OCCHIALÌ – RIVISTA SUL MEDITERRANEO ISLAMICO

Risorsa digitale indipendente a carattere interdisciplinare. Uscita semestrale Pubblicata da Occhialì – Laboratorio sul Mediterraneo islamico Dipartimento di Culture, Educazione e Società Università della Calabria

N. 4/2019 ISSN 2532-6740

Responsabile scientifico ALBERTO VENTURA

Direttore editoriale VALENTINA FEDELE

Segretario di redazione GIACOMO MARIA ARRIGO

Comitato scientifico ALBERTO VENTURA (Università della Calabria) PAOLO BRANCA (Università Cattolica del Sacro Cuore) NATHALIE CLAYER (École des Hautes Études en Sciences Sociales) VALENTINA FEDELE (Università della Calabria, EMUI Madrid) DARIO TOMASELLO (Università degli Studi di Messina) VALENTINA ZECCA (Università della Calabria) GIANFRANCO BRIA (Università della Calabria, CETOBaC – EHESS) GUSTAVO MAYERÀ (Università della Calabria) SABRINA GAROFALO (Università Magna Graecia di Catanzaro) ANNA ELIA (Università della Calabria)

Comitato editoriale GIACOMO MARIA ARRIGO (Università della Calabria, KU Leuven) FABRIZIO DI BUONO (FLACSO Argentina) SARA MAZZEI (Università della Calabria) MANUELITA SCIGLIANO (Università della Calabria, Université de Carthage)

Sito web: http://www.phi.unical.it/wp34/occhiali/ Email: [email protected] Copertina: Fabrizio Di Buono

INDICE

SEZIONE – VIAGGIO NELL’ ITALIANO: IL MERIDIONE

L’ascesa dei Fatimidi in Adrica e la rivolta filoabbaside in Sicilia di Gustavo Mayerà » p. 1

SEZIONE – STUDI E RICERCHE

Remixing Battle Rap and Poetic Battling di Felix Wiedemann » p. 13

Il Naqqāli iraniano. La memoria sonora del rito di Dario Tomasello » p. 29

Greek Modes and Turkish Sounds. Music as a Means of Intercultural Exchange Between Orthodox Christians and Muslims in the Ottoman Empire di Maria Pia Ester Cristaldi » p. 38

La musica nell’epoca d’oro dell’Islam: la V Risāla degli Iḫwān al-Ṣafā’ di Federico Leonardo Giampà » p. 47

“Bella Ciao”. La storia di una canzone di libertà nel paese della Mezzaluna di Consuelo Emilj Malara » p. 60

Comunità, repressione e heavy metal in Turchia e Medio Oriente di Angelo Francesco Carlucci » p. 74

La musica nella crisi identitaria del mondo islamico di Francesco Tieri » p. 89

Hindustāni Paddhati di Remo Scano » p. 99

SEZIONE – DOCUMENTI

“Il secolo delle tenebre e il secolo della luce”. Poema di Faama Bem Girrira a cura di Paolo Branca » p. 110

SEZIONE – RECENSIONI

Alban Dobruna, “Tarikati Islam Halveti te Shqiptarët” di Gianfranco Bria » p. 138

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SEZIONE VIAGGIO NELL’ISLAM ITALIANO: IL MERIDIONE

1 ISSN 2532-6740

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L’ascesa dei Fatimidi in Africa e la rivolta filoabbaside della Sicilia

Gustavo Mayerà

Abstract: In the year 909 AD, Abū ‘Abd Allāh al-Šī‘ī conquered the Aghlabid emirate in the name of the Imām ‘Abd Allāh al-Mahdī, who was gloriously led to Qayrawān in the same year. Thus, the Fatimid was born, which included Sicily, along with most of North Africa. Initially, the people of Sicily accepted the new Isma‘īlī sovereigns’ domination, but soon a phase of instability began which would lead, under ibn Qurhub’s leadership, to a full blown revolution and to the return of Sicily within the ranks of the Abbasid caliphate. Ibn Qurhub’s adventure was brief, and in a few years the Fatimids managed to reaffirm their dominion over the island, but what happened in these delicate phases of the history of Sicily is surely important to understand the historical dynamics of that time in the Mediterranean.

Keywords: Fatimids – Sicily – Italy – Mediterranean – Ibn Qurhub Parole chiave: Fatimidi – Sicilia – Italia – Mediterraneo – Ibn Qurhub

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INTRODUZIONE

All’inizio del X secolo, l’apogeo dell’emirato aglabide – raggiunto grazie all’impresa di Ibrāhīm II, che giunse con le sue conquiste fino a Cosenza1 – fu seguito da una repentina crisi, che portò in pochi anni il regno in mano a una dinastia ismailita: i Fatimidi2. Dopo l’874, l’attività del propagandisti ismailiti, inizialmente limitata a parte della Siria e dell’Iraq, si allargò repentinamente e con una pervasività sempre maggiore, approfittando probabilmente delle tante difficoltà che in questi anni ebbe la dinastia abbaside. Così, iniziarono a nascere dei quartier generali ismailiti, sempre dipendenti dalla sede principale posta a Salamiyyah, ma disseminati in diverse regioni e città del Califfato Abbaside. Ognuna di queste roccaforti era detta dār al-hiǧrah («la casa dell’egira»), ispirandosi alla Medina

1 Riguardo al regno di Ibrāhīm II vedi: Ibn al-Aṯīr in Amari, 1982: I, XXXV, 391-402; al-Bayān in Amari, 1982: II, XLIV, 15-21; al-Nuwayrī in Amari, 1982: II, XLVIII, 147-153; Ibn Ḫaldūn in Amari, 1982: II, L, 185-188; Amari, 1933: I/535-586, II/62-115; Mayerà, 2018/1: 13-21. 2 Per un quadro completo sulla storia ismailita rimandiamo a Filipani-Ronconi, 1973 e Daftary, 2011; riguardo al Califfato Fatimida vedi anche Mayerà, 2017.

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dell’Islam delle origini, e fungeva da base per la propaganda e luogo di partenza per missioni propagandistiche destinate anche ai territori più periferici del Califfato. Fu dall’importante dār al-hiǧrah yemenita che partì la missione propagandistica destinata all’Africa settentrionale e affidata a Abū ‘Abd Allāh al- Šī‘ī. La missione di questi ebbe successo in particolare tra i berberi Kutāmah delle montagne della bassa Cabilia, nell’odierna Algeria, particolarmente avversi agli Aglabidi e animati dall’annuncio del prossimo avvento del Mahdī,3 cioè ‘Abd Allāh al-Mahdī, il quale avrebbe ristabilito la giustizia e la vera religione (Daftary, 2011: 67-68). Peraltro, è importante sottolineare che questa tribù berbera era tenuta sotto controllo dalla gente araba della tribù di Qays della colonia di Balazmah, i capi dei quali, ribellatisi all’emiro aglabide Ibrāhīm II, furono accolti a Raqqadah col pretesto di raggiungere un accordo e poi sterminati con l’inganno (Amari, 1933: II, 70-71) – è chiaro che questo avvenimento diede ai Kutāmah una libertà di azione che si rivelerà in seguito nefasta per l’emirato aglabide. I Kutāmah erano kharigiti ibaditi e, dunque, avversi all’autorità alide, ma il giogo aglabide era certamente sentito con una intolleranza di gran lunga maggiore, a causa probabilmente della sua attualità rispetto ad avvenimenti lontani ormai di secoli. Così, Abū ‘Abd Allāh al-Šī‘ī riuscì, grazie al suo carisma, a una dottrina salda e a una condotta esemplare ad acquisire un seguito sempre maggiore tra gli appartenenti a questa tribù, fino a soggiogarla del tutto al suo messaggio e ai suoi obiettivi. A ciò vanno aggiunte le doti organizzative del dā‘ī sciita, che permisero in breve tempo di costituire tra i Kutāmah un’organizzazione compatta, strutturata e organica, tanto da spaventare molto lo stesso Ibrāhīm II quando si rese conto di questa situazione.4 Nel mese di rabī‘ primo (13 febbraio – 14 marzo) del 902, Ibrāhīm II abdicò in favore del figlio ‘Abd Allāh, che governò l’emirato aglabide con valore e giustizia, riuscendo ad arginare la minaccia dei Kutāmah. Tuttavia, nel 903 sopraggiunse una morte inaspettata per ‘Abd Allāh, che venne assassinato per una congiura ordita, molto probabilmente, dal figlio Abū Muḍar Ziyādat Allāh. Questi, nonostante tutto, riuscì con la ferocia e l’inganno a succedere al padre,

3 Al ciclo della profezia conclusa col profeta Muḥammad, secondo la dottrina sciita, segue un ciclo in cui l’umanità è retta da una scienza che è eredità spirituale (‘ilm irṯī) detenuta dagli Imām – le guide spirituali degli sciiti oltreché diretti discendenti del Profeta. Questo è il ciclo della walāyah («amicizia, santità»), che nell’ismailismo è caratterizzato da diversi periodi d’occultamento di un Imām che in seguito ritorna a manifestarsi come Mahdī («ben guidato») o Qā’im («colui che risorge»), dando inizio a un dawr al-kašf («ciclo di manifestazione»). Tutti i cicli si concluderanno con il sopraggiungere della resurrezione delle resurrezioni (qiyāmat al-qiyāmāt) e, dunque, con l’avvento del relativo Qā’im al-Qiyāmah (cfr. Khosraw, 1990: 84-87; Corbin, 2007: 86-114; Corbin, 2013; Filippani-Ronconi, 2014: 81-110; Mayerà, 2018/2: 76-80). ‘Abd Allāh, considerato dagli ismailiti come il diretto e ultimo successore legittimo del suo tempo di ‘Alī ibn Abī Ṭālib e dunque Imām, si proclama Mahdī, dando così inizio al primo dawr al-kašf. 4 Ibrāhīm II abdicò nel 902 in favore del figlio ‘Abd Allāh per ordine del califfo, ma certamente l’accondiscendenza nel rispettare quest’ordine di Bagdad fu favorita dalla presa di coscienza di quanto grave fosse la minaccia che l’alleanza tra Kutāmah e Ismailiti rappresentava per il suo regno (Amari, 1933: II, 95-96; Mayerà, 2018: 17 e nota 25, 22).

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conducendo il regno aglabide verso una repentina decadenza, causata dalla sua condotta dissoluta, inetta e vile. Con l’emirato in una simile situazione e al-Shī‘ī sempre più forte e ricco grazie alle numerose vittorie riportate dai Kutāmah nel corso degli anni, l’avanzata sciita in Nord Africa diventò inarrestabile e nel 909 giunse alla definitiva conquista di Raqqadah, la città-palazzo aglabide posta nei sobborghi di Qayrawan, e alla fuga in Egitto di Ziyādat Allāh. Così, il dā‘ī dei Kutāmah riuscì a porre fine al dominio aglabide, riuscendo in breve tempo a ristabilire l’ordine nei territori conquistati, tanto che nello stesso anno poté finalmente dirigersi verso Siǧilmāsah, dove nel frattempo si era rifugiato, sotto mentite spoglie, ‘Abd Allāh al-Mahdī, che era fuggito da Salamiyyah a causa delle persecuzioni abbasidi. Dunque, nel giugno del 909 al-Shī‘ī partì con un forte esercito verso la capitale midraride,5 conquistando durante l’avanzata anche Tahert, ponendo così fine anche al regno rustemide,6 ed entrando vittorioso a Sigilmasah ad Agosto. Il Mahdī fu allora liberato e riportato il 4 Gennaio 910 a Qayrawan, dove fu accolto trionfalmente. È così che gli Ismailiti riuscirono a creare un Califfato di tradizione sciita e, dunque, alternativo a quello abbaside in un vasto territorio che comprendeva tutto il Nord Africa esclusi i territori più occidentali – in mano alla dinastia idriside7 – oltreché la Sicilia (Amari, 1933: II/148-164; Daftary, 2011: 89-103; Mayerà, 2017: 32-34).

I PRIMI GOVERNATORI FATIMIDI IN SICILIA E LA CRONICA INSTABILITÀ DELL’ISOLA

Quando i fatimidi presero il potere in Africa nel 909, la turbolenta Sicilia viveva da 9 anni un periodo di pace, dopo che il valoroso figlio di Ibrāhīm II, ‘Abd Allāh, era riuscito a sedare l’ultima rivolta scoppiata nell’899 e conclusasi nel 900. In questo periodo l’isola vide succedersi quattro governatori: Abū Muḍar Ziyādat Allāh ibn ‘Abd Allāh dal 902 al 903, fino a quando fu richiamato dal padre in Africa nel maggio 903; Muḥammad ibn al-Sarqūsī, sostituito al precedente da ‘Abd Allāh; ‘Alī ibn Muḥammad ibn Abī al-Fawāris, probabilmente eletto dal popolo dopo il parricidio e deposto da Ziyādat Allāh; Aḥmad ibn Abī al-Ḥusayn ibn Rabāḥ, di una nobile famiglia con illustri antenati (Ibn al-Aṯīr in Amari, 1982: I, XXXV, 405; al-Nuwayrī in Amari, 1982: II, XLVIII, 124; Amari, 1933: II/165).

5 Dal soprannome del fondatore del regno, Midrār («elargitore di copiosa pioggia», m. 876), il regno kharigita sufrita dei midraridi controllò tra l’823 e il 976 la regione di Sigilmasa (oggi detta Rissani) nell’odierno Marocco sud orientale (cfr. Lo Jacono, 2003: 162). 6 Dal nome del fondatore della dinastia, Ibn Rustam (m. 788/171), il regno kharigita ibadita dei rustemidi dominò su Tahert, nell'odierna Algeria settentrionale, tra il 772 e il 909. 7 Da Idrīs ibn ‘Abd Allāh (m. 791), che fu riconosciuto Imām, tra il 788 e il 985 riuscirono a regnare nei territori intorno a Walīla e Fez nell’estremo occidente nordafricano.

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Quando in Sicilia si apprese della fuga di Ziyādat Allāh, immediatamente il popolo si risollevo, in questa prima fase però solo per destituire Aḥmad ibn Abī al-Ḥusayn e sostituirlo con il precedente governatore ‘Alī ibn Muḥammad al- Fawāris. Aḥmad e il qāḍī aglabide di Palermo Abū al-Qāsim al-Ṭarzī furono inviati prigionieri in Africa, nella speranza che questo dono potesse garantire ad ‘Alī un’autonomia solo nominalmente dipendente da al-Mahdī. Questi accettò volentieri i prigionieri siciliani e anche la richiesta di un incontro da parte del nuovo governatore dell’isola, che appena giunto in Africa fu imprigionato e sostituito immediatamente con un più fidato uomo dell’emiro: al-Ḥasan ibn Aḥmad ibn ‘Alī ibn Kulayb, soprannominato Ibn Abī Ḫinzīr, che sbarcò a Mazara il 10 Ḏū al-Ḥiǧǧā 297 - 20 Agosto 910 (Ibn al-Aṯīr in Amari, 1982: I, XXXV, 408). Ibn Abī Ḫinzīr nominò suo fratello ‘Alī governatore di Girgenti, città controllata dai Berberi e che mai ebbe prima una tale istituzione – è probabile che l’emiro africano volesse creare un qualche attrito tra Arabi e Berberi che giocasse a suo favore. Inoltre, l’isola, che fino a quel momento continuò ad essere amministrata secondo il diritto sunnita, ebbe il suo primo qāḍī sciita: Isḥāq ibn Abī al-Minhāl. Infine, fu rinnovato l’apparato amministrativo con l’inserimento di uomini nuovi e già l’anno successivo fu inviato un esercito in Valdemone per ristabilirvi il controllo, compromesso durante gli anni dell’emirato Ziyādat Allāh, ma senza attaccare la rocca di Demona,8 anche perché stava per scoppiare sull’isola una nuova rivolta. La scintilla che scatenò l’ennesima sollevazione popolare in Sicilia fu un presunto tradimento organizzato del governatore durante un banchetto tenuto con alcuni notabili dell’isola: «Gli ottimati della città, entrati ch’ei furono in palagio, parve ad alcun di loro di veder che gli schiavi negri si porgessero l’un l’altro delle spade ignude. Presi da timore aprono le finestre della sala e si mettono a gridare “all’armi, all’armi”. Levossi il popolo ad aiutarli; s’affollò intorno il palagio; appiccò fuoco alle porte. E [invano] uscirono gli ottimati dal palagio a protestar che l’emiro non aveva mai cercato di far loro alcun male: i sollevati, non persuasi di questo, fecer impeto contro l’emiro; ei si gittò dalla propria casa in quella d’un suo vicino; ma cascò, si ruppe una gamba, e fu preso e messo in prigione» (al-Nuwayrī in Amari, 1982: II, XLVIII, 126). Così, i Palermitani scrissero ad al-Mahdī che decise di perdonarli, depose Ibn Abī Ḫinzīr e, dopo un breve periodo in cui la capitale fu governata da Ḫalīl ibn Isḥāq – Preposto alla Quinta –, il governo della Sicilia fu affidato a ‘Alī ibn ‘Umar al- Balawī, giunto a Palermo il 28 Ḏū al-Ḥiǧǧah del 299 (15 Agosto 912).9

8 Antica città che dava il nome alla valle. 9 Amari, nella Storia dei Musulmani di Sicilia, sostiene di preferire al-Nuwayrī riguardo a questa datazione rispetto alle altre fonti, perché è l’autore che riporta il racconto più completo in merito a questi avvenimenti, come in effetti è. Nonostante ciò, la data che troviamo nella Storia di Amari è il 27 Ḏū al- Ḥiǧǧa, mentre in al-Nuwayrī troviamo una datazione del 28 dello stesso mese. Ovviamente ciò è poco rilevante ma ho ritenuto giusto sottolinearlo per evitare equivoci.

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L’ASCESA DI IBN QURHUB AD EMIRO DI SICILIA

È a questo punto che emerge nei tumultuosi accadimenti siciliani un personaggio, Aḥmad ibn Ziyādat Allāh ibn Qurhub, a detta delle fonti, nobile d’animo e di stirpe, un ricco uomo d’affari che si poteva fregiare con orgoglio del ricordo delle imprese di alcuni suoi congiunti al fianco di Ibrāhīm II e nella conquista di Siracusa, di famiglia devota agli aglabidi e sunnita, rispettato tanto dalla plebe quanto dall’aristocrazia dell’isola e apprezzato per la sua schiettezza e trasparenza anche dallo stesso al-Mahdī, col quale ebbe uno scambio epistolare. Da uomo pragmatico qual era e pienamente cosciente della reale situazione siciliana, Ibn Qurhub scrisse al califfo fatimida: «Se vuoi dar sesto al paese, mandavi grosso esercito che lo domi e strappi la potestà di mano ai capi; se no, la colonia rimarrà in perpetuo disobbediente alle leggi; ad ogni piè sospinto moverà tumulto contro gli emiri e te li rimanderà a casa svaligiati» (Amari, 1933: II/172). Da ciò risulta evidente che l’instabilità siciliana era dovuta alla presenza di una forte nobiltà locale, peraltro capace di dominare e manovrare senza grossi problemi la plebe che, nonostante fosse divisa tra fazioni arabe e berbere, riusciva in qualche modo a liberarsi periodicamente e provvisoriamente dal controllo africano. Una qualche prioritaria necessità di garantirsi un’autonomia finiva, prima o poi, per scatenare rivolte più o meno lunghe, che comunque si risolvevano infine col ritorno alla situazione precedente e l’invio di un nuovo governatore dall’Africa; perché a causa dei contrasti tra le diverse fazioni e senza una guida carismatica, i Siciliani non erano in grado di scegliersi autonomamente un governatore. Inoltre, con l’avvento dei Fatimidi, probabilmente la situazione divenne ancora più complessa e controversa. I consigli di Ibn Qurhub al califfo fatimida evidenziano che la necessità da lui sentita di una pacificazione dell’isola era tale da farlo potenzialmente schierare anche dalla parte di chi era obiettivamente un avversario; vien da pensare anche che evidentemente una situazione così instabile non facesse probabilmente bene agli affari, quantomeno ai suoi. Tuttavia, l’apparente speranza di un ordine cagionato dagli eserciti africani fu probabilmente in qualche modo deluso, forse a causa dalla debolezza, sottolineata da più fonti, di al-Balawī (Ibn al-Aṯīr in Amari, 1982: I, XXXV, 409; al-Nuwayrī in Amari, 1982: II, XLVIII, 126; Ibn Ḫaldūn in Amari, 1982: II, L, 189). Fatto sta che anche questo governatore fu scacciato e, dopo ripetute insistenze e conseguenti ostinati rifiuti, solo in seguito al solenne giuramento comune di arabi e berberi d’ubbidirlo fino alla morte, Aḥmad ibn Ziyādat Allāh ibn Qurhub accettò di diventare il nuovo governatore della Sicilia e il 18 maggio 913 il popolo siciliano lo investì del titolo di emiro.10

10 Non si comprende bene se ibn Qurhub avesse l’intenzione sincera di accettare il dominio fatimida, come sembra venire fuori dalla lettera ad al-Mahdī. Osservando le fonti, all’accettazione dell’incarico di governatore segue la volontà del nobile siciliano di porsi sotto l’autorità, sebbene solo nominalmente, del califfato abbaside. Non vi è alcun accenno a qualche titubanza in merito alla scelta di seguire questo o quel califfo. Forse è giusto vedere nell’accettazione dell’incarico di governatore una sottintesa rivolta senza compromessi all’autorità fatimida e la fine di qualsiasi speranza espressa nella lettera.

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IL BREVE RITORNO DELLA SICILIA SOTTO IL CALIFFATO ABBASIDE

Come più o meno da consuetudine, già nell’estate il nuovo emiro siciliano ordinò un’incursione in Calabria a fare bottino e prigioni fra i cristiani. Inoltre, decise di riportare sotto il giogo musulmano la Valdemone, che dopo le imprese di Ibrāhīm II aveva riacquisito una certa autonomia, peraltro con la ricostruzione di vari castelli distrutti dall’aglabide e anche di Taormina, detta infatti ora dagli Africani Taormina la Nuova. Questa fu posta sotto assedio dal figlio di Ibn Qurhub, ‘Alī, per tre mesi, dopodiché vi fu tra le fila musulmane una rivolta berbera, che per poco non causò l’uccisione dello stesso comandante, difeso dagli Arabi. L’assedio fu, dunque, tolto e l’impresa in Valdemone abbandonata. Ciò che più d’ogni altra cosa però stava a cuore all’emiro siciliano era liberarsi definitivamente del controllo fatimide e il primo passo non poteva che essere quello di riportare la Sicilia sotto l’egida del califfo abbaside, che a quel tempo era al-Muqtadir bi Allāh («Il Valente per grazia di Dio»). In realtà, si sarebbe trattato di un’egida esclusivamente formale, perché il califfo non aveva alcuna possibilità di proteggere materialmente la Sicilia da chicchessia in quegli anni.11 Peraltro, questa impossibilità di Bagdad di poter pretendere tributi e qualsiasi autorità se non esclusivamente quella di investire l’emiro di certo non dispiaceva a Ibn Qurhub e ai Siciliani, poiché ciò avrebbe garantito, accanto al ritorno di quella che per loro era l’ortodossia, anche quella sostanziale autonomia alla quale questi ambivano. Inoltre, l’emiro acquisiva, lui sì, un’autorità, una legittimazione e anche una riconoscenza molto utili per tenere uniti Arabi, Berberi, tutta la nobiltà dell’Isola e non ultimo far contenti i sunniti. Fu così che la ḫuṭbah tornò ad essere letta nel nome del califfo di Bagdad e fu mandata una lettera ad al-Muqtadir che naturalmente approvò l’intento di Ibn Qurhub, il quale fu investito ufficialmente con un diploma, il consueto dono, gli emblemi del comando, le ḫil‘ah (abiti di gala che si regalavano con le investiture) nere, le bandiere nere 12 e tutto ciò che occorreva, tutto inviato attraverso degli ambasciatori. Ottenuta ufficialmente l'investitura di emiro, Ibn Qurhub tentò l’ardita impresa di attaccare i Fatimidi direttamente in Africa, approfittando del fatto che gran parte dell’esercito di al-Mahdī era stato inviato in guerra contro l'Egitto. Così, il 9 Luglio 914, la flotta siciliana comandata dal figlio di Ibn Qurhub, Muḥammad, salpò verso l'Africa, giungendo il 18 presso il porto di Lamtah, vicino al-Mahdiyyah. Qui i Siciliani trovarono la flotta nemica, comandata dall'ammiraglio al-Ḥasan ibn Abī Ḫinzīr, il vecchio governatore scacciato due anni prima da Palermo. Nello scontro prevalse il figlio dell'emiro, Muḥammad, che bruciò tutte le navi nemiche e fece 600 prigionieri, tra i quali lo stesso Ibn Abī Ḫinzīr, al quale furono tagliati i piedi, le mani e la testa, che fu inviata come

11 Sulla situazione politica, economica e militare del califfato abbaside al tempo di al-Muqtadir vedi Lo Jacono, 2003: 255 e ss. 12 Il nero era il colore della casa abbaside.

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dono a Ibn Qurhub.13 Nonostante che al-Mahdī avesse inviato immediatamente dei rinforzi da Raqqadah, i siciliani sbarcarono e sconfissero gli Africani anche sulla terraferma, dopodiché si portarono su Sfax, che fu distrutta. Muḥammad continuò i suoi assalti anche verso nord fino a Tripoli, dove però trovò il figlio del califfo fatimide, al-Qā’im, con l'esercito di ritorno dall'Egitto, così decise di concludere l'avventura e tornare in Sicilia, col grosso bottino già ottenuto fino a quel punto. Rafforzato da queste importanti vittorie, Ibn Qurhub si impose come obiettivo prioritario quello di dare maggiore stabilità interna all'isola, ma non era questo un compito facile, tanto che si trovò completamente invischiato nelle innumerevoli beghe che tormentavano tutti i governatori siciliani: lotte intestine, corruzione, invidie e gente da accontentare. Pertanto, decise di lanciarsi in una nuova impresa in Calabria, con l'obiettivo di far bottino e accontentare le bramosie dei suoi, che evidentemente considerava più minacciose degli stessi Fatimidi che aveva alle spalle. Gli indifesi cristiani dell'estrema punta meridionale della penisola subirono i soliti saccheggi, ma a settembre del 914 o forse dell'anno seguente la flotta di Ibn Qurhub fece naufragio a Gagliano, presso il capo di Leuca, o a Gallico, vicino Reggio. Ciò fu il preludio della fine, perché la flotta, indebolita dal naufragio, si trovò a dover affrontare le forze navali fatimide, che vinsero, distruggendo tutte le navi di Ibn Qurhub. Inoltre, non riuscì a placare il malcontento interno nemmeno la pace stipulata con i Romani d'oriente per evitare nuovi attacchi musulmani in Calabria e Puglia, in base alla quale l'emiro siciliano avrebbe ricevuto un tributo di ventiduemila bizantini d'oro all'anno. Così, i soliti Berberi iniziarono a ribellarsi e nell'anno 303 dell'egira (16 Luglio 915 - 3 Luglio 916) Girgenti si sottrasse all'autorità dell'emiro, mandando peraltro una lettera di sottomissione ad al-Mahdī e istigando altre città alla rivolta. Ibn Qurhub cercò di far ragionare i rivoltosi, ricordando il giuramento fatto e cercando di convincerli a non rovinare gli sforzi fatti fino a quel momento, ma non ottenne risultati, così si giunse allo scontro, che condusse infine l'emiro alla decisione di andare in esilio in al-Andalus. Ma anche quest'ultimo desiderio fu deluso, perché, poco prima della partenza, Ibn Qurhub fu raggiunto sulla spiaggia da una moltitudine di gente che lo catturò, insieme alla famiglia e agli amici, inviando tutti al califfo fatimide, che li fece tutti fustigare a morte, gli fece tagliare mani e piedi e, infine, li appese a tanti pali davanti alla tomba di Ibn Abī Ḫinzīr (Yaḥyā ibn Sa‘īd in Amari, 1982: I, XXIX, 325; Cronaca di Cambridge in Amari, 1982: I, XXVII, 281-282; Ibn al-Aṯīr in Amari, 1982: I, XXXV, 409- 410; al-Bayān in Amari, 1982: II, XLIV, 23-26; al-Nuwayrī in Amari, 1982: II, XLVIII, 126-127; Ibn Ḫaldūn in Amari, 1982: II, L, 189-190; Muratori, 1845: Vol. III, Anno DCCCCXIII-DCCCCXVI, 984-998).

13 L’efferatezza di questo atto fu probabilmente dovuta a qualche vendetta relativa al periodo in cui Abī Ḫinzīr governò la Sicilia.

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CONCLUSIONI

Nobili e controrivoluzionari siciliani si illusero che, nonostante tutto, avrebbero ancora potuto pretendere una qualche autonomia dal califfo africano. L’esperienza fallimentare sperimentata nella storia, peraltro recente, doveva essere stata inspiegabilmente dimenticata da chi, dopo aver scacciato Ibn Qurhub, si prese la briga di scrivere ad al-Mahdī per chiedergli sì un nuovo governatore, ma senza la necessità d’altro, perché al resto avrebbero pensato loro. Che questa richiesta fosse motivata da arroganza, illusione o altre velleità non è facile dirlo, ciò che conta è che l’emiro africano reagì mandando in Sicilia uno sperimentato capitano di nome Abū Sa‘īd Mūsa ibn Aḥmad, detto al-Ḍayf («l’Ospite»), con al seguito una numerosa armata, rafforzata da schiere di Kutāmi, vale a dire l’élite dell’esercito – in un certo senso possiamo dire che anche in questo atto c’è la mano di Ibn Qurhub, se ricordiamo la lettera che questi mandò ad al-Mahdī qualche tempo prima. 14 Così, giunto al-Ḍayf a Trapani, accolse con falsa cordialità i notabili arrivati da Girgenti, per poi rendersi immediatamente conto che la diplomazia non sarebbe servita come al solito a nulla. Allora, il capitano, senza perdere altro tempo, mise in ceppi uno di questi capi girgentini, Abū al-Ġufār, e si diresse verso Palermo, assediandola, non da terra però ma dal mare. L’assedio della città di Palermo non fu cosa facile, anche perché intanto si era formata una lega tra Palermitani e Girgentini. Nonostante ciò, gli altri siciliani non si unirono all’alleanza e, così, lentamente i Kutāmi riuscirono a irrompere nella città, saccheggiandola e causando un gran numero di morti tra i civili. Solo la città vecchia continuò a resistere, ma grazie all’arrivo di rinforzi dall’Africa e alla fame che ormai attanagliava gli assediati, dopo un totale di sei mesi di assedio, si raggiunse un accordo. Al-Mahdī avrebbe perdonato tutti tranne due ribelli, che i cittadini di Palermo consegnarono prontamente; così, il 12 Marzo 917 al-Ḍayf entrò nella città vecchia e, contro i patti, abbatté le mura, disarmò tutti e arrestò e spedì in Africa molti notabili, che furono senza troppi scrupoli fatti mazzerare dall’emiro. Solo a questo punto fu proclamata da al-Mahdī una clemente amnistia, dopodiché al-Ḍayf tornò in Africa, lasciando il governo della Sicilia a Sālim ibn Asad ibn Rāšid, una forte schiera di Kutāmi e i progetti siciliani infranti. Nonostante Amari sottolinei una vera e propria spinta indipendentista nella rivolta della Sicilia contro i Fatimidi, ciò non appare evidente dall'esame delle fonti. La principale novità che gli storici antichi legano alla politica di Ibn Qurhub è il ritorno dell'isola sotto il califfato abbaside. Che poi ciò fosse legato anche alla possibilità di gestire la cosa pubblica siciliana con una migliore autonomia grazie alla maggiore lontananza e debolezza di Bagdad rispetto a Qayrawan è molto probabile, ma solo per gli interessi privati dell'aristocrazia locale e non di certo per i nobili propositi di indipendenza che un uomo del

14 Vedi supra, 6.

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risorgimento come Amari vi poté vedere. Detto ciò, l’esperienza di Ibn Qurhub dimostrò comunque che le forze e le risorse siciliane avrebbero potuto realmente garantire all’isola delle scelte libere dall’egemonia africana. Le razzie in Italia e la vittoriosa campagna del figlio di Ibn Qurhub, Muḥammad, in Africa mostrarono che un’attenta lettura delle complesse dinamiche politiche mediterranee lasciava ai siciliani anche un margine di manovre strategiche al di là del mare. Così, fino a quando il carisma e le buone doti politiche e strategiche di Ibn Qurhub furono in grado di domare gli interessi trasversali che minavano l’unità dell’isola ciò portò risultati inimmaginabili precedentemente. Tuttavia, troppo presto la solita bramosia di chi è poco lungimirante finì per prendere il sopravvento sull’emiro, che non riuscì più a imporsi. Ibn Qurhub non riuscì, evidentemente, a escogitare un modo per reprimere quella parte avida e corrotta della società che è spessissimo la vera causa della debolezza di un paese oppure non volle o non ne ebbe la forza. Fatto sta che l’emiro iniziò ad accontentare scelleratamente la cupidigia di vari capi locali con inutili e nefaste avventure militari che stroncarono sul nascere le mire siciliane, fondate sì su forze e risorse appropriate, ma sciaguratamente dilapidate. A posteriori possiamo certamente affermare che questa fallita aspirazione siciliana di diventare un emirato autonomo legato a Bagdad non fu in fin dei conti un male per l’isola, che visse sotto il califfato fatimide un periodo fulgido, peraltro caratterizzato da una sostanziale autonomia durante il periodo kalbita. Così, con la solita lettura privilegiata dei posteri e alla luce della splendida civiltà siciliana d’epoca fatimide, possiamo oggi giudicare in fondo con favore il fallimento dell’avventura pur ammirevole di Ibn Qurhub.

BIBLIOGRAFIA

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L’AUTORE Gustavo Mayerà è dottore di ricerca con una tesi dal titolo: “La scienza delle lettere (‘ilm al-ḥurūf) nell’Islam. Dalla tradizione classica all’Unmūḏaǧ al-farīd di Aḥmad al-‘Alawī (1869-1934)”. Inoltre, è cultore della materia e membro di Occhialì. Laboratorio sul Mediterraneo islamico e del comitato scientifico della presente rivista presso l’Università della Calabria. I suoi interessi di ricerca riguardano il sufismo, l’ismailismo, la scienza delle lettere, il tempo e la storia dei rapporti tra Islam mediterraneo e Italia meridionale.

E-mail: [email protected]

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SEZIONE STUDI E RICERCHE

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Remixing Battle Rap and Arabic Poetic Battling

Felix Wiedemann1

Abstract: This project examines particularities of Arabic battle rap in Lebanon. It discusses primarily the anchorage of battle rap in local and Arabic cultural traditions. To this end, interviews with rappers have been conducted. In conjunction with video recordings of battles, the rappers' statements comprise the core of the material used for this article. On that basis, references and similarities to written and oral cultural heritage are analyzed as well as language use. Altogether, this research shows links of Lebanese battle rap culture to global hip hop culture as well as to Lebanese and Arabic culture. Thus, Lebanese battle rap can be seen as a locally appropriated, “remixed”, cultural hybrid.

Keywords: Hip hop – Rap – Lebanon – Arabic – Sociolinguistics Parole chiave: Hip hop – Rap – Libano – Arabo – Sociolinguistica

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INTRODUCTION

In the last fifteen years, battle rap has grown into an increasingly popular sub- genre of hip hop (Mavima 2016: 87). It has also spread globally and made its way to North Africa and West Asia. There, Arab rappers are aware of battle rap's origins in Afro-American «oral, competitive, and communal traditions» (Mavima 2016: 86). However, Arab(ic) hip hop cultures do not only draw on Afro- American roots but also from local poetic traditions: Muhandas: I think the Arab culture is a culture that should relate to hip hop most of the world, [...] we were known as Arabs for our poetry and Arab poets [...] what we know now as battling they used to do and literally they used to freestyle, what we today call freestyle battle rap, they used to do it so eloquently back in the day. And when I mean back in the day, I mean, you know, 1000 to 1500 years ago. [...] Hip hop culture [was] created in the US, I mean you have black people, slaves, in cotton fields, in the 19th century, just picking cotton every day and they would just fuck with each other, [...] and eventually, this culture of cotton field

1* Many thanks go to the interviewed artists for their time, the Hans Böckler Foundation and the Orient- Institut Beirut for their support, and to friends and colleagues for their comments.

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poetry grew up to be some crazy afterschool parties in the Bronx and New York and eventually, it created hip hop, the rap element in hip hop. And then you import this to countries like Lebanon, and people come and say you know what? What you’re doing is fake! You’re getting American culture and bringing it to Lebanese Arab society. [...] We didn’t really import another culture and just put it here. We just got some elements in a really awesomely globalized world. We got some elements, adopted them and just reflected on them in our context and that’s something beautiful to do (Safieddine 2016).

In the statement quoted above, the Lebanese rapper Muhandas draws a line from nowadays rap battles to Arabic traditions of poetic battling. Thus, battle rapping, which developed in the USA in the 1970s, is adopted in Lebanon, adapted to local culture, and appropriated as a new kind of Arabic poetry. This article examines particularities of this kind of appropriation in Arabic battle rap in Arab countries, focusing exemplarily on Lebanon. It analyzes how Arab battle rappers make use of their local linguistic environment and situate battle rap as a hybrid between global hip hop and local poetic tradition. My research on this topic builds on reviewing literature, watching videos of Arabic and English rap battles, conducting interviews with Lebanese2 (battle) rappers, and combing through social media sites. It will contribute to an ongoing PhD project on Arab(ic) hip hop culture. Throughout the article, direct quotations of rappers are used in order not to speak for them but rather let them themselves speak. Arabic parts are translated into English and sometimes transliterated. Other Arabic words are only transliterated if there is no commonly used form of the word in English.

PRELIMINARY REMARKS ON (US AMERICAN) BATTLE RAP

Before diving into Arab(ic) battle rap, some remarks on US American battle rap are given. Several of hip hop’s so-called “elements”, which developed since the 1970s, incorporate competitive aspects: Graffiti artists cross each other’s tags (Macdonald 2001: 211–13). DJs compete against each other (Mavima 2016: 90). Breakers face each other in ciphers (Chang 2007: 4). Last but not least, rappers lyrically fight each other. The direct ancestor to these rap battles is seen by most scholars in a game called “the Dozens”, which was and is still played, for example, among Afro- American youths. The Dozens in its prototypical embodiment is a verbal duel of alternating insults, often based on the “Yo mama is...” pattern. However, it can also be a joke or a comment and a part of a conversation or a song (Wald 2012: 75–76). The Dozens might be a well-known source of battle rap but battle rap is also deeply embedded in different kinds of Afro-American cultural traditions and

2 I use the word “Lebanese” for describing rappers contributing to the rap scene in Lebanon. They do not necessarily have to have Lebanese nationality or be based exclusively in Lebanon.

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draws from a heritage of West African griots, the blues, roasts and Afro- Caribbean rhythms (Mavima 2016: 89). Content-wise, it assembles elements of braggadocio, signifyin3 and storytelling (Mavima 2016: 96). Battles can occur spontaneously in unorganized ciphers – circles of rappers in which improvising is practiced – for example, when one rapper occupies the microphone for too long or when rappers interrupt one another (Lee 2009: 585– 86). However, there are also organized battles that allow for more “writtens” that can be prepared more thoroughly and can aim more precisely at one individual opponent. These organized battles spread quickly due to video streaming platforms such as YouTube, on which battles can be watched shortly after they take place by fans all around the world (Mavima 2016: 92). This and the release of Eminem's semi-biographic movie 8 Mile in 2002 (Mavima 2016: 92) led to the emergence and blossoming of organized rap battles and tournaments. Around the year 2000, the first rap battle leagues were founded in the USA. By now, also outside of the USA, many leagues have been founded.

HIP HOP AND BATTLE RAP IN LEBANON

For a long period of time, the civil war and other military conflicts had hampered the development of a Lebanese hip hop scene. It is not until the early 2000s that the first rap albums were published in Lebanon. That is why artists like Samzz say that even today, «the hip hop community in Lebanon is kinda small» (Ajaj 2016) and Mad Prophet thinks that «il doit y avoir 30 rappeurs au maximum» (al Ahmar 2015). So hip hop is quite young in Lebanon and battle rap in particular is an even more recent phenomenon. The earliest recordings of a Lebanese rap battle I could find date from the year 2013 (Rony Abu 2013; Lebtivity 2015). Nonetheless, some Lebanese rap artists see great potential in battle rap, as exemplarily shown in the following quotes: Omar Kabbani (Ashekman): When you tell me about rap music, I don’t think it will grow as much as battle rap. Because battle rap is explicit, […] people like to see two people beefing. And even on social media when someone comments bad comments and you reply, people start to read the whole thread, you know, they want to see what they reply. And battle rap is the same thing. I think battle rap has a bigger, bigger, bigger opportunity to grow in the region, a lot, you know, a lot (Kabbani 2016).

Muhandas: I think battle rap is a good angle to start pulling people into the hip hop culture from, especially in Lebanon. Because you know, if you get Edd Abbas to perform a concert in Hamra festival, you gonna get fifty people, a hundred people. […] But if you get Edd Abbas and another Lebanese guy battle rapping in

3 Signifyin is a «form of verbal play [... ] wherein a speaker denigrates another through witty play on words and irony» (Mavima 2016: 90).

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Hamra, people are gonna go crazy, because there is violence in it (Safieddine 2016).

Chyno: It [battle rap] might open doors for new listeners, you know, to hip hop culture. But as I see it in the American or Western battle rap scene, people who listen to battle rap are really an entity of their own. […] People like to see a car accident. And in battle rap, that's usually the wanted outcome. One really destroying the other. It's much more an entertainment thing (Shorbaji 2016).

If Omar Kabbani and Muhandas are right, battle rap could have the potential to grow and draw people to hip hop culture in Lebanon. Thus, it seems to be appropriate to have a closer look at some of the battles and their peculiarities.

THE LANGUAGE(S) OF ARAB(IC) BATTLE RAP IN “THE ARENA”

“The Arena” is an ongoing series of organized rap battles that take place in different locations in Beirut. It was founded in 2015 when Dizaster, a well-known Los Angeles-based battle rapper with Lebanese origin, returned to Lebanon for a short-term visit. He got in touch with Omar Kabbani of Ashekman, who in turn contacted Edd Abbas, and together with Chyno, Johnny Headbusta and other local artists, the first battle in The Arena was organized. As of September 2018, there have been around twenty of these battles. The battles are announced as “The Middle East's First Official Rap Battle League” and their recordings are published on YouTube (see URLs in annex). All the battles have been moderated by Beirut-based rapper Chyno. Besides a crowd of a couple dozen fans, some artists like Qarar, Johnny Headbusta, El Rass, Mad Prophet and Koos have also been present at some of the battles. The battles in The Arena are either Arabic or English language battles. Battle rapper Samzz explains his view on why there are no battles of one language against another language: Samzz: You're not gonna have an English rapper against an Arabic rapper. Author: Why not? Samzz: Because there'd be an advantage. If I listen to English hip hop more than I listen to Arabic hip hop, I'm gonna take this side automatically (Ajaj 2016).

