Il carro di Tespi Testi e strumenti del teatro greco‑latino

Collana diretta da Francesco Carpanelli 7 International Advisory Board

Emily Allen‑Hornblower, Angela Andrisano, Tommaso Braccini, Lowell Edmunds, Giulio Guidorizzi, Enrico V. Maltese, Silvia Milanezi, Xavier Riu, Silvia Romani, Robert W. Wallace

I volumi pubblicati in questa collana sono sottoposti a un processo di peer review che ne attesta la validità scientifica Ἄνθρωπε, […] τί οὖν δεινόν, εἰ τῆς πόλεως ἀποπέμπει σε οὐ τύραννος οὐδὲ δικαστὴς ἄδικος, ἀλλ̓ἡ φύσις ἡ εἰσαγαγοῦσα, οἷον εἰ κωμῳδὸν ἀπολύοι τῆς σκηνῆς ὁ παραλαβὼν στρατηγός;—ἀλλ̓οὐκ εἶπον τὰ πέντε μέρη, ἀλλὰ τὰ τρία.—καλῶς εἶπας: ἐν μέντοι τῷ βίῳ τὰ τρία ὅλον τὸ δρᾶμά ἐστι. τὸ γὰρ τέλειον ἐκεῖνος ὁρίζει ὁ τότε μὲν τῆς συγκρίσεως. νῦν δὲ τῆς διαλύσεως αἴτιος: σὺ δὲ ἀναίτιος ἀμφοτέρων. ἄπιθι οὖν ἵλεως: καὶ γὰρ ὁ ἀπολύων ἵλεως.

Uomo, […] cosa c’è di terribile se dalla Città ti espelle non un tiranno o un giudice ingiusto ma la natura stessa? È come se il pretore allontanasse dalla scena un attore che che aveva assunto.«Ma io non ho recitato tutti e cinque gli atti, solo tre!» È giusto, ma nella vita tre atti sono un dramma intero. Colui che vi pone fine è lo stesso che vi pose principio un tempo. Tu non hai responsabilità in nessuno dei due eventi. Parti dunque sereno. Colui che ti congeda lo è.

Marco Aurelio, Pensieri 12, 36 The Forgotten Theatre

Mythology, Dramaturgy and Tradition of Greco‑Roman Fragmentary Drama

Proceedings of the First International Conference The Forgotten Theatre University of Turin 29th of November – 1st of December 2017

edited by Luca Austa

Edizioni dell’Orso Alessandria The Forgotten Theatre

Mitologia, drammaturgia e tradizione del teatro frammentario greco‑latino

Atti del I convegno internazionale The Forgotten Theatre Università degli Studi di Torino 29 novembre – 1 dicembre 2017

a cura di Luca Austa

Edizioni dell’Orso Alessandria Volume pubblicato con il contributo del Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università degli Studi di Torino.

© 2018 Copyright by Edizioni dell’Orso s.r.l. 15121 Alessandria, via Rattazzi 47 Tel. 0131.252349 ‑ Fax 0131.257567 E‑mail: [email protected] http: //www.ediorso.it

Redazione informatica e impaginazione: ARUN MALTESE (www.bibliobear.com) Grafica della copertina a cura di PAOLO FERRERO ([email protected])

È vietata la riproduzione, anche parziale, non autorizzata, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche a uso interno e didattico. L’illecito sarà penalmente perseguibile a norma dell’art. 171 della Legge n. 633 del 22.04.1941

ISSN 2611‑3570 ISBN 978‑88‑6274‑869‑8 Tabula gratulatoria

Milena Anfosso Sebastiano Bertolini Francesco Paolo Bianchi Francesco Carpanelli Laura Carrara Maria Elvira Consoli Lucia Degiovanni Mattia De Poli Marco Filippi Sonia Francisetti Brolin Maria Teresa Galli Edoardo Giglio Eleni Kornarou Enrico V. Maltese Dimitrios Mantzilas Daniela Milo Marcella Petrucci Valentina Zanusso

Prolegomena

ENRICO V. M ALTESE (DIRETTORE DEL DIPARTIMENTO STUDIUM, UNIVERSITÀ DI TORINO)

The Forgotten Theatre… Per la verità non è affatto un mondo dimentica‑ to, quello del teatro greco‑latino: non nella tradizione culturale moderna, che da secoli vi fa assiduo riferimento come a un momento di fondazio‑ ne; non certo nelle cerchie accademiche, che vi dedicano energie continue e studi rigogliosi; e nemmeno nella consuetudine del recupero spettacola‑ re, delle rivisitazioni e delle riprese, che oggi assicurano alla fruizione di quel mondo un’attenzione non episodica, e tutt’altro che effimera. Nemmeno può dirsi dimenticato, affatto, il teatro perduto nel naufra‑ gio delle letterature antiche, in primo luogo di quella greca: l’attenzione per i segmenti che nei secoli si sono conservati, sono stati recuperati e ancora riaffiorano supera quella che gli studiosi riservano ad altri generi frammentari. È infatti proprio la consapevolezza dell’eccezionalità di quell’esperienza, e del legame che con essa va riannodato e rafforzato, a non conoscere fasi di remissione: e i frammenti superstiti concorrono a mantenere forte il contatto, a esplorarne aspetti e situazioni, consolidan‑ do le conoscenze che derivano dalla lettura dei testi integri, ma spesso anche dilatandone e arricchendone i contorni. Lo sanno molto bene gli addetti ai lavori, meno esposti alla romantica suggestione del reperto, immuni alla mistica del frammento, e invece attrezzati di strumenti che li guidano alla ricognizione di un mondo – come dire? – saldamente non perduto.

Se il titolo del volume (anzi, del primo volume di una serie) ammicca garbatamente a un pubblico che apprezza le etichette brillanti, gli ingre‑ dienti restano però di sostanza chiara e genuina, e si inseriscono in una solida tradizione scientifica. Quella che attraverso i frammenti cerca la ricostruzione delle pièces e la loro collocazione (Carpanelli, Bianchi, Carrara, Fiorentini…), indaga il rapporto del frammento da citazione con il testo vettore (Milo…), ricostruisce e presenta la facies testuale del fram‑ mento (Bertolini...), verifica nei frammenti meccanismi e dinamiche di generi e autori (Kornarou, De Poli…), recupera temi tipici (Francisetti Brolin, Filippi…), estrae materiali per dirimere questioni filologiche (Anfosso) o riproporre dimensioni performative (Zanusso…), segue la feconda influenza dei “nuovi” testi frammentari sulla scena moderna (Beta…), compie altre operazioni di scavo, ridiscutendo prospettive tradi‑ zionali e impostandone di nuove (Petrucci, Galli, Mantzi las…). X Prolegomena

Grande attenzione al dato testuale e sensibilità per i risvolti della rap‑ presentazione sono ben presenti nel volume. Filologia e sguardo alla scena, appunto, renderanno questi contributi utili agli studi sul teatro antico.

Torino, settembre 2018 Prefazione

FRANCESCO CARPANELLI (DIRETTORE DEL CENTRO STUDI SUL TEATRO CLASSICO, UNIVERSITÀ DI TORINO)

Quando un sogno si avvera è sempre un bel momento della tua vita, un attimo di autentica felicità. Da molti anni avevo in mente di realizzare un Centro che si occupasse di teatro classico frammentario perché fin dagli anni del Liceo mi era sembrato insufficiente giudicare uno dei fenomeni letterari più importanti dell’Occidente con le poche opere che ci sono rimaste. Grazie all’aiuto del Direttore del Dipartimento Studium, Prof. Enrico Maltese, impareggiabile amico, collega e sostenitore di questo progetto, dei miei allievi Luca Austa e Giorgia Giaccardi e di tutti gli studiosi che hanno partecipato al primo Convegno The Forgotten Theatre (Torino, 29‑30 no ‑ vembre, 1 dicembre 2017), il Centro Studi sul Teatro Classico ha iniziato il suo percorso cui sono seguiti, nel 2018, i Seminari intitolati non a caso: Frammenti sulla scena e il primo volume della serie omonima (a cura di L. Austa, Alessandria 2017). L’idea prosegue e molti progetti prenderanno vita nel prossimo a.a., con il secondo Convegno e i Seminari sulla commedia antica, sul rapporto tra il teatro greco‑romano e su Euripide, tre giornate dedicate ai diversi aspetti del dramma classico frammentario, dal punto di vista filologico, letterario e teatrale. Questo volume è una prima sintesi di quanto abbiamo già fatto, a fine novembre del 2017, quando per tre giorni a Torino si sono incontrati gio ‑ vani e meno giovani studiosi, con un entusiasmo incredibile e sempre in spirito di amicizia, che hanno discusso sugli argomenti che leggerete in questo volume. L’aspetto più bello è rappresentato dal fatto che il Centro Studi sul Teatro Classico è nato, per mia volontà, con lo scopo di far dia ‑ logare chi rappresenta l’avvenire di ogni settore disciplinare, cioè ragazze e ragazzi, con colleghi di tutte le università europee, anche di diversa formazione; solo lo scambio delle idee fa nascere nuovi interessi. Ricordo infine che questo lavoro ha come finalità anche quella di creare copioni o testi tratti dalla produzione frammentaria adatti per lo studio accademico, per quello liceale o per la messa in scena; sarà questo un modo per cambiare, mi auguro, alcuni profili delle storie letterarie, generalmente poco attenti ad inserire queste opere nel quadro generale degli autori trat ‑ tati, con un’inversione di tendenza definitiva. Tutti insieme ce la possiamo fare. XII Prefazione

Concludo con un ringraziamento particolare ai colleghi di molte facoltà, non solo italiane, che con grande simpatia e competenza mi hanno soste‑ nuto in questa impresa: la loro presenza, le loro relazioni e la loro atten zione ha permesso che questo sogno si realizzasse.

Torino, luglio 2018 Introduction

LUCA AUSTA (SECRETARY OF CENTRO STUDI SUL TEATRO CLASSICO, UNIVERSITÀ DI TORINO)

One of the most arduous challenges in academic life is how to find a new way to explore and express the contents of each field of study. In classical philology this is a major problem: our discipline does not allow technological or spectacular research methods that enable it to reach the general public, as scientific studies do. Thus, from a public perspective, scholars of philology are old, bearded and boring men sealed in libraries, possessive of their intellectual ideas and terribly wary of their colleagues; cowardly enemies ready to rob them of their most important ideas. And we must sadly admit that they are often not completely wrong. It was with this image in mind that, in April 2017, the Centro Studi sul Teatro Classico of the University of Turin began to organise the conference The Forgotten Theatre. Mythology, Dramaturgy and Tradition of the Greek‑Latin Fragmentary Drama. To the outside eye, it was no more than another academic conference. But now, a few months since the conference was held, we can assess whether our attempts to overcome prejudices against classics and academics have been successful. First of all, all of the speakers – except a few keynotes – were selected with a Call for Papers open to researchers and scholars worldwide. The result of this selection process was a three‑day conference animated by 27 speakers (13 men, 14 women) from different countries, with various educational backgrounds, ages, and fields of study, including: philology, dramaturgy, anthropology, papyrology and history. We hosted a vast audience of young scholars, including university and high‑school students alike, who were active in discussing each paper, creating a productive and cooperative atmosphere. Many convivial moments (much enhanced by the Italian food) helped us to build working relationships – the Giacomo Leopardi’s “social chain” – and developed a dialogue among scholars. We can now affirm that all the efforts made by the organisers of this conference have enlivened a scientific meeting that was not exclusive, but inclusive, open to both renowned professors and young researchers, in the belief that the old elitist way to host conferences has finally come at the end of its rope. The following proceedings are a testament to the scientific value of the speakers’ research. XIV Introduction

Publishing this volume, I am grateful to those who have given their fundamental contribution to this gargantuan effort. First of all, thank you to Professor Francesco Carpanelli, teacher of Greco‑Roman Theatre and coordinator of the Centro Studi sul Teatro Classico at the University of Turin: he is the reason the conference took place. Thank you to Professor Enrico V. Maltese, Head of the Department of Classics for inspiring generations of students and researchers. I am also grateful to Professors Angela M. Andrisano and Giulio Guidorizzi who agreed to be part of the conference’s Scientific Committee. My warmest thanks go to the staff of the Centro Studi sul Teatro Classico who assisted me at all times, with all tasks: Giorgia Giaccardi, our Deputy Secretary and beloved colleague, Beatrice Bersani, our personal English teacher, Pietro Boagno, the future of the Centro Studi, Marta Fusaro, Linda Moschin, Paola Scarzella, irreplaceable helpers, and Stefania Zuccaro, aspiring philosopher lent to the Classics.

Thanks, finally, to the professors, scholars and students who shared with us the joyful experience of conducting collaborative classical research.

Oὔτοι συνέχθειν, ἀλλὰ συμφιλεῖν ἔφυν.

Turin, August 2018 Semele e Licurgo, morte e follia nel teatro eschileo

FRANCESCO CARPANELLI (UNIVERSITÀ DI TORINO)

1. Eschilo e il mito

Del dio dedito a magie e trasformazioni, Dioniso, il bambino mai cre‑ sciuto perché privato, fin dalla nascita, dei genitori1, si ipotizzano due cicli eschilei, entrambi basati sul mancato riconoscimento della sua divinità: il primo legato alle vicende tebane, il secondo alla figura di Licurgo, il re trace che aveva tentato di perseguitarlo. Questi gli ipotetici raggruppamenti:

1) La tetralogia tebana2: Σεμέλη ἢ ῾Υδροφόροι (Semele o Le portatrici di acqua) (n. 67), Ξάντριαι (Le Cardatrici) (n. 50), Βάκχαι (Le Baccanti) (n. 11), Πενθεύς (Penteo) (n. 55), Τροφοί (= Διονύσου Τροφοί3) (Le Nutrici = Le Nutrici di Dioniso) (n. 73).

Appare evidente che cinque titoli non possono essere riferiti ad una tetralogia e la prima osservazione che possiamo fare, in base al soggetto che lega i drammi, è che Le Baccanti e Penteo siano due titoli alternativi per la stessa tragedia.

2) la Lykurgheia: ᾿Ηδωνοί (Gli Edoni), Βασσαρίδες (o Βασσάραι) (Le Bassaridi), Νεανίσκοι (i Giovinetti), e il dramma satiresco Λυκοῦργος (Licurgo)4.

1 I lineamenti del mito legato a Dioniso sono in GANTZ 1993, I, 112‑119. Per un inquadramento generale del teatro tragico classico legato alla figura del dio e ai suoi rapporti con la sua famiglia umana cf. BIERL 1991 e CARPANELLI 2015, 11‑47. 2 I titoli si trovano nel Catalogo Mediceo. Cf. JOUAN 1992, 76‑79. 3 Cf. hyp. E. Med. 4 Per i titoli cf. schol. Ar. Thesm. 134 = TrGF III, T 68, in cui si parla esplicitamente di una tetralogia intitolata Lycurgheia. Cf. SÉCHAN 1926, 63‑79; AÉLION 1983, 1, 254‑258; JOUAN 1992, 72‑76; GANTZ 2007, 47. 2 Francesco Carpanelli

Se Omero si limita a citare il nome di Semele5, il racconto di Apollodoro6 riassume le vicende legate a due cicli dionisiaci in modo simile a quanto ricostruiamo dai titoli eschilei7:

Σεμέλης δὲ Ζεὺς ἐρασθεὶς Ἥρας κρύφα συνευνάζεται. ἡ δὲ ἐξαπατη‑ θεῖσα ὑπὸ Ἥρας, κατανεύσαντος αὐτῇ Διὸς πᾶν τὸ αἰτηθὲν ποιήσειν, αἰτεῖται τοιοῦτον αὐτὸν ἐλθεῖν οἷος ἦλθε μνηστευόμενος Ἥραν. Ζεὺς δὲ μὴ δυνάμενος ἀνανεῦσαι παραγίνεται εἰς τὸν θάλαμον αὐτῆς ἐφ’ ἅρματος ἀστραπαῖς ὁμοῦ καὶ βρονταῖς, καὶ κεραυνὸν ἵησιν. Σεμέλης δὲ διὰ τὸν φόβον ἐκλιπούσης, ἑξαμηνιαῖον τὸ βρέφος ἐξαμβλωθὲν ἐκ τοῦ πυρὸς ἁρπάσας ἐνέρραψε τῷ μηρῷ. ἀποθανούσης δὲ Σεμέλης, αἱ λοι‑ παὶ Κάδμου θυγατέρες διήνεγκαν λόγον, συνηυνῆσθαι θνητῷ τινι Σεμέλην καὶ καταψεύσασθαι Διός, καὶ ‹ὅτι› διὰ τοῦτο ἐκεραυνώθη. κατὰ δὲ τὸν χρόνον τὸν καθήκοντα Διόνυσον γεννᾷ Ζεὺς λύσας τὰ ῥάμματα, καὶ δίδωσιν Ἑρμῇ.

Zeus si innamora di Semele e si unisce a lei di nascosto da Era. Ma Semele, tratta in inganno da Era, poiché le aveva promesso di esaudire tutto quello che avesse chiesto, domanda al dio di recarsi da lei come era andato a unirsi con Era. Zeus non può rifiutare e giunge alla stanza di Semele sopra il carro, con i tuoni e i fulmini, e scaglia la folgore. Semele morì di terrore; allora Zeus sottrasse alle fiamme il figlio di sei mesi che lei aveva abortito e lo cucì nella sua coscia. Morta Semele, le altre figlie di Cadmo sparsero la

5 Cf. Hom. Il. 14, 325; cf. anche h. Bacch. 7, 1 ss. 6 Cf. anche Hyg. Fab. 167: Liber Iovis et Proserpinae filius a Titanis est distractus, cuius cor contritum Iovis Semele dedit in potionem. Ex eo praegnans cum esset facta, Iuno in Beroen nutricem Semeles se commutavit et ait: «Alumna, pete a Iove ut sic ad te veniat quemadmodum ad Iunonem, ut scias quae voluptas est cum deo concumbere». Illa autem instigata petit ab Iove, et fulmine est icta; ex cuius utero Liberum exuit et Nyso dedit nutriendum, unde Dionysus est appellatus et bimater est dictus. («Libero, figlio di Giove e Proserpina, fu dilaniato dai Titani. Giove macinò il suo cuore e lo dide da bere a Semele. Dopo che essa rimase incinta in conseguenza di questo, Giunone prese le sembianze di Beroe, la nutrice di Semele, e le disse: “Figlia mia, chiedi a Giove di presentarsi a te come si presenta a Giunone, per renderti conto di quale piacere si provi a giacere con un dio”. E quella, così indotta, lo chiese a Giove e fu colpita dal fulmine; dal suo utero fece uscire Libero e lo diede da allevare a Niso, e per questo è stato chiamato Dioniso e si dice che è bimadre. » (trad. di GASTI 2017). Si tratta di una versione orfica della nascita di Dioniso‑Zagreo, dio sotterraneo e misterico, in cui viene citato l’inganno di Era che, assunte le forme di Beroe, nutrice di Semele, le consiglia di dire a Zeus di presentarsi, ai loro incontri d’amore, con lo stesso aspetto con cui si presenta alla moglie. 7 CARPENTER 1997, 37, sostiene che il racconto di Apollodoro dipende sia da Eschilo che da Euripide. Semele e Licurgo, morte e follia nel teatro eschileo 3

voce che la sorella si era unita a un uomo mortale e aveva mentito accusando Zeus, e per questo era stata fulminata. A tempo debito Zeus scioglie le cuciture, fa nascere Dioniso e lo affida a Ermes8. (Apollod. Bibl. 3, 4, 3)

Il racconto si presenta come il riassunto di un plot che può adattarsi ad un andamento drammatico9: Zeus innamorato di Semele va a letto con lei di nascosto a Era che si vendica ingannando la fanciulla (ἐξαπατηθεῖσα ὑπὸ Ἥρας); Apollodoro non precisa il modo in cui questo avviene ma fa capire quale doveva essere stato il cattivo consiglio della dea quando dice che Zeus aveva promesso alla ragazza che avrebbe potuto chiedergli tutto ciò che voleva: Semele infatti gli domanda di presentarsi nello stesso modo in cui si univa alla moglie. Zeus la esaudisce e arriva nella camera della poveretta (παραγίνεται εἰς τὸν θάλαμον αὐτῆς), un’informazione questa da non dimenticare10, con un carro munito di tuoni e fulmini11; al culmine della sua potenza scaglia una folgore. Semele muore dalla paura e il dio riesce a salvare dalle fiamme il figlio, di sei mesi, cucendolo nella sua coscia. Le sorelle, intanto, diffondono la voce che si era unita con un uomo mortale e che per coprire il suo misfatto aveva incolpato Zeus; per questo motivo il dio si sarebbe vendicato uccidendola12. Il neonato viene affidato a Ermes13. La narrazione della vita di Dioniso riprende:

Διόνυσος δὲ εὑρετὴς ἀμπέλου γενόμενος, Ἥρας μανίαν αὐτῷ ἐμβα‑ λούσης περιπλανᾶται Αἴγυπτόν τε καὶ Συρίαν. καὶ τὸ μὲν πρῶτον Πρωτεὺς αὐτὸν ὑποδέχεται βασιλεὺς Αἰγυπτίων, αὖθις δὲ εἰς Κύβελα τῆς Φρυγίας ἀφικνεῖται, κἀκεῖ καθαρθεὶς ὑπὸ Ῥέας καὶ τὰς τελετὰς ἐκμαθών, καὶ λαβὼν παρ’ ἐκείνης τὴν στολήν, ἐπὶ Ἰνδοὺς διὰ τῆς

8 Le traduzioni di Apollodoro sono di M. G. Ciani in SCARPI 1996. 9 Cf. HERMAN 1834, 5 e 21 e MARBACH 1927, 2434, s.v. Lykurgos. 10 Impossibile, nel teatro antico, raccontare la morte di Semele. Questo particolare in cui si dice che Zeus entra nella camera della ragazza sembra quasi un cenno al racconto di un Messaggero. Non dimentichiamo anche che all’inizio delle Baccanti di Euripide si dovevano vedere, sulla scena, le rovine fumanti della casa dove era stata incenerita. Un particolare strano pensando all’abitazione di una donna non sposata, fatto inusuale per una società in cui una donna non poteva vivere da sola. 11 Un’immagine in un certo modo più adatta al teatro ellenistico o a quello latino repubblicano; si tratta infatti di un carro che Zeus si porterebbe dietro, quasi come un mago, non impossibile in una rappresentazione tarda. 12 La causa della vendetta di Dioniso sulla sua famiglia, alla base delle Baccanti euripidee. 13 Segue il racconto dell’infanzia di Dioniso bambino, adottato prima dalla zia Ino e poi dalle ninfe. 4 Francesco Carpanelli

Θρᾴκης ἠπείγετο. Λυκοῦργος δὲ παῖς Δρύαντος, Ἠδωνῶν βασιλεύων, οἳ Στρυμόνα ποταμὸν παροικοῦσι, πρῶτος ὑβρίσας ἐξέβαλεν αὐτόν. καὶ Διόνυσος μὲν εἰς θάλασσαν πρὸς Θέτιν τὴν Νηρέως κατέφυγε, Βάκχαι δὲ ἐγένοντο αἰχμάλωτοι καὶ τὸ συνεπόμενον Σατύρων πλῆθος αὐτῷ. αὖθις δὲ αἱ Βάκχαι ἐλύθησαν ἐξαίφνης, Λυκούργῳ δὲ μανίαν ἐνεποίησε Διόνυσος. ὁ δὲ μεμηνὼς Δρύαντα τὸν παῖδα, ἀμπέλου νομίζων κλῆμα κόπτειν, πελέκει πλήξας ἀπέκτεινε, καὶ ἀκρωτηριάσας αὐτὸν ἐσωφρόνησε. τῆς δὲ γῆς ἀκάρπου μενούσης, ἔχρησεν ὁ θεὸς καρποφορήσειν αὐτήν, ἂν θανατωθῇ Λυκοῦργος. Ἠδωνοὶ δὲ ἀκούσα‑ ντες εἰς τὸ Παγγαῖον αὐτὸν ἀπαγαγόντες ὄρος ἔδησαν, κἀκεῖ κατὰ Διονύσου βούλησιν ὑπὸ ἵππων διαφθαρεὶς ἀπέθανε. διελθὼν δὲ Θρᾴκην [καὶ τὴν Ἰνδικὴν ἅπασαν, στήλας ἐκεῖ στήσας] ἧκεν εἰς Θήβας, καὶ τὰς γυναῖκας ἠνάγκασε καταλιπούσας τὰς οἰκίας βακχεύειν ἐν τῷ Κιθαιρῶνι. Πενθεὺς δὲ γεννηθεὶς ἐξ Ἀγαυῆς Ἐχίονι, παρὰ Κάδμου εἰληφὼς τὴν βασιλείαν, διεκώλυε ταῦτα γίνεσθαι, καὶ παραγενόμενος εἰς Κιθαιρῶνα τῶν Βακχῶν κατάσκοπος ὑπὸ τῆς μητρὸς Ἀγαυῆς κατὰ μανίαν ἐμελίσθη· ἐνόμισε γὰρ αὐτὸν θηρίον εἶναι.

Dioniso scopre la pianta della vite, ma Era lo fa impazzire e egli va errando per l’Egitto e per la Siria. Primo ad accoglierlo è Proteo, re d’Egitto, poi giunge al monte Cibelo in Frigia e qui viene purificato da Rea e apprende i riti iniziatici; da lei riceve la stola, e si affretta attraverso la Tracia alla volta degli Indiani. Licurgo, figlio di Driante e re degli Edoni, che vivono presso il fiume Strimone, fu il primo a recargli offesa e a scacciarlo. Dioniso cercò rifugio in mare, da Teti figlia di Nereo; le Baccanti e lo stuolo dei Satiri che lo seguivano furono fatti prigionieri. Ma poi le Baccanti vennero liberate all’improvviso e Dioniso fece impazzire Licurgo. Nella sua follia il re, credendo di tagliare un tralcio di vite, uccise il figlio Driante con un colpo di scure: solo dopo averlo mutilato recuperò la ragione. La terra degli Edoni continuava ad essere sterile e il dio vaticinò che avrebbe ripreso a dar frutti se fosse stato messo a morte Licurgo. Gli Edoni, quando lo seppero, condussero il re sul monte Pangeo, lo legarono e qui, per volontà di Dioniso, egli morì sbranato14 dai cavalli. Dioniso attraversò la Tracia e tutta l’India, dove innalzò delle colonne, e giunse a Tebe dove costrinse le donne ad abbandonare le loro case per celebrare i riti bacchici sul Citerone. Penteo, il figlio che Agave aveva generato a Echione e che da Cadmo aveva ereditato il regno, cercava di impedire che ciò avvenisse si recò sul Citerone per spiare le Baccanti e fu fatto a pezzi da sua madre Agave, che, in preda alla follia, lo aveva scambiato per una belva feroce. (Apollod. Bibl. 3, 5, 1‑2.)

14 Meglio tradurre «dialaniato». Cf. GUIDORIZZI 1995, 295, n. 59. Semele e Licurgo, morte e follia nel teatro eschileo 5

Dioniso trova un primo implacabile nemico in Licurgo re degli Edoni15; lo scontro tra i due contiene elementi riferibili alla trilogia tragica cui abbiamo accennato, a parte la fuga di Dioniso nel mare che dalle ipotesi ricostruttive appare completamente estranea alplot . Il dio fa impazzire il re che, credendo di tagliare un tralcio di vite, uccide il figlio Driante, colpendolo con una scure; ritrovata la ragione sarà sacrificato per placare l’origine di una terribile carestia: gli Edoni, seguendo una profezia di Dioniso stesso, lo conducono sul monte Pangeo, lo legano e lo fanno squartare da cavalli fatti andare in opposte direzioni. Segue poi un brevissimo riassunto di ciò che leggiamo nelle Baccanti di Euripide: il dio arriva a Tebe, la città di sua madre dove costringe le donne tebane ad

15 L’origine di questo racconto è in Omero, quando Diomede rievoca la vicenda quale esempio di hybris contro gli dei (Il. 6, 130‑140): οὐδὲ γὰρ οὐδὲ Δρύαντος υἱὸς κρατερὸς Λυκόοργος / δὴν ἦν, ὅς ῥα θεοῖσιν ἐπουρανίοισιν ἔριζεν· / ὅς ποτε μαινομένοιο Διωνύσοιο τιθήνας / σεῦε κατ’ ἠγάθεον Νυσήϊον· αἳ δ’ ἅμα πᾶσαι / θύσθλα χαμαὶ κατέχευαν ὑπ’ ἀνδροφόνοιο Λυκούργου / θεινόμεναι βουπλῆγι· Διώνυσος δὲ φοβηθεὶς / δύσεθ’ ἁλὸς κατὰ κῦμα, Θέτις δ’ ὑπεδέξατο κόλπῳ / δειδιότα· κρατερὸς γὰρ ἔχε τρόμος ἀνδρὸς ὁμοκλῇ. / τῷ μὲν ἔπειτ’ ὀδύσαντο θεοὶ ῥεῖα ζώοντες, / καί μιν τυφλὸν ἔθηκε Κρόνου πάϊς· οὐδ’ ἄρ’ ἔτι δὴν / ἦν, ἐπεὶ ἀθανάτοισιν ἀπήχθετο πᾶσι θεοῖσιν· («Neppure il figlio di Driante, il forte Licurgo, visse a lungo dopo aver lottato contro gli dei celesti e aver inseguito sul sacro monte Niseo le nutrici del folleggiante Dioniso; e esse tutte gettarono a terra i tirsi, incalzate dal pungolo di Licurgo sterminatore, e Dioniso atterrito s’immerse nelle onde del mare e atterrito lo accolse Teti nel suo seno: tremava per le urla dell’uomo. Per questa ragione lo odiarono gli dei che hanno facile vita: il figlio di Crono lo accecò e non visse a lungo, perché era venuto in odio a tutti gli immortali.» Traduzione di ADUANOP 2007). Per la storia di Licurgo in Omero cf. SEAFORD 1994, 444. Il dio descritto da Omero è un bambino, seguito dalle sue nutrici (tiyÆnaw) già assimilate a sue seguaci in quanto munite di tirso; scappa di fronte alla violenza (¶rizen) di Licurgo e si rifugia in mare, da Teti. La scena non si svolge in Tracia ma sul mitico e sacro monte Nyseion. La punizione riservata, infine, da Zeus a Licurgo è la cecità, una vita breve trascorsa nell’odio degli dei. Un racconto simile a quello di Eumelo nell’Europia (= fr. 11 Bernabè). Cf. PRIVITERA 1970, 53‑74. La narrazione omerica è in linea con quanto leggiamo nell’Antigone (955‑965): Ζεύχθη δ’ ὀξύχολος παῖς ὁ Δρύαντος, / Ἠδωνῶν βασιλεύς, κερτομίοις ὀργαῖς, / ἐκ Διονύσου πετρώδει κατάφαρκτος ἐν δεσμῷ. / Οὕτω τᾶς μανίας δεινὸν ἀποστάζει / ἀνθηρόν τε μένος. Κεῖνος ἐπέγνω μανίαις / ψαύων τὸν θεὸν ἐν κερτομίοις γλώσσαις. / Παύεσκε μὲν γὰρ ἐνθέους / γυναῖκας εὔιόν τε πῦρ, / φιλαύλους τ’ ἠρέθιζε Μούσας. («Anche il figlio di Driante, l’iracondo re degli Edoni, fu incatenato da Dioniso in una prigione rocciosa, per pena degli insulti taglienti. Così svaniva la furia rigogliosa della follia. Allora conobbe il dio che aveva provocato e insultato, pretendendo di porre un termine all’esaltazione delle donne ed al fuoco sacro; e aveva irritato pure le Muse amanti del flauto.» Traduzione di PADUANO 1982, I). 6 Francesco Carpanelli abbandonare le loro case e ad andare sul monte Citerone per celebrare i suoi riti. Il re Penteo, suo cugino, cerca di opporsi a questo piano, va a spiare le menadi ma la madre Agave, in un empito di follia, lo prende per una belva e lo uccide.

2. Nasce «un bimbo non ancora formato»16 (dalla Semele)

2.1. Il testo

Anche se i frammenti eschilei sono scarsi il loro contenuto precede l’unica tragedia di soggetto dionisiaco, a noi rimasta, leBaccanti di Euripide, la parte finale della storia, lo scontro tra il dio e il cugino Penteo, di cui niente ci rimane, come abbiamo detto, in Eschilo, a parte due titoli,Baccanti e Penteo. La presenza, nel catalogo medievale, del titolo Baccanti indica che esisteva un’ eschilea scomparsa forse per il rilievo dato a quella omonima, euripidea17, o semplicemente perché si tratta di un doppione del Penteo. L’unico frammento che abbiamo, riportato da Giovanni Stobeo (1, 3, 26, 27), è riferibile alla punizione di un fantomatico nemico di Dioniso, un mortale, e quindi alla lotta con qualcuno che non voleva riconoscere la sua essenza divina; si tratta, del resto, dell’unica divinità del paganesimo ellenico dedita così intensamente, e in prima persona, alla propria rivelazione. Ecco il testo:

τό τοι κακὸν ποδῶκες ἔρχεται βροτοῖς καὶ τἀμπλάκημα18 τῷ περῶντι τὴν θέμιν

davvero il male piomba sugli uomini con rapido piede perché contraccam‑ bia la colpa di chi viola la norma divina. (TrGF III, 22)

Il dramma, dunque, non può avere alcuna collocazione perché privo di riferimenti sicuri. Per quanto riguarda il Penteo19 possiamo dar credito all’hypothesis delle Baccanti euripidee, scritta da Aristofane di Bisanzio, in cui si equiparano le trame dei due autori; è comunque imposssibile formulare un’ipotesi mini‑

16 È la traduzione di «Inperfectus adhuc infans»Ov. Met. 3, 310 nella traduzione di PADUANO 2007. 17 Cf. DODDS 1960, xxix. 18 Cf. A. Pr. 112, Su. 230 e Eu. 934. 19 La variante del plot eschileo, rispetto alleBaccanti euripidee, potrebbe nascondersi Semele e Licurgo, morte e follia nel teatro eschileo 7 mamente credibile20. Anche in questo caso abbiamo un solo frammento difficile da contestualizzare nonostante gli sforzi fatti per inserirlo nell’or ‑ dito di una trama21:

μηδ ᾽ αἵματος πέμφιγα πρὸς πέδῳ βάλῃς

E non versare una goccia di sangue a terra. (TrGF III, 183)

In realtà, dunque, possiamo solo arguire dai titoli che la trilogia finisse in maniera simile a quanto leggiamo nelle Baccanti euripidee. Il primo dei drammi tebani eschilei era, quasi certamente, la Semele: la triste sorte della Principessa, messa incinta da uno sconosciuto22, come pensavano le sorelle, o da Zeus, secondo l’interessata che diventa così fonte della gelosia di Era23. A parte un termine riferito alle Anfi ‑

in quanto leggiamo nelle Eumenidi (vv. 24‑26) in cui si ricorda che le Menadi, insieme a Dioniso, dettero la caccia a Penteo: PYTHIA. Βρόμιος δ’ ἔχει τὸν χῶρον, οὐδ’ ἀμνημονῶ, / ἐξ οὗτε Βάκχαις ἐστρατήγησεν θεός, / λαγὼ δίκην Πενθεῖ καταρράψας μόρον· («PIZIA. Bromio è il padrone del luogo – lo ricordo: da lì il dio partì con il suo esercito di baccanti, per straziare Penteo, braccandolo a morte come una lepre»). È la Pizia che parla, all’inizio del dramma, delle divinità che accompagnarono Febo sul monte Parnaso. Bromio («strepitante») è un epiteto di Dioniso che nei tre mesi di inverno, quando Apollo andava in visita agli Iperborei, si pensava risiedesse a Delfi. Sul Parnaso si tenevano, in suo onore, ogni due anni, feste notturne che prevedevano rituali e danze di donne. Questo passo non implica, come intendono gli scoli, che Penteo sia stato ucciso qui ma che da qui sia partito l’esercito di dionisiaco che poi lo avrebbe punito con la morte. La caccia di Penteo può quindi essere un’autocitazione di Eschilo nello stesso contesto in cui si ricorda la persecuzione delle Erinni nei confronti di Oreste (cf. vv. 111, 147‑8, 231, 246). Una scena che trova conferma in tre vasi dipinti ora a Ruvo, a Napoli, a Monaco, in cui si vedono le Menadi armate mentre Penteo si difende dal loro attacco. Cf. ÉCHANS 1926, 102‑106. 20 Riporto come esempio quanto ipotizza Sommerstein: «Pentheus will have dealt only with the arrival at Thebes of the news of Pentheus’ death on Mount Cithaeron at the hands of the bacchants, and the reactions of his family, the Theban community and perhaps Dionysus himself.» SOMMERSTEIN 2008, 188‑89. 21 Cf. JOUAN 1992, 78 e DI BENEDETTO 2004, 39‑40. 22 Un «caso eccezionale di donna mortale che concepisce un vero e proprio dio…e la sua storia richiede lo sviluppo di una duratura relazione sessuale, non un incontro occasionale con Giove, o un ruolo di pura e semplice vittima di stupro» scrive Barchiesi (in Barchiesi‑Rosati, 2007, 164) a proposito dei versi del terzo libro delle Metamorfosi di Ovidio (Met. 3, 253‑315). 23 Per il contenuto cf. HADJICOSTI 2006. Il confronto con le Hydrophoroi di Sofocle (TrGF IV, 672‑674) è solo ipotetico in quanto non siamo sicuri del fatto che anche questo dramma avesse come argomento la morte di Semele. Sono attestate anche altre tragedie 8 Francesco Carpanelli dromie24, festività della famiglia in cui si dava il nome ad un neonato e che quindi ci riporta alla nascita di un bambino, abbiamo solo la testimonianza di uno scolio ad Apollonio Rodio (1, 636):

ἔνθεν καὶ τὴν Σεμέλην Θυώνην καλοῦσιν, ἐπειδὴ Αἰσχυλος ἔγκυον αὐτὴν παρεισήγαγεν οὖσαν καὶ ἐνθεαζομένην, ὁμοίως δὲ καὶ τὰς ἐφαπτομένας τῆς γαστρὸς αὐτῆς ἐνθεαζομένας

Da qui proviene il nome a Semele, Thyone, perché Eschilo l’ha portata sulla scena incinta e invasata; allo stesso modo risultano invasate anche quelle che toccavano il suo grembo25.

Sembra proprio che si possa pensare alla nostra tragedia; pochi termini che comunque dicono già qualcosa sul contenuto: Semele è dunque un personaggio che appare sulla scena non solo incinta ma anche invasata (ἐνθεαζομένην), così come poi lo diventano le donne (il Coro?) quando toccano il suo grembo. Questo fa pensare ad una scena legata o al periodo di gestazione o a quello della nascita di Dioniso: il figlio è in grado di influenzare la madre, in questo senso la prima menade del mondo. Un indizio per capire che il dramma, come la trilogia, era senza dubbio impostato su una profonda valenza religiosa che si diffondeva fin dalle prime scene. Tutte le tragedie dei due cicli, vedremo, seguono infatti un filone dedicato al rapporto tra gli uomini e i culti misterici (anche e soprattutto nella loro conciliazione). Dal punto di vista testuale tutto cambia, però, se attribuiamo a questa tragedia un papiro26, pubblicato nel

intitolate Semele, una di Diogene Ateniese (TrGF I, 45 F 1) e una di Carcino II (TrGF I, 70 F 2). Della Semele di Callimaco conosciamo solo il titolo. 24 Il frammento è tratto dalLessico (A 3996 L.) di Esichio: «“Anfidromo” Eschilo nella Semele plasmò questo demone, e un canto sulle Anfidromie (TrGF III, 222).» Dobbiamo pensare ad un personaggio di nome Anfidromo, creato appositamente per il dramma? Più immediato immaginare che il termine facesse parte di un canto relativo alle Anfidromie, la festa ateniese celebrata nelle abitazioni private qualche giorno dopo la nascita di un bambino. Era il padre che si purificava portando il neonato nelle sue braccia e girando (da qui il nome della ricorrenza) intorno al focolare. Si portavano doni ai genitori e la festa terminava con un banchetto a base soprattutto di cavolo. È facile arguire che, nello stesso contesto, si dava anche il nome al neonato; se si trattava di un maschio si metteva fuori dalla porta un ramo d’ulivo, se femmina un fiocco di lana. 25 Il Coro sarebbe quindi formato dalle donne che imponevano le loro mani sul ventre di Semele per facilitare i dolori del parto (?). 26 È il P.Oxy. 2164 (composto da tre frammenti) di cui si conoscevano già alcuni versi attraverso citazioni indirette; negli scoli al v. 1344 delleRane di Aristofane in cui Semele e Licurgo, morte e follia nel teatro eschileo 9

194127, molto corrotto, che contiene parti di un canto corale che menziona Semele e Cadmo, ma anche versi in esametro in cui Era, trasformatasi in una sacerdotessa mendicante, elogia la sposa ideale, quando è casta. Un avvertimento per Semele che, se presente sulla scena, doveva pensare alla sua segreta relazione con Zeus. Rimane indubbio che se le Xantriai occupavano il secondo posto della trilogia il loro plot doveva comunque iniziare almeno dopo la nascita di Dioniso (contenuta nella Semele) e comprendere il momento in cui Dioniso iniziava la vendetta sui suoi nemici; il travestimento di Era come sacerdotessa ha senso solo in relazione ad un inganno precedente la nascita del dio28 e quindi non può appartenere a questa tragedia. Attribuirei quindi, senza dubbi sostanziali, le parti del papiro, nel complesso di difficile lettura, alla Semele. Cerchiamo ora di trovare gli elementi utili per la ricostruzione di parte del plot (SOMMERSTEIN 2008, 220a = TrGF III, 168):

XOPOS φίλοισιν29 ἐν μάκεσι30 πίστις φθονερ[ὰ31 8 δόξα τ᾿ ἀεικής. Σεμέλας δ᾿ ε[ὐ‑ χόμεθ᾿ εἶναι διὰ πᾶν 10 εὐθύπορον λά[χος leggiamo «Ninfe nate sui monti» (νύμφαι ὀρεσίγονοι), Asclepiade attribuisce i vv. 16 e 17 alle Xantriai di Eschilo, aggiungendo che li ha letti in un manoscritto da lui consultato ad Atene; anche Platone nella Repubblica, 381d cita il verso 17 senza indicare l’autore ma dice solo che è Era a pronunciarlo (cf. Totaro 2017, 19‑21). L’attribuzione alle Xantriai è stata messa in forte discussione e Sommerstein (SOMMERSTEIN 2008, 226, n. 1) riassume la questione riportando altri casi di inesatta citazione da parte di Asclepiade: «In Birds 348 he [Asclepiades] detects parody of Euripides’ Andromeda, which was not produced until two years after Birds; and he ascribes Frogs 1270 (= A. Fr. 238) to Aeschylus’ Iphigeneia when another scholar, Timachidas, said it was from Telephus (they were probably both guessing: see introductory note to Telephus ). It should be added, too, that Frogs 1344 itself can hardly be derived from Wool‑Carders (as Asclepiades claimed), or from any other Aeschylean play, when it forms part of a song which is presented by the character “Aeschylus” as tipically Euripidean, and which elsewhere parodies only Euripides». Prima di lui l’attribuzione di questo papiro alla Semele si deve a LATTE 1948, NILSSON 1955, LLOYD‑JONES 1957, TAPLIN 1977, 427‑ 428, GANTZ 1981, 25, JOUAN 1992, 77, HADJICOSTI 2006a. Fondamentale ora la lettura del recentissimo saggio di TOTARO 2017 che è propenso ad attribuire il passo alla Semele. 27 In sintesi METTE 1959 attribuisce i tre frammenti del papiro, con il numero 355, alla Semele, Sommerstein (SOMMERSTEIN 2008, 220a‑c) alla Semele, Radt (TrGF III, 168 e 168a) alle Xantriai. 28 Cf. SOMMERSTEIN 2008, 226. 29 φίλοισιν (o φιλοῦσιν) Lobel. 30 Forma dorica da μῆκος, per indicare la durata, la lunghezza del tempo. 31 πίστις φθονερ[ὰ Mette. 10 Francesco Carpanelli

CORO con i (suoi?) cari nei lunghi tempi fiducia comporta invidia e ciò che pensano diventa nocivo32. Noi però preghiamo che Semele abbia sempre una sorte che proceda retta

τὰ γάρ ἄλλα τάδ᾿ [ 12 Κάδμῳ Σεμέ[λα τῶ[ι] παντοκρα[τ Ζηνί γάμων δ[ 15

Per questi altri motivi […] a Cadmo Semele […] con l’onnipotente […] Zeus […] unendosi […]

ΗΡΑ νύμφαι ναμερτεῖς33, κυδραὶ θεαί, αἷσιν ἀγείρω 16 ᾿Ινάχου ᾿Αργείου ποταμοῦ παισὶν βιοδώροις, αἱ τε παρίστανται πᾶσιν βροτέοισιν ἐπ᾿ ἔργ[οις [ ]τε καὶ εὐμόλποις ὑμ[εναίοις καὶ τ[ ν]εολέκτροις ἀρτιγάμ[ 20

ERA Ninfe infallibili, dee illustri, per le quali io raccolgo elemosine, figlie del fiume argivo Inaco, che date vita, e che favorite tutte le attività degli uomini… e i matrimoni con le loro belle musiche, e […] le nuove spose ai talami nuziali34

αἰδὼς γάρ καθαρὰ καὶ ν[υ]μφοκόμος μέ[γ]᾿ ἀρί[στα, 23 παίδων δ᾿ εὔκαρπον τε[λ]έθει γένος, οἷς [ ἵλαοι ἀντιάσουσι μελίφ[ρον]α35 θυμὸν ἐχ[ουσαι 25

32 È ciò che le sorelle pensano di Semele, anche se prima delle Baccanti di Euripide la cattiva fama della principessa, che sarebbe stata messa incinta da uno sconosciuto e avrebbe per questo inventato di avere una relazione con Zeus, non è attestata. 33 La forma dorica dell’aggettivo νημερτής (infallibile, che non sbaglia mai) introduce al meglio il tono del subdolo discorso di Era che invoca le ninfe veritiere: lei, una dea vestita sotto mentite spoglie con in mente un piano mortifero. 34 Non è molto difficile interpretare il senso di questi versi. Era vede di fronte a sé Semele già incinta e si presenta come una sacerdotessa di ninfe che favoriscono tutte le attività degli uomini, tra cui anche i matrimoni. Semele le dà fiducia (πίστις v. 8), come è solita fare per carattere e questo la condurrà alla rovina. La percezione è dunque quella di un dramma basato sulla difficoltà per gli uomini di avere un rapporto paritario con gli dei. Anche Zeus del resto non farà niente per salvare l’amata. Semele e Licurgo, morte e follia nel teatro eschileo 11

Poiché il pudore è casto ed è di gran lunga il più degno ornamento di una sposa, e una ricca messe di figli tocca a coloro che [quelle] avvicineranno benevole, con animo dolce come il miele.

τραχεῖαι στυγεραί τε καὶ [ 27 ἁ]γχίμολοι πολλὰς μεν [ …]γον εὐναίου φωτὸ[ς 29

Dure e odiose e […] nel loro approccio; molte di un marito di letto36… (vv. 27‑29)

Il Coro difende il buon nome di Semele, una brava ragazza la cui sincerità è diventata motivo di infamia. Il suo avvenire, si augurano le donne, percorrerà un cammino retto come la principessa si merita, lei che si è unita a Zeus, una fortuna che certo non capita a tutte le ragazze. Zeus però è sposato con Era, chissà se le donne ne facevano minimamente cenno? Ed ecco che la dea si presenta sulla scena, trasformatasi in sacerdotessa che cerca offerte per le ninfe, figlie di Inaco. Le esili tracce che rimangono sono chiare: Era intesse il suo discorso con toni subdoli e ingannatori: le feste di nozze, in mezzo a musica e canti (v. 19) e le spose novelle (v. 20) che devono avere per tutta la vita come unico vero ornamento il pudore. I loro figli godranno del favore delle ninfe, ma solo nel caso si tratti di unioni lecite, esse saranno benevole e dolci come solo il miele può essere (vv. 24‑25). Concludo questo tentativo di fornire un’agile rassegna di quello che possediamo della Semele ricordando che se «nessuno meglio dei filologi sa esercitare con determinazione e pervicacia l’arte del dubbio»37 bisogna avere anche il coraggio di scegliere ciò che è necessario per riportare sulla scena ciò che appare irrimediabilmente perduto. Quello che sappiamo delle Xantriae (Le cardatrici) è quasi niente perché gli esigui frammenti non danno alcuna notizia sicura del plot. Le cardatrici del titolo, il Coro (?), le donne intente, all’inizio della tragedia, nelle loro attività domestiche, come quella appunto di cardare la lana, sarebbero state fatte impazzire dal dio dell’estasi38 ma si può escludere un’azione cul ‑

35 Ancora un aggettivo per convincere Semele. La finta sacerdotessa vuol farle intendere che anche il suo animo è, come quello delle dee, dolce come il miele; è necessario solo che Semele ascolti i suoi consigli. 36 Possiamo solo chiederci come faccia Semele a non riflettere sul fatto che Zeus ha già una moglie, quella che è di fronte a lei sotto mentite spoglie. 37 DI MARCO 1993, 108. 38 Cf. Eu. Ba. 118‑119. 12 Francesco Carpanelli minante con la morte di Penteo sul Citerone che qui era però menzionata, come leggiamo negli Scolii a Eschilo, Eumenidi, 26:

νῦν φησιν ἐν Παρνασσῷ εἶναι τὰ κατὰ Πενθέα, ἐν δὲ ταῖς Ξαντρίαις ἐν Κιθαιρῶνι

ora dice che ciò che accadde a Penteo avvenne sul Parnaso; nelle Xantriai invece sul Citerone. (TrGF III, 172 b)

Dal momento che non c’è alcun motivo per non credere alla notizia, l’unica certa, che il Penteo eschileo avesse un plot sul quale le Baccanti di Euripide sono state modellate, nelle Xantriae può essere stato solo annun ‑ ciato, o profetizzato, lo sparagmos di Penteo. Lissa39, l’unico personaggio del dramma che conosciamo, poteva essere il tramite mitologico della vendetta (?) come personificazione dell’azione punitiva di Dioniso o, meglio, guida spirituale delle menadi nel nuovo sistema di vita utopico, alternativo, esoterico in un racconto che in qualche modo rendeva edotto il pubblico sugli aspetti del rito dionisiaco che non tutti gli spettatori conoscevano. Impossibile comunque parlare del contesto in questione:

ΛΥΣΣΑ (ἐπιθειάζουσα ταῖς Βάκχαις) ἐκ ποδῶν δ᾿ ἄνω ὑπέρχεται σπαραγμὸς40 εἰς ἄκρον κάρα· κέντημα λύσσης41, σκορπίου βέλος λέγω

LYSSA (rivolgendosi, in nome degli dei, alle Baccanti) Dai piedi sale alla cima della testa la lacerazione; parlo del pungolo della follia, il dardo dello scorpione. (TrGF III, 169)

***

ἃς οὔτε πέμφιξ ἡλίου προσδέρκεται οὔτ᾿ ἀστερωπὸν ὄμμα Λητρῴας κόρης

che non guarda né il raggio del sole, né l’occhio dall’aspetto di stella della figlia di Latona42 (TrGF III, 170)

***

39 Demone della follia legato ad Era anche nell’Eracle euripideo (vv. 843‑873). 40 Cf. Eu. Ba. 1095‑1136. 41 λύσσης Lobeck. γλώσσης codd. Semele e Licurgo, morte e follia nel teatro eschileo 13

κάμακες πεύκης οἱ πυρίφλεκτοι

pali di pino ardenti43 (TrGF III, 171)

Dopo la storia dell’infelice amore di Semele con Zeus, la sua morte e la nascita di Dioniso, lo sconvolgimento si diffonde a Tebe fino all’abbandono delle case da parte delle donne44; la loro ultima azione, legata ai ritmi quotidiani, è stata quella di cardare la lana. Preda dell’invasamento bacchico sono fuggite sui monti, al servizio del nuovo dio, sotto la guida di Lyssa; nel Penteo invece si trattava la storia cui si è ispirato Euripide. In prima istanza possiamo immaginare le Xantriae come un dramma di formazione per le iniziate al culto misterico, una storia impossibile da ricostruire nei dettagli ma che senza dubbio preparava i ‘fatti di Penteo’. Nulla vieta però di pensare che a queste si sia ispirato Euripide nella parte delle Baccanti in cui racconta la vita delle menadi fuggite sui monti: il Messaggero45 appare nel momento in cui Penteo fa chiudere ogni porta pensando così di mantenere il potere che crede di avere ancora in Tebe. All’alba i pastori portavano le mandrie sui monti quando scorsero i tre tiasi di baccanti condotti da Agave, Ino e Autonoe. Il lungo racconto rivela una struttura narrativa non indifferente nella descrizione di una tipologia nuova di vita in comunione con la natura. Il Messaggero, tra l’altro, dice al re che se si fosse trovato là avrebbe imparato a pregare questo dio (v. 712). Seguono poi il piano per catturare Agave, che però fallisce grazie all’intervento delle menadi, e le scene di sparagmos, anticipazione anche qui del destino di Penteo. Le donne danno poi l’assalto ai villaggi sottostanti il Citerone per ritornare infine, mansuete, alla pace da cui erano state cacciate per colpa della curiosità dei pastori. Ripeto, si tratta solo di una suggestione che accompagna i pochi versi che abbiamo letto, non avulsa dal contesto di un dramma di passaggio che ben preparava la conclusione della trilogia con le vicende di Penteo. Se questo breve plot, semplice come succede per ogni storia il cui testo residuo è pressochè inesistente, merita credito perché riempie uno spazio vuoto senza impegnare o compromettere l’equilibrio filologico della questione, una seconda ipotesi che ci conduce a una storia del mito che conosciamo. Le Xantriai, le Cardatrici per eccellenza, sarebbero le figlie di

42 Questa è la più antica testimonianza in cui la luna viene identificata con Artemide. 43 cf. Eu. Ba. 144‑7. 44 La stessa cosa che accade anche nelle Baccanti di Euripide. 45 Eu. Ba. 660‑786. 14 Francesco Carpanelli

Minia che preferirono continuare la loro attività domestica, cardare la lana, invece di partecipare alle feste in onore di Dioniso e, come sempre in questi casi, il dio dal volto dolce di bambino si era vendicato ferocemente su chi non voleva rendergli i dovuti omaggi46. Le Miniadi, Licurgo, Orfeo, e per quarto ed ultimo Penteo, rappresentano la volontà, compulsiva, di opporsi alla forza di un dio47. Tra le rappresentazioni poetiche di questo episodio48 segnalo un passo di Ovidio49 che ha un interessante riscontro in uno dei frammenti eschilei. Alcitoe e le due sorelle, figlie del re di Orcomeno, Minia, pur di non seguire i riti di Dioniso si barricano in casa dedicandosi ai lavori sacri a Minerva, la loro dea. Per passare il tempo si raccontano, a turno, delle storie: quella di Piramo e Tisbe, quella di Leucotoe e Clizia, infine quella di Salmacide ed Ermafrodito, fino a quando si manifesta l’ira e la punizione di Bacco, accompagnata da miracoli verificatisi all’interno della casa. Le sorelle si trasformano allora in pipistrelli (Metamorfosi, 4, 414‑415):

Tectaque, non silvas celebrant lucemque perosae nocte volant seroque tenent a vespere nomen

46 Riporto la sintesi bibliografica di Radt su chi siano stati i primi sostenitori di questa tesi: «Mynyeidum poenam fuisse censuit Boeckh (Gr. Tr. Princ. 29) coll. Ov. Met. 4, 32sqq. (et ad F 171 comparans Ov. Met. 4, 402sq.), prob. e.g. Wecklein, Fritzsche (ranae 413sqq.; ubi fabulam satyricam fuisse perperam contendit: vide TRI B XI 3), Nilsson (AC 24, 1955, 337)» Xantriae, p. 281. 47 Per il tentativo di impedire la diffusione del culto di Dioniso cf. JEAMNAIRE 1972. 48 Riporto la sintesi di Rosati (in BARCHIESI/ROSATI 2007, 243‑244) che dà modo di riflettere anche sulle fonti : «Nella versione del mitografo Antonino Liberale (10), che alcuni fanno risalire proprio al libro IV delle Metamorfosi di Nicandro, ma anche alla poetessa Corinna (forse compagna di Pindaro), le tre sorelle (Leucippe, Arsippe e Alcatoe) figlie del re Minia, «esageratamente amanti del lavoro», rifiutano di seguire le altre Menadi sui monti e di unirsi al culto di Bacco. Questi si presenta in sembianze di fanciulla per tentare di convincerle a non offendere il dio; al loro ostinato rifiuto si trasforma in vari animali (toro, leone, leopardo), mentre dai montanti dei loro telai scorre nettare e latte. Sconvolte, esse fanno a brani il figlio di Leucippe e fuggono sui monti come baccanti, nutrendosi di edera, convolvoli e alloro, finchè Ermes le trasforma in uccelli notturni (un pipistrello, una civetta, un gufo), e «tutte e tre fuggirono la luce del sole» (Forbes Irving 1990, 252 sg.). Secondo un’altra versione, attestata in Eliano,Varia historia 3, 42, e più lontana da Ovidio (anche se meno dei vaghi cenni di Plutarco, Quaestiones Graecae 299e‑f) le donne rifiutano il dio perché «inna ‑ morate dei loro mariti»; mentre sono in casa a filare, d’improvviso edera, pampini e serpenti avvolgono i loro telai, e stillano gocce di vino e di latte. Non ancora persuase della potenza del dio, esse sono allora indotte a dilaniare il figlioletto di Leucippe, credendolo un cerbiatto, come le Menadi avevano fatto con Penteo, e infine trasformate in uccelli (una cornacchia, una nottola, una civetta»). 49 Met. 4, 1‑415. Semele e Licurgo, morte e follia nel teatro eschileo 15

Abitano case e non boschi e, odiando la luce, volano di notte e prendono il nome dal vespro

Questi ultimi due versi possono essere messi a confronto con un frammento della tragedia eschilea, da noi già riportato, in cui sembrerebbe davvero di riconoscere le tre sorelle:

ἃς οὔτε πέμφιξ ἡλίου προσδέρκεται οὔτ᾿ ἀστερωπὸν ὄμμα Λητῴας κόρης

alle quali non rivolge lo sguardo né raggio di sole né l’occhio splendente della figlia di Leto (TrGF III, 170)

Se l’immagine derivasse da questa tragedia Ovidio le renderebbe soggetto, esse odiano la luce lucemque( perosae)50 e volano di notte nocte( volant), da un originale greco in cui sono invece Apollo e Artemide che, nelle ventiquattro ore del giorno, manifestano lo spietato odio degli dei per chi li disprezza, non rivolgendo mai lo sguardo alle Miniadi (ἃς οὔτε… προσδέρκεται). Un caso di variatio emulativa: un inciso, legato al mito dionisiaco, simile a quanto potrebbe essere accaduto, lo vedremo, nelle Bassaridi (ciclo di Licurgo); una possibilità esclude l’altra, e per sostenere quest’ultima ipotesi Eschilo avrebbe amplificato un nucleo principale con un mito collegato al tema della trilogia, una climax che nel terzo dramma completava quanto era iniziato nel primo; certo una costruzione intrigante ma al momento a noi preclusa per sempre (in entrambe le trilo gie). Nel nostro contesto meritano una nota anche le Trophoi (Le Nutrici)51, probabile dramma satiresco legato a questa trilogia. Dalla prima hypothesis della Medea di Euripide sappiamo che l’opera eschilea raccontava come Medea avesse portato a nuova giovinezza le nutrici di Dioniso e i loro mariti, dopo averli bolliti; lo stesso procedimento eseguito dalla maga sul padre di , Esone, quello stesso sortilegio che porta alla morte di Pelia, zio e nemico del marito52. Un riferimento in Ovidio è molto discusso dalla critica ma vale ricordarlo (Metamorfosi 7, 294‑296):

50 Ovidio caratterizza così i pipistrelli, animali che cercano di sfuggire al fuoco e alla luce. 51 I tre frammenti superstiti sono TrGF III, 246 b, c, d. Per una rassegna sia sulle rappresentazioni della ceramografia che sul rapporto tra le Metamorfosi di Ovidio e le Trophoi cf. DI MARCO 2013b. 52 Φερεκύδης δὲ (FGrHist. 3 F 113) καὶ Σιμωνίδης (PMG 548) φασίν ὡς ἡ Μήδεια ἀνεψήσασα τὸν ῾Ιάσονα νέον ποιήσειεν. Περὶ δὲ τοῦ πατρὸς αὐτοῦ Αἴσονος ὁ τοὺς Νόστους ποιήσας φησὶν οὕτως (fr. 6 Kinkel, Allen, Bethe): … . Αἰσχύλος δὲ ἐν {ταῖς 16 Francesco Carpanelli

Viderat ex alto tanti miracula monstri Liber et admonitus iuvenes nutricibus annos posse suis reddi, capit hoc a Colchide munus.

Dall’alto Bacco aveva visto un così straordinario prodigio E, vedendo possibile rendere alle sue nutrici la giovinezza, riceve questo dono dalla donna della Colchide.53

Un’altra grave lacuna nel panorama eschileo54, un vero peccato che ci siano rimaste solo tre parole e nessun papiro frammentario del testo.55

2.2. Suggestioni performative

2.2.1. Poesia e scena

È una società quella tardo antica che si riconosce nella vocazione allo spettacolo, sia quello che offre una letteratura votata all’ἐνάργεια, al porre davanti agli occhi del lettore o meglio dell’ascoltatore il mondo esterno, molto spesso in forme già rappresentate nell’arte56

Questa sintesi può essere estesa a tutta la letteratura ellenistico romana perchè la vocazione allo spettacolo accompagna molte testimonianze, e non solo quelle poetiche. Anche nel caso di Semele Ovidio, e molto dopo di lui Nonno di Panopoli, ci hanno lasciato due ritratti utili per qualsiasi ‘suggestione performativa’.

1) Nel terzo libro delle Metamorfosi di Ovidio dopo la trasformazione e la morte di Atteone, reo di aver visto Diana nuda mentre faceva il bagno, Giunone appare particolarmente felice perché si appresta a vedere la fine

Διονύσου} Τροφοῖς ἱστορεῖ ὅτι καὶ τὰς Διονύσου τροφοὺς μετὰ τῶν ἀνδρῶν αὐτῶν ἀνεψήσασα ἐνεοποίησεν. (TrGF III, 246a). 53 Traduzione di PADUANO 2007 54 SOMMERSTEIN 2008, 249. 55 Il più interessante testimone è forse un vaso del 460 a.C. ca. (ora al Museo Nazionale di Ancona (3198). Cf. KPS pl. 23a, b) in cui si vede, su un lato, una donna che conduce con sé un vecchio satiro verso un calderone (un’immagine simile a quelle in cui la donna è Medea e il vecchio è Pelia. Cf. SOMMERSTEIN 2008, 248), sull’altro lo stesso satiro ora vigoroso sembra avere la capigliatura scura; accanto a sé ha la moglie ed un piccolo satiro. 56 GIGLI PICCARDI 2003, 26. Semele e Licurgo, morte e follia nel teatro eschileo 17 del casato di Cadmo, la stirpe di Europa; la sua attenzione sarà ora rivolta alla rivale del momento, Semele, l’ultima fiamma di Giove, da lui messa incinta. La dea ha un piano: ingannerà la ragazza prendendo l’aspetto della sua vecchia nutrice, Beroe; sarà facile, a quel punto, consigliarle di pretendere una prova d’amore: che il suo amato si mostri con lo stesso aspetto che prende quando si unisce alla sua sposa immortale. A causa di questa richiesta Semele, morirà incenerita dal fulmine divino e dal suo ventre Giove dovrà estrarre il frutto del loro amore, Bacco, e cucirselo nella coscia: sarà così ultimato il tempo della gestazione. Questo il testo (3, 273‑ 315):

Surgit ab his solio fulvaque recondita nube limen adit Semeles; nec nubes ante removit quam simulavit anum posuitque ad tempora canos57 275 sulcavitque cutem rugis et curva trementi membra tulit passu; vocem quoque fecit anilem ipsaque erat Beroë, Semeles Epidauria nutrix. Ergo ubi captato sermone diuque loquendo ad nomen venere Iovis, suspirat et: “Opto 280 Iuppiter ut sit;” ait “metuo tamen omnia; multi nomine divorum thalamos iniere pudicos58. Nec tamen esse Iovem satis est; det pignus amoris59, si modo verus is est; quantusque et qualis ab alta Iunone excipitur, tantus talisque, rogato, 285 det tibi complexus60 suaque ante insignia sumat.” Talibus ignaram Iuno Cadmeida dictis formarat61; rogat illa Iovem sine nomine munus. Cui deus:”Elige”; ait “nullam patiere repulsam; quoque magis credas, Stygii quoque conscia sunto 290 numina torrentis; timor et deus ille deorum est.” Laeta malo nimiumque potens perituraque amantis

57 posuit… canos: come un’attore Era si mette una parrucca bianca; la sua è dunque una trasformazione che avviene tra magia e artificio teatrale. È molto importante ricordare questi particolari per eventuali collegamenti tra poesia e dramma. 58 I thalamos… pudicos sono quelli in cui rimane minima traccia dell’Era eschilea, apparentemente preoccupata della pudicizia delle fanciulle, facilmente preda di uomini che le usano facendosi falsamente vanto del nome degli dei. 59 Il pignus amoris sarà un dono letale che causerà la morte dell’amata. 60 Con il termine complexus si dà una svolta evidentemente erotica alla scena e si danno per scontati incontri di carattere sessuale. 61 Evidente nel verbo il processo di plagio psicologico operato da Era su Semele. 18 Francesco Carpanelli

obsequio Semele: “Qualem Saturnia” dixit “te solet amplecti, Veneris cum foedus initis62, da mihi te talem.” Volvit deus ora loquentis 295 opprimere; exierat iam vox properata sub auras. Ingemuit; neque enim non haec optasse neque ille non iurasse potest. Ergo maestissimus altum aethera conscendit vultuque sequentia traxit nubila, quis nimbos inmixtaque fulgura ventis 300 addidit et tonitrus et inevitabile fulmen. Qua tamen usque potest, vires sibi demere temptat; nec, quo centimanum deiecerat igne Typhoea, nunc armatur eo; nimium feritatis in illo est. Est aliud levius fulmen63, cui dextra Cyclopum 305 saevitiae flammaeque minus, minus addidit irae: tela secunda vocant superi; capit illa domumque intrat Agenoream. Corpus mortale tumultus non tulit aetherios donisque iugalibus arsit. Inperfectus adhuc infans genetricis ab alvo 310 eripitur patrioque tener (si credere dignum est)64 insuitur femori maternaque tempora complet. Furtim illum primis Ino matertera cunis educat; inde datum nymphae Nyseides antris occulvere suis lactisque alimenta dedere. 315

(Era scil.) si alza dal trono, e nascosta in una nuvola fulva65, va a casa di Semele, e non dissolve la nuvola prima di essersi travestita66 da vecchia, mettendosi capelli bianchi, pelle solcata di rughe, e trascinando le membra ricurve con passo tremante; prese anche una voce da vecchia, e fu Beroe, di Epidauro, nutrice di Semele. Attacca discorso e, dopo averle parlato a lungo67, venuta al nome di Giove, fece un sospiro,

62 Vv. 293‑294: Semele vuole vedere Zeus nello stesso modo in cui si presenta a Era. 63 Per levius fulmen, nel rapporto con Nonno 10, 305, cf. D’IPPOLITO 1962, 299‑300. 64 si credere dignum est «è un’espressione dubitativa e un ironico richiamo alla tradizione, tipici della poesia euripidea ed ellenistica (cf. T. C. W. Stinton, «PCPhS» n.s. XXII, 1976, 60‑89)» BARCHIESI/ROSATI 2007, 170. 65 Cf. Verg. Aen. 12, 791‑792. 66 Nel poema avvengono altre trasformazioni: cf. 6, 26 ss. e 14, 656. Per la scelta del nome Beroe cf. Verg. Aen. 5, 620. Nelle Dionisiache (vv. 180‑192) di Nonno, come vedremo, la vecchia rimane anonima. 67 «impersonando una nutrice, Giunone assume alcuni tratti stereotipi della vecchia confidente nel teatro e nell’elegia, chiaccherona, partecipe di segreti amorosi, e pronta Semele e Licurgo, morte e follia nel teatro eschileo 19

e disse: «Spero che sia proprio Giove, ma ho paura: molti spacciandosi per dei entrarono in letti pudichi. E poi, non basta essere Giove!, ti dia una prova del suo amore: chiedigli, se è il vero Giove, che ti abbracci con tutta la grandezza e bellezza con la quale l’accoglie l’eccelsa Giunone, e prima rivesta le sue insegne. Con queste parole sobilla l’ignara figlia di Cadmo;68 lei chiede a Giove un dono senza specificare, e il dio le dice: «Scegli, non c’è niente che io ti rifiuti; e perché tu mi creda, mi sia testimone lo Stige, l’acqua che mette paura perfino agli dei». Lieta del suo male, troppo potente, destinata a morire. Per l’omaggio del suo amante, Semele disse: «concediti a me tale quale usa abbracciarti la figlia di Saturno, quando fate l’amore». Il dio voleva chiuderle la bocca, ma la voce affrettata era già uscita al vento. Gemette: lei non può più non avere espresso il suo desiderio, lui il giuramento. Tristissimo sale in cielo, raduna con lo sguardo le docili nuvole, vi aggiunge i nembi, i lampi mescolati ai venti, e i tuoni e i fulmini a cui non si sfugge. Per quanto può, cerca di togliersi forze, non si arma del fulmine con cui abbattè Tifeo dalle cento braccia: in quello c’è troppa violenza. C’è un altro fulmine, più leggero, dove la mano dei Ciclopi ha meno fuoco e ferocia, e meno collera; gli dei lo chiamano fulmine minore. Lo prende ed entra nella casa di Agenore; il corpo mortale non sopporta lo sconvolgimento celeste e muore del dono nuziale. Dal ventre della madre è estratto un bimbo non ancora formato e, se si può crederlo, tenero com’è, è cucito nella coscia del padre, e così compie il tempo della gestazione. Di nascosto Ino, la zia materna, gli dà le prime cure nella culla e poi lo affida alle ninfe di Nisa, che lo nascondono nei loro antri e gli danno il latte.

2) All’inizio del settimo libro delle Dionisiache di Nonno di Panopoli, dopo la distruzione causata dal diluvio, inizia di nuovo la creazione69. Aion

a dare consigli nella sfera sessuale, sino quasi a sfumare nella tipologia della vecchia mezzana» BARCHIESI/ROSATI 2007, 168. 68 Brusco passaggio, dalla scena del colloquio a quello dell’ennesimo incontro amoroso in cui Semele, per niente timorosa, prende l’iniziativa. 69 Cf. Pl. Pol. 271a ss. 20 Francesco Carpanelli si lamenta con Zeus per i mali che affliggono l’umanità (7, 1‑109) e il dio lo consola con l’annuncio della nascita di un secondo Bacco che darà agli uomini il vino, bevanda capace di togliere tutti gli affanni (7, 67‑109). A questo punto inizia la storia d’amore del Cronide con Semele (7, 110‑368) che si conclude con la vendetta di Era e la morte di Semele (canto 8). (Canto 7) La principessa si è alzata di buon mattino, ancora presa dal sogno che ha avuto nella notte; conduce un carro trainato da muli, come Nausicaa nel sesto libro dell’Odissea. Il sogno era una profezia: Semele ha visto, in un giardino, un albero carico di rami, con un frutto acerbo, bagnato dalla rugiada di Zeus. Una fiamma caduta sull’albero lo distrugge completamente ma il frutto, intatto, viene raccolto e portato al re degli dei da un uccello; Zeus lo cuce nella coscia ma al suo posto sorge un uomo, sotto forma di toro. Tiresia, consultato da Cadmo, consiglia di sacrificare a Zeus un toro e un capro ma Semele si macchia con il sangue del sacrificio e per purificarsi fa un bagno nell’Asopo: proprio in questa occasione il dio la vede nuda e se ne innamora. Giunta la notte Zeus va da Semele e si unisce a lei (vv. 319‑343), come toro, come leone, come leopardo, come serpente. (Canto 8) I primi 33 versi dell’ottavo canto sono unaekphrasis sulla gravidanza di Semele70 dopodiché inizia la narrazione della vendetta di Era e della morte della ragazza, la parte di cui abbiamo traccia nel testo eschileo. Phthonos, geloso di Dioniso, ancora nel grembo materno, assume le sembianze di Ares, per fare ingelosire Era; la tecnica da lui usata è simile a quella di un qualsiasi attore71 (8, 34‑44):

καὶ Φθόνος ὑψιμέδοντος ὀπιπεύων Διὸς εὐνὴν καὶ Σεμέλης ὠδῖνα θεηγενέος τοκετοῖο 35 Βάκχου ζῆλον ἔδεκτο καὶ ἔνδοθι γαστρὸς ἐόντος, αὐτοπαθὴς ἄστοργος ἑῷ βεβολημένος ἰῷ. καὶ φρενὶ κερδαλέῃ σκολιὴν ἐφράσσατο βουλὴν Ἄρεος ἀντιτύποιο φέρων ψευδήμονα μορφὴν ἔντεσι μιμηλοῖσι, καὶ οἷά περ αἵματος ὁλκῷ 40 ἄνθεϊ φαρμακόεντι κατέγραφε νῶτα βοείης ποιητῇ ῥαθάμιγγι, καὶ ὡς κταμένων ἀπὸ φωτῶν βάψας ἰσοτύπῳ δεδολωμένα δάκτυλα μίλτῳ χεῖρας ἐρευθιόωντι νόθῳ φοινίσσετο λύθρῳ·

70 Difficile provare quanto ricordato da GIGLI PICCARDI 2003, 574, a proposito di eventuali riflessi tra questa Semele, influenzata al dionisismo dal bambino che cresce in lei, e la Semele di Eschilo. 71 Cf. GIGLI PICCARDI 2003, 519. Semele e Licurgo, morte e follia nel teatro eschileo 21

Ma la Gelosia, spiando il letto di Zeus, signore del cielo e la gestazione di Semele da cui nascerà un dio, s’ingelosisce di Bacco, anche se è ancora nel ventre materno e incapace d’amore, tutta presa dal sentimento che ispira, è colpita dal suo stesso veleno72. Allora nella sua mente disonesta ordisce un piano sleale ed in questa farsa assume l’aspetto di un falso Ares imitandone anche le armi; per far credere a striature di sangue colora73 la superficie dello scudo di falsi schizzi con fiore velenoso74; poi bagna le sue dita di sosia nel minio75 simile al sangue conseguente ad una strage, così che le mani rosseggiano come per un falso spargimento di sangue.76

Il discorso con cui Phtonos aizza Era è infarcito di allusioni mitologiche che ricordano i tradimenti di Giove. La dea decide di andare da Apate77, per chiedergli il cinto ingannatore che la aiuterà nella vendetta; lo incontra a Creta, patria dell’inganno per antonomasia. Avuta la cintura entra nell’alcova di Zeus e Semele, nel palazzo di Cadmo, e recita una parte da grande attrice restituendoci, forse, il senso del suo colloquio con il Coro sul valore del matrimonio e del pudore (8, 180‑215):

72 Per l’immagine del veleno che infonde la Gelosia cf. A. Ag. 834. 73 Tutto il passo ci porta nel camerino di un attore pronto a truccarsi. Dopo aver assunto l’aspetto di un falso Ares, Phtonos passa a truccare le sue armi con finte striature di sangue e colora lo scudo con schizzi da lui disegnati. 74 «Il fiore che produce un liquido rosso simile al sangue ricorda “i fiori tessali” con cui in 39, 40 Dioniso secondo Deriade ha provocato la metamorfosi dell’Idaspe in vino; su questo episodio e il possibile riecheggiamento del mito egiziano antico che vede come protagonisti Ra e Hathor vd. Gigli Piccardi, «Prometheus» 24, 1998, 80 sg.» GIGLI PICCARDI 2003, 577. 75 «Il minio veniva usato in tal senso (cf. schol. Ad Ar. Av. 230, II) ed era altresì considerato simbolo magico del sangue (PMG VII 223 e XII 98; per un’analisi antropologica di questa simbologia anche in ambito dionisiaco vd. G. Casadio 1999, 62 sgg.). Anche i Sileni in D. 34, 141‑4 si servono dello stesso stratagemma per terrorizzare il nemico» GIGLI PICCARDI 2003, 577. 76 Le traduzioni del libro ottavo delleDionisiache di Nonno di Panopoli sono di GIGLI PICCARDI 2003. 77 Apate è l’Inganno per eccellenza che compare solo qui nel poema. È chiaro che Nonno vuole ricordare il canto quindicesimo dell’Iliade. Richiami come questi erano frequenti fin dalla tradizione ellenistica, come abbiamo già accennato: basta pensare a quanto leggiamo nelle Metamorfosi di Ovidio, filtro di tutti questi procedimenti poetici. Minerva va dall’Invidia (Ov. Met. 2, 760 ss.), Giunone scende nell’Ade a trovare Tisifone (Ov. Met. 4, 432 ss.), Cerere manda Oreade da Fame (Ov. Met. 8, 788 ss.). 22 Francesco Carpanelli

εἰς θάλαμον Σεμέλης ἀπατήλιος ἤλυθεν Ἥρη, 180 ζήλῳ φυσιόωσα· μελιγλώσσῳ δὲ γεραιῇ ἰσοφανὴς φιλόπαιδι δέμας μορφοῦτο τιθήνῃ παιδοκόμῳ, τὴν αὐτὸς ἀνηέξησεν Ἀγήνωρ, καί οἱ κλῆρον ἔδωκε, καὶ ὤπασεν ἀνδρὶ γυναῖκα οἷα πατήρ· κομιδῆς δὲ χάριν τίνουσα καὶ αὐτὴ 185 νήπιον εἰσέτι Κάδμον ἑῷ μαιώσατο μαζῷ καὶ βρέφος Εὐρώπην φιλίῳ πήχυνεν ἀγοστῷ. τῇ δέμας ἶσον ἔχουσα διέστιχεν ἐς δόμον Ἥρη χωομένη Σεμέλῃ καὶ Κύπριδι καὶ Διονύσῳ μή πω φέγγος ἰδόντι, καὶ ἀρτιγάμῳ παρὰ παστῷ 190 τοῖχον ἐς ἀντικέλευθον ἑὴν ἔκλινεν ὀπωπὴν ὄμμα παραστρέψασα, Διὸς μὴ λέκτρα νοήσῃ. τὴν μὲν Πεισιάνασσα καθίζανεν ὑψόθι δίφρου ἀμφίπολος Σεμέλης, Τυρίης βλάστημα γενέθλης, Θελξινόη δὲ τάπητας ἐνήρμοσεν ἤνοπι δίφρῳ. 195 ἔνθα θεὰ σχεδὸν ἧστο δολοπλόκος· εὗρε δὲ κούρην βριθομένην ὠδῖνι πεπαινομένου τοκετοῖο· καὶ τόκον, οὐ ψαύοντα τελεσσιγόνοιο Σελήνης, γαστρὸς ἀσημάντου χλοερὴ κήρυξε παρειὴ καὶ χλόος †ἦν ἐπεὼν μελέων πάρος78· ἑζομένης δὲ 200 Ἥρης ψευδομένης δολόεν δέμας79 ἔτρεμε παλμῷ ἀντιτύπῳ, καὶ νέρθεν ἐπὶ χθόνα κάμπτετο νεύων ὤμοις θλιβομένοισι γέρων κυρτούμενος αὐχήν. καὶ πρόφασιν μόγις εὗρεν· ἐπεστενάχιζε δὲ μύθῳ δάκρυον εὐποίητον ἀποψήσασα προσώπου, 205 καὶ δολόεν κατέλεξεν ἔπος φρενοθελγέι φωνῇ· ‑ εἰπέ, πόθεν, βασίλεια, τεαὶ χλοάουσι παρειαί; πῇ σέο κάλλος ἐκεῖνο; τίς εἴδεϊ σεῖο μεγαίρων πορφυρέους σπινθῆρας ἀπημάλδυνε προσώπου; καὶ ῥόδα τίς μετάμειψεν ἐς ὠκυμόρους ἀνεμώνας; 210 καὶ σὺ κατηφιόωσα τί τήκεαι; ἦ ῥα καὶ αὐτὴ ἔκλυες αἴσχεα κεῖνα, τά περ βοόωσι πολῖται; ἐρρέτω ἀρχεκάκων ὀλοὸν στόμα θηλυτεράων. εἰπὲ δέ μοι, μὴ κρύπτε τεῆς συλήτορα μίτρης· τίς σε θεῶν ἐμίηνε; τίς ἥρπασε σεῖο κορείην; 215

78 Per le problematiche testuali del passo cf. CHUVIN 1992, 192‑193. 79 I tre termini riferiti a Era che finge un ruolo non suo, con un corpo che è finto, all’apparenza, come quello di un attore, insistono su un’immagine che sembra davvero voler rimandare a un testo teatrale in cui Era era truccata da vecchia. Al v. 182 Nonno aveva già detto che il suo «corpo» (δέμας) appariva «come quello di una vecchia melliflua. (Μελιγλώσσῳ δὲ γεραιῇ)» (v. 181); l’insistenza è indizio di un rapporto con un testo conosciuto e quindi probabilmente un dramma. Semele e Licurgo, morte e follia nel teatro eschileo 23

Era s’introduce furtivamente nella camera di Semele, ansante di Gelosia. Apparendo come una vecchia melliflua, prende l’aspetto della nutrice affettuosa e premurosa, che lo stesso Agenore aveva allevato, donandole un pezzo di terra e dandole poi marito80, proprio come un padre; in cambio della sua sollecitudine, l’aveva ripagato nutrendo al suo seno Cadmo appena nato e tenendo fra le braccia affettuose la piccola Europa. Con un aspetto simile al suo Era si introduce nel palazzo, in preda alla rabbia contro Semele, Cipride e Dioniso, che ancora non aveva visto la luce; giunta alla camera, teatro recente d’amore, gira il volto verso la parete opposta, distogliendo lo sguardo per non vedere il letto di Zeus. Allora Peisianassa, ancella di Semele, tiria di nascita, la fa accomodare su un seggio splendente, mentre Thelxinoe vi dispone sopra dei tappeti. Ed eccola là seduta vicino a Semele, la dea, ad intrecciare inganni; trova la fanciulla appesantita per il bambino già maturo per il parto; la gravidanza che non ha ancora compiuto la Luna della nascita è provata dal pallore delle guance più che dalla grossezza del ventre, un pallore diffuso sulle membra, prima rosee. Mentre Era siede sotto mentite spoglie, il suo corpo d’attrice sussulta d’un tremito artefatto; piega giù verso terra le spalle come fosse oppressa, curvando il collo tentennante di vecchia. Alla fine trova un pretesto e parlando piange, asciugandosi una lacrima che scende al momento giusto sul volto; con voce suadente dà il via all’inganno con queste parole: «Dimmi, principessa, come mai le tue guance sono così pallide? Dove è finita la tua bellezza d’un tempo? Chi, invidioso del tuo aspetto, ha fatto appassire i purpurei bagliori del tuo volto? Chi ha cambiato la rosa in effimeri anemoni? Perché ti consumi con codesto aspetto sofferente? Forse anche tu hai udito di quella vergogna di cui si parla in città? Alla malora la bocca funesta delle donne, da cui si originano tanti mali!81 Parlami, non nascondermi chi ha oltraggiato la tua cintura, è uno degli dei che ti ha insozzato? Chi ha rubato la tua verginità?»

80 Cf. Hom. Od. 14, in cui Eumeo ricorda cosa il padrone abbia fatto per lui. 81 Il tema delle chiacchere fatte dalla gente sulle ragazze giovani risale a Omero (a proposito di Nausicaa, Od. 6, 273‑285) ma qui sembra più vicino a quanto scrive Apollonio Rodio (3, 771‑801) nel monologo in cui Medea parla del suo amore per Giasone. Cf. Chuvin 1992, 194. 24 Francesco Carpanelli

2.2.2. Arte e scena

Per quanto riguarda la Semele ci resta un cratere che per il soggetto, ma non per riferimenti specifici al teatro, può vagamente rimandarci a una scena del dramma, meglio forse al racconto della nascita di Dioniso: Semele è nuda, due donne la sostengono; Ermes e una ninfa, alla presenza di altre tre donne, accorrono verso Dioniso, seduto su un prato. La scena è in realtà una variante della versione più diffusa cioè la morte di Semele, il parto prematuro, l’intervento di Zeus che cuce il feto nella sua coscia. Anche se non abbiamo testi di sostegno è interessante registrare questa variante soprattutto perchè sul finale del dramma siamo completamente all’oscuro.82

2.2.3. Ipotesi per la scena

La tetralogia eschilea dedicata a Dioniso comprendeva dunque la saga familiare della famiglia umana del dio, dalla sua nascita fino alla punizione del cugino Penteo (la cui vicenda ci è nota dalle Baccanti di Euripide), con un finale, il dramma satiresco, dedicato alle nutrici del dio, le balie che avevano fatto le veci della madre. Come è emerso nella parte dedicata al testo l’unica traccia di un certo valore è quella della Semele (grazie al papiro ormai da molti ad essa attribuito); il resto sono solo dei titoli. La perdita di questa tragedia è per noi una grave lacuna perché la presenza di Era sulla scena, camuffata da sacerdotessa, lei moglie e sorella del sommo degli dei, avrebbe potuto farci conoscere meglio alcuni aspetti della religiosità eschilea nel rapporto, non facile, tra uomini e dei; al pari possiamo dire che la rappresentazione drammatica di Era e il suo dialogo con la sventurata principessa doveva giocare su quelle immagini che, lo abbiamo visto, sono parzialmente fruibili in Ovidio e in Nonno di Panopoli; il secondo, in modo particolare, ci dà una visione di insieme sulla storia d’amore di Zeus e di Semele che

82 «Ap. 237. Tampa, Tampa Bay Museum of Art, 87. 36 (già Basilea, mercato anti‑ quario). Cratere a volute. A. Collo. Amazzonomachia. Corpo. R. s.: satiro e due donne in movimento verso d.; due donne in movimento verso d.; due donne in atto di sostenere una donna (Semele) nuda, seduta su un mantello; in alto, nimbo radiato, fulmine e astri; donna e giovane satiro in fuga verso d. R. i.: tre donne (ninfe di Nysa), ammantate e stanti; Ermes e donna (ninfa) che accorrono verso il piccolo Dioniso, seduto su un prato fiorito sotto un tralcio di grappoli; papposileno in movimento verso sin. […]». A. Corpo. Eschilo, Semele o Le portatrici d’acqua (Kosatz‑ Deissmann 1994c). Pittore di Arpi. 315‑305» TODISCO 2003, 490. Semele e Licurgo, morte e follia nel teatro eschileo 25 potrebbe essere portata sulla scena come libera reinterpretazione di quella che per noi rimane comunque una favola. Dioniso punisce il casato da cui proviene perché non è stato accettato come dio; lo recuperiamo da le Baccanti che continuano la Semele almeno nel Prologo recitato da Dioniso, soprattutto nei versi in cui ricorda e celebra la madre. Le rovine fumanti della casa di Semele, luogo di culto per il padre Cadmo e per il di lui nipote, riprendono e sostituiscono allegoricamente ciò che di Eschilo abbiamo perduto. Euripide deve aver dato un gande valore agli effetti della Semele e ha scelto di cimentarsi con la parte che aveva più attinenza con il difficile rapporto etico politico tra una comunità, Tebe, e un culto religioso come quello dionisiaco, aggregante ma totalizzante, in consonanza con i cambiamenti della società ateniese nell’ultimo periodo della guerra del Peloponneso. È indubbio che, se si vuole rimanere fedeli al testo tragico, al di là delle suggestioni poetiche successive, la presenza di Era sulla scena, le sue melliflue parole di dea che usa il sentimento religioso per ingannare Semele sono l’unica immagine del dramma che possiamo salvare. Per quanto riguarda le Xantriae è impossibile qualsiasi percorso di una minima credibilità filologico‑letteraria; le suggestioni, ovviamente ipote ‑ tiche, possono riprendere in alternativa: 1) i versi delle Baccanti di Euripide (677‑774) dedicati alla vita delle menadi, soprattutto negli aspetti misterici e in riferimento ai versi recitati da Lyssa, potrebbero contenere tracce delle Xantriae83; 2) la storia legata alle Miniadi, con quei versi che ho citato a proposito di un’allusività ovidiana nei confronti di Eschilo, permette solo di recuperare un’episodio del ciclo dionisiaco di cui non ci rimangono altre tracce drammatiche.

3. «Ragazzo, voglio chiederti qual donna tu sei»84 (la Lycurgheia)

3.1. Il testo

La prima tragedia della tetralogia dedicata al re Licurgo, gli Edoni, era

83 «Il problema è se la furia bacchica sia stata determinata dal comportamento ostile dei pastori e in particolare dall’atto aggressivo del Messaggero. Chi dà a questa domanda una risposta affermativa include la tragedia di Euripide nei parametri concettuali eschilei, in quanto orientati verso la messa in atto della sequenza col ‑ pa\puni zione» Di Benedetto 2004, 125. 84 È la traduzione dei vv. 134‑135 delle Donne alle Tesmoforie di Aristofane (tradu ‑ zione di Del Corno, in PRATO 2001): «Ragazzo, voglio chiederti qual donna tu sei, come Eschilo nel dramma di Licurgo (καί σ᾿, ὦ νεανίσχ᾿, ἥτις εἶ, κατ᾿ Αἰσχύλον ἐκ τῆς Λυκουργείας ἐρέσθαι βούλομαι)». 26 Francesco Carpanelli stata un grande successo85, perché per la prima volta86, al posto del solito dio barbuto della tradizione, appariva sulla scena un’androgina figura vestita con la tunichetta gialla messa sopra il lungo chitone delle donne87; il titolo che ho dato al gruppo di drammi dedicato al rapporto impossibile tra il re Licurgo e il dio Dioniso nasce da questa immagine. Alcuni versi anapestici, cantati dal coro di Traci (anziani sudditi di Licurgo?), che annunciavano l’arrivo di Dioniso e dei suoi seguaci sono i primi a noi rimasti. La descrizione di quanto avveniva per le strade della città doveva essere particolarmente accurata88, come leggiamo in TrGF III, 5789 in cui sono citati gli strumenti e i suoni da essi prodotti, nonché la paura o la follia da essi generati; dopo una lacuna sono salve alcune parti che descrivono, nei particolari, l’atmosfera creatasi all’arrivo del corteo dionisiaco:

σεμνὰ Κοτυτοῦς ὄργι᾽ ἔχοντες

praticando i sacri riti iniziatici di Cotito90

***

ὁ μὲν ἐν χερσὶν βόμβυκας ἔχων, τόρνου κάματον, δακτυλόθικτον91 πίμπλησι μέλος, 4 μανίας ἐπαγωγὸν ὁμοκλάν, ὁ δὲ χαλκοδέτοις κοτύλαις ὀτοβεῖ

Un uomo tiene nelle mani dei flauti, foggiati al tornio,

85 Lo dice un epicureo del primo sec. a.C., Demetrio Lacone (cf. TrGF III, T69) e le parodie della commedia lo confermano (cf. Cratin. fr. 40 K. A. e Ar. Av. 276, Ra. 47, frr. 181, 307 K. A.). 86 Ricordiamo comunque che, per quanto riguarda il soggetto, non è escluso che Eschilo seguisse le orme di Polifrasmone che aveva portato sulla scena una Lycurgheia nel 467 a.C. La data di composizione può essere fissata tra il 470 e il 460 a.C. cf. DI MARCO 1993, 146‑148. 87 Cf. PRATO 2001, 179‑180. 98 cf. XANTHAKIS‑KARAMANOS 2005. 89 Cf. Sommerstein 57. 90 Cotito è una divinità tracia i cui riti non dovevano essere particolarmente diversi da quelli dionisiaci, ed erano forse menzionati nella parte che non leggiamo. Lo dice Strabone stesso nel riportare la citazione (10, 16 : « Presso i Traci i culti orgiastici corrispondono a quelli di Cotito e di Bendide». 91 Θικτον Jacobs: δεικτον codd. Semele e Licurgo, morte e follia nel teatro eschileo 27

e suona una melodia frutto delle sue dita, incitamento che porta alla follia, mentre un altro fa strepitare cembali di bronzo

***

ψαλμὸς δ᾿ ἀλαλάζει· ταυρόφθογγοι δ᾿ ὑπομυκῶνταί ποθεν ἐξ ἀφανοῦς φοβεροὶ μῖμοι, ἠχὼ τυπάνου δ᾿92, ὥσθ᾿ ὑπογαίου βροντῆς, φέρεται βαρυταρβής

…e il suono della cetra risuona: terrificanti imitatori che muggiscono come tori rispondono da un luogo indefinito, e il rimbombo di un timpano, quasi fosse un sotterraneo suono, si diffonde creando forte spavento93. (TrGF III, 57)

Segue uno scontro con Licurgo che, come Penteo nelle Baccanti cerca di ridicolizzare l’aspetto del dio silenzioso al suo cospetto. I pochi versi che abbiamo anticipano quanto leggiamo in Euripide94:

ὅστις χιτῶνας βασσάρας τε Λυδίας ἔχει ποδήρεις

92 ἠχὼ τυπάνου δ᾿ F. W. Schmidt. 93 Si è dato scarso rilievo, in passato, all’importanza che hanno queti suoni indefiniti e indefinibili, soprattutto perché non sappiamo quanto essi fossero realmente ricreati (nel retroscena?) per gli ascoltatori; un recentissimo studio di Sahara Nooter (NOOTER 2017, 78‑79) si sofferma proprio su questo frammento che commenta così: «Here we can perceive the fearsome qualities of musical sounds that arise not from a martial setting, as in Persians, but from orgiastic rites. Much time is spent in this passage detailing the unsettling sounds that announce the presence of Dionysus. In a play that tells of Dionysus’ destruction of Lycurgus, these sounds likely connoted the menace of the divine world. Aeschylus is not alone in characterizing Bacchic sounds as fearful, nor can we know the dramatic use to which Aeschylus puts this description and how the dramatic use to which Aeschylus puts this description and how it differs from, for example, Euripides’ description of bacchants’ sound of worship in his later play on the destructive power of Dionysus. But what we can see is how swiftly and explicity Aeschylus links the sounds of Bacchic worship to inhuman voices, unseen origins, and the fear these sites of ignorance inspire in listeners. In Aeschylean tragedy, these sounds and voices draw the audience into a recognition of mortal fragility, whether by showing the vulnerabity heard in a utterance or felt in the act of hearing». 94 cf. Ba. 576‑603. 28 Francesco Carpanelli

Uno che porta chitoni e pelli di volpe lidie lunghe fino ai piedi95 (TrGF III, 59)

***

τίς ποτ᾿ ἔσθ᾿ ὁ μουσόμαντις † ἄλλος ἀβροβάτης96 ὃν σθένει †

Chi è mai questo profeta canterino,…un altro che cammina come un effeminato97 (TrGF III, 60)

***

ΛΥΚΟΥΡΓΟΣ ποδαπὸς ὁ γύννις; τίς πάτρα; τίς ἡ στολή;

LICURGO Di quale paese è questo effeminato, qual è il suo paese, che veste indossa?98 (TrGF III, 61)

***

95 Probabilmente una considerazione di Licurgo che descrive Dioniso. 96 ἀβροβάτης Hermann, Friebel. 97 Il fatto che qui si faccia riferimento ad un secondo effeminato del gruppo di iniziati, ha fatto pensare ad Orfeo anche perché, sempre seguendo questa linea, il secondo dramma, Le Bassaridi, sarebbe incentrato sulla figura del vate‑poeta. Cf. DI MARCO 1993. 98 Ar. Thesm. 136. Nel testo di Aristofane ci sono nove versi (136‑145) che dovrebbero venire dalla Lykurgheia, come attesta lo scoliaste al v. 135: Mnesiloco dice ad Agatone che desidera interrogarlo usando le stesse parole usate da Eschilo nella Lycurgheia. È impossibile distinguere (come molti cercano di fare, cf. e.g. SOMMERSTEIN 2008, 67, n. 1) le aggiunte non eschilee in quanto i riferimenti ad Agatone, adatti ad un ambito comico, non si adattano assolutamente, per la volgarità, ad un contesto tragico: ΚΗΔΕΣΤΗΣ: Καί σ’, ὦ νεανίσκ’, εἴ τις εἶ, κατ’ Αἰσχύλον / ἐκ τῆς Λυκουργείας ἐρέσθαι βούλομαι. / Ποδαπὸς ὁ γύννις; Τίς πάτρα; Τίς ἡ στολή; / Τίς ἡ τάραξις τοῦ βίου; Τί βάρβιτος / λαλεῖ κροκωτῷ; Τί δὲ δορὰ κεκρυφάλῳ; / Τί λήκυθος καὶ στρόφιον; Ὡς οὐ ξύμφορα. / Τίς δαὶ κατόπτρου καὶ ξίφους κοινωνία; / Σύ τ’ αὐτός, ὦ παῖ, πότερον ὡς ἀνὴρ τρέφει; / Καὶ ποῦ πέος; Ποῦ χλαῖνα; Ποῦ Λακωνικαί; / Ἀλλ’ ὡς γυνὴ δῆτ’; Εἶτα ποῦ τὰ τιτθία; / Τί φῄς; Τί σιγᾷς; Ἀλλὰ δῆτ’ ἐκ τοῦ μέλους / ζητῶ σ’, ἐπειδή γ’ αὐτὸς οὐ βούλει φράσαι; («PARENTE: Ragazzo, voglio chiederti qual donna tu sei, come Eschilo nel dramma di Licurgo. Da dove viene l’uomo femmina? Qual è la sua patria? Cos’è questo disordine della vita? Cos’ha da dire la cetra alla gonna? E la lira alla Semele e Licurgo, morte e follia nel teatro eschileo 29

μακροσκελὴς μέν ἆρα μὴ χλούνης τις ἦν;

Ha gambe lunghe davvero – è possibile che fosse un predone?99 (TrGF III, 62)

L’epifania di Dioniso, probabilmente dopo il suo arresto nel palazzo, ed una conseguente magica liberazione:

ἐνθουσιᾷ δὴ δῶμα, βακχεύει στέγη

La casa è davvero preda di invasamento divino, l’edificio è pervaso dal furore bacchico100 (TrGF III, *58)

Se il plot prevedeva che, alla fine della trilogia drammatica, Licurgo tornasse in sé dopo aver infierito sul corpo del figlio, le analogie con la struttura delle Baccanti di Euripide (Agave non riconosce Penteo e gli mozza la testa come se fosse stato una bestia feroce) sono certe. Le testimonianze rivelano quanto meno il successo di questo tema anche se è per noi impossibile, purtroppo, conoscere il finale degli Edoni (come della trilogia) che poteva trattare l’imprigionamento di Licurgo e la sua morte101. Nel secondo dramma della tetralogia, le Bassaridi, i frammenti sono davvero di scarso aiuto ma un’integrazione di Kannicht102, che unisce TrGF III, 23 con TrGF II, 144, ci fornisce una delle prime attestazioni letterarie della trasformazione in toro103 di Dioniso come elemento rituale104:

cuffia? E l’olio da atleta e la fascia del seno? Che stonatura! E poi, lo specchio e la spada cos’hanno in comune? E tu, figliolo, sei proprio un uomo? Dov’è l’uccello? Dov’è il mantello? E le scarpe alla spartana? Sei una donna, dunque? E allora, dove sono le tette? Cosa dici? Perché taci? Devo capire chi sei dal tuo canto, poiché tu stesso non vuoi dirlo?» Ar. Thesm. 134‑145. Traduzione di Del Corno in PRATO 2001). 99 Un’altra descrizione di Dioniso da parte di Licurgo. 100 La liberazione di Dioniso è accompagnata dal suo manifestarsi, come precisa nella sua citazione Longino (De subl. 15, 6): «In Eschilo la reggia di Licurgo quando il dio si manifesta è incredibilmente scossa (παρὰ…Αἰσχύλω παραδόξως τὰ τοῦ Λυκούργου βασίλεια κατὰ την ἐπιφάνειαν τοῦ Διονύσου θεοφορεῖται)» 101 Cf. WEST 1990, 64‑70. 102 KANNICHT 1957; cf. TrGF III, p. 139. 103 «The double nature of Dionysus as god and animal and his thiasos as human beings and animals in Aeschylus’ ‘Dionysiac’ plays and Euripides’ Bacchae show that Dionysiac religion revolves around the peculiar god, at once superman and ‘sub‑man’, beast and stranger» XANTHAKI‑KARAMANOU 2012, 335. Cf. E. Ba. 100; 920‑922; 1017‑ 1018; 1159. 104 Cf. ROSENMEYER 1983, 376. 30 Francesco Carpanelli

ὁ ταῦρος δ᾿ ἔοικεν κυρίξειν τίν᾿ ἀκτάν, τίν᾿ ὕλαν δράμω; ποῖ πορευθῶ; …… φθάσαντος δ᾿ ἐπ᾿ ἔργοις προπηδήσεται νιν.

sembra che il toro stia per attaccarmi con le corna; in quali vetta, in quale riva, in quale selva potrò fuggire? Dove posso andare? … in fretta balzerà su di lui per portare a termine l’azione.

È la descrizione di Dioniso, trasformatosi in toro mentre attacca un suo nemico, ma non possiamo sapere chi sia in realtà quest’ultimo; il solo appiglio che abbiamo è ciò che leggiamo nei Catasterismi (24)105, attribuiti ora a Eratostene di Cirene, in cui si riporta che «come dice Eschilo106» Orfeo si allontanò dal culto dionisiaco per passare a quello di Apollo Elio, dopo la sua catabasi negli Inferi, in seguito alla morte di Euridice (che non riuscì a riportare sulla terra). In suo onore Orfeo sarebbe salito sul monte Pangeo107 e le Bassaridi108, sacerdotesse di Dioniso, lo avrebbero punito facendolo in pezzi sparsi poi in diverse direzioni109; le Muse, allora, dopo

105 Riporto il testo elaborato da WEST 1990, 34; si tratta di un «working text» nato dal confronto tra il codice Vat. Gr. 1087 (T) e la vulgata: …διὰ δὲ τὴν γυναῖκα εἰς ῞Αιδου καταβὰς καὶ ἰδὼν τὰ ἐκεῖ οἷα ἧν τὸν μὲν Διόνυσον οὐκέτι ἐτίμα, ὑφ᾿ οὗ ἧν δεδοξασμένος, τὸν δὲ ῞Ηλιον μέγιστον τῶν θεῶν ἐνόμισεν, ὃν καὶ ᾿Απόλλωνα προσηγόρευσεν. ἐπεγειρόμενός τε τὴν νύκτα ἓωθεν κατὰ τὸ ὄρος τὸ καλούμενον Πάγγαιον προσέμενε τὰς ἀνατολάς, ἵνα ἵδῃ τὸν ῞Ηλιον πρῶτος. ὅθεν ὁ Διόνυσος ὀργισθεὶς αὐτῷ ἔπεμψε τὰς Βασσάρας, ὥς φησιν Αἰσχύλος ὁ τῶν τραγῳδιῶν ποιητής, αἳ διέσπασαν αὐτὸν καὶ τὰ μέλη ἔππιψαν χωρὶς ἔκαστον … («Egli (scil. Orfeo) dopo escere sceso nell’Ade per sua moglie ed aver visto qual era la situazione laggiù, non onorava più Dioniso, dal quale egli era stato reso famoso, ma riteneva che il più grande degli dei fosse Elios, cui si rivolgeva anche con il nome di Apollo. E svegliandosi, di notte, all’alba saliva sul monte chiamato Pangeo e e si poneva in direzione di oriente per essere il primo a vedere il sole. Allora Dioniso, adiratosi, inviò contro di lui le Bassaridi, come dice il tragediografo Eschilo. Queste lo fecero a pezzi e dispersero le sue membra in parti differenti»). 106 Per la discussione concernente il valore che si debba dare al verbo greco «dice», cioè se si riferisca realmente al contenuto della tragedia eschilea cf. DI BENEDETTO 2004, 108‑110. 107 Leggiamo il nome del monte Pangeo anche in uno dei frammenti delle Bassaridi (TrGF III, 23a). È lo stesso monte sul quale sarebbe morto anche Licurgo. 108 Dalla parola anaria βασσάρα, «volpe», gli scoliasti pensano che il nome sia da leggere in riferimento alle pelli di volpe con cui queste menadi si agghindavano. 109 Fondamentale per questa ipotesi l’intervento di DI MARCO 1993. Cf. anche MARCACCINI 1995 e SEAFORD 2005. Semele e Licurgo, morte e follia nel teatro eschileo 31 aver ricomposto il cadavere, lo avrebbero sepolto sui monti Libetri. West110 ipotizza dunque: ‑ un monologo di Orfeo, di ritorno dagli inferi dove aveva avuto delle rivelazioni sull’Ade; ‑ una parodo cantata dal Coro composto dalle Bassaridi; ‑ uno stasimo sulla storia del musicista mitico Tamiri111, cui seguiva il racconto di come il dio avesse perseguitato e reso folle Orfeo112. Si tratterebbe, in questo caso, di una novità molto forte nella struttura di una trilogia, una sorta di ‘romanzo di formazione’ realizzato in forma teatrale, a cesura della storia principale; più prudente, forse, pensare che Orfeo e Tamiri, puniti brutalmente, rappresentino due inserti nel cammino di redenzione di Licurgo. È, dunque, impossibile, a mio parere, affermare che la testimonianza di Eratostene si riferisca ad un’opera completamente dedicata a Orfeo e al suo destino, una volta abiurato il credo dionisiaco, ed è semmai più semplice pensare ad inserti corali che dovevano servire da ammonimento a Licurgo in attesa della sua redenzio ne. Ciò che a noi

110 WEST 1990, 64‑70. 111 RAMELLI 2009, test. 84, 229‑231: «Scolii V ad Euripide, “Reso”, 916. 922 (ed. H. Rabe, “Rheinisches Museum” 63, 1908, 420‑421: “[…] Presso Eschilo, invece, i fatti di Tamiri e delle Muse si trovano narrati in modo un po’ diverso. Ebbene, Asclepiade, nelle Trame delle tragedie, riguardo a queste storie dice così: “Dicono che Tamiri, quanto all’aspetto, suscitasse meraviglia; degli occhi, ne aveva uno bianco, il destro, e l’altro, il sinistro, invece nero e, quanto a competenza nel canto, si distingueva fra tutti quanti gli altri. Ebbene, quando le Muse giunsero in Tracia, Tamiri fece la proposta, rispetto a loro, di abitare insieme con tutte, dicendo ai Traci ripetutamente che era legittimo che un uomo stesse insieme con molte. Esse, allora, lo invitarono, su questo, a svolgere una gara di canto, con il seguente patto: qualora a vincere fossero state loro, egli avrebbe fatto quello che esse avessero voluto; qualora invece fosse stato lui a vincere, avrebbe potuto prendersi in moglie tutte quante egli avesse voluto. Si trovarono d’accordo su questi patti. E vinsero le Muse, e gli cavarono gli occhi. Omero, invece, dice che i fatti relativi a Tamiri accaddero presso Dorio: …e Steleo e Dorio, e dove le Muse si scontrarono con il tracio Tamiri e lo fecero desistere dal canto. “Pangeo con strumenti”] †…†. Dicono che vicino al Pangeo le Muse abbiano gareggiato con Tamiri. Omero dice che fu presso Dorio. “dalle auree zolle”] ha chiamato così il Pangeo (v. 921), in quanto lì ci sono miniere d’oro. Eschilo, per parte sua, nelle Bassaridi, afferma che vi siano miniere d’argento. Similmente, anche lo stesso Euripide, un pochino sotto, dice (v. 970): nascosto in questi antri di una terra che sotto l’argento…ed Eschilo dice così:…del Pangeo, infatti, illuminò le altezze ricche d’argento, la luce acuta di un lampo». Lo scoliaste unirebbe dunque il nome di Tamiri (poeta che si vantava di essere superiore alle Muse e per questo era stato da quelle privato di vista, memoria e voce) con la montagna del Pangeo, citando anche le Bassaridi di Eschilo. 112 Cf. TrGF III, 23. 32 Francesco Carpanelli rimane è soprattutto un indizio sul pensiero che guida i tre drammi: il contatto di Eschilo, probabilmente fin dal suo primo sog giorno siciliano, con il pitagorismo, e le relative convergenze tra que st’ul timo e l’orfismo, sono ben attestate nel sesto sec. a.C. La trilogia dunque non può che essere dettata dalla ricerca di una conciliazione tra due sensibilità diverse dell’orfismo113, una dionisiaca ed una pitagorica114. Dal punto di vista testuale un’altra fondamentale considerazione da fare è che non rimane traccia dell’assassinio del figlio Driante da parte di Licurgo impazzito, ma neppure della morte del re stesso. Del terzo dramma, i Neaniskoi115, non abbiamo alcun frammento che possa indirizzarci sul plot e le ipotesi avanzate riguardano l’eventualità che dopo l’esempio di Orfeo punito come seguace di Apollo‑Elios si proponesse la riconciliazione tra i due culti seguiti in Tracia116 cui abbiamo accennato; il titolo sarebbe quindi da vedere in relazione ai giovani Edoni, i nuovi sacerdoti di questa sintesi religiosa. È evidente che questa teoria vive in consonanza con la precedente sulle Bassaridi: un’ipotesi che sottende una visione totalmente cultuale e filosofica della trilogia. È certo che questa sia un’interpretazione credibile alla luce di quei pochi frammenti che abbiamo in cui gli elementi di un credo misterioso, violento, ma soprattutto legato alla figura di Dioniso vindice, non sono assolutamente da sottovalutare. Se Licurgo, lo attesta la ceramografia117, uccide il figlio, forse anche la moglie, e viene poi punito, come riportano Sofocle e Apollodoro, per ciò che ha commesso, sotto l’effetto dell’invasamento dionisiaco, nel secondo dramma della trilogia la presenza delle menadi Bassaridi e il canto su Orfeo fanno pensare che proprio qui si nasconda un plot legato all’immotivato assassinio del giovane Driante (alla presenza appunto del Coro delle baccanti). La fine del re trascinato in catene nella prigione sotterranea (l’Ade di Orfeo), ipotizzabile nel terzo dramma, è un modo per indicare anche il cammino di chi è destinato a tornare alla luce; un Coro di Giovinetti, edoni convertiti

113 Cf. EDMONDS III 2013. 114 cf. SEAFORD 2005, 606 e SEAFORD 2012, 281‑292. 115 «Ancor meno si sa del terzo dramma; i Fanciulli (Neanískoi) del titolo ovviamente costituivano il coro e presumibilmente «rappresentano il prototipo di un’organiz zazione efebica» (West): «neanískoi indica specificamente gli iniziati, superate le prove che trasformano un essere umano da bambino a uomo; sospetto che i Neanískoi non fossero altro che gli Edoni dopo la conversione». È possibile che la trilogia si concludesse con la conciliazione tra Dioniso e Apollo‑Helios e con lo stabilirsi del culto solare in Tracia, in conformità a un dato culturale ben noto anche a Eschilo» AVEZZÙ 2003, 80. Cf. JOUAN 1992, 75‑76. 116 Cf. WEST 1990, 47 e SEAFORD 2005, 606. 117 Cf. ultra la breve rassegna sulle testimonianze della ceramografia. Semele e Licurgo, morte e follia nel teatro eschileo 33 al nuovo credo, accompagnerebbe le riflessioni di un uomo sconfitto ma destinato a risalire dalle tenebre, pronto ormai a riconoscere il dioni‑ sismo.118 Il dramma satiresco, Licurgo119 integrava, forse, l’immagine del re tirannico che aveva cercato di addomesticare anche i satiri120: Licurgo sarebbe qui presentato scherzosamente per essere riassorbito in ambito dionisiaco; nel frammento che abbiamo il sovrano sembra ormai un ubriacone trace che, abbandonata la birra, bevanda in uso nella sua terra, si è convertito al vino121 (TrGF III, 124):

κἀκ τῶνδ᾿ ἔπινε βρῦτον ἰσχναίνων χρόνῳ κἀσεμνοκόμπει τοῦτ᾿ ἐν ἀνδρείᾳ στέγῃ

e dopo di ciò beveva del mosto che aveva fatto concentrare col tempo e faceva vanto di questo fatto nella stanza degli uomini.122

In un simile contesto escludo che si possa pensare ad un Licurgo resuscitato, anche se per burla, e in più ubriaco.

