile la parrocchia romana di Santa Maria Consolatrice a Casal Bertone, dove ha presieduto i riti del Corpus Domini, secondo il calendario liturgico della Chiesa italiana. Al suo arrivo ha celebrato la messa - di cui pubblichiamo l’omelia - nella piazza antistante la chiesa parrocchiale. Al termine si è snodata la processione con il Santissimo Sacramento attraverso alcune strade del quartiere, conclusasi nei pressi del campo sportivo “Roma sei”, dove il Pontefice ha impartito la benedizione eucaristica.

La Parola di Dio ci aiuta oggi a riscoprire due verbi semplici, due verbi essenziali per la vita di ogni giorno: dire e dare. Dire. Melchisedek, nella prima Lettura, dice: «Sia benedetto Abram dal Dio altissimo, e benedetto sia il Dio altissimo» (Gen 14, 19-20). Il dire di Melchisedek è benedire. Benedice Abramo, nel quale saranno benedette tutte le famiglie della terra (cfr. Gen 12, 3; Gal 3, 8). Tutto parte dalla benedizione: le parole di bene generano una storia di bene. Lo stesso accade nel Vangelo: prima di moltiplicare i pani, Gesù li benedice: «Prese i cinque pani, alzò gli occhi al cielo, recitò su di essi la benedizione, li spezzò e li dava ai discepoli» (Lc 9, 16). La benedizione fa di cinque pani il cibo per una moltitudine: fa sgorgare una cascata di bene. Perché benedire fa bene? Perché è trasformare la parola in dono. Quando si benedice, non si fa qualcosa per sé, ma per gli altri. Benedire non è dire belle parole, non è usare parole di circostanza: no; è dire bene, dire con amore. Così ha fatto Melchisedek, dicendo spontaneamente bene di Abramo, senza che questi avesse detto o fatto qualcosa per lui. Così ha fatto Gesù, mostrando il significato della benedizione con la distribuzione gratuita dei pani. Quante volte anche noi siamo stati benedetti, in chiesa o nelle nostre case, quante volte abbiamo ricevuto parole che ci hanno fatto bene, o un segno di croce sulla fronte… Siamo diventati benedetti il giorno del Battesimo, e alla fine di ogni Messa veniamo benedetti. L’Eucaristia è una scuola di benedizione. Dio dice bene di noi, suoi figli amati, e così ci incoraggia ad andare avanti. E noi benediciamo Dio nelle nostre assemblee (cfr. Sal 68, 27), ritrovando il gusto della lode, che libera e guarisce il cuore. Veniamo a Messa con la certezza di essere benedetti dal Signore, e usciamo per benedire a nostra volta, per essere canali di bene nel mondo. Anche per noi: è importante che noi Pastori ci ricordiamo di benedire il popolo di Dio. Cari sacerdoti, non abbiate paura di benedire, benedire il popolo di Dio; cari sacerdoti, andate avanti con la benedizione: il Signore desidera dire bene del suo popolo, è contento di far sentire il suo affetto per noi. E solo da benedetti possiamo benedire gli altri con la stessa unzione d’amore. È triste invece vedere con quanta facilità oggi si fa il contrario: si maledice, si disprezza, si insulta. Presi da troppa frenesia, non ci si contiene e si sfoga rabbia su tutto e tutti. Spesso purtroppo chi grida di più e più forte, chi è più arrabbiato sembra avere ragione e raccogliere consenso. Non lasciamoci contagiare dall’arroganza, non lasciamoci invadere dall’amarezza, noi che mangiamo il Pane che porta in sé ogni dolcezza. Il popolo di Dio ama la lode, non vive di lamentele; è fatto per le benedizioni, non per le lamentazioni. Davanti all’Eucaristia, a Gesù fattosi Pane, a questo Pane umile che racchiude il tutto della Chiesa, impariamo a benedire ciò che abbiamo, a lodare Dio, a benedire e a non maledire il nostro passato, a donare parole buone agli altri. Il secondo verbo è dare. Al “dire” segue il “dare”, come per Abramo che, benedetto da Melchisedek, «diede a lui la decima di tutto» (Gen 14, 20). Come per Gesù che, dopo aver recitato la benedizione, dava il pane perché fosse distribuito, svelandone così il significato più bello: il pane non è solo prodotto di consumo, è mezzo di condivisione. Infatti, sorprendentemente, nel racconto della moltiplicazione dei pani non si parla mai di moltiplicare. Al contrario, i verbi utilizzati sono “spezzare, dare, distribuire” (cfr. Lc 9, 16). Insomma, non si sottolinea la moltiplicazione, ma la con-divisione. È importante: Gesù non fa una magia, non trasforma i cinque pani in cinquemila per poi dire: “Adesso distribuiteli”. No. Gesù prega, benedice quei cinque pani e comincia a spezzarli, fidandosi del Padre. E quei cinque pani non finiscono più. Questa non è magia, è fiducia in Dio e nella sua provvidenza. Nel mondo sempre si cerca di aumentare i guadagni, di far lievitare i fatturati… Sì, ma qual è il fine? È il dare o l’avere? Il condividere o l’accumulare? L’“economia” del Vangelo moltiplica condividendo, nutre distribuendo, non soddisfa la voracità di pochi, ma dà vita al mondo (cfr. Gv 6, 33). Non avere, ma dare è il verbo di Gesù. È perentoria la richiesta che Lui fa ai discepoli: «Voi stessi date loro da mangiare» (Lc 9, 13). Proviamo a immaginare i ragionamenti che avranno fatto i discepoli: “Non abbiamo pane per noi e dobbiamo pensare agli altri. Perché dobbiamo dare loro da mangiare, se loro sono venuti ad ascoltare il nostro Maestro? Se non hanno portato da mangiare, tornino a casa, è un problema loro, oppure ci diano dei soldi e compreremo”. Non sono ragionamenti sbagliati, ma non sono quelli di Gesù, che non sente ragioni: voi stessi date loro da mangiare. Ciò che abbiamo porta frutto se lo diamo - ecco cosa vuole dire Gesù -; e non importa che sia poco o tanto. Il Signore fa grandi cose con la nostra pochezza, come con i cinque pani. Egli non compie prodigi con azioni spettacolari, non ha la bacchetta magica, ma agisce con cose umili. Quella di Dio è un’onnipotenza umile, fatta solo di amore. E l’amore fa grandi cose con le piccole cose. L’Eucaristia ce lo insegna: lì c’è Dio racchiuso in un pezzetto di pane. Semplice, essenziale, Pane spezzato e condiviso, l’Eucaristia che riceviamo ci trasmette la mentalità di Dio. E ci porta a dare noi stessi agli altri l’antidoto contro il “mi spiace, ma non mi riguarda”, contro il “non ho tempo, non posso, non è affare mio”. Contro il guardare dall’altra parte. Nella nostra città affamata di amore e di cura, che soffre di degrado e abbandono, davanti a tanti anziani soli, a famiglie in difficoltà, a giovani che stentano a guadagnarsi il pane e ad alimentare i sogni, il Signore ti dice: “Tu stesso da’ loro da mangiare”. E tu puoi rispondere: “Ho poco, non sono capace per queste cose”. Non è vero, il tuo poco è tanto agli occhi di Gesù se non lo tieni per te, se lo metti in gioco. Anche tu, mettiti in gioco. E non sei solo: hai l’Eucaristia, il Pane del cammino, il Pane di Gesù. Anche stasera saremo nutriti dal suo Corpo donato. Se lo accogliamo col cuore, questo Pane sprigionerà in noi la forza dell’amore: ci sentiremo benedetti e amati, e vorremo benedire e amare, a cominciare da qui, dalla nostra città, dalle strade che stasera percorreremo. Il Signore viene sulle nostre strade per dire-bene, dire bene di noi e per darci coraggio, dare coraggio a noi. Chiede anche a noi di essere benedizione e dono.

CORRIERE DEL VENETO Pag 7 Mancano preti, sempre più donne nelle parrocchie di Michela Nicolussi Moro “La Chiesa valorizza la figura femminile”

Torreglia (Padova) Se al «sacerdozio» delle donne nella Chiesa cattolica papa Francesco ha imposto un categorico «no», la loro collaborazione alla vita della comunità cristiana è invece fortemente auspicato. Soprattutto in virtù della mancanza di preti, che sta costringendo le Diocesi a una riorganizzazione delle parrocchie, con l’accorpamento delle stesse, l’assegnazione di diverse mansioni ai fedeli e l’introduzione della «Celebrazione in assenza del presbitero» affidata a suore, diaconi e a laici, uomini e donne, la domenica chiamati a officiarla con le Letture, il Credo e la distribuzione dell’eucarestia consacrata da un prete. La «valorizzazione femminile» è uno degli spunti emersi nella 69esima «Settimana di aggiornamento pastorale» organizzata da ieri a giovedì a Villa Immacolata di Torreglia dal Centro di orientamento pastorale (Cop) e intitolata proprio: «Parrocchia senza preti. Dalla crisi delle vocazioni alla rinnovata ministerialità laicale». «La valorizzazione della figura femminile emerge dalle vecchie e dalle nuove funzioni affidate ai battezzati di una comunità cristiana che oggi non può più essere accentrata solo sul parroco - conferma don Antonio Mastantuono, vicedirettore della rivista «Orientamenti Pastorali», che ieri ha aperto i lavori -. L’aumento dell’età del clero a 65 anni e la diminuzione dei sacerdoti sono la base di partenza per una riflessione che vede la Chiesa uscire sul territorio, come vuole il Pontefice. In molte parti d’Italia un unico prete è titolare anche di dieci parrocchie e allora va ripensata la sua figura. Noi siamo portati a pensare che un curato debba fare tutto: dalla celebrazione della messa alla catechesi, fino all’organizzazione della partita di pallone. E invece il prete presiede l’eucarestia e guida la comunità ma in base all’uguaglianza battesimale tutti, anche i laici, possono dare il loro contributo, sfruttando le proprie capacità e potenzialità. Le donne - aggiunge don Antonio - sono coinvolte nelle vecchie e nelle nuove mansioni». Oltre alle perpetue, sono sempre più le laiche operatrici pastorali, sagrestane, lettrici e cantori nella liturgia. Rappresentano la quasi totalità dei catechisti e fanno parte dei Consigli pastorali, anche in qualità di vicepresidente. Le signore hanno poi trovato spazio nei nuovi ruoli affidati ai laici, cioè: accompagnatori dei genitori nel cammino di affiancamento ai figli impegnati nell’iniziazione cristiana; assistenti pastorali nelle parrocchie in cui il curato non è residente (lo aiutano a organizzare le attività, secondo le indicazioni del Consiglio pastorale); componenti delle équipe pastorali, che lavorano con il sacerdote occupandosi di catechesi, liturgia, iniziative caritatevoli e formative. «Quattro donne sono a capo dell’Economato di rispettive Diocesi, tra cui Padova - aggiunge don Livio Tonello, direttore dell’Istituto superiore di Scienze religiose della città del Santo e tra i relatori del simposio di Torreglia -. Tante altre sono ministri straordinari dell’eucarestia, cioè la portano a casa ai malati dopo che il prete l’ha consacrata. Per gli incarichi più importanti, alle donne come agli uomini laici, vengono richieste formazione e preparazione in materia ecclesiale, pastorale e teologica». «Il battezzato è chiamato a diventare corresponsabile della vita della comunità cristiana - ammonisce monsignor Domenico Sigalini, vescovo e presidente del Cop - e proprio perché mette a disposizione la sua specifica dignità laicale non dev’essere visto come “mezzo prete”, o fatto diventare “uomo o donna di sacrestia”. Ai laici sono affidate maggiori responsabilità, il loro ruolo dev’essere rivalutato perchè chi costruisce una comunità cristiana non è solo il parroco ma pure le famiglie, i giovani, i professionisti. Non sostituiscono i preti, contribuiscono a una Chiesa partecipata». Quanto alla crisi delle vocazioni, spiega don Livio Tonello: «Il calo delle nascite ha influito. E poi una vita di donazione al prossimo non è più molto sentita, perchè sono venuti a mancare valori fondanti come la disponibilità a mettersi al servizio degli altri. La fede oggi si vive in modo più individualistico».