Language choice seems to be more than just the choice for a means of expression. It is a conscious choice, since many of the rappers are proficient in more than one language. As reasons for their language choice, the artists I talked to mentioned, for example, authenticity, linguistic possibilities and the possibility to target a certain audience: Omar Kabbani (Ashekman): Lebanese dialect, not fuṣḥā [Standard Arabic]. Because it's more authentic for me. [...] That's how I see it, but there's lots of rappers who do it in fuṣḥā. So they get a wider audience. I respect that. But for me,

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it's more comfortable and more authentic for me, on a personal level to speak Lebanese, Lebanese dialect (Kabbani 2016).

Muhandas: It’s like you’re playing in a soccer field and you’re just bouncing the ball back and forth, and if you're bouncing it, and then you realize that the Lebanese dialect is like you're sitting in a very small field and then you feel like you can’t move much, and then you use fuṣḥā and then you have an infinite field to play in (Safieddine 2016).

Samzz: If you're rapping in Arabic, you're basically talking to the Lebanese people and maybe the people around, like the Middle East. If you're rapping in English, you're talking to the people abroad, to kinda see what you live. For me, personally. […] I like to spit in English. I like to do that because... you know... the stereotypes outside... you're Lebanese, you're an Arab, you're a fucking terrorist (Ajaj 2016).

Different attitudes towards language use can sometimes clash in a battle. Linguistically, one of the most interesting battles in this regard was the battle of Muhandas against Dizaster. Muhandas, aka Najib Safieddine, is a Beirut-based rapper who released a couple of songs in 2011/12 with his crew, Illegitimate Minds. At that time, he rapped both in English and Arabic under the name “Menace”. He later changed his nom de plume to Muhandas and now focuses on Arabic lyrics. Dizaster, aka Bashir4, on the other hand, is a Los Angeles-based battle rapper who was born in Lebanon. He is one of the world's most famous, successful and controversial battle rappers, who competed in some of the most important international battle rap leagues like KOTD, GrindTime and URL. Following are some of Muhandas' verses he directed against Dizaster.

rhyme ﺎﻧا بﺮﺿا لﺎﺠﺗرﻻﺎﺑ -I drop bombs through improvisation bi-l 1 اﺬﻗ ﻒﺋ irtiǧāl which cause permanent concussions qaḏā’if ﺐﺒﺴﺘﺑ جﺎﺠﺗرا ﻢﺋادو irtiǧāǧ wadā’im ﺒﻄﻓ ﯿ ﻲﻌ ا ﻟ دﺮﻔ ﻦﻣ ا ﻞھ ’Because it is normal for a member of the house istīlā 2 ﺖﯿﺒﻟا [- ] ﻘﻣ ﺔﻣوﺎ small pause] ḫawāriǧ] ﺘﺳا ءﻼﯿ جراﻮﺧ to resist the seizure by outsiders ﺖﺗﺎﺑ ﺔﻘﯿﻘﺣ ﻲﻨﻧا ﺐﺒﺳ The truth is that I am the reason of your istī‘āb 3 ﻮﺟو كد ﺲﺑ ا ﻟ ﻈ ﺎ ﺮھ existence, but it looks like there are differences in fawāriq ﻮﻧا ﻲﻓ تﺎﺟرﺪﺑ the capability of comprehension ﺘﺳﻻا بﺎﻌﯿ قراﻮﻓ

4 His last name is not known to the public.

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ﻮﻧﻻ ا ﻟ ﻞﻜ ﺑ ﯿ فﺮﻌ ا ﻮﻧ Because everybody knows that the American l-išti‘āl 4 ﻲﻜﯾﺮﻣﻻا ﺔﺟﺎﺤﺑ needs the Arab as fuel to light disasters kawāriṯ ﻲﺑﺮﻌﻠﻟ دﻮﻗﻮﻛ دﻮﻗﻮﻛ ﻲﺑﺮﻌﻠﻟ ﺷﻻ ﺘ ﻌ ﺎ ل ﻛ ﻮ ا ثر

Muhandas compares his improvisation (irtiǧāl) skills to “dropping bombs”. Of course, rap battles include parts that are improvised either to a higher extent or even completely. However, in general, most of the verses in organized battles certainly are not improvised. Many battle rappers can draw from a set of thousands or tens of thousands of pre-written verses, which can be adapted to specific situations. Nonetheless, the illusion of improvisation is a motive that frequently occurs, even in organized events, in which all the participants have done research on their opponents' weak spots and have thoroughly prepared their verses. Though this is obvious to the two contenders and to the audience, everyone agrees silently on this staged simulation of improvisation. Rappers pretend to improvise and reproach their opponents of spittin' writtens. In these bars, Muhandas portrays Dizaster in multiple ways as someone who does not belong to an in-group he himself is part of. He boasts with being a member of the ahl al-bayt – the family of the prophet Muḥammad – for whom it is “normal to resist outsiders”. Emphasis should be put on the use of plural nouns in this bar. Muhandas contrasts ahl al-bayt with ḫawāriǧ (outsiders), placing him in a group of religiously respected people, and Dizaster in a group of foreigners, ridding him of his name and making him one of many. In the next bar, he mocks Dizaster by saying that there are “differences in the capability of comprehension”, which could allude to Muhandas' superior command of the Arabic language. The fourth bar skillfully exploits the fact that Dizaster has lived most of his life in the USA and not in Lebanon. Muhandas contrasts “Americans” and “Arabs” by reproaching “Americans” with “need[ing] Arabs as fuel to light disasters”. Wittily, Muhandas uses the Arabic translation of “disasters”, “kawāriṯ”, to describe this chaos, drawing a connection between Dizaster and bad effects of US-American foreign policy in the region. The content of Muhandas' verses is underlined by elaborate rhyming patterns. He boasts with eloquence and good command of the Arabic language. While some of his words (e.g. bas, innū) and the verb conjugation (prefix b-) are markers of Lebanese dialect, he draws heavily from Standard Arabic (fuṣḥā). This becomes clear, especially when focusing on the rhymes. Muhandas makes use of Arabic morphology to construct an impressive rhyming pattern. In these four verses, Muhandas uses five times the pattern “istif‘āl + fa‘ā’il”. By employing words of the same grammatical category, which share the same morphological structure, as well as short and long vowels, Muhandas assures that the words rhyme perfectly. This results in a multi-syllable assonance, i.e. a multi-syllabic vowel sound rhyme, (Edwards 2009: 84) on “i-i-ā a-ā-i” like irtiǧāl qaḏā’if and irtiǧāǧ wadā’im.

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Muhandas uses this pattern four times as an end rhyme and one time (in line 1) as an internal rhyme. Multi-syllable rhymes are regarded as a way to measure a rapper's technical skills, as Muhandas himself explains: Muhandas: It’s very catchy for a hip hop person when he listens to a lot of inner rhymes, or a lot of multi-syllable rhyming, because we don’t only hear one rhythm or one rhyme, we hear multiple and this gives us the... ‘Holy shit! You know this guy is crazy!’ See, if I rhyme ‘car’ with ‘bar’ it’s different than if I rhyme it with... I don't know, ‘crazy bar’ and ‘shady car’. It's different, when I hear ‘shady bar’ and ‘crazy car’, I'm like ‘Oh my God, he rhymed two words!’ And then I rhyme three words and this is catchy for them (Safieddine 2016).

His good command of the Arabic language is a repeated theme, which is woven into several of Muhandas' verses. In another bar, Muhandas directly advices Dizaster to “learn (proper) Arabic”; “biddak tat‘allam ‘arabī”. This thread is taken up by Dizaster, who focuses in his rebuttal – amongst other things – on Muhandas’ use of fuṣḥā.

fuṣḥā highlighted in grey rhyme fuṣḥā highlighted in grey ﻢﻋ كﺎﺘﻨﯾ ﻮﺒﻠﻗ و يﺎﺟ ﺪﺣاو ﻰﺤﺼﻓ His heart is getting fucked, a fuṣḥā guy 1 نﻮھ ﻚﯿﻨﻤﺘﯾ ﻠﻋ ﯿ ﻨ ﺎ نﺮﻤﺘﯾ . ﻊﻤﺳا ﻒﯿﻛ coming to fuck with us. Listen to how ﻲﻜﺤﯾ ,he talks

ﻮﻠﺘﻠﻗ لﺎﻌﺗ ﺐﻌﻠﻧ I told him to come and play soccer, football 2

ﻲﻠﻗ ﺳ فﻮ دﺪﺳا ةﺮﻜﻟا ﻮﺤﻧ ﻲﻣﺮﻤﻟا . He said, “I will kick the ball towards 3 فﻮﺳ دﺪﺳأ ةﺮﻜﻟا ﻮﺤﻧ ﻲﻣﺮﻤﻟا the goal. I will kick the ball towards the goal.”

ﻲﻟ ﺎﯾ ﻲﺧا shoot ﺔﺑﺎﻄﻠﻟ ﺧو ﻨﺼﻠ ﺎ ﻰﻘﺑ Why bro, just shoot the damn ball 4

ﻒﯿﻛ ﻲﻜﺤﯿﺑ ﻊﻣ تﺎﻨﺒﻟا ﻠطا ﻮﻌ ا ﻮﻓﻮﺸﺑ ا Look how he talks to a girl. He sees a 5 ةأﺮﻤﻠﻟ ﻚﯿھ ﺎﮭﻠﻘﺑ ,woman like this and says to her

فﻮﺳ مﺮﻐﻧ ﺎﻨﻀﻌﺒﺑ ”We are going to fall in love“ 6

ﻚﯿﻟ ﻮﺧ ﻓ ﺘ ﮭ ﺎ ةأﺮﻤﻠﻟ ﻮﺧ ﻓ ﺘ ﮭ ﺎ ةأﺮﻤﻠﻟ ﻲﻨﻌﯾ -You scared her, you scared the ha-l 7 ﻮﺷ ﺎھ ﻲﻜﺤﻟ ﮫﯿھ woman, what kind of talk is this ḥakī hēh ﺎﻧا ﻲﻧﺎﻨﺒﻟ ﻘﺣ ﯿ ﻲﻘ ﻂﺤﺑ يﺮﯾا ﺎﻋ ﻟوﺎﻄﻟ ﺔ I am a real Lebanese, I slap my dick maṣīlī 8 ﺎﮭﻠﻘﺑ ﺼﻣ ﯿ ﻠ ﻲ هﺎﯾا on the table and tell her to suck it yēh

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فﻮﺳ ﻚﺴﻤﻟا ﻰﻠﻋ ﻚﺋﺎﻀﻋا ﺔﯿﻠﺳﺎﻨﺘﻟا ”I will touch your genitals“ 9

نا ءﺎﺷ قﺮﺘﺤﯾ رﺎﻨﻟﺎﺑ -What kind of shit is this man; I hope bi-n 10 he burns in fire nār

ﻢﻋ ﻲﻟﻮﻠﻤﻌﺑ ﺪﺣاو او ﻒﻗ ﻞﺘﻣ ﺮﺟ ﯾ ﺪ ة -I am battling against a guy standing an 11 رﺎﮭﻨﻟا like the “Al-Nahar” newspaper nahār

Dizaster uses a strategy that differs completely from Muhandas'. He does not even try to compete with Muhandas when it comes to mastery of the Standard Arabic language. In the excerpt above, only two bars rhyme with their predecessor. These two rhymes are one multi-syllabic assonance on “a-ī-(ī)-ē” and one perfect rhyme on “ār” (Edwards 2009: 82–89). Instead of focusing on language mastery, Dizaster opts for painting the picture of Muhandas as a “fuṣḥā- guy” (“wāḥid fuṣḥā”), i.e. someone over-using Standard Arabic. He gives examples of how he imagines Muhandas talking fuṣḥā in two everyday situations: at the soccer field (lines 2-4) and talking to women (05-9). All of Muhandas’ fuṣḥā phrases are contrasted with Dizaster, who portrays himself as a “real Lebanese” (“lubnānī ḥaqīqī”) speaking Lebanese Arabic. The comical effect Dizaster’s lines produce, comes from fuṣḥā breaking the non-written rules of diglossic functional separation of language use domains. In a ‘diglossic’ linguistic situation, at least two language varieties (or languages) are used by one community. Which language variety is used depends on the social context. In everyday situations like a soccer game or in conversations, the non- marked language would be Lebanese Arabic and not fuṣḥā. Dizaster portrays Muhandas as someone not familiar with linguistic conventions using formal fuṣḥā in situations in which it is not appropriate. His own bars, on the other hand, feature translanguaging (García 2009; Canagarajah 2013) including dialectal expressions, sociolect in the form of swear words, as well as some English loan words. Dialect is visible through words as šū (“what”), zalamē (“man”), lēh (“why”) and many others. On several occasions he uses words like yantāk (“get fucked”), ērī (“my dick”), and ḫarā (“shit”). He goes for the originally English words “football” and “shoot” instead of choosing their Arabic equivalents. Another striking aspect is the sexism inherent in Dizaster's bars. On the one hand, one could share Muhandas' interpretation, which sees Dizaster's bars as an impersonation of a stereotypical, ignorant Lebanese citizen: Muhandas: He adopted this persona of the Lebanese citizen, that guy who doesn’t give a fuck (Safieddine 2016).

Such an interpretation could see Dizaster's bars as a hyperbolic satire on sexism in Lebanese society. However, one could also perceive them as a simple

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reproduction of this sexism and of hypermasculine boasting, which is frequent in battling cultures from rap over the Dozens, to the poetry of al-Farazdaq and Jarir (Jorgensen 2012; Oware 2015). In any case, these bars are intended to shock the audience and make them laugh. By ridiculing Muhandas as a “fuṣḥā-guy” and by using “street language” himself, Dizaster paints a picture of himself as being more authentic, more real than Muhandas. The authenticity inherent in Dizaster's language is based on its emphasis on locality. This concept of keepin it real is frequent in hip hop and can be understood «as a discursively and culturally mediated mode of representing and producing the local» (Pennycook 2007: 112). Another way to focus on locality besides language use is to link battle rap to similar cultural phenomena predating the rise of battle rap.

ARAB(IC) BATTLE RAP AND ITS CONNECTION TO ARABIC POETIC BATTLING

Some rappers in Lebanon see similarities between Arabic zağal poetry and rap battles. Edd Abbas, who raps in the Lebanese crew Fareeq el Atrash, points out: «Hip hop is modern time poetry. Before, there was classical poetry like zağal» (Tobia 2011). Omar of Ashekman says Omar/Ashekman: Funkmaster Flex or like the really old school DJs or rappers, they started in the seventies, eighties. zağal was in the 1940s [sic], and zağal [...] it’s improvised, and they use instruments, and it’s like improvised dissing each other. […] There’s something that came from the Middle East, and we have to shed the light on it. […] So yeah, in a way it started there [in the USA], if you want facts, it started there. But since the Middle East or Lebanon don’t have the media, or we’re not the United States, we don’t have the exposure and everything. That’s why we couldn’t export this culture outside, you know? But we’re being sarcastic; we know that hip hop started in the States. (Kabbani 2016)

This connection between battle rap and zağal is also seen by journalist and hip hop activist Jackson Allers, who says that «zağal was really the first, Arab incarnation of battle rap, if you want to call it that» (Eyre und Allers 2013). The term zağal was originally used for «a genre of vernacular poetry written in a local dialect, which spread in Muslim Spain during the 12th century» (Hazran 2013: 170). It nowadays describes a variety of different sorts of vernacular Arabic poetry (Hazran 2013: 171). In Lebanon, the birth of zağal is dated to the 15th century, when Maronite priests started composing poems in this new genre (Hazran 2013: 171). Today, zağal is either sung or recited, (Hazran 2013: 172) and verbal duels between different singing groups (ğauqāt) or individual poets (qawwāl) are held (Hazran 2013: 172–73). “Al-zağal, recited or song poetry” was even inscribed on UNESCO’s Representative List of the Intangible Cultural Heritage of Humanity. It justified this decision stating that zağal «plays an important role in

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promoting social cohesion and inclusion and provides Lebanese people with a sense of cultural identity and continuity» (UNESCO 2014). When one compares Lebanese zağal, as described by Haydar (Haydar 1989) with rap battles, one observes resemblances like the poetic dueling itself and the importance of originality and improvisation. On the other hand, zağal seems to be more structured, prescribing meter and rhyming patterns and banning plagiarism. In battle rap, rhythm takes the place of meter, rhyming patterns are not prescribed, and commonly known verses can also work as an homage or a citation, instead of being condemned as plagiarism. These verses can be used for connecting to the audience through shared knowledge and sometimes initiates call-and-response. Rapper Edd Abbas not only draws a connection between zağal and battle rap in theory, but also emphasizes on it in his battle against Dizaster as the following lines show:

،فوأ فوأ فوأو - فوأ Ouf, Ouf, Ouf - Ouf 01 ﻠﺧ ﯿ ﻲﻨ ﻊﺟرإ ﯿﻋ ﺪ ا Let me repeat it 02 ،فوأ فوأ فوأو - فوأ Ouf, Ouf, Ouf - Ouf 03

ﺎﯾ ﺮﯿﺷﺎﺑ ﻚﻧﻮﻛ ﯿﺟ ﺘ ﻨ ﺎ Yo Bashir, since you have sung 04 come to us ﻞﺟﺮﻤﺘﺗ ﻰﻠﻋ ﻨﯿﺿارأ ﺎ 05 acting all manly on our land ﺎﻘﺒﯿﺑ ﻠﻋ ﯿ ﻨ ﺎ ﺐﺣﺮﻧ ﻚﯿﻓ 06 We have to welcome you and ﻊﺟﺮﻧو كﺮﻛﺬﺘﻧ ﺎﻧﺪﯿﻟﺎﻘﺘﺑ 07 remind you of our traditions

نﻷ ﻜﺷ ﻚﻠ ﯿﺴﻧ ﺘ ﺎ Because it looks like you forgot 08 them ﺎﺜﻣأ ﻚﻟ ﻮﻄﺤﻨﯿﺑ ﺎﻨﻀﯿﺣاﺮﻤﺑ Your likes are put in our toilets نﻮھ ﻲﻟإ ﻞﺟﺮﻤﺘﯿﺑ ﻮﻔﻗﻮﻨﻣ ﻞﻋ ﺔﻌﺑرأ ﻞﺘﻣ 09 ةﺰﯿﺑاﺮﻄﻟا Here, those who act all manly are 10 stood on fours like a stool

ﻲﻘﻠﺑ يﺮﺟإ ﻠﻋ ﻚﯿ ﺎﻧأ ﻢﻋو ﺐﻌﻠﺑ I put my leg on you at home while Play 11 Station ﺖﯿﺒﻟﺎﺑ playing PlayStation

ﻔﺴﺑ ﻚﻘ ﺔﻄﺒﻟ ﻞﻛ ﺎﻣ ﺐﺼﻋ لاﺪﺑ ﺎﻣ بﺮﺿأ I kick you when I get angry instead لا Play Station ﻂﯿﺤﻟﺎﺑ of throwing the Play Station at the 12 wall

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Edd Abbas introduces his part with a traditional beginning, oftentimes used in Lebanese zağal “Ouf ouf ouf”, to which the audience responds “Ouf”. This interchange gets repeated once even more loudly than the first time. At this point, Edd Abbas has already succeeded in involving the audience and connecting with them through call-and-response. He also placed his battle verses in a wider context of Arabic poetic tradition. After this setup, the next verses are sung, not spoken. Edd Abbas sings, Dizaster has come to “act all manly on our land” and “we have to welcome you and remind you of our traditions”. He adds in spoken words (not sung) that it seems Dizaster has forgotten these traditions. The singing is a reference to zağal poetry, which is often sung. Besides this, the use of pronouns is particularly striking. By using the first person plural suffix (-nā) and the second person singular suffix (-k), Edd Abbas creates a dichotomy between the “outsider” Dizaster and an in-group containing himself and the rest of the people who are present. He continues that “your likes are put in our toilets”. After this, he says that “those who act all manly are stood on fours like a stool” [line 10] and that he would put his leg on him when playing PlayStation and kick him when getting angry. Line 10 can be seen as a transition between zağal and battle rap, containing both the expression for “acting all manly” (tatamarǧǧal), which was used in the lines before, and the “PlayStation”, which can be seen as representing nowadays Lebanese youths' pop-cultural surroundings. While Edd Abbas focuses in rhymes on the connection between Lebanese zağal and battle rap, zağal is not the only Arabic form of poetry that resembles battle rap, as Muhandas clarifies: Muhandas: But then again, isn’t that what Mutanabbi was doing 2000 years ago [sic]? […] It’s in our culture, and I think this is why it appeals to people, and this is why it’s rooted in our culture. Because the poetry that we study now in universities and schools is basically two very prestigious poets fucking each other up in a very profound and interesting way [...] Zağal is this Lebanese version of battle rap. But it’s very old, you know, it’s what Mutanabbi was doing 2000 years ago [sic] but in a Lebanese dialect, where you have a poet sitting and a poet facing him, and the poet would say four lines of humiliation and then the other poet would reply with four lines and back and so on and so forth, and you have judges who judge based on what? Based on the use of language, based on wittiness, and based on intelligence. I mean isn’t that what battle rap is judged by? It is the same. It is the exact same. So it’s natural that people would appeal to battle rap [sic] and I think battle rap is a good angle to start pulling people into the hip hop culture from, especially in Lebanon (Safieddine 2016).

As Muhandas explains, there are not only similarities between battle rap and Lebanese zağal but also between battle rap and ancient Arabic poetry, represented here by al-Mutanabbi (d. 965).

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CONCLUSION

This article highlighted processes of cultural remixing in the Lebanese battle rap scene. To do so, it initially introduced its reader to the US-American battle rap culture and its roots in different African American cultural traditions. It then briefly sketched the Lebanese battle rap scene before diving deeper into its linguistic particularities: Lebanese battle rappers use different registers of Arabic to either portray themselves as stylistically and rhetorically superior (fuṣḥā- approach) or as more authentic and closer to the people (dialect-approach). By playing with similarities between battle rap and other forms of Arabic, rappers appropriate and locally anchor battle rap culture in Lebanon. Thus, Lebanese rappers have succeeded in creating a distinctively local battle rap culture. They do so through negotiations of local languages' roles and references to different oral cultural traditions. The latter range from hip hop over ancient Arabic poetry to Lebanese zağal. As a result, battle rapping, which developed in the USA in the 1970s, is adopted in Lebanon, adapted to local culture and appropriated as a new kind of Arabic poetry, a sort of «Lebanized-battle-rap» or «hip-hopified-Arabic-poetry». Hip hop, with its focus on remixing, is an ideal tool for this kind of «hybrid hyphenation» (Bhabha 2004: 219). It is not a fixed form of culture imposing itself on people but a rather fluid one, allowing its reconfiguration by everyone. This process of reconfiguration and remixing is also described by Muhandas: Muhandas: The way we understand classical music here is that it’s very rich white music. Okay, that’s how people understand it here. So when you get music that is understood in this context, and then you mix it with some very grimy and disgusting drums from a 1970’s record by James Brown and you get magic (Safieddine 2016).

A particularly interesting point Muhandas mentions here is the notion of «whiteness» getting transformed into «magic». He self-identifies as non-white and thereby places himself in the lines of the transregional non-white majority. This community dominates hip hop cultures all around the globe. It uses remixing as a tool to strengthen a sense of identity, which emerges out of a shared impression of marginalization and oppression by «white» euro/US-American racism and imperialism (Osumare 2001; Lipsitz 1997). This article focused on remixes of Arab(ic) hip hop with other forms of Arab(ic) culture. Another form of remixes are linguistic remixes many (Arab) rappers employ when they code-switch from Arabic to French, English or other languages (Hassa 2010). By using such a multi-lingual mélange, they create connections to rappers and listeners of different linguistic backgrounds and capabilities, and thus boost the transnational hip hop community. It can be added to this effect that hip hop’s hybridization is not a one-way street but rather an ongoing process of mutual impact. This comes to light not only in the Arab(ic) battle rap scene but also, for example, through Muslim hip

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hop cultures in the USA and in what H. Samy Alim calls the “transglobal hip hop umma” (Alim 2005). Just like US-American hip hop influences Arab(ic) hip hop cultures, US-American hip hop cultures are influenced by different Muslim denominations in the USA and elsewhere, and their respective approaches to hip hop. Here, I primarily zoomed in on a part of the Lebanese battle rap scene represented by The Arena. On a broader scale, the Arab(ic) battle rap scene is a subcultural field that has been growing in the past couple of years. There are videos of battles that took place in Algeria as early as in 2013 (Bilel smitcha 2013). Other Arab hip hop scenes, for example, in Morocco, Egypt (Raeph 2016) and Jordan (Gurus Productions 2016) have also organized rap battles. This article aims at contributing to a better understanding of some aspects in this hip hop subculture. Hopefully, it also revealed that battle culture has a lot more to offer than the expected “beefing” and “violence”.

BIBLIOGRAPHY

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THE AUTHOR Felix Wiedemann is a PhD student in Arabic Studies at the University of Bamberg and works at the Bavarian State Library in Munich.

Email: [email protected] ORCID: 0000-0001-9563-8207

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Il Naqqāli iraniano. La memoria sonora del rito

Dario Tomasello

Abstract: As UNESCO site states, on the page of the Intangible Cultural Heritage, the Naqqāli «has long played an important role in Iranian society, from the courts to the villages. The performer - the Naqqal - recounts stories in verse or prose accompanied by gestures and movements, and sometimes instrumental music and painted scrolls». The recursive form of each oral narration is enriched by a lyrical musicality marked by the pressing rhythm of the breath that drags the plot, especially in battle scenes, towards what seems, in effect, a phenomenon of trance.

Parole chiave: Rito – Orazione – Narrazione – Tradizione – Performance Keywords: Rite – Orature – Storytelling – Tradition – Performance

***

INTRODUZIONE Questo lavoro può considerarsi parte integrante delle sinopie di una trattazione generale della narrazione orale tra Mediterraneo e Medio-Oriente. Si tratta in effetti di un proposito ambizioso destinato a declinare la sopravvivenza del carattere rituale del racconto in forme narrative sorprendentemente fortunate e diffuse. Il carattere popolare di tali narrazioni non deve, tuttavia, costituire un dato fuorviante rispetto alla loro scaturigine sacra che manovra l’intrattenimento verso un’escatologia robusta e salvifica. È uno scivolamento consapevole verso una forma più autentica di conoscenza che rimanda, ancora una volta, alle radici ancestrali della teatralità rituale, capaci di ricordarci che, non a caso, la nostra felicità è un riflesso della Sua felicità, e questa identificazione è sempre possibile per coloro che siano qualificati: «Fra i nomi principali di Shiva vi è quello di Nataraja, “Signore dei danzatori” o “Re degli attori”. Il cosmo è il Suo teatro, il Suo repertorio comprende molti passi differenti, ed Egli stesso è nello stesso tempo attore e pubblico […]» (Coomaraswamy, 2011: 107).

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Che si tratti di una conoscenza di ordine superiore è ciò che i teatri orientali, ancora per lo più non dimentichi della loro origine, continuano a ricordarci. È di quella conoscenza che si avverte una struggente nostalgia, come ricorda la storiella chassidica5 riferita da Carlo Severi nell’ouverture del suo saggio sulla Memoria e la voce, in cui appare piuttosto chiaramente come la performatività che garantisce la durata della memoria non sia indirizzata a una rappresentazione, ma divenga un rituale intimo che, pur nella rarefazione crescente dei suoi contenuti e delle sue forme (indotta dal tempo che passa e dall’indifferenza crescente nei confronti del cerimoniale stesso) non trova redenzione nel racconto, nonostante lo studioso la pensi diversamente. Tanto è vero che la narrazione, che dovrebbe riscattare in qualche modo dall’oblio l’antica forma rituale6, altro non è che il suo certificato di morte. Eppure, il surrogato non attinge se non in minima misura alla ricchezza realizzativa della fonte originaria. La narrazione in quanto rappresentazione, in quanto presentazione, in quanto mediazione è solo una pallida copia di ciò a cui l’uomo veramente aspira. Tuttavia, sopravvive come retaggio estremo di una condizione originaria che va recuperata, secondo gli stilemi del restored behavior, ovvero del “comportamento recuperato”, così come Richard Schechner lo definisce:

[…] la fonte e l’autenticità originaria diun comportamento potrebbero rimanere ignote o essere smarrite, ignorate o contraddette, persino nel momento in cui quella autenticità e quella fonte siano celebrate come tali. Nel momento, cioè, in cui sono create, trovate o articolate, quelle sequenze comportamentali possono rimanere ignote o essere celate, trascolorate nella visione distorta del mito. Il comportamento recuperato può essere di lunga

5 «Il padre di mio nonno, per onorare Dio, usciva di casa prestissimo, alle prime luci dell’alba. Andava nel bosco, seguendo un sentiero che solo lui conosceva, fino a che non raggiungeva un certo prato, ai piedi di una certa collina. Arrivato vicino a una sorgente, si metteva di fronte a una grande quercia, e cantava in ebraico una preghiera solenne, antica e segreta. Suo figlio, il padre di mio padre, usciva anche lui di casa molto presto, e andava nel bosco seguendo il cammino che il padre gli aveva mostrato. Solo che lui, che aveva il respiro pesante e tanti guai per la testa, si fermava prima. Aveva trovato una betulla vicino a un ruscello, davanti alla quale cantava la preghiera ebraica che aveva imparato a memoria da bambino. E così, anche lui onorava Dio. Suo figlio maggiore, mio padre, aveva meno memoria, era meno pio e aveva una salute meno vigorosa. Così, non si alzava più così presto, andava giusto vicino a casa, in un suo giardino dove aveva piantato un alberello, e, in modo molto più impreciso, mormorava qualche parola ebraica, spesso zeppa di errori, per onorare Dio. Io, che non ho né memoria né tempo, ho dimenticato dove si trovava il bosco, non so più nulla di ruscelli o di fonti, non sono più in grado di recitare nessuna preghiera. Però mi alzo presto e racconto questa storia: e questo è il mio modo di onorare Dio» (Wiesel, 2004: 3). 6 «Però, conclude il narratore, anche lui continua a onorare Dio. Lo fa in modo paradossale, visto che lo fa raccontando come è scomparsa la preghiera, che lui non può più recitare. Qui il testo sembra farsi più sottile. Non distingue più soltanto tra parola pronunciata e parola scritta. Traccia invece una prima distinzione nell’ambito delle parole dette: tra ciò che si può raccontare, le storie, e parole di ordine diverso, che vanno rivolte, in modo solenne direttamente a Dio. Alcune parole sono fatte per raccontare, altre per celebrare, sembra aggiungere l’apologo hasidim, e insieme offre la più bella prova che solo il narrare, non il rito e le sue esotiche funzioni, fanno memoria. Infatti, è soltanto la storia, non la preghiera, che è rimasta in mente al narratore» (Ivi: 4).

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durata, come nella performance rituale, o di breve durata come nei gesti fluttuanti di una mano che saluta. Il comportamento recuperato è il processo chiave di ogni performance: nella vita quotidiana, nella terapia, nel rituale, nel gioco e nelle arti (Schechner, 2018: 81).

La prospettiva metodologica di Richard Schechner ci invita dunque a un’analisi delle azioni compiute dal narratore, il Naqqal, nel segno non di un’archeologia del sapere, ma del valore vivificante, o rivivificante, delle azioni. Il Naqqāli è una performance narrativa di origine rituale il cui repertorio principale riguarda lo Shāh-Nāmé (Il Libro dei re) di Firdūsī composto nell’arco di un trentennio tra la fine del X secolo e l’inizio dell’XI dal più grande poeta persiano. Il testo di Firdūsī narra la storia della Persia dal 5000 a.C. sino alla conquista da parte della civiltà arabo-islamica (cfr. Malmir 2008; Zomorrodi- Ghorbani 2011). È notevole considerare come i primi riferimenti alle parole Naqqal e Naqqāli sono attestati almeno dal XIII secolo (vedi Page 1979; Omidsalar 1984) in guisa, rispettivamente, di ‘narratore’ e ‘narrazione’. Si tratta di un tentativo di negoziazione audace non solo tra pregressa cultura persiana e incipiente cultura islamica, ma anche tra istanze artistiche ancestrali e una tradizione religiosa destinata a proporre una complessa visione della musica e dell’utilizzo degli strumenti musicali. Una visione che, com’è noto, al-Ghazālī (1058-1111) ha chiarito nel Kitāb adāb al-samāʾ wa l- wajd (Libro dell’educazione alla musica e all’estasi), capitolo VIII del Libro IV dell’opera capitale Iḥyāʾ ʿulūm al-dīn (Il ravvivamento delle scienze religiose)7:

L'atteggiamento di al-Ghazal̂ î nei confronti del samâ' appare invero estremamente articolato e rivela non solo il suo spessore filosofico ma anche la tempra del giurista che discetta, talora spaccando il capello, sulla liceità delle attività musicali nelle più varie circostanze […] Ecco, Al- Ghazâlî significativamente […] dichiara la sua intenzione di voler dimostrare la piena liceità della musica e del canto in base alla tradizione e – qui parla il giurista – all'“argomentazione analogica”. (Saccone, 2015: 134)

È un dato di fatto che il Naqqāli abbia assorbito, come dimensione narrativa epica e ieratica in versi, quella vocazione al recupero, nella misura della liceità religiosa (suffragata, così come avviene nella narrazione orale del Maghreb8, dal ricorso a formule coraniche o di benedizione del Profeta Muḥammad), di un empito poetico e musicale mai estinto. Il formulario ricorsivo tipico di ogni narrazione orale qui si arricchisce di una musicalità lirica dotata di timbrature sonore contrassegnate dal ritmo incalzante

7 al-Ghazālī, 1999. 8 «The recitation itself is preceded and followed by sacred formulas, truly rituals of entry and departure» (Amine, 2012: 19).

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del respiro che trascina l’ordito, soprattutto nelle scene di battaglia, verso quello che sembra, a tutti gli effetti, un fenomeno di trance.

LO STILE E L’INTRECCIO

Se è vero che la narrazione del Naqqāli costituisce, come altri esempi analoghi dell’area mediterranea e maghrebina9, il retaggio estremo di un rito, la modalità di esecuzione, la funzione del Naqqal e il principio di condivisione che governa l’attenzione dell’uditorio fanno pensare, in tutto e per tutto, a una performance rituale. Il narratore (morshid) assume una funzione di guida, la cui auctoritas è sancita dal bastone di legno (nel Cunto siciliano, sostituito dalla spada) tenuto in mano per tutta la durata del racconto. Si pensi, in tal senso, che durante la predicazione del venerdì, il “khatib” ovvero l’imam che pronuncia il discorso (khutba) maneggia un bastone o una spada di legno, dal carattere simbolico dichiaratamente ostentato. La spada di legno risale d'altronde, nel simbolismo tradizionale, a un passato ancestrale, giacché in India è uno degli oggetti che figuravano nel sacrificio vedico (vedi Coomaraswami 1938). Essa simboleggia il potere della parola, cosa che molte tradizioni non mancano di attribuirle anche in ambito vetero e neo- testamentario. È importante d'altronde notare che la maggior parte delle armi simboliche, e in particolare la spada e la lancia, sono assai frequentemente anche simboli dell’Asse del Mondo. Il simbolismo “assiale” ci riconduce all'idea del ristabilimento dell'armonia, così come Guénon lo ha certificato: «L'asse è il luogo dove tutte le opposizioni si conciliano e svaniscono, o, in altri termini, il luogo dell'equilibrio perfetto. […] Così, sotto questo profilo, che in realtà corrisponde al punto di vista più profondo, la spada non rappresenta soltanto lo strumento, come si potrebbe credere se ci si attenesse al suo senso più immediato, ma anche il fine stesso da raggiungere, in certo qual modo sintetizzando l'uno e l'altro nel suo significato totale» (Guénon, 1997: 168-169). Lo spazio in cui il Naqqāli ha luogo riguarda spesso le sale da thè in cui il momento del ristoro scandito dalla cerimonia condivisa del caffè o del thè viene animato dalla presenza di una narrazione capace di catturare l’uditorio:

With the development of urban communities, squares, bazaars, inns, teahouses, religious theater houses and some other places were changed into permanent locations for narration and storytelling (Farideh, Mohd, Rahmat, 2014: 8).

9 Si pensi al Cunto siciliano, descritto per la prima volta in forma esaustiva da Pitrè (1889) o all’Halqa maghrebina esaminata appunto da Khalid Amine (2012).

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I contenuti del Naqqāli sono spesso raffigurati, così, come le varianti analoghe del racconto orale cui si faceva in precedenza riferimento, su cartelloni istoriati e colorati con tinte particolarmente accese (esattamente com’è riscontrabile in ambito siciliano), capaci di ricapitolare didascalicamente le fasi salienti dell’intreccio.

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Il repertorio, come si è già ricordato, riguarda prevalentemente lo Shāh-Nāmé (Il Libro dei re) di Firdūsī. Il modo in cui il Naqqal riesce a intrecciare, attraverso la sua sapiente memoria, episodi salienti e momenti di passaggio, protagonisti eroici e figure di sfondo, fa della sua un’arte trasmessa da maestro ad allievo. L’andatura in versi e la tensione dei frequenti scontri cavallereschi di questo poema danno al Naqqal la misura della sua tipica narrazione abilmente scandita e salmodiata.

Proprio come nel caso dei cuntisti siciliani, il racconto in versi prende spesso una piega estremamente ritmata e musicalmente vibrante (in qualche caso più raro, scandita da strumenti a percussione, a fiato e a corda). A guadagnarne è l’empito catartico della narrazione che trascina i partecipanti verso l’esperienza di una performance vieppiù trasformativa. È la voce che si fa azione secondo la definizione di Zumthor:

L’oralità non si riduce all’azione della voce. Espansione del corpo, la voce non la esaurisce. L’oralità abbraccia tutto ciò che, in noi, si rivolge all’altro: sia pure un gesto muto o uno sguardo […] I movimenti del corpo diventano così parte di una poetica. Empiricamente, si può osservare […] la sorprendente permanenza dell’associazione tra il gesto e l’enunciato: un modello gestuale fa parte della ‘competenza’ dell’interprete e si proietta nell’esecuzione. L’actio della retorica non aveva altro oggetto (Zumthor, 1984: 241).

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Zumthor ribadisce l’unione strettissima tra poesia orale ed espressione rituale: «La poesia orale nacque da riti arcaici: ontologicamente, se non (chi può saperlo?) storicamente. Il rito la conteneva. Ma un giorno evase, e da allora…» (Ivi: 331). L’idea di Schechner, che riprende la nozione turneriana di liminale e liminoide, è che il rito verifichi sempre (o quasi sempre) il passaggio trasformativo dalla liminalità. I partecipanti al rito attraversano una soglia che li rende «come se essi fossero ridimensionati o ridotti ad una tabula rasa per essere formati di nuovo e dotati di poteri ulteriori che li consentano di affrontare i nuovi traguardi della loro vita» (Turner, 1969: 95). Il racconto, come hanno chiarito alcuni studi recenti, si è talora assunto il compito di suggestionare indelebilmente gli esseri umani, di incoraggiarne lo sviluppo ontogenetico e filogenetico (cfr. Gottschall, 2012). Da questo punto di vista, esso può essersi posto in una direzione non così distante da quella determinata dai cosiddetti riti di passaggio (Van Gennep, 2002). Se è vero che Turner ha chiarito come le arti e l’entertainment non possano che limitarsi al liminoide, ovvero a quelle azioni di svago che nelle società moderne o postmoderne assolvono alle funzioni del rito, senza riuscire mai a sostituirlo del tutto, è vero pure che c’è stato un tempo in cui le civiltà tradizionali si sono date il racconto come una possibilità, per quanto dimidiata rispetto al rituale, di accesso alla Realtà. In tal senso, il Naqqāli è un concerto che spesso conduce all’estasi, se è vero ciò che recita un trattato persiano del XV secolo sull’arte dei narratori, il Festvat Name Soltani di Kashefi:

Se ti domandassero qual è l’origine di quest’arte, rispondi che è la sapienza e che colui che sa ignora, allorché comincia la narrazione, come la condurrà. Se ti domandano come finisce una narrazione, rispondi: con la conquista dei cuori, se i cuori non l’accettano il narratore non potrà portare a buon fine il suo proposito (Mahdjoub, 1971: 167).

IL FUTURO DELLA TRADIZIONE

Il Naqqāli è stato inserito nel 2011 dall’UNESCO nella lista del Patrimonio culturale dell’umanità. È dunque cosa ufficiale ormai che si tratti di un retaggio da proteggere con tutte le contraddizioni che i processi di patrimonializzazione finiscono sempre per trascinarsi appresso (a tal proposito, si veda Herzfeld, 1997). Cosa si può fare per evitare che esso finisca per rimanere invischiato nella futilità fatale del folklore per turisti di un Iran che, a corrente alternata (anche per effetto dell’ipocrita gioco occidentale dell’inclusione/esclusione), vuole riproporsi come luogo visitabile e accogliente? Probabilmente la chiave sta in un ragionamento serio che declini questa forma specifica, fatte le debite differenze ma anche rilevati i proficui addentellati, nel

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solco di una fenomenologia condivisa con altre analoghe, come si diceva in principio, nel Maghreb e in Sicilia. È solo un caso che l’Islam, intervenendo persino come ombra minacciosa e complice del “nemico” (nel Cunto siciliano), abbia fatto da piattaforma immaginifica per un’arte concepita secondo una logica di rilocazione stilistica accettabile per una tradizione religiosa criticamente orientata nei confronti della musica e della poesia? E, ancora, è solo una coincidenza che tutte queste forme di narrazione, a latitudini diverse, trovino una scaturigine nel momento in cui vengono a contatto con una civiltà come l’Islam? Sono domande che non devono trovare una risposta immediata e che, probabilmente, non troveranno, se non con arduo esercizio e un po’ di fortuna, una risposta filologicamente corretta. Tuttavia, in un tempo in cui siamo immersi in molte, troppe, di quelle storie (cfr. Rose, 2013) che sono memoria ‘muta’ di un rito inconsapevolmente perduto, la memoria sonora di performance narrative, intercettate un attimo prima della loro estinzione, deve perlomeno continuare ad abitare la nostra coscienza e agitare la «ricezione distratta» (Benjamin, 2000: 48) di uomini sospesi su un perenne presente.