118 Una tesi questa riassunta così da JOUAN 1992, 75: «Les Néaniskoi devaient tirer leur nom des jeunes Édoniens qui formaient le choeur, sans doute un groupe éphebique de sectateurs de Dionysos (plutôt que d’Apollon, comme le suggère West). À notre avis, c’est dans ce drame que s’accomplissait le châtiment de Lycurgue. Un moment désarmé, le roi reprenait ses persecutions nocturne. Il y a sans doute plusiers souvenirs de la pièce dans un stasimon de l’Antigone de Sophocle où le choeur énumère des précédents à l’emprisonnement de l’héröine dans un caveau». 119 «Come nella trilogia tebana, il satiresco Licurgo doveva comportare la regressione a una fase precedente della storia, forse al momento della liberazione di Satiri e Baccanti dalla prigionia loro inflitta dal re degli Edoni» VEZZÙA (2003, 80). 120 È un riferimento che leggiamo in Nonno di Panopoli (Dion. 20, 226‑227 e 248‑ 250) come ricorda anche SOMMERSTEIN 2008, 127. 121 «Se l’ipotesi di una conclusiva conversione di Licurgo alle dionisiache gioie del vino coglie nel segno, possiamo ragionevolmente credere, mettendo ancora una volta a frutto le indicazioni offerteci dal frammento di Timone, che nel comporre il dramma satiresco Eschilo abbia voluto riprendere, con un’operazione di rovesciamento speculare, uno dei motivi fondamentali svolti in precedenza dalla trilogia tragica: colui che nel σατυρικόν finale mostrava di gustare gli effetti inebrianti del vino era lo stesso Licurgo che la scena tragica ci aveva mostrato feroce persecutore di Dioniso e della vite; e gli stessi avvinazzati compagni del dio contro cui nella trilogia tragica si era abbattuta la furia del re tracio diventavano infine – nelle persone dei satiri – suoi allegri compagni di bevuta» DI MARCO 2013a, 210. 122 Traduzione di MORANI 1987. 34 Francesco Carpanelli

3.2. Poesia e scena

1 ‑ Il Lucurgus, il dramma di Nevio di cui abbiamo il maggior numero di frammenti, ha indubbi legami con il testo eschileo che, a parte ciò che può essere stato scritto in epoca ellenistica, sono difficili da negare nel confronto con i frustuli greci che abbiamo riportato.123 Leggiamo i passi che ci indirizzano in questa direzione dividendoli per argomenti: a ‑ L’avvistamento delle Baccanti e di altri seguaci di Libero:

alte iubatos angues in sese gerunt

portano su di sé serpenti124 dall’alta cresta (TRF3 18)125

***

† lib. II †126 quaeque incedunt, omnis aruas opterunt

dovunque passano, devastano tutti i campi (TRF3 19 )127 b ‑ Licurgo ordina di dare la caccia a strani figuri:

uos, qui regalis corporis128 custodias agitatis, ite actutum in frundiferos locos, ingenio arbusta ubi nata sunt, non obsitu

voi che fate la guardia alla persona regale, andate subito in luoghi frondosi, dove alberi sono nati spontaneamente, senza che alcuno li abbia piantati (TRF3 21‑23)

123 Per le ipotesi di ciò che può essere stato scritto dopo Eschilo e prima di Nevio cf. LATTANZI 1994, 191‑202. 124 Le baccanti in preda dell’invasamento dionisiaco sono avvolte da serpenti. 125 Le traduzioni di TRF3 sono di LATTANZI 1994. 126 C’è qui un errore da ricondurre all’archetipo. 127 Scil. i seguaci di Dioniso (Libero). 128 «L’uso di corpus unito in perifrasi ad un genitivo o, come in questo caso, ad un aggettivo denominativo ricalca quello di δέμας nella lingua della tragedia attica, soprattutto euripidea»ATTANZI L 1994, 213. Semele e Licurgo, morte e follia nel teatro eschileo 35

c‑ Le baccanti sulla scena

ut in uenatu uitulantis ex suis locis nos mittant poenis decoratas feris

che lascino andare via dalle loro terre noi, esultanti nella caccia, adorne di pene crudeli (TRF3 29‑30)129

***

pallis, patagiis, crocotis130, malacis mortualibus

con ampie vesti, frange dorate, crocotule, morbide gramaglie (TRF3 43)131 d ‑ Il racconto delle guardie che hanno catturato il corteo dionisiaco:

nam ut ludere laetantis inter se uidimus † praeter amnem creterris sumere aquam ex fonte

come infatti le vedemmo scherzare gioiose tra loro oltre il fiume, attingere con dei vasi acqua da una fonte… (TRF3 41‑42) e ‑ La cattura di Libero e il suo confronto‑scontro con Licurgo:

diabatra in pedibus habebat, erat amictus epicroco

sandaletti aveva ai piedi, era avvolto da un mantellino TRF( 3 54)

***

dic, quo pacto eum potiti: pugnan an dolis?

Dì, in che modo lo avete preso: con la lotta o con l’inganno? TRF( 3 34)

***

129 Le baccanti, fatte prigioniere, sperano di essere rilasciate. 130 Un abito giallo e trasparente indossato nelle feste dionisiache oppure da Dioniso stesso nella sua rappresentazione teatrale (cf. Ar.Ra. 46 e Cratin. Fr. 40 K.‑A.). Crocota è un termine molto importante perché nel v. 138 delle Tesmoforiazuse di Aristofane, la parte della Lycurgheia eschilea parodiata dal poeta comico, c’è il termine κροκωτός: una piccola prova del testo cui Nevio ha guardato. 131 Le vesti delle baccanti. 36 Francesco Carpanelli

Ne ille mei feri ingeni atque animi acrem acrimoniam

Certo egli [subirà] l’aspra violenza del mio fiero carattere e del mio animo (TRF3 35)

***

Caue sis tuam contendas iram contra cum ira Liberi

Bada invece, per favore, di non mettere a confronto la tua ira con quella di Libero (TRF3 36) f ‑ La condanna a morte del corteo dionisiaco da parte del re:

ducite eo tum argutis linguis mutas quadrupedis […]

conducete là allora i mugulanti quadrupedi dalle lingue canore… (TRF3 24‑25)

***

sine ferro pecua manibus ut ad mortem meant

come vanno alla morte per la forza di mani disarmate gli animali domestici (TRF3 44) g ‑Libero, ora rivelatosi nella sua essenza divina, ordina di portargli Licur ‑ go (dopo che un Messaggero aveva annunziato l’assassinio dei familiari compiuto dal re?):

proinde huc Druante regem prognatum patre Lucurgum cette

Portatemi qui dunque il re Licurgo, progenie del padre Driante (TRF3 46‑47)

Del finale non abbiamo traccia ma gli studiosi concordano, come per il resto del plot132, su quanto riassume Lattanzi133: «A questo punto forse il dio annuncia al re che dovrà morire, perché una carestia colpirà il suo

132 Cf. RIBBECK 1875, 55 ss.; WARMINGTON 19572, 122 ss.; MARMORALE 19502, 191 ss.; PASTORINO 1957, 35 ss. 133 1994, 265. Semele e Licurgo, morte e follia nel teatro eschileo 37 popolo e potrà avere fine solo con la sua morte. Nella parodo infine gli edoni, ormai conquistati dal nuovo dio e convertiti al suo culto, escono di scena portando via Licurgo»

2 ‑ In un lungo percorso diacronico ritroviamo un excursus su Licurgo nella sezione che Nonno di Panopoli gli riserva nei canti 20 e 21 delle Dionisiache; un’ultima incursione in questo testo che attesta l’evoluzione di un personaggio che continua ad avere, anche dopo secoli, l’impronta datagli da Eschilo, tale doveva essere stato il successo della Lykurgheia. Dioniso viene ingannato da Iris con la promessa che anche Licurgo gli sarà favorevole; tutto questo nel contesto di una versione recente del mito, quella di Antimaco di Colofone (IV sec. a.C.)134, secondo la quale Licurgo viveva in Arabia e non in Tracia135 come la tradizione, fin da Omero, aveva voluto. Purtroppo non sappiamo niente delle versioni poetiche ellenistiche e imperiali e quella di Nonno non ha certo molto in comune con la linea che abbiamo supposto per Eschilo perché si tratta di un plot molto vicino ad un romanzo: sogni, imbrogli, false aspettative che culminano in uno scontro frontale, una fuga del corteo dionisiaco perseguitato da Licurgo, il finale con il trionfo di Dioniso e l’accecamento del re. Voglio solo ricordare un passo relativo all’incontro tra i due futuri nemici perché contiene un ricordo eschileo, vago ma lo conserva; è tratto dal libro 20 delleDionisiache , vv. 304‑324:

καὶ θρασὺς ὡς ἤκουσεν ἄναξ ἀλάλαγμα χορείης 304 <…………………………………………………………> αὐλοῦ μελπομένοιο μέλος Βερεκυντίδος ἠχοῦς 305 καὶ καναχῆς σύριγγος, ἀρασσομένης δὲ καὶ αὐτῆς μαίνετο παπταίνων διδυμόκτυπα κύκλα βοείης·

134 Cf. Diod. Sic. 3, 65, 7. 135 «1) sceglie l’ambientazione presso la Nisa araba […] 2) fa poi di Licurgo un figlio di Ares […]; 3) gli attribuisce i caratteri di un feroce predone omicida; 4) inserisce un intervento diretto di Era ostile a Dioniso […]; 5) unisce inoltre nel c. 21 due tipi di vendetta contro Licurgo: quella operata da Ambrosia metamorfosizzata in vite insieme ad altre Baccanti (21, 33 sgg.) e, come in Omero, l’accecamento a opera di Zeus (21, 165‑169); 6) a questa punizione accompagna un’ulteriore rappresaglia divina dei sudditi di Licurgo (21, 90‑123) […] Del mito di Licurgo risulta così trascurato solo l’elemento che invece era piaciuto ai tragici, vale a dire la sua follia, mandatagli come punizione e in conseguenza della quale aveva ucciso la moglie e il figlio. Nemmeno questo aspetto però manca del tutto; solo che esso è stato, per così dire, spostato da Licurgo ai suoi sudditi, i quali divengono uccisori e cannibali dei propri figli (21, 110 sgg.). » GONNELLI 2003, 412‑413. 38 Francesco Carpanelli

καὶ θεὸν ἀμπελόεντα παρὰ προθύροισι δοκεύων, σαρδόνιον γελόων, φιλοκέρτομον ἴαχε φωνήν, Βασσαρίδων ἐλατῆρι χέων ἄσπονδον ἀπειλήν· ‑ ἡμετέρων ὁράᾳς ἀναθήματα ταῦτα μελάθρων; καὶ σύ, φίλος, κόσμησον ἐμὸν δόμον ἢ σέο θύρσοις ἢ ποσὶν ἢ παλάμῃσιν ἢ αἱματόεντι καρήνῳ. εἰ κεραοῖς Σατύροισι, κερασφόρε Βάκχε, κελεύεις, ὑμέας ἶσα βόεσσιν ἐμῷ βουπλῆγι δαμάσσω. τοῦτό σοι ἐξ ἐμέθεν ξεινήιον, ὄφρα τις εἴπῃ, ἢ θεὸς ἢ μερόπων τις, ὅτι προπύλαια Λυκούργου ἡμιτόμοις μελέεσσιν ἐμιτρώθη Διονύσου. οὐ παρὰ Βοιωτοῖσιν ἀνάσσομεν, οὐ τάδε Θῆβαι, οὐ Σεμέλης δόμος οὗτος, ὅπῃ νόθα τέκνα γυναῖκες ἀστεροπῇ τίκτουσι καὶ ὠδίνουσι κεραυνῷ. σείεις οἴνοπα θύρσον, ἐγὼ βουπλῆγα τινάσσω, καί σε διατμήξας βοέου κατὰ μέσσα μετώπου ὑμετέρην ἐπίκυρτον ἀναρρήξαιμι κεραίην.

Non appena il sovrano violento ode il gridare di quella banda, [esce dal palazzo, furente per il suono]136 dell’aulos che intona il canto della melodia berecinzia e per quello della siringa stridula, e si infuria anche vedendo le rotonde pelli bovine battute d’ambo i lati. Scorge nel suo vestibolo il dio dell’uva, e ride sardonico, pronuncia allora parole di scherno riversando implacabile minaccia al capo delle Bassaridi. «Tu le vedi, queste offerte appese nel mio palazzo? Decora anche tu, amico, la mia casa coi tuoi tirsi O con i piedi, o con le mani, o con la testa sanguinante. allora io vi ucciderò, come dei buoi, con la scure bovina. Questo sia per te il mio dono ospitale, di modo che qualcuno, un dio o un mortale, possa dire che gli ingressi di Licurgo sono cinti dalle membra mozzate di Dioniso. Non sono signore dei Beoti, e questa non è Tebe, non è la casa di Semele, dove le donne fanno bastardi con la folgore, partoriscono grazie al fulmine. Tu scuoti il tirso divino, io vibro la scure da buoi, e spaccando a metà la tua fronte bovina romperò le tue corna ricurve!»137

136 «La scena dell’incontro fra i dionisiaci e Licurgo sembra turbata da una lacuna, ma probabilmente di non più di un verso, dopo il v. 304 […] nella parentesi si è tradotto un senso ragionevole simile a quello proposto da Hopkinson (cf. D. 44, 15 sgg.: Penteo irritato dal rumore dei baccanali)» GONNELLI 2003, 446. 137 La traduzione è di GONNELLI 2003. Semele e Licurgo, morte e follia nel teatro eschileo 39

Al di là del fatto che ci troviamo di fronte ad un’ambientazione simile a quella che la leggenda e il dramma descrivono per le mura del palazzo di Enomao138, adornate con le teste dei pretendenti della figlia, i primi versi del passo alludono all’arrivo del corteo dionisiaco che, a distanza di molti secoli, sembra quello di una sgangherata banda di paese139: il rumore infastidisce il re che nel vestibolo della reggia incontra Dioniso sicuro di una calda accoglienza dovuta ai suoi servigi di musico. Forse solo una suggestione, importante per capire il mutare dei significati letterari attra ‑ verso il tempo.

3.3. Arte e scena

La ceramica140 ci consegna ampio materiale sull’epilogo tragico della follia che avrebbe portato Licurgo a uccidere e a fare a pezzi prima il figlio, poi la moglie, convinto invece di potare una vite141; ciò è particolarmente evidente in due crateri ritrovati a Ruvo di Puglia142. L’azione sembra

138 Cf. CARPANELLI 2011, 36‑49. 139 Cf. il v. 304 («il gridare di quella banda» ἀλάλαγμα χορείης) e il v. 306 («della siringa stridula» καναχῆς σύριγγος). 140 Cf. SUTTON 1975. Si pensa che dietro questa produzione ci sia una fonte comune: i dipinti ispirati alla storia di Licurgo nel tempio di Dionisio Eleutereo di cui parla Pausania (1, 20, 3). 141 Cf. SÉCHAN 1926, 63‑79; LIMC 6, 1, 309‑319. 142 Riporto di seguito la descrizione dei due prodotti: ‑ «Ap 48. Ruvo di Puglia, Museo Nazionale Jatta, 36955 (n. i. 32). Cratere a colonnette. Da Ruvo di Puglia. A. Guerriero stante che porta la mano al volto; accanto a lui, cane; in alto scudo; tempio dorico in cui è un uomo (Licurgo), armato di doppia ascia, che minaccia un giovane nudo (Driante), aggrappato alle sue gambe; in alto, sul frontone: busto di donna (Lyssa); donna panneggiata e col capo velato, in fuga verso d., che lascia cadere una phiale con offerte. B. Due sileni, Dioniso e cane, tutti in movimento verso sin. Eschilo, Licurgia (Huddilston 1898; Séchan 1926; Pickard‑ Cambridge 1946); Eschilo, Edoni (Webster 1967a); autore ignoto, Licurgo (influenzato dall’Eracle di Euripide: Sutton 1975). Pittore cdi Boston 00. 348. 380‑360.» Todisco 2003, 418‑419. Cf. anche Taplin 2007, 68‑70. L’episodio non poteva essere rappresentato, come sappiamo dalle regole non scritte della drammaturgia classica e da tutti rispettate nei contesti cruenti, ma doveva essere raccontato in una rhesis : «è al teatro che con ogni evidenza rinviano le strutture architettoniche (un edificio a colonne e un palazzo dalla cui porta si slancia Licurgo) che compaiono in due di queste raffigurazioni e che sono del tutto analoghe ad altre numerose stilizzazioni vascolari dellaskene teatrale» DI MARCO 2013, 203. ‑ «Ap 96. Londra, British Museum, F 271 (49. 6‑23. 48, 1434) (già Napoli, Collezione Steuart). Cratere a calice. Da Ruvo di Puglia. A. In alto: donna stante, in conversazione con un giovane nudo con lancia, seduto su uno sgabello; Furia (Lyssa), nimbata, in 40 Francesco Carpanelli avvenire durante un sacrificio probabilmente non compiuto a causa dell’improvviso attacco di follia di Licurgo provocato da Lyssa, dea del furore; il re usa una bipenne per compiere l’omicidio (o i due omicidi)143.

3.4. Ipotesi per la scena

3.4.1. Il corteo dionisiaco

Il nostro excursus nella Lycurgheia dimostra ancora una volta che, come in altri casi del teatro eschileo, di una intera trilogia resta soltanto un dramma i cui frammenti sono in qualche modo di aiuto per la ricostruzione scenica: in questo caso si tratta degliEdoni . Gli Edoni. Siamo nella Tracia meridionale e gli avvenimenti riguardano comunque, anche in ambito satirico, l’incontro‑scontro tra il re Licurgo e il dio Dioniso: dopo l’arrivo di quest’ultimo, nei confini del regno, il sovrano avutone notizia, manda i suoi soldati a catturare lo strano corteo che si aggira per il paese. La descrizione degli strumenti e dell’abbigliamento di questi iniziati rende magica l’atmosfera; segue l’apparizione del dio effemminato, stigmatizzata dal re con parole di scherno. L’arresto di Dioniso e delle menadi, la loro successiva liberazione per intervento metafisico (?), con un fenomeno tellurico simile a quello, reale o illusorio, che a Tebe riduce in rovina il palazzo di Penteo nelle Baccanti, dà il vero avvio all’azione drammatica. In una eventuale ricostruzione scenica non possiamo essere sicuri che il corteo dionisiaco venga catturato per volontà di Licurgo visto che, come nelle Baccanti, il gruppo potrebbe essere arrivato spontaneamente in città, con una parodo che avrebbe dato inizio all’azione.

3.4.2. La follia di Licurgo

Se partiamo da un confronto con ciò che Dioniso farà fare a Penteo nelle Baccanti e la sua uccisione da parte della madre Agave, qui, a ruoli invertiti,

volo verso d.; Apollo seduto; Ermes stante. Al centro: idria accanto ad un altare su cui arde un fuoco. In basso: vecchio con bastone (pedagogo) e giovane nudo che trasportano il cadavere di un giovane nudo (Driante). Nel campo: rosette […] A. Eschilo, Licurgia […] A. Eschilo, Bassaridi; A. Eschilo, Edoni (Webster 1967a; Trendall, Webster 1971 Trendall, Cambitoglou; Palagia 1984). Pittore di Licurgo. 335‑345» TODISCO 2003, 434. Cf. anche TAPLIN 2007, 70‑71. Il Pedagogo poteva essere un carattere drammatico di cui però non abbiamo alcun riscontro testuale: cf. TRENDALL/WEBSTER 1971, 51 e GREEN 1999. 143 Cf. Hyg. Fab. 132, 2. (e al riguardo Sutton 1975, 360). Semele e Licurgo, morte e follia nel teatro eschileo 41

Licurgo uccide il figlio Driante, scambiatolo per un tralcio di vite, e forse anche la moglie144.

3.4.3. L’exemplum di Orfeo. Le Bassaridi

A livello drammaturgico non serve a molto l’incredibile sforzo fatto dalla critica per definire il tema generale della trilogia come ricerca di conciliazione, (simile a quello che avviene nell’Orestea con le Erinni mutate in Eumenidi) tra gli elementi misterici legati a Dioniso e quelli legati ad Apollo, tramite Orfeo, figura di riferimento dai seguaci del pitagorismo e di quelli dell’orfismo. È infatti difficile dimostrare che ci fosse una tragedia con funzioni di ‘intermezzo’, le Bassaridi, come exemplum di supporto per far vedere cosa succedeva a chi cambiava il suo credo religioso: Orfeo dopo essere stato legato ai culti dionisiaci sarebbe passato alla venerazione totale per Apollo, nel cammino tenebre‑luce simile a quello che oggi definiamo l’esperienza di chi ha conosciuto lo spazio liminare tra la vita e la morte. È impossibile altresì sostenere che la testimonianza di Eratostene sulla conversione di Orfeo, che si limita a un «come dice Eschilo», riassuma il testo di un intero dramma; possiamo al massimo pensare che fosse parte di un lungo intervento del coro che, dopo il trionfo di Dioniso e l’umilia‑ zione del suo nemico, introduceva la punizione del re. Subito dopo le donne legate al suo culto, adornate con pelli di volpe, guidate dal dio stesso, sorpren devano Licurgo e la sua famiglia intenti ad un sacrificio di ricon‑ ciliazione, nella speranza di avere la propria divinità, Cotito, al loro fianco, su un altare che si trovava fuori città (si giustificherebbe così il fatto che Licurgo veda proprio una pianta di vite al posto del figlio). Compiuta la strage, conosciuta dal pubblico grazie all’intervento di un Messaggero, il re, privo del proprio erede, come accade ad Agave dopo aver ucciso Penteo, viene allontanato dal suo popolo che, convertito al verbo dionisiaco, rin ‑ chiude il suo ex sovrano, fonte ormai di contaminazione per il paese, in un car cere tetro ( buio come l’Ade che Orfeo aveva conosciuto nella sua cata ‑ basi). In consonanza con altri ipotetici finali, come quello dell’Orestea o delle Danaidi, dopo la conversione di Licurgo e il suo manifesto pentimento nei Neaniskoi, i giovani edoni, dopo aver costituito un nuovo ordine religioso di appartenenza dionisiaca, accompagnano il sovrano nella sua nuova vita di redento.145

144 L’Eracle euripideo in cui l’eroe stermina tutta la sua famiglia, sotto la guida di Lyssa, può fornire molti suggerimenti per relizzare questo tipo di scena. 145 L’altro finale, per il quale non propendiamo, simile forse a quello della Niobe del 42 Francesco Carpanelli

La tetralogia si chiude con il dramma satiresco Licurgo in cui il re, in un ruolo adatto anche a un satiro, apprezza i vantaggi della nuova bevanda introdotta da Dioniso, il vino, a discapito di quella nazionale, la birra.

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PIERO TOTARO (UNIVERSITÀ DI BARI)

L’eruzione del Vesuvio che nel 79 d.C. distrusse Pompei ed Ercolano portò morte e rovina, anche di molti libri: per esempio di quelli raccolti nella ricca biblioteca della cosiddetta Villa dei Papiri ad Ercolano, le cui prime fasi di costruzione vanno datate al terzo quarto del primo secolo avanti Cristo, come hanno dimostrato gli scavi archeologici più recenti, condotti tra il luglio 2007 e la fine di marzo 20081. Restano le rovine della Villa (ancora da esplorare compiutamente) e ciò che si è riusciti a salvare della sua biblioteca, frammenti di rotoli carbonizzati e disegni, i cosiddetti apografi napoletani e oxoniensi, realizzati tra fine Settecento e inizi Ottocento da disegnatori in genere inesperti di greco. Rispetto ad altre collezioni (penso in particolare a quella dei Papiri di Ossirinco), i papiri ercolanesi hanno indubbiamente una rilevanza marginale negli studi sul teatro greco antico; e tuttavia vale la pena considerarli, o meglio riconsiderarli, anche per quello che possono dirci a proposito di drammi perduti dei grandi autori ateniesi del V secolo a.C. Se limitiamo il campo di indagine alla tragedia, nelle opere epicuree restituiteci dai papiri ercolanesi finora noti si riscontra un discreto numero di riferimenti ai tre autori del canone tragico: poco meno di una ventina per Eschilo, più di venti per Sofocle, e ancor più per Euripide, secondo le stime che Gioia Rispoli ha riportato in un importante contributo, Tragedia e tragici nei papiri ercolanesi, pubblicato in «Vichiana» negli Atti di un con ‑ vegno tenutosi a Napoli nel 2004: un contributo che trae una valutazione complessiva della tragedia per come emerge soprattutto dai resti delle opere di poetica composte da Filodemo di Gadara e Demetrio Lacone, e che pertanto non si prefigge la raccolta e l’analisi sistematica di tutte le testimonianze ercolanesi sui tragici. A questo specifico scopo si sono accinte Felicetta Amarante e Giuliana Auriello, che nel 1998 hanno pubblicato sulla rivista «Cronache Ercolanesi» due articoli dedicati, rispettivamente, ad Eschilo (la Amarante) e a Sofocle (la Auriello); manca ancora, invece, uno

1 Cf. DORANDI 2017. 46 Piero Totaro studio completo ed aggiornato riguardante Euripide, per cui si dispone solo di alcuni buoni contributi parziali, quali quelli di Agathe Antoni su due citazioni euripidee nel P.Herc. 1384 (in «Cronache Ercolanesi» del 2004), di Margherita Erbì su una citazione di Euripide nella Retorica di Filodemo (in Miscellanea Papyrologica Herculanensia, vol. I, 2005), e di Antonio Parisi su tre citazioni euripidee nei papiri di Demetrio Lacone (in «Cronache Ercolanesi» del 2011). Chi, come me, nell’ambito di un progetto internazionale promosso e finanziato dalla Accademia Nazionale dei Lincei, sta ora lavorando a una nuova edizione commentata di tragedie frammentarie di Eschilo, deve dunque necessariamente confrontarsi con l’articolo della Amarante, Eschilo nei papiri ercolanesi. L’autrice raccoglie complessivamente 18 «citazioni», 16 «citazioni di titoli e versi di drammi eschilei certi» (una dall’Agamennone, una dagli Edoni, una dalle Eliadi, una dal Fineo, due dai Frigi, due dal Prometeo incatenato, quattro dalPrometeo liberato, una dal Prometeo portatore di fuoco, una dalla Semele, una dai Sette contro Tebe, una dai Raccoglitori di ossa) e 2 «citazioni di Fabulae incertae». Tranne quattro casi, in cui la fonte è Demetrio Lacone (la sua opera Sulla poesia, più un caso testimoniato da una sua opera incerta contenuta in P.Herc. 1012), negli altri casi la fonte è sempre Filodemo, in due la sua opera Sulla musica e nei restanti dodici l’opera Sulla religiosità, Περὶ εὐσεβείας, De pietate come viene in genere indicata. Quest’ultimo trattato, ilDe pietate, si componeva di due parti (più che due libri, un unico libro suddiviso in due tomi, come ha di recente sostenuto Dirk Obbink): la prima conteneva una difesa dalle accuse di empietà rivolte contro Epicuro e la sua scuola, la seconda era una serrata critica delle favole raccontate riguardo gli dèi da poeti e filosofi, Stoici compresi; dato il tema, dunque, la seconda sezione dell’opera era infarcita di continui, puntuali riferimenti a narrazioni mitografiche e a rielaborazioni letterarie di miti noti e meno noti, con il loro ricco corredo di varianti: un materiale straordinariamente denso, magmatico, che lamentiamo di non poter più leggere oggi, se non negli sparuti e disperanti lacerti dei fram ‑ menti ercolanesi. Quel che resta della prima sezione è stato edito esemplarmente da Obbink a Oxford nel 1996 (con una amplissima e fondamentale introduzione); per la seconda parte, in attesa della edizione del lo stesso Obbink (da tempo desiderata), ci si rifà ancora alla editio princeps di Theodor Gomperz (del 1866) e alla dissertazione di Adolf Schober (del 1923, rimasta a lungo inedita)2. Dalla seconda parte del De pietate, e sulla base esclusivamente di frammenti riprodotti nei disegni napoletani, ci sono note le quattro citazioni

2 Ma pubblicata in «Cronache Ercolanesi» 1988. Cf. SCHOBER 1988. Su alcuni riferimenti al Prometeo liberato 47 poste dalla Amarante all’interno della sezione da lei dedicata al Prometeo liberato. In questa sede mi soffermerò su tre di esse, che intendo portare come casi‑studio esemplari per varie ragioni: sia perché sono passi pieni di problemi (ma questa non è una novità per un filologo e, in particolare, per un editore‑commentatore di frammenti); sia perché la recente edizione commentata della Amarante non esaurisce e non risolve tutti i problemi, anzi ne solleva ulteriori, anche di carattere metodologico sul piano ecdotico. Sul testo stabilito dalla Amarante si basa totalmente, peraltro, la traduzione annotata di Lucas de Dios nel volume dei frammenti di Eschilo uscito presso Gredos nel 2008. Nello stesso 2008 è stato pubblicato il volume Loeb dei frammenti eschilei curato da Alan Sommerstein, il quale, però, evidentemente in ragione dei selettivi criteri editoriali propri di quella serie, non ha editato né tradotto i frammenti ercolanesi riferiti alPrometeo liberato; analogamente, essi sono stati esclusi dalla edizione del Prometeo incatenato e dei frammenti degli altri drammi prometeici curata nel 2015 da Calderón Dorda per le edizioni del «Consejo superior de investigaciones científicas de Madrid». Procedo nell’analisi dei frammenti seguendo la numerazione pro‑ gressiva data da Lucas de Dios; di ciascun frammento offro qui una mia traduzione basata sul testo critico stabilito dalla Amarante.

secondo Apollonide e secondo Esiodo e secondo Stesicoro nell’Orestea e in linea con le cose dette prima, che Crono è gettato nel Tartaro a causa di costui. E Dioniso è imprigionato da Penteo secondo Euripide similmente come si narra che uno dei Giganti spingesse lo stesso Ares in un orcio. E i propri fratelli, Ecatonchiri e Ciclopi, che erano figli della Terra, tutti Crono li gettò in prigione, lui che forse anche Eschilo nelPrometeo liberato dice che è stato legato da Zeus. E tutti gettati nel Tartaro già prima da Urano sono imprigionati. E i Dioscuri poi dagli Afareidi sembrano … (Fr. 202a Lucas de Dios = 9 Amarante, Philodem. De piet. P.Herc. 1088 III)

In questo punto dell’opera si portavano vari esempi di imprigionamenti di dèi, con opportuni richiami letterari. Ma molti dettagli restano incerti e svariate le integrazioni proposte dagli studiosi, in grado di condurre in tutt’altra direzione rispetto a quella perseguita dalla Amarante. Nelle linee 5‑8, ad esempio, la Amarante stampa, ma senza esplicitarlo in apparato o nel commento, la proposta di Philippson (in «Hermes» del 1920); ella si dichiara inoltre sfavorevole all’idea che inizialmente si parlasse di Prometeo, come vorrebbe invece la ricostruzione di Schober, il quale, infatti, faceva precedere la linea 1 dalle parole [καὶ ὁ Προμηθεὺς συνδεῖται | κατὰ Αἰσχύλον | καὶ], e poi integrava le linee 5‑8 con καὶ παρ᾽ ἃ[ς τὸ πρὶν] | [ἔ]φην ποι[νὰς ὑπ᾽] | αὐτοῦ τα[ρταροῦ|ται]; sicché, seguendo Schober, la traduzione delle ll. 1‑8 di P.Herc. 1088 III sarebbe: «secondo Apollonide e secondo Esiodo e secondo Stesicoro nel …» (il titolo dell’opera stesicorea 48 Piero Totaro

è irrimediabilmente perduto) «e in aggiunta alle punizioni di cui ho parlato prima, (Prometeo) è gettato nel Tartaro da lui» (cioè da Zeus). Un problema non di poco conto per la tenuta della ricostruzione di Schober è anche quello sollevato da Davies e Finglass nel commento al fr. 274 della loro recente edizione di Stesicoro: «but Hesiod, at least, does not include Tartarus among his afflictions». Nel seguito della colonna si segnalano almeno due riferimenti letterari sicuri: uno ad Euripide, ricordato alle ll. 8‑ 11 per il Dioniso delle Baccanti imprigionato da Penteo, l’altro al Prometeo liberato di Eschilo, citato alle ll. 21ss. perché evidentemente in quel dramma si parlava dell’incatenamento/imprigionamento di qualche dio da parte di Zeus. Di più non possiamo dire in proposito, data la lacunosità del papiro. Varie ricostruzioni sono state tentate, e alle molte ricordate da Radt in apparato al fr. 202a della sua edizione del 1985, se ne può aggiungere un’altra proposta da Luppe in «Cronache Ercolanesi» nello stesso 1985. Mi sembra pertanto incauta la sicurezza con la quale Amarante dichiara: «Di Eschilo e del suo Prometeo liberato vi è un semplice accenno come testi ‑ monianza della punizione di Crono»; ma Crono qui emerge come vittima di Zeus solo grazie ad una molto incerta ipotesi ricostruttiva di Philippson per la l. 21, ,ὃν] κα<ὶ> τάχ’ Αἰσχύλος, accolta a testo dalla Amarante ancora una volta senza dichiararne la paternità. Nel disegno napoletano si parte da un tràdito ΚΑΤΑΧΑΙϹΧΥΛΟϹ. L’inserzione di τάχ(α), peraltro, inietterebbe una potente dose di dubbio nell’argo men tazione di Filodemo, tant’è che la Amarante, seguita su questa strada da Lucas de Dios, è costretta ad ammettere che «nei frammenti a noi pervenuti delPrometeo liberato non vi è nessun accenno a queste vicende mitologiche, che, invece, sono narrate estesamente dallo stesso Prometeo nel Prometeo incatenato (197 ss.) laddove vi è anche l’episodio della detronizzazione di Crono da parte di Zeus (219‑221, dove però Crono è nascosto in una «cavità del profondo abisso del Tartaro»). Saremmo dunque» – conclude la Amarante – «dinanzi ad un errore di attribuzione di Filodemo o, se è giusta la correzione alla linea 21 del καταχ del disegno napoletano in καὶ τάχ’, almeno ad un dubbio del filosofo di Gadara». Certo, io penso che esprimere candida ‑ mente un dubbio del genere da parte di un campione di mitografia, quale si rivela Filodemo nel De pietate, costituirebbe una défaillance davvero clamorosa, e anche un po’ risibile. A me la correzione più semplice e immediata, nonché in linea con l’usus scribendi di Filodemo, parrebbe quella di Wilamowitz κατὰ δ᾽ Αἰσχύλον, accolta convintamente da Luppe e reputata con favore anche da Gianluca Del Mastro, da me consultato in proposito presso la Officina dei Papiri ercolanesi a Napoli3.

3 Colgo qui l’occasione per ringraziarlo della sua pazienza e generosità, e della straordinaria competenza sui papiri ercolanesi. Su alcuni riferimenti al Prometeo liberato 49

Propongo, quindi, il testo da me approntato per l’edizione lincea relativo alle ll. 18‑30 di Filodemo, De pietate, P.Herc. 1088 III:

] υἱοὺς [ ] Κρόν[ος εἰς δεσ‑ μω]τήριον κα[τέβαλε. 20 . . ΚΑΤΑΧ Αἰσχύλος ἐν τῶι λυομ[έ]ν[ωι Προ]μη[θ]εῖ [φησιν ὑπ]ὸ Διὸς δεδ[έσθαι. καὶ πάντες [καταταρ‑ 25 τα]ρωθέντες [ἤδη πρὶν ὑπ᾽] Οὐρανοῦ κ[αταδέ‑ δεντ]αι· Διόσκουροι δὲ] ἄρα ὑπ᾽ ἀ[φαρειδῶν ἐ[οί]κασιν ἐν 30

21 ΚΑΤΑΧ Αἰσχύλος N : τὸ] κατὰ <γῆς>. Αἰσχύλος <δ᾽> Schmid 1885, 7 («Quod enim post κατὰ est signum Χ, eo librarius omissum esse vocabulum voluit significare») : κατὰ δ᾽ Αἰσχύλον? Wilamowitz 1914, 67 : ὃν] κα<ὶ> τάχ᾽ Αἰσχύλος Philippson 1920, 250 : «fortasse <καὶ τοὺς> Τιτᾶνας» Schober 1988 [1923], 90

nel Prometeo liberato (Eschilo dice che Zeus) era innamorato di Teti. E dicono … e l’autore dei Canti ciprî che ella, per compiacere Era, fuggì le nozze con Zeus; e che costui, adirato, giurasse che l’avrebbe data in matrimonio a un mortale. Anche in Esiodo si trova più o meno la stessa storia. Pisandro, invece, riguardo Climene (narra) che quello essendo innamorato … (Fr. 202b Lucas de Dios = 12 Amarante; Philodem. De piet. P.Herc. 1602 V)

Il frammento, situato in un contesto in cui si parlava di amori divini, riguardanti in particolare Zeus, informa che nel Prometeo liberato era presente il tema dell’innamoramento di Zeus per la Nereide Teti. Questo dato non può non essere messo in rapporto con quanto si apprende da un altro luogo filodemeo del De pietate, a cui Amarante e Lucas de Dios danno dignità di autonomo frammento del Liberato (fr. 202c Lucas de Dios = 11 Amarante), diversamente da Radt, che invece semplicemente lo cita in sede introduttiva al dramma, mentre numera come fr. 202b la testimonianza di P.Herc. 1602 V.

dicendo che erano stati imprigionati da Zeus affinché mai preparassero le armi per qualcuno. E Eschilo dice che Prometeo fu liberato perché rivelò l’oracolo riguardante Teti, e cioè che era destino che il figlio nato da lei diventasse più potente del padre; e per questo la danno in sposa ad un mortale. Del resto Omero dice che (Zeus) una volta stava per essere legato 50 Piero Totaro

da Era, da Poseidone e da Apollo o Atena, e che, condotto Egeone da Teti, (gli dèi) spaventati desistettero dall’attacco. E Stesimbroto dice che avendo generato quella … (Fr. 202c Lucas de Dios = 11 Amarante; Philodem. De piet. P.Herc. 1088 V)

Ripetutamente, nel corso del Prometeo incatenato (168‑177, 187‑192, 511‑ 525, 764‑774, 907‑931, 984‑996), si allude a un segreto che Prometeo conosce a proposito del destino di Zeus: un segreto che il Titano per il momento non intende rivelare, nella consapevolezza che sarà il mezzo con cui costringerà Zeus a venire a patti con lui e grazie al quale otterrà la liberazione dal castigo che ora lo opprime. Quanto al contenuto del segreto, nell’Incatenato non è mai nominata Teti, ma è esplicitamente dichiarato che il pericolo per Zeus deriverà dal suo infausto matrimonio (764, 908‑909) con una sposa che «partorirà un figlio più forte del padre» (ἣ τέξεταί γε παῖδα φέρτερον πατρός, 768). Un paio di scolî antichi all’Incatenato annotano che la rivelazione avveniva nel dramma successivo (schol. 522 Herington), ossia nel Lyómenos, in cui Prometeo veniva effettivamente liberato (schol. 511b Herington). Per un editore dei frammenti di Eschilo si pone qui un problema. Come va considerata la testimonianza filodemea di P.Herc. 1088 V? Come autonomo frammento, assecondando la scelta di Amarante e Lucas de Dios? Possiamo osservare che qui Filodemo a) cita Eschilo ma non specifica il titolo di un determinato dramma; b) si sta riferendo a un tema – la liberazione di Prometeo conseguente alla rivelazione del segreto riguardo la nascita di un figlio che avrebbe detronizzato Zeus – che, come si è visto, affiora a più riprese già nell’Incatenato. La mia idea sarebbe di raccogliere sotto un unico frammento tutta questa materia relativa al segreto riguar ‑ dante Teti, innanzitutto dando precedenza alla testimonianza filo demea di P.Herc. 1602 V, che contiene un riferimento esplicito (nelle ll. 3‑5) al Prometeo liberato e al tema dell’innamoramento di Zeus per la Nereide:

ἐν Π]ρομηθε[ῖ δὲ τῷ] λυομέ[ν]ω[ι φη‑ σι Θέτ]ιδος ε[ 5

3 ἐν Π. δὲ τῷ suppl. Reitzenstein 1900, 73‑74 4‑5 φησι suppl. Schober 1988 [1923], 105 ἐ[ρᾶν vel ἐ[πιθυμεῖν, sc. φησὶν Αἰσχύλος τὸν Δία Luppe 1986, 64

Poi rinviando a quanto Filodemo dice in P.Herc. 1088 V:

]πλα· καὶ τὸν Προμη]θέα λύεσθαί 5 φησιν] Αἰσχύλος ὅ‑ Su alcuni riferimenti al Prometeo liberato 51

τι τὸ λ]όγιον ἐμή‑ νυσε]ν τὸ περὶ Θέ‑ τιδο]ς ὡς χρε[ὼ]ν εἴ‑ η] τὸν ἐξ αὐτῆς γεν‑ 10 ν]ηθέντα κρείτ‑ τ]ω κατασ[τῆν]αι τ]οῦ πατρός· [ὅθεν κ]αὶ θνητ[ῶι συνοι‑ κί]ζουσιν α[ὐτή]ν. 15

Rinviando, infine, a quanto annotano gli scholia vetera a Prometeo 511 e 522. In sede di commento, inoltre, correderei la documentazione ricordando i numerosi passi dell’Incatenato relativi al segreto e alla futura liberazione del Titano, nonché ulteriori fonti pertinenti al tema, come, ad esempio, un interessante scolio a Pindaro, Istmica 8:

ὁ Ζεὺς βουλόμενος Θέτιδι πλησιάσαι ἐκωλύθη ὑπὸ τοῦ Προμηθέως· εἶτα Πηλεῖ ἔδοξεν αὐτὴν ἐγγυῆσαι. τεθρύλληται δὲ ἡ ἱστορία παρά τε συγγραφεῦσι καὶ ποιηταῖς, ἀκριβῶς δὲ κεῖται καὶ παρὰ Αἰσχύλῳ ἐν Προμηθεῖ δεσμώτῃ

Zeus voleva avere una relazione con Teti ma Prometeo glielo impedì; poi ritenne opportuno darla in matrimonio a Peleo. La storia si ripete presso prosatori e poeti, ed è trattata dettagliatamente anche in Eschilo nelPrometeo incatenato. (Schol. D Pi. Isthm. 8, 57b, III p. 273, 21‑25 Drachmann)

È significativo che lo scolio riconduca la storia d’amore tra Zeus e Teti all’Incatenato (παρὰ Αἰσχύλῳ ἐν Προμηθεῖ δεσμώτῃ) e non al Liberato, a meno che non si voglia correggere il δεσμώτῃ tràdito dal codice in λυομένῳ, come voleva Bergk (1884, 321‑322, n. 116).

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MILENA ANFOSSO (SORBONNE UNIVERSITÉ – UNIVERSITY OF CALIFORNIA, LOS ANGELES)

1. Introduzione

L’uso sinonimico di due etnonimi originariamente ben distinti, «Frigi» e «Troiani», nell’ambito della tragedia greca (ma non solo) rappresenta un’innovazione di portata considerevole, soprattutto rispetto alla tradizione omerica (§1). Per secoli è stato additato a colpevole Eschilo (§2), autore di una tragedia dal titolo Frigi o Il Riscatto di Ettore (Φρύγες ἢ Ἕκτορος λύτρα, §3), in cui il tragediografo mette in scena un coro di Frigi a seguito del re troiano Priamo (§4). In questo contributo si tenterà di scagionare il nostro autore, almeno parzialmente, attraverso la ricostruzione di un sistema complesso (§5) che tenga in considerazione il contesto storico e culturale degli anni successivi alla Seconda Guerra Persiana, per poi passare in rassegna i dati iconografici legati in qualche modo alla tragedia eschilea, e infine quelli testuali, al fine di analizzare tutte le occorrenze dell’etnonimo nel corpus tragico, da Eschilo ad Euripide, e di trarne le dovute conclusioni (§6).

1.1. L’«incompetenza geografica dei poeti»

Strabone (24, 3, 3) constatava, non senza un certo disappunto, l’«incom ‑ petenza geografica» dei poeti, ed in particolar modo dei tragici, rei di confondere i popoli tra di loro, soprattutto nell’ambito complessissimo dell’Anatolia nord‑occidentale:

1 Questo contributo è frutto delle ricerche di una tesi di dottorato in corso di redazione sui complessi rapporti linguistici tra i Greci e i Frigi, diretta dal Professor M. Egetmeyer, Sorbonne Université, e dal Professor B. Vine, University of California, Los Angeles. Mi sento in dovere di ringraziare il Professor B. Vine per aver letto e commentato la stesura preliminare del capitolo della tesi da cui è stato tratto questo intervento, così come i Professori F. Carpanelli e P. Totaro, e la Dottoressa L. Carrara, per i loro utilissimi suggerimenti e spunti di riflessione in sede di discussione al Convegno. Resto la sola responsabile degli eventuali errori contenuti in questo lavoro. 54 Milena Anfosso

Οἱ ποιηταὶ δὲ μάλιστα οἱ τραγικοὶ συγχέοντες τὰ ἔθνη, καθάπερ τοὺς Τρῶας καὶ τοὺς Μυσοὺς καὶ τοὺς Λυδοὺς Φρύγας προσαγορεύουσιν […].

I poeti, e soprattutto i poeti tragici, che confondono volentieri i popoli, danno il nome di «Frigi» anche ai Troiani, ai Misii e ai Lidii […].

Le conseguenze di una tale confusione, tuttavia, non si limitano soltanto all’ambito poetico, se è vero che addirittura, secondo Pausania (5, 25, 6), un gruppo di «Frigi» abitava la Sicilia2 insieme ai due principali ἔθνη preellenici, i Sicani e i Siculi:

Σικελίαν δὲ ἔθνη τοσάδε οἰκεῖ· Σικανοί τε καὶ Σικελοὶ καὶ Φρύγες, οἱ μὲν ἐξ Ἰταλίας διαβεβηκότες ἐς αὐτήν, Φρύγες δὲ ἀπὸ τοῦ Σκαμάνδρου ποταμοῦ καὶ χώρας τῆς Τρῳάδος.

I popoli che abitano la Sicilia sono i seguenti: i Sicani, i Siculi e i Frigi, i primi essendovi giunti dall’Italia, mentre i Frigi dal fiume Scamandro e dalla regione della Troade.

È opinione comune che Pausania indicasse con questo nome non dei veri Frigi, ma i Troiani scampati alla guerra contro gli Achei che, secondo la tradizione mitica, avrebbero dato origine al popolo degli Elimi3. Ciò è desumibile dal fatto che la loro regione di provenienza è identificata con la Troade e con il fiume che bagna Troia, lo Scamandro. Nel II sec. d.C., dunque, l’uso indifferenziato, sinonimico, di «Frigi» e «Troiani» doveva essere pienamente ammesso anche in un contesto storiografico. Pertanto, vista la portata del problema, se seguiamo l’indicazione di Strabone, ci sembra molto interessante procedere a ritroso, nel tentativo di dare un nome al primo poeta responsabile di una tale confusione Troia‑Frigia. Quale poeta, dunque?

1.2. Sicuramente non un poeta epico!

In Omero, i Frigi compaiono nell’Iliade nel cosiddetto «Catalogo dei Troiani» tra i popoli alleati dei Troiani, pur restando del tutto distinti da essi (Il. 2, 862‑3). Tale alleanza risulta essere molto antica: il re Priamo aveva aiutato i Frigi a combattere contro le Amazzoni, una generazione prima

2 Su questo argomento, si veda in particolare SAMMARTANO 2000, con riferimenti bibliografici. 3 Sugli Elimi, si vedano, ad esempio, DE VIDO 1997 e SAMMARTANO 2003. I Frigi nell’universo tragico greco 55 della guerra di Troia (Il. 3, 184‑9). La stessa casa reale troiana risulta essere legata alla Frigia per via dell’unione matrimoniale tra il re Priamo e la regina Ecuba, figlia, secondo Omero, del re frigio Dimante (Il. 16, 715). Ettore si lamenta, infine, in maniera anacronistica per i tempi della guerra di Troia, ma in consonanza con la realtà storica dell’epoca di composizione dell’Iliade4, di aver dovuto vendere alla Frigia e alla Meonia numerosi tesori artistici per poter sopperire alle ingenti spese dovute alla guerra (Il. 18, 289‑ 92). Infine, l’Inno Omerico ad Afrodite5, risalente al VII sec. a.C., ci informa, attraverso le parole della dea stessa, che Troiani e Frigi parlano due lingue che appaiono ben diverse all’orecchio dei Greci, «troiano»6 e frigio7, e che li identificano pertanto come due popoli geograficamente vicini, ma etni‑ camente distinti (vv. 111‑6).

1.3. Un lirico precursore?

Percorrendo il corpus dei poeti lirici greci, Frigi e Troiani sembrerebbero confusi in un solo caso, risultato, però, di una congettura moderna. Edith Hall8 aveva considerato come parzialmente arbitraria l’integrazione di Wilamowitz al v. 15 del fr. 42 Lobel‑Page = 42 Voigt del poeta lirico Alceo di Mitilene, influenzata, probabilmente, proprio dalla lettura dei poeti tragici successivi:

οἰ δ’ ἀπώλοντ’ ἀμφ’ Ἐ[λέναι Φρύγες τε (15) καὶ πόλις αὔτων.

Così per perirono i Frigi (15) e la loro città.

La lettura Ἐ[λέναι sembra essere pienamente giustificata, in virtù della struttura ad anello del componimento, un paragone fra Elena e Teti. Invece,

4 La Frigia del re Mida era davvero una grande potenza tra il IX e il VII sec. a.C., egemone in Asia Minore, e dotata di ricchezze sufficienti per importare opere d’arte e oggetti di grande valore dalle terre vicine (anche dalla Grecia continentale), cosa che giustificherebbe in pieno l’affermazione di Ettore. Si veda USCARELLAM 2013, con bibliografia. 5 Si veda la bella edizione di FAULKNER 2008. 6 Linguisticamente parlando, il «troiano» non esiste; il primo a tentare di identificare la lingua parlata a Troia con una lingua del ceppo anatolico, il luvio, fu Calvert Watkins, al cui articolo fondatore, WATKINS 1986, sembra utile rimandare in questo contesto. 7 Lingua attestata frammentariamente, ma apparentata al greco e all’armeno, e pertanto di origine balcanica: per un’utile introduzione, si veda BRIXHE 2004. 56 Milena Anfosso se la lettura Φρύγες τε di Wilamowitz fosse corretta, essa presupporrebbe una confusione Troia‑Frigia ben più precoce rispetto a quanto tutte le fonti sembrerebbero indicare, e non attestata altrove nel VII sec. a.C. Tale congettura sarebbe, a ragione, da rifiutare.

2. Tutta colpa di Eschilo?

2.1. Gli scolii ad Omero

Secondo alcuni scolii ad Omero, l’equazione Troia‑Frigia sarebbe stata introdotta da Eschilo. Leggiamo, ad esempio, gli scolii Aad Il. 2, 862 (I 348 Erbse = fr. 446 Radt) e BCE, sempre ad Il. 2, 862 (I 349 Erbse):

ὅτι οἱ νεώτεροι τὴν Τροίαν καὶ τὴν Φρυγίαν τὴν αὐτὴν λέγουσιν, ὁ δὲ Ὃμηρος οὐχ οὕτως. Αἰσχύλος δὲ συνέχεεν.

Riguardo al fatto che gli autori più recenti dicano che Troia e la Frigia siano la stessa cosa, per Omero non è così. È Eschilo ad averli unificati.

τοὺς Φρύγας ὁ ποιητὴς διαστέλλει, ὁ δὲ Αἰσχύλος συνέχεεν.

Il Poeta [scil. Omero] separa i Frigi, Eschilo li unifica.

Secondo Edith Hall9, pertanto, «there is a prima facie case for believing that it was Aeschylus, the innovator and reworker of the old myths, with his enormous interest in βαρβαρικά, who first Phrygianised the Trojan royal house».

Tuttavia, non esisterebbe in alcuna delle tragedie conservate di Eschilo una prova incontestabile di una tale equazione. Appare pertinente, dunque, concentrarsi sui frammenti delle tragedie perdute, ed in particolare di quelle di ispirazione iliadica nelle quali, con maggior verosimiglianza, sarebbe plausibile l’introduzione di un’eventuale, deliberata, confusione Troia‑Frigia da parte di Eschilo, per verificare una tale ipotesi.

8 E. HALL 1988. 9 E. HALL 1988, 16. I Frigi nell’universo tragico greco 57

2.2. L’Achilleide

Secondo la critica, infatti, Eschilo avrebbe consacrato un’intera trilogia alla figura di Achille10, la cosiddetta Achilleide11, collocabile cronologica ‑ mente, secondo West12, nei primi anni del V sec. a.C. e, più precisamente, tra la data dell’esordio del tragediografo (fra il 499 e il 496 a.C.), e l’anno dei Persiani13 (472 a.C.), e addirittura, almeno per Alan H. Sommerstein14, nel 484 a.C., ovvero l’anno della sua prima vittoria. Lo stato della trilogia è molto frammentario, ma l’autenticità delle tre tragedie è confermata dal Κατάλογος τῶν Αισχύλου δραμάτων15 e dalle altre fonti che ci trasmet‑ tono i frammenti16. Com’è noto, le tre tragedie della trilogia sono le seguenti:

a) Mirmidoni (Μυρμιδόνες)17, tragedia che mette in scena Il. 9, 15, 16 e l’inizio di Il. 18;

10 Per un’analisi dell’evoluzione della figura di Achille dall’epica alla tragedia, si vedano MICHELAKIS 2002 e DESCHAMPS 2010. 11 In realtà, l’Achilleide in quanto tale non è attestata da nessuna parte: WELCKER 1824, 415‑30, fu il primo ad ipotizzare l’esistenza di tale trilogia sulla base della congruenza dei titoli e dei soggetti. Da allora, tale ipotesi si è trasformata in certezza per la critica, ma non bisogna tralasciare di sottolineare che, malgrado l’elevato grado di probabilità, si tratta pur sempre di un’ipotesi: a tale proposito, si veda RADT 1986, 172. 12 WEST 2000, 340‑2. 13 Come CARRARA 2014, 51, ha ben sottolineato, è possibile datare con certezza soltanto i drammi frammentari di Eschilo messi in scena con una delle tragedie conservate di cui sia nota la data di rappresentazione. La maggior parte dei drammi frammentari di Eschilo non datati per questa via dovrebbe essere attribuita, su base statistica, alla prima fase della carriera del poeta, tra l’inizio del V sec. e il 472 a.C., per un totale di cinquanta o sessanta tragedie perdute, a seconda che si fissi ad ottanta o novanta opere l’ammontare della produzione totale del poeta. Il Κατάλογος τῶν Αισχύλου δραμάτων elenca un totale di 73 titoli, ma mancano almeno 8 titoli noti da altre fonti; la Suida cita 90 drammi; la Vita di Eschilo 70 o 75 drammi. Per una discussione di questi dati, si veda MÜLLER 1984, 76‑7. 14 SOMMERSTEIN 2008, 135. 15 Il Κατάλογος τῶν Αισχύλου δραμάτων è riprodotto in ADTR 1985, 58‑9 e GANTZ 1980, 211; sulla sua origine si veda MONTANARI 2009, 395. 16 In RAMELLI 2009 si trovano le traduzioni in italiano dei frammenti, degli scolii, e dei testi in cui si fa riferimento ai frammenti di Eschilo in altri autori secondo l’edizione METTE 1959. 17 Per un’analisi dei frammenti, si veda GARZYA 1995b. Per il tema dell’amore omosessuale, caro agli ideali aristocratici, tra Achille e Patroclo nella tragedia, ma mai 58 Milena Anfosso

b) Nereidi (Νηρεΐδες)18, tragedia che copre Il. 17‑23; c) Frigi o Il riscatto di Ettore(Φρύγες ἢ Ἕκτορος λύτρα), tragedia che rappresenta Il. 24

Infine, molto probabilmente, un dramma satiresco dal titolo I costruttori del talamo19 (Θαλαμοποιοί) doveva chiudere la trilogia. Come Alain Moreau20 aveva giustamente notato, Eschilo «procède par effets d’étirements et de concentration», in quanto non distribuisce equamente i canti omerici, ma li concentra e li espande, fino al punto di consacrare ad un solo canto una tragedia intera, l’ultima. In tutte e tre le tragedie, la tenda di Achille doveva essere parte integrante della scena, elemento efficacemente descritto da Francesco Carpanelli21 come «l’ossessionante luogo della riflessione e del dolore causato dalla morte, metafora della solitudine dell’eroe in guerra».

3. La tragedia incriminata: i Frigi o il Riscatto di Ettore

La tragedia incriminata di Eschilo per la confusione Troia‑Frigia è conosciuta nell’Antichità con il titolo alternativo di Φρύγες ἢ Ἕκτορος λύτρα. Nel suo studio sui titoli, singoli, doppi o addirittura tripli, delle pièces teatrali antiche, Alan H. Sommerstein22 ha rilevato che, fino al 250 a.C., la tragedia in questione è citata per sei volte con il primo titolo Φρύγες, una volta con il secondo titolo Ἕκτορος λύτρα, e per tre volte con

esplicitato nell’epica, si vedano MOREAU 1996, in particolare 16‑20; FANTUZZI 2012; CARPANELLI 2013, in particolare 72‑82. 18 La teoria di Martin L. West, secondo la quale le Nereidi dovrebbero essere considerate come terza tragedia della trilogia, in quanto nessuno dei frammenti conservati si riferisce esplicitamente ad una nuova armatura per Achille, e il cui culmine doveva essere la morte dell’eroe stesso, non ha trovato seguito tra gli studiosi. Cf. WEST 2000, e il commento di SOMMERSTEIN 2008, 157. 19 La scena doveva avere luogo a Troia e il titolo sarebbe legato alla costruzione di una camera da letto nuziale, quella di Paride ed Elena, secondo DI MARCO 1993 (lo studioso attribuisce all’opera un frammento non inserito in RADT 1985), oppure quella di Ettore ed Andromaca, secondo OMMERSTEINS 2008, 81. 20 MOREAU 1996, 7. 21 CARPANELLI 2013, 78. 22 SOMMERSTEIN 2002, 15. Lo studioso ha altresì messo in evidenza che, delle quindici tragedie conosciute con un titolo doppio, nove sono di Eschilo e due di Sofocle, ma nessuna di Euripide, che resta però il tragediografo più conosciuto e citato. Si veda SOMMERSTEIN 2002, 7. I Frigi nell’universo tragico greco 59 il titolo doppio. Il titolo costituito dall’etnonimo Φρύγες doveva essere il titolo originale eschileo, a cui si sarebbe aggiunto, in seguito, il secondo titolo Ἕκτορος λύτρα. Il fulcro di questa tragedia doveva essere l’incontro tra Achille e Priamo, come descritto in Il. 24: il vecchio sovrano si reca al campo greco per chiedere all’eroe di restituirgli il cadavere di suo figlio Ettore, in cambio di un copioso riscatto. Sebbene in linea di massima fedele al racconto omerico, Eschilo ritiene comunque opportuno inserire le seguenti variazioni maggiori:

a) Nell’Iliade (24, 175‑87), Priamo, dietro suggerimento di Iris, dopo aver preparato il carro con i doni da offrire ad Achille per riscattare il corpo del figlio, si era avviato all’accampamento acheo da solo, accompa‑ gnato soltanto dall’araldo Ideo e dal dio Ermes. Invece, nella tragedia eschilea, Priamo, piegato dal dolore, e verosimilmente carico di doni (fr. 263 Radt = fr. 245 Mette), viene accompagnato da un nutrito seguito di Frigi, da cui il primo titolo della tragedia, Φρύγες, che costituiscono i membri del coro, e il cui ruolo doveva essere quello di aiutare il sovrano a trasportare i doni alla tenda.

b) Achille, all’inizio della tragedia, viene ritratto seduto, in silenzio23, con il capo coperto, ἐγκεκαλυμμένος, come leggiamo in Aristofane (Rane, 911‑3 = fr. 212 Mette, e in due scolii riportati da Tzetzes, ad Ran. 911). Le poche parole che l’eroe scambiava all’inizio della tragedia erano con il dio Ermes (Vita Aeschyli, frr. 22‑3 Radt = fr. 243a Mette), che tentava invano di convincerlo ad abbandonare l’odio nei confronti del cadavere di Ettore (fr. 266 Radt = fr. 244 Mette), ruolo originariamente svolto dalla madre Teti nell’Iliade (24, 128‑37). La tragedia doveva proseguire, poi, con ulteriori tentativi da parte di altri personaggi di fare breccia nella sua ostinazione a non voler restituire il cadavere, ma chi fossero non è del tutto chiaro poiché i frammenti conservati non danno alcuna indicazione specifica al riguardo24 (forse Andromaca? Cf. fr. 267 Radt = fr. 247 Mette, che fornisce indicazioni circa la sua insolita genealogia, e fr. 264 Radt = fr. 248 Mette, interpretabile come un nostalgico ricordo di Ettore). Solo le parole di Priamo, nel rievocare la figura dell’anziano Peleo, padre di Achille, piegavano l’eroe nell’Iliade (24, 486‑506).

23 TAPLIN 1972. 24 GARZYA 1995a. 60 Milena Anfosso

c) La scena culmine della tragedia, da cui deriva il secondo titolo, Ἕκτορος λύτρα, non è esplicitamente presente nel libro 24 dell’Iliade, ma è stata suggerita a Eschilo proprio da alcuni versi iliadici in cui Achille sottolineava, in un’iperbolica affermazione del suo odio nei confronti di Ettore, che non avrebbe restituito il suo corpo neppure se questo fosse stato riscattato a peso d’oro dal padre Priamo Il.( 22, 351‑2). Gli scolii sottolineano come Eschilo «per davvero» abbia sfruttato una tale possibilità narrativa schol.( A ad Il. 22, 351b = V 333, 53‑4 Erbse = fr. 254a Mette,schol. T ad. Il. 22, 351c1 = V 333, 56‑8 Erbse = fr. 254b Mette), in una scena dal forte impatto visivo, trasformando, secondo la felice definizione di Alain Moreau25, «les mots d’Homère en spectacle». Quindi, Achille, non solo accetta il riscatto, ma decide anche che l’ammontare venga stabilito a peso d’oro, ponendo il corpo di Ettore su una bilancia come contrappeso. Sorprendentemente, la rappresentazione della bilancia o della scena della pesatura non compare mai nell’ambito della ceramografia attica26, che si concentra piuttosto sul momento dell’incontro tra Priamo ed Achille nella tenda dell’eroe, ma verrà, come vedremo (cf. infra § 5.2.), sfruttata altrove.

4. I Frigi del coro: identità e funzione

Il primo titolo della tragedia è dunque Φρύγες, Frigi: normalmente, quando un dramma porta un titolo al plurale consistente in un etnonimo si è immediatamente portati ad individuare in esso i membri del coro. Come Laura Carrara27 ha messo in evidenza, questa inferenza non si è fino ad ora mai rivelata errata e su di essa converge totalmente l’accordo della critica. Per Eschilo, in particolare, Markus Gruber28 ha sottolineato il

25 MOREAU 1996, 11. 26 Nella pittura vascolare attica, a figure nere così come a figure rosse, viene utilizzato uno schema figurativo particolare che ricorre, con variazioni minime, in tutti gli esemplari. Achille è rappresentato banchettante, con un pezzo di carne e un coltello in mano, disteso su un lettino, mentre Priamo, in gesto di supplica, tende le braccia verso l’eroe. Il tavolo è imbandito e sotto il tavolo si trova il cadavere di Ettore. Spesso compaiono i servi che accompagnano Priamo, Ermes, e le ancelle o i servi di Achille. Per una lista completa delle rappresentazioni attiche del VI e del V sec. a.C. si vedano KOßATZ‑DEIßMAN 1983, 148‑52; VISCONTI 2008‑2009, 35‑59. 27 CARRARA 2014, 53. 28 GRUBER 2009, 53‑4. Lo studioso cita, oltre ai Frigi, i titoli seguenti: Argive, Carii, Cretesi, Edoni, Eleusinii, Lemniadi, Misii, Perraibides, Salaminie. Esiste tuttavia un caso, quello delle Tracie, in cui l’etnonimo del titolo non corrisponderebbe all’ambientazione geografica suggerita. I Frigi nell’universo tragico greco 61 costante rapporto di interdipendenza tra titolo della tragedia, identità del coro e localizzazione geografica della tragedia stessa. È Ateneo che, nei suoi Deipnosofisti (1, 39), riportando due frammenti di Aristofane (fr. 696 Kassel‑ Austin = frr. 677‑8 Kock = fr. 246 Mette), conferma incidentalmente l’identità dei Frigi della tragedia in quanto membri del coro:

Ἀριστοφάνης γοῦν—παρὰ δὲ τοῖς κωμικοῖς ἡ περὶ τῶν τραγικῶν ἀπόκειται πίστις—ποιεῖ αὐτὸν Αἰσχύλον λέγοντα· ‘<⏔⏕⏔⏕⏔> τοῖσι χοροῖς αὐτὸς τὰ σχήματ’ ἐποίουν’, καὶ πάλιν· ‘… τοὺς Φρύγας οἶδα θεωρῶν, ὅτε τῶι Πριάμωι συλλυσόμενοι τὸν παῖδ’ ἦλθον τεθνεῶτα, πολλὰ τοιαυτὶ καὶ τοιαυτὶ καὶ δεῦρο σχηματίσαντας’.

Aristofane, dunque — dal momento che la testimonianza di un poeta comico in favore di un tragico non può non essere degna di fede — fa dire questo ad Eschilo: «Sono io che ho ideato tutte le figure dei miei cori», E altrove: «Conosco i Frigi per averli visti Danzare in molte configurazioni, anche qui, allorquando Con Priamo vennero a riscattare il suo figlio morto».

Sulla base dei dati cronologici del Marmor Parium (FGrHist 239 A 589) il decesso di Eschilo è collocabile nel 456/455 a.C. L’Achilleide era stata messa in scena per la prima volta all’inizio della sua carriera, tra il 490 e il 480 a.C., e quando Aristofane era in attività, egli doveva essere morto da diversi anni. Tuttavia, varie fonti antiche29 attestano che le tragedie eschilee avevano ottenuto il privilegio di potere essere rappresentate anche dopo la morte del poeta. Pertanto, il frammento di Aristofane in questione potrebbe a ragione riferirsi ad una replica postuma dell’Achilleide, come la formu ‑ lazione «τοὺς Φρύγας οἶδα θεωρῶν» sembrerebbe indicare, ma questo non sminuirebbe in nulla il suo valore di testimonianza sulla drammaturgia della tragedia, anzi lo accrescerebbe. Infatti, i Frigi dovevano esibirsi in coreografie orientalizzanti piuttosto elaborate, destinate a stupire lo spettatore e a fissarsi indelebilmente nella sua memoria, se è vero che Aristofane poteva farvi riferimento in questa maniera diversi anni dopo in una battuta della commedia. Maria Staltmayr30 aveva osservato che solo un coro di stranieri, di Frigi in questo caso, poteva svolgere tutte le funzioni richieste dalla dramma ‑

29 Si veda quanto citato in RADT 1985, 56‑8. 30 STALTMAYR 1991, 370. 62 Milena Anfosso turgia della tragedia, poiché tale condizione rendeva possibile per loro un lamento funebre in grado di essere una via di mezzo tra l’espressione di un dolore smodato per la morte di Ettore e una riflessione distante sulla caducità del genere umano in generale. In quanto gruppo anonimo, essi potevano restare sullo sfondo durante l’incontro decisivo tra Priamo e Achille. Inoltre, i Frigi del coro dovevano essere schiavi, servitori della famiglia reale di Troia. Dal punto di vista di Eschilo era infatti logico pensare che egli vi andasse con un corteo di servitori per aiutarlo a trasportare l’ingente riscatto. Cosa di più naturale per un uomo del V sec. a.C., ateniese, immaginare che il re di Troia avesse schiavi di origine straniera e, più in particolare Frigi, come era la norma per il pubblico ateniese dell’epoca? Una tale identificazione sembrerebbe anacronistica e, allo stesso tempo, in completa opposizione rispetto alla narrazione omerica. Secondo la celebre definizione di Ateneo (8, 347), Eschilo era il tragico:

ὃς τὰς αὑτού τραγῳδίας τεμάχη εἶναι ἔλεγεν τῶν Ὁμήρου μεγάλων δείπνων

che diceva che le sue tragedie erano fette dei grandi pranzi di Omero.

Ad una prima lettura non vi sarebbe alcun motivo di pensare che Eschilo avrebbe distorto la narrazione omerica trasformando in schiavi i Frigi, gli alleati per eccellenza dei Troiani dai tempi della lotta contro le Amazzoni (Il. 3, 184‑9), e legati alla famiglia reale troiana per via delle origine frigie della regina Ecuba (Il. 16, 715). In una prospettiva omerica essi avrebbero potuto essere degli anziani della generazione di Priamo, dei notabili, forse membri della famiglia di Ecuba, e non avrebbero dovuto limitarsi ad un ruolo di sfondo, ma anche partecipare agli eventi dal punto di vista emotivo. Questa posizione31 non può essere condivisa in questo caso. Eschilo amava piegare i miti per assecondare le proprie necessità sceniche: se era riuscito a trasformare il fiero Achille omerico in un νεκροπέρ νας, un «venditore di cadaveri» senza scrupoli32, secondo l’icastica definizione licofronea33, perché non avrebbe dovuto «cancellare» l’omerica alleanza tra Troiani e Frigi e aggiungere, seppur anacronisticamente, un tocco esotico alla tragedia con le danze di un coro orientalizzante?

31 Si veda SAMMARTANO 2000, 172. 32 STAMA 2015, 71‑2. 33 Licofrone, Alessandra, 276. I Frigi nell’universo tragico greco 63

Tuttavia, anche in questo caso, non bisogna esagerare: l’innovazione per quanto riguarda il coro doveva limitarsi strettamente a questo. Gli schiavi Frigi restavano schiavi Frigi, con una funzione scenica ben precisa: ravvivare con i loro costumi orientalizzanti, le loro danze, i loro canti, una tragedia che doveva essere piuttosto statica, con un Achille immerso in un impenetrabile silenzio, e un numero imprecisato di personaggi all’assalto, in un crescendo di argomentazioni serrate volte a farlo cedere alle richieste del re Priamo, fino al momento cruciale della pesatura del cadavere di Ettore. I loro costumi sgargianti, nonché i loro lamenti, dovevano essere in contrasto con la figura ieratica, sofferente, eppure piena di dignità, dell’anziano sovrano di Troia. Gli schiavi Frigi e il re Troiano Priamo dovevano costituire due insiemi separati e ben distinti nella tragedia.

5. Un sistema complesso

Allora, come si sarebbe giunti all’impiego sinonimico di questi due etnonimi, «Troiani» e «Frigi», in origine così differenti? Possiamo davvero imputare ad Eschilo una confusione così gravida di conseguenze nella letteratura successiva?

5.1. Il contesto storico

Per poter rispondere a queste domande, occorre allargare il nostro punto di vista per abbracciare con lo sguardo l’intero contesto storico.

5.1.1. Le Guerre Persiane e l’identificazione Troiani‑Persiani Le Guerre Persiane (499‑479 a.C.) costituiscono un momento cardine per la formazione dell’identità greca, quello che avrebbe portato di fatto all’identificazione dei Troiani con gli antesignani dei Persiani. In realtà, se si segue Erodoto (7, 43), l’idea dell’equivalenza tra Persiani e Troiani doveva provenire addirittura dai Persiani stessi: secondo lo storico, Serse, con un’abile mossa di propaganda politica, avrebbe giustificato l’invasione dell’Europa con la vendetta dei popoli asiatici sui Greci per via della sconfitta a Troia. E per identificarsi al meglio in questo ruolo, prima di lasciare l’Asia Minore, fece una sosta a Ilion34: visitò la cittadella di Priamo,

34 Secondo Dominique Lenfant (LENFANT 2004, 79), forse furono proprio dei Greci, quelli che gravitavano intorno alla corte achemenide, come i Pisistratidi, o lo spartano Demarato, a suggerire a Serse una tale mossa. 64 Milena Anfosso rese omaggio ad Atena Iliaca con un sacrificio di mille buoi e i suoi Magi offrirono libagioni agli eroi. Dal momento che anche la Troade faceva parte dell’impero achemenide al momento del passaggio di Serse, il Gran Re poteva facilmente adottare le tradizioni locali per puro pragmatismo politico. Sarebbe più logico pensare che una tale equivalenza Persiani‑Troiani si fosse presentata alla mente dei Greci fin dall’inizio del conflitto; e invece non ve n’è alcuna traccia fino alla fine della Seconda Guerra Persiana (480‑ 479 a.C.). Fino a quando, cioè, i Greci, uniti in una coalizione, esattamente come avvenne a Troia, non ebbero la percezione esatta della vittoria, di aver annientato il nemico persiano, così come avevano fatto con il nemico troiano35. Entrambi asiatici, ed entrambi meritevoli di essere sconfitti per un atto di hybris. Dal punto di vista politico, inoltre, l’identificazione dei Persiani con i Troiani non faceva che legittimare ancora di più le mire espansionistiche di Cimone, della Lega Delio‑Attica, e i conseguenti attacchi in suolo asiatico. Come sottolinea Dominique Lenfant36, fu proprio in questo contesto di affermazione della propria identità greca in opposizione all’identità dei propri nemici persiani che bisogna inquadrare l’elaborazione del concetto di barbaro, non‑Greco, addirittura anti‑Greco, e la conseguente confusione Troia‑Frigia che ci interessa in questo intervento. I contesti privilegiati per una tale operazione furono, ovviamente, la letteratura e l’iconografia, in quanto fruitori di un codice simbolico che si serviva naturalmente delle figure del mito. Se si esclude il solo esempio interamente conservato dei Persiani37 di Eschilo, dramma storico che non contiene alcuna allusione al modello troiano, di fatto i Persiani si reincarnano in figure mitiche, i Troiani, che vengono a loro volta profondamente modificati rispetto al modello epico originario. Nell’Iliade, infatti, non vi è alcuna differenza fra Troiani ed Achei, né alcuna opposizione binaria fra loro: essi condividono apparentemente la stessa lingua38, le stesse divinità, gli stessi valori eroici, pressoché gli stessi

35 MILLER 1995, 460. 36 LENFANT 2004, 83. 37 I Persiani dell’omonima tragedia sono sicuramente caratterizzati dal lusso, ma non presentano gli altri tratti denigranti tipici nelle tragedie degli autori successivi. Eschilo non li disprezza né si prende gioco di loro; semplicemente li presenta, con grande dignità, nella loro differenza. A tale proposito, si veda J. HALL 2002, 175‑6. Invece, E. HALL 1989, 117‑21, spiega bene i procedimenti messi in atto da Eschilo per produrre l’effetto di un accento straniero nella tragedia. 38 Si vedano LEJEUNE 1948, 53; MACKIE 1996. I Frigi nell’universo tragico greco 65 usi e costumi. Non solo, secondo Il. 3, 184‑9, i Frigi di Migdone e Otreo e il re troiano Priamo condividono con l’eroe greco civilizzatore per eccellenza, Eracle39, la lotta contro l’incarnazione del mondo barbaro, le Amazzoni, e si inscrivono, dunque, nella stessa volontà di civilizzazione in un momento storico in cui i Troiani e i loro amici e alleati Frigi sono ancora rappresentati in una funzione strettamente anti‑barbarica. Dal punto di vista simbolico, non sembra fuori luogo ricordare che addirittura sui fregi dell’Amazzono ‑ machia del lato occidentale del Partenone, veicolo principale della propaganda ateniese, non sono i Troiani ad essere rappresentati in costumi orientalizzanti, ma proprio le Amazzoni40.

5.1.2. I Frigi, questi sconosciuti Ma cos’hanno allora a che vedere i Frigi con i Persiani? Etnicamente, nulla. I Frigi, quelli veri, erano di origine balcanica41, e parlavano paradossalmente l’idioma che più si avvicinava al greco fra tutte le lingue indoeuropee42. Si insediarono in Asia Minore a partire dal XIII sec. a.C., sulle rovine del grande impero ittita, come gli scavi nella capitale frigia, Gordion, testimoniano43. Dopo essere divenuti una grande potenza tra il IX e il VII sec. a.C., la cosiddetta Grande Frigia del leggendario Re Mida, essi furono soggiogati dai Lidii, i quali riuscirono, sotto la guida del sovrano Aliatte (610‑561 a.C.), a scacciare i nomadi Cimmeri e ad ottenere il controllo sull’intera Asia Minore. A metà del VI sec. a.C., e più precisamente a partire dal 546 a.C., la conquista di Sardi da parte di il Grande marcò l’annessione dell’Asia Minore alla Persia, che venne ad impossessarsi così dei territori appartenuti precedentemente alla Lidia, tra cui, appunto, la Frigia, che divenne parte dell’impero persiano44.

39 Apollonio Rodio (2, 775‑810) racconta che l’eroe Eracle, nell’ambito delle Dodici Fatiche e, nella fattispecie, della nona (consegnare a Euristeo la cintura della regina delle Amazzoni Ippolita), aveva sottomesso numerosi popoli mentre attraversava l’Anatolia. Tra questi popoli, vi erano anche i Frigi Migdoni, che furono affidati a Dascilo, evidentemente l’eroe eponimo di Daskyleion in Frigia Ellespontica, re dei Mariandini. Ora, secondo una versione attribuita allo storico Timeo di Tauromenio, ma riportata da Diodoro Siculo (4, 32), Eracle stesso fu il responsabile dell’installazione di Priamo sul trono di Troia. Egli era stato, infatti, il solo dei figli di Laomedonte ad opporsi alla volontà del proprio padre di non consegnare all’eroe i cavalli che gli erano stati promessi, un gesto che gli permise di conservare allo stesso tempo la vita e il trono. 40 MILLER 1995, 457. 41 MANOLEDAKIS 2016. 42 BRIXHE 2004. 43 Si veda, ad esempio, ROSE 2013. 44 Per la storia dell’impero persiano, si veda BRIANT 1996. 66 Milena Anfosso

Un insediamento frigio di una certa importanza, almeno a partire dall’VIII sec. a.C., di nome Daskyleion, si trovava nell’area nord‑occidentale della penisola anatolica, proprio nella regione della Troade. I contatti con le genti greche delle colonie asiatiche non dovevano mancare in questa zona fin dall’epoca arcaica, come le ceramiche greche ritrovate sembrano attestare45. Dopo la conquista dell’Asia Minore, i Persiani decisero di collocarvi la capitale della satrapia conosciuta come Frigia Ellespontica46. Gli scavi intrapresi dal Museo di Çanukkale vicino ai siti di Biga e Can, lungo il fiume Granico, proprio a metà strada tra Troia e Daskyleion, hanno permesso di riportare alla luce dei reperti storici di grande valore risalenti all’epoca della dominazione persiana47, in stile «greco‑persiano». Una tale collocazione geografica doveva, dunque, accentuare l’idea di una corri‑ spon denza tra antichi Troiani, Frigi e Persiani contemporanei. Gli incontri dei Greci con i Frigi dovevano avvenire anche sul continente greco, dal momento che la Frigia riforniva con il suo «capitale umano» il mercato degli schiavi per la vendita non solo in Asia Minore48, ma anche nelle grandi città come Atene. Anzi, nell’Atene del V sec. a.C., quello dello «schiavo frigio» divenne un vero e proprio topos della letteratura49, come attestato in particolare dai comici Aristofane ed Ermippo, e l’antroponimo

45 Si veda KERSCHNER 2005. 46 Erodoto (3, 90) non distingue tra Grande Frigia e Frigia Ellespontica. La prima menzione esplicita di una bipartizione della Frigia appare forse in Xanthos di Lidia, citato da Strabone (1, 49), e in maniera più precisa nella Ciropedia di Senofonte (1, 1, 4; 7, 4, 8; 7, 4, 16). La descrizione più completa delle due Frigie si trova proprio in Strabone (12, 8, 1), ma presenta la situazione al suo tempo, cioè nel I sec. d.C., in epoca romana. 47 Tre tumuli monumentali scavati durante l’ultimo decennio hanno restituito una serie di sarcofagi in marmo riccamente decorati, collocabili cronologicamente tra il VI e l’inizio del IV secolo a.C., in stile «greco‑persiano». Nel primo tumulo, detto Kizöldün, sono stati trovati due sarcofagi in marmo e resti del carro funebre che avrebbe trasportato il corpo del defunto per la sepoltura. Il sarcofago più antico, risalente al 500 a.C. circa, è il più antico esemplare lapideo con scene figurate mai trovato in Asia Minore: due di esse sono dedicate ad un episodio mitico della fine della guerra di Troia, l’uccisione di Polissena da parte di Neottolemo, al cospetto della madre Ecuba, che si accascia a terra per il dolore. Cf. DUSINBERRE 2013, 171‑5. 48 Già nel VI sec. a.C. Ipponatte citava la vendita di schiavi provenienti dalla Frigia a Mileto (fr. 27 West = 38 Degani): καὶ τοὺς σολοίκους ἢν λάβωσι περνᾶσι, / Φρύγας μὲν ἐς Μίλητον ἀλφιτεύσοντας, «e se li catturano i barbari li vendono, Frigi a Mileto, per macinare orzo». 49 Schiavi frigi sono menzionati da Aristofane come oggetto di insulti e punizioni fisiche in Uccelli, 1244‑1245 e 1326‑1329; per quanto riguarda la marchiatura come punizione degli schiavi, si veda Platone, Leggi, 9, 854d; Eronda 2, 100; 5, 27‑28; 65‑66. I Frigi nell’universo tragico greco 67 frigio Manes si trasformò ben presto nel sinonimo esatto per «schiavo»50. Come Senofonte (Poroi, 2, 3) ci informa, anche una buona percentuale di meteci, tra cui schiavi resi liberi, doveva essere di origine frigia. Non doveva stupire, dunque, un coro di servitori frigi per il re di Troia, anzi si allineava, seppur anacronisticamente, alle aspettative del pubblico ateniese dell’epoca per un sovrano come Priamo. Tuttavia, come Erodoto (7, 73) ci fa notare, anche un contingente di Frigi era stato arruolato nell’imponente esercito di Serse durante la Seconda Guerra Persiana. Pertanto, uno scenario come quello descritto da Timoteo di Mileto nel suo ben noto nomo, i Persiani, in cui un pavido soldato frigio51 implora, in un greco stentato a patina ionica, un soldato greco di risparmiargli la vita durante la battaglia di Salamina, non doveva essere del tutto inverosimile.

5.2. I dati iconografici

Si passeranno ora in rassegna le fonti iconografiche legate in qualche modo ai Frigi di Eschilo, prestando una particolare attenzione alla figura di Priamo.

5.2.1. La raffigurazione di Priamo In virtù della datazione alta delle tragedie di Eschilo, possiamo affer ‑ mare che egli si collocasse ad uno stadio iniziale del processo di costruzione della figura del barbaro persiano effemminato, amante del lusso, sfrenato

Essi vengono utilizzati nelle case: Vespe, 433, Lisistrata, 908; nelle fattorie: Pace, 1146‑ 1148; e anche come minatori. Ermippo (fr. 63 Kock, v. 18) cita, insieme ad altri beni, gli schiavi frigi, ἀνδράποδ’ ἐκ Φρυγίας, «schiavi dalla Frigia», come uno dei vantaggi portati dal commercio e dalla navigazione. 50 Si veda BÄBLER 1998, 158‑9, in particolare il commento all’epigramma 733 dell’Antologia Graeca: Μάνης οὗτος ἀνὴρ ἦν ζῶν ποτέ νῦν δέ τεθνηκώς ἶσον Δαρείῳ τῷ μεγάλῳ δύναται, «Quest’uomo era Manes in vita; ma ora, in morte, è Dario, il più potente dei re». 51 Nel terzo dei quattro discorsi diretti introdotti nel nomo per descrivere la battaglia navale di Salamina, con un notevole sforzo mimetico, e rendendo il livello stilistico proporzionale alla persona loquens, Timoteo decide di dare la parola ad un soldato frigio di Celene, una città della Frigia sud‑occidentale. Il contesto del dialogo è descritto nei versi che precedono il discorso diretto, attraverso l’introduzione dell’avversario greco (vv. 140‑9), a cui il soldato frigo si rivolge poi in greco (vv. 150‑ 61). Si vedano HORDERN 2002; LAMBIN 2013; il mio intervento «Un soldat phrygien qui parle grec dans l’armée perse: Timothée de Milet, Perses, 140‑161», tenuto nell’ambito del Convegno Internazionale «Beyond all Boundaries: Anatolia in the Ist Millennium BC», Ascona, Conference Center Monte Verità, 17‑22 giugno 2018 (prossima pubblicazione). 68 Milena Anfosso e crudele, che trova il proprio apice nella letteratura epidittica52 del IV sec. a.C., e con cui i Troiani vennero identificati in seguito alle Guerre Persiane. Eschilo introdusse nei Frigi un coro di schiavi frigi, innovando rispetto al racconto omerico, è vero, ma la sua innovazione doveva limitarsi a questo, e strettamente per motivi scenici. Il re Priamo, però, descritto (fr. 263 Radt = fr. 245 Mette) non più come un sovrano,

ἀλλὰ ναυβάτην φορτηγόν, ὅστις ῥῶπον ἐξάγει χθονός

ma come un mercante che va per mare ed esporta merce dal suo paese doveva restare un re troiano nel senso omerico del termine, non persiano, come le fonti iconografiche testimoniano, almeno fino alla fine del V sec. a.C. Margaret C. Miller53 ha sottolineato come l’orientalizzazione del re Pria‑ mo nell’arte greca sia piuttosto tardiva, e collocabile solo verso la fine del V sec. a.C., proprio in virtù della simpatia di cui godeva questo personag ‑ gio. Più in particolare54, si può assistere ad una parziale persianizzazione di Priamo a partire dal 440 a.C. circa, per passare ad una totale persianizza‑ zione a partire dal 400 a.C. circa. Invece, personaggi più sgradevoli, come Paride in particolare, assumono attributi orientali quali armi, gioielli e abiti, già nel corso del VI sec. a.C. Se l’Achilleide fu rappresentata per la prima volta indicativamente tra il 490 a.C. e il 480 a.C., cioè all’inizio del V sec. a.C., vi sono allora buone ragioni di credere che sulla scena il re Priamo non fosse trattato diversamente. Nel Commento a Omero di Eustazio a Iliade 24, 162 (fr. 243b Mette), leggiamo che la figura di Priamo velato e affranto, quale è descritta in Iliade 24, 162‑165, avrebbe ispirato il pittore Timante di Sicione, o meglio, di Citno55 (attivo, probabilmente, fra la fine del V e l’inizio del IV sec. a.C.)

52 Una prova di quanto appena detto si trova, ad esempio, nelPanegirico (§159) di Isocrate, in cui l’oratore, per spronare i Greci ad unirsi in una spedizione contro i Persiani nel 380 a.C., considera la poesia di Omero come il mezzo per inculcare nei giovani l’odio per il barbaro, categoria nella quale si fondono i Troiani, antichi nemici, e i Persiani, nuovi nemici. 53 MILLER 1995, 449. 54 Dati comunicati da Margaret C. Miller in un intervento dal titolo «The Persianization of Greek Myth», tenuto nell’ambito del Simposio Internazionale «Ancient Persia and the West», University of California, Los Angeles, 25 aprile 2018. 55 Quintiliano (Inst. Orat. 11, 13, 12) definisce Timante, con maggior verosimi‑ I Frigi nell’universo tragico greco 69 per il suo Agamennone, dipinto appunto, velato, durante il sacrificio di Ifigenia in Aulide. Stando a Eustazio, pare che:

[…] ὅπερ καὶ Αἰσχύλος μιμησάμενος τήν τε Νιόβην καὶ ἄλλα πρόσωπα ὁμοίως ἐσχημάτισε, σκωπτόμενος μὲν ὑπὸ τοῦ Κωμικοῦ, ἐπαινούμενος δὲ ἄλλως διὰ τὸ τῆς μιμήσεως ἀξιόχρεων.

[…] Il che, appunto, Eschilo imitò, rappresentando in un simile aspetto sia Niobe sia altri personaggi, e fu per questo deriso dal Comico [scil. Aristo ‑ fane], mentre fu lodato da altri per la corrispondenza mimetica.

Dunque, secondo Eustazio (seppur anacronisticamente per quanto ri‑ guarda Timante di Citno, dal momento che il pittore era attivo nella se conda metà del V sec. a.C.), Eschilo si sarebbe ispirato ad una rappresen ‑ tazione iconografica56 per la sua Niobe velata, suggerita direttamente dal personaggio di Priamo come descritto in Il. 24, 162‑165. Se seguiamo Aristofane, Rane, 911‑913, tra gli altri personaggi velati delle tragedie eschilee ci sarebbe anche Achille, e, in consonanza con quanto descritto in Il. 24, 162‑165, possiamo verosimilmente dedurre che dovesse necessaria‑ mente esserlo anche Priamo, in segno di lutto, neiFrigi .

5.2.2. I bassorilievi Se si considerano le fonti iconografiche legate in qualche modo ai Frigi, la prima rappresentazione della pesatura del cadavere di Ettore su di una bilancia compare su di un rilievo melio57 risalente al 450‑440 a.C.: su di essa il re Priamo si trova a destra della bilancia, mentre due personaggi vi appoggiano sopra gli oggetti preziosi del riscatto. La figura del re Priamo non presenta alcun tratto orientalizzante: ha il capo coperto in segno di lutto, e mentre guarda il figlio morto che giace nudo, per terra, davanti alla bilancia, porta la mano sul volto in segno di dolore. La rappresentazione sul rilievo è inedita, e non presenta punti in comune né con la tradizione

glianza, nativo di Citno; la diversa provenienza fornita da Eustazio potrebbe essere dovuta alla confusione di questo pittore con il suo omonimo di Sicione del III sec. a.C. (MORENO 1966, s.v. Timanthes). 56 In realtà, secondo MORENO 1966, s.v. Timanthes, il modello dell’Agamennone velato di Timante di Citno non sarebbe originale, ma dipenderebbe direttamente da quello dell’Eleno nell’Ilioupersis di Polignoto di Taso, attivo anche ad Atene nella prima metà del V sec. a.C., e dunque contemporaneo di Eschilo. C’è in ogni caso uno stretto legame tra rappresentazione iconografica e teatrale. 57 Rilievo melio. Toronto, Ontario Mus. 926, 32. Datato al 450‑440 a.C. STILP 2006, 193‑4, num. 55. 70 Milena Anfosso iconografica della ceramica attica né con quella corinzia: essa sembrerebbe suggerire una certa vicinanza con la tragedia eschilea. Degno di nota è anche un altro bassorilievo, questa volta su di un cratere in ceramica proveniente da Egnazia58 e conservato a Berlino. Benché considerato imitazione del XIX sec. di un’originale antico, vale la pena citarlo poiché il modello del rilievo di tale cratere doveva essere ispirato proprio dalla tragedia eschilea. Su di un lato, vediamo Achille alla guida del carro intento a trascinare il cadavere di Ettore, inseguito da un’Erinni; sull’altro, è raffigurato l’arrivo di Priamo alla tenda dell’eroe. Il re è curvo, appoggiato al suo bastone, ha il capo coperto dal mantello in segno di lutto ed è carico di doni. Seguono due servitori, anch’essi carichi di doni, che potremmo verosimilmente identificare con i Frigi del coro.

5.2.3. La pittura vascolare Nel IV sec. a.C., la trattazione del personaggio cambia completamente. Su di un cratere59 apulo a figure rosse conservato al museo dell’Ermitage S. Pietroburgo, databile intorno al 350 a.C., il re Priamo si trova al centro della fascia inferiore, vestito questa volta alla maniera orientale con un ramoscello di supplice tra le mani. Accanto a Priamo, due servi trasportano il corpo senza vita di Ettore, presumibilmente verso l’estrema sinistra del vaso, in direzione della bilancia, mentre a destra si nota Teti. Gli altri personaggi60 si trovano sulla fascia superiore del cratere: Achille, seduto al centro e con il capo coperto; accanto a lui, le divinità Atena ed Ermes61 e, rispettivamente sulla destra e sulla sinistra, Antiloco e Nestore, appoggiato a un bastone. La rappresentazione di Priamo in ricchi abiti orientali del cratere dell’Ermitage è confrontabile con quella su due frammenti di cratere, ancora di fattura apula, conservati al Metropolitan Museum di New

58 Bassorilievo su cratere in ceramica da Egnazia. Riproduzione di un originale antico. Krater F 3884, Berlin, Staatlische Museen zu Berlin, Antikensammlung. WUILLEUMIER 1930, 92, n. 7; KOSSATZ‑DEISSMANN 1978, 25, 30‑1. 59 Cratere a volute apulo. S.Pietroburgo, Ermitage Mus. B1718. Datato al 350 a.C.; attribuito al Pittore di Licurgo.RENDALL T ‑CAMBITOGLOU 1978‑1982, 424. 60 I nomi dei vari personaggi sono letteralmente incisi sul vaso, cosa che ne agevola notevolmente l’identificazione. 61 La forte somiglianza con la tragedia eschilea ha fatto ipotizzare a ARZYAG 1995a, 47, che possa trattarsi di una prova della presenza nel dramma di Atena, in quanto protettrice di Achille, insieme all’altra divinità, Ermes, anche se forse, come MOREAU 1996, 8, sottolinea, il pittore doveva essere «infidèle à la lettre, mais fidèle à l’esprit», nel senso che forse era stato in grado di cogliere il parallelismo del ruolo conciliatore delle due divinità, l’una nei Frigi, l’altra nelle Eumenidi. I Frigi nell’universo tragico greco 71

York, l’uno62 databile intorno al 390 a.C., in cui Priamo, in ginocchio, sembra portare addirittura un copricapo orientale, e l’altro63 intorno 350 a.C., più piccolo, in cui si intravede Priamo supplice ai piedi di Achille, e con quella su di una lekythos64 apula attribuita al pittore di Dario, risalente al 340‑330 a.C., che però non raffigura il Riscatto di Ettore, bensì la famiglia reale troiana. Tale somiglianza farebbe pensare ad un motivo ispirato da una replica dell’Achilleide dell’inizio del IV sec. a.C., in cui la figura di Priamo, troiano, risulterebbe ormai del tutto integrata a quella dei Frigi del coro.

5.3. I dati testuali

Si ripercorrerà ora l’intero corpus tragico conservato (tragedie integrali e frammenti) al fine di reperire le occorrenze dell’etnonimo «Frigi» e di distinguere quando esso venga usato in senso proprio e quando, invece, come sinonimo di «Troiani».

5.3.1. Eschilo Non si può condividere un’interpretazione sbrigativa secondo la quale fu proprio Eschilo l’autore responsabile della confusione Troia‑Frigia e dell’uso dei due etnonimi in qualità di sinonimi, come si può osservare invece negli autori tragici successivi. Ripercorrendo il corpus eschileo conservato, infatti, la Frigia e i Frigi sono nominati da Eschilo solo due volte:

• al v. 770 dei Persiani, Λυδῶν δὲ λαὸν καὶ Φρυγῶν ἐκτήσατο, in cui si descrivono le conquiste di Ciro il Grande, che comprendevano anche la Frigia e la Lidia;

• al v. 548 delle Supplici, μηλοβότου Φρυγίας διαμπάξ, in cui la Frigia viene definita «pascolo per le greggi».

In alcun caso essi risultano essere stati assimilati ai Troiani, o la Frigia alla Troade. Non vi è pertanto motivo di pensare che egli l’abbia fatto

62 Frammento di cratere. New York, Metropolitan Museum 20.195. Datato al 390 a.C. TRENDALL‑CAMBITOGLOU 1978‑1982, 166. 63 Frammento di cratere. New York, Metropolitan Museum 10.210.17A. Datato al 350 a.C. e messo in relazione con il Pittore di Konnakis. OK ßATZ‑DEIßMANN 1978, 23‑ 32, tav. 3, num. 2. 64 Lekythos. Ginevra, Collection Musée d’art et d’histoire, HR 134. Datata al 340‑330 a.C. e attribuita al Pittore di Dario.ELLEN A ‑CAMBITOGLOU‑CHAMAY 1986, 136‑49. 72 Milena Anfosso deliberatamente nella terza tragedia dell’Achilleide, soprattutto in virtù della datazione alta. Quanto ai frammenti, si citerà il fr. 446 Radt, il solo che potrebbe essere utile ai fini di questo studio, e che non è stato attribuito all’Achilleide :

Φρύγες vel/et Φρυγία.

Frigi o/e Frigia.

Non abbiamo purtroppo alcuna indicazione che ci permetta di compren‑ dere il contesto di questo frammento e, dunque, di trarne conclusioni utili. Se è vero che il Κατάλογος τῶν Αισχύλου δραμάτων distingue tra due tragedie diverse, l’una dal titolo Φρύγες e l’altra dal titolo Φρύγιοι, è anche altrettanto vero che si tratta dell’unica fonte che attesterebbe l’esistenza di tale tragedia. Friedrich Heinrich Bothe65 fu il primo a pensare che, nel caso in cui non si trattasse di un doppione delRiscatto di Ettore, in realtà potrebbe essere la corruzione di Φρύγιαι, forse il titolo di un’altra tragedia con un coro di donne troiane o del territorio circostante, ma non abbiamo alcun indizio al riguardo. Sommerstein66, dal canto suo, aveva fatto notare che un tale titolo Φρύγιοι sarebbe contrario all’uso del V sec. a.C. dell’aggettivo Φρύγιος, attestato solo in funzione di aggettivo. Mette attribuisce poi ai Frigi, a Priamo, per essere precisi, un verso (fr. 250 Mette = fr. 295 Nauck, apparentemente contenuto anche inP.Oxy . XX 2256 fr. 87) tratto daPartizioni omeriche, Anecdota Oxoniensia, Cramer, I, 119, 10, addotto come esempio per l’uso della preposizione causale διαί, che confermerebbe l’uso del toponimo Troia, senza ricorrere ad alcuna perifrasi che includa i Frigi:

πᾶσα γὰρ / Τροία δέδουπεν Ἕκτορος τύχης διαί

Tutta Troia, infatti, ha risuonato cupamente per la sorte di Ettore.

Addirittura, il fr. 252 Mette (=P.Oxy . XX 2256 fr. 85) è stato attribuito dal filologo al coro e, secondo la sua lettura, conterebbe esplicitamente l’etnonimo «Troiani», Τρώων, cosa che sarebbe davvero utile ai fini di questo studio, in quanto menzionerebbe gli abitanti di Troia in quanto «Troiani», e non «Frigi». Tuttavia, se si guarda allo stato lacunoso del papiro in questione, risulta abbastanza difficile, almeno per quanto mi riguarda, esprimere un giudizio insindacabile in merito67.

65 BOTHE 1844. 66 SOMMERSTEIN 2008, 263‑5. 67 Per questo frammento di tradizione diretta papiracea si è consultata la fotografia I Frigi nell’universo tragico greco 73

<ΧΟΡ.> ] ̣ ̣ [ ] . ν̣ . ϕρ̣έ̣ ν̣ ας ἡ] Τ̣ ρ̣ώων̣ π[ολ]υ̣ δ̣ [ά]ϰ̣ ρυ̣ τ̣ ο̣ ς̣ α̣ ῖ̣ [σ]α

… animi La molto lacrimevole sorte dei Troiani […]

5.3.2. Sofocle Se guardiamo ai tragici successivi, invece, la situazione cambia. Per quanto riguarda Sofocle, i Frigi sono nominati in una sola tragedia conservata interamente, l’Aiace (Αἴας), rappresentata tra il 450 e il 440 a.C., probabilmente nel 445 a.C., ai vv. 210, 488, 1054, 1292. Per il resto, li tro ‑ viamo citati nei frammenti delle seguenti tragedie: nel fr. 364 Radt di Kophoi Satyroi (Κωφοί Σάτυροι), nel fr. 412 Radt dei Misii (Μυσοί), nel fr. 368 Radt delle Lakainai (Λάκαιναι), nel fr. 373 Radt del Laocoonte (Λαοκόων). I Frigi, però, risultano confusi con i Troiani soltanto tre volte in totale:

• nel fr. 368 Radt: […] ἄρξασι Φρυξὶ τὴν κατ’ Ἀργείους ὕβριν […], «quando i Frigi diedero inizio all’oltraggio nei confronti degli Argivi»;

• nel fr. 373 Radt: […] συνοπάζεται δὲ πλῆθός οἱ πόσον δοκεῖς, / οἳ τῆσδ’ ἐρῶσι τῆς ἀποικίας Φρυγῶν, «E lo [scil. Enea] accompagna una folla, non puoi immaginare quanto grande, di coloro che desiderano prendere parte a questa migrazione dei Frigi»;

• nell’Aiace, al v. 1054: ἐξηύρομεν ξυνόντες ἐχθίω Φρυγῶν, «abbiamo riconosciuto, avendo a che fare con lui, un nemico peggiore dei Frigi».

Sappiamo, inoltre, che Sofocle avrebbe scritto una tragedia dallo stesso titolo di quella di Eschilo, i Frigi, Φρύγες, alla quale sono stati attribuiti soltanto due frammenti (frr. 724‑725 Radt), e la cui trama doveva essere ispirata verosimilmente a quella della tragedia dell’illustre predecessore, se è vero quanto si legge in uno scolio al Prometeo (schol. ad Prom. 436), cioè che Achille restava in silenzio anche nella tragedia sofoclea, benché il mo ‑ tivo addotto risultasse essere la sua caparbietà (αὐθάδεια). Nei fram menti conservati di questa tragedia non ci sono tracce, purtroppo, dell’uso sinonimico dei due etnonimi Frigi e Troiani.

accessibile online al seguente link http://163.1.169.40/gsdl/collect/Poxy/index/assoc/ HASHfdc8.dir/Poxy.v0020.n2256.a.04.hires.jpg. Le lettere chiaramente distinguibili sono le due omega centrali; del nu che segue sarebbero riconoscibili i segmenti delle asticelle verticali, mentre il rho che precede è difficilmente riconoscibile; manca del tutto il tau. 74 Milena Anfosso

5.3.3. Euripide In Euripide, invece, la nuova tendenza che vede l’uso sinonimico dei due etnonimi «Frigi» e «Troiani» e l’identificazione concettuale con i Per ‑ siani, trova il proprio punto di arrivo. Nelle tragedie conservate e nei frammenti restanti, dal 429 a.C. (se si accetta la datazione più alta per l’Andromaca) al 405 a.C., i Frigi e la Frigia sono nominati per un totale di 122 volte, di cui 101 per fare riferimento ai Troiani, a Troia, o alla Troade, nelle tragedie ispirate alla saga troiana, fino a un massimo di 25 volte rilevato nelle Troiane (415 a.C.). I sinonimi per Troia che Euripide utilizza più spesso sono del tipo Φρυγῶν πόλις, Φρυγῶν γαῖα, Φρυγῶν χθών. Tuttavia l’utilizzo dell’etnonimo per identificare realtà genuinamente frigie coesiste, in particolare modo nelle Baccanti (405 a.C.). Ecco la lista dei dati:

• nell’Alcesti (438 a.C.), l’uso sinonimico dei due sinonimi non è attestato, ma uno schiavo effettivamente frigio è nominato al v. 675;

• nell’Andromaca (fra il 429 e il 425 a.C.), l’uso sinonimico è attestato ai vv. 194, 204, 291, 363, 455, 592, 1044;

• nell’Ecuba (424 a.C.), ai vv. 4, 350, 492, 776, 827, 1063, 1111, 1141;

• nelle Troiane (415 a.C.), ai vv. 7, 18, 24, 64, 338, 391, 418, 432, 476, 531, 563, 567, 575, 709, 716, 754, 773, 926, 960, 974, 994, 1164, 1208, 1210, 1288, ma con le seguenti eccezioni: al v. 151, musica frigia; v. 545, melodie frigie; v. 1075, festività sacre di Frigia; v. 1220, abito frigio;

• nell’Elettra (413 a.C.), ai vv. 314, 336, 457, 681, 917, 1001, 1281;

• nell’Elena (412 a.C.), ai vv. 39, 42, 109, 229, 369b, 573, 608, 928;

• nell’Oreste (408 a.C.), ai vv. 888, 1382, 1434, 1480b, 1484, 1515, 1518, 1614, 1640, ma ai vv. 1111, 1367, 1417, 1447, 1473, si fa esplicitamente riferimento agli schiavi frigi, mentre al v. 1351 alla codardia proverbiale dei Frigi e al v. 1426 (2x) ai costumi frigi;

• nell’Ifigenia in Aulide (405 a.C.), ai vv. 71, 92, 662, 672, 682, 773, 788, 970, 1053, 1197, 1284, 1290, 1379, 1476, 1511, 1525, 1628, ma i flauti del v. 576 sono davvero frigi; nel dramma satiresco Il Ciclope (forse del 427 a.C.), ai vv. 200, 284, 295;

• nelle Baccanti (405 a.C.), invece, ai vv. 14, 58, 86, 127, 140, 159, è più probabile che si faccia realmente riferimento alla Frigia; I Frigi nell’universo tragico greco 75

• nel Rheso (tragedia del IV sec. a.C., scritta probabilmente da un imitatore), ai vv. 32, 75, 191, 249, 357, 401, 585, 721, 727, 814, 846, 911;

• troviamo infine i Frigi nominati al posto dei Troiani nel fr. 43, v. 36 e probabilmente nel fr. 23, v. 14 dell’Alessandro; nel fr. 899 Nauck = fr. 10 Page, v. 95; nel fr. 48, v. 101 dell’Antiope; nel fr. 9c Page, v. 25 si fa invece riferimento ad uno schiavo frigio.

Una totale, anacronistica, identificazione tra i costumi persiani e quelli frigi si trova sicuramente nell’Oreste, una tragedia del 408 a.C., nella quale Euripide introduce gli schiavi frigi al servizio di Elena. Essi presentano tutti i tratti orientali stereotipicamente attribuiti al barbaro‑persiano alla fine del V sec. a.C. tanto invisi ai Greci, quali codardia, effemminatezza, servilità, gusto per il lusso, e non costituiscono soltanto una presenza silenziosa sulla scena. Infatti, al v. 1369 Euripide dà la parola proprio ad uno schiavo frigio68 per raccontare al corifeo l’aggressione che ha appena avuto luogo nel palazzo di Elena e che non può essere rappresentata sulla scena. Egli non presenta i tratti impersonali del messaggero classico che espone i fatti in maniera chiara e in trimetri giambici, ma si tratta di un vero e proprio personaggio minore, psicologicamente ben delineato, che si abbandona, come i personaggi femminili più importanti, ad una frenetica monodia in versi lirici69. In questa tragedia occorre, pertanto, distinguere chiaramente quando l’etnonimo «frigio» è utilizzato come sinonimo di «troiano» e quando è invece utilizzato sì in senso proprio, ma per fare riferimento a schiavi frigi che presentano però tratti persiani contemporanei.

68 Sulla figura dello schiavo frigio nell’Oreste si veda PORTER 1994, 173‑250. 69 Il passaggio, che va dal v. 1369 al v. 1502, è interrotto soltanto da sei interventi del coro in trimetri giambici, e la varietà di metri e ritmi offriva una buona opportunità per l’attore che interpretava la parte dello schiavo frigio di presentare al pubblico un vero e proprio pezzo di bravura. Nella tragedia, le monodie come quella dello schiavo frigio erano normalmente riservate ai personaggi femminili più importanti, non agli schiavi anonimi, e soprattutto mai per esporre fatti di cui gli spettatori non erano già a conoscenza, come in questo caso. Soprattutto in questo caso, diremmo, dal momento che i fatti raccontati dallo schiavo sono ben lontani dalla tradizione e completamente frutto della fantasia dell’autore. Lo schiavo frigio è poi ancora protagonista di una scena comica che, per diversi motivi, è stata considerata frutto di interpolazione da parte della critica, in cui Oreste e lo schiavo frigio si affrontano faccia a faccia. Per una discussione approfondita sull’ipotesi dell’interpolazione della scena, si veda PORTER 1994, 215‑50. 76 Milena Anfosso

6. Conclusione: Eschilo scagionato?

Prossimità geografica, dunque, tra le vestigia dell’antica Troia e Daskyleion, la nuova capitale satrapica della Frigia Ellespontica, di cui Troia stessa veniva a fare parte; identificazione da parte dei Greci, in seguito alla vittoria della Seconda Guerra Persiana, dei Persiani contemporanei, del cui impero i Frigi stessi facevano parte, con gli antichi Troiani, che non esistevano più in quanto popolo nel V sec. a.C., ma che condividevano con essi l’Asia Minore e la condizione di sconfitti; ecco gli ingredienti che avrebbero portato ben presto all’uso sinonimico di due etnonimi, «Frigi» e «Troiani» in origine del tutto distinti, in un sistema di cui la tragedia di Eschilo fa parte, ma non costituisce il solo elemento determinante. Infatti, sulla base dell’analisi testuale condotta sull’intero corpus costituito da tragedie complete e frammenti dei tre tragici maggiori (cf. infra fig. 1), possiamo affermare che:

a) in Eschilo (inizio del V sec. a.C.) non abbiamo alcuna prova certa dell’uso deliberato di «Frigi» e «Troiani» in quanto sinonimi, ed essi non sono, purtroppo, presenti in nessuno dei frammenti conservati dei Frigi o il Riscatto di Ettore;

b) in Sofocle (metà del V sec. a.C.) ne troviamo tre, uso che potremmo definire sporadico, parallelamente alla parziale persianizzazione del re Priamo nell’arte greca a partire dal 440 a.C. (cf. supra § 5.2.1.);

c) in Euripide (fine del V sec. a.C.) l’uso aumenta in maniera esponenziale (101 volte) e risulta ormai essere una consuetudine ben acquisita, in consonanza con il gusto sempre più orientalizzante dell’autore, come West70 mette bene in evidenza, e contemporanea ‑ mente alla totale persianizzazione del re Priamo nell’iconografia a partire dal 400 a.C. (cf. supra § 5.2.1.), che risulta ormai totalmente integrato al coro.