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5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO

LA NUOVA Pag 18 La via degli Istituti tecnici superiori, come trovare lavoro senza laurearsi di Silvia Oliva Il 90% dei frequentanti trova un’occupazione, ma anche nel Veneto imprese e studenti non conoscono questa opportunità

Esiste in Italia un ambito formativo che incontri le esigenze di capacità ed esperienza richiesta dalle imprese, che garantisca ai suoi studenti una buona probabilità di rapido accesso al mondo del lavoro e che formi persone che sappiano combinare competenze tecniche-scientifiche e soft skill così come richiesto nei cosiddetti lavori ibridi, necessari alla rivoluzione digitale in atto? La risposta, affermativa, è racchiusa in un acronimo - ITS, Istituto Tecnico Superiore - una realtà italiana di eccellenza che, tuttavia, coinvolge ancora solo un numero di studenti di poco superiore alle 13 mila unità. Eppure, l'80% dei frequentanti è occupato e tra questi il 90% ha trovato un lavoro coerente con il percorso di studi fatto, con un picco tra chi ha frequentato un corso nell'ambito del sistema meccanica.Il confronto con gli altri paesi europei rispetto alla formazione terziaria vede l'Italia nelle posizioni di retroguardia, ma anche focalizzandosi sulla formazione terziaria professionalizzante il dato non migliora: tra i paesi OCSE, l'Italia si colloca all'ultimo posto, dopo Polonia e Repubblica Ceca, rispetto alla quota di popolazione tra i 25 e il 64 anni, con una formazione di questo tipo. In numero assoluto, il confronto con la Germania, dove la formazione terziaria professionalizzante vanta una lunga tradizione, rispondendo all'esigenza di offrire una formazione di alto livello, ma caratterizzata da una forte componente di formazione pratica in azienda e legata alle esigenze formative del sistema produttivo, è esplicativo del gap italiano: le Fachhochschulen coinvolgono, infatti, oltre 800mila studenti.Eppure, gli ITS nascono proprio per rispondere alle esigenze di alta specializzazione tecnica del sistema produttivo che nelle diverse indagini realizzate sui fabbisogni formativi rende esplicite alcune specifiche esigenze: la ricerca primaria di figure tecniche, l'importanza delle soft skill, la necessità di selezionare persone con esperienza e la consapevolezza di dover offrire ulteriore formazione ai nuovi lavoratori. Le modalità di formazione degli ITS, con il coinvolgimento diretto delle imprese sia nell'ambito della docenza che nella definizione dei corsi e dei contenuti, ma soprattutto per quanto riguarda il 30% delle ore complessive da svolgersi in stage presso le aziende del territorio, incrociano totalmente le richieste, spesso oggi non soddisfatte, del sistema produttivo. Infatti, le aziende coinvolte nei percorsi degli istituti si dichiarano soddisfatte perché questa collaborazione ha reso disponibili le professionalità necessarie, già formate in modo personalizzato sulle esigenze dell'impresa, con profili che integrano competenze tecniche e competenze trasversali e, soprattutto, con un percorso lavorativo già avviato. Purtroppo, come evidenzia una ricerca di Assolombarda, ben il 63% delle imprese interpellate non conosce gli ITS e, come accade di verificare nei diversi incontri di orientamento in uscita, studenti e famiglie non sono al corrente delle possibilità offerte da queste scuole. Gli ITS sono presenti in 18 regioni italiane; la regione con più istituti superiori è la Lombardia che ne conta ben venti. In Veneto sono presenti sette ITS, attivi negli ambiti propri del sistema produttivo regionale: Agroalimentare, Moda, Meccanica, Logistica, Attività culturali/Turismo ed Efficienza energetica. Dal 2011 a oggi, in regione, sono stati attivati 159 corsi nell'ambito della formazione professionale terziaria; nel solo biennio 2018- 2019 ne sono stati attivati 40. Ad oggi sono circa 1.800 gli allievi che frequentano i corsi attivi, mentre sono già 1.300 gli studenti diplomati. La quota di studenti che a un anno dalla conclusione dei corsi sono occupati è andata via via crescendo negli anni, raggiungendo quasi il 90%, confermando sia la qualità della formazione sia la coerenza della stessa rispetto alle esigenze del territorio. Il valore dei percorsi realizzati in Veneto è riconosciuto dal numero di corsi che hanno ricevuto la premialità stanziata dal Fondo nazionale: con ben 12 premi, la regione si colloca al secondo posto subito dopo la Lombardia (14) e prima dell'Emilia (8). Le eccellenze venete operano nell'ambito della mobilità sostenibile, nel turismo e nell'efficienza energetica. Ciò che serve oggi è sicuramente una migliore strategia comunicativa e di coinvolgimento dei soggetti interessati da parte del sistema degli Istituti Superiori che contano a livello nazionale nel 2019 103 scuole, con 527 corsi attivi e con quasi 2.500 soggetti partner, costituiti in gran parte da imprese. Una comunicazione condivisa che racconti il valore per imprese e studenti di questi percorsi in termini di competenze e delle opportunità occupazionali.

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7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA

ITALIA OGGI I preparati dei monaci vanno online di Carlo Valentini In catalogo, oltre ai fitoterapici, il vino prodotto a Venezia

Padre Roberto Magni unisce la vocazione religiosa (il suo Ordine è quello dei Carmelitani Scalzi) all'impegno di manager. Sta sviluppando la produzione di una linea salutista a base di Melissa, coltivata, lavorata, confezionata, venduta direttamente dai monaci. Insomma, anche i frati si mettono sul mercato fitoterapico delle erboristerie. Accanto ai libri sacri vi sono partite doppie, bilanci e budget. D'altra parte per i consumatori non ci può essere garanzia migliore che il sigillo dei monaci. La Melissa è una pianta aromatica che fiorisce in queste settimane. Il tipo prescelto dai frati è quello moldavico. Racconta padre Roberto: «Un tempo i monasteri avevano orti con piante medicinali, affiancati da farmacie che proponevano pozioni medicamentose. Non dimentichiamo che in Vaticano «la farmacia del Papa» è gestita dal '600 dai Carmelitani. Questa cultura è andata in disuso ma sta sopravvivendo grazie all'amore di alcune comunità di religiosi, noi per esempio continuiamo a realizzare da tre secoli, con una ricetta rimasta inalterata, l'Acqua di Melissa (pura per uso esterno, diluita in acqua o tisana per uso orale, la confezione da 50 ml costa 17 euro) è antidoto contro ansia, disturbi dell' apparato gastroenterico, combatte le infezioni virali e batteriche, è portentosa contro l'herpes labiale. Inoltre grazie alla presenza dei flavonoidi (sostanze contenute nei pigmenti delle piante, ndr) che contrastano i radicali liberi vi è un effetto antiossidante e quindi benefico per le cellule». Lei ha il compito di svilupparne la vendita. «Oggi c'è molta sensibilità verso il salutismo e i prodotti naturali», risponde, «perciò stiamo rilanciando l'Acqua di Melissa, ne vendiamo 20 mila flaconi l'anno, vorremmo arrivare a breve a 150 mila. Abbiamo aumentato il numero dei rivenditori e stiamo arrivando sui mercati dei Paesi europei, abbiamo aperto un sito per l'e-commerce e potenziato il catalogo con vari tipi di creme, prodotti per il bagno, salviettine imbevute, miele. Insomma un'intera linea di prodotti che arrivano in vendita direttamente dai nostri monasteri. Pensiamo sia una novità importante nel settore dei beni naturali, a base di erbe». L'obiettivo è arrivare all'offerta di una trentina di prodotti. Le coltivazioni si trovano a Venezia e a Villafranca (Verona), in quest'ultima località avviene la lavorazione: l'olio essenziale è estratto col vapore, poi viene miscelato con oli di cedro, cannella e garofano, infine confezionato. Vicino alla stazione di Venezia, di fronte all'imbarcadero, c'è il convento dei Carmelitani dove nacque nel 1710 l'Acqua di Melissa, che Carlo Goldoni menzionò in alcune sue commedie. Qui vi è il «giardino mistico», curato dai frati, dove vengono riprodotte le sementi. «Diversamente dagli altri ordini», spiega padre Roberto, «che contemplano sempre la presenza di un chiostro, come simbolo del paradiso, i Carmelitani prediligono il giardino vero e proprio». È visitabile ed è uno degli angoli poco turistici ma pieni di fascino di Venezia. In Italia vi sono 13 conventi dei Carmelitani Scalzi con 300 religiosi. Una parte di essi si dedicano alla Melissa, altri ai vigneti. Sì perché i frati hanno rimesso in funzione i vigneti di un loro terreno (a Venezia, Cannaregio) e incominciato a imbottigliare Ad Mensam (bianco) e Prandium (rosso). La prima produzione è stata di 1.400 bottiglie. Ma chissà che, per miracolo, anche questo diventi un business.

IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag XVII Andrea, tradito dal cuore a 21 anni di Giuseppe Babbo Un’intera comunità piange il giovane che, nonostante i problemi di salute, si è sempre prodigato in parrocchia e nei campi scuola

Fino all'ultimo ha aiutato gli altri. Sempre in prima linea, con il sorriso. Nonostante i suoi problemi di salute che non gli hanno impedito di dare quotidianamente un aiuto a chiunque ne avesse bisogno. Lutto a Eraclea, si è spento domenica pomeriggio nel sonno, a casa sua, ad appena 21 anni, Andrea Momentè, autentica colonna della parrocchia di Santa Maria Concetta. Giovane di fede profonda da tempo partecipava e contribuiva alla realizzazione di innumerevoli attività parrocchiali. Sempre pronto ad aiutare, Andrea non si è mai risparmiato. Nonostante un problema cardiaco. Lo stesso che domenica pomeriggio, nella sua abitazione, nel sonno, gli hanno spento per sempre il sorriso. Diplomatosi come cuoco all'Istituto Cornaro di Jesolo, Andrea aveva trovato lavoro all'interno della casa di cura Anni Sereni. Anche in questo caso mettendo a disposizione prima di tutto la sua grande disponibilità. AMATO DA TUTTI - La passione per la cucina era stata messa disposizione della parrocchia, sia che si trattasse di lavorare per la sagra paesana di agosto ma anche per l'organizzazione del grest estivo o nei campi scuola estivi. Dotato di una fede profonda, era il chierichetto più vecchio in servizio e per questo aveva il compito di accogliere e guidare i più giovani e di aprire i riti delle processioni. Tantissime in queste ore le testimonianze in suo ricordo. «Andrea era un ragazzo gioviale, sempre allegro e pieno di vita racconta don Davide Carraro, vicario parrocchiale si è sempre messo a disposizione degli altri, nonostante tutto. Non ha mai fatto pesare i suoi problemi di salute. Anzi, l'aiuto verso il prossimo è sempre stato anteposto a tutto il resto. E' stato generoso fino in fondo e in questo senso Andrea può essere considerato un esempio. In parrocchia era molto attivo: essendosi diplomato come cuoco, si occupava del lavoro in cucina durante la sagra di agosto, ma partecipava anche alle attività del grest e dei campi scuola. Ci dava poi un grande aiuto nella celebrazione della messa: era il chierichetto più anziano e per questo accoglieva e dava le direttive ai più giovani. Per la parrocchia è stato un punto di riferimento importante». Tra le testimonianze in suo ricordo anche quella dell'associazione In Cammino con Maria: «Andrea è stato un ragazzo buono e sempre disponibile verso il prossimo dicono dall'associazione sempre pronto ad aiutare e a sostenere le attività della parrocchia. Nella comunità lascia un segno indelebile». Parole di profonda stima sono arrivate anche dagli amici e da chi frequenta la chiesa. «Perdiamo un ragazzo splendido è il loro commento un punto di riferimento importante, che ha insegnato a tutti il senso della generosità». Andrea lascia i genitori e un fratello. La data dei funerali non è ancora stata fissata.

LA NUOVA Pag 33 Tradito dal suo cuore malato, muore a 21 anni di Giovanni Cagnassi Andrea Momentè trovato a letto dai genitori. Era una colonna della parrocchia di Eraclea e accudiva gli anziani

Eraclea. Aveva un cuore grande, ma purtroppo gravemente malato. E proprio il suo cuore si è fermato nel pomeriggio di domenica nella sua abitazione di Eraclea, dove abitava con i genitori. Andrea Momentè di 21 anni, è spirato così. Lo hanno trovato a letto, ormai senza vita proprio il papà e la mamma quando sono rincasati. Da anni soffriva di cuore, indebolito da una patologia cardiaca molto seria che aveva richiesto il pacemaker per stimolare la contrazione del cuore quando questa non avviene. Non si era mai perso d'animo e cercava di affrontare la vita senza paure, guardando sempre avanti e aiutando chi più ne aveva bisogno.Collaborava con le attività parrocchiali e lavorava con l'Usl 4 alla casa di riposo "Anni Sereni" per assistere gli anziani alcune ore al giorno. Ora la comunità parrocchiale è in lutto e piange per la sua scomparsa, così come i tanti cittadini di Eraclea che conoscono la famiglia molto unita, il papà Giorgio, che lavora in un'autofficina, la mamma Cinzia, poi il fratellino più piccolo, Alessio, a lui tanto attaccato. Una bella famiglia che aveva in Andrea, pur così giovane, un punto di riferimento importante. Lui se ne è andato in silenzio, come suo stile, quasi per non disturbare. Era andato a riposare qualche ora nel pomeriggio di domenica, e non si è più svegliato. A Eraclea lo ricordano come una persona concreta, che amava agire più che parlare. E aveva declinato la sua voglia di vivere e resistere contro le avversità aiutando il prossimo. Dopo aver frequentato la scuola superiore all'istituto alberghiero Cornaro di Jesolo, aveva iniziato a lavorare grazie a un contratto con l'Usl per assistere gli anziani in casa di riposo. Nella parrocchia di Eraclea era un punto di riferimento per le attività del Grest e ricreative in generale, i prima linea per organizzare il Carnevale e tante altre attività con i bambini. Qui era cresciuto, assimilando i valori cristiani e l'impegno per la comunità da vivere come una missione. «Era buono e generoso», dice il cappellano della chiesa di Eraclea, don Davide che lo conosceva bene e tanto ha lavorato con lui, «un ragazzo che era diventato un esempio per tutti. E ci mancherà tanto». Anche il parroco, don Angelo, era molto affezionato ad Andrea e lo ha ricordato con tenere parole e commenti pieno di commozione così come le associazioni di volontariato e le tante realtà fiorite attorno alla parrocchia, come l'associazione in Cammino con Maria. Loro, i due prelati, celebreranno la messa per le esequie che saranno giovedì alle 16.30 nella chiesa parrocchiale della cittadina (il Rosario mercoledì alle 20.30). Le onoranze funebri di Walter Gusso hanno incontrato la famiglia domenica, poco dopo la morte del giovane. Stanno cercando di farsi forza i genitori e il fratellino, vivendo un dolore composto e rispettoso per non perdere il controllo e la speranza. E tutta la comunità parrocchiale ora piange per la perdita di uno dei figli migliori. Si è unita al lutto, consapevole che difficilmente potrà trovare un altro giovane così impegnato e fondamentale per la parrocchia e la vita di una cittadina che ha bisogno di giovani come Andrea come esempio per il futuro.