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L’AUTORE Dario Tomasello è Professore Associato presso l’Università degli Studi di Messina, dove dirige anche il Centro Internazionale di Studi sulle Arti Performative.

E- mail: [email protected]

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Greek modes and Turkish sounds. Music as a means of intercultural exchange between Orthodox Christians and Muslims in the Ottoman Empire

Maria Pia Ester Cristaldi

Abstract: The aim of this study is to show how the traditions of modal music in the Byzantine and Turkish contexts shared a common history over several centuries, as it is well exemplified by figure and the role of the Greek cantor and composer Petros Peloponnesios. As the work will display, the common history of Byzantine and Turkish music emerged thanks to various contacts within different types of environment, ranging from the Ottoman court to the Orthodox Patriarchate of Istanbul, and involving a wide range of musical genres, from Christian Orthodox religious music to Ottoman Classical Music. The contacts resulted in promoting the dialogue between the coexisting Orthodox Christian and Muslim communities in the Ottoman Empire.

Keywords: Byzantine music – Ottoman Empire – Makam – Petros Peloponnesios Parole chiave: Musica bizantina – Impero Ottomano – Makam – Petros Peloponnesios

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INTRODUCTION: THE CONCEPT OF MODAL MUSIC Regarding musical traditions emerged in Anatolian region during centuries, the Turkish musicologist Recep Uslu notes that the communities coexisting in the area (Greek, Turks, Arabs, Persians, Jewish, Armenians) developed similar music styles1. The aim of this study is to show, through an analysis of historical sources, how the traditions of modal music in the Byzantine and Turkish contexts shared a common history until the 20th century, when the multi-ethnic and multicultural character of Ottoman music has often been forgotten following the foundation of the Turkish Republic. This voluntary amnesia is due to a political agenda that- in order to create a national identity among Turks- gave more emphasis to

1 Uslu, Recep (2015): “Is An Echo of Seljuk Music Audible? A Methodological Research”, in Greve, Martin (ed.). Writing the History of ‘Ottoman Music. Ergon Verlag, Würzburg, 242.

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Anatolian Turkish folk music rather than Ottoman classical music2, where the similarities and the collaborations with other musical traditions, such as the Byzantine one, are more evident. It is only at the end of the 20th century that scholars such as Balta (1998) and Iğsız (2001) started to focus on the multicultural reality of Ottoman music and on what Melih Erol (2015: 25) defines as a ‘musical dialogue’ between Greece and Turkey. As the work will show, this dialogue was built on various contacts within different types of environment, ranging from the Ottoman court to the Orthodox Patriarchate of Istanbul, and involving different musical genres, from Byzantine Orthodox hymns to Classical Turkish music, which comprehends the music performed in the context of the Mevlevi Sufi lodge in Istanbul. A crucial point in this dialogue is represented by the work of musicians such as Petros Peloponnesios (18th century) and the Archbishop Chrisanthos of Madytos who, in the 19th century, conceived a musical system suitable both for the composition of Greek Ecclesiastical and Ottoman Classical music. In order to understand how was possible for Ottoman and Byzantine modal music traditions to be in such a close contact, it is necessary to give few information on modal music itself. In the composition of modal music there is always a note, which is considered the centre, or the tonic note, that structures the whole composition.3 Moreover, the concept of melody is fundamental, for it is the principle on which the whole composition is structured. A modal music composition is in fact structured on melodic formulas that can be made of few or more notes. Among the most known modal music examples, along with the Arabic and Persian makam it is possible to cite the Byzantine system of the octoechos4 and the makam mode, as it has been conceived within the Turkish Islamic tradition. These latter developed both in the Mediterranean area, sharing common features (intervals, the relevance given to the fundamental scale, melodic nuances)5 as well as strong cultural relations. This work does not intend to give a full account of the similarities shared by Turkish and Byzantine music neither of the complex relations between Orthodox and Muslims, it rather aims to shed light on the importance of music as means of intercultural relation between the two communities.

2 For more information concerning the Kemalist views on Turkish music see Balkılıç, Özgür. 2005. "Kemalist Views and Works on Turkish Folk Music During the Early Republican Period”, Master Thesis, Middle East Technical University. 3 See Sachs, Curt. 1962. The Wellsprings of Music. Martinus Nijhoff, The Hague, 168. 4 This system, described in the Hagiopolites (probably written in the 7th century and attributed to Saint John of Damascus), is called Octoechos and is based on eight music modes consisting of a set of four octaves. Since the Middle Ages the Octoechos has become the modal system used to compose and perform liturgical music in the Orthodox Church. For a more detailed history concerning the Octoechos and Byzantine music see Wellesz, Egon (1958). A History of Byzantine Music and Hymnography. At the Clarendon Press, Oxford. 5 For a more detailed analysis see Skoulios, Markos (2003): “A comparison of the modal and notational systems of Ottoman- Turkish classical and Byzantine chanting music traditions”, in Feldman,W., Guettat, M., Kerbage, T. (eds.), Music in the Mediterranea, Modal classical traditions, vol.2 Theory and Practice, 435-442.

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GREEK MUSICIANS AND OTTOMAN MUSIC Historical sources are filled with accounts of Greek musicians composing Turkish music or working as singers at the Ottoman court. The first document reporting about the presence of Greek musicians at the Ottoman Court is the Ekthesis Chronica6 of 1584, which reports that Fatih Sultan Mehmet (1432- 1481), after hearing that the Greeks had invented a notation system which allowed any sound to be transcribed and reproduced, invited two Greek musicians, Georgios and Yerasimos, to the Ottoman court. The sultan asked them to transcribe a ballad, sung in real time by Persian musicians. From the anecdote, it seems that the two Greek singers were able to transcribe the composition7 and sing it in front of the sultan, who was amused by their ability.8 The contacts between Greeks and Turks in music became stronger in the following centuries, as proven by the case of the musician Hanendeh Zacharia, who lived between the 17th and the 18th century. Zacharia’s known liturgical compositions are very few, whereas at least twenty-one secular pieces are ascribed to him in Ottoman music. Examples of his ability to compose music in Byzantine and Ottoman style are his Hüseynî Ağır Semâî, composed in makam hüseynî9 and the usul aksak semâî10. The melody and the ascending- descending character of the makam hüseynî make the composition sound like a Vesper hymn composed in the first mode of the octoechos by Zacharia for the Orthodox Church, with the title Ten Pagkosmion Doxan, which is more ascending. The same character is also a feature of another Orthodox hymn by Hanende Zacharia entitled Hoe Tes Khaldaas Kaminou, composed in the first plagal mode and similar to the makam uzzal, which is a progressively ascending mode. The same characteristic is found in another of Zacharia’s makam compositions, the Uzzal Yürük Semai. Along with Hanendeh Zacharia, there was another composer which played a crucial role in the relations between the Greek and the Turkish musical contexts: his name was Petros Peloponnesios and he is nowadays recognised as one of the most important musicians active in the Ottoman Empire in the 18th century.

PETROS PELOPONNESIOS From an artistical point of view, in the second half of the 18th century there was an increasing of collaboration between non-Muslim personalities and the Ottoman court; a notable case was that of Greek musicians composing and

6 A chronological exposition of facts and events occurred in a limited period of time. 7 Since in 16th century the octoechos modes were already applied for the composition of Byzantine ecclesiastical music, it can be assumed that the music performed by Georgios and Yerasimos was based on that system. 8On the same anecdote Papadopoulos, Giorgios. 1904. Ιστορική επισκόπησις της βυζαντινής εκκλησιαστικής μουσικής από των αποστολικών χρόνων μέχρι των καθ’ ημάς, 1-1900 μ.Χ. Τύποις Πραξιτέλους, Athens. 9 Simple makam used in Turkish Classical music. 10 Ten- beat minor usûl used in Turkish Classical music.

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performing music for the Ottoman court. The most known example of this phenomenon is represented by the case of Peter Peloponnesios (Peter the Peloponnesian) (1730-1788). Very little is known about his life before 1764, the year during which the Peloponnesios moved to Constantinople, where he became one of the most important composers of Byzantine liturgical music. At the same time, he used to write Ottoman music as well such as taksim, saz semâ’î, peşrev.11Among works in makam modes that he wrote with the pseudonym of Petraki, there are two classical music compositions, a Peyk-i Safa Saz Semai, composed makam peyk-i safa12 and in usul aksak semai, and a peşrev in ascending- desceding makam called nihâvend. The work Contributions to the History of our own Church Music and the most Prominent Composers prospered from the Apostolic Times till our Days, written by the Greek historian Giorgios Papadopoulos in the 19th century, mentions an anecdote concerning the relations between Peloponnesios and the Turks. The narrated facts take place during the sultanate of Mustafa III, who ruled the Ottoman Empire in the 18th century. In the anecdote Petros goes to pay a visit to the muezzin of the of Eminönü. The two have dinner together and they start to speak about the selak (recitation) which has to be executed on a certain makam. In the early morning, the muezzin obliges the Peloponnesios to sing the melody from the minaret. As soon as the Sultan knows who the singer of the selak is, he orders the arrest of the Peloponnesios who is sent to the national psychiatric asylum at Egri-Kapi, where he stays for more than a month after going back to his duties13. The episode shows the close relation between Greek and Turks in Ottoman society of the period, which interested not only the contacts in everyday life but among institutions as well (Petros, as Lambadarios of the Patriarchate, goes to visit the muezzin of the mosque). At the same time this story shows the ability to perform following makam mode that the Peloponnesios had and how common this ability was among Greek musicians of his time. Considering this example, it is possible to understand that Greek musicians had a double task, as they used to compose religious music for the Orthodox Church while writing secular melodies for the Ottoman establishment. Other mentioned sources suggest that, because of their outstanding performative abilities, Greek musicians were most probably committed in the performance of religious songs as well, as shown by few anecdotes concerning the relation between Petros Peloponnesios and the Mevlevi lodge of Istanbul from a Greek historical source, the Papadopoulos’ Contributions to the history of Orthodox Church music, that seem

11 Taksim in Turkish music is a musical improvisation that precedes the performance of a composition. The term saz semâ’î indicates an instrumental form of Turkish Classical music, which was performed at the end of a suite, while peşrev is the word used for the first piece of music played at the beginning of the suite. 12 A compound makam of Turkish Classical music. 13 See Papadopoulos, Giorgios I. 1890. Συμβολαί εις την ιστορίαν της παρ’ ημίν εκκλησιαστικής μουσικής και οι από των αποστολικών χρόνων άχρι των ημερών ημών ακμάσαντες επιφανέστεροι μελωδοί, υμνογράφοι, μουσικοί και μουσικολόγοι, Τυπογραφείον και Βιβλιοπωλείον Κουσουλίνου & Αθανασιάδου. (Contributions to the History of our own Church Music and the most Prominent Composers prospered from the Apostolic Times till our Days). Athens, 322.

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to suggest the presence of Greeks during the performance of Islamic sacred hymns. In other words, the role of the Peloponnesios as musician was also important in encouraging the relations between Christian and Muslim communities.

PETROS PELOPONNESIOS AND ISLAMIC RELIGIOUS MUSIC: THE CASE OF THE MEVLEVI SUFI LODGE IN ISTANBUL Relations between the Mevlevi order and the Greek community in Anatolia date back to the 13th century, when the Seljuks entered Anatolia and established the capital city in Konya, where the poet and theologian Jalāl ad-Dīn Rūmī established the Mevlevi order. The relations between the Greek community and the Sufi order became significant centuries later. In the history of the Ottoman Empire there have been some examples of people from the Greek community being related with the Mevlevi order, especially from the 18th century onward.14 During their ceremonies, in fact, the dervishes used to dance until they reached a state of mystical trance, while chanting hymns accompanied by music played by Muslim or non-Islamic professional musicians. Peter Peloponnesios is one of the first and probably most known Greek musicians taking part to Mevlevi rituals. He was registered by the order as ‘master of music’ (Plemmenos, 2012: 161). From the anecdotes collected by the Greek historian Georgios Papadopoulos possible to deduce that the Peloponnesios was treated with great respect by the dervishes and even mentioned in the golden book of the Sufi lodge of Pera, in Istanbul. One of the most significative episodes concerning the relations between him and the dervishes is recalled in the Contributions by Georgios Papadopoulos. In the anecdote three hanendes (singers) from Persia come to Istanbul with a composition they intended to play for the Sultan. This event causes a stir among the community of musicians living in Istanbul and the dervishes decide to consult Peloponnesios to understand what to do. As the singers start to play a new composition at the presence of the dervishes, the Peloponnesios is secretly hidden and records the song and arranges it as an instrumental piece for a tambur. When joining the banquet, Peoloponnesios pretends to recognise the song as one of his compositions, probably taught to the singers by one of his students in Arabia or Persia and he starts to play it with a tambur. The Persian singers are expelled from the city as charlatans15. It is significative that in the anecdote the Mevlevi dervishes call Peloponnesios hoca (master), showing great respect to him.

14 Much of the music for religious hymns has been composed during the 18th century. This element could suggest that maybe Greek musicians had an active role in the composition of music for hymns. 15 See Papadopoulos, Giorgios I. 1890. Συμβολαί εις την ιστορίαν της παρ’ ημίν εκκλησιαστικής μουσικής και οι από των αποστολικών χρόνων άχρι των ημερών ημών ακμάσαντες επιφανέστεροι μελωδοί, υμνογράφοι, μουσικοί και μουσικολόγοι (Contributions to the History of our own Church Music and the most Prominent Composers prospered from the Apostolic Times till our Days). Τυπογραφείον και Βιβλιοπωλείον Κουσουλίνου & Αθανασιάδου, Athens, 320-21.

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At the same time, the episode responsible for the argument between the Persians and the Peloponnesios, who accused them of having copied his composition, is significative of how close and interchangeable could sound makam (the Persian composition) and octoechos based (Peloponnesios’ one) compositions. The fact that Peloponnesios was considered an authority by the dervishes is proven also by a story related to his death. When he died, many dervishes attended his funeral asking to the Patriarch if they could place a ney flute in his arms saying: «Oh our blessed teacher, accept this gift from us, your orphan students, so that you may play with the angels in heaven!”. The Patriarch replied: “I empathise with your great sorrow caused by the death of the late master; so, I don’t mean to reject your request, but, in order not to offend the Sublime Porte, I beg all of you to follow the procession in silence, and pay your respects on the grave». The three anecdotes concerning the Peloponnesios (the first one about the psychiatric asylum, the second with the singers from Persia and the latter from his funeral) prove the active role of Petros in late Ottoman society as well as in the Dervish community. Moreover, the relation between Greek musicians and the Mevlevi order should not be understood univocally. Regarding this topic, the historian Merih Erol (2015: 61) mentions two cases of Orthodox cantors who had Sufi musicians as masters. The first example is represented by the first cantor of the Church of Panagia in Pera16, and the second by Evstratios G. Papadopoulos, who was educated at the Ottoman court by one of the most important Sufi musicians of that time, Hammamizade Ismail Dede, who was also the teacher of Giorgios Protopsaltes, a Greek musician that, after learning Turkish, became one of his students. Furthermore, it is interesting to notice that these collaborations and exchanges both in secular and religious contexts may have played an important role in determining some changes in the theory of Byzantine music, which started to take always more and more in account the theory of Ottoman music as well from the first half of the 19th century. These changes and the strengthened collaboration between the Greek Orthodox and the Muslim Turkish community will emerge also thanks to the process of reform and modernisation started in the Ottoman Empire after 1839 with the Tanzimat reform.17

16 A district of Beyoğlu, Istanbul. 17 A period of administrative, political and cultural reform in the Ottoman Empire. This period is marked by an intense process of modernization and in Westernization attempts in areas such as reform of educational system, adoption of a new concept of citizenship which aimed to include all the inhabitants of the Empire (in spite of their cultural and religious differences), as well as the legislative system. For more information see Inalcık, Halil (2011). Tanzimat. Değişim Sürecinde Osmanlı Imparatorluğu. Iş Bankası Kültür Yayınları, Istanbul.

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BYZANTINE AND TURKISH MUSIC: A PARALLEL HISTORY FOR MAKAM AND OCTOECHOS In 1832 the Archbishop Chrisanthos of Madytos in the third book of the treaty The Great Theory of Music, conceived a new notation system for Orthodox music that could be applied to the composition of Ottoman music as well. In the book it is possible to see, in fact, that each echos of the Byzantine music corresponded to a different makam in Ottoman music. In this century, as Greeks became always more part of Ottoman music scene, Greek musicologists started to focus on similarities between Orthodox and Ottoman music as it is proven by works such as a commentary composed by a cantor from Bursa, Panagiotes Kiltzanidis, who tried to explain the system of Ottoman music, and Ermeneia tes Exoterikes Mousikes, a treatise written in 1843 by Konstantin, a chanter and psalmist of the Great Church. The same author in 1881 wrote the book Methodiki Didaskalia Theoritiki te kai Pratiki, where he explained the theory of Turkish music, as well as different types of makam, using Byzantine notation. This interest in Ottoman music by the Byzantines can be seen as a consequence of the cultural revolution started with the Tanzimat era in the second half of the 19th century. When sultan Mahmut II authorised the closing of the Ottoman military band in 1826, sometime after the new imperial orchestra, called Musika-ı Hümâyun, was founded. The creation of the imperial orchestra marked the beginning of a new era where Turkish music and a more Western- oriented music tradition coexisted in the same spaces, both at the Ottoman court and outside the imperial palace, in places such as coffees and beer houses where musicians from different ethnic origins and religions used to perform (Erol, 2015: 152). Moreover, the edict of Gülhane and the subsequent Islahat Fermanı (Reform Edict) of 1856 had important consequences on the status of non- Muslims, considered from that moment juridically equal to Muslim citizens of the empire. Finally, the modernisation process, inaugurated by the Tanzimat, started to influence the composition of religious music too, resulting ultimately in the adoption of the notation system conceived by Chrisanthos to write both religious and secular music, as it is proven by the compositions listed in Greek musical reviews containing Turkish songs such as Evterpi (1830), Pandora- II (1846), Musikon Apanthisma (1856).

CONCLUSIONS Even if it is difficult to prove an effective influence of one musical tradition on an another, it is still interesting to notice that the knowledge of musical concepts belonging to different musical worlds was shared among populations of the Mediterranean area. Music played a considerable role in encouraging the relations between Orthodox and Muslim communities, favouring somehow the dialogue among the two. The cases of contacts between personalities of the Orthodox Patriarchate and the Mevlevi Sufi order in Istanbul are particularly

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significative of the dialogue between Christian and Muslim communities in the Ottoman Empire. The role played by music in this dialogue is exemplified also by the frequent collaborations by the Ottoman Imperial court and Greek Orthodox musicians, as exemplified by the case of Petros Peloponnesios. These intense collaborations constitute probably one of the most important reasons for the necessity to adopt a system- the reformed octoechos by the Archbishop Chrisanthos to invent a musical system which could be functional to the composition of a wide range of musical genres, from holy Christian music to classical Turkish one. Moreover, it is important to notice that the Tanzimat process of modernisation started by the Ottoman administration, as well as the creation of the imperial orchestra played a decisive role in increasing the collaboration between the Orthodox Patriarchate’s musicians and the Muslim Turks, which ultimately resulted in the sharing of spaces, sounds and traditions.

BIBLIOGRAPHY

BALTA, EVANGELIA. 1998. Karamanlıca Kitapların Dönemlere Göre İncelenmesi ve Konularına Göre Sınıflandırılması, in «Müteferrika» 13, 3-19. CASINI, CLAUDIO. 2006. Storia della Musica. Dall’Antichità Classica al Novecento. Milano: Bompiani. EROL, MERIH. 2015. Greek Orthodox Music in Ottoman Istanbul: Nation and Community in the Era of Reform. Bloomington: Indiana University Press. FELDMAN, WALTER. 1996. Music of the Ottoman Court. Berlin: International Institute for Traditional Music. IĞSIZ, ASLI. 2001. “Memleket, Yurt ve Coğrafi Kardeşlik”, in Esra Özyürek (ed.), Hatırladıklarıyla, Unuttuklarıyla Türkiye’de Toplumsal Tarihi ve Bellek, İletişim, İstanbul. ÖZKAN, ISMAIL HAKKI. 2014. Türk müsikisi nazariyatı ve usulleri. Kudüm velveleleri. Istanbul: Ötüken Neşriyat. SACHS, CURT. 1962. The Wellsprings of Music. The Hague: Martinus Nijhoff. THOMAS, D., CHESWORTH J. (eds.). Christian- Muslim Relations. A Bibliographical History. Volume 10. Ottoman Empire and Safavid Empires (1600- 1700). Leiden: Brill. WELLESZ, EGON. 1958. A History of Byzantine Music and Hymnography. Oxford: At the Clarendon Press.

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MUSIC Hüseynî Ağır Semâî, composed by Zakharia Hanende (18th century). (Hanende Zaharya. ‘En Chordais Music Ensemble’. Kalan Müzik. Istanbul, 2005. Hoe Tes Khaldaas Kaminou, composed by Zakharia Hanende (18th century). (Hanende Zaharya. ‘En Chordais Music Ensemble’. Kalan Müzik. Istanbul, 2005. Peyk-i Safa Saz Semai, composed by Petros Peloponnesios (18th century). Ten Pagkosmion Doxan, composed by Zakharia Hanende (18th century). (Hanende Zaharya. ‘En Chordais Music Ensemble’. Kalan Müzik. Istanbul, 2005. Uzzal Yürük Semai, composed by Zakharia Hanende (18th century). (Hanende Zaharya. ‘En Chordais Music Ensemble’. Kalan Müzik. Istanbul, 2005.

THE AUTHOR Maria Pia Ester Cristaldi has a degree in Philosophy of Language. Currently she is a PhD student in Communication at the Marmara University of Istanbul. She is working on a thesis demonstrating the continuity of the Turkish language between the Late Ottoman Empire and the first years of the Turkish Republic through a survey of Ottoman newspapers. Other research interests cover language policies, the relationships between Medieval Byzantine and Turkish worlds.

E-mail: [email protected]

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La musica nell’epoca d’oro dell’Islam: la V risāla degli Iḫwān al-Ṣafā’

Federico Leonardo Giampà

Abstract: The fifth epistle “On Music” of the Brethren of Purity is a precious testimony of the Islamic culture in the tenth century, which offers to us a complete statement about the music theory of the time. The Brethren of Purity treat the music in every respect, from the nature of sound to the instruments crafting; from the celestial music to that properly human and its applications. The most relevant application reported by the Brethren is the medical, and we can find in their theory a fascinating weaving of Greek and Arabic knowledge. We can find at the same time philosophy, esoteric doctrines, astronomy, and so on. Therefore the fifth epistle is a fundamental text to enlightened the history of music in the Islamic world.

Keywords: Music – Islam – Middle Ages – Brethren of Purity –Medicine - Philosophy Parole chiave: Musica – Islam – Medioevo – Fratelli della Purità –Medicina - Filosofia

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INTRODUZIONE

Trattare gli Iḫwān al-Safāʿ 1 in una monografia sulla musica nell’Islam è doppiamente impegnativo: per primo, perché gli Iḫwān si delimitano da sé rispetto alla comunità per via della loro organizzazione segreta, presentandosi con delle lettere-trattato anonime - anonimato che, vale ricordarlo, non era visto di buon occhio dalla khāṣṣa e rendeva problematico il rapporto con la letteratura colta (Toelle, Zakharia, 2010: 186) - e come i ḫawass (eletti), di contro agli ‘awamm (le persone volgari); per secondo, perché un approccio ermeneutico, propriamente intellettuale, alle rasā’il risulta ancora assai controverso e difficoltoso, e anche quando è meno complicato risalire alle fonti del loro

1 Comunemente noti in italiano come Fratelli della Purità, gli Iḫwān al- Ṣafā’ wa-ḫullān al-wafā' furono una confraternita – nel corso dell’articolo si supporrà che tale confraternita sia effettivamente esistita. Quandanche fosse stata una semplice fictio di un circolo ristretto di compilatori, nondimeno questi compilatori sarebbero esistiti – di musulmani sciiti che operò nell’Iraq abbaside, orientativamente intorno al X secolo. I Fratelli trascrissero le proprie dottrine in una raccolta di 52 epistole-trattato (rasā’il) compilando la più completa enciclopedia del sapere del tempo. Per approfondire rimando alla voce Iḫwān al-Safāʿ curata da C.Baffioni, in Encyclopedia of Medieval Philosophy, Springer, 2011.

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pensiero, il rischio di compiere tipologie2, volendo vedere più di quanto è realmente presente, è un rischio concreto. Tornando al primo punto, potrebbe destare perplessità il voler parlare della musica nell’Islam prendendo a soggetto un ristrettissimo circolo di persone che dichiarano di scrivere per i propri fratelli, ai quali, per di più, non è garantita la comprensione profonda delle conoscenze della confraternita, come leggiamo nella formula ricorrente che sollecita il lettore a carpire fino in fondo il senso del testo. Ma come si vedrà, gli Iḫwān sono ben lontani dall’essere alienati alla società nella quale operano e scrivono, anzi, essi rappresentano nella loro ambizione enciclopedica un esempio della maturazione intellettuale e culturale che interessò l’epoca abbaside, non a caso nota come epoca d’oro dell’Islam (Bausani, 1985). Nel loro apparente distacco iniziatico dal resto della comunità, gli Iḫwān sono come uno specchio nel quale troviamo riflesso il lungo travaglio intellettuale di quella comunità, non solo figlio della società colta ma in rapporto filogenetico con le credenze e i saperi3 di quell’area geografica un tempo abitata dai Caldei. Così la V risāla sulla musica – soggetto di questa ricerca – è in rapporto diretto con la prima e completa sistemazione che al-Kindī4 compie della teoria musicale araba (Farmer 1929: 151) e sarebbe per tale motivo richiesto un approfondito parallelismo con il faylasūf al-ʻarab, ma ciò suppone un lavoro e mezzi di ben altra portata. Mi limiterò invece ai soli Iḫwān, sviluppando con maggiore attenzione delle sezioni testuali particolarmente significative. Parlo dei passi sparsi nel trattato che fanno riferimento alle proprietà terapeutiche della musica, capacità che non è intesa in chiave psicologica o di placebo, oppure, visto le tendenze occultiste degli Iḫwān, magica. La capacità terapeutica della musica, negli Iḫwān, si inscrive – non in modo lineare - nella tradizione medica greco- araba, ed è un farmaco a tutti gli effetti. La prossima sezione servirà a descrivere a grandi linee i contenuti e la terminologia della risāla; descrizione sommaria, ma che fornirà gli elementi per sviluppare nella sezioni successive il tema della musica come farmaco, poiché, come si vedrà, negli Iḫwān al-Ṣafā’ il tutto vive di connessioni e proporzioni, e non è possibile trattare il singolo senza inscriverlo nel tutto.

2 Per una panoramica sulle controverse e discordanti interpretazioni fatte degli Iḫwān rimando all’utilissimo intervento sempre della Baffioni (Baffioni, 1998). 3 Impossibile qui anche solo introdurre il tema delle fonti dottrinali degli Iḫwān: esse spaziano dall’astrologia mesopotamica all’astronomia pitagorizzante (Marquet, 2006) alla teologia platonica, a Tolomeo, ai Sabei (Corbin, 2007) e così via per un elenco difficilmente esauribile che raccoglie «tutto lo scibile dell’epoca visto sub specie neoplatonico-pitagorica» (Bausani, 1978: 11). 4 Al-Kindī attinge l’ossatura della sua teoria dalle traduzioni delle opere greche, proprio in quel periodo in pieno fermento, tra di esse si segnala la traduzione del De Voce di Galeno, ad opera di Ḥunayn ibn Isḥāq, traduttore celebre e coevo di al-Kindī (Farmer 1929: 150-151). Per approfondire la storia della musica nei primi secoli dell’Islam rimando a Farmer, mentre per il rapporto tra cultura islamica e traduzioni, e in particolare su Ḥunayn ibn Isḥāq rimando al prezioso lavoro di Mirella Cassarino (Cassarino, 1998).

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SULLA MUSICA – SISTEMA E CONTENUTI DELLA V RISĀLA IḪWĀN AL-ṢAFĀ’

L’enciclopedia degli Iḫwān è convenzionalmente suddivisa in quattro parti. La prima, dedicata alle scienze propedeutiche, si compone di 14 epistole che trattano in ordine: scienze matematiche, astronomiche, geografia, musica, morale e logica. Segue la seconda con 17 epistole sulle scienze della natura; quindi la terza, con 10 epistole psichico-intellettuali - ove psiche si riferisce all’anima -; infine la quarta, con 10 epistole sulle scienze metafisiche e rivelate, che trattano in modo non cogente argomenti eterogenei come la legge divina, la religione, la magia (Baffioni, 1996: 58-59). A queste 51 epistole se ne aggiunge una 52°, che sintetizza la dottrina degli Iḫwān. Come si nota, la V risāla si colloca al principio delle scienze propedeutiche, quelle che più di tutte non possono prescindere dallo studio e dall’applicazione della matematica. Il fatto che queste scienze siano propedeutiche non ne svilisce l’importanza, ma la ribadisce, poiché «L’Aritmetica è la conoscenza delle proprietà del Numero e delle corrispondenze di queste proprietà con i « significati » del Creato, secondo quanto dicono Pitagora e Nicomaco.» (Bausani, 1978: p.33) Lo studio del numero diviene allora lo studio del fondamento del cosmo, in definitiva, della conoscenza vera, alla stregua degli insegnamenti dei pitagorici, e la musica diviene la ricerca delle proporzioni che regolano l’universo5. Da qui è facile comprendere perché la V risāla non ha il fine di illustrare la prassi musicale, bensì le basi delle proporzioni e dell’armonia. In senso ampio, il trattato esamina sia la teoria musicale sia la musica in ogni sua forma e organizzazione, dal piede metrico, alla causa fisica del suono. Si capisce dunque perché la musica, in quanto manifestazioni audibile delle proprietà occulte del cosmo, fosse tenuta in alta considerazioni dagli Iḫwān, e perché uno dei più consistenti capitoli dell’epistola è una summa di filosofia pitagorizzante. Quanto detto in via generale è qui sufficiente, passiamo ora ai contenuti specifici dell’epistola6. Nel primo capitolo, la musica viene definita l’unica arte che combina il fisico e lo spirituale (al-ṣināʻt al-murakkaba bayn al- ğismāniya wa l-rūḥāniya – I,6) attraverso la composizione (ta’līf) e la conoscenza delle proporzioni (maʻrifa al-). La musica prodotta dai musicisti, per gli Iḫwān, è l’unico prodotto di un corpo fisico (lo strumento) non a sua volta fisico, ma composto di sostanza (ǧawāhir) spirituale, e da qui deriva il suo potere sullo spirito (rūḥ)di chi ascolta. Per questa sua caratteristica, la musica, facendosi melodia (laḥn), ossia suono modulato secondo

5 Interessante vedere che nel libro secondo del celebre Picatrix, mutuazione latina del Ghāyat al-Ḥakīm, leggiamo: «è importante conoscere la musica per comprendere le proporzioni e i numeri associati alle cose, in che modo le cose celesti si accordino in amore e odio con le azioni terrestri, o come gli influssi dei corpi celesti siano più evidenti in uno piuttosto che in un altro degli eventi terrestri.» (cur.Rossi, 2008: 61) Più interessante, oltre i punti di contatto con le rasā’il, è che il Picatrix viene associato a Maslama al‐Majrīṭī, a cui si attribuisce parimenti la diffusione in Andalusia dei trattati degli Iḫwān intorno la fine del X secolo e l’inizio dell’XI (Ebstein, 2014: 29). 6 Utilizzo qui la recente edizioni critica curata da Nader El-Bizri e Owen Wright (Wright; El-Bizri, 2010). I riferimenti testuali che farò si intendono rispetto alla traduzione inglese; nelle occasioni in cui riporterò segmenti originali, farò riferimento alla numerazione del testo arabo.

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ritmo e tonalità, agisce sulle persone, inducendoli in stati mentali quali il coraggio, la tristezza, l’esaltazione, e così via. Il suono è pervasivo dell’universo, espressione degli enti animati e inanimati (Capitolo 3), ma si fa musica solo il suono modulato, l’armonia (mu’talifa), che nasce dalle singole note metricamente ordinate, come la parola si fa poesia solo se incorporata nel verso. La melodia che nasce dall’armonia consiste in una composizione di note metricamente modulate, ossia le note che seguono uno schema7 di movimento/attacchi (ḥaraka) e pausa (sukūn). Come si è detto, il suono è insito nell’universo, e nel modulare il suono secondo un metro, il musicista imita le note prodotte dal movimento armonioso dei corpi celesti (Capitolo 8), quella che i pitagorici hanno chiamato musica delle sfere8. Tramite la musica, allora, gli esseri umani possono sperimentare la gioia del mondo spirituale (surūr ‘ālam al-ruwāḥ - 9,155). Ne consegue che le note e le proporzioni musicali sono sì scoperta umana ma non sua ideazione, poiché appartengono al creato (Capitolo 9), manifestazione cosmica delle proprietà dei numeri9. Alla musica gli uomini non pervengono per caso, né sviluppano gradualmente le sue regole. La spiegazione che danno gli Iḫwān è inequivocabile: la musica, in quanto manifestazione perfetta del numero, viene insegnata agli uomini dai sapienti (al- ḥukamā’10), tra di essi, è Pitagora che in virtù della sua nobiltà ascolta direttamente la musica delle sfere e apprende i principi della musica, trasmettendoli agli altri sapienti. La musica prodotta dagli strumenti umani si trova così, rispetto alla musica delle sfere, in rapporto di dipendenza causale, poiché gli enti primi sono causa (‘ilal) degli enti secondi. In virtù del suo statuto, la musica viene utilizzata dagli uomini per diversi fini. Vi è la musica solenne, utilizzata per lodare Dio, per i rituali, le invocazioni, la meditazione religiosa; la musica bellica, la musica consolatrice, la musica che sprona gli uomini nel proprio lavoro alleviando la fatica del corpo. Vi è poi la musica conviviale, e più in generale la musica che allieta. Infine, la più interessante, la musica utilizzata sugli ammalati per guarirne i mali. Da tutto ciò risulta che la musica è per gli Iḫwān uno dei fondamenti del cosmo, dono privilegiato dato agli uomini dai sapienti per imitare la perfezione armonica del mondo spirituale e sperimentare sulla terra la gioia celeste. Perché dunque la musica non religiosa venne proibita dall’islam? La risposta degli Iḫwān - dal

7 Per chi volesse approfondire i contenuti tecnici dell’epistola, rimando all’introduzione di Owen Wright, che da musicologo si sofferma soprattutto su di essi. 8 Le sfere - affermano gli Iḫwān - prese singolarmente non emettono suono. La musica si genera dal contatto tra i corpi delle sfere; il contatto genera il suono, e la reciproca consonanza, secondo il metro, di quei suoni, genera la musica celeste (Capitolo 8, p.118). 9 Nella cosmologia degli Iḫwān, l’universo sussiste secondo un processo emanativo neoplatonico, è un tutto connesso e animato, e i microcosmi si ricollegano al macrocosmo secondo il principio di analogia (Yasihen, 2000). Il numero è entità reale che soggiace alla perfezione del cosmo, nella quale possiamo scorgere il Creatore (Nasr, 1978: 44). L’importanza dei numeri è un notevole punto di divergenza tra gli Iḫwān e Plotino, poiché il rapporto creaturale tra il Creatore e il creato, è il rapporto tra l’Uno e il molteplice numerico (Netton 1991: 35). 10 Plurale di ḥakim, cioè colui che persegue la ḥikma, la sapienza. «Pitagora è considerato un sapiente, ḥakim, ben più che uno scienziato, un dotto (‘ālim), perché professa la sapienza (sapienza ispirata). […] Pitagora è detto dagli Ikhwān al- Ṣafā’ addirittura ḥakim mutawaḥid, sapiente che professa il monoteismo.» (Baffioni, 1996: 22).

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sapore vagamente scolastico – è questa: gli uomini deviarono dagli insegnamenti dei saggi e utilizzarono la musica come mezzo di intrattenimento per abbassare l’anima ai piaceri mondani, corrompendone i fini (Cap.9 p.124).

IL LIUTO, STRUMENTO ELETTO

Passiamo ora alla musica comunemente intesa, ossia la musica come prodotto umano. Naturalmente, la musica è il prodotto di proporzioni applicate, e ciò avviene tramite gli strumenti (ālāt), che gli Iḫwān descrivono sommariamente, eccezion fatta per il liuto (‘ūd), che occupa un posto tutto suo. Gli strumenti vengono classificati per il modo con il quale si utilizzano e il suono che producono (Capitolo 4), cosa strettamente connessa alla loro forma e anche al materiale che li compone. Troviamo gli strumenti a percussione come i tamburi (ṭubūl) o i cembali (ṣunǧ), gli aerofoni come il flauto (nāy), e infine i cordofoni, tra i quali troviamo l’arpa (ǧank), il violino del tempo (rabāb), la lira (šulyāq) – il cui nome, nell’astronomia araba, designa l’omonima costellazione – e altri, ma il ruolo principe spetta al liuto le cui peculiarità ne fanno lo strumento eletto degli Iḫwān al-Ṣafā’. Ora, dato che la musica è il risultato di proporzioni applicate, e sua peculiarità è unire il fisico allo spirituale, ne deriva che, per produrre della musica, le proporzioni dello strumento, e le sue caratteristiche, debbano trovare corrispondenze nel cosmo. Tale corrispondenza non è meramente simbolica11 o imitativa, è una corrispondenza analogica che richiama al rapporto microcosmo- macrocosmo, per cui l’ordine universale riemerge nell’ordine particolare. Lo strumento che realizza questa unione tra macrocosmo e microcosmo è appunto il liuto, il più perfetto degli strumenti (Cap.8). Questo strumento, opera dei sapienti, è così altamente considerato dagli Iḫwān che il suo studio completo, affermano i fratelli, servirà agli allievi addirittura come introduzione alle scienze filosofiche (‘ulūm al-falsafiyya). Vieni a questo punto da chiedersi: perché il liuto gode di questo alto statuto? Prima di tutto la sua fabbricazione12. Il corpo del liuto deve essere perfettamente proporzionato in lunghezza, ampiezza e profondità. La lunghezza sarà 1+1/2 rispetto all’ampiezza, la profondità della cassa sarà 1/2 rispetto l’ampiezza; il collo dello strumento 1/4 rispetto la lunghezza complessiva.

11 Non mi sembra corretta la lettura di Josef Pacholczyk (Pacholczyk, 1996), tutta concentrata sulla “simbologia” applicata dei numeri. Anche l’utilizzo che egli fa del termine “analogia” non è rigoroso, perché lo utilizza in luogo di corrispondenza semantica, mentre, è importante evidenziarlo, il concetto di analogia negli Iḫwān al-Ṣafā’ si riferisce ad una corrispondenza reale. Per tale motivo è scorretto parlare di simboli: il numero è immanente alla realtà, le sue proprietà, reali. Ne risulta che parlare di rapporto simbolico tra musica e astronomia significa annullare alla radice la dottrina degli Iḫwān. 12 La V risāla costituisce la più antica e completa testimonianza sulla costituzione del liuto arabo. Prima degli Iḫwān abbiamo un testo di al-Kindī, che risulta però incompleto e lacunoso (Bouterse, 1979: 4).

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Dovrà essere composto di legno sottile ricavato da legni duri e morbidi, e infine accordato con quattro corde secondo la proporzione ideale (al-afḍal). Cioè: lo spessore della corda più bassa – la quarta, detta bamm – sarà 1+1/3 della terza corda (mathlath), che a sua volta avrà lo stesso spessore rispetto alla seconda (mathnā); così la seconda seguirà la medesima proporzione rispetto alla più alta corda, la prima (zīr). Le corde, intrecciate in fili di seta secondo le proporzioni sopra esposte – quindi 64:48:36:27, avranno così spessore differente, ma saranno eguali in lunghezza e verranno tese lungo il collo del liuto, formando la tastiera. Una volta perfettamente accordate, le note producono un suono uniforme e consonante, secondo la proporzione ideale che vuole la nota più bassa in rapporto armonico con quella più alta, secondo la scala pitagorica13. In quanto al numero delle corde, quattro, esso è stato stabilito dai sapienti, in perfetta analogia con la composizione del mondo sublunare, che nella cosmologia aristotelica degli Iḫwān è composto dai quattro elementi (Capitolo 9). A ogni elemento, allora, corrisponderà una delle quattro corde, sicché possiamo schematizzare:

Zīr – Fuoco – associata al Calore e alla Veemenza. Mathnā – Aria – Umido e Morbido. Mathlath – Acqua – Umido e Freddo. Bamm – Terra – Durezza e Asprezza.

La correlazione con i quattro elementi non è simbolica, ma dota le note prodotte dalle corrispettive corde di qualità intrinseche che generano effetti determinati. Tali effetti trovano un corrispondente in un ulteriore schema quadernario, quello degli umori, e ciò ci introduce direttamente all’ultima sezione di questa ricerca.

13 Le proporzioni rappresentano il compimento concreto della concezione pitagorica del numero, che vuole nella matematica la via per intendere il cosmo. Delle tre proporzioni, aritmetica, geometrica e armonica, solo la terza è stata ideata dai pitagorici (Pichot, 1993: 377), e applicata alla musica descrive gli intervalli tra un suono e l’altro secondo una proporzione stabilita tra la nota più bassa e la nota più alta, detta ottava. Gli Iḫwān indicano come proporzione ideale una relazione tra la nota più bassa e quella più alta di 4/3 – 3/2 – 5/4 o 9/8, e ciò è problematico, perché, come nota Wright (Wright 2010: 116) il rapporto 5/4 non è contemplato dai pitagorici, mentre 9/8 è il rapporto di un intero tono. Per i tetracordi – l’esempio è dato dalla lira greca – come il liuto, la perfetta proporzione attribuita a Filolao di Crotone (Pichot, 1993: 423) è quella di 4/3-3/2-2 tra le corde della quarta, la quinta e l’ottava. Ciò potrebbe essere dovuto ad un errore di trasmissione, più che a un calcolo inesatto degli Iḫwān. Inoltre, a partire dall’espressione numerica del tono 9/8, attribuendo l’8 – numero pitagorico per eccellenza – alla terra, e 9 alla sfera dell’aria, gli Ikhwan costruiscono le proporzioni che intercorrono tra le sfere dell’universo. Per approfondire rimando a Bausani (Bausani, 1978: 62-63) e alla bella figura presente nell’introduzione di Wright (Wright 2010: 20).