Va sottolineato poi che i citati scolii Aad Il. 2, 862 e BCE ad Il. 2, 862 sono gli unici che esplicitamente fanno il nome di Eschilo quale autore della confusione Troia‑Frigia. Tutti gli altri scolii che commentano l’equazione tra Frigi e Troiani, cioè A ad Il. 3, 184 (= I 392 Erbse), T ad. Il. 10, 431 (= III 92 Erbse), BCE ad Il. 10, 431 (= III 92 Erbse), AT ad Il. 20, 216‑7 (= V 35 Erbse), A ad Il. 24, 545 (= V 610 Erbse), mettono in evidenza il fatto che questa,

70 WEST 1987, 277. I Frigi nell’universo tragico greco 77 giustamente, non deve essere attribuita ad Omero, ma a più generici νεώτεροι, poeti più recenti, ma Eschilo non è affatto nominato tra di loro. È più probabile, dunque, che la confusione si sia verificata a livello successivo, cioè al momento della ricezione della tragedia. Il fatto che la tragedia che si svolge a Troia e che si concentra sul momento più doloroso della guerra per i Troiani, con il re Priamo tra i personaggi protagonisti, si chiamasse Frigi a causa del suo coro poteva facilmente causare un cortocircuito cognitivo. Senza contare che le tragedie di Eschilo potevano essere rappresentate anche dopo la morte del loro autore. Se osserviamo le rappresentazioni iconografiche della ceramica apula che abbiamo descritto, vediamo bene come queste possano essere state ispirate da una replica della tragedia della fine del V sec. o dell’inizio del IV sec. a.C., quando ormai l’identificazione dei Troiani con i Persiani era un dato di fatto, e Priamo aveva definitivamente acquisito le sembianze di un sovrano orientale. Inoltre, dopo la vittoria conseguita sui Persiani, per il pubblico greco, e ateniese in particolare, doveva essere un momento di grande soddisfazione vedere in scena l’incarnazione simbolica del Nemico Persiano, Priamo, accompagnato dal suo stuolo di schiavi frigi effemminati, prostrato ai piedi dell’eroe greco per eccellenza, Achille, in atto di supplica. Infine, i Troiani in quanto popolo non esistevano più da secoli alla fine del V sec. a.C., ma i Frigi sì, e facevano parte dell’impero persiano a partire dal 546 a.C., insieme a tutte le altre popolazioni dell’Asia Minore. Perciò, con un procedimento che potremmo definire sineddochico (un genere per la specie), e contemporaneamente attivo su diversi assi temporali, cioè il tempo ancestrale della guerra di Troia, riattualizzato dalla tragedia di Eschilo, e il tempo presente, successivo alle guerre persiane, l’etnonimo Frigi doveva evocare allo spirito greco allo stesso tempo i Troiani antichi e i Persiani moderni, in un continuo gioco di specchi. Il fatto che in seguito alla Seconda Guerra Persiana l’equivalenza Troiani‑Persiani fosse ormai una realtà incontestata e che il titolo Frigi della tragedia eschilea indicasse allo stesso tempo un soggetto interamente troiano e un popolo che sincronicamente faceva parte dell’Impero Persiano mi sembra possa spiegare abbastanza bene la confusione Troia‑Frigia nella letteratura successiva. 78 Milena Anfosso

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Sofocle, fr. 871 Radt

DANIELA MILO (UNIVERSITÀ DI NAPOLI FEDERICO II)

1. Il fr. 871 Radt1 – costituito da otto versi in metro giambico – è trasmesso, nella sua interezza, da Plutarco in Vita Demetrii (45, 3)2: in esso Menelao si lascia andare ad amare riflessioni sull’instabilità del proprio vivere, per accostare poi (5‑8) l’alterna fortuna della sua vita al cangiante aspetto della luna. Il frammento è da tragedia sconosciuta. Veniamo al testo:

ΜΕΝΕΛΑΟΣ ἀλλ᾽οὑμὸς ἀεὶ πότμος ἐν πυκνῷ θεοῦ3 τροχῷ κυκλεῖται4 καὶ μεταλλάσσει φύσιν, ὥσπερ σελήνης ὄψις εὐφρόνας5 δύο στῆναι6 δύναιτ᾽ ἂν οὔποτ᾽ ἐν μορφῇ μιᾷ, ἀλλ᾽ ἐξ ἀδήλου πρῶτον ἔρχεται νέα, 5 πρόσωπα καλλύνουσα7 καὶ πληρουμένη,

1 Cf. RADT 1977. 2 I vv. 5‑8 sono tramandati da Plutarco anche in De curiositate 5, 517 d, e in Quaestiones Romanae 76, 282 a. 3 Θεοῦ è da intendere femminile, in riferimento a Τύχη (cf. LLOYD‑JONES 1996, 381 e già HEADLAM 1907, 291 ss.), come confermano le parole introduttive alla citazione: ἣν οὖν ὁ Σοφοκλέους Μενέλαος εἰκόνα ταῖς αὑτοῦ τύχαις παρατίθησιν. PADUANO 1982, 1029, intende invece in riferimento al Sole («il mio destino si volge nella corsa veloce del Sole»). 4 Cf. Pi. P. 2, 22: ἐν πτερόεντι τροχῷ … κυλινδόμενον. 5 εὐφρόνας Grotius: εὐφρόναις codd., che non si concilia con δύο. εὐφρόνη designa, come è noto, la notte già in Esiodo op( . 560) e Eschilo (Pers. 221). Cf. anche Pi. N. 7, 3; Hdt. 7, 12, 1 e al. In Sofocle è presente in Tr. 149, El. 19 e 259. 6 RUPPRECHT 1922, 393, proponeva senza necessità μεῖναι in luogo di στῆναι («permanere», in luogo di «star fisso»). 7 Il riferimento alla bellezza e alla pienezza della luna è di ascendenza saffica (ringrazio Tiziana Drago per lo spunto): cf. il fr. 34 Voigt (trad. di ALONI 1997: «le stelle intorno alla bella luna di nuovo celano lo splendente aspetto, quando piena brilla più forte, sopra *** argentea», ma per il motivo della luna in contesti erotici vd. anche frr. 96, 154 e 168 B, su cui ALONI 1997, 68‑69, 158‑161, 252‑253, 264‑265): in cui la poetessa varia un modulo già omerico (come osservato pure da FERRARI 1998, 84 Daniela Milo

χὤτανπερ αὑτῆς εὐπρεπεστάτη8 φανῇ, πάλιν διαρρεῖ κἀπὶ9 μηδὲν ἔρχεται.

Gira incessante il mio destino sulla ruota salda della dea e cambia natura, come il volto della luna, che non può mai conservare per due notti lo stesso aspetto, ma dall’oscurità dapprima spunta, nuova, abbellendo e riempiendo il suo volto, poi, ogni qualvolta appare più luminosa, di nuovo scompare e torna nel nulla10.

In Vita Demetrii la citazione del passo sofocleo è motivata dalla considera‑ zione delle infelici vicende di Demetrio Poliorcete (45, 4):

ταύτῃ μᾶλλον ἄν τις ἀπεικάσαι τὰ Δημητρίου πράγματα καὶ τὰς περὶ αὐτὸν αὐξήσεις καὶ φθίσεις καὶ ἀναπληρώσεις καὶ ταπεινότητας, οὗ γε καὶ τότε παντάπασιν ἀπολείπειν καὶ κατασβέννυσθαι δοκοῦντος ἀνέλαμπεν αὖθις ἡ ἀρχή, καὶ δυνάμεις τινὲς ἐπιρρέουσαι κατὰ μικρὸν ἀνεπλήρουν τὴν ἐλπίδα.

Con questa immagine meglio si potrebbero rappresentare le vicende di Demetrio, le loro fasi crescenti e decrescenti, i momenti di pienezza e di oscuramento. Poiché anche allora, mentre sembrava che venisse meno e si spegnesse del tutto, ancora una volta la sua potenza riprese a splendere, alcune forze affluirono e a poco a poco colmarono le sue speranze11.

Egli, dopo aver governato per sette anni sulla Macedonia e aver perso poi il potere, si rifugiò a Cassandrea; a questi eventi seguirono il suicidio della moglie, la partenza per la Grecia con l’intento di ricompattare i suoi fautori, strateghi e amici ivi dimoranti. In questo contesto è inserita la menzione dei versi di Sofocle. Plutarco si avvale ancora di altre citazioni

129: cf. Il. 8, 555‑559): il riferimento alla luna nel nostro frammento è tuttavia in contesto completamente diverso, e il richiamo saffico – in particolare per quanto concerne l’elemento ‘nuovo’ della bellezza della luna –, si limita al livello lessicale: nel fr. 871 Radt la luna bella e piena allude a uno stato di prosperità, che proprio nel momento del suo culmine – cui corrisponde il massimo splendore dell’astro – precipita nel nulla. 8 εὐγενεστάτη in alcuni codici plutarchei, il cui senso appare qui improprio. È probabile che ambedue le lezioni siano erronee e che εὐγενεστάτη nasconda εὐαγεστάτη (così anche M. Pohlenz), di cui εὐπρεπεστάτη potrebbe essere glossa. 9 κἀπί Radt ex Plu. quaest. Rom. e curios. (vd. infra); in Dem. è scritto κεἰς τό, lezione già ritenuta potior da Nauck. Naturalmente, le due lezioni omologhe rinviano a due diversi excerpta, fonti di Plutarco. 10 Trad. di MARASCO 1994, 113. 11 Trad., qui e in avanti, di C. Carena in AMANTINI/CARENA/MANFREDINI 1995. Sofocle, fr. 871 Radt 85 sul medesimo tema della precarietà della vita: un frammento attribuito a Eschilo, due versi di Archiloco. Secondo il Cheroneo, era tradizione diffusa che Demetrio nei momenti più gravi di crisi «apostrofava la Fortuna con le parole di Eschilo» (35, 4: διὸ καί φασιν αὐτὸν ἐν ταῖς χείροσι μεταβολαῖς πρὸς τὴν Τύχην ἀναφθέγγεται τὸ Αἰσχύλειον· “σύ τοί μ᾿ ἔφυσας, σύ με καταιρήσειν δοκεῖς”12); segue poi (35, 6) la citazione di due versi di Archiloco, che si riferiscono però all’indole femminile (fr. 184 West = 190 Tarditi: τῇ μὲν ὕδωρ ἐφόρει / δολοφρονέουσα χειρί, θἠτέρῃ δὲ πῦρ: «portava, ingannevole, acqua con una mano, con l’altra del fuoco»)13. Nella Vita di Demetrio occorre solo un’altra citazione sofoclea, ma da tragedia integra (S. OC 1‑2 = Plut. Dem. 46, 10: τέκνον τυφλοῦ γέροντος Ἀντιγόνη, τίνας / χώρους ἀφίγμεθα;: «figlio del vecchio cieco Antigono, / a quali terre siam giunti?»); va osservato che, tra i frammenti tragici sofoclei incertae sedis citati dal Cheroneo (frr. 831‑899 Radt), in nessuno il personaggio parlante è Menelao. Nelle Questioni romane, i vv. 5‑8 del fr. 871 emergono dalla riflessione sull’uso, da parte di chi affetta nobiltà, di portare lunette sui calzari (282 a: διὰ τί τὰς ἐν τοῖς ὑποδήμασι σεληνίδας οἱ διαφέρειν δοκοῦντες εὐγενείᾳ φοροῦσιν;: «perché coloro che risultano segnalarsi per nobiltà portano delle mezzelune sui calzari?»); per Plutarco la luna con le sue varie fasi è simbolo dei cambiamenti improvvisi delle sorti umane, e si erge per questo a monito per i superbi (282 a‑b):

ἤ, καθάπερ ἄλλα πολλά, καὶ τοῦτο τοὺς ἐπαιρομένους καὶ μέγα φρονοῦντας ὑπομιμνήσκει τῆς ἐπ᾿ ἀμφότερον τῶν ἀνθρωπίνων μετα‑ βολῆς παράδειγμα ποιουμένους τὴν σελήνην, ὡς “ἐξ ἀδήλου ~ φανῇ”.

oppure, come molte altre cose, anche questo fa ricordare la mutabilità in entrambi i sensi delle faccende umane, a coloro che sono in posizione elevata e hanno alta considerazione di sé che utilizzano come esempio la luna, poiché “ἐξ ἀδήλου ~ φανῇ”14.

In De Curiositate, la citazione nasce dalla riflessione sulla curiosità male indirizzata, e su come essa riesca nociva; occorre dunque indirizzarla

12 Riporto il frammento secondo l’ed. RADT 1977 («tu mi ha generato, e sembra che tu mi distruggerai»), al cui apparato rinvio per le questioni di carattere testuale (fr. 359 Radt = 699 Mette). Questo verso eschileo è citato da Plutarco anche in Mor. 827 c (tribus rei publ. gener.). 13 Cf. anche Mor. 950 e‑f (frig.); 1070 a (adv. Stoic.). 14 Trad., per le Questioni romane, di CARLÀ‑UHINK 2017. 86 Daniela Milo meglio, applicarsi all’indagine sui fenomeni naturali e celesti, e fra questi alle fasi lunari (517 d: ζήτει τὰς ἐν σελήνῃ καθάπερ ἀνθρώπῳ μετα‑ βολάς, ποῦ τοσοῦτον κατηνάλωσε φῶς πόθεν αὖθις ἐκτήσατο, πῶς “ἐξ ἀδήλου ~ ἔρχεται”: «studia le fasi della luna in relazione all’indole umana, dove mai essa disperda tanta luce e donde ne riacquisti, in che modo “ἐξ ἀδήλου ~ ἔρχεται”»)15. La riflessione sull’instabilità della vita e sulla mutevolezza della fortuna è topos non infrequente in Sofocle; si vedano ad esempio le parole di conforto che le coreute rivolgono a nella parodo delle Trachinie (124‑135):

φαμὶ γὰρ οὐκ ἀποτρύειν / ἐλπίδα τὰν ἀγαθὰν / χρῆναί σ᾽· ἀνάλγητα γὰρ οὐδ᾽/ ὁ πάντα κραίνων βασιλεὺς / ἐπέβαλε θνατοῖς Κρονίδας· / ἀλλ᾽ἐπὶ πῆμα καὶ χαρὰ / πᾶσι κυκλοῦσιν, οἷον Ἄρ‑ / κτου στροφάδες κέλευθοι. / μένει γὰρ οὔτ᾽αἰόλα / νὺξ βροτοῖς οὔτε Κῆρες οὔτε πλοῦτος, / ἀλλ᾽ἄφαρ βέβακε, τῷ δ᾽ἐπέρχεται / χαίρειν τε καὶ στέρεσθαι.

Affermo che non devi stancare la speranza buona. Neanche il sovrano che regge tutto, il figlio di Crono, ha destinato sorti senza dolore ai mortali. La pena e la gioia si alternano per tutti, come le vie dell’Orsa che muovono ruotando. Ai mortali non restano né la notte screziata né le sventure, e neanche la ricchezza: no, svaniscono in fretta, e già toccano a un altro la gioia e la privazione16.

Tuttavia, iltopos è presente soprattutto in Euripide e nelle sue cosid dette tragedie di Τύχη, nelle quali non mancano apostrofi a Τύχη stessa con

15 Trad. di INGLESE 1996. 16 Traduzione, qui e in avanti, per le Trachinie, di RODIGHIERO 2004. Vd. anche fr. 879a Radt (incertae sedis): οὐ χρή ποτ᾽ ἀνθρώπων μέγαν ὄλβον ἀπο‑ / βλέψαι· τανυφλοίου γάρ ἰσαμέριος / ὅστις αἰγείρου βιοτὰν ἀποβάλλει: «non bisogna guardare alla grande prosperità dell’uomo; con la stessa durata delle foglie del pioppo, così si consuma la vita»: trad. PADUANO 1982, 1031; cf., per il commento al fr. 879a, MILO 2008, 120‑124. Il concetto tuttavia, anche quando non è esplicitamente formulato, è alla base della tragicità sofoclea, in linea con la visione erodotea (1, 32) che la vita dell’uomo, se felice o meno, vada giudicata nel suo ultimo giorno (vd., p. es., Tr. 1‑3: Λόγος μέν ἐστ᾽ ἀρχαῖος ἀνθρώπων φανεὶς / ὡς οὐκ ἂν αἰῶν᾽ἐκμάθοις βροτῶν, πρὶν ἂν / θάνῃ τις, οὔτ᾽εἰ χρηστὸς οὔτ᾽εἴ τῳ κακός: «Esiste un detto antico, fra i mortali: che non si può conoscere la vita di un uomo prima che costui sia morto, se gli è stata propizia o sfavorevole»; OT 1527‑1530 εἰς ὅσον κλύδωνα δεινῆς συμφορᾶς ἐλήλυθεν, / ὥστε θνητὸν ὄντ᾽ ἐκείνην τὴν τελευταίαν ἰδεῖν / ἡμέραν ἐπισκοποῦντα μηδέν᾽ ὀλβίζειν, πρὶν ἂν / τέρμα τοῦ βίου περάσῃ μηδὲν ἀλγεινὸν παθών: «e allora fissa il tuo occhio al giorno estremo e non dire felice uomo mortale, prima che abbia varcato il termine della vita senza aver patito dolore.» Trad. di FERRARI 1994). Sofocle, fr. 871 Radt 87 concetti vicini a quelli espressi nel nostro frammento; si veda, p. es., loIone (1512‑1517):

ὦ μεταβαλοῦσα μυρίους ἤδη βροτῶν / καὶ δυστυχῆσαι καὖθις αὖ πρᾶξαι καλῶς / τύχη, παρ᾽οἵαν ἤλθομεν στάθμην βίου / μητέρα φονεῦσαι καὶ παθεῖν ἀνάξια. / φεῦ· / ἆρ᾽ ἐν φαενναῖς ἡλίου περιπτυχαῖς / ἔνεστι πάντα τάδε καθ᾽ ἡμέραν μαθεῖν;

O Fortuna, tu hai cambiato il destino di infiniti uomini: dalla sciagura li hai portati alla buona sorte e viceversa. A quale svolta ci hai portati: io ero sul punto di uccidere mia madre, e lei me. Ah, accade mai nel volgersi luminoso dei giorni che si rivelassero simili cose?17

Welcker (ap. RADT 1977, 565) ipotizzò che il fr. 871 appartenesse alla Richiesta di Elena (Ἀπαίτησις τῆς Ἑλήνης). In questa tragedia, della quale restano pochi frammenti18, Sofocle raccoglieva dai Κύπρια un episodio del mito troiano, rielaborato su alcuni luoghi iliadici19, collocato nelle prime

17 Trad. di GUIDORIZZI 2001. 18 frr. 176‑180a Radt. Il fr. 176 presenta un riferimento alla lingua spartana (176: καὶ γὰρ χαρακτὴρ αὐτὸς ἐν γλώσσῃ τί με / παρηγορεῖ Λάκωνος ὀσμᾶσθαι λόγου); nel fr. 177, lacunoso, si legge di una donna che viene presa e che tormenta la sua guancia: γυναίκα δ᾽ ἐξελόντες ἣ θράσσει γένυν / † τε ὡς τοῦ μὲν ἕωλον γραφίοις ἐνημμένοις †; il fr. 178 è costituito dalle parole di un personaggio, probabilmente Elena, che afferma che sarebbe preferibile bere sangue di toro, notoriamente mortale, piuttosto che avere cattiva fama: ἐμοὶ δὲ λῷστον αἷμα ταύρειον πιεῖν / καὶ μὴ᾿πὶ πλεῖον τῶνδ᾿ἔχειν δυσφημίας; il fr. 179 è un verbo che allude all’atto di opporsi: ἀναχαιτίζει (ἀπειθεῖ καὶ ἀντιτείνει); il fr. 180 è un riferimento all’oracolo dato a Calcante e alla contesa tra Calcante e Mopso in Cilicia, fatti attribuiti da Strabone (14, 1, 27; 14, 5, 16) alla Richiesta di Elena. Su 180a, Παμφυλία, vd. infra n. 23. Non trova consenso l’ipotesi di Hermann (ap. RADT 1977, 178), basata su fr. 177, che la Ἀπαίτησις fosse un dramma satiresco. 19 L’ambasceria di Menelao e Odisseo a Troia per il recupero di Elena agli inizi della guerra è ricordata anche in Iliade 3, 203‑224 (τειχοσκοπία) dal vecchio Antenore, che in avanti (7, 348‑352) propugna all’assemblea dei Troiani la restituzione di Elena e della sua dote pur di risolvere la guerra, ma è contestato da Paride; da 11, 138‑142 appare che Antenore, in occasione dell’ambasceria, avrebbe ospitato i due Greci, salvandoli dalla morte sollecitata dal troiano Antimaco (Il. 11, 138‑142, in cui parla Agamennone che si accinge a uccidere i due figli di Antimaco: εἰ μὲν δὴ Ἀντιμάχοιο δαΐφρονος υἱέες ἐστόν, / ὅς ποτ᾽ ἐνὶ Τρώων ἀγορῇ Μενέλαον ἄνωγεν, / ἀγγελίην ἐλθόντα σὺν ἀντιθέῳ Ὀδυσῆϊ, / αὖθι κατακτεῖναι μηδ᾽ ἐξέμεν ἂψ ἐς Ἀχαιούς, / νῦν μὲν δὴ τοῦ πατρὸς ἀεικέα τείσετε λώβην: «se davvero siete figli del bellicoso Antimaco, che nell’assemblea dei Troiani un giorno dava consiglio su Menelao, venuto in ambasceria con Odisseo divino, di ammazzarlo lì stesso e non rimandarlo agli Achei, ora sì che 88 Daniela Milo fasi della guerra decennale, in un momento di crisi dell’armata greca, appena dopo l’uccisione di Protesilao da parte di Ettore e di Cicno da parte di Achille. Menelao e Odisseo si presentavano in ambasceria, per richie ‑ dere, invano, la restituzione di Elena20; l’opinione di Welcker è accettata da Radt; altre possibilità sono avanzate da Paduano21, ma, trattandosi in tutti i casi di pochi e brevi frammenti, gli elementi di garanzia non sono sufficienti. La Ἁπαίτησις τῆς Ἑλήνης non è citata fra i drammi di argomento troiano nella ὑπόθεσις dell’Aiace, dove invece trovano menzione Ἀντηνoρίδαι, Αἰχμαλωτίδες, Ἑλήνης ἁρπαγή e Μέμνων. Da qui anche l’ipotesi, avanzata in passato da alcuni studiosi, fra i quali Blass e Wilamowitz, che i titoli Ἀπαίτησις τῆς Ἑλήνης e Ἀντηνoρίδαι22 si riferis ‑ sero a un unico dramma23, caso non raro nella tradizione tragica. Ma l’argomento degli Ἀντηνoρίδαιriporta agli eventi finali della guerra, laddove l’ambasceria per Elena si colloca nella tradizione mitica agli inizi

sconterete l’offesa indegna di vostro padre!» [trad., qui e in avanti, per l’Iliade, di CERRI 1999]). L’ambasceria dei Greci per la richiesta di Elena si pone dopo lo sbarco a Lemno, l’abbandono di Filottete e la morte di Protesilao, quindi dopo l’approdo degli Achei a Troia ma prima dell’assedio alle mura, come si evince dall’argumentum dei Cypria, tramandato da Proclo nella Chrestomathia (IV, 84, 152‑154 Severyns; cf. Cypr. arg. 1, 42, rr. 55‑57 Bernabé; cf. anche SCAIFE 1995, 167). Tuttavia secondo [Ps.] Apollod. epit. 3, 28 (vd. GANTZ 1993, 595‑596; cf. anche lo scolio a Il. 3, 205 [I, 396, 69‑70 Erbse]), l’ambasceria di Menalo si sarebbe mossa da Tenedo, quindi ancor prima dell’arrivo dei Greci a Troia. 20 Cf. JOUANNA 2007, 623‑624. 21 Cf. PADUANO 1982, 1029, n. 337. 22 I figli e i discendenti di Antenore e della moglie Teano, ricordata da Omero come sacerdotessa di Atena (Il. 6, 297‑299: αἱ δ’ ὅτε νηὸν ἵκανον Ἀθήνης ἐν πόλει ἄκρῃ, / τῇσι θύρας ὤιξε Θεανὼ καλλιπάρῃος, / Κισσηΐς, ἄλοχος Ἀντήνορος ἱπποδάμοιο: «quando giunsero al tempio d’Atena sull’alto della rocca, aprì la porta Teano dalle belle gote, figlia di Cisse, sposa d’Antenore domatore di cavalli»). 23 L’ipotesi doveva trovare fondamento nel dith. 15 Maehler di Bacchilide, benché molto lacunoso, dal titolo Ἀντηνορίδαι ἢ Ἑλήνης ἀπαίτησις: in questa composizione veniva evocata, in incipit, Teano e indi i componenti dell’ambasceria greca (Odisseo e Menelao) venuti per la trattativa della proposta restituzione di Elena; dopo un’ampia lacuna, Antenore presentava a Priamo e ai suoi figli la proposta dei Greci; veniva convocata l’assemblea dei guerrieri troiani, davanti alla quale Menelao teneva un discorso. Nel fr. 180a Radt pare che Sofocle faccia menzione dell’oracolo secondo il quale Calcante sarebbe morto in Panfilia, dopo aver incontrato un indovino di lui più valente (cf. anche Strabone 14, 1, 27 e 5, 16, su cui supra n. 18). Doveva essere questo un dettaglio estraneo all’azione drammatica, riferito forse da undeus ex machina, espediente che pare che Sofocle abbia utilizzato anche in altre sue tarde tragedie. Sofocle, fr. 871 Radt 89 della guerra, benché dovesse esservi memoria anche negli Ἀντηνoρίδαι, dove essa veniva forse evocata a giustificare il trattamento di favore fatto dai Greci ad Antenore, alla sua casa e alla sua famiglia, nella notte del saccheggio e della distruzione di Troia24. Alla Ἀπαίτησις τῆς Ἑλήνης riporta anche il registro principale di un grande cratere corinzio conservato in Vaticano (Museo Gregoriano Etrusco, Ast 565, inv. 35525), attribuito al Pittore Astarita25, che è fatto risalire intorno alla metà del VI a.C. e ha forse la sua fonte nei Cypria26; vi è raffigurata la scena dell’ambasceria per Elena: vi si vedono seduti su gradoni, forse dell’altare di Atena27, Menelao, sul gradone più alto, Odisseo, su quello centrale e l’araldo Taltibio, su quello inferiore, probabilmente nella parte di supplici28; di fronte a loro è Teano, moglie di Antenore29, e sacerdotessa di Atena Poliade a Ilio, scortata da due ancelle e dalla nutrice, con un seguito di cavalieri e di uomini appiedati30. È la situazione descritta in

24 Per aver ricevuto e protetto Odisseo e Menelao quando vennero in ambasceria per la richiesta di Elena, la casa, la famiglia e i beni di Antenore non conobbero il saccheggio nell’ultima notte di Troia: su ordine di Agamennone, la porta della casa del nobile troiano fu ricoperta da una pelle di leopardo (o pantera) a segno della sua, per così dire, extraterritorialità (cf. lo scolio a Il. 3, 205a [1, 396 Erbse] e S. Aj. Locr. fr. 11 Radt; questo celebre dettaglio sarebbe stato raffigurato da Polignoto, amico di Sofocle, a Delfi: cf. Pausania 10, 26, 7). L’argomento del dramma è presente nel dith. 15 di Bacchilide (cf. supra n. 23); che Sofocle, unico fra i tragici, avesse trattato l’argomento negli Antenoridi è detto da Strabone 13, 1, 53, secondo il quale, e in conformità alla tradizione mitica, gli Antenoridi trovarono un primo rifugio in Tracia, per indi spostarsi, col gruppo degli Eneti, sulle coste adriatiche e precisamente nel Veneto, dove Antenore avrebbe fondato Padova (vd. anche Liv. 1, 1 e i frammenti di Accio di una tragedia omonima). Degli Antenoridi restano solo tre frammenti (137‑139 Radt). 25 Per un’ampia e accurata descrizione del Cratere Astarita e delle problematiche artistico‑letterarie connesse, cf. la trattazione diOZZO I 2012, 27‑40. 26 Cf. supra n. 19. 27 Non mancano altre ipotesi: i gradoni potrebbero raffigurare una scalinata verso le mura di Troia (BEAZLEY 1958, discusso in IOZZO 2012, 37‑40 che, sulla base dell’analisi dell’iconografia di Teano, è convinto che i gradoni siano quelli dell’altare del santuario di Atena Poliade sull’acropoli di Ilio e che il contesto sia quello della supplica; Iozzo evidenzia altresì l’importanza del ruolo svolto da Teano nella scena, e rimanda a Bacch. dith. 1 [IOZZO 2012, 40]). Per il contesto dell’ambasceria, cf. DAVIES 1977; BÉRARD 1977. 28 BÉRARD 1977, 16, non vede nella raffigurazione delle tre figure maschili un atteggiamento da supplici, sia sulla base di considerazioni di natura iconografica, sia per il contesto, e ritiene invece che i gradoni fossero quelli di una tribuna, posta a lato di una piazza, ipotizzando dunque per l’ambasceria una scena assembleare (cf. la discussione in IOZZO 2012, 38‑40). 29 Cf. DAVIES 1981, in part. 812 e 815. 30 Cf. BEAZLEY 1958, in part. 234‑238; DAVIES 1977, 73‑85; IOZZO 2012, 29‑30, che 90 Daniela Milo

Bacchilide (dith. 15, cf. n. 23)31, e non è da escludere che una scena simile fosse anche nel dramma sofocleo. Il particolare poi del discorso di Menelao ai Troiani nella situazione di difficoltà in cui si trovava, testimoniato anche in Il. 3, 203 ss. (cf. n. 19), dove Antenore rileva i limiti della retorica dell’Atride rispetto a quella di Odisseo32, tenuto conto dell’impronta dimessa del nostro frammento, potrebbe confortarne l’appartenenza proprio alla Ἀπαίτησις τῆς Ἑλήνης.

2. Menelao è tra i personaggi più sgradevoli della tragedia greca superstite. In Eschilo, almeno per quanto riguarda le sette tragedie della ‘scelta’, egli non ha alcun ruolo, fatta salva la sua comparsa in una col fratello, e, a quanto appare dal testo, in condizione di parità con lui, nella parodo dell’Agamennone, a proposito del sacrificio di Ifigenia33. In Sofocle fa la sua comparsa nell’Aiace, per poi riapparire, come già segnalato, solo in alcuni drammi frammentari.

osserva nello specifico (30): «L’elegante e coloratissima cavalcata si svolge lungo tutta la circonferenza del vaso, procedendo al passo, lenta e solenne, e rivelando la tensione latente dell’incontro». 31 Cf. BEAZLEY 1958 e DAVIES 1977, in part. 76‑77 (quest’ultimo, a n. 23, non esclude la possibile dipendenza del Pittore Astarita e di Bacchilide da un poema di Arione di Lesbo. Cf. anche IOZZO 2012, p. 37 e n. 108). Alla stessa situazione potrebbero far riferimento anche le raffigurazioni di altri vasi corinzi: cf. AMYX 1988, 376, n. 75 e 633, n. 40; IOZZO 2012, 34‑35, che ipotizza che la scena di ambasceria raffigurata su un kantharos attico a figure rosse da Gravina, attribuito al Pittore di Eretria, sia collegabile alla Richiesta di Elena o agli Antenoridi di Sofocle. 32 Il. 3, 209‑224: «quando poi s’incontrarono con i Troiani riuniti, se ne stavano in piedi, Menelao sovrastava con le sue ampie spalle, se invece sedevano entrambi, il più imponente era Odisseo; ma quando poi formulavano in pubblico discorsi e pensieri, Menelao allora parlava conciso, poche battute, ma con grande efficacia, ché non era di molte parole né si lasciava sfuggire sciocchezze; del resto era anche più giovane. Quando invece s’alzava a parlare Odisseo scaltrito, se ne stava in piedi a lungo, guardava all’ingiù, fissando gli occhi a terra, non agitava lo scettro né avanti né indietro, ma lo teneva immobile, alla maniera di un inesperto: avresti detto che era imbronciato o addirittura fuori di sé. Ma quando svolgeva dal petto la sua voce possente e le parole, dense come fiocchi di neve d’inverno, con Odisseo allora nessuno si sarebbe messo in gara: non stavamo più come prima a stupirci di lui, per il suo aspetto». 33 Cf. A. Ag. 104 ss. È dubbio che vi sia allusione a lui a Ch. 1041 (cf. CRISCUOLO 2016a, 106‑110). Per quanto riguarda l’Eschilo frammentario, lo si cita in fr. 180a, 5 Sommerstein = 451k Radt (cf. SOMMERSTEIN 2008, 183‑185), del Palamede, a proposito del rapimento di Elena e del suo desiderio di vendetta. Sofocle, fr. 871 Radt 91

Nell’Aiace, Menelao entra in scena a v. 1046 e inizia un lungo dibattito con Teucro sulla sepoltura del cadavere del Telamonio. Notevole la sua riflessione sulla labilità del destino umano34, che non assume tuttavia valen ‑ za ‘universale’, ma è un’ulteriore accusa all’eroe suicida. Nella sostanza, il suo intervento è esclusivamente finalizzato a impedire la sepoltura di Aiace, ed egli appare piuttosto solo latore di ordini di Agamennone, al quale è rinviata la decisione definitiva. Con Teucro esibisce baldanza, ma presto, di fronte alle contestazioni di lui, si ritira. Sofocle sembra far di tutto per renderlo antipatico e odioso, fors’anche a soddisfare la tendenza antispartana del suo pubblico ateniese35. Ai fini della collocazione cronologica del nostro frammento, sono opportune alcune considerazioni. In Euripide Menelao è presente, quanto alla tragedie tramandate per intero, nell’Andromaca, nelle Troadi, nell’Elena, nell’Oreste, nell’Ifigenia in Aulide. Ha connotazione del tutto negativa, con l’eccezione delle Troadi, dove la sua presenza in scena è limitata al ‘quadro’ che lo rappresenta quando si porta a prelevare Elena, prima in un lungo monologo, sorta di nuovo prologo36, indi in contrasto con Ecuba e la moglie; in questo dramma si manifesta in pieno la debolezza del carattere del più giovane degli Atridi, ben lontano dal personaggio dell’Andromaca: deciso alla vendetta sulla fedifraga, destinata a terribile punizione una volta rientrata a Sparta, si lascia poi vincere dalle di lei lusinghe. Nell’Andromaca, tragedia antispartana, Menelao è crudele e vigliacco, esercita la sua forza sui deboli (Andromaca e Molosso), ma è sollecito a ritirarsi quando è contrastato dal vecchio Peleo. Nelle Troadi è anticipato piuttosto il Menelao delle più tarde tragedie, soprattutto quello, vacillante e totalmente ‘imborghesito’, dell’Ifigenia in Aulide37. Diverso discorso può farsi per l’Elena (412) e per l’Oreste (408)38. Nell’Oreste, in cui appare in tutto il suo splendore

34 Aj. 1077‑1080: ἀλλ᾽ ἄνδρα χρή, κἂν σῶμα γεννῄσε μέγα, / δοκεῖν πεσεῖν ἂν κἂν ἀπὸ σμικροῦ κακοῦ. / δέος γὰρ ᾧ πρόσεστιν αἰσχύνη θ᾽ ὁμοῦ, / σωτηρίαν ἔχοντα τόνδ᾽ ἐπίστασο («un uomo deve sapere, anche se ha avuto da natura un corpo immane, che può soccombere, sia pur per lieve colpa; chi invece possiede insieme il senso del timore e del rispetto – sappilo – troverà salvezza»). 1087‑1090: ἕρπει παραλ ‑ λὰξ ταῦτα. πρόσθεν οὗτος ἦν / αἴθων ὑβριστής, νῦν δ᾽ ἐγὼ μέγ᾽ αὖ φρονῶ («tali cose procedono con alterna vicenda. Prima costui era focoso, un violento; ora sono io ad insuperbire» [trad. di PATTONI 1997]). 35 Nella contesa per la sepoltura di Aiace, è stata vista una eco della questione riguardante Temistocle, il vincitore di Salamina, che, ostracizzato nel 472‑471 e morto nel 459 a Magnesia (riabilitato poi da Pericle), fu sepolto clandestinamente in Attica, in quanto traditore (cf. Thuc. 1, 138 e Plu. Them. passim). 36 Cf. CRISCUOLO 1998. 37 Cf. CRISCUOLO 2016b, 473‑502. 38 Parallelismi tra questi due drammi, in particolare in relazione al gioco tra 92 Daniela Milo di condottiero vittorioso, l’Atride smentisce nei fatti la promessa di aiuto a Oreste e cede alle ragioni di Tindareo, in certo senso come nell’Andromaca, ma in una situazione qui ben diversa. È tuttavia nell’Elena che le affinità con il Menelao del fr. 871 sembrano infittirsi. Nell’Elena39, Menelao ha ruolo da protagonista, e appare contrassegnato, così come Elena, da pessimismo e inquietudine per la propria condizione. Personaggio «vigliacco, vanaglorioso, egoista e arrogante»40, recupera, come un po’ nelle Troadi, in dignità, a ragione delle sue dolorose esperienze, dei lunghi anni di sofferenze e peregrinazioni. Di grande interesse per il nostro tema è il monologo a cui dá avvio comparendo in scena (a 386)41: il discorso prologico di Menelao è ispirato dalla commiserazione della sua precarietà. Questa constatazione costituisce un collegamento con il nostro frammento: egli lamenta la sua triste condizione, maledice il ghenos di Pelope (386‑392), e precisa di non aver mai comandato l’esercito greco a modo di τύραννος, ma riuscendo a coinvolgere i soldati nell’entusiasmo (395‑396). I successi del passato (453)42 sono un lontano ricordo, che contrasta col destino, più crudele della morte stessa, che si è manifestato

illusione e realtà nel teatro, e alle figure di Elena e Ifigenia, sono stati istituiti da ZEITLIN 2010, 263‑282 (per il riferimento all’Oreste, cf. in part. 269, 278‑282). Per quanto riguarda il nostro frammento, sembra potersi escludere l’influenza su Sofocle del personaggio quale trattato nell’Oreste. 39 Tragedia per lo più valutata molto negativamente dalla critica. Cf., p. es., BLAICKLOCK 1952, 85‑93; BIFFI 1961, 94; KATSOURIS 1975, 80‑81; FUSILLO 1997, 13. Cf. anche PODLECKI 1970, 401‑408, che ridimensiona la figura di Menelao dai tratti ‘comici’; SEGAL 1971, 553‑614, che attribuisce a Menelao l’emblema della crisi dei valori bellici da lui rappresentati; KANNICHT 1969, II, 121‑122. Una rivalutazione del personaggio è in BELARDINELLI 2003, in part. 173‑177, sulla base dell’analisi della struttura della scena del riconoscimento: alla creazione della ‘nuova’ immagine che il poeta offre di Elena nella tragedia omonima avrebbe contribuito anche il ‘nuovo’ Menelao (175). Già DIRAT 1976, 3‑17, metteva in luce la vicinanza del Menelao dell’Elena al modello omerico (7 s.). 40 Così, in modo deciso, BELARDINELLI 2003, 172. 41 A 386 Menelao peraltro entra in scena con un monologo che è ‘speculare’ a quello di Elena a 1‑67 e che funge quasi da secondo prologo (cf. KANNICHT 1969, II, 10‑13; BELARDINELLI 2003, 165ss. e n. 17 e, per uno studio globale sulla problematica del secondo prologo, CRISCUOLO 1998, 67‑83, in cui è la disamina anche del caso dell’Oreste [75‑76]). 42 Cf. PODLECKI 1970, 404: “Menelaus’ lament for ‘the robes of time past, the gleaming luxurious clothes which the sea took’ (423‑424) is not meant to tickle our risibility, but rather to show us how deeply he feels his loss of kingly status”. Sofocle, fr. 871 Radt 93 ora per lui, errabondo per il mare, senza approdo in patria43. Il Menelao dell’Elena è insomma un derelitto: gli stracci che indossa stridono con il passato splendore delle vesti di un tempo, portate via dal mare44. Nel suo secondo monologo (483‑514), appresa la presenza a corte di un’altra Elena, valuta diverse possibilità di azione, e considera l’eventualità di dover chiedere di necessità sostentamento al re del luogo; è ormai al culmine dei mali. Questa consapevolezza tuttavia non lo getta nello sconforto più di tanto, perché egli sa bene di non avere alternative e di dover escogitare nuovi mezzi per vivere (514 δεινῆς ἀνάγκης οὐδὲν ἰσχύειν πλέον). Un Menelao, dunque, derelitto ma fondamentalmente disincantato, che riesce a mettere riparo al suo patire nell’accettazione della ἀνάγκη; è insomma un Menelao ben diverso da quello arrogante e sprezzante dell’Aiace. Probabilmente il Menelao del fr. 871 è accostabile al Menelao dell’Elena, ma

43 Hel. 397‑403 (si riporta per l’Elena il testo di KANNICHT 1969): καὶ τοὺς μὲν οὐκέτ᾽ ὄντας ἀριθμῆσαι πάρα, / τοὺς δ᾽ ἐκ θαλάσσης ἀσμένους πεφευγότας, / νεκρῶν φέροντας ὀνόματ᾽ εἰς οἴκους πάλιν. / ἐγὼ δ᾽ἐπ᾽οἶδμα πόντιον γλαυκῆς ἁλὸς / τλή‑ μων ἀλῶμαι χρόνον ὅσονπερ Ἰλίου / πύργους ἔπερσα, κἀς πάτραν χρῄζων μολεῖν / οὐκ ἀξιοῦμαι τοῦδε πρὸς θεῶν τυχεῖν («ora posso contare quelli che non ci sono più, e quelli che sono sfuggiti felici alle insidie del mare e tornano a casa dopo essere stati dati per morti. Io invece no: continuo a vagare infelice sul mare azzurro e tempestoso da quando ho espugnato la rocca di Troia; vorrei tanto raggiungere la mia patria, ma gli dei non mi ritengono degno di questa gioia» [trad., qui e in avanti per l’Elena, di FUSILLO 1997]). Il tema della vana peregrinazione e del naufragio in Egitto è in certa misura il Leit Motiv del suo monologo: cf. anche 404‑410: Λιβύης τ᾽ ἐρήμους ἀξένους τ᾽ ἐπιδρομὰς / πέπλευκα πάσας· χὥταν ἐγγὺς ὦ πάτρας, / πάλιν μ᾽ ἀπωθεῖ πνεῦμα, κοὔποτ᾽ οὔριον / ἐσῆλθε λαῖφος ὥστε μ᾽ ἐς πάτραν μολεῖν. / καὶ νῦν τάλας ναυαγὸς ἀπολέσας φίλους / ἐξέπεσον ἐς γῆν τήνδε· ναῦς δὲ πρὸς πέτρας / πολλοὺς ἀριθμοὺς ἄγνυται ναυαγίων («ho navigato lungo tutti gli approdi deserti e inospitali della Libia; e ogni volta che mi avvicinavo alla mia terra, i venti mi spingevano di nuovo indietro: nessun vento favorevole è durato tanto da portarmi in patria. Ora ho persino fatto naufragio: ho perso i miei compagni e sono finito su questa terra, mentre la nave sbattuta sugli scogli si è fatta in mille pezzi»). 414‑415: ὄνομα δὲ χώρας ἥτις ἥδε καὶ λεὼς / οὐκ οἶδα («non conosco il nome di questa terra, né che popolo la abita»). 417‑419: ὅταν δ᾽ ἀνὴρ / πράξῃ κακῶς ὑψηλός, εἰς ἀηθίαν / πίπτει κακίω τοῦ πάλαι δυσδαίμονος («quando un uomo di alto rango cade nella disgrazia, l’inesperienza lo fa soffrire di più rispetto a chi è sempre vissuto nella miseria»). 44 Hel. 420‑424: χρεία δὲ τείρει μ᾽· οὔτε γὰρ σῖτος πάρα / οὔτ᾽ἀμφὶ χρῶτ᾽ἐσθῆτες· αὐτὰ δ᾽εἰκάσαι / πάρεστι ναὸς ἐκβόλοις ἃ ἀμπίσχομαι. / πέπλους δὲ τοὺς πρὶν λαμπρά τ᾽ἀμφιβλήματα / χλιδάς τε πόντος ἥρπασ᾽ («ma ora il bisogno mi incalza: non ho cibo, non ho vesti; basta guardare gli stracci strappati alla nave con cui mi sono coperto; i pepli e gli splendidi mantelli di un tempo, tutto il mio sfarzo se l’è rubato il mare»). 94 Daniela Milo dai pochi versi superstiti non appare in lui una prospettiva di reazione e di salvezza. Nell’Elena, la lunga scena che porta al riconoscimento vede ‘cadute’ di Menelao nella disperazione: egli si definisce «l’uomo più sfortunato della terra» (565: ἔγνως γὰρ ὀρθῶς ἄνδρα δυστυχέστατον); manifesta la consapevolezza dei suoi guai (589: μέθες με, λύπης ἅλις ἔχων ἐλήλυθα), consapevolezza acuita dalle parole del servo che nell’accingersi a rivelargli la vera storia di Elena (605‑621) gli ricorda di aver sopportato infiniti mali invano (λέγω πόνους σε μυρίους τλῆναι μάτην). La scena successiva a quella del riconoscimento vede la richiesta di Elena a Menelao di raccontare le sue vicende, richiesta che l’eroe cerca di eludere: raccontare significherebbe ripercorrere nuovamente i suoi mali e raddop‑ piare il suo dolore (669‑771), dolore che si acuisce (804: οὕτωςἂν εἴην ἀθλιώτατος βροτῶν) nel momento in cui viene a sapere dalla moglie che non può portarla via e che lì dove è giunto lo attende non il suo letto, bensì una spada (802‑803: οὐδ᾿ ἄρα πρὸς οἴκους ναυστολεῖν <σ᾿> ἔξεστί μοι; / {Ελ.} ξίφος μένει σε μᾶλλον ἢ τοὐμὸν λέχος). Anche nel successivo colloquio con Teonoe, Menelao non manca di sottolineare il suo essere ormai avvezzo alla disgrazia (957‑958: ἐγὼ μὲν οὐ νῦν πρῶτον ἀλλὰ πολλάκις / ἄθλιος ἂν εἴην, σὺ δὲ γυνὴ κακὴ φανῇ)45. Le ultime parole in cui egli fa riferimento al suo destino di sventura vengono pronunciate nell’àmbito della piena messa in atto della μηχανή, perché ormai Teoclimeno è caduto nell’inganno e acconsente che il falso ospite straniero si rechi al mare con la donna per libare le offerte al primo marito di Elena: è nel momento cruciale dunque che Menelao rivolge una sorta di preghiera a Zeus per ricevere la sua attenzione, essere liberato dai mali dopo tante sofferenze e poter vivere finalmente felice, perché non sempre tutto può andare male (1441‑1450). Ancora una volta, dunque, un messaggio di speranza. Dai pur esigui versi pervenutici di un perduto dramma sofocleo in cui il personaggio di Menelao insiste sui rivolgimenti della fortuna e la precarietà della sua esistenza, è possibile collegare il fr. 871 alla proble‑ matica del Menelao dell’Elena. Se questo è vero, probabilmente Sofocle avrà subito nella tarda fase della sua produzione l’influenza di Euripide. Il che non sorprende: l’Edipo Coloneo è inconcepibile senza il precedente delle Fenicie di Euripide; tematiche euripidee (o almeno lo spirito di queste) doverono animare altre tarde tragedie, quali, per esempio, il Tereo, la (o le) Tyro e forse la Niobe.

45 Nel discorso con Teonoe Menelao appare caratterizzato da una certa premura per l’onore, espressa in una sorta di ‘eloquenza virile’, nonché da razionalità (cf. DIRAT 1976, 11‑12). Sofocle, fr. 871 Radt 95

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ELENI KORNAROU (HELLENIC OPEN UNIVERSITY)

Debate scenes (agones) between two opposing characters have often been regarded as one of the most distinctive features of Euripidean drama, and their characteristic aspects as well as the influence of sophistic rhetoric on them have often attracted the interest of scholars.2 In this paper I intend to discuss Pasiphae’s apology in Euripides’ fragmentary Cretans (fr. 472e K),3 the longest surviving fragment of this play, where Pasiphae attempts to defend herself against the accusations of Minos of her sexual intercourse with the bull Poseidon had sent to him and the subsequent birth of the monster Minotaur.4 The question whether Pasiphae’s rhesis constitutes the second part of a symmetrically structured agon replying to the accusations raised in its first half by Minos5 is debatable. Most scholars argue that this is the

1 I would like to thank Mr B. Gredley for his comments on an earlier draft of this article. Some parts of it (in a primary form) were included in my paper entitled: «Η Πασιφάη στους Κρήτες του Ευριπίδη», which was presented at the 10th International Cretological Congress (Chania, 1‑8 October 2006) and published in its Proceedings (cf. KORNAROU 2011). 2 Cf. STROHM 1957, 3‑49; DUCHEMIN 1968; COLLARD 1975; LLOYD 1992; DUBISCHAR 2001; BARKER 2009, 267‑365; MASTRONARDE 2010, 207‑245. 3 For the text, I refer to the edition of KANNICHT 2004, unless otherwise stated. 4 The version of the myth Euripides follows in Cretans is attested in Apollodorus (Bibl. 3, 1, 3‑4) as follows: Minos prayed to Poseidon to send him a bull as a confirmation of his reign in Crete, vowing that he would sacrifice it to the god in return. Yet the bull that appeared from the sea was so handsome that Minos decided to keep him in his herd and sacrificed another animal to Poseidon. In order to punish Minos, the god afflicted his wife Pasiphae with an irresistible sexual infatuation for the bull. Daedalus, then, with his art helped the Queen to fulfill her lust by constructing an artificial wooden cow inside which Pasiphae was hidden and so she consummated her passion for the bull. The result of this union was the Minotaur, a monster with a bull’s head and a man’s body, who, in accordance with a divine order, was secluded by Minos in the Labyrinth, constructed by Daedalus. 5 Cf. the pattern of theagones in E. Med. 465‑575 and Hipp. 936‑1035. As LLOYD (1992, 98 Eleni Kornarou case,6 while others assert that the lyric verses of the chorus preceding Pasiphae’s speech, where they advise Minos to conceal his wife’s shameful deed, are unexampled in the context of an agon where the two speeches are normally separated by an iambic distich delivered by the coryphaeus;7 hence much discussion has been made on the function of these verses.8 In any case one should take into account the variability of the agon’s structure emphasized by various scholars,9 as well as the fact that Cretans is an early play,10 when the formal conventions of the agon may not have been yet

1) defines it, despite the great variation of its form, «[t]he agon basically consists of a pair of opposing set speeches of substantial, and about equal, length». On a broad definition of the agon as the opposition of two competing speeches, cf. also DUBISCHAR 2001, 53‑56. 6 Cf. CANTARELLA 1964, 117; WEBSTER 1967, 90; DUCHEMIN 1968, 90; COZZOLI 2001 passim, e.g. 12, 26, 102; PADUANO 2005, 135‑137. 7 Cf. LUCAS 1965, 455‑456; COLLARD/CROPP/LEE 1995, 72‑73, on 472e. LUCAS (1965, 456) points out in addition that Pasiphae does not enumerate the charges to which she is replying, a usual technique in the Euripidean agones (e.g. Med. 548‑549, Hipp. 991, 1021, Hec. 1199, Tro. 919‑920). 8 So WEBSTER (1967, 90) claims that this choral lyric, unusual between two speeches of an agon, may be justified by the chorus’ horror at Minos’ revelation and parallels it to the choral strophe intervening between the revelation of Phaedra’s secret and her self‑defence in Hipp. 362‑372 (similarly COZZOLI (2001, 102, 104, on 1‑3) asserts that these verses were probably in responsion with another section in the part of the agon now lost, bringing out as parallel the choral section in Hipp. 362‑372 corresponding to Phaedra’s verses at 669‑679). DI BENEDETTO (2001, 227) also argues that the three verses preceding Pasiphae’s rhesis constitute part of a choral comment on Minos’ preceding speech. On the other hand COLLARD/CROPP/LEE (1995, 73, on 2‑3), who, unlike most editors, give the first verse (an iambic trimeter) to Minos and the subsequent lyric ones to the chorus, suppose that these three verses constitute the end of a short epirrhematic system functioning as a prelude to Pasiphae’s rhesis (like the epirrhematic dialogue between the chorus and Iphis preceding Iphis’ monologue in E. Supp. 1080‑1113, 1072‑ 1079). 9 E.g. DUCHEMIN 1968, esp. 156‑166; COLLARD 1975; LLOYD 1992, 1‑36; DUBISCHAR 2001, 56‑80. 10 Based on metrical evidence scholars argue for an early date, almost certainly before 430: cf. WEBSTER 1967, 4; CROPP/FICK 1985, 70, 82; COLLARD/CROPP/LEE 1995, 58; CANTARELLA (1964, 103‑107) dates it more precisely around 433, a date which COZZOLI (2001, 9‑11) also regards as the most probable. In any case the play is dated before Hippolytus (428) and probably also before the First Hippolytus (dating disputed) – Phaedra’s allusion to Pasiphae’s infatuation for the bull in Hipp. 337 (with the implication that her illicit love for Hippolytus may have been inherited from her mother’s fatal passion) most likely points to the earlier drama Cretans (cf. WEBSTER 1967, 86). Rhetoric and Responsibility in Euripides’ Cretans 99 rigidly established. Equally debatable is the question of the positioning of the conflict between Minos and Pasiphae in the structure of the play, which clearly depends on the reconstruction of the plot, on which views diverge widely.11 No doubt, however, this scene would constitute the climax of the play like the agon between Jason and Medea in Euripides’ Medea. In order to defend herself Pasiphae employs rhetorical devices and arguments recognizable in defence cases in contemporary judicial debates. Since it would be useless to deny her offence, she admits her deed (4‑5),12 attempting to demonstrate that her misfortune was god‑sent, and therefore that she is not responsible for it, by the use of εἰκότα, arguments from probability (11‑20). This kind of argument, «almost a hallmark of rhetorical sophistication», «is used to analyse possible motives, and it tends to appear when a character is trying to make the best of a weak case».13 Pasiphae attempts to prove that her lust for the bull is remote from any sense of likelihood (11 ἔχει γὰρ οὐδὲν εἰκός14) as the bull could not have attracted her sexually either by his outer appearance15 or by the prospect of marriage and children (11‑20).16 Thus, although she would be rightly charged if she had had a normal liaison (6‑8),17 her unnatural union with the bull must

11 Cf. CANTARELLA 1964, 111‑120; LUCAS 1965, 455‑456; WEBSTER 1967, 87‑92; COLLARD/CROPP/LEE 1995, 54‑55; JOUAN/VAN LOOY 2000, 309‑318; COZZOLI 2001, 12‑ 13; COLLARD/CROPP 2008, 530‑532; PEROTTI 2008‑2009, 251‑254. 12 Cf. Antigone’s apology (S. Ant. 443) or that of Orestes (A. Eum. 463, 588). 13 Cf. LLOYD (1992, 29), who points out that it is especially frequent in Antiphon’s and Lysias’ forensic speeches, in Gorgias’ Palamedes as well as in the Euripidean agones. On the use of probability argument, cf. also the extensive discussion in GAGARIN 1994. To present the weaker view as the stronger (τὸν ἥττω λόγον κρείττω ποιεῖν) was one of the major aims of sophistic rhetoric in accordance with its claim that there were two opposed arguments for each issue (cf. the Protagorean δισσοὶ λόγοι). LLOYD (1992, 43) regards Jason’s speech in the agon of Medea as «the outstanding example in Euripides of rhetoric being used to promote the weaker case». On verbal performance as the weapon of the weak, cf. SCODEL 1999‑2000, 140‑144. 14 Some editors print εἰκός in verse 19 as well (cf. AUSTIN 1968, 56; JOUAN/VAN LOOY 2000, 330). 15 In Tro. 987‑992 Hecuba accuses Helen of being fascinated by Paris’ glittering appearance. PADUANO (2005, 142) shows that the terms by which male beauty is defined in the above passage, e.g. beautiful clothes, brilliant eyes, are topoi in erotic language, serving to underline the difference between a human and a bestial lover and thus to emphasize Pasiphae’s exceptional, pathological case (cf. SANSONE 2013, 59). On bestiality in Greek mythology, see ROBSON 1997. 16 In Hipp. 1009‑1015 and Tro. 946‑947 the defendant (Hippolytus and Helen respectively) also emphasizes the lack of plausible motives against a charge of sexual offence. 17 Phaedra expresses a similar condemnation of adultery in Hipp. 407ff. 100 Eleni Kornarou have been god‑inflicted (9), and therefore she is not to blame for it. Pasiphae proceeds to use the rhetorical device of ἀντικατηγορία (counter‑attack),18 that is, from being the defendant she becomes the accuser, blaming Minos for her misfortune (21‑41)19 and abusing him as the worst of men (32 ὦ κάκιστ’ ἀνδρῶν φρονῶν).20 She accuses him of breaking his vow to Poseidon to sacrifice the bull, thus attracting the god’s anger upon him and his wife, while also referring to an obscure divine force, δαίμων (cf. 21, 30), which has brought about her own and Minos’ destruction.21 Thus Pasiphae presents herself as a victim of divine vengeance suffering because of Minos’ impiety.22 And whereas she did the right thing in concealing her god‑ inflicted misfortune from people’s eyes as the chorus have also advised Minos to do (2‑3),23 he proclaims it shamefully to everybody, considering her responsible (30‑33). The picture of the cruel, savage Minos with which Pasiphae concludes her apology, proudly challenging his authority to kill her, is emphatically contrasted with her own innocence and constitutes the climax of her counter‑attack (35‑41).24 Throughout her rhesis Pasiphae ascribes her misfortune to divine cause (9, 21, 25‑26, 30), asserting her innocence (29 κοὐδὲν αἰτία, 40 κοὐδὲν

18 On this rhetorical device, see DOLFI 1984, 130‑133; LLOYD 1992, 101‑102. On the technical and stylistic techniques of sophistic rhetoric, cf. also DUCHEMIN 1968, 167‑ 216, and on the relationship between tragedy and rhetoric in general, BERS 1994. 19 Cf. her direct attacks on Minos (34‑35 σύ τοί μ’ ἀπόλλυς, σὴ γὰρ ἡ ’ξαμαρτία, / ἐκ σοῦ νοσοῦμεν, 41 τῆς σῆς ἕκατι ζημίας – most editors supplementing θανούμε‑ θα). Similarly in Troades Helen shifts responsibility to Hecuba and Priam for giving birth to Paris and then allowing him to survive (919‑922; cf. Andr. 293ff) as well as to Menelaus for going away while Paris was visiting Sparta and leaving her alone with him (943‑944; cf. Andr. 592ff). Phaedra acts in a similar way in Hippolytus: when her secret is revealed, she commits suicide, yet, in order to preserve her good fame and honour (419‑423, 716‑721, 1310‑1312) and to take revenge on Hippolytus for his pride and rejection of her (728‑731), she accuses him, in the tablet she leaves to Theseus, of attempting to rape her. 20 Such characterizations are frequent in agon‑scenes (e.g. Med. 465 ὦ παγκάκιστε, Hec. 1199, Tro. 943 ὦ κάκιστε). 21 On the notion of δαίμων in the play, see CANTARELLA 1964, 71‑72, on 21, 129‑132, and more extensively on the role of divine element in it, PEROTTI 2008‑2009. 22 Offence against impiety was a frequent case in fifth‑century Athenian courts and Euripides often speculated on its consequences as in Hippolytus and Bacchae (cf. FLETCHER 2017, 485). 23 Phaedra also attempted to conceal her passion for Hippolytus Hipp( . 394). 24 On the structure of Pasiphae’s rhesis, cf. CANTARELLA 1964, 77. Judging from Pasiphae’s final words, WEBSTER (1967, 90) argues that «Minos must, therefore, before this have told the story and have threatened to kill her». Rhetoric and Responsibility in Euripides’ Cretans 101

ἠδικηκότες) as her deed was involuntary (10 ἔστι δ’ οὐχ ἑκούσιον κακόν).25 Issues of guilt and innocence are frequently treated in the Euripidean agones (as in the debates of Electra and Troades), the question of divine or human responsibility in love affairs being a major issue in the conflicts of Cretans and Troades. As Pasiphae argues that she acted under divine constraint, similarly Helen claims that Aphrodite is responsible for her sexual attraction to Paris and elopement with him (929‑931, 940‑942), ironically prompting Menelaus to punish the goddess instead of her (948‑ 950). Refuting Helen’s excuse, Hecuba denies that Aphrodite is to blame for her deeds, declaring that she attributed her folly to the goddess (988: «your mind became Cypris»;26 cf. 981‑982, 989‑990), whereas her real motive was lust for Paris and Trojan wealth (991‑997). Menelaus agrees with Hecuba claiming that Helen left home of her own free will (1037 ἑκουσίως),27 introducing the goddess into her rhesis speciously (1038‑ 1039).28 Certainly arguments from divine coercion would not have had much weight in legal cases in fifth‑century Athens, yet Pasiphae and Helen are mythical heroines, not everyday women.29 Hecuba’s argument that man is wholly responsible for his actions and what he calls god is in fact comprised of his own decisions and thoughts reflects a tendency prevalent towards the end of the fifth‑century and standing in contrast with older mythical modes of thought which attributed to divine intervention human passions and vicissitudes as presented in Cretans, Hippolytus and in Troades by Helen.30 In this case Euripides’ presentation of divine and human interaction is not much different from that of his predecessors; already in Homer it becomes evident that human action is defined by divine will so reference to divine attack would not be readily refuted as an excuse,31 although that would not exonerate man from responsibility for an evil deed.32 According to the above view neither Helen nor Pasiphae is to be

25 Phaedra uses similar phraseology in Hipp. 319 φίλος μ’ ἀπόλλυσ’ οὐχ ἑκοῦσαν οὐχ ἑκών; cf. Artemis’ words at 1305 διώλετ’ οὐχ ἑκοῦσα. 26 Cf. Hecuba’s prayer to Zeus before the debate (884‑888) where she states that it is difficult to understand Zeus’ nature, wondering whether he is the law of nature or the mind of man – views influenced by fifth‑century philosophical thought (cf. SCODEL 1980, 93‑95; LLOYD 1992, 107‑108). 27 Similar is Cassandra’s claim at 373 ἑκούσης κοὐ βίᾳ λελῃσμένης. 28 The theme of Helen’s responsibility is also treated in Gorgias’ Encomium of Helen. On the possible relations between the agon of Troades and Gorgias’ Encomium, see SPATHARAS 2002. 29 Cf. DOLFI 1984, 122‑123; LLOYD 1992, 104. 30 Cf. LESKY 1966, 250‑252; DOLFI 1984, 124‑128; VERNANT/VIDAL‑NAQUET 1988, 46. 31 Cf. LESKY 1966, 247‑248; LLOYD‑JONES 1971, 150‑151. 32 LLOYD‑JONES (1971, 150‑151) emphasizes that the Homeric Helen is conscious of 102 Eleni Kornarou regarded as totally innocent, even though in Pasiphae’s case divine visitation is presented as the only possible motivation for her monstrous union, which could not be explained otherwise.33 It is under the influence of sophistic rhetoric of the later fifth century that both heroines claim their innocence without admitting guilt or responsibility for their actions. The fact that their passion was god‑induced does not mean that they were justified in surrendering to it. In Hippolytus Phaedra, although her illicit love is inspired by Aphrodite,34 does not exempt herself from shame and guilt for her feelings and attempts to control them. Pasiphae treats her insane lust for the bull as an illness, νόσος (cf. 12, 20, 35),35 which implies force majeure and consequently moral innocence as regards her sexual misbehaviour. This term is frequently used in the tragic texts with reference to a strong erotic passion. It is a recurrent word in Hippolytus, used to describe Phaedra’s love for her step‑son (40, 394, 405, 477, 479, 512, 597, 766, 1306),36 while Deianeira, referring to ’ tremendous passion for (S. Trach. 476 δεινὸς ἵμερος), also declares that he has been struck by a νόσος (445, 491, 544). Yet Pasiphae does not associate her pathological state with a strong personal erotic feeling37 but rather with a divine impulse described as madness (cf. 9 ἐμηνάμην, 20 ἐμαινόμην) as Phaedra does in Hippolytus (241 ἐμάνην, 398 ἄνοιαν). Paduano (2005, 139) rightly distinguishes the two cases in that Pasiphae’s madness may be regarded as a complete and temporary alienation from her own personality (as that Ajax and Heracles suffer in S. Ajax and E. HF respectively)38 while in the case of Phaedra it is a metaphor of eros as a powerful and destructive emotion which she tried in vain to overcome. Phaedra describes the efforts she made in that direction in a long rhesis addressing the chorus (Hipp. 391ff): initially she suffers in silence, then she

her guilt (cf. Il. 3, 171‑180), stating that by Homeric standards, in the agon of Troades both Helen and Hecuba are right as gods work through human passions. 33 Cf. CANTARELLA 1964, 127‑128; SANSONE 2013, 59. 34 RIVIER (1960) shows that in Sophocles’ and Euripides’ plays before 428 eros is frequently presented as both a human and a divine (i.e. ‘demonic’) impulse. 35 Most editors print νόσον at the end of verse 26 as well (e.g. COLLARD/CROPP/LEE 1995, 64; DIGGLE 1998, 118; COZZOLI 2001, 65; COLLARD/CROPP 2008, 548). 36 On Euripides’ use of clinical terminology in the context of the theoretical discussions of the era about medical themes, the origins of various illnesses and the ways of curing them, see COZZOLI 2001, 35‑39. 37 As PADUANO (2005, 139, n. 20) points out, the word ἔρως is not mentioned in Pasiphae’s apology. 38 BATES (1930, 241) also agrees that Pasiphae «is…suffering from a form of insanity». Rhetoric and Responsibility in Euripides’ Cretans 103 tries to restrain her feelings by means of self‑control, and finally, physically and psychologically ill from the inner struggle which she experiences, she decides to die of starvation in order to preserve her honour and dignity. The heroine is presented as a virtuous wife, conducting a struggle against a powerful opponent who ‘wounded’ her (392 ἔτρωσεν; cf. 1300‑1303) and is finally defeated (cf. 399 νικῶσα, 401 κρατῆσαι, 727 ἡσσηθήσομαι, 1304 νικᾶν), granting pleasure to Cypris (725‑727). Aphrodite appears in the prologue of the play as a vengeful deity who, in order to destroy Hippo ‑ lytus for his lack of reverence towards her, uses Phaedra as the instrument of her vengeance, leading her to ruin as well. According to a possible reconstruction of the plot Aphrodite is likely to have appeared in the prologue of Cretans as well, alone or together with Poseidon, according to the pattern ofTroades , as the agent of the Queen’s infatuation for the bull.39 Throughout Greek literature Eros is presented as an irresistible power, often with destructive consequences, to whom even gods succumb.40 No doubt it is vain and even ruinous to try to resist a god‑inflic ted passion as gods destroy those who oppose them (like Hippolytus and Pentheus). Phaedra’s Nurse even calls such an effort hybris (Hipp. 474‑475) while Helen warns Menelaus of the folly of attempting to overcome the power of the gods (Tro. 964‑965).41 Similarly Pasiphae treats her passion as a divine disease beyond human power to overcome, and so she does not struggle against it as Phaedra does.42 Hence she has been regarded as morally inferior to Phaedra and closer to the picture of Phaedra in the First Hippolytus, who gives in her passion easily.43 Yet one should be cautious of characterizations such as the

39 On a summary of the views concerning the prologue of the play, cf. JOUAN/VAN LOOY 2000, 310. 40 So Deianeira excuses Heracles and Iole on the grounds that Eros is invincible (Trach. 441‑449), Phaedra’s Nurse, shocked by the revelation of her mistress’s secret, declares that Aphrodite is not a deity but even mightier (Hipp. 359‑360), while Helen states that even Zeus, whom all gods obey, is enslaved to this goddess (Tro. 948‑950), implying that if Zeus cannot resist her, how could she. On this topos in Greek tragedy, see ROMILLY 1976. 41 In fr. 680 R of S. Phaedra it is also asserted that one should bear god‑sent misfortunes (νόσους δ’ ἀνάγκη τὰς θεηλάτους φέρειν). 42 Pasiphae has always been presented as a less complex and tormented figure than Phaedra (e.g. DI BENEDETTO 1971, 80; DOLFI 1984, 127; COLLARD/CROPP/LEE 1995, 56‑ 57), yet that may be due to the different dramatic context (cf. COLLARD/CROPP 2008, 532), perhaps the first in a series of ‘bad/unhappy women’ (cf. WEBSTER 1967, 77, 86) motivated by their passions such as Medea, Phaedra, Stheneboea (cf. CANTARELLA 1964, 136; COZZOLI 2001, 9). 43 Cf. RECKFORD 1974. According to BARRETT (1964, 11) in the First Hippolytus 104 Eleni Kornarou above taking into account that Euripidean agones are frequently simple rhetorical exercises, detached from their dramatic context, which are not always in accordance with the character the speaker exhibits in other parts of the play (as happens in the case of Hippolytus in the name‑play or of Hecuba in Troades).44 Furthermore the fragmentary nature of the play does not allow us to draw safe conclusions about Pasiphae’s role in it or about Euripides’ attitude towards this myth, a very debatable issue. Opinions differ from the view that Euripides uses myth in its literal sense, i.e. to show that Pasiphae is an innocent victim of divine wrath, to the belief that he shows a critical attitude towards myth as a means of covering up human irrationality and misdeeds45 or even that the poet aims at parodying mythology.46 Yet the fact that Pasiphae accepts to be sentenced to death may indicate that she is not meant to be regarded as a totally corrupt, unscrupulous character and that her case should be taken more seriously. In any case what Euripides is mainly interested in his use of the myth is to explore the psychology and reactions of his heroes/heroines in extreme situations.47 As Lloyd (1992, 104) argues, «Euripides confronts…mythology with a human and realistic treatment of events», pointing out the clash between the rhetorical, intellectual style and the mythical content of the Euripidean agones.48 Although Pasiphae does not seem to strive like Phaedra to remain a faithful wife, both mother and daughter are aware that their passionate feelings are opposed to reason.49 At the beginning of her speech to the

Phaedra was portrayed as «a shameless and unprincipled woman» who deliberately attempted to seduce her step‑son; hence in Ar.Frogs Aeschylus criticizes Euripides, in the context of the contest between them, for presenting ‘Phaedras and Stheneboeas’ (1043; cf. Thesm. 497, 546‑550) and thus corrupting his audience. 44 Cf. LLOYD 1992, 19, 94‑95, 108‑109. On the relationship between rhetoric and characterization, cf. also SCODEL 1999‑2000, 130; MASTRONARDE 2010, 207‑245. 45 Cf. RIVIER 1975 and POHLENZ 1954, 250‑251; DOLFI 1984, 137‑138, respectively (on the traditional use of myth as an alibi in Pasiphae’s case, cf. also SAMPATAKAKIS 2007, 19‑20). 46 Cf. GOOSSENS 1962, 156‑157. Similarly LLOYD (1992, 50) asserts that «the circumstances are grotesque». 47 Cf. LESKY 1960, 1966; ROMILLY 1991, 92‑122. 48 Cf. VERNANT/VIDAL‑NAQUET (1988, 26) that tragedy «confronts heroic values and ancient religious representations with the new modes of thought that characterize the advent of law within the city‑state». 49 Cf. CROISET 1915, 225; DOLFI 1984, 126‑127; COZZOLI (2001, 31), who makes a distinction between the two cases (33) in that while both heroines recognize the evil, Phaedra realizes it before acting, while Pasiphae only after her monstrous deed; in this Rhetoric and Responsibility in Euripides’ Cretans 105 chorus where Phaedra analyses her situation, she reflects on the causes of human fallible behaviour (Hipp. 373ff), declaring that «we understand what is right, yet we fail to carry it out» (380‑381). Scholars usually contrast this passage with the Socratic view equating virtue with knowledge.50 The optimism of the Socratic doctrine that good judgment/understanding leads to right behaviour is refuted by the above passage: men know what is good, yet they fail to do it, led to ruinous actions by their emotions/desires. A notable example in this respect is the passage in Medea 1078‑1080: the heroine recognizes the evil she is about to accomplish, yet her wrath (θυμός) overcomes her right judgment (βουλεύματα). In the context of Socrates’ teaching that no one commits injustice of his own free will (οὐδεὶς ἑκὼν ἁμαρτάνει) but because he is unaware of the right thing to do, and of the relevant philosophical discussions of the era, the involuntariness of an offence becomes the object of discussion in the second half of the fifth century and was a frequent argument of defence in contemporary trial cases51. This is also the basic argument of Pasiphae’s apology, that she acted involuntarily, driven by divine madness because of Minos’ impiety. Yet despite her rhetorical ability Pasiphae’s attempts to defend herself fail much as Hippolytus’ employment of rhetoric in his agon with Theseus in Hippolytus proves unable to save him.52 As Lloyd (1992, 15‑18, 110‑112) points out, unlike real court cases, rarely does a character achieve his/her goal by means of the agon and thus rarely do tragic debate scenes have any impact on the action of the play.53 Minos orders Pasiphae to be shut together with her accomplice (47 τὴν ξυνεργὸν τήνδε), most probably her Nurse, in an underground prison to die,54 rejecting the chorus’ attempts to

case her state of mind could be indeed paralleled to that of Ajax and Heracles who realize their abominable deeds only after they have recovered their sanity (cf. PADUANO 2005, 139). 50 Cf. esp. Plato, Protagoras 345d‑e, 352bff, Meno 78a, and CROISET 1915, 224‑225; LESKY 1966, 254‑255; DI BENEDETTO 1971, 5‑23; ROMILLY 1991, 107‑109; CONACHER 1998, 35‑36; COZZOLI 2001, 31‑35, as well as the discussion in GUTHRIE 1969, 459‑462. 51 Notable examples are Antiphon’s 2nd and 3rd Tetralogies, Gorgias’ Encomium of Helen. Cf. also RIVIER 1975, 57‑60; DOLFI 1984, 129‑133. As VERNANT/VIDAL‑NAQUET (1988, 46) note: «In its attempts at distinguishing the different categories of crime that fall within the competence of different courts, the phonos dikaios, akousios, hekousios, the law…lays emphasis on the ideas of intention and responsibility. It raises the problem of the agent’s different degrees of commitment in his actions». 52 On the power and abuses/limits of rhetoric, cf. CONACHER 1998, 58, n. 13; SCODEL 1999‑2000. 53 On the dramatic relevance of tragic rhetorical speeches/debates, cf. DUCHEMIN 1968, 124‑135; CONACHER 1981. 54 On this usual punishment for tragic heroines, Sophocles’ Antigone being the most 106 Eleni Kornarou dissuade him from his decision by emphasizing divine responsibility in Pasiphae’s misdeed (42‑52). Whatever we are to think of Pasiphae in this debate, we would hardly be meant to sympathize with the portrayal of the violent, bloodthirsty Minos who rebuffs the chorus’ admonitions to prudence (2‑3, 42‑43, 50‑51),55 disbelieving that Pasiphae’s evil is god‑ induced, as both the Queen and the chorus declare.56 The identity of the chorus as priests of Idaean Zeus who speak with religious authority57 would be an additional reason for their opinion to be revered, so Minos’ refutation of it may be even regarded as impiety.58 Furthermore the fact that the chorus share Pasiphae’s view and attitude towards her misfortune would seem to direct the audience’s sympathy towards her rather than Minos as frequently in an agon the choral comments guide the audience’s sympathies/preferences towards one party or the other.59 The order of

notable example, cf. SEAFORD 1990. COZZOLI (2001, 40‑41) demonstrates that the punishment inflicted on Pasiphae by Minos – according to COLLARD/CROPP/LEE (1995, 54) Euripides’ innovation in Pasiphae’s myth – is extremely severe compared with contemporary Athenian legal practice (cf. Dem. Against Neaera 87), yet it is attested in mythical tradition (in Tro. 1031‑1032 Hecuba, addressing Menelaus, also claims that adulterous women should be killed by law). Some scholars have argued that Pasiphae’s condemnation would come at the end of the play and place the agon in its final part (e.g. CROISET 1915, 226; DUCHEMIN 1968, 90; COZZOLI 2001, 102), yet opinions diverge widely on this matter e.g.( CANTARELLA (1964, 116) places the agon early in the play, a view shared by JOUAN/VAN LOOY 2000, 312, and PEROTTI 2008‑2009, 253), while according to a possible reconstruction of the plot Pasiphae was later miraculously freed by a god (cf. WEBSTER 1967, 91‑92; COLLARD/CROPP/LEE 1995, 54‑55; JOUAN/VAN LOOY 2000, 317, n. 37). 55 The role of the chorus in this scene and in the play in general would be to advise the king as they were summoned precisely to interpret the portent of the monstrous birth (cf. COZZOLI 2001, 102‑103). 56 Cf. RIVIER 1975, 51‑52. 57 Cf. COLLARD/CROPP/LEE 1995, 67. 58 One may be reminded of Oedipus’ impious behaviour towards Teiresias in S. OT PADUANO (2005, 135) suspects further that the chorus’ invitations to prudence may reveal a disagreement which they do not dare express openly, as in S. Antigone. In this fragment Minos is portrayed as a violent ruler, characterized by all the negative qualities of a typical tragic tyrant such as hybris, impiety, injustice (cf. COZZOLI 2001, 110). On Minos’ harsh portrayal on the tragic stage, sharply contrasted with the picture of the pious, just king as presented in Homer and Hesiod, cf. [Plato], Minos 318d‑321a, Strabo 10, 4, 8, Plut. Theseus 16. 59 One may think of Med. 576‑578 where the chorus’ condemnation of Jason’s rhetorical ability to defend his unjust behaviour against his wife (reinforced by Medea herself at 579ff) guides the audience’s sympathy towards her. Rhetoric and Responsibility in Euripides’ Cretans 107 speakers in the debate is also probably meant to reinforce the above. Scholars often claim that the character speaking second (usually the defendant according to forensic practice)60 is more sympathetic or has stronger arguments,61 although this is clearly false in some cases,62 and the question of who is the ‘winner’ in the agon is not always so straight‑ forward.63 Yet, supposing that we have a proper agon here, according to the above more ‘usual’ pattern, Pasiphae is more likely to have been presented in a positive light compared with her judge and prosecutor Minos who appears as an executioner. Minos’ violent outburst at the end of Pasiphae’s speech and his hurry to punish her (44‑52) without refuting her arguments in a reasoned speech but only abusing her as an evil woman (46 τὴν πανοῦργον)64 may be regarded as an indication of his ‘defeat’ in the debate.65 Yet whether Pasiphae or Minos is the ‘winner’ in the conflict is not so important and we can only speculate upon this question as neither the dramatic context of the scene nor the outcome of the play is known with certainty. What is more significant in the study of Pasiphae’s apology is the speculation it raises on serious issues such as the role of the gods in human

60 Yet this order is reversed in some cases: in the agones of the Electra‑plays and of Troades Clytemnestra and Helen respectively speak first, despite being the defendants, as the accusations against them are already known (cf. LLOYD 1992, 17; CROALLY 1994, 137). 61 E.g. SCHLESINGER 1937, 69‑70; DALE 1954, 106, on 697; STROHM 1957, 44; COLLARD 1975, 62; PADUANO 2005, 135‑137. In the agon of Hecuba Agamemnon, who acts as the judge, pronounces a verdict clearly favourable to Hecuba (1240‑1251), speaking second, while Polymestor grumbles that he has been ‘beaten’ by a slave woman (1252‑ 1253). 62 Notable is the example of Jason who speaks second in the agon of Medea. Cf. further LLOYD 1992, 17. 63 Cf. DUCHEMIN 1968, 189‑190; LLOYD 1992, 15‑17. Characteristic in this respect is the agon of Troades where Hecuba seems to be in a stronger position, speaking second. Yet, as RABINOWITZ (2017, 208) points out, on a narrative level Hecuba wins but in fact she loses since, as the spectators are well aware, Helen is not finally to be killed by Menelaus as the Old Queen desires. On the ambivalence of the result of the agon of Troades, cf. also SCODEL 1980, 93‑100; LLOYD 1992, 110‑112; CROALLY 1994, 137‑138, 157‑ 160. 64 Similarly in the agon of Hippolytus Theseus accuses his son of charlatanism (1038 ἐπῳδὸς καὶ γόης) without attacking his defence. Minos’ violent reaction refuting the chorus’ recommendation to prudence may also be paralleled to Theseus’ explosion of anger against Hippolytus after the revelation of Phaedra’s tablet while the chorus vainly try to restrain him (Hipp. 882‑898). 65 Cf. COLLARD 1975, 62; PADUANO 2005, 135. 108 Eleni Kornarou suffering and the relation of divine involvement in human affairs to man’s personal responsibility, questions which lie at the heart of tragedy’s philosophical thought. Euripidean agones raise but do not resolve serious moral questions and conflicts,66 aiming rather to problematize for the members of the audience, who are after all the ultimate judges and will give their own divergent verdicts.

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66 Rather they highlight them as in the agon between Medea and Jason in Medea (cf. DUBISCHAR 2017, 371; ROSELLI 2017, 397). Rhetoric and Responsibility in Euripides’ Cretans 109

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LAURA CARRARA (HEIDELBERGER AKADEMIE DER WISSENSCHAFTEN / UNIVERSITÄT TÜBINGEN)

La tragedia euripidea intitolata Edipo (Οἰδίπους), oggi frammentaria (frr. 539a‑557 K.[annicht]), è decisamente meno nota dei due drammi sofoclei, entrambi conservati, dedicati a questo personaggio, l’Edipo Re e l’Edipo a Colono. Data la quantità – ridotta – e la natura – spesso gnomica – dei frammenti superstiti, plot, cast ed action dell’Edipo euripideo restano ancora ignoti o incerti per larghi tratti. Tra le originali svolte impresse da Euripide ad una materia mitica che aveva già ai sui tempi un’imponente tradizione letteraria (soprattutto tragica)1 paiono potersi annoverare con sufficiente confidenza almeno il rilievo dato alla Sfinge (con il suo indovinello) e a Giocasta, quest’ultima presentata come fedele ad Edipo anche dopo la scoperta del suo essere assassino di Laio, se non addirittura dopo la rivelazione dell’incesto2. Il presente contributo non intende aggiungere una nuova proposta di ricostruzione dell’Edipo euripideo a quelle, parziali o globali, già esisten ‑

* Lo spunto originario per questo contributo è sorto nel corso delle ricerche sui testi dei due riceventi tardo‑antichi del mito di Edipo menzionati in queste pagine – la Cronaca di Giovanni Malala e la Teosofia di Tubinga – che conduco presso la Accademia delle Scienze di Heidelberg e l’Università di Tubinga con i professori Mischa Meier ed Irmgard Männlein‑Robert, che desidero ringraziare in questa sede per la loro guida in questi anni. Ringrazio, inoltre, gli organizzatori del convegno di cui qui si raccolgono gli Atti, in particolare il dott. Luca Austa, per l’invito e l’ospitalità a Torino. La citazione e discussione della – altrimenti sterminata – bibliografia su Edipo sarà necessariamente selettiva. Le traduzioni dei passi greci citati sono mie. 1 Panoramiche ad es. in MARCH 1987, 121‑154; GANTZ 1993, 492‑502; EDMUNDS 2006, 11‑55; FINGLASS 2018, 13‑40. 2 Svariati frammenti superstiti paiono essere riconducibili alla Sfinge o a Giocasta, il che concorda con la preminenza data a queste due figure nel brevissimo sunto dell’E ‑ dipo euripideo presente nella Cronaca di Giovanni Malala: Ioh. Mal. Chronographia II 17 (p. 38, 3‑5 Thurn) ὁ γὰρ σοφώτατος Εὐριπίδης ποιητικῶς ἐξέθετο δρᾶμα περὶ τοῦ Οἰδίποδος καὶ τῆς Ἰοκάστης καὶ τῆς Σφίγγος. Per l’Edipo euripideo in Malala vd. COLLARD 2005, 59; D’ALFONSO 2006, 25‑31; per il trattamento razionalizzante riservato al mito di Edipo nella Chronographia vd. REINERT 1981, 341‑344, 396‑403. 112 Laura Carrara ti3 quanto concentrarsi su un singolo frammento scientificamente ‘giovane’ e dunque ancora da valutare in tutte le sue implicazioni, il fr. 554a K. Nelle prime due sezioni dell’articolo si analizzeranno testo, testimoni e retroterra cultuale nonché culturale dei quattro trimetri che costituiscono il brano. La terza sezione si concentrerà sulla dimensione inter‑ ed intra‑drammatica di questi versi, con riferimento prima (in § 3.1) ai motivi collegati del rifugio in luogo sacro, della supplica e dell’esilio nell’Edipo a Colono di Sofocle e poi (in § 3.2) all’ipotesi di un possibile scioglimento ateniese dell’Edipo euripideo. La quarta sezione trarrà qualche breve conclusione.

1. Testo e testimoni

A livello di testo, il frammento 554a K. è privo di particolari problemi o incertezze4 e recita concordemente in tutte le edizioni moderne correnti5:

ἐγὼ γὰρ ὅστις μὴ δίκαιος ὢν ἀνὴρ βωμὸν προσίζει, τὸν νόμον χαίρειν ἐῶν πρὸς τὴν δίκην ἄγοιμ’ ἂν οὐ τρέσας θεούς· κακὸν γὰρ ἄνδρα χρὴ κακῶς πάσχειν ἀεί.

Ed io – chiunque sia l’uomo che non essendo giusto viene a sedersi presso l’altare – lasciando perdere la legge lo condurrei a giudizio senza temere gli dei; è infatti necessario che un uomo malvagio sempre soffra malamente.

In conseguenza del suo complesso percorso di trasmissione, questo frammento non appartiene al nucleo dei disiecta membra dell’Edipo da

3 Oltre alle prime ipotesi ricostruttive di Welcker, Hartung, Robert e Séchan (vd. infra n. 8) vd. più di recente (fa da spartiacque, nel 1962, la pubblicazione a cura di Eric Turner di P.Oxy. 2459, latore dei frr. 540, 540a e 540b K.) VAIO 1964; WEBSTER 1967, 241‑ 246; DINGEL 1970; DI GREGORIO 1980; AÉLION 1986, 42‑61; HOSE 1990; GANTZ 1993, 499‑500; HUYS 1997, 17‑18; VAN LOOY in JOUAN/VAN LOOY 20022, 436‑444; COLLARD in COLLARD/CROPP/GIBERT 2004, 105‑132; COLLARD 2005, 57‑62; EDMUNDS 2006, 41‑43; COLLARD/CROPP 2008, 2‑7; LIAPIS 2014 (con la tesi estrema che l’Edipo rifugga da sempre ad ogni ricostruzione coerente poiché molti dei frammenti gnomici assegnativi sono in realtà spuri, provenienti da un tardo esercizio retorico); FINGLASS 2017 (per ‑ suasiva confutazione di Liapis). 4 Vd. infra n. 16 per πρὸς τὴν δίκην ed a testo per una varia lectio al v. 4. 5 AUSTIN 1968, 64 (fr. 98); VAN LOOY in JOUAN/VAN LOOY 20022, 457 (fr. 15); KANNICHT 2004, 581; COLLARD in COLLARD/CROPP/GIBERT 2004, 122; COLLARD/CROPP 2008, 24. Edipo all’altare? 113 sempre noti6. I quattro versi che lo compongono sono tràditi, insieme e nella sequenza sopra stampata, da Giovanni Stobeo nel quarto libro dell’Antho ‑ logion nella sezione περὶ ἀρχῆς καὶ περὶ τοῦ ὀποῖον χρὴ εἶναι τὸν ἄρχοντα, «Sul governo e su come debba essere il governante» (Stob. 4, 5, 11 = 4, 199, 13‑17 Hense); essi sono là accompagnati dal solo nome d’autore, Εὐριπίδου, non anche dal titolo del dramma. Per questa ragione, nelle ottocen tesche edizioni di riferimento (quelle di August Nauck) questi quat ‑ tro trimetri compaiono tra i fragmenta incertae sedis di Euripide, ri spet ti vamente come fr. 1036 nell’edizione del 1856 e come fr. 1049 nella rie dizione del 18897. Di conseguenza, essi restarono esclusi dalle pionieristiche ricostru zioni otto‑ e primonovecentesche della trama dell’Edipo8. Chiarezza sul loro dramma di provenienza, per la verità, fu fatta nello stesso 1889, senza tuttavia che Nauck, parrebbe, ne avesse notizia in tempo utile. In quell’anno, Karl Buresch pubblicava in sede abbastanza nascosta (in appendice alla sua Habilitationsschrift sull’oracolo apollineo di Claro) sotto il titoloΧ ρησμοὶ τῶν Ἑλληνικῶν θεῶν (Oracoli degli dei greci) un breve escerto bizantino di un’opera cristiana tardoantica in lingua greca intitolata Θεοσοφία (Teosofia)9. In sintesi, questa Teosofia era, nella sua versione originale oggi perduta, una raccolta in quattro libri comprendente oracoli degli dei del pantheon greco, esametri orfici, vaticini sibillini, motti ed aneddoti sapienziali di e su saggi pagani allestita dal suo autore – un per noi anonimo teologo cristiano con tutta probabilità di origine orientale attivo intorno al 500 d.C. – con lo scopo di dimostrare che anche divinità ed autori della grecità pagana avevano avuto nozione ante litteram della Verità cristiana10. Ebbene, nell’escerto bizantino di questa Teosofia pubbli ‑

6 Noti cioè da quando si cominciò a collezionare i resti dei drammi classici perduti, nel Tardo Rinascimento. La prima raccolta di frammenti drammatici greci mai allestita fu quella, rimasta inedita, di Theodorus (Dirk) Canter (1545‑1616), fratello minore dell’editore eschileo Willem Canter (1542‑1575), vd. COLLARD 1995, 243‑251; GRUYS 1981, 277‑309. 7 NAUCK 1856, 538; NAUCK 1889, 683, entrambe le edizioni con testo identico a quello stampato qui sopra. 8 WELCKER 1839, 537‑553; HARTUNG 1843, 244‑254; ROBERT 1915, 305‑331; SÉCHAN 1926, 434‑441, tutti (tranne Hartung) con rimando alla bibliografia precedente. 9 BURESCH 1889, 89‑126. 10 Su problemi autoriali e presupposti teologico‑culturali della Teosofia così come sul complesso processo di tradizione che ha portato alla sopravvivenza di copia dell’escerto bizantino nel manoscritto tardo‑rinascimentale e miscellaneo di Tubinga vd. almeno BEATRICE 2001, xi‑lviii (che propone come autore della Teosofia Severo di Antiochia) e le introduzioni alle due recentissime traduzioni commentate della Teosofia di Tubinga di TISSI c.d.s. e CARRARA/MÄNNLEIN‑ROBERT 2018, con ricca bibliografia. 114 Laura Carrara cato da Buresch, comunemente noto oggi con il nome di Teosofia di Tubinga dal luogo di conservazione dell’unico testimone manoscritto Tubingensis( Mb 27), compare nella sezione finale dedicata a motti ed aneddoti di autori pagani il quarto ed ultimo verso del frammento euripideo in esame, con la preziosa attribuzione all’Edipo11:

§ 86. Ὅτι Εὐριπίδης ἐν Οἰδίποδι τῷ δράματί αὐτοῦ φησι· κακὸν <γὰρ> ἄνδρα χρὴ κακῶς πράσσειν ἀεί

§ 86. Euripide nell’Edipo, il (suo?) dramma, dice: «È infatti necessario che un uomo malvagio sempre sia a mal partito ».

È in teoria ipotizzabile che l’originale Teosofia tramandasse il passo dell’Edipo nella versione longior di Stobeo (o addirittura con versi in più), e che sia stato l’escerto, la Teosofia di Tubinga, a ritagliare dalla citazione della Vorlage il solo trimetro finale. Mi pare tuttavia più probabile pensare che già la stessa Teosofia, in dipendenza da una raccolta di sentenze precedenti (simile a quella di Stobeo?), contenesse il solo verso κακὸν γὰρ ἄνδρα κτλ.: è infatti la forma breve, monolineare della citazione, con il suo tono di massima moraleggiante ‘universale’ («il malvagio deve avere vita grama»), ad essere più facilmente sfruttabile anche in un orizzonte cristiano. La parte del frammento concernente la supplica all’altare, cioè i vv. 1‑3, riguarda un’usanza specifica della religione politeista greca ed era forse meno rilevante per l’impianto ‘comparatistico‑sinfonico’ della Teosofia. Inoltre, tutti i passi poetici sentenziosi di autori classici citati nella sezione finale della Teosofia di Tubinga (§§ 86‑91 Erbse: Euripide, [Pseu do‑]Menandro, Antistene e Timone di Fliunte) sono mono‑ o, al massimo, bilineari; pare di cogliere qui ancora la coerente facies del modello, la Teosofia tardoantica, piuttosto che il risultato dell’opera di riduzione bizantina12. In maniera analoga, il frammento 554a K. si ridurrà dai quattro versi stobeani alla sola massima finale nel passaggio a tarde collezioni di proverbi13.

11 Testo del passo della Teosofia di Tubinga secondo ERBSE 1995, 55; vd. anche ERBSE 1941, 201; BEATRICE 2001, 36 (Theos. II, 26). Sia Erbse sia Beatrice ritengono sospetto il pronome αὐτοῦ (αὑτοῦ?). È anche pensabile che sia l’intero nesso τῷ δράματί αὐτοῦ glossa esplicativa da espungere, entrata secondariamente nel testo in coda al titolo Οἰδίπους («nell’Edipo, [il suo dramma]»): il complemento ἐν Οἰδίποδι è già sufficiente alla localizzazione della citazione. 12 Altrimenti detto, sarebbe una rimarchevole coincidenza se il risultato del processo di riduzione fosse, in ogni caso, una citazione mono‑ o bilineare. Sul finale della Teosofia di Tubinga (§§ 84‑91 Erbse), che fa seguire detti di autori greci pagani alla sezione sibillina (§§ 75‑83 Erbse), e sulla sua posizione nella Teosofia vd. CARRARA c.d.s. Edipo all’altare? 115

Qualunque fossero le dimensioni originarie della citazione, la comparsa del trimetro κακὸν γὰρ ἄνδρα κτλ. con il titolo ἐν Οἰδίποδι nella Teosofia di Tubinga permette l’assegnazione definitiva dell’intero frammento incertae sedis stobeano all’Edipo euripideo. Tale fatto, pur già notato da Buresch14, ha acquisito piena cittadinanza negli studi solo a seguito dell’edizione critica della Teosofia di Tubinga di Hartmut Erbse nel 1941, e anche da allora con lentezza. Il primo studioso di frammenti drammatici a divulgare la testimonianza della Teosofia di Tubinga e a rinumerare di conseguenza il brano come fr. 554a fu Bruno Snell nel suo Supplementum all’editio secunda di Nauck, nel 196415. Non sorprende quindi che al silenzio (obbligato) delle più antiche ricostruzioni dell’Edipo sul frammento risponda oggi un certo interesse della critica per esso, che va dalla scoperta (con tutti gli azzardi e le speculazioni del caso) delle sue ancora inesplorate potenzialità semantiche e drammaturgiche al suo rifiuto come spurium16.

Il secondo dato nuovo, di molto minor momento, fornito dalla Teosofia di Tubinga in relazione al fr. 554a K. è la variante testuale per il verbo del v. 4: laddove tutti i manoscritti di Stobeo leggono πάσχειν («è infatti necessario che un uomo malvagio sempre soffra malamente»), la Teosofia di Tubinga tramanda πράσσειν («è infatti necessario che un uomo malvagio sempre sia a mal partito»). La differenza di significato è lieve17, ed entrambi i nessi sono

13 Cf. Mantissa Proverbiorum 1, 83 = CPG II, 757, 3 Leutsch (da Stobeo, con πάσχειν nel testo). 14 BURESCH 1889, 124‑125. 15 SNELL 1964, 10. NESTLE 1901, 120 ed ancora SOLMSEN 1975, 75 citano il frammento come nr. 1049 incertae sedis, vd. infra n. 76. 16 Così LIAPIS 2014, 354 nel quadro della sua tesi generale per cui vd. supra n. 3. Per l’argomento contenutistico di Liapis, vd. infra § 3.2. La sua obiezione linguistica (vd. anche le sue pp. 334, 343) si appunta sull’articolo determinativo in πρὸς τὴν δίκην (ἄγοιμ’): idiomatico è, a suo parere, πρὸς δίκην (ἄγειν). Invero la formula ‘a processo’ è εἰς δίκην, vd. LSJ s.v. ἄγω I 4 e cf. Pl. Lg. 767b6 ἄγων εἰς δίκην; nelle stesse Leggi e negli oratori attici εἰς δίκην compare anche con altri verbi come ‘andare’ o ‘chiamare’; per πρὸς τὴν δίκην cf. invece Pl. Lg. 936e7 ὁ δὲ κληθεὶς ἀπαντάτω πρὸς τὴν δίκην e fr. adesp. 498 K.‑Sn. (data incerta, testimoni tardi) ἄγει τὸ θεῖον τοὺς κακοὺς πρὸς τὴν δίκην (quest’ultimo citato anche da FINGLASS 2017, 25, il quale elenca, inoltre, altre occorrenze tragiche di τὴν δίκην al posto di δικην́ con verbi ‘legalistici’, ad es. δίδωμι). La lingua del brano non è altrimenti problematica: cf. anzi per βωμὸν προσίζει al v. 2 in identico contesto A. Supp. 189 πάγον προσίζειν τόνδ᾽ ἀγωνίων θεῶν; E. Hec. 935 (lyr.) σεμνὰν … προσίζουσι Ἄρτεμιν. 17 Tant’è che SEECK 1981, 240‑241 stampa πάσχειν ma traduce πράσσειν («denn einem schlechten Mann sollte es stets auch schlecht ergehen»). Errata è la resa attiva di VAN KASTEEL 2011, 269 («un homme méchant agira etc») del testo della Teosofia di 116 Laura Carrara

idiomatici della lingua greca in generale ed euripidea in particolare: per κακῶς (o καλῶς) πράσσειν cf. e.g. E. Alc. 961 κακῶς πεπραγότι; Hec. 55 ὡς πράσσεις κακῶς, 957 οὔτ᾽ αὖ καλῶς πράσσοντα μὴ πράξειν κακῶς; Or. 1599 ἀνέχου δ᾽ ἐνδίκως πράσσων κακῶς; per κακῶς πάσχειν cf. invece E. Med. 38‑39 e 280 κακῶς πάσχουσ᾽, 815 μὴ πάσχουσαν, ὡς ἐγώ, κακῶς18. L’idea che un uomo malvagio si trovi giustamente a mal partito ritorna nel citato verso dell’Oreste (1599, rivolto da Oreste a Menelao), che potrebbe dunque essere addotto a sostegno di πράσσειν dellaTeosofia di Tubinga. A favore della lezione stobeana πάσχειν parla invece un passo, pure esso gnomico, come E. Hec. 903‑904 πᾶσι γὰρ κοινὸν τόδε, (…) τὸν μὲν κακὸν / κακόν τι πάσχειν, τὸν δὲ χρηστὸν εὐτυχεῖν, «a tutti è comune regola questa, (…) che il malvagio soffra qualcosa di male, il valente abbia invece buona fortuna» (qui tuttavia πάσχειν regge l’aggettivo neutro κακόν, non l’avverbio κακῶς). In tal caso, πράσσειν della Teosofia di Tubinga sarebbe o un errore di tradizione meccanico o una banalizzazione più o meno consapevole di πάσχειν. In quale stadio della trasmissione πράσσειν abbia soppiantato il (presunto) originale euripideo πάσχειν – se già nella Teosofia tardoantica (se non nella fonte di questa?) oppure solo nella bizantina Teosofia di Tubinga o addirittura nella copia tardo‑rinascimentale di questa nel codice Tubingensis Mb 27 – è quasi impossibile dire19.

2. Presupposti cultuali e culturali

Il background cultuale e culturale di fr. 554a K. è ben noto agli studiosi di antichità greche: presupposto – e criticato, vd. infra – in questo frammento è il diritto all’intoccabilità automaticamente acquisito secondo la credenza comune da chiunque, perseguitato, inseguito o ricercato, andasse fisica ‑

Tubinga: il verso non riguarda la coercizione a compiere il male, ma le conseguenze per il malfattore. 18 Questi passi paralleli già in BURESCH 1889, 125. Apparentemente senza conoscere la Teosofia di Tubinga, BLAYDES 1894, 360 aveva già proposto πράσσειν al posto di πάσχειν per il frammento euripideo, confrontando A. fr. 466 R. (dubium?) ζοῆς πονηρᾶς θάνατος αἱρετώτερος· / τὸ μὴ γενέσθαι δ’ ἐστὶν ἤ πεφυκέναι / κρεῖσσον κακῶς πράσσοντα, «Ad una vita meschina è preferibile la morte; il non esser nato è meglio che l’essere nato passandosela male». Anche qui, tuttavia, la tradizione manoscritta è bipartita, con il ms. A di Stobeo, la fonte del frammento, che legge πάσχοντα, e divisi sono anche editori e studiosi: vd. l’app. cr. ad loc. di RADT 1985, 502. Identica alternanza πάσχω ‑ πράσσω in E. fr. *545a 9 K. (pure dall’Edipo), vd. COLLARD in COLLARD/CROPP/GIBERT 2004, 131. 19 L’ultimo editore della Teosofia (BEATRICE 2001, 36, Theos. II, 26) restituisce già in questo testo πάσχειν, con scelta forse azzardata. Edipo all’altare? 117 mente a porsi presso l’altare o nella sede sacra di un dio (e dunque sotto la sua tutela) per tutto il tempo della sua permanenza in quel luogo20. Un caso antico celebre e spesso citato di questa pratica è quello del generale spartano Pausania, il vincitore della battaglia di Platea: accusato pochi anni dopo quella vittoria (intorno al 470 a.C.) di μηδισμός dai suoi concittadini, Pausania si rifugiò nel tempio di Atena Chalkioikos sull’Acropoli di Sparta, da dove nessuno per timore e reverenza della dea osava strapparlo21. Questo principio cardine della religione greca trovò ampia ricezione nel teatro tragico, venendo a costituire il nucleo di numerose scene e di intere tragedie, organizzate anche visivamente intorno alla presenza di uno o più rifugiati presso un altare o un tempio (si pensi alle Supplici eschilee)22. Nel dramma attico, e più precisamente nella produzione euripidea, s’incon ‑ trano però di questo principio anche messe in discussione, sorte forse in conseguenza di reali casi storici di abuso del diritto del santuario23 e/o sulla scia di un dibattito contemporaneo che tendeva a relativizzare l’automa ‑ tismo dell’applicazione a favore di un approccio più sfaccettato. Anche da testi non drammatici di tardo quinto secolo pare, infatti, di dover dedurre che in quegli anni si fosse sviluppata una maggiore sensibilità per il carattere potenzialmente a‑sociale del diritto del rifugio all’altare: l’esten ‑ sione della protezione divina tanto sui rifugiati innocenti quanto su quelli colpevoli veniva da più parti percepita – e/o strumentalmente presentata – come destabilizzante per il corpo civico, poiché sottraente i criminali alla

20 Vd. GOULD 1973, 77‑78; PARKER 1983, 182‑183; MIKALSON 1991, 69‑70; SINN 1990, 71‑83; SINN 1993; CHANIOTIS 1996; MARTIN 2018, 478‑479. Se il fenomeno in questione sia più propriamente da definirsi ἀσυλία (CHANIOTIS 1996, 66‑67) o ἱκετεία (GOULD 1973, 77; SINN 1990, 71‑73; SINN 1993, 90‑91; vd. anche GÖDDE 2000, 31‑32) o sia una combinazione tra le due, è materia di controversia: qui basterà averne richiamato le caratteristiche. La concreta dimensione ritualistica della supplica, con i suoi segni esteriori, la formulazione di aperta richiesta di aiuto da parte del rifugiato, l’accoglimento della stessa etc., è per la presente discussione di rilevanza secondaria. 21 Secondo Tucidide (1, 133‑134) i persecutori di Pausania credettero di aver trovato il modo di aggirare l’ostacolo senza macchiarsi di empietà: essi sprangarono il tempio e bloccarono i rifornimenti a Pausania, tirando fuori il generale appena prima che questi morisse di fame, ed impedendo così che fosse la sua morte per fame (una forma di decesso considerata particolarmente impura dai greci, cf. e.g. S. Ant. 775‑776) a contaminare il suolo sacro, vd. GOULD 1973, 82 con n. 45. 22 MIKALSON 1991, 70‑77, con altri esempi; SINN 1993, 89. Sulle Supplici vd. GÖDDE 2000; DREHER 2003; GÖDDE 2003; in generale sul motivo della supplica nel teatro antico vd. KOPPERSCHMIDT 1967; per gli aspetti scenici e visuali, soprattutto della supplica personale (tra due attori), vd.EL T Ò 2002. 23 OWEN 1939, 60: «the tirade may have been inspired by contemporary abuses of the right of sanctuary». 118 Laura Carrara punizione24. Oltre al fr. 554a K., tocca questo delicato tema nel corpus euripideo il seguente passo dello Ione (1312‑1319, ed. Diggle)25:

Ἴων· φεῦ· δεινόν γε θνητοῖς τοὺς νόμους ὡς οὐ καλῶς ἔθηκεν ὁ θεὸς οὐδ’ ἀπὸ γνώμης σοφῆς· τοὺς μὲν γὰρ ἀδίκους βωμὸν οὐχ ἵζειν ἐχρῆν ἀλλ’ ἐξελαύνειν· οὐδὲ γὰρ ψαύειν καλὸν 1315 θεῶν πονηρᾶι χειρί, τοῖσι δ’ ἐνδίκοις· ἱερὰ καθίζειν <δ’> ὅστις ἠδικεῖτ’ ἐχρῆν, καὶ μὴ ’πὶ ταὐτὸ τοῦτ’ ἰόντ’ ἔχειν ἴσον τόν τ’ ἐσθλὸν ὄντα τόν τε μὴ θεῶν πάρα.

Ione: Ohimè Tremendo davvero come agli uomini le leggi non rettamente abbia posto il dio né sulla base di un’opinione saggia. Bisognerebbe che gli ingiusti non sedessero agli altari, ma (bisognerebbe) cacciarli; infatti non è bello 1315 per mano malvagia toccare gli dei; per i giusti invece – presso i luoghi sacri bisognerebbe sedesse chiunque abbia subito ingiustizia e non che, trovandosi nello stesso stato, ottenga lo stesso da parte degli dei chi è virtuoso e chi non lo è.

Con questa riflessione generale Ione commenta la situazione particolare venutasi a creare in scena: Creusa (che Ione non ha ancora riconosciuto essere sua madre) si è riparata presso l’altare di Apollo delfico dalla ven ‑ detta del giovane, appena scampato all’avvelenamento da lei orche strato. Mentre Creusa si richiama alla concezione religiosa diffusa secondo cui chi si affida al dio non può essere toccato (1285 ἱερὸν τὸ σῶμα τῷ θεῷ δίδωμ᾽

24 PARKER 1983, 183; CHANIOTIS 1996, 68, 84‑87; MARTIN 2018, 479, gli ultimi due con rimando a Thuc. 4, 98, 6 (καὶ γὰρ τῶν ἀκουσίων ἁμαρτημάτων καταφυγὴν εἶναι τοὺς βωμούς, «è possibile rifugiarsi presso gli altari per le colpe compiute involontariamente»), un passo che pare restringere il diritto al rifugio presso gli altari ai colpevoli involontari; vd. anche GOULD 1973, 101. 25 Su lingua e testo del passo vd. il commento di MARTIN 2018, 479‑480, che espunge i vv. 1315‑1317 (in questo già parzialmente preceduto da Diggle) in ragione di una loro presunta incoerenza sintattica e contenutistica con il resto del brano; diverse possibilità di costruzione sono però illustrate nel commento di OWEN 1939, 160. Una decisione in merito non è comunque rilevante ai fini dell’interpretazione ideologica e logica del brano, per la quale vd. BURNETT 1962, 99 n. 36; MIKALSON 1991, 75‑76; CHANIOTIS 1996, 65‑66; MARTIN 2018, 478‑479; anche SINN 1993, 108 n. 11; BOLKESTEIN 1939, 90‑91, 128, 247‑248 (in particolare sulla concezione ‘legalistica’ di ἀδικούμενοι). Edipo all’altare? 119

ἔχειν), Ione condivide, in linea di principio, le stesse premesse del fr. 554a K., anche se – ed è differenza non da poco – non la stessa prontezza ad agire che la persona loquens del frammento rivendica per sé26 (quantomeno per via di ipotesi, ἄγοιμ’ ἂν al v. 3 del frammento è condizionale: «condurrei a giudizio», vd. su questo infra § 3.2); con la ‘tirata’ dei versi 1312‑1319 Ione pare, infatti, finire per ammettere la superiore forza della legge divina e limitarsi ad esprimere un desiderio utopico, ed in partenza frustrato, che le cose stiano diversamente (al v. 1314 ἐχρῆν è condizionale: Ione non è dunque violento, ma blasfemo)27. A sciogliere l’impasse arriva la Pizia, che frena Ione (1320 ἐπίσχες, ὦ παῖ) ed avvia il riconoscimento28. Un’ulteriore attestazione euripidea del medesimo motivo, cronolo ‑ gicamente precedente29 e stavolta dialogica, offrono gli Eraclidi, 254‑260 (ed. Diggle):

Δη· καὶ πῶς δίκαιον τὸν ἱκέτην ἄγειν βίᾳ; Κη· οὔκουν ἐμοὶ τόδ᾽ αἰσχρὸν ἀλλ᾽ <οὐ> σοὶ βλάβος; 255 Δη· ἐμοί γ᾽, ἐάν σοι τούσδ᾽ ἐφέλκεσθαι μεθῶ. Κη· σὺ δ᾽ ἐξόριζε, κᾆτ᾽ ἐκεῖθεν ἄξομεν. Δη· σκαιὸς πέφυκας τοῦ θεοῦ πλείω φρονῶν. Κη· δεῦρ᾽, ὡς ἔοικε, τοῖς κακοῖσι φευκτέον. Δη· ἅπασι κοινὸν ῥῦμα δαιμόνων ἕδρα. 260

Dem: Come può esser giusto portar via con la forza il supplice? Ar.: Questo sarà per me un disonore, ma per te non è un danno? 255 Dem.: Sì, se ti permetto di trascinarli via. Ar.: Tu mandali fuori dai confini, e poi da là li porteremo via. Dem.: Sei sciocco se pensi di saperne più del dio. Ar.: Invero questo, così pare, è rifugio ai malvagi. Dem.: A tutti è comune baluardo l’altare degli dei. 260

Il re ateniese Demofonte e l’Araldo argivo dibattono sul destino dei figli di Eracle, i quali, con Alcmena e Iolao, hanno trovato rifugio dalla persecu ‑

26 LIAPIS 2014, 354. 27 SOLMSEN 1975, 72 e 75, seguito da MARTIN 2018, 478. 28 La Pizia non trattiene quindi Ione dallo strappare Creusa dall’altare con le proprie mani, ma da nuove avventate affermazioni sul divino, vd. MARTIN 2018, 481 nelle note vv. 1320‑1325 e v. 1320. 29 Gli Eraclidi sono datati intorno al 430 a.C., lo Ione tra il 414 ed il 411/410 a.C. (vd. rispettivamente ILKINSW 1993, xxxiii‑xxxv e MARTIN 2018, 24‑32), l’Edipo intorno al 415 a.C. (su questo vd. infra n. 43). Non è dunque vero che sia lo Ione a contenere «the earliest attack against the institution of asylia in the Greek literary tradition» (CHANIOTIS 1996, 66): lo precedono gli Eraclidi, e forse lo stesso Edipo. 120 Laura Carrara zione di Euristeo presso l’altare di Zeus a Maratona. L’Araldo argivo pretende la loro consegna: dopo che sia la sua minaccia di ritorsione (255) sia il suo suggerimento di ingannare i supplici concedendo loro scorta fino al confine attico per poi abbandonarli là (257)30 sono stati ovviamente ignorati da Demofonte, egli sposta la propria argomentazione da un piano pratico ad uno etico ed obietta – ponendosi così sulla stessa lunghezza d’onda di Ione e della persona loquens di fr. 554a K. – che l’altare di un dio non può né deve essere ricettacolo di malvagi (259: tali sono a suo giudizio gli Eraclidi, cf. v. 178). L’enfatico accostamento di ἅπασι e κοινὸν nella risposta di Demofonte («a tutti comune baluardo», 260) sintetizza bene la credenza comune nell’universalità della protezione garantita dall’altare, indipendentemente dai meriti o demeriti di chi ne beneficia31. Secondo l’Araldo argivo, Ione e lo speaker anonimo di fr. 554a K. questa è una palese ingiustizia che mina alle fondamenta il funzionamento della società umana, retto dalla corrispondenza tra colpa e punizione (vd.supra ). Nel suo celebre – e discusso – saggio Euripides. Der Dichter der griechischen Aufklärung, Wilhelm Nestle aveva citato anche il passo dello Ione ed il frammento 554a K. (per lui ancora fr. 1049, vd. supra n. 15) tra le attestazioni della critica portata da Euripide alle concezioni religiose tradizionali ed alle pratiche da queste dipendenti (come, appunto, il rifugio agli altari)32. Analoghe interpretazioni di questi due brani come ‘progres‑ siste’ o ‘illuministe’ prese di posizione di Euripide nel conflitto tra credenze tradizionali e nuova etica s’incontrano anche altrove nella letteratura secondaria33. Altri studiosi hanno fatto però giustamente notare che, se si vuol per forza distillare una posizione euripidea in merito al principio dell’intoccabilità dei rifugiati in spazio sacro, essa sarà difficilmente in accordo con quella di Ione: tutta la macchina drammatica dell’anagnorisis di quella tragedia è lì a dimostrare che la ‘tirata’ di Ione (1312‑1319) è malfondata e che gli dei hanno ben posto la legge del rifugio nei santuari: solo grazie a questa legge, e grazie all’aderenza, per quanto non entusiasta, di Ione ad essa, madre e figlio possono ricongiungersi; se Ione avesse seguito i dettami (solo apparentemente!) equanimi dell’etica umana e

30 Su questo stratagemma per liberarsi di supplici molesti o difficili da trattare vd. SINN 1990, 79‑80; SINN 1993, 92‑93. 31 MIKALSON 1991, 76; CHANIOTIS 1996, 67. 32 NESTLE 1901, 120. 33 SCHMID/STÄHLIN 1940, 554 («einer der dem Euripides so beliebten Weltverbes‑ serungsvorschläge»); SOLMSEN 1975, 75‑77 (E. Ion 1312‑1319 e fr. 554a K. [per lui an‑ cora fr. 1049] sono esternazioni ‘illuministiche’, vagheggiamenti di una situazione utopica da parte di uno spirito libero ed avanzato come Euripide). Edipo all’altare? 121 punito Creusa per l’attentato ai suoi danni, avrebbe finito per macchiarsi di uno dei peggiori crimini immaginabili, il matricidio34. Allo stesso modo, anche l’altro sostenitore della medesima opinione, l’Araldo argivo in Eraclidi v. 259, non è certamente modello di pietà positiva, come risulta dalla lettura dell’intera tragedia35. Soltanto se fossero ridotti allo status di frammenti privi di contesto, Ion. 1312‑1319 e Heracl. 254‑260 potrebbero esser presi come esternazioni ‘progressiste’ della voce del poeta miranti a fare proseliti tra il pubblico – ma frammenti essi non sono36. Sullo sfondo costituito dall’analisi dei due loci similes di Ione ed Eraclidi, si affronterà ora lo studio di fr. 554a K. nella sua dimensione intra‑ (cioè in rapporto con il resto della tragedia, ancorché oggi perduta, che lo conteneva) ed inter‑drammatica (cioè in eventuale relazione con altri drammi più o meno contemporanei).