8 – VENETO / NORDEST

CORRIERE DEL VENETO Pag 1 La corona sta sulle dolomiti di Alessandro Russello

Dunque: nel derby europeo la testa coronata dei reali svedesi e la lobby delle royal families annesse e connesse, poco hanno potuto contro la corona naturale delle Dolomiti e le lobby del sistema «borghese» la cui sfida è piantata nell’asse terra cielo Milano- Cortina con l’appendice (alla fine coprotagonista) del Trentino-Alto Adige. I presupposti c’erano tutti e così è stato. Vittoria da pronostico, tanto per mutuare il lessico sportivo. Qualcuno dava gli svedesi un po’ sgarruppati e il risultato potrebbe esserne la conseguenza (47 a 34) ma non è stato così facile. Anche perché c’erano scaramanticamente nell’aria l’esclusione dai mondiali di calcio del 2018 e il «biscotto» Svezia-Danimarca che nel 2004 ci precluse il cammino agli europei. Ha vinto l’Italia della bellezza ma dei campanili che ha messo insieme - sconfiggendo un nanismo duro a morire - aree metropolitane e montane. Ricordate l’inizio? Milano da sola, anzinò Torino da sola, anzinò Milano-Torino, anzinò Torino-Milano-Cortina, anzisì Milano-Cortina. Alla fine ha vinto l’Italia dei territori, dei sindaci, dei governatori delle regioni. Con il governo centrale, all’inizio, esitante e laterale («non metteremo mai un euro»). Questo per la strisciante lotta fra Lega e M5s (sindaca Appendino a parte: silurata) contrario ad ogni forma di mega evento per il sospetto che in esso si nasconda sempre l’insidia del magna magna e la possibilità che la realizzazione di un’olimpiade corrisponda necessariamente a sprechi e devastazione del paesaggio (purtroppo abbiamo visto anche questo). Se l’Italia ha vinto è invece - anche - grazie ad un progetto che della sostenibilità ambientale ed economica ha fatto uno dei suoi punti di forza. Ora vedremo come finirà: incassata la vittoria il governo metterà qualche soldo e con esso il cappello alle Olimpiadi 2026 o dovrà fare i conti con l’arcipelago Cinque Stelle di fatto autoesclusosi dalla partita? Assisteremo ad un altro braccio di ferro con i grillini che già alle prese con l’autonomia chiesta da Veneto e Lombardia porranno a maggior ragione il tema della troppa attenzione al Nord a discapito del Sud? Sembra già tutto scritto. Ma non è giorno per le polemiche che verranno. Piuttosto bisogna rendere il dovuto a chi «solo», a Nordest, aveva coltivato il sogno di portare sulle Dolomiti i Cinque cerchi infilandosi in una partita che sembrava già scritta a Milano e per Milano. Al netto della forza della vera capitale - sull’asse con il quale da tempo si ragiona a livello economico - se il Veneto e in Nordest oggi festeggiano lo si deve soprattutto al governatore Luca Zaia. Ci ha creduto e ha tessuto andando in direzione ostinata e contraria beccandosi - nella modulazione più scrivibile degli aggettivi - del velleitario (in buona fede anche da qualcuno di noi). Chapeau. E oltre a lui va sottolineata l’opera di lobby che il mondo sportivo ha messo in piedi lavorando in parallelo a quello politico. Si racconta di campioni ed ex campioni che nella lingua universale dello sport hanno fatto confluire qualche voto molto utile alla causa. Ora, naturalmente, bisognerà mantenere le promesse. Raccogliere quel pezzo di Pil che le Olimpiadi potranno produrre armonizzando impianti e ambiente, costruendo infrastrutture utili anche dopo la chiusura dei Giochi e dissolvendo ciò che di alieno resterà nel paesaggio. Un po’ la preoccupazione iniziale del Trentino e soprattutto dell’Alto Adige, che hanno barattato la loro mancata centralità nella partita (e nei loghi, che recitano Milano-Cortina) con una presenza più da «trasportati» che da «conducenti». Presenza che comunque si traduce in 45 gare, 34 delle quali tra Val di Fiemme e Altopiano di Pinè e 11 ad Anterselva. Qualcuno ora (giustamente) recrimina, sostenendo che i veri giochi avrebbero potuto essere quelli dell’«Olimpiade delle Dolomiti», logo (Dolomiti) nella quaterna delle bellezze che dell’Italia il mondo percepisce e che comprende, oltre alla meraviglia delle nostre montagne, Roma, Venezia e Firenze. Di questa mancata occasione restano il lustro e la chance di Cortina, che oltre ad organizzare i Mondiali di sci del 2021 si ritroverà fra le mani, settant’anni dopo quel mitico ’56, la sfida dei nuovi Giochi. Una Cortina il cui sindaco con il cognome da campione (Ghedina, Pietro Ghedina), ieri impazziva di gioia a due metri dai governanti e dai lobbisti delle teste coronate che la corona rosa delle montagne più belle del mondo dovranno venire a vederla, oltre che come turisti, come sportivi.

Pag 2 Zaia: “All’inizio ero solo contro tutti, le Olimpiadi cambieranno il Veneto” di Marco Bonet I retroscena

Losanna (Svizzera). Il salto da lunghista olimpico di Luca Zaia quando scorge «Milano- Cortina» nella fatidica busta, prima ancora che il presidente del Cio Thomas Bach riesca a leggerle. L’urlo liberatorio di , che perduto l’aplomb meneghino inizia a urlare «I-ta-lia! I-ta-lia!». La commozione di Giovanni Malagò che, sfinito, si perde negli abbracci mentre tutto intorno è uno sventolare di tricolori, un gridare di gioia, un intonare il ritornello dei White Stripes che dopo i Mondiali del 2006 è diventato la colonna sonora delle nostre vittorie. C’è l’abbiamo fatta: Milano e Cortina ospiteranno i Giochi olimpici invernali del 2026. Abbiamo battuto Stoccolma e Aaare, gli acerrimi nemici svedesi («Uno a uno» commenta con una punta di acidità un ministro svedese, ricordano l’eliminazione degli azzurri da Russia 2018) e li abbiamo battuti largamente, 47 voti contro 34. Il presidente del Coni Malagò ne è convinto: a fare la differenza è stata la presentazione del pomeriggio, «ha spostato diversi voti». L’avevano provata due volte, nel fine settimana. «Era andata malissimo, un disastro» confida. Hanno deciso di cambiarla, dando un ruolo di primo piano alle «ragazze»: Goggia e Michela Moioli, Arianna Fontana ed Elisa Confortola. Perfetto. Perfetta è stata la scelta di puntare sulle atlete, sulla simpatia di Goggia e Moioli, le ragazze terribili scese dal palco facendo il dab, e sull’ideale passaggio di testimone tra Fontana e Confortola. Perfetti sono stati duetti istituzionali, tra Malagò e il presidente del comitato paralimpico Luca Pancalli («Alcuni delegati mi hanno confidato che siamo andati alla grande - sorride Malagò - abbiamo un futuro»), tra il governatore del Veneto Luca Zaia e il sindaco di Milano Giuseppe Sala (con abbraccio finale, sincero, inusuale se si pensa agli schieramenti politici). Perfetto, perché essenziale sobrio, convincente è stato il video messaggio del capo dello Stato Sergio Mattarella, tra i primi a credere in questo sogno. Importante anche il ruolo del premier Giuseppe Conte, arrivato pochi minuti prima e ripartito subito dopo la presentazione ma comunque fondamentale per dimostrare che l’Italia c’è, nessuno escluso, specie per quel che riguarda le garanzie, che invece in Svezia ballavano (la sindaca di Stoccolma, che sul palco si è lasciata andare ad un’improbabile interpretazione di Dancing Queen degli Abba, ha manifestato tutto il suo sostegno possibile alla candidatura ma, curiosamente, non ha mai firmato le garanzie). «Siamo una squadra meravigliosa» dirà alla fine Malagò. E in effetti tutto è girato a meraviglia. «Oggi realizzo un sogno - commenta Zaia - e mi prendo una rivincita nei confronti di quelli che dicevano che prendevo in giro i veneti, i tanti che anche nella nostra regione hanno remato contro questa candidatura. Solo, contro tutti, all’inizio ci ho creduto, coinvolgendo Trento e Bolzano, lanciando Cortina, poi trovando l’accordo vincente con Milano. E’ strepitoso. I Giochi cambieranno il volto del Veneto, sarà per noi quel che l’Expo è stato per loro. Pensate solo ai 925 milioni che il Cio ci darà per l’organizzazione. Alla fine resteranno infrastrutture importanti, come la pista di bob Eugenio Monti, che diventerà punto di riferimento internazionale, per non parlare del ritorno d’immagine per gli sport invernali». D’accordo il sindaco di Cortina, Giampietro Ghedina, che si prepara ad accogliere gli atleti olimpici 70 anni dopo Cortina 1956, l’evento da cui è nato il mito della Regina delle Dolomiti: «Viviamo ancor oggi di quell’eredità e ora la storia si ripete, grazie ai Giochi del 2026 vivremmo per i prossimi 30 anni. Per qualcuno sono un rischio, perché le Dolomiti sono fragili ma noi non abbiamo paura, perché rispettiamo le regole di sostenibilità dell’Agenda Cio 2020 e perché stiamo dimostrando con i Mondiali 2021 di saper gestire i grandi eventi in modo sano». Lo ribadisce senza dubbi anche il presidente della Provincia di Belluno Roberto Padrin: «Un’opportunità per tutta la montagna bellunese, ci assicurerà vita per gli anni a venire. Ripartiamo con tanta fiducia». Ora esultano tutti, dalla Cgil agli industriali, perfino i Cinque Stelle che pure erano scettici. «Si afferma un principio - commenta la presidente del Senato Elisabetta Casellati - quando si lavora uniti e compatti, nessun obiettivo è precluso all’Italia». D’accordo il sindaco di Venezia : «Se lavoriamo insieme per il futuro dell’Italia possiamo arrivare in alto». Il sindaco di Verona Federico Sboarina, che ospiterà all’Arena la cerimonia di chiusura, parla di «gioia incredibile». Tutto il Veneto applaude mentre qualche centinaio di chilometri più in là, sulle rive del lago di Lemano, finisce così, con i Cinque Cerchi che sventolano nel cielo e le luci del Losanna Palace che si accendono. La festa può cominciare. Hanno vinto i migliori.

Losanna (Svizzera). Cene di gala in hotel, aperitivi lungolago, fugaci caffè allo Swiss Tech Center. Perfino un saluto su WhatsApp poteva diventare, negli ultimi giorni, l’occasione per strappare un voto in più nella delicatissima sfida per i Giochi, in una sceneggiatura che non ha nulla da invidiare alle trame di House of Cards. «Siamo esausti» rivelavano ieri alcuni membri della delegazione italiana abbandonandosi su un divanetto, a pochi minuti dal verdetto. Raccontano che due mesi fa sia stato coinvolto perfino il ministero degli Esteri nell’intensa attività di lobby finalizzata a conquistare i consensi decisivi per battere Stoccolma e Aare. Ne servivano 42, su 82 votanti (i membri del Cio sono 95 ma il presidente Thomas Bach per prassi non vota, come i membri dei Paesi coinvolti nella corsa, che sono cinque; altri tre membri sono sospesi o autosospesi per vicende che poco hanno a che fare con lo sport; poi c’erano quattro assenti giustificati). Alla fine ne sono arrivati 47. La delegazione italiana, d’altronde, aveva pensato a tutto: il presidente del Coni, Giovanni Malagò, era al lavoro da mesi, insieme agli altri membri italiani del Cio, , Mario Pescante, Ivo Ferraini e Manuela Di Centa, specie per convincere i Paesi asiatici e africani, solitamente poco coinvolti nei Giochi Invernali; l’Oceania alla vigilia veniva data vicina alla Svezia; il Sudamerica all’Italia; incerti Europa e Nordamerica. A darci una mano con l’Estremo Oriente è stato il presidente dell’Inter Steven Zhang e con lui Marcello Lippi, attuale Ct della Cina ex ed Ct della nazionale campione del mondo nel 2006; con i delegati africani, invece, si è mosso il presidente del ed ex presidente dell’Eni Paolo Scaroni. Luca Cordero di Montezemolo, che come Malagò gode di solide relazioni con il jet set internazionale, ha provato ad arginare l’ascendente esercitato dalla principessa Vittoria, erede al trono di Svezia, sui delegati di stirpe reale, che erano ben sette nonostante le defezioni del Granduca di Lussemburgo Henry e del principe del Bhutan Jigyel Ugyen Wangchuck. Sussurrano che la principessa Vittoria non li avesse lasciati soli un minuto durante la cena della vigilia, domenica sera, nella prestigiosa cornice del Losanna Palace. In particolare, si trattava di convincere il principe di Monaco Alberto Ranieri e per raggiungere lo scopo è stato invitato dal Coni a Losanna l’ex campione di tennis Nicola Pietrangeli, amico di lunga data del principe, vicino pure ad alcuni delegati russi. Della squadra faceva parte anche Nerio Alessandri, fondatore di Technogym, fornitore ufficiale di ben sette edizioni dei Giochi, volto notissimo tra gli imprenditori del settore. L’esame tecnico del mattino era andato bene, grazie anche alle parole lusinghiere del presidente della commissione di valutazione Octavian Morariu, ex rugbista rumeno che quando atterrò in Veneto trovò ad attenderlo l’amico ed ex compagno di squadra Stefano Bettarello, invitato per l’occasione dal governatore Luca Zaia. Ma all’uscita volti e sorrisi erano comunque tirati. Nei corridoi dello Swiss Tech, nelle ore che precedevano l’annuncio dei vincitori, era tutto un far di conto, foglietti svolazzanti e penne alla mano. C’era addirittura chi compulsava siti di scommesse per vedere l’andamento delle quotazioni delle due candidate. «Sono più in ansia che all’esame di laurea» confidava pochi minuti prima di entrare in sala il governatore Luca Zaia. «Per dormire stanotte ho dovuto prendere qualche sonnifero» ammetteva il presidente del Coni Giovanni Malagò. Mentre il sindaco di Cortina, Giampietro Ghedina, sorrideva rassicurante: «Fin qui è andata benissimo. Io me la sento: vinciamo».