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MUSICA E MEDICINA: CURARE IL CORPOREO CON LO SPIRITUALE

Tra i fini della musica menzionati dagli Iḫwān, il più affascinante è certamente quello terapeutico. Gli Iḫwān affermano che i sapienti hanno creato un tipo di melodia che dà sollievo dal dolore della malattia, e può addirittura curare i morbi (Cap.5 p.83). Prima di capire come ciò sia possibile, bisogna tratteggiare il modello medico a cui si riferiscono, cioè quello ippocratico-galenico, che al tempo degli Iḫwān, grazie alle traduzioni, era stato acquisito dal sapere arabo (Cassarino, 1998: 48-50). Prima della cosiddetta “rivoluzione scientifica”, la medicina ufficiale faceva capo al nome di Ippocrate, la cui teoria medica si era evoluta passando dai celebri nomi di Aristotele, Galeno, e dell’arabo Avicenna, per poi tornare in Europa con la Scuola di Salerno. La medicina moderna nasce dall’abbandono graduale dei principi e dei contenuti della millenaria tradizione greco-araba, e rispetto a questa abbandona completamente la dipendenza da sistemi filosofici e da credenze mediche assiomatiche, subordinando il momento intellettuale alla sperimentazione diretta. Ai tempi di Ippocrate, nel V secolo a.c., non raramente la medicina era affiancata dalle pratiche magico-religiose, o ne era contaminata; altre volte i medici cadevano nell’aridità empirica, mentre al lato opposto si andava sviluppando una medicina spiccatamente filosofica, che subordinava la prassi alla teoria e ai postulati a priori (Vegetti 2018a: 160-169). Ippocrate, dal canto suo, volle emendare la pratica medica dalle incrostazioni magico-religiose, unendola a una ragionata teoria medica che non cadesse né nell’eccesso degli empiristi, né in quello dei filosofi. Principio elementare e fondamentale della medicina ippocratica è la teoria degli umori, i cui principi generali erano condivisi dalle altre scuole mediche, tra le quali quella pitagorica con a capo Alcmeone di Crotone (Pichot, 1993: 573). Secondo questa teoria nel corpo vi sono quattro sostanze liquide elementari (chymos) che mescolandosi tra di loro determinano lo stato complessivo dell’organismo. Alla base della salute vi è quindi una mescolanza di liquidi, gli umori, chiamata crasi o temperamento: la buona salute dipende dal suo bilanciamento, alterabile da fattori interni ed esterni. Di origine egizio-mesopotamica, e non propriamente pitagorica 14 come vorrebbero alcuni, la tetrade umorale è composta da sangue, bile gialla, flemma, bile nera; ogni umore ha delle qualità che agiscono sullo stato del corpo, rafforzate o indebolite a seconda dalla stagione in corso. Le abbiamo già incontrato poco fa,

14 L’origine pitagorica si riferisce alla fissazione degli umori a quattro, ma anche ipotizzando che Ippocrate mutuò il suo schema dai pitagorici è improbabile che lo fece per motivi numerologici; egli fu anzi polemico verso quelle credenze di tipo sapienziale tipiche dei presocratici (Vegetti, 2018a: 132-133), mentre gli Iḫwān ne accolsero tanto i contenuti, quanto i principi. In ogni caso, l’origine effettiva della teoria dei quattro umori appartiene alla medicina egizia-mesopotamica, mentre quella greca non era sempre concorde sul loro numero che in genere era fissato a tre, non a quattro (Amri et.al, 2013: 56).

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sono le stesse qualità legate alle corde del liuto: caldo, secco, freddo e umido15. Certamente di origine pitagorica, elaborazione di Alcmeone 16 , è l’idea - sottoscritta da Ippocrate – che la salute sia conseguenza dell’equilibrio di ogni parte del corpo (isonomia), mentre la malattia è figlia dello squilibrio. Come nei regimi politici, quando una parte vuole prendere il sopravvento sull’altra si genera squilibrio e l’armonia decade nella patologia, sia essa del corpo politico, sia essa del corpo individuale (Cambiano: 1982). Quando il corpo subisce uno squilibrio (discrasia), che può essere per quantità (ad esempio un eccessiva produzione di bile gialla), o per qualità (il corpo diviene troppo caldo), si incorre nella malattia, e compito del medico sarà effettuare la giusta prognosi e approntare il giusto rimedio per ristabilire l’eucrasia. Ora, i principi terapeutici della medicina ippocratica-galenica sono vari, ma prettamente naturali, cioè non contemplano rimedi il cui principio non sia fisico (Vegetti 2018b: 314). La base terapeutica è infatti costituita dal regime alimentare, corroborato da medicamenti e soluzioni specifiche come l’applicazione di pomate o la celebre flebotomia (salasso). È evidente, quindi, al primo colpo d’occhio, che la medicina “ufficiale” non prese in considerazione la musica come farmaco. A un livello generale, comunque, nel mondo greco- romano che fa da sfondo a Ippocrate e Galeno, le capacità guaritrici della musica sono quasi sempre associate ai suoi effetti terapeutici sulla mente e sull’anima, in associazione alla credenze religiose e alle dottrine sapienziali orfico-pitagoriche, e solo in casi molto rari alla guarigione del corpo (West, in Horden 2016: 51-66). Troviamo un accenno alla musica come farmaco del corpo nella Vita di Pitagora di Giamblico17, in cui si legge:

Riteneva anche (Pitagora) che la musica contribuisce grandemente alla salute, qualora la si usi nei modi convenienti. (110) […] E infatti, al momento di andare a dormire, i Pitagorici purificavano le loro menti dai turbamenti e dalle risonanze della giornata per mezzo di alcuni canti di particolari melodie […] E talora guarivano anche da alcune passioni e malattie, come si racconta, facendo dei veri e propri incantesimi (114)

Ma come si vede, l’uso della musica come terapeutico rimane confinata in quell’ambito sapienziale dove si incrociano filosofia e suggestioni magiche, mentre rimane estranea alla tradizione medica ufficiale (West, in Horden 2016: 63).

15 Si noterà che le corde del liuto sono connesse alle qualità elementari per via dei quattro elementi, dottrina, quella dei quattro elementi rifiutata da Ippocrate. La sua affermazione si deve a Galeno, che concilierà i quattro umori ippocratici con la teoria aristotelica dei quattro elementi (Vegetti, 2018b: 304- 305). Concepita in chiave naturalistica sia da Aristotele che da Galeno, la teoria dei quattro elementi tornerà nel medioevo alle sue originarie implicazioni sapienziali, tra cui l’uso che ne fanno gli Ikhwan, in rapporto di dipendenza con quella cultura che concepì lo Sirr al-asrār più che con Aristotele e Galeno. 16 Consiglio la consultazione del frammento 24.B,2[11] nella raccolta sui Presocratici edita da BUR. 17 Il passo si trova nell’edizione Bompiani a cura di Francesco Romano, 2012: pp.164-167.

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È grazie al fermento intellettuale dell’epoca abbaside che la cultura greca – debitrice dei saperi egizio-mesopotamici – torna circolarmente all’area geografica dalla quale aveva attinto, e incrociandosi con il nascente sapere arabo, dà vita a un’originale commistione teorica, dalla quale emerge l’idea di una musica inquadrata nel sistema medico ippocratico-galenico (Shiloah, in Horden 2016: 69-83). Una menzione spetta al già ricordato Ḥunayn ibn Isḥāq, che compose un Libro dei detti dei filosofi dove troviamo tre capitoli sulle opinioni dei sapienti riguardo la musica, mentre al figlio di Ḥunayn, Isḥāq si deve la traduzione di un’opera attribuita a Bolo di Mende che ricalca i detti tradotti dal padre. In queste due opere ritroviamo in nuce quei temi che ci sono ormai familiari: la capacità guaritrice della musica, l’importanza del liuto, gli umori e gli elementi (ivi, 78-79). L’elemento di congiunzione tra il disorganizzato e vario materiale che emerge dalle traduzioni, e la sua sistemazione compiuta nell’enciclopedismo degli Iḫwān, è costituito da al-Kindī, al quale gli Iḫwān sono direttamente debitori18. La teoria medico-musicale degli Iḫwān, quindi, è il culmine di un lunghissimo processo, e si colloca in un punto medio rispetto alla tradizione ippocratica- galenica - della quale condivide i principi, allontanandosi però dall’approccio terapeutico prettamente naturalistico - e quella più antica tipica dei guaritori, con la quale condivide le tendenze metafisiche senza però cadere nella pratica medica magico-religiosa. Arriviamo ora al soggetto principale di questa ricerca, e vediamo nel dettaglio in che modo la musica di cui parlano gli Iḫwān agisce sulla salute del corpo. Da Ippocrate gli Ikhwan mutuano il concetto di crasi, in arabo mizāǧ, termine che calca il significato dell’originale greco e si riferisce a una mistura (Amri et.al, 2013: 78); sempre da Ippocrate prendono i quattro umori, in arabo aḫlāṭ, mentre rimane complicato inquadrare negli Iḫwān quello che Galeno chiama spirito19, ossia lo pneuma, il respiro vitale che agisce sugli umori e anima il corpo, ma che in Galeno non ha alcuna connotazione metafisica. Infine è ugualmente complicato chiarire la teoria degli elementi20 secondo gli Iḫwān, in quanto la formulazione aristotelica ripresa da Galeno subisce alterazioni in senso metafisico e occultistico.

18 Onde evitare troppe ripetizioni e parallelismi continui, per approfondire il rapporto tra la teoria musicale di al-Kindī e gli Iḫwān rimando a Shehadi, nel cui studio vi sono due interi capitoli dedicati al tema (Shehadi, 1995). 19 Il termine utilizzato dagli Iḫwān è rūḥ, spirito, e come già aveva a rilevare Avicenna (Amri et.al, 2013: 86) nella medicina greca indica lo pneuma, che è un principio naturalistico, mentre il termine arabo si allontana da quella connotazione suggerendo qualcosa che supera il mondo fisico, tanto che lo si ritrova spesso utilizzato in luogo di anima (nāfs). Inoltre nāfs – che deriva dal verbo nafsa (soffiare) - è usata nella filosofia araba in corrispondenza della parola greca che sta per anima (psyché), ma può indicare al contempo lo spirito vitale, che ricalca il significato di pneuma (Zonta, 2014: 53). Un’ulteriore prova che gli Ikhwan utilizzino rūḥ con una connotazione metafisica lo ritroviamo nella contrapposizione ricorrente che fanno tra rūḥānī (spirituale) e ğismānī, ove ğismānī già al tempo degli Iḫwān significava il corporeo contrapposto al rūḥānī, lo spirituale (ivi: 79-80). 20 Come già osservato riguardo lo spirito, anche la terminologia utilizzata dagli Iḫwān in luogo del greco stoicheìa (gli elementi) subisce delle oscillazioni semantiche che lo allontanano da una connotazione naturalistica, proiettandolo ina una dimensione metafisica. Il termine canonico della filosofia araba per

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Come abbiamo visto, la salute dipende dal buon temperamento degli umori, l’eucrasia, e gli umori sono correlati ai quattro elementi del mondo sublunare. Per ristabilire l’equilibrio umorale gli Iḫwān affermano che le quattro corde del liuto sono connesse ai quattro elementi, che a loro volta agiscono sugli umori; per principio di analogia, la musica del liuto sarà a sua volta connessa agli umori e agirà su di essi (Cap.9 p.128-129). Vediamo nel dettaglio lo schema quadernario che ne emerge:

Zīr – Fuoco – rafforza la bile gialla (sāfrā’) e riduce il flemma Mathnā – Aria – rafforza il sangue (dām) e attenua la bile nera Mathlath – Acqua – rafforza il flemma (bālġām), riduce la bile gialla Bamm – Terra – rafforza la bile nera (sāudā’) e calma il sangue

In virtù di queste corrispondenze21, le note vibrate dalle corde del liuto, quando dovessero raggiungere il malato, ne allieverebbero la sofferenza e agirebbero direttamente sulla causa della malattia .È per questo motivo che solo la musica del liuto ha potere terapeutico. Una corda in più, o una corda di meno, romperebbe la perfetta corrispondenza con gli elementi, e di conseguenza ne annullerebbe le capacità guaritrici. Ma per come può ristabilire il bilanciamento umorale, così la musica può alterarlo negativamente, e causare la malattia. Questo è un passo notevole (p.96), perché a differenza del regime alimentare, dove una certa quantità di cibo ristabilisce la salute, un’altra, in eccesso o in difetto, la danneggia, per la musica gli effetti negativi sono causati dalla cacofonia, dunque, dalla disarmonia. Vediamo come. Lo spessore delle corde del liuto è scelto secondo proporzioni matematiche, che in accordo con lunghezza e tensione modulano l’acutezza e la gravità di ogni corda, producendo quella consonanza tra le corde che allieta l’animo con la sua eufonia. Viceversa, quando lo spessore tra le corde non ha criterio, quando la lunghezza e la tensione contrastano tra di loro, la proporzione è rotta, e la cacofonia infligge sofferenza in chi l’ascolta. A questo punto raffiniamo ulteriormente lo schema quadernario già esposto, aggiungendo ciò: i suoni acuti sono associati al calore, riscaldano e moderano l’asprezza degli umori; i suoni gravi, connessi al freddo e all’umido, bilanciano il caldo e il secco nella composizione umorale; infine, i suoni mediani hanno effetto conservativo, e

indicare gli elementi, già al tempo di al-Kindi è usṭuqas, sicuramente coniato da Ḥunayn ibn Isḥāq traducendo stoicheìa prima in siriaco con l’assonante esṭuksā, e poi in arabo (Zonta 2014: 124). In 9,97 della V risāla, tuttavia - ossia nel passo dove sono descritte le corrispondenze tra umori ed elementi – gli Iḫwān non mutuano il termine da al-Kindī, ma usano il più arcaico rukn (elemento), ad esempio al-rukn al- nār (l’elemento del fuoco), che ritroviamo con lo stesso significato nel Sirr al-asrār, a conferma che la dottrina degli Iḫwān si discosta dalla linea naturalistica aristotelico-galenica per connettersi a concezioni occultistiche della natura. Per completezza segnalo che altrove gli Iḫwān utilizzano il singolare umm (madre), termine attestato negli scritti di area persiana del X secolo (ivi: 123). 21 Le corrispondenze positive sono mutuate dal Mu’allafāt al-Kindī al-mūsīqyya, mentre quelle negative (esempio la corda bamm che attenua il sangue) sembrano introduzione originale degli Iḫwān (Wright, 2010: 129).

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aiutano il bilanciamento umorale, prevenendone lo squilibrio. Quanto detto è effetto dell’eufonia prodotta dal liuto; la cacofonia, invece, nasce sia dalle pessime proporzioni tra le corde del liuto, sia da altri strumenti. Il loro suono può essere talmente insopportabile da alterare la crasi, e in casi molto particolari, scrivono gli Iḫwān, l’alterazione che ne consegue è talmente grave che rubbamā tuḥadiṯ mawt al-faǧa (5,42), può condurre alla morte improvvisa. Un’affermazione che oggi potrebbe lasciare perplessi, ma che ci restituisce fino in fondo la particolarità delle dottrine degli Iḫwān, il cui fascino e interesse ha resistito al crollo della filosofia aristotelica, sua premessa necessaria. Il pitagorismo e il neoplatonismo, invece, si sono riaffermati nell’Europa rinascimentale, e l’idea di un universo matematizzato e ordinato secondo proporzioni divine ha reso possibile la nascita dell’astronomia moderna. Sul versante della medicina e della musica le cose sono andate diversamente per via di una netta divisione tra medicina e dottrine filosofiche, né l’odierna musicoterapia è accostabile al tipo di musica che troviamo nell’Enciclopedia. Troppo facile sarebbe affermare che gli insegnamenti degli Iḫwān non sono inverosimili. Sappiamo che esistono affezioni psicogene, ossia originate da quella che in termini ippocratici potremmo chiamare una discrasia della mente, e teoricamente passibili di una risoluzione indotta. La musica, in tali casi, potrebbe servire da terapeutico, perché indurrebbe il corpo ad attingere a quelle potenzialità di autoguarigione che altrimenti non verrebbero sfruttate, ma si tratterebbe di eccezioni, le cui dinamiche profonde restano ancora terra da esplorare. Rimane quindi valido l’invito degli Iḫwān, tanto per il filologo, tanto per lo scienziato, di cercare il significato al di là della lettera, ossia la comprensione oltre l’apparenza.

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L’AUTORE Federico Leonardo Giampà è nato nel 1991. Ha conseguito la maturità scientifica nel 2010, nel 2013 la laurea triennale in Filosofia e Storia (Lode) con una tesi sulla secolarizzazione in ambito morale. Nel 2016 ha ottenuto la specializzazione in Scienze Filosofiche (Lode) con un lavoro sulla riforma gregoriana. Sta attualmente perfezionando i suoi studi presso L’Orientale di Napoli.

E-mail: [email protected]

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“Bella Ciao”. La storia di una canzone di libertà nel paese della Mezzaluna

Consuelo Emilj Malara

Abstract: The aim of the article is to illustrate the story of the Italian song “Bella Ciao” and the reasons that made this song out of Italy important for those who sing it and what it represents for peoples who have never known anti-fascism, focusing on why it is famous in Turkey. I will write about the folk’s origins of “Bella Ciao” and I will try to define in its musical characteristics. Further, will be illustrated “Bella Ciao” in musical Turkey’s scene. The purpose of the article is to highlight the causes of the popularity of this song in Turkey and why that song the meaning that this song has taken on in the Anatolian Country. I conclude my article with my observations focusing the meaning that the song “Bella Ciao” has assumed.

Keywords: Bella Ciao – Folk music – Italy – Anti-fascism –Turkey Parole chiave: Bella Ciao – Musica popolare – Italia – Antifascismo – Turchia

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INTRODUZIONE. ALLE ORIGINI DI “BELLA CIAO”: IPOTESI SULLA STORIA DI QUESTA CANZONE

La canzone è un componimento lirico destinato ad essere cantato con un accompagnamento musicale (Dizionario Treccani) e nasce dall’esigenza di condividere pensieri e esprimere sensazioni. Con l’avvento della radio e lo sviluppo dei mezzi di trasmissione, la canzone iniziò a ricoprire un ruolo cruciale all’interno della società, imponendosi nella vita quotidiana come mezzo comunicativo per la sua immediatezza.1 Attorno al fenomeno “canzone” si creò una vera e propria industria, sia in termini quantitativi in ore di ascolto, sia in termini di vendite che di eventi canori, creando importanti giri d’affari. Il valore ideale e spesso anche politico che viene attribuito ad alcuni testi, ha fatto sì che alcune canzoni diventassero “icone sociali” in cui chi la canta si possa identificare

1 Sulla radio come mezzo di comunicazione Nosengo, N. 2006. Radio. Enciclopedia dei Ragazzi Treccani. Enciclopedia Treccani: il portale del sapere. http://www.treccani.it/enciclopedia/radio_%28Enciclopedia-dei-ragazzi%29/; Grasso, A.2000. Radio e Televisione. Teorie, analisi, storie, esercizi. Milano, Università Cattolica del Sacro Cuore: Vita e Pensiero Casa editrice .

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con il messaggio che viene espresso. Esempio è la canzone We are the World2, considerata canzone simbolo per la pace nel mondo. Canzone icona per il suo chiaro significato sociale e famosa in tutto il mondo, a tal punto da essere tradotte in decine di idiomi diversi, è la nostra “Bella Ciao”. Appartenente al genere folk-popolare e associata al movimento partigiano, questa divenne famosa solamente nel dopoguerra. Canto privo di autore che ne abbia rivendicato i diritti, nasce dall’assemblamento di sonorità popolari preesistenti e testi provenienti dalla tradizione che si rifanno a temi letterari quali l’amore verso la donna, il sentimento non corrisposto, il soldato che lascia la sua patria. L’antropologo italiano Alberto Cirese nel 1953 segnalò per primo la derivazione di “Bella Ciao” dalla canzone narrativa denominata “Fior di Tomba II”3, presente in tutto il territorio nazionale. (Bermani, p. 219-220; APTO n.1936; APTO n.2633). Esistono versioni e frammenti di canzoni che possono essere ricollegati a “Bella Ciao” e con cui sicuramente presentano qualche discendenza. Secondo l’etnomusicologo Roberto Leydi il battito delle mani di “Bella Ciao” deriverebbe dal canto popolare tipico del settentrione Bevanda Sonnifera.4 (Pestelli, 2016, p.14; APTO n.2939, Bermani, p.220-221). Inoltre, il suo ritmo cadenzato e l’accordo iniziale presenta una fortissima somiglianza con il brano kletzmer5 “Koine” inciso a New York nel 1919 dal fisarmonicista yiddish Misha Ziganoff, zigano originario di Odessa. (Giovannardi, 2006, p.2, Meletti, 2018). Quello che emerge da queste testimonianze è che “Bella Ciao” è una canzone fatta di suoni antichi e parole provenienti da lontano, portate dai cantastorie che in cerca di fortuna viaggiavano da paese in paese. Quella di questa canzone è una storia ingarbugliata di cui ancora restano molte zone in ombra e con afflussi provenienti da vari luoghi. Di certo, “Bella Ciao” non fu un canto inventato dal nulla per la Resistenza ma, i partigiani italiani riprendendo i motivetti

2 Brano musicale scritto e composto nel 1985 da Michael Jackson in collaborazione con Lionel Richie e prodotto da Quincy Jones, inciso dagli USA for Africa, gruppo di artisti composto da 45 celebrità e interpreti americani. Realizzato a scopo benefico e il ricavato fu devoluto alle popolazioni dell’Etiopia. Su We are the world vedi Hilleary, C. (2010). Charity Song, ‘We are the World’ Remembered 25 Years Later., Voanews ed. 03/2010 https://www.voanews.com/a/we-are-the-world-79429907/416483.html 3 Della canzone Fior di Tomba esistono due versioni che differiscono tra loro dal punto di vista tematico e per sviluppo geografico. Fior di Tomba I conosciuta quasi esclusivamente in Piemonte, parla di una ragazza che vuole sposare un prigioniero che all'indomani delle nozze sarà condannato a morte. Chiede quindi di morire con lui e di essere sepolta nella stessa tomba sulla quale sarà piantato un bel fiore a testimonianza del suo amore. Fior di Tomba II invece, la ragazza vede dalla finestra l’uomo che ama parlare con un'altra donna e se ne cruccia. Così la ragazza decide allora di far finta di essere morta per farlo star male. Chiede che venga costruita una tomba per tre persone sulla quale piantare un bel fiore. Fior di Tomba II ha lo stesso verso iniziale di Bella Ciao (Bermani, p.218-219; APTO, n. 2633). 4 Bevanda Sonnifera è un canto narrativo conosciuto nell’Italia settentrionale da dove poi si sarebbe diffuso in tutta Italia. Nel testo una ragazza viene mandata dalla madre alla fonte a prendere l'acqua; lì incontra un cavaliere che le offre denaro in cambio di una notte passata assieme a lei. La ragazza, dopo essersi consultata con la madre, decide di accettare i soldi convinta di riuscire ad addormentare il cavaliere con una "bevanda sonnifera". Il giorno seguente il cavaliere paga la ragazza ma piange per il desiderio di dormire ancora con lei. La ragazza dice di voler chiedere nuovamente consiglio alla madre, ma il cavaliere non è d'accordo, perché sa di essere stato ingannato. (APTO n.2939) 5 Con il termine Kletzmer si indicano tutti i musicisti di origine ebraica. Con gli anni il termine ha esteso il suo significato al genere musicale tradizionale delle comunità ebraiche dell’Europa Orientale.

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tradizionali e i topos quali, la libertà, la morte per la patria e l’amore, ne fecero la loro versione. (Maffeis, 2011, p.16). Durante la Resistenza, il canto era

[…] un efficace strumento di propaganda e di organizzazione, di disciplina e di educazione collettiva. Per mezzo di rime e ritmi si orientavano politicamente i partigiani, si impartivano direttive di lotta, si faceva appello ai loro sentimenti più nobili. (Pivato, 2007, p.120)

Dalle ricerche dello storico italiano ed esperto di “Bella Ciao” Cesare Bermani (2015) sappiamo che già nel 1944 “Bella Ciao” era stata cantata da partigiani che combattevano nelle zone di Montefiorino, in provincia di Modena, ed era popolare anche nella zona di Reggio Emilia e dell’Alto Bolognese. Nello stesso periodo “Bella Ciao” era cantato da formazioni anarchiche sui Monti Apuani e nella zona di Rieti. Parigiani della Brigata Maiella ricordano di aver cantato una canzone simile a “Bella Ciao”. (Bermani, 2015, p.213-214). Da piccoli gruppi di partigiani “Bella Ciao” si diffonde rapidamente. Solamente nel dopoguerra, “Bella Ciao”, nella veste che oggi conosciamo, entra a far parte del panorama canoro italiano e internazionale. Secondo Carlo Pestelli, musicista e scrittore, “Bella Ciao” divenne famosa nel 1947, durante il Festival mondiale della gioventù democratica 6 a Praga, in cui un gruppo di partigiani emiliani parteciparono alla rassegna “Canzoni mondiali per la Gioventù e per la Pace” e la intonarono alla presenza di più di 17 mila delegati provenienti da 71 Nazioni diverse. (Solak, 2018; Pestelli, 2016, p. 53; Bergamopost, 2015). La canzone venne riproposta sia al festival della gioventù a Budapest nel 1949, sia a Berlino nel 1951. (Pestelli, 2016, p. 53; Scott-Smith& Krabbendam, 2003, p.140). La sua nascita tra le file dell’antifascismo pone “Bella Ciao” come canzone di sinistra, soprattutto cantata tra le file di comunisti e anarchici. La sua connotazione politica e il sentimento di libertà che sprigiona in chi la canta l’hanno fatta diventare inno di importanti avvenimenti tanto da segnarne e contraddistinguerne il colore, soprattutto in Italia. Nel 1960, anno della crisi del centrismo e dell’infelice governo Tambroni, fu cantata per i martiri di Reggio Emilia.7 Pochi anni dopo, nel 1968, divenne simbolo delle contestazioni e delle utopie dei giovani che si impegnavano per la difesa dei diritti civili8. La tonalità “rossa” che la connota e lo spirito battagliero la fece diventare il perfetto addio

6 Sul Festival Mondiale della gioventù democratica vedi Papademetriou, Nikolas (2017). “La fiamma del Festival Mondiale della Gioventù e degli Studenti resta viva” in Senzatregua: giornale della gioventù comunista. www.senzatregua.it. 15/03/2017 http://www.senzatregua.it/2017/03/15/la-fiamma-del- festival-mondiale-della-gioventu-degli-studenti-resta-viva/ 7 Sui fatti politici che interessarono Genova e Reggio Emilia nel 1960 vedi Paloscia, A. (2010). Al tempo di Tambroni. Genova 1960: la Costituzione salvata dai ragazzi in maglietta a strisce. Milano: Ugo Mursia Editore. Fanti G., Ferri G.C. (2001). Cronache dall'Emilia rossa: l'impossibile riformismo del PCI. Bologna: Edizioni Pendragon, Bologna, 2001. 8 Sul 1968 e il movimento studentesco vedi Eco, U., (1980). Gli orfani del Sessantotto, «L’Espresso», 24 febbraio 1980, ora anche in Id., Eco, U. (2000). Sette anni di desiderio, Bologna, Bompiani.; P. Ortoleva. (1988). I movimenti del ’68 in Europa e in America, Roma, Editori Riuniti; Tarrow, S.G.(1990). Democrazia e disordine. Movimenti di protesta e politica in Italia. 1965-1975, Roma-Bari, Laterza.

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dei nostri connazionali a due uomini che hanno comunque artecipato alla storia dell’Italia: il 13 giugno 1984 venne eseguita in occasione della morte dell’antifascista sardo Enrico Berlinguer e segretario del PCI e, il 6 novembre 2007, per i funerali dell’antifascista, scrittore e giornalista Enzo Biagi. Il suo essere “rossa” non l’ha resa meno popolare o ignorata, peggio ancora disprezzata, da chi non ne condivide il colore che le viene associato. Fin da subito la canzone simbolo della Resistenza italiana contro le milizie Tedesche e fascista, è diventata la canzone per eccellenza della lotta per le libertà politiche e sociali, un’icona di libertà cantata da gente libera in un mondo libero. La sua fortuna si deve senz’altro a non fare alcun riferimento all’interno del testo chiaro a un preciso orientamento politico o partito. Il nemico viene definito come “invasore” in senso generale e ciò ne ha permesso la diffusione anche in territori che non hanno conosciuto l’antifascismo e non ne possono comprendere a fondo il significato. Bel ciao non racconta del fascista invasore ma, come scrive lo stesso Carlo Pestelli nel suo libro ““Bella Ciao: La canzone della liberta”

“Bella Ciao” racconta invece una vicenda umana e corale, applicabile a ogni movimento di resistenza europea, incentrata non su un esercito o su una brigata in particolare, ma su un singolo uomo, martire di quella tragedia continentale che fu il nazifascismo. (Pestelli, 2016, p.62)

Possiamo dedurre che la canzone “Bella Ciao” sia stata assunta a canzone simbolo di un popolo che non si arrende, chi la canta nelle piazze, nei concerti, persino nei teatri dichiara al mando di essere contro “l’invasore” che non rispetta la libertà, contro una politica e i suoi rappresentanti, astoricamente definiti come “fascisti”, per le loro scelte autoritarie e poco aperte ad un dialogo. A tale proposito, lo stesso Pestelli scrisse sul suo libro: “non c’è altra canzone in nessuna lingua a dare una così gioiosa stangata all’oppressore” sottolineando il carattere ideologico di questa canzone.

“BELLA CIAO” E IL SUO SUCCESSO IN ANATOLIA

Negli anni questa canzone, oltre a essere stata tradotta in più di 40 idiomi, cantata in innumerevoli proteste, strumentalizzata, usata come base per canzoni- parodia o mixata in discoteca diventando persino un cult ai festival di musica techno, resta sempre fedele a sé stessa. Le tematiche principali della canzone, unito alla semplicità dei versi e al martellante ritornello i temi quali composto dalle parole “bella” e “ciao”, perfettamente comprensibili per i non parlanti italiano e “spendibili” nella loro versione originale, furono la chiave per il successo. Già negli anni ‘50 di “Bella Ciao” iniziarono a circolare versioni in lingua tedesca, polacca e inglese (Pivato, 2007, p. 128-129). A far sì che questa canzone dall’ambito “folk-resistenziale” passi a un contesto internazionale, espandendosi in maniera virale, così da diventare un’icona musicale, furono

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sicuramente le versioni di artisti celebri che negli anni 60 la portarono alla ribalta. Tra i primi esempi l’artista di origini italiane Yves Montand che la incide in Francia nel 1963, facendone un prototipo per le future versioni internazionali. (Pestelli, 2016, p. 85). Tra i casi di traduzione e adozione del nostro canto partigiano, sia nella sua veste di canto di libertà e portatrice di valori democratici, sia in parodia, quello turco è certamente tra i più interessanti. Nella versione turca, di “Bella Ciao” tra adattamenti e traduzioni, molte versioni: due differenti traduzioni, due adattamenti della base con intenti parodici: una in chiave pop/rap e l’altra in chiave religiosa. Segue inoltre un adattamento come inno della squadra di calcio del Galatasaray, mentre un ulteriore adattamento della base è assunto in versione ironico-romantica. Proprio con un adattamento che “Bella Ciao”, per la prima volta, attraverso una canzone che ne riprende fedelmente la base, rispettandone l’accordo, ma con testo completamente differente stravolgendone il senso, venne conosciuta in Anatolia. Nel 1969 l’artista Mehmet Taneri pubblica la canzone “Sen”, all’interno dell’album “Bu son Gecemiz”. Taneri usa la base di “Bella Ciao”, ma senza i battimani, rivolgendosi ironicamente ad una donna dicendole di non poter fare a meno di stare lontano da lei, di non riuscire a dimenticarla perchè qualsiasi cosa la ricorda. Ne riporto la prima strofa con il ritornello:

“kime anlatsam, akil danissam sen her yerde, her zaman, yine sen sen nasil unutsam, uzakta dursam elimde degil yapamam” 9

Nel 1988 il gruppo di sinistra “Grup Yorum”10 all’interno del suo album “Haziaranda Olmek Zor” pubblica la loro traduzione di “Bella Ciao” con il titolo “Çav Bella” (Pestelli, 2016, p.76-77). Della canzone partigiana il gruppo rispettaa l’andamento musicale e la tonalità, mentre il testo non è tradotto fedelmente pur rispecchiandone il significato. Il ritornello “Bella Ciao”, non viene tradotto con le rispettive hoşakal e güzelim11 ma ha subito un processo di turchizzazione in “Çav Bella”12 che ricorda le due parole italiane. Per quanto riguarda le strofe, anche quelle non sono state tradotte letteralmente: ad esempio “Una mattina mi son svegliato e ho trovato l’invasor” viene tradotto con “Elleri bağlanmış bulduğum yurdumun her yanı işgal altında”, dal significato letterale “trovandomi con le mani legate con la mia terra sotto l’invasore”, mentre invece

9 Mehmet Taneri. “Sen Sen Sen” da Sezen Cumhur Önal, Bu son Gecemiz. Grafson. 1969 10 Fondato nel 1985, si è sempre battuto per il riconoscimento delle libertà di stampa ed espressione in Turchia e dichiarato apertamente contro il governo. Legato agli ambienti di sinistra e autori di canzoni oltre che in lingua turca anche nelle altre lingue anatoliche come curdo, circasso e arabo, i suoi membri hanno subito processi e arresti, e di volta in volta i musicisti sostituiti. I loro concerti attualmente sono vietati sia in Turchia che in Germania. 11 Hoşakal significa “Ciao”, nella sua accezione di aarivederci. Güzelim, letterale “mia bella”. 12 La consonante “Ç” dell’alfabeto turco ha suono dolce “ci”

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la traduzione letterale sarebbe “Bir sabah uyandığımda düşmanı yurdumda buldum”. Ne riporto la prima strofa con il ritornello:

“İste bir sabah uyandığımda Çav Bella Çav Bella Çav Bella Çav, çav, çav Elleri bağlanmış bulduğum yurdumun Her yanı işgal altında13

La canzone dei Grup Yorum conquista la Turchia fino ad essere considerata un vero e proprio “modello” di traduzione, in quanto trasmette il significato di libertà dell’originale ed è perfettamente in armonia con la base. Molti furono gli artisti turchi che la riproposero e alcuni di loro ne realizzarono delle cover di successo. Nel 1992 il gruppo “Grup Kızırılmak”, all’interno del loro album “Aynı Göğün Ezgisi” propongono una loro versione di “Çav Bella” rispettando il testo scritto dal Grup Yorum. In questa versione il “Çav” del ritornello viene cantato nella sua veste originale italiana con un “Ciao” perfettamente scandito dalla cantante e voce principale del gruppo İlkay Akkaya. Nel 1991 il gruppo pop Grup Vitamin, realizza una versione parodica della canzone, che ha come tema l’alcool, dal titolo “Cevriye” ed è raccolta all’interno dell’album omonimo Grup Vitamin. La canzone fa riferimendo ai bevitori di birra e mangiatori di patatine che si ritrovavano nei bar sotto il vecchio ponte di Galata14. Anche di questa ne riporto la prima strofa con il ritornello:

“İşte bir akşam köprü altında Cevriye cevriye cevriye cev cev cev Bira patates takıldıgında Bar dolu işgal altında Bira patates takıldıgında Bar dolu işgal altında”15

Altra versione parodica di “Bella Ciao” è stata realizzata da alcuni membri dell’organizzazione non governativa “AGD Ankara Üni Komisyonu”,16 hanno dato vita alla loro “Bella Ciao” con il titolo “Çav Bella Mücahid Versiyon”. Questa ha come tema la preghiera e l’invito diretto a tutti di recarsi in moschea per pregare. Il video di tale canzone ha avuto visibilità solo sul web, tramite il

13 Grup Yorum. “Çav Bella”.Haziaranda Olmek Zor-Berivan. Kalan Müzik, 1988 14 Dopo essere rimasto gravemente danneggiato da un incendio nel 1992, il vecchio ponte è stato rimosso per far posto al nuovo. Il caratteristico spazio sottostante il piano stradale non ospita più bar e locali ma spazi commerciali, per lo più ristoranti di pesce. 15 Grup Vitamin “Çevriye”. Grup Vitamin. Uras Plak-021. 1999. Cassetta 16 AGD/ Anadolu Gençilik Derneği- Ankara Üni Komisyonu, associazione non governativa di idee nazionaliste e conservatrici. https://www.agd.org.tr/index.php

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popolare canale YouTube.17 Anche di questa, ne riporto la prima strofa e il ritornello.

“İşte bir sabah namaza durdum camide camide camide ca-ca-ca Elleri bağladım durdum kıyama, her taraf huşu altında, Seni Müslümanım beni de götür camiye camiye camiye ca-ca-ca Beni de götür dergahınıza dayanamam tutsaklğa”

Da un confronto, si evince che in questa parodia il testo di “Çav Bella” dei Grup Yorum è stato maggiormente ripreso soprattutto nel secondo verso. Nel 2011 il gruppo musicale Bandista all’interno del loro album “Bandista- Daima! Siempre” realizza una versione di “Bella Ciao” dal titolo “Hoşakal” che, tranne che per qualche verso, non rispecchia né la versione del Grup Yorum né la traduzione letterale. Il fine del gruppo, noto per le sue posizioni di estrema sinistra, è quello di esprimere il suo malcontento verso una società percepita come menefreghista e incurante verso quegli uomini che ogni giorno soffrono a causa di fame, povertà e guerra. Con questa versione di “Bella Ciao”, Gruppo Bandista vuole attirare l’attenzione verso le popolazioni emarginate: i musicisti hanno dichiarato inoltre di voler dare un aiuto concreto ai più disagiati proprio attraverso il ricavato della vendita del loro album. Anche qui, riporto la prima strofa e il ritornello. Il testo non presenta similarità in nessun punto con le altre versioni turche.

“Gün penceremde, uyandı güneş Tenimde terin, gözümde ferin, bekler beni kardeşlerim Bana şans dile, yolculuk kente Dostlarımla biz, göstereceğiz, o kiralık katillere Ve şimdi bakın, durmayın bakın Güneş ışığı, satılık değil, malınız mülkünüz değil”18

Non per ultimo la melodia della nostra con il suo battimani, con un ritmo più veloce e tonalità modificata, pur rimanendo riconoscibile, venne usata dai tifosi del Galatasaray per la loro canzone-inno realizzata in onore della squadra più volte campione di Turchia. Dal titolo “Destanlar Yazan” la nostra “Bella Ciao” è diventata la canzone regina dello stadio “Aslantepe Sami Yen”, più conosciuto come “Türk Telekom Arena”. “Destanlar Yazan” è stata pubblicata nel 2008 all’interno dell’album “Çıldırın Çıldırın. Galatasaray Taraftar Albümü”. Ne riporto la prima strofa con il rtornello:

“Lig ve kupanın

17 https://www.youtube.com/watch?v=eU8F-3v6DDw 18 AGD Ankara Şubesi Üniversite Komisyonu “Çav Bella Mücahid Versiyon”, 2013. https://www.youtube.com/watch?v=eU8F-3v6DDw

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Tüm avrupanın Geçmiş ve gelecek bütün takımların Destanlar yazan Zaferler yaratan Uğruna canını koyan Taraftarınla, Tüm camiyanla En büyük sensin Cim bom bom”19

La strumentalizzazione e l’utilizzo che è stato fatto in Turchia della nostra “Bella Ciao” a causa della sua melodia facilmente da ricordare e che rimanda a sentimenti positivi, è davvero notevole. Nonostante ciò, il suo significato storico non è mai stato dimenticato. Difatti, la canzone ha assunto nuova popolarità come canto ribelle durante le proteste di Gezi Park. Riassumo brevemente la vicenda, ormai divenuta celebre tanto in Turchia quanto all’estero: nel maggio 2013, nella città di Istanbul, giovani attivisti turchi iniziarono una protesta contro la decisione del governo guidato dall’allora Primo Ministro Recep Tayyip Erdoğan di demolire Gezi Park, un piccolo spazio verde situato nei pressi di piazza Taksim, nel quartiere di Beyoğlu. Il progetto prevedeva la ricostruzione dell’ex caserma Taksim (demolita nel 1940 per inagibilità) al posto del parco, la quale sarebbe poi stata destinata a ospitare un nuovo centro commerciale e una moschea. Con lo slogan “sit-in at the park”, armati di striscioni e bandiere i dimostranti volevano attirare l’attenzione dell’opinione pubblica, così da convincere il governo sulla necessità, sentita dalla popolazione, di preservare il piccolo spazio verde in quanto ormai tra gli ultimi rimasti a Beyoğlu. I manifestanti tentarono di bloccare la demolizione di Gezi Park attraverso la sua occupazione, ma vennero brutalmente costretti ad abbandonare le loro posizioni a causa della brutale reazione della polizia. Negli scontri che seguirono, molti furono i feriti. Le immagini e gli episodi di violenza contro questo piccolo gruppo di ambientalisti fecero il giro dei giornali provocando un’indignazione generale da parte di tutta la popolazione turca, tanto che il 28 Maggio la protesta di Gezi si trasformò in una sollevazione contro lo stesso governo (Bilgin, 2013, p.1). La polizia intervenne con ancor più ferocia e scoppiarono ulteriori scontri, a cui seguirono centinaia di feriti. 20 In quest’occasione, l’opinione pubblica si

19 GS Tribune Choir “Destanlar Yazan” Çıldırın Çıldırın. Galatasaray Taraftar Albümü, 2008 20 Traynor, I., Letsch (2013). Turkey divided more than ever by Erdoğan's Gezi Park crackdown, The Gurdianhttps://www.theguardian.com/world/2013/jun/20/turkey-divided-erdogan-protests-crackdown;Vedi anche Gökay B., Xypolia I. (Ed.) (2013). Reflections on Taksim – Gezi Park Protests in Turkey. Journal of Global Faultlines, School of Politics and International Relations (SPIRE) Keele University: Keele European Research Centre; (2013). Gezi Park Protests Brutal Denial Of The Right To Peaceful Assembly In Turkey. Amnesty.org https://www.amnestyusa.org/files/eur440222013en.pdf; “Turkish authorities violated human rights during Gezi Park protests, says Amnesty International” Istanbul Hürriyet Daily News 02/10/2013

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spaccò in due: da una parte i sostenitori dell’allora partito di governo AKP, dall’altra tutti i partiti non appartenenti alla coalizione di governo. Ci fu addirittura chi si indignò definendo Erdoğan come “il nuovo Sultano”, in quanto ritenuto incurante della volontà dei giovani e della libertà di protesta. Il 31 di maggio, le manifestazioni contro il governo ebbero un enorme impatto mediatico a livello mondiale e sia ad Izmir che ad Ankara vi furono delle vere e propria sommosse antigovernative (Erkoc, p.43). Durante queste proteste “Bella Çav”, nella sua versione dei Grup Yorum venne utilizzata in segno di protesta contro l’AKP e lo stesso Erdoğan.

