La guerra, i Consigli e le bande partigiane: esperienze collettive e progetti politici nell’esperienza di Emilio Lussu e Giustizia e Libertà Leonardo Casalino

To cite this version:

Leonardo Casalino. La guerra, i Consigli e le bande partigiane: esperienze collettive e progetti politici nell’esperienza di Emilio Lussu e Giustizia e Libertà. Annali della Fondazione Ugo La Malfa, Gangemi Editore, 2014. ￿hal-01978828￿

HAL Id: hal-01978828 https://hal.archives-ouvertes.fr/hal-01978828 Submitted on 11 Jan 2019

HAL is a multi-disciplinary open access L’archive ouverte pluridisciplinaire HAL, est archive for the deposit and dissemination of sci- destinée au dépôt et à la diffusion de documents entific research documents, whether they are pub- scientifiques de niveau recherche, publiés ou non, lished or not. The documents may come from émanant des établissements d’enseignement et de teaching and research institutions in France or recherche français ou étrangers, des laboratoires abroad, or from public or private research centers. publics ou privés.

La guerra, i Consigli e le bande partigiane: esperienze collettive e progetti politici nell’esperienza di Emilio Lussu e di Giustizia e Libertà

1) Dare un senso alla guerra: la vittoria di Mussolini

Letteratura di guerra. [….] La guerra ha costretto i diversi strati sociali ad avvicinarsi , a conoscersi, ad apprezzarsi reciprocamente nella comune resistenza in forme di vita eccezionali che determinavano una maggiore sincerità e un più approssimato avvicinamento all’umanità “biologicamente” intesa. Cosa hanno imparato dalla guerra i letterati? E in generale che cosa hanno imparato dalla guerra quei ceti da cui normalmente sorgono in maggior numero gli scrittori e gli intellettuali? Sono da seguire due linee di ricerca: 1) Quella riguardante lo strato sociale, ed essa è già stata esplorata per molti aspetti dal prof.Adolfo Omodeo nella serie di capitoli Momenti di vita di guerra . dai diari e dalle lettere dei caduti, usciti nella “Critica” e poi raccolti in volume. La raccolta dell’Omodeo presenta un materiale già selezionato, secondo una tendenza che si può anche chiamare nazional-popolare , perché l’Omodeo implicitamente si propone di dimostrare come già nel 1915 esistesse robusta una coscienza nazionale-popolare, che ebbe modo di manifestarsi nel tormento della guerra, coscienza formata dalla tradizione liberale democratica ; e quindi mostrare assurda ogni pretesa di palingenesi in questo senso nel dopo guerra. Che l’Omodeo riesca ad assolvere il suo compito di critico è altra quistione; intanto l’Omodeo ha una concezione di ciò che è nazional-popolare troppo angusta e meschina, le cui origini culturali sono facili da rintracciare; egli è un epigono della tradizione moderata , con in più un certo tono democratico o meglio popolaresco che non sa liberarsi di forti striature “borbonizzanti”. In realtà la quistione di una coscienza nazionale-popolare non si pone per l’Omodeo come quistione di un intimo legame di di solidarietà democratica tra intellettuali-dirigenti e masse popolari, ma come quistione di intimità delle singole coscienze individuali che hanno raggiunto un certo livello di nobile disinteresse nazionale e di spirito di sacrifizio. Siamo così ancora al punto dell’esaltazione del “volontarismo” morale , e della concezione di élites che si esauriscono in se stesse e non si pongono il problema di essere organicamente legate alle grandi masse nazionali. 2) La letteratura di guerra propriamente detta, cioè dovuta a scrittori “professionali” che scrivevano per essere pubblicati ha avuto in Italia varia fortuna. Subito dopo l’armistizio è stata molto scarsa e di poco valore: ha cercato la sua fonte d’ispirazione nel Feu di Barbusse. E’ molto interessante da studiare Il diario di guerra di B.Mussolini per trovarvi le tracce dell’ordine di pensieri politici , veramente nazional-popolari, che avevano formato, anni prima, la sostanza ideale del movimento che ebbe come manifestazioni culminanti il processo per l’eccidio di Roccagorga e gli avvenimenti del giugno 1914. Si è poi avuta una seconda ondata di letteratura di guerra, che ha coinciso con un movimento europeo in questo senso, prodottisi dopo il successo internazionale del libro del Remarque e col proposito di prevalente di arginare la mentalità pacifista alla Remarque. Questa letteratura è generalmente mediocre, sia come arte, sia come livello culturale, cioè come creazione di pratica di “masse di sentimenti e di emozioni” da imporre al popolo