LA NUOVA Pag 11 Una pioggia di soldi per tutto il Nordest, 14mila posti di lavoro e un miliardo di spese di Jan van der Borg L’impatto economico delle Olimpiadi

Già alcuni mesi fa, la Regione Veneto ha chiesto a Ca' Foscari, in strettissima collaborazione con una squadra dell'università Bocconi impegnata in uno studio analogo per il Comune di Milano, di stimare l'impatto economico e fiscale delle Olimpiadi Milano- Cortina 2026 sul sistema economico veneto e sulle Province autonome di Trento e Bolzano, prestando particolare attenzione alla crescita generata nel sistema produttivo regionale e i relativi effetti sul valore aggiunto, occupazione e reddito.Va ricordato subito che l'analisi dell'impatto economico è soltanto uno dei tanti pezzettini del complesso puzzle dell'analisi dell'impatto complessivo, che comprende anche altri benefici e, ovviamente, anche dei costi.Per valutare l'impatto economico che l'evento delle Olimpiadi attiverà, un team di studiosi del Dipartimento di Economia di Ca' Foscari ha utilizzato un modello Input-Output basato sulla tavola intersettoriale del Veneto e messo a disposizione dell'Unioncamere del Veneto, un modello per certi versi criticabile, ma ad oggi tra gli strumenti più diffusi per l'analisi dell'impatto economico e trova applicazione anche nell'ambito della valutazione dei cosiddetti "big event", compresi quelli di natura sportiva.Di fronte a tali obiettivi e alle necessità operative per l'utilizzo effettivo degli strumenti di analisi prescelti, la nostra ricerca è stata strutturata in tre fasi fondamentali: (1) ricognizione delle spese generate per l'intera implementazione dei giochi olimpici; (2) stima dell'impatto economico dei giochi; (3) stima delle entrate fiscali prodotte dall'evento.La prima parte dello studio si è focalizzata nell'individuazione dell'insieme delle spese generate per l'intera preparazione e realizzazione dei giochi olimpici, suddividendole in spese in conto capitale, quelle operative e, infine, quelle generate dalla 'famiglia olimpica' e dai turisti. Nel suo complesso, le spese e gli investimenti attivati dall'evento dei Giochi olimpici Milano-Cortina 2026 ammontano a circa 1.124 milioni di euro per il Veneto e le Provincie autonome di Trento e Bolzano.Aggiungendo, con l'aiuto del modello Input-Output, appunto, a questi effetti economi diretti anche gli effetti indiretti e indotti, il valore della produzione risulta essere pari a 1.461 milioni di euro (con un moltiplicatore complessivo di 1,30) e il Prodotto interno lordo 839 milioni di euro (con un moltiplicatore di 0,75). L'occupazione generata dall'evento sarà pari a 13.800 unità di lavoro.Grazie all'attivazione del sistema economico nazionale e regionale è stato possibile fornire anche una stima dell'impatto fiscale che le Olimpiadi invernali Milano-Cortina potranno generare. Il gettito fiscale che la parte veneta dei Giochi olimpici genererà per le casse dello Stato è pari a circa 205 milioni di euro, di cui 87 milioni di euro come aumento dell'IRPEF e 101 milioni di euro come aumento delle imposte indirette (sostanzialmente l'IVA).Ammontano, inoltre, a più di 16 milioni di euro le maggiori entrate fiscali regionali e a 4 milioni di euro le tasse di soggiorno incassate dai comuni, che, tuttavia, sono solo parzialmente aggiuntive in quanto i posti letti messi a disposizione dagli albergatori sarebbero occupate probabilmente in gran parte da turisti non olimpici.Cifre importanti, insomma, che, ancora di più quando vengono sommate a quelle per la Lombardia, ci fanno capire che le Olimpiadi invernali Milano-Cortina possano davvero dare un impulso importante a beneficio dell'economia del Nordest.Tuttavia, con la meritatissima assegnazione delle Olimpiadi invernali 2026 a Milano e a Cortina, la vera sfida per il Veneto è appena iniziata. Troppo spesso, e non solo in Italia, anche in presenza di segnali incoraggianti, i mega eventi si rivelano buchi nell'acqua, che pesano sui conti di Comuni, di Regioni e, addirittura, di interi Stati (basti pensare a casi come Italia '90 e Atene 2004), senza innescare poi quel processo di crescita durevole e sostenibile che stava alla base della candidatura.Molto dipenderà, quindi, dalla qualità della governance del processo di implementazione dell'ottimo progetto presentato da Milano e dal Veneto a Lausanne, dalla bontà del sistema di monitoraggio dello stato di avanzamento, anche per evitare penalizzanti situazioni di emergenza a ridosso dell'evento stesso, e dal peso che verrà dato fin da subito alla gestione del post-evento. Ci auspichiamo, qui a Ca' Foscari, che il presidente del Veneto Luca Zaia, insieme alla sua squadra, saprà cogliere la suddetta sfida fino in fondo.

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… ed inoltre oggi segnaliamo…

CORRIERE DELLA SERA Pag 1 Il senso di una sfida di Venanzio Postiglione La vittoria di Milano e Cortina

Serie. Competenti. Inglese perfetto. L’immagine di un Paese giovane che sa sorridere, convincere e anche vincere. Che ha fiducia, ecco. Sarà una suggestione, ma dopo averle viste e ascoltate a Losanna si è capito che la coppia Milano-Cortina avrebbe battuto Stoccolma. Arianna Fontana, 29 anni, Sofia Goggia, 26, Michela Moioli, 23, Elisa Confortola, 17: quattro campionesse per togliere all’Italia (almeno stavolta) il soprabito di un Paese bello e perduto, litigioso con se stesso e con gli altri, scettico sulle nuove opere, quindi sul futuro. Un successo netto. E quell’urlo liberatorio, alla fine, «Italia, Italia», che al di là dell’enfasi da stadio racconta una società diversa. Anche una politica diversa. Tanto che può capitare (addirittura) di sconfiggere la Svezia per le Olimpiadi invernali, con buona pace della quantità di freddo e di neve. È una vittoria «nonostante». Nonostante la contrarietà dei 5 Stelle e la freddezza del governo. Dall’inizio. Da quando Torino, guidata dal partito di Grillo, ha confermato il rifiuto della Tav e poi (la coerenza del «no») ha frenato sui Giochi del 2026 che dovevano consacrare l’arco alpino dal Monviso alle Dolomiti. A quel punto, la svolta. Giancarlo Giorgetti, a nome di un pezzo di governo, ha lanciato Milano e Cortina senza il Piemonte. Con il sì di Beppe Sala, sindaco di centrosinistra, pronto a riproporre il modello vincente di Expo e a confermare il momento positivo della città. E con il sì dei governatori leghisti Attilio Fontana e Luca Zaia, anche come prova generale dell’autonomia. Più la spinta del mondo dello sport con il Coni di Giovanni Malagò. Più il famoso partito del Pil che vede nei Giochi un’occasione di crescita e non la tentazione del demonio. Insomma: un’alleanza inedita tra Sala e i leghisti del Nord. Di Maio è rimasto alla finestra, trattenuto da quella fetta del Movimento che non si è mai rassegnata a governare. Salvini ha lasciato fare ai lombardi e ai veneti, lungo la strada stretta che a Roma gli fa abbracciare i 5 Stelle e al Nord gli avversari dei 5 Stelle. La presenza a Losanna di Giorgetti, il più insofferente tra i leghisti, è la conferma plastica di un partito che stravince nelle urne ma fa fatica nel progetto politico. Populista nella capitale e a Bruxelles, pragmatico tra Milano e Venezia. È solo la prima tappa. Le guglie del Duomo che diventano Dolomiti, come nel bellissimo dipinto di Dino Buzzati, sono l’inizio di un percorso difficile. Le due bussole, velocità per arrivare in tempo, e trasparenza per rispettare regole e controlli, non sono scontate. Ma sono vitali. L’essenza stessa dell’Olimpiade. Senza la rapidità e la legalità non si può neppure cominciare. Ora toccherà soprattutto ai privati, viste che le casse pubbliche hanno problemi (abbastanza) noti. Il videomessaggio del presidente Mattarella, che si è preso il Paese sulle spalle, ancora una volta, è una garanzia. La centralità di Milano che vuole guidare l’Italia e non isolarsi, come ripete Beppe Sala, è un altro punto di forza. Così come la voglia di emergere del Veneto, che tra imprese e turismo ha il modello più aperto e meno sovranista d’Italia. Il gruppo che ha vinto a Losanna va avanti se non perde di vista l’obiettivo. I Giochi 2026. Con i posti di lavoro, un aiuto alla crescita e gli impianti giusti (senza cattedrali nella neve). Se continua a tenere assieme Milano e Roma, la politica e lo sport, l’orgoglio del Nord e il grido «Italia», il progetto avrà un senso e arriverà al traguardo. Poi, certo, dire che il Paese può anche vincere ha un rischio altissimo di cadere nella retorica. Con la smentita e la delusione alla prima curva. Ma le quattro italiane sotto i trent’anni che hanno sorpreso e forse convinto la giuria dell’Olimpiade, perché sanno trionfare in gara, studiare a casa e parlare in pubblico, hanno raccontato un Paese che è amico del mondo. Anche se a volte se ne dimentica.

Pag 1 Stare zitti (in politica) è un errore di Sabino Cassese Le opposizioni

Il silenzio non è una politica. Le opposizioni sono state finora zitte. Non se ne conosce la «linea politica». La scena vuota è stata riempita da qualche tweet tra fazioni e da deboli critiche al governo. Il silenzio - si spera - non è dovuto a pigrizia mentale o a stanchezza ideale; pare sia stato consigliato dal desiderio di non far emergere le contraddizioni nel proprio campo. Ma non basta criticare quel che fa la maggioranza, bisogna anche indicare quel che farebbero le opposizioni se fossero maggioranza. E occorre rendersi conto che le contraddizioni dell’attuale governo prosperano anche grazie alle divisioni dei suoi avversari. Non far nulla e starsene zitti è un gran vantaggio, ma non bisogna abusarne, come osservava Antoine de Rivarol. Un governo può essere forte per i suoi meriti o per le divisioni dei suoi avversari. L’attuale governo non ricade nella prima ipotesi. Quel che non funziona è chiaro. Molto apparire e dichiarare, troppa attenzione al quotidiano, nessuna a quello che interessa il Paese, preoccupato dagli altri che corrono mentre noi siamo fermi da un ventennio. Tutti tattici, nessuno stratega. Cambiamenti proclamati ogni giorno, cui corrisponde un modo di governare ondivago e contraddittorio, dominato da corporativismo e intolleranza per il pluralismo. Incompetenza, poca voglia di studiare e un continuo gareggiare tra i due azionisti del governo, che non è terminato con la fine del periodo elettorale, si è anzi arricchito con divisioni intestine in ciascuno dei due campi. Tuttavia, le opposizioni non riescono a farsi sentire e a presentare una alternativa credibile. fa un’opposizione a metà, perché è alleata a una metà del governo. La recente nomina di due coordinatori di opposte vedute non migliora la situazione. E il partito non ha mai fatto una verifica di ciò che è morto e di ciò che è vivo nella nobile tradizione liberale alla quale Berlusconi ha sempre dichiarato di ispirarsi. Nell’altro campo, quello democratico, come ha acutamente osservato su queste pagine Maurizio Ferrera il 20 giugno scorso, programmi, stile di leadership e di comunicazione, organizzazione sul territorio sono inadeguati: manca la capacità della classe dirigente di connettersi con la base sociale. Dopo aver faticosamente, in un anno, individuato un leader, il partito democratico rischia ora di aggregarsi sul nulla, per assenza di una bussola (basti l’esempio del voto sui mini-bot), alla perenne ricerca del centro da conquistare. Questa crisi programmatica del centrosinistra dipende dalla mancata risposta a due domande cruciali. La prima riguarda la verifica della confluenza delle due maggiori tradizioni culturali e politiche del nostro Paese, quella popolare e quella socialista. È ancora attuale questa convergenza? In caso positivo non costituisce un patrimonio che, non rinnovato, corre il rischio di essere sperperato? La seconda riguarda l’esaurimento dell’ideale dello Stato del benessere, nonostante la sua incompletezza e le sue storture. L’opposizione non è stata finora capace neppure di avviare una riflessione sui bassi tassi di scolarità, sull’insufficiente assistenza alle famiglie, sul dualismo del Servizio sanitario, sullo squilibrio del «welfare» a favore degli anziani e a danno dei giovani, tutti difetti ingranditi dall’attuale politica del governo, fondata su elargizioni invece che su servizi reali, su sussidi invece che investimenti, su pensionamenti invece di offerte di occasioni di lavoro, come ha dimostrato Maurizio Ferrera nel magistrale articolo che ho prima citato. La carenza di opposizioni ha effetti di sistema che minano il funzionamento stesso della democrazia. Questa si nutre di offerte politiche diverse, che consentano ai cittadini di scegliere. Se non ci sono scelte tra politiche, la democrazia si risolve in elezionismo. Non si spiega altrimenti il divario italiano di più di 60 punti tra partecipazione politica attiva e partecipazione politica passiva. Una larga parte della popolazione segue, è attenta alla politica, ma non è mossa da ideali, programmi, obiettivi. Quindi, non si impegna. In una democrazia, le opposizioni operano da meccanismi stabilizzatori, perché consentono quello che un acuto filosofo, Massimo Adinolfi, in un bel libro appena pubblicato (Hanno tutti ragione? Post-verità, fake news, big data e democrazia, Salerno editrice), ha chiamato la rivedibilità delle scelte. Perché le scelte siano rivedibili, le opposizioni devono farsi sentire. Il silenzio significa acquiescenza, l’acquiescenza nutre indifferenza e distacco dalla politica (poco più della metà degli italiani è andato a votare alle ultime elezioni regionali ed europee, e il loro vincitore rappresenta meno di un quinto degli aventi diritto al voto).