3. Dimensione inter‑ ed intradrammatica

3.1. E. fr. 554a K. ed Edipo a Colono

Per cominciare da questo secondo aspetto, non mi pare sia mai stato osservato che il fr. 554a K. dall’Edipo di Euripide è concettualmente prossimo ad uno dei motivi portanti dell’Edipo a Colono sofocleo, la permanenza di Edipo nello spazio sacro delle Eumenidi a Colono. Le scene iniziali di questa tragedia, compresa la parodo commatica, fino alla comparsa di Ismene (324) ruotano intorno alla questione se sia lecito per Edipo fermarsi nel χῶρος ἱερός (16) o se egli debba, invece, andarsene subito37. È la sua entrata ‘non autorizzata’38 in un’area che gli indigeni considerano intoccabile (37 χῶρον οὐκ ἁγνὸν πατεῖν; 39 ἄθικτος οὐδ’ οἰκητός) anche solo con il pensiero, lo sguardo o la parola (126‑134 ἀστιβὲς ἄλσος … ἀδέρκτως, ἀφώνως, ἀλόγως) a scatenare il primo conflitto della tragedia, quello che oppone Edipo all’Abitante di Colono ed al Coro. Il Coloniate ed i coreuti fanno ogni tentativo di persuaderlo a lasciare la sacra

34 FRIEDRICH 1953, 23; BURNETT 1962, 99, 103 n. 36; CHANIOTIS 1996, 86. 35 Sull’assoluta negatività dell’Araldo argivo FITTON 1961, 450. 36 Sull’uso dei frammenti euripidei da parte di Nestle come base della sua interpretazione generale del poeta e gli ovvi problemi che ciò comporta vd. MIKALSON 1991, 6‑7. 37 εἰ χρὴ σε μίμνειν ἤ πορεύεσθαι πάλιν, per formulare l’alternativa con le parole dell’Abitante di Colono (80). 38 Sulla portata esatta dell’illiceità del gesto di Edipo (e di Antigone, che lo accompagna) agli occhi dell’Abitante di Colono e del Coro, vd. infra a testo. 122 Laura Carrara sede (ad es. 36‑37 ἐκ τῆσδ’ ἕδρας ἔξελθ’; 162 μετάσταθ’, ἀπόβαθι; 166 ἀβάτων ἀποβάς); essi però non osano, anzi nemmeno mai pensano di allontanarlo a forza con le proprie mani. Al contrario, dopo che Edipo ha fondato la richiesta di permanenza con una supplica di accoglienza alle dee epicoriche (44‑45 ἱκέτης … οὐχ ἕδρας … ἄν ἐξελθοιμ’), il Coloniate esplicitamente esclude il ricorso all’iniziativa personale (47‑48). Il rapporto tra i due testi mi pare potersi descrivere così: se il frammento euripideo 554a K. mette sul tavolo la questione del ‘supplice all’altare’ ed espone, qualora si dia il caso che questi sia portatore di colpe nei confronti dei propri Mitmenschen, il comportamento da adottare (consegnarlo alla giustizia umana senza timore degli dei), l’Edipo a Colono prende le mosse dalla rappresentazione scenica del motivo della supplica e vi fa interagire uno dopo l’altro concreti Mitmenschen (non solo il Coloniate ed il Coro, ma anche Teseo e Creonte). Le differenze tra i due testi sono, ovviamente, evidenti: non solo nell’Edipo a Colono non compare mai il termine βωμός a proposito dello spazio sacro in cui si muove Edipo39; anche orientamento e presupposti del dibattito sulla liceità del soggiorno in luogo sacro sono diversi. Mentre lo speaker euripideo di fr. 554a K., ed anche Ione nella tragedia omonima, si rifanno ai concetti di giustizia ed ingiustizia, colpa e conseguente punizione per distinguere tra chi abbia diritto alla protezione dell’altare e chi ne abusa, gli Abitanti di Colono ragionano secondo altre categorie. La ragione primigenia per cui essi – il Coloniate prima ed i coreuti poi – vogliono allontanare Edipo dal suolo sacro alle Eumenidi risiede nel fatto che egli vi si è introdotto da semplice mortale, senza l’adeguata preparazione e protezione rituale; il timore che la presenza di Edipo attiri su di loro le maledizioni (ἀραί, 154) delle dee è ben precedente alla, e del tutto indipendente dalla, scoperta delle sue colpe.

Ciò emerge chiaramente dal già menzionato mutamento di attitudine del Coloniate, il quale diventa (più) disposto a tollerare la presenza di Edipo

39 Si parla piuttosto di una ‘pietra non polita’ (ἐπ’ ἀξέστου πέτρου, 19), più volte vagamente di ‘sede’ (ἕδρα), di uno o più gradini (βάθρον: 101; 263), il tutto all’interno di un bosco (ἄλσος: 10; 98; 114; 126), descritto prima dal Coloniate (52‑63) e poi dal Coro (156‑160): manca, insomma, l’intera dimensione della costruzione templare man‑ made. Sulla conformazione del luogo sacro di OC vd. GÖDDE 2000, 113‑115 (in un capitolo efficacemente intitolato «Steine, Schwelle und Stufen»); al di là della topografia precisa resta valida l’osservazione di GOULD 1973, 90: «nowhere else in Greek tragedy does the primitively mysterious power of boundaries and thresholds, the ‘extraterritoriality’ of the sacred, make itself felt with the force and precision that Sophocles achieves in the parodos of Oedipus at Colonus». Sullo spazio di OC vd. anche DI BENEDETTO 2003, 110‑113. Edipo all’altare? 123

non appena questi si dichiara ἱκέτης (44). Il Coro, che nulla sa di questa richiesta di ἱκεσία e per il quale Edipo non è esteriormente riconoscibile nelle vesti di supplice (egli non ne porta i segni religiosi consueti)40, fa ogni sforzo per spingerlo fuori dallo spazio (più?)41 sacro del bosco delle Eumenidi nell’articolata scena dei vv. 165‑204 come precondizione per poter avere un contatto verbale‑dialogico con lui (165‑169; 203‑204) e dunque ben prima di iniziare l’indagine sulla sua identità (204‑206). Che Edipo poi nel corso della parodo venga allo scoperto come parricida ed incestuoso (203‑ 227) non può che peggiorare la sua posizione e conferma il Coro nel suo timore di conseguenze divine (256 τὰ ἐκ θεῶν τρέμοντες)42 – ma il divieto di stare nello spazio sacro alle Eumenidi era già stato espresso dal Coro preventivamente.

Nonostante queste differenze tra fr. 554a K. ed OC, mi pare rimanga coincidenza degna di nota che la seconda delle due tragedie sofoclee su Edipo ruoti intorno alla stessa scénerie – un colpevole rifugiato in un luogo sacro – che già Euripide aveva evocato con il fr. 554a K. in una tragedia dal titolo Edipo. Non si vuole con ciò sostenere che la particolarissima ouverture dell’Edipo a Colono – con Edipo esiliato e rifugiato alle porte di Atene in un χῶρος ἱερός – sia stata ispirata a Sofocle dalla conoscenza dei quattro versi euripidei del fr. 554a K. con i quali, una decina di anni prima43, il tema della supplica all’altare aveva già fatto la sua comparsa in un dramma di Edipo44.

40 Vd. GÖDDE 2000, 113, che definisce Edipo «ein unrechtmäßiger Eindringling»; anche GOULD 1973, 100. Il Coro non lo dimentica, e più avanti esorterà Edipo a recuperare la purezza rituale con un sacrificio ‘riparatore’ (464‑492, vd. SEIDENSTICKER 1972, 263 con n. 2), nuovamente come precondizione per essergli al fianco (490‑492). Edipo stesso è consapevole di questa sua trasgressione rituale, compiuta solo per ‘cause di forza maggiore’ (per dar compimento alla profezia di Apollo sul luogo della sua ultima dimora), cf. vv. 98‑101. 41 Sui diversi gradi e confini di sacralità che paiono esistere nel bosco delle Eumenidi, vd. GÖDDE 2000, 114 n. 320, con bibliografia. 42 Sul miasma che emana da Edipo quale parricida ed incestuoso vd. PARKER 1983, 318‑321. 43 La data di rappresentazione dell’Edipo euripideo non è nota da fatti esterni, ma è stata posta dalla critica con buona approssimazione negli anni intorno al 415 a.C., vd. AUSTIN 1968, 59; CROPP/FICK 1985, 70, 85; VAN LOOY in JOUAN/VAN LOOY 20022, 435‑436. Sulla data postuma di rappresentazione dell’Edipo a Colono (402/401 a.C.) informa la Hypothesis II manoscritta al dramma (rr. 1‑3), vd. AMERBEEKK 1984, 3. 44 Va comunque osservato che la declinazione della vicenda edipica in direzione di una ἱκεσία non è attestata con certezza prima dell’ultimo quarto del quinto secolo a.C.: della saga eroica locale comunemente ritenuta preesistere l’OC facevano parte la morte e/o sepoltura di Edipo a Colono, non anche una tradizione dettagliata su un suo esilio 124 Laura Carrara

La relazione che sussiste tra i due testi è, piuttosto che cronologica o genealogica, ideologica: sia fr. 554a K. sia OC ruotano intorno alla (messa in discussione della) pratica religiosa del rifugio in luogo sacro e alle possibili reazioni dei componenti della πόλις ricevente. Se tra i due testi intercorra anche un rapporto scenico, e cioè se già l’Edipo euripideo, prima dell’Edipo a Colono, avesse rappresentato in scena l’eroe nelle vesti di ἱκέτης (ed eventualmente già in Attica?), si potrà dire soltanto dopo aver tentato la ricostruzione del contesto di provenienza di fr. 554a K.

3.2. Il contesto originale di E. fr. 554a K.

Spesso passato sotto silenzio (perché non ancora conosciuto, vd.supra § 1) o lasciato per prudenza nel vago45, il fr. 554a K. è stato per la prima volta valorizzato dal punto di vista drammaturgico da T.B.L. Webster nel 1967, con attribuzione a Creonte (personaggio la cui presenza nell’Edipo euripideo è assunto comune e condivisibile della critica, per quanto, è bene ribadirlo, di essa manchi testimonianza esterna sicura)46. Con la posizione indifferente a scrupoli religiosi e basata solo sulla più angusta etica umana del fr. 554a K., Creonte verrebbe ad essere, nell’economia del dramma, antitetico ad Edipo, per parte sua portatore di più alti sentimenti (ad es. quelli del fr. 542 K.: «il bianco argento e l’oro non sono l’unica valuta, ma anche la virtù è moneta di scambio a disposizione di tutti gli uomini, di cui bisogna far uso»; cf. anche fr. 547 K.). Il conflitto verbale ed ideologico dominante in scena vedrebbe dunque opposti Creonte attivoRealpolitiker ed Edipo inerme idealista (cf. fr. 552, 2 K. συνετὸν ἄτολμον [Edipo] ἢ θρασὺν κἀμαθῆ [Creonte])47. Procedendo nella stessa direzione di

e rifugio sacralmente connotato in Attica; sulla saga attica di Edipo vd. KAMERBEEK 1984, 2‑6; MARCH 1987, 139‑148 (a favore della presenza dell’esilio di Edipo in Attica già nel perduto Edipo di Eschilo sulla base di Androzione, FGrHist 324 F 62); KEARNS 1989, 208‑209; MASTRONARDE 1994, 24‑25 (con ulteriore bibliografia); EDMUNDS 1996, 95‑100 ed EDMUNDS 2006, 51‑52 (anche con analisi di Androzione); sull’esilio di Edipo, più volte evocato, sempre senza connessione con Atene, ma lasciato infine in sospeso nell’Edipo Re vd. anche SEIDENSTICKER 1972, 260; FINGLASS 2018, 38‑40. 45 CHANIOTIS 1996, 68: «an anonymous speaker in an unknown context»; MIKALSON 1991, 259 n. 33; FINGLASS 2017, 25. 46 Paragonabile a quella di Malala per Giocasta per cui vd. supra n. 2; tale potrebbe essere forse la cd. ‘Urna di Volterra’, su cui vd. ROBERT 1915, 307; COLLARD in COLLARD/CROPP/GIBERT 2004, 111. Per l’opposizione politica tra Edipo e Creonte come germe della vicenda dell’Edipo vd. già ROBERT 1915, 306. 47 WEBSTER 1967, 243, vd. anche AÉLION 1986, 51 con n. 125, VAN LOOY in JOUAN/VAN LOOY 20022, 442. Edipo all’altare? 125

Webster, Rachel Aélion ha voluto più precisamente vedere in fr. 554a K. una sorta di dichiarazione ‘muscolare’ di Creonte determinato a punire Edipo parricida ed incestuoso48. Un ulteriore argomento a favore della messa in relazione di fr. 554a K. con Creonte è la congruenza di questa ipotesi con il titolo del capitolo stobeano testimone del frammento, περὶ ἀρχῆς καὶ περὶ τοῦ ὀποῖον χρὴ εἶναι τὸν ἄρχοντα («sul governo e su come debba essere il governante», vd. supra § 1)49: la qualifica di ἄρχων ben si attaglia a Creonte nella gerarchia tebana, soprattutto una volta decaduto Edipo50. Una nuova possibilità di contestualizzazione rispetto allo scenario appena descritto – che è in sostanza quello ‘scontro di caratteri e principi’ già supposto da Webster per altri drammi euripidei frammentari tardi51 – è emersa dopo la scoperta di un altro fragmentum novum dell’Edipo, il 554b K. Questo testo si è aggiunto ai lacerti del dramma nel 1969, grazie alla pubblicazione del celebre Papiro Bodmer XXV della Samia di Menandro. Due trimetri della commedia (325‑326) sono accompagnati su questo papiro dalla nota a margine οιδιπους ιριποδου, da interpretarsi come Οἰδίπους Εὐριπίδου: ‘Edipo di Euripide’52. I due versi in questione – pronunciati da Demea, il padre adottivo delloiuvenis protagonista della commedia – recitano:

λάβ’ αὐτόν. ὦ πόλισμα Κεκροπίας χθονός, ὦ ταναὸς αἰθήρ, ὦ – τί, Δημέα, βοᾶις;

Agguantalo! – O città della terra cecropia, o etere immenso, o – perché gridi, o Demea?

Dall’Edipo di Euripide possono provenire, ovviamente, soltanto l’apostrofe ad Atene (ὦ πόλισμα Κεκροπίας χθονός) ed al (suo?) vasto

48 AÉLION 1986, 51. 49 Ciò è stato espressamente notato solo da KANNICHT 2004, 582 e COLLARD in COLLARD/CROPP/GIBERT 2004, 131. Il brano più simile a fr. 554a K. proveniente da tragedia conservata (quindi controllabile) citato da Stobeo nello stesso capitolo è pronunciato da, e riferito a, un regnante (Stob. 44, 5, 13 = E. Suppl. 875‑880: Adrasto a Teseo su Eteoclo). 50 In S. OT 629 l’ἄρχειν è (ancora) di Edipo, questi e Creonte sono chiamati ἄνακτες dal Coro (631); nell’Antigone il campo semantico dell’ἀρχή è (auto‑)riferito interamente a Creonte (ad es. 736; 739; 744). 51 Vd. WEBSTER 1967, 288‑289: «another common element in the late plays is the ‘contest of lives’», con diversi esempi tra cui il dibattito tra ‘vita contemplativa’ e ‘vita attiva’ di Anfione e Zeto nell’Antiope. 52 Vd. l’editio principes di KASSER/AUSTIN 1969, 48‑49. 126 Laura Carrara etere (ὦ ταναὸς αἰθήρ) nonché l’invocazione ὦ iniziante un terzo appello subito abortito53, non anche le sequenze λάβ’αὐτόν e τί, Δημέα, βοᾶις, genuinamente comiche. Secondo Gomme e Sandbach, la presenza di un’apostrofe ad Atene mostrerebbe che la parte finale dell’Edipo euripideo trattava del rifugio del protagonista in quella città dopo l’accecamento54. Il suggerimento implicito dei commentatori menandrei è stato sviluppato nelle sue conseguenze da Lamberto Di Gregorio, che ha introdotto il concetto decisivo del ‘cambio di scena’:

Nel quinto ed ultimo episodio la scena, che finora aveva avuto luogo a Tebe e rappresentava il palazzo di Laio, doveva con ogni probabilità cambiare, come sembra richiedere il P. Bodmer 25: il teatro dell’azione diventava Atene. (…) [Ne]i vv. 325‑326 della Samia menandrea (…) è da vedere verosimilmente il saluto di Edipo alla terra di Cecrope55.

Per spiegare questo approdo di Edipo ad Atene non si vede altro modo che scorgervi l’esito del suo esilio da Tebe. Se tale ipotesi cogliesse nel segno, bisognerebbe ammettere che una delle colonne portanti della trama di OC – l’esilio risolutore in terra attica –, finora ritenuta invenzione o comunque elaborazione personale di Sofocle (vd. supra n. 44), si troverebbe anticipata56, anzi già concretamente inscenata nell’Edipo euripideo. Davanti ad una conseguenza di tale portata, altri studiosi hanno preferito sminuire l’implicazione ‘ateniese’ di fr. 554b K. Martin Cropp e – in maniera apparentemente indipendente – Herman van Looy hanno proposto di modificare il Κεκροπίας tràdito dai papiri della Samia in

53 Che fossero nessi dal sapore tragico gli studiosi avevano già visto prima della scoperta del Papiro Bodmer XXV con la rivelatrice nota marginale (i trimetri erano già noti dall’inizio del Novecento, perché presenti su un altro testimone papiraceo della Samia, il cd. Papiro Cairense: edizione in LEFEBVRE 1911, i due versi in esame a p. 37), vd. la discussione in BARIGAZZI 1965, 121‑122. Per il dettato della prima apostrofe vd. infra n. 58; per ταναὸς αἰθήρ cf. E. Or. 322 (lyr.) τὸν, ταναὸν αἰθέρ᾽. 54 GOMME/SANDBACH 1973, 577: «It seems then that ὦ πόλισμα Κεκροπίας χθονός κτλ. is a quotation from Euripides’ Oedipus, and that the latter part of that play dealt with Oedipus’ refuge in Athens after his blinding (cf. perhaps frag. 98 Austin = Stob. iv. 5. 11, frag. 1049 Nauck [è il fr. 554a K., vd. infra n. 63 N.d.A])»; in questa direzione e con rimando a questa nota anche KANNICHT 2004, 582 nel suo apparato ad loc.: «Oedipodis refugium Atheniense respici videtur». 55 DI GREGORIO 1980, 53 («cambiamento di scena»), 70, 88 e 91 (da qui la citazione). 56 L’altra possibile anticipazione euripidea di questo motivo, Ph. 1703‑1707, è oggetto di un annoso dibattito sull’autenticità (vd. ad es.AMERBEEK K 1984, 2 n. 2; KEARNS 1989, 208; GANTZ 1993, 296, 502; MASTRONARDE 1994, 626‑627, tutti con la bibliografia rilevante precedente); vd. anche supra n. 44. Edipo all’altare? 127

Καδμείας o Θηβαίας, trasformando così la presunta apostrofe alla «città della terra cecropia» in una più accettabile invocazione (di Edipo?) alla «città della terra tebana / cadmea»57. Il gioco paratragico di Menandro sarebbe quindi consistito nella sostituzione di un tipico aggettivo euripideo come Καδμεῖος o Θηβαῖος riferito a χθών58 con il nesso altrettanto euri ‑ pideo Κεκροπία χθών59, adatto all’ambientazione, questa sì sicura mente ateniese, della Samia. Un approccio altrettanto scettico riguardo all’ipotesi del cambio di scena, ma meno interventista sul testo del frammento adottano Rachel Aélion e Christopher Collard, ai quali si deve l’ipotesi che ὦ πόλισμα Κεκροπίας χθονός, ὦ ταναὸς αἰθήρ sia un’apostrofe in absentia, cioè pronunciata da Edipo al solo apprendere del suo imminente (ma comunque ancora futuro) esilio ateniese. Secondo Aélion, l’Edipo euripideo si concludeva in maniera simile alle Fenicie (cf. là i versi 1682‑ 1757) con la partenza di Edipo accompagnato da una figura femminile (stavolta Giocasta, non Antigone) da Tebe per Atene; Collard suppone invece che fosse un’apparizione della dea ex machina Atena ad indirizzare Edipo (e Giocasta con lui) verso la città di cui ella è eponima e patrona: in entrambi i casi, Edipo (o la stessa Giocasta?) avrebbe potuto accompagnare la partenza per, od accogliere la notizia dell’esilio con l’espressione di sollievo di cui fr. 554b conserva l’esordio60. Con questa lettura del frammento, la carica innovativa dell’ambientazione ateniese dell’OC sarebbe salva, per così dire, a metà: il tema dell’esilio ad Atene sarebbe stato già anticipato da Euripide (almeno) nell’Edipo61, la sua rappresentazione rimarrebbe opera di Sofocle.

57 CROPP in CROPP/FICK 1985, 85(b); VAN LOOY in JOUAN/VAN LOOY, 20022, 444 seguiti da LIAPIS 2014, 315, con riassunto dei possibili speakers e contesti: «Oedipus – assuming that he went into exile – would perhaps be bidding farewell to his native Thebes, or addressing it in his distress or reproachfully (…). Alternatively, another speaker (Creon?) could be apostrophizing the city of Thebes, perhaps in a call for Oedipus’s punishment»; vd. anche COLLARD 2005, 61 n. 23. 58 Cf. rispettivamente E. Tr. 243 (lyr.) πόλιν … Καδμείας χθονός, Ph. 1101 ἄστυ Καδμείας χθονός; 287 πύργωμα Θηβαίας χθονός, 776 τῇδε Θηβαίᾳ χθονί e vd. DIGGLE 1994, 443, con raccolta di tutti i passi rilevanti, a sostegno della propria tesi che Euripide prediliga l’aggettivo singolare con χθών, il genitivo plurale del popolo con πόλις o ἄστυ. 59 Cf. E. Hipp. 34 Κεκροπίαν … χθόνα; Ion 1571 Κεκροπίαν χθόνα, vd. anche infra n. 69. 60 AÉLION 1986, 52‑53 con n. 127 (Aélion pare ritenere genuini Ph. 1703‑1707, su cui vd. supra n. 56); COLLARD 2005, 61‑62 e vd. anche COLLARD/CROPP 2008, 6 («fr. 554b … may allude to Oedipus’ expectation of refuge in Athens») e 25 n. 1; menziona questa soluzione, senza favorirla, LIAPIS 2014, 315; più possibilista LIAPIS 2014, 356: «Oedipus (following an oracle?) may have set out to seek refuge in Athens (fr. 554b = A3 above?)». 61 Vd. COLLARD 2005, 62: «one would have to consider if Euripides was quite 128 Laura Carrara

In cerca di altre tracce lasciate dal supposto finale ateniese nei frammenti superstiti dell’Edipo è andato il più convinto assertore di questa tesi, Lamberto Di Gregorio. Probanti sarebbero, a suo avviso, i frammenti 549 K. ἀλλ’ ἦμαρ <ἕν> τοι μεταβολὰς πολλὰς ἔχει («un giorno solo davvero porta molti mutamenti») e 554 K. πολλάς γ’ ὁ δαίμων τοῦ βίου μεταστάσεις / ἔδωκεν ἡμῖν μεταβολάς τε τῆς τύχης («molti rivolgimenti di vita ha dato a noi il dio, e mutamenti del destino»): il radicale cambiamento di vita in essi alluso riguarderebbe il protagonista Edipo e sarebbe da identificare con il suo esilio ateniese62. Probante sarebbe anche il fr. 554a K., che secondo Di Gregorio verrebbe da una scena ateniese in cui «un personaggio (…) rivolge la parola all’eroe rifugiatosi presso l’altare, e gli dice che, se non è giusto, lo trascinerà via e lo punirà senza alcun timore degli dei»63 – viene spontaneo pensare alla turbolenta acco glienza riservata ad Edipo rifugiato nello ἱερὸς χῶρος dalle genti del luogo nell’Edipo a Colono. Anche a Collard il fr. 554a K. impone, o almeno suggerisce una scena di supplica all’altare, ambientata però a Tebe, con Creonte che starebbe minacciando Edipo seduto presso il βωμός di condurlo a processo64. La discussione sul finale ateniese dell’Edipo euripideo – inscenato, proiet ‑ tato nel futuro extra‑drammatico oppure solo abbaglio della critica dovuto al pastiche menandreo? – non può dirsi ancora interamente esau rita65.

Né può essere esaurita nello spazio di questo inserto, che si limita a qualche stringata considerazione sui due aspetti da cui a me pare dipendere la

deliberately playing for applause, using the myth version which Sophocles was later to exploit so fully in Oedipus at Colonus». Per l’altra possibile anticipazione euripidea di questo motivo, Ph. 1703‑1707, vd. supra n. 56. 62 DI GREGORIO 1980, 89‑90. La percezione che l’Edipo euripideo avrebbe dell’esilio (sia o non sia lui lo speaker dei due frammenti) è dunque positiva, paragonabile a quella dell’Edipo di OT (per cui la permanenza a Tebe, teatro del neo‑scoperto incesto, è divenuta insopportabile) ma opposta a quella dell’Edipo di OC (che invece ne soffre l’imposizione). 63 DI GREGORIO 1980, 91; vd. anche supra n. 54 a proposito del commento di Gomme e Sandbach. 64 COLLARD/CROPP 2008, 6 e 25 n. 1: «Perhaps Creon insisting on summary justice and exile for the already blinded Oedipus (now actually in sanctuary?) [enfasi mia, N.d.A], after his revelation as a parricide. For the general idea cf. Ion 1314‑ 9»; vd. anche COLLARD in COLLARD/CROPP/GIBERT 2004, 110 («Creon trying … to punish Oedipus further»), 131. Vd. anche MIKALSON 1991, 259 n. 33: «someone probably say this of Oedipus»; LIAPIS 2014, 353. 65 Nei due più recenti contributi sulla tragedia essa ha comunque perso di attualità: LIAPIS 2014, 315 n. 31 liquida l’ipotesi di Di Gregorio come ‘unwarranted’, FINGLASS 2017 non ne fa menzione. Edipo all’altare? 129

decisione in merito66. Prioritaria è, a mio avviso, l’opinione che si ha sulla possibilità che un fenomeno già in sé non frequente in tragedia classica come il cambio di scena avvenisse in un punto avanzato dell’azione, poco prima della fine. Ciò è stato respinto come «unthinkable» per l’Edipo, perché «unparalleled», da Collard67; è vero che nel caso più celebre di cambio di scena, le Eumenidi di Eschilo, lo spostamento da Delfi ad Atene avviene già al v. 235 – eppure non va dimenticato che, dello stesso Eschilo, esistette anche un dramma ‘mobile’ come le perdute Etnee, per cui i change of settings attestati sono una mezza dozzina, disposti lungo tutta l’opera68. Inoltre, l’idea che l’Edipo euripideo arrivasse ad Atene solo verso la fine del dramma è, a ben pensarci, un mero derivato logico del fatto che il soggiorno ateniese, in questa versione del mito, è la conclusione cronologica delle sue peripezie; tuttavia, una volta ammesso il trasferimento, poco o nulla impedirebbe di conferire maggior sviluppo drammatico all’episodio ateniese, facendogli occupare più che la sola scena finale. In secondo luogo, decisiva è la questione di esistenza, distribuzione e/o frequenza in tragedia di apostrofi a località (e, secondariamente, a persone) lontane dalla percezione sensoriale concreta del parlante, che è quanto accadrebbe secondo Aélion e Collard per ὦ πόλισμα Κεκροπίας χθονός in fr. 554a K. Fuori campo mi pare invece porsi la soluzione congetturale di Cropp e van Looy, la quale rinuncia con troppa leggerezza ad una genuina vox euripidea come Κεκρόπιος per abbracciare la tesi certamente difficilior della parodia menandrea. Può essere che Menandro fosse tanto intimo della lingua euripidea da averne individuato la predilezione per Κεκρόπιος69 e da averne fatto uso parodico, ma resta il fatto che, se non fosse per il problema del setting, nessuno mai avrebbe sospettato dell’aggettivo.

66 Altri argomenti come la lettura in chiave ‘avvenuto esilio ad Atene’ dei frr. 549 e 554 K. (così Di Gregorio, vd. supra n. 62) sono destinati a restare ancillari, perché non immuni dal rischio del circolo vizioso: tali brani gnomici ammettono svariate collocazioni e non è lecito estrarre (solo) da loro quod demonstrandum est. 67 Rispettivamente OLLARDC in COLLARD/CROPP/GIBERT 2004, 110 e COLLARD 2005, 61. 68 Vd. POLI PALLADINI 2001, 289‑296. In A. Eu. 235 le prime parole di Oreste neo‑ arrivato ad Atene sono un’invocazione alla dea epicorica (ἄνασσ’ Ἀθάνα), a far subito chiarezza sul nuovo setting: ὦ πόλισμα Κεκροπίας χθονός in fr. 554a K. avrebbe analoga funzione. Sul cambio di scena in tragedia vd. le analisi di DI BENE‑ DETTO/MEDDA 1997, 90‑91, 93, 103‑105, 115. 69 Oltre ai già citati (vd. supra n. 59) Hipp. 34 e Ion 1571 (con χθών), cf. per il genitivo Κεκροπίας in uso quasi sostantivato Supp. 658, El. 1289, fr. 481, 10 K. (Melanippe Sophé) nonché Ion 936 Κεκροπίων πετρῶν (‑ίας πέτρας L); per il preciso referente geografico vd. DIGGLE 1994, 73: «Cecropia was felt to be limited to Athens, as centered on the Acropolis». Fuori dal corpus euripideo Κεκρόπιος è scarsamente attestato (cf. quasi solo Strab. 9, 1, 20, 5 Κεκροπία Τετράπολις). 130 Laura Carrara

Limitandosi allo specifico peso probatorio di fr. 554a K. per la tesi ateniese, bisogna distinguere, a mio avviso, tra due questioni ben diverse. Se si dimostrasse che questo lacerto può provenire unicamente, o almeno di preferenza, da una ‘scena all’altare’ reale ed agita, allora esso militerebbe effettivamente (ma il condizionale è d’obbligo, vd.infra ) più a favore della soluzione ateniese che di quella tebana. È, infatti, difficile immaginare che Creonte, a tu per tu con Edipo scoperto incestuoso e rifugiatosi presso un βωμός, minacciasse di non riconoscergli la protezione divina e di sottoporlo invece a processo al modo ottativo‑condizionale (3 πρὸς τὴν δίκην ἄγοιμ’) – come se si trattasse di ipotesi accademica e non di diretta intimidazione (si aspetta, insomma, piuttosto l’equivalente dell’indicativo futuro «ti condurrò a processo»)70. Se di ragionamento ipotetico si tratta, allora è più logico assegnarlo ad un personaggio che, visto l’ἱκέτης presso l’altare ma ancora all’oscuro della sua identità e della sua storia, ragioni ad alta voce anche sull’eventualità estrema di consegnare il nuovo venuto al giudizio umano nel caso questi si riveli un usurpatore della protezione divina (ma anche – non è forse impossibile supplire così la parte di argomentazione presumibilmente precedente – disposto a lasciarlo in loco nel caso si scoprisse averne diritto). Un argomento del genere non stonerebbe sulle labbra di un Abitante di Colono ‘in salsa euripidea’, cioè non preso da terrore religioso come il suo pendant sofocleo dal fatto puro e semplice che Edipo stia su suolo sacro ma illustrante in maniera raziocinante, una volta avvistato il supplice, entrambe le vie di comportamento che gli si dischiudono (corrispondenti alle due posizioni opposte nel dibattito etico contemporaneo, vd. supra § 2). Questa lettura del frammento può avere un suo fascino, ma mal si concilia con la sua sistemazione da parte di Stobeo in un capitolo dedicato all’azione di go ‑ verno di un ἄρχων (vd. supra § 1): la definizione di ἄρχων è difficilmente compatibile con la figura di un passante casuale indigeno della stessa categoria del Coloniate di Sofocle71. La questione fondamentale è l’altra, cioè se il fr. 554a K. presupponga per sé preso, e quindi imponga alla ricostruzione della trama della sua tragedia, una scena dell’altare concretamente agita. La risposta è negativa72:

70 Non vede in ciò invece difficoltà LIAPIS 2014, 353: «It is even possible that he [scil. Creon] is attempting to justify (γάρ) his dragging the suppliant off the altar at which the latter had taken refuge». 71 A meno di non credere che il primo ad incontrare Edipo supplice ad Atene fosse, nell’Edipo di Euripide, l’ἄρχων di quella terra in persona, un ‘diversamente pio’ (rispetto al suo omonimo diOC ) Teseo – ma ci si perde in speculazioni. 72 Contra LIAPIS 2014, 353: «The fragment evidently comes from a scene Edipo all’altare? 131 se si tiene per fermo l’accostamento stobeano del frammento alla condotta di un ἄρχων, il candidato più verosimile resta Creonte, in bocca al quale i quattro versi funzionano bene, come già intravisto da Aélion (vd.supra n. 48), da auto‑caratterizzazione tesa a conferire credibilità alla propria azione nello scontro con o su Edipo. Approfondendo questa linea esegetica, il Gedankengang sotteso al frammento e verosimilmente sviluppato dal locutore nei versi perduti precedenti andrebbe dunque riassunto così: « tant’è vero che strapperei dall’altare degli dei i supplici se κακοί». Si tratterebbe di un’esternazione audace su un tema sensibile e tabuizzato, mirante a non lasciar dubbi sul fatto che anche l’altrettanto delicata vicenda di Edipo parricida ed incestuoso sarà presa di petto dal parlante con efficacia e senza tentennamenti. Il Creonte dell’Edipo euripideo verrebbe quindi ad essere un’incarnazione dell’implacabile ‘ragion di stato’, per lui feticcio da soddisfare ad ogni costo, in maniera non dissimile dal suo omonimo nell’Antigone (cf. ad es. in quella tragedia la sua celebre sticomitia con Antigone ai vv. 508‑525 e la ῥῆσις ad Emone ai vv. 639‑680). Un ulteriore indizio a favore della, o perlomeno compatibile con la lettura di fr. 554a K. come esposizione di un casum fictum è anche la vaghezza in cui è lasciato il terzo polo dell’azione oltre a persecutore e perseguitato, cioè il divino: non è parola di una particolare divinità il cui altare sia qui al centro della scena e circondato dai contraenti; si tratta genericamente di ‘dei’73 (3 ἂν οὐ τρέσας θεούς) che lo speaker direbbe di non voler rispettare se mai dovesse trovarsi in quella situazione. Se si accetta questa interpretazione, non c’è bisogno né ragione di ritenere il fr. 554a K. – in questo allora differente dal locus similis dello Ione (brano che, nonostante il tenore apparente di ‘tirata’ generale, proviene da una concreta scena dell’altare, con Creusa avvinghiata al βωμός di Apollo, vd. supra § 2) – pronunciato in presenza di una vera ἱκεσία. Così, quand’anche anche la ‘regola’ posta da Vaios Liapis per condannare il fr. 554a K. come spurio fosse giusta – che in tragedia greca si trovano sì tentativi di rimozione di supplici dall’altare, ma mai commenti espliciti in merito da parte di chi li compie, come se l’ammissione fosse più empia del fatto in sé –,74 non avrebbe qui rilevanza, perché la costellazione è diversa. Con il fr. 554a K. si è piuttosto in presenza di un manifesto di efficienza

[enfasi mia, N.d.A] where a person of authority (Creon?) rebukes a suppliant (Oedipus?), claiming that the latter has no right to the god’s protection». 73 Su questo plurale vd. anche MIKALSON 1991, 74‑75 con nn. 26 e 31. 74 LIAPIS 2014, 353; contra FINGLASS 2017, 24: «I see no reason to posit such a rule». 132 Laura Carrara governativa (vd. supra) oppure anche (le due cose non si escludono) di arroganza religiosa di uno speaker sinceramente convinto di non dover aver alcun timore gli dei perché giuste sono le sue opere75.

4. Conclusioni

Dopo la presentazione di testo e testimoni del frammento euripideo 554a K. (§ 1), questo contributo si è soffermato sul retroterra culturale e cultuale del brano e sui due passi ad esso simili nella restante produzione del poeta (Ion 1312‑1319, Heracl. 254‑260, § 2) e ha argomentato che: (a) il motivo del ‘colpevole supplice in spazio sacro’ comunemente associato alla vicenda di Edipo per il tramite dell’Edipo a Colono di Sofocle è già evocato in nuce nel fr. 554a K. di Euripide, che proviene da una tragedia intitolata Edipo (§ 3.1); (b) un giusto apprezzamento della relazione esistente tra l’Edipo a Colono ed il frammento euripideo in esame passa da una corretta ricostruzione della collocazione di quest’ultimo nel dramma di provenienza, per la quale continua a dover essere preferita la lettura ‘realpolitica’ già della critica meno recente rispetto all’interpretazione moderna che deduce da questo solo frammento una concreta scena di supplica all’altare con protagonista Edipo (§ 3.2); (c) il fr. 554a K. fa poco o nulla per suffragare la tesi di un finale ateniese dell’Edipo di Euripide, avanzata da alcuni studiosi dopo la scoperta del papiraceo fr. 554b K.: l’inquadramento di fr. 554a K. all’interno di un argomento teorico (pur da leggere in relazione con accadimenti scenici concreti) immunizza dalla tentazione di schiacciare l’azione dell’Edipo di Euripide su quella dell’Edipo a Colono, ipotizzando anche per il primo dramma quel che già si trova nel secondo, cioè un episodio con Edipo ‘all’altare’ e per di più ad Atene (§ 3.2).

Le osservazioni qui offerte su testo e contesto di fr. 554a K., seppur non conclusive, avranno avuto almeno il merito di attirare l’attenzione su una pluralità di scenari ed aspetti diversi, contribuendo così all’abbandono di quell’approccio tardo‑romantico che voleva udire in ogni brano frammentario soltanto la ‘voce del poeta’ in conflitto insanabile con la

75 Così secondo un’idea di Martin Cropp riportata da FINGLASS 2017, 24 n. 33 e basata su S. Ant. 280‑289. Nel Creonte dell’Antigone convivono entrambe le dimensioni, anzi l’una trova sostegno nell’altra. Edipo all’altare? 133 società a lui contemporanea ed i valori da questa condivisi76 e sensibiliz ‑ zando per una lettura polifonica della tragedia greca77. Avranno inoltre mostrato che – se non si vuole (come in effetti non si deve) credere ad una messa in scena diretta del motivo di ‘Edipo all’altare’ nell’Edipo euripideo – l’unica alternativa possibile non è espellere il frammento dal novero dei resti genuini del dramma78; si può anche tentarne una lettura coerente con quanto par di poter dedurre dalle altre evidenze disponibili sui personaggi di Edipo e Creonte e sui loro rapporti reciproci. Oltre a questo è difficile procedere: a proposito dell’Edipo, resta valido quanto scriveva ormai venticinque anni Timothy Gantz: «Obviously we would give much to have the conclusion, so that we might see exactly what the play intended with such characters»79.

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76 Così NESTLE 1901, 120: «Von der bloß theoretischen Betrachtung dieser Einrichtung [scil. la critica alla supplica in Ion 1312‑1319] erhebt sich der Dichter zu fast revolutionären Auflehnung gegen dieselbe im Fr. 1049»; SOLMSEN 1975, 75: «Elsewhere (fr. 1049) a less inhibited speaker is willing to take justice into his own hands by removing the guilty person from the altar. Evidently, in a conflict between morality and established religion, the latter must give way». 77 Così, correttamente, IKALSONM 1991, 259 n. 33: «since we know nothing of the speaker or the context, we cannot take this as Euripidean criticism of popular religion. It may well, as in the Ion, turn out to be exactly the opposite». 78 Così LIAPIS 2014, 355. 79 GANTZ 1993, 500. 134 Laura Carrara

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MATTIA DE POLI (UNIVERSITÀ DI PADOVA)

1. La scena di riconoscimento: un tentativo di definizione

Nelle tragedie attiche, conservate per tradizione diretta in forma integrale, l’individuazione della scena di riconoscimento risulta complicata per due motivi: non è una delle «parti quantitative» della tragedia, elencate da Aristotele nella Poetica (1452b 14‑27), e non coincide né con una di esse né con la scena, tipica del teatro moderno, delimitata dall’ingresso o dall’uscita di uno o più personaggi1. Inoltre, non occupa una posizione fissa all’interno della struttura complessiva e talvolta presenta caratteristiche formali differenti. In effetti, sempre nella Poetica Aristotele si sofferma a più riprese sull’anagnorisis2, ma egli la considera come un processo, come un elemento della trama ovvero del mythos, non come una componente strutturale della rappresentazione teatrale. Alcune sue osservazioni al riguardo risultano, comunque, utili al tentativo di descrivere la scena di riconoscimento. In particolare, se Aristotele definisce il riconoscimento come il «volgere dall’ignoranza alla conoscenza» (1452a 29‑31 ἀναγνώρισις δέ, ὥσπερ καὶ τοὔνομα σημαίνει, ἐξ ἀγνοίας εἰς γνῶσιν μεταβολή), la scena di ricono ‑ scimento è quella parte del dramma in cui tale sviluppo si concretizza: è necessario che almeno due personaggi siano presenti contemporaneamente nello spazio scenico e che almeno uno di essi ignori l’identità dell’altro; se entrambi ignorano l’identità altrui, di solito uno dei due supera lo stato di igno ranza in modo accidentale; chi sa, cerca quindi di portare l’inter ‑ locutore allo stesso livello di conoscenza, facendo ricorso a dimostrazioni di diverso tipo; infine, i due personaggi esprimono la gioia per la nuova consapevolezza acquisita e altri sentimenti, come sorpresa e incredulità dopo una lunga attesa oppure la paura di perdere la persona appena ritrovata.

1 Cf. TAPLIN 1977, 49‑60. 2 Arist. Po. 1450a 33‑35, 1452a 12‑22, 1452a 30‑1452b 8, 1453b 27‑1454a 9, 154b 19‑ 1455a 21. 138 Mattia De Poli

La scena di riconoscimento così intesa può essere individuata in sette diverse tragedie di Eschilo, Sofocle ed Euripide tra quelle conservate dalla tradizione manoscritta e può essere ridotta ad uno schema elementare, variamente declinato in rapporto alla trama specifica, ma sostanzialmente articolato in due momenti: prima l’“inchiesta” o riconoscimento in senso proprio, poi il “ricongiungimento”. Affine alla scena di riconoscimento è la scena di ricongiungimento. In alcune tragedie i personaggi non hanno bisogno di riconoscersi ma semplicemente si ritrovano dopo un periodo più o meno lungo di separazione ed esprimono sorpresa, incredulità e gioia con modalità simili a quelle del “ricongiungimento” nelle scene di riconoscimento: è il caso di e Alcesti nel finale dell’Alcesti (1072‑1158) o di Giocasta e Polinice nel primo episodio delle Fenicie (261‑382).

TRAGEDIE CON SCENA DI RICONOSCIMENTO [O RICONGIUNGIMENTO]3

ESCHILO SOFOCLE EURIPIDE 458 Coefore 438 [Alcesti] 433 (?) Egeo 425‑413 Melanippe prigioniera 423‑422 Cresfonte 423‑416 Elettra 420‑409 Elettra 415 Alessandro 414‑412 Ifigenia fra i Tauri Elena Ione 411‑408 Antiope Ipsipile 410‑409 [Fenicie] 408 (?) Alcmeone a Corinto

3 In grassetto sono indicate le tragedie euripidee, che verranno trattate in seguito. La cronologia delle opere è discussa da CARPANELLI 2005 (per Euripide) e da AVEZZÙ 2003 (in generale), nonostante la datazione di alcuni drammi resti particolarmente controversa, come mostrano le edizioni dei testi frammentari e alcuni studi specifici. La scena di riconoscimento nelle tragedie frammentarie di Euripide 139

2. Alcune osservazioni sulle scene di riconoscimento nelle tragedie attiche integrali

In generale, nella fase dell’inchiesta i personaggi si esprimono esclusiva‑ men te in trimetri giambici recitati e la dimostrazione dell’identità indivi duale può prevedere il ricorso ad uno o più oggetti o il coinvol gi ‑ mento del terzo attore come garante o testimone di un evento4. Occasionalmente c’è anche un quarto personaggio che resta una presenza muta, come Pilade nell’Elettra di Euripide5. Il ricongiungimento ha subìto dei cambiamenti nel corso del tempo ma si caratterizza anche per alcune costanti: in questa parte della scena di riconoscimento si rileva un progressivo sviluppo delle parti cantate, eseguite dagli attori in forma di amebei o monodie6, e sono generalmente presenti manifestazioni di gioia e di affetto, sia verbali, come il reiterato impiego dell’aggettivo φίλος, «caro», nelle varie forme del vocativo, spesso al grado superlativo (ὦ φίλτατε / ὦ φιλτάτη, «o carissimo / o carissima»), sia gestuali, come l’abbraccio, che di norma viene suggerito da espressioni come ἔχω σε, «ti stringo (fra le braccia)»7. I confini della scena di riconoscimento non coincidono necessariamente con l’entrata e l’uscita di qualche personaggio, nonostante a volte tali movimenti degli attori risultino comunque significativi. Nelle Coefore la scena di riconoscimento inizia dopo un canto corale infraepisodico, quando Elettra scopre alcuni segni insoliti presso la tomba di Agamennone (164‑ 166), mentre Oreste insieme a Pilade è ancora nascosto alla vista della sorella; nell’Elettra di Sofocle l’apostrofe che il Corifèo rivolge ad Elettra (1171‑1173), menzionandone il nome, e il conseguente disorientamento di Oreste segnano il passaggio dalla scena dell’inganno dell’urna a quella del riconoscimento. In effetti, solo nelle tragedie di Euripide l’inizio della scena di riconoscimento tende a coincidere con l’ingresso di un personaggio (il vecchio Pedagogo nell’Elettra, Ifigenia nell’Ifigenia fra i Tauri, Elena nell’o ‑

4 Questo compito è affidato al vecchio Pedagogo nell’Elettra di Euripide, a Pilade nell’Ifigenia fra i Tauri e a un Servo nell’Elena. 5 Pilade è spettatore silenzioso della scena di riconoscimento anche nelleCoefore di Eschilo e nell’Elettra di Sofocle. 6 Fanno eccezione solamente le Coefore di Eschilo, dove i vv. 233‑245 sono ancora trimetri giambici recitati, e l’Elettra di Euripide, in cui l’iniziale scambio di battute fra Elettra e Oreste in trimetri giambici recitati (578b‑584) cede il posto anche in questo caso al canto, ma la voce che canta è quella del Coro (585‑595). 7 Questa spia lessicale del ricongiungimento è assente nella scena di riconoscimento delle Coefore di Eschilo. 140 Mattia De Poli monima tragedia), ma l’arrivo di un ulteriore personaggio (Oreste insieme a Pilade nell’Elettra, il Messaggero nell’Elena) non comporta automa‑ ticamente il passaggio ad una scena diversa8. E nello Ione, al contrario, la scena di riconoscimento inizia con l’uscita della Pizia. Il transito verso la scena successiva, che spesso si focalizza sulla pianificazione di un inganno finalizzato alla vendetta o alla fuga, è suggerito in modo più o meno esplicito dalle parole di uno dei personaggi direttamente coinvolti nel riconoscimento (Oreste nelle Coefore di Eschilo e nell’Elettra di Sofocle e di Euripide). Nell’Ifigenia fra i Tauri l’esortazione a pensare alla salvezza viene pronunciata da un personaggio più marginale, Pilade, e il suo monito è preceduto da un breve commento del Corifèo, racchiuso in un distico; altre volte, invece, basta l’osservazione del Corifèo (nello Ione e nell’Elena). Tuttavia, il passaggio dalla scena di riconoscimento alla scena di pianificazione non è sempre immediato. Le parole di Pilade nell’Ifigenia fra i Tauri, ad esempio, non sortiscono l’effetto atteso, non subito: fratello e sorella si dilungano ancora a ricordare le sventure personali e familiari, trovando in esse finalmente validi motivi per desiderare la salvezza e progettare la fuga. Questa sezione della tragedia, in cui i personaggi cercano di acquisire dall’interlocutore maggiori informazioni sul loro trascorso e sulla situazione presente, è chiusa nuovamente da un commento del Corifèo e si configura come un prolungamento della scena di riconoscimento. Il suo contenuto e la sua forma ricordano, in particolare, la fase dell’inchiesta e per questo può essere definita “supplemento d’inchiesta”. Nell’Elena Menelao inizia a vagliare le possibilità di riprendere la rotta verso Sparta insieme alla moglie appena ritrovata solo dopo che i due coniugi si sono scambiati delle informazioni sulle loro disavventure più recenti, senza che la sticomitia venga interrotta in alcun modo, e questo “supplemento d’inchiesta” si realizza dopo un ulteriore ampliamento della scena di riconoscimento, in cui anche il Servo viene messo a parte della scoperta appena compiuta da Elena e Menelao e della loro gioia9. Ione, infine, nell’omonima tragedia chiede a Creusa conferme in merito all’identità del padre e i suoi dubbi verranno fugati definitivamente solo dall’intervento di Atena come dea ex machina.

8 Qualcosa di analogo si verifica anche nella scena di riconoscimento delle Coefore, nel corso della quale Oreste e Pilade escono dal nascondiglio da cui, senza essere visti, hanno osservato e ascoltato Elettra (212). 9 Un’espansione della scena di riconoscimento, simile a questa, si trova anche nell’Elettra di Sofocle, in seguito all’uscita dal palazzo del Vecchio pedagogo, di cui la protagonista ignora l’identità. La scena di riconoscimento nelle tragedie frammentarie di Euripide 141

Indipendentemente dall’inserimento di simili espansioni, la scena di riconoscimento non occupa una posizione fissa all’interno della tragedia. Di solito, quando è seguita da una scena di pianificazione, si trova nella parte iniziale del dramma, come nelle Coefore, o centrale, come nell’Elettra di Euripide, nell’Elena e nell’Ifigenia fra i Tauri: fa eccezione l’Elettra di Sofocle, dove Oreste e il vecchio Pedagogo avevano già progettato la mor‑ te di Clitemnestra ed Egisto all’inizio della tragedia e la scena di ricono‑ scimento, inserita in prossimità dell’esodo, sembra rimandare tempora ‑ neamente l’attuazione del piano. Nello Ione, invece, la scena di riconosci‑ mento si trova proprio nell’esodo e costituisce il momento culminante della vicenda drammatica.

3. Le tragedie frammentarie di Euripide, contenenti una scena di ricono ‑ scimento

Nell’ambito della produzione tragica euripidea è possibile ipotizzare la presenza di una scena di riconoscimento, simile a quelle finora considerate, in almeno sette opere frammentarie10: Egeo, Cresfonte, Melanippe prigioniera, Alessandro, Antiope, Ipsipile, Alcmeone a Corinto. Note solo per tradizione indiretta o grazie a qualche ritrovamento papiraceo, esse coprono un arco cronologico pari a circa un trentennio, almeno secondo la datazione più plausibile, ed ampliano così lo spettro d’osservazione su Euripide, che altrimenti risulta limitato a un decennio, se non a un misero quinquennio. Di seguito verranno analizzate tre tragedie, che risalgono ad un periodo precedente (Egeo), contemporaneo (Alessandro) o successivo (Ipsipile) rispetto a quello in cui si concentranoElettra , Ifigenia fra i Tauri, Elena e Ione. Infine, si cercherà di delineare un quadro complessivo delle scene di riconoscimento presenti nelle tragedie attiche, integrando i dati ricavabili anche dalle opere euripidee frammentarie.

4. L’Egeo: lo schema “inchiesta” – “ricongiungimento”

In assenza di una hypothesis, la trama dell’Egeo di Euripide può essere ricostruita solo a partire da fonti mitografiche: gli studiosi ne hanno individuato principalmente tre – uno scolio all’Iliade, un passo della Biblio ‑

10 I frammenti delle tragedie di Euripide sono citati secondo l’edizione di KANNICHT 2004. Per i frammenti delle tragedie di Sofocle, si fa riferimento all’edizione di RADT 1999. 142 Mattia De Poli teca di Apollodoro (Epit. 1, 4‑6) e uno della Vita di Teseo di Plutarco (12, 2‑6) – che per certi aspetti sono fra loro discordanti. D’altra parte, è noto che anche Sofocle compose una tragedia sulla stessa vicenda di quella euripidea. Lo scolio a Omero, Iliade 11, 741, attribuito al grammatico Didimo11, presenta alcuni fatti precedenti l’arrivo di Teseo ad Atene, che riguardano in particolare il personaggio di Medea: «Medea era figlia di Eeta e moglie di Giasone. Dopo aver ucciso i figli, giunse esule ad Atene e visse insieme ad Egeo, figlio di Pandione». In questo contesto si colloca la vicenda ateniese di Teseo, «figlio di Etra e di Egeo, giunto là da Trezene per il riconoscimento del padre»: Medea inizia a tessere le sue trame criminali contro di lui e «convince Egeo a dare a Teseo un veleno mortale, asserendo che egli era venuto per cospirare contro il suo regno». Il progetto di Medea si sta per compiere ma la morte del giovane viene scongiurata dal suo riconoscimento da parte del padre: «proprio quanto Teseo si accingeva a bere», Egeo riconobbe «la spada e i calzari, che aveva lasciato a Trezene come oggetti per il riconoscimento (del figlio)»: allora «rovesciò il veleno e scacciò Medea dall’Attica». Nel raccontare la vicenda, dunque, lo scoliasta aggiunge un’altra informazione sull’antefatto, ricordando con una breve analessi, non più di un inciso, che Egeo aveva lasciato a Trezene alcuni oggetti (γνωρίσματα) che gli avrebbero consentito di riconoscere l’even ‑ tuale figlio partorito da Etra. D’altra parte, l’espressione ἐπὶ τὸν τοῦ πατρὸς ἀναγνωρισμὸν può essere intesa in due modi diversi, a seconda che si attribuisca al genitivo τοῦ πατρὸς un valore soggettivo («perché il padre lo riconoscesse») oppure oggettivo («per riconoscere suo padre»): nel primo caso si può supporre che Teseo conosca fin dall’inizio l’identità del padre, mentre nel secondo caso si tratterebbe inevitabilmente di un ricono ‑ scimento reciproco. È stato notato che, rispetto a questa versione dei fatti, il testo di Apollo ‑ doro12 presenta almeno una variante significativa. Seguendo i consigli di

11 Schol. in Hom. Il. 11, 741 ἣ τόσα φάρμακα ᾔ δη: Μήδεια ἐγένετο Αἰήτου μὲν θυγάτηρ, Ἰάσονος δὲ γυνή. αὕτη μετὰ τὴν ἀπεργασθεῖσαν τεκνοκτονίαν φυγὰς εἰς Ἀθήνας ἀφίκετο καὶ συνῴκησεν Αἰγεῖ τῷ Πανδίονος. κἀκεῖ Θησέα τὸν ἐξ Αἴθρας γενόμενον τῷ Αἰγεῖ, ἐπὶ τὸν τοῦ πατρὸς ἀναγνωρισμὸν ἐκ Τροιζῆνος ἀφικόμενον, πείθει τὸν Αἰγέα φάρμακον αὐτῷ δοῦναι θανάσιμον, ἐπίβουλον αὐτοῦ τῆς βασιλείας εἰποῦσα παραγίνεσθαι. πεισθεὶς δὲ Αἰγεὺς φάρμακον ἔδωκε παραγενομένῳ τῷ παιδί· μέλλοντος δὲ καταπίνειν ἐπιγνοὺς τό τε ξίφος καὶ τὰ ὑποδήματα (ταῦτα γὰρ ἐν Τροιζῆνι γνωρίσματα κατέλιπεν) τὸ μὲν φάρμακον ἀφείλετο, τὴν δὲ Μήδειαν ἐξέβαλε τῆς Ἀττικῆς. οἰκήσασα δὲ αὕτη τὴν πλησίον Ἤλιδος Ἔφυραν πολυφάρμακον ἐποίησεν αὐτὴν ἐπονομασθῆναι. ἱστόρηται παρὰ Κράτητι (fr. 84 M.) AT. La scena di riconoscimento nelle tragedie frammentarie di Euripide 143

Medea, infatti, Egeo tenta di far morire Teseo due volte, in due modi diversi: prima «lo mandò ad affrontare il toro di Maratona» e, «dopo che Teseo lo ebbe ucciso, gli porse un veleno». La vicenda poi prevede il riconoscimento del figlio da parte di Egeo, che fa cadere la coppa dalle mani di Teseo, e il conseguente allontanamento di Medea, colpevole delle insidie ordite. Inoltre, nonostante le parole «riconosciuto dal padre» forniscano solo il punto di vista di Egeo, il racconto di Apollodoro sembra implicare un riconoscimento reciproco fra padre e figlio: Etra, tenendo fede alle disposizioni di Egeo13, si sarebbe limitata a consegnare a Teseo «il coltello e i sandali» (3, 15, 7 μάχαιραν καὶ πέδιλα) trovati sotto un macigno e, senza rivelargli l’identità del padre, ad inviarlo ad Atene, dove Egeo avrebbe riconosciuto il figlio grazie alla sola «spada» (τὸ ξίφος)14. Generalmente, si ritiene che questa “versione secondaria”, o “variante”, dipenda da una fonte tragica: così lascia supporre l’uso dell’avverbio αὐθημερινόν, che colloca entrambi i tentativi «nello stesso giorno» in ossequio all’unità di tempo che di solito caratterizza la tragedia attica. Lo scarto rispetto alla vicenda narrata dallo scolio omerico, indicata anche come “versione standard”, di solito viene attribuito dalla critica moderna all’originalità di Euripide15, ma nell’Egeo di Sofocle il fr. 25 κλωστῆρσι χειρῶν ὀργάσας κατήνυσε [Theseus] σειραῖα δεσμά, «dopo averli resi flessuosi (scil. dei ramoscelli) avvolgendoli come una matassa intorno alle mani, fece dei legacci da usare come una fune» descriverebbe la cattura del toro di Maratona da parte del protagonista: così queste parole vengono spiegate da Fozio16. Al contrario, nulla impedisce di supporre, in base agli

12 Apollod. Epit. 1, 4‑6 καθάρας οὖν Θησεὺς τὴν ὁδὸν ἧκεν εἰς Ἀθήνας. Μήδεια δὲ Αἰγεῖ τότε συνοικοῦσα ἐπεβούλευσεν αὐτῷ, καὶ πείθει τὸν Αἰγέα φυλάττεσθαι ὡς ἐπίβουλον αὐτοῦ. Αἰγεὺς δὲ τὸν ἴδιον ἀγνοῶν παῖδα, δείσας ἔπεμψεν ἐπὶ τὸν Μαραθώνιον ταῦρον. ὡς δὲ ἀνεῖλεν αὐτόν, παρὰ Μηδείας λαβὼν αὐθημερινὸν προσήνεγκεν αὐτῷ φάρμακον. ὁ δὲ μέλλοντος αὐτῷ τοῦ ποτοῦ προσφέρεσθαι ἐδωρήσατο τῷ πατρὶ τὸ ξίφος, ὅπερ ἐπιγνοὺς Αἰγεὺς τὴν κύλικα ἐξέρριψε τῶν χειρῶν αὐτοῦ. Θησεὺς δὲ ἀναγνωρισθεὶς τῷ πατρὶ καὶ τὴν ἐπιβουλὴν μαθὼν ἐξέβαλε τὴν Μήδειαν. 13 Cf. Apollod. 3, 15, 7 Αἰγεὺς δὲ ἐντειλάμενος Αἴθρᾳ, ὰν ἄρρενα γεννήσῃ, τρέφειν, τίνος ἐστὶ μὴ λέγουσαν. 14 Non si dice nulla in merito al ruolo del dio Poseidone nella vicenda, dopo che egli si accostò ad Etra la stessa notte in cui Egeo giacque con la giovane donna: cf. Apollod. 3, 15, 7. 15 Così ad esempio ancora LLOYD‑JONES 1996; JOUAN/VAN LOOY 1998; GUÉRIN 2015. 16 Phot. α 808: […] Σοφοκλῆς δὲ ἐν Αἰγεῖ <φησι> (fr. 25 R.) τὸν Θησέα στρέφοντα καὶ μαλάττοντα τὰς λύγους ποιῆσαι δεσμὰ τῷ ταύρῳ. Λέγει δὲ οὕτως· κλωστῆρσι χειρῶν ὀργάσας κατήνυσε σειραῖα δεσμά. L’allusione al toro di Maratona, presente nell’Egeo di Sofocle è stata rilevata da HAHNEMANN 1999 e 2003. 144 Mattia De Poli elementi disponibili, che Euripide abbia portato in scena la vicenda nella versione standard17. La trama della tragedia euripidea potrebbe essere alla base di un’altra fonte, la Vita di Teseo di Plutarco18, che segue la “versione standard” ma, rispetto allo scolio omerico, aggiunge alcuni dettagli relativi al carattere dei personaggi e alla situazione generale: per quanto riguarda l’antefatto, insiste sui disordini e sulle tensioni presenti in città e nel palazzo di Egeo; presenta il re come un anziano che teme i disordini politici; precisa che il tentativo di avvelenamento si inserisce nel contesto di un ἄριστον, un pasto offerto all’ospite. In questo caso, si dice chiaramente che Teseo «non ritenne opportuno rivelare per primo la propria identità», ma decise di «offrire a Egeo uno spunto per il riconoscimento» e, per tagliare della carne, utilizzò la μάχαιρα che permise al padre di capire. Anche in questo caso, dunque, nonostante Egeo avesse lasciato sotto il macigno a Trezene due oggetti, una spada e un paio di sandali (3, 7 ξίφος καὶ πέδιλα), come indicato nello scolio omerico (τό τε ξίφος καὶ τὰ ὑποδήματα), il riconoscimento è reso possibile solamente (o almeno principalmente) da uno di essi, un coltello (τὴν μάχαιραν)19. Rispetto al racconto di Apollodoro, d’altra parte, in questo caso è evidente che qui si tratta di un riconoscimento semplice, ovvero del riconoscimento di Teseo da parte di Egeo. Il racconto plutarcheo presenta il riconoscimento come la successione di due momenti: dopo aver riconosciuto il coltello e aver rovesciato la coppa con il veleno, Egeo prima interroga Teseo (ἀνακρίνας), poi lo abbraccia, lo accoglie con gioia, gli fa festa (ἠσπάζετο), due azioni che corrispondono sostanzialmente allo schema della scena di riconoscimento tragica, uno schema basato sulla sequenza “inchiesta” – “ricongiungimento”. Alla fine,

17 Cf. HAHNEMANN 2003, 213; COLLARD/CROPP 2008, 4, seppure con cautela. 18 Plut. Thes. 12, 2‑6 κατελθὼν δ’ εἰς τὴν πόλιν εὗρε τά τε κοινὰ ταραχῆς μεστὰ καὶ διχοφροσύνης, καὶ τὰ περὶ τὸν Αἰγέα καὶ τὸν οἶκον ἰδίᾳ νοσοῦντα. Μήδεια γὰρ ἐκ Κορίνθου φυγοῦσα φαρμάκοις ὑποσχομένη τῆς ἀτεκνίας ἀπαλλάξειν Αἰγέα συνῆν αὐτῷ. προαισθομένη δὲ περὶ τοῦ Θησέως αὕτη, τοῦ δ’ Αἰγέως ἀγνοοῦντος, ὄντος δὲ πρεσβυτέρου καὶ φοβουμένου πάντα διὰ τὴν στάσιν, ἔπεισεν αὐτὸν ὡς ξένον ἑστιῶντα φαρμάκοις ἀνελεῖν. ἐλθὼν οὖν ὁ Θησεὺς ἐπὶ τὸ ἄριστον, οὐκ ἐδοκίμαζε φράζειν αὑτὸν ὅστις εἴη πρότερος, ἐκείνῳ δὲ βουλόμενος ἀρχὴν ἀνευρέσεως παρασχεῖν, κρεῶν παρακειμένων σπασάμενος τὴν μάχαιραν ὡς ταύτῃ τεμῶν ἐδείκνυεν ἐκείνῳ. ταχὺ δὲ καταμαθὼν ὁ Αἰγεύς, τὴν μὲν κύλικα τοῦ φαρμάκου κατέβαλε, τὸν δ’ υἱὸν ἀνακρίνας ἠσπάζετο καὶ συναγαγὼν τοὺς πολίτας ἐγνώριζεν, ἡδέως δεχομένους διὰ τὴν ἀνδραγαθίαν. λέγεται δὲ τῆς κύλικος πεσούσης ἐκχυθῆναι τὸ φάρμακον ὅπου νῦν ἐν Δελφινίῳ τὸ περίφρακτόν ἐστιν· ἐνταῦθα γὰρ ὁ Αἰγεὺς ᾤκει, καὶ τὸν Ἑρμῆν τὸν πρὸς ἕω τοῦ ἱεροῦ καλοῦσιν ἐπ’ Αἰγέως πύλαις. La scena di riconoscimento nelle tragedie frammentarie di Euripide 145 inoltre, c’è spazio per un aition, simile ad altri presenti nelle tragedie di Euripide: il luogo dove Egeo ha rovesciato a terra il veleno è il Delfinio, un santuario di Apollo in cui storicamente ad Atene si giudicavano ed eventualmente venivano purificate le persone colpevoli di omicidio, che sostenevano di aver agito legittimamente. Purtroppo, i pochi frammenti noti dell’Egeo di Euripide non presentano alcun legame evidente con la scena di riconoscimento. Secondo alcuni studiosi, il fr. 6 τί γὰρ πατρῴας ἀνδρὶ φίλτερον χθονός; («un uomo, che cosa ha di più caro della patria?») esprimerebbe la gioia di Teseo in seguito al riconoscimento da parte del padre, verosimilmente nella fase del ricongiungimento20. In effetti, considerazioni simili a questa sono presenti nel primo episodio delle Fenicie, dopo che Giocasta e Polinice si sono ritrovati21, ma il loro incontro avviene all’inizio della tragedia e il figlio fa

19 Si noti che, in modo speculare, nel racconto di Apollodoro si menziona una μάχαιρα tra gli oggetti lasciati a Trezene da Egeo e uno ξίφος come oggetto effettivamente utile al riconoscimento. Nel testo di Plutarco il riconoscimento è strettamente legato al pasto offerto da Egeo all’ospite straniero: se si accetta che egli abbia basato il suo racconto sulla trama di una tragedia, bisogna ammettere che non è usuale che i personaggi tragici mangino in scena; d’altra parte, non è necessario immaginare che gli spettatori vedessero qualcuno banchettare, ma è sufficiente ipotizzare che l’ἄριστον venisse preparato e interrotto ancor prima di iniziare, come accade nel Ciclope, appena Polifemo si accorge dei nuovi arrivati, oppure nell’Alcesti, quando Eracle biasima il servo per la sua tristezza scoprendo così della morte della padrona di casa. Sarebbe sufficiente suggerire la circostanza attraverso alcuni oggetti di scena: possiamo supporre che Egeo facesse preparare un pasto in onore del suo ospite e che Teseo, appena arrivato in scena, accingendosi a tagliare la carne, mostrasse la spada, o meglio il coltello, la μάχαιρα lasciata da Egeo a Trezene. Cf. anche E. El. 493‑500, all'inizio della scena di riconoscimento. In alternativa, questa parte della vicenda poteva svolgersi in uno spazio extra‑scenico, come nello Ione, ma dobbiamo immaginare che poi, per qualche motivo, Egeo e Teseo arrivassero in scena. Per l’espressione ὡς ξένον ἑστιῶντα, cf. E. Alc. 765. Sul significato di ἄριστον, cf. E. Cyc. 214 e cf. USSHER 1978, 79‑80; O’SULLIVAN/COLLARD 2013, 160. 20 Cf. JOUAN/VAN LOOY 1998, 7. 21 Cf. E. Ph. 358‑360 Πο. ἀλλ’ ἀναγκαίως ἔχει / πατρίδος ἐρᾶν ἅπαντας· ὃς δ’ ἄλλως λέγει, / λόγοισι χαίρει, τὸν δὲ νοῦν ἐκεῖσ’ ἔχει (Polinice: «è inevitabile che chiunque ami la propria patria: chi dice altrimenti, si compiace di dirlo, ma la sua mente corre là»), 388‑389 Ιο. […] τί τὸ στέρεσθαι πατρίδος; ἦ κακὸν μέγα; / Πο. μέγιστον· ἔργῳ δ’ ἐστὶ μεῖζον ἢ λόγῳ (Giocasta: «Com’è essere privati della patria? Una grande rovina?», Polinice: «Una rovina enorme! Più grande di quanto dicano le parole»), 406‑407 Ιο. ἡ πατρίς, ὡς ἔοικε, φίλτατον βροτοῖς. / Πο. οὐδ’ ὀνομάσαι δύναι’ ἂν ὡς ἐστὶν φίλον (Giocasta: «A quanto sembra, gli uomini hanno molto a cuore la loro patria», Polinice: «Non si possono trovare parole per dire quanto l’abbiano a cuore!»). 146 Mattia De Poli tali affermazioni appena rimette piede nella sua città, nella sua patria. La trama dell’Egeo di Euripide sembra essere diversa: Teseo, quando arriva in Attica, sa che quella è la terra su cui regna suo padre ed è plausibile che il fr. 6 debba essere collocato all’inizio della tragedia, in una battuta pronun ‑ ciata verosimilmente dal giovane molto prima del suo riconoscimento da parte del re di Atene. Accettare laVita di Teseo di Plutarco come fonte principale per ricostruire la trama dell’Egeo di Euripide implica che in questa tragedia, databile agli anni ’30 del V secolo, non solo era presente una scena di riconoscimento, una tra le più antiche almeno nella produzione euripidea, ma anche che essa aveva queste caratteristiche: 1) era basata su un riconoscimento semplice, perché Teseo sa fin dal principio che Egeo è suo padre22; 2) coinvolgeva padre e figlio; 3) sfruttava un oggetto, la μάχαιρα; 4) rimediava a una situazione potenzialmente mortale per Teseo; 5) si articolava in due momenti: l’inchiesta e il ricongiungimento, sottolineato dall’abbraccio; 6) si inseriva nella trama in prossimità del finale, anche se non è possibile stabilire con sicurezza la sua posizione all’interno della tragedia23.

5. L’Alessandro: la sorpresa per una situazione inaspettata

I frammenti tragici euripidei conservati dalla tradizione indiretta non sono facilmente riconducibili all’inchiesta o al ricongiun gimento e in generale alla scena di riconoscimento, salvo – probabilmente – pochi casi. Uno di questi è il fr. 62 dell’Alessandro24, tragedia del 415:

22 Cf. JOUAN/VAN LOOY 1998, 7. 23 Secondo WELCKER 1839, 394, il testo di Plutarco, non facendo alcun riferimento alla cacciata di Medea, potrebbe conservare solo una parte della trama euripidea, che poteva prevedere anch’essa l’allontanamento di Medea da Atene. 24 Nel ricostruire la scena di riconoscimento, DI GIUSEPPE 2012, 172‑175, non si sofferma sul fr. 62, mentre riconduce il fr. 50 δούλων ὅσοι φιλοῦσι δεσποτῶν γένος, / πρὸς τῶν ὁμοίων πόλεμον αἴρονται μέγαν («gli chiavi che amano la genia dei padroni si attirano un’avversione grande da parte dei compagni») «all’interrogatorio del padre adottivo di Alessandro», da parte di Ecuba: il pastore si giustificherebbe così per il fatto di aver nascosto l’identità di Alessandro; tuttavia, siaOUAN J /VAN LOOY 1998, 63, che KANNICHT 2004, 186, ritengono che questo frammento sia riconducibile ad un agon logon. A proposito dell’originale proposta interpretativa di Di Giuseppe, cf. MAGNANI 2014, 151. Forse, tali parole alludono alla ὑπερήφανος συμβίωσις di Alessandro: in questo caso potrebbero essere pronunciate nel prologo da un personaggio che descrive l’antefatto della tragedia, oppure in un momento successivo La scena di riconoscimento nelle tragedie frammentarie di Euripide 147

Ἑκάβη, τὸ θεῖον ὡς ἄελπτον ἔρχεται θνητοῖσιν, ἕλκει δ’ οὔ ποτ’ ἐκ ταὐτοῦ τύχας.

Ecuba, la divinità giunge davvero inaspettata per i mortali e non estrae mai le sorti dallo stesso [vaso]25.

Il legame fra questo frammento e la scena di riconoscimento è stato talvolta trattato con sospetto dalla critica26; tuttavia, l’aggettivo ἄελπτον suggerisce un parallelo con i vv. 1510‑1511 dello Ione, pronunciati dal Corifèo proprio a conclusione della scena di riconoscimento:

Χο. μηδεὶς δοκείτω μηδὲν ἀνθρώπων ποτὲ ἄελπτον εἶναι πρὸς τὰ τυγχάνοντα νῦν

Co. Alla luce degli eventi attuali c’è speranza per tutto27.

Il legame tra il fr. 62 dell’Alessandro e la scena di riconoscimento di questa tragedia è ulteriormente suffragato dall’uso euripideo degli aggettivi ἄελπτος, ἀνέλπιστος e ἀδόκητος e dalle forme da essi derivate. Nelle tragedie integrali di Euripide, in cui è presente una scena di riconoscimento (Elettra, Ifigenia fra i Tauri, Elena, Ione) o anche soltanto di ricongiungimento (Alcesti, Fenicie), ἄελπτος, ἀνέλπιστος e ἀδόκητος sono variamente impiegati, ma sempre nell’ambito della scena di riconoscimento o di ricongiungimento, a sottolineare come la situazione scenica costituisca un inatteso risvolto positivo della vicenda, un risvolto insperato, che invita a non perdere mai la speranza.

da un personaggio, forse il padre adottivo, che riflette preoccupato sulle conseguenze che l’atteggiamento del giovane potrebbe avere o che tenta di ammonire il giovane a tenere un comportamento più consono ad un pastore. 25 DI BENEDETTO 1998, 108, intende: «la divinità non estrae mai le vicende (~ le sorti) dallo stesso bussolotto». In OLLARDC /CROPP/GIBERT 2004, 69, il fr. 62 viene tradotto: «… (divine action) never draws its outcomes from the same source». Il v. 2 del fr. 62 sembra sottintendere un’immagine simile a quella descritta in Hom. Il. 24, 527‑530: secondo le parole di Achille, nella dimora di Zeus sarebbero presenti due pythoi, due enormi vasi, che dispensano i beni e i mali agli uomini. 26 In COLLARD/CROPP 2008, 61, questi due trimetri giambici vengono collegati al racconto di un Messaggero, che annuncia le sorprendenti vittorie del giovane pastore, oppure alla scena di riconoscimento, senza una particolare preferenza. Tuttavia, cf. KANNICHT 2004, 193; JOUAN/VAN LOOY 1998, 57; DI BENEDETTO 1998, 107; TIMPANARO 1996, 62; HUYS 1986, 34‑35. 27 Letteralmente: «Alla luce degli eventi attuali nessuno dovrà mai ritenere che qualcosa non possa essere sperato». 148 Mattia De Poli

Nell’Alcesti Admeto sottolinea che il suo ricongiungimento con la moglie è un «prodigio insperato» (1123 Αδ. ὦ θεοί, τί λέξω; θαῦμ’ ἀνέλπιστον τόδε) e che la abbraccia «inaspettatamente» (1134 Αδ. ἔχω σ’ ἀέλπτως). Altrettanto «inaspettatamente» nell’Elettra la protagonista abbraccia il fratello Oreste, riapparso dopo molto tempo (578‑579 Ηλ. ὦ χρόνωι φανείς, / ἔχω σ’ ἀέλπτως); in precedenza, le parole con cui il vecchio Pedagogo aveva asserito di aver riconosciuto nello straniero il figlio di Agamennone erano suonate alle orecchie della giovane donna come «un’affermazione inattesa» (570 Ηλ. πῶς εἶπας, ὦ γεραί’, ἀνέλπιστον λόγον;). Nella monodia intonata alla fine della scena di riconoscimento dell’Ifigenia fra i Tauri la protagonista si interroga sulla possibilità che «un dio, un mortale o un evento incredibile» – come è stato il riconoscimento – indichi una via d’uscita da difficoltà che non sembrano lasciare scampo (895‑897 †τίς ἂν οὖν τάδ’ ἂν ἢ θεὸς ἢ βροτὸς ἢ / τί τῶν ἀδοκήτων / πόρον ἄπορον ἐξανύσας†). Nell’Elena Menelao definisce «imprevedibile» la storia dell’eidolon raccontata dalla moglie (585 Με. τίνος πλάσαντος θεῶν; ἄελπτα γὰρ λέγεις), la quale a sua volta ritiene «incredibile» il fatto di poter riabbracciare il marito (657 Ελ. ἀδόκητον ἔχω σε πρὸς στέρνοις). Nello Ione la visione della cesta in cui Creusa aveva abbandonato il figlio dopo il parto rappresenta per la madre «un’apparizione insperata» (1395 Κρ. Τί δῆτα φάσμα τῶν ἀνελπίστων ὁρῶ;) e lei stessa, abbracciando Ione, descrive il «ritrovamento» del figlio come un fatto «inaspettato» (1439‑1442 Κρ. ὦ τέκνον, ὦ φῶς μητρὶ κρεῖσσον ἡλίου / (συγγνώσεται γὰρ ὁ θεός), ἐν χεροῖν σ’ ἔχω, / ἄελπτον εὕρημ’, ὃν κατὰ γᾶς ἐνέρων / χθονίων μέτα Περσεφόνας τ’ ἐδόκουν ναίειν); quindi, il Coro con i vv. 1510‑1511 chiosa la scena nel suo complesso. Infine, nelle Fenicie Giocasta, abbracciando Polinice, sottolinea come il ritorno del figlio costituisca un’apparizione inaspettata e incredibile (310‑311 Ιο. ἰὼ ἰώ, μόλις φανεὶς / ἄελπτα κἀδόκητα ματρὸς ὠλέναις)28. Le parole πολλὰ δ’ ἀέλπτως κραίνουσι θεοί enunciate dal Coro nell’intervento finale dell’Alcesti (1160) e dell’Elena (1689), slegate dalla scena di riconoscimento vera e propria, costituiscono un’eccezione solo apparente, perché sono parte di una sorta di “morale” ripetuta identica anche nella conclusione della Medea (1416), dell’Andromaca (1285) e delle Baccanti (1389)29. D’altra parte, il v. 639 dell’Ifigenia fra i Tauri (Ιφ. ἴσως

28 Il confronto fra questi passi è suggerito da HUYS 1986, 34‑35, che tuttavia omette E. Ph. 310‑311 e non considera le occorrenze di ἀδόκητος. 29 A questa situazione sono in parte assimilabili le parole di Lico nel finale dell’Antiope: fr. 223c, 133 ὦ πόλλ’ ἄελπτα … . L’aggettivo ἄελπτος ricorre anche nel La scena di riconoscimento nelle tragedie frammentarie di Euripide 149

ἄελπτα τῶν ἐμῶν φίλων τινὶ / πέμψω πρὸς Ἄργος, ὃν μάλιστ’ ἐγὼ φιλῶ …)30 si inserisce in una scena di poco precedente rispetto a quella di riconoscimento, focalizzata sulla lettera che Ifigenia vorrebbe affidare a uno dei due Greci e che favorirà la sua identificazione da parte di Oreste, anche se ciò non avverrà nei tempi e nei modi previsti dalla giovane donna. Infine, il v. 783 dell’Elena (Ελ. ἥκεις ἄελπτος ἐμποδὼν ἐμοῖς γάμοις) si trova nella sezione immediatamente successiva alla scena di riconoscimento, quella che ho proposto di chiamare “supplemento di inchiesta” e che, pur introducendo il problema della salvezza e della fuga, insiste ancora sull’i‑ dentità dei personaggi e sulla loro storia. In generale, comunque, si può osservare che nelle tragedie di Euripide: 1) ἄελπτος, ἀνέλπιστος e ἀδόκητος sono utilizzati in varie forme ma si specia lizzano come spie lessicali della scena di riconoscimento, in particolare del ricongiungimento, proprio come l’espressione ἔχω σε che segnala l’abbraccio; 2) nelle tragedie con scena di riconoscimento o ricon ‑ giungimento ἄελπτος, ἀνέλπιστοςe ἀδόκητος esprimono una sorpresa positiva. Ciò invita a respingere l’interpretazione del fr. 62 dell’Alessandro come una consolazione o una minaccia. Inoltre, il vocativo Ἑκάβη porta ad escludere un’attribuzione del fr. 62 ad Alessandro, perché un figlio, quando riconosce o ritrova la madre, la apostrofa con il vocativo μῆτερ, a sottolineare il legame affettivo e di parentela appena ristabilito, mentre la formulazione sentenziosa e l’analo ‑ gia con i vv. 1510‑1511 dello Ione invitano a ritenere che anche il fr. 62 corrispondesse al distico con cui il Corifèo chiudeva la scena di ricono ‑ scimento31.

fr. 550, 1 dell’Edipo di Euripide, ma in questa tragedia la presenza di una scena di riconoscimento è dubbia. 30 Cf. E. IT 486‑487 Ορ. οὔτοι νομίζω σοφόν … ὅστις Ἅιδην ἐγγὺς ὄντ’ οἰκτίζεται / σωτηρίας ἄνελπις … . 31 Cf. COLLARD/CROPP/GIBERT 2004, 41 e 69. La presenza attiva di Priamo nella scena di riconoscimento non è sicura, anzi è probabile che nella seconda parte dell’Alessandro il re di Troia non comparisse più in scena, come Xuto nello Ione: cf. DI GIUSEPPE 2012, 172‑173. Cassandra, dopo la profezia, non era più presente. Altrove, formulazioni sentenziose simili a questa sono pronunciate anche dai personaggi della tragedia (ad esempio, Ifigenia in E. IT 475‑478 τὰς τύχας τίς οἶδ’ ὅτωι / τοιαίδ’ ἔσονται; πάντα γὰρ τὰ τῶν θεῶν / ἐς ἀφανὲς ἕρπει κοὐδὲν οἶδ’ οὐδεὶς †κακόν†. / ἡ γὰρ τύχη παρήγαγ’ ἐς τὸ δυσμαθές, oppure Oreste ancora in E. IT 489 τὴν τύχην δ’ ἐᾶν χρεών), ma ciò avviene in parti della tragedia diverse dalla scena di riconoscimento. Inoltre, la divinità viene indicata con il termine θεῖον anche in E. Ion 1456‑1457 Ιων θεῖον τόδ’· ἀλλὰ τἀπίλοιπα τῆς τύχης / εὐδαιμονοῖμεν, ὡς τὰ πρόσθ’ ἐδυστύχει, pronunciati dal protagonista, ma l’attribuzione del fr. 62 ad Alessandro, come si è detto, è da escludere per via del vocativo Ἑκάβη. 150 Mattia De Poli

Essa, dunque, doveva presentare queste caratteristiche: 1) era basata su un riconoscimento reciproco, perché Alessandro ed Ecuba sono ugualmente inconsapevoli del loro legame: l’hypothesis mette in risalto la prospettiva di Ecuba hyp.( 32 Ἑκάβη μὲν οὖν υἱὸν ἀνεῦρε), ma ciò può significare semplicemente che, come nell’Ifigenia fra i Tauri e nello Ione, il riconoscimento non avviene in sincrono, che Alessandro intuisce la propria origine e il legame con Ecuba accidentalmente, probabilmente grazie alla profezia di Cassandra, e che solo la donna ha bisogno della testimonianza del pastore che ha raccolto e allevato il neonato abbandonato; 2) coinvol‑ geva madre e figlio; 3) richiedeva l’intervento di un terzo personaggio, il pastore (hyp. 30‑32 π[α]ρα[γενό]μενος δ’ ὁ θρέψας αὐτὸν | διὰ τὸν κίνδυνον ἠναγκάσθη λέγειν τὴν | ἀλήθειαν), probabilmente senza il ricorso a oggetti particolari; 4) rimediava a una situazione potenzialmente mortale per Alessandro, che Ecuba era determinata a far morire (hyp. 29 Ἑκάβη [δὲ ἀπο]κτεῖναι θέλουσα); 5) era suggellata da un distico di trimetri giambici, recitati dal Corifèo (fr. 62); 6) probabilmente si collocava in prossimità del finale della tragedia o proprio nel finale, anche se resta poco chiaro il ruolo di Priamo nella vicenda e il modo in cui la vicenda si conciliava con l’oracolo che aveva costretto all’esposizione del neonato.

6. L’Ipsipile (frammenti di tradizione indiretta): la sorpresa, l’abbraccio, gli oggetti del riconoscimento

L’Ipsipile, generalmente datata fra il 408 e il 406, rappresenta un caso eccezionale per l’alto numero di frammenti di tradizione indiretta riconducibili alla scena di riconoscimento. A questo gruppo appartiene, innanzitutto, il fr. 761:

ἄελπτον οὐδέν, πάντα δ’ ἐλπίζειν χρεών

Nulla è insperabile, anzi è doveroso sperare tutto.

In esso l’aggettivo ἄελπτος funge, come nelle altre tragedie euripidee con scena di riconoscimento, da spia lessicale con valenza drammaturgica, esprimendo una sorpresa positiva. Inoltre, la iunctura ἄελπτον οὐδέν ricalca un’espressione già utilizzata da Archiloco (fr. 122, 1‑2 West χρημάτων ἄελπτον οὐδέν ἐστιν οὐδ’ ἀπώμοτον / οὐδὲ θαυμάσιον … ), da Sofocle (Aj. 648‑649 κοὐκ ἔστ’ ἄελπτον οὐδέν, ἀλλ’ ἁλίσκεται / χὠ δεινὸς ὅρκος) e, nella variante μηδὲν ἄελπτον, dallo stesso Euripide (Ion 1510‑1511 μηδεὶς δοκείτω μηδὲν ἀνθρώπων ποτὲ / ἄελπτον εἶναι πρὸς τὰ τυγχάνοντα νῦν)32. L’interpretazione complessiva del frammento

32 Queste espressioni sono state accostate anche ad un altro verso sofocleo (S. Ant. La scena di riconoscimento nelle tragedie frammentarie di Euripide 151 archilocheo è in parte controversa33 ma di certo il componimento allude a un evento accaduto in modo inaspettato, che – probabilmente con una voluta esagerazione del poeta – è accostato all’oscuramento del sole in pieno giorno per effetto di un’eclissi: dopo una simile circostanza diventa credibile e sperabile qualsiasi cosa, anche la più inverosimile, come l’adynaton delle fiere che contendono il controllo del mare ai delfini. Nella tragedia sofoclea Aiace cerca di convincere Tecmessa di aver inaspetta‑ tamente cambiato proposito in merito al suicidio: è l’inizio della cosiddetta Trugrede, l’eroe sta ingannando la sua concubina, ma in apparenza queste parole preannunciano una svolta positiva della vicenda. I due versi dello Ione, infine, come si è visto, sono la considerazione del Corifèo a conclusione della scena di riconoscimento. In generale, questi paralleli costituiscono un invito a non perdere mai la speranza alla luce di qualcosa che è già avvenuto: una riflessione a posteriori. Nell’Ipsipile, dunque, il fr. 761 doveva trovare posto dopo che il riconoscimento vero e proprio era avvenuto34, dopo l’inchiesta, in qualche punto della fase del ricongiun ‑ gimento fra la madre e i suoi due figli. Tuttavia, a differenza dei vv. 1510‑1511 dello Ione e del fr. 62 dell’Alessandro, il fr. 761 dell’Ipsipile non poteva chiudere la scena di riconoscimento, se – come vedremo – il papiro di Ossirinco 852 (= E. Hyps. fr. 759a)35 ce ne conserva i versi finali. Restano due possibilità: le parole del fr. 761, recitate dal Corifèo, si inserivano come cerniera fra l’inchiesta e il ricongiungimento, come i vv. 1230‑1231 dell’Elettra di Sofocle, anche se in quel caso si tratta di un distico; oppure il singolo trimetro del fr. 761 potrebbe provenire da un amebeo lirico‑ epirrematico presente nella fase del ricongiungimento: dato, però, che il Corifèo non interviene mai in questa parte della scena di riconoscimento, si può ipotizzare l’attribuzione al figlio di Ipsipile, Euneo36, oppure – ma è meno probabile – ad Anfiarao37.

388 ἄναξ, βροτοῖσιν οὐδέν ἐστ’ ἀπώμοτον): la guardia incaricata di custodire il cadavere di Polinice insepolto, dopo aver riferito a Creonte degli onori funebri segretamente tributati al morto da una mano ignota, ha assicurato al sovrano che non lo avrebbe visto tornare (cf. v. 329) ma, ripresentandosi al suo cospetto, consapevole di essere venuto meno a tale giuramento, afferma che nulla è impossibile (ovvero che «non c’è nulla che un uomo possa giurare che non accadrà»). 33 Cf. BOSSI 1990, 179. 34 Cf. BOND 1963, 138. KANNICHT 2004, 793, è più cauto. 35 La prima edizione di questo frammento è stata curata da GRENFELL/HUNT 1908. 36 Nelle scene di riconoscimento frasi simili sono pronunciate da un personaggio in E. IT 841 Ορ. τὸ λοιπὸν εὐτυχοῖμεν ἀλλήλων μέτα e Ion 1456‑1457 Ιων θεῖον τόδ’· ἀλλὰ τἀπίλοιπα τῆς τύχης / εὐδαιμονοῖμεν, ὡς τὰ πρόσθ’ ἐδυστύχει. In generale, come esempio di frase sentenziosa pronunciata da un personaggio, cf. E. IT 489 Ορ. τὴν τύχην δ’ ἐᾶν χρεών. 37 Cf. ITALIE 1923, 55. Seppure non si tratti di una frase sentenziosa, anche il vecchio 152 Mattia De Poli

Sembrano riconducibili alla scena di riconoscimento dell’Ipsipile anche i frr. 765 e 765a, conservati dagli scholia ai vv. 1320 e 1322 delle Rane di Aristofane. Con le parole del fr. 765a:

Ὑψ. περίβαλ’, ὦ τέκνον, ὠλένας38

Ips. Figlio, getta le tue braccia intorno (a me)

Ipsipile esorta il figlio Euneo ad abbracciarla39: come nell’esodo della tragedia, la madre si rivolge solo a lui, usando il singolare, nonostante in scena sia presente come personaggio muto anche il fratello gemello Toante. L’abbraccio è un gesto tipico della fase del ricongiungimento40 ma, quando il riconoscimento è reciproco e non è sincrono, il personaggio che per primo riconosce l’altro può avere uno slancio d’affetto, che appare incomprensibile e ingiustificato, anticipato rispetto al momento dell’effettivo ricongiun‑ gimento. Così avviene, ad esempio, nell’Ifigenia fra i Tauri, quando Oreste già nella fase dell’inchiesta comprende di essere di fronte alla sorella e cerca di abbracciarla41, provocando la sua42 reazione sdegnata: nel v. 799 …

Pedagogo dell’Elettra euripidea interviene subito prima del passaggio dall’“inchiesta” al “ricongiungimento” (E. El. 576). 38 Rispetto al testo stampato da ANNICHTK 2004, 794, in questo frammento preferisco mantenere il verbo all’aoristo (περίβαλ’) anziché al presente (περίβαλλ’), come riportato nello scolio, e propendo per un’interpretazione docmiaca anziché gliconica, più consona ai canti delle scene di riconoscimento (cf. CERBO 1989). Per una trattazione più articolata della questione, cf. DE POLI c.d.s. Non ritengo fondati i dubbi in merito all’autenticità di questo frammento, sollevati da KOSTER 1962, sulla base dello scolio di Giovanni Tzetzes al v. 1322 delle Rane: il filologo bizantino non accenna alla parodia dell’Ipsipile, limitandosi a suggerire il confronto con i vv. 165‑166 delle Fenicie. 39 Tenderei ad escludere, come pure è stato ipotizzato, che questo frammento debba essere anticipato nella parte iniziale del dramma e che Ipsipile rivolgesse queste parole al piccolo Ofelte nella ninnananna scandita da sequenze gliconiche: sulla questione, cf. BOND 1963, 138. 40 Cf. E. Hel. 623‑624 ὦ ποθεινὸς ἡμέρα, / ἥ σ’ εἰς ἐμὰς ἔδωκεν ὠλένας λαβεῖν (Menelao a Elena), Ph. 306‑307 ἀμφίβαλλε μα‑ / στὸν ὠλέναισι ματέρος (Giocasta a Polinice). 41 Cf. E. IT 796 σ’ ἀπίστωι περιβαλὼν βραχίονι (Oreste a Ifigenia). In modo simile, nei vv. 165‑166 delle Fenicie περὶ δ’ ὠλένας / δέραι φιλτάται βάλοιμεν χρόνωι Antigone esprime il desiderio di abbracciare Polinice. 42 L’attribuzione dei vv. 798‑799 dell’Ifigenia fra i Tauri è incerta: cf. DE POLI 2017, 93, n. 25. La scena di riconoscimento nelle tragedie frammentarie di Euripide 153

ἀθίκτοις περιβαλὼν πέπλοις χέρα, in particolare, la frase con il verbo περιβάλλω presenta la stessa struttura sintattica del fr. 765a. Tuttavia, se tra madre e figlio Ipsipile è l’ultima a riconoscere l’identità altrui, questo frammento andrà collocato più opportunamente nella fase del ricongiun‑ gimento. È possibile che l’identità di Euneo e Toante fosse resa certa da un oggetto a forma di grappolo d’uva, di germoglio di vite oppure di viticcio43, e ad esso sembra alludere il fr. 765:

οἰνάνθα τρέφει τὸν ἱερὸν βότρυν

un germoglio di vite nutre il sacro grappolo.

Se questo verso apparteneva alla scena di riconoscimento, dovrà essere ricondotto alla fase dell’inchiesta, perché nelle tragedie integrali l’oggetto del riconoscimento non viene mai menzionato nella fase del ricongiun‑ gimento; tuttavia, è notevole che queste parole siano formulate in una sequenza lirica, costituita da una coppia di docmi, che è più comune nella fase del ricongiungimento. Parte della critica ritiene di dover collocare questo frammento in una parte della tragedia diversa dalla scena di riconoscimento: un canto corale, un altro brano lirico cantato da Ipsipile, o l’amebeo lirico‑epirrematico presente nell’esodo della tragedia, dove Euneo allude al «grappolo d’uva di quello», cioè del padre di Ipsipile (E. Hyps. fr. 759a, 1632), ma non si può escludere che un amebeo lirico‑epirrematico fra Ipsipile ed Euneo iniziasse già nella fase dell’inchiesta, se è vero – come vedremo – che nell’Ipsipile questo tipo di struttura viene impiegata eccezionalmente anche nel “supplemento di inchiesta”. L’eventuale oggetto di riconoscimento, legato alla figura di Dioniso, poteva essere custodito all’interno di un contenitore avvolto da alcune bende (στέμματα), forse descritte con i tre aggettivi in polisindeto del fr. 76244:

εὔφημα καὶ σᾶ καὶ κατεσφραγισμένα45

sacre, integre e sigillate.

43 Cf. AP 3, 10, 1 Βάκχοιο φυτὸν τόδε (prima dell’epigramma si legge: … ἀναγνωριζόμενοι τῇ μητρὶ καὶ τὴν χρυσῆν δεικνύντες ἄμπελον, ὅπερ ἦν αὐτοῖς τοῦ γένους σύμβολον …); cf. JOUAN/VAN LOOY 2002, 158‑159; HARTUNG 1844, 438. 44 Cf. BOND 1963, 138; HARTUNG 1844, 439. 45 Per l’uso di εὔφημος riferito a cose, cf. E. Andr. 1144; per κατεσφραγισμένα, cf. A. Supp. 947. 154 Mattia De Poli

Si profilerebbe una situazione simile a quella che si verifica nella scena di riconoscimento dello Ione: dopo aver ricevuto dalla Pizia il cesto in cui era stato abbandonato, il giovane apostrofa direttamente le sacre bende che lo avvolgevano, prima di scoprire con stupore il perfetto stato di conser ‑ vazione degli oggetti (1389‑1394 Ιων ὦ στέμμαθ’ ἱερά … καὶ σύνδεθ’ …). Nell’Ipsipile i ruoli sono invertiti e l’oggetto è necessario affinché la madre riconosca i due figli: pertanto si può supporre che il fr. 762 fosse pronunciato dalla stessa Ipsipile, meravigliata dalla vista delle bende a lei note. In sintesi, dei quattro frammenti dell’Ipsipile conservati dalla tradizione indiretta e riconducibili alla scena di riconoscimento due sono collocabili nella fase dell’inchiesta:

fr. 762 εὔφημα καὶ σᾶ καὶ κατεσφραγισμένα fr. 765 οἰνάνθα τρέφει τὸν ἱερὸν βότρυν e due nella fase del ricongiungimento:

fr. 761 ἄελπτον οὐδέν, πάντα δ’ ἐλπίζειν χρεών fr. 765a Ὑψ. περίβαλ’, ὦ τέκνον, ὠλένας.

7. L’Ipsipile (fr. 759a = P.Oxy. 852): la scena di riconoscimento e il “supple‑ mento d’inchiesta”

Secondo uno studio di HOURMOUZIADES 1975, nell’Ipsipile non ci sarebbe stata una scena di riconoscimento, come finora l’abbiamo intesa: Euneo e Toante, infatti, avrebbero scoperto la loro identità in uno spazio extra ‑ scenico, durante i giochi funebri in onore di Ofelte, grazie all’intervento di Anfiarao, mentre Ipsipile sarebbe stata informata della scoperta probabilmente da un messaggero. Sotto gli occhi degli spettatori, dunque, sarebbe avvenuto solamente l’incontro fra la madre e i due figli in quella che si configura come una scena di ricongiungimento46, paragonabile a quella delle Fenicie. Tuttavia, una rilettura dell’esodo dell’Ipsipile, in buona parte conservato dal papiro di Ossirinco 852 (= fr. 759a), permette di non escludere le osservazioni finora proposte in merito ai frammenti di tradizione indiretta, e in particolare ai frr. 762 e 765. Il rotolo di papiro è ampiamente lacunoso per otto colonne, dalla XX alla XXVII, corrispondenti a circa 600 versi della seconda metà della tragedia; poi il testo ricomincia a partire dalla XXVIII colonna, all’inizio della quale

46 Cf. LOMIENTO 2005, 62. La scena di riconoscimento nelle tragedie frammentarie di Euripide 155 si leggono i vv. 1579‑1583. Tenderei ad escludere che essi fossero eseguiti dal Coro: non possono appartenere a uno stasimo, perché precedono l’uscita di Anfiarao che, insieme ad altri tre personaggi parlanti e a uno muto, era presente in scena durante l’esecuzione di questi versi; è improbabile che fossero versi di un amebeo fra Ipsipile e il Coro, perché in generale il Coro ha una posizione defilata nelle scene di riconoscimento o di ricongiungimento rispetto ai personaggi coinvolti; forse potevano corrispondere alla conclusione di un canto corale infraepisodico, come quello che chiude la scena di riconoscimento nell’Elettra di Euripide (585‑ 595), ma nessuno dei canti di questo tipo individuati da CENTANNI 1991 si colloca all’interno dell’esodo. Possiamo immaginare che i vv. 1579‑1583 appartenessero a un amebeo fra Ipsipile ed Euneo oppure, più probabil ‑ mente, a una monodia di Ipsipile. Nei vv. 1584‑1591a Anfiarao si congeda ricevendo un saluto benaugurante dai figli di Ipsipile47; quindi, dal v. 1591b fino al v. 1633, dove finisce la colonna di testo, si sviluppa un amebeo lirico‑ epirrematico fra Euneo e Ipsipile. Della colonna successiva si legge solo la nota personae «Dioniso»: il deus ex machina interveniva presumibilmente in corrispondenza del v. 1676, mentre la tragedia terminava dopo altri 45 versi, al v. 1720). Nella prima parte dell’amebeo lirico‑epirrematico (1591b‑1609) Euneo chiede alla madre di raccontargli le sue disavventure: dall’allon‑ tanamento da Lemno fino al suo arrivo a Nemea. Nella parte successiva (1610‑1633, e oltre) i ruoli si invertono e Ipsipile chiede al figlio notizie in merito alle sue disavventure: dalla partenza per la Colchide con il padre a bordo della nave Argo fino al ritorno a Lemno con il nonno Toante (Ipsipile apprende così che Giasone è morto, mentre suo padre Toante è ancora vivo). Nel dialogo fra madre e figlio i personaggi rimediano alla propria ignoranza relativa ai fatti altrui, accaduti in passato dopo la loro separazione: c’è sympatheia, partecipazione alle sofferenze patite, ma non ci sono espressioni di gioia, non ci sono manifestazioni di affetto o allusioni a un gesto come l’abbraccio. La parte di testo compresa fra i vv. 1591b‑1633 ha le caratteristiche non del ricongiungimento ma del “supplemento di inchiesta”. I vv. 1579‑1583 potevano, dunque, essere la conclusione dell’amebeo tipico del ricongiungimento oppure appartenere a una mono‑ dia finale di Ipsipile, analoga a quella di Ifigenia nell’Ifigenia fra i Tauri (868‑899). In seguito, lo scambio di informazioni fra Ipsipile ed Euneo avviene dopo l’uscita del terzo attore, come nell’Elena, e il confronto fra madre e figlio pone le basi per lo scioglimento compiuto dal deus ex machina, come nello Ione. L’aspetto innovativo dell’Ipsipile è dato dalla composizione

47 Sulla questione relativa all’attribuzione dei vv. 1590‑1591, cf. BOND 1963, 126‑127. 156 Mattia De Poli lirico‑epirrematica del “supplemento di inchiesta”, di solito realizzato da un dialogo o da una sticomitia in trimetri giambici. I quattro frammenti dell’Ipsipile conservati dalla tradizione indiretta e riconducibili alla scena di riconoscimento potevano trovare posto nel testo precedente rispetto alla XXVIII colonna: già RENFELLG /HUNT 1908, 27, del resto, avevano ipotizzato che la XXVII colonna del rotolo di papiro potesse essere occupata interamente o in gran parte dalla scena di riconoscimento: una scena di riconoscimento completa di inchiesta e di ricongiungimento, in cui Anfiarao guida, almeno inizialmente, il confronto fra Ipsipile ed Euneo, come Pilade nell’Ifigenia fra i Tauri, mentre Toante è un personaggio muto, come nella parte successiva dell’esodo, conservata dal papiro. Sfortunatamente, l’hypothesis dell’Ipsipile è mutila e non è d’aiuto per la ricostruzione della scena di riconoscimento; tuttavia, sulla base di quanto è stato illustrato è possibile ritenere che in questa tragedia essa: 1) fosse basata su un riconoscimento reciproco; 2) coinvolgesse la madre e i due figli gemelli, anche se di fatto uno dei due è un personaggio muto; 3) fosse illuminata dall’intervento di Anfiarao, ma richiedesse anche un oggetto, forse conservato all’interno di contenitore avvolto da alcune bende; 4) rimediasse a una situazione potenzialmente mortale per Ipsipile, che Euridice voleva punire per la morte di Ofelte, ma non è chiaro se i figli Euneo e Toante avessero qualche ruolo nell’esecuzione della condanna a morte della madre48; 5) si articolasse nelle due parti canoniche, l’inchiesta e il ricongiungimento, e fosse seguita da un “supplemento di inchiesta”, prima dell’intervento del deus ex machina: eccezionalmente il “supplemento d’inchiesta” aveva la forma di un amebeo lirico‑epirrematico, e forse anche l’inchiesta; 6) si collocasse nella parte finale della tragedia, in particolare nell’esodo.

8. Altre scene di riconoscimento nelle tragedie frammentarie di Euripide

Una scena di riconoscimento è ipotizzabile in almeno altre quattro tragedie frammentarie di Euripide: il Cresfonte, la Melanippe prigioniera, l’Antiope e l’Alcmeone a Corinto. Nel Cresfonte Merope è intenzionata a uccidere lo straniero che sembra essere l’assassino di suo figlio, ma un vecchio servitore riconosce nel giovane proprio il figlio di Merope e riesce a trattenerla in tempo: in questo

48 Si noti, però, che anche in questo caso, come nell’Alessandro, i giochi atletici favorivano l’identificazione dei gemelli. La scena di riconoscimento nelle tragedie frammentarie di Euripide 157 caso si tratterebbe di un riconoscimento semplice, perché Cresfonte è conscio della propria identità fin dal principio e, tornato a casa, si presenta sotto una falsa identità, come Oreste nelle due Elettre di Sofocle e di Euripide. La scena di riconoscimento si colloca probabilmente nella parte centrale del dramma, di certo non nel finale, perché deve esserci il tempo necessario a pianificare e compiere la vendetta per la morte del padre di Cresfonte, uccidendo Polifonte49. Anche nella Melanippe prigioniera «une scène de reconaissance s’im ‑ pose»50: nonostante i dubbi relativi alla trama di questa tragedia euripidea, probabilmente Melanippe ritiene che i suoi figli siano morti ed essi igno ‑ rano che la donna tenuta prigioniera sia la loro madre; quindi, scoprono di essere figli di una schiava da quelli che credono essere degli zii e che sono decisi a ucciderli ma troveranno così la morte. Il riconoscimento che si compie in scena a questo punto è reciproco: coinvolge la madre e i due figli gemelli, secondo modalità non del tutto chiare, e si colloca nel finale della tragedia, dove è confermato in ultimo da Poseidone, padre dei gemelli, come deus ex machina51. La scena di riconoscimento dell’Antiope, come quella dell’Ipsipile, viene spesso scomposta in due distinti momenti (prima Anfione e Zeto vengono informati del loro legame con Antiope, poi viene riferito ad Antiope che i due giovani sono i suoi figli) e la prima parte è dislocata in uno spazio extra‑scenico, tutto perché una scena di riconoscimento unica, che si svolge sotto lo sguardo degli spettatori, richiederebbe troppi personaggi in scena contemporaneamente rispetto al limite dei tre attori disponibili52. Tuttavia, lo scolio ad Apollonio Rodio, Argonautiche 4, 1090 … ληφθεῖσα πάλιν τοῖς ἑαυτῆς παισὶν ἐκδίδοται. ἐνταῦθα δὲ ἐκκαλύπτει ὁ τροφεὺς βουκόλος τὸ γεγονός. οἱ δὲ τὴν μὲν Ἀντιόπην σώζουσιν … sembra suggerire non solo che il riconoscimento sia reso possibile dal pastore che ha cresciuto i due gemelli, ma anche che la rivelazione di ciò che è accaduto avvenga alla presenza di Anfione, Zeto e Antiope in un’unica circostanza, che precede

49 Per la ricostruzione della scena di riconoscimento e, in generale, della trama del Cresfonte, cf. MATTHIESSEN 1964, 111‑114; HARDER 1985, 114‑117; COLLARD/CROPP/LEE 1995, 121‑125; JOUAN/VAN LOOY 2000, 264‑270; COLLARD/CROPP 2008, 493‑495. 50 JOUAN/VAN LOOY 2000, 370. 51 Per la ricostruzione della trama della Melanippe prigioniera, cf. COLLARD/ CROPP/LEE 1995, 240‑247; JOUAN/VAN LOOY 2000, 363‑372; COLLARD/CROPP 2008, 587‑ 589. 52 Cf. HOURMOUZIADES 1975. Per la ricostruzione della trama dell’Antiope, cf. JOUAN/VAN LOOY 1998, 223‑237; COLLARD/CROPP/GIBERT 2004, 262‑264; COLLARD/ CROPP 2008, 170‑175; BIGA 2015, 37‑47. 158 Mattia De Poli la liberazione della donna, la punizione violenta di Dirce e il tentativo di uccisione di Lico: è sufficiente immaginare che uno dei due fratelli, presumibilmente Zeto, rimanga un personaggio muto come Toante nell’Ipsipile. Tale scena si colloca nella seconda parte del dramma: prima dell’esodo, è necessario ipotizzare solamente il racconto della morte di Dirce, che avviene in uno spazio extra‑scenico. Nell’Alcmeone a Corinto è ipotizzabile «a typical Euripidean recognition and reunion»53 fra Alcmeone e il figlio Anfiloco, che in precedenza era stato incaricato da Creonte di eseguire la condanna a morte del padre: a consentire lo svelamento del loro legame è la regina, moglie di Creonte. Rimane incerto, invece, se anche Tisifone fosse presente come personaggio muto oppure se nella tragedia ci fosse spazio per un’altra scena riconoscimento fra Alcmeone e la figlia: in tal caso deve essere precedente rispetto a quella fra padre e figlio, che rimane l’unica veramente risolutiva nella trama complessiva del dramma54.

9. Considerazioni generali, non definitive, sulla scena di riconoscimento nel teatro attico

Prendere in considerazione solo le tragedie integrali per valutare le caratteristiche della scena di riconoscimento nel teatro attico di V secolo conduce a risultati necessariamente parziali, dal momento che tre delle sei tragedie utili allo scopo (le Coefore di Eschilo, l’Elettra di Euripide e l’Elettra di Sofocle) sono basate sullo stesso mito. Integrare i dati desumibili da altre sette tragedie frammentarie di Euripide, qui prese in esame, consente di delineare un quadro più complesso e completo55. Il riconoscimento reciproco è più frequente rispetto a quello semplice. Il dato emerge chiaramente già nelle tragedie integrali: solo nelle Coefore e nell’Elettra di Euripide la scena di riconoscimento richiede che solo uno dei personaggi accerti l’identità dell’altro; altri due esempi sono offerti da altrettante tragedie frammentarie euripidee, l’Egeo e il Cresfonte, che come l’Elettra, appartengono alla produzione più antica di questo tragediografo; le opere più recenti di Euripide, insieme all’Elettra di Sofocle, mostrano invece una predilezione per una situazione più complessa.