1 [….]Esempio caratteristico il libro di C.Malaparte La rivolta dei santi maledetti a cui si è già accennato. E’ da vedere l’apporto di questa letteratura del gruppo di scrittori che sogliono essere chiamati “vociani” e che già prima del 1914 lavoravano con concordia discorde per elaborare una coscienza nazional-popolare moderna. Dai “minori” di questo gruppo sono stati scritti i libri migliori, per esempio quelli di Giani Stuparich. I libri di Ardengo Soffici sono intimamente repugnanti, per una nuova forma di rettorica peggiore di quella tradizionale. Una rassegna della letteratura di guerra sotto la rubrica del brescianesimo è necessaria1

Come ha scritto Manuela Bertone queste annotazioni di “rappresentano una trama di fondo ospitale” la quale rende possibile “ intrecciare un ordito di osservazioni puntuali sulla guerra raccontata, sulla guerra dei letterati”2. Il dirigente comunista s’interrogava sul ruolo che gli intellettuali avevano avuto e continuavano ad avere di fronte a un evento storico così fondamentale come la Prima Guerra mondiale. Le élites della tradizione liberale moderata erano state capaci di elaborare, nel contatto con le masse popolari, un progetto collettivo? O si erano limitate a porre il problema semplicemente sul piano della coscienza individuale? …….La risposta che Gramsci dava a questi interrogativi, decisivi per comprendere le vicende italiane ed europee dopo il 1918, era di grande interesse: tra gli “scrittori professionali”, coloro cioè che vivevano del loro ingegno letterario, distingueva i pessimi (Soffici), i mediocri ( la maggioranza) che volevano imporre sentimenti stucchevoli al popolo, e i pochi veramente interessanti. E tra quest’ultimi affiancava nel suo giudizio due uomini e due storie personali assai diverse e lontane, eppure tutte e due influenzate pesantemente dall’esperienza della guerra: Giani Stuparich3 e Benito Mussolini4. Il discrimine nel giudizio era dunque delineato con precisione e chiarezza: da una parte vi erano “ coloro fermi al punto dell’esaltazione del volontarismo morale, senza porsi il problema di essere organicamente legati alle grandi masse nazionali” e dall’altra “ coloro che sollevano la quistione di una coscienza nazional-popolare come quistione di un intimo legame di solidarietà democratica tra intellettuali dirigenti e masse popolari”. E’ facile comprendere come Gramsci si sentisse più vicino ai secondi: agli scrittori e intellettuali, cioè, che credevano in una concezione militante dell’azione culturale, all’importanza di sapere offrire uno sviluppo sociale positivo a una grande esperienza collettiva come quella che si era svolta nelle trincee del Carso. Su questo terreno, non a caso, si era giocato il conflitto politico

1 Antonio Gramsci, Letteratura e vita nazionale, a cura di Valentino Gerratana, Editori Riuniti, Roma, 1975, pp.183- 185. 2 Manuela Bertone, La guerra dei letterati, in Les écrivains italiens et la Grande Guerre, sous la direction de Christophe Mileschi, « Narrativa», hors serie-2010, CRIX- Presses Universitaires de Paris Ouest, p.27. 3 Giani Stuparich, Guerra del ’15, Einaudi, Torino, 1978 [1931]; Id, Colloqui con mio fratello, Treves, Milano, 1925; e anche il romanzo che Gramsci non poté leggere Id, Ritorneranno, Garzanti, Milano, 1991 [1941]. 4 , Il mio diario di guerra (1915-1917), FPE, Milano, 1966. 2 con il nascente movimento fascista a partire dal 1919 e su questo stesso terreno si era consumata quella sconfitta su cui Gramsci non cessava d’interrogarsi. Indubbiamente la Grande Guerra era stato, nel suo concreto svolgimento, un evento che aveva reso difficile un’opera d’inquadramento ideologico, tanto grande era stata la distanza tra le aspirazioni personali e collettive iniziali e il massacro avvenuto nelle trincee5. E la prova di quanto fosse stato difficile elaborare un progetto politico immediato la forniscono proprio i testi letterari scritti ad anni di distanza dal conflitto -tra cui rientra anche Un anno sull’altipiano di Lussu- , “la seconda ondata” di cui scriveva Gramsci. Una rivisitazione retrospettiva in cui selezionare fatti, isolare episodi emblematici, ricercare e utilizzare uno stile nuovo6 Il conflitto del 1914-18, insomma, raccontato e ripensato, nello scenario dell’Europa degli anni Trenta e di fronte alla prospettiva di una nuova guerra mondiale7. Nella speranza, questa volta, che l’esito non fosse simile a quello del 1919-1922, quando - come Gramsci aveva acutamente osservato - l’unico ad avere avuto la forza e l’abilità politica per ricavare immediatamente “pensieri politici veramente nazional-popolari” era stato Mussolini. Infatti, se Lussu avesse ritenuto nel 1918 che la guerra potesse offrire,da subito, lo spazio per un progetto politico comune tra masse e élites politiche, sicuramente non avrebbe atteso vent’anni per scrivere il suo romanzo. E l’arco temporale che separa il successo del diario di Mussolini dalla pubblicazione di Un anno sull’Altipiano, in qualche modo, rappresenta l’entità e la gravità della sconfitta subita. Il futuro Duce aveva tratto “tracce dell’ordine di pensieri politici” dall’esperienza della guerra, prima raccontata a coloro che stavano nelle retrovie e in qualche modo “interpretata” per coloro che la facevano, e poi trasformata nella base ideale e nel tempo memoriale di un progetto interclassista capace di affermare la propria egemonia, per utilizzare un termine gramsciano. Nella ricostruzione della storia italiana compiuta dal fascismo, il conflitto del 1915-1918 era apparso come il momento rivelatore della volontà profonda del paese, in cui gli italiani si erano sentiti veramente protagonisti. In questo modo Mussolini era riuscito dove gli altri avevano fallito: a dare, cioè, un senso ed un significato a un’esperienza collettiva destinata a influenzare le memorie e le interpretazioni della realtà di milioni di persone.