CONCLUSIONI. “BELLA CIAO”: OSTINATA AZIONE E REAZIONE DI QUESTA CANZONE

Se in Italia “Bella Ciao” è una canzone di sinistra, cantata da quella parte di popolazione che ricorda con nostalgia gli anni 60, le riunioni sindacali e di partito, le lotte del centro destra e si riunisce ogni anno a Roma per il concerto del 1° Maggio, in Turchia e all’estero, la mercificazione della cultura ha reso “Bella Ciao” una canzone fenomeno, soluzione pronta all’uso per ogni occasione. Nei concerti, raduni di musica techno21, scioperi, nelle proteste con tanto di no global, questo canto è sempre presente con il battimano coinvolgente e galvanizzante. Persino i musicisti di strada la suonano con le loro armoniche, chitarre e strumenti a fiato e i passanti di quelle vie, riconoscendola, iniziano a canticchiarla. In qualsiasi lingua o modo la si intoni, “Bella Ciao” è sempre magica e ci fa sentire tutti un po’ partigiani. Sono molti coloro che pur non sapendo cosa sia l’antifascismo, non avendo mai sentito parlare di Carlo Rosselli, Gaetano Salvemini e lo stesso Matteotti, la intonano e additato il loro nemico a fascista. In una realtà sociale che sta perdendo le sue radici e il significato più profondo degli eventi storici ci sono uomini che ancora ricordano e cantano “Bella Ciao” nel loro significato più vero e, ci sono popolazioni che nel nome della Libertà ogni giorno la gridano al mondo. Con questa accezione la canzone è stata fatta propria dalla popolazione curda che nella sua lotta alla ricerca di un posto nel mondo. All’interno dei confini della Turchia, l’artista siriano di origine curda Ciwan Haco ne ha realizzato una traduzione in lingua curda intitolata “Çaw Bella”, riprendendo l’originale italiana. “Bella Ciao” è tornata ad essere canto popolare e di resistenza, cantato tra le lacrime di chi nonostante tutto, lotta per un ideale. Chiudo questo mio articolo con i versi di quest’ultima, la “Bella Ciao” curda Ciwan Haco, che restino nella memoria di un piccolo popolo senza http://www.hurriyetdailynews.com/turkish-authorities-violated-human-rights-during-gezi-park-protests- says-amnesty-international-55545 21 Bella Ciao fu suonata durante il festival di musica elettronica Tomorrowland dagli artisti Hardwell&Mddix che ne fecero una versione remix nell’edizione 2018 in Belgio. https://www.youtube.com/watch?v=E46iFwVdzrE

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Nazione, che come gli l’Italiani avevano speranza nella Resistenza per la costruzione di uno Stato così loro hanno speranza per il loro futuro e la loro lotta.

“Rojekî xweş bû, sibekî zû bû Lo bella çaw bella, çaw bella, çaw Rojekî xweş bû, sibekî zû bû Em li dijminê xwe rast hatin”22

LAVORI MUSICALI

AGD Ankara Şubesi Üniversite Komisyonu “Çav Bella Mücahid Versiyon”, 2013. https://www.youtube.com/watch?v=eU8F-3v6DDw Canzoniere Popolare Tortolese. “Fior di Tomba” . Piemonte: Antologia della musica Piemontese. MusicofItaly. 2016. CD Ciwan Haco. “Çaw Bella”. Nisêbîna Rengîn Çaw Bella. Ses Palk, 2001 CD Grup Vitamin “Çevriye”. Grup Vitamin. Uras Plak-021. 1999. Cassetta Grup Yorum. “Çav Bella”.Haziaranda Olmek Zor-Berivan. Kalan Müzik, 1988. CD GS Tribune Choir “Destanlar Yazan” Çıldırın Çıldırın. Galatasaray Taraftar Albümü, 2008 CD Mehmet Taneri. “Sen Sen Sen” da Sezen Cumhur Önal, Bu son Gecemiz. Grafson. 1969. Vinile, 7”,45 RPM. Michael Jackson. (1985) “We are the World” da Lionel Richie e Quincy Jones, U.S.A. For Africa, We are the World, Columbia Record. 1985. CD

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22 Ciwan Haco. “Çaw Bella” Nisêbîna Rengîn Çaw Bella. Ses Palk, 2001, CD

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RİSORSE ON LİNE

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http://www.hurriyetdailynews.com/turkish-authorities-violated-human- rights-during-gezi-park-protests-says-amnesty-international-55545

L’AUTRICE Consuelo Emilj Malara ha conseguito la laurea magistrale in Storia nel 2018 presso l’Hacettepe Üniversitesi, Ankara. I suoi interessi di ricerca si basano sulle relazioni diplomatiche e artistiche tra Italia e Turchia nell’età moderna e contemporanea.

E-mail: [email protected]

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Comunità, repressione e heavy metal in Turchia e Medio Oriente

Angelo Francesco Carlucci

Abstract: The aim of the article is to illustrate the birth and the development of a heavy metal scene in Turkey and in other countries of the Middle East. First, heavy metal will be defined in its musical characteristics. Further, Turkey’s metal scene’s birth will be illustrated, followed by an explanation of the problems that Turkey’s heavy metal scene had to face in order to grow as a social group and as a full-fledged musical scene. Same illustration will follow for the selected countries. The article ends with my conclusions. The purpose of the article, thus, is to highlight the causes of this genre’s worldwide popularity, despite masses’ hostility and censorship and to understand why heavy metal matters so much in Turkey and the Middle East.

Keywords: Heavy metal – Middle East – Turkey – Censorship Parole chiave: Heavy metal – Medio Oriente – Turchia – Censura

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INTRODUZIONE. CHE COS’È L’HEAVY METAL? L’heavy metal (o più semplicemente “metal”) è un genere di musica che nasce alla fine degli anni ‘60 come evoluzione o sincretismo di vari altri sottogeneri del rock (Weinstein, 2000, 7) ad opera di gruppi inglesi come i Black Sabbath1. Sin dall’inizio si è distinto per essere un genere di nicchia a causa del peculiare suono che lo contraddistingue: molto potente e veloce, ottenuto tramite forti distorsioni della chitarra e del basso. Anche la batteria viene suonata in modo da ottenere ritmi molto rapidi, quasi aggressivi. In alcuni sottogeneri più estremi anche il cantato viene modificato e distorto, in modo da ottenere un suono quasi gutturale o addirittura pressoché raschiato, come fosse un grido o un ruggito. È necessario spiegare brevemente che in realtà l’heavy metal è diviso in molte categorie, alcune delle quali più popolari mentre altre sono ancora più di nicchia.

1 I Black Sabbath sono annoverati tra i primi gruppi metal della storia e tanto i fan quanto le riviste specializzate attestano la loro influenza sui gruppi che li hanno seguiti. Si veda la canzone “Sabbath bloody sabbath”.

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Oggi gli appassionati definiscono “heavy metal” il suono dei gruppi appartenenti al periodo classico, come Iron Maiden o Def Leppard, ancora fortemente legati rock classico2. Molti altri gruppi propongono però suoni anche molto diversi tra loro: Mötley Crüe o Aerosmith (definiti come gruppi “glam metal”), ad esempio, hanno sonorità molto vicine alla musica pop e propongono un’immagine androgina e modaiola3, mentre gruppi di “power metal” come Blind Guardian o Manowar hanno un suono più classicheggiante e nei loro testi si spirano alla letteratura fantasy4. Altre band, definite di “folk metal”, attuano invece una sintesi tra musica popolare tradizionale e heavy metal, usando tanto chitarre e bassi elettrici quanto strumenti come bonghi, flauti e strumenti ad arco. I temi di gruppi come Korpiklaani, Cruachan o Orphaned Land sono ispirati alle leggende popolari e alle culture locali: troviamo quindi gruppi folk metal che si ispirano all’immaginario vichingo, celtico o mediorientale5. Per quanto riguarda le forme più estreme, vi sono gruppi come Metallica, Slayer o Anthrax, il cui suono viene definito “thrash metal” e rappresenta una evoluzione, ben più potente, di quello dei gruppi inglesi degli anni ’70 6 . Esiste poi un intero sottogenere del metal dal suono estremamente violento e veloce, chiamato “death metal”, in cui gruppi come Entombed o Death narrano di temi inerenti a disperazione, solitudine, violenza e rabbia 7 . Altri gruppi, come Mayhem o Marduk8, sono appartenenti al genere definito “black metal” ed eseguono una musica molto grezza e cupa, esprimendo un’immagine fortemente blasfema o legata a temi occulti. A prescindere dal sottogenere più apprezzato, anche il pubblico stesso divenne parte dell’immagine metal, presentando caratteristiche peculiari che lo resero immediatamente riconoscibile all’interno della massa: Susan Fast (2005, 89) enfatizza come l’estetica di questo genere, caratterizzata dalla predominanza di colori scuri, sia improntata a comunicare un’immagine aggressiva e machista. Il giornalista Nader Rahman descrive un’altra caretteristica del pubblico metal, il portare i capelli lunghi, affermando che “The heavy metal hair of the 80's and 90's symbolised the hate, angst and disenchantment of a generation that seemingly never felt at home”9. Non sorprende quindi che i suoi temi, la sua peculiare estetica e i suoi suoni così lontani dai gusti delle masse abbiano contribuito a creare una visione dei più ostile verso l’heavy metal, tanto nelle società occidentali quanto in quelle mediorientali. Non solo i gruppi metal portatori di un’immagine legata

2 Un esempio sono i primi album degli Iron Maiden. Si veda la loro “Run to the hills”. 3 Si veda ad esempio “Aerosmith – Love in an elevator” 4 I Blind Guardian, in particolare, sono noti per le canzoni ispirate ai libri di John R. R. Tolkien, autore della trilogia de “Il Signore degli anelli”. Un esempio calzante è “Lord of the rings”. 5 Si veda come esempio “Orphaned Land – All is one”. 6 Si veda come esempio “Metallica – Master of puppets”. 7 Si veda come esempio “Death – Lack of comprehension”. 8 Si veda come esempio “Mayhem – De misteriis dom Sathanas”. 9 Nader Rahm, “Hair Today Gone Tomorrow”, Star Weekend Magazine, 28-07-2006, https://www.thedailystar.net/magazine/2006/07/04/musings.htm

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all’occultismo sono stati oggetto di veementi reazioni (Signorelli, 2001, 13), ma addirittura alcuni sottogeneri estremi dell’heavy metal sono stati tacciati di promuovere valori vicini a quelli di movimenti xenofobi, omofobi o più genericamente di estrema destra (Wilson, 2015, 134). Secondo Mark LeVine (2009b, 13), i motivi per i quali un genere musicale così poco popolare e osteggiato dalle masse sia riuscito ad avere comunque un certo seguito a livello mondiale risiedono nella sua capacità di canalizzare e far sfogare quelle emozioni negative che fanno parte dei suoi temi principali. Lo sfogo dei sentimenti di rabbia e disagio connessi con le difficoltà economiche e sociali sarebbe il fulcro su cui il metal ha poggiato la sua ascesa: non a caso, ad esempio, ebbe un’impennata di popolarità negli USA degli anni ‘80, quando le politiche neoliberiste implicarono la crisi del ceto lavorativo industriale e la fine del welfare (LeVine, 2009, 13). Condizioni di difficoltà economica e sociale sono state riscontrate in altre società e periodi della storia moderna e contemporanea: ecco quindi che, nonostante la scarsa popolarità dell’heavy metal rispetto a forme più mainstream10 di intrattenimento musicale, nel corso degli anni questo si è diffuso a macchia d’olio prima nelle ex repubbliche sovietiche e poi nei paesi del Medio Oriente e Nord Africa, spesso come fenomeno underground, a causa della scarsa popolarità di pubblico e/o problemi connessi con la censura di cui scriverò in seguito. Tra questi ultimi, spiccano in particolare Marocco, Iran ed Egitto. Indubbiamente, però, il paese mediorientale con una tradizione più consolidata è sicuramente la Turchia. Il paese anatolico ha difatti una forte tradizione musicale e questa include anche una scena heavy metal molto sviluppata. Verranno altresì descritte le difficoltà che l’heavy metal ha dovuto affrontare nell’affermarsi come fenomeno sociale in seno al paese anatolico: dallo stigma sociale di cui i metallari sono stati oggetto alle accuse e repressione di cui sono stati oggetti da parte della società e, in alcuni casi, anche da parte delle forze di polizia. La medesima analisi, riguardo riprovazione sociale ed episodi di censura, verrà estesa anche agli altri paesi sopra accennati, al fine di evidenziare il clima ostile e le difficoltà che gli appassionati di musica metal devono fronteggiare nel fruire di questo tipo di musica. In ultimo, porrò l’attenzione sul perché l’heavy metal sembra aver trovato terreno fertile nei paesi interessati nonostante tali difficoltà, al fine di gettare luce su un aspetto sociale poco conosciuto del Medio Oriente, presente però in gran parte delle società dei paesi a maggioranza musulmana.

10 Per “mainstream” si intende un termine inglese usato come aggettivo in vari campi delle arti e della cultura per indicare una corrente artistica o culturale che è considerata più tradizionale o convenzionale, comunque comune e dominante, venendo quindi seguita dal più grande pubblico.

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LA NASCITA DELL’HEAVY METAL IN TURCHIA

L’avvento della musica rock in Turchia si può datare agli anni 60, quando il successo di gruppi come Led Zeppelin o Pink Floyd finì per causare la nascita di una tradizione rock autoctona che prese il nome di “Anadolu Rock” 11, una sintesi di musica rock e musica folk anatolica, in cui strumenti come chitarre e bassi elettrici si fusero con il saz o il ney 12 per creare un suono che, all’epoca, apparve rivoluzionario per opera di artisti come Cem Karaca o Bariş Manço. Non fu solo il suono ad essere innovativo: Hecker scrive che The Turkish music revolution was not only a musical revolution. That is to say, Turkish musicians did not solely appropriate the sonic, but also the visual representations of rock music. As a result, Turkey saw long-haired men with “wild” beards, jeans, and leather jackets appear on stage for the very first time. Questo nuovo pubblico di appassionati di musica rock non poté che rimanere fortemente colpito ed interessato dall’avvento dei primi gruppi di musica heavy metal. In realtà, anche a causa del turbolento clima dovuto al colpo di stato del 1980, i primi metallari13 iniziarono ad apparire ad Istanbul, Izmir o Ankara soltanto all’inizio degli anni 80, quando il mondo della musica metal era anch’esso in subbuglio grazie alla nascita di nuova generazione di gruppi capitanata dai Metallica. Fin dalla sua comparsa in Turchia si caratterizzò quindi come un fenomeno ristretto alle città più grandi e come un movimento i cui appartenenti erano i giovani esponenti della classe media, per lo più studenti (Hecker, 2012, 37), un carattere condiviso dalle altre scene dei paesi mediorientali. In questo primo periodo di diffusione, nella Turchia post-colpo di stato gravata da una pessima situazione economica, i metallari si trovarono in difficoltà a reperire album, riviste specializzate ed ogni genere di accessorio relativo alla musica metal, in quanto introvabile sul mercato o troppo costoso. Gli appassionati dovettero così ricorrere a soluzioni innovative e spesso poco ortodosse per accedere a suddetti materiali e la scena metal turca iniziò a basarsi su una serie di progetti volontari, spesso autofinanziati, che permisero la creazione di un movimento molto coeso. Si può dire che una scena metal vera e propria iniziò a svilupparsi quando i singoli appassionati iniziarono a scambiarsi copie illegali di album che erano stati acquistati all’estero o portati in dono da parenti e amici provenienti dall’Europa o dagli USA (Hecker, 2012, 38). Divenne pratica comune, una volta acquisito un album, quello di produrne più copie in modo da spedirlo tramite posta agli amici o a chi, magari conosciuto tramite

11 Letteralmente “Rock Anatolico”. Si veda ad esempio “Bariş Manço - Gülpembe” 12 Due strumenti usati nella musica popolare turca. Il saz è una sorta di liuto a manico lungo, chiamato anche chitarra saracena. Il ney è invece un flauto caratteristico della musica mediorientale, specie quella persiana. 13 Con questo termine, corrispettivo del termine inglese metalhead, si definiscono gli appassionati di musica heavy metal.

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amicizie o contatti comuni, ne aveva fatto richiesta. Hecker (2012, 41) spiega come proprio questo peculiare modo di relazionarsi l’un l’altro, contraddistinto da relazioni molto strette, abbia dato alla scena turca una certa unità che non troviamo altrove. In seguito, alcune personalità più capaci nel crearsi e sfruttare i contatti giusti finirono per iniziare un vero e proprio commercio di queste registrazioni, tramite gli ordini per posta o, addirittura, aprendo veri e propri negozi: a Istanbul, luoghi del genere si trovavano facilmente soprattutto nei distretti di Bakırköy e Kadıköy. L’apertura di questi negozi (come il tuttora esistente Hammer Müzik di Kadıköy) rappresentò una boccata d’ossigeno per la neonata scena metal turca, visto che gli appassionati, oltre a potersi approvvigionare di album e merchandising legato alla musica metal, ebbero a disposizione posti in cui incontrarsi dal vivo e socializzare con altri appassionati non solo tramite lo scambio di registrazioni illegali. Nel tempo, dato che in Turchia era virtualmente impossibile procurarsi riviste come Kerrang! o Metal Hammer14, da questi incontri emerse il fenomeno dei periodici amatoriali a tema heavy metal (o “fanzine”). Le fanzine turche erano degni sostituti delle riviste specializzate: contenevano informazioni e recensioni su nuove uscite, segnalazioni di concerti e notizie riguardanti il mondo dell’heavy metal. Assieme a quelle che copiavano più o meno il taglio delle riviste europee o americane, come Laneth o Non Serviam, particolare importanza assunse il lavoro di Aptülika, pseudonimo del vignettista Abdülkadir Elçioğlu. Verso la fine degli anni 80, egli iniziò a disegnare sulle pagine della rivista satirica Gırgır delle strisce aventi come protagonista un metallaro (Hecker, 2012, 47). Questi fumetti finirono per rivestire un’importanza fondamentale per lo sviluppo della scena metal turca: ben presto, infatti, il vignettista iniziò a riempire gli spazi vuoti tra le vignette con varie informazioni su gruppi, concerti e quant’altro relativo alla cultura metal, contribuendo così alla sua diffusione. Inoltre, proprio grazie al lavoro di Aptülika, divenne nota al pubblico l’apertura dei primi locali destinati a un pubblico di rocker e metallari. Kemancı, il primo, storico locale metal di Istanbul, aprì sotto il vecchio ponte di Galata nel 1986 (Hecker, 2010, 332). La sua popolarità era dovuta non solo alla sua unicità, ma anche alla sua posizione appartata, il che permetteva una certa libertà di comportamento agli avventori, cosa che non era possibile altrove. Scrive Hecker (2012, 75): The young rockers and metalheads, long-haired folks dressed in jeans and leather jackets shaking their heads to violent musical noise, did not fit into any common category to which others could attach a meaning. Moreover, the Kemancı, unlike other places in the area, provided a space where males and females could be spotted sitting together, chatting and drinking beer. With a combination of sound, style, and symbols, the young metalheads invaded the public, creating a new social space in the middle of Istanbul.

14 Due storiche riviste specializzate sulla musica heavy metal, inizialmente pubblicate solo nel Regno Unito ma in seguito diffusesi anche in Europa. Al giorno d’oggi, è possibile trovare l’edizione inglese di Metal Hammer anche in alcune librerie di Istanbul.

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Quest’invasione dello spazio pubblico da parte dei giovani metallari fu testimoniata anche dalla nascita di decine, se non centinaia, di gruppi heavy metal. Molte di queste band in realtà furono dei fenomeni amatoriali ed effimeri, caratterizzati da continui e repentini cambi di formazione. Ciononostante, la dedizione e passione che avevano caratterizzato l’avvio della scena metal turca trovò riscontro anche nella nascita dei gruppi musicali, tant’è che in Turchia sono in molti a eseguire persino i sottogeneri più estremi dell’heavy metal (Hecker, 2012, 61), come quelli descritti nell’introduzione. A differenza di quanto avvenuto con l’Anadolu Rock, i primi gruppi metal turchi non realizzarono una sintesi tra suoni locali ed internazionali, ma presero direttamente ispirazione dai gruppi europei e statunitensi più famosi anche per quanto riguarda i temi trattati: in generale, i gruppi turchi non spiccano per l’originalità dei temi proposti, che si rifanno a quelli predominanti all’interno dello stile di heavy metal suoanto. Emblematico è il caso dei Pentagram, che propongono tuttora una musica molto vicina a quella di gruppi come Metallica o Megadeth15 e che sono ritenuti come uno dei punti su cui si fonda l’intera scena metal turca. Essendo l’unico gruppo heavy metal turco ad essersi esibito anche all’estero, i componenti si adoperarono per creare contatti con altri gruppi europei così da invitarli a suonare in patria: il famoso concerto tenutosi al Harbiye Open Air Theatre di Istanbul assieme ai tedeschi Grinder rappresenta un punto di svolta per la scena metal turca, perché per la prima volta un gruppo metal europeo si ritrovò a suonare in Turchia (Hecker, 2012, 67). I Grinder non furono soli, ben presto altre band seguirono il loro esempio, fino ad arrivare a collaborazioni inaspettate: la band greca Rotting Christ, ad esempio, costruì nel tempo una fedelissima base di fan tra i metallari turchi e tuttora visita spesso il paese anatolico per tour e concerti16, nonostante i rapporti tra Turchia e Grecia siano stati, storicamente, abbastanza tesi17. Un caso ancor più interessante riguarda il gruppo israeliano Orphaned Land: nonostante il pubblico turco in genere condivida con gli altri paesi a maggioranza musulmana una malcelata riprovazione verso Israele, la band è popolarissima tra gli appassionati turchi, ma anche nei paesi arabi. Così, dato che la Turchia è facilmente raggiungibile tanto da Israele quanto dai principali paesi del Medio Oriente, i concerti del gruppo israeliano hanno spesso rappresentato un momento di incontro e dialogo pacifico tra metallari arabi, turchi e israeliani

15 Il sottogenere suonato da gruppi come Metallica, Megadeth o Slayer si identifica come “thrash metal”, lo stesso suonato dai Pentagram. Vedi “Encyclopaedia Metallum – Pentagram”, https://www.metal- archives.com/bands/Pentagram/268 16 I Rotting Christ hanno suonato l’ultima volta a Istanbul il 10 Dicembre 2017, concerto cui io stesso ho partecipato, come parte del tour di promozione del loro album “Rituals”. Sulla pagina Facebook dell’evento, è riportato che la band greca visita la Turchia sin dal 1997. Vedi “Rotting Christ - Istanbul konseri - 10 Aralık 2017”, Facebook, https://www.facebook.com/events/116764392382085/ 17 In realtà, dopo che la Grecia si prodigò per aiutare una Turchia in difficoltà dopo il terremoto del 1999, le relazioni tra i due paesi sembrano essersi normalizzate. Permangono, però, dispute tuttora non risolte riguardo la sovranità su alcune parti del Mar Egeo. Numerosi sono gli incidenti nell’area, avvenuti anche di recente. Si veda questo articolo del NYT, https://www.nytimes.com/2018/04/12/world/europe/greece-turkey-fighter-jet.html

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(Hecker, 2010, 337). In quelle occasioni, la “comunità immaginaria” fondata sull’heavy metal si è allargata fino ad estendersi a limiti transnazionali.

HEAVY METAL TURCO, REPRESSIONE E SATANISMO

L’apparizione dei fan di heavy metal all’interno della società turca non mancò ovviamente di scatenare delle reazioni da parte delle masse. In realtà, Hecker (2005b, 61) scrive che “Regarding it in line with the official Kemalist state doctrine to move the Turkish Republic closer to Europe, it has been widely tolerated by the authorities”. Infatti, non vi è quasi mai stata in Turchia una repressione della musica metal in sé, con la chiusura di riviste, sequestri di album o fenomeni comparabili a quelli accaduti in altre parti del Medio Oriente, che saranno descritti meglio in seguito. Ciò non toglie che le masse abbiano spesso reagito in modo sospetto, se non palesemente ostile, nei confronti dei metallari. Le strisce di Aptülika descrivono fedelmente quali fossero i sentimenti della gente comune nei confronti dei metallari: il loro abbigliamento peculiare e specialmente i capelli lunghi portati dagli appassionati di sesso maschile attiravano spesso le critiche e l’antipatia dei conservatori e dei più religiosi. Hecker, nel suo lavoro “Turkish metal” (2012, 181-185) riporta varie interviste di metallari che raccontano di come venissero spesso insultati, molestati o addirittura aggrediti in strada a causa del loro abbigliamento, ritenuto dai più non rispecchiare in modo adeguatamente marcato la loro virilità o il loro essere turchi. Per di più, gli appartenenti alla scena si comportavano in modo deviato per gli standard dell’epoca, spingendosi addirittura a frammischiarsi liberamente con esponenti dell’altro sesso sia in occasione dei concerti, sia nei locali metal. Quest’ultimo atteggiamento gravava in particolare sulle metallare: nella società turca ideali basati sull’onore e la rispettabilità, come quelli di şeref e namus 18 erano e sono ancora piuttosto diffusi e influenti, per cui l’idea che delle ragazze potessero uscire di sera per andare ai concerti assieme ai ragazzi, fumare e bere birra erano assolutamente inconcepibili. Hecker (2012, 167) enfatizza come molto spesso solo nei locali metal e ai concerti le ragazze si sentissero libere di comportarsi liberamente, poiché all’interno della scena sembra che i concetti di şeref e namus non abbiano nessuna influenza, tanto che alcuni metallari non sanno neppure darne definizione (Hecker, 2012, 164-165). Questa relativa libertà di movimento, limitata solo alle occasioni di incontro sociale all’interno della scena metal, accomuna la scena turca a quella degli altri paesi mediorientali. Come già accennato, nonostante l’ostilità di gran parte delle masse, i metallari turchi non vennero però quasi mai oppressi dalle autorità. Addirittura, è riportato come la prima radio a trasmettere musica metal fosse proprio quella

18 In verità è un po’ difficile dare una traduzione corretta dei due termini, poiché entrambi sono relativi al concetto di onore. Secondo Hecker, (2012, 159) şeref può essere inteso come “prestigio sociale” o “reputazione”, mentre per namus si intende “onore” in senso stretto.

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della polizia, che appartenendo al Emniyet Genel Müdürlüğü 19 aveva infranto il monopolio della TRT20 (Hecker, 2012, 56). Eppure, per un certo periodo anche la Turchia conobbe episodi di repressione, dovuti al panico generalizzato causato da articoli sensazionalistici sulla stampa ed episodi di cronaca nera. Nell’Ottobre del 1990 il quotidiano Sabah pubblicò un editoriale di Engin Ardıç dal titolo “Metaaal!” in cui il giornalista, prendendo spunto da alcune foto scattate durante un concerto, si lasciava andare ad una lunga invettiva nei confronti dei metallari. Oltre a criticare questi ultimi per i comportamenti devianti già descritti in precedenza, Ardıç, per la prima volta (Hecker, 2012, 84), accusava i metallari di essere satanisti. Quest’accusa riemerse qualche anno dopo: nel 1998 alcuni suicidi di giovani ragazzi turchi appassionati di heavy metal vennero descritti dalla stampa sensazionalistica come correlati a pratiche sataniche e all’ascolto della musica metal. L’anno successivo, la stessa cosa accadde relativamente all’assassinio di una giovane donna ad Ortaköy. A quel punto, sospinte dall’associazione “heavy metal = satanismo = crimini violenti”, le autorità di polizia reagirono al panico generalizzato in modo goffo e inutilmente violento: chiunque avesse i capelli lunghi, vestisse di nero o frequentasse i locali di heavy metal veniva spesso arrestato e subiva allora ogni genere di soprusi (Hecker, 2012, 111) in quanto sospetto di intessere rapporti con i famigerati satanisti, colpevoli di crimini così efferati. In realtà, ben presto il panico sociale basato sul satanismo finì per esaurirsi e i metallari non furono più oggetto di repressione, ma nel frattempo il danno era stato fatto: molte fanzine erano state costrette a chiudere, la distribuzione di album si era arrestata e non si organizzavano più concerti. Per fortuna, l’avvento di internet sembrò dare nuova vitalità alla scena: nuove fanzine iniziarono a venire pubblicate online e lo scambio di musica tra gli appassionati poté riprendere grazie alle tecnologie di file sharing come il famoso Napster.

HEAVY METAL E CENSURA IN EGITTO, MAROCCO E IRAN

La scena heavy metal turca non è la sola ad aver subito la pressione della censura nell’area mediorientale. In alcuni paesi i metallari hanno dovuto affrontare un ostracismo e un oscurantismo ben più deciso di quello che gli appassionati turchi hanno fronteggiato nel corso degli anni. Nonostante parte delle scienze sociali abbiano dato per certo che l’Islam rappresentasse un anatema per la diffusione della musica metal (Weinstein, 1991, 120), molti paesi del Medio Oriente e Nord Africa videro nascere una propria scena metal verso la fine degli anni 80, come prodotto della diffusione della tv satellitare, l’aumento della mobilità

19 L’organo responsabile dello spiegamento delle forze di polizia civile. La Turchia dispone anche di un organo di polizia militare, detto Jandarma Genel Komutanlığı. 20 In forma estesa Türkiye Radyo ve Televizyon Kurumu, è l’emittente radiotelevisivo pubblico turco, nato nel 1964.

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internazionale e l’avvento di Internet e del file sharing. Per di più, Mark LeVine (2009, 21) sottolinea come la crescita di popolarità del metal sia avvenuta in Nord Africa e Medio Oriente in un momento di crescita demografica, in cui l’aumento della popolazione giovanile si accompagnò molto spesso a momenti di crisi economica e sociale. Orlando Crowcroft (2017, 11) sostiene che, così come in Turchia, l’heavy metal sia nel Medio Oriente un fenomeno ristretto alla fascia media della popolazione: in particolare dai giovani studenti, capaci di parlare inglese e magari con contatti in Europa o negli USA, che quindi si sentivano vicini più alla cultura occidentale che a quella dei paesi di origine. Queste masse di giovani si ritrovarono molto spesso incapaci di integrarsi all’interno del mondo lavorativo locale (e di conseguenza sociale): le stesse condizioni che avevano reso il metal popolare in Inghilterra e negli USA si ripresentavano così in un differente ambiente, solo qualche generazione dopo (LeVine, 2009, 22). Per di più, il metal offriva a molti giovani un’alternativa ai modelli musicali, culturali e comportamentali imposti spesso dalla religione: come in Turchia, molto spesso gli appassionati potevano comportarsi liberamente soltanto in occasione dei concerti metal (LeVine, 2009, 23). Rispetto alla Turchia, però, i metallari di paesi come Egitto e Iran si ritrovarono a fare i conti con censure e opposizioni ben più aggressive e violente anche da parte delle sfere religiose (fattore pressoché assente in Turchia). In Egitto, ad esempio, la musica prima di venire pubblicata dev’essere autorizzata da un apposito ufficio del locale ministero della cultura, ma anche altri uffici presso l’università di al-Azhar del Cairo sono autorizzati a censurare la musica che non soddisfa i requisiti adatti (LeVine, 2009, 34). Mentre negli anni 90 il grado di controllo sui musicisti era molto più blando, tale da far fiorire la nascita di moltissimi gruppi heavy metal, negli anni seguenti vari gruppi islamisti (come il famigerato al-Gama'at al-Islamiyya) iniziarono a interferire con la scena. Il culmine si ebbe il 22 Gennaio 2017: più di 100 metallari egiziani vennero arrestati dopo la pubblicazione delle foto di un concerto, a causa di motivi più o meno futili (LeVine, 2009, 36). In quell’occasione, il Gran Muftì dell’Egitto chiese pubblicamente che venisse loro applicata la pena di morte causa apostasia (poi per fortuna mai eseguita): soltanto con la loro esistenza, essi rappresentavano una minaccia per l’ordine costituito in quanto non si adeguavano agli standard di comportamento imposti da una morale religiosa assai più stringente che in Turchia. La scena egiziana rimase scossa dagli avvenimenti e ci vollero anni prima che i metallari si sentissero abbastanza al sicuro da uscire dall’underground: solo dal 2005 si ripresero a pubblicizzare i concerti e si ebbe il permesso dalle autorità di tenerli all’interno dei confini cittadini. Nonostante ciò, la pressione della polizia su di loro rimase molto alta, come testimoniato da alcuni incidenti occorsi nel 2008 (LeVine, 2009b, 38). Per questo, la scena metal egiziana iniziò ad autocensurarsi al fine di evitare ulteriori problemi: tuttora,

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difficilmente le canzoni metal egiziane, pur appartenendo magari a generi abbastanza estremi, toccano argomenti inerenti a religione o politica21. In Marocco una fiorente scena metal iniziò a svilupparsi sulla base di una precedente scena rock locale che, come quella turca, risale agli anni 60. I medesimi fattori che avevano contribuito alla nascita di una scena in Egitto ne favorirono la comparsa in Marocco, accompagnati dalla diffusione locale delle antenne satellitari, così che in loco il canale di musica MTV e il programma televisivo Headbanger’s ball (dedicato alla musica metal) divennero popolarissimi. La scena metal marocchina è assai diversa da quella degli altri paesi del Medio Oriente, perché i metallari locali realizzarono qualcosa di simile all’Anadolu Rock, mentre negli altri paesi mediorientali i gruppi metal tesero più che altro a riproporre il medesimo suono dei gruppi più famosi22. Nel 1999 gli appassionati iniziarono ad organizzare uno dei più famosi festival di metal del Medio Oriente, il Boulevard des jeunes Musiciens (tuttora conosciuto come “l’Boulevard”), che crebbe di importanza fino a rappresentare una minaccia per le autorità di polizia: nel 2003, 14 partecipanti al festival vennero arrestati a causa delle medesime accuse di satanismo e comportamenti devianti già osservate in Turchia ed Egitto (LeVine, 2009b, 42). A differenza dei loro omologhi egiziani però, i metallari marocchini reagirono con veemenza, appellandosi al re e ottenendo, così, il rilascio degli arrestati. Questa vittoria sembrò però essere effimera perché, se pure il Boulevard continua a tenersi tuttora, dal 2007 il Marocco ha sperimentato un progressivo inasprimento della censura e un continuo tentativo di ingerenza nella scena metal autoctona, che culminò con l’interferenza del re nella scelta dei musicisti che si sarebbero esibiti nel celebre festival (LeVine, 2009b, 42). Riguardo l’Iran, LeVine (2009b, 45) scrive che « Whatever the problems with censorship in Egypt and Morocco, they pale in comparison with the situation in Iran. » Sin dalla rivoluzione del 1979, l’atteggiamento delle sfere religiose riguardo la musica è stato piuttosto ambivalente: pur non essendo questa completamente vietata, suonare rock o addirittura heavy metal in Iran è praticamente proibito. Le norme inerenti alla censura di ogni forma d’arte sono tra le più rigorose al mondo ed è difficilissimo riuscire a pubblicare legalmente un album o ottenere il permesso di tenere un concerto, per questo i metallari iraniani hanno reagito suonando nelle ambasciate o consolati stranieri o organizzando concerti clandestini per poche decine di persone, quasi

21 Gran parte dei gruppi metal egiziani più conosciuti a livello internazionale suona death, black o folk metal. Come spiegato nell’introduzione, questi tipi di metal hanno tematiche forti, ma slegate da argomenti inerenti alla politica. Anche i gruppi di black metal egiziani a tendono infatti a concentrarsi su argomenti come l’antica religione politeistica o un senso di contemplazione della religiosità in modo nichilista o distaccato. Vedi “Encyclopaedya Metallum – Egypt”, https://www.metal- archives.com/lists/EG 22 Anche se negli ultimi anni questa tendenza si è un po’ affievolita, è ancora possibile vedere che molti gruppi marocchini, pur suonando generi piuttosto estremi, inserisce delle influenze di musica folk nelle proprie composizioni. Vedi “Encyclopaedia Metallum – Morocco”, https://www.metal- archives.com/lists/MA

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regolarmente interrotte dalle autorità o dai basiji23. Anche qui, come in Egitto, l’esistenza stessa dei gruppi e appassionati di heavy metal è vista come una minaccia da parte delle sfere religiose a causa della continua sfida che i metallari, con la loro musica e immagine, rappresentano per la più stingente moralità musulmana. Per questo, il metal in Iran è sostanzialmente un fenomeno underground, che trova la valvola di sfogo tramite internet. Particolarmente importante per la scena metal iraniana è stato il portale Terhan Avenue, che nel 2004 istituì una gara virtuale di band: tra le centinaia di canzoni inviate al portale, furono moltissime quelle di gruppi rock o metal, che vennero così a conoscenza l’uno dell’altro e finirono per instaurare dei legami e stabilire di contatti, finendo per creare una scena metal iraniana localizzata completamente su internet (LeVine, 2009b, 51).

CONCLUSIONI. PERCHÉ L’HEAVY METAL È DIFFUSO NEL MEDIO ORIENTE? Come già accennato nell’introduzione, i motivi per i quali l’heavy metal si è diffuso in Medio Oriente e Nord Africa sono connessi con la sua capacità di esternalizzare quei sentimenti di rivalsa, rabbia e frustrazione che i giovani metallari mediorientali sembrano provare quotidianamente a causa di difficoltà economiche e sociali, connesse anche con la censura e il conservativismo religiosi che pervadono tuttora alcuni stati come l’Egitto o l’Iran. Per usare le parole di Reda Zine, uno dei fondatori del festival Boulevard, «We play heavy metal because our lives are heavy metal. Can you think of a better soundtrack to life in poor and oppressive societies like ours.» (LeVine, 2008b, 231). Inoltre, come già descritto in precedenza, solo in occasioni legate alla musica alcuni giovani mediorientali sono liberi di comportarsi al di fuori degli schemi predefiniti imposti dalla moralità e dalla religione. LeVine sostiene inoltre che anche l’Islam stesso possa essere considerato uno dei fattori causanti la popolarità dell’heavy metal: secondo lo studioso californiano «[…] most of the musicians I know in the Muslim world, including metal and rap artists, feel deeply spiritual about their music. It clearly leads them closer to what they believe God to be» (LeVine, 2008b, 244). In effetti, in molti casi egli ritiene che l’aggressività e la violenza del metal, specie nelle forme più estreme, possa essere letta come una risposta alternativa a quella dei gruppi integralisti. What becomes apparent upon closer analysis is that both extreme metal and what is often inaccurately described as ‘extremist’ Islam (especially by governments looking to delegitimize them) can be seen as opposing responses to a similar experience of anger at mistreatment and oppression by their

23 In forma estesa Sāzmān-e Basij-e Mostaz'afin. Una forza paramilitare iraniana fondata da stesso in occasione della guerra Iran-Iraq. Con la fine della guerra, venne impiegato come forza ausiliaria impegnata in attività di sicurezza interna.

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governments, and a sense of hopelessness at the prospects for their vision of positive change in society» (LeVine, 2008b, 232). A differenza dell’islam integralista, però, l’heavy metal secondo Hecker (2010, 339) […] provides the young with a means for individual emancipation from traditional lines. This includes seeking distance from religious conservatism and traditional concepts of morality. Muslimness is not a relevant category in their everyday lives. In fine, quel che vorrei sottolineare è come, oltre a come valvola di sfogo e mezzo per esprimere ribellione, l’heavy metal rappresenta una “comunità immaginaria” diffusa ormai a livello mondiale. Benedict Anderson, artefice del suddetto concetto, definiva la nazione come una comunità costruita a livello sociale, immaginata, più che realmente costituita, da persone che si percepivano parte di quel gruppo. Infatti [a nation] is imagined because the members of even the smallest nation will never know most of their fellow-members, meet them, or even hear of them, yet in the minds of each lives the image of their communion» (Anderson, 1983, 6-7). Si può dire lo stesso per la musica heavy metal. L’esempio mostrato nel caso dei concerti in terra turca degli Orphaned Land permette di mostrare come persone provenienti da paesi e fedi religiose diverse, spesso ostili l’un l’altra, siano capaci di condividere liberamente l’esperienza di un concerto metal: in quei momenti, sui forum e le altre piattaforme virtuali dedicate alla musica estrema, il metal diviene davvero una comunità immaginaria, i cui legami sembrano essere ben più forti di quelli religiosi o nazionali. Questo legame e ciò che esso rappresenta, spesso, è così forte da creare relazioni forti anche tra metallari e chi non è appassionato di questo tipo di musica, ma ne condivide i valori di resistenza e la necessità di sfogare la rabbia e frustrazione. Infatti, lo shaykh sciita Anwar al-Ethari rivelò a LeVine (2008b, 231) che I don’t like heavy metal. Not because I think it’s haram—forbidden—but just because it’s not my kind of music. But when we get together to pray, and pump our fists in the air and beat our chests, and chant very loudly, we’re doing heavy metal too.

