La scheda filmica e didattica è a cura di Giancarlo Visitilli. Ogni diritto è riservato.

SALVATORE GIULIANO (Italia, 1961) Sceneggiatura: , Suso Cecchi D'Amico, Enzo Provenzale, Franco Solinas Regia: Francesco Rosi Cast: Frank Wolff, Salvo Randone, Frederico Zardi, Pietro Cammarata, Nando Cicero Musica: Piero Piccioni Genere: Politico, Drammatico, Poliziesco Durata: 107’

Trama: Negli anni a cavallo fra i Quaranta e Cinquanta, subito dopo la liberazione della Sicilia, Salvatore Giuliano, già fuorilegge per aver ucciso un carabiniere, costituisce una banda ed entra a far parte dell'esercito separatista, sostenendo conflitti a fuoco con soldati e carabinieri. Quando questo esercito viene sciolto, Giuliano rimane isolato con la sua banda ed è costretto a riprendere la sua attività di fuorilegge. Uno dei fatti più gravi di questa attività è costituito dall’episodio di Portella della Ginestra (1947), nel quale numerosi uomini, donne e bambini furono uccisi dalla banda. A questo punto viene decisa dalle autorità una guerra senza quartiere contro Giuliano. Uno dopo l'altro cedono i capisaldi della sua difesa e la mattina del 5 luglio 1950 il suo corpo inanimato viene ritrovato nel cortile di una casa di Castel Vetrano. Ma la storia non è conclusa. Gaspare Pisciotta viene avvelenato in carcere e altri mafiosi, che hanno compiuto con lui i misfatti, sono colpiti da mani misteriose.

DENTRO IL FILM

La storia a colori di uno storico speciale Francesco Rosi, uno dei più grandi cineasti italiani, di fama mondiale, amante ed eccellente narratore della storia, prende come pretesto la figura del bandito Giuliano (1922-50), in realtà, per costruire, come affermava il titolo di lavorazione, “un film sulla Sicilia 1943-50”. Infatti, il film ha al centro del suo racconto i rapporti tra mafia, banditismo, potere politico e potere economico. Il film si apre con un’inquadratura* sul cadavere del bandito, nel cortile di Castelvetrano (luglio 1950), per poi spostarsi, avanti e indietro nel tempo, mediante l’utilizzo continuo di flash-back*. Per mezzo del linguaggio proprio del cinema, Rosi ‘scrive’, coadiuvandosi di uno straordinario direttore della fotografia*, Gianni Di Venanzo, che utilizza tre diversi toni di bianconero: quello lirico- tragico, con forti contrasti chiaroscurali per le fasi rievocative, con la maggior parte di inquadrature in campo lungo* e/o lunghissimo*; quello dal tono sovresposto da servizio fotografico per la morte di Giuliano; e un colore, a grana spoglia e grigio, tipico della televisione in bianco e nero, per il processo di Viterbo. Il risultato è quello della cronaca giornalistica: una cronaca che viene innalzata a storia e si trasforma in tragedia sociale. Rosi indaga sulla verità per indizi. E’ come se lo spettatore avvertisse “questa esigenza di fare del grande schermo lo spazio di uno smascheramento e approfondimento di verità politicamente rilevanti, di un contraddittorio ineludibile con la realtà”. Questa necessità, negli anni Cinquanta, esattamente nel 1952, grazie all’iniziativa degli allora molto giovani registi, Francesco Rosi ed Elio Petri, ha dato origine al “cinema politico”. Bisogna sempre tener conto che questo di Rosi è un film, che, per quanto realistico, si tratta di un racconto che manipola, indaga e interpreta la realtà, con dovizia di ricostruzione, quasi maniacale, se si pensa a una delle prime battute del film, in cui, dinanzi al corpo di Salvatore Giuliano, supino al suolo, la descrizione rituale fatta dal funzionario (“L’anno 1950 il giorno 5 del mese di luglio, in Castelvetrano in via Fra Serafino, esiste un cadavere di sesso maschile, dall’apparente età di anni trenta, che giace in posizione prona con la gamba sinistra leggermente piegata in modo da formare quasi un angolo retto. Il braccio destro è disteso con pugno chiuso, mentre il sinistro è piegato sotto il torace. Il viso poggia a terra con la guancia sinistra…”) è puntigliosamente corretta dal procuratore, che aggiunge: “Direi sulla guancia sinistra”. Basterà poco, delle importanti inquadrature*, in campo lungo dall’alto*, a quelle in campo medio* e ad altezza d’uomo, per comprendere come, in realtà, siamo di fronte a un possibile falso. Mentre sono in corso i rilievi tecnici sul cadavere, attraverso una doppia carrellata* della macchina da presa (mdp), è possibile notare due movimenti, in contrasto fra loro, che hanno il senso di far avvertire quel “sentimento del contrario” che porta al sospetto riguardo alla verità: dal dettaglio del braccio destro di Giuliano alle sue gambe, e l’altra, in senso orario e opposto, dalle gambe al braccio. Movimenti che insinuano il dubbio. Insieme a quello che proviene dalle immagini delle foto, che poco prima si vedono, in cui è evidente che “il sangue che fuoruscì dalle ferite, anziché scorrere verso il punto più basso del corpo supino, saliva verso l’alto”. Tutti dubbi che il regista, da gran narratore, insinua nello spettatore: Salvatore Giuliano è sicuramente morto, ma non secondo la ricostruzione minuziosamente (ri)costruita dalla polizia giudiziaria, dai fotografi e dai cinegiornali. Non sarà un caso se, la scena finale, con la la scarica di lupara, in realtà, è la ‘fine di un inizio’: “potrebbe essere benissimo la scena iniziale, e viene posta alla fine proprio per precise ragioni polemiche, per mostrare appunto che la storia non è finita, che tutto ricomincia come prima”. Si tratta di una precisa volontà del regista, naturalmente, come proposizione di “una visione polemica dei rapporti temporali”.