5 Su questo aspetto rimando alle belle e dense pagine della Bertone in Manuela Bertone, La guerra dei letterati, cit., pp.36-38. 6 Cfr.Lucrezia Filippini, Testimoniare tramite la letteratura. Analisi stilistica e confronto tra “Se questo è un uomo” di Primo Levi e “Un anno sull’Altipiano” di Emilio Lussu, Tesi di Laurea Magistrale, Master Padova-Grenoble, a.a 2013- 2014, Relatori Prof.Enzo Neppi e Guido Baldassari 7 Per un’analisi del testo di Lussu sulla base di episodi selezionati e emblematici cfr.Leonardo Casalino, Emilio Lussu.Il romanzo inevitabile dell’antifascismo italiano, in Id, Lezioni recitabili. Vittorio Foa, Leone Ginzburg, Emilio Lussu, Giaime e Luigi Pintor, Camilla Ravera e Umberto Terracini: ritratti da dirsi, a cura di Gabriela Cavaglià e Marco Gobetti, Postfazione di Ugo Perolino, Seb 27, Torino, 2012, pp.38-49. 3 Gramsci aveva colto un elemento importante di questa operazione egemonica: il direttore del “Popolo d’Italia” era riuscito anche ad affermarsi come l’erede di quei valori e sentimenti “che avevano formato, anni prima, la sostanza ideale del movimento che ebbe come manifestazioni culminanti il processo per l’eccidio di Roccagorga e gli avvenimenti del giugno 1914”. Con un tono misurato, questa osservazione finale, permetteva, in realtà, di comprendere fino in fondo la natura e la dimensione politica drammatica della sconfitta del movimento operaio italiano: il movimento fascista si era impossessato anche dell’eredità delle lotte sociali e pacifiste dell’anteguerra, della memoria di rivolte contro la fame e la povertà come quella del 6 gennaio 1913 a Roccagorga ( in provincia di Latina) repressa con la violenza dalle forze dell’ordine ( 7 morti e 23 feriti) e della “settimana rossa” del giugno 1914, cominciata ad Ancona, il 7 di quel mese, in occasione della festa dello Statuto Albertino.

2) I Consigli e la sconfitta definitiva

La vicenda dei Consigli di fabbrica durante il biennio rosso, era stata sia l’occasione per cercare di reagire alla sconfitta, sia l’evento destinato a rimanere a lungo nella memoria degli antifascisti come l’ultima esperienza positiva prima del consolidamento definitivo del regime. E non a caso aveva rappresentato la base dell’avvicinamento tra Gramsci e . Nell’ottobre 1926 Gramsci fu costretto, a causa del suo arresto, ad interrompere la scrittura del saggio conosciuto col titolo redazionale Alcuni temi della quistione meridionale proprio con le pagine dedicate al Gobetti politico. Pagine in cui ripensava l’esperienza dell’amico scomparso in relazione ai cambiamenti avvenuti all’interno delle classi dirigenti e nella struttura sociale italiana prima e dopo la guerra. L’importanza della figura di Gobetti consisteva, a suo giudizio, nell’essere stato capace di fondare e organizzare un movimento politico prodotto di un «nuovo clima storico» e nell’aver compreso meglio di altri «la posizione sociale e storica del proletariato» astraendo dalla quale non era più possibile costruire un progetto politico credibile. Nel sostenere la necessità di acquisire gli intellettuali alla causa del proletariato rivoluzionario, Gramsci indicava nel movimento gobettiano un esempio di cui tenere conto senza per questa ragione nascondere la sua vera fisionomia politica di «non comunista»:

Non potevamo combattere contro Gobetti perché egli svolgeva e rappresentava un movimento che non deve essere combattuto, almeno in linea di principio. Non comprendere ciò significa non comprendere la quistione degli intellettuali e la funzione che essi svolgono nella lotta delle classi8.

8Antonio Gramsci, Alcuni temi della quistione meridionale, in Opere di Antonio Gramsci, vol.XII, cit, pp.156-158.

4

La novità di una tale impostazione era radicale, ma essa non suscitò reazione alcuna in quanto il saggio restò sconosciuto sino alla sua pubblicazione nel gennaio 1930, a Parigi, nello «Stato Operaio». Per Gramsci quella esperienza aveva rafforzato l’immagine del socialismo come civiltà del lavoro, la quale, se, da un lato, lo portava a riconoscere i meriti storici del capitalismo, gli forniva , dall’altro, il metro di misura più adatto a valutare il grado di sfacelo morale e economico del capitalismo nostrano e a denunciare le inadempienze della classe politica. L’arretratezza della situazione italiana rendeva più difficile –rispetto ad altri paesi occidentali– la costruzione di una nuova civiltà, e quindi rendeva più urgente la costruzione di un nuovo “antistato” italiano, di cui i Consigli di fabbrica e il loro modello organizzativo – la commissione d’officina- dovevano costituire il primo nucleo concreto. La creazione di un sistema di Consigli di fabbrica rappresentava infatti, ai suoi occhi, il primo passo di un processo di trasformazione della società che avrebbe dovuto favorire la formazione di organizzazioni autonome a tutti i livelli della vita pubblica. Anche Piero Gobetti aveva visto nei consigli operai del biennio rosso uno strumento capace di rinnovare la società italiana, un mezzo adatto a creare concreti spazi di partecipazione e di autogestione per le masse ai margini della vita politica; la via, insomma per correggere la struttura oligarchica, centralistica e pertanto autoritaria che lo Stato italiano aveva ereditato degli esiti del Risorgimento9. Ed era stata proprio l’attenzione con cui Gobetti aveva ricercato le virtù democratiche d’istituti e soggetti politici estranei alla cultura liberale, ad incidere sull’orientamento operaistico dei giellisti torinesi. Si trattava di un indirizzo anomalo per un gruppo non dichiaratamente proletario, ma che nel corso degli anni Trenta venne sviluppato in modo organico, prima con il progetto di una rivista dedicata alla realtà delle fabbriche, poi con una serie di articoli sui “Quaderni” con cui si cercava di rafforzare la presenza del tema consiliare e autonomistico all’interno del programma stilato nel 1932 dalla direzione parigina. Nell’autunno del 1931 Mario Andreis, Luigi Scala e Aldo Garosci avevano dato vita a un giornale clandestino, “Voci d’Officina”, rivolto agli operai torinesi, di cui erano usciti tre numeri tra la metà di settembre e la fine di ottobre, prima che la pubblicazione fosse interrotta dall’arresto di Scala e Andreis e dalla fuga in Francia di Garosci10. In una situazione in cui gli spazi di opposizione politica erano ormai inesistenti, il regime, di fronte a una congiuntura economica difficile provocata dalla crisi del ’29, si accaniva contro il proletariato industriale, colpendo le condizioni materiali di vita degli operai, i quali – secondo i redattori di “Voci d’Officina”- rappresentavano l’ultima riserva

9 Corrado Malandrino, Socialismo e libertà. Autonomie, federalismo, Europa da Rosselli a Silone, Franco Angeli, Milano, 1990, pp.69-70 10 Mirella Larizza Lolli, L’antifascismo democratico: vicende, figure e dibattito, in Storia del movimento operaio del socialismo e delle lotte sociali in Piemonte, vol.III, L’antifascismo e la Resistenza,De Donato, 1980, pp.253-260. 5 di energie democratiche della società italiana. Il modello di resistenza e di lotta proposto era quello dei consigli del biennio rosso fondati sulla partecipazione dal basso e sull’autogoverno11. La formulazione più compiuta di questa proposta era stata opera di Leone Ginzburg e Carlo Levi nel loro articolo sulle autonomie12:

I consigli operai non furono mai in Italia un istituto positivo. Ma, sia per il lunghissimo alone sentimentale, sia per la prova straniera, sia per il largo dibattito e studio di cui furono oggetto; e sia soprattutto per la loro immediata aderenza a momenti elementari di associazione, essi sono forse le forme più vive e ricche di avvenire di organizzazione autonoma di cui noi abbiamo, nel passato, in qualche modo fatto esperienza13.