BIBLIOGRAFIA

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LAVORI MUSICALI

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RISORSE ONLINE

Rahm, Nader. “Hair Today Gone Tomorrow”, Star Weekend Magazine, 28-07- 2006, https://www.thedailystar.net/magazine/2006/07/04/musings.htm “Encyclopaedia Metallum – Egypt”, https://www.metal-archives.com/lists/EG “Encyclopaedia Metallum – Morocco”, https://www.metal- archives.com/lists/MA “Encyclopaedia Metallum – Pentagram”, https://www.metal- archives.com/bands/Pentagram/268 “Encyclopaedia Metallum – Turkey”, https://www.metal- archives.com/label/country/c/TR Kitsantonis, Niki. “Greek Fighter Jet Crashes After Encounter With Turkish Aircraft, Officials Say). . ". 14-04-2018,

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https://www.nytimes.com/2018/04/12/world/europe/greece-turkey-fighter- jet.html Vedi “Rotting Christ - Istanbul konseri - 10 Aralık 2017”, Facebook, https://www.facebook.com/events/116764392382085/

L’AUTORE Angelo Francesco Carlucci ha conseguito la laurea magistrale in Scienze politiche e relazioni internazionali nel 2012 presso l’Università della Calabria. Dal 2015 è incluso nel laboratorio “Occhialì – Laboratorio sul Mediterraneo islamico” presso la stessa università. Nel 2016 inizia un dottorato di ricerca in Scienze politiche e relazioni internazionali presso la İstanbul Sabahattin Zaim Üniversitesi. I suoi interessi di ricerca si basano sulla Turchia moderna e contemporanea. E-mail: [email protected]

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La musica nella crisi identitaria del mondo islamico

Francesco Tieri

Abstract: The music historically produced in the Islamic countries is for all intents and purposes oriental music and, as any cultural aspect of the East, suffers at present from the identity crisis stemming from the westernization process. This crisis, which for over two centuries has coincided with the decline of the Islamic civilization and with the consolidation of Western hegemony in all domains of cultural production, has entailed in the musical field the stagnation of historical traditions and the adoption of imported musical forms. Our aim through this contribution is to analyze some aspects of the musical dimension in the Islamic world, during the latest phase of its evolution, with reference to a few geographical areas.

Keywords: oriental music – westernization - cultural identity Parole chiave: musica orientale – occidentalizzazione – identità culturale

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INTRODUZIONE

L’attuale discussione intorno allo status della musica secondo l’Islam è indicativa del disagio con cui si muove il pensiero islamico contemporaneo, schiacciato tra modernismi e fondamentalismi e senza più un moto culturale proprio. Le autorità religiose sembrano incapaci di elaborare indirizzi che abbiano presa sulla platea dei fedeli e sono sempre più indaffarate nella pubblica condanna del terrorismo. La musica storicamente prodotta nei paesi islamici è a tutti gli effetti musica orientale e, come ogni aspetto culturale dell’oriente, risente oggi della crisi identitaria conseguente il processo di occidentalizzazione. Questa crisi, che da oltre 2 secoli coincide col declino della civiltà islamica e col consolidamento della supremazia occidentale in tutti i campi della produzione culturale, in ambito musicale ha comportato la stagnazione di storiche tradizioni e l’adozione di forme musicali importate1. Con il presente contributo ci si prefigge di analizzare

1 Per quanto riguarda lo studio e l’esecuzione della musica colta occidentale nel mondo arabo-islamico, non si sono comunque creati i presupposti perché ivi si potesse giocare un ruolo da protagonisti sulla

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alcuni aspetti della dimensione musicale del mondo islamico, nella fase recente della sua evoluzione e facendo riferimento ad alcune aree geografiche, tra le tante che potrebbero essere prese in considerazione2.

LE TRASFORMAZIONI MUSICALI TRA IL XIX ED IL XX SECOLO

Nel 1826 il sultano Mahmud II, dando seguito al processo di riforma dell’Impero Ottomano avviato da Selim III, sciolse lo storico corpo militare dei Giannizzeri e la relativa banda musicale: il Mehter. Il compito di scrivere la nuova musica per il nuovo esercito fu assegnato a Giuseppe Donizetti, fratello maggiore del più famoso Gaetano, ed una marcia composta dal musicista di Bergamo piacque tanto al sultano che ne volle fare l’inno nazionale. Seguì un lungo periodo di decadenza per la musica classica ottomana che iniziò anche ad essere trascritta con la notazione europea, la quale non era ovviamente pensata per essa. Tra la fine dell’impero e la nascita della Repubblica Turca rilevante fu l’operato del musicista Rauf Yekta Bey il cui sistema di trascrizione sul pentagramma dei maqam (modi musicali) è considerato da molti come il più idoneo affinché l’utilizzo del primo fosse il meno traumatico possibile per i secondi. Nel 1917 egli fondò a Istanbul il conservatorio Dar ul-Elhan (Casa delle Melodie) ma l’istituzione fu chiusa nel 1926 per effetto dall’ondata di modernizzazione filo- occidentale che travolse un po’ tutto (De Zorzi, 2010). Nella neonata Turchia infatti si arrivò ad operare scelte molto drastiche come il cambio dell’alfabeto (da quello arabo a quello latino), ma anche provvedimenti restrittivi nei confronti della religione. Sulle coste meridionali dell’impero, a partire dall’occupazione francese (1798- 1800), con Mehmet Ali si istaurò in Egitto la dinastia albanese che regnò fino al 1953 e che ebbe da subito una progressiva autonomia da Istanbul, giungendo alla dichiarazione di indipendenza nel 1882 a seguito dell’occupazione britannica. Anche se autonomamente dal Sultano Selim III, Muhammad Ali avviò comunque il suo processo di modernizzazione che portò all’introduzione in Egitto di istituzioni universitarie di stampo europeo. Nel 1932 al Cairo ci fu il Concilio universale della Musica Araba , un congresso voluto dal re Fuad I e con la supervisione del barone francese Rodolphe d'Erlanger. Vi presero parte in egual misura sia delegazioni dei paesi islamici che delegazioni europee. L’iniziativa si prefiggeva di effettuare delle scelte mirate ad indirizzare l’evoluzione della musica

scena contemporanea e d’avanguardia. Di conseguenza ci si ritrova spesso in una sorta di doppio museo musicale 2 Questa trattazione toccherà sostanzialmente: la riforma musicale del XIX secolo nell’Impero Ottomano; il Congresso Universale della Musica Araba tenutosi al Cairo nel 1932, dove erano presenti delegazioni da molti paesi del mondo arabo-islamico; il processo di rinascita musicale avvenuto in Turchia nel XX secolo; il caso del Conservatorio Nazionale Palestinese

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araba, scelte che evidentemente non si riteneva di poter fare in autonomia rispetto all’Europa.

Le prospettive delle delegazioni europee ed arabe che presero parte al congresso erano del tutto divergenti […] La posizione europea illustrava perfettamente i caratteri di ciò che Edward Said ha definito con il termine “orientalismo”. Lo sguardo orientalista europeo ha il potere di trasformare l’“Est” in un oggetto in grado di suscitare grande meraviglia, ma pur tuttavia indifeso di fronte all’Occidente. Considerare la musica araba da questa prospettiva, dunque, significava far coincidere la sua grandezza con l’inerzia storica e con l’esaurimento della sua vicenda (Bohlman, 2002)3

Uno degli obiettivi del congresso era quello di individuare una scala musicale unica, con intonazione certa, per la nuova musica araba. Questo a riprova dalla propensione, da ambo le parti, a trattare la musica orientale con “strumenti” occidentali. Relativamente alle scale musicali infatti, la differenza sostanziale tra la musica colta europea e quella orientale è l’assenza in quest’ultima del processo storico che verso la fine del XVIII secolo ha portato in occidente al temperamento equabile e cioè ad un’intonazione fissa ed uguale per tutti delle note che gli strumenti “possono” suonare, ed il loro essere suoni “equidistanti” di un intervallo chiamato semitono. Nella musica orientale uno standard di questo tipo non era stato mai cercato. La “distanza” percorsa da 12 semitoni è l’intervallo di ottava e porta ad una nota con lo stesso nome di quella di partenza (porta cioè ad un Do se si parte da un Do, ad un La se si parte da un La, ecc.). Quest’intervallo è di capitale importanza in tutta la musica, ed il primo trattatista a chiamare con lo stesso nome due note distanti di un’ottava, scrivendo delle affinità tra due siffatte note, fu al-Kindi (801-873), tra i personaggi di spicco della Casa della Saggezza di Bagdad. Nel mondo islamico troviamo suddivisioni dell’ottava in intervalli “diseguali” detti koma, che sono in numero variabile, solitamente tra 16 e 24 a seconda dell’area geografica, e la cui intonazione non è fissa (Righini, 1983; Touma, 1996). Analogo discorso per la suddivisione in 22 sruti nella musica classica indiana (Perinu, 1983). Le due storie si sarebbero poi anche intrecciate durante l’impero Moghul in India, e non poche similitudini si riscontrano tra il sistema dei maqam della musica dei paesi islamici e il sistema dei raga indiani. La commissione preposta dal congresso del 1932 formulò una proposta di scala unica che tutto il mondo arabo-islamico avrebbe dovuto utilizzare raggiungendo così, nella durata di un congresso, un tipo di risultato che non aveva mai cercato e che in occidente era stato il frutto di un determinato processo storico e culturale4. La proposta del congresso rimase semplicemente agli atti ma la

3 Sul concetto di “orientalismo” richiamato da Bohlman si rimanda a E.W. Said in bibliografia (Said, 1978) 4 L’adozione del temperamento equabile in Europa comportò anche un periodo di adattamento necessario per abituarsi alla non perfetta intonazione delle note musicali dovuta alla presenza di numeri

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diffusione della musica occidentale e la conseguente cristallizzazione del patrimonio locale erano ormai processi irreversibili, e non solo in ambito colto5. Parte di ciò che in ambito musicale è rimasto a lungo nell’ombra, per fare spazio a quello che arrivava dal mondo moderno, può essere considerato come non ulteriormente evolvibile. Sono comunque in corso da tempo sforzi di recupero delle tradizioni musicali, così come abbiamo un po’ ovunque, percorsi artistici con una significativa identità culturale non importata. In Turchia per esempio, notevole importanza ha rivestito la conservazione del patrimonio musicale ottomano nell’ambito delle confraternite sufi. Quest’ultime furono messe fuori legge da Ataturk nel 1925 e sono rimaste in semi-clandestinità per decenni. Tornarono sulla scena pubblica a partire dagli anni ’70, seppur in veste talvolta folcloristica, contribuendo alla riscoperta del repertorio tanto osteggiato. Questo processo ha tenuto in vita l’utilizzo di determinati strumenti musicali con le relative tecniche esecutive, cosi come ha tramandato modalità compositive ed espressive che vivono oggi nuovi ed interessanti sviluppi. Un caso virtuoso molto interessante è quello del Conservatorio Nazionale di Musica Edward Said nei Territori Palestinesi. Questa istituzione è parte integrante dell’Università Birzeit ed ha sede in tutti i principali centri urbani, compresi Gerusalemme Est e Gaza. Nel 1990 un piccolo gruppo di musicisti fece il punto della situazione sullo stato dell’evoluzione e dell’educazione musicale palestinese e ne trasse la conclusione che era necessaria un’istituzione per avviare una strategia centralizzata in materia di conservazione, trasmissione ed evoluzione della propria musica6. Prima della nascita di Israele la musica colta nell’area rientrava nella tradizione della musica araba del Levante, mentre vi erano tipiche forme di musica popolare. Dopo il 1948 all’isolamento dei Palestinesi rispetto al mondo arabo-islamico, ed al loro vivere in un non-territorio fatto di aree non contigue, viene “contrapposta” anche questa proposta culturale musicale per certi versi unica, e che vede nell’insegnamento musicale una forma di resistenza culturale nazionale. L’offerta formativa del Conservatorio comprende lo studio della musica e degli strumenti occidentali, quello degli

irrazionali nel calcolo della loro frequenza. Si ricorda che il rapporto in frequenza tra due note distanti da un semitono è la radice 12-esima di 2, essendo il rapporto tra due note distanti un’ottava uguale a 2 5 Il Congresso del Cairo, con delegazioni provenienti da Algeria, Egitto, Iraq, Libano, Marocco, Siria, Turchia e Tunisia, ci ha lasciato una testimonianza importante, anche sotto forma di incisioni, sulla musica nel mondo arabo-islamico cosi com’era un secolo fa. Quel patrimonio culturale, che già allora viveva un periodo di stagnazione legato alle vicende storiche in corso, a distanza di quasi un secolo non ha avuto significative evoluzioni. Parallelamente, nei vari stati-nazione nati nel ‘900 sulle ceneri dell’Impero Ottomano, e non solo, si è gradualmente diffuso lo studio e l’esecuzione della musica colta occidentale. Istituzioni come il Cairo Conservatoire in Egitto e il Conservatoire National de Musique de Rabat in Marocco danno alla musica colta occidentale un peso che non trova corrispondenti nei conservatori europei, dove al contrario si studia fin troppo poco la musica extra europea. Più in generale si è avuta la diffusione di strumenti musicali occidentali anche nella musica pop, e questo ha inevitabilmente influito sul repertorio non colto, anche per le intonazioni rese possibili da questi strumenti. Discorso a parte meriterebbe la dimensione ritmica, dove l’identità orientale persiste 6 http://ncm.birzeit.edu/en/history

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strumenti orientali, e soprattutto un’interessante panoramica sulla musica non occidentale: araba, turca, e finanche persiana7.

LA PRODUZIONE DI CONSUMO CONTEMPORANEA ED IL RUOLO DELLE NUOVE TECNOLOGIE

Nel mondo islamico si produce tanta musica pop fortemente influenzata dalla produzione europea ed americana, ed artisticamente il risultato è talvolta paragonabile al neomelodico napoletano o alla musica latinoamericana destinata al mercato locale, un po’ come succede nel resto dell’oriente. La produzione musicale oggigiorno fa largo uso di software che tendenzialmente rendono agevole la realizzazione di un certo tipo di musica dove gli elementi orientali melodico-armonici trovano spazio più come “ornamento” che come nucleo della creazione. Una tappa importante in questa tipizzazione dei nuovi mezzi tecnologici è stata la definizione dello standard MIDI nel 1985, un protocollo di comunicazione tra strumenti elettronici che è incentrato sul temperamento equabile (Huber, 1991). Paradossalmente, ad opporsi invano ad una simile “limitazione” furono proprio i musicisti elettronici, occidentali8, i quali non avrebbero voluto che le possibilità offerte dall’informatica venissero da subito cosi circoscritte. I pionieri della musica elettronica erano infatti in continuità con la lezione della musica concreta la quale aveva gettato le basi per un nuovo approccio alla composizione musicale che prescindesse da pesanti limitazioni di sorta (Prieberg, 1960). L’utilizzo del computer come nuovo strumento musicale, oltre che come supporto alla produzione artistica, è stato un traguardo notevole. Ma uno standard informatico musicale realizzato avendo in mente il pianoforte, strumento principe del temperamento equabile, è senza dubbio un qualcosa di limitante rispetto a potenzialità molto più vaste. Nei paesi del mondo islamico, pur avendone tutto l’interesse culturale, non è stato comunque realizzato alcun valido supporto tecnologico concepito appositamente per sistemi musicali diversi da quelli per cui è stato realizzato il protocollo MIDI. A tal proposito vale la pena menzionare il software Scala, un prodotto freeware in grado di supportare la creazione musicale a partire da una qualsivoglia… scala, realizzato però in Olanda dall’ingegnere Manuel Op De Coul9. Tecnologie di questo tipo, in un appropriato contesto intellettuale e culturale, sarebbero un fattore abilitante per ravvivare patrimoni musicali che, quando non scomparsi, resterebbero altrimenti relegati in una sorta di museo accessibile a pochi. E ciò che non vive evolvendosi nelle forme è destinato a perire.

7 http://ncm.birzeit.edu/en/node/35, ma anche il video in italiano https://www.youtube.com/watch?v=5wTx9fPDvS0 8 Tra gli sviluppi della musica colta occidentale che non hanno avuto seguito nella riproduzione che si è avuta di essa nel mondo arabo-islamico sicuramente c’è la computer music, di fatto ignorata 9 http://www.huygens-fokker.org/scala/

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LA RELIGIONE NEL RAPPORTO TRA I MUSULMANI E LA MUSICA

Per quanto riguarda la vita religiosa quotidiana, tra le persone comuni la discussione sulla musica dal punto di vista islamico è da tempo incancrenita nella sterile disputa tra la superficiale posizione di chi vede tutta la musica come haram (illecita) e la altrettanto superficiale posizione di chi la vede sostanzialmente tutta halal (lecita)10. Questo anche perché la discussione è quasi assente a livello di autorità religiose contemporanee11. Al-Ghazali (1058-1111) diceva che, da un punto di vista islamico

l’ascolto della musica e del canto è dunque proibito ai giovani e a tutti coloro sui quali la lussuria esercita una presa tale da far si che ingeneri nei loro cuori pensieri disdicevoli. E’ biasimevole per colui che ne trae nient’altro che un vano trastullo. E’ permesso a colui che non prova piacere se non nella percezione di suoni armoniosi. E’ desiderabile per colui che si lascia guidare dall’amore di Dio Altissimo e nel quale la musica ed il canto suscitano le più belle qualità (al-Ghazali, 1999)12

Sempre al-Ghazali, nella sua trattazione sul tema, considerava il paesaggio sonoro dell’epoca come inevitabilmente pervaso dalla musica, citando ad esempio il canto degli usignoli. Uno scenario per certi aspetti ancora paragonabile a quello attuale dove però, nella migliore delle ipotesi, ai suoni della natura si è sostituita la tecnologia audio mediante la quale è diventato molto facile veicolare contenuti musicali (e sonori) spesso con fini persuasivi. Nella peggiore delle ipotesi invece siamo aggrediti dal rumore delle metropoli che comunque influisce, negativamente, sulle nostre esistenze. Considerare la presenza del canto degli uccelli come ascolto musicale inevitabile è una delle peculiarità del ragionamento di al-Ghazali. Sono infatti le forme musicali a

10 L’autore del presente contributo riporta in questo caso la sua testimonianza diretta che gli viene dall’esperienza nell’associazionismo islamico, un’iterazione fatta anche mediante l’uso dei social network con la comunità islamica non solo italiana. A titolo di esempio si suggerisce la visione di un video che ha avuto più di 13mila visualizzazioni, con sottotitoli in italiano e dal titolo “Il Corano del Diavolo”, espressione riferita alla musica. E’ un video pubblicato su un canale YouTube italiano, relativo ad una pagina Facebook italiana che parla di religione islamica e che ha oltre 26mila followers. Ma è un materiale prodotto all’estero. Questo video è indicativo del bassissimo livello di discussione sul tema: https://www.youtube.com/watch?v=MaJPuUg_npg. Tra chi la pensa in modo diametralmente opposto, fortunatamente verrebbe da dire, di solito non c’è chi produce materiale del genere, come fanno invece alcuni musulmani “nemici” della musica. Ma altrettanta superficialità sullo statuto della musica secondo l’Islam si evince nelle discussioni sul web che nascono ad esempio quando un musulmano posta le foto da un concerto. Sono discussioni dove ci si “confronta” a colpi di versetti del Corano e detti del Profeta dell’Islam utilizzati in maniera arbitraria, da ambo le parti. Un modus operandi questo che non è circoscritto solo alle discussioni sulla musica. 11 Questa carenza è discussa più avanti, anche nella nota 15 12 E’ un estratto dal “Kitab adab as-sama wa al-wajd” (Libro sul giusto modo di porsi nei confronti dell’audizione spirituale e dell’estasi), che è parte della monumentale opera “Ihya Usul al-Din” (Vivificazione delle scienze religiose). Nel 1999 ne è stata pubblicata una traduzione parziale in italiano dal titolo “Il concerto mistico e l’estasi” (al-Ghazali, 1999)

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stimolare la sensibilità umana, ed il canto degli uccelli è una forma musicale a tutti gli effetti (Neil, 1975). Uno degli aspetti relativi alla musica nel mondo islamico di cui non si parla praticamente più è il suo utilizzo in ambito terapeutico, l’utilizzo per l’appunto di determinate forme musicali per ottenere una specifica reazione nell’ascoltatore- paziente. Parliamo di conoscenze e di pratiche che il mondo islamico mutuò principalmente dalle popolazioni turche dell’Asia Centrale (Guvenc, 2007) e di cui hanno scritto personalità come il suddetto al-Kindi, al-Farabi (872-951) ed Ibn-Sina (980-1037). Quest’ultimo, conosciuto in Europa con il nome di Avicenna, è stato studiato in Europa fino al XVII secolo, ed il suo Canone della Medicina era ritenuta la più importante opera in materia anche da William Osler, padre effettivo della medicina moderna. La musicoterapia fu praticata almeno fino al XVIII secolo negli ospedali di città dell’impero ottomano come Istanbul, Edirne, Bursa, Kayseri (Cesarea), Aleppo, Damasco e il Cairo. Alcuni di questi ospedali erano stati realizzati sotto le precedenti dinastie turche (selgiuchide e mamelucca) come l’ospedale nel complesso di Qalaun al Cairo, realizzato nel 1248 per volere del sultano mamelucco al-Nassir Muhammad ed attivo fino alla sua demolizione del 1910. In quest’ultimo sappiamo che lavoravano anche dei musicisti. L’ospedale meglio conservatosi in cui è attestato che venisse praticata la musicoterapia è quello di Edirne (Adrianopoli), in Turchia. Costruito nel 1486, in esso l’impiego stabile di musicoterapeuti fu stabilito direttamente dal sultano Beyazid II, come testimoniano gli atti della fondazione, e come riportato anche nei racconti del viaggiatore turco Evliya Celebi (1614-1682). La struttura oggi ospita un interessante museo della medicina. Analoga testimonianza ci è stata fornita dal mercante e viaggiatore francese Jean Baptiste Tavernier, che ha riportato della pratica musicoterapica all’interno dell’ospedale del “Serail de Costantinople” (il caravanserraglio di Costantinopoli, Istanbul). Con l’ausilio delle nuove tecnologie informatiche e diagnostiche, in Europa e negli USA vengono ora condotte ricerche sugli effetti psicofisici dell’ascolto musicale. Alla luce della storica tradizione sopra descritta13, è singolare che questo non sia un importante filone di ricerca biomedica nel mondo islamico. Tornando ai pareri religiosi, sullo stesso sentiero tracciato da al-Ghazali si distingue un successivo ed approfondito pronunciamento sulla liceità della musica secondo l’Islam ad opera di al-Nabulusi (1641-1731), attivo a Damasco sempre nel periodo ottomano. Questa fatwa (al-Nabulusi, 2012)14, dovrebbe essere presa in considerazione da chiunque voglia occuparsi del tema. Testimonia tra l’altro

13 Tutte le testimonianze riportate sulla pratica della musicoterapia negli ospedali dell’Impero Ottomano sono prese da Hey Reisender, hey Reisender, libro (con 2CD) dello psicologo, musicologo, musicista e musicoterapeuta turco Rahmi Oruc Guvenc (Guvenc 2007). Per informazioni sulle sue ricerche è anche possibile visitare il sito www.tumata.com. Nel suo volume sulla musica turca De Zorzi (2010) ritiene invece che l’esperienza della musicoterapia sia da ritenersi conclusa. 14 Il riferimento in bibliografia (al-Nabulusi 2012) è la traduzione integrale in inglese ad opera di Ahmad Ali al-Adani (http://www.theislamiccommunity.com/about_us). Il libro contiene anche una biografia del sapiente di Damasco ed una panoramica delle sue opere. Attualmente disponibile in formato eBook, il traduttore ci informa che è in corso la pubblicazione cartacea ad opera della Amal Press (Bristol).

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un livello di approfondimento oggi inconsueto da parte delle autorità religiose. Quest’ultime infatti, quando non ignorano il tema, emettono pareri sulla musica a volte talmente brevi da poter essere postati quasi integralmente sui social network. 15 Per quanto riguarda i contenuti, questi pronunciamenti contemporanei spesso non si discostano molto da ciò che potrebbe scrivere una persona comune che pesca dalla rete, e sicuramente sono meno persuasivi del materiale multimediale che circola sul tema, sempre in rete. E’ ormai insignificante il punto di vista dell’effetto soggettivo che la musica può avere sull’ascoltatore, così come quello sull’utilizzo della musica per fini terapeutici. Per non parlare del fatto che sembra a volte inconcepibile considerare come forme di musica l’adhan (la chiamata alla preghiera del muezzin) e la salmodia del Corano, pur avendo una voce coinvolta in tali pratiche uno spettro in frequenza dello stesso tipo di ogni voce che canta, e cioè con una variabilità in frequenza più bassa del parlato16. Un po’ come per ogni aspetto dell’esistenza umana nel complesso mondo contemporaneo, quasi tutti i leader religiosi islamici si esprimono oggi sulla musica senza far mai uso di conoscenze che non siano quelle delle scienze religiose. Parlano della musica come se non vivessimo in un mondo pieno di stimoli sonori e musicali, come se non vi fosse stato l’avvento della radio, dei supporti musicali, del cinema, della TV e di internet, come se non vi fosse filodiffusione ovunque, o le interminabili sigle durante l’attesa per i servizi telefonici. Come se non fossimo cioè completamente immersi in una colonna sonora perenne e niente affatto liturgica. Non si capisce allora la necessità di “nuovi” e sintetici pronunciamenti senza alcun nuovo contributo.

15 L’attuale scenario delle autorità religiose islamiche è strettamente correlato alle condizioni politiche e sociali in cui versa la parte del mondo dove la religione islamica è maggioritaria. L’ala riformista, vicina alle Primavere Arabe, ha tra i suoi riferimenti internazionali lo shaykh al-Qaradawi, almeno inizialmente tra i punti di riferimento dei Fratelli Musulmani in Egitto, ora presidente dell’Unione mondiale degli ulema musulmani (http://iumsonline.org/en/). Questo network è anche antagonista delle istituzioni religiose statali tra le quali in qualche modo primeggia l’Università al-Azhar in Egitto, storica istituzione del mondo islamico i cui ulema (dotti) la riforma del presidente Nasser del 1961 ha definitivamente trasformato funzionari di stato. L’attuale Grand Imam di Al-Azhar è anche presidente del Consiglio dei saggi musulmani (https://muslim-elders.com/en/), neonata consulta transnazionale nata anche per contrastare il network che fa capo ad al-Qaradawi. Queste autorità religiose, non sempre impermeabili alle dinamiche politiche e dei cui network spesso la gente ignora l’esistenza, sono attualmente in competizione sulla scena pubblica in materia di lotta “teologica” al terrorismo e sembrano trascurare aspetti pregnanti dell’esistenza umana come l’espressione e la fruizione musicale. Nel suo famosissimo The lawful e the prohibited in Islam (edizione in inglese 1997. Cairo: al-Falah) al-Qaradawi dedica solo 4 pagine alla liceità della musica, mentre il terzultimo Gran Imam di al-Azhar, Gad el-Haqq, già Gran Mufiti d’Egitto e poi Ministro degli Affari Religiosi, ha emesso nel 1980 una vera e propria fatwa sul tema, di dimensioni comunque molto contenute rispetto ai pronunciamenti classici sulla musica: https://islamictextinstitute.co.za/music-azhar- fatwa/. Ci troviamo quindi di fronte ad una tematica ineludibile per il fedele musulmano contemporaneo che però vive questa dimensione in assenza di riferimenti guida autorevoli che se ne occupino in maniera continuativa, e con un livello di approfondimento e di persuasione congruo alle necessità. 16 E’ interessante notare come la diffusione della musica occidentale influisca gradualmente anche sull’intonazione dell’adhan e della salmodia del Corano. Questa influenza, che riguarda tutta la musica orientale, nel corso del ‘900 ha operato anche su tutta la musica popolare occidentale, come il blues americano, il rembetiko greco e la tamurriata napoletana.

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CONCLUSIONI

Una ritorno della civiltà islamica al ruolo di faro culturale non sembra alle porte. In ambito musicale questo potrebbe avvenire anche col contributo delle autorità religiose che dovrebbero suggerire una opportuna educazione all’ascolto, ma questo presupporrebbe una certa cultura in materia da parte delle stesse, o quanto meno un loro essere in un appropriato network multidisciplinare17. Il mondo accademico dovrebbe stimolare e sostenere il recupero e soprattutto la rivitalizzazione del proprio patrimonio musicale, così come la ricerca nell’ambito della computer music. Più in generale l’oriente islamico dovrebbe recuperare autonomia intellettuale, anche producendo musica nuovamente propria, magari con una proposta musicale contemporanea e di consumo che veicoli soprattutto contenuti etici, religiosi e mistici. Perché un mondo islamico ha ancora senso di esistere se suggerisce anche qualcosa di alternativo al modello dominante, non se ne fa solo la sua versione “islamica” e orientaleggiante. Forse la sussistenza di questo mondo presuppone che si abbandoni sia l’idea di un riferimento geografico e nazionale per esso sia la tensione politica transnazionale, endogena ed esogena, che mira a riformare tali paesi.

BIBLIOGRAFIA

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17 Ritornando sull’Università al-Azhar questa non ha, nell’ambito dei propri dipartimenti didattici di discipline non religiose, alcun insegnamento musicale, tantomeno di alcuna disciplina artistica. Ma nel 2018 ha dato vita ad un ensemble musicale che ha partecipato alla sesta edizione del talent show “Ibda’a” (Creatività): http://english.alarabiya.net/en/life-style/art-and-culture/2018/05/22/Egypt-s-Azhar- opens-up-to-music-and-forms-a-choir-for-the-first-time.html. Si tratta di un coro di otto ragazze ed otto ragazzi accompagnato da pochi musicisti. Non avendo al suo interno alcun know how in materia musicale al-Azhar ha delegando ad un maestro esterno la direzione artistica. Il repertorio non è particolarmente originale e l’elemento orientale maggiormente evidente è quello ritmico. Nel secondo video dell’articolo di alArabiya sopra riportato il coro canta accompagnato da due tastiere elettroniche e, dopo aver intonato alcune volte il nome di <>, i coristi intonano la “nostra” scala diatonica maggiore, quella che impariamo alla scuola secondaria di I grado, e letteralmente dicono <>. Sarebbe ragionevole aspettarsi di più da un’istituzione come al-Azhar, così come non ci si aspetterebbe la sua partecipazione “diretta” ad un talent show.

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AL-NABULUSI, ABD AL-GHANI 2012. Islam’s Judgment on Music. eBook: Hamaam Press NEIL, EDWARD 1975. Musica, tecnica ed estetica del canto degli uccelli. Padova: Zanibon PRIEBERG, FRED K. 1960. Musica ex machina. Berlino: Ulstein [trad. it. Musica ex Machina, Torino 1963] PERINU, ROBERTO 1983. La Musica Indiana. I fondamenti teorici e le pratiche vocali e strumentali attraverso i tempi. Padova: Zanibon RIGHINI, PIETRO 1983. La Musica Araba. Nell’ambite, nella storia, le sue basi tecniche. Padova: Zanibon SAID, EDWARD WADIE 1978. Orientalism. New York: Pantheon [trad. it. Orientalismo, Torino 1991] TOUMA, HABIB HASSAN 1996. The Music of the Arabs. Portland, OR: Amadeus Press

L’AUTORE Francesco Abd al-Haqq Tieri è specialista in Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione (ICT) e project manger nel settore delle Telecomunicazioni. È presidente di al-Khuwarizmi – Minoranze e Comunità, un ente no-profit che progetta soluzioni ICT a sostegno delle identità minoritarie e convenzionato con l’Università Roma Tre per stage e tirocini curriculari. Già portavoce del CAIL - Coordinamento Associazioni Islamiche del Lazio, è responsabile della piattaforma e-Shura.it del Comitato Promotore della Costituente Islamica. Dottore in Ingegneria Informatica, attualmente iscritto al Master Sonic Arts - Tecnologie ed Arti del Suono presso l’Università Tor Vergata di Roma, facoltà di Lettere.

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Hindustāni Paddhati

Remo Scano

Abstract: Hindustāni Paddhati is one of the two macro‐genres of the musical expression of the Indian subcontinent, which is identified, at least geographically, with the northern regions of India. This short work is a description of its subgenres: Dhrupad, Khayāl, Ṭhumrī and Ṭappā.

Keywords: Indian music – Dhrupad – Khayāl – Ṭhumrī – Ṭappā Parole chiave: Musica Indiana – Dhrupad – Khayāl – Ṭhumrī and Ṭappā

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INTRODUZIONE

Con il termine Hindustāni Paddhati si identifica il sistema musicale indostano, presente nell'India Settentrionale e che si distingue dallo stile Carnatico sviluppatosi invece nelle regioni meridionali del subcontinente indiano. A grandi linee si può affermare che l’influenza delle culture musicali persiane, importate dalla dinastia Moghul, divenne una delle chiavi distintive tra il genere detto Indostano e quello Carnatico. Infatti buona parte dei rappresentanti dell’Hindustāni Paddhati sono tuttora musicisti di fede islamica, che non hanno problemi a cantare in onore di forme indù del divino. Fu grazie ai Beatles, George Harrison nello specifico, che certe sonorità vennero introdotte alla massa nei paesi occidentali, ma già il violinista Yehudi Menuhin ed il sassofonista John Coltrane si avvicinarono precedentemente allo studio della musica indiana, in particolare allo stile Khayal che descriveremo in seguito. Questi tre musicisti rappresentano i tre sistemi principali della musica occidentale, ovvero la Pop Music, la musica classica ed il Jazz ed in tutti e tre i casi fu il sitarista Pandit Ravi Shankar a fare da tramite ed influenzarne le produzioni. Il musicologo francese Alain Daniélou anticipò tutti di un trentennio, ma il suo approccio fu più teorico che performativo e venne attratto principalmente dallo stile Dhrupad, anche se i suoi archivi vantano registrazioni, studi e manoscritti sulla musica in India a trecentosessanta gradi. Infine non ci resta che menzionare il chitarrista John McLaughlin, che a nostro parere fu il primo, forse l’unico, a creare una forma di integrazione tra stili differenti, introducendo i concetti di Rāga e Tala nel Jazz.

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Definire il termine Rāga non è facile. Si potrebbe dire che la "giustapposizione" di note musicali, in conformità a certe particolari regole, che servono a stimolare nell'ascoltatore un godimento estetico percettivo, si può definire Rāga. La giustapposizione si differenzia da qualsiasi concetto relativo all'armonia compositiva, sia per lo spirito improvvisativo della musica oggetto dello studio in questione, sia per lo spirito solistico e la totale assenza di armonia e contrappunto. Inoltre non tutte le composizioni melodiche sono dei Rāga. Di fatto per poter produrre una melodia e definirla Rāga, questa dovrà per forze di cose seguire tutte quelle regole che portino l'ascoltatore ad identificare un particolare Rāga e non scambiarlo per altri, tranne nel caso in cui lo stesso musicista intenzionalmente voglia dare un accenno, una sfumatura di colore di un altro Rāga. Anche se nella cultura musicale dei vari popoli esistono, o sono esistiti, sistemi melodici e/o modali, il caso indiano è unico nel suo genere. Utilizzando le varie regole di composizione, giustapposizione e interrelazione tra note sono stati creati innumerevoli Rāga, cosa che ancora oggi accade. Le regole sono precise e la conoscenza profonda di queste distingue tra loro i vari maestri e musicisti.

Nella descrizione di un Rāga sono di fondamentale importanza: • il nome, spesso legato ad uno degli aspetti del divino • le regole di successione del movimento ascendente e discendente della scala • la presenza o l’assenza di alterazioni nelle note • il rapporto tra il tetracordo inferiore ed il tetracordo superiore di una scala • i rapporti “gerarchici” tra le note • la natura numerica della scala che può risultare pentatonica, esatonica o eptatonica, oppure ricadere in una combinazione di queste ( ad esempio un Rāga può risultare con un movimento pentatonico ascendente ma eptatonico discendente) • la progressione regolare o irregolare delle note sui movimenti ascendenti e discendenti • il momento d'esposizione, legato ad un orario o a volte ad una stagione • un breve fraseggio utile a distinguere nell'immediato un Rāga da tutti gli altri

Con il termine Tāla si indica il ciclo ritmico che sostiene l’esposizione del Rāga. Il numero di variazioni ritmiche può essere indefinito, ma ogni Tāla è legato ad un numero specifico di pulsazioni che non seguono la linearità del tempo, ma bensi la sua ciclicità. Il momento in cui l’inizio e la fine del ciclo si fondono, risulta un elemento estetico fondamentale della musica indiana, poiché è il luogo dove coincide il termine e l’inizio di tutte le variazioni al tema, sia melodiche che ritmiche.

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La musica dell'India del Nord si suddivide in quattro stili:

× DHRUPAD × KHAYAL × THUMRI × TAPPA

IL DHRUPAD

Dhrupad e' composto da tue termini: 'Dhruva' che significa inamovibile, inalterabile o fisso e 'Pada' che significa testo o parola. Il divino è l'Unico 'Dhruva', perciò qualsiasi composizione letteraria che abbia a che fare con gli attributi e le preghiere a Dio è conosciuto come 'Dhruva Pada', conosciuto oggi nella sua forma contratta Dhrupad. Non è ben chiaro come sia nata questa forma musicale: alcuni indicano come fondatori Nāyaka Gopāla e Baijū Bārvā (XIII sec.), mentre altri attribuiscono l'introduzione di questo stile a Mānsingh di Gwālior (1486-1526). Ad oggi gli archetipi rimangono le composizioni di Miyān Tānsen1 (c.1493-1586) e nella maggior parte dei casi ci si riferisce sempre alla sua figura e ciò che deriva dalla sua trasmissione, anche se in rare occasioni alcuni lignaggi si rifanno a Nāyaka Gopāla e Baijū Bārvā. La scuola piu' diretta è conosciuta come Rabābī Gharānā, con composizioni Dhrupad in Gauḍa, Gauḍahāra o Gobarahāra Vāṅī2. Il lignaggio derivato dalla figlia di Miyān Tānsen, conosciuto come Binkār Gharānā utilizzava il Ḍāgara3, Nauhāra4 e Khaṇḍāra Vāṅī5. Quest'ultime sono le due principali discendenze di Miyān Tānsen. C'è da sottolineare però che uno

1 Vedi oltre. 2 Gauḍa, Gauḍahāra o Gobarahāra sono nomi diversi di un medesimo stile. Il termine Vāṅī significa per l’appunto stile. Gobarahāra Vāṅī e' uno stile che si è evoluto nella regione denominata Gauḍa, che è l'antico nome del Bengal. È conosciuto anche come Ṥuddha Vāṅī o stile puro. Non ci sono abbellimenti inutili sulle note, le quali sono utilizzate singolarmente e prive di decorazioni. In questa Vāṅī vengono utilizzati solo gli Alaṁkāra Mīḍ e Āśa, variazioni improvvisate che potrebbero corrispondere rispettivamente al glissando e ad il legato. Questa Vāṅī utilizza principalmente come aspetti emozionali il Śānta Rasa, aspetto pacifico, e il Bhakti o amore devozionale. Lo strumento musicale che esprime spesso questo stile è il Rabab. 3 Questo stile è molto poetico ed intriso di abbellimenti rispetto al precedente Gauḍa Vāṅī. Vengono utilizzati molti più ornamentazioni, come ad esempio il Zamzamā, o brevi fraseggi caratterizzati dalla ripetizione di note legate fra loro. I Rasa o sentimenti piu' comunemente espressi da questo stile sono il Śānta o pacifico, il Karuṇa o pathos ed il Madura, dolce o affascinante. 4 Una delle quattro tipologie di stile di presentazione dell'introduzione rapsodica detta Alap, dove a differenza delle altre forme, vengono utilizzate tutte le tecniche di ornamentazione e dove il Rasa o l'emozione espressa è Adbhuta o meraviglia. 5 Questo stile prende il nome dalla regione Khaṇḍāra in India. Questa Vāṅī è principalmente caratterizzata dall'uso dei Gamaka, oscillazioni incessanti delle note, e si esprime principalmente su un tempo di velocità media e veloce. Le emozioni, o Rasa, principalmente espresse in questo stile sono il coraggio o Vīra e Adbhuta o meraviglia.

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dei suoi figli, Sūrat Sen, si trasferì a Jaipur fondando la Seniyā Gharānā, la quale viene ancora oggi riconosciuta come la Jaipur Gharānā. Il Dhrupad ha solitamente quattro stanze o sezioni conosciute come Sthāyī, Antara, Sañcārī e Ābhoga. Tutte le composizioni hanno un carattere sobrio e spesso i contenuti riguardano argomenti di rettitudine morale e saggezza. Il carattere sobrio viene sottolineato anche dall'utilizzo di cicli ritmici lenti e la quasi totale assenze di ritmi leggeri o veloci. Le composizioni quasi tutte di carattere dossologico, spesso descrivono l’iconografia divina, alcune si riferiscono al sovrano, oppure alle attività giocose di Kṛṣna, altre esplorano temi dottrinali. Per quanto riguarda l'utilizzo dei vari Tāla, o cicli ritmici, quelle che utilizzano il Dhamāra Tāla sono conosciute come Dhamāra, quelle che utilizzano il Jhāṁptāla sono conosciute come Sādarā, mentre quelle che contengono temi relativi a Kṛṣna nell'occasione delle festività primaverili vengono dette Horī.

IL KHAYĀL

Il Khayāl è ad oggi lo stile più diffuso e seguito della musica classica dell'India settentrionale. Il significato letterale è ‘fantasia scherzosa'. Si ritiene che derivi dallo scostamento dalle regole marziali e sobrie dello stile Dhrupada, ma probabilmente anche le influenze della musica folk hanno contribuito alla nascita di questo stile. Tra il tredicesimo ed il quattordicesimo secolo Amir Khusro (1253 – 1325) introdusse questo genere nella corte del Sultano di Delhi Alāuddīn Khalji (1296– 1316), mentre nel secolo successivo l’ultimo Sultano di Jaunpur, Nawāb Husayn Shirqui (1458 – 1479), diede al Khayāl pieno titolo di musica di corte, ricenvendo il titolo di Ghandarva (musico celeste).La tradizione gli attribuisce anche le creazioni di alcuni Rāga. I vari abbellimenti, proibiti nel Dhrupad, vennero introdotti in questa forma arricchendone le sfumature. Sopratutto all'inizio il Khayāl prendeva moltissimo dal Dhrupad, ma ad oggi esso ha subito una tale evoluzione da poter distinguere chiaramente le due forme musicali. Il Khayāl subì varie innovazioni grazie a Shāh Sadāraṅg (1670–1748), rappresentante del lignaggio di Sarasvatī Devī, figlia di Myan Tānsen, leggendario musicista della corte dell’Imperatore Moghul Abu'l-Fath Jalal-ud-din Muhammad Akbar (1542–1605). All’inizio veniva principalmente espresso nelle corti di Delhi e coloro che coltivavano tale stile facevano parte della Qawwāl Gharanā. Il Qawwali è una forma di musica devozionale Sufi molto popolare nelle regioni del Punjab, del Pakistan,e nell'area settentrionale dell'India di influenza persiana. I canti che costituiscono il repertorio qawwali sono per lo più in lingua urdu e punjabi, anche se ci sono diverse canzoni in persiano, brajbhasha e saraiki.