La storia siamo noi Lo stile registico di Francesco Rosi è rigorosissimo, perché mette a frutto il meglio della lezione del cinema neorealista, soprattutto quello di , ravvisabile in molte straordinarie immagini del film, specie nelle sequenze* di forte impatto emotivo: basti citare le scene di massa nel villaggio, con inquadrature* abitate da teste, nuche, volti, cappelli, o le altre che mostrano donne avvolte in scialli neri e in corsa contro la polizia schierata. Ma anche quelle del combattimento fra banditi e carabinieri nelle montagne, insieme al fortissimo impatto di una madre che piange la morte , dinanzi al corpo di suo figlio, inquadrato come fosse Il Cristo del Mantegna, con una mdp che si addossa e quasi entra nella carne dolorante di una madre e nel corpo di quella di un figlio morto. Salvatore Giuliano può essere suddiviso in due parti: una prima, più serrata, ed un’altra, quella che segue la sezione processuale, inseparabile dall’altra, perché la completa e la chiarisce, offrendo informazioni preziose sulla strage di Portella della Ginestra. Noterai come la Sicilia descritta da Francesco Rosi, in bianco e nero, è arida, pietrosa e desolata. Oggi potremmo dire, senz’altro, ch’è la miglior metafora per la descrizione di un teatro a cielo aperto, in cui l’attesa é senza fine (sono tante le scene che mostrano gli abitanti che trascorrono il tempo in strada, oziando), al modo dell’eco del fischio fra le valli, che si traduce in una sorta di linguaggio ‘mafioso’, riverberatosi a lungo. Lo stesso lamento delle donne, a cui hanno portato via i loro uomini prima, e poi, ammazzato i figli, durante la strage di Portella della Ginestra, è un grido acuto, da animale ferito, che, a tratti, assomiglia a certe grida, senza voce, a cui la pittura, fra Trecento e Cinquecento, ha dato espressione, con donne/madonne addolorate e racchiuse nel loro dolore. Anche il corpo senza vita che apre il film non è solo quello di un uomo che si chiama Salvatore Giuliano, ma l’emblema su cui riversare tutte le ipotesi di un complotto e di un fallimento, dinanzi ai quali il nostro Paese non ha fatto ancora del tutto chiarezza, avendo come unica risposta, sempre e soltanto, il silenzio politico. Ci sono altre inquadrature* che assomigliano a veri e propri quadri, fotografie, immagini di una realtà su cui tanta narrativa, cinema e teatro, si son spesi, come quella in cui appaiono decine di uomini in attesa che qualcosa accada, al suono emblematico di uno strumento tipico delle gangs mafiose, lo scacciapensieri. La descrizione dell’omertà, onnipresente nelle immagini del film: dalle finestre che si chiudono continuamente, alla gente che scappa, ha paura, non tanto all’arrivo degli uomini di malaffare, con cui è abituata a convivere, ma che fugge dinanzi ai soldati, e quindi, dinanzi agli uomini di Legge. Il finale del film con scene di vita cittadina, gli spari e una data, 1960, quasi a ricordarci che la storia è l’oggi, il presente, quello che ancora accade nella nostra terra, ad un Paese nella morsa, da quegli anni ancora, dell’omertà, della corruzione, incancrenitesi e divenute vere piaghe sociali, come la mafia, la camorra e la ndrangheta.