53 COLLARD/CROPP 2008, 87. 54 Per la ricostruzione della scena di riconoscimento e della trama dell’Alcmeone a Corinto, cf. JOUAN/VAN LOOY 1998, 98‑100; COLLARD/CROPP 2008, 87‑89. 55 Per conclusioni ancora più complete, bisognerà considerare anche le tragedie frammentarie di Sofocle, o almeno la sua Tyro II, che esulano da questa indagine. La scena di riconoscimento nelle tragedie frammentarie di Euripide 159

Riconoscimento semplice reciproco ESCHILO Coefore [1] SOFOCLE Elettra [1] EURIPIDE Egeo, Cresfonte, Elettra [3] Melanippe prigioniera, Ales‑ san dro, Ifigenia fra i Tauri, Elena, Ione, Antiope, Ipsipile, Alcmeone a Corinto [8]

Il riconoscimento avviene soprattutto tra madre e figlio (o figli gemelli). Nelle tragedie integrali la scena di riconoscimento in quattro casi su sei coinvolge un fratello e una sorella (Oreste ed Elettra oppure Oreste e Ifigenia), facendo risultare singolari quelle in cui il processo riguarda una madre e un figlio (Creusa e Ione) oppure un marito e una moglie (Menelao ed Elena). Se si allarga il panorama, però, la situazione più frequente è indubbiamente quella che riguarda la madre e il figlio (Merope e Cresfonte, Ecuba e Alessandro, oltre a Creusa e Ione) o la madre e i due figli gemelli (Melanippe, Beoto ed Eolo; Antiope, Anfione e Zeto; Ipsipile, Euneo e Toante). Più rare ma presenti sono le scene tutte al maschile, che coin‑ volgono un padre e un figlio: Egeo e Teseo ovvero Alcmeone e Anfiloco56. La situazione dell’Elena, invece, resta senza paralleli57.

ESCHILO SOFOCLE EURIPIDE madre‑figlio [3] Cresfonte, Alessandro, Ione Melanippe prigioniera, madre‑figli gemelli [3] Antiope, Ipsipile fratello‑sorella [4] Coefore Elettra Elettra, Ifigenia fra i Tauri padre‑figlio [2] Egeo, Alcmeone a Corinto padre‑figlia [1?] Alcmeone a Corinto (?) marito‑moglie [1] Elena

56 Nel ristretto ambito delle tragedie integrali Euripide propone una situazione analoga solo nella scena di pseudo‑riconoscimento fra Xuto e Ione. 57 Non meno singolare è l’eventuale scena, nell’Alcmeone a Corinto, fra Alcmeone e Tisifone, padre e figlia, in cui il più vecchio è il personaggio maschile. 160 Mattia De Poli

La scena di riconoscimento coinvolge spesso il terzo attore … Tipicamente euripidea è la predilezione per le scene di riconoscimento affollate, che coinvolgono il terzo attore nel ruolo di un personaggio che favorisce o consente l’identificazione tra i soggetti principali. Eschilo e Sofocle si limitano a porre al fianco di Oreste un terzo personaggio, quello di Pilade, che resta muto per tutta la scena; Euripide, invece, in una situazione analoga introduce il vecchio pedagogo: la sua scena di riconoscimento fra Oreste ed Elettra prevede quindi tre personaggi parlanti e uno muto. La stessa dinamica viene replicata nelle tragedie in cui è presente una coppia di gemelli: il riconoscimento fra loro e la madre è reso possibile da un terzo personaggio nella Melanippe prigioniera, nell’Antiope e nell’Ipsipile. Ma Euripide mobilita tre personaggi parlanti anche nel Cresfonte, nell’Ales ‑ sandro, nell’Ifigenia fra i Tauri e nell’Elena: lo Ione e, presumibilmente, l’Egeo costituiscono dunque dei casi eccezionali. … e in alternativa ricorre agli oggetti di riconoscimento. Proprio nello Ione e nell’Egeo, dove non viene coinvolto un terzo personaggio parlante, risultano fondamentali gli oggetti di riconoscimento. Tuttavia, Euripide nell’Elettra, nell’Ifigenia fra i Tauri e nell’Ipsipile riesce a coniugare nella stessa scena alcuni γνωρίσματα, in forma più o meno concreta58, con il coinvol ‑ gimento del terzo attore.

ESCHILO SOFOCLE EURIPIDE 2 attori [2] Egeo*, Ione* + 1 muto [2] Coefore* Elettra* Cresfonte, Alessandro, Ifigenia 3 attori [4] fra i Tauri*, Elena Elettra*, Melanippe prigioniera, Antiope, Ipsipile*, Alcmeone a + 1 muto [5] Corinto* uso di oggetti di riconoscimento.

La scena di riconoscimento scongiura un pericolo mortale. La trama di alcune tragedie segue, indubbiamente, la sequenza nostos‑anagnorisis‑mechanema59, ma Euripide tende anche ad utilizzare la scena di riconoscimento con una particolare funzione drammatica: egli la inserisce nel momento in cui uno

58 A proposito della natura dei segni di riconoscimento utilizzati in queste tragedie euripidee, cf. DE POLI 2017, 99‑100. 59 Cf. MATTHIESSEN 1964, 93‑143. Altre considerazioni sulla scena di riconoscimento e la struttura della trama sono proposte da ÉLIONA 1983, I, 111‑143; II, 89‑98. La scena di riconoscimento nelle tragedie frammentarie di Euripide 161 dei personaggi rischia di morire proprio a causa del suo mancato ricono ‑ scimento da parte dell’altro, pericolo che viene scongiurato in extremis grazie agli effetti di questa scena. Tale caratteristica euripidea, già riscontrabile nell’Ifigenia fra i Tauri, nello Ione e, in qualche modo, anche nell’Elena, è comune a tutte le tragedie frammentarie qui considerate. La scena di riconoscimento si articola in “inchiesta” e “ricongiungimento” e può essere seguita da un “supplemento d’inchiesta”. I dati desumibili dalle tragedie frammentarie euripidee sembrano confermare la struttura a dittico della scena di riconoscimento, articolata nei due momenti dell’inchiesta e del ricongiungimento. Un’appendice della scena di riconoscimento, il “supplemento d’inchiesta”, è comune a diverse tragedie tarde di Euripide, oltre che all’Elettra di Sofocle. Di solito il canto interessa la fase del ricon‑ giungimento, ma nell’Ipsipile, forse, risuona già nella fase dell’in chiesta e sicuramente si estende anche al “supplemento d’inchiesta”, dove il dialogo fra i personaggi assume la forma di un amebeo lirico‑epirrematico. La scena di riconoscimento tende a scivolare verso la fine della tragedia. La posizione della scena di riconoscimento all’interno di una tragedia è strettamente correlata alla trama ma, rispetto al caso delleCoefore di Eschilo, in Sofocle e ancor più in Euripide si nota la tendenza a posticipare tale scena, moltiplicando gli equivoci fra i personaggi e sfruttando ampiamente l’ironia tragica nelle loro battute.

APPENDICE: E. Hyps. fr. 759a (= P.Oxy. 852)

[Scena di riconoscimento, conclusione di un amebeo o di una monodia]

(Ὑψ.?) τέκνα̣ τ̣ ’ ἀνὰ μίαν ὁδὸν ἀνάπ̣ [α]λ̣ ιν ἐτρόχασεν 1580 ἐπὶ φόβον ἐπὶ {τε} χάριν ἑλίξας· χρόνῳ δ’ ἐξέλαμψεν εὐάμερος.

(Ips.?) […] e fece correre (me) e i miei figli di nuovo su un’unica strada, dopo aver piegato verso la paura e verso la gioia, e alla fine rifulse serena.

[Partenza di Anfiarao]

Ἀμφιάρ. τὴν μὲν παρ’ ἡ[μ]ῶν, ὦ γύναι, φέρῃ χάριν, ἐπεὶ δ’ ἐμοὶ πρόθυμος ἦσθ’ ὅτ’ ἠντόμην, 1585 ἀπέδωκα κἀγὼ σοὶ πρόθυμ’ ἐς παῖδε σώ. σῴζου δὲ δὴ σύ, σφὼ δὲ τήνδε μητέρα, καὶ χαίρεθ’· ἡμε̣ [ῖ]ς δ’, ὥσπερ ὡρμήμεσθα δή, στράτευμ’ ἄ[γ]ο̣ ν̣ τες ἥξομεν Θήβας ἔ̣ π̣ ι. 1589 οἱ Ὑψιπ. εὐδαιμονοίης, ἄξιος γάρ, ὦ ξένε. ὑοί ‒ εὐδαιμονοίης δῆτα· 162 Mattia De Poli

Anf. Donna, ti sei procurata la nostra riconoscenza e, poiché sei stata benevola con me quando chiedevo aiuto, anch’io ti ho mostrato benevolenza riguardo i tuoi due figli. Ora abbi cura di te e voi due di vostra madre. Addio! Noi giungeremo a Tebe alla testa di un esercito, proprio come ave‑ vamo cominciato. Figli di Ipsipile (I) Buona fortuna, straniero! Te la meriti. (II) Sì, buona fortuna!

[Supplemento d’inchiesta: parte 1]

(Εὔν.) τῶν δὲ σῶν κακῶν, τάλαινα μῆτερ, θεῶν τις ὡς ἄπληστος ἦν. Ὑψιπ. αἰαῖ φυγὰς ἐμέθεν ἃς ἔφυγον, ὦ τέκνον, εἰ μάθοις, Λήμνου ποντίας, πολιὸν ὅτι πατέρος οὐκ ἔτεμον κάρα. 1595 (Εὔν.) ἦ γάρ σ’ ἔταξαν πατέρα σὸν κατακτανεῖν; (Ὑψ.) φόβος ἔχει με τῶν τότε κακῶν· ἰὼ τέκν’, οἷά τε Γοργάδες ἐν λέκτροις ἔκανον εὐνέτας. 1599 (Εὔν.) σὺ δ’ ἐξέκλεψας πῶς πόδ’ ὥστε μὴ θανεῖν; (Ὑψ.) ἀκτὰς βαρυβρόμους ἱ̣ κ̣ όμαν ἐπί τ’ οἶδμα θαλάσσιον, ὀρνίθων ἔρημον κοίτα̣ ν̣ . (Εὔν.) κἀκεῖθεν ἦλθες δεῦρο πῶς τίνι στόλῳ; (Ὑψ.) ναῦται κώπαις Ναύπλιον εἰς λιμένα ξενικὸν πόρον ἄγαγόν με 1606 δουλοσύ[ν]ας τ’ ἐπέβασαν, ἰὼ τέ[κ]νον, ἐνθάδε νάϊον μέλεο̣ ν̣ ἐμπολάν. (Εὔν.) οἴμοι κακῶν σῶν.

Eun. Ma delle tue sventure, povera madre, un dio era davvero insaziabile. Ips. Ah, figlio mio, se tu sapessi la mia fuga dalla marina Lemno per non aver tagliato il capo canuto di mio padre. Eun. Davvero ti ordinarono di ammazzare tuo padre? Ips. Provo terrore per le sventure di un tempo. Ah, figli, come Gorgoni uccisero i mariti nei letti. Eun. E tu, come hai sottratto il piede, senza morire? Ips. Giunsi a scogli rimbombanti e oltre l’onda marina, desolato rifugio di uccelli. Eun. E da là come sei giunta qui? Con quale nave? Ips. A forza di remi dei marinai mi condussero alla spiaggia di Nauplio, navigando verso terre straniere, e mi costrinsero in schiavitù, figlio, qui come misera merce da nave. Eun. Ah, che sofferenze! La scena di riconoscimento nelle tragedie frammentarie di Euripide 163

[Supplemento d’inchiesta: parte 2]

(Ὑψ.) μὴ στέν’ ἐπ’ εὐτυχίαισιν. ἀλλὰ σὺ πῶς ἐτράφης ὅδε τ’ ἐν τίνι 1611 χειρί, τέκνον, ὦ τέκνον; ἔνεπ’ ἔνεπε ματρὶ σᾷ. (Εὔν.) Ἀργώ με καὶ τόνδ’ ἤγαγ’ εἰς Κόλχων πόλιν. (Ὑψ.) ἀπομαστίδιόν γ’ ἐμῶν στέρνων. (Εὔν.) ἐπεὶ δ’ Ἰάσων ἔθαν’ ἐμός, μῆτερ, πατήρ— (Ὑψ.) οἴμοι κακὰ λέγεις, δάκρυά τ’ ὄμμασιν, τέκνον, ἐμοῖς δίδως. (Εὔν.) Ὀρφεύς με καὶ τόνδ’ ἤγαγ’ εἰς Θρᾴκης τόπον. (Ὑψ.) τίνα πατέρι ποτὲ χάριν ἀθλίῳ τιθέμενος; ἔνεπέ μοι, τέκνον. (Εὔν.) μοῦσάν με̣ κι̣θάρας Ἀσιάδος διδάσκεται, τοῦτ[ο]ν δ’ ἐ̣ ς̣ Ἄρ̣ε̣ ως ὅπλ’ ἐκόσμησεν μάχης. (Ὑψ.) δι’ Αἰγαίου δὲ τίνα πόρον ἐμ[όλ]ετ’ ἀκτὰν Λημνίαν; (Εὔν.) Θόας [κ]ομίζει σὸς πατὴρ †δυοιν τέκνω. (Ὑψ.) ἦ γὰ[ρ] σέσ[ω]στ[α]ι̣; (Εὔν.) Βα[κ]χ̣[ίου] γε̣ μηχαναῖς. (Ὑψ.) [...... ]βό[....]όνων [...... πρ]οσδοκία βιοτᾶς̣ [...... ]ε ματρὶ παῖδας ἢ [...... ]μοι. (Εὔν.) κεί[...... ] Θόαντος οἰνωπὸν βότρυν

Ips. Non lamentarti nella buona sorte. Tu, piuttosto, come sei stato cresciuto? E lui? Nelle mani di chi, figlio? Figlio, parla, dillo a tua madre. Eun. La nave Argo condusse me e lui nella città della Colchide. Ips. Via dal mio seno, via del mio petto. Eun. E, madre, quando Giasone, mio padre, morì… Ips. Ahimé, mi dici cose dolorose, figlio, che fanno piangere i miei occhi! Eun. Orfeo condusse me e lui in un posto, in Tracia. Ips. E quale favore ha reso mai al vostro sventurato padre? Dimmi, figlio. Eun. A me ha insegnato l’arte della cetra d’Asia e introdusse lui alle armi di Ares, da battaglia. Ips. Per quale rotta attraverso l’Egeo siete giunti allo scoglio di Lemno? Eun. Tuo padre, Toante, ha portato i tuoi due figli. Ips. Davvero si è salvato? Eun. Certo, grazie alle trame di Dioniso. Ips. …… Eun. … un grappolo d’uva di Toante … 164 Mattia De Poli

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Una dimensione dimenticata dell’akoè: la percezione in scena e la funzione drammaturgica dei suoni non verbali

VALENTINA ZANUSSO (SAPIENZA UNIVERSITÀ DI ROMA)

Negli ultimi decenni la dimensione performativa del dramma è stata uno degli aspetti più decisamente e incisivamente valorizzati dagli studiosi. L’interesse della critica si è appuntato su diversi elementi: l’ópsis in generale è stata il fulcro di numerosissimi studi di staging e ricostruzione dello stagecraft, che a partire dagli anni sessanta del secolo scorso si sono molti ‑ plicati sino ai nostri giorni1 e uno spazio sempre maggiore nei commenti scientifici ai singoli drammi viene oggi riservato alla messa in scena. Per ciò che concerne l’animazione acustica della scena ateniese, particolare attenzione ha destato la musica, con diverse raccolte di studi e una serie di monografie che toccano temi fondamentali come il lessico del suono e degli strumenti musicali, la funzione mimetica della musica in tragedia, l’orizzonte iconografico della musica e dei musici2. Accanto alla musica, sulla scorta delle testimonianze antiche, l’attenzione si è focalizzata anche sulla voce dell’attore3: caratteristiche, stile della recitazione e dizione tragica. Su quest’ultima per molto tempo gli studiosi si sono schierati su

1 Gli studi sulla ricostruzione delle dinamiche sceniche nel teatro antico sono innumerevoli e in continuo incremento. Imprescindibili i pionieristici contributi di TAPLIN 1978 e TAPLIN 1977, il primo di tre studi sullo stagecraft dei tre grandi tragici, seguito da SEALE 1982 e HALLERAN 1985. Sul versante italiano ancora fondamentale DI BENEDETTO/MEDDA 1997. 2 Gli studi sulla musica nel teatro greco si sono arricchiti negli ultimi anni di una bibliografia critica poderosa. Solo nei primi anni duemila vedono la luce ben cinque importanti raccolte di studi: CASSIO/MUSTI/ROSSI 2000, PINAULT 2001, MURRAY/WILSON 2004, HAGEL/HARRAUER 2005, VOLPE CACCIATORE 2007. A queste vanno aggiunte una serie di monografie che toccano temi fondamentali come il lessico del suono e degli strumenti musicali in Grecia antica (ROCCONI 2003), la funzione mimetica della musica in tragedia (SIFAKIS 2001), l’interazione fra attori e musici (WILSON 2002), l’orizzonte iconografico della musica e dei musici, anche in rapporto al teatro (CASTALDO 2000). 3 Tra gli studi sulla voce dell’attore si possono segnalare AVLOVSKISP 1977, LANZA 1985, VETTA 1993 e RISPOLI 1996. 168 Valentina Zanusso due fronti antitetici: alcuni ipotizzavano una dizione molto schematica e persino epico‑straniante; altri propendevano per il realismo e per il mimetismo della recitazione. Negli ultimi anni, tuttavia, si è affermata la convinzione che lo stile della recitazione si sia evoluto da un misurato formalismo delle origini ad un più spiccato mimetismo verso la fine del V e particolarmente nel IV secolo; di un’analoga evoluzione sono stati protagonisti altri elementi delle dinamiche sceniche (maschere, costumi, architettura). Questa ipotesi sembra inoltre corroborata dalle testimonianze antiche (Arist. Rhet. 3, 1404b 18‑22, Plut. Quaest. conv. 7, 711c e Ar. Ran. 823‑ 29; Gell. N.A. 6, 5‑7). Ancora in campo acustico, un aspetto meno indagato risulta essere quello dei suoni non verbali e dei rumori. Si tratta di una dimensione di certo sfuggente e non macroscopica, non semplice da analizzare e da valorizzare; una dimensione che è stata fin qui del tutto trascurata oppure analizzata in modo marginale, accessorio, di certo non sistematicamente e in una prospettiva globale4. Da qualche tempo sto quindi conducendo un’indagine specifica su questo elemento che rientrava a buon diritto nella messa in scena, come si può dedurre dal testo dei drammi, sia quelli tráditi integralmente, sia quelli che ci sono giunti in veste frammentaria. La ricerca ha preso infatti le mosse proprio da uno spoglio testuale, completato per i drammi integri e a buon punto per i frammenti, che ha evidenziato un discreto numero di loci nei quali i personaggi fanno esplicito riferimento alla percezione di un certo rumore. Questo primo gruppo di testimonianze è stato poi arricchito dai passi nei quali è chiaro che venissero prodotti ed uditi dei suoni non verbali, sebbene non vi si alluda tramite una menzione diretta del suono stesso, ma vengano impiegati verbi che implicano azioni molto rumorose o acusticamente pregnanti e oggetti dal profilo acustico spiccato. L’effettiva percezione della maggior parte dei suoni non verbali e dei rumori da parte del pubblico viene spesso negata dagli studiosi. Si tratta di una questione che si inscrive nella più generale cornice dei problemi connessi alla convenzionalità del teatro antico, ‘massicciamente’ teorizzata a partire da Arnott negli anni sessanta dello scorso secolo. Lo studio del testo in prospettiva performativa ha portato ad individuare in esso – cioè nel testo stesso – elementi investiti di un peculiare valore tecnico nelle dinamiche di scena. Tuttavia questa tendenza si è spinta verso una peri ‑ colosa deriva, a mio avviso: talvolta si sono sovra‑interpretati in chiave

4 Un solo lavoro sistematico sulle qualità dei suoni (verbali e non verbali, nonché musicali) ha indagato anche la produzione tragica: KAIMIO 1977, da una prospettiva eminentemente lessicale, cui si collega CUZZOLIN 1999. Una dimensione dimenticata dell’akoè 169 convenzionale elementi che viceversa si prestano a una lettura più immediata e non tecnica, come a tornare ancora all’immagine nietzschiana dello «spettacolo del tutto straniero e barbaro» che tanta parte ha avuto nella storia degli studi dell’ultimo secolo. Muovendo dal principio per cui il teatro antico utilizzava come veicolo comunicativo pressoché assoluto la parola con la sua evidenza scenica5, si ritiene in genere che anche i suoni che i personaggi dicevano di avvertire fossero immaginati dal pubblico: una sorta di ‘acustica verbale’ (per richiamare il termine scenografia verbale che esemplifica l’analogo procedimento in campo visivo). Sembra tuttavia che questo scenario possa essere attenuato da testimo ‑ nianze antiche: Platone (resp. 396b), ad esempio, lascia intravedere che in teatro si potessero udire «cavalli che nitriscono, tori che muggiscono, fiumi che mormorano, il mare che romba, i tuoni, e così via». Il che, appunto, incoraggia ad approfondire il tema di cui qui mi occupo. In vista di una sistemazione del materiale, eterogeneo e quasi poli‑ morfico, che è emerso dallo spoglio, sarà approntata una classificazione dei suoni, che terrà conto di parametri fisici e scenici, in quest’ambito ine ‑ stricabilmente legati. Per poter definire ‘fisicamente’ i suoni, si applicherà una classificazione fondata su una gradatio, con una progressio ne dal suono più semplice a quello più complesso e, in modo di ret ta mente propor ‑ zionale, con il passaggio da un massimo ad un minimo di riproducibilità. Dei suoni avvertiti in scena, poi, due saranno le tipologie drammatur gi ‑ camente realizzabili: quella dei suoni prodottisulla scena (on stage) e quella complementare dei suoni prodottifuori scena (off stage). Scelti questi criteri, il suono più semplice, e dunque più riproducibile, sembra essere quello corporeo, ovvero quello prodotto dal solo corpo: un battito di mani, o ancor meglio il kopetós, esemplifica bene la categoria: un rumore che non necessita di alcun tipo di strumento ausiliario per essere prodotto. Lievemente più complesso sarà il suono prodotto dal contatto del corpo con un elemento scenico. L’esempio più emblematico, e quello più comune ad una prima indagine, è il rumore prodotto da chi bussa alla porta – i thyrómata della skenè ovviamente – (Choe. 655; Her. 1029‑30; Ion 515‑16; IT 1307‑8; Or. 1067). Si tratta di una categoria che alcuni studiosi hanno rubricato come «rumore prevalentemente comico»6, ma in realtà, a ben vedere, frequente anche in tragedia.

5 Secondo il ben noto concetto di «parola scenica» teorizzato da Marzullo in diverse sedi, tra cui MARZULLO 1986. 6 TAPLIN 1977, 58. 170 Valentina Zanusso

Ad un gradino più alto nella scala della complessità dei rumori si troverà il suono prodotto dal corpo con l’ausilio di un oggetto di scena. Un esempio è offerto dalla tromba di Eum. 566‑567. Viene coinvolta, in questo caso, la categoria degli oggetti di scena, un elemento al centro di una recente indagine che ne ha evidenziato il valore e la pregnanza, dramma turgici e al contempo simbolici e dunque in generale comunicativi7. Un caso particolare è rappresentato dall’articolatissima strumentazione portata in scena nel prologo del Prometeo per l’incatenamento del protagonista, su cui tornerò tra poco. Al vertice di questa preliminare categorizzazione si troverà il suono non umano. Si tratta dell’effetto acustico più complesso in termini di riproducibilità. Il tuono (βροντή), sembra essere il rumore di questo genere più frequente in tragedia. Se si suppone che quest’ultima tipologia potesse essere riprodotta in teatro, dovevano essere messi in campo alcuni strumenti meccanici che avrebbero dovuto garantire un grado di μίμησις, accettabile. Il μηχάνημα in questione è il ben notobrontéion : la querelle sull’utilizzo o meno delle macchine teatrali nel teatro del V secolo è, come si sa, tutt’altro che risolta, ma per ciò che riguarda questi testi non mi sembra secondario notare che si tratta di drammi datati all’ultima parte del V secolo, con la sola eccezione del Prometeo per il quale proprio uno studio di questo tipo potrebbe accumulare altri indizi a favore di una datazione recenziore. Una griglia strutturata in base alla classificazione proposta permetterà di avere una visione sinottica sui rumori del teatro attico di V sec. La tabella risulterà bipartita in base al criterio ‘scenico’ di suoni prodottisulla scena e fuori scena; ciascuna delle due categorie sarà a sua volta articolata nella scala ‘fisica’ dei suoni da quello che è stato definito più semplice (e più riproducibile) a quello più complesso (e meno riproducibile). Anticipando una tabella sintetica (per i drammi che possiamo leggere integralmente), si potrà avere:

Eschilo Sofocle Euripide Suono In scena Fuoriscena In scena Fuoriscena In scena Fuoriscena corporeo 1 ‑ ‑ ‑ 1 ‑ con un ‑ elemento 1 1 1 ‑ 5 prodotto dal scenico corpo con un oggetto di 2 5 ‑ ‑ ‑ ‑ scena non umano 1 8 ‑ 4 1 5

7 Si tratta del recente OPPOLAC /BARONE/SALVATORI 2016. Una dimensione dimenticata dell’akoè 171

Uno dei casi più rilevanti e più articolati, ma al contempo più affasci‑ nanti, che ho incontrato nel corso della mia indagine è quello del Prometeo Incatenato. Se la vexatissima quaestio della paternità è ancora sub iudice ma Eschilo è sempre meno quotato, una disamina degli ingredienti sonori del dramma può mettere in luce elementi utili in questa prospettiva. Si può innanzitutto osservare che in questa tragedia le notazioni di suoni e rumori marcano momenti scenicamente significativi: il prologo (vv. 1‑87), l’ingresso del coro (v. 125), il finale (vv. 1080‑87). In questa sede ho scelto di soffermarmi sul prologo. Il prologo del Prometeo Incatenato è uno degli elementi che ha contribuito a gettare dubbi sulla paternità eschilea di questo dramma: esso presenta, difatti, una struttura che è parsa anomala all’interno della produzione eschilea superstite (duplice scena composta da un dialogo – vv. 1‑87 – e da un monologo del protagonista, vv. 88‑127), e che viceversa mostra significative analogie con articolazioni drammaturgiche documentate in momenti successivi (per lo più nella produzione sofoclea e in parte in quella euripidea)8. Questa ouverture non contiene gli elementi di scenografia acustica della tipologia che si è definita più esplicita (riferimenti a rumori più o meno espliciti accompagnati da verbi uditivi) ma ha un profilo acusticamente rilevante, ed ha, a mio giudizio, un forte potere psicagogico, determinante nel fornire un primo imprinting dell’ambientazione e dell’atmosfera di questa tragedia. La disamina degli elementi sonori che emergono in questi primi versi può costituire, inoltre, un utile supporto alla ricostruzione della messa in scena di questo segmento drammaturgico, per molti versi dubbia. Griffith (1983, 31) è tra i pochissimi che evidenzia esplicitamente – in una cursoria notazione – le potenzialità mimetiche dei suoni nella messa in scena del dramma (limitatamente ad alcuni versi)9; potenzialità che sembrano meritare una valorizzazione e una focalizzazione ulteriori attraverso una indagine più puntuale e capillare su questi versi. La prima parte del prologo è, come si diceva, occupata da un dialogo tra Kratos ed Efesto, alla presenza di Bia κωφὸν πρόσωπον (come si deduce dall’allocuzione diretta del v. 12): il primo, emissario feroce di Zeus, si assicura che il dio del fuoco esegua gli ordini del padre degli dei, pur riluttante nella sua pietas di consanguineo, ed incateni Prometeo, reo del

8 Vd. THOMSON 1932, 15; GRIFFITH 1983, 80‑81; TAPLIN 1977, 240‑243; SUSANETTI 2010, 146. 9 «All in all, however, Prom. must have been one of the most spectacular and visually sensational tragedies ever presented on the fifth century stage; the unexpected sights (and sounds; cf. 64‑65, 1082‑3 nn.) provide relief and variety to a rather static and monotonous series of scenes». 172 Valentina Zanusso furto del fuoco e della sua clandestina consegna agli uomini, ad una rupe della Scizia, affinché subisca la punizione che Zeus ha stabilito per lui. Il movimento dei personaggi προλογίζοντες si intuisce dal verbo del v. 1: ἥκομεν. Si tratta di un verbo che si può definire ‘tecnico’ in ambito drammaturgico10, poiché compare altrove in incipit di dramma11 e costi‑ tuisce in sostanza una didascalia scenica: in un orizzonte recitativo di im pronta naturalistica, descrive un ingresso presumibilmente in movi ‑ mento seguito immediatamente dalle ragioni dell’arrivo che individuano gli antefatti. Oltre alla struttura del prologo, altro unicum nel panorama tragico a nostra disposizione è l’ingresso contemporaneo di quattro personaggi dotati di identità (Kratos, Efesto, Bia e Prometeo): una singolarità di un qualche rilievo anche nell’ambito della produzione eschilea, ove non è infrequente, nel pur ristretto numero di drammi superstiti, una articolazione prologica del tutto peculiare: è ben noto, difatti, che le Supplici e i Persiani si aprono con un canto del coro (e dunque con una scena abbastanza ‘affollata’). Per cercare, forse, di attenuare, stem ‑ perare questa apparente irregolarità drammaturgica, dalla metà circa dello scorso secolo, alcuni studiosi12 hanno ipotizzato che Prometeo non facesse effettivamente la propria comparsa sulla scena in vesti ‘umane’ ma che al suo posto vi fosse un fantoccio ‘doppiato’ da un attore fuori scena che veniva trascinato in catene e successivamente inchiodato al celeberrimo πάγος (di cui si dirà in seguito). A corroborare questa ipotesi, ormai da più parti criticata, interverrebbero altri elementi: il silenzio del protagonista nel corso di tutta la prima sezione, l’ordine di Kratos ad Efesto di conficcare un cuneo d’acciaio nel petto del Prometeo (vv. 64‑65), la difficoltà per un attore in carne ed ossa di interpretare l’intero dramma incatenato ad un supporto (di qualsivoglia natura si intenda il πάγος di v. 20). Questo ventaglio di elementi non sembra essere, tuttavia, cogente e giustificare una messa in scena così patentemente antirealistica. In merito al silenzio del protagonista diverse potrebbero essere le giustificazioni e le soluzioni sceniche mimeticamente accettabili: si potrebbe pensare innanzitutto che il protagonista fosse portato di peso in scena, quasi privo di sensi, e che si risvegliasse dopo l’uscita di Kratos, Bia ed Efesto. Gli scolii inquadrano questo silenzio in una prospettiva peculiarmente eschilea13, e lo giudicano un espediente dal precipuo valore drammatur ‑

10 Cf. GRIFFITH 1983, 82; vd. anche SUSANETTI 2010, 147 . 11 Come rileva SUSANETTI 2010, 147: cf. Troad. 1, Bacch.1; ma anche Choe. 3 e OC 12. 12 TAPLIN 1977, 243‑245 ripercorre la nascita e lo sviluppo della cosiddetta ‘dummy theory’. 13 Cf. Ar. Ra. 910 ss. Una dimensione dimenticata dell’akoè 173 gico, atto ad «acuire l’attenzione dell’uditore» (88b Herington) o finalizzato a caratterizzare l’ἦθος di Prometeo, che attaccherebbe a parlare dopo che gli altri dei si sono allontanati per non apparire stolto e superbo (88a Herington). Per ciò che concerne la scena del presunto inchiodamento al petto, nulla vieta di ipotizzare che essa fosse semplicemente mimata (proprio la produzione di effetti acustici potrebbe averne rafforzato il realismo) ed infine, relativamente alle difficoltà fisiche dell’attore nel rimanere in scena in piedi legato ad un supporto, diverse messe in scena moderne consentono di verificarne la praticabilità e la riuscita sceniche. La scenografia e l’assetto della scena sono tra gli aspetti più problematici del Prometeo Incatenato e su di essi si sono a più riprese sperimentate l’acribia e le speculazioni degli studiosi, in particolare nel corso del secolo precedente, ma più complessivamente sin dalla seconda metà dell’Otto ‑ cento, quando si è fatto strada il dubbio sulla autenticità del dramma. Elementi di scenografia verbale compaiono sin dai primi versi; Kratos esordisce proprio con la descrizione del luogo in cui si ambienta il dramma: si tratta della Scizia14 (2: Σκύθην οἶμον), definita un τηλουρὸν πέδον (1), una ἄβροτος ἐρημία15 in una sorta di climax che ne sottolinea la desolazione e la brulla asprezza. Appare immediatamente chiaro che la scenografia non presuppone la presenza di un fondale simile a quello che sembra essere il più ricorrente nella produzione conservata (un edificio/tempio/grotta, rappresentato, almeno dal 458 a.C. sulla scenae frons), ma, in modo analogo ad ad altre poche tragedie superstiti16, la scena è aperta e si svolge in un paesaggio roccioso. La nudità selvaggia del luogo viene delineata e ribadita a più riprese in questa prima parte: un numero elevato di riferimenti diretti e di aggettivi danno agli spettatori una chiara idea della conformazione dello sperone di roccia a cui sarà incatenato il titano e della solitudine del luogo, icastico riflesso dell’isolamento del protagonista. Dopo la definizione trimembre in apertura, al v. 4 Kratos ordina ad Efesto di legare il colpevole πρὸς πέτραις ὑψηλοκρήμνοις; al v. 15 Efesto si arrende ad incatenare il proprio συγγενής φάραγγι πρὸς δυσχειμέρωι, e, solo cinque versi dopo, torna a ribadire che sarà costretto ad inchiodarlo τῶιδ’ ἀπανθρώπωι πάγωι, sottolineandone ora, da un punto di vista meno fisico e più etico, la desolazione; un ultimo ma ancor più pregnante ed incisivo riferimento alla scena è nelle ultime battute della breve ῥῆσις incipitaria di Efesto, ai vv. 30‑31: qui la roccia è definita con il frequente ἀτερπῆ, ma di essa si dice

14 Sull’annosa questione della geografia del Prometeo vd. FINKELBERG 1997. 15 Per la spinosa questione testuale vd. GRIFFITH 1983, 81‑82. 16 Cf. Supplici ma anche Edipo a Colono. 174 Valentina Zanusso che costringerà il titano a una posizione verticale (ὀρθοστάδην), senza la possibilità di piegare le ginocchia (οὐ κάμπτων γόνυ), e che per questo lo renderà con ogni probabilità insonne (ἄυπνος), preziose didascalie che ci consentono di visualizzare la probabile posizione dell’attore in scena. Questi molteplici riferimenti – quasi martellanti nei primi trenta versi – fanno pensare ad una scenografia che non rappresentasse in modo del tutto realistico o illusionisticamente efficace il paesaggio, e possono forse rientrare in quella tipologia di scenografia verbale nota per la πάροδος dello Ione euripideo, in cui le battute degli attori aiutano lo spettatore a mettere a fuoco in modo più preciso la scena, un’esigenza tanto più avvertita in un caso come questo in cui l’ambientazione riveste un’impor‑ tanza del tutto particolare nel veicolare un certo tipo di contenuto. La rupe prometeica viene definita più volte πάγος (vv. 20, 117, 130, 270), ma anche πέτρα (come ai citati vv. 4, 31, 56) e φάραγξ (v. 15): di cosa si tratta? Gli studiosi si sono divisi tra quanti hanno creduto si trattasse di un complemento scenico, una struttura provvisoria, collocata davanti alla σκηνή o anche nell’orchestra; quanti hanno immaginato l’impiego del‑ l’ἐκκύκλημα (che avrebbe avuto un ruolo cardine anche nella scena finale) e quanti, infine, hanno supposto lo sfruttamento da parte di Eschilo di un costone roccioso naturale, che sarebbe stato utilizzato dal poeta anche in altri drammi (tra i più antichi tramandati a suo nome, come le Supplici17, i Persiani, i Sette a Tebe) e che sarebbe stato livellato solo in un momento successivo, nella seconda metà del V secolo18. L’assenza di evidenze archeologiche o di altri elementi interni ed esterni al testo che possano fornire ulteriori indizi sulla veridicità dell’una o dell’altra ipotesi, nonché l’esulare della questione dallo specifico tema di cui intendo interessarmi, scoraggiano da speculazioni ulteriori su questo aspetto, se non per un dettaglio: qualunque fosse il supporto in gioco, a mio avviso, proprio su questo – e anche contro questo – supporto veniva realisticamente e sonoramente mimata la scena dell’incatenamento del protagonista; doveva trattarsi, dunque, di un complemento scenico che si prestasse ad essere energicamente colpito dal martello di cui era provvisto Efesto, e che facesse così risuonare in teatro il rumore vibrante delle decise martellate del dio. Il presupposto fondamentale da cui parte questa analisi, è, pertanto, come si è già anticipato, quello di una messa in scena mimetica e quanto più realistica possibile del prologo; non si tratta di un assunto infondato,

17 Salvo poi la scoperta della hypóthesis che ha portato alla sorprendente ridatazione. 18 Per una panoramica aggiornata sulle soluzioni ipotizzate dagli studiosi vd. DAVIDSON 1994. Una dimensione dimenticata dell’akoè 175 se qualche anno fa Susanne Saïd si mostrava assolutamente convinta dell’altissimo grado di simbolismo di questa prima scena, sulla scorta di una lettura generale del dramma e del teatro antico nel suo insieme, in cui alla parola scenica veniva assegnata la funzione di descrivere, compen‑ sando con le parole ciò che non avveniva nella prassi. La studiosa, facendo tesoro di considerazioni di ordine generale sul realismo nel teatro greco espresse da Taplin, e applicando in maniera rigorosa un principio indivi ‑ duato anni prima dalla Dale19, per il quale nel teatro antico quanto più una descrizione risulta puntuale e precisa, tanto più si riferisce a qualcosa che non era visibile agli spettatori, sostiene che la descrizione dell’incate‑ namento di Prometeo occupava un numero elevato di versi per «compenser l’absence de spectacle»20. Stupisce tuttavia constatare che, nonostante una presa di posizione inizialmente così forte, la Saïd si risolva poi a concludere che «l’acteur était sans doute simplement fixé par des liens maintenus par desclous à une planche dressée verticalement ou à un poteau»: una sintesi della scena che tutto sommato non sembra troppo distante da una rappresentazione realistica dell’incatenamento e che potrebbe essere ricostruita, io credo, seguendo mimeticamente il tracciato del testo. In questa prospettiva utili a mettere in luce gli elementi acusticamente pregnanti così come potevano essere percepiti dallo spettatore antico sono le spie verbali che ci consentono di individuare gli strumenti di scena e l’analisi lessicale dei verbi impiegati, che permette di valutarne anche probabili risonanze e similarità con altri loci, segnatamente drammaturgici. Fondamentale appare ripercorrere preliminarmente il prologo nel suo svolgimento e nella sua struttura drammatica. Kratos è il primo ad entrare in scena e, come si è detto, descrive l’ambientazione, in una pennellata icastica (vv. 1‑2) per poi richiamare sinteticamente gli antefatti (vv. 3‑10): Prometeo si è macchiato del furto del fuoco, che ha sottratto agli dèi per farne dono agli uomini. Zeus ha dunque deciso di punirlo affidando ad Efesto, al quale Kratos si rivolge direttamente, il compito di legarlo ad una brulla rupe della desolata Scizia. Sin qui lo spettatore, pur avendo di fronte due personaggi dall’aspetto assai truce (come si evince dalle parole di Efesto al v. 78)21, non conosce l’identità di chi ha parlato, ma solo quella del dio a cui è indirizzata la prima allocuzione, Efesto appunto, forse il più familiare, dati gli attributi22 e la tipica andatura claudicante con cui presu ‑

19 DALE 1969, 119. 20 SAÏD 1985, 47. 21 Vd. da ultimo WYLES 2011. 22 Cf. GRIFFITH 1983, 81. 176 Valentina Zanusso mibil mente faceva il proprio ingresso in scena23. Segue una breve ῥῆσις del dio (vv. 12‑35)24 che, in qualità di συγγενής25 del condannato, esprime la propria partecipazione al dolore di Prometeo, pur vedendosi costretto ad eseguire gli ordini del sovrano degli déi. Le prime parole di Efesto sono un’apostrofe agli altri due personaggi in scena, grazie alla quale il pubblico ne conosce ora con certezza l’identità. In questi versi, come si è detto, si ritrovano svariati riferimenti all’ambientazione e descrizioni dei particolari del supplizio intrise di συμπάθεια (vv. 21‑25; 31‑32)26; viene inoltre inserito un verso di presentazione stilizzata quanto anfibologica del protagonista (v. 18)27; interessante notare che il dio ripete per ben due volte l’odiato compito che Zeus gli ha affidato (vv. 15 e 20), quasi a voler prendere coraggio, a rassegnarvisi. Il profilo di Zeus che viene tratteggiato sin da questi primissimi versi è stato uno degli elementi che maggiormente ha instillato dubbi sulla paternità eschilea dell’opera perché parso in opposizione netta con la teodicea del poeta. Attraverso la canonicabase di transizione (vv. 36‑38), prende avvio una sticomitia che appare certamente unica nella produzione eschilea superstite e comunque piuttosto rara, caratterizzata dal rigido e costante alternarsi dei versi 2:1 (due versi assegnati a Kratos e uno ad Efesto) che presenta sporadici confronti; essa occupa più di quaranta versi (39‑81)28. Da questa

23 In altre versioni del mito gli aguzzini di Prometeo sono altri: Hermes in Luciano, Dialoghi degli dèi 5, 11; Prometeo 1‑2; Igino, Fab. 144; lo stesso Zeus in Esiodo Th. 520‑21. Kratos e Bia sono pertanto due figure appositamente create per la scena dal drammaturgo, che sia Eschilo oppure un poeta successivo. In Esiodo si ritrovano accoppiati tra i figli di Stige, la cui lealtà verso Zeus è opportunamente sottolineata da SUSANETTI 2010, 148. 24 Un discorso meticolosamente costruito come puntuale contraltare di quello di Kratos (GRIFFITH 1983, 85), che contribuisce a polarizzare ancor di più questa coppia scenicamente dicotomica. 25 Efesto è figlio di Era, che è nipote (perché figlia di sua figlia Rea) di Urano. Prometeo è qui figlio di Themis, anch’essa figlia di Urano. Di qui il legame di vera e propria συγγένεια che intercorre tra le due divinità, alla quale fa appello Efesto; si ricordi inoltre, che Efesto e Prometeo, entrambi associati al fuoco e alle arti e tecniche, condividevano un culto comune in Atene (cf. S. OC 56 e Paus. 1, 30, 2 cf. GRIFFITH 1983, 85 e SUSANETTI 2010, 149). In ogni caso, al di là del reale legame di parentela, la φιλία tra dei e la συμπάθεια che lega diversi di essi a Prometeo costituisce un Leitmotiv basilare di questo dramma. 26 Contribuisce a delineare il rapporto di συμπάθεια di Efesto nei confronti di Prometeo la seconda persona che impiega il dio del fuoco e la terza che viceversa usa Kratos (THOMSON 1932, 133; GRIFFITH 1983, 82). 27 GRIFFITH 1983, 81 nota che in realtà il nome viene pronunciato esplicitamente per la prima volta solo al v. 66. Una dimensione dimenticata dell’akoè 177 disposizione delle battute del tutto peculiare deriva l’impressione di una sostanziale prevaricazione di Kratos su Efesto; questa impressione poteva essere altresì accresciuta dalla dizione recitativa che, come suggerisce il contenuto (invettive e aspri rimproveri nelle parole del primo, amara rassegnazione e risentita accondiscendenza in quelle del secondo), in un orizzonte naturalistico, doveva essere piuttosto violenta e a voce alta per Kratos (ve ne è esplicita conferma nel testo al v. 73 ἦ μὴν κελεύσω κἀπιθωύξω29 γε πρός) e viceversa amareggiata e più sommessa (ma pur sempre nei limiti dell’udibile sotto i colpi del martello) per il dio del fuoco. Nel corso del dialogo Prometeo viene incatenato e le operazioni sono scandite dagli ordini che Kratos impartisce imperiosamente ad Efesto e che quest’ultimo esegue. Come si è già detto (vedisupra ), una descrizione così puntuale e minuziosa, un così elevato numero di versi ha destato l’attenzione degli studiosi e ha portato persino a supporre che ciò potesse compensare una messa in scena in realtà molto più sommaria e sbrigativa. A mio avviso, invece, l’elevato numero di versi e l’accurata scansione della scena, anche da un punto di vista verbale, nascondono la precipua volontà del tragediografo di indirizzare e dirigere una messa in scena che poteva risul‑ tare particolarmente complessa. Il poeta si appunta, difatti, su un’o pe ra zione decisiva e focale per il dramma, e da un punto di vista drammaturgico (è di fatto essenziale per costituire l’assetto che la scena manterrà per tutta la durata dello spettacolo) e dal punto di vista del significato e dei contenuti. Questi versi hanno dunque, a mio giudizio, un valore pragmatico: consentono all’attore che aveva il compito di legare Prometeo alla struttura disposta alla scopo di farlo con la dovuta calma e con la debita attenzione. Il tragediografo funzionalizza questo brano, che si configura dunque come una vera e propria didascalia scenica, inserendo una serie di parole chiave che introducono i temi nodali del dramma e rendendone protagonisti due personaggi (tre con Bia) che nella loro opposizione manichea stigmatizzano icasticamente ed efficacemente il confronto‑scontro di valori su cui la tragedia è imperniata. L’incatenamento doveva occupare i versi finali della prima parte del prologo (52‑81). In essi si trovano dense tracce testuali che possono guidare una plausibile ricostruzione della messa in scena: riferimenti a oggetti che

28 Cf. S. Aj. 791‑802, ma qui nel Prometeo assai più prolungata e con un effetto dunque di maggiore rigidità. 29 Sulla sfumatura ‘ferina’ del verbo cf. THOMSON 1932, 139; GRIFFITH 1983, 97; SUSANETTI 2010, 159. 178 Valentina Zanusso erano presenti concretamente (come suggerisce l’impiego della deissi e di locuzioni specifiche) e che avevano un profilo acustico molto rilevante, e verbi significativi (anche e soprattutto acusticamente) che possono rientrare nel modulo della didascalia scenica. Nell’ambito della più generale tendenza degli studi degli ultimi decenni a valorizzare la dimensione performativa, l’attenzione degli studiosi si è recentemente focalizzata anche sugli oggetti che popolavano la scena teatrale ateniese o che venivano semplicemente evocati dai diversi personaggi, nella loro funzione drammaturgica e comunicativa30. Nel pionieristico volume di COPPOLA‑BARONE‑SALVADORI 2016, la seconda parte è dedicata ad una schedatura completa del materiale tragico, per ciò che concerne i drammi integri, curata da Francesco Puccio31. Anche in questo caso, come avviene in questa stessa sede, lo strumento principe per ottenere informazioni sugli oggetti è il testo delle tragedie: vengono dunque presi in considerazione solo i riferimenti testuali espliciti ad oggetti. Il materiale emerso viene inoltre classificato in base alla presenza più o meno certa sulla scena, anch’essa per come può essere desunta dal testo, facendo tesoro dell’indispensabile strumento della deissi: oggetti d’uso, che venivano con ogni probabilità effettivamente impiegati dagli attori; oggetti evocati, di cui si parla, ma non presenti in scena; oggetti di scena descritti con funzione drammaturgica e di cui si ipotizza una presenza scenografica (per lo più parti della σκηνή). Il Prometeo viene tradizionalmente collocato tra i drammi eschilei, e trova posto tra le Supplici e l’Agamennone. Nella sintetica introduzione alla schedatura che fa una concisa e generale panoramica sul valore degli oggetti scenici nei tre tragici, Puccio afferma che in Eschilo gli oggetti hanno «una loro forza materiale, un’intrinseca pragmaticità, dettata dal fatto di essere elementi legati alla guerraPersiani ( ) o a personaggi che sono stati in lotta contro gli uomini Agamennone,( Sette contro Tebe) e contro gli dei (Prometeo)»32. Appare chiaro dunque, che la tragedia viene considerata parte integrante della produzione eschilea a

30 Il convegno internazionale Gli oggetti sulla scena teatrale ateniese: funzione, rappresentazione, comunicazione, svoltosi a Padova nei giorni 1 e 2 dicembre 2015, ha prodotto un volume (COPPOLA/BARONE/SALVADORI 2016) che consente di ripercorrere la funzione e il valore dell’impiego di oggetti di scena sia in ambito tragico, con escursioni nel teatro frammentario, sia in ambito comico, attraverso contributi che si giovano di prospettive diverse spesso integrate tra di loro (iconografia, drammaturgia, storia). Particolarmente utile ai fini della mia ricerca la schedatura del materiale relativo alla tragedia, a cura di Francesco Puccio, a cui faccio riferimento. 31 COPPOLA/BARONE/SALVADORI 2016, 305‑391. 32 COPPOLA/BARONE/SALVADORI 2016, 306. Una dimensione dimenticata dell’akoè 179 pieno titolo, e giudicata armonica nella composizione del più generale quadro di funzionalizzazione eschilea degli oggetti di scena; viene difatti sorprendentemente citata due volte in questa pur breve analisi generale. Lo studioso assegna un valore fondamentale all’aspetto simbolico degli oggetti in Eschilo. A tale proposito cita ancora il Prometeo in cui gli oggetti di scena «evidenziano la separazione tra i destini degli uomini, la loro volontà di potenza e la loro effettiva possibilità di azione». Come si cercherà di dimostrare, la funzione simbolica degli oggetti impiegati nel prologo – che a ben vedere esauriscono in sostanza la quasi totalità degli oggetti di scena effettivamente impiegati nell’intero dramma 33– , è ben evidente: si tratta di catene e di strumenti atti ad incatenare il protagonista, che concretano vividamente, e anche acusticamente direi, il tema cardine del dramma (vd. infra). Tenderei altresì a sottolineare anche la reale funzione pratica, che doveva essere esplicita nella scena dell’incatenamento: se l’ipotesi per cui i vv. 52‑81 possono essere letti come un’unica grande didascalia scenica coglie nel segno, la concreta funzione di questi strumenti doveva essere rilevante tanto quanto il loro valore simbolico. È nella scelta dell’autore di questi oggetti del tutto peculiari e fortemente connotati – come si vedrà –, che si manifesta la felice coniugazione di queste dimensioni: pratica e simbolica. Il corredo degli oggetti di scena che dovevano essere concretamente visibili agli occhi degli spettatori in questa prima sezione è piuttosto ampio e comprende strumenti immediatamente riconoscibili e diffusi accanto a oggetti meno comuni e legati ad ambiti specifici, primo tra tutti, come si vedrà, quello equestre. Ai vv. 3 e ss. Kratos, nell’illustrare gli antefatti, accenna all’ordine che Zeus ha impartito ad Efesto e che ora il dio sta per compiere:

Ἥφαιστε, σοὶ δὲ χρὴ μέλειν ἐπιστολὰς ἅς σοι πατὴρ ἐφεῖτο, τόνδε πρὸς πέτραις ὑψηλοκρήμνοις τὸν λεωργὸν ὀχμάσαι ἀδαμαντίνων δεσμῶν ἐν ἀρρήκτοις πέδαις

Efesto, ora è necessario che tu compia i comandi che ti diede tuo padre: incatenare questo delinquente ad una rupe vertiginosa, in ceppi indissolubili di catene d’acciaio.

Si tratta di una azione che viene solo descritta preliminarmente ma che ci fornisce alcuni indizi preziosi su quanto avverrà attraverso il verbo

33 COPPOLA/BARONE/SALVADORI 2016, 320‑321. 180 Valentina Zanusso

(ὀχμάσαι) e quella che sembra un’enfatica perifrasi per indicare la strumentazione (ἀδαμαντίνων δεσμῶν ἄρρηκτοι πέδαι). Il verbo, innan ‑ zitutto, è qui alla sua prima attestazione nota34: rubricato dai lessicografi per lo più come sinonimo di δέω, συνέχω, χειρόω 35 registra, nell’ambito della produzione tragica, il maggior numero di occorrenze in Euripide ove in due loci descrive la precisa azione di trafiggere (Cyc. 48436 e Or. 26537), mentre in El. 81738 e in Sofocle Ant. 35139 indica propriamente il «domare un cavallo». Viene così sottilmente introdotto un riferimento metaforico alla dimensione della caccia e alla doma del cavallo che affiorerà a più riprese nel corso del prologo e del dramma40. L’elaborata perifrasi con cui si allude alle catene («ceppi indissolubili di catene d’acciaio») accumula quattro elementi – due nomi abbastanza comuni per indicare ceppi e catene (πέδαι e δεσμά) corredati ciascuno da un proprio aggettivo (rispet ti ‑ vamente ἄρρηκτος e ἀδαμάντινος41) – che producono una espressione fortemente enfatica. Le radici della iunctura πέδη . . . ἄρρηκτος affondano in una humus omerica42, ma che la perifrasi (con l’inclusione di δεσμά) abbia un’allure tradizionale sembra confermato dalla forte analogia con Sem. 7, 116‑117:

Ζεὺς γὰρ μέγιστον τοῦτ’ ἐποίησεν κακόν, καὶ δεσμὸν ἀμφέθηκεν ἄρρηκτον πέδην.

Zeus infatti fece questo grande male e vi pose intorno una catena, un ceppo indissolubile.

In questi primissimi versi, dunque, accanto ad una allusione generale ad alcuni oggetti di scena (che dovevano essere già ben visibili al pub ‑

34 Di nuovo nel Prometeo al v. 618, nelle parole di Io che chiede al protagonista di rivelarle ὅστις ἐν φάραγγί σ’ ὤχμασεν, con un richiamo netto a questa prima sezione anche nel sostantivo φάραγξ. 35 Cf. Ael., Dion., Hesych., Phot. Sud. 36 ἄγε, τίς πρῶτος, τίς δ’ ἐπὶ πρώτωι /ταχθεὶς δαλοῦ κώπην ὀχμάσαι. 37 μέθες· μί’ οὖσα τῶν ἐμῶν Ἐρινύων / μέσον μ’ ὀχμάζεις, ὡς βάληις ἐς Τάρταρον. 38 Ἓν τῶν καλῶν κομποῦσι τοῖσι Θεσσαλοῖς / εἶναι τόδ’, ὅστις ταῦρον ἀρταμεῖ καλῶς / ἵππους τ’ ὀχμάζει. 39 κρατεῖ / δὲ μηχαναῖς ἀγραύλου / θηρὸς ὀρεσσιβάτα, λασιαύχενά θ’ / ἵππον ὀχμάζεται ἀμφὶ λόφον ζυγῶι οὔρειόν τ’ ἀκμῆτα ταῦρον. 40 Cf. THOMSON 1932, 137; GRIFFITH 1983, 21 e 89; SUSANETTI 2010, 156‑57. 41 Per cui cf. vv. 64 e 148; sul valore di questo aggettivo – «d’acciaio» piutttosto che «adamantino» – si veda GRIFFITH 1983, 82‑83. 42 Il. 13, 36‑37: ἀμφὶ δὲ ποσσὶ πέδας ἔβαλε χρυσείας / ἀρρήκτους ἀλύτους, come rilevava BARONE 1915, 60. Una dimensione dimenticata dell’akoè 181 blico43) si osserva il ricorso ad una locuzione di stampo pressoché tradi‑ zionale, del tutto confacente alla sede (iniziale e narrativa). Nella successiva risposta, Efesto (vv. 19‑20) descrive le azioni che compirà, a ribadire gli ordini che, proprio malgrado, dovrà eseguire; egli, però utilizza termini molto diversi rispetto all’interlocutore:

ἄκοντά σ’ ἄκων δυσλύτοις χαλκεύμασι προσπασσαλεύσω τῶιδ’ ἀπανθρώπωι πάγωι,

contro il tuo e il mio volere, con catene di bronzo indissolubili ti inchioderò a questo promontorio deserto di uomini.

Agli antipodi della battuta di Kratos, in quella di Efesto viene messa in campo una iunctura inusitata, nella quale il sostantivo (χάλκευμα) è in buona sostanza un hapax44 in questo peculiare uso al plurale, ed è in coppia con un aggettivo (δύσλυτος) altrettanto raro in tragedia45 (e più in generale nella letteratura classica), che conoscerà un amplissimo uso in medicina, segnatamente nel corpus galenico. Il verbo προσπασσαλεύω46, propria ‑ mente «inchiodare a qcs.», «fissare con chiodi a qcs.», denominativo da πάσσαλος, «chiodo», è un composto di πασσαλεύω, che conta ben due esempi in questo torno di versi (vv. 56 e 65). Si tratta, a ben vedere, di un verbo che, nelle due forme (composta e di base) registra il maggior numero di occorrenze e il solo insieme a θείνω che eccezionalmente si ripete in bocca a Kratos, che altrimenti si distingue per la specificità e la varietà dei verbi utilizzati. L’azione espressa da questo verbo appare dunque fonda ‑ mentale, centrale nell’economia della scena e, a meno di non ipotizzare una recita antirealistica, doveva essere con ogni probabilità mimata dagli attori. L’elemento che doveva risultare determinante nella realizzazione di questa scena, ausiliario fondamentale di una mimesi che in ogni caso non poteva essere integrale, era proprio il rumore: l’azione descritta dal verbo implica ‑

43 πέδαι e δεσμά ricorrono anche altrove (rispettivamente v. 76 e v. 52) quindi dovevano essere in scena. 44 vd. LSJ s.v. 45 Se ne rileva l’impiego solo in due drammi euripidei, in maniera figurata: Andr. 121 (εἴ τί σοι δυναίμαν / ἄκος τῶν δυσλύτων πόνων τεμεῖν) riferito ai πόνοι della protagonista che il coro si augura di poter «sciogliere» e Phoen. 375 (καὶ δυσλύτους ἔχουσα τὰς διαλλαγάς / τί γὰρ πατήρ μοι πρέσβυς ἐν δόμοισι δρᾶι, / σκότον δεδορκώς), ove pure concorda con διαλλαγή. Il locus prometeico dunque, rappresenta il solo impiego proprio dell’aggettivo in tragedia. 46 Si tratta di un verbo che conosce un impiego per lo più in ambito comico: Cratin. fr. 1, 3; Tim. 2, 2; Ar. Pl. 943; Men. fr. 718, 1. 182 Valentina Zanusso va un rumore molto forte, una sonorità cadenzata e pervasiva che doveva riecheggiare a più riprese nel corso della prima scena e che contribuiva a impressionare il pubblico, distraendolo, forse, dai dettagli meno realistici della messa in scena. La presenza concreta di strumentazione atta a condurre le operazioni di incatenamento nominata sin dai primi versi potrebbe trovare conferma nel deittico di v. 51 (τοῖσδε): in risposta ad un’affermazione sentenziosa di Kratos, ἐλεύθερος γὰρ οὔτις ἐστὶ πλὴν Διός, «nessuno è libero se non Zeus», Efesto, infatti, ammette amaramente

ἔγνωκα τοῖσδε, κοὐδὲν ἀντειπεῖν ἔχω.

ho capito da questi, e non posso opporre nulla.

Il verso, nella lezione del Laurenziano e delle famiglie poziori, così come stampato da West e da Sommerstein, può essere interpretato appunto come un riferimento pragmatico alle catene che Efesto sta mettendo a Prometeo: «lo so da queste [appunto: le catene], e non posso opporre nulla» (così, ad esempio, Susanetti, che traduce: «Lo so, basta guardare queste catene»). Più in generale alcuni studiosi sostengono che il τοῖσδε di mezzo47 si riferisca «not to the chains only, but to the whole of the present circumstances» (VERDENIUS 1976, 452), e che Efesto «points to the rock, the chains, and his tools» (GRIFFITH 1983, 93). Partendo da una lezione della famiglia μ, invece, ἔγνωκα τοῖσδε τ’οὐδὲν, altri studiosi – tra i quali Murray e Page – pongono una pausa dopo ἔγνωκα, e interpretano il verso in questo senso: «lo so; non posso opporre nulla a queste cose»48: va ricordato, tuttavia, come fa West, che la famiglia μ conosce un momento di particolare sviluppo all’interno dello scriptorium Tricliniano49; una fase nella quale il testo è stato certamente sottoposto a interventi dotti miranti, in questo caso, a chiarire un verso di non facile comprensione. Il nesso ἔγνωκα τοῖσδε, in conclusione, appare difficilior, e in tal senso potrebbe a buon diritto far riferimento agli strumenti dell’incatenamento. Per converso, il successivo invito di Kratos:

οὔκουν ἐπείξηι τῶιδε δεσμὰ περιβαλεῖν

Non esitare dunque a gettargli attornocatene

47 Per cui cf. Hom. Il. 5, 182; E. Ion 1344. 48 Singolare il testo stampato da Mazon: ἔγνωκα· τοῖσδε κοὐδὲν …, che, per usare le parole di THOMSON 1932, 137, «is not Greek». 49 WEST 1992, III. Una dimensione dimenticata dell’akoè 183 ove il sostantivo δεσμά appare privo di qualsiasi elemento di deter ‑ minazione (ad esempio il deittico o anche l’articolo), potrebbe far pensare che il τοῖσδε del verso precedente, che non viene in alcun modo richiamato, non faccia riferimento a questi strumenti di scena. In altre parole: se ἔγνωκα τοῖσδε si potesse interpretare come un’allusione diretta agli oggetti di scena che Efesto teneva tra le mani («lo so daqueste (sc. catene)»), ci si aspetterebbe che la successiva battuta di Kratos, in cui le catene vengono esplicitamente menzionate, richiamasse in qualche modo il deittico del verso precedente, corredando i δεσμά menzionati di un elemento connotativo (ad esempio: «Non esitare dunque a gettargli attorno le tue/queste catene») che invece è assente. Constatata la presenza di elementi contrastanti e di non univoca interpretazione, appare pertanto preferibile sospendere il giudizio in questa sede. Numerosi saranno, nei versi immediatamente successivi, i termini impiegati per indicare oggetti scenici, tecnicamente ben definiti e connotati, e altrettanto precisi i verbi. A fronte della successiva intimazione di Kratos a darsi da fare, Efesto replica (54):

καὶ δὴ πρόχειρα ψάλια50 δέρκεσθαι πάρα

ecco: ho dei barbazzali in mano, li puoi vedere.

La locuzione rende certa la presenza in scena degli ψάλια51: il termine ha una precipua connotazione nel lessico equestre; si tratta infatti dei cosiddetti barbazzali o sottogola, parte fondamentale del freno del cavallo (Xen. hipp. 7, 1; Poll. 1, 148; Ar. Pax 155; E. Herc. 381)52. Ancora dunque un richiamo alla dimensione della doma di cui si è detto supra. Il vocabolo conosce anche un uso più esteso nel senso di «giogo», «catena», «vincolo» (cf. Choe. 962). La potenzialità sonora di questo elemento in ferro, facilmente deducibile, viene altresì sottolineata dagli stessi autori antichi, in particolare da Eliano (N.A. 6, 10, 20):

ἵππος δὲ ἄρα ὅταν ἀκούσῃ ψαλίων κρότον καὶ χαλινοῦ κτύπον . . . φριμάττεται ἐνταῦθα

quando un cavallo sente il rumore dei barbazzali . . . allora diventa frenetico.

50 ψάλια è lezione del Laurenziano, promossa concordemente a testo da tutti gli editori a preferenza della varia lectio ψέλια, propriamente «braccialetti», «armille», che pure qualche edizione datata prova a difendere, cf. BARONE 1915, 67‑68. 51 COPPOLA/BARONE/SALVADORI 2016, 320‑321. 52 Cf. ANDERSON 1961, 60‑61; CASCARINO 2007, 83. 184 Valentina Zanusso

Altrettanto rumorosa doveva dunque essere la presenza degli ψάλια sulla scena del Prometeo e particolarmente significativa, quasi un correlativo oggettivodella condizione di sottomissione del protagonista. A tal proposito il suono emesso da questi oggetti in ferro, così vividamente associato anche nell’immaginario collettivo ad un’operazione di addomesticazione, doveva risultare assai efficace e rendere la comunicazione immediata, sfruttando anche il canale acustico. L’aggettivo impiegato in riferimento a tale oggetto, πρόχειρος, ‑ον, vale «sotto mano», «a portata di mano» e dunque «accessibile» e «facile» (anche in senso deteriore)53. Nei testi tragici sono documentate diverse occorrenze dell’attributo con accezioni sensibilmente differenti54. A mio avviso, però, nel Prometeo l’aggettivo descrive un gesto scenico che collima maggiormente con l’uso che ne fa Euripide. Nei drammi euripi‑

53 Vd. Chantraine s.v. χείρ; LSJ s.v. 54 In Eschilo si trova in quest’unico locus; DINDORF (1876, 315, s.v.) glossava: ante manus positus, paratus; lo studioso, perciò, non sembra pensare ad un Efesto che afferrasse effettivamente gli ψάλια e li scuotesse con decisione. In Sofocle si registrano alcune occorrenze riconducibili ad un ventaglio semantico ampio. In El. 1494 l’aggettivo è riferito ad Oreste: nelle sue ultime battute, Egisto cerca provocatoriamente di dissuadere Oreste dall’omicidio, accusandolo di non essere in realtà pronto (πρόχειρος) a commetterlo e di cercare per questo protezione nell’oscurità della reggia: τί δ’ ἐς δόμους ἄγεις με; πῶς, τόδ’ εἰ καλὸν τοὔργον, σκότου δεῖ, κοὐ πρόχειρος εἶ κτανεῖν; in Phil. 747 il protagonista in preda allo strazio del dolore chiede a Neottolemo di colpire la punta del piede se ha una spadatra le mani (πρόχειρον): πρὸς θεῶν, πρόχειρον εἴ τί σοι, τέκνον, πάρα ξίφος χεροῖν, πάταξον εἰς ἄκρον πόδα. Particolarmente significativo, infine, l’impiego in S. El. 1115‑1116: οἲ ’γὼ τάλαινα, τοῦτ’ ἐκεῖν’, ἤδη σαφές· πρόχειρον ἄχθος, ὡς ἔοικε, δέρκομαι «Ahimè infelice, è tutto chiaro ormai; io vedo questo fardelloproprio qui davanti alle mie mani / a portata di mano, a quanto sembra». Si tratta della scena in cui Oreste, nei panni del mercante focese, annuncia la propria presunta morte e porta con sé le proprie presunte ceneri in un’urna. Appunto a questo fondamentale oggetto di scena Elettra fa riferimento con la locuzione metaforica πρόχειρον ἄχθος, abbinata allo stesso verbo visivo che ricorre nel Prometeo (δέρκεσθαι ). FINGLASS 2007, 442 commenta l’aggettivo riportandone la definizione di ELLENDT 1872 «quod presens adest, quasi in manus sumendum» che predilige al senso di «held in the hand» proposto da CAMPBELL 1881. Appare evidente che in questo specifico contesto πρόχειρον non indica un contatto diretto con l’oggetto, dal momento che pochi versi dopo Elettra chiede ad Oreste(‑mercante focese) di poter stringere l’urna tra le mani (vv. 119‑1120: ὦ ξεῖνε, δός νυν πρὸς θεῶν, εἴπερ τόδε / κέκευθεν αὐτὸν τεῦχος, ἐς χεῖρας λαβεῖν). Che tuttavia possa esservi un’allusione alla possibilità di toccare materialmente l’urna, che concreta agli occhi della sorella la morte di Oreste, è ben evidenziato dalla felice traduzione di TONELLI 2013: «Ohimé infelice! È tutto chiaro, adesso: a quanto sembra, lo vedo, qui,e posso anche toccarlo, quel fardello doloroso». Una dimensione dimenticata dell’akoè 185 dei (cf. Her. 726; El. 696; Hel. 156455) πρόχειρος, per lo più riferito ad armi (τεύχη o ἔγχος), è impiegato nella duplice accezione di «impugnare» e allo stesso tempo «tenere pronta», «a disposizione» l’arma in questione: si tratta dunque di oggetti effettivamente afferrati e ‘branditi’ con evidenza dall’attore. A mio giudizio dunque Efesto, rispondendo con una certa impazienza agli ordini di Kratos, afferrava gli ψάλια con decisione e li scuoteva, producendo un fragore ben riconoscibile e sinistro, come si è detto, nell’immaginario acustico degli spettatori. Un ulteriore indizio in grado di gettare luce sulla gestualità che accompagnava questo verso è il καὶ δὴ in incipit qui e al v. 75. DENNISTON 1954, 250‑251 individua una funzione peculiarmente drammatica di questa iunctura: «it signifies, vividly and dramatically, that something is actually taking place at the moment»; si tratta dunque di un nesso che imprime vividezza e che conosce un impiego estensivo nella letteratura greca56. Ap‑ pare del tutto in linea con quanto detto l’impiego in ambito segna tamente teatrale, come marcatore dell’ingresso di un nuovo personaggio57 e come risposta affermativa ad un’esigenza imposta dalle circostanze o da un altro personaggio (per cui vengono riportati ad esempio da Denniston innan‑ zitutto iloci prometeici)58. L’utilizzo di questo nesso accompagna, nella mia opinione, un gesto mimeticamente pregnante, dunque estremamente efficace sul piano drammaturgico e comunicativo. Il successivo ordine di Kratos ai vv. 55‑56 fornisce ulteriori dettagli su quanto avviene in scena:

βαλών νιν ἀμφὶ χερσὶν ἐγκρατεῖ σθένει ῥαιστῆρι θεῖνε, πασσάλευε πρὸς πέτραις

Legalo ai polsi, batti con il martello con tutta la forza possibile, inchiodalo alla roccia.

Accanto al verbo θείνω, «colpire», che è parola poetica estremamente diffusa, e allo iussivo πασσάλευε πρὸς πέτραις59, un pastiche con le parole iniziali di Kratos ed Efesto (vv. 4‑5 e 19), colpisce la presenza in scena di un

55 Ove tuttavia compare tracruces . 56 Denniston precisa che l’impiego più generale ha a che fare con verbi di percezione, anche visiva ed uditiva: «marking vivid perception by mind, ear or eye»: cf. e.g. E. Herc. 867; Ar. Thesm. 769. 57 S. Aj. 544; E. Med. 118; Cyc. 488; Suppl. 1114; Ar. Av. 268; Ran. 604, etc. 58 DENNISTON 1954, 252‑253. 59 Per il non comune asindeto cf. GRIFFITH 1983, 94. 186 Valentina Zanusso

ῥαιστήρ60, propriamente «distruttore», da ῥαίω, «fracassare», «distrug ‑ gere», ma sin da Omero «martello»61. Callimaco descrive appieno le potenzialità sonore di questo strumento inserendolo nel caotico frastuono della fucina dei Ciclopi che atterrisce Artemide e le sue giovanissime compagne nell’omonimo Inno callimacheo (Hymn. 3, 51‑60):

αἱ νύμφαι δ’ ἔδδεισαν, ὅπως ἴδον αἰνὰ πέλωρα πρηόσιν Ὀσσαίοισιν ἐοικότα (πᾶσι δ’ ὑπ’ ὀφρύν φάεα μουνόγληνα σάκει ἴσα τετραβοείῳ δεινὸν ὑπογλαύσσοντα) καὶ ὁππότε δοῦπον ἄκουσαν ἄκμονος ἠχήσαντος ἐπὶ μέγα πουλύ τ’ ἄημα φυσάων αὐτῶν τε βαρὺν στόνον· αὖε γὰρ Αἴτνη, αὖε δὲ Τρινακρίη Σικανῶν ἕδος, αὖε δὲ γείτων Ἰταλίη, μεγάλην δὲ βοὴν ἐπὶ Κύρνος ἀΰτει, εὖθ’ οἵγε ῥαιστῆρας ἀειράμενοι ὑπὲρ ὤμων ἢ χαλκὸν ζείοντα καμινόθεν ἠὲ σίδηρον ἀμβολαδὶς τετύποντες ἐπὶ μέγα μυχθίσσειαν.

«Ebbero paura le ninfe, come videro i mostri terribili, simili alle balze dell’Ossa (a tutti di sotto il ciglio lume di solitaria pupilla, come scudo di quattro pelli, sogguardava tremendo), e quando udirono il tonfo d’incudine echeggiante lontano, e il gran vento dei mantici e il loro gemito grave: perché urlava l’Etna, urlava la Trinacria sede dei Sicani, e urlava vicina l’Italia e rispondeva Cirno con grido possente, quando quelli, i magli sollevati sulle spalle, il bronzo bollente dalla fornace o il ferro a ritmo colpendo fortemente sbuffavano» (trad. G. B. D’Alessio)

Nei versi successivi, tra gli ordini impartiti da Kratos, che, come si è detto, imprimono una scansione ben definita e puntuale alla scena, che ricorda de facto un ἀποτυμπανισμός62, alcuni verbi rivestono una particolare rilevanza in prospettiva acustica. Innanzitutto ἀράσσω di v. 58; il significato pressoché univoco è quello di «colpire», in una accezione prettamente fisica: percuotere, battere, vibrare un colpo63. È un verbo

60 COPPOLA‑BARONE‑SALVADORI 2016, 320‑321. 61 Il. 18, 477; cf. GRIFFITH 1983, 94. 62 Un aspetto rilevato a più riprese dagli studiosi: cf. RIFFITHG 1983, 88 e 96; SAÏD 1985, 49‑50; SUSANETTI 2010, 156. 63 Cf. TLG e LSJ s.vv. Una dimensione dimenticata dell’akoè 187 estremamente materico, che in teatro registra numerose occorrenze64, spesso legate al rituale del lamento (che costituirà un capitolo importante nel mio lavoro sui rumori)65 e all’azione del battere/bussare alla porta, anche in contesti comici66 (anch’esso uno dei rumori trasversalmente più diffusi). Ancora al v. 61 πορπάω – denominativo da πόρπη / πόρπαξ. General‑ mente nel significato di «fibbia», «fermaglio»67, questo sostantivo ha una declinazione semantica eccezionale proprio in un altro locus teatrale ([E.] Rhes. 384), in cui indica una cinghia del finimento della testa del cavallo68. Tradotto variamente dagli studiosi come «fissare» (Griffith), «agganciare» (di Branco) «inchiodare» (Susanetti), «stringere» (Tonelli), viene rubricato dai lessicografi come sinonimo di «legare con una fibbia»69. Una azione che doveva produrre un rumore certo meno fragoroso dell’inchiodamento ma che possedeva sicure potenzialità da evidenziare, specialmente in una prospettiva di diversificazione dei rumori prodotti, con un effetto di maggior realismo. Ai versi successivi (64‑65), uno dei passaggi che, come si è accennato supra ha fatto dubitare che Prometeo potesse essere interpretato da un attore in carne ed ossa:

Κρ. ἀδαμαντίνου νῦν σφηνὸς αὐθάδη γνάθον στέρνων διαμπὰξ πασσάλευ’ ἐρρωμένως.

Kr. Inchiodagli da parte a parte nello sterno la mascella crudele di un cuneo d’acciaio.

Su questi versi, che probabilmente rappresentano il vertice di efferatezza dell’intera scena, Wilamowitz (1914, 114) ha fondato la cosiddettadummy‑ theory di cui si è detto supra ritenendo che la mimesi di questa azione non

64 Si ricordi che è il verbo impiegato nell’Edipo re (1276) in riferimento all’acce ‑ camento del protagonista. In Euripide a formare quasi un nesso formulare con βάλλων: una iunctura che si ripete nella stessa sede metrica in ben tre drammi della fase matura: Andr. 1154 (τίς οὐ σίδηρον προσφέρει, τίς οὐ πέτρον, / βάλλων ἀράσσων; πᾶν δ’ ἀνήλωται δέμας / τὸ καλλίμορφον τραυμάτων ὑπ’ ἀγρίων); Hec. 1175 (ἅπαντ’ ἐρευνῶν τοῖχον, ὡς κυνηγέτης / βάλλων ἀράσσων.): IT 310 (πᾶς ἀνὴρ εἶχεν πόνον / βάλλων ἀράσσων.). 65 Cf. e.g. A. Pers. 1054; E. Troa. 279; 1235. 66 Cf. e.g. E. Hec. 1044; IT 1308; Ar. Eccl. 977; Herond. 1, 1. Ma vd. soprattutto le numerose occorrenze in Menandro. 67 Cf. TLG e LSJ s.vv. 68 Un nuova allusione alla metafora di cui supra cf. SUSANETTI 2010, 157. 69 Cf. Ps.Zon. π1539: Πεπορπημένον. συνεχόμενον περόνῃ ἢ πόρπῃ; Phot. π444: Πορποῦσθαι: φιβλοῦσθαι; Hesych. π1497: πεπορπημένη· τῆι περόνῃ συνεχομένη. 188 Valentina Zanusso potesse essere sufficientemente realistica se Prometeo fosse stato inter‑ pretato da un essere umano. Se la ‘teoria del manichino’ non trova più sostegno oggi tra gli studiosi, è perché a partire da Thomson (1932, 138) è fondamentalmente prevalsa, come si è detto, la convinzione che la mimesi di questa prima scena fosse sostanzialmente sommaria e simbolica. Tra gli studi e i commenti che hanno dedicato spazio al realismo di questa scena e hanno preso posizione in favore o contro di esso, solo Griffith (1983, 31 e 96 cf. n. 2 supra) ha accennato alla possibilità che i suoni e i rumori potessero rappresentare un efficace stratagemma nella realizzazione scenica. Un’ipotesi che, alla luce dell’analisi che ho sin qui condotto, potrebbe trovare ulteriore conferma: se Kratos impartisce ad Efesto un ordine che non poteva essere effettivamente compiuto, non c’è ragione di credere che la puntualità della descrizione fosse una compensazione per ciò che il pubblico non poteva vedere; si potrebbe viceversa immaginare che le parole di Kratos aiutassero gli spettatori a mettere a fuoco una azione non compiuta effettivamente, bensì mimata realisticamente anche grazie all’inter‑ vento di semplici effetti acustici. Su questo specifico segmento si è concentrato Dyson (1994) che ha individuato uno schema ricorrente e analogo per l’incatenamento di braccia e gambe (comando di Kratos‑risposta accondiscendente di Efesto‑richiesta di vincoli ancora più stretti), che subirebbe una modifica per il petto. Qui l’ordine di conficcare un cuneo d’acciaio nello sterno di Prometeo viene seguito, dopo le proteste di Efesto, non già dà un ordine di rinforzo come negli altri casi, bensì da una richiesta di stringere delle cinghie intorno ai fianchi, molto più blanda rispetto alla precedente. In altri termini, se per braccia e gambe è possibile individuare uno schema per cui Kratos impartisce un ordine e, ottenuta l’accondiscendenza di Efesto, richiede un rinforzo, per il petto si assisterebbe ad un’inversione: ad un ordine estremamente duro segue una richiesta più banale. Questa presunta deroga ad uno schema fisso spinge Dyson a postulare una corruttela: lo studioso crede difatti, che l’ordine relativo al cuneo fosse successivo a quello delle bende. Per ripristinare la climax che distingue le sequenze contigue, lo studioso tenta una redistribuzione dei versi: ipotizza (francamente con una sorta di poco probabile saut du même au même tra la fine del v. 62 e quella del v. 73) che i versi 72, 73, 71, in questo esatto ordine, si debbano collocare tra il verso 62 e il verso 63 e che questi versi debbano essere espunti dalla loro sede originaria (per cui dopo il verso 70 si collocherebbe l’attuale verso 74). Se appare di certo opportuno rilevare la meticolosità della descrizione e l’accurata ricostruzione della scena in generale, come si è detto, sembra tuttavia eccessivo definire una rigidità inderogabile e postulare unordo versuum nuovo a dispetto delconsensus codicum. Per l’assetto finale, Dyson pensa a bande metalliche semicircolari, una sorta di morsetti (da cui l’utilizzo del termine «mascella» γνάθον), bloccati Una dimensione dimenticata dell’akoè 189 da chiodi la cui estremità liscia è abbastanza ampia perché possano essere chiamati cunei. Il cuneo dunque, secondo l’interpretazione di Dyson, deve essere messo in relazione con le bande che vengono nominate in precedenza (come i δεσμά di 52 e gli ψάλια di v. 54): esso dovrebbe fungere da elemento di rinforzo della banda applicata al petto, seguendo lo schema analogo individuato per braccia e gambe. Questo schema implica infatti un primo riferimento a bande esterne (vv. 55, 71, 74) e un successivo verbo di comando che indica una infissione, un inchiodamento (vv. 61, 64‑65, 76). Lo studioso crede che per il petto sia stata impiegata una pericope così esplicita e cruda con finalità patetiche; a mio avviso si può inoltre motivare una particolare enfasi per questa parte del corpo con la vicinanza al fegato destinato al celebre supplizio, qui non nominato ma di certo ben presente nell’immaginario collettivo del pubblico. Un ultimo oggetto completa la panoplia degli strumenti di scena fin qui menzionati: al v. 71 Kratos intima ad Efesto:

ἀλλ’ ἀμφὶ πλευραῖς μασχαλιστῆρας βάλε,

Forza, gettagli le cinghie intorno ai fianchi.

Il termine impiegato è μασχαλιστήρ70 «cinghia», tutt’altro che generico e banale. Esso designa difatti un tipo particolare di cinghia che trovava – di nuovo – impiego in ambito equestre: si tratta della cinghia legata sotto il petto del cavallo e connessa al giogo71. Un verbo ancora al v. 74 potrebbe celare un rumoroso e stridente attrito di matrice ferrosa: κιρκόω, letteralmente «legare con un cerchio», «circondare» e di qui in generale «legare», riferito alle gambe, l’ultima parte del corpo del titano che viene immobilizzata. Il verbo è denominativo da κίρκος, l’«anello» che rientra nella struttura del tradizionale carro di ascendenza omerica72, l’ennesima allusione alla dimensione equestre che ha costituito il sottile fil rouge di questi versi. In base a questa pur breve, parziale e circoscritta analisi, mi sembra di poter concludere che la funzionalità e il valore psicagogico delle notazioni sonore in questi versi siano denunciati apertis verbis e che il testo sia ancora lo strumento principe che consenta di rintracciarli e valorizzarli. Si tratta

70 COPPOLA/BARONE/SALVADORI 2016, 320‑321. 71 cf. Hdt. 1, 215; Hesych. 380, 1. Barone 1915, 69 sottolineava che l’uso del plurale potesse essere legittimato dal fatto che lo strumento era composto da più parti d’acciaio; vd. anche GRIFFITH 1983, 97 e SUSANETTI 2010, 156‑157. 72 cf. Il. 24, 272. 190 Valentina Zanusso di un exemplum da inserire in una prospettiva globale e comparativa. Proprio la comparazione, io credo, una volta ultimato lo spoglio di tutto il materiale offertoci dal teatro tragico, potrà fornirci ulteriori utili elementi di valutazione ed eventualmente di conferma. Resta fermo il principio cui si ispira e continuerà a ispirarsi la nostra ricerca: la costante aderenza dell’analisi al dato testuale e alle evidenze della prassi scenica.

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SONIA FRANCISETTI BROLIN (SAPIENZA UNIVERSITÀ DI ROMA)

Il presente intervento* concerne un frammento talora attribuito negli studi al Meleagro di Euripide; si tratta del fr.adesp . 681 Kn. – Sn., tràdito dal P. Oxy. 2436, édito per la prima volta nel 1959 da Turner1. Mentre il verso contiene un testo magico, vergato nel II‑III secolo d.C., nel recto è traman‑ data, senza alcuna nota di attribuzione, una monodia con notazione musicale, databile, da un punto di vista paleografico, al I‑II secolo d.C. Rimangono porzioni di due colonne, delle quali la prima non è ricostrui ‑ bile, poiché restano soltanto le lettere finali di sei linee, precedute da un vacuum di almeno una riga, mentre della seconda sono conservate le parti iniziali (circa 26 lettere su 38) di otto righe con un’estensione di circa 10,5‑ 11,5 cm, molto inferiore rispetto alla lunghezza delle linee dei papiri musicali2. Il testo è scritto in una minuscola informale libraria ad asse

* Tante sono le persone a cui sono grata per avermi fornito suggerimenti e indica ‑ zioni utili per l’elaborazione di questa nota; in particolare, tale analisi vede la sua genesi iniziale durante gli anni del dottorato all’Università di Roma “la Sapienza”, quando, studiando il Meleagro euripideo, la Prof. ssa Anna Maria Belardinelli, mia tutor, mi ha saggiamente spinto ad approfondire un possibile frammento papiraceo, per la cui interpretazione mi sono avvalsa della fondamentale consulenza del Prof. Raffaele Luiselli e della Dott. ssa Daniela Colomo. Dopo una presentazione delle prime ipotesi a “Semi di Sapienza” 2016, che sono stati una proficua occasione di approfon ‑ dimento, lo studio è proseguito, in vista della pubblicazione della tesi, sotto la guida del Prof. Gian Franco Gianotti, a cui rivolgo uno speciale ringraziamento per il continuo pungolo, fin dai tempi della laurea, nello spronarmi a proseguire le ricerche. Ringrazio, inoltre, il Prof. Francesco Carpanelli per avere accettato questo lavoro nel I Convegno Internazionale sul Dramma Antico The Forgotten Theatre e per averne accolto la pubblicazione in questo volume.

1 Cf. LOBEL/TURNER/WINNINGTON‑INGRAM 1959, 113‑122. 2 Per tali aspetti, cf. ITREME /AMUNDSEN/WINNINGTON‑INGRAM 1955, 1‑29; GENTILI 1961, 341. 194 Sonia Francisetti Brolin verticale, abbastanza rispettosa della bilinearità. La scrittura è tonda, tracciata con un ductus posato, anche se talvolta alcune forme sono corsive. Si alternano lettere a modulo ampio (μ, ν, π, ω) e a modulo stretto (θ, ο, ε) con una tendenza a unire i grafemi mediante tratti di congiunzione, soprattutto in orizzontale, tanto che talora si ha l’impressione di una linea superiore passante per il rigo. Nel complesso, il manoscritto è accurato, ma privo di punteggiatura e di divisione colometrica, benché si noti, come in altri papiri musicali, la presenza di raggruppamenti di parole o di gruppi di parole. La colonna II non è giustificata, ma la l. 6, seguita poi da due righi in eisthesis3, è in ekthesis, per mostrare un cambiamento ritmico, accom pa ‑ gnato anche da un intensificarsi delle note. Tale notazione è stata aggiunta da una seconda mano più corsiva, che per la l. 5 non procede in modo perfettamente allineato con il testo. La melodia è abbastanza rispettosa dell’accento di parola, se si escludono μνημονεύσατ (col. II 5) e μαινάδες (col. II 8). Tuttavia, la musica4 ritmicamente tratta il testo in modo diverso da come era stato concepito, poiché, per esempio, la scriptio plena ηὐτέκνησα ἐγώ (col. II 3) prevede una nota sulla vocale α, metricamente elidibile. Inoltre, a col. II 7, lo iato λάσσεται· ἤν, con nota musicale, segno di lunga e punto sopra αι, potrebbe indicare la fine di un periodo metrico, mentre la sillaba δες è trattata non quale breve, bensì come lunga. Il testo deve essere, quindi, più antico della melodia, che non fornisce nessuno spunto utile per l’attribuzione. Tutte le note, appartenenti alla serie vocale, sono ascrivibili al modo ipo ‑ lidio, lidio. Oltre alla notazione melodica, come ben emerge nell’edi zione di Turner, sono presenti tutti i segni ritmici descritti dalla trattatistica antica, il cui numero aumenta alle ll. 6‑8, dove lo schema metrico diventa più difficile, in quanto nell’andamento ritmico giambico‑trocaico sono inserite alcune sequenze cretiche. Nello specifico, possiamo notare nel P. Oxy. 2436 l’impiego di: 1. l’hyphén (per esempio, in col. II 5), una curva posta sotto due o tre note per marcare un legame stretto; 2. il bikolon (per esempio, in col. II 6), cioè un due punti davanti a un

3 Sull’utilizzo dell’eisthesis nei papiri per evidenziare le ripartizioni strutturali del dramma, vd. SAVIGNAGO 2008; per il suo impiego nel P. Oxy. 2436, cf., nello specifico, PÖHLMANN/WEST 2001, 122. 4 Per la musica nella drammaturgia greca, vd. MONRO 1894; WINNINGTON‑INGRAM 1936; SOLOMON 1977; PINTACUDA 1978; COMOTTI 1989; HUYS 1993; ROCCONI 2003; MURRAY/WILSON 2004. Per un’analisi specifica della melodia del P. Oxy. 2436, cf., oltre a LOBEL/TURNER/WINNINGTON‑INGRAM 1959, 113‑122, PÖHLMANN 1970, 126‑129; COMOTTI 1991, 119; WEST 1992, 310‑311; PÖHLMANN/WEST 2001, 120‑124. Nuovi spunti da un papiro di Ossirinco 195

gruppo di due o tre note da collegare, il che rende poco perspicua la differenziazione rispetto all’hyphén; 3. il disema o makrà díchronos (per esempio, in col. II 7), ossia un trattino sopra il segno melodico, a significare, in riferimento alle sillabe e non alle note, una lunga in due tempi. Tra l’altro, in col. II 5 il disema è utilizzato in due casi metricamente escludibili a vicenda, cioè su sillaba breve e su consonante, il che dimostra ulteriormente come la melodia non sia coeva al testo; 4. la stigmé (per esempio, in col. II 6), un punto sopra la nota musicale per contrassegnare i tempi in arsi; 5. il leimma (per esempio, in col. II 6), un Λ, spesso definito come segno di pausa, ma qui impiegato, al pari che per gli inni di Mesomede, per l’allungamento della nota stessa, tanto da essere associato al disema (per esempio, in col. II 8) per una lunga in tre tempi. Tale melodia è importante per la discussione sull’utilizzo di questo papiro, poiché è chiaro che il passo non è stato copiato solo per essere letto o conservato, ma per essere musicato. Si tratta, quindi, di una copia professionale utilizzata nei concerti vocali e strumentali molto diffusi a partire dall’età ellenistica, quando virtuosi cantori cominciarono a proporre pubbliche esecuzioni da repertori classici5. La mia analisi a questo punto si è concentrata sul testo, al fine di capire se la monodia tramandata potesse essere inserita nel Meleagro euripideo o fosse ascrivibile a un altro dramma. Sono così partita dal testo della coll. II stampato da Turner:

[..]ι̣ον̣ α̣ . τ̣ α̣ [...... ]η..η ψαύω δὲ λ̣ [ [.]ν· ὁ δὲ μο[.].[..]ν̣ ι̣[..]α̣ ις ῎Αρεως ῾Υμησ̣ [σ Πριά‑] μου μᾶλ̣ λ̣ ο̣ ν ηὐτέ̣ κνησ’ ἐγώ σπευσο[ ἀπαλλα[γὴν τ]ῶν κακῶν χορεύσατε· .[ 5 καὶ μὴ [..].[.]μ̣ άθητε μνημονεύσατ̣ [ε· εἴ τις κατὰ στέγα̣ ς π̣ υρσὸς̣ ἔτι λείπεται, πυρί, παῖ[δες λάσσεται· ἢν, π̣ [α]ῖ̣δες α̣ ἰ̣ πόλων καὶ ν̣ έ̣ α̣ ς ο[ πης ποι[μένε]ς βουκόλοι μαινάδες δ̣ ο̣ [

Ho evidenziato con il grassetto alcuni termini, poiché, come si vedrà infra si tratta di parole di fondamentale importanza nella discussione sulla

5 Per tali aspetti, vd. UARDUCCIG 1927‑1929; EITREM/AMUNDSEN/WINNINGTON‑ INGRAM 1955; TURNER 1963, 120‑128; TEDESCHI 2011, 12‑14. Cf., inoltre, LATTE 1954, 125, che ha pubblicato un’iscrizione, nella quale si parla di Gaio Elio Themison, un citaredo che mise in musica per la prima volta drammi di Sofocle ed Euripide, i cui testi erano riproposti con talentuose rielaborazioni meliche. 196 Sonia Francisetti Brolin collocazione del frammento. In particolare, per π̣ υρσὸς̣ e ν̣ έ̣ α̣ ς già Turner6 pose in rilievo gli aspetti problematici, commentando per l. 6 «initial letter of .υρσὸς̣ cannot be identified [...] πυρσὸς is to be preferred to θύρσος in view of the accent and of πυρί», mentre per l. 7 «at end after και an alteration, perhaps to ν̣ έ̣ α̣ ς ο[.». Quanto alla provenienza del lacerto, lo studioso ha prospettato tre ipotesi, pensando a una scena musicale di età ellenistica‑romana, a un ditirambo del tardo classicismo oppure a un pezzo lirico preellenistico di un dramma satiresco. Le prime due ricostruzioni sono state escluse, l’una perché, appunto, il testo è precedente alla musica, mentre l’altra in quanto nei versi domina un elemento drammatico, in contrasto con la teoria del ditirambo. Turner propendeva, dunque, per la terza ipotesi, alla luce del confronto metrico con altri passi corali di drammi satireschi. In particolare, integrando Πριά‑], l’editore pensava a una monodia di Sileno, intento a vantarsi della propria prole, maggiore dei figli di Priamo. Tuttavia, nell’edizione menzionava una lettura proposta da Amy Marjorie Dale, la quale sosteneva che i versi fossero collocabili nel Meleagro e, nello specifico, nella monodia di Altea in procinto di vendicarsi. In questa interpretazione, viene posto in rilievo ηὐτέ̣ κνησ’ a col. II 3, giacché questo verbo è un conio euripideo, presente proprio nel fr. 520 Kannicht del Meleagro, ove Meleagro, contrapponendo il proprio ideale femminile al modello di donna incarnato dalla madre Altea, afferma:

ἡγησάμην οὖν, εἰ παραζεύξειέ τις χρηστῷ πονηρὸν λέκτρον, οὐκ ἂν εὐτεκνεῖν, ἐσθλοῖν δ’ ἀπ’ ἀμφοῖν ἐσθλὸν ἂν φῦναι γόνον.

Penso dunque che, se si congiungesse un letto di poco conto a uno di valore, non si genererebbe una bella prole, mentre da due nobili entrambi nascerebbe una nobile prole.

Inoltre, a col. II 6 il termine π̣ υρσὸς̣ , con il valore semantico di fiaccola, si riferirebbe al tizzone fatale, a cui è legata la vita di Meleagro, accostabile alla fiaccola sognata da Ecuba quando era incinta di Paride, come nella Fabula 249 di Igino:

(Faces sceleratae) Facem quam sibi visa est parere Hecuba Cissei filia sive Dymantis. Nauplii ad saxa Capharea, cum naufragium Achivi fecerunt. Helenae quam de muris ostendit et Troiam prodidit. Althaeae quae Meleagrum occidit.

6 Cf. LOBEL/TURNER/WINNINGTON‑INGRAM 1959, 121. Nuovi spunti da un papiro di Ossirinco 197

(Le fiaccole scellerate) La fiaccola che apparve in sogno a Ecuba, figlia di Cisseo oppure Dimante. I fuochi che Nauplio accese alle rupi Cafaree, quando gli Achei naufragarono. La fiaccola che Elena fece brillare dalle mura quando tradì Troia. Il tizzone di Altea, che uccise Meleagro.7

Tra l’altro, questo nome richiama l’aggettivo πυρσός, usato nel fr. 537 Kannicht del Meleagro, ove una divinità ex machina, a conclusione del dramma, profetizza:

εἰς ἀνδροβρῶτας ἡδονὰς ἀφίξεται κάρηνα πυρσαῖς γένυσι Μελανίππου σπάσας

Arriverà a piaceri cannibali lacerando con fauci rosso sangue la testa di Melanippo.

Il senso del frammento papiraceo risulterebbe, dunque, il seguente:

[..]ι̣ον̣ α̣ . τ̣ α̣ [...... ]η..η ma tocco λ̣ [ [.]ν· ὁ δὲ μο[.].[..]ν̣ ι̣[..]α̣ ις di Ares Imetto io ho avuto più prosperità nella prole di Priamo; affrettarsi celebrate con la danza la fine dei mali; .[ 5 e non [..].[ .]apprendete ricordate; se in casa rimane ancora, sul fuoco, un tizzone, figli λάσσεται; ecco, figli di caprai e giovani ο[ πης pastori, bovari, menadi δ̣ ο̣ [.

Così, a col. II 2, se si legge π]αῖς ῎Αρεως, come suggeriva Turner stesso, si farebbe riferimento proprio a Meleagro; del resto Plutarco (Paralleli minori, 26A, 312A) afferma che Ἄρης ᾿Αλθαίᾳ συνῆλθε καὶ Μελέαγρον ποιήσας <…> ὡς Εὐριπίδης ἐν Μελεάγρῳ8. Quanto all’Imetto, situato in Attica, la menzione di questo monte non creerebbe problemi con l’ambientazione dell’opera a Calidone, se si pensa al valore proverbiale di un’espressione come “il miele dell’Imetto”9. Siffatta interpretazione ha convinto sia Gentili10 sia Lesky11; tra l’altro, entrambi gli studiosi hanno posto in rilievo la metrica stessa, poiché l’alter‑

7 Trad. di GUIDORIZZI 20052, 144‑145. 8 Ares si unì ad Altea e, dopo aver generato Meleagro, <…> così scrive Euripide nel Meleagro (trad. di DE LAZZER 2000, 264‑265). 9 Per tale espressione proverbiale, cf., per esempio, A.P. 7, 36, 4; Luc. Vit. Pud. 11. 10 Cf. GENTILI 1961, 341. 11 Cf. LESKY 19642, 244. 198 Sonia Francisetti Brolin nanza tra giambi e cretici è tipica dell’ultima fase della produzione euri ‑ pidea, a cui risale anche il Meleagro12. Dunque, Altea, mentre il tizzone arde sul fuoco, si rivolgerebbe al coro per denunciare il dolore che sta vivendo rispetto alla felicità passata. Tuttavia, la problematica inter pretativa è strettamente connessa alle difficoltà di lettura del papiro stesso, sottolineate, come si è visto supra già nell’editio prior. Negli studi successivi13 viene sempre accolto il testo di Turner, talvolta senza l’integrazione Πριά‑] a col. II 2, ma si comincia a rifiutare l’attri ‑ buzione al Meleagro, evidenziando la probabile ambientazione in Attica, proprio alla luce della menzione del monte Imetto, situato nella campagna intorno ad Atene, ove certo potevano trovarsi caprai, pastori e bovari. A tal proposito, Borthwick14 ha riportato due frammenti della commedia archaia15, dove si parla di una fonte di Afrodite sull’Imetto, la cui acqua aiutava le donne a concepire. In tal senso, il lacerto papiraceo sarebbe ascrivibile a una monodia di una donna che, superata la sterilità grazie alla sorgente, si gloria della propria prole, invitando il coro a danzare per lei. Il π]α̣ ις ῎Αρεως a col. II 2 potrebbe essere identificato con Eros, mentre, per quel che concerne col. II 6, lo studioso ha rammentato la testimonianza di Pausania (cf. Periegesi, 7, 23, 5‑6):

Αἰγιεῦσι δὲ Εἰλειθυίας ἱερόν ἐστιν ἀρχαῖον, καὶ ἡ Εἰλείθυια ἐς ἄκρους ἐκ κεφαλῆς τοὺς πόδας ὑφάσματι κεκάλυπται λεπτῷ […] καὶ ταῖς χερσὶ τῇ μὲν ἐς εὐθὺ ἐκτέταται, τῇ δὲ ἀνέχει δᾷδα. Εἰλειθυίᾳ δὲ εἰκάσαι τις ἂν εἶναι δᾷδας, ὅτι γυναιξὶν ἐν ἴσῳ καὶ πῦρ εἰσιν αἱ ὠδῖνες· ἔχοιεν δ’ ἂν λόγον καὶ ἐπὶ τοιῷδε αἱ δᾷδες, ὅτι Εἰλείθυιά ἐστιν ἡ ἐς φῶς ἄγουσα τοὺς παῖδας.

A Egio c’è un antico santuario di Ilizia, la cui statua è coperta dalla testa ai piedi con un drappo finemente lavorato […] Una delle mani è stesa in avanti, mentre con l’altra tiene una fiaccola. Si potrebbe ipotizzare che Ilizia abbia

12 Per la datazione del dramma, cf. HARTUNG 1843, 140‑153; ZIELIŃSKI 1925, 237‑ 239; WEBSTER 1967, 3‑5; CROPP/FICK 1985, 20; 66; 76; 84; JOUAN/VAN LOOY 2000, 405; COLLARD/CROPP 2008, XXX‑XXXII. 13 Cf. LLOYD‑JONES 1961, 20; BORTHWICK 1963, 225; PÖHLMANN 1970, 126‑129. 14 Cf. BORTHWICK 1963, 226. 15 Cf. Cratin. fr. 110 K.‑A. = Phot. p. 185, 21 = Sud. κ 2672: Κυλλοῦ πήραν· ἡ Πήρα χωρίον πρὸς τῶι ῾Υμηττῶι, ἐν ᾧ ἱερὸν ᾿Αφροδίτης καὶ κρήνη, ἐξ ἧς αἱ πιοῦσαι εὐτοκοῦσι καὶ αἱ ἄγονοι γόνιμοι γίνονται. Κρατῖνος δὲ ἐν Μαλθακοῖς Καλλίαν (Phot. καλιὰν) αὐτήν φησιν, οἱ δὲ Κυλλουπήραν (Phot. κoλλοπηραν); Ar. fr. 283 K.‑ A. = Hesych. κ 4521: κύλλου πήρα. ζητοῦσι διὰ <τί> τὸ πορνεῖον Κύλλου πήραν ᾿Αριστοφάνης εἴρηκεν ἐν Δράμασιν ἢ Κενταύρωι· ‘τὸ δὲ πορνεῖον Κύλλου πήρα’. ἔστι γὰρ χωρίον ᾿Αθήνησιν ἐπηρεφὲς καὶ κρήνη. Nuovi spunti da un papiro di Ossirinco 199

le fiaccole perché per le donne i dolori del parto sono simili al fuoco; le fiaccole, tuttavia, potrebbero trovare una spiegazione anche nel fatto che Ilizia è colei che porta alla luce i bambini.16

Tuttavia, Borthwick, pur propendendo per siffatta interpretazione, non ha collocato la monodia in una determinata opera o in un certo genere; infatti, ha commentato «a fifth century source for the new monody is by no means impossible, whether it be satyr play or comedy, and the editors may be right in their view that it formed part of a collection of classical extracts to which music was set»17. Inoltre, nella sua ricostruzione le μαινάδες di col. II 8 pongono un problema interpretativo, poiché la follia orgiastica delle menadi non è propria di una donna che ringrazia per la prole. Così, lo studioso ha avanzato tre possibili ipotesi, cioè si tratterebbe di donne ateniesi o di ninfe di Dioniso che celebrano Dioniso sull’Imetto oppure di prostitute. Nondimeno, in merito alle prime due ricostruzioni, è bene rammentare che il culto bacchico ad Atene aveva luogo sul Citerone e non sull’Imetto, mentre l’identificazione della fonte di Afrodite, di solito chiamata Kyllupera, con un πορνεῖον si basa solo sul fr. 283 K.‑A. di Aristofane. L’articolo di Borthwick apre nuovamente la discussione interpretativa, ma per il momento vengono lasciate in secondo piano le questioni testuali, fino all’edizione di Kannicht – Snell18, ove il frammento è proposto così come è riportato infra con una mia traduzione, al fine di evidenziare, anche con il grassetto, le diversità rispetto al testo stampato precedentemente:

col. II . .]ι̣ο. . . σ̣ ο̣ [ ca. 8 ll. ] η̣ . .η· ψαύω δὲ λ̣ [ 8 .]ν· ὁ δεμο[.].[. .]. . . .[.]α̣ ις ῎Αρεως ῾Υμησ̣ [σ μου μᾶλλο̣ ν̣ ηὐτέκνησ’ ἐγώ· σπευσο[ ἀπαλλα[γὴν ἐμ]ῶν κακῶν· χορεύσατε .[ κ̣ α̣ ὶ μὴ . [.].[. .].άθητε μνημονεύσατ[ε 12 εἴ τις κατὰ στέγας θ̣ ύρσος ἔτι λείπεται πυρὶ παι[ λάσσεται· ἤν, π̣ [α]ῖδες α̣ ἰ̣πόλων καὶ ….σο[ πης ποι[μένε]ς βουκόλοι μαινάδες ⟦δ̣ ο̣ ⟧[

. .]ι̣ο. . . σ̣ ο̣ [ ca. 8 ll. ] η̣ . .η· ma tocco λ̣ [ 8 .]ν· ὁ δεμο[.].[. .]. . . .[.]α̣ ις di Ares Imetto μου io ho avuto più prosperità nella prole di; affrettarsi la fine dei miei mali; danzate.[

16 Testo e trad. di MOGGI/OSANNA 2000, 142‑143. 17 Cf. BORTHWICK 1963, 243. 18 Cf. KANNICHT/SNELL 1981, 270‑272. 200 Sonia Francisetti Brolin

e non . [.].[. .].άθητε ricordate 12 se in casa rimane ancora sul fuoco un tirso παι[ λάσσεται; ecco, figli di caprai e ….σο[ πης pastori bovari menadi ⟦δ̣ ο̣ ⟧[.

Per le lettere dopo καὶ al v. 1319 il commento di Kannicht20 non è ben chiaro, ma al v. 12 lo studioso ha stampato θ̣ ύρσος. In questo modo, il frammento viene collocato tra gli Adespota (fr. 681) con il titolo ΣΑΤΥΡΟΙ?; infatti, la menzione diretta del tirso si addice a una monodia di Sileno, intento a rivolgersi a un coro di satiri danzanti in un clima dionisiaco, ove trovano un’ottima collocazione le menadi del v. 14. Eppure, in Pöhlmann – West21, anche se viene rifiutata l’ipotesi della monodia di Altea, poiché sarebbe difficile collocarvi i caprai, i pastori, i bovari e le menadi menzionati a col. II 7‑8, il testo è nuovamente stampato con π̣ υρσὸς̣ a col. II 6, mentre per col. II 7 è ricostruito κι’σ̣ ’..σ̣ ο. Mi è parso, dunque, di fondamentale importanza cercare di chiarire i loci di difficile lettura del papiro. Pertanto, ho consultato il Professor Raffaele Luiselli dell’Università di Roma “la Sapienza”, il quale mi ha fatto notare, in merito a π̣ υρσὸς/θ̣ ύρσος (col. II 6), la difficoltà nell’inserire un π, in quanto, se si esclude il grafema iniziale di πυρί in col. II 6, π ha un modulo troppo ampio per lo stretto spazio prima di υρσος. Siccome l’immagine fotografica (figura 1) non permette una valutazione precisa come la visione autoptica, ho scritto al Prof. Peter Parsons dell’Università di Oxford, ponendo due quesiti relativi alla lettera iniziale di .υρσος a col. II 6 e a quanto si legge a col. II 7 dopo καὶ. I dubbi paleografici sono stati risolti dalle gentili indicazioni della Dott.ssa Daniela Colomo, collaboratrice del Prof. Parsons. La dottoressa ha pulito e restaurato il papiro, di cui ora l’immagine è molto più nitida (figura 2). Così a col. II 6 si discerne abbastanza chiaramente la parte inferiore di una lettera tonda, quindi un θ per θ̣ ύρσος, mentre a col. II 7 è visibile la sequenza κι, derivata da una correzione currente calamo di ν, uno iota, poi σ aggiunto nell’interlinea sopra lo iota, di cui è probabilmente una correzione, un altro σ, probabilmente un altro σ e ο, ossia κι{ι}’σ’σ{σ̣ }ο[. Propongo, dunque, seguendo per la numerazione l’edizione di Kannicht – Snell, il seguente testo con relativa traduzione:

19 Si segnala che la numerazione è differente rispetto a Turner, poiché sono numerate come versi consecutivi le linee della col. I e della col. II. 20 Cf. KANNICHT/SNELL 1981, 272: «Post KAI corr. obscur. : N in KI corr. pot. qu. K in N (vix ⟦N⟧), sequi vid. ‘Σ’ΣO, i. e. KAINΣOΣ in KAI KI’Σ’ΣOΣ corr.? καὶ ⟦κ⟧νέας ed. pr. non legitur». 21 Cf. PÖHLMANN/WEST 2001, 120‑124. Nuovi spunti da un papiro di Ossirinco 201

col. II . .]ι̣ο. . . σ̣ ο̣ [ ca. 8 ll. ] η̣ . .η· ψαύω δὲ λ̣ [ 8 .]ν· ὁ δεμο[.].[. .]. . . .[.]α̣ ις ῎Αρεως ῾Υμησ̣ [σ μου μᾶλλο̣ ν̣ ηὐτέκνησ’ ἐγώ· σπευσο[ ἀπαλλα[γὴν ἐμ]ῶν κακῶν· χορεύσατε .[ κ̣ α̣ ὶ μὴ . [.].[. .].άθητε μνημονεύσατ[ε 12 εἴ τις κατὰ στέγας θ̣ ύρσος ἔτι λείπεται πυρὶ παι[ λάσσεται· ἤν, π̣ [α]ῖδες α̣ ἰ̣ πόλων καὶ κι{ι}’σ’σ{σ̣ }ο[ πης ποι[μένε]ς βουκόλοι μαινάδες ⟦δ̣ ο̣ ⟧[

. .]ι̣ο. . . σ̣ ο̣ [ ca. 8 ll. ] η̣ . .η· ma tocco λ̣ [ 8 .]ν· ὁ δεμο[.].[. .]. . . .[.]α̣ ις di Ares Imetto μου io ho avuto più prosperità nella prole di affrettarsi la fine dei miei mali; danzate.[ e non . [.].[. .].άθητε ricordate 12 se nelle stanze rimane ancora sul fuoco un tirso παι[ λάσσεται; ecco, figli di caprai ed edera[ πης pastori bovari menadi ⟦δ̣ ο̣ ⟧[

Certo, la presenza del tirso al v. 12 e poi al v. 13 di un aggettivo come κισσοειδής, κισσοκόμης, κισσόπλεκτος, κισσοστέφανος o κισσοφόρος, tutti termini composti sul sostantivo κισσός, cioè l’edera, pianta tradizionalmente associata a Dioniso, induce a sostenere la provenienza del frammento da un dramma satiresco. In particolare, nei vv. 10‑11 Sileno o un personaggio affine si rivolge al coro (χορεύσατε al v. 10) perché, nel clima orgiastico della prosperità dei sensi, vengano dimenticate le sofferenze della vita. L’ambientazione del frammento è chiaramente dionisiaca anche alla luce dei personaggi nominati al v. 14, ossia pastori, bovari e menadi. Infatti, βούκολος può essere utilizzato nel senso di «adorador de Dioniso (por su aparición con aspecto de toro)» (vd. DGE s.v. βούκολος; cf. inoltre LSJ s.v. βούκολος), come si ricava sia dal titolo di una commedia di Cratino (frr. 17‑22 K.‑A.) sia, per esempio, da E. fr. 203 Kannicht dall’Antiope o da Luc. Salt. 79. Nello specifico, il termine durante il V secolo a.C. inizia ad assumere un valore sacrale fino a specializzarsi, con il tempo, quale appellativo tecnico‑cultuale dell’orfismo.22 E soprattutto le μαινάδες sono le seguaci di Dioniso, dominate dalla mania per il dio. Dunque, poiché l’ambientazione è dionisiaca, κατὰ στέγας (cf. LSJ s.v. στέγη) al v. 12 non significa “in casa”, giacché appunto i riti bacchici non avevano luogo dentro le mura domestiche. L’espressione potrebbe alludere proprio a un tempio di Dioniso, come mi è stato utilmente suggerito dal

22 Per tali riflessioni, in relazione ai Cretesi e alle Baccanti di Euripide, cf. CASADIO 1990, 279‑289; COZZOLI 1993, 162‑164; COZZOLI 2001, 86‑87. 202 Sonia Francisetti Brolin

Prof. Luca Bettarini durante i seminari di “Semi di Sapienza” 2016. Se appunto κατὰ στέγας indica un santuario di Dioniso, dove si svolgono i rituali del dio, forse π̣ [α]ῖδες α̣ ἰ̣πόλων, ποι[μένε]ς, βουκόλοι e μαινάδες potrebbe riferirsi al corteo dei seguaci di Bacco. Peraltro, qualora sia corretta la lettura di Borthwick relativamente a un santuario di Afrodite sull’Imetto, si potrebbe ipotizzare un culto congiunto di Dioniso e Cipride. Del resto, già in Anacreonte (fr. 357 Page), per la prima volta, compare l’associazione di Dioniso con Eros e Afrodite; infatti, Dioniso deve indurre Cleobulo ad amare il poeta, il che implica un’evoluzione della tradizione letteraria, se si considera che per un’analoga preghiera Saffo (fr. 1 Voigt) si rivolge soltanto alla dea dell’amore. Così nel rituale simposiaco descritto da Paniassi (fr. 13 Kinkel) la seconda libagione è in onore di Dioniso e Afrodite, mentre in Prassilla (fr. 752 Page), che rispecchia forse una tradizione mitologica sicionia, Dioniso è addirittura figlio di Afrodite.23 Inoltre, se si esaminano gli Inni Orfici, sempre tenendo conto della datazione tarda dell’opera, nella sezione centrale della raccolta, l’inno 55 è dedicato ad Afrodite quale augusta compagna di Bacco, a cui è assimilato, come nell’inno 56, Adonis, il fanciullo amato dalla dea. E con la divinità dell’amore, secondo la testimonianza di Pausania (cf. Periegesi, 7, 25, 9), Dioniso era venerato in Acaia nel tempio di Bura24, che potrebbe essere proprio affine al santuario ipotizzato sull’Imetto, dedicato a rituali sincretici per i due numi.