AVVENIRE Pag 1 Non si morde la mano tesa di Marco Tarquinio Carità cristiana e polemiche salviniane

Matteo Salvini cresce di voti, ma a quanto pare non ancora di saggezza. E pensa di farsi tranquillamente i ministeri degli altri, ma proprio tutti: i ministeri tipici della politica, che sono sinonimo di “potere” e dovrebbero esserlo di “dovere”, tanto quanti i ministeri propri della comunità cristiana, che sono sinonimo di “servizio”. Qualche giorno fa, infatti, con un precipitoso cinguettio su Twitter, il ministro dell’Interno aveva fatto sapere di voler convocare le parti sociali al Viminale come se quel colle e quel palazzo fossero diventati anche la sede del dicastero delle Attività produttive e del Lavoro o addirittura fossero di nuovo (come in anni ormai lontani) assurti a quel ruolo di principale sede di governo che è oggi di Palazzo Chigi. Ieri, invece, con un irriflessivo messaggio via Facebook, ha deciso di farsi anche la carità degli altri, spiegando all’arcivescovo di Torino che cosa la Chiesa può permettersi nella sua azione per i poveri e che cosa non deve neppure azzardarsi a pensare. Perché? Perché monsignor Cesare Nosiglia aveva osato tendere una mano, anzi entrambe, agli esseri umani bloccati sulla imbarcazione umanitaria “Sea Watch” al limite delle acque italiane e allo stesso ministro dell’Interno che in quella condizione li mantiene. Da Torino, tra i consensi di una città in festa per il patrono san Giovanni Battista, il vescovo Cesare aveva detto: noi ci siamo, e ci facciamo carico del problema. Un aiuto per togliere tutti dalla terribile impasse dell’ennesimo braccio di ferro sulla pelle di naufraghi in fuga dalla Libia. Un soccorso di cui – grazie ad altri uomini di Dio, cattolici ed evangelici – Salvini del resto aveva già goduto, impersonando a lungo la parte del duro persino nei confronti di navi militari italiane, ma evitando infine di avere sulla coscienza qualche tragedia. Stavolta, invece, il ministro e leader della Lega ha ingiunto seccamente al «caro vescovo» di pensare agli «italiani in difficoltà». Come se già il vescovo non lo facesse. Per arrivare a dire una cosa del genere ci vogliono almeno due impazzimenti o, se volete, due deliberate rinunce a un po’ di buon senso. Prima di tutto ci vuole una notevole dose di imprudenza e una doppia impudenza. L’imprudenza è quella di chi si ritiene un «unto del signore» e pensa addirittura di incarnare la legge. La prima impudenza è quella di chi mostra (o finge) di sapere poco o nulla della fede e della carità cristiana e però ne parla e ne straparla a sproposito. La seconda impudenza è di chi “sfida” senza avere nemmeno lontanamente un’idea di che cosa sia e come viva la Chiesa di Torino, e dello speciale carisma per il servizio ai piccoli e gli ultimi che ne ha fatto e ne fa ancora oggi una gioiosa fabbrica di “santi sociali”. Una Chiesa speciale e uguale nel cuore di una Chiesa italiana che ogni giorno e ogni notte sta accanto a quanti – persino al tempo del Reddito di cittadinanza e della sovrabbondante retorica sul «prima gli italiani» – sono e restano ai margini di tutto. Ma ci vuole anche un bel po’ di arroganza. Quella che porta il ministro a irridere («dorma bene!») anche il parroco di Lampedusa che trascorre notti all’aperto aspettando l’approdo di chi non ha tetto ed è sopra al mare. Quella che travolge quasi sempre i politici colpiti da improvvise e cospicue fortune elettorali e che ha già prodotto un sacco di guai al Paese, mettendo spesso in questione ciò che lo ha reso grande, non per ultima la capacità molto italiana di vincere, e far lievitare, di solidarietà l’innato particolarismo dei suoi figli. Il problema è che l’arroganza, come certe fortune, prima o poi passa, ma i danni fatti restano e pesano sulla vita della gente. Magari è stata solo una voce dal sen fuggita e precipitosamente, come ormai succede quasi sempre, fatta rimbalzare sui social. Un politico di successo come Matteo Salvini, farebbe meglio ad apprezzare chi non tende la gamba per fare sgambetti, ma tende cristianamente la mano per aiutare, senza altro interesse che il bene necessario e possibile in un momento di crisi, in cui ci sono in ballo non cose ma persone. Non si morde mai la mano che soccorre, men che meno se soccorre altri.

Pag 3 Cinque punti sull’immigrazione, così si potrebbe cambiare rotta di Corrado Giustiniani Azioni concrete, sul fronte europeo e su quello italiano, per tutte le formazioni responsabili. Per costruire ponti

Cinque suggerimenti sull’immigrazione. Non di grosse e complicate riforme, che poi resteranno bloccate in Parlamento per anni, ma piuttosto di azioni concrete, in più direzioni, sfruttando leggi già approvate o che sono state a un passo dal traguardo finale. Chi ha a cuore il futuro della nostra società, ovunque si collochi politicamente, non può più limitarsi a criticare certe azioni di governo e le uscite plateali del ministro dell’Interno Matteo Salvini. Andiamo per ordine. 1 . Rilanciare la riforma del Regolamento di Dublino, già approvata dal Parlamento europeo, il 16 novembre del 2017, con una maggioranza schiacciante: 390 sì, 175 no e 44 astenuti. Questa prevede che le domande non vengano più esaminate nel primo Paese d’ingresso: i richiedenti asilo andrebbero distribuiti obbligatoriamente in tutti i Paesi dell’Unione, in proporzione a popolazione, Pil, grado di sviluppo economico, legami familiari dei richiedenti asilo con uno specifico Paese. Esattamente quello che Lega e 5stelle si sono posti come obiettivo nel loro 'contratto di governo'. È inspiegabile che la Lega si sia invece alleata con i governi dell’asse 'sovranista', che al contrario non vogliono nei loro confini nemmeno un profugo e un migrante. Il nuovo Regolamento di Dublino, per diventare operativo, ha però bisogno del 'sì' del Consiglio europeo, dove siedono i capi di Stato e di Governo dell’Unione. Bisogna aprire fitte trattative con i partner perché questo avvenga, sperando che non sia troppo tardi. 2 . Riprendere in mano la riforma della legge sulla cittadinanza per i bambini e i minori. Chiamarla ius soli – come su queste pagine è stato spiegato e rispiegato – ha aiutato l’insorgere dell’equivoco, cavalcato da partiti di destra, dai social e anche da diversi organi d’informazione, che bastasse esser nati in Italia, magari il giorno dopo uno sbarco, per essere nostri concittadini. Matteo Salvini, senza che nessuno lo contestasse, è arrivato a dire in tv che con quella legge si voleva dare la cittadinanza «al primo che passa». Al contrario, la riforma già approvata dalla Camera nell’ottobre 2015, e poi lasciata due anni in naftalina, prevedeva che il bimbo dovesse nascere da una famiglia già integrata, in quanto con almeno un genitore provvisto di permesso di lungo soggiorno. È esattamente lo stesso principio che vale in Germania e nel Regno Unito. Ma forse nessuno lo sapeva. C’era poi un secondo e decisivo aspetto della riforma, il cosiddetto ius culturae legato alla formazione dei nuovi piccoli cittadini nelle scuole italiane e in altre agenzie educative (dunque, basato su una grande fiducia nella capacità attrattiva e formativa della nostra cultura nazionale) e, però, tenuto incredibilmente ai margini del dibattito pubblico sulla questione. Bisognerà aprire trattative ed essere pronti ad accettare modifiche. I 5Stelle non possono certo dimenticare di aver depositato nel giugno del 2013 a Montecitorio una proposta di legge ancora più radicale di quella abortita al Senato nel 2017, sostenuta da ben 95 deputati, tra i quali Di Maio, Fico, Toninelli, Bonafede. 3 . Vanno proposti e sperimentati, in numero contingentato, permessi di ricerca lavoro della durata di un anno che diano allo straniero che entra nel nostro Paese la possibilità di trovare un’occupazione nei molti settori, a cominciare dall’assistenza familiare, nei quali abbiamo documentato bisogno di questo contributo. È inconcepibile urlare ai 'clandestini' senza concedere la possibilità di un ingresso regolare. È dal 2014 che i vari 'decreti flussi' non sono aperti al lavoro subordinato non stagionale. Anche quello del 2019, che concede appena 30.850 ingressi, si rivolge in prevalenza al lavoro stagionale, con l’aggiunta di permessi di studio e poco altro. 4 . Non può più tardare una regolarizzazione, che in buona parte coinvolgerebbe i cosiddetti ' overstayers', persone che sono entrate nel nostro Paese con un permesso turistico e poi hanno trovato un lavoro. Tante badanti, ad esempio ucraine o moldave o sudamericane, sono in queste condizioni. I nostri astrusi sistemi di ingresso comportano che ogni tot anni venga svuotato il bacino di irregolari, e l’ottava e ultima sanatoria venne approvata dal governo Monti nell’ormai lontano 2012. Quanti siano gli irregolari è difficile stimarlo: alcuni istituti si rifiutano di farlo, per l’Ismu erano poco più di 500mila nel 2017, per il presidente del-l’Istat Gian Carlo Blangiardo sarebbero 600mila oggi, mentre Salvini è passato in pochi mesi da una stima di 500600mila «clandestini» a una di 90mila, alla vigilia delle Europee. Quello che è certo è che il provvedimento di emersione avrebbe un effetto positivo sulla percezione di sicurezza, andrebbe incontro alle difficoltà contrattuali di molte piccole imprese e sarebbe un vantaggio per le casse dell’Inps. 5 . In chiusura, quello che forse avrebbe dovuto essere il primo punto: una svolta normativa in tema di governo dell’immigrazione e nella gestione delle persone richiedenti di asilo. Bisogna uscire dalla retorica e valutare gli effetti concreti dei due Decreti Sicurezza varati dal governo su impulso del ministro Salvini. Persino sorvolando sulle norme introdotte con il provvedimento- bis, che fissano pesanti multe (sino a 50mila euro) per le navi che salvano naufraghi e non accettano di riportarli nel «porto sicuro» che la Libia non è, bisogna prendere atto che il primo testo – smantellando protezione umanitaria e percorsi di inclusione – sta provocando, secondo una stima dell’Istituto Ispi, 137 mila nuovi irregolari in due anni. 'Avvenire' ha definito queste norme «la legge della strada», perché è sulla strada che decine di migliaia di persone vengono così letteralmente gettate. Realtà associative solidali stanno cercando di limitare i danni e l’insicurezza per richiedenti asilo e cittadini che questo provoca, ma va ripristinata una copertura economica minima efficace (ora abbattuta da 35 fino a 20 euro) per poter garantire – come fanno gli altri Paesi d’immigrazione – una seria accoglienza ai richiedenti asilo, con insegnamento dell’italiano, attività di formazione e orientamento professionale oltre che di 'restituzione' alle comunità cittadine in cui i centri sono collocati. Queste prime azioni dovrebbero essere guidate da una convinzione granitica. Così come altre, più specifiche, a partire da un nuovo, grande impulso ai 'corridoi umanitari' – avviati più di tre anni fa per un’iniziativa ecumenica 'dal basso' di Comunità di Sant’Egidio, Evangelici e Valdesi e Confererenza episcopale italiana in accordo i ministeri degli Esteri e dell’Interno – e che lo stesso premier Giuseppe Conte ha richiamato e lodato nei giorni scorsi. Occorre, con pazienza e ostinazione, cercare consensi, in tutti i partiti e in Europa. È una prova per le forze di opposizione e per settori responsabili delle formazioni oggi al governo. Costruire ponti e strade di convivenza è l’unica scelta. Da soli si lanciano soltanto vuoti proclami.