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Gholām Rasūl (XVIII sec.) di , musicista di corte di Shuja-ud-Daulah (1732 – 1775) e del successiore Asaf-ud-Daula (1748 –1797) mischiò il genere di Sadārang con quello originale detto Qawwāl, e i suoi due figli Shakkar Khan e Makkhan Khan divennero famosi cantanti di Khayāl. Si possono individuare tre stili all'interno del Khayāl: quello definibile come stile Qawwāl, quello derivato da Shāh Sadāraṅg conosciuto come Khayāl e quello influenzato da Nathhan Pīr Bukhsh (figlio di Makkhan Khan), conosciuto come stile Dhrupadī6. C'è da sottolineare che gli appartenenti allo stile Qawwāl cantano perlopiù Rāga di origine persiana e i discendenti di Bāqar Alī Khān di Rāmapur seguono questo soprattutto stile. Il Khayāl si basa su un repertorio di brevi composizioni da 2 a 8 righe, chiamate Bandish per lo stile vocale e Gat per lo stile strumentale. Ogni cantante rende generalmente lo stesso Bandish in modo diverso, solo il testo e le regole del Rāga rimangono le stesse. I Bandish del Khayāl sono in genere composti in una variante di Urdu, Hindi, Persiano, Marathi o Panjabi, e queste composizioni coprono diversi argomenti, come l'amore romantico o divino, la lode di re o aspetti del divino, le stagioni, l'alba e il tramonto, e gli scherzi di Krishna, e possono nascondere simbolismi legati alla dottrina indù. Nel canto bisogna menzionare sicuramente alcuni nomi tra cui:

× FAIYAAZ KHAN × BADE GHULAM ALI KHAN × ABDUL KARIM KHAN × AMIR KHAN × NAZAKAT AND SALAMAT ALI × BHIMSEN JOSHI × KISHORI AMONKAR × RASHID KHAN × ULHAS KASHALKAR × RAJAN AND SAJAN MISHRA × ASHWINI BHIDE DESHPANDE × VEENA SAHASRABUDDHE

LA FORMA STRUMENTALE DEL KHAYĀL

Nella musica strumentale il Khayāl si presenta principalmente in due forme, una prettamente strumentale e l'altra di influenza vocale detta gayaki. Nella musica indiana il canto, detto gayaki, è la forma più pura della musica, per molti un

6 Questo termine da una parte indica una marcata presenza di elementi legati al genere Dhrupad, dall’altra assume il significato di “eccellente”, “elevato”, “aristocratico”.

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dono del divino e tutti gli strumentisti cercano di "cantare" attraverso il loro strumento creando così una serie di tecniche strumentali che formano lo stile "gayaki". Ustad Imdad Khan (1848 – 1920), musicista delle corti di Indore e Mysore, fu il primo ad utilizzare il Surbahar7 su questo stile, modificando lo strumento per poter eseguire sino a sette note su ogni tasto8, capace così di imitare il timbro e la tecnica della voce umana. Suo figlio, Ustad Inayat Khan (1894–1938) perfezionò la stessa tecnica nel sitar portando lo strumento ad eseguire fino a 5 note su ogni tasto. C'è da sottolineare che il vero Gayaki ang9 è raggiungibile solo se l'artista ha una profonda conoscenza del canto e delle composizioni vocali. Le registrazioni esistenti di Imdad Khan, Inayat Khan, Vilayat Khan e Imrat Khan mostrano la creazione e lo sviluppo del Gayaki ang sul Sitar e sul Surbahar, che è diventato il marchio di fabbrica della loro famiglia e costituisce la base di uno stile distintivo che è ammirato e amato in tutto il mondo. Di questa lignaggio di strumentisti, che hanno sviluppato tecniche e tecnologie del sitar e del surbahar, è bene menzionare:

× IMDAD KHAN × INAYAT KHAN × VILAYAT KHAN × IMRAT KHAN × RAIS KHAN × SHAHID PARVEZ KHAN × BUDDHADITYA MUKHERJEE × NISHAT KHAN × SHUJAT HUSSEIN KHAN

La Maihar-Senia10 Gharana, invece, fondata da Allauddin Khan11 (1862 – 1972), che fu musicista presso la corte del Maharaja di Maihar, rappresenta lo stile prettamente strumentale.

7 Il Surbahar ha una struttura pressoché identica al più conosciuto Sitar, solo che le dimensioni sono di gran lunga maggiori, donando cosi allo strumento un timbro molto più basso, una quinta più grave rispetto al Sitar. 8 La tecnica di costruzione strumentale dell’India è a dir poco geniale. Infatti su strumenti come il Sitar, Il Surbahar o la Rudra Vina, per menzionarne alcuni, i tasti hanno una forma particolare che permette allo strumentista di “tirare” sino a sette note. Nella tecnica chitarristica occidentale questo viene detto “pulling”, ma è limitato al massimo ad un tono e mezzo. 9 Il termine ‘Ang’ significa stile. Ghayaki ang indica lo stile strumentale che cerca di imitare lo stile vocale. 10 Maihar si riferisce alla corte presso la quale Allauddin Khan rese servizio, mentre Senia è il nome della Gharana, o meglio del lignaggio, di Wazir Khan (XVIII sec.) di Rampur, che fu a capo dei musicisti presso la corte di Nawab Sayyid Hamid Ali Khan Bahadur (1875–1930). 11 Guru del famoso Ravi Shankar, menzionato all’inizio del testo e legato alla diffusione in occidente della musica indiana.

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Possiamo affermare che Ustad Allauddin Khan Saheb ha rivoluzionato la musica classica indiana strumentale nel ventesimo secolo. Questa discendenza ha preso molto dallo stile detto "Beenkar'' (della Vina) e da quello "Rababiya'' (del Rabab)12, entrambi stili del sistema Dhrupad. In questo stile si fondono gli elementi melodici degli stili vocali con gli stili ritmici arricchiti con poliritmie e controtempi, sottolineando inoltre le caratteristiche timbriche dei vari strumenti. Strumenti come il Rudra Vina, il Sursingar ed il Surbahar hanno la capacità di emulare lo stile vocale Dhrupad. Altri strumenti vengono dedicati al Khayāl o al Thumrī, tra cui il Sarod, il Surbahar, il Sitar, il Bansuri, il Violino. Ustad Allauddin Khan diede a questi strumenti la capacità di creare un Alap(rapsodia) lungo ed elaborato riproponendo nel Khayāl la struttura del Dhrupad. Questa idea ha portato allo sviluppo sistematico del Rāga attraverso l'Alap, il Jod, il Jhala 13 e le composizioni che vengono arricchite con intricate elaborazioni ritmiche. Questo modo di esporre il Rāga deriva dalla Maihar-Senia Gharana, ma viene largamente utilizzato da molti strumentisti di altri lignaggi. Tra i vari artisti che rappresentano questo stile è bene ricordare:

RAVI SHANKAR (SITAR) NIKHIL BANERJEE (SITAR) ALI AKBAR KHAN (SAROD) ANNAPURNA DEVI (SURBAHAR, SITAR, SAROD) JOTIN BHATTACHARYA(SAROD) VISHNU GOVIND JOG (VIOLIN) VISHWA MOHAN BHATT (SLIDE GUITAR) PANNALAL GHOSH (BANSURI) HARIPRASAD CHAURASIA(BANSURI) KARTICK KUMAR (SURBAHAR,SITAR)

IL ṬHUMRĪ

Il Ṭhumrī è una delle quattro forme principali della musica classica indiana insieme al Dhrupad, al Ṭappā e al Khayāl . Viene considerato come evoluzione del Khayāl , come questo è considerato a sua volta evoluzione del Dhrupad, anche se a nostro parere queste teorie sono da prendere con le pinze. Rispetto al Khayāl il Ṭhumrī risulta di durata più breve e con una larga presenza di ornamentazioni nel combinare le note. Un'altra caratteristica di

12 Strumenti a corda legati alla tradizione Dhrupad 13 L'Alap, il Jod, il Jhala sono tre momenti della prima parte nell’esposizione canonica del Raga. Sinteticamente si potrebbe dire che l’Alap è un esposizione melodica priva di una pulsazione, il Jod rivede gli stessi passaggi introducendo una ritmicità con tempo “andante” ed infine il Jhala che ripercorre ancora una volta i movimenti del Raga facendo precipitare il ritmo ad un’andatura elevata, dove solo i limiti dell’esecutore ne rivelano la conclusione.

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questa forma è la modalità d'esposizione che spesso viene influenzata dall'oggetto trattato nel testo e dallo stato d'animo del cantante o musicista. Negli anni si sono formate tre Gharana o scuole principali di questo stile, che sono: • Gharana di Benares, che alcuni fanno risalire ai poeti del XII secolo d.c. • Gharana di Lucknow, fondata da Wazid Alì Shah (1822–1887) • Gharana del Punjab che unisce lo stile di Lucknow con le musiche folk tradizionali di questa regione.

Tra le tre, quella di Benares risulta la più solenne e sobria, dove raramente vengono mischiati più Rāga tra loro e le note vengono utilizzate senza sovrabbondanza ornamentale, facendole risplendere nella loro purezza, penetrando nell'animo dell'ascoltatore, ispirandone serenità. La scuola di Lucknow di contro risulta molto più leggera sui temi trattati e carica di espressività ornamentale, dove ogni nota risulta più che altro come un grappolo di note d'abbellimento, vi è un largo utilizzo di Alaṁkāra (ornamentazioni) e il tempo risulta più veloce rispetto a quello utilizzato a Benares. Lo stile del Punjab, oltre alle peculiarità regionali si distingue anche attraverso un uso inatteso di combinazioni di note. Un quarto genere di Ṭhumrī è detto Lācāva Ṭhumrī, dove l'oggetto dei testi è solitamente l'atteggiamento di sacrificio dell'eroina, ' Lācāva' indica 'l'atto di accettare il destino’. Spesso le canzoni che parlano d'amore si rifanno al genere in questione.

IL ṬAPPĀ

Il Ṭappā, infine, nasce dalla musica folk del Punjab che venne in seguito elaborata da Miyan Gholām Nabī Shaurī (1742–1792) incorporandovi vari ornamenti ritmici e melodici, portando gli standard qualitativi ai livelli delle altre forme classiche menzionate precedentemente, tanto da trovare abbellimenti di vario genere su quasi tutte le parole del testo. Le composizioni prodotte dal genio di Gholām Nabī sono dette Shaurī, che per alcuni è da considerare uno pseudonimo dell'autore, per altri era il nome della consorte. Nel Bengala l'autore Rāmanidhi Gupta (1741-1828) compose delle Ṭappā bengalesi conosciute come Nidhu Babu.

CONCLUSIONI

Al di là di questi quattro generi descritti, esistono canzoni o composizioni melodiche che non seguono nessuna regola Śāstrīya (relativa ai testi classici, Śāstra) o anche melodie che non trovano alcun riferimento nei trattati antichi,

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ma che sono composizioni di musicisti moderni. Queste vengono dette Ādhunika Saṁgīta o musica moderna. Le musiche dei film, che in India rappresentano la quasi totalità del mercato musicale della musica leggera, cadono all'interno di questa categoria, giovando alle necessità del periodo che le crea, seguendo il passare delle mode. Nel caso in cui una di queste melodie moderne avessero le qualità necessarie per sopravvivere al tempo, potrebbe, con il passare degli anni, essere considerata all'altezza degli standard classici. Bisogna di fatto considerare che il Kīrtan e la musica folk, non sono meno “classici” del Dhrupad, per esempio. Solo la forma è da considerarsi diversa e comunque con regole non meno rigide e rispettose della tradizione, proprio come accade nelle forme classiche. Il problema principale per noi occidentali è comunque quello di dover inserire in maniera abbastanza aleatoria queste forme musicali all’interno di categorie definite da certi termini che non precisano la natura delle cose. Sottolineiamo comunque che nei trattati antichi della tradizione indù si distingueva esclusivamente tra musica dossologica detta Mārga Saṁgita e gli altri generi che rientravano nella categoria Deśī Saṁgīta. Rimaniamo consapevoli che questa breve introduzione ad alcune parti specifiche della tradizione musicale del subcontinente indiano, non soddisfa appieno la realtà, ma speriamo che possa stimolare l’interesse del lettore verso questa forma artistica che solo i connoisseurs possono apprezzare. Ci teniamo ad indicare il nome del M° Gianni Ricchizzi, insegnante e concertista, le cui abilità creative e tecniche, la profonda conoscenza dei Raga e di quelle sottigliezze che ne contraddistinguono gli stili, fanno di lui un ambasciatore della musica indiana nel mondo, ed in particolare in Italia14.

BIBLIOGRAFIA

AA.VV. 2011. The Oxford Encyclopaedia of the Music of India. Oxford University Press. CHAUDHURI, BIMALAKANTA ROY. 2000. The Dictionary of Hindustani Classical Music. Delhi: Motilal Banarsidass Publishers. DANIELOU, ALAIN. 1995. Music and the Power of Sound. Rochester: Inner Traditions International. KHAN, ALI AKBAR. RUCKERT, GEORGE. 1998. The Classical Music of North India. Mumbai: Munshiram Manoharlal Publisher.

14 . Il Maestro Ricchizzi ha vissuto per dieci anni in India, dove ha conseguito un Master Degree presso la Benares Hindu University e dal 1991 risiede ad Assisi, in un Centro di Educazione Musicale chiamato “Saraswati House” dove insegna, organizza concerti e seminari accogliendo maestri dall'India e studenti da tutta Europa.

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PERINU, ROBERTO. 1981. La Musica Indiana. Padova: Zanibon. RICCHIZZI, GIANNI. 2015. 108 Raga Mala. Benares e la musica classica del Nord India. Roma: Artemide.

L’AUTORE Remo Scano, Laurea Trienennale in Storia Scienza e Tecniche della Musica e dello Spettacolo, ha conseguito nel 2014 un Bachelor Degree presso la Benares Hindu University. Durante la sua permanenza in India ha frequentato Pandit Amar Nath Mishra, noto sitarista di Varanasi, dal quale ha ricevuto insegnamenti sullo strumento secondo il metodo tradizionale detto guruśiṣyaparamparā.

E-mail: [email protected]

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SEZIONE DOCUMENTI

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“Il secolo delle tenebre e il secolo della luce”. Poema di Faama Bem Girrira

A cura di Paolo Branca

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FAAMA BEM GIIRRIRA, CHI ERA COSTUI? di Paolo Branca (professore di Islamistica e di Lingua e letteratura araba presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano)

1.

Insieme a quelle dei Manni di Gazzaniga e i Caniana di Alzano Lombardo, quella dei Fantoni di Rovetta è tra le più note famiglie di artisti della Valle Seriana, vera e propria dinastia di magistri a lignamine che seppero trasformare il loro antico mestiere in un’autentica scuola d’arte attiva per circa quattro secoli seminando opere di notevole valore non soltanto nella zona, ma anche nel resto d’Italia e all’estero. Da Bertulino Fantoni, marangone attivo intorno al 1460, si passa, attraverso molti altri, ai grandi nomi di Grazioso il Vecchio (1630-1693) e soprattutto a quello del di lui figlio Andrea (1659-1734), accolto per un breve periodo alla corte di Parma, poi operante in Valcamonica e Valtellina, quindi soprattutto a Rovetta, dove divenne capofamiglia e capobottega alla morte del padre. L’ultimo esponente della famiglia cui si devono opere d’arte è stato Donato Andrea (1746-1817), ma la cultura deve ancora molto ai Fantoni attraverso altri loro discendenti, come vedremo a proposito dell’avvocato Luigi di cui diremo tra poco. Le opere fantoniane sono concentrate soprattutto a Rovetta e in altre località della valle, ma ne troviamo anche a Bergamo, Padova, Venezia, e si parla anche di opere disperse a Crema, Milano, Parma, Salò, Zara e in Germania. La fortuna della loro arte, oltre che ai suoi innegabili pregi estetici, è sicuramente legata anche alla profonda devozione delle genti delle valli bergamasche che vollero abbellire e impreziosire chiese e luoghi di culto con ogni

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sorta di opere lignee e marmoree e che fu ancor più incoraggiata dopo la Controriforma quale argine alla penetrazione di influssi protestanti provenienti dal nord Europa, assumendo talvolta caratteri tanto spinti da suscitare qualche riserva persino in alcuni ambienti ecclesiastici.

2.

Pur da profano in fatto d’arte, ho sempre ammirato le opere dei Fantoni in quel di Rovetta e, alcuni anni or sono, visitando la loro casa museo, ho notato esposto in una bacheca un libro che si affermava tradotto dall’arabo: Il Secolo delle Tenebre e il Secolo della Luce, di tal Faama-Bem-Giirrira (sic), stampato da Luigi Fantoni (1789-1874), discendente dell’illustre famiglia e infaticabile raccoglitore e sistematizzatore della sua eredità artistica. A lui infatti “si deve il merito di aver avviato la ricostruzione storica della bottega familiare, a partire dalla riorganizzazione e dallo studio dei documenti”. Dopo pochi estemporanei ed infruttuosi tentativi di saperne qualcosa di più e soprattutto di rispondere ai molti interrogativi suscitati in me da una rapida visione del volume (ricordo di averne scritto anche a Francesco Gabrieli il quale mi rispose di non avere alcuna idea in proposito) passai ad occuparmi di altro, senza però mai rinunciare del tutto a tornare sull’argomento, come ho finalmente occasione di fare in questa sede. Nato il giorno della presa della Bastiglia, Luigi fu avvocato ma anche e forse soprattutto bibliofilo e stampatore. Gli studi giuridici – si laureò nel 1811 – non lo entusiasmarono, e inoltre la sua carriera fu compromessa per aver egli affermato: «Leggi per Italiani devono essere fatte da Italiani”. Esistono d’altra parte ulteriori testimonianze della sua forte personalità: “Intollerante d’ogni soperchia, chiama Ponzi Pilati i giudici austriaci, quando si accorge che invece di rendere sentenze fanno dei favori. Non esita a scrivere a censura di un giudicato, essendo pretore in Clusone il Beretta, diventato poi Consigliere d’Appello, che una testa doveva reggere la giustizia del suo paese e non una ‘berretta’. Al Pretore Crosio che petulante lo molesta per sapere l’etimologia del proprio cognome, risponde: ‘Crosio deriva dall’ebraico ‘Craus’ che vuol dire asino’. Chi non ricorda la sarcastica risposta data ad alcuni bellimbusti, alla stazione ferroviaria di Milano, che al vedere il venerando uomo vestito com’egli accostumanva, alla napoleonica, si erano laciati sfuggire l’espressione: ‘Ecco il Padre Eterno’, ‘No!’ interrompendo senza scomporsi il Fantoni, ‘Non sono il Padre Eterno, perché mi troverei pentito di avervi così malcreati’. Questa la terribile ironia con cui il dotto vegliardo soleva condire la sua parola, quando avventatamente qualcuno credeva di motteggiarlo; questi il discendente di quell’antichissima famiglia Fantoni di Rovetta che conta un gran numero di intagliatori, scultori ed architetti egregi; questi l’instancabile raccolgitore d’opere

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d’arte e di documenti importanti, il cultore di Dante, l’erudito poliglotta e filologo». Già durante gli studi a Padova e Bologna aveva sviluppato spiccati interessi letterari che lo portarono ad acquisire la vasta cultura grazie alla quale divenne consultore dell’Accademia Dolfina di Bergamo nel 1807. La sua formazione era però destinata a completarsi, pur senza un programma preciso e sulla scorta piuttosto di una disordinata e insaziabile curiosità, soprattutto durante i soggiorni a Parigi (1811-1814) e a Vienna (1814-1817), dopo di che questo suo ingordo vagare si interruppe a motivo della morte del padre ed egli fece ritorno a casa a prenderne il posto nella conduzione della famiglia. Malvolentieri si dedicò alla professione legale, ma senza tralasciare le antiche passioni che lo condussero, nel 1819, ad essere aggregato all’Ateneo di Scienze, Lettere ed Arti di Bergamo. Nella bottega istallò una tipografia dove stampò numerose opere, tra cui una Divina Commedia (basata su un manoscritto attribuito al Boccaccio e appartenuto poi al Petrarca e al cardinal Pietrro Bembo) in varie vesti, tra le quali un’originale edizione su carta colorata. Una copia fu inviata al re Giovanni di Sassonia, che ricambiò con la versione in tedesco fatta da lui stesso. Seguirono molte altre opere anche di autori classici, come Virgilio e il Tasso, e numerosi volumi di storia locale, ma la tipografia si manteneva grazie a vari tipi di stampe commerciali. Per le sue critiche agli austriaci, come si è detto, fu destituito dall’avvocatura nel 1845 e il suo ricorso venne definitivamente respinto tre anni dopo. Nel 1859 presentò all’Istituto Lombardo di Scienze, Lettere ed Arti una “Memoria sopra li spettacoli, i giochi, i diverimenti” per concorrere a un premio istituito già dal 1854, precedendo il De Coubertin nella proposta di ripristinare i giochi olimpici. Tra le opere progettate, ma non pubblicare, figurano anche Il Cantico di Deborah nuovamente disposto e tradotto dallo stesso Luigi Fantoni che aveva studiato l’ebraico e la raccolta degli scritti di Lorenzo Mascheroni. Tra i manoscritti che raccolse durante le sue peregrinazioni si trovano anche autografi di S. Tommaso d’Aquino e del cardinal Bellarmino (quest’ultimo rintracciato “fra i cimeli sottratti dai Francesi all’Italia e accatastati alla meglio nel palazzo Soubice”). Dal 1820 iniziò a occuparsi sistematicamente del riordino degli archivi di casa Fantoni, mostrandosi influenzato nei criteri seguiti dall’opera del Winckelmann. Purtroppo oggi smembrato e alienato, il patrimonio di stampe di casa Fantoni comprendeva pezzi di Dürer, Rembrandt, Reni, G.D. Tiepolo, Morghen e Piranesi. A documentare e a raccogliere testimonianze dell’arte dei suoi antenati si dedicò instancabilmente fino alla morte (si parla anche di un presunto viaggio in Russia, sulle tracce di opere fantoniane), avvenuta nel 1874. Dal ‘68 è la Fondazione Fantonum de Rascarolo (antico toponimo) che insieme alla famiglia conserva gli archivi di casa Fantoni e ne promuove lo studio.

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3.

Nulla autorizza a presumere che Luigi Fantoni conoscesse l’arabo e già altri biografi hanno ipotizzato che il testo in questione fosse in realtà opera sua. Che tipo di opera e con quale significato resta a me misterioso... Forse conoscenze in ambito esoterico e massonico potrebbero soccorrermi. L'unica cosa che ho potuto appurare con certezza è che le lettere in cui si divide il testo son quelle dell'alfabeto copto.

***

P. 1

IL SECOLO DELLE TENEBRE E IL SECOLO DELLA LUCE Poema di Faama-Bem-Giirrira Tradotto dall’arabo Roveta di Bergamo MDCCCXXIII

P3 IL SECOLO DELLE TENEBRE

ccoti, Sonimagog, l’atroce Volume del Sangue. Lo Spirito della Luce stemperi il Veleno della Vipera Occidentale, e dilegui i settanta e settanta E Sigilli impressivi dall’eterna Maladizione.

P5 ALPHA

VIDA

Genti dell’Universo, ascoltate la Voce che grida dalla Spelunca a Voi. 2. E Voi che reggete la Terra, date Orecchio al Suono della Desolazione! 3. L’Orgoglio à posto Regno, ed alla Destra del Trono di Lui siede Crudeltà; 4. Ed in Terreno bagnato di Sangue ànno germinato Fiori di Maladizione. 5. La Nequizia à stretto la mano dell’empietà; l’Ambizione e l’Invidia ànno fatto lega. 6. Tacque Verità; ed è spento ogni Seme di Misericordia. 7. L’Empio strappò la Stadera di Mano al Giusto; ed il Maledetto pronunciò la Morte di Rabbi.

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8. Disse il Miscredente in suo Cuore: Facciamo; che Jehova non prenderà Vendetta. 9. Ei dorme il Sonno dell’Inerzia; e Noi Lo ridiamo. 10. Cozzarono contro la Volta del Firmamento, ed ànno bestemmiata la Luce.

P6 11. Fu contaminato il Santuario, ed ànno imprecato i Ministri, dicendo : 12. Non v’è Dio; i Cieli sono un Cumulo di Atomi, e la Terra è nostro retaggio. 13. Chi à creato le Stelle e la Luna, il Sole ed i Venti? Quello che è. 14. Chi distinse le Stagioni con eguale Intervallo, e pose Confini al Giorno ed alla Notte? Quello che è. 15. A chi servono le Acque sparse nella Superficie della Terra, e sostenute dalle Cataratte del Cielo? Quello che è. 16. Chi annunziano le Tempeste ed i Tuoni? Quello che è. 17. Foste Voi pure seco Lui alla Formazione de’ Cieli? Chi è tra Voi il Padre della Pioggia? 18. Quale di Voi spruzza la Ruggiada fecondatrice? Chi spinge il Fuoco dalle Viscere delle Montagne. 19. Dove eravate nel Gâhânbânha dal Midijuzeram sino all’Hamaspitamidim, in cui disse: Facciamo l’Uomo? 20. La Creta è insorta contro il Vasajo; e l’Opera ha rinegato l’Artefice.

GAMMA

1. Guai a Voi che avete ricalcitrato contro Elohim e peste le Leggi della Giustizia; 2. Che adorate l’Oro e l’Argento, e le Pietre delle Montagne!

P7 3. Mentiste contra il Braccio dell’Eterno; ed il vostro Potere sfumerà. 4. Guai, a chi nell’Involucro del suo Cuore pensò nascondere il Secreto di empj Disegni! 5. A chi opera nelle Tenebre, e grida arrogantemente: Chi mi vede? 6. Gli Angioli del Signore allumeranno i Candelabri eterni nelle Tenebre. Esse svaniranno. 7. E l’Occhio di Dio passerà oltre le Mura di Babilonia, e le Nebbie del Peccato. 8. Guai a Voi, che fabbricate colla Strage; e regnate nello Scompiglio! 9. Le case di cui, vagliono il Sangue dell’antico Padrone, e le Viti sono innaffiate dalle Lagrime del Vignajuolo! 10. Costoro tolsero agli Uomini la Vesta non che il mantello; ed ànno maomessi gli Innocenti come Nemici. 11. Dio vidde il Pianto delle Vergini a Lui consacrate, che avete poste al Ludibrio;

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12. Ed udì il Gemito de’ Fanciulli, nella cui Bocca affogaste le Laudi di Lui; 13. Però Egli vi disperderà nel Giorno del suo Furore; come Vento Polvere minutissma del Deserto.

DALDA

1. L’Empio congiurò contro il Cielo ed à devastata la Terra. 2. Accese la sua Face nella Valle di Tophet,

P8 e riarse le Popolazioni. 3. Io, disse baldanzoso, sono il Trovatore, il Creatore; e l’Inversione della Phtohho e Tau è Opera delle nostre Mani; 4. Io ò alluminato Me stesso, brucciando il Pino della Montagna;ò spezzato il Freno tra’ Denti, e rovesciato il Palafeniere. 5. Egli bevve nel Teschio di suo Padre; e la Misura di cui si serve è tinta nella Collera del Signore. 6. Faceste Patteggio colla Morte e col Baratro. 7. Servite alla Scelleraggine; e per Voi combatte la Menzogna. 8. Susse al Nappo dell’Adulazione in Terra; ma la Cecità Lo traduce alla Perdizione. 9. E la Bestemmia, ritornandogli nella Strozza, lo soffocherà nel Meriggio: 10. Costoro si gabbano l’uno l’altro, sempre intenti nel Timore del Compagno. 11. Raccoglierete come avete seminato; e traccannerete il Calice della Punizione. 12. Schiatta di Vipere maladette! Costoro nascendo anno lacerato il Ventre della Madre Loro. 13. Però sovra di Essi piomba la Vendetta; e le Stelle piovono Sperperamento e Vitupero. 14. Ciurmarono le Nazioni, porgendo loro a bere l’Assenzio del Mal Costume. 15. Non guari andrà che l’Abitatore dell’Hasdim dividerà le vostre Spoglie e Quelle de’ vostri Amici. p. 9

SO

1. Come Spine in Siepaja, si adunano gli Empj nel nome di Ahriman; e siedono ne’ sozzi Conviti. 2. Assorbendo a piena Gola alla Fiumana del Delitto, sinché nell’Ubbriachezza Gli colga l’Angiolo della Distruzione. 3. Sciaurato, chi nuota nell’Abbondanza, mentre geme la famelica Moltitudine! 4. Sciaurato, chi fida in sua Fralezza, e non abbassa gli Occhi ai Piedi di Creta! 6. Sciaurato, chi procede ne’ Sotterranei, e fugge il Sole come il Vispistrillo; 7. Che ulua come il Gufo, e stride come il Nibbio e lo Sparviero!

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8. Sciaurato, chi si dà Vanto di sua Malizia, e lambe il Sangue dal Ceppo e dalla Mannaja. 9. Costoro sono terribili al Mondo, come l’Artiglio grifagno dell’Aquila al Passere solitario. 10. I Loro Palagi saranno abitati dallo Spirito delle Tenebre, e di Lui sozza Comitiva; 11. i Loro Favi daranno Fiele amarissimo; ed i Grappoli delle Vigne Loro stilleranno Tabe. 12. Perché lo Sdegno suo Bolle nelle Vene de’ Flagellati; e l’Onnipotente armerà i Fanciulli. 13. Iddio sconfonderà l’Empio; fulminerà il Peccatore; emetterà Fuoco nel Rogo della Scelleraggine. p. 10

14. Le vostre Piazze rintroneranno d’Urlo, e le vostre Vie scorreranno di Lagrime. 15. Il Drago dell’Ira Divina custodirà le Porte della vostra Città, e l’Aspido coverà sotto i vostri Origlieri. 16. Mangierete l’Erba ed il Fieno, e berrete Pozzanghera, siccome Bestie senza Intelletto. 17. Verrà dall’Oriente il vostro Punitore, come Veltro; e Vi inseguirà sino a che v’abbia addentati. 18. Perché avete lavato il Sangue col Sangue, perciò Altri laverà pure il Sangue col vostro Sangue.

ZIDA

1. Fortunato, chi non trascorse nel Consglio degli Empj, e non stette nella Cattedra della Corruzione! 2. Fortunato, chi non corre nelle Vie della Lordura, né si riscalda al Fuoco della Voluttà! 3. Disse lo Stolto: Perché lavare le mie Mani co’ Giusti il Mattino se a Giorno d’Afflizione succede Notte di Dolore? 4. Ma l’Empio à rivolta la Lingua contro Sestesso, e si è assomigliato allo Scorpione; 5. Amò la Maladizione, ed Essa scenderà sul di Lui Capo. 6. Sarà ubbriaco del suo Sangue ed affogherà nella Piena dell’Odio Eterno; 7. Cadrà nella Fossa da esso Lui scavata e p. 11 vi morirà; 8. Ammutoliranno le di Lui Labbra ed allivideranno come per Bava Viperina.

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9. Dov’è, chi sedette sui Cranj de’ suoi Progenitori, e si fece Visiera dell’Utero di sua Madre; 10. Il Profanatore del Tempio, che bruttò il Tabernacolo e violò le Vergini? 11. Che dilacerò la tremula Strozza di vecchi Sacerdoti; e rovesciò l’Arca? 12. Egli non è più. Pensò lottar coll’Eterno; ed Egli soffiogli in Volto la Desolazione e la Morte.

TIDA

1. Guai al Sanguinario ed all’Ingannatore. Il Castigo di Dio esce dalle loro Viscere, come Sorgente di Vermi. 2. La Corona dell’Orgoglio sarà infranta; ed il Trono dell’Errore rattenuto sovr’Esso lo schiaccerà. 3. La Sinagoga sorgerà contro la Sinagoga; ed i Sacerdoti trucideranno i Sacerdoti. 4. Costoro ànno cacciato il Giusto per la Terra, onde farlo morire di Sete nel Deserto Farau. 5. Ma guai a Loro; perché i Singhiozzi dell’Innocente invocheranno Pioggia di Fuoco sopra Babilonia; 6. I Crocuti discorreranno ne’ Loro Campi, ed i Leoni entreranno ne’ Loro Abituri; 7. Verranno sepolti vivi: e Felice chi sarà divorato dagli Orsi della Foresta! p. 12

8. Chiameranno inutilmente la Morte; perché il Castigo di Dio si porrà avanti la Falce e stillerà nelle Loro Bocche l’Afflizione Goccia a Goccia. 9. Si dormirà sull’Ossame insepolto; e combatterassi coi Stinchi de’ Fratelli. 10. Lo Scarafaggio coverà nei Loro Occhi; ed il Loro Puzzo ammorberà l’Universo. 11. Allora griderà l’Empio: La Mano di lassù mi percosse: e gli Abissi spalancheranno le Vie dell’eterna Perdizione.

JAUDA

1. Vennero sui Quattro Venti gli Angioli della Maladizione, e diedero fiato agli Oricalchi. 2. E dal Sangue putrido di Molahîdah venne la Schiatta de’ Chefidri e delle Anfesibene; 3. Che fischiando chiamavansi dietro i Figli per condurli al Convito di Ninive nella Notte. 4. Scontrarono il Giusto, e Lo divorarono; e fecero veglia la Vestibolo del Malvagio. 5. Eranvi i Lumi nella Valle; Austro soffiò, e la Terra fu ricoperta di Tenebre:

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6. E l’occuparono lo Scompiglio e la Morte; e si udì lo digrignare de’ Denti. 7. Strinsero le Madri i Fanciulli lattanti al Seno; ma ad Essi crebbero i Denti, e ne spiccarono le Mammelle. 8. Mise il semplice la Mano nella Buca, e ne ritrasse mortiferi Falangi.

P13

9. I Delitti si ammonticchiarono sopra i Delitti; ed in Cima si adagiò, giudicando l’Infamia. 10. Sboccarono dall’Oceano tre Fiumi di Pece bollente, ed innondarono i sette Venti di Veleno. 11. I Popoli che ad essi si dissetarono, incrudelirono; e chi vi gittò Reti, ne trasse l’Ippopotamo, che li ingojò. 12. Così dalla Bocca del Sapiente è nato lo Scandalo; ed il Sacerdote à messa la Daga in Pugno a’ Leviti. 13. Gli Spiriti del Vortice invasero le Genti; ed Esse furono volte in Giro sino allo Sfracello. 14. L’Altissimo, siccome Cacciatore, ucciderà i Chelidri e le Anfesibene, dal Verde al Perso, dall’Avo al Nipote. 15. Ed il Fosforo dell’Oriente riaccenderà i Lumi, e Gli porrà sopra Piedestallo di Topazio in Vaso di Zaffiro; 16. Il Signore, siccome Montagna, s’attraverserà al Corso de’ Fiumi; imprigionerà gli Spiriti del Vortice; e, scuotendo sdegnoso l’Orbe, griderà: 17. Maladetto il Labro della Menzogna; maladetto chi Mercanteggiò l’Ingiustizia a Prezzo di Sangue! 18. Maladetto chi pose Confidenza nelle Ritorte, ed assiepò il suo Trono di Carnefici, ed Inventori di nuove Croci! 19. Maladetto chi ascolta le di Lui Voci; maladetto chi cammina lungo la di lui Ruotaja! 20. Maladetta la Mano che lo à Soccorso;

P14 maladetta Quella, che non Lo à acciso! 21. Maladetto il Padre che lo generò; maladetta la Madre che lo à concetto! 22. Maladetti i Fratelli e Congiunti, i Figli ed i Servi, e maladetto il Seme di Lui di Generazione in Generazione! 23 Soffierà quindi sulla Terra; e respireranno le Genti Aura di Maladizione. 24. Beato allora chi sarà tolto alla Luce; e più beato chi non la vide mai. 25. Nel commune Esizio trionferà la Vendetta del Dio degli Eserciti; ed udirassi gridare dal Firmamento: V’è Dio, v’è Dio.

P15

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EGI

KABBA

1.Ho messo il Silenzio in Veglia della mia Bocca, durante il Regno dell’Empietà: 2. Perchè l’Empio è irremovibile, come l’Aspido; e vendicativo, come il Rospo della Cava. 3. Non gettate le Perle agli Immondi, né spiegate la Sapienza ai Buffali. 4. La Loro Bocca è piena di Amarezza e Maladizione, e la Loro Gola è un Sepolcro spalancato. 5. Sopra cento Cattedre nere, siedevano cento Carnefici proclamando il Peccato e la Nequizia. 6. Sparsero la Bramosia del Sangue; e coprirono il Giusto col Mantello della Calunnia. 7. L’Ingiustizia misurò i Meriti a Varea di Peccata; e per i Banchi aggirossi l’Invidia; 8. Vendettero la Falsità e le Faree per Usignuoli dal Canto soave. 9. Gridarono la Morte a chi gli à ripresi; perché la Perfidia è Midolla delle loro Ossa. 10. Dalla Sinagoga, latrando siccome Cani, ànno assordato le Genti; e convocarono i Demonj a Carole intorno all’Ara di Dracone. 11. La Loro Eloquenza spaventò i Popoli, come Tempesta di Notte; 12. Più micidiale del Sibilo del Serpente, più orribile dell’Urlo di Lupo affamato.

P16

13. Derisero le Cerimonia sante; ed ànno dettato Precetti di Lussuria, gridando: 14. Stolto chi si veste di Sacco, e si pasce di Penitenza; e stolto chi piange i suoi Peccati nel Deserto. 15. Che giova sclamare dal Profundo: Peccavi? Mangiamo e beviamo, perché Dimani non saremo più. 16. Tigri abbeverate di Sangue e Corbi pasciuti di Cadaveri! L’Eterno vi à maladetti per tutti i Secoli de’ Secoli. 17. Però Voi avrete Occhi, e non vedrete; Orecchi, e non udirete; 18. La vostra bocca schiumerà di Rabbia; e le vostre Ugne straccierannovi le Carni. 19. Vi lanierete le Vene co’ Denti; e fracasserete le Teste nelle Colonne de’ vostri Palagi. 20. E la Lingua strappatavi dalle Fauci sarà data in Cibo ai Figli del Falcone. 21. Saranno incenerite le vostre Cattedre, e Voi sovra d’Esse; perché avete giurato contro il Livello. 22. I Re della Terra verranno ad aggiogarvi, siccome Buoi; ed un Leproso vi guiderà.

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23. Voi ubbidirete come Pecore al Fischio del Pastore, quali Pulledri al Flagello del Carettiere. 24. Allora le Figlie dello Straniero plaudiranno dalla Montagna, e diranno: 25. Dio gli à colti: oppressero, e sono oppressi; dominarono, e sono fatti Servi; divorarono, ed Altri gli ànno divorati.

P17

26 Perché così sta scritto nel Libro d’Adamante a Carattere di Fuoco.

LAULA

1. Guai alla Città che non ode i Consigli de’ Magi, e chiude l’Orecchio alla Voce della Verità! 2. I Suoi Capi sono come Lioni devastatori, ed i Suoi Magistrati come Pantere. 3. Essi disertano le Tribù, come Fiaccola arde la Paglia ne’ Campi. 4. I Loro Lumi sono come Tizzoni d’Inferno; la Loro Sapienza è come Torrente devastatore. 5. Siedono quali Comete sull’Orizzonte, che scuotono dalle Trecce Flagelli e Morte. 6. Incalliti dalla Malizia negarono l’Eterno; ed ànno crocifissi i Saggi, perché tacciano. 7. I Mariti trassero le Mogli ai Governatori; ed i Padri prostituirono le Figlie ai Giudici. 8. Le Verginelle del Tempio furono tradotte a’ Loro Congresso, e fatte sedere nei Loro Conviti. 9. L’Eterno preme le Nubi, e piovono Calamità; commanda ai Venti, e disperdono le Ragunanze.

MI

1. Suonò la Voce del Signore: Lo Spergiuro à arricchiti Costoro; e l’Omicidio tributò loro Letti di Piume. p. 18

2. Dormono nell’Adulterio, siccome furono concetti d’Iniquità, Stirpe di Sodoma e di Canaan dissegnata ante Saecula. 3. Ammantarono i Loro Misfatti col Mistero, e nascosero dietro i Veli del Tabernacolo i Loro Assassinj. 4. Nel Segreto delle Loro Congreghe ànno mercanteggiata la Servitù delle Nazioni, e valutate le Vite meno della Spuma dell’Eritreo.

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5. Spedirono lungo le Valli e sulle Vette dei Monti Migliaja e Migliaja d’Infernali Banditori a predicare la Fallacia; 6. Ad offuscare gli Intelletti, e versare la Desolazione tra i Popoli; 7. A porre il Coltello in Mano di Fratelli, perché scannassero i Fratelli; ed i Veleni nelle Tazze de’ Figli perché uccidessero i Padri. 8. Sendo la loro Parola valutata a Talenti, ed i loro Peccati a Dramma, 9. Cinti di Guerra vennero a convertire le Genti a Satana, ed a seminare la Biada di Asmodeo. 10. Belzebub mise Loro in Bocca il Rombo di atroci Parole; e stridettero siccome Ghiandaje della Perdizione. 11. Mandarono nelle Terre Governatori simiglianti a’ Principi del loro Paese; e trascelsero i Peggiori dai Pessimi, 12. Scappati alla Croce; ed abbrustoliti dal Fulmine nel dì dello Squittinio. 13. Io afferrerò Costoro in mia Fossa; e Gli ruoterò contro le Montagne del Settentrione. p. 19

14. Finché il Paese dell’Empio sia disabitato come la Solitudine di Faran, e reso infecondo come una Roccia.

NI

1. Fra questo Popolo non v’è un Cuor retto; e Tutti ànno sete di Sangue. 2. E pur Lui chiama Omicidio suprema lLgge; la Menzogna Prudenza; e Coraggio la furiosa Immanità. 3. Il Migliore tra Essi è come un Rovo, ed il più Giusto come la Spina di una Fratta. 4. I suoi Giudici ànno strisciato come il Rettile al Trono di Salomone, per fregiarsi dello Diadema di Nabucodonosor. 5. Ecco il Giorno, in cui Dio Vi sperderà; ed aggraverà sopra di Voi la Mano, che volge in Cerchio le Sfere: 6. Ora vantate le Centinaja de’ Vostri Schiavi, e confidate nel Numero delle Lancie! 7. La Spada s’impadronì della Loro Città, e rase le Teste dei Cittadini, come Falce i Fiori del Prato. 8. I Principi delle Loro Tribù saranno esposti in Gabbie raddoppiate di Ferro, come Belve crudeli. 9. Gli saranno traforate le Labbra; e le Palpebre, rovesciate e cucite con Rame a’ Sopracigli, per condannarli al radiante Sole. 10. I Cani desiderosi di pascersi delle Loro p. 20

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Carni Gli circonderanno; ed il Popolo griderà: Crucifiggi, Crucifiggi! 11. Dio perde l’Empio come violenta Buffera la Foglia secca del Papavero. 12. Venne il Giusto; e Gli rimproverò, come Egli fu posto a Mercato, e per pochi Sicli venduto; ed il Pupillo chiese Ragione del Padre decapitato. 13. Si copersero di tarda Vergogna i Loro Volti; ed il Puzzo della Loro Perfidia ammorbò tutto l’Orbe. 14. Chiamavano le Tenebre che Gli avvolgessero; mentre la Loro Malizia risplendeva come Candelabro negli Abissi. 15. Il Fuoco dell’eterno Dolore Li consumò; e lo Spirito della Notte disperse le Loro Ceneri. 16. Onde si avveri ciò, che stà scritto nella Lapide, che si stende dall’Oriente all’Occidente, e dall’Abisso al Firmamento: 17. Che la Fiamma è il Frutto dell’Inverno, e la Gragnuola è Figlia della Procella. p. 21

HIDA

EXI

1. Guai a Voi, che avete moltiplicate le Disavventure dell’Indigente colla Crudeltà, ed avete vendute al Povero le Mondiglie del vostro Grano! 2. Guai a chi tesse Ragnatele per coprirsi; perché il Vento le straccia, ed il Fumo le rode! 3. Avranno faticato inutilmente, perché il Mal costume guasta le Opere, come l’Aceto corrompe il Miele. 4. Il Lavoro delle Loro Mani è Lavoro di Perdizione: eressero una Torre di Ghiaccio, ed il Vento dell’adusto Mezzodì La dileguò. 5. Hanno fabbricato su l’Arena, e la Fiumana ne portò la Casa ed i Padroni. 6. I Loro Fabbri usarono Acqua di Lacrime, ed il Bitume ne fu liquefatto colla Rosa sacra di Jerico. 7. Riempirono le Camere di fetente Sozzura, e ne adombrarono i Tetti coll’Ulivo. 8. Hanno dato al Pellegrino la Carne dello Scinco per cibo, e l’ànno fatto coricare sopra le Dumora. 9. Trucidarono il Ricco, e balzarono il Povero dalle Finestre, per ritorgli i Panni; poi ritornarono a seder nel Convito: p. 22

10. e si guatavano l’Uno l’Altro, accennando le Mani lorde di Sangue. 11. Fu mandato in Giro il Segno del Delitto, e vennero alla Divisione della Preda.