Pur essendo convinti della crisi irreversibile della democrazia rappresentativa, essi non condannavano a priori le assemblee parlamentari e i partiti, ritenevano però che in un sistema politico realmente democratico questi istituti tradizionali avrebbero potuto trovare spazio solo come elementi integrativi, subordinati rispetto agli “istituti dell’autonomia , sia come differenziazione sociale che come divisione locale”. Lussu aveva reagito al loro articolo insistendo sull’importanza della dimensione territoriale: era necessario costruire non solo autonomie nei luoghi di lavoro o di vita, ma una vera e propria struttura federalista dello Stato, che garantisse la consapevole e paritaria partecipazione delle differenti realtà locali alla gestione del potere14. Sul numero 7 dei “Quaderni” del giugno 1933, Ginzburg aveva chiarito i legami tra tematica consiliare e quella federalistica. Il federalismo, a suo giudizio, si era trasformato nel corso dei primi decenni del Novecento e l’aspirazione ad un semplice decentramento del potere, a contatto con l’esperienza dei consigli di fabbrica, si era arricchita di un connotato fortemente progressista:

In altre parole il federalismo sta diventando socialista (…) ora che, a dargli un contenuto, al posto della funzione democratico-rappresentativa sono comparsi gli interessi organici; ma, intanto, dimostra sempre di più, d’essere l’unica forma liberale del nostro tempo, formulazione e presidio di libertà concrete15.

11 A.Garosci, Il problema della libertà operaia, “ Quaderni di Giustizia e Libertà”, n.1, gennaio 1932, p.23. 12 C.Levi e L.Ginzburg, Il concetto di autonomia nel programma di “G.L.”, “Quaderni di Giustizia e Libertà”, n.4, settembre 1932. Ora in Leone Ginzburg, Scritti, a cura di Domenico Zucàro, Einaudi, Torino, 2000, pp.3-9 e in Carlo Levi, Scritti politici, a cura di David Bidussa, Einaudi, Torino, 2001, pp.72-80. 13 Idem, in Carlo Levi, Scritti politici, cit., p.79. 14 E.Lussu, Federalismo, in “Quaderni di G.L”, n.6, marzo 1933. 15 L.Ginzburg, Chiarimenti sul nostro federalismo, “Quaderni di Giustizia e Libertà”, n.7, giugno 1933. 6

3) Le novità degli anni Trenta: la nazione e le guerre passate, attuali e future

La riflessione sulle autonomie serviva a delineare le basi del futuro assetto democratico una volta terminata la lotta per la libertà. La quale doveva avere come obiettivo una trasformazione radicale della società capace, al contempo, di non sacrificare la difesa e l’allargamento delle libertà individuali e collettive. La memoria del biennio rosso, del ruolo positivo della classe operaia serviva a compensare il sentimento di paura e di angoscia che attraversava il movimento antifascista nel passaggio dagli anni Venti e Trenta: il sentimento, cioè, che il fascismo e il nazismo fossero veramente figli delle rivoluzioni nazionali dell’Ottocento e ne avessero ereditato la forza. La Prima guerra mondiale non solo era stato un evento il cui “significato storico” era stata egemonizzato dai regimi di destra, ma aveva anche lasciato dietro di sé il lascito di una crescente statalizzazione dell’economia e di un rafforzamento degli strumenti di controllo, processi che accumunavano l’esperienza italiane e tedesca anche a quella sovietica. Riducendo cosi, anche sul piano teorico, lo spazio d’azione dell’antifascismo democratico. Gli anni Trenta, però, soprattutto dopo l’arrivo al potere di Hitler nel 1933, erano destinati a rendere ancora più complicata la situazione: come ha osservato David Bidussa, nel collasso dell’ideologia socialista di fronte all’avanzata del nazismo, quella che veniva messa in causa era la coincidenza tra il ruolo della classe operaia e la possibilità di trasformazione della società16. Se si leggono, ad esempio, i testi di Enzo Sereni e di Angelo Tasca17 , si capisce come, alla fine degli anni Trenta, la classe operaia non rappresentasse più il soggetto predestinato a salvare e guidare tutti gli altri attori sociali, ma venisse percepita piuttosto come classe corporativa e chiusa in se stessa, incapace, cioè, di delineare un progetto convincente per l’avvenire. Di fronte a questo nuovo scenario era necessario riprendere la riflessione su come riuscire a conciliare popolo e nazione. Enzo Sereni, ad esempio, lo aveva fatto riflettendo sul processo di costruzione di una nuova nazione come base di una scelta politica fondata su un soggetto collettivo, una lingua, una storia, capace di rivendicare e valorizzare la propria autonomia senza entrare in conflitto con altri popoli18. Altrettanto urgente era riprendere il discorso sulle origini del fascismo e sul ruolo che aveva avuto il primo conflitto mondiale. Non a caso, a metà degli anni Trenta, Emilio