Pag 3 Successo e responsabilità, è l’ora di fare tutti sul serio di Massimiliano Castellani Giochi 2026: Milano traina la montagna e mette fretta al Paese

La locomotiva Italia, si sa, non va mai troppo forte rispetto alle altre, e spesso e volentieri rallenta, ma il Milano-Cortina 2026 è un Eurostar, veloce e puntuale, che arriva anche prima di un treno svedese chiamato Stoccolma-Åre. Non ce ne voglia Cortina ma questa è in primo luogo la vittoria di una città, di una grande città, Milano. Il riscatto di un Paese mediante l’unica vera metropoli italiana di stampo europeo. Una Milano post- moderna che ha saputo cambiare marcia in corsa e che ora si aspetta che la Roma di Giovanni Malagò e tutto il resto d’Italia la seguano in questa direzione. Un piccolo miracolo italiano perché non dimentichiamoci che anche Milano ha avuto i suoi momenti di magra. Fino al 2000 sonnecchiava, ancora annichilita dai fumi della Milano da bere e dalla stangata impressa da Tangentopoli a molta della sua classe dirigente. La 'capitale morale' era in ginocchio ma la grande capacità imprenditoriale di reinventarsi continuamente unita a quella sana vocazione all’accoglienza ha permesso a Milano di tornare città più 'verticale' del futuristico Bosco progettato dall’architetto Boeri. 'Expo 2015' ha fatto il resto, una Fiera delle vanità concrete che con il senno di poi si è trasformata in trampolino olimpico, fondamentale per questo rinascimento nazionalmilanese. E il cerimoniere di Expo, Giuseppe Sala, è diventato, per fiducia e consenso allargato, il primo cittadino di una Milano che continua a correre, incessantemente, e che ieri ha festeggiato l’ennesimo traguardo raggiunto. Tutto questo è stato possibile grazie a quel 'passo doppio', frenetico e pulsante, rispetto al resto d’Italia, Cortina compresa. E allora, che Milano indichi la pista da seguire oltre quelle di sci e che queste siano le Olimpiadi della rinascita anche per il resto del Paese reale: quello della provincia lombardo-veneta e del Trentino-Alto Adige chiamati, con i rispettivi territori, a far parte integrante dei Giochi. Via alla rifioritura economica e culturale – di cui lo sport olimpico è un catalizzatore universale – della montagna che, anche nell’ex fenomenale Nord-Est, soffre più di ogni altra l’emarginazione e il problema dello spopolamento. Cortina 1956 erano ormai Giochi della memoria, ma 63 dopo quella prima kermesse olimpica la 'Perla delle Dolomiti' ha la grande occasione per essere rilucidata e tirata a nuovo. E lo stesso vale per Bormio, Livigno e la Valtellina e per le trentine Baselga di Piné, Tesero, Predazzo e Anterselva (Alto Adige). Milano che è in via di completa riqualificazione può solo migliorare e confermare il talento della città che produce e che sa arrivare sui mercati globali con le proprie forze e con la sua grande tradizione d’impresa. Siamo pronti a scommettere, saranno Giochi ad 'alta qualità'. Dallo skyline diffuso si avverte già la nuova energia olimpica, la forza centrifuga amplificata a tutte le arti (da quelle visive alla moda, dall’editoria al design, alla tecnologia) che l’ha resa 'capitale' in pectore, ancor prima di diventare quella delle Olimpiadi invernali. Un successo che da qui al prossimo settennale di organizzazione dell’evento olimpico avrà bisogno di due ingredienti fondamentali: la trasparenza (appalti degli impianti sportivi e delle infrastrutture) e la stabilità politica nazionale (leggasi governi sani e duraturi). Intanto godiamoci tutti insieme questa vittoria che è anche il riscatto di squadra firmato Coni. Il suo presidente Giovanni Malagò, splendido esemplare del generone romano, ha dimostrato una volta di più di possedere quello charme e quel carisma diplomatico degno dei più audaci capitani d’azienda lombardo-veneti. Questa volta non c’erano 5 Stelle, né sindaco di Roma (Virginia Raggi) né il censore Mario Monti, pronti a rigettare il dossier olimpico (per timore di allargare il debito pubblico) a ostacolarne il cammino. È stato un percorso netto, quello di Malagò, che ha marciato spedito e deciso, proprio come il ritmo quotidiano di Milano, per convincere la maggioranza del Cio a scegliere il Belpaese come il migliore possibile. I maligni sostenevano che i Giochi fossero molto più appropriati alla gelida e più invernale Svezia. Ma Stoccolma che tentava la fortuna per l’ottava volta ha presentato un dossier giudicato «lacunoso» e adesso è condannata alla futura prova del nove. Meglio così. Il paragone azzardato fatto dal sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con delega allo Sport, Giancarlo Giorgetti, che alla vigilia aveva valutato il confronto con Stoccolma-Åre come un Inter-Frosinone, in cui l’Inter era ovviamente Milano-Cortina, questa volta ha funzionato. Così come è andata a buon fine la 'benedizione' olimpica presidenziale di Mattarella. Ma nell’estasi popolare di questa festa nazionale, ricordiamoci anche di tutte le sconfitte subite e delle umiliazioni patite negli ultimi anni, anche sul fronte sport: dai Mondiali agli Europei di calcio negati in serie fino alle Olimpiadi di Roma 2020 sfumate. Questione di numeri, è sempre stata la difesa d’ufficio. Lo '0' di Roma ’60 non ha dato alcun esito, la cadenza '6' invece sì. Quindi dopo Cortina 1956 e Torino 2006, stringiamoci a coorte per una fantastica Milano-Cortina 2026.

Pag 3 E il Leviatano cominciò a perdere le sue forze di Giorgio Ferrari Voci e voti di libertà, non soltanto in Turchia

«I o autorizzo e cedo il mio diritto di governare me stesso a quest’uomo o a questa assemblea di uomini, a questa condizione, che tu gli ceda il tuo diritto, e autorizzi tutte le sue azioni in maniera simile». È una delle proposizioni-cardine del Leviatano di Thomas Hobbes, controversa teorizzazione dell’assolutismo raffigurato – come è noto – dall’immagine biblica del gigante costituito da una moltitudine di singoli individui. Le 'democrature' che oggi vanno affollando il panorama geopolitico mondiale si avvalgono sovente di una caricaturale radicalizzazione del pensiero del filosofo inglese: formalmente sono delle democrazie liberali, di fatto sono regimi autoritari con tendenze assolutiste e talvolta derive dittatoriali. La Russia di Putin, la Cina di Xi Jinping, l’Iran di Rohani e Khamenei, l’Egitto di al-Sisi, ma anche il Venezuela di Maduro, il Nicaragua di Ortega, la Corea del Nord, le tante satrapie del Golfo, fanno sicuramente parte di questo club – i francesi la chiamano dictature camouflée –, ma i candidati e gli aspiranti non mancano: certe manomissioni della Costituzione, certe restrizioni delle libertà elementari si sviluppano anche all’interno dell’Unione Europea, soprattutto negli ex Paesi-satellite dell’Unione Sovietica. Anche la Turchia di oggi è una 'democratura'. Un Paese in cui cinquantamila fra funzionari pubblici, militari, forze dell’ordine, militanti politici, giornalisti si trovano dietro le sbarre accusati di tramare contro lo Stato e dove di quando in quando si vagheggia il ritorno alla pena capitale difficilmente può definirsi una democrazia liberale. Poi però accade l’impensato. Accade che il durevole consenso plebiscitario di un politico di indiscutibile successo come Recep Tayyp Erdogan s’incrini e il sultano che sognava una Turchia neo-ottomana arbitro assoluto del Medio-Oriente si veda sconfitto nella 'sua' Istanbul dal quarantanovenne di Trebisonda Ekrem Imamoglu, candidato sindaco del Cumhuriyet Halk Partisim (l’antica formazione laicista erede storica del kemalismo guidata dal leader Kiricdaroglu), astro nascente che nella più ricca e popolosa metropoli dell’Anatolia – da sola raggruppa 15 milioni di abitanti e il 30% del Pil nazionale – è arrivato primo per due volte. Già, perché quella di domenica è stata una ripetizione del voto, in quanto – così son fatte le 'democrature' quando le cose si mettono male – quelle 14mila preferenze di scarto non convincevano il sultano Erdogan della correttezza dello spoglio. Dunque, nuova consultazione: e questa volta, una decina di punti percentuali di distacco sull’avversario dell’Akp (il partito islamico di Erdogan) da parte di Imamoglu. Uno schiaffo sonoro, clamoroso, che si aggiunge al rovescio di consensi già subito a marzo a Ankara e a Smirne. Clamoroso quanto lo fu nel 2013 l’alzata di scudi dei giovani di Gezi Park, i 'millennials' che sognavano un’altra Turchia, laica e democratica e che costò loro nove morti e oltre ottomila feriti, centinaia di arresti e una ferrea chiusura al dialogo da parte del potere. All’epoca, Erdogan poteva contare sulla fedeltà della profonda Anatolia, quella rurale, poco scolarizzata e sostanzialmente nemica della modernità e sul consenso di una classe media rampante, eccitata dalla vertiginosa crescita economica. Ma il 'bottino' vero - inteso come ricchezza nazionale e quindi di voti - lo si confeziona a Ankara, Smirne e Istanbul. E qui, come si vede, la presa di Erdogan e del suo partito è di giorno in giorno meno sicura, complice il drastico rallentamento dell’economia, l’alta inflazione, la crisi occupazionale e una irrimediabile svalutazione della lira. Non sarà certo il voto di Istanbul a far cadere Erdogan, né al momento si intravede un candidato in grado di sfidarlo alle elezioni presidenziali del 2023. Tuttavia c’è un’altra e certamente più preziosa lezione che se ne ricava. Lezione che vale anche per Mosca (dove si scende in piazza per protestare contro l’arresto arbitrario di un giornalista inviso al regime), Praga (dove una manifestazione oceanica chiede le dimissioni del premier Babis in odore di frode e corruzione) e perfino Pechino (dove Hong Kong, estremo avamposto della democrazia all’occidentale, reclama il rispetto dei diritti elementari dell’uomo), ma che può essere indirizzata a tutti i sovranisti del mondo: la formula-baratto 'sicurezza contro libertà', cara a Hobbes e ancor di più alle 'democrature' odierne, non sempre funziona. Anzi, sempre più spesso s’inceppa e si rivolta contro i suoi apprendisti stregoni. «Mi congratulo con Imamoglu. Oggi la volontà della nazione si è manifestata ancora una volta», si è visto costretto dire Erdogan. In realtà si chiama semplicemente 'democrazia', ma è un concetto col quale il sultano, forse, non ha gran dimestichezza.

IL FOGLIO Pag 1 La croce non si tocca di Matteo Matzuzzi La Corte suprema americana salva un monumento in Maryland: “E’ un simbolo religioso e non si demolisce”

Roma. La Corte suprema degli Stati Uniti ha deciso che la croce di Bladensburg, nel Maryland, monumento ai caduti del luogo nella Prima guerra mondiale, non si deve toccare. Il verdetto era atteso perché riguardava una questione centrale e assai delicata: la croce è un esplicito richiamo al cristianesimo oppure è ormai qualcosa di meramente culturale? Secondo una corte federale della Virginia, che ne aveva ordinato la demolizione (o "il trasferimento in altro sito"), quel monumento di cemento armato alto novantatré metri e posto in mezzo a un incrocio stradale rappresentava un'esplicita "preferenza" per una determinata religione. Era stato accolto il ricorso dell'Associazione umanista americana, a giudizio della quale quella croce "discrimina i soldati patriottici non cristiani, trasmettendo loro il messaggio secondo cui solo i cristiani sono degni di venerazione, mentre gli altri possono essere dimenticati". In altre parole, era violato il Primo emendamento costituzionale che tutela la libertà religiosa. I giudici della Corte suprema hanno stabilito che "anche se l'intento originario del monumento fosse legato alla religione, trascorso può mettere in secondo piano tale significato e il monumento potrebbe essere mantenuto per il suo retaggio storico e la sua comune eredità culturale". Un verdetto schiacciante, che ha visto opporsi alla demolizione i cinque giudici conservatori e due liberal, Stephen Breyer ed Elena Kagan. Contrarie solo Ruth Bader Ginsburg e Sonia Sotomayor. L'opinione di maggioranza è stata scritta da Samuel Alito, che ha sottolineato come l'eventuale rimozione rappresenterebbe questo sì un atto "non neutrale", rovesciando quindi il cuore stesso della denuncia mossa dagli "umanisti" che erano pronti a usare una sentenza loro favorevole per avviare una campagna su vasta scala per lanciare i bulldozer contro monumenti simili sparsi qua e là dalla East coast alla California. L'elemento centrale della sentenza - che rappresenta una pietra miliare nella giurisprudenza americana - è quando la Corte scrive che "senza dubbio" la croce di Bladensburg "è un simbolo cristiano". E nonostante ciò non va rimosso. Certo, ha un suo significato culturale, ricorda coloro che "non sono tornati a casa", è un luogo "per onorare tutti i veterani e i loro sacrifici per questa nazione", ma è prima di tutto un riferimento cristiano. Eliminarlo - ha scritto Samuel Alito - "non sarebbe neutrale e non favorirebbe gli ideali di rispetto e tolleranza contenuti nel Primo emendamento". Il giudice Clarence Thomas, il più conservatore della Corte, ha osservato che "la croce di Bladensburg sarebbe costituzionale anche se avesse solo un significato religioso. Manifestazioni e discorsi religiosi non devono essere limitati a quelli considerati non settari. Insistere diversamente è incoerente con la storia e le tradizioni di questa nazione". Una decisione che va oltre anche le tesi perorate dai difensori del monumento del Maryland, che davanti alla Corte federale della Virginia avevano preferito mettere in risalto la valenza culturale del simbolo, eretto a imperitura memoria dei caduti in Europa e Africa durante il Primo conflitto mondiale. Un segno di umana pietà, insomma, come si vede nelle centinaia di cimiteri al di qua e al di là dell'Atlantico. Il giudice Alito ha sottolineato, tra le altre cose, che c'è una bella differenza tra il giudicare sulla rimozione di monumenti o simboli religiosi da tempo presenti in luoghi pubblici e lo stabilire se una costruzione - di qualunque fattura essa sia - possa essere autorizzata. La storia non si può discutere e nemmeno le tradizioni di un paese. Su questo hanno concordato anche i due giudici liberal più moderati. Di diversa opinione Ruth Bader Ginsburg, a giudizio della quale "mantenendo la croce della pace su una strada pubblica, la Corte pone il cristianesimo su una posizione privilegiata rispetto alle altre fedi, e così la religione sulla non-religione". Posizione minoritaria, come s'è visto: "Sarebbe inopportuno che i tribunali ordinassero la rimozione di monumenti storici sulla base di supposizioni", si legge ancora nella decisione della Corte, senza tenere conto delle ragioni che avevano portato alle loro edificazioni in epoche remote. I ricorrenti però non si arrendono e promettono nuove battaglie per affermare la separazione tra stato e chiesa. Farlo ora, considerato il 7-2 della più alta magistratura americana, appare un'impresa ardua.