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12. Sogguardandosi biecamente, ed invidiando il Peggiore, che stette nel Pinacolo dell’Iniquità. 13. Riguarda, Siloh, il tuo Popolo ed abbi Pietà della tua Gente. 14. Tu non ti sei dimenticato di Noi, ed ài ascoltato i Preghi degli Unti; 15. Sfodera la Spada dello Sdegno sull’Empio, e confondasi in Eterno; 16. Lo Straniero riposi nel Letto di Lui, e siegga nel Cenacolo, e beva il Vino delle Otri riservato; 17. Esecrando, ed imprecando le Ceneri dell’antico Abitatore.

PI

1. Vennero sopra Noi i Popoli dell’Occidente, in Mezzo alle Nevi, scorati dallo Spirito della Strage. 2. Così n’andò l’Eqità: abbiamo aspettata la Luce, ed Essa non venne. 3. Camminammo nella Notte radendo le Muraglie, siccome i Ciechi; e, brancolando, cerchiamo invano la Uscita. 4. Ci urtiamo nel Meriggio; e ruggiamo come Leoni, perché ritarda il Giorno del Giudizio; p. 23

5. In cui sieno riempiute le Sacca vuote, e riversate le Piene di Farina pessima. 6. In questa Conflagrazione e Bujo infransero le catene i Cattivi, e dettarono la Legge. 7. I Delinquenti si premiarono l’Un l’Altro, perché si tenevano. 8. Nessuna Regola al Ben vivere, nessuna punizione al Misfatto. 9. La Violenza corse le Nostre Contrade; ed il Forte strascicò il Debole di Abisso in Abisso. 10. I Figli del Tradimento predicavano la Libertà; e dissero: Siamo tutti come Cedri del Libano; 11. La Scure troncherà i Cedri dal Grande al Piccolo, dallo Fronzuto all’Arido; 12. L’Onore delle Frondi sarà comune; ed il Turbine sparpaglierà le Frondi oltre il Mare e le Montagne altissime; 13. Uno sarà Schermo dell’Altro: E Chi potrà schermirgli dal Fuoco che gli riduce in Cenere? 14. Gli Avoltoj scenderanno divorando gli Uccelli che vi avevano annidato; 15. Ed a Torme verranno le Upupe a deporvi le Uova, ed i Cornacchioni che allungano il Loro Canto nella Notte; 16. La Scrofa caverà alle Radici, per farvi Tana a’ suoi Immondi. 17. Le Loro Frutta saranno Pasto di Vermi, e Letto ai Rettili della Valle. 18. Verranno le Rane dallo Stagno, e brutteranno di Fango le orgogliose Cime degli Alberi p. 24

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baldanzosi atterrati dalllo Sdegno Celeste. 19. Guai a chi sedette al Rezzo delle Piante Maladette; e guai a chi ne avrà gustate le Frutta! 20. Il Fumo de’ Loro Tizzoni annebbierà i Paesi; ed i Carboni saranno Carboni d’Inferno accesi per Mano dell’ Altissimo. p. 25

O

RO

1. Chi mi darà una Fontana di Lacrime, onde piangere Disgrazie di questo popolo? 2. Chi mi additerà una Capanna nel Deserto, ed una Tana nella Foresta per Sottrarmi al di Lui Furore? 3. Chi mi darà le Ali della Colomba per allontanarmi da questa Città dell’Afflizione, Ricettacolo degli Spiriti Infernali? 4. La Pace è nella Bocca de’ Suoi Abitanti, mentre affilano i Pugnali; e l’Invidia siede nel Loro Intelleto, mentre Vi baciano. 5. Balzano di Peccato in Peccato, fuggendo dalla Verità e dalla Giustizia; 6. Qual Fede a’ Giuramenti Loro; e qual Sicurezza nelle Loro Promesse? 7. Scherniscono i Messi dall’Alto; misero in Pezzi le Tavole della Legge ed i Custodi di Esse. 8. Tutta Loro Passione è nelle Meretrici; e Questa Gli rode come Ferita esulcerata. 9. Da tutte Latora accorrono Malvagi nella Città, siccome Fiumi al Mare, siccome Ferro al Magnete. 10. Andarono in Traccia del Reprobo, onde porgli la Tiara; e scrutiniarono sopra il Giusto per riversare sopra Esso l’Insulto. p. 26

11. Strascicarono i Leviti nella Piazza, mentre gridavano: Cosa fecimo? ed imploravano il Dio Loro, Signore della Giustizia.

SIMA

1. Non ponete il Cuore sulle vostre Labbra, perché i Congiunti giurarono contro le vostre Vite. 2. Gli Anziani sono in Gemiti; e le Madri nello Spavento, siccome Stormo di Passeri allo Strido del Falcone.

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3. La Costernazione è entrata ne’ Giovani, perché è stato falciato il Fiore. 4. La Neve à disseccati i Germi, e le Reliquie de’ Frutti sono Frutti di Collera. 5. Piangono le Spose sul Letto nuziale; e le Giovani aspettano ne’ Bivii l’Amante, che più non torna. 6. Ho veduta la Terra commoversi di Pietà nell’Impero del Dolore. 7. Ecco converso il Tempio in Lupanare, ed i Vasi di gloria fatti Bottino di Guerra. 8. Le calve imbiancate Teste de’ Vecchi vengono sfracellate nelle Strade, mentre l’Esercito di Sennacherib rade la Gioventù. 9. Or viviamo Noi in questa Spelunca senza Luce, circondati da Spade e martoriati? 10. Mentre gli Nostri Orecchi sono pieni de’ Singulti di Gente, che piange i bei Giorni del Sole? 11. E chiamano ad alta Voce l’Aurora, che p. 27 stà al di là delle Montagne, acciò venga a disvelre le Opere dell’Iniquo; 12. Enumeri le Ossa sparse lungo le Piagge, ed i Cadaveri sospesi ai Patiboli? 13. Udite la tremula Voce del vecchio Sacerdote, cui avete dettate le Cerimonie col Coltello. 14. Il Dio degli Eserciti parla di Sua bocca; e la di Lui Lingua è per Voi Serpente distruggitore. 15. Guai a chi à adorato la Scrofa; e si troverà prostrato ai di Lei Simolacri nel Domani! 16. Perché verrà l’Angelo punitore sopra Carro di Fuoco; stritolerà gli Adoratori colle Ruote, e struggerà colla Spada dell’Eterno i Numi della Menzogna.

DAU

1. Diedero Rumore di Gioja veggendo il Sacerdote non esser distinto dal Volgo, ed il Saggio aggiogato coll’Ignorante. 2. Il Debitore à messo il Segno alla Porta del Creditore, ed il Compratore à esatto l’Oro del Mercadante. 3. Imperocché questa è la Giustizia Loro, insegnata Loro da Esau; e caminano nelle Strade di Acabbo. 4. Le Piramidi e gli Obelischi Voi li vedete diroccati e le Fontane purissime fatte limacciose. 5. Per innalzare le Canne del Loro Paese, ed

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6. Ecco il Lavoro de’ Figli dello Sconvolgimento, ecco l’Oggetto del Fuoco Celeste.

PHI

1. È rotta l’Alleanza con chi era stata giurata; e ne sono furate le Messi e depredati i Poderi. 2. Ecco conculcate le Ragioni de’ Padri Nostri; e tratti dal Sepolcro i putridi Cadaveri de’ forsennati Energumeni, ed esposti all’Adorazione; 3. Ed anneriti di Profumi mentre infettavano il Paese; e chiamati Rabbi, mentre il Forte à posto alla Loro Bocca il Cancello dell’eterno Silenzio. 4. Perciò questa Terra sarà fulminata; e costoro saranno pasciuti di Aloè, ed abbeverati di feccioso Aceto. 5. Entrerà il tumulto nel popolo, e la Discordia armerà le tribù di Tizzoni. 6. Più beverano Sangue, e più avranno Sete di Sangue, sino al Giorno della Consumazione. 7. L’Ingiustizia metterà in Breni i più formosi; ed i più valorosi incorreranno nelle Spade di Faraone. 8. Già i Fanciulli strappano le Barbe de’ Vecchi; e gli Infimi si faranno lavare i piedi dai Sommi. 9. Il Fuoco è posto ne’ loro Granaj, e le Formiche ne ànno vuotati i Serbatoj.

P29

10. Aprirono il Gazofilacio pensando trovarvi Bdellio ed Auro, ma la Nequizia dei Conservatori l’aveva empiuto di Papiri e Tabellette. 11. Allora gridavano i Migliori: E fino a quando vivremo nell’Ira? 12. Correndo al Precipizio, come Macigno che rotola dalla Montagna. 13. E fu udita la Voce del Tempio, la Voce del Sacerdote rispondere: 14. Dal Mattino alla Sera, dal Giorno all’Ebdomada, e dal Principio sino alla Fine de’ Secoli Costoro vivono nell’Odio mio. 15. E non si farà Luce, sinchè non venga quello che à da venire a premere il Collo dei Serpenti, a strozzare la Prole de’ Liopardi.

CHI

1. La Madre di tanti Figli cessò dal Parto; e la di Lei Anima cadde in Deliquio. 2. Notte perpetua La circonda, interrotta dallo Scintillare degli Usberghi. 3. Ho fuggita la Casa ed abbandonato il mio Retaggio, e data la Consorte alla Discrezione dell’Inimico. 4. La mia Eredità giurò giurò contro Me e l’Avversario se ne impadronì. 5. Gittate le Clamidi, Donne della Terra; copritevi di Confusione, e piangete: perchè la Distruzione Vi pende sul Capo.

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EBSI

1. Lo Spavento si è impadronito di questa Città; e la Gente è volta in Fuga, come non avesse né Cuore né Mano. 2. Simile a Fieno disseccato ne’ Prati ed all’Erba de’ Tetti, che appassisce anzi che fruttificare. 3. Ecco il Vicino che Vi pone a Rubba, e l’Esercito e le Falangi che Vi distraggono per addensarvi ne’ Sepolcri de’ Vivi. 4. Siete strappati dalle Vostre Campagne; e Nessuno combatte per la Vostra Liberazione. 5. Siete consegnati al Carnefice; e Nessuno impugna Ferro per la Vostra Vita. 6. Questo è il Fiore della Vostra Semente, perché il Vizio genera Cordoglio. 7. Spogliati e battuti, sarete poi condannati alle Tenebre della Geenna.

P31

HE

SCEI

1. Chi mi apre i vasti Campi dell’Eritreo coperto di Navi? 2. Escono dalle Grotte le Foche dismisurate per divorare i Nocchieri, e la Burrasca spinge e risospinge i Navigli. 3. La Paura agghiaccia i Cuori de’ Passeggieri, mentre lo Scroscio del Timone, che gli si frange in Mano, atterrisce il Piloto. 4. Moltiplicano gli Scogli; e l’Eterno à posto precetto al Mare d’inghiottire l’Improbo nel Suo Corso. 5. Dannati alle Bolge! Avete salpato all’Auretta della Sera, ed il Frastuono del Turbine Vi risvegliò nella Notte. 6. I fulmini Vi strisciano sulle Teste e la Gragnuola Vi fracassa le Membra. 7. Le Onde non aspettano le Onde nel Desiderio di ubbidire al Loro Facitore, distruggendo il Servo della Malvagità. 8. Né tacerà l’Ira del Mare, sinché non vi abbia pienamente dispersi; ed allora rideranno le Piaggie. 9. I Mostri pasciuti delle Vostre Carni lauderanno il Signor de’ Signori nella Loro Lingua; a cui risponderanno le Nazioni de’ Lidi, dicendo:

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10. Viva il Signore della Forza; viva il Signore, Iddio Nostro, che à sconfitto i domintori della Iniquità.

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FEI

1. Come solitaria e desolata è questa Città, prima tutta fiorita di Popolo! 2. La Padrona delle Nazioni è fatta siccome Vedova; ed i più Fidi l’abbandonano nella Gramaglia: 3. Per andare in Traccia delle belle Figlie di Israello, sulle cui Gote siede freschezza di Gioventù, e le cui Bocche compartono il Riso e la Gioja. 4. Nessuno La conforta, Tutti La sprezzano; ed i Morunti ànno occupata la di Lei Casa: 5. Perché Essa lasciò le Vie della Giustizia, ed abbracciò l’Impero della Ubbriachezza. 6. Però i di Lei Figli gemono cercando Pane, mentre i Servi de’ suoi Ospiti Gli cacciano dalle Porte col Flagello. 7. Diede Essa le Vesti preziose per Cibarsi; ed intanto i Fanciulli cadevano derelitti nelle Strade, gridando: 8. Paghiamo il Fio de’ peccati di Nostra Madre; e le Nostre Lacrime sono Usura de’ Suoi Godimenti. 9. Forse invano le Poppe spremute, ed Eglino spirarono nelle di Lei Braccia. 10. E nei divincolamenti di Morte p. 33 chiamavano sopra il di Lei capo l’eterna Maladizione. 11. Quelli che si pascevano sulla Porpora, mangiano su Letamaj; e le Loro Faccie sono divenute Scheletri. 12. La Loro Pelle, inaridita sulle Ossa, sembra la Corteccia screpolata del Cerro. 13. Fortunato chi passò a Filo di Spada, e non è assediato dal Bisogno e dalla Disperazione! 14. In questo Dolore la Madre squarciossi il Seno, ed innondò di Sangue il Letto della Gioja. 15. Noi siamo Orfani; ed abbiamo mangiato Cenere impastata di Lacrime e Tabe. 16. Siamo entrati ne’ Sepolcri, onde piluccare le Ossa de’ Nostri Padri; e ne abbiamo bevuto il Fracidume colla Cavità delle Mani. 17. Abbiamo abbrustoliti i Cadaveri per imbandire le Mense. 18. A Peso d’Oro comperammo l’Agresto, sicché abbiamo Preferito di succhiarci vicendevolmente il Sangue. 19. Sedemmo alle Cinghie de’ Cimiteri; abbiamo rimirato la Nostra Città, ed abbiamo Pianto. 20. Appesimo ai Salici le Lire della nostra Allegrezza; ed abbiamo pianto. 21. Coloro che dominavano nel Rovescio ci commandavano Inni e Canti; e noi abbiamo pianto. 22. Perché abbiamo irrigidite le Destre ed imputridita la Lingua; non ci rimane che il Pianto.

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p. 34

CHEI

1. Entrai nelle Piramidi onde chiedere la Verità agli Estinti, perché Essa Luce tra questo Popolo. 2. Ed i Cadaveri mi rispondevano, mugolando: Iddio Ci percosse. 3. Ne chiesi agli Scheletri fregiati di Diadema ed ammantati di Bisso, ed Essi pure risposero: Iddio Ci percosse. 4. Dimandai al Figlio dell’Empio, e disse orgoglioso: Non conosco Iddio: 5. Seguo la Callaja de’ padri Nostri, che di questa maniera arricchirono. 6. Maladetto tu ed il Padre Tuo; e maladetti gli Orecchi che Ti ascoltano! 7. Corsi nella Grotta la Notte, ed il giorno Solingo per vie Deserte, perché abborro la Compagnia dell’Empio. 8. M’assisi sulla Pietra nuda, ed il Cuore mi si accese; e lo Spirito dell’Oriente m’illuminò; 9. E viddi sorgere un maestoso Fantasma con cento Corna d’Oro, e cento d’Argento; i cui Denti erano Perle finissime. 10. La cui Sinistra scherzava ruotando l’Universo; La Destra teneva un Libro ripiegato, 11. Chiuso da Migliaja di Nastri Tirii; e Migliaja di Angioli Gli discioglievano. 12. Mosse Vento colle sue Ali bianchissime come di Colomba; le cui Piume avevano la Cima dorata. p. 35

13. E mi aperse il Libro in Faccia; ond’Io caddi tramortito, siccome chi à sentita la Forza dall’Alto. 14. E viddi Settanta mille Angioli che parlavano in Settanta mille Linguaggi di Maladizione. 15. Ed avevano nella Destra Settanta mille fiaccole che illuminavano le Pagine. 16. Ed altri Settanta mille posavano il Volume sopra i Cerauni, ed i Monti di Stolpe; ed aveva volta la Piegatura alla Plaga meridionale. 17. E venivano le Genti del Settentrione a leggere, mentre Io raccapricciava. 18. E cominciarono i Cantici dell’Odio, ed i Lai della Costernazione.

HORI

1. Comincia il Libro della Vendetta, scritto dalla Collera del Geometra eterno che dice: 2. Io sono Quello, che sono: feci tutto dal Nulla; e tutto è Nulla al mio Cospetto. 3. Chiamo i Tremuoti ed i Fulmini, ed Essi scrosciano e strisciano ubbedienti a’ miei Piedi.

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4. Tocco i Monti, e diventano Polvere; accenno al Mare, ed Esso fa Spalliera al mio Popolo. 5. Dissi agli Uccelli: Cantate; ed Essi mi benedicono: Commandai alle Balene ed ai Biformi, ed Essi inghinocchiaronsi avanti al mio Trono. 6. Il sole aspetta i miei Voleri; e la Luna spruzza la Rugiada secondo la mia Misura. 7. E feci degli Astri del Firmamento e delle p. 36 comete Scabello al mio Soglio. 8. Al Posar del mio Piede tremarono gli Abissi, e dieder Fumo; e tacque Belzebub al muovere del mio Dito. 9. Scorsi la Terra sulle Ali de’ Cherubini, ed i Serafini illuminavano il mio Cammino. 10. I Lupi delle Montagne e le Fiere dei Boschi mi riconoscono; a Me s’inchinano i Pini altissimi ed i Cedri odoriferi. 11. Me esaltano le Tempeste e l’Onde; Me loda il Fuoco che scoppia dalle Viscere della Terra. 12. Perché le Creature si ricordano del Giorno, in cui dissi Fiat; e di Quello nel quale Le distruggirò. 13. Ho battuo alla Porta dell’Uomo creato dalle mie Mani; ed Egli non rispose: L’ò chiamato, ed Egli non rispose. 14. Mentre il Frastuono della Crapula ferì gli Miei Orecchi, ed il Puzzo della Scelleratezza giunse alle Mie Nari, 15. Chiesi de’ miei Ministri; e mi furon portati i loro Teschi in Coppe di nero Piombo tra il replicare delle Bestemmie de’ Figli di Ammone. 16. Entrai nel Tempio, e non ritrovai le Supellettili; dissi alle Porte del Tabernacolo: Apritevi. Si aprirono, e non eravi l’Arca. 17. Lo Spirito delle Tenebre erasi nascosto nel Santo de’ Santi; ed i Capi del Popolo Lo adoravano. 18. Andai nelle Piazze, e viddi il Popolo in p. 37

Armi; e ne chiesi il Perché. 19. Forse l’Abisso vuole opprimervi; o le Fiere, che vi sottomisi, sonosi rivoltate? 20. Or chi sei Tu, che chiedi ragione a Noi; a Noi che commandiamo? 21. Io sono il Signore della Verità, il Dio della Luce; nel cui Pugno stà l’Universo, ed il cui Soffio è Disperdimento. 22. Ed Essi oltraggiando: Chi sei Tu, che dimandi Ragione a Noi, a Noi che commandiamo?

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23. Io sono Colui, che sono; e giurai nell’Ira mia la Morte dell’Empio; e coprj il Sole di Tenebre, e la Luna di Sangue. 24. L’Iniquo, più indomito delle Rupi di Gelboe, si chiuse nelle Cinghie e ricovrossi nelle Grotte; dicendo: Chi sei Tu? chi sei Tu? 25. Perché lo stupido Orgoglio di che si circonda, è suo Castigo; ed avvolsi di Nebbia il di Lui Intelletto, per tutta riserbarmi la Ragione di mie vendette. 26. Atterrerò le Difese, e manderò i Serpenti a cacciarli dai Covi. 27. L’Odore del Zolfo avvertirà dell’Incendio, che verrà a risplendere; acciocché veggano i Figli di Ahâriman il Volto del Dio punitore, e muojano.

GIANGIA

1. Lo Spirito mi prese per i Capegli, e trasportommi sopra una Montagna altissima; p. 38

2. Di Là vedevo l’Orto e l’Occaso, e dove il Sole infiamma, e dove non è conosciuto. 3. Osservai all’Occidente una Sinagoga d’Uomini, nel cui Mezzo le Femmine avevano Scettro e Corona. 4. Fra Essi scorreva la Gelosia, l’Invidia, lo Sprito di Vertigine, e la Crudeltà. 5. Ecco i Figli degli Uomini; ecco i Germi del Peccato; ecco i Padri della Malizia. 6. Il Loro Paese bolle, siccome Caldaja sopra la Brace; ed i Demonj ve Li gittano a cuocere. 7. È venuto il Giorno della Indignazione: ed i Vostri Misfatti chiamano il Furore, che venne con Strepito; 8. Siccome Ruote di Carro, cigolanti sotto il Peso di abbicati Covoni. 9. Già la Terra nega Umori all’Innesto dello Scellerato, perché si ricorda del Suo Fattore. 10. Il Giorno lo vedrà nel Furore, e la Notte nello Spavento; e l’Indomani non sarà più. 11. Dove sono adesso i Vostri Allievi di Lorachou usciti dalla scuola dell’Isola! 12. Hanno tra Voi seminata la Mania, e poi si sono involati all’Ira Vostra. 13. V’aggirate barcollando, come Ubbriachi; siete coronati di Mali, e nuotate nella Calamità. 14. La Sapienza amò già questo Popolo; come Viaggiatore i Grappoli che incontra nel Deserto; 15. Ed ebbe cari i Padri Loro, come i primai Frutti del Fico ripieni di Miele soavissimo. 16. Sciaurati! Voi perdeste Voi stessi, ed

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P39 avete rinnegato il Soccorso del Cielo. 17. In vece di pregare Iddio, mettevate Strida di Rabbia, ed Urli di Disperazione. 18. Ne’ Vostri conviti beveste all’Oltraggio del Cielo, alla Carnificina dell’Innocente. 19. Dite ora a’ Vostri Maestri, che vi raccontino le loro Visioni, adesso che il Consiglio di Dio Vi à oppressi! 20. Si radunano i Figli del Settentrione, e quelli del Mezzo-dì, dal Pasitigris al Guihon, e dall’Hiddekel all’Eufrate. 21. Avete dati i Figli nelle Mani della Guerra per poco Pane, e vendute le Figlie per la Crapula. 22. Mangierete senza satollarvi giammai; e già le Bestie de’ Campi preparano la Via alla Morte de’ Loro Bifolchi. 23. La Terra dimanderà Pioggia, e sarà innaffiata di Punizione; e sino gli Alberi saranno incineriti. 24. Tutto è Gemito e Fremito e Desolazione; perché gli elementi servono al Loro Autore.

SCIMA

1. Dove corre quella Moltitudine traviata, che fugge la Desolazione del Suo Paese? 2. A Ponente, dove cade il Sole, ed è Notte tenebrosa. 3. Di Città in Città, di Villa in Villa, accattando di Porta in Porta; e dapertutto

P40 vilipesi e cacciati e schiacciati, 4. Siccome Animali venenosi, come Insetti schifosi e nocivi. 5. Il Suolo straniero Gli inghiottirà; e nei Loro Giardini crescono i Lappoli e le Spine. 6. Covarono le Uova degli Aspidi, e ne saranno morsicati sino alla Morte. 7. Chi Gli à lusingati si fece Loro Carnefice ed i Parassiti delle Loro Tavole ne avvelenarono i Cibi. 8. Venne l’Angiolo a misurare il Vostro Terreno, e ripartirallo tra gli Abitatori del Bosforo, che ingordamente aspettano la Loro Porzione. 9. Perquireranno Essi le Vostre Spade; e chi l’avrà tinta di Sangue, morrà di Spada. 10. Le Cime de’ Monti si spalancheranno per vomitare Vendetta; e dal Mare verrano i Colubri lungo le Piaggie per divorare i Pellegrini. 11. Guai alla Città del Sangue, che à moltiplicate le Vedove, e regnato col Pugnale!

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12. Guai alla Città di Fango, che à sagrificato ad Asmodeo, ed innondate le Vie di Sozzura! 13. Il Popolo alzò le Mani plaudendo agli Omicidj; poi allibì: e le abbassava dallo Spavento. 14. Il Saggio piangeva in Secreto, ed i Feroci mugghiavano nelle Piazze e nelle Sinagoghe. 15. Or tutto è bujo; tutto è Sovvertimento; tutto è Raccapriccio. 16. Chi è quel Fantasima, che procede dai Deserti settentrionali cogli Occhi incavati? 17. Colli Denti arrugginiti, cogli Articoli

P41 tumefatti? Esso è la Fame, che viene a divorare questo Popolo fuggiasco dalla Mannaja e dal Capestro. 18. Città d’Insania, Fonte di Malizia, ripiena di Assassinj e di Rapine, guai a Te! 19. Essa divorava gli Uomini; i Suoi Carnefici violarono le Donzelle col Laccio alla Cintola. 20. Strappandone il Cuore per ingentilire le Mense de’ Loro Primati. 21. Apersero l’Utero delle Madri, ne trassero l’Embrione; ed appesero i Lattanti al Collo della Nutrice per soffocarli. 22. Odi, odi il rumor fragoroso; poscia mira il Silenzio che passeggia sopra i Cadaveri stesi nelle Vie. 23. Fischiano i Flagelli e romoreggiano le Ruote del Carro della Vendetta. 24. Veggo gli Uomini crivellati dalle Punte, ed i Cadaveri accumulati sbarrare le Strade all’Inimico. 25. Ed il Cherubino della Misericordia colle Ali candidissime distese, ricopre il Giusto dalla Pioggia de’ Dardi, per riserbarlo al Giorno delle Benedizioni.

DEI

1. Vengo, grida il Dio delle Armate, vengo a spogliarvi de’ Vostri Manti, a rendervi l’Ignominia de’ Regni. 2. A piovere sopra di Voi l’Abominazione, acciocché dicano le Genti: La Città del Vitupero

P42 non è più. 3. Chi potrà contro il mio Braccio, e chi ardirà confortarvi? 4. Tutti che udirono il Fracasso di Vostra Caduta ànno corso, e fatto Plauso, riandando le Vostre Abominazioni. 5. Crederete fuggire il Leone, e troverete la Pantera; ed i Salvi tra Voi saranno come Tizzoni semiarsi riservati al Fuoco dell’Indomani.

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6. Lo Scempio possede la città de’ Ladroni: Essi fuggirono; ed il Semplice rimase Padrone delle Loro Ricchezze. 7. Ecco quelli Uomini consunti dallo Spavento. Sono avanzati all’Ira dell’Alto. 8. Le Tigri furono snidate dalle Caverne, ripiene dell’Ossa de’ Viaggiatori divorati. 9. Il Dio delle Armate avvicinò la Facie ai Vostri Carri trionfali, e liquefece le Vostre Spade, 10. Per farvi inghiottire il Ferro bollente, e saziarvi di Cenere amarissima; 11. Inaridirà la Lingua de’ Vostri Profeti; e, quanti passeranno, insulteranno le Vostre Ossa, e malediranno le Vostre Anime. 12. L’Erba crescerà ne’ Fori della Città abitata dai Rimasti dello Sterminio, siccome Spiche sfuggite all’Occhio del Mietitore. 13. Sicché fia Vuoto il Calice delle Sciagure; e Neve altissima bianchissima ricopra il Vostro Paese. 14. Ove inutilmente ricerchi orma il Viaggiatore, ed aspetti il Sole che Là dilegui.

P43

IL SECOLO DELLA LUCE

Si apre, o Sonimagog, il Volume delle Benedizioni, il Libro delle Lodi dell’Altissimo. Spuntino sugli Occhi tuoi le Lagrime dell’Allegrezza, se il Pianto del Dolore non ne ha esausta la Fonte. Viva Iddio, viva Iddio, ed il di Lui Nome sia benedetto in eterno. p. 44 vuota p. 45

PHTOHHO

RUOSSO

Venne il Sole, grideranno le Genti, venne il Sole dall’Oriente; e discoprì le Piaggie fiorite e i Colli fruttiferi. 2. Un nuovo Popolo l’accompagnò nel Suo Nascere; e venne ad abitare questa Terra che Dio à benedetta per Esso. 3. Dal Sangue dell’Iniquità nacque la Giustizia, e dalla Tomba della Menzogna uscì la Verità. 4. Tutti i Potenti scenderanno da’ Troni Loro, deponendo le Porpore ed i Scettri, le Corone e le Gemme a’ Piedi della gran DONNA. 5. Vedetela ascendere dal Cielo sovra Tapeto di Nubi bianchissime, coronata di Gelsomini; 6. Il Sole la saluta nel Suo Passaggio, e l’Aurora sparge di Rose le Sue Vie.

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7. Con Monile di Perle miste a Zaffiri, e col Fosforo nella Verità viene ad illuminare tutte le Genti. 8. Cadranno i Re prostrati sul Pavimento, e la Quiete passeggierà il Paese della Concordia. 9. Benediranno le Genti il Nome dell’Altissimo, che castiga per migliorare, ed arde per pacificare; 10. Che sparge la Rugiada sull’Erbe p. 46 egualmente che sul Giglio e sul Cedro; 11. Che guarda con Occhio di compiacenza il nuovo Popolo, e Lo ristora co’ Suoi Benefizj. 12. Però le Nazioni esalteranno il Re de’ Re, il Dio degli Eserciti in Eterno.

HHUOSSO

1. Gioisci, nuovo Popolo, ed esalta il Nome di Jeovha che Ti à benedetto; 2. Che Ti à tratto dal Nulla, e posti i Tuoi Padri sopra eguali Seggi di Cedro ornati d’Oro. 3. Che mise i Serafini in guardia delle Tue Porte, ed i Cherubini in Veglia sulle Tue Mura. 4. Disse a’ Tuoi Campi: Germogliate; e le Spiche gravide Lo inchinano aspettando la Mano dell’Agricoltore. 5. Sparse lungo il Tuo Paese i Fonti vivificanti, che gorgogliano tra le Sponde ammantate di variopinti Fiorellini. 6. Felice, chi venne a coltivare le Tue Terre; e l’Ospite che alloggiò nei Tuoi Tabernacoli! 7. Perocché la Commonione de’ Buoni è salubre, come la Fescura del Sinai ed il Corso del Giordano; 8. Grata, come Pioggietta di Primavera, che il Sole tinge in Arco di Alleanza. 9. Iddio guarda dall’alto su’ Tuoi Bisogni, e di Venti Ti amministrano l’Abbondanza. 10. I Tuoi Fiumi corrono Latte e Miele, perché amasti la Giustizia, e ricuperasti l’Arca. p. 47

11. Ed udisti la Voce del Sacerdote, che gridava dal Tempio: Tutto che abbiamo viene da Eloha. 12. Egli Ci fece salvi dalle Mani degli nemici Nostri; e Ci sottrasse dalle Unghie dell’Augello predatore. 13. E Lo volse in Fuga, mentre dolevasi di non poter pascere di Nostre Carni i Suoi Figli non anco bene Piumosi.

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14. Però le Nazioni esalteranno il Re de’ Re, il Dio degli Eserciti in eterno.

ZEGOFO

1. Viva Iddio, vestito di Gloria; viva il Signore Padre della Felicità. 2. Viva il Saggio de’ Saggi, il Sole de’ Soli, il Ristoratore dei Popoli. 3. Viva lo Sterminatore di Baal che disperse la Malizia, e diede l’Iniquità al Fuoco della Geenna. 4. Che porta il Titolo del Perdono; e le cui Mani largiscono continuamente Beneficenza. 5. Che redense il di Lui Popolo, e Lo pose in guardia della Equità. 6. Acciò segua a correre nelle di Lui Vie, ed a fare Testimonio della Sua Misericordia. 7. Però le Nazioni esalteranno il Re de’ Re, il Dio degli Eserciti in eterno. p. 48

OSSOSSO

1. Ecco chiuso il Libro scritto ab eterno ne’ Cieli collo Stile della Beneficenza. 2. Ora cessino gli Miei Occhi dal vedere, e le mie Orecchie non odano più. 3. Perché viddi il Forte de’ Forti, ed ascoltai la Sua Voce; e la Salute del popolo è Opera delle Sue Mani. 4. Però le Nazioni esalteranno il Re de’ Re, il Dio degli Eserciti in eterno.

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SEZIONE RECENSIONI

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RECENSIONE

Alban Dobruna, “Tarikati Islam Halveti te Shqiptarët”, Botimë istituti i historisë, Prishtinë, 2017 (pp. 416)

Gianfranco Bria

***

Il libro di Alban Dobruna (Instituti Të Historisë ‘Ali Hadri’ Prishtinë) rappresenta un lavoro inedito nel quadro degli studi islamici europei, che raccoglie, riunisce e rielabora una pletora di fonti primarie e secondarie (p. 13), per ricostruire la storia della ṭarīqa Halvetiyya (Ḫālwatiyya in arabo) tra le popolazioni albanesi. Quest’imponente opera, pur soffermandosi prevalentemente sulle fonti in lingua albanese, propone un’attenta analisi scientifica del fatto religioso, e non è stata affatto inficiata da alcuni tipici approcci ‘positivisti’ o ‘ateisti’ che caratterizzano, a volte, gli studi prodotti dall’accademica post-socialista nel sud-est europeo. Il rischio concreto sarebbe stato, diversamente, di esaminare il ‘fenomeno halveti’ da una prospettiva teleologicamente particolarista o anti-comunista che ne avesse esaltato gli elementi identitari e sovra-razionali. In questo senso, il libro mantiene un rigoroso metodo analitico che riscostruisce accuratamente la storia di una delle più importanti e diffuse confraternite dell’Impero ottomano, che ha contribuito, indiscutibilmente, al radicamento dell’Islam nei territori balcanici (pp. 50-57). Difatti, gli studi islamici nazionali e internazionali spesso sovradimensionano la storia e la fenomenologia di un’altra grande ṭarīqa balcanica, cioè la Baktāšiyya, che ha, in un certo senso, ‘monopolizzato’ la dimensione pubblica e politica del misticismo – non solo islamico – albanese (p. 11). Questa trattazione enfatica deriva, prevalentemente, dal dinamismo delle élite baktāši albanesi di porsi come principali referenti locali e nazionali dell’Islam balcanico non sunnita; d’altra parte, essa nasce da un certa visione esotica di alcuni orientalisti che sono stati maggiormente attratti dai baktāši poiché etichettati come ‘eterodossi’, ‘bizzarri’ oppure ‘semi-cristiani’. Si dimentica, infatti, il ruolo apicale dei dervisci halveti nei processi di conversione e nella gestione dell’ortodossia sunnita – politicamente declinata dalla Sublime Porta – tra il XVI e il XVII secolo, nei Balcani. Per questo motivo, la prima parte del libro di Dobruna – dopo una breve trattazione sul Sufismo – descrive i principi dottrinali e rituali della Halvetiyya, delineandone i

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caratteri peculiari come, ad esempio, la pratica dell’isolamento in cella (halvet in turco; ḫālwa in arabo), da cui la stessa ṭarīqa prende il nome, oppure l’insieme di celebrazioni che connotano tipicamente la religiosità sufi nei Balcani: il digiuno decadale del matem nei primi dieci giorni di muḥarram (ʿāšūrāʾ) per commemorare il martirio di Ḥusayn, oppure la festa del nevruz che ricorda la nascita di ʿAlī ibn Abī Ṭālib il 22 marzo di ogni anno (pp. 21-33). In questa disamina, l’autore non si dimentica di menzionare cronologicamente i personaggi che hanno contribuito alla formazione del credo halveti, tra cui spicca, certamente, ʿUmar, Yaḥyā Širvānī – a volte sottovalutato dagli studi islamici occidentali – che è ritenuto il veritabile fondatore della ṭarīqa e discepolo (ḫalīfa) di Zahīr al-Dīn ʿUmar al- Ḫalwatī (m.1387), formalmente, riconosciuto quale primo pīr della stessa. La parte centrale del libro propone una trattazione ‘transnazionale’ della Halvetiyya, considerando storicamente la sua diffusione tra i popoli albanofoni di Albania, Kosovo, Macedonia e Montenegro, e seguendo l’idea, non priva di qualche rimando ideologico, della ‘Grande Albania’. In questo modo, egli delinea la natura coevolvente e relazionale delle sufismo che si diffonde tra le genti e si radica nel territorio per formare delle reti di persone, libri, opere e sapere in costante circolazione. In tal senso, il volume considera i diversi fattori sociali, economici e politici che hanno contribuito a favorire la diffusione della confraternita, senza, tuttavia, speculare sulla presunta natura strumentale dei fenomeni di conversione (p. 69). Per fare ciò, Dobruna spiega attentamente la funzione delle tekke (in albanese teqe; in arabo ribāṭ, zāwiya o ḫānaqa) sul territorio, in quanto luogo di riunione e di redistribuzione di risorse materiali e umane, dove le persone potevano trovare alloggio, riparo oppure sostegno spirituale. Il maestro, lo Šaykh (in albanese Sheh), rappresentava il catalizzatore di queste attività, in quanto persona capace di guidare i discepoli nel loro percorso iniziatico, di sostenere i bisognosi e di offrire dei servizi alle popolazioni locali (p.36). Così facendo, l’autore tratta la diffusione della ṭarīqa in epoca ottomana, usando le catene di discendenza (silsila) quale strumento d’indagine utile a delineare la ‘microstoria’ di ciascuna comunità. Osserviamo, in questo modo, il solido legame dei capi sufi halveti con il Sultano durante le politiche di ‘sunnizzazione’ del XVII secolo – certamente il momento di maggiore espansione – fino alla disgregazione ottomana nel XIX, quando i vertici della confraternita dovettero abbandonare la dimensione imperiale per adottarne una nuova, quella nazionale. In questo nuovo quadro, la Halvetiyya perse parte del suo potere politico in quanto ‘campioni del sunnismo’, ma preservò la propria presenza numerica sul territorio, rimanendo una delle confraternite più importante dei Balcani. Tuttavia, le politiche di razionalizzazione dei moderni stati nazione agli inizi del XX secolo imposero la sussunzione di modelli di governance e di gestione amministrativa che cambiarono notevolmente la gestione delle tekke, dei beni e le investiture dei nuovi Sheikh, vedi i tre Kongresi Alevian në Shqipëri (‘Congressi Aleviani in Albania’, pp. 236-271). L’avvento dei partiti comunisti nel secondo dopoguerra gravò ulteriormente l’egida del controllo statale sulle confraternite, in maniera estrema in Albania quando nel

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1967 Enver Hoxha (m . 1985) abolì tutti i culti religiosi, mentre in ex-Jugoslavia, Josip Broz Tito (m. 1980) contrastò la loro legittimazione pubblica e parallelamente cooptò alcuni dervisci nell’apparato statale. Nella parte finale, il volume tratta la rinascita delle confraternite nel periodo post-socialista, quando le trasformazioni sociali ed economiche del periodo comunista si sono intrecciate con quelle del turbo-capitalismo e della turbo- globalizzazione. Ciò ha proiettato la confraternita in un contesto rinnovato laddove i moderni mezzi di trasporto e di comunicazione (internet, social networks) hanno favorito il confronto interattivo con nuovi attori (Fetullancıs, Wahabbiti, Pasdaran) e reti religiose (Aleviti, neo-imperialismo turco, jihadismo militante) che stanno tuttora ridefinendo gli elementi dottrinali e rituali halveti. Questo mirabile lavoro delinea, così, le storie e le vicissitudini di maestri sufi e di dervisci che hanno vissuto tra Albania, Kosovo, Macedonia e Montenegro prima e dopo l’avvento degli stati-nazione, mostrando l’adattabilità delle confraternite anche negli apparati burocratici moderni. Tuttavia questa enfasi sulle dimensioni locali e relazionali rischia di sottovalutare il peso delle singole esperienze nazionali che hanno inciso differentemente sulla storia del sufismo (vedi la differenza tra socialismo albanese e jugoslavo). Infine, l’assenza di riferimenti bibliografici internazionali ridimensiona la portata scientifica del lavoro, che, in ogni caso, rappresenta un ottimo affresco, vero e proprio punto di riferimento, della Halvetiyya tra gli albanesi.

L’AUTORE Gianfranco Bria e ̀ dottore di ricerca presso l’Ecoles des Hautes Etudes en Sciences Sociales e l’Universita ̀ della Calabria. Si occupa di storia e antropologia dell’Islam balcanico.

E-mail: [email protected]

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