16 David Bidussa, Radicalità e politica. Su Enzo Sereni, Postfazione a Enzo Sereni, Le origini del fascismo italiano, La Nuova Italia Editrice, Firenze, 1988, pp.265-347. 17 Angelo Tasca, Nascita e avvento del fascismo, La Nuova Italia, Firenze, 1950 18 A questo proposito le riflessioni di David Bidussa, Radicalità e politica, cit., p.281. 7 Lussu decideva di scrivere finalmente il libro sull’anno trascorso sull’altipiano di Asiago. Lo faceva tra il 1936 e il 1937, mentre i suoi compagni di lotta, a cominciare da , erano impegnati nella guerra di Spagna, la prima occasione, dopo molto tempo, per un’azione concreta e si sperava efficace nella lotta contro il fascismo. Se si leggono le riflessioni annotate da Rosselli nel suo diario e nelle lettere alla moglie si capisce come i protagonisti di quel conflitto sentissero di vivere un momento unico in cui rivelare “tutto il suo idealismo e la sua innocenza” , in cui era possibile spogliarsi delle proprie “abitudini e necessità borghesi”, di avvertire che “non c’è nulla di più inebriante che il sentirsi capace di trasformazione, di evasione dal monotono quotidiano, autori ed attori insieme del proprio destino contro ogni regola e logica”19. Si tratta di un insieme di pensieri e di azioni che la vasta memorialistica di guerra ci ha reso familiare, ma che è interessante ritrovare nelle file della cultura antifascista. Ed erano motivi che molto probabilmente si sarebbero potuti cogliere anche nel campo opposto:

In quelle lettere Rosselli metteva allo scoperto il nucleo profondo di un atteggiarsi politico, e , prima ancora, esistenziale nel quale gli elementi ideologici , gli impulsi emotivi e le ragioni etiche e ideali, nel loro vario agitarsi e aggregarsi, potevano, muovendo da una identica sostanza, sfociare in esiti diametralmente opposti sul piano politico. Rimane, in quelle pagine, la traccia di uno dei più rilevanti contributi alla comprensione delle ragioni dell’antifascismo non meno che del suo rovescio dittatoriale20

Come fare, dunque, per andare oltre a un “volontarismo” che poteva anche essere usato dalla propaganda fascista? Occorreva dimostrare di poter perseguire e non soltanto declamare il proprio progetto politico. Non servivano, cioè, per quanto riguardava la memoria della guerra, facili autocritiche, bensì un atteggiamento di forte intransigenza verso se stessi e le proprie scelte. In questa operazione il capitolo XXV de romanzo, in cui Lussu si mette in scena, occupa uno spazio centrale. Il Lussu del 1936-37 ha il coraggio di guardare al Lussu del 1916-17 non come un giovane distinto da sé: la scelta interventistica resiste, ma non come una intelaiatura ideologica, in cui le nuove esperienze s’inseriscono organicamente, bensì come un dato di partenza distinto, da mettere in continua relazione con i nuovi elementi che la realtà della guerra fornisce. Nel capitolo XXV , Lussu non si limita a parlare del passato. Egli sapeva bene che l’interpretazione della storia italiana compiuta dal fascismo e la sua ideologia erano composte anche da una rappresentazione del futuro. Per il fascismo la guerra era un dato inestricabile congiunto alla condizione umana e l’espansione militare l’ineluttabile esperienza di ogni organismo vivente. Per il

19 Carlo Rosselli, Oggi in Spagna domani in Italia, Einaudi, Torino, 1985, pp.30-32. 20 Pier Giorgio Zunino, Interpretazione e memoria del fascismo, Laterza, Roma-Bari, 1991, p.109. 8 futuro i giellisti, sin dal 1933, avevano previsto una nuova inevitabile guerra mondiale e in questa ottica, a mio giudizio, vanno lette le parole del comandante della 10°:

Le ragioni ideali che ci hanno spinto alla guerra son venute forse a mancare perché la guerra è una strage? Se noi siamo convinti che dobbiamo batterci, i nostri sacrifizi saranno compensati [….] la maggior parte vorrebbe veder finita la guerra, finita in qualsiasi modo , perché la fine significa la sicurezza della sua vita fisica. Ma ciò è sufficiente a giustificare il nostro desiderio? Se cosi fosse, un pugno di briganti, non ci avrebbe perennemente in suo arbitrio, solo perché noi abbiamo paura della strage? Che ne sarebbe della civiltà del mondo, se l’ingiusta violenza si potesse sempre imporre senza resistenza?21

In questa nuova guerra non si sarebbero dovuti ripetere, nei confronti dei propri soldati, gli errori degli ufficiali italiani, come il generale Leone, che Lussu descrive e denuncia con grande efficacia nel suo romanzo: nel rapporto gerarchico delle trincee, infatti, si erano gettate le basi del modello autoritario applicato successivamente dal regime fascista nel rapporto tra società civile e potere: Dimostrare che sarebbe stato possibile combattere e comandare altrimenti era fondamentale per costruire, anche nel vivo della futura guerra, le basi democratiche della società che doveva nascere al termine della lotta per la libertà: Occorreva cioè essere all’altezza – se è consentito compiere una forzatura sui tempi e sui testi- dell’immagine di Lussu e Rosselli offerta da Mario Rigoni Stern nei suoi romanzi sulle vicende della guerra sull’altipiano di Asiago. In Storia di Tonle l’ufficiale Emilio Lussu compare come il personaggio che rappresenta la forza di sapere salvaguardare un volto umano e solidale anche in un contesto tragico di distruzione:

Mentre così discorrevano tranquilli si era avvicinato al gruppo un capitano alto e asciutto, dallo sguardo vivido: -Zio- disse improvvisamente questo capitano, e i soldati alla sua voce accennarono ad alzarsi in piedi ma lui li fermò con un cenno di mano, - zio, dove volete andare? A casa , - rispose Tonle levandosi la pipa di bocca, - a casa mia. Dove abitate? Tonle Bintarn disse il nome della contrada e il capitano Emilio Lussu sorrise con tristezza: - Gli austriaci l’hanno ripresa in questi giorni. Ritornate in pianura, - disse- e aspettate che finisca tutto. Non avete parenti? Battaglione , zaino in spalla! Avanti!- si sentì gridare in testa alla colonna che sostava. E poi: Capitano Lussu, fate serrare sotto i ritardatari!

21 Emilio Lussu, Un anno sull’altipiano, Einaudi, Torino, 2000, p.181. 9 Brontolando e lanciando motti i soldati si caricarono le spalle dei loro fardelli e ripresero ad andare verso il rumore dei cannoni; Tonle non li seguì: Ma nemmeno ritornò indietro; li lasciò andare avanti e vide il capitano alto e diritto fargli cenno con la mano, un cenno di saluto e di ritornare indietro22

Ritornare indietro per salvarsi. In L’anno della vitoria, invece, a entrare in scena è un altro giovane ufficiale, il tenente Carlo Rosselli, il quale ha ricevuto una denuncia contro due protagonisti del romanzo – Nin Sech e Crist Schenal- accusati di avere rubato delle ruote per costruirsi un carretto –necessario per trasportare il materiale per ricostruire le loro case- e di andare in giro con un coltello in tasca. Il tenente li proteggerà, ricevendo in cambio una lezione sulle regole fondamentali nei rapporti tra gli uomini che dovrebbero essere rispettate anche durante una guerra:

Comunque sulle carte restano questi due reati che voi confermate. Cosa dobbiamo fare? Voi siete stati soldati e quindi capite la situazione in cui mi trovo. I due stavano seduti in silenzio davanti al tenente Rosselli che non sapeva più cosa dire e, alzatosi in piedi, ora camminava avanti e indietro per l’ufficio. -La metta sotto tutte le altre e le lasci lì come faceva il nostro furiere, - disse Crist […….] -Ma ditemi, come è qui l’inverno? Verrà tanto freddo? -All’inverno fa sempre freddo. Ma l’importante per noi è avere qualcosa sopra la testa. Una mattina o l’altra ci si può svegliare con mezzo metro di neve. Ma se poi continua a nevicare si spalano le baracche; nel Sedici ne sono venuti quattro o cinque metri e noi e gli austriaci non si faceva che spalare neve – rispose Crist. Guerra alla neve, - aggiunse Nin- , ma almeno non si sparava. Il tenente Rosselli aveva letto di quelle grandi nevicate sull’Altipiano e sul Pasubio nelle corrispondenze di guerra di Fraccaroli e di Barzini; ma lì non era scritto che alpini e austriaci non si sparavano tra di loro. – Non vi sparavate? Perché?- chiese. Non si spara a chi va a far la legna per riscaldarsi, o a chi va a tirare fuori i compagni da sotto le slavine. Per questo ci hanno dato il cambio con i bersaglieri e hanno ricominciato a sparare, - spiegò Nin. Sentite, per quanto mi sarà possibile quei verbali rimarranno qui. Cercherò di farli dimenticare. Ma mi raccomando perché se fatti del genere si ripetono, per voi non potrò fare più niente23

4) La Resistenza e la politica

22 Mario Rigoni Stern, Storia di Tonle, Einaudi, Torino, 1978, pp.119-120. Nel romanzo vi è soltanto un altro “personaggio aperto”, il cui nome è noto al lettore. Si tratta di Fritz Lang, il futuro regista, che faceva parte dell’esercito austriaco. 23 Id, L’anno della vittoria, Einaudi, Torino, 1985, pp.144-146. 10 La Resistenza e le bande partigiane erano state, tra il 1943 e il 1945, l’occasione per poter entrare finalmente in contatto con italiani e italiane, spesso giovanissimi, i quali erano cresciuti sotto la cappa della dittatura mussoliniana. Dopo tante stagioni in cui l’opposizione al regime aveva collezionato solo terribili sconfitte, il fronte dell’antifascismo sembrava finalmente capace di mobilitare larghe fasce della società italiana. Ma anche nella lotta partigiana si poteva insinuare il rischio di potere ripetere errori del passato, di sminuire il significato politico di quella lotta rifugiandosi dietro una facile propaganda. Per combattere questo pericolo bisognava utilizzare nel modo migliore la stampa clandestina come strumento di educazione alla lotta politica. E non a caso, Franco Venturi, nel giugno del 1944 scriveva:

Spesso i giornali sono stati improntati ad un linguaggio del passato, che però si è avuto cura di scolorire e di rendere uniforme o informe, piuttosto che nella creazione di un nuovo mezzo espressivo che meglio corrispondesse alle esigenze di oggi. Non è certo ripetendo ogni due righe la parola patria che si esprimerà quel nuovo senso di patria, che sta infatti sorgendo dalle sofferenze e dalle lotte di oggi [….] Non è certo ripetendo ogni tre parole libertà, libertà che si organizzeranno quelle forze che consciamente debbono battersi per quell’obiettivo politico ben preciso e ben difficile che si chiama libertà. Insomma la stampa clandestina in questo periodo è stata troppo poco politica […..] Di politica non si fa a meno , soprattutto in tempi di rivoluzione. Bisogna che la stampa clandestina esca sempre più dal generico, riprenda i problemi fondamentali, non solo politici, ma sociali, militari, economici, europei, li dibatta e li presenti, nella loro naturale semplicità, ma senza falsi pudori. L’elementarità della lotta di oggi non deve essere più una ragione che impedisca il sorgere della politica di domani24.

Un lungo filo aveva attraversato più di 30 anni di storia italiana, passando per due conflitti mondiali e vent’anni di dittatura. In questo arco di tempo si erano consumate non poche tragedie e il costo, in termini di perdita di vita umane, della riconquistata libertà era stato pesantissimo. Per questo motivo bisognava essere in grado di costruire un nuovo sistema politico internazionale che impedisse – nel limite del possibile- il ripetersi di tali drammi. Nazioni dotate di una lingua, di una storia, ma non in conflitto tra di loro. Solo la politica, una grande politica, avrebbe potuto realizzare un simile obiettivo, e solo a condizione che il sentire politico fosse vissuto come scelta etica. Da

24 Nicola Paruta (Franco Venturi), La stampa clandestina, in “Nuovi Quaderni di Giustizia e Libertà”, n.1, maggio- giugno 1944. Ora in Franco Venturi, La lotta per la libertà. Scritti politici, a cura di Leonardo Casalino, Einaudi, Torino, 1996, pp.257-258. 11 questo punto di vista il pensiero e l’azione di Emilio Lussu e dei suoi compagni di lotta tra il 1918 e il 1945 potevano essere, senza alcuna retorica, un modello a cui ispirarsi.

Leonardo Casalino Università Stendhal Grenoble 3

12