IL GAZZETTINO Pag 1 Una vittoria (meritata) e tre lezioni di Ario Gervasutti

Dov'è la vittoria? È qui, tra Cortina e Milano, tra il Veneto e la Lombardia che ospiteranno le Olimpiadi invernali 2026. I fratelli d'Italia hanno convinto il resto del mondo, o almeno quella parte che non si è fatta condizionare dai giochi politici e si è basata esclusivamente sui contenuti del progetto. E il progetto italiano - ora possiamo dirlo senza timore di passare per faziosi - era decisamente superiore a quello di Stoccolma. Questa vittoria porta con sé una serie di lezioni. La prima: l'Italia ha dato una inaspettata prova di unità. Da quando si è liberata dal freno del partito del no a tutto, la candidatura di Milano-Cortina ha fatto emergere la parte migliore di questo Paese, quella che non ragiona in base a logiche di fazione, di partito, di ideologia. Quella che si mette attorno a un tavolo e riesce a tradurre le idee in fatti, e a sfruttare le incomparabili risorse ambientali, culturali, industriali e umane di cui questo Paese è dotato. Abbiamo dato un esempio di compattezza di cui pochi, probabilmente, ci credevano capaci. E questo ha sorpreso positivamente anche chi ultimamente si era abituato a considerarci un Paese capace solo di parlare male di se stesso, soprattutto sugli scenari internazionali. Un'unità che ha consentito all'Italia di superare anche l'isolamento politico che viene imputato all'attuale governo. Ma qui c'è una seconda lezione: i fatti contano più delle parole. Il progetto olimpico realizzato da Veneto e Lombardia è dettagliato, ricco di numeri e di opere realizzate o già in fase di realizzazione. Quando l'Italia si esprime così, ha ancora credibilità e una larga parte del mondo ci dà fiducia. Dovremmo ricordarcelo sempre, non solo quando ci giochiamo una candidatura olimpica. Dovremmo essere meno autolesionisti e più razionali, meno approssimativi e più concreti. Scontiamo un pregiudizio in voga soprattutto nei Paesi del Nord Europa, ma nel quale spesso cadiamo anche noi stessi: stavolta lo abbiamo smentito. Dovremmo farlo in ogni partita che andiamo a giocare. La terza lezione, è che i Giochi - quelli veri - cominciano adesso. Il 2026 è dietro l'angolo e non ci è consentito di perdere nemmeno un minuto. Già oggi, smaltita l'euforia dei festeggiamenti, la strada della concretezza tracciata dai sindaci di Milano e Cortina, dai governatori del Veneto e della Lombardia, dal presidente del Coni e dalla sua squadra, e in ultimo anche dal governo italiano, deve proseguire senza indugi. Si presenta un'occasione unica per fare un salto di qualità anche culturale, nella consapevolezza delle potenzialità italiane e nella costruzione di un legame paritario tra le due aree più produttive del Paese. La Lombardia ha una metropoli, Milano, che negli ultimi vent'anni è diventata una vera città con caratteristiche europee; il Veneto è una metropoli diffusa che ha capacità e risorse - umane ed economiche - per agire allo stesso livello. Se saranno messe nelle condizioni di esprimere tutte le loro potenzialità, potranno trainare l'Italia intera verso il successo che merita. Le Olimpiadi devono diventare un'occasione per dimostrare quel che siamo capaci di fare. Per essere concreti, per portare a termine i lavori necessari subito, senza corse dell'ultimo minuto; per non sprecare tempo e risorse; per dare una dimostrazione di onestà e correttezza nella spesa dei fondi che saranno stanziati. Il mondo ci guarda, è un'occasione d'oro. Oro olimpico.

Pagg 2 – 3 I Giochi sono fatti di Alda Vanzan Milano e Cortina conquistano 13 voti più di Stoccolma e ottengono le Olimpiadi 2026. Il rigore “nordico” dell’Italia. Zaia: “Il dossier è stata la nostra forza”

Losanna. Ore 18, la piccola Olivia sale sul palco del Swiss Tech Convention Centre. Tra le mani tiene una busta con i cinque cerchi. È lì dentro che c'è il verdetto. Nel salone dove siedono i grandi elettori del Comitato Olimpico Internazionale, la principessa Vittoria con la delegazione svedese, tutti gli italiani con il sottosegretario Giorgetti e i governatori Fontana e Zaia e i sindaci Sala e Ghedina, cala il silenzio. Il presidente del Cio, Bach, prende tempo e ringrazia la piccola hostess. In sala fremono. L'attesa pare un'agonia. Finché, finalmente, mister Bach apre la busta. Estrae il cartoncino. Lo guarda. Poi lo volta. Milano-Cortina. È un boato. Mentre le svedesi scoppiano in lacrime, il presidente del Coni Giovanni Malagò prende in braccio Diana Bianchedi, la coordinatrice del dossier italiano che la sera della vigilia, per la cena di gala, aveva esibito un tubino nero mozzafiato («Siamo alla guerra, no?»). Beppe Sala, solitamente compassato, esibisce un'esultanza da curva. È lui che intona: I-ta-lia, I-ta-lia. Gianpietro Ghedina ancora non lo sa, ma nella sua Cortina le campane stanno suonando a festa. Zaia e Fontana si abbracciano, mentre le telecamere inquadrano il volto della principessa ereditaria. Le manovre sulle teste coronate, tutti i tentativi della delegazione di Stoccolma-Aare di prendersi i voti dell'Italia sono stati vani. Milano-Cortina ha ottenuto 47 voti, cinque in più del quorum. Uno solo degli 82 membri del Cio si è astenuto. I rimanenti 34 voti sono andati a Stoccolma-Aare. I DUETTI - Sarà Thomas Bach a spiegare cos'è stato determinante per il verdetto: il consenso popolare. San Marco Balich, lo stratega delle cerimonie olimpiche (Torino 2006, Rio 2016, adesso anche Tokyo 2020), ci aveva azzeccato: «We are ready, 83% support national». Siamo pronti, l'83 per cento degli italiani vuole le Olimpiadi. Così è terminato il video emozionale presentato ieri pomeriggio al Cio. Un filmato con i simboli dell'Italia, le Dolomiti, la moda con Giorgio Armani, la cucina con Carlo Cracco, l'arte con il Cenacolo vinciano. E poi gli scorci di Venezia, Milano, la Valtellina, la Val di Fiemme, ovviamente Cortina. E le facce degli atleti, i muscoli in primo piano allo start delle gare. Un filmato di immagini e parole. In rima. Come fosse una poesia. Ma anche i politici si son messi di impegno. Mentre Stoccolma-Aare ha proposto la classica carrellata di discorsi, Milano-Cortina ha messo in scena i duetti. Giovanni Malagò con il presidente del comitato paralimpico Luca Pancalli («Atleti olimpici e paralimpici devono essere al cuore del progetto»). Poi Beppe Sala («Abbiamo preparato Giochi sostenibili sul piano ambientale») con Luca Zaia («Sarà un enorme privilegio poter presentare al mondo un patrimonio dell'Unesco come le Dolomiti. I Giochi saranno una grande occasione che darà opportunità al nostro territorio»). E a chiudere la passerella dei politici il premier Giuseppe Conte (cui il poliglotta Malagò, nella presentazione iniziale pronunciata in spagnolo, ha cambiato una vocale facendolo diventare Conti). La partecipazione del presidente del Consiglio dei ministri a Losanna dura una manciata di ore, giusto il tempo di intervenire alla presentazione della candidatura. «Dreaming together - dice Conte ai membri del Cio che si apprestano a votare - è il motto della candidatura di Milano- Cortina e, onestamente, non riesco ad immaginarne uno più appropriato. Questo sogno olimpico non è solo il sogno di due città, è il sogno di un intero Paese, il nostro Paese». Il premier parla per quattro minuti. Il discorso originario ne durava cinque. Troppi. La notte della vigilia gli hanno spiegato che avrebbe dovuto tagliare un po': la sintesi è sempre apprezzata. E così è stato. Poi il videomessaggio del Capo dello Stato: «In un teatro alpino di straordinaria bellezza, l'Italia, con la sua antica tradizione di ospitalità, è pronta ad accogliervi», ha detto Sergio Mattarella. E il microfono è passato alle atlete, Sofia Goggia in duetto con Michela Moioli, poi la testimonial Arianna Fontana, infine la giovane Elisa Confortola: «Sarà meraviglioso». Tutto in inglese, leggendo dal gobbo. Ma guardando in faccia i grandi elettori. I CONTEGGI - «Qualche voto in più lo abbiamo guadagnato», diranno poi Sofia Goggia, Michela Moioli e Arianna Fontana, le ragazze d'oro dei Giochi di Pyeongchang. Forse è stato davvero così, perché poche ore prima del verdetto il timore era di una sostanziale parità. C'era l'incognita dei reali, pressati dalla principessa Vittoria: la Spagna avrebbe potuto votare per Stoccolma-Aare? Nei corridoi per tutta la giornata si sussurrava delle manovre diplomatiche. Sulla Cina si sarebbe mosso l'entourage dell'Inter del giovanissimo presidente Steven Zhang. Sull'Africa si vociferava di ambienti dell'Eni a suo tempo presieduto da Paolo Scaroni. Mentre campioni delle racchette avrebbero tentato di convincere Alberto di Monaco. Quanto alla Russia, quella veniva data in partenza a favore della candidatura italiana. Non così per la Germania, per buona parte dei Paesi nordici e del continente australiano. Ma erano conteggi dettati più che altro dalla paura di non farcrela. Forse aveva ragione Franco Carraro, il membro italiano del Cio di lungo corso: «Secondo me finita la colazione nulla cambia più niente, i votanti hanno deciso e manterranno la loro posizione». In 47 hanno detto sì a Milano-Cortina. Uno solo si è astenuto. Chissà chi sarà stato.

Losanna. Quarantasette voti a trentaquattro non rappresentano una vittoria. Sono una sonora sberla a chi non ha rispettato i tempi fissati dal Cio nella presentazione delle garanzie, arrivando addirittura a sfidare i membri del Comitato olimpico mettendo in dubbio la volontà di applicare sul serio le nuove regole dell'Agenda 2020. Ma, soprattutto, è la risposta a chi crede che il parere dei cittadini non conti: a Stoccolma- Aare lo scorso marzo, quando la commissione valutatrice presieduta dall'ex rugbista Morariu andò in sopralluogo, un abitante su due era contrario ai Giochi invernali. Giusto per fare un confronto: il gradimento in Italia era all'83 per cento. E il Cio, nella sua votazione ha accontentato gli uni e gli altri: le Olimpiadi del 2026 si faranno lì dove davvero le vogliono. A Milano-Cortina. C'è più di una ragione nella sconfitta svedese rimediata a Losanna, dove a guidare la delegazione si è presentata nientemeno che la principessa Vittoria. La cui presenza non è stata di circostanza: la vigilia del verdetto, dopo la cena di gala, l'erede al trono non ha lesinato corteggiamenti alle teste coronate che fanno parte del Comitato olimpico. Tant'è che tra gli italiani qualche preoccupazione è montata. RUOLI INVERTITI - I caciaroni solitamente sono gli italiani. Simpatici, espansivi, ma con la fama di essere talvolta un po' cialtroni. Mentre la narrazione degli svedesi è di essere precisi. Professionali. Corretti. Ecco, stavolta, per i Giochi del 2026 i ruoli si sono invertiti. Milano-Cortina ha presentato un dossier solido (giudizio di Morariu dopo la visita dello scorso aprile). Ha dato nei tempi prestabiliti dal Cio le garanzie finanziarie. Sì, un po' ha faticato perché inizialmente il M5s non voleva e infatti la prima votazione in Consiglio dei ministri fu una bocciatura. Ma poi tutti hanno capito che i Giochi rappresentano un'opportunità per il Paese. Tutti hanno inteso che bisognava fare gioco di squadra. Senza parlare male degli altri. La Svezia ha fatto tutto quello che non doveva fare. Ha presentato un dossier intitolato Stoccolma-Aare e poi si è scoperto che Stoccolma manco firmava il contratto di città ospitante, limitandosi ad affittare spazi e impianti. A due giorni dalla votazione, il Cio è tornato a chiedere chiarimenti sulle garanzie. Intanto Gunilla Linberg aveva mandato una lettera ai colleghi del Cio non lesinando commenti poco lusinghieri nei confronti dell'Italia. Madame Linberg poi ha messo la classica ciliegina sulla torta, stavolta indigestissima, quando, al termine ieri pomeriggio della presentazione della candidatura svedese, si è rivolta ai grandi elettori provocandoli: «Il Cio è pronto per le nuove regole o sono solo chiacchiere?». Della serie: conta davvero l'Agenda 2020 di cui si vantava Stoccolma-Aare o vi piacciono i bei paesaggi delle Dolomiti con la moda di Milano e la cucina italiana? L'UNICO TIMORE - La Svezia aveva un solo punto di vantaggio sull'Italia. E non è stato certo quando il sindaco di Stoccolma, la biondissima Anna Konig Jerlmyr, si è messa a cantare davanti ai membri del Cio Dancing Queen' degli Abba. Il vero punto di forza della Svezia era di aver rimediato già otto bocciature dal Cio, di cui sette per i Giochi invernali. «È come quando - aveva sintetizzato Franco Carraro - un professore boccia un allievo per otto volte di fila e alla nona, pur sapendo che dovrebbe rimandarlo un'altra volta, lo promuove». Sottinteso: perché non ne può più di trovarselo davanti. Eppure è andata così: Svezia bocciata per la nona volta. Viva l'Italia, così ha deciso il Cio.