23 Per questi aspetti, cf. RIVITERAP 1970, 113‑120. 24 Riguardo a siffatto tempio, cf. IRENNEP ‑DELFORGE 1994, 247. Nuovi spunti da un papiro di Ossirinco 203

Figura 1. P. Oxy. 2436 (prima della pulitura) (Courtesy of the Egypt Exploration Society and Imaging Papyri Project, Oxford) 204 Sonia Francisetti Brolin

Figura 2. P. Oxy. 2436 (dopo la pulitura) (Courtesy of the Egypt Exploration Society and Imaging Papyri Project, Oxford) Nuovi spunti da un papiro di Ossirinco 205

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SIMONE BETA (UNIVERSITÀ DI SIENA)

Se da parecchi anni ormai spopola nelle librerie il genere letterario dell’instant book (il libro ispirato a un recente fatto di cronaca che viene scritto in genere da un personaggio famoso soprattutto per le sue frequenti comparse in televisione), nei secoli passati non godeva di grande successo quella che potremmo scherzosamente chiamare instant opera (il melo‑ dramma composto su una trama che non proveniva da una storia antica ma da un evento più o meno contemporaneo). La Traviata di Giuseppe Verdi, composta nel 1853, un anno esatto dopo che Alexandre Dumas figlio aveva scritto la versione teatrale del suo romanzo autobiografico La signora delle camelie, è senz’altro la più famosa tra questo genere di opere. Ma si tratta di un esempio più unico che raro, perché, quando si trattava di scegliere l’argomento per un libretto, i mu ‑ sicisti dell’Ottocento preferivano in genere soggetti più antichi, am bientati nel Rinascimento, nel Medioevo, nell’età classica o nel mondo senza tempo del mito. Ed è proprio nella dimensione sostanzialmente atemporale del mito che si colloca il lavoro oggetto di questo intervento – lavoro che, per le curiose modalità della sua nascita, può essere a tutti gli effetti considerato una sorta di instant opera. Fino al 1912, degli Ichneutai di Sofocle, il dramma satiresco il cui titolo viene solitamente tradotto con I Segugi o I cercatori di tracce, si sapeva pochissimo. Non soltanto tutto quel che ci era rimasto erano solo tre minuscoli frammenti, ma se Giulio Polluce, nel citarne uno, non avesse aggiunto al titolo l’aggettivo ‘satiresco’, avremmo probabilmente pensato che si trattasse di una tragedia. A partire da quell’anno, tuttavia, le cose cambiarono radicalmente. Il merito di questo cambiamento spetta ai papirologi Arthur S. Grenfell e Bernard P. Hunt, che nel 1912 pubblicarono nel nono fascicolo dei Papiri di Ossirinco un lungo frammento papiraceo scritto nel II secolo d.C. che conteneva i primi 458 versi del dramma satiresco (un frammento che i due studiosi inglesi avevano sottratto alle sabbie dell’Egitto nel 1907)1.

1 Cf. HUNT 1912. Altri frustuli estremamente frammentari provenienti dal mede ‑ simo papiro furono pubblicati in seguito da HUNT 1927. 208 Simone Beta

La pubblicazione del frammento (alla quale collaborò tra gli altri anche Wilamowitz) suscitò, come era lecito aspettarsi, un notevole dibattito critico; i nuovi versi vennero subito inseriti dal Pearson nella sua edizione dei frammenti sofoclei pubblicata cinque anni dopo2. Anche per quel che riguarda le scene teatrali, i registi di mezza Europa non si lasciarono sfuggire l’occasione di mettere in scena un dramma antico ancora inedito: i più veloci furono i tedeschi, perché i Segugi andarono in scena a Halle, una città della Bassa Sassonia, l’anno immediatamente successivo alla prima pubblicazione, vale a dire il 21 giugno 1913; poi vennero i cechi, che li misero in scena nel 1921 a Praga insieme alla Medea di Euripide; poi gli italiani, che nel 1927 fecero rappresentare I satiri alla caccia nella traduzione di Ettore Romagnoli (datata 1925) a Siracusa3. Il sito dell’APGRD (Archive of Production of Greek and Roman Drama), curato dall’Università di Oxford, consente di farsi un quadro dettagliato di tutte le rappresentazioni successive del dramma, compresi spettacoli estrema ‑ mente interessanti come la commedia del drammaturgo inglese Toni Harrison intitolata The trackers of Oxyrhynchus, rappresentata per la prima volta allo stadio di Delfi nel 1988, dove i protagonisti sono proprio i due papirologi Grenfell e Hunt4. Ma prima della messinscena siracusana (che vide in una sera l’altro dramma satiresco, il Ciclope di Euripide, rappresentato dopo la Medea, e nella sera successiva I satiri alla caccia preceduti dalle Nuvole di Aristofane), bisogna segnalare uno spettacolo diverso da tutti quelli che ho appena ricordato – perché si tratta, per l’appunto, di uninstant opera, dal momento che si basa su un testo teatrale molto antico per quel che riguarda la sua ‘nascita’, ma molto recente per quel che concerne la sua ‘rinascita’. Il primo luglio 1925 venne rappresentata per la prima volta a Parigi, sotto la direzione di Philippe Gaubert, un’opera (per la precisione, un conte lyrique) che racconta l’invenzione della lira da parte del piccolo Hermes: La naissance de la lyre. L’autore del libretto, il celebre grecista Théodore Reinach, non si basò soltanto sul quarto inno omerico a Hermes che racconta la stessa storia, ma anche sulla recente scoperta dei due papirologi inglesi. Chi erano i due autori che, unendo i loro diversi talenti, diedero vita a questo lavoro così singolare? Dei due, Reinach – che nel 1925 aveva già

2 Cf. PEARSON 1917. I frammenti sono stati pubblicati in seguito anche da STEFFEN 1952, RADT 1977 e KRUMEICH/PECHSTEIN/SEIDENSTICKER 1999. Per un’edizione del dramma satiresco, cf. MALTESE 1982. 3 Sui ‘segugi’ di Romagnoli cf. TREU 2006. 4 Sulla fortuna scenica dei Segugi a partire dal ritrovamento dei due papirologi inglesi cf. BETA 2017. Sul lavoro di Harrison, cf. anche MARSHALL 2012. Da Ossirinco a Parigi 209 sessantacinque anni – era sicuramente il più conosciuto: dottore di ricerca in giurisprudenza e in lettere, dopo un periodo di apprendistato come archeologo a Costantinopoli aveva insegnato per parecchi anni alla Sorbona, all’École des Hautes Etudes e al Collège de France un numero impressionante di discipline, dalla storia antica alla storia delle religioni, dall’epigrafia alla numismatica5. Appassionato di musica antica (nel 1926 pubblicò presso l’editore parigino Payot il libro La musique grecque), Reinach mantenne sempre ottimi rapporti con i principali musicisti del suo tempo: quando era più giovane, dopo aver trascritto il testo di un antico inno ad Apollo ritrovato a Delfi e provvisto di notazioni musicali, l’aveva dato a Gabriel Fauré perché lo mettesse in musica – cosa che Fauré aveva fatto nel 1894, scrivendo l’Hymne à Apollon per canto, arpa, flauto e due clarinetti (op. 63 bis). Oltre al libretto sofocleo, per un altro compositore francese meno cono ‑ sciuto che si chiamava Maurice Emmanuel, anch’egli appassionato di musica antica (si era laureato alla Sorbona scrivendo due dissertazioni sull’educazione dei danzatori greci e sulle tecniche coreutiche della danza greca), Reinach scrisse il libretto di un’opera derivata daiPersiani di Eschilo: la Salamine, composta dall’Emmanuel in due fasi distinte (1921‑1923 e 1927‑ 1928), venne rappresentata per la prima volta a Parigi nel 1929, quando Reinach era scomparso da un anno6. Reinach fu anche uno dei primi traduttori del papiro appena scoperto: nell’agosto del 1912 pubblicò nella Revue de Paris una prima traduzione francese (in prosa) col titolo Les traqueurs7. Fu proprio lui a ricevere nel 1920 da Jacques Rouché, il direttore dell’Opera di Parigi, l’incarico di scrivere un libretto. Poco noto esattamente come Emmanuel era anche, almeno in quegli anni, Albert Roussel, un compositore francese nato nel 1869 vicino a Lille, destinato a diventare famoso soltanto a partire dagli anni Trenta grazie al

5 Su Reinach, cf. la recente biografia di STEVE 2014. 6 Su Maurice Emmanuel, cf. CORBIER 2011; i titoli delle due dissertazioni sono Education du danseur grecque e Orchestique grecque. Per la Salamine, Emmanuel fu insignito della Legion d’Onore. Gli altri suoi lavori basati su testi classici sono le 3 Odelettes anacreontiques per voce, flauto e pianoforte (op. 13), composte nel 1911; il Prométhée enchaîné, una tragédie lyrique d’après Eschyle (op. 16), composto tra il 1916 e il 1918; l’Amphitryon, una comédie musicale d’après Plaute (op.28) composta nel 1936, due anni prima della sua morte. 7 REINACH 1912. Il 21 giugno di quello stesso anno Reinach aveva presentato il dramma in una conferenza all’Académie des Inscriptions et Belles‑Lettres, che fu pubblicata, sotto il titolo Les Satyres Limiers, in una rivista di politica e letteratura (la Revue Bleue). 210 Simone Beta successo del balletto Bacchus et Ariane, rappresentato a Parigi nel 1931 con le scene di Giorgio De Chirico. Personaggio decisamente singolare (era stato ufficiale di marina, ma aveva abbandonato la carriera militare a 25 anni per dedicarsi completa ‑ mente alla musica), tra il 1922 e il 1923 Roussel mise in musica il libretto di Reinach8. Ma qual è la struttura del libretto di Reinach? I protagonisti sono quattro: Apollon è un tenore, Hermès un , Silène un baritono, mentre la ninfa Cyllène ha solo un ruolo parlato9. I cori erano due, uno di satiri e uno di ninfe. Nel primo dei tre quadri, ambientato in una lande fleurie, dopo un preludio musicale arriva Apollo, scendendo da una nuvola di fuoco, alla ricerca delle sue vacche, disposto a ricompensare con oro e pietre preziose chi lo aiuterà a ritrovare la sua mandria, misteriosamente scomparsa. Questa scena, così come anche quelle immediatamente successive, si rifanno al dramma satiresco di Sofocle. Gli si fa incontro Sileno, che si dichiara dispiaciuto per quel che è successo. Se fosse ancora giovane, il bestiame lo cercherebbe lui; ma, dal momento che ormai è vecchio, propone al dio di chiedere aiuto ai suoi figli, a patto che essi in cambio ricevano, oltre all’oro, anche la libertà. Dopo che Apollo ha accettato, arrivano i satiri, che si mettono subito alla ricerca del bestiame, seguendo i consigli di Sileno10. Giunti davanti a una grotta, i satiri sentono improvvisamente il suono della lira uscire dalla caverna. Mentre si domandano chi mai produca questo suono misterioso, la ninfa Cillene, madre di Ermes, esce dalla grotta. Poiché i satiri vogliono entrare nella grotta, Cillene chiama in suo aiuto le ninfe. La lotta tra i satiri e le ninfe viene interrotta da Apollo, che chiede a Cillene di spiegare ai presenti l’origine di quel suono meraviglioso.

8 Su Albert Roussel, cf. TOP 2000 e 2016. Oltre al Bacchus et Ariane, che è uno dei suoi lavori più famosi, le altre composizioni di Roussel basate su opere classiche sono il balletto Aeneas (op. 54), composto nel 1935, e l’opera incompiuta Elpénor, ou la Flûte de Circé (op. 59), datata 1937 (l’anno della sua morte, avvenuta a Royan, sulle coste atlantiche dell’Aquitania). Come Emmanuel, anche Roussel mise in musica alcune poesie attribuite ad Anacreonte: nel 1926 compose le Odes anacréontiques (op. 31‑32), su testi tradotti da Charles Leconte de Lisle. 9 I cantanti furono Edmond Rambaud (Apollo), Marcelle Denya (Hermes) e Henri Fabert (Sileno); il ruolo parlato della ninfa fu interpretato da Jeanne Delvair, una celebre attrice francese che fu anche una stella del cinema. 10 I nomi dei satiri (Drachis, Grapis, Krokias) provengono dal papiro e riflettono, in alcune scelte testuali, le integrazioni proposte dai primi editori. Da Ossirinco a Parigi 211

A questo punto si passa, senza soluzione di continuità, al secondo quadro, nel quale Reinach comincia a seguire la trama dell’inno omerico. Cillene ordina alle ninfe di aprire la grotta dove, nella sua culla, appare il piccolo Ermes, con in mano la lira. Il suono dello strumento commuove non solo i satiri e le ninfe, ma anche Apollo, che prende lo strumento, lo accorda e comincia a suonarlo a sua volta, cantando quella che è l’unica vera aria dell’opera:

O siringa di Pan, o canne rustiche, soffiate dal pastore solitario, la voce di questo strumento vi condanna al silenzio: se parlate voi, deve tacere lui. O lira, che hai dentro di te i trilli degli uccelli, il suono profondo degli animali, il mormorio del vento che accarezza i roseti, il tumulto delle tempeste!11.

Poi, montato su un carro guidato da due cigni bianchi, invita Ermes a salire con lui sull’Olimpo. Dopo aver salutato, su un tema musicale che riprende il preludio dell’opera, la grotta e Cillene, Ermes è ormai sul punto di seguire il fratello quando – con un nuovo cambio di scena, che segna l’inizio del terzo quadro, dove ritroviamo l’ambientazione agreste del primo – Sileno li blocca, chiedendo ad Apollo la ricompensa pattuita. Il dio dona al vecchio un tripode d’oro e l’opera si conclude con un canto corale dei satiri e delle ninfe, i quali, dopo aver ballato al suono della lira, celebrano la potenza di Apollo. Mentre il cielo si fa scuro, compare in alto la costellazione della Lira. L’opera – diciamolo subito – non fu un successo. A venire criticato fu soprattutto il libretto: il giornalista Henry Malherbe, che nel 1917 aveva vinto il premio Goncourt con il romanzo La flamme au poing, lo definì un «divertissement d’archéologue pâle et froid». La Grecia evocata dal filologo classico era in effetti il riflesso di una concezione molto tradizionale: una Grecia idilliaca, arcadica, pastorale, molto diversa da quella che, con personaggi che pure erano molti simili, aveva abitato qualche anno prima i palcoscenici francesi. Mi riferisco al primitivismo selvaggio del ‘fauno’ (la divinità romana dai piedi e dalle

11 «Ô Syringe de Pan, ô rustiques pipeaux, qu’enfle le pâtre solitaire, dès qu’il chante, sa voix vous condamne au repos. Si vous parlez, il doit se taire. Lyre, toi qui contiens les trilles des oiseaux, la basse profonde des bêtes, le murmure du vent caressant les roseaux, et le tumulte des tempêtes!». 212 Simone Beta corna di capra che corrisponde grosso modo al satiro greco) di Stéphane Mallarmé e Claude Debussy che, nel poema sinfonico Prélude à l’après‑ midi d’un faune, aveva debuttato esattamente trent’anni prima a Parigi, aprendo la strada verso altri spettacoli innovativi che sono rimasti nella storia del teatro musicale, come per esempio Le sacre du printemps, il bal‑ letto di Igor Stravinskij messo in scena al Théâtre des Champs‑Élysées nel 1913 dai Balletti russi di Sergej Diagilev per la coreografia di Vaslav Nijinskij12. Fu proprio la sorella di quest’ultimo, Bronislava Nijinska, a ricevere da Jacques Rouché l’incarico di scrivere le coreografie del conte lyrique di Reinach e Roussel – con esiti non del tutto convincenti, perché i movimenti concepiti dalla Nijinska furono considerati troppo arditi da chi, aderendo alle concezioni letterarie e musicali neoclassiche dei due autori, avrebbe voluto una gestualità più trattenuta, e troppo rigidi da chi, al contrario, avrebbe preferito una coreografia più moderna, sulla falsariga dei balletti ai quali aveva lavorato il ben più celebre fratello13. La raggelata freddezza è peraltro uno degli aspetti più evidenti del libretto di Reinach, che in questo senso costituisce il perfetto pendant del lavoro (non necessariamente letterario) per il quale il nome del filologo è ancora oggi famoso: mi riferisco a Villa Kérylos, la spettacolare costruzione neoclassica che egli fece costruire tra il 1902 e il 1908 dall’architetto Emmanuel Pontremoli sulla Costa Azzurra, a Beaulieu‑sur‑Mer, vicino al promontorio di Cap Ferrat – una villa, oggi monumento nazionale, che cerca di riprodurre, tanto nella struttura esterna quando nelle decorazioni interne, una costruzione greca del secondo o del primo secolo a.C.14. È molto probabile che l’opera di Reinach e Roussel non abbia soddisfatto pienamente le aspettative di Rouché. Tra tutti gli spettacoli ispirati al mondo classico che egli fece rappresentare all’Opéra Garnier a partire dal primo dopoguerra (ricordiamo l’Hélène di Camille Saint‑Saëns e la Pénélope

12 Sulla presenza dei ‘satiri’ sulla scena musicale francese, cfr. Corbier 2008: l’anno prima del debutto del Sacre, tra la fine di maggio e l’inizio di giugno del 1912, al tea‑ tro dello Châtelet erano andati in scena prima un balletto tratto dal Prelude di Debussy (proprio con la coreografia di Nijinskij) e poi il balletto di Maurice Ravel Daphnis et Chloé, ispirato al romanzo greco di Longo Sofista, dove lo stesso Nijinskij aveva ricoperto il ruolo di Dafni. 13 Grazie a CORBIER 2008, 345, sappiamo che, come coreografo, Roussel avrebbe preferito Léo Staats, decisamente più classico della Nijinska, con il quale aveva già collaborato nel 1912 al tempo della prima rappresentazione del suo balletto Le festin de l’araignée. Per chi fosse interessato alle sfumature musicali del lavoro di Roussel, il saggio di Corbier è fondamentale. 14 Sulla villa, cf. ARNOLD 2003. Da Ossirinco a Parigi 213 di Gabriel Fauré, che avevano debuttato a Montecarlo ma che Rouché aveva voluto fossero messe in scena a Parigi rispettivamente nel 1919 e nel 1923), La naissance de la lyre non fu di certo quello che suscitò l’eco più profonda. Ma, nonostante l’opera sia caduta nell’oblio (la recente riscoperta della produzione di un autore eclittico come Roussel non ha toccato laNaissance , della quale non esiste al momento ancora alcuna registrazione), essa è pur sempre non solo la preziosa testimonianza del gusto di un’epoca, ma anche la dimostrazione che tutto quello che è strettamente legato al mondo antico, come per esempio un papiro scoperto per caso tra le sabbie dell’Egitto, può trovare nuova vita – e nuove forme di vita – anche ai nostri giorni.

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Il silenzio e la voce di Iole: dalla scena antica al teatro contemporaneo

LUCIA DEGIOVANNI (UNIVERSITÀ DI BERGAMO)

Iole fa il suo ingresso nella letteratura teatrale con leTrachinie di Sofocle, dove, pur facendo da motore alla vicenda drammatizzata, è un κωϕὸν πρόσωπον. Figlia di Eurito, re di Ecalia, dopo che Ercole ne ha espugnato la città e sterminato la famiglia, è divenuta sua schiava e concubina. Giunge a Trachis, la città dove risiede la famiglia di Ercole, come parte del corteo di prigioniere di Ecalia, scortato da Lica, ed entra in scena nel I episodio delle Trachinie. Iole attira l’attenzione di Deianira1, che, provando pietà per lei più che per ogni altra (τῶνδε πλεῖστον ᾤκτισα, 312), e intuendone dall’aspetto la nobile origine (γενναία δέ τις, 309), l’apostrofa direttamente, chiedendole chi ella sia (307). Poiché la fanciulla rimane in silenzio, Deianira domanda a Lica se ne conosca l’identità (310‑312). La risposta negativa dell’araldo induce Deianira a interrogare di nuovo Iole (320‑321); ma Lica interviene dicendo che la prigioniera, da quando ha lasciato la sua città, non ha mai proferito parola (οὐδαμὰ / προὔφηνεν οὔτε μείζον’ οὔτ’

Il presente studio è stato svolto nell’ambito del progetto di ricerca SIR 2014 «A commentary on the Oetaeus, a tragedy attributed to Seneca, with introduction, critical text, and an appendix on the history of its reception»; PI: Lucia Degiovanni, Università degli Studi di Bergamo.

1 L’incontro tra le due donne sembra essere un’innovazione di Sofocle; nella breve rievocazione di Bacchilide (Ditirambo 16 MAEHLER = 2 IRIGOIN), cronologicamente vicina al dramma (la datazione relativa è discussa: con MARCH 1989, 62‑66 e MAEHLER 2004, 166‑167 propenderei per l’anteriorità sofoclea), è detto soltanto che Deianira venne a sapere che Eracle stava per inviare Iole a casa come sua sposa: Ἰόλαν ὅτι λευκώλενον / Διὸς υἱὸς ἀταρβομάχας ἄλοχον λιπαρὸ[ν] / ποτὶ δόμον πέμ[π]οι, 27‑ 29 («il figlio di Zeus, impavido combattente, inviava nella ricca dimora, come sua sposa, Iole dal candido braccio», trad. GIUSEPPETTI 2015); al v. 29, a πέμποι è preferibile attribuire il significato di ‘inviare’, come in S.Trach. 366: Καί νιν, ὡς ὁρᾷς, ἥκει δόμους / ὡς τούσδε πέμπων οὐκ ἀϕροντίστως, γύναι, / οὐδ’ ὥστε δούλην, 365‑367 («Ed ecco che, sulla strada del ritorno, manda la fanciulla, come vedi, in questa casa, non senza una precisa intenzione, o donna, e non certo come schiava», trad. PATTONI 1990). Al riguardo cf. BECK 1953, 12 ss. 216 Lucia Degiovanni

ἐλάσσονα, 323‑324) e non fa che piangere (αἰὲν … δακρυρροεῖ, 325‑326), oppressa dal peso del dolore (ὠδίνουσα συμφορᾶς βάρος). Le modalità registiche di questa scena sono oggetto di divergenze interpretative: è discusso, in particolare, il modo in cui Iole si differenzi dalle altre prigioniere, tanto da infondere particolare curiosità e compas‑ sione in Deianira (ἐπεί νιν τῶνδε πλεῖστον ᾤκτισα / βλέπουσ’, ὅσῳπερ καὶ ϕρονεῖν οἶδεν μόνη, 312‑313). Due sono state le principali linee di lettura. Secondo la prima, rispetto alle altre prigioniere che s’abbandonano a gesti di disperazione o quantomeno esibiscono sconforto, Iole si distinguerebbe per un portamento sostenuto e impassibile in cui Deianira vede un segno di compostezza: quest’interpretazione presuppone che al v. 313 φρονεῖν abbia il significato di σωφρονεῖν, in riferimento alla capacità di autocontrollo di chi sa vincere le proprie reazioni emotive. Leggono in questo modo la scena, tra i vari, Kamerbeek e Longo2, che di conseguenza ritengono false le parole di Lica ai vv. 323 ss. circa il pianto ininterrotto di Iole. Inoltre, per coerenza interpretativa, al v. 326 Kamerbeek al presente δακρυρροεῖ preferisce l’imperfetto (senza aumento) δακρυρ ρόει, «piangeva sempre»3; diversamente si sarebbe costretti a considerare δακρυρροεῖ come un praesens historicum oppure, secondo Longo, come un «presente retorico»4, ovvero, in sostanza, a ignorarne il valore letterale di indicazione scenica. Secondo l’ipotesi contraria, avanzata da Jebb5 e fatta propria da Kapso ‑ menos, Mastronarde e Davies, che rimandano alla scena di Cassandra nell’Agamennone di Eschilo6, Iole esibirebbe maggiore dolore o coinvol‑ gimento emotivo rispetto alle altre prigioniere, relativamente apatiche, o comunque meno coinvolte di lei nelle manifestazioni di cordoglio. In questo caso il φρονεῖν οἶδεν μόνη del v. 313 indicherebbe che lei sola sembra avere la consapevolezza dell’infelicità del suo destino7, e δακρυρροεῖ al v. 326, al tempo presente, descriverebbe una reale situazione scenica, una nota di regia interna al testo.

2 KAMERBEEK 1959, 89: «we must imagine the other captives lamenting without restraint in contrast to Iole’s self‑control»; LONGO 1968, 134: «il ϕρονεῖν οἶδεν … implica il sapersi vincere, dominare». 3 KAMERBEEK 1959, 91. 4 LONGO 1968, 139. 5 JEBB 1892, 51. 6 KAPSOMENOS 1963, 76 e n. 3; MASTRONARDE 1979, 76‑77; DAVIES 1991, 115, n. ai vv. 307 ss.; sul confronto tra il silenzio della Iole sofoclea e l’atteggiamento della Cassandra eschilea in Ag. 1035‑1071 cf. anche CRISCUOLO 2016, 151‑153. 7 Jebb traduce «she alone shows a due feeling for her plight», e commenta: Il silenzio e la voce di Iole 217

La soluzione drammaturgica che vorrebbe Iole inspiegabilmente immota e impettita in mezzo a un gruppo di prigioniere affrante – in una sorta di anacronistica apatheia stoica – mi sembra che non riceva alcun appoggio dal testo, e renda anzi meno efficace la scena. Anzitutto cancella il parallelismo tra Iole e Deianira giovane, che emerge in più punti del dramma. Nel prologo, rievocando la propria angoscia di fronte alla prospettiva delle nozze con l’Acheloo, Deianira ricordava come fosse colpita da un dolore tremendo, quale mai nessun’altra donna d’Etolia: νυμφείων ὄκνον / ἄλγιστον ἔσχον, εἴ τις Αἰτωλὶς γυνή, 7‑8 (all’intenso coinvolgimento emotivo di Deianira, tale da suscitare pietà, accennava anche il Coro nel I stasimo, 527‑528, nella sua narrazione della lotta tra Eracle e Acheloo). E ai vv. 463‑465 Deianira dirà a Lica, retrospettivamente, di aver provato per Iole la più grande pietà perché la sua bellezza le ha distrutto la vita (ἐπεί σφ’ ἐγὼ / ᾤκτιρα δὴ μάλιστα προσβλέψασ’, ὅτι / τὸ κάλλος αὐτῆς τὸν βίον διώλεσεν): Deianira vede dunque in Iole una vittima della propria avvenenza, così come aveva detto di se stessa ai vv. 24‑25: «ero colpita dalla paura che la mia bellezza finisse per portarmi sventura» (ἐγὼ γὰρ ἥμην ἐκπεπληγμένη φόβῳ / μή μοι τὸ κάλλος ἄλγος ἐξεύροι ποτέ). D’altra parte, l’espressione φρονεῖν οἶδεν μόνη, se intesa nel senso «lei sola mostra piena coscienza della sua sorte», si arricchisce di un’ironia tragica tipicamente sofoclea: non si tratta solo della consapevo lezza di un destino di schiavitù in luogo della precedente condizione libera e nobile, come crede Deianira, ma della consapevolezza di essere la causa della distruzione della città e della morte dei suoi, unita alla vergogna e all’imbarazzo di trovarsi di fronte alla moglie di Eracle. Appare dunque più aderente ai suggerimenti che provengono dal testo la rappresentazione di una Iole che – in una qualche forma – esprima mestizia, probabilmente con il capo chino in segno di pudore, o velato in segno di sofferenza, oppure con una maschera che esibisca un’espressione sofferta, tale comunque da comunicare a Deianira l’impressione di un intimo e consapevole turbamento8. È interessante che questa stessa modalità di presentazione di una prigioniera di stirpe regale compaia anche in un passo delle Historiae Alexandri Magni di Curzio Rufo (6, 2, 5‑9), a proposito di un gruppo di prigioniere persiane costrette ad allietare con i loro canti i banchetti di

«φρονεῖν here denotes that fine intelligence which is formed by gentle breeding, and which contributes to delicate propriety of behaviour». 8 Circa l’associazione tra dolore e consapevolezza si veda quanto Deianira dice al Coro ai vv. 141‑152. 218 Lucia Degiovanni

Alessandro e della sua corte. Tra queste Alessandro ne scorge una più mesta delle altre (maestiorem quam ceteras) e molto bella (excellens erat forma); il pudore le conferiva un senso di nobiltà (formam pudor honestabat): infatti la donna, tenendo gli occhi abbassati al suolo (deiectis in terram oculis) e avendo il volto, per quanto possibile, velato (quantum licebat, ore velato), suscitò nel sovrano il sospetto che fosse troppo nobile suspicionem( praebuit regi nobiliorem esse) perché la si dovesse esporre tra le attrazioni di un banchetto. Interrogata sulla sua origine, la prigioniera confermò i sospetti di Alessan dro, il quale, «rispettando la sorte di colei che discendeva da una stirpe regale» (fortunam regia stirpe genitae … reveritus), ordinò di rimetterla in libertà. Sia o no questa la chiave di lettura corretta della scena sofoclea relativa a Iole, è così che anche l’Autore dell’ interpretava il personaggio della captiva. E probabilmente così doveva leggere la scena sofoclea Ovidio nella IX Eroide, l’epistola di Deianira a Ercole, anche se poi egli opta per l’operazione di consapevole e sistematico rovesciamento dell’ipotesto sofocleo: agli occhi di una Deianira gelosissima uxor, qui presentata fin dall’inizio come perfettamente consapevole dell’identità della rivale e tutt’altro che simpatetica, Iole non ha l’aspetto che ci si attenderebbe da una prigioniera: «non viene con i capelli incolti alla maniera delle prigioniere, confessando nel volto la sua condizione» (nec venit incultis captarum more capillis, / fortunam vultu fassa tacente suam, 125‑ 126)9; al contrario, «avanza in ampio spazio splendida per il molto oro» (ingreditur late lato spectabilis auro, 127), e «mostra il volto alla folla, superba come se Ercole fosse stato vinto» (dat vultum populo sublimis ut Hercule victo, 129): «penseresti che Ecalia stia ancora in piedi e che suo padre sia ancora vivo» (Oechaliam vivo stare parente putes, 130), osserva indispettita Deianira. Quanto all’Hercules Oetaeus, la novità principale è che nella prima sezione lirica si dà voce al lamento di Iole con una monodia in anapesti (173‑224), che fa seguito al coro cantato dalle prigioniere di Ecalia. Iole dunque si distacca dal corteo di schiave e, nell’incipit della monodia, dichiara l’unicità del proprio dolore (nullum querimur commune malum, 177), che è superiore a quello delle altre prigioniere in quanto ella ha perduto famiglia, patria e rango regale, ed è lei stessa – cioè la sua bellezza, che ha acceso il desiderio di Ercole – la causa di tutto (219‑223). Nel dar voce al

9 Al v. 126 il tràdito (ametrico) tacendo è probabilmente da emendare in tacente, secondo la proposta di Melissus: Ovidio farebbe dunque allusione al silenzio della Iole sofoclea (cf. DELVIGO 1990 e CASALI 1995, 174‑175). Il silenzio e la voce di Iole 219 personaggio di Iole – che, come personaggio ‘parlante’, mancava di un precedente letterario preciso10 – l’A. ricorre a vari topoi tratti da effusioni trenodiche sia di eroine sia di Cori tragici, presenti in Seneca e già tutti ampiamente documentati nel dramma attico: complessivamente, il ritratto di Iole torna nel solco della tradizionale rappresentazione della prigioniera di guerra, in linea con i celebri personaggi delle tragedie, greche e latine, di argomento troiano11. Queste fonti classiche (Sofocle, Ovidio e l’Hercules Oetaeus) a loro volta offrono molteplici spunti tematici e drammaturgici alle riscritture teatrali della morte di Ercole che vanno dal Seicento all’inizio del Novecento, in un inesauribile gioco di riprese, contaminazioni, innovazioni, che lasciano tuttavia intravedere alcune linee di sviluppo comuni. In primo luogo, un elemento presente nella maggior parte delle riscritture è il fatto che Ercole intende veramente ripudiare Deianira per fare di Iole la sua legittima moglie. Questa eventualità non è mai contemplata dalla Deianira sofoclea, che, come espressamente dichiara ai vv. 550‑551, teme semmai di rimanere moglie solo nominalmente12. È invece la Deianira dell’Eroide ovidiana a ventilare l’ipotesi del proprio ripudio e del matrimonio di Ercole con Iole13; questo stesso timore è alla base della violenta reazione della Deianira dell’Hercules Oetaeus, che nell’Atto II pianifica addirittura di uccidere Ercole e/o la rivale Iole nel giorno del loro matrimonio, su modello della Medea di Seneca14. Il ripudio, da semplice timore di Deianira (peraltro probabilmente infondato, almeno secondo l’opinione della Nutrice del l’Oetaeus)15, nelle riscritture moderne diviene

10 In Ov. Met. 9, 278 ss. Iole compare in dialogo con Alcmena in una situazione diversa, dopo l’apoteosi di Ercole e il matrimonio con Illo. 11 Non mi soffermo, in questa sede, su tale aspetto e mi limito a rimandare a DEGIOVANNI 2017, 95‑100. 12 S. Trach. 550‑551 ταῦτ’ οὖν ϕοβοῦμαι μὴ πόσις μὲν ‘Ηρακλῆς / ἐμὸς καλῆται, τῆς νεωτέρας δ’ ἀνήρ («e temo che Eracle sarà il mio sposo soltanto di nome, in realtà l’uomo di lei, della più giovane»); cf. anche 539‑540 καὶ νῦν δύ’ οὖσαι μίμνομεν μιᾶς ὑπὸ / χλαίνης ὑπαγκάλισμα («ora siamo in due sotto una coltre sola ad attendere l’amplesso»). 13 Ov. Her. 9, 131‑134 forsitan et pulsa Aetolide Deianira / nomine deposito paelicis uxor erit, / Eurytidosque Ioles atque Aonii Alcidae / turpia famosus corpora iunget Hymen («forse anche, una volta cacciata l’Etolide Deianira, deporrà il nome di concubina e sarà moglie, e un vergognoso imeneo unirà i corpi impudichi di Iole, figlia di Eurito, e dell’Aonio », trad. ROSATI 1989). 14 DEGIOVANNI 2017, 76‑77; 103‑105. 15 [Sen.] Herc. O. 351‑357; 379; 407; 409. 220 Lucia Degiovanni un dato oggettivo. Si dà così una più solida giustificazione alle veementi esternazioni di gelosia di Deianira, ispirate all’Oetaeus, che vengono per lo più sviluppate sia in una scena in cui ella si confida con un personaggio subalterno (corrispondente alla Nutrice dell’Oetaeus), sia in un confronto diretto con Ercole, in una tipologia di scena innovativa rispetto alle drammaturgie antiche, nelle quali Deianira ed Ercole non si incontravano mai sulla scena. I modelli classici per queste soluzioni drammatiche sono – talora in modo evidente – gli agoni verbali tra Medea e Giasone nelle Medee di Euripide e Seneca. In alcune opere16 il matrimonio di Ercole e Iole ha luogo nel corso dell’azione scenica, ed è per questa occasione festiva (e non per il sacrificio a Giove Ceneo, come nella tradizione classica) che Ercole indossa la veste affatturata inviata in dono da Deianira. È quanto si verifica anche nell’Hercule di J.F. Juvenon de La Tuillerie (rappresentato a Parigi nel 1681), che contamina il modello di base dell’Hercules Oetaeus con la Medea di Euripide. Vi compaiono infatti due scene dialogiche Deianira‑Ercole: nella prima (Atto II, sc. 3)17 Deianira, trattata con freddezza da Ercole che, già dedito ai preparativi per le nozze con Iole, tenta di allontanarla, reagisce con veemenza, proferendo minacce contro il marito traditore e la rivale (l’autore riprende qui alcuni temi svolti nella scena della gelosia di Deianira nell’Atto II dell’Oetaeus). Nel secondo incontro18, invece, l’atteggiamento di Deianira è del tutto mutato. La donna medita ormai di riconquistare il marito con il presunto filtro magico di Nesso e desidera premurarsi che Ercole accetti in dono da lei la veste affatturata e che la indossi nell’immi ‑ nente cerimonia delle nozze con Iole. A questo scopo, Deianira si finge rassegnata al suo destino, al punto da offrirsi di rimanere a vivere, in condizione di sottomissione, presso la coppia novella, tentando di com ‑ piacere la nuova sposa di Ercole. L’atteggiamento di Deianira corrisponde a quello della Medea euripidea nel suo secondo dialogo con Giasone, nel IV episodio; lo scopo della finta sottomissione è il medesimo: far sì che il dono della veste affatturata venga accettato dal destinatario senza sospetto. La Deianira francese, nella propria finzione, giunge addirittura a far propria la proposta che il Giasone euripideo aveva avanzato nel II episodio: vivere tutti insieme in armonia, la prima e la seconda moglie nella medesima casa19.

16 Mi riferisco ad es. ai drammi lirici di BUTI 1662 (musica di F. Cavalli), CAMPISTRON 1705 (musica di L. Lully e M. Marais), GALLET/SAINT‑SAËNS 1910 (musica di C. Saint‑ Saëns) e alla tragicommedia di RICCOBONI 1718. 17 LA TUILLERIE 1682, 15‑19. 18 LA TUILLERIE 1682, 29‑31. Il silenzio e la voce di Iole 221

Un secondo aspetto che accomuna la maggior parte delle riscritture moderne è che Iole respinge le avances di Ercole e non si concede a lui. Questo dato è assolutamente innovativo rispetto alla tradizione mitica antica, nella quale Iole, una volta divenuta preda di guerra, è la concubina di Ercole (nell’Hercules Oetaeus è addirittura già incinta)20, e, in quanto schiava, è inimmaginabile che possa respingere il padrone. Trasposta in contesto moderno, la situazione di Iole muta: la fanciulla è sì prigioniera di guerra, privata della propria libertà, ma rimane pur sempre una principessa e rispecchia il proprio status anche nel comportamento, costantemente improntato a grande dignità, fermezza e coraggio. La determinazione di Iole nel respingere Ercole (che pure, come si è detto, le offre un regolare matrimonio, non una condizione di concubinato) è dovuta al fatto che le ripugna unirsi all’uomo che le ha sterminato la famiglia, ma a questo si aggiunge spesso un’altra motivazione: Iole è innamorata (ricambiata) di un altro, che in alcuni drammi è Illo21 (l’uomo che, secondo la tradizione mitica, è destinata a sposare), in altri Filottete22, oppure un personaggio inventato ex novo (come l’Arcas di Rotrou)23. Questa scelta è anzitutto motivata da ragioni moralistiche: in questo modo, infatti, non consumando alcun rapporto adulterino con Ercole, Iole può giungere illibata al matrimonio che costituisce il ‘lieto fine’ della vicenda. D’altro canto, questa soluzione drammaturgica consente anche di sviluppare ampiamente il tema amoroso, diversificando le tipologie di ‘pene d’amore’ che i vari personaggi soffrono. (a) Ercole è un innamorato respinto, rappresentato come il tradizionale amante elegiaco che spasima per una donna irraggiungibile. (b) Deianira è la moglie tradita: ama ancora il marito e deve soffrire l’umiliazione di essere messa da parte per una donna più giovane; le sue esternazioni variano dal lamento elegiaco della donna abbandonata alle truci meditazioni di efferate vendette contro il marito fedifrago e la rivale. (c) Iole e Illo (o chi per esso) sono la coppia di giovani innamorati il cui sentimento è contrastato da fattori esterni, ma che alla fine riescono a coronare il loro amore con il matrimonio. Nel caso in cui

19 E. Med. 559‑565. 20 [Sen.] Herc. O. 1492‑1496; S. Trach. 1225‑1227. 21 Vd. ad es. i drammi per musica di BUTI 1662, FRIGIMELICA ROBERTI 1696 (musica di C.F. Pollarolo), MARMONTEL 1761 (musica di A. Dauvergne), SCHMIDT 1819 (musica di S. Mercadante) e le tragedie di BENEDETTI 1822 (opera postuma) e di SCHMIDT 1835. 22 Così ad es. in LA TUILLERIE 1682, CAMPISTRON 1705, COMELLA 1796, GALLET/ SAINT‑SAËNS 1910. 23 ROTROU 1636. 222 Lucia Degiovanni l’innamorato di Iole sia Illo, si aggiunge il tema della rivalità padre‑figlio per il possesso della donna, tema che nel teatro antico è tipico della commedia; trasposto in un contesto tragico, costituisce la base per l’innesto di un ulteriore nucleo drammatico: il dilemma di Illo tra passione amorosa e obbedienza filiale. Ed è solo la morte di Ercole che, rimuovendo concretamente l’ostacolo, consente la risoluzione del nodo tragico. Si ha dunque nel finale una doppia lysis: la morte di Ercole con successiva apoteosi (che può essere rappresentata sulla scena oppure evocata a parole) e il matrimonio dei due giovani. Tra queste sottotrame amorose è naturalmente quella riguardante il protagonista a ricevere maggiore spazio. Assumono di conseguenza rilevanza le scene di corteggiamento di Ercole nei confronti di Iole, con un profondo mutamento della caratterizzazione dei due personaggi rispetto alle fonti antiche. Per quanto riguarda Ercole, giunge a compimento la sua trasformazione da eroe epico‑tragico a personaggio elegiaco, un percorso iniziato in età ellenistica e completato dalla poesia latina. Il modello dominante è costituito dalla IX Eroide di Ovidio. Degno di nota è che sono ora messi in bocca allo stesso Ercole quei motivi che erano enunciati dalla Deianira ovidiana come recriminazioni contro l’infedele consorte. Mentre nei drammi antichi Ercole non fa mai parola del suo amore per Iole (menziona la sua relazione con la prigioniera solo in punto di morte, nel dare a Illo la disposizione di sposarla), e sono gli altri personaggi che parlano della sua profonda passione per la principessa di Ecalia, in molti drammi moderni è invece Ercole stesso a dichiarare il proprio amore incoercibile per Iole. Emblematico, sotto questo aspetto, è il monologo d’entrata dell’eroe nel dramma lirico Ercole amante, musicato da F. Cavalli su libretto di F. Buti, rappresentato a Parigi nel 1662 (sin dal titolo risulta evidente l’enfasi attribuita al tema amoroso). L’avvio della vicenda drammatica, come nell’Hercules Oetaeus, è affidato a un assolo di Ercole, ma il suo contenuto è del tutto mutato: non più un’orgogliosa rivendicazione dei propri meriti come giustificazione della richiesta dell’apoteosi, ma un lamento di inna morato respinto (Atto I, sc. 1):

ERCOLE Come si beffa Amor del poter mio! A me cui cede il mondo farà contrasto una donzella? (oh dio!) Come si beffa Amor del poter mio! Dunque chi tanti mostri vide esangui trofei di sua fortezza scempio sarà di femminil fierezza, e trafitto cadrà da un van desio? Come si beffa Amor del poter mio! Il silenzio e la voce di Iole 223

Ercole fa proprio il rimprovero che gli veniva rivolto dalla Deianira ovidiana: lui, vincitore in tante imprese, è ora vinto dall’amore per Iole (Ov. Her. 9, 1‑12):

Gratulor Oechaliam titulis accedere nostris; victorem victae succubuisse queror. Fama Pelasgiadas subito pervenit in urbes decolor et factis infitianda tuis, quem numquam Iuno seriesque inmensa laborum 5 fregerit, huic Iolen inposuisse iugum. […] Plus tibi quam Iuno, nocuit : illa premendo 11 sustulit, haec humili sub pede colla tenet.

Mi compiaccio che Ecalia si aggiunga ai nostri titoli di gloria; ma che il vin‑ citore abbia ceduto alla vinta, lo deploro. È giunta all’improvviso, alle città pelasge, una notizia sconveniente e che le tue azioni dovrebbero smen tire: che colui che mai Giunone e l’infinita serie di fatiche hanno spezzato, lo ha soggiogato Iole. […] Più di Giunone a te ha nociuto Venere; quella op ‑ primendoti ti ha innalzato, questa tiene il tuo collo sotto il suo piede che umilia.24

E la ‘vittoria’ di Iole su Ercole è resa ancora più evidente, nei drammi moderni, dal fatto che, quando l’eroe tenta di sedurla, la prigioniera lo respinge con fierezza. Un esempio rappresentativo del modo con cui vengono resi il rapporto Ercole‑Iole e la caratterizzazione dei personaggi è la scena del corteggiamento di Iole da parte di Ercole nell’ di Jean de Rotrou, una tragedia rappresentata a Parigi nel 1634 che riscosse un notevole e duraturo successo, tanto da costituire a sua volta un modello per le successive riscritture drammatiche del mito25. A livello di impianto generale, l’opera di Rotrou segue piuttosto da vicino l’Hercules Oetaeus, con numerose ed estese riprese letterali26. Per quanto riguarda la rappresentazione di Iole, il drammaturgo francese si è chiaramente ispirato alla monodia della prigioniera in Herc. O. 173‑224. Nella terza scena del primo Atto la fanciulla attende al lavoro della tessitura, mansione servile che il perso naggio dell’Oetaeus immaginava

24 Trad. it di ROSATI 1989. 25 ROTROU 1636; il testo è citato secondo l'edizione di MONCOND’HUY 1999. 26 Cf. in part. MOREL 1964; WATTS 1971, xi ss.; MONCOND’HUY 1999, 26 ss.; ROSSI 2001. 224 Lucia Degiovanni come propria occupazione presso la padrona Deianira27. Nel rievocare l’uccisione del padre Eurito da parte di Ercole evidenzia, con insistita anafora del verbo «vidi», il fatto che questa è avvenuta sotto i suoi stessi occhi28; all’Oetaeus risale inoltre il motivo della sepoltura del padre, da Rotrou unito al tema del rimpianto di Iole di non essere morta insieme ai familiari29, così come l’imprecazione alla propria bellezza, causa di rovina per sé, per la famiglia e per la patria30. Se per il lamento di Iole Rotrou ha attinto all’Oetaeus, per quanto riguarda l’atteggiamento con cui ella risponde alle avances di Ercole si è invece ispirato alla scena dell’Hercules furens di Seneca in cui l’usurpatore Lico tenta di convincere , la prima moglie di Ercole, a sposarlo. Le situazioni di Iole e di Megara sono in effetti parzialmente sovrapponibili: sia Lico sia Ercole ambiscono a unirsi a una donna di cui hanno conquistato la patria con le armi e di cui hanno ucciso il padre e i fratelli. Megara e Iole aborrono dunque quest’uomo, causa della rovina della loro famiglia, e non sono affatto tentate dalla prospettiva di migliorare, attraverso il matrimonio con lui, la propria condizione di prigioniere di guerra: Lica offre a Megara di condividere il potere regale da lui usurpato (Sen. Herc. f. 369‑370), Ercole offre a Iole la prospettiva di diventare «nuora di un dio» (Rotrou,Hercule mourant 184: fille d’un Dieu). Agisce inoltre a rafforzare la determinazione delle due donne il fatto che entrambe sono sentimentalmente legate a un

27 [Sen.] Herc. O. 218‑8b iam iam dominae captiva colus / fusosque legam («ben presto io, prigioniera, raccoglierò le conocchie e i fusi di una padrona»). 28 Rotrou Hercule mourant 163‑166 «J’ai vu cruel, j’ai vu ce cher corps que je plains / Tomber dessous l’effort de vos barbares mains; / Je l’ai vu sous vos coups étendu sur la terre, / Finir ses tristes jours et cette injuste guerre»; [Sen.]Herc. O. 207‑209 Vidi, vidi miseranda mei / fata parentis, / cum letifero stipite pulsus / tota iacuit sparsus in aula («Ho visto, ho visto la sorte miserevole di mio padre, quando, colpito dalla clava mortale, giacque a pezzi sparso per tutta la reggia»). 29 Rotrou Hercule mourant 167‑168 «Heureuse si nos corps, n’eussent eu qu’un cercueil, / Si nous n’eussions tous deux causé qu’un même deuil»; [Sen.] Herc. O. 210‑ 211 pro, si tumulum fata dedissent, / quotiens, genitor, quaerendus eras! («ahimè, se il fato ti avesse concesso una sepoltura, quante volte, padre, avremmo dovuto cercarti!»); 215‑216 Quid vestra queror fata, parentes, / quos in tutum mors aequa tulit? («Ma perché lamento il vostro destino, parenti miei, che una morte arrivata al momento giusto ha messo al sicuro?»). 30 Rotrou Hercule mourant 177‑180 «Ô cruelle beauté! trompeuse! image vaine! / Que le Ciel m’a vendue au prix de tant de peine; / Quelle misère encor me dois‑tu procurer? / Et combien de malheurs ai‑je encor à pleurer»; [Sen.] Herc. O. 219‑221 Pro saeve decor formaque mortem / paritura mihi, / tibi cuncta domus concidit uni («O crudele bellezza e aspetto destinato a procurarmi la morte, per te sola è caduta l’intera mia casa»). Il silenzio e la voce di Iole 225 altro uomo: Megara spera ancora che Ercole faccia ritorno dall’impresa negli Inferi, mentre la Iole del dramma francese è innamorata di Arcas, un personaggio inventato dallo stesso Rotrou. Alle analogie di situazione drammatica si uniscono puntuali echi testuali. (a) A un tentativo di approccio dell’uomo (Lico chiede a Megara di stringergli la mano, Ercole chiede a Iole almeno di guardarlo), la donna risponde, inorridita, di non poter ammettere alcun contatto con l’uomo che le ha ucciso il padre: Rotrou, Hercule mourant 159‑162 «[HE.] Cruelle? Hercule ici réclame ton pouvoir, / Et tes yeux inhumains dédaignent de le voir; / Qu’un regard seulement. [IO.] Ô requête sévère! / De quel œil puis‑je voir le meurtrier de mon père?»; Sen. Herc.f. 369‑373 [LY.] Particeps regno veni; / sociemur animis; pignus hoc fidei cape: / continge dextram. Quid truci vultu siles? / [ME.] Egone ut parentis sanguine aspersam manum / fratrumque gemina caede contingam31? (b) Iole, come Megara, mostra di avere un carattere indomito e coraggioso e di non lasciarsi intimidire dalle conseguenze che può patire a causa del suo rifiuto; afferma che nemmeno se messa in catene cederà: Rotrou Hercule mourant 189‑192 «Troublez ces yeux d’effroi, chargez ces mains de chaînes, / Et que chaque moment renouvelle mes peines; / Après un siècle entier, d’ennuis et de prison, / Ordonnez‑moi le fer, la flamme et le poison»; Sen. Herc. f. 419‑421 Gravent catenae corpus et longa fame / mors protrahatur lenta: non vincet fidem / vis ulla nostram; moriar, Alcide, tua32. (c) A fronte dell’incalzante pressione di Ercole, Iole risponde che non può essere costretta a unirsi a lui, perché le resta sempre aperta una via di libertà, data dalla morte: Rotrou Hercule mourant 213‑220 «[IO.] Le plus fier ennemi quelque ardeur qui l’enflamme, / Dompte malaisément ce qui dépend de l’âme; / Un tyrannique empire, et d’injustes efforts / Ont soumis à vos lois ce misérable corps: / Mais sous quelque tyran que ce captif respire / Un heureux désespoir en peut ôter l’empire; / Mourant, il peut franchir cette barbare loi, / Et s’il ne s’aime pas, il est maître de soi». L’idea positiva della morte come liberazione dalla tirannia è tipicamente stoica e ricorre numerose volte nelle opere di Seneca; nella forma concisa della sentenza, è espressa anche da Megara, in risposta a Lico: Herc. f. 426 [LY.] Cogere. [ME.] Cogi qui potest nescit mori33.

31 «[LI.] Vieni a condividere con me il regno; uniamo le nostre anime; accetta questo come pegno di lealtà: toccami la destra. Perché taci con volto minaccioso? [ME.] Io dovrei toccare la mano bagnata del sangue di mio padre e dell’assassinio dei miei due fratelli?». 32 «Catene gravino pure sul mio corpo e una prolungata fame mi porti a una lenta morte: nessuna forza vincerà la mia fedeltà: morirò tua, Alcide». 33 «[LI.] Sarai costretta. [ME.] Chi può essere costretto non sa morire». 226 Lucia Degiovanni

In contrasto con una Iole dal carattere forte e determinato, Ercole è rappresentato come totalmente soggiogato dall’amore per lei, pronto a prostrarsi – letteralmente – ai suoi piedi: accoccolato alle ginocchia di Iole (come recita la didascalia: «HERCULE, appuyé sur les genoux d’Iole qui travaille en tapisserie»), l’eroe la aiuta nel lavoro di tessitura, sperando di riuscire a sedurla nel mentre attendono insieme a questa occupazione34. La mansione femminile che Ercole si trova a svolgere richiama alla memoria la tradizionale descrizione della sua schiavitù presso Onfale, e l’allusione è confermata da un richiamo specifico. L’eroe sottolinea infatti il contrasto tra le proprie mani possenti e la leggerezza e delicatezza dell’ago che esse maneggiano (152 «Ton aiguille à mes doigts est un faix bien léger»), facendo proprio un motivo topico delle rappresentazioni elegiache di Ercole presso Onfale35, ripreso anche nell’Hercules Oetaeus (371‑373). L’equiparazione di Iole a Onfale, che in Rotrou è solamente allusa, attraverso l’atteggiamento assunto da Ercole, in altre riscritture successive è invece resa più esplicita36. Ed è questo uno degli elementi in cui risulta più evidente l’influsso del genere elegiaco: alla relazione amorosa Ercole‑ Iole sono attribuiti i caratteri peculiari della relazione Ercole‑Onfale, nella maniera in cui questa è tradizionalmente descritta nell’elegia romana, che la rilegge come un supremo esempio di servitium amoris (nelle Trachinie di Sofocle, invece, l’anno di schiavitù di Ercole presso Onfale era privo di ogni connotazione erotica)37. Il fatto che, in molte delle riscritture moderne, Iole respinga Ercole porta a una ridefinizione del suo rapporto con Deianira: la moglie dell’eroe, dopo aver dato sfogo, in modo spesso verbalmente violento, alla propria gelosia, attaccando sia il marito sia la rivale, comprende che Iole tiene veramente a distanza Ercole e che quindi gli interessi propri e quelli della prigioniera

34 Rotrou Hercule mourant 151‑156 «Si je gâte ces fleurs, tu les peux corriger; / Ton aiguille à mes doigts est un faix bien léger: / Mais ne t’oppose point à ce jeune caprice, / Qu’ils aient avec tes mains un commun exercice; / Ou si ce passe‑temps (mon coeur) t’est importun, / Que nos yeux aient au moins un passe‑temps commun». 35 Cf. Ov. Her. 9, 79‑80 A, quotiens digitis dum torques stamina duris, / praevalidae fusos conminuere manus! («Ah, quante volte, nel torcere il filo con le tue rozze dita, le mani troppo robuste hanno spezzato i fusi!»). 36 Il tema è diffuso nel melodramma: cf. BUTI 1662 (Atto III, sc. 3), RIGIMELICAF ROBERTI 1696 (Atto III, sc. 4), ASSARINIP 1712 (Atto III, scc. 1‑2). 37 Per quanto riguarda il tema della sovrapposizione Iole‑Onfale, che ha origine da un fraintendimento del testo della IX Eroide diffuso in commenti e volgarizzamenti medievali di Ovidio ed è ampiamente sviluppato da Boccaccio in più opere (in part. in De mulieribus claris 23), rinvio a un mio saggio in corso di stampa (Iole, Onfale ed Ercole innamorato: da Ovidio al teatro sei‑settecentesco). Il silenzio e la voce di Iole 227 di fatto coincidono. Segue dunque, in più drammi, una scena in cui Deianira si riconcilia con Iole, riconoscendo di essersi sbagliata sul suo conto: così avviene, ad es., nell’Hercules musicato da Haendel, su libretto inglese di T. Broughton, rappresentato a Londra nel 1745 (Atto II, sc. 8). La riscrittura che maggiormente sviluppa il tema dell’‘alleanza’ Deianira‑Iole è il dramma barocco seicentesco dello spagnolo Francisco López de Zárate Hércules Furente y Oeta38. Qui Iole è una figura ieratica, del tutto anerotica: respinge fermamente le profferte amorose di Ercole, per volontà di mantenersi illibata, e lo esorta a spogliarsi delle passioni umane per elevarsi alla condizione divina, e replica con pacata dignità alle irose e malevole parole di Deianira, che, folle di gelosia, la accusa – ingiustamente – di ipocrisia39. Le due donne, poi, una volta chiarito il fatto che tra loro non c’è rivalità, divengono ‘alleate’, e Iole riveste un ruolo fondamentale nel salvare Deianira dalla vendetta di Ercole, dopo che l’eroe ha indossato la veste avvelenata e ha ucciso Lica, latore del dono. In questo momento di massima tensione drammatica è Iole che, coraggiosamente, interviene ad affrontare Ercole, facendo scudo a Deianira con il proprio corpo. Alla caratterizzazione ieratica di Iole è conferita particolare rilevanza (anche scenica): Ercole si prosterna devotamente al suo cospetto e, su incoraggia ‑ mento della stessa Iole, si riconcilia con la moglie, alla quale chiede di continuare a vivere40. L’eroe quindi muore e assurge al cielo con a fianco entrambe le donne. In questa tragedia, dunque, Iole assume un ruolo salvifico, fondamentale per la lysis positiva del dramma (Deianira qui non si suicida). Talora la riconciliazione delle due donne giunge ad autentica compli‑ cità nel far uso del presunto filtro magico per ‘riconvogliare’ gli affetti di Ercole sulla legittima moglie: così avviene nell’Ercole amante di Buti, musi‑ cato da Cavalli, nell’Hercule di La Tuillerie e nella Déjanire di Gallet, musi‑ cata da Saint‑Saëns, dove è Iole stessa, su indicazione di Deianira, a porta‑ re la veste ad Ercole, perché egli la indossi al matrimonio41. Nell’Ercole amante questa soluzione drammaturgica è sfruttata in funzione del tema della vendetta di Iole per l’uccisione del padre Eurito (qui chiamato Euty‑ ro). Iole, su istigazione di Giunone, che intende servirsi di lei per colpire

38 LÓPEZ DE ZÁRATE 1651, 260‑338; edizione più recente: SIMÓN DÍAZ 1947, II, 279‑ 462. Riguardo al rapporto tra questa tragedia e il modello senecano (Hercules furens ed Hercules Oetaeus) vd. MORBY 1962 e la scheda di Corrado Cuccoro, di prossima pubblicazione sul sito del progetto SIR (vd. n. iniziale). 39 LÓPEZ DE ZÁRATE 1651, 304‑308. 40 LÓPEZ DE ZÁRATE 1651, 334‑335. 41 Riguardo al matrimonio di Ercole e Iole cf. quanto dettosupra p. 220 e n. 16. 228 Lucia Degiovanni l’odiato figliastro (Atto III, sc. 5)42, tenta addirittura di uccidere con un pu‑ gnale Ercole addormentato43, come una novella Giuditta con Oloferne (sc. 6; Iole è tuttavia trattenuta da Illo, che le sottrae l’arma). Successivamente, quando Iole, sotto ricatto (Ercole minaccia di uccidere il proprio figlio Illo, suo rivale in amore), accetta a malincuore di sposare Ercole, le appare l’ombra del padre, che la rimprovera duramente perché ha ceduto al ne‑ mico e dichiara che perseguirà di persona la propria vendetta (Atto IV, sc. 7). Segue (Atto V, sc. 1) una scena ultraterrena in cui l’ombra di Eutyro, negli Inferi, raduna le anime di coloro che sono stati uccisi da Ercole e li esorta a provocare, tutti insieme, la morte dell’eroe, assalendolo come «fu‑ rie invisibili»44. Viene così rifunzionalizzato il tema antico della vendetta post mortem di una vittima di Ercole: non più Nesso, ma Eurito, per mano della figlia Iole, latrice inconsapevole della veste avvelenata. Il motivo della preterinten zionalità dell’uccisione di Ercole, già presente nell’Hercu‑ les Oetaeus in riferimento a Deianira, viene qui attribuito a Iole: se nell’Oe‑ taeus Deianira, in preda al furor della gelosia, aveva ipotizzato di assassi‑ nare il marito per vendicarsi del tradimento, nell’Ercole amante Iole aveva realmente provato, senza successo, a uccidere l’eroe. Alla fine le due don‑ ne, in complicità, portano a reale com pimento il proposito iniziale, pur conservandosi innocenti, perché inconsapevoli dell’effetto letale del pre‑ sunto filtro d’amore. L’alleanza tra le due rivali, che condividono il fatto di avere entrambe motivi di risentimento contro Ercole, estremizza, in un certo senso, il motivo dell’equiparazione Deianira‑Iole nel comune desti‑ no di dolore, del quale si è detto all’inizio a proposito delleTrachinie . Pur con sfumature diverse, ciò che contraddistingue le riletture moderne del personaggio di Iole è il fatto che la principessa prigioniera è rappre ‑

42 Buti rende effettiva, attribuendola a Iole, l’alleanza con Giunone contro Ercole auspicata dalla Deianira dell’Hercules Oetaeus, che esortava la dea a servirsi di lei per annientare l’eroe (256‑275). 43 Buti Ercole amante, Atto III, sc. 6: «[IOLE] D’Eutyro anima grande / a questo core, a questo braccio imbelle / tanto furor, tanto vigor comparti / che possa or qui sacrarti, / con insigne vendetta / (universal di cui desio rimbomba) / vittima sì dovuta alla tua tomba. / Prendi o mio genitor dall’arso lido / di Flegetonte, il sangue / di quest’empio tiranno, / che nel tuo nome uccido». 44 Ercole amante, Atto V, sc. 1: «[EUTYRO] Su, su dunque ombre terribili / su voliam tutte in Eocalia, / nuova in ciel schiera stimfalia / contra il reo furie invisibili, / e con le vipere / onde Tesifone / tormenta l’anime / flagellamogli il cor; / fin ch’immenso dolor / con angoscie rabbiose il renda esanime». L’azione dell’ombra di Eutyro ricorda quella dello spettro di Clitemnestra, che nel prologo delleEumenidi di Eschilo sobilla le Erinni a perseguitare il proprio assassino, Oreste (cf. in part. 137‑139). Il silenzio e la voce di Iole 229 sentata come una donna ‘forte’ (tanto da tenere testa allo stesso Ercole), sempre costante nei suoi affetti e nei suoi proponimenti, razionale nelle proprie scelte d’azione, in contrasto con Deianira che, su modello del personaggio latino, è rappresentata come fortemente emotiva, dominata dalle passioni (in particolare dalla gelosia e dall’ira), impulsiva nelle decisioni. Alla fine l’irrazionalità di Deianira porterà alla morte lei stessa e il marito, mentre la costanza di Iole sarà premiata con il ‘lieto fine’ della propria vicenda personale (per lo più con il coronamento, nel matrimonio, del suo amore per Illo). Se fino all’inizio del Novecento l’orientamento dominante era la libera contaminazione di più fonti classiche45, in tempi più recenti, a cavallo del nuovo millennio, prevale la tendenza a richiamarsi direttamente alle Trachinie, nell’intento di trasporne la vicenda in un contesto contempo ‑ raneo46. Come si è detto, uno dei temi più diffusi nelle rivisitazioni moderne è l’amore dei due giovani, Iole e Illo, dapprima contrastato dalla rivalità di Ercole e infine coronato nelle agognate nozze. La base di partenza è naturalmente il mito classico, che prevedeva il matrimonio di Illo e Iole, dal quale sarebbe disceso il glorioso genos degli Eraclidi. Le riscritture contemporanee ribaltano questa lieta katastrophè, tipica piuttosto della commedia o del romanzo, nella prefigurazione di una catena d’odio destinata a perpetuarsi nelle future generazioni, come conseguenza della violenza della guerra che ha introdotto Iole, a forza, nella famiglia di Ercole. Lo spunto per questa rilettura ‘tragica’ proviene dalla scena dell’esodo delle Trachinie in cui Ercole impone al figlio il matrimonio con Iole47. Illo dapprima protesta vivacemente contro l’ordine paterno: non ha alcuna intenzione di prendere in moglie colei «che ha più in odio», «la sola responsabile della morte di sua madre e dello stato in cui suo padre si trova» (Trach. 1233‑1237); alla fine, tuttavia, per obbedienza filiale, si sottomette alla volontà paterna. È proprio questo snodo – la duplice violenza esercitata sia su Iole che su Illo – a suggerire innovative chiavi interpretative del mito classico. Il dramma contemporaneo che più ampiamente sviluppa questo tema è Dianeira di Timberlake Wertenbaker, che appartiene al genere del radio play, ovvero un testo teatrale appositamente concepito non per la messa in scena

45 Sofocle, Ovidio e l’Hercules Oetaeus, oltre a tragedie che presentano linee tematiche comuni, come l’Hercules furens di Seneca e le Medee di Euripide e di Seneca. 46 Per una rassegna delle rivisitazioni moderne delle Trachinie cf. MILLS 2017. 47 Per una riflessione sull’anomala pretesa di Ercole cf. PRALON 1996, 75 n. 38 e PÒRTULAS 2010. 230 Lucia Degiovanni ma per la trasmissione radiofonica (è andato in onda nel 1999 sulla BBC Radio 3)48. Si tratta di un’esplicita riscrittura delleTrachinie , di cui riprende in libera traduzione ampi passi, in un contesto di generale reinvenzione. A livello strutturale, la maggiore innovazione, legata al genere del radio play, è l’inserimento del personaggio di Irene, una vecchia cantastorie cieca – moderna rivisitazione dell’aedo arcaico – che funge da voce narrante, introducendo e commentando le diverse scene49. Partendo dal dialogo Ercole‑Illo dell’esodo sofocleo, l’autrice, nelle battute finali del dramma, dà un’inedita conclusione alla vicenda drammatica50. Parafrasando i vv. 1233‑ 1237 delle Trachinie, Illo oppone un deciso rifiuto all’ordine di sposare Iole:

HYLLOS Father: Iole’s presence caused my mother’s death, your unendurable pain now. Who would ask me to marry her but someone whose mind was beset with poisoning spirits or by the avenging hounds of Hell. I would rather die than share a house, a bed with my most hated enemy.

Alla fine tuttavia, come l’omologo personaggio sofocleo, per obbedienza filiale Illo si piega alla volontà paterna e accetta l’imposizione delle nozze aborrite. E la voce narrante così commenta la violenza esercitata dal padre sul figlio:

IRENE It could go on, this argument, but in the end, fathers do eat their sons if they can, there is no other myth that rings so true. […] And now the long arm of Heracles bows down the head of his son and turns this young man full of hope and life and possible love into a man overflowing with resentment, anger. And so it continues.

Ma l’elemento più innovativo di questa rivisitazione contemporanea è la ricomparsa in scena di Iole nel finale. Come evocata dalle parole di Ercole, Iole esce dalla casa:

HYLLOS You can’t see any more, Father, but she’s coming out of the house now, as if summoned by her hated name. And I can see from here triumph on her face. Don’t forget you killed her father, burned her city, took her by violence. HERACLES I loved her. HYLLOS Strange manifestation of love, Father, but now you’re dying, writhing in agony, and she gloats on your pain, on my mother’s death. What I see is a curl of pleasure on her cold lips. Don’t ask me to marry such malice.

48 WERTENBAKER 2002, 321‑374. 49 Sulla funzione drammaturgica del personaggio di Irene cf. WILSON 2008, 210 ss. 50 WERTENBAKER 2002, 369‑374. Il silenzio e la voce di Iole 231

Iole si mostra compiaciuta («gloats») per la rovina in cui, per causa sua, è caduta la casa di Ercole: agli occhi di Illo appare addirittura “trionfante” («I can see from here triumph on her face»), perché vede realizzata la vendetta per la violenza subita51. Il tema della vendetta di Iole è poi sviluppato tramite la rivisitazione del “silenzio” del personaggio sofocleo: la donna, come spiega la voce narrante, rimarrà in silenzio per tutta la sua vita matrimoniale con Illo:

Iole never said a word. She never said a word when she married Hyllos. She never said a word to her children. What was there to say? the bitterest anger is silent. And so anger threads its way through generations.

A nulla valgono i tentativi di Illo, in parte benevoli in parte anche maneschi, di sbloccare la situazione: Iole, a suo modo, trae piacere dal rovinare la vita a Illo e ai figli avuti da lui:

She has suckled her children with her anger, she is her anger, how can she relinquish the anger that she is? Anger is her life, her identity, and even a not too unpleasant habit.

Questa è dunque la storia di Ercole, Deianira, Illo e Iole: «a story of anger», come aveva detto la cantastorie nell’esordio del racconto, esau ‑ dendo la richiesta del suo uditorio52. E la giovane coppia che nasce da una storia di violenza non può avere un lieto fine: nella sensibilità contem ‑ poranea di deprecazione della guerra, dalla violenza non può derivare la ricostituzione dell’oikos, ma solo un inarrestabile perpetuarsi della distru ‑ zione.

51 L’atteggiamento di Iole ricorda l’esultanza di Cassandra nelleTroiane di Euripide e nell’Agamennone di Seneca per essere lo strumento della rovina della casa di Agamennone. In entrambi i casi la prigioniera di guerra, attraverso l’unione con il nemico vincitore, porta a compimento la vendetta per la distruzione della patria e l’uccisione del padre e dei familiari: cf. in part. E. Tro. 458‑461, Sen. Ag. 1004‑1011 e DEGIOVANNI 2004, 386‑389. 52 Nella cornice narrativa che contestualizza la performance della cantastorie, la Timberlake stessa e i suoi amici, in vacanza ad Atene, si recano nel villaggio di Kafeneion appositamente per ascoltare la cantastorie cieca: «She [scil. the storyteller] asked us what kind of story we wanted. I wanted one about love, but my friends said they’d heard lots of those, they wanted adventure. We settled on anger. This is what we heard» (WERTENBAKER 2002, 327). 232 Lucia Degiovanni

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Il poeta protagonista del suo dramma: sulla ricostruzione della Pytinē di Cratino

FRANCESCO PAOLO BIANCHI (ALBERT‑LUDWIGS‑UNIVERSITÄT FREIBURG)

[A]i migliori anni della nostra vita

ἀτὰρ ἐννοοῦμαι δῆτα τὰς μοχθηρίας τῆς † ἠλιθιότητος τῆς ἐμῆς

Verba Cratini resipiscentis

1. Nel 424 a.C., in occasione degli agoni lenaici, Aristofane ottenne il primo posto nel concorso, davanti ai Satyroi di Cratino e agli Ylophoroi di Aristomene1, con la messa in scena dei Cavalieri, la più estesa rappresen‑ tazione a noi nota di quella che è stata definita la Demagogenkomödie2, con bersaglio, nel caso specifico, il politico Cleone; nel corso del violento e serrato attacco, alla metà circa dell’azione drammatica (498‑610), l’illusione scenica è temporaneamente interrotta dall’esecuzione della parabasi, al cui interno, nell’arco di una ventina di versi (520‑540), è tracciato «un breve ma denso capitolo di storia della commedia attica antica»3, nel quale sono ricordate le alterne fortune che il pubblico ateniese aveva riservato a tre dei commediografi della generazione precedente ad Aristofane stesso: Magnete (520‑525)4, Cratino (526‑536) e Cratete (537‑540)5.

1 Arg. Α5 (VEΓΘVatLh) Ar. Eq. 3, 10‑12 Jones‑Wilson = arg. II.4, 66, 20‑22 WILSON 2007 = Cratin. test. 7b K.‑A. ἐδιδάχθη τὸ δρᾶμα ἐπὶ Στρατοκλέους ἄρχοντος (425/4 a.C.) δημοσίᾳ (VEL: om. ΓΘ) εἰς Λήναια δι᾽ αὐτοῦ <τοῦ> Ἀριστοφάνους. πρῶτος ἦν· ἐνίκα (πρῶτος ἦν· ἐνίκα Vvat: πρῶτον ἐνίκα ΕΓΘ: ἐνίκα Lh) δεύτερος Κρατῖνος Σατύροις· τρίτος Ἀριστομένης Ὑλοφόροις. Per la notazione δημοσίᾳ «a spese pubbliche» e l’impiego del verbo νικάω per indicare l’ottenimento del secondo o del terzo posto, cf. BIANCHI 2017, 301‑2 (commento a Cratin. test. 7b K.‑A.). 2 V. L IND 1990, in part. 235‑252. 3 IMPERIO 2004, 187. 4 Magn. test. 7 K.‑A., PCG V, 627, v. BAGORDO 2014b, 82‑84. 5 Cratet. test. 6 K.‑A., PCG IV, 84. 236 Francesco Paolo Bianchi

Di questi tre poeti, Cratino era l’unico verisimilmente ancora in vita nel 424 a.C.; nel suo ritratto (526‑536) sono chiaramente opposte la gloria del passato (526‑530) e la miseria del presente (531‑536) e il fatto che questa rappresentazione occupi oltre la metà del totale dei versi (11 su 20) rivela, come è stato più volte notato, da un lato la particolare importanza che il più giovane commediografo tributava al suo predecessore, dall’altro l’accesa polemica letteraria che tra i due poeti si era instaurata da quando Aristofane aveva iniziato la propria carriera6. Il ritratto di Cratino un tempo glorioso, ma ormai ‘vaneggiante’ (531 παραληροῦντα, cf. 536 ληρεῖν), ‘autore di musiche stonate’ (533 τῶν θ᾽ ἁρμονιῶν διαχασκουσῶν), ‘vecchio e errabondo’ (533 γέρων ὢν περιέρρει) e, soprattutto, ‘morto di sete’ (534 δίψῃ δ’ ἀπολωλώς), un palese riferimento alla φιλοινία di cui vi è traccia in diverse fonti7, doveva rappresentare la supremazia oramai consolidata del più giovane Aristofane sull’anziano commediografo, la quale era stata certamente sancita dal trionfo nel precedente anno 425 a.C. degli Acarnesi sui Cheimazomenoi8 e che sarebbe stata ulteriormente confermata, in quello stesso anno 424 a.C., dalla vittoria, sperata, ma anche certo attesa, deiCavalieri . Cratino, però, non aveva esaurito la propria vis comica e nei successivi agoni dionisiaci del 423 a.C. rispose alle accuse di Aristofane componendo un dramma, la Pytinē, con il quale ottenne un clamoroso successo, riuscendo infatti vincitore dinanzi alKonnos di Amipsia e alle Nuvole prime di Aristofane, che si classificarono solamente in terza posizione9.

6 Per la cronologia di Cratino e il suo ritratto nei Cavalieri, v. BIANCHI 2017, 13‑15 e 308‑316. 7 Cratin. testt. 1, 9, 10, 11, 14, 16, 45 e forse anche 15 K.‑A., v. BIANCHI 2017, 12 e passim (cf. Indice, 473 s.v. Cratino, φιλοινία). 8 Arg. I (RΦ[AΓΕ] c [Vp3c]Lh) Ar. Ach. 2, 3‑5 Wilson = arg. I, 4, 37‑40 Wilson 2007 = arg. I, p. 1 s., 32‑34 Olson 2002 ἐδιδάχθη ἐπὶ Εὐθύνου ἄρχοντος (426/5 a.C.) ἐν Ληναίοις διὰ Καλλιστράτου· καὶ πρῶτος ἦν· δεύτερος Κρατῖνος Χειμαζομένοις. οὐ σῴζονται. τρίτος Εὔπολις Νουμηνίαις. Per οὐ σῴζονται v. PFEIFFER 1968, 288 (Addenda): «le note οὐ σῴζεται ο οὐ σῴζονται ai titoli dei drammi, il cui testo non raggiunse ‘il porto della salvezza’ in Alessandria, sono probabilmente attinte aiPinakes nelle hypothesis di Aristofane» (la traduzione del passo citato proviene dall’edizione italiana del 1973 [215 n. 35] di PFEIFFER 1968). 9 Arg. A 6 (VERs) Ar. Nub. 4, rr. 12‑17 Holwerda = arg. V, 134, 1‑6 Wilson 2007 αἱ πρῶται Νεφέλαι ἐδιδάχθησαν (post ἐν ἄστει V) ἐν ἄστει ἐπὶ ἄρχοντος Ἰσάρχου (424/3 a.C.), ὅτε Κρατῖνος μὲν ἐνίκα Πυτίνῃ, Ἀμειψίας δὲ Κόννῳ. διόπερ Ἀριστοφάνης ἀπορριφθεὶς (ἀπορριφεὶς E) παραλόγως ᾠήθη δεῖν ἀναδιδάξας (ἀναδιδάξαι V) τὰς Νεφέλας τὰς δευτέρας καταμέμφεσθαι (ἀπομεμφ‑ V) τὸ θέατρον. ἀτυχῶν δὲ πολὺ μᾶλλον καὶ ἐν τοῖς ἔπειτα οὐκέτι τὴν διασκευὴν εἰσήγαγεν (ἐπήγ‑ Rs). Il poeta protagonista del suo dramma 237

2. La Pytinē, con la quale Cratino ottenne l’ultimo dei suoi sei successi dionisiaci, è un’opera assolutamente singolare nel panorama dell’intera produzione comica antica: si tratta, infatti, dell’unico caso a noi noto in cui protagonista della commedia sia il poeta stesso e l’intero dramma si possa interpretare come una «dramatized parabasis»10, fosse, cioè, dedicato tutto alla discussione poetica; come ha efficacemente scritto B. Zimmermann11:

in letzten Stück, der Flasche (Pytine) […] entfaltet der ältere Dichter in unmittelbarer Auseinandersetzung mit dem jüngeren Rivalen sein poetologisches Programm – und dies unüberhörbar, da er sich selbst zum komischen Helden des Stücks machte […] Man kann geradezu sagen, daß Kratinos, durch den aristophanischen Spott herausgefordert, die beiden Dominanten seiner komischen Dichtung, das dionysische und satirische Element, in seiner letzten Komödie zu seiner Komödienpoetik zusammenführt, dies jedoch nicht in der Form der darstellende Rede – etwa in einem Agon oder der Parabase – tut, sondern indem er das poetische Programm in eine komische Bühnenhandlung umsetzt.

Come per la parte maggiore della rimanente produzione comica, anche la Pytinē ci è nota solamente per tradizione indiretta, il che obbliga senz’altro a valutare con accortezza ogni inferenza che si voglia ricavare dalla lettura e dall’interpretazione dei frammenti e a non sopravvalutare la portata di quanto a nostra disposizione, nell’ottica di un tentativo di comprendere da pochi resti quale fosse il corso di un dramma e di fornirne una ipotetica ricostruzione; come ha, però, rilevato Olson12, la Pytinē rappresenta, insieme a pochi altri drammi (il Dionysalexandros dello stesso Cratino, i Babylōnioi di Aristofane, i Dēmoi, il Marikas e i Taxiarchoi di Eupoli) una parziale eccezione alla nostra limitata conoscenza, perché, se anche molto rimane oscuro, un certo numero di frammenti e le altre informazioni

10 La definizione è di BILES 2011, 281 (indice del volume), con il rimando alle discussioni presenti alle pagine 30‑31 e 146. 11 ZIMMERMANN 2011, 728 e 730 (da: «man kann geradezu sagen» usw.). 12 OLSON 2007, 80: «Cratinus’ The Wineflask (frr. 193‑217) and Dionysalexandros (frr. 39‑51) are important exceptions to the rule that little can be said about the plots of individual fragmentary fifth‑century comedies. Much remains obscure about both plays. But the fragments […] offer a sense of what an ‘Old Comedy’ by someone other than Aristophanes looked like, and preserve traces of many of the genre’s standard structural elements […] Other late fifth‑century comedies whose plots can be at least partially reconstructed include Aristophanes’ Babylonians (frr. 67‑100; first place at the City Dionysia in 426) and Eupolis’ Demes (frr. 99‑146; mid‑ to late 410s.), Marikas (frr. 192‑217 […]), and Taxiarchs (frr. 268‑285; undated)». 238 Francesco Paolo Bianchi di cui disponiamo consentono di avere un quadro, parziale certamente, ma almeno in alcuni punti abbastanza chiaro dello svolgimento dell’azione drammatica. Dell’intero corpus originario di drammi composti da Cratino, almeno 24 ma forse anche 29, possediamo in totale 504 frammenti per poco più di 450 versi; la Pytinē è la commedia di cui si è conservato il numero maggiore di versi (42), la seconda per numero di frammenti noti (25) e la terza per numero complessivo di citazioni (39)13. A ciò si aggiunge un’importante testimonianza presente in uno scolio ai Cavalieri di Aristofane (400a, v. infra), che offre una sintesi del dramma di Cratino14. Di conseguenza, ogni tentativo di comprensione e di ricostruzione della Pytinē si basa, anzitutto, sul testo di questo scolio e, quindi, sulla falsariga delle informazioni in esso presenti, sulla possibilità di ascrivere i frammenti di tradizione indiretta alle singole scene originarie del dramma in base a possibili indizi dei frammenti stessi.

3. Lo scolio al v. 400 dei Cavalieri di Aristofane15 conserva, come accennato, un sintetico riassunto della trama della Pytinē:

παροξυνθεὶς ἐκεῖνος, καίτοι τοῦ ἀγωνίζεσθαι ἀποστὰς καὶ συγγράφειν, πάλιν γράφει δρᾶμα, τὴν Πυτίνην, εἰς αὑτόν τε καὶ τὴν μέθην (Μέθην), οἰκονομίᾳ τε κεχρημένον τοιαύτῃ. τὴν Κωμῳδίαν ὁ Κρατῖνος ἐπλάσατο αὑτοῦ εἶναι γυναῖκα καὶ ἀφίστασθαι τοῦ συνοικεσίου τοῦ σὺν αὐτῷ θέλειν, καὶ κακώσεως αὐτῷ δίκην λαγχάνειν, φίλους δὲ παρατυχόντας τοῦ Κρατίνου δεῖσθαι μηδὲν προπετὲς ποιῆσαι καὶ τῆς ἔχθρας ἀνεῶτᾶν τὴν αἰτίαν, τὴν δὲ μέμφεσθαι αὐτῷ ὅτι μὴ κωμῳδοίη μηκέτι, σχολάζοι δὲ τῇ μέθῃ (Μέθῃ)16.

13 Per i dati qui riportati, v. BIANCHI 2017, 53 e 284‑285 (comm. a Cratin. test. 1 K.‑ A., Sud. κ 2334) per l’oscillazione delle testimonianze sul numero complessivo dei drammi cratinei. 14 Altre notizie sulla composizione della Pytinē sono in: schol. ad Ar. Eq. 531a, latore del fr. 213 K.‑A., su cui v. p. 254 s. e cf. BILES 2002, 182 e 2011, 147; Plut. quaest. conv. 2, 3, 12 (634d) il cui testo è incerto, v. KASSEL/AUSTIN PCG IV, 219. Infine risale a Kaibel apud KASSEL/AUSTIN PCG IV, 219 la possibilità che il Δὶς κατηγορούμενος di Luciano (29) potesse avere avuto a modello il dramma di Cratino: «cuius dialogi altera pars (26) manifesto ad Cratini fabulae exemplum instituta est. Rhetorica enim Luciani tamquam uxor maritum accusat quod rupta coniugii fide cum Dialogo puero rem habet, cf. 28, 29». 15 V. n. 17. 16 «E quello adiratosi, sebbene si fosse ritirato dal gareggiare e dal comporre, di nuovo scrisse un dramma, la Pytinē, riguardo se stesso e l’ubriachezza (o Ubriachezza), Il poeta protagonista del suo dramma 239

Lo scolio è relativo in particolare al nesso Κρατίνου κῴδιον ‘pelliccetta di Cratino’: la spiegazione offerta è che κῴδιον era la pelle preparata insieme alla lana e che, con questa espressione, veniva attaccatto Cratino in quanto ubriacone e affetto da enuresi, motivo questo per cui avrebbe avuto bisogno del κῴδιον, la cui funzione, è detto più avanti, era quella di una specie di ‘pannolino’ per ovviare, appunto, al problema fisico17. Subito dopo lo scoliaste informa che Cratino, adiratosi (παροξυνθείς) per questa rappresentazione e nonostante si fosse ritirato dalle competizioni (καίτοι τοῦ ἀγωνίζεσθαι ἀποστὰς καὶ συγγράφειν) – una notizia certamente erronea e dedotta per autoschediasma dal testo di Aristofane18 –, compose un dramma, di cui viene dato il titolo, Pytinē, e quindi alcune importanti informazioni sul contenuto:

in cui è stata seguita questa disposizione: Cratino immaginò che Commedia fosse sua moglie e che volesse rinunciare al matrimonio con lui e intentargli una causa per maltrattamento; e che gli amici di Cratino, sopraggiunti, (le) chiedessero di non fare nulla di avventato e le domandassero il motivo del suo odio e che quella (rispondesse) che lo biasimava perché non aveva più cura di Commedia, ma passava il suo tempo ad ubriacarsi (con Ubriachezza)». 17 Schol. vet. (VEΓ3ΘΜ) Ar. Eq. 400a (I) εἴ σε μὴ μισῶ, γενοίμην ἐν Κρατίνου κῴδιον = Sud. κ 2216 ~ Cratin. PCG IV, test. 14 K.‑A. ~ Pytinē test. ii K.‑A. Κρατίνου κῴδιον: κῴδιόν ἐστι τὸ ἅμα τοῖς ἐρίοις δέρμα σκευαζόμενον. ὡς ἐνουρητὴν δὲ καὶ μέθυσον διαβάλλει τὸν Κρατῖνον. ὁ δὲ Κρατῖνος καὶ αὐτὸς ἀρχαίας κωμῳδίας ποιητής, πρεσβύτερος Ἀριστοφάνους, τῶν εὐδοκίμων ἄγαν (segue il riassunto della trama citato sopra. Questa parte dello scolio corrisponde alla test. 14 K.‑A. di Cratino, la sintesi del dramma alla test. ii K.‑A. della Pytinē) «Pelliccetta di Cratino: kōdion è la pelle preparata insieme alla lana. Attacca Cratino come uno che se la fa sotto e ubriacone. E Cratino (era) anche lui poeta della commedia antica, più anziano di Aristofane, di quelli molto rinomati». L’enuresi è caratteristica comune degli uomini di età avanzata (cf. ad es. il coro degli anziani in Ar. Lys. 402 e 450) ed è possibile che a ciò si riferisca l’impiego del verbo ῥεύσας nella parabasi dei Cavalieri di Aristofane, v. 526, cf. BIANCHI 2017, 311 ad Cratin. test. 9 K.‑A. L’espressione ἐν Κρατίνου si può intendere genericamente come ‘in casa di Cratino’ (cf. schol. Ar. Eq. 400a εἰς τὴν οἰκίαν τοῦ Κρατίνου e v. SOMMERSTEIN 1981, 49, HENDERSON 1998, 281, HENDERSON 2011, 177, STOREY 2011, 245), ma forse, più specificamente, ‘nel letto di Cratino’ come intendono CANTARELLA 1953, 295 e MASTROMARCO 1983, 245 (che traduce κῴδιον ‘pannolino’), cf. anche EDMONDS 1957, 17 («may I be Cratinus’ bed»). 18 Che si tratti di una notizia dedotta autoschediasticamente dal testo di Aristofane, lo mostra il fatto che lo stesso anno dei Cavalieri (424 a.C.) Cratino concorse agli agoni con i Satyroi (Cratin. PCG IV, test. 7b K.‑A.) e che potrebbe essere stato attivo ancora dopo la rappresentazione della Pytinē, con i Seriphioi (BAKOLA 2010, 60 n. 139) e forse anche i Lakōnes (questa l’ipotesi di MASTROMARCO 2002, in part. 398‑403, cf. BIANCHI 2017, 318 s. e n. 432). 240 Francesco Paolo Bianchi

1) εἰς αὐτόν τε καὶ τὴν μ(/M)έθην: il dramma era relativo a Cratino stesso19 e a μ(/M)έθη, l’u(/U)briachezza. Un problema particolare è rappresentato dall’interpretazione del sostantivo μ(/M)έθη, che può: a) indicare l’idea dell’ubriachezza in maniera astratta; b) essere una personificazione, Μέθη, con la lettera iniziale maiuscola. La seconda possibilità venne avanzata in maniera implicita già da Meineke20, che nello stampare il testo dello scolio scriveva Μέθη, e, quindi, esplicitata da Kock21, il quale a commento dello stesso passo riportava: «Comoediam igitur et Ebrietatem fabulae personas esse voluit»; in epoca più recente hanno sostenuto questa ipotesi in particolare Luppe22, Rosen23 e Ruffell24. A suo favore, si potrebbero richiamare i confronti con le personificazioni di Πόλεμος, Εἰρήνη, Ὀπώρα e Θεωρία nella Pace di Aristofane e di Στάσις e Καταπυγοσύνη rispettivamente nei frr. 258 e *259 K.‑A. dei Cheirōnes dello stesso Cratino, anche se in questo caso è probabile che si trattasse non di effettivi personaggi del dramma, ma di astrazioni personificate semplicemente evocate nei due frammenti25. Tuttavia, questa possibilità non può essere argomentata con alcun dato di fatto e la semplice informazione dello scoliaste non fornisce alcuna

19 A proposito della presenza di Cratino stesso, opportuna la notazione di OLSON 2007, 80‑81: «Hellenistic scholars regularly mined literary texts for biographical information about the author, and we cannot be sure that the poet who appeared on the stage in The Wineflask was actually called ‘Cratinus’; and even if he was, the character cannot simply be identified with the historical author of the play». V. anche RUFFELL 2014, 280‑289. 20 MEINEKE FCG I, 48, II.1, 116. 21 KOCK CAF I, 68. 22 LUPPE 2000, 17. 23 ROSEN 2000, 26. 24 RUFFELL 2002, 156. 25 Nel fr. 258 K.‑A. «Cratino […] assimilava beffardamente Pericle a Zeus, con una frase densa di allusioni diverse, nella quale tramite il riferimento alla mitologia teogonica, veniva denunciato il carattere tirannico del suo potere e, nello stesso tempo, era messa alla berlina la forma irregolare, eccessivamente allungata, della sua testa» (CERRI 1975, 119), mentre nel fr. 259 K.‑A., Aspasia era detta figlia di Era eKatapygosynē e, se si accetta la pertinenza a questo stesso frammento della testimonianza di uno scolio a Platone (TW ad Pl. Menex. 235e, 183 Greene = 3, 270 Cufalo), era inoltre chiamata anche Omfale, dal nome della figlia di Iardano, regina dei Lidi presso la quale Eracle fu venduto come schiavo e dovette servire per espiare la colpa dell’uccisione di Ifito. Su questi frammenti v. in part. FARIOLI 2001, 416‑419, NOUSSIA 2003, DI MARCO 2005, OLSON 2007, 207 s. Per le personificazioni in commedia, v. DEUBNER 1908, in part. 2105‑2107, STÖSSL 1937, in part. 1050, ZIMMERMANN 2012. Il poeta protagonista del suo dramma 241 indicazione in merito26; come ha argomentato Bakola27, è possibile che le due possibilità coesistessero e rispecchiassero i differenti punti di vista dei personaggi, ossia è possibile che μ(/Μ)έθη non fosse una dramatis persona con ruolo attivo e che la sua caratterizzazione risultasse talora quella di una donna personificata con cui Cratino commetteva adulterio, talora, invece, semplicemente un concetto astratto;

2) οἰκονομία τε κεχρημένον τοιαύτῃ: nel dramma era seguito un tale intreccio. Si tratta di una pericope molto importante, perchè afferma espli ‑ citamente che quanto ricorre subito di seguito è la trama della commedia; «il termine οἰκονομία, infatti, se riferito alla produzione letteraria, rivela un uso “tecnico” e può indicare la struttura interna di un’opera»28, come appare chiaramente da alcuni passi paralleli, in particolare uno di Cicerone e uno di Dionigi di Alicarnasso29;

3) τὴν Κωμῳδίαν ὁ Κρατῖνος ‑ κακώσεως αὐτῷ δίκην λαγχάνειν: Cratino immaginò (ἐπλάσατο) che Commedia fosse sua moglie, che inten ‑ desse abbandonare il tetto coniugale e volesse intentargli una κακώσεως δίκη. Poiché queste sono le prime informazioni sul contenuto della commedia addotte dallo scoliaste, appare verisimile che esse riassumano il contenuto del prologo; particolarmente significative sono due frasi che rimandano a una dimensione legale che doveva caratterizzare questa scena e definiscono le intenzioni di Commedia: a) ἀφίστασθαι τοῦ συνοικεσίου τοῦ σὺν αὐτῷ θέλειν. Il verbo ἀφίστημι ha, tra gli altri, un valore tecnico che indica la perdita di una condizione legale30, mentre συνοικέσιον è connesso con συνοικεῖν «the

26 V. in part. HEATH 1990, 150: «some have thought of a mistress called Drink; unfortunately, when our source describes Comedy as complaining that ‘he no longer writes comedy but devotes himself to drink (σχολάζοι δὲ μέθῃ)’, we cannot tell whether μέθη is to be construed as a personification, parallel to Comedy herself». 27 BAKOLA 2010, 282‑285. 28 QUAGLIA 1998, 25 (corsivo dell’autore). 29 Cic. Att. VI, 1: Accepi tuas litteras a. d. V Terminalia Laodiceae; quas legi libentissime plenissimas amoris, humanitatis, offici, diligentiae. iis igitur respondebo, * * * (sic enim postulas), nec οἰκονομίαν meam instituam sed ordinem conservabo tuum. Dion. Hal. Pomp. IV 2 (Ξενοφῶν) οὐ μόνον δὲ τῶν ὑποθέσεων χάριν ἄξιος ἐπαινεῖσθαι [ζηλωτὴς Ἡροδότου γενόμενος], ἀλλὰ καὶ τῆς οἰκονομίας. V. anche LSJ s.v. οἰκονομία 3 «of a literary work, arrangement»; GE s.v. οἰκονομία «rhet. distribution, disposition, of themes, of material». 30 LSJ s.v. ἀφίστημι Β.1 «ὧν εἷλεν ἀποστάς giving up all claim to what he had won 242 Francesco Paolo Bianchi accepted term for living together in legitimate union»31 e che dal II sec. a.C. circa diventa di uso comune in formule tipo συνοικεσίου συγγραφή ‘causa di divorzio’ (Pap. Teb. 809.5, cf. P.Oxy 266.11). L’intera espressione ἀφίστα ‑ σθαι τοῦ συνοικεσίου potrebbe, quindi, alludere alla cosiddetta ἀπόλειψις32, una procedura per la quale una donna che volesse separarsi dal marito si presentava dinanzi all’arconte e chiedeva di registrare un cambio di stato33; b) κακώσεως αὐτῷ δίκην λαγχάνειν. L’espressione δίκην λαγχάνειν è di impiego comune per indicare un’azione processuale e ricorre, ad esempio, in due passi della Ἀθηναίων πολιτεία dello pseudo‑Aristotele (53, 1 δίκας λαγχάνουσιν, 56, 6 δίκαι λαγχάνονται)34; nel secondo di essi (56, 6), inoltre, sono elencate le γραφαὶ κακώσεως, che possono riguardare il maltrattamento dei genitori, degli orfani e dell’erede35. Come ha, dunque, rilevato Biles36 «the scholiast’s detail conform to Athenian divorce procedures, and his description is too unified and its implications too extensive to be a product of his imagination». Meno certa appare, invece, l’interpretazione proposta da Bakola37: delle possibili γραφαί κακώσεως, l’unica che sembra adattarsi alla situazione scenica della Pytinē sarebbe la ἐπικλήρου κάκωσις38, il che è certamente verisimile; da ciò, inoltre, si potrebbe stabilire un riferimento a una delle leggi di Solone: τρὶς ἑκάστου μηνὸς ἐντυγχάνειν πάντως τῇ ἐπικλήρῳ τὸν λάβοντα39. La mancata ottemperanza a tale dovere coniugale poteva portare al divorzio; di conseguenza:

(at law), D. 21, 181; τῶν αὑτῆς Id. 19, 147, cf. 35, 4; ἀφίστασθαι τῶν τοῦ ἀδελφοῦ ib. 44»; GE s.v. «to be deprived, lose», con il richiamo al medesimo passo di Demosth. 21, 181. 31 HARRISON 1968, 2. 32 L’ipotesi è di BILES 2011, 159‑160. 33 Per la ἀπόλειψις e, in particolare, per le diverse condizioni alle quali era soggetta una donna che volesse divorziare, v. HARRISON 1968, 40‑44, COHN‑HAFT 1995, 4‑7, 11‑ 13. 34 V. LSJ s.v. e RHODES 1981, 587 s., 2017, 381 ad [Aristot.] Ath. Pol. 53, 1. 35 [Aristot.] Ath. Pol. 56, 6 γραφαὶ δ[ὲ καὶ δ]ίκαι λαγχάνονται πρὸς αὐτόν, ἃς ἀνακρίνας εἰς τὸ δικαστήριον εἰσάγει, [γο]νέων κακώσεως (αὗται δ’ εἰσὶν ἀζήμιοι τῷ βουλομένῳ δ[ι]ώκειν), ὀρφανῶν κ[ακώ]σεως (αὗται δ’ εἰσὶ κατὰ τῶν ἐπιτρόπων), ἐπικλήρου κακώσε[ως (αὗτ]αι δ’ εἰσὶ κατὰ [τῶν] ἐπιτρόπων καὶ τῶν συνοικούντων), οἴκου ὀρφανικοῦ κακώσεως (εἰσὶ δὲ καὶ [αὗται κατὰ τῶν] ἐπιτρόπων), cf. RHODES 1981, 629‑630, 2017, 399‑400. 36 BILES 2011, 160. 37 BAKOLA 2010, 276‑277. 38 Cf. HARRISON 1968, 117‑119, RHODES 1981, 630. 39 Sol. F 51a Ruschenbusch (p. 88) = 434 Martina (p. 217). La fonte per questa legge è Plut. Sol. 20, 4. Il poeta protagonista del suo dramma 243

it seems, that, in the Pytine Comedy was presented as an ἐπίκληρος given in wedlock to Cratinus, who thus come under a legal obligation to consummate the marriage regularly […] Making Comedy an heiress was a stroke of self‑eulogy on the poet’s part. The point is that she has inherited a rich poetic tradition which only he is entitled to access […] Comedy thus sought to divorce the poet because of an alleged […] neglect of his conjugal duties40.

La connessione con la legge di Solone non è, però, in alcun modo dimostrabile e l’ipotesi, per quanto suggestiva, non ha alcun possibile riscontro; l’unico dato che sembra rimanere certo nel testo dello scolio è il riferimento al lessico legale e a una situazione processuale, mentre una sua più precisa individuazione appare esclusa;

4) φιλοὺς δὲ παρατυχόντας τοῦ Κρατίνου ‑ τῆς ἔχθρας ἀνερωτᾶν τὴν αἰτίαν. Compaiono gli amici di Cratino, cercano di dissuadere Commedia dal suo proposito e le chiedono le ragioni della sua ostilità (ἔχθρα). Di particolare importanza è la pericope φιλοὺς δὲ παρατυχόντας τοῦ Κρατίνου, che si riferisce a un evento successivo a quelli descritti nelle righe precedenti; è possibile che l’arrivo degli amici di Cratino coincidesse con la parodo e che essi fossero, quindi, i componenti del coro del dramma41. Opportuna, però, la notazione di Biles42 su una certa difficoltà relativa a questa identificazione: «one wonders what characters would be recognized as friends of Cratinus»43;

40 BAKOLA 2010, 277 (corsivo dell’autrice). 41 Questa ipotesi è ascritta sia da OSENR 2000, 26 che da BILES 2002, 181, n. 40 a RUNKEL 1827 (il riferimento preciso è assente in entrambi gli studiosi, si tratta verisimilmente di p. 50) e a MEINEKE FCG I, 48 (il numero di pagina è dato dal solo Rosen), dai quali dipenderebbe, poi, HEATH 1990, 150. In realtà tanto Runkel quanto Meineke parlano solo in maniera generica, rispettivamente, di amici« poetae» e di «Cratini familiares», senza specificare nulla sulla possibile scena del dramma, mentre più specificamente risale a HEATH 1990, 150 l’ipotesi della parodo: «I take it that this is the entry of the Chorus». 42 BILES 2002, 181 n. 40. 43 A proposito dei componenti del coro, interessante la notazione di QUAGLIA 1998, 26 n. 8: «lo scolio non dice se tra gli amici di Cratino figurasse un interlocutore privilegiato, cioè un vero e proprio personaggio, o se Commedia si rivolgesse, genericamente, ai coreuti. All’esistenza di un vero e proprio attore (e non semplice ‑ mente del Corifeo) fa pensare il fr. 199 K.‑A. in cui un terzo personaggio (maschile, come provato dal participio σποδῶν al v. 4) progetta di distogliere Cratino dal vizio del bere». 244 Francesco Paolo Bianchi

5) τὴν δὲ μέμφεσθαι αὐτῷ ‑ τῇ μέθῃ (Μέθῃ). In seguito alla richiesta degli amici di Cratino, Commedia spiega le ragioni del suo biasimo (μέμφεσθαι); come ha indicato Bakola44 la pericope μὴ κωμῳδοίη μηκέτι, σχολάζοι δὲ τῇ μέθῃ (Μέθῃ) si può intendere in due modi, a seconda che si ammetta la possibilità che μ(/Μ)έθη fosse o meno una personificazione: «‘he does not make comedies, but it is only concerned with drinking’ and ‘he does not sleep with me, but is constantly with her’».

Sulla base, quindi, delle informazioni verisimilmente deducibili dal testo dello scolio ai Cavalieri, nella Pytinē è possibile supporre le seguenti scene della parte iniziale della commedia: 1) un prologo in cui Commedia, moglie di Cratino, si lamentava del trattamento subito dal poeta e annunciava di voler abbandonare il tetto coniugale e intentare una causa contro il marito; 2) una parodo in cui entrava in scena il coro, composto dagli amici di Cratino, che si prefiggeva come obiettivo quello di aiutare il poeta e dissuadere Commedia dai suoi propositi; 3) una scena successiva alla parodo in cui Commedia, sotto richiesta degli amici stessi di Cratino, spiegava le ragioni della propria ostilità nei confronti del poeta.

4. Una questione particolare è se l’ultima di queste tre scene, successiva alla presunta parodo, si possa identificare con l’agone della commedia, il quale, in questo caso, avrebbe quindi avuto come suo tema la γραφὴ κακώσεως di Commedia nei confronti di Cratino di cui parla lo scolio, ossia una scena di processo che aveva Commedia e Cratino come contendenti. Questa ipotesi è stata avanzata da Heath45 ed è possibile sia per il fatto che un simile tema sarebbe perfettamente adatto a un agone; sia perché, per quello che possiamo osservare dalla prassi di Aristofane, l’agone si colloca di norma nella prima parte della commedia, dopo la parodo e prima della parabasi, mentre quando è presente dopo quest’ultima scena ciò sembra sempre rispondere a precise esigenze drammaturgiche46.

44 BAKOLA 2010, 281. 45 ΗΕΑΤΗ 1990, 150: «there followed a debate in which Comedy set out her complaints and Cratinus defended himself». 46 PICKARD‑CAMBRIDGE 19622, 200, GELZER 1960, in part. 11‑37, DOVER 1972, 66. Nelle commedie di Aristofane l’agone si situa prima della parabasi nelle Vespe (526‑ 724), negli Uccelli (451‑638) e nella Lisistrata (476‑613); dopo la parabasi nei Cavalieri (756‑940), nelle Nuvole (950‑1104) e nelle Rane (858‑1098). Nei Cavalieri si ha un agone Il poeta protagonista del suo dramma 245

Un problema è, invece, rappresentato dal fatto che tutti i fram menti della Pytinē che sembrano adattarsi a questo tema e potrebbero, quindi, essere collocati nell’agone, sono in trimetri giambici e non nei metri recitativi tipici di questa sezione, tetrametro giambico catalettico e tetrametro anapestico catalettico; l’ipotesi addotta per spiegare questa singolarità è che «in questo agone ampie sezioni in trimetri giambici “sostituivano” i più comuni epirremi in tetrametri, perché il poeta intese parodiare […] le rheseis tenute in tribunale»47. Un indizio di ciò sarebbe nel fr. 197 K.‑A.: τὴν μὲν παρασκευὴν ἴσως γιγνώσκετε «forse conoscete il complotto»48; questo trimetro giambico è tràdito da Clemente Alessandrino (VI 20, 3) nella sezione dedicata ai furti degli scrittori e il contesto di citazione con gli altri esempi addotti da passi di oratori49, mostra che παρασκευή debba intendersi nel senso di ‘intrigo’, ‘macchinazione’50. Di conseguenza questo frammento potrebbe essere l’inizio della «Cratini criminibus uxoris responsuri oratio»51; il poeta inizierebbe così a denotare «di fronte alla giuria la falsità delle accuse mosse contro di lui dalla donna, alludendo all’«apparato» di menzogne che, dal suo punto di vista, la donna gli ha opposto»52.

anche nella prima parte, prima della parabasi (303‑460), ma su scala minore rispetto al secondo. L’agone manca in Acarnesi, Pace e Tesmoforiazuse; se ne ha testimonianza nelle Ecclesiazuse (571‑709) e nel (487‑726), ma la nota mancanza della parabasi in queste commedie le esclude da un termine di confronto. 47 QUAGLIA 1998, 27. HEATH 1990, 150 affermava, genericamente: «The fragments indicate that this exchange was in iambic trimeters, rather than the recitative metres we generally associate with a comic agon (although there is always a margin of uncertainty about the assignment of fragments to any particular scene)», ma parlava anche (ibid.) di parodia di un «cliché of legal oratory» a proposito del fr. 197 K.‑A. (v. supra). 48 Trad. BETA 2009, 247. 49 Κρατίνου ἐν Πυτίνῃ εἰπόντος· τὴν μὲν παρασκευὴν ἴσως γινώσκετε, Ἀνδοκίδης ὁ ῥήτωρ λέγει (1, 1)· «τὴν μὲν παρασκευήν, ὦ ἄνδρες δικασταί, καὶ τὴν προθυμίαν τῶν ἐχθρῶν τῶν ἐμῶν σχεδόν τι πάντες εἴσεσθε». Ὁμοίως καὶ Λυσίας ἐν τῷ πρὸς Νικίαν ὑπὲρ <παρα>καταθήκης (fr. 190 Sauppe) «τὴν μὲν παρασκευὴν καὶ τὴν προθυμίαν τῶν ἀντιδίκων ὁρᾶτε, ὦ ἄνδρες δικασταί,» φησίν, καὶ μετὰ τοῦτον Αἰσχίνης λέγει (3, 19)· «τὴν μὲν παρασκευὴν ὁρᾶτε, ὦ ἄνδρες Ἀθηναῖοι, καὶ τὴν παράταξιν». 50 «Intrigue, cabal» LSJ s.v. nr. 3, «intrigue, plot, trick» GE s.v., con i richiami, esemplificativi, oltre ai passi citati alla nota precedente e dedotti dal passo di Clemente Alessandrino, anche a Antiph. 5, 79, Lys. 12, 75, Demosth. 43, 32, Lycurg. 20. 51 KASSEL/AUSTIN PCG IV, 222. 52 QUAGLIA 1998, 51. 246 Francesco Paolo Bianchi

Il fatto che l’agone potesse avere forme strutturali differenti da quelle di Aristofane, nello specifico delle rheseis in trimetri giambici, può essere argomentata con la considerazione che nello stesso Cratino il fr. 6 K.‑A. degli Archilochoi53, in esametri, è generalmente e convincentemente inter‑ pretato come la sphragis dell’agone, una possibilità questa dalla quale potrebbe anche derivare l’ipotesi che questa intera sezione fosse in esametri, in modo del tutto differente dalla prassi di Aristofane; bisogna, però, rilevare che l’ipotesi di un agone basato su rheseis giudiziarie nella Pytinē, non ha altri indizi che l’informazione dello scolio, in sé generica e il discusso fr. 197 K.‑A. e rimane, quindi, dubbia. Ad essa si oppone, d’altra parte, la possibile interpretazione di due frammenti, il 20854 e il 20955 K.‑A., in genere intesi come parole di Commedia che istruirebbe Cratino su come comporre correttamente un dramma e sull’opportunità di inserirvi riferimenti a personaggi dell’attua ‑ lità, nello specifico Clistene e Iperbolo; entrambi sono stati ascritti all’agone56 e ciò è possibile per l’utilizzo del metro, il tetrametro giambico

53 Cratin. fr. 6 K.‑A.: εἶδες τὴν Θασίαν ἅλμην, οἱ᾽ ἄττα βαϋζει;́ / ὡς εὐ καὶ ταχέως ἀπετείσατο καὶ παραχρῆμα. / οὐ μέντοι παρὰ κωφὸν ὁ τυφλὸς ἔοικε λαλῆσαι «Hai visto la salamoia di Taso, quanto abbaia? / Come si è vendicata bene e in fretta e lì per lì. / Non sembra certo che il cieco chiacchieri vicino a un sordo» (trad. BIANCHI 2016, 62). L’ipotesi di un’attribuzione del frammento allasphragis dell’agone e la conseguente possibilità di un intero agone omeoritmico in esametri è di PRETAGOSTINI 1982, 45‑47, che sviluppa l’idea di una generica ascrizione all’agone già di ZIELIŃSKI 1887, 10‑11, cf. BIANCHI 2016, 66‑67. 54 Cratin. fr. 208 K.‑A.: ληρεῖς ἔχων· γράφ᾽ αὐτόν / ἐν ἐπεισοδίῳ· γελοῖος ἔσται Κλεισθένης κυβεύων / † ἐν τῇ τῇ κάλλους ἀκμῇ «Stai dicendo un sacco di stupidaggini: / scrivilo nell’episodio. Il pubblico riderà / quando vedrà Clistene giocare a dadi / nel fulgore della sua bellezza» (trad. BETA 2009, 249). Il testo di questo frammento è stato talora sospettato: secondo ARZULLOM 1959, 145 «γράφ(εται) ταῦτ(α) ἐν ἐπεισοδίῳ, quale è lecito desumere dai codici, potrebbe considerarsi annotazione marginale, poi intrusa nel frammento di Cratino. Dell’originario compendio fanno fede le diverse lezioni: offrono anzi il maggiore indizio», ma non sembra esserci motivo di dubitare del sostantivo ἐπεισόδιον del v. 2, v. MEINEKE FCG II.1, 126 che confrontava Metag. fr. 15 K.‑A. (Philothytēs) κατ᾽ ἐπεισόδιον μεταβάλλω τὸν λόγον κτλ., su cui v. PELLEGRINO 1998, p. 327 s., ORTH 2014, 468‑471; per la metrica, inoltre, un inizio con due anapesti (ἐν ἐπεισοδίῳ), è raro, ma attestato in Ar. Eq. 414‑ 415 e Ran. 920. 55 Cratin. fr. 209 K.‑A.: Ὑπέρβολον δ᾽ ἀποσβέσας ἐν τοῖς λύχνοισι γράψον «spegni Iperbolo e scrivilo nel mercato delle lampade», trad. BETA 2009, 249. 56 Per il fr. 208 K.‑A., v. ZIELIŃSKI 1931, 87: «aut poeta lagaena orbatus inutilis ostendebatur ad comoediam scribendam aut lagaena recuperata egregiam scribens fabulam inducebatur», GELZER 1960, 182. Per il fr. 209 K.‑A., v. CRUSIUS 1889, 39: «Comoediam Il poeta protagonista del suo dramma 247 catalettico. Questa ipotesi, però, è in contrasto con quella appena discussa che l’agone contenesse uno scontro in trimetri giambici con parodie di rheseis giudiziare, a meno di non pensare, ovviamente, che entrambe le forme – le rheseis in trimetri giambici e sezioni in tetrametri giambici – e entrambe le tematiche – confronto giudizario e precetti di composizione di Commedia –, coesistessero nell’agone in forme che a noi non è possibile ricostruire. Data l’incertezza e i dati almeno apparentemente contraddittori, le differenti possibilità restano in ogni caso ugualmente valide e non si può giungere a una più precisa scelta su questo punto, così come su altri.