Curiosità  Il film uscì con il divieto ai minori di 16 anni, tipico esempio di censura politica: si voleva vietare la storia;  Ha vinto, fra tanti premi: 3 Nastri d'argento: miglior film, fotografia e musica;  Pur non avvalendosi di attori famosi presso il grande pubblico (ma di grande talento, come Salvo Randone) il film, nel 1961, si classifica al 10° posto nella graduatoria degli incassi di quell'anno, a riprova del crescente interesse verso pellicole di argomento politico;  I resti mortali del bandito Salvatore Giuliano, prelevati nel 2010, a Montelepre (PA), dopo diverse indagini, hanno dato finalmente un esito: l’esame del dna ha confermato che appartengono proprio al bandito siciliano, ucciso a sangue freddo nel luglio del 1950, nella zona di Castelvetrano (TP). Si era ipotizzato che quelle ossa appartenessero a un sosia, assassinato, per permettere a Giuliano di fuggire all’estero.

Il regista Nato a Napoli il 15 novembre 1922, Francesco Rosi, durante la guerra, abbandona l'Università (gli mancano nove esami per la laurea in Giurisprudenza) e si afferma come illustratore di libri per l'infanzia. Contemporaneamente collabora a “Radio Napoli”, dove stringe amicizia con altri giovani (Raffaele La Capria, Giuseppe Patroni Griffi, Aldo Giuffrè) con cui si ritroverà spesso a lavorare nel corso della sua carriera. Nel 1946 si avvicina al mondo dello spettacolo come assistente di Ettore Giannini. In seguito è aiuto regista di per La terra trema (1948). Fino alla metà degli anni '50 alterna l'attività di aiuto regista, soggettista e sceneggiatore anche dopo aver personalmente diretto alcune sequenze di Camicie rosse (Goffredo Alessandrini,1952). L'esordio nella regia è del 1958 con La sfida, eccellente opera prima che già anticipa quelle tematiche che diventeranno caratteristiche peculiari del suo cinema. Presentato alla Mostra di Venezia dello stesso anno, il film ottiene il Premio speciale della Giuria e registra subito una buona accoglienza da parte del pubblico. Successo ripetuto l'anno dopo con I magliari (1959). Nel 1961 inaugura il genere dei film-inchiesta italiani con Salvatore Giuliano. Nel 1963 vince il Leone d'Oro con Le mani sulla città (1963). Dopo tante opere di impegno civile, strettamente collegate ai fatti della cronaca, nel 1967 si concede un volo verso orizzonti da favola. Per l'occasione dirige due grandi star come Sophia Loren e Omar Sharif, appena reduce dai trionfi de Il dottor Zivago (David Lean, 1965), anche se lui avrebbe preferito Mastroianni. Dopo questo 'intermezzo', negli anni '70 torna al cinema di sempre e con Gian Maria Volontè (Il caso Mattei, 1972), usa ancora la tecnica del documentario (Lucky Luciano, 1973) e realizza la versione cinematografica del romanzo autobiografico di Carlo Levi, Cristo si è fermato a Eboli (1978). Già all'epoca de Le mani sulla città ha in mente di portare sullo schermo un altro romanzo, La tregua. Dopo più di vent'anni, nel 1987, è pronto a realizzare questo progetto, che è ancora costretto a rimandare dopo il tragico suicidio di Primo Levi. Nello stesso anno adatta per il cinema Cronaca di una morte annunciata (di Gabriel Garcia Marquez) dove, in mezzo ad una schiera di illustri attori, dirige anche sua figlia Carolina. Dieci anni più tardi, grazie a Martin Scorsese che lo aiuta a trovare i finanziamenti, riesce finalmente a realizzare quel sogno (La tregua, 1996) che ha diviso però la critica e non ha ottenuto il successo di pubblico sperato dato anche l'alto costo dell'operazione. Forse per dimenticare quell'insuccesso Rosi nel 2003 è tornato alla regia teatrale con 'Napoli milionaria' di Eduardo De Filippo. Nel 2007 poi, in coincidenza con il suo ottantacinquesimo compleanno l'annuncio: “Per ora basta col cinema e mi dedico al teatro”. Tra il 2008 e il 2009 Francesco Rosi ottiene tanti riconoscimenti nel mondo e molti festival italiani e stranieri gli dedicano delle retrospettive. Tra i premi più importanti l'Orso d'oro alla carriera al festival di Berlino nel 2008, la Legione d'onore nel 2009 e il Leone alla carriera alla Mostra del cinema di Venezia nel 2012

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