Presidente del Veneto, Luca Zaia, qual è stato il punto di forza della candidatura di Milano-Cortina? «Il dossier. Un dossier che il presidente della commissione valutatrice del Cio, Morariu, ha sostanzialmente sublimato. E poi siamo stati vincenti anche nella presentazione». Alla presentazione i politici sono parsi in gran forma: lei, ma anche Sala e Giorgetti, tutti grintosi. Ci credevate? «Sono le Olimpiadi, eh. Parlo per me, ma io l'ho fatto con impegno, perché qui rappresenti non solo la tua comunità, ma una nazione intera, quindi devi essere assolutamente preparato». Secondo lei cos'è che ha colpito i membri del Cio? «Intanto il fatto che è stata una presentazione della candidatura molto friendly, puntuale, non noiosa, non stucchevole. E soprattutto rispettosa dell'autonomia dei membri del Cio. Noi non abbiamo fatto richiami alla responsabilità del Comitato internazionale olimpico o quant'altro. Noi ci siamo presentati e senza fare allusioni se avremo le Olimpiadi, se ci darete i Giochi. Ho visto invece che Stoccolma ha tirato le orecchie al Cio». La svedese Gunilla Lindberg ha lanciato questa provocazione: «Il Cio è pronto per le nuove regole o sono solo chiacchiere?». Della serie: conta l'Agenda 2020 o i bei paesaggi? Lei cosa pensa al riguardo? «Noi non l'avremmo mai fatto. Tant'è che non l'abbiamo fatto». Nella presentazione avete coinvolto le atlete Sofia Goggia, Michela Moioli, Elisa Confortola, Arianna Fontana. «Sono state eccezionali. La scelta di renderle protagoniste della presentazione l'abbiamo condivisa da subito visto e considerato che sono plurimedagliate. Ci hanno fatto fare bella figura». Quale adesso sarà il primo atto? «In realtà noi stiamo già lavorando. Avuta l'aggiudicazione abbiamo firmato subito il contratto. E ricordo che noi, come Regione, assieme alla Lombardia, abbiamo messo le garanzie». Che società creerete per l'organizzazione dei Giochi? «Sulla governance dobbiamo ancora ragionare, comunque ci sarà un ente organizzatore - il cosiddetto Ocog - e una società veicolo per la realizzazione». Alla vigilia della sessione di Losanna da Torino sono arrivati segnali di apertura: può essere recuperata? «Oggi il dossier è uno solo ed è quello che conoscete. È stata una avventura travagliata: è partita con Milano, poi si è fatta avanti Torino, poi noi siamo entrati a gamba tesa con Cortina d'Ampezzo e a quel punto sembrava che fosse a tre, dopodiché Torino non voleva più. Oggi c'è Milano-Cortina, io non sono assolutamente disponibile a cambiare il nome». E se fosse solo una estensione degli impianti coinvolgendo il Piemonte? «Oggi direi proprio di no. Bisogna essere seri, noi abbiamo presi impegni con i territori che sono ad esempio quelli delle 49 medaglie per noi, il bob, eccetera». Due cerimonie di apertura? Adesso ne farete una anche a Cortina per agevolare gli atleti l'indomani nelle gare? «Ma è già sdoppiata, c'è la cerimonia a Milano e quella in parallelo a Cortina, sotto il trampolino. È una idea, è tutto da affinare. Così come bisognerà definire bene la cerimonia di chiusura all'Arena di Verona che sarà in mondovisione, uno spettacolo unico». Un rimpianto? «La perdita di tempo iniziale a discutere in tre per essere poi in due, per trovarsi in uno e tornare a due».

Pag 23 Costringiamo i progressisti a unirsi per un governo ombra di Stefano Tigani

I progressisti sono una minoranza nel Paese? O la loro rappresentanza è minoritaria perché è divisa? Non intendo dal punto di vista organizzativo, la pluralità di partiti e movimenti è una ricchezza. Parlo di divisione anzi, conflitto, sulle proposte, di non riconoscimento reciproco delle differenze, di non consapevolezza della parzialità di ciascuno. Non sono le permanenti litigiosità e lotte intra e inter partitiche le cause delle sconfitte, della dispersione del potenziale di attrazione e consenso? Tra i progressisti (centrosinistra è riduttivo, il campo è quello più largo, di un nuovo umanesimo politico) c'è bisogno di meno discussioni tra sordi e di maggiori azioni condivise. Se volete che gli uomini si capiscano fategli costruire qualcosa insieme. Le divisioni non sono un destino ineluttabile. Negli anni 50, ci racconta Lakoff, le svariate tipologie di conservatori USA si odiavano profondamente. Quelli legati al mondo finanziario non sopportavano quelli sociali, che a loro volta non reggevano i libertari che ce l'avevano con quelli religiosi. Conservatore era quasi una parolaccia. Come ribaltarono i repubblicani l'egemonia progressista? Investirono in centri di ricerca, in formazione di quadri e sostenitori, crearono propri media. E si costrinsero a stare uniti. Per vent'anni ogni mercoledì i leader conservatori delle diverse correnti si incontravano allo scopo di comprendere le divergenze, a superarle mediando, e, quando non era possibile, a cedere, di volta in volta, su uno specifico punto. Perché non fare la stessa cosa nel campo largo di sensibilità progressiste composto da partiti, movimenti, associazioni? Cominciamo nel complicato ma strategico Veneto a costringerci ad incontrarci e a venirne fuori con accordi, passo dopo passo in avanti? Nel Pd Veneto c'è la volontà di attrezzarsi per la futura campagna elettorale. Si parla di cabina di regia. Bene. Ma si vada oltre il Pd, verso l'inclusione, l'ascolto, l'allargamento. Non sia un organismo di pura composizione di equilibri tra correnti del Pd. Lancio una proposta. Costringiamo tutti i soggetti a incontrarsi, ogni settimana, ad un giorno fisso. Come minimo per superare divergenze, mediare, costruire un programma condiviso. Ma soprattutto, fatto salvo il focus sulla imminente ormai campagna elettorale, per lavorare sul lungo periodo. Facciamo in modo che donne e uomini progressisti costruiscano delle cose insieme. A partire dall'investimento in ricerca e studio, in formazione permanente e di qualità per quadri e sostenitori, in comunicazione intesa come capacità di entrare in relazione, di produrre esperienze positive, con metodi aggiornati per fare porta a porta, con strumenti di autoproduzione di informazione. A partire dall'elaborazione non solo di contenuti ma di campagne d'azione, radicate nelle comunità, con obiettivi specifici, con la capacità di far accadere il cambiamento, campagne sulle quali caratterizzare in positivo l'opposizione da fare alla nuova Lega nazionalista e assistenzialista di Salvini, ormai lontana dai mondi dell'impresa e del lavoro e dalla cultura dell'autonomia come assunzione di responsabilità nell'uso delle risorse. La proposta di governo ombra di Carlo Calenda non ha riscosso successo nel Pd. Esperienze negative precedenti e un non chiaro scopo sociale possono essere obiezioni fondate. Ma se vedessimo questo insieme di competenze impegnato non solo a fare le pulci al Governo in carica ma a governare dall'esterno, la prospettiva si farebbe più interessante. Sperimentiamo un governo ombra del Veneto, con personalità del variegato arcipelago progressista, con esperienze, competenze e capacità di rappresentanza comprovate, impegnato a costruire azioni di governo dall'opposizione. Senza perdersi in vasti programmi, ma partendo da proposte mirate, da interventi concreti. Vere e proprie campagne d'azione, su questioni regionali in grado di mobilitare popolo e non solo i militanti, e con risultati precisi da portare a casa.

LA NUOVA Pag 2 Scelte le montagne più belle del mondo, giusto così di Ferdinando Camon

Ieri si è deciso un grande evento: se le Olimpiadi invernali del 2026 si svolgeranno in Italia o in Svezia. Ha vinto l'Italia. Grande vittoria, al termine di una grande battaglia, incerta e tesa fino all'ultimo. Noi abbiamo proposto Milano-Cortina, la Svezia proponeva Stoccolma-Aare. Per tutta la mattinata e il pomeriggio le previsioni si contraddicevano. Eppure le differenze sono enormi. Assegnazione all'Italia vuol dire San Siro come sede d'apertura, assegnazione alla Svezia vuol dire la Friends Arena di Solna. L'Italia vuol dire la Piazza Duomo di Milano per la consegna delle medaglie, la Svezia vuol dire il Castello di Stoccolma. Che ci sia stata incertezza fino all'ultimo è un buon segno per lo sport? È un indice di libertà di giudizio, d'indipendenza? Ma no, è un segnale ambiguo. Indica idee poco chiare, nessuna visione dell'interesse dello sport e degli spettatori. L'assegnazione non dovrebbe avvenire così, in maniera imprevedibile, con accordi sottobanco. L'assegnazione delle Olimpiadi porta notorietà, clienti, turismo, soldi, sia direttamente sia nell'indotto. I soldi vegono calcolati in tre miliardi di euro. Una bella torta. Per questo in Svezia s'è mossa la principessa ereditaria, e in Italia il presidente della repubblica e il capo del governo. Il paese che ha vinto oggi è più ricco di ieri. Quel paese siamo noi. Come dovrebbe avvenire l'assegnazione dell'Olimpiade? Dovrebbe esistere una tabella dei requisiti, con i punteggi da assegnare voce per voce, palesemente, all'attitudine a svolgere bene i giochi, alla sicurezza per i partecipanti, la qualità delle piste e degli stadi, la vicinanza delle sedi alberghiere, la completezza delle strutture, i servizi medici e ospedalieri. Un punteggio per ogni voce, e si saprebbe in partenza chi vince e chi perde. Cortina è una sede meravigliosa, gli spettatori che vengono a vederla si pentiranno di non averla vista prima, ma è preoccupantemente lontana dall'altra sede, che è Milano. Milano è una città-mondo, la Svezia non ha l'uguale. Girando per Stoccolma, dove perfino i cani nei metrò si accucciano e stanno muti, ho detto a un amico: "Senti che silenzio civile!", ma l'amico mi ha risposto: "Io sento l'urlo di Munch". È vero, il silenzio dei paesi nordici è un urlo muto. Atleti e spettatori, durante e dopo le gare, ameranno l'esultanza o l'urlo muto? Se l'assegnazione avvenuta fosse una risposta a questa domanda, sarebbe una buona assegnazione. Ma non lo è. È il risultato di una combine di colloqui segreti, amicizie interessate, scambi di promesse fra delegati. Ripeto: intrallazzi. Abbiamo fama di essere abilissimi. Ma quelli che ci attribuiscono questa fama sono più abili di noi. E ci sono votanti, il 50%, che in tutta la vita non hanno mai visto una gara di sci. La Svezia è il paese dove questi sport sono nati. S'è candidata otto volte e non ha mai vinto. Nessuno scandalo se vinceva. Ma chi non conosce Cortina non conosce una città fusa con le montagne innevate più belle del mondo. Han scelto Cortina. Non se ne pentiranno mai.

Pag 12 La vera partita che si gioca sulla scacchiera europea di Renzo Guolo

La domanda, quella che conta nel tempo dell'infinita propaganda, delle insopportabili liti tra Dibba & Gigino, delle surreali discussioni su minibot e flat tax con soldi che non ci sono, è una sola: l'Italia come pensa di scongiurare la procedura d'infrazione europea? Con che scelte di bilancio e, soprattutto, attraverso quali alleanze internazionali? A pochi giorni da una decisione che potrebbe mettere il paese all'angolo, un fragoroso silenzio avvolge l'interrogativo. Eppure, mai come nell'ultimo vertice europeo sono divenuti evidenti l'isolamento dell'Italia e la volontà dei partner europei, spinti dall'esigenza di garantire la stabilità monetaria e mettere all'angolo sovranisti e fautori mascherati dell'italexit nostrana, di andare avanti. Di fronte a questa prospettiva, il governo italiano, o quel che ne resta dopo la balcanizzazione della maggioranza seguita alle europee, si alambicca intorno ai possibili scenari: cercare di sterilizzare l'offensiva di Bruxelles, minacciando il veto sulle nomine Ue e barattandolo contro un passo indietro sulla procedura, strategia peraltro non semplice perché presuppone alleanze che non ci sono più; rompere tutto attraverso una forzatura di politica interna, varando una manovra estiva con la flat tax in deficit, per andare al voto nei primi giorni d'autunno, dopo una durissima campagna elettorale contro le "inique sanzioni" e l'Europa nelle vesti della nuova perfida Albione. Quale strada imboccherà il governo e, soprattutto, in che misura gli italiani sono disposti a seguirlo nell'azzardo? Ah, saperlo, saperlo! avrebbe detto l'immenso Pazzaglia. Quel che è certo è che per i Cinquestelle, ormai privi di qualsiasi prospettiva che non sia far passà a'nuttata, a costo di una rinnovata subalternità verso il fagocitante alleato mirata a scongiurare un voto immediato che sancirebbe la quasi certa disintegrazione del movimento, l'imperativo è andare oltre l'estate. Guadagnare tempo. Evitando di irritare lo straripante partner di governo: con buona pace di Conte che vorrebbe chiarezza da spendere sul tavolo europeo. A costo di inseguirlo sul suo stesso terreno. Perché il pallino è ormai in mano alla Lega. O meglio, al suo onnipotente leader che annuncia manovre economiche e convoca le parti sociali al ministero dell'Interno, sostituendosi contemporaneamente al premier, al ministro dell'Economia, a quello dello Sviluppo economico, e si mostra, senza veli, per quello che è: il dominus di una maggioranza che ha cambiato segno cromatico e leadership. Di fronte a un tornante che potrebbe rivelarsi assai ripido per il Paese, sarebbe essenziale chiarire ai cittadini la natura della posta in gioco. Per una volta lo slogan "prima gli italiani" avrebbe un senso inclusivo. Perché gli italiani dovrebbero essere i primi a decidere se intendono essere interpreti di una "politica del destino", quella della rottura con l'Ue, che li avvia verso il baratro.

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