5. Dal testo dello scolio si ricava che all’inizio del dramma, nel prologo, Commedia dichiarava di voler abbandonare il tetto coniugale e intentare una causa a Cratino; nella scena successiva alla parodo, poi, la stessa Commedia sotto richiesta degli amici di Cratino esponeva le ragioni della propria ostilità. Se quest’ultima sezione del dramma coincideva con l’agone (v. supra) allora i trimetri giambici che si possono attribuire a Commedia saranno stati parte della sua rhesis giudiziaria; in caso contrario, essi si potranno intendere come ciò che rimane di una scena episodica precedente l’agone (perduto, tranne, forse, alcuni versi, cf. supra per i frr. 208 e 209 K.‑ A). In più di un caso, comunque, il contenuto dei frammenti è coerente con ciascuna di queste due scene e non risulta possibile un’ascrizione certa all’una o all’altra; di ciò sono esemplificativi i frr. 193 K.‑A.: ἀλλ’ † ἐπαναστρέψαι βούλομαι εις † τὸν λόγον. / πρότερον ἐκεῖνος πρὸς ἑτέραν γυναῖκ’ ἔχων / τὸν νοῦν, κακὰς εἴποι πρὸς ἑτέραν· ἀλλ’ / ἅμα

audimus in agone nova quaedam poetae inventa corripientem atque veras τοῦ κωμῳδεῖν vias monstrans», GELZER 1960, 182. Per il richiamo a personaggi dell’attualità politica, al medesimo contesto dell’agone potrebbero forse rimandare anche le menzioni di Antifonte, Licone e Cherefonte rispettivamente nei frr. 212, 214 e 215 K.‑A., sebbene la loro genericità non escluda un qualsiasi altro riferimento, anche soltanto incidentale, nel corso del dramma. Secondo HEATH 1990, 151 i due frammenti si collocano in una scena successiva alla riconciliazione tra Cratino e Commedia e sono pronunciati da quest’ultima; ciò è senz’altro possibile, ma se si tratta di una scena episodica non è agevole capire il perché dei metri utilizzati. D’altra parte, se non si accetta l’identificazione dell’agone con lo scontro verbale tra Cratino e Commedia, non possiamo sapere se esso precedesse o meno la riappacificazione tra i due coniugi; data la normale collocazione dell’agone (cf. n. 46), è possibile che fosse precedente, in una fase iniziale della commedia, quando, di conseguenza, i contrasti tra i due coniugi 248 Francesco Paolo Bianchi

μὲν τὸ γῆρας, ἅμα δέ μοι δοκεῖ +< / † οὐδέποτ’ αὐτοῦ πρότερον57 e 194 K.‑A.: γυνὴ δ’ ἐκείνου πρότερον ἦ, νῦν δ’ οὐκέτι58. Il lessico è simile e in entrambi la persona loquens è generalmente e con verisimiglianza identificata in Commedia59, la quale nel primo frammento sosteneva che quello (ἐκεῖνος, v. 2), cioè, con ogni verisimiglianza Cratino, rivolgeva le sue attenzioni a un’altra donna (πρὸς ἐτέραν γυναῖκα ἔχων / τὸν νοῦν, v. 2 s., cf. v. 3 πρὸς ἑτέραν); nel secondo, in maniera simile, affermava che un tempo lei stessa era stata la donna (γυνή) di quello, di nuovo il pronome ἐκεῖνος, ma ora non lo era più (νῦν δ᾽ οὐκέτι)60. Le affermazioni, generiche, di questi versi potevano trovare spazio ugualmente sia nel prologo sia nella scena successiva alla parodo61. Ad analoga conclusione porta, d’altra parte, un’analisi del contesto di citazione del fr. 193 K.‑A.62: latore ne è il medesimo scolio che tramanda il riassunto

dovevano essere ancora lontani da una soluzione, ma ciò non esclude che i frr. 208 e 209 K.‑A. fossero parte dell’agone e venissero pronunciati da Commedia, che indicava al marito come scrivere una commedia, senza, però, sortire effetti su questi che pensava solamente al vino. 57 «Ma voglio riprendere da capo il mio discorso: / costui, prima, poichè aveva il pensiero rivolto / a un’altra donna, … / ora, forse per la vecchiaia, forse … a me sembra / che non si comporti più come faceva un tempo», trad. BETA 2009, 245. 58 «Prima ero sua moglie, ma ora non lo sono più», trad. BETA 2009, 245. 59 Questa ipotesi risulta fin da RUNKEL 1827, 51 e, poi, da MEINEKE FCG I 48 ed è generalmente accolta. Nel caso del fr. 193 K.‑A., come lo stesso Runkel (ibid.) rileva, il fatto che si possa trattare di parole di Commedia è possibilmente deducibile dal testo dello scolio ad Ar. Eq. 400a latore del frammento: subito dopo il riassunto della commedia, infatti, che si conclude con la notazione τὴν δὲi ( .e. Κωμῳδίαν) μέμφεσθαι αὐτῷ ὅτι μὴ κωμῳδοίη μηκέτι, σχολάζοι δὲ τῇ μέθῃ (Μέθῃ), lo scoliaste annuncia di voler riportare αὐτὰ τὰ ἐπιτήδεια τῶν ἱάμβων ἐκλέξαντα; per quanto la formulazione sia generica, l’interpretazione più ovvia appare quella che si tratti di parole tratte dal discorso di Commedia stessa (cf.supra ), il che sembra confermato dal contenuto dei versi. 60 Anche il fr. 204 K.‑A. (ἀλλ’ οὐδὲ λάχανον οὐδὲν οὐδ’ ὀστοῦν ἔτι / ὁρῶ) in cui qualcuno lamenta una condizione di povertà, potrebbe essere appartenuto alle accuse di Commedia al marito, cf. FRITZSCHE 1835, 267: «Comoedia marito egestatem quoque criminis loco obiecerat» e HEATH 1990, 150: «it is possible that another ground of complaint was poverty». Secondo QUAGLIA 1998, 27: «il tenore di questa rimostranza, in cui Commedia parrebbe lamentare di essere ridotta a fare la fame, senza vedere più verdura e nemmeno gli ossi della carne, è tutto sommato inadatta ad un’arringa di accusa in tribunale e può essere assegnata al prologo. Così pure il fr. 194 K.‑A. […] ha il tono di un’amara constatazione più che di un’accusa». 61 Al prologo i due frammenti sono ascritti, ad esempio, da LSONO 2007, 81, mentre le due alternative (prologo e scena successiva alla parodo) sono considerate equivalenti da BETA 2009, 245, nn. 211‑212. 62 Il fr. 194 K.‑A. è tràdito per un motivo grammaticale, l’attestazione di ἦ Il poeta protagonista del suo dramma 249 della commedia (cf. supra), nel quale, subito dopo questa sezione ricorrono le parole οὐδὲν δὲ χεῖρον πολυμαθίας ἕνεκεν αὐτὰ τὰ ἐπιτήδεια τῶν ἰάμβων ἐκλέξαντα θεῖναι ταῦτα63, cui segue immediatamente la citazione del frammento. Dal momento che la pericope οὐδὲν δὲ χεῖρον ‑ θεῖναι ταῦτα e i cinque versi del fr. 193 K.‑A.64 ricorrono dopo la fine del riassunto,

monosillabico, in Porph. ad Hom. E 533 (quaest. hom. ad Il. pert. p. 83, 32 s. Schrader) (rr. 20‑24): τῶν δὲ Ἀττικῶν οἱ μὲν ἀρχαῖοι μονογράμματον αὐτὸ προεφέροντο, οἱ δὲ νεώτεροι σὺν τῷ καθάπερ τῶν πρεσβυτέῶν τινές. χρῆται δὲ τούτῳ ὁ ποιητὴς ποτὲ μὲν εἰς δύο συλλαβὰς διαιρῶν αὐτὸ καὶ δύο γράμματα βραχέα [… rr. 29‑33] τὸ δὲ μονοσύλλαβον οὐχ εὑρίσκομεν παρ’ αὐτῷ κατὰ τῆς δυνάμεως ταύτης ἀλλὰ κατὰ τὴν ἑτέραν <τῆς ἑτέρας L> μόνον. τῶν δὲ Ἀττικῶν ἐστι παρὰ Κρατίνῳ ἐν Πυτίνῃ· γυνὴ ‑ οὐκέτι (seguono gli ulteriori esempi di S. fr. 447 Radt [Niobē], OT 1123, Pl. Rp. 1, 328c 7). 63 «E non è male per la polymathia scegliere queste parti appropriate dei giambi e riportarle», cf. LUPPE 1968, 189: «keineswegs aber ist es schlecht, um vielseitiger Kenntnis willen das Geeignete der Iamben selbst herauszugreifen und dieses anzuführen». Per questa formulazione, lo stesso LUPPE 1968, 188 riporta il confronto con uno scolio di Giovanni Logoteta a Hermog. Meth. 28, p. 144 s. Rabe (Aus Rhetoren‑ Handschriften. 5. Des Diakonen und Logotheten Johannes Kommentar zu Hermogenes Περὶ μεθόδου δεινότητος, “RhM” 63 (1908), 127‑151), dove si legge: οὗτος ὁ στίχος [Ζεύς, ὡς λέλεκται τῆς ἀληθείας ὕπο, citato da Ermogene) ἐν δυσὶν εὗρηται δρἀμασιν Εὐριπίδου, ἔν τε τῷ λεγομένῳ Πειρίθῳ [= Crit. TrGF 43 F 1, v. 9 Snell‑Kannicht] καὶ ἐν τῇ Σοφῇ Μελανίππῃ [TrGF V.1, fr. 481, v. 1 Kannicht], ὧν καὶ τὰς ὑποθέσεις καὶ τὰ χωρία οὐκ ἄκαιρον ἐκθεῖναι τοῖς ἀσπαζομένοις τὴν πολυμάθειαν. 64 Un problema particolare è rappresentato da ἀλλ’ † ἐπαναστρέψαι βούλομαι εις † τὸν λόγον, in genere considerato (fin da RUNKEL 1827, 50‑51) il primo dei cinque versi del fr. 193 K.‑A. Secondo un’ipotesi proposta da LUPPE 1968, non si tratterebbe, invece, di ipsissima verba del commediografo, ma dopo οὐδὲν δὲ χεῖρον ‑ θεῖναι ταῦτα si deve intendere una lacuna nella quale erano presente la citazione di alcuni versi del discorso di Commedia; quindi lo scoliaste avrebbe aggiunto qualche nota e, di seguito, con la frase ἀλλ᾽ ‑ τὸν λόγον introduceva una nuova citazione del discorso di Commedia. Di conseguenza, la citazione vera e propria di Cratino inizierebbe dall’attuale v. 2. Ciò permetterebbe, secondo lo stesso Luppe, di ovviare ai problemi testuali, metrici e di significato del v. 1 (di cui è dato uno status quaestionis a p. 191) e tale ipotesi sarebbe, inoltre, confermata dal confronto con prassi di citazioni analoghe di altri scoli, in particolare quello di Giovanni Logoteta a Hermog. Meth. 28, 30 e 36 Rabe (cf. n. 63), in cui la formulazione è molto simile a quella dello scoliaste ai Cavalieri: «man könnte fast glauben, daß unser Aristophanesscholion letzlich auf denselben Mann zurückgeht, der den betreffenden Hermogeneskommentar verfaßte, welchen Johannes und Gregor ausschreiben. Ein Geistesverwandter ist es gewiß» (LUPPE 1968, 189). Recentemente, OLSON 2007, 81‑2 ascrive il verso a Cratino e sottolinea la valenza specifica di λόγος «the story […], i.e. the plot of the play, the speaker having gone off momentarily on a tangent, perhaps as part of the process of warming up the audience at the very beginning of the action», mentre BAKOLA 2010, 282 e n. 139 è incline a pensare che si tratti di parole dello scoliaste. Se si ammette l’ipotesi di Luppe sul v. 1, 250 Francesco Paolo Bianchi si potrebbe supporre che il riferimento fosse alla scena dopo la parodo in cui Commedia spiegava le ragioni della sua ostilità, e il contenuto stesso dei versi sembra adattarsi alle immediatamente precedenti parole dello scoliaste τὴν δὲ μέμφεσθαι αὐτῷ ὅτι μὴ κωμῳδοίη μηκέτι, σχολάζοι δὲ τῇ μέθῃ; d’altra parte, però, la frase οὐδὲν δὲ χεῖρον ‑ θεῖναι ταῦτα è generica e, poiché la tematica del prologo era simile, non si può escludere una collocazione anche in questa sezione. A differenza di questi due casi, una maggiore probabilità di collocazione sembra essere possibile per il frammento 196 K.‑A.: τὸν δ’ ἴσον ἴσῳ φέροντ’· ἐγὼ δ’ ἐκτήκομαι65; la presenza esplicita, infatti, del tema del vino lascia verisimilmente supporre un’ascrizione alla scena successiva alla parodo, in cui Commedia si lamentava che il marito passasse il tempo con μ(/Μ)έθη (σχολάζοι δὲ τῇ μ(/Μ)έθῃ). Tràdito da Ateneo (X 426b) per documentare l’impiego dell’espressione ἴσον ἴσῳ, il verso potrebbe essere stato pronuciato da Commedia, la quale esprimeva il proprio dolore (ἐκτήκομαι) per il fatto di non essere amata da Cratino, i cui pensieri erano rivolti al vino66. Una possibilità analoga si ha anche per il fr. *195 K.‑A.: νῦν δ’ ἢν ἴδῃ Μενδαῖον ἡβῶντ’ ἀρτίως / οἰνίσκον, ἕπεται κἀκολουθεῖ καὶ λέγει, / οἴμ’ ὡς ἁπαλὸς καὶ λευκός. ἆρ’ οἴσει τρία;67, la cui appartenza alla Pytinē è però dubbia; il frammento è, infatti, tràdito in forma anepigrafa da Ateneo68

lo scoliaste avrebbe riportato due parti di un discorso di Commedia, la seconda delle quali introdotta dalla frase ἀλλ᾽ ‑ τὸν λόγον e, quindi, i vv. 2‑5 del fr. 193 K.‑A. sarebbero il seguito di un discorso iniziato in precedenza; se, invece, si attribuisce a Cratino anche il v. 1, con esso Commedia annuncerebbe di voler riepilogare il proprio discorso (ma† ἐπαναστρέψαι è dubbio in questo valore e in connessione con λόγον, cf. LUPPE 1968, 190 s. in part. 190 n. 2) cosa che farebbe nei versi successivi. 65 «Il vino che può essere mescolato a metà con l’acqua: e io mi struggo di dolore», trad. BETA 2009, 245. 66 «Loquitur Comoedia […] Dum Cratinus nihil nisi vinum cogitet, se dicit inrito poetae amore tabescere», KOCK CAF I, 69. Lo stesso Kock (ibid.) commentava con «perperam, si quid video» l’ipotesi già di DOBREE Adversaria II, 326 e poi di MEINEKE FCG II.1, di leggere ἔγωγ᾽ ἐκτήκομαι in luogo di ἐγὼ δ᾽ἐκτήκομαι «ut sint ipsius Cratini verba vini ad dimidiam partem aqua mixti desiderio se tabescere confitentis»; una tale modificazione del testo non appare, infatti, in alcun modo necessaria. 67 «Ora, se vede un vinello di Mende appena stappato, / lo segue, gli sta alle calcagna e gli dice / ‘Quanto sei delicato e pallido … Se ti mescolo / con tre parti d’acqua, riuscirai a resistere?’», trad. BETA 2009, 245. 68 Athen. epit. I 29d. La citazione dei tre versi serve a documentare l’attestazione del vino di Mende (Μενδαῖος); per analogo motivo sono menzionati, subito di seguito, Ermippo (fr. 77 K.‑A., inc. fab.) e Fania di Ereso (fr. 40 Wehrli). Le ultime parole del terzo verso di Cratino (ἆρ’ οἴσει τρία;) sono, con ogni verisimiglianza, il lemma di Il poeta protagonista del suo dramma 251 e una sua ascrizione alla Pytinē fu proposta per primo da Runkel69, poi generalmente seguito. Il tema dei versi, nei quali appare descritta una relazione di natura omosessuale in cui il vinello di Mende (Μενδαῖον … / οἰνίσκον) è associato a un ragazzo adolescente (ἡβῶντ᾽(α)) definito poi ἁπαλός e λευκός70, è senz’altro coerente con quello che sappiamo dell’argo ‑ mento di questo dramma ed è stato più volte evidenziato un parallelo con il già discusso frammento 196 K.‑A. (v. infra); tuttavia, nulla permette di escludere con certezza che questi versi ricorressero in un’altra delle commedie di Cratino, in una scena in cui un personaggio veniva additato per la sua vinolenza, descritta come un rapporto omoerotico71. Se si ammette l’attribuzione alla Pytinē, il personaggio di cui si parla in terza persona (1, ἴδῃ; 2, ἕπεται κἀκολουθεῖ καὶ λέγει) e di cui si riferiscono le parole (3) può essere con ogni probabilità proprio Cratino; la persona loquens potrebbe, invece, essere Commedia72, la quale direbbe che Cratino «ha in testa ora solo il vino e prova per il liquore di Bacco lo stesso trasporto erotico che gli Ateniesi adulti provavano per i giovani dalla pelle liscia e dalla carnagione pallida»73 e, poi, nel fr. 196 K.‑A., aggiungerebbe che egli «ama non solo i vini che hanno poco corpo (come il vino giovane di Mende […]), ma anche quelli che possono essere miscelati fifty‑fifty con l’acqua, causando[le] terribili pene d’amore»74. É possibile, però, anche una differente ipotesi, valida per tutti e due i frammenti: a parlare potrebbe essere in entrambi uno degli amici di Cratino75 che ne descriverebbe la vinolenza e le conseguenti sofferenze che

Hsch. α 7384 (nel quale non è presente alcun richiamo al commediografo), poiché tale espressione non ha altre ricorrenze almeno nella documentazione a noi nota. V. KASSEL/AUSTIN PCG IV, 221 e BIANCHI 2017, 47 per i frammenti di Cratino tràditi in Ateneo e in Esichio. 69 RUNKEL 1827, 84. 70 Questa interpretazione è già di MEINEKE FCG II.1, 117: «loquitur autem de elumbi οἰνίσκῳ tamquam de delicatulo νεανίσκῳ, quorum mollities sollenniter significatur ἀπαλὸς καὶ λευκός», cf. anche KASSEL/AUSTIN PCG IV, 221, OLSON 2007, 82‑83, BAKOLA 2010, 282‑283, STOREY 2011, I, 369. 71 Opportunamente, KASSEL/AUSTIN PCG IV, 221 notano, a proposito della ricorrenza di analoghe scene: «simili iocandi genere indulget Aristophanes Equ. 1390 sq., cf. et Ach. 994». 72 FRITZSCHE 1835, 269. 73 BETA 2009, 244‑245, n. 213. 74 BETA 2009, 244‑245, n. 214. Nella citazione originale: «causando in Commedia». 75 Per il frammento *195 K.‑A. questa ipotesi era avanzata da RUNKEL 1827, 84: «Hoc fragmentum e Πυτίνη forsan petitum est, ita ut amicus Cratini haec de eo loquatur». Gli amici di Cratino dovevano verisimilmente costituire il coro del dramma, cf. p. 243. 252 Francesco Paolo Bianchi essa causa (ἐκτήκομαι); poiché un’analoga identificazione del locutore è proposta anche per il fr. 199 K.‑A., in cui si discute del modo di liberare il poeta dalla sua passione per il vino (v. infra), si potrebbe allora supporre una collocazione dei frr. *195 e 196 K.‑A. anziché nella scena dopo la parodo, in un momento dell’azione drammatica precedente, con ogni verisimiglianza, quello fr. 199 K.‑A.

6. I frammenti finora discussi si attribuiscono, in genere, alle scene iniziali del dramma, quelle di cui è data notizia nel riassunto dello scolio. Nel caso, però, dei frr. *195 e 196 K.‑A., come si è visto, si potrebbe pensare anche ad una loro ricorrenza in un differente contesto, a noi non noto, lo stesso del fr. 199 K.‑A.; inoltre, i frr. 208 e 209 K.‑A. potevano forse essere parte del perduto agone della commedia, se esso non era, in maniera del tutto peculiare, in trimetri giambici o se parti in trimetri e parti in tetrametri coesistevano in forme che non possiamo spiegare (v. pp. 244‑247). Per altri frammenti della Pytinē si deve, poi, pensare a momenti dell’azione drammatica non deducibili dal testo dello scolio e che si possono, quindi, congetturare solamenteex silentio. 1) Nel fr. 199 K.‑A.: πῶς τις αὐτόν, πῶς τις ἂν† / ἀπὸ τοῦ πότου παύσειε, τοῦ λίαν πότου; / ἐγᾦδα. συντρίψω γὰρ αὐτοῦ τοὺς χόας, / καὶ τοὺς καδίσκους συγκεραυνώσω σποδῶν, / καὶ τἄλλα πάντ’ ἀγγεῖα τὰ περὶ τὸν πότον, / κοὐδ’ ὀξύβαφον οἰνηρὸν ἔτι κεκτήσεται76, la persona loquens è senza dubbio un uomo (σποδῶν, v. 3) e si può, quindi, probabilmente pensare a uno degli amici di Cratino componenti il coro come proposto da Runkel e Meineke77, il quale afferma la propria inten‑ zione di volere liberare il poeta, che andrebbe identificato nell’αὐτόν di v.

76 «Ma come, come si potrebbe, / fargli passare il vizio di bere, di bere troppo? / Io lo so: fracasserò le sue coppe, fulminerò / riducendole in polvere le sue bottiglie / e tutti i recipienti che usa per bere: / non avrà più nemmeno una scodellina per il vino!», trad. BETA 2009, 247. 77 RUNKEL 1827, 51: «amici de Cratino a vinositate liberando colloquuntur»; MEINEKE FCG II.1, 122: «Colloquuntur Cratini familiares […] de medenda poetae vinositate consilia agitantes». V. anche FRITZSCHE 1835, 272‑273: «deliberat iam unus ex amici de Cratino, quem ex homine vinolento reddi sobrium capit»; KOCK CAF I, 70: «loquitur unus ex amici Cratini sibique ipse interroganti respondet, ante pacem inter poetam et Comoediam, ut videtur, restitutam»; OLSON 2007, 83: «spoken by a male character (note 4 σποδῶν), presumably one of ‘Cratinus’’ friends, who is eager to put an end to his drinking and reconcile him to Comedy». A Hermes il frammento è ascritto, invece, da IELIZ ŃSKI 1931, 6, ma non vi è nessun indizio della presenza del dio in questa commedia, cf. KASSEL/AUSTIN PCG IV, 224. Il poeta protagonista del suo dramma 253

1 e nell’αὐτοῦ di v. 3, dalla sua eccessiva dipendenza del vino; a questo scopo, la soluzione proposta è quella di distruggere ogni tipo di orcio esistente, in modo che non rimanga più alcun contenitore per il vino. Come suggerito da Heath78, l’agone non aveva risolto il contrasto tra Cratino e Commedia, il poeta non era ancora libero dalla propria dipendenza e, per questo, veniva ora espresso il proposito di distruggere tutti i recipienti; l’enunciazione di tale proposito poteva, comunque, trovare luogo in un momento imprecisato dell’azione drammatica, certamente successivo a quelli descritti nello scolio, ma non necessariamente connesso con l’agone. 2) A un contesto analogo al precedente potrebbe essere attribuito anche il fr. 201 K.‑A.: ὄψει γὰρ αὐτὴν ἐντὸς οὐ πολλοῦ χρόνου / παρὰ τοῖσι δεσμώταισι καταπιττουμένην79, di incerta interpretazione80, che richiama l’atto di ricoprire le damigiane con la pece e menziona i carcerieri (δεσμώται); secondo l’interpretazione proposta da Kock81: «videtur uxor Cratini lagenam furtim abstulisse quaerentemque maritum consolari refici eam dicens apud carceris custodes». 3) Nel fr. 202 K.‑A.: ἆρ᾽ ἀραχνίων μεστὴν ἔχεις τὴν γαστέρα82, è forse possibile vedere le conseguenze della distruzione dei contenitori e dell’astinenza forzata dal vino alla quale Cratino era costretto; la domanda «hai il ventre pieno di ragnatele?» potrebbe infatti essere rivolta proprio dal poeta alla sua damigiana, la πυτίνη, vuota e per questo piena di ragnatele: «videntur haec Cratini verba esse, lagenam suam dilectissimam sed pro dolor! vino vacuam compellantis»83.

78 HEATH 1990, 150‑151. 79 «La vedrai, infatti, tra non molto tempo / ricoperta di pece dai carcerieri», trad. di chi scrive. 80 Una valenza erotica del verbo καταπιττόω è proposta da HENDERSON 1991, 145 «πίττα, pitch or resin, indicates the female secreta at V 1375 […] καταπισσόω, to smear with pitch, indicates sexual aggressiveness, to render wet through intercourse, as at E 1108 f, Cratin. 189 [= 201 K.‑A.]» (analogo valore è proposto anche per ὑπεπίττουν in Ar. Plut. 1093) e un valore erotico era già stato proposto da Hemsterhuis nel 1744 sulla base del già citato passo del Pluto (in: Aristophanis comoedia Plutus. Adiecta sunt scholia vetusta. Recognovit ad veteres membranas, variis lectionibus ac notiis instruxit, et scholiastas locupletavit Tiberius Hemsterhuis, Editio nova, Appendice aucta, Lipsiae 1811 [1a: Harlingae, ex officina Volkeri van der Plaats 1744]. La proposta nel commento al v. 1094 della sua edizione, p. 411, di entrambe le edizioni), mentre un significato letterale del verbo, riferito all’atto di ricoprire con pece le damigiane, è sostenuto da MEINEKE FCG II.1, 127‑129 (cf. BILES 2002, 183‑184 e v. anche BAKOLA 2010, 283 e n. 144). 81 Kock CAF I, 71. 82 «Hai il ventre pieno di ragnatele?», trad. BETA 2009, 247. 83 MEINEKE FCG II.1, 129. 254 Francesco Paolo Bianchi

4) Nel fr. 200 K.‑A.: ἀτὰρ ἐννοοῦμαι δῆτα τὰς μοχθηρίας / τῆς † ἠλιθιότητος τῆς ἐμῆς84 chi parla esprime chiaramente il suo rammarico per gli errori (μοχθηρίας) dovuti alla propria sciocchezza (ἡλιθιότητος) di cui ora si rende conto (ἐννοοῦμαι); appare verisimile l’interpretazione di Runkel che si tratti dei verba« Cratini resipiscentis»85. 5) Il fr. 211 K.‑A.: ὦ λιπερνῆτες πολῖται, τἀμὰ δὴ ξυνίετε86, contiene una citazione esplicita di un celebre verso di Archiloco (fr. 109 W.2): < ὦ > λιπερνῆτες πολῖται, τἀμὰ δὴ ξυνίετε / ῥήματα87. Questo stesso verso è citato in forma simile anche in Ar. Pac. 603‑604: ὦ σοφώτατοι γεωργοί, τἀμὰ δὴ ξυνίετε / ῥήματ᾽, dove si ha γεωργοί in luogo di πολῖται, e in Eupol. fr. 392, 1 s. K.‑A. (inc. fab.): ἀλλ’ ἀκούετ’, ὦ θεαταί, τἀμὰ καὶ ξυνίετε / ῥήματ’· εὐθὺ γὰρ πρὸς ὑμᾶς πῶτον ἀπολογήσομαι, in cui è preceduta da un’allocuzione (ἀλλ᾽ ἀκούετ᾽, ὦ θεαταί) che in Aristofane ricorre in forme simile sempre all’inizio della parabasi88; il frammento cratineo poteva, allora, provenire proprio da questa sezione e, in questo caso, il vocativo iniziale ὦ λιπερνῆτες πολῖται sarebbe stata un’allocuzione diretta al pubblico, ma, come mostra il già citato passo della Pace, il verso di Archiloco poteva anche essere semplicemente utilizzato nel corso di uno degli episodi da parte di uno dei personaggi, con una funzione che non ci è possibile determinare. Per un’ascrizione alla parabasi, secondo Heath89, in particolare, questo frammento «criticized the citizens for neglecting the navy» e si può inserire nel medesimo contesto del fr. 210 K.‑A.: οὐ δύνανται πάντα ποιοῦσαι νεωσοίκων λαχεῖν, / οὐδὲ κάννης, nel quale «one can detect an echo of the personified triremes of the second parabasis of Knights»90. 6) Il fr. 213 K.‑A.: (ex schol. vet. [VEΓΘΜ] Ar. Eq. 531a) ταῦτα ἀκούσας ὁ Κρατῖνος ἔγραψε τὴν Πυτίνην, δεικνὺς ὅτι οὐκ ἐλήρησεν· ἐν ἧ κακῶς λέγει τὸν Ἀριστοφάνην ὡς τὰ Εὐπόλιδος λέγοντα91 potrebbe provenire

84 «Ora capisco finalmente i disastri / provocati dal mio stupido comportamento», trad. BETA 2009, 249. 85 RUNKEL 1827, 52. 86 «O miserabili cittadini, ascoltate dunque le mie…», trad. di chi scrive. 87 «O cittadini miserabili, ascoltate dunque / le mie parole», trad. RUSSELLO 1993, 115. 88 V. O LSON 2014, 148‑150. 89 HEATH 1990, 151. 90 Ar. Eq. 1300‑1315, versi dell’antepirrema della seconda parabasi (1264‑1315). Sulla base del confronto con questi versi di Aristofane, il fr. 210 K.‑A. di Cratino era già stato assegnato alla parabasi da KASSEL/AUSTIN PCG IV, 230: «ex parabasi. Cf. Ar. Eq. 1300sqq.». 91 «Cratino, quando ebbe udite queste parole […], compose la Damigiana, indicando Il poeta protagonista del suo dramma 255 ancora dalla parabasi; come riporta lo scolio latore del frammento, dall’accusa di vaneggiare, farneticare (Ar. Eq. 531: παραληροῦντ᾽(α), 536 ληρεῖν) Cratino «si era difeso accusando Aristofane, il giovane poeta emergente, di essere un plagiario di Eupoli»92. Una tale formulazione poteva chiaramente trovare luogo nella parabasi93, il momento privilegiato per questo tipo di discussioni, ma, poiché l’intera Pytinē era una risposta di Cratino al ritratto del rivale, è senz’altro possibile che questa accusa potesse ricorrere anche altrove nel corso dell’azione drammatica. 7) I frr. 198 e *203 K.‑A. sono tra i più celebri di Cratino. Il fr. 198 K.‑A.: ἄναξ Ἄπολλον,τῶν ἐπῶν τoῦ ῥεύματος, / καναχοῦσι πηγαί· δωδεκάκρουνον <τὸ> στόμα, / Ἰλισὸς ἐν τῇ φάρυγι· τί ἂν εἴποιμ’ <ἔτι>; / εἰ μὴ γὰρ ἐπιβύσει τις αὐτοῦ τὸ στόμα, / ἅπαντα ταῦτα κατακλύσει ποιήμασιν94, è citato in uno scolio ai Cavalieri di Aristofane a proposito del ritratto qui presente del commediografo e, in particolare, dell’espressione πολλῷ ῥεύσας ποτ᾽ ἐπαίνῳ e del fatto che Cratino nella Pytinē avesse grandemente esaltato con questi versi la propria poetica (περὶ αὑτοῦ μεγαληγορῶν; ἑαυτὸν ἐπῄνεσεν)95; secondo un’interpretazione di Kaibel96 «audita Cratini defensione, incertum Comoediae haec verba fuerint an chori» e, quindi, questi versi potrebbero essere stati parole o di Commedia stessa o del coro dopo che Cratino aveva pronunciato la propria difesa nel confronto con Commedia97. Rispetto a questa ipotesi, possibile, si deve

che non parlò a vanvera. In questo dramma sparla di Aristofane come di uno che dice le cose di Eupoli», trad. SONNINO 1998, 26. 92 SONNINO 1998, 26‑27. V. lo stesso contributo di Sonnino per le polemiche tra i commediografi e i relativi scambi di accuse. 93 Così HEATH 1990, 151. 94 «O signore Apollo, che torrente di parole! / Le fonti risuonano, la bocca ha dodici sorgenti, / nella sua gola c’è il fiume Ilisso. Che altro potrei dire? / Se nessuno gli tapperà la bocca, / inonderà ogni cosa con le sue poesie», trad. BETA 2009, 247. 95 Schol. [VEΓ3Θ] et Tricl. [Lh] Ar. Eq. 526a δοκεῖ δέ μοι Ἀριστοφάνης ἀφ’ ὧν εἶπε Κρατῖνος περὶ αὑτοῦ μεγαληγορῶν, ἀπὸ τούτων καὶ αὐτὸς τὴν τροπὴν εἰληφέναι· ὁ γὰρ Κρατῖνος οὕτω πως ἑαυτὸν ἐπῄνεσεν ἐν τῇ Πυτίνῃ). Chiaramente erronea la notazione dello scoliaste che «capovolge il rapporto tra Cavalieri e Πυτίνη, prospettando la Priorität di Cratino», CONTI BIZZARRO 1999, 66, cf. OLSON 2007, 86; lo scolio ad Ar. Eq. 400, che riporta un riassunto della Pytinē (v. supra), indica chiaramente la corretta cronologia (confermata, d’altra parte, dall’argumentum alle Nuvole prime, Arg. A 6 (VERs) Ar. Nub. 4, rr. 12‑17 Holwerda = arg. V, 134, 1‑6 Wilson 2007, cf. BIANCHI 2017, 302‑303) e il fatto che il dramma di Cratino fosse una reazione a quello di Aristofane. 96 KAIBEL apud KAßEL/AUSTIN PCG IV, 223. 97 Così, ad es., anche HEATH 1990, 150 e OLSON 2007, 86‑87. 256 Francesco Paolo Bianchi rilevare che se, come visto, tale confronto coincideva con l’agone, l’utilizzo del metro, anche in questo caso il trimetro giambico, obbligherebbe a pensare a una forma strutturale differente da quella nota da Aristofane. Il fr. *203 K.‑A.: ὕδωρ δὲ πίνων οὐδὲν ἂν τέκοι σοφόν98, è una delle più famose enunciazioni dell’ispirazione poetica derivante dal vino, destinato a divenire, nella tradizione successiva, esemplificativo della polemica «fra i sostenitori della lucida e fredda raffinatezza poetica dei contemporanei, i cosiddetti aquae potores, e coloro che vagheggiavano la sanguigna ispirazione degli antichi, cioè i bevitori di vino»99; il verso è tràdito in forma anepigrafa e la sua attribuzione alla Pytinē risale a Meier negli anni venti dell’Ottocento, poi seguito praticamente senza eccezioni100. Come ha rilevato Biles, il fatto che in questo dramma «Cratinus notoriously made his alcoholism and poetic activity the centerpiece of the action […] would explain why the statement does not take the form of an anapestic tetrameter or another long‑line verse better suited to a self‑reflexive poetic assertion in a parabasis»101; secondo, però, quanto opportunamente evidenziato in precedenza dallo stesso Biles «one must admit that with its Archilochean resonance this fragment would be appropriate in any place where Cratinus clarified his poetics»102. A ciò Bakola103 ha aggiunto la possibilità, teorica, che negli Archilochoi, ad esempio, potesse essere proprio il giambografo di Paro, che sappiamo essere stato una della dramatis personae104, a pronunciare questo verso, coerente con enunciazioni analoghe che si trovano nella sua opera, ad es. il celebre fr. 120 W.2: ὡς Διωνύσου ἄνακτος καλὸν ἐξάρξαι μέλος / οἶδα διθύραμβον οἴνωι συγκεραυνωθεὶς φρένας105. Il fatto che, quindi, il metro, il trimetro giambico, ne precluda un’ascrizione alla parabasi non implica, allora, che tale affermazione di poetica non potesse ricorrere nel corso dell’azione drammatica di una qualsiasi delle opere di Cratino, tra cui, ovviamente, ma non necessariamente, anche la Pytinē stessa.

98 «Se bevi acqua non potrai creare nulla di saggio», trad. BETA 2009, 249. 99 TOSI 1991, 347 n. 741 con ulteriore bibliografia. Cf. anche IMPERIO 2004, 210‑213. 100 M.H.E. MEIER, Der Attische Process, Halle 1824, III, 289. Per ulteriore bibliografia sull’ascrizione del verso alla Pytinē, v. la documentazione in BIANCHI 2017, 400 e nn. 552‑553, cf. in gen. 397‑402 ad Cratin. test. 45 K.‑A. per Nic. epigr. 5 G.‑P. (AP XIII 29), fonte principale del frammento, nel cui epigramma anche il v. 1 (οἶνός τοι χαρίεντι πέλει ταχὺς ἵππος ἀοιδῷ) è stato talora considerato di paternità cratinea. 101 BILES 2014, 4. 102 BILES 2002, 173. 103 Bakola 2010, 56‑57. 104 V. Cratin. fr. 6 K.‑A. su cui cf. BIANCHI 2016, 62‑71. 105 «Come so dare inizio al bel canto del signore Dioniso, / il ditirambo, con la mente folgorata dal vino», trad. RUSSELLO 1993, 119. Il poeta protagonista del suo dramma 257

Da rilevare, infine, che, ammessa un’appartenenza del fr. *203 K.‑A. a questa commedia di Cratino, secondo un’ipotesi già di Meineke106 poi ripresa, ad esempio, da Heath107 esso poteva collocarsi, così come i cinque versi del fr. 198 K.‑A. (v. supra), all’interno del discorso di replica di Cratino nel confronto di tono giudiziario con Commedia che potrebbe aver costituito l’agone della commedia108.

7. La Pytinē fu il trionfale canto del cigno dell’ormai anziano Cratino109; un successo clamoroso e probabilmente anche inatteso, che relegò a un misero e cocente terzo posto le Nuvole prime di Aristofane; una sconfitta che al giovane commediografo bruciò tanto di più per l’alta considerazione in cui egli teneva questa sua commedia, ritenuta da lui stesso la sua migliore (Ar. Nub. 521 s. ἡγούμενος … / ταύτην σοφώτατ’ ἔχειν τῶν ἐμῶν κωμῳδιῶν), e di quella disfatta si doleva con vivo astio nella parabasi della διασκευή, la versione rielaborata, mai messa in scena, ma l’unica che noi oggi possiamo leggere110. Ad Aristofane la rivalsa venne, in certo senso, dai posteri: undici delle sue commedie sono giunte a noi per tradizione manoscritta e tra di esse le Nuvole, anche se non l’edizione originale ma il suo rifacimento, assieme alle Rane e al Pluto costituirono la triade bizan‑

106 MEINEKE FCG I, 48. 107 HEATH 1990, 150. 108 Un problema particolare è se, come potrebbe essere verisimile, alla Pytinē e a uno dei momenti di più acuta polemica con Aristofane, si possa ascrivere il celebre frammento incertae sedis 342 K.‑A. τίς δὲ σύ; κομψός τις ἔροιτο θεατής. / ὑπολεπτο‑ λόγος, γνωμιδιώκτης, εὐριπιδαριστοφανίζων «“E tu chi sei?”, chiede rebbe uno spettatore colto e raffinato. / Un uomo sottile, che ama le sentenze lambiccate, un mix di Euripide e di Aristofane», trad. BETA 2009, 93, sulla cui interpretazione v. da ultimo MASTROMARCO 2017. 109 Dopo il 423 a.C. è incerto se Cratino avesse proseguito ancora per qualche anno la propria carriera drammaturgica, non c’è testimonianza certa di sue partecipazioni agli agoni, ma sembra che una sua attività possa collocarsi ancora subito prima della Pace di Aristofane (421 a.C.), cf. n. 18. 110 Sulla questione delle due versioni delle Nuvole, v. da ultimi MUREDDU/NIEDDU 2015, 58‑62 con bibliografia precedente. Per gli attacchi di Aristofane a seguito della sua sconfitta, v.schol . E Ar. Nub. 525 dove del verso ταῦτ’ οὖν ὑμῖν μέμφομαι viene data la spiegazione ἐπεὶ οὐ Κρατίνου, ἀλλ’ Ἀμειψίου δεύτερος ὤφθη e fornita, quindi, l’informazione che le critiche al pubblico erano non tanto per aver preferito Cratino, quanto Amipsia con il Konnos, una commedia che poteva avere una tematica almeno in parte simile a quella delle Nuvole, cf. ORTH 2013, 177‑178 e 213‑248 per la commedia di Amipsia (PCG II, frr. 7‑11 K.‑A.). 258 Francesco Paolo Bianchi tina111, a prova certa del successo che, a differenza di quanto avvenne nel 423 a.C., arrise in seguito a questo ‘dramma’. Di Cratino, invece, non sono conservati che frustoli sparsi dell’intera opera, la maggior parte dei quali da tradizione indiretta; e anche quando, come in questo caso, l’insieme di ciò che si possiede sembra rendere possibile recuperare almeno in parte la trama originaria – «Pytinae autem argumentum multo est apertius; nam, forte fortuna, non solum haec plane perspicueque scripta habemus, Schol. Ar. Eq. 400 […] verum etiam […] fragmenta multum lucis de eadem re nobis afferunt», scriveva Baker nel 1904112 – l’analisi delle testimonianze e dei singoli testi mette una volta di più davanti all’evidenza di dubbi, incertezze, problemi di esegesi, difficoltà di ascrizione, ai limiti che l’interpretazione di testi noti solo per via frammentaria pone; e se un’idea generale è allora certamente possibile, preclusi restano, invece, inevitabilmente, molti dei dettagli di quell’ultimo, trionfale successo, messo in scena da Cratino «ut iniquas criminationes vulge sibi conflatas dilueret ostenderetque, quantum vel in senectute valeret ingenio»113.

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111 Cf. ZIMMERMANN 2011, 795. 112 BAKER 1904, 147. 113 BERGK 1838, 202. Il poeta protagonista del suo dramma 259

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Cratin. fr. 258, 2 K.‑A. (e fr. 254 K.‑A.)*

LEONARDO FIORENTINI (UNIVERSITÀ DI FERRARA)

Le brevi riflessioni che seguono si inseriscono nello studio di una commedia frammentaria, I Chironi, di un autore comico famoso, Cratino, e non hanno altro scopo che quello di contribuire al dibattito accesosi attorno a esempi controversi: si tratta di casi in cui un atteggiamento prudente, tanto nell’esegesi quanto in parte nella costituzione testuale, credo possa essere di qualche utilità in attesa di eventuali dati più certi e definitivi1. Così Kassel e Austin rispetto al fr. 258:

Στάσις δὲ καὶ πρεσβυγενὴς Χρόνος ἀλλήλοισι μιγέντε μέγιστον τίκτετον τύραννον, ὃν δὴ κεφαληγερέταν θεοὶ καλέουσιν

* Ho potuto discutere le seguenti osservazioni con Angela Maria Andrisano, Alberta Lorenzoni, Vinicio Tammaro e Piero Totaro, che ringrazio.

1 Edipo, protagonista dell’estrema tragedia colonea di Sofocle, con l’espressione φωνῇ γὰρ ὁρῶ (138) segnalava sulla scena la propria condizione di cecità e definiva, evidentemente, il proprio status che ne determinava le azioni in scena; per certi versi si tratta di un’espressione che delinea non già la condizione dello spettatore antico, se non in presenza di una deissi fantasmatica, ma l’atteggiamento ecdotico ed erme ‑ neutico dinanzi a qualunque testo teatrale antico in un qualunque momento del suo destino postscenico. Testo concepito per una visione e un ascolto, talora una sola visione e un solo ascolto, trasmesso dai corpi vivi di danzatori e attori, secondo un continuum visivo e sonoro che si dissolve già al momento stesso dell’esecuzione, il testo teatrale si potrà dire preservato nella componente verbale, talora interamente, più spesso invece consegnato in frammenti al Medioevo. Questa considerazione generale, che non deve scoraggiare da tentativi di interpretazione, può comunque esser utile per assumere un atteggiamento prudente se non scettico dinanzi a quanto conservato dalla tradizione, diretta e indiretta. Tale scetticismo non dovrebbe indurre a ricavare, come talora avviene, spunti esegetici che il testo in sé non autorizza, spunti sorretti solo dalla convinzione che in generale i testimoni, i loro copisti che all’occorrenza furono copisti‑filologi, poco cogliessero e sapessero dell’originaria Grundgestalt del testo, come del suo contesto. 264 Leonardo Fiorentini

Il testo si trova in Plut. Per. 3, 42, che illustra come una malformazione congenita della testa di Pericle fu oggetto di attenzione artistica, per così dire: gli scultori nascondendo il difetto grazie a un elmo posto sul capo dello statista nei loro ritratti, i commediografi deridendolo con mirati calembours. Ne consegue che il nucleo della citazione sta in κεφαληγερέταν ‒ un hapax comico calcato sull’omerico νεφεληγερέτα ‒ e in null’altro, in questo testo, poiché da nessun altro elemento se non dalle parole di Plutarco combinate con l’hapax si capisce che si parla qui di Pericle. La colometria stabilita da Kassel e Austin3 non segue nessuna di quelle sinora adottate dagli editori principali: Στάσις—— μέγιστον / τίκτετον τύραννον / ὃν——καλοῦσιν4; Στάσις—— μιγέντε / μέγιστον—— τύραννον / ὃν—— καλοῦσιν5. Rispetto al nuovo testo stabilito da Kassel e Austin, proporrei invece una sequenza riconducibile ai kat’enoplion epitriti, che mi sembra avere più sicuri riscontri in commedia, secondo le indicazioni antiche. Tenterei dunque epitria, prosc (cho ionmin), prosc (cho ionmin), ithyph, prosa (ionma cho), reizc:

Στάσις δὲ καὶ πρεσβυγενὴς Κρόνος ἀλλή‑ λοισι μιγέντε μέγιστον τίκτετον τύραννον, ὃν δὴ κεφαληγερέταν θεοὶ καλέουσιν

Nella seconda parabasi dei Cavalieri (1264‑1273 = 1290‑1299)6 si possono riscontrare forme metrico‑ritmiche simili a quella proposta, e altrettanto vale per la parodo delle Vespe (273‑280 = 281‑290)7, per non dire della parabasi della Pace (775‑795 = 796‑818). Da notare che, con la sistemazione suggerita, l’aprosdoketon del v. 4 coincide col passaggio al ritmo trocaico, per poi riprendere, più solennemente, col ritmo ionma cho del v. 5, speculare

2 Per. 3, 3‑5: αὕτη (Ἀγαρίστη) κατὰ τοὺς ὕπνους ἔδοξε τεκεῖν λέοντα, καὶ μεθ᾽ ἡμέρας ὀλίγας ἔτεκε Περικλέα, τὰ μὲν ἄλλα τὴν ἰδέαν τοῦ σώματος ἄμεμπτον, προμήκη δὲ τῇ κεφαλῇ καὶ ἀσύμμετρον. ὅθεν αἱ μὲν εἰκόνες αὐτοῦ σχεδὸν ἅπασαι κράνεσι περιέχονται, μὴ βουλομένων ὡς ἔοικε τῶν τεχνιτῶν ἐξο νειδίζειν. οἱ δ᾽ Ἀττικοὶ ποιηταὶ σχινοκέφαλον αὐτὸν ἐκάλουν· τὴν γὰρ σκίλλαν ἔστιν ὅτε καὶ σχῖνον ὀνομάζουσι. τῶν δὲ κωμικῶν ὁ μὲν Κρατῖνος ἐν Χείρωσι (fr. 258 K.‑A). 3 ia a ma Che si lascerebbe interpretare come epitr cho, 2an^, ba ithyph, pros (ion cho), reizc. 4 MEINEKE 1839, 147, cf. BERGK 1838, 236. 5 KOCK 1880, 86, già di RUNKEL 1827, 64. 6 Cf. TOTARO 1999, 35s. 7 Cf. BRAVI 2002 e 2017. Cratin. fr. 258, 2 K.‑A. (e fr. 254 K.‑A.) 265 e inverso rispetto a quello dei vv. 2s. Considerato che il testo di Cratino, nella tradizione del suo testimone, ha una mise en page ovviamente prosastica, il ricorso alla tradizione di Aristofane e a una sistemazione metrica asseverata dai lacerti di Eliodoro negli scolî di Aristofane, secondo le ipotesi di Bravi (cf. n. 7), può essere una soluzione praticabile anche per suggerire un’ipotesi colometrica in Cratino. Il v. 2 è stato investito da una secolare discussione che coinvolge il tràdito Χρόνος, emendato, con alterne fortune, in Κρόνος fin da prima del 1599, allorché tale intervento, però anonimo, si trova menzionato in un’edizione di Plutarco8. L’emendamento fu indipendentemente avanzato da Bergk (1838, 236) in quanto l’assimilazione di Pericle a Zeus imporrebbe («legendum est») la discendenza da Crono. E Κρόνος quale «Anonymi … emendatio» accettava Meineke (1839, 147), per le medesime ragioni di Bergk, assunte poi da Kock (1880, 86) e da Edmonds (1957, 110), ma non da Kassel e Austin che accolgono il testo tràdito, come già faceva il Grotius (1626, 493), visto che rendeva la lectio con «Tempus longum» (492); analoga posizione del Grotius si trova quindi in Runkel (1827, 64)9, in Emperius (1847, 218), in Bothe (1855, 47, che riporta la versione del Grotius), in Luppe (1963, 220), e, di recente, in Rusten (2010, 212). Il testo tràdito è stato difeso, ultimamente, dalla Noussia (2003), in quanto la tirannide richiederebbe qualche tempo per manifestarsi, secondo una concezione ben nota agli Ateniesi fin dai componimenti di Solone (e.g. fr. 14 G.‑P.). E Olson ha ritenuto preferibile il testo tràdito per queste ragioni: «perhaps the point is that Pericles had exercised enormous political power for years and seemed likely to go on doing so ‘for ever’»10. Kassel e Austin avevano inoltre argomentato che l’età di Crono è tradizionalmente collegata all’idea di un tempo felice, ciò che mal si addirebbe a questo contesto (rimandano pertanto a Cratin. fr. 176). Difendono il testo tràdito, inoltre, attraverso il richiamo a Pherecyd. Syr. 7 B 1 (Ζὰς μὲν καὶ Χρόνος ἦσαν ἀεὶ καὶ Χθονίη· Χθονίηι δὲ ὄνομα ἐγένετο Γῆ, ἐπειδὴ αὐτῆι Ζὰς γῆν γέρας διδοῖ): si tratta di un passo di ordine filosofico a sua volta gravato da una sostanziale incertezza di dettato, oltre che da un’assenza di riferimenti alla genealogia di Zeus che invece in Cratino sarebbe evocata11. L’accettazione di Χρόνος,

8 L’emendamento appare in coda (p. 98c) a tale edizione (nel tomo I, dedicato alle Vite), che uscì in quell’anno a Francoforte apud Andreae Wecheli heredes. 9 Tuttavia possibilista rispetto a un eventuale Κρόνος. 10 OLSON 2007, 207. 11 Cf. tuttavia 7 A 9, che raccoglie le interpretazioni antiche del frammento, dove si stabilisce una qualche equivalenza fra Κρόνος e Χρόνος, ma dove, soprattutto, si direbbe che un ramo della tradizione leggesse in Ferecide Κρόνος. 266 Leonardo Fiorentini che conferisce una nota orfica alla comica teogonia concepita da Cratino, viene sostenuta da Kassel e Austin anche attraverso il richiamo a Pind.O . 2, 17, in cui Χρόνος è ὁ πάντων πατήρ, ma si potrà segnalare perlomeno che nel medesimo componimento Radamanti è, singolarmente rispetto alla sinossi mitografica più diffusa, figlio di Κρόνος (76). Sempre Kassel e Austin, a difesa di Χρόνος, ribadiscono come il Tempo abbia una propria adeguata collocazione «in theogoniae imitatione», per cui rimandano anche ad Ar. Av. 685‑722, per stare alla commedia. Eppure, nel passo aristofaneo Χρόνος non compare, anche se vi trovano spazio Caos, Notte, Erebo e Tartaro (cf. Dunbar 1995, 438), cosa che porta a non escludere l’influenza, oltre a Esiodo (cf. Ar. Av. 693s.), di una teogonia orfica esametrica nella parabasi (694‑697), specialmente per alcune qualifiche di Eros (cf. Dunbar 1995, 443s.). Considerato l’esiguo lacerto di Cratino, simili paralleli non sono esattamente rintracciabili nel frammento. Si può notare invece che il testo di Cratino non ha un esplicito richiamo a Zeus, e che il testimone, Plutarco, sembrerebbe consapevole (dalla sua fonte?) dell’assimilazione Pericle‑Zeus, in quanto è questo uno degli aspetti che egli richiama più avanti, sempre ricordando Cratino (fr. 73 K.‑A.) nella Vita di Pericle (13, 10). Ma il testo di Cratino non permette un’accettabile assimilazione di Pericle a Zeus, senza accogliere l’emendamento Κρόνος, per le ragioni addotte da Bergk (cf. supra). Tammaro (1978/1979, 208)12 ha osservato, esattamente come poi Kassel e Austin ma al fine di intraprendere una via ermeneutica opposta, come in commedia (cf. e.g.Ar. Av. 469) il vecchio Crono sia normalmente associato alla «nozione di un passato ormai lontano» e felice, statutariamente. Il che non può esser trascurato, anche perché nel testo di Cratino non appare in nessun punto l’idea per cui l’età di Crono preannunciasse già i tratti negativi dell’età presente. A ciò si aggiunga che, mantenuta l’identificazione Zeus‑Pericle, e sottratta la tradizionale madre di Zeus qui sostituita per l’occasione con un’ipostasi, la Discordia, non si capisce, secondo quanto annota Tammaro (l.c.), come l’assimilazione fra Zeus e Pericle sarebbe comprensibile a tutto il pubblico se fosse travolta anche la linea maschile di parentela, con la sostituzione di Crono col Tempo: non sembra potersi ritenere che il solo hapax κεφαληγερέταν fosse sufficiente a rendere intelligibile (e accettabile) per il pubblico ateniese l’allusione a Pericle. Difficile dunque sostenere che il testo di Cratino avesse Χρόνος, poi mantenutosi in Plutarco e specialmente nella sua tradizione; né appare

12 Cf. SCHWARZE 1971, 54 e TAMMARO 1984‑1985, 42, quindi LUISELLI 1990, 97, FARIOLI 2000, 421‑423, FARIOLI 2001, 48‑50, DI MARCO 2005, 198. Cratin. fr. 258, 2 K.‑A. (e fr. 254 K.‑A.) 267 probabile che il testimone del frammento, Plutarco, potesse aver commesso un errore fra Χρόνος e Κρόνος: piuttosto, Χρόνος sarà errore d’archetipo della biografia periclea. Stabilita dunque un’ipotesi di testo, sarà da valutare il senso del fram‑ men to stesso nel dettaglio. Tra le varie esegesi, appare significativa la proposta di Di Marco (2005), di accogliere Κρόνοςin quanto l’emenda‑ mento favorirebbe l’evocazione di una genealogia diretta fra Pisistrato e Pericle, in nome di una comune propensione tirannica, e in forza di un’affinità somatica e di atteggiamenti, anche nell’oratoria, segnalate da Plut. Per. 7, 1; e sempre Plutarco aveva indicato come i componenti della cerchia di Pericle fossero definiti nuovi Pisistratidi (Per. 16, 1 = Com. adesp. fr. 703 K.‑A.). Nell’àmbito di una distorsione comica, Cratino, secondo la proposta di Di Marco, avrebbe dunque sfruttato in modo parodico la «propaganda favorevole a Pisistrato, la quale tendeva appunto a esaltare il periodo in cui il tiranno era stato al potere come una seconda “età dell’oro”»13, complici anche alcune idee circolanti al tempo di Cratino circa una presunta affinità elettiva fra Pisistrato e Pericle (cf. Arist. Ath. 16, 7). Questa proposta di Di Marco potrebbe trovare conforto in un elemento sovente trascurato che consiste nella presenza, in qualche modo, di Solone nei Chironi (cf. fr. 246), utile a giustificare una qualche allusione, magari non dichiarata, a Pisistrato nella commedia. Si potrebbe inoltre considerare Arist. Ath. 22, 3 ‑ 22, 4, dove di Pisistrato si segnala che δημαγωγὸς καὶ στρατηγὸς ὢν τύραννος κατέστη, il che potrebbe contribuire all’identi ‑ ficazione suggerita da Di Marco, ma da un ambiente politico per alcuni aspetti diverso. A un’identificazione fra Κρόνος come lezione ristabilita nel testo e un personaggio rilevante della politica ateniese è addivenuta la Farioli, che ha ipotizzato che dietro il mitico padre di Zeus vada intravvista la figura di Cimone: «poiché Cratino era un estimatore di Cimone, egli avrà inteso dire che l’età dell’oro di Atene era coincisa col governo cimoniano e che la στάσις che l’aveva abbattuta corrispondeva all’ascesa di Efialte e di Pericle» (2000, 421), confortata in ciò dal paragone fra l’età di Cimone e quella di Crono, secondo Plut. Cim. 10, 1 e 7, ammesso che il paragone non sia plutarcheo anziché della sua fonte14. Per quanto possibili ambedue le identificazioni, non sarei incline ad accoglierle, come in generale non mi spingerei, per ora, verso qualunque identificazione storica di Κρόνος, per le seguenti motivazioni: 1. è nota l’identificazione fra Zeus e Pericle in commedia, cf. Cratin. frr. 73 e 118 K.‑A., Herm. fr. 42 K.‑A., Telecl. fr. 18 K.‑A., Ar. Ach. 530, Com.

13 DI MARCO 2005, 199. 14 Così LOMBARDO 1934, 165. 268 Leonardo Fiorentini adesp. fr. 701 K.‑A. Come accennato, l’hapax κεφαληγερέταν costituisce poi l’aprosdoketon che suggerisce l’identificazione e, direi, favorisce anche l’idea che Pericle fosse esclusivamente evocato in questo modo nel contesto immediato del frammento di Cratino, senza esser nominato esplicitamente, sicché risulterebbe difficile per il pubblico, che fruiva oralmente del testo, cogliere, peraltro in modo retroattivo, un altro richiamo a un ulteriore personaggio della politica ateniese; 2. se il fr. 259 K.‑A. appartiene alla medesima commedia e probabilmente allo stesso canto del fr. 258, ci si potrebbe chiedere come mai a Crono‑ Pisistrato o Crono‑Cimone si alluda quale padre di Era‑Aspasia, cosa invece perfettamente comprensibile se si ammette che nessun personaggio del passato politico ateniese si celi dietro il padre di Zeus ed Era. Si potrebbe, en passant, segnalare un ulteriore esempio per sostenere come, nel caso dell’esegesi del fr. 258 K.‑A., sia necessaria una certa prudenza di principio. Nel fr. 254 K.‑A. si legge: Κλειταγόρας ᾄδειν, ὅταν Ἀδμήτου μέλος αὐλῇ. L’interpretazione più probabile del testo resta quella di Bergk (1838, 228), il quale segnalava come «reprehendere videtur negligentiam illam et contemtionem artis cum solerent Athenienses, si tibicen modos cantilenae in Admetum praeierit, canere scolium Clitagorae» (cf. Ar. Lys. 1237 ᾄδοι Τελαμῶνος, Κλειταγόρας ᾄδειν δέον, menzionato da tutti gli interpreti del testo di Cratino). Che vi possa essere anche un’ipotesi esegetica di ordine politico non si può escludere, ma solo se si resta su un piano squisitamente speculativo. Nel finto banchetto evocato nella lezione dibon ton che Bdelicleone impartisce al padre Filocleone si immagina che i cleoniani (fra cui Cleone stesso, Teoro, Eschine) insieme a Filocleone si trovino a consumare il rito laico e aristocratico, però da democratici radicali, di una catena simposiale di scolia. Nell’ordine si canta l’Armodio (PMG 893‑896) dalla voce di Cleone (Ar. Ve. 1225), nell’Admeto (PMG Praxil. 749 = 897) si cimenta Teoro (Ar. Ve. 1238), il Clitagora (PMG 912) è intonato da Eschine (Ar. Ve. 1245). Se l’Armodio ha un’evidente patente democratica, non si potrà dire lo stesso dell’Admeto, attribuito, secondo le testimonianze antiche, a Saffo, ad Alceo o a Prassilla di Sicione (PMG 749), secondo Eust. Il. 326, 39 (sulla scorta del ricostruito Paus. Att. a 25 E.), oppure a Prassilla, secondo schol. Ar. Ve. 1238; e solo secondo Bowra da ricondursi a un àmbito pisistratico (1973, 554), in séguito all’episodio di Pisistrato e Anchimolio (cf. Hdt. V 63, 3). L’ipotesi di Bowra non poggia su nessuna testimonianza antica, e non escluderei l’idea per cui un canto precedente e non epicorico possa esser stato impiegato poi presso la cerchia dei Pisistratidi. Quanto al Clitagora, certamente non senza un procedimento autoschediastico, l’esegesi antica pensa a un’origine tessala (schol. Ar. Ve. 1245), oppure laconica (schol. Ar. Lys. 1237), oppure lesbia (Hesych. κ 2913 L.). La presenza dell’Admeto e del Clitagora potrebbe spiegarsi con l’ipotesi per cui con questi canti i cleoniani Cratin. fr. 258, 2 K.‑A. (e fr. 254 K.‑A.) 269 non autodenuncino già una conversione aristocratica (perlomeno di Teoro che intona l’Admeto)15, ma, seguendo Vetta (1983, 128), una linea politica filotessala, perseguita a più riprese dalla diplomazia ateniese e inaugurata da Pisistrato, ma che costituì una risorsa della politica di alleanze di Atene, cui probabilmente ricorse anche Cimone16. Di Pisistrato o di Cimone, ad esempio, nel passo delle Vespe non si fa cenno né, mi pare, vi si allude. In definitiva, il testo del fr. 258 K.‑A., la sua specificità drammaturgica, il rapporto col fr. 259 e più in generale con la prassi comica e non solo aristofanea di impiegare disinvoltamente la tradizione letteraria prece‑ dente, mi paiono consigliare al v. 2 di leggere Κρόνος ma contestual mente mi paiono anche sconsigliare, pur sempre provvisoriamente, l’indivi ‑ duazione di un profilo storico‑politico nell’evocazione di Κρόνος, perché l’oggetto del calembour sono Pericle come tiranno e il suo difetto fisico, evocato più facilmente in una parodo che in una parabasi.

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15 Rimando alle precise osservazioni di MACDOWELL 1971, 289 e di BILES/OLSON 2015, 439‑445 (in particolare cf. pp. 443s.). 16 Cf., con tutte le cautele del caso, Dem. 13, 23, che ricorda un aiuto ottenuto a vantaggio degli Ateniesi da parte di Menone di Farsalo in termini di cavalieri e di risorse economiche, durante l’assedio di Eione. Tale contributo potrebbe spiegarsi a séguito della linea politica a protezione dei Tessali tenuta da Temistocle nell’Anfizionia delfica (Plut. Them. 20). 270 Leonardo Fiorentini

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SEBASTIANO BERTOLINI (UNIVERSITY OF EDINBURGH)

Il fr. 2 K.‑A. del poeta della Commedia Nuova Filemone presenta molteplici questioni di natura filologica ed esegetica. In questo contributo intendo offrire una disamina generale del frammento, discutendo il titolo della commedia di appartenenza (Ἀγύρτης), analizzandone i punti filologicamente più dibattuti e dimostrando, tramite un breve commento dello stesso, come esso sia caratterizzato da una forte termino logia filosofica. Riporto, per iniziare, una personale edizione critica del frammento e una traduzione sulle quali baserò le successive considerazioni.1

ὦ πῶς πονηρόν ἐστιν ἀνθρώπου φύσις τὸ σύνολον· οὐ γὰρ ἄν ποτ’ἐδεήθη νόμου

Oh, com’è malvagia la natura umana, nel complesso: poiché allora non avrebbe avuto bisogno della legge

1 ὦ πῶς ABr : ὢ πῶς Mac. : πῶς Md : καί πως Zedelius : φεῦ ὡς Schow : ὄντως Dobree : ὡς παμ‑ Deubner : ἁπλῶς susp. Bothe : πάντως Hermann : πῶς οὐ Hirschig : οἴμ’ ὡς Naber, prob. Kock, Blaydes : ἦ που Schenkl: ὅλως vel δεινῶς susp. Blaydes : οὔ πω Edmonds | ἀνθρώπου φύσις codd. : ἄνθρωπος φύσει Naber

1 Il frammento è riportato da un’ecloga di Stobeo tramandata da tutta la tradizione manoscritta del capitolo Περὶ κακίας (cioè dai codiciM, A, Br e Mac) dell’Anthologion: cf. HENSE 1894, I, 178, 183, cui si rimanda anche per una panoramica generale sulla tradizione manoscritta del testo di Stobeo 1894, 7‑67. Nella tradizione manoscritta, stando all’apparato di HENSE 1894, I, 183, l’ecloga in questione è attestata in punti diversi a seconda dei codici. M riporta l’ecloga nella posizione seguita da Hense, A dopo Stob. III 2, 8 H., Mac. dopo Stob. 3, 2, 5 H., Br. dopo Stob. 3, 2, 17 H. 272 Sebastiano Bertolini

1. Titolo

Intendo considerare dapprima il titolo della commedia, Ἀγύρτης, di cui il distico costituisce l’unico frammento.2 La traduzione del titolo, come esporrò in séguito, è dubbia sulla base dell’ambiguità semantica del termine ἀγύρτης, il cui significato oscilla fra quello di ‘mendicante’ e quello di ‘ciarlatano’, ‘sacerdote’, ‘indovino’.3 Che il termine abbia progressivamente sofferto di un ‘indebolimento’ semantico di stampo negativo, già nel V secolo, è dimostrato del resto da numerosi passi fra cui e.g. S. OT 388, in cui Edipo insulta Tiresia definendolo un δόλιον ἀγύρτην (‘ingannevole sacerdote’).4 In [E.] Rh. 503, Ettore descrive Odisseo come un ἀγύρτης πτωχικὴν ἔχων στολήν (‘un accattone vestito da mendicante’) e, ugualmente, il Coro (715) presenta l’eroe con l’espressione βίον δ’ ἐπαιτῶν εἷρπ’ ἀγύρτης τις λάτρις (‘un servo accattone arrivò mendicando cibo’).5

2 Il lemma corretto dell’ecloga, φιλήμονος ἀγύρτου, è testimoniato daA e da Mac, laddove Br riporta solamente φιλήμονος ed M λυκούργου. Meineke 1841, 3 ha erroneamente ritenuto λυκούργου una corruzione derivante da ἀγύρτου, ma HENSE 1894, 183 (cf. anche RUPPRECHT 1925, 207) ha giustamente notato che l’errore deriva dal fatto che nell’archetipo esso si trovava vicino al lemma dell’ecloga 30, la quale riporta un frammento dell’oratore Ateniese Λυκούργου (fr. 96 Sauppe = fr. 11* Conomis). Come per molte commedie di Filemone, non abbiamo elementi che ci permettano di datare l’opera e, data la scarsità del materiale e dei paralleli a disposizione, è impossibile trarre conclusioni certe sulla trama della commedia. Gran parte della bibliografia inerente al frammento appartiene a brevi note filologico‑ testuali, per lo più incluse in edizioni critiche di frammenti comici, cui si rimanda in bibliografia. Per un profilo di Filemone e sulle sue opere, cf. BRUZZESE 2011. 3 Il termine è, infatti, formazione nominale dal verbo ἀγείρω, cioè ‘raccogliere’, ‘radunare’, attestato già in Omero (cf. e.g. Od. 17, 362) nel significato di ‘questuare’, ‘mendicare’: cf. e.g. DELG 9, EDG 10, LfgE I 55‑58, LSJ9 s.v. II 2. Il termine ἀγύρτης è prolifico in greco ed ha generato formazioni secondarie, quali e.g. il verbo ἀγυρτάζω (cf. e.g. SMYTH GG #867, 246), già attestato in Omero con significato analogo: cf.e.g. Od. 19, 284. Come ha giustamente sintetizzato Liapis (2012, 209), «the word may be used of itinerant beggars, fortune‑tellers, or mountebanks, although originally it seems to have denoted a person attached to a god’s cult (such a priest or a prophet) who wandered about collecting donations for the god – and no doubt for himself too». Non si può, comunque, escludere uno sviluppo semantico di direzione contraria, cioè che il termine avesse originariamente il significato meno connotato di ‘mendicante’, ‘colui che va in giro a raccogliere (offerte)’, e che in séguito esso sia stato utilizzato in relazione a sacerdoti. 4 L’indebolimento semantico, del resto, è palesato da Hsch. α 866‑868, dove il termine generico συρφετώδης, cioè ‘persona volgare’, viene citato come sinonimo. Nel passo in questione, Tiresia viene definito poco prima (387), dispregiativamente, μάγον, un ‘santone’ (su cui cf. RIGSBY 1976), poi (389) un cieco (τυφλός) in grado di vedere solamente quando c’è di mezzo un possibile guadagno (ἐν τοῖς κέρδεσιν). Il fr. 2 K.‑A. di Filemone 273

Alla luce dei paralleli citati e delle inter pretazioni del termine ἀγύρτης, è plausibile individuare tre possibili interpretazioni per la traduzione del titolo della commedia, con il quale, verosimilmente, avrebbe coinciso il protagonista della stessa.

Se si legge il termine nel significato generico di ‘mendicante’, la com‑ media potrebbe ricalcare i numerosi paralleli rappresentati dalle commedie chiamate ‘πτωχοί’ vel simm.6 Nonostante questo possa considerarsi un argumentum ex silentio, resta tuttavia inspiegabile il motivo per cui Filemone non avrebbe intitolato la propria commedia in questo modo, data la presenza di tale tradizione onomastica. In questo caso, non è da escludere che, data la solida presenza di parodia epico‑mitologica nelle commedie di Filemone, il protagonista potesse essere Odisseo, figura ricorrente, per il suo travestimento da povero mendico, in numerose rappresentazioni comi ‑ che e teatrali.7 A (debole) sostegno di questa ipotesi, Gobara fa notare che Odisseo utilizza proprio il termine ἀγυρτάζω in Hom. Od. 19, 284 (hapax omerico) e che il verbo αἰτίζω (di significato simile a quello di ἀγείρω) è spesso riferito, in Omero, all’eroe itacese. Una seconda possibile accezione, quella di ‘sacerdote’, identificherebbe il protagonista (o personaggio chiave) della commedia in un sacerdote mendicante e cialtrone, come il titolo e il contenuto di altre commedie frammentarie sembra confermare.8 Anche se il titolo Ἀγύρτης è attestato solamente in relazione alla commedia di Filemone, infatti, siamo a conoscenza di titoli paralleli. Antifane compose una commedia tramandata sotto il nome di Μηναγύρτης o Μητραγύρτης (cf. frr. 152‑153 K.‑A.), il cui protagonista era verosimilmente un sacerdote mendicante della dea Rea o

5 Per altre accezioni negative del termine, solitamente indicanti un ‘ciarlatano’, un ‘impostore’ cf. e.g. Pl. Resp. 634b e Hipp. Morb. 1, 4. Il termine indica talvolta i sacerdoti di Cibele, cf. AP VI 218, 1 (Alceo), Clearc. fr. 49, 6 Wehrli ap. Ath. 12, 614d, Babr. 141, 1. Il termine, inoltre, poteva indicare il gioco dei dadi, come testimoniato da Eub. fr. 57, 5 (cf. e.g. anche Suid. β 329), su cui cf. HUNTER 1983, 145 e BAGORDO 2014, 60‑63. Fra le numerose occorrenze lessicografiche che citano il termine, cf. e.g. Hsch α 866‑868, Phot. Lex α 280‑281, Suid. α 388‑389. Per un’analisi del termine cf. anche BAGORDO 2014, 60‑ 63 e BIANCHI 2016, 381‑382. 6 Cf. e.g. la commedia di Chionide (frr. 4‑7) su cui BAGORDO 2014, 51. 7 GOBARA 1986, 202‑203. 8 Per la critica ai ‘venditori di oracoli’, si considerino e.g. Ar. Pax. 1043‑1126, Av. 958 dove, allo stesso modo, dei ‘ciarlatani’ cercano invano di assicurarsi qualche profitto tramite le loro profezie. Per il passo degli Uccelli, cf. e.g. ΚΑΚΡίΔΗ 1974, 181, ZANETTO 1987, 256, SOMMERSTEIN 1987, 261, DUNBAR 1995, 552ff. Per il passo della Pace cf. e.g. OLSON 1998, 268‑283. La letteratura sugli indovini è assai ampia: cf. e.g. ARGYLE 1970 e, per gli oracoli in Aristofane, MUECKE 1998 e MILANI 1993. 274 Sebastiano Bertolini di Cibele.9 Menandro scrisse una commedia chiamata Μηναγύρτης (cf. frr. 234‑235), anch’essa probabilmente incentrata sulla figura di un sacerdote della dea Rea.10 Non vanno dimenticati, inoltre, i paralleli rappresentati dall’Οἰωνιστής di Antifane (forse ispirazione del Δεισιδαίμων di Menandro, cf. frr. 106‑109 K.‑A. ed Euseb. Praep. Ev. 3, 13, il Μάντεις di Alessi (fr. 150 K.‑A‑), gli Augur composti da Pomponio e Afranio (autore anche di un Omen), nonché l’omonimo mimo di Laberio.11 Infine, nel significato di ‘ciarlatano’, ‘impostore’, il protagonista della commedia potrebbe corrispondere a un filosofo o a una qualunque categoria di figure notoriamente criticate per la loro cialtroneria e la loro povertà già a partire dalla Commedia Antica.

Per quanto ci si debba astenere dal trarre conclusioni definitive in mancanza di prove certe, la seconda interpretazione sembra a mio avviso la più verosimile, in considerazione dei frequenti paralleli riscontrati in altre commedie e della connotazione religiosa che il termine ἀγύρτης sembra rivestire in molti di essi.12

2. Testo e contesto

Circa il suo contesto, il frammento è tramandato, come già espresso, nella sezione ‘Περὶ κακίας’ del terzo libro (il cosiddettoFlorilegium ) dell’An ‑ tholo gion di Stobeo, dedicato ad argomenti di natura etico‑morale e struttu rato secondo la classificazione binaria virtù‑vizi (ἀρεταί‑κακίαι).13

9 Cf. e.g. SANCHIS LLOPIS et all. 2007, 372‑373 e ORTH 2014, 1019. 10 Un Ariolus di Nevio (cf. frr. 20‑24 R.3), di cui ci rimangono quattro versi, presumibilmente aveva come soggetto un indovino ed era basato sulla versione di Filemone. Questa la posizione e.g. di LEGRAND 1910, 21 ma, come espresso da MARMORALE 1953, 164, «[…] se e fino a qual punto Nevio si sia ispirato ad essi o ad uno di essi non è possibile dire: i frammenti di Nevio non ci dànno appigli a riguardo, né ci lasciano indovinare quale dovesse essere la trama della commedia, se mai essa fu una palliata, non una togata». Ad ogni modo, siccome siamo certi che i poeti latini trassero spunto dalle commedie di Filemone (e in generale dalla Nea), la possibilità non può essere scartata a priori. Per l’Ariolus (o Hariolus) di Nevio, cf. e.g. MARMORALE 1953, 164‑165, 208 e PAPONI 2005, 89‑91. 11 Per la commedia di Alessi, cf. ARNOTT 1996, 440‑444. 12 Attenendoci all’interpretazione del titolo sopracitata, si può dunque ipotizzare che la commedia fosse incentrata sulla figura di un sacerdote ciarlatano ed accattone e sui suoi vacui vaticini che avrebbero potuto dare adito a gag comiche. 13 Per una panoramica sulla figura e l’opera di Stobeo, cf. HENSE 1916, PICCIO‑ Il fr. 2 K.‑A. di Filemone 275

Il frammento viene citato in questa sezione per l’esplicita considerazione gnomica sulla malvagità della natura umana. Sul piano strutturale, cioè dal punto di vista del (caotico e ancora oggi discusso) principio di lemmatiz ‑ zazione della raccolta di Stobeo, l’ecloga che riporta il frammento rientra nella modalità di catalogazione caratterizzata dal «nome dell’autore citato, di solito in genitivo, da solo o accompagnato dal titolo dell’opera, quest’ul ‑ timo in nominativo o in altri casi».14 Poiché testimoniato subito dopo da Stobeo senza soluzione di continuità (oggi Stob. 3, 2, 25 H.), il frammento è stato a lungo riportato insieme al fr. dubium 195 K.‑A. di Filemone, che parimenti offre un giudizio critico sulla natura umana tramite la sua comparazione con quella animale.15 Si deve a Meineke l’ipotesi di separa‑ zione dei due frammenti, che è stata accolta, pur con qualche eccezione, dagli editori e dagli studiosi successivi.16 Resta comunque aperta la questione circa la possibilità che i due testi vadano considerati come un unico frammento con una lacuna mediana, oppure come due frammenti separati, forse appartenenti a commedie distinte.17 La seconda ipotesi – cioè

NE/RUNIA 2001 e PICCIONE 2003, 243‑245. Per un’aggiornata panoramica storica delle edizioni e dei manoscritti di Stobeo, cf. URNISC 2008. 14 PICCIONE 1999, 144. Sulla lemmatizzazione della raccolta di Stobeo, cf. già HENSE 19092, XVI. 15 Philem. fr. 195: οἴει τι τῶν ἄλλων διαφέρειν θηρίων / ἄνθρωπον; οὐδὲ μικρὸν ἀλλ’ ἢ σχήματι· / πλάγι’ ἐστὶ τἄλλα, τοῦτο δ’ ὀρθὸν θηρίον («credi che ci sia una qualche differenza fra uomini ed animali? Non ce n’è nessuna a parte la forma: l’animale è orizzontale, l’uomo è verticale»). 16 Meineke 1841, 3‑4. Pace BOTHE 1844, 70 e KOCK 1884, 478. 17 Da questo punto di vista la tradizione di Stobeo non garantisce alcuna certezza, dal momento che, come sostenuto da PICCIONE 1999, 145, «il metodo di descrizione lemmatica e di inserimento nel tessuto antologico dei passi citati è estremamente variabile, e risponde ad elementi esterni al testo e solo di rado codificabili». PICCIONE 1999 ha analizzato le ecloghe di Stobeo che si presentano senza una caratteriz zazione lemmatica, cioè «successioni di estratti uniti fra di loro, stando ai codici, senza alcuna caratterizzazione lemmatica intermedia, vale a dire casi in cui si abbia un solo lemma che introduce la prima sentenza, seguita da altri passi dalla medesima opera o soltanto dallo stesso autore, o persino da autore differente, noto o meno, tutti rigorosamente senza descrizione lemmatica». Piccione ha giustamente sottolineato la differenza fra la successione di passi ‘non‑consecutivi’ in cui si presenta tuttavia una continuità di senso – la cui agglutinazione dipende pertanto verosimil mente dal «[…] desiderio o [dal]la necessità di costituire un unico prodotto di riduzione» – e la successione di passi ‘non‑consecutivi’ in cui non si presenta alcuna continuità logica, per cui si deve presumere invece una «coalescenza meccanica, causata dalla caduta di un lemma durante la trasmissione o forse anche, in qualche circostanza, dall’unione di passi caratterizzati da un unico lemma comprensivo, iniziale o verticalea latere, con il nome dell’autore». 276 Sebastiano Bertolini che due frammenti di due commedie distinte siano stati uniti – non è da escludere alla luce del potenziale parallelo in Stob. 2, 1, 5a‑5c H; contraria‑ mente, Edmonds e Gobara propendono per la prima ipotesi.18 In particolare, Gobara suggerisce che nel primo distico (fr. 2 K.‑A.) la persona loquens esprima considerazioni generali a proposito della cattiveria della natura umana, laddove i tre versi successivi includerebbero il commento e lo sviluppo della gnomē introduttiva. Pertanto, Gobara ipotizza una lacuna di uno o due versi, che fungerebbero da collegamento fra il contenuto di carattere generale del primo frammento e quello più specifico del secondo, incentrato sul leitmotiv del confronto fra uomini e animali, motivando tale lacuna con la venatura ‘etica’ dell’Anthologion di Stobeo: attirato solo dalla descrizione delle idee che lo interessavano, Stobeo avrebbe tralasciato la parte mediana del frammento.19 A questo proposito, Gobara riporta il parallelo del fr. 7 K.‑A. di Filemone, tratto dalla commedia Σάρδιος, dove Stobeo sembra utilizzare la stessa tecnica epitomatrice. L’ipotesi non va scartata, soprattutto perché altrimenti ci troveremmo davanti all’anomala mancanza del lemma dell’ecloga del fr. 195 K.‑A. Come messo in luce già da Bernhardt, la correttezza testuale dei frammenti trasmessi da Stobeo è spesso discutibile, dal momento che lo studioso era solito rielaborare i testi citati per ragioni di varia natura, ad esempio ai fini di un loro adattamento a specifiche fisionomie testuali o finalità letterarie (laGebrauchsliteratur ), che potevano facilmente dare adito ad alcune modifiche dei passi citati.20 Il frammento, pertanto, ha stimolato numerose congetture su vari aspetti della sua ricostruzione testuale. Gli

18 EDMONDS 1961, 6 e GOBARA 1986, 203. Nel passo in questione, cinque versi impropriamente attribuiti a Filemone, che si ritrovano come corpo unico anche nel secondo ‘testo’ della Comparatio Menandri et Philistionis II 77‑81 J. (intitolato Μενάνδρου καὶ Φιλιστίωνος σύγκρισις), sono stati correttamente divisi in tre diversi lemmi poiché difficilmente essi potevano essere consecutivi. 19 Cf. i frr. 89 e 93 K.‑A. e la bibliografia in GOBARA 1986, 204. Del resto, come ben sintetizzato da CAMPBELL 1984, 54, «Stobaeus compiled the work, as he said in his prefatory letter, to be an aide‑memoire for his son, who had difficulty in remembering what he had read. Although his avowed purpose is not moral instruction, he will have been unwilling to introduce material that might lead the youth astray». 20 Le ipotesi di Bernhardt 1861 sono ribadite e.g. in DIELS 1875, 180 n. 2 e LURIA 1929. Cf. anche PICCIONE 1994a, 1994b, 1999, 2004, CAMPBELL 1984 e KONSTAN 2011. Del resto, come hanno giustamente messo in luce MANSFELD e RUNIA 1996, 223, «The aim of the anthologist is not to preserve an old book but to make a new one. It gives him pleasure to rearrange his material in a novel and attractive way. Textual modifica tion is bound to occur on a small scale in order to facilitate the arrangement of the material». Il fr. 2 K.‑A. di Filemone 277 studiosi hanno espresso molti dubbi, in particolare, circa l’incipit del frammento, che i codici tramandano in tre differenti lezioni: ὦ πῶς (‘oh, come’, tramandato da A e Br), ὢ πῶς (di significato uguale al precedente, tramandato da Mac) e πῶς (‘come’, attestato inM d)21; quest’ultimo darebbe luogo a una versione metricamente monca di una sillaba, laddove la particella esclamativa sottolineerebbe il contenuto del frammento, cioè il biasimo della natura umana. Sebbene stampata (non senza perplessità) dalla maggior parte degli editori (da ultimi gli stessi K.‑A.), la tradizione testuale dell’incipit è stata per lungo tempo oggetto di critiche e perplessità per l’inusuale costruzione πῶς + aggettivo (cf.e.g. Kock 1884, 78, «quod ne graecum quidem est»), difesa, al contrario, da Rupprecht sulla base di numerosi passi paralleli e da Gobara, che non senza buone motivazioni difende la tradizione manoscritta alla luce del fatto che Filemone, talvolta, si discosta dalla cifra linguistica di altri autori.22 Numerose le congetture vòlte al (presunto) risanamento del testo. Dobree, che attribuisce erronea ‑ mente il frammento alla commedia Ἄγροικος, propone timidamente (malim) ὄντως (‘veramente’, ‘certamente’).23 La congettura convince sul piano paleografico, specialmente qualora si considerasse l’omega riportata da ABrMac alla stregua di un riempitivo metrico aggiunto da Stobeo (o dalla sua fonte): il semplice πῶς tramandato da Md sarebbe potuto facilmente derivare da una corruzione del tau. L’avverbio proposto, inoltre, è pertinente sul piano metrico, dal momento che non mancano attestazioni in cui compare a inizio di trimetro in commedia (cf. e.g. Anax. fr. 39, 2, Antiph. frr. 210, 6 e 270, 2).24 Convince, infine, sul piano semantico: ci troveremmo davanti a un avverbio vòlto ad enfatizzare la caratura gnomica del frammento.25 Deubner, seguendo i tre codici riportati da Schow, appoggiato timidamente da Meineke, ipotizza l’insoddisfacente Φεῦ / ὡς παμπόνηρον, relegando l’esclamazione fuori dal verso.26 L’ipotesi, però, non convince poiché Φεῦ dovrebbe ricoprire l’ultimo metron di un ipotetico

21 La sigla Md rappresenta la collatio ad opera di Dindorf del codex Escurialensis LXXXX, cioè M cf. HENSE 1958, I XXIX, LXVII. 22 RUPPRECHT 1925, 207‑208. 23 DOBREE 1833, 286. 24 Nel frammento di Anassila l’avverbio introduce una domanda, ed ha il valore di ‘sul serio…?’. Non si può escludere (cf. supra) che anche nel frammento di Filemone in questione ci potesse essere una simile costruzione sintattica. Su Antiph. fr. 270 cf. ARNOTT 1996, 848. 25 Sull’uso di ὄντως cf. anche CASSIO 1975. Si noti, comunque, che altri avverbi potrebbero sostituire ὄντως nella sequenza metrica indifferens + ὡς. 26 DEUBNER 1838, 107, MEINEKE 1841, 3. 278 Sebastiano Bertolini verso precedente, secondo un uso decisamente raro (cf. S. Tr. 1017 e Ar. Lys. 256) e non in linea con l’usuale modus citandi di Stobeo, che avrebbe originariamente citato la sola ultima sillaba di un verso precedente.27 Bothe giudica la lezione ὦ πῶς ‘ungewöhnlich’ e suppone che essa altro non sia che un possibile riempitivo del verso.28 Lo studioso propone pertanto ἁπλῶς (‘schlechthin’), in séguito proposto anche da Schenkl (1895, 474): l’avverbio è attestato a inizio trimetro (cf.e.g. [Eur]. Rh. 851) e trova riscontro anche in Filemone (fr. 114), ma la congettura non sembra risolutiva. Hermann corregge il testo in πάντως (‘del tutto, affatto’), ma, come sottoli ‑ neato da Arnott, l’avverbio «at a clause’s opening emphasises a following negative, although the degree of emphasis may vary from ‘not to all’ to ‘not entirely’ according to the context, speaker and tone»:29 l’assenza di una frase negativa in questo frangente spinge ad accantonare la congettura. Per Hirschig (1849, 18), in incipit di verso «videtur legendum πῶς οὐ πονηρόν ἐστιν κτἑ. quod adhibetur sicuti εἶτ’οὐ seguente γάρ», ma l’aggiunta della negazione nel primo verso sembra contraddire in toto il significato della seconda pericope, che non si presenta come un’afferma zione ma come una possibilità incompiuta introdotta da ἄν, implicante pertanto un desiderio e non una descrizione dello stato delle cose.30 Naber ha proposto οἴμ’ ὡς, una congettura che ha riscosso un certo successo (cf.e.g. Kock II 478 «quod frequentissimum est apud comicos») grazie al buon numero di passi comici paralleli.31 Naber (1880, 407‑408), inoltre, non si limita a modificare l’incipit del verso, ma interviene anche sull’explicit, che a suo avviso sarebbe da correggere in ἄνθρωπος φύσει, sulla base del fatto che il dativo φύσει è attestato, insieme al neutro, in numerosi passi comici. Schenkl ha proposto l’insoddisfacente ἦ που, mentre Blaydes, pur giudicando corretta l’ipotesi di Naber (οἴμ’ ὡς), non esclude la presenza degli avverbi ὅλως o δεινῶς a inizio verso.32

27 Cf. PICCIONE 2003, 247‑248. 28 BOTHE 1844, 70. 29 HERMANN 1847, 608, ARNOTT (1996, 662‑663 ad Alex. fr. 235). 30 Secondo questa prospettiva, proprio il γάρ che viene portato da Hirschig a sostegno della sua ipotesi sembra confermare il tono pessimistico della prima frase. L’unica possibilità per salvare la congettura di Hirschig sarebbe quella di sostituire al punto in alto il punto interrogativo. In tal caso, l’espressione significherebbe ‘forse che non è malvagia la natura umana, nel complesso?’, con πῶς οὐ (come suggerito dallo studioso) nel significato esclamativo in domanda retorica che εἶτ’οὐ presenta in e.g. Dem. 1, 24. La correzione testuale, tuttavia, non sembra giustificata ed è perciò da rigettare. L’ipotesi di Hirschig non viene esclusa da CHENKLS 1895, 474. 31 NABER 1880, 408. 32 SCHENKL 1895, 474, BLAYDES (1896, II, 182). Il fr. 2 K.‑A. di Filemone 279

3. Il contenuto filosofico del frammento

Nel frammento, la persona loquens sembra biasimare la malvagità della natura umana, che altrimenti farebbe a meno della legge. L’identità del parlante è ignota, ma l’uso di alcune espressioni che ricorrono nel lessico filosofico ci spinge all’identificazione del personaggio con l’agyrtēs possibile protagonista della commedia. La prospettiva hobbesiana dell’homo homini lupus e del bellum omnium contra omnes non è nuova al pensiero greco, come dimostrato da numerose pubblicazioni.33 Nel frammento sembra evidente un influsso filosofico, che si manifesta sia a livello esegetico che linguistico, basato in primis sull’alternanza nomos‑physis.34 ὦ πῶς: In questa specifica configurazione (ammesso che essa sia fededegna, cf. supra), l’esclamazione è hapax fino al IV secolo a.C. Tale scarsità di paralleli sembra supportare la posizione di chi considera corrotto l’incipit del testo. Non mancano, però, attestazioni simili nella struttura ὦ + invocazione, + πῶς + proposizione (spesso interrogativa), come e.g. Hom. Od. 10, 337, E. Andr. 1036. πονηρόν: Il termine, attestato fin da Esiodo, presenta una vasta gamma di significati e assume diverse accezioni (politica, filosofica, morale etc.) a seconda del contesto in cui è impiegato. Dato il riferimento alla legge e alla tradizionale contrapposizione φύσις / νόμος in cui si inserisce il frammen ‑ to, il valore dell’aggettivo, verosimilmente, corrisponde a ‘cattivo’, ‘malvagio’ (cf. e.g. A. Ch. 1045, Ar. Eq. 336‑337, Lys. 350), come del resto sembra essere in molti passi paralleli, dove l’aggettivo è riferito alla φύσις (cf. e.g. Dem. 18, 131, A. 3, 147). Non si può escludere del tutto, comunque, una sorta di compatimento della persona loquens verso la natura umana (nel qual caso, il significato sarebbe piuttosto quello di ‘sfortunato’ con una connotazione compassionevole, cioè ‘sciagurato’, cf. e.g. Ar. Nub. 102). ἀνθρώπου φύσις: Il dualismo legge‑natura, φύσις / νόμος, rappre‑ senta uno dei cardini filosofico‑teorici del pensiero antico (e non solo). È interessante che non si abbiano collegamenti testuali così espliciti e ravvicinati in commedia prima del IV secolo. La contrapposizione ricorre

33 L’immensa tematica del cosiddetto ‘contratto sociale’ è stata oggetto di numerosi studi, anche alla luce della pervasività del tema nella letteratura antica e dei collegamenti che essa intrattiene con altre tematiche, qualie.g. il concetto di progresso umano a partire da una condizione ‘primitiva’. Sul tema cf. e.g. GOUGH 19572, GUTHRIE 1969, 1971, MULGAN 1979, KAHN 1981, KELLY 1992, PANI 2007. 34 Dal punto di vista stilistico, il frammento rappresenta un tipico esempio di gnomē, su cui cf., in particolare, CONCA 1973. 280 Sebastiano Bertolini in un altro frammento di Filemone (fr. 96 K.‑A.) che ricorda, dal punto di vista tematico, il fr. 2.35 Non mancano simili dichiarazioni anche in Menandro (Epitr. 1123 e fr. 844, 12‑13). Il primo passo (ἡ φύσις ἐβούλεθ’, ἧι νόμων οὐδὲν μέλει, ‘lo volle la natura, a cui non importa nulla delle leggi’) rappresenta una citazione dell’Auge di Euripide (cf. e.g. Martina 2000, 582‑584, Furley 2009, 253‑254); nel secondo (ἀγωνίαι, δόξαι, φιλοτιμίαι, νόμοι, / ἅπαντα ταῦτ’ ἐπίθετα τῇ φύσει κακά, ‘gare, opinioni, ambizioni, leggi, / tutte queste sono cattive aggiunte alla vita’), ancora una vòlta la vita degli animali viene preferita a quella degli uomini, e le leggi altro non sono che cattive ‘aggiunte’ alla natura. τὸ σύνολον: Il termine, che va qui inteso nel significato di ‘nel com ‑ plesso’ (cf. e.g. Pl. Sph. 220b, Lg. 654b), non ha altre attestazioni in commedia prima di Menandro (cf. e.g. fr. 395, 2 K.). Se non si vuole considerare l’espressione una sorta di colloquialismo (tuttavia parzialmente ingiusti ‑ ficato nel passo in questione data la natura gnomica del distico), il buon numero di attestazioni del nome avverbiale nel lessico filosofico (cf.e.g. Democr. fr. 53 D.‑K., Pl. Sph. 220b, Lg. 654b, Arist. De an. 409b, Metaph. 995b, Thphr. CP 2. 3. 3) potrebbe suggerire l’identità del personaggio in questione, e cioè un ciarlatano che si riempie la bocca di espressioni filosofiche. οὐ γὰρ ἄν ποτ(ε): A livello stilistico risalta l’accumulo di particelle che introducono la seconda pericope, la quale costituisce una sorta di apodosi di una protasi implicita. La sequenza οὐ γὰρ ἄν + tempo storico dell’indicativo è attestata già nel V secolo (cf. e.g. Thuc. 1, 68, 4, 2). La sequenza inclusiva anche della particella ποτε (seppur talvolta in ordine diverso) è ben attestata in generi teatrali (cf. e.g. E. Andr. 1283, Hec. 1269, Herc. 264, IT 201, Ar. V. 927) e filosofici (cf. e.g. Pl. Phaed. 91b, 98a, Lach. 186d, 1). ἐδεήθη νόμου: Alla luce delle considerazioni precedentemente espresse circa il riscontro, nel frammento, di una possibile influenza filosofica, sembra indicativo che il nesso δέω + νόμος ricorra in Platone (Leg. 875c) e in Aristotele (EN. 1180a). In Platone, in particolare, troviamo sintetizzato un concetto simile a quello espresso nel frammento, dove ancora una volta (mutatis mutandis) lo stato di natura si contrappone a quello delle leggi (ἐπεὶ ταῦτα εἴ ποτέ τις ἀνθρώπων φύσει ἱκανὸς θείᾳ μοίρᾳ γεννηθεὶς παραλαβεῖν δυνατὸς εἴη, νόμων οὐδὲν ἂν δέοιτο τῶν ἀρξόντων ἑαυτοῦ· ‘ma se per grazia di un qualche dio un giorno nascesse un uomo per natura in grado di superare le suddette difficoltà, questi non avrà in alcun modo

35 Cf. e.g. HEINIMANN 1945, 147 n. 74. Il fr. 2 K.‑A. di Filemone 281 bisogno di leggi’) e dove non è da escludere che il verbo δέω associ al suo significato proprio di ‘essere necessario, aver bisogno’ quello metaforico e più espressivo di ‘essere legato, essere vincolato’.36

Come ho tentato di dimostrare, il fr. 2 K.‑A. di Filemone presenta, pur nella sua brevità, numerose questioni di natura filologico‑esegetica degne di considerazione. Mi auguro che quanto espresso in questo contributo possa contribuire a stimolare, in futuro, la ricerca su uno dei più importanti autori della Commedia Nuova spesso troppo ignorato dalla critica.

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36 Per considerazioni simili espresse tramite lo stesso nesso, cf. anche Men. Sent. 17, 1 Jäkel e Theophr. fr. 106, 1 Wimmer. 282 Sebastiano Bertolini

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Frammenti di follia. Il tema della follia nella tragedia latina frammentaria

MARCO FILIPPI (UNIVERSITÀ DEL MOLISE)

L’idea di affrontare il tema della follia nella tragedia latina in frammenti nasce da alcune osservazioni effettuate, al tempo della tesi di dottorato, sui drammi latini di argomento bacchico (Lycurgus di Nevio, Pentheus di Pacuvio, Bacchae di Accio)1. Tuttavia, una più accurata indagine del pur scarno materiale a disposizione permette di rilevare che la follia ispirata dall’estasi dionisiaca – la cosiddetta follia telestica o rituale – non è che una delle varie forme di μανία individuabili nel teatro tragico latino ad oggi pervenuto. Attraverso un’analisi a più ampio raggio dei frammenti latini che sembrano trattare l’argomento, e grazie al confronto con gli studi già compiuti in ambito greco sia filosofico che storico‑letterario, sarà possibile gettare le basi per un discorso nuovo, che mi auguro possa rivelarsi utile ai fini della comprensione della percezione che gli autori latini di teatro dovevano avere della follia nelle sue varie manifestazioni2. Una prima classificazione dei vari tipi di follia nell’antichità è quella fornita da Platone nel Fedro. Nel dialogo sull’amore tra Socrate e Fedro all’ombra del grande platano, il primo dichiara (Phaedr. 265ab):

Μανίας δέ γε εἴδη δύο, τὴν μὲν ὑπὸ νοσημάτων ἀνθρωπίνων, τὴν δὲ ὑπὸ θείας ἐξαλλαγῆς τῶν εἱωθότων νομίμων γιγνομένην. […] Τῆς δὲ θείας τεττάρων θεῶν τέτταρα μέρη διελόμενοι, μαντικὴν μὲν ἐπίπνοιαν Ἀπόλλωνος θέντες, Διονύσου δὲ τελεστικήν, Μουσῶν δ’αὖ ποιητικήν, τετάρτην δὲ Ἀφροδίτης καὶ Ἔρωτος, ὲρωτικὴν μανίαν ἐφήσαμέν τε ἀρίστην εἶναι.

1 Gli Stasiastae vel Tropaeum dello stesso Accio, benché a lungo classificati fra i drammi bacchici, soprattutto in virtù dell’integrazione Tropaeum risalente a SCRIVERIUS 1620, 143 oggi per lo più respinta, devono essere ancora ritenuti di argo ‑ mento incerto. 2 Sul tema della follia presso i Greci sono essenziali gli studi di FOUCAULT 1961, MATTES 1970 e GUIDORIZZI 2010. Cf. inoltre, tra gli altri, HARRIES 1891; VAUGHAN 1919; O’BRIEN‑MOORE 1924; KOEHM 1928; WALDMANN 1962; MOSS 1967, 709‑722; CIANI 1974, 70‑110; SIMON 1978; CIANI 1983; PADEL 1995; GILL 1996, 249‑267; LÓPEZ SACO 2006, 185‑ 206; GARCIA 2011, 211‑222; HARRIS 2013; LÓPEZ SACO 2014, 1‑21; THUMIGER 2017. 286 Marco Filippi

Ci sono due forme di mania, una che nasce da malattie umane, l’altra che nasce da un mutamento divino delle consuete abitudini. […] Distinguendo quattro parti di quella divina in relazione a quattro dei, abbiamo attribuito l’ispirazione mantica ad Apollo, quella iniziatica a Dioniso, quella poetica alle Muse, la quarta ad Afrodite ed Eros, e abbiamo detto che la mania amorosa è la migliore3.

Dopo aver accennato a quella forma di follia causata da una malattia, e quindi di origine umana, Socrate introduce una quadripartizione della follia di origine divina, distinguendo le quattro parti in relazione a quattro divinità – o gruppi di divinità – differenti.

Follia ispirata dalla divinità: a. mantica (Apollo); b. telestica (Dioniso); c. poetica (Muse); d. erotica (Eros/Afrodite).

A ognuno di questi quattro tipi di follia possiamo ricollegare esempi tratti dalla tragedia greca, come in parte è già stato evidenziato dalla critica più e meno recente; quello che invece finora – che io sappia – non sembra esser stato notato è che è possibile utilizzare la quadripartizione platonica anche per la tragedia latina ricollegando agli stessi quattro tipi di follia qui distinti altrettante e determinate situazioni presenti nei drammi latini in frammenti. Il risultato di questo procedere può tradursi nello schema che segue: follia mantica: Cassandra, sacerdotessa di Apollo in grado di prevedere il futuro, non ricambia l’amore del dio e per questo, quando invasata, è destinata a non essere creduta; follia telestica: Licurgo re degli Edoni e Penteo re di Tebe non ricono sco ‑ no l’autorità di Bacco; fatti impazzire dal dio, sono destinati a una fine orrenda; follia poetica: Ennio, poeta latino, non fa poesia se non è pervaso dall’e‑ stro ispiratogli dalle Muse; follia erotica: Tereo, folle d’amore per la cognata Filomela, la stupra e le strappa la lingua; sarà punito da lei e dalla moglie. Medea, folle d’amore per Giasone, fa a pezzi il fratello Absirto; poi, ripudiata dall’uomo amato, ne uccide la nuova moglie e il padre di lei, e infine anche i propri figli.

3 Trad. it. CACCIA 1997, 491. Le traduzioni dei passi greci e latini riportati nel presente articolo sono di chi scrive salvo dove diversamente indicato. Il tema della follia nella tragedia latina frammentaria 287

Fedra, folle d’amore per il figliastro Ippolito e da questi respinta, lo calunnia e determina la sua rovina, per poi suicidarsi.

Ciascuno dei casi sopra riportati – salvo quello di Fedra – sembra avere precisi riscontri nel panorama tragico latino in frammenti. Vediamone alcuni più da vicino.

1. La profezia di Cassandra

Enn. TrRF II inc. F 151 = trag. 39‑53 R.3 (Alexander)

(Hecuba) Sed quid oculis rabere4 visa est derepente ardentibus? Ubi illa paulo ante sapiens virginali’ modestia?

(Cassandra) Mater, optumatum multo mulier melior mulierum, missa sum superstitiosis hariolationibus: namque me Apollo fatis fandis dementem invitam ciet. … Adest adest fax obvoluta sanguine atque incendio. Multos annos latuit; cives, ferte opem et restinguite5. …

(Ecuba) Ma perché sembra improvvisamente adirarsi, con occhi ardenti? Dov’è quella modestia verginale fino a poco fa assennata?

(Cassandra) Madre, di gran lunga migliore di tutte le donne, sono trasportata da vaticinî profetici; infatti Apollo mi spinge, contro la mia volontà, a rivelare i fati da folle. … Eccola, eccola la fiaccola avvolta di sangue e fuoco; è stata nascosta per molti anni. Cittadini, aiutatemi e spegnetela!

4 Rabere, lezione dei deteriores accolta già da Lambinus e Muretus e poi da RIBBECK 1852, 17; 1871, 20; 1897, 23, sembra adattarsi meglio, a mio avviso, al contesto del frammento, e si contrappone significativamente a sapiens del verso successivo (maggiori dettagli in KUTSCHS 1967 = 1968, 183). 5 Qui e in seguito le parti da me sottolineate hanno lo scopo di evidenziare i termini o le espressioni che specificamente appartengono al cosiddetto «lessico della follia» e che si dimostreranno ricorrenti nei frammenti tragici. 288 Marco Filippi

Dalle parole di Ecuba si evince chiaramente come l’invasamento della figlia sia contraddistinto dalla repentinità (derepente; altri esempi dello stesso tipo sono riportati in Acc. trag. 169 R.3 eccos e trag. 156 subiti). Gli oculi ardentes sono un chiaro sintomo di follia (cf. Enn. TrRF II F 13, 1 = trag. 32 R.3 [Alcumeo] oculorum aspectu; Plaut. Capt. 594; Men. 829; in altri passi, in letteratura greca, si parla degli occhi sanguinanti delle Erinni o di quelli, strabuzzati, del malato di mente o dell’Oreste euripideo); vediamo, inoltre, come l’ardor del folle torni espresso sotto forma di fuoco e fiamme in molti casi: cf., ancora qui, fax obvoluta… incendio (la fax naturalmente è Paride/Alessandro, rovina di Troia e protagonista del dramma omonimo) e il frequente ricorrere della metafora in Enn. TrRF II F 13, 2‑10 = trag. 25‑ 31 R.3 (unde haec flamma oritur?; flammiferam… vim; igni incedunt; ardentibus taedis); cf. anche Acc. trag. 637 R.3 amore… flammeo, ecc. Le parole di risposta di Cassandra alla madre sono rese concitate dalla forte allitterazione della nasale liquida m( ater, optumatummulto mulier melior mulierum) e dall’asindeto (adest adest), che pure ricorre spesso in situazioni in cui è un folle a esprimersi (Alcmeone in Enn. TrRF II F 12 morbo exilio atque inopia e TrRF II F 13, 3 incedunt incedunt adsunt, me expetunt). Allo stesso modo ritorna anche altrove il semantema demens, qui appellativo tipico di colui che è fuori di sé (cf. ancora Acc. trag. 638 R.3 dementia [dal Tereus] in riferimento allo stato di follia di Tereo, e Acc. trag. 450 R.3 amentia [dal Meleager] ma anche Acc. trag. 69 R.3 tarditudine [dall’Alcimeo] e praet. 32 R.3 hebetem [dal Brutus]).

2. La follia bacchica6

Serv. ad Verg. Aen. 4, 469

Pentheus autem secundum tragoediam Pacuvii furuit etiam ipse.

Penteo secondo la tragedia di Pacuvio impazzì anche lui stesso.

Serv. Dan. ad Verg. Aen. 4, 469

Pentheus autem furuisse traditur secundum tragoediam Pacuvii. De quo fabula talis est. …

6 Sebbene i frammenti del Lycurgus di Nevio siano numerosi, non siamo ancora in grado di appurare con sicurezza quale variante del mito il poeta latino avesse adottato per il finale del suo dramma. Non si rilevano in questa tragedia riferimenti inequivocabili a stati di follia, delle menadi o del re. Il tema della follia nella tragedia latina frammentaria 289

Si tramanda d’altronde secondo la tragedia di Pacuvio che Penteo sia impazzito. Su questo la storia è…

Acc. trag. 259 R.3 (Bacchae)

quanta in venando affecta est7 laetitudine

Quanta gioia ha provato nel cacciare.

Acc. trag. 260 R.3 (Bacchae)

splendet saepe, ast idem nimbis interdum nigret.

Spesso splende, e talvolta si oscura di nubi8.

L’unico elemento certo del Pentheus di Pacuvio – del quale, come è noto, non è pervenuto alcun frammento – è proprio lo stato di follia del protagonista, come si rileva dall’uso del verbo furio nel commentario serviano al passo dell’Eneide sopra menzionato; quanto segue nella testimonianza del Danielino, invece, non è riconducibile con sicurezza alla trama del dramma pacuviano, poiché quo potrebbe riferirsi al personaggio di Penteo e non al titolo della tragedia. Meglio informati siamo sulle Bacchae di Accio, delle quali sono pervenuti numerosi frammenti la cui analisi e la cui ricostruzione riconducono, come di consueto, a evidenti ascendenze euripidee.

7 I codici di Non. 191 L. riportano la lezione corrotta affectio est, corretta in vario modo dagli studiosi. Fra gli altri, MÜLLER 1869, 240; 1885, 52; 1888, I, 188; 1890, 25 ha proposto di leggere affecti est, vedendo in affecti un genitivo dello stesso tipo di aspecti, exerciti, lucti, e ha ritenuto plausibile che il copista, non riconoscendolo, abbia mutato affecti in affectio per conservare un soggetto all’interno della frase. La correzione di Müller ha il vantaggio, rispetto ad altre, di permettere un riferimento diretto ad Agave e quindi di ricollegarsi più strettamente al contesto euripideo presumibilmente qui tenuto in considerazione da Accio, cioè E. Bacc. 1144‑1145, dove è proprio Agave il soggetto della frase. Tuttavia è forse preferibile la correzione di RIBBECK 1852, 143; 1871, 170; 1897, 195 in affecta est perché, oltre a implicare un riferimento pure diretto ad Agave, allo stesso tempo non comporta la particolarità dell’uso di un genitivo affecti, risultando quindi più economica. 8 Anche un curioso frammento tratto dalle Nuptiae Bacchi (o Nuntii Bacchi?) di Santra, poeta tragico ed erudito del I sec. a.C., sembra far riferimento al furor bacchico: TrRF I F 1 = trag. 1‑2 R.3 … ita obpletum sono / furenter ab omni parte bacchatur nemus («così riempito del suono il bosco da ogni parte furiosamente rimbomba di grida bacchiche»). 290 Marco Filippi

Se per Acc. trag. 259 R.3, come credo, il parallelo con E. Bacc. 1144‑1145 va inteso in senso stretto, non si dovrà pensare che il frammento latino contenga semplicemente la gioia delle baccanti o di Agave nell’andare a caccia né, come ipotizza Ribbeck, parole rivolte a Penteo da Bacco, il quale chiederebbe al re se voglia vedere le baccanti nel bosco e quanto sia soddisfatta sua madre della caccia (cf. E.Bacc . 811; 916)9. Piuttosto, si dovrà ritenere che il frammento contenga parole di qualcuno, forse un messaggero, che descriverebbe come Agave, sotto l’effetto delfuror bacchico (cf. affecta est), abbia dato la caccia a suo figlio senza riconoscerlo e in seguito lo abbia smembrato con l’aiuto delle altre menadi e si sia rallegrata della sua preda, portandone la testa conficcata su un tirso. L’ipotesi secondo la quale Acc. trag. 260 R.3 appartenga a un contesto di follia è invece più fragile; qui è forse presente un richiamo ad E. Bacc. 1264‑ 1267 dove, in una serrata sticomitia, Cadmo si assume il compito di riportare Agave alla ragione e lo fa esortandola ad alzare gli occhi al cielo e domandandole se vi noti qualche mutamento, e lei risponde che è più limpido di prima. Presumibilmente, secondo quest’interpretazione, a questo punto Cadmo risponderebbe che spesso il cielo è sereno ma che talora si copre di nubi, e così preparerebbe l’animo di Agave al macabro riconoscimento del cadavere del figlio10. Altri tentativi di interpretazione sono tuttavia possibili; si è pensato, ad esempio, a un’allusione al monte Citerone11 o a un accenno alla mutevolezza della sorte umana, paragonata ai fenomeni atmosferici12.

3. L’ispirazione poetica di Ennio

La «follia» poetica, in realtà, non può essere definita come una forma di follia vera e propria; essa è estro, ispirazione. Riporto qui il caso di Ennio, poeta a tutti noto per l’autoconsapevolezza del proprio ruolo di alter Homerus, il quale, soprattutto nei proemi al I e al VII libro degli Annales, si appella alle Muse come fonti della propria ispirazione. Quello che qui pure interessa evidenziare è la curiosa dichiarazione di poetica presente in un frammento probabilmente appartenente alle Saturae, ma di non facile collocazione:

9 Cf. RIBBECK 1875, 573‑574. 10 Cf. RIBBECK 1875, 574. 11 Cf. BOTHE 1823, 189. 12 Cf. MÜLLER 1890, 25. Il tema della follia nella tragedia latina frammentaria 291

Enn. sat. 64 V2.

numquam poetor nisi si podager.

Non faccio mai poesia se non sono affetto da podagra.

Il poeta in prima persona specifica di non far poesia se non quando è colpito dalla podagra; si è quindi supposto che, potendo la podagra derivare dall’eccessivo bere, il poeta scrivesse poesia solo sotto l’effetto dell’alcool13. Alla circostanza fa scherzosamente riferimento anche Orazio in epist. 1, 19, 6‑8, dando adito a molte discussioni14; il Venosino, in pratica, riconosce ad Ennio anche un certo estro «dionisiaco» (per il quale v. supra).

4. L’amore come follia (Tereo, Medea)

La quarta e ultima tipologia di follia, quella derivante da Eros/Afrodite, è considerata da Platone la «migliore» poiché, a differenza delle altre (specialmente le prime due), in un certo senso «migliora» le condizioni dell’individuo. La tragedia tuttavia presenta anche – e soprattutto – esempi di follia amorosa contraddistinti da connotazioni negative. È il caso del re barbaro Tereo che si invaghisce della cognata (nel Tereus di Accio, derivante a sua volta, con ogni probabilità, dal Tereo di Sofocle); qui non si può neanche parlare di «amore», ma casomai di una forma di bramosia sfrenata, che può ricordarci, se si pensa ancora al Fedro di Platone, il cavallo nero simbolo di sfrenatezza che traina la biga alata di Amore assieme a quello bianco simbolo di moderazione. Dell’amore – se di amore si può parlare – qui s’intende mettere in evidenza l’aspetto negativo.

Acc. trag. 636‑639 R.3 (Tereus).

Tereus indomito more atque animo barbaro conspexit ut eam, amore vecors flammeo, depositus facinus pessimum ex dementia confingit…

Tereo, sfrenato e con cuore barbarico la guarda. Dissennato per l’amore ardente, spacciato, prepara il peggior crimine dalla follia…

13 Cogliamo esempi affini nella letteratura di ogni tempo e luogo, dal Coleridge oppiomane di Kubla Khan al Baudelaire bevitore, soprattutto di assenzio. 14 Cf. GRILLI 1978, 34‑38; PRINZEN 1998, 250‑251; TIMPANARO 2002, 678. 292 Marco Filippi

Il re trace è distrutto depositus( ) dalla passione ardente per la cognata; tornano a manifestarsi, come si è già notato, da un lato la varia terminologia appartenente al lessico dei folli (amore… flammeo; dementia); dall’altro, la repentinità che contraddistingue questo genere di follia (conspexit ut…). In più si accenna a un facinus, ossia al risultato dell’azione della follia, in questo caso la glossotomia di Filomela (cf. anche Ov. met. 6, 561). L’accenno a tale risultato torna almeno in un altro caso, che molto ha in comune con quello di Tereo, essendone in un certo senso ispirato: quello del mito di Atreo (cf. Acc. trag. 201 R.3 maius miscendumst malum, per cui v. infra).

Ov. TrRF I F 2 = trag. 2 R.3 (Medea)

Feror huc illuc ut plena deo!

Sono trasportata qua e là come invasata dal dio!

Medea, come Tereo, è pervasa dalla follia amorosa. È plena deo, letteralmente «invasata» dal dio, come Cassandra, e non più padrona di sé stessa, ma trascinata da una parte all’altra; feror, qui termine‑chiave come altrove in riferimento a Medea (soprattutto in Ov.epist . 12 e nella Medea di Seneca) e ancora ad Atreo nel Thyestes senecano, denota formidabilmente l’impossibilità di reagire del mortale di fronte a qualcosa di molto più grande e potente di lui.

***

C’è di più. Premesso che ognuno dei casi di follia finora esaminati appare ispirato da una divinità in qualche modo adirata con il personaggio che sarà soggetto a follia o vittima di un personaggio che sarà soggetto a follia (o entrambe le cose: cf. il caso di Penteo già esaminato e quello di Ino infra), qualora ci si voglia allontanare dalla quadripartizione platonica finora utilizzata per l’analisi degli esempi presi dal teatro latino frammen ‑ tario e si voglia tentare un’altra via di classificazione che tenga conto comunque di casi di follia ispirati da un dio, ci si accorgerà che un elemento comune alla maggior parte delle vicende di follia presenti nel teatro tragico latino è quello del parenticidio, ossia l’uccisione di un familiare (un figlio, un genitore, un fratello, ecc.). In parole povere, si può notare come spesso il parenticidio sia connesso a episodi di follia, figurando nel mito come causa o conseguenza di quest’ultima.

Traduco quanto detto, per comodità, nello schema che segue. 1) Follia come causa di un parenticidio: Atamante e Ino, genitori adottivi di Bacco figlio di Semele e Giove e per questo inviso a Giunone, Il tema della follia nella tragedia latina frammentaria 293 vengono fatti impazzire da quest’ultima; Atamante uccide il figlio maggiore Learco; Ino uccide l’altro figlio, Melicerte, e si getta dalla finestra del palazzo reale. Ercole, figlio di Alcmena e Giove e per questo inviso a Giunone, viene fatto impazzire da quest’ultima; uccide la moglie Megara e i figli. 2) Follia come conseguenza di un parenticidio: Oreste, su istigazione di Apollo, uccide sua madre Clitemnestra per vendicare l’assassinio del padre Agamennone e impazzisce perseguitato dalle Erinni. Alcmeone, su istigazione del padre Anfiarao, uccide sua madre Erifile per vendicare il padre stesso, condotto da lei a morte certa, e impazzisce anch’egli perse ‑ gui tato dalle Erinni.

Se sulle vicende di Ino e Atamante abbiamo tracce sicure nella tragedia latina arcaica15, meno informati siamo sul modo in cui tale vicenda venisse trattata; anche se dobbiamo ritenere molto probabile la presenza dell’epi ‑ sodio di follia nella trama di almeno uno dei drammi pervenuti su questo mito, sfortunatamente non abbiamo resti che possano dimostrarla16. Diverso è il discorso sui miti, spesso l’un l’altro correlati, di Oreste e Alcmeone, che nella tragedia e in generale nella letteratura latina hanno avuto maggior fortuna, tanto da far assurgere i loro protagonisti a vittime esemplari dell’azione della follia. Il mito di Oreste è più noto, grazie soprattutto alla trattazione che ne dà Eschilo nell’Orestea, rielaborata poi con ogni probabilità da Ennio nelle Eumenides e, forse, da Pacuvio in un Orestes17 e da Accio in uno dei drammi sullo stesso argomento (Aegisthus? Clytaemestra?). Se però in Eschilo le Erinni, demoni più antichi dello stesso

15 Cf. l’Athamas di Ennio e l’Athamas di Accio, a tacere della controversa Ino di Livio Andronico. 16 Si noti però l’indubbia presenza dell’elemento bacchico nell’unico frammento superstite dell’Athamas di Ennio: TrRF II F 42 = trag. 107‑11 R.3 erat in ore Bromius, his Bacchus pater, / illis Lyaeus vitis inventor sacrae, / tum pariter †euhan euhium† / ignotus iuvenum coetus alterna vice / inibat alacris Bacchico insultas modo («questi avevano sulla bocca Bromio, questi Bacco padre, quelli Lieo inventore della sacra vite. Allora ugualmente tutto il gruppo delle vergini e tutto quello dei giovani in coro alternato intonava: ‘Evan, Evio, Evoé!’ freneticamente danzando alla maniera bacchica» [trad. TRAGLIA 1986, 295]). 17 Cf. Serv. ad Verg. Aen. 4, 473 a Pacuvio Orestes inducitur Pyladis admonitu propter vitandas Furias ingressus Apollinis templum, unde cum vellet exire, invadebatur a Furiis («da Pacuvio Oreste è indotto dall’avvertimento di Pilade a entrare nel tempio di Apollo per evitare le Furie; volendo uscire da questo, è assalito dalle Furie»). Il frammento appartiene probabilmente all’Hermiona o a un Orestes di Pacuvio. Sui problemi legati all’esistenza di quest’ultimo cf. D’ANNA 1965, 47‑69; REGGIANI 1990, 21‑32 e, più recentemente, DEGIOVANNI 2011, 256‑284. 294 Marco Filippi

Apollo, sono caratterizzate da una nota di oggettività e si mira a mettere in evidenza gli aspetti rituali che possano garantire una sorta di rimedio alla realizzazione dell’azione cruenta, è solo con Euripide, che riprende il mito nell’Oreste e, en passant, nell’Ifigenia Taurica (281‑319), che l’Erinni è sotto ‑ posta a un processo di disoggettivazione e diviene un elemento proprio della coscienza interiore del personaggio, sotto forma di senso di colpa18. Pertanto in Euripide, poeta razionale e «illuminista», la follia diviene una sorta di malattia mentale dettata dal rimorso e l’Erinni la rappresentazione di questo rimorso, dal quale è ancor più difficile liberarsi che se si trattasse di una semplice purificazione a seguito di un atto sanguinario presso un particolare luogo di culto e attraverso un particolare procedimento rituale19. Le mani pulite non bastano, dev’essere puro anche il cuore (E. Or. 1602‑ 1604)20. La tragedia latina arcaica, come per molti altri rispetti, anche per questo si rifà, evidentemente, al modello euripideo; lo possiamo rilevare ad un esame più attento dei frammenti tramandati sulla vicenda di Alcmeone:

Enn. TrRF II F 12 = trag. 20‑4 R.3 (Alcumeo)21.

multis sum modis circumventus, morbo exilio atque inopia; tum pavor sapientiam omnem mi exanimato expectorat. Mater22 terribilem minatur vitae cruciatum et necem; quae nemo est tam firmo ingenio et tanta confidentia, quin refugiat timido sanguen atque exalbescat metu.

18 Un’anticipazione del concetto è però già in S.Antig . 603, dove si parla di «Erinni della mente». 19 Su tali luoghi e procedimenti rituali in riferimento al mito di Oreste, istruttivo Paus. 2, 31, 4; 2, 31, 8‑9; 8, 34, 1‑3. Cf. anche DELCOURT 1959, 94‑95 e fig. 7. 20 Sulla follia di Oreste cf. HEIBERG 1927, 1‑44; HALLIDAY 1936, 277‑294; FLASHAR 1966; MOSS 1967, 709‑722; PIGEAUD 1981; GARZYA 1992, 25‑32; GRAVER 2003, 40‑54. Sulle affinità tra la concezione euripidea della follia e la definizione clinica della malattia mentale nel Corpus Hippocraticum cf. GREGORY 1974; DONADI 1975, 115‑128; THEODOROU 1993, 32‑46; DETIENNE 1996, 23‑38; GUTIÉRREZ CADAVID 2015, 178‑183. 21 Non mi soffermo qui sul possibile confronto del frammento enniano con E. fr. 88a Kn., la cui attribuzione è tuttora controversa ANNICHT(K 2005, 223‑224 lo inserisce tra i frammenti dell’Alcmena, ma gli editori precedenti e buona parte della critica ritengono piuttosto appartenga a un Alcmeone euripideo). 22 Accolgo la correzione mater di RIBBECK 1852, 15 (a intendere Erifile) di alter della maggior parte dei codici (V O P U R, om. A H E) e posto tra cruces da GROTIUS 1828, 160; tra gli altri emendamenti mi limito a ricordare qui tetrum di MÜLLER 1884, 113 e ultor di VAHLEN 1888‑1889 (= 1907, 401). Il tema della follia nella tragedia latina frammentaria 295

In molti modi sono oppresso dal male, dall’esilio e dalla povertà. Poi la paura ha cacciato via dal mio petto a me, esausto, ogni pensiero assennato. Mia madre minaccia la mia vita di terribile tormento e morte. Nessuno c’è con un carattere così forte e con una tale fermezza che non si senta rifluire il sangue per la paura e non impallidisca per lo spavento23.

Qui Alcmeone è angosciato dalle terribili immagini che infestano la sua mente e lamenta la propria condizione di malato, povero ed esule coatto (morbo exilio atque inopia, sostantivi qui equiparabili alle Furie che, proverbialmente nel numero di tre, lo perseguitano24); egli è contaminato e per questo motivo deve tenersi lontano dai santuari, dalle piazze e da qualunque luogo di raduno sociale, smettendo di prender parte a tutto ciò che costituisce la vita socio‑politica di un cittadino. Tutto ciò, oltre naturalmente alla follia che lo assale, è fonte di tormento (cruciatum et necem), e la paura è caratterizzata dal tipico pallore exalbescat( metu). La migliore caratterizzazione della follia, non solo di questa tragedia ma di tutta la letteratura tragica frammentaria sia per la forma che per la precisione delle descrizioni, è però nel frammento che segue, ove è ancora Alcmeone a parlare:

Enn. TrRF II F 13, 2‑10 = trag. 25‑31 R.3 (Alcumeo).

unde haec flamma oritur?

Incedunt incedunt adsunt, me expetunt.

Fer mi auxilium, pestem abige a me, flammiferam hanc vim, quae me excruciat; caeruleae incinctae igni incedunt, circumstant cum ardentibus taedis.

23 Nel caso dell’Alcumeo enniano riporto in nota anche alcuni dei passi ciceroniani che tramandano i frammenti, in quanto utili ai fini dell’indagine. In Cic. de orat. 3, 217‑ 219 sono evidenziati i toni con cui le parole di Alcmeone sono pronunciate: aliud (scil. vocis genus sibi sumat) metus, demissum et haesitans et abiectum: ‘multis… metu’ («diverso sarà il tono della paura, basso, esitante, avvilito…» [trad. NARDUCCI 2001, 731]). In Cic. Tusc. 4, 18‑19 sono elencate le varie passioni che contraddistin‑ guono il passo enniano in esame: quae autem subiecta sunt sub metum, ea sic definiunt: pigritiam…, terrorem…, timorem…, pavorem metum mentem loco moventem (ex quo illud Enni: ‘tum pavor… expectorat’), exanimationem…, conturbationem…, formidinem («per quanto riguarda le passioni che rientrano nell’ambito della paura, le definizioni sono le seguenti: pigrizia… terrore… timore… Lo spavento è la paura che fa uscire di senno, come risulta dal passo di Ennio: …, smarrimento… sconvolgimento… ansia…» [trad. NARDUCCI 2000, 374‑375]). 24 La suggestione è di JOCELYN 1967, 191. 296 Marco Filippi

Intendit crinitus Apollo arcum auratum luna innixus, Diana facem iacit a laeva.

Da dove viene fuori questa fiamma? Avanzano, avanzano; sono qui, si rivolgono verso di me. … Aiutami, allontana da me questo male, questa forza portatrice di fiamma che mi tortura. Avanzano cerulee cinte di fuoco (o «avanzano cinte di serpenti cerulei» se si accoglie nel testo la correzione caeruleo angui), mi circondano con le fiaccole ardenti. … Apollo chiomato tende il suo arco d’oro appoggiato alla luna (?)25, Diana getta una fiaccola da sinistra26.

v. 2. incedunt incedunt Ribb.1: incede incede vel incaede incaede vel in caede in caede vel incaede in caede (vel sim.) codd. (incede incede prob. Vahlen 1887‑ 1888 = 1907, 380; 383) // v. 4. caeruleae codd. plerr.: caerulea cett. codd., caeruleo Columna in app. // igni codd.: angui Columna in app. // v. 8. luna innixus codd.: lunata micans vel luna nictans Ribb.2, Coroll. XVIII, lunat nixus Bergk 1874 = 1884, 352, alii alia.

Anche qui, come in parte si è già visto, è possibile evidenziare gli elementi che ricorrono nelle descrizioni degli attacchi di follia, come la loro repentinità (messa in luce dall’uso del verbo oritur) e l’agitazione che provocano nel soggetto (riflessa nell’uso degli asindeti al v. 3 e nella cadenza del metro anapestico ai vv. 4‑10), o anche la presenza costante dell’elemento igneo, con lessico pure affine, se non identico, a quello di altri esempi già esaminati (v. 2 flamma; v. 5 flammiferam… vim; v. 6 igni; v. 7 ardentibus taedis; v. 10 facem). Anche qui, come nel frammento precedente,

25 Secondo VAHLEN 1887‑1888 (= 1907, 380) Apollo tende l’arco in modo che la luna, cioè la curvatura dell’arco, si tenda in modo che le corna siano più unite, ma l’espressione risulta tuttora alquanto oscura. 26 Cf. Cic. acad. 2, 89 quid loquar de insanis: …; quid ipse Alcmeo tuus, qui negat ‘cor sibi cum oculis consentire’, nonne ibidem incitato furore ‘unde… oritur’ et illa deinceps ‘incede… expetunt’; quid cum virginis fidem implorat: ‘fer… taedis’, num dubitas quin sibi haec videre videatur? Itemque cetera ‘intendit… laeva’: qui magis haec crederet si essent quam credebat quia videbantur; apparet enim iam ‘cor cum oculis consentire’ («che dirò dei pazzi? … il tuo stesso Alcmeone, che nega che ‘il suo cuore consenta coi suoi occhi’, forse non grida nello stesso luogo per un furore concitato ‘da dove viene fuori questa fiamma?’ e quindi ancora ‘vengono… si rivolgono verso di me…’; e che, quando implora la pietà della figlia: ‘aiutami… con le fiaccole ardenti’, forse dubiti che non gli sembri di vedere queste cose? E allo stesso modo il resto ‘Apollo chiomato… da sinistra’: chi crederebbe più a queste cose se fossero vere rispetto a quello che vi credeva poiché gli sembravano vere; appare infatti ormai che ‘il suo cuore consentiva con gli occhi’»). Il tema della follia nella tragedia latina frammentaria 297 torna il lessico del tormento (v. 5 excruciat ~ Enn. TrRF II F 12 cruciatum) e, in particolare, il riferimento alle «torce ardenti» (v. 7), che ricorda la fax obvoluta… incendio dell’Alexander, e che tornerà più volte anche al di fuori del genere tragico ma sempre a richiamare contesti di follia27. Se istituire un confronto diretto tra questi frammenti dell’Alcumeo enniano e alcuni frammenti dei drammi greci su Alcmeone (l’Alcmeone di Sofocle e i due Alcmeone di Euripide, per non parlare dei drammi omonimi dei tragici greci minori) è arduo per vari motivi, come lo stato frammentario e l’esiguità di questi testi e la complessa questione, tutta euripidea, dell’identificazione e distinzione delle trame dell’Alcmeone a Psofide e dell’Alcmeone a Corinto e del possibile inserimento dell’episodio di follia in uno dei due, merito di Medda è stato, di recente, quello di istituire dei paralleli con alcuni passi sull’episodio di follia di Oreste nell’Oreste euripideo, a dimostrazione, ancora una volta, del fatto che le vicende dei due eroi sono affini e che Ennio, anche in questo caso, ha tenuto presente come principale modello di riferimento Euripide28:

27 Cf. Cic. Rosc. Am. 67 nolite enim putare, quemadmodum in fabulis saepenumero videtis, eos, qui aliquid impie scelerateque commiserunt, agitari et perterreri Furiarum taedis ardentibus. Sua quemque fraus et suus terror maxime vexat, suum quemque scelus agitat amentiaque adficit, suae malae cogitationes conscientiaeque animi terrent; hae sunt impiis assiduae domesticaeque Furiae quae dies noctesque parentium poenas a consceleratissimis filiis repetant («non pensate però che, come vedete spesso nelle tragedie, i protagonisti di empie e scellerate azioni siano veramente perseguitati e terrorizzati dalle fiaccole ardenti delle Furie. Ma ognuno è torturato dal male che ha commesso e dallo spavento che porta dentro di sé, ognuno è tenuto in folle agitazione dal sangue che ha versato ed è ossessionato dalla sua follia, ognuno si sente inseguito e atterrito dai suoi tristi pensieri e dai suoi rimorsi. Queste sono per gli empi le Furie che non li abbandonano mai e vivono dentro di loro, e sempre, giorno e notte, domandano ai figli giunti al fondo della scelleratezza l’espiazione del sangue di chi li ha generati» [trad. LONGI 1964, 198; 200]); leg. 1, 40 sed eos agitant insectanturque Furiae, non ardentibus taedis sicut in fabulis, sed angore conscientiae fraudisque cruciatu («ma li perseguitano e li incalzano le Furie, non già con fiaccole ardenti come nelle tragedie, ma con i rimorsi della coscienza e il tormento della colpa»); Pis. 46‑47 nolite enim ita putare, patres conscripti, ut in scaena videtis, homines consceleratos impulsu deorum terreri furialibus taedis ardentibus; sua quemque fraus, suum facinus, suum scelus, sua audacia de sanitate ac mente deturbat; hae sunt impiorum Furiae, hae flammae, hae faces. Ego te non vaecordem, non furiosum, non mente captum, non tragico illo Oreste aut Athamante dementiorem putem… («non vogliate ritenere infatti, senatori, così come vedete in scena, che gli uomini scellerati su impulso degli dei siano atterriti dalle fiaccole ardenti delle Furie; la loro colpa, il loro crimine, la loro empietà, la loro audacia li distolgono dalla sanità mentale; queste sono le Furie degli empi, queste le fiamme, queste le fiaccole. Io non riterrei te pazzo, non furioso, non fuori di testa, non più stupido di quel famoso tragico Oreste o Atamante…»). 28 Cf. MEDDA 2004, 68‑73. 298 Marco Filippi

E. Or. 255‑257

ὦ μῆτερ, ἱκετεύω σε, μὴ’πίσειέ μοι τὰς αἱματωποὺς καὶ δρακοντώδεις κόρας. Αὗται γὰρ αὗται πλησίον θρῴσκουσί μου

Madre, ti supplico, non aizzarmi contro le vergini dall’aspetto di serpi e dallo sguardo iniettato di sangue! Eccole, eccole, mi balzano accanto!

E. Or. 260‑261

ὦ Φοῖβ’, ἀποκτενοῦσί μ’αἱ κυνώπιδες γοργῶπες, ἐνέρων ἱέρεαι, δειναὶ θεαί.

O Febo, mi ammazzeranno, le dee terribili dal volto di cagne, dallo sguardo tremendo, le sacerdotesse dei morti!

E. Or. 268‑270

Δὸς τόξα μοι κερουλκά, δῶρα Λοξίου, οἷς μ’εἶπ’Ἀπόλλων ἐξαμύνασθαι θεάς, εἴ μ’ἐκφοβοῖεν μανιάσιν λυσσήμασιν.

Dammi l’arco di corno, dono del Lossia, col quale Apollo mi disse di difendermi dalle dee se mi avessero terrorizzato con deliranti accessi di follia29.

***

29 Qui e precedentemente trad. it. MEDDA 2004, 175‑177. Cf. anche Schiller, Die Jungfrau von Orléans, Act. II, sc. 6 «wohin entrinn’ich? Schon ergreift sie mich mit ihren Feueraugen!» («dove fuggo? Già mi afferrano con i loro occhi di fuoco!»). È infine curioso constatare come nel J‑Horror affermatosi a partire dalla fine degli anni Novanta con prodotti quali Ring e Ju‑On la caratterizzazione nipponica dell’Erinni abbia notevoli corrispondenze con quella greco‑latina; nel caso di Ju‑On, ad esempio, a seguito di un uxoricidio e di un infanticidio i fantasmi di donna e bimbo, novelle Erinni, imperversano e contaminano coloro che vengono a contatto con il luogo dell’assassinio. Essi sono raffigurati con capelli lunghi, occhi pieni di sangue, colorito diafano, sguardo e membra distorti, ed emanano lamenti raccapriccianti; le loro vittime muoiono o impazziscono. Il tema della follia nella tragedia latina frammentaria 299

Il discorso potrebbe continuare, e a lungo, poiché non mancano esempi di follia che esulino da ogni tentativo di classificazione finora proposto e il cui elemento comune non consista che nella sua mera origine divina. Posso accennare, ad esempio, a quello, caratterizzato dall’ira, di Aiace fatto impazzire da Minerva a seguito del verdetto per l’assegnazione delle armi di Achille:

Acc. trag. 156 R.3 (Armorum iudicium).

Bene facis: sed nunc quid subiti mihi febris civit mali?

Fai bene; ma ora la febbre che sorta di male mi ha provocato?

Enn. TrRF II F 9 (Aiax) = inc. fab. 336‑337 R.3

lumen – iubarne? – in caelo cerno

Una luce – forse l’alba? – vedo nel cielo.

Pacuv. inc. fab. 382 R.3 (Armorum iudicium?)

voce suppressa, striato fronte, voltu turgido

Con voce sommessa, fronte solcata dalle rughe, volto gonfio.

TrRF I inc. F 21 = inc. inc. trag. 47‑48 R.3 (Armorum iudicium di Accio?)

Video te, video: vive, Ulixes, dum licet; oculis postremum lumen radiatum rape!

Ti vedo, ti vedo; vivi, Ulisse, finché è lecito; cattura con lo sguardo l’ultimo raggio di luce!30.

30 Un dubbio caso di frammento di follia dettata dall’ira è anche Enn. inc. 18 V.2 citato da Cic. Tusc. 4, 52 an est quicquam similius insaniae quam ira? Quam bene Ennius initium dixit insaniae («c’è forse qualcosa di più simile alla follia dell’ira? Essa, come dice Ennio, è inizio di follia [trad. NARDUCCI 2000, 407]»). Per motivi metrici è improbabile si tratti di un’espressione scandibile in esametri, mentre è probabile che ira, initium insaniae sia clausola trocaica o giambica e quindi costituisca parte di un verso tragico; cf. TIMPANARO 1948, 12. 300 Marco Filippi

Oppure a quello, caratterizzato da un furor freddo e determinato, di Atreo nei confronti del fratello Tieste, causato, secondo una delle numerose varianti del mito, dalla maledizione incombente su entrambi a causa dell’uccisione dell’auriga Mirtilo, figlio di Mercurio, perpetrata dal loro padre, Pelope:

Acc. trag. 199‑202 R.3 (Atreus).

Iterum Thyestes Atreum adtractatum advenit, iterum iam adgreditur me et quietum exsuscitat: maior mihi moles, maius miscendumst malum, qui illius acerbum cor contundam et comprimam.

Di nuovo Tieste è venuto ad attaccare Atreo, di nuovo già mi attacca e mi provoca, mentre sono tranquillo. Un peso più grande, un male maggiore si deve progettare, affinché io colpisca e schiacci il suo cuore crudele.

~ E. Or. 11‑14.

οὗτος (scil. Tantalus) φυτεύει Πέλοπα, τοῦ δ’Ἀτρεὺς ἔφυ ᾧ στέμματα ξήνασ’ἐπέκλωσεν θεὰ Ἔρις Θυέστῃ πόλεμον ὄντι συγγόνῳ θέσθαι.

Costui (scil. Tantalo) generò Pelope, e da Pelope nacque Atreo, cui la dea Discordia, filando i bioccoli di lana, assegnò il destino di combattere Tieste, suo fratello31.

Var. TrRF I F 1 = trag. 1‑2 R.3 (Thyestes)

… iam fero infandissima, iam facere cogor32.

Ormai porto cose abominevoli, ormai sono spinto a compierle.

31 Trad. MEDDA 2004, 147. 32 Cf. assieme ai passi sopra riportati, e per ragioni strettamente lessicali, Acc.trag . 450 R.3 (Meleager) heu! Cor ira fervit caecum, amentia rapior ferorque («ahimè! Il cuore arde accecato dall’ira, sono preso e trascinato dalla follia»). Il tema della follia nella tragedia latina frammentaria 301

5. La follia simulata

Oltre ai casi di follia reali, è stato rilevato anche, nel mito, almeno un caso di follia simulata (o Schwachsinn)33. Si tratta dell’episodio di Ulisse che si finge pazzo per non essere costretto a partecipare alla guerra di Troia, salvo poi essere smascherato da un altro personaggio parimenti astuto, Palamede, sul quale in seguito, proprio per questo motivo, si vendicherà34. Ulisse, l’uomo razionale κατ’ἐξοχήν, è dunque l’unico che può opporsi simbolicamente e di fatto alla follia in quanto irrazionalità, e addirittura farsi beffe di essa35. Un accenno alla vicenda lo abbiamo anche nella tragedia latina:

TrRF I inc. F 82 = inc. inc. trag. 55‑60 R.3 (Armorum iudicium di Pacuvio? Di Accio?).

Cuius ipse princeps iuris iurandi fuit, quod omnes scitis, solus neglexit fidem. Furere adsimulare, ne coiret, institit. Quod ni Palamedi perspicax prudentia istius percepset malitiosam audaciam, fide sacratae ius perpetuo falleret.

Egli solo, com’è noto, non tenne fede a quel giuramento, di cui era stato il promotore. Finse di essere pazzo e decise di non unirsi a noi: e se Palamede con la sua acutezza non ne avesse compresa la maliziosa audacia, costui avrebbe per sempre eluso il sacro vincolo del giuramento36.

L’esistenza stessa di questo riferimento è la dimostrazione del fatto che anche i Latini conoscevano questa versione del mito e ne facevano uso, magari qui di passaggio all’interno della contesa «a colpi di retorica» tra Ulisse e Aiace.

33 Cf. MATTES 1970 e GUIDORIZZI 2010. 34 La vicenda è presente, oltre che diffusamente nella letteratura greca, forse anche in uno dei drammi tragici intitolati a Palamede, di cui sono pervenuti solo frammenti. 35 Non è un caso quanto scrive Erasmo, Elogio della Follia 35 (e si badi che è la Follia a parlare!): «Omero… mentre di continuo dice gli uomini miseri e travagliati, e a più riprese chiama infelice Ulisse con la sua proverbiale avvedutezza, non usa mai questo termine parlando di Paride, o di Aiace, o di Achille. Perché mai? Soltanto perché quell’astuto inventore di trucchi agiva solo sotto la spinta di Pallade e, quanto mai sordo a ogni richiamo della natura, era tutto cervello» (traduzione di ARING 1992, 53). 36 Trad. NARDUCCI 2001b, 399. 302 Marco Filippi

L’altro celebre esempio tragico di follia simulata, a tutti noto, è quello dell’Amleto shakespeariano, che si finge pazzo per vendicarsi dell’assassi ‑ nio di suo padre da parte di suo zio. Ma, ai fini del nostro discorso, colpisce la notevole presenza di un altro caso di follia simulata, tanto più interessante in quanto, stavolta, esclusivamente romano e quindi sfuggito finora alla critica che si è occupata dell’argomento oggetto del presente studio; si tratta del caso di Bruto, la cui vicenda è simile ancor più a quella di Amleto che non a quella di Ulisse ed è probabile fonte d’ispirazione per il dramma inglese. Bruto si finge pazzo (brutus, aggettivo con il significato di «stupido», è qui nome parlante) per spodestare Tarquinio il Superbo e fondare la Repubblica:

Acc. praet. 29‑38 R.3 (Brutus)

Rex, quae in vita usurpant homines, cogitant curant vident, quaeque agunt vigilantes agitantque, ea si cui in somno accidunt, minus mirum est, sed di rem tantam haut temere inproviso offerunt. Proin vide, ne quem tu esse hebetem deputes aeque ac pecus, is sapientia munitum pectus egregie gerat teque regno expellat: nam id quod de sole ostentum est tibi, populo commutationem rerum portendit fore perpropinquam. Haec bene verruncent populo! Nam quod dexterum cepit cursum ab laeva signum praepotens, pulcherrume auguratum est rem Romanam publicam summam fore.

O re, le cose che nella vita gli uomini sogliono fare, le cose che pensano, curano, vedono, e che da svegli compiono e alle quali s’affaccendano, non c’è da meravigliarsi se accadono a qualcuno in sogno; ma in una circostanza così straordinaria non senza motivo le visioni si presentano. Sta’ dunque attento, che colui che tu stimi sciocco al pari di una bestia, non abbia una mente munita di ingegno, al di sopra del gregge, e non ti sbalzi dal trono. Ché quello che ti è apparso riguardo al sole dimostra che avverrà per il popolo un mutamento assai vicino nel tempo. Possa tutto ciò volgersi in bene per il popolo! Il fatto che l’astro più potente abbia intrapreso il suo corso verso destra da sinistra è un faustissimo augurio che lo Stato romano sarà eccelso!37

Inutile ricordare, tra l’altro, quanto quest’episodio debba esser caro alla memoria dei Romani di ogni tempo.

37 Trad. TIMPANARO 2001, 39. Il tema della follia nella tragedia latina frammentaria 303

Bibliografia

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Tieste dimenticato. Nuove possibilità per il teatro di Seneca

MARCELLA PETRUCCI (LICEO “UGO FOSCOLO” ALBANO LAZIALE)

«Vi sono storie simili a certi alberi dei quali è necessario conoscere le radici per meglio comprendere la morbosa contorsione dei rami, l’afflusso del sangue nelle foglie, il veleno nella linfa»

Bertrand Tavernier, La passion Béatrice

La lettura in ambito scolastico del teatro senecano si concentra preferibil‑ mente, e direi quasi esclusivamente, su quei drammi, quali la storia di Medea e di Fedra, che consentono un facile richiamo al testo euripideo di riferimento immediato, ma molto dell’opera drammaturgica di Seneca viene abbandonato e trascurato, anche per la formazione scolastica e reto ‑ rica dell’autore che non poco avrebbe influenzato la funzione comunicativa delle sue tragedie. Senza voler in alcun modo entrare nel merito dell’annosa questione intorno all’effettiva natura delle tragedie del filosofo, se fossero state concepite e destinate alla rappresentazione scenica oppure per piccoli auditoria, inaugurando una forma di teatro sperimentale, in questa sede vorrei percorrere l’idea di una rappresentabilità del teatro senecano, in un quadro sicuramente altro rispetto alla prosa morale. Tieste, una fabula scaenica senza luce e senza speranza, per la quale è impossibile recuperare il modello greco, sembra, invece, costruita «con attenzione registica, perché immediatamente teatrale»1. Tieste è una tragedia torbida e raccapricciante. La vicenda come è noto ruota attorno ad una vendetta familiare: Atreo, a cui suo fratello Tieste anni prima aveva sottratto il regno e la moglie, tornato poi in possesso di quanto perduto con l’inganno, uccide crudelmente i nipoti, appunto i figli di Tieste, e imban‑

1 NENCI 2002, 10. 308 Marcella Petrucci disce una tavola con le loro carni per il fratello ignaro, che acquisisce consapevolezza di quanto ha mangiato solo dopo l’orrendo pasto. È una tragedia senza redenzione dove dominano soltanto furia e malvagità. La parola di Seneca, potente e visionaria, esce fuori dagli stretti confini della cornice storica e, parlando un linguaggio che sembra senza tempo, mette in scena passioni umane smisurate e violente. Seneca apparirebbe dunque costruire il suo dramma superando la notoria lotta manichea tra Bene e Male (ratio e furor) poiché la nuova prospettiva del tragico è riconoscere che il Male è un meccanismo che funziona perfettamente. L’universo tragico senecano sembra disegnarsi dunque come un mondo parallelo dove ad animare la scena sono i principia proludentia adfectibus2, ovvero le quasi‑ passioni simulate dagli attori, e dove il Logos sconfitto lascia il posto ad un meccanismo comunque perfettamente razionale. Il Tieste senecano è un dramma che esplora l’abisso della coscienza, si fa teatro dell’inferno, della crudeltà e dell’assurdo, porta sulla scena lo spettacolo del ‘Male Assoluto’ senza redenzione: un’opera moderna e visionaria da confrontare, per tale natura, con molte esperienze teatrali del Novecento. Ci si soffermerà sulla oggettiva presenza inTieste di una forte compo‑ nente visiva spettacolare e sull’assiduo ricorso all’espediente meta‑teatrale. Gli elementi specificamente performativi del Tieste si muovono nella direzione di quello che è già stato definito spettacolo della parola a cui aggiungerei del Male Assoluto. Nelle tragedie di Seneca il dramma è tutto nella parola, come afferma Eliot3, la parola senecana è il centro «è dramma essa stessa e spettacolo, messaggio e commento, assolve a queldocere di chi è si è proposto di iuvare alios, e promuove un movere espressioni sticamente proteso verso immagini suggestionanti»4 che sul versante del macabro, per la necessità di rappresentare un mondo che viene sovvertito e rovesciato, trasgrediscono il ben noto precetto oraziano per cui «non deve cuocere il crudele Atreo umane viscere in pubblico».5 Il teatro come spectaculum, immenso specchio che deforma e moltiplica le immagini dunque, un teatro della crudeltà lo avrebbe definito Antonin Artaud, in cui la deissi ostensiva è insistente e spinge nella direzione di un dire che fa vedere e verso una drammatizzazione oggi che potrebbe essere pensata per grandi quadri scenografici. Dovere del saggio è di trasmettere le verità afferrate traducendo in modo fedele la realtà compresa: il sapiente dovrà trovare dunque un discorso capace di riprodurre le condizioni di

2 Sen. De ira. 2, 2. 3 ELIOT 1932, 65. 4 GAZICH 2000, 95‑96. 5 Hor. Ars. 1, 186 Ne […] humana palam coquat exta nefarius Atreus. Tieste dimenticato. Nuove possibilità per il teatro di Seneca 309 immediatezza e di evidenza, «se fosse possibile, preferirei mostrare più che dire che cosa sento» dice Seneca all’amico Lucilio6. L’analisi e la successiva terapia della passione non possono essere affidate ad astratti precetti, e neanche affidarsi adadhortationes più o meno efficaci, per essere riconosciuti, e quindi controllabili, i processi interiori devono essere fatti vedere: A che giova mostrare l’evidenza? Giova moltissimo7. Dal punto di vista cognitivo ostendere, come l’aristotelico eikòs si richiama alla natura e all’esperienza comune e può indicare anche un acquisto di conoscenza. Atreo ama l’immagine mostruosa di se stesso, ma soprattutto sente il desiderio di avere un pubblico, imagol’ performativa di se stesso richiede un ulteriore soggetto osservante, uno spettatore. E così reclama il nunzio, il quale dice di avere impressa negli occhi l’immagine dell’atto terribile, la trucis imago facti, al coro che chiede di raccontare velocemente in quanto ciò che ha visto ha l’urgenza di essere fatto a sua volta vedere8. Il messaggero, pensando a Tieste e al momento in cui apprenderà il misfatto, sollevato all’idea che le tenebre oscureranno l’atroce misfatto, afferma che tutto si dovrà vedere e che ogni misfatto si svelerà.9 Tra il vedere immediatamente e direttamente le cose e il grado succes ‑ sivo del dirle, Seneca sviluppa un grado ulteriore di comunicazione: un dire che fa vedere data l’urgenza di rappresentare un mondo sconvolto dal male, in cui la ratio è inesistente e che non può essere solo raccontato ma va rappresentato. Gli atroci resoconti di questi personaggi, i dettagli grotteschi ai limiti del ripugnante resi attraverso l’impiego di vocaboli specifici che nulla risparmiano all’immaginazione del lettore/spettatore (brechtiano/cri‑ tico direbbe Marta Nussbaum), aggrediscono letteralmente gli occhi (teste recise, mani strappate), vivificano la visione, conferiscono concretezza al racconto tanto da trasformarlo in azione scenica. Una deissi ostensiva dun ‑ que che fa vedere gli oggetti stessi, i corpi e le membra che li compon gono, affinché sulla scena siano corpi e membra, con una sensibilità tutta moderna che arriva a destrutturare il corpo stesso (Ippolito, Edipo, Eracle, i figli di Medea). Significativo è a questo proposito l’impietoso racconto particolareggiato delle atrocità di cui è autore Atreo nel racconto del messaggero che Seneca spinge oltre la sua funzione originaria, attraverso quel processo di materializzazione delle immagini per cui la parola si trasforma in visione e si sostanzia. Diversa la morte dei figli di Polimestore nell’Ecuba euripidea dove il poeta descrive solo con rapidi tratti la morte

6 Sen. Ep. 75, 1 si fieri posset, quid sentiam ostendere quam loqui mallem. 7 Sen. Ep. 94, 25 Quid prodest aperta monstrare? Plurimum. 8 Sen. Thy. 640 ocius effare. 9 Sen. Thy. 788 tamen videndum est. Tota patefient mala. 310 Marcella Petrucci dei giovani («prese le spade, uccisero i figli»10) indugiando invece sul quadro riconoscibile dall’immaginario collettivo delle assassine come cagne macchiate di sangue e di Polimestore come un cacciatore. È in questo compiere l’immagine che si arriva, a mio avviso, a parlare di codici teatrali più moderni quali la meta teatralità. Atreo, regista si è detto, aggiungerei attore e ancor più spettatore, ama l’immagine mostruosa di se stesso in azione e vuole, a sua volta, vedere il macabro spectaculum, («non voglio vederlo quando sarà già infelice, ma mentre diventa infelice»11 – dice di suo fratello) così come il nunzio che vede – racconta – e fa vedere. Sorprende l’attenzione di Seneca per il comportamento, le espressioni facciali: icastica e propria di un espressionismo pittorico alla Munch la bocca di Tantalo vuota12, spalancata13, che comprime le labbra14 e Tantalo che volge lo sguardo15 o trattiene la fame nei denti serrati16, o poggia il volto sulla mano sinistra dopo il pasto che compie Tieste; ancora espressivi sono i movimenti del corpo dei singoli personaggi: Tantalo dapprima sta in piedi17, agita poi a vuoto le mani18 e si drizza cercando con la bocca le onde che gli vengono incontro19; Tieste incede riluttante20, le sue membra vacillano21, esorta il figlio a procedere con passo sicuro22; significativo il corpo rigido per lo spavento del messaggero23; terribili infine gli effetti fonici nel racconto dell’orrendo pasto narrato dal messaggero, per cui sembra di udire il moto dei denti e delle mandibole24, o il rotolare a terra del capo di uno dei figli25. Lo spettatore di teatro viene turbato e solo la ratio potrà correggere le passioni negative e i giudizi che stanno alla loro base. Bisognerà abbandonare il teatro e passare alla filosofia, lasciare la poesia e dedicarsi alla prosa filosofica.

10 E. Hec. 1162. 11 Sen. Thy. 907 Miserum videre nolo, sed dum fit miser. 12 Sen. Thy. 152 vacuo gutture. 13 Sen. Thy. 157 patulis hiatibus. 14 Sen. Thy. 160 ora comprimit. 15 Sen. Thy. 160 obliquat oculos 16 Sen. Thy. 161 inclusis dentibus. 17 Sen. Thy. 151 stat lassus. 18 Sen. Thy. 165 irritas / exercere manus. 19 Sen. Thy. 172 fluctus ore petens. 20 Sen. Thy. 420 moveo nolentem gradum. 21 Sen. Thy. 436 labant. 22 Sen. Thy. 490 non dubio gradu. 23 Sen. Thy. 634‑635 metu corpus rigens / remittet artus. 24 Sen. Thy. 778‑779 lancinat natos pater / artusque mandit ore funesto suos; isolato in incipit 911 Eructat. 25 Sen. Thy. 728‑729 truncus in pronum ruit / querulum cucurrit murmure incerto caput. Tieste dimenticato. Nuove possibilità per il teatro di Seneca 311

La natura sconvolta in Tieste, così come in altre tragedie senecane, si offre anche essa come spectaculum. Affreschi sconvolgenti, manifestazione di una natura pericolosa ed ambigua che nasconde ma anche come natura che subisce la violenza dell’uomo. In una parola i luoghi scenici diventano essi stessi luoghi simbolici del mondo emotivo. A sconvolgere lo spettatore non è solo la natura rovesciata ma anche il lugubre banchetto, la ultrix daps. Ancora un rovesciamento spettacolare: nella topica simposiaca l’atto di mangiare e il momento conviviale del bere insieme sono un mezzo per consolidare lo spirito di gruppo dei suoi membri. Qui invece Atreo sfrutta la riconciliazione per la sua vendetta e definitiva rottura. Questa mensa, di cui Atreo non è il magister convivii ma uno spectator che divora cibi e gusta la vendetta, èultrix . Antonin Artaud il 16 dicembre 1932, in una lettera a Jean Paulhan scriveva:

Caro amico, sto leggendo Seneca; mi sembra una follia che sia possibile confonderlo con il moralista di non so quale tiranno della decadenza […] Chiunque sia questi mi sembra il maggior poeta tragico della storia, un iniziato ai Misteri e che ha saputo trasfonderli in parola meglio di Eschilo. Piango leggendo il suo teatro ispirato, e sotto la lettera delle sillabe sento crepitare nel modo più atroce il ribollire trasparente delle forze del caos. Non è possibile trovare nessun esempio scritto più efficace di tutte le tragedie di Seneca per mostrare ciò che si può intendere per crudeltà in teatro, soprattutto nei personaggi di Atreo e Tieste.

Grande attrazione esercitò su Antonin Artaud il teatro senecano, ma ancora più che l’influsso di Seneca su Artaud è ravvisabile nella vita drammatica di quest’ultimo, che Fumaroli considera un eroe di Seneca: «il vit, il écrit et il parle come si sa biographie tout entière était un rôle sénéquien»26. Artaud aveva scritto ’Atreol e Tieste (divenuto poi Il supplizio di Tantalo), un testo mai rappresentato, ispirato al Tieste di Seneca che il regista Luigi Squarzina mise in scena nel 1953 e definì «uno spettacolo dimenticato ma fondamentale» soprattutto perché per la prima volta si era tentato di fare un teatro crudele, alla Artaud. In una lettera inviata a Jean Luis Barrault (6 luglio 1934) Artaud annunciava la messa in scena del testo Atreo e Tieste, con un adattamento ed un allestimento che ne intendevano fare un’opera di estrema attualità. Ma l’opera non fu mai allestita. Sorprende la somiglianza con I Cenci di Artaud, messa in scena al Théâtre des Folies. Il conte Cenci, colpevole di un delitto, riesce ad ottenere dal papa

26 FUMAROLI 1975. 312 Marcella Petrucci l’impunità per intercessione del cardinale Camillo. Travolto dal Male, però, e per nulla proiettato verso la redenzione, il conte esulta per la morte di due dei figli, violenta la figlia Beatrice da cui, con la complicità di alcuni sicari, verrà assassinato. Colpisce la somiglianza fra i due drammi soprattutto l’incipit e l’episodio del banchetto. Proviamo a leggere la scena del banchetto neI Cenci di Artaud; numerose sono le somiglianze sia nella costruzione dell’episodio stesso, sia nel linguaggio. Siamo nella scena terza. Il Conte Cenci, riuscito ad evitare il carcere per un omicidio, grazie all’intervento del cardinale Camillo, ha organizzato un ricevimento nel corso del quale dimostrerà la sua natura orrendamente votata alle forze del Male: di fronte agli invitati esterrefatti annuncia la morte di due dei propri figli disobbedienti e ribelli27. Le parole della figlia Beatrice, sgomenta e incredula, sembrano riecheggiare quelle di Tieste che invoca le forze cosmiche e le interroga su un delitto così efferato:

BEATRICE: Si sarebbero già squarciati i cieli, se non fosse una menzogna. Non si può sfidare così impunemente la giustizia divina.

Analogo adynaton aveva espresso il coro dei Micenei nella tragedia senecana: i demoni si risvegliano, il sole si nasconde atterrito, le stelle non vogliono sorgere, lo zodiaco è impazzito28. E il Conte Cenci, allo stesso modo di Atreo che chiamava come testimoni gli dei protettori dei vincoli matrimoniali violati dal fratello, esclama con un adynaton:

CENCI: Mi piombi sulla testa la folgore divina se dico il falso. La giustizia che invochi, vedrai, è dalla mia parte.

E di nuovo come Atreo chiede un brindisi con quel vino orrendo dal sapore di sangue umano

CENCI: Chi può dunque impedirmi di credere che sto bevendo il sangue dei miei figli?29

L’esordio del Tieste è spettrale, come quello deI Cenci di Artaud. Paesaggi da incubo e delirio fanno da scenario inquietante di numerose tragedie senecane: la cima del polo glaciale nell’Herculens furens, il Citerone dalle cime scoscese nelle Phoenissae, il caos dell’eterna notte in Medea, le selve

27 A. Artaud, I Cenci, Atto secondo, scena terza (in ARCHIM 1993). 28 Sen. Thy. 789‑884. 29 Qui e sopra A. Artaud, I Cenci, Atto secondo, scena terza. Tieste dimenticato. Nuove possibilità per il teatro di Seneca 313 ombrose e gli alti gioghi del monte attico nella Phaedra, la luna che sorge mesta in Oedipus, gli spazi tenebrosi di Dite infernale e la profonda spelonca del Tartaro in Agamemnon, prossimi al teatro e al cinema visionario del Novecento30. E visionario fino alla follia fu Artaud. Di fronte allo scempio di Atreo gli dei fuggono, dice Tieste. La natura impallidisce, è rimasto solo un albero nudo. Sotto un albero secco e spoglio Vladimiro ed Estragone attendono Godot. Pallescit omnis arbor ac nudus stetit31 dice la Furia nel dialogo con l’ombra di Tantalo. Forse anche nella tragedia di Seneca si attendeva Godot?

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30 Significativa è a tale proposito la Medea per la regia di Lars Von Trier andato in onda per la tv danese nel 1988. Lars von Trier elimina il coro dalla scena e sposta l’ambientazione dalla Grecia al paesaggio brumoso del nord Europa, con particolare attenzione all’elemento acquatico. L’infanticidio viene realizzato con una conturbante forza drammatica: la sequenza inizia con un’inquadratura spettrale; Medea trasporta su un carro i due figli, come se stesse arando la terra, e raggiunge alla fine un albero isolato al centro di uno sconfinato campo di grano, su cui splende una luna sinistra. Ai due lunghi rami impiccherà i due bambini. Spettrale è anche l’albero di Tantalo nel Tieste senecano. 31 Sen. Thy. 1110.

La Medea di Osidio Geta, dramma centonario: damnatio memoriae di una tragedia fuori dagli schemi

MARIA TERESA GALLI (UNIVERSITÀ CATTOLICA DEL SACRO CUORE DI MILANO)

1. Introduzione

Non più lontano del 1982, la Medea di Osidio Geta, dramma composto assemblando emistichi virgiliani, veniva deliberatamente esclusa da Shackleton Bailey dalla sua edizione teubneriana dell’Anthologia Latina insieme all’intera silloge centonaria con cui essa è tràdita. Opprobria litterarum, «vergogna della letteratura»: questa la definizione – ormai celeberrima – con cui lo studioso nella Praefatio decretava la condanna dei centoni virgiliani1.

Centones Vergiliani (Riese 7‑18), opprobria litterarum, neque ope critica multum indigent neque is sum qui vati reverendo denuo haec edendo contumeliam imponere sustineam.

I centoni virgiliani (Riese 7‑8), vergogna della letteratura, né necessitano molto di assistenza critica, né sono io tale da sopportare di arrecare offesa al vate reverendo [scil. Virgilio] pubblicando di nuovo questi testi.

Un giudizio gravoso, questo, ma certamente non nuovo, che affondava anzi le proprie radici in secoli e secoli di avversione nei confronti di questi particolari testi, prolungandone così una damnatio memoriae che perdurava ormai da tempo memorabile. Ma perché così tanta ostilità verso questi curiosi componimenti? Partendo da questo interrogativo, dopo una breve presentazione del testo di Osidio Geta, il presente contributo si propone in un primo momento di ripercorrere le motivazioni che hanno condotto a un suo simile clamoroso rifiuto, e successivamente di indagare le possibili ragio ‑ ni a monte del cambio di tendenza che si è verificato a partire dagli anni ’80‑’90 del secolo scorso. Infine, si cercherà di mostrare come proprio la

1 SHACKLETON BAILEY 1982, iii. 316 Maria Teresa Galli tecnica centonaria, che ha costituito a lungo la principale ragione della diffidenza nei confronti di questo dramma, ne possa costituire in realtà un punto di forza.

2. La Medea di Osidio Geta

Tra tutti i centoni virgiliani a noi giunti, laMedea di Osidio Geta è l’unico in forma di tragedia e il più antico2; secondo una testimonianza di Tertulliano3 – l’unica, tra l’altro, che ci permette di ricostruire, seppure in forma congetturale, il nome dell’autore – esso infatti risalirebbe circa al 200 d.C., mentre il culmine della produzione centonaria tardoantica si colloca presumibilmente nel V secolo d.C. Il segmento del mito riguardante la donna della Colchide che Osidio Geta sviluppa nella sua opera non è dissimile da quello preso in considerazione prima di lui da Euripide e da Seneca nei rispettivi drammi: dall’abbandono di Medea da parte di Giasone fino alla conclusione della vendetta compiuta dall’eroina, coronata dall’uccisione dei due figli. Nel testo si distinguono delle parti caratterizzate da esametri interi, e altre costituite invece da metà esametro, solitamente identificate le une come scene e le altre come cori, per un totale di sette scene più il prologo e tre cori. Da un punto di vista strutturale, mentre non emergono particolari punti di contatto con il testo euripideo, sono eclatanti le somiglianze con quello senecano, in cui già il Burman4 identificò infatti il modello letterario seguito dall’autore, pur con alcune differenze e innovazioni; su queste ultime non ci si dilungherà in questa sede, ma si accennerà almeno al fatto che Geta per esempio aggiunge dei personaggi non presenti in Seneca, quali il

2 Per una più ampia e dettagliata presentazione dell’opera si rinvia a SALANITRO 1981, LAMACCHIA 1981 e GALLI 2017. Per ulteriore bibliografia recente sui centoni virgiliani, e pluribus si vedano BAŽIL 2009, PAOLUCCI 2015, AUDANO 2014, GALLI 2014. Sull’Anthologia Latina si vedano i numerosi lavori di Loriano Zurli, tra cui ZURLI 2004, 2005 e 2010. 3 Praescr. 39, 3‑4: vides hodie ex Virgilio fabulam in totum aliam componi, materia secundum versus et versibus secundum materiam concinnatis. Denique Hosidius Geta Medeam tragoediam ex Virgilio plenissime exsuxit («vedi che oggi viene composto, (traendolo) da Virgilio, un dramma totalmente diverso, essendo stata disposta la materia secondo i versi, e i versi secondo la materia. In breve, Osidio Geta ha ricavato la tragedia Medea interamente da Virgilio»). 4 Cf. BURMAN 1759, 149‑150. La Medea di Osidio Geta, dramma centonario 317

Satelles di Giasone e l’ombra di Absirto che prende la parola per istigare la sorella all’infanticidio, e inoltre distribuisce diversamente alcuni fatti, come l’uccisione dei due figli. Tuttavia, ciò che rende quest’opera diversa dal suo celebre antecedente, è senz’altro la particolare tecnica compositiva con cui essa è stata ideata. Per illustrarla in modo efficace, si è ricorsi via via a vari paragoni: Ausonio, primo e unico centonatore della tarda antichità che accompagna la sua opera, il Cento nuptialis, ad una trattazione teorica, ricorre alla similitudine con lo stomachion, un gioco non dissimile dal moderno tangram, che rende l’idea della realizzazione di immagini diverse pur utilizzando sempre le stesse tessere5. Più di recente, la tecnica centonaria è stata paragonata a quella musiva, o ancora a quella del puzzle. Infine, Scott McGill, nel suo saggio Virgil Recomposed6, è ricorso più volte all’immagine del patchwork, rifacendosi così all’arte del cucito: una similitudine, quest’ultima, che ha avuto particolare fortuna, anche perché conserva la metafora ‘sartoriale’ insita nella parola cento una volta trasferita in àmbito letterario. All’interno della grande messe di testi che, a vario titolo, e talvolta a piena ragione talvolta meno, sono stati via via identificati come centoni, l’opera di Geta è definibile come un centone stricto sensu. Naturalmente non è possibile compiere una distinzione fra centoni in senso stretto e centoni in senso lato che sia netta e applicabile a tutti i casi: a questo proposito mancano, infatti, delle norme precise, fatte salve quelle di Ausonio, che tuttavia intendeva riferirsi al proprio testo, e che dunque devono essere applicate con cautela agli altri patchwork poems. Inoltre, anche prendendo queste come punto di riferimento, ci si rende conto che la realtà è molto più variegata, e i dubbi che sorgono non sono pochi. Tuttavia, si può ragionevolmente parlare di centone stricto sensu quando siamo in presenza di un testo composto esclusivamente agglutinando segmenti tratti da un unico modello, senza l’aggiunta di parti scritte dall’autore, e senza che le fonti subiscano mutamenti sostanziali. Sembra più congruo parlare invece di centoni lato sensu nei casi in cui le fonti combinate provengano non da uno bensì da più auctores, e il patchwork poet modifichi fortemente la facies originaria di tali fonti e aggiunga inoltre parti scritte di proprio pugno. Il testo di Geta si può ragionevolmente ricondurre alla prima delle due grandi categorie, dal momento che l’autore da cui vengono tratti i verba è unicamente Virgilio e le fonti non vengono mai modificate in modo sostanziale. Si registrano infatti solo adattamenti di scarso rilievo, come ad

5 Aus. cento, praef. 6 MCGILL 2005, passim. 318 Maria Teresa Galli esempio un singolare anziché un plurale (es.: 354, iram7 anziché il virgiliano iras8), un caso sostituito con un altro (es.: 330 casiaque crocoque rubenti in luogo del virgiliano casiamque crocumque rubentem9) o un nome proprio inadatto al nuovo contesto rimpiazzato da un’altra parola (es.: 250 l’esclamazione heu per il virgiliano Turne10, inconciliabile con il mito di Medea). Si aggiunge, inoltre, una serie di minuscole modifiche inspiegabili con ragioni grammaticali, metriche e semantiche, la cui origine potrebbe essere dovuta a un lapsus di memoria del centonatore o del copista11. Nessuno di questi cambiamenti, in ogni caso, inficia la riconoscibilità degli emistichi, che costituisce la vera conditio sine qua non del gioco centonario: il lettore infatti, perché il lusus sia efficace, deve essere posto innanzitutto nelle condizioni di riconoscere la fonte. Potrà così notare lo scarto creato dalla collocazione nel nuovo contesto e apprezzare la fitta trama di richiami tra il modello e il centone. In alcuni casi Geta gioca sull’analogia situazionale tra i due testi, ma il suo lavoro è ancor più ingegnoso quando crea un contrasto, ovvero quando le parole della fonte suonano del tutto straniate nella loro nuova collocazione.

3. Le ragioni del rifiuto

Riprendendo ora il quesito iniziale, perché rifiutare un simile testo, fino ad escluderlo dall’edizione dell’Anthologia Latina? Come risulta evidente dalle parole di Shackleton Bailey, la ragione risiede nel fatto che si tratta di un centone. Il seme dell’avversione nei confronti di questo tipo di compo‑ nimento si annida, d’altra parte, già nell’antichità. Lo stesso contesto cui appartiene la testimonianza di Tertulliano, alla quale dobbiamo l’associa‑ zione della nostra Medea, pervenutaci adespota, al nome di Osidio Geta, non lascia dubbi. Nel trentanovesimo capitolo del De praescriptione haereticorum12, l’autore infatti cita l’opera di Geta per disapprovare l’attività di alcuni esegeti della Bibbia che ne riorganizzano i passi in modo disonesto.

7 Le citazioni e le relative traduzioni del testo di Osidio Geta sono tratte da GALLI 2017. 8 Verg. Aen. 7, 445. Le citazioni del testo dell’Eneide sono tratte da ONTEC 2009, mentre quelle delle Bucoliche e delle Georgiche da OTTAVIANO/CONTE 2013. 9 Verg. Geo. 4, 182. 10 Verg. Aen. 7, 421. 11 Per una raccolta e discussione di questi casi e di ulteriori esempi tratti da altri centoni si rinvia a GALLI 2015. 12 Tert. praescr. 39, 4, 7. La Medea di Osidio Geta, dramma centonario 319

La critica nei confronti della tecnica centonaria non è esplicita, anche perché non costituisce il focus del discorso, ma emerge chiaramente grazie al paragone e grazie al contesto generale. D’altra parte anche Ireneo in modo simile stigmatizza l’esegesi selettiva degli Gnostici paragonandola ai centoni omerici13. Il seme del rifiuto per i centoni sembra restare per così dire assopito nel Medioevo, in cui pare tuttavia che la stessa parola cento in senso letterario non venga più capita, tant’è che difficilmente si troveranno in quei secoli degli esemplari definibili come centoni in senso stretto. La prassi centonaria, e con essa l’avversione di molti nei suoi confronti, rifiorisce invece nel Rinascimento14. Tra la fine del 1400 e soprattutto nel 1500, quando la questione della imitatio si ripropone per assumere talvolta toni accesi, il termine ‘centone’ viene utilizzato dagli intellettuali con un’accezione negativa, assai vicina al concetto di plagio. Prova ne è il fatto che Michel de Montaigne (1533‑1592), che nelle proprie opere utilizza qua e là frasi altrui, incastonate more centonario, negli Essais si sente in dovere di specificare che a suo parere la pratica da demonizzare è il plagio, ovvero la citazione ‘rubata’; non è scorretto invece a suo parere ricorrere a citazioni di altri autori, purché si dichiari il proprio prestito. La critica contro l’abuso dei verba altrui, sostiene Montaigne, non deve essere applicata dunque ai suoi scritti, in cui egli incastona delle frasi ideate da altri per spiegare meglio i concetti che vuole esprimere («de ma part il n’est rien qui ie vueille moins faire. Ie ne dis les autres, sinon pour d’autant plus me dire»)15. Si potrebbero aggiungere altri esempi16, ma questi cenni possono già essere indicativi per spiegare l’attitudine negativa che si riscontra verso i centoni tra il 1800 e il 1900 come una sorta di continuazione di un processo già ben consolidatosi nei secoli precedenti. Nel contesto di tale quadro diacronico collocheremo dunque le parole di Domenico Comparetti, che in Virgilio nel Medio Evo sostenne che «l’idea di questi Centoni poteva nascere soltanto fra gente, che avendo meccanicamente appreso Virgilio, non sapeva qual migliore utilità ricavare da tutti quei versi di cui si era ingombrata la mente.»17

13 Iren. adv. Haer. 1, 9, 4; cf. 2, 2, 14. 14 Sui centoni rinascimentali si vedano i numerosi contributi di G. Hugo Tucker, tra cui TUCKER 1977. 15 MONTAIGNE 1595, 81. 16 Si veda per es. lo scarso entusiasmo nei confronti del centone di Proba che traspare dalle parole di Erasmo da Rotterdam in una sua lettera al Canter: cf. ALLEN 1906, 127: Quod ubi lectitare coepi, simulque Probae esse comperi, non me magnopere cepit. 17 COMPARETTI 1937, 64‑65. 320 Maria Teresa Galli

Ricorderemo poi Giorgio Pasquali, che nelle sue Stravaganze quarte e supreme preferì omettere simili testi dicendo: «dei centoni omerici e virgiliani della tarda antichità, esercizi scolastici inferiori, qui vogliamo tacere».18 Analogamente, Françoise Desbordes parlò di «ingéniosité virtuose mais stérile […]. Négation de la création littéraire originale […]. Désolant témoignage de ce que la tête peut faire quand le coeur n’y est pas.»19

4. Le ragioni della ‘riabilitazione’

Ma in che misura tutto ciò è ancora condivisibile? Dopo aver ripercorso le ragioni dell’‘ostracizzazione’ dei centoni, e della Medea di Geta con essi, si analizzeranno ora i motivi che, a partire dagli anni ’80‑’90 del secolo scorso20, hanno portato prima ad una loro riabilitazione, e negli ultimi anni a una particolare fortuna degli studi centonari. Quali sono i punti di interesse offerti da questi componimenti? Il primo degli aspetti cui è stato rivolto lo sguardo consiste nel potenziale contributo portato da tali testi all’esegesi virgiliana, quali testimoni indiretti dell’ipo ‑ testo. L’analisi condotta emistichio per emistichio sui 461 versi dellaMedea e sulle rispettive fonti di questo centone porta ad ogni modo ad essere molto cauti a tale riguardo. Le modifiche cui il testo virgiliano va incontro nei centoni, seppure lievi nei centoni stricto sensu, non si possono tuttavia ignorare. Nella Medea si riscontrano almeno dodici casi in cui il testo di Geta differisce da quello virgiliano senza una ragione per noi ricostruibile21. In molti di questi casi si tratta di slittamenti dal singolare al plurale o viceversa, che potrebbero essere semplicemente imputabili, prima ancora che alla presenza di una variante, ad un errore memonico di un copista o del centonatore. La memoria infatti giocava un ruolo fondamentale nella composizione dei patchwork poems, dunque scambi di questo tipo, come anche la sostituzione di un sostantivo con un suo sinonimo isometrico, possono essere dovuti semplicemente a dei lapsus prima ancora che alla presenza di una variante virgiliana a noi altrimenti ignota, la cui esistenza

18 PASQUALI 1951, 12. 19 DESBORDES 1979, 88. 20 Negli anni ’80, un nuovo impulso agli studi della Medea di Geta venne dato dall’uscita delle edizioni di Rosa Lamacchia (LAMACCHIA 1981) e di Giovanni Salanitro (SALANITRO 1981). 21 GALLI 2017, 427 (appendice 12). La Medea di Osidio Geta, dramma centonario 321 ad ogni modo non possiamo escludere: spesso ci si deve fermare dunque al piano delle ipotesi. Non per questo risultano sminuite tuttavia l’ingegnosità e il fascino di questi testi, oggi universalmente riconosciute, ma in parte ancora da scoprire, vista la ricchezza degli stimoli offerti da questi bizzarri puzzle linguistici. Un effetto interessante, realizzabile proprio grazie alla tecnica cento ‑ naria, è la diversa interpretazione che l’autore riesce a dare ai propri personaggi tramite l’utilizzo dei verba virgiliani. La sua Medea infatti, se dal punto di vista dello svolgersi dell’azione ricalca le mosse del personag‑ gio senecano, tramite le parole virgiliane, mutuate da quelle di , assume le vesti dell’eroina abbandonata. Ma, andando più a fondo, il quadro che si delinea è ancora più articolato, se si pensa che, come è noto, a monte della Didone virgiliana è possibile leggere in filigrana la presenza del personaggio di Medea stessa. Geta, in un certo senso, ‘chiude il cerchio’ aperto da Virgilio, ma allo stesso tempo lo riapre, dal momento che molte movenze presenti nel suo testo destano nella memoria del lettore la Medea della dodicesima eroide ovidiana, che contribuisce a conferire al personag ‑ gio un tono elegiaco. La rete dei richiami intertestuali risulta dunque particolarmente fitta ed articolata. Un altro aspetto che nei centoni appare molto accattivante e che è strettamente legato alla loro particolare tecnica compositiva è inoltre la possibilità, abilmente sfruttata dai compositori, di alludere ad un evento futuro sfruttando la potenza evocatrice del contesto virgiliano, il cui ricordo viene sollecitato nella memoria del lettore. Un esempio significativo è ai vv. 104‑108 del secondo coro:

VOX O digno coniuncta viro, | dotabere, virgo! | Ferte facis propere, | thalamo deducere adorti, | 105 ore favete omnes et cingite tempora ramis. | Velamus fronde per urbem | votisque incendimus aras. |

Voce O tu, vergine, unita ad un uomo degno, riceverai la tua dote! Portate in fretta le fiaccole, o voi che vi accingete a condur(la) al talamo, 105 fate tutti silenzio e cingete le tempie di fronde. < Coro > Per la città orniamo gli altari di fronde e li accendiamo con i voti.

Le prime tre righe vengono pronunciate da una misteriosa vox, che apparentemente sta augurando il meglio alla sposa (Creusa) prima delle sue nozze con Giasone, che nella versione di Geta del mito non hanno ancora avuto luogo. I due versi successivi vengono pronunciati dal secondo 322 Maria Teresa Galli coro e, all’orecchio di un ipotetico lettore non consapevole dell’ipotesto virgiliano, potrebbero suonare come parole rituali, coerenti con l’augurio della vox. Ma il dotto lettore presupposto dal centonatore noterà invece una serie di indizi che portano in tutt’altra direzione:digno coniuncta viro (104) è tratto da Ecl. 8, 32, dove il verso è pronunciato dall’affranto Damone; coniuncta si riferisce a Nisa, che lo ha tradito per sposare Mopso (digno viro). Il frammento dotabere virgo (104) è tratto daAen. 7, 318. Giunone è piena d’ira e scaglia una maledizione contro Lavinia (virgo): se il fato vuole che sia lei la moglie di Enea, che la sua dote consista nel sangue dei Troiani e dei Rutuli. Al v. 105 (ferte facis propere), l’effetto dell’ombra dell’ipotesto è ancora una volta inquietante: facis consiste nelle torce usate dai Troiani durante l’attacco militare contro Laurentum (Aen. 12, 573); o ancora, thalamo deducere adorti (105) è tratto dalle parole del traghettatore infernale, CaronteAen. ( 6, 397). Ore favete omnes et cingite tempora ramis (106) originariamente faceva parte degli atti rituali che precedevano il funerale di Anchise Aen.( 5, 71): un contesto che contribuisce a creare una Stimmung decisamente sinistra, se sovrapposto a quello delle imminenti nozze. Velamus fronde per urbem (107) fa riaffiorare alla memoria l’immagine dei poveri Troiani che, inconsapevoli della loro imminente rovina, si danno tutta la notte ai festeggiamenti e ringraziano gli dei per il dono del cavallo di legno (Aen. 2, 249): la ‘cecità’ dei Troiani nel frangente di riferimento non può che infittire le ombre già numerose che caratterizzano il nuovo contesto centonario. Infine, votisque incendimus aras (108) è tratto dall’episodio delle terribili Arpie (Aen. 3, 279), la cui spaventosa immagine corona quelle precedenti e fa presagire la prossima rovina. Questi pur brevi esempi rivelano l’adozione, da parte di Geta, di criteri ben precisi in base ai quali ha scelto e abbinato fra loro determinati emistichi. In ognuno dei versi riportati, i segmenti virgiliani sono stati selezionati non solo in base alla somiglianza con il nuovo contesto o alle parole particolarmente adatte sotto il profilo semantico, metrico e grammaticale, ma anche per il loro potere ‘evocativo’, che consente al patchwork poet di anticipare in maniera sottile e sotterranea gli sviluppi della vicenda centonaria, e nella fattispecie il dramma imminente di Creusa. È evidente dunque il motivo per cui l’idea di ‘furto’ tout court o di casuale affastellamento di versi sottratti meccanicamente a Virgilio, per lunghi secoli alla base dell’avversione nei confronti dei centoni, risulta ormai superata. Il testo di Geta, così come quello degli altri centoni, si è rivelato,

22 HARDIE 2007. La Medea di Osidio Geta, dramma centonario 323 al contrario, ricco di stimoli, e l’originale prodotto di un lavoro minuzioso e di un’arte erudita e sofisticata. Il compito dell’editore che è chiamato a misurarsi con un componimento centonario non è semplice. La tentazione di uniformare, da un lato, le anomalie tornando al testo virgiliano oppure, sul versante opposto, di accettarle in quanto tipiche dei testi centonari, è sempre dietro l’angolo. Armandosi di equilibrio e di pazienza, le fatiche vengono ripagate tuttavia dal fascino di un testo ‘polifonico’ – felice espressione suggerita da Philip Hardie22 – che, ogni volta che viene sollecitato, sorprende con nuove allusioni e svariati livelli di lettura.

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DIMITRIS MANTZILAS (UNIVERSITY OF THE PELOPONNESE)

Dopo Seneca e prima del dramma Neo‑Latino sono state scritte alcune opere non più destinate al teatro, almeno nella sua forma tradizionale. Sono una serie di testi soprattutto del III o del IV secolo d.C., il cui genere letterario non è chiaro. Questo succede perché all’epoca il fenomeno del sincretismo, cioè il mischiare generi letterali diversi, era quasi la regola. Queste poesie sono in forma di epyllion, cioè un poema dai 100 ai 1000 versi, che trae il suo soggetto dalla mitologia e dai cicli epici, con particolare interesse per le storie d’amore e per i crimini. Dato che molti di questi poemi contengono gli ingredienti base della tragedia, negli ultimi anni c’è stato un tentativo di ridefinire il loro genere. Analiticamente si trova una lista dei personaggi drammatici, l’azione viene completata in un giorno e addirittura la moralità, la passione, la miseri ‑ cordia, la paura e la catarsi sono più che evidenti. La scuola italiana ritiene che non siano stati scritti solo per la lettura, ma anche per la rappresen ‑ tazione: appartengono, cioè, alla pantomima tragica1, che si presentava come uno spettacolo durante cene e banchetti (poetici apud mensam) in cui un narratore leggeva il poema e gli attori‑danzatori recitavano ogni avvenimento (dromenon) con movimenti specifici. Queste opere riassumono una tragedia greca o anche un’intera trilogia e come tali sono state caratterizzate dagli studiosi tedeschi come «drammi di recitazione in miniatura»2. Vorrei introdurre il termine più semplice di «tragedia‑miniatura» come le opere di Seneca, che sono state destinate alla recitazione pubblica e si caratterizzano come tragedie senza esserlo. Inoltre, esiste anche il termine “epico‑miniatura” o “poesia epica in miniatura”3, con l’esempio più accentuato l’opera Ilias Latina, che aspira a riassumere l’Iliade di Omero4.

1 Cf. GIANOTTI 1991, 144; BURLANDO 2000, 17‑25; SALANITRO 2007, 71‑76. 2 SCHETTER 1986, 127‑128 (= 1994, 182‑183): «Rezitationsdrama en miniature» e «Theatralishce Wirkung»; cf. GIANOTTI 1991, 144‑145. 3 Si veda WASYL 2011. 4 Cf. SCAFFAI 1997. 326 Dimitris Mantzilas

Per quanto riguarda la composizione dei poemi, i poeti – come succe ‑ deva anche precedentemente – seguivano il processo di imitazione (imitatio) ed emulazione (aemulatio): inizialmente copiavano i Greci e dopo cercavano di superarli. Perché ciò avvenisse, trasformavano i miti già noti e affermati, sia con l’introduzione di nuovi elementi creati con la loro fantasia e abilità poetica, sia seguendo le varianti meno comuni dei miti. Il loro obiettivo non era solo quello di essere migliori, ma di provocare l’interesse degli ascoltatori/lettori ai quali i miti – tante volte ascoltati – rischiavano di apparire noiosi. Il processo è il seguente: i poeti conservano alcuni elementi delle opere greche, ma anche di quelle romane e li abbelliscono con elementi essenzialmente «romani» (motivi letterari, percezioni, ideali, virtù, pratiche di culto) più familiari al proprio pubblico. In questo modo attribuivano ad eroi ed eroine del mondo classico nuovi elementi tratti dalla loro società, rendendoli molto più simili a patrizi e matrone romane. Le influenze da opere precedenti sono molte, non solo da opere mito ‑ logiche o tragedie, ma anche da altre specie, come l’epica e l’elegia erotica. Questi poeti, rinnovando la tradizione con nuovi ingredienti, rispettarono il passato e allo stesso tempo si allontanarono da esso, riuscendo a riaccendere l’interesse degli ascoltatori/lettori e assicurare la diffusione della mitologia. Vediamo quali sono queste opere:

Alcestis Barcinonensis5 (L’Alcesti di Barcellona) è il nome convenzionale dato al testo latino scoperto a Barcellona (da cui deriva l’aggettivo Barcinonensis). Il poemetto venne probabilmente scritto nella seconda metà del IV secolo, fu trovato nel 1979 in un papiro egiziano e pubblicato nel 19826. Comprende 124 versi esametri e si occupa del sacrificio eroico di Alcesti per salvare suo marito e re di Fere, Admeto. Si tratta di una combinazione di ethopoeia7, cioè di un discorso retorico pronunciato da un personaggio storico o mitologico, e di narrazione mitologica8, in forma di epyllion9, che combina temi romantici e mitici con

5 Le più importanti edizioni appartengono a MARCOVICH 1988, NOSARTI 1992 e NOCCHI MACEDO 2014. Per una bibliografia addizionale e un’analisi del testo, si veda MANTZILAS 2011, 61‑90. 6 La prima edizione (Editio princeps) è stata realizzata dal papirologo catalano ROCA‑ PUIG 1982. 7 È frequentemente confusa con la prosopopoeia, cioè il discorso retorico pronunciato da relatori impersonali e con la eidolopoeia, cioè il discorso retorico pronunciato da un defunto. Per questi termini retorici, si veda LAUSBERG 1998. 8 È il termine usato da PARSONS/NISBET/HUTCHINSON, 1983, 31‑33. 9 Questa è l’opinione di LEBEK 1989, 19‑26, accettata anche da IANOTTIG 1991, 142, che lo caratterizza come «poemetto mitologico». Adattamenti dei miti greci nella «tragedia‑miniatura» 327 elementi di esercizi (che si chiamavano θέματα) come appaiono nelle scuole retoriche10. Tuttavia, questo poemetto è molto differente dalla sperimentale e meccanicistica tecnica del centone (cento)11, il cui nome significa “punto”, dove lo studente prende in prestito testi parola per parola, in particolare da Virgilio e dq altri poeti che ha studiato a scuola, e li adatta ad un tema scelto dal professore. Poiché gli elementi di copia, di modifica, di collage e di parodia sono intensi, molti classificano queste opere nella poesia marginale. Invece l’anonimo bardo di questo carme utilizza una tecnica semi‑centonica: assorbe idee, parole, frasi, formule, personaggi dall’Alcesti di Euripide da una parte e dall’altra parte dai poeti romani (soprattutto Virgilio, Properzio, Lucano, Stazio e molti altri), li mescola abilmente con la più antica tradizione mitologica e folcloristica e, grazie alla sua viva fantasia, crea una squisita opera. Admeto consulta l’oracolo di Delfi per sapere dal suo dio‑protettore Apollo per quanto tempo vivrà, come morirà e quale sarà il futuro della sua immagine dopo la morte. La prima domanda è presente anche nell’opera di Euripide, le altre due sono invenzioni del poeta romano. Apollo risponde a questo quesito rivelando che morirà prematuramente, a meno che qualcuno della famiglia non venga offerto come vittima sostitutiva. Modello questo che risale, secondo l’ipotesi dell’opera euripidea, ad una versione perduta del mito, ma anche ad un’elegia famosa di Properzio dove Cornelia, quando muore, offre il resto del tempo che avrebbe potuto vivere a suo marito Paulo12. L’azione viene trasferita al palazzo reale di Fere, un ambiente adatto alla tragedia. I genitori di Admeto si rifiutano di aiutarlo, indicando vari argomenti filosofici o scuse. Suo padre, Ferete, si presenta come un epicureo ed edonista che ama la vita ed i beni materiali, gli offre solo pochi anni o un membro del suo corpo, ma non tutta la sua vita, mentre sua madre, Cli ‑ mene, come un filosofo stoico, sostiene che l’estensione della sua vita non gli garantirà l’immortalità né potrà assolverlo dal suo destino. Alcesti, da parte sua, propone argomenti pertinenti a varie teorie filosofiche: ritiene che il sacrificio le garantirà la fama e la gloria eterna,

10 Si veda CRIBIORE 2001, 230. 11 Per informazioni addizionali, si veda BRIGHT 1984, 79‑90; MCGILL 2005; BAžIL 2009; PRIETO DOMÍNGUEZ 2010; GALLI, MORETTI 2014. Sedici testi sono sopravvissuti (la metà di loro sono anonimi), scritti tra il 200 e il 534 a.C., di cui sette hanno contenuto mitologico, cinque secolare e quattro cristiano. 12 Prop. 4, 11, 95. LECHI 1984, 18‑28, rileva nell’Alcestis Barcinonensis l’accoppiamento tra la moralità aristocratica di Properzio e la passione erotica di Euripide; cf. PADUANO 1958, 21‑28; REITZENSTEIN 1969, 126‑145. Cornelia è ritratta come una bella donna, ma Alcesti è considerata simile a una dea. 328 Dimitris Mantzilas potrà alleviarla dal dolore delle vedove e soprattutto sarà la prova della sua pietà (pietas) nei confronti della patria, della religione e della famiglia; pietà che si presenta come un valore puramente romano e che costituisce il motivo di lettura leit‑motiv( ) di tutto il carme. Alcesti sarà una meritevole moglie per Admeto: infatti preparerà il suo funerale, dando ordini chiari ai suoi servitori. Inoltre, gli darà la sua benedizione per trovare una nuova moglie e avere dei figli, purché lui continui ad amare i suoi due figli, ad adornare la sua tomba con le rose ed abbracciare la sua urna con amore; altrimenti lei – come fantasma – lo spaventerà durante la notte, nel sonno. Tutti questi motivi sono sconosciuti al pubblico greco, ma intimi a quello romano attraverso la poesia elegiaca, gli elogi per le donne laudationes( mulierum), le iscrizioni funerarie e la religione romana privata, riflettendo praticamente le pratiche della società romana. Il poemetto finisce drammaticamente con la morte lenta e dolorosa dell’eroina e le ultime parole che scambia con il marito sul letto di morte, mentre sta per trovare la beatitudine eterna. È una transizione dalla vita alla morte e dalla luce all’oscurità. Il poeta anonimo omette alcuni elementi del mito consolidato e ne introduce altri. Gli elementi mancanti sono: a) Il motivo fiabesco della bella principessa, dove i giovani che vogliono sposarla devono passare tre prove imposte dal padre (qui Pelia per dare in sposa Alcesti), b) la storia d’amore tra Admeto e Apollo, quando il primo lavora come pastore, sotto la supervisione del secondo, perché punito per un omicidio che aveva commesso, c) l’insulto ad Artemide, che Admeto aveva dimenticato di comme‑ morare il giorno del suo matrimonio ed altri elementi ancora. La differenza principale con la tragedia di Euripide, è che Ercole, compagno di Admeto durante la campagna degli Argonauti, combatte con il Dio Thanatos e riporta Alcesti al mondo superiore. Il bardo anonimo evita il lieto fine (che troviamo anche in altre tragedie, vale a dire nell’Ifigenia in Tauride, nello Ione e nell’Elena), per il quale avevano accusato Euripide già dall’antichità. Ricordiamo che l’Alcesti è stata presentata al posto di un dramma satiresco, cioè subito dopo una trilogia e persino senza un unico tema. Così a volte è stata indicata con numerosi termini dispregiativi come «pseudo‑dramma», «tragicommedia», «comme‑ dia tragica», «quasi tragedia», «opera pre‑satirica» ecc.13. Dunque il poeta

13 Si veda DALE 1954, xviii; SUTTON 1973, 384‑391; PARKER 2007, 19‑24. Adattamenti dei miti greci nella «tragedia‑miniatura» 329 romano, volendo superare Euripide, non volle però rompere con il tradi‑ zionale esito nefasto proprio di ogni tragedia. Allo stesso tempo presenta Alcesti non come un’eroina mitologica greca, ma come una matrona romana, con le caratteristiche che la governano, come esse sono note da varie fonti: lei supporta il marito, l’unico uomo che sposa nella sua vita (è l’ideale dell’univira), ama i suoi figli, è onesta, leale, modesta, buona casalinga, bella ma non provocante, dirige la casa e, soprattutto, pia come abbiamo già detto. Il carme ha una struttura composta da dodici blocchi (o passaggi), suddiviso in cinque parti (2 + 2 + 3 + 3 + 2)14, di dimensioni variabili da sette a tredici versi. Ci sono anche cinque personaggi‑ruoli15, come è indicato nelle notae personarum scritte a margine del papiro (APOLLO, ADMET[US], PAT[ER], MATER, Alcesti bis), insieme a quella del narratore (POET[A])16. I personaggi sono Admeto, re di Fere in Tessaglia, la moglie Alcesti, il padre Ferete, la madre Climene e il suo protettore il dio Apollo17. In verità non c’è alcuna menzione effettiva del nome dei genitori18, mentre Alcesti è menzionata solo una volta con il suo nome e una volta con il suo patroni ‑ mico19. Per alcuni studiosi, principalmente italiani, questa è una forte evidenza che il poema era stato composto per potenziali scopi scenici, che essi definiscono come una tragica pantomima20, un genere di prestazione. Si

14 MARCOVICH 1988, 4‑5: A. Il prologo in forma di dialogo tra Admeto e Apollo (1‑ 20, 2 blocchi), B. Il dialogo (diverbium) tra Admeto e Ferete (21‑42, 2 blocchi), C. La rhesis di Climene (42‑70, 3 blocchi), D. L’anti‑rhesis (71‑103, 3 blocchi) di Alcesti, E. L’ultimo giorno e la morte di Alcesti (102‑124, 2 blocchi). Le Parti C e D formano l’Agon tra Climene e Alcesti. Per la struttura del carme, si veda anche EHNACHERZ 1998, 361; SCHÄUBLIN 1984, 175. 15 LEBEK 1989, 20, n. 4. Per ulteriori dettagli sulla presenza di questi eroi nella mitologia, si veda GRIMAL 1951, 10‑11, s.v. Admète; 25, s.v. Alceste; 366, s.v. Phérès. 16 SMOLAK 1993, 290, la tratta come un’aggiunta errata nelle sezioni narrative. Su questo argomento, si veda GIANOTTI, 1995, 271‑283, che spiega come questo siglum è stato attribuito dal primo editore al narratore, ma in seguito altri editori attribuiscono i due testi contenenti «Poeta» all’argomentazione di Climene. Non siamo d’accordo, come è ovvio, c’è un narratore nascosto sotto la persona narrativa divates , il cui nome non viene mai rivelato. 17 Una differenza importante rispetto alla tragedia euripidea è che Apollo e Thanatos hanno un ruolo nella trama, mentre Climene è assolutamente assente. 18 GIANOTTI 1991, 144. Per quanto riguarda Climene, il suo nome è frequentemente scritto come Periclimene. 19 Alc. Barc. 71 Peleia; 107 Alcestis. 20 Cf. Juv. 6, 652‑654, che menziona la presenza di Alcesti in pantomima. 330 Dimitris Mantzilas trattava forse di un’azione drammatica21, accompagnata da musica e danze mimiche di attori e di balletto, forse una riedizione scenica della vita di Alcesti nota al pubblico romano dall’omonima tragedia scritta da Lucio Accio22, da una pantomima di Batillo23 oppure da un erotopaegnion di Levio24. Questi testi, che sono stati presentati come ἀκροάματα durante le cene e nei banchetti25, a cui appartiene anche il Querolo (Querolus) anonimo del V secolo, adattazione dell’Aulularia di Plauto, sono chiamati “poesie sul tavolo” (poetici apud mensam). Forse in questa categoria appartiene anche La danza (Περὶ ὀρχήσεως / De saltatione) di Luciano di Samosata, che ci informa di figure mitiche adottate nell’arte diorchestes in Tessaglia26. Questi spettacoli sopravvissero all’epoca cristiana, anche se le autorità vi si erano opposte, perché li consideravano come una forma di comunicazione di massa e di scolarizzazione popolare. Anche se pensiamo che l’Alcesti Barcinonensis sia di gran lunga superiore ad una pantomima popolare, un genere spesso menzionato da scrittori antichi come inferiore al teatro, le sue condizioni drammaturgiche e gli elementi teatrali (in abbinamento con il suo aspetto religioso) sono innegabili, rafforzando l’ipotesi italiana e rendendo difficile il suo rifiuto27. Forse il dubbio potrebbe essere eliminato se accettiamo che non si tratta di una semplice pantomima popolare, ma di una tragedia‑miniatura. Un secondo testo, di valore e di significato letterario molto minore, ma che si occupa della stessa leggenda, è Alcesta28: un “centone” di un poeta anonimo, molto più vicino alla tradizione dell’Alcestis Barcinonensis29. Questa è una copia dei versi virgiliani. La più grande somiglianza fra i due

21 Cf. GIANOTTI 1991, 144. 22 Accius (57 R², un verso rimane) ap. Priscian. p. 165 RIBBECK. 23 Juv. 6, 63‑66. 24 Laev. 7‑9 TRAGLIA ap. Gell. 19, 7‑8; cf. PASTORE POLZONETTI 1985, 59‑77; MANTZILAS 2013, 53‑89. 25 Cf. Plut. Quaest. Conv. 7, 8, 711a‑713; Gell. 19, 7, 2 sq. 26 Luc. De salt. 52. 27 In generale, gli studiosi italiani condividono lo stesso parere e cioè che Alcestis Barcinonensis e Alcesta (vedi sotto) sono state tragedie o pantomime scritte per essere rappresentate; cf. BURLANDO 2000, 17‑25, che descrive un moderno adattamento teatrale a Firenze; SALANITRO 2007b, 71‑76, che cita e segue l’opinione di GIANOTTI; cf. LÓPEZ SILVA 2011. Lui condivide lo stesso parere che sia una pantomima. Un lavoro importante del genere popolare di pantomima è quello di HALL/WYLEs 2008. 28 Codex Parisinus Latinus 10318 (Salmasianus). Due importanti edizioni sono quelle di SALANITRO 2007a e di PAOLUCCI 2015. 29 MCGILL 2005, 88‑89, LINGUANTI 2013, 227‑256, PAOLUCCI 2014a, 11‑48 e WAsYL Adattamenti dei miti greci nella «tragedia‑miniatura» 331 testi è l’essere ricordato dopo la morte attraverso il sacrificio eroico. La più grande differenza riguarda il nuovo matrimonio di Admeto, un motivo assente dall’Alcesta. Anche qui c’è un narratore (il poeta stesso) e la medesima scena con Admeto che chiede ad Apollo informazioni sul suo futuro, mentre in una parte dell’opera in cui ci sono influenze della poesia bucolica si trova il tema del loro rapporto sentimentale. Al contrario, mancano le questioni filosofiche, le avversioni drammati‑ che, l’unità di tempo (vi è una lacuna in questo poema) e Climene come personaggio del dramma. Una volta che Admeto chiede al padre di sacrificarsi immediatamente, Alcesti offre se stessa. Il poema di 162 versi termina con il monologo emotivo dell’eroina, l’ultimo saluto dei coniugi e la morte della dona. Quindi questo poeta romano si differenzia anche dal lieto fine euripideo. Segni comuni di entrambe le opere sono la presenza di varie divinità del mondo sotterraneo, i ripetuti riferimenti alla morte e i suoi sintomi (paura, sudore…), l’aldilà e il ruolo del destino, che supera il potere degli dei. «La tragedia di Oreste» (Orestis o Orestes Tragoedia)30 è consegnata senza il nome dell’autore, ma è assegnata a Draconzio, di origine africana, vissuto nel IV secolo d.C. Si tratta di una composizione particolare31, una miscela di epyllion32, di epico sceneggiato33 o addirittura di un poema epico in miniatura che potrebbe però essere diviso in cinque atti, come se fosse una tragedia autentica34, con elementi derivati dal romanzo ma anche con influenze intense nel primo livello dell’Agamennone di Seneca35 e nel

2018, confrontano le opere Alcesta e Alcestis Barcinonensis a tutti i livelli. Per il suo «genus mixtum», si veda PAOLUCCI 2014b, 49‑66. 30 La prima edizione è stata fatta nel 1858 da MüLLER in Rudolstadt. Il titolo è dato, senza nome di poeta, dal codice B (Bernensis Bongarsianus 45), del IX secolo. Un altro titolo, Horestis fabula, è dato dal codice A (Ambrosianus O 74 sup.) del XV o XVI secolo. Lo studioso (e poi cardinale) ANGELO MAI, 1871, 12‑17, basandosi su elementi linguistici e morali, ha identificato Draconzio come creatore dell’opera, basandosi anche sulle stupefacenti somiglianze con le restanti opere sopravvissute. L’edizione più recente è stata fatta da RILLONEG 2008. 31 Cf. WASYL 2011, 254 sq., che non riesce a definire il suo genere letterario e parla di «non‑genere». 32 Questa é l’opinione di BOUQUET/WOLFF 1995, 37‑45. 33 È l’opinione di GALLI MILIĆ 2010, 191, basata sul fatto che circa il 50% della narrazione è viva grazie al discorso diretto, un’osservazione che aveva già fatto QUARTIROLI 1947, 30. 34 Cf. BRIGHT 1987, 203; invece STOEHR‑MONJOU 2009, 1‑20, argomenta che Draconzio rifiuta ogni connessione del suo poema con la tragedia. 35 Cf. TRILLITZSCH 1981, 268‑274. 332 Dimitris Mantzilas secondo livello di tutte le tragedie greche che sono ereditate dai miti del ciclo argolico. Come una «tragedia‑miniatura», quest’opera concentra la trilogia Orestea (Agamennone, Coefore, Eumenidi) di Eschilo in 874 esametri (cioè la metrica dell’epos), aggiungendo alcuni episodi dall’Elettra di Sofocle, così come tre tragedie di Euripide (Ifigenia in Aulide, Ifigenia in Tauride e Oreste), oltre ad elementi tratti da altri poeti romani (soprattutto Ovidio, Lucano, Stazio, Giovenale e Virgilio). È stato sostenuto36 che grazie a Seneca, che ha eliminato l’esagerazione delle persone drammatiche di Eschilo e ha introdotto l’analisi morale e psicologica, il mito si è diffuso fino ai giorni di Draconzio, il quale diede ai personaggi dimensioni più umane, scrivendo un dramma appassionato. Tuttavia, altre due tragedie erano state scritte: Egisto di Livio Andronico e Clitennestra di Lucio Accio37, che dovrebbero averlo influenzato in larga misura. Il suo scopo38 sembra essere la presentazione in una singola forma integrata del mito di Oreste, concentrando in un’opera tutti gli episodi autonomi che rispondono alla vecchia tradizione. Inoltre, Draconzio introduce nella sua narrazione rilassata i suoi episodi: delle peripezie fantastiche39 che sarebbero più adatte in un romanzo che in un epyllion o tragedia. Si tratta di toccanti episodi inter familiari, dove il mito passa ad un secondo piano e sono piuttosto sottolineati la passione, l’emozione ed i conflitti. I più caratteristici sono l’incontro fra Ifigenia e Agamennone al tempio di Artemide in Tauride e la narrazione del naufragio di Oreste al suo insegnante Dorilas, una persona che appare anche in un’altra scena fondamentale: nel sonno di Oreste e di Pilade allo stesso tempo, allo scopo di far vendicare l’uccisione di Agamennone. L’opera, quindi, è costituita da autonome scene quasi consecutive40 in cui sono mescolati elementi retorici e momenti drammatici in tonalità e sfumature diverse. L’obiettivo finale è quello di scrivere un’opera più accattivante e più breve di quella di Eschilo, seguendone tuttavia le linee base: l’assassinio di Agamennone, il matricidio di Oreste, la follia del protagonista e il processo presso la Corte Suprema all’Areopago. Ma ci

36 Cf. BOUQUET 1989, 43‑59. 37 Cf. STACKMANN 1949, 180‑221. 38 Cf. QUARTIROLI 1947, 28. 39 È il termine introdotto da OUQUETB /WOLFF 1995, 30: «Péripéties romanesques». 40 Cf. BOUQUET/WOLFF 1995, 42: «Tableaux juxtaposés». Adattamenti dei miti greci nella «tragedia‑miniatura» 333 sono differenze: in Eschilo la stessa Clitennestra uccide suo marito, mentre Draconzio (che segue Seneca) fa commettere ad Egisto il crimine. Inoltre Oreste nell’opera di Eschilo è assente al momento dell’omicidio, mentre nelle opere latine (che seguono l’Elettra di Sofocle) Elettra salva suo fratello dalla furia materna. Ancora più innovative sono le scene intercalanti che Draconzio introduce tra l’omicidio di Clitennestra ed il processo di Oreste: è l’omicidio di Pirro da parte di Oreste, un episodio ben noto in Virgilio41, nonché la riunione di Ifigenia e di Oreste in Tauride che segue il famoso riconoscimento dell’Ifigenia in Tauride42. Opposta alla pia (pia) Ifigenia, che è stata sacrificata involontariamente per la patria e la sua famiglia e serve la religione come la sacerdotessa di Artemide, si trova l’empia (impia), spietata, quasi mostruosa, adultera Clitennestra. Vive un amore pazzo per Egisto, pieno di lussuria, che non è menzionato da Eschilo per motivi di vergogna. Il significato predominante è che il fato (fatum), governa gli dei ed i mortali e la libertà individuale è inesistente. Influenzato dalla religione cristiana, che a quell’epoca era fiorente (non è fortuito che gli dei pagani siano quasi assenti dall’opera), Draconzio inconsciamente porta i suoi eroi a peccare e ad essere puniti43, cercando di trarre conclusioni etiche sul loro comportamento. Come Alcesti, Ifigenia mantenne la sua purezza mentale44 e persino la sua purezza fisica, cioè la sua verginità, mentre si dedicava alla religione. Dei restanti tre epyllia di Draconzio45, Ila (Hylas) ha un forte carattere retorico, Il rapimento di Elena (De raptu Helenae) è una miniatura epica e solo Medea (Medea) ha ricevuto dalla tragedia un’epiclesi che si trova anche nella Tragedia di Oreste come dimostra l’invocazione alla Musa Melpomene, la musa di questo genere letterario.Medea secondo Draconzio riassume quasi tutta la precedente produzione letteraria (Euripide, Ennio, Ovidio, Seneca, Lucano, Apollonio Rodio e Valerio Flacco), che è stata dedicata a questa eroina. Il poema è costituito da due parti separate: la prima (1‑365) si svolge in Colchide e la seconda (366‑601) a Tebe. Il tema centrale, attorno al quale

41 Verg. Aen. 3, 330‑332; cf. Hyg. Fab. 123. 42 E. IT. 800‑840. 43 Su questo tema, si veda BOUQUET/WOLFF 1995, 43‑45. 44 Radicalmente diversa è stata l’immagine data da Levio nella sua opera Erotopaegnia, da cui vengono salvati solo 100 testi. Lì, diversi personaggi di mitologia, anche i più seri, si presentavano con un umorismo giocoso e sessuale; si veda MANTZILAS 2013, 53‑89. 45 Per ulteriori informazioni, si veda BOUQUET/WOLFF 1995, 37‑46. 334 Dimitris Mantzilas ruotano tutti gli episodi, è l’effetto dell’amore in tutte le sue manifestazioni: Medea tradisce il padre Eeta, anche se lui la ama; l’affetto di Creonte per la figlia Glauce, la rivale di Medea, causando la morte di entrambe; la passione smodata di Medea per Giasone, per amore del quale ha lasciato la patria e ha ucciso il fratello Apsirto e più tardi i suoi figli, per farlo soffrire, quando lui la sostituisce con una compagna più giovane. Non mancano di questo poema l’emozione, la moralità ed il rispetto per la religione, la cui mancanza provoca dei disastri. L’invenzione di Draconzio è la collocazione del matrimonio di Giasone e di Medea in Colchide e di una chiusura inaspettata in cui il narratore, dopo una preghiera ad Afrodite, Eros e Dioniso, li maledice perché li considera responsabili delle sofferenze causate da Medea. Da Seneca, Draconzio ha preso in prestito il dualismo emotivo46 della protagonista, che si manifesta in binomi manichei: ragione‑follia, passione‑ virtù, amore‑odio, vita‑morte. Influenzato dalle Metamorfosi di Ovidio47, il poeta osserva la trasformazione dell’eroina da donna che perde poco a poco la sua femminilità48 a strega blanda che utilizza la magia bianca, a strega spietata che prepara veleni (venefica) ed alla fine a essere criminale (malefica)49; una rappresentazione della protagonista come specialista in magia nera che è quasi assente in Euripide. Anteriore alla Medea di Draconzio è la Medea di Osidio Geta50, probabilmente di origine africana51, scritta verosimilmente poco prima del

46 Cf. BIONDI 1989, 37‑41. 47 Si veda MANTZILAs 2017, 9‑46. 48 È l’opinione di GASCARD 1993, di VEGA VEGA 2005, 537‑544 e di altri ricercatori. Medea ha smesso di essere una semplice donna ed è diventata una strega spietata, ma anche un uccisore‑mostro, quando uccide i suoi figli, che simboleggiavano la sua femminilità. 49 Il primo a vedere, nella sua trasformazione, qualcosa di più di una mutazione naturale fu ANDERSON 1963, 1‑27. GALINSKY 1975, 210‑217, ha aggiunto un’altra dimensione, quella della trasformazione psicologica. Molto interessante è l’analisi di ROSNER‑SIEGEL 1982, 231‑243, che descrive in dettaglio l’evoluzione (e la depressione mentale) dell’eroina; cf. anche la contribuzione di WASYL 2007, 81‑99. 50 Edizioni di SALANITRO 1981; LAMACCHIA 1981; WOLFF 2006; GASTI 2016; GALLI 2017; cf. i vari contributi di DANI 1950, 75‑78; SALANITRO 1997, 2314‑2360; MCGILL 2001–2002, 143‑161; MCGILL 2005, 31‑52; HARDIE 2007; RONDHOLZ 2012. 51 Se l’ipotesi che l’Alcestis Barcinonensis sia stata scritta in Egitto è corretta, è il terzo caso (insieme a quello di Draconzio) di poesie di simile stile non ortodosso e multiformato scritto nel continente africano, dove le facoltà retoriche fiorivano in centri come Alessandria e Cartagine. Per le somiglianze tra la Medea di Osidio Geta ed il cento Alcesta, si veda PAOLUCCI 2014c, 165‑170. Adattamenti dei miti greci nella «tragedia‑miniatura» 335

203 d.C. quando è menzionata da Tertulliano52 e viene tramandata da un unico manoscritto53. Si tratta di una «tragedia‑miniatura» composta da 462 versi in esametri e paremiaci54. È infatti un primo esempio di centone virgiliano55, ma senza molto successo, dal momento che non mancano gli errori metrici, l’incoerenza della narrazione e diverse ambiguità di significato, perciò tanti descrivono il suo stile come “oscuro”56, anche se certamente è stato molto difficile regolare i versi dalla poesia epica ad un altro genere letterario, la tragedia57. Il poema, in cui le didascalie sceniche sono assenti, manca di originalità e finzione poetica e sembra essere più una costruzione, quindi probabilmente non era destinato per il teatro o per uno spettacolo. Nella copia di Draconzio è particolarmente evidente dove vengono utilizzati gli stessi versi che usa Virgilio nel quarto libro dell’Eneide per Didone: entrambe le principesse (Didone e Medea) hanno tradito la loro famiglia e la loro casa, si sono innamorate follemente del bello sconosciuto e quando sono state abbandonate da lui, dopo un tentativo disperato di trattenerlo con incantesimi, sono arrivate alla follia. L’una si è suicidata gettandosi nel fuoco, l’altra ha ucciso i suoi figli ed è fuggita su un carro volante. Ci sono alcune influenze di altri autori che scrissero opere concernenti la figura di Medea ma la caratteristica più evidente è quella che è stata descritta come «intertestualità triangolare»58: utilizzando versi di Virgilio, il poeta imita Ovidio59 e Seneca in diversi episodi, ad esempio, l’epithala‑ mion, la canzone di nozze per il matrimonio di Giasone con Creusa; gli elementi magici; l’Agon retorico di Medea e di Giasone; l’infanticidio sul palco e lo scontro finale tra gli ex coniugi; mentre le influenze di altri scrittori su Euripide sono molto deboli. Dove Osidio Geta differisce dai poeti precedenti, è nel fatto che introduce il valore diotium : è l’inazione, la tranquillità, l’astinenza dalla vita pubblica, un valore che si adatta all’uomo saggio e che diverse scuole filosofiche hanno considerato come l’ideale supremo per i Romani60.

52 Tert. Praescr. Haeret. 39. 53 Codex Salmasianus Parisinus 10318 (AL 17 R). 54 Invece del trimetro giambico utilizzato dalla tragedia romana, alternato a varie metriche liriche (nei canti corali). 55 SALANITRO 1984, 321‑327. 56 Si veda la critica fortemente negativa di KRÖLL 1913, col. 2489, s. v. Hosidius. 57 Come tale la caratterizza ANED 1950, 75, che segue MOONEY 1919. 58 È il termine di MCGILL 2005, 46: «Triangulated intertextuality». 59 Le assunzioni dalle Metamorfosi di Ovidio sono evidenti. C’è un sospetto valido che Osidio Geta abbia copiato in gran parte la perduta Medea di Ovidio. 60 Cf. ANDRÉ 1966. 336 Dimitris Mantzilas

C’è anche un testo greco antico simile61, più vecchio dei corrispondenti latini di datazione incerta (tra il IV e il II secolo a.C.), che si concentra sulla maggior parte del primo episodio (446‑637) della tragedia Le Fenicie di Euripide. Si trova nella parte posteriore (verso) di un papiro di Ossirinco. Si tratta dell’Agon retorico tra Eteocle e Polinice, che si trovano in disaccordo davanti alla madre Giocasta, che – assumendo il ruolo di arbitro – cerca di dare un verdetto e soprattutto di evitare il fratricidio imminente. Il genere di questo poema, scritto in trimetri giambici, è difficile da determinare. Potrebbe essere un esercizio di scuola62 o un tentativo di un poeta esperto63 o anche di un poetastro64 che ha voluto scrivere qualcosa di diverso da Euripide, anche se si differenzia dalla tragedia greca solo nei dettagli (es: Polinice dà la sua spada a Giocasta, promette che rispetterà il suo verdetto e si rivolge a Eteocle con il suo nome, elementi mancanti in Euripide). I giudizi dei filologi sono contraddittori sul tema: potrebbe trattarsi di un episodio di una tragedia perduta65, forse l’Edipodia di Meleto, il padre del famoso accusatore di Socrate’66; il poema contiene persone che dialogano e non un narratore, proprio come i poemi discussi in precedenza. Da quello che abbiamo visto è evidente che i poeti del periodo tardo antico hanno cercato di adattare la tradizione letteraria e mitologica alle nuove circostanze del loro tempo, trasformando i miti classici, stabiliti secoli fa, in condizioni sociali, politiche e culturali differenti e con l’introduzione di nuovi elementi, per renderli più attraenti e familiari ad un nuovo pubblico di lettori/uditori. Nessuno di questi lavori ha raggiunto il livello delle opere originali, ma il tentativo di rinnovarli dà loro un valore letterario in misura variabile. L’unica cosa certa è che la mitologia rimane affascinante ed è stata un punto di riferimento non solo per gli scrittori di tragedie o di “tragedie‑minia ‑ ture”, ma in generale per la maggior parte degli scrittori.

61 Prima edizione da NORSA/VITELLI 1935, 14‑16, poi unita con i Papyri della Società Italiana (PSI 1303 = TrGF Ad. F 665 KANNICHT/SNELL); cf. NORSA 1949, 57‑60; MEDDA 2007, 13‑18, che riassume la ricerca filologica. 62 Cf. NORSA/VITELLI 1935, 14‑15; NORSA 1949, 60. 63 È l’opinione di GARZYA 1952, 389‑398 (= 1997, 335‑346). 64 Questo è supportato da KANNICHT/SNELL 1981, 252: «nos quidem versificatorem potius quam poetam audimus»; cf. KANNICHT ET AL. 1991, 264‑267. 65 Cf. PAGE 1942, 172‑181, che pensa sia parte di una tragedia perduta. 66 Cf. TrGF 48 F 1. L’identificazione appartiene a WEBSTER 1954, 297‑298. Lo segue con cautela XANTHAKIS‑KARAMANOS 1997, 1038‑1039. Adattamenti dei miti greci nella «tragedia‑miniatura» 337

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Tabula gratulatoria p. VII

Prolegomena ENRICO V. M ALTESE IX

Prefazione FRANCESCO CARPANELLI XI

Introduction LUCA AUSTA XIII

Semele e Licurgo, morte e follia nel teatro eschileo FRANCESCO CARPANELLI 1

Su alcuni riferimenti al Prometeo liberato di Eschilo nei papiri di Ercolano PIERO TOTARO 45

I Frigi nell’universo tragico greco: intorno ad una tragedia perduta di Eschilo MILENA ANFOSSO 53

Sofocle, fr. 871 Radt DANIELA MILO 83

Rhetoric and Responsibility in Euripides’ Cretans ELENI KORNAROU 97

Edipo all’altare? Per una lettura ed interpretazione di Euripide, fr. 554a K. (Edipo) LAURA CARRARA 111

La scena di riconoscimento nelle tragedie frammentarie di Euripide MATTIA DE POLI 137 342 Indice

Una dimensione dimenticata dell’akoè: la percezione in scena e la funzione drammaturgica dei suoni non verbali VALENTINA ZANUSSO 167

Il fr. adesp. 681 Kn. – Sn.: Meleagro euripideo o un dramma satiresco? Nuovi spunti da un papiro di Ossirinco SONIA FRANCISETTI BROLIN 193

Da Ossirinco a Parigi: i Segugi di Sofocle nel melodramma La naissance de la lyre di Albert Roussel SIMONE BETA 207

Il silenzio e la voce di Iole: dalla scena antica al teatro contemporaneo LUCIA DEGIOVANNI 215

Il poeta protagonista del suo dramma: sulla ricostruzione della Pytinē di Cratino FRANCESCO PAOLO BIANCHI 235

Cratin. fr. 258, 2 K.‑A. (e fr. 254 K.‑A.) LEONARDO FIORENTINI 263

Il fr. 2 K.‑A. di Filemone. Considerazioni testuali ed esegetiche SEBASTIANO BERTOLINI 271

Frammenti di follia. Il tema della follia nella tragedia latina frammentaria MARCO FILIPPI 285

Tieste dimenticato. Nuove possibilità per il teatro di Seneca MARCELLA PETRUCCI 307

La Medea di Osidio Geta, dramma centonario: damnatio memoriae di una tragedia fuori dagli schemi MARIA TERESA GALLI 315

Adattamenti dei miti greci nella «tragedia‑miniatura» DIMITRIS MANTZILAS 325

Il carro di Tespi Testi e strumenti del teatro greco‑latino

Collana diretta da Francesco Carpanelli

1. Francesco CARPANELLI, Da Eschilo a Seneca. Legami pericolosi e scena classica. Il connubio tra sacro e profano, 2015, pp. VI‑194, € 25,00. 978‑88‑6274‑615‑1 2. Massimiliano ORNAGHI, Dare un padre alla commedia. Susarione e le tra‑ dizioni megaresi, 2016, pp. X‑534, € 40,00. 978‑88‑6274‑694‑6 3. Gunhv, Mulier e Madonna. Donne di teatro, devozione e poesia, a cura di Luca AUSTA, 2016, pp. X‑194, € 22,00. 978‑88‑6274‑701‑1 4. Pietro DE SARIO, L’arte del parodiare. Ricerche sulla parodia in Aristofane, 2017, pp. X‑150, € 22,00. 978‑88‑6274‑744‑8 5. “Né la terra, né la sacra pioggia, né la luce del sole”, a cura di Luca AUSTA, 2018, pp. X‑290, € 22,00. 978‑88‑6274‑826‑1 6. Frammenti sulla scena. Studi sul dramma antico frammentario, volume 1, a cura di Luca AUSTA, 2017, pp. X‑210, € 20,00. 978‑88‑6274‑851‑3 Finito di stampare nell’ottobre 2018 da DigitalPrint Service s.r.l. in Segrate (Mi) per conto delle Edizioni dell